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Full text of "Memorie della Reale accademia delle scienze di Torino"

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LIBRARY 


OF THE 


MUSEUM OF COMPARATIVE ZOOLOGY. 


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DI TORINO 
Via Carlo Alberto, 3. 


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MEMORIE 


DELLA 


REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE 


DI TORINO 


DELL 


REALE ACCADEMIA 


DELLE SCIENZE 
DI TORINO 


SERIE SECONDA 


Tomo LXII 


TORINO 
Libreria FRATELLI BOCCA 


Via Carlo Alberto, 3. 


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Torino — | M. e Reali Principi, 
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SCIENZE 


FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI 


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INDICE 


CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE 
E NATURALI 


L’ellisse di elasticità trasversale e le sue applicazioni nella scienza delle costru- 


zioni; Memoria dell'Ing. CArLo Lurei Ricer (con 1 Tavola) o 10%. 


Le avene piemontesi della sez. “ Avenastrum , Koch; Osservazioni critiche del 
Dr. G. Gora (con 1 Tavola). 


e, » 
Sul valore sistematico del tegumento seminale delle “ Vicicae , ©. 0) Ruino: 


Memoria della Dott.* Giuria GrarpInELLI (con 1 Tavola) . i 5 
Francesco Selmi e la sua opera scientifica; Parte I; Memoria del Socio IciLro 
GUARESCHI i; 5 £ 3 È È ; 3 5 5 
— In. Parte II È : 5 
Nuovi studii sulle Rudiste ddeginio (Radiolitidi); Moon del Soa 
C. F. Parona (con 2 Tavole) 3 5 : 3 


Lo Stagno di S.'" Gilla (Cagliari) e la sua vegetazione; Pao II: Coltan 
ed Ecologia della Flora; Studio del Dr. AnereLo Casu (con 1 Tavola) , 
Sulle cause del ritmo respiratorio; Rivista critica del Dott. CARLO Foà . 3 
Giovanni V. Schiaparelli; Commemorazione letta dal Socio NicopeMo JADANZA , 
La vegetazione del Bosco Lucedio (Trino Vercellese); Contributo allo studio fito- 
geografico dell’alta pianura padana; Memoria del Dr. Grovanni NEGRI , 
Nuova contribuzione all’ Anatomia delle Solanee; Memoria del Prof. EpoarDpo 
MartEL (con 1 Tavola) 5 ; 7 
Sulle cellule interstiziali del testicolo; Ricerche del Prof. Pio Foù (1 2 Tolo) 3 
L'equilibrio elastico dal punto di vista energetico; Memoria del Dr. Ing. Gusravo 
COLONNETTI .. _ a : } 3 ; 3 7 


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L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE 


E LE SUE 


APPLICAZIONI NELLA SCIENZA DELLE COSTRUZIONI 


MEMORIA 
dell’Ing. CARLO LUIGI RICCI 


Assistente nel R. Politecnico di Torino. 


(CON UNA TAVOLA) 


Approvata nell’Adunanza dell'’8 Gennaio 1911. 


INTRODUZIONE 


Le teorie note della Scienza delle Costruzioni, riguardanti i solidi aventi un 
piano medio di simmetria, ordinariamente studiano soltanto i casi in cui le forze 
esterne giacciano, o si possano ridurre nel piano medio; questi casi d’altra parte, 
sì presentano sempre nella pratica, ed i noti procedimenti, analitici o grafici, servono 
molto opportunamente per studiare le deformazioni e, se si tratta di costruzioni 
iperstatiche, per dedurre, mediante semplici equazioni di elasticità, dalle deforma- 
zioni le reazioni incognite dei vincoli sovrabbondanti. 

Tra i metodi grafici è notevole per eleganza di concetti, e per semplicità e 
speditezza di procedimenti, quello derivante dalla nota teoria dell’ellisse di elasticità. 

Può essere degno di qualche interesse lo studio di un solido a semplice curva- 
tura, sollecitato da forze normali al piano dell’asse geometrico. Compiuto questo 
studio si sarà in grado di valutare l’azione di forze qualunque agenti sul solido in 
questione; giacchè una forza comunque diretta si può sempre scomporre in due, 
delle quali l’una sia normale al piano dell’asse geometrico, e l’altra contenuta in 
tale piano. 

In queste pagine ci proponiamo appunto di sviluppare tale studio, e di ricavarne 
le possibili applicazioni pratiche, le quali possono essere svariate, ed interessare le 
varie parti della Scienza delle Costruzioni. 

Anzitutto per la Teoria dei Ponti interessa studiare l’azione di forze orizzontali 
agenti normalmente al piano di simmetria della struttura, e queste sono, com'è noto, 
la spinta del vento, la spinta dell’acqua durante le grandi piene, e, quando il ponte 
è destinato a portare binarii in curva, la forza centrifuga sviluppata dai treni. 

Serie II. Tom. LXII. A 


CARLO LUIGI RICCI 


DO 


Inoltre in quest’ultimo caso si ha pure da considerare una componente degli 
sforzi di trazione e di frenamento; infatti durante il movimento di un treno, ogni 
carrozza risente da quelle che la precedono una trazione diretta nel senso del movi- 
mento, e da quelle che la seguono una trazione diretta in senso contrario, la 
quale è uguale alla precedente diminuita della resistenza opposta al moto dalla car- 
rozza stessa. 

Se il binario è in curva, queste due forze formano un certo angolo, ed ammet- 
tono una risultante la quale avrà certo una componente radiale, tanto maggiore 
quanto più grande è il numero delle carrozze che seguono, e quanto più piccolo è il 
rapporto tra il raggio della curva e la lunghezza della carrozza. 

Questa forza, piccola a fronte della forza centrifuga quando il treno ha la velo- 
cità normale, può essere preponderante se il treno è nel periodo di avviamento, perchè 
piccolissima la forza centrifuga. 

Durante il frenamento, se nel treno vi sono delle carrozze non direttamente 
frenate, si potrà avere una forza della stessa natura, ma di segno contrario, cospi- 
rante cioè colla forza centrifuga. 

Inoltre nella costruzione dei ponti, specialmente in ferro, sono spesso usati dei 
portali, a parete piena o reticolari, ai quali sono collegate delle aste appartenenti 
alle travature principali costituenti il ponte, od alle travi di controvento; le tensioni 
di queste aste sono forze oblique al piano dell'asse geometrico del portale, e per 
valutarne gli effetti potrà servire quanto esporremo. 

Questo studio può pure applicarsi per tener conto della dissimmetria dei carichi 
rispetto all’asse longitudinale di una trave o di un arco; per esempio, nel caso di 
un ponte ferroviario a due binarii dei quali uno solo sia carico, oppure nel caso di 
marciapiedi o passerelle di sbalzo, ecc. 

Nella Statica delle costruzioni civili non mancano poi le applicazioni del caso 
da noi considerato, e senza, enumerare tutte le svariate disposizioni che si possono 
presentare, citeremo qualche esempio; l’arco sul quale s’imposta un altro arco, od 
un’'incavallatura spingente il cui piano non coincida con quello dell’arco portante (nel 
caso più comune questi piani saranno normali); gli archi di sostegno delle volte a 
vela, a crociera rialzata e simili; in tutti questi casi le spinte orizzontali, concen- 
trate nel caso degli archi secondarii o delle incavallature, ripartite nel caso delle 
volte, sollecitano l’arco principale nel modo considerato in questo studio. 

È degno di nota il fatto che le cerniere cilindriche coll’asse normale al piano 
dell’asse geometrico, sotto l’azione di forze normali a questo piano si comportano 
come incastri; giacchè dette forze parallele all’asse della cerniera non possono pro- 
durre rotazione intorno alla cerniera stessa, e la loro azione viene equilibrata dalla 
reazione di questa. 

Quindi un arco con cerniere cilindriche, per il nostro studio non differisce sostan- 
zialmente da un arco incastrato senza cerniere. 

Premesse queste brevi considerazioni d’indole generale, possiamo incominciare 
senz'altro lo studio che ci siamo proposto. 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 5) 


CapitoLO I. 


Teoria generale dell’e/lisse trasversale di elasticità. 


$ 1. — Prendiamo a considerare un solido elastico a semplice curvatura, sim- 
metrico rispetto al piano dell’asse geometrico, od almeno tale che questo piano con- 
tenga un asse principale d'inerzia di ogni sezione trasversale. 

Supponiamo che questo solido sia incastrato rigidamente ad un estremo A, e 
libero all’altro estremo B, e studiamo gli spostamenti che la sezione B subisce sotto 
l’azione di forze agenti perpendicolarmente al piano dell’asse geometrico, i cui 
punti di applicazione si devono intendere rigidamente collegati alla sezione estrema B. 

Questa ricerca ci potrà servire per determinare le reazioni incognite nel caso 
di un arco vincolato alle due estremità e staticamente indeterminato; giacchè libe- 
rato dai vincoli uno degli estremi, per esempio 5, e calcolato lo spostamento di questo 
sotto l’azione di forze esterne, si può determinare una forza, rigidamente connessa 
colla sezione B, la quale annulli questo spostamento; tale forza sarà la reazione 
dell'imposta B; quella dell’imposta A si determina poi colle condizioni di equilibrio 
dei sistemi rigidi. 


$ 2. — Indichiamo con n il piano dell’asse geometrico, che assumeremo, secondo 
il solito, come piano di figura. 

Sul piano m si segnino le traccie 
delle linee d'azione delle forze normali a 
questo piano; si stabilisca sul piano una 
faccia positiva, quella che appare sul di- 
segno, e si ritengano positive le forze 
dirette dalla faccia positiva alla opposta. 

Una forza passante pel punto X, 
e normale a T, fa rotare la sezione B 
intorno ad un asse z, che per ragioni di 
simmetria è contenuto nel piano di figura. 

Infatti: una forza f diretta comunque 
imprime a B un moto, che, data la pic- 
colezza di tutte le deformazioni elastiche, 
si può equiparare ad un movimento istan- 
taneo, e quindi nel caso generale è un moto elicoidale, il cui asse centrale « non giace 
nel piano t dell'asse geometrico del solido. Siano e # i vettori rappresentativi della 
rotazione e della traslazione di cui tale moto risulta. 

Essendo n piano di simmetria del sistema, è chiaro che la forza f', simmetrica 
di f rispetto a n, imprime a B il moto elicoidale simmetrico del precedente, rispetto 
a tr, cioè avente per asse la retta a’ simmetrica di 4, il vettore traslazione #' sim- 


Fig. 1. 


metrico di #, ed il vettore rotazione y' uguale all'opposto del simmetrico di r. 
D'altra parte, cambiando di segno la forza, il moto elicoidale cambia esso pure 


4 CARLO LUIGI RICCI 


di segno; ossia la forza —f produce il moto elicoidale di asse a, risultante dei moti 
rappresentati dai vettori —t e — r. 

Ora se supponiamo che la forza f sia normale al piano di simmetria, la f e 
la — f coincidono; quindi il moto elicoidale prodotto da f deve essere tale che il 
suo simmetrico ed il suo opposto coincidano, e quindi l’asse deve coincidere col suo 
simmetrico, ossia deve giacere nel piano 1; la traslazione # deve essere uguale alla 
sua opposta, ossia deve essere nulla. È dunque vero che il moto si riduce ad una 
semplice rotazione intorno ad un asse giacente nel piano q. 

Noi possiamo chiamare corrispondente di un punto X del piano t, l’asse x della 
rotazione prodotta da una forza normale a t, passante per il punto X; e la corri- 
spondenza che così viene definita è univoca. 

Nel seguito indicheremo con lettere maiuscole i punti del piano tr, traccie delle 
linee d’azione delle forze, e colle corrispondenti lettere minuscole gli assi delle rota- 
zioni prodotte dalle forze stesse. Così le rette x,, xs ..... saranno gli assi delle rota- 
zioni prodotte da forze agenti in X, X..... 

Dal teorema di reciprocità, — il quale dice che il lavoro virtuale prodotto da 
una forza f, applicata ad un sistema elastico, durante l’azione di un’altra forza fa, 
agente sullo stesso sistema, è uguale al lavoro prodotto dalla forza f» durante l’azione 
della forza fz, — si deduce che se X, sta su x,, anche X, sta su wo. 

Inoltre, poichè le rotazioni si compongono come forze, la rotazione prodotta 
dalla risultante di due forze sarà la risultante delle rotazioni prodotte dalle forze 
componenti; quindi, se il punto X descrive una retta », il corrispondente asse x ruota 
intorno ad un punto È, che è il corrispondente di r. 

Infine è chiaro che un punto X non può mai giacere sul corrispondente asse , 
giacchè in tal caso la forza durante la deformazione da essa prodotta non genere- 
rebbe lavoro alcuno. 

Si ritrovano così le note proprietà che ci permettono di affermare che la corri- 
spondenza tra i punti X di applicazione delle forze, e gli assi x delle rotazioni da 
esse prodotte, è una polarità uniforme, la quale quindi si può costruire come anti- 
polarità rispetto ad una conica, che per ragioni ovvie deve essere un’ellisse. 

Infatti, se la polarità è uniforme, ogni involuzione subordinata — su una pun- 
teggiata od in un fascio — deve essere ellittica; quindi in particolare deve essere 
ellittica l’involuzione dei diametri coniugati della conica fondamentale della anti- 
polarità. 

Questa ellisse si può chiamare l’ellisse di elasticità trasversale (o laterale). 

Riassumendo: rispetto all’ellisse trasversale sono polo ed antipolare il punto 
di applicazione X. di una forza normale a n e rigidamente connessa colla sezione estrema, 
e l'asse x della rotazione da essa forza prodotta. 


$ 3. — L’antipolarità ora definita stabilisce le relazioni geometriche tra le forze e 
le corrispondenti reazioni; le relazioni quantitative che intercedono tra le intensità di 
forze e rotazioni, sono stabilite dalle considerazioni che seguono. 

Una forza f normale a m, passante per il centro G dell’ellisse trasversale pro- 
duce una traslazione S, la quale è proporzionale all’intensità della forza. Se la forza 
passa invece per un punto qualunque del piano m, essa si può trasportare in G; quivi 


L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 5 


produce la traslazione S; inoltre il momento di trasporto fa rotare la sezione estrema 
intorno al diametro dell’ellisse coniugato colla direzione della traccia del piano della 
coppia; questa rotazione non produce ulteriore spostamento del punto G, poichè questo 
sta sull’asse della rotazione. 

Potremo quindi porre: 


Gis 


e potremo chiamare peso elastico trasversale il coefficiente ©, ossia # rapporto costante 
tra la forza e lo spostamento del centro G dell’ellisse trasversale. 

Risulta quindi il seguente teorema fondamentale : 

Lo spostamento del centro G dell’ellisse trasversale, prodotto da una forza f, nor- 
male a ti, rigidamente connessa colla sezione estrema del solido, e passante per un punto 
qualunque di n, è proporzionale all'intensità della forza, ed indipendente dalla sua posi- 
zione ed è espresso da: i 

SE= T 
ove G è il peso elastico trasversale del sistema. 

La forza agente in un punto X produce una rotazione r intorno all’asse x, anti- 
polare di X: lo spostamento S del centro sarà il momento della rotazione r rispetto 
al punto G stesso, ossia, se d è la distanza (normale) di 2 da G, e ser è la rota- 
zione, si ha: 


S= rd 
e sostituendo: 
rd= + 
ossia: 
f= rd6. 


Si ha quindi il seguente teorema : 

La forza £ da cui è prodotta una determinata rotazione r, è uguale al prodotto 
della rotazione r per il momento statico del peso elastico &, applicato in G, rispetto all'asse 
della rotazione. 

Da questo teorema sì possono immediatamente ricavare i seguenti altri: 

II momento di una forza £ rispetto ad un asse del piano n, è uguale al prodotto 
della rotazione r per il momento centrifugo del peso 6 rispetto all’asse della rotazione ed 
all'asse dei momenti. 

È superfluo osservare che qui si considera il peso @ diffuso nel solido in guisa 
da avere per ellisse d'inerzia l’ellisse trasversale di elasticità. 

Il momento della forza £ rispetto all’asse della rotazione da essa prodotta è uguale 
al prodotto della rotazione per il momento d'inerzia del peso elastico & rispetto al- 
l’asse stesso. 

Una coppia normale a t e parallela ad un diametro c dell’ellisse trasversale pro- 
duce una rotazione intorno al diametro coniugato di c; la grandezza della rotazione è 


tr= = ove M, è il momento della coppia rispetto all'asse della rotazione (ossia la pro- 


8 CARLO LUIGI RICCI 


iezione dell'asse momento della ‘coppia sulla direzione dell'asse della rotazione), e p. è 
l'antiproiezione sulla direzione coniugata del semidiametro dell’ellisse disteso sulla vetta e. 

Questi teoremi sono perfettamente analoghi ai teoremi della nota teoria dell’ellisse 
di elasticità (che diremo ordinaria) la quale serve a studiare le deformazioni pro- 
dotte da forze agenti in n; anzi si potrebbero ricavare gli enunciati degli uni da 
quelli degli altri, scambiando le parole forza e rotazione, e quindi anche le parole 
coppia e traslazione. 

È bene notare che il peso elastico trasversale qui considerato non è omogeneo 
coi pesi elastici ordinarti che di solito si considerano nella teoria della elasticità. 


Dalla formola: 6 = £ si vede che le dimensioni di questo peso elastico sono 


quelle di una forza divisa per una lunghezza, ossia: 

[6] = [MT] 
e, colle unità usate nei calcoli di resistenza dei materiali, verrà espresso in ca 
È 
M 


ove R è una rotazione ed M un momento; quindi, poichè la rotazione non ha di- 
mensioni, ossia è un numero astratto, il peso suddetto ha dimensioni reciproche di 


Il peso elastico ordinario, che indicheremo con W, è definito dalla formola:W = 


quelle di un momento, si ha cioè: 


[8] = [ML 7°] 


e colle solite unità del sistema pratico della resistenza dei materiali verrà espresso 
- 1 
10 

tem 


$ 4. — Per costruire l’ellisse trasversale del solido che consideriamo occorrerà 
scomporre questo in tronchi che si possano ritenere prismatici. Conviene quindi stu- 
diare il comportamento di un corpo prismatico, incastrato ad un estremo 4, solle- 
citato da forze normali ad un suo piano di simmetria passante per l’asse geometrico, 
e rigidamente collegate all'estremo libero 5. 

Per la simmetria gli assi dell’ellisse trasversale sono l’uno giacente sull’asse 
geometrico, e l’altro normale; ed il centro è il punto medio del segmento AB. 

È facile convincersi, considerando le rotazioni prodotte da forze normali a ©, 
applicate in punti dell'asse geometrico @, che il semiasse longitudinale dell’ellisse 
trasversale, è uguale a quello dell’ellisse ordinaria di elasticità relativa al piano pas- 
sante per a e normale a n; ossia: 


TV 10 dh, 
P=|otXGF 


indicando con / la lunghezza del solido, con F l’area della sezione trasversale, e 
con Jy il momento d'inerzia di questa sezione rispetto all’asse baricentrico y giacente 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 7 


nel piano t di figura; è bene notare che il momento statico ed il raggio d’ inerzia 
che entrano nell’espressione di y (*) devono essere quelli relativi all'asse y. 

Se trascuriamo le deformazioni prodotte dallo sforzo di taglio, come si usa per 
lo più nelle applicazioni, si può assumere: 


Via 


ed in questo caso il semiasse longitudinale è uguale pure a quello della ordinaria 
ellisse di elasticità relativa al piano n. 

Per trovare l’asse trasversale dell’ellisse cercata consideriamo una forza unitaria 
agente in un punto Y dell’asse di simmetria y, normale ad @, a distanza d dal centro 0 
Questa forza, trasportata in 0, fa subire al punto 0 stesso, il quale si deve, al solito 
ritenere collegato rigidamente alla sezione estrema libera B, una traslazione normale 
al piano di figura, espressa da: 


è = 110? 


ove I è il peso elastico ordinario del solido, relativo al piano passante per a e nor- 
male a T, ossia: 


Il momento di trasporto = 1 X d, è un momento torcente, il quale produce una 
rotazione della sezione estrema intorno all’asse geometrico a; la quale rotazione è 
proporzionale al momento torcente: 


>= KM ossia 9=1.Kd. 


È bene notare che effettivamente le sezioni di un prisma soggetto a torsione 
non sì conservano piane, ma, data la piccolezza delle deformazioni che consideriamo, 
potremo ritenere che rimanga piana la sezione estrema. D'altra parte questi calcoli 
hanno per iscopo la determinazione di forze (reazioni) esterne, e noi consideriamo 
le forze rigidamente connesse colla sezione estrema, la quale quindi si deve imma- 
ginare irrigidita. 

Dai teoremi dimostrati più sopra risulta subito che, se con g si indica il peso 
elastico trasversale del nostro solido prismatico, si ha (V. teorema fondamentale): 


1 Il 


Vr ITA 
Sostituendo a 23 e p i loro valori si ottiene: 


EA, 
= 


(*) Vedi C. Guini, Lezioni sulla scienza delle costruzioni, Parte II. 


8 CARLO LUIGI RICCI 


Inoltre, poichè sappiamo già che la rotazione prodotta dalla forza unitaria appli- 
cata in Y (punto dell’asse trasverso dell'ellisse trasversale) ha per asse una retta 
parallela all’asse longitudinale a, se indichiamo con x la distanza dell'asse della rota- 
zione dall'asse a, si deve avere: 


= Ma A À 
UEA 
e poichè si ha notoriamente: 
ad = pi 
sì ricava: 
Tea i 
Pa= VE , 


oppure, ponendo in luogo di g il suo valore: 


WD 
=. 


ed esprimendo p e 98 in funzione delle dimensioni del solido: 


13 
pla Vaia 


Se indichiamo con J, il momento d’inerzia della sezione trasversale, rispetto all’asse 
baricentrico x normale a m, la teoria della torsione fornisce per X l’espressione: 


a00 Ir t Ty 
K= al WGIRIAE 


In questa formola a è un coefficiente, il quale dipende unicamente dalla forma 
geometrica della sezione; e nei trattati di Teoria della Elasticità si trovano calcolati 
i valori di a per varie forme di sezioni. 

Sostituendo il valore di K nell’espressione di p, si ottiene: 


W.GIxty 


Ri 


e ponendo in luogo di p il suo valore, si ha: 


B.GIIy 


Pia clisa gir) 


Sostituiamo in queste formole a 2 il suo valore, e ricordiamo che nei calcoli 
OE . SII 2 
di resistenza dei materiali si prende: G = E. 


Risulta allora: 


n alte QUER 
50(Jx + Ty) 


oppure, eliminado p: 


do 
ni VESEIA © 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECO. 9 

L'asse trasverso è ‘dunque proporzionale all'asse longitudinale, e quindi alla 

lunghezza del solido, e il coefficiente di proporzionalità dipende soltanto dal rap- 
Ji - . ; 9-0 

porto e dal coefficiente a, ossia solo dalla forma e non dalle dimensioni della 


sezione trasversale; esso resta quindi invariato se la sezione trasversale varia con 
legge di omotetia. . 
Se la sezione è rettangolare, di base 6 e di altezza %, si ha: 


oppure: 


MI 
h 


Il coefficiente a è funzione del rapporto >. 


Il De Saint-Vénant ha calcolati varii valori di — per valori abbastanza vicini 


h h 
moria sulla torsione dei prismi e cilindri, pubblicata nei Rendiconti dell’Accademia 
delle Scienze di Parigi nel 1855, ed il Bauschinger ha potuto darne una conferma 
sperimentale. 
Può essere utile riportare i valori dedotti dalla tabella del De Saint-Vénant: 


di È (tra += 1 per cui a=1,18559, e a per cui a= 1|, in una sua Me- 


, È 1 d 
1,00 | 1,18559 1,70 1,17406 4,50 1,10826 
1,05 | 1,18549 1,75 1,17277 9,00 | 1,10008 
1,10 | 1,18521 1,80 1,17148 6,00 1,08716 
1,15 | 1,18491 1,90 1,16378 6,667 1,08716 
1,20 1,18423 2,00 1,16609 7,00 1,07695 
ES I 1,18354 2,25 1,15920 8,00 1,06882 
1,30 | 1,18270 2,50 1,15285 9,00 1,06219 
1,99 | 1,18187 2,75 1,14569 10,00 | 1,05670 
1,40. | 1,18093 3,00 1,13931 20,00 1,02996 
1,45 1,18036 3,393 1,13931 50,00. | 1,01256 
1,50 1,17882 3,50 1,12866 100,00 1,00623 
LOU 1,17652 4,00 1,11720 (Co) | 1,00000 
| | 


Serie II. Tom. LXII. B 


10 CARLO LUIGI RICCI 


Per la sezione quadrata, essendo a = 1,18559 e += 1, sì ha: 


SITI AE RRAAA i Na 
n=? = 0,821441 p. 


Si può determinare il rapporto >< 1) per il quale si ha: p,= p, ossia: 


DM: IMSA a 


DO) 


o}. 


ao ; 5 SPORT È ; , 
Poichè a è funzione del rapporto incognito n questa equazione si deve risol- 
vere per successive approssimazioni, adoperando la tabella riportata, e si ottiene: 


pasa 


va 0,60, ossia: NI 66/140r 


In questo caso l’ellisse trasversale è un cerchio. 
L’ellisse trasversale coincide poi coll’ellisse ordinaria per una determinata rela- 


d : I 
; e precisamente ciò accade 


; du . 5 37 
zione tra le quantità 6, 4, /, ossia tra i rapporti + e 


BA ANI 
ari 5 b\2 
da 


sì ricava dalla tabella il corrispondente valore di a, e quindi si 


quando si ha: 


si b 

Se è dato x! 
4 ; so 5 3 ? 

calcola direttamente il valore di 7} Se invece è dato i, non si conosce ésatta- 


e quindi bisogna 


mente il valore di a, che è funzione del rapporto incognito è, 


procedere per approssimazioni successive. 
Il peso elastico nel caso della sezione rettangolare è: 


__ 12E hè __ Eh 
REV RO NO a 


$ 5.— Scomposto il solido, come già si disse, in tronchi prossimamente prismatici, 
e descritta per ciascun tronco l’ellisse trasversale nel modo ora indicato, si potrà 
determinare l’ellisse trasversale relativa a tutto il solido, componendo le rotazioni 
parziali che una determinata sollecitazione produce per effetto dell’elasticità dei sin- 
goli tronchi. 

L'asse della rotazione risultante delle rotazioni parziali- prodotte ha una forza 
normale a t, applicata in un punto X, sarà l’antipolare di X rispetto all’ellisse 
cercata. 


L'’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 11 


La risultante delle rotazioni prodotte da una coppia normale a m, avrà per 
asse il diametro dell’ ellisse, coniugato alla direzione della traccia del piano della 
coppia. 

È facile così determinare il centro G dell’ellisse come intersezione degli assi 
delle rotazioni risultanti dovute a due coppie non parallele. 

Se È è la grandezza della rotazione risultante prodotta da una forza uguale 
all'unità, agente in un punto X, e se d è la distanza dell’asse della rotazione dal 


punto G, il peso elastico trasversale di tutto il solido è: G = si 
In particolare se calcoliamo la traslazione S prodotta da una forza unitaria pas- 


sante per il centro G, si ha: 


@ 
| 
mi 


Se si determina poi la rotazione & prodotta da una data coppia, dalla formola 
dimostrata al $ 3: 
M 
Gps? 


== 


si ottiene, risolvendo: 


n= y DE 


RS. 


Si può così individuare completamente l’ellisse trasversale complessiva, calco- 
lando le deformazioni dovute a tre diverse sollecitazioni. 

Possiamo osservare che il principio meccanico (composizione di rotazioni) di questo 
procedimento è analogo a quello che dà luogo alla determinazione dell’ellisse ordi- 
naria di elasticità di sistemi complessivi; ma la costruzione geometrica che ne risulta 
non coincide colla corrispondente dell’altra teoria (identica, com’è noto, alla deter- 
minazione dell’ellisse di inerzia di una figura composta], ma si può considerare come 
la costruzione duale di quella, giacchè in luogo di determinare gli antipoli di date 
rette (proprie o no), determina le antipolari di dati punti (proprii o no). 


$ 6. — La composizione, ora indicata, di due o più ellissi trasversali si fa in modo 
affatto analogo a quello usato nello studio dei sistemi solidali perla determinazione 
dell’ellisse ordinaria relativa ad un giunto comune a due solidi i quali siano rigida- 
mente incastrati all’altra estremità, per esempio, un arco ed una pila (*). Infatti nel 
caso ora citato si compongono due forze le quali producano la stessa rotazione nel 
giunto comune mentre l’una di esse interessa l’elasticità dell’arco, e l’altra l’elasti- 
cità della pila; la risultante delle due forze agisce secondo l’antipolare del centro 
della rotazione rispetto alla cercata ellisse del complesso. 

Per comporre due ellissi trasversali, come abbiamo visto, si determinano le rota- 
zioni prodotte nei due sistemi da una stessa forza, normale al piano t; la risultante 


(*) Vedi Guini, Op. cit., parte IV (Teoria dei Ponti), pag. 474-477. 


12 CARLO LUIGI RICCI 


delle due rotazioni ha per asse l’antipolare del punto di applicazione della forza 
rispetto all’ellisse trasversale complessiva. 

Si scorge così la completa analogia dei due procedimenti. 

Si può dedurre da ciò, — e si può pure dimostrare direttamente, — che, nello 
studio dei sistemi solidali, se si vuole l’ellisse trasversale relativa al giunto comune 
ad un arco e ad una pila, bisogna comporre le due ellissi trasversali parziali, proprio 
come si compongono due ellissi ordinarie terminali. 

Infatti a questo scopo bisogna far agire sull’arco e sulla pila rispettivamente 
due forze, normali a t, le quali producano una stessa rotazione; quindi comporre le 
due forze; il punto di applicazione della risultante e l’asse della rotazione sono polo 
ed antipolare rispetto all’ellisse trasversale cercata. 

È chiaro che in questo caso il centro dell’ellisse del complesso è il baricentro 
dei due centri delle ellissi parziali, coi pesi elastici g relativi, e che la somma di 
questi è il peso elastico trasversale del complesso. 

È quindi dimostrata l’identità del procedimento con quello adottato per la com- 
posizione di ellissi ordinarie terminali. 


CapiroLo IL. 


Applicazioni della teoria dell’ellisse trasversale. 


$ 1. — Esposta brevemente la teoria generale dell’ellisse trasversale, converrà 
passare a studiare un po’ più da vicino le applicazioni ai casi concreti, e special- 
mente alla determinazione delle reazioni iperstatiche, ed esporre esplicitamente, e 
nella forma il più possibile chiara e spedita i procedimenti grafici più acconci allo 
scopo. 

Abbiamo già visto precedentemente che il centro G dell’ellisse trasversale si 
può determinare come intersezione degli assi delle rotazioni risultanti prodotte da 
due coppie, — per esempio unitarie, — normali al piano t, e non parallele tra loro. 
Avendo riguardo alla determinazione dei semidiametri, e per altre ragioni che risul- 
teranno meglio appresso, conviene che le traccie dei piani delle coppie abbiano di- 
rezioni coniugate rispetto all’ellisse, il che si ottiene, com’è noto, scegliendo la se- 
conda coppia parallela all’asse della rotazione prodotta dalla prima. 

Per ottenere la rotazione risultante prodotta da una data coppia, basta deter- 
minare le rotazioni parziali dovute all’elasticità dei singoli tronchi: gli assi di queste 
rotazioni sono i diametri delle ellissi parziali, coniugati alla direzione della traccia 
del piano della coppia; la grandezza di ognuna di esse si determina colla formola: 


— Mi 
gpe? | 


Per la composizione di tali rotazioni converrà usare il poligono delle successive 
risultanti. 

Il peso elastico del complesso si può determinare applicando nel centro G una 
forza unitaria normale a T; essa, come si sa, produce una traslazione; quindi tutte 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 13 


le rotazioni parziali da essa prodotte devono dare come risultante una coppia di ro- 
tazioni; ossia la somma geometrica di dette rotazioni parziali dovrà, come verifica, 
risultare nulla. 

Anche per la composizione di queste rotazioni converrà, come vedremo fra poco, 
usare il poligono delle risultanti successive. 


Il momento della coppia risultante sarà la traslazione S cercata; allora il peso 


S 9 5 : 1 
elastico complessivo sarà: G= >. 

Le lunghezze dei semidiametri dell’ellisse, già determinati in direzione, si pos- 
sono calcolare mediante la nota formola: 


Sa 
LI RG 
$ 2. — Per la determinazione della reazione dell’incastro B conviene seguire 


il metodo delle linee d’influenza, giacchè questo ci permette di fare in modo molto 
semplice il calcolo per qualsiasi condizione di carico, e riesce particolarmente utile 
nel caso dei ponti, per studiare l’azione del vento sul carico viaggiante; inoltre per 
il tracciamento di esse linee possiamo utilizzare, come vedremo subito, i poligoni di 
successive risultanti che ci hanno servito per determinare l’ellisse complessiva. 

D'altra parte è facile convincersi che il procedimento diretto della determina- 
zione della reazione dovuta ad una data condizione di carico, condurrebbe ad ope- 
razioni molto lunghe e laboriose, giacchè richiederebbe la ricerca delle rotazioni 
parziali che ciascun carico produce in ciascuno dei tronchi che esso sollecita, ed 
inoltre la composizione di tutte queste rotazioni; il numero di esse può essere no- 
tevole, con grande scapito della rapidità del procedimento, e della chiarezza ed esat- 
tezza del disegno. Infine si può osservare che anche nelle applicazioni dell’ordinaria 
teoria dell’ellisse. di elasticità al calcolo di costruzioni destinate ad un carico fisso, 
si usano con utilità le linee d’influenza (*). 

Ci proponiamo quindi anzitutto di trovare le linee d'influenza dei parametri della 
reazione B per un carico unitario, normale a t, applicato nei varì punti dell'asse 
geometrico dell’arco. Volendo poi studiare l’azione di forze applicate in altri punti 
del piano t, se sarà il caso, si potranno costruire le linee d'influenza relative ad 
una data linea — per es. retta — di t considerata come luogo dei punti di appli- 
cazione della forza; così, se si tratta di studiare un ponte ad arco, con trave retti- 
linea soprastante, potrà essere utile costruire le linee d’influenza relative ai carichi 
applicati alla travata superiore. 

D'altra parte si potrà valutare l’azione di una forza applicata in un punto qua- 
lunque, trasportandola nel centro di quella sezione alla quale si ritiene rigidamente 
connessa; la coppia di trasporto si può scomporre in due parallele a due piani fissi 
— per es. ortogonali —; e converrà quindi costruire le linee d'influenza dei tre pa- 
rametri della reazione B prodotta da momenti unitarî, agenti sulle varie sezioni 
dell’arco, parallelamente ai due piani fissati. ; 


(#) Cfr. C. Guipr, Op. cit., parte III, pag. 98 e segg. 


14 CARLO LUIGI RICCI 


Praticamente, nello studio dei ponti, basterà costruire le linee d’influenza per 
una coppia di piano verticale (e normale a ©). 

Converrà assumere come parametri della reazione B tre componenti tali che 
ciascuna di esse non produca lavoro durante le deformazioni prodotte dalle altre 
due; in tal modo le equazioni di elasticità che servono a determinare i tre para- 
metri prendono la forma più semplice possibile, giacchè ognuna di esse contiene un 
solo parametro. 

La reazione B dovuta a carichi normali a t è, come si sa, pure normale a ; 
essa è determinata quando ne sono note l'intensità e le coordinate del punto d’ap- 
plicazione. Noi potremo trasportarla ad agire nel centro G dell’ellisse trasversale; 
il momento di trasporto si può scomporre in due coppie parallele rispettivamente 
ai due diametri coniugati dell’ellisse trasversale; ed assumeremo come parametri 
l'intensità della forza ed i momenti delle due coppie; queste tre sollecitazioni com- 
ponenti soddisfanno alla condizione suesposta, giacchè nessuna di esse produce spo- 
stamento nella direzione di una delle altre due. 

Quindi le linee d’influenza di questi tre parametri sono senz'altro le linee d’in- 
fluenza delle deformazioni ad esse corrispondenti, alle quali i suddetti parametri 
risultano proporzionali. Basterà dunque tracciare le linee d’influenza dello sposta- 
mento, normale a t, del centro G, supposto al solito rigidamente connesso colla 
sezione estrema 5, e delle rotazioni della sezione B intorno a quei due diametri 
dell’ellisse trasversale che abbiamo scelti. 


$ 3. — Per la costruzione di queste linee d’influenza si può applicare il prin- 
cipio di Maxwell, utilizzabile sotto le due seguenti forme particolari: 

a) Lo spostamento di un punto G, rigidamente connesso con una sezione 5, 
sotto l’azione di una forza =1 normale a m, applicata in un punto X, rigidamente 
connesso con una sezione S, è uguale allo spostamento del punto .X, sotto l’azione 
di una forza =1, normale a n applicata nel punto G. 

5) La rotazione di una sezione B, per effetto di una forza = 1, normale a q, 
agente in un punto X, rigidamente connesso con una sezione S, è uguale allo spo- 
stamento del punto _X, sotto l’azione di una coppia = 1, normale a , agente sulla 
sezione B, il cui asse momento sia parallelo all'asse della rotazione considerata. 

Quindi possiamo affermare senz'altro quanto segue: 

La linea d'influenza della reazione finita B, è il poligono di deformazione relativo 
ad una forza =1 agente in G, centro dell’ellisse trasversale, normalmente al piano n. 

La linea d’influenza del momento My, parallelo al diametro x dell’ellisse trasversale 
è il poligono di deformazione relativo ad una coppia la quale abbia momento = 1, ed 
il cui piano sia normale al diametro y, coniugato di x. 

Per l’altra componente M,, del momento Mg basta ripetere quanto precede, scam- 
biando x con y. 

Poichè qui si tratta di forze normali al piano n di figura, non possiamo mi- 
surare le ordinate delle linee d’influenza sulla linea d'azione delle forze, come si fa 
sempre quando si tratta di forze giacenti nel piano di figura. Perciò proiettiamo i 
punti di applicazione delle forze considerate, per esempio i punti dell'asse geome- 


trico dell'arco, parallelamente ad una data direzione, su una data retta trasversale, 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 15 


scegliendo la direzione di proiezione in modo che in un punto della trasversale si 
proietti un solo punto dell'asse geometrico; sui raggi proiettanti, a partire dalla 
trasversale, portiamo le ordinate del poligono di deformazione che vogliamo costruire. 
Per esempio, studiando un ponte od un’incavallatura ad arco converrà prendere 
come direzione di proiezione la verticale, e scegliere la trasversale orizzontale. 


$ 4. — A questo punto sì scorge immediatamente come si possano utilizzare 
per il nostro scopo i poligoni di successione risultanti che ci hanno servito per com- 
porre le rotazioni parziali, e determinare l’ellisse complessiva. 

Infatti, scegliamo un punto dell'asse geometrico sul giunto di separazione tra 
due tronchi consecutivi; lo spostamento di questo punto per effetto di una delle tre 
sollecitazioni che abbiamo scelte come parametri, sarà il momento, rispetto ad esso 
punto, della risultante delle rotazioni dovute ai tronchi compresi tra il punto stesso 
e l’incastro A, e prodotte dalla sollecitazione considerata, risultante che noi cono- 
sciamo perfettamente, avendo costruito il poligono delle risultanti successive. 

La determinazione dei momenti delle successive risultanti rispetto ai centri dei 
giunti sì può eseguire in modo molto semplice e spedito per via grafica. 

Basta osservare che il momento di una rotazione rispetto ad un punto è dato 
dal prodotto della distanza del punto dall’asse della rotazione, misurata in una dire- 
zione qualunque, per l’antiproiezione della rotazione su questa direzione. 

Nel caso nostro torna comodo eseguire il prodotto della distanza orizzontale del 
punto dalla rotazione, per la protezione verticale della rotazione stessa. 

A tale scopo, dopo aver tirate per i centri dei giunti le verticali e le orizzontali, 
proiettiamo orizzontalmente su una verticale la poligonale delle rotazioni. 


Fig. 2. 


Sia O il centro di un giunto, ed 7 la relativa rotazione risultante; sia 0' la 
proiezione orizzontale di 0 su 7; da 0' caliamo la verticale fino in 0" sulla oriz- 
zontale di riferimento della linea d’influenza da costruire. Ora da un polo P scelto 
sulla orizzontale per l’origine della poligonale delle rotazioni, proiettiamo la compo- 
nente verticale 7" — A'R' della rotazione 7; per 0" conduciamo una parallela al 


16 CARLO LUIGI RICCI 


raggio proiettante PR'; tale retta e l’orizzontale di riferimento intercettano sulla 
verticale per 0 un segmento n che è l’ordinata della linea d’influenza cercata. 

Conviene fare in modo che le ordinate delle linee d’influenza diano senz'altro 
lo sforzo, in una scala comoda per la lettura. Ciò si può ottenere calcolando, anche 
graficamente, la distanza polare A4'P, basandosi su valori noti a priori, dell’ordinata 
della linea d'influenza. 

Per questo basta osservare che quando il carico unitario arriva all'appoggio B, 
la reazione di questo diventa uguale e contraria al carico. Quindi, se prendiamo per 
scala delle forze 1'= 10°" l’ordinata letta sotto B, nella linea d’influenza della rea- 
zione B, deve essere 10°. 

Poi, se prendiamo come misura del momento il braccio di leva di una coppia 
le cui forze siano uguali ad 1, le ordinate lette sotto B, delle linee d’influenza dei 
momenti M., ed M, devono essere rispettivamente uguali alle distanze del centro 
della sezione B dagli assi x ed y. Si può quindi determinare opportunamente la 
distanza polare per il tracciamento di ciascuna linea d'influenza. 

Se l’arco è simmetrico, le linee d’influenza dei parametri della reazione B sono 
simmetriche di quelle dei parametri della reazione A. 

È utile inoltre osservare che le ordinate lette sotto la stessa verticale, nelle 
linee d’influenza delle reazioni A e B hanno per somma 1; inoltre la somma alge- 
brica delle analoghe ordinate nelle linee M,, ed Mx, deve essere uguale alla distanza 
del centro della sezione considerata dall'asse «; lo stesso si dica per le linee degli M,. 


$ 5. — Abbiamo accennato come convenga talora la costruzione di linee d’in- 
fluenza relative a momenti unitari agenti sulle varie sezioni dell’arco. Anche per 
queste linee sarà utile applicare il teorema di reciprocità. 

Scelta una direzione a nel piano m, proponiamoci di costruire la linea d’influenza 
di ciascuno dei tre parametri della reazione B prodotta da momenti paralleli ad @ 
e normali a tr. 

Dal teorema di reciprocità si ricava che lo spostamento del centro G per l’azione 
di una coppia unitaria parallela ad a, applicata ad una sezione S, è uguale alla com- 
ponente normale ad @ della rotazione che subisce la sezione .S, per effetto dell’ela- 
sticità del tratto AS, quando in G agisce una forza unitaria; quindi questa rotazione 
componente è l’ordinata corrispondente alla sezione S della linea d'influenza della 
intensità della reazione B, relativa ad una coppia unitaria parallela ad a. 

In modo perfettamente analogo, sempre applicando il teorema di reciprocità, si 
possono costruire le linee d’influenza dei momenti Mg, ed Mp,. 

Le ordinate di queste linee d’influenza si possono senz'altro ricavare dalle poli- 
gonali delle rotazioni costruite per determinare l’ellisse complessiva. 


$ 6. — Se l’arco è simmetrico rispetto ad un piano normale a m, le costru- 
zioni si possono limitare a mezzo arco, giacchè le rotazioni dovute all’elasticità del 
secondo semiarco sono evidentemente le opposte delle simmetriche di quelle relative 
al primo semiarco. 

L’ellisse trasversale ha un asse sulla traccia y del piano di simmetria. 

La risultante delle rotazioni prodotte nei tronchi del semiarco da una coppia 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. alt 


parallela al piano di simmetria di traccia y, incontra la y nel centro G dell’ellisse 
trasversale di tutto l'arco; infatti le rotazioni prodotte nei due semiarchi da detta 
coppia, sono l’una l’opposta della simmetrica dell’altra, rispetto ad y; quindi i loro 
assi si tagliano su y, e poichè la loro risultante deve incontrare y nel centro G 
dell’ellisse trasversale, questo punto si ottiene come intersezione di una di dette 
rotazioni colla retta y. 

Una forza, normale a m, agente in G, produce traslazione pura; ossia la risul- 
tante delle rotazioni parziali deve essere infinitamente piccola e lontana. 

Le rotazioni dovute all’elasticità dei tronchi di un semiarco ammettono una 
risultante, che deve costituire una coppia colla opposta della sua simmetrica rispetto 
ad y — rotazione dovuta all’elasticità del secondo semiarco —; quindi detta risul- 
tante deve essere parallela ad y; si ha così una verifica delle costruzioni eseguite. 

La traslazione sarà data evidentemente dal doppio del momento di detta rota- 
zione rispetto all’asse y. — Può interessare la linea d’influenza dello spostamento di 
un punto qualunque dell'asse geometrico, per esempio del vertice dell’arco. 

Tale linea è il poligono di deformazione relativo ad un carico unitario agente 
nel punto considerato. 

Determinate le reazioni delle imposte provocate dal dato carico, mediante le 
linee d’influenza dei tre parametri, conviene osservare che, se S è la sezione nel 
cui baricentro è applicato il carico, il tratto AS si può considerare come incastrato 
all'imposta, e sollecitato nella sezione estrema .S dal carico esterno e dalla reazione B, 
le quali forze possono venir sostituite colla reazione A cambiata di segno; lo stesso 
si può ripetere per il tratto SB; quindi le rotazioni parziali si calcolano semplice- 
mente come prodotte da una sola forza. 

Nel caso di un arco simmetrico il poligono di deformazione per un carico uni- 
tario agente nel vertice, si può costruire in modo molto semplice, limitando le co- 
struzioni al mezzo arco in virtù della simmetria. 


$ 7. — Consideriamo un arco simmetrico e simmetricamente caricato da forze 
normali al piano mt dell’asse geometrico. La sezione estrema 5, liberata dal vincolo, 
ruota, come è noto, intorno ad un asse del piano ti; perciò la reazione B che deve 
annullare questa rotazione è anch'essa normale a m. Quindi nell’arco lo sforzo nor- 
male è nullo in tutte le sezioni; inoltre le due reazioni che indicheremo con R, ed Rg 
saranno uguali ciascuna alla metà della risultante di tuttii carichi agenti sull’arco. 
oltre i punti di applicazione di R, ed Rz si devono trovare simmetricamente posti 
rispetto all'asse y, sulla normale a questo asse condotta per il punto di applicazione 
della risultante di tutti i carichi. Quindi il problema presenta una sola incognita 
iperstatica, cioè il momento di Rx (o R,) rispetto all’asse. Questo si può determi- 
nare con una sola equazione di elasticità, calcolando la componente verticale della 
rotazione totale prodotta dai carichi, e questo si fa colla sola poligonale delle rota- 
zioni, e non occorre determinare l’asse della rotazione risultante, poichè sappiamo 
a priori che esso coincide coll’asse y. 

Si può anche procedere in un altro modo; assumere cioè come incognita l’azione 
che si trasmettono i due semiarchi attraverso la sezione di chiave C. 

Abbiamo già visto che è nullo lo sforzo normale; sia dall’equazione di equilibrio 


Serie II. Tox. LXII. c 


18 CARLO LUIGI RICCI 


alla traslazione del semiarco, sia da considerazioni di simmetria si deduce che in € 
è pure nullo lo sforzo di taglio. Pure per la simmetria si riconosce che in Cl è 
anche nullo il momento torcente; quindi l’azione che i due semiarchi si trasmettono 
in C deve essere un momento flettente, e poichè tutte le forze che sollecitano l’arco 
sono normali a t, anche questa coppia flettente deve essere normale a m. Ciò si 
può pure dimostrare osservando che la reazione Rz ed i carichi sul semiarco destro 
costituiscono una coppia il cui piano è normale all’asse y. 

Consideriamo il semiarco AC ed immaginiamo libera la sezione di chiave C. 
Hssa, sotto l’azione delle forze che sollecitano il semiarco AC, subisce una rota- 


ho 
/ 


Fig. 3. 


zione ?° intorno ad un asse r di t che noi sappiamo determinare. Il momento M., 
costituito, come abbiamo visto, da una coppia normale ad y, deve ricondurre la se- 
zione © a giacere nel piano w di simmetria — di traccia y —; esso fa rotare la 
sezione € intorno al diametro dell’ellisse trasversale del semiarco, coniugato alla 
direzione normale ad y (orizzontale); sia s la rotazione così prodotta; lo spostamento 
finale della sezione C deve essere una rotazione di asse normale al piano w della 
sezione C stessa; quindi la risultante & di s ed 7° deve essere un segmento normale 
ad y; con questa condizione viene determinata la grandezza della rotazione s. 
Dalla rotazione si ricava poi il momento che la produce, mediante la nota re- 


lazione: 
M.= sGp_. 


Questo momento diviso per la metà della somma di tuttii carichi, dà la distanza 
delle reazioni dall’asse y. 

Nell’introduzione abbiamo parlato del modo di comportarsi delle cerniere cilin- 
driche sotto l’azione di forze normali a 1; ora torna opportuno osservare che se in 
un arco si ha una cerniera sferica (e per l’indeformabilità cinematica del sistema non 
se ne può avere più di una; se ci sono altre cerniere, queste devono essere cilin- 
driche), essa, per le sollecitazioni che qui trattiamo, reagisce con una forza unica 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 19 


normale a mt, giacchè essa si oppone solo agli spostamenti normali al piano , e non 
impedisce la rotazione. 

Se un arco simmetrico e simmetricamente caricato da forze normali a m, pre- 
senta in chiave una cerniera sferica, è staticamente determinato; infatti i due semi- 
archi si comportano come indipendenti, e non si trasmettono alcuno sforzo attraverso 
la cerniera, giacchè questa non impedisce la rotazione e si ha M.= 0. 


$ 8. — Quantunque sia molto comodo, per le ragioni esposte più sopra, l’uso 
delle linee d’influenza, può tuttavia interessare il procedere direttamente al calcolo 
degli spostamenti, e quindi delle reazioni prodotte da una data condizione di carico. 

Per evitare costruzioni troppo laboriose sarà bene determinare preventivamente 
la risultante di tutte le forze che interessano l’elasticità di ogni singolo tronco; e 
poichè si tratta di forze parallele, basterà determinarne il centro col noto metodo 
della statica grafica, supponendo di far agire le forze nel piano © in due diverse 
direzioni. 

Poi della traccia della risultante di ciascun gruppo di forze si prenderà l’anti- 
polare rispetto all’ellisse trasversale di quel tronco che viene sollecitato da tutte e 
sole le forze del sruppo stesso, e si avrà così l’asse della rotazione dovuta alla 
elasticità di detto tronco; la grandezza di questa rotazione si determina poi al 
solito modo. 

È ovvio che se si tratta di forze ripartite, converrà sostituire la loro risultante 
alle forze che agiscono su di uno stesso tronco. 


$ 9. — Le forze esterne (agenti sull'asse geometrico dell’arco, oppure fuori di 
questo), si devone intendere rigidamente connesse con una determinata sezione tras- 
versale dell'arco; se questa non è una delle sezioni di separazione tra due tronchi 
consecutivi, la forza in questione non interessa l’elasticità di tutto il tronco in cui 
cade la sezione considerata, ma solo del tratto compreso tra la sezione stessa e la 
sezione di separazione più vicina, dalla parte dell'estremo fisso. 

Per evitare il calcolo e la successiva composizione della rotazione dovuta alla 
elasticità del tratto sollecitato, conviene sostituire alla forza in questione una forza 
ideale, la quale sia capace di produrre, sollecitando tutto il tronco, la stessa rota- 
zione che produce la forza data nella sua effettiva posizione; questa forza si com- 
porrà colle altre sollecitanti lo stesso tronco, e quindi si procederà alla determinazione 
della rotazione, come è stato indicato più sopra. 

Conviene distinguere il caso di una forza concentrata, ed il caso del carico uni- 
formemente distribuito. 


$ 10. — Se si tratta di una forza concentrata f agente in un punto X, e rigi- 
damente connessa con una sezione S del tronco considerato MN, possiamo osservare 
che, essendo l’asse trasverso dell’ellisse trasversale proporzionale all’asse longitudinale, 
e quindi alla lunghezza del tratto prismatico considerato, l’ellisse relativa al tratto MS 
è omotetica a quella relativa a tutto il tronco MN, essendo centro di omotetia il 


punto M, e rapporto di omotetia a È 


20 CARLO LUIGI RICCI 


Vogliamo determinare un punto X' tale che sia l’antipolo rispetto all’ellisse 
trasversale di MN dell’antipolare di X rispetto all’ellisse del tratto MS. 

Perciò se 0Q è il ribaltamento del semiasse maggiore dell’ellisse del tronco MN, 
e se da 0', punto medio del segmento MS, conduciamo la normale all’asse MN fino 


x 


ad incontrare in Q' la retta MQ, il segmento 0'Q' è il ribaltamento del semiasse 


Fig. 4. 


longitudinale dell’ellisse relativa al tratto MS. Possiamo quindi determinare il 
punto P, coniugato della proiezione P di X sull’asse MN, rispetto all’ellisse del 
tratto MS; P, è un punto dell’antipolare di _X rispetto a detta ellisse; quindi la 
proiezione P' di X' sull'asse MN è il coniugato di P, rispetto all’ellisse del tronco MN. 

Si osservi poi che l’antipolare x di X rispetto all’ellisse del tratto MS ha la 
direzione coniugata rispetto a detta ellisse, del diametro 0'X; quindi il diametro 
dell’ellisse del tronco MN, coniugato alla direzione di x, è la parallela alla OX 
condotta per il punto 0; questa retta incontra la normale all’asse per P' nel punto X° 
cercato. 

In questo punto dovremo poi applicare una forza di intensità: 


tale forza, sollecitando tutto il tronco MN, produce la stessa rotazione che produce 
la forza f agente in X e sollecitante il solo tratto MS. 

Si potrebbe dire che la forza f' agente in X' è la forza data ridotta alla sezione 
estrema N. 

Questa forza ideale noi comporremo colle altre forze reali sollecitanti il tronco MN. 

La costruzione si semplifica notevolmente, come è facile vedere, nel caso, molto 
frequente nella pratica, in cui il punto X venga a coincidere con S. 


$ 11. — Consideriamo ora il caso di un carico ripartito uniformemente. Il 
tronco MN si comporta come una trave prismatica incastrata all'estremo 1 e del 
resto libera; sotto l’azione di un carico uniformemente ripartito Q la sezione estrema 


L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECCO. 21 


x 


ruota, come è noto, intorno ad un asse che dista dall’estremo fisso M di " della 
lunghezza del tronco. Si dimostra infatti nella teoria delle travi inflesse che la tan- 


gente alla curva elastica nell'estremo libero incontra l’asse primitivo ad i della 


lunghezza della trave a partire dall’estremo fisso. 
La rotazione della sezione estrema N, ossia l'angolo che la tangente alla curva 
elastica nell'estremo N fa coll’asse geometrico primitivo è poi espresso da: 


olor 
im 


Si potrà ottenere la stessa rotazione applicando una forza (rigidamente connessa 


colla sezione estrema N) nel punto dell’asse geometrico MN, che dista dal centro, 
l 


dalla parte di N, di DA in =, ossia che dista di ri dall’ estremo N. 


Se indichiamo con P tale forza, si dovrà avere: 


IERI 
o: greto n 
da cui sì ricava: 
sO) 
L= 2 


Si osservi che questo procedimento basato sull’uso delle successive risultanti, 
e coll’eventuale riduzione delle forze alla sezione estrema, si può utilmente applicare 
anche quando si tratti di forze agenti nel piano x e si debbano considerare le ordi- 
narie ellissi di elasticità. 


CapiroLo III. 


Ricerca dell’ellisse trasversale di un tronco prismatico reticolare. 


$ 1. — Proponiamoci ora di determinare l’ellisse trasversale di un tronco pri- 
smatico reticolare, per potere applicare le cose viste precedentemente, alle costru- 
zioni metalliche reticolari. L’asse longitudinale dell’ellisse suddetta si determina come 
l’asse di un’ellisse ordinaria; quindi basta che qui ci occupiamo di determinare l’asse 
trasverso dell’ellisse, ed il peso elastico trasversale; a questo scopo è sufficiente stu- 
diare l’azione di un momento torcente sul tronco reticolare. 

Consideriamo una costruzione reticolare prismatica, come quella indicata in figura, 
— per es. una pila metallica, — costituita di aste longitudinali o correnti, di aste 
trasversali normali ai correnti, e di diagonali inclinate tutte nello stesso senso ri- 
spetto ad un osservatore che guardi ciascuna faccia dall’esterno all’interno. 

Vogliamo ora studiare l’effetto che un momento di asse parallelo all'asse longi- 
tudinale del prisma — momento torcente — produce sul complesso delle aste costi- 
tuenti un tronco compreso tra due successive sezioni fatte coi piani contenenti le 


22 CARLO LUIGI RICCI 


aste trasversali, ove si avverta di considerare le aste di uno solo di questi piani; 
le aste considerate sono segnate in figura con tratto marcato. 

Qui consideriamo come elastiche soltanto le aste indicate, e tutte le altre si 
riterranno rigide. Inoltre per semplicità riterremo che le aste siano soltanto capaci 
di reagire a sforzi di tensione o di compressione, e che permettano libera deforma- 
zione sotto l’azione di sforzi di altra natura; il che equivale a ritenere che dette 
aste, anzichè rigidamente chiodate alle estremità, siano collegate ai nodi per mezzo 
di cerniere sferiche; l’approssimazione che con questa ipotesi si realizza è dello stesso 
ordine di quella che si ottiene considerando collegate a cerniera cilindrica le aste 
di una ordinaria travatura reticolare piana. 

Supporremo poi che i pannelli opposti siano identici per quanto riguarda le 
sezioni delle aste. 


$ 2. — Il momento torcente che consideriamo viene trasmesso alle aste sud- 
dette dal rettangolo A'B'C'D' che riteniamo rigido. Un triangolo come ABB', secondo 
le ipotesi fatte, si oppone solo agli spostamenti del vertice B' paralleli al piano ABB', 
e non impedisce gli spostamenti normali al piano stesso; quindi esso sarà sollecitato 
da una forza applicata in B' e giacente nel piano suddetto; analoghe considerazioni 
si possono fare riguardo agli altri triangoli, nelle altre faccie laterali del prisma. 

Indichiamo con f, ed f,' le componenti della forza applicata in B', rispettiva- 
mente secondo la B'A' e secondo la B'B. 

Le forze agenti in faccie opposte del prisma avranno componenti uguali in valore 
assoluto, poichè abbiamo supposti uguali i pannelli opposti; se f, ed fs’ sono le com- 
ponenti delle forze che agiscono negli altri due piani opposti, e se è, e ds sono i 
lati della sezione trasversale del prisma, la statica dei sistemi rigidi fornisce le se- 
guenti relazioni tra le forze suddette: 


(1) fd 4 foda = M 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 23 


(equazione di equilibrio alla rotazione intorno all'asse geometrico del prisma). 
©) fi+fi=0 


(equazione di equilibrio alla traslazione lungo l’asse geometrico ; si noti che in questa 
equazione compaiono due sole forze, giacchè le forze f' agenti in vertici opposti del 
rettangolo 4'‘B'C'D' sono uguali in grandezza e direzione). 

Le quattro quantità f,, fa, fr, fo presentano quindi un duplice grado di inde- 
terminazione statica; si possono ottenere due equazioni di elasticità esprimendo che 
il rettangolo 4/B'C'D' che noi abbiamo supposto rigido, mantiene inalterata la sua 
forma. 

Indichiamo perciò con A; e A;' le componenti dello spostamento del punto B' 
rispettivamente secondo la B'A' e la BB', che sono uguali alle analoghe componenti 
dello spostamento del punto D; indichiamo poi con A, e A,y' gli analoghi sposta- 
menti dei punti A' e C°. 

La rotazione del rettangolo A'B'C'D' è espressa da: 


Ai Ao 
mana 
2 2 
ossia sussiste l'equazione: 
NL a 
(3) di coni dò, È 


oltre il rettangolo A'B'C'D' deve restare piano, ossia si deve avere: 
(4) A,=A, (=4) 


cioè le quattro aste longitudinali (correnti) devono subire lo stesso allungamento A. 
Le quantità 4,, Ag, A;', A, sono funzioni lineari delle f;, fo, f1/, fe/ e quindi 
le (3) e (4) sono equazioni lineari nelle forze stesse, e colle (1) e (2) servono a de- 
terminarle. 
Ottenute le f espresse in funzione del momento M, si potrà calcolare la rota- 
zione +, che risulterà espressa da: 


SiBheMi 


ove K sarà funzione delle lunghezze e delle sezioni delle aste. 

Il rettangolo A'B'C'D', oltre la rotazione 3, subisce pure, come si è visto, la 
traslazione A lungo l’asse geometrico del prisma; ossia compie un moto elicoidale. 

È ovvio che se s’inverte il momento M, gli elementi del moto elicoidale cam- 
biano segno. 

Quindi ad una costruzione costituita di tronchi prismatici analoghi a quello qui 
considerato, non si può rigorosamente applicare quanto si è esposto nella teoria 
dell’ellisse trasversale di elasticità; ciò del resto era da prevedersi, poichè una co- 
struzione così fatta non ammette alcun piano di simmetria. 


24 CARLO LUIGI RICCI 


$ 3. — Se vogliamo trovare l’espressione di K occorre anzitutto determinare 
A; A;/ A, Ay in funzione delle forze fi fi fa fa. 

Poichè per le ipotesi fatte il triangolo A.4,D, non impedisca gli spostamenti 
di A in direzione AB, noi dobbiamo rite uere che il nodo A 
sia vincolato da un appoggio semplice, capace di agire solo 
parallelamente alla BB'; il punto B si deve invece ritenere 
fisso, rispetto all’azione delle forze parallele al piano ABB', 
giacchè può spostarsi solo normalmente al piano stesso. 

Ciò posto, per l’azione della forza di componenti fi ed f,' 
agente in B', questo punto subisce uno spostamento B'(B') 
che si può costruire mediante un diagramma di spostamenti, 
com'è indicato nell’annessa figura. Da questa si ricava: 


A, = As + As) sen a, + (As, + As; cos 4;) cotg a; 


(ove i As sono i valori assoluti delle variazioni di lunghezza delle aste; si noti che 
Anz =D 
Indicando con S, lo sforzo nell’asta s, ecc. si ha: 
f 
Si=f,cotg a — fi' Sprea Ss= fi. 


sen 0 


Inoltre, indicando con / il segmento BB', ossia la lunghezza del tronco consi- 
derato, si ha: 


Sa 0 = a ss =ltanga,. 


Sostituendo si ottiene: 


l tanga 1 cotg a 
iaia 


, cotg UTI 


È ; cotg ai) fr Fi 


F3c0s 0 F.,sen a 


Si ha poi: 
TECA 
Als IN (fi, cotga, — fil). 


Possiamo porre: 
Ai=f hh 


Ai/= Wwf — Vifi' 


ove si ha: 
___t [tanga 1 cotg a, 1 ) | 
aa E | Fa ul F3 cos 4 ( F, ala Fs sen cotg Co 
I cotga l 
= — È Veg. 
e TOT zz 


Ed analogamente si può porre: 


Az = fo — bofo 
A; = bofa — Vofa 


ove le X,, Us, vs hanno espressioni analoghe a quelle di Mx, ui, Vi- 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 25 


Quindi le (3) e (4) diventano: 


7 Mafi— mf! _ Nofa — Mafa' 
(3) RnS "Sn 


(4) mf — Vafi = Mofo — vofe'. 


Risolvendo il sistema delle (1), (2), (3'), (4°) si ottengono i valori delle f,, f;/, 
fa; fe’. che ci servono a calcolare le Aj, 4", A3, Ay' e quindi la X, la 3 e la A. 


$ 4. — Consideriamo ora un tronco prismatico reticolare, il quale presenti dia- 
gonali e controdiagonali in tutti i campi; potremo ritenerlo quale risultante dall’in- 
sieme di due tronchi semplici, come quello di più sopra; l’uno colle diagonali scen- 
denti verso destra, l’altro colle diagonali scendenti verso sinistra. — Poichè le aste 
trasversali come ABCD nell’un sistema vengono tese e nell’altro compresse, potremo 
con molta approssimazione trascurarne le deformazioni; analogamente le aste longi- 
tudinali subiscono pure sforzi di segno contrario nei due sistemi; inoltre si può 
osservare che, essendo la costruzione simmetrica rispetto al suo piano medio, deve 
essere verificata la proprietà dimostrata nel Cap. I, $ 2, ed in particolare il momento 
torcente deve produrre semplice rotazione intorno all’asse del prisma. Perciò il ret- 
tangolo A'B'C'D' non deve subire traslazione; quindi le lunghezze delle aste longi- 
tudinali devono restare inalterate; perciò anche queste aste nello studio dei due 
sistemi parziali si possono ritenere rigide. 

Resta a considerare solo l’elasticità delle diagonali; quindi potremo studiare le 
deformazioni di uno dei due sistemi parziali, sotto l’azione di un momento torcente, 
ponendo uguali a zero, nei calcoli precedenti, quei termini, che esprimono le varia- 
zioni di lunghezza delle aste, che ora consideriamo rigide. 

Dovremo porre Aj=A4,y =A=0 e As3=0 da cui risulta: 


SIE SENSE 
a EF; cos ay (1-1 cotg? a) — EF, 


I 
cos sen? ay 


p=0 e vaE=10 
ed analogamente per X, u, e va e si ha: 
Ai=\f e Ax= fp. 


Il sistema delle 4 equazioni lineari considerate più sopra si riduce al seguente : 


fd 4 fado = M 


Mfi _ def 
di do 
e si ha, com'è naturale: 
fi = = 0 
Risolvendo il sistema si ottiene: 
6 
da mi 
Î,= 2 fa di 
1 da di To di 
= li STI paci 
M 5, + 5, Mi van da 5, 


Serie II. Tom. LXII. D 


26 CARLO LUIGI RICCI 


e sostituendo nella: 


S_- VE.SI — fara 
di da 
2 2 
sì ricava: 
MELO 
" d 
rie Lei 
fis 2) 
d, da + 3, di 
da cui: 
Ta 24 ds 


A do + Adi? | 


Per Valtro dei due sistemi reticolari componenti si potrà ottenere un’espressione 
analoga di K. 

Possiamo contrassegnare cogli indici « e è le quantità relative ai due sistemi 
parziali; dobbiamo ritenere che il momento totale M agente sul sistema complessivo 
si ripartisca sui due sistemi parziali in due parti M, ed M; tali che le rotazioni pro- 
dotte da ciascuna di esse nel corrispondente sistema parziale siano uguali. 


Cioè si deve avere: 
M, + M, i M 


K.,M,= K,M, (= KM) 
da cui risolvendo: 


M=xtgM M=gtn! 
e quindi: ri 
K= Fix: 
$ 5. — Nei casi pratici più frequenti le diagonali e controdiagonali di un pan- 
A °° 2. nello hanno la stessa sezione ”, e così pure le aste 
di contorno hanno la stessa sezione F. 

F / ! Sia s la lunghezza delle diagonali dei pannelli 
paralleli al piano di simmetria (di figura), ed 4 la 
A larghezza di detti pannelli in direzione normale al- 
si h » B 3: € l’asse geometrico. Indichiamo poi con d la larghezza 
D È dei due pannelli normali al piano di figura, e con s' 
ed F" la lunghezza e la sezione delle diagonali di 

U detti pannelli. 
7 Z B Se consideriamo un pannello semplice, soggetto a 


forze del suo piano, si può prescindere dall’elasticità 
delle aste trasversali, come abbiamo già osservato più 
sopra; e con facili considerazioni si ricava per il peso elastico ordinario l’espressione? 


21 


G= Fre 


e per il semiasse longitudinale dell’ellisse ordinaria di elasticità: 


VAVETI 


i 0 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECO. 27 


E ovvio poi che il centro dell’ellisse cade nell’intersezione delle due diagonali, 
e che uno degli assi coincide coll’asse geometrico. 
Per l’asse trasverso si trova (*): 


PSNONO / Fs 
rl 


Se ora consideriamo il tronco reticolare di cui sopra, scorgiamo facilmente che 
quando esso è sollecitato da forze giacenti in uno dei due piani di simmetria, rea- 
giscono soltanto quei due parmnelli laterali che sono paralleli al piano in cui giacciono 
le forze, e poichè questi parnellî sono uguali, le forze applicate si ripartiscono ugual- 
mente su di essi; perciò l’ellisse di elasticità del complesso è quella stessa di un 
pannello, ed il peso elastico è la metà del peso relativo al pannello semplice, cioè 
si ha: 

1 
= o 

Se consideriamo ora l’azione di forze normali a detto piano di simmetria, po- 
tremo tracciare l’ellisse trasversale del tronco considerato, relativa a detto piano. 

Com'è noto dalla teoria generale dell’ellisse trasversale, il semiasse longitudinale 
di questa ellisse è uguale al semiasse dell’ellisse ordinaria relativa al piano passante 
per l’asse geometrico del tronco e normale al piano di simmetria prima considerato. 
Detto semiasse si ottiene dalla precedente espressione di p, ponendo F" in luogo 
di F' ed s' in luogo di s, ossia: 


Conviene considerare poi il peso elastico ordinario relativo che è evidentemente: 


1 
— EFb 


B 
L’asse trasverso dell’ellisse trasversale viene espresso poi, secondo la teoria 
generale, da: 
[pro 
Pi=P vai , 
ove X è il rapporto tra la rotazione ed il momento torcente che la produce. 
Sostituendo a 28 il suo valore, avremo: 


1 
unit Va 
ed eliminando p: 


I E 
Dia al EFFE ‘ 


(*) Cfr. W. Ritter, Anwendungen der Graphischen Statik, Il Teil, Das Fachwerk, S. 162-164. 


28 CARLO LUIGI RICCI 


Il peso elastico trasversale è poi dato dalla formola: 


ossia sostituendo e riducendo: 


$ 6. — Per ottenere l’espressione di p, in funzione delle dimensioni della co- 

struzione, occorre esprimere esplicitamente il valore di X. Questo si può fare ricor- 

KE 
Ka + IG 
siderato, essendo uguali le sezioni delle diagonali situate in faccie opposte, si può 
procedere direttamente in modo molto semplice. 

Per effetto del momento torcente M i due pannelli di larghezza % sopportano 
ciascuno una forza f, diretta secondo l’asta trasversale A'B' (o C'D'), e così ciascuno 
dei pannelli di lato è viene sollecitato da una forza f; pure diretta secondo l’asta 
trasversale (A'D' o C'B'). 

Lo spostamento di B' in direzione B'A' è: A,=N\,f, e l'analogo spostamento 
in direzione normale al piano di figura è A,=M\f. 

Poichè un pannello, per esempio ABB'A', si può considerare come risultante 
dalla sovrapposizione di due pannelli triangolari ABB' ed ABA', e poichè le sezioni 
delle diagonali sono supposte eguali, il coefficiente \,, che si può chiamare sposta-. 


rendo alla formola più sopra trovata: X = ; ma nel caso speciale qui con- 


mento specifico (poichè per f, =1 si ha A,=\,), è evidentemente la metà dell’ana- 
logo X che corrisponderebbe ad uno dei triangoli costituenti, giacchè l’azione di f, 
si ripartisce ugualmente su detti triangoli. 

Quindi, ricordando l’espressione più sopra trovata del ) relativo ad un triangolo, 
supposta elastica la sola diagonale, si ha: 


Vee l 
hT7 2EP' cosa; senta, ? 


ed esprimendo cosa, e sena, mediante /, s, 4, si ottiene: 


s3 


Er 
hem 


Per i pannelli di larghezza % si ha evidentemente: 


\ Li 
è BEE: 


Possiamo quindi applicare la formola trovata più sopra: 


TO 
7 Ah + Xodb® ® 


Sostituendo a ), e » i loro valori si ottiene: 


FR NSENS: 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 29 


Se sostituiamo nell'espressione di p,, abbiamo: 


(i an 


se g3 è) 
od anche: 


(Re 
SEG, 


Si noti che il valore di p, dipende solo dalle sezioni delle diagonali ed è indi- 
pendente dalle sezioni delle aste di contorno o correnti, come deve essere, giacchè 
abbiamo osservato che tali aste non subiscono deformazione per effetto del momento 
torcente. 

Può interessare l’esprimere le varie grandezze qui considerate, in funzione della 
lunghezza del tronco considerato, e degli angoli a, ed as che le diagonali formano 
colle aste di contorno. 


Si ha: 
h=ltanga b=Itang as sal s=l 
î Sa cosa, coso” 
N EI \ RANA 
RT 2EF'cosa, sen?a, è — 2EF"cosas sen 09 
FRI 1 
—— El F'cosa; senza; tang?a, + 7” cosa» sen? a, tang* a, 

OE a 1 4EF 
RA i i — 2a 3 e20 
p 2 y FP" cost dg BE Gr tang®a, E Ù "cos ERE, 


1 
=D Nota (E cosa, sen?a, tang*a, + ” cos a, sen?a, tang? a) 
5 2 


ed eliminando p: 


SS y F' cosa, senza, tanga, + FP” cosu, sen? ag tanga; 
PF” coso, sen? ay 3 


$ 7. — Talora i ponti in ferro sono costituiti da due travature principali uguali, 
riunite da un sistema di controvento semplice, ossia disposto in corrispondenza di 
uno solo dei contorni (superiore od inferiore) delle travi principali; in tal caso dob- 
biamo considerare il complesso delle tre travature — le due portanti e quella di 
controvento — come l’insieme di più tronchi prismatici, o quasi, costituiti di tre soli 
pannelli reticolari; uno di questi tronchi si potrebbe ottenere da quello rappresen- 
tato nella figura 5 o nella 7, sopprimendo uno dei pannelli, per esempio BCB'C'. 
In questo caso, come nel precedente, l’ellisse di elasticità ordinaria del tronco (rela- 
tiva al piano n) è identica all’ellisse di ciascuno dei pannelli' delle travi principali, 
ed il peso elastico è la metà di quello che compete ad uno di questi pannelli. 

Per la ricerca dell’ellisse trasversale del tronco dobbiamo ritenere, col grado di 
approssimazione usato in questi calcoli, che un momento flettente, il cui piano sia 
normale al piano di simmetria , solleciti soltanto il pannello di controvento; quindi 
l’ellisse trasversale del tronco prismatico ha per asse longitudinale l'analogo asse 


30 CARLO LUIGI RICCI 


dell’ellisse ordinaria di questo pannello, ed il peso elastico Y% che compare nelle 


note formole g = mr e pi= ovk è il peso elastico ordinario del pannello stesso. 


Per calcolare l’asse trasverso p, dovremo poi calcolare K, e perciò studiare 
l’azione di un momento torcente, osservando che questo viene sopportato completa- 
mente dai pannelli principali e non sollecita quello di controvento. 

Colle notazioni usate nel $ precedente avremo: 


ST VET 1 qs na _2 _ 2EF" 
p Cra 2 FAZZE nni 2 ] PI = EPLb ge 913 O 


Se poi M è un momento torcente che solleciti il tronco, ciascuno dei due pan- 
M 


3 diretta secondo un montante; 


nelli principali viene sollecitato da una forza = 


quindi si ha evidentemente: 


M La 2 
= KM=TMh:+ 
da cui: 
Im \ 
RI NdO 


Se i pannelli principali hanno diagonali e controdiagonali, si ha: 


s3 


MS gen: 
e se hanno solo una diagonale si ha: 
sì 
= Gp 
Nel primo caso si ha: 
een 
GI 


da cui, sostituendo, si ottiene: 
2F%1h? 
PRA sa 


ossia, eliminando p: 


pi = | 3 


Nel secondo caso: 


253 
E= pr 
e quindi: 
FM 
MER 
ossia: 
14/ wRS 


pi = 92 PS . 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 31 


Capiroro IV. 


Relazioni geometriche tra le sollecitazioni e le deformazioni. 


$ 1. — Possiamo ora sviluppare lo studio già accennato nell’introduzione, dell’a- 
zione di una forza qualunque, o più in generale di un sistema qualunque di forze, 
agenti sul sistema elastico, rigidamente connesse colla sezione estrema; e può essere 
di un certo interesse lo studio delle proprietà geometriche di quei sistemi di forze 
che producono deformazioni particolari; studio che può procedere di pari passo con 
quello delle proprietà delle deformazioni prodotte da particolari sistemi di forze. 

Per ora consideriamo un’unica forza f, comunque diretta (al solito rigidamente 
connessa colla sezione estrema B del nostro solido); e le sue componenti, fy nel 
piano t, ed f,, normale a t. La fy fa rotare la sezione estrema B intorno ad un asse 
normale a mt, e passante per l’antipolo P di f7 rispetto all’ordinaria ellisse di ela- 
sticità; la f, fa rotare la sezione estrema intorno all’antipolare x della sua traccia X 
rispetto all’ellisse trasversale. 

Il punto P e la retta x în generale non si appartengono, e quindi le due rota- 
zioni hanno gli assi sghembi, e dànno come risultante un moto elicoidale. In parti- 
colare anche se la forza f è infinitamente piccola e lontana dà luogo ad un moto 
elicoidale, giacchè, tranne in casi specialissimi (es. il solido prismatico), i centri delle 
due ellissi non coincidono, e quindi gli assi delle rotazioni prodotte dalle componenti 
della coppia, risultano sghembi. 

Verificato così a posteriori — ciò che del resto avevamo già ammesso a priori 
nel $ 2 del Capitolo I — che la deformazione generica è un moto elicoidale, si pre- 
senta qui subito degna di qualche interesse la ricerca delle modalità di quelle sol- 
lecitazioni le quali producono deformazioni particolari, per esempio, rotazione pura 
ovvero pura traslazione. 


$ 2. — Per trattare la questione colla massima generalità possibile, considereremo 
la sollecitazione più generale, ossia la diname (sistema di una forza ed una coppia); 
e ciò potrà essere utile per applicare il principio di dualità alla ricerca di nuove pro- 
prietà, giacchè la diname ed il moto elicoidale sono enti omologhi nella già citata 
dualità meccanica tra statica e cinematica. 

Dato il modo scelto per scomporre le forze e studiare separatamente le defor- 
mazioni prodotte dalle componenti, noi rappresentiamo la diname come il sistema 
di due forze, l’una giacente nel piano n, l’altra normale a m e non incidente alla 
prima. Per brevità converremo di chiamare polo della dinume la traccia su m della 
linea d’azione della componente normale a m, e polare della diname la linea d’azione 
della componente giacente in 7. Analoga convenzione possiamo fare per le rotazioni 
componenti un moto elicoidale. 

Sarà utile per il seguito esprimere le relazioni tra gli elementi di tale rappre- 
sentazione della diname (o del moto elicoidale), e gli elementi della stessa diname 
(o moto elicoidale) ridotta alla forma canonica; e ciò si può fare ricorrendo al noto 
procedimento della composizione di due forze (o rotazioni) sghembe. 


32 CARLO LUIGI RICCI 


Sia data una diname mediante il polo P, in cui agisce la forza f, e mediante 
la polare r, linea d'azione della forza f». La risultante di traslazione si ottiene col 
solito parallelogramma che noi potremo costruire ribaltato sul piano n (v. figura); 
inoltre, com'è noto, la traccia O dell’asse centrale è un punto della retta PP' nor- 
male alla r; e se è, e ds sono le distanze di 0 da r e da P, si ha: 


Fig. 8. 
dò, :9, = tanga: cotga = "a ; 
e poichè: 
di 0, —:d/=VP Pi 
si ricava: 
0, =dsen?a do, =d cosa. 


Il momento principale è poi: 


M= fd sena cosa, 


Queste relazioni ci permettono di costruire la proiezione c dell’asse centrale, la 
quale sarà la parallela ad r condotta per il punto P', 
proiezione ortogonale di P sulla risultante ribal- 
tata e. i 

Abbiamo così pure il modo di risolvere il pro- 
blema inverso, ossia di determinare le componenti 
f. ed fs, il polo e la polare di una data diname 
ridotta alla forma canonica. 

Le stesse relazioni si hanno tra gli analoghi 
elementi di un moto elicoidale. 

Dato un asse centrale, sono infinite le coppie 
di punto e retta (come P ed r), che possano es- 


sere polo e polare di una diname avente per asse 
Fig. 9. centrale quello dato. 

Sia c la proiezione, ed O la traccia dell’asse 

centrale sul piano i, e sia a l’angolo che l’asse centrale forma col piano n, rappre- 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 33 


sentato dall’angolo della retta e’, suo ribaltamento, colla retta c sua proiezione sul 
piano t. 

Sia p la normale a c condotta per 0, e 9 la normale, pure per O, alla retta c'. 
Se Ped sono polo e polare di una diname che abbia per asse centrale la retta 
data (c, 0, a), P deve stare su p, e la r deve essere parallela alla c; inoltre il punto @, 
che si ottiene proiettando P parallelamente alla c sulla g, e il punto @‘, intersezione 
di » colla c', devono trovarsi su una stessa normale alla retta c. 

Premesse queste brevi considerazioni, le quali, più che altro, sono richiami di 
cose note, possiamo passare a considerare alcuni casi particolari. 


$ 8. — Anzitutto ci proporremo di determinare quali sono le dinami che produ- 
cono deformazioni particolari, o sola rotazione, o sola traslazione. Questo problema, 
per quanto abbiamo più volte accennato, è correlativo dell'altro: determinare i moti 
elicoidali prodotti da sollecitazioni particolari; forze o coppie. Quest'ultimo si può 
trattare in modo perfettamente analogo al primo, e si devono ritrovare gli stessi 
risultati (geometrici e meccanici) alterati solo secondo la sostituzione: 


forza coppia diname ellisse 1 ellisse 2 
rotazione traslazione moto elicoidale ellisse 2 ellisse 1 


Si noti che nel seguito indicheremo, per brevità, con 1 e 2 rispettivamente l’el- 
lisse ordinaria e l’ellisse trasversale. 

Consideriamo una diname di polo X e di polare x; la corrispondente deforma- 
zione sarà una rotazione pura se il punto P, antipolo di x rispetto all’ellisse 1, e la 
retta p, antipolare di X rispetto all’ellisse 2 si appartengono. Se la retta p, passa 
per il punto P., il punto X sta sulla retta p,,o antipolare di P. rispetto all’ellisse 2; 
inoltre x passa per il punto P.,, antipolo di p, rispetto all’ellisse 1: quindi possiamo 
affermare che producono sola rotazione quelle dinami che hanno per polare la t, ed 
hanno il polo sulla #3, essendo t, e # antipolari di uno stesso punto 7° rispetto alle 
ellissi 1 e 2; in tal caso l’asse della rotazione prodotta passa per 7. 

Si può anche dire: producono sola rotazione quelle dinami che hanno il polo 
in È, e la polare passante per R,; essendo È, ed È, gli antipoli di una stessa retta r 
rispetto alle ellissi 1 e 2; l’asse della rotazione si proietta in r. 

Risulta subito da ciò, che è prodotto da una forza unica agente in 7, un moto 
elicoidale il cui polo giace in, e la cui polare è ta; ovvero, in altre parole, è pro- 
dotto da una forza unica proiettantesi in y» un moto elicoidale il cui polo è FR, e la 
cui polare passa per È. 

Si noti che i punti R, ed £,;, antipoli di una stessa retta r, e le rette, e fs 
antipolari di uno stesso punto 7" rispetto alle due ellissi, si corrispondono in una 
omografia che chiameremo 2, la quale è il prodotto delle due antipolarità rispetto 
alle ellissi 1 e 2. 

I risultati ora ottenuti si potranno quindi brevemente enunciare così: 

Una diname produce rotazione pura se il suo polo sta sulla retta coniugata 
della polare della diname stessa nell’omografia 2; oppure se la sua polare passa per 
il coniugato del polo nella omografia Q7. 

Serie II. Tom. LXII. E 


S4 CARLO LUIGI RICCI 


Un moto elicoidale è prodotto da una sola forza se il suo polo sta sulla retta 
coniugata della polare del moto nell’omografia Q7!; oppure se la sua polare passa per 
il coniugato del polo nella omografia Q. 

In particolare una diname produce una traslazione (rotazione infinitamente pic- 
cola e lontana) se il suo polo coincide col centro dell’ ellisse trasversale e la sua 
polare passa per il centro dell’ellisse ordinaria. 

Un moto elicoidale è prodotto da una coppia unica se il suo polo è il centro 
dell’ellisse ordinaria, e la sua polare passa per il centro dell’ellisse trasversale. 


$ 4. — Proponiamoci ora di studiare i moti elicoidali che hanno per asse centrale 
una data retta, e di determinare tra questi, quelli che sono prodotti da sollecita- 
zioni particolari, forze o coppie uniche. Notiamo che nelle considerazioni qui fatte, 
due moti elicoidali si devono ritenere geometricamente identici se, avendo, beninteso, 
lo stesso asse centrale, hanno pure uguale il rapporto tra la traslazione e la rota- 
zione; in tal caso essi sono prodotti da dinami che hanno le stesse proprietà geome- 
triche, ossia lo stesso asse centrale, e lo stesso rapporto tra il momento principale 
e la forza, e quindi si devono pure ritenere geometricamente identici. 

Quindi, astrazione fatta dalla grandezza degli elementi meccanici costituenti, si 
possono ottenere tutti gli infiniti moti elicoidali che hanno per asse centrale una 
data retta, facendo variare detto rapporto tra la traslazione e la rotazione. 

Cerchiamo ora se tra questi infiniti moti elicoidali ce n'è qualcuno il quale sia 
prodotto da una forza unica. A. questo scopo ricordiamo la proprietà testè dimostrata 
relativa ai moti elicoidali prodotti da un'unica forza; inoltre applichiamo le rela- 
zioni, esposte più sopra, tra il polo e la polare di un moto elicoidale di dato asse 
centrale. 

Mentre la polare r di un moto elicoidale avente per asse centrale la data retta 
descrive il fascio È co, il punto P deserive sulla retta p una punteggiata che dalle 
costruzioni più sopra esposte risulta proiettiva col fascio Row. Sia r' la retta coniu- 
gata della » nella omografia 7 sopra considerata; la retta r' descrive un fascio 
il cui centro R' è il coniugato nella omografia Q-1 del punto Roo, ossia l’antipolo 
rispetto all’ellisse 1 del diametro della ellisse 2 coniugato alla direzione & co. 

Il fascio R' sega sulla retta p una punteggiata che è proiettiva con quella de- 
scritta dal punto P. I punti P, e P. uniti in questa proiettività considerati come poli, 
colle corrispondenti polari r, ed rs ci determinano i moti elicoidali che hanno per 
asse la retta data, e tali che ciascuno di essi è prodotto da una semplice forza. 

Possiamo quindi affermare che tra gli infiniti moti elicoidali di dato asse, quelli 
che vengono prodotti da semplici forze sono in generale due, e se ne può avere anche 
uno solo, oppure nessuno; e ciò secondo che la proiettività tra le due punteggiate 
sovrapposte sulla retta p è iperbolica, parabolica od ellittica. La proiettività degenera 
quando la retta p passa per il punto R'; in tal caso la punteggiata sezione del 
fascio R' si riduce al punto R'; perciò il moto elicoidale cercato — prodotto da una 
semplice forza — ha per polo il punto R', e per polare la retta corrispondente, la 
quale si ricava da R' colla costruzione sopra esposta. 

Consideriamo in particolare un moto elicoidale il quale abbia per asse centrale 
una retta di m, per esempio, la retta c. La rotazione intorno a c è prodotta da una 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 95 


forza normale a t applicata nel punto ©, antipolo di ec rispetto all’ellisse 2; la tras- 
lazione lungo ec è prodotta da una forza, la quale agisce secondo il diametro d, del- 
l’ellisse 1 coniugato colla direzione normale alla c; quindi in generale tra i moti 
elicoidali aventi per asse centrale la retta e di t, non ve n'è alcuno che sia pro- 
dotto da una semplice forza. Se accade che il punto €, stia sulla retta d,, allora 
ogni forza applicata in ©, e che si proietti su m in d, produce moto elicoidale di 
asse c; anzi, poichè tali forze sono le sole che producano moto elicoidale di asse €, 
ognuno di questi moti è prodotto da una sola forza. 

Se vogliamo ottenere un asse c, parallelo ad una data retta c, il quale goda 
della proprietà ora considerata, basterà scegliere il punto C, nell’intersezione della 
retta d, colla retta r,, diametro dell’ ellisse 2 coniugato colla direzione ce; l’antipo 
lare co del punto ©, rispetto all’ellisse 2 sarà l’asse cercato. 

Notiamo poi che i punti dell’antipolare rispetto all’ellisse 1 del centro dell’el- 
lisse 2, godono della seguente proprietà; un moto elicoidale il quale abbia l’asse 
centrale normale a t, ed avente per traccia un punto 7" di detta antipolare, è pro- 
dotto da una forza unica la quale passa per il centro G, dell’ellisse trasversale 2 
e sì proietta su t nell’antipolare di 7 rispetto all’ellisse ordinaria 1. 

Le stesse considerazioni, trasformate al solito per dualità, ossia scambiate tra 
loro le due ellissi, e mutata quindi l’omografia 2-1 nella sua inversa ®, valgono a 
studiare le dinami producenti rotazione pura; ossia a determinare quali sono tra le 
dinami di dato asse centrale quelle che producono sola rotazione. 

Da quanto si è visto alla fine del $ 3 risulta subito che in generale tra gli 
infiniti moti elicoidali di dato asse centrale non ve n’è alcuno il quale sia prodotto 
da una semplice coppia. Fissata però la proiezione c, oppure la traccia 0 di una 
retta, si potrà determinare questa retta in modo che esista un moto elicoidale il 
quale abbia per asse centrale tale retta, e sia prodotto da una sola coppia. 

Data la proiezione c, la traccia 0 si trova come piede della perpendicolare 
alla c condotta dal centro G, dell’ellisse ordinaria, poichè G, è il polo del moto eli- 
coidale considerato; la polare r di questo è la parallela a c condotta dal centro G, 
dell’ellisse trasversale. 

Data invece la traccia 0 dell’asse centrale, se ne può determinare la posizione c 
conducendo da 0 la normale alla retta G, 0; la polare r sarà poi ancora la paral- 
lela a c condotta da Gs. La retta r incontra la G; 0 in un punto P'; sul segmento GP' 
come diametro si costruisea un cerchio, questo incontri la c in due punti P" e P; 
le rette P'P' e P'P' sono i ribaltamenti, trasportati a passare per P', degli assi 
centrali dei due moti elicoidali che soddisfano alla condizione proposta. 

Si vede facilmente che il problema è risolvibile soltanto se il centro G, dell’el- 
lisse trasversale è esterno alla striscia compresa tra la c, e la parallela a questa 
condotta per il centro G;; come caso limite, se il centro G, sta sulla c, i due assi 
centrali vengono a coincidere nella c stessa, e quindi il moto elicoidale si riduce ad 
una rotazione intorno alla c; se il centro G; sta sulla parallela alla c condotta 
per G,, il moto elicoidale si riduce ad una rotazione intorno alla normale a t per il 
punto G.. N 

Mediante la dualità si possono studiare le dinami producenti sola traslazione, ecc. 


36 CARLO LUIGI RICCI 


$ 5. Veniamo ora a studiare le forze — o coppie — che producono semplice 
rotazione — o traslazione. 

La diname si riduce ad una forza unica se polo e polare si appartengono : quindi 
si ricava immediatamente da quanto si vide al $ 3 che una forza unica produce sola 
rotazione se la sua proiezione p su t è la retta congiungente il suo punto d’appli- 
cazione X col coniugato di questo nella omografia 271, oppure in altri termini, se il 
suo punto di applicazione .X è l'intersezione della sua proiezione p colla retta coniu- 
gata di questa nell’omografia 2. 

. Analoghe proprietà sussistono per le rotazioni prodotte da semplici forze. 

Quindi si deduce che per ogni punto X di m passa una retta p, in guisa che 
una forza applicata in X e proiettantesi in p produce una rotazione semplice: la cor- 
rispondenza tra i punti X e le rette p è una trasformazione quadratica, giacchè è 
facile convincersi che se il punto _X descrive una retta, la retta p inviluppa una conica, 
ovvero se la retta p descrive un fascio, il punto X descrive una conica. 

In questa corrispondenza gli elementi omologhi si appartengono. 

Ad ogni punto X possiamo far corrispondere il punto P,, intersezione delle due 
antipolari di X rispetto alle due ellissi 1 e 2; la corrispondenza (X — P;) è una 
corrispondenza quadratica, cioè se X descrive una retta, P, descrive una conica; 
essa è poi involutoria, cioè coincide colla sua inversa (P, — X) (*). 

La corrispondenza (X— p) si può considerare come il prodotto della (X— Pi) 
e della antipolarità (P, — p) rispetto all’ellisse 1. La corrispondenza (X— P.) fu 
studiata per la prima volta dal PonceLET nel celebre Traiîté des propriétés projectives 
des figures (1822). 

Essa è caso particolarissimo delle trasformazioni più generali studiate poi dal 
Cremona, le quali da lui presero il nome di trasformazioni Cremoniane. 

Studieremo alcune proprietà della corrispondenza (X— P.), e da queste, trasfor- 
mando gli elementi del secondo piano mediante la antipolarità (P, — p) rispetto 
all’ellisse 1, dedurremo analoghe proprietà della trasformazione (X — p); è preferibile 
procedere in questo modo, anzichè direttamente, sia perchè la trasformazione (X — P.) 
è già stata studiata, sia per poter utilizzare la proprietà involutoria della corrispon- 
denza stessa. 

La trasformazione quadratica (X— P,) ha un triangolo fondamentale che indi- 
cheremo con UVW, il quale altro non è che il triangolo degli elementi uniti nella 
omografia £; ossia il triangolo antipolare comune alle due ellissi 1 e 2 (#*). Ad ogni 
vertice di questo triangolo corrisponde un punto qualunque del lato opposto: le 
coniche corrispondenti alle rette del piano sono tutte circoscritte a tale triangolo, 
e costituiscono quindi una rete di coniche; se una retta passa per un vertice del 


(*) Questa corrispondenza quadratica, ed il relativo triangolo fondamentale servirono anche 
nello studio di altro problema meccanico, affatto diverso da quello qui considerato. Cfr. M. PaneTTI, 
Contributo alla trattazione grafica dell'arco continuo su appoggi elastici, “ Memorie della R. Accademia 
delle Scienze di Torino ,, 1901. 

(#*) Sulle omografie prodotti di due polarità e sui triangoli autopolari comuni, cfr. SAnnIA, 
Lezioni di geometria protettiva, Napoli, 1895, pagg. 527-540. 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 37 


triangolo, la conica corrispondente si spezza in un’altra retta passante per lo stesso 
vertice e nel lato opposto del triangolo. 

Il triangolo fondamentale ha poi un notevole significato meccanico: una forza 
qualunque applicata in un vertice del triangolo produce sola rotazione; l’asse di questa 
st proietta sum nel lato opposto al punto di applicazione della forza. Ed analogamente : 
una forza qualunque la quale abbia per proiezione un lato del triangolo UVW, produce 
una rotazione semplice il cui asse passa per il vertice opposto. 


< 


$ 6. — Si noti che una retta qualunque è sempre secante rispetto alla conica 
ad essa corrispondente nella trasformazione (X— P,). 

Infatti le due antipolarità rispetto alle ellissi 1 e 2 determinano su una qua- 
lunque retta r due involuzioni ellittiche, le quali hanno certamente una coppia comune, 
la quale è evidentemente costituita dai punti di intersezione di 7 colla corrispondente 
conica, perchè tali due punti sono i coniugati o reciproci rispetto ad ambe le anti- 
polarità, situati sulla retta r. 

oltre se X è un punto di r, e P, è il corrispondente sulla conica, indichiamo 
con P' e P' le proiezioni di P, su r rispettivamente da È, ed È, antipoli di r rispetto 
alle due ellissi; i punti P' e P” si corrispondono in una proiettività che è il pro- 
dotto delle due involuzioni, subordinate alle due polarità, nelle quali si corrispon- 
dono P'X e XP" — com'è noto, le intersezioni MN di » colla conica sono i punti 
uniti di questa proiettività. 

Poichè le due involuzioni sono ellittiche e quindi concordi, la proiettività pro- 
dotto è pure concorde; perciò le coppie dei punti omologhi non separano la coppia 
dei punti uniti MN, ossia punti P'P'' sono o entrambi interni, o entrambi esterni 
alla conica. Ora se P', intersezione delle due corde della conica RP, ed MN = r, è 
interno, le due coppie di punti della conica £,P, ed MN si separano; l'opposto suc- 
cede se P' è esterno alla conica. 

Quindi la coppia MN, o separa entrambe le coppie È,P,, EsP,, o non separa nes- 
suna delle due; ossia le coppie MN ed , FR, sulla conica non si separano, o, in 
altri termini, i centri È, ed R, dei fasci generatori della conica stanno entrambi in 
uno stesso dei due segmenti (archi) in cui » divide la conica stessa. 

In particolare alla retta all’infinito corrisponde una conica che ha con essa retta 
a comune due punti (reali), cioè un’iperbole; questa contiene i centri dei fasci gene- 
ratori, ossia i centri delle ellissi 1 e 2, i quali, per quanto si è dimostrato or ora, 
stanno in uno stesso ramo dell’iperbole. Le direzioni degli asintoti sono coniugate 
rispetto ad entrambe le ellissi. Quest’ iperbole passa poi, come sappiamo, per i tre 
punti singolari UVW. 


$ 7. — Può interessare un criterio per distinguere le rette, le cui coniche corri- 
spondenti hanno a comune con una data retta due punti, uno o nessuno; e tale cri- 
terio ci viene fornito dalla reciprocità della nostra corrispondenza quadratica. 

Una retta # sarà secante, tangente od esterna alla conica corrispondente ad 
una retta r, se la retta r è secante, tangente od esterna alla conica ‘corrispon- 
dente a £. 


CARLO LUIGI RICCI 


I 
(0 e) 


In particolare la conica corrispondente ad una retta r sarà un’iperbole, una 
parabola, od un’ellisse secondo che la retta r sarà secante, tangente od esterna alla 
conica corrispondente alla retta all'infinito, ossia. all’iperbole, di cui abbiamo par- 
lato più sopra. 

Possiamo ora cercare un criterio il quale ci serva a riconoscere se un dato 
punto è esterno od interno alla conica corrispondente ad una data retta. 

Osserviamo che tra le coniche della rete di base UVW tutte quelle che passano 
per un dato punto costituiscono un fascio, il quale ha per corrispondente il fascio 
di rette il cui centro è il corrispondente del punto dato. 

Consideriamo ora una conica C della rete, ed un punto O esterno ad essa; 
per O passano due tangenti distinte; nella corrispondenza quadratica e reci- 
proca (X— P.), alla conica C corrisponde una retta c, ed alle due tangenti per O 
corrispondono due coniche della rete passanti per il punto 0' coniugato di 0; e queste 
coniche sono tangenti alla retta c. 

Quindi, inversamente, data una retta c, la corrispondente conica C avrà due 
tangenti passanti per 0, — ossia O sarà esterno a C, —, se nel fascio delle coniche 
passanti per i punti fondamentali UV W e per O' coniugato di 0 esistono due coniche 
tangenti alla c. Il punto O sarà interno alla conica C se nel fascio UVWO' non 
esistono coniche tangenti alla c. Quindi il punto O è esterno od interno alla conica € 
secondo che l’involuzione determinata sulla retta c dalle coppie di lati opposti del 
quadrangolo completo UVWO' è iperbolica od ellittica. 

Questa involuzione, com'è noto (*), quando il quadrangolo è tale che ogni ver- 
tice sia esterno al triangolo degli altri tre, è iperbolica se i quattro vertici del 
quadrangolo stanno tutti da una stessa banda rispetto alla retta c, oppure sono due 
da una banda e due dall’altra; è ellittica se dei quattro vertici uno sta da una 
banda della retta c e gli altri tre dall’altra. Se un vertice del quadrangolo è interno 
al triangolo degli altri tre, il criterio esposto deve essere invertito. 

Il punto O starà sulla conica C se la retta c passa per il punto 0'. 


$ 8. — Stabiliremo ora pure le proprietà della trasformazione (X,— p), e in par- 
ticolar modo delle coniche da questa generate; e queste proprietà noi potremo 
dedurre, come abbiamo già accennato, con concetti di dualità (geometrica) nel piano 
da quelle studiate più sopra, ricordando che la corrispondenza che qui studiamo 
risulta dal prodotto della trasformazione quadratica sopra studiata e della antipo- 
larità (P, — p) rispetto all’ellisse 1. 

In questa antipolarità il triangolo fondamentale UVW si trasforma in se stesso, 
ossia ad ogni vertice corrisponde il lato opposto. Le coniche inviluppo corrispon- 
denti alle rette del piano sono tutte tangenti ai tre lati del triangolo fondamentale. 

Nell’antipolarità rispetto all’ellisse 1, al fascio R;, proiettivo colla punteggiata 7, 
corrisponde una punteggiata r'; queste due punteggiate generano la conica inviluppo 
corrispondente alla retta r; si deve inoltre notare che la retta »' è la corrispondente 
di r nell’omografia Q. 


(*) Cfr. Srermer-ScaRòrERr, Theorie der Kegelschnitte, Leipzig, 1870, S. 66-67. 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 39 


Risulta subito che le rette r ed 7° appartengono all’inviluppo. 

Avendo dimostrato che una retta » è sempre secante rispetto alla conica luogo 
ad essa coniugata nella trasformazione (X— P,), si può senz'altro affermare che per 
l’antipolo R, di » rispetto all’ ellisse 1 passano due tangenti distinte della conica 
inviluppo, omologa di » nella corrispondenza (X— p), ossia R, è esterno a detta 
conica. 

oltre è facile verificare che le due punteggiate r ed »’ toccano la conica in 
due punti i quali stanno in uno stesso dei due segmenti in cui la conica viene sepa- 
rata dai punti di contatto delle tangenti condotte da R,. 

In particolare l’inviluppo corrispondente alla retta all’infinito del piano è una 
parabola, giacchè deve contenere essa retta come elemento; ed il centro G; dell’el- 
lisse 1 è esterno a questa parabola. 

Una retta # sarà secante, tangente od esterna rispetto alla conica inviluppo 
corrispondente ad una retta r, secondo che il punto 7, antipolo di # rispetto alla 
ellisse 1, è esterno alla conica luogo corrispondente ad r nella trasformazione (X — Pi), 
oppure sta sulla conica od è interno. Quindi serve il criterio esposto alla fine 
del $ precedente. 

In particolare corrispondono parabole a quelle rette che passano per il punto G;/, 
coniugato del centro G, dell’ellisse 1 nella trasformazione (X — P.). 

Ad un’altra retta » qualunque corrisponderà in (X— p) una iperbole od un’el- 
lisse secondo che è iperbolica od ellittica l’involuzione determinata su essa retta 
dalle coppie di lati opposti del quadrilatero completo UVW6G;'. 


$ 9. — Conviene ricordare che siamo stati condotti allo studio di queste corri- 
spondenze geometriche, propenendoci di determinare quali tra le forze applicate in 
un punto X del piano t producano sola rotazione della sezione B. Si potrebbe pro- 
porre il problema di determinare quali forze producano sola rotazione tra quelle le 
cui linee d'azione si proiettano in una data retta p di m, — ossia stanno in un piano 
normale a m, di traccia p. 

Ragionando come più sopra si troverebbe che tali forze sono quelle che passano 
per il punto X, antipolo rispetto all’ellisse 2 della retta x» congiungente i due anti- 
poli P, e P, di p rispetto alle due ellissi 1 e 2; e così di seguito si troverebbero 
corrispondenze e proprietà dualî (geometricamente, nel piano) di quelle più sopra 
studiate. 

Alla corrispondenza quadratica (X — P}) si sostituirebbe la corrispondenza (x — ps) 
pure quadratrica e reciproca. La (X — p) si cambia nella sua inversa (p — X). 

L’omografia 2 in cui sono coniugati gli antipoli di una stessa retta rispetto alle 
due ellissi 1 e 2, si trasforma dualmente in se stessa, giacchè per le proprietà invo- 
lutoria della polarità e lineare dell’omografia, in £ sono coniugate le antipolari di 
uno stesso punto rispetto alle ellissi 1 e 2. 

Possiamo in particolare considerare le coppie le quali producono sola rotazione; 
esse sono evidentemente quelle i cui piani sono paralleli al diametro coniugato della 
retta GG, rispetto all’ellisse trasversale; in particolare le coppie del piano m e le 
coppie normali a q. 


40 CARLO LUIGI RICCI 


Producono poi sola traslazione le forze giacenti in m e passanti per G,, e le 
forze passanti per G, e giacenti nel piano normale a m di traccia la retta G,Gs. — 

Risulta quindi subito che non esistono coppie le quali producano sola tras- 
lazione. 


$ 10. — Nel caso di un solido prismatico le due ellissi hanno a comune il 
centro, le posizioni degli assi, e, se si trascurano le deformazioni prodotte dal taglio, 
oppure anche se queste si considerano, purchè i due momenti principali della sezione 
trasversale siano eguali (7/-=J,) e siano pure uguali i due corrispondenti valori 
di x, le due ellissi hanno pure a comune la lunghezza dell'asse giacente sull’ asse 
geometrico del solido; quindi le due antipolari di uno stesso punto X si tagliano 
nell’antipolo comune della perpendicolare p all’asse geometrico condotta per X ; 
perciò la corrispondenza degenera; a tutti i punti X della retta p corrisponde lo 
stesso punto P,, e quindi la stessa retta p. 

In questo caso le due involuzioni subordinate alle due ‘antipolarità sull’asse 
geometrico del solido coincidono, ossia hanno a comune tutte le coppie di elementi 
coniugati. Sono autoconiugati nelle due antipolarità tutti gli infiniti triangoli costi- 
tuiti dall'asse geometrico e dalle normali a questo condotte per due punti coniugati 
in detta involuzione. 

Il significato meccanico di tale risultato è questo: producono la sola rotazione 
le forze che sono normali all’ asse geometrico del solido, la qual cosa si può 
dimostrare anche direttamente. Infatti la torsione combinata con flessione  pro- 
duce rotazione pura; e si ha traslazione della sezione B lungo l’asse del solido, solo 
se questo è sollecitato a sforzo normale, ossia se la forza applicata ha una compo- 
nente lungo quest’asse; e perciò la traslazione è nulla se la forza è normale all’asse. 

Nel caso di un solido ad asse rettilineo a sezione variabile, il centro e l’asse 
longitudinale dell’ellisse trasversale coincidono rispettivamente col centro e coll’asse 
longitudinale dell’ellisse ordinaria relativa al piano Y passante per l’asse geometrico 
e normale a n. 

Questi elementi però in generale non coincidono cogli analoghi elementi del- 
l’ellisse ordinaria relativa al piano n; infatti i pesi elastici ordinarii parziali relativi 
al piano m ed al piano y diun tronco elementare qualunque, in generale sono diversi, 
e il loro rapporto varia da tronco a tronco; quindii baricentri di questi due sistemi 
di pesi in generale non coincidono; perciò le due ellissi hanno a comune la posizione 
di un asse ma non il centro. 

|Si noti che il rapporto di detti pesi è costante per tutto il solido se è costante 
DA 
Ty 
verifica per esempio se le sezioni variano con legge di omotetia; in tal caso le due 


il rapporto dei due momenti d’ inerzia principali delle varie sezioni, il che si 


ellissi, ordinaria e trasversale, hanno lo stesso centro]. 
Nel caso, pure molto frequente nelle applicazioni pratiche, in cui il solido ammetta 
un altro piano di simmetria il quale sia normale a t, ed abbia per traccia la retta y, 
le due ellissi, ordinaria e trasversale, hanno entrambe un asse giacente sulla retta y. 
In questo caso e nel precedente l’asse comune alle due ellissi ed il punto all’in- 
finito in direzione normale a questo sono polare ed antipolo rispetto ad entrambe 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 41 


le ellissi; ossia sono vertice e lato opposti del triangolo antipolare comune alle due 
ellissi; gli altri due vertici si trovano su detta retta e costituiscono la coppia 
comune alle due involuzioni di punti della retta stessa anticoniugati rispetto alle 
due ellissi. 

Se le due ellissi hanno a comune il centro e le direzioni, ma non le lunghezze 
degli assi, — come accade per esempio nel solido prismatico, quando si tenga conto 
delle deformazioni prodotte dal taglio, e non siano uguali i momenti principali 
d'inerzia della sezione trasversale, — il triangolo antipolare comune è costituito dai 
due assi e dalla retta all'infinito. 


$ 11. — Riprendiamo ora a considerare il triangolo antipolare comune alle due 
ellissi nel caso generale, e teniamo presenti le sue proprietà meccaniche dimostrate 
alla fine del $ 3. 

Chiamiamo znZ i tre piani normali a ed aventi per traccie i lati del triangolo 
rispettivamente opposti ai vertici UV W. Poichè alle forze le cui linee d’azione giac- 
ciono in & corrispondono come assi di rotazione le rette passanti per U, il noto 
teorema di reciprocità applicato al solito modo ci permette di affermare senz'altro 
che tra le linee d’azione delle forze — giacenti in £ — e le traccie su £ degli assi 
— passanti per U — delle corrispondenti rotazioni intercede un’antipolarità rispetto 
ad un’ellisse, che si potrà chiamare, per analogia coi casi soliti, l’ellisse ordinaria 
di elasticità relativa al piano £. 

Analogamente, alle forze le cui linee d’azione passano per U, corrispondono 
come assi di rotazioni le rette di Z; e la corrispondenza tra le traccie su £ delle 
linee d'azione delle forze considerate e gli assi delle relative rotazioni è un’antipo- 
larità rispetto ad un’altra ellisse, che,° per analogia, si potrà chiamare l’ellisse tras- 
versale di elasticità relativa al piano &. 

Si vede subito che per la simmetria, ognuna delle due ellissi avrà un asse gia- 
cente sulla traccia del piano &, cioè sulla retta VW. 

Inoltre il centro G:; dell’ellisse ordinaria relativa al piano £, si ottiene proiettando 
da U il centro Gy, dell’ellisse trasversale relativa al piano mr; infatti il punto Gz1 deve 
essere la traccia dell’asse della rotazione prodotta da una qualunque coppia di &; il 
quale asse è il diametro dell’ellisse trasversale di m coniugato alla direzione VW, e 
quindi deve passare per U che è l’antipolo della retta VW. 

In modo perfettamente analogo si dimostra che il centro Gs» dell’ellisse tras- 
versale relativa a € si ottiene proiettando da U il centro G; dell’ellisse ordinaria 
relativa al piano x; infatti il punto Gz3 deve essere la traccia della linea d’azione 
di una forza passante per U, la quale produca sola traslazione; tale forza deve 
passare per il centro G, dell’ellisse ordinaria relativa al piano ©. 

Gli assi giacenti sulla VW delle due ellissi di & si ottengono facilmente, poichè 
i due punti VW devono essere coniugati rispetto ad entrambe le ellissi. 

Gli assi trasversi (normali a ©) delle due ellissi si possono costruire determi- 
nando due punti coniugati su ciascuna delle normali a t condotte per Gz1 e Gz2, oppure 
ricorrendo alle relazioni quantitative tra forze e rotazioni fornite dai teoremi a cui 
accenniamo più innanzi. 

Serie II. Tox. LXII. UR 


42 CARLO LUIGI RICCI 


Il peso elastico ordinario relativo al piano E si ottiene calcolando la componente R,, 
normale a , della rotazione prodotta da una coppia unitaria parallela a & ed 
avremo : 


Bi — 10 


Il peso elastico trasversale relativo al piano € si ottiene calcolando la traslazione S 
prodotta da una forza agente secondo la UG,G ed avente componente uguale ad 
uno in direzione normale al piano €, e si ha: 


Sussistono quindi i noti teoremi dell’ordinaria teoria dell’ellisse di elasticità, 
ove invece delle rotazioni si considerino le componenti normali al piano & delle rota- 
zioni prodotte dalle forze agenti in &. 

Valgono pure i teoremi più sopra enunciati per la teoria dell’ellisse trasversale, 
ove in luogo delle forze si considerino le componenti normali a £ delle forze con- 
correnti in U. 

I teoremi del momento centrifugo e del momento d’inerzia valgono, com'è natu- 
rale, solo se entrambi gli assi dei momenti stanno nel piano &. 

Una forza qualunque sollecitante la sezione terminale del nostro solido si può 
scomporre in due componenti, delle quali l’una giaccia nel piano & e l’altra passi 
per il punto U; e si potrà così calcolare la deformazione prodotta dalla forza data, 
come risultante delle due rotazioni prodotte dalle due componenti, in modo perfet- 
tamente analogo a quello descritto più sopra relativamente al piano n. 

Lo stesso si può naturalmente ripetere per le altre due coppie Vn e Wz. 

Si scorge di qui che i tre piani £n 7, a parte la simmetria, godono di proprietà 
affatto analoghe a quelle del piano t, e costituiscono con questo un tetraedro che 
si potrebbe chiamare il tetraedro fondamentale del sistema elastico. 

Questo tetraedro ha un vertice improprio, quello opposto al piano n; abbiamo 
visto che se il solido ammette un piano di simmetria normale a m, un vertice del 
triangolo antipolare comune alle due ellissi risulta improprio, e che la traccia y del 
secondo piano di simmetria è il lato del triangolo, opposto a detto vertice im- 
proprio; quindi il secondo piano di simmetria fa parte del tetraedro fondamentale, 
ed il vertice opposto a questo piano è all’infinito in direzione normale a detto piano. 

In tal caso il tetraedro fondamentale risulta di due piani paralleli, e di altri 
due piani ortogonali fra loro ed ai primi due. 

Sia & ilsecondo piano di simmetria; i piani n e Z risultano normali a ted a &. 

Nel piano & il centro e l’asse, disteso sulla VW, dell’ellisse ordinaria coincidono 
rispettivamente col centro e coll’analogo asse dell’ellisse trasversale relativa al 
piano n, ed inversamente il centro e l’asse dell’ellisse trasversale di coincidono 
col centro e l’asse dell’ellisse ordinaria di m. 

Nei piani n e Z i centri delle due ellissi coincidono coi vertici W e Y del 
tetraedro. 


L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 43 


I pesi elastici — ordinario e trasversale — relativi al piano &, e le lunghezze 
dei semiassi normali a t delle corrispondenti ellissi assumono espressioni partico- 
larmente semplici, che è bene indicare. 

Siano p: © pi semiassi dell’ellisse trasversale del piano t, rispettivamente gia- 
cente in € e normale a E; siano po e po gli analoghi semiassi dell’ellisse ordinaria 
di m; indichiamo poi con po e pr i semiassi normali a m delle ellissi del piano &; 
coi noti ragionamenti esposti più sopra si ricava: 


Mi 
Spi 


Be Pro = PoPa VOB 


1 —za 
= Pri = PiPol VGB . 


CapirtoLo V. 


Relazioni geometriche tra le sollecitazioni agenti su una data sezione 
e le corrispondenti reazioni. 


$ 1. — Lo studio fin qui fatto degli spostamenti della sezione estrema B sotto 
l’azione di forze ad essa rigidamente collegate, ha particolare interesse, come si è 
accennato nell’introduzione, per la determinazione di reazioni incognite nei sistemi 
iperstatici. Sarà quindi utile studiare direttamente le relazioni che intercedono tra 
le forze che sollecitano una data sezione S dell'arco, e le corrispondenti reazioni 
dell'imposta 5. 

Immaginiamo quindi, al solito, il sistema elastico ad asse curvilineo piano inca- 
strato in A, libero in B, e su esso facciamo agire delle forze rigidamente connesse 
con una sezione S intermedia tra A e B. Queste forze evidentemente interessano 
soltanto l’elasticità del tratto AS; in conseguenza la sezione S [e quindi anche la 
sezione B, che deve ritenersi rigidamente connessa con S, poichè il tratto SB è sca- 
rico] subisce un determinato spostamento; alla sezione B dovremo poi applicare 
forze che annullino questo spostamento, mettendo in giuoco, ben inteso, l’elasticità 
di tutto l’arco AB. 

Per studiare le deformazioni dovremo tracciare le due ellissi di elasticità, — 
ordinaria e trasversale, — per il tratto AS. Per trovare le forze applicate alla sezione B 
capaci di ricondurre questa alla primitiva posizione, dovremo valerci delle due ellissi” 
relative a tutto l’arco. 

Indicheremo brevemente con 1 e 2 le ellissi complessive dell’arco, e con 1’ e 2° 
le ellissi realative al tratto AS. 

Se nella sezione S agisce una diname, la corrispondente reazione B sarà pure in 
generale una diname; la polare di questa si ottiene prendendo l’antipolo della polare 
della diname applicata, rispetto all’ellisse 1’, e poi l’antipolare di questo punto rispetto 
alFellisse 1. 


44 CARLO LUIGI RICCI 


Si può dire che le due rette polari sono corrispondenti nella omografia, che 
chiameremo £;, prodotto delle due antipolarità rispetto alle ellissi ordinarie 1’ ed 1. 

Analogamente i polî della diname applicata e della diname reazione sono cor- 
rispondenti nella omografia ®, prodotto delle due antipolarità rispetto alle ellissi 
trasversali 2’ e 2. 


$ 2. — Consideriamo ora l’omografia X = ®,.957. prodotto di ®, e dell’inversa 
dis. Se una diname ha il polo sulla retta coniugata della polare della diname stessa 
nella omografia X, il polo e la polare della corrispondente diname reazione si appar- 
tengono, e perciò la diname reazione si riduce ad una semplice forza. 

Occorre notare che in tal caso la polare della diname passa per il coniugato 
del polo della stessa diname nell’omografia 2. Se la diname applicata si riduce ad 
una sola forza, il polo e la polare di essa si appartengono; se a questa forza f cor- 
risponde come reazione B una sola forza, il punto X di applicazione di f è l’inter- 
sezione della proiezione di f su t, colla retta coniugata di essa proiezione nel- 
l'’omografia X. 

In altre parole la forza f si proietta su n nella retta p congiungente X col 
coniugato di X nella omografia x. 

Il punto X è l'intersezione di due rette coniugate nelle due omografie Q7* ed L7! 
della stessa retta p;, proiezione su n della reazione corrispondente ad f. 

Analogamente la retta p, è la congiungente i due punti coniugati di _X nelle 
due omografie 2, ed Q.. 

La corrispondenza tra i punti X e le rette p;, è una trasformazione quadratica 
analoga a quella studiata più sopra. 

Allo stesso modo il punto X e la retta p coniugata di p;, nella omografia 27" si 
corrispondono in una trasformazione quadratica. 

Producono quindi come reazione B una forza unica le forze delle quali il punto 
di applicazione X e la proiezione p sono coniugati nella trasformazione quadratica 
ora definita. 


$ 8. — L’omografia ® ammette tre punti uniti UVW, vertici di un triangolo 
i cuì lati sono rette unite. Questi elementi uniti godono di notevoli proprietà mec- 
caniche; una forza qualunque la quale sia applicata in un punto unito, oppure si 
proietti in una retta unita, provoca come reazione B una forza unica. 

I punti UVW hanno per coniugati in entrambe le omografie £;, ed Q, gli stessi 
tre punti U'V'W' rispettivamente, e questi si possono pure ottenere come punti 
doppi dell’omografia = = 7.9; e le coppie UU”, VV',WW' sono le tre coppie comuni 
delle due omografie 2, ed Lo. 

La reazione B provocata da una forza applicata in U passa per U'; e così pure 
la reazione provocata da una forza proiettantesi in UV, si proietta nella retta U' V'; 
e analogamente per gli altri vertici e lati dei due triangoli. 

Presentano particolare interesse gli elementi uniti della omografia Q, i quali 
costituiscono il triangolo antipolare comune alle due ellissi 1" e 1; essi godono di 
questa proprietà: una forza agente sulla sezione S secondo una delle rette unite 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 45 


provoca una reazione la cui linea d'azione coincide con quella della forza applicata; 
il centro della rotazione è il vertice opposto del triangolo antipolare; è poi evidente 
che le intensità delle due forze sono inversamente proporzionali ai momenti statici 
dei pesi elastici relativi, rispetto alla comune linea d’azione. 

In questo caso è evidente che anche la reazione dell'appoggio A agisce secondo 
la stessa linea d'azione della forza applicata e della reazione B; quindi il triangolo 
considerato è identico a quello che sì otterrebbe considerando il solido vincolato in B 
e libero in A. 

Tale triangolo è quindi antipolare comune rispetto all’ellisse del complesso, ed 
alle ellissi delle due parti in cui viene scomposto il solido della sezione considerata. 

oltre è chiaro che le reazioni Ae B provocate da una forza giacente in m e 
passante per uno dei punti uniti, giacciono in t e passano per il punto stesso. La 
determinazione della reazione dipende quindi da due solî parametri. 

Analogamente i punti uniti della omografia ®, costituiscono un triangolo anti- 
polare comune alle due ellissi 2" e 2; una forza agente sulla sezione S secondo la 
perpendicolare a 7 in uno dei punti uniti, provoca una reazione B agente secondo 
la stessa linea d’azione; l’asse della rotazione è il lato opposto del triangolo anti- 
polare; le intensità delle due forze sono direttamente proporzionali ai momenti statici 
dei pesi elastici relativi, rispetto all'asse della rotazione. 

Anche la reazione A ha lo stesso punto di applicazione, quindi anche qui il 
triangolo considerato è antipolare comune alle tre ellissi trasversali del complesso 
e dei due tratti in cui il solido viene scomposto dalla sezione considerata. 

Inoltre si osservi che le reazioni A e B provocate da una forza normale a T, 
ed applicata in un punto di una delle rette unite, sono pure normali a 7, e sono 
applicate in punti della stessa retta unita, e perciò si determinano con due soli 
parametri. 


$ 4. — Se l'arco è simmetrico, il triangolo antipolare comune all’ellisse (ordi- 
naria o trasversale) di tutto l’arco ed alle ellissi dei semiarchi è evidentemente 
simmetrico rispetto all’asse dell'arco; quindi un vertice starà su quest’asse, ed il 
lato opposto sarà normale all'asse stesso. La costruzione di tale triangolo in questo 
caso si semplifica, giacchè basta osservare che il lato opposto (coniugato) al vertice 
che sta sull’asse y di simmetria deve passare per l’antipolo di questo asse rispetto 
all’ellisse del semiarco; quindi altro non è che la retta perpendicolare all’asse di 
simmetria condotta da detto antipolo. 

Trovato questo lato del triangolo, il vertice opposto si trova come antipolo di 
esso lato rispetto all’una o all’altra delle due ellissi. Gli altri due vertici si trovano 
ricordando ch’essi devono essere simmetrici rispetto all’asse dell'arco, e quindi, deter- 
minati sul detto lato due punti coniugati rispetto p. e. all’ellisse di tutto l’arco, è 
facile ricavare, colla nota costruzione di media geometrica, i due punti coniugati 
nell’involuzione e simmetrici rispetto all'asse y dell'arco, che è, come sappiamo, uno 
degli assi dell’ellisse complessiva. 

Se una forza normale a m e rigidamente connessa colla sezione di chiave, è 
applicata in un punto S dell’asse y di simmetria dell’arco, essa provoca due reazioni A 
e B, normali a n, le quali per la simmetria sono uguali alla metà della forza appli- 


46 CARLO LUIGI RICCI 


cata, ed agiscono in due punti situati sulla perpendicolare all’asse di simmetria con- 
dotta per il punto S di applicazione della forza esterna. L’asse della rotazione pro- 
dotta dalla data forza è l’antipolare s di S rispetto all’ellisse trasversale del semiarco, 
la qual retta incontra l’asse y di simmetria in un punto 7. 

L'antipolare di 7 rispetto all’ellisse trasversale di tutto l’arco è normale ad y, 
contiene il punto di applicazione della reazione B, e quindi, per quanto si è detto più 
sopra, passa per S; perciò S e 7 sono coniugati rispetto all’ellisse del semiarco, ed 
anche rispetto all’ellisse di tutto l’arco. 

Quindi sull'asse y di simmetria dell'arco le due ellissi trasversali del semiarco e 
di tutto l'arco determinano una stessa involuzione subordinata di punti anticoniugati. 

Analoga proprietà sussiste per le ellissi ordinarie corrispondenti. 

Se rigidamente connessa colla sezione di chiave agisce una forza /, giacente 
in t e normale all'asse y di simmetria dell’arco, poichè essa è simmetrica della sua 
opposta, provoca un sistema di reazioni che deve essere simmetrico del suo opposto 
rispetto a detto asse; ossia le linee d’azione delle due reazioni A e B sono simme- 
triche e si tagliano nell’intersezione dell’asse y colla linea d'azione x della forza f. 

La rotazione prodotta da f ha il centro nel punto X, antipolo di «x rispetto 
all’ellisse ordinaria del semiarco; l’antipolare di .X rispetto all’ellisse di tutto l’arco 
deve passare per il punto Y intersezione di x con y, e quindi la retta x, e la x’ paral- 
lela ad x condotta per X, le quali sono evidentemente coniugate rispetto all’ellisse 
ordinaria del semiarco, sono pure coniugate rispetto all’ellisse ordinaria di tutto l’arco. 

Ossia: nel fascio improprio delle rette di t normali all’asse y di simmetria del- 
l’arco, le due ellissi ordinarie del semiarco e di tutto l'arco determinano una stessa invo- 
luzione subordinata di raggi coniugati. 


$ 5. — Può interessare la determinazione di quelle dinami di dato asse cen- 
trale che, applicate alla sezione S, provocano come reazione B una forza unica, o in 
particolare una coppia. 

Questo problema è perfettamente analogo, dal lato geometrico, a quello studiato 
nel $ 4 del Capitolo IV, il quale consisteva nel determinare i moti elicoidali di dato 
asse centrale, prodotti da una forza unica, e si può trattare in modo identico; 
basterà nei ragionamenti colà svolti, in luogo del moto elicoidale, considerare la 
diname applicata, in luogo della forza o coppia applicata, considerare la forza o 
coppia reazione, ed all’omografia 27 sostituire l’omografia E. 

Se poi invece del moto elicoidale consideriamo una diname reazione B di dato 
asse centrale, ed in luogo dell’omografia 27 poniamo l’omografia = = 979, possiamo 
determinare quali tra le dinami reazioni B aventi per asse quello dato sono provo- 
cate da una sola forza agente sulla sezione S. 

Consideriamo ora una coppia agente su una sezione S dell’arco; essa provoca 
come reazione B una diname la cui polare è la retta p, antipolare del centro del- 
l’ellisse ordinaria del tratto AS, rispetto all’ellisse ordinaria di tutto l'arco; il polo 
di questa diname deve giacere sulla antipolare 9g, rispetto all’ellisse trasversale rela- 
tiva a tutto l’arco, del centro dell’ellisse trasversale relativa al tronco AS. 

Quindi per ogni asse centrale la cui proiezione sia parallela alla p, si può deter- 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 47 


minare nel modo noto una diname reazione B la quale sia provocata da una coppia 
unica agente sulla sezione S. 

In particolare le dinami che hanno la polare in p ed il polo nel punto @ inter- 
sezione di p e 9, ossia le forze applicate in @ e le cui linee d’azione si proiettano 
in p sono le reazioni B provocate dalle coppie parallele all’antipolare di Q rispetto 
all’ellisse trasversale di tutto l’arco, la qual retta è evidentemente un diametro del- 
l’ellisse trasversale del tratto AS. 

È da notare che le rette p e g sono rette limiti delle omografie L, ed 9, rispet- 
tivamente. 

In particolare una forza, reazione B, agente secondo la p è provocata da una 
coppia del piano t; una forza, reazione B, applicata in un punto della q normal- 
mente a m, è provocata da una coppia normale al piano n. 

Se in queste considerazioni si scambiano le ellissi del tratto AS colle ellissi 
dell’intero arco, possiamo studiare allo stesso modo quelle dinami, ed in particolare 
forze o coppie, le quali agendo rigidamente connesse colla sezione ,S, provocano come 
reazione 4 una coppia unica. 

In questo caso le rette p e g verrebbero sostituite dalle rimanenti rette limiti 
delle due omografie ®; ed %,. 


Esempio di applicazione ad un caso concreto. 


Nella Tavola I° si è compiuto lo studio di un arco a sezione rettangolare; aven- 
dolo seomposto in 12 tronchi di uguale lunghezza, si tracciò per ogni tronco l’ellisse 
ordinaria e l’ellisse trasversale; gli assi longitudinali sono eguali per le due ellissi, 
com'è noto; l’asse trasverso dell’ellisse ordinaria risultò, per ogni tronco, maggiore 
del corrispondente asse dell’ellisse trasversale. Si determinò poi l’ellisse ordinaria 
di tutto l’arco col metodo solito e l’ellisse trasversale complessiva col procedimento 
esposto al $ 5 del Capitolo I. 

Nella tabella I sono stati calcolati î pesi elastici 23 e g, e gli assi trasversi 
delle ellissi trasversali parziali. 

Nelle tabelle II, IMI e IV si calcolarono le rotazioni parziali prodotte dalle tre 
sollecitazioni unitarie scelte come parametri della reazione B, delle quali si parla 
nel $ 2 del Capitolo II. Nel calcolo delle rotazioni x” prodotte da una forza 1 agente 
nel centro G, dell’ellisse trasversale, per alcuni tronchi la distanza d dell’asse della 
rotazione dal centro dell’ellisse parziale risultò molto piccola; quindi, anzichè la for- 


mula: ni; si applicò l’altra: r = Zi e perciò si determinarono appositamente le 
lunghezze D e p.. 

La somma geometrica delle r"' relative ai tronchi del mezzo arco risultò paral- 
lela all’asse y, come deve essere per quanto si è detto al $ 6 del Capitolo II. 

Nella tabella V si calcolarono le rotazioni parziali x!” per la determinazione 
della linea d’influenza dello spostamento del vertice. La somma geometrica delle r°” 
risultò parallela all'asse x (orizzontale), come deve essere, poichè per la simmetria 
la sezione € si sposta nel suo piano. 


48 CARLO LUIGI RICCI 


Furono quindi tracciate le linee d’influenza dei tre parametri della reazione B 
prodotte da un carico applicato in un punto dell’asse geometrico dell’arco, e la linea 
d’influenza dello spostamento del vertice. 

L’ordinata generica delle linee d'influenza di Mx, ed My, si fece uguale al braccio 
di leva della coppia, supponendo uguali ad uno le forze componenti la coppia stessa. 
La linea d’influenza della reazione finita B si tracciò ponendo 1= 10". 


Dette linee in disegno si indicarono come segue: 


I Linea d'influenza della reazione finita 5. 


II ; 5 del momento verticale Mp,. 
III a; 5 del momento orizzontale Mp,. 
IV È v dello spostamento del vertice. 


Si determinarono poi le linee d’influenza dei tre parametri della reazione B 
provocata da una coppia parallela all'asse y applicata nelle varie sezioni dell’arco. 
La scala delle ordinate si determinò considerando che la Mg,, quando il momento 
esterno unitario è applicato alla sezione B, diviene uguale all’unità; inoltre osser- 
viamo che l’ordinata letta sotto la sezione C nella linea d'influenza del para- 
metro .Mp, deve essere uguale alla componente normale ad y della rotazione della 
sezione © sotto l’azione di una coppia unitaria parallela all'asse x; e che tale rota- 


'" relative al semiarco, risul- 


zione ha per asse la risultante delle rotazioni parziali 
tante che è già stata determinata precedentemente. 

La scala della linea d’ influenza della reazione finita B si trovò determinando 
direttamente il punto di applicazione della reazione B dovuta ad una coppia parallela 
ad y applicata in una sezione intermedia dell’arco (diversa dalla sezione di chiave €), 
e deducendo l’ intensità di tale forza, conoscendone i momenti rispetto agli assi 
x ed y, ricavati dalle relative linee d’ influenza già tracciate; nel disegno poi si 
pose 0,0001 = 1". i 

Le linee qui considerate si indicarono così: 


I Linea d'influenza della reazione B (finita). 
II 5 5 del momento verticale Mx. 
TT s 3 del momento orizzontale Mp,. 


Nella tavola II, disegnato il semiarco AC in scala più grande, si determinarono 
le due ellissi ad esso relative; quindi si procedette al calcolo diretto della rotazione 
totale » prodotta da un carico ripartito uniformemente sulla superficie laterale; si 
determinarono anzitutto le risultanti successive relative ai singoli tronchi, avendo 
cura di ridurre le forze alla sezione estrema di ogni tronco nel modo indicato al $ 11 
del capitolo II; quindi si trovarono le rotazioni parziali, calcolate nella tabella VI, 
la cui risultante [determinata mediante un poligono funicolare] è la rotazione r sud- - 
detta. Quindi mediante il triangolo di composizione dei vettori-rotazioni si determinò 
la rotazione totale # della sezione C nel modo indicato al $ 7 del Capitolo II; resta 
così pure determinata la rotazione s prodotta dal momento M.. 

Si tracciò poi il triangolo UVW antipolare comune alle due ellissi (v. $ 5 del 
Capitolo IV). 


L’ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 49 


TABELLA I. 


Pesi elastici ordinarì (28) e trasversali (9). 


Assi trasversi p, delle ellissi trasversali dei singoli tronchi. 


(88 1 
p=pg PIE=19%85 
Vi+(3) 
Mae dea hb3 jan) 
t) 
N° Dim lan DIÙ g mi a Pi 
1 46 26 0,000490 . 70,5 1,77 75 5,4 
2 43 24,5 0,000624 54,9 ezio 1,173 5,4 
3 40,3 21,9 0,001027 38,8 1,89 1,168 5,1 
4 38 20 0,001302 30,5 1,90 1,169 DL 
5 37 18,5 0,0061692 26,1 2,00 1,166 4,9 
6 36 18 0,001855 23,4 2,00 1,166 4,9 


TaseLca IL 


Rotazioni prodotte da un momento unitario parallelo ad y. 


r= Me ° 
IPei 
N° Tr) Pe Mc 7 
1 70,5 6,7 0,851 0,000269 
2 54,3 6,0 0,875 0,000448 
3 38,8 5,3 0,920 0,000844 
4 30,5 5,3 0,955 0,001112 
5 26,1 4,9 0,985 0,001571 
6 23,4 4,9 10.998 0,001775 
| 


Le rotazioni r' furono portate in disegno (tav. 1) ponendo, al vero, 0,0001 = 2 dm. 


Risultante complessiva (12 tronchi) R'=0,01145. 
Serie II. Tox. LXII. a 


50 CARLO LUIGI RICCI 
TapeLna II. 


Rotazioni prodotte da una coppia unitaria normale ad y. 


N° | g Pi | Mi; 7! 

1 70,5 5,8 0,935 0,0003894 
2 54,3 6,0 0,894 0,000458 
3 38,8 6,1 0,852 0,000591 
4 30,5 6,8 0,844 0,000598 
5 26,1 7,6 0,863 0,000574 
6 23,4 9,0 0,972 0,000513 


Per 7°: 0,0001=2 dm. 
Risultante complessiva (12 tronchi) R"=0,00563. 


TaseLLA IV. 


Rotazioni prodotte da una forza unitaria agente in Gy 


de a E) 
È ga GR 
N° g d Pe D iù 
1 70,5 — 6,6 156 0,0508 
2 54,9 — 7,0 127,2 0,0478 
3 38,8 — 53) 102,5 0,0453 
4 30,5 0,93 8,9 78,0 0,0355 
5 26,1 107; = — 0,0226 
6 23,4 4,4 —_ — 0,0097 


Per x": 0,001 =1dm. 
Rotazione risultante (6 tronchi) R'= 0,206. 
Braccio della coppia: 6 = 219,50. 
Traslazione: S= R'"% = 0,206 X 219,5 = 45,2. 


L'ELLISSE DI ELASTICITÀ TRASVERSALE, ECC. 5I 


Peso elastico trasversale di tutto l’arco: 


ono _—_ 99 
G= = 597 =0,02215. 


Peso elastico trasversale del semiarco: 


; 1 1 
973 $i — = = 
d 63 G = RA 0,206 X 27,3 0,1778. 
Semiassi dell’ellisse trasversale: 
ele = 91,54 n=] ne 
ù e ) 2) OAsX OE 7 See 


Taenna V. 
Rotazioni parziali per la ricerca della linea d’influenza dello spostamento del vertice. 


N° i È n D 1 
1 70,5 0,6 8,5 111,0 0,0210 
2 54,3 a 9,5 82,5 0,0200 
3 38,8 1.6 8,0 47,0 0,0230 
4 30,5 1,7 5,7 18,0 0,0170 
5 26,1 1,5 6,2 23,0 0,0215 
6 23,4 1.6 9,2 57,8 0,0250 


Per r": 0,001=1dm. 


TaseLca VI. 
Rotazioni prodotte da carico ripartito. 
N° g d Pe D fi v 
1 70,5 2,0 15,6 148,2 11,50 0,09560 
2 54,3 2,3 16,2 128,7 9,01 0,07760 
3 38,8 2,7 16,4 106,0 6,73 0,06360 
4 30,5 4,1 IO) 81,4 4,67 0,03830 
5 26,1 6,8 18,8 55,0 2,75 0,01540 
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LB AVENE PIEMONTESE DELLA N84. “ AVENASTRON®® KOCH 


OSSERVAZIONI CRITICHE 


DEL 


Dr. G. GOLA 


Aiuto nell’Istituto Botanico di Torino. 


(con 1 TAVOLA) 


Approvata nell'adunanza del 19 Febbraio 1911. 


La presente memoria ha per oggetto la illustrazione delle specie piemontesi 
delle Avene della sez. Avenastrum Koch. Di queste alcune hanno un’area di distri- 
buzione prevalentemente orientale, altre occidentale, altre infine mediterranea, ecc. 
La regione piemontese si trova nella particolare condizione di annoverare nella sua 
flora molte delle specie europee. 

Le ricerche floristiche, compiute nelle Alpi occidentali in questi ultimi anni dai 
cultori della Flora piemontese, hanno portato alla conoscenza di stazioni nuove di alcune 
di queste, finora assai poco note, e mancanti quasi negli erbarii italiani, ed anche 
alla constatazione di qualche specie finora non indicata per la nostra Flora. 

To ho approfittato degli abbondanti materiali raccolti negli Erbarii dell’Orto 
Botanico di Torino, specialmente per opera del sig. E. Ferrari, per studiare questo 
interessante gruppo di avene. Il mio lavoro non ha la pretesa d’essere una revisione 
monografica del gruppo, spero tuttavia che potrà interessare come contributo alla 
conoscenza di un gruppo fin qui poco conosciuto della flora italiana. 

Oltre che del ricco materiale degli erbarii dell'Orto botanico di Torino, messo 
a mia disposizione dal Prof. 0. Mattirolo, mi sono avvalso anche di quello degli 
Istituti botanici di Firenze, Roma, Genova (1), cortesemente comunicatomi dai 
Chiar. Prof. P. Baccarini, R. Pirotta, 0. Penzig. Ho potuto altresì consultare le 
collezioni private dei Sigg. Dott. F. Vallino, F. Santi, F. Vignolo-Lutati, A. Noelli, 
Col. A. Zola. 

A tutti mi è grato esprimere la mia più viva riconoscenza. 


(1) Indicherò con HP l’Herbarium pedemontanum di Torino e con HG l’Erbario generale, pure 
di Torino; con HF l’Erbario di Firenze, con HR l’Erbario generale di Roma, con HC l’Erbario Cesati 
di Roma, con HGen. quello di Genova. 


DO 


54 G. GOLA 


La sez. Avenastrum Koch costituisce un gruppo assai omogeneo di specie, carat- 
terizzato dalla povertà di nervature nelle glume, dalla pubescenza dell’apice del- 
l’ovario, e sopratutto dalla durata della pianta che è perenne. 

Non si può certo affermare che le specie di questa sezione siano caratterizzate 
da un polimorfismo spiccato, ma piuttosto la grande omogeneità dei caratteri di tutte 
le specie, ne rende difficile la distinzione, nei casi in cui ha luogo una deviazione 
lieve dal tipo. 

La stessa ristretta area di distribuzione di molte specie ostacola la possibilità 
di avere a disposizione materiali di studio in misura tale da dirimere sempre ogni 
difficoltà. A ciò principalmente si deve la complicata sinonimia che esiste a proposito 
di qualche specie. 

Prima di entrare nello studio delle singole forme, mi soffermerò ad esaminare 
il valore dei caratteri che si sono proposti per differenziarle luna dall’altra. 

La conformazione della parte inferiore dell’ arista (appiattita nell’A. pratensis, 
alpina, planiculmis, Scheuchzeri, cilindrica nelle altre specie piemontesi) costituisce 
un ottimo criterio di suddivisione in due gruppi, tanto più che esso è nel maggior 
numero dei casi associato a differenze nella quantità dei fiori componenti ciascuna 
spighetta. 

Se quest’ultimo carattere, considerato da solo, non ha l’importanza che gli attri- 
buiscono molti autori, tuttavia associato all’altro testè ricordato, permette di dirimere 
nettamente ogni dubbio che può sorgere p. e. osservando esemplari opimi. 

Così pure, molti autori dànno grande importanza al numero delle nervature 
delle glume. L’innervazione è assai spesso in rapporto collo sviluppo delle glume, 
e tale sviluppo è talora in ragione diretta col numero dei fiori che costituiscono la 
spighetta. 

Per rimanere nel campo della morfologia fiorale, ricordasi ancora il carattere 
della pubescenza o meno dell’asse dell’ultimo fiore, che è tabido. 

Molti autori lo indicano addirittura come un carattere distintivo fra specie e 
specie, ma ad esso non si deve attribuire un valore così grande. La pubescenza di 
questo organo abortivo, è talora in relazione diretta collo sviluppo del fiore stesso, 
e spesso anche, a parità di sviluppo, è dato osservare nella medesima specie la pu- 
bescenza o no di tale asse (p. e. A. Parlatorei, A. montana, A. sempervirens). 

Pure poco costante è il numero dei fiori in ciascuna spighetta, e quello della 
presenza dell’arista nel fiore tabido. 

Assai maggiore importanza è da darsi, a mio avviso, alla struttura delle foglie. 
Anzitutto la presenza o l’assenza di ligula è un carattere di valore notevolissimo, 
per la facilità colla quale può essere osservato e per la sua costanza, e va special 
mente utilizzato nel gruppo della specie ad arista cilindrica alla base. 

Nelle foglie di tutte queste specie, e, del resto, delle graminacee perenni, è fre- 
quente l’osservare un dimorfismo spiccato tra quelle basali e quelle culmeali, il quale 
è del resto facile a spiegare, se si pensa che le foglie basali hanno da sopportare 
i rigori estremi del clima e per un tempo più lungo che non le foglie culmeali. 

La durata delle foglie basali è variabile; in qualche specie le foglie basilari 
sono scarse e di assai breve durata, onde sono quasi sempre scomparse o almeno 


3 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 519) 


morte all’epoca della fioritura (A. bromoides, A. alpina, A. pubescens), in altre invece 
permangono insieme a quelle dei getti sterili. 

Di quelle a foglie permanenti, alcune specie hanno le foglie che, dopo morte, 
cadono rapidamente in marcescenza, specialmente nella lamina, ma anche la porzione 
guainale è così profondamente alterata all’inizio della stagione primaverile, che i 
nuovi getti possono perforarla e dare così origine a innovazioni extraguainali. 
(A. pratensis, A. Scheuchzeri, A. Parlatorei, A. montana). 

In altre invece la marcescenza delle foglie procede in due tempi. La lamina si 
separa e si distacca nettamente e precocemente dalla guaina, e cade al minimo urto 
nella stagione primaverile; la parte guainale essicca e permane poco alterata in causa 
della forte sclerosi dei suoi tessuti. La durata delle guaine è grandissima, onde le 
innovazioni sono tutte intraguainali e tutte avvolte da numerosissime guaine rigide, 
talora (A. sempervirens) di lunghezze differenti, talora (A. sefacea, A. lejocolea) tutte 
di lunghezze uguali, onde, in entrambi i casi, i cespi di tali piante si fanno gros- 
sissimi per l'accumulo di parti morte, mentre relativamente piccola è la parte 
vivente. 

Questa disposizione è affatto caratteristica nelle tre specie che ho ricordato. 

La struttura della lamina fogliare presenta due tipi: quello pianeggiante, carat- 
terizzato da due soli gruppi di cellule bulliformi ai lati della nervatura mediana; e 
il tipo pieghettato, nel quale le foglie presentano numerosi gruppi di cellule bulli- 
formi ai lati di tutta o di una parte dei fasci vascolari. 

Si osserva il primo tipo di foglie in tutte le Avene aventi la parte inferiore 
della resta appiattita; il secondo invece è diffuso in tutte le altre specie piemontesi 
della sez. Avenastrum. 

Di queste però lA. pubescens è dimorfa, in quanto le foglie dei getti sterili ap- 
partengono al tipo pieghettato, mentre quelle dei getti fertili e le culmeali sono 
piane. 

Mm tutte le altre specie il tipo pieghettato è caratteristico sia delle foglie dei 
getti sterili che culmeali. Le cellule bulliformi sono sempre più o meno evidenti, e 
meno sviluppate lo sono specialmente nell’A. setacea e A. lejocolea, nelle quali l’am- 
piezza di movimento da esse determinato è appena percettibile. 

Ciò è specialmente determinato dalla sclerosi degli elementi sottoepidermici, che 
in queste specie raggiunge il massimo grado. 

In complesso io ritengo che nella determinazione delle specie della sez. Ave- 
nastrum, sì deve dare valore: 1° alla forma dell’arista; 2° alla morfologia della 
lamina fogliare e della ligula; 3° a tuttii caratteri desumibili dalla morfologia delle 
glume, delle glumette, e dell’asse delle spighette. 


A. pubescens L. 


L’Avena pubescens L. intesa nel suo senso più largo, comprese cioè tutte quelle 
forme che ad essa, pur essendo assai prossime, sono state distinte come specie a 
sè o come varietà (A. amethystina, A. pubescens var. alpina Gaud, ecc.), è abbastanza 
frequente nella catena alpina piemontese. 


56 G. GOLA 4 


Ma i numerosi esemplari della nostra flora, che io ho avuto opportunità di esa- 
minare, presentano un polimorfismo così notevole, che possono servire utilmente a 
portare un contributo alla sistematica del gruppo dell'A. pubescens. 

L'entità che più d'ogni altra è considerata distinta dalla specie tipica linneana è 
VA. amethystina D. C. (1) identica, secondo alcuni autori, all’A. sesquitertia L. Ove 
tale identità fosse provata, la denominazione linneana avrebbe la precedenza su 
quella candolleana, ma la diagnosi di Linneo (2) può riferirsi secondo alcuni autori 
ad un’Avena, secondo altri ad un risetum; io adotto perciò la denominazione 
posteriore, perchè affatto indubbia sul suo significato. 

De Candolle stesso sospettò che la sua nuova specie non fosse che una varietà 
di A. pubescens (3), e malgrado che numerosi autori posteriori, Koch (4), Grenier et 
Godron (5) e tra gli italiani Parlatore (6), Casati, Passerini, Gibelli (7), e Arcan- 
geli (8), ecc., l'abbiano tenuta distinta, si è recentemente ritornati a considerarla come 
un gruppo subordinato alla A. pubescens, cioè come sottospecie (Ascherson e 
Graebner (9)) o come varietà (Fiori (10)). 

Dei caratteri indicati da De Candolle: portamento, forma della ligula, colora- 
zione delle spighette, forma e sviluppo delle glume, nessuno è stato tenuto in conto 
dagli autori che pure hanno tenuto distinta l'A. amethystina dall'A. pubescens. 

Ciò del resto con ragione, perchè le dimensioni (1-2 dm.) erano state misurate 
sopra un esemplare mostruoso; la colorazione delle spighette è spesso variabile col 
grado di maturità di esse (11), e la forma della ligula e delle glume non sono così 
nettamente distinte da essere utilizzabili per la separazione di due specie. 

Koch, Grenier e Godron, ecc., accennano ad altri caratteri distintivi: tali p. e. 
l’essere la gluma inferiore trinervia nell’amethystina invece che uninervia, l'essere 
nell’a. le spighette 2-3 flore invece che 3-4 flore, l’essere la resta dorsale della glu- 
metta inferiore del primo fiore situata in basso nell’una (ameth.), e più in alto 
nell’altra. 

Koch accenna inoltre alla pubescenza degli angoli della glumetta superiore, ed 
alle dimensioni maggiori delle glume nell’A. amethystina. i 

Ma tutti questi caratteri non sono abbastanza sicuri, ed una prova di ciò l’ab- 
biamo p. e. nell’incertezza del riferimento sinonimico dell'A. lucida Bertol. (12). 


(1) De Canponne, FI. d. France, T. II, p. 37 (1805). 

(2) Linné, Mantissa plantarum, I, p. 32. 

(3) Op. cit., V, p. 260 (1815). 

(4) Koca, Synopsis Florae germanicae et helveticae, ed. II, p. 918. 

(5) Grenier et Gopron, Flor. d. France, III, p. 518 (1855). 

(6) ParLatore, Flora italiana, I, p. 288. 

(7) Cesari, Passerini e Giserri, Compendio della Flora Italiana, I, p. 62. 

(8) ArcanceLI, Compendio della Flora italiana. 

(9) Ascnerson u. GrAEBNER, Synopsis der Mitteleuropiischen Flora, II, 1, p. 245 (1898-1902). 

(10) Frorr e PaorertI, Flora analitica d’Italia, I, p. 72 (1896). 

(11) BerroLoni A., Flora italica, I, p. 701 (1833). 

(12) In generale la colorazione violacea della gluma e della glumetta dell’Avena scompare dopo 
la fecondazione e talora anche più precocemente. Tuttavia si possono distinguere in generale nelle 
specie di questo genere due forme, l’una a spighette costantemente verdi, l’altra a spighette che 
per un certo tempo presentano una colorazione violacea più o meno estesa. 


“ 


5 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 57 


Sotto questo nome Bertoloni descrisse un’ Avena a spighette biflore, colle glu- 
mette glabrescenti sulle nervature, e con le foglie glabre a ligula acuminata intera. 

Parlatore identifica l'A. lucida Bert. coll’A. pubescens var. alpina Gaud. (1), mentre 
Ascherson e Graebner la identificano coll’A. amethystina; a mio avviso è assai più 
rispondente al vero la sinonimia di Parlatore, perchè le dimensioni delle glume indi- 
cate da Bertoloni (Curae posteriores) (2), fanno ritenere la A. lucida assai più prossima 
alla A. pubescens che non alla A. amethystina. 

Anche Arcangeli considera la A. lucida come var. della pubescens, ma indica 
anche come carattere distintivo tra questa e l’amethystina, l’avere questa entrambe 
le glume uninervie, e quella l’una (l’inf.) uninervia, l’altra trinervia. In questa affer- 
mazione l’autore è affatto isolato, perchè le glume entrambe uninervie non esistono 
affatto nelle due specie controverse. 

Io ho sottoposto ad accurato esame numerosi esemplari, italiani ed europei, di 
queste Avene, avuti dagli Erbarii di Roma e di Firenze, e altri conservati nell’Isti- 
tuto di Torino, nonchè di colleghi ed amici cultori della flora piemontese, ed ho 
potuto constatare che nessun carattere preso singolarmente può essere utilizzato 
nella distinzione delle entità che sono state separate dall'A. pubescens, e che anche 
il complesso di caratteri che potrebbero più utilmente venire ricordati, presentano 
frequentissimi graduali termini di passaggio dall’una all’altra entità. 

Il portamento, tenuto in conto da De Candolle, non è molto diverso nelle due 
specie; le dimensioni e sopratutto la pubescenza delle foglie presentano delle diffe- 
renze numerose con tutti i termini di passaggio. Si hanno esemplari a foglie irsute 
su entrambe le pagine e sulla guaina; altri a foglie irsute specialmente sulla pagina 
inferiore e sulla guaina, altri a pelurie limitata alla guaina, altri cigliati solo in 
corrispondenza della regione ligulare, altri infine glabri nelle foglie culmeali, e irsuti 
più o meno in quelle dei getti sterili. Così pure tutti i termini di passaggio si osser- 
vano nelle dimensioni delle foglie, in ispecie delle culmeali; quivi esse, particolar- 
mente negli esemplari dei luoghi secchi, sono talora assai ridotte nelle dimensioni 
del lembo. 

La ricchezza della pannocchia è pure assai variabile, talora essa appare sub- 
racemosa, ma anche a questo riguardo si osservano tutti i termini di passaggio, 
in relazione colla ricchezza di esse; le spighette sono portate da peduncoli lunghi 
almeno quanto esse, inseriti a loro volta sopra i rami della pannocchia. 

In un solo caso ho osservato le spighette sessili e geminate sopra i singoli rami 
della pannocchia. 

Le dimensioni delle spighette ed il numero dei fiori non sono fra loro in rela- 
zione ben definita. 

Nell’ A. amethystina si dovrebbero trovare un numero minore di fiori ed un 
maggiore sviluppo nelle dimensioni delle spighette; ora anche negli individui, e sono 
frequenti a osservarsi, che hanno le spighette molto grandi, sono biflore assai spesso 
quelle dei rami inferiori della pannocchia, mentre quelle dei rami superiori e medii 
sono triflore. 


(1) Gaupis, Flora helvetica, I, p. 332 (1828). 
(2) Op. cit., III, p. 590. 


Serre Il. Tom. LXII. H 


58 G. GOLA 6 


Il carattere delle spighette grandi ma pauciflore, dovrebbe essere associato a 
quello della gluma inferiore trinervia (nell’A. amethystina), ma questa coincidenza non 
è affatto costante; in generale il maggiore sviluppo delle spighette, e quindi delle 
glume, corrisponde ad una maggiore innervazione, ma non sempre. 

Così pure non sempre la lunghezza notevole della gluma inferiore, fino a oltre- 
passare il fiore inferiore, che da alcuni autori è data come propria dell'A. amethy- 
stina (1), è concomitante con gli altri caratteri proprii dell'A. amethystina; altret- 
tanto si dica della posizione dell’arista dorsale del fiore inferiore. 

Dall'esame di numerosi esemplari io ritengo potersi bensì distinguire lA. ame- 
thystina dall'A. pubescens e da altre entità a questa affini, ma non col valore di specie, 
bensì con quello di varietà collegate col tipo da una serie di forme aventi caratteri 
intermediari]. 

Nella flora piemontese ho potuto osservare le seguenti entità: 

A. pubescens L., caratterizzata prevalentemente dalla pubescenza delle foglie, 
dalle spighette piuttosto piccole, a parecchi fiori, tre, e talora quattro o cinque, 


x 


aventi le glume brevi, particolarmente l’inferiore, la quale è assai più breve dei 
fiori, acuminata, uninervia. L’arista del primo fiore è inserita nella parte inferiore 
del dorso della glumetta. : 

Frequente in tutte la catena alpina del Piemonte: Val Sesia a Riva Valdobbia, 
e Alagna Sesia, Carestia, 1877-1902. Tra i numerosi esemplari di questa valle, esi- 
stenti nella Collezione Carestia, alcuni hanno le spighette colla gluma inferiore tri- 
nervia (p. e. uno di quelli distribuiti al 2666 dalla Soc. dauphinoise, 1880); tale 
sarebbe carattere dell’A. amethystina D. C. Ma la abbondanza di spighette triflore, 
la posizione della resta sulla glumetta del primo fiore, l’avere la gluma inferiore 
brevemente acuminata, la villosità delle foglie assai marcata, la ravvicinano assai 
al tipo. 

Valle d'Aosta a Gressoney-St.-Jean, 1859, Carestia; a Cogne, 1853, Allis; tra 
Villefranche e Brissogne, 1899, Ferrari. 

In questi esemplari sono in prevalenza forme a spighette più o meno macchiate 
di violaceo, secondo il grado di maturità; non mancano però forme nettamente vire- 
scenti da giovani e flavescenti da adulte, come in alcuni di Riva e in quello di 
Brissogne. - 

Valle di Susa sotto ai Bonnet, 1897, E. Ferrari; a S. Antonino, 1910, Ferrari, 
Santi, Zola; Colle di Sestrières, 1898, E. Ferrari. Quest'ultimo esemplare è interessante 
per la curiosa disposizione geminata delle spighette come ho accennato più sopra. 

Alpi Marittime. Vallone della Valletta sopra Aisone, 1895, E. Ferrari. 

La varietà che meno si discosta dal tipo è la var. alpina Gaud = var. glabrescens 
Rchb., la quale non manca nelle Alpi piemontesi. 

È questa a mio avviso da considerarsi come intermedia tra il tipo e l'A. ame- 
thystina. 

La glabrescenza di tutta la pianta è assai spiccata, spesso totale. Le foglie, spe- 
cialmente le cauline, hanno la lamina assai breve, le spighette hanno delle dimensioni 


(1) ArcancetI (op: cit.) indica che la gluma superiore è nell’A. amethystina sempre più lunga 
dei fiori. 


” 


( LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM n KOCH 59 


maggiori, quasi quanto quelle dell'A. amettystina, ma sono per lo più triflore, la 
gluma inferiore è talora trinervia, ma anche in tal caso brevemente acuminata, la 
resta è impiantata per lo più in alto sulla glumetta del primo fiore. 

La ho osservata di Valsesia a Riva Valdobbia e Alagna (Carestia, 1877); di 
Valle d'Aosta a Gressoney (Carestia, 1871); del M. Cenisio nelle Alpi Cozie (Vignolo 
Lutati, 1910); della Val Macra (Cuneo) nel Vallone di Ciaramasco (1909, Ferrari, 
Gola); e delle Alpi Marittime verso Tenda (Ungern Sternberg, 1872), e Frontero 
(Gennari, 1851). 

A questa varietà è da riferirsi l'A. lucida Bertol. 

La var. amethystina è pure molto frequente nella nostra regione; le grandi 
dimensioni delle spighette, la relativa povertà di fiori in ciascuna spighetta, la pre- 
senza di due o di tre nervi nella gluma inferiore, la lunghezza di questa che spesso 
arriva fino all'apice del fiore inferiore, mentre la gluma superiore la oltrepassa co- 
stantemente: l'essere questa gluma lungamente ovato-acuminata, la posizione della 
resta della glumetta inferiore, sono caratteri che identificano bene questa varietà, 
la quale è legata al tipo specialmente da forme riferibili alla var. alpina. 

La sua diffusione è prevalentemente spiccata nelle Alpi occidentali, dove la ho 
osservata in numerosi esemplari. 

Valle d’Ossola in Val Formazza, 1860, Gibelli; Valle d’Aosta nel Vallone 
St.-Marcel, Ferrari, Gola, 1904, forma a pannocchia povera subracemiforme; Valle 
di Lanzo a Usseglio nei pascoli sopra Malciaussia; forme interessante pel notevo- 
lissimo sviluppo della pannocchia e delle singole spighette aventi glume assai lun- 
gamente acuminate, 1909, P. Fontana; Valle di Susa sopra Bussoleno, 1900, E. Ferrari; 
Colle del Moncenisio, 1844, Delponte; id., Malinverni; 1909, F. Vignolo-Lutati; pa- 
scoli d'Oulx, 1847, Lisa; Valle Macra, 1883, Rostan; id., sopra Alma, 1900, E. Ferrari, 
1910, Ferrari, Gola; sopra Celle Macra, 1910, Ferrari, Gola; sopra Acceglio nel 
Vallone di Sautron, 1909, Ferrari, Noelli, Gola; Valle Corsaglia alle Fontane, 1844. Lisa. 

Una forma affatto opima di A. amethystina è quella stata raccolta da A. Carestia 
sopra Gressoney verso l’Alpe di Valdobbia, e della quale ho osservato due esemplari, 
uno dell’Erbario di Firenze, l’altro di quello di Torino. Entrambi, ma in grado assai 
più spiccato quest’ultimo, presentano delle spighette assai grandi con tre fiori per- 
fettamente sviluppati, e talora con un quarto pure aristato, con reste assai lunghe, 
impiantate nella metà inferiore delle glumette; la gluma inferiore non è però tri- 
nervia, e non supera i fiori. 

Interessante è la pubescenza delle foglie che manca in entrambe le faccie delle 
lamine e sulle guaine, e che si manifesta con lunghe ciglia solo ai margini della 
lamina in prossimità della regione ligulare; è questo un carattere essenziale del- 
lA. laevigata Schur. 

Il materiale del quale io ho potuto disporre non è sufficiente per una determi- 
nazione sicura, ma sarebbe da ricercare se non si tratti dell'A. pubescens L. v. lae- 
vigata Schur., f. insubrica Asch. u. Graebner. 

Non ho veduto esemplari i quali potessero chiarirmi la posizione sistematica 
dell'A. Hugueninii DN. (in Steud. Syn. Glum., I, p. 425, 1885), segnalata dall’Autore 
pel Moncenisio, e da lui stesso sospettata come una forma depauperata dell’ A. lucida 
Bertol. 


60 G* GOLA 8 


Neppure ho potuto farmi un’idea di quanto abbia voluto indicare Allioni (FI. Ped.) 
sotto A. sesquitertia. 


Avena Parlatorei Woods (Tour. fl., p. 405, 1850). 


Woods riconobbe pel primo l’errore nel quale caddero Allioni (1) (pro parte), 
Host (2), ecc., riferendo ad A. sempervirens Vill. gli esemplari da loro studiati e che 
non avevano nulla di comune colla specie villarsiana. Tale errore fu specialmente 
ripetuto dai floristi italiani: Bertoloni, Parlatore, Cesati Passerini e Gibelli riferirono 
ad A. sempervirens tutte le loro descrizioni di A. Parlatorei Woods; Parlatore la 
confuse in parte anche coll’ A. setacea Vill.; Boissier e Reuter (3), che riconobbero pure 
l'errore dei floristi testè ricordati, la denominarono A. Hostii; denominazione che fu 
usata per molto tempo, ma che si dovette abbandonare per quella di A. Parlatorei 
Woods che è di data antecedente. 

Si distingue ottimamente dalle A. sempervirens Vill. specialmente per la minore 
rigidità del lembo fogliare, per la lunghezza della ligula che è ovato-oblunga, per la 
struttura delle spighette. 

Cresce piuttosto frequente nelle Alpi piemontesi, ed è del resto assai diffusa in 
tutta l'Europa centrale e orientale; è per ciò che occorre molto frequentemente nelle 
mani dei floristi, all’inverso di quanto si verifica per lA. sempervirens Vill., la quale 
è molto rara. ai 

Per rispetto alla flora piemontese io la ho studiata delle seguenti località: 

A. Marittime. Sopra la Certosa di Pesio, 7, 08, Ferrari Vallino, Gola (HP); Limone 
Val S. Giovanni, 6, 1893, Ferrari, Belli (HP). Tra le sorgenti delle Fuse e il Colle 
della Ciusetta in V. Tanaro (Ormea), 6, 1909, Ferrari, Gola (HP); Valle di Corsaglia, 
8, 1844, Lisa; S. Anna di Vinadio, 8, 1843, Lisa; 7, 1889, Ferrari; Entraque. alla 
Cresta Pianard, 7, 06, Ferrari, Gola (HP). 

A. Cozie. Val Macra al Colle dello Scagno (Acceglio), 7,09, Ferrari, Gola; id. alle 
Grangie Casali (Alma), 6, 1900; S, 1909, Ferrari, Gola (HP). Alpi di Massel, 1863, 
Rostan; Valli di Luserna e di S. Martino, 1825, Lisa (HP); id., 1872, Rostan (HFI), 
Val Germanasca, 1880, Rostan (H.F1); M. Chaberton, 1890, Ferrari (Fiore tabido ari. 
stato e talora mancante); M. Cenisio, 7, 1883, Morthier (HP); id., Herb. Balbis. 

A. Graie. Bussoleno alla Cava del Marmo, 7, 1900, Ferrari; Colle della Croce 
di Ferro, 8, 1909, P. Fontana; Usseglio, Pascoli di Malciaussia, 8, 1909, P. Fontana; 
Cogne alla Cappella del Cret, 1902, Ferrari, Gola. 

Anche in questa specie l’asse del fiore tabido che di solito è glabro è talora 
peloso; questo carattere non può quindi avere il valore che gli attribuiscono Ascherson 
e Graebner. 

Gli stessi autori indicano che la gluma inferiore è nell’A. Parlatorei 3-5 nervia; 
ciò non è esatto, perchè tutti gli autori concordano nell’indicarla uninervia, ed anche 
lo stesso Boissier nella diagnosi di A. Hostîî la indica uninervia. 


(1) Anzioni, Flora Pedemontana, TI, 255 (1784). 
(2) Hosr, Graminaceae austriacae, III, p. 28, t. 41 (1805). 
(3) Borssier et Reurer, Pugillus pl. afr., p. 121 (1851). 


“ 


9 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. AVENASTRUM , KOCH 61 


Avena montana Vill. 
Hist. PI. Dauph. Il, p. 151 (1787) = A. sedenensis DC (1). 


Abbastanza frequente nei luoghi elevati ghiaiosi delle Alpi occidentali, dove è 
dato incontrarla nelle sue forme teretifolia Willk e planifolia Willk (2). 

Il carattere della pubescenza dell’asse del fiore tabido indicato da Grenier e 
Godron, De Notaris (3), Fiori, e anche da Parlatore, il quale ne fa un carattere di- 
stintivo dall’A. sempervirens (Parl. e non Vill. = A. Parlatorei. Woods), non è co- 
stante, e nella nostra regione si incontrano forme ad asse glabro e ad asse peloso. 

Osservai esemplari delle seguenti località: Alpi Marittime, Val Tanaro sopra 
Ormea tra Viozene e Carnino, 7, 1908, Ferrari, Gola (asse del f. tabido glabro, f. tab. 
aristato). Frontero, 7, 1851 (f. tab. ad asse peloso e aristato). M. Saccarello. Unger 
Sternberg, 1872. Val Stura a Vinadio, 1848 (Lisa, f. tab. mancante); a Bersezio, 8, 97, 
Ferrari; al Colle di Pourriac, 7, 1850, Lisa; al Vallone Forneris, 8, 1895, Ferrari. 

Alpi Cozie. V. Macra sopra Acceglio alla Chiappera (fiore mutico e ad asse peloso), 
7, 1910, Ferrari, Gola; al Colle del Losaret (fiore id. id.); 8, 1890, Ferrari, Mattirolo; 
al Colle dello Scagno (F. tab. ad asse peloso, ed aristato), 5, 09, Ferrari, Gola; alle 
Grangie Subeyran sotto il Colle Maurin, 7, 1910, Ferrari, Gola (nelle due forme 
pianifolia e teretifolia); alla Grangia Traversera, 7, 1910, Ferrari, Gola; al L. di 
Visaisa, 7, 1909, Ferrari, Gola (forma ad asse peloso e ad asse glabro); Valle Varaita, 
1847, Lisa, forma planifolia: Bardonecchia, al Colle della Rho, 8, 1847, Lisa, 8, 1890, 
Berrino, nella f. planifolia; Villarfocchiardo al Colle di Malanotte, 8, 1909, Fontana 
e Crosetti (asse del f. tabido glabro). 


dvenu lejocolea n. sp. 


Quantunque i caratteri fondamentali dell’A. setacea Vill. (4) siano tali da distin- 
guerla nettamente dalle altre vicine, tuttavia essa presenta negli esemplari italiani 
ad essa riferiti dagli autori nostri, delle differenze di una certa entità, che male si 
accordano colla diagnosi villarsiana. 


(1) Ascaerson u. GRAEBNER, Op. cit., non identificano l'A. sedenensis DC. collA. montana Vill., ma 
considerano l’entità candolleana come una forma della specie Villarsiana. Nelle Alpi Marittime, dove 
sì troverebbe, secondo gli autori germanici, questa forma, io ho osservato esemplari a pannocchia 
con rami esili e fiori piccoli (sopra Carnino, verso il Colle dei Signori, m. 2000 c., 1.7. 08, Ferrari, 
Gola). Ma ho osservato pannocchie a rami esilissimi anche in esemplari di A. Cozie, senza che in 
essi si associasse a tale carattere la minore dimensione dei fiori, o l’esilità notevole delle foglie che 
sì rimarcava in quelli sopra ricordati. 

(2) WiLctowx et Lance, Prodromus Florae hispanicae, I, p. 68 (1887). 

(3) A proposito di questa specie, come del resto di altre della sez. Avenastrum, ho rilevato 
che alcuni caratteri desumibili dallo sviluppo dell’ultimo fiore di ciascuna spighetta non sono da 
ritenersi per costanti, perchè dipendenti dallo sviluppo maggiore o minore del fiore stesso, talora 
affatto abortito e ridotto a due squame appena glumettiformi, talora più evoluto e presentante la 
glumetta inferiore con arista più o meno grossa, talora infine qualche stame abbastanza ben confor- 
mato, quantunque di rado fertile. Lo sviluppo dell’arista, la pubescenza delle glumette o dell’asse 
che le porta, sono in relazione con tale variabilità di conformazione del fiore. 

(4) Virrars, Prospectus de Vhistoire des plantes du Dauphiné, p. 17. 


62 G. GOLA 10 


Di queste differenze e in generale della variabilità dell’Avena setacea, risentono 
le descrizioni e le diagnosi degli autori che dopo Villars ebbero occasione di 
studiarla. 

Villars definì l'A. setacea come A. folîis setaceis, levibus, culmo basi hirsuto, spiculis 
trifloris, panicula erecta (Prospectus, p. 17). 

Nell’Histoire (1) la diagnosi fu modificata così: A. foluis setaceis, panicula pur- 
purescente, calicibus trifloris, aristis migris recurvis. 

La figura villarsiana annessa a tale diagnosi, accenna pure alla pubescenza delle 
guaine fogliari e ad una certa ventricosità di esse. La descrizione che accompagna 
la diagnosi fa pure cenno di una tale pubescenza, nonchè della pigmentazione della 
base delle ariste. 

Tali caratteri furono desunti dallo studio delle piante del Delfinato. 

Viale raccolse per primo in Italia, nelle Alpi Marittime presso Limone, una 
pianta che Bellardi (2) pubblicò come Avena setacea Vill.; nella sua descrizione Bel- 
lardi non accenna alla pubescenza delle guaine fogliari, nè alla pigmentazione delle 
ariste. 

Prima di esaminare attentamente le ragioni che mi spingono a dubitare del- 
l'identità di questi esemplari coll A. setacea Vill., conviene stabilire bene i caratteri 
distintivi della specie villarsiana. 

Quelli indicati nel Prospectus: forma delle foglie, numero dei fiori di ciascuna 
spighetta, direzione dell’infiorescenza, sono costanti e caratteristici: quelli della gla- 
brescenza o pubescenza della base del culmo (guaina delle foglie culmeali) sono al- 
quanto incerti. 

La pigmentazione delle glume e delle glumette e quella delle ariste accennata 
nella seconda diagnosi sono da tenere in poco conto a causa della loro incostanza; 
in generale coll’avanzarsi della maturità del fiore tale pigmentazione diminuisce, ed 
è quindi troppo incerta per poterne tenere conto. 

Degli altri caratteri addotti da alcuni altri autori, poco conto è da fare. De 
Candolle (3) vi comprende anche quelli di A. aurata All., che è l’Agrostis alpina B aurata 
Richt, ed accenna inoltre alla glabrescenza di tutta la superficie della lamina fogliare, 
la quale non è affatto rispondente al vero, perchè la superficie superiore è sempre 
pubescente-scabra. 

Del resto De Candolle aveva avvertito più tardi il poco valore della pigmen- 
tazione della gluma, ma, secondo Parlatore (4), in quanto egli aveva tenuto conto 
dell'A. aurata All. 

L’A. francese non dà valore alcuno alla pubescenza delle guaine fogliari e indica 
invece la pigmentazione della base delle ariste, carattere questo in relazione unica- 
mente coll’età del fiore. 


(1) Vicrars, Histoire des plantes du Dauphiné, II, p. 144, t. 140 f. 
(2) BeLLARDI, 

(3) Op. cit., III, p. 37. 

(4) Op. cit., I, p. 


11 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM » KOCH 63 


De Notaris (1) dà una buona descrizione, ma non accenna alla glabrescenza o 
alla pubescenza delle guaine fogliari, e si fonda del resto promiscuamente su esem- 
plari francesi e su esemplari di Tenda; ciò spiega forse la sua indicazione a pro- 
posito della figura di Villars: tab. V, mala. 

Ottime sono le descrizioni di Bertoloni, di Parlatore (2), ma quella del primo 
si riferisce a esemplari avuti da Persoon (3) e probabilmente non italiani; quella del 
secondo è fatta su un esemplare il quale è l’unico tra tutti quelli italiani che ho 
esaminato, che differisca da tutti gli altri italiani, e si avvicini invece completa- 
mente al tipo di quelli francesi; tutti poi indicano la pubescenza delle guaine, carat- 
tere che, come dissi, è da discutere. 

Anche la Flora di Fiori si riferisce alle descrizioni generali dagli autori, fatte, 
come dissi, piuttosto su esemplari francesi che italiani, che sono rarissimi nei nostri 
erbarili. 

Affatto errata è poi la caratteristica indicata da Ascherson e Graebner (4) della 
presenza di una ligula lunga, ovata, nelle foglie di questa pianta; essa è anzi ca- 
ratterizzata dalla assenza pressochè completa della ligula, la quale non è neppure 
sostituita da ciglia. 

Perciò nell’aggruppamento adottato da questi autori nella loro Synopsis, essa 
andrebbe allontanata dalla A. Parlatorei e posta tra VA. sempervirens e le A. de- 
sertorum. 

Io ho esaminato parecchie diecine di esemplari raccolti da me nei dintorni di 
Limone, ed ho potuto constatare l'essere essi corrispondenti in tutto alla descrizione 
fattane da Bellardi. L'aspetto generale di essi, alcuni caratteri speciali delle foglie, 
portano a differenziarli dalla specie tipica descritta da Villars, e, poichè le descri- 
zioni di A. setacea dei floristi italiani mi sembrano eseguite tenendo presenti piuttosto 
esemplari francesi che italiani, ne farò la descrizione accurata. 

Radice fibrosa, rigida; innovazioni tutte intraguainali, onde risulta un corpo assai 
compatto, il quale è inoltre ricchissimo di foglie con pochi culmi fioriferi. Foglie 
basali filiformi setacee, fortemente convolute e striate specialmente nel secco, pro- 
fondamente canalicolate nel fresco; le foglie sono tutte press'a poco egualmente lunghe, 
sia riguardo alla lunghezza totale, sia a quella della guaina, onde, caduto il lembo 
per l'età, i residui delle guaine rimangono tutti terminati alla medesima altezza a 
costituire un invoglio affatto caratteristico delle specie del gruppo della A. sempervirens. 

In complesso l’apparato vegetativo di questa specie è molto affine all’A. semper- 
virens Vill., ma ne è ben distinta per la statura assai minore, per le foglie filiformi- 


(1) De Noraris, Index seminum R. Horti botanici genuensis, 1847, p. 25. 

(2) Della descrizione di Parlatore, occorre tener conto solo di quella pubblicata nella Fora 
Italiana (I, p. 281); quella pubblicata nella Flora panormitana, p. 113, si riferisce a esemplari pro- 
venienti dalla Francia, da Tenda, dai Monti del L. di Como, dal M. Baldo, località queste due ultime, 
nelle quali non esiste affatto la specie Villarsiana. Parlatore infatti parla di ligula oblonga acuta, 
mentre essa è mancante. 

(3) Persoow (Syr. plant., I, p. 100, 1805) indica che l’A. setacea hab. in Helvetiae, Italiae et Galliae 
merid. alpibus. Ma egli considera l’A. setacea Vill. come sinonimo di A. aurata All.; egli non ha 
perciò certamente avuto presenti esemplari italiani di vera A. setacea Vill. 

(4) L. c., p. 247. 


64 G. GOLA 12 


setacee, convolute anche nel fresco, mentre nell’A. sempervirens sono canalicolate, 
per l'assenza pressochè assoluta di ligula, sia nelle foglie basilari che in quelle del 
culmo, per la minore ricchezza dell’infiorescenza, per la lucentezza più viva delle spi- 
ghette, per la struttura del fiore abortivo e dell’asse di questo. 

Le foglie basilari sono affatto glabre sulle guaine e sulla superficie inferiore 
finamente pubescenti su quella superiore, ciò che non si può vedere nel secco per il 
fortissimo accartoceiamento, che appare già nel fresco come una fine doccia glaucescente. 

Il colore della parte rimanente della foglia è di un bel verde vivo. 

La lunghezza totale delle foglie è di 20-25 cm. Esse sono lunghe quanto il culmo 
poco prima dell’antesi, e più tardi raggiungono di solito la base della ramificazione 
della pannocchia. 

Questa è portata da un culmo cilindrico che porta una o due foglie lungamente 
guainanti, con lamine brevi, di 5-7 cm., affatto glabre sulla superficie esterna, salvo 
in corrispondenza della congiunzione del lembo colla guaina; questa è sempre affatto 
glabra e talora nell’ultima foglia leggermente ventricosa. 

I nodi del culmo non sono quasi mai visibili, salvo talora il penultimo. Il culmo 
è affatto liscio. 

L'infiorescenza è lunga 5-8 cm. e porta 10-15 spighette. 

I rami inferiori sono gemini, i superiori solitari; sono tutti lisci, salvo appena 
sotto il punto di inserzione delle spighette. 

Queste sono lunghe 12-14 mm. La gluma inferiore è di 10 mm., uninervia e 
acuminata, la superiore di 14 mm., trinervia, acuminata e screziata di violetto da 
giovane, flavescente coll’età. 

Il fiore inferiore è pressochè sessile, assai peloso alla base per peli sericei lunghi 
circa 1/3 della glumetta inferiore, la quale è ovata, acuminata, lunga 11 mm., vio- 
lacea nella !/, superiore da giovane, bifida all’apice e quivi scarioso-ialina, glabra, 
salvo che sui margini verso la base dove è cigliata, con una resta dorsale inserita 
.verso la metà, pigmentata da giovane, lunga 25 mm. 

La glumetta superiore è bicarenata, fortemente cigliata, per ciglia reflesse, sulla 
carena, ialina, bifida all'apice, lunga 9 mm. Gli stami sono tre. L’ovario porta due 
stimmi piumosi. 2 

Il secondo fiore è portato da un asse lungo 4 mm., lungamente cigliato verso 
la parte superiore; le glumette sono conformate come quelle del primo: la resta è 
lunga solo 17 mm. circa, e vi sono solamente stami; il terzo fiore è portato da un 
asse poco peloso e lungo 4-5 mm., ed è tabido. 

Nella metà superiore dell’infiorescenza i fiori sono un po’ più sviluppati, e quindi 
un po’ più lunga la seconda resta di ogni spighetta, un po’ meglio differenziato il 
fiore tabido. 

Tali sono i caratteri del massimo numero degli esemplari raccolti da me, che ho 
esaminati, e di altri pure raccolti nei dintorni di Limone (1): 


(1) A proposito di questa località, aggiungo una osservazione per correggere un errore di topo- 
nomastica. Bellardi indicò l'habitat dell'A. setacea colle parole: in montibus Limoni. Gli autori 
posteriori tradussero sul Monte Limoni; ora si tratta dei Monti che circondano Limone Piemonte 
comune di circa 3000 ab., in Valle Vermenagna a metri 1000 c. s. m., alle falde nord del Colle 
di Tenda. 


13 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 65 
i) 


Tra il Colle di Malabera e il Colle della Boaira, 7, 1909, Ferrari, Gola. 

Vallone della Boaira, 7, 1909, Ferrari, Gola; Pascoli alpini di Tenda verso Li- 
monetto, m. 1900, Parlatore; Alpi di Carnino, 7, 1843, Lisa. 

Tutti questi esemplari si possono identificare colla descrizione che dà Bellardi 
di A. setacea, ma non con quella degli autori francesi, nè con quelle di Bertoloni e 
di Parlatore, a causa dell’assenza di tomento sulla guaina delle foglie caulinari. Del 
resto altri caratteri differenziali di minor conto risultano da un esame comparativo 
tra i nostri e gli esemplari francesi. 

Dall'esame che ho fatto degli esemplari francesi di A. setacea degli Erbarii di 
Torino, Firenze, Genova e Roma, risulta che questi hanno le guaine delle foglie cul- 
meali sempre finamente irsute; ne ho constatato l’assenza in un individuo su quattro 
componenti un esemplare dell’Erbario fiorentino (St.-Nizier pr. Grenoble), ed in uno 
dell’Erbario di Roma raccolto sui Rochers du Pas de Ville (Isère). Nell’Erbario Cesati 
di Roma si trovano due autoptici di Villars e di Mutel aventi entrambi le guaine delle 
foglie culmeali irsute. 

Negli esemplari francesi sono particolarmente frequenti le forme di piccola 
statura. 

Negli esemplari italiani la glabrescenza della guaina fogliare è un carattere al- 
trettanto costante. 

To ne ho osservato l’assenza in un solo esemplare: “ex alpibus Tendae , che 
De Notaris inviò a Parlatore togliendolo ex herb. H. B. Taurinensi. Sopra questo 
esemplare Parlatore fece la descrizione per la sua Flora italiana; esso però differisce 
da tutti gli altri italiani, anche da quello stesso raccolto neî pascoli alpini di Tenda 
da Parlatore, e si ravvicina invece, come nota Parlatore stesso, a quelli di Col de 
l’Are presso Grenoble (Hb. Gen.). 

Lo stesso De Notaris nel descrivere criticamente la sua A. setacea, non accenna 
alla pubescenza delle guaine, che pure esiste nell’esemplare da lui inviato a Parla- 
tore. Il cartello di questo esemplare porta la scritta ex Alpibus Tendae e ex herb. 
H. B. Taurinensi di mano di De Notaris; è quindi una copia di altro, che però non 
esiste nell’Orto di Torino, e credo di non essere azzardato mettendo in dubbio l’esat- 
tezza di indicazioni di provenienza segnate su tale esemplare. 

Quantunque unico, il carattere della villosità e della glabrescenza delle guaine 
delle foglie cauline è così costante nei due gruppi di esemplari francesi e italiani, 
da poter valere per distinguerli; e fino a che altri disponendo di più abbondante 
materiale francese non riesca a delucidare meglio la questione, si debbono a mio 
avviso distinguere come specie a sè quelle forme italiane finora attribuite ad A. 
setacea Vill. Propongo la denominazione di A. lejocolea colla seguente diagnosi: 

Avena lejocolea n. sp. # Perennis, innovationibus omnino intravaginalibus, vaginis 
“ marcescentibus, limbo foliorum caduco, foliis convolutis, setaceis, vaginis glaberrimis, 
“ ligula obvolata, culmo erecto, panicula subaequante, spiculis trifloris, floribus inferio- 
“ ribus aristatis, superiore tabido, ari piloso ,. 

A. setacea Vill. “ Valde proxima, sed differt vaginis foliorum culmi semper gla- 
“ berrimis ,. 
“ Hab. in reg. subalpina Alpium Maritimarum et Cottiarum italicarum ,. 
Serie II. Tom. LXII. I 


66 G. GOLA 14 


Oltre che intorno a Limone, questa specie cresce pure assai frequente in Val 
Macra, al di sopra dei 1600 m., e quivi essa costituisce assai spesso nelle roccie di 
calceschisti uno degli elementi caratteristici della vegetazione rupestre. 

Le dimensioni della pianta sono quivi assai maggiori; le foglie non misurano 
mai meno di 30 ecm. di lunghezza, e talora raggiungono anche i 60 cm.; anche il loro 
diametro è in generale assai più grosso (u 480, contro 640 circa). Il loro perimetro 
è subcarenato, mentre è affatto semicircolare o circolare negli esemplari di Limone. 
Sono talora di un bel verde, più spesso intensamente glaucescenti, lungamente cigliate 
sui margini in corrispondenza dell'inserzione delle guaine. Le infiorescenze sono spesso 
assai più rieche e veramente panicolate, con i rami inferiori ternati, portanti cia- 
scuna fino a 5 spighette. 

Queste sono conformate come nell’A. setacea, ma talora, negli esemplari più 
robusti, anche il terzo fiore è staminifero e vi ha un rudimento del quarto; il terzo 
fiore, in tal caso, pur avendo glumette abbastanza bene sviluppate, è sempre mutico. 

Il portamento complessivo di questa pianta la fa distinguere abbastanza bene 
dal tipo delle A. Marittime, sopra descritto, ma salvo la lunghezza prevalentemente 
maggiore delle foglie, e la ricchezza maggiore dell’infiorescenza, non vi hanno ca- 
ratteri che valgano a separarla nettamente dal tipo, e la si può considerare come 
una Var. major. 

Di essa si hanno, come ricordai più sopra, due forme, l’una wviridis, l’altra 
glaucescens. 

La raccolsi abbondante in Val Macra, sopra Alma alla Rocca Pertus, nei Val- 
loni Tibert e Intersile, tra Albaretto e Celle Macra, presso Prazzo, sopra Ussolo, 
Acceglio, al L. di Visaisa, nel Vallone di Ciaramasco, ecc., 1900-1910, Ferrari, Gola. 

Un'altra forma poco frequente, ma pur degna di essere notata, è una f. brevifolia, 
caratterizzata dalla notevole brevità delle foglie basali, che raggiungono appena 1/3 
del culmo, mentre di solito gli sono press’a poco eguali. La osservai proveniente 
dal Colle Vaccarile (A. Marittime), Ferrari 18 e da Acceglio (V. Macra), 1909, Fer- 
rari, Gola. 


Avena sempervirens Vill. 
Prosp. Hist. PI. Daup., p. 17 (1779). 


Specie la cui presenza in Italia è stata più volte discussa e recentemente esclusa. 
Poichè essa è limitata all'Europa occidentale, molti foristi non ebbero opportunità 
di studiarla bene, onde sorsero confusioni con altre specie. 

Allioni (1) fu forse il primo fra i floristi italiani a cadere nell’equivoco, perchè 
indica come stazioni dell’A. sempervirens Vill. tanto quella delle A. Marittime, quanto 
quella del Cenisio (2); quest’ultima è meno accertata della prima non essendovi quivi che 
rarissima VA. sempervirens, ed essendovi molto frequente l’ Avena che Host descrisse 


(1) Auvioni, Auctarium ad Fl. Pedem., p. 45, n. 2258* (1889). 

(2) Ho osservato invero nell’Erbario fiorentino un esemplare di Huguenin di vera A. semper- 
virens Vill. raccolto supra Bard. Quantunque non vi siano ragioni per escludere affatto l'esattezza 
di tale indicazione, occorre tuttavia avere una certa cautela nell’ammetterla, perchè essa non è più 
stata confermata dai numerosissimi che hanno percorso la Valle di Susa, facendone una delle zone 
più intensamente esplorate dal punto di vista floristico. 


15) LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 67 
}l 


come A. sempervirens, e che è assai comune nell'Europa centrale e ben distinta dalla 
specie villarsiana per la forma delle innovazioni, pel diverso comportamento delle 
foglie vecchie nella marcescenza, per la lunghezza della ligula, ecc. 

Molti altri autori, sull'esempio di Host, ritennero identiche le due specie, quella 
di Villars e quella di Host. Tra questi Bertoloni e Parlatore. 

Fu Woods che rilevò l'errore di Host e di Parlatore e denominò A. Parlatorei 
la specie da questi confusa con A. sempervirens Vill.; Boissier chiamò con A. Hostù 
la stessa specie distinta da Host. 

L'A. sempervirens Vill. si distingue dunque dall’A. Parlatorei Woods per i cespi 
che sono assai più grossi e più ricchi di foglie, e proporzionatamente assai più 
poveri di culmi fertili, per la forma delle innovazioni che sono affatto intraguainanti; 
inoltre perchè le foglie delle annate precedenti perdono totalmente il lembo, e per- 
mangono a lungo colla sola guaina, in modo che si verifica una protezione formata 
da tessuti vecchi tutti terminati alla medesima altezza, come indicano assai bene 
Villars (1) e Mutel (2) nelle loro figure; si distingue inoltre per le foglie assai più 
rigide e più larghe, per la ligula assai ridotta e non lanceolata oblunga, per la 
statura maggiore, ecc. 

Secondo De Notaris (3) l'A. sempervirens indicata da Allioni delle Aipi Marittime 
non appartiene neppure alla specie di Villars con questo nome, ma alla A. fallax 
R. et S.(4); Parlatore ritenne errata questa determinazione notarisiana e ritenne gli 
esemplari italiani come appartenenti ad una specie a sè che chiamò A. Notaristi (5). 

Anche questa specie è conosciuta dai floristi italiani solo per le descrizioni che 
ne da Parlatore e per pochissimi esemplari di erbario provenienti dal versante sud 
delle A. Marittime. 

Quali relazioni esistano tra la specie parlatoreana e la A. sempervirens di Villars; 
se la sempervirens di Villars esista o no nella flora italiana, sono quesiti che un 
abbondante materiale raccolto nelle Alpi marittime mi permettono di studiare un 
po’ ampiamente. 

La prima diagnosi di Villars (Prosp., p. 17), Avena foltis rigidis, intus striatis, 
convolutis, spiculis bifloris, panicula ramosissima, è poco precisa e si presta a molte 
interpretazioni. 

Quella del medesimo autore pubblicata nell’Histoire: A. paniculata, calicibus 
trifloris hermaphroditis basi lanatis, folvis rigidis acutis, involutis sempervirentibus, non 
è pure molto precisa, e differisce dalla precedente specialmente in quanto indica 
spighette triflore e non biflore. 

Ma la descrizione che accompagna questa diagnosi è importante, perchè indica i 
cespi grandi, compatti, affatto caratteristici di questa specie, la glaucescenza delle 
foglie, la loro rigidità, la scabrosità della pagina superiore e la conformazione pia- 
neggiante e non convoluta delle foglie caulinari. 


(1) Vircars, Hist., tav. 5. 

(2) Mure, Flore de France, t. 82, 

(3) De NorazrIs, l. c., p. 24. 

(4) Roewer et ScHurze, Syst. veg., II, p. 672, 12 (1817). 
(5) Op. cit., I, p. 285. 


68 GIGOLA 16 


Tale descrizione fu fatta su esemplari del Delfinato, dove fu trovata per la 
prima volta. 

Più tardi tale specie fu trovata anche nei Pirenei e De Candolle che la descrisse, 
fondandosi su esemplari di entrambi i gruppi montuosi, aggiunse ai caratteri già 
noti: foglie glabre eccetto che in prossimità della guaina dove porta alcuni peli; 
alcune scaglie fogliacee cigliate in prossimità del colletto della radice; glume lucenti, 
due fiori fertili aristati ed uno sterile e mutico. 

Alla presenza di due fiori aristati e delle ciglia in prossimità delle guaine, 
accenna pure Duby. 

Mutel (1) in una descrizione assai accurata accenna pure alle foglie del culmo 
pianeggianti, ma indica come carattere essenziale la presenza d’una sola arista 
appartenente al primo fiore, mentre quella del secondo assai di rado esiste ed in 
tal caso è pochissimo sviluppata; egli convalida la sua asserzione riportando una 
frase di Villars modificante le diagnosi primitive: Calicibus subtrifloris hermaphro- 
ditis basi lanatis, unico aristato, e citando la figura nuova di Villars nella quale la 
spighetta è rappresentata uniaristata. 

Anche la figura bellissima aggiunta da Mutel conferma quanto è detto nella 
descrizione. Questa però è fondata unicamente su esemplari del Delfinato. 

Grenier e Godron si riferiscono press'a poco alla descrizione di Mutel e di 
Villars, e non fanno che riportare sulla fede di De Candolle e di Parlatore la località 
dei Pirenei. 

Parlatore, il quale, come è noto, non comprese affatto i caratteri della specie 
Villarsiana, confondendoli con quelli della specie a ligula oblunga che fu poi chiamata 
A. Parlatorei Woods (A. Hostiîù Boiss), descrisse come A. striata Lam. una Avena che 
lui stesso pose come sinonima di A. sempervirens De Candolle, e corrispondente in 
tutto allA. sempervirens Vill.; egli confrontò la sua specie cogli esemplari d’Erbario 
di De Candolle e la trovò eguale. La sua descrizione si fonda su esemplari dei 
Pirenei avuti da Bubani ed in essa fa cenno di un ciuffo di peli che si trovano in 
prossimità dell'inserzione del lembo fogliare sulla guaina. 

De Notaris (2), intanto, in uno studio inteso a dirimere le confusioni che si erano 
fatte a proposito dell'A. sempervirens Vill., aveva identificato con A. fallar R. et S. 
gli esemplari delle A. Marittime aventi ligula ridotta o mancante, ed affini assai 
alla A. sempervirens Vill., ma dalla quale si distinguevano per le spighette pluriaristate 
e non uniaristate come nella tipica specie Villarsiana. 

Parlatore che aveva già confuso la sempervirens di Villars con quella che è la 
Parlatorei, non si accorse della stretta affinità tra la fallax DN. e la sua striata, e 
poichè secondo lui la striata Lam. era identica alla fallax R. et S., fece della fallax 
di De Notaris una specie a sè, lA. Notarist. 

Ma mentre egli stesso identificava la sua nuova specie colla fallax D. N., non 
ne stabiliva però caratteri identici a quelli indicati dall’illustratore della flora ligu- 
stica. De Notaris insisteva sulla presenza di solo fiore aristato, e Parlatore parla 


(1) Op. cit., vol. III, p. 58; T. 81, fig. 597. 
(2) Op. cit., p. 24. 


17 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM ,, KOCH 69 


invece di “ flosculis 2-inferioribus aristatis, supremo abortivo ,, tuttavia dà come 
caratteri distintivi tra la sua e la specie dei Pirenei (A. striata Parl.), l'avere le 
foglie superiori piane o convolute (1), la ligula cigliolata o dentato-cigliata e mai 
lungamente cigliata, e l'avere l’asse del fiore abortivo poco peloso. 

Ora, chiunque abbia esaminato numerosi esemplari della sezione Avenastrum, si 
sarà facilmente convinto che il carattere della pubescenza più o meno spiccata del- 
l’asse del fiore sterile, è di valore affatto incerto, e che anche quello della presenza 
di un solo o più fiori aristati, è egualmente poco sicuro. 

Ho già ricordato come in altra specie (A. Zejocolea) si abbiano talora dei fiori 
aristati completi o no (ed il terzo costantemente abortivo e mutico); in essa ho tro- 
vato esemplari con due fiori completi aristati, il terzo staminifero e aristato, il quarto 
abortivo e mutico. In modo analogo si comportano le specie del gruppo dell'A. sem- 
pervirens Vill. Sopra 17 esemplari provenienti dal Delfinato ne ho osservati 8 aventi 
aristati il primo e il secondo fiore, 8 aventi aristato solo il primo fiore, ed uno nel 
quale l’arista del secondo fiore era debolissima. Di quelli dei Pirenei tre avevano 
l’arista nel primo e nel secondo, uno anche nel terzo fiore. 

Si deve osservare che l'esemplare ligure sul quale De Notaris ha fondato la 
sua determinazione di A. fallar è assai povero ed ha due culmi fioriferi nei quali 
ic stesso ho potuto osservare spighette biaristate, e che quello della medesima pro- 
venienza, che Parlatore ebbe da De Notaris, e sul quale egli fondò VA. Notarisii, è 
ancora più misero, e pure in esso sì osservano spighette uni e biflore. 

Tolto così ogni valore ai caratteri desumibili dalle spighette, rimangono quelli 
che si possono dedurre dalle forme delle foglie del culmo e dalla lunghezza delle 
ciglia situate in prossimità delle guaine. 

To ho avuto occasione di raccogliere e di studiare in quantità materiale italiano 
raccolto nell’Alta Val Tanaro tra Carnino (Carlin) e Briga, sopra Viozene, vale a 
dire ad uno dei vertici del triangolo Carnino, Rezzo, M. Toraggio, dove è stata finora 
segnalata in Italia la presenza dell’Avena studiata da De Notaris; anzi la località 
di Carnino presso la Sorgente delle Fuse, sarebbe una nuova da aggregarsi a quella 
di Rezzo, Frontero, M. Toraggio, finora conosciute. 

In questa stazione crescono numerosi e grossissimi cespi Gi questa Avena. Un 
primo esame sul posto indica già la presenza di due forme, l’una colle foglie basali 
più larghe, l’altra colle stesse foglie più strette, tutte canalicolate più o meno pro- 
fondamente nel fresco, rigide, ma perfettamente convolute solo nel secco. 

Raccolta in abbondanza, avendo cura di tenere ben distinti gli esemplari pro- 
venienti da ogni singolo cespo, essa presentò i seguenti caratteri: Foglie lineari 
convolute nel secco, ed in tali condizioni del diam. di mill. 1.5 in alcune piante, 
di 0.9-1 mm. in molte altre, lunghe 40-45 cm. rigide, psammiformi; talora un po’ 
scabre alla base sulle guaine per asperità volte all’ingiù, coi margini delle guaine 
stesse cigliato-scabri, con ligula brevissima tronca e ciglia brevi o brevissime in 
corrispondenza della ligula; e ciglia lunghe 1-2 mm. sui margini della parte inferiore 
del lembo fogliare e sporgenti fuori anche a lembo convoluto. 


(1) Già Mutel (op. cit., p. 61) accenna alle foglie culmeali che sono pianeggianti. 


70 G. GOLA 18 


Culmi alti 80-90 cm., 1-2 volte genicolati, colle foglie lungamente guainanti e 
pianeggianti, nel lembo anche nel secco, almeno per i 2/3 della loro lunghezza. 

Pannocchia ricca con i rami inferiori verticillati a quattro, portanti ciascuno 
fino a quattro spighette; queste sono o macchiate di violaceo, o giallastre a seconda 
del grado di maturazione, colle glume lucenti. Le spighette sono triflore, il fiore infe- 
riore ha glumette punteggiate scabre, opache, coll’inferiore aristata, e il secondo 
fiore è talora aristato, talora no, coll’asse lungamente barbato; il terzo è sterile col- 
l’asse del fiore o glabro, o appena peloso, o evidentemente peloso. 

Nello stesso corpo è dato incontrare pannocchie con spighette uni- o biaristate. 

Un confronto tra questi esemplari e quelli del Delfinato e dei Pirenei, mi ha 
permesso di accertarmi che pure il carattere della pubescenza dell’asse del fiore 
tabido è da mettere in disparte; negli esemplari di Gap vi hanno fiori tabescenti 
con asse peloso, o glabro, o addirittura villoso; gli assi glabri si trovano di prefe- 
renza nelle spighette uniaristate, quelli pelosi in quelle biaristate. 

Ho pure osservato che la pubescenza dell’asse tabido è in relazione collo stato 
di sviluppo del fiore che porta; talora manca addirittura il fiore tabido, talora è 
ridotto ad un asse con una leggiera espansione membranacea all’apice di 0,5 mm. di 
larghezza; talora infine si vedono bene accennate le due glumette: è in questi 
fiori meglio sviluppati che la pubescenza dell'asse raggiunge il massimo di sviluppo 
fino a differenziarsi in peli brevi patenti lungo l’asse, e in peli lunghi adpressi in 
prossimità della base dalle glumette. 

Questo sviluppo diverso delle spighette mi sembra in relazione coll’abito della 
pianta che le porta. 

Recentemente Fiori e Paoletti, e Ascherson e Graebner, i primi fondandosi vero- 
similmente su esemplari dell’Erbario di Firenze, il secondo su esemplari dell’Erbario 
di Genova, che tutti io ho potuto studiare, hanno indicato i seguenti caratteri dif- 
ferenziali tra la A. Notarisii e la A. sempervirens. 

1° Culmi di 10-15 dm. nella semp. e di 4-8 dm. nella Not. (Fiori). Ascherson 
invece indica un rapporto affatto opposto (semp. bis 80 dm. - 1 m.; Notar. Pflanze 
meist kraftig bis 1 M. hoch). 

2° Foglie e guaine assai scabre nella semp. e foglie e guaine poco scabre 
nella Not. (Fiori); Ascherson non fa cenno a tale carattere; io non lo ho constatato 
che su uno solo dei 32 cespi di Avena raccolti a Viozene e in nessuno di quelli 
francesi e spagnuoli di A. sempervirens, nè su quelli determinati come A. fallax 
da D N., o Notarisiù da Parlatore, Bicknell, Burnat, degli erbarii sopra ricordati. 

3° Linguetta cigliata nella semp., e linguetta cigliolata nella Not. (Fiori); 
Ascherson non accenna neppure a ciò, ed io ho osservato che la lunghezza delle 
ciglia delle ligule è assai notevole negli esemplari dei Pirenei (H. Flor., H. Gen.); 
in quelli delle Alpi francesi si hanno esemplari a ligula brevemente o lungamente 
cigliata; e di lunghezza variabile, ma sempre poco notevole, sono le ciglia delle ligule 
degli esemplari piemontesi da me raccolti, di quelli distribuiti da Bicknell e di quelli 
autoptici di De Notariis e di Parlatore. Un esemplare di Burnat di Frontero (H. Flor.) 
consta di un pezzo nel quale le ciglia sono alquanto più lunghe, e ricordano quelle 
di alcuni esemplari francesi. 


“« 


19 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 71 


4° Asse del fiore abortivo barbato nella semper. e appena peloso nella Not. 
(Fiori). Sul valore di tale carattere mi sono trattenuto più sopra. 

Tutti questi caratteri differenziali, non reggono, come si vede, ad un esame 
eseguito su materiale abbondante, e Ascherson e Graebner stessi dicono che una netta 
distinzione tra sempervirens e Notarisiù non è possibile farla. 

Da tutto l'esame che ho eseguito su materiale italiano ed extra italiano, io sono 
portato a conchiudere che nell’A. sempervirens Vill. si possono distinguere tre gruppi 
di forme caratterizzati da un abito più o meno xerofitico: l’uno a foglie più rigide 
psammiformi tutte convolute e a ciglia ligulari assai lunghe; un altro a foglie più 
sottili, più lunghe, meno rigide, poco cigliate in corrispondenza della ligula, ed un 
po’ convolute anche quelle del culmo; un terzo gruppo a foglie basilari meno rigide 
anche nel secco, meno strettamente convolute, a ligule glabre o quasi, e a foglie 
caulinari spianate per Ja massima parte anche nel secco. 

Al primo gruppo si debbono ascrivere tutti gli esemplari dei Pirenei che ho 
potuto vedere, e molti di quelli francesi. 

Nè debbono mancarne individui in Italia, a quanto si può arguire da un esem- 
plare di Frontero (Leg. Burnat in H. Flor. sub A. Notarisù), il quale consta di due 
pezzi, l’uno dei quali per le foglie strette, rigide, psammiformi, lungamente cigliate 
in corrispondenza della ligula, è da ascriversi al primo gruppo che ho testè 
indicato. 

Al secondo gruppo appartengono numerosi esemplari francesi e la massima parte 
di quelli italiani che ho studiato. 

Quelli studiati da De Notaris e da Parlatore, e alcuni di quelli da me raccolti 
a Viozene, sono da ascriversi al terzo gruppo. 

In relazione con tale abito xerofitico più o meno accentuato, stanno talora, ma 
non sempre, lo sviluppo maggiore o minore dei tre fiori di ciascuna spighetta, quindi 
la differenziazione maggiore delle ariste del secondo fiore e la diversa differenzia- 
zione del terzo fiore, colla conseguente diversa pubescenza dell’asse del fiore stesso. 

Io non pretendo affatto, per la scarsità del materiale osservato, stabilire la posi- 
zione sistematica degli esemplari francesi e spagnuoli di A. sempervirens; quanto ai 
nostri io credo di poterne distinguere tre forme caratterizzate unicamente dalle 
forme delle foglie: 

a) psammifolia (Pirenei, Alpi francesi), Frontero (un pezzo). Leg. Burnat. 

5) longifolia (Alpi francesi), Frontero, Carnino (Ormea), M. Toraggio, Rezzo, 
Cenisio (1). 

c) latifolia, Carnino (Ormea), Frontero = A. fallax D N = A. Notarisii Parl. 


Avena bromoides Gouan Hort. monsp. 52. 


Le flore la indicano di qualche località del Piemonte, e precisamente dei Colli 
di Cavoretto presso Torino (2) e dei Colli di Ameno presso il Lago d’Orta (3). 


(1) Secondo l’esemplare raccolto da Huguenin (supra Bard) HF, vedi nota 2 a pag. 14. 
(2) Barers, Flora taurinensis, p. 22 (1806); Re, Flora torinese, I, p. 81, 1825. 
(3) Brrori, Flora aconiensis, I, p. 35 (1808). 


SI 
DO 


G. GOLA 20 


Ma in entrambe queste località è molto rara, perchè nelle numerosissime erbo- 
rizzazioni ivi eseguite in seguito, quantunque, a vero dire, non ne sia stata fatta 
apposita ricerca, non è mai stato dato raccoglierla. 

To non ne ho veduti che esemplari raccolti nel 1815 HP; 1827 HF, dei Colli 
di Torino, ed esemplari con data imprecisata dei Colli di Ameno dall’Erbario Biroli. 
Anzi in questi ultimi si trovano due forme, l’una con i caratteri proprii dell’ A. bro- 
moides tipica, l’altra avente tutte le glume 5-nervie e le spighette grandi con 
10-12 fiori. 


Avena versicolor Vill. Prosp. Hist. PI. Dauph., p. 17 = A. Scheuchzeri All. 


Per non lasciare lacuna nella enumerazione delle specie. piemontesi della sez. 
Avenastrum faccio cenno anche di questa Avena. 

Essa è frequentissima in tutta la catena alpina dalla Val Tanaro alla Valle 
d’Ossola, e si presenta ovunque con assoluta uniformità di caratteri, salvo la statura 
un po’ variabile specialmente con l'elevazione della stazione. Nulla perciò vi è da 
osservare a proposito di tale specie. 


Avena pratensis L., sp. PI., p. 80. 


È abbastanza frequente in tutta la catena alpina e appennina del Piemonte, 
dove presenta, anche nelle stazioni più diverse, una notevole uniformità di caratteri, 
identici del resto a quelli degli esemplari provenienti da varie regioni italiane e 
europee. 


Avena alpina Smith. 


AIl’A. pratensis si debbono collegare alcune forme interessanti, che io ho avuto 
occasione di studiare negli Erbarii piemontesi e che sono intermedii tra l'A. pratensis L. 
e lA. planiculmis Schrad. 

Tra lo sbocco della Valle di Susa e quello della Valle di Lanzo e probabilmente 
anche nella stessa Valle di Lanzo, vennero raccolti numerosi esemplari che non si 
possono affatto identificare con alcuni di questi due tipi. 

Accenno appena ad alcuni pochissimi campioni e per di più incompleti, i quali 
differiscono dall’ A. pratensis solo per avere le foglie piane, anzichè convolute 
(mm. 2-3 di largh.), e assai scabre al margine, e per avere qualche spighetta geminata 
sulla rachide. 

Essi vennero raccolti sul M. Musinè (Torino) da Ungern Sternberg, 1879, e in 
località incerte del Piemonte, quali si deducono da un esemplare dell’ Erbario Biroli 
colla indicazione: Mont Genèvre-Aosta, dans les prés secs des montagnes. Due esem- 
plari di Avena conservati nell’Erbario di Firenze (sub. A. prat.), e uno della Flora 
exsiccata austro-hungarica (n. 3496 sub. Avenastrum alpinum), si ravvicinano assai 
a quelli che ho testè ricordati, specialmente per la povertà dell’infiorescenza. 


21 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 73 


Assai più spiccati sono i caratteri che si possono ritrovare in un altro gruppo 
d’esemplari raccolti abbondanti nei dintorni di Torino (181... Bertero ex Hb. flor., 
sub. A. bromotdes), sul M. Musinè (Torino) da Delponte nel 184..., e sopra a Givoletto 
(Torino) nel Vallone di Fiano (1892, E. Ferrari). Lo sviluppo di tutta la pianta è 
assai maggiore: 1 m.-1,20 m.; le foglie tanto basali che culmeali sono assai più 
numerose, più larghe 4-6 mm., le guaine sono compresso-carenate, specialmente quelle 
situate alla base del culmo. La superficie poi è liscia sulle guaine, scaberrima sui 
margini della lamina. La pannocchia è più ricca che negli esemplari precedentemente 
ricordati, a rami per lo più geminati, di rado verticillati, e di ogni coppia di rami 
uno è unifloro, mentre l’altro porta tre o quattro spighette; queste sono assai più 
grandi e più ricche di fiori che non l’A. pratensis (18-25 mm.). 

L’habitus della pannocchia corrisponde assai a quello figurato da Reichembach 
sotto il nome di A. alpina (1), e fino a un certo punto può confondersi con quello 
dell'A. planiculmis Schrad. (2). 

Anche i caratteri complessivi della pianta corrispondono con quelli indicati da 
Smith per l'A. alpina (A. planiculmis Smith, non Schrad), e da Koch (3) per lA. al- 
pina; è vero che in alcuni di essi le guaine sono scabre, in altri liscie, ma, come 
avverte Hackel, nell’A. alpina questo carattere è assai incostante. 

Così pure io non ho trovato attendibile il carattere desunto dalla posizione della 
resta dorsale, al quale alcuni autori dànno importanza. 

Esemplari simili a questi piemontesi sono abbastanza frequenti negli erbarii. Ne 
ho osservato delle seguenti provenienze: Alpi Giulie a Vochein, 1875 (exsicc. Soc. 
helv.) HP. HF. (sub. A. alpina); Transilvania presso Nagy Enyed (Flora exsicc. 
austro-hung. n. 1498) HF. (sub. A. planiculmis Schr.); Transbaikalia lungo il f. Schilka 
(sub. A. planiculmis) HF.; Giura svizzero presso Chaumont, Soc. helv. (sub. A. pra- 
fensîis) HF.; Monti di Scozia H. F. (sub. A. alpina Sm.). 

Un terzo gruppo di esemplari è quello che provîene anch’esso dalle vicinanze 
di Torino, e precisamente dai Colli Torinesi presso Superga; essi sono già stati stu- 
diati e descritti dal Prof. A. Belli sotto il nome di A. planiculmis B taurinensis 
Belli (4). 

In essi le guaine fogliari sono un po’ più evidentemente compresse, le lamine 
sono più larghe (fino a 7 mm.), l’infiorescenza è costituita talora di rami guainati 
plurifiori, talora di parecchi rametti verticillati, ciascuno però unifloro o assai di rado 
bifloro. 

Questa disposizione a verticilli dei rami è caratteristica dell'A. planiculmis Schrad., 
e gli esemplari di questo gruppo si possono quindi ravvicinare assai all’A. plani- 
culmis, ma non si possono identificare con essa. 

L'A. planiculmis Schrad. è, come è noto, assai più robusta, a foglie più larghe 
e più numerose; queste sono scabre sulle guaine; le guaine sono assai più appiattite. 


(1) RercaemBAca, Iconogr., vol. I, T. 103, fig. 1702 (1834). 

(2) ScarapER, Flora germanica, T. I, p. 381, tav. 6, fig. 2 (1806). 
(3) Koca, Synopsis FI. Germ. et Hel., II ed., p. 918. 

(4) Berti S., in “ Malpighia ,, IV, p. 363 (1890). 


Serie II. Tom. LXII. J 


T4 G. GOLA 22 


L'infiorescenza è più ricca, più grossa, la disposizione a verticillastri delle spighette 
è assai più evidente, e dei rami che se ne partono, alcuni hanno 3-4 fiori. 

Dell’A. planiculmis Schrad. tipica io non ho osservato l’esistenza in Piemonte, 
ma essa non manca all’Italia, quantunque non vi sia mai stata indicata finora. 

Io ho avuto occasione di osservare un esemplare nell’ Erbario Cesatiano del 
R. Istituto Botanico di Roma, portante l’etichetta seguente: 


Bromus cincinnatus var. Ten. fr. Neap. ex. eius herb. 
A. pratensis B Presl. et Guss. 
Calabria Specim. autent. Auctoris! 
Quando fit, quod haec stirps a Cl. Parlatore in FI. Ital. I. 283 ex autopsia in 
specim. ipsissimi Auctoris pro Avena australi me declaretur ? 


Il dubbio espresso da Cesati è affatto legittimo se si considera l'esemplare da 
lui annotato, ed invece è assai probabilmente nel vero Parlatore quando identifica 
il B. cincinnatus Ten. colla A. australis sua, se si tien conto della descrizione e della 
figura che ne dà Tenore nella sua Flora napolitana (1). 

L’equivoco si spiega facilmente se si pensa che Tenore ha descritto col mede- 
simo nome specifico due piante affatto distinte. Infatti nella Sylloge Fl. neap. (2). 
oltre che del tipo B. cincinnatus, è fatta menzione di una var. C. “ foliîs disticis, 
lato-lanceolatis, scaberrimis, margine et carina serrulato-ciliatis ,. E l'Autore aggiunge: 
“ In pascuis montosis Matese ,; Monti di Abruzzo, Gargano, Per.; e inoltre: Obs. 
Bromi insignis varietas et forsan species propria. 

Ora l'esemplare dell’Erbario Cesati porta l'indicazione: Bromus cincinnatus var., e 
corrisponde, per i caratteri, a quelli delle varietà e non del tipo, quale è descritto 
nella Sylloge, e più diffusamente nel testo e nella iconographia della Flora neap. 

Non vi ha dubbio poi che quello da me veduto dell'Appennino e proveniente 
dall’erbario tenoreano non si debba ascrivere ad A. plamiculmis Schrad., specie, 
come dissi, non ancora segnalata in Italia, frequentissima invece nella Penisola Bal- 
canica. La presenza nell'Appennino meridionale di tale pianta, è interessante non 
solo come aggiunta semplicemente statistica al censimento delle piante italiane, ma 
specialmente perchè è un indice di più dell’affinità che lega la Flora appenninica a 
quella balcanica. 

Quanto alla esatta posizione sistematica del B. cincinnatus tipico di Ten., io 
non ho avuto occasione di esaminare esemplari autentici, ciò che del resto era fuori 
del compito prefissomi; ed è assai verosimile che sia corrispondente al vero l’opi- 
nione di Parlatore. 

Ritornando ora agli esemplari piemontesi, conviene determinarne la posizione 
sistematica. 

Sotto il nome di A. alpina Sm. sono state riunite molte forme le quali costi- 
tuiscono altrettanti termini di passaggio tra l’A. pratensis e lA. planiculmis. Questo 
lascia anche adito al dubbio se lA. alpina Sm. sia da ritenersi come una vera e 


(1) Tenore M., Flora neapolitana, vol. III, p. 85, tav. 104. 
(2) Tenore M., SyUoge plantarum vascularium FI. neap., p. 49. 


23 LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 75 


propria entità specifica, o se le forme ad essa attribuite non siano da riferirsi come 
varietà alle due specie affini A. pratensis ed A. planiculmis. 

La difficoltà di avere in gran numero esemplari di A. alpina, la cui area di 
distribuzione è prevalentemente extraitaliana, non mi permettono di studiare l’argo- 
mento in modo da risolvere il dubbio. Ma ricordo che anche Hackel avverte che 
nella Serbia e nella Transilvania sono frequentissime le forme intermedie tra VA. 
planiculmis e VA. pratensis (1). : 

Così pure il Vierhapper (2) ricorda come forme intermedie tra queste due, e 
variamente interpretate dagli autori, le seguenti: 


A. pratensis del Tirolo in Herb. Kerner. 

A. planiculmis v. B Taurinensis Belli, 1. c. 

A. planiculmis (3) di parecchie stazioni della Carinzia e della Stiria. 
A. praeusta (4) Rechb. del Carso. 

A. alpina Sm. delle Alpi e dei Carpazii. 

A. pratensis v. subdecurrens Borbas (5) dell'Ungheria centrale. 

A. scabra Kit. dell’Ungh. settentrionale. 

A. adsurgens Schur. (6) della Transilvania. 


Non avendo per ora ragioni sufficienti per negare autonomia specifica alle forme 
raccolte sotto il nome di A. alpine, ritengo che tutti gli esemplari piemontesi da 
me sopra descritti si debbano ascrivere alle A. alpina Sm. (7). 

Quelli del primo gruppo, che tanto si avvicinano all’A. pratensis, ne potranno 
forse essere distinti come varietà quando si potrà disporre di materiale più abbon- 
dante, e meglio conservato di quello da me avuto tra mani. 

Quelli del secondo gruppo si possono perfettamente identificare cogli esemplari 
scozzesi e colla diagnosi di Smith, onde credo non vi sia dubbio ascriverli alla tipica 
A. alpina Smith (A. planiculmis Sm. non Schrad). 

Quanto a quelli della Collina di Torino, essi non corrispondono, per quanto io 
sappia, ad alcuna forma stata fin qui indicata nel gruppo dell’A. alpina. 

Essi vanno quindi distinti come varietà separata, come del resto ha fatto il 
Prof. Belli, che li ha per primo descritti. 

Non convengo tuttavia coll’egregio Professore nell’ascrivere tale varietà all’A. 
planiculmis piuttosto che all’A. alpina. 

La forma dei Colli di Torino si differenzia dalla A. plariculmis Schrad, oltre che 
per le guaine fogliari glabre e pel colore delle spighette, anche per le foglie assai 
più strette sia nella guaina che nel lembo; e più ancora per la forma dell’infiore- 


(1) Cfr. Berni S., l. c. 

(2) Schedae ad FI. exsicc. austro-hung. n. 3496. 

(3) PacHer u. JasornEGG, Flora von Kirnten, I, 1, p. 135 (1881); Mary, Flora von Steyermark, p. 27 
(1868); Reisswana, Oesterr. bot. Zeitsch., XXXV (1885), p. 262; Viernapper, Verh. zool. bot. Ges., Wien, 
XLVII, p. 104 (1898), XLIX p. 398 (1899), LI, p. 552 (1901). 

(4) RercaemBAca, F/. germ. exsice., I, add., p. 140° (1830-32). 

(5) Borsas, Oesterr. bot. Zeitsch., XXVIII, p. 135 (1878). 

(6) Scaur, Enum. pl. Trans., p.762 (1866). 

(7) Swra, Trans. Linn. Soc., X, p.335 (1811). 


76 G. GOLA — LE AVENE PIEMONTESI DELLA SEZ. “ AVENASTRUM , KOCH 24 


scenza, nella quale non sempre si osservano le ramificazioni disposte a verticillastri, 
come è caratteristico della specie, e come ha rilevato Schrader nella sua deseri- 
zione (1). 

Si ravvicina invece assai più all’A. alpina per le dimensioni delle foglie, per 
la glabrescenza delle guaine, per la forma dell’infiorescenza. 

To propongo perciò di ascrivere tale forma a Avena alpina Sm. var. Belliana 
mihi = A. planiculmis var. 8 Taurinensis Belli, colla seguente frase diagnostica. 
“ Differt a typo foliis latioribus, vaginis valde compressis, panicula ramis interdum 
subverticillatis ,. 

Assai interessanti sono per la Flora piemontese queste stazioni di A. alpina. 
Esse rappresentano l'estremo limite occidentale nella valle del Po di una specie 
avente un’area di distribuzione affatto orientale (2). Nelle stazioni situate tra le 
Valli di Lanzo e di Susa essa non è sola, ma vi sono parecchie altre specie a distri- 
buzione nettamente orientale: si trovano nelle vicinanze: Iris bohemica Schmidt, 
Adenophora liliifolia, Campanula tenuifolia Hoffm., Pleurospermum austriacum, Senecio 
aquaticus, Orchis papilionacea, ecc. 


Torino. R. Orto Botanico. Gennaio 1911. 


(1) Anche ReicHemBacH (1. ec.) accenna a tale carattere dell’infiorescenza: habitu (l'A. praeusta)... 
A. planiculmis (sed folia multo angustiora, vaginae arctae vix compressae, spiculae non fasciculatae, 
sed alternatim subracemorae, nec albo hyalinae, bracteolae angustiores)..... 

(2) L’A. alpina si trova anche nella Siberia Orientale; dell'A. planiculmis ho veduto un esem- 
plare dell’Himalaja; nell'Europa Settentrionale si trovano stazioni di A. alpina nel Giura, nei Vosgi 
e nella Scozia. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 


Fig. 1. Avena lejocolea mihi. Pianta intiera. 

» 2. A. planiculmis Schrad., dall’esemplare tenoreano (sub Bromus cincinnatus Ten. vari), 
dall’Erbario Cesati di Roma. Pianta intiera. 

. lejocolea mihi var. major. Pianta intiera. 

. alpina Smith. Pianta intiera. 

. sempervirens Vill. f. latifolia = A. Notaristi Parl. Sez. trasversale di lamina fogliare. 
ImerS3/f. 

. sempervirens Vill. f. longifolia. Sez. id. id. Ingr. ?°/,. 

. lejocolea mihi var. major. Sez. id. id. Ingr. 98/,. 

. Parlatorei Woods. Sez. id. id. Ingr. 4°/,. 

. alpina Smith. var. Belliana mihi = A. planiculmis var. taurinensis Belli. Sez. id. id. 
asa WE 

. alpina Smith. Sez. id. id. Ingr. 8°/,. 

. pratensis L. Sez. id. id. Ingr. 88/,. 

. montana Vill. f. planifolia. Sez. id. id. Ingr. ®8/,. 


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G. GOLA - Le Avenae Piemontesi della sez. Avenastrum Koch. Memozie della S. Acc. delfe Scienze di Sozino, Serie Il. Vol, LXII, 


Fig, 10 Fig.11 Fig, 12 


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SUL VALORE SISTEMATICO 


DEL 


TEGUMENTO SEMINALE DELLE “ VICIBAB® (0.0) ITALIANE 


MEMORIA 


DELLA 


Dott.2 GIULIA GIARDINELLI 


(CON UNA TAVOLA) 


Approvata nell'adunanza del 1° Gennaio 1911. 


La famiglia delle Leguminose è una delle più naturali che annoveri il Regno 
vegetale. La straordinaria affinità di caratteri, che lega le numerosissime specie in 
essa riunite, si rende ancora più manifesta se si restringe la comparazione ad ag- 
gruppamenti sempre meno ampii di questa famiglia. E specialmente nelle Papilio- 
nacee tutti gli organi di esse, l'apparato radicale per la simbiosi coi bacteroidi, le 
foglie munite di stipole e a struttura fondamentalmente pennata, i fiori, per la parti- 
colare disposizione dei loro organi, il frutto a baccello, offrono una serie evidente di 
caratteri, divergenti assai di poco dall’una all’altra specie. 

Anche i semi manifestano tutti una notevole analogia fra loro, per lo sviluppo 
scarso dell’albume, per la grandezza dei cotiledoni, per la forma dei granuli d’amido, 
e sopratutto per la struttura del tegumento seminale, nel quale è dato osservare 
una struttura morfologica ed anatomica, fondamentalmente identiche in tutte le specie, 
e per alcuni caratteri, esclusive alle Papilionacee. — La tribù delle Vicioidee ha 
anch'essa una notevole omogeneità di caratteri, tanto che la distinzione di alcuni 
dei generi principali che la formano, è stata spesso oggetto di incertezza, e tutt'ora 
ad esempio sono parecchi gli autori, che pongono il gen. Orobus sotto il gen. affine 
Lathyrus, e il gen. Ervum sotto quello di Vicia; e nell'esame della sinonimia, sono 
parecchie le specie, che hanno doppia denominazione di Vicia e Lathyrus. — Nei 
semi poi l'affinità di struttura è assai grande, onde se la grandezza e la forma 
esterna, non lasciano alcun dubbio, nel distinguere ad es. la V. Faba L. dalla V. hir- 
suta L., o da un Erv. Lens L., occorre molto spesso di non trovare, nella morfo- 
logia esterna, dei caratteri sufficienti, per distinguere un seme appartenente al 
gen. Vicia, da un altro, appartenente al gen. Lathyrus. 


I 


ì GIULIA GIARDINELLI 2 


Tale difficoltà di diagnosi fu quella che consigliò al Professore 0. Mattirolo, 
l’utilità di uno studio più accurato della struttura dei tegumenti seminali delle 
specie della tribù delle Viciee, allo scopo specialmente, sia di trovare in un’even- 
tuale sistemazione del gruppo, nuovi caratteri desunti dalla struttura dei semi, sia 
per trarne indirizzo ad un riconoscimento delle diverse specie, quando si avessero 
a disposizione solo dei semi. 

Tale studio potrebbe del resto avere anche delle applicazioni pratiche, quale il 
riconoscimento di semi di specie velenose, frammisti a semi di importanza alimen- 
tare (Leguminose a glucosidi cianogenetici o a sostanze tossiche varie, Lathyrus) e 
la determinazione della provenienza dei grani, fondata sull’esame delle impurezze (1). 
Di tale questione mi sono già occupata in altro lavoro. Limitai questo studio alle 
sole specie italiane, essendo difficilissimo procurarsi materiale completo di tutte le 
specie esistenti, e ancor più difficile il possedere campioni assolutamente sicuri. 

Oltre che dalle ricche collezioni di semi dell'Orto Botanico di Torino, ho avuto 
il materiale di osservazione anche da altri Orti Botanici. — E ringrazio specialmente 
i Professori Baccarini, Pirotta e Buscalioni, i quali inviarono semi di Vicioidee dalle 
collezioni degli Istituti da loro diretti. — La massima parte dei campioni la debbo 
all’interessamento del Prof. Mattirolo, ed a Lui debbo ancora i più vivi ringrazia- 
menti per il validissimo aiuto di mezzi e di consigli avuti nel corso delle ricerche. 
— Sentitamente e vivamente ringrazio il Prof. Gola, per la cura assidua colla quale 
seguì le mie ricerche. 


Generalità sulla struttura del tegumento seminale. 


Prima di iniziare lo studio anatomico del tegumento seminale delle Vicioidee, 
è bene passare in esame i caratteri esterni di questi semi, che, se non sono tanto 
caratteristici da poter servire ad una distinzione fra le diverse specie, sono in al- 
cuni casi un valido aiuto per la distinzione stessa (2). — La forma predominante 
di questi semi è la sferica, comunissima specialmente nel genere Lathyrus, e in- 
vece fortemente modificata nel genere Vicia, dove, a lato di forme isodiametriche, 
si notano forme in cui un diametro prevale sugli altri due, determinando così una 
forma lenticolare, tipica nel sottogen. Lens. — In altri casi, come nella V. Faba L., 
i tre diametri sono assolutamente differenti, e si hanno forme appiattite, allungate. 


(!) Grarpinenti G., Sul riconoscimento e sulla determinazione dei semi delle differenti specie di 
Veccia contenuti nelle crusche, “ Mem. R. Ace. Agrie. ,, Torino, 1910. 

(®) È affatto fuor di luogo, ch'io mi intrattenga a descrivere le generalità di struttura del tegu- 
mento seminale delle Lesuminose, che ha già fatto oggetto di molte ricerche, e per le quali rimando 
al lavoro monografico dei Proff. Mattirolo e Buscalioni su tale speciale argomento (MartIRoLo 0. e 
Buscationi L., Ricerche anatomo-fisiologiche sui tegumenti seminali delle Papilionacee, “ Mem. della i 
R. Acc. delle Sc. di Torino ,, Serie II, vol. XLII, 1892). 

In quest'opera, è trattata in modo particolare la struttura di alcune Viciue: ed oltre a ciò si 
trovano nella letteratura accenni alla struttura di tali semi, in opere di diagnostica delle sostanze 
alimentari; ma sopratutto in Harz, Samenkunde, nella quale sono esaurientemente descritte alcune 
Vicioidee (Harz, Landwirtschaftliche Samenkiinde, BA. II, Berlin, 1885). 


3 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 79 


Nelle altre specie le forme che spesso si incontrano, differenti dalla sferoidale, si 
possono spiegare colla mutua compressione che i semi subiscono nel legume; onde 
semi appiattiti ai due poli, o semi a tipo angoloso. Degna di nota è la V. Ervilia L., 
di aspetto prismatico piramidale caratteristico. — Del resto si osserva nella forma 
di questi semi, una grande omogeneità, omogeneità che si riscontra invece ben poco 
nelle dimensioni loro. — Infatti si passa dai semi grossissimi della V. Faba L. a 
quelli piccolissimi della V. Rirsuta, e fra questi due tipi estremi si hanno le di- 
mensioni più varie. — La colorazione è pure variabile, da tinta verdastra alla 
brunastra. Rari sono i semi di Viciae italiane scolorati, il che si osserva invece 
in alcune specie esotiche (es. V. Lòveana Steud.). Molto spesso si hanno colorazioni 
giallastre, o tinte generalmente chiare, dipendenti dalla distruzione della clorofilla, 
durante la completa maturazione del seme. — Talvolta la colorazione chiara è af- 
fatto superficiale, ed è dovuta ad un sottile rivestimento granuloso, tolto il quale, 
ricompare la pigmentazione solita oscura del tegumento. Questa pigmentazione è 
data da sostanze di natura albuminosa o tannica, che hanno la loro sede nei di- 
versi strati del tegumento, come vedremo più oltre. In generale la colorazione della 
superficie del tegumento può servire a caratterizzare alcune specie, ma ciò non è 
sempre costante, e del resto, è a tutti noto, come nei vicini Phaseolus le variazioni 
di colore del pigmento non siano in rapporto che con semplici razze. — La super- 
ficie esterna di questo tegumento appare pure molto diversa. Così si hanno dei semi 
lisci quasi splendenti, per la terminazione delle malpighiane in punta addirittura 
tronca (es. L. Aphaca L.). Si hanno dei semi di aspetto opaco, o leggermente vel- 
lutato, dovuto al fatto che le malpighiane terminano in fini papille ottuse e legger- 
mente acute. Quando finalmente parecchie di queste malpighiane emergono insieme 
unite, allora la superficie dei semi è ora più, ora meno rugosa (es. L. annuus L., 
L. hirsutus L.). Un aspetto particolare si riscontra nel L. heterophyllus L., dove le 
piccole sporgenze, rappresentate dalle papille, sono separate da piccole rientranze, 
di modo che la superficie di questi semi si può chiamare solcato-verrucosa. E final- 
mente è degno di nota il Cicer arietinum L., la rugosità della cui superficie è data 
da sottili creste lineari, secondo le quali sono orientate le malpighiane. — Ancora 
sulla superficie del tegumento, disposti in serie longitudinale, in corrispondenza della 
punta radicale dell'embrione, spiccano i tre organi più caratteristici dei semi delle 
leguminose: il micropilo, il chilario e i tubercoli gemini. L'esame esterno di questi tre 
organi non fa risaltare nulla di caratteristico. La linea di commessura fra le due labbra 
chilariali spicca spesso più chiara sulla superficie scura del seme, oppure si con- 
fonde col colore complessivo di essa, in generale però è ben visibile anche ad occhio 
nudo. Essa giace in una depressione, detta appunto depressione chilariale, le cui di- 
mensioni di lunghezza e di larghezza sono varie. — Da misure fatte risulta in molti 
casi, che nelle Viciae si hanno delle superfici chilariali molto lunghe e strette, 
mentre nei Lathyrus sono generalmente corte e larghe. 

Si crederebbe per questo di poter affermare che esiste in questo campo una 
differenza tra Viciae e Lathyrus; ma la regola subisce una contradizione decisa, 
davanti al caso, per es., della V. nardonensis L., con chilario cortissimo, in rapporto 
alla circonferenza del seme. — La superficie chilariale è delimitata da due linee, 
le quali, in molti casi, decorrono parallele fra loro, in altre decorrono descrivendo 


80 GIULIA GIARDINELLI 4 


un’ellissi, e questa forma dell’area chilariale può essere utilizzata come carattere 
diagnostico. Quanto poi alla posizione, il chilario è posto ora su un lato, ora su 
una faccia del seme, se questo è appiattito; oppure ad uno dei poli. 

I tubercoli gemini sono pochissimo visibili, però un po’ più sviluppati nel ge- 
nere Lathyrus che nel gen. Vicia. Così pure il foro micropilare. L’albume è pochis- 
simo sviluppato ed è fra il tegumento e i cotiledoni. 

Un ultimo carattere che merita attenzione, è quello dello spessore del tegu- 
mento, in cui, sia nelle specie del gen. Vicia, che del gen. Lathyrus, si verificano 
dei casi estremi (es. V. Ervilia L. u 92, 50. — V. Faba L. u 480). Però, si può 
dire, con una certa sicurezza, che nel gen. Lathyrus è più frequente trovare tegu- 
menti di spessore considerevole, quantunque non manchino le specie a tegumento 
sottile (L. sawatilis Vent. Vis.). Così pure è interessante conoscere lo spessore dei 
singoli strati, di cui il tegumento si compone. E da ciò risulta che i due strati pre- 
. dominanti per spessore sono quello delle malpighiane e lo strato profondo. — Nel 
misurare lo strato delle malpighiane, bisogna fare una speciale considerazione per 
quelle specie, come il L. annuus L., in cui il tegumento si presenta ondulato. In 
questi casi, lo spessore varia in corrispondenza della gibbosità e delle vallecole. — 
E così nell'esempio suaccennato si ha u 339, 85 in media, in corrispondenza della 
gibbosità, e u 239, 18 in media, in corrispondenza delle vallecole adiacenti. — Lo 
strato delle cellule a colonna non prevale mai per lo spessore sugli altri due, e in 
nessun caso segue le ondulazioni proprie allo strato malpighiano del tegumento di 
molte specie. 

Il tessuto profondo finalmente, talora è sottile, talora eguale allo strato delle 
malpighiane, e in molte specie è il più importante per questo carattere dello spessore. 

Ed ora passiamo a vedere come è fatto anatomicamente il tegumento di questi 
semi: esso risulta, come è noto, dello strato delle malpighiane, strato delle cellule 
a colonna e tessuto profondo. — Vario è dunque il loro spessore, ma in nessun 
caso l’uno di essi è mancante. 

A) Strato delle cellule malpighiane: esso è costituito di cellule, tutte ravvicinate, 
a guisa di palizzata, fortemente allungate, a sezione poligonale. Verso l’estremità 
inferiore sono leggermente convesse, e, verso l’estremità superiore, tronche in alcune 
specie, in altre più o meno coniche o appuntite. Vario è il loro lume cellulare, ora 
ampio e visibilissimo, ora assai stretto, e a volte (es. V. Faba L.) presentante dei 
rigonfiamenti o dei restringimenti, questi ultimi specialmente nella zona della linea 
lucida. 

La parte più caratteristica e differenziata di queste cellule è la parte apicale, 
che ha modi svariatissimi di presentarsi e da cui derivano i vari aspetti esterni, a 
cui abbiamo accennato. In alcune specie (specialmente nel gen. Lathyrus) il mar- 
gine dello strato malpighiano appare più o meno profondamente ondulato, per la 
presenza di grosse papille, formate dalla riunione in gruppi di un numero vario di 
malpighiane, costituenti appunto delle sporgenze ora arrotondate, ora acute (esempio 
L. annuus L. o L. setifolius L.). Queste grosse papille sono quelle appunto, che danno 
al seme una rugosità evidentissima anche ad occhio nudo. 

Quando le malpighiane terminano in papille singole esse possono essere ottuse 
o addirittura tronche, e allora il seme presenta, esaminandolo ad occhio nudo, una 


5 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 81 


superficie esterna vellutata; oppure esse sono acute, e allora il seme si presenta 
leggermente rugoso, od anche liscio e senza nulla di caratteristico, se le malpighiane 
sono saldate fra loro fino all'estremo, senza individualizzarsi in papille singole, o 
almeno così piccole, da non essere avvertibili che al microscopio. — Per questi di- 
versi modi di terminazione delle cellule malpighiane, il margine superiore dello 
strato si presenta ora liscio e uniforme, ora finamente inciso dalle papille più fini, 
ora più o meno regolarmente e più o meno profondamente ondulato per la presenza 
di grosse papille. E degno di nota è il fatto, che questo carattere della diversa 
terminazione delle malpighiane è generalmente costante per le diverse specie e co- 
stituisce quindi uno dei migliori argomenti di distinzione fra esse. 

Nel suo decorso, la membrana di queste cellule non si presenta tutta egual- 
mente ispessita; generalmente un maggior ispessimento si nota alla base e all’apice 
di queste cellule. Completamente occluso è il lume cellulare nella parte situata al di 
sopra della linea lucida; al di sotto di questa si osserva per lo più un'espansione 
più o meno ampia, occupata dal corpuscolo del Beck (!); un’altra espansione conica, 
clavata, od ovoidale, si osserva verso la base, e quivi è quasi sempre riempita di re- 
sidui plasmatici più o meno colorati. 

Lo spessore della membrana è modellato sopra questa espansione, talvolta però, 
pur rimanendo assai spessa, la membrana presenta sulle pareti laterali, delle inca- 
vature profonde, ricordanti i canalicoli che permettono le comunicazioni plasmatiche. 

Una linea che attraversa costantemente le malpighiane, è la così detta “ Linea 
lucida ,, spiccatissima in alcune specie, in altre più sottile e meno brillante, ma 
sempre visibile senza troppa difficoltà. 

Fissa è posta generalmente verso l’apice delle malpighiane, talora è un poco spo- 
stata verso la base, tal’altra coincide quasi col limite superiore delle papille. Nelle 
specie, in cui lo strato malpighiano decorre ondulato, la linea lucida o decorre ondu- 
lata, cioè a distanza costante dall’apice delle malpighiane; oppure non ondulata, cioè 
a distanza costante dalla base delle malpighiane (es. L. Nissolia, L.). 

Altri ispessimenti degni di nota si osservano nella membrana delle malpighiane. 
Così talora se ne osserva uno all'estremità inferiore di esse, onde appare come una 
fascia brillante basale; talvolta tale ispessimento è situato un po’ al di sopra della 
base, e forma una grossa sporgenza nel lume, che, espanso al di sopra e al di sotto, 
è in tal punto assai ristretto, onde la fascia brillante che ne risulta è situata un 
po al di sopra della base. Assai frequente è pure un ispessimento diffuso, nella parte 
mediana della membrana, la quale in sezione trasversa di un seme appare bicon- 
vessa. Sono tali ispessimenti assai evidenti in alcune specie, e utili assai nella 
diagnostica. 

Queste cellule malpighiane, nell'interno del loro lume cellulare, contengono spesso 
delle fini granulazioni di protoplasma e una notevole quantità di pigmento, variabile 
dal verdastro al bruno e di natura albuminoso-tannica. 

Degno di nota è pure il pigmento proprio della membrana, per lo più citrino, 


® Becx G., Vergleichende Anatomie der Samen von Vicia und Ervum, “ Sitzungsber. d. k. Ak. Wiss. ,, 
Wien, 1878. 


Serre II, Tow. LXII. i K 


) 


9 GIULIA GIARDINELLI 6 


di rado bruno, che è visibile per lo più nelle parti situate fuori della linea lucida, 
nelle quali l'assenza di lume cellulare e perciò di pigmento di origine plasmatica non 
impedisce l'osservazione esatta. La colorazione delle malpighiane, al di fuori della 
linea lucida, dovuta a questa pigmentazione della membrana, è un ottimo carattere 
diagnostico. In due sole specie tale pigmentazione è visibile anche sotto la linea 
lucida (V. sativa, L. e L. Aphaca, L.). In esse il colore bruno nero e bruno violaceo 
della membrana, spicca sulla tinta più chiara del pigmento plasmatico. Quest'ultimo 
poi è ora addensato alla base, oppure nella parte mediana, od è egualmente diffuso 
per tutta la cellula. Ma le cellule malpighiane possono anche essere perfettamente 
ialine sopra e sotto la linea lucida. Nell’ interno del loro lume cellulare si possono 
poi trovare ancora i così detti corpuscoli del Beck, il cui insieme costituisce spesso 
una linea brillante, ben evidente, ora più, ora meno vicina all’apice delle malpighiane. 
La forma dei corpuscoli è di solito cubica, più raramente piramidale, coll’asse mag- 
giore parallelo all'asse delle malpighiane, e a volte, sono circondati da un alone 
pigmentato, onde appare, nel complesso delle malpighiane, una linea bruna (V. lutea L.). 

B) Strato delle cellule a colonna. — È costituito di cellule di forma abbastanza 
diversa nelle specie dei generi sopra ricordati, e la cui costanza d’ aspetto fornisce 
in alcuni casi un carattere diagnostico. In esse sono distinguibili due parti: l’una 
(l'esterna) in rapporto diretto colla base delle malpighiane; l’altra (l’interna) in con- 
tatto cogli elementi dello strato profondo. Le due parti sono separate da uno stroz- 
zamento mediano, che nei casi tipici si presenta come quello di una clessidra, donde 
il nome di cellule “ en sablier ,; talora la strozzatura mediana si allunga assai ed 
allora appare come un corpo cilindrico, frapposto fra due estremità allargate, onde 
il complesso ricorda, specialmente in prossimità del chilario {dove le cellule si pre- 
sentano molto più allungate, perdendo così ogni loro caratteristica), una colonna col 
capitello e la base (cellule a colonna). 

Le dimensioni delle due parti (esterna ed interna) sono per lo più uguali, talora 
però l’una o l’altra prevale per grandezza. Raramente queste cellule sono così schiac- 
chiate (come in certi Ervum) da essere difficilmente visibili. 

Mentre la forma della metà interna è quella di un parallelepipedo, coll’asse mi- 
nore in senso radiale, quella della metà esterna è assai variabile, cilindrica, obco- 
nica, cilindrica inferiormente e bruscamente espansa all'apice a guisa di capitello, 
onde risultano delle forme diverse e degli spazi intercellulari diversi di aspetto. La 
conformazione di questi spazi intercellulari è determinata anche da un altro fatto. 
In generale ambo le estremità delle cellule a colonna sono fra loro a contatto, e 
allora gli spazi intercellulari appaiono, in sezione, ellittici, circolari, semi-circolari. Ma 
talora queste cellule si toccano solo per la parte basale, mentre per la parte apicale 
sono più o meno distanti. In questo caso, lo spazio intercellulare, che ne risulta, è 
delimitato, oltre che dalle cellule a colonna contigue, anche dalla base di un certo 
numero di malpighiane. 

A volte non è possibile la distinzione delle cellule a colonna in due parti di- 
stinte; ed allora esse appaiono come un quadrato coi lati concavi esternamente. 

I caratteri della membrana cellulare sono pure differenti sulla parte esterna ed 
interna di queste cellule. Più spessa al di fuori, essa si assottiglia in corrispondenza 
della strozzatura mediana e della metà interna. Vario pure è il contenuto cellulare, 


Ti SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 83 


rappresentato da residui plasmatici, di natura albuminosa o tannica, ora più abbon- 
danti nella metà esterna, ora nell’interna. La colorazione di detto contenuto cellu- 
lare varia dal verde al bruno, ma questo carattere dipende molto dal grado di 
maturità del seme, e dalle diverse razze. 

La comunicazione dello strato delle cellule a colonna coi due strati che lo deli- 
mitano, si fa per numerosi pori-canali. 

O) Strato profondo. — È costituito di parecchie serie di cellule, allungate tan- 
genzialmente e collegate da lunghe braccia, delimitanti ampi spazi intercellulari. 

In tale tessuto, si potrebbe distinguere uno strato superiore di elementi ad 
ampio lume, ed uno inferiore, in cui le cellule sono molto più schiacciate e meno 
sviluppate. 

Il contenuto cellulare, rappresentato da pigmento variabile dal verdastro al 
bruno, e da plasma, è in alcune specie abbondantissimo, in altre mancante addirit- 
tura. Degno di interesse, come carattere diagnostico, è lo spessore di tutto lo strato, 
sufficientemente costante per una stessa specie. 

Così pure va presa in considerazione la struttura chimica della membrana delle 
diverse parti del tegumento, specialmente pel diverso comportamento delle differenti 
parti della membrana di uno stesso elemento, rispetto ai reattivi delle sostanze 
pectiche. Il rosso di rutenio si presta egregiamente a quest’uopo, ma i diversi gradi 
di pectizzazione della membrana sono troppo spesso in rapporto colla maturità del 
seme, per poter utilizzare questo carattere. Conviene anzi, in generale, nello studio 
diagnostico, servirsi di sezioni non colorate. 


Riassumendo: i caratteri più importanti per la determinazione delle specie della 
tribù delle Vicioidee, sono in ordine di importanza i seguenti: il modo di terminazione 
delle malpighiane, la forma del lume cellulare, le dimensioni e la posizione dei cor- 
puscoli del Beck, la pigmentazione della membrana, la presenza, la quantità del con- 
tenuto albuminoso tannico. Vengono poi i caratteri desunti dalla forma delle cellule 
a colonna, pure abbastanza costanti; ma difficili a valutare. 

Quanto allo strato profondo, l’unico carattere diagnostico che ci può fornire è 
quello del suo spessore, abbastanza costante, come già dissi, in una stessa specie. 
Non sempre però, perchè le cellule che lo compongono subiscono spesso notevoli 
variazioni di dimensioni, sia rigonfiandosi nell'acqua, sia perchè stirate nell’esecu- 
zione delle sezioni. Perciò ho cercato, per quanto possibile, di evitare l’uso di tale 
carattere. 

Prima di passare alla descrizione delle singole specie, devo ancora far notare, 
che è assolutamente necessario esaminare delle sezioni molto sottili e perfettamente 
trasversali. In caso contrario, i caratteri, riconosciuti opportuni, per la determina- 
zione delle singole specie, non appaiono così evidenti, e talora non sono affatto rile- 
vabili. Inoltre occorre eseguire le ricerche con una certa uniformità di criterii; sia 
nello studio delle dimensioni del seme intero, sia in quello delle sezioni del tegumento. 

Nel primo caso io ho tenuto conto del diametro perpendicolare al piano che 
passa pel chilario e del diametro parallelo alla commessura chilariale. Nel caso di 
semi profondamente eterodiametrici misuravo altresì il terzo diametro, vale a dire 
il diametro perpendicolare ai due precedenti. 


84 GIULIA GIARDINELLI 8 


Le sezioni vanno sempre eseguite su porzioni di tegumento lontane dal chilario, 
perchè, come già dissi, sia lo sviluppo dello strato profondo, che quello delle malpi- 
ghiane subiscono dei turbamenti notevoli. 

Nelle parti lontane dal chilario è invece indifferente l’orientazione del seme da 
sezionare. 

Riserbandomi di esporre al termine del lavoro le considerazioni più importanti, 
che si possono dedurre dalle mie ricerche, passerò alla descrizione dei caratteri pro- 
prii alle singole specie. 


Gen. Gicees (Tourn.) L. 


C. arietinum L. — d. s. (1) mm. 9,1; sup. chil. mm. 1,6X1,5; Teg. spess. u 315, 
u280; Malp. 1. u 114-90. 


Morfologia. — Semi quasi globosi, giallo chiari, rugosi per lo sporgere di piccole 
creste lineari. Radichetta sporgente e un solco alla commessura dei cotiledoni. 
Anatomia. — Malpighiane di varia lunghezza e orientate in modo da formare 


delle creste, caratteristiche di questa specie. Linea lucida affatto superficiale. 

Lume cellulare abbastanza regolare, con membrana più ispessita verso la base, 
onde fascia ialina. 

Cellule a colonna schiacciate, poco visibili. 

Strato profondo, a elementi ben sviluppati e ialini. 


Pisum sativum L. — d. s. mm. 5,98; sup. chil. mm. 1,8 X 0,8; Teg. spess. u 120; 


42 
Malp. 1. u 72,5; n. M. 00: 


Morfologia. — Semi sferici, lisci, verdi o bruni, con superficie chilariale ovata, 
più chiara. 

Anatomia. — Malpighiane appena appena sporgenti in piccole papille ottuse con 
linea lucida subito sotto la superficie. Al di sopra di essa, le cellule sono ialine, al 
di sotto, intensamente pigmentate in bruno. Corpuscoli del Beck ben visibili a metà 
dello strato. Lume cellulare ora dilatato, ora ristretto; alla base di esso la membrana 
ispessita determina una fascia chiara. 

Cellule a colonna, schiacciate, vuote e a membrana sottile; appaiono, in sezione, 
quadrate, coi lati concavi. 

Strato profondo, intensamente pigmentato in bruno. 


(4) A proposito di queste cifre, riguardanti le dimensioni delle diverse parti dei semi e dei suoi 
tegumenti, riporto qui le spiegazioni delle abbreviazioni adoperate: d. s.= diametro (o diametri) del 
seme; sup. chil.= dimensione dell’area della depressione, nella quale sta il chilario; eg. spess. = spes- 
sore totale del tegumento [quando il tegumento è rugoso, il 1° numero indica lo spessore in cor- 
rispondenza delle verruche; la 2* cifra lo spessore in corrispondenza delle depressioni (vallecole)]; 
Malp. t.= lunghezza delle malpighiane. Anche qui dove sono indicati 2 numeri, questi hanno lo 
stesso riferimento che nel caso dello spessore totale del tegumento; n. M.= numero delle malpi- 
ghiane ossia numero delle cellule malpighiane, comprese lungo un tratto di 100 u. 


9 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 85 


Pisum sativum L. var. arvense (L.) — d. s. mm. 5,88; sup. chil. mm. 1,53 X 0,86; 


Teg. spess. u96; Malp. 1. u 62,5; n. M. PI, 
Morfologia. — Semi quasi sferici, lisci, con superf. chilariale ovale scuri e mi- 
cropilo visibile. 
Anatomia. — Malpighiane sporgenti in papille a base larga e arrotondate. Linea 


lucida appena sotto la superficie. 

Lume cellulare irregolare, con poco pigmento giallo-verde, specialmente verso 
la base. La membrana ispessita determina alla base stessa una fascia ialina ben 
visibile. 

Cellule a colonna colla parte superiore pressochè cilindrica; l’inferiore più espansa 
ai lati. Unite per ambo le estremità, onde gli spazi intercellulari sono sferici. Poco 
pigmento giallo-verde si trova nella metà esterna. 

Strato profondo, nulla di notevole. 


Gen. Ladffyreas (Tourn.) L. 


Sez. I. Aphaca [(Tourn.) Adans]. 


L. Aphaca L. — d. s. mm. 3,37 X 2,72; sup. chil. mm. 0,95 X 0,50; Teg. spess. 
u116,75; Malp. 1. n 60. 


Morfologia. — Semi ovali, bruno-neri o variegati, lisci, lucidi, con superf. chi- 
lariale posta ad uno dei poli, un po’ ovata e più chiara. 
Anatomia. — Malpighiane tronche, onde margine apicale liscio. Lume cellulare 


a biscotto, cioè ristretto nella sua parte mediana. Un grosso corpuscolo del Beck è 
situato poco sopra il restringimento mediano. È visibile sotto la linea lucida la colo- 
razione violacea della membrana cellulare. 

Cellule a colonna, espanse nella parte superiore, più schiacciate nell’inferiore, 
la cui parete più interna, a contatto collo strato profondo, è leggermente concava. 
Poco pigmento verde posto nella parte esterna. 

Spazi intercellulari sferici. 

Strato profondo costituito di elementi piuttosto ampi e regolari. 


Sez. II. Nissolia [(Tourn.) Adans]. 


L. Nissolia L. — d. s. mm. 2,4; sup. chil. mm. 0,83 X 0,40; Teg. spess. 
u 135,62, u 109,37; Malp. 1. u 87,50, u 57,50. 
Morfologia. — Semi sferici o cilindrici, bruno-neri, rugosi. Superficie chilariale 


ovata; linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. 

Anatomia. — Malpighiane di diversa lunghezza e riunite a formare verruche 
sporgenti. Linea lucida non ondulata e nel lume cellulare, subito sotto ad essa, un 
grosso corpuscolo di Beck. 

Cellule a colonna, colla parte esterna cilindrica, con molto pigmento bruno, l’in- 
terna quasi ovoidale. 

Strato profondo a poche serie di cellule schiacciate e pigmentate in bruno ver- 
dastro. 


86 GIULIA GIARDINELLI 10 


Sez. III. Clymenum [(Tourn.) Adans]. 
L. Ochrus (L.) D. C. — d. s. mm. 6,28; sup. chil. mm. 3,9 X 1; Teg. spess. u 297,50; 


40 
Malp. 1. p 136,66; n. M. FT 
Morfologia. — Semi sferici, lisci, verdastri o bruni; superf. chilariale lunga stretta, 


giallo chiara; micropilo ben visibile. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche; linea lucida a due terzi 
dell’altezza. Lume cellulare mancante nella parte esterna, evidente appena sotto la 
linea lucida, e quindi assai espansa; presenta poi una strozzatura, al di là della quale 
si allarga in un'ampia ampolla ellittica, per restringersi di nuovo alquanto al di sopra 
della base, e riallargarsi alfine in una cavità sferoidale, terminale. Il corpuscolo del 
Beck, posto nell’ampolla superiore, è immerso in un plasma bruno chiaro, che occupa 
la porzione rimanente del lume cellulare. 

Cellule a colonna con scarso pigmento bruno verdastro, divise in due parti quasi 
equivalenti, separate da una strozzatura mediana cilindrica, alta quanto ciascuna delle 
due parti. 

Strato profondo a cellule appiattite, con scarso pigmento bruno verde. 


L. articulatus L. — d. s. mm. 4,86 X 5,59; sup. chil. mm. 2,80 X 0,86; Teg. 


spess. 187,50; Malp. 1 #70; n M. 20. 


Morfologia. — Semi pressochè sferici o leggermente appiattiti, bruno neri, lisci, 
leggermente vellutati. Sup. chilariale ovata, larga; linea di commessura giallo chiara. 
Micropilo poco visibile. 

Anatomia. — Malpighiane appena sporgenti in papille fini ed acute. Linea lucida 
sotto la superficie. Lume cellulare con brusche dilatazioni e restringimenti, e occupato, 
fin verso la base, da plasma bruno. 

Nel terzo superiore è un piccolo corpuscolo del Beck, brillantissimo. Un forte . 
restringimento della membrana determina una linea ialina poco sopra la base. 

Cellule a colonna colla parte superiore obconica, con plasma bruno verde, l’in- 
terna a sezione rettangolare, a membrana sottile, e plasma scarso. Gli spazi inter- 
cellulari sono, in sezione, tondeggianti, ma alquanto angolosi. 

Strato profondo costituito di numerosi elementi assai sottili e ialini. 


L. articulatus L. var. Clymenum (L.) Fiori e Paol. — d. s. mm. 3,41 X 6,43; sup. 


chil. mm. 4,07 X 1,43; Teg. spess. up 159,94; Malp. 1. u 86,66; n. M. di 
Morfologia. — Semi fortemente appiattiti, con tre diametri molto disuguali. 


Bruno neri, vellutati. Superf. chilariale lunga, lineare; linea di commessura fra le 
due labbra chilariali giallo-chiara. Micropilo ben visibile. 

Anatomia. — Malpighiane ottuse, arrotondate; lume cellulare bruscamente 
espanso al di sotto della linea lucida, poi lievemente e gradatamente ristretto fin 
poco sopra la base, dove si restringe ancora, per poi dilatarsi definitivamente in 
un'ampolla ellittica. La membrana delle malpighiane ispessita determina alla base 
una fascia ialina. Tutta la cavità cellulare è occupata da abbondante pigmento bruno 


IL SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 87 


chiaro. Corpuscoli del Beck, assenti o appena visibili; la linea lucida è piuttosto 
distante dal margine esterno. 

Cellule a colonna, colla parte superiore quasi cilindrica, l’inferiore espansa ai 
lati; con molto pigmento bruno. 

Strato profondo sottile e pressochè ialino. 


Sez. IV. Cicercula [(Dodon.) Moench.]. 


L. annuus L. — d. s. mm. 4,85; sup. chil. mm. 2,20 X 0,96; Teg. spess. u 288,85, 
u160; Malp. 1. u 228, p 120. 


Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o bruno chiari, molto rugosi; superf. chi- 
lariale ovata e bianca. Micropilo appena visibile; tubercoli gemini invisibili. 
Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa, e riunite in gruppi, a formare 


delle verruche sporgenti (15-20 pu). Linea lucida, pressochè costante, rispetto alla 
base delle malpighiane. Lume cellulare ristretto e vuoto sopra la linea lucida, espanso 
al di sotto, con una nuova strozzatura poco sopra la base, di modo che la cavità 
risulta divisa in una superiore ellittica, con plasma bruno e il corpuscolo del Beck, 
e in una inferiore conica, solo con plasma bruno; il quale viene perciò a costituire 
una fascia pigmentata basale ad altezza variabile. L’estremità inferiore delle malpi- 
ghiane è fortemente ispessita. 

Cellule a colonna fortemente appiattite in senso radiale, a lume evidente solo 
nella metà superiore, separata dall’inferiore da una strozzatura che riduce a un terzo 
il diametro cellulare nella parte mediana. Lume ripieno di plasma bruno; membrana 
ialina e ispessita. 

Strato profondo a elementi appiattiti, bruni i più esterni, ialini i più interni. 


L. Cicera L. — d. s. mm. 7,98X7,78; sup. chil. mm. 1,7 XX 1,1; Teg. spess. 1 201,66; 


44 
Malp. JL u 83,93; n. M. 100° 
Morfologia. — Semi irregolarmente angolosi, bruni o variegati, lisci con super- 


ficie chilariale ovata, ampia e più chiara. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche acute; lume cellulare 
largo fin verso la base, con un corpuscolo del Beck prismatico cubico nella sua parte 
superiore, e abbondante plasma bruno eccetto che alla base, dove la mancanza di 
plasma determina una linea chiara. La membrana cellulare verso la metà inferiore 
presenta delle strozzature evidenti. 

Cellule a colonna appiattite; la parte superiore è piccola, dilatata all'apice e 
con pigmento verde; l’inferiore, a sezione rettangolare, è più ampia. 

Strato profondo di poche serie di cellule appiattite. 


L. Cicera L., var. sativus (L.) — d. s. mm. 7,45 X 7,68; sup. chil. mm. 1,7 X1; 


Teg. spess. p 163,33; Malp. 1 p 63,38; n. M. SP22, 
Morfologia. — Semi angolosi, fortemente compressi, bruno chiari o scolorati, o 


variegati. Superf. chilariale ovata, ampia. 


88 GIULIA GIARDINELLI Ia 


Anatomia. — Lume cellulare delle malpighiane irregolare, a successivi restrin- 
gimenti e allargamenti, occupato da plasma bruno chiaro o da ristretti e allungati 
corpuscoli del Beck. Alla base le malpighiane ispessite determinano una fascia ialina. 

Le cellule a colonna sono, vuote e in sezione, di forma quadrata, coi lati concavi. 
Pareti spesse. 

Strato profondo a elementi sottilissimi, appiattiti, con plasma bruno scarso. 


L. Cicera L., var. L. Gorgoni (Parl.), non vidi esemplari. 
L. tingitanus L. — d. s. mm. 5,71 X 6,87; sup. chil. mm. 3,7 X 1,4; Teg. spess. 


48-52 
u105; Malp. 1. u75; n. M. Ton 


Morfologia. — Semi molto appiattiti, coi tre diametri disuguali; bruno neri, vel- 
lutati. Superficie chilariale leggermente ovata e a linea di commessura giallo chiara. 

Anatomia. — Papille fortemente acute. Lume cellulare tutto ampio, più rigonfio 
alla base. Tutto il tratto sotto la linea lucida è intensamente bruno, eccetto che 
l’estrema parte basale che è vuota, onde risulta una linea chiara. 

Cellule a colonna a parete spessa, con pigmento bruno nella parte superiore, 
quasi cilindrica; l’inferiore è espansa per l’estendersi delle due porzioni laterali e 
la sua parte più interna è ora più, ora meno concava. 

Strato profondo a elementi schiacciati e bruni nelle prime e nelle ultime serie; 
in quelle mediane le cellule sono vuote e a lume più ampio. 


L. odoratus L. — d. s. mm. 4,25; sup. chil. mm. 2,20 X 1,01; Teg. spess. p 186,66; 


36-40 
Morfologia. — Semi sferici, lisci, bruni, colla linea di commessura delle labbra 
chilariali bianca. Micropilo ben sviluppato. 
Anatomia. -—— Malpighiane tronche, con membrana fortemente ispessita alla base, 


onde fascia ialina, spiccante sul fondo intensamente bruno. Lume cellulare regolare, 
amplissimo alla base. Corpuscolo di Beck poco evidente. 
Cellule a colonna a sezione quadrata, colle pareti concave, e un po’ di pigmento 
giallastro, ora più in alto, ora più in basso della cellula. Membrana spessa. 
Strato profondo a elementi ben sviluppati e giallo verdastri. 


L. hirsutus L. — d. s. mm. 4,01; sup. chil. mm. 1,7 X 0,9; Teg. spess. u 385, 
u315; Malp. 1. u 86,03, u 73,36. 


Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, fortemente rugosi, con linea di commes- 
sura fra le due labbra chilariali quasi bianca. Micropilo ben visibile. 
Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare delle ver- 


ruche sporgenti, in cui la linea lucida, non ondulata, è pressochè a distanza costante 
dalla base dello strato. Lume cellulare ampio alla base e in corrispondenza del grosso 
corpuscolo del Beck, posto poco sotto la linea lucida; e occupato inoltre da plasma 
bruno, che forma una fascia basale pigmentata a margini rettilinei e di altezza 
costante. 


13 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 89 


Cellule a colonna colla parte superiore obconica, ricca di plasma bruno-verde, 
l'inferiore più espansa e vuota. Spazi intercellulari quasi perfettamente sferici. 
Strato profondo a elementi schiacciati, ricchi di plasma bruno. 


Sez. V. Eulathyrus Ser. 


L. sylvester L. — d. s. mm. 4,4; sup. chil. mm. 6,6 X 0,9 (abbraccia quasi metà 
del seme); Teg. spess. 4 222, 4210; Malp. 1. u 105, p 92,5. 


Morfologia. — Semi tondeggianti bruni, leggermente rugosi; superf. chilariale 
lineare, lunga, quasi bianca. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in punta tronco-conica, a base larga; di 
lunghezza diversa, onde il margine dello strato descrive ampie ondulazioni. Linea 
lucida pure ondulata. 

Lume cellulare ampio, con una leggerissima strozzatura nella parte mediana. 
Talino sopra la linea lucida, pigmentato in bruno al di sotto, e con un grosso cor- 
puscolo del Beck. 

Cellule a colonna, in sezione, quadrate coi lati concavi, a membrana specialmente 
ispessita superiormente, dove trovasi una certa quantità di pigmento verde. 

Strato profondo a elementi ampi, verdastri, 


L. sylvester L., var. latifolius (L.) — d.s. mm. 4,24; sup. chil. mm. 2,85 X 0,77; 
Teg. spess. u240, u 198; Malp. l. u 150, up 66. 


Morfologia. — Semi bruno neri, rugosi, sferici, con superf. chilariale più chiara. 

Anatomia. — Margine dello strato leggermente ondulato, per diversa lunghezza 
delle malpighiane, terminanti singolarmente in papille tronco-coniche appena accen- 
nate. Lume cellulare ad ampolla, amplissimo per 8/, della sua lunghezza e con abbon- 
dantissimo plasma bruno. Corpuscolo del Beck assente o appena visibile. 

Cellule a colonna colla parte superiore alta, obconica, ricca di pigmento bruno 
e a parete spessa; l’inferiore espansa lateralmente, vuota e a pareti sottili. 

Strato profondo a elementi ampi e ricchi di plasma bruno. 


L. heterophyllus L. — d. s. mm. 4,07 X 5,03; sup. chil. mm. 5 X 2; Teg. spess. 
u 205,75, p 177,12; Matp. 1. u 125, n 95. 


Morfologia. — Semi ovati o un po’ appiattiti parallelamente al chilario, bruno- 
neri, rugosi. Sup. chil. posta sul lato più lungo del seme, più chiara; linea di com- 
messura fra le due labbra chilariali quasi bianca. Micropilo e tubercoli gemini non 
visibili. 

Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare delle ver- 
ruche, il cui margine è leggermente papillato, per la terminazione in punta tronco- 
conica delle singole cellule. 

Linea lucida ondulata. Malpighiane ialine all’esterno di essa, e poco al di sotto 
della stessa portanti nel loro lume cellulare un grosso corpuscolo del Beck. La mem- 
brana è ispessita a metà delle cellule più lunghe, formanti le verruche, onde risulta 
una fascia più o meno chiara. 

Serie II. Tom. LXII. Ti 


90 GIULIA GIARDINELLI 14 


Cellule a colonna colla parte superiore alta, obconica, con plasma bruno e mem- 
brana spessa; l’inferiore ovata e vuota. Spazi intercellulari sferici. 
Strato profondo a elementi bruno-verdastri, schiacciati. 


L. grandiflorus S. et S. — Teg. spess. u270; Malp. l. u101,5; n. M. SITO, 
Anatomia. — Malpighiane terminate in piccolissime papille tronche, leggermente 


rosee all'infuori della linea lucida. Lume cellulare non molto ampio, contenente i 
corpuscoli del Beck, ed altezza un po’ diversa. 

Cellule a colonna di forma quadrata (in sezione) coi lati concavi; a membrana 
spessa; spazi intercellulari sferici. 

Strato profondo a molte serie di elementi ben sviluppati, ricchi di pigmento 
bruno, specialmente in quelli più profondi. 


L. tuberosus L. — d. s. mm. 3,23 X 4,42; sup. chil. mm. 1,6 X 0,8; Teg. spess. 
u267; Malp. 1. u 129. 


Morfologia. — Semi bruni o verdi macchiettati di bruno, ovati, leggermente 
appiattiti perpendicolarmente al chilario. Superficie solcato-verrucosa, chilario, ovato, 
con linea di commessura fra le due labbra quasi bianca. 

Anatomia. — Margine dello strato malpighiano quasi liscio, per lo sporgere 
delle cellule in papille appena accennate. Lume cellulare ad ampolla, più ampio 
alla base, poi tenuissimo e solo un poco riallargantesi in corrispondenza del corpu- 
scolo del Beck. Oltre il quale si trovano nell’interno del lume abbondanti granula- 
zioni plasmatiche. 

Cellule a colonna, obconiche nella parte superiore, che ha pareti spesse e pi- 
gmento bruno; l’inferiore è ovoidale, vuota e a pareti più sottili. 

Strato profondo di numerose serie di cellule a lume ampio e ricche di plasma 
bruno-verdastro. î 


Sez. VI. Orobastrum Gr. et Godr. 


a) ANNUI. 


L. saxatilis (Vent.) Vis. — d. s. mm. 2: sup. chil. mm. 1 X 0,42; Teg. spess. u 70; 


40-44 
Malp. 1. u 50; n. M. 100° 
Morfologia. — Semi sferici, bruni, lisci, con linea chilariale bianca. 
Anatomia. — Linea lucida posta ad !/; sotto la superficie. Le malpighiane, spor- 


genti in papille debolissime, sono leggermente rosee al di sopra di essa. Il lume è 
ampio, sopratutto inferiormente e contiene plasma scarsissimo e corpuscoli del Beck, 
abbastanza grossi. 
Cellule a colonna: colla parte superiore quasi obconica, a membrana ispessita 
e con plasma bruno; fortemente appiattite e quasi obliterate nella più interna. 
Strato profondo a elementi molto stipati. 


15 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 91 


L. setifolius L. — d. s. mm. 4,6; sup. chil. mm. 1,86 X 1,20; Teg. spess. u 262, 
u218,75; Malp. 1. pu 175, p 110. 


Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o chiari macchiettati di bruno, sensibil- 
mente rugosi. Superf. chilariale più chiara e linea di commessura fra le due labbra 
giallo-chiara. 

Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare dei tuber- 
coli, dal margine papillato, per la terminazione in punte conico-acute, sub-mucronate, 
delle singole cellule. Linea lucida pressochè equidistante dalla base delle malpighiane. 
Sotto di essa si inizia il lume cellulare, diviso da una strozzatura mediana in una 
parte superiore ellittica contenente plasma bruno ed un corpuscolo del Beck ben 
evidente; e in una inferiore contenente plasma. 

Il plasma determina l’apparire di una fascia pigmentata di altezza variabile. 

Cellule a colonna divise da una strozzatura mediana cilindroide in due metà 
presso a poco equivalenti, con scarso plasma verdastro, con membrana ispessita, a 
contorno rettangolare. 

Caratteristica di queste cellule è la disposizione quasi ad angolo retto di tutte 
le curvature. Gli spazi intercellulari sono pure sub-rettangolari. 

Strato profondo di moltissime serie di cellule stipate, in cui il lume risulta 
pressochè obliterato. 


L. angulatus L. p.p. — d. s. mm. 2,02 X 1,8; sup. chil. mm. 0,50 X 0,30; Teg. 
spess. 485, n 67,5; Malp. 1. u 52,5, u37,5. 


Morfologia. — Semi cubici, brunastri, leggermente rugosi, con superf. chilariale 
piccola ovata. Per forma e dimensioni questi semi sono assai simili a quelli della 
V. lathyroides. 

Anatomia. — Malpighiane di diversa lunghezza e riunite a formare verruche, 
talora fitte, ma spesso distanti l’una dall'altra più della lunghezza della base di una 
di esse. Linea lucida ondulata; le malpighiane all’esterno di essa sono ialine; al di 
sotto intensamente brune. Però un leggero ispessimento della membrana, determina, 
a metà di questa zona bruna, una fascia più chiara. 

Cellule a colonna schiacciate, poco visibili. 

Strato profondo a elementi poco sviluppati, con plasma bruniccio. 


L. sphaericus Retz. — d.s. mm. 3,78 X 3,43; sup. chil. mm. 0,95 X 0,70; Teg. 


spess. 4 157,50; Malp. I p90; n. M. È. 
Morfologia. — Semi bruno neri sferici, più spesso cilindrici per mutua compres- 


sione, lisci, con chilario posto su uno degli spigoli più lunghi e spostato verso una 
delle estremità del cilindro. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille deboli, con la linea lucida poco 
al di sotto dell’apice. Ispessite alla base, onde una fascia ialina. Lume cellulare piut- 
tosto irregolare, leggermente ristretto verso la parte mediana, e quindi, per l’ispes- 
simento della membrana, appare una larga fascia chiara. Nell’interno di esso si trova 
del plasma bruno verdastro e un grosso corpuscolo di Beck. 


99 GIULIA GIARDINELLI 16 


Cellule a colonna obconiche superiormente e con pigmento bruno. La parte infe- 
riore ovoidale, per l'enorme espansione dei suoi lati è concava nella parete a contatto 
col tessuto profondo. 

Strato profondo a cellule schiacciate, con plasma verdastro. 


L. inconspicuus L., non vidi esemplari. 
L. pratensis L. — d. s. mm. 2,94; sup. chil. mm. 1 X 0,5; Teg. spess. u 134,16; 
Malp. 1. pu 66,66. 


Morfologia. — Semi bruni o variegati, a fondo giallo con striscie nere; lisci, 
lucidi e molto simili a quelli del L. Aphaca. Sup. chilariale piccola ovata, chiara, 
posta a uno dei poli. 

Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche, onde margine liscio. Ispessite 
alla base, per cui risulta una sottile, ma ben visibile linea ialina. Lume regolare, 
con scarso pigmento bruno inferiormente e un grosso corpuscolo del Beck, poco sotto 
la linea lucida. 

Cellule a colonna: la parte superiore è obconica e con poco pigmento verde, l’in- 
feriore quasi sferica, con plasma ialino. 

Strato profondo a cellule schiacciate e ripiene di plasma verdastro nelle prime 
serie, di plasma bruno nelle ultime. In quelle mediane gli elementi sono assai più 
sviluppati. 


L. paluster L. — Teg. spess. u 157,50; Malp. 1. 4 100. 


Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche. Lume cellulare ad ampolla 
contenente un grosso corpuscolo del Beck e abbondante plasma bruno. 

Le cellule a colonna hanno membrana tutta egualmente spessa. La parte superiore 
è espansa ai lati e vuota. Combaciano per le estremità inferiori e sono relativamente 
distanti superiormente, onde si hanno spazi intercellulari irregolari e molto ampi. 

Strato profondo a cellule schiacciate, ricche di pigmento bruno, specialmente le 
più profonde. 


Sez. VII. Orobus [(Tourn.) L.]. 


L. inermis Reich., non vidi esemplari. 
L. digitatus (M. B.) N., idem. 
L. filiformis (Lam.) F. Gray. — Teg. spess. pu 210, u204; Malp. l. p 65, pu 62,5. 


Anatomia. — Malpighiane tronche perfettamente e di lunghezza un po’ diversa, 
onde si ha un decorso un po’ ondulato del margine dello strato. Linea lucida pure 
ondulata. Lume ad ampolla, regolare, ampio, contenente plasma bruno e corpuscolo 
del Beck. 

Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, a membrana molto spessa, ricca 
di pigmento bruno; l’inferiore ovoidale, vuota. 

Strato profondo a elementi poco sviluppati e pigmentati intensamente in bruno. 


17 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECO. 93 


L. pannonicus (Jacq.) Garcke. — sup. chil. mm. 6,40 X 1,02; Teg. spess. up 245, 
u210; Malp. 1. u 100, u 90. 

Anatomia. — Margine dello strato malpighiano a leggere e ampie ondulazioni 
e terminazione delle singole cellule in debolissime papille arrotondate e a base larga. 
Linea lucida pure ondulata. Lume ad ampolla pieno di plasma sotto la linea lucida. 
Nella parte mediana un ispessimento della membrana origina una fascia chiara. 

Cellule a colonna divise in due parti di eguale ampiezza da una strozzatura 
molto accentuata. Spazi intercellulari poco ampi e sferici. 

Strato profondo a elementi ben sviluppati e ialini. 


L. Linnaei Rouy. — d. s. mm. 8; sup. chil. mm. 2 XX 0,45; Teg. spess. u105; 
Malp. 1. u 50. 


Morfologia. — Semi sferici, lisci, giallastri o bruno chiari; con superfice chila- 
riale larga, evidente. 

Anatomia. — Malpighiane ialine e perfettamente tronche; lume cellulare rego- 
lare, ampio alla base e in corrispondenza del grosso corpuscolo del Beck. 

Cellule a colonna: parte superiore quasi regolarmente cilindrica, l’inferiore espansa 
ai lati. 

Strato profondo a elementi ben sviluppati nelle prime serie, meno nelle ultime. 
Tutti con scarso plasma verde. 


L. niger (L.) Bernh. — d. s. mm. 2,8X4,1; sup. chil. mm. 3,15 X 0,8; Teg. 
spess. u 192,50; Malp. 1. u 76,66. 

Morfologia. — Semi ovoidali, bruno neri, lisci, con superficie chilariale posta 
su uno degli spigoli più lunghi, e linea di commessura fra le due labbra chilariali 
bianca. 

Anatomia. — Margine dello strato malpighiano perfettamente liscio, con una 
linea lucida, larga e brillantissima. Lume cellulare ampio alla base e in corrispon- 
denza dei corpuscoli del Beck, grossi, cubici, evidentissimi. Malpighiane ialine o leg- 
germente citrine sotto la linea lucida, ispessite alla base, onde si ha una sottile 
fascia ialina. 

Cellule a colonna, in sezione, quadrate, coi lati concavi; e un po’ di pigmento 
bruno, specialmente addensato superiormente. 

Strato profondo a numerosissime serie di cellule schiacciate, con granulazioni 
plasmatiche verdiccie. 


L. Jordani (Ten.) Cess. Pass. et Gib., non vidi esemplari. 

L. montanus Bernh., idem. 

L. tenuifolius Cess. Pass. et Gib. — d. s. mm. 5,26 X 2,64 X 6,6; Teg. spess. 
u120,5; Malp. 1. u90, p. 75. 


Morfologia. — Semi irregolari, appiattiti parallelamente al chilario. Lisci, vel- 
‘lutati leggermente; linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. 
Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa; onde il margine dello strato è 


leggermente ondulato e per di più papillato, per la terminazione delle singole cellule, in 


94 GIULIA GIARDINELLI 18 


papille coniche. Membrana ondulata, quindi lume cellulare ora ristretto, ora più largo, 
contenente grossi corpuscoli del Beck immersi in un plasma ialino. 

Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, l’inferiore più ampia, quasi 
vuota e poliedrica. Caratteristica di queste cellule è la disposizione quasi ad angolo 
retto di tutte le curvature, sicchè anche gli spazi intercellulari sono sub-rettangolari. 

Strato profondo, nulla di notevole. 


L. vernus (L.) Bernh. — d. s. mm. 2,9 X 4,1; sup. chil. mm. 2,20 X 0,46; Teg. 
spess. u 134,16; Malp. 1. u 63,33. 

Morfologia. — Semi ovali, bruni o giallo chiari con macchie nere, lisci. Super- 
fice chilariale su uno dei lati più lunghi del seme e che si continua fino su uno 
dei poli. Linea di commessura fra le due labbra chilariali bianca. 

Anatomia. — Malpighiane tronche perfettamente, ialine o bruno chiare sotto la 
linea lucida, con lume cellulare ad ampolla, occupato da un grosso corpuscolo del 
Beck, in vicinanza della linea lucida stessa. 

Cellule a colonna tanto schiacciate, da confondersi con quelle dello strato pro- 
fondo. Una strozzatura mediana le divide in due parti di forma irregolare, e di cui 
l’inferiore è più ampia della superiore. 

Strato profondo a cellule stipate nelle prime e nelle ultime serie e ricche di 
plasma verde. 


L. venetus (Mill.) Hall. et Whlf. — d. s. mm. 1,01 X 1,19; sup. chil. mm. 1,87 X 0,50; 
Teg. spess. u 144; Malp. l. pu 54. 

Morfologia. — Semi neri, pressochè cilindrici, eguali, isodiametrici, lisci, con chi- 
lario più chiaro. 

Anatomia. — Malpighiane tronche; linea lucida poco evidente subito sotto il loro 
margine esterno. Sotto la linea lucida il lume cellulare contiene abbondante pigmento 
bruno; è di forma regolare, ad ampolla, appena un po’ ristretto nella parte mediana. 
Corpuscolo del Beck assente o appena visibile. 

Cellule a colonna poco ben distinte, divise in due parti di ampiezza quasi uguale; 
obconica la superiore, ovata l’inferiore. 

Strato profondo a elementi ben sviluppati, di cui solo quelli delle serie mediane 
sono pieni di plasma bruno. 


Gen. Wieia (Tourn.) L. 
Sez. I. Euvicia Vis. 
a) PsruporoBus Frori E PAOLETTI. 

V. oroboides Whlf., non vidi esemplari. 

6) Faga |(Tourn.) Adans.]. 
V Faba L. (!) — d. s. mm. 22X/6 X 16; Teg. spess. u480; Malp. 1. u 132. 

Morfologia. — Semi fortemente compressi parallelamente al chilario, lisci, bruno 

chiari o -bruno scuri, con superficie chilariale nera, assai sviluppata. 


(4) Per maggiori particolari, vedi Ricerche anatomo-fisiologiche sui tegumenti seminali delle Papi- 
lionacee, dei Prof. O. MartIRoLo e L. BuscALIonI. 


19 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 95 


Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche, con lume cellulare irregolare. 
Esso presenta una cavità basale triangolare vuota e quindi una serie di restringi- 
menti e di rigonfiamenti. Linea lucida poco visibile, posta verso l’apice delle cellule; 
corpuscoli del Beck poco visibili; membrana fittamente striata nel senso della lun- 
ghezza dello malpighiane. 

Cellule a colonna molto sviluppate, specialmente in altezza, divise in due cavità 
ovoidali, presso a poco eguali, da una terza parte alta e cilindrica. Spazi intercellu- 
lari irregolarmente angolosi e più alti che larghi. 

Strato profondo a molte serie di cellule, a lume, relativamente, non molto ampio, 
di cui solo le più profonde sono ricche di pigmento bruno. 


V. narbonensis L. — d. s. mm. 5,90; sup. chil. mm. 2,15 X 1,2; Teg. spess. u330; 


32 
Malp. 1. u132; n. M. 300° 
Morfologia. — Semi sferoidali, lisci, opachi, bruno neri, con superf. chilariale 


bianca ovata, non molto sviluppata. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille acute, con linea lucida 
a 10-11 u dalla superficie. All'esterno di esse le cellule sono ialine, all’interno inten- 
samente brune; e il loro lume cellulare è regolare, ad ampolla. 

Cellule a colonna corte e larghe a parete spesse, gialliccie, striate longitudinal- 
mente con contenuto bruno verdastro, specialmente nella parte superiore. Spazi inter- 
cellulari pure assai larghi. 

Strato profondo a elementi ampi, con plasma bruno solo nei più profondi (per 
maggiori particolari vedi l’Harz). 


c) PROTOVICIA. 


V. sepium L. — d. s. mm. 3,22 X 3,69; sup. chil. occupa l’arco più lungo del 


seme; Teg. spess. u 459,50; Malp. l]. u 54; n. M. È. 
Morfologia. — Semi bruni ovati, leggermente vellutati. Una lunghissima super- 


ficie chilariale, di cui la linea di commessura fra le due labbra chilariali è quasi bianca, 
abbraccia quasi tutto il seme. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille debolissime, a base larga e arro- 
tondate. Lume cellulare ampio alla base, più ristretto verso la metà della cellula, 
e che poi dinuovo si riallarga fino all'estremità. Malpighiane incolori all’esterno della 
linea lucida, intensamente brune al di sotto. Corpuscoli del Beck piccolissimi e ap- 
pena evidenti. 

Cellule a colonna a membrana spessa e divise in due parti, quasi uguali, ambedue 
espanse. La parte superiore è occupata da pigmento bruno verdastro. Spazi inter- 
cellulari sferici. 

Strato profondo, nulla di notevole. À 


96 GIULIA GIARDINELLI 20 


Vv. pannonica (Crantz.) Jacq. — d. s. mm. 4,62X3,27X4,07; sup. chil. mm. 2,03X(0,7; 


0 
Teg. spess. u 315; Malp. 1. #90; n. M. da, 


Morfologia. — Semi oblunghi, ovoidali, spesso compressi parallelamente al chilario. 
Bruno neri, vellutati, con linea di commessura chilariale, più chiara, quasi bianca. 

Anatomia. — Papille conico-acute ben distinte; lume cellulare gradatamente più 
largo sotto la linea lucida, è molto ampio alla base. Poco sopra di questa però, una 
forte strozzatura della membrana determina una fascia ialina. Malpighiane abbon- 
dantemente occupate da plasma sotto la linea lucida; ialine al di sopra. 

Cellule a colonna, quasi cilindriche, cioè appena ristrette alla parte mediana. 
Plasma scarso, verdiccio, specialmente nella parte superiore, che è a parete più spessa 
dell’inferiore. 

Strato profondo a elementi appiattiti, sottili, di cui quelli delle serie mediane 
soltanto contengono plasma bruno. 


V. hybrida L. — d. s. mm. 5,53; sup. chil. mm! 2,86 X 0,9; Teg. spess. u205; 


69 


Morfologia. — Semi sferici, neri o bruni macchiettati di nero, vellutati, con linea 
di commessura fra le due labbra chilariali bianca. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche; lume cellulare irrego- 
lare nella metà inferiore, espanso verso la base, ristretto e irregolare nel quarto 
inferiore, poi dinuovo espanso e con pigmento intensamente bruno e corpuscoli del 
Beck poco numerosi. Quindi lo strato appare diviso in due metà, l’una superiore 
papillata ialina, l’altra inferiore bruna. 

Cellule a colonna colla parte esterna cilindrica, spessa e con pigmento verde; 
l’interna più appiattita. Spazi intercellulari angolosi. 

Strato profondo spesso. 


V. hybrida L., var. spuria (Raf.) (4) — d. s. mm. 4,07; sup. chil. mm. 2,06 X 0,9; 


Teg. spess. u200; Malp. 1. u 67,5; n. M. 7 
Morfologia. — Semi sferici, vellutati, neri o bruni con fitte macchiette nere, con 


superficie chilariale più chiara, breve e larga. Micropilo ben visibile. 

Anatomia. — Margine dello strato malpighiano inciso da papille acute ben distinte 
e citrino all’esterno della sottile linea lucida. All’interno incoloro. Lume cellulare 
ampio alla base, ristrettissimo per un buon tratto mediano, e di nuovo più ampio in 
corrispondenza dei corpuscoli del Beck, piccolissimi e sferici. Oltre a questi si trova 
nella cavità cellulare del plasma granuloso. 

Cellule a colonna colla parte superiore obconica, tutta piena di plasma bruno 
giallastro; l’inferiore espansa ai lati e concava nella parete a contatto collo strato 
profondo. 

Strato profondo a molte serie di elementi ben sviluppati, con granulazioni plasma- 
tiche verdastre. 


(1) L'’esemplare viene da Catania e non è controllato. 


2 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 97 


9. 
V. melaunops S. et P. — Teg. spess. u 122,50; Malp. 1. #80; n. M. E, 
Anatomia. — Malpighiane terminate in papille conico-acute, citrine fuori della 


linea lucida, intensamente brune al di sotto. Solo una -piccola porzione di lume cel- 
lulare, poco sopra la base, è priva di plasma, onde una linea chiara continua. Lume 
cellulare rigonfiato alla base e in corrispondenza dei grossi corpuscoli del Beck. 
Cellule a colonna, di poco più espanse nella parte interna, contengono scarso 
plasma verdastro. 
Tessuto profondo a elementi schiacciati, con plasma verdastro. 


V. lutea L. — d. s. mm. 4,99; sup. chil. mm. 2,12 X 0,7; Teg. spess. u 262,56; 


‘ 56 
Malp. 1. p 130; n. M. 100: 
Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, vellutati, con linea di commessura chi- 
lariale bianca. 
Anatomia. — Terminazione delle malpighiane in punta conica ben distinta; lume 


cellulare irregolare e non molto ampio, con vari rigonfiamenti, di cui i principali 
sono: uno basale e uno circa a metà della cellula. Cellule citrine o ialine sopra la 
linea lucida, poco pigmentate al di sotto. Poco sopra alla base, un’espansione del 
lume, priva di plasma, determina una linea chiara brillante. Corpuscoli del Beck poco 
evidenti. 

Cellule a colonna piene di plasma granuloso; la parte inferiore è più ampia della 
superiore. 

Strato profondo a molte serie di elementi schiacciati, specialmente i più profondi. 
Plasma verde nelle cellule più esterne, bruno verdastro nelle più interne. 


7. lutea L., var. hirta — d. s. mm. 4,98 X 2,95 X 4,26; sup. chil. mm. 2,90 X 0,75; 


Teg. spess. u 227,50; Malp. 1. u 130; n. M. iS 


Morfologia. — Semi appiattiti parallelamente e perpendicolarmente al chilario, 
sì da avere la forma quasi di un parallelepipedo. Neri, vellutati, con chilario bianco. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille leggermente coniche; lume cel- 
lulare assai tenue, che si inizia al di sotto della linea lucida e presenta due piccole 
espansioni, una a metà lunghezza, l’altra verso la base; occupato da pigmento bruno, 
più abbondante in presenza delle espansioni. 

Cellule a colonna, in cui è sviluppata pressochè unicamente la parte superiore, 
onde esse hanno una forma tipica a clessidra, con pareti di spessore costante; il con- 
tenuto è verdastro, gli spazi intercellulari pressochè sferoidali. 

Strato profondo formato di una prima serie di elementi sottili e leggermente 
pigmentati; ialini sono quelli mediani, ricchi di plasma bruno i più profondi. 


V. grandiflora Scop. — d. s. mm. 5,5 X 2 X 4,2 (Harz.); sup. chil. occupa la 
metà o i 3/4 della circonf.; Teg. spess. up 175; Malp. 1. n 70; n. M. TOT 
Morfologia. — Semi vellutati, eguali, bruno-neri (Harz.). 
Anatomia. — Malpighiane terminate in papille tronco-coniche, larghe alla base, 
poco sporgenti, ialine fuori della linea lucida, intensamente brune al di sotto. Ispes- 
Serie II. Tow. LXII. = M 


98 GIULIA GIARDINELLI 22 


site alla base, dove è scavata l'estrema cavità del lume, vuoto di plasma, onde linea 
chiara basale. Lume cellulare a diametro pressochè sempre uguale, un poco più ampio 
inferiormente, a pareti leggermente ondulate. Corpuscoli del Beck poco visibili. 
Cellule a colonna a membrana spessa, in sezione, quadrate coi lati concavi e un 
po’ di pigmento verde superiormente. Spazi intercellulari sferici. 
Strato profondo di numerosissime serie di cellule compresse, di cui solo le più 
profonde ricche di plasma. 


V. Barbazitae Ten. et Guss. — Teg. spess. u 87,50; Malp. 1. 4 50; n. M. De, 
Anatomia. — Margine dello strato malpighiano inciso da papille ottuse, arroton- 


date, ialine, sopra la linea lucida; il tratto al di sotto è bruno chiaro. Membrana 
sempre spessa; maggiormente alla base, indi sottile fascia ialina. Corpuscoli del 
Beck non visibili. 

Cellule a colonna ristrette nella parte superiore, allargate e appiattite in quella 
inferiore e con lume ridotto. Spazio intercellulare angoloso, ampio altrettanto o più 
delle cellule alle quali intercede. 

Strato profondo a elementi sottili e con plasma bruno in quelli mediani. 


V. peregrina L. — d. s. mm. 5,09 X 3,34 X 5,16; sup. chil. mm. 1,1 X 0,7; Teg. 


spess. p 192,50; Malp. I. p65; n. M. 90, 
Morfologia. — Semi irregolari, appiattiti generalmente secondo i due piani paral- 


leli al chilario, bruno chiari con macchie o brevi strie scure disposte senz’ordine; 
lisci, leggermente vellutati, con linea di commessura chilariale più chiara e micro- 
pilo scuro, ben visibile. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille acute. Lume cellulare a due allar- 
gamenti, uno basale e uno vicino alla linea lucida, con contenuto plasmatico scarso 
e limitato alla sua parte inferiore. 

Cellule a colonna, più ampie nella loro metà interna: la più esterna è a mem- 
brana spessa e contiene plasma verde. 

Strato profondo verdiccio e costituito di cellule molto sviluppate. 


V. sativa L. — d. s. mm. 4,74 X 4,77; sup. chil. mm. 2,40 XX 0,40; Teg. spess. 


4140; Malp. 1. wp 75; n. M, 3890. 
100 
Morfologia. — Semi quasi sferici, un po’ appiattiti parallelamente al chilario, 
bruno-neri, lisci, con linea di commessura chilariale quasi bianca. 
Anatomia. — Malpighiane terminate in papille leggermente coniche e ialine al- 


l’esterno della linea lucida. Lume cellulare un po’ più ampio alla base, poi ristretto 
e quindi dinuovo più largo al di sotto e al di sopra della linea lucida. Corpuscolo 
del Beck ben visibile. Ciò che caratterizza questa specie è la colorazione propria 
della membrana, nera o bluastra, che spicca bene in alcune malpighiane, nel tratto 
sotto la linea lucida. 


DO 
(50) 


SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 99 


Cellule a colonna colla parte superiore obconica e con pigmento verde; l’infe- 
riore è più espansa e a pareti più sottili. Spazi intercellulari irregolarmente sferici, 
per l’'intima unione delle sole espansioni inferiori delle cellule. 

Strato profondo costituito di tre o quattro serie di cellule, ampie e pigmentate 
in verde, e di diverse altre serie più profonde ad elementi schiacciati e bruni. 


V. sativa L., var. macrocarpa Moris (Bert.) — d. s. mm. 5,88 X 5,19; sup. chil. 


mm. 2,76 X 1; Teg. spess. u175; Malp. L 483,38; n. M. 2È00, 
Morfologia. — Semi bruno neri, appiattiti lungo la faccia superiore ed inferiore, 


nonchè lungo le due facce ortogonali alla direzione del chilario. Lisci, vellutati. Su- 
perf. chil. bruna con linea di commessura fra Ie due labbra chilariali quasi bianca. 
Tubercoli gemini poco sporgenti. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille acute, ialine fuori della linea 
lucida; lume cellulare ad ampolla, pressochè vuoto, con corpuscoli del Beck, carat- 
teristici, in numero di due o tre per ogni cellula e foggiati a pan di zucchero. Mem- 
brana spessa, specialmente inferiormente e rifrangente. 

Cellule a colonna divise da una strozzatura sensibile in una metà esterna più 
ispessita e con plasma verde, e in una interna, vuota e a pareti sottili. Spazi inter- 
cellulari sferici. 

Strato profondo a molte serie di elementi; i primi appiattiti e vuoti; i mediani 
più ampi e pure vuoti, i profondi stipati assai e colorati in gialliccio. 


V. sativa L., var. maculata (Presl.) — d. s. mm. 2,87; sup. chil. 1,32 X 0,42; 


Teg. spess. pu 122,50; Malp. 1. n.70; n. M. Si, 
Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, vellutati; con linea di commessura fra 


le due labbra chilariali quasi bianca. Micropilo visibile. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille leggermente coniche, incolori sopra 
la linea lucida, con pigmento bruno al di sotto. Lume cellulare piuttosto irregolare, 
ristretto nella parte mediana, onde fascia più chiara. 

Cellule a colonna in due parti: la superiore quasi cilindrica, a membrana spessa 
e con pigmento verde; l’inferiore più ampia. 

Strato profondo a parecchie serie di elementi; i più esterni più ampi e colorati 
in verde; i più profondi schiacciati e ricchi di pigmento bruno. 


V. sativa L., var. heterophylla (Presl.) — d. s. mm. 2,89; sup. chil. mm. 1,28 X 0,42; 


Teg. spess. u 140; Malp. 1. n.60; n. M. da 
Morfologia. — Semi sferici, lisci, leggermente vellutati con superf. chilariale più 
chiara. 
Anatomia. — Malpighiane terminate in punta conica e per tre quarti della loro 


lunghezza pigmentata in bruno, pel resto ialine. Lume cellulare più ampio alla base 
e quindi più ristretto fino alla sua estremità superiore. 


100 GIULIA GIARDINELLI 24 


Cellule a colonna con poco pigmento verde, quasi cilindriche nella parte supe- 
riore, più espanse e a pareti più sottili nell’inferiore. 
Strato profondo, nulla di notevole. 


V. sativa L., var. segetalis (Thuill.) — d. s. mm. 2,96; sup. chil. mm. 1,75 X 0,45; 


Teg. spess. 495; Malp. l. u55; n. M. Di 
Morfologia. — Semi sferici, neri vellutati, con superf. chilariale più chiara. 
Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche-arrotondate, con lume cel- 


lulare a biscotto, in cui l’ispessimento mediano della membrana origina una fascia 
chiara, spiccante sul fondo pigmentato in bruno. 

Cellule a colonna a pareti spesse; colla parte superiore obconica, contenente 
pigmento verdastro, l’inferiore più espansa. 

Strato profondo a elementi pure a pareti spesse, sviluppato e pigmentato in ver- 
dastro nelle prime serie, in bruno nelle ultime. 


V. sativa L., var. angustifolia (L.) Reich. — d. s. mm. 3,73 X 4,03; sup. chil. 
mm. 2,06 X 0,42; Teg. spess. u 140; Malp. 1. u 66,66; n. M. To 
Morfologia. — Semi sferici o leggermente appiattiti per mutua compressione, 


nermalmente al chilario. Bruno neri, lisci, con superficie chilariale più chiara e mi- 
cropilo ben visibile. 

Anatomia. — Per tutto il loro quarto superiore malpighiane ialine e terminate 
in papille acute; nella loro parte inferiore malpighiane pigmentate in bruno, in cui 
spicca però, poco sopra alla base, una fascia chiara piuttosto larga, dovuta a un 
ispessimento della membrana. Corpuscoli del Beck poco evidenti, sotto la linea lucida. 

Cellule a colonna colla parte esterna obconica, contenente pigmento bruno, l’in- 
feriore espansa ai lati e a membrana più sottile. Spazi intercellulari sferici. 

Strato profondo a molte serie di elementi, i più esterni verdastri e schiacciati, 
i mediani ampi, i profondi ancora schiacciati e con pigmento bruno. 


V. lathyroides L. — d. s. mm. 1,97 X 1,90; sup. chil. mm. 0,52 X 0,32; Teg. 
spess. u 110, u85; Malp. 1. u 60, u 50. 


Morfologia. — Semi cubici, colle faccie concave, rugosi, bruno neri, con chilario 
più chiaro e micropilo visibile. Simili molto ai semi del L. angulatus. 
Anatomia. — Malpighiane di lunghezza diversa e riunite a formare delle ver- 


ruche non molto sporgenti, che distano l’una dall'altra non più della lunghezza della 
base. Superficie delle verruche continua per la terminazione delle singole cellule 
perfettamente tronca. Linea lucida ondulata; all'infuori di essa le malpighiane sono 
ialine, al di sotto pigmentate e il pigmento, di altezza diversa, forma una fascia pig- 
mentata ad altezza variabile. 

Cellule a colonna colla parte superiore obconica, ricca di pigmento bruno; l’in- 
feriore più espansa. Spazi intercellulari semi-sferici colla convessità volta all’infuori. 

Strato profondo a cellule, alcune a lume ampio, altre a lume stretto, poco pig- 
mentate. 


SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 101 


LO 
[3a 


Sez. II. Cracca [(Riv.) Medic.]. 


a) OroBELLA (Presl.). 
V. sicula (Raf.) Guss. -- Teg. spess. u 180; Malp. 1. u 84. 


Malpighiane terminate in papille coniche ben distinte con linea lucida evidente, 
decorrente poco sotto il margine papillato. Lume cellulare in generale assai tenue, 
appena un poco più ampio alla base e in corrispondenza del corpuscolo del Beck, 
ben visibile. Tutto lo strato è ialino, eccettuato l’estremo margine papillato, che è 
leggermente giallastro. 

Cellule a colonna divise in due parti da una strozzatura marcatissima, superior- 
mente quasi cilindriche, inferiormente larghe in senso radiale e meno ampie. Il lume 
cellulare contiene abbondante pigmento bruno-verdastro. 

Strato profondo a numerosissime serie di elementi ben sviluppati, contenenti 
un po di plasma verde-chiaro. 


6) AracHus (Medic.). 
V. Bithynica (L.) L. — d. s. mm. 4,65; sup. chil. mm. 1,82 X 0,95; Teg. spess. 


u 297,50; Malp. 1. p 130; n. M. oe 
Morfologia. — Semi sferici, bruno-neri o un poco variegati, lisci, con linea di 


commessura fra le due labbra chilariali, bianca. Micropilo ben evidente. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in deboli papille, larghe alla base; ialine 
all'infuori, pigmentate in bruno sotto la linea lucida. Un ispessimento basale della 
membrana determina una fascia chiara. Lume cellulare rigonfiato alla base e nella 
parte immediatamente sottoposta alla zona incolora. 

Cellule a colonna obconiche superiormente e con un po’ di pigmento verde, più 
ampie ed espanse inferiormente. 

Strato profondo a molte serie di cellule, a lume ampio, eccettuate quelle più 
profonde, schiacciate e con un po’ di plasma granulare verdiccio. 


c) VICIO-CRACCA. 


x 


V. onobrychioides L. (l'esemplare viene da Brema e non è controllato) — 
d. s. mm. 4,5-5 di lunghezza (Harz.); sup. chil. 1/3 della circonf. (Ascherson); 


Teg. spess. u 192,50; Malp. 1. 490; n. M. neri 
Morfologia. — Semi tondeggianti o, per compressione, angolosi, bruno-scuri, mac- 
chiettati di nero, fino al nero cupo (per maggiori particolari vedi l’Harz.). 
Anatomia. — H margine dello strato malpighiano, inciso per papille conico-acute, 


è giallo intenso fuori della linea lucida, evidentissima. Al di sotto è verdiccio. Lume 
cellulare ampio maggiormente alla base e in corrispondenza dei corpuscoli del Beck, 
ben evidenti. Un leggiero ispessimento della membrana determina alla base una sot- 
tile fascia ialina. 


102 GIULIA GIARDINELLI 26 


Cellule a colonna colla parte superiore obconica e pigmento bruno verdastro; 
l’inferiore espansa, a pareti sottili e vuota. 

Strato profondo a elementi ampi nelle prime serie e più schiacciati nelle ultime, 
con pigmento verde, sparso irregolarmente. 


V. altissima Desf. — d. s. (semi troppo immaturi per essere misurati); sup. chil. 


mm. 2,21 X 0,42; Teg. spess. pu 140; Malp. 1. u 60, n 70; n. M. Ti: 


Morfologia. — Semi globosi, bruno neri, leggermente vellutati; con superf. chi- 
lariale lineare, un po’ più chiara. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille coniche, pigmentate in 
bruno sotto la linea lucida e membrana spessa e linea lucida posta a !/; dell’altezza. 
Lume cellulare ampio alla base, poi un po’ ristretto e quindi dinuovo più largo fin 
sotto la linea lucida. 

Cellule a colonna a pareti spesse, cilindriche e con pigmento verde superiormente, 
più espanse inferiormente. 

Strato profondo a elementi molto schiacciati, all’infuori delle due o tre prime 
serie a elementi più sviluppati. Pigmento bruno. 


V. dumetorum L. — d. s. mm. 4,74; sup. chil. per lunghezza i 3/4 della cir- 
conf., mm. 0,7 di larghezza; Teg. spess. u 250, u 87; Malp. 1. u 96,66. 


Morfologia. — Semi sferici, lisci, vellutati, caratterizzati da un chilario lunghis- 
simo, che circonda quasi tutto il seme. 

Anatomia. — Membrana delle malpighiane spessa; delimitante un lume cellulare 
ampio alla base, ristretto nella parte mediana e di nuovo più largo superiormente, in 
corrispondenza del corpuscolo di Beck, ben evidente. Il pigmento è bruno. 

Cellule a colonna a membrana spessa, colle due metà poco ben distinte ed egual- 
mente espanse, e pigmento verde solo superiormente. 

Strato profondo colla maggior parte dei suoi elementi con granulazioni plasma- 
tiche verdicce. 


d) Ervo-CRAccA. 


V. pisiformis L. — d. s. mm. 4,23; sup. chil. mm. 7,1 X 0,7; Teg. spess. u 192,50; 


43-52 

Malp. 1. u 80; n. M. 100° 
Morfologia. — Semi sferici, bruni, lisci, con lunga superf. chilariale più chiara. 
Anatomia. — Malpighiane in papille allargate ed ottuse, citrine sopra la linea 


lucida, con pigmento bruno al di sotto, abbondante specialmente alla base. Lume cel- 
lulare perfettamente ad ampolla, più ampio alla base e molto ridotto nel resto del 
suo decorso. 

Cellule a colonna ricche di pigmento verde nella parte superiore; l’inferiore a 
pareti più sottili, con espansioni laterali accentuate, e vuota. Spazi intercellulari ampi 
e sferici. 

Tessuto profondo, nulla di notevole. 


20 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 103 
V. sylvatica L. — sup. chil. occupa i 2/3 della circonf. (Ascherson); Teg. spess. 
5; 56 
u120; Malp. 1. 157,5; n. M. F00 
Morfologia. — Semi tondeggianti, allungati e compressi, con chilario ovale, talora 


lineare, abbracciante la parte anteriore della superficie superiore e talvolta tutta la 
parte superiore e la posteriore (Harz.). 

Anatomia. — Margine apicale delle malpighiane ialino e dentato per papille larghe 
alla base, quasi tronche. Sotto la linea lucida le cellule sono intensamente brune e a 
poca distanza da essa esiste una fine granulazione, formata dai corpuscoli del Beck. 
Lume cellulare a diametro quasi tutto eguale; appena un po’ più ampio alla base. 

Cellule a colonna con spazi intercellulari irregolarmente sferici, cilindriche e con 
plasma verdiccio superiormente, più espanse e a pareti più sottili inferiormente. 

Strato profondo a elementi ravvicinati, verdi i primi, bruni i più profondi. 


V. glauca Presl. — d. s. (semi troppo immaturi per essere misurati); sup. chil. 


mm. 1 X 0,42; Teg. spess. u 122,50; Malp. I. u 50; n. M. de 


Morfologia. — Semi globosi o compressi parallelamente al chilario, bruni, lisci. 

Anatomia. — Una regione delle malpighiane sovrastante la linea lucida, giallo 
chiara e leggermente incisa da papille acute, e una regione sottostante, brunastra. 
- Lume cellulare quasi tutto di egual diametro. 

Cellule a colonna, obconiche, a pareti spesse e molto pigmento bruno nella parte 
superiore, espanse ai lati nella inferiore. 

Strato profondo a elementi molto schiacciati e pieni di plasma verdastro. 


V. argentea Lap., non vidi esemplari. 


V. sparsiflcra Ten. (1) — d. s. mm. 3,50 X 4,26; sup. chil. mm. 3,9 X 0,9; Teg. 


spess. u192; Malp. 1. u 72,5; n. M. Doo: 

Morfologia. — Semi pressochè sferici, o più spesso ovati, bruno-chiari o bruno- 
scuri, macchiettati di nero. Lisci o leggermente vellutati, con chilario lungo, abbrac- 
ciante circa l’intera metà dell’arco maggiore del seme. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille ben distinte, larghe di base e 
arrotondate, intensamente giallo aranciato scure, in questo tratto sopra la linea lucida, 
mentre al di sotto sono pochissimo pigmentate. Lume cellulare più ampio alla base, 
limitato da membrana spessa, che maggiormente si ispessisce alla base, onde linea 
ialina brillante. Corpuscoli del Beck sferici, grossi. 

Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, ricca di plasma verde; l’infe- 
riore vuota, espansa in una specie di due alette laterali. 

Strato profondo a elementi ben sviluppati, con granulazioni plasmatiche verdastre. 


(4) L’esemplare esaminato viene da Budapest e non è controllato. 


104 GIULIA GIARDINELLI 28 

V. cassubica L. — d. s. mm. 4 di lunghezza (Harz.); sup. chil. mm. 2,55 X 0,50; 
Teg. spess. u 174,83; Malp. l. u 87,50; n. M. o 

Morfologia. — Semi quasi tondeggianti, compressi leggermente ai lati, a fondo 


dal verde cupo al grigio, macchiettati. Superf. chilariale lineare, larga. brunastra, 
che circonda quasi tutto il seme. 

Anatomia. — Malpighiane in papille distinte e coniche, con membrana spessa e 
lume cellulare più ampio alla base e in corrispondenza del corpuscolo del Beck. Nel 
suo ultimo tratto si riduce quasi nullo. Pigmento ‘abbondante, rosso bruno. 

Cellule a colonna obconiche nella parte superiore e con pigmento verde; con 
ampie espansioni laterali nell’inferiore, per cui due cellule contigue si uniscono. Spazi 
intercellulari irregolarmente sferici, non combaciando le cellule anche nell’estremità 
superiore. 

Tessuto profondo a 6 o 7 serie di elementi, più ampi gli esterni, più schiacciati 
gli interni; tutti con abbondante pigmento bruno verdastro. 


V. ochroleuca — Teg. spess. n 192,50; Malp. 1. n 80; n. M. i 


Anatomia. — Malpighiane in punta conico-ottusa. Un corpuscolo del Beck poco 
evidente è subito sotto la linea lucida e in sua corrispondenza il lume è un poco 
allargato. Poi si restringe e quindi è un poco più ampio dinuovo alla base. Plasma 
scarsissimo, specialmente inferiormente. 

Cellule a colonna divise in una parte superiore allargata all’apice e contenente 
plasma verdiccio, e in una inferiore, vuota, e in sezione rettangolare. 

Strato profondo sottile, senza nulla di notevole. 


V. Cracca L. — d. s. mm. 2,80; sup. chil. mm. 3,1 X 0,7; Teg. spess. u 160,90; 


60 


Morfologia. — Semi sferici, bruno neri, con superfice chilariale più chiara e linea 
di commessura fra le due labbra, quasi bianca. Tubercoli gemini e micropilo non 
visibili. 

Anatomia. — Membrana delle malpighiane spessa, terminata in papille ottuse 
arrotondate, delimitante un lume ampio in basso, ristretto a metà e più largo in 
corrispondenza del grosso corpuscolo del Beck. Le sue pareti presentano ispessimenti 
molto convessi e pronunciati. 

Cellule a colonna colla metà esterna cilindrica o leggermente obconica e plasma 
verdiccio, l’interna molto allargata in senso radiale. Unendosi le cellule contigue solo 
per le estremità inferiori, ne risultano degli spazi intercellulari, a forma di una sfera, 
tronca verso la base delle malpighiane. 

Strato profondo a elementi sottili, ampi nelle prime serie, stipati nelle ultime 
e leggermente pigmentati in verdiccio. 


29 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 105 


V. Cracca L., var. tenuifolia Roth. — d. s. mm. 2,90; sup. chil. mm. 1,92 X 0,45; 


Teg. spess. u175; Malp. 1. #75; n. M. Cla 


100° 
Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o bruni macchiettati in nero, lisci, con 
superficie chilariale un poco più chiara. 
Anatomia. — Margine esterno alla linea lucida inciso da papille acute e giallo 


chiare; malpighiane al di sotto di essa, intensamente brune. Lume cellulare gene- 
ralmente ampio; più rigonfio alla base e in corrispondenza del corpuscolo del Beck. 
Cellule a. colonna schiacciate, onde poco distinte; la loro parte superiore è meno 
ampia e con pigmento verde; l’inferiore molto espansa. Spazi intercellulari schiacciati 
e poco evidenti. 
Tessuto profondo, nulla di notevole. 


V. Cracca L., var. elegans Guss. — d. s. mm. 3,92 X 4,15; sup. chil. mm. 1,67 X 0,50; 


Teg. spess. u 157,50; Malp. 1. u80; n. M. SEO, 
Morfologia. — Semi globosi o più spesso compressi parallelamente al chilario. 


Bruno neri, leggermente vellutati, con superf. chilariale appena più chiara e micro- 
pilo ben visibile. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille coniche, a lume cellulare 
quasi tutto dello stesso diametro, un poco più ampio alla base e ricchissimo di pig- 
mento bruno. 

Cellule a colonna colla parte inferiore molto alta, stretta, leggermente obconica 
con pigmento bruno; l’inferiore ampia ovoidale e a parete più spessa. 

Strato profondo cogli elementi mediani sviluppati e contenenti plasma verdastro, 
gli esterni e i profondi schiacciati e bruni. 


V. atropurpurea Desf. — d.s. mm. 4,44; sup. chil. mm. 2 X 0,45; Teg. spess. 


u 180,83; Malp. L u 86,66; n. M. È, 
Morfologia. — Semi sferici, bruni, vellutati, con micropilo e superf. chilariale 
bruno chiari. 
Anatomia. — Apice esterno delle malpighiane leggermente acuto. Pigmentazione 


bruno chiara sopra e sotto la linea lucida. Corpuscoli del Beck costituenti una 
distintissima linea brillante. Lume cellulare, piuttosto tenue, un po’ più ampio per 
il quarto inferiore della sua lunghezza. 

Cellule a colonna colla parte superiore espansa all’apice, a parete più spessa e 
pigmento verde; l’inferiore schiacciata ed espansa lateralmente. Spazi intercellulari 
sferici. 

Strato profondo a molte serie di elementi: schiacciati e giallo bruni i più esterni 
e i più interni; ampi e quasi privi di pigmento i mediani. 


V. villosa Roth. — d. s. mm. 3,49; sup. chil. mm. 2,22 X 0,70; Teg. spess. u157,50; 


52-60 
Malp. 1. 190; n. M. 100 


Morfologia. — Semi perfettamente sferici, lisci, con superficie chilariale di poco 
più chiara. 
Serie II, Tox. LXII. N 


106 GIULIA GIARDINELLI 30 


Anatomia. — Malpighiane terminate in grosse papille acute e gialle sopra la 
linea lucida. Sotto di essa corpuscolo del Beck ben distinto, posto in un rigonfia- 
mento del lume, che poi si restringe per riallargarsi ancora un poco alla base. 

Cellule a colonna identiche a quelle della V. varia. 

Strato profondo di molti elementi schiacciati e pigmentati in verdastro. 


Vr. villosa Roth., var. Pseudo-Cracca (Bert.) — d. s. mm. 2,62 X 1,80; sup. chil. 


mm. 1,40 X 0,37; Teg. spess. u 140; Malp. 1. n 60; n. M. Di 


Morfologia. — Semi globosi o leggermente compressi parallelamente al chilario. 
Lisci, bruno neri, con superficie chilariale più chiara quasi lineare. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in punta leggermente conico-arrotondata, 
con linea lucida a 1/, dell’altezza, molto pigmentate sotto di essa e ispessite alla 
base. Lume cellulare più ampio alla base e in corrispondenza del corpuscolo di Beck. 

Cellule a colonna, nulla di notevole. 

Strato profondo a molte serie di cellule, di cui solo le più profonde poco ampie 
e intensamente pigmentate in bruno. 


V. monantha Retz., non vidi esemplari. 


e) CoppoLeRIA Tod.. 


V. multifida Valle. — d. s. mm. 4,78 X 1,96; sup. chil. mm. 1 XX 0,37; Teg. spess. 


96-100 
u 140; Malp. 1. u80; n. M. oo 
Morfologia. — Semi compressi, leuticolari, neri, vellutati, con superf. chilariale 
più chiara, quasi lineare e micropilo ben visibile. 
Anatomia. — Malpighiane terminate in papille conico-acute, larghe di base, con 


lume cellulare ristretto per !/, della sua lunghezza; espanso in modo irregolare, di 
guisa che presenta un'espansione basale e un restringimento mediano, determinante 
una linea brillante. Sopra di questa si trova un corpuscolo del Beck, conico, evidente 
e immerso in plasma bruno. 

Cellule a colonna a membrana piuttosto sottile, fortemente ristrette nella parte 
mediana e a lume scarso. Spazi intercellulari, in sezione, tondeggianti. 

Strato profondo a poche serie di cellule compresse, di cui le più profonde ricche 
di plasma bruno. 


Sez. III. Ervum L. (Tourn.). 


a) EuERvuUM. 


V. leucantha Biv. — d. s. mm. 3,64 X 1,88 X 3,82; sup. chil. mm. 1,61 X 0,45; 


Teg. spess. u 192,50; Malp. l. pu 90; n. M. deo. 
Morfologia. — Semi tondeggianti, fortemente compressi parallelamente al chi- 


lario, neri, vellutati. Superf. chilariale ovata. 


Il SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 107 


Anatomia. — Malpighiane finissime, terminate in punta arrotondata, a lume stret- 
tissimo regolare, con un piccolo corpuscolo di Beck sotto la linea lucida, avvolto da 
plasma verdiccio, che, scarso, occupa la restante parte del cavo cellulare. 

Cellule a colonna del tipo a clessidra. 

Strato profondo, nulla di notevole. 


V. tetrasperma (L.) Moench. — d. s. mm. 2,02; sup. chil. mm. 1,12 X 0,42; Teg. 


spess. 80; Malp. I. #55; n M. 
Morfologia. — Semi sferici, bruno neri o verdi giallognoli, lisci, con superf. chi- 


lariale bruna. 

Anatomia. — Malpighiane in papille tronco-coniche, debolissime, giallo-verdastre 
fuori della linea lucida, incolore al di sotto; con lume più ampio alla base in cor- 
rispondenza del grosso corpuscolo del Beck. 

Cellule a colonna schiacciate, ma pur distinguibili in una parte superiore, espansa 
un poco all’apice e con pigmento bruno verdastro, e in una inferiore, vuota ed espansa 
ai lati. 

Strato profondo a elementi schiacciati, ricchissimi di plasma bruno verde. 


V. tetrasperma (L.) Moench., var. gracilis (Lois.) — d. s. mm. 1,55; sup. chil. 
mm. 4,25 X 0,30; Teg. spess. u 75; Malp. 1. u 60. 

Morfologia. — Semi sferici, bruni, lisci, con superf. chilariale poco visibile e di 
poco più chiara. par 

Anatomia. — Margine liscio per la terminazione tronca delle malpighiane, a lume 
più ampio alla base e gradatamente ristretto fino all’apice, e occupato da fine gra- 
nulazione plasmatica verdastra. Corpuscoli del Beck poco o nulla visibili. 

Cellule a colonna con abbondante pigmento bruno verdastro, del tipo di cellule, 
a pareti concave. 

Strato profondo a poche serie di cellule molto schiacciate con granuli di plasma 
verdastro. 


V. tetrasperma (L.) Moench., var. pubescens (L. K.) — d. s. mm. 1,76; sup. chil. 
mm. 0,55 X 0,30, ossia 1/10 della circonf. 

Morfologia. — Semi sferici, neri, lisci, con superf. chilariale un po’ più chiara. 

Anatomia. — Malpighiane perfettamente tronche, ialine al di fuori, brune sotto 
la linea lucida. Cavità cellulare pressochè isodiametrica, occupata verso l’apice da 
un corpuscolo del Beck pochissimo evidente. 

Cellule a colonna come le precedenti per forma; con abbondante pigmento bruno 
superiormente. 

Strato profondo a molte serie di cellule, le più esterne ampie e ricche di pig- 
mento, le più interne stipate e vuote. 


V. hirsuta (L.) S. F. Gray. — d. s. mm. 2,34; sup. chil. abbraccia 1/2 della circonf.; 
Teg. spess. u85; Malp. Il. u 50. 

Morfologia. — Semi sferici, più spesso compressi fortemente ai lati, verdastri o 

bruno chiari, lisci, con linea di commessura chilariale bruna e micropilo appena visibile. 


108 GIULIA GIARDINELLI 32 


Anatomia. — Malpighiane tronche, con lume cellulare occupato superiormente 
da un corpuscolo del Beck, cubico e ben visibile, e verso la parte inferiore da abbon- 
dante plasma bruno. Esso è abbastanza regolare e più ampio alla base. 

Cellule a colonna del tipo a clessidra, a membrana spessa e abbondante plasma 
bruno rossiccio. 

Strato profondo di molte cellule, con abbondante plasma bruno. 


Vv. disperma D. C. — d. s. mm. 3,68; sup. chil. mm. 2,11 X 0,41; Teg. spess. 


Ra 104 
u176; Malp. 1. wu 72,5; n. M. 70: 


Morfologia. — Semi sferici, vellutati, bruno chiari o verdastri con macchie più 
scure. Linea di commessura. fra le labbra chilariali bianca. Micropilo ben visibile. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in fini papille acute, a lume cellulare piut- 
tosto tenue, appena un po’ più ampio alla base; con una finissima granulazione del 
Beck a u 17,5 dall’apice. 

Cellule a colonna quasi cilindriche, appena un po’ espanse all’apice, nella parte 
superiore, ricche di pigmento bruno. L'inferiore è pressochè vuota, più schiacciata ed 
espansa ai lati. 


6) Ervinia (L. K.). 


V. Ervilia (L.) W. — d. s. mm. 3,60 X 4,47; sup. chil. mm. 1 X 0,42; Teg. spess. 


p.92,50; Malp. 1 u50; n. M. SE2S, 


Morfologia. — Semi a forma caratteristica, prismatico-piramidale, bruno-chiari, 
lisci, con superficie chilariale più chiara e micropilo ben visibile. 

Anatomia. — Malpighiane terminate in papille coniche, larghe di base, con lume 
cellulare dapprima gradatamente espanso sotto la linea lucida, poi assai più dilatato 
e dinuovo ristretto sopra la base, onde si ha una cavità superiore claviforme e una 
inferiore più breve. Plasma occupante tutta la cavità, salvo che l'estremità superiore, 
dove si trova un grosso corpuscolo del Beck. Notevole è lo spessore delle malpi- 
ghiane alla base. 

Cellule a colonna perfettamente cilindriche nella parte esterna e con qualche 
granulo di plasma. L’interna è, a sezione rettangolare, sviluppata specialmente in 
senso tangenziale, e meno in senso radiale. Spazi intercellulari pure, in sezione, ret- 
tangolari. 

Strato profondo nulla di notevole. 


c) Lews. [(Tourn.) Adans.]. 
V. Lens (L.) Coss. et Germ. — d. s. mm. 5,66 X 2,43 X 5,61; sup. chil. mm. 1,62 X 0,31; 


Teg. spess. 470; Malp. 1. u 37,5; n. M. Se 
Morfologia. — Semi bilaterali, discoidali, bruno chiari o bruno verdastri, lisci, 


con superfice chilariale quasi lineare. 
Anatomia. — Lume delle malpighiane, allargantesi gradatamente a partire dalla 


10) 


lo) SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 109 


O: 


( 


linea lucida, e occupato superiormente da un grosso corpuscolo del Beck, tronco- 
conico. Nella sua parte inferiore scarsissimo plasma bruno chiaro. 

Cellule a colonna colla parte superiore cilindrica, appena espansa all’apice, a 
pareti ispessite e plasma verdastro; l’inferiore, in sezione rettangolare, a pareti più 
sottili e vuota. 

Strato profondo a molte cellule a membrana sottile e scarso plasma verdastro. 


V. Lens (L.) Coss. et Germ., var. Marschalii (Arc.) — d. s. mm. 2,83 X 1,30 X 2,83; 


sup. chil. mm. 0,82 X 0,42; Teg. spess. u80; Malp. 1. u 40; n. M. Toi 
Morfologia. — Semi lenticolari, fortemente compressi, bruni, lisci, con super- 


ficie chilariale quasi lineare e più chiara. 

Anatomia. — Linea lucida pochissimo evidente, decorrente subito sotto l’estre- 
mità conico appuntita dalle malpighiane. Membrana ialina, con lume iniziantesi appena 
al di sotto della linea lucida e gradatamente allargantesi fin verso l'estremità infe- 
riore, dove vi è un po’ di plasma incoloro. Grosso corpuscolo del Beck. 

Cellule a colonna assai più larghe che lunghe, con pigmento bruno nella metà 
esterna, vuote nell’interna. D’aspetto ben distinto da quello delle cellule a colonna 
delle altre specie; che ricorda invece quello dello strato profondo, a elementi a pareti 
sottili, lume ampio e pigmento bruno, salvo nelle serie mediane. 


V. Lenticula (Schreb.) Arc., non vidi esemplari. 


CHIAVE ANALITICA 
fondata sui caratteri anatomici del Tegumento. 


1. Malpighiane di lunghezza differente e raggruppate in guisa da formare verruche 
sporgenti anche ad occhio nudo, o in ogni modo da rendere la superficie esterna 
nettamente ondulata (2). 

— Malpighiane tutte di lunghezza eguale o quasi, salvo nella regione chilariale; 
superficie dei semi liscia o vellutata, ma non verrucosa (10). 

2. Linea lucida ondulata, cioè decorrente a distanza costante rispetto all’apice delle M.; 
verruche appena sporgenti e a base assai larga (83). 

— Linea lucida non ondulata, decorrente a distanza pressochè costante dalla base 
delle M.; verruche assai sporgenti (5). 

3. Apice delle malpighiane tronco; parte situata fuori della linea lucida ialina. 

L. filiformis (Lam.) J. Gray. 

— Apice delle malpighiane appena rotondato (4). 

4. Parte mediana della membrana delle M., ispessita, onde risulta una fascia me- 
diana più chiara. 

L. pannomicus (Jacq.) Garcke. 

— Parte mediana della membrana delle M., ispessita solo nelle cellule più lunghe, 

formanti le verruche, onde fascia mediana più o meno chiara. i 
L. heterophyUus L. 


— M. molto larghe e a lume molto largo. 
L. sylvester L. 


110 GIULIA GIARDINELLI 34 


5. M. in numero di Ta 

L. Nissolia L. 

40-45 

100 

6. M. aventi il lume cellulare occupato da plasma (che è bruno) di lunghezza diffe- 
rente, onde fascia pigmentata basale ad altezza variabile (7). 

— M. aventi il lume cellulare occupato da plasma di lunghezza uguale, onde fascia 
basale pigmentata, a margini rettilinei e di altezza costante. 

L. hirsutus L. 


— M. con altezza di pigmento e disposte in modo da formare delle creste carat- 


— M. in numero di formanti verruche molto sporgenti (6). 


teristiche di questa specie. 

C. arietinum L. 
7. Verruche ottuse, rotondate all’apice (8). 
— Terminazione delle verruche acuta. 

L. annuus L. 

8. Pigmento bruno; M. tronche all’apice (9). 
— Pigmento rossiccio: M. terminate in punta conico-acuta. 

L. setifolius L. 


9. Verruche sempre distanti l’una dall’altra non più della lunghezza della base di 


una di esse. 
L. angulatus L. 


10. M. tronche all'apice, onde il margine risulta nettamente rettilineo, oppure roton- 
date, mai conico-acute (11). 
M. terminate in punta conico-acuta (47). 
M. colorate all’esterno della linea lucida (12). 
M. ialine all’esterno della linea lucida (24). 
M. finissime, in numero di più di ETA 

V. leucantha Biv. 


100 
T00. (13). 


13. M. poco pigmentate al disotto della linea lucida (14). 
— M. molto pigmentate al disotto della linea lucida (21). 
14. Colorazione rosea al disopra della linea lucida; corpuscoli del Beck ben evidenti, 


—  M. larghe in numero meno di 


ma situati ad altezza un po’ diversa; spessore del tegumento superiore a 4 90; 
malpighiane a lume piuttosto stretto. 
L. grandiflorus S. et S. 

— M. citrine o ialine al disopra della linea lucida (15). 

15. Corpuscoli del Beck evidenti; pigmento scarso in tutta la lunghezza delle M.; 
colorazione citrina fuori della linea lucida (16). 

— Corpuscoli del Beck poco evidenti; pigmento scarso e solo nella parte basale (19). 

16. Corpuscoli del Beck disposti tutti alla stessa altezza; lume cellulare delle M. 
fortemente ristretto (17). 

— Corpuscoli del Beck disposti ad altezza un po’ diversa; lume cellulare grada- 
tamente ristretto (18). 


dI 
UY 


18. 


19. 


20. 


SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 11l 


. Papille ottuse; ispessimenti della parete laterale delle M. molto convessi e pro- 


nunciati. 
V. Cracca L. 
Terminazione delle M. perfettamente tronca. 
L. Linnaei Rouy pp. 
Corpuscoli del Beck ben evidenti; terminazione delle M. ispessita, quindi linea 
lucida brillante; plasma e pigmento scarsi. 
V. sparsiflora Ten. 
Corpuscoli del Beck poco evidenti; terminazione delle M. non ispessita; plasma 
e pigmento abbondante. 
V. dumetorum L. 
Spessore totale del tegumento, inferiore a pu 100. 
V. tetrasperma (L.) Moench. 
Spessore totale del tegumento, superiore a 4100 (20). 
Lume cellulare delle M. assai ristretto, eguale allo spessore della membrana; 
espansione basale priva di plasma; strato profondo, ricco di pigmento. 
V. lutea L. 
Lume cellulare un poco più ampio; assenza di espansione basale priva di plasma. 
V. ochroleuca Ten. 
Lume cellulare ampio, a clava. 
V. pisiformis L. 


. Pigmento rossastro, assai più abbondante in prossimità della base delle M. 


V. cassubica L. 
Pigmento presso a poco egualmente diffuso in tutta la parte situata sotto la 
linea lucida (22). 
Pigmento più abbondante verso l’apice delle M. 
L. sazatilis (Ven.) Vis. 


. M. fortemente ispessite alla base (23). 
M 


. non ispessite alla base. 
V. elegans Guss. 


. M. aventi la linea lucida, situata a 1/4 dell’altezza. 


V. pseudo-Cracca Bert. 
M. colla linea lucida, situata a 1/3 dell’altezza. 
V. altissima Desf. 


. Parte basale delle M. assai ispessita, onde il complesso appare come una fascia 


ialina, che spicca sulla parte rimanente più o meno pigmentata (25). 
Parte basale delle M. non ispessita (36). 


. Lume delle M. pressochè regolare (26). 


Lume delle M. irregolare (32). 


. M. tronche (27). 


M. ottuse, rotondate, appena sporgenti (28). 


. Pigmento bruno, abbondante in tutto il tratto sotto la linea lucida. 


L. odoratus L. 
M. ialine o leggermente citrine sotto la linea lucida. 
L. niger (L.) Bernh. 


32. 


33. 


34. 


S5. 


38. 


GIULIA GIARDINELLI 36 


. Spessore totale del tegumento, superiore a u 200 (29). 


Spessore totale del tegumento, inferiore a u200 (80). 


. Pigmento bruno abbondante in tutto il tratto sotto la linea lucida, che è posta 


subito sotto il margine esterno. 
V. bithynica L. 
Assenza assoluta di pigmento in tutto il tratto sotto la linea lucida che è posta 
a 1/3 dell'altezza. 
L. Ochrus (L.) D. C. 


. M. terminate in papille leggermente acute. 


V. Marschalii Are. 
M. terminate in papille ottuse arrotondate (31). 


. Spessore del tegumento, inferiore a u 100. 


V. Barbazithae (Ten.) Guss. 
Spessore del tegumento, superiore a u 100. 
L. Clymenum L. 
Lume con bruschi allargamenti e restringimenti (38). 
Lume leggermente ristretto verso la parte mediana, onde, per l’ispessimento 
della membrana, appare una larga fascia chiara (85). 
Cellule a colonna colla parte mediana cilindrica il doppio più lunga che larga. 
V. Faba L. 
Cellule a colonna molto schiacciate e poco divisibili; semi a forma piramidale; 
spessore del tegumento inferiore a u 100. 
V. Ervilia (L.) W. 
Cellule a colonna piuttosto corte; semi angolosi, fortemente compressi; spessore 
del tegumento superiore a u 100. 
L. sativus L. 
Cellule a colonna piuttosto corte; semi di forma sferica (34). 
Pigmento abbondante sotto la linea lucida. 
P. arvense L. 
Assenza di pigmento. 
P. sativum L. 


Numero delle M., meno di da 
L. sphaericus Retz. 
Ai). 
Numero delle M., più di 400° 


V. maculata Presl. 


. M. assolutamente tronche all’apice (87). 


M. coll’estremità appena sporgente (44). 


. Lume cellulare relativamente regolare, senza restringimenti nella parte me- 


diana (38). 
Lume cellulare ristretto verso la metà e irregolare (42). 
M. in numero superiore a 00, 

100 
V. Lens (L.) Coss. et Germ. 
90 


M. in numero inferiore a 100 


(89). 


43. 


44. 


45. 


46. 


SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 113 


. Corpuscoli del Beck, due volte più lunghi che larghi. 


L. luteus Peterm. 
Corpuscoli del Beck presso a poco cubici (40). 


. Cellule a colonna assai appiattite e difficilmente visibili. 


V. hirsuta (L.) S. F. Gray. 
Cellule a colonna poco alte, ma sempre visibili (41). 


. Semi pressochè sferici, di color giallo chiaro, di mm. 3 di diametro. 


L. Linnaei Rouy pp. 
Semi di forma ovata ben definita. 
L. vernus (L.) Bernh. 


. Pigmento assai scarso o esistente solo nella parte basale delle M., e molto fre- 


quentemente donante alle M. un'intensa colorazione bluastra. 
L. Aphaca L. 

Pigmento esistente alla base e all’apice del lume cellulare; nella parte mediana, 
per l’ispessimento della membrana, si vede una larga fascia ialina (438). 

Pigmento diffuso per tutta la lunghezza delle M. 

L. pratensis L. 

Lume ampio, tegumento seminale assai spesso. 

L. venetus (Mill.) Hall. et Whlf. 

Lume ristretto, tegumento sottile. 

L. niger (L.) Bernh. 

Semi frequentemente macchiati per pigmento nero, che interessa le M. nella 
parte situata sotto la linea lucida; onde si hanno due colorazioni, una gene- 
rale bruna e una nera qua e là in alcune cellule. 

° V. sativa L. 

Semi non tali (45). 

Pigmento più abbondante verso la base delle M.; fascia ialina mediana assai 
evidente (46). 


Pigmento scarso in tutte le M. 
L. tuberosus L. 


Pigmento abbondante diffuso in tutte le M. 
V. sylvatica L. 
Estremità inferiore delle M. ispessita, e in tale spessore è scavata l'estrema 
cavità del lume, che è vuota di plasma, onde linea chiara basale. 
V. grandiflora Scop. 
M. non aventi tale carattere. 
V. sepium L. 
M. di color citrino all’infuori della linea lucida (48). 
M. ialine all’imfuori della linea lucida (54). 
M. fortemente pigmentate in bruno sotto la linea lucida (49). 
M. ialine o citrine sotto la linea lucida (50). 


. Una piccola porzione di lume cellulare, poco sopra la base, è priva di plasma, 


onde appare una linea chiara continua. 
V. melanops S. et S. 


Lume cellulare completamente pieno di plasma, quindi manca una linea bril- 
lante basale. V. glauca Presl. 


Serie II. Tox. LXII. ©) 


ti4 


50. 


51. 


55. 


56. 


57. 


GIULIA GIARDINELLI 38 


M. di color citrino o verdiccio nella zona sotto la linea lucida (51). 
M. ialine nella zona sotto la linea lucida. 
V. sicula (Raf.) Guss. 
Parte basale della membrana delle M., spessa assai, in modo da formare una 
sottile fascia ialina. 
V. varia Host. 
Membrana basale sottile, perciò la fascia ialina è pochissimo visibile (52). 


. Semi tipicamente sferoidali. 


V. villosa Roth. 
Semi più o meno compressi prismatici (58). 


. Semi di diametro inferiore a mm. 3. 


V. tenuifolia Roth. 
Semi di diametro superiore a mm. 3. 
V. atropurpurea Desf., V. onobrychioides L. 


. Corpuscoli del Beck in numero di due o tre in ciascuna cellula e foggiati a pan 


di zucchero. 
V. macrocarpa Moris. 
Corpuscoli del Beck solitari e prismatico-cubici (55). 
Pigmento abbondante in tutto il tratto situato sotto la linea lucida (56). 
Pigmento scarso o limitato solo alla parte basale del lume (61). 
Porzione estrema basale del lume cellulare delle M. vuota, perciò linea chiara 
basale (57). 
Porzione estrema basale del lume cellulare delle M. piena di plasma; nessuna 
linea ialina basale (58). 
Porzione estrema basale piena di plasma, ma una strozzatura della membrana 
sopra la base, determina una fascia ialina. 
V. pannonica Crantz. Jacq. 


Semi angolosi. 
L. Cicera L. 


Semi non angolosi, e in cui i tre diametri sono disuguali. 
L. tingitanus L. 


Semi pressochè sferoidali. 
V. hybrida L. 


. Lume cellulare delle M. foggiato a biscotto, onde l’ispessimento mediano della 


membrana dà luogo a una larga fascia chiara (59). 
Lume cellulare assai irregolare, con brusche dilatazioni e restringimenti (60). 


. Spessore totale del tegumento, superiore a u 100. 


V.purpurascens D. 0. 
Spessore totale del tegumento inferiore a pu 100. 
V. segetalis Thuill. 


. Un forte e breve restringimento della membrana determina un'evidente fascia 


ialina, poco sotto Ia linea lucida, che spicca sul fondo assai pigmentato. 
V. multifida Wallr. 
Un forte restringimento della membrana determina una linea ialina poco sopra 


la base. 
L. articulatus L. 


39 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 115 


60. Ispessimento assai meno marcato, ma più esteso, onde fascia ialina basale, un 
po’ più larga, ma meno evidente. 
V. angustifolia (L.) Reich. 
61. Spessore totale del tegumento, superiore a u 200. 
V. narbonensis L. 
— Spessore totale del tegumento, inferiore a u 200 (62). 


° 513 ò O LO do SR 00) 
62. Pigmento scarsissimo in tutte le malpighiane; M. finissime, più di + 


100° 
V. disperma D. C. 
100 


— Pigmento più abbondante; M. meno di 100° 


V. peregrina L. 


CHIAVE ANALITICA 


fondata prevalentemente sui caratteri morfologici esterni del seme. 


1. Semi a superficie liscia lucente (2). 
— Semi a superficie opaca (9). 
— Semi a superficie verrucosa (60). 
2. Semi aventi i due diametri perpendicolari all’asse del chilario presso a poco 
eguali; cioè cilindroidi, onde il seme risulta come un cilindro coll’asse paral- 
lelo al chilario (8). 
— Semi aventi i due diametri disuguali, onde i semi risultano lenticolari, coll’asse 
minore perpendicolare all’asse del chilario (6). 
3. M. fortemente pigmentate in rosso bruno (4). 
— M. ialine o citrine (5). 
4. Spessore del tegumento, superiore a u 100. 
L. luteus Peterm. 
— Spessore del tegumento, inferiore a p 100. 
V. pubescens Ten. 
5. Lume cellulare relativamente regolare, senza restringimenti nella parte mediana. 
L. vernus Bernh. 
— Lume cellulare ristretto verso la metà e irregolare. 
L. niger Bernh. 
6. M. perfettamente tronche, onde margine rettilineo (7). 
— M. appena appena sporgenti. 
L. saxatilis Vis. 
7. Pigmento esistente specialmente nella parte basale, e spesso determinante in tutte 
o in parte delle cellule un’intensa colorazione bluastra. 
L. Aphaca L. 
— Pigmento diffuso in tutta o quasi la lunghezza delle M. (8). 
8. Pigmento diffuso per tutta la lunghezza delle M. 
L. pratensis L. 
— Pigmento esistente alla base e all’apice del lume cellulare; nella parte mediana 
per l'ispessimento della membrana si ha una larga fascia ialina. 
L. venetus (Mill.) Hall. et Whif. 


116 


22. 


GIULIA GIARDINELLI 40 


Semi a contorno irregolare, angoloso, mai lenticolare o sferoidale (10). 
Semi a contorno sferoidale, cilindroide o lenticolare (14). 


. Chilario nero grandissimo. 


V. Faba L. 
Chilario piccolo ristretto (11). 


. Semi piccoli (meno di mm. 3 di diametro). 


i L. sphaericus Retz. 
Semi grandi (più di mm. 3 di diametro) (12). 


. Lume cellulare con bruschi allargamenti e restringimenti. 


L. sativus L. 
Lume cellulare senza bruschi allargamenti e restringimenti (138). 


. Spessore del tegumento, superiore a u 100. 


L. Cicera L. 
Spessore del tegumento, inferiore a u 100. 
V. Ervilia (L.) W. 


. Semi decisamente sferoidali (15). 


Semi più o meno lenticolari, cioè simmetrici secondo il piano passante pel chi- 
lario, oppure compressi secondo un piano perpendicolare all’asse del chilario (26). 


. Semi grandi (più di mm. 4 di diametro) (16). 


Semi di grandezza media (tra mm. 4 e mm. 2) (21). 
Semi piccoli (meno di mm. 2) (25). 


. Superficie chilariale larga, ovale (17). 


Superficie chilariale lineare stretta (20). 


Superficie chilariale lineare lunghissima. 
V. dumetorum L. 


. Cellule a colonna colla parte mediana cilindrica ben visibile e il doppio più 


lunga che larga. 
V. narbonensis L. 


Cellule a colonna colla parte mediana non cilindrica poco visibile (18). 


. Spessore totale del tegumento, superiore a u 200. 


V. bithynica L. 
Spessore totale del tegumento inferiore a u200 (19). 


. M. perfettamente tronche, ialine nel tratto sotto la linea lucida. 


P. sativum L. 
M. appena sporgenti in papille a base assai larga; pigmento bruno, special- 


mente nel tratto mediano. 
P. arvense L. 


. Linea lucida situata a 1/3 delle M. 


L. Ochrus (L.) D. C. 


Linea lucida subito sotto la superficie. 
L. odoratus L. 


. Chilario lineare (22). 


Chilario ovato. 
V. disperma D. C. pp. 


M. perfettamente tronche. 
L. Linnaci Rouy. 


M. terminate in papille ben visibili (28). 


41 


29. 


30. 


31. 


SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 117 


. Papille conico-acute (24). 


Papille ottuse-rotondate. 
V. heterophyUWla Presl. pp. 


. M. citrine fuori della linea lucida. 


V. villosa Roth. 
M. ialine fuori della linea lucida. 
V. segetalis Thuill. pp. 


. M. perfettamente tronche. 


V. gracilis Loiss. 
M. leggermente papillate. 
V. tetrasperma (L.) Moench. 


. Semi a superficie chilariale lineare, in cui i margini di essa sono fra loro pa- 


ralleli (27). 
Semi a superficie chilariale ovata, o in cui i margini di essa decorrono per bre- 
vissimo tratto paralleli (49). 


. Semi in cui la superficie chilariale occupa almeno metà della circonferenza (28). 


Semi in cui la superficie chilariale occupa meno della metà della circonferenza (32). 


. Semi discoidei, in cui i due diametri sono sub-eguali e prevalgono molto sul 


terzo diametro. È 
V. grandiflora Scop. 


Semi non discoidei, in cui i tre diametri sono di lunghezza assai diversa (29). 
Semi sub-sferoidali (80). 
Porzione estrema basale del lume delle M. vuota, onde linea basale chiara do- 
vuta alla mancanza di plasma. 
L. tingitanus L. 
Pigmento scarso e limitato solo alla parte basale del lume. 
V. peregrina L. 
Spessore del tegumento superiore a u 200. 
V. sepium L. 
Spessore del tegumento inferiore a u 200 (31). 
Spessore del tegumento inferiore a pu 100. 
M. intensamente pigmentate in bruno. 
V. sylvatica L. 


Spessore del tegumento superiore a pu 100; M. ialine o citrine. 
V. pisiformis L. 


. Semi in cui il chilario è più o almeno sei volte il suo diametro (38). 


x 


Semi in cui il chilario è meno di quattro volte il suo diametro (46). 


. Semi grandi (più di mm. 3) (84). 


Semi piccoli (meno di mm. 3) (43). 


. Numero delle M. più di 190, 
V. disperma D. C. pp. 
Numero delle M. meno di 190 (35). 


100 


118 GIULIA GIARDINELLI 42 


35. Pigmento nero nelle M., onde queste restano tipicamente macchiate. 
V. sativa L. 
— - Assenza di pigmento nero (36). 
86. Corpuscoli del Beck in numero di due o tre in ciascuna cellula e foggiati a pan 
di zucchero. 
V. macrocarpa Moris. 
— Corpuscoli del Beck isolati e prismatico-cubici (37). 
37. M. ialine fuori della linea lucida (88). 
— M. citrine fuori della linea lucida (40). 
838. Spessore del tegumento, superiore a u 100 (89). 
— Spessore del tegumento inferiore a u 100. 
V. Lens (L.) Coss. et Germ. 


39. Membrana basale delle M. fortemente ispessita, onde fascia basale molto larga. 
L. Clymenum L. 
—  Membrana basale delle M. non ispessita, oppure così leggermente da dare una 
fascia basale sottilissima. 
V. heterophylla Presl. pp. 
40. M. terminate in papille ottuse-rotondate (41). 
— M. in papille conico-acute (42). 
41. M. ispessite alla base, onde linea lucida brillante. 
V. sparsiflora Ten. 
— M. non ispessite alla base; ispessimenti della loro parete laterale molto con- 
vessi e pronunciati. 
V. Cracca L. 
42. Semi di diametro inferiore a mm. 3. 
— Semi di diametro superiore a mm. 3. 
V. tenuifolia Roth., V. atropurpurea Desf., V. onobrychioides L. 


43. M. perfettamente tronche, onde il margine risulta perfettamente rettilineo. 
V. hirsuta S. F. Gray. 
— M. leggermente papillate (44). 
44. M. fortemente ispessite alla base, onde si ha una sottile fascia ialina, che spicca 
nel complesso intensamente pigmentato. 
V. altissima Desf. 
— M. non ispessite (45). 
45. Lume leggermente ristretto verso la parte mediana, onde per l’ispessimento 
appare una larga fascia ialina. 
V. maculata Presl. 
— Assenza, o quasi, di fascia chiara; pigmento scarso e limitato alla parte basale 
delle M. 
V. ochroleuca Ten. 
46. Semi a forma lenticolare. 
V. Marschalii Arc. 
—. Semi non lenticolari (47). 


SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 


. M. ialine all’esterno della linea lucida. 
V. segetalis Thuill. 
M. colorate all’esterno della linea lucida (48). 
. M. grosse e brunicce. 
V. pseudo-Cracca Bert. 
M. finissime e citrine. 
V. glauca Presl. 
. Semi sub-sferoidali (50). 
Semi cilindroidi (59). 
. M. ialine all’esterno della linea lucida (51). 
M. colorate all’esterno della linea lucida (56). 


119 


. Parte basale delle M. spessa, in modo da formare una fascia ialina, che spieca 


sul fondo pigmentato (52). 
Parte basale delle M. non ispessita (53). 


. Un forte restringimento della membrana determina una linea chiara poco sopra 


la base. 
L. articulatus L. 
Assenza assoluta della linea chiara sopra la base. 
V. varia Host. 
. Spessore del tegumento, superiore a 4200 (54). 
Spessore del tegumento inferiore a u 200. 
V. elegans Guss. 
. M. ialine sotto la linea lucida. 
V. spuria Raf. 
M. pigmentate sotto la linea lucida (55). 


. Numero delle papille 222°, 
L. grandiflorus S. et S. 
Numero delle papille più di i 
V. cassubica L. 
. M. finissime, in numero di circa do 
V. leucantha Biv. 
M. grosse, meno di di (57) 


. M. ispessite alla base, onde fascia chiara basale (58). 
M. non ispessite alla base e presentanti un’espansione priva di plasma. 


V. lutea L. 
. Fascia basale larga ben evidente. 


V. pannonica Crantz., V. purpurascens D. ©. 
Fascia chiara meno evidente, ma più estesa. 
V. angustifolia (L.) Reich. 
. M. tronche. 
L. filiformis (Lam.) J. Gray. 
M. appena sporgenti. 
L. tuberosus L. 


120 GIULIA GIARDINELLI dd 


60. Superficie chilariale lunghissima lineare (61). 
— Superficie chilariale larga ovata (62). 
61. Semi cilindroidi. 
L. heterophyllus L. 


— Semi sferoidali globosi. 
L. sylvester L. 


— Semi angolosi. 
L. angulatus L. 


62. M. col lume cellulare occupato da plasma di lunghezza uguale, onde risulta una 
fascia pigmentata a margini rettilinei e di altezza costante (63). 

— Fascia basale pigmentata, formata da plasma di lunghezza differente, onde di 
altezza variabile (66). 


63. M. orientate in modo da formare delle creste. 
C. arietinum L. 


— M. formanti solo delle verruche (64). 


64. Semi angolosi. 
V. lathyroides L. 


— Semi sub-sferoidali (65). 


65. Semi di diametro superiore a mm. 3. 
L. hirsutus L. 


— Semi di diametro inferiore a mm. 3. 
L. Nissolia L. 


66. Terminazione delle verruche acuta. 
L. annuus L. 


—  Terminazione delle M. conico-acuta. 
L. setifolius L. 


La struttura dei tegumenti seminali e le affinità sistematiche. 


I numerosi caratteri rilevati nell'esame dei tegumenti seminali delle Vicioidee, 
e in parte utilizzati nelle chiavi analitiche riportate, si prestano a risolvere uno dei 
quesiti, che mi ero proposta nell’inizio di queste ricerche, di verificare cioè, se e in 
quanto l’affinità sistematica delle diverse specie, coincidesse coll’affinità morfologica 
e strutturale dei semi. L’assoluta mancanza di caratteri distintivi, tra i diversi generi 
delle tribù, lasciava già presumere, che nei gruppi sistematici minori sarebbe stato 
assai difficile trovare delle distinzioni nette, e la seriazione del caratteri utilizzati, 
fra le chiavi analitiche, mostra quanto siano state fondate queste presunzioni (1). 

Nelle chiavi, noi vediamo così delle specie, sistematicamente assai affini, situate 
a distanza notevole, e viceversa troviamo vicine specie o addirittura generi ben 
distinti. 

Tuttavia le diverse sottosezioni, nelle quali si suddividono i due più importanti 
generi, comprendono delle specie, nelle quali i semi mostrano una certa affinità nella 
loro struttura. Mi limiterò a brevi cenni sopra queste affinità e differenze. 


(1) Per la sistematica delle specie del sruppo delle Vicioidee, io ho seguito: A. Frorr, G. PAoLETTI 
A. BeGuinor, Flora analitica d’Italia, Vol. II Vicioidee, pag. 98-122, Padova 1900-1902 e AscHeRrsoNn 
u. GraeBNnER, Synopsis der Mitteleuropdischen Flora, BA. VI, 1900. 


45 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 121 


Viciae. 


Le due specie italiane della Sottosez. Faba (V. Fabda L., V. narbonensis L.) sono 
affatto differenti per caratteri, del resto, assai facili a rilevarsi. 

Pure profonde differenze si osservano nella Sez. Protovicia: la V. lathyroides L., 
costituisce un tipo a sè, per le dimensioni del seme, per le verruche che ne ornano 
il tegumento, per lo spessore di questo, per la forma delle Malpighiane. La V. sepium L., 
V. peregrina L., V. sativa L. hanno una struttura delle malpighiane differente, ma 
relativamente affine per la conformazione più o meno spiccatamente ad ampolla del 
lume di esse; irregolarissimo è il lume delle malpighiane nella V. hybrida L., ciò 
che la distingue da tutte le altre. Affini fra loro sono invece la V. pannonica Crantz. 
Jacq. e la V. melanops S. et S., nelle quali il lume delle malpighiane presenta una 
espansione brusca a circa !/3 della base, mentre al di sopra di questa la membrana 
sì ispessisce, onde nella sezione del tegumento risulta una linea ialina a !/3 dalla 
base, sottoposta ad un’ampia fascia ialina a metà altezza. 

Una maggiore affinità hanno le specie della sez. Cracca; di questa la V. B:- 
thynica (L.) L., che costituisce del resto una sotto-sez. a sè, si distingue pel margine 
esterno perfettamente ialino; tutte le altre, siano della sottosez.  Vicio-Cracca, che 
Ervo-Cracca, hanno questo margine colorato in giallo. Notevole è un'ampia espan- 
sione del lume, che si osserva alla base delle malpighiane della V. onobrychioides L. 
e della V. altissima Desf. e che manca nelle altre. Pressochè nulla è l'affinità tra le 
diverse specie della sez. Ervum, salvo il carattere comune dello scarso sviluppo in 
altezza delle cellule a colonna, ciò che le rende poco visibili; tale carattere però 
manca nell'Erv. hirsutum L. S. F. Gray. 


Lathyrus. 


In questo genere la presenza delle verruche del tegumento, pur così costante 
per forma e per struttura nelle diverse specie, non è propria di alcune sezioni, ma 
la osserviamo nella sez. Nissolia, in due specie della sez. Cicercula (L. hirsutus L., 
L. annuus L.) e in altre due della sez. Orobastrum: L. setifolius L. e L. angulatus L. 

Di un certo interesse sarebbe la presenza di un forte ispessimento della parte 
basale delle malpighiane, che determina nelle sezioni trasversali l'apparire di una 
linea ialina, appena al di sopra delle cellule a colonna; tale presenza è costante 
nella sez. Clymenum e Cicercula, ma già nella sez. Eulathyrus troviamo che delle due 
specie, L. sylvester L. e L. tuberosus L., la prima non presenta questi ispessimenti. 
Nella sez. Orobastrum è notevole la regolare conformazione del lume delle malpi- 
ghiane, nel quale cioè non si verificano mai delle variazioni molto importanti del 
diametro trasverso; la stessa affinità si osserva pure nella sez. Orobus. Nè minori 
sono le discordanze, talvolta assai spiccate, che si osservano tra specie e varietà, o 
tra varietà di una medesima specie. 

Per dare degli esempi, accennerò alle differenze notevoli, che esistono tra la 
V. grandiflora Scop. e la V. Barbazitae (Ten. et Guss.), tra la V. spuria Raf. e la 
V. hybrida L., tra la V. villosa Roth. e la V. pseudo-Cracca Bert., tra la V. pu- 

Serre II. Tox. LXII. i P 


122 GIULIA GIARDINELLI 46 


bescens (LK) e la V. tetrasperma (L.) Moench. Per vero dire queste specie sono con- 
siderate solo da alcuni autori come l’una varietà dell’altra; mentre queste differenze 
così spiccate verrebbero a dar ragione a quelli, che le considerano come specie 
distinte. 

Tuttavia non resta meno sorprendente il fatto, che anche tra specie, delle quali 
i caratteri della pianta sono così affini da dar luogo a discussione nel loro valore 
sistematico, si verifichi così scarsa analogia fra i tegumenti seminali. 

Nel gruppo della V. sativa L. le differenze fra le varietà sono pure assai 
profonde. 

Piuttosto affini sono invece la V. Lens (L.) Coss. et Germ. e la V. Marschalii Arc. 
per il carattere comune, raro nelle altre specie, della sottigliezza della membrana 
delle malpighiane appena al di sopra della base; così pure sono affini la V. Cracca L. 
e la fenuifolia (Roth.) per la regolarità e l'ampiezza del lume cellulare. 

Nel gen. Lathyrus, la struttura del tegumento coincide colla posizione siste: 
matica nelle specie seguenti: L. articulatus L. e L. Clymenum L.; L. Cicera L. e 
L. sativus L.; L. sylvester L. e L. latifolius (L.); sono all'incontro ben distinti il 
L. Linnaei Rouy e il L. tenuifolius Cess. Pass. et Gib.; il L. vernus (L.) Bernh. e 
il L. gracilis Lois. 

Questa forte discordanza che si osserva nella struttura dei tegumenti seminali 
di un gruppo, del resto così omogeneo, di piante, mi ha indotto a domandarmi se, 
per avventura, più che la discendenza comune, non avesse valore per queste specie 
l’influenza dell'ambiente, nel quale questi tegumenti seminali debbono compiere la 
loro funzione. 

Molte ricerche sono state fatte sopra il valore difensivo dei tegumenti seminali; 
ne ricordo due, che riguardano un numero grandissimo di specie, quelle del Marloth 
e del Gola (1). 

Ma affatto uniforme è la protezione meccanica offerta dal tegumento delle 
Vicioidee, e quanto alla protezione fisico-chimica’, le ricerche di Gola hanno dimo- 
strato appunto che i semi delle Leguminose, in generale, sono quelli che meno di 
ogni altro sono protetti a questo riguardo. 

Allo stato attuale delle nostre condizioni, non è quindi possibile spiegare in 
alcun modo le discordanze sulla forma e struttura dei tegumenti seminali delle 
Vicioidee. 

Tali conclusioni riescono perciò affatto contrarie all’ indirizzo che si è tentato 
di seguire in un lavoro recente del Ritter (2), il quale cerca di studiare i rapporti 
tra posizione sistematica e struttura dei tegumenti carpellari e seminali; se le sue 
constatazioni sono esatte, per quanto riguarda le Papilionacee, quando cerca di dif- 
ferenziare le diverse famiglie le une dalle altre, esse mi sembrano assai poco fon- 
date, quando procede alla distinzione dei gruppi minori. 


(4) Martora R., Veber mechanische Schiitemittel der Samen gegen schàdtliche Einfliisse von aussen. 
“ Bot. Jahrbiicher f. Sys. Pflanzenges. u. Pflanzengeorg. ,, Bd. IV, 1883, pag. 225. GoLa G., Ricerche 
sui rapporti tra i tegumenti seminali e le soluzioni saline: © Annali di Botanica ,, IU, 1905, pag. 59. 

(€) Rirrer, Die systematische Verwertbarkeit des anatomischen Baues von Friichten und Samen, 
© Beihefte z. Bot. centr. ,, Bd. XXVI, Abt. II, 1909, pag. 132. 


47 SUL VALORE SISTEMATICO DEL TEGUMENTO SEMINALE, ECC. 125 


Così nel citato lavoro, a p. 148-149, trovo che non ascrive nessuna vicioidea 
al gruppo: a) che comprende i semi a superficie esterna liscia, e ricorda invece i 
gen. Vicia e Lathyrus, nel gruppo d) comprendente specie a superficie esterna con 
ineguaglianze. Ora basta ricordare il L. Aphaca L. o pratensis L., che hanno la 
superficie addirittura lucente, per convincersi che il carattere della superficie esterna 
è di poco valore; così i due generi Vicia e Lathyrus sono distinti da lui per la 
lunghezza delle malpighiane, eguale nelle Viciae, differente nei Lathyrus. È bensì 
vero che l’Autore indica come esempi la V. pyrenaica e il L. luteus e ne indica 
espressamente i caratteri citati come propri del genere; ma il fatto di riportare a 
proposito di ogni suddivisione delle due chiavi analitiche una o più specie di un 
solo genere, lascia pensare che egli ritenga i caratteri da lui indicati come propri 
del genere. 

E non saprei come conchiudere queste ricerche altrimenti che colle parole di 
Jannicke (*), al termine di un suo lavoro sulla sistemazione anatomica delle Papi- 
lionacee: “ Noi troviamo così, che nella struttura anatomica, anche tra specie assai 
affini, si trovano delle differenze, il cui maggiore o minor valore rende possibile un 
aggruppamento, cioè il collocamento di gruppi piccoli o grandi in gruppi di mag- 
giore o minore affinità. Tuttavia non è detto con ciò, che tale aggruppamento coin- 
cida con quello sistematico, e d’altra parte non è ancora stabilito che alcune suddi- 
visioni sistematiche abbiano una determinata struttura. 

“ Fim dove si verifichi una tale coincidenza, noi non possiamo prevedere in nessun 
caso: l'osservazione deve indicarcelo caso per caso. Parimenti noi siamo in grado 
di dire qualche cosa di più, cioè fin dove e come si verifichi tale coincidenza, ma 
non più, perchè una tale coincidenza si verifica apparentemente senza regola ,. 


Torino, R. Orto Botanico, Gennaio 1911. 


(1) Jannicge W., in Wicanp A., Botanische Hefte, Marburg, 85, pag. 80. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 


Fig. V. Cracca L. Sezione trasversale del tegumento seminale; obb. C, oc. 8. 

. L. Ochrus L. Sez. trasvers. id. id.; obb. E, oc. 4. 

. L. Aphaca L. Sez. trasvers. id. id.; obb. E, oc. 4. 

V. angustifolia L. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. 

. L. tingitanus L. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. 

V. pannonica Crantz. Sez. trasvers. id. id.; obb. ©, oc. 8. 

. L. sphaericus Retz. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. 

. L. articulatus L. Sez. trasvers. id. id.; obb. E, oc. 4. 

. L. Nissolia L. Sez. trasvers. id. id.; obb. C, oc. 8. È 

. Sezione schematica del tegumento seminale di una Vicioidea: M, cellule Malpighiane; 
L, linea lucida; B, corpuscoli del Beck; €, cellule a colonna; T'P, tessuto profondo. 

>, 11. L. annuus L. Sezione trasversale del tegumento seminale; obb. À, oc. 4. 


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Le fotografie furono eseguite nel Laboratorio micro-fotografico dell’ Istituto Botanico di 
Torino. 


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G. GIARDINELLI - Tegumenti seminali delle Vicioidee Miemozie della RA. Acc. delle Scienze di Sozino. Serie Il. Vol, LXII, 


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G. Giardirelli Fot, | Off Fototecnica Ing. G. Molfese Torino 


IGILIO GUARESCHI - Francesco Selmi e la sua opera scientifica. Memorie della R. Accad. delle Scienze di Torino. Vol. LXII. | 


FRANCESCO SELMI 


SUA OPERA SCIENTIFICA 


MEMORIA 


DEL SOCIO 


ICILIO GUARESCHI 


Approvata nell'adunanza dell'8 Gennaio 1911. 


PARTE PRIMA 


IL 


Introduzione. Biografia. È 


A Francesco Selmi, chimico di valore grandissimo, si debbono molte ricerche 
importanti, e basterà che io ricordi la scoperta delle ptomaine ed i suoi studi sulle 
pseudosoluzioni o soluzioni colloidali, le ricerche sullo solfo, sui cristalli misti iso- 
morfi, sul ioduro mercurico, sulle soluzioni sovrasature, sui composti organometallici 
del mercurio, sull’azione dell'acido solfidrico sul gas solforoso, sulla tetravalenza del 
piombo, sull’azione di contatto, sulla nitrificazione, sui fermenti diastasici, sul potere 
riduttore dell’albumina e delle muffe, sulle patoamine e quindi sull’autointossicazione, 
sul sangue, sul latte, le varie ricerche chimico-tossicologiche, ecc. 

Discorrere di Francesco Selmi (1), dire le lodi dell'animo e dell’ingegno di que- 
st'uomo è còmpito elevatissimo ed anche difficile; ma tanto più volentieri soddisfo 
al desiderio dell'animo mio perchè la figura di Francesco Selmi è di quelle poche 
che il tempo rende più visibili, più belle, più conformi al vero; è una di quelle figure 
d'uomo e di scienziato il cui valore morale e scientifico ingrandisce col tempo. 

Gli elogi storici dovrebbero essere sempre scritti non prima di cinquanta o di 
trenta anni dopo la morte dello scienziato che vuolsi onorare. Amedeo Avogadro 
e Francesco Selmi oggi trovansi in queste condizioni; essendo morto il primo nel 
1856 ed il secondo nel 1881. I 


(1) Francesco Selmi era Socio corrispondente della nostra Accademia sino dal 29 giugno 1845, 
quando insegnava la Chimica in Reggio Emilia; però negli Atti e Memorie dell’Accademia non ho 
trovato che le poche parole colle quali A. Sobrero nel 1881 volle ricordati i meriti del collega ed 
amico perduto (“ Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino ,, t. XVIII, p. 215). 


126 ICILIO GUARESCHI DI 


E qui mi tornano alla memoria le belle parole del Naegeli pronunziate nel 
suo discorso De l’individualité dans la nature (Zirich, 1864): 


Nous ne pouvons nous défendre d’une certaine tristesse auprès de la tombe d’un grand 
homme. Quelle somme d’expérience et de savoir a été perdue pour la société humaine! Pendant 
toute une vie son esprit a amassé des trésors de toute sorte, que sa mort nous enlève. L'’homme 
d’État, l’artiste, le savant, laissent dans leurs ceuvres des monuments de leur génie, de leur 
activité, de leur science. Mais avec eux meurent la pénétration, l’imagination, l’énergie, le 
dévoument qui .ont créé ces ceuvres. Les produits restent, l’instrument disparaît. 


Molti anni fa io scrivevo alla egregia signora Marietta Roncagli vedova Selmi: 
“ Grata e cara mi è sempre la memoria del nostro Estinto, il cui nome s'ingrandisce 
“sempre ,. Desideravo già allora scrivere una completa biografia del caro Uomo, e ne 
avevo già da tempo preparato il materiale, ma volli, e dovetti anche, attendere; volli 
che il momento fosse propizio per far conoscere, per quanto mi è possibile, degna- 
mente, la vita e la multiforme opera scientifica di questo chimico geniale, che ha avuto 
durante la vita tante contentezze nella Famiglia, negli allievi e nell'amicizia, ma anche 
molte amarezze nella scienza. Egli come altri chiari ingegni del suo tempo, che tanto 
avevano fatto per la loro patria, come cittadino e come scienziato, non ebbe quelle 
ricompense, che non chiese mai, ma che avrebbe ben meritato. Appunto nel 1911, il 
13 d'agosto, si compiono trenta anni dacchè questo uomo buono, geniale, coltissimo 
ed a cui la chimica deve tante scoperte importanti, è morto. Ed io desidero che 
appunto in quest'anno sia conosciuto questo mio scritto destinato alla sua memoria. 
Il suo nome, il suo ricordo, devono vivere non solo nell'animo dei vecchi amici, 
discepoli, colleghi e conoscenti, ma nella storia imparziale della scienza. 

Francesco Selmi è uno di quegli scienziati di gran valore che deve essere cono- 
sciuto anche come uomo privato e pubblico, perchè la gioventù specialmente, ha 
bisogno di questi stupendi esempi. Egli ha fatto molto pel proprio paese, sia come 
cittadino sia come scienziato. Come cittadino ha contribuito dal 1845 al 1870 al 
riscatto della patria sacrificando le comodità della vita. E di tutto ciò non chiese 
mai al Governo, direttamente o indirettamente, dei compensi, nè eccessivi e molte. 
plici stipendi. Soffrì l’ingratitudine di alcuni di coloro a cui aveva fatto molto bene; 
ma in questi casi egli era solito dare una scrollatina di spalle; ed invero il 7 aprile 
1878 mi scriveva a questo proposito : 


uu Nella sua mi parla di persecuzioni. Non me ne meraviglio. Io, per tutta la mia vita 
ne soffersi. Unico rimedio è quello di non abbadarvi, o sforzarsi di non abbadarci, stringersi 
nelle spalle e vincere l’invidia coi lavori. 


Selmi fu sovratutto un uomo onesto nel più largo significato della parola; egli 
mai ha fatto del male, pensò sempre a fare il bene, anche a coloro che non erano 
della sua scuola; era in lui innato il sentimento della giustizia. È stato detto, non 
rammento più bene da chi, ma assai giustamente, che Francesco Selmi ebbe spesso 
a provare le punte avvelenate e disoneste dell'invidia e della gelosia. Ha dovuto com- 
battere contro dei malvagi, ma combattè sempre con armi leali; provava un vero 
senso di amarezza quando pensava a certe bricconate, come soleva denominare o qua- 
lificare il modo di comportarsi di taluni verso di lui. Non odiava mai, piuttosto 


3 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 277 


disprezzava. Scrivendomi il 21 aprile 1875 di un suo collega, invidioso e poco edu- 
cato, diceva (1): 


Feci molti sacrifici per mantenermigli amico, ma in fine mi accorsi che tornava lo stesso 
come insaponare la coda all’asino. 


11 senso della giustizia per la memoria dei nostri grandi che non sono più viene 
talora in ritardo, ma oggi ci sentiamo orgogliosi pensando che le ricerche e le idee 
del Selmi su svariati argomenti di chimica fisica, di chimica inorganica, di chimica 
tossicologica, di chimica biologica, ecc., sono state non solo confermate, ma genera- 
lizzate, e costituiscono dei grandi nuovi capitoli della scienza. 

Egli era giusto estimatore dei lavori altrui; nei suoi libri non dimenticava mai 
le ricerche dei chimici italiani, anche suoi contemporanei, e ricorda spesso Malaguti, 
Bizio, Piria, Ruspini, L. Bonaparte, Sobrero, ecc., e non dimenticava nemmeno i più 
giovani chimici allievi dei suoi colleghi, quale Bertagnini. Hanno fatto altrettanto 
alcuni dei suoi contemporanei, che scrissero di chimica? No. 

Sempre cortese, moderato nella polemica, se vi era trascinato ; sempre con garbo 
accenna talora alla priorità dei suoi lavori quando avveniva che altri facessero 
ricerche od osservazioni identiche alle sue. 

Kra modesto, umile anche, ma dignitosamente; era di quei pochi uomini che 
temono sempre di non sapere abbastanza e mentre lodano gli amici ed i colleghi, 
credono di sapere poco. Povero Selmi, sotto certi riguardi assomigliava alla mia 
Maria, ch'Egli conobbe solamente bambina! E di Lui posso dire coscienziosamente, 
come già scrissi della indimenticabile mia Maria: 


Tenace, saldo, fedele era nell’amicizia; avrebbe volentieri sacrificato sè stesso per i suoi 
amici: mai albergò in quell’anima nobile il benchè minimo sentimento di gelosia, di invidia; 
Egli amava l'amicizia del cuore, profonda, non l’apparenza. 


Al suo sapere, alle sue virtù non cercò compensi nelle laudi del mondo e visse 
essenzialmente per la scienza e per la famiglia, quando la patria non aveva più 
bisogno di lui. Tutto deve all’elevato suo ingegno ed al suo lavoro. 

Era alieno dagli applausi del gran pubblico, e non ha mai fatto discorsi o con- 
ferenze in cui continuamente e ripetutamente ricordasse le proprie ricerche o qualche 
altra sua benemerenza verso la scienza. Ha fatto delle ricerche numerose ed impor- 
tanti in quei campi della scienza in cui poteva lavorare senza aver avuto, come si 
direbbe oggi, un indirizzo; non era di quelli che lavoravano secondo il così detto 
metodo! Ma aveva l’ingegno e con questo poteva produrre, creare, senza bisogno 
dell'appoggio di altri. 


(1) Augusto Laurent in un momento di sfiducia, ed esacerbato dalle ingiustizie e dalla malva- 
gità umana, scrisse, non rammento bene in quale parte delle sue opere, queste parole: “ Si, le 
“ matin, on enfermait deux chimistes, le soir on n’en retrouverait que les extrémités, tant ils 
“ auraient mis de férocité è s’entredévorer ,. 

Ma bisogna dirlo subito, Selmi non era fra questi chimici; rare volte gli sfuggiva qualche 
parola amara per qualcuno de’ suoi pochi, ma accaniti, nemici; l’8 giugno 1879 mi scriveva: 

€ .....X. ha due odii in cuore; uno, feroce, contro dello ..... ; un altro, felino, contro di me. 
“ Posso dire però che mi odia perchè in altri tempi gli fui di giovamento ed è il solo che mi onori 


“ della sua avversione in compagnia del X”.....,. 


128 ICILIO GUARESCHI 4 


A Selmi mancava l’arditezza, mancava l’audacia nell'affermare e più ancora nel 
far valere le sue idee; aveva non molte doti per vincere nella lotta per la vita. Era 
troppo modesto, come già dissi; ed era modestia vera, non ostentata. Qui, ha un punto 
di contatto con Avogadro. Profondo conoscitore degli uomini, sapeva tollerarne i 
difetti, sino a quando erano nei limiti dell’onesto; non era passionale, non impulsivo, 
e nei suoi giudizii dimostrava sempre quella imparzialità e serenità che è propria del- 
l’uomo coscienziosamente giusto e di mente elevata. Io che l’ho conosciuto intimamente 
posso dire tutto ciò con sicurezza anche dopo un trentennio dalla sua morte (1). 

Vittorio Bersezio conobbe personalmente Francesco Selmi e di lui scrive (2): 


Modesto, rifuggente da ogni ostentazione, non avido di onori, d’aspetto quasi timido, di 
poche parole, ma preciso nell’esprimersi, arguto nel conversare, non facendo mai pompa del 
suo sapere, ma lasciandolo apparire all’occorrenza per un motto, una risposta, un’osservazione, 
fermo e coraggioso nelle sue opinioni, tollerante delle altrui, lavoratore zelante e instancabile. 
Francesco Selmi fu amatissimo a Torino, ed Egli la città che l’ospitava e lo onorava, amò 


quasi come la sua natia. 
La baronessa Olimpia Savio nelle sue Memorie (3) così scrive di Francesco Selmi: 


Uomo raro, di gran cuore, di grandi studi, di grande carattere; i cui criteri s’ impronta- 
vano a quella schietta, ingenua lealtà dei cuori semplici che non hanno transazioni col giusto 
e col vero; anima candida, limpida, credente, divisa fra l’amore dello studio e quello della 


famiglia. 


Era credente, religioso, ma senza esagerazione, nè ostentazione; vedeva nella 
religione qualche cosa di puro, di elevato, che non è nel comune degli uomini. To 
avevo opinioni mie diverse dalle sue e sino dai primi anni spesso, o nel laboratorio, 
o a casa, o per istrada ci intrattenevamo in lunghi conversari relativamente a que- 
stioni religiose. Avrebbe desiderato che io fossi più vicino alle sue idee, mi faceva 
anche qualche predica, ma tutto finiva lì; egli era molto tollerante. Parlava con 
sommo rispetto di Lutero, di Calvino, di Savonarola, di tutti i più grandi riformatori, 
Egli, che era cattolico! Mai di quelle parole insultanti verso chi ha una religione 
diversa dalla propria. Ma era di idee larghe; egli credeva, ad esempio, che si possa 
essere religioso senza ammettere la cosidetta forza vitale. Nella mia commemorazione 
di Marcelin Berthelot dissi, ed ora amo ripetere: 


(1) Selmi era amicissimo di mio cugino il prof. Francesco Scaramuzza, celebre pittore, e com- 
mentatore di Dante; i diseoni a penna della Divina Commedia ideati ed eseguiti dallo Scaramuzza, 
sono opera notevolissima. Io quando da Parma, dopo il secondo anno di Università, andai nel 1868 
a studiare a Bologna feci la conoscenza del Selmi per mezzo dello Scaramuzza; a questo caro uomo 
dunque debbo la fortuna di avere poi intimamente conosciuto il nostro chimico. 

(2) IZ Regno di Vittorio Emanuele TI. — Trent'anni di vita italiana. Torino, 1892, vol. II, p. 101. 

(3) Rare. Ricci, Memorie della baronessa Olimpia Savio. Milano, 1911, t.I, p. 116. Nella nota a 
pag. 115 è detto che Selmi nacque nel 1827, leggasi invece 1817. 

La signora Savio discorre poi del Selmi come scienziato e qui mi permetterò una osservazione: 


non è conforme al vero il dire che Selmi per comprovare o no la velenosità delle materie putre- : 


fatte, contenenti le ptomaine, adoperava quale mezzo indispensabile di riconoscimento la degusta- 
zione. Sono di quegli errori che possono provenire da una non esatta interpretazione di qualche 
frase sfuggita scherzando nel conversare, perchè in realtà, una volta estratto l’alcaloide puro, si può 
farne il saggio organolettico; ma non sulle materie putrefatte. 


5 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 129 


Io ho imparato ad esser tollerante, quasi eccessivamente, da un mio maestro che aveva 
opinioni molto diverse dalle mie, Francesco Selmi; ho ammirato in lui, forse più che la chi- 
mica, questo ed altri sentimenti elevati dei quali anch'io mi onoro; sentimenti che valgono 
ben più della scoperta di qualche nuovo composto chimico o di qualche teoria più o meno 
effimera. 


Anche in politica era un vero carattere (1). 

L’animo nobile di questo uomo si manifestò in molte occasioni; voglio ricordare 
ancora questa. Il suo amico Nie. Bianchi quando era segretario generale del Mini- 
stero dell'Istruzione Pubblica nel 1864-65 voleva obbligare Celestino Cavedoni di 
Modena a prestare giuramento al nuovo governo italiano; il Selmi, quando seppe che 
si voleva costringere quest'uomo ad abbandonare gli studi o a giurare fedeltà, scrisse 
questa bellissima lettera all’amico suo (2): 


Caro Bianchi, 


Da Modena viene la notizia che vuoi costringere D. Celestino Cavedoni al giuramento. È 
un grande, imperdonabile errore. È una macchia incancellabile al tuo nome. 

Farini volle che restasse, senza domandargli il giuramento, e volle anzi ch'io l’officiassi 
perchè accettasse la Presidenza della Deputazione di Storia patria. Farini intese con questo 
di aver dal Cavedoni il tacito consenso all’ordine nuovo di cose. Cavedoni accettò e tutto fu 
finito. 

Se tu non rispetti una delle prime glorie italiane viventi, come Napoleone fece per Arago, 


ti dico che hai perduto il buon senso. Addio. 
Il tuo affez. 


SELMI. 


Dopo questa lettera, al Cavedoni non fu più chiesto il giuramento. 
In ogni occasione Egli pensava più al proprio paese che non a sè stesso (3). 


(1) In una lettera al Terrachini in data: Torino, 2 marzo 1859, dopo aver discorso della Società 
Nazionale, Selmi scriveva: 

“ Armi e denari sono a mia disposizione per quando occorrerà da farvi tenere. 

“ Circa al partito che non acconsente a queste idee fa d’uopo separarsene assolutamente, se 
“ egli non vuol essere con noi. Non avversatelo; rispettate le convinzioni, giacchè qualsivoglia con- 
© vinzione, quando sia di gente onesta, merita rispetto; e raccomandate ai nostri di evitare parole 
© pungenti, scissure ed altro simile ,. E poco dopo: “ Mandate giovani ad arruolarsi. Questo eser- 
“ cita buona impressione ed anima il popolo e l’esercito piemontese. D'altra parte Cavour ha bisogno 
© di questo fatto per dimostrare che gli Italiani sono maturi. Si apre la sottoscrizione per il prestito 
“ Hbero a tutti gli Italiani. Fate che molti sottoscrivano ,. 

(2) Trovasi nell’opuscolo: Esuli estensi in Piemonte dal 1848 al 1859, di G. Srorza, Modena, 1908, 
pag. 103. . 

(8) Bellissima è la lettera che scriveva alla moglie il 14 maggio 1865 da Firenze in occasione 
del centenario -dantesco: 

© Oggi fu il primo giorno della festa, la quale fu bellissima e di grande commossione. Tutta 
“ l'Italia era rappresentata ne’ suoi uomini di lettere e dai più reputati cittadini de’ diversi paesi, 
“ convenuti dall’un capo all’altro. Quando, raccolti nella piazza di S. Spirito, ci incontravamo, e ci 
“ riconoscevamo di tante provincie poc'anzi separate ed ora congiunte, spuntavano le lagrime agli 
“ occhi. Sflammo in lunga processione con bandiere, gonfaloni, bande musicali. Vi erano anche dei 
“ frati capuccini colla bandiera tricolore su cui scritto: Roma capitale d’Italia. Furono molto applau- 
“ diti, così fu applaudito molto il Municipio di Torino. Andammo a far capo tutti in piazza di 
“ Santa Croce. Venne il Re, e lo si vide visibilmente commosso dallo spettacolo di tanti italiani. 
© Si fece la funzione, si scoperse la statua di Dante, la quale riuscì più bella di quanto si aspet- 


Serie II, Tox. LXII. e 


130 ICILIO GUARESCHI 6 


È bene che la storia tenga nella dovuta considerazione anche il carattere e la 
vita privata dello scienziato; tanto più che nel caso di Selmi si aveva, insieme ad 
una grande bontà ed onestà, un sapere elevatissimo. Dobbiamo inchinarci reverenti 
alla memoria di quest'uomo che proprio può dirsi senza macchia. 


Francesco Selmi nacque il 7 aprile 1817 in Vignola presso Modena e ivi morì 
il 13 agosto 1881. Suoi genitori furono Spirito Selmi e Domenica Cervi. Ebbe una 
infanzia, scrive il Cantù (1), stentata e malescia sino a dodici anni; a 13 anni aveva 
già composti dei versi. Fece i suoi primi studi presso un ottimo zio arciprete di 
Vignola e parte nelle scuole dei Gesuiti di Modena; poi studiò molto più da sè 
stesso e, dedicatosi alle scienze naturali, fu licenziato maestro in farmacia a circa 
venti anni. Egli ebbe precoce inclinazione per la chimica ed ancor giovane volgeva 
la mente verso i più difficili problemi. 

Dopo circa tre anni lasciò la pratica farmaceutica e il duca Francesco IV lo 
mandò aggiunto a Carlo Merosi che era professore di chimica nel Liceo di Reggio 
Emilia. Dopo un anno morì il vecchio Merosi, che tanto amava il Selmi, e questi lo 
supplì nella cattedra e poi fu nominato titolare (2). Stette in quel posto sino agli 
avvenimenti politici del 1847-48, in seguito ai quali fu costretto ad esulare in Pie- 
monte e si fissò in Torino, ove stette sino al 1867. 

Il primo giornale politico che si pubblicò in Reggio Emilia fu quello diretto da 
Francesco Selmi, Strucchi e D. Biagi: Giornale di Reggio, che visse dal 27 marzo 
al 26 giugno 1848. In una sua Memoria il Selmi scriveva: 


Avendo durante la guerra dichiarata da Carlo Alberto all'Austria pubblicato un periodico 
politico in Reggio, detto Giornale di Reggio, in cui sosteneva l’unione dei Ducati col Piemonte, 
avendo sostenuto questa tesi in concioni pubbliche ed essendo stato tra i promotori delle liste 
di sottoscrizione e raccoglitore di firme, fui costretto ad entrare in Piemonte quando S. M. 
Sarda si ritrasse da quelle provincie (3). 


Alcuni scrissero che quando il Selmi nel 1848 fuggì da Reggio e riparò in 
Piemonte, era stato condannato a morte. Ciò non è esatto: Egli fu prima esule 


“ tava. Fui a vederla oggi a lungo e ne sono contento. In somma godo e non dimenticherò mai di 
“ aver partecipato alla presente solennità. 

" Vorrei che i miei figli s'ispirassero all'amore del grande Poeta ed apprendessero ad essere stu- 
“ diosi, pronti a qualsivoglia sacrifizio pel loro paese e per la giustizia ,. 

(1) Le prime notizie biografiche su Selmi si trovano in I. Cantù, L'Italia scientifica contempo- 
ranea, 1884, p. 115, e due parole appena in © Ann. di Maiocchi ,, 1844, XII, p. 42, che erroneamente 
si ricorda come sorgente biografica su Selmi. 

(2) La cattedra di chimica a Reggio allora era equivalente quasi a quella universitaria di 
Modena. 

Rimasto il Selmi orfano in giovane età, si assunse il carico della famiglia composta oltrechè 
della madre, di due sorelle e di due fratelli: Aureliano che fu poi Presidente di Corte d’appello e 
Antonio professore di Chimica negli Istituti tecnici. 

(3) Si vegga anche in E. Manzini: Memorie storiche dei Reggiani più iMustri, Reggio Emilia, 1878. 


7 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 131 
volontario per accorta previdenza, e fuggì, insieme a Sabatini, Rovigo, Zini e Chiesi, 
da Reggio la notte del 25 luglio 1848 cioè la sera stessa della sconfitta di Custoza 
e prima che il duca Francesco emanasse il proclama intonato a sensi di clemenza 
e di indulgenza. La condanna per lesa maestà era pronta pel Selmi nel febbraio 1849. 
L'ordine emanato dal Ministero di Buon Governo di Modena, diceva: 


Al sedicente Comitato dei ducati di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e Guastalla, a cui 
sì riferisce altra disposizione di questo Ministero, sonosi pure ascritti Luigi Chiesi e Francesco 
Selmi rei dessi di delitto di lesa Maestà in primo grado, al pari degli altri che già figurano 
nel Comitato suddetto, ed appoggiata sempre S. A. R. agli incontrastabili diritti di sua sovra- 
nità su questo Ducato, ha ingiunto al Ministero di Buon Governo di sottoporre li Chiesi e 
Selmi summentovati alle misure prescritte pei primi nel caso che azzardassero di ritornare 
negli Estensi Dominii, ordinando pure nel tempo medesimo che altrettanto debba avere effetto 
inverso quanti altri dei suoi sudditi fossero per far parte del riferito Comitato. 


In seguito all’amnistia concessa dal Duca, il Selmi fu invitato a tornare a Modena, 
ma egli rifiutò ed andava ripetendo: 


Se io non avessi bisogno del pane del duca, tornerei solo per far contenta mia Madre; 
ma giacchè dovrei vivere di quello non posso, non voglio accettare. 


Fu allora che il Duca, sdegnato, condannò il Selmi all’esilio con minaccia di 
condanna per delitto di lesa Maestà se tornava a Modena (ordine del febbraio sopra 
indicato). Nel 1855 gli fu proibito di vedere la madre ammalata; avrebbe otte- 
nuto il permesso se egli l’avesse chiesto direttamente al duca, ma il Selmi non volle 
a quella condizione. Invece ottenne poi dalla duchessa di Parma Maria Luisa di 
Borbone il permesso di rivedere in Parma la madre sua ancora ammalata, ma al col- 
loquio assisteva sempre un rappresentante della polizia. 

Il Selmi, poco dopo arrivato in Piemonte, entrò, con permesso ministeriale, nel 
laboratorio del Sobrero, ove potè compiere, da solo o insieme al Sobrero, alcuni 
lavori importanti; e con decreto 7 nov. (0, secondo altri, 1° nov.) 1848 fu nominato 
professore di fisica, chimica e meccanica al Collegio Nazionale di Torino, con lo sti- 
pendio di L. 1800; aveva 31 anni. Con decreto del settembre 1849 ottenne la citta- 
dinanza sarda, ma ancora prima fu riconosciuto cittadino sardo per le leggi allora 
vigenti, e già nelle elezioni del marzo 1849 egli potè esercitare i diritti elettorali (1). 

Dal 1850-55 furono pel Selmi anni di gran lavoro ed il Chiesi, nel 1855, scriveva 
da Torino ad un amico: “ So che il povero Selmi logora la debole salute con fatiche 
“ eccessive, delle quali purtroppo sarà vittima , (2). 

Il Selmi ebbe parte attivissima in quella Società Nazionale fondata e costituita 
a Torino da Giorgio Pallavicino, Manin, Cavour e La Farina (3). 


(1) Riguardo la naturalizzazione, in un autografo di Selmi del 1855, trovo la nota seguente: 
© 1849. Chiesta ed ottenuta l’espatriazione legale da Modena, fui con R. Brevetto ammesso alla 
‘ Cittadinanza sarda , 

(2) Esuli estensi in pi Piemonte dal 1849 al 1859, di G. Sforza, Modena, 1908, p. 44. 

(3) Molte notizie sulla parte politica avuta dal Selmi dal 1850 al 1860, si trovano nell’opera d 
G. Canevazzi, Francesco Selmi patriota, letterato, scienziato, con appendice di lettere inedite, Modena, 
1903, 1 vol. in-8° di pp. 266. 


132 ICILIO GUARESCHI 8 


La R. Accademia delle Scienze di Torino il 30 giugno 1850 assegnò il premio 
di L. 2500 pel concorso Pillet-Will ad un lavoro del Selmi, che aveva per titolo: 
Introduzione allo studio della chimica. La scheda chiusa portava per motto: “ Vai 
cherché à rendre la lecture de mon livre aussi agréable que le comportait la nature des 
objets sur lesquels il roule ,. Parole di Berzelius (1). 

Il 14 settembre 1854 il Comitato presieduto da Camillo Cavour, nominava Selmi 
anche professore di chimica nell'Istituto di Commercio e d’Industria. 

Quanto grande fosse la fiducia che poneva il Cavour nell’onestà e nel sapere di 
Francesco Selmi lo dimostra la lettera seguente già pubblicata dal Canevazzi (loc. cit.) 
riguardo la Commissione per la Collezione dei Testi: 


Me° sig. cav. Selmi, 


Il sig. Zambrini ha mandato a me pure una copia della circolare da premettersi alla Col- 
lezione dei Testi. Ho già detto al medesimo il mio parere, ed ora mi rivolgo riservatamente 
e confidenzialmente a Lei. Parmi che convenga spogliare detta lettera da quell’eccesso di frasi 
adulatrici e di complimenti di cui è rimpinzata e metterla in armonia colle idee libere e ita- 
liane che regnano oggidì. Guai a noi se compariamo in pubblico chiamando il Farini Nostro 
Signore (quand’anche sia un personaggio da inginocchiarglisi ogni italiano) e finendo con una 
quantità di espressioni di schiavitù da disgradarne gli italo-spagnuoli del seicento. Esposti alle 
frustate dei nemici, renderemmo un servizio non buono all’illustre Farini. Se la S. V.L non 
ha veduto quella lettera faccia di procurarsela: se le è già venuta sottocchio, sono superflue 
le mie parole. Ma per carità non voglia far uso mai della libertà che mi sono presa di seri- 
verle. Mi comandi ove potessi valere. Le sia raccomandata la maggiore possibile accuratezza 
nella edizione che si farà. 

Ho l’onore di raffermarmi con distinta stima 

Dev.mo 
Caminzo Cavocr. 
11 Novembre 1860. 


Selmi nel 1854 fu incaricato dal Ministero di andare in Sardegna per studiarvi 
il guano. Là s'ammalò molto gravemente ed il Cavour, che s’interessava della sua 
salute, gli scriveva in data 13 luglio 1854: 


Preg.®° Signore, 
Ho ricevuto con molta soddisfazione la lettera che mi fa certo avere la S. V. superata la 
malattia che condotto l’aveva alle porte della tomba. Spero ch’Ella ricupererà in breve e salute 
e forze, e così Ella potrà ricominciare a dedicare le sue rare conoscenze scientifiche allo svi- 


luppo economico dell’Isola di Sardegna. 
“ CAVOUR ,. 


(1) La Commissione per i premi di astronomia, meccanica, fisica e chimica era composta di: 
Plana, Avogadro, Botto, Giulio, Sobrero e Sismonda; fu conferito il solo premio per la chimica e 
l’ebbe il Selmi (“ Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1852, t. XII, p. LXIX e XCIX). 

Nel 1857 dal R. Istituto Lombardo ottenne il premio di fondazione Cagnola per la memoria: 
Del laite, del presame e della coagulazione che il presame opera nel latte. Relatore della Commissione 
era Luigi Chiozza. 

Un altro premio con medaglia d'argento ottenne dalla Società Medico-chirurgica di Bologna. 


9 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 133 


I lavori del Selmi sul guano, fatti in parte insieme al prof. Missaghi, furono 
pubblicati nel “ Nuovo Cimento , e nel vol. VIII degli “ Annali della R. Accademia 
d’Agricoltura di Torino ,. 

Il Selmi, come risulta da documenti certi e dalle memorie inedite del Sabba- 
tini, ebbe una parte importantissima nelle cose politiche dell'Emilia nel 1859 e 
prima: 

.....trovandosi in relazione per le cose politiche delle provincie modenesi col conte C. Cavour, 
con Michelangelo Castelli e poscia con Giuseppe La Farina, ebbe frequenti incarichi di man- 
tenere corrispondenza cogli amici del Ducato, per spedirvi notizie, giornali, opere a stampa ed 
altro riguardante la diffusione del principio liberale ed il mantenimento degli animi, da ispe- 
ranza di una riscossa sostenuta dalle armi piemontesi. 


Egli favorì la diffusione nel Ducato di Modena del Piccolo Corriere d’Italia, gior- 
nale fondato nel 1856 dal La Farina. 

Per sollecitazione del Cavour o del La Farina, ebbe varie missione politiche e 
il 24 aprile 1859 ebbe l’incarico con altri di promuovere l’insurrezione nel Ducato; 
e una lettera del La Farina diceva: 


Il Sig. Prof. Selmi ed i suoi compagni si recheranno a Parma per entrare, potendo, nel 
Ducato di Modena..... Il Prof. Selmi è autorizzato a promuovere l’insurrezione ovunque si potrà 
appena scoppiata la guerra. 


Il Selmi si recò a Parma e il 2 maggio scriveva alla moglie: 


La Duchessa partì coi figli, il Comitato Nazionale assunse il Governo, la popolazione con 
bandiera tricolore passeggiò in folla immensa per le contrade e per le piazze con grida gran- 
dissime di: Viva Italia, Indipendenza, Vittorio Emanuele. 


Quando era a Parma nei primi di maggio del 1859 scrisse e fece stampare un 
proclama in foglio volante da introdursi e diffondere nel Ducato di Modena, incitando 
il popolo alla rivolta. Cominciava colle parole: 


Modenesi! Reggiani! 
La bandiera tricolore sventola in Parma da ieri sera in poi. La coccarda italiana è sul 


petto di tutti. Le nostre braye truppe chiesero esse stesse di andare al campo piemontese e 
colà mostrare col loro valore che sono degne del nome di milizia italiana, ecc. 


Poi pochi giorni dopo per incarico del La Farina lasciò Parma e s’avviò verso 
Massa ove era stato preceduto dal suo amico Zini; colla missione del Governo 
Sardo di comporre ed ordinare nel Ducato modenese un governo provvisorio, tosto 
che, come scrive lo Zini, allontanatosi il Duca e gli austriaci, si fosse il paese pro- 
nunciato per l’unione al Piemonte. 

Dopo le vittorie del 1859, liberati i Ducati, il nostro Selmi potè ritornare a 
Modena e subito fu eletto deputato all'Assemblea Nazionale modenese e dai colleghi 
fu nominato questore. Nominato dal Governo provvisorio Rettore della Università 
modenese, poco dopo il Dittatore Farini lo volle Segretario generale per la Pubblica 
Istruzione. In questo ufficio il Selmi si adoprò con animo sereno, e grande solerzia, 
all’incremento della coltura nazionale e fra le altre cose propose delle ricerche sui 
testi di lingua e degli studi sui dialetti italiani. 


134 ICILIO GUARESCHI 10 


Egli fu fra i commissari che si recarono a Torino a portare a re Vittorio 
Emanuele il risultato del plebiscito per l'annessione delle provincie modenesi al 
Piemonte. 

L'Università di Modena deve molto al Selmi; nel periodo in cui egli fu Rettore 
e Segretario generale al Ministero vennero nominati, fra gli altri, i seguenti profes- 
sori: Silvio Spaventa, di filosofia del diritto, Alfonso Corradi di patologia generale, 
C. De Meis di fisiologia, Ariodante Fabretti di storia letteraria ed eloquenza, Fer- 
dinando Ruffini di calcolo, Pietro Tacchini direttore dell’osservatorio astronomico. 

Poco dopo fondato il regno d’Italia, Selmi fu chiamato a Torino quale Capo 
Divisione nel Ministero della Pubblica Istruzione, e nel Ministero Mancini fu eletto 
Capo Gabinetto del Ministro; ufficio che conservò, pare, anche sotto i Ministri Mat- 
teucci, Berti e De Sanctis. Poi fu nominato Provveditore agli Studi nella capitale 
stessa, posto che egli conservò sino al 1867 quando fu nominato Professore ordi- 
nario di chimica farmaceutica e tossicologica nella R. Università di Bologna. Il 
Selmi ebbe dunque una cattedra Universitaria solamente nel 1867; mentre alcuni 
anni prima, sino dal 1860, erano stati nominati professori di chimica in Università 
primarie delle vere nullità scientifiche, che oggi nessuno più ricorda, o si ricordano 
per derisione. 

La cattedra che egli occupava si considerava da ignoranti o da invidiosi come 
in uno stato di inferiorità relativamente a quella dell’altro collega di chimica, che 
egli stesso, povero Selmi, aveva tanto contribuito, nel 1860, a far nominare pro- 
fessore di chimica organica. 

Selmi a Torino era molto stimato e benvoluto; fu membro corrispondente della 
nostra R. Accademia delle Scienze, come già dissi, sino dal 1845, socio onorario della 
R. Accademia di Medicina di Torino, socio della R. Accademia di Agricoltura, e fu 
pure socio fondatore della Società di farmacia di Torino. In tutte queste Accademie 
e Società egli portò un buon contributo scientifico, come si vedrà nella bibliografia 
che darò alla fine di questo lavoro. 

A Torino ebbe molti amici e colleghi affezionati; qui pubblicò la maggior parte 
delle sue opere ed avrebbe ben meritato che una via della città fosse onorata dal 
suo nome. Nel Museo del Risorgimento esistono alcuni ricordi di lui. 

Tommaso Villa, desiderando pel Museo del Risorgimento qualche reliquia che 
ricordasse il patriotta, scriveva alla baronessa Adele Savio di Bernstiel: 


Quando uno si chiama Francesco Selmi le porte del tempio non solo si aprono, ancora se 
chiuse già, ma si spalancano (in CANEVAZZI, loc. cit., p. 107). 


La patria: ecco il pensiero e il sentimento che primeggia in Francesco Selmi 
e nei grandi suoi contemporanei; egli aveva una immensa fede, quella di vedere 
l’Italia grande e rispettata. 

Nel 1862 il prof. De Filippi che era membro del Consiglio superiore, fece pro- 
porre al Selmi la cattedra di chimica generale nella Università di Pisa, ma sebbene 
il Selmi l’avesse accettata, in effetto fu conceduta ad altri (1). 


(1) Vedi Canevazzi, loc. cit. 


11 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 155 


Nel 1865 Nicomede Bianchi, allora Segretario generale presso il Ministero della 
P.I., offù al Selmi il posto lasciato vacante dal Piria; ma, non si sa bene il perchè, - 
anche questo posto non ebbe; dicesi che ne fu sconsigliato da amici e colleghi ad 
accettare (1). Tutto questo però è dipeso, come i rifiuti precedenti, da bassi intrighi, 
da dietroscena che ora non è il caso di esaminare e di far conoscere. In Italia allora 
si conferivano le cattedre col sistema francese, quando erano onnipotenti i Dumas, 
1 Boussingault, i Milne Edward, i Blanchard. 

To conservo con affetto e devozione un autografo di Selmi, di quattro grandi 
pagine, colla data 29 novembre 1855, in cui sono numerati i suoi titoli acca- 
demici, le memorie ed opere pubblicate, ed un riassunto delle più importanti sue 
ricerche (2). 

Forse nessun chimico in Italia poteva presentare allora una così completa e ricca 
serie di titoli e di ricerche scientifiche; eppure non ebbe un posto universitario, come 
già dissi, nel nuovo Regno d’Italia se non nel 1867! Vale a dire a 50 anni! (3). 

Gli anni che passò a Bologna furono anni di grande lavoro scientifico ; egli si 
dedicò totalmente all’ insegnamento ed alle ricerche di chimica tossicologica, ove 
lasciò un’orma profonda. Ma l’intenso e continuato lavoro di laboratorio e di tavolo 
lo fiaccò e morì a 64 anni il 13 agosto 1881. à; 


(1) È forse a questo periodo 1864-65 che si riferisce una lettera scritta dal Selmi ad un suo 
superiore del Ministero e nella quale trovasi il brano seguente : 

© A cinquant'anni d’età, con venticinque anni di servizio, con qualche merito acquistato nelle 
scienze e nelle lettere, con tre premi da me guadagnati, uno dell’Accademia di Bologna, l’altro 
di quella di Torino, e il terzo dell’Istituto di Milano; coll’opera data alle cose politiche e undici 
anni di esilio, sperava di non essere posposto ad altri più giovani di me che servirono meno e 
fecero meno. Ma dacchè si volle altrimenti, così pur sia. Mi permetta almeno la S. V.Il].®® di 
non averle a tacere, che è molto doloroso all'uomo onorato che occupò l’intera sua vita negli 
studi, che non ha verun rimorso sulla coscienza di aver mancato ai proprii doveri come pubblico 
ufficiale; che preferì nel 1848 di rimanere esule in perpetuo, piuttosto che cedere all’invito fattogli 
mandare in iscritto dall’ex-Duca di Modena di ritornare in patria ad assumervi la Cattedra di 
chimica organica, purchè facesse sommessione alla restaurazione estense, è doloroso, io replico, che 
sotto il Governo del Re d’Italia, io sia stato sempre trascurato e posposto ad altri , !). 

E fu invero una grande ingiustizia. 

(2) Questo documento doveva servire per ottenere una cattedra che poi non gli fu conferita. 
Il riassunto fatto da lui, di proprio pugno, riguarda i lavori suoi ch’egli giudicava i più importanti 
e questa parte dell’autografo è riprodotta nella pagina seguente. 

(3) Nel 1903 io scrivevo le parole seguenti, che valgono benissimo pel caso presente (“ Mem. 
della R. Ace. della Scienze di Torino ,, vol. LIII, p. 85): 

“.....Verso il 1860, avveniva spesso che per necessità di cose e principalmente pel bisogno di 
“ numerosi insegnanti, delle vere nullità scientifiche ottenessero splendidi posti. Basti il ricordare 
“ che a Bologna fu dal Dittatore Farini creata una cattedra speciale di chimica organica, unica in 
“ Italia, che fu affidata ad un professore chiamato da Parma ove insegnava pure chimica organica; 
“ e ciò senza che quel professore avesse nessun titolo scientifico, oltre quello di essere stato due o 
‘tre anni nel laboratorio di Piria a Pisa, mantenutovi a spese del Governo borbonico parmense; 
“ ed i colleghi di quel tempo sanno, ed io posso farne certissima testimonianza, che la principale 
“ occupazione del professore e degli addetti a quell’Istituto chimico, consisteva nel passare il tempo 
“ in allegra compagnia, essendo assolutamente vietato usare libri del laboratorio o fare esperienze! 
“ E quella cattedra fu occupata in tal modo per 22 anni!,. 

Questo mio giudizio d’allora trovo confermato da quello dato dal Piria nel 1862 in una lettera 
a Bertagnini: “ Piazza è ben collocato, al di là dei suoi meriti ,. 


1) Im Canevazzi, loc. cit., pag. 79. 


136 ICILIO GUARESCHI 2 
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Già poco più di un anno prima di morire egli sentiva un malessere che a lui 
faceva prevedere non lontano il giorno della sua fine ed il 21 novembre 1879 mi 
scriveva da Bologna: 

costò La mia salute non va bene: provo un senso indefinibile che presto la mia vita avrà 
termine. Il lavoro mi pesa, mi molesta, e vorrei, se potessi, ritirarmi in quiescenza. Ora che 
Ella è collocata in luogo meritato, sono più tranquillo, dacchè so che avrò un continuatore 
della via nuova da me tracciata nella tossicologia. 


15 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 137 


Selmi ha il merito di aver fatto tutto da sè; egli non ha avuto un gran maestro, 
egli non ha seguito la via comune di coloro che si iniziavano negli studi della chimica 
cioè incominciare con lavori fatti, si può dire, sulla falsariga d’ altri: ottenere dei 
composti nuovi, dei derivati, clorurati o no, analizzarli ecc., ece.; lavori talora impor- 
tanti, ma che spesse volte non aprono un nuovo campo. À Selmi invece piacque occu- 
parsi di quegli studi dagli altri trascurati, o a cui non si dava importanza. A quei 
tempi, e sino a pochi anni fa, guai se un chimico studiava un prodotto amorfo, 
un colloide, ecc. Eppure oggi lo studio di questi corpi è alla moda; il Selmi fu il 
primo, o certo uno dei primi a studiare, e molto bene, le materie colloidali, che egli 
chiama pseudosolubili. ; 

Sempre egli volgeva il suo pensiero a quei grandi fenomeni che più interessano 
la trasformazione della materia; pensava, discuteva, sulle sostanze colloidi, sulle fer- 
mentazioni, sulle azioni catalitiche o di presenza, sul potere riduttore dei microor- 
ganismi, ecc., argomenti tutti che hanno preso un enorme sviluppo in questi ultimi 
trent'anni; era una mente filosofica per eccellenza. Il suo ingegno, versatile oltre 
ogni dire, non sapeva concentrarsi in un ordine limitato di idee. 

Mai si era egli occupato di chimica tossicologica sino al 1868; ebbene, non ap- 
pena nominato professore di chimica farmaceutica e tossicologica nella Università 
di Bologna, s’avvide che il largo campo di questa branca della chimica era molto 
trascurato e che in esso molto rimaneva da fare. Sino a quel tempo se si eccettuino 
le classiche ricerche di Stas, di Otto, di Mitscherlich e di pochi altri, gli studi di 
chimica tossicologica non erano fatti da chimici e quindi vi era una gran massa di 
lavoro che richiedeva una completa revisione. Questa fu iniziata, e in parte compiuta, 
da Francesco Selmi dal 1868 al 1881. 

L'operascientifica del Selmi abbraccia un periodo di circa 40 anni, dal 1840 al 1881, 
periodo che è quello dell’ inizio della chimica scientifica in Italia nel secolo XIX. 
Faustino Malaguti era già in Francia dal 1831, e quando Selmi incominciò le sue 
ricerche non vi era in Italia nemmeno un solo laboratorio chimico universitario in 
cui si potesse studiare con profitto. Lo stato dello insegnamento della chimica nelle 
Università italiane dal 1815 al 1845 circa e, in generale, anche dopo, sino al 1860 
circa, era ad un livello forse inferiore a quello che non fosse nel secolo XVII dal 
1750 al 1800. 

Per capire bene come il Selmi abbia dovuto studiare la chimica da sè, inizian- 
dosi in ricerche al di fuori delle cosidette scuole e diventasse poi anche un buon 
autodidatto, bisogna pensare allo stato della chimica in quel tempo. E a questo pro- 
dosito ecco quanto io scrivevo nel 1903: 


Quando in Francia fiorivano: Dumas, Laurent, Gerhardt, Cahours, Wurtz, Berthelot, De- 
ville; in Germania: Mitscherlich, Liebig, Wéohler, Bunsen, Kolbe, Hofmann, Strecker, Kekulé, 
in Svezia il Berzelius, ed in Inghilterra: Graham, Williamson, Frankland, Odling; in Italia, oltre 
al Malaguti che viveva in Francia, non avevamo che Selmi, Piria e Sobrero, dei quali uno solo 
aveva una cattedra universitaria con meschini mezzi di studio, il Piria, prima a Pisa, poi a Torino. 
Ma anche questi chimici, onore del nostro Paese, non avevano ancora una scuola, lavoravano 
per proprio conto, con pochissimi allievi; erano come punti luminosi in una notte oscura. 

In quel tempo la maggior parte delle cattedre universitarie di chimica erano occupate da 
uomini il cui insegnamento era puramente teorico, o meglio, cattedratico, e anche questo, fatto 


Serie II. Tom. LXII. R 


158 ICILIO GUARESCHI 14 


in modo assai poco conforme ai grandi progressi della chimica di quel tempo. A Padova, a 
Pavia, a Roma, a Napoli, a Bologna, a Palermo, ecc., vi erano laboratori universitari, alcuni 
dei quali assai vasti e ben forniti di materiale scientifico, come a Padova, per esempio, ma nei 
quali non sì studiava, non si lavorava; l'insegnamento della chimica era nello stato in cui si 
trovava negli altri paesi cento anni prima, e forse anche peggio. 

A Milano insegnava allora la chimica, nella scuola annessa alla Società di Incoraggiamento, 
il Kramer; il quale aveva viaggiato, studiato a Parigi, era stato amico di Laurent, che aiutò 
anzi in alcune ricerche. Ma se questo chimico fu benemerito dell’industria lombarda; certa- 
mente non era da annoverarsi fra i maestri che potessero dare un'istruzione scientifica. 

Eppure erano tempi in cui in altri paesi la mente dei chimici lavoratori, cioè dei veri 
chimici, era agitata dalle idee berzeliane e dalle idee gerhardiane; e tutti i giovani chimici 
più intelligenti abbracciavano le nuove idee che con Dumas, Laurent, Malaguti, Cahours, Wil- 
liamson, ed altri, dovevano portare al sistema di Gerhardt, di questo grande e sfortunato rifor- 
matore. Dal 1852 al 1856 Gerhardt pubblicò quel suo classico Traité de chimie organique, che 
tanta influenza doveva avere sui progressi della scienza. 


In questo periodo di tempo le più numerose ed importanti opere di chimica si 
pubblicavano a Torino ed avevano per anima Francesco Selmi: si traduceva la clas- 
sica opera del Regnault: Corso elementare di chimica in 4 vol. (trad. da Fr. Selmi 
e Arpesani), si traducevano le Lezioni di chimica agraria di Malaguti (trad. Selmi), 
e le Lettere sulla chimica di Liebig; Selmi stesso pubblicava nel 1845-47 un An- 
nuario di chimica e nel 1851 i Trattati elementari di chimica inorganica ed organica e col 
Maiocchi gli Annali di Chimica, Fisica e Matematica. In quel periodo di tempo si pub- 
blicava in Pisa il Cimento e poi Il Nuovo Cimento diretto da Matteucci e Piria ed 
il Trattato elementare di chimica inorganica di Piria. Queste erano quasi le sole pub- 
blicazioni che tentassero di tenere al corrente l’Italia dei grandi progressi della 
chimica. 

Si sentiva però il bisogno di studiare, di imparare, ma presso di noi manca- 
vano gli insegnamenti sperimentali, non vi erano laboratori in cui si istruissero i 
giovani. 

Dopo il 1840 però il desiderio di studiare, di imitare almeno le altre nazioni si 
andava acuendo collo svilupparsi del sentimento nazionale. Selmi iniziò la sua carriera 
in questo periodo, in quel periodo cioè in cui l’Italia non poteva prender parte ai grandi 
dibattiti fra i chimici tedeschi, francesi, svedesi ed inglesi. Come la Spagna, come 
l’Austria, l' Italia era rimasta spettatrice. Come dal 1840 cominciava sul serio il 
risveglio politico, così a poco a poco incominciò anche il risveglio scientifico, ed il 
primo sintomo fu quello dei Congressi degli Scienziati che incominciarono nel 1839. 
Data questa, memoranda (1). E Selmi benchè giovanissimo prese parte a quasi tutti 
questi congressi e fu anche nominato segretario della sezione di chimica (2). Ma difet- 


(1) Inoltre nel 1844 si inaugurò ad Annecy in Savoia un bel monumento al Berthollet e re Carlo 
Alberto era presidente onorario del Comitato promotore; poco dopo per iniziativa e proposta del 
Dr. Giovanni Lanza (1844), che fu poi ministro, si erigeva in Torino un monumento anche al Lagrange 
(Si vegga il mio lavoro: Storia della chimica-in Italia dal 1750 al 1800, Cl. L. Berthollet, pag. 168). 

(2) Nel Congresso del 1844 a Milano, Selmi presentò le sue importanti ricerche: Intorno al 
solfo elastico ed alle emulsioni inorganiche; ma allora si diede a questo lavoro poca importanza. Nel 
Congresso di Genova (1846) presentò i suoi Studi sul latte, ed anche qui ricorda la sua osservazione 


15 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 139 


tavano gli insegnamenti sperimentali, non vi erano insegnanti adatti ed i giovani 
volenterosi di studiare la chimica, quali Sobrero, Kramer, Piria, Peyrone, Chiozza, 
Filippuzzi, Cannizzaro, Pavesi, Frapolli, Ubaldini, Arnaudon, ecc., dovevano andare 
all’estero: a Parigi, a Giessen, ad Heidelberg. Solo il Selmi non potè, o non volle, 
andare nelle grandi scuole di Dumas, di Liebig, di Bunsen, di Gerhardt, e rimase 
in Italia, nella sua Modena e nella sua Reggio, sino a che il movimento rivoluzio- 
nario liberale lo portò a Torino. Studiò da sè; tutti i lavori che pubblicò sono esclu- 
sivamente suoi, sbocciarono dal proprio cervello (1). 

Nelle Università italiane dal 1800 al 1840 e in molte di esse anche sino al 1860, 
l'insegnamento della chimica era caduto, come già dissi, molto in basso. Gli allievi 
non potevano frequentare i laboratori; nelle Università di Pavia e di Padova, ad 
esempio, i professori occupavano un tempo lunghissimo a descrivere gli strumenti 
grossolani ed ordinari del laboratorio, quali sono i torchi, gli alambicchi, le storte, 
gli stacci, ecc.; della parte scientifica, delle grandi opere di Berzelius, di Dalton, ecc. 
nulla, o quasi nulla. 

Il modesto insegnamento del nostro Selmi a Reggio dal 1840 al 1848 era fra i 
pochissimi buoni. 

Che poi verso il 1842-45 e anche dopo non vi fosse proprio nulla nulla in Italia, 
come asserì qualcuno, non si può dire. Indipendentemente dal nostro Selmi e dal Piria 
che incominciavano ad insegnare verso il 1842, si può ricordare Antonio Kramer a 
Milano, che, come dissi nel mio studio su Luigi Chiozza, è stato benemerito dell’industria 
chimica in Lombardia. Il Chiozza stesso incominciò le sue ricerche verso il 1850 (2). 

Il Sembenini ed altri colle traduzioni voluminose ed importanti delle opere di 
Berzelius, di Thenard, di Dumas, ecc. promuovevano la diffusione della scienza in 
Italia. L’Annuario delle scienze chimico-farmaceutiche e medico-legali incominciato dal 
Sembenini nel 1842 durò poco tempo. Il Polli coi suoi Annali continuava l’opera di 
Cattaneo in Lombardia. 

Quasi nel tempo stesso, vi era a Torino Ascanio Sobrero e a Venezia in un 
modesto laboratorio privato lavorava Bartolomeo Bizio, a cui si devono degli studi 
sulla porpora degli antichi, la scoperta del rame normale nei molluschi, ecc., il quale 
nel 1841 fu chiamato alla cattedra di chimica nell'Università di Pisa, ma non volle 
accettare; rimase nella sua Venezia. 


che il latte intacca anche lo solfo provocando un notevole sviluppo di acido solfidrico; presentò 
inoltre le sue osservazioni sull’amigdalina e sulla sinaptasia, le indagini intorno al solfo ulteriori « 
quelle che furono comunicate alla sezione di chimica nel VI Congresso, ecc. Nel Congresso di Firenze 
del 1841 aveva presentato le sue ricerche sull’acido lattico e quelle sull’azione dell’albumina sul 
calomelano. In generale si può osservare che le comunicazioni fatte in quel tempo dal Selmi ai 
Congressi erano o le più importanti o fra le più importanti di chimica. 

(1) Selmi non ha avuto la fortuna, e lo diceva egli stesso, di frequentare per due o tre anni 
all’estero il laboratorio di qualcuno dei più grandi chimici del suo tempo. Ho detto che ha dovuto 
fare tutto da sè; per quanto egli, onesto e leale quale era, affermi tutta la sua riconoscenza e gra- 
titudine al Prof. Savani di Modena, pur tuttavia bisogna riconoscere che questi non era un chimico 
di molto valore scientifico. Ma il Savani era un uomo intelligente, coscienzioso, di ottimo cuore, e 
questo è grande merito, che bene supera talora il sapere. 

(2) I. Guarescat, Notizie storiche su Luigi Chiozza con lettere inedite di Ch. Gerhardt ed altri 
chimici (£ Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1907, vol. LVIII). Qui si vede di quanto 
aiuto sia stato al Gerhardt il nostro Chiozza. 


140 ICILIO GUARESCHI 16 


A Torino non solo lavoravano dopo il 1849 Sobrero e Selmi, ma il grande 
Avogadro benchè vecchio continuava, dopo la pubblicazione delle sue memorie del 
1811-1814, a pubblicare lavori importantissimi che riguardavano tanto la fisica quanto 
la chimica; e basterebbe ricordare le sue classiche memorie del 1821, del 1832, 
del 1849, ecc. 

Nè potremo dimenticare Gioacchino Taddei, di Firenze, morto nel 1860; mente 
assai colta e patriota benemerito. Al Taddei si debbono studi importanti sul glutine 
del frumento ed altre ricerche. 

Pier Francesco Ton nel 1841 pubblicava a Padova un opuscolo: Sull’origine ed 
utilità della teoria atomica. 

Nel 1847-1855 M. Alberto Bancalari, professore di fisica nell'Università di Ge- 
nova, si occupava di argomenti attinenti alla teoria atomica, ed il prof. Stefano Pa- 
gliani nell’art. Stechiometria, scritto nel Supplem. Ann. dell’Enciclop.' Chim., 1893, 
p. 386, ha fatto giustamente osservare che al Bancalari devesi la stessa legge sul 
calorico specifico degli elementi nei corpi composti, che si conosce sotto il nome di 
legge di Woestyn. Secondo Bancalari il calorico specifico dell'atomo composto (ora 
si direbbe molecola) di un corpo, è espresso dalla somma dei calorici specifici degli 
atomi semplici che concorrono alla formazione dell’atomo composto. Questa regola 
poi fu in seguito utilizzata per l'applicazione ed estensione della legge d’Avogadro. 
Il Bancalari, nel 1855, a Genova, pubblicò anche una nota: Della natura delle forze 
molecolari di aggregazione. 

Nè dobbiamo tacere le ricerche di Peyrone sulle basi ammoniacali del platino, 
di Usiglio sui sali dell’ acqua del mare (ricerche lodate dal van’t Hoff), di Poggiale 
sulla solubilità dei sali, ecc., di Manzini sugli alcaloidi delle chine, di Ruspini sulla 
mannite, ece., di Leonardo Doveri di Firenze, che studia l'essenza di timo, scopre 
il timolo, fa delle osservazioni interessanti sulle proprietà della silice, ecec., di Me- 
nici (1842) che scopre la asparagina nella vicia sativa germogliata fuori del contatto 
della luce. 

Per giudicare della potenzialità intellettuale degli uomini bisogna tener conto 
dell'ambiente in cui hanno vissuto e della loro produzione scientifica, e non della 
potenza sociale e politica e dei cosidetti onori che hanno raggiunto. 

E, che si facesse sentire l’influenza benefica di aver frequentato un buon labo- 
ratorio sotto una guida quale erano il Dumas o il Liebig non lo scorgiamo, ad 
esempio, nei primi lavori di Stas, di Piria e di altri? Wéohler e Liebig nel 1836-37 
studiano l’amigdalina, savvedono che fra i prodotti di scissione fornisce del glucosio, 
e scoprono quindi la funzione glucosidica, il primo glucoside: l’amigdalina si scinde in 
aldeide benzoica, acido cianidrico e glucosio; nel 1838-39 Stas, nel laboratorio di 
Dumas (e sotto i suoi occhi, come disse il Dumas stesso) studia in modo analogo 
la /lorizina e scopre che si scinde in floretina e glucosio; e quasi contemporaneamente 
il Piria, nel medesimo laboratorio di Dumas, e sotto la sua direzione, nel 1838-1840 
(e poi dopo da sè sino al 1845) studia la salicina e dimostra che si scinde in sali- 
genina e glucosio. E, come Wéhler e Liebig considerarono il denzoile quale radicale 
dell’acido benzoico e derivati, così Dumas e Piria in modo analogo considerarono il 
salicile come il radicale dell’acido salicilico e derivati. Lo studio dei derivati della 
florizina e della salicina sono certamente importanti, ma non minore importanza 


Il?) FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 141 


hanno le ricerche sulle sostanze colloidali o pseudosciolte, sullo solfo, sul joduro 
mercurico, sui cristalli misti isomorfi, sulla coagulazione del latte, ecc. che il Selmi 
pressochè nello stesso periodo di tempo faceva da solo, senza l’aiuto di nessuno, nel 
modestissimo laboratorio di Reggio (quale lo mostra la fotografia qui unita); lavori 
in gran parte fatti a proprie spese e con sacrifici immensi. I lavori del Selmi fatti 
in quel periodo di tempo si trovano in tutti i periodici scientifici, anche stranieri. 

Per far conoscere i meriti di uno scienziato non si debbono tacere o nascondere 
quelli degli altri; l’uomo di scienza deve essere innanzitutto imparziale e se Avo- 
gadro, Malaguti, Sobrero, Piria hanno = 
avuto dei meriti, anche altri ne hanno 
avuto che non è permesso diminuire 
o misconoscere e che ora la storia ac- 
coglie nei propriì annali. 

Non si deve dimenticare che al- 
lora (1840-1850) viveva un altro il- 
lustre nostro chimico, Malaguti, il quale 
benchè abbia fatto la sua più bella 
carriera in Francia, e sia sempre vis- 
suto nella sua patria adottiva, ha avuto 
non poca influenza sull’incremento della 
chimica in Italia colle bellissime sue 
Lezioni di chimica e le sue opere di 
Chimica agraria (tradotte appunto dal 
Selmi stesso). 

Le Lezioni del Malaguti erano 
diventate popolari anche in Italia ed 
il Piria stesso diceva: “ Tutte le volte 
che i0 voglio esercitarmi ad esporre lim- 
pidamente i miei concetti, tutte le volte 
che voglio specchiarmi in un modello 


di chiarezza, leggo una lezione di Ma- 
laguti , (1). ì i Tn 

Questo grande e modesto chimico italiano teneva in alta considerazione il nostro 
Selmi già quando questi era nell’inizio della carriera. Ecco quanto gli scriveva il 
Malaguti da Rennes nel 1851: 


Stimatissimo Dottissimo Signore, 


Avrei dovuto ringraziarla, da lungo tempo in poi, delle prime due parti del suo primo 
volume, che ha avuto la bontà di mandarmi. Ma mi ero proposto di farlo solamente dopo aver 
letto il lavoro. Posso dunque oggi rendergli grazie dell’onore fattomi, e felicitarlo dell’ardua 
impresa di cui si è ella incaricata. 


(1) Micnere Lessona, Commemorazione di R. Piria, citata erroneamente dal Cossa come esistente 
nel Giornale © L'Opinione ,, 2 agosto 1865. 


(0,0) 


142 ICILIO GUARESCHI 1 


Molte cose, non .solo ho letto, ma riletto con lunga e profonda attenzione; ma il di lei 
libro è tale che non basta il leggerlo; bisogna studiarlo. E per dirle francamente il mio parere 
aspetterò che l’opera sia compiuta. Frattanto posso dirle, senza tema d’ingannarmi, che qua- 
lora una critica fosse possibile, l’opera non sarebbe meno perciò rimarchevole, e sufficiente per 
garantire a lei una meritata celebrità. 

Giubilo in vedere che un giovine italiano intraprenda un sì grande lavoro. Fo dei voti 
onde la riuscita sia quale la desidero e quale la promette la parte già pubblicata. 

L’opera compiuta bisognerà pensare a tradurla in francese onde sia conosciuta dall'Europa 
intiera (1). 

La nostra lingua è troppo circoscritta, e non può servire a spandere un gran lavoro. 

Finisco col reiterarle li miei ringraziamenti e coll’inculcarle coraggio per ciò che le resta 
a fare. Accetti le mie congratulazioni sincerissime e si assicuri che veruno fra i chimici è sì 
contento di vedere i di lei nobilissimi sforzi. 


Rennes, 13 luglio 1851. 
F. MALAGUTI. 


Un'altra prova dell’alta stima in cui il Malaguti teneva il nostro Selmi sì è che 
egli sino dal 1851 mise a parte il giovane suo collega italiano delle ricerche sulle 
reazioni reciproche fra i sali; ricerche che egli doveva poi pubblicare solamente 
nel 1853 e nel 1857. Da due lettere del Malaguti, che io pubblicherò col cortese per- 
messo della egregia famiglia del Nostro, risulta chiaramente che il Malaguti si occu- 
pava di questi studi sulla meccanica chimica già anteriormente al 1850. 

Erano tempi in cui in Italia, eccetto nelle memorie accademiche, in quasi nessun 
giornale si pubblicavano memorie importanti: se si eccettuino gli Annali di Majocchi 
fondati nel 1841 ed il Cimento fondato da Matteucci a Pisa nel 1844. Il povero 
Majocchi si sforzava di far conoscere i lavori stranieri ed anche italiani. Nel vol. II 
del 1841 de’ suoi Annali a proposito di una memoria di Melloni che egli volentieri 
riproduceva faceva notare: “ il prof. Melloni si è occupato moltissimo dei fenomeni 
del calorico irradiante: e siccome le sue prime Memorie non si conobbero in Italia (2) 
che per mezzo di alcuni giornali stranieri, così non deve far meraviglia se in parecchie 
scuole s'insegnano ancora le vecchie dottrine ,. 

Selmi dal 1840 al 1857 si occupava di quegli argomenti difficilissimi che face- 
vano sorridere coloro che erano abituati a fare ricerche unicamente di chimica orga- 
nica col vecchio metodo: cioè preparazione e studio di composti organici ben definiti 
e relativa analisi elementare. Egli invece ha trattato, ha iniziato, delle ricerche in 
quei punti della scienza che un tempo pareva non avessero importanza mentre oggi 
hanno la massima importanza, vale a dire: sullo stato colloidale, sui fermenti solu- 
bili o catalizzatori, sulle trasformazioni isomeriche, sul potere riduttore delle muffe, 
sulla cristallizzazione delle soluzioni sovrasature, sui fenomeni di contatto, sullo stato 


(1) Io credo che l’opera qui tanto lodata dal Malaguti fosse il primo volumetto (1° e 2° fasc.) 
degli Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, già pubblicati nel 1846 e che forse il Selmi 
per eccessiva modestia non gli aveva mandato prima. Non ho potuto conoscere se poi Selmi man- 
dasse al Malaguti anche il 2° volumetto (fasc. 3°-4°) e se tutta l’opera sia poi stata tradotta in 
francese come desiderava il Malaguti, ma credo di no. 

(2) Furono pubblicate negli “ Annales de Chimie et de Phys. ,, 1833-1840. 


19 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 143 


della caseina nel latte, ecc. Egli è stato uno dei pochissimi che hanno seguito una 
via propria. Di mano in mano che si vanno meglio studiando queste nuove branche 
del sapere umano sì rivela sempre più la vera originalità e l'importanza dei lavori 
del Selmi. Egli in molte questioni, come suol dirsi oggi, di attualità, ha emesso delle 
idee esclusivamente proprie ed in alcune di esse egli ha veramente precorso il suo 
tempo. . 

Per la genialità e originalità delle idee e delle osservazioni, il Selmi non è infe- 
riore a nessuno dei buoni chimici che l’Italia ha avuto; in quanto poi a coltura let- 
teraria li supera, di gran lunga, tutti. 

E come egli fosse sempre e attivamente al corrente dello stato della scienza lo 
dimostrano le numerose e importanti annotazioni e aggiunte fatte al trattato di chi- 
mica del Regnault da lui tradotto nel 1851-1852, e tutti gli altri suoi scritti. 

L'importanza di alcuni lavori di Selmi è poco conosciuta, sia perchè quei lavori 
sono stati pubblicati in giornali o in memorie accademiche locali, sia perchè il nu- 
mero di lavoratori moderni è accresciuto a dismisura e si ricordano e si citano più 
facilmente e più volentieri i lavori dei contemporanei che non quelli vecchi. 

S'aggiunga il fatto che non rare volte dei lavoratori, anche distinti, tolgono, 
ad esempio, un'idea, un concetto, esposto sommariamente o in brevi parole, trenta 
o quaranta anni prima da un altro; e quell’idea o concetto sviluppano, modificano, 
trasformano, in maniera che il tutto appare cosa nuova ai moderni cultori della 
scienza. È un'abilità anche questa, ma che va a danno del primo che concepì quel- 
l’idea. Così accadde di alcuni lavori del Selmi: furono messi sotto nuova veste. 

Ed io sono pienamente d’accordo con quanto scrive il prof. F. Bottazzi nel suo 
elogio storico di Pfliiger (1): 

Non infrequentemente accade nella scienza che un autore faccia sua l’idea. modestamente 
espressa da un altro e tanto la elabori e tanto vi scriva o polemizzi su, che finisce per credere 


e far credere che quell’idea sia sorta nel cervello di lui. Ma. il trattatista imparziale deve ricor- 
dare il motto: unicuique suum. 


Selmi ha poi l’altro grande merito di aver diffuso con buoni libri le cognizioni 
chimiche in Italia; e questo còmpito è talora ben più importante che non quello di 
aver fatto qualche ricerca scientifica di più. Egli sino dal 1850 e 1856 (2? ediz.) 
pubblicò i suoi: Principt elementari di chimica inorganica e nel 1851 i Principti ele- 
mentari di chimica organica (opera ora esaurita, quasi introvabile) ; colla traduzione dei 
quattro volumi del Corso elementare di chimica del Regnault, con numerose annota- 
zioni ed aggiunte, fece conoscere all'Italia il migliore libro di chimica di quel tempo, 
che fu poi tradotto anche in inglese ed in tedesco (V. la Bibliografia) (2). 

Ma l’opera che più contribuì a diffondere le cognizioni di tuttii rami della chi- 
mica è stata la sua grande Enciclopedia di chimica in 11 vol. in-4° e 3 vol. di Com- 
plemento e Supplemento (dal 1867 al 1881). 


(1) “ Atti Accad. Lincei ,, 1910, 1° sem., p. 637. 

(2) Il merito di aver fatto conoscere questo libro all'Italia, in quel tempo; è grande; in nessun 
Trattato d’allora sono così esattamente ed. ampiamente esposte le leggi di Berthollet, le generalità 
sui sali, la parte elementare teorica e pratica della metallurgia, l’analisi dei gas, l’analisi orga- 
nica, ecc. 


144 ICILIO GUARESCHI 20 


L'idea di pubblicare una grande Enciclopedia di Chimica venne al Selmi nel 1850 
e ne scrisse in proposito a vari chimici italiani nel 1851, ma non trovò molto aiuto; 
qualcuno avrebbe voluto fare una enciclopedia con grandi capitoli speciali su ogni 
scienza! Questo era il vero modo per non riuscire nell’ impresa; il Selmi invece 
voleva un’opera analoga all’ Handwòrt. d. Chemie di Liebig, Wéohler e Poggendorff, 
ma più vasta, e così poi fece. Egli in ciò ha preceduto di molti anni il Watt ed 
il Wurtz che pubblicarono poi delle opere analoghe. Il Selmi non potè effettuare il 
suo grande disegno se non nel 1866, e nel 1867 fu pubblicato il primo volume di 
quell’opera. 

Egli pensava che la chimica, come già aveva scritto e predicato il Liebig, do- 
veva avere una grande influenza sulla prosperità della nazione e non lasciava sfug- 
gire nessuna occasione per manifestare le sue idee in proposito. Già ne aveva parlato 
nella sua Prolusione detta nella Scuola chimica di Reggio nel 1844 e meglio ancora 
torna sulla utilità della chimica nel suo Annuario Italiano di chimica e fisica, 1846, 
volume II, Prefazione. 


Nella chimica, egli diceva, affine di ben riuscire nell’arte dell’esperimentare, abbisognano 
due qualità: la cognizione della scienza in quella maggiore estensione che sia possibile ed il 
criterio pratico d’instituire e condurre a compimento le esperienze, che si acquistano solo adde- 
strandosi alle manipolazioni ed operando assiduamente nei laboratori. Il quale criterio pratico 
non solo guida alla buona riuscita dei cimenti, ma insegna eziandio ad interpretarli giusta- 
mente, traendone quelle conseguenze che non oltrepassino i limiti del vero, nè lascino inav- 
vertito nulla d’importante (Fr. Semi, Annotazioni alle lettere di Liebig, pag. 487). 


Coltura letteraria. — Non spetta a me discorrere dei lavori letterari di Fran- 
cesco Selmi, ma qualche cosa debbo pure dirne. La coltura letteraria di quest'uomo 
era grandissima, più ancora che non appaia dagli scritti pubblicati. Egli conosceva 
benissimo anche le letterature straniere e l’animo suo era pieno di ammirazione special- 
mente per Shakespeare e per Goethe, dei quali non rare volte discorreva e si com- 
piaceva farne parallelo con Dante. 

Selmi era di mente e di cuore italiano; italiano in tutto: nel modo di pensare, 
di studiare, di sentire; egli era foggiato a modo suo, e perciò grande originalità 
nelle idee. 

Egli amava la scienza e l’arte per sè stesse, non per i frutti che possono pro- 
durre, non per i così detti onori a cui possono condurre, non per raggiungere smodati 
poteri, ma le amava perchè sono le due manifestazioni più preziose che distinguono 
l’anima umana. — 

E qui mi tornano alla mente, anche per il Selmi, le belle parole di Carducci per 
la inaugurazione di un busto a Morgagni in Bologna: 


La immagine che discopresi oggi alla vostra venerazione e ad esempio, ricorda quanta 
parte di scienza qui s’'innovasse e perfezionasse e come alla severità sperimentale si accompa- 
gnasse l'umanità delle lettere e la erudizione. 


Il Selmi, oltre a conoscere profondamente la propria lingua, il latino, il greco 
ed il francese, conosceva benissimo la lingua inglese. 

Al di fuori della scienza sua prediletta, Egli aveva una coltura letteraria come 
nessun chimico in Italia ha mai avuto. Questo si può dire per puro sentimento di 


sa 


21 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 145 


giustizia; è la verità. Questa sua soda coltura classica ebbe certamente non poca 
influenza sulla manifestazione delle sue idee generali. 

Egli conosceva a fondo i migliori nostri scrittori. 

Pietro Fraticelli, il noto dantista fiorentino, scriveva al Selmi il 21 gennaio 1862: 


OI mi rallegro poi con Lei, o Signore, in vedendo come ella, quantunque non nato in 
Toscana, scriva così bene la lingua nostra: lo che porge riprova del suo molto studio sui volumi 
dei nostri grandi scrittori toscani. 


Giovanni Prati il 20 gennaio 1855 scriveva: 


Mio caro Selmi, 


Ho letto l’Espiazione, Vegliando e Dormendo, e la Sgraziata. Vi scrivo sincero ed in 
breve. Correggete un po’ lo stile e date maggior sveltezza al dialogo e poi siate lieto di pos- 
sedere un cuore e un ingegno ben alti. 

Io trovo in cotesti scritti originalità, colori, finezza e lampi d’energia nuovi e mirabili. 
Dovete emendare, e poi stamparli in un libro. Il commercio dei tipografi e la schiera dei let- 
tori son freddi, è vero; ma non dubito che il buon senso e l’onore de’ nostri studî sieno così 
bassi caduti da non apprezzare le ottime cose, che son rari naufraghi in mezzo al pelago delle 
passioni. 

Bravo Selmi, che non vi accontentate solo di distinguervi nella scienza, ma aspirate, e ben 
degnamente, ad altra fama. 

G. PRATI. 


Pubblicò i suoi primi studî letterari nella Iconografia degli illustri Vignolesi, nel 
Giornale letterario-scientifico italiano, nel Silfo di Modena, nel Solerte di Bologna e 
nel Museo scientifico-letterario di Torino. 

Il Selmi ha molto collaborato al famoso Dizionario della lingua italiana di Tom- 
maseo e Bellini. 

Già nella prima annata del Museo scientifico-letterario di Torino, cioè nel 1839, 
il Selmi cominciò a scrivere qualche articolo, e appunto nel vol. 1°, pp. 374-376, 
trovasi una sua Biografia di Jacopo Barozzi detto il Vignola, che è molto bene scritta. 
È questo, credo, il suo primo lavoro letterario che si conosca (1). 

Nel 1857 pubblicò il suo bellissimo “ Favoleggiatore , ad usum serenissimi sec. XIX, 
il quale, come giustamente scrisse Cesare Stroppa (2): 


sereo in verità è uno dei più curiosi saggi di quanto possa l’umorismo italiano. In queste 
favole scritte con stile elegante, ingenuo, sono dipinti tipi di una giovialità ammirabile; vi 


(1) Nel 1840 a 23 anni scrisse un Canto a Vignola, i cui primi versi sono i seguenti (Giornale 
Scient. modenese, n. 7, aprile 1840, t. II, pp. 77-80): 


Salve, o terra natal, Vignola mia 
Alto-turrita, che prospetti l’onda 

Dello Scoltenna e i colli 

Ch'han sì bella sembianza e sì gioconda! 
Ogn’anima gentil, cortese e pia, 

Cui patrio affetto il cor tempri ed ammolli, 
Con me ripeta il grido: 

Salve, o terra natal, mio dolce nido! 


(2) Sulla vita e sulle opere di Fr. Selmi, “ L’Orosi ,, anno IV-V, 1881-82. 
Segre II. Tox. LXII. DI 


146 ICILIO GUARESCHI DI 


hanno satire e sferzate sanguinose contro gli ignoranti ed i vili di tutti gli stampi, e di quando 
in quando, pensieri delicati pieni di lirodia piacevolissima. In talune sono descritte le sue peri- 
pezie con fina ironia, che mostra quanto spirito egli avesse per combattere i suoi avversari 


nascosti o palesi. 


Egli si interessava con caldo animo a tutto quanto poteva tornare a gloria del 
nostro paese. Quando già nel 1861 si fecero i primi preparativi per le feste nazio- 
nali da tributarsi a Dante nel VI centenario della sua nascita (1865) pubblicò 
nella Rivista contemporanea, della quale era attivo collaboratore, un interessante 
scritto: Di una edizione della Divina Commedia da pubblicarsi nel sesto centenario di 
Dante, e poco dopo: Di uno studio da fare per l'edizione nazionale della Divina 
Commedia. 

Poco prima delle feste pel centenario di Dante pubblicò un suo studio: L’in- 
tento della Commedia di Dante e le principali allegorie considerate storicamente, in cui 
dimostra una grande coltura nella letteratura dantesca. In occasione poi del cente- 
nario, cioè nel 1865, pubblicò due opere ancor più importanti: I Convito, sua crono- 
logia, disegno, intendimento, ecc. di Dante, Dissertazione, Torino, Paravia, 1865, e le 
Chiose anonime alla prima cantica della Divina Commedia, ecc., Torino, 1865, 1 vol. 
in-8°. Opere queste assai lodate ed apprezzate anche dal Carducci (1). 

Egli era amantissimo dei classici e in ogni occasione, per quanto era in suo 
potere ne favorì lo studio; ed a questo proposito scriveva: 


La gioventù che cresce agli studi letterarii prenda il primo latte e la vivanda sostanziale 
dai classici, sino a tanto che metta il pelo al mento.....; alla coltura dei classici..... unisca la 
lingua patria, la quale vuole essere appresa sulle scritture dettate coll’imgenuità ed abbondanza 
dell’eloquio domestico, caste d’innocenza rusticana e semplicità verginale, fervide, fiorenti, ignare 
d’artifizio, melodiche nativamente, siccome il canto del fauno solingo, saporose siccome la pesca 
matura che si spicca dal ramo, serene ed illuminate non meno che il cielo nelle aurore di 
aprile ridente (2). 


Ed io sono perfettamente d'accordo col sig. H. Le Chatelier il quale terminò 
un suo discorso su Regnault colle parole seguenti, forse un poco esagerate (“ Rev. 
Scient. ,, 1910): 

SEL il y a là un enseionement profond; si la guerre impie faite aujourd’hui è la culture 
intellectuelle ne se calme pas, le siècle commengant pourra contribuer au développement de la 
richesse et méme de la science, mais il ne comptera pas plus, dans le développement de la 
pensée humaine, que les siècles de barbarie. 


Il Selmi pubblicò vari lavori nella Collezione di opere inedite e rare dei primi tre 
secoli della lingua e principalmente I trattati morali di Albertano da Brescia, volga- 


(1) Il Selmi ed il Carducci, colleghi nell’ Università e nella Deputazione di Storia Patria di 
Bologna, ma di opinioni politiche opposte, si stimavano reciprocamente. Il Carducci per le idee poli- 
tiche era più in relazione coll’altro professore di Chimica, il Piazza, il quale quando era professore a 
Parma dal 1857 al 1859, apparteneva al partito borbonico, o duchista, come allora si diceva; però 
dopo il 1859 passato a Modena poi a Bologna per merito di Selmi, si dichiarò focoso repubblicano 
e avverso a Selmi. Nell’intimo suo il Carducci però stimava molto più il Selmi pel carattere, per 
la coltura e pel valore scientifico. 

(2) Im Cawevazz, loc. cit., p. 71. 


e FRAN SI ELA TO; È E ) ENT y. F 
23 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 147 


rizzamento inedito del 1268 di Andrea da Grosseto, documento antico e molto impor- 

tante della nostra lingua in prosa letteraria. Questo lavoro del Selmi, preparato ac- 
curatamente per le stampe, con note e richiami ece., forma un volume intero della 
detta Collezione. 

Altre ne pubblicò nella Scelta di curiosità letterarie, di cui era direttore lo Zam- 
brini, a Bologna. 

Quando Farini era dittatore dell'Emilia ebbe sempre al fianco Francesco Selmi 
nel quale aveva piena fiducia. In questo tempo (1860) venne al Selmi l’idea di fon- 
dare le tre Deputazioni di Storia patria di Modena, Parma e Bologna, e l’idea, favo- 
rita e consigliata anche dal Montanari, fu accettata e messa ad effetto dal Farini: 


... considerando che il richiamare la storia ai suoi veri uffici è opera di governi liberi che 
lasciano volontieri aperto ogni adito alla verità e non temono di trovar rimproveri nel passato. 


Allora Selmi era Segretario generale del Ministero dell'Istruzione Pubblica (aveva 
43 anni) ed in tale qualità presiedette la prima adunanza della Deputazione di 
Storia patria di Modena il 19 febbraio 1860. Il Selmi restò poi sempre col titolo di 
membro della Deputazione di Storia patria modenese. Le tre Deputazioni di Storia 
patria più vecchie dell'Emilia debbono dunque la loro esistenza a Francesco Selmi. 

Egli fece parte della Commissione coll’incarico di ricercare i codici e le edizioni 
più rare dei testi di lingua spettanti ai primi secoli. Questa Commissione fu nominata 
da Luigi Carlo Farini nel 1860 allora Dittatore dell'Emilia, dietro iniziativa di Selmi. 
Egli, benchè non potesse per l’ufficio suo a Torino essere presidente di questa Com- 
missione, pure ne era veramente l’anima, e lo dimostrano le lettere del presidente 
Zambrini; il quale in una del 22 dicembre 1860 gli scriveva: 


Insomma io veggo dal complesso delle cose che la Commissione ha nella S. V. un vero 
patrono e mecenate, il che vieppiù incoraggisce me stesso e mi fa sperare gran bene. 


Fu poi sempre membro della Commissione deî Testi di lingua. 

To ho la fortuna di possedere il volume I della Divina Commedia, Vl Inferno, del- 
l’edizione dello Scartazzini, postillato di mano del Selmi stesso; sono note fittissime. 

Sino dal 1863 Selmi attendeva a scrivere una Vita dî Dante, ma non ho potuto 
sapere se e quanto manoscritto abbia lasciato in proposito. 


La vita scientifica di Selmi che va dal 1840 al 1881 può essere divisa in quattro 
periodi: 1° dal 1840 al 1848; fai suoi più importanti lavori sullo solfo, sui colloidi, 
sulla chimica molecolare, ecc.; 2° dal 1848 al 1860; a Torino scrive molte opere, fa 
dei bei lavori anche con Sobrero, pubblica le ricerche sul latte, ecc.; 3° dal 1860 
al 1867; si occupa essenzialmente di cose letterarie; 4° dal 1867 al 1881 scopre le 
ptomaine e dà una grande spinta agli studi chimico-tossicologici. 

I due primi periodi sono più ricchi di idee originali, l’ultimo colla scoperta delle 
piomaine ha pure una importanza grandissima. 


148 ICILIO GUARESCHI 24 


L’opera scientifica di Francesco Selmi è vasta e moltiforme; le sue ricerche 
interessano quasi tutte le branche della chimica e possono essere raggruppate come 
segue: 


II. Ricerche di chimica fisica. 

III. Delle pseudosoluzioni o soluzioni colloidali. 

IV. Studi di chimica inorganica. 

V. Ricerche di chimica organica. 

VI. Azioni di contatto o catalitiche, fermentazioni, ecc. 
VII. Ricerche di chimica biologica. 

VIII. Ricerche di chimica tossicologica, di chimicalegale e di applicazioni alla medicina. 
IX. Chimica applicata all’agricoltura ed all’industria. 
X. Ricerche varie. 

XI. Trattati — Traduzioni — Enciclopedia di chimica. 
XI. Epistolario. 

XIII. Bibliografia. 


Essendochè molti de’ primi lavori del Selmi si trovano in Giornali, o in Memorie 
o in Atti di Accademie poco conosciuti o in opuscoli a parte, così ho creduto utile tra- 
scrivere interi brani delle cose più importanti onde far meglio scorgere quali erano 
le idee del nostro chimico. 


II. 


Ricerche di chimica fisica. 


Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare. — Cristalli misti isomorfi. 
— Delle emulsioni inorganiche (cloruro d’argento, solfo, joduro mercurico). 
— Azione della luce. — Pila a triplice contatto. — Osservazioni ed espe- 
rienze sulle soluzioni di solfato sodico. — Soluzioni sovrasature. — Tras- 
formazione del joduro mercurico giallo in joduro mercurico rosso. — Sulla 
porpora di Cassio. — Della soluzione. 


Molte osservazioni ed esperienze del Selmi hanno stretta attinenza colla chimica 
fisica. Egli ha sempre avuto una grande simpatia, specialmente nei primi anni della 
sua carriera, per quei fenomeni che implicano l'ammissione di movimenti moleco- 
lari, di vibrazioni molecolari. 

Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare. — Dal 1843 al 1846 
pubblicò i suoi Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare, Modena, 1843-46, 
in quattro fascicoli, riuniti in due opuscoli, che sono assai preziosi per le molte idee 
e buone esperienze che contengono (Vedi Bibliografia). 

Assai bella è la prefazione, della quale trascrivo il brano seguente: 


L’uomo mosso dall’amore d’osservazione, e sollecitato dall’innato desiderio di conoscere la 
causa delle cose, ponendosi a considerare i fenomeni naturali che si compiono all’intorno di 


25 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 149 


lui, ebbe ad accorgersi che questa materia della quale esso pure si compone in parte, e di cui 
è formata la terra che lo sostiene, l’aria che lo circonda, l’acqua che lo disseta, questa materia, 
io dico, trovasi in istato di muoversi ed agitarsi continuo, di trasmutazioni, di risolvimenti e 
di riordinamenti novelli. Se il minerale qua si fa ruggine e sfiora, se là, invece, di polvere 
diventa duro cristallo; se la pianta e l’animale nascono, crescono e muoiono, ridonando all’aria 
ed alla terra quelle sostanze che loro tolsero per organizzarsi, se ciò avviene la materia è in 
moto indefesso, e le particelle di lei, che ora stanno aggregate in una forma, alla dimane tra- 
passano a vestirne un’altra. 


I due primi fascicoli contengono le sue ricerche: 
1° Sopra l’azione che î cianuri ammonico, calcico, magnesico e baritico eser- 
citano sull’ammoniuro, clorammoniuro ed idrato d’oro (pag. 1 a 15). 
2° Sopra lo stesso argomento. Studio teorico (pag. 15-29). 
3° Studi intorno all’azione del jodio sopra il bicloruro di mercurio (pag. 29-80). 

In quest’ultima parte si discorre del cloruro d’argento emulsionato, delle emul- 
sioni inorganiche e dell’azione della luce. 

Gli altri due fascicoli contengono due parti: nell’una il seguito delle ricerche 
precedenti, le sue £icerche intorno al bijoduro di mercurio e sulla cristallizzazione di 
clorojoduri, ossia formazione di cristalli misti (pag. 134); la seconda parte uno Studio 
sulla struttura delle molecole saline (pag. 135 a 176). 

Da quest’ultimo lavoro, interessante riassunto delle teorie sui sali, si scorge 
chiaramente che egli era al corrente dello stato della scienza del suo tempo. Questo 
capitolo da pag. 135 a 176 si legge con profitto anche oggi. 

Interessa di più la chimica fisica il capitolo che riguarda il joduro mercurico e 
specialmente i cristalli misti. 

Cristalli misti isomorfi. — Importanti sono le ricerche che il Selmi fece sino 
dal 1843-44 sulla cristallizzazione dei cloruri e joduri di mercurio e sulla forma- 
zione di cristalli misti. 

Credo utile riprodurre il riepilogo che trovasi a pag. 116-117 dei fasc. III-IV: 


Restringendo in brevi capitoli le cose narrate alla diffusa, e ricordandole particolarmente 

nei risultamenti i più importanti, concluderemo: 

1° che il bijoduro di mercurio rosso si discioglie nei liquidi semplici e composti senza 
colorarli in modo sensibile; 

2° che separato di repente dalla soluzione alcoolica, col mezzo dell’acqua versata in 
abbondanza, si presenta nel primo istante della sua precipitazione in forma di particole giallo- 
citrine, le quali sollecitamente sbiadiscono, e passano al giallo-smorto, poscia al giallo-arancio, 
e finalmente col tempo al rosso di mattoni; È 

3° che raccolto quand’è giallo-smorto o giallo d’arancio, lavato ed asciugato, ha l’aspetto 
di polvere finissima, che tramuta al rosso per lievi eccitamenti del calorico, della luce, dello 
strofinamento, ece., e che finalmente ordina le sue molecole a forma cristallina, durante l’ar- 
rossamento ; 

4° che si può ritardare il rapido trasformarsi del precipitato giallo-citrino ai susseguenti 
gradi di calore indicati, operando a bassa temperatura, servendosi cioè della neve invece di 
acqua, ovvero di mescolanza di neve e d’acido solforico; 

5° che il bijoduro allorquando sia precipitato nelle maniere accennate, tende a mante- 
nersi suddiviso ed emulsionato nel veicolo, dal quale si giunge a separarlo con mezzi somi- 
glianti a quelli onde si scompongono e guastano le emulsioni organiche; 


150 ICILIO GUARESCHI 26 


6° che il bijoduro disciolto nell’alcool, piuttosto debole, a grado di calore conveniente, 
può essere, col mezzo di una sola stilla d’acqua, d’acido solforico o d’altri liquidi, precipitato 
quasi in totalità, nella forma giallo-citrina, purchè si procuri la diffusione nell’intero corpo 
della soluzione di quel poco di precipitato, che la stilla del liquido sovraggiunto produsse al 
fondo del recipiente; 

7° che senza l’aiuto della stilla di liquido, si separa anche da solo, nella soluzione, quando 
questa sia versata in bicchiere di vetro non riscaldato; 

8° che una tenue quantità della soluzione aleoolica di bijoduro mercurico, entro la quale 
sia incominciata la formazione dei cristalli, è atta a trasfondere il fenomeno in altra quantità 
di soluzione somigliante, non per anco alterata; 

9° che operando con certe avvedutezze si ottengono mediante il suddetto fenomeno cri- 
stalli nitidi e ben determinati di bijoduro di mercurio citrino, conformati a tavole romboidali, le 
quali per l'aggregazione loro a due, a tre, a quattro, prendono le sembianze di prismi e di 
cubi, sebbene non lo siano in realtà; 

10° che lasciando svaporare a freddo poche goccie di soluzione alcoolica già raffreddata 
di bijoduro di mercurio, rimangono in ultimo sul vetro alcuni piccolissimi cristalli, in parte 
rossi, in parte gialli, i quali osservati con microscopio, mostrano di avere quasi tutti la stessa 
forma, e di appartenere per la maggior parte al sistema ottaedrico; 

11° che scaldato il bijoduro di mercurio secco in cristalli rossi, passa al giallo, e vapo- 
rizza assai prima di fondersi; colla fusione si trasmuta in liquido giallo-rosso, che manda nel 
bollire un vapore perfettamente translucido o scolorito; 

12° che effettuando lo scaldamento a bagno di sabbia del bijoduro polverizzato e misto a 
polvere minerale inerte e fissa, si ha alla superficie una efflorescenza del corpo mercuriale con 
visibili movimenti delle particelle cristalline, le quali s'arrampicano dal basso all’alto per salire 
alla cima della massa; 

13° che alle volte si veggono parecchi dei cristalli ivi radunatisi, spiccare un salto, rica- 
dendo al basso, ovvero attaccandosi a qualche punto delle pareti interne della bottiglia a breve 
distanza dal punto d’onde si dipartirono; 

14° che disciogliendo il bijoduro di mercurio col bicloruro dello stesso metallo, in 
acqua, si ha un liquido il quale, concentrato, fornisce cristalli colorati in giallo molto dispa- 
ratamente, e facili in appresso a rosseggiare; le acque madri collo svaporamento dànno nuovi 
cristalli, che sono scoloriti, ma tendenti a farsi rossigni, le ultime acque madri dei quali 
producono una terza qualità di cristalli, scoloriti e diretti ad arrossare; 

15° che negli ultimi cristalli si contiene meno di bijoduro di mercurio che nei secondi, ed 
in questi meno che nei primi, i quali trattati con acqua tiepida e cristallizzati di nuovo, poscia 
ripresi altra volta con acqua sempre tiepida, si dividono in due porzioni, l’una delle quali 
solubile è composta di bijoduro e di bicloruro di mercurio, l’altra formata di solo bijoduro di 
mercurio cristallizzato e rosso. 


Questi due ultimi brani furono riprodotti dai professori G. Bruni e Padoa nel 
loro studio: Sulla formazione di cristalli misti per sublimazione (1); essi dicono: 


Riguardo alla interpretazione di questi fenomeni il Selmi osserva più innanzi (pag. 132-133) 
che non si possono spiegare coll’ammissione di una combinazione chimica fra i due sali, ma 
che si deve invece ammettere trattarsi di una formazione di cristalli misti fra sostanze isomorfe. 


(1) © Atti R. Accad. dei Lincei ,, 1902, t. XI, 1° sem., pag. 569. 


27 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 151 


È anzi veramente da meravigliarsi, come, dopo osservazioni di una precisione e acutezza mira- 
bili per lo stato delle cognizioni di quell’epoca, si trovino in trattati di chimica più moderni 
od anche recentissimi riportati i pretesi clorojoduri di mercurio come veri composti chimici. 


Bruni e Padoa furono i primi a far notare l’importanza di questi lavori del 
Selmi. 

Padoa e Tibaldi poi, in altre ricerche (1): Sulla formazione di cristalli misti 
fra cloruro e joduro mercurici, confermano ancora le antiche ricerche di Selmi sulla 
cristallizzazione delle miscele di cloruro di mercurio e di joduro di mercurio. Il Selmi 
aveva già ammesso che quando il cloruro ed il joduro mercurico cristallizzano in- 
sieme formano dei cristalli misti e non già dei composti intermedi. 

Ed a questo proposito credo utile di riprodurre almeno le due pag. 132-134 dei 
fascicoli INI-IV dei suoi Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare: 


D'altronde facendosi cristallizzare da un liquido saturo la mescolanza dei due corpi, nota- 
vasi sempre che i cristalli primi a deporsi contenevano quantità di bijoduro di mercurio supe- 
riore a quella che rimaneva ai cristalli separatisi in appresso; alla perfine gli ultimi cristalli e 
l’acqua madre ne riuscivano tanto poveri da rendere necessari delicati reagenti per iscoprirvelo. 
Nè i primi eristalli risultavano da combinazione stabile e definita dei due corpi mercuriali, 
poichè lavati coll’acqua perdevano il bicloruro, e ridisciolti, formavano nuove cristallizzazioni, 
nelle quali verificavasi la successiva posatura delle prime molto cariche e delle ultime molto 
povere del bijoduro di mercurio. 

La forma dei composti di bicloruro di mercurio col bijoduro, l’alterazione che subiscono 
o da soli o per lo strofinamento, od anche per l’azione dissolvente dell’acqua, mi fanno per- 
suaso che i due corpî mercuriali, nell’unirsi dentro un veicolo e nel cristallizzare, non si com- 
binino veramente insieme, ma rimangano in mescolanza semplice, almeno il più delle volte, 
l’uno assumendo la forma cristallina dall’altro, quando gli stia al disotto nella quantità onde 
gli fu associato. La qual cosa si riconferma da ciò che il bijoduro si svela collo spontaneo 
arrossamento in un composto ove sia unito al bicloruro nella proporzione di 1:30 atomi, arros- 
samento che dimostra il passaggio di quel corpo da una forma di cristallizzazione ad altra, 
e lo stato di violenza in cui rimane durante il tempo che non appariva nel consueto suo colore. 

Essendoci noto che parecchie sostanze cristallizzano con forme insolite per grandiosità e 
per ìistruttura, mediante la presenza di materie disciolte nel liquido da cui esse si disgiungono 
nell'atto della cristallizzazione, non parrà strano che anche il bijoduro di mercurio ed il biclo- 
ruro assumano reciprocamente la speciale forma appartenente all’uno dei due, quando abbiano 
a cristallizzare insieme, e l’uno sovrabbondi sopra l’altro. Oltre a ciò si possono risguardare 
ambedue quasi doppia significazione dello stesso tipo, poichè hanno l’identico radicale, la stessa 
composizione quantitativa, le proprietà molto somiglianti, e non differiscono se non nella qua- 
lità del principio metalloidico, differenza, a mio avviso, di poca importanza per la stretta ana- 
logia che corre fra il cloro ed il jodio. Qual meraviglia adunque che possano mostrarsi isomorfi, 
cristallizzare uniti, senza l’uopo di vera chimica combinazione, e sostituirsi a vicenda come 
fanno nei minerali gli ossidi metallici isomorfici ? Qual meraviglia che il cloro surroghi in parte 
il jodio nel cristallo di bijoduro di mercurio, ed il jodio operi il consimile pel cloro nel ‘cri- 
stallo di bicloruro, se varî elementi hanno la facoltà di prendere nelle combinazioni il posto di 
altri elementi abbenchè sian disparati di tanto, e sostituirli senza mutare le proprietà essenziali 
del composto ? 


(1) © Atti R. Accad. dei Lincei ,, 1903, t. XII, 2° sem., pag. 159. 


152 ICILIO GUARESCHI 28 


A mio parere, non si giunge a spiegare chiaramente le reazioni di cristalli misti del clo- 
ruro e del joduro mercurici, se si suppone una vera associazione chimica fra i due binari, anzi 
allora s'incontrano parecchie gravi obiezioni, a sciogliere le quali non si riesce con tanta age- 
volezza. E qui credo opportuno di avvertire che non intendo io già di negare la formazione 
di composti per affinità chimica fra il bicloruro ed il bijoduro di mercurio; solo ho avuto di 
mira il mettere in rilievo quanto meglio convenisse il risguardare qualcuno di tali composti 
come una semplice unione per uguaglianza di forma cristallina, di quello che una combina- 
zione in tutta la forza del significato attribuito al vocabolo. 

Comunque però la cosa si consideri, sarà sempre d’ importanza grave l’osservare associa- 
zioni di corpi intime, alterarsi e disgiungersi unicamente in virtù della tendenza dell’uno dei 
due a passare da una struttura di cristallo ad altra per l'influenza della temperatura piuttosto 
bassa a cui rimangono esposte. Il che sembrami corrispondere al concetto seguente: un corpo 
combinatosi con altro, in modo da essere costretto a rimanere in combinazione ridotto ad una 
forma dalla quale abborre, mantiene sempre in sè viva la tendenza a ricomporsi, nella forma 
desiderata, fino al punto di staccare le sue molecole da quelle del compagno, di accozzarle 
insieme ordinandole a seconda di sua natura; e ciò per movimento intestino, a secco, senza 
l’aiuto di agenti esteriori, almeno di cognita ed apparente influenza (1). 

Questa legge insita in varie sostanze, e singolarmente manifesta nelle combinazioni del 
bijoduro di mercurio, può valere a porre in luce, come certi composti, che parrebbero stabili 
e duraturi, sì guastino di per sè, con effetti alle volte molto ragguardevoli, cioè dello svolgi- 
mento di calorico, dello scoppio improvviso, ecc. i 


Delle emulsioni inorganiche. — Il Selmi già dal 1843-46 rivolse la sua atten- 
zione alle emulsioni inorganiche, le quali, come egli osservò, hanno molte analogie 
colle emulsioni organiche. 

Delle emulsioni inorganiche e specialmente del cloruro d’argento il Selmi ne 
discorre anche ne’ suoi Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, 1843-46, 
parte I. Egli attribuisce questi fenomeni a vibrazioni molecolari. 

A pag. 76 scrive: 


Affine di bene toccare con mano che l’esistenza delle vibrazioni molecolari dei sali disciolti 
non è una chimera, ed ha fatti incontrovertibili i quali ne dànno la dimostrazione, io reputo 
di qualche utilità accennare qui alla sfuggita una serie di prove e di osservazioni da me e 
da altri instituite, dalle quali traluce tanto splendida ed evidente da non potersi mettere 
in dubbio. 

Prendendo una soluzione allungata d’acido cloridrico ed aggiungendovi del nitrato d’ar- 
gento fino al punto che tutto il cloro sia tramutato in cloruro argentico, questo rimane diffuso 
nel liquido a modo di sostanza emulsionata. Sopravversando in abbondanza altro nitrato dello 
stesso metallo, tosto il cloruro raccogliendosi a larghi fiocchi si separa dal veicolo, e questo si 
rischiara e la precipitazione si effettua con maggiore sollecitudine e perfezione se con un bastoncino 
di vetro si dibatta rapidamente il liquido. Altri sali, ad esempio, il solfato potassico, il cloruro 
d’ammonio, il nitrato baritico, il solfato sodico, operano a guisa del nitrato argentico, ma con 


(1) Ed in nota scrive: “ Non ha guari tornai a visitare il clorojoduro di mercurio, bianco in 
“ origine, e fattosi rosseggiante in varii punti entro lo spazio di parecchi mesi. Corre già oltre i 
“ due anni dacchè lo preparai. Mi sono avveduto che il rosseggiamento crebbe con notevolezza nei 
© sei ultimi mesi, spazio entro il quale aveva trascurato di osservarlo. Probabilmente a capo di altro 
“ mezz’anno, riveggendolo apparirà eziandio più rosso. È adunque lentissimo lo slegarsi del joduro 
“ di mercurio dal bicloruro ed il ricomporsi di lui in cristalli distinti e liberi ,. 


29 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 153 


energia minore, poichè separano il cloruro d’argento in forma di fiocchi più tenui e divisi, e 
con lentezza maggiore. La posatura e la conformazione a fioechi del cloruro argentico proviene 
manifestamente dalle vibrazioni prodotte dal nitrato d’argento e dagli altri sali, le molecole 
dei quali, nell'atto di diffondersi in tutto il liquido, si muovono e percuotono contro le parti- 
celle del cloruro, le sospingono l’una sull’altra, e le costipano in ammassi più o meno ampî. Il 
dibattimento avviva e rende più rapido il muoversi delle molecole saline ed affretta perciò la 
precipitazione del cloruro dimulsionato. 

Procacciandosi un’emulsione di solfo molle ed affondendo sul liquido emulsivo varie solu- 
zioni saline si fa posare il solfo in forma di fiocchi, i quali riescono ampi e larghi per alcuni 
sali, e per altri invece tenui ed esili. Questi ultimi, che alle volte non perdono l’attitudine a 
ridursi nuovamente in condizione emulsiva quando siano misti ad acqua pura, rimangono tal- 
mente ammucchiati gli uni sugli altri quando vi si sopravversa una soluzione di sali della prima 
categoria, da tramutarsi in magma tenace, elastico ed uniforme. 

Il solfo polveroso dimulsionato si conforma a fiocchi e precipita dal menstruo col mezzo 
dei medesimi sali. 

La fecola, gli albuminosi, si disgiungono dai liquidi ne’ quali stavano gonfiati sotto 
la percossa dei moti vibratorî delle sostanze saline, e si rendono al fondo come coagulati e 
rappresi. 

Gli idrati degli ossidi metallici stemperati in date soluzioni alcaline o: saline, senza discio- 
gliersi, si disidratano e passano dalla condizione amorfica alla cristallina (Fremy). 

Nelle indicate reazioni tutte, è incontrovertibile e sicura l’influenza delle vibrazioni mole- 
colari, giacchè i loro effetti tornano siffattamente distinti e ben determinati da non potersi met- 
tere in dubbio quale sia la causa operante. 

Dunque i sali disciolti in un menstruo producono movimenti molecolari, l’efficacia dei quali 
giunge al punto da accozzare particelle di corpi presenti e sospesi nel liquido, e da scomporli 
ancora e da cangiarne la condizione polimorfica. 


Delle emulsioni inorganiche egli discorre ancora a lungo, relativamente al bijo- 
duro di mercurio, precipitato con acqua dalla sua soluzione alcolica, ne’ suoi Studi 
teorici e sperimentali di chimica molecolare, fascic. III e IV e particolarmente a pag. 96. 

Azione della luce. — Non sono prive d'interesse le sue osservazioni sull’azione 
della luce, che trovansi a pag. 69-71 dell’opuscolo sovracitato (fasc. I-II). 

A proposito della scomposizione del bicloruro di mercurio per l’azione del jodio 
egli a pag. 69 scrive: 


Una virtù, una forza attiva e scomponitrice deve esistere perciò nel liquido in cui il jodio 
sì impadronisce degli elementi dell’acqua, giacchè da solo non sarebbe capace di disgiungere 
l’ossigeno dall’idrogeno in tempo così breve. La soluzione acquosa di jodio si conserva di fatti 
a lungo inalterata se viene mantenuta con date precauzioni, ma presto scolora se viene esposta 
alla luce diretta, producendosi acido jodidrico ed acido jodico. Per quanto la luce coadiuvi la 
reazione, è certo frattanto che da sola non la produce, giacchè non possiede la facoltà di ridurre 
l’acqua ne’ suoi elementi, mentre per lo contrario siffatta facoltà appartiene al jodio in grado 
debole però, e da non poterla esercitare sollecitamente e compiutamente se da qualche eccita- 
tore non sia sussidiato. 

La luce, a tutti è noto, si comporta quale chimico agente puro; essa modifica, compone 
e scompone pel suo contatto le sostanze, invisorendo od affievolendo le forze di aggregazione 
semplice e di affinità, onde i corpi elementari per influenza sua possano cangiare di stato allo- 
tropico, unirsi insieme più agevolmente, ed i corpi composti mutare la loro costituzione o la 
composizione. Gli esempi da citarsi in conferma della riferita proposizione si raccoglierebbero 


Serie II. Tom. LXII T 


154 ICILIO GUARESCHI 30 


a centinaia quando piacesse; basti citare il fosforo che al contatto della luce passa da una data 
condizione allotropica ad altra diversa, il fosfuro triidrico che l’altera e perde la proprietà di 
ardere spontaneamente, il bijoduro di mercurio che io vidi da giallo farsi rosso sotto il percoti- 
mento dei raggi solari, il cloruro d’argento, il joduro mercuroso, ecc., che si seompongono nei 
modi già conosciuti. Una particolarità frattanto noteremo in questo luogo, ed è che la luce 
sembra fornita in ispeciale maniera della proprietà di scomporre l’acqua a contatto dei corpi 
affini per l'idrogeno, d’idrogenare anco direttamente quelle sostanze che da sole non lo potreb- 
bero fare, alle volte separando così l'ossigeno allo stato libero, ovvero riducendolo in combi- 
nazione poco stabile, alle volte unendolo ad una molecola, che di tal maniera si riduce ad un 
modo diverso d’essere. Il jodio, il bromo ed il cloro in soluzione acquosa si idrogenano al 
contatto della luce, e se dalla soluzione clorica soltanto parte dell’ossigeno libero ciò è perchè 
l’acido ipocloroso nel formarsi si scompone contemporaneamente, mentre nelle altre due vi ri- 
mane combinato in forma tale da potersi però disgiungere senza grave difficoltà. L’opera della 
luce in questi casi non può essere che una influenza di puro contatto, o meglio di vibrazioni, le 
quali agendo sui corpi percossi, li determinano a mutare l’ordine delle molecole, e ad entrare 
in un modo nuovo di essere. 

L'azione scomponitrice di contatto non è in certi casi esclusiva alla luce, essa la possiede 
in comune con altri corpi, e sebbene i fatti ne’ quali tale comunanza si appalesa non siano 
frequenti, tuttavia non mancano interamente. Quando, per esempio, si espone alla luce diretta 
una soluzione acquosa di sublimato corrosivo, il liquido dapprima limpido s’intorbida, e si 
forma, come nota Berzelius, del cloruro mercuroso e dell’acido cloridrico; lo stesso effetto è 
prodotto da molti corpi organici i quali tramutano il sublimato corrosivo in calomelano ed in 
acido cloridrico. Nelle mie indagini intorno al solfo emulsionato ho riconosciuto che la luce 
altera il principio che rende molle il solfo nella stessa maniera onde operano i solfuri alcalini, 
ossia per semplice contatto, facendo cangiare il solfo di giallo e molle in bianco e polveroso. 
Per le quali cose non sembrami nuovo e strano l’affermare che alcuni principî possono equi- 
valere alla luce in varie reazioni e surrogarla operando a maniera della medesima. 

Pila a triplice contatto. — Il Selmi inventò questa pila nel 1857 (“Il Tecnico ,, 
Torino, 1857, vol. I, pag. 3 e 81); la Memoria in cui descrive questa pila, che il De la 
Rive nel 1857 vide in funzione alla stazione telegrafica centrale di Torino, ha il titolo: 
Pila a triplice contatto e suoi usi nella telegrafia elettrica, nella elettrometallurgia, ecc. 

Ecco quanto scriveva Aug. Righi nel 1874 su questa Pila (“ Enciclop. di chi- 
mica », vol. VIII, pag. 842): 

Ogni coppia di questa pila, dovuta al Selmi, si compone di una lastra di zinco immersa 
orizzontalmente in una soluzione di solfato di potassa, e di una striscia di rame piegata a 
spirale, che si immerge per metà nel liquido al disopra dello zinco. Si dà tal forma al rame 
onde allungare assai la linea ove ha luogo il triplice contatto del rame col liquido e coll’aria 
atmosferica. L’idrogeno che si porta nel rame allo stato nascente, si combina coll’ossigeno del- 
l’aria, ed in parte anche coll’azoto formando ammoniaca; in tal modo la polarizzazione è pre- 
venuta, e la corrente si conserva lungamente costante. 

Osservazioni ed esperienze sulle soluzioni di solfato di sodio. — Selmi ha 
fatto molte osservazioni importanti sulle soluzioni di solfato di sodio. 

Una delle prime è quella che riguarda il cambiamento di volume del solfato 
di sodio in soluzione (Nouveaux phénomènes que présente la solution de sulfate de soude, 
par M. Fr. Selmi, professeur de Chimie è Reggio (Modena); “ Jour. de Pharm. et de 
Chim. ,, 1845, vol. VIII, p. 123; “ Ann. de Millon et Reiset ,, 1846, p. 130; “ Ann. 
Ital. del Selmi ,, I, 1846, pp. 54-55). 


31 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 155 


HKeco come il Berzelius, pur tanto severo e parco nei suoi giudizi, riferisce 
intorno a questo primo lavoro di Selmi sulla soluzione di solfato sodico (“ Rapport 
annuel sur les progrès de la Chimie , per il 1845, pag. 28 e “ Jahresb. f. Chem. ,, 
1843, t. XXVI, pag. 52): 


Changement de volume du sulfate sodique par la dissolution. M. Selmi a fait sur une disso- 
lution de sulfate sodique la remarque suivante, qui est digne d’attention. Lorsqu’on dissout le 
sel cristallisé dans un poids égal d’eau à +50, qu’on verse la dissolution dans un tube de verre, 
qu'on ferme ce dernier hermétiquement avec un bouchon, et qu'on refroidit ensuite la disso- 
lution è 0°, le sel ne cristallise pas; mais il cristallise immédiatement dès qu’on enlève le 
bouchon. 

Lorsqu’on verse la dissolution chaude dans un ballon de verre è col long et étroit, dans 
lequel on introduit un thermomètre, qu'on ferme ensuite le col hermétiquement, que pendant 
le refroidissement, è 0° on fait des traits sur le verre là ou la liqueur s’arrétait è 50°, puis 
de 5° en 5°, qu’on retire ensuite le ballon de l’eau glacée, et qu'on l’ouvre, le sel commence 
à cristalliser, la température s’élève à 4 17°,5 ou 18, et le volume de la dissolution augmente 
de manière à étre au méme niveau qu'il était è + 43°. Si l’on replonge le ballon dans l’eau 
glacée pour accélérer le refroidissement, le volume de la masse continue è augmenter malgré 
le refroidissement de telle fagon que, lorsque la température est arrivée è 0°, la masse occupe 
le méme volume que le liquide occupait è -+ 50°. Maintenant, si l’on réchauffe peu è peu la 
dissolution de manière à dissoudre le sel, le thermomètre monte, et le liquide baisse. 


“ Ecco, scrive il Selmi, il primo esempio conosciuto di contrazione o diminuzione 
di volume avvenuta mediante la soluzione di un sale nell'acqua già previamente 
idratato all’ultimo punto d’idratazione ,. 

Sulle soluzioni sovrasature. — Sl Selmi ha toccato anche, e con esperienze 
ben fatte, uno dei fenomeni più curiosi ed importanti che si conoscono: quello delle 
soluzioni soprasature. 

Le sue prime osservazioni ed esperienze sulle soluzioni sovrasature del solfato 
sodico risalgono al 1845 e trovansi nelle note agli Elementi di chimica dell’ Hoefer 
trad. da G. Giorgini, t.I, p. 384 e nell’Annuario italiano di Chimica e di Fisica del 
Selmi, I, 1845, pagg. 54-55 e II, 1846, pag. 15). 

Nel 1849 presentò una memoria: Monografia sulla cristallizzabilità della soluzione 
di solfato di soda (“ Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1851, vol. XI, p. 325 
e letta il 20 maggio 1849). 

Ecco quanto Egli scrive relativamente alla memoria del Loewel da lui riassunta 
negli “ Annali di Majocchi ,, nel 1850, t. II, pag. 26: 


I lettori facendo il debito confronto fra l’antecedente Memoria appartenente a me e le cose 
scritte nei Trattati di Chimica, e questa pubblicata dal Loewel, vedranno tosto, che il chimico 
francese nulla dice di veramente nuovo, se eccettuino l’osservazione relativa alla passività delle 
bacchette di vetro e di metallo scaldato. La mia Memoria ha diritto di priorità, perchè da 
circa un anno fu presentata e letta alla R. Accademia delle Scienze di Torino. 


Ingiustamente alcuni trattatisti, discorrendo delle soluzioni sovrasature del sol- 
fato sodico, dimenticano di far conoscere le ricerche del Selmi, mentre ricordano 
quelle del Lowel, di Schiff, di Gernez ed altri. Le ricerche di Lòwel sono del 1850 
CS5IN(VA Che) 29) pag 6206 Jahresb: hg 18507 pi 294: RANCH); 
t. 33, pag. 334 e “ Jahresb. ,, 1851, pag. 331), mentre quelle del Selmi risalgono 


156 ICILIO GUARESCHI 32 


al 1845 e 1846 e più estesamente nella memoria presentata alla R. Accad. delle 
Scienze di Torino, 1849 (1). 

Anche sulle sue esperienze riguardanti le soluzioni sovrasature egli è tornato 
più volte; ne discorre a lungo nel vol. X della Enciclop. chimica e a pag. 285 scrive: 


Si osservò che quando la soluzione satura fosse contenuta in canna di vetro chiusa ai 
due estremi, uno dei quali affilato e suggellato a lampada, dopo che tutta l’aria era stata 
espulsa, potevasi avere una specie di martello ad acqua, il quale alle volte poteva essere dibat- 
tuto con forza e per lungo tempo, senza che il sale cristallizzasse (Fr. Selmi). 


Osservazioni ed esperienze sulla trasformazione del ioduro mercurico giallo 
in ioduro rosso. — Sino dal 1844 Selmi studiò con cura il ioduro mercurico ed 
osservò dei fatti nuovi interessanti che sono lodevolmente ricordati in tutti i più 
importanti Trattati di chimica. Egli notò che il ioduro mercurico rosso cristallizza 
bene dall’alcool e che perde la sua facoltà colorante non solamente sciogliendosi 
nell’alcool, ma anche nelle soluzioni acquose di cloruro mercurico, d’acido iodidrico, 
dei ioduri e cloruri alcalini; il ioduro rosso passerebbe allo stato giallo e perciò non 
colora queste soluzioni (“ L’Institut ,, 1844, XII, pag. 102). 

Queste osservazioni ed esperienze piacquero assai al Berzelius ed io non posso 
fare di meglio che riferire quanto egli scriveva nel 1845 nel suo “ Rapport Ann. sur 
la Chimie ,, 1844, pag. 164; o “ Jahresb. f. Chem. ,, 1844, t. XXV, pag. 293): 


M. Selmi (“ L’Institut ,, N. 534, pag. 102) a fait remarquer que l’iodure mercurique se 
trove toujours dans la modification jaune quand il est à l’état de dissolution, ce qui explique 
pourquoi ces dissolutions sont jaunes. Quand on dissout l’iodure dans l’alcool, et qu’on verse 
cette dissolution dans l’eau froide, elle y produit un précipité jaune; si l’eau est chaude, le 
précipité est rouge. On obtient méme quelquefois l’iodure mercurique en cristaux jaunes dans 
la dissolution alcoolique. La couleur des iodures mercuriques doubles est souvent jaune au 
moment de la cristallisation, et devient rouge plus tard. Quand on dissout l’iodure mercurique 
dans une dissolution de chlorure, les deux sels cristallisent ensemble; les cristaux sont jaunes 
le plus souvent, mais deviennent rouges à la longue, et immédiatement si on les broie. 


Il Malaguti non dimenticò anche questo lavoro di Selmi e nel 1858 scriveva: 


Si, d’après M. Selmi, on fait cristalliser lentement une dissolution alcoolique de iodure 
mercurique, on obtient encore la modification rouge; enfin, le temps seul suffit pour opérer ce 
changement (F. Maracuti, Lecons élém. de chimie, 2° éd., 1858-60, I, pag. 937). 


E su questo curioso fenomeno, il Selmi stesso scriveva in una nota al Regnault, 
vo]. III, pag. 452: 


Ci sia lecito notare a questo punto che Fr. Selmi osservò anni sono, che l’joduro di mer- 
curio possiede la singolare proprietà, quande si discioglie, di passare dallo stato isomerico rosso 
al cedrino, e questo fa, non solo a fronte degli agenti di soluzione composti che lo traggono 
a combinazione, come acido cloridrico, liquidi saturi di eloruri e d’joduri alcalini, ma eziandio 
a fronte di solventi semplici come alcoole ed acqua. Nelle soluzioni esso suole apparire perfet- 
tamente scolorito, e quando si depone dai solventi, purchè le circostanze gli siano favorevoli, 


(1) Però Wilh. Ostwald ricorda il lavoro di Selmi (“ Lehrb. allg. Chem. ,,, II, 2* parte, p. 274). 


33 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 157 
mantiene lo stato in cui si disciolse, cioè si conserva nella modificazione cedrina. Tosto che le 
circostanze, nell’atto del coneretamento, siano favorevoli al movimento molecolare, allora l’ioduro 
passa nel deporsi dal cedrino al rosso, ragione per cui i chimici che non esaminarono il feno- 
‘meno a minuto, non se ne accorsero prima. Della soluzione mista di acido cloridrico con biclo- 
ruro di mercurio, il bijoduro che fu disciolto in certe quantità proporzionali, si depone con 
forma di magnifici cristalli lamellari gialli, i quali non appena si tocchino o si tolgano dal 
liquido da cui si deposero passano al rosso scarlatto. 


In seguito Selmi fece nuove ricerche sul ioduro mercurico e nel 1855 pubblicò 
un’altra nota: Nuovi fatti relativi al biioduro di mercurio in soluzione (“ Nuovo 
Cimento ,, 1855, I, pag. 183; “ Jahresb. f. Chem. ,, 1855, pag. 417; Morssan, Traîté 
de Chim. inorg., V, pag. 265, ecc.). Egli osservò che le sostanze che sciolgono il 
biioduro mentre fondono, come il fosforo, o quelle che bollono, a bassa temperatura 
(eccetto il solfuro di carbonio), lo depositano per raffreddamento sotto la forma rossa 
o una miscela delle forme rossa e gialla; quelle che fondono (come lo zolfo) o bollono 
a temperatura alta lo depositano nella forma gialla. 


La solubilità, scrive Selmi, del bijoduro di mercurio in liquidi sì svariati, senza che ne 
rimanga alterato, in ispecie dal fosforo e dal solfo, ne mostrano la somma stabilità, e ci offrono 
esempio di uno di quei corpi singolari, nei quali i componenti si tengono congiunti tanto inti- 
mamente da resistere ai reagenti più gagliardi. 


Sulla formazione del ioduro giallo di mercurio dal ioduro rosso si trovano molte 
altre osservazioni anche nella sua Enczclop. chimica, VII, pag. 751. 

Sulla porpora di Cassio. — Alcuni ammisero che la porpora di Cassio sia una 
miscela di oro finamente diviso e di acido stannico gelatinoso (vedi ad esempio anche 
in HoLLeman, Trattato di chimica inorg., pag. 337). 

Selmi sino dal 1850 si mostrò del parere che la porpora di Cassio fosse una 
vera lacca d’oro metallico e di acido stannico. Nei suoi Principii elementari di chimica 
minerale, 1850, scriveva a pag. 375 (e nelle annotazioni al Regnault, 1851, vol. III, 
pag. 461): 

Alcuni autori sono dell’avviso che nella porpora di Cassio non si contenga ossido d’oro e 
che il metallo vi sia unito, per una speciale e forte aderenza, la quale diremo intima e senza 
diffusione. L'oro aderirebbe adungue all’acido stannico, come all’allumina le sostanze coloranti, 
al carbone le sostanze suddette, la calce, il jodio. 

Altri oppongono che la porpora di Cassio è solubile nell’ammoniaca, e ciò dimostra che 
l’oro siavi combinato e non aderente, non essendo l’oro metallico solubile in quest’alcali. Po- 
trebbesi a ciò rispondere, che non ripugna di vedere una materia attenuatissima' diffondersi in 
un liquido colle apparenze di soluzione, perchè si hanno molti esempi di fatti somiglianti nelle 
pseudosoluzioni. Probabilmente l’oro e l’acido stannico compongono una vera lacca dell’indole 
delle alluminose. 


Selmi, tenendo per l’opinione che la porpora di Cassio sia una lacca, tentò di 
conseguire lacche d’oro coll’allumina e vi riuscì di fatto, provocando la riduzione 
dell’oro in presenza dell’allumina libera per mezzo di un solfito alcalino. 

Della soluzione. — Selmi aveva delle idee molto moderne intorno alla natura 
delle soluzioni vere. 

Già nella sua memoria: Di alcune reazioni tra l'acido iodidrico e l'acido solforico 
tanto puro, quanto contenente del solfato di piombo, pubblicata nel 1847 (Raccolta di 


158 ICILIO GUARESCHI 984 


fisico-chimica italiana, di ZAntEDESCHI, Venezia, 1847), emise delle idee nuove intorno 
alle soluzioni, che considera come una vaporizzazione 0 vaporazione del corpo solubile 
nel solvente, e a pag. 42 scriveva (si badi che siamo nel 1847): 


Io ho replicatamente avvertito nelle mie scritture intorno ad argomenti chimici, qualunque 
volta me ne capitò il destro, che il fatto delle soluzioni si spiega in maniera molto più lucida 
e ragionevole, seguendo le dottrine di Gay-Lussac e del Bizio, di quello che attenendosi all’opi- 
nione comune, imperocchè a me sembra che meglio si intenda la cosa, ammettendo che il corpo 
solido si disleghi nell’atto dello sciogliersi e si diffonda nel solvente a somiglianza di un gas 
o di un vapore, rimanendovi veramente gasificato o vaporato, piuttosto che invocare per l’in- 
terpretazione del fenomeno, il sussidio di una speciale affinità di combinazione, della quale non 
sì riscontrano ì segni caratteristici appartenenti alla vera affinità. 


Su queste idee egli tornò nel 1857 nei suoi Principii elementari di Chimica inor- 
ganica, 2* ediz., 1857, nel capitolo XX intitolato: Della soluzione e della pseudo- 
soluzione. 

A pag. 78 scrive: 


Il soluto si diffonde nel solvente in parti sì tenui ed uniformemente distribuite da essere 
una vera espansione di molecole disgiunte, paragonabili a quelle de’ vapori nello spazio. Laonde 
ne venne che si avesse a definire la soluzione: Za vaporazione di un solido in un liquido. 


Ed è qui, e precisamente a pag. 79, che distingue molto bene le pseudosoluzioni 
o soluzioni false dalle vere soluzioni (Vedi più innanzi: Delle soluzioni colloidali). 

Queste idee intorno alla soluzione ed alla pseudosoluzione sono esposte da lui 
anche in un articolo Soluzione nell’Enciclop. di chimica, vol. X, pag. 276. Tutto questo 
articolo meriterebbe di essere riprodotto. 

In nessun Trattato di chimica italiano si trovano, a mio parere, notizie così 
interessanti sulle soluzioni, come trovansi nei libri del Selmi (1). 

Altre sue ricerche che toccano la chimica fisica, si trovano in lavori di chimica 
organica, di chimica inorganica, biologica, ece. 


(1) Per quanto oggi da alcuni si sia modificato il concetto di soluzione, ammettendo che talune 
volte i fenomeni di soluzione dipendano da composti che si formano tra solvente e corpo sciolto 
(il che fu già ammesso dall’Avogadro), il concetto generale che la soluzione sia come una evapo- 
razione o espansione gasosa della sostanza sciolta nel solvente, rimane ancora. 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 159 


dI 
Ur 


I. 


Delle pseudosoluzioni o soluzioni false o soluzioni colloidali. 
Azzurri di Prussia, solfo, cloruro d’argento e caseina colloidali @). 


Ora è mio còmpito il far rilevare tutta l’importanza delle ricerche di Selmi sulle 
pseudosoluzioni o soluzioni false o soluzioni colloidali. È qui dove il Selmi ha meglio 
precorso il suo tempo; anche in questo campo della scienza ha stampato un’orma 
profonda; principalmente per avere sino dal 1846 e anche prima e poi molte volte 
dopo (1847-1849-1851-1857-1870) distinto molto bene le pseudosoluzioni o false solu- 
zioni (pseudosolutions ou solutions faux dei francesi) dalle soluzioni vere. 

La storia dei colloidi non può oggi farsi senza mettere in prima linea il nome 
di Selmi. 

Prima delle osservazioni generali di Selmi non erano conosciuti che alcuni fatti 
isolati di metalli che si trovavano in uno stato fisico diverso dal solito ; nessuno vi 
annetteva importanza e non sì pensava certo a dividere le soluzioni dei corpi in due 
categorie ben distinte come egli ha fatto (2). 

Selmi invece scopre dei fatti nuovi (azzurro di Prussia colloidale, solfo colloi- 
dale, ecc.) e li studia sotto un punto di vista generale, come nessuno aveva mai fatto 
prima di lui. 

Molti autori trattando dei colloidi incominciano coll’affermare che le nozioni di 
soluzioni diverse per le loro proprietà dalle soluzioni in generale, datano dalle ricerche 
di Th. Graham (1861-1864) che ha stabilito la distinzione di sostanze cristalloidi e 
colloidi. Ciò non è esatto, nè giusto; Selmi molto prima di Graham emise delle idee 
generali sulla natura delle così dette soluzioni colloidali, che egli pel primo denomi- 
nava pseudosoluzioni o false soluzioni. Ora il nome di pseudosoluzioni per indicare 
le soluzioni colloidali è usato da quasi tutti i chimici, ma sempre senza ricordare il 
nostro chimico. 


(1) Questo capitolo II fu fatto tradurre dall’egregio Prof. Wolfgang. Ostwald, e col titolo: Die 
Pseudosolutionen oder Scheinlòsungen nach Francesco Selmi, fu inserito nel suo “ Zeitschr. f. Chem. u. 
Ind. d. Kolloide ,, 1911, vol. VIII, pag. 113. Ora vi ho fatto solamente alcune brevi aggiunte. 

(2) Il sig. The Svedberg nell’eccellente sua opera: Die Methoden zur Herstellung Kolloider 
Liosungen anorgan. Stoffe, Dresden, 1909, ricorda le Veillard (1789), Berthollet (1798), Berzelius (1808) 
e Debereiner (1813) come i primi che abbiano ottenuto lo solfo colloidale; a me sembra che in 
questi casi non si possa parlare di solfo colloidale o pseudosciolto, come invece l’ha ottenuto, stu- 
diato e differenziato bene Selmi. 

Per la storia antica de’ colloidi si potrebbe allora ricordare coloro che hanno ottenuti certi metalli 
allo stato di grande divisione, come Priestley (1802), J. W. Ritter (1804), L. Brugnatelli (1806), ecc.; 
e si potrebbe risalire a Lemery che descrive la preparazione della tintura d’oro od oro potabile di 
madamigella” Grimaldi (Cours de Chimie, ult. ed., 1757, p. 57) e ad altri ancora prima di Lemery, come 
ad esempio al Corso di Chimica secondo î principîi di Newton e di Stahl, Venezia, 1750; e più ancora, 
l’oro comunemente diviso era conosciuto empiricamente già da Juncker che lo ricorda nel suo: 
Conspectus Chemiae theoretico-praticae in forma tabularum repraesentatus, 2 vol., 1780-1734 (t.I, p. 882). 
Anche Macquer (Dictionn. de Chimie) ricorda l’oro potabile, conosciutissimo dagli alchimisti. Ma tutto 
questo è inutile nello stato attuale. 


160 ICILIO GUARESCHI 36 


Tra le sostanze colloidali preparate da Graham vi è anche il ferrocianuro fer- 
rico e il bleu di Prussia neutro, che già erano stati ottenuti e studiati da Selmi. 

Notisi bene che io, col rivendicare a Selmi quanto gli spetta, non intendo di 
diminuire in qualsiasi modo i grandi meriti di Graham; solamente dico: wnicuique 
suum (1). 

Il Selmi studiò le pseudosoluzioni, degli azzurri di Prussia, dello solfo, del clo- 
ruro d’argento (2), del joduro mercurico, della caseina, dell’albumina, del joduro d’a- 
mido, del nitrato didimico ecc. 

Le prime sue Ricerche intorno al solfo ed alle emulsioni inorganiche risalgono 
al 1842 e furono da lui comunicate il 18 settembre 1844 alla VI? riunione degli 
scienziati italiani in Milano (“ Atti ,, 1844, p. 159, e poi coi titoli: Sopra lo solfo 
precipitato e Fatti per servire alla storia dello solfo elastico ed alle emulsioni inorga- 
niche negli “ Ann. di Majocchi ,, 1844, XV, p. 88-91 e 235-250. Intorno al solfo ed 
alle emulsioni inorganiche (2* parte) il Selmi nella Comunicazione che fece al Con- 
gresso degli Scienziati Italiani in Milano nel 1844 (“ Ann. di Maiocchi, 1844, 
t. XVII, p. 276, e “ Atti della Sesta Riunione degli Scienziati Italiani , tenuta in 
Milano nel sett. 1844, p. 160) diceva: z 


Il solfo preparato in emulsione, facendo gorgogliare dell'idrogeno solforato nella soluzione 
acquosa o nell’alcoolica d’acido solforoso, quando sia mescolato a diverse soluzioni saline pre- 
cipita ora in grani giallo citrini, molli, elastici, tenaci, ora in fiocchi polverosi riducibili però a 
grani col sopraversarvi una delle soluzioni saline atte a congrumarlo. Il calore non decompone 
l’emulsione di solfo e l’elettrico neppure; la luce diretta ed intensa ne riduce il solfo dallo stato 
molle e citrino allo stato bianco e polveroso; separandolo dal veicolo, egual effetto si ha coi 


protosolfuri alcalini. 


Nel 1845 pubblicò una nota: Considerazioni sopra certi curiosi fenomeni osservati 
da Fremy negli ossidi metallici (3) e qui sono già chiaramente esposte delle idee sulle 
false soluzioni. Ap. 245 degli “ Ann. di Majocchi , scriveva: 


La fecola, l’acido colico, i principi albuminosi, non debbonsi veramente dire disciolti nel- 
l’acqua a guisa dei sali, poichè vi si trovano piuttosto in istato di sommo rigonfiamento, essendo 


(1) Selmi era troppo modesto; egli avrebbe dovuto scrivere più tardi una memoria apposita 
sulle pseudosoluzioni e pubblicarla in un giornale più conosciuto, anche straniero, che noni Nuovi 
Annali di Scienze naturali di Bologna; i quali del resto contengono delle memorie importanti anche 
di altri autori e si trovano nelle principali biblioteche. Allora (1847) in Italia di giornali scientifici 
può dirsi che non vi erano se non gli Annali del Majocchi, perchè il Cimento del Matteucci cessò 
le pubblicazioni appunto nel 1847. La distinzione fra cristalloidi e colloidi in fondo era già stata 
fatta dal Selmi sino dal 1846 quando distingueva così bene le soluzioni vere dalle false. Bisogna 
dar colpa anche ai tempi in cui ha vissuto: i pochi chimici suoi contemporanei davano più peso 
ai lavori stranieri che non ai pochi, anche buoni, che si facevano in Italia; l’eterna gelosia che 
divideva un tempo l'Italia in tanti staterelli, si faceva sentire anche nella scienza. 

(2) Le sue ricerche Sulla dimulsione del cloruro d’argento si trovano nei “ Nuovi Ann. Scienze 
Natur. di Bologna ,, 1845 (2), t.IV, p. 149-156 e negli “ Ann. di Maiocchi ,, 1846, XXIV, pp. 225-230 
e XXV (1847), pp. 43-46. È dunque erroneo quanto scrisse E. Grimaux (art. CoMloîdes nel Suppl. al 
Dictiorn. de Chimie di Wurtz), che il Graham per il primo abbia fatto conoscere dei corpi coagu- 
labili di origine inorganica. 

(3) £ Nuovi Ann. Scienze natur. di Bologna ,, marzo 1845 (2), t. III, p. 197; “ Ann. di Majocchi x, 
1845, XIX, p. 239. 


SL FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 161 


le loro cellule o globuli distesi e penetrati dal menstruo, come opina giustamente anche il Liebig 
intorno all’amido ridotto in colla. Somigliano adunque per alcun lato ai corpi emulsionati, e 
differiscono solo in ciò che non tolgono la trasparenza al liquido, mentre gli altri impediscono 
di passare ai raggi della luce e lo rendono opaco. Quando i sali precipitano i primi dalla loro 
distensione nel veicolo, non fanno altra cosa che produrre delle vibrazioni molecolari nell’atto 
del diffondersi nel solvente, e sotto la percossa di quegli urti, le membranelle delle cellule 
distese si raggiungono, sì contraggono, e non potendo più rimanere diffuse, si separano dal 
liquido e precipitano. 

Il nitrato didimico basico gelatinoso, non può lavarsi sui feltri che a grande stento, poichè 
non lascia scolare l’acqua; tornando acconcio il costiparlo, non si ha che a stemperarlo, in 
soluzione di nitrato ammonico, il quale lo comprime, e toglie la forma vescicolare alle sue 
particelle..... e dimostra col suo restringersi che non è dissomigliante dalla fecola e dagli 
albuminoidi. 

Tutta questa memoria è ricca di fatti e di considerazioni importanti (V. Cap. VI, 
pag. 13). 

Idee analoghe emise nello stesso anno 1845 a proposito della fibrina e della 
caseina in una nota: Alcune cose di chimica fisiologica (1). 

Ma ancor meglio dichiarò le sue idee nelle successive memorie del 1846-47 e 1857. 
Il nome di pseudosoluzioni dato ora alle soluzioni colloidali fu proposto la prima 
volta da Francesco Selmi ed invero, oltre che nella sua: Dissertazione sull'azione di 
contatto, Torino, 1846, ecco quanto Egli scriveva nel 1847 in una bellissima me- 
moria: Studio intorno alle pseudosoluzioni degli azzurri di Prussia ed alla influenza dei 
sali nel guastarle (2): 


Siccome l’associazione degli azzurri di Prussia coll’acqua pura, ed altre mescolanze analoghe, 
non appartengono nè alla categoria delle soluzioni vere, nè a quella delle emulsioni o dimul- 
sioni, nè alle mucilaggini o gelatine, perciò ho riputato non disdicevole appellarle con nome 
speciale, cioè con quello di pseudosoluzioni o false soluzioni, affine di indicare che non sono 
vere soluzioni, sebbene mostrino in apparenza di essere loro somiglianti, e perciò riescono 
facili a confondersi colle medesime qualora non si guardino e studino con accuratezza grande 
e fisso l’occhio ai caratteri cardinali onde la soluzione reale si distingue dalla fittizia (3). 


In altro luogo io ristamperò intera questa importante memoria; ora voglio far 
conoscere solamente i titoli dei capitoli di essa: 


Introduzione. 
Cosa sia pseudosoluzione e perchè non debbansi dire veramente sciolti gli azzurri di Prussia 
incorporati coi veicoli. 


(1) È Nuovi Ann. di Scienze natur. di Bologna ,, 1846 (2), t. V, pp. 142-152. 

(2) £ Nuovi Ann. di Scienze natur. di Bologna ,, (II), 1847, t. VIII, p. 404. 

(3) Altri invero, credo lo Spring, invece di soluzioni colloidali, propose di usare il nome di 
false soluzioni; come precisamente era stato proposto dal Selmi sino dal 1847. I nomi di pseudo- 
solutions ou faux solutions sono usati specialmente dai francesi (Vedi in Wurrz, Dictionn. de Chim., 
2° Suppl., art. Solutions fausses, pag. 516). 

I sigg. H. Picton ed Ern. Linder in una interessante memoria dal titolo: Solution and Pseudo- 
solution (“ J. chem. Soc. ,, 1892, t. LXI, pag. 148) discutono sperimentalmente e teoricamente la 
questione se le pseudosoluzioni siano veramente sospensioni di sostanza solida nel solvente, ma 
anch'essi nulla dicono dei lavori anteriori di Selmi. N 


Serie II, Tox. LXII. U 


162 ICILIO GUARESCHI 35 


Azzurro preparato con un sale ferrico ed il prussiato giallo di potassa adoperato în 
esuberanza. 

Azione dei sali: cloridrato, nitrato e mitrito ammonico, solfato, fosfato ossalato e fosfato 
ammonico, ammoniaca; solfato, clorato, arseniato, biossalato di potassio; solfato 
acetato, fosfato, borato, bicarbonato di sodio, sal di calcio, di ferro, di manga- 
nese, di zinco, cadmio, ece. (1). 

Pseudosoluzione alcoolica dell’azzurro basico. 

Sali ammoniacali ed altri sali. 

Alcune considerazioni intorno ai fatti osservati e descritti. 

Tentativi eseguiti per avere pseudosciolto l'azzurro comune di Prussia, senza l’aiuto di 
sostanze dissolvitrici. 

Preparazione del composto mentovato e prove istituite col medesimo. 

Caratteri differenziali tra pseudosoluzioni, emulsioni ecc. e le soluzioni vere. 


In quest’ultimo capitolo fa notare che nelle pseudosoluzioni: 1° non si ha alte- 
razione della temperatura del liquido nell'atto di pseudosciogliersi; 2° non si nota 
nè dilatazione nè concentrazione; 3° molte sostanze saline sono capaci di precipitare 
le sostanze pseudosciolte. 

E dopo conclude: 


Ecco dunque dichiarati e fermati tre caratteri differenziali, di facile prova per scernere sicu- 
ramente le soluzioni vere dalle false ed apparenti; desidero che i miei colleghi ne tengano conto 
all’opportunità, sì verifichino sopra un numero di liquidi emulsivi o pseudosolventi maggiore di 
quello che da me si esperimentò affine di suggellare la verità colla riconferma del loro costante 
riprodursi. Per quanto sappia, sino ad ora nessuno studiò siffatto argomento ex-professo, e ne 
trattò spiegatamente riducendone i termini a quella precisione in cui feci tentativo di delinearli. 
E neppure prima di me altri parlò intorno alle emulsioni e tumefazioni delle sostanze solide 
e molli ne’ liquidi, con quella chiarezza ond’io ne discorsi sino dal 1845. 


E qui ricorda il brano della sua memoria del 1845 che più sopra ho riprodotto. 

Le sue idee sullo stato del bleu di Prussia in soluzione furono da lui esposte 
chiaramente anche molto tempo dopo. Nella sua Enciclopedia di chimica, vol. IV, 
p. 412, nell’articolo cianuri di ferro, scriveva (1870): 


Fr. Selmi pubblicò, anni sono, alcune esperienze sulla solubilità del detto composto, e ne 
dedusse che veramente non si trovi diffuso nel solvente in quella stessa maniera con cui ci 
stanno i corpi cristallizzabili, per esempio, il cloruro di sodio, il nitro, il solfato di potassa, ece. 
Egli lo desunse da ciò, che allorquando si prenda una data quantità dell’azzurro in istato umido 
ancora, per la sua pronta incorporazione nel liquido, vi si diffonde immediatamente senza che 
avvenga imprigionamento di calorico; come pure da ciò che, avutolo in soluzione concentra- 
tissima, ed aggiuntovi un liquido saturo di sale, tosto si depone in magma senza che si 
manifesti inalzamento di temperatura. Oltre a ciò, lo desunse dalla facilità colla quale si depone 
dal liquido per l’introduzione di tenui quantità di sali diversi non atti ad agire con esso per 


(1) Io in esperienze che ho fatto sul bleu di Prussia ho confermato in tutto, quanto afferma 
il Selmi; la precipitazione o coagulazione con KCI, NaCl, NH*CI, solfato di magnesio, ecc. 


39 PRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 163 


doppia decomposizione. Chiamò pseudosoluzione questo modo di essere dell’azzurro di Prussia 
nel solvente, supponendo che vi si trovi largamente diffuso, piuttosto che realmente disciolto, 
quantunque il microscopio non isveli che vi apparisca sparso in membranelle o fiocchi sotti- 
lissimi, come, per esempio, succede della porpora di Cassio nell’ammoniaca, conforme all’osser- 
vazione di Mitscherlich. 


Ecco quanto Selmi scriveva nel 1846 nella sua Dissertazione intorno all’azione 
di contatto, p. 32 (“ Giorn. delle scienze mediche , pubbl. dalla R. Accad. di Medicina 
di ‘Corino (2), 1848, anno I, vol. 3°, ecc.): 


Ragguardevole diventa l’azione precipitante, allorquando si esercita dalle sostanze solubili 
sopra le materie pseudosciolte, espanse ed inturgidite in un veicolo. L’amido, le gomme, le 
mucilaggini e gli albuminosi, i saponi non si disciolgono veramente in molecole libere e sepa- 
rate ad una ad una nei menstrui, ma vi si gonfiano notabilmente, talvolta acquistando mobilità 
fluidissima, tal altra serbando una certa sodezza, onde comunicano alla tumefazione la consi- 
stenza degli olii e l’aspetto di colla o di gelatina. Se introducesi nel liquido tumefaciente 
qualche materia solubile, può accadere che le sostanze gonfiate non se ne risentano e rimangano 
turgide come prima, od anche inturgidiscano di più; il più spesso però provano molestia dalle 
molecole eterogenee intromesse al loro contatto, si corrugano, si raggrinzano, e conglomerate 
strettamente abbandonano il veicolo, in foggia di fiocchi, di globuli o di congelo. Gli azzurri 
di Prussia, sebbene nell’incorporarsi coll’acqua paiano veramente disciogliersi, non di meno 
dimostrano al cimento dell’esperienza che semplicemente si diffondono nel liquido, forse in forma 
di piccole falde, sottili, trasparenti, onde la loro soluzione è simulata e non reale. Diffatto si 
comportano a fronte dei reagenti, come fanno i corpi emulsionati e tumefatti. 


E così continua discorrendo delle pseudosoluzioni del joduro d’amido, della albu- 
mina e caseina, dell’acido colico, dell’azzurro di Prussia, del cloruro d’argento, dello 
solfo, ecc. ecc. Ed a pag. 33 (dell’ opuscolo separato) scrive (badiamo che siamo 
nel 1846): 


La pseudosoluzione non è che una maniera d’incorporarsi di certe materie ad un liquido, 
analoga a quella onde si genera l’emulsione e la tumefazione. Essa si distingue nitidamente 
dalla soluzione per i seguenti caratteri differenziali assai notabili: 1° perchè i corpi pseudo- 
solubili, nell’atto di unirsi al veicolo, non producono freddo od abbassamento di temperatura, 
come fanno tutti i corpi solubili nello sciogliersi, nè producono corrispondentemente lo sviluppo 
di calorico nell’atto del precipitare; 2° perchè essa si compie senza costringimento o dilatazione 
nella somma dei volumi misti del veicolo e delle particole pseudosciolte, mentre nelle soluzioni 
sì nota sempre un soprappiù od una mancanza di misura nel volume comprendente il volume 
della sostanza sciolta o quello solvente; 3° perchè si guasta facilmente con posatura nella 
materia pseudosciolta, qualora si introduca nel menstruo una sostanza salina, indifferente, 
disaffine sulla materia pseudosciolta, ma capace di alterarne la condizione espansiva in cui 
permaneva. 


Cioè le sostanze colloidali o pseudosciolte sono in queste condizioni precipitate 
meccanicamente dalle loro soluzioni, per l’aggiunta di sostanze indifferenti, senza 
combinarvisi. 

KE a pag. 37. 


Non tutti i sali, non tutti gli acidi posseggono eguale il potere precipitante sulle materie 
pseudosciolte, dimulsionate ed emulsionate, ma ciascuno dei sali e degli. acidi manifesta una 
predilezione ad agire con energia piuttosto sopra una data soluzione ed emulsione che sopra 


164 ICILIO GUARESCHI 40 


un’altra; laonde si conosce avere le singole sostanze precipitanti un modo peculiare e specifico 
di operare sulle materie precipitabili, le quali, dal canto loro, in particolare si mostrano egual- 
mente dotate di attitudine particolare a risentirsi della virtù di uno piucchè di altro agente 
congruatore. 


H così continua a discutere intorno ai modi diversi di comportarsi delle sostanze 
veramente sciolte da quelle che sono pseudosciolte, dimulsionate o emulsionate 
o sospese. 

L'idea chiara che le sostanze pseudosciolte siano allo stato di particelle picco- 
lissime in sospensione egli l’ha esposta moltissime volte ed è ora ammessa da tutti 
e confermata da numerose esperienze. 

Riguardo alle pseudosoluzioni è ancora più importante e degno di ricordo quanto 
scriveva il Selmi nel 1856 nella seconda edizione dei suoi: Principi elementari di 
chimica minerale, Torino, 1856, nel capitolo XX intitolato: Della soluzione e della 
pseudosoluzione. Dopo aver parlato della soluzione dei corpi in generale (si noti 
bene da coloro che faranno la storia dei colloidi) a pag. 73-79 trovasi quanto segue: 


Una maniera di soluzione non fu avvertita dai chimici con sufficiente considerazione, onde 
trascurandola, sì confusero insieme differentissimi modi di essere de’ solidi ne’ liquidi, come se 
appartenessero indistintamente alla soluzione di cui. parlammo. Parecchi solidi bagnati da un 
liquido, possono assorbirne, gonfiarsi, dividersi in una specie di membranelle o pellicelle sotti- 
lissime, trasparenti, e separate l’una dall’altra, o collegate insieme quasi un reticolato di cellule, 
di vescichette o di altro somigliante, sparpagliarsi uniformemente nel veicolo, renderlo glutinoso, 
o nulla togliergli della originaria scorrevolezza, colorarlo o no, e simulare una vera soluzione 
quando non è in effetto che una espansione, una sospensione di particelle, non di molecole, in 
un mezzo liquido. In altri casi il solido si diffonde in globettini molli ed opachi, per cui il 
liquido non conserva la trasparenza e chiamasi emulsione. 

Sembrò conveniente a me distinguere queste soluzioni apparenti (si badi che siamo nel 1851 
e 1857) dalle vere col nome complessivo di pseudosoluzioni; tanto: più che dopo averne esa- 
minato qualche esempio determinai alcuni caratteri differenziali per discernerle sicuramente. 


Eccone i più notevoli: 
Le soluzioni 
—__ TymoT òTt——tu.___6m_______sr e °°  ___ __ 


Quando il solido si scioglie nel liquido 
avviene raffreddamento. 


Le pseudosoluzioni 
-—-——=<=+—===z 3 n___FP—___ sso _—_——_ 


Nè raffreddamento nè riscaldamento. 


Il solido non torna a separarsi dal liquido 
se non rendendo libero il calorico fatto la- 
tente nell’atto della soluzione. 

Il corpo disciolto non è indotto a preci- 
pitare da minime cagioni, come sarebbero 
piccole quantità di sostanze eterogenee. 


Il corpo pseudosciolto precipita senza ma- 
nifestazione di calorico libero. 


Tutti i corpi pseudosciolti sono coagulati 
o precipitati da molti acidi e sali solubili, e 
nel precipitare traggono seco in aderenza una 
parte del precipitante. Spesso, quando loro 
si toglie via coi lavacri, essi tornano a pseu- 
dosciogliersi. 


La chimica organica offre assai esempi di pseudosoluzioni, meno la minerale, quantunque 
non rarissimi. Quando i chimici volgeranno l’attenzione a questo argomento forse si troverà 
che molte soluzioni tenute vere sono apparenti, ossia pseudosoluzioni. 


Sono parole veramente profetiche ! 


Ancora nel 1874-75 in un articolo apposito: Pseudosoluzione, torna sulle sue vecchie 
idee e le espone chiaramente (“ Enciclop. chim. ,, vol. IX, p. 336): 


41 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 165 


PsruposoLuzionE. Nome dato da Francesco Selmi a quel modo onde si hanno uniforme- 
mente diffuse e stabilmente in un liquido certe sostanze le quali vi sì espandono e vi rimangono 
piuttosto a guisa di particelle o membrane sottilissime, di trasparenza perfetta o quasi, che 
non di molecole disgregate ad una ad una secondo il loro stato fisico e chimico. 

La soluzione vera può considerarsi una specie di evaporazione della materia solubile nel 
mezzo liquido, come un vapore fa nello spazio; la pseudosoluzione è per lo contrario un disten- 
dimento, un’espansione, senza che si accompagni dal disgregamento molecolare. 

Quando succede una vera soluzione (purchè non preceduta da una idratazione) si ha assor- 
bimento di calore, come suole avvenire nel passaggio dalla condizione solida alla gasosa; e per 
l’opposto quando il corpo sciolto si depone solidificandosi si svolge il calore già reso latente; 
inoltre fu osservato che lo sciogliersi si compie con qualche mutazione di volume, per lo più 
di contrazione, onde il volume complessivo del liquido e del solido già sciolto, risulta sempre 
un poco minore della somma dell’uno e dell’altro, misurati a parte. 

Nelle pseudosoluzioni ciò non si osserva, per cui hanno per caratteristica: 

1° che la sostanza pseudosolubile, quando si diffonde in un liquido, lo fa non mutando 
punto lo stato termico della mescolanza, come si prova tenendovi un termometro immerso; 

2° che non induce neppure un mutamento termico nell’atto in cui sì costringe a deporsi 
con qualche mezzo appropriato; 

3° che non dà segni di contrazione o di dilatazione nel pseudosciogliersi, di guisa che 
la pseudosoluzione si fece senza modificazione del volume. 

Un altro particolare fu pure notato rispetto alle sostanze pseudosolubili, ed è quello che 
bastano piccole quantità di materie solide già sciolte, prive di azione chimica sul liquido o sulla 
materia pseudosciolta, perchè questa sia indotta a deporsi in fiocchi, in coagulo o in magma, a 
norma della sua consistenza. Raccogliendo il precipitato e lavandolo con acqua pura la pseudo- 
soluzione ci ricompone. 

A sostanze fornite di notevole pseudosolubilità F. Selmi additò il solfo semiliquido che si 
depone facendo gorgogliare insieme nell’acqua gli acidi solforoso e solfidrico, per lungo tempo, 
tenendo il primo in eccedenza; l’azzurro solubile, l’albumina ed in genere le materie albuminoidi. 

Tra le sostanze pseudosolubili taluna non passa per la membrana dializzatrice, e talvolta, 
per lo contrario, vi permane e passa nel liquido esterno: tale è il solfo pseudosolubile. Una 
pseudosoluzione quando fu feltrata, non mostra particelle nuotanti nel solvente posto sotto 
microscopio di forte ingrandimento. In generale le pseudosoluzioni viste alla luce diretta, sotto 
un dato angolo, appaiono leggermente opaline. 


Della pseudosoluzione discorre nuovamente nel 1876 nell’art. Soluzione in “ En- 
ciclopedia chim. ,, X, p. 286 e ripete quello più sopra riportato, e poi prosegue: 


Le sostanze gsommose, le albuminoidi, le mucilaginose, le gelatinose, l’amido, ece. ed è 
genere le materie colloidali sono pseudosolubili piuttostochè veramente solubili nell'acqua: il 
simile sì ripeta per certi composti minerali, salini o no che siano. 

Vi sono pseudosoluzioni stabili, come quelle dell’albumina, della caseina, dell’azzurro solu- 
bile; altre instabili, come i solfuri d’arsenico e certi solfoarseniati e solfomolibdati nell’acqua 
distillata, poichè questi, scorso un certo tempo, si separano dal liquido lentissimamente in mem- 
branelle esili e pellucide od in fiocchetti leggieri. 

Sembra che le materie precipitanti o coagulanti che fanno deporre i corpi pseudosciolti 
agiscano talvolta perchè operino per azione chimica modificando il loro modo di essere; mentre 
agiscono altre volte perchè contraggono aderenza colle membranelle espanse e le inducono a 
corrugarsi, a centrarsi e quindi a perdere lo stato di espansione in cui sussistevano. Quando 
si fa precipitare con un sale un corpo pseudosciolto, si trova che questo nel deporsi trae seco 


166 ICILIO GUARESCHI 49 


una certa quantità del precipitante ; da cui se col mezzo di lavacri si riesce a separarlo, in 
allora il precipitato torna a ricuperare la condizione di prima, cioè si pseudoscioglie di nuovo. 
Questo si osserva per l'azzurro di Prussia (1). 


Questi fenomeni Selmi li considerava come fenomeni di adesione o di aderenza 
e ancora nel 1867 (“ Enciclop. di Chimica ,, vol. I, art. adesione), dopo aver discorso 
della fissazione delle materie coloranti per aderenza, scriveva (p. 402): 


Da cagione somigliante deriva la singolare proprietà che hanno alcuni sali solubili, intro- 
messi in un liquido, di determinare certe materie, che vi si tenevano sospese in forma di par- 
ticole sottili e lente a deporsi, a -raccogliersi rapidamente in se stesse, a maniera di grossi 
fiocchi o di coagulo, e fare sollecita posatura. Tale, ad esempio, è il caso del cloruro d’argento 
in istato d’uniforme diffusione nell’acqua pura, allorchè fu preparato coll’acido cloridrico e il 
nitrato d’argento, operando in modo che l’acido cloridrico abbondi e tutto il nitrato d’argento 
rimanga decomposto. Il cloruro, sebbene insolubile, nondimeno rimane espanso per un dato 
tempo nel veicolo, cui dà le sembianze di un liquido latteo; ma se aggiungasi nuovo nitrato 
d’argento, od anche un altro sale, agitando, il cloruro si condensa in larghe falde, e cade al 
fondo. Questo fatto, noto già ai chimici, fu spiegato, essendosi riconosciuto che il cloruro d’ar- 
gento, quando trova in eccesso del nitrato del suddetto metallo, ne trae con sè una data parte, 
in tenuissima quantità, da cui è difficile sceverarlo col mezzo dei lavacri. Il solfato di bario 
sì comporta a un dipresso come il detto cloruro rispetto al solfato di potassio ed ad altri sali. 

Anche l’azzurro di Prussia solubile ed il solfo pseudosciolto, che pur hanno la proprietà 
di rimanere espansi nell'acqua priva di sali, simulando una soluzione vera e reale, si coagulano 
prontamente, se nel liquido s’introducono certi sali, e questo non perchè reagiscano con essi 
chimicamente, da ingenerare composti inabili a restare disciolti, sibbene perchè attirano e fissano 
sopra di sè una data proporzione del sale aggiunto, e finchè non ne siano spogliati, non si 
ripseudosciolgono. Se di fatto, con lavatura replicata di acqua distillata, sì giunge a spogliarli 
del sale loro aderente, essi riacquistano la capacità di unirsi al liquido, come ci stavano prima 
di essere coagulati. 


Per differenziare le soluzioni vere dalle false ora si sono aggiunti i caratteri 
ottici, crioscopici, ebullioscopici, l'osservazione ultra microscopica, il fatto che le solu- 


(1) £ Ces fines particules en suspension ,, scrive Van Bemmelen ‘), “ peuvent ètre changées 
en agglomérations grenues, qui se déposent en peu de temps, en rendant la liqueur un peu plus 
riche en acide, ou en sel (en général la substance qui a provoqué le séparation du colloîde). Il 
suffit donc de changer encore un peu plus la constance capillaire du liquide. Quand le colloide 
ne subit pas de modification graduelle après cette agglomération, l’action est réversible; par une 
dilution les flocons déposés se divisent et rentrent de nouveau en suspension. 

“ Ce phénomène est la cause pour laquelle un colloide déposé dans une solution, qui renferme 
une substance cristallisable, peut ètre filtré, et lavé, mais passe ensuite par le filtre et l’obstrue, 
aussitòt que la substance cristallisable a été enlevée jusqu'è un certain point par le lavage. On 
y pourvoit en ajoutant è l'eau de lavage une autre substance cristallisable et non nuisible, qui 
possède aussi le pouvoir de grainer le colloide. 

“ En général, quand un colloîde se sépare d’un liquide è l’état de gel ou de flocons amorphes, 
il peut absorber en partie les substances cristallisables qui étaient en solution ,. 

Può darsi che io m’inganni, ma credo fermamente che queste osservazioni si trovino già molto 
chiare nel lavoro di Selmi sugli azzurri di Prussia, sul nitrato di didimio e sullo solfo. Selmi aveva 
detto che quando si toglie coi lavaggi la sostanza cristallizzabile aderente alla sostanza pseudosciolta 
e precipitata, questa si ripseudoscioglie. 


R 


R 


R 


1) Sur la nature des colloides et leur teneur en eau, “ Rec. trav. Pays-Bas ,, 1888, VII, p. 48. 


45 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 167 


zioni false si comportano come formate da due fasi, ed altri criteri; ma i tre primi 
caratteri fondamentali ricordati più sopra furono nettamente stabiliti dal Selmi 
(1847-1857). 

Egli aveva un'idea molto chiara della vera soluzione, e spesse volte la considera 
come una estrema espansione gasosa della sostanza solida nel liquido, come la evapora- 
zione 0 evaporizzazione di un solido in un liquido. 

Ed invero il Selmi nel riassumere la memoria di Graham: On the diffusion of 
Liquids (“ Phil. Mag. Feb. ,, 1850) e riguardo alla poca diffusibilità dell’albumina 
fece la interessante osservazione seguente (“ Ann. di Majocchi , (2), 1850, t. II, 
pagina 177): 


Non ci fa meraviglia se l’albumina sia dotata di ristrettissima diffusibilità essendo corpo 
pseudosciolto, e non però albergante nel liquido in quello stato di attenuazione grandissima, 
quasi gazosa (1), onde vi si espandono le sostanze che sono solubili per soluzione vera. 

Sarebbe molto importante che si indagasse la diffusibilità delle sostanze tutte che sono 
pseudosolubili o tenute per tali, e che sono emulsionabili, imperocchè dalla loro inettitudine 
alla diffusione si potrebbe trarre buon argomento per definire come sogliono incorporarsi nei 
liquidi, se disciogliendovisi o pseudosciogliendosi (Fr. Selmi). 


Chiaro si scorge che nella mente di Selmi il corpo che veramente si scioglie 
cambia di stato fisico, si espande o si diffonde come un gas, mentre nelle pseudo- 
soluzioni lo stato fisico non cambia e la sostanza pseudosciolta rimane come in 
sospensione. Il che è precisamente quanto si ammette oggi. È idea affatto moderna. 

Selmi aveva un'idea così chiara che i corpi solidi sciogliendosi, specialmente in 
soluzioni diluite, si espandono come in forma gasosa, che egli osservando le soluzioni 
violette del jodo nel cloroformio e nel solfuro di carbonio, pensava che entro alle 
soluzioni gialle o brune nell’alcool, nell’etere, ecc., il jodo vi esisteva allo stato di 
vapore giallo ed ammise l’esistenza di un vapore giallo di jodo. Ed è molto logico 
che sia così. Egli nel 1846 scriveva: 


Il calorico vapora il jodo in un bellissimo fluido elastico di colore violetto, che rappre- 
senta probabilmente uno stato polimorfo peculiare dell’alogeno; l’etere nitroso discioglie pure 
il jodio in colore di viola, e ci fa sospettare vieppiù che le soluzioni gialle ottenute coll’alcool 
e coi solventi salini attendono da tempo che si discopra un vapore di jodio giallo, ottenendolo 
col mezzo di forte pressura. 


(Dissertazione intorno all’azione di contatto, “ Giornale delle Scienze Mediche , della 
R. Ace. di Medic. di Torino, 1846, pubbl. nel 1848, pag. 55). 

Le ricerche di Selmi sulla esistenza di due vapori di jodio trovansi specialmente 
in una memoria contenuta nella Raccolta di fisico-chimica italiana del Zantedeschi, 
Venezia, 1847. 

Non si può più ammettere come volevano alcuni che le soluzioni colloidali siano 
delle vere soluzioni, in cui la sostanza sciolta si trovi allo stato di aggregati mole- 
colari complessi. 

Ml Selmi sino dal 1842-46 scoprì lo solfo pseudosolubile e nel 1852 pubblicò una 


(1) Il corsivo è dell'Autore. 


168 ICILIO GUARESCHI 44 


molto importante memoria: Sur le soufre pseudosoluble, sa pseudosolution et le soufre 
mou, ove sono brevemente accennate anche qui le differenze fra le soluzioni vere e 
le pseudosoluzioni. Questa memoria fu pubblicata nel “ Journal Pharm. Chim. ,, 
1852 (2), t. XXI, p. 418, tradotta nel “ Journ. f. prakt. Chem. , di Erdmann, 1852 (1), 
t. 57, pag. 49 ed è ricordata nel “ Jahresb. f. Chem. ,, 1852, pag. 338 e anche in: 
Osrwanp, Lehrb. d. allg. Chemie, Chem.-Dynam., II, pag. 453 e 457 (1). In questa sua 
bellissima memoria, ricca di osservazioni nuove ed importanti, il Selmi fa già vedere 
quali siano le diverse circostanze in cui una soluzione colloidale può precipitare e 
coagulare. 

Anche questa memoria sarà da me riprodotta integralmente in un lavoro più 
completo su Selmi. 

Naturalmente che quando Selmi ottenne lo solfo pseudosolubile non si usava 
ancora la parola colloide, ma Egli invece usava la parola pseudosoluzione. Nel mede- 
simo volume del Gmelin-Kraut's Handb., a p. 356 è ricordato il lavoro di Selmi e 
Sobrero e si dice: 

Derselbe bildet mit wenig W. eine Emulsion, mit viel W., eine fast klare FI., die jedoch 
keine Lss. ist; durch Salzlsgg. wird er als zàhe, elastische M. abgescheiden, die sich sehr 


lange unverindert erhalt. 


Cioè i sig. Br. Linne e Fr. Ephraim non si sono accorti che lo solfo colloidale 
esisteva prima che Graham mettesse in uso la parola colloide. Il che invece fu ben 
inteso e avvertito dallo Svedberg (2). 

Anche per la formazione dello solfo molle si ricorda solamente il lavoro del 1852, 
ma non si pensa che la maggior parte delle esperienze ivi descritte, cioè: formazione 
di solfo molle per decomposizione dell’acido solfidrico col cloro, jodo, acido nitrico, 
acqua ragia, ecc. sono di molto anteriori. 

Lo solfo x o solfo molle insolubile nel solfuro di carbonio fu ottenuto da Selmi per 
condensazione del vapore di solfo col vapore d’acqua (“ J. Pharm. Chim. ,, 1852 (8), 
21, p.418; “ Jahresb. ,, 1852, p. 338). 


(1) Wilh. Ostwald giustamente ricorda che “ Selmi hat dann 1843 bei der Analyse von Kupfer- 
“ kiesen mit Kénigswasser einen teigartigen Schwefel erhalten, der wie der durch Abschrecken 
“ sewonnene nach einiger Zeit fest wird , (° Journ. f. pr. Chem. ,, 57 (1852), p. 49), (in “ Lehrbuch 
allg. Chem. ,, 1896 902, II, p. 453). E più avanti a pag. 457 scrive: © Auch in Wasser emulsionieren 
“ sich gewisse Arten von amorphen Schwefel sehr leicht und zeigen den alle charakteristischen 
€ Kigenschaften colloider Lòsungen; ausfiihrliche Beobachtungen dariber liegen von Selmi vor, 
(“ Journ. f. pr. Chem. ,. 1852, t. 57, p. 49). 3 

Nel Gmelin-Krauts Hand. anorg. Chem., BA. I, Abt. I, 1907, p. 861, invece inesattamente è 
detto: © Kolloidaler Schwefel, èS. Zwehrt erhalten von Debus (Ann. 244 (1888), p. 88) durch Einleiten 
“ von H?S in eine beinahe gesittigte Wss. Lsg. von SO? etwas iber 0° bis zur vollstàndigen Zers. 
“ von SO?. Der zuniichts Kolloidal gelòste S, von Debus © è$S , genannt ,. 

(2) Ora lo solfo colloidale si prepara per usi terapeutici dalla Chem. Fabrik V. Heyden (D. R. P. 
(1905), N. 164.664). Ed il metodo ivi impiegato è probabilmente quello di Selmi, colla differenza in 
quelle modificazioni pratiche che sono dovute ai numerosi studi sui colloidi fatti in questi ultimi 
venti anni. 

Fr. Selmi sino dal 1844 propose: quale medicamento lo solfo molle ed elastico, in istato di 
somma divisione ossia emulsionato nell'acqua. Si vegga il suo lavoro: Proposta del solfo emulsionato 
come rimedio terapeutico (£ Ann. di Majocchi ,, 1844, XV, pag. 212). 


45 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 169 


Lo solfo molle attaccatiecio, in grumi, vischioso fu ottenuto da Selmi anche 
decomponendo l’iposolfito di sodio con acido solforico concentrato (“ Ann. di Majocchi ,, 
1845, XVII, p. 293); talora osservò solo un tenue intorbidamento. 

Queste idee sulle pseudosoluzioni sono esposte chiaramente dal Selmi anche nella 
memoria che pubblicò con A. Sobrero (1) nel 1849 (Mem. R. Accad. delle Scienze 
di Torino (2), t. XI, p. 407-412) e riassunta col titolo: Sur les produits de décom- 
posîtion des acides sulfhydrique et sulfureux au sein de l'eau negli “ A. Ch. ,, 1850 (3), 
t. XXVIII, pag. 210, ove appunto trovasi il brano riprodotto imparzialmente dal 
sig. Svedberg. Questa memoria del Selmi pubblicata insieme a Sobrero fu onorevol- 
mente riassunta, citata, ecc. nel “ Jahresh. f. Chem. ,, 1850, p. 264, nel “ Chemist ,, 
I, 1849-1850, p. 301-303, negli “ Annalen di Liebig ,, t. 76, p. 237, nel “ Journ. f. 
prakt. Chem. ,, 1850 (1), t. 49, p. 417-421, in “ Arch. d. Pharm. ,, 1850, CII, p. 47. 
Benchè pubblicata e riassunta in tanti giornali è stata trascurata anch’essa da tutti 
coloro che si sono occupati dei colloidi, eccetto ora dal sig. Svedberg (2), ed è da 
me riprodotta in parte alla fine del presente capitolo (V. Appendice A, pag. 49). 

Wilb. Ostwald nel suo “ Lehrb. d. allg. Chem. ,, 1? ed., 1884, vol. I, p. 527 e 
2° ed., 1891, p. 702 fa notare i caratteri distintivi dei colloidi dai cristalloidi: 

I cristalloidi, egli dice, quando si sciolgono nell’acqua producono una maggiore o minore 
variazione di temperatura, mentre i colloidi non fanno variare la temperatura, e le loro soluzioni 
possono riguardarsi come miscugli meccanici. 

Egli poi (loc. cit.) fa notare che le cosidette soluzioni colloidali si possono riguar- 
dare non come vere soluzioni, ma come sospensione di sostanze solide finamente divise, 
espanse nel liquido. Precisamente come era stato varie volte detto assai chiaramente 
da Francesco Selmi. 

C. Barus e E. A. Schneider (loc. cit.), C. Wissinger (3), W. Spring (4) e tanti altri 
che si sono occupati dello stato colloidale mai hanno ricordato Selmi. Lo Svedberg 
invece nell’eccellente sua opera: Die Methoden zur Herstellung Kolloider Lòsungen 
anorganischer Stoffe, Dresden, 1909, riproduce testualmente un lungo brano sullo solfo 
pseudosolubile del Selmi. 


Per lo studio dei colloidi, scrive Svedberg (loc. cit., p. 240), hanno speciale importanza le 
ricerche di Sobrero e Selmi, Stingl e Morawski, Debus, Spring e Raffo. 


(1) L'iniziativa di questa memoria spetta al Selmi che già prima si occupò dello stesso argo- 
mento, ed invero i due autori incominciano la loro memoria colle parole: “ Lo studio dei prodotti 
“ che si generano tra i due gas, acido solforico e acido solfidrico, condotti ad agire insieme all’acqua, 
€ fu incominciato da uno di noi, da Fr. Selmi, coll’intendimento di conoscere le qualità singolari 
“ del solfo emulsionato ,. 

(2) Nel vol. I del Zeitschr. f. Chem. u. Ind. der Kolloide (1906), a pag. 13, negli Anorg. Referate 
il primo lavoro che viene ricordato, e brevemente riassunto, è quello di Francesco Selmi e Sobrero: 
Ueber die Zersetzung der wiisserigen schwefligen Siure durch Schwefelwasserstoff, tolto dagli © A. Ch., 
(3), 1850, p. 210. Questo lavoro di Selmi e Sobrero sul carattere di sospensione dell’idrosol dello 
solfo (Suspensionscharakter des Schwefelhydrosols) è accennato anche da A. Miiller nel suo libro: 
Allgemeine Chemie der Kolloide in © Bredig's Handb. ,, Leipzig, 1907, pag. 148. 

(3) “ Bull. Soc. chim. ,, 1888, t. 49, p. 452. 

(4) Serene e De Bock, “ Bull. Soc. Chim. , (8), 1887, t. 48, p. 165. Il sig. Spring (© Rec. trav. 
Pays-Bas ,, t. 24, p. 253) dalla reazione fra gli acidi solfid ico e solforoso ha ottenuto lo solfo giallo 
amorfo insolubile nel solfuro di carbonio e che facilmente dà una soluzione colloidale coll’acqua. 


Crede sia un idrato S8-+ H?0. 
Serie II. Tow. LXII. Vv 


170 ICILIO GUARESCHI 46 


Ma dà maggiore importanza alle ricerche di Selmi e Sobrero perchè riporta 
quasi intera la nota sullo solfo colloidale tolta dagli “ A. Ch. ,, 1850 (3), t. 28, p. 210. 

Non vi era dunque ragione di tenere come dimenticato anche questo lavoro del 
Selmi ed ha agito onestamente ed ottimamente il prof. Svedberg col farlo conoscere 
nel pregiato suo libro. Ma forse anche lo Svedberg non conosceva bene tutti i lavori 
del Selmi sulle pseudosoluzioni, perchè non ricorda che questo lavoro sullo solfo, pub- 
blicato nel 1850. 

Si è detto da alcuni (1) che Barus (2) è stato il primo a far notare il fatto im- 
portante che le sostanze schiarificanti sono degli elettroliti. Egli appoggiandosi sulla 
teoria dell’elettrolisi di Clausius attribuisce la causa della sedimentazione all’energia 
interna che i joni danno ai liquidi. 

Bodlinder ha poi osservato che la proporzione degli acidi o dei sali deve pas- 
sare un certo limite, per quanto piccolo, e che questo limite varia colla natura della 
sostanza intorbidante. 

Così pure J. Duclaux (3) espone come se fosse un concetto nuovo, quanto segue: 


Un processo di coagulazione importantissimo consiste nell’aggiungere ad una soluzione col- 
loidale una quantità, generalmente debole, di una soluzione salina..... e più generalmente una 
soluzione di un elettrolito (acidi, basi, sali, ecc.). 


Ma che cosa vi è di nuovo in tutto questo? Assolutamente nulla. Tutte cose che 
si sapevano da lungo tempo (4). Questo precisamente era stato detto e ridetto in modo 
chiarissimo dal Selmi sino dal 1847 quando sulle pseudosoluzioni dell’azzurro di Prussia 
provava l’azione dei carbonati alcalini, dell’ammoniaca, e di un gran numero di sali 
alcalini e dei metalli pesanti. Si leggano le memorie di Selmi sullo solfo emulsionato, 
ricordate più sopra, e si vedrà come appunto il solfato potassico sia il sale più 
adatto a promuovere la coagulazione. Molte e molte volte egli ha detto che special- 
mente le sostanze saline, cioè degli elettroliti, coagulano le pseudosoluzioni. Anzi, 
già il titolo della sua memoria del 1847: Studio intorno alle pseudosoluzioni degli 
azzurri di Prussia ED ALL'INFLUENZA DEI SALI NEL GUASTARLE, più sopra ricordata, 
dice appunto come egli avesse posta la sua speciale attenzione sul modo di agire dei 
sali sulle sostanze colloidi. Si vegga anche il brano citato più sopra e tolto dai suoi 
Principi elementari di chimica minerale, Torino, 1856. 

È una vera smania questa, di volere far credere come novità delle cose già 
molto vecchie, e ‘conosciute da chi conosce e legge le opere vecchie. 

Di più, Selmi osservò molte volte che quando i colloidi precipitano con una sostanza 
salina trattengono una porzione di questa e non l’abbandonano nemmeno dopo pro- 
lungati lavaggi. Questo è un fatto ora riconosciuto da tutti coloro che si sono occu- 


(1) W. Sprime, Sur Za foculation des milieux troubles, in © Rec. trav. Pays-Bas ,, 1900, XIX, p. 207. 

(2) C. Barus, Ueber das Setzen von feinen festen Massentheilschen in Fliissigkeiten (© Bleiblaetter x, 
T. XII (1888), p. 563); C. Barus et E. A. Scunemer, Veber die Natur der colloidalen Loesungen (“ Zeits. 
f. physik. Chem. ,, VIII, 278 (1891)). 

(3) J. DucLavx, La chimie et la matière vivante, Paris, 1910. 

(4) Io stesso nelle mie lezioni da più di trent'anni faccio con esperimenti semplici vedere la 
coagulazione della soluzione di idrato ferrico colloidale detto ‘anche ferro Bravais, per mezzo del 
solfato sodico, del cloruro sodico, dell'acido cloridrico diluito, ece. 


47 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 171 


pati dei colloidi. Egli fece questa osservazione in molti casi (V. in Dissertazione 
sull'azione di contatto, 1846), ma specialmente a proposito dello solfo precipitato, dalla 
sua pseudosoluzione, col solfato potassico: 


Nous nous sommes assurés, en outre, que maloré les lavages répétés il retient toujours 
un peu du sulfate de potasse employé pour la précipitation. 


Il Selmi afferrò subito tutta l’importanza delle sue ricerche anche per i feno- 
meni vitali, e pensò di applicare quelle idee sulle pseudosoluzioni a sostanze orga- 
niche che sono di grandissima importanza per la biologia; egli pensò ai liquidi degli 
organismi viventi e specialmente al latte ed al sangue che contengono delle sostanze 
pseudosciolte. Ed in ogni occasione egli ricordava i caratteri di quelle false solu- 
zioni che correntemente chiamava pseudosoluzioni. 

Nelle sue belle ed importanti ricerche sul latte (1) il Selmi ammise che la 
caseina vi esista almeno in due stati: in uno dei quali sarebbe come pseudosciolta e 
nell’altro come espansa e rigonfiata. L'esistenza della caseina in due stati nel latte fu 
negata in principio, ma poi fu confermata da F. W. Zahn (1869), da G. Musso (1879), 
da E. Duclaux (1887) ed è oggi ammessa da tutti. 

« Nel latte, scriveva egli ancora nel 1869 (“ Enciclop. Chim. ,, III, p. 919), la 
caseina esiste in tre stati, cioè di caseina disciolta, di caseina gelatinosa e di caseina 
insolubile, come fu osservato per due da Fr. Selmi e pel terzo da Millon e Commaille , (2). 

Ho dunque messo in evidenza ed in modo incontrovertibile, che dobbiamo al 
Selmi le prime e più importanti notizie sulle false soluzioni o pseudosoluzioni o solu- 
zioni colloidali. 

Dunque, alla domanda: cosa sono le pseudosoluzioni o false soluzioni (dette poi 
soluzioni colloidali) ? il Selmi rispondeva: sono apparenti soluzioni di corpi che stanno 
finamente suddivisi nel solvente allo stato di particelle o di cellule in sospensione 
non visibili al microscopio. Precisamente come si direbbe ora. 

Dall'esame che ho fatto di tutti questi lavori risulta molto chiaramente avere 
Francesco Selmi scoperti gli azzurri di Prussia colloidali, lo solfo colloidale ed altre 
sostanze che formano soluzioni colloidali, ed inoltre avere egli dimostrato in linea 
generale: 

1° che quando ha luogo una pseudosoluzione non si osserva variazione di 
temperatura; 

2° che nelle pseudosoluzioni non vi ha cambiamento di volume; 

3° che molte sostanze saline, in varie circostanze, precipitano o coagulano 
allo stato amorfo, fioccoso o flocculoso, le sostanze pseudosciolte; 

4° che la sostanza pseudosciolta è in istato di sospensione ed in certi casi di 
emulsione o di rigonfiamento, e che quindi non vi ha cambiamento di stato del corpo 
pseudosciolto. 


(1) Ricerche sul latte, in È Ann. di Majocchi ,, 1850, vol. I, p. 33 e II, p. 273, e nella memoria: 
Del latte, del presame e della coagulazione, premiata dall’ “ Istituto Lombardo , nel 1857. 

(2) Idee proprie sullo stato delle materie albuminoidi in soluzione, sono da lui esposte nel- 
l’art. Proteiche sostanze scritto nel 1874-75 per l’Enciclop. chimica (vol. IX, pag. 320 e segg.). 


172 ICILIO GUARESCHI 48 


Egli ammise inoltre che molti corpi pseudosciolti si possono riguardare come 
costituiti da specie di cellule in sospensione. Il che oggi è ammesso da alcuni 
(Doumanski, 1905). 

5° quando le sostanze pseudosciolte (colloidi) precipitano con una sostanza 
salina molte volte trattengono una porzione della sostanza salina stessa con molta 
tenacità, e non l’abbandonano nemmeno dopo prolungati lavaggi. Questo è un fatto 
ora riconosciuto da tutti coloro che si sono occupati dei colloidi; 

6° che nelle soluzioni vere Ja sostanza solubile si espande, si diffonde, come 
se si trasformasse in vapore o gas (soluzione gasosa) cioè come la estrema espan- 
sione gasosa della sostanza solida nel liquido, come la evaporazione o vaporizza- 
zione di un solido in un liquido, e ha luogo, quindi, un cambiamento di stato; 

7° che le pseudosoluzioni o soluzioni colloidali non debbono sempre confon- 
dersi colle vere emulsioni e colle sostanze rigonfiate in presenza di liquidi; 

8° che ciò che fu detto per le pseudosoluzioni può essere applicato non solo 
alle sostanze organiche ed inorganiche, ma anche ai liquidi di origine animale, e 
che la caseina esiste nel latte almeno in due forme: come pseudosciolta e come espansa 
o rigonjiata. i 

L'illustre Ostwald in un articolo: La science et l’histoire des sciences (1) scrive: 


Signalons encore un autre enfantillage, que l’on rencontre aux origines de la science et 
qui s'est perpétué jusqu'è nos jours: il consiste è rechercher quel est l’auteur qui, le premier, 
a employé tel ou tel mot! On doit convenir qu'il importe peu de savoir où, pour la première 
fois, est apparue telle expression. Ce qui importe, c’est de connaître les conditions dans les- 
quelles les concepts ont pris naissance..... ecc. 


Ora, tutto ciò può essere giusto sino ad un certo punto; ma nel caso nostro 
importa proprio di sapere chi il primo ha usato la parola pseudosoluzione o falsa 
soluzione, perchè a questo nome, chi l’ha adoprato la prima volta, vi ha annesso tutto 
un concetto nuovo ed una serie di esperienze; e non è giusto, non è morale il 
tacere il nome di colui che nello studio dei colloidi ha precorso il suo tempo. Ci 
voleva anche del coraggio scientifico, perchè ai tempi di Selmi quei pochi chimici che 
studiavano delle sostanze amorfe, quali sono i colloidi, facilmente si consideravano, 
in ispecie da alcuni sbarbatelli della scienza e loro magni maestri, come chimici che 
non sapevano lavorare! Questa è dura verità, ma è verità. Così alcuni tennero lo 
stesso atteggiamento dopo la scoperta delle ptomaine; ma ora questa grande scoperta 
è riconosciuta da tutti, ed è stata utilizzata e sviluppata. 

Ripeterò, se vuolsi, un po’ troppo di frequente, la frase: 42 tempo è l’unico grande 
galantuomo. 

Ed ora, che tutte queste considerazioni, osservazioni ed esperienze del Selmi fatte 
dal 1844 al 1876 e diffuse nei giornali del tempo: italiani, francesi e tedeschi, tradotti 
o riassunti in più lingue, non abbiano avuta nessuna influenza sulla mente di coloro 
che poi si occuparono in modo speciale degli stessi argomenti cioè dei colloidi ? 


(1) ©“ La Revue du Mois ,, 1910, anno V, t. IX, p. 519. 


49 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 173 


Appendice A. 


Sur les produits de la décomposition des acides sulfhydrique et sulfureux au sein de Veau, par 
Sosrero et SeLmi (“ Ann. de Chim. et de Phys. ,, 1850, (3), t. XXVIII, p. 212-214). 


Le liquide dans lequel les deux acides sultureux et sulfhydrique se décomposent, donne un 
précipité très-abondant de soufre; il retient lui-mème beaucoup de soufre, qui s’en sépare toutes 
les fois qu’on le sature par un carbonate ou une base énergique, potasse, soude, etc. Le soufre 
qui se dépose pendant la décomposition des gaz est toujours d’une belle couleur jaune, mais 
tantòt opaque, tantòt diaphane ou presque transparent. Séparé du liquide par décantation, il 
a une forte réaction acide; si l’on y ajoute de l’eau, il s’y divise en formant une émulsion 
dont il ne se sépare plus, mème par un repos très-prolongé (plusieurs mois). Si on le délaye 
dans beaucoup d’eau, il donne un liquide presque transparent. Si, à l’émulsion de ce soufre, 
on ajoute un peu de solution aqueuse d’un sel neutre de potasse ou de soude, on obtient im- 
médiatement un précipité de soufre; mais (chose singulière) si l’on a employé un sel de soude 
pour la précipitation, le soufre n’a pas perdu la propriété de se diviser dans l’eau. Il suffit, 
pour l’en assurer, de décanter le liquide contenant le sel sodique, et laver le précipité plusieurs 
fois avec de l’eau distillée; au deuxième ou au troisième lavage, le soufre ne se dépose plus; 
il regénère l’émulsion. Si, au contraire, on a employé un sel potassique, surtout le sulfate, le 
soufre précipité a perdu complètement la propriété de l’émulsionner dans l’eau; il a pris une 
consistance pàteuse, est devenu gluant, élastique comme le caoutchouc, et résiste aux lavages 
indéfiniment répétés, sans perdre cette manière d’ètre toute particulière. Ce soufre retient avec 
opiniàtreté une certaine quantité des acides au milieu desquels il s’est précipité: il perd immé- 
diatement son élasticité par l’action des carbonates alcalins ou des alcalis caustigues. Le soufre 
émulsionable perd cette qualité en restant exposé longtemps è l’air; il devient fragile, ou, pour 
mieux dire, pulverulent. Le soufre élastique, précipité par le sulfate de potasse, conserve son 
élasticité, malgré son exposition è l’air; nous en avons qui est préparé depuis plusieurs mois, 
et qui n’a rien perdu de cette propriété. Nous nous sommes assurés, en outre, que malgré les 
lavages répétés, il retient toujours un peu du sulfate de potasse employé pour la précipitation. 
Nous avons dit que le liquide acide, produit par la décomposition des deux gaz, retient 
beaucoup de soufre. Pour s’en convaincre, il suffit d’y ajouter un peu d’un sel neutre sodique 
ou potassique. Nous avons eu de ces liquides marquant 17 è 18 degrés è l’aréomètre, qui se 
prenaient en masse par l’addition d’une petite dose des sels mentionnés. Cette énorme quantité 
de soufre est, on dirait, dissoute, car elle n’altère presque pas la limpidité du liquide. Le pré- 
cipité obtenu dans ce cas présente les mémes differences et les mèmes phénomènes, quant à sa 
susceptibilité de s'émulsionner ou d’étre élastique et non émulsionable, que nous avons signalée 
dans le soufre précipité pendant la décomposition des deux gaz. Le soufre peut donc étre mo- 
difié, dans sa manière d’etre, d’une fagon toute particulière par la présence des corps au milieu 
desquels il se dépose, et qui y adhèrent avec opiniaàtreté, probablement par simple adhésion, et 
acquérir tantòt l’emulsionabilité, tantot un état d’agrégation qui l’empèche de se diviser dans 
l’eau. Il résulte, en outre, que le soufre émulsionable présente des phénomènes analogues è 
ceux qui s’observent dans beaucoup d’autres corps qui jouissent de la propriété de se disperser 
et se diviser dans un liquide, sans toutefois s’y dissoudre absolument, tels que le savon, l’amidon 
et le bleù de Prusse, sur lequel un de nous, M. Selmi, a déjà fait des observations analogues 
à celles que nous venons d’exposer. Ces faits se rattachent è un ordre de phénomènes que 
M. Selmi a bien caractérisés, et qu'il a réunis sous le nom de pseudosolution. Il paraît que le 
nombre des corps pseudosolubles est assez grands. Nous avons déjà entrepris sur ce point 
quelques recherches: les corps de nature organique nous paraissent surtout présenter un grand 
intérét sous ce point de vue. 


174 ICILIO GUARESCHI 50 


IV. 
Ricerche di chimica inorganica. 


Studi sullo solfo: solfo molle e vischioso, azione dell’acqua sullo solfo, ecc. — 
Composti alogenici del mercurio. — Sul piombo e sua tetravalenza. — 
Della valenza degli elementi. — Valenze occulte. — Jodio cristallizzato. 
— Preparazione dell’acido jodidrico. — Jodio sciolto nell’acido solforico. 
— Vapori di jodio: violetto e giallo. — Sui composti d’argento. 


Le ricerche del Selmi che interessano la chimica inorganica sono numerose ed 
importanti ed in questi ultimi anni sono state pienamente confermate o ampliate. 

Solfo molle od elastico. — Azione dell’acqua sullo solfo. -- Selmi ha fatto 
molte esperienze sullo solfo. Egli avrebbe dovuto raccogliere tutte le sue ricerche 
sullo solfo e derivati in una sola memoria ed allora avremmo visto più facilmente 
quale bel contributo ha egli portato allo studio di questo importante elemento. 

Le ricerche di Selmi sugli stati allotropici dello solfo, sono ricordate con onore 
dai varii autori che si sono poi occupati dello stesso argomento, fra i quali il 
Berthelot. Nessun trattato un po’ completo di Chimica inorganica, tace il nome di 
Selmi riguardo allo solfo; si vegga ad esempio il Gmelin-Kraut's Handbuch der anorg. 
Chemie; il Morssan, Traité de Chimie inorganique, ecc. 

Solfo molle per via umida. — Selmi è stato il primo a studiare lo solfo molle 
preparato da lui per via umida (“ Atti Congr. Scienz. ital. ,, 1844 (pubblic. 1845), 
pag. 160). Ecco come è riassunto questo lavoro, che è ricordato anche dal Berthelot 
nella sua memoria del 1849, nell’ “ Annuaire de Millon ,, 1846, pag. 48, col titolo: 
Sur les différents états du soufre: 


M. Selmi lit la première partie d’un travail qu'il a entrepris sur les divers états du 
soufre. 

Ce chimiste, après avoir constaté que l’eau régale sépare du sulfure de cuivre du soufre 
mou élastique et de couleur citrine, a étudié l’action de l’hydrogène sulfuré sur l’eau regale, 
l’acide azotique, le gaz hypo-azotique, le bioxyde d’azote, l’iode, le sulfate de péroxyde de fer, 
et l’acide sulfureux. 

Sa méthode consiste, si les corps sont liquides à les faire traverser par un courant d’hy- 
drogène sulfuré; s’ils sont gazeux, il dirige les deux gaz dans l’eau distiliée. Le soufre qui se 
sépare dans ces diverses réactions est presque toujours imprégné des corps au milieu desquels 
il s'est séparé et qui ont effectué son élimination. Il est jaune citrin, mou, élastique, les lavages 
à l’eau altèrent è peine son élasticité, qui ne diminue sensiblement qu’au bout de quelques 
Jours. Les alcalis caustiques le rendent dur et friable, son point de fusion est à 112 degrés. 
L’alcol le dissout è peine. M. Selmi, en faisant arriver l’hydrogène sulfuré et le gas hypoazo- 
tique dans une liqueur alcaline, a constaté que le soufre qui se séparait au contact de la 
liqueur alcaline était blane pulvérulent; celui dont la séparation s’effectuait sur les parties du 
vase non mouillé par ce liquide alcalin, était jaune citrin, mou et élastique. Le soufre blane 
pulvérulent avait une réaction alcaline, tandis que le soufre jaune et mou était acide. 

L’état du soufre paraît ainsi en rapport avec la matière acide ou alcaline du milieu. 


51 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 175 


Egli discorre a lungo dello solfo molle (ScRwefel weicher de’ tedeschi) in una 
memoria assai poco conosciuta, anzi sconosciuta: Fatti per servire alla storia del solfo 
e delle emulsioni inorganiche, negli “ Ann. di Majocchi ,, 1844, t. XV, p. 235-250 e in 
riassunto nel “ Journ. Pharm. Chim. ,, (3), XXI, p. 418; “ J. pr. Chem. ,, t. VII, p. 49 
e “ Jahresb. ,, 1852, p. 838. La memoria doveva essere costituita di tre parti, ma 
l’autore ne pubblicò una sola. 

Egli ottiene lo solfo molle ed elastico in vari modi e precisamente: 


ID Per l’azione dell’acqua regia sul solfuro di rame (sino dal 1842). 
II. Per l’azione dell’acqua regia sull’acido solfidrico. 

III. Dall’acido solfidrico coll’acido nitrico. 

IV. Per l’azione del perossido di azoto sull’acido solfidrico. 

V. Dal biossido d'azoto coll’acido solfidrico. 

VI. Per azione del jodo sull’acido solfidrico. 

VII. Egualmente per l’azione del cloro. 

VII. Dall’acido solfidrico col solfato ferrico. 

IX. Dall’acido solfidrico col gas acido solforoso. 


Lo solfo ottenuto in queste condizioni è molle, elastico e di colore giallo citrino, 
mentre quello molle che si ottiene versando lo solfo fuso nell’acqua è di color bruno. 
Riuscì però ad averlo molle, elastico e giallo citrino condensando il vapore di solfo, 
distillato in una stortina, nell'acqua. Lo solfo molle giallo così ottenuto dopo circa 
un'ora divenne duro e fragile. 

Il Selmi allora ne trasse la conclusione: 


La produzione del solfo y di color citrino, ottenuta direttamente, ci assicura senza dubbio 
dell’esistenza delle due modificazioni dimorfiche, e conduce all’importante conseguenza che un 
corpo elementare avente diverse modificazioni allotropiche può, senza mutare stato allotropico, 
assumere vari aspetti poliformici. 


Sino dal 1842 Selmi osservò che alcune piriti trattate coll’acido nitrico concen- 
trato, danno fiocchi di solfo che poi si ossida e si trasforma in acido solforico; ma 
che raccolti in tempo sono molli, elastici, ed hanno uopo di alcune ore per solidi- 
ficarsi. Ecco quanto egli scriveva nella nota: Sopra è solfo precipitato (“ Ann. di 
Majocchi ,, 1844. XV, p. 90) (1). 


Nel 1842 facendo agire l’acido nitrico sopra idrato di solfuro ramico misto ad idrato di 
solfuro di ferro, notai che a mano a mano che il metallo si discioglieva nell’acido, venivano a 
galleggiare alla superficie del liquido fiocchi di solfo giallo, puro, di consistenza molle, elastica, 
che stirati da due parti cedevano allungandosi, e si ritiravano cessando dallo stirarli (Comu- 
nicazione all’Accad. delle Scienze di Modena, 30 marzo 1842). 

Più tardi mi interessai di istituire altre indagini affine di chiarire l’origine della forma- 
zione di quel solfo elastico, e mi posi a studiare il solfo che si separa nelle reazioni dell’idro- 
geno solforato col vapore nitroso e col biossido di azoto. Col primo di questi gas ed il solfi- 
drico ebbi solfo elastico, di bel colore giallo citrino, col secondo ed il solfidrico invece non 


(1) Questa è una breve nota che precede la memoria: Fatti per servire, ecc. Ne è come l’intro- 
duzione. Vedi la bibliografia. 


176 ICILIO GUARESCHI 59 


raccolsi che solfo biancastro e polveroso. Facendo gorgogliare l'idrogeno solforato entro solu- 
zione alcolica di jodio, questa si scolorì a poco a poco, e rimase torbida per solfo sospeso. A 
capo di qualche ora, il liquido alcolico divenne limpido, ed il solfo unitosi sulle pareti ed al 
fondo del recipiente costituiva fiocchi larghi collegati insieme da una specie di ragnatela pure 
di solfo, i quali fiocchi raccolti, lavati e premuti fra pannolini si ridussero in una pasta giallo- 
citrina, elastica, che si mantenne molle per alcuni giorni. 

Facendo gorgogliare dell'idrogeno solforato e dell’acido solforoso nell'acqua, i due gas si 
decomposero, come è noto, e fornirono un solfo bianco, leggerissimo, che rimase sospeso nel- 
l’acqua formando una specie di emulsione. Coll’intendimento di conoscere se questo solfo era 
veramente emulsionato, divisi il liquido in vari bicchierini, e versai nei medesimi varie soluzioni 
saline ed acide; tutte più o meno presto condussero la precipitazione del solfo in fiocchi, e 
resero limpido il liquido, tanto ad esuberanza d’acido solforoso quanto di idrogeno solforato, 
e la maggior parte dei precipitati raccolti ed asciugati mostrò essere di solfo elastico identico 
a quello ottenuto coll’idrogeno solforato e colla soluzione alcoolica di jodo. Il fenomeno apparve 
più cospicuo affondendo carbonato potassico sciolto, mescolandolo al liquido ed aggiungendovi 
poscia un acido allungato; al momento della reazione il solfo che stava divisissimo, premuto 
da ogni parte dallo svolgimento del gas acido carbonico, si adunò in lunghi fiocchi, citrini, 
elasticissimi, ece. Se in tubo di vetro umido si fanno passare i due gas solforoso e solfidrico, 
si depone solfo polveroso; bagnando lo strato di solfo depostosi con acido nitrico, si coagula 
all'istante, e forma una tela di solfo, di bel colore giallo citrino e dotata di certa tenacità. 

Studiati sotto questo punto di vista i solfi precipitati dai solfuri alcalini, sembrano mostrare 
qualche diversità. Sarebbero mai i vari solfuri a base dello stesso metallo alcalino, combinazioni 
del metallo radicale col solfo condensato ne’ suoi differenti stati allotropici? (1). Sarebbe questa 
la cagione della mancanza de’ gradi d’ossigenazione dello stesso radicale corrispondenti ai gradi 
di solforazione? È un problema al quale cercherò di rispondere coll’esperienza; quanto ho 
esposto di volo valga a dare un'idea di queste mie ricerche di azioni molecolari, rivolte spe- 
cialmente sulle emulsioni inorganiche; ricerche che si connettono alle cose indicate nella mia 
Memoria pubblicata sull’jodido di mercurio in soluzione; e dalle quali parmi potersi trarre 
qualche buon partito per chiarire la teoria delle soluzioni ed emulsioni, e fors’anche per spie- 
gare i fenomeni della coagulazione, ed in ispecialità della caseificazione, come indicherò in un 
mio Saggio di chimica molecolare. 


Come si vede Selmi ammette che lo solfo possa entrare nei vari solfuri a base 
dello stesso metallo, nei diversi suoi stati allotropici. Questa idea fu emessa 
poco dopo dal Piria nel Congresso di Milano del 1844 ed il Selmi appunto gli fece 
osservare che egli poco prima aveva emesso la stessa idea (“ Atti Congr. Scienz. 
italiani ,, 1844, pag. 164), ed il Piria nella stessa seduta riconobbe giusta la priorità 
del Selmi. 

L'importanza di questa nota del Selmi, in parte da me riprodotta ora, non può 
sfuggire a nessuno. 

Posteriormente il Selmi, insieme a Missaghi, pubblicò una nota importantissima 
Intorno al solfo vischioso e ad un nuovo modo di ottenere il solfo în grossi cristalli 
ottaedrici (£ N. Cim. ,, 1855, II, p. 381), in cui sono esposti molti e nuovi fatti. Che 
lo solfoy sia stato ottenuto da Selmi in varie maniere per ossidazione parziale del- 


(1) Si notino bene questi due periodi. Non si conosceva ancora l'ozono quale prodotto di con- 
densazione dell'ossigeno. 


3 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 177 


(di 


l'acido solfidrico, si può vedere anche nella sua memoria pubblicata nel 1852 in 
« Journ. de Pharm. et de Chimie , (8), t. XXI, p. 418. 

Facendo passare una corrente di gas cloro secco in una soluzione satura di acido 
solfidrico nel solfuro di carbonio, si ottiene dello solfo molle (SeLmi e MissacnI, 
SN Gio. >, IL, p.. 981 0 € Jahresb. ,, 1855, p. 802). 

Selmi e Missaghi (loc. cit.) osservarono che lo solfo solubile nel solfuro di car- 
bonio poteva diventare insolubile dopo l’ evaporazione del solvente (V. anche in 
Morssan, Traité de chim. min., I, p. 329). 

Per condensazione del vapore di solfo col vapore d’acqua Selmi osservò che si 
ha dello solfo molle (“ J. Pharm. chim. , (3), 1852, XXI, p. 418 e “ Jahresb. ,, 1852, 
p. 338). Questo lavoro è ricordato varie volte nel Gmelin-Kraut's, ult. ediz., 1907, 
p. 353-355-356, ecc. 

Prima ancora di Wohler (1853) il Selmi aveva notato che lo solfo talvolta si 
separa colorato in azzurro. 

Altre ricerche interessanti sullo solfo trovansi nella nota: Indagini intorno al 
solfo, ulteriori a quelle che furono comunicate alla sezione di chimica nel 6° congresso 
(£ Ann. chim. it. ,, 1846-47, II, p. 1-3 e “ Atti Congr. Scient. Ital. in Genova ,,, 1846). 
Tra le altre cose dimostra che lo solfo per l’azione del vapor d’acqua si trasforma 
in acido solfidrico, in acido solforoso e in solfo emulsivo. La formazione di idrogeno 
solforato in questa reazione, è erroneamente attribuita a Myers (“ J. pr. Chem. ,, 1869, 
t. 108, p. 123), che studiò questa reazione molti anni dopo Selmi. 

L’azione dell’acido solfidrico sul gas solforoso con separazione di solfo fu osser- 
vata la prima volta da Fourcroy e Vauquelin (“ A. Ch. , (1), 1797, t. XXIV, p. 245). 
Non notarono, però, che lo solfo aveva proprietà diverse da quelle dello solfo 
ordinario. 

Selmi invece osservò che si formava dello solfo emulsionato 0, come lo chiamò 
dopo, dello solfo pseudosolubile, che studiò col Sobrero nella memoria già più sopra 
ricordata (Cap. II). 

Sulla formazione dell'acido solfidrico per mezzo dello solfo, dell'acido solforoso € 
dell’acqua Selmi pubblicò un’altra nota nel 1845 (“ Ann. di Majocchi ,, 1845, 
XVII, 284). 

Sulla formazione di idrogeno solforato dagli iposolfiti, oppure per mezzo dello 
solfo, dell’acido solforoso e dell’acqua, è accennato nella bibliografia. 

Selmi ha studiato anche la decomposizione del cloruro e del bromuro di solfo 
mediante l’acqua; reazione che fu poi ripresa nel 1858 da Cloez (“ C. R. ,, 
t. 46 e t. 47). 

Nei suoi Principi di chimica minerale, 2* ed., 1856, p. 155, il Selmi ricorda le 
sue ricerche sui diversi stati dello solfo e scrive: 


Tra l’acido solfidrico e l'acido solforoso, nel seno dell’acqua, precipita un solfo pastoso, 
che si stempra nell’acqua stillata e forma la così detta emulsione di solfo, ecc. Questo solfo 
contiene, da quanto osservai, una quarta varietà di solfo, il vischioso cioè, quasi liquido, del- 
l’odore del polisolfuro d’idrogeno, solubilissimo nel solfuro di carbonio. Può conservarsi intras- 
formato ore e giorni; ma comunque sia tenuto, entro un tempo non lungo convertesi in solfo 
comune. 

Serig II. Tom. LXII. x 


178 ICILIO GUARESCHI 54 


Rispetto al così detto solfo liquido dagli iposolfiti, ecco quanto egli scriveva ancora 
nel 1876 (“ Enciclcp. di Chimica ,, vol. X, p. 180): 


Talvolta il solfo molle dagli iposolfiti scorre fluido come un liquido denso, poichè contiene 
del persolfuro di idrogeno. Fr. Selmi osservò in proposito che allorquando si fa agire una solu- 
zione calda di iposolfito con acido solforico non troppo concentrato si ha un solfo liquido, il 
quale portato a temperatura di 100°, si solidifica in breve perdendo una traccia soltanto di 
idrogeno solforato, la quale in peso corrisponde appena a qualche millesimo della massa. Da 
ciò parrebbe che il solfo liquido degli iposolfiti fosse tale per propria natura, sembrando dif- 
ficile che la liquidità gli sia conferita da una quantità minima di un corpo eterogeneo. 


Riassume le altre sue esperienze sullo solfo ottenuto in vari modi, nella “ En- 
ciclop. Chim. ,, 1876, X, p. 181. 

Composti alogenici del mercurio (ossicloruri, ossijoduri, ecc.). — Fr. Selmi 
ha fatto numerosi studi sui composti alogenici del mercurio sino dal 1844. 

Nel 1827 Liebig aveva ottenuto il composto Hg1?.HgCl? e Selmi nel 1844 
(£ L’Institut , 1844, XII, n. 528 e “ Rapp. Annuel de Berzélius ,, 1844, p. 164) 
ottenne l’altro HgI?.2HgC1? per l’azione del jodio sul calomelano in presenza di acqua 
e a caldo. Il che fu poi confermato da Riegel (“ Jahresb. prakt. Pharm. ,, XI, p. 396). 

Egli poi ottenne in seguito degli ossiclorojoduri e dei cloromercurati di potassio 
quali 5KC1.2HgC12. H?0 e 4KC1.5HgCl?.3H?0 che sono da lui accennati anche nelle 
sue note al Regnault, Corso di chimica, vol. III, p. 450-452 e nell’Enciclop. di chim., 
vol. VII, p. 747. Ha descritto inoltre i tre ossicloruri seguenti (1): 

5Hg0.8HgC01? + H?0, 3Hg0.9Hg01? + H?0, 8Hg0.6HgC1] + H°0 (Enciclop. di 
chim., VII, p. 748). 

Egli però non credeva che questi così detti sali doppi fossero dei veri composti 
chimici. Nei suoi Studî di chimica molecolare li considera più giustamente come me- 
scolanze. 

Delle osservazioni di Selmi sugli ossicloruri di mercurio di Roucher, trovansi 
negli “ Ann. di Majocchi ,, 1850, t. I, p. 165. 

Ricerche sul piombo. — Tetracloruro di piombo. — Tetravalenza del piombo 
e della valenza degli elementi in generale. — Selmi e Sobrero sono stati i primi 
ad ottenere il tetracloruro di piombo PbCl', cioè la forma massima di combina- 
zione PbX4. Esposero le loro esperienze in due memorie: Intorno all’azione del cloro sui 
cloruri metallici nelle soluzioni dei cloruri alcalini. Memoria letta dai professori Sobrero 
e Selmi il 20 maggio 1849 (“ Mem. R. Accad. di Torino ,, 1851 (Serie 2), XI, p. 245) 
e Nota intorno alla reazione dell’acido cloridrico sul biossido di piombo e sul minio 
(“ Mem. R. Ace. di Torino ,, 1852 (Serie 22), XII, p. CXX). 


(1) Riguardo agli ossicloruri di mercurio o miscugli di bicloruro e ossido dî mercurio, il Selmi 
nel 1851 scriveva (trad. del Cours de Chimie del Regnault, vol. III, pag. 451): 

“ Altri ossicloruri di mercurio si ottengono dal bicloruro di mercurio, quando si faccia agire 
“ sul medesimo il carbonato di calcio ovvero quello di magnesio ;. 

In questi ultimi anni furono preparati di questi ossicloruri mediante il carbonato di calcio 
(marmo), ma, naturalmente, senza ricordare Selmi; mentre si citano Roucher, Thimmel, Millon, 
Donovan, Philips, Taulow ed altri! 


55 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 179 
Non riuscirono ad ottenere libero il cloruro PbC14, perchè è poco stabile, ma 
bensì l’ottennero in combinazione col cloruro di sodio, nel composto PbCl4.9NaCI. 
Ecco come il Selmi stesso riassunse nel 1874 (Enciclop. di chim., vol. VIII, 
p. 910-911) il suo lavoro con Sobrero, sul tetracloruro di piombo. 


Tetracloruro di piombo PbCl'. Fino ad ora non fu ottenuto in istato libero; tuttavolta, 
non potendosi mettere in dubbio che sussista realmente, si cita come uno dei fatti fondamentali 
per riconoscere la tetratomicità del piombo. 

Fu scoperto da Sobrero e Selmi, e sì ottiene in soluzione, combinato con un cloruro 
alcalino, quando si fa gorgogliare un afflusso di cloro nel cloruro di piombo stemperato in una 
soluzione di cloruro di sodio o di potassio. Il cloruro di piombo si scioglie a poco a poco e 
se ne ha un liquido di colore giallo cupo, il quale si conserva inalterato fino ad un certo 
tempo in recipiente ben chiuso, ma che esposto all’aria perde con lentezza del cloro, depo- 
nendo del bicloruro cristallizzato in begli aghetti. 

Nicklès l’ottenne in soluzione più concentrata sostituendo al cloruro di sodio o di potassio 
quello di calcio, od anche l’acido cloridrico concentrato. 

Gli alcali ed i carbonati alcalini v'inducono un precipitato di perossido di piombo; il 
cloruro manganoso vi determina immediatamente un precipitato di perossido di manganese; 
l’acqua di calce agisce come fanno gli alcali; il fosfato di soda vi fa nascere un precipitato 
bruno, che forse è un fosfato di perossido di piombo. 

La soluzione gialla del tetracloruro di piombo e di cloruro di sodio contiene tali propor- 
zioni dell’uno e dell’altro, da corrispondere alla formola: 


PbC014 + 9NaCI. 


Quella del tetracloruro col cloruro di calcio contiene i due componenti nelle proporzioni della 
formola PbCl#+16CaC1?. È un clorurante ed ossidante gagliardissimo. Ossida l’acido ossalico con 
isvolgimento vivace di anidride carbonica, scolora l’endaco, scioglie parecchi metalli, tra cui 
l’oro e il nero di platino, precipitandosi in tutti i casi nominati del bicloruro di piombo cri- 
stallizzato. 


Il Selmi adoperò la soluzione di questo suo sale PbC14.9KCI come reattivo per 
distinguere alcuni alcaloidi (“ Berichte ,, 1875, p. 1198). 

Le esperienze di Selmi e Sobrero furono poi confermate da altri chimici, ed ora 
l’esistenza del tetracloruro di piombo è ammessa da tutti e la scoperta è dai trattatisti 
imparziali notata come dovuta a Selmi e Sobrero. 

È quindi non esatto attribuire la scoperta del tetracloruro di piombo al Friedrich 
(€ Monatsh. f. Chem. ,, 1893, t. XIV, p. 505); il quale però riuscì ad ottenerlo allo 
stato libero, e cristallino a — 15° e sotto forma di sale ammonico (NH*)?PbCl?. 

Altre ricerche sul piombo. — Fr. Selmi osservò che il piombo in limatura, 
bagnato con acqua distillata e tenuto entro pallone, svolse lentamente dell’ammo- 
niaca; reazione che attribuì ad un lento sviluppo di idrogeno tra il piombo e l’acqua 
ed all’ingenerarsi dell'’ammoniaca tra esso idrogeno e l'azoto dell’aria (Enciclop., VIII, 
cit. Piombo, p. 906). Fece alcuni studi anche sul minio. 

Della valenza degli elementi. — Queste sue vecchie esperienze sul piombo lo 
condussero poi ad occuparsi anche della valenza degli elementi in generale, tanto più 
quando i chimici discussero della tetravalenza del piombo in relazione a quella anche 
di altri elementi. Egli in varie occasioni emise l’idea che gli elementi possedessero 
delle valenze suppletive, o, come si direbbe, delle valenze parziali. 


180 ICILIO GUARESCHI 56 


A proposito della mia memoria: Le densità anomale dei vapori, che pubblicai nelle 
memorie della R. Accademia delle Scienze di Bologna nel 1876, il Selmi tornò su 
quest’argomento e il 6 novembre 1877 mi scriveva da Bologna: 


Non è peranche stato diramato il vol. in cui fu inserita la di Lei Memoria; non appena 
lo riceva, la rileggerò, tanto più avendo inteso che v’introdusse parecchie mutazioni. To le 
accennai l’idea di una forza aggregativa speciale della molecola per udirne il parere; ma come 
le è noto propendo a credere che gli atomi contengano valenze occulte, le quali agiscano in 
certi casi, attutite le valenze abituali, d’onde i composti di addizione, cioè da molecola a molecola 
ambedue sature, ed anche tra molecole della stessa natura. Ciò apporta un concetto più ampio 
dell’idea di affinità, poichè abbraccierebbe qualsivoglia stato aggregativo. Se avrò qualche ritaglio 
di tempo, stenderò un discorso sull’argomento. 

Mi sono occupato in questi giorni dei prodotti sublimati dell’albumina messa a putrefare 
dentro storta per due: anni..... 


Continua ricordando delle sue esperienze sul fosforo organico. 
Sino dal 1871 (Enciclop. chim., V, p. 131) scriveva: 


Il solfo, il selenio si comportano come biatomici, a somiglianza dell’ossigeno a cui s’infa- 
migliano; nondimeno pajono capaci di sviluppare in certi casi un’atomicità (valenza) doppia 
della loro consueta, dacchè si conoscono un seleniuro tetraetilico ed un solfuro. Posta adunque 
la possibilità in essi di procedere come tetraatomici (possibilità che l’ossigeno deve pure con- 
dividere), non si potrebbe intendere come si dimostrino sempre biatomici, fatta la eccezione 
accennata, se non ammettendo che contengano due valenze attive e due passive, le prime sempre 
in operazione, le seconde non manifestabili che per istimolo di qualche radicale (Fr. S.). 


Egli chiamava gruppi prevalenti i gruppi complessi dei doppiocianuri, ecc. 
EKcco quanto egli scriveva già nel 1874 a proposito dei perossidi e delle valenze 
occulte: 


Alcuni autori hanno supposto che i biossidi di bario, di stronzio, di manganese e di piombo 
abbiano una struttura rappresentata da Me”(0°)/ e quello di potassio e simili da (Me*)(0°)”, 
senza che sì abbiano prove in proposito. Rispetto ai primi, si può anche congetturare che ila 
loro formazione derivi piuttosto dalla capacità di quei metalli di sviluppare quattro valenze in 
certe condizioni, come pure non è fuor di ragione che anche il potassio non isvolga maggior 
numero di valenze oltre al consueto, quando si sa che il sodio può comportarsi talvolta come 
polivalente. 

Se non si ammettono nei corpi elementari certe valenze occulte le quali si fanno palesi in 
certe date circostanze, non si potranno mai spiegare tutte le combinazioni alle quali dànno nasci- 
mento o coi metalloidi o coi radicali organici; come non si potrà spiegare la forza di coesione 
onde si uniscono in molecole cristalline i corpi saturi, e onde si formano i composti di addi- 
zione (Enciclop. di chim., VIII, 1874, p. 578). 


In un articolo sugli: Elementi polivalenti, che scrisse nel 1874-75, vi sono delle 
idee buone, non molto lontane dalle idee esposte da chimici moderni sulla valenza e 
sulla combinazione (Enciclop. di chimica, vol. IX, p. 84-91). 

Egli in varie occasioni ammise che anche l’ossigeno sia tetravalente, come ad 
esempio nel perossido di etile: 


(C*H5)?.0 Ni 
(C*H5)2.0 7 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 181 


ur 
“I 


Le idee del Selmi sulle valenze abituali e occulte, non sono analoghe a quelle 
emesse poi da altri, come, ad esempio, quelle di Spiegel (1) sulle valenze parziali, 
o quelle di Abegg (2) sulle valenze normali e sulle controvalenze, queste meno 
energiche delle prime? Le affinità neuzre, secondo Spiegel, sono come cariche nega- 
tive e positive: ad esempio, l’ammoniaca NH? contiene due affinità neutre, da ciò 
la formazione di cloruro di ammonio NH3(— H) (4 C1). 

Jodio purissimo cristallizzato. — Francesco Selmi ha proposto il metodo se- 
guente per ottenere il jodio purissimo e ben cristallizzato (Enciclopedia di chimica, 
vol. VII, p. 278-279 e 289-290). 

Si fa una soluzione concentrata a caldo di jodio nell’acido jodidrico e si tiene 
in boccia chiusa e alla luce. Il jodio si comincia a deporre cristallizzato e col tempo 
i suoi cristalli vanno crescendo notevolmente, perchè la luce decompone l’acido jodi- 
drico, rende minore la capacità del liquido per mantenere disciolto il jodio, il quale 
deponendosi lentamente, ingrossa i cristalli che dapprima si erano formati; in ultimo 
si lavano con acqua. 

Preparazione dell’acido jodidrico. — Selmi sino dal 1844 (“ Ann. di Majocchi ,, 
t. XIV, p. 22, con figura) propose di preparare l’acido jodidrico concentrato, facendo 
incontrare il vapore di jodio misto a vapor d’acqua con il gas acido solfidrico. 

Acido jodidrico ed acido solforico. — Selmi osservò fin dal 1845 che nell’azione 
fra l’acido solforico e l'acido jodidrico concentrato si raccolgono goccioline oleose 
brune, che abbandonano solfo bianchiccio quando sono trattate coll’acido solforico e 
nel tempo medesimo sentì svolgere odore manifesto di joduro di solfo. 

Posteriormente osservò che si svolge anche idrogeno solforato (note alla tradu- 
zione italiana del Corso elementare di chimica del Regnault, vol. I, Torino, 1851). Si 
vede da ciò che l’azione riducente sull’acido jodidrico, non è solo degli acidi solforico 
e solforoso, ma si estende pur anco al solfo nascente che rende libero l’jodio e si 
impossessa dell'idrogeno (Fr. Selmi in Enciclop. chim., vol. VII, p. 239-290). 

Jodio sciolto nell’acido solforico. — Fr. Selmi fece conoscere da molti anni 
come il jodio si sciolga con colore violaceo nell’acido solforico concentrato e ne de- 
dusse che ivi sussiste in quel modo di essere ond’è quando è vaporizzato. Kraus (3) 
in seguito trovò l’ugual cosa, estendendo l'osservazione agli acidi nitrico, cloridrico, 
fosforico, acetico e tartarico. L’acido cloridrico lo scioglie già a freddo in rosso cupo, 
l'acido fosforico in giallo rossigno. 

Ma Selmi fece seguire la sua osservazione da considerazioni teoriche non prive 
di valore anche oggi. 

Vapori di jodio violetto e giallo. — Sino dal 1846 e nell'adunanza 13 set- 
tembre 1847 della riunione degli scienziati italiani, il Selmi fece notare come il jodio 
si sciolga con color violetto nell’acido solforico concentrato, e come passasse al giallo 
appena lo si diluisse alquanto. 


(1) “ Zeits. f. anorg. Chem. ,, 1894, V, p.29 e 365. 

(2) “ Zeits. f. anorg. Chem. .,, 1904, XXXIX, pag. 330; e Arrmewnius, Theorien d. Chem., 1906, 
pag. 64 e 2° ed., 1909, pag. 78. 

(3) “£ Bull. Soc. Chim. ,, 1872, t. XVIII, pag. 438. 


182 ICILIO GUARESCHI 58 


Già nella sua memoria: Intorno all’azione di contatto (1846, p. 55) scriveva: 


Il calorico vapora il jodio in un bellissimo fluido elastico di colore violetto, che rappre- 
senta probabilmente uno stato polimorfico peculiare dell’alogeno; l’etere nitroso discioglie pure 
il jodio in colore di viola, e ci fa sospettare vieppiù che le soluzioni gialle ottenute coll’alcole 
e coi solventi salini attendano da tempo che si discopra un vapore di jodio giallo, ottenendolo 
col mezzo di forte pressione. 

E a questo proposito è assai importante la memoria: Di alcune reazioni tra l'acido jodi- 
drico e Vacido solforico tanto puro, quanto contenente del. solfato di piombo. (Raccolta di fisico- 
chimica italiana di Zantedeschi, Venezia, 1847-48). 


In questa memoria (p. 6) fa innanzi tutto osservare che attenendosi ad alcune 
opinioni di Gay-Lussac e di Bizio, egli considera la soluzione siccome una vaporazione 
del corpo solubile nel solvente. 

Questa memoria contiene molte interessanti osservazioni sulle proprietà del jodio, 
fra le quali quella che riguarda le diverse condizioni per le quali il vapore di jodio 
è violetto o può essere giallo. Pare inoltre che il jodio, in particelle piccolissime, 
abbia colore violaceo. Secondo le osservazioni del Selmi, il jodio quando è in solu- 
zione violetta non forma joduro d’amido, ma solamente quando la soluzione è gialla. 
Poi egli si domanda: 


Il jodio sciolto in violaceo sarà più o meno rarefatto del giallo? I due colori assunti dal 
jodio nello sciogliersi guidano giustamente ad arguire che esso possegga due vapori, e che 
esista nei liquidi solventi una virtù interna di aderenza, la quale apporti talvolta mutamenti 
nella condizione e struttura molecolare di corpi disciolti? 


E più avanti (p. 15) scrive, dopo varie considerazioni: è 


.io stimo non istrano, si ammetta che il vapore violaceo ed il giallo rappresentano 
l'abito elastico di due stati allotropici naturali al jodio. 


Tutta questa memoria meriterebbe di essere riprodotta. 

È noto che le soluzioni del jodio violette hanno la colorazione eguale a quella 
del vapore di jodio e le soluzioni brune hanno la colorazione del jodio solido sotto 
un lieve spessore (Schultz-Sellak, “ Pogg. Ann. ,, 1870, t. 140, p. 384). Pare che il 
jodio in soluzione eterea contenga I* (Raoult, van’t Hoff). 

L’idea di Selmi che il jodo abbia due specie di vapori, uno violetto e uno giallo, 
non è dunque priva di fondamento. 

Sui composti d’argento (Veggasi anche a pag. 28, 29 e 42). — Fr. Selmi ha 
fatto delle osservazioni interessanti anche sui composti d’argento. Innanzi tutto sino 
dal 1845 ha indicato un metodo per preparare il nitrato d’argento puro dall’argento 
monetario (“ Ann. di Majocchi ,, XIX, p. 311, vedi Bibliografia). 

Intorno all’azione della luce sui sali aloidi dell’argento ha fatto delle osserva- 
zioni che egli stesso riassunse nel modo seguente: 


Fu già osservato dal Gay-Lussac che quando il cloruro di argento è bagnato da una solu- 
zione di bicloruro di mercurio, rimane bianco, cioè non imbrunisce, stando alla Juce (1); 


(1) Io recentemente ho verificato e confermato questo fatto; ho visto anzi che bastano delle traccie 
di bicloruro di mercurio per impedire l'alterazione del cloruro d’argento per l’azione della luce. 


59 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 183 
Fr. Selmi, fino dal 1845 (1), avvertiva che ciò avviene, non solo se il cloruro sta immerso 
nella detta soluzione, ma pur anco quando fu separato dal liquido e seccato, tanto che ne 
contenga una certa quantità in mescolanza limpida. Avvertì eziandio che altri corpi influiscono 
sulla prontezza onde si alterano stando alla luce; la soluzione di nitrato d’argento è quella che 
lo lascia annerire con maggiore intensità e prontezza; le soluzioni di solfato di potassio, di 
nitrato di bario e di sale ammoniaco non altro permisero se non che si facesse cinereo con 
qualche tendenza al nero azzurro; l’acido nitrico diluito lo lasciò divenire di un bruno rossiccio. 

Sottoposto a prova anche l’joduro d’argento, il detto autore (Selmi) notò che fu meno 
guarentito dallo scomporsi alla luce per mezzo del sublimato corrosivo, poichè si vide a sbiadire 
sensibilmente nel colore. 

Nel tempo medesimo notò pure che l’idrato d’argento immerso nella soluzione del bicloruro 
di mercurio non mostra di reagire se a luce diffusa, mentre alla luce diretta abbandona ossi- 
geno e sì va imbiancando di mano in mano. 


Discorre a lungo dell’azione della luce anche sui sali d’argento nel suo opuscolo: 
Studi teorici e sperimentali di chimica molecolare, 1843-1846, sopracitati (V. pag. 29). 

Fra le osservazioni fatte dal Selmi sul cloruro d’argento (V. anche pag. 28 e 42), 
ricordiamo anche le seguenti, quali sono esposte dall’autore stesso (2): 


Fr. Selmi osservò nel 1845 che il cloruro d’argento fioccoso, preparato col versare a goccie 
‘a goccie, una soluzione neutra e allungatissima di nitrato d’argento, in altra diluita di sale 
ammonico o di sale comune, manifesta alcuni fenomeni degni di considerazione. Di mano in 
mano che cadono le gocce della soluzione d’argento, quella del cloruro si intorbida; agitando 
rapidamente con uno specillo, i fiocchetti bianchi si diffondono per tutta la massa e si ha una 
specie d’emulsione lattea, bianchissima e che si conserva per alcune ore senza deporre. Devesi 
evitare una eccedenza del nitrato d’argento. Dibattendo più e più volte questa specie di emul- 
sione, essa non si rischiara; versandovi dell’acido nitrico, tosto il cloruro d’argento si raccoglie 
in tenui fiocchi non capaci di attraversare la carta da filtro. Col solfato di potassio, ed agi- 
tando vivamente, l’emulsione si guasta ed il cloruro d’argento si conglutina in fiocchi molto 
coerenti e che precipitano all’istante. 

Dànno ad un dipresso lo stesso il solfato ed il cloruro di sodio, il cloruro ed il clorato 
di potassio, il cloruro ed il nitrato di bario, il cloruro di zinco, l’acetato di piombo ed il sale 
ammoniaco. Il nitrato d’argento affretta più di ogni altro sale la formazione dei fiocchi grumosi, 
quasi spinti da forte pressione e ciò tanto meglio, quanto più si dibatte con forza maggiore. 
Il sublimato corrosivo fa pure deporre il cloruro d’argento emulsionato, tranne che procede 
molto adagio ed il sedimento è in fiocchi minuti. 


Per altri lavori di chimica inorganica (depurazione dello zinco, ecc.) si vegga 
il Cap. VII, Ricerca dell’arsenico e la Bibliografia. 


(1) Vedi anche Enciclop. Suppl. e Compl., 1879, vol. I, pag. 763. 

(2) Enciclop. Suppl. e Compl., 1879, pag. 764; Studi sulla dimulsione di cloruro d’argento, in © Nuovi 
Ann. Se. Nat. di Bologna ,, 1845 (2), t.IV, pag. 146 e © Ann. di Majocchi ,, 1846, p. xx1v, pag. 226 
e 1847, XXV, pag. 43 e in Reewaurr, Trattato elementare di Chimica, trad. ital., 1852, vol. III in 
nota a pag. 461. Sino dal 1846 Selmi aveva distinto l’emulsione dalla pseudosoluzione e dalla dimulsione 
(loc. cit.) e in questo lavoro fece notare le osservazioni precedenti del Berzelius. 


184 ICILIO GUARESCHI 60 
V. 
Chimica organica. 


Composti organometallici del mercurio. — Preparazione dell’amigdalina. — Pre- 
parazione dei lattati e dell’acido lattico. — Considerazioni sugli elementi 
costitutivi delle molecole organiche — Ricerche sull’albumina. 


Composti metallorganici del mercurio. — Il primo esempio di composti me- 
tallorganici del mercurio devesi a Sobrero e Selmi, come giustamente fa osservare 
anche Einar Biilmann (“ Ber. d. Deut. Chem. Gesell. ,, 1902, p. 2587). 

Nel 1851 Selmi e Sobrero trattando l’alcol etilico con soluzione nitrica di mer- 
curio e scaldando a 100° ottennero un bel composto cristallizzato (1). Gerhardt (2) 
preparò il composto di Sobrero e Selmi e lo considerò dapprima come un nitrato 
doppio di mercurio e di etile in cui l'idrogeno dell’etile è surrogato dal mercurio 
(nitrato di etilmercurio), poi mutò d’avviso (Traité de chim. org., vol. II) e lo con- 
siderò come una combinazione di nitrato di etile e di sottonitrato di mercurio 
C2H5.0N02.HgN?05.2Hg0. 

Questo composto di Selmi e Sobrero si prepara nel modo seguente: 

Si versa dell’aleole nel nitrato mercurico in soluzione concentratissima, e tosto si forma, 
a freddo, un precipitato bianco ed amorfo di sottonitrato mercurico; se il liquido è acido, non 
avviene precipitazione di sorta. In tal caso scaldando la mescolanza gradatamente sì osserva 
che prima della ebollizione apparisce un precipitato bianco e cristallino, che è il nuovo sale di 
cui si parla, il quale continua a formarsi senza più d’uopo di calore. Non isvolgesi del gas; 
il liquido caldo ha odore di aldeide; l’acqua madre contiene sottonitrato mercuroso. 

Questo composto fu poi studiato da Copwer (“ J. Chem. Soc. ,, 39, p. 242), da 
School (1893) e poi più recentemente da Biilmann (loc. cit.) che lo considera come 
un derivato dell’aldeide proveniente dall’ossidazione dell’alcol, e propose la formola 
C4H2N4Hg50!5. 

Sobrero e Selmi ottennero un altro composto sulla cui natura e composizione 
nulla è bene accertato, ma che si connette col precedente. Si forma quando sciolto 
il cloruro mercurico nell’alceol concentratissimo, si precipita con soluzione alcolica di 
potassa, in guisa da avere fortemente alcalino il liquido; se ne ha un precipitato 
giallo contenente mercurio, carbonio, ossigeno e idrogeno (Sobrero e Selmi, loc. cit. 
e Enciclop. chim., vol. V, p. 919). 

Nelle “ Mem. R. Accad. delle Scienze di Torino ,, 1852, Sobrero e Selmi pubbli- 
carono una memoria dal titolo: Sopra un nuovo sale di mercurio, ove descrissero un 
altro composto organometallico del mercurio, ottenuto dall’alcol metilico col nitrato 
mercurico. Il composto che essi ottennero è di color giallo pallido, insolubile nel- 
l’alcol e nell'acqua. Scaldato, si decompone con viva deflagrazione. Coll’acido clo- 
ridrico sprigiona acido cianidrico. A questo composto gli autori diedero la for- 
mola C!4H3026NHg!3 (calcolata coi pesi equivalenti d’allora, e più probabilmente 
CTHSNHg6012). 


(1) © C.R.,, XXXIII, p. 67; “ J. pr. Chem. ,, 1851, t. 53, pag. 382; A. 1851, t. 80, pag. 108. 
(2) A. 80, pag. 111. 


61 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 185 


To non so se questo composto sia mai stato studiato da altri, come non sap- 
piamo se proprio proviene dall’alcol metilico o dall’acetone che l’alcol metilico di 
allora generalmente conteneva. Gli autori non dicono se l’alcol metilico era stato 
depurato trasformandolo in ossalato di metile. 

Sarebbero dunque fre i composti organometallici del mercurio ottenuti da Sobrero 
e Selmi; su due dei quali si hanno notizie incomplete. 

Metodo per la estrazione dell’amigdalina. — Un buon metodo per la estra- 
zione della amigdalina dalle mandorle amare è descritto dal Selmi nella sua inte- 
ressante nota: Alcune osservazioni sull’amigdalina, in “ Ann. Italiano ,, 1847, II, 
p. 148, e “ Annotazioni al corso di chimica del Regnault ,, Torino, 1851, t. IV, p. 603. 

Sull’acido lattico e i lattati. — Interessa specialmente la preparazione di 
alcuni lattati. 

Considerazioni sugli elementi cardinali delle molecole organiche. — Nei suoi 
libri anche elementari noi troviamo sempre l’esposizione di qualche idea sua, egli non 
è mai un semplice compilatore. Non si limita alla parte descrittiva, ma fa sempre 
vedere quale è il punto debole o importante di una teoria o di certi fenomeni. 

In quale trattato di chimica organica italiano, o anche straniero, di quel tempo, 
e anche dopo, si trovano considerazioni così belle come quelle che riguardano i 
quattro elementi più importanti delle sostanze organiche: carbonio, azoto, idrogeno 
ed ossigeno, e che si trovano nei suoi: Principi elementari di chimica organica, pub- 
blicati nel 1851, p. 118-121, e nelle Annotazioni al Regnault, vol. IV, 1852, p. 526-532? 
Im nessuno. 

Discorrendo dei quattro elementi C, H, N, 0, egli considera come più importanti 
il carbonio e l’azoto, che sarebbero elementi organogenetici. Invece l’idrogeno e l’ossi- 
geno considera come elementi sviluppatori nella formazione delle molecole organiche ed 
oggi noi li diciamo elementi saturatorî o sviluppatori delle funzioni chimiche. Poi 
discorre degli elementi accessori nella formazione delle molecole organiche, quali sono 
il solfo, il fosforo, ecc., ed infine discorre di altre materie minerali che si estraggono 
dagli esseriî organizzati. Sono considerazioni e generalità di chimica organica quali 
trovansi in quasi nessun altro trattato. Non vi è mai quell’aridità tecnica che trovasi 
in altri libri di questa natura. 

Ricerche sull’albumina. — Secondo Selmi, una soluzione concentrata di albu- 
mina, coagulata in recipiente chiuso, occupa, insieme col liquido onde si depone, lo 
stesso volume che occupava prima della coagulazione (Enciclop. di chim., VIII 
(1874), p. 593). 

Riguardo l’albumina dell’ovo od ovoalbumina, il Selmi osservò inoltre che: 


Stemperando dell’albume d’ovo nel latte in certa data proporzione e scaldando, l’albumina 
nel coagulare fa rapprendere eziandio la caseina, onde si forma un coagulo misto. Per lo con- 
trario, la caseina quando si fa coagulare col presame non trae seco l’albumina nel rappiglia- 
mento (“ Enciclop. di Chim. ,, VIII, p. 593). 


Il precipitato che si forma col sublimato corrosivo e l’albumina d’ovo si ridi- . 
scioglie completamente nei cloruri alcalini e negli acidi organici (Selmi, Enciclop. 
chim., VIII, p. 594). 


Serie II. Toxw. LXII. Y 


156 ICILIO GUARESCHI 62 


WI 


Azioni di contatto o catalitiche. — Fenomeni di aderenza o di assorbimento. — 
Teoria della tintura. — Assorbimento del carbone. — Fermentazioni. — 
Come agiscono i fermenti diastasici o enzimi. — Attività dei fermenti 
diastasici in soluzioni saline e a bassa temperatura. — Nitrificazione e 
influenza dell’ossido ferrico. — Assorbimento o assimilazione dell’ azoto 
atmosferico. 


Dell’azione di contatto. — E noto che Berzelius nel 1836, in alcune pagine, 
“ Jahresh. f. Chem. ,, riassunse le varie reazioni chimiche 
che avvengono, come si disse, anche per contatto, e creò il nome di catalisi o forza 


oggi classiche, del suo 


catalitica che poi è rimasto. 

Mitscherlich (1834 e 1842), Playfair (1847) ed altri poi si occuparono delle reazioni 
catalitiche. Selmi fu tra questi primi, perchè già nel 1843 e specialmente nel 1846 
al 1848 se ne occupò in modo particolare. 

Egli in più luoghi considera l’acqua come un agente catalizzatore (1). 

Nel 1846, cioè appena dieci anni dopo che Berzelius aveva trattato della forza 
catalitica, il Selmi scrive una lunga ed assai importante dissertazione esposta in 
forma di lezioni nella scuola chimica del Liceo di Reggio Emilia. Questa disserta- 
zione col titolo Intorno all’azione di contatto, di pp. 73, fu pubblicata nel “ Giornale 
delle Scienze Mediche della R. Acc. Medico-Chirurgica di Torino ,, serie 2?, anno I, 
1848, vol. III, p. 222 e 372 e anno 1849; ed è divisa in tre parti. In questo lavoro il 
Selmi raccoglie un numero grandissimo di osservazioni vecchie e nuove e le discute 
con grande finezza di criterio scientifico (2). 

Nel capitolo: Azione di contatto per superficie ed aderenza nei corpi liquidi (p. 11), 
trattando dell’acqua e della soluzione, cerca di provare che i solventi svolgono ed 
esplicano una azione catalitica, e ciò egli ammise sino dal 1843 (3). 

I solventi, egli dice, non differiscono punto dai corpi porosi negli assorbimenti che fanno 
delle materie vaporose o gazose, e nei mutamenti che vi apportano nelle qualità specifiche, 
allorquando le assorbirono e raccolsero nel loro seno; anzi li superano in parecchi casi, e danno 
effetti più svariati e meravigliosi, ma de’ quali prendiamo minor sorpresa per l’abitudine d’averli 
spesse volte sott'occhio. L'azione loro si compie o per superficie senza introduzione della sostanza 


(1) Il compianto Prof. Augusto Piccini in una bellissima lettera mi accennava a varie questioni 
che riguardano l’acqua e diceva fra l’altro: © L'acqua è sempre un grande enigma ,. Ed aveva 
ragione. Chi non sa oggi quale sia l’influenza anche di traccie di acqua nelle reazioni chimiche? Così è 
dell’azione del vapor d’acqua in molti casi. Ora, in talune reazioni sì ammette oggi che l’acqua agisca 
come catalizzatore. Si veggano a questo proposito le ricerche di Pringsheim, © Pogg. Ann. ;, (2), 
t. XXXII, pag. 384; Friedel e Ladenburg, A., t. CKXLIII, p. 124; Dixon (1884 a 1886) e quelle di 
Baker (1892 a 1894). 

(2) Questa Memoria meriterebbe di essere riprodotta per intero, tanto è densa di idee, di fatti 
curiosi ben raccolti, e di considerazioni moderne. * 

Più in breye il Selmi ha discorso dell’azione di contatto o della catalisi nelle Annotazioni al 
Regnault, vol. I, pag. 425 e IV, pag. 688 e 694 e nei suoi Principii elementari di chimica inorganica 
ed organica. 

(3) Vedi nota apposta a pag. 32 del vol. Il della traduzione da lui eseguita della farmacopea 
di Henry e Guibourt (Modena, Vincenzi e Rossi, 1843). 


GIU FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 187 


alterata nei loro meati o pori, ossia senza che ne segua la soluzione; 0 per istruggimento 
dei corpî solidi, che sono suddivisi sino alla rarefazione gazosa e vaporosa, col successivo acco- 
glimento nei meati del liquido delle particole rarefatte, alle quali si dispiegano tosto o tardi 
alcune proprietà strane ed insolite di cui non apparivano dotate. 


È in lui sempre l’idea manifestata in altri lavori, che i corpi quando veramente 
si sciolgono passano quasi allo stato di gas; vi è insomma l’idea della soluzione 
gasosa come ammettiamo oggi. 

A lungo discute la questione dell’alterazione che l’acqua fa subire ai corpi solubili 
o no, coi quali si mette in presenza; e ricorda con grande chiarezza ed efficacia un 
gran numero di fatti interessanti, come ad esempio le alterazioni che subiscono per 
l'azione dell’acqua l’acido opianico, il solfocarbonato potassico, il cloruro di solfo 
biammoniacale, il bijoduro di mercurio nell’alcol, l’acido ferrocianidrico, il bisolfito 
di ammonio, il cloruro di jodo, il rodizonato di potassio, l’allossana, il nitrato di am- 
monio, ecc. ecc. 

“ Dunque è giuocoforza concludere che i solventi intravvengono a maniera degli 
agenti catalitici nel modificare le sostanze che assorbirono o disciolsero, della qual 
cosa si può meglio accertare e convincere ponendo in parallelo i corpi porosi e ca- 
talitici coi solventi ,. E qui il Selmi espone un parallelo fra i corpi porosi ed i sol- 
venti (pag. 21). 

Riguardo l’influenza della natura diversa del solvente nel produrre le reazioni 
a pag. 22-23, scrive: 


Io ricorderò in questo luogo, non a pompa d’attribuirmi il vanto di scopritore, non all’og- 
getto di significare soltanto che da tempo volsi l’attenzione sopra tali cose, ricorderò, io dissi, 
d’avere fino dal 1848 dichiarata in una mia dissertazione, l’influenza somma della natura dei 
solventi nell’indurre diverse reazioni nei corpi disciolti, e precisamente allorquando si risguar- 
davano in generale le curiose anomalie riscontrate nelle soluzioni alcooliche degli acidi, siccome 
un effetto dell’indissolubilità dei prodotti nascituri (Degli acidi anidri, e degli acidi idratati ecc., 
Modena, Tip. Eredi Soliani, 1843). 

Millon nell’anno appresso svolse meglio l’argomento e lo ridusse al srado di evidenza. 

E parimenti primo d’ogni altro notai le discrepanze ragguardevoli che si trovano nelle 
azioni di un solvente a seconda della quantità onde s’infrapponga nella reazione. Avendo tro- 
vato che a poca acqua l’acido solforico e l’acido jodidrico si scompongono con reciprocanza e 
svolgono acido solforoso e jodio, e che a molt’acqua si ricompongono quali erano in prece- 
denza; che il tartaro emetico assorbe tenuissima dose di jodio quando sia in soluzione concen- 
trata, e per lo contrario ne prende abbondantemente se in soluzione allungata; ed avendo 
conosciuto che la differenza degli effetti derivava solo dalla maggiore o minore copia del liquido, 
fui condotto a concludere: che un solvente a norma delle proporzioni può esplicare un potere 
diverso, e tal fiata tutt'opposto al primo osservato (1). 


E continua ricordando in proposito molt’altri fatti. 

Nella parte seconda di questa memoria espone ancora un numero grande di 
curiosissimi fatti che riguardano le soluzioni e le alterazioni delle sostanze sciolte e 
a pag. 33 accenna ancora alle pseudosoluzioni. Nel capitolo: Azione di contatto nel- 


(1) © Ann, di Majocchi ,, 1846, fasc. sett., pag. 263. 


188 ICILIO GUARESCHI 64 


l'interno delle masse liquide, e prima della precipitazione operata sopra materie disciolte, 
discorre dei vari casi in cui una sostanza aggiunta alla soluzione precipita intatto 
il corpo sciolto. In una nota a pag. 33, dopo aver discorso dell’amido, delle gomme, 
degli albuminosi, dei saponi, degli azzurri di Prussia, ecc., scrive sulla pseudosolu- 
zione quel brano che ho riprodotto più sopra nel capitolo della pseudosoluzione. 

Poi discorre delle emulsioni del cloruro d’argento, dello solfo, del sangue, del 
latte, ecc., e tratta a lungo del modo di agire dei fermenti. E dopo enumerati tanti e 
tanti fenomeni curiosissimi a pag. 51, al termine della seconda parte, scrive: 


Avanti di chiudere questa seconda parte pregherò i lettori a notare con ponderazione 
quanti e quali siano i fenomeni meravigliosi prodotti dall’azione di contatto, ed a conchiudere 
meco che essa non sottostà all’affinità, anzi la superi di gran lunga, almeno nelle operazioni 
appartenenti alla natura organata. La vita e le cose che servono a sostentarla hanno uopo 
grandissimo delle azioni di contatto; senza la quale nè l’una si conserverebbe, nè le altre potreb- 
bero essere preparate e ridotte a stato convenevole. Il grano dei cereali ha bisogno che la 
diastasia trasformi il proprio amido nello zucchero affinchè questo porga alimento al germoglio; 
azioni di contatto, secondo ogni probabilità, sono promosse dal tepore che s’insinua e penetra 
nelle ova fecondate, onde l’embrione si svolge e si compone; azioni di contatto separano dai 
liquidi circolatori le diverse materie appropriate a ciascuno degli organi dei corpi viventi; azioni 
di contatto nella digestione dei cibi; azioni di contatto nella respirazione delle piante; e forse 
da un’azione di contatto deriva unicamente quel mistico impulso, quell’arcano e rigorosissimo 
eccitamento, per il quale l’aura fecondatrice ed i liquidi seminali muovono nell’interno delle 
ovaie i piccolissimi ed incompiuti ovuli ad ordirsi in foggia nuova, ad effettuare reazioni sin- 
golari, sinchè si formi quel cumulo di principii specialissimi, quel tessuto finissimo che in sè 
può accogliere e custodire latente il soffio della vita, per manifestarlo libero ed operativo non 
appena le circostanze opportune lo permettano. 

Azioni di contatto si riscontrano nella generazione dell’alcool dallo zucchero d’uva, nella 
fabbricazione dell’aceto, nell’associazione delle materie coloranti coi tessuti, nella produzione del 
formaggio, nella conservazione delle carni col sale, negli scoloramenti, nelle purgazioni delle 
acque fetide, in molte reazioni inorganiche e finalmente nelle soluzioni e tumefazioni. Questo 
semplice quadro numerico, imperfettissimo delle opere uscite dall’azione di contatto ci deve 
dimostrare quanto importi lo studiarle attentamente e quanto il loro studio prometta ubertosi 
frutti, luminose scoperte. 


Incomincia la parte terza, pag. 53, colle parole seguenti, che mi piace riprodurre 
integralmente: 


Dopo avere indagato in quali e quante maniere l’azione di contatto si esplichi, e quali 
effetti ragguardevoli produca, credo pregio dell’opera chiamare l’attenzione dei lettori a rico- 
noscere il nesso di fratellanza che congiunge insieme l’azione prodotta dalle sostanze minerali 
con quelle che derivano dalle sostanze organiche, e poscia che annoda le une e le altre alle 
azioni generate dagli imponderabili; poichè mi sembra bello ed importante a considerarsi come 
le molecole ponderabili, che obbediscono alle forze chimiche, somiglino, in parecchi effetti, agli 
atomi tenuissimi e vigorosissimi ond’è la materia ridotta quando assunse le forme di calorico, 
di luce, di elettrico e di magnetico. 


E noto che Liebig ammetteva che nelle fermentazioni il movimento delle molecole 
in alterazione del fermento si comunica alla sostanza fermentescibile. Ma Selmi invece 
pensava che la fermentazione può avvenire anche quando il fermento non sia in via 


65 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 189 


di alterazione, e qui cita (pag. 66) una propria esperienza relativa alla fermentazione 
amigdalica (veggasi più innanzi a: Fermentazione amigdalica). 

Dell’azione di contatto o catalisi, il Selmi discorre in molte altre parti delle 
sue opere. Assai interessante, e che si legge ancor oggi con soddisfazione e profitto, 
è il capitolo: Dell’azione di contatto, che trovasi nei suoi Principti elementari di chimica 
organica, Torino, Cugini Pomba e €. ed., 1851, e che ristampò nelle annotazioni al 
Corso elementare di chimica del Regnault, trad. it., Torino, 1851, vol. I, p. 422. 

In questo capitolo discorre anche dei fenomeni di aderenza e della pseudo- 


soluzione. 
Fenomeni di aderenza o di assorbimento. — Teoria della tintura. — Assor- 
bimento del carbone. — Una parte delle reazioni catalitiche almeno, erano dal 


Selmi attribuite a fenomeni di aderenza o di superficie. Di questi fenomeni egli a 
lungo ne discorre in quei luoghi ove discorre dei fenomeni di contatto o catalitici 
(V. più sopra). 

Egli dava, e giustamente, una grande importanza a questi fenomeni. 


La struttura della pepsina e delle sostanze congeneri, scriveva nel 1857, è delle meglio dis- 
poste a contrarre aderenza cogli altri corpi. Vediamo in effetto come gli albuminoidi e le materie 
di forma glutinosa attraggano con forza sopra di loro i principii coloranti, parecchi sali, parecchi 
ossidi, e lì mantengano diffusi, con apparenza di essere disciolti, quando anche non lo sono, e 
come loro impediscano di precipitare. Fissano le sostanze coloranti, i fosfati calcari, ed invol- 
gono con tale pertinacia i fiocchetti di ossido di ferro e di ossido di rame quando li colgono 
in istato nascente, da ingannare la vista a farli credere in soluzione. Perciò Thenard riuscì ad 
imitare coll’allumina ed il perossido di ferro la sostanza colorante del sangue; e Bracconot 
a fare il simile coll’apiina ed il nominato perossido, e persino a ridurre in forma di particelle 
minutissime, stemprate o come emulsionate nell’acqua, il mercurio metallico. (Memoria sul Latte 
premiata nel 1857 dall'Istituto Lombardo). 


Ciò che Selmi chiamava aderenza o fenomeni di aderenza o di adesione, ora da 
alcuni si chiamano adsorbimento o adsorbzione. Così non si dice più che il caolino as- 
sorbe per adesione o per aderenza le materie coloranti, ma si dice che adsorbde, come 
gli idrati ferrico ed alluminico adsorbono i coloranti acidi. 

Il talco, il carbone animale, il caolino, gli idrati di alluminico e di ferro, ecc., 
sarebbero adsorbenti (1). 


Fi 


(1) Van Bemmelen diede a questi composti che forma il colloide coll’elettrolito precipitante il 
nome di composés d’adsorption. È La formation de ces composés d’adsorption ,, scrivono Cottin e 
Mouton, © d’après ce qu'on vient de voir ne paraît pas différer essentiellement des réactions chi- 
“ miques ordinaires. L’absence de proportions définies et la variation de la quantité adsorbée avec 
“ la concentration, n’ont pas lieu de surprendre, puisqu'il s'agit de reactions limitées par un partage 
“ entre le coagulum et le Jiquide et que, d’autre part, ces réactions n’intéressent qu’une partie du 
“ coagulum qui peut ètre une faible fraction de sa masse totale , (Les ultramicroscopes, ecc. Paris, 
1906, pag. 139). 

Vignon, che ha studiato l’assorbimento di molte materie coloranti coll’amianto, colla sabbia, ecc. 
(© Bull. Soc. Chim. ,, 1910, t. VII, pag. 788), scrive: “ L’adsorption, manifestée par l’influence de 
“ surfaces è peu près chimiquement inertes (amiante, sable de rivières) sur les solutions aqueuses 
“ des matières colorantes considérées, ne serait qu'un cas particulier de l’attraction moléculaire ,. 
Tutto questo è precisamente simile a quanto diceva il Selmi dei fenomeni di aderenza. 


190 ICILIO GUARESCHI 66 


Anche ciò che oggi si dice condensuzione di superficie è in fondo ciò che Selmi 
chiamava forza di aderenza o di adesione. 

In questa facoltà di aderenza dei corpi porosi, vi ha qualche cosa di analogo o 
di identico a quanto era designato dal Chevreul col nome di affinità capillare e che 
meglio ora Ed. Justin-Mueller chiama affinità colloidale. 

Selmi aveva delle idee chiare anche in quanto riguarda il potere assorbente del 
carbone in relazione colla fissazione delle materie coloranti sulle fibre. 

Dodici o quindici anni fa la teoria della fissazione dei colori nella tintura era 
essenzialmente una teoria chimica; si ammetteva cioè che i gruppi funzionali acidi 
e basici ammessi come esistenti nelle fibre animali, formassero dei veri composti 
salini colle materie coloranti acide o basiche. 

Però a poco a poco le idee dei chimici cambiarono, e già il Sisley (“ Bull. Soc. 
chim. , (3), 1900, t. 23, p. 865) fece vedere che le esperienze date come favorevoli 
a questa teoria, potevano spiegarsi anche in altro modo. Lo sviluppo -preso dalla 
chimica fisica ha contribuito a far considerare questi fenomeni anche come dipen- 
denti da cause chimico-fisiche. 

Freundlich e Loser (“Z. f. physik. Chem. ,, 1907, p. 284), e Pelet e Grand 
(*# Rev. Gén. d. Mat. Col. ,, Paris, 1907, p. 225) ed altri, in questi ultimi tempi, 
hanno mostrato l'analogia che vi è fra le fibre tessili ed i carboni decoloranti rela- 
tivamente all’assorbimento delle materie coloranti. 

Questa analogia tra la fissazione delle materie coloranti e Fassorbimento delle 
materie coloranti stesse col carbone, era stata ben chiaramente espressa da F. Selmi 
sino dal 1851 e nei suoi preziosi: Principi elementari di chimica organica, Torino, 1851, 
trovasi quanto segue, che egli riprodusse anche nelle note alla traduzione del Trattato 
di chimica di Regnault, vol. IV, p. 681: 


Noi non siamo dell’avviso che le materie coloranti si combinino chimicamente colle fibre 
tessili. Il carbone minerale ed il vegetale ancora scolorano i liquidi contenenti materia colo- 
rante, scioltasi o pseudoscioltasi per entro. 

Poichè in questo fatto le materie coloranti dimostrano di aggiungersi alla massa carbo- 
nosa senza scambievole penetrazione di parti, senza combinazione mutua di molecole, e però il 
carbone resta dell’apparenza di prima e la materia colorante può riuscirne intatta, solo che vi si 
adoprino alcuni solventi più forti dell’acqua semplice o dell’alcole solo; poichè insomma non 
vi ha esercizio di affinità chimica, se ne conchiuse: che il fenomeno trae origine dall’aderenza 
che le particole coloranti contraggono colla superficie dei granuli o del polviscolo di carbone. 

L’allumina, l’ossido ed il solfuro di piombo idratati, il biossido di stagno fanno il somi- 
gliante del carbone; con questa differenza tuttavolta, che nel caso del carbone e del solfuro di 
piombo il colore si occulta nel nero dei due corpi prevalenti, e nel secondo apparisce intiero, 
perchè i precipitanti sono bianchi. Nel linguaggio volgare, le materie coloranti, precipitate da 
un corpo bianco insolubile, hanno nome di lacche. 

Taluno pretese che le lacche si formino per combinazione vera delle sostanze coloranti col 
corpo insolubile, e che la parte minerale della lacca vi tenga il posto di base. Per conoscere 
quanto sia erronea questa sentenza, basta di aver sperimentato alcune volte intorno al modo 
di generarsi delle lacche e basta ricordarsi, che i precipitanti e le materie coloranti più adatte 
alla produzione delle lacche posseggono in grado cospicuo le qualità di aderenza e di adesività. 

Le tele, la carta, le membrane organiche fanno l’ufficio del carbone e dell’allumina quando 
attraggono sopra di sè le sostanze coloranti, e ne pigliano perciò le tinte: laonde l’arte della 


67 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 191 


tintura consiste principalmente nell’opera di scegliere i colori di facile e durevole adesività, 
sulle fibre tessili, e di ridurli alla condizione necessaria, acciò più fortemente possano dai loro 
solventi scendere ad aderire ed a fermarsi con esse, senza che i solventi comuni valgano più a 
risepararnele. Walter Crum, che volse da lunghi anni gli studi sperimentali intorno all’arduo 
argomento della tintura, quando si pose ad indagare coll’aiuto dell’osservazione microscopica, 
come si faccia la fissazione dei colori sulle fibre del cotone, conchiuse: che l’effetto si compie per 
azione meccanica della fibra vegetale sulla materia colorante, nè procede da combinazione chi- 
mica. La quale conclusione conferma pienamente quanto andammo qui divisando. 


Julius Hubner (“ J. Chem. Soc. ,, 1907, t. 91, p. 1057) ha determinato quanti- 
tativamente l'assorbimento delle materie coloranti basiche o acide o neutre per mezzo 
del cotone, la lana, la seta ed altre fibre tessili a diverse temperature e con o senza 
aggiunta di altre sostanze al bagno di tintura. Misure parallele furono fatte sull’as- 
sorbimento di più dosi di materie coloranti, col carbone, la grafite, il caolino, il 
nero di fumo. L'autore ne conclude che: 


Le fibre animali si comportano colle materie coloranti nello stesso modo del carbone, 
mentre il cotone si comporta come la grafite. Il cotone e la grafite non sono tinti praticamente 
dalle materie coloranti acide, tanto a caldo quanto a freddo, mentre che la lana o il carbone 
assorbono liberamente le sostanze coloranti. 


Tutto questo conferma nè più nè meno tutto quanto disse e ridisse Selmi; egli 
era convinto della analogia di comportamento fra carbone e fibre tessili. 

Idee simili emise recentemente il Rosenstiehl (Du role de l’affinité dans la teinture, 
in “ Bull. Soc. chim. ,, 1910 e 1911). 

Per tutto ciò che riguarda i fenomeni di aderenza o di adesione si legge ancora 
oggi volentieri l'articolo del Selmi: Adesione, nell’ Enciclop. chimica, 1867, vol. I, p. 401 
e Dell’aderenza chimica nei suoi: Principi elementari di chimica inorganica ed orga- 
nica, 1857 e 1851. : 

Fermentazioni. — Selmi fu uno dei primi e più autorevoli fautori della teoria 
chimica delle fermentazioni. Egli ammise che tutti i fermenti agivano come cataliz- 
zatori o per contatto, e ciò sino dal 1846. 

Fermentazione amigdalica. — Interessanti sono le sue ricerche sulla fermenta- 
zione della amigdalina per l’azione dell’emulsina. Sino dal 1846 egli aveva dimostrato 
che, contrariamente all'opinione degli altri chimici, nella fermentazione amigdalica 
non è necessaria la presenza dell’ossigeno atmosferico. Nella sua dissertazione sull'azione 
di contatto, descrive l’esperienza seguente: 


Se si prende dell’amigdalina e si mescola all’ammandina freschissima, estratta or ora dal 
frutto staccato dall’albero, colle debite cautele affinchè non abbia subito alterazione, inconta- 
nente l’amigdalina è scomposta in acido prussico e idruro di benzoilo. 

Se si piglia (come ho esperimentato io per alcune volte) la mandorla di pesco, estratta 
dall’osso levato di presente dal pericarpio, e poscia s’introduca rapidamente sotto campana 
della tromba pneumatica, operando il vuoto, e facendola seccare compiutamente col mezzo del- 
l’acido solforico; e se, ciò eseguito, si trasporta la mandorla in vaso ben asciutto che si chiude 
tosto, e sia pieno di gas idrogeno, e nel quale trascorra di continuo un torrente dello stesso 
gas; poscia, quando abbiasi piena certezza dell’assenza dell'ossigeno aereo, si pesti la mandorla 
con cannello di vetro trapassante a sfregamento nel turacciolo del vaso, non si avrà odore di 
sorta che indichi la presenza dei prodotti cianici nel gas che sbocca; ma se, allora, si faccia 


192 ICILIO GUARESCHI : 68 


stillare nel vaso per mezzo di un tubo alla Welter alquanto di acqua bollita, incontanente si 
formerà un liquido emulsivo, e con esso si sprigionerà un odore cianico manifestissimo, il quale 
uscirà in compagnia dell’idrogeno. 


Nel 1852 presentò all'Accademia delle Scienze di Torino (vol. XX, LXXIII, e 
Annotazioni al Corso di chimica del Regnault, vol. IV, pag. 604) una nota: Intorno 
ad alcune esperienze dirette a definire la natura della fermentazione amigdalica. In 
questa nota dimostra di nuovo che la fermentazione amigdalica può aver luogo fuori 
della presenza dell’ossigeno, contrariamente a quanto si credeva, e fa vedere come 
l’acido solforoso sia capace di sospendere l’azione fermentante della emulsina o 
sinaptasia. Altre osservazioni si trovano nell’Annuario, 1847, p. 149-150, sulle pro- 
prietà dell’amigdalica. 

Egli fece notare qualche differenza fra la fermentazione saligenica e la fermen- 
tazione amigdalica, e a pag. 605 delle Annotazioni al Corso di chimica del Regnault, 
vol. IV, sono delle interessanti osservazioni: i 


Il tuorlo d’ovo quando incomincia ad imputridire sembra che contenga della emulsina 
perchè fa svolgere in allora l’odore di mandorle amare dall’amigdalina, se pure non vi si inge- 
nera qualche altro prodotto di uguale potere dell’emulsina (“ Enciclopedia di Chimica ,, 1871, 
V, pag. 736). 


Egli fece sempre ben notare la differenza da lui stabilita prima di ogni altro 
fra fermentazioni con fermenti organizzati e fermenti chimici propriamente detti. 

A proposito di una nota di Melsens sulla fermentazione zuccherina (“ Ann. di 
Majocchi ,, 1850, t. I), in una nota a pag. 142 fa osservare: 


Melsens cita per termine di confronto della fermentazione zuccherina la fermentazione amig- 
dalica e paragona il fermento amigdalico a quello che si genera nella canna e nella barbabietola, 
ammettendo che il primo come il secondo abbia uopo per agire dell’influsso doppio dell’acqua 
e dell’aria, e con ciò assomma implicitamente l’emulsina ai fermenti che incominciano ad ope- 
rare quando cominciano ad alterarsi. Melsens seguita in questo l’opinione adottata comune- 
mente dai chimici, che cioè non abbiasi azione fermentativa, se non vi fu in precedenza azione 
scomponitrice dell'ossigeno, che investe la materia trasformabile in fermento. Per ora mi restringo 
a notare che le esperienze instituite sulla fermentazione amigdalica e descritte nella mia Dis- 
sertazione di contatto, contraddicono pienamente a tale opinione: laonde insisto nel distinguere 
i fermenti in due grandi categorie, in quella dei fermenti naturali e subitanei, che agiscono 
senza bisogno di ossigeno e senza essere previamente alterati, ai quali appartiene l’emulsina, 
e nell’altra dei fermenti di alterazione e lenti, che operano dopo che furono investiti dall’ossi- 
geno e trasmutati. 

Quanto prima farò conoscere una serie di esperienze, dalle quali risulterà che l’emulsina 
può combinarsi coll’acido solforoso (potente dissossidatore, e spegnitore gagliardo della fermen- 
tabilità indotta dall’ossigeno), senza perdere la facoltà fermentativa, la quale essa sospende, 
durante la combinazione coll’acido solforoso, come fa con altri acidi, e che ricupera non appena 
le si tolga l’acido solforoso coll’uopo di un alcali (Nota di Fr. Selmi). 


Il Liebig ammetteva che la fermentazione fosse dovuta al movimento di alte- 
razione in cui si trovano i fermenti, cioè che il movimento molecolare prodottosi 
nell’alterazione del fermento provoca per comunicazione di movimento la decompo- 
sizione della sostanza fermentescibile. Invece Selmi ha sempre sostenuto che i fer- 


69 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENDIFICA 193 


menti agiscono per catalisi o per aderenza chimica, e nella sua memoria sul latte, 
premiata nel 1857 dall'Istituto Lombardo, scriveva: 


Per noi la fermentazione in genere è un fenomeno di aderenza chimica, che si collega con 
quei fatti tanto frequenti in chimica minerale, in cui una data materia interviene a provocare 
o ad aiutare la modificazione o la scomparizione di altra, senza che avvenga reazione tra i due 
scambievoli elementi. 


K questo egli aveva già detto nel 1853 in una bella memoria sulle fermen- 
tazioni pubblicata nel Giornale della Società di Farmacia di Torino. 

In base a queste idee egli fece una bellissima esperienza, la quale dimostra che 
nella fermentazione amigdalica la emulsina non ha bisogno di essere alterata per 
promuovere la fermentazione amigdalica, come invece vorrebbe la teoria di Liebig. 


Feci notare, sino dal 1848, in un mio scritto Irtorno alle azioni di contatto, che nella fer- 
mentazione istantanea, quali sarebbero l’amigdalica e la sinapica, può malagevolmente imma- 
ginarsi, che i singoli fermenti delle mandorle amare e della senapa nera esistano nei semi in 
istato di alterazione continua; ed anzi citai una esperienza in proposito, da me instituita, colla 
quale m'impegnai di provare, che la fermentazione amigdalica avviene istantanea senza preven- 
tivo o simultaneo concorso dell’ossigeno, per cui non avrei saputo trovare d’onde venisse il 
motore di scomposizione tanto della emulsina quanto dell’amigdalina. 

Presi pesche spiccate allora allora dall’albero, levai loro la polpa, indi ne ruppi il nocciolo, ne 
cavai i mandorli che incontanente posi in campana sotto macchina pneumatica operando il 
vuoto. Questi mandorli secchi furono poscia introdotti in recipiente accomodato in modo che 
vi trascorresse assiduamente un getto di gas idrogeno, ed avendo in fondo un po’ d’acqua stillata 
e bollita. Non appena li tritai in detta acqua, valendomi di una verga di vetro, che intromet- 
tevasi nel recipiente per mezzo di turacciolo bene aggiustatovi, in cui poteva essere alzata ed 
abbassata a sfregamento, essi diedero tosto un odore cianico manifestissimo che uscì coll’idro- 
geno e fu riconosciuto anche coi reattivi (È l’esperienza ricordata anche a pag. 67). 


Sulla zicheasia o fermento del fico. — Fermentazione caseica col mezzo della zicheasia. 
— Il Selmi riassume le sue ricerche sul fermento da lui scoperto nel lattice del 
fico comune, nelle Annotazioni al Corso elementare di chimica del Regnault, 1852, 
IVENpo 0027: 

La fermentazione caseica operata dal presame si compie direttamente tra caseina e fermento 
del caglio, come fu dimostrato da me alcuni anni sono; imperocchè ottenni fermentazione istan- 
tanea, e fermentazione con latti e presami alcalinuli, che conservarono la loro alcalinità durante 
l’azione, e dopo che avvenne il rappigliamento. 

Ma non il presame solo mostrasi atto ad indurre coagulo nel latte, perchè vi hanno altre 
materie, come sarebbero i fiori del cardo selvatico, del galium verum, il sugo latteo del fico. 


Continua descrivendo la preparazione e le proprietà della zicheusia. 


Osservazioni teoriche interessanti del Selmi sulle fermentazioni si trovano nel 
Compl. e Supp. all’Enciclop., vol. II (1880), p. 732-753. 

Fermentazione butirrica. — Il Selmi si occupò anche della fermentazione butirrica 
e le sue osservazioni sono esposte nell’Enciclop. chim., vol. III, p. 412, e Compl. e 
Supp., 1880, vol. II, p. 728. 

Ricordiamo qui un fatto che può essere meritevole di considerazione. In tutte le esperienze 
eseguite da questo autore, egli notò che le diverse soluzioni preparate o col glucosio o collo 

Serie II. Tox. LXII Z 


194 ICILIO GUARESCHI 70 


zucchero di canna invertito o col miele, e cacio fresco con marmo polverizzato, i liquidi diversi, 
comunque la fermentazione fosse proceduta, contenevano una specie di chimosina o sostanza 
analoga al presame, poichè resi neutri, e mescolati con tre o quattro volumi di latte fresco, 
v'indussero la coagulazione in mezz'ora al calore di 40°, od in 8 0 4 ore a temperatura comune. 
Una delle soluzioni però, che aveva fermentato a 50° ed in cui il fermento butirrico era copioso 
e di lunghezza maggiore, si dimostrò quasi priva di coagulazione. 


Fermentazione solfidrica. — Ecco quanto scriveva Selmi sulla cosidetta fermen- 
tazione solfidrica, nel 1880, dopo aver ricordato il bacillo solfidrico di Miquel ed il 
bacillo beggiotoa di Luersen (Encicl. Chim. Compl. e Suppl., 1880, vol. II, p. 732): 

“ La fermentazione solfidrica era già stata intravveduta da Fr. Selmi, ma non istu- 
diata al punto da riconoscere quale ne fosse la cagione ,, ecc. E così continua esponendo 
le sue osservazioni ed esperienze sulla fermentazione solfidrica (V. anche il Cap. VII). 

Come agiscono i fermenti diastasici o enzimi. — Il Selmi è stato fra i primi 
a sostenere l’opinione che il modo di agire degli enzimi o fermenti diastasici, rientra 
nella categoria delle reazioni catalitiche. 

Egli emise l’idea che il fermento o enzima si unisce alla sostanza fermentescibile 
per formare un composto intermedio che poi si decompone, occorrendo idratandosi, 
rigenerando l'enzima intatto ed ancora attivo. 

La coagulazione del latte col presame avviene, secondo Selmi, per azione di 
contatto, per un fenomeno di aderenza chimica; il principio coagulante o fermento 
si appiglia alla caseina, e dopo la coagulazione si distacca conservando l’attività 
coagulante di prima, e così con questo modo alternativo di attaccarsi e di staccarsi 
sì spiega come basti una traccia di fermento per coagulare molto latte. Egli ammette 
che così in generale avvenga per tutti i fermenti. Questa interpretazione del Selmi 
fu confermata nel 1876 dagli studi del Wurtz sulla papaina o fermento del lattice del 
Carica Papaya; anche il Wurtz ammette che la papaina si fissi allo stato insolubile 
sulla fibrina e se ne distacchi in seguito, dopo l’idratazione della fibrina. 

Hiifner, Artus ed altri hanno poi emesso delle idee analoghe a quelle di Selmi 
(Artus, Nature des enzymes, Paris, 1896, p. 38). 

Egli dava gran valore, e credo giustamente, all’azione di superficie, e nel 1879 
scriveva: 

Per esprimere subito e in poche parole il mio concetto: qualsivoglia succedere di fermen- 
tazione deriverebbe da ciò che il fermento posto in contatto intimo col fermentabile, agisce 
su di esso per affinità capillare, lo attrae, forse lo fissa, e in questo atto ne squilibra l’edificio 
molecolare, tanto che viene indotto o a modificarsi od anche a rompersi in diversi prodotti. 
Quando ciò fosse, le fermentazioni andrebbero a classificarsi con una quantità grandissima di 
fatti, che spettano tanto alla chimica minerale quanto all’inorganica, e che traggono nascimento 
da un’azione di superficie (“ Suppl. e Compl. all’Enciclop. ,, Vol. II, pag. 739). 


Egli mise in un gruppo solo i fenomeni fermentativi organici colle azioni cata- 
litiche o di contatto che avvengono fra le materie minerali. Egli comparò benissimo 
le reazioni fermentative organiche a quelle inorganiche. 

Anche nella recente memoria di Acree, Reazioni catalitiche prodotte dagli enzimi 
(“ Am. Chem. Soc. ,, 1908, t. 30, p. 1755; e “ Bull. Soc. Chim. ,, 1909, VI, p. 1335), 
sono esposte molte idee e considerazioni che collimano perfettamente con quanto 
scrisse il Selmi sessanta anni prima. 


71 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 195 


Attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a bassa temperatura. 
— Il Selmi (“ Rendic. R. Acc. Bol. ,, 1875-76, p. 77) fece delle esperienze, le quali 
dimostrano che i fermenti diastasici mantengono la loro efficacia anche quando si 
trovano in una soluzione satura di cloruro di sodio e si operi a 0° ed anche a — 20°. 
L’emulsina, la ptialina, la mirosina in soluzione salina satura, agiscono benissimo 
sull’amigdalina, sull’amido e sulla sinigrina, anche alla temperatura di — 20°. Questi 
fatti dimostrano, scriveva Selmi nel 1875, che l’azione posseduta dai fermenti solubili 
non può essere attribuita ad uno stato di alterazione nel quale si trovino perma- 
nentemente, come aveva supposto il Liebig. 

Il cloruro di sodio in soluzione del 4°/ favorisce molto l’azione della saliva 
sull’amido (Selmi, Nasse) (in Albertoni, Manuale di Fisiologia umana, 2? ed., p. 253). 

Egli stesso nel 1879 scriveva: 

Fr. Selmi, studiando l’azione dei fermenti non organizzati su diverse sostanze, osservò che 
la ptialina saccarifica l’amido convertito in colla, a temperature molto basse, cioè tra —15° 
e —20°, impedendo la congelazione del liquido col mezzo del cloruro di sodio, cioè stempe- 
rando la colla in una soluzione satura di questo sale ed aggiungendovi della scialiva. 


Su un principio diastasico trovato nell’albume d’ovo Egli poco prima di morire, il 
22 luglio 1881, scriveva all’Ercolani quanto segue: 


Per diverse considerazioni fui condotto a sospettare che l’albume d’ovo contenga un prin- 
cipio capace di saccarificare l’amido. Trovai di fatto che, sciolto in acqua e feltrato, poi messo 
a digerire con soluzione di amido solubile, in breve lo saccarifica. Questo fatto confermò adunque 
la mia congettura, onde mi accinsi ad estrarre il detto principio. 


E poi prosegue: 


L'esistenza di un principio diastasico nell’albume d’ovo ha senza dubbio un valore fisio- 
logico importante che tosto si offre alla mente. Siccome l’albume contiene glucoso e il tuorlo 
un amiloide, vedesi che questo passando nell’albume si saccarifira, e mediante l’avvenuta tras- 
formazione si fa alimento. 


Secondo Selmi questo fatto approssima sempre più l’ovo al seme vegetale in 
germinazione. 
- Già sino dal 1853 il Selmi era fautore della teoria meccanico-chimica della fer- 
mentazione e non della teoria vitalistica di Turpin e Cagniard-Latour. Allora egli 
pubblicò una memoria, già più sopra ricordata, Fatti intorno all'argomento delle fer- 
mentazioni (“ Giorn. di farm. e chim. ,, di Torino, 1853, t. II, p. 145-161), ricca di 
considerazioni ed osservazioni interessanti. 
Le principali osservazioni di Selmi sulle fermentazioni si possono riassumere 
come segue: 
1° Ha dato una spiegazione scientifica esatta della coagulazione del latte col 
presame, confermata alcuni anni dopo da Heintz; 
2° Ha studiato accuratamente la fermentazione amigdalica, ed ha dimostrato 
che non vi è bisogno della presenza dell'ossigeno, come si credeva prima, perchè 
avvenga questa fermentazione; 
3° Ha scoperto nel succo del fico comune un nuovo fermento, la zicheasia, che 
agisce analogamente al presame; 


196 TCILIO GUARESCHI 72 


4° Ha emesso un'idea generale del modo di agire degli enzimi; 

5° Studia l’attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a bassa tem- 
peratura; 

6° Egli sino dal 1846 e 1853 ha distinto molto bene le fermentazioni con 
fermenti organizzati dalle fermentazioni con fermenti amorfi o non organizzati. Però 
confrontò sempre tutte le fermentazioni coi fenomeni catalitici; 

7° Scopre il fatto che molte materie albuminoidi, il latte, il sangue, il fer- 
mento alcolico, ecc., hanno la proprietà di ridurre lo solfo ad acido solfidrico; 

8° Queste ultime ricerche lo condussero alla scoperta dell’azione riducente 
delle muffe o di altri organismi inferiori. 

Ricerche sulla nitrificazione e influenza dell’ossido ferrico. — Assorbimento 
o assimilazione dell'azoto. — Non vanno dimenticate le ricerche di Selmi intorno 
alla formazione dei nitrati in natura ed all'influenza che ha l’ossido ferrico nella 
nitrificazione. i 

Egli anche dopo le esperienze di Graham e di Deherain, era sempre di parere 
che in natura si formino prima i nitriti, e dopo aver discorso dell’ossidazione del- 
l’azoto e dell’ammoniaca, concludeva (art. Nitrificazione in Enciclop. chim., VII, 
pag. 179): 

Ma noi crediamo più probabile che veramente in ambedue i casi s’ingenerino dei nitriti i 
quali successivamente si convertono in nitrati pel contatto dell’ossigeno direttamente, od anche 
di un’abbondanza dell’ossidante, poichè le condizioni della bassa temperatura e la coesistenza 
dei riduttori, i quali non mancano mai nel terreno coltivato, ci fanno credere che l’azoto non 
sì ossidi al massimo, ma da prima si restringa al primo grado di acidificazione. Ed a comprova 
possiamo addurre il fatto, che nelle ossidazioni dell’azoto fu sempre riscontrata l’esistenza dei 
nitriti, che questi si trovano nelle acque di pioggia, nelle acque correnti, nei terreni, nei pro- 
dotti delle combustioni diverse in contatto dell’aria e nei nitri del commercio, come trovò il 
D. Pesci in tre nitri naturali e grezzi raschiati dai muri; che basta un breve contatto di un 
nitrato con materie vegetali umide perchè tosto si abbia la prova del passaggio a nitrito. Non 
dubitiamo punto che nuove indagini, condotte allo scopo di chiarire il nostro sospetto, non siano 
per confermarlo. 


Pesci con ricerche che fece sull’ossido ferrico, estese, modificò e ‘confermò le 
ricerche di Selmi (art. Nitrificazione in Enciclop. chim., vol. VIII, p. 177 e “ Gazz. 
chim. ,, V, p. 309) e dalle sue esperienze ne deduce: che il perossido di ferro è 
capace di nitrificare l’ammoniaca; che giusta l’opinione di Selmi, nella nitrificazione 
prima dell'acido nitrico si forma probabilmente acido nitroso; che nella nitrificazione 
il perossido di ferro non agisce come sostanza porosa, ma come ossidante, dacchè 
esso se sì opera fuori il contatto dell’aria si riduce, e se tale riduzione non avviene 
quando si opera all'aria, gli è perchè, giusta l'opinione di Kuhlmann, l'ossigeno sot- 
tratto viene sostituito dall'atmosfera. 

Anche nelle ricerche del Selmi fatte nel 1878 e comunicate all'Accademia di 
Bologna, la nitrificazione nei terreni avverrebbe prima per ammonificazione dell’azoto 
mediante le muffe, i micrococchi, le spore, i vegetali indecomposti, ecc., e poi per 
ossidazione dell'’ammoniaca in contatto simultaneo coll’aria e coi carbonati alcalini e 
terrosi. Con ciò si genererebbero dei nitriti e da questi poi i nitrati (Compl. e Suppl. 
all’Enciclop., vol. II, p. 228). 


73 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 197 
Qui è bene ricordare che quando Selmi faceva le sue ricerche, non erano ancora 
scoperti i batteri che producono i nitrati e i nitriti, di Winogradsky, ecc. 
Il prof. Fausto Sestini in una memoria sulla formazione dell’acido nitroso nel- 
Varia confinata nel terreno agrario pubblicata nel 1903, confermò le esperienze del 
Selmi e del Pesci e scriveva: 


Tanto Francesco Selmi quanto il prof. Leone Pesci (1875) avevano già qualificato il peros- 
sido di ferro come generatore di acido nitrico. Il primo aveva ammesso come probabile che 
prima dell’acido nitrico si formasse acido nitroso: il secondo provò che il sesquiossido di ferro 
nitrifica l’ammoniaca. 


Le esperienze del Sestini confermarono che l’ossido ferrico agisce cataliticamente. 

Selmi si interessò sempre anche alle grandi questioni di fisiologia vegetale; egli 
già dal 1851 discuteva sui modi coi quali l’azoto può essere assorbito dalle piante, 
e vide con grande simpatia le prime ricerche del Ville fatte nel 1851, le quali di- 
mostravano essere l'azoto dell’aria assorbito dalle piante, servire alla loro nutrizione e 
neppure è cereali eccepire a questa regola. i 

E, già nelle sue note alla traduzione del Corso di chimica del Regnault, Torino, 
1852, t. IV, p. 636, riassume e loda le esperienze di Giorgio Ville, che furono tanto 
combattute dal Boussingault e poi finalmente confermate dal Berthelot molt’anni dopo. 
Ora sappiamo dalle classiche ricerche di Heillriegel che i microbi hanno la massima 
importanza nell’assorbimento dell’azoto atmosferico. 

Quella lunga annotazione del Selmi relativa alle prime esperienze del Ville è 
molto bella. 

Egli più volte pensò a questa questione, e finalmente nel 1871, discorrendo 
con l’amico suo il professore Ercolani intorno all’azione fertilizzante dei lupini am- 
maccati e sparsi nel terreno o nelle risaie, gli nacque il pensiero, com’egli scrive, 
che ciò potesse succedere dal germogliarvi che fanno le muffe in abbondanza. Egli 
allora incominciò ad indagare, eccitato in ciò anche dall'amico Ercolani, se lo sviluppo 
delle muffe fosse correlativo o no alla fissazione dell’azoto atmosferico. E così fu con- 
dotto a dimostrare che realmente le muffe hanno potere riduttore e possono fissare 
l’azoto atmosferico. i 

Queste esperienze si intrecciano con il potere riduttore delle muffe e sono esposte 
in una nota: Osservazioni sullo sviluppo di idrogeno nascente dalle muffe, loro azione 
sul solfo, sui solfuri, sull’arsenico e sui nitrati; conseguenze che se ne possono dedurre 
per ispiegare l’azione fertilizzante delle medesime, ecc., ecc. (Bologna, 1874). 


FRANCESCO SELMI 


E LA 


SUA OPERA SCIENTIFICA 


MEMORIA 
DEL SOCIO 


ICILIO GUARESCHI 


Approvata nell'adunanza del 5 Febbraio 1911. 


PARTE SECONDA 


ADE 
Ricerche di chimica biologica. 


Ricerche sul latte. — Coagulazione del sangue. — Potere idrogenante del latte, 
del sangue, del fermento di birra e dell’albumina sullo solfo. — Riduttasi. 
— Azione riduttrice delle muffe dei funghi e di altri organismi inferiori; 
Riduzione dello solfo, dell’arsenico e suoi composti, e dei nitrati. — Ricerca 
biologica dell’arsenico. 


Importanti ricerche del Selmi interessano assai la biologia e la medicina. Fra le 
prime ricordiamo le numerose sue ricerche sul latte, sul potere riduttore delle muffe 
e dei funghi, fra le seconde la scoperta delle ptomaine e le ricerche sulle patoamine 
e l’autointossicazione. 

Egli vedeva ed intravvedeva le correlazioni fra i diversi fenomeni che studiava. 
La sua mente non si fermava mai al solo fatto dell’osservazione o della esperimen- 
tazione materiale, ma cercava di scoprire il nesso fra fenomeni apparentemente 
diversi. 

Geniale veramente è la sua osservazione sul potere riducente delle muffe e di 
altri organismi inferiori. Argomento che si connette colle fermentazioni e colla suc- 
cessiva scoperta delle ptomaine. 

Ricerche sul latte. — Numerose ed importanti sono le ricerche di Selmi sul 
latte. Non si potrà mai trattare con coscienza della composizione e delle proprietà 
del latte senza ricordare il nostro chimico. 

Ricerche sulla coagulazione del latte col presame. — Il Selmi ha dimostrato con 
esperienze esattissime che, contrariamente a quanto ammetteva Liebig, il latte può 
coagulare col presame anche in mezzo alcalino. 

“ Liebig, in base alle ricerche di Scherer e di Rochleder e adottando in gran 
parte il modo di vedere di Haidlen, spiegava la coagulazione del latte col presame 


75 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 199 


ammettendo che la materia azotata, allo stato di metamorfosi, induce il lattosio a 
trasformarsi in acido lattico, e nel tempo stesso questo si combina coll’alcali che 
tiene sciolta la caseina, e questa si coagula. Se ciò fosse vero, non si potrebbe avere 
la coagulazione della caseina mediante il caglio nè nel latte, che dopo la coagulazione 
lascierebbe uno siero alcalino, nè nel latte precipitato dagli acidi acetico e ossalico 
e ridisciolto da un eccesso degli stessi acidi. 

“ Ma Selmi dimostrò che ciò non può essere, e che il latte può coagulare col 
caglio anche in mezzo alcalino e non solamente il siero restava alcalino, ma anche 
la caseina lavata a più riprese, mostrava sempre una reazione alcalina. Se il latte 
è reso molto alcalino, la coagulazione col presame ha luogo dopo un tempo più lungo. 

“ Inoltre il presame fa coagulare la caseina anche in soluzione acida, senza pro- 
duzione di acido lattico e senza fornire dell’acido cloridrico a mezzo dei cloruri che 
contiene. Selmi precipita il latte con gli acidi acetico e ossalico, e fa ridisciogliere 
il precipitato in un eccesso degli stessi acidi. I liquidi ottenuti furono divisi in quattro 
porzioni: nel primo lasciò il latte acido senza aggiungervi nulla, nel secondo vi ag- 
giunse dell’acido lattico, nel terzo dell’acido cloridrico e nel quarto del caglio o pre- 
same. Pose i quattro vasi nelle stesse condizioni di temperatura, ecc.; solamente il 
quarto, dopo poco tempo, diede un coagulo di caseina e uno siero limpido, mentre 
gli altri saggi rimasero inalterati e il latte non coagulò. Il Selmi quindi ne concluse 
che il presame dà luogo alla coagulazione del latte non perchè produca dell’acido 
lattico, ma per la condizione di metamorfosi in cui si trova come fermento e nella 
quale le sue molecole si muovono con vibrazioni tali che la caseina urtata da questo 
movimento si riavvicina e passa dallo stato di gonfiamento a quello di agglomera- 
zione o di coagulo ,. Questo è il sunto del lavoro del Selmi fatto da Em. Kopp 
nella Rev. Scient. et Indust. del Quesneville, 1846, t. X, p. 273. 

Questa memoria di Selmi fu abbreviata da lui stesso e pubblicata nel Journ. de 
Pharm. et de Chim., 1846, t. IX, p. 265-267. 

Egli ha riassunto bene il suo lavoro anche in una nota nel vol. IV, p. 573, del 
Regnault: Corso di chimica, Torino, 1851. 

Malaguti ha voluto nelle sue lezioni di chimica accennare onorevolmente alle 
vecchie ricerche di Selmi, e scrive: 


C'est M. Selmi de Turin qu’ a montré, le premier, que le lait, ayant une réaction alcaline, 
peut se cailler sans étre neutralisé. D’ailleurs, en suivant les indications du chimiste italien, il 
est aisé de se procurer de la présure sans réaction acide (voir le Journal de Pharmacie et de 
Chimie, t. IX, p. 265, année 1846). (F. MaracutI, Lecons éém. de chimie, 2"° édit., 1858-60, II, 
p. 663). 


Le ricerche di Selmi furono confermate dall’Heintz e da altri. E a questo pro- 
posito G. Musso, competentissimo in questioni che riguardano la chimica del latte, 
scriveva nel 1879 (Ricerche di chimica fisiol. e tecnol., eseguite nella R. staz. sperim. 
di caseificio in Lodi. Lodi, 1879, p. 94): 


Le ricerche pubblicate dal professore Francesco Selmi nel 1846 ebbero non solo il pregio 
di demolire la teoria di Liebig che attribuiva la coagulazione della caseina all’acido lattico 
neoformato nel latte a spese della lattina e di far trionfare la tesi che il fermento presamico 


200 ICILIO GUARESCHI 76 


coagula la caseina del latte per effetto di un’azione diretta e specifica sua propria, cioè senza 
intervento di acido veruno; ma quello eziandio, forse maggiore del primo, di attirar l’atten- 
zione dei chimici sopra un punto della chimica delle fermentazioni rimasto fin allora negletto (1). 


Le ricerche sue sul latte furono in seguito esposte in una lunga memoria inse- 
rita nel 1850 negli “ Annali di Majocchi , (I, p. 33 a 48 e II, p. 273 a 290), che 
comprende: 


Parte PRIMA. — I. Esperienze dalle quali apparisce che un latte alcalino può essere 

rappreso dal presame, senza che perda l’alcalinità. 

Il. Esperienze dalle quali apparisce la coagulazione del latte ridisciolto da un acido. 

III. Esperienze dirette a conoscere quale sia lazione del presame sullo zucchero 
di latte 0 lattina, per mezzo della caseina e dell’albumina. 

IV. Esperienze d'onde è manifesta l’azione modificatrice del sal comune sulle so- 
stanze del latte. 

V. Esperienze che provano la coagulabilità del latte, per mezzo del presame, a 
bassa temperatura. 

VI. Esperienze dalle quali risulta come agiscano diversi sali disciolti nel latte 
quando si voglia coagularlo col mezzo del presame. 

VII. Esperienze dirette ad indagare come gli acidi diversi favoriscano la coagu- 


lazione del latte. 
A questo proposito ne trasse la conclusione seguente: 


Dunque fra gli acidi sperimentati è più potente quello che si ingenera naturalmente nel 
latte; gli seguita l’altro che gli assomiglia ‘eziandio per qualità chimiche, cioè l’acetico; e suc- 
cedono ultimi gli acidi minerali forti ed alcuni acidi organici più robusti del lattico e dell’a- 
cetico. Dunque gli acidi sollecitano la coagulazione del latte operata dal presame, non tanto 
in ragione del loro potere accrescente, quanto in conseguenza di un’attitudine speciale che è 


propria della loro natura. 


PartE seconpa. — I. Esperienze dalle quali apparisce che gli acidi da soli sono 
dwersi per la forza di coagulare il latte. 

II. Esperienze che furono instituite affine di conoscere per qual ragione le dif- 

ferenze di forza rappigliatrice diminuissero negli acidi coll’aumentare della maturanza. 


(1) Per dare un'idea come certi autori, pur scrivendo libri interessanti sul latte, si dimostrino 
poco scrupolosi nell’attribuire il merito relativo ai varii scopritori, basterà che io ricordi il recente 
libro: Chemie und Physiologie der Milch, del Dr. W. Grimmer (Berlin, 1910). L’autore cita e ricorda 
i nomi di centinaia di chimici e non chimici, alcuni dei quali non hanno proprio fatto nulla che 
valga la pena di ricordare, mentre tralascia affatto il nome di Selmi. L'Autore ha poi letto tutte le 
memorie citate, almeno le principali? Ne dubito, perchè avrebbe visto che alcuni degli autori citati, 
quali il Musso, 1’ Heintz, il Soxhlet, molto onestamente ricordano le ricerche di Selmi. Possibile 
che l’autore abbia compilato il suo libro senza almeno leggere gli indici dei JaRresberichte f. Chem., 
del “ Journ. de Pharm. et de Chimie ,, ecc., ece., in cui sono pubblicati i lavori di Selmi? 

L’Oppenheimer nella sua estesa opera: Die Fermente und ihre Wirkungen (3* ed., 1910) ricorda 
una sola volta Selmi a proposito del Labferment e dice come egli abbia, contrariamente alla teoria 
di Liebig, dimostrato che il latte nel caglio coagula, anche quando la reazione si mantiene alcalina; 
ma poi soggiunge che la scoperta scientifica dell’azione del presame si debba all’Heintz (© Journ. pr. 
Chem. ,, (2), VI, p. 374), il quale non ha fatto, sotto questo riguardo, che confermare le ricerche 
di Selmi, che del resto egli non ricorda nemmeno. 


1 
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FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 201 


III Esperienze eseguite con alcuni sali alcalini e collo zucchero, che furono me- 
scolati col latte bollente. 

PARTE TERZA. — Esperienze dirette ad investigare se i sali neutri di base alcalina 
fluidifichino la caseina, come il nitro fluidifica la fibrina. 

PARTE QUARTA. — L'Autore ne conclude che la caseina, a somiglianza delle sostanze 
pseudosciolte, si separa dal veicolo senza che il volume complessivo del coagulo e del 
veicolo differiscano dal volume originario del liquido che non fu coagulato, e senza 
che mandi fuori parte del suo calor latente. 

PARTE QUINTA. — Studia l’azione del latte su diverse sostanze, sui vasi, ecc., e 
ne conclude: 

E adunque evidente che la materia di parecchi vasi metallici ed il solfo dei vasi di solfo 
sono corrosi e disciolti dal latte che vi sia tenuto dentro a maturare ed a coagularsi sponta- 
neamente se la sostanza metallica e la solfurea si uniscono e disciolgono coi principii compo- 
nenti del latte, di cui od affrettano o ritardano la coagulazione a seconda della natura dei 
composti ingenerati e dei mutamenti che apportano nella caseina. 


In altra parte di un lavoro più esteso e non pubblicato, discorre a lungo della 
caseina. Col titolo: La caseina è un acido? e: La caseina forma mei corpi diversi 
vere chimiche combinazioni? pubblicò delle osservazioni interessanti nelle Annotazioni 
al Regnault, vol. IV, p. 670-671. 

Sullo stato della caseina nel latte. — Il Selmi si occupò sino dal 1850 della natura 
della caseina, delle sue proprietà e dello stato in cui trovasi nel latte, in una memoria 
che fu riassunta brevemente negli “ Annali del Majocchi ,, 1850 e dal Selmi stesso 
nelle sue Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 669. 

Egli trattò di questo argomento e specialmente discusse la questione se la caseina 
trovasi sciolta od espansa nel latte o vi esista nei due stati, in una interessante 
memoria premiata nel 1857 dal È. Istituto Lombardo. 

“ Egli nota, scrive il Musso (loc. cit., p. 25) riassumendo questa memoria, che di 
tre porzioni dello stesso latte, poste a filtrare, di cui una sia in istato naturale e le altre 
due inacidite, in grado diverso, coll’acido acetico, la prima dà un siero più limpido, 
che contiene minor copia di caseina e che coagula a temperatura più elevata dei 
saggi 2 e 3; e che la caseina passata al filtro è più cospicua nel 3° saggio che non 
nel secondo, il quale intorbidasi eziandio a temperatura (23°) più elevata del 3° (20°); 
la filtrazione è più rapida nel latte inacidito che nel naturale. In campioni di latte 
trattati con 1-3 goccie di presame, riconobbe tre punti di diversità dal latte natu- 
rale: 1° una maggiore limpidità del liquido, che filtrò dal latte con presame; 2° una 
facilità minore a passare attraverso il filtro; 3° un minor contenuto di caseina. Dal 
siero di latte coagulato a freddo dal presame, Selmi ottenne intorbidamento a 30° 
e precipitazione di fiocchi caseosi coll’acido acetico. Filtrando del latte fresco attra- 
verso più doppi di carta, e rigettando sul filtro le prime porzioni più o meno torbide 
e poi inalbate, si ottiene, da ultimo, un siero, che più non coagula, secondo Selmi, 
col presame, sebbene contenga caseina, rivelabile dall’acido acetico (Musso, loc. 
CILMp=625) fa, 

Selmi, interpretando i risultati delle proprie esperienze, conclude (cap. II, p. 85): 

Nel latte la caseina si contiene manifestamente sotto due forme diverse: in quella di solu- 
zione e nell’altra di sostanza espansa o gonfiata; nella prima passa col siero per la carta e per 

Serie II, Tox. LXII. ai 


202 ICILIO GUARESCHI 78 


l’albume d'uovo cotto; nella seconda rimane sul filtro, parte fluidificata nel liquido e parte 
deposta sulla carta coll’aspetto di gelatina. Quando il latte filtra per carta, il grado più o meno 
notevole di inalbamento con cui si mostra il filtrato corrisponde ad una proporzione più o 


meno grande di caseina gelatinosa in soluzione. 


Ed infine dice: 


Il presame esercita l’azione sua sulla caseina gelatinosa od espansa, e la coagulazione della 
disciolta devesi attribuire unicamente agli acidi a temperatura conveniente. 


L'esistenza della caseina in due stati fu negata da alcuni autori, dal Musso 
stesso prima, da Hammarsten e da altri, ma che vi esista in istato di espansione o di 
sospensione è ammesso oggi da Musso e da altri chimici e specialmente dal Duclaux, 
che anch'egli come il Selmi ammette la caseina nel latte in più stati. 

È merito dunque indiscutibile del Selmi l’aver trovato questi due stati diversi 
della caseina nel latte. 

La caseina insolubile, designata da Selmi col nome di galattina, si distingue da 
quella ottenuta per coagulazione spontanea (Gorup-Brsanez, Traîté de chim. physiol., I, 
p. 589). 

Nella memoria: Del latte, del presame e della coagulazione che il presame opera 
nel latte, premiata dall'Istituto Lombardo nel 1857 e pubblicata nel 1860, il Selmi 
raccolse le sue principali ricerche sul latte fatte prima del 1860. Presidente della 
commissione giudicatrice era L. Chiozza. 

Il Gautier nelle sue Lecons de chimie biologique, 2* ediz., 1897, p. 696, ricorda 
le esperienze di F. W. Zahn, di Duclaux e le sue proprie, le quali dimostrerebbero 
nel latte l’esistenza della caseina in istato di rigonfiamento e come di espansione. 

Ma si noterà che le ricerche di Zahn sono del 1869 (Mit. è. d. Eiweiss. Kbrper 
d. Milchin “ Pflùger's Arch. ,, 1869, II, 598); quelle del Duclaux (1887) e del Gautier 
ancor più. recenti, mentre quelle del Selmi risalgono al 1846 e 1857! 

Il Duclaux poi (Le Laît. Etudes chimiques et microbiologiques, Paris, 1887) discorre 
a lungo sullo stato della caseina nel latte, ma mai ricorda il nome di Selmi, eppure 
fa delle esperienze che sono proprio identiche a quelle del nostro chimico. 

Il sig. Lindet (1) nel suo libro sul latte discorre a lungo della coagulazione, dei 
dei lavori più o meno importanti di Duclaux; ma tace affatto il nome di Selmi. 

Altre ricerche del Selmi sul latte riguardano il modo di comportarsi del siero 
latteo per l’azione degli acidi e a diverse temperature. 

Sullo stato della caseina nel latte e sulle sostanze proteiche del latte, il Selmi 
tornò ad occuparsi nel 1874, e pubblicò una breve nota nella “ Gazz. chim. ,, 1874, 
p. 482. Dopo alcuni anni continuò i suoi studi sul latte (1876), ed arricchì questo 
argomento di nuove ed interessanti osservazioni, specialmente sulla reazione aufotera 
o bicromatica. 

Alcune ricerche inedite sul latte si trovano nel Suppl. e Compl. all’Enciclopedia 
di Chimica, vol. III, p. 10-18. 


(1) Le lait, pagg. 250-256. 


| 
Jo) 


(0) 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 20 


Sul latte di cagna. — Ecco come riassume egli stesso le sue ricerche sul atte 
di cagna (Trad. del Regnault, Trattato di chimica, 1852, t. IV, p. 669): 


Dumas suppose che il latte non contenesse più lattina o zucchero di latte qualora gli 
animali fossero alimentati con sola carne, perchè attribuiva al solo amido del nutrimento vegetale, 
la facoltà di produrre detta lattina per metamorfosi. Beusch dimostrò, che una cagna nutrita 
di carne magra, fornisce costantemente latte con zucchero, ed osservò eziandio che talvolta si trova 
glucosa in cambio di lattina, perchè i fosfati alcalini per azione lenta trasformano la seconda 
nella prima. 

‘To instituii, contemporaneamente a Beusch, varie indagini sul latte di cagna, ed osservai, 
che cresce in esso la proporzione dello zucchero e la sua facilità ad inacidire e coagularsi spon- 
taneamente più presto, quanto più si toglie dal vitto puramente di carne e si passa a quello 
di pane; che il latte di cagna nutrita di carne, diventa uguale a quello di cagna che si ciba 
di pane, se gli si aggiunge una tenue cosa di lattina; che finalmente nella fermentazione del 
latte di cagna si ha un coagulo duro, copioso, pieno di vacui interni, per gas che si sviluppa, 
il quale, raccolto che fu, mostrò di essere gas acido carbonico. 


Coagulazione del sangue. — Il Selmi, fino dal 1846, tentò di spiegare come 
avvenga la coagulazione del sangue, e diede una interpretazione analoga a quella am- 
messa poi dal Denis, dallo Schmidt e da altri. Egli ammise che la coagulazione del 
sangue avvenisse per l’azione di un fermento, cioè di una sostanza vibrante che co- 
munica il proprio movimento alla fibrina disciolta. Egli raffrontò la coagulazione del 
sangue alla coagulazione del latte per effetto del caglio o presame (Alcune cose di 
chimica fisiologica, “ Ann. Se. Nat. ,, Bologna, febbr. 1846). 

L’agglutinazione e la coagulazione del sangue sono oggi considerate come feno- 
meni fisico-chimici (Arrhenius). 

Potere idrogenante del latte, del sangue, del lievito di birra e dell’ albu- 
mina sullo solfo — Riduttasi. — Il Selmi da lungo tempo ha fatto una lunga e 
variata serie di osservazioni e di esperimenti sul potere riduttore di varie materie 
organiche e di molti organismi inferiori. È questo un argomento del più alto inte- 
resse scientifico, che è in relazione con numerosi fenomeni naturali. Queste ricerche 
hanno avuto in questi ultimi anni una grande estensione. 

Selmi già nel 1850 e prima (“ Ann. di Majocchi ,, 1850, II) fece delle esperienze 
sulla coagulazione del latte tenuto entro vasi di diversa natura: di rame, di ferro, 
di legno, di vetro ed anche di solfo. Ripetendo le prove egli si accorse che il solfo 
costantemente affrettava la coagulazione, mentre l’antimonio la ritardava in modo 
notevole. Alla fine di questa memoria il Selmi accenna ad alcune esperienze fatte 
collo solfo e varie sostanze animali, e a pag. 289 scrive: 


Azione del solfo colle sostanze azotate. 


Gli effetti di inacidimento prodotti dal solfo nel latte e l’odore epatico che questo liquido 
ne assunse, mi condussero ad investigare se mai si ingenerasse l’acido solfidrico tra i principii 
di esso ed il solfo, o se il fenomeno fosse ristretto al latte ovvero appartenesse ad altre sostanze 
di origine animale. Trovai che mescolando latte con fiori di solfo, ovvero serbando il latte entro 
vasi di solfo, ovvero immergendo bastoni di solfo nel latte, a capo di alcune ore comincia a 
svilupparsi l'acido solfidrico, il quale cresce in tal copia, da annerire in breve la carta coll’a- 
cetato di piombo, che si tenga sospesa a poca distanza dalla superficie del liquido. 


204 ICILIO GUARESCHI 80 


Le sostanze proteiche, il muco ed in generale le materie azotate d’indole fermentativa pro- 
ducono col solfo il medesimo effetto: le sostanze gommose, zuccherine, amidacee non reagiscono 


col solfo. 


Egli afferma che sino dal 1846 trovò e pubblicò che il latte, il sangue, le ma- 
‘ terie putrescibili in genere, digerite a temperatura ordinaria col solfo, sprigionano 
in breve un grande afflusso di acido solfidrico, mentre da sole poste in confronto non 
lo fanno. 

Nel tempo stesso osservò che le muffe in genere operano in modo uguale, talune 
rimanendone uccise, e tal’altre crescendo anzi più rigogliose, in ispecie una muffa 
bianchissima a ciuffi di lunghi steli; ma tali osservazioni non furono mai pubblicate 
pel sopravvenire degli avvenimenti del 1859. 

Il Selmi nel 1857 tornò sulla questione dello sviluppo di acido solfidrico dalle 
sostanze proteiniche collo solfo. In una memoria: Delle ragioni per le quali il solfo 
distrugge l’oidio, e talvolta commina l'odore d’acido solfidrico al vino delle uve quarite 
colla solforazione (“ Il Tecnico ,, 1857, vol. I, p. 209-214 e 249-258) si era posto il 
problema: E perchè mai il solfo distrugge l’oidio e può anche non distruggerlo? 

A pag. 213 ricorda le sue vecchie esperienze del 1850, e a pag. 213 scrive: 


L'osservazione alla quale alludo fu la seguente: se tuffansi pezzi di solfo in liquido fer- 
mentabile, o vi si stempera polvere del corpo medesimo, la fermentazione succede, e per quanto 
pare, più allegra del consueto, il liquido diventa acido oltre l’ordinario se volga a reazione 
acida, e sprigiona in questo mentre un effluvio copiosissimo d’acido solfidrico. Io mi sono 
chiesto: accadrebbe per avventura che il solfo sparso sulle mucedinee rimanesse corroso e tras- 
formato in acido solfidrico, come negli esempi diversi notati da me in quelle mie espe- 


rienze ?, ecc. ecc. 


E a pag. 253: 


La formazione del mercaptano (durante la vinificazione) o di altro composto analogo, non 
è tuttavolta in proporzione collo sviluppo strabocchevole di acido solfidrico. 


Hcco a questo proposito quanto scriveva il Selmi nel 1867, nel vol. I, art. Acque 
stagnanti, pag. 391, della Enciclopedia di chimica: 


L’alcalescenza, da quanto si sa, favoreggia la putrefazione delle materie organiche, in ispecie 
quelle di natura animale, cooperando a che se ne sviluppi ammoniaca e probabilmente ammine 
volatili, le quali possono diffondersi nell’aria ambiente col gas acido solfidrico... 

Ma oltre l’alcalescenza, ad agevolare la putrefazione deve senza fallo concorrere il solfo 
che, come dicemmo, si va deponendo dallo stesso gas acido solfidrico per l’azione dell’ossigeno: 
quel solfo non è un corpo inerte, come forse si crede, allorchè si trova in contatto di materie 
organiche azotate, e particolarmente se facili a scomporsi. 

Francesco Selmi ebbe a riconoscere che il solfo polveroso, e puranco in pezzi, immerso in 
un liquido animale, come sarebbe latte, sangue, albume, bile, reagisce in maniera da affrettarne 
le alterazioni: per esempio, accelera la coagulazione del latte; contribuisce alla putrefazione delle 
altre materie nominate, mentre ad un tempo sprigiona gas acido solfidrico in maniera manife- 
stissima. Così trovò che il solfo sparso sulle crittogame, quali le muffe che nascono sulla colla 
di farina, o le fa cessare dalla vegetazione, od in certi casi le rende più rigogliose, ma con 
sviluppo costante di gas acido solfidrico; come pure ebbe a riconoscere che il medesimo, nel 


(0.0) 
pezi 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 205 


mosto di uva che fermenta, vi reagisce con formazione del detto gas e di prodotti solfoaleoolici, 
aventi odore agliaceo. 

Vide ancora che coll’albume e la carne muscolare dà immediatamente la reazione dell’acido 
solfidrico (1). 


Dumas nel 1874 confermò il fatto già annunziato molti anni prima dal Selmi, 
che cioè lo solfo in contatto del fermento di birra si trasforma in acido solfidrico. 
E a questo proposito, molti anni dopo Dumas, anche Sostegni e Sannino (1890) stu- 
diarono questa reazione del fermento collo solfo (2). 

Queste osservazioni lo condussero anche a studiare la riduzione dello solfo ad 
acido solfidrico in molte altre condizioni analoghe. E nello stesso art. acque stagnanti, 
a pag. 391 prosegue: 


Selmi vide che il solfo sparso sull’oidio, tanto allorchè investe l’uva, quanto se diffuso 
sopra altre piante, come le foglie della zucca, agisce con rapidità sì mirabile, da mostrarsi lo 
sviluppo dell’idrogeno solforato a capo di dieci minuti, quantunque non operasse che con un 
solo grappolo della prima e cinque o sei foglie dell’altra, introdotti in recipienti adatti, dacchè 
erano stati aspersi del solfo. 

Fece pure alcune esperienze comparative sopra un equiseto crescente nei piccoli stagni che 
si formano nel letto del Po, verso le sponde, nei tempi estivi. E poichè non deve parere inutile 
che qui si notino ad utile dell’argomento, le riferiremo in compendio. 

Presa pianta fresca, ne mise porzioni presso che uguali in boccie di vetro, e poscia versò 
acqua in una, e nelle altre, separatamente, soluzioni di solfato di magnesia, di solfato di soda, 
di cloruro di sodio e di carbonato di soda, contenenti 1 per 100 del sale; replicando l’ugual 
cosa, in altrettante boccie, con pianta, acqua e le dette soluzioni, in modo da avere l’esperienza 
in doppio. La pianta entro ciascuna boccia non occupava che i due terzi dell’altezza: il liquido 
era versato in modo che salisse fino a inzuppare tutta la pianta, ma non a coprirla affatto. 
Avute così due serie di boccie, preparate ugualmente, lasciò la prima serie senz'altro; e nella 
seconda introdusse solfo in polvere, agitando in maniera che si distribuisse per la massa con 
sufficiente uniformità. Ed ecco quello che osservò, in *modo principale. Fu introdotta una car- 
tolina intrisa con acetato di piombo in ogni boccia di ciascuna serie. Nelle boccie col solfo, 
dopo dieci ore di digestione a temperatura ordinaria, comparvero segni d’imbrunimento sulla 
carta piombifera; dopo venti ore l’imbrunimento era progredito in modo da essere quasi nero. 
Di giorno in giorno lo sviluppo dell'idrogeno solforato andò crescendo, sicchè agitando la bot- 
tiglia e smuovendo la pianta n’usciva un puzzo ben forte. Ma non era solo idrogeno solforato 
che sì sentisse; unitamente vi era un altro odore sì nauseabondo da non potersi tollerare a 
lungo senza che non si provasse imbalordimento al capo. L'esperienza fu ripetuta tre volte, e 
sempre con risultati conformi; tranne che non si ebbero effetti costanti, per la copia dello 
sviluppo di acido solfidrico, comparativamente da un sale all’altro: in un caso il solfato di 
magnesia sembrò attivare la reazione tra la pianta e il solfo, e in altro rallentarla, senza tuttavia 
che l’impedisse. Ma nelle tre esperienze si vide sempre costante l’attività della pianta sola a 


(1) Ho ripetuto anche in questi giorni le antiche esperienze del Selmi fatte sino dal 1846: 
mescolai dei fiori di solfo, lavati, con lievito di birra, con bianco d’uovo, con sangue, freschissimi 
ed ho osservato che dopo pochissimi minuti si sviluppava dell’acido solfidrico. Col sangue la rea- 
zione è quasi istantanea. Col latte più lenta. Specialmente col sangue e col lievito di birra sì pos- 
sono fare delle eleganti e rapide esperienze di lezione. 

(2) Erroneamente Sostegni e Sannino attribuiscono la scoperta della reazione al Dumas; non 
conoscevano tutti i primi lavori di Selmi. 


206 ICILIO GUARESCHI 82 
reagire col solfo, tanto da doverne dedurre che i sali, se non la ritardano nella reazione, certo 
non la fanno sollecitare. 

Un’altra osservazione è degna di essere notata, che in ciascuna boccia dove era il solfo e 
dove per conseguenza si sviluppò l’idrogeno solforato apparvero crittogame alla superficie, e in 
quella con pianta, acqua e solfo si formò una muffa bianca speciale (notata dal Selmi nelle 
esperienze fra il solfo e le muffe della colla d’amido), per essere vigoreggiante sotto l’azione 
del solfo; e che dopo apparsa la crittogama l’odore nauseoso sì rese peggiore, e assai più 
intenso che nelle boccie senza solfo. 

La serie delle boccie senza solfo dopo uno spazio di tempo, che fu dai cinque ai sette 
giorni, diede segni d’imbrunimento sulla carta con piombo. La boccia col solfato di soda fu la 
prima, e la carta ne venne pienamente imbrunita; quella col solfato di magnesia imbrunì anche 
la carta, ma un po’ più tardi e un po’ meno della precedente; le due col carbonato di soda e 
coll’acqua semplice diedero imbrunimento meno intenso che le due coi solfati; l’ultima col 
cloruro di sodio fu pure l’ultima a dar segni d’idrogeno solforato, e piuttosto leggermente. In 
tutte apparvero crittogame, ma assai più tardi che nelle boccie col solfo, e si sviluppò un odore 
sgradevole, che dopo quindici dì parve quasi di sterco; la boccia col solfato di soda aveva una 
pellicola gialla, che era di solfo ridotto. 

Partendo da questi fatti, si può congetturare con qualche fondamento che il solfo il quale 
si fa libero nelle acque stagnanti, quando vi avviene riduzione di solfati in solfuri e sviluppo 
di gas acido solfidrico, non debba rimarere inerte quando si mescola colle materie vegetali ed 
animali che si decompongono nel fondo dei paduli, e che ivi in parte torni a trasformarsi in 
acido solfidrico, in parte concorra a modificare il modo di scomporsi di dette materie, inne- 
standosi in taluno dei prodotti che vi si vanno ingenerando, contribuendo a renderli di tale 
costituzione, che, assorbiti dal corpo umano, v’'inducano effetti più o meno perniciosi. E che 
una tenue quantità di un principio organico od inorganico volatile possa tornare nocivo in 
qualche modo all’uomo, sebbene respirato in proporzioni tenuissime, si può argomentare da 
quanto si conosce della mortale efficacia di certi gas, come il gas idrogeno arsenicato e il gas 
acido cianidrico, e ben anche dalla potente impressione con che agiscono sui nervi certi odori, 
come quello di muschio, di giglio, di gelsomino e di altri fiori, i quali, se respirati un po’ a 
lungo, sebbene in dosi infinitesime e senza dubbio imponderabili, nondimeno inducono fiere 
emieranie, vertigini e perfino un assopimento letale, che senza i soccorsi dell’arte potrebbe 
finire troppo funestamente. Nessuna meraviglia adunque se alcuni principii gasosi o volatili 
sorgenti dai corpi organizzati in putrefazione, e particolarmente in date condizioni, possano 
agire con tale forza, da indurre nei viventi malattie gravi ed eziandio mortali. 

Sarebbe perciò di somma importanza che si facesse uno studio in grande e compiuto dei 
prodotti volatili, che si formano tra il solfo e le materie organiche, animali e vegetali in istato 
di scomposizione, poichè si potrebbero forse trovarne di tali, dalla cui composizione o natura 
sì avesse a trovare argomento per dedurne quali probabilmente siano la natura o la compo- 
sizione dei principii miasmatici esalati dai paduli e dai siti maremmani. 


Sulla riduzione dello solfo il Selmi scriveva ancora nel 1876 (Enciclop. chim., X, 
pag. 182): 
Lo solfo mescolato colle sostanze animali dopo qualche ora reagisce svolgendo acido sol- 


fidrico. Stemperato con liquidi in fermentazione, fa lo stesso; sparso sull’oidio, sui microfiti e 
sui funghi in genere, sulle parti verdi delle piante, svolge pure gas solfidrico (Selmi, Pollacci, 


Ercolani). 


Insiste poi ancora nel 1878 su questi curiosi fenomeni, nel suo pregevole libro: 
Del vino, conservazione, ecc., Torino, 1878, a pag. 300-301, e ne discorre a lungo. 


(0.0) 
(1) 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA i 207 


A pag. 301 ricorda come il professore Sestini nel 1861 facesse pure delle espe- 
rienze consimili, le quali vennero in conferma delle sue precedenti. 

E discorre ancora a lungo della così detta fermentazione solfidrica nell'articolo 
Fermenti e Fermentazione nel Complem. e Suppl. all’Enciclop. chim., 1880, vol. II, p. 752, 
ricordando le sue vecchie ricerche. 

Ho creduto mio dovere riprodurre questi numerosi brani per far vedere come 
il Selmi sia tornato più volte su questi fenomeni curiosi di riduzione; i quali furono 
poi studiati da diversi cultori della scienza, ma nessuno ha ricordato le anteriori 
ricerche del nostro chimico. Dopo Selmi, credo che il primo ad attirare l’attenzione su 
questi fenomeni sia stato il Rey-Pailhade (“ C. R. ,, 1888, t. 106, p. 1683 e t. 107, 
p. 43 e Recherches expérimentales sur le philothion, ece., Paris, Masson, 1891), il quale 
osservò che nei tessuti animali vi è una sostanza che ha potere idrogenante e la 
denominò philothion. A questa sostanza, molto imperfettamente conosciuta ancora, si 
diede anche il nome di idrogenasi o di riduttasi. 

Rey-Pailhade chiama questo idrogeno riduttore idrogeno filotionico. Egli poi di- 
stinse un’ albumina con idrogeno filotionico e una senza idrogeno filotionico (Bwll., 
1906, XXXV, p. 1030) (1). 

Hefter (“ Beitrige z. Chem. Physiol. u. Path. ,, 1904, V, p. 213, e “ Bull. Soc. 
Chim. ,, 1904, t. 32, p. 137) ha trattato pure la questione della produzione di H?S 
per l’azione dello solfo sulle materie albuminoidi; dà anche una estesa bibliografia, 
ma nulla dice di Selmi; dà anch'egli il merito della prima osservazione a Rey 
Pailhade, il che non è giusto. 

È dunque da me posto fuori di ogni dubbio che le prime osservazioni relative 
al potere riduttore delle sostanze proteiniche, del latte, del sangue, ecc., sullo solfo 
a temperatura ordinaria, si debbono a Fr. Selmi. Il Selmi allora non poteva dire che 
ciò fosse dovuto ad un fermento speciale, ma dimostrò però che la riduzione aveva 
luogo anche in presenza delle cellule del lievito di birra e di altri molti micro-orga- 
nismi (2). 

Che poi il potere riduttore nei casi precedentemente citati sia dovuto ad un 
fermento piuttostochè alla sola materia albuminosa, non è forse ancora ben dimo- 
strato; perchè, secondo l’Heffter (loc. cit.), l’albumina precipitata dal fenolo non ha 
perduto il potere di sviluppare dell’acido solfidrico in presenza dello solfo. 

Secondo Hildebrandt (25%2., 1908, IV, p. 1589), anche l’albumina precipitata col 
tannino o coagulata col colore, conserva il potere riduttore; invece una traccia di 
un ossidante quale il permanganato glielo fa perdere (3). 


(1) Lo solfo, nel caso della reazione dell’albumina e altre sostanze di origine animale, osservata 
da Selmi, potrebbe agire come catalizzatore. Ora si sa ad esempio che la decomposizione dell’idro- 
solfito di sodio per la presenza degli acidi diluiti è favorita, è accresciuta dalla presenza di un 
liquido che tiene in sospensione dello solfo finamente diviso (FoussereAU, “ A. Ch. , (6), t. XV, pag. 533). 

(2) Ora l'agente riduttore del latte si chiama /atteriduttasi; il filotion fu trovato nelle cellule 
del fermento di birra e in quasi tutte le cellule animali, diffusissima è la niîtrasi o agente riduttore 
del nitro, ecc.; ma nessuno di tutti coloro che hanno fatto queste mumerose ricerche (Vedi in 
Asperzarpen, Biochem. Handlexikon, V Bd., p. 650) ha ricordato il nome di Selmi. Ma questi ed 
altri autori banno l’attenuante che queste ricerche del Selmi furono pubblicate in giornali ed in 
opere poco conosciute all’estero. 

(3) In una questione come questa, che può avere ed ha grande importanza, spiace vedere come 


208 ICILIO GUARESCHI s4 


Queste vecchie ricerche fatte dal Selmi negli anni 1846, 1850 e poi nel 1857, 
lo condussero nel 1874 alla scoperta di un fenomeno più importante e più generale: 
il potere riduttore delle muffe. 

Azione riduttrice delle muffe, dei funghi e di altri organismi inferiori. — 
Itiduzione dello solfo, dell’arsenico e dei nitrati. — Ricerca biologica dell’ arsenico. — 
Selmi nel 1867, volendo di nuovo studiare l’azione del solfo sull’oidio, nè po- 
tendo farlo per la stagione troppo precoce, pensò di esaminare quale fosse detta 
azione sulle muffe comuni. Preparò una colla di farina e quando comparve la muffa 
la spolverizzò di solfo. In breve tempo riconobbe che si formava dell’acido solfidrico. 
Egli accennò a queste esperienze nel vol. I (1867) dell’Enciclop. Chim., nell’art. Acque 
stagnanti, pag. 391. 

Nella state successiva poi fece esperienze dirette sull’oidio, e anche qui osservò 
la formazione di acido solfidrico. Nuove ricerche replicò nel 1871 e nel 1874, £ dalle 
quali tutte, scrive egli, mi venne conferma che le muffe, comunque l’origine ed il 
terreno su cui vegetano, posseggono il potere di sviluppare idrogeno solforato quando 
vengono in contatto col solfo ,. 

Selmi nel 1874 pubblicò una breve ma importantissima nota: Osservazioni sullo 
sviluppo d’idrogeno nascente dalle muffe, loro azione sul solfo, sui solfuri, sull’arsenico 
e sui nitrati; conseguenze che se ne possono dedurre per ispiegare l’azione fertilizzante 
delle medesime e lo sviluppo di un composto arsenicale volatile dalle carte colorate con 
verdi arsenicali; Bologna, Tip. Gamberini e Parmeggiani, 1874, di pp. 22. Questa im- 
portantissima nota fu da lui ristampata nel 1875 e trovasi anche nell’opuscolo che 
ha per titolo: Nuovo processo generale per la ricerca delle sostanze venefiche con ap- 
pendici di argomenti tossicologici od affini. Bologna, Zanichelli, 1875. 

Egli iniziò queste ricerche per veder se Ze muffe possono fissare direttamente l'azoto 
atmosferico. Innanzi tutto egli notò che veramente le muffe possono trasformare 
l'azoto atmosferico in ammoniaca, come era stato osservato da Iodine e da Lekmann 
e contraddetto dal Boussingault, poi esperimentò sullo solfo e vide che le muffe svi- 
luppatesi in svariate condizioni possono trasformare lo solfo in acido solfidrico, con- 
fermando così le sue vecchie ricerche. Ma egli andò molto più in là e volle vedere 
se il potere riduttore si estendeva anche ad altri elementi quali l’ arsenico, per 
poter spiegare come avvenga l’avvelenamento arsenicale per tappezzerie colorate in 
verde con colori arsenicali. A_pag. 13 della nota sovraricordata scrive: i 


Se dal solfo e dai solfuri ottenni la formazione dell’acido solfidrico, dall’arsenico metallico 
ed anche dall’acido arsenioso non avrei dovuto conseguire anche quella dell’idrogeno arsenicato? 
Natomi il sospetto in animo, mi risolsi di chiarirlo col mezzo dell’esperienza. 

Presi arsenico metallico ridotto in polvere finissima o piuttosto quella parte slucida e 
nericcia che si forma col tempo sul metalloide, e la sparsi sopra una muffa vigorosa, crescente 
su terriccio, già smollito da tempo, e composto di fiamma di cavallo e di un poco di farina, 
datami dal Prof. Ercolani. Collocai il vaso in cui era contenuta sotto campana, dalla cupola 


anche in Italia chi scrive a lungo su questo argomento, dimentichi affatto il nome del Selmi, 
mentre poi espone i minimi particolari delle ricerche posteriori di altri. I giovani debbono abi- 
tuarsi ad essere coscienziosi e attribuire il merito a chi veramente spetta, e non dimenticare il 
motto antico: unicuique suum. 


O 


sò FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 209 


DI 


della quale pendevano striscie di carta bibula purificata, imbevuta di nitrato d’argento; la cam- 
pana era tubulata, e portava nella gola un turacciolo con due cannelli, uno per l’ingresso 
dell’aria e l’altro per l’ uscita; questo stava connesso con un aspiratore, onde l’aria veniva 
introdotta con lento afflusso. La camera fu mantenuta oscura e l’operazione durò per 5 giorni. 
La carta non si era annerita, ma fattasi unicamente un poco rossigna. Staccatala dalla campana, 
l’aggomitolai, l’introdussi in campanella e vi sopravversai potassa caustica. Si svolse ammoniaca 
e con essa un odore speciale che non potei sopportare a lungo. Estrassi la materia dalla cam- 
panella, la neutralizzai con acido nitrico, la posi in cassula a seccare, dopo avervi aggiunto 
acido solforico, distrussi la materia organica e versai il liquido solforico rimastomi nell’appa- 
reechio di Marsh, già incamminato ed in prova da un'ora. Ottenni un anellino metallico ben 
distinto, di facile trasporto più innanzi, seguitando la corrente di idrogeno, quando fu toccato 
colla fiamma di una lampada ad alcole. Trattato all’acido nitrico, vi si sciolse; il liquido eva- 
porato ed esplorato col nitrato d’argento diede un lieve precipitato di colore rosso mattone, 
come l’arseniato d’argento. 

Replicata la prova una seconda volta, con muffa somigliante ebbi risultati uguali ai 
descritti. 

Su cinque limoni, tutti ammuffiti, sparsi l’arsenico, e per mantenere l’ambiente umido vi 
collocai in mezzo un piccolo bicchiere a piede, con acqua. Li copersi con grande imbuto, 
masticato nel piatto, e che nel collo portava sospesa una carta imbevuta di nitrato d’argento. 
Due giorni dopo tolsi la carta dall’imbuto (erano trascorse 38 ore dal principio dell’esperienza), 
la trattai con acido solforico e nitrico per distruggere la materia organica, ed esplorai il liquido 
risultante nell’apparecchio di Marsh; n’ebbi un bell’anellino arsenicale, più cospicuo che nel- 
l’esperienze precedenti. In una quarta mi valsi della scorza di limoni ammuffiti, staccata con 
coltello dai frutti, stesa su piatto e sparsa di arsenico polveroso; si produssero gli effetti già 
descritti. 3 

Da altre cinque esperienze, ripetute con qualche variazione, ottenni l’anello arsenicale 
costantemente, e più o meno grossetto, ma sempre sufficiente, perchè possedesse lo splendore 
metallico. In una di tali volte, sciolsi l’anello nell’acido nitrico, che evaporai blandamente, ridi- 
sciogliendo il tenuissimo residuo in acido cloridrico diluito e poi sopravversandovi soluzione 
d’idrogeno solforato; apparve immediatamente il color giallo cedrino proprio del solfuro 
d’arsenico. 

In una decima esperienza spolverai di anidride arseniosa la muffa nascente sulla colla 
d’amido, in tre piatti, che copersi con campane, communicanti con un aspiratore, con cui regolai 
l’affluire dell’aria. La muffa vegetò rigogliosa nei tre piatti; le cartoline, imbevute di nitrato 
d’argento, che vi stavano sospese al disopra, pigliarono una lieve tinta rossiccia. Scorsi otto 
giorni, smontai l’apparecchio, staccai le cartoline dalle campane, le trattai come fu descritto di 
sopra, e ne ottenni un piccolo anellino arsenicale. 

Sembrami dall’esposto che non possa rimanere dubbio di sorta circa la proprietà posseduta 
dalle muffe d’idrogenare anche l’arsenico, convertendolo in prodotto volatile; se non che parmi (1) 
ancora non doversi reputare tale prodotto di natura identica coll’idrogeno arsenicato, non 
avendo esso annerita la carta col nitrato d’argento, tanto che senza l’indizio di quell’odore 
speciale svolto dalla carta quando la trattai con potassa, non avrei creduto allo sviluppo di 
un composto arsenicale gazoso. Probabilmente sarà un’arsina; fatto sta che non precipita 
argento ridotto od arseniuro d’argento, e quindi non manifesta potere riduttivo. Ciò rimane 
confermato eziandio dall’esperienza che feci di condurre l’aria, che passava entro la campana, 


(1) Si noti bene questo periodo, in cui già prevede che deve essere in arsina. 
Serie II. Tox. LXII. pi 


210 ICILIO GUARESCHI 86 


a gorgogliare in soluzione di nitrato d’argento, senza che vi scorgessi il più che menomo 
imbrunimento. 

La genesi di un prodotto arsenicale volatile dalle muffe in vegetazione fa ragionevolmente 
supporre, che succeda l’ugual cosa col mezzo delle materie vegetali in atto di decomposizione 
o di fermentazione, e d’onde sì sprigioni idrogeno nascente, o qualche idrocarburo. Con questo 
diventa dubbiosa l’asseveranza di alcuni tossicologi, i quali affermarono in modo assoluto che 
dai cadaveri in putrefazione non avvenga dispersione di sostanza arsenicale; come pure si spiega 
l'osservazione di Kirchgissner, il quale asseverò avere trovato un composto arsenicale volatile 
nelle stanze coperte da carta colorata col verde di Scheele o con quello di Schweinfurt. Altri 
già prima di Kirchgiissner avevano creduto di sentire un odore arsenicale esalante dalle tap- 
pezzerie coi detti colori; ma altri pure non avevano prestato fede a questa notizia, contrappo- 
nendo il fatto, che avendo tenuti animali (conigli) in camerette coperte di una tal carta, non 


avevano visto mai che ne soffrissero. 


E poi continua discutendo questa questione. 
Egli s'accorse della grande importanza di questi fatti, e a pag. 17 scrive: 


Si noti pure che le muffe, mentre producono l’idrogeno, devono produrre effetti di ridu- 
zione sui componenti del terreno coi quali si trovano in contatto diretto. Vedemmo quello che 
fanno sull’inchiostro. Per conseguenza convertiranno lentamente ma pure sensibilmente i solfati 
in solfuri, da cui la formazione di carbonati alcalini o alcalino-terrosi; i nitrati in ammoniaca; 
l’idrato ferrico in idrocarbonato ferroso; i composti unici in prodotti di disossidazione, i quali 
nel riossidarsi più agevolmente opereranno a convertirsi in composti azulmici, concorrendovi 
anche l’ammoniaca che si forma dalle stesse muffe. Per corroborare tali supposizioni in ispecie 
sui nitrati, eseguii aleune indagini che ora riferirò. 


Egli qui descrive le esperienze che ha fatto per dimostrare che le muffe che si 
sviluppano sui limoni hanno forte potere riduttore e trasformano i nitrati in nitriti 
ed in ammoniaca. Ed a pag. 20 conclude: 


Adunque il nitro in contatto delle muffe soffre una prima riduzione, in quanto che si 
converte in nitrito, e questo poi successivamente in ammoniaca. 


Poi discute la questione dell’assorbimento dei nitrati dalle piante. 

Queste prime ricerche del Selmi che dimostravano dunque la formazione di una 
arsina per riduzione delle muffe, furono di poi in fondo confermate da lui stesso 
per altra via. » 

In una breve nota: Sopra alcuni prodotti della putrefazione arsenicale (“ Rendie. 
R. Acc. Bol. ;, 1878-79, p. 111-113), espone delle esperienze fatte col lasciar pu- 
trefare delle materie animali mescolate con anidride arseniosa e lasciate a sè. 

L’ingenerarsi di basi fisse e volatili durante la putrefazione, condusse l’autore 
alle riflessioni seguenti: 

“ 1° Quando si fa la ricerca tanto dell’arsenico solo, quanto dell’arsenico e degli 
alcaloidi successivamente, come nel processo generale, importa che si verifichi se si 
riscontri base arsenicale o fissa o volatile, od in ambedue le forme; 

“ 2° Durante la putrefazione cadaverica degli avvelenati per arsenico; una parte 
di questo può essere dispersa in istato di base volatile; 

“ 3° La formazione di una base volatile arsenicale e potentemente venefica, può 
dare ragione del perchè le tappezzerie coi verdi di Scheele e di Schweinfurt svol- 


87 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 211 


gono un composto volatile arsenicale, pernicioso alla salute, e come succeda eziandio 
dagli uccelli che furono imbalsamati con una qualche composizione contenente 
arsenico; 

“ 4° Si può anche spiegare come sia avvenuto che taluno, maneggiando com- 
posti arsenicali con assorbimento manifesto di arsenico, non ne abbia sofferto della 
salute, eccetto che per l’azione locale, mentre altri, curati con applicazioni arsenicali 
su tumori cancrenosi, ne rimanessero avvelenati, sebbene la dose non fosse troppo 
forte, e consigliare il medico a procedere con riguardo in casi di tale maniera ,. 

L'osservazione fondamentale del Selmi dello sviluppo di un’arsina per riduzione 
dei composti arsenicali mediante le muffe, ebbe una applicazione importantissima 
fatta dal Gosio. 

Il Gosio in un pregevole lavoro fatto molt’anni dopo sul potere riducente delle 
muffe, confermò le idee e le esperienze del Selmi e dimostrò che veramente coi com- 
posti arsenicali si forma un’arsina e non idrogeno arsenicale. Il Selmi con semplici 
saggi qualitativi riconobbe benissimo che il principale composto gasoso d’arsenico che 
sì forma in quelle condizioni, doveva essere veramente un’arsina o meglio un composto 
organico dell’arsenico. Ed ora, pare, sia la dietilarsina (C2H5)2AsH; ma ciò non è 
per anco dimostrato con sicurezza. 

Alcuni autori, come l’Autenrieth, a proposito della ricerca biologica dell’arsenico 
col metodo di Gosio, tacciono affatto il nome di Selmi; ciò è supremamente ingiusto, 
perchè il Gosio ha fondato il suo metodo su una reazione scoperta dal Selmi. Nessuno 
prima del Selmi aveva pensato al potere riduttore delle muffe e dei funghi. Il metodo 
biologico di ricerca dell’arsenico si deve dunque denominare: metodo Selmi-Gosio. 

Nè Fleck (“ Zeiss. f. Biol. ,, vol. VIII, p. 444), nè Hamberg (“ Nord. Med. 
Arch. ,, vol. VI, n.3; “ Arch. d. Pharm. ,, 1875, vol. 206, p. 246), possono considerarsi 
come precursori del Selmi in queste ricerche, perchè essi non fecero che cercare se 
si sviluppava o no dell’idrogeno arsenicale dalle tappezzerie colorate in verde con 
colori arsenicali. Mentre che questo non era che una conseguenza del problema più 
generale propostosi dal Selmi: 4 potere riduttore delle muffe, a cui. nessuno aveva 
prima seriamente pensato. Del resto, poi, le ricerche del Selmi sono del 1867, 1871, 
1874, mentre quelle del Hamberg sono del 1874-75 (1). 

Alle ricerche del Selmi vennero fatte non poche obiezioni, ma di poco valore, 
che è inutile qui ricordare; i risultati delle sue esperienze furono dapprima negati, 
si disse che erano inesatte, ecc. 

I risultati negativi ottenuti da esperimentatori americani, quale il Chandler, e 
dal Giglioli, si debbono non solo alla qualità dei germi che capitarono sul terreno di 
coltura, ma anche al metodo poco esatto col quale gli autori ricercavano l’arsenico 
nei gas che si sviluppavano. 

Il Gosio invece conosceva bene la tecnica tenuta dal Selmi, perchè nei primi 
tempi lavorava insieme al compianto prof. Adolfo Monari, che fu assistente del Selmi. 
Il bel lavoro del Gosio confermò pienamente le ricerche del nostro chimico, ed 


(1) In quanto alla data, il Gosio crede che la prima pubblicazione del Selmi in proposito delle 
muffe sia del 1875; è invece, come abbiamo visto, del 1874; l'opuscolo consultato dal Gosio deve 
essere la 2* edizione, o meglio ristampa, del primo lavoro pubblicato nel 1874. 


212 ICILIO GUARESCHI 88 


oggi si ha un eccellente metodo per la ricerca biologica dell’arsenico. Il Gosio potè 
stabilire quali siano le muffe che hanno potere riduttore sui composti arsenicali, ri- 
conobbe che le più attive sono il Penicillium brevicaule, laspergillus clavatus e l’asper- 
gillus fumigatus. Gosio stabili meglio le condizioni del problema collo studio biolo- 
gico delle muffe, ma il fatto fondamentale è stato scoperto, ripeto, dal Selmi. 

Interessanti sono sotto questo aspetto anche le altre ricerche del Selmi: Esperienze 
per riconoscere se i funghi, certi microfiti e le materie vegetali in decomposizione posseg- 
gono azione idrogenante 0 riduttrice; conseguenze agronomiche che se ne possono dedurre 
(£ Rend. Acc. Scienze Bol. ,, 1875, p. 81 e Wusserstoffentbildung durch Schimmel und 
Schwimme, in “ Ber. d. deut. Chem. Gesell. ,, 1875, p. 906 e “ Jahresb. f. Chem. ,, 
1875, p. 818). 

Egli fece delle esperienze per vedere se i funghi riducono anche l’arsenico, ma 
ebbe risultati incerti. S'avvide invece che i funghi, ad esempio i boleti, hanno il 
potere di ridurre i nitrati a nitriti e poi ad ammoniaca. 

Fece poi molte esperienze collo solfo in condizioni diversissime. Le muffe, i funghi, 
le spore, i micrococchi, ecc. hanno potere riduttore. 

Nella prima parte di questo lavoro concludeva: 

1° Che i funghi reagiscono col solfo e coi nitrati a somiglianza delle muffe, 
dimostrando cioè un attivo potere riduttore; 

2° Che sembrano forniti di uguale proprietà le spore e gli esseri microscopici 
di natura vegetale; 

3° Che la buina fresca, il letame smaltito, il fiorume di fieno, la terra da 
campo, il terriccio, posseggono azione idrogenante sullo solfo e riduttiva sui nitrati, 
con questo però, che quando vi è un nitrato, questo incomincia ad appropriarsi l’ele- 
mento riduttore e fa impedimento alla formazione dell'idrogeno solforato dai compo- 
nenti della materia sperimentata ; 

4° Che il letame smaltito possiede in piccol grado l’azione riduttiva, mentre 
la possiede in grado eminente il fiorume di fieno, e in grado medio la buina. 

Le ricerche di Selmi sul potere riduttore delle muffe, dei funghi e di altri esseri 
inferiori furono fatte quando non si conosceva ancora nulla sul potere riduttore di 
certi batteri; ed invero il Bacillus sulfhydrogenus di Miquel (“ Bull. Soc. Paris ,, 
1879 (2), t. 32, p. 127) fu scoperto molto dopo. Il Miquel incomincia il suo lavoro 
dicendo: “ Aujourd’hui j'espère démontrer qu'il existe au moins un microbe capable 
“ d’hydrogéner le soufre et de fournir, dans des conditions faciles è réaliser, des 
“ quantités considérables d’acide sulfhydrique ,. Ma egli si guarda bene di ricordare 
le esperienze analoghe precisamente alle sue, fatte da Selmi molti anni prima con 
altri esseri inferiori che hanno potere riduttore. 

Crouzel (1892) ed altri hanno poi esteso queste ricerche, ed oggi sappiamo che vi 
sono molti microbi riduttori dello solfo, dei solfati, ecc., con produzione di solfidrico. 
Ma se si guardi bene, tutte queste ricerche sono direttamente collegate colle prime 
del Selmi fatte dal 1850 e 1857 al 1875. 

Anche Olivier ha studiato la produzione di acido solfidrico dagli organismi della 
glairina e della baregina, ma solamente nel 1886 e 1888 (“ C. R.,, t. 106 e 108). 

Nel 1875 il Selmi pubblicò un’altra interessante nota: Sull’azione dell'idrogeno 
nascente coll’azoto libero e di un composto azotato che si forma calcinando la potassa 


(0 2) 


9 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 213 


colle materie idrocarbonate (“ Rendic. Accad. Scienze di Bologna ,, 13 maggio 1875). 
Esposte molte esperienze per dimostrare che l’idrogeno nascente può ammonificare 
l'azoto atmosferico, dimostra che il fiorume di fieno bagnato e fermentato, misto con 
arsenico metallico, produce un composto arsenicale volatile. Poi ricorda altre esperienze 
fatte d'accordo col prof. Ercolani, le quali dimostrerebbero che Ze muffe ed i funghi 
sviluppano idrogeno e trasformano in ammoniaca l'azoto atmosferico. 

A pag. 26 di questa nota fa osservare che egli fin dal 1857 fece studi per spie- 
gare l’azione dello solfo sull’oidium. 


VII. 


Ricerche di chimica tossicologica e di chimica legale. 


Scoperta delle ptomaine — Prodotti anomali basici nelle urine patologiche — 
Patoamine — Autointossicazione — Ricerche sugli alcaloidi — Ricerca 
dell’arsenico, del fosforo, dell’acido cianidrico ecc. — Depurazione dello 
zinco — Trasformazione del calomelano entro l’organismo — Sulle 
macchie di sangue e sui cristalli d’amina. 


L'influenza di Selmi sui progressi della tossicologia e della chimica tossicologica 
è stata veramente enorme, non solo per avere Egli scoperte le ptomaine e nuovi 
metodi di indagine dei veleni, o migliorati i procedimenti precedenti, ma per aver 
dato una potente spinta a promuovere nuove ricerche; dal 1872 invero le ricerche 
di chimica tossicologica si sono moltiplicate in modo straordinario. 

Selmi, specialmente in tossicologia, è stato un vero agitatore di idee. 

I suoi lavori condussero anche altri chimici a studiare meglio i veleni, a stu- 
diare meglio i procedimenti per la loro estrazione dalle materie sospette, ad esa- 
minare la formazione di veleni fra i prodotti della putrefazione, ecc. Da ciò le ricerche 
dovute a Brieger, a Baumann, a Gautier, a Salkowsky, ecc. per tacere dei chimici 
italiani. Prima delle ricerche di Selmi nè i chimici sovraricordati nè altri che pur 
fecero importanti ricerche sulle ptomaine, si erano mai occupati di studi di questa 
natura. Era un nuovo e vasto campo che si apriva. 

La scoperta delle ptomaine fatta dal Selmi si può senza dubbio confrontare con 
la scoperta della morfina fatta nel 1805-1816 dal Sertuerner. Colla scoperta delle 
ptomaine Egli diede una grande spinta agli studi relativi alle sostanze che si produ- 
cono entro l'organismo animale in condizioni normali e patologiche; da ciò nacquero 
i bellissimi concetti sull’autointossicazione, sulle basi nelle urine patologiche, ecc.; 
sì riesaminarono meglio i prodotti venefici che si formano nelle materie alimentari, 
si riesaminarono e modificarono i vecchi metodi di ricerca degli alcaloidi; e ad 
esempio, dopo le ricerche di Guareschi e Mosso fu abbandonato affatto il metodo 
così detto di Dragendorff il quale poteva condurre a conclusioni errate. Dal 1880 circa 
dei chimici di valore si occuparono anche di chimica tossicologica e questa impor- 
tante branca della chimica ha raggiunto un bel grado di perfezione. 

Il Selmi discusse a fondo tutto ciò che riguarda i processi generali per la 
ricerca dei vari gruppi di veleni ed indicò il modo di procedere quando si voglia 


DA ICILIO GUARESCHI 90 


metodicamente ricercare un veleno qualunque, o tutti i veleni, su uno stesso cam- 
pione di sostanza da esaminarsi. 

Fin dal tempo ch'egli era a Modena e Reggio dimostrò abilità nella costruzione 
di apparecchi, pur disponendo di mezzi molto limitati. E così fece nelle ricerche 
tossicologiche: modificò i vecchi apparecchi e ne ideò dei nuovi. Assai importanti 
sono le sue osservazioni sull’uso dell'apparecchio di Marsh e le modificazioni che 
vi apportò. 

Scoperta delle ptomaine. — Francesco Selmi scoprì le ptomaine ossia gli alcaloidi 
che si formano nei cadaveri, nel 1870-71; e la prima sua pubblicazione in proposito 
porta la data del 25 gennaio 1872 (1). In quel giorno presentò all'Accademia delle 
scienze di Bologna la Memoria: 

Sulla esistenza di principi alcaloidei naturali nei visceri freschi e putrefatti, onde 
il perito chimico può essere condotto a conclusioni erronee nella ricerca degli alcaloidi 
venefici (£“ Mem. della R. Accad. delle Scienze dell'Istituto di Bologna , (11), 1872, 
t. II, p. 81-86). 

Ù questa una breve memoria-di grande importanza anche storica. 

Applicando il metodo di Stas-Otto per la ricerca degli alcaloidi in casi di vene- 
ficio, egli trovò una sostanza che dava le reazioni generali degli alcaloidi in due sto- 
machi di cadaveri di persone morte per sospetto avvelenamento, in uno stomaco 
alquanto putrefatto di persona morta per morte naturale, in due stomachi freschi, 
recentissimi, in carne putrefatta conservata nell’alcol, nell’alcol che serve a conser- 
vare i pezzi anatomici ed anche (in piccolissime quantità) negli estratti delle farine 
e del pane. Egli subito intuì l’importanza di questi fatti, e attirò l’attenzione sulla 
possibilità di confondere delle materie non avvelenate con materie avvelenate e da ciò 
la raccomandazione di essere cauti prima di dichiarare l’avvelenamento avvenuto per 
alcaloidi. 

Di questa scoperta fu fatto un breve cenno nei Berichte d. deut. Chem. Gesell., 
VI (1873), p. 141, nella Corrispond. da Firenze (U. Schiff). 

Il Selmi però continuò a lavorare, e fecero seguito alcune ricerche sulla picro- 
tossina, la colocintina e la solanina nei casi di avvelenamento e poi delle ricerche 
sopra un nuovo processo per l'estrazione degli alcaloidi dai visceri e ricerca della nico- 
tina, della brucina e della stricnina nei casi di avvelenamento (1873), ed un altro lavoro: 
Nuovo processo generale per l'estrazione delle sostanze venefiche nei casiì di avvelena- 
mento (dic. 1873). Nel 1874 pubblicò: Osservazioni nel caso di una perizia legale 
(aprile 1874), poi delle ricerche su vari alcaloidi, ecc. e sul finire del 1874 una nota: 
Nuove ricerche fatte da parecchi chimici sugli alcaloidi innocui che si estraggono dai 
visceri seguendo il processo di Stas-Otto per la ricerca degli alcaloidi venefici. Poi 
nel 1875 delle ricerche sopra alcuni nuovi caratterì differenzianti e speciali per la 
ricerca degli alcaloidi venefici, su un nuovo reattivo per la morfina (la bella reazione 


(1) Il nome di ptomaine deriva da ttÒòua cadavere e in tedesco le ptomaine si chiamano anche 


Leichenalkaloide; a quelle venefiche il Brieger diede il nome di tossine (tifotossina, tetanotossina, ecc.). | 


Le patoamine di Selmi furono poi chiamate anche urotossine quando trovansi nelle urine; leucomaine 
furono denominate da Gautier le basi che trovansi normalmente nell’ organismo (creatinina, 
xantina, ecc.). 


91 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 215 


detta poi reazione di Pellagri), a cui susseguirono molti altri lavori, fra i quali: Sugli 
alcaloidi dei cadaveri, mem. con Pesci e Casali (ott. 1876), Modificazioni al processo 
per l'estrazione degli alcaloidi venefici dai visceri (2 dic. 1875), La ptomaina o primo 
alcaloide dei cadaveri (“ Rend. Acc. Scien. Bol. ,, 1875-76, p. 36), Ricerche comparative 
sugli alcaloidi cadaverici (col Prof. L. Pesci) (1877). 

Il 12 dic. 1877 presentò all’Acc. delle Scienze di Bologna una Memoria: Genesi 
degli alcaloidi venefici che sì formano nei cadaveri (“ Rend. Bol. ,, 1878-79, p. 29-33). 
In questa nota accenna alla scoperta delle ptomaine, alle prime objezioni e inere- 
dulità, ece., poi ricorda le pretese priorità di alcuni e le esperienze che dimostrano 
provenire le ptomaine dalla decomposizione delle sostanze proteiniche. 

Trattò di questa questione anche nel 1878 in un grosso opuscolo Sulle ptomaine 
od alcaloidi cadaverici e loro importanza in tossicologia con aggiuntavi una perizia per 
la ricerca della morfina (Zanichelli, Bologna, 1878, in-8° di pp. 110), che fu pubblicato 
anche nel “ Mon. Scient. ,, 1878, t. VIII, p.499, col titolo: Sur les ptomaines ou alcaloides 
cadavériques et leur importance, en toxicologie, trad. et analysé de l’italien par A. Vernon. 
Altre numerose ricerche si susseguirono sino al giorno della sua morte. 

l'immensa importanza della scoperta delle ptomaine consiste anche, come già 
dissi, nel fatto di aver dato vita ad un nuovo capitolo della chimica fisiologica. Prima 
delle ricerche del Selmi nei trattati di chimica fisiologica quasi non si discorreva 
delle basi organiche contenute nell'organismo animale normale e fra i prodotti della 
putrefazione; dopo le ricerche del Selmi invece è tutta una letteratura che fiorisce 
in questo nuovo campo. 

Gli animali adunque anche nelle condizioni normali o di malattia producono 
degli alcaloidi come i vegetali. È una nuova analogia che stringe e collega i due 
regni degli esseri viventi. Questo concetto è indiscutibilmente dovuto a Selmi, perchè 
egli ha dimostrato che si formano degli alcaloidi: durante la putrefazione dei cada- 
veri, nell’organismo vivente ammalato, e nell'organismo sano. 

Per certi uomini di ingegno è un bene che sia loro mancata la così detta scuola, 
perchè in tal modo da loro stessi hanno potuto fare delle ricerche veramente origi- 
nali, che forse non avrebbero fatto se avessero pedestremente seguito le orme di altri. 
Questa scoperta però costò al povero Selmi non poche amarezze; alcuni, specialmente 
in Italia, velatamente, altri un po’ più apertamente, cominciarono a criticare l’opera 
sua, rimproverando a lui di non aver analizzato nessuna di queste ptomaine, ecc. ecc. 
Egli ancora il 6 dic. 1878, cioè dopo che la sua scoperta aveva ricevuto conferma, 
specialmente all’estero (1), mi scriveva: 

ma Ho ricevuto da * una copia della perizia fatta da # in favore dell’ # e contro il *. Sic- 
come l'argomento primo e principale per abbattere il * mosse dal mio scritto sulle ptomaine, 
ivi dovettero citarmi due o tre volte, ma con quale mala grazia ! Tutto ciò che poterono togliermi 
di onore lo fecero in modo sì manifesto, da non sembrare credibile. Del rimanente la perizia 
di quei signori ha parecchie mende..... 


(1) Era tale e tanto l’interesse che tossicologi, chimici e medici stranieri dimostravano per le 
ricerche di questa natura, che appena Selmi pubblicava un lavoro subito si cercava di trarne pro- 
fitto. Appena, ad esempio, egli annunziò che nelle urine spesso si trovano delle ptomaine, il Schiffer 
ed altri poco dopo trovano anch’essi delle ptomaine nelle urine (* Deut. med. Zeitschrift ,, 1882, e 
“ Jahresb. f. Pharm. u. Toxikol. ,, 1883-84, ece.). 


216 ICILIO GUARESCHI 92 


Ma, si diceva, questi lavori non possono aver controllo, non contengono analisi 
di corpi ben definiti, ecc. ecc. Quasi che non vi potessero essere lavori importanti 
oltre quelli che contengono analisi di composti definiti. E Marsh e Mitscherlich e Stas 
coi loro metodi classici di ricerca dell’arsenico, del fosforo, degli alcaloidi hanno avuto 
bisogno di analizzare dei corpi ben definiti? E Sertuener che ha scoperto la morfina, 
l’ha forse analizzata? Era in fondo l'invidia di coloro che non avendo idee proprie 
credevano di fare grandi scoperte col pubblicare qualche lavoretto di chimica orga- 
nica od inorganica. Che avrebbero detto di tutti i lavori attuali sui colloidi? Vi fu 
un momento che Selmi fu come scomunicato per certi chimici: et tout cela pour un 
atome de chlore mis à la place d’un atome d’hydrogène, pour une formule corrigée! diceva 
il povero Aug. Laurent ricordando nel suo Méthode de Chimie tutte le atroci ingiurie 
lanciate dai suoi potenti nemici, a lui ed a Gerhardt! Così avrebbe potuto dire il 
Selmi per le ptomaine: e tutto ciò, tutta questa maldicenza, per una ptomaina più 0 
meno, scoperta da me! 

Il giorno della giustizia venne, ma il povero Selmi era morto; specialmente per 
parte dei chimici stranieri, ed in particolare tedeschi, fu un vero inno di gloria a 
Selmi; la scoperta delle ptomaine fu una vera miniera di lavori, molti dei quali 
bellissimi. Ed ora che io scrivo mi sento pieno di commozione a questi dolorosi 
ricordi. 

Egli era conscio dell'importanza della scoperta fatta, eppure ecco come modesta- 
mente parla dell’opera sua e come prevede l’importanza dei lavori dei suoi continuatori: 


Per tali ragioni (la tenue quantità di ptomaine, che si ottengono, la loro alterabilità, ecc.), 
per la difficoltà di procurarsi i cadaveri esumati e pel consumo ragguardevole di materiali 
costosi, necessari per estrarle, non è da meravigliarsi, se l'argomento fu delibato appena, e se 
occorrono per anco studi moltiplicati e variati affine di approfondirlo bastevolmente. Il che non 
so quando potrà avvenire, mancando le condizioni occorrenti, i mezzi necessari nel più dei labo- 
ratori tossicologici italiani; per cui è a dubitarsi fortemente, che quella luce, la quale succederà 
ai primi chiarori, ci verrà da altri paesi, in cui chi si applica ad un dato ramo della scienza 
non è in difetto continuo del bisognevole. 

Se rimarrà, per conseguenza, all’Italia il conforto, che tra noi per la prima volta ne venne 
fatta menzione da qualche tossicologo e dimostrato come se ne debba tener conto nelle ricerche 
periziali, altri però raccoglieranno il vanto di averne spinto lo studio più addentro e chiaritane 
la genesi e indagatene le proprietà (“ Enciclop. di Chimica ,, 1877, X, p. 627). 


A varie delle obiezioni fatte al Selmi, specialmente in Italia, poco dopo la sua 
scoperta, rispose Egli stesso con grande modestia in una memoria: Di alcuni criteri 
per la ricerca degli alcaloidi vegetali in differenza delle ptomaine, Bologna 1880, p. 11-12: 


All’annuncio che ne diedi mi furono opposte parecchie obiezioni. Primo: si disse che forse 
avevo scambiato per alcaloide qualche prodotto di natura e portamento degli albuminoidi. 
Secondo: che era troppo da meravigliare come nessuno dei molti chimici che mi avevano pre- 
ceduto nelle ricerche degli alcaloidi non se ne fosse avveduto, e perciò trattarsi probabilmente 
di un mio abbaglio. Terzo: che quand’anche avessi riscontrato qualche alcaloide, esso poteva 
provenire da medicamento somministrato all’infermo negli ultimi giorni avanti la morte, e rimasto 
insediato negli organi e negli umori. 

Alla prima obiezione risposi dimostrando col fatto, che realmente le sostanze da me tro- 
vate non potevano essere di natura albuminoide, e ciò perchè possedevano tutti i caratteri dei 


93 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA DI, 


veri alcaloidi, capaci cioè di solificare gli acidi, formare composti cristallizzabili, non che per i 
reattivi e solventi adoperati nella estrazione. 

Alla seconda obiezione risposero altri per me, cioè alcuni che avendoli già notati nè attri- 
buitavi importanza, sì scossero quando seppero del mio trovato, e rammentando le loro osser- 
vazioni (di cui non avevano mai fatto parola) le pubblicarono, aggiungendo che i fatti già venuti 
loro in vista coincidevano gran parte coi miei. 

Per quanto sembri strano che certi fenomeni, sebbene cadano di frequente sott’occhio, 
nondimeno rimangano quasi inayveduti, pure ciò succede non infrequentemente, come sanno 
tutti quelli che si occupano di scienze sperimentali..... 

In ordine alla terza obiezione, io l’aveva già sciolta prima che mi si contrapponesse, ope- 
rando su cadaveri dissepolti di persone note, a cui ero certo (sapendolo dal medico curante) 
che non erano stati propinati medicamenti, in cui sussistessero degli alcaloidi. Ma la prova più 
luminosa fu quella di aver ottenuto alcaloidi, od uguali od analoghi alle ptomaine, dall’albume 
di ovo, messo a putrefare in condizioni poco diverse da quelle in cui stanno i cadaveri tumulati, 
ed anche a temperatura non molto distante da quella del corpo umano. 

La genesi di tali composti (almeno di una parte di essi) fu adunque svelata pienamente; 
provengono dalla decomposizione della molecola degli albuminoidi, che li producono più o meno 
differenti, più o meno molteplici, od innocui o velenosi, secondo le circostanze in cui succede 
il processo putrefattivo. Essendo la loro derivazione quale fu detta, ne consegue che anche gli 
alcaloidi dei cereali putrefatti, come quello del mais guasto....., debbono trarre origine da taluno 
degli albuminoidi, che sappiamo pur sussistere nelle diverse parti delle piante ed abbondare 
specialmente nei semi. 


Non esiste un Trattato di chimica tossicologica anteriore al 1875-80 che dia 
importanza o ricordi le sostanze venefiche che trovansi nelle materie animali alterate 
o putrefatte, che faccia notare qualche dubbio sulla ricerca degli alcaloidi venefici 
in casi sospetti di veneficio, ecc. Solamente dopo l’allarme dato da Selmi, e non 
subito, si cominciò a ricercare nelle vecchie pubblicazioni delle osservazioni staccate, 
nelle quali però non si discorre affatto di veri alcaloidi (Kerner, Panum, ecc.). Invece 
dopo il 1880 nei Trattati di chimica tossicologica vi è sempre un capitolo dedicato 
alle ptomaine ed il nome di Selmi non è dimenticato (1). 

R. v. Jaksch (Die Vergiftungen, 1910, p. 512) discorre della tossicità delle pto- 
maine e fa notare come abbiano una grande importanza per la chimica forense in 
causa della probabile somiglianza con la conina, con l’atropina, colla curarina e colla 
delfinina. Egli poi ricorda in modo speciale la colina, la muscarina, la betaina e la 
nevrina, cadaverina e putrescina, saprina, ecc., scoperte nelle materie animali o nelle 
urine in certe malattie dopo le ricerche di Selmi. 

Chi farà la storia della Chimica tossicologica e della tossicologia dovrà mettere 
in prima linea i nomi di Marsh, Stas e Otto, Mitscherlich, e Fr. Selmi, come faccio 
io nelle mie lezioni. ò 


(1) Tra i più recenti basterà che io ricordi il Gadamer, © Lehrb. d. Chem. Toxik. ,, Gottingen, 
1909, ove a pag. 490-495 e 631-662 discorre a lungo delle ptomaine, che classifica in tre categorie: 
1° Ptomaine propriamente dette dei cadaveri (Eigentlichen Leichenalkaloiden o. Ptomainen im 
engeren Sinne); 2° Ptomaine delle urine patologiche; 3° Ptomaine delle urine normali. E dà una 
tabella completa di tutte le ptomaine ora conosciute. 

La velenosità dei liquidi putrefatti era già conosciuta da Haller, da Panum, ecc., ma nessuno 
prima di Selmi pensò all’esistenza di alcaloidi che potessero intralciare le ricerche chimico-tossi- 
cologiche. 


Serie II. Tow. LXII. ci 


218 ICILIO GUARESCHI 94 


J. e R. Otto nell’eccellente Guida per le ricerche dei veleni (Anleitung zur Aus- 
mittelung der Gifte, ecc., Braunschweig, 1883-1884) nel capitolo: Ptomaine (Leichen- 
oder Cadaveralkaloide) discorrono a lungo dei lavori scientifici di Selmi e ne fanno 
vedere tutta l’importanza per la chimica forense. Così fecero e fanno tutti gli altri 
principali chimici-tossicologi tedeschi, quali Husemann, Baumert, Kobert, Beckurts, 
Gadamer, ecc. 

J. e R. Otto vollero nel 1883-84 dedicare la nuova edizione della loro celebre 
Anleitung sovraricordata, alla memoria del Selmi che era morto da due anni; la 
dedica dice: 


Den Manen Francesco Selmi’s, des verdiensivollen Forscher auf dem 
Gebiete der Piomainen gewidmet von Verfasser. 


In tutti i trattati moderni sulle urine vi è un capitolo consacrato alle ricerche 
delle ptomaine (1). La scoperta della cadaverina e della putrescina nell’urina di 
ammalati di cistinuria fu fatta da Udransky e Baumann nel 1888, in seguito però 
alle ricerche di Selmi, perchè egli per il primo ammise che in molte malattie, spe- 
cialmente infettive, si formano delle basi organiche che passano nelle urine. 

Le ptomaine hanno importanza anche per le materie alimentari, o meglio per 
la chimica bromatologica; perchè queste basi possono formarsi per l’azione degli 
agenti fermentativi e putrefattivi su molte materie alimentari ed essere causa di 
numerosi avvelenamenti, anche: collettivi. Ed invero tutti i più autorevoli scrittori 
di questa branca della chimica e dell’igiene dànno il merito della scoperta delle 
ptomaine al Selmi e ne discorrono a lungo nelle loro opere (2). 

Tutti i trattati di chimica fisiologica o di chimica patologica, quali quelli del 
Neumeister, dell’Hofmeister, dell’Abderhalden, ecc., hanno un capitolo che riguarda 
le ptomaine. Il Gorup-Besanez già nel 1880 nel suo 7raité de chimie physiol., II, p.482, 
ha un breve capitolo sulle Ptomaine, la cui scoperta attribuisce esclusivamente a Selmi. 

Ora il nome Ptomaine troviamo anche nei trattati di chimica teorica organica 
e basti ricordare quelli di Richter-Anschiitz, di Holleman, di Krafft, di Roscoe- 
Schoelemmer (3), e nei grandi trattati di chimica farmaceutica, quale quello di 
Ern. Schmidt. 


(1) Ricorderò fra gli altri lo Spaeth nel suo bel libro: Die Chem. u. Mikroskop. Unters. d. Harns, 
1903, e principalmente Neubauer e Vogel i quali nella loro classica: AnZetung 2. qualit. u. quant. 
Analyse d. IHarns, trattano in extenso delle ptomaine, e nella 10% edizione fatta nel 1898 dall'’Huppert 
si ricorda e riassume anche la memoria di Selmi sulle patoamine pubblicata nel 1880 e ripubbli- 
cata da Albertoni e da me nel 1888. 

(2) I Kònig nella 4° ediz. del suo classico libro: Untersuchung v. Nahrungs-Genussu. Gebrauchsg., 
Berlin, 1910, nel capitolo Nachweis u. Bestimmung d. Ptomaine, a pag. 295, scrive: “ Unter Ptomaine 
© versteht man eine Reihe basischer Stoffe, die von Selmi zuerst in Leichnamen (mtr@®pa) gefunden 
“ wurden, die sich aber tberall bei der Fàulnis unter dem EFinfluss von Mikroben bilden und in ihren 
“ Rigenschaften den Pflanzenalkaloiden (Coniin, Morfin u. a.) àhnlich verhalten ,. Sotto il nome di 
ptomaine (da mTWwUa cadavere) s'intende una serie di sostanze basiche trovate la prima volta dal 
Selmi fra i prodotti della putrefazione per influenza dei microbi, e che nelle loro proprietà hanno 
somiglianza con alcaloidi delle piante (conina, morfina, ecc.). 

(3) Nel Roscoe-Schoelemmer's, LeAhrb. der org. Chem., 1901, t. VII, pagg. 442-528, vi è un bel- 
lissimo capitolo sulle ptomaine, scritto da Vablen, ed il primo nome in esso ricordato è quello del 


o 
[cha d 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 219 


Anche in America subito dopo la scoperta del Selmi le ptomaine furono stu- 
diate e se ne riconobbe tutta l’importanza. C. Vaughan e Vr. Novy nel loro libro: 
Ptomaine, Leucomaine and Bacterial proteids or the chemical factors in the causation of 
disease, Philadelphia, 1888 e 1891, hanno fatto risaltare tutta l’importanza della sco- 
perta del Selmi ed a p. 27 scrivono: 


First of all stands the Italian Selmi, who suggested the name ptomaine, and whose 
researches furnished us with much information of value, and, what is probably of more impor- 
tance, gave an impetus to the study of the chemistry of putrefaction, which as already been 
productive of much good and gives promise of much more in the future. 


To credo di essere stato il primo a rivendicare a Selmi tutti i suoi diritti nella 
scoperta delle ptomaine. Nel 1883 scrissi nel Complem. e Supplem. dell’ Enciclop. 
chim., vol. Ill, p. 495-505, un lungo articolo PromAINE in cui chiaramente dimostrai, 
che unicamente a Selmi si doveva l’idea che si formino nel corpo umano, sano o 
ammalato o dopo morte, delle sostanze più o meno velenose che in certi casi po- 
trebbero essere confuse con alcaloidi vegetali, e da ciò la immensa importanza per 
la chimica tossicologica. In quell’articolo ho fatto notare anche gli errori in cui 
erano caduti alcuni chimici che si sono occupati di questo argomento. 

Anche in altre pubblicazioni io ho fatto notare ampiamente tutta l’importanza 
di questa scoperta (1), come del resto molto lodevolmente fecero i professori Leone 
Pescì (2), Dioscoride Vitali (3) ed altri. Il Vitali, sia nel suo Trattato di chimica 
tossicologica, sia nella sua commemorazione del Selmi, sia nell’opuscolo: Alcuni ap- 
punti storici sulla tossicologia chimica (Soc. Ital. di Storia critica delle Scienze Med. e 
Natur., Venezia, 1909), ne discorre a lungo. 

Quell’onesto e coltissimo farmacologo tedesco che fu il professore Theodor 
Husemann di Gottingen, tenne in alta considerazione le ricerche del Selmi sulle 
ptomaine, fu il primo all’estero che con animo retto ed imparziale fece notare tutta 
la grande importanza della scoperta di queste sostanze, e fece conoscere le nuove 
ricerche ai suoi connazionali traducendo o riassumendo le memorie del Selmi; egli 
scrisse dei lunghi articoli: Die Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche 


nostro Selmi. Benchè talvolta siano citate inesattamente o impropriamente, le ricerche di Selmi 
sono ricordate anche in libri di chimica applicata, che sembrerebbero non in relazione con ricerche 
di questa natura. Ma le ricerche di Selmi sulle ptomaine interessano non solamente la tossico- 
logia, la patologia ed altri rami della medicina, ma pur anco le fermentazioni organiche, cioè 
quella serie immensa di fenomeni complicati che tanto importano alla biologia ed all’industria 
chimica. A. Colson (L’Essor de la chimie appliquée, Paris, 1910, p. 289) ricorda a proposito delle 
ptomaine in prima linea il nome di Fr. Selmi e scrive: “ Selmi sut mettre hors de doute le fait que 
“ l’estomac des personnes ayant succombé à une mort naturelle renferme des substances alcalines 
“ spéciales que l’on retrouve dans l’alcool ayant servi è la conservation des pièces anatomiques ,,. 

(1) Introduzione allo studio degli alcaloidi con speciale riguardo agli alcaloidi vegetali ed alle 
ptomaine, Torino, 1892, 1 vol. in-4°, pag. 404-456 e la traduzione tedesca della stessa opera, fatta 
dal prof. Kunz-Krause: Einfihrung in das Studium der Alkaloide mit besonderer Bericksichtigung der 
vegetabilischen Alkaloide und der Ptomaine, Berlin, 1896, in-8° gr., pagg. 550 a 632. 

(2) Discorso letto dal Dott. Leone Pesci per l'inaugurazione del monumento a Francesco Selmi, 
Bologna. 

(3) Francesco Selmi patriota, letterato e scienziato. Commemorazione letta nella Società Agraria 
di Bologna, 1885. 


220 ICILIO GUARESCHI 96 


Chemie und Toxikologie negli “ Arch. d. Pharm. ,, 1880, 1881 e 1882. Ed oggi nessun 
Trattato tedesco di chimica tossicologica o sulle autointossicazioni tace il nome del 
Nostro. 

Al lavoro storico-critico di Husemann fece seguito nel 1886 un altro bel lavoro 
di Beckurts: Die Ausmittelung giftiger Alkaloide bei gerichtlich-chemischen  Untersu- 
chungen mit Bezug auf den heutigen Stand der Ptomainforschung (“ Arch. d. Pharm. , (3) 
1886, t. 24, p. 1046-1065) ed anche qui il nome di Selmi è messo in prima linea. 

Il Prof. Willgerodt di Freiburg nel 1882 fece una conferenza in onore delle 
ricerche di Selmi: Ueber Ptomaine (Cadaveralkaloide) ece., Freiburg i. B., 1882, e ter- 
mina colle parole seguenti: 


Immerhin sind wir besonders Selmi, sowie allen Chemikern, Physiologen, Medicinern und 
Pharmaceuten, die sich diesem so widerlichen Gegenstande beschiftist und Licht dariber ver- 
breitet haben, zum gròssesten Danke verpflichtet. Vorziiglich durch die Arbeiten Selmi’s sind 
unsere Kenntnisse iber Ptomaîne in einer Weise geférdert, dass wir im Stande sind, durch 
unsere gerichtlich-chemischen Untersuchungen die Unschuldigen zu schitzen und die Verbrecher 
zu entlarven. 


Il D. H. Oeffinger nel 1885 pubblicò un bel lavoro: Die Ptomaîne oder Cada- 
veralcaloide, Wiesbaden, 1885, di p. 42, in cui riassume i principali lavori su questo 
argomento e specialmente quelli di Selmi, a cui dà tutto il merito della scoperta. 
Ricorda come il primo fatto importante riguardo le applicazioni della scoperta delle 
ptomaine fu osservato in Germania nel 1874, in occasione del processo criminale 
Brandes-Krebs. 

Anche Linossier in Francia (Les ptomaines et les leucomaines au point de vue de 
la médecine légale, p. 8) riconobbe poco dopo i diritti di priorità del Selmi. 

Il “ Moniteur Scient. , riprodusse gran parte delle ricerche di Selmi, come si 
vedrà nella bibliografia. 

Anche la storia imparziale accoglie nei suoi annali queste ricerche del Selmi; 
l’illustre chimico Ern. v. Meyer nella sua Geschichte der Chemie, 3% ediz., 1905, a 
p. 499, dopo aver accennato ai prodotti della putrefazione scrive: 


BRE dann aber besonders die der sogenannten Ptomaine in Erinnerung gebracht. Die Ent- 
stehung dieser starken Gifte, die wegen ihrer Aehnlichkeit mit den Pflanzenalkaloiden auch als 
Leichenalkaloide bezeichnet worden sind, ist fiir den gerichtlichen Chemiker, wie schon oben 
hervorgehoben wurde, von der gréòssten praktischen Bedeutung, da tatsichlich Verwechselungen 
der Ptomaine mit wahren Alkaloiden infolge der ihnlichen Reaktionen beider vorgekommen 
sind. Der italienische Toxikologe Selmi war der erste, welcher die wichtige Rolle dieser 
Fiulnisbasen in forensischer Hinsicht klar erkannte; er sab denselben den seit dem eingebiirgten 
Namen: Ptomaine. Vor ihm halten sich schon viele Forscher bemiht, Fiulnisgifte aus verdor- 
benen Nahrungsmitteln zu isoliren, z. B. Schlossberger, Panum, Schmiedeberg, Bersmann, 
Sonnenschein, u. a. ohne jedoch in chemischer Hinsicht Klarheit zu schaffen. 


Quando Ladenburg dimostrò che la cadaverina C*H!4N? estratta dai cadaveri 
dal Brieger è identica colla sua pentametilendiamina sintetica (1), e quando Udranszky 


(1) “ Berichte ,, 1886, p. 2585. 


97 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 221 


e Baumann (1) scoprirono nelle urine cistinuriche la tetrametilendiamina e la penta- 
metilendiamina e dimostrarono che sono identiche alla putrescina e cadaverina del 
Brieger, non diedero forse la migliore conferma dell’asserto del Selmi che nelle urine 
patologiche si trovano delle basi speciali che egli chiamò patoamine? Tutto questo 
non fu una bella e vittoriosa conseguenza della scoperta delle ptomaine? 

Come già dissi, dopo morto il Selmi le ricerche sulle ptomaine continuarono e 
molti chimici, specialmente stranieri, pubblicarono dei lavori importantissimi che 
estendevano, confermavano e sviluppavano le prime idee del nostro chimico. Pochi 
in Italia allora davano importanza a questi lavori. Ricordo benissimo, verso il 1883-84, 
di un giovane chimico che non aveva fatto se non la preparazione di qualche com- 
posto bromurato o bromonitrato o solforato di derivati aromatici, il quale colla più 
bella alterigia, o meglio balordaggine, diceva: Ma che cosa sono queste ptomaine? Queste 
ptomaine si conoscono? Già, di questi lavori non si sa nulla, perchè manca il controllo (2). 
Poco dopo uscivano, non dico dei lavori italiani, gli importanti lavori stranieri che 
ho sovra ricordato. 

Alcuni dei lavori del Selmi sulle ptomaine hanno il difetto di essere piuttosto 
prolissi e forse anche troppo pieni di reazioni qualitative date da numerosi reattivi 
che non sempre producevano reazioni veramente caratteristiche. Questo difetto, se 
così può dirsi, contribuì a far sì che certi lavori passarono quasi inosservati o si 
diede loro un valore non rispondente a verità. Ma tutto ciò è spiegabilissimo, perchè 
erano momenti di lavoro febbrile fatto col vivo desiderio di scoprire la verità in un 
argomento che era un vero labirinto. 

Ed inoltre bisogna dire che purtroppo alcuni dei primi così detti difensori delle 
ptomaine del Selmi erano senza competenza in proposito, erano o medici igienisti o 
medici legali che di chimica conoscevano ben poco, e mentre giustamente difende- 
vano la priorità del Selmi dicevano grandi spropositi relativamente alle ptomaine 
stesse. 

La questione grave delle ptomaine fu portata dal Selmi in un più vasto campo: 
la formazione cioè di alcaloidi dalle materie putrefatte nelle varie condizioni. Ed allora 
studiò anche i fenomeni putrefattivi e già nell’art. Putrefazione scritto per l’Enci- 
celopedia Chimica, vol. IX, p. 352-353, accennava a numerose esperienze proprie che 
aveva già fatto prima del 1874. 


Se la putrefazione, scrive Egli, succede in luogo nel quale l’aria non possa liberamente 
rinnovarsi durante il processo progrediente, in allora trai prodotti che si ritraggono dalla materia 
putrefatta si riscontrano parecchi alcaloidi speciali, parte dei quali sono solubili nell’etere e 


(1) © Berichte ,, 1888, XXI, p. 2744. 5 

(2) In tutti i tempi ed in tutti i paesi vi è stata, vi è, e vi sarà, di questa gente che presume 
immensamente di sapere. Non ho mai dimenticato il curioso fatto seguente, che risale a circa 
40 anni fa: un chimico, o meglio un professore di chimica, che già occupava un bel posto per il 
luogo e per lo stipendio, entrato un momento nel laboratorio di chimica a Firenze, sul principio 
del 1871, quando io ero intento a fare un’analisi elementare organica, mi chiese ingenuamente 
quale operazione io facessi! Da queste e da poche altre parole io capii subito che egli non aveva 
mai visto un apparecchio per analisi elementare! Ebbene, fu poi uno di coloro che pochi anni dopo, 
salito a posizione più alta, ma borioso e tronfio, derideva i lavori di Selmi, diceva che le ptomaine 
non erano importanti, perchè erano sostanze amorfe! 


222 ICILIO GUARESCHI 98 


parte solubili nell’aleool amilico, oltre ai prodotti volatili forniti di potere riduttore, e che messi 
in contatto del sangue lo anneriscono immediatamente. Taluno di questi prodotti è venefico in 
alto grado. 


E dopo avere discorso dei varì prodotti della putrefazione scriveva: 


Seguendo un processo alquanto diverso, Fr. Selmi riuscì a discernere parecchi alcaloidi 
estratti dalle materie putrefatte, e specialmente dai cadaveri esumati, determinandone certe re- 
azioni specifiche, e dimostrando quale di essi risulti innocuo negli animali, e quale possegga 
azione venefica..... ecc. 


Come pure assai interessante, per idee ed osservazioni proprie dell’autore, è il 
lungo articolo: Fermentazione e putrefazione — Considerazioni sui fermenti figurati e 
non figurati — Putrefazione nel vivente ecc., che si trova nel Complem. e Suppl. al- 
l’Enciclop. di Chimica, vol. II, pag. 737 a 752. 

Prodotti anomali basici nelle urine patologiche. — Patoamine. — Il Selmi 
già prima del 1879 sospettò che in certe malattie si producessero nei tessuti delle 
sostanze basiche venefiche, le quali, insieme all’alterazione dei tessuti o da sole, de- 
terminassero la morte dell’ammalato; perciò già nel 1879 intraprese l’analisi delle 
urine di vari ammalati affetti da malattie varie, quali la paralisi progressiva, l’ileo- 
tifo, la pneumonite interstiziale, ecc., come pure le urine di alienati; in questo ultimo 
caso il Selmi aveva la speranza di poter trovare un mezzo per distinguere la pazzia 
vera dalla falsa. 

Le esperienze confermarono pienamente le sue supposizioni e dimostrarono che 
veramente si formano delle basi patologiche (patoamine), come si formano le basi cada- 
veriche. 

Ad esempio, dalle urine di un ammalato di paralisi progressiva accompagnata 
da imbecillità crescente, ottenne una base venefica, somigliantissima alla nicotina, 
ma diversa da questa e che agisce specialmente sul midollo spinale; vi trovò inoltre 
una base, in piccolissima quantità, che ricorda la conina. Così pure dall’urina di un 
ammalato di tetano reumatico. E così in altri casi. 

Queste osservazioni furono poi fatte da altri: da Bouchard, da Pouchet e 
Villiers, ecc., senza che però ricordassero le precedenti ricerche del Selmi (vedi in 
Bibliografia. 

La conferma più bella delle idee del Selmi si ebbe, come già dissi, quando 
Udrinsky e Baumann dimostrarono che nelle urine di ammalati di cistinuria si tro- 
vavano due basi etileniche: la tetrametilendiamina e la pentametilendiamina, identiche 
colla putrescina e colla cadaverina, trovate nel 1885-86 da Brieger fra le ptomaine 
delle materie putrefatte. 

Alcuni poi arrivarono anche all’esagerazione di credere d’aver trovato delle basi 
speciali, cristallizzate, in ogni speciale malattia; fra questi va ricordato il Griffiths, 
il quale in ogni malattia avrebbe trovato nelle urine una particolare base cristal- 
lizzata. Ma specialmente per la poca probabilità delle formole date, e pei risultati 
negativi avuti dal Dr. Francesco Nicola in un caso di morbillo, è lecito mettere in 
dubbio almeno buona parte delle ricerche del Griffiths. 

Autointossicazione. — Il capitolo che riguarda le tossine non esisteva prima 
delle ricerche di Selmi, mentre ora è uno dei capitoli principali che riguardano gli 


99 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 223 


avvelenamenti e la patologia. I nomi di tossina, tossialbumina, ecc., non si trovano 
nei dizionari di medicina prima del 1880. 

Tossine e ptomaine si generano, ad esempio, dalle uova più o meno guaste e da 
ciò dei disturbi gastro-intestinali più o meno gravi. Pare anzi che le uova anche 
fresche contengano giù una piccola quantità di una ptomaina studiata dal Brieger, 
la neuridina; colla putrefazione questa ptomaina aumenta. 

Dopo il 1880 specialmente, lo studio dei prodotti della putrefazione attira l’at- 
tenzione di molti chimici; è un nuovo campo che si apre dopo le ricerche di Selmi. 
Dopo i bei lavori di Brieger, Nencki, Kossel, Baumann ed altri, si arriva al bellis- 
simo ed importantissimo concetto dell’autointossicazione. Sotto il punto di vista rac- 
comandato dal Selmi, si studiano le urine patologiche e se ne traggono delle nuove 
basi che stanno in relazione collo stato patologico dell'organismo; l’intestino special- 
mente è la sede della formazione di molti prodotti della putrefazione. 

Senza la scoperta delle ptomaine non s’arrivava certamente al concetto della 
autointossicazione. 

Questo è ciò che noi dobbiamo coscienziosamente far ben rilevare, e che già 
molti studiosi di oltre Alpi hanno fatto con grande imparzialità e giustizia a favore 
del nostro geniale chimico. 

Bouchard, basandosi su fatti vecchi empirici che già si conoscevano e su tutti 
i lavori fatti dopo il 1872, ha potuto generalizzare il concetto e il nome di auto- 
intossicazione (1), e nel 1887 pubblicò una importante serie di lezioni intitolate: Lecons 
sur les auto-intorications dans les maladies, Paris, Levy, 1887, di pp. 348 in-8°. Un libro 
come questo non avrebbe potuto essere scritto prima delle ricerche di Selmi. 

Si conoscevano, è vero, molti casi isolati, prima del 1872, si conosceva, ad 
esempio, il veleno putrido di Panum, i numerosi casi di botulismo, specialmente in 
Germania, ma non vi si dava una importanza generale per la patologia. 

Gabriel Pouchet trovò nelle urine normali degli alcaloidi chimicamente simili 
agli alcaloidi tossici, Gautier fece delle ricerche analoghe, ma tutti questi studi sono 
di molto posteriori .a quelli del Selmi. Selmi aveva già molte volte insistito sulla 
formazione di veleni alcaloidei entro l'organismo, specialmente in casi di malattia, e 
nel 1880 pubblicò una bella memoria: Prodotti anomali, in parte venefici, da alcune 
urine patologiche, considerati in correlazione colla tossicologia e la diagnosi medica, Bo- 
logna, 1880 (vedi Bibliografia). 

Ebbene chi lo crederebbe? Il Bouchard nel suo voluminoso libro non nomina il 
Selmi. Fu allora che io ed Albertoni ripubblicammo la memoria del Selmi nei nostri 
“ Ann. di chimica e di farmacol. ,, insieme ad una nota in cui dicevamo: “ I signori 
Bouchard, Felz ed Erhmann, Pouchet e Villiers ed altri, hanno fatto dal 1882 in poi 
delle ricerche sulle ptomaine che si trovano nelle urine in diverse malattie; ma nes- 
suno di loro ricorda i lavori di Francesco Selmi pubblicati nel 1880, e che si rife- 


(1) Si noti bene che anche la parola autointossicazione non si trova in nessun dizionario di 
medicina prima del 1880. Il concetto di autointossicazione deriva dalle ricerche di Selmi; ciò è 
fuori di ogni dubbio. Questo nome — usato la prima volta, credo, dal Bouchard — fu creato, ripeto, 
appunto in seguito alle ricerche di Selmi sulla formazione di materie venefiche entro l'organismo 
durante la vita. 


224 ICILIO GUARESCHI 100 


riscono appunto a quelle ptomaine che egli denominò patoamine perchè si trovano 
nell'organismo in istato patologico. Quel lavoro di Selmi non è mai stato pubblicato 
in un giornale scientifico, e perciò crediamo debito nostro di riprodurre l'importante 
memoria che Francesco Selmi presentò nel 1880 all’ Accademia delle Scienze di Bo- 
logna (La Direzione) ,. Ed ora infatti questo lavoro trovasi di frequente citato colla 
data 1888 (1). È 

Albertoni (1892), in quel suo bellissimo articolo Delle autointossicazioni, inserto 
nel Trattato italiano di patologia e terapia medica, diretto dai prof. Cantani e Mara- 
gliano, dà il dovuto merito al Selmi e scrive nell’introduzione : 


Questo concetto (dell’autointossicazione per prodotti nuovi formati entro l’organismo) 
acquistò forma concreta e scientifica solamente nei nostri tempi. E mi compiaccio ricordare che 
le ricerche degli italiani, di Selmi e della Commissione detta delle ptomaine, sulle ptomaine e 
sull’esistenza di alcaloidi in tessuti normali e patologici contribuirono grandemente a chiamare 
l’attenzione dei medici sull’argomento. 


Il Bouchard avrebbe proprio dovuto dare al Selmi il merito che gli spetta, perchè, 
benchè egli non lo nomini mai, pure è evidentemente vero che tutto quanto dice è 
fondamentalmente basato sui lavori del nostro chimico e dei suoi continuatori. 

Il Selmi aprì dunque un’altra nuova via di ricerche: non solamente chimiche, 
ma anche cliniche, ed il suo nome è quindi indissolubilmente legato a questa parte 
della patologia, cioè delle autointossicazioni. Da questo momento incominciano le 
ricerche sulle malattie che possono essere prodotte da sostanze alcaloidee formatesi 
entro l'organismo vivente. A poco a poco anche in questo campo si è reso giustizia 
al Selmi. 

L’Albertoni, giudice competentissimo più di qualunque altro (2), ancora recente- 
mente (Gennaio 1911) mi scriveva le belle parole seguenti: 


Il concetto di autointossicazione dell’organismo e della produzione di veleni ben definiti 
venne per la prima volta formulato con chiarezza da Selmi. Prima d’allora si ammetteva un’in- 
tossicazione dell’organismo per ritenzione di materiali di disassimilazione destinati ad essere in 
via normale espulsi colle orine, col sudore, colla bile. La scoperta della produzione di sostanze 
tossiche nel cadavere e nell'uomo vivente è fra le più notevoli nel campo della tossicologia e 
della fisiopatologia nella seconda metà del secolo decorso; e merita di essere annoverata fra le 
idee più originali emesse da italiani nello stesso periodo. 


Eppure, vivente il Selmi, come già dissi, si tentò di volgere quasi in ridicolo 
la scoperta delle ptomaine! Io ho visto, e vedo, delle lettere di chimici i quali di- 


(1) Si legga, ad esempio, il Trattato di Patologia generale di Bouchard tradotto da B. Silva, 
vol. I, parte 2°, ove si discorre delle intossicazioni e delle autointossicazioni prodotte dalle ptomaine 
e si vedrà quanto è trascurata la parte avuta dagli italiani in questa questione importantissima; 
mentre vi si ricordano tanti lavori di nessun valore scientifico! 

Nei migliori Trattati di Tossicologia, ove si discorre delle cause dell’avvelenamento, si fa ora 
sempre la domanda: la putrefazione cadaverica può dare origine a dei composti venefici? Si risponde: 
Sì, questa questione è da molti anni definitivamente risolta grazie ai lavori di Selmi, ecc. 

(2) L’Albertoni insieme a Lussana, sino dal 1872-73 osservò che gli estratti acquosi dei visceri 
hanno azione tossica, e quasi nel medesimo tempo scopriva un derivato immediato dei peptoni, 
velenoso, che denominò peptina e che dal Brieger dopo fu denominato peptotossina (Vedi ALBERTONI, 
Trattato di Fisiologia). 


N°] 


101 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 225 


b 


cevano sulle ptomaine delle cose incredibili! Per la storia della chimica, e in questo 
caso, meglio, dei chimici, avrebbe non poca importanza l’epistolario del Selmi, che 
a suo tempo dovrà essere pubblicato. 

Trasformazioni che subiscono le sostanze venefiche per l’azione della putrefazione e 
dentro l'organismo. — Scoperte le ptomaine e studiati i processi putrefattivi, il Selmi 
fu uno dei primi, se non il primo, a raccomandare lo studio delle alterazioni che le 
sostanze venefiche possono subire quando sono miste a materie in via di putrefa- 
zione ed anche quali siano le modificazioni o trasformazioni che il veleno può subire 
entro l'organismo sano ed ammalato. Egli riconobbe, ad esempio, che la solanina già 
nello stomaco può sdoppiarsi dando la solanidina e che facendo digerire per 24-36 ore 
la solanina nel succo gastrico ha luogo la parziale trasformazione in solanidina. Ora 
sì sa che la solanidina passa nelle urine e che ia solanina anche in presenza di 
materie putrefatte si decompone in solanidina. L'importanza di questi studi non 
risiede tanto nelle esperienze che egli ha fatto, quanto, e più, per le ricerche che ha 
promosso. Da questo momento, cioè da circa il 1874, datano le principali ricerche 
fatte sulle trasformazioni subìte dalle sostanze organiche nelle materie putrefatte. 

Ricerche su molti alcaloidi, glucosidi e sostanze amare venefiche. — Selmi ha fatto 
molte ricerche su un gran numero di alcaloidi ed altre materie organiche di interesse 
tossicologico, specialmente allo scopo di trovare delle reazioni che possano servire 
a riconoscerle e a separarle da altri corpi. 

Interessanti sono, ad esempio, le ricerche sulla stricnina, sulla morfina, sull’atro- 
pina, ecc., come pure sulla solarina; e già sino dal 1877, ed anche prima, egli aveva 
notato delle differenze tra le varie solanine e le solanidine che ne derivano. 

“ Facendo, scriveva, sdoppiare certa solanina di derivazione ignota, ma che pur 
possedeva tutti i caratteri di purezza, se ne otteneva una solanidina il cui cloridrato 
cristallizzava arborescente od a stella dall’alcol, mentre con solanidina ricavata da 
solanina di Merck, il cloridrato si deponeva in grossi cristalli, per lo più isolati ed 
anche in ottaedri romboidali , (1). 

Anche queste ricerche di Selmi furono confermate (veggasi A. Colombano, “ Atti 
R. Ace. dei Lincei ,, 1907, XVI, 2° sem., p. 684). 

La bellissima e caratteristica reazione della morfina basata sulla trasformazione 
in apomorfina e conosciuta col nome di reazione di Pellagri, e che più giustamente 
dovrebbe chiamarsi reazione di Selmi-Pellagri, fu trovata nel suo laboratorio durante 
alcune ricerche tossicologiche. 

Il Selmi sino dal 1872 tentò di scoprire delle nuove reazioni chimiche che va- 
lessero a riconoscere delle piccole quantità di picrotossina e di colocintina, due veleni 
potentissimi. Se non raggiunse completamente lo scopo, è però fuori di dubbio che 
contribuì alla ricerca tossicologica di questi due principii (Enciclop. Chim., 1874, VII, 
p. 816-818). 

Ricerca tossicologica dell’arsenico. — Numerose sono le osservazioni assai 
utili che il Selmi ha fatto relativamente alla ricerca dell’arsenico. Innanzi tutto ha 
esaminato meglio alcune delle principali proprietà dell’anidride arseniosa; ha ricono- 


(1) Enciclopedia di Chim., vol. X. 
Serte II. Tox. LXII. D 


226 ICILIO GUARESCHI 102 


sciuto, ad esempio, che questo corpo comincia ad evaporarsi a 100° e più ancora a 
130°; osservò che i dati sulla solubilità nei vari solventi o non si conoscevano o erano 
poco esatti e determinò la solubilità nell’alcol metilico, nel cloroformio, ecc.; notò 
che l’anidride arseniosa col solfidrico non precipita se non quando la materia orga- 
nica sia completamente distrutta. 

Modificò utilmente l’apparecchio di Marsh raccomandando di scaldare un lungo 
tratto del tubo per avere gli anelli. 

A Selmi si deve la prima idea di raffreddare il piccolo tratto di tubo strozzato 
con una lenta corrente di acqua fredda, che cade dentro uno stoppino involgente 
la strozzatura, per concentrare in un limitato spazio l’anello arsenicale; la reazione 
è resa così molto più sensibile; ora questa utile modificazione è adottata da tutti i 
tossicologi (si vegga ad esempio in Gadamer's, Lehrb. der Chem. Toxikologie, 1909, 
pag. 159). 

L'apparecchio così modificato dal Selmi trovasi descritto nelle “ Mem. d. R. Accad. 
delle Scienze di Bologna , e nel Compl. e Supp. alla Enciclop. chim., vol. I, p. 812. 

Anche il suo metodo di distruzione della sostanza organica mediante l’azione 
prima coll’acido solforico e poi distillazione in corrente di gas cloridrico, è ritenuto 
da molti esperimentatori ottimo metodo, e secondo alcuni anche migliore di quello 
di Fresenius e Babo. 

Depurazione dello zinco arsenifero mediante il cloruro ammonico. — I suoi studi 
sulla tossicologia dell’arsenico lo condussero a trovare un metodo pratico per depu- 
rare lo zinco arsenifero. Si noti bene che allora (1875-1880) l’arsenico che si trovava 
in commercio era tutto arsenicale, più o meno. 

Il metodo consiste nel fondere lo zinco in crogiuolo e nell’immergervi, mediante 
bastoncino e rete di ferro, ed agitando, dei pezzi di cloruro ammonico. L’arsenico 
si elimina allo stato di cloruro arsenicale (“ Atti R. Acc. dei Lincei ,, 1879). L’'Hote 
poi (“ C. R.. ,, 1884, t.98, p. 1491) diede come nuovo il metodo di depurare l’arse- 
nico sostituendo nel metodo precedente al cloruro di ammonio il cloruro di magnesio! 
(£ Riv. di chim. farm. ,, 1884, II, p. 444) (vedi Bibliografia). 

Reazione tra lo zinco e l'acido solforico. — Selmi studiò anche l'influenza delle 
impurezze dello zinco e quella delle sostanze estranee aggiunte all’acido solforico, 
sulla rapidità della reazione fra lo zinco e l’acido solforico. Interessanti sono le 
memorie: Dell’accelerazione che il fosforo e gli ipofosfiti inducono nella reazione tra 
l’acido solforico e lo zinco (“ Mem. Accad. Bologna ,, 1877) e Di alcune sostanze non 
metalliche che accelerano la reazione tra lo zinco e Vacido solforico (£ Mem. R. Accad. 
Lincei , (3), vol. II, 1878). Interessante specialmente è il modo di comportarsi del 
fosforo e dell’idrogeno fosforato. Osservò poi che alcuni sali sollecitano, altri ritar- 
dano la reazione fra lo zinco e l’acido solforico (1879). Questi studi del Selmi meri- 
tano un più attento esame. 

La velocità di soluzione dello zinco negli acidi, secondo: le impurezze contenute 
nel metallo o delle sostanze aggiunte all’acido, è stata poi studiata da Ericson-Auren 
e Palmaer, da Brunner (1905) e da altri. 

Ricerca tossicologica del fosforo. — Risulta dalle ricerche del Selmi che una 
parte almeno del fosforo introdotto nell’organismo si elimina, per via delle urine, in 
forma di prodotti fosforati organici o di acidi minori del fosforo. Prima del Selmi 


103 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 227 


non si dava molto valore alla ricerca del fosforo nelle urine in caso di avvelena- 
mento. Il Selmi ha emesso l'opinione che il fosforo nell'organismo animale dia origine 
a basi fosforate venefiche, ossia a ptomaine fosforate ed anche ad altri composti 
fosforati, ai quali si dovrebbe attribuire i sintomi del veneficio. 

Lefort, Brugnatelli ed altri hanno negato che dalle materie in putrefazione si 
sviluppi dell'idrogeno fosforato. Selmi invece trovò che dai cadaveri esumati e da 
albumina putrefatta si svolgono dei prodotti fosforati volatili. Anche nelle urine degli 
avvelenati per fosforo trovò un composto volatile fosforato. 

La questione dello sviluppo di composti fosforosi volatili dalle materie putre- 
fatte non è ancora risolta in tutte le sue parti, ma è indubitato che Selmi vi ha 
portato un buon contributo. 

Egli ha inoltre modificato e perfezionato il metodo di ricerca tossicologica del 
fosforo. ; 

Ricerca chimico-tossicologica dell’acido cianidrico. — Al Selmi si debbono 
anche molte esperienze relative alla ricerca dell’acido cianidrico, del cianuro di mer- 
eurio, ece. Per questi lavori rimandiamo alla Bibliografia. 

Molte ricerche che riguardano la chimica tossicologica sono state esposte e riassunte 
dal Selmi stesso nell’articolo Tossicologia, nell’ Enciclop. chim., 1877, vol. X, p. 605-665. 

Trasformazione del calomelano in bicloruro di mercurio entro organismo. 
— Selmi sino dal 1840 ha discusso la questione se il calomelano può in presenza 
dei cloruri alcalini entro all’organismo trasformarsi in sublimato corrosivo, e giunse a 
risultato affermativo. Anche oggi giustamente si raccomanda di non far uso di ali- 
menti molto salati, quando si è preso il calomelano come medicamento. Egli studiò 
anche l’azione dell’albumina (vedi Bibliografia). 

Mialhe quasi contemporaneamente si occupava della stessa questione, ed il Ma- 
laguti nelle sue bellissime lezioni di chimica ricorda le ricerche di Mialhe e di Selmi: 

MM. Mialhe et Selmi ont prouvé, chacun de son còté, que la transformation du calomel 
en sublimé corrosif, par l’action des chlorures alcalins, peut avoir lieu à la température de 38° 
à 40° (température du corps humain), pourvu que l’on fasse intervenir des matières organiques. 
Ce fait est grave et doit étre pris en sérieuse considération par les médecins. 

(EF. MaracutI, Lecons éém. de chimie, 2° éd., 1858-60, I, p. 943). 

Ricerche sulle macchie di sangue. — Cristalli di emina. — Sulla forma- 
zione dei cristalli di emina per scoprire le macchie di sangue, il Selmi ha fatto nu- 
merose ed interessanti osservazioni, che sono state da lui pubblicate in una memoria: 
Sui cristalli di emina considerati qual mezzo più acconcio per iscoprire il sangue nei 
casi di perizia legale (£ Mem. R. Acc. Sc. di Bologna , (II), 1871, vol.I e “ Gazz. 
chim. ,, p.549 e riassunte anche nella Enciclop. Chim., 1871, t. V, p. 720. 

Ha indicato il modo migliore di operare per avere i cristalli, l'avvertenza di non 
mettere troppo cloruro di sodio, che può anche impedire la formazione dei cristalli 
di emina, ecc. Ha fatto vedere che alle volte si hanno cristalli di aspetto diverso. 

In quanto alla ricerca delle macchie sanguigne nelle stoffe sucide e tinte, fu argo- 
mento di studi per parte di Fr. Selmi, specialmente in un lavoro pubblicato nel 1879 
(Enciclop. chim., Compl. e Supp., 1880, vol. II, pag. 574-575) (vedi anche Bibliografia). 

Da questo poco che io ho esposto si scorge subito che Selmi ha toccato tutti i 
punti principali della chimica tossicologica. 


998 ICILIO GUARESCHI 104 


IX. 


Chimica applicata all’agricoltura, all’industria, alla farmacia, ecc. 


Alcuni dei lavori di Selmi interessano l’agricoltura. E basterà che io ricordi le 
sue ricerche sull’azione dello solfo sull’oîdium, sul guano sardo, la traduzione delle 
lezioni di Chimica agraria del Malaguti, le ricerche sulla nitrificazione, quelle sul- 
l’azione fertilizzante delle muffe in causa del loro potere riduttore e dell’assorbi- 
mento dell’azoto atmosferico. 

Già nel 1844, quando era ancora a Reggio, lesse a quella Società di Agricoltura 
un lavoro circa i terreni più o meno proprii alla coltivazione del riso (1). Secondo 
Selmi i terreni meno atti a questo uso sarebbero i terreni gessosi, perchè da essi 
può prodursi del gas acido solfidrico derivante non solo dalla putrefazione di sostanze 
organiche, ma perchè il solfato di calcio ridotto a solfuro per successiva azione del- 
l’acido carbonico può dare acido solfidrico. 

Egli primo iniziò nel 1851 la traduzione delle Lezioni di chimica agraria del 
nostro Malaguti, allora professore nella Università di Rennes; queste lezioni diffusero 
in tutta Italia le notizie più importanti che riguardavano le applicazioni della chi- 
mica all'agricoltura. 

Nel 1855, per incarico di Cavour, intraprese insieme a Missaghi lo studio del 
guano sardo, e molte delle sue osservazioni egli comunicò alla R. Accademia di Agri- 
coltura di Torino, della quale il Selmi era socio sino dal 1851. 

Stabilitosi a Bologna e divenuto socio di quella Società Agraria, insieme ai suoi 
lavori di chimica tossicologica, ne fece non pochi importanti anche per l’agricoltura. 
E qui basti ricordare i lavori fatti d'accordo coll’Ercolani intorno all’azione ferti- 
lizzante delle muffe, le quali per il loro potere riduttore trasformano l’azoto dell’aria 
in ammoniaca, riducono lo solfo ed i solfuri in acido solfidrico, il nitro in ammo- 
niaca, ecc. 

Egli fece anche delle esperienze sui semi di frumento collo scopo di aumentarne 
la potenza produttiva, e propose di immergere i semi prima in una soluzione di per- 
fosfato calcico e successivamente in altra di carbonato potassico sino a perfetta neu- 
tralizzazione. 

Nè vanno dimenticate le sue ricerche sul caseificio. 

Assai interessante è ancora il suo libro Del vino, fabbricazione, conservazione, 
invecchiamento, difetti, malattie, ecc., con appendice sulle falsificazioni. 

Anche la chimica industriale deve qualche cosa al Selmi, e qui basti il ricordare 
le sue ricerche sull’elettrodoratura, la pila a triplice contatto, che fu sperimentata 
anche nei telegrafi dello Stato, ecc. Il suo Manuale dell’arte di indorare e d’inargentare 
coù metodi elettrochimici, ecc. ecc., pubblicato nel 1844, fu quasi subito tradotto in 


(1) Qualche riflessione chimica sui terreni e sulle acque che sono meno proprie a formare le risaie 
per ciò che riguarda lo svolgimento dei gas malefici. Memoria letta nella tornata del 27 giugno 1844 alla 
Società d’agricoltura di Reggio (vedi anche “ Nuovi Ann. di Scienze natur. di Bologna , (2), II, p. 93). 


105 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 229 


francese. La sua Chimica elementarissima, Torino, 1855, fu scritta per uso delle scuole 
d'arti e mestieri. 

Nel 1857 il Selmi insieme al Clementi fondò un periodico mensile 7 Tecnico, del 
quale si pubblicarono tre volumi (1857-1861) (1). 


DE 


Ricerche varie. 


Nulla sfuggiva alla sua attenzione, anche in quelle cose che sembrano tanto di- 
verse dagli argomenti che egli trattava in modo speciale. 

Nelle indagini intorno alla presenza dell’argento nei minerali metalliferi, ecc., 
di Malaguti, Durocher e Sarzeaud (1847-48), gli autori fecero notare come l’argento 
si volatilizzi facilmente in presenza di altri metalli, e come si abbia sempre una per- 
dita notevolissima di argento. Il Selmi (“ Ann. di Majocchi , (2), 1850, t. I, p. 133) 
fece subito osservare quanto segue: 


La facile e copiosa volatilità dell’arsento in compagnia di altri metalli non è fatto tanto 
nuovo, quanto si vorrebbe dagli autori. Hellot narra di avere osservato che due leghe una 
composta di 7 parti di zinco con 1 p. di oro, e l’altra di 21 p. dello zinco con 1 p. di argento, 
quando siano scaldate, vaporano per intero senza lasciare residuo di sorta. Nessuna meraviglia 
adunque, se perdesi molto argento volatilizzato dalle cadmie: fa piuttosto meraviglia che i metal- 
lurgici ed î chimici moderni non abbiano tenuto nel debito conto le vecchie osservazioni di 
Hellot (Nota di Fr. S.). 


Egli fermava la propria attenzione su tutte quelle reazioni o quei fenomeni di 
cui non sì sapeva dar ragione e che erano incompletamente studiati. Ad esempio 
riguardo la trasformazione dell'acido oleico in acido elaidinico, nel 1852 (annotazioni 
alla trad. del Regnault, Trattato di chimica, Torino, 1852, vol. IV, p. 623), faceva 
delle osservazioni interessanti, e a questo proposito scriveva: 


L’azione curiosa dell’acido nitroso sull’acido oleico, e quella trasformazione isomerica in 
cui lo induce, per cui si muta in acido elaidico, quantunque fosse studiata con qualche accu- 
ratezza da alcuni chimici, tuttavolta vorrebb’essere indagata più a profondo, affine di conoscere 
se consiste veramente in un’azione di contatto, o non piuttosto nell’opera di ossidazione in cui 
involga una parte dell’acido grasso, mentre per quel moto intestino che ne nascerebbe, altra 
parte, la maggiore, si risenta fino al punto di mutare il suo ordinamento molecolare. 


Depurazione del solfato ferroso. — A pag. 443 del vol. III del Corso di chimica 
del Regnault (1851) si trova l'osservazione seguente di Selmi: 


Quando si fa scorrere un afflusso d’idrogeno solforato in una soluzione di sale di perossido 
di ferro, l’idrogeno viene combusto da una parte dell'ossigeno del perossido, e però il solfo si 


(1) F. Selmi tentò di fondere la galena sotto uno strato di borace, di gittarla in istampi, per 
farne statuette e piccoli ornamenti di poco costo, inalterabili all’aria. Il nome di Selmi è ricordato 
anche nei più recenti trattati di Galvanostegia o di Elettrodoratura (veggasi, ad esempio, la Galva- 
nostegia di Gherzi e Conter, Milano, 1909, pag. 5). 


230 ICILIO GUARESCHI 106 


depone. Fu osservato da Fr. S. che questo solfo, raccolto da principio, purchè il liquido sia 
ben acido, suol essere plastico. Fu proposto questo mezzo dal suddetto Fr. S. per purgare il 
vitriolo del commercio, e ridurlo a puro solfato di protossido. L’idrogeno solforato serve come 
riducente, ed eziandio come scomponente del solfato di rame, che suol essere misto al vitriolo 
di ferro; si può sostituire l’idrato di solfuro di ferro all’idrogeno solforato, per detta puri- 


ficazione. 


Osservazioni sull’isomorfismo. — Non prive di interesse sono le sue osservazioni 
sull’isomorfismo, che trovansi nelle note alla traduzione del Corso di chimica del Re- 
gnault, vol. III, p. 456-461 e che il Selmi tolse dalla sua opera inedita Introduzione 
allo studio della chimica, premiata nel 1849 dalla R. Accademia delle Scienze di 
Torino. 

Sui cianuri d'oro. — Selmi ha attirato l’attenzione sul fatto abbastanza curioso 
che l'oro metallico si scioglie nel cianuro di potassio. Affinchè l’oro si sciolga nel 
cianuro potassico è necessaria la presenza dell'ossigeno. Selmi osservò la solubilità 
dell’ammoniuro d’oro nei cianuri alcalini ed alcalino-ferrosi, e dell’oro metallico diviso 
nei cianuri di ammonio, di bario, di calcio e di magnesio. 


Oltre al cianuro aurico e di potassio, scrive Selmi, si conosce eziandio il doppio cianuro 
di potassio e del protocianuro d’oro KCN.AuCN e così i doppi cianuri di sesquiossido d’oro 
col magnesio, calcio, bario ed ammonio. La formazione di questi cianuri doppi è anzi un esempio 
notevolissimo della forza di propensione che hanno certi corpi a costituirsi in doppi composti, 
perchè nascono dalla reazione del cianuro alcalino semplice nell’ammoniuro d’oro, reazione che 
non si effettua senza lo spostamento di ammoniaca, la separazione di calce, magnesia e basite, 
libere, e la conseguente cianurazione dell’oro. Fr. S. pubblicò in proposito una memoria negli 
“ Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino , (V. Bibliografia). 


XI. 
Trattati. — Traduzioni. — Enciclopedia di Chimica, ecc. 


In Selmi è sempre stato vivissimo il desiderio di diffondere le cognizioni chi- 
miche nel proprio paese. Egli non era di quei chimici che si rinserravano nella stretta 
cerchia delle loro ricerche sperimentali, sdegnando quasi di far partecipi del loro 
sapere anche gli umili, e di diffondere gli elementi di una scienza pur tanto utile 
in tutti i rami dell'umano sapere e della vita pratica. Il Selmi seguì in ciò l'esempio 
di grandi chimici stranieri e specialmente del Liebig; ed anche sotto questo riguardo 
va data ampia lode al nostro chimico. 

Nel 1850-51 pubblicò due manuali di chimica assai preziosi, ed oggi divenuti 
rari: Principi elementari di chimica inorganica, Torino, 1850, e Principi elementari di 
chimica organica, Torino, 1851. Del primo si fece nel 1856 una seconda edizione. 

Fino dal 1844 aveva compilato un manuale di elettrodoratura che fu tradotto 
in francese dal Valincourt e nel 1856 insieme al Valincourt, Mathey e Malepeyre 
pubblicò il Nouvel manuel de dorure et argenture par la méthode électrochimique, ecc. 

Un libro che valse a diffondere le nozioni di chimica più elementari, special- 


i 


107 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 291 


mente nella classe operaia, in quel tempo in cui si fondavano in Torino le prime 
scuole pel popolo, è la sua Chimica elementarissima, Torino, 1855. 

Nel 1851-1852, insieme all’Arpesani, tradusse il Corso elementare di chimica del 
Regnault, in 4 vol., Torino, €. Pomba. È questo un prezioso libro che il Selmi ornò 
con saggezza ed erudizione di numerose ed importanti note ed addizioni. Ed ancor 
oggi è lodatissimo da chimici di gran valore, quale il Le Chatelier. Questo libro ebbe - 
notevole influenza sulla diffusione delle cognizioni chimiche in Italia dopo il 1850 
(vedi la Bibliografia, n. 259). 

Ho già detto che Selmi nel 1850 tradusse le prime Lezioni di chimica agraria del 
grande Faustino Malaguti, allora professore di chimica nella Università di Rennes, 
e tanto piacquero queste prime lezioni di chimica agraria, che subito dopo altri 
tradussero le lezioni che il Malaguti di mano in mano pubblicava. 

Stupende sono le brevi prefazioni che il Selmi scrisse per questi due libri del 
Regnault e del Malaguti. 

Pure in quel tempo il Selmi fece delle annotazioni alle celebri Lettere sulla chimica 
del Liebig, che erano state tradotte da Leone. 

Però l’opera sua, più vasta e di utilità più generale pel proprio paese, fu la 
Enciclopedia di chimica scientifica e industriale, in 11 grossi volumi in 4° e 3 vol. di 
Complemento e Supplemento, iniziata nel 1867 e terminata nel 1881; il terzo volume 
del Complemento e Supplemento fu diretto dal prof. Guareschi, e tutta l’opera termi- 
nata nel 1882. 


Questo immenso lavoro assorbì buona parte della grande attività del nostro 
chimico. 


XII. 


Epistolario. 


Io posseggo un numeroso carteggio che incomincia col settembre 1870 e termina 
col luglio-agosto 1881. Molte di queste lettere sono assai interessanti per la storia 
della chimica e dei chimici, tutte poi importantissime per la spigliatezza e la bellezza 
dello scrivere; alcuni brani qua e là ho pubblicato nella biografia, ma tutto il resto 
ora non deve vedere la luce. Rimando ad altro tempo la pubblicazione dell’epistolario. 
Sarò grato a tutti coloro che avranno la bontà di farmi conoscere o di mandarmi 
delle lettere del nostro chimico (1). 


Nella revisione e correzione delle bozze di questo lungo lavoro, mi fu di valido 
aiuto mio figlio Pietro, che ringrazio. 


(1) Selmi era socio o membro corrispondente di tutte le principali Accademie o Società, scien- 
tifiche italiane ed anche di moltissime straniere, come, ad esempio: membro dell’Accademia di 
Medicina, della Società di Farmacia e della Società d’Igiene di Parigi, ecc. 


ICILIO GUARESCHI 108 


Do 


I 
DO 


XIII. 
Bibliografia. 


NB. Questa bibliografia, che posso dire quasi completa, almeno nella parte più 
importante, fu da me raccolta sino dal 1881-1882, quando un collega del Selmi 
doveva farne la commemorazione alla R. Accademia dei Lincei, della quale il Selmi 
era Socio corrispondente da moltissimi anni; ma quella commemorazione non fu mai 


È mio dovere il dire che la raccolta bibliografica dei lavori del Selmi, special- 
mente relativa a quelli letterari, pubblicata dal Prof. Tommaso Casini negli “ Atti 
e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie modenesi , 
(IV Serie), vol. X, 1901, pagg. 391-416 e che comprende 186 pubblicazioni, mi è 
stata utile per completare questo mio lavoro. 


1. Conservazione dei cadaveri nella loro integrità col naturale colorito ed iniezioni fino ad ora da 


altri non ottenute. 
(Giorn. lett.-scient. mod., aprile 1840, t. II, pp. 46-48). 


2. Bollettino di chimica farmaceutica, compilato da G. C. DeL Bur, osservazioni. 
(Giornale letterario-scientifico modenese, sett. 1840, t. II, pp. 462-468). 

Nel cenno biogr. di Selmi dato da Cantù: L'Italia scientifica contemporanea, Milano, 1844, 
trovo le seguenti parole: 

“I suoi studi scientifici non furono semplici ripetizioni di prove già fatte, ma introdus- 
sero a nuove conseguenze, tra queste voglionsi nominatamente citar l’esistenza di un ossido di 
ferro, superiore ai conosciuti sinora, sospettato da lui e tentato (“ Bollettino farmaceutico ,) da 
Del Bue: ma dai tentativi di trovarlo lo scoraggiò quell’indifferenza o piuttosto quel disprezzo 
che trova fra noi chi esce dalle vie trite; e quattro mesi dopo fu scoperto da Fremy in Francia. 
Era l’acido ferrico Fe0? ,. 


3. Intorno all’azione dei cloruri d’ammonio e di sodio sul cloruro mercuroso. Nota 1°. 
(Giornale letterario-scientifico mod., dic. 1840, t. III, pp. 222-229). — Ann. di Majocchi, 
1864, II, pp. 52-63. 

Una nota di Selmi su questo argomento fu presentata al Congresso degli scienziati in 
Firenze 1841 dal D.r Buonamici. La conclusione del lavoro era: “che alla temperatura ordi- 
naria è cloruri alcalini suddivisati convertono il mercurio dolce in sublimato corrosivo ,. Il 
Selmi tende a provare che i cloruri alcalini in soluzioni concentrate non solo decompongono 
a freddo il calomelano, ma ancora che non valgono a sciogliere calomelano indecomposto, come 
opina il Prof. Peretti (Ann. di Majocchi, 1841, III, p. 276, nei rendiconti del Congresso di 
Firenze). Il Dott. Semmola, il Piria ed il Cassola in Napoli hanno poi ottenuto risultati con- 
simili a quelli esposti dal Selmi (Ivi, loc. cit., p. 278). 

La prima memoria di Selmi intorno all’azione che l’albumina esercita sul calomelano fu pre- 
sentata dal Cenedella al Congresso degli Scienziati in Firenze nel 1841. Fu nominata una Com- 
missione composta dal principe Luigi Bonaparte, Peretti e Cozzi per prendere in esame i fatti 


109 MRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 239 


principali contenuti in quella memoria (Ann. di Majocchi, 1841, f. ITI, p. 268). Su questo 
argomento tanto importante per l’incompatibilità delle sostanze tossiche e medicamentose il Selmi 
ha poi pubblicate altre note. 


Nota 2* e 8° (Giorn. letter.-scient. modenese, f. III, febb. 1841, pp. 371-781 e dic. 1841; 
Opuscoletto in-8° di pp. 16, Modena, dic. 1841, e Ann. Majocchi, 42, f. VII, p. 706). 


La nota 2% Intorno all’azione dei cloruri di ammonio e di sodio sul cloruro mercuroso 
con annotazioni di Abbene, Torino, 1841, opuscolo in-8° di pp. 16, è estratta dal “ Giornale 
delle scienze mediche ,, ove appunto fu descritta la nota 2° del Selmi colle annotazioni di 
Abbene. 


4. Intorno all’azione dei cloruri alcalini sopra il mercurio dolce (Selmi, Larocoun e MIALAR). 
(Ann. Majocchi, 1844, XVI, pp. 177-184). 


Verhalten des Calomels zu alkalischen Chlormetallen. 
(Arch. d. Pharm., LXXVII, p. 75). 


(A | 


6. Sur l'action des chlorures alcalins sur le calomélas (Lettre de M. Fr. Selmi è M. Mialhe). 
(Journ. Pharm. Chim., 1844 (II), V, pp. 130-132). 


Porta nuovi argomenti e nuove esperienze che dimostrano la trasformazione del calome- 
lano in sublimato corrosivo per l’azione di soluzioni concentrate di NaCl; meglio se in pre- 
senza di albumina ed anche quando il liquido è acidulato con acido acetico. 


6%. Conservazione del latte. : 
(“ Museo scient. lett. ,, Torino, 1841, vol. III, p. 95). 


Il manoscritto di questo lavoretto si conserva nella Biblioteca civica di Torino. 
Già quando era a Reggio il Selmi scriveva degli articoli per giornali piemontesi di indole 
liberale, quale era appunto il “ Museo ,. V. Bibliogr. letteraria. 


7. Intorno ai lattati calcico e ferroso. Nota. 
(Giorn. letter.-scient. mod., 1841, t. III, pp. 165-469). Annotazioni al Regnault, vol. IV. 


8. Nuovo processo per la preparazione dell'acido lattico e suoi sali, ma specialmente dei lattati 
ferroso e ferrico. 
(Ann. Majocchi, 1841, III, pp. 242-251). 
Prepara l’acido lattico dal lattato di calcio coll’acido ossalico, e il lattato ferroso per l’azione 
dell’acido lattico sul ferro a non più di 40°-459. 


9. Intorno all’azione dei cloruri di ammonio e di sodio sul cloruro mercuroso coll’intermezzo 
dell’albumina. 
(Foglio di Modena, Anno II, N. 115, 8 agosto 1842). 


10. Sopra un nuovo metodo per depurare il vetriolo di ferro. Nota. i 
(Ann. Majocchi, 1842, V, pp. 329-330. Annotazioni alla trad. del Trattato di Chim. del 
Regnault, vol. II, p. 443). 

A questa fece seguito un’altra Nota: Intorno alla depurazione del vetriolo di ferro coll’idro- 
geno solforato, diretta al ch. Merosi prof. di chim. farm. nel R. Liceo di Reggio da Fr. Selmi 
sostituto al medesimo. 

(Foglio di Modena, 1843, Ann. II, 30 giugno, N. 208). 
Serre II, Tox. LXII. el 


234 i ICILIO GUARESCHI 110 


11. Studi sopra l’albumina. Indagini intorno la combinazione che forma il cloruro mercurico 
coll’albumina. Memoria. 
(Ann. Majocchi, 1842, VI, pp. 3-24). 
Le conclusioni principali di questo lavoro importante sono dal Selmi riassunte in una 
nota (9) della sua traduzione del Traité de Chimie del Regnault, Torino, 1852, tom. IV, 
pp. 540-541. 


12. Sulla costituzione dei solfocloruri. (Lettera di arsomento chimico diretta al dott. I. A. Cenedella). 
(Foglio di Modena, Ann. I, N. 94, 1842). 


Ha poca importanza. 


13. Considerazioni sopra i vocaboli precipitazione e coagulazione e riflessioni sulla diversa signi- 

ficazione da attribuirsi ai medesimi in riguardo agli albuminosi. Modena, 1843. 

Già sino dal 1842 (Ann. Majocchi, VI, p. 22) il Selmi giustamente scriveva: 

“ Io insisto, scrive Selmi, sulla differenza dei vocaboli che si devono adoperare quando si 
vuole esprimere che una sostanza albuminosa dallo stato di solubilità è passata a quello di 
insolubilità. In tutti i libri di chimica, quando si ha a dire che l’albumina od un suo congenere 
diviene insolubile per la reazione di qualche acido, o d’un sale, si serive per lo più indifferen- 
temente che viene precipitata 0 ‘coagulata. Ciò non è esatto, poichè la parola coagulazione non 
significa un cambiamento di stato per combinazione, ma per turbamento molecolare. Molti reattivi 
precipitano e coagulano sostanze albuminose secondo il grado di loro concentrazione, o secondo 
le circostanze in cui si trovano; altri le coagulano, altri le precipitano solo. Si distingue se la 
sostanza albuminosa è precipitata o coagulata, quando togliendole il corpo che operò nella mede- 
sima il cangiamento di stato, essa sì ridiscioglie o rimane pienamente insolubile ,. 


14. Considerazioni intorno alla nomenclatura degli ossidi metallici e varie proposte di alcune 
modificazioni alla stessa. 
(Ann. Majocchi, 1842, VII, pp. 10-22). 
Nota di poca importanza. 


15. Sulle combinazioni dell’jodio con alcuni corpi binari. 
(Atti Scienz. Ital., 1842, pp. 421-422). 


16. Sopra alcuni cloramiduri di mercurio. (Comunicazione fatta alla R. Acc. il 22 marzo 1848). 
(Mem. R. Ace. Scienze di Modena, 1858, t. I, parte III e IV, p. xxxI e xxxIII). 


17. Sunto di varie esperienze intorno all’azione che reciprocamente esercitano l’iodio, Vacido 
iodidrico e vari binari. 
(Ann. Majocchi, 1848, XI, pp. 251-258). 


18. Précis d’expériences diverses sur Vaction que l’iode, l’acide iodhydrique et certuins binaires 
exercent les uns sur les autres. Extrait d’une lettre adressée au rédacteur en chef par 
M. Frangois Selmi. Reggio (Duché de Modène) 30 nov. 1843. 
(L’Institut, 1844, XII, pp. 6-7. — Ann. de Millon et Reiset, 1845, pp. 60-61). 
È pressochè lo stesso lavoro precedente. 


19. Lettre en réponse à une phrase contenue dans un récent mémoire communique par M. Millon 
à l’Acad. des Sciences de Paris. Sur la solubilité de ce corps dans les liqueurs alcalins. 
(L’Institut, 1844, XII, p. 412). 
Discorre dell’azione del jodio sul cloruro mercurico e dell’emetico. Cita gli Ann. di Se. Nat. 
Bol., luglio e agosto 1844. 


DO 
(DO) 
UL 


111 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 


20. Studì intorno all’azione del jodio sopra il clorido di mercurio. 

(Atti Congressi di Padova e Lucca, e Ann. Majocchi, VI, p. 207; IX, p. 251; 
XII, p. 140). 1 

(Studî sper. e teor. di chim. mol., fase. I-II, pp. 29-80; 1845). 


21. Intorno agli acidi anidri, agli. acidi idratati, all'ufficio che compie l’acqua nelle combina- 
zioni coi medesimi e cogli acidi in genere, ed alla costituzione del tartaro emetico. Memoria 
diretta in forma di lettera al sig. Prof. Bartolomeo Bizio, presentata alla R. Accad. delle 
Scienze di Modena il 24 febbraio 1843. 

(Mem. R. Ace. Scienze di Modena, 1858 (1), t. II, pp. 106-128). 


È interessante assai. 


22. Memoria di Fr. Selmi sugli acidi anidri e sugli acidi idratati ecc., Modena, 1843, Tipo- 
grafia Soliani. 


Questa parrebbe fosse identica alla Memoria del N. 21, ma non credo, perchè il brano di 
questa memoria citato dal Selmi nelle Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 554, non si trova 
nella memoria col titolo medesimo al N. 21. Forse è la stessa citata al N. 28 della bibliogr. 
del Casini, il cui titolo è: Memoria sull’ufficio che compie l’acqua nelle chimiche combinazioni 
cogli acidi e colle basi, e sulla costituzione del tartaro emetico, Modena, 1843. Il Casini nota: 
È citata in più altri lavori del Selmi, ma non si è potuto vederne alcun esemplare. 


23. Preparazione dell’acido jodidrico. 
(Ann. Majocchi, 1844, XIV, pp.-20-25). 


Il metodo consiste nel fare agire il gas acido solfidrico sul jodo suddiviso mediante il 
vapore d’acqua. L'apparecchio usato è ingegnoso. L’acido che si ottiene è molto concentrato. 
Il gas solfidrico incontra il vapore di jodo quando esce col vapor d’acqua. 


24. Sullo stato del jodo nei joduri jodurati e sullo sviluppo di acido solfidrico per l’azione del- 
l’acido solforico sull’acido jodidrico. Nota ad una memoria di Labouré. 
(Ann. Majocchi, 1844, XIII, pp. 205-208). 


L’autore ricorda come egli sino dal 1848 (Atti R. Ace. Scienze di Modena, t. II e Rendic., 
anno 1843) aveva dimostrato che nelle soluzioni dei joduri jodurati il jodo vi esiste allo stato 
libero. Egli afferma che la soluzione di jodo nella soluzione concentrata di joduro di potassio 
si comporta coll’acqua nello stesso modo della soluzione alcalina di jodo. 

Il Labouré ha riconosciuto che per l’azione dell’acido solforico concentrato sui joduri solubili 
si sviluppa dell’acido solfidrico ed il Selmi fa notare come egli nelle Esperienze intorno all’azione 
dell'acido solforico sull’acido jodidrico (Ann. Majocchi, 1843, XI, p. 251) aveva dimostrato che 
nelle stesse condizioni appunto si produce anche dell’acido solfidrico e spiega come questo acido 
possa formarsi. 


25. Intorno al jodido mercurico in soluzione (Sur le iodide de mercure en dissolution). 
(Ann. Majocchi, 1844, XIII, pp. 157-166; 233-242. — L’Institut, 1844, XII, pp. 102-104. 
— Ann. de Millon et Reiset, 1845, pp. 155-156. — Studi teor. esperim. di chim. mol., fase. III-IV, 
pp. 91-134). 
I fatti registrati in questa memoria furono annunziati in due lettere alla R. Acc. di Modena 


nelle sedute 19 dic. 1843 e 26 gen. 1844. In gran parte questa memoria è riprodotta nei suoi 
Studi di chim. molecolare. 


236 ICILIO GUARESCHI 112 


26. Alcune ricerche fatte sulla elettrodoratura, del sig. prof. Francesco Selmi di Reggio. 
(N. Ann. Scienze Nat., Bologna, 1844 (2°), I, pp. 307-813. — Ann. Majocchi, XIV, 1844, 
pp. 333-395). E 
È un lavoro non privo di interesse per la storia della elettrodoratura e per la tecnica. 
Questo lavoro porta anche il titolo: Qualche ricerca sulla elettrodoratura. 
(V. anche: Ann. Majocchi, 1845, XVIII, p. 282). 


DO 
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. Sulle varie costituzioni attribuite agli emetici. 
(N. Ann. d. Se. Nat., Bologna, 1844 (2), II, pp. 84-92. — Ann. Majocchi, 1845, XVII, 
pp. 172-179. — Aggiunte alla nota sulla costituzione del tartaro emetico, ivi (2), II, pp. 821-327). 


Le sue considerazioni sulla costituzione del tartaro emetico per quanto vecchie conservano 
ancora un vero interesse storico (V. anche Annotazioni al Regnault, 1852, t. IV, pp. 564-568). 


28. Qualche riflessione chimica sui terreni e sulle acque che sono meno proprie a formare le 
risaje per ciò che riguarda lo svolgimento dei gas malefici. Nota letta alla Soc. d’Agrie. di 
Reggio il 27 giugno 1844. 

(N. Ann. Sc. Nat., Bol. (2), II, pp. 93-95. — Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 268-265). 


29. Doppi solfuri ferroso-potassico e ferroso-sodico. Nota. 
(Ann. Majocchi, 1844, XVI, pp. 190-192. — N. Ann. Sc. Nat., Bologna (2), II, pp. 401-403. 
— Atti Sc. Ital., 1844 (pubbl. 1845). — Ann. Millon et Reiset, 1846, p. 128). 


30. Sopra il solfo precipitato. 
(Ann. Majocchi, 1844, t. 15, pp. 88-91). 
Questo lavoro era già stato comunicato sino dal 80 marzo 1844 alla R. Acc. di Scienze, 
Lettere ed Arti di Modena. 
Qui già discorre dello solfo emulsionato. Scopre lo solfo molle ottenuto per via umida; 
l’ottenne nelle reazioni fra l'idrogeno solforato coi vapori nitrosi e col biossido di azoto. 


51. Proposta del solfo emulsionato come rimedio terapeutico. 
(Ann. Majocchi, 1844, t. 15, pp. 212-213). 
In questo suo lavoro ottenne lo solfo molle ed elastico ossia SY, in istato di grande divi- 
sione, emulsionato nell’acqua e lo propone come medicamento. 


32. Studio sulla struttura delle molecole saline. 
(Studî sperim. e teor. di chim. mol., fase. III-IV, pp. 185-176). 


Discorre delle varie teorie sulla costituzione dei sali. 


39. Sugli ossicloruri di mercurio. Nota. 
(Ann. Majocchi, 1844, XVI, pp. 276-278. — Journ. Pharm. Chim., V, 1844, pp. 130-132). 


Si collega coi N. 34 e 42. Ricorda altri casi in cui ha molta influenza il solvente nelle 
reazioni chimiche. 


34. Alcune considerazioni intorno a certi curiosi fenomeni notati da E. Fremy nella memoria 
sugli ossidi metallici. 
(N. Ann. Sc. Nat., Bologna, 1845 (2) III pp. 197-215. — Ann. Majocchi, XIX, 1845, 
pp. 239-254). 


el FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 237 


È un lavoro che contiene delle interessanti considerazioni teoriche. Accenna all’influenza 
delle vibrazioni molecolari, che egli chiama anche: Influenza delle particole in movimento nel 
produrre chimiche reazioni. Gran parte di questa nota è da lui riprodotta nella sua bella Dis- 
sertazione sull’azione di contatto scritta nel 1846 e pubblicata nel 1848. 

Il Selmi ha spesso fatto notare le reazioni dirette e inverse che avvengono secondo lo 
stato di concentrazione dei liquidi, come, ad esempio, le decomposizioni e ricomposizioni che vide 
effettuarsi nelle soluzioni miste di acido jodidrico e di acido arsenico le quali accadevano in 
modo diverso secondo il grado di concentrazione del liquido (V. anche “ Ann. Majocchi ,, 
XII, 1844; e il N. 41 seguente). 


35. Fatti per servire alla storia del solfo e delle emulsioni inorganiche. 
(Ann. Majoechi, 1844, t. XV, pp. 235-250). 
N. B. È questo il lavoro che in riassunto fu da lui letto al Congresso degli Scienz. Ital. 
nel 1844 in Milano col titolo: Intorno al solfo elastico ed alle emulsioni inorganiche. 
(Atti Congr. Scienz. Ital., 1844, Milano, 1845, pp. 159-161. — Ann. Majoechi, 1845, XVII, 
pp. 138 e 276 (riassunto brevissimo) ). 
Questo lavoro è riassunto col titolo: Sur les différents états du soufre, in: “ Ann. de Millon 
et Reiset ,, 1846, pp. 48-49. 


36. Reazioni speciali del bicloruro di mercurio. 
(Ann. Majoechi, 1844, XVI, pp. 318-319). 


37. Sur la solubilité de Viode dans les liqueurs salins. 
(L’Institut, 1844, XII, p. 412). 


38. Indagini sulla solubilità del’ammoniuro d’oro e dell’idrato aurico nei cianuri d’ammonio, 
calcio, bario e magnesio. 

(Atti Scienz. Ital., 1844, pp. 144-146. — L'’Institut, 1845, XIII, pp. 38-39. — Ann. Ma- 
jocchi, 1845, XIX, pp. 140-147; 257-264. — Ann. Millon et Reiset, 1846, pp. 379-380. —- Studi 
sperim. e teor. di chim. mol., I-II, pp. 1-28. — Ann. Italiano, di Selmi, II, pp. 125-136. — Re- 
enauur, Arnot., II, p. 461. — WarkeR, Zlectr. Mag., IL, 1846, pp. 13-14). 

Queste ricerche trovansi riassunte da lui anche nell’ Enciclopedia chimica, 1870-71, t. IV, 
pp. 440-441. Accennò anche ad alcune inesattezze in cui erano caduti vari autori relativamente 
alla preparazione del cianuro ammonico (loc. cit., p. 397). 

Le ricerche sulla soluzione dell’ammoniuro e dell’idrato aurico nei cianuri alcalini e alca- 
lino-terrosi furono comunicate dal Selmi al Congresso di Milano nel 1844 (Atti Congr. Scienz. 
Milano, 1844, p. 144-146). 

Anche-i cianuri ammonico, calcico, magnesico e baritico sciolgono l’oro metallico diviso. 


39. Studi sopra lazione che i cianuri ammonico, calcico, magnesico e baritico esercitano collm’a- 
moniuro, clorammoniuro ed idrato d’oro. 
(Mem. R. Ace. Torino, 1849, X, pp. 93-110). 
Questa memoria si connette strettamente col N. 38. 
Vi sono osservazioni interessanti, come quella, ad esempio, -che i cianuri alcalini sciolgono 
molto più prontamente l’ammoniuro d’oro che non l’idrato aurico. 


40. Sul limonino. 
(Ann. Majoechi, 1844, XVI, pp. 312-313). 


Ha poca importanza. 


23 


ICILIO GUARESCHI 114 


(0.0) 


41. Intorno all’azione dell’acido solforico sull’acido jodico e prodotti che ne risultano. Nota. 
(Ann. Majocchi, 1845, t. XVII, pp. 47-50). 


In questa Nota vi sono delle osservazioni interessanti riguardo l’influenza del solvente nel 
modificare le chimiche affinità. A pag. 48 scriveva: 

“ 3° Riflessione giustissima e degna di essere registrata nei trattati di chimica è quella che 
riguarda l'influenza dell’intermezzo nel modificare le chimiche affinità. Qui mi sia. permesso di 
ricordare che, discutendo sulle esperienze di Pelouze in un mio scritto pubblicato nel feb. 1843 
(Memoria sull’ufficio che compie l’acqua nelle chimiche combinazioni cogli acidi e colle basi 
e sulla costituzione del tartaro emetico, Modena, 1848), attribuii pure all’influenza del menstruo 
le curiose scomposizioni operate dal Pelouze sugli acetati sciolti nell’alcole, facendovi gorgogliare 
l’acido carbonico. Inoltre aggiungerò che, a mio credere, non solo la qualità dell’ intermezzo, 
ma eziandio la quantità, quando trattasi di solvente, esercita un’influenza ben considerevole per 
modificare le azioni attrattive dei corpi fra loro. L’acqua in copia maggiore o minore può dar 
luogo a scomposizioni o ricomposizioni degli stessi corpi fra loro, di guisa che con una pro- 
posizione A si abbia una data reazione, con una proposizione B la reazione inversa. Ben devesi 
intendere che tali quantità non sono propriamente atomiche, ma solo ristrette a certi limiti. 
più o meno lati, secondo la natura dei reagenti o dei prodotti della reazione. A molt’acqua, 
per esempio, l’acido solforoso fa sparire il jodio e lo trasforma in acido jodidrico, mentre esso 
stesso diventa acido solforico; svaporando parte dell’acqua, il liquido sì colora, e manifesta al 
colore, all’odore, alla carta d’amido, le qualità proprie all’iodio libero. Operando convenevol- 
mente, coll’aggiungere l’acqua svaporata, l’ iodio compare di nuovo. Così l’acido arsenioso e 
l’iodio dividono nei suoi elementi la molecola dell’acqua, ed il primo cangiasi in acido arsenico, il 
secondo in acido iodidrico: concentrando il liquido, l’iodio ricomparisce e lo colora; allungandolo 
di nuovo, l’iodio sempre scompare. Dalla diversa quantità del menstruo dipendono adunque le 
diverse scomposizioni e rieomposizioni, e ciò intendesi non per la semplice sua influenza, ma 
per quella del veicolo più o meno concentrato che si forma, in mezzo al quale le affinità dei 
corpi sciolti rimangono modificate, e quindi nasce un nuovo modo di agire. L'influenza della 
qualità dell’intermezzo non solo, ma anche della quantità dev'essere da qui innanzi tenuta più 
in conto di quanto si fece fino ad ora, e così avremo eziandio ragione di quelle arcane alte- 
razioni di certe sostanze disciolte, le quali sebbene composte di principii congiunti da energica 
attrazione, tuttavia, per la semplice addizione di copia maggiore del dissolvente, si separano 
nei loro costituenti, come, a cagione di esempio, alcuni sali di perossido di ferro, di protossido 
e di biossido di mercurio, d’ossido di bismuto, ece. ,. 


42. Influenza della qualità e quantità del menstruo nei fenomeni dell’affinità chimica. 
(Ann. Majocchi, XVII, pp. 48-49). 


Queste giustissime osservazioni sono quelle riprodotte nel numero precedente. 


43. Apparecchio per la preparazione sollecita del carbonato ferroso, del protossido di ferro e di 
altri composti insolubili dai quali si debba escludere la presenza dell’aria. 
(Ann. Majocchi, 1845, t. XVII, con 1 fig., pp. 307-309). 


L’autore scaccia l’aria coll’acido carbonico ed usa un apparecchio semplice che potrebbe 
servire ancora oggi. 


44. Sur la décomposition du biiodure de mercure par le chlore. 
(L’Institut, 1845, XIII, N. 581, p. 67. — Ann. Millon et Reiset, 1846, p. 218). 


115 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 239 


45. Svolgimento dell'idrogeno solforato nelle decomposizioni del cloruro e bromuro di solfo al 
contatto dell’acqua. 
(Ann. Majocchi, 1845, XVII, p. 288). 


Esperienze analoghe ha poi fatto il Berthelot (A. Oh. (8), 1857, t. 49, p. 452). 


46. Formazione dell'idrogeno solforato e del polisolfuro di idrogeno nella scomposizione degli 
iposolfiti. 
(Ann. Majocchi, 1845, XVII, p. 292-293 e XVIII, p. 284). 

Im questo breve lavoro l’autore dimostra che per l’azione dell’acido solforico più o meno 
concentrato sulle soluzioni concentrate, di iposolfito di sodio si produce non solamente del gas 
solforoso e dello solfo, ma si sviluppa anche dell’acido solfidrico e si produce del polisolfuro 
di idrogeno. 

Inoltre fa notare che lo solfo che si forma è solfo molle: “ Mescolando, scrive, alla solu- 
zione concentrata di iposolfito di soda una buona proporzione di acido solforico, agitando rapi- 
damente la mescolanza, neutralizzando parte degli acidi liberi con alquanto di carbonato potassico 
puro, e raccogliendo i grumi di solfo galleggianti sul liquido, in seno del quale le varie reazioni 
furono compiute. Quei grumi di solfo, molle, vischioso, attaccaticcio, lavati con acqua, asciu- 
gati fra carta..... ,. 


47. Sulla produzione dell'acido solfidrico per mezzo del solfo, dell’acido solforoso e dell’acqua. 
(Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 284-285). 

È una continuazione della nota sullo sviluppo di H*S nella decomposizione del cloruro e 

bromuro di solfo coll’acqua, e dell’altra sulla formazione di idrogeno solforato e del polisolfuro 
di idrogeno nella decomposizione degli iposolfiti. 


48. Osservazioni sulla costituzione dei sali neutri (Nota ad alcune osservazioni di Guibourt). 
(Ann. Majocchi, 1845, XVIII, p. 275-278). 


49. Intorno all’azione del’ammoniaca nel protocloruro di mercurio. 
(Ann. Majocchi, 1845, XX, pp. 186-188). 


50. Acido valerianico e valerianati: nuovi lavori sopra questi corpi. 
(Ann. Majocchi, XVII, 1845, pp. 89-95; 200-205). 


ol. Alcune osservazioni alla memoria di Cahours: Ricerche sulla densità di vapore dei corpi 
composti. 
(Ann. Majocchi, XIX, p. 288). 


52. Intorno all’azione dell’iodio sopra il clorido di mercurio. Memoria prima. Parte prima. 
(Atti Congr. Scienz. It., 1843, p. 220-222. — Ann. Majocchi, 1845, XVII, pp. 243-259). 


In questa memoria accenna anche alle esperienze fatte sino dal 1842 (Ann. Majocchi, VII, 
p. 207 e Atti Congr. Padova, 18483). 


58. Intorno all’azione del jodio sul sublimato corrosivo. Memoria prima. Parte seconda. 
(Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 19-27 e 118-131). 


54. Intorno all’azione del jodio sul sublimato corrosivo. Memoria seconda. 
(Ann. Majocchi, 1846, XXI, pp. 49-59 e 123-131). 


240 ICILIO GUARESCHI 116 


55. De Vaction de Viode sur le sublimé corrosif (Lettre de M. Selmi, de Reggio, à M. Millon). 
(Journ. de Pharm. e Chim. (3), X, 1846, pp. 346-349). 


È pressochè lo stesso lavoro che il precedente. 


56. Sulla generazione dell’etere. Nota. 
(Ann. Majocchi, 1845, XVIII, pp. 203-204). 


57. Sulla preparazione del nitrato d’argento. 
(Ann. Majocchi, 1845, XIX, pp. 311-312). 

Il metodo consiste nello sciogliere l’arsento monetato nell’acido nitrico e nel tener conto 
dell’insolubilità del nitrato d’argento nell’acido nitrico stesso concentrato. Il nitrato di rame si 
scioglie nell’acido nitrico. Si lavano i cristalli su imbuto con poco acido nitrico e a riprese: 
ed il nitrato d’argento rimane privo affatto di rame. 


08. Studi sulla dimulsione di cloruro d’argento. 
(N. Ann. Sc. Nat. Bologna, 1845 (2), t. IV, pp. 146-156. — Ann. Majocchi, 1846, XXIV, 
pp. 225-230, 1847, XXV, pp. 43-46. — Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., 1879, t. I, p. 764). 
Distingue la dimulsione dall’emulsione e dalla pseudosoluzione. 
È questa la prima o una delle prime osservazioni sullo stato colloidale del cloruro d’ar- 
gento. Sarebbe ciò che oggi si dice un sospensoide. 


Ecco quanto Egli scriveva nel 1851 in una nota alla trad. del Regnault, Lorso di Chi- 


mica, vol. III, p. 461, circa il cloruro d’argento: 

1° Che il cloruro d’argento stemperato in soluzione di sublimato corrosivo od imbevuto 
della medesima non muta più di colore, qualora si esponga all’azione diretta dei raggi luminosi. 

2° Che se si stempera finamente nell’acqua e vi rimane sospeso quando sia acqua pura; 
ma certi acidi e sali, e in ispecie il nitrato d’argento, lo fanno raccogliere a fiocchi e preci- 
pitare rapidamente. Sembra che la ragione stia in questo: che il detto nitrato, come gli altri 
acidi e sali si appigliano alle particole del cloruro d’argento, come certi corpi solubili all’allu- 
mina, al carbone, ecc. e però l’inducono a congregarsi. 


59. Studi sperimentali e teorici di chimica molecolare (dall'anno 1843 al 1846), Modena, Tip. 

C. Vincenzi, 1846, in-8°, pp. xvi-176. 

Sono due opuscoli molto importanti (v. il capitolo II). 

Il Selmi nelle condizioni dell’associazione per la pubblicazione di quest'opera aveva accen- 
nato di voler pubblicare anche i fascicoli V e VI, ma, a quanto io so, non furono mai pub- 
blicati. “ Nei fascicoli 5° e 6°, scriveva egli, si comprenderanno gli studi sperimentali e teorici 
intorno al solfo in emulsione ed in dimulsione, al solfo molle e plastico, alla dimulsione di clo- 
ruro d’argento, ecc. ,. Questi lavori però furono pubblicati nei giornali scientifici. 

Questi studi di chimica molecolare dovevano essere raccolti in un volume solo di circa 
350 pagine. 


60. Intorno all’azione di contatto. (Dissertazione scritta nel 1846 ed esposta in forma di lezioni 
nella Scuola di Chimica del Liceo di Reggio). 
(Giorn. Scienze Mediche, Torino, 1848, opuscolo di p. 73). 
È importante ! 
Si vegga anche Dell’azione di contatto, in Annotazioni al Regnault, 1852, t. IV, pp. 688-694. 


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117 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 241 


61. Cenno di alcuni studi sul latte. 
(Atti Scien. Ital., 1846, pp. 348-349. — Il Cimento, IV, 1846, pp. 240-246 e 537-543). 


62. Modo d’azione del solfo allorquando è introdotto nell'organismo. 
(Ann. Majocchi, 1846, XXIII, pp. 204-205). 


63. Assaggi delle potasse, analisi delle sode e cose relative a questi due alcali. 
(Ann. Majocchi, 1846, XXI, pp. 92-96; XXII, 1846, pp. 313-315; XXIII, 1846, pp. 86-89). 


64. Recherches sur laction de la présure dans la coagulation du lait. 

(Journ. de Pharm. et de Chim., 1846, IX, pp. 265-267 e X, p. 458. — 0. R. des trav. chim. 
de Gerhadt, 1846, p. 366. — Rev. Sc. et Ind., 1846 (2), X, 373. — Ann. Majocchi, 1846, XXII, 
pp. 273-274. — Ann. de Millon et Reiset, 1847, pp. 732-733). 


65. Alcune cose di chimica fisiologica raccolte e commentate sull’ematosina, a proposito del trat- 
tato di chimica organica di Gioacchino Taddei. 
(N. Ann. Sc. Nat., Bologna, 1846 (2), V, pp. 142-152). 


66. Qualche altra parola sull’ematosina. 
(N. Ann. Sc. Nat., Bologna, 1846 (2), V, pp. 269-271). 


67. Sulla coagulazione del sangue. 
(Ann. di Chim. Polli, 1846, t. III, pp. 40-46). 


68. Intorno allo solfo ottaedrico. 
(N. Ann. Se. Nat., Bologna, 1846 (2), VI, pp. 36-37). 


69. Indagini intorno allo solfo, ulteriori a quelle che furono comunicate alla sezione di chimica 
nel 6° Congresso (Comunicazione fatta alla sezione di chimica dell’8° Congresso Scientifico 
italiano). 

(Atti Congr. Sc. Ital., 1846. — Ann. chim. ital., II, 1847, pp. 1-3). 


E assai interessante. 


70. Note sur Vacide hypochloreux. 
(Ann. di Selmi, 1846, p. 45. — Ann. di Millon et Reiset, 1848, p. 28. — Ann. chim. ital., 
1847, II p. 5). 


71. Préparation de l’iodure de mercure. 
(Ann. di Selmi, 1846, p. 55. — Ann. de Millon et Reiset, 1848, p. 108). 


72. Alcune osservazioni sul latte di cagna (Sur la présence de la lactine dans le lait des 
carnivores). 
(Ann. Majocchi, 1846, XXIV, pp. 67-72. — Il Cimento, 1846, IV, pp. 248. — Ann. Chim. 
Ital. di Selmi, 1846, p. 219. — Ann. de Millon et Reiset, 1848, p. 453). i 


73. Sull’allotropia del cloro. Riflessioni. 
(Ann. Majocchi, 1846, XXIV, pp. 237-239. — Ann. Chim. Ital., 1847, II, pp. 8-5). 
Vi sono delle interessanti osservazioni sull’idrogeno nascente ecc. 
Seris II Tow. LXII. ri 


242 ICILIO GUARESCHI 118 


74. Osservazioni sulla calce. 
(Atti Congr. Sc. Ital., 1846. — Ann. Chim. Ital. di Selmi, II, 1847, pp. 16-18). 


75. Studio intorno alle pseudosoluzioni degli azzurri di Prussia ed all'influenza dei sali nel 
guastarle. 
(N. Ann. Se. Nat. Bol., VIII, 1847, pp. 401-431). 
Questa memoria è assai importante per la storia delle soluzioni colloidali. 
(V. anche Encielop. di chimica, vol. I, 1867, nell'articolo Adesione, p. 402. — Enciclop. 
di chimica, vol. IV, nell’art. Cianuri di ferro, p. 412). 


76. Influenza dei cloruri alcalini nell’impedire la reazione fra i cloruri di jodio e il solfato 
d’endaco. 
(Ann. Chim. Ital. di Selmi, 1846, vol.II, pp. 79-81.— Ann. de Millon et Reiset, 1848, p. 60). 


77. Di alcune riazioni tra l’acido jodidrico e Vacido solforico. Memoria. 
(Raccolta fisico-chim. ital. di Zantedeschi, Venezia, 1847, pp. 18). 
Qui discorre della soluzione del jodo nell’acido solforico concentrato e delle soluzioni in 
generale. È importante. 


78. Brevi considerazioni intorno agli usi medici del’ammoniaca. 
(N. Ann. Se. Nat. Bol., 1847 (2), t. VII, pp. 288-292). 


79. Considerazioni generali sulle attitudini dell’ammoniaca alla combinazione e sulla natura dei 
composti che ne provengono. 
(N. Ann. Se. Nat. Bol., VII, 1847, pp. 328-348). 


80. Brevi cenni sui lavori chimici incominciati dal prof. Francesco Selmi. 
(Corrisp. Scient. It., Roma, 1848, pp. 233-234). 


81. Conghietture sulla natura della forza organica. 
(N. Ann. Se. Nat. Bol., 1848, IX, pp. 153-160. — Ann. chim. Polli, IX, 1849, pp. 44-54). 


82. Ricerche intorno alla solubilità del bitartrato potassico negli acidi solforico, cloridrico e 
nitrico. 
(N. Ann. Sc. Nat. Bol., IX, 1848, pp. 161-171). 


83. Nouveaux phénomènes que présente la solution de sulfate de soude. (Nuovi fenomeni osser- 

vati nella soluzione del solfato di soda). 

(Journ. de chim. et de pharm. (2), VIII, ;aoùt 1845, pp. 122-123. — Ann. Ital. Chim. di 

Selmi, I, 1846, pp. 54-55. — Ann. de Millon et Reiset, 1846, pp. 130-131). 

Una seconda breve nota in proposito: Nuovi fenomeni osservati nella soluzione del solfato 
di soda, trovasi nell’ “ Ann. Ital. di Selmi ,, II, 1847, p. 15 e negli “ Elem. di chim. , di Hoefer, 
t. I, p. 384, trad. ed annot. da G. Giorgini. 

Questa sua memoria sulla cristallizzazione della soluzione di solfato di sodio fu da lui stesso 
riassunta in una Nota al Corso elementare di chimica del Regnault, vol. II, p. 399 (1851). 


84. Monografia sulla cristallizzabilità della soluzione del solfato di soda (Approv. nell’adunanza 
del 20 maggio 1849). 
(Mem. Acc. Torino, 1851 (2), t. XI, pp. 325-344 e t. XII, pp. Lxr-Lx11, la relazione di Sobrero 
e Cantù. — Ann. di Majocchi e Selmi, 1850, pp. 255-261. — Jahresb. f. Chem., 1851, p. 334). 
Questo lavoro di Selmi è ricordato anche da Ostwald nel suo “ Lehrb. d. allg. Chem. ,, 
Cap. II, Chem.-Dynam., vol. II, p. 727. 


119 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 243 


85. Réclamation de priorité à l’occasion d’une note de M. Goskynski sur la solidification d'une 
solution concentrée de sulfate de soude au contact de Vair. 


(C. R., 1851, t. XXXII, p. 909). 


Selmi si è occupato delle soluzioni sovrasature prima di Goskynski e di Loewel (1855). 


86. Osservazioni ad. una memoria di Barreswil sulla chimica applicata alla fisiologia. 
(Ann. Majocchi, 1850, I, p. 285). 


È interessante. 


87. Sugli ossicloruri di mercurio di Roucher. (Osservazioni di Fr. Selmi). . 
(Ann. Majocchi, 1850 (2), t. I, pp. 165-166). 


88. Comunicazione di due fatti notabili osservati nell’analizzare un'acqua minerale magnesiaco- 
jodifera di Reggio. 
(Mem. Ace. Sc. Torino (2), 1851, XI, p. LIV). 


89. Nota sopra un nuovo acido dello solfo (con Sobrero). 
(Mem. R. Acc. Torino, 1851, XI, p. Lv). 


Gli autori in un lavoro posteriore hanno riconosciuto che l'acido da loro ottenuto era un 
acido tionico già conosciuto. 


90. Alcune osservazioni sull’amigdalina. 
(Ann. Chim. Ital. di Selmi, 1847, II, pp. 148-150). 


91. Nota intorno ad alcune esperienze dirette a definire la natura della fermentazione amigdalica. 
(Mem. R. Ace. Se. Torino (2), 1852, XII, p. LXXII). 


Sulla preparazione dell’amigdalina si vegga Annotazioni al Regnault, 1852, IV, p. 603 e 
Sulla fermentazione amigdalica, ivi, p. 604. 


92. Esperienze sul latte. 
(Ann. Majocchi, 1850, II, pp. 38-48; 273-290). 


Qui a pag. 189 trovansi le sue esperienze sul potere riduttore del latte, del sangue, delle 
materie albuminoidi, del lievito di birra, ecc., con sviluppo di acido solfidrico (v. anche 7 
Tecnico 1857, vol. I, pag. 209 e 269). 


93. Intorno all’azione del cloro sui cloruri metallici nelle soluzioni dei cloruri alcalini. Me- 
moria 1°, con Sobrero. (Approv. nell’adunanza 20 maggio 1849). (De Vaction du chlore sur 
les chlorures métalliques en présence des chlorures alcalins (avec Sobrero). 

(Mem. Acc. Sc. Torino, 1849 (2), t. XI, pp. 345-355 (pubbl. nel 1851). — Ann. Majocchi, 

1850, I, pp. 40-45. — A. Ch. (8), 1850, t. XXIX, pp. 161-166. — Jahresh. f. Chem., 1850, p. 314 

e 322. — J. pr. Chem., 1850, pp. 305-309. — J. Pharm. Chim. (B), 1850, XVIII, pp. 142-144. — 

Ann. de Millon et Reiset, 1851, pp. 95-98. — Pharm. Centr., 1850, p. 615. — A. LXXVI, p. 284. 

— Arch. d. Pharm., CIV, p. 173 (col titolo: Verhalten des Chlors zu Metallchloriden bei Ge- 

genwart von chloralkali Metallen (mit Sobrero). 

Wells (Z. anorg. Chem., 1893, IV, pp. 33 e 341) ricorda le esperienze di Selmi e Sobrero, i 
quali trovarono il rapporto costante 1:9 tra il cloruro piombico e il cloruro di sodio, cioè il 
composto PbC15.9NaCI. Wells ottenne i sali (NH*)°Pb(015 e K°PbCI" ece., dovuti all'esistenza di 
PbCl ammessa appunto da Sobrero e Selmi. 


244 ICILIO GUARESCHI 120 


Già dopo Selmi il Nicklès “ A. Ch. , (4), X, p. 323, ottenne: 
PbCO1i + 16 CaC1?. 


Alla fine di questo lavoro Sobrero e Selmi scrivevano: 

“ Dalle osservazioni istituite risulta adunque chiaramente che il piombo è capace di for- 
mare un bicloruro corrispondente al biossido: fatto nuovo per la storia del piombo: ed inoltre 
apparisce manifesto che il bicloruro non si genera, nè dura se non in presenza dei cloruri 
alcalini, a fronte dei quali esso fa gli uffici di termine elettro-negativo ,. 

Dal cloruro di manganese non riuscirono ad ottenere un tetracloruro (0, come si diceva 
allora, un bicloruro). 

Questo lavoro è riferito nel “ Jahresb. f. Chem. ,, 1850, con due titoli analoghi: Einwd-kung 
von Chlor auf Manganchlorir in wiisseriger Lòsung bei Gegenwart alkalischer  Chlormetalle, 
p.314, e Einwirkung des Chlor auf Chlorblei bei Gegenwart von Wasser im alkalischen Chlor- 
metallen, p. 322. 


94. Nota intorno alla reazione dell'acido cloridrico sul biossido di piombo e sul minio (con 

Sobrero). a 

(Mem. R. Ace. Torino, 1852, t. XII, p. oxx). 

Questa Nota è una continuazione dello studio precedente sul tetracloruro di piombo. Di- 
mostrano che quando si tratta il biossido di piombo con HC1 si forma PbC14 e non del HC1? 
come credeva Millon e che lo stesso tetracloruro si ottiene dal minio coll’acido cloridrico. Il 
liquido giallo contiene PbCl' e non cloro e non costituisce l’acqua di cloro estemporanea come 
si credeva. 


95. Memoria intorno ai prodotti della reciproca decomposizione degli acidi solforoso e solfidrico 
(con Sobrero, approv. nell'adunanza del 10 giugno 1849). 
(Mem. R. Acc. Torino (2), t. XI, pp. 407-412. — Jahresb. f. Chem., 1850, p. 264. — J. pr. 
Chem., 1850 (1), t. 49, pp. 417-421. — A., 1850, t. 76, p. 237. — Chemist, I, 1849-1850, pp. 301- 
303. — Arch. d. Pharm., CII, p. 47 (Ueber die Pentathionsaure) (mit Sobrero). 


96. Sur les produits de décomposition des acides sulfhydrique et sulfureua au sein de l'eau 
(avec Sobrero). 
(A. Ch. (3), XXVIII, pp. 210-215. — Ann. de Millon et Reiset, 1851, pp. 54-55. — Ann. 
Majocchi, 1850, t. I, pp. 121-125 (È il testo quasi preciso di ciò che è negli “ A. Ch. ,)). 


È un riassunto della memoria precedente fatto dagli autori stessi. 


97. Intorno ai vari acidi tionici che si generano successivamente come prodotti degli acidi solfo- 
roso e solfidrico (con Sobrero). 
(Ann. Majoechi, 1850, II, pp. 157-162). 


98. Sur une nouvelle combinaison de mercure (en commun avec Sobrero). 

(C. R., 1851, t. XXIII, pp. 67-69. — Institut, 1851, p. 234. — Rev. Scient. Ind. (4), I, p.27. 
— Pharm. Cent., 1851, p. 639. — Journ. f. pr. Chem., 1851, t. LITI, pp. 382-384. — Jahresb., 
1851, p. 506. — A., t. 80, p. 108. — J. Pharm. Chim., 1851, XX, p. 270. — Arch. d. Pharm., 
CVIII, p. 310 ito Quecksilberverbindung)). 


Nel “ J. pr. Chem. , è quasi tradotta la Nota dei “ C. R. ,. Gli autori trattano la solu- 
zione alcolica di sublimato con soluzione alcolica di potassa. 


121 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 245 


In ultimo studiano l’azione del nitrato mercurico sull’alcol etilico, e si riservano di stu- 
diare anche altri alcoli. 


99. Sopra un nuovo sale di mercurio (con A. Sobrero). 
(Mem. R. Acc. Sc. Torino, 1852 (2), XII, pp. 263-270. — ReenauLT, Trattato elem. di 
Chim., trad. ital., 1852, t. IV, pp. 586-587). 


100. Iatorno al solfo pseudosolubile, alla pseudosoluzione di esso ed al solfo molle. Cenno di 
esperienze. 
(Gazz. Piemontese, 1851, N. 262, tip. G. Favale). 


101. Considerazioni sugli elementi costitutivi delle molecole organiche. 
(Principii elem. di chim. organ., Torino, 1851, pp. 118-121. — ReenauLT, Corso di chim., 
vol. IV (1852), pp. 526-582). 


102. Relazioni fra il potere assorbente delle materie coloranti col carbone e nella tintura. 
(Annotazioni alla trad. del Trattato di chimica del Regnault, vol. IV, pp. 680-681). 


103. Sulla chimosina 0 presame, e la gasterasia. 
(Annotazioni al Regnault, vol. IV, p. 673). 


104. Sulla forza vitale. 
(Principii elementari di chimica organica. — Annotazioni alla traduzione del Regnault, 
vol. IV, p. 649). 


105. Delle piccole quantità di sostanze eterogenee che fanno mutare notevolmente la qualità ad 
alcuni composti perchè loro rimangono aderenti. 
(Annotazioni al Regnault, 1852, vol. IV, pp. 694-696). 


106. Delle fermentazioni. 
(Annotazioni al Regnault, 1852, IV, pp. 721-731). 


107. Sur le soufre pseudosoluble, sa pseudosolution et le soufre mou. 
(Journ. Ph. Chim., 1852 (8), XXI, pp. 418-426, tradotto in: Journ. f. prak. Chem., 1852 (1), 
t. 57, pp. 49-57). È molto importante. 5 
Questo lavoro è riassunto col titolo: Ueber weichen Schwefel und seine scheinbare Lòsung 
in Jahresb. f. Chem., 1852, p. 338, ed è ricordato in Ostwald, LeArbuch d. allg. Chem., Chem.- 
Dynam., II, pp. 453 e 457. 


108. Del solfo pseudosolubile e del solfo molle (Torino, 1852, tip. Favale). 

È il titolo di un opuscolo che io non ho potuto vedere ; ma dubito che sia identico colla 
memoria sovraricordata e pubblicata nel “ Journ. de Pharm. et de Chim. ,, 1852, t. XVIII; o, 
forse, è un estratto dell’articolo scritto nella “ Gazz. Piem. , di quel tempo; ma lo scritto nella 
“ Gazz. Piem. , è del 1851. 


109. Osservazioni intorno alla caseina. La caseina è un acido ? Forma coi corpi diversi delle 


vere combinazioni chimiche 2 
(Ann. Majocchi, 1850. — Annotazioni alla trad. del Regnault, vol. IV, p. 670). 


110. Osservazioni sulla caseina. 
(Annotazioni al Regnault, 1852, t. IV). 


246 ICILIO GUARESCHI 1292 


111. Fatti intorno all’argomento delle fermentazioni, raccolti da Fr. Selmi. Memorla. 
(Giorn. di Farm. e di Chim., Torino, 1853, t. II, pp. 145-161). È importante. 


112. Fatti per la storia delle sostanze albuminose. Nota. 
(Torino, 1853, tip. A. Poma e C. Opuscoletto di 7 pag.). 


113. Analisi chimica del quano di Sardegna (con Missaghi). 
(Ann. d. R. Ace. di Agricolt. di Torino, 1855, t. VIII, pp. 249-259. — N. Cimento, II 
(1855), pp. 25-41). 


114. Dell’acqua piombifera e del modo di purificarla (con Missaghi). 
(N. Cim., 1855, II, pp. 131-133). 


115. Sul solfo vischioso, e sovra un nuovo modo di ottenere il solfo in grossi cristalli ottaedrici 
(con Missaghi). 3 
(Nuovo Cimento, 1855, II, pp. 381-387. — Il Cimento, 1855, pp. 1058-1062. —Jahresb. f. 
Chem., 1855, p. 302). 


Gli autori ottennero questa modificazione dello solfo prima di Magnus e Weber (“ Pogg. 
Ann. ,, 1856 (99), p. 145), prima di Berthelot (“ C. R. ,, 1857, t. 44, p. 568). Selmi e Missaghi 
l’ottennero con metodo diverso da quelli adoperati poi da Magnus e Weber e da Berthelot, 
cioè facendo passare il cloro secco attraverso una soluzione satura di persolfuro di idrogeno nel 
solfuro di carbonio. 


116. Nuovi fatti relativi al bijoduro di mercurio in soluzione. 
(Nuovo Cimento, 1855, t. I, pp. 183-187. — Jahresb. f. Chem., 1855, p. 417. — Dammer 
anorg. Chem., II, p. 870). 


117. Pila a triplice contatto. 
(Nuovo Cim., 1856, IV, pp. 81-87. Non vi è la fig.). 


118. Delle ragioni per le quali il solfo distrugge Voidio, e talvolta comunica l'odore d’acido 
solfidrico al vino delle uve quarite colla solforazione. 
(Memoria I. “Il Tecnico ,, 1857, vol. I, pp. 209-214. — Memoria II. Ivi, vol. I, 
pp. 249-258). 


119. Pila a triplice contatto e suoi usi nella telegrafia elettrica, nella elettrometallurgia, ece. 

(con figura). 

(Il Tecnico, Torino, 1857, vol. I, pp. 3-8. — E in opuscolo separato: Torino, 1857, Pa- 
ravia, di p. 6). 

Una seconda pubblicazione Della pila a triplice contatto trovasi nello stesso giornale “ Il 
Tecnico ,, 1857, pp. 81-90, che probabilmente è identica alla seguente pubblicazione al De la Rive. 
Il De la Rive di passaggio a Torino nel 1857 visitò la pila del Selmi in funzione alla stazione 
telegrafica centrale. 


120. Sul triplice contatto e sull'azione di esso nella pila che ne porta il nome (Lettera al prof. 
Augusto De la Rive). 
(Il Tecnico, Torino, 1857, fase. 2°, opuscolo di 11 pag.). 


È la pubblicazione precedente in opuscolo separato. 


123 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 247 


121. Breve nota intorno ad alcune osservazioni di L. Figuier, sul prodotto di ossido di zinco 
che sì ritrae dalla pila a triplice contatto. 
(Il Tecnico, 1857, vol. I, p. 180). 


122. Pratiche dello scoloramento col mezzo del cloro. 
(Il Tecnico, 1857, vol. I, pp. 480-482). 


123. Osservazioni sugli inchiostri. 
(Il Tecnico, 1857, vol. I, pp. 482-485). 

In questa Nota si trova l'osservazione interessante seguente, relativamente agli agenti con- 
servatori: “ Io tvovai efficace la nitrobenzina, la quale considero come un eccellente antisettico 
da usarsi in molti casi, perchè non pericoloso alla salute, di grato odore di mandorle amare, 
e bastevole in tenui proporzioni a produrre effetti di inalterabilità ,. Si sa che oggi la nitro- 
benzina è molto usata nei musei, per le droghe, ecc. 


124. Uso della nitrobenzina come antisettico. 
(V. la nota al numero precedente). 


125. Sui vini artificiali. (Mem. di Fr. Selmi e F. Terrachini). 
(Il Tecnico, 1857, vol. I, pp. 129-141 e in opuscolo separato in-4°, di pp. 18, Torino, 
Paravia). 


126. Del latte, del presame e della coagulazione che il presame opera nel latte. (Mem. premiata 
dall'Istituto Lombardo nel 1857). 
(Atti della Fondazione scientifica Cagnola, vol. II, pp. 65-95; ed in riassunto in: Rivista 
Contemp., Torino, 1858. — Ann. Chim. Polli, 1857, XXV, pp. 369-376). 


È una bella ed importante memoria. È quella riassunta e tanto lodata dal Musso (V. Cap. VII). 


127. Sopra alcuni cloramiduri di mercurio (presentata il 22 marzo 1843). 
(Mem. R. Ace. Sc. Mod., 1858 (I), t. I, parte III e IV, pp. xxxXI-xxxXIII). 


128. Dell’adesione (0 aderenza). 
(Art. nell’Enciclop. Chim., 1867, vol. I, p. 402). 


Qui l’autore espone di nuovo le sue idee intorno alla natura delle pseudosoluzioni. 


129. Ricerche varie sulla caseina. 
(Enciclop. Chim., 1869, vol. III, pp. 917-921). 


Qui sonvi molte osservazioni che riguardano la caseina e la sua solubilità nelle soluzioni 
saline, sulla coagulazione, ecc. 


130. Ricerca del fosforo nei casi di avvelenamento (letta il 20 aprile 1871). 
(Mem. R. Acc. Se. Bol., 1872 (8°), t. I, pp. 399-412). 


131. Ricerca dell’arsenico nei casi di avvelenamento (letta il 13 aprile 1871). 
(Mem. R. Ace. Se. Bol., 1872 (8°), t. I, pp. 387-398 con 1 tav. — Jahresb. f. Chem., 1872, 
p. 901. — Gazz. Chim., 1872, p. 544). 


132. Sui cristalli di emina considerati qual mezzo più acconcio per iscoprire il sangue nei casi 
di perizia legale (letta il 27 aprile 1871). 
(Mem. R. Acc. Sc. Bol. (3), t. I, pp. 413-429 con 1 tav. — Gazz. Chim., 1872, p. 548). 
Questa e le due precedenti memorie furono pubblicate a parte in un opuscolo: Studi di 
tossicologia chimica (1° serie), Bologna, tip. Gamberini e Parmeggiani, 1871, in-49, di pp. 46. 


248 ICILIO GUARESCHI 124 


133. Nuova maniera semplice e spedita di distruggere le materie organiche nelle ricerche tossi- 
cologiche dei metalli (letta il 25 gennaio 1872). 
(Mem. Ace. Sc. Bol., 1872 (III), t. II, pp. 73-80. — Gazz. Chim., 1872, p. 583. — Beriehte, 
1873, p. 141. — Jahresb. f. Chem., 1873, p. 898). 


134. Sulla esistenza di principi alcoloidei naturali nei visceri freschi e putrefatti, onde il perito 
chimico può essere condotto a conclusioni erronee nella ricerca degli alcaloidi venefici (letta 
il 25 gennaio 1872). 
(Mem. R. Acc. Sc. Bol. (III), t. II, pp. 81-86. — Berichte d. deut. Chem. Gesell., XI, 
1873, p. 142). 


È in questa breve ma importante memoria che attira l’attenzione dei chimici sugli alca- 
loidi cadaverici, che furono poi da lui detti ptomaine. 


185. Nuovo processo per estrarre il fosforo libero dai visceri quando vi sia contenuto, e reazioni 
speciali per conoscerlo e determinarlo (letta il 1° febb. 1872). 
(Mem. Ace. Se. Bol. (III), t. II, pp. 87-106). — Gazz. chim., 1872, pp. 546 e 585). 


Diverse sue osservazioni personali sulla ricerca tossicologica del fosforo si trovano anche nel- 
l’articolo : Scoperta del fosforo negli avvelenamenti, “ Enciclop. Chim. ,, 1878, vol. III, pp. 738-748. 


136. Ricerca della picrotossina e della colocintina nei casi di avvelenamento colla coccola di 
Levante e colla coloquintide (letta al 1° febb. 1872). 
(Mem. Ace. Sc. Bol. (III), t. II, pp. 107-116 con 2 tav. — Gazz. Chim., 1872, p. 588). 


Questa e le tre memorie precedenti furono pubblicate o tirate a parte in un opuscolo: Studi 
di tossicologia chimica (2* serie), Bologna, tip. Gamberini e Parmeggiani, 1872, in-4° di pp. 46. 


137. Toxicologisch-chemischen Beobachtungen. 
(Berichte d. deut. Chem. Gesell., VI, 1873, p. 141). 


E un riassunto brevissimo dei lavori precedenti. 


138. Ricerca della solanina nei casi di avvelenamento (letta il 6 febb. 1873). 
(Mem. R. Ace. Sc. Bol. (IID, t. IV, pp. 29-40. — Gazz. Chim., 1874, pp. 1-8). 


139. Osservazioni varie sul latte e sul presame e la pepsina. 
(Enciclop. Chim., art. Latte, 1873, vol. VII, pp. 377-383). 


In questo articolo sono esposte e riassunte molte delle sue vecchie ed anche nuove ricerche 
sul latte. 

Nota fra le altre cose il fatto che il latte cui fa aggiunto del solfato potassico, a b. m., 
diventò a poco a poco chiaro come il siero, quantunque la caseina non perdesse la precipita- 
bilità mediante l’acido acetico, e che il coagulo di caseina digerito a temp. ordinaria a poco 
a poco si sciolse nella soluzione acquosa del detto sale mediocremente concentrata. Il tartrato 
sì comporta in modo analogo. 

Osservò che il formaggio di grana vecchio contiene una sostanza capace di far coagulare 
il latte, e che il latte medesimo in cui era stato sciolto 1,5 gr. di sal comune per 100 gr. di 
liquido, stando in istufa per 7 giorni, fornì un siero capace di far rappigliare il latte come un 
presame debole. 

Ricorda le sue ricerche sulla natura degli acidi coagulanti, sull’azione dei sali di vari 
metalli, ece. ecc. 


125 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 249 


Riguardo al modo di agire del presame e della pepsina Selmi fece anche la osservazione 
seguente : 

“ Brilcke si avvide che la materia attiva del presame non è da confondere colla pepsina, 
dacchè questa, allorquando sia pura, non coagula il latte; e già Fr. Selmi sino dal 1853 aveva 
dimostrato la stessa cosa per altra via, contro l’opinione di Dumas e di Mialhe, provando col- 
l’esperienza che, mentre il sugo gastrico produce la digestione artificiale dell’albume cotto e 
della carne muscolare, nè il presame, nè la zicheasia v'inducono il più che menomo spappola- 
mento, chè anzi la carne, in cambio di illiquidire, divenne dura e corrugata. Ma se, in cambio 
di porre in digestione carne ed albume nel presame, vi si mette del formaggio o caseina coagu- 
lata da allora si vede (purchè il presame sia in quantità bastevole) che a poco a poco vi si 
vanno rifluidificando e sì sciolgono perfettamente ,. 


140. Sopra un nuovo processo per l'estrazione degli alcaloidi dai visceri e ricerca della nicotina, 
della brucina e della stricnina nei casi di avvelenamento (letta il 20 marzo 1873). 
(Mem. Ace. Se. Bol. (III), IV, pp. 41-51. — Gazz. Chim., 1874, pp. 1-8. — Berichte, 1874, 
p. 80. — Jahresb. f. Chem., 1874, p. 1020). 


141. Osservazioni pratiche per il riconoscimento dell'acido cianidrico nei casi di avvelenamento 
(letta il 24 aprile 1873). 
(Mem. R. Ace. Se. Bol. (III), t. IV, pp. 58-55 con 2 tav. — Gazz. Chim., 1874, pp. 1-8).| 


Questa memoria e le due precedenti furono tirate a parte in un opuscolo: Studi di tossi- 
cologia chimica (8° serie, Bologna, tip. Gamb. e Parm., 1873, in-4°, di pp. 29. E in riassunto 
nella “ Gazz. Chim. Ital. ,, 1874, pp.l1a8). 


142. Nuovo processo generale per Vestrazione delle sostanze venefiche nei casi di avvelenamento 
(letta il 4 dicembre 1873). 
(Mem. R. Ace. Bol. (III), 1874,t. V, pp. 8-49 con 1 tav.— Berichte, 1874, p. 80. — Jahresb. 
f. Chem., 1874, p. 1020. — Journ. Pharm. Chim. (IV), t. XXI, p. 165). 


143. Nuovo studio sul latte (letta il 9 aprile 1874). Sulla caseina sciolta e sospesa. 

(Rend. Ace. Sc. Bol., 1873-74, Bologna, tip. Gamb. e Parm., 1874, pp. 69-72. — Gazz. Chim. 
Ttal., 1874, pp. 482-484. — Ber. d. d. Chem. Gesellschaft, 1874, p. 1463. — Jahresh. f. Chem., 
1874, p. 933). 


144. Necessità di cercare il fosforo nelle urine nei casi di avvelenamento. 
(Gazz. Chim., 1874, pp. 478-482. — Berichte, 1874, p. 1463. — Jahresh., 1874, p. 939). 


145. Osservazioni sullo sviluppo di idrogeno nascente dalle muffe, per ispiegare la loro azione 
fertilizzante (letta il 21 maggio 1874). - 
(Rendiconto delle Sessioni dell’Acc. delle Scienze di Bologna, anno acc. 1873-74, Bol., 

tip. Gamb. e Parm., 1874, pp. 111-112. — Jahresh. f. Chem., 1874, p. 1021). 


Questo importante lavoro molto ampliato fu nello stesso anno pubblicato a parte col titolo : 
Osservazioni sullo sviluppo d’idrogeno nascente dalle muffe, loro azione sul solfo, sui solfuri, 
sull’arsenico e sui nitrati; conseguenze che se ne possono dedurre per ispiegare Vazione ferti- 
lizzante delle medesime, e lo sviluppo di un composto arsenicale volatile dalle carte da tappezzerie 
colorate con verdi arsenicali, Bologna, tip. Gamberini e Parmeggiani, 1874, in-8°, di pp: 12. 

Trovasi pure come appendice nell’opuscolo di Selmi: Nuovo processo generale per la ricerca 
delle sostanze venefiche, con appendici di argomenti tossicologici od affini, Bologna, Zanichelli, 
1875, pp. 97-115. 

Serie II. Tow. LXII. ci 


250 ICILIO GUARESCHI 126 


146. Osservazioni nel caso di una perizia legale (lette nella seduta delli 20 aprile 1874 della 
Soc. Med.-chir. di Bologna). 
(Boll. Sc. med. di Bologna, 1874, ann. XLV (5), vol. XVII, pp. 401-409. — Berichte, 1874, 
p. 80. — Jahresb., 1874, p. 1020). 


147. Analisi di calcoli vescicali di rottura spontanea (letta il 26 aprile 1874). 
(Boll. Se. med., Bol., 1874, a. XLV (5), vol. XVIII, pp. 5-12). 


148. Studi di chimica tossicologica. Nuovo processo generale per Vestrazione delle sostanze vene- 
fiche nei casi di avvelenamento. Memoria. 

(Mem. R. Ace. Sc. Bol. (II), t. VI, e a parte: Bol. tip. Gamberini e Parmeg., 1874), con 
appendici: 1° Sul composto giallo cedrino che si forma bagnando con acido nitrico il prodotto 
vero, che s’ingenera tra il fosforo ed il nitrato d’argento in soluzioni alcoliche; 2° Sulla puri- 
ficazione degli acidi solforico e cloridrico per uso tossicologico; 3° Della necessità di cercare 
il fosforo nelle urine; 4° Metodo per ottenere l’anello arsenicale quando l’arsenico è ir tenuis- 
sima quantità). 

Questo lavoro fu poi l’anno dopo pubblicato in un volume a parte dallo Zanichelli col 
titolo: Nuovo processo generale per la ricerca delle sostanze venefiche con appendici di argomenti 
tossicologici od affini, Bologna, Zanichelli, MDCCCLXXV, in-8°, di pp. 1v-120 con 1 tav. 

Questo volume contiene le memorie ai numeri 142, 145, 146 e diverse appendici, fra cui 
quella in cui discorre: Della purificazione degli acidi solforico e cloridrico; Della necessità di 
cercare il fosforo nelle urine in caso di avvelenamento; Metodo per ottenere l’anello arsenicale 
quando Varsenico è in quantità tenuissima. È in quest’ultima appendice, a pag. 84, che trovasi 
l'avvertenza di raffreddare la strozzatura della canna in vetro dell'apparecchio di Marsh, me- 
diante una piccola corrente di acqua fredda, e così concentrare l’anellino in un punto solo. 

A pag. 26-27, ove tratta della: Ricerca degli acidi minori del fosforo, discorre dei fochi 
fatui, che non può attribuire a idrogeno fosforato. 


149. Nuovi reattivi per riconoscere e discernere gli alcaloidi venefici (Memorie I e II lette il 
29 aprile 1875). 
(Mem. R. Ace. Scien. Bol., 1875 (III), t. VI, pp. 189-200 e 201-210. — Gazz. Chim., 1875, 
p. 256. — Berichte, 1875, p. 1198). 


150. Perizia chimica nella causa Rusconi-Pallavicini (in collab. con D. Santagata e P. Piazza. 
28 maggio 1874. Bologna, tip. Cenereli, 1874, in-4°, di pp. 16). 


151. Del modo di riconoscere la metilamina e la trimetilamina e distinquerle dalla propilamina 
(letta il 29 aprile 1875). 
(Mem. Ace. Sc. Bol. (III), t. VI, pp. 211-215 con 83 tav.). 


152. Dissociazione dei sali di trimetilamina. 
(Mem. R. Ace. Se. Bol. (III), vol. X). 

L’autore dimostra la dissociazione delle soluzioni dei sali di trimetilamina. Secondo queste 
esperienze, variando anche l’acido (cloridrico, tartarico, ossalico) messo in presenza della base, 
la quantità di questa che distilla è sempre pressochè la stessa. Si devono tenere in considera- 
zione questi fatti per la ricerca delle sostanze venefiche, specialmente, come osserva l’autore, 
nella ricerca dell’acido prussico, e durante le evaporazioni. 


127 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 251 


153. Dell’uso dell'acido jodidrico jodurato per riconoscere gli alcaloidi dell'oppio (letta il 
29 aprile 1875). 
(Mem. R. Ace. Se. Bol. (III), VI, p. 217-221). 


154. Delle difficoltà che sì incontrano mell’estrarre la morfina dal cervello e di un alcaloide 
naturale che sussiste nel cervello, nel fegato e nel papavero dei campi (letta il 29 aprile 1875). 
(Mem. R. Acc. Bol. (III), VI, pp.223-239.— Gazz. chim., 1875. — Enciclop. Chim., Compl. 

e Suppl., II, p. 505). 


155. Nuove ricerche fatte da parecchi chimici sugli alcaloidi innocui che si estraggono dai 
visceri seguendo il processo di Stas ed Otto per la ricerca degli alcaloidi venefici (letta il 
10 dicembre 1874). 
(Rend. Ace. Sc. Bol., 1874-75, pp. 66-70). 


156. Esperienze per riconoscere se i funghi, certi microfiti e le materie vegetali in decomposi- 
zione posseggano azione idrogenante o riduttrice; conseguenze agronomiche che se ne pos- 
sono dedurre (letta il 14 gennaio 1875). 

(Rendic., ivi, 1875, pp. 81-104). 
In Memorie sopra argomenti tossicologici, con appendici di argomento agronomico, Bologna, 

1878 (V. N. 190). 


157. Wasserstoffentbindung durch Schimmel und Schwimme. 
(Ber., 1875, p. 906. — Jahresb. f. Chem., 1875, p. 818). 


158. Sopra alcuni nuovi caratteri differenzianti e speciali per la ricerca degli alcaloidi venefici. 
(Rend. R. Acc. Bologna, 1874-75, pp. 104-107 e 153-154. — Mem. R. Acc. Bol. — Gazz. 
Chim., 1875, p. 255. — Berichte, 1875, p. 1198 ?). 


159. Reagentien auf Allaloide. È 
(Ber., 1875, p. 1198 (cors.). — Jahreshb., 1875, p. 983). 


160. Nuovo reattivo per la morfina. 
(Gazz. chim., 1875, p. 396 (Mem. letta al XII Congresso degli Scienziati Ital. in Palermo). 
— Jahresb. f. Chem., 1855, p. 981. — J. Pharm. Chim, (IV), t. XXIV, p. 487). 


161. Prime notizie sopra un alcaloide che si riscontra nel cervello, nel fegato e nei capi verdi 
del rosolaccio 0 papavero dei campi. 
(Gazz. chim., 1875, pp. 398-402 (Mem. letta al XII Congresso degli Scienziati tenutosi in 
Palermo). — Berichte, 1876, p. 195). 


162. Studio sopra diversi alcaloidi, per uso dei tossicologi (maggio 1875). 
(Rend. Acc. Bol., 1874-75, p. 155. — Gazz. chim., 1875, p. 257). 


163. Sull’azione dell'idrogeno nascente sull’azoto libero e di un composto azotato che sì forma 
calcinando la potassa colle materie idrocarbonate (maggio 1875). 
(Rendie. R. Acc. Bol., 1874-75, pp. 157-179). 


164. Chi primo ossertò lo sviluppo dell'idrogeno solforato tra le crittogame e lo solfo (13 magg. 1875). 
(Rend. R. Acc. Bol., loc. cit., p. 180). 


952 ICILIO GUARESCHI 129 


165. Sulle difficoltà che si incontrano nelle ricerche tossicologiche. 
(Boll. Sc. Med., Bologna, 1875, a. XLVI (5°), t. XX, pp. 241-256). 


166. Ricerca dell’atropina. Studio chimico-tossicologico. 
(Atti R. Ace. Lincei, 1876. — Gazz. chim., 1876, p. 153). 


167. Sulla malattia dei vini filanti. 
(Scienza applicata, Bologna, 1876). 


168. Sugli alcaloidi dei cadaveri (Mem. con Casali e Pesci, 15 ott. 1876). 
(Mem. R. Ace. Bologna. — Rendic. (5), t. XXII, pp. 256-269. — J. Pharm. Chim. (IV), 
XXVII, pp. 66). 


169. Modificazioni al processo per Vestrazione degli alcaloidi venefici dai visceriì (Memoria 
2 dicembre 1875). 
(Rendie. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 29-81.— Gazz. chim., 1876, 32.— Encicl. Chim., Compl. 
e Suppl., III, p. 505. — Jahresh. f. Chem., 1876, p. 801). 


170. Sul modo di riconoscere traccie di acido fosforico nelle ricerche tossicologiche. 

(Rendie. R. Ace. Bol., 1875-76, pp. 31-32. — Gazz. chim., 1876, p. 34. — Ber. d. d. chem. 
Gesell., 1876, p. 344. — Jahresh. f. Chem., 1876, p. 984. — Journ. Pharm. Chim. (IV), XXIV, 
p. 347). 


171. Genesi del nitro naturale. 
(Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 32-33). 


172. La ptomaina o primo alcaloide dei cadaveri. 
(Rend. R. Ace. Bol., 1875-76, pp. 36-39). 


173. Sull’attività di azione di alcuni fermenti solubili, in soluzione satura di cloruro di sodio 
ed a bassa temperatura. 
(Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, p. 77). 


A questa fece sesuito un’altra breve nota: Nota sopra certe fermentazioni a bassa temperatura. 
(Rend. Ace. Bol., 1878-79, p. 79) e l’altra al n. 180. 


174. Sopra un composto volatile fosforato che si svolge dal cervello putrefatto. 
(Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 89-91. — Berichte d. d. chem. Gesell., 1876, p. 1127. — 
Jahrs. f. Chem., 1876, p. 982). 


175. Sopra alcuni prodotti volatili delle materie cadaveriche. 
(Rend. R. Acc. Bol., 1875-76, pp. 120-122). 


176. Nuove ricerche tossicologiche per riconoscere gli alcaloidi venefici. 
(Mem. R. Acc. Bol. (III), VI. — Ber. d. chem. Gesell., 1876, pp. 195 e 347. — Jahrs. f. 
Chem., 1876, pp. 1025 e 1027). 


177. Studio chimico-tossicologico per la ricerca dell’atropina quando si applica il processo gene- 
rale per l’estrazione degli alcaloidi venefici (letta il 2 genn. 1876). 
(Atti R. Ace. Lincei, 1876 (2°), vol. III, parte II, pp. 29-40. — Gazz. chim., 1876, p. 158). 


129 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 253 


178. Di aleuni prodotti volatili del cervello putrefatto; un composto fosforato, una materia colo- 
rabile, la trimetilamina (2 aprile 1876). 
(Atti R. Ace. Lincei, 1876 (2°), III, parte II, pp. 269-280. — Gazz. chim., 1876, p. 468. — 
Jahresb. f. Chem., 1876, p. 937). 


179. Sul modo di estrarre e riconoscere la morfina nei casi di avvelenamento. 


(Rend. R. Acc. Bol., 1876-77, pp. 37 e 70-73. — Mem. R. Ace. Bol., 1877 (III) t. VIII, 
pp. 527-557 con 1 tav.). 


180. Intorno allo sviluppo di prodotti fosforati volatili dai cadaveri (6 dicembre 1876). 
(Mem. R. Ace. Bol. (III), t. VIII, pp. 651-654. — Mon. Scient. (3), 1880, t. X, p. 153). 


181. Sui prodotti fosforati volatili che si svolgono durante la putrefazione lenta dell’albume e 
del tuorlo d’ova (6 dicembre 1876). 
(Mem. R. Ace. Bol. (III), VIII, pp. 659-670). 


182. Dell’acceleramento che il fosforo e gli ipofosfiti inducono nella reazione tra Vacido solfo- 
rico e lo zinco e sua applicazione alla tossicologia (6 dicembre 1876). 
(Mem. R. Ace. Bol. (III), VIII, pp. 671-687. — Mon. Scient. (3), 1880, t. X, p. 155). 
Queste tre memorie: N. 180-181-182 furono pubblicate a parte col titolo: Tre memorie 
di Fr. Selmi, Bologna, Tip. Gamb. e Parmeg., 1878. 


183. Considerazione sui sali e sulla funzione salina dell'idrogeno. 
(Enciclop. di chim., 1876, vol. IX, pp. 672-674, nell’art. Sala). 
Le sue considerazioni sulla costituzione dei sali, sull’idrogeno ossidrilico o basico, che tro- 


vansi nell’art. Salî (Enciclop. di chim., IX, p. 674), scritto nel 1876, sono bellissime ed utili a 
leggersi ancora oggi. 


184. Della soluzione. 
(Enciclop. Chim., 1877, vol. X, p. 277). 


185. Ricerche comparative sugli alcaloidi cadaverici (col prof. Pesci). 
(Boll. Sc. Med., Bologna, 1877 (V), t. XXIII, pp. 417-464). 


186. Della ricerca dell’acido cianidrico, di quella del cianuro di mercurio e di una reazione 
della stricnina (11 nov. 1877). 
(Boll. Soc. Med., Bol., 1877 (V), XXIV, pp. 416-428. — Jahresb. f. Chem., 1878, p. 1072. 
— Berichte, 1878, p. 1672). 


187. Sopra alcune ricerche intraprese ad iscopo di certificarsi se la codeina si alteri coi visceri 
in putrefazione (15 marzo 1877). 
(Rend. R. Ace. Bol., 1876-77, pp. 73-74). 


188. Alkaloide aus Leichen. 
(Ber. d. deut. chem. Gesell., 1876, pp. 197-198. — Jahresb. f. Chem., 1876, p. 940). 


189. Sulle piomaine od alcaloidi cadaverici e loro importanza in tossicologia con aggiuntavi una 
perizia per la ricerca della morfina. Opuscolo. Bologna, Zanichelli, 1878, in-8° di pp. 110. 
(Berichte, 1878, p. 808. — Mon. Scient. (3), 1878, VIIL p. 499-509, trad. et analysé de 


9254 ICILIO GUARESCHI 130 


l’italien pour le “ Mon. Scient. , par A. Vernon, col titolo: Sur /es ptomaines ou alkaloides 
cadavériques et leur importance en toxicologie). 

Qui si trovano notizie storiche sulle ptomaine, sulle reazioni differenziali fra i veri alca- 
loidi naturali e le ptomaine e delle osservazioni del prof. Otto di Brunswick aggiunte alla sua: 
Anleitung 2. Ausm. d. Gifte, 1875, pp. 69-71. 


190. Memorie sopra argomenti tossicologici con appendici di argomento agronomico. Opuscolo. 
Bologna, Zanichelli, MDCCCLXXVIII, in-8°, di pp. 11-177-50-4. 
In questo opuscolo sono riunite molte delle memorie precedentemente ricordate : 
“ Delle difficoltà che s'incontrano nell’estrarre la morfina dal cervello e di un alcaloide 
naturale che sussiste nel cervello, nel fegato e nel papavero dei campi ,. 
“ Dell’uso dell’acido jodidrico jodurato per riconoscere gli alcaloidi dell’oppio ,. 
“ Nuovi reattivi per riconoscere e discernere gli alcaloidi venefici , (Mem. 1°). 
“ Nuovi reattivi per riconoscere e discernere gli alcaloidi venefici , (Mem. 22). 
“ Del modo di riconoscere la metilamina ecc. ,. 
“ Sugli alcaloidi dei cadaveri , (Mem. coi Prof. Pesci e Casali). 
“ Ricerche comparative sugli alcaloidi cadaverici , (Mem. col Prof. Pesci). 
Appendice: 
“ Esperienze per riconoscere se i funghi, certi microfiti e le materié vegetali in decom- 
posizione posseggano azione idrogenante o riduttrice: conseguenze agronomiche, ece. ,. 
“ Funghi e solfo ,. 
“ Funghi e nitrati ,. 
“ Microzoi e solfo ,. 
“ Materie di letame e solfo ,. 
“ Materie di letame e nitro ,, ecc. 
“ Sull’azione dell’idrogeno nascente coll’azoto libero, e di un composto azotato che si 
forma calcinando la potassa colle materie idrocarbonate ,. 


191. Ricerche per riconoscere se dalle materie cadaveriche, dall’albume e dal tuorlo d’ovo si svol- 
gono prodotti fosforati volatili e su di un mezzo squisito per riconoscere il fosforo libero 
in minime quantità (6 dic. 1877). 
(Rend. R. Acc. Bol., 1877-78, pp. 37-39. — Mon. Scient. (3), 1880, X, p. 154. — Ber., 1879, 
p. 297 e 1880, p. 206). 


192. Intorno ad alcuni fatti di interesse tossicologico (31 gennaio 1878). 
(Rend. R. Acc. Bol., 1877-78, p. 65. — Mem. R. Ace. Bol., 1878 (III), IX, pp. 133-144). 


Questa memoria comprende: 1° Delle reazioni dell’arsenito d’argento e dell'anello arsenicale 
coll’acido solfidrico; 2° Della vaporabilità dell’anidrite arseniosa; 3° Sul processo di A. Gautier 
per la ricerca dell’arsenio; 4° Sulla maniera di determinare î metalli venefici; 5° Ricerca del 
sanque nelle stoffe sucide e tinte. 


193. Sul processo per estrarre l’acido cianidrico dai visceri (27 gennaio 1878). 
(Boll. Sc. Med. Bol. 1878 (VI), vol. I, pp. 100-105). 


194. Sur les moyens d’extraire et de reconnaître la morphine dans les cas d’empoisonnements 
(trad. et résum. de l’italien pour le “ Mon. Scient. ,, par A. Vernon). 
(Mon. Scient., 1878 (3), t. VILI, pp. 877-891. — Jahreshb. f. Chem., pp. 1081-1085. — Ber., 
1878, p. 1692, ecc.). 


Questo lavoro è un lungo riassunto delle memorie precedenti trad. in francese. 


151 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 255 


195. Quelques faits intéressants de toxicologie. 
(Mon. Scient., 1878 (3), VIII, p. 1012. — Jahrsb. f. Chem., 1878, pp. 1049 e 1098. — Jour. 
Pharm. Chim. (IV), t. XXVIII, p. 558). È, può dirsi, il lavoro del N. 292. 


Questo riassunto comprende: 
I. Sul modo di riconoscere l’arsenico. 
II. De la vaporisation de l’anhydride arsénieux. (V. anche “ Ber. d. d. chem. Gesell. ,, 
1878, p. 1691). 
III. Sur le procédé di M. A. Gautier, pour la recherche de l’arsenic. 
IV. Recherche du sang sur les étoffes teintes et sales. 


196. Alcuni fatti ed osservazioni intorno certe sostunze che agiscono nelle reazioni chimiche senza 
combinazione 0 sostituzione apparente. 
(Rend. R. Ace. Bol., 1877-78, pp. 127-128). 


197. Di alcune sostanze non metalliche che accelerano la reazione tra lo zinco e acido solforico 

(2 giugno 1878). 

(Atti R. Ace. Lincei, 1878 (III) vol. II, pp. 172-174). 

Riguardo all'influenza della temperatura, già studiata da Gladstone e Tribe, in altro caso, 
Fr. Selmi osservò grandissima differenza nello sviluppo dell’idrogeno tra lo zinco puro e l’acido 
solforico portato ad un grado notevole di soluzione, come sarebbe da 1 a 5 per 100 allor- 
quando operò a temperatura di 5° a 6° e di 20° a 25° (£ Enciclop. Chim., Compl. e Suppl. ,, 1879, 
VOLE gr IS05 


198. Osservazioni sull’alcol. 
(Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., I, 1879, p. 208). 


Ecco quanto egli scrive: 

“ Se l'alcol contiene un acido non minerale e che si accosti a 90° centesimali e più, non 
reagisce coll’idrato di stronzio, per quanto polverizzato finamente ed anche stemperato con un 
poco d’acqua, tanto che il liquido conserva la reazione acida, e se contiene un sale ammoniacale 
non isviluppa l’ammoniaca ,. 

“ In certe reazioni che si fanno con soluzioni alcoliche delle sostanze reagenti, l’alcol piglia 
parte coi suoi elementi alla reazione medesima, tanto che i prodotti ottenuti sono ben diversi 
da quelli che si ottengono operando colle soluzioni acquose. Il solo caso in proposito studiato 
con qualche accuratezza, è quello che primieramente fu trovato da Sobrero e Fr. Selmi nella 
reazione fra l’alcole ed il nitrato mercurico in soluzione concentratissima... ecc. ,. 


199. Metodo per preparare Valcol assoluto (con fis.). 
(Enciclop. Chim., 1868, t. II, p. 704). 

Fr. Selmi otteneva l’alcol assoluto direttamente da quello a 84° centesimali “ con una sem- 
plice distillazione, senza d’uopo di protrarne la digestione colla calce per ore e giorni, e me- 
diante il semplice passaggio del vapore alcolico per una colonna del disidratante alla tempera- 
tura di 100° ,. — I metodi moderni sono migliori certamente, perchè si ha già in commercio 
dell’aleol molto concentrato, ma allora costituiva un’utile modificazione. Indicò anche un me- 
todo per riconoscere l’alcol amilico nell’alcol commerciale mediante la calce a 100° che lascia 
sfuggire l’aleol mentre tiene fissato l’alcol amilico (loc. cit., p. 706). 


200. Osservazioni sopra una delle reazioni caratteristica della stricnina (31 marzo 1878). 
(Boll. Sc. Med., Bol., 1878 (VI), I, pp. 265-272). 


256 ICILIO GUARESCHI 132 


201. Di una ptomaina venefica e cristallizzabile estratta col mezzo dell'etere dai visceri di due 
cadaveri esumati, ed in cui fu trovato l’arsenico in copia (2 giugno 1878). 
(Atti R. Ace. Lincei, 1878 (III), vol. II, pp. 172-174. — Mon. Scient., 1878 (8), t. VIII, 
pp. 1400-1402. — Berichte, 1378, p. 1838. — Journ. Pharm. Chim. (IV), t. XXIX, p. 156). 


202. Nuove ricerche sul latte. 
(Enciclop: Chim., Compl. e Suppl., 1879, vol. II, pp. 10-18). 


203. Genesi degli alcaloidi venefici che si formano nei cadaveri (letta il 12 dicembre 1878). 
(Rend. R. Acc. Bologna, 1878-79, pp. 29-33. — Mon. Scient., 1880 (III), X, p. 157). 


In questa nota accenna alla scoperta delle ptomaine, alle prime obiezioni e incredulità ece., 
poi ricorda le pretese di Gautier e le esperienze che dimostrano provenire le ptomaine dalla 
decomposizione delle sostanze proteiniche. 


204. Dissociazione dei sali a base volatile durante l’evaporazione e sua importanza sulle opera- 
zioni tossicologiche (13 febb. 1879). 
(Rend. R. Acc. Bol., 1878-79, p. 78. — Mem. R. Acc. Bol., 1879 (III), X, pp. 583-593). 


205. Sull’azione a bassa temperatura di alcumi fermenti non organizzati (13 febb. 1379). 
(Mem. R. Ace. Bol. (III), X, pp. 593-600). — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 54). 
Sono le esperienze già riferite nella nota al n. 173. Con aggiunte. 


206. Sopra alcuni prodotti della putrefazione arsenicale. 
(Rend. R. Ace. Sc. Bol., 1878-79, pp. 111-113). 


È assai interessante, perchè in questa nota fa vedere come anche dalle materie putrefatte 
mescolate con composti arsenicali possano svilupparsi dei prodotti volatili o gasosi contenenti 
arsenico. 


207. Di alcuni criteri per la ricerca degli alcaloidi in differenza delle ptomaine. (Osservazioni 
in occasione di una perizia chimico-tossicologica a Verona. Bol., 1880, opuse. di 47 pp.). 
(Boll. Se. Med., Bologna, serie VI, vol. VI). 


208. Di un processo delicato e sicuro per la ricerca tossicologica dell’arsenico e di alcune osser- 
vazioni sul detto metalloide (letta il 5 gennaio 1879). 
(Atti R. Ace. Lincei, 1879 (III), INI, pp. 163-182. — Gazz. chim., 1880, X, p. 39). 


209. Delle difficoltà di ottenere perfettamente privo di arsenico Vacido solforico, del modo con 

che riuscirvi e di altre cose che risquardano Varsenico (6 aprile 1879). 

(Atti R. Acc. Lincei (III), t. III, pp. 249-257. — Gazz. chim., 1880, X, p. 40). 

Questa memoria contiene i capitoli seguenti: 1° Modo di riconoscere traccie di arsenico 
nell’acido solforico e purificazione di questo; 2° Volabilità dell'acido arsenico sciolto nell’acido 
solforico, quando si distilla; 3° Osservazione sull’acido arsenioso sciolto nell’acido solforico e 
scaldato; 4° Reattivo per l'acido arsenioso quando in un liquido è carico di acido solforoso; 
5° Solubilità dell'anidride arseniosa in diversi liquidi. 


210. Tossicologia chimica dell’arsenico. (Sunto di osservazioni edite ed inedite). 
(Gazz. chim., 1880, X, pp. 431-437. — Zeits. f. analyt. Chem., 1882, XXI, p.308.— Journ. 
of the Chem. Soc., 1881, t. 40, p. 311. — Wagner's Jahresh. f. techn. Chem., 1881, p. 3731). 


211. Tossicologia chimica del fosforo. (Osservazioni esperimentali edite ed inedite). 
(Gazz. chim., 1880, X, pp. 437-442. — Mon. Scient. (3), XI, p. 51. — Journ. Chem. Soc., 
1881, t. 40, p. 309). 


a] 


158 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 25 


212. Considerazioni sui fermenti figurati e non figurati. 
(Enciclop. Chim., Compl. e Suppl., 1879, t. II, p. 737-753). 

Qui sono molte osservazioni proprie di Fr. Selmi sui fermenti, sulla putrefazione, ecc. ecc. 
A pag. 751 discorre delle basi che formansi nell’organismo vivente e scrive: 

“ Frattanto sia lecito a chi scrive, di manifestare come egli, opinando che possa succedere 
la putrefazione nel vivo senza il concorso di organismi, istituisse parecchie esperienze, le quali 
provarono che tale supposto coincideva col vero. Le esperienze cui qui si allude, furono già 
pubblicate in parte, ed in parte sono per anco inedite. Abbracciano. i due casi generali, cioè 
quello in cui non è dubbio nell’ammalato il sussistere di microbi malefici capaci di produrre 
la malattia, e l’altro in cui tali esseri non furono mai trovati, e che anche non si può conget- 
turare che vi siano realmente. Le indagini furono volte specialmente all’esame delle urine, e 
quando la morte intervenne, sul sangue e su alcuni visceri, nè tanto sull'uomo quanto sugli 
animali. Le malattie circa alle quali si fecero ricerche, furono, per la prima classe una paralisi 
progressiva, una pneumonite interstiziale ed il tetano reumatico; per la seconda classe la mi- 
gliare tipica, l’ileotifo benigno e l’ileotifo mortale. Quest'ultimo nel cavallo ,. 

E prosegue discorrendo delle basi trovate in queste urine. 


213. Dell’influenza di alcuni sali nell’accelerare 0 ritardare la reazione tra lo zinco e Vacido 
solforico (letta il 1° ciugno 1879). 
(Atti R. Acc. Lincei, 1879 (III), IV, pp. 36-42. — Mon. Scient. (3), 1880, t. X, p. 156. — 
Berichte, 1800, XIII, p. 206. — Gazz. chim., 1881, XI, p. 258). 


Tra le altre cose l’autore dimostra che sullo sviluppo di idrogeno per l’azione dello zinco 
coll’acido solforico ha influenza l'aggiunta di piccole quantità di sali diversi; l’accelerano delle 
piccole quantità dei solfati di Mg, Mu e Fe, minore azione hanno i solfati di sodio, potassio 
e alluminio. Veggasi anche in Gmelin-Krauts “ Handb. anorg. Chem. ,, IV Abt., I, p. 5384. 


214. Processo per depurare lo zinco dall’arsenico. 

(Atti R. Acc. Lincei, 1879. — Mon. Scient., 1882 (3), t. XII, p. 190. — Zeits. f. analyt. 
Chem., 1883, t. XXII, p. 76. — Jahresb. f. Chem., 1883, p. 1549. — Eco Indust., II, p. 852. — 
Chem. Zeit., V, p. 934. — Jahresh. Pharm. u. Toxikol., 1881-82, p. 385). 


Im questo breve lavoro è ricordato come sia dovuto a Selmi il metodo per depurare lo 
zinco da traccie d’arsenico mediante fusione ed immersione di pezzi di cloruro di ammonio. 

Col titolo di: Purificazione dello zinco arsenifero col metodo di Fr. Selmi, nel 1884 (“ Riv. di 
chim., med. e farm. ,, II, p. 444) I. Guareschi rivendicò al nostro chimico il metodo di depurare 
lo zinco mediante il cloruro di ammonio; metodo che alquanto modificato era stato proposto 
come nuovo da L’Hòte. Lescceur (0. R., 1893, t. 116), in un lavoro: Sur la purification du zine, 
ha confermato e perfezionato il metodo di Selmi e di L’Hote. 


215. Alcaloidi venefici e sostanza amiloide dell’albumina in putrefazione (1° giugno 1879). 
(Atti R. Acc. Lincei (III), IV, pp. 75-88). 


216. Ricerca del fosforo nelle urine in caso di avvelenamento (1° aprile 1880). 

(Mem. R. Acc. Bol., 1880 (IV), I, pp. 275-289 con 1 tav. — Riv. sperim. freniatria e med. 
leg., 1880. — Zeits. f. analyt. Chem., 1882, XXI, p. 481. — Gazz. chim., X, p. 437. — Jahresb. f. 
Pharm. u. Toxikol., 1881-82, p. 814. — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 51. — Zeits. f. analyt. 
Chem., 1882, t. XXI, p. 301). 

Serie II. Tox. LXII ui 


ICILIO GUARESCHI 134 


DO 
Ut 
(0.6 


A questa fece seguito: 
Nuovo esame di urine fosforate; fosfine venefiche che se ne ritraggono (20 maggio 1880). 
(Mem. R. Acc. Bol. (IV), I, pp. 777-792. — Arch. d. Pharm., (8), XIX, p. 276. — Jahresb. 
f. Chem., 1880, p. 1739 e 1881, p. 975. — Journ. of chem. Soc., 1882, t. 42, p. 845). 


217. Esame dell'urina di un itterico grave in correlazione coll’esame di umurina fosforata. 
(Mem. R. Acc. Bol. (IV), I, pp. 291-293). 


218. Sulla fallacia del reattivo di Van-Deen per determinare le macchie di sangue (1° apr. 1880). 
(Mem. R. Ace. Bol. (IV), I, pp. 295-297). 


219. Sulla ricerca dell'acido cianidrico, di quella del cianuro di mercurio e di una reazione della 
stricnina. Bologna, 1878. 


220. Nozioni pratiche sul modo migliore di estrarre gli alcaloidi cadaverici. Bologna, 1880. 


221. Sopra due arsine formatesi in uno stomaco di maiale salato con anidride arseniosa 
(22 aprile 1880). 
(Mem. R. Acc. Bol., 1880 (IV), I, pp. 299-305. — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 55). 


222. Sulla fermentazione butirrica. 
(Encielop. chim., vol. III, p. 412 e Compl. e Suppl., 1880, II, p. 728). 


223. Ricerche chimico-tossicologiche sopra il cervello di uno che si avvelenò con fosforo (letta il 
20 maggio 1880). 
(Mem. R. Ace. Bol. (4), t. I, pp. 793-802. — Mon. Scient., 1881 (3), t. X, p. 54). 


224. Ricerche chimico-tossicologiche sul fegato di uno che si avvelenò con fosforo (in collab. con 
C. Stroppa, letta il 20 maggio 1880). 
(Mem. R. Ace. Bol. (4*), I, pp. 803-810. — Mon. Scient. (3), 1881, t. XI, p. 54). 


225. Riepilogo e considerazioni sulle quattro memorie precedenti. 
(Mem. R. Ace. Bol. (4°), I, pp. 811-888). 


226. Weitere Studien iiber das Vorkommen phosphorhaltiger Basen im Harn und in verschie- 
denen Organen bei acuter Phosphorvergiftung (xiass. e trad. del prof. Husemann) in: 
(Arch. f. Pharm., 1881 (8), t. XIX, pp. 276-292). 


227. Ricerche intorno ad. alcuni prodotti che si riscontrano nel’urina di un cane avvelenato col- 
Vacido arsenioso (letta il 18 nov. 1880). 
(Mem. R. Acc. Bol. (IV), t. II, pp. 3-26.— Gazz. chim., 1882, p.558. — Jahresh. f. Chem,, 
1882, p. 1216). 


228. Sopra alcuni prodotti di decomposizione dell’albumina a temperatura un po’ minore di 
quella del corpo umano (comunie. lette li 11 e 16 dic. 1879). 
(Rend. Acc. Bol., 1879-80, pp. 49-54 e 59-57). 


229. Di alcuni criteri per la ricerca degli alcaloidi in differenza delle ptomaine. Osservazioni 
in occasione di una perizia chimico-tossicologica addotta in una causa di supposto avve- 
lenamento presso le Assise di Verona. 

(Boll. Sc. Med., Bol., 1880, a. LI, (VI), vol. VI, pp. 35-51 e 81-109). 
(A parte): Bologna, N. Zanichelli, 1880, in-8°, di pp. 47. 


135 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 259 


230. Prodotti anomali in parte venefici da alcune urine patologiche considerati in correlazione 
colla tossicologia e la diagnosi medica (Memoria presentata alla R. Acc. delle Scienze di 
Bologna il 16 dicembre 1880). 

(Atti R. Ace. Lincei, Transunti, V, 1879-81. — Gazz. chim., 1881, XI, p.546. — Jahresb. f. 
Chem., 1881, p. 1059. — Ann. di Chim. e Farm., 1888 (4°), VIII, pp. 3-44. — Jahresb. f. Chem., 
1888, pp. 2429-2430. — Arch. d. Pharm. (3), 1888, t. XXII, pp. 801-802. — Journ. of Chem. Soc., 
1882, t. 42, p. 741). 

Nella tornata dell’11 dic. 1879 il Selmi parlando della putrefazione dell’albume d’uovo, 
espose chiaramente la convinzione che nelle urine patologiche sarebbersi riscontrati alcaloidi e 
prodotti della putrefazione nel vivo. 

I sigg. Bouchard, Felz, Ehrmann, Pouchet e Villiers ed altri fecero dal 1882 delle ricerche 
sulle ptomaine che si trovano nelle urine in diverse malattie; ma nessuno di loro ricordò i 
lavori di Francesco Selmi pubblicati nel 1880 e che si riferiscono appunto a quelle ptomaine 
che egli denominò pato-amine perchè sì trovano nell’organismo in istato patologico. Perciò io ed 
Albertoni pubblicammo il lavoro del Selmi negli “ Annali di Chimica e Farmacologia ,, 1888 
(4°), t. VIII, pp. 3-44. 


231. Piomaine od alcaloidi cadaverici e prodotti analoghi da certe malattie in correlazione colla 
medicina legale (Memorie del Prof. Fr. Selmi pubblicate ad ischiarimento nelle cause per 
veneficio). 

(Bolosna, N. Zanichelli; 1881, in-8° di pp. 1v-307). 

Questo volume è dedicato a Tommaso Villa, allora Ministro di Grazia e Giustizia; è una 
nuova edizione con aggiunte e correzioni dell’opera segnata al numero 189. 

TN Governo italiano, nel 1880, su proposta del ministro di Grazia e Giustizia onor. Tom- 
maso Villa nominò una Commissione apposita, allo scopo di studiare le gravissime questioni che 
si riferivano alla prova nei reati di veneficio ed i caratteri speciali dei veleni cadaverici. Questa 
Commissione nominata coi decreti 11 aprile e 4 nov. 1880 era composta dei prof. Fr. Selmi, 
presidente, G. Lazzaretti, A. Moriggia, E. Paternò, I. Guareschi, P. Spica, A. Mosso, D. Toscani. 


232. Cenni cronologici delle osservazioni fatte sulle sostanze d’indole alcaloide che si formano 
durante la putrefazione, all’illustre Accad. di Medicina di Parigi. 
(Riv. sperim. di freniatria e med. legale, a. 1881). 


233. Sulle basi patologiche (Nota presentata il 6 marzo 1881). 
(AttiR. Ace. Line., 1881 (III), Transunti, vol. V, pp. 174-179. — Gazz. chim., 1881, p. 546. 
— Mon. Scient. (3), 1882, t. XII, p. 852). 


234. Nuove modificazioni al processo per Vestrazione dell’arsenico (Nota presentata il 1° maggio 
1881). 
(Atti R. Acc. Lincei (III), V, pp. 237-243). 


235. Nuove ricerche sulle basi patologiche e d’un fermento saccarificante nell’urina di uno scor- 
butico (presentata il 1° maggio 1881). 
(Atti R. Acc. Lincei (II, V, pp. 243-248). 


236. Sul fermento saccarificante delle urine (19 giugno 1881). 
(Atti R. Ace. Lincei (III), V, pp. 300-303). 


260 ICILIO GUARESCHI 136 


237. Sull’azione saccarificante dei sali neutri (19 giugno 1881), 
(Atti R. Ace. Lincei (III), V, pp. 330-332). 


Questo è l’ultimo lavoro pubblicato dal Selmi. 


238. Breve esposizione della scoperta di un principio saccarificante contenuto nell’albume dell’ovo, 
ossia: Principio diastasico trovato nell’albume d’ovo (lettera a G. B. Ercolani e due memorie 
in data di Vignola 22 luglio 1881). 
(Rend. R. Acc. Bol., 1881-82, pp. 11-13. — Mem. R. Accad. Se. Bol. (IV), t. III, nov. 1881. 
— Mon. Scient., 1882 (3), t. XII, pp. 70-71). 


239. Tolleranza degli animali domestici per Varsenico e sua distribuzione nell'organismo (Eram- 
mento di un lavoro inedito del Prof. Fr. Selmi). 
(Riv. di chim., med. e farm., dir. da Albertani e Guareschi, 1883, vol. I, pp. 321-326). 


240. Ein Strychninùhnliches Ptomain. 
(Zeits. f. analyt. Chem., 1882, XXI, p. 624). 


241. Zerstorung d. organ. Substanz bei gerichtlichen Untersuch. besonders zur Auffindung 
des Arsen. 
(Gazz. chim., 1880, X, p. 431. — Zeits. f. analyt. Chem., XXI, p.307. — Pharm. Centralb., 
XXII, p. 80. — Jahresb. d. techn. Chem., 1881, p. 373). 


Alcuni lavori del Selmi trovansi riassunti nel “ Zeits. f. analyt. Chem. , del Fresenius, ma 
solamente gli ultimi e vi furono inseriti dopo la morte del nostro chimico. 

Così pure gli stessi lavori trovansi nel “ Jahresb. i. Forts. Pharm. u. Toxik. , di Beckurts, 
1881-1882. — In questi “ Jahresb. , vi è sempre un capitolo intero, sulle Piomaine, che secondo 
la proposta di Kobert i redattori chiamano Ptomatine. 

I principali lavori di Selmi sulle Ptomaine furono fatti conoscere in Germania specialmente 
dall’Otto, dall’Husemann e da Beckurts: 


Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche Chemie und Toxrikologie (Arch. d. 
Pharm., 1881 (3), t. XIX, pp. 187-204 e 415-424). 

Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche Chemie und Toxikologie (Arch. d. Pharm. 
di E. Reichardt, 1882 (3), t. XX, pp. 270-289). i 

Die Ptomaine und ihre Bedeutung fi die gerichtliche Chem. und Toxikologie (Arch. £. 
Pharm., ivi (3), t. XXI (1883), pp. 401-417 e 481 a 488). 

Die neuesten Studien iiber Ptomaine und ihre Bedeutung fiir die gerichtliche Chemie u. 
Toxikologie (Arch. d. Pharm., 1884 (3), XXII, pp. 521-533). Riassume dei lavori sulle Ptomaine 
dopo la morte di Selmi, cioè quelli di Guareschi, Brieger, ecc. 

I lavori di Selmi sono stati dall’Husemann riassunti anche nel classico “ Schmidt's Jahr- 
buchemn ,. 


Scritti inediti. 
242. Fra gli scritti scientifici inediti ricordo: 
1° Un voluminoso Trattato di chimica tossicologica, del quale l'Autore lasciò quasi com- 
pleto il primo volume. 
2° Dei miglioramenti opportuni per un più utile insegnamento scientifico sperimentale 
nell’ Università di Bologna (colla data 6 luglio 1868). 


L’autografo di questo discorso trovasi a Modena presso gli eredi di Luigi Zanfi, già Capo 
Divisione al Ministero dell'Istruzione ed amicissimo: del Selmi. 


137 3 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 261 


Trattati. — Traduzioni. — Enciclopedia di Chimica. 


243. Alcuni preliminari di chimica generale nei quali si dà contezza delle recenti modificazioni 
proposte per la nomenclatura e la classificazione dei corpi, seguiti da una esposizione breve 
e chiara delle nuove dottrine chimico-organiche del Liebig, fatta dal Dott. Ferd. Hoefer, 
opuscolo pubblicato a vantaggio di tutti quelli che si accingono allo studio della chimica. 
Modena, tip. Vincenzi e Rossi, 1845, in-8°, pp. 68. Un cenno in “ Ann. Majocchi ,, 1848, 
X, p. 188. 


244. Preliminari di chimica generale, sequiti da un compendio di chimica organica. Modena, 1843. 


N. B. Non ho potuto vedere quest’opera. Credo che siala stessa indicata precedentemente. 


245. Farmacopea ragionata ossia Trattato di farmacia pratica e teorica di N. G. Henry e G. 
Guibourt. — Trad. di Fr. Selmi con aggiunte inedite del Guibourt e del traduttore. Modena, 
1842-44, 2 vol. in-8°, XXTV-400 e 434 pp., con 12 tav. 


246. Atti verbali della sottosezione di chimica del 24, 26, 27 e 28 sett. 1842. 
(Atti della 4* riunione degli Scienziati Italiani tenuta in Padova nel sett. 1842. Padova, 
1843, pp. 467-484). 


247. Prolusione detta nella scuola di chimica del R. Liceo di Reggio il giorno XV ottobre 
MDCCCXLILI, incominciando un corso di lezioni intorno a questa scienza. Modena, tip. 
del R. D. Camera, 1844, in-8°, di pp. 27. 
(Dal Giorn. lett.-scient. mod., 1° sem. 1844, t. VII, pp. 5-27). 


248. Formole di alcuni liquidi da indorare col processo elettrochimico di Fr. Selmi. Tip. Tor- 
reggiani e Comp., 10 maggio 1844, foglio vol. 
Circa la priorità della scoperta del metodo, v. il “ Man. dell’arte d’indorare , ecc., pp. 99-108, 
e Grimelli, Metodo originale italiano di elettrodoratura, Modena, 1844, p. 10. 


249. Atti verbali della sezione di chimica, adunanze del 13, 14, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 
24, 25, 26 settembre. 
(Atti della VI riunione degli Scienziati Italiani tenuta a Milano nel sett. 1844. Milano, 
Pirola, 1845, pp. 135-201). 


250. Manuale dell’arte d’indorare e d’inargentare coi metodi elettrochimici e per semplice immer- 
sione, compilato sugli scritti e sui lavori di Brugnatelli, Bouquillon, Boettger, Bagration, 
Briant, Dumas, Elkington, Elsner, Frankenstein, Graeger, ecc. ad uso degli artefici italiani. 
Reggio, 1844, in-16°, pp. viri-174. 

A questo fece seguito: 


i Elettrometallurgia. Brevi parole intorno all'articolo bibliografico del “ Manuale d’indorare 
e inargentare , predetto, inserito nel “ Foglio di Modena , 25 luglio 1844 e ivi, 5 agosto 1844. 
Questo “ Manuale , fu tradotto in francese col titolo : 
Nouveau Manuel complet de dorure et d’argenture par la méthode électrochimique et par 
simple immersion, de Fr. Selmi, traduit de l’italien et ausmenté de toutes les nouvelles décou- 
vertes par E. De Valineourt. Paris, Roret, 1845. 


962 ICILIO GUARESCHI 158 


251. Bollettino farmaceutico (redattore principale Fr. Selmi). 

(Ann. Majocchi, vol. XIII, XIV, XV, XVI XVII, XVIIL XDX, XX, XXI, XXJII, XXIII, 
XXIV, XXV, XXVI cioè dal 1° trim. 1844 al 2° trim. 1847. In questo bollettino il Selmi, oltre a 
dare notizie dei lavori fatti in Italia ed all’estero, vi inserì molte osservazioni proprie). 


252. Elettrometallurgia. Brevi parole intorno all’articolo bibliografico del “ Manuale d’indorare e 
inargentare coi processi elettrochimici ,. 
(Foglio di Modena, 25 luglio 1844). V: N. 250. 


253. Quanto la chimica abbia contribuito al progresso delle arti e delle industrie, prolusione 
detta nel nov. 1844. nel R. Liceo di Reggio. Modena, C. Vincenzi, 1845, in-8°, di pp. 30. 


254. Annuario ital. di chim. e di fisica dell’anno 1846, divetto dal Prof. Fr. Selmi e compilato dal 
medesimo in compagnia dei Sigg. D. N. Vergalli, D. G. Parmeggiani, Fr. Terracchini e Ant. 
Selmi chim. farmacisti. Modena, C. Vincenzi, 1847, in-8°, di pp. xxx1v-444, con 2 tav. 


255. Annuario chimico italiano dell’anno 1845, diretto dal Prof. Francesco Selmi e compilato 
dal medesimo in compagnia dei signori Dott. G. Parmeggiani, med. prim. nell’ospitale di 
S. Vincenzo in Reggio, e Giovanni Giorgini, assistente presso la cattedra di chimica nella 
R. Università di Modena. Anno I. Reggio, presso l’editore proprietario Fr. Selmi, 1846. 
Modena, tip. A. Rossi, in-8°, pp. xx1-396. 


256. Discorso pronunciato dinanzi ai convittori del Collegio di Reggio nel giorno 2 luglio 1846 
compiendosi il corso delle lezioni di chimica elementare tenuto ai medesimi nell’anno scola- 
stico 1845-46. Modena, A. e A. Cappelli, 1846, in-8°, p. 19. 


257. Principi elementari di chimica minerale. Torino, Cugini Pomba e Comp., 1850, Stab. tip. 
Fontana, in-24°, p. 432. 
Di questa opera fu fatta una 2* edizione col titolo: 
Principii elementari di chimica minerale per uso dell’'insegnamento ginnasiale, liceale ed 
universitario. 2% edizione riveduta e rifatta in varie parti dall’autore. Torino, Un. Tip. Edit., 
1856, in-8°, p. 516. 


258. Principii elementari di chimica organica. Torino, Cugini Pomba e Comp., 1851, in-24°, 

p. 535. 

Questa opera è oggi rarissima, quasi introvabile. 

In questi suoi Principi di Chimica organica e nelle sue Annotazioni al Regnault 1852, 
t. IV, p. 571, tratta a lungo dei metodi di estrazione degli alcaloidi in modo quale non si trova 
in nessun libro italiano di quel tempo. 


259. Corso elementare di chimica per uso delle scuole universitarie, secondarie, normali ed indu- 

striali di M. V. Regnault. Prima trad. ital. sulla seconda frane. del Prof. Fr. Selmi e 

G. Arpesani. Torino, Cugini Pomba e C., 1851-1852, 4 volumi in-8° picc. con figure. Con 

note dei traduttori. 

L'importanza grande del libro del Regnault tradotto e commentato dal Selmi e tradotto poi 
anche in tedesco e in inglese fu da me fatta notare anche a proposito delle leggi di Berthollet 
(V. Storia della chimica in Italia dal 1750 al 1800, C1. L. Berthollet, p. 347). E mi compiaccio 
che il giudizio da me dato del libro del Regnault sia stato recentemente confermato dal Le Cha- 


i e agi lp PRETE - 1 ; 


MO. 


139 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 263 


telier nel suo discorso in occasione del centenario di Regnault .(“ Rev. Scient., 1910, 2° sem.). 
Questo prezioso libro è stato assai utile ai chimici italiani specialmente dal 1850 al 1870 e ne è 
ancora oggi utile la lettura (V. questa mem., p. 19 [143]). 


260. Lezioni di chimica agraria del Prof. Faustino Malaguti. Ed. ital. per cura del Prof. Fran- 
cesco Selmi. Torino, Cugini Pomba e C., 1851, in-8° pice. 


Anche questo libro ora è raro. 


261. Lettere prime e seconde di Giusto Liebig sulla chimica e sue applicazioni all'agricoltura, 
alla fisiologia, alla patologia, all'igiene ed alle industrie, nuova edizione condotta sull’ori- 
ginale tedesco del Dott. Emilio Leone ed annotate dal Prof. Fr. Selmi. Torino, Soc. Ed. 
della Bibl. dei Comuni Ital., tip. Ferrero e Franco, 1853, in-8°, di pp. virt-519. 


262. Chimica elementarissima ossia Nozioni facili e compendiose di chimica colle applicazioni 
all’igiene, all’economia domestica ed alle arti, esposte da Fr. Selmi. Torino, Paravia e C., 
1855, in-16°, di pp. 324. 


263. Nouveau Manuel de dorure et argenture par la méthode électrochimique (insieme con Va- 
lincourt, Mathey et Malepeyre, Paris, 1856). 


264. Rassegna bimestrale di scienze e di industrie. 
(Rivista contemporanea di Torino, vol. III, 1855-56. — Vol. IV, 1855, pp. 653-558. — 
Vol. V, 1856, pp. 353-362. — Vol. VI, 1856, pp. 238-246). 


265. IL Tecnico. Periodico mensile. Anno I-III, vol. I, Torino, 1857. 


Questo giornale fu fondato e diretto nel 1857 da Francesco Selmi e Giuseppe Clementi, 
ai quali nel 1858 si aggiunsero come direttori Emilio Bertone di Sambuy e l’ing. Pietro Conti 
(vol. IM). Il vol. IMI (1861) era diretto ancora da Selmi e Clementi; e poi cessò le pubblicazioni. 
Era un giornale pratico. 


266. Del vino. Fabbricazione, conservazione, analisi, ecc. (con appendice di I. Guareschi). Torino, 
1878 (ristampato), 1 vol. in-16°, di 423 pp. 


267. Enciclopedia di chimica scientifica ed industriale. 11 vol. in-4° e 3 vol. di complemento e 
supplemento. Torino, 1867-1881. V. pagg. 19-20 [143-144]. 


268. Compendio. storico della chimica. In: Encielop. di Chim., vol. XI, p. 503 a 739. 


È un lavoro di compilazione non privo di importanza. Per la prima volta in un libro 
italiano si dànno ampie notizie sulla vita e sulle opere di molti chimici italiani. 


268%. Introduzione allo studio della chimica. Torino, 1849 (inedito). 


Quest'opera fu premiata dalla R. Acc. delle Scienze di Torino. Il manoscritto si conserva 
ancora nell’archivio della R. Accademia. Non fu, a quanto io so, pubblicata: però il Selmi nel 
vol. III del Corso di Chimica del Regnault a p. 454 pubblicò il capitolo che riguarda l’iso- 
morfismo. La parte III del manoscritto servì al Selmi per i suoi Principii elementari di chi- 
mica organica. i 


DO 
(er) 
sé 


269. 


tera: 


270. 


271. 


273. 


274. 


275. 


276. 


278. 


279. 


280. 


281. 


ICILIO GUARESCHI 140 


Bibliografia letteraria. 


Iconografia de’ celebri vignolesi, edita per cura di Fr. Selmi. Modena, a spese di G. Lappi 
librajo, 1839, in-8° di pp.4 n. n. e fascicoli sette rispettivamente di pp. VI, III, IV, IV, VII 
VI, VIII con sette ritratti. 


Quest'opera, che credo la prima di Selmi, è dedicata da lui a Carlo Garavicini con let- 
Vignola, 25 dicembre 1838. 


Biografia di Jacopo Barozzi detto il Vignola. 
(Museo scient.-lett., anno I, 1839, p. 374). 


Biografia di Giacomo Tosi (Modena, 3 dicembre 1839); Modena, Soliani, 1840, in-89, di 
12 pp. Estratto da: 
(Mem. di rel., mor. e lett. (2), t. VIII (1839), pp. 391-400). 


. Biografia della contessa Carolina Forni nata Riccini. Modena, Eredi Soliani, 1840, in-8°, 


di pp. 12. Estr. dalle: 
(Mem. di rel., mor. e lett. (2), 1840, t. X, pp. 164-171). 


Biografia di una donna benefica (Teresa....). 
(Giorn. lett.-scient. mod., feb. 1840, t. I, pp. 364-367). 


Del modo che tennero i latini nel tradurre i greci, e gli italiani nel volgarizzare i primi 
e è secondi, lezione di Lorenzo Mancini, recensione. 
(Giorn. lett.-scient. mod., marzo 1840, t. I, pp. 419-426). 


Quando il M. R. P. Gio. Luigi da Castelfranco di Genova, cappuccino, lettore di Parma, 
dava compimento la domenica in Albis dell'a. MDCCCXL al corso di sue quaresimali 
fatiche nella chiesa plebanale di Vignola, Sonetto. Modena, tip. Vincenzi e Rossi (1840), 
in foglio vol. 


Ricorrendo in Vignola la festività di S. Terenzio martire il dì XXXI maggio MDCCCXL, 
ode dedicata al merito esimio ed alle preclare virtù di S. E. R. mons. L. Reggianini, tip. 
Vincenzi e Rossi (1840), in foglio vol. 


. Jacopo Cantelli. 


(Museo scient.-lett.-art., Torino, 1840, II, p. 51). 


Cenni storici intorno a Vignola. 
(Museo scient.-lett.-art., Torino, 1840, II; pp. 133 e 199). 


Lodovico Antonio Muratori. 
(Museo scient.-lett.-art., Torino, 1840, II, p, 281). 


Biografia di una povera cieca (Giulietta.....). 
(Giorn. lett.-scient. mod., luglio 1840, t. II, pp. 284-288). 


Necrologia patria (Dott. Angelo Crespellani). 
(Foglio di Modena, an. I, n° 24, 23 sett. 1841; firm. Un Vignolese in Livizzano). 


fe 


141 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 265 


282. Necrologia di Eva Baldini vignolese. 
(€ Silfo ,, Giorn. di Modena, n° 23, nov. 1841). 
Questa necrologia fu ristampata in nota a una canzone di Guglielmo Raisini, a pag. 20 
dell’opuscolo seguente: 


283. Cenni storici intorno la chiesa plebanale di Vignola. In versi ed epigrafi per le sacre feste 
celebrate in Vignola nei giorni 21 e 28 agosto 1842 in occasione della riapertura della chiesa 
plebanale nuovamente ampliata ecc., Modena, tip. Vincenzi e Rossi, 1842, in-8°, pp. 5-14. 


284. Commentario sulla vita del prof. Carlo Merosi. 
(£ Foglio di Modena ,, an. III, n° 235, 2 ott. 18483). 


285. 1 primi racconti scritti da un maestruccio di scuola, Modena, Vincenzi, 1847, in-14°, 
di p. 128. 
2* ed., Torino, Paravia, 1868, col titolo: Racconti morali scritti da un maestruccio di 
scuola, per lettura dei giovinetti italiani. 


286. I favoleggiatore ossia Raccolta di favole in lingua volgare, scelte, emendate e purgate, non 
che opportunamente annotate ad usum serenissimi saeculi XIX, dal M. di S., Torino, 
G. B. Paravia, 1857, in-16°, di pp. 168. 
(M. di S. ossia Maestro di Scuola, pseudonimo di Franc. Selmi). 


287. Collezione degli atti ufficiali del cessato Ministero della Pubblica Istruzione nel Governo 
dell’Emilia, Modena, Eredi Soliani, 1860, in-8°, di pp. 1v n. n. e 168. 


288. Due nuovi codici dell’Imitazione di Cristo in volgare (Della R. Biblioteca Universitaria 
di Bologna). 
(€ Effemeride , della Pubblica Istruzione, Torino, 31 dicembre 1860, an. I, n° 15, p. 253). 


289. Di una edizione della Commedia da pubblicarsi nel sesto centenario della nascita di Dante. 

(Rivista contemporanea, an. IX (aprile 1861), vol. XXV, pp. 62-82). (A parte): Torino, 
Un. Tip., 1861, in-8°, pp. 23. Cfr. Ferrazzi, Manuale dantesco, vol. I, pp. 768-771. È firmato: 
“ Uno della Commissione dei testi di lingua, dall’ Emilia, 30 gennaio 1861 ,. 


Questo, e tutti gli altri lavori danteschi di Selmi sono pregevolissimi. 


290. Di uno studio da fare per Vedizione nazionale della Commedia di Dante Alighieri. 
(Riv. contemporanea, an. IX (luglio 1861), vol. XXVI, pp. 70-87). (A parte), s. note: 
Tip. Un. Tip., in-8°, pp. 18. 


È firmato: “ Uno della Commissione dei testi di lingua ,. 


291. L’ingegno italiano e convenienza al Governo di assecondarne il rifiorimento. 
(Rivista contemporanea, an. IX (ag. e sett. 1861), vol. XXVI, pp. 272-284 e 383-401). (A 
parte): Torino, Un. Tip., 1861, in-8°, pp. 31. 


292. La lingua nazionale dell’Italia nuova (all’Eccellenza del Sis. Cav. C. L. Farini, Deputato 
al Parlamento Nazionale). i 
(Rivista contemporanea, an. IX (dicembre 1861), vol. XXVII, pp. 342-382). (A parte): To- 
rino, Un. Tip., 1861, in-8°, pp. 39. 
Serie II, Tox. LXII ri 


266 ICILIO GUARESCHI 142 


293. Di alcune ragioni della presente mediocrità in Italia. 
(Rivista contemporanea, an. X (marzo 1862), vol. XXVIII, pp. 383-428). Torino, Un. Tip., 
1862, pp. 46. 

È un bellissimo discorso dedicato al La Farina, ricco di notizie relative al tempo della 
maggiore decadenza dell’Italia verso la metà del secolo XIX. Egli che nei primi anni fu 
costretto ad insegnar la chimica in un collegio retto dai gesuiti, scrive: “ I Gesuiti, cui va 
mancando vitalità al cuore, cercano avviticchiarsi ai popoli ed impacciarne il respiro, affinchè 
non siano sopravanzati di giovanile robustezza; si avventarono, non appena istabiliti, alla povera 
Italia, la avvincolarono tra le branche e le restarono stretti come serpente che si attorcigliò 
alla vittima, e corrompendola come il cadavere legato da Mesenzio al vivo nemico. Si appi- 
gliarono a tutte le classi..... , Discorre dei Congressi scientifici, fondati dal principe di Canino 
Luciano Bonaparte, e deplora la decadenza scientifica e letteraria di quel tempo. 


294. Documenti cavati dai Trecentisti circa al potere temporale della Chiesa. 
(Rivista contemporanea, an. X (luglio 1862), vol. XXX, pp. 91-137). (A parte): Torino, 
tip. Pomba, 1862, in-8°9, pp. 48. 

Questa è una stupenda dissertazione sul potere temporale dei papi. Benchè religioso, si 
sente in lui l’animo libero, l’onestà morale, il vero senso del giusto. A pag. 99 ricorda alcune 
parole di Fra Domenico Cavalca, il quale dice: “ Perciocchè si legge che allora che Costan- 
tino diede al papato l’ammanto e il cavallo bianco e la signoria, fu udita una voce che disse: 
Oggi è messo il veleno nella Chiesa di Dio ,. 

A pag. 181-132 il Selmi, animo buono e cuor d’oro, descrive gli ultimi momenti di Pietro 
Derossi di Santa Rosa, Ministro nel 1853 quando fu proposta ed approvata la legge di aboli- 
zione del foro ecclesiastico, con parole che meritano davvero di essere riprodotte: 

“ Al parroco di San Carlo di Torino, un frate servita, si mandò 1 ordine non concedesse 
il pane mistico, se non adempiuto alle condizioni imposte; e padre Pittavino, cieco ‘strumento 
e pervicace dei comandi arcivescovili, non mancò al bieco assunto. Invitato, andò alla casa 
dell’infermo, ivi trattenendosi con faccia oscura ed accigliata, non ad arrecare quei soavissimi 
conforti all’animo abbattuto che tanto fortemente lo sollevano dallo sgomento e le dànno 
lena al transito, quanto per istarvi ministro di tortura e di un proposito implacabile. Quan- 
tunque il Santa Rosa avesse dichiarato formalmente di avere nell’ufficio suo concorso in sua 
piena tranquillità a dar voto col Ministero contro le pretensioni ecclesiastiche; quantunque in 
allora fosse paruta bastevole una dichiarazione somigliante per consolarlo dell’ostia eucaristica, 
nondimeno adesso volevasi di più, cioè la ritrattazione pura, esplicita, pubblica, di avere male 
operato. Contava il frate sullo stremo di forze dell’agonizzante, sulla brama ardentissima che 
pure andava manifestando, di ricevere il Santo dei Santi, qual ultimo balsamo di dolcezza 
infinita che tutto spegne l’amaro della morte; laonde agguantavalo, spiavalo, coglievalo in quei 
momenti ne’ quali gli sembrava più disposto, affine di carpirgli la voluta parola. Non mai fiera 
selvatica stette così all’assalto della vittima sua. Battaglia fu di crudeltà inimmaginabile; la 
misera moglie, disperatane, si buttò ai piedi del Pittavino, implorando misericordia; il confes- 
sore, presente, addoloratissimo, si fece a pregarlo e supplicarlo si commovesse. Il morente 
stesso implorò pietà, che non gli togliesse quell’estremo alleviamento allo spirito trambasciato; 
mirasse la donna sua in terribili angoscie; non pretendesse da lui una tal dichiarazione non 
conforme al sentimento ; aversi già rappacificato con Dio, in umiltà di mente, dinnanzi a chi 
teneva podestà legittima di scioglierlo. 

“ E il frate perdurò inflessibile a riproporgli la via di accomodamento; e l’altro, con voce 
ferma a rispondere, non avrebbe detto cosa contro sua persuasione, non lasciata tal macchia 
ai figliuoli orfanelli; e il frate di quella dignità non fu punto, come non lo era dallo spetta- 


143 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 267 


colo di desolazione sterminata che stavagli dinanzi; e pretestando la sua obbedienza all’arci- 
vescovo, voltò le spalle, neppure accorgendosi nella bestiale caparbietà sua, che il crisma sacer- 
dotale onde fu consacrato gli ardeva alle mani, e gli si consumò addosso. Oh se non ebbe tanto 
cuore da pigliarsi in allora piuttosto la dannazione che perdurare agli spasimi di quel pove- 
retto, o in colui nulla era stato giammai di umano, o meglio la religione mal intesa, agghiaceia 
ì visceri e rende l’uomo non dissimile degli animali impietriti ,. 

Questa dissertazione è aecompagnata con lettera del Selmi all’amico suo Luigi Zini. 


295. Di alcuni tratti e dell'intero episodio della Francesca da Rimini. 
(Rivista contemporanea, an. X (dicembre 1862), vol XXXI, pp. 430-467). 


Cfr. Ferrazzi, Manuale dantesco, vol. II, pp. 575-578. 


296. Commemorazione dei fratelli Emilio e Alfredo Savio morti nelle guerre italiane degli 
anni 1860-61. In Compianto sulla tomba onorata di E. e A. Savio caduti nelle battaglie 
italiche degli anni MDCCCLX e LXI, alla famiglia diserta, gli amici. Torino, tip. Paravia e 0, 
1862, pp. 3-32. 


297. Carlo Matteucci. Torino, Un. Tip., 1862, in-24°, pp. 78. 


E il N. 60 della raccolta biografica: I contemporanei italiani, galleria nazionale del sec. XIX. 


298. Del risentimento e della vendetta negli italiani. 
(Rivista contemporanea, an. XI (febb. 1863), vol. XXXII, pp. 161-199). (A parte) estr. s. 
note: Torino, Un. Tip., 1863, in-8°, pp. 36. Anche questo è un bellissimo scritto. 


299. Dell’antica novella italiana in ottava rima. 
(Riv. contemporanea, an. XI (ag. 1863), vol. XXXIV, pp. 261-295). 


300. Gibello. Novella inedita in 8° rima del buon secolo della lingua. Bologna, G. Romagnoli 
(tip. Fava e Garagnani), 1863, in-16°, pp. xI11-59. 


È la dispensa XXXV della Scelta di curiosità letterarie. 


301. L'intento della Commedia di Dante e le principali allegorie considerate storicamente. 


I. Il primo concetto della D. C. — II. Il nuovo intento della Commedia. — III Le tre 
fiere. — IV. Il Veltro del I canto. — V. Virgilio, Beatrice e le tre donne divine del canto II. 
— VI. Dell’importanza attribuita da Dante alla sua origine latina. — VII. Cerbero, Plutone, 
Dite, Gerione. — VIII. Il Desiderato del canto XX del Purgatorio. — IX. I Vendicatore del 
canto XXX del Purgatorio (Data in cui fu scritto il Convito e comunanza di scopo tra le 
opere in prosa di Dante e la Commedia). 

(Riv. contemporanea, an. XII (febb.-giugno 1864), vol. XXXVI, pp. 268-283, 408-419 e 
vol. XXXVII, pp. 883-101, 245-265 e 439-449). (A. parte). Estr. s. note: Torino, Un. Tip., 5 fasc. 
in-8°, di pp. rispettivamente 16, 12, 19, 21 e 17. 

Cfr. Ferrazzi, Manuale dantesco, vol. IV, pp. 278-279. 


302. Del concetto dantesco, libero papa in libero impero, del desiderato e del trionfo di Beatrice 
(con lettera di Torino, 15 nov. 1864, al senatore M. A. Castelli). 


I. Il Monarca universale. — II. Il Papa e l'Imperatore. — II. Il Veltro e il Desiderato. 
—IV.1l trionfo di Beatrice. — V. Breve considerazione. 
(Rivista contemporanea, an. XII (nov.-dic. 1864), vol. XXXIX, pp. 260-283 e 407-424). 


{A parte). Estr. s. note: Torino, Un. Tip., in-8°, 1864, pp. 41. 


268 ICILIO GUARESCHI 144 


303. Giuseppe La Farina, cenni biografici. 
(Riv. contemporanea, an. XII (aprile 1864), vol. XXXVII, pp. 56-82). 


304. Chiose anonime alla prima cantica della Divina Commedia di un contemporaneo del poeta, 
pubblicate per la prima volta a celebrare il sesto anno secolare della nascita di Dante, da 

Fr. Selmi, con riscontri di altri antichi commenti editi ed inediti e con note filologiche. 

Torino, Stamp. Reale, 1865, in-8°, pp. xxx11-219. 

Il Casini nota: 

Si vedano in proposito: T. Paur, Ueber die von Fr. Selmi herausgegeben Chiose anonime 
zu Dante’s Inferno in “ Dante Jahrbuch., I, p. 333-361; L. Rocca, Di alcuni commenti della 
Div. Commedia, composti ne primi vent'anni dopo la morte di Dante, Firenze, Sansoni, 1891; 
e F. PeLLEGRINI, Le chiose all’Inferno edite dal Selmi, in “ Giorn. Stor. della lett. ital. ,, a. 1889, 
vol. XIV, pp. 421-431. 

Questo lavoro è dedicato alla città di Torino. 


305. Due componimenti inediti di Dante Alighieri. 
(Riv. contemporanea, an. XII (senn. 1864), vol. XXXVI, pp. 96-102). 
Sono un sonetto che comincia: “ To sono stato con amore insieme , e una canzone: “ Era 
in quel giorno che l’alta reina ,. 


306. Un particolare ignoto della vita di Galileo Galilei. 
(Nel trecentesimo natalizio di Galileo in Pisa, XVIII febbraio MDCCCLXIV. Pisa, tip. 
Nistri, 1864, pp. 38-42). 


307. IL Convito: sua cronologia, disegno, intendimenti, attinenza colle altre opere di Dante. Dis- 
sertazione. Torino, G. B. Paravia, 1865, in-8°, pp. viri-113. 
È scritto in ottima lingua; la prefazione o avviso al lettore è un vero gioiello. 
Questo lavoro è dedicato alle città di Firenze, Verona e Ravenna. 


308. Battista Cannatelli ossia Modena nel triennio dopo il 1831. Racconto di Italo De’ Vecchi 
(pseudonimo di Selmi). Napoli, 1866, in-16°, pp. 245. 


309. Canzone inedita di Dante Alighieri. 2* ed., Torino, Un. Tip. Ed., 1868, in-16°, pp. 14, per 
le nozze Zambrini-Della Volpe. 
(Edizione di 50 esemplari, con nuove cure, della canzone già registrata al n. 29). 


910. Lettera a Pietro Muratori, 31 ottobre 1872. 
(In Lettere per occasione delle feste centenarie di Lod. Ant. Muratori, scritte da uomini 
illustri e pubblicate a spese del Municipio di Modena. Modena, tip. A. Capelli, 1873, in-8°, p. 40). 


311. Dei trattati morali di Albertano da Brescia, volgarizzamento inedito fatto nel 1268 da 
Andrea da Grosseto, pubblicato a cura di Fr. Selmi. Bologna, G. Romagnoli (R. Tip.), 
1873, in-8°, pp. xviri-396. 

È il vol. XXXVII della Collezione di opere inedite e rare dei primi tre secoli della lingua, 
pubblicata dalla R. Commissione sui testi di lingua. Da questo volume è tolto 12 fiore degli 
ammaestramenti di Albertano da Brescia, raccolto dal Prof. D. Santagata, Bologna, tip. delle 
Scienze, 1875, in-8°, pp. xxxvI-156, per le nozze Selmi-Manfredi. 

È questo il suo ultimo lavoro letterario che Egli ha pubblicato. 


Seritti inediti. 
312. T. Casini, Atti e Mem. della R. Deput. di Stor. Patria per le prov. modenesi (IV serie), 
vol. X, p. 415, ricorda molti scritti inediti del Selmi, di natura letteraria. 


n 


145 FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 


SOMMARIO 


INTRODUZIONE . o 5 : 0 . 0 . Pag. 


Selmi a Torino — ucno Parga _ Edna has sano 
Lettere a Bianchi, a Terrachini ed alla moglie 
I. Biografia . 
Lettere di Gaga 
Parte avuta nella rivoluzione del 1859 
Stato della Chimica in Italia verso il 1840 
Lettere di Malaguti 
Coltura letteraria del Selmi 
II. Ricerche di chimica fisica 
Studi sperimentali e teorici di Hifi MIOIecolate) 
Cristalli misti isomorfi 
Delle emulsioni inorganiche 
Azione della luce 
Pila a triplice contatto 
Osservazioni ed esperienze sulle solezioni di “olio di Eoaio 
Sulle soluzioni sovrasature s 
Osservazioni ed esperienze sulla iran del o tn) mercurico FAO in Jailoo 
TOSSO 
Sulla porpora di Giani 
Della soluzione 9 
II. Delle pseudosoluzioni 0 false ssiuzioni (o) Soluzioni colloidali. AzZuITÌ di 
Prussia, solfo, cloruro d’argento e caseina colloidali . 5 
Appendice A. Sur les produits de la décomposition des acides sulfhydrique et ne 
au sein de l’eau . . 
IV. Ricerche di chimica imorsanioa 
Solfo molle od elastico 
Solfo molle per via umida 
Solfo vischioso 
Azione del vapor d’acqua Dolo dò: ece. 
Composti alogenici del mercurio 7 
Ricerche sul piombo — Tetracloruro di a = TRAZIAA ‘del ioni 
Della valenza degli elementi 
Jodio purissimo cristallizzato 
Preparazione dell’acido jodidrico 
Jodio sciolto nell’acido solforico 
Vapori di jodio: violetto e giallo 
Sui composti d’argento 
V. Ricerche di chimica organica 
Composti metallorganici del mercurio 
Metodo per l’estrazione dell’amigdalina; ricerche ama ecc. 
Considerazioni sugli elementi cardinali delle molecole organiche . 
VI, Azioni di contatto o catalitiche 
Fenomeni di aderenza o di assorbimento; teoria dolo ito; ano del Cantone 
Fermentazioni 
Come agiscono i Tanaoi and o enzimi c 
Attività dei fermenti diastasici in soluzioni saline e a Data) io eraiona 7 
Ricerche sulla nitrificazione ed influenza dell’ossido ferrico — Assorbimento o assi- 
milazione dell’azoto 


» 


” 


n 


» 


269 


270 ICILIO GUARESCHI 
VII. Ricerche di chimica biologica . 5 S È gl 5 5 Pag! 
Ricerche sul latte e sulla coagulazione col presame o d 3 i B o 7 
Sullo stato della caseina nel latte . . 7 ; 5 ò o È " ” : 
Sul latte di cagna . Ò 6 : È , ; 5 o È 3 . . 7 
Coagulazione del sangue . 4 a 
Potere idrogenante del latte, del sangue, del oo sE dio e CO into mito solfo È, 
Azione dello solfo sull’oidio — Azione riduttrice delle muffe, dei funghi e di altri 
organismi inferiori; riduzione dello solfo, dell’arsenico e dei nitrati . . ò 
Riduzione dell’arsenico ad arsina; ricerca biologica dell’arsenico . 6 o c n 
VIII. Ricerche di chimica tossicologica e di chimica legale À 
Scoperta delle ptomaine . i ò c 6 5 o î 
Prodotti anomali nelle urine Pocho] _ Paposmine 0 5 , , x 7 
Autointossicazione . DE 


Trasformazioni che bono le corona “agito per Sn siiofazione anto l'organo 1 


Ricerche su molti alcaloidi, glucosidi, sostanze amare, ecc. 3 
Ricerca tossicologica dell’arsenico . ; » . O c ò 5 : > È 
Depurazione dello zinco arsenifero . 5 o , È . o c 6 o î 
Reazione tra lo zinco e l'acido solforico . , 5 5 0 c È o o ù) 
Ricerca tossicologica del fosforo . 0 È i 3 . ò - 5 î 
Ricerca chimico-tossicologica dell’acido Giani) a 5 ? : 5 3 È 5 
Trasformazione del calomelano entro l'organismo . . Ò o ò 5 - È 
Ricerche sulle macchie di sangue — Cristalli d’emina . ò 5 x si 
IX. Chimica applicata all’agricoltura, all’industria, alla Vamel è ecc. . È 
X. Ricerche varie . } x $ ; È . 3 È o c 0 È) 
Argento nei minerali metalliferi 6 - È c . . ò o o . ; 
Acido elaidinico . ) 5 SI: . È 3 : c c 0 g 
Depurazione del solfato fentoenì 0 o ò h È - 5 ; 5 ò È 
Sull’isomorfismo . . ò o ò . - o c 0 5 o . c ti 
Sui cianuri d’oro d ; È 3 5 i 5 
XI. Trattati — Traduzioni — Enciclopedia ci Chimica ecc. 6 ò STARS È 
XII Epistolario . 5 x S x 5 3 5 s ì A ò o ò o Pi 
XIII. Bibliografia 3 È a è 4 % n } 7 È n È d 3 È: 
Sull’acido ferrico 5 3 i : î 1 o o A 5 
Azione dei cloruri alcalini o ono mercuroso . . o 6 È 6 i Ù 
Differenza tra precipitazione e coagulazione . c ù ò 6 o o b Ò 
Stato del jodo nei joduri jodurati . . ; 5 7 È > 2 5 ; ù 
Reazioni dirette ed inverse i 2 A i È ) y 
Influenza del solvente nel ina le dato affinità 6 . o c ò A 
Formazione di acido solfidrico e di solfo molle ò ò 6 ò 7 . c 5 
Preparazione del nitrato d’argento . . ò 0 o : . î 
Distingue l’emulsione dalla dimulsione e pari nnne 0 : 7 a c ” 
Sul solfo vischioso . 3 3 È È A a S 5 È 5 5 è n 
Nitrobenzene come antisettico . 5 5 5 5 5 9 6 : 6 5 È 
Varie ricerche sul latte . ò d 0 5 3 Ò È 3 o 3 n 
Dissociazione dei sali di noi Y : È n % 3 a i 3 ) 
Accelerazione delle reazioni . ; , 3 : E 5 , 3 5 0 5 
Preparazione dell’alcol assoluto E i : 5 ; . , } 0 ò S 
Sulle basi nell'organismo vivente . ; 0 . È È ò a 5 5 DO 
Scritti inediti . È È , . : i 4 } N 
Trattati, traduzioni — Hiccin ica fi ata ò i 5 ‘ ò ; , È 
Bibliografia letteraria 5 i ; i Di 5 a a 3 3 


Sulla morte di P. Derossi di SARTO Rosa È L 3 3 4 7 { : Ss 


101 
101 
101 
102 
102 
102 
103 
103 
103 
104 
105 
105 
105 
105 
106 
106 
106 
107 
108 
108 
108 
110 
111 
1100 
114 
115 
116 
116 
122 
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124 
126 
131 
131 
133 
136 
137 
140 
142 


FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 


AUTORI 


271 


di cui si è citato qualche brano, o fatto un cenno biografico. 


Abbene, 109. 
Abderhalden, 94. 
Abegg, 57. 

Acree, 70. 

Albertoni, 71, 99, 100. 
Arpesani, 107. 
Arrhenius, 79. 

Artus, 70. 

Avogadro, 1, 4, 8, 16, 34. 


Bancalari Alberto P., 16. 
Beckurts, 96. 

Bensch, 79. 

Bemmelen van, 42-65. 
Bersezio, 4. 

Bertagnini, 8, 11. 
Berthelot, 50, 115. 
Perthollet CI. L., 14. 
Berzelius, 8, 31, 32, 59, 62. 
Bianchi N., 5, 11. 
Biilman Finar, 60. 

Bizio B., 3, 58, 111. 
Bonaparte L., 3, 108. 
Bottazzi F., 19. 

Bouchard, 98, 99, 100, 135. 
Brieger, 90, 98. 
Brugnatelli T., 103. 
Bruni e Padoa, 26-27. 
Buonamici, 108. 


Canevazzi G., 7,8. 
Cantù, 6, 108. 
Carducci G., 20, 22. 
Casini T., 108, 111, 164. 
Cavedoni C., 5. 
Cavour C., 8, 104. 
Chandler, 87. 

Chiesi, 7. 

Chiozza L., 8, 15, 78. 
Clementi, 105. 
Cloez, 53. 
Colombano A., 101. 
Colson A., 95. 
Crouzel, 88. 


Del Bue, 108. 


(La numerazione è quella dell’estratto). 


De la Rive, 122. 
Doveri L., 16. 
Dragendorfî, 89. 
Duca di Modena, 7. 
Duclaux P. E., 78. 
Duclaux J., 46. 
Dumas J. B., 79, 81. 


Ercolani G. B., 71, 73, 88, 104. 
Erieson-Auren e Palmaer, 102. 


Farini L. D., 23. 
Filippi De, 10. 

Fleck, 87. 

Foussereau, 83. 
Fraticelli P., 20. 
Fremy E., 29, 36. 
Freundlich e Loser, 66. 
Friedrich, 55. 


Gadamer, 93, 102. 

Gautier Arm., 78, 90. 

Gay-Lussac, 58. 

Gherzi e Conter, 105. 

Gladstone e Tribe, 131. 

Giorgini, 31. 

Gorup-Besanez, 94. 

Gosio B., 87, 88. 

Gmelin-Krauts Hand., 44. 

Graham, 35, 43, 72. 

Griffiths, 98. 

Grimaux F., 36. 

Grimmer W., 76. 

Guareschi I., 2, 4, 5, 6, 7, 11, 13, 
14, 15, 18, 19, 22, 23, 45, 46, 
47, 48, 51, 54, 56, 58, 62, 76, 
83, 87, 89, 95, 97, 99, 103, 107, 
111, ecc. 

Guareschi Maria, 3. 


Hamberg, 87. 
Hammarsten, 78. 
Hefter, 83. 
Heintz, 75-76. 
Hildebrandt, 83. 
Hofmeister, 94. 


Holleman, 94. 
Hiifner, 70. 
Hubner Tulius, 67. 
Husemann Th., 95. 


Jacksch v. R., 98. 
Justin-Mueller Ed., 66. 


Kerner, 93. 

Kéònig I., 94. 

Kopp Em., 75. 
Kossel A., 99. 
Krafft, 94. 
Kunz-Krause H., 95. 


Labouré, 111. 

Ladenburg, 96. 

La Farina, 7,9. 

Lanza G., 14. 

Laurent A., 3, 92. 

Le Chatelier, 22, 107. 

Lefort, 103. 

L’Hòte, 102. 

Lemery, 35. 

Lessona M., 17. 

Lettere alla moglie, 5. 
5 a Guareschi, 2, 3, 12, 91. 
5 a Bianchi N., 5. 
5 a Terrachini, 5. 
» al Ministero, 11. 

Liebig J. v., 19, 68, 74. 

Lindet, 78. 

Linne Br. ed Ephraim, 44. 

Linossier, 96. 

Loewel, 35. 

Luersen, 70. 


Majocchi, 17. 

Malaguti F., 3, 13, 17, 18, 32, 75, 
103, 104, 105, 107. 

Manzini E., 6. 

Melloni M., 18. 

Melsens, 68. 

Menici, 15. 

Merosi Carlo, 6, 109. 

Meyer v. Ern., 96. 


272 ICILIO GUARESCHI — FRANCESCO SELMI E LA SUA OPERA SCIENTIFICA 148 


Mialhe, 103. 

Miquel, 88. 

Missaghi G., 9, 53, 104. 
Monari A., 87. 

Miiller A., 65. 

Musso G., 47, 75, 77. 
Myers, 58. 


Nageli, 2. 

Nencki, 99. 

Neubauer e Vogel, 94. 
Nicola Fr., 98. 


Oeffinger H., 96. 
Olivier, 88. 
Oppenheimer, 76. 


Ostwald Wilh., 32, 44, 45, 48. 


Ostwald Wolf., 35. 
Otto J. e R., 94. 


Padoa e Tibaldi, 27. 
Pagliani S., 16. 
Panum, 93. 

Pelet e Grand, 66. 
Pesci L., 73, 91, 95. 
Peyrone, 15. 

Piccini Aug., 62. 
Pieton e Linder, 37. 
Pillet-Will (premio), 8. 
Piria RR, 3511 .16,,52: 108. 
Pouchet, 98, 99. 

Prati G., 20. 


Regnault, 13, 19, 105, 107. 
Rey-Pailhade, 83. 

Ricci Raff., 4. 
Richter-Anschiitz, 94. 
Righi Aug., 30. 

Ritter I. W., 35. 
Roscoe-Schorlemmer, 94. 
Rosenstiehl, 67. 

Ruspini G., 3. 


Sabbatini, 7, 9. 

Santa Rosa P. (Derossi), 142. 
Savani A., 14, 15. 
Savio Olimpia, 4. 
Scaramuzza Fr., 4. 
Schiff U., 31, 90. 
Schiffer, 91. 

Schmidt Ern., 94. 
Schultz-Sellak, 58. 
Selmi Fr., Autografo. 
Selmi Marietta V.*, 1, 6. 
Sertuerner, 89, 92. 
Sestini F., 73. 

Sforza G., 5, 7. 

Sisley, 66. 

Sobrero A., 3, 7, 8, 15. 
Sostegni e Sonnino, 81. 
Soxhlet, 76. 

Spaeth, 94. 

Spiegel, 57. 

Spring, 37, 46. 

Spring e De Boeck, 45. 


Stas I., 16. 
Stroppa C., 21. 
Strucchi e Biagi, 6. 
Svedberg, 35, 45. 


Taddei G., 16. 
Terrachini, 5. 
Ton Fr., 16. 


Udransky e Baumann, 94, 96, 98. 
Usiglio, 16. 


Valincourt, 106. 
Vaughan e Novy, 95. 
Vernon A., 91. 
Vignon, 65. 

Villa T., 10, 135. 
Ville G., 73. 

Villier, 98. 

Vitali D., 95. 


Wells, 119. 
Willgerodt, 96. 
Wurtz A., 70. 


Zabn W., 78. 
Zambrini, 22. 
Zini L., 7, 143. 


E — 


NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 


(RADIOLITIDI) 


MEMORIA 


DEL SOCIO 


C. F. PARONA 


m 


(con 2 TAVOLE E 7 FIGURE NEL TESTO) 


Approvata nell'adunanza del 7 Maggio 1911. 


L 


I calcari turoniani e senoniani a Rudiste nell'Appennino. 


Le prime notizie sui calcari a Rudiste del Cretaceo nell'Appennino sono del 1839 
e si trovano nelle comunicazioni fatte dal Pirra in occasione del Congresso degli 
Scienziati Italiani in Pisa (1), con accenno agli ippuriti di Monte Cassino, dei Monti 
di Caserta, della rupe di Gaeta, e nella Nota di TcHmtHATCHEFF sul Gargano (2). No- 
tizie più estese e più precise datano dal 1855 e sono esposte nella Memoria di 
Spapa-Lavini e di Orsini (3) sugli Appennini dell’Italia Centrale; ed è in questa 
Memoria che sono citate due nuove specie di rudiste (rimaste inedite) del Mexz- 
GHINI, Radiolites pavonina Mgh. e Caprinula neapolitana Mgh. 

Questi autori distinsero due zone nei calcari a rudiste: zona inferiore del cal- 
care grigiastro con gran numero di caprotine a Castellamare presso Napoli; zona 
superiore del calcare bianco assai ricca di fossili. Questa loro suddivisione della 
serie merita d'essere ricordata, perchè esatta e perchè corrisponde perfettamente, a 
parte i riferimenti cronologici, alla divisione del Cretaceo nell'Appennino Meridionale 
ammessa del Di Lorenzo (4) quarant’ anni dopo, conforme a quella proposta dallo 
StacHe per il Cretaceo della Dalmazia e dell’Istria (5). Della fauna della zona supe- 


(1) Prima riunione degli Scienziati Italiani, Pisa, ottobre, 1839 (1840), pag. 87. 

(2) P. TcHimaTcHEFF, Descript. géognostique du Mont Gargano, “ Bull. d. 1. Soc. G. d. Fr. ,, tome 12, 
1841, pag. 413. 

(3) A. Spapa-Lavini et Orsini, Quelques observations géologiques sur les Apennins de l’Italie Centrale, 
“ Bull. S. G. d. Fr. ,, 2° sér., tome XII, 1855, cap. VII, pag. 1208. 

(4) G. Dr Lorenzo, Osservazioni geologiche sull'Appennino della Basilicata, È Mem. R. Accad. di 
Napoli ,, 1895. - 

(5) G. Sracae, Die liburnische Stufe und deren Grenz-Horizonte, “ Abhandl. d. k. k. geol. Reichs. ,, 
Wien, Bd. XIII, 1889. 


Scsi Row LAI a 


274 C. F. PARONA 9 


riore, che in gran parte, se non totalmente, corrisponde al Turoniano ed al Seno- 
niano, gli stessi autori dànno il seguente e interessante saggio: 


Hippurites organisans Des M. Nerinea Pailletteana d’Orb. 

p dilatatus Defr. 3 subaequalis d’Orb. 

5 flexuosus Cat. »  pulchella d'Orb. 
Radiolites angeiodes Lamk. 5 Olisiponensis Sharpe 

9 radiata d’Orb. 1 Uchauriana dOrb. 

5 polyconilites d’Orb. È Requieniana d’Orb. 

3 pavonina Mgh. Actaeonella conica d’Orb. 
Caprina adversa d’Orb. Fusus royanus d’Orb. 
Caprinella triangularis d°Orb. Globiconcha Marrotiana d'Orb. 
Caprinula neapolitana Mgh. Cardium subdinnense d’Orb. 


Anche O. G. Cosra (1) scrisse ripetutamente sulle Rudiste dell'Appennino; ma 
si leggono con poco profitto le sue considerazioni sulla natura e posizione sistema- 
tica di questi fossili, nè sono sempre facilmente interpretabili le diagnosi e le figure 
delle forme da lui distinte come nuove. 

Assai più notevoli, sotto il punto di vista paleontologico, sono gli studi del 
GuiscarDI (2). La Nota su la Sphaerulites Tenoreana è un modello di descrizione accu- 
rata e dettagliata di un’unica valva superiore di radiolitide, per sè stessa, pur troppo, 
insufficiente al riconoscimento del genere ed anche della specie cui essa appartiene. 
Del pari accuratissima, ma più importante, è l’altra Memoria, colla quale il GuiscarDI 
ha fatto conoscere una bella e grande nuova specie di ippurite, Hipp. Taburni 
(H. Baylei Guisc. = H. Taburni Guisc.), che risultò poi comune e caratteristica nel 
Senoniano dell'Appennino e che fu ritrovata in parecchi altri giacimenti della regione 
mediterranea. È 

Pochi altri autori (C. De GroreI, G. Di STEFANO, H. DouviILLÉ) si occuparono in se- 
guito delle Rudiste del Cretaceo superiore nell’ Appennino meridionale, come già ricordai 
- nei miei lavori precedenti (3), ai quali seguirono le osservazioni del Di StEFANO (4) 


(1) O. G. Costa, Atti del VII Congresso degli Scienziati Ital., Napoli, 1845 (Parte I, 1846, pag. 839) 
— In., Paleontologia del Regno di Napoli (Cap. 1X; Ortoceratiti, Ippuriti, Rudisti, Amplessi, Sferuliti, 
ed altri Rudisti), “ Atti Accad. Pontaniana ,, 1858, pag. 405, tav. 14, 15 del vol. V. — In., Memoria 
per servire alla formazione della Carta geologica delle Prov. napoletane, “ R. Istituto d’ Incoragg. ;, 
Napoli, 1864 (Requienia plicata n., tav. VI, fig. 15, Hippurites gracilis n., tav. VII, fig. 1). — Ip., Note 
geologiche e paleontol. su taluni degli Appennini della Campania, “ R. Istit. d'Incoragg., vol. VII, 28 ser., 
1866 (Diceratites elongata n., pag. 34). — In., Studj sopra i terreni ad ittioliti delle provincie meri- 
dionali d’Italia, vol. II, “ Atti R. Accad. Se. ,, Napoli, 1866 (Tav. I, Requienia parvula n., R. plicata n., 
Diceratites ?, Hippurites elongata n., H. gracilis n.). ; 

(2) G. GurscarDI, Sur Za Sphaerulites Tenoreana, “ Bull. S. G. d. Fr. ,, 2° sér., tome XIX, 1862, 
pag. 1031, fig. 1-3. — In., Studii sulla famiglia delle Rudiste, “ Atti R. Accad. d. Sc. ,, Napoli, vol. II, 
1863 (1864), tav. I, fig. 1-3. Î 

(3) C. F. Parona, Sopra alcune Rudiste Senoniane dell’App. merid., È Mem. R. Accad. Torino ,, 
ser. II, tomo L, 1900. — In., Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese, ibid., id., 1900. 

(4) G. Di SrerAno, Osservazioni geologiche nella Calabria settentr. e nel Circondario di Rossano, 
“ Mem. descritt. della Carta Geolog. d’Italia ,, Append. al vol. IX, Roma, 1904, pag. 74. 


3 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 275 


per la Calabria settentrionale, le ricerche del DarneLLI (1) sul Capo di Leuca e le sue 
interessanti osservazioni sui fossili cretacei della serie da lui riconosciuta. Così si 
venne in possesso di nuovi dati per la sicura distinzione paleontologica del Seno- 
niano e del Turoniano nell'Appennino e per la migliore conoscenza della fauna a 
rudiste del Neocretaceo nella Penisola. Le nuove osservazioni sulle quali ora riferisco, 
mentre confermano ed accrescono le notizie precedenti, valgono a dimostrare la notevole 
ricchezza della fauna a radiolitidi del Turoniano e Senoniano e le loro caratteristiche. 
La fauna Turoniana è costituita da queste forme: 


Horadiolites cfr. liratus Conr. Bournonia sp. (n. f.) 

5 colubrinus n. f. Sauvagesia Sharpei (Bayle) 
Sphaerulites Dealessandrii Par. n garganica n. f. 
Radiolites lusitanicus (Bayle) Durania cornu-pastoris (Des M.) 

E efr. Peroni (Choffat) È Arnaudi (Choffat) 
Distefanella Salmojraghii n. f. 5 runaensîis (Choffat) 

> Bassanii Par. a; affilanensis Par. 

5 Guiscardi Par. Lapeirousia (2) samnitico Par. 

A Douvillei Par. 


Comprende inoltre queste altre Rudiste (2): 


Hippurites (Orbignya) Requieni Math. 
Pileochama Cremai Par. 
Monopleura Schnarrenbergeri Par. 


I giacimenti fossiliferi nei quali si raccolsero gli elementi di questa fauna sono: 
Monte Le Quartora (Monti d’Ocre) nell’Abruzzo aquilano, S. Benedetto di Subiaco, 
la Conca anticolana, Monte S. Polo Matese, Poggio Pannona (Apricena) ed altri affio- 
ramenti del Gargano, Monte Laceno (Avellino), Ponti di Valle (Caserta-Benevento). 
Le specie non nuove, che permettono di stabilire confronti con giacimenti tipici tu- 
roniani, accennano alla presenza delle due zone del piano, e cioè del Ligeriano e 
dell’Angoumiano; ma finora non abbiamo dati sufficienti per verificare nei giaci- 
menti ora enumerati la coesistenza delle due zone o per precisare quale delle due 
sia rappresentata. 

A costituire la fauna senoniana si hanno questi altri radiolitidi: 


Praeradiolites Hoeninghausi (Des M.) Durania Martelliù Par. 
Radiolites saticulanus n. f. 3 austinensis (Roem.) 

n peucetius n. f. c arundinea n. f. 
Biradiolites Dainelli n. È. x apula Par. 
Bournonia ercavata (d’Orb.) 5 hippuritoidea n. f. 

n Bournoni (Des M.) Lapeirousia Jouanneti (Des M.) 


Sauvagesia (?) Paronai (Dain.) 


(1) G. Darsetni, Appunti geologici sulla parte merid. del Capo di Leuca, È Boll. d. Soc. G. It. ,, 
XX, 1901. — Ip., Vaccinites (Pironaea) polystylus Pir. nel Cretaceo del Capo di Leuca, ibid., XXIV, 1905. 

(2) C. F. Parona, La Fauna coralligena del Cretaceo dei Monti d’Ocre nell’'Abruzzo aquilano, Mem. 
per servire alla descriz. della Carta Geologica d’Italia, Roma, vol. V, 1909, pas. 36. 


276 C. F. PARONA 4 
E ad esse si aggiungono parecchie ippuriti e caprinidi: 


Hippurites (Vaccinites) gosaviensis Duv. 


5 P giganteus d’H. Firm. 
A È Taburni Guisc. 

3 (Orbignya) cornucopiae Defr. 

È 5 colliciatus Wood. 

3 A radiosus Des M. 

A 5 Lapeirousei Goldf. 
D (Pironaea) polystylus Pir. 


Ichthyosarcolites sp. (1) 
Sabinia sublacensis Par. 
sinuata Par. 


n» 


5 anienis Par. 


T più importanti giacimenti fossiliferi senoniani sono quelli del Capo di Leuca; 
del Castello di Coppo e di Ruvo, di Acquaviva, Putignano nelle Terre di Bari; del 
Gargano; di Ariano Puglia (Monte Gesso); del Matese (Monte S. Polo e Vallicella, 
Palombaro di Guardia Regia), di Monte Camino (Mignano in provincia di Caserta). 
E le forme, cronologicamente caratteristiche, in essi rinvenute, mentre dimostrano 
l’esistenza del Senoniano inferiore (Emscheriano) e superiore (Aturiano), accennano 
particolarmente alle due zone del Santoniano e del Campaniano. 

Riguardo agli elementi costitutivi delle due faune, è da notare la scarsità rela- 
tiva dei rappresentanti dei generi Praeradiolites, Sphaerulites, Radiolites, in contrasto 
coll’abbondanza, tanto nel Senoniano quanto nel Turoniano, delle forme riferibili al 
genere Durania, che viene ad arricchirsi di buon numero di forme nuove. Rari sono 
anche i Biradiolites e, per quanto spetta al Turoniano, si può dire ch’essi sono sosti- 
tuiti da forme spettanti al genere Distefanella, per certi caratteri loro affine; ed in 
particolare è degna di rimarco la mancanza, almeno per quanto mi risulta finora, 
del Biradiolites lumbricalis d’Orb., sebbene frequentemente citato dagli autori. Sono 
invero frequenti, e direi caratteristiche del nostro Cretaceo superiore, certe forme 
di radiolitidi cilindroidi, esili, tortuose, assai allungate, generalmente attribuite al 
Birad. lumbricalis; ma esse, turoniane e senoniane, sono invece ripartibili in tre altrì 
generi diversi, Eoradiolites, Distefanella e Durania. Notevole, pel Turoniano, è anche 
la larga rappresentanza del gruppo della Durania cornu-pastoris, con esemplari di 
grandi dimensioni, nonchè l’associazione con una forma strettamente affine, se non 
identica, all’Eoradiolites liratus (Conr.) del Turoniano della Siria. 

Complessivamente i radiolitidi turoniani e senoniani dell'Appennino, eccettuati 
quindi quelli che si possono trovare in altri orizzonti preturoniani, sono una tren- 
tina, e costituiscono nell’insieme una fauna ricca, in confronto di quelle di altre 
regioni mediterranee. Infatti il Toucas (2), che comprende fra i radiolitidi il genere 


(1) C. F. Parona, Notizie sulla Fauna a Rudiste della Pietra di Subiaco nella Valle dell'Aniene, 
“ Boll. Soc. Geol. Ital., vol. XXVII, 1908. 

(2) A. Toucas, Etudes sur la classification et l'évolution des Radiolitidés, “ Mém. d. 1. S. G. de Fr. ,,, 
Paleont., tome XVII, 1909. 


5 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 277 


Agria e che considera tutti i radiolitidi nella loro comparsa, sviluppo e diffusione a 
partire dall’Eocretaceo (Barremiano superiore), espone nelle considerazioni riassun- 
tive della sua monografia i seguenti dati statistici: Aquitania 52 forme, su 115 co- 
nosciute; Provenza 36; Penisola Iberica 27; Ariège 15; Valle del Rodano 14; Cor- 
bières 12; Bacino di Parigi e della Loira 9. La fauna dell'Appennino Centrale e 
Meridionale è dunque una delle più ricche. 

Fra le forme senoniane, richiamano segnatamente l’attenzione la Durania austi- 
nensis, ben rappresentata da parecchi esemplari e finora trovata altrove soltanto nel 
Texas ed a Gosau, la Lepeirousia Jouanneti, Bournonia Bournoni, Bourn. excavata e 
il Praeradiolites Hoeningausi; e fra quelle turoniane il Radiolites lusitanicus, la Sau- 
vagesia Sharpei, le Durania cornu-pastoris, D. Arnaudiî, D. runaensis, costituenti una 
riunione di forme decisamente caratteristiche per l’uno o per l’altro piano. Le nu- 
merose forme nuove dànno a queste nostre stesse faune un’altra impronta partico- 
lare, oltre quelle su accennate, dipendenti dai particolari raggruppamenti di forme 
e dalla maggiore abbondanza o scarsità con cui sono rappresentati certi generi. No- 
terò infine, come fatto non trascurabile, la prevalenza delle grandi forme sulle pic- 
cole ed in generale il considerevole sviluppo degli individui. 

Di conseguenza si può dire che, pur essendovi spiccate comunanze di forme, 
dimostrative nel riguardo cronologico, colle faune a radiolitidi turoniane e senoniane 
della “ Mesogée , occidentale e più precisamente del “ golfe pyrénéen , secondo i con- 
cetti di DovviLLÉ (1) (ed, in particolare pel Turoniano, col Portogallo), si hanno tut- 
tavia caratteristiche proprie, locali in queste faune della fossa tirrenica ed adriatica, 
e cioè della prosecuzione a sud del golfo alpino verso la Mesogée meridionale ed 
orientale. Non mancano neppure rapporti diretti con queste regioni, meridionale ed 
orientale, e sono dimostrati dalla comunanza di parecchie forme coll’Algeria, Tunisia, 
Tripolitania (2), Egitto, Siria (3), Persia, nella quale ultima regione fu raccolta la 
Lapeirousia Jouanneti, una delle più caratteristiche specie senoniane. 

I caratteri delle nuove forme descritte in questo lavoro non infirmano le con- 
clusioni della monografia di Toucas in quanto riguardano il carattere principale del- 
l'evoluzione dei radiolitidi, consistente nelle modificazioni subite dalla interfascia, che 
separa i seni; semplice e stretta nelle forme antiche, essa si divide in due o più 
coste, allargandosi, nelle forme recenti. Ma non insisto sulle considerazioni e dedu- 
zioni filogenetiche per i motivi già altrove da me esposti (4); tanto più che, per 
quanto riflette l'evoluzione dei radiolitidi, i rapporti di parentela fra le diverse 
famiglie, i diversi generi e le diverse specie, spesso discordano le idee espresse in 
proposito da DouviLLé e da Toucas, che sono appunto i due autori i quali, nello 
studio dei radiolitidi e di altri gruppi di Rudiste, si occuparono con cura particolare 


(1) H. Dovviue, Etudes sur les Rudistes; Rud. de Sicile, dAlgérie, d’Egypte, du Liban et de la 
Perse, © Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., tome XVIII, 1910. 

(2) C. F. Parona, Fossili turoniani della Tripolitania, © Rend. R. Accad. d. Lincei ,, 1906. 

(3) C. F. Parona, Radiolites liratus (Conr.) e Apricardia Nòtlingi (Blanck.) nel Cretaceo sup. della 
Siria, © Atti R. Accad. d. Se. Torino ,, vol. XLIV, 1909. 

(4) C. F. Paroxa, Saggio per uno studio sulle Caprinidi dei calcari di Scogliera (Orizz. del Col 
dei Schiosi) nelle Prealpi venete orientali, “È Mem. R. Accad. Lincei ,, VII, 1908, pag. 4. 


278 C. F. PARONA 6 


della scelta ed interpretazione dei caratteri diagnostici desunti dalla costituzione 
della regione sifonale, dall’apparato cardinale e dalla struttura del guscio, ritenendo 
questa la via più sicura per giungere ad una classificazione naturale. 

I calcari di scogliera del Cretaceo inferiore e medio, ed in particolare quelli a 
radiolitidi ed ippuriti del superiore, si presentano in masse formanti quasi corona 
alla parte interna dell'Appennino Centrale, e spingentisi, almeno quelle del piano 
superiore, nel versante adriatico fino al M. Cénero (1) e nel tirrenico fino ai monti 
di Terni e di Rieti. Tale sviluppo si accorda coll’idea dell’esistenza durante il Cretaceo 
di un geosinclinale appennino (2). Esso risulterebbe formato: da una zona batiale 
interna, estendentesi nell’Umbria, nelle Marche e nella Sabina, con prevalente sviluppo 
di scisti argilloso-marnosi, passanti con regolare successione inferiormente al Titonico 
e superiormente, colla scaglia, all’Eocene; da una zona neritica occidentale-setten- 
trionale (Appennino Settentrionale, Apuane, Toscana), con sviluppo di arenarie, nella 
quale sono rappresentati, paleontologicamente, il Cenomaniano (ammoniti) ed il Seno- 
niano (inocerami); da una zona neritica meridionale-orientale, con sviluppo pressochè 
esclusivo di calcari a rudiste, assai estesa specialmente nell'Appennino meridionale e 
sul versante balcanico della depressione adriatica, nella Dalmazia e nell’Istria (3). 
Esisterebbero quindi per il Cretaceo dell’Appennino delle condizioni analoghe a quelle, 
che si hanno per il geosinclinale cretaceo delle Prealpi lombarde e venete, sul- 
l’altro fianco della depressione adriatica, sia per la regolare transizione dal Titonico 
(Majolica, Biancone) alla scaglia eocenica, sia per lo sviluppo di roccie clastiche in 
Lombardia, passanti alla scaglia, la quale assume la massima potenza nel veronese e 
nel vicentino, per cedere il posto più ad oriente, nel Friuli, ai noti calcari a rudiste, 
dal Col dei Schiosi al Colle di Medea. 

Le serie turoniana e senoniana presentano nell’Appennino uniformità di carat- 
teri litologici e paleontologici nel loro sviluppo, e si può asserire che per questo ri- 
guardo non esistono rilevabili differenze fra i caratteri dei giacimenti del versante 
tirrenico e del versante apulo-garganico. L'antica questione dei rapporti morfologici 
tra l'Appennino ed i rilievi del Gargano, delle Murge e delle Serre è ormai risolta 
nel senso di riconoscere gli stretti legami geologici, orogenetici e morfologici dei 
rilievi stessi colla maggiore catena, e di considerarli quindi come costituenti il preap- 
pennino adriatico (4). È bensì vero che la questione non fu ancora particolarmente 
sottoposta alla prova dei carreggiamenti dai geologi d’oltr’Alpe, che nell'Appennino 
tirrenico vedono un paese di falde carreggiate sulle catene a pieghe autoctone della 
costiera adriatica, costituenti il principio delle Dinaridi (5): tuttavia, per quanto 


(1) C. F. Parona, Sulla presenza del Turoniano nel Monte Cbnero presso Ancona, © Boll. S. G. 
Ital. ,, 1910. 

(2) E. Haue, Traité de Géologie, II. — Les périodes géologiques (fasc. 2°), 1910, pag. 1266; 1328. 

(3) C. De SrerANI, Géotectonique des deur versants de l’Adriatigue, “ Ann. d. 1. Soc. Géol. de Bel- 
gique ,, tome XXXIII, Mémoires. — C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda sulla costa meri- 
dionale dell’Isola di Lissa, © Atti R. Accad. di Torino ,, vol. XLVI, 1911. 

(4) C. Coramonico, Studi corologici sulla Puglia, 2. Sul nome più proprio da darsi all'insieme 
delle alture pugliesi, Bari, 1911. 

(5) P. Termier, Les problèmes de la Géologie tectonique dans la Méditerranée occidentale (vedi fig. 1), 
“ Rev. Génér. des Sciences ,, 30 mars 1911, pag. 225. 


PS I A N ZIE 


7 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 279 


riguarda il Cretaceo, la conferma del suo uniforme sviluppo nelle due regioni appoggia 
l’interpretazione ora accennata dei rapporti fra l'Appennino Meridionale e le dipen- 
denti masse costiere adriatiche. 

In altra occasione ho già notato, che in generale fra la serie senoniana e quella 
turoniana si riscontra una differenza litologica facilmente rilevabile e che, in man- 
canza di fossili, essa potrebbe servire come indizio di qualche valore per fissare il 
limite fra le due serie e per distinguerle l’una dall’altra. Nella serie turoniana sono 
prevalenti, se non esclusivi, i calcari bianco-cerei, compatti, marmorei, spesso nelle 
condizioni di vere lumachelle, con fauna assai ricca, segnatamente di gasteropodi, 
soltanto in piccola parte finora conosciuta e studiata (1). Nella serie si presentano 
delle intercalazioni di calcari brecciosi, in rapporto ai quali stanno d’ordinario i 
giacimenti di bauxite. Caratteristico del Turoniano è l’orizzonte a Chondrodonta 
(Ch. Joannae Choff., Ch. sellaeformis Par.), scoperto in parecchi punti dell'Appennino, 
e che generalmente si presenta con un calcare bianco compatto, nel quale sono più 
o meno abbondanti le acteonelle. — La serie senoniana, per quanto mi risulta, è 
costituita in prevalenza di calcari chiari o bianchi, meno compatti, porosi, nei quali 
mancano o scarseggiano altri fossili, oltre le rudiste. 

Il DouviLLé nota che una delle particolarità più spiccate del periodo cretaceo 
è l'opposizione evidente fra i depositi a belemnitelle della regione settentrionale ed 
i depositi meridionali a rudiste, l'associazione delle quali con faune a polipi ed a 
grandi foraminiferi indica un clima più caldo, analogo a quello dei nostri mari tro- 
picali. Per quanto spetta al Turoniano ed al Senoniano dell'Appennino, nello stato 
delle nostre conoscenze, si può dire che i generi dei grandi foraminiferi, fatta ecce- 
zione per le orbitoidi senoniane, mancano alla fauna a rizopodi; la quale, come già 
osservai in altri lavori, è caratterizzata dalle miliolidi trematoforate, ed è in com- 
plesso, nei due piani, uniforme, ma notevolmente più ricca nei calcari senoniani e 
spesso associata ad avanzi di alghe calcari (7riploporella), talora assai abbondanti 
come riconobbi anche nelle sezioni sottili dei calcari di Anticoli. 

Un altro carattere paleontologico del Cretaceo superiore, che pure merita di 
essere considerato, è quello dato dalla comparsa, tanto nel Turoniano quanto nel 
Senoniano, di grandi idrozoi appartenenti agli stromatoporidi (2). Essi vi sostituiscono 
gli ellipsactinidi, abbondanti nel Titonico e nell’Eocretaceo e più rari nel Mesocre- 
taceo, ricco invece di altri idrozoi; è tipico a questo riguardo il ricco giacimento 
fossilifero dei Monti d’Ocre (3). i 


(1) Un saggio di questa fauna si ha nell’elenco, su esposto, della memoria di Spapa-LaAvinI e 
Orsi ed in due mie pubblicazioni (C. F. Parona, Appunti per lo studio del Cretaceo sup. nell’ Ap- 
pennino, “ Boll. d. S. Geol. It. ,, 1905, XXIV, pag. 654. — In., La fauna coralligena ecc. (già citata), 
1909, pag. 31 e segg.). 

(2) G. Osro, Alcune nuove Stromatopore giuresi e cretacee della Sardegna e dell'Appennino, “ Mem. 
R. Accad. d. Sc. Torino ,, tom. LXI, 1910. — C. F. Parona, Fossili turoniani della Conca anticolana, 
“ Bell. d. R. Comit. Geol. ,, 1911 (in corso di pubblicaz.). 

(3) C. F. Parona, La fauna corallig. ece., 1909. 


280 C. F. PARONA 8 


II. 


Elenco ragionato dei Radiolitidi turoniani e senoniani 
dell’ Appennino. 


L'elenco comprende le Radiolitidi da me già fatte conoscere in lavori precedenti, 
con eventuali osservazioni e considerazioni, suggerite dall'esame di nuovi esemplari, 
e la descrizione di alcune altre, o nuove come forme specifiche o per la prima volta 
rinvenute nell'Appennino. Per questo lavoro di revisione ho potuto approfittare di 
materiali appartenenti al Museo Geologico di Firenze ed al Museo Geologico dell’Uni- 
versità di Napoli, particolarmente interessanti quelli della collezione CostA, prove- 
nienti dal Gargano, pur troppo senza indicazioni precise di località. Ai colleghi ed 
amici professori Bassani e DE STEFANI, che cortesemente mi comunicarono questi 
materiali, rinnovo qui i più vivi ringraziamenti. 


Eoradiolites cfr. liratus (Conr.). 


1911. C. F. Parowa, Fossili turoniani della Conca anticolana, Boll. r. Com. Geolog. d’ Italia 
(in corso di stampa). 


Foradiolites colubrinus Par. 


1911. C. F. Parona, Nota cit. (id.). 


Praeradiolites Hoeninghausi (Des Moul.). 
Avi o SslA4A08 


1901. Radiolites Hoeninghausi. G. DarneLLI, App. geol. sulla parte merid. del Capo di Leuca, 
Boll. S. G. It., vol. XX, pag. 647, tav. XII, fig. 2. 

1907. Praeradiolites Hoeninghausi. A. Tovcas, Et. s. 1. class. et l’évolut. des Radiolit.,, Mém. 
d. 1. Soc. géol. d. Fr., Paléont., tome XIV, pag. 34, fig. 14, 15, tav. IV, fig. 11 
(ved. sinon.). 

1911. Praeradiolites Hoeninghausi. C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda sulla 
costa meridionale dell'Isola di Lissa, Atti r. Acc. d. Scienze di Torino, vol. XLVI, 
1911, pag. 7. 


Questa specie del Campaniano fu già indicata per i calcari di Acquaviva nel 
Barese (1), dove si trova associata alla Durania Martelli Par. e del Capo di Leuca. 
Ad essa appartiene con ogni probabilità un grande birostro (diam. 150 mm.), che 
fa parte della collezione “ Costa , del Gargano (Museo Geologico della R. Università 
di Napoli). Presenta spuntato il rostro inferiore corrispondente alla valva inferiore 
e le estremità dei denti cardinali B, B', dalla caratteristica struttura lamellare; 
ma nelle altre parti è eccezionalmente ben conservato. Il rostro superiore è un po’ 


(1) C. F. Parona: in F. Vigeiio, Geomorfogenia della Prov. di Bari (La Terra di Bari), Trani, 
1900, pag. 63. 


9 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 281 


depresso in confronto di quanto sì osserva nelle figure date dagli autori; ben svi- 
luppate sono le apofisi miofore, ma bassa ed allargata, mp più breve, più alta e 
prominente, l’una e l’altra con superficie a pieghe, cave internamente e tramezzate 
da lamine verticali normali alla superficie esterna, evidentissimo all’esterno il solco 
lesamentare, e prominente all’interno la cresta legamentare L, fra le due fossette 
accessorie 0 e 0°. 


Sphaerulites De Alessanarii Par. 


1901. Sphaerulites De Alessandrii. C. F. Parona, Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese. 
Mem. d. r. Ace. d. Sc., Torino, tom. L, pag. 201, tav. I, fig. 3, a, è, 4, Tav. III 
ficura 3. 


S. Polo Matese — Turoniano. 


Radiolites lusitanicus (Bayle). 


1886-1902. Sphaerulites lusitanicus. CHnorrat, Rec. d’ét. paléont. s. ‘I. faune erét. du Port. 
(Comm. serv. géol. du Port.), pag. 32, tav. IV, fig. 2-8, pag. 144, tav. X e XI. 

1905. Radiolites lusitanicus. C. F. Parona, App. p. l. stud. del Cret.-sup. nell’App., Bollett. 
S. G. It., vol. XXIV, pag. 655. 

1908. Radiolites lusitanicus. A. Toucas, Ét. s. I class. et Vévol. d. Radiol., Mém, S. G. d. 
Fr., Paléont., tom. XVI, pag. 62, tav. XI, fig. 10, 11. 


Monte Laceno sopra Bagnoli (Avellino). Gli esemplari, riferibili a questa radio- 
lite del Turoniano medio e superiore, hanno i caratteri della var. rigido Choffat. 


Radiolites cfr. Peroni (Choffat). 


1909. C. F. Parona, La fauna coralligena del Cretaceo nei Monti d’Ocre nell'Abruzzo aqui- 
lano, Mem. per servire alla descriz. della Carta Geol. d’Italia, vol. V, parte prima, 
pagina 37. 


Monte le Quartora (Monti d’Ocre). — Turoniano. 


Radiolites saticulanus n. f. 
Tav. I, fig. 1, a, d. 


Valva inferiore cilindro-conica, di notevoli dimensioni (altezza circa 120 mm., 
larghezza all'apertura circa 70 mm.), formata da lamine esterne imbutiformi, ivre- 
golarmente spaziate, ornate da numerose coste longitudinali subeguali, spesso bifor- 
cantisi, a spigolo acuto e che si interrompono al margine espanso delle lamine 
successive. Le due fascie sifonali sono liscie ed assai differenti l’una dall’altra; l’an- 
teriore E larghissima, a luoghi piana o concava, coi margini delle lamine ad ineguali 
distanze fortemente e largamente incurvate o ripiegate verso l’alto, la posteriore S 
assai stretta e profonda; sono separate da una larga interfascia costituita da nu- 


merose coste affatto simili a quelle che decorrono sul resto del fianco. — Struttura 
cellulare minutissima, margine o labbro dell’apertura semistriato, imperfettamente 
conservato; cresta legamentare pochissimo sviluppata, appena accennata. — Valva 


superiore sconosciuta. 
Serie Il. Tow. LXII. x 


282 C. F. PARONA 10 


Questa bella forma si distingue agevolmente dalle congeneri sopratutto per la 
grande differenza di sviluppo fra le due fascie e per l’ampiezza dell’interfascia, per 
i quali caratteri non può confondersi col Rad. galloprovincialis Math. (1), che pure 
è la forma che più le si avvicina. L’interfascia formata da numerose coste e lo svi- 
luppo rudimentale della piega legamentare lasciano credere, che questo radiolite pro- 
venga da un orizzonte assai alto della serie del Cretaceo superiore, d’età senoniana 
piuttosto che turoniana. 

Fu raccolto sul Monte Camino, sopra l’abitato di Galluccio, alla località Cam- 
panara (Mignano in Prov. di Caserta). 


Radiolites peucetius n. f. 
Tav. II, fig. 2, 3, a, db, e. 


Forma cilindro-conica irregolare, di piccole dimensioni. Valva inferiore ornata 
da coste longitudinali numerose, diritte, interrotte al succedersi di lamine inegual- 
mente espanse, acute e qua e là spinose, dove si intersecano colle lamine. — Le 
fascie sifonali sono subeguali, assai larghe, più o meno prominenti, appiattite e for- 
temente segnate di traverso dai margini delle lamine; inter- 
fascia ampia, concava, percorsa da una o due coste, più fine 
di quelle della. restante parte del fianco della valle. Cresta 
legamentare non molto sviluppata. — Valva superiore sco- 
nosciuta. 

Il più piccolo, ma più completo, dei due esemplari (altezza 
mm. 45, diametro dell’apertura mm. 25), presenta (fig. 3, c) 
abbastanza ben conservato il labbro dell’apertura, con ondu- 
lazioni radiali in rapporto colla costulatura, e con caratte- 
ristica fossetta, fortemente impressa, alla base della fascia 
sifonale anteriore E e posteriore $S, corrispondentemente ai 


due orifici sifonali d’ingresso e d’uscita della corrente nutritizia. Questo esemplare si 
distingue alquanto dall’altro (fig. 2, tav. II e fig. 1 del testo) per la grande prominenza 
delle due fascie, selliformi, similmente a quanto si osserva in qualche Eoradzolites e 
per maggior numero e finezza di coste. 

È una forma affine al Radiolites praegalloprovincialis Toucas (2), considerati spe- 
cialmente i caratteri delle fascie sifonali dell'esemplare maggiore; ma ne è diversa 
la costituzione della interfascia e più ricca e diversamente formata la costulatura. 

Questi esemplari provengono (VireiLio) da Putignano (Intendi) in Puglia. 


Biradiolites Dainellii, n. f. 
Tav. I, fig. 2, a, d. 


Valva inferiore conico-irregolare, allungata, arcuata; lamine esterne a forma di 
imbuti, inseriti l’uno nell’altro a larghi intervalli, ornate da coste longitudinali a 


(1) A. Toucas, op. cit., 1908, pag. 76. 
(2) A. Toucas, op. cit., 1908, pag. 75, tav. XIV, fig. 8-12 (cfr. specialmente la fig. 8). 


ll NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 283 


spigolo acuto, ineguali, a fascì più o meno prominenti, per cui la sezione trasversa 
della valva risulta angolosa; fra le coste e sopra di esse talora decorrono fini cor- 
doncini, questi e quelle intersecate da strie trasverse; al punto di distacco dei suc- 
cessivi imbuti le coste sono interrotte. La fascia del seno anteriore £ non è molto 
larga, ma assai prominente, subappiattita, a pieghe trasverse ben pronunciate; la 
fascia del seno posteriore S è poco distinta, più stretta ed anch'essa prominente; 
la zona interposta o interfascia è larga ed occupata da quattro coste, delle quali la 
mediana più sviluppata, più sporgente ed a spigolo tagliente. La struttura cellulare 
è pressochè indistinta, frattura fibrosa. La valva descritta misura circa mm. 125 in 
altezza e mm. 55 e 42 ai diametri massimo e minimo dell’apertura. — Valva supe- 
riore sconosciuta. 

Per i caratteri delle fascie sifonali e della interfascia questo Biradiolites so- 
miglia al Birad. Stoppani (Pirona) quale fu figurato da Toucas (1), ma ne differisce 
per la conformazione ed ornamentazione della valva. 

Proviene dai dintorni di Bari. 


Gen. Distefanella Parona (1901). 


L'esame di nuove sezioni trasversali delle diverse forme di questo genere ed i 
recenti studi degli autori francesi sul genere Biradiolites, ed in particolare la più 
esatta conoscenza, che ora si ha, del Biradiolites lumbricalis d’Orb., mi permettono 
di precisare la diagnosi del gen. Distefanella con differente inter- 
pretazione della sede e della costituzione delle zone sifonali, di 
riconfermare le affinità col gen. Biradiolites limitatamente al 
gruppo del 5. lumbricalis, e di dimostrare nel tempo stesso 
che, contrariamente a quanto io aveva dapprima ammesso, nes- 
suna forma del genere può essere riferita alla citata specie del 
D’ORBIGNY. Fig. 2. 


Ciò premesso, ecco la definizione corretta del genere: “ Ra- 
diolitide con valva superiore piccola cupuliforme; valva infe- 
riore cilindroide allungatissima, uniformemente costulata, con 
guscio assai sottile; zone sifonali (fig. 2, 3) semplici, subeguali, 
prominenti, incavate nel mezzo; mancanza di cresta legamentare; 
ampia cavità dorsale; presenza di un rudimento di dente e di un 
setto longitudinale, separante la cavità dorsale dalla cavità ven- 
trale per tutto lo sviluppo della valva al disotto dell’apparato 
cardinale, e cioè in continuazione della lamina che nell’appa- 
rato stesso collega i due denti della valva superiore fra le due 
cavità ora accennate. Per la sottigliezza del guscio questa divisione interna è mani- 
festa anche esternamente, corrispondendo la cavità viscerale al lato più rigonfio 
della valva, e la cavità dorsale al lato più ristretto; e talvolta al setto interno cor- 
risponde anche una rientranza esterna del guscio, di guisa che la valva appare, in 


Fig. 3. 
Distef. Guiscardii Par. 


(1) A. Tovcas, op. cit., 1909, pag. 106, fig. 72. 


284 C. F. PARONA 12 


sezione, bilobata , (cfr. Distefanella Douvillei). — Abito generale della conchiglia assai 
diverso da quello di tutti i gruppi del genere Biradiolites, non escluso il gruppo del 
B. lumbricalis. 

Al genere si riferiscono le quattro forme dettagliatamente descritte nel lavoro 
sulle Rudiste e Camacee di S. Polo Matese. 


Distefanella Salmojraghii n. f. 
1901. Distefanella lumbricalis (d’° Orb). C. F. Parona, Le Rudiste e le Camacee di S. Polo 
Matese, pag. 206 (10), tav. I, fig. 12, tav. II, fig. 2, 3, 4, 5, tav. III, fig.8 a, db, 
(sinon. escl.). 


Toucas (1), descrivendo il Bir. lumbricalis (d'Urb.), dice: “ Cette petite espèce 
a été decrite et figurée d’une manière tout à fait incomplète par d’Orbigny ,, ed 
osserva che la valva superiore è operculiforme, piana o leggermente concava; che 
quella inferiore è cilindro-conica, stretta e relativamente assai allungata; che le zone 
sifonali sono piccole, piane, limitate da due solchi stretti e separate da una piccola 
costa simile a quelle del fianco. — L’imperfetta conoscenza che si aveva del Birad. 
lumbricalis quando descrissi questa forma di Distefanella spiega l'errore: da me com- 
messo confondendola colla specie di D’OrBIienv. Le caratteristiche poi fissate dal 
Toucas dimostrano, che le due forme non si possono confondere. Oltre le differenze 
di genere suesposte, si può notare del resto che la nostra è una grande forma, anche 
per i caratteri esterni facilmente distinguibile dal Birad. lumbricalis, ora ben illu- 
strato dalle numerose figure date dal Toucas. 

S. Polo Matese. 


Distefanella Bassantii Par. 
1901. C. F. Parona, Mem. cit., pag. 208 (12), tav. II, fig. 6 a, è, 7, tav. III, fig. 6 (?), 7 a-e. 


S. Polo Matese e dintorni di Ariano-Puglia. 


Distefanella Gwiscardii Par. 
1901. C. F. Parona, Mem. cit., pag. 209 (13), tav. II, fig. 8, tav. III, fig. 9. 
S. Polo Matese. 


Distefanella Douvillei Par. 
1901. C. F. Parona, Mem. cit., pag. 209 (13), tav. II, fig. 9, @, 6, c, tav. III, fig. 10 a, db, c. 
S. Polo Matese. 


Bournonia excavata (d’Orb.). 


1847. Radiolites excavatus. D’OrBIGNY, Paléont. frane., Terr. crét., tom. IV, pag. 215, tav. 556. 
1902. Bournonia excavata. H. DouviLLé, Classificat. des Radiolites, Ball. d. 1. S. G. d. Fr. (4), 
t. II, pag. 472. 


(1) A. Toucas, Etud. sur la classif. et Vévolut. des Radiolitidés, “ Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., 
tome XVII, 1909, pag. 99, tav. XIX, fig. 1-14. 


13 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 285 


1907. Agria excavata, A. Toucas, Classificat. et évolut. des Radiolitidés, Mem: S. G. d. Fr., 
Paléont., Tom. IV, pag. 27, fig. 11, 12, tav. II, fig. 11-13. 

1910. Bournonia excavata, H. DouviLLò, Rudistes de Sicile, d’ Algérie, d'° Égypte, ecc., Mém. 
S. G. d. Fr., Paléont., tom. XVIII, pag. 25, fig. 24. 


Piccolo esemplare compreso nel calcare biancastro, poroso, travertinoide. La se- 
zione trasversale della valva inferiore non lascia dubbio 
sul riferimento, per la caratteristica conformazione della 
regione sifonale, colle due prominenti fascie a costa ap- 
piattita, corrispondenti, secondo l’interpretazione di Dou- 
vILLÉ, al sifone d’entrata E ed al sifone d’uscita S. 

Questo unico rappresentante della specie Santoniana fu 
raccolto dal VireILIio nella cava Monticella di Putignano. 


Bournonia Bournoni (Des Moul.). 


1900. Bournonia Bournoni. C. F. Parona, Rud. Senon., pag. 19, tav. I, fig. 7, 8 (ved. sinon.). 

1907. Praeradiolites Bournoni. A. Toucas, Ét. s. I. class. et l’évol. d. Radiolit., Mém. S. G. d. Fr., 
Paléont., tome XIV, pag. 35, fig. 16 e 17, tav. IV, fig. 12. 

1910. Bononia Bournoni. H. DouviLLé, Rud. de Sicile, d’ Algérie, ece., Mém. S. G. d. Fr., 
Paléont., tome XVIII, pag. 24, fig. 21. 

1911. Bournonia Bournoni. C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda, ecc., Atti R. Acc. 
Sc. Torino, vol. XLVI, pag. 9. 


Monte Gesso presso Ariano-Puglia. — Specie del Maéstriehtiano superiore. 
D È 


Bournonia sp. (n. f.). 


1911. C. F. Parona, Fossili turoniani della Conca anticolana, Boll. d. r. Comit. Geolog. d’Italia 
(in corso di stampa). 


Sauvagesia Sharpei (Bayle). 


1886. Sphaerulites Sharpei. Cnorrat, Rec. d’ét. paléont. s. l. Faune crétacig. du Portugal. 
(Trav. géol. du Portug.), vol. I, pag. 29, tav. II, III, IV, fig. 1 (ved. sinon.), (tav. VIII, 
fio. 14, Sauvagesia Sharpei). 

1891. Sauvagesia Sharpei. H. DouviLLf, Sur les caractères internes des Sauvagesia, B. S. G. 
d. Fr. (3), t. XIX, pag. 669, fig. 1. 

1900. Sauvagesia Sharpei. C. F. Parona, Sopra ale. Rudiste Senoniane dell’App. merid., Mem. 

i r. Ace. Sc., Torino, tom. L, pag. 7 (ved. nota). 

1909. Sauvagesia Sharpei. A. Tovcas, Études s.1. classific. et Vévolut. des Radiolitidés, Mém. 
S. G. d. Fr., Paléont., Tome XVII, pag. 88, tav. XVII, fig. 5-7. 


Confermo la determinazione già da me data di un esemplare di Sauvag. Sharpei, 
raccolto dall’ing. De Morra nelle cave Belluccio e Capitano, a Ponti di Valle, sulla 
ferrovia Caserta-Benevento. È un grande esemplare di valva inferiore, che per dimen- 
sioni, forma e caratteri ornamentali corrisponde esattamente alla grande valva della 
tav. III di Crorrar; è meno completo e l’erosione e l’incrostazione mascherano in 
qualche parte i caratteri della superficie. Altri due piccoli esemplari della stessa 
provenienza, che permettono il controllo dei caratteri interni, confermano il riferi- 


286 C. F. PARONA 14 


mento. È una forma del Turoniano inferiore che probabilmente esiste anche, allo stesso 
orizzonte, nei Monti d’Ocre (Appennino aquilano) in Abruzzo (1), e che fu trovata 
inoltre sotto S. Benedetto presso Subiaco nei calcari gialli, compatti, sottostanti alla 
pietra di Subiaco (2), e nel Turoniano della Conca anticolana. 


Sauvagesia garganica n. f. 


È una forma rappresentata da due grandi esemplari incompleti di valva infe- 
riore, cilindro-conica, strettamente affine alla specie precedente, alla quale tuttavia 
non si può ascrivere per un complesso importante di differenze. La figura della se- 
zione trasversale della parte inferiore dell'esemplare più piccolo, mentre dimostra le 


Fig. 5. 


affinità colla Sauv. Sharpei, come il contorno subcircolare, il grande spessore (forse mag- 
giore) delle lamine, la linea legamentare nitida, colla piega trasversalmente allargata, 
mette nel tempo stesso in evidenza le notevoli differenze. Le coste dei fianchi risul- 
tano più grosse e meno numerose; ma il carattere veramente distintivo sta nella 
costituzione della regione sifonale che è delimitata da solchi laterali e che presenta 
l’interfascia profondamente incavata, per cui Ja fascia anteriore più larga £ e quella 


posteriore S sono prominenti e ben individualizzate, anche perchè a ciascuna di esse 


corrisponde sul fianco della cavità interna una leggera ma riconoscibile rientranza 


del guscio in relazione al decorso delle linee di accrescimento parallele al margine 


(1) C. F. Parona, La fauna coralligena del Cretaceo dei Monti d’Ocre nell’Abruzzo aquilano (Mem. 
per serv. alla descriz. della Carta Geol. d’It.), Roma, vol. V, 1909, pag. 37. 

(2) In., Notizie sulla fauna a Rudiste della pietra di Subiaco nella valle dell'Aniene, © Boll. della 
Soc. G. It. ,, 1908, vol. XXVII, pag. 301. 


15 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 287 


esterno delle fascie appiattite e della depressione dell’interfascia. Un'altra differenza 
riguardo alle fascie sifonali consisterebbe nel fatto, che non sono percorse da costel- 
line longitudinali, ma segnate invece fortemente dal rilievo delle sottili lamine che 
le tagliano trasversalmente, in modo simile a quello che si osserva in generale nelle 
forme del gen. Radiolites. Mi pare che tale aspetto, per quanto eccezionale nelle sau- 
vagesie, sia da ritenere originale, non attribuibile ad erosione profonda; ma appunto 
perchè eccezionale non credo d’insistere su questo carattere e di escludere recisa- 
mente il dubbio, che sia apparente e conseguenza di imperfetta conservazione. 

La figura schematica della sezione naturalmente non riproduce la fine, conser- 
vatissima struttura cellulare nettamente reticolata, caratteristica delle sauvagesinee 
e l'andamento delle lamine. Esse sono poco inclinate dall’esterno verso l’interno e, come 
sì osserva sull'’ampio margine dell’apertura, sono pianeggianti nella parte interna, poi 
flessuose e pieghettate all’esterno, presentando inoltre le impressioni di vasi radianti, 
similmente a quanto vedremo in modo più evidente nella Durania austinensis (Roem.). 

Turoniano del Gargano (Museo di Napoli). 


Sauvagesia? Paronai (Dain.). 


1901. Radiolites Paronai. G. DarxenLI, Appunti geologici sulla parte meridion. del Capo di 
Leuca, Boll. d. S. G. It., vol. XX, pag. 646, tav. XIII, fig. 1. 


Il DamettI dimostrò la inesistenza del Radiolites Mortoni Mantel (Durania) nel 
Senoniano di M. Gesso presso Ariano Puglia, rilevando che la forma da me ascritta 
a questa specie, perchè provvista di piega legamentare, doveva essere interpretata 
diversamente, e la riferì alla sua n. f. Rad. Paronai, istituita su esemplari di S* Ce- 
sarea. Può darsi che il frammento da me rappresentato colla fig. 3 @ appartenga 
alla Durania austinensis (Roem.), come accennerò trattando di questa specie; ad ogni 
modo è fuori di dubbio la corrispondenza dell'esemplare della fig. 4 colla n. f. del 
DAINELLI. 

Questa forma è incompletamente conosciuta, mancando ogni dato sui caratteri 
dell’ornamentazione della valva e della regione sifonale; ed i caratteri interni, in 
particolare la struttura del guscio, lasciano ritenere che essa appartenga piuttosto 
al gen. Sauvagesia, pel fatto del carattere nettamente reticolato del lembo. Sarebbe 
interessante il poter risolvere il dubbio a questo riguardo, anche perchè la presenza 
di un rappresentante del gen. Sauvagesia nel Senoniano, quando fosse dimostrata, 
proverebbe che le Sauvagesine provviste di piega legamentare non cessano col Tu- 
roniano inferiore, ma persistono fino al Senoniano. 

Ss Cesarea (parte meridionale del Capo di Leuca) nel Senoniano. 


Durania austinensis (Roem.). 
Tav. II, fig. 4. 


1852. Radiolites austinensis. F. Roemer, Die Kreidebilungen von Texas, Bonn, pag. 77, tav. VI, 
fig. 1 (a-d). 

1855. Radiolites Mortoni. Woonwarp, On the Struct. a. Affin. of the Hippuritidae, The Quart. 
Journ. Geol. Soc. of London, vol. XI, pag. 47, fig. 12, pag. 59, tav. V, fig. 1-2. 


288 C. F. PARONA 16 


1866. Radiolites Mortoni. K. A. ZirteL, Die Bivalv. d. Gosaugeb. in den nordéstl. Alpen, Denk. 
d. K. Akad., Wien, XXV vol., pag. 148, tav. XXV, fig. 1, 2, 8. 

1900. Sphaerulites Mortoni. C. F. Parona, Sopra alcune Rudiste Senoniane dell’Appenn. Me- 
ridionale, Mem. r. Accademia di Torino, Tom. L (1901), pag. 15, tav. II, fig. 3 
(a-b) ? (non 4). 

1904. Biradiolites austinensis. H. Douviutg, Mission scient. en Perse par J. De Morgan, Part. IV, 
Paléontologie (Mollusques fossiles), pag. 257, tav. XXXIX, fig. 2. 

1909. Sauvagesia austinensis. A. Tovcas, Étud. sur la classification et l’évolution des Radioli- 
tidés, Mém. d. 1. S. G. d. Fr., Paléont., Tome XVII, pag. 96, fig. 64. 


Gli studi recenti hanno messo in evidenza le differenze tra la Durania Mortoni 
(Mantel), forma antica che ha sede al limite dal Cenomaniano al Turoniano, e la 
Durania austinensis (Roem.) del Santoniano superiore, forma ormai ben nota e rico- 
nosciuta in diversi giacimenti nel Texas, in Inghilterra, in Persia e nell’Italia meri- 
dionale presso Ariano Puglia. 

Ora posso far conoscere un nuovo giacimento: la collezione “ Costa , del Gar- 
gano comprende cinque grandi esemplari di valva inferiore, più o meno incompleti, 
che sicuramente appartengono a questa specie. Il più grande misura 145 mm. al dia- 
metro trasversale, ed il più piccolo, quello figurato, mm. 115. 

È una forma facilmente riconoscibile per il guscio di grande spessore, formato 
dalla sovrapposizione di lamine larghissime, sottili, orizzontali. Le lamine sono se- 
gnate alla superficie da impressioni di vasi radianti dal margine interno, ripetuta- 
mente biforcantisi, e da finissima struttura cellulare poligonale; sul margine esterno 
esse si increspano distintamente, in corrispondenza della costolatura del fianco. Nes- 
suna traccia di cresta legamentare. La sezione della cavità interna è subovale, più 
ottusa e più larga sul lato delle aperture sifonali che, sulle lamine, sono indicate 
anche da forte sinuosità. Il fianco è percorso da numerose coste longitudinali rego- 
lari, ottuse, attigue, spesso binate. La valva quasi regolarmente cilindrica presenta sul 
fianco due forti depressioni in corrispondenza dei seni: l’anteriore E larga ed appiat- 
tita, la posteriore S più stretta della metà circa e concava: l’una e l’altra provviste di 
coste simili a quelle suaccennate del fianco, ma molto più fine e stipate; l’interfascia 
è stretta e costituita da una piega prominente arrotondata o subangolosa percorsa 
da coste uguali a quelle del fianco. Il guscio della valva in coincidenza delle depres- 
sioni dei seni si assottiglia, e più che altrove dietro alla larga fascia anteriore; di 
guisa che il posto dei seni o delle due aperture, d’ingresso £ e d’uscita S, è chia- 
ramente indicato dal minor spessore del guscio, dalle sinuosità delle lamine e dalle 
impressioni delle due fascie, che interrompono la regolarità del contorno cilindrico 
della valva. 


Durania affilanensis Par. 
1908. Biradiolites affilanensis. C. F. Parona, Notizie sulla fauna a Rudiste della pietra di Su- 
biaco nella valle dell'Aniene, Boll. d. S. G. Ital., vol. XXVII, pag. 809, tav. IX, 
fis. 4 a, bd. 


Sciolgo ora la riserva sul riferimento generico di questa forma, e, seguendo 1 
concetti del DouviLLé, l’attribuisco al genere Durania piuttosto che al genere Sau- 
vagesia, secondo la classificazione del Toucas. Farò poi osservare che essa, per il 


der NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL'APPENNINO 289 


carattere delle fascie dei seni liscie e infossate, presenta una spiccata affinità cogli 
individui della Durania runaensis (Choffat) (1) e della Durazia Gaensis (Dacqué) (2), 
nei quali le fascie, oltre essere concave, sono liscie e con poche traccie di coste. 

Questa affinità con forme turoniane ed il fatto, che il calcare giallo e compatto, 
che ne riempie la cavità interna e parzialmente lo incrosta, è identico a quello della 
Sauvagesia Sharpei raccolta sotto S. Benedetto (Subiaco), mi convincono che la Du- 
rania affilanensis non appartenga alla fauna senoniana della piera di Subiaco, ma 
provenga, come la Sauvag. Sharpei, da strati turoniani. 


Durania cornu-pastoris (Des M.). 


1900. Biradiolites cornu-pastoris. C. F. Parona, Le Rudiste e le Camacee di S. Polo Matese, 
Mem. r. Accademia delle Scienze, Torino, tom. L (1901), pag. 202, tav. I, fig. 5-7 
(ved. sinon.). 

1908. Biriadiolites cornu-pastoris. C. FP. Parona, Sopra alcune rudiste del Cretaceo superiore 
del Cansiglio, Mem. r. Accad. Ad. Scienze, Torino; t. LIX, pag. 154, tav., fig. 14 (a-b). 

1909. Sauvagesia cornu-pastoris. A. Toucas, Ét. sur la classif. et Vévolut. des Radiolitidés, Mém. 
Soc. @. d. Fr., Paléont., tom. XVTI, pag. 94, fig. 61-63, tav. XVIII, fig. 8-9. 


A questa grande, bella e nota specie, tipo del gen. Duraria Douv. (3), già da 
me riscontrata in parecchi giacimenti turoniani dell’Appennino e delle Prealpi venete, 
appartengono quattro grandi esem- i 
plari mutilati di valva inferiore del 
Gargano, della collezione “ Costa , 
esistente nel Museo Geologico del- 
l Università di Napoli. Ben caratte- 
rizzati dalla Jarga interfascia a nume- 
rose coste, essi si distinguono dal tipo 
per la loro forma cilindroide piuttosto 
che conica, e quindi per questo ri- 
guardo corrispondono più alla forma 
di S. Polo Matese, tuttavia distinta 
dalla Dur. Arnaudi (Choffat), che non 
a quella del Cansiglio. Notevole poi 
la sottigliezza ed il gran numero delle 
costicine, che corrono sulle fascie, le 
quali sono, come nel tipo, piane o 
leggermente concave; ed in ciò questi 
esemplari si distinguono dalla varietà, 
di grande taglia ed a fascie concave ed a coste longitudinali assai fine su tutto il 
fianco, figurata da Toucas (fig. 63). 

Presento la figura della sezione trasversa di un esemplare nel quale la fascia 


(1) P. Cuorrar, Rec. d. éud. paléont. sur la Faune crét. du Portug., 1902, pag. 142 (Birad. Ar- 
naudi var. runaensis), tav. VIII, fig. 3. » 

(2) H. Douvinré, Rudistes de Sicile, d'Algérie, d'Égypte, ecc., “ Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléontologie, 
tome XVIII, 1910, pag. 50, tav. III, fig. 4. 

(3) H. Douviné, Rud. de Sicile, Hgypte, ecc., “È Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., 1910, t. XVIII, p. 23. 


Serie II. Tox. LXII Th 


290 C. F. PARONA 18 


anteriore # è poco prominente, leggermente convessa e con numerosissime costel- 
line, e la fascia posteriore S pure con numerose costelline, meno larga, alquanto più 
prominente, appiattita ai lati e depressa nel mezzo a guisa di profondo solco; ca- 
rattere quest’ultimo che non si osserva negli altri esemplari. 

Un altro grande esemplare di valva inferiore, mal conservato ed in gran parte 
infisso nel calcare, fu raccolto (Museo di Firenze) dal Dott. RiccrarpeLLI a Poggio 
Pannona, ad est di Apricena, presso il cimitero (San Severo). 


Durania Arnaudi (Choffat). 


1901. Biradiolites Arnaudi. Caorrat, Rec. d’ét. paléont. sur la Faune Crét. du Portugal (Comm. 


serv. géol. du Port.), pag. 138, tav. VI e VII. 
1905. Biradiolites Arnaudi. C. F. Parona, App. per lo stud. del Cret. sup. nell'App., Boll. S. G. 
Ital., vol. XXIV, pag. 655. 


1909. Sauvagesia Arnaudi. A. Tovcas, Hit. s. 1. class. ct Vévol. des Radiol., Mém. S. G. d. Fr., 


Paléont., tome XVII, pag. 93, fig. 60, tav. XVIII, fig. 3-7. 
1910. Durania Arnaudi. H. DovviuLt, Rud. de Sicile, d’ Algérie, d’ Égypte, ece., Mem. S. G. d. 
Fr., Paléont., tome XVIII, pag. 50, tav. III, fig. 1. 


Monte Laceno sopra Bagnoli (Avellino). — Forma del Turoniano, strettamente 
affine alla D. cornu-pastoris. 


Durania runaensis (Choffat). 


1911. C. F. Parona, Fossili turoniani della Conca anticolana, Boll. d. r. Com. Geol. d’Italia 


(in corso di stampa). 


Durania arundinea n. f. 
Tav. II, fig. 5 (2/1). 


K una Durania che ben corrisponde nei suoi caratteri di conformazione e di 
ornamentazione alla Dur. runaensis, salvo che nello sviluppo della valva inferiore. 
Infatti, mentre nella forma di Crorrar l'altezza della valva inferiore è di poco su- 
periore al doppio del diametro dell’apertura o, al massimo, tre volte il diametro 
stesso, in questa nuova e singolare forma di DuranIA l’altezza della valva è molte 
volte più grande del diametro della sua apertura. 

Gli esemplari cilindriformi, flessuosi, sono allungatissimi, presentando un'altezza 
almeno dieci volte maggiore della larghezza, e raramente toccano i 20 mm. di dia- 
metro massimo trasversale. Sono esili, associati in gran numero, disposti più o meno 
vicini l'uno all’altro, talora aderenti per i fianchi, rimanendo sempre libera la re- 
gione sifonale, ed hanno quasi tutti vuota la cavità interna, di guisa che il calcare 
bianco che li cementa presenta un singolare aspetto bucherellato. Sopra una super- 
ficie di 90 centim. quadr. all’incirca vi sono le sezioni trasverse di una trentina di 
individui. 

Guscio di notevole spessore, con caratteristica struttura cellulare reticolata, a 
maglie eccezionalmente grandi, rispetto alla statura della valva, ed evidentissime 
sulle sezioni trasverse. Queste hanno contorno subcircolare, salvo in corrispondenza 


19 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL’APPENNINO 291 


delle due fascie sifonali #, S, assai larghe, e più quella anteriore, appiattite o leg- 
germente concave od ondulate, con traccie incerte di filettatura, separate da un'unica 
costa alta ed acuta, e però distinta da quelle basse e generalmente ottuse che or- 
nano il resto della valva. Nessuna traccia di cresta legamentare. — Valva superiore 
sconosciuta. 

Monte Gesso presso Ariano-Puglia. 


Durania apula Par. 


1900. Biradiolites apulus. C. F. Parona, Rud. Senon., pag. 21, tav. III, fis. 1, 2, 3. 
1909. Sauvagesia apulus. A. Toucas, Lt. s. 1. class. et V'év. d. Radiolit., Mém. S. G. d. Fr., Paléont., 
tome XVII, pag. 97, fig. 65. 


Castello di Coppa e di Ruvo (Bari). — Senoniano superiore. 


Durania hippuritoidea n. f. 
Tav. I, fig. 3, a, d. 


È questa una forma affine alla Dur. apula per il carattere della regione sifonale 
costituita da due fascie assai ridotte in larghezza, subeguali, infossate e separate da 
un'interfascia formata da quattro coste. Ma ne differisce notevolmente per il tipo 
diverso d’ornamentazione a coste più nu- 
merose, ottuse, appiattite, talvolta binate, 
separate da solchi stretti, quasi lineari. Le 
zone sifonali sono più profondamente in- 
fossate, in particolare l'anteriore E, con 
traccie incerte della filettatura longitudi- 
nale. Come la costolatura ricorda quella 
di certi ippuriti, così le fascie sifonali ri- 
cordano i solchi esterni ai pilastri pure 
degli ippuriti, e la valva inferiore di questa 
Durania assume per tal modo un’apparenza 
ippuritica. Colla sezione trasversale, il 
guscio mostra la struttura reticolata, fine 
ed a cellule allungate nel senso del piano 
della lamina, ed il suo rilevante spessore, 
tranne nella regione sifonale, dove si as- Fig. 7. 
sottiglia più che nella Dur. apula, segna- 
tamente in corrispondenza dei solchi esterni. Nella sezione la cavità interna appare 
subrotonda, con appiattimento nella regione sifonale e con leggere inflessioni del 
guscio verso l’interno, di fronte ai solchi E, S. Il margine dell’apertura è più forte- 
mente increspato che nella forma affine ripetutamente ricordata, in dipendenza del 
maggior numero di coste e porta rare impressioni di vasi radiali ramificati. 

La valva superiore è sconosciuta. 

Proviene da un calcare cereo poco compatto (Senoniano) di Vitulano presso Bene- 
vento, a settentrione del Taburno (Museo di Napoli). 


292 C. F. PARONA 20 


Durania Martellii Par. 
1911. C. F. Parona, Le Rudiste del Senoniano di Ruda sulla costa meridionale dell’isola di 
Lissa, Atti r. Accad. d. Sc., Torino, vol. XLVI, pag. 9 (estr.), fig. 1, 2. 
Senoniano di Cortemartina (Acquaviva), Putignano, Murgia Vallata (Gioia) nella 
Terra di Bari. 


Durania (Lapeirousia (?)) samnitica Par. 
1901. Biradiolites samniticus. C. F. Parona, Le Rud. e le Camac. di S. Polo Matese, Mem. d. 
R. Acc., Torino, tom. L, pag. 203, tav. I, fig. 8-11, tav. III fig. 4 (a-d). 

Già ho fatto notare le affinità di questa forma col Biradiolites cornu-pastoris, 
tipo del genere Durania, per ciò che riguarda la struttura reticulata delle lamine e 
la fine costulatura delle fascie sifonali, e col genere Lapeirousia in dipendenza delle 
protuberanze interne, che corrispondono alle fascie sifonali. Per le recenti osserva- 
zioni del DouviLLé, sui legami di parentela fra il gen. Durania ed il gen. Lapei- 
rousia, essa presenta un particolare interesse, quasi come forma di passaggio dal 
gen. Durania, al quale corrisponde per l’aspetto ed i caratteri d’ornamentazione, al 
gen. Lapeirousia, col quale ha comune il carattere dello sviluppo assai pronunciato 
delle protuberanze sifonali interne. Sugli esemplari di valva superiore non ho riscon- 
trato la presenza degli pseudoosculi, caratteristici della valva superiore, nella Lap. 
Jouanneti (Des M.) e nella Lap. crateriformis (Des M.); nè mi è dato ora di veri- 
ficare l’esistenza sul lembo delle suture, messe in luce da Douviccé (1), che delimi- 
tano in modo affatto caratteristico l’area trapezoidale di ciascuna regione sifonale. 
Ragioni per cui lascio dubbio il riferimento al gen. Lapeirousia. È inoltre da notare 
che la Lap. (?) samnitica per la sua valva inferiore allungata e subcilindrica, più che 
ai due tipi ora citati del genere, ricorda la Lapeirousia Pervinquieri Touc. (2) del 
Senoniano di Tunisia, di piccola statura (e però considerata dal Toucas, che la de- 
scrive fra le Sphaerulites, come una rarità del gruppo) ed esternamente ornata da 
coste longitudinali. 

S. Polo Matese. — Turoniano. 


Lapeirousia Jouanneti (Des M.). 


1900. Lapeirousia Jouanneti. C. F. Parona, Rud. senon., pag. 17, tav. II, fig. 6-7. 
1908. Sphaerulites Jouanneti. A. Toucas, Sur la classif. et Vévol. A. Radiolit., Mém. S. G. d. 
Fr., Paléont., tome XVI, pag. 58, tav. X, fig. 4-5. 
1910. Lapeirousia Jouanneti. H. DouvinLé, Rud. de Sicile, d’Algérie, ecc., Mém. S. G. d. Fr., 
Paléont., tome XVIII, pag. 26, fig. 25 e 26, pag. 81, tav. VI, fig. 2, 3 (ved. sinon.). 
1911. Lapeirousia Jouanneti. C. F. Parona, Le Rud. del Senon. di Ruda, ece., pas. 12. 
Monte Gesso presso Ariano-Puglia. — Specie caratteristica del Maéstrichtiano 
superiore. 


(1) H. Douvirué, Rudistes de Sicile, d’Algérie, ecc., È Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléontologie, 1910, 
tome XVIII, pag. 26. 

(2) A. Toucas, Etudes sur la classif. et V'évol. des Radiol., “ Mém. S. G. d. Fr. ,, Paléont., 1908, 
tome XVI, pag. 57, PI. X, fig. 1-2. ‘ 


21 NUOVI STUDII SULLE RUDISTE DELL APPENNINO 295 


SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE 


Mavale 


Fig. 1, a, db. — Radiolites saticulanus n. f. (Monte Camino, in prov. di Caserta — Museo di 
Torino). 

1 a, b. — Biradiolites Dainelli n. f. (dintorni di Bari — Museo di Torino). 

- 3, a, db. — Durania hippuritoidea n. f. (Museo di Napoli). 


i 
D 


Tav. IL 
Fig. 1, a, è. — Praeradiolites Hoeninghausi (Des Moul.) (?) (*/s del vero), Birostro (Gargano 

— Museo di Napoli). 

a — Radiolites peucetius n. f. (Putignano in Puglia — Museo di Torino). 

- 3, a, b, c. — Radiolites peucetius n. £. (ibid., id.). 

CE — Durania austinensis (Roemer) (Gargano — Museo di Napoli). 

Nd: — Durania arundinea n. £. (*/,). (Monte Gesso, Ariano-Puglia — Museo di 
Torino). 


De, 


Tav. | 


Mozimo 


T 
@ 


Off. Fototecnica Ing. G. Molfese. Torino 


Serie Il. Vol, LXII 


ovie dell 


DITem 


.F. PARONA - Rudiste dell'Appennino 
E. Forma Fot. 


i Forino 


C.F. PARONA - Rudiste dell'Appennino Memorie della R. Accad, delle Scienze I 
Serie Il. Vol. LXII 


Tav. Il 


E. Forma Fot. Off. Fototecnica Ing. G.Molfese Torino 


I 


dar 


LO 


STAGNO DI S." GILLA (CAGLIARI) 


E LA 


SUA VEGETAZIONE 


PARTE SECONDA 
COSTITUZIONE ED ECOLOGIA DELLA FLORA 


STUDIO 


DEL 


Dr. ANGELO CASU 


(CON UNA TAVOLA) 


Approvata nell’Adunanza del 5 Febbraio 1911. 


SOMMARIO E INDICE 


T. Caratteri generali della vegetazione 
1. Evoluzione ecologica della fiora 3 
2. Costituzione generale della flora e delle sue zone ooozione 
II. Note ecologiche particolari 
1. Zona esterna . 
Igrofite saline Bai 
Igrofite comuni 
Considerazioni 
2. Zona palustre . 
3. Zona stagnale. 
4. Zona sommersa È 
HI. Considerazioni generali . x d 
Le due stazioni dominanti — Le zone Sealziohe —_ Fatti SA di elogia _ 
Fatti particolari — mancanza di specie arboree e sue cause — Struttura littoranea — 
Azione del mare e valore nutritizio delle infiltrazioni del sottosuolo — Azione del- 
l’acqua marina sulla costituzione delle zone ecologiche — Azione antagonistica dei 


fiumi — Adattamento delle piante di fiume= adattamento fisiologico, saturazione 
salina — Adattamento ecologico, precocità della fioritura — Adattamento morfologico 
— Riduzione delle piante marine — Azione repulsiva dell’acqua di fiume — Riduzione 
delle Alofite terrestri= nelle zone palustre, stagnale ed esterna, e loro caratteri nega- 


tivi di adattamento. 
IV. Conclusioni generali . 
Descrizione della Tavola dello Siano 
Tavola dello Stagno . 


37 
39 
40 


296 ANGELO CASU 2 


TE, 


Caratteri generali della vegetazione. 


1. Evoluzione ecologica della Flora. 


Per quanto il ciclo evolutivo-geofisico dello Stagno di S. Gilla sia prossimo al 
suo completamento, pure la sua vegetazione vi si mantiene ancora con carattere 
nettamente primitivo, anche in quelle parti che sono più direttamente influenzate 
dai fiumi. 

Ricorderò che il fondo ne è ormai tanto sollevato da costituirvi un terrazzo 
alluvionale uniforme nei due Bacini orientale ed occidentale, confinanti colla Plaja, dove 
il battente dell’acqua oscilla appena attorno al mezzo metro, e che solo nella parte 
centrale del Bacino settentrionale si ha una profondità massima di due metri, o poco 
più. Questa profondità è poi anch'essa insignificante tanto in confronto a quella che 
l’intero bacino doveva possedere in origine, quanto rispetto all’area dell’attuale specchio 
acqueo, il quale misura normalmente 40-45 Kmq. La massa dell’acqua si riduce 
dunque, ed in generale, ad uno strato sottilissimo che si distende dalla foce dei fiumi 
alla Plaja, ed è tale che in molti tratti non è più possibile la navigazione, neanche 
coi più leggeri sandali pescherecci dello Stagno. 

Ma nonostante ciò, la Flora non vi costituisce quelle caratteristiche ecologiche 
generali che sono proprie della palude comune, e la macroflora fanerogama, che vi 
dovrebbe già ricoprire tutto il fondo, vi è solo incompletamente rappresentata in 
una piccola parte della periferia, mentre lo specchio acqueo ne è interamente libero. 
La vegetazione stagnale e quella palustre (Tamarix sp., Carex sp., Phragmites sp. 
Scirpus sp., ecc.) si è ridotta alla foce dei fiumi e dei torrenti, mentre lungo gli 
altri tratti della riva, p. es., sulla Plaja, non si osservano che gracili e sparsi culmi 
di cannuccia di palude in prossimità di alcuni canali. 

Il fatto si spiega coll’azione repulsiva che esercita l’acqua marina su queste 
specie di fiume, poichè ristagnandovi a lungo vi uccide le formazioni vegetali palustri 
e stagnali. 

Tuttavia, e per quanto limitatamente alla stagione estiva, una caratteristica 
ecologica della palude viene offerta qui dalla florida vegetazione crittogamica del 
fondo allorchè viene posta allo scoperto. Questo fatto, che per molti riguardi è qui 
del massimo interesse, è determinato da ciò, che le alghe filamentose (Entero- 
morphae, sp., ecc.) che vegetano sulle ruppie del fondo, o su qualche altro sostegno, 
formano in modi diversi delle masse che durante il lungo periodo estivo emergono 
parzialmente dall’acqua, dando l’illusione di tratti del fondo i quali sieno stati pro- 
sciugati a causa delle eccessive secche; ma non è proprio così, e tuttavia il loro 
significato geofisico non ne differisce che per gradi. 


3 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 297 


Colle prime pioggie autunnali, queste masse, già marcite in parte, cadono al 
fondo dove, dissolvendosi completamente, portano un notevole contributo di limo, ed 
allora lo specchio acqueo ridiventa libero, e tale permane fino all’estate venturo. 

Le caratteristiche permanenti della palude le troviamo solo nel Bacino setten- 
trionale, dove si osservano distintamente: una zona centrale sommersa estesa a rico- 
prirne tutto il fondo; una zona stagnale ed una palustre. 

Ma anche qui l’azione repulsiva dell’acqua marina è abbastanza evidente, poichè, 
nonostante l’insensibilità della pendenza del fondo, la vegetazione palustre si allon- 
tana di poco dal margine, ed una sola è la pianta stagnale che si estende a vegetare 
su tutti i punti di questa parte dello Stagno. 

Ma oltre che sul fondo, la mancata evoluzione della fiora, la si osserva parti- 
colarmente nella zona esterna circostante, costituita dai prati umidi. 

Questa zona, per quanto vasta ed ampiamente aperta alla invasione delle acque 
ed al dominio dei venti, sia dalla parte del mare che da quella dell’interno dell’Isola, 
e per quanto si trovi perciò nelle condizioni più favorevoli per essere presto popo- 
lata dalle specie vegetali più diverse, presenta una vegetazione alquanto primi- 
tiva e costituita quasi totalmente da specie erbacee e da altre poche, suffruticose 
e fruticose. 

Le specie arboree, cioè, che dappertutto ove si stabiliscono, rappresentano l’ul- 
tima fase evolutiva, verso cui tende ogni flora in un qualunque punto dello spazio, 
mancano quasi completamente, e l'occhio può scorrere questa grande distesa di piano, 
senza che per molti Kmq. ne osservi alcuna traccia. 

La Plaja, che è lunga oltre i nove Km., presenta tre gruppi piccoli e radi 
di alberi coltivati, dei quali uno allo stabilimento balneare Città di Cagliari, l’altro 
nella località di Giorgino, ed il terzo a La Maddalena. Lungo gli altri 41 Km. 
del perimetro si notano un boschetto, spontaneo in parte, lungo il Rio di Capoterra, 
ed altri gruppi di pochi pioppi a S.' Maria, a Piscinas, e nel piano che si distende 
fra Elmas ed Assemini. Allo sbocco dei torrenti si hanno poi le macchie dei Tama- 
ricti, spesso impenetrabili, ed in qualche tratto, come sotto Capoterra, si ha la 
bassa macchia mediterranea in cui dominano Pistacia Lentiscus L., Cistus sp., Ar- 
butus Unedo L., Erica arborea L., Phillyrea variabilis Timb., ed altre essenze di 
minore importanza. 

Dalla parte di levante si hanno poi alberi coltivati lungo i rilevati della strada 
ferrata, la quale per lunghi tratti attraversa la riva dello Stagno (zona esterna), e 
vi si osservano varie specie di Pinus, Eucalyptus, Quercus, Acacia, Populus, Salix ed 
altre meno cospicue; ed al di là della strada, a misura che il terreno si eleva, si 
ha la coltura a vite, e più oltre, e in alto, il mandorlo, l’olivo ed il frutteto. 

Tutto ciò dimostra che nelle terre in cui più non arriva l’influenza diretta del 
mare, la fiora ha quasi compiuto per intero la sua evoluzione, la quale in molti casi 
è stata aiutata dalla mano dell’uomo. 

Ma nella prateria umida della zona esterna dello Stagno, ciò non fu ancora pos- 
sibile, ed i vegetali superiori legnosi ne sono tenuti, perciò, lontani. 

Intanto, e in dipendenza dell’attuale struttura del bacino di questo Stagno, le 
regioni ecologiche si riducono a quella della riva, a quella del fondo ed alla elosica 
superficiale, le quali sono costituite rispettivamente dalle praterie umide circostanti 

Serie II, Tom. LXII. f mi 


298 ANGELO CASU 4 


(Zona esterna), dalla prateria del fondo (Z. palustre, Z. stagnale, Z. sommersa), e dalla 
massa dell’acqua colle sue alghe in sospensione. 

Si nota subito che, in generale, le specie vegetali che caratterizzano le diffe- 
renti zone ecologiche, sono, qui, tratte da due grandi stazioni differenti: l« salata 
colle sue piante saline (terrestri e marine), e quella di acqua dolce, con tutte le gra- 
dazioni comprese fra le più modeste <grofite della Zona esterna e le idrofite della Zona 
SOMMETSA. 

Queste due grandi formazioni, le quali sono qui legate rispettivamente dall’a- 
zione dell’acqua marina che vi arriva dal Sud, e da quella dell’acqua fluviale che vi 
arriva dal Nord, si presentano tanto più pure quanto più vengono osservate in vici- 
nanza del mare, la prima, ed in prossimità dei fiumi, la seconda. 

Nelle parti intermedie ove le due azioni si sovrappongono e si attenuano, oppure 
si alternano, anche le due formazioni si mischiano e confondono, ed i singoli ele- 
menti floristici danno luogo a fatti di concorrenza i quali illustrano molto bene la 
natura dei loro adattamenti. 

Intanto col presente studio mi propongo di illustrare la costituzione generale 
della macro-fora di queste due formazioni, e quella particolare delle singole zone, 
descrivendone quei fatti di vita cui le differenti specie vi danno luogo in dipendenza 
delle peculiari condizioni fisico-chimiche dell'ambiente. 

Lo studio delle microfite costituenti il fitoplankton, verrà fatto in altra parte. 


5 LO STAGNO DI S.TA GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 299 


2. Costituzione generale della flora e sue zone ecologiche (*). 


Aighe Vaucherieae 
Ulvaceae Acetabularia mediterranea 
Ulva sp. - Talli natanti avven- Lamouri Wii Zo sona 
tizi provenienti dal mare. Caulerpa prolifera Ag. . . . ” 
Enteromorpha intestinalis Link. Codium Bursa Ag... . . » 
5) bullosa Rabenh. (E. inte- Dasycladus claveformis Ag. . 5 
stinalis 8 crispa Ktz. So- 
lenia intestinalis Chav.) Z. somm. TEucaceae 


c) tubulosa Rabenh. (Ulva 


È pa Cystoseira abrotanifolia Ag. 
enterom. Y intestinalis 


Id. concatenata Ag. 


i % RARO, ica j 3 Id. discor Ag. Sagra n 
3) SEDUCORIA GI abenh. TA SHoppis Aso, Seat agaglo P 
(E. Cornucopiae Hook.) . a 
e) maxima Rabenh. . . > Porphyreae 
Id. compressa Grev. i A 
g) crispa Rabenh. (E. inte- Bangia coccineo-purpurea Ktz. 3 
stinalis f.crispa Ag.) . " 
Mali sa ia Kt Ceramiecae 
Id. lanceolata Rabenh. . . d Ceramium tenuissimum Lyngh. 1, 
c) crispata Le Jol. (Phy- 
coseris crispata Ktz. - Rodomeleae 
Phye. lanceolata Y rami : Polysiphonia intricata J. Ag... 
fera Ktz. - Solenia Ber- 
iolonipA9:)iale to 3 Characeae 
ATO ra ERE ; 
d SR i Chara aspera W. 0. . i 
g) laetevirens Piccone 
È Ia Td Mitomento ssi ei oe j 
(Ulva Linza De N.ts). 5 ; 
: Ico gliene di o eee > 
Confervaceae Lamprothamnus papulosus Bég. 
Chaetomorpha aerea Ktz. . . 5 et Hormicg: 
Vi aa var. Pouzolsiù Bég. et; 
inizio a. TOLTO SEE AR 
dario da BIG O 3 o 
Cladophora fracta Ktz. . . . È Puuisctaccae 
Id. ramulosa Meneg. . . . = Equisetum ramosissimum 
Jd>vadorum Kiziug 0. 3 Destro ner AE ZIIOSLENI 


(7) NB. I nomi delle piante littoranee e marine, preesistenti alla formazione dello Stagno, sono 
scritti in carattere comune; quelli delle piante migrate dai fiumi, dopo detta formazione (idro- 
igrofite), sono scritti in grassetto, e quelli delle piante avventizie in corsivo. 


Rionocotileae 


Poaceae 


Aegilops ovata L. . 
Agropyrum acutum R. et Sch. 

Id. junceum P. B. . 

Id. scirpeum Presl. 
Agrostis vulgaris With. 
Arundo Donax L. 

Avena fatua L. . 

Id. sativa L. ‘Rltee 
Brachypodium Dro R. s. 
Briza maxima L. . 

Td. media L. . 

Id. minor L.. 

Bromus madritensis L. 

Id. maximus Desf. . 

Id. tectorum L. . 
Catapodium loliaceum Link. 
Crypsis aculeata Ait. 

Id. schoenoides Lam. 
Cynodon Dactylon Pers. . 
Cynosurus cristatus L. 

Id. echinatus L. . , 
Festuca arundinacea Schreb. 
Glyceria aquatica Wahlb. 

Id. distans Wahlb. (Atropis 

distans L.) . Ar 

Id. maritima Mert. (G. fe 

stucaeformis Parl.) 

Id. plicata Fries. . 

Holcus lanatus L. . . 
Hordeum maritimum With. . 
Imperata cylindrica P. B. 
Koeleria hispida D.C. 

Id. phleoides Pers. . 

Id. setacea Pers. . 
Lagurus ovatus L. 

Lamarkia aurea Moench. 
Lepturus incurvatus Trin. . 

Td. filiformis Trin. . 

Lolium rigidum Gaud. 
Lygeum Spartum L. . 
Melica Magnolii Gren. et God. 


. Z. estern. 


ANGELO CASU 


Panicum Crus-Galli L.. 
Id. repens L. 
Phalaris canariensis L. . 
Td. nodosa L. 
Phleum arenarium L. 
Id. pratense L. 
Phragmites communis n 
(Arundo Phragmites L.) 
Piptatherum multiflorum P. de 
Beauv. 
Polypogon IA ORO Desf. 
Id. maritimum Willd 
Psilurus nardoides Trin. 
Serrafalcus mollis Parl. . 
Setaria verticillata P.B.. 
Stipa tortilis Desf. 
Triticum villosum P.B. . 
Vulpia myuros Gm. 
Td. uniglumis Reich. 


Cyperaceae 


Carex divisa Huds. . 

Id. extensa Good... . . 

Id. hispida Schk. . 

Id. praecox Jacd. . 
Cyperus badius Desf. 

Id. longus L. (vernacolo = 

sessini) 

Id. Presli Parl. 
Schoenus nigricans L. À 
Scirpus lacustris L. (S. Ta- 

bernaemontani Gmel.) 

Td. Holoschoenus L. 

Id. maritimus L. (vernacolo 

= fenu) . 

Id. triqueter L. 


Araceae 


Arisarum vulgare Targ. Tozz. Z. estern. 


Arum pictum L. 


Typhaceae 


Sparganium ramosum Huds. Z. palust. 


Typha angustifolia L.. 
Id. latifolia L.. 


. Z. estern. 


. Li. palust. 


” 


» 


” 


k] 


” 


1 


Iuncaceae 


Tuncus acutus L. . Z. estern. 
Id. capitatus Weigel. 

Td. conglomeratus L. . . n 
Id. effusus L. : 

Id. maritimus Lamk. . . " 


Td. multiflorus Desf.. . . S 


Liliaceae 


Allium roseum L.. ; a 
TRL open Ibis ooo È) 


Asphodelus fistulosus L. . . Pi 
Id. ramosus Gouan. . . . D 
Scilla autumnalis L. . . . S 
Urginea Scilla Steinh. . . . a 
Aspuragaceae 


Asparagus acutifolius L. > 
Tetra bu sali e P 


ib argini e ano È 
Id. stipularis Foersk. . . . 5 
Snia SperI OI 5 
Amaryllidaceae 
Narcisus Tazzetta Lois. . . 3 
Iridaceae 
Gladiolus segetum Gawl. . . 3 
Gynandriris Sisyrimchium Parl. 3 
Thelysia alata Parl. . . . . - 
Xiphion Pseudo-Acorus Parl. Z. palust. 
Orchidaceae 
Barlia longibracteata Parl. . .Z. estern. 


Orchis papilionacea L. . . . ; 


LO STAGNO DI S.°A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 301] 


Ophrys aranifera Huds. . .Z. estern. 


TASNteo AC av E 5 
Id. Speculum Link. . . . 5 
Id. tenthredinifera Willd. . n 
Serapias Lingua L. . . . . 9 
Butomaceae 
Butomus umbellatus L. . Z. stagn. 
Alismaceae 
Alisma Plantago L. . Z. palust. 
Id. ranunculoides L.. . Z. stagn. 
Damasonium stellatum G. L. 
Rici zgio eo ia 3 
Giuncaginaceae 


Triglochin Barrelieri Lois. .Z. palust. 


Potamogetonaceae 


Potamogeton coloratus Horn. Z. stagn. 


TACrISpusgit ARR È 
[GL amame Ie uo ero 5 
Td. pectinatus L.. . . . H 
Id. trichoides Ch... . . 5 
Ruppia maritima L. . . . ; 
Zannichellia dentata W. 
Idp2lUstris ge Se 
Najadaceae 
Najas major Al RA 5 
Lemnaceae 
Lemna gibba L.. . . . . A 
Tk sastaoie Ile e e eo 3 


302 ANGELO CASU 3 


Polygonaceae 
Dicotileae Emex spinosa Campder.. . .Z. estern. 
Mist Polygonum aviculare L. . . . 9 
Salicaceae Id. equisetiforme Spr. 3 
Populus alba L.. . . . .Z estern. Id. maritimum L. 2 
TO Id. salicifolium Brousson. . 3 
8) pyramidalis Roz. . . y Id. Persicaria Te Penso) — ”» 
an ab IRonaad Ie a, G 
Ta. babylonica L.. . . . Rumex bucephalophorus L. . . n 
Id. crispus L. . 5 
UrLIGRCERE I Npuleheri siae ta 
TwHen "979°, n 
sg Sa Reggiano 5 Mimnarantacene 
MOLO OI pi 
licL portarono Io vo do ” Amarantus albus UL. È 
MARR: 072 SAI A SAT 5 
Parietaria officinalis L. . . . ; ; 
Chenopodiaceae 


Balanophoraceae Arthrocnemum glaucum Ung. 


Cynomorium coccineum L.. . Ò ; Sterng see n) 

Atriplex crassifolia Kock. . . È 

Haloragaceae TA Ea limu ss eee & 

TARRh' asta to so 

Myriophyllum spicatum L. .Z. stagn. Id. laciniata L. (A. Torna- 
Callitriche stagnalis Scop. . n ber Rin) N È | 
Ta. obtusangula Le Gall. . È Id. patula L. 5 } 
Td. rosea L. . 3 
Luphorbiaceae Beta vulgaris Moq. % 


Crozophora tinctoria Ad. de Juss. Z. estern. n Baia SIGRI, 
Chenopodium album L. 


Euphorbia Ch TA SRO n 2 
Pi dalggri ì ssa Id. murale L. STA 
Td. dendroides L.. . . . I “clap È 
je È Id. opulifolium Schrad. . . i 
Tcl Paesaggio 1 a ea 5 : 
È Id. urbicum L.. sto 5 
TA Replis IENA AR. p ; 
NILO Td old uns RATE a 
I a =” L PECE e). i Halopeplis strobilacea Ces... A 
a Ev RI 1 ; Obione portulacoides Mog.. . a 
Tok denogasa Ibi ao erica fi È È 3 
È Salicornia fruticosa L. . . . 6 
Id. pubescens Vahl. . . . 3 
; Ta Mih'erbacca N e Po 
IL vareeng Ipo o sato 3 
AR0 SalsolaS.A 94 re A 
Mercurialis annua L. . . . } 
TOS Rra suse ; 
Daphnaceae TA vermicula Fa NE A 
Suaeda fruticosa Forsk. . . PI 
Daphne Gnidium L. . . . . n Id. maritima Dum... . : 


Thymelea hrsuta Endl. . . . S IGL Seniga, MG 05. n 


o 


Plantaginaceae 


Plantago albicans L. . 
Id. Bellardi All. 
Id. Coronopus L. 
Id. major L.. 

Td. maritima L. 
Id. Psyllium L. . 


Plumbaginaceae 


Statice articulata Lois. . 
Id. densiflora Guss. 
Id. echioides L. 

Id. dictyoclada Boiss. 
Id. Limonium L. 
Id. virgata W. . 


Lamiaceae 

Ajuga Jva Schreb. 
Ballota nigra L.. 
Lamium amplezicaule L. 
Lavandula Stoechas L. 
Lycopus europeus L. . 
Marrubium Alysson L. 

Id. vulgare L. 
Mentha aquatica L. 

Id. insularis Req.. 

Id. Pulegium L. 
Micromeria graeca Bent. 
Salvia Verbenaca L. 
Satureja Thymbra L.. 
Sideritis romana L. 
Stachys glutinosa L. 
Teucrium capitatum L. 

Id. Marum L. 

Id. Scordium L. 
Thymus capitatus Hoffm. 


Ferbenaceae 


Verbena officinalis L. 
Id. supina L. 


Orobancacene 


Phelipaea ramosa Mey. . 


. Z. estern. 


“ 


n 


LO STAGNO DI S.A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 


303 


Scrophulariaceae 


Antirrhinum majus L. 
Bartsia viscosa L. . 
Celsia cretica L. 
Linaria Pelisseriana Mill. 
Id. supina Desf. 
Id. reflera Desf. 
Id. triphylla Mill. 
Verbascum sinuatum L. . 


Solanaceae 


Hyoscyamus niger L. . 
Id. albus L. . 
Lycium europaeum L. 
Solanum Dulcamara L. 
Id. nigrum L. 
Y) miniatum M. K. 
Id. Sodomaeum L. . 


Borraginaceae 


Anchusa italica Retz. . 
Asperugo procumbens L. 
Borrago officinalis L. 
Cerinthe aspera L. 
Oynoglossum pictum Ait. 
Echium calycinum Viv. 

Id. italicum L. 

Id. maritimum W. . 


.Z. estern. 
b.] 
b.} 


» 


x 
O 
” 

. Z. palust. 

.Z. estern. 
> 


” 


Heliotropium europaeum Guss. : 


Id. supinum L. . 
Lithospermum arvense L. 


Convolvulaceae 


Cressa cretica L. 

Convolvulus althaeoides L. 
Id. arvensis L. 5 
Td. pentapetaloides L. . 
Id. sepium L. 


Gentianaceae 


Chlora perfoliata L. 
Erythraea Centaurium Pers. 
Id. spicata Pers. 


304 
Primulaceae 


Anagallis arvensis L. . 
8) Monelli L. (A. coerulea 
Schreb.) 
Samolus Valerandi L. . 


Ambrosiaceae 


Xanthium spinosum L. . 
Id. strumarium L. 


Asteraceae 


Aetheorhizza bulbosa Cass. 
Anthemis fuscata Bertol. 

Id. maritima L. 
Artemisia arborescens L. 
Aster Tripolium L. 
Asteriscus spinosus Gr. et God. 
Atractilis cancellata L. 
Bellis annua L. 

Id. perennis L. 
Calendula arvensis L. 
Carduus pycnocephalus L. 
Carlina corymbosa L.. 

Id. lanata L. 

Id. racemosa L. . 
Centaurea Calcitrapa L. . 

Id. Schouwii D.C. 

Id. sphaerocephala L. 
Cichorium Intybus L.. 
Cirsium giganteum Spr. 

Id. italicum Seb. et Maur. . 
Crepis foetida L. 

Id. taraxacifolia Thuil. 

Oynara horrida Ait. . 
Evax pygmaea Pers. . 
Galactites tomentosa Moench. 
Helichrysum angustifolium D.C. 
Helminthia echioides Gaertn. 
Hyoseris radiata L. 
Hypochaeris radicata L. . 

Id. wethnensis Nob. 

Imula crithmoides L. . 
Id. graveolens Desf. 
Td. viscosa Ait. . 


ANGELO CASU 


‘.Z.estern. 


Kentrophyllum lanatum D.C. .Z. estern. 


Lactuca saligna L.. 
Picridium vulgare Desf. . 
Pinardia coronaria Less. 
Plagius ageratifolius D.C. 
Pulicaria sicula Moris. . 
Scolymus hispanicus L. 
Senecio erraticus Bertol. . 

Id. leucanthemifolius Poir. 

Id. vulgaris L. 

Silybum Marianum Gaertn. 
Sonchus oleraceus L. . 

Id. palustris L. 

Id. tenerrimus L. 
Thrincia tuberosa D. 0. . 
Urospermum Daleschampii Desf. 

Id. picroîdes Desf. . 


Dipsaceae 


Dipsacus ferox Lois. 
Id. sylvestris Mill. 


Scabiosa maritima L. . 


Rubiaceae 


Galium murale All. 
Id. palustre L. 
Ia. saccharatum Aill. . 


Loniceraceae 


Lonicera implexa Ait.. 
Sambucus nigra L.. 


Apiaceae 


Apium graveolens L. . 
Conium maculatum L. 
Daucus Carota L. . 

Id. gummifer Lam. 
Eryngium amethystinum L. . 
Id. Barrelieri Boiss. . 

Id. campestre L. 
Id. maritimum L. 
Foeniculum piperitum D. O. 


b} 


”» 


» 


11 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 


Helosciadium nodiflorum K. Z. palust. 
Heracleum Sphondylium L.. Z. estera. 
Magydaris tomentosa D.C. . Z. ester. 


Oenanthe crocata L. . . .4. palust. 
TA SAStUIOSa eo S 
Pimpinella peregrina L.. . .4Z.estern. 
Ridolfia segetum Moris . . . 5 
Smyrnium Olusatrum L.. . A 
Thapsia garganica L. . . . - 


Tordylium apulum L. 
Torilis nodosa Gaertn. . . . È 
Mesembrijanihemaceae 


Mesembryanthemum cristalli- 
TANPIT 03 Al DES O MNE TE CISL 5 
Wafino dito rum Lo et È 
Mollugo hirta Thunb. . 


Cactaceae 


Opuntia Ficus-indica Mill. . 


Paronyclhiaceae 
Corrigiola littoralis L. . . . G 
Herniaria hirsuta L.. . . . 5 
Polycarpon tetraphyIlum L.. . 5 

Tamaricaceae 
Tamarix africana Poir. . . i 
iL agli ih Seo a 7 
Cucurbitaceae 
Ecballion Elaterium Rich. . - |, 

Onagrariaceae 

Epilobium hirsutum L. x A 

Id. tetragonum L. . . . 5 
Lythraceae 

Lythrum Salicaria L.. . . 7 
Fosaceae 

Crataegus oxyacantha L. . È 


Fragaria Vesca L. 
Poterium Sanguisorba L. 
Prunus spinosa L. E 
Rubus discolor Weih. . 
Serie II. Tox. LXII 


Phaseolaceae 


Ut 


Anagyris foetida L. . . . .4.estern. 


Anthyllis Vulneraria L. . 

Astragalus boeticus L. 
Td. hamosus L. . 

Calycotome villosa Link. 

Doryenium rectum Ser. 

Lathyrus Cicera L. 

Id. Clymenum L. 
Td. hirsutus L. 

Lotus corniculatus L.. 
Td. creticus L. . 
Td. fenuis W. et K. 

Medicago Echinus D.C. . 
Id. sativa L. : 
Td. tribuloides Desr. 

Melilotus messanensis All. 
Td. sulcata Desf. 

Ononis biflora Desf. 

Id. viscosa L. 

Psoralea bituminosa L. 

Tetragonolobus purpureus Moench. 

Trifolium arvense L. 

Id. Cherleri L. . 
Id. procumbens L. . 
Id. repens L. 

Id. spumosum L. 
Id. stellatum L.. 
Id. suffocatum L. 
Td. tomentosum L. 


Anacardiaceae 


Pistacia Lentiscus L. . 


Rutaceae 


Ruta chalepensis L. 
Tribulus terrestris L.. 


Geraniaceae 


Erodium chium Willd. 
Td. Ciconium Willd. 
Id. malacoides Willd. . 

Geranium molle L. 

Oxalis cernua Thunb. 
Id. corniculata L. 


b) 


D) 


» 


306 
Malvaceae 


Althaea officinalis L. . 
Lavatera arborea L. 
Id. cretica L. 
Malva nicwensis AII. . 
Id. sylvestris L. . 


Dianthaceae 


Alsine procumbens Fuzl. 
Arenaria serpyllifolia L. 
Id. tenwifolia L. 
Cerastium pentandrum Moris 
Id. vulgatum L.. 
Lychnis Coelis-rosa Desv. 
Id. Zaeta Ait. 
Sagina maritima Don. 
A Cucubalus Wib. 
. Sericea All. . 
eli macrorhyza Gr. di 
Godr. 
Id. rubra Pers. . 
Id. salina Presl. 
Stellaria media Cyr. . 


Frankeniaceae 
Frankenia laevis L. . 
Id. pulverulenta L. 
Cistaceae 


Cistus monspeliensis L. 
Id. salvifolius L. 
Helianthemum guttatum Mill. 
Id. salicifolium Pers. . 


Resedaceae 


Reseda alba L.. 
Id. luteola L. 


ANGELO CASU , 


.Z.estern. 


Brassicaceae 


Alyssum maritimum Lam. 
Brassica campestris L. 
Cakile maritima Scop. 


Capsella Bursa-pastoris Moench. 


Coronopus didymus Sm. . 
Diplotaxis erucoides D. C. 
Id. tenuifolia D. 0. . 

Eruca sativa Lmk. 
Lepidium procumbens L. 
Id. graminifolium L. 


Nasturtium officinale R. Br. Z. i, 
. Z. estern. 


Stinapis alba L. 
Id. nigra L. . 
Sisymbrium Irio L. 


Papaveraceae 


Fumaria agraria Genn. . 
Id. capreolata L. 
Id. officinalis L. 
Glaucium flavum Crantz. 
Id. phoeniceum Crantz. 
Hypecoum procumbens L. 
Papaver hybridum L. . 
Id. pinnatifidum Moris 
Id. Rhoeas L. 


Nynpheaceae 
Nynphea alba L. 


Ranuncolaceae 


Anemone coronaria L. 
Id. hortensis L. . 
Adonis aestivalis L. 
Delphinium peregrinum L. 
Nigella damascena L. 
Id. divaricata Beaupré . 
Ranunculus aquatilis L. . 
Id. fiuitans Lam. . 
Id. palustris Sm. . - 
Id. sceleratus L. . 


12 


. Z. estern. 


” 


” 


» 


» 


. 5. stagn. 


. Z. estern. 


9 


13 LO STAGNO DI S."% GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 307 


UE 


Note ecologiche particolari. 


1. Zona esterna. 


Il profondo ed irregolare frastagliamento che presenta spesso il margine dello 
Stagno e la facilità e frequenza colle quali molti tratti vengono sommersi nei pe- 
riodi di piena, o semplicemente di alta marea, non permettono di precisare confini 
di spazio per questa zona. Ma per quanto irregolare e saltuaria essa sia, è però 
sempre nettamente distinta e caratterizzata dalla presenza delle comuni igrofite che 
si stabiliscono dappertutto in tutti i terreni freschi, e per quella ancora più signi- 
ficativa delle Salicornie, Suede, Salsole, ecc., che sono le igrofite saline, della riva 
marina. 

L'estensione è vastissima, ed i suoi confini più esterni, che nella parte meri- 
dionale sono segnati dalla Plaja, ad Occidente dalle colline di Capoterra e ad Oriente 
da quelle di Cagliari, sono indefiniti a Settentrione, dove le Salicornie continuano 
la loro vegetazione per molti Km. ancora verso l’interno, per quanto diradandosi 
a misura che i terreni si elevano sul livello del mare e le specie comuni vi si sta- 
biliscono. 

Molto spesso, poi, come tra Elmas ed Assemini, la vegetazione spontanea di 
questa zona si alterna con le comuni colture a campo, di cereali o di vite, o con 
quelle ad orto, le quali tutte sono rese possibili in quei tratti che si elevano di 
oltre un metro circa, sul livello dello Stagno. 

Intanto, per comodità di studio, dirò separatamente delle igrofite saline (Alofite) 
e delle igrofite comuni, avvertendo che la prima denominazione mi viene suggerita 
dalla lunga esperienza che ho delle piante saline, le quali sono costantemente legate 
al terreno dall'azione combinata dell’acqua e dei sali disciolti, e più dalla prima che 
dalla seconda. 


Igrofite saline (Halophytae). 


Queste piante sono estese a tutta la zona esterna dello Stagno, ma più parti- 
colarmente esse vegetano in corrispondenza dei due Bacini orientale ed occidentale. 
Il littorale della Plaja che confina con l’uno e con l’altro, ne è coperto per tutta 
la sua estensione, da Cagliari fin oltre la Maddalena, e presenta per questo riguardo 
la stessa costituzione botanica del littorale marino. Si nota solo la mancanza della 
Salsola Kali L., e quella di alcune specie ammofile, le quali tutte sono frequenti ed 
esclusive delle sabbie marine. 

Le Alofite più comuni e più diffuse che si osservano attorno allo Stagno, appar- 
tengono, come dappertutto, alla famiglia delle Chenopodiacee, e fra tutte predomi- 
nano i Chenopodi, le Salicornie, le Suede e le Salsole. Esse riescono qui oltremodo 
interessanti, poichè danno luogo a fatti di vegetazione molto istruttivi i quali ci 
mettono in grado di spiegare la loro generale ecologia in tutti gli altri terreni salati. 
Ne prenderò in esame alcuni fra i più importanti. 


308 ANGELO CASU 14 


Atriplex Halimus L., Qbione portulacoides Mog. Tand. — Sono specie 
perenni e legnose i cui fusti giovani e le foglie, senza eccezione, sono ricchi di 
parenchima clorofillifero carnoso. Queste specie formano macchie frequenti in mezzo 
ai prati umidi, oppure vengono coltivate a siepe attorno ai campi; e lo è special- 
mente la prima, poichè, in buone condizioni, assume lo sviluppo degli alti arbusti, 
ed i suoi lunghi rami vengono allora impiegati per diversi usi, per quanto modesti 
(Ver. élimu). 


Salicornia fruticosa L., Halopeplis strobilacea Ces., Arthocnemum 
glaucum Ung. Stern. — Sono le Alofite più interessanti, perchè sono le più carat- 
teristiche e le più diffuse. Sono anch’esse, specie perenni e legnose, afille e con 
giovani fusti muniti di parenchima corticale carnoso-succolento e clorofillifero, il 
quale dopo qualche anno di vegetazione si riduce e in parte suberizza. L'altezza 
delle piante si mantiene generalmente sotto il mezzo metro, e solo in pochi casi lo 
raggiunge o lo supera; e in tutti i modi, la parte basale del fusto è sempre contorta 
e di colore grigio oscuro. 

La vegetazione è costantemente sporadica, e le piante, le quali sono perciò lar- 
gamente disseminate, si comportano come individui solitari, ai quali è incompatibile, 
non solo il contatto di una specie differente, ma anche quello di individui simili. 
Il fatto è comune a tutte le A/ofite, ma viene presentato in grado diverso ed in 
maniera sempre più sensibile, quanto più è accentuata nelle specie vegetali la strut- 
tura alofitica; epperò, fra tutte, le Salicorzie sono quelle che vi danno luogo nel 
modo più generale ed evidente. Gli è perciò che la loro vegetazione è particolar- 
mente localizzata alle depressioni del littorale, dove, a causa della speciale struttura 
del terreno (1), è impedita la vita delle piante comuni. Si nota, che in questo caso 
anche esse sono ridotte a poveri sterpi e che questi sono, o possono essere, accom- 
pagnati da una microflora alofila indifferente (Hordeum maritimum With., Lepturus 
incurvatus Trin., L. filiformis Trin., Psilurus nardoides Trin., Statice sp., Plantago sp.), 
la quale offre gli esempi più sorprendenti di nanismo, e tali da non lasciar conce- 
pire delle forme più ridotte di queste, capaci di fiorire e di fruttificare. 

Questo eccezionale raggruppamento è, intanto, reso possibile dal fatto che la 
detta microflora non fa ombra alle Salicornie; ma queste scompaiono sempre ovunque 
sorga in loro contatto una specie ugualmente, o più, cospicua di esse. Ciò è reso 
evidente dal fatto che queste diradano a misura che, allontanandosi dalle depres- 
sioni, si avvicinano ai fiumi ed ai torrenti e si mischiano alle igrofite comuni, e 
scompaiono del tutto in quei vasti tratti ricoperti, specialmente, dalle graminacee 
vivaci. 

Un’ altra maniera singolare di distribuirsi è quella che viene presentata dalla 
Salicornia fruticosa L. e dall’Obione portulacoides Moq. Tand. È comune il caso che 
su una data estensione della dassa riva, vegeti solo la prima di queste specie e che 
poi in una estensione contigua vegeti solo Obione, e poi ancora Salicornia, e così di 
seguito in tutte le direzioni, tanto da risultarne degli appezzamenti limitrofi, resi 


(1) Cfr. Casu A., loc. cit., Lo Stagno di S.! Gilla, pag. 296. 


15 LO STAGNO DI S."% GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 309 


nettamente distinti dal colore glauco-pallido della prima e da quello grigio-glauco 
della seconda. Il fatto è così inesplicabile e fantastico, da far pensare più all'opera 
del capriccio che a quella della libera natura. 


Halopeplis strobilacea L. — È una specie affine alle precedenti, e fra 
tutte le Alofite è quella che rivela maggiore resistenza alle forti soluzioni saline. 
E spesso la sola che si osservi nelle insenature più interne, come in quella retro- 
stante al Ponte di Fangario, in contatto di soluzioni saline di 20°-24° B., e, più 
spesso ancora, col sale cristallizzato che incrosta la parte basale dei fusti. 


Salsola Soda L. — È pianta erbacea annua, a struttura eminentemente alo- 
fitica, fusto e foglie carnose e succolente, ma che però rivela il contegno di un’ Alo- 
fila indifferente. La sua vegetazione si estende, infatti, dalle sabbie della riva marina 
fino ai terreni più settentrionali del bacino dello Stagno dove la salinità del terreno 
discende ad un minimum che è tollerabile anche dalle specie non Alofite. Solo, che, 
la sua biologia ripete qui gli stessi fatti già notati per le Salicorrie, e, cioè, che le 
piante intristiscono nei prati dove crescono le igrofite comuni, mentre altrove, come 
sui rilevati del grande collettore, là dove questo si apre fra detti prati, esse furono 
le prime, e sono tuttora le sole, a costituire macchie visibili a grandi distanze. 

Altrove poi, come in alcuni tratti coltivati a grano (Triticum durum Des.) o ad 
orzo (Hordeum vulgare L.), l’inizio del suo ciclo vegetativo viene ritardato di più 
mesi, tanto che l'occhio non ne scopre ancora tracce, neanche, nel periodo della 
mietitura, Giugno-Luglio. Solo qualche tempo dopo, si osserva la comparsa delle 
piante fra le stoppie, quando, cioè, sulla riva marina e sugli argini del Collettore 
suddetto, le corrispondenti sono già progredite di molto. Ma in breve anche fra le 
stoppie assumono tale estensione e rigoglio di forme, che, nel Settembre e nell’Ot- 
tobre, mascherano ogni avanzo della cessata vegetazione. 


Cynomorium coccineum L. — È la sola Alofita che si conosca parassita 
in questo bacino. Si fissa e sviluppa sui fusti radicanti dell’ Obione portulacoides Moq., 
della Salicornia fruticosa L. e della Suaeda fruticosa Forsk. Osservo che i fusti della 
pianta parassita compaiono sempre allo scoperto in punti che sono alquanto lontani 
dalle parti epigee della pianta ospite, e difficilmente in prossimità del fusto. 


Suaeda maritima Dum., Salicornia herbacea L., Prankenia pulve- 
rulenta L., F. laevis L., Statice echioides L., S. virgata W., S. limo- 
nium L., Plantago Coronopus L., P. major L., Spergularia rubra Pers. 
— Sono diffuse a tutte le parti dello Stagno, e spesso costituiscono, nella zona 
esterna, un manto verde e continuo che sui tratti più freschi, forma l’anello di con- 
giunzione colle piante palustri. 


Inula crithmoides L. — È specie Alofila indifferente, per quanto la carno- 
sità dei fusti giovani e quella ancor più accentuata delle foglie, le diano l’aspetto 
di un’Alofita tipica. Essa vegeta prevalentemente nei fossati umidi; ma attorno al 
Bacino settentrionale, essa si avanza tanto verso l’acqua dello Stagno, da restarvi 


310 ANGELO CASU 16 


a contatto per qualche tempo, anche nell'estate. In quei tratti, poi, che restano 
sommersi nell’inverno e parzialmente coperti o acquitrinosi, essa acquista tale esten- 
sione da imprimere da sola la nota dominante a tutto il paesaggio botanico. In questo 
modo si comporta come le piante palustri, e forma con esse delle associazioni, a 
differenza delle altre Alofite tipiche, che vivono solitarie. 


Aster Tripolium L. — Si comporta analogamente alla specie precedente, però 
vi è molto meno diffusa e non forma dei cespugli. 


Igrofite comuni. 


Favorite dall'azione dell’acqua dolce dei fiumi e dei torrenti, queste piante co- 
prono estensioni considerevoli della Zona esterna del Bacino settentrionale, costituen- 
dovi praterie che si distendono in tutte le direzioni per più Km. 

Esse comprendono igrofite esclusive ed igrofite preferenti. 

Le igrofite esclusive sono quelle che imprimono la facies a tutta questa zona, non 
tanto per il numero delle specie, quanto per l'estensione della loro vegetazione, e 
per la conspicuità delle forme che molte di esse vi assumono. 

Le specie arboree, pertanto sono pochissime, e si riducono alle seguenti: Po- 
pulus alba L., P. nigra L., B pyramidalis Roz., Salix babylonica L., S. alba L., cui pos- 
sono aggiungersi Tamarix gallica L., T. africana Poir. e Sambucus nigra L. La loro 
deficienza è resa ancor più sensibile all'occhio dal fatto che esse vi sono rappre- 
sentate da pochi gruppi radi e lontani fra loro. Talchè l'aspetto generale del pae- 
saggio botanico è dato dalle specie erbacee, e più specialmente da quelle più co- 
spicue, fra cui: 

Althaea officinalis L., Xanthium strumarium L., Helminthia echioides Gaert., 
Plagius ageratifolius L' Her., Lythrum salicaria L., Oenanthe fistulosa L., Heracleum 
sphondylium L., Cirsium giganteum Spr., O. italicum Seb. et Maur., Senecio erraticus 
Bert., Euphorbia pubescens Vahl. 


Nei tratti più umidi ed in vicinanza dell’acqua vegetano particolarmente le 
Cyperacee e le Graminacee, quali Carex hispida Willd., Agrostis vulgaris Wither., 
Festuca arundinacea Schreb., Panicum repens L., Agropyrum scirpium Presl., A. acutum 
R. et Sch., Phalaris nodosa L., e le seguenti specie di forme più modeste, Poly- 
pogon monspeliense Desf., P. maritimum W., Panicum Crux-Galli L., Carex extensa 
Good., C. divisa Huds., C. praecor Jacq., Cyperus badius Desf., che in vario modo 
associate costituiscono pascoli freschi ed ambiti. 


Crypsis schoenoides Lam. e C. aculeata Ait. — Sono due specie degne 
di nota particolare. Sono due graminacee di piccole dimensioni, cespitose e pro- 
strate, le quali vegetano, durante la stagione estiva e parte dell'autunno, sul fondo 
prosciugato dei fossati e delle gore, nonchè sulla superficie dei pantani, dove, coi 
loro culmi abbondantemente ramificati alla base e spesso agli internodi (i quali in 
mancanza di rami sono però sempre spigati), formano fitte rosette di varia esten- 
sione a seconda della natura del terreno. 


17 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 811 


Di esse, la prima è specie rara e sporadica, ed ha culmi glauchi e relativamente 
lunghi (dai 20 ecm. ai 40), con internodi da em. 2 a 7. 

La seconda, 0. aculeata Ait., è molto più piccola, ma in compenso è più diffusa 
e forma da sola fitti tappeti, cui le due spate involgenti la spiga, dal colore giallo- 
oeraceo, e rigide ed acute, danno l'aspetto di residui intristiti che la voracità del 
bestiame non abbia potuto strappare del tutto al suolo. Ma in realtà le piante sono 
integre, o quasi, e devono la loro salvezza, oltre che alla loro posizione prostrata, 
alla presenza delle due spate rigide, involgenti e sopravanzanti la spiga. 


Juncus sp. e Tamarix sp. — Hanno vegetazione estesissima, oltre che nel 
Bacino settentrionale, anche a Nord di quello occidentale, dove specialmente si 
hanno Giuncheti e Tamariceti impenetrabili, e dove l’esplorazione è difficilissima e 
piena di pericoli. Nell'inverno, le acque di pioggia che vi ristagnano a lungo, ne 
trasformano il suolo in pantani profondi ed estesi, e spesso insidiosi, poichè molti 
tratti restano mascherati dai rami dei Tamarici e da giunchi piegati. Anche nella 
stagione estiva, quando tutto prosciuga, non sì può procedere che per brevi tratti 
saltando sui cespugli dei giunchi, i quali, pertanto, sorgono su vaste zolle circolari, 
scalzate alla base dall’azione dell’acqua nel periodo dell’inondazione, e rese consi- 
stenti dall’intreccio delle radici delle piante. 

Un giuncheto puro ed esteso, si osserva sotto Capoterra, dove tra i culmi potei 
osservare solo rari esemplari di Senecio leucanthemifolius Poir., e in qualche tratto 
scoperto, anche Salicornia herbacea L. e Suaeda maritima Dum. 


Glyceria maritima Metk. — Fu raccolta la prima volta dal Bellî sul mar- 
gine dello Stagno dalla parte della Scaffa, ove era stata rigettata dalle acque. Fu 
indi trovata sugli argini e sulle dune che sorgono nell’ interno del Bacino. Meno 
frequenti sono le due specie affini già citate dal Gennari (1), e cioè G. distans Wahl. 
e G. convoluta Fr. 


Rumex pulcher L., R. crispus L., Chenopodium urbicum L., Ly- 
copus curopaeus L., Teucrium Scordium L., Eryngium Barrelieri 
Boiss. — Sono specie caratteristiche dei fossati umidi, e alcune, come le prime due, 
possono avanzarsi fino ai pantani. 


Cressa cretica L., Heliotropium supinum L., Mentha Pulegium L., 
M. insularis Req. e Molltugo hirta Thunb., sono proprie del piano umido, e 
difficilmente se ne allontanano. Analogamente dicasi di Linaria spuria Mill. e 
Verbena supina L., per quanto meno rigorosamente delle prime. 

Le igrofite preferenti sono specie delle stazioni più diverse, dei dintorni e del- 
l'interno, d'onde le acque, i venti, ecc. le tolsero trasportandole in questo bacino, 
e dove pertanto esse ripetono in maniera più o meno completa le associazioni 
originarie. 


(1) Gexsari P., Repertorium Florae Calaritanae et Horto sicco Accademico. Cagliari, ex Tipog. 
quondam A. Timon., 1890. 


312 ANGELO CASU 18 


Gli elementi più preminenti sono: Daucus Carota L., D. gummifer Lam., Dip- 
sacus feror Lois., D. sylvestris Mill., Atractilis cancellata L., Inula viscosa Ait., La- 
vatera arborea L., i quali accompagnano dappertutto le igrofite esclusive, di cui as- 
sumono l’habitus completandone il paesaggio floristico. Le piante di questo gruppo 
sono generalmente disseminate, ma esse fanno anche parte di piccole macchie che 
vengono qui ricostituite da elementi caratteristici, quali Smilax aspera L., Rubus 
discolor Weih., Prunus spinosa L., Crataegus oxyacantha L., Lonicera implera Ait., 
unitamente a: 

Melica Magnolii Gren. et Godr., Piptatherum multiflorum P. B., Asparagus albus L., 
A. acutifolius L., A. AphyUlus L., Convolvolus arvensis L., Lycium europaeum L., Co- 
nium maculatum L., Smyrnium Olusatrum L., Epilobium tetragonum L., Foeniculum 
piperitum Gilib., Magydaris tomentosa D. C., Rubia tinctorum L., Artemisia arbore- 
scens L., Asteriscus spinosus Gren. et Godr., ed altre avventizie. 

Qualche volta fanno parte di questi gruppi anche l’ Atripler Halimus L., ed, in 
qualche più raro caso, la Suaeda fruticosa Forsk., ciò che costituisce una vera ecce- 
zione alla biologia delle Alofite. Così pure, fra queste igrofite preferenti, riesce oltre- 
modo interessante il contegno del Trifolium repens L. (dai fusti prostrati), il quale 
unitamente al Plantago Coronopus L. (Alofita dalle foglie a rosetta basale) copre 
vaste estensioni di questa zona esterna, fra Elmas e Assemini. 

Dalla parte di Capoterra, poi, e sempre a Nord del Bacino occidentale dello 
Stagno, si avanzano qualche volta fra le igrofite, alcuni elementi della macchia mediter- 
ranea, quali Anagyris foetida L., Phillyrea variabilis Timb., Pistacia Lentiscus L., e 
Cistus monspeliense L., i quali unitamente ad altre essenze che caratterizzano detta 
macchia, sono da quella parte molto diffusi, coprendo il piano’ che va lentamente 
elevandosi fino ai piedi dei monti vicini. 


Cynodon Dactylon Pers., Lolium rigidum Gaud., Brassica cam- 
pestris L., Ecballion Elacterium Rich., Centaurea sphaerocephala L., 
C. Schouwsii D. C., C. Calcitrapa L., sono tali igrofite preferenti, che, non solo 
si localizzano ai prati umidi, ma si avanzano anche in contatto dell’acqua dello Stagno 
e dei fossati, assumendo dappertutto sviluppo insolito. 


Considerazioni. 


La vegetazione di questa zona esterna dello Stagno, considerata nel complesso 
di tutte le forme che la costituiscono, è molto variata per numero di specie, e per 
le molte stazioni e sottostazioni botaniche di cui esse sono le rappresentanti. 

Il grande gruppo delle igrofite saline (Alofite comuni), occupa da solo il littorale 
della Plaja, e si estende poi a tutte le altre parti della riva dello Stagno, fino alle 
più settentrionali, làù dove l'influenza dei fiumi e dei torrenti ha fissato le igroffte 
comuni; solo che ivi esso viene diradato e spesso mascherato. 

In tutti i casi, sulla Plaja ed a Nord dello Stagno, la loro vegetazione è sempre 
disseminata o sporadica, e ciò costituisce una caratteristica ecologica importante 
per queste piante, ed è tanto più manifesta, quanto più nelle piante stesse è accen- 
tuato il carattere alofitico (fusti e foglie carnose e succolente). Per questa ragione le 


19 LO STAGNO DI S.T4 GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 313 


Salicornie, le Suede e le Salsole sono le Alofite che presentano, nella loro vegeta- 
zione, la detta caratteristica nella maniera più tipica e costante, tanto, che piante 
di una stessa specie, difficilmente si riuniscono a costituire gruppi tra loro, e meno 
ancora con altre non alofite. Si nota tuttavia, che alcune (Plantago Coronopus L., 
P. crassifolia Moris, Spergularia rubra Pers., ecc.), le quali hanno un habitus alofitico 
medio o inferiore, si mischiano e associano, tra loro e con altre igrofite comuni (Pa- 
nicum repens L., Cyperus badius Desf., Carex sp., Trifolium repens L., ecc.), della 
stessa entità, e costituiscono con esse il tappeto di vegetazione che ricopre i vasti 
piani littoranei che si distendono all’altezza di Elmas e di Assemini. 

Una sola Alofita, l'Inula crithmoides L., fa eccezione alla regola, poichè, posse- 
dendo anche l'adattamento delle igrofite comuni (fusti ipogei tuberizzati e radicanti), 
è dappertutto una forte concorrente di queste ultime e delle forme biologiche affini. 

Intanto si può concludere : 

1° La vegetazione della zona esterna dello Stagno è costituita da specie preva- 
lentemente erbacee, le quali derivano dalle diverse stazioni botaniche circostanti, ma par- 
ticolarmente da quella marina e da quella di fiume; 

2° Le igrofite saline, derivate dal littorale marino, sono presenti in tutte le parti 
della zona esterna, mentre le igrofite comuni sono localizzate ai tratti influenzati dal- 
l’acqua di fiume; solo che în questo caso, e per essere queste meglio adatte nella lotta 
per la conquista dello spazio, le prime si riducono ad occupare è punti littoranei rimasti 
eventualmente scoperti dalle seconde. 


2. Zona palustre. 


Questa zona di vegetazione è la più interessante fra tutte per il modo come 
si distribuisce nelle diverse parti dello Stagno, e per la differenza degli elementi che 
volta a volta la costituiscono. 

Essa è localizzata alla parte periferica dello specchio acqueo, su di un substrato 
melmoso o pantanoso, a seconda che resta sommerso, oppure no, per tutto l’anno. 
È irregolarissima, e presenta dei profondi e vasti addentramenti nella zona esterna 
circostante; tuttavia, è, pur essa, dappertutto nettamente distinta, oltre che dal 
caratteristico substrato, anche dalla presenza delle tipiche piante palustri. 

Nel Bacino settentrionale essa forma una cornice continua, interrotta solo in 
qualche punto di approdo, od in qualche altro, in cui lo Stagno possiede un argine 
naturale alquanto elevato (S.# Maria-P.!@ Corru.....). 

Questa cornice continua poi, ma in maniera molto saltuaria, sul lato Nord del 
Bacino occidentale (Capoterra-Su Loî); manca completamente lungo tutta la riva 
della P/aja, e su quella del Bacino orientale confinante col Borgo della città di Ca- 
gliari. Da questa parte si nota però un gruppo di cannuccie presso la piccola sor- 
gente di S. Paolo, ed altri gruppi alquanto complessi verso la punta di Cotteruxi 
(V. Tav.). Ricompare sempre, attorno alle dune che sorgono nel mezzo dello Stagno, 
e sul lato settentrionale dell’Isolotto di S. Simone. : 


La vegetazione è costituita da un complesso di specie rizomatose o stolonifere, 
1 


Serie II. Tox. LXII. (o) 


SI4 ANGELO CASU 20 


le quali, come nei comuni bacini lacustri (1), sì dispongono con un dato ordine di 
successione, il quale è rigorosamente costante. Così, procedendo dall’esterno verso 
l'interno, si ha sempre il Phragmitetum, Typhatum e Scirpetum. Spesso gli elementi 
di un gruppo si associano a quelli di un altro, ed anche in questo caso conservano 
l’ordine precedente. Ma in generale si ha che i gruppi più interni sorgono dall’acqua 
come cespugli puri costituiti da una sola specie, distanti tra loro, e tanto più radi 
e piccoli quanto più sono lontani dalla riva. La massima larghezza della cintura 
palustre così costituita, è di circa un Km. 

In tutti questi differenti gruppi, non figurano mai delle Alofite palustri vere e 
proprie; tuttavia si osserva che nell'estate, molte Alofite della zona esterna, inva- 
dono i pantani scoperti e periferici. Tali sono: Hordeum maritimum With., Salicornia 
herbacea L., Suaeda maritima Dum., S. setigera Moq., Atriplex patula L., A. hastatum L., 
A. crassifolia Koch., Salsola Soda L., Statice Limonium L., S. virgata W., Plantago 
major L., le quali sono tutte specie annue. Difficilmente si osservano esemplari di 
Salicornia fruticosa L. e di Suaeda fruticosa Forsk.; e così pure è difficile osser- 
vare una qualunque forma alofitica in contatto continuo coll’acqua libera; ciò potrà 
avvenire nei momenti di alta marea, ma in generale si ha, che, esse vegetano sempre 
su di un substrato emerso. 

Ma l’alofita, che anche in questo caso costituisce l’eccezione, è l’Inula crithmoides L., 
già ricordata, la quale assume qui tanta importanza da rivaleggiare in rigoglio ed esten- 
sione colle comuni piante palustri. In tutti i casi, neanche questa specie si localizza 
in tratti del fondo che restino per lungo tempo sommersi, epperò anch'essa dev'es- 
sere considerata qui, come una forma avventizia, derivata dalla zona esterna. 


Scirpus lacustris L., S. Holoschoenus L. — Sono le due specie che più 
sì avanzano nell’interno dello Stagno, allontanandosi più centinaia di metri dal lido. 
La prima costituisce spesso da sola iî cespugli più interni, ma in tutti i casi la pro- 
fondità dell’acqua non sorpassa che raramente il mezzo metro. 


Scirpus maritimus L. — È la specie palustre più diffusa e si presenta ora 
associata alle due precedenti ora da sola a costituire Scirpetà estesissimi sul lido 
acquitrinoso dello Stagno, o attorno alle dune interne. È conosciuto qui col nome 
volgare di fenu (fieno), e sul finire dell’estate viene mietuto in grandi quantità e 
composto in piccoli manipoli che vengono impiegati per la copertura e per il rive- 
stimento delle baracche di campagna. 


Cyperus longus L. (0. Preslii Parl.). — È pur esso molto esteso ed è cono- 
sciuto col nome di sessini. Gli scapi e le foglie, disseccati, sono usati per legami. 


Tiypha latifolia L., T. angustifolia L. — Sono anch'esse delle specie che 
si avanzano nell’ interno dello Stagno, e la seconda più che la prima. Tuttavia è 


(1) Forri e Trorrer, Materiali per una Monografia Limnologica dei Laghi craterici del M. Vulture, 
Suppl., vol. VII, © Annali di Botan. ,, Roma, 1908. — Ta. Herzo, Ueber die Vegetationsverhdltnisse 
Sardiniens. Leipzig, “ Engler's Botanischen Jahrbichern ,, 1909. 


21 LO STAGNO DI S.F* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 815 


comune il caso di vederle vegetare in tratti che nell’estate restano superficialmente 
asciutti. Anche queste specie hanno una grande utilità locale, poichè, ancor prima 
della comparsa degli scapi fiorali, vengono mietute dalla base, e indi disseccate sono 
impiegate per tessere stuoie ed altri rivestimenti coibenti. 


Arundo Donax L., Phragmites communis Trin. — Sono le specie che 
sì avanzano meno nell’interno dello Stagno, e generalmente vegetano in tratti che 
restano scoperti dall'acqua almeno per buona parte della Stagione estiva. Tuttavia, 
la seconda di esse è la pianta palustre più diffusa e costituisce da ‘sola, o asso- 
ciata alle altre già viste, la cintura esterna della Zona palustre e quella delle dune 
e delle isolette dell'interno, dando luogo a fragmiteti, puri o misti, impenetrabili ed 
estesi più ettari. Spesso i culmi si adagiano sulla superficie dell’acqua, dolce o sa- 
lata, e vi raggiungono lunghezze insolite (anche di 10 m.), con internodi pure lun- 
ghissimi e foglie piccole, tanto che nell'insieme, e per il portamento genicolato, 
assume l’aspetto della Bamdusa. 


Considerazioni. 


L'estensione che assume la zona palustre, in questo Stagno, è considerevole se 
viene considerata nel suo complesso (3 Kmq. circa), ma è relativamente piccola in 
confronto alla superficie dell’intero specchio acqueo (40-50 Kmq.). Essa, poi, manca 
completamente, o quasi, sul lido della Plaja e su quello confinante col sobborgo di 
Cagliari, per una lunghezza cioè di oltre 20 Km., e ciò nonostante il paludismo 
accentuato dello Stagno, da quelle parti. Ciò devesi, come notai altrove, all’azione 
repulsiva dell’acqua marina, la quale, però, non è la stessa per tutte le specie, ma 
essa è massima, p. es., per Zypha latifolia L. e Oyperus longus L., mentre è minima 
per la Phragmites communis Trin. 

E se anche quest’ultima manca in molte parti dello Stagno, gli è che la sua 
resistenza è messa a tutta prova dalle concentrazioni saline ipertoniche che vi rag- 
giunge nell’estate l’acqua marina. 

In tutti questi casi non si ha un solo esempio di pianta palustre che vegeti 
continuamente in ambiente di acqua fortemente salata, ma si verifica sempre che 
per un più lungo periodo dell’anno essa resta in contatto di acqua di fiume o debol- 
mente salmastra. 

Riassumendo si può concludere : 

1° La vegetazione palustre è poco estesa in questo Stagno in confronto alla estesa 
superficie di quest'ultimo ed al suo paludismo accentuato; e pertanto detta vegetazione è 
localizzata specialmente ai tratti più settentrionali della riva, che è direttamente in- 
fluenzata dai fiumi e dai torrenti, e ciò a causa dell’azione repulsiva che esercita 
l’acqua marina nelle parti più meridionali e specialmente su quelle confinanti colla 
Plaja e colla Città; 

2° Le specie palustri rivelano un differente grado di resistenza fisiologica all'azione 
dell’acqua salata, e, fra tutte, la Phragmites communis Trin. è quella che meglio sop- 
porta il contatto prolungato delle forti concentrazioni. Però, mentre la loro presenza 
nelle diverse parti dello Stagno è una funzione di questa differente resistenza, V’ordine 
di successione rigorosa che le stesse conservano sul fondo dello Stagno a partire dal 
margine è una funzione dei caratteri specifici di adattamento palustre. 


DO 
(iS) 


316 ANGELO CASU 


3. Zona stagnale. 


Le specie vegetali che appartengono a questa Zona non sono molto numerose, 
ma in compenso alcune di esse hanno una vegetazione molto vasta. 


Si notano: 


Potamogeton natans L., P. pectinatus L., P. crispus L., Zannichellia palustris L., 
4. dentata W., Lemna gibba L., L. minor L., Butomus umbellatus L., MyriophyUlum 
spicatum L., Callitriche stagnalis Scop., Ruppia maritima L. 


Queste poche specie sono tutte localizzate al Bacino settentrionale dello Stagno, 
cioè a quella parte in cui si scaricano direttamente i fiumi, donde pertanto le dette 
specie derivano. 

L’area che ciascuna di queste occupa non è la stessa per tutte, e mentre al- 
cune sono estese a tutto questo Bacino, altre invece si allontanano di poco dalle 
foci dei corsi di acqua. 


Potamogeton pectinatus L. — È la specie stagnale che più si avanza 
verso il mare, allontanandosi oltre 5 Km. dalla foce dei fiumi. La sua vegetazione 
si ferma all'altezza della punta di Cotteruxi (v. la Tav.), a qualche Km. a Nord 
dell’Isolotto di S. Simone ed a breve distanza dai gruppi di piante palustri più me- 
ridionali dello Stagno. 

La specie in esame è perciò, la prima che si presenta a chi, passando dalla 
vasta insenatura di Fangario, penetra nel Bacino settentrionale, ove sono poi diffuse 
a tutte le parti del fondo e donde risalgono indi i fiumi. Il fenomeno biologico cui 
essa dà luogo in dipendenza delle particolari condizioni di ambiente in cui vegeta, 
consiste in ciò, che la fioritura delle piante si inizia nel Giugno nel limite più me- 
ridionale della zona, e poi si propaga, durante i mesi di Luglio e di Agosto, a tutte 
le altre piante che stanno successivamente a Nord. In questo modo si ha che, mentre 
le ultime fioriscono alla foce dei fiumi, le prime sono già fruttificate, e spesso scom- 
parse dalla superficie dell’acqua. 


Potamogeton natans L., MyriophyWlum spicatum L. — Sono specie 
che si allontanano solo poche centinaia di metri dalla foce dei fiumi. Anche qui, 
l’inizio della fioritura avviene nell’Agosto, a partire dalle piante più avanzate nello 
Stagno, e si continua poi in quelle poste alla foce dei fiumi, costituendo nel Set- 
tembre, e dappertutto, delle zone violacee più o meno estese alla superficie dell’acqua, 
con l'apice delle loro spighe galleggianti. 

Si nota poi, che le piante più meridionali vengono plasmolizzate ed uccise dalle 
forti soluzioni saline che arrivano in loro contatto, nell'estate. 


Butomus umbellatus L. — Si osserva per la prima volta alla foce del fiume 
Manno (Grande collettore), che poi risale e dove si estende. Non ha rappresentanti 
nel vero specchio acqueo dello Stagno. 


(9) 
(00) 


LO STAGNO DI S.TÀ GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 317 


Zannmichellia palustris L., Z. dentata W. — Non si trovano mai nello 
specchio libero dello Stagno, nè in quello dei fiumi. Le ho sempre osservate nelle 
cave di prestito del Grande canale collettore e nelle conche o depressioni littoranee, 
come a S. Paolo e sotto Capoterra, dove l’acqua è tranquilla e poco profonda. 


Lemna minor L. — Questa specie si può trovare dappertutto ove vegetano 
piante palustri e l’acqua sia tranquilla. 


Lemna gibba L., Callitriche stagnalis Scop. — Non si osservano mai 
nello specchio dello Stagno, ma si fermano fra i folti cespugli di piante palustri 
che sorgono allo sbocco dei torrenti. Penso che anche queste sieno specie di debole 
resistenza all’azione dell’acqua salina, poichè nel periodo estivo la superficie del- 
l’acqua si copre spesso di piantine ingiallite e morte. 


Ruppia maritima L. — È una forma cosmopolita in questo Stagno, ed è 
la sola che vegeti indifferentemente in tutte le sue parti, tanto in ambiente di 
acqua salata, quanto in ambiente di acqua dolce. Solo, devesi notare, che le piante 
sono più abbondanti in quei tratti del fondo che restano scoperti da ogni altra 
vegetazione. 


Considerazioni. 


La zona stagnale è limitata al Bacino settentr. dello Stagno, e comprende, 
anch'essa, specie essenzialmente erbacee, le quali provengono dall'interno dei fiumi, 
e che qui si adattano a vegetare in condizioni molto differenti da quelle dell’am- 
biente di origine. 

Sotto questo riguardo, il Potamogeton pectinatus L. è la specie che pre- 
senta il maggior interesse per la vasta estensione che vi assume (circa 15 Kmq.), 
e sia perchè, mentre si rivela così la più resistente all’azione delle forti concentra- 
zioni saline (che nell'estate sono isotoniche a quella dell’acqua marina), ne palesa anche, 
nel modo più evidente, gli effetti. 

Tutte le altre specie stagnali vi hanno una estensione minore, tanto che molte 
di esse non escono dalla foce dei fiumi, dove la salinità massima si mantiene, anche 
nell'estate. sotto 1° B. 

Intanto, il fatto più interessante cui dà luogo l'ecologia di queste piante, in un 
ambiente salino così variabile, consiste in ciò, che la loro fioritura nello specchio 
stagnale è relativamente precoce e, per tutte le specie, si inizia in tempi diversi a 
partire da quelle più meridionali, mentre avviene qualche tempo dopo. e simulta- 
neamente, nell'ambiente normale dei fiumi. 

Il fatto coincide col graduale elevarsi della concentrazione salina dell’acqua 
dello Stagno, durante la primavera e tutto l’estate, epperò non si può mettere in 
dubbio l’infuenza del sale. 

Basterà ricordare che la salinità dell’acqua, nel Bacino settentrionale, assume 
tutte le gradazioni comprese fra 0° B e 3°,8 B. dall'inverno all'autunno, e che di- 
luisce poi e ridiscende a 0°, col sopravenire delle pioggie. 


918 ANGELO CASU 24 


Posto ciò, le piante, durante il loro ciclo vegetativo ed in qualunque punto si 
trovino di questa parte di Stagno, sopportano tutte le concentrazioni saline che, 
gradatamente sempre più elevate, vi si determinano attraverso la primavera e l’estate, 
ed il massimo di questa concentrazione è evidentemente tanto più alto quanto più il 
punto che si considera è lontano dalla foce dei fiumi. 

Concludendo, i fatti più importanti possono essere così riassunti: 

1° La vegetazione stagnale è limitata al Bacino settentrionale, ed è costituita da 
specie tratte dai fiumi, le quali assumono nel nuovo ambiente una diversa estensione in 
dipendenza della differente resistenza specifica che ciascuna presenta all’azione delle con- 
centrazioni saline; 

2° Un effetto generale ed evidente dell’azione di queste concentrazioni saline sulle 
piante tutte, consiste nell’antecipazione della fioritura in quelle che sono più meridionali 
e che vi sono prima esposte. 


4. Zona sommersa. 


Questa zona comprende piante essenzialmente acquatiche, le quali, cioè, com- 
piono interamente sotto acqua il loro ciclo vegetativo. Vi appartengono molte specie 
crittogame e poche fanerogame, le quali tutte costituiscono un complesso che si 
estende a tutto. il fondo dello Stagno, ove si distribuiscono sempre a seconda del- 
l'influenza dell’acqua del mare o di quella dei fiumi. 

Il presente esame è, come già scrissi, limitato alle macrofite, poichè la ricerca 
del fitoplankton si presenta qui di una difficoltà estrema, giacchè, come feci notare 
altrove (1), la navigazione coi sandali, piccoli e leggeri, è mal sicura nell'inverno 
essendo la superficie dello Stagno fortemente battuta dai venti, ed è altrettanto dif- 
ficile e pericolosa nell’estate, per la secca generale di tutto il bacino. I vasti settori 
compresi fra i canali, o le direzioni dei canali, sono in questo caso ingombri di 
masse di alghe le quali sono impenetrabili; e in tutti i modi ne pone in sospetto 
che qualche specie macrofita propria dell’ estate, oppure dell’ inverno, sia sfuggita 
alle presenti ricerche; se ciò fosse, non tarderà ad essere rintracciata, unitamente 
alle microfite, nelle esplorazioni che in questo senso mi propongo di continuare. 


Ulva sp. — Alcuni esemplari furono staccati dalle facce interne delle sco- 
gliere che arginano e prolungano a mare il canale della Scaffa. Le correnti marine 
ne trasportano spesso i talli nell’interno dello Stagno, però non ho mai potuto ve- 
derli fissati ad alcun substrato del fondo. 


Enteromorpha lanceolata Rabenh. — È molto comune in quelle parti 
dello Stagno che confinano colla Plaja e che contengono prevalentemente acqua 
marina, e vegeta attaccata alle pietre del fondo ed alle conchiglie. La specie vi 
è rappresentata da tre varietà: c) crispata L. Jol., d) angusta Ktz., e) laetevirens 
Piccone, le quali sono tutte abbondanti. 


(1) MA CAs ollare: 


25 LO STAGNO DI S.'% GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 319 


; E. compressa Grev. — E rappresentata dalla varietà g) crispa Rabenh., la 
quale si comporta come le precedenti. 


E. salina Ktz. — È comunissima in tutte le parti dello Stagno, e vegeta fis- 
sandosi ai substrati subacquei i più differenti. 


E. intestinalis Link. — E la forma che più abbonda nello Stagno, con un 
buon numero di varietà, le quali presentano un contegno differente a seconda della 
salinità dell’acqua. 


e) marima Rabenh. e d) Corrucopiae Rabenh., sono abbondanti sulle scogliere 
del canale della Scaffa, su quelle più interne dello Stagno e sui massi della riva e 
-del fondo, però sempre limitatamente a quelle parti che contengono acqua marina. 
La vegetazione è per questo fatto molto estesa nell’estate e molto ridotta nel- 
l'inverno, 

b) dullosa Rabenh. e c) tudulosa Rabenh., sono le forme più interessanti e 
più diffuse; vegetano indifferentemente nell'acqua marina e nella salmastra, ma si 
mostrano ambe preferenti di quest’ultima. 


La c) tudulosa Rabenh., dal tallo delicato lungo, e ramificatissimo, si osserva già 
in esemplari sporadici e molto ridotti, nel primo tratto marino dello Stagno, asso- 
ciata a specie affini, od isolata. 

Ma più oltre la Peschiera di Sf Gilla, nella grande insenatura di Fangario, 
dove la concentrazione salina dell’acqua è nella buona parte dell’anno più bassa di 
quella del mare, questa forma costituisce una vera prateria. i 

Il suo tallo cespuglioso vi simula piccole balle di cotone attaccate al fondo e 
mollemente cullate dall'acqua. E del cotone possiedono non solo la forma, ma anche 
il colore grigio-chiaro, più o meno modificato. Ciò devesi al fatto che i cloroplasti 
vengono parzialmente disorganizzati dalla forte concentrazione salina che vi assume 
l'acqua nella stagione estiva, la quale può raggiungere anche i 10° B. L'azione plasmo- 
lizzante di questa soluzione, è qui molto evidente, e gli effetti sono tanto più sensibili 
quanto più si osservano esemplari di alghe che vegetano nelle parti più interne 
della insenatura. 

Effetti analoghi rivelano del resto tutte le altre forme, ma la varietà in di- 

scorso è quella che offre il fenomeno in modo più esteso, anche perchè essa si è 
rivelata fra tutte la meno resistente all’azione dell’acqua marina. 

Ma oltre l’insenatura di Fargario, extra corrente, e dove la salinità è di molto 
inferiore a quella dell’acqua marina, le due varietà b) dullosa Rabenh. e c) tudu- 
losa Rabenh. presentano sviluppo e colorazione normale, e spesso assumono forme 
vegetative rigogliose. Per questo riguardo è particolarmente notevole la seconda per 
un fatto cui essa dà conseguentemente luogo e di cui ho già fatto cenno. 

Il tallo presenta qui l’asse centrale molto allungato, spesso oltre un metro, 
e con numerose ramificazioni lunghe, filiformi e delicate, le quali tutte, a guisa 
di coda di cavallo, si piegano sempre nella direzione dell'onda. Questi talli così 
foggiati sono liberi nei loro movimenti finchè sono piccoli, ma dopo avere raggiunto 
certe dimensioni succede che molti di essi, piegati nella stessa direzione, si sovra- 


320 ANGELO CASU 26 


pongano, ed allora avviene che l'estremità libera dell'uno si leghi all’estremità fissa 
dell'altro, e così per più volte e in modo da costituire un tutto continuo che può 
raggiungere la lunghezza di 10 m. Avviene pure che in tutti questi movimenti, le 
ramificazioni si avvolgano attorno all’asse principale legandovi strettamente dei fru- 
stoli galleggianti, foglie di ruppie, fusti di potamogeton, ecc.; non solo, ma i nuovi 
talli che si sviluppano su questi primi cordoni, vi si avvolgono, ingrossandoli, e 
legandoli tra loro in modo da risultarne dei veri cavi. 

Dissi già che questi cordoni sono direttamente o indirettamente fissati al fondo, 
e che in tutti i casi, colle loro ramificazioni che si aggrovigliano con quelle dei 
cordoni vicini, costituiscono dei reticolati fittissimi in cui s'impiglia e viene tratte- 
nuto qualunque corpo vi arriva in contatto, e particolarmente i talli della varietà 
affine b) dullosa Rabenh. Si iniziano così, nell'estate, delle masse algose caratteri- 
stiche, le quali aumentano sempre più in estensione e finiscono coll’occupare i settori 
stagnali che restano compresi fra le direzioni delle correnti. Esse comunicano all’am- 
biente un senso di triste squallore, poichè i talli che vengono alla superficie in con- 
tatto dell’aria muoiono e marciscono annerendo e dando luogo a sviluppo di gas fetidi 
che ammorbano l’aria. Intanto queste masse vengono conosciute in sito col nome di 
lupponi, e finchè durano, sono impenetrabili ai sandali; ma in compenso esse diven- 
tano presto preziosi vivai di crestacei (granchi, gamberi di mare, ecc.). di cui i pesca- 
tori di anguille fanno tesoro, come esca. 

Col sopravenire delle pioggie autunnali, o più tardi nell'inverno, queste zone 
putrescenti vengono ricoperte dall’acqua e cadono al fondo dove si dissolvono, op- 
pure, meno frequentemente, sono strappate e rigettate dalle correnti sul lido. 

Il fenomeno è generale ai due Bucini orientale ed occidentale, mentre è poco 
frequente in quello settentrionale, forse a causa della profondità della sua conca 
centrale, ed anche perchè il fondo circostante, e meno elevato, è ricoperto da altra 
vegetazione che si rivela più adatta. 


Chaetomorpha aerea Ktz. — Vegeta nei due bacini orientale ed occiden- 
tale in contatto con l’acqua marina. Il suo tallo filamentoso e rigido, pallido o de- 
colorato alla parte superiore, dà luogo alla formazione di masse caratteristiche che 
poggiano sul fondo e che per essere le parti verdi basali mascherate dalle parti 
soprastanti pallide, simulano masse di grosso spago, il cui colore, pertanto, si con- 
fonde spesso con quello grigio-chiaro del limo del fondo. 

Queste masse vengono staccate facilmente dalle loro matrici col moto radente 
dei sandali, e sovraponendosi le une alle altre e aggomitolandosi più strettamente, 
formano grosse balle su cui i sandali stessi rimangono spesso in bilico. Ciò avviene 
sovente nella stagione estiva, ed allora il disincagliarsi a furia di remi è spesso 
impossibile, ed è necessario buttarsi in acqua e spingere l'imbarcazione a braccia; 
ma anche ciò non è sempre consigliabile, poichè in molti punti si rischia di affon- 
dare nel limo. 


Ch. Linum Ktz. e Ch. rigida Ktz. — Presentano contegno analogo alla 
precedente. 


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I 


LO STAGNO DI S.A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 321 


Cn. crassa Ktz. — È comunissima, ed è caratteristica perchè i suoi talli fila- 
mentosi staccati dalla matrice e agitati dall’onda si aggrovigliano tra loro impi- 
gliando ogni altro frustolo e costituendo pallottole caratteristiche che vengono 
rigettate sulla riva e che ricordano quelle della Posidonia Caulini Kénig. della op- 
posta riva marina. 


Cladophora ramulosa Meneg., C. vadorum Ktz., C. fracta Ktz. — Sono 
frequenti nelle parti settentrionali dello Stagno, in ambiente di acqua dolce. 


Caulerpa protlifera Ag., e Acetabularia mediterranea Lamour. — 
Sono specie molto diffuse nei due Bacini orientale ed occidentale in ambiente di 
acqua marina. 


Cystoseira sp., Bangia sp., Ceramium sp., Polysiphonia sp. — Si 
comportano come le due precedenti. 


Chara vulgaris L., Ch. aspera W., Ch. sp. — Sono le Caracee più diffuse 
nello Stagno, ma tuttavia la loro vegetazione può dirsi limitata al Bacino settentrio- 
nale, in ambiente di acqua dolce e di acqua salmastra. Solo nella stagione estiva 
le piante meridionali vengono a trovarsi in contatto dell’acqua marina, analogamente 
al Potamogeton pectinatus L. 


Chara tomentosa. — Trovasi sparsa in tutte le parti del’ Bacino settentrio- 
nale; la sua forma ricorda quella della Ch. Rispida L., di cui può considerarsi come 
una varietà a) gracilis. 


Lamprothamnus papulosus Bég. et Formigg., var. Pouzolsii Bég. et 
Formigg. — E una Caracea localizzata al solo Bacino occidentale, e quindi in am- 
biente prevalentemente salato (v. Tav.). 


Najas major L. — È molto diffusa nel Bacino settentrionale, ma la sua ve- 
getazione si allontana solo di pochi Km. dalla foce dei fiumi, epperò si rivela meno 
adatto del Potamogeton pectinatus L. all’azione dell’acqua salata. 


Considerazioni. 


La zona sommersa di vegetazione è costituita da elementi floristici provenienti 
dal mare e dai fiumi, e gli uni e gli altri sono localizzati a quelle porzioni di 
Stagno in cui nel corso dell’anno prevale l’ influenza dell’acqua marina o di quella 
fluviale, mentre nella vasta zona di mescolanza di queste ultime vegetano piante 
salmastre. 

In generale si ha che le Alghe puramente marine, quali sono le Ulve, non inva- 
dono mai lo Stagno, e così pure avviene per la Posidonia Caulini K6nig. Anche le 
altre, quali le Enteromorphae, Confervaceae, Vaucheriaceae, Fucaceae, ecc., vi si osser- 
vano nella stagione estiva e sempre limitatamente ai due Bacini orientale ed occi- 
dentale, in ambiente di pura acqua di mare. 

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ANGELO CASU 28 


Le specie migrate dai fiumi, quali sono: Potamogeton sp., Najas sp., 
MyriophyMlum sp., ece., si rivelano meglio adatte a questo ambiente, e continuano 
a vegetare anche nella stagione estiva quando arriva in loro contatto l’acqua marina. 

Nel Bacino occidentale è notevole il fatto della Characea, il Lamprothamnus 
papulosus Bég. et Formigg., che vegeta in ambiente altamente salato (estate), 
accantonato in una piccola insenatura (Porto Santadi, efr. Tav.), in fondo alla quale 
sbocca un rigagnolo che scorre solo nella stagione delle pioggie. 


II. 


Considerazioni generali. 


Le due stazioni dominanti. — Le due grandi stazioni, la salata e quella 
di acqua dolce, le quali sono qui nettamente caratterizzate, la prima, dall’azione 
prevalentemente dominante dell’acqua marina, e la seconda, da quella di fiume, 
costituiscono l’intero bacino dello Stagno, e tutte le altre influenze (quella della 
sabbia, silice, calcare, ecc.), che le diverse parti possono, in grado differente, ri- 
sentire, e che altrove potrebbero essere anche decisive, sono qui subordinate e 
trascurabili. 

Però, e per quanto queste due stazioni siano preminenti e sempre ben distinte 
nei loro caratteri chimici e geofisici, esse non sono distintamente separate a segno 
che ciascuna occupi solo una data parte o date parti del detto bacino, ma si ha 
che la prima lo comprende tutto, e che la seconda vi si sovrapone in corrispon- 
denza dei fiumi, dei torrenti e dell’acqua sorgiva. La stazione salata, cioè, non è 
mai completamente assente neanche là dove la seconda si è costituita, ma essa vi 
è solo superficialmente mascherata, tanto che le Alofite, le quali ne sono dovunque 
le costanti e fedeli rivelatrici, vi sono sempre presenti in maniera apprezzabile. 

Tutto ciò dimostra che l’intero bacino dello Stagno, tanto nel costituirsi, che 
dopo, ha conservato i suoi caratteri originari salino-littoranei, i quali si mantengono 
integri, almeno in profondità, anche in quei tratti che appaiono di essere stati mo- 
dificati dalle nuove condizioni di ambiente che vi si determinarono. 

Ciò spiegasi osservando che, allorquando per la formazione della Plaja fu ta- 
gliata in dentro la parte più profonda del Golfo di Cagliari, e fu così trattenuto il 
mare a Sud, e le acque torbide a Nord, il substrato melmoso che derivò dalla de- 
cantazione di queste ultime si sovrapose, ma non si sostituì a quello littoraneo 
preesistente, nelle differenti parti della riva, epperò questa conserva in profondità la 
sua struttura primitiva. Nè questa potè modificarsi in seguito, poichè l'infiltrazione 
del mare che ne era la causa determinante nel tempo in cui questo si avanzava fino 
alla foce dei fiumi, non fu interrotta poi colla formazione della Plaja, ma solo atte- 
nuata nella stagione invernale o delle piene, riattivandosi però in tutta la sua inten- 
sità ed estensione nel periodo estivo, quando, cioè, evaporata una gran parte del- 
l’acqua dolce, quella marina accorre a rioccupare tutto il bacino dello Stagno. 


29 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 323 


Le zone ecologiche. — È intanto, il nuovo substrato così costituitovi dal- 
l’azione dell’acqua torrentizia, attirò subito le piante di acqua dolce che fino a quel 
tempo erano state trattenute nei fiumi e nei terrenì circostanti umidi (igrofite, pa- 
lustri, fluviali, sommerse), e sì distribuirono nel bacino con lo stesso ordine che le 
stesse presentano nella stazione di origine, e ripeterono, e ripetono, cioè, rigorosa- 
mente quelle zone di vegetazione che sono il fatto comune e costante della loro topo- 
grafia in tutti i bacini lacustri e fluviali dell’interno. 

Alla sovrapposizione delle due stazioni, considerate nei loro caratteri singoli, 
seguì, quindi, quella delle rispettive formazioni vegetali, ed all'ambiente fisico, misto 
e incostante, che ne risultò, corrispose presto una flora promiscua i cui elementi 
però, tratti dall'ambito del mare e da quello dei fiumi, si conservarono puri, dando 
esempio di adattamenti sorprendenti, e tali da sorpassare ogni aspettativa 

Basterà ricordare che l’acqua di fiume e quella marina si sostituiscono qui con 
vicenda continua in differenti periodi dell’anno (1), e che nel tempo delle piene in- 
vernali tutto il bacino sì trasforma spesso in ambiente di acqua dolce per una du- 
rata più o meno lunga, che in ogni caso riesce esiziale alle specie marine che vi 
sì possono trovare; mentre nel momento più critico della stagione estiva, sono le 
specie di fiume che vengono a trovarsi in ambiente improprio, poichè l’acqua marina 
si avanza allora fino alle parti più settentrionali dello Stagno ad occuparne il vuoto 
che gradatamente vi si determina colla intensa evaporazione dell’acqua dolce. Si 
noti poi che queste alternanze, che, nelle parti estreme dello Stagno, quelle più vi- 
cine al mare e quelle più lontane, si verificano solo nelle due opposte stagioni del- 
l’anno, inverno ed estate, avvengono, invece, con molta frequenza nelle parti inter- 
medie durante l'autunno e la primavera. 

In conseguenza di tutte queste condizioni di ambiente, che attraverso il tempo 
si andarono determinando in questo Stagno, sia per il fatto della stessa sua forma- 
zione, sia per la sua successiva graduale evoluzione geofisica, la vegetazione preesi- 
stente e quella che vi migrò poi, diedero e danno tuttora luogo a particolari fatti 
di ecologia vegetale, i quali con criterio cronologico possono essere così rag- 
gruppati. 


Faiti generali di ecologia. 


1° Riduzione delle specie marine e contemporanea propagazione delle specie di 
fiume, a causa del ristagno dell’acqua dolce durante il periodo delle pioggie; 

2° Adattamento o meno delle une e delle altre alle soluzioni anisotoniche colle 
quali vengono, o possono venire, în contatto nell'inverno 0 nell'estate; 

3° Invasione delle igrofite comuni nella zona esterna del Bacino setten- 
trionale e conseguente riduzione delle igrofite saline (Alofite terrestri) preesistenti. 

4° Costituzione erbacea della flora, in dipendenza della struttura littoranea di 
tutto il Bacino. 


Fatti particolari. Mancanza di specie arboree. — Ma fra tutti, il primo 
fatto di ecologia vegetale che, a causa della sua forma e della sua grande esten- 


(1) Cfr. A. Casu, l. c., Sfudio biofisico, pagg. 28-32, 34. 


4 ANGELO CASU 30 


(w0) 


sione, si presenta all’occhio dell'osservatore, è quello che viene costituito dalla 
mancanza delle specie arboree. Queste, come già scrissi, vi sono rappresentate solo 
da pochi gruppi affatto numerosi e diradati e così lontani tra loro, epperò così in- 
significanti in confronto alla grande vastità di tutto il Bacino, che ciascuno di essi, 
osservato dal punto in cui gli altri sorgono, appare come una piccola macchia che 
si dilegua nell’estremo orizzonte. Per questo riguardo lo Stagno di Sf Gilla si rivela 
ecologicamente giovanissimo, nonostante la sua progredita evoluzione geofisica. 


Cause. Fattore antropico. — È da escludere in modo assoluto che ciò sia 
stato determinato dalla mano devastatrice dell’uomo, poichè se ciò fosse avvenuto, 
anche in un tempo passato remoto, si sarebbero avute pur qui le testimonianze 
della vegetazione scomparsa; e perchè, dato il carattere aperto di tutta la zona 
esterna e la sua facile accessibilità alle acque delle piene e quindi anche a tutti i 
germi, le dette piante vi si sarebbero sempre riprodotte. Ma questa propagazione 
non vi fu mai in passato; nè vi sarà in avvenire senza l'intervento di particolari 
sconvolgimenti naturali, o di altri operati dall'uomo e tali che ne rompano e cor- 
reggano la compagine in profondità, ne elevino il suolo e che, sopratutto, intercet- 
tino o attenuino grandemente le infiltrazioni marine. 


Struttura littoranea. — Il fatto è determinato unicamente dalla struttura 
spiccatamente littoranea di tutto il bacino, epperò la vegetazione non può essere 
costituita che da specie erbacee con pochi arbusti e frutici. Si osserva che le stesse 
Alofite suffruticose, quali Salicornia fruticosa L., Obione portulacoides Moq. e Suaeda 
fruticosa Forsk., intristiscono in tutti i punti della zona esterna, che pure è la loro 
abituale dimora. 


Azione del mare. — Si ha un concetto esatto di questa struttura ricor- 
dando (1) che la causa fisico-chimica che la determina, è data dalla falda acquifera 
del sottosuolo, la quale proviene dal mare, direttamente o per mezzo dello Stagno. 
Essa può essere considerata come una soluzione nutritizia, disarmonica per l’eccesso 
enorme di uno dei suoi elementi, epperò, colle oscillazioni ritmiche che essa compie 
nella massa del terreno, non può che impoverire questo, dei sali che essa contiene in di- 
fetto, e arricchirlo, fino alla saturazione, del cloruro di Sodio che contiene in eccesso. 

Questa doppia azione fra l’acqua salata ed il terreno è indubbiamente mitigata, 
in corrispondenza dei fiumi e nella stagione invernale, ma non corretta. L’umidità 
che il terreno stesso ne ritrae, anche nelle parti superficiali, costituisce per la pianta 
un vantaggio molto modesto in confronto a tutte le altre condizioni sfavorevoli che 
le radici trovano in profondità. Ciò spiega esaurientemente il perchè le depressioni 
littoranee che pure sono molto umide, sieno scoperte di ogni vegetazione. 


Valore nutritivo delle infiltrazioni del sottosuolo. — Il fatto che 
dette infiltrazioni sotterranee vengano qui raccolte in pozzi littoranei e impiegate 
con profitto per l'irrigazione dei campi e degli orti (2), non deve già dimostrare la 


(1) In., id., pagg. 35 e segg. 
(2) In., id., pag. 41. 


31 LO STAGNO DI S.Tà GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 325 


loro bontà nutritiva, ma la possibilità che esse possano essere corrette per mezzo 
del terreno dissodato e concimato, e, forse anche, trasformate in soluzioni nutritive 
normali in grazia di quelle azioni reciproche cui le stesse danno luogo allorchè ar- 
rivano in contatto di substrati ricchi di sali utili. 


La vegetazione erbacea. — Intanto la vegetazione essenzialmente erbacea 
che domina in tutte le parti dello Stagno, imprime all’ambiente una facies schietta- 
mente littoranea, la quale si accentua ancora più per la presenza e per la esten- 
sione delle A/ofite. 


Distribuzione. — Il modo come la detta vegetazione vi si distribuisce è nel 
suo complesso regolato dagli adattamenti specifici che i singoli elementi possiedono 
all’azione dell’acqua salata od a quella dell’acqua di fiume, epperò si ha una /lora 
eminentemente alofitica nelle parti dello Stagno confinanti col mare, ed un’altra pre- 
valentemente non alofitica dalla parte opposta settentrionale. 


Azione dell’acqua marina sulla costituzione delle zone ecologiche. 
— L'azione che ha in ciò l’acqua marina è molto intensa ed estesa e si manifesta 
colla mancanza delle comuni zone ecologiche nelle parti meridionali, e con la loro 
graduale riduzione nel Bacino settentrionale. 

Gli è per questa influenza del mare, che lungo la rive stagnali della Plaia non 
si osservano che radi e gracili esemplari di Phragmites communis Trin. e di Juncus sp., 
su qualche punto prossimo ai Canali. E non vi è dubbio che questo loro difetto e 
l'esclusione delle altre specie stagnali e palustri, si debba appunto all’azione repul- 
siva dell’acqua marina, dal momento che le dette specie ricompaiono sempre, e solo, 
in prossimità dello sbocco dei torrenti, od in vicinanza di acqua sorgiva. Riduzione 
analoga si nota pure nella zona esterna corrispondente, ove vegetano le comuni 
Alofite che sono proprie della contigua riva marina, ed alle quali si mischiano solo 
poche altre microfite cosmopolite, che vivono a spese dello strato più superficiale 
del terreno. 

Ma quest’azione repulsiva dell’acqua marina si attenua grandemente a misura 
che si passa nel Bacino settentrionale, tanto che quivi si osserva subito ed a grande 
distanza dalle foci dei due fiumi che vi sboccano a Nord, una vasta vegetazione di 
Potamogeton pectinatus L., cui si aggiungono poi ed a distanze diverse, le altre specie 
di acqua dolce. 


Azione antagonistica dei fiumi. — Ora, quest’azione sempre più decre- 
scente dell’acqua marina, quanto più la si considera a Nord dello Stagno, no» di- 
pende solo dal fatto della sua maggiore diluizione, ma anche e sopratutto dalla 
influenza antagonistica che vi esercita l’acqua di fiume, sia che questa venga con- 
siderata come una soluzione nutritizia eccellente per la vita delle piante, sia per il 
ricco substrato che essa costituisce sul fondo colla sua lenta decantazione. 

Giacchè, è interessante il notarlo, le soluzioni saline vi si diluiscono durante 
la stagione delle pioggie, quando tutta la vegetazione è in riposo; ma in quella 
estiva, e quando appunto la detta vegetazione è in pieno periodo vegetativo, esse 


326 ANGELO CASU 32 


acquistano una tonicità che in molti tratti non è inferiore a quella dell’acqua ma- 
rina del vicino Golfo. 

Il fatto, che è del massimo interesse anche se viene considerato dal punto di 
vista più generale della biologia delle piante, si spiega ricordando che la resistenza 
fisiologica di queste ultime aumenta in ragione delle buone condizioni nutritizie in 
cui le stesse si trovano, e del conseguente rigoglio che ad esse ne deriva (1). 


Adattamento delle piante di fiume. — Il limo che copre il fondo dello 
Stagno è per questo riguardo un substrato ottimo, e le piante sommerse, quelle sta- 
gnali e le palustri, vi raggiungono dimensioni insolite. Ma intanto che il loro corpo 
vegetativo si sviluppa, dalla primavera all’autunno, esso assorbe unitamente agli 
abbondanti sali utili del substrato, anche il sale marino, la cui percentuale va gra- 
datamente elevandosi nell'acqua, appunto in quel tempo, ed in modo che nel Ba- 
cino settentrionale, assume, allora, tutti i valori compresi fra pochi decimi di 
grado e 3° B. 


Adattamento fisiologico. — Grazie a queste particolari condizioni di vita, 
si ha che le piante elevano gradatamente la tonicità salina nei loro succhi liberi e 
nel plasma, epperò mantengono costante l’equilibrio osmotico fra l’interno e l’esterno 
del corpo vegetale. E la quantità considerevole del sale che in cotal modo si accu- 
mula nei tessuti, non solo non riesce nociva, ma utile, poichè provoca nell'organismo 
quella particolare reazione che porta alla fioritura precoce, e che permette alle 
piante di chiudere regolarmente il proprio ciclo, ed alla specie di conservarsi nello 
spazio, nonostante l'estremo accentuarsi della salinità ambiente. 

Un concetto del fatto, ed anche della sua natura, lo si ha ricordando che tutte 
le soluzioni saline che si riscontrano nello Stagno durante la stagione estiva, sono 
tali che ove esse venissero bruscamente in contatto con le piante cresciute in am- 
biente di fiume, riuscirebbero certamente deleterie. 

Comunque, la resistenza fisiologica che le dette piante presentano nello Stagno 
è grandissima, ed appare ancora più nel suo giusto valore, quando si ricordi, anche, 
che le soluzioni che arrivano in loro contatto agiscono su di esse con tutta l’inten- 
sità della loro concentrazione, poichè, mancando in questo caso il substrato del ter- 
reno comune, detta concentrazione salina non viene in alcun modo diminuita, mentre 
lo è invece quella delle soluzioni che infiltrano il sottosuolo della zona esterna dello 
Stagno, dove queste diluiscono tanto che, raccolte in pozzi comuni, possono venire 
impiegate per l'irrigazione. 


Saturazione salina. — Tuttavia, e nonostante questa influenza della buona 
nutrizione, il lento assorbimento dei sali, da parte delle piante, non è indefinito, ma 
ha un limite nel massimo grado di saturazione (2), di cui ogni specie è capace, e 
nel minimo della durata alla quale può ridursi il suo ciclo vegetativo. Questo diffe- 
rente grado di saturazione salina nelle diverse specie di piante fluviali, si rende qui 


(1) Cfr. A. Casu, Contribuzione allo studio della flora delle Saline di Cagliari, “ Ann. di Bot. ,, 
vol. II, pag. 481. Roma, 1905. 

(2) Cfr. A. Casu, Circa il valore nutritizio del sale marino nelle Alofite, © Ann. di Bot. ,, vol. VI, 
fasc. 1°, pag. 21. Roma, 1907. 


33 LO STAGNO DI S.°* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 327 


manifesto (specialmente nelle zone palustre, stagnale e sommersa), colla diversa esten- 
sione che esse assumono verso le parti meridionali dello Stagno, dove le concen- 
trazioni saline che ad esse arrivano in contatto, sono tanto più elevate quanto più 
le piante stesse avanzano verso il mare. 

Per le specie più dominanti della zona stagnale, le concentrazioni saline mas- 
sime, riscontrate nell'acqua, durante la fruttificazione, furono rispettivamente: 


Butomus umbellatus L. 0,5867 9% di NaCl. alla foce del Manno 
Potamogeton natans L. 1,227 Pi a circa 200/m. , 
Myriophyllum spicatum L. 2,036 5 È Gia) dl ira o 
Potamogeton pectinatus L. 3,000 i a 5 Km. 5 


Il Potamogeton pectinatus L. è dunque la specie che qui esalta al mas- 
simo grado questo adattamento, poichè resiste all’azione di soluzioni saline isotoniche 
a quella dell’acqua marina, e tali, cioè, che riuscirebbero deleterie, anche alla gene- 
ralità delle Alofite terrestri, quando su queste agissero direttamente. 


Adattamento ecologico. — Ma oltre ciò, come già dissi, le piante reagi- 
scono a un cotale ambiente, colla fioritura precoce, e ciò costituisce il loro adatta- 
mento ecologico più generale ed apprezzabile. 

Ricorderò che le piante fanerogame che costituiscono la zona sommersa e quella 
stagnale, fioriscono tanto più presto, quanto più esse si allontanano dalla foce dei 
fiumi, cioè, quanto più alte sono le concentrazioni saline che le stesse incontrano 
nello Stagno. Anche in ciò, il Potamogeton pectinatus L. è la specie che offre il mag- 
giore interesse, poichè trovasi distribuita su un’area di oltre 15 Kmq., epperò le sue 
piante vengono a trovarsi simultaneamente in una massa di acqua salata, che nella 
stagione estiva, e procedendo da Sud a Nord, presenta tutte le concentrazioni com- 
prese fra quella dell’acqua marina e quella dell’acqua di fiume. Corrispondentemente, 
esse presentano anche in una data unità di tempo, con ordine rigoroso di succes- 
sione, tutti gli stadi della fioritura e della fruttificazione. Questo vasto quadro può 
essere espresso nel modo seguente : 


Vegetazione del Potamogeton pectinatus L. 


Giugno Luglio j Agosto Settembre 
cr" ‘e erronea n—_____— —s-_r____ 
Uoncentraz. Vegetaz. | Concentraz. | Vegetaz Concentraz. | —Vegetaz. Concentraz. | —Vegetaz. 
salina salina i N salina ; salina 
Nord o | | 
| 
Foce del F. Manno .{0°,068B. , |0°,345| , |05879| , |1°,221| fiorisce 
Altezza di Fimas | pra 
(a m. 2000) 05167455 MINE RIO o Se 1,953 | fiorisce | 2,950 | fruttifica 
| | 
Cotteruxi IRSA: | 
(5 Km. dalla foce) [1,350 B.| fiorisce {1,950 B.{ fiorisce |2,970B.| fmttifica |3,500 B.| scomparsa 


e frattifica I | 


Sud | 


328 ANGELO CASU 34 


La fioritura delle piante del Potamogeton pectinatus L. considerata dal Giugno 
al Settembre, tanto nella direzione Sud-Nord, che in un punto qualunque del Bacino 
settentrionale, progredisce. parallelamente all’elevarsi della concentrazione salina del- 
l’acqua. Posto ciò, e ricordando che qui tutti gli altri fattori di ambiente sono iden- 
tici (ma non costanti) nei differenti punti dello spazio e nella stessa unità di tempo, 
e che la salinità è il solo elemento che varia assumendo tutti i valori compresi 
fra 0° B. e 39,6, non vi è dubbio che il fatto ecologico non sia legato a quello fisico, 
come l’effetto alla causa. 

Epperò, mentre la topografia generale di questa specie sul fondo dello Stagno, 
costituisce il criterio botanico sicuro per dire della estensione che vi assume l’in- 
fluenza prevalente dell’acqua di fiume, durante la stagione invernale, la progressione 
della fioritura nel senso anzidetto, costituisce alla sua volta il criterio ecologico, per 
dire del tempo e del modo come l’acqua salata si avanza ad occupare le parti più 
settentrionali del bacino, a misura che la prima viene eliminata colla evaporazione. 

Questo fatto di ecologia illustra dunque, e conferma ad un tempo, la più im- 
portante delle condizioni fisiche dell'ambiente (variazione graduale e progressiva della 
concentrazione salina), e ciò che è l’effetto che le piante di fiume ne risentono (pre- 
cocîtà della fioritura). Ma il chimismo di questa correlazione fra i due fatti, od ordini 
di fatti, sfugge, almeno per ora, ad ogni spiegazione, e per ciò, ci limiteremo anche 
qui, alla pura induzione, ammettendo ancora una volta che il sale assorbito da piante 
tenute in buone condizioni di nutrizione, provochi in queste, o favorisca e antecipi, 
tutti quei fatti di natura chimico-fisiologica che portano alla formazione del seme e 
del frutto. 

Ma indipendentemente da questo meccanismo del fatto intimo, provocato dal- 
l’ambiente nell’organismo della pianta, qui interessa constatare anzitutto, che il modo 
particolare col quale essa reagisce, e che si manifesta esternamente colla fioritura e 
colla fruttificazione, la mettono in grado di sussistere su quel dato spazio e sotto 
un’altra forma (seme), e di riapparirvi nel periodo in cui si sono ripristinate le con- 
dizioni di ambiente, per essa normali. 

Analogamente può dirsi di tutte le altre specie di fiume, stagnalîi e sommerse, 
che hanno invaso alcune parti settentrionali dello Stagno; però queste vi hanno una 
estensione molto minore, ed il fenomeno del loro adattamento non ha perciò quella 
estensione, nè è così sensibile, come nel caso della specie precedente. 


Adattamento morfologico. — In tutti questi casi, non è da escludere che 
l'ulteriore assorbimento delle più forti soluzioni saline, da parte delle piante, venga 
qui attenuato, od anche arrestato dalla riduzione del sistema radicale assorbente, 
causata appunto dall’azione esterna delle stesse soluzioni. 

Tuttavia, e per quanto questo adattamento sia comune nelle Alofffe terrestri, non 
ho però elementi sufficienti per affermarlo anche nelle piante delle zone palustre, sta- 
gnale e sommersa. 


Riduzione delle alghe marine. — Tutti questi adattamenti, che, in mag- 
giore o minor grado, rivelano le piante di fiume, alle soluzioni ipertoniche che tro- 
vano nello Stagno, le mettono in condizione di favore rispetto alle specie marine, le 
quali perciò difettano nell'interno del bacino molto più di quanto vi difettano le prime. 


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U1 


LO STAGNO DI S.TA GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 929 


Le alghe di mare mancano completamente nel Bacino Settentrionale dello Stagno, 
non solo, ma generalmente mancano pure negli altri due bacini, contigui col mare, 
dove si notano nell’estate solo alcune forme di Enteromorpha e altre di Cystoseira. 

Le Ulve, però, sono escluse, ed i frammenti di tallo che spesso vi si osservano 
vagare, vi sono introdotti dalle correnti marine, le quali dopo breve tratto li abban- 
donano alla deriva, dove presto vengono impigliate tra i filamenti delle Chaetomorphae 
e indi portati al fondo, ove muoiono. 

Ora osservo che questa mancanza delle Ulve è indipendente dalla natura del 
substrato, poichè sebbene il fondo dello Stagno sia eminentemente limaccioso, pure 
non mancano in molti tratti le pietre calcari e le conchiglie, tanto che anche l’Ace- 
tabularia mediterranea Lamour. e le varie specie e forme di Enteromorphae che pure 
amano fissarsi ai detti corpi del fondo, vi sono abbondantissime. 


L’azione repulsiva dell’acqua di fiume. — Questo contegno delle specie 
essenzialmente marine, si spiega ricordando che, fino dall'autunno, la salinità dello 
Stagno decresce rapidamente, e che queste specie non resistono all’azione idrolitica 
delle soluzioni ipotoniche e specialmente di quelle diluite, o di quella dell’acqua 
di fiume. 

Le stesse Acetabularia, Caulerpa, Enteromorpha di cui sopra, scompaiono dal- 
l’autunno alla primavera, oppure alcune di esse permangono solo nelle parti più 
prossime al mare, donde si ridistendono poi verso il Nord dello Stagno, quando 
l’acqua marina vi accorre ad occupare il vuoto determinatovi dall’acqua dolce 
evaporata. 


Riduzione delle Najadaceae. — Analogo contegno a quello delle alghe 
marine, presenta anche qualche Najadacea, e particolarmente la Posidonia Caulini 
Kén., la quale non penetra mai nello Stagno, mentre nel mare costituisce un’ampia 
prateria subacquea lungo la riva sommersa e su di un substrato di limo proveniente 
dallo stesso Stagno. 

È dunque evidente che anche in questo caso la causa repulsiva non risiede 
nella qualità del substrato (essendo identico nel mare e nello Stagno), ma nella 
massa dell’acqua, e consiste nella instabilità della sua concentrazione salina. È suf- 
ficiente che questa discenda, anche per un breve periodo dell’anno, sotto la tonicità 
dell’acqua marina, perchè molte specie vegetali che sono proprie del mare, non pro- 
sperino nel bacino stagnale. 


Riduzione delle Alofite terrestri. — In generale si osserva poi che alla 
riduzione delle specie marine nello specchio acqueo dello Stagno, corrisponde anche 
quella delle A/ofite comuni nelle altre zone biologiche della cintura. 

Questa riduzione, che è parziale nella zona esterna, diventa generale e com- 
pleta nella zona stagnale, ed i fatti osservati in merito possono essere così riassunti: 

1° Le Alofite della zona esterna scompaiono in quei tratti di piano che sono in- 
fiuenzati dai fiumi e dai torrenti ; 
2° Nella zona palustre le Alofite sono limitate alle parti esteriori che, nella sta- 
gione estiva, restano emerse, almeno nel momento della bassa marea; 
3° Le Alofite mancano completamente nella zona stagnale. 
Serie II. Tox. LXII. Ch 


380 ANGELO CASU 36 


Nelle zone palustre e stagnale. — La mancanza delle Alofite nella zona 
stagnale, e la loro riduzione in quella palustre, si spiega osservando che per quanto 
queste piante siano eminentemente <grofite, pure esse mancano di quei caratteri di 
adattamento che sono propri delle piante che entrano a costituire le dette zone (strut- 
tura del sistema radicale), e perchè possiedono invece nelle parti epigee, una struttura 
eminentemente xerofitica. 

Una sola A/lofite, l’Inula crithmoides L., presenta un qualche adattamento pa- 
lustre, poichè possiede un fusto radicante tuberizzato, e basta ciò perchè essa 
rivaleggi in rigoglio colla cannuccia e coi giunchi e ne sia spesso una temibile con- 
corrente. 

Tuttavia neanche questa avanza mai ad occupare tratti del fondo i quali siano 
permanentemente coperti dall'acqua. 


Caratteri negativi di adattamento. — Il prolungato contatto con que- 
st’ultima, porta ad un eccesso di acqua assorbita, la quale non viene prontamente 
traspirata, epperò permane nel parenchima verde del fusto e delle foglie che perciò 
inturgidiscono deformandosi: le foglie delle Suede diventano clave; quelle dei Che- 
nopodi, Atriplici, Inula crithmoides L., ecc., diventano spatole; e gli articoli delle 
Salicornie (Afille), otricoli. E intanto mentre questi ingrossamenti illudono per qualche 
tempo sulla prosperità di queste piante, sì ha però che in seguito esse ingialliscono 
e deperiscono almeno in parte. Contrariamente esse resistono alle più forti e lunghe 
siccità, e nel periodo più critico della Stagione estiva sono le sole che restino sulle 
zolle scalzate del littorale, inaridito dall’azione della temperatura e del vento. 

La loro dimora naturale è dunque la zona esterna, la quale possiede l’umidità 
e la salinità in quantità moderata, e sempre tale da soddisfare alle loro esigenze. 


Nella zona esterna. — Ma anche qui la loro riduzione è sensibilissima ; 
solo che essa non è più determinata da quella qualunque azione che esercita su di 
esse il continuo contatto dell’acqua libera, come avviene nella zona palustre, ma è 
dovuta alla concorrenza vera e propria delle igrofite comuni, le quali sono state at- 
tratte, e fissate su vaste estensioni di piano, dall'azione dell’acqua di fiume. È, cioè, 
il risultato della lotta per la conquista dello spazio, in cui le Alofite restano soc- 
combenti. 

È certo che ciò non può dipendere direttamente dalla diminuita salinità del 
terreno, poichè questa, neanche nell’inverno, quando il suolo viene invaso dall'acqua 
di pioggia, o da quella dello Stagno e dei fiumi in piena, discende mai al disotto 
del minimum che dalle dette A/ofite è richiesto. 

Il fatto si spiega osservando che queste ultime presentano dei caratteri nega- 
tivi di adattamento, in confronto a quelli corrispondenti posseduti dalle igrofite co- 
muni, e consistenti nella tardiva germinazione dei semi e nella lentezza del ricambio 
materiale, e quindi, anche, del loro accrescimento. 


Tardiva germinazione. — La germinazione annuale avviene dal Febbraio 
all’Aprile ed anche più tardi, quando, cioè, le piante comuni sono già in piena fio- 
ritura, oppure, fruttificano. 


LO STAGNO DI S.°A GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 331 


(06) 
SJ] 


L'esempio che al riguardo ne offre qui la Salsola Soda L., i cui semi caduti 
nei campi di orzo e di grano, germinano solo dopo la mietitura delle messi (Giugna- 
Luglio), dimostra in modo eloquente, come l'essere e non essere di questa specie, e 
di tutte le altre A/ofite, in un dato punto dello spazio, possa dipendere unicamente 
da questa circostanza, giacchè è evidente che se le concorrenti fossero sempre delle 
specie vivaci, i semi delle prime non germinerebbero mai. 


Accrescimento lento. — Si aggiunga, poi che le piante comuni, che nel 
nostro clima sono precoci, ed entrano in germinazione dopo le prime pioggie autun- 
nali, hanno accrescimento rapido, e assumono generalmente delle dimensioni che 
sono sempre maggiori di quelle raggiunte dalle A/lofite suffruticose. Queste (.Sali- 
cornia fruticosa L., Suaeda fruticosa Forsk., Arthrocnemum qlaucum Ung. Sterng., 
Halopeplis strobilacea Bieb., Obione portulacoides Moq. Tand.) non raggiungono che 
raramente il mezzo metro, dopo molti anni di vita, e però nel caso in cui lo spazio 
da esso occupato venga invaso dalle igrofite comuni, vi restano presto soffocate. 

Queste igrofite, poi, come già le piante palustri, sono rizomatose o stolonifere, 
vivaci, e quindi facilmente si propagano nel terreno umido, e difficilmente avviene 
che cedano ad altre forme differenti lo spazio da esse già occupato. 

Ricorderò che l’Inula crithmoides L., la quale, come già scrissi, è un’alofita che 
ha, appunto, quest’adattamento semi-palustre, riesce vittoriosa per ciò solo su tutte 
le Alofite e non Alofite della zona esterna, e però domina senza eccezione su tutta la 
prateria umida che circonda il Bacino Settentrionale dello Stagno. 

Per queste ragioni le A/ofife scompaiono in quei punti della prateria umida, i 
quali sieno stati conquistati da altre piante più precoci e più cospicue, e quindi 
esse non fanno mai parte di alcuna associazione vegetale. Una sola volta nel 
corso di queste esplorazioni osservai un esemplare di Suaeda fruticosa Forsk., la 
quale faceva cespuglio con molte altre specie avventizie; ma salvo questa ecce- 
zione, tutte le A/ofite tipiche, quali le Salicornie, le Suede e le Salsole, si riducono 
o sono state ridotte, ai tratti della zona esterna che non sono stati ancora conqui- 
stati dalle igrofite comuni, e che sono costituiti dalle forti depressioni del littorale. 
E intanto, anche quivi la loro vegetazione è sempre aperta e disseminata, ed i sin- 
goli individui si comportano come organismi solitari. 


Conclusioni generali. 


1° L'evoluzione ecologica della Flora dello Stagno di S'* Gilla è molto arretrata 
sia rispetto alla successione dei suoi elementi attraverso il tempo, e sia rispetto all’esten- 
stone degli elementi attuali, e ciò nonostante la continua azione geofisica dei fiumi e la 
senilità avanzata di tutto il bacino. Alla mancanza di vegetazione arborea nella zona 
esterna, corrisponde la riduzione della vegetazione palustre e di quella stagnale nello 
specchio acqueo, tanto che esse sono ancora trattenute nelle parti settentrionali dello Stagno 
e mancano completamente nei due Bacini Orientale ed Occidentale, confinanti colla Plaja, 


332 ANGELO CASU 38 


per quanto il paludismo sia qui più accentuato che altrove; e ciò per l’azione diretta ed 
indiretta che vi continua il vicino mare. 

2° La Flora attuale ha costituzione essenzialmente erbacea e adatta a vivere a spese 
degli strati più superficiali, e intanto gli elementi che la compongono sono tratti dal mare 
(idrofite saline), e dalla riva marina (igrofite saline o Alofite comuni), dai fiumi (idro- 
fite comuni), dai prati fluviali sommergibili (igrofite comuni) e dalle altre stazioni bo- 
taniche circostanti allo Stagno (piante avventizie). 

3° Le influenze del mare a Sud, e dei fiumi a Nord, sono prevalenti su tutte le 
altre, che perciò restano subordinate, epperò indipendentemente da queste ultime, il grande 
gruppo delle idro-igrofite saline si localizza nelle parti meridionali del bacino stagnale, 
mentre quello delle idro-igrofite comuni è limitato alle parti settentrionali circostanti ai 
fiumi ed ai torrenti. Nella vasta zona compresa. fra questi due estremi, là dove nel corso 
dell’anno le due azioni sì attenuano reciprocamente e si alternano, i due grandi gruppi 
di piante vi sì mischiano alquanto, ma l'essere 0 no, di una di queste, dipende dall’a- 
dattamento che essa possiede a vivere in un tale ambiente anisotonico a quello che le è 
normale (mare 3°,6B — fiumi 0°B). 

4° Sì osserva che generalmente nella detta zona di contatto o di mescolanza dei due 
acqua di mare e acqua di fiume ,,, le idrofite marine (Alghe, Najadaceae) vi 


elementi “ 


presentano un adattamento nullo, poichè non tollerano l’azione idrolitica delle soluzioni 
ipotoniche diluite, epperò esse vi sono completamente scomparse (Ulva, sp. Posidonia Cau- 
lini Kòn.), oppure si sono ridotte a vegetare nelle parti dello Stagno che confinano colla 
Plaja, dove solo nella stagione delle pioggie e nel caso più ristretto di forti piene, la 
tonicità salina discende sotto il minimum da esse richiesto. 

5° Adattamento migliore presentano in dette condizioni le specie di fiume, a causa 
della buona nutrizione in cui esse si trovano sul fondo limaccioso dello Stagno, la quale 
ne aumenta la resistenza fisiologica alle soluzioni ipertoniche (adattamento fisiologico); 
ed anche perchè, in questo caso, la grande quantità di sale assorbito stimola e provoca 
la fioritura e la fruttificazione, epperò le piante vengono così gradatamente sottratte all’a- 
zione delle più forti concentrazioni saline che mano mano vi si determinano nella sta- 
gione estiva (adattamento ecologico). 

6° IZ grado di adattamento varia da specie a specie, e dipendentemente è anche di- 
versa l'estensione che ciascuna di esse assume verso il mare; esso raggiunge il grado 
massimo nel Potamogeton pectinatus L., il quale durante la fioritura e la fruttifica- 
zione è raggiunto, e resiste all’azione di soluzioni isotoniche all'acqua marina. Seguono 
poi Myriophyllum spicatum L., Najas major 4., Potamogeton natans L., le quali 
avanzano nello Stagno a distanze successivamente minori, ed altre che non si allontanano 
dalla foce dei fiumi dove la salinità estiva non supera i 0°,5 B. 

7° Le dette piante di fiume così attratte e legate al fondo (palustri, stagnali e som- 
merse), indipendentemente dalla loro resistenza fisiologica alla salinità dell’acqua, vi si 
distruibuiscono ricomponendovi quelle zone ecologiche di vegetazione (palustre, sta- 
gnale, sommersa), secondo cui le stesse sono ordinate nei fiumi donde derivano, e per 
ciò nel loro complesso imprimono al Bacino Settentrionale in cui sono localizzate, quella 
fisionomia che è propria dei comuni bacini lacustri. 

8° Nella zona esterna e dappertutto dove l'influenza dei fiumi ha fissato una igrofite 
comune, questa propagandosi vi ha soffocato le igrofite saline preesistenti le quali a 


39 LO STAGNO DI S."* GILLA (CAGLIARI) E LA SUA VEGETAZIONE 393 


causa di alcuni caratteri negativi (tardiva germinazione dei semi e lento accrescimento) 
si rivelano in confronto le meno adatte nella lotta per la conquista e la conservazione 
dello spazio. Tuttavia queste sono sempre presenti in tutte le parti di questa zona, per 
quanto spesso sporadiche e disseminate. 

9° La topografia delle une e delle altre dimostra che l'influenza dei fiumi, spostan- 
dosì verso il Sud dello Stagno, si è solo sovraposta ma non sostituita a quella del mare, 
e lo provano, più che tutto, i vasti prati di Salicornie, che frequentemente si trovano 
nelle parti più lontane di questa zona esterna, alternati a quelli delle igrofite comuni. 


Dall’Istituto Botanico di Cagliari, Maggio 1910. 


DESCRIZIONE DELLA TAVOLA 


1. L’annessa Tavola rappresenta lo Stagno di S.'* Gilla, le sue adiacenze e le differenti zone 
secondo cui vi si distribuisce la vegetazione in dipendenza del carattere salino del- 
l’acqua e di quello littoraneo del terreno. Della vegetazione in particolare è detto nel 
testo di questa Memoria. 


no 


. Rappresenta, pure, il grado di salinità che possedeva l’acqua nell’agosto 1908, e che è stato 
accertato con una esplorazione continua, durata una settimana, in condizioni di clima, 
che furono già descritte nello Studio biofisico di ambiente (1). 

3. Le linee tratteggiate che percorrono il bacino, rappresentano deboli correnti, o solo le dire- 
zioni secondo cui le correnti si muovono, quando esistono. I pescatori li chiamano 
canali, per indicare solo le direzioni secondo cui è possibile la libera navigazione 
dei sandali. 

4. I numeri posti lungo la direzione delle correnti, tra i settori compresi fra queste ultime, 
ed alla periferia, indicano la percentuale di Cloruri riscontrati nei campioni di acqua 
presa in quei determinati punti, durante la detta esplorazione. 

5. I. Area di vegetazione della Chara tomentosa L. 

II. Limite meridionale della vegetazione del Potamogeton pectinatus L. 

III. Vegetazione del Lamprothamnus papulosus Bég. et Formigg. var. Pouzolsii Bég. et 

Formigg. 


(ep) 


. Tutte le indicazioni di località e di forma, sullo Stagno, si trovano nel testo della prece- 
dente Memoria al capit. A) Notizie generali (2). 


NB. La Tavola, o piano, dello Stagno, fu copiata da quella dell'Istituto Geografico mili- 
tare all’1:25.000, e poi ridotta all’1: 40.000. 


(1) Cfr. A. Caso, Lo Stagno di S. Gilla (Cagliari) e la sua vegetazione. Parte I: Studio biofisico, 
“ Mem. R. Ace. Se. Torino ,, 1910. 
(2) Loc. cit. 


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SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 


RIVISTA CRITICA (*) 


DEL 


Dott. CARLO FOA 


Libero Docente-e Assistente, 


Approvata nell'adunanza dell'11 Giugno 1911. 


E 


Localizzazione dei centri respiratori. 


In questa mia rivista sintetica non potrò certamente trattare ogni punto del 
complesso problema e sarò costretto a tralasciare qualche lato, per dare sviluppo 
maggiore alle questioni più controverse che formarono e formeranno ancora oggetto 
di discussione. 

Non mi soffermerò troppo a lungo sul problema della localizzazione anatomica 
dei centri respiratori. Osservò il Lore (1) a questo proposito che a tutta prima la 
localizzazione bulbare di questo centro parrebbe formare un'eccezione al carattere 
segmentale metamerico che è comune alle altre parti del sistema nervoso, perchè 
il centro respiratorio non domina organi periferici situati nello stesso suo segmento, 
ma organi diffusi in segmenti soprastanti e sottostanti. LorB ritrova però nello svi- 
luppo il carattere metamerico del centro respiratorio quando ancora esso innerva 
gli archi branchiali corrispondenti. 

A me pare che sia sufficientemente dimostrata l’esistenza di centri secondari 
del respiro, perchè non si debba ritenere che il sistema nervoso respiratorio sia, 
come le altre parti del sistema nervoso, suddiviso e scaglionato a comandare i di- 
versi metameri. 

Una suddivisione metamerica dei centri respiratori secondari è dimostrata dalla 
indipendenza che spesso si verifica tra i moti respiratori della faccia, del torace, 
del diaframma e dell’addome; fatto che venne messo in luce dalle ricerche di Angelo 
Mosso e di altri autori. 

To potei osservare che un feto di cane estratto dagli involucri e isolato dal 
circolo materno faceva energici boccheggiamenti asfittici mentre ancora il torace e 


(*) Questa relazione venne letta nella 1 Adunanza della Società Italiana di Fisiologia in Napoli 
nel Dicembre 1910, e poi parzialmente integrata tenendo conto di alcuni lavori pubblicati dopo 
quella data. 


336 CARLO FOÀ 9 


l'addome non erano capaci di respirare e lasciavano il polmone atelettasico. Il centro 
dei moti respiratori del collo e della faccia si era dunque sviluppato prima degli 
altri. Per dimostrare l’indipendenza del torace dall’addome riproduco il tracciato di 
una mia esperienza (fig. 1) nella quale l’apnea che si stabilisce dopo una energica 
ventilazione polmonare in un cane narcotizzato, colpì il torace soltanto e non l’ad- 
dome, e poi il respiro toracico si fece periodico, mentre il respiro addominale ri- 
mase continuo. 

Nessun dubbio che si tratti di centri diversi se uno può essere attivo quando 
l’altro è inattivo, e se l’uno può funzionare con ritmo semplice quando l’altro fun- 
ziona con ritmo periodico. Alla questione della metameria del sistema nervoso re- 
spiratorio si connette quella tanto dibattuta dei centri respiratori spinali. Fu ammesso 
da RoxITANSKyY (2), da ScHRoFr (3) e da LANGENDORFF (4) che il respiro potesse con- 
tinuare in un animale nel quale il bulbo fosse stato separato dal midollo spinale, 
e recentemente WeRTHEIMER (5) e Mosso (6) portarono la conferma di questo fatto. 


LEMMA Ici nonnina 


Fig. 1. 
I tratti meno ampi sono dovuti al respiro addominale, quelli più ampi al respiro toracico. 


ScHIrF (7) rifiutò di ammettere l’esistenza di centri respiratori spinali, basandosi 
sopra il resultato da lui ottenuto con l’emisezione del midollo cervicale, che porterebbe 
alla paralisi completa e permanente dei muscoli respiratori dello stesso lato. Ma 
questa esperienza non ha il valore che volle darle l'Autore e che fu ammesso anche 
da Gap (8). 

KxoLt (9) ripetò l’emisezione in 19 conigli e vide permanere sebbene indebolito 
il respiro della corrispondente metà del torace. 

LanGENDORFF (10) già aveva fatto la medesima esperienza ed aveva veduto che 
se dopo l’emisezione di un lato si taglia il frenico dal lato opposto, la parte del 
torace che dopo l’emisezione pareva paralizzata, si mette poi a respirare. Per met- 
tere poi in attività i centri respiratori spinali dopo l’emisezione ammettono GrrARD (11), 
Brown-Séquarp (12), LAnGENDORFF (13), LANDERGREEN (14) che sia necessario un certo 
grado di asfissia, e io stesso (15) ho potuto dimostrare l’azione attivatrice che ha . 
l’acido carbonico del sangue sui centri respiratori spinali. Schiff ammette questo 
fatto, e appunto perchè riconosce necessaria la presenza dell’acido carbonico in quan- 
tità più alta del normale, nega l’esistenza di centri spinali normalmente funzionanti. 


d SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 337 


Apucco (16) applicando la cocaina direttamente sul centro bulbare per modo da 
paralizzarne le funzioni, vide arrestarsi il respiro, nè potè mai constatare l’azione 
di centri respiratori spinali. Alla stessa conclusione giunse recentemente TrenpE- 
LENBURG (17) con il raffredìdamento del bulbo. È difficile dire come queste esperienze 
si conciliino con quelle della separazione del bulbo dal midollo spinale, nelle quali 
il respiro, sebbene con difficoltà, poteva continuare. È forse possibile, che anche con 
la cocainizzazione o il raffreddamento del bulbo, si riesca ad ottenere un respiro pura- 
mente spinale, mantenendo gli animali in quelle condizioni di temperatura e di pro- 
lungata ventilazione polmonare, che LaAnGEeNDoReFr, WerTHEIMER e gli altri autori 
trovarono necessarie dopo la separazione del bulbo dal midollo spinale. 

Certo è che il respiro dopo questa operazione è ben diverso dal normale. Esso 
è irregolare per ritmo e per ampiezza, le pause sono frequenti, frequenti le espira- 
zioni attive, e incostanti i rapporti tra respiro toracico e addominale, cosicchè se 
pure esistono centri respiratori spinali capaci di funzionare anche separati dal bulbo, 
è certo che il centro bulbare ha sovra tutti gli altri la supremazia, e che in esso 
soltanto sono accentrati i poteri regolatori e coordinatori dei moti respiratori. 

Se dunque la divisione metamerica del sistema nervoso respiratorio è dimostrata, 
essa perde tuttavia molto del suo valore quando ai singoli segmenti si toglie l’au- 
tonomia, e tutti vengono posti sotto il governo unico di un centro superiore. È questo 
un caso di accentramento di poteri reso necessario dalla complessità degli ordegni 
che si debbono mettere in azione perchè un atto respiratorio si compia, e dalla ne- 
cessità di una precisa regolazione, che si compia fuori del dominio della volontà e 
della coscienza. 

È ora nostro compito studiare per quali meccanismi la funzione bulbare si man- 
tenga così ininterrottamente ritmica e regolare. 


TL 


Regolazione del respiro per opera dei ga del sangue. 


L'ambiente nutritizio ha senza dubbio la maggiore importanza per la funzione 
del centro respiratorio. L'influenza che hanno i gaz del sangue, se anche si dissenta 
in qualche punto dalle opinioni di RosenTHAL che la mise in luce, non può essere 
disconosciuta. La prova più diretta ed evidente è la dispnea che segue alle inala- 
zioni di miscele gassose ricche d’acido carbonico. Vi fu tuttavia chi credette che 
l’acido carbonico non agisse direttamente sul centro respiratorio, ma indirettamente 
e per mezzo delle terminazioni nervose periferiche. Questa opinione ebbe origine 
dalle esperienze fatte su gli animali inferiori, e in questo caso, come in tanti altri 
che vedremo, è ben necessario guardarsi dal generalizzare i resultati ottenuti sopra 
una sola specie di animali. 

Negli anfibi l’acido carbonico agisce certamente per via riflessa e un'azione di- 
retta sul centro è molto dubbia. 

WinrersreIN (18) trovò che la dispnea prodotta dall’acido carbonico sulla rana 
cessa se si avvelenano con fenolo gli elementi sensitivi del midollo, e PARI trovò 


Serre II, Tom. LXII. ri 


398 i CARLO FOA 4 


che essa non si produce dopo il taglio dei vaghi. Nei pesci i fenomeni sono più 
complessi e vi è contraddizione tra i diversi ricercatori. 

Berne (19), IstrnarA (20), WesrerLuND (21), Kurprer (22), BABAK (23) negano 
che un aumento di concentrazione dell'acido carbonico nell’acqua provochi la dispnea 
nei pesci e non riuscirono che ad osservare un effetto deprimente e narcotico quando 
la concentrazione dell’acido carbonico era eccessiva, oppure un istantaneo effetto ini- 
bitorio sul respiro, di natura riflessa. 

Reuss (24) in un suo recente lavoro accusa i ricercatori precedenti di avere 
commesso l’errore di sperimentare su pesci fissati in un apparecchio di contenzione, 
il che basta a provocare un certo grado di dispnea, che rende difficile osservare un 
nuovo effetto dispnoico dell’acido carbonico. 

Reuss sperimentò su pesci d’acqua dolce lasciati liberamente nuotare nell’acqua, 
e vide che se si scioglie nell'acqua una quantità non eccessiva di acido carbonico, 
essa produce dispnea, mentre una concentrazione eccessiva produce la narcosi. 
KuLIaBKo (25) aveva del resto già trovato che facendo circolare nella testa isolata 
di un pesce il liquido di Ringer, ricco di acido carbonico, la dispnea si produce. Se 
però sui pesci esso reagisca direttamente o elevando l’eccitabilità riflessa, è cosa 
ancor dubbia. 

Animali che non risentono affatto l’azione dell’acido carbonico sono le tartarughe 
ibernanti, nelle quali Fano (26) vide rimanere immutato il respiro anche in un am- 
biente ricco di questo gas. 

Nei mammiferi l’azione dispnoica dell’acido carbonico è ben dimostrata. Winx- 
TERSTEIN in base alle ricerche fatte sulle rane credette dapprima poter generalizzare 
anche ai mammiferi la nozione che l’acido carbonico agisca sul centro per via ri- 
flessa, ma egli stesso in un lavoro successivo (27) dimostrò che esso agisce invece 
direttamente sul centro del respiro, poichè la dispnea si produce anche se prima 
sono state interrotte tutte le vie nervose periferiche che possono agire pet via ri- 
flessa sul centro. 

L'importanza dell’acido carbonico nel regolare il respiro degli animali superiori 
e dell’uomo fu studiata e messa in luce da HaLpaNE e dai suoi collaboratori (28). 
Essi dimostrarono che comunque vari, entro certi limiti, la concentrazione dell’acido 
carbonico nell’aria respirata, quella dell’aria alveolare rimane costante, e il mecca- 
nismo regolatore è dato dalla ventilazione polmonare che non permette l’accumulo 
di acido carbonico nel sangue. Basta che esso cresca nell'aria alveolare del 0,2 %/ 
perchè la ventilazione polmonare aumenti del 100 °/,! 

Anche l’ossigeno come l’acido carbonico non fa risentire la sua azione sopra 
tutte le specie animali: quell’azione che noi siamo soliti dedurre dalla dispnea che 
ha luogo quando vi è deficienza d’ossigeno. Le tartarughe ibernanti che per il loro 
lento ricambio hanno bisogno di minime quantità di ossigeno, non modificano il re- 
spiro in un'atmosfera di gaz asfittici (Fano (26)). Anche le rane adulte non risentono 
l’azione della deficienza di ossigeno (BAB&K (29)), e neppure se ne risente, secondo 
RaB4Kk e Kilnnovà (30), il centro che presiede ai movimenti respiratori della cavità 
boccale della salamandra. La deficienza di ossigeno produce invece la dispnea delle 
larve di libellule (31), nelle larve degli anfibi auuri (29) e se ne risente anche il 
centro che presiede alla respirazione polmonare delle salamandre (30). 


ta) SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 339 


Fu molto discusso se la deficienza di ossigeno producesse dispnea nei pesci, e 
molti autori lo negarono (ScHoenLEIN (32), BerHE (19), v. RynBERK (33)), ma essi 
sperimentavano sopra pesci fissati in un apparecchio di contenzione, quindi già dis- 
pnoici (BagLionI (34), U. Lomgroso (36), Reuss (24)) (*), mentre chi sperimentò su 
pesci liberi e normali potò constatare che la deficienza d’ossigeno nell'acqua pro- 
duce dispnea (IsutrARA (26), KurpER (22), BAGLIONI (34), WinrerstEIN (36), BABAK 
e Depék (23), BaB&K (37)). 

Come la deficienza di ossigeno produce dispnea nei pesci, così un eccesso d’os- 
sigeno nell’acqua dà luogo ad un rallentamento del respiro (20 e 21) e talora anche 
all'apnea completa (23, 24 e 25). 

Negli animali superiori il bisogno di ossigeno è molto maggiore e le sue va- 
riazioni si fanno maggiormente sentire sul respiro. Un animale che respiri un’aria 
confinata consumando progressivamente l'ossigeno, se anche si eviti l'accumulo di 
acido carbonico, cade in dispnea (HaLDANE e Pourron (38)). La deficienza di ossigeno 
è quindi capace di mettere in azione un meccanismo regolatore, atto a compensare 
l'organismo. Ma come possiamo noi concepire che la deficienza di un elemento possa 
costituire uno stimolo? Il concetto di stimolo è concetto positivo e ci obbliga ad 
ammettere la presenza di una sostanza eccitante, chè non basta a darci ragione del 
fatto, il ricorrere alla spiegazione teleologica dei bisogni dell'organismo. È ammesso 
in fatti che la deficienza di ossigeno non sia di per sè la causa della dispnea, ma 
agisca in modo indiretto dando luogo alla produzione di sostanze capaci di aumen- 
tare la funzionalità del centro respiratorio. 

Tali sostanze sarebbero i prodotti di ossidazione incompleta, e particolarmente 
l’acido lattico, che si formano nell’organismo durante l’anossiemia, e che non agi- 
rebbero, secondo HaLpanE e la sua scuola, come stimoli diretti del centro bulbare, 
ma lo renderebbero più sensibile all’azione dell’acido carbonico del sangue. Nella 
anossiemia è infatti necessaria una tensione dell’acido carbonico nell’aria alveolare 
molto minore del normale per produrre dispnea. I due principali gaz del sangue: 
ossigeno ed acido carbonico, agiscono dunque sul respiro per modo che le loro azioni 
si influenzano a vicenda, dando luogo a quel meraviglioso meccanismo di regolazione 
che fa del centro respiratorio un congegno perfettamente governato. DougLas e 
HarpaNE (39) paragonano questo congegno ai meccanismi autoregolari conosciuti in 
meccanica, e trovano che esso è così perfetto da evitare anche le irregolarità tem- 
poranee e periodiche che dipendessero dall’alternatività di una regolazione eccessiva 
o insufficiente. 

Mosso (40) aveva gia notato il fatto che la dispnea che segue alla respirazione 
di miscele ricche di acido carbonico non solo non cessa col cessare della sommini- 
strazione della miscela, ma neppure quando la concentrazione dell’acido carbonico 
nel sangue è ritornata normale. 

Doveras e HALDANE ripresero a studiare questo fenomeno, e lo analizzarono 


(#) Wesreetusp (21) sperimentava lasciando defluire l’acqua ricca d'ossigeno dalla vasca, e facen- 
dovi contemporaneamente penetrare una corrente d’acqua priva di ossigeno. Le due acque quindi si 
mescolavano, e l’animale continuava ad avere a disposizione ossigeno per qualche tempo. È perciò 
naturale che la dispnea comparisse con qualche ritardo. 


340 CARLO FOÀ 6 


meglio. Credo sia bene riferire i loro resultati per dimostrare come funzioni il mec- 
canismo regolatore del respiro normale. La dispnea che segue ad un arresto volon- 
tario del respiro nell’uomo, provoca un allontanamento dell’acido carbonico che si era 
accumulato nel sangue durante la pausa respiratoria, e continua quando la concen- 
trazione dell’acido carbonico è scesa al disotto del valore normale. Poi lentamente 
ritornano normali il respiro e la concentrazione dell’acido carbonico. Se il centro re- 
spiratorio reagisse rapidamente ad ogni cambiamento dell'acido carbonico, l’iperpnea 
non dovrebbe continuare tanto a lungo, perchè non appena la concentrazione del C0, 
fosse scesa nel sangue al disotto del normale, il respiro si dovrebbe arrestare, per 
ricominciare quando si fosse riaccumulato l’acido carbonico in quantità sufficiente. 
Si originerebbe così il respiro periodico, nè si capirebbe come esso potesse avere 
fine. Sarebbe pur questo un meccanismo regolatore del respiro, ma condurrebbe ad 
un resultato molto meno perfetto di quanto non si osservi, e ricorderebbe il mecca- 
nismo di un termoregolatore che determini o una fiamma troppo alta o una fiamma 
troppo bassa. Se invece lo scambio gassoso fra il sangue e il centro respiratorio non 
è istantaneo, l’acido carbonico accumulato nel centro durante la pausa respiratoria 
impiegherà un certo tempo ad allontanarsene e il centro se ne libererà non istan- 
taneamente come il sangue, ma con lenta progressione, diminuendo mano a mano 
il respiro di ampiezza fino a diventare normale. Si evitano così i bruschi passaggi, 
si evita la formazione di periodi, e il respiro si mantiene regolare. 

Se dunque consideriamo nella filogenesi come si comporti il centro respiratorio 
di fronte ai gaz del sangue, troveremo che se dapprima esso ne è indipendente, cre- 
scendo poi i bisogni dell’organismo, si sviluppano meccanismi regolari nuovi e de- 
licati così congegnati che a regolare la quantità dei due gaz di cui il centro abbi- 
sogna, concorrono i gaz stessi o direttamente o indirettamente. 

Non è questo un caso isolato nell'organismo; troviamo anzi molti altri analoghi 
casi e in generale vale la legge che i prodotti del metabolismo di un dato organo 
acerescono la funzione dell'organo stesso. Così i sali biliari aumentano la secrezione 
della bile, l’urea esalta la funzione renale, e l’acido carbonico stesso che si produce 
nel ricambio nutritizio di ogni tessuto favorisce molti processi fisiologici, quali tra 
gli altri la contrazione muscolare e la funzione del miocardio. Se noi vogliamo con- 
siderare la cosa da un punto di vista teleologico, potremo dire che nell’ organismo 
si risvegliano quei meccanismi regolatori che sono più adatti ad allontanare i pro- 
dotti inutili o dannosi. Ma con questo noi non avremo spiegato il fenomeno e resta 
pur sempre a conoscere per quale intimo meccanismo i prodotti dell’ attività di un 
tessuto esaltino la funzione del tessuto stesso. LANGENDORFF (41) definisce come pro- 
cesso automatico quello che avviene per stimoli interni, e tali stimoli sarebbero ap- 
punto rappresentati dai prodotti dell’attività del tessuto “ Das Lebensprodukt der 
Zelle ist ihr Erreger ,. Lo stimolo interno per il centro respiratorio sarebbe l’acido 
carbonico del sangue. 

Qui siamo giunti al punto più delicato della questione, che è quello di sapere 
che cosa l’acido carbonico rappresenti per il centro respiratorio: se una condizione 
che ne favorisce la funzione, oppure uno stimolo. Che differenza stabiliremo tra 
condizione e stimolo, e possiamo sopratutto stabilirne una? LAnGENDORFF (42) a pro- 
posito dell’azione favorevole che i sali di calcio esercitano sul cuore ammette che 


( SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO S41 


alle sostanze capaci di aumentare l'ampiezza della contrazione cardiaca non si debba 
dare il nome di stimolo, e che questa denominazione debba essere riservata a quelle 
sostanze che aumentano il numero delle contrazioni cardiache. La base di questa sua 
distinzione è nella legge di Bowprrc® che stabilisce l'indipendenza della forza di 
contrazione del cuore dalla intensità dello stimolo. Evidentemente questa distinzione 
di Lancenporer non ha la portata generale che egli le attribuisce. La legge di 
Bowpirc® vale per il cuore soltanto, e non ad es. per i muscoli dello scheletro la 
cui forza di contrazione cresce col crescere dell'intensità dello stimolo. 

D'altra parte la distinzione di LANGENDORFF non può in ogni caso valere che 
per i fenomeni che si svolgano ritmicamente nel tempo, così che si possano distin- 
guere i due elementi: intensità della reazione e numero delle reazioni nell’unità di 
tempo. L’acido carbonico sarebbe secondo LancenpoREF uno stimolo del centro respi- 
ratorio soltanto perchè è capace di aumentare il numero dei respiri, non perchè ne 
aceresca la profondità, e questa distinzione male si accorda col fatto messo in evi- 
denza da Scorr (43) che in certe condizioni l’acido carbonico aumenta la profondità 
del respiro lasciandone inalterato o anzi rallentando il ritmo. Con numerose’ espe- 
rienze io ho potuto stabilire che nella narcosi profonda le inalazioni di acido carbo- 
nico producono nel cane un aumento delle escursioni respiratorie e un rallentamento 
del ritmo, e confermai le esperienze di Scorr secondo le quali lo stesso fenomeno si 
verifica anche nell’animale sveglio subito dopo il taglio dei vaghi quando gli si fac- 
ciano respirare miscele gassose molto ricche di acido carbonico. 

Se dunque teniamo presente che, eccezion fatta per l’attività cardiaca, aumen- 
tando lo stimolo, cresce l'intensità delle funzioni di un tessuto, e che l’acido car- 
bonico può agire sia accelerando il ritmo respiratorio, sia aumentando la profondità 
del respiro, e in condizioni normali producendo l’uno e l’altro effetto, la distinzione 
di LancenporeF apparirà destituita di fondamento. 

Ma allora sopra quale altro carattere differenziale potremo noi stabilire la di- 
stinzione tra stimolo e condizione favorevole? La dinamite spontaneamente non 
esplode, ma un urto basta a determinarne l'esplosione: ecco un esempio di stimolo. 
In questo caso lo stimolo determinerebbe una liberazione di energia nel sistema in 
quantità molto maggiore di quella somministrata dallo stimolo stesso. Potrebbe 
dunque servire questo esempio a definire che cosa s’intenda per stimolo? Se noi as- 
sumessimo senz’altro questa definizione di stimolo, credo che ci troveremmo forte- 
mente imbarazzati ad applicarla al linguaggio fisiologico. 

Consideriamo ad esempio una reazione chimica che non possa avvenire in causa 
della bassa temperatura che conferisce alli ioni una mobilità troppo scarsa. Un au- 
mento di temperatura che ne aumenti la mobilità e determini la combinazione degli 
elementi, deve esso considerarsi come stimolo della reazione? Il caso non è molto 
diverso da quello dell’urto e della dinamite; anche qui troviamo una sproporzione 
tra l’energia calorifica somministrata e quella che si svolge nella reazione, anche qui 
siamo di fronte ad una causa determinante una reazione che spontaneamente non 
avveniva. Eppure nessun fisiologo ha mai classificato la temperatura tra gli stimoli 
delle attività fisiologiche, e tutti si limitarono a definirla una delle condizioni favo- 
revoli all’esplicarsi di queste attività. 

Consideriamo il caso dei catalizzatori: nella definizione divenuta ormai classica 


342 CARLO FOÀ 8 
di OsrwaLp, catalizzatore è quella sostanza che determina l’acceleramento di una 
reazione che avverrebbe anche spontaneamente, ma con estrema lentezza. Qui appare 
più chiaro che si debbano mettere i catalizzatori fra le condizioni facilitanti una 
reazione piuttosto che fra gli stimoli; ma non è questo un caso analogo a quello 
della temperatura che acceleri la velocità di una reazione già incominciata? Quando 
è dunque che la temperatura cessa di poter essere paragonata all’urto per la dina- 
mite e comincia ad essere paragonata al catalizzatore? 

La distinzione fra le sostanze o le condizioni che determinino l’inizio di una 
reazione e quelle che soltanto ne accelerino la velocità non è dunque tanto facile, 
e il caso della temperatura si complica ancor maggiormente se se ne considera l’azione 
sui processi fisiologici, molti dei quali sono da essa esaltati non direttamente, ma 
in virtù dell'acido carbonico che in maggior copia si sviluppa per un aumento della 
respirazione del tessuto, o per una maggior distruzione di zucchero provocata dal- 
l'aumento di temperatura. Cerchiamo di approfondire maggiormente lo studio di 
questo problema col cercare di scoprire per quale meccanismo l’acido carbonico possa 
agire sul centro respiratorio. 

Rosertson (44) dopo aver dimostrato che molti acidi applicati dirrettamente sul 
centro respiratorio della rana accelerano il ritmo respiratorio, e dopo aver constatato 
con un particolare indicatore che la reazione del tessuto nervoso che ha funzionato 
diviene acida, ammette che l’acido carbonico che si produce nell’attività del centro 
bulbare agisca a sua volta esaltandone la funzione. Si tratterebbe di un processo di 
autocatalisi nel quale uno dei prodotti della reazione agirebbe aumentando la velocità 
della reazione stessa. Anche WinrERstEIN (45) avendo trovato che con la perfusione 
artificiale di liquido di RinGER, nei centri nervosi, si riesce a mantenere il respiro 
di un coniglio «di pochi giorni di vita, a condizione che nel liquido di RinerR sia 
disciolta una certa quantità di acido carbonico, ammette che questo agisca come 
acido, in virtù cioè degli idrogenioni provenienti dalla sua, sebbene scarsa, dissocia- 
zione; ma come questi agiscano sul centro egli non dice. 

Più chiaramente si esprimono GilrBER (46) e HoEBER (47) i quali spiegano l’azione 
eccitante degli idrogenioni ammettendo che essi modifichino la permeabilità della 
membrana cellulare per quelli ioni che stimolerebbero l’attività della cellula. L’acido 
carbonico non agirebbe dunque come prodotto di una reazione autocatalitica, ma 
come causa facilitante lo scambio tra cellule ed elettroliti. 

Questa teoria mi pare s’avvicini più al vero di quella di RoBERTSON, perchè non 
ci riesce facile concepire una reazione autocatalitica discontinua e ritmica come sa- 
rebbe quella che accompagna l’attività del centro respiratorio, nella quale cioè la 
velocità di reazione subirebbe rallentamenti e acceleramenti ritmici. Le poche rela- 
zioni autocatalitiche che conosciamo sono reazioni continue. 

HerLITZKA (48) riassume le più recenti ed attendibili ricerche di autori diversi 
e le sue, dicendo che lo stato di attività cellulare è accompagnato da un mutamento 
dello stato elettrico dei colloidi plasmatici, accompagnato da una dissoluzione rever- 
sibile dei colloidi stessi, considerando come causa di tali mutamenti gli anioni a dif- 
ferenza dei cationi. È quindi naturale che ogni causa che faciliti l’azione degli 
anioni modificando la permeabilità cellulare, aumenti l’ attività di un tessuto. Ma nel 
caso dell’acido carbonico, come si esplica questa sua azione sulla permeabilità cellulare ? 


9 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 343 


da 


Alla teoria di Horser che attribuisce tutta l’importanza agli idrogenioni, 
HerLITZKA ne ha recentemente contrapposta un’altra. Studiando l’azione di diverse 
sostanze disciolte sull’attività dei centri nervosi, trovò che le sostanze più atte a 
mantenerne alta la funzionalità, sono quelle dotate di un leggero potere lipoidolitico. 
L'urea, l’uretano, l’acetamide sarebbero secondo HerLTZzKA e VraLe (49) tra queste 
sostanze. Anche l’acido carbonico secondo le ricerche di Overton (50) è un leggero 
lipoidolitico, e non v'è dubbio che anche altri lipoidolitici più forti prima di eser- 
citare sui centri nervosi un'azione deprimente e narcotica, ne esaltano la funzione. 
Citerò tra gli esempi più noti il cloroformio e l’etere. 

L'acido carbonico nella sua qualità di leggero lipoidolitico agirebbe secondo 
HeruITZKA sia ostacolando l’azione precipitante e inibente dei cationi e favorendo 
quella dissolvente e stimolante degli anioni, sia modificando la permeabilità della 
membrana cellulare per gli elettroliti. 

Sia che si concepisca in questo modo l’azione dell’acido carbonico sul centro 
respiratorio, sia che la si consideri come quella di un acido qualsiasi, è chiaro che 
esso deve essere considerato non come uno stimolo, ma come una sostanza che favo- 
risce indirettamente la funzione respiratoria. 


Il. 


Regolazione del respiro per opera dei vaghi 
e degli altri nervi sensitivi del’apparato respiratorio. 


Sull’attività del centro respiratorio hanno grande influenza gli eccitamenti portati 
dai nervi sensitivi. BABAK ha dimostrato che anche quando il centro non risente 
ancora l’azione delle modificazioni dei gaz del sangue, come avviene per il centro 
della respirazione boccale negli anfibi urodeli, esso reagisce invece per via riflessa 
agli stimoli nervosi periferici. 

Questi esercitano una notevole azione sul respiro dei pesci. VAN RyNBERK (38) 
provocò energici riflessi respiratori eccitando la cute dei pesci con stimoli meccanici 
od elettrici, e provocò un riflesso espulsivo simile a quello messo in evidenza da 
BaetionI (34), con l’eccitamento delle fauci, delle fessure branchiali, delle narici e 
della cornea. BAGLIONI vide inibirsi per via riflessa il respiro, trasportando i selacei 
dall'acqua nell'aria; Ugo LowBRoso (51) provocando la stenosi o la insufficienza della 
bocca o delle fessure branchiali trovò che l’apparato respiratorio modifica per via 
riflessa i propri movimenti coordinandoli in modo da ovviare agli inconvenienti pro- 
dotti da quelle alterazioni; DEGANELLO (52) scoperse con appropriate esperienze che 
sul centro respiratorio possono agire per via riflessa non soltanto le stimolazioni del 
vago ma anche quelle del nervo mascellare superiore, che già si trova normalmente 
in eccitamento tonico. 

Nei mammiferi i vaghi possono dar origine a diversi riflessi respiratori. A tutti 
è nota la classica esperienza di BreuRr-HrrING secondo la quale per la via dei vaghi ogni 
atto inspiratorio forzato ne provoca uno espiratorio e viceversa. 

Nella rana l’esperienza non riesce (SterERT (53)), il che è forse in rapporto col 
fatto che il nervo vago nella rana non si comporta come nei mammiferi, e il taglio 


344 CARLO FOÀ 10 


di questo nervo non provoca nella rana gli stessi effetti che provoca, ad esempio, 
nel cane. 

Nella lucertola invece SierERT potè ripetere con resultato positivo l’esperienza 
di Breur-HerING, e ventilando energicamente i polmoni di questi animali, ottenne 
l’apnea, che più non si produceva dopo il taglio dei vaghi. 

Nei mammiferi sono noti altri riflessi oltre a quelli provocati dall’eccitamento 
dei vaghi. R. Du-Bors-Revmonp e HarzENsTEIN (54), trovarono che una compres- 
sione passiva del torace determina la costrizione della glottide, e che il ritorno 
elastico del torace alla posizione inspiratoria provoca la dilatazione della glottide. 
La via sensitiva di questi riflessi sarebbe nell’innervazione dei muscoli e delle fasce 
tendinee delle pareti toraciche. L’eccitamento del frenico che conduce all’atto inspi- 
ratorio della contrazione diaframmatica, provoca l’adduzione delle corde vocali che 
è un atto espiratorio. 

Secondo Misrawsky (55) l’eccitamento del centro tendineo del diaframma o la 
stimolazione del moncone periferico del frenico produce l’arresto espiratorio del torace. 
BaezIonI (56) trovò che una contrazione del diaframma nel coniglio, ossia un atto 
inspiratorio provoca dapprima la dilatazione poi la chiusura delle narici. Lo stesso 
effetto si ottiene stimolando il moncone centrale dei nervi frenici che costituiscono 
dunque la via sensitiva di questo riflesso. 

JAPPELLI (57) trovò che il ritmo respiratorio può incronizzarsi col ritmo diverso 
di eccitamenti periferici, quali quelli che provengono dal salto, dalla corsa, ecc. 

To non voglio maggiormente soffermarmi nella trattazione di tali riflessi che 
sono descritti in ogni buon trattato di fisiologia e non accennerò che al carattere 
che essi hanno comune: ogni atto inspiratorio artificialmente provocato, ne desta 
immediatamente uno espiratorio. 

Mi riserbo di discutere più avanti il valore che possono avere queste esperienze 
nell’interpretazione del respiro normale. 

Al problema dei riflessi respiratori, si riconnette quello delle cause dell’apnea, 
e nell’analisi di questo fenomeno appare quali importanti rapporti corrano tra l’azione 
dei nervi centripeti sul centro respiratorio e la tensione dei gaz nel sangue. Non mi 
soffermo ora su tali questioni, perchè di esse ho trattato in altri miei scritti ai quali 
rimando il lettore (58, 59, 60). i 


IV. 


Le prove dell’automatismo del centro respiratorio. 


Cominciamo a prendere in esame il respiro dei pesci. Basandosi sopra l'influenza 
esercitata dagli stimoli periferici sul respiro dei pesci, BeTHE (19) sostiene che esso 
sia mantenuto soltanto in virtù di quei riflessi destati dal contatto dell’acqua sulla 
superficie della cute e delle mucose. L'esperienza che dovrebbe portare il miglior 
contributo a questa dottrina dimostrerebbe che la cocaina, anestetizzando i nervi di 
senso, arresterebbe il respiro. Scorrendo tutta la letteratura sul respiro dei pesci 
non ho trovato altra esperienza che questa che avesse la parvenza di essere dimo- 
strativa — tutti gli altri autori che sostennero il respiro dei pesci non essere che 


11 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 345 


un riflesso, sì basarono unicamente sull’esistenza di riflessi respiratori, senza poter 
dimostrare che questi siano necessari a mantenere il respiro. Ma anche l’esperienza 
della cocaina venne luminosamente contraddetta. V. RynBERK (83) dimostrò che la 
cocaina non limita la propria azione ai nervi periferici di senso ma viene assorbita 
ed agisce direttamente sui centri nervosi, Istimara e WersreRLUND (20 e 21) giun- 
sero alla medesima conclusione e dimostrarono che, se l’azione della cocaina vien 
limitata alle branchie e alla mucosa delle fauci, il respiro non si arresta. ISHIHARA 
dimostrò inoltre che neppure l’asportazione della branchie basta ad arrestare il 
respiro. Che l’acqua e i riflessi destati dal suo contatto sulla superficie del corpo, 
fosse condizione necessaria al respiro dei pesci venne sostenuto da BerHE, ma resulta 
dalle esperienze di WesreRLUND che i pesci d’acqua dolce continuano a respirare 
per qualche tempo anche nell’aria, e secondo Uso LomBroso (35) anche nell’olio. — 
Chè se il respiro dei selacei si arresta quando il pesce vien trasportato nell’aria, 
questo arresto non è duraturo, ed esprime in ogni caso un riflesso provocato dall’aria 
e non la cessazione di riflessi provocati dall’acqua. 

KurraBKo vide mantenersi il respiro nella testa isolata di Accipenser ruthenus 
per circa un’ora anche senza fare la circolazione artificiale, e BAGLIONI aveva già 
osservato lo stesso fenomeno nella testa isolata di Scy/Z4wm, mantenendo intorno al 
bulbo un’atmosfera di ossigeno. 

Nessuna esperienza dimostra adunque che gli eccitamenti periferici siano neces- 
sari per mantenere il respiro dei pesci, e molte tendono anzi a dimostrare che essi 
non siano necessari affatto, il che conduce a ritenere che il centro respiratorio dei 
pesci funzioni in modo automatico, come appunto sostengono WestERLUND e KUIPER; 
pur non escludendo che sulla base dell’automatismo bulbare possano innestarsi cause 
perturbatrici o regolatrici di origine riflessa. 

Negli anfibi le prove che si credettero dare dell’automatismo bulbare non son 
tutte sicure. Il fatto osservato da SokoLow e LucaHsincER (61), da LANGENDORFF e 
SreBEeRT (62), che il respiro persista e assuma la forma periodica dopo l’allacciatura 
dell’aorta e la sostituzione di acqua salata al sangue, non esclude che gli stimoli 
periferici non vengano ancora risentiti dal centro respiratorio e non siano la causa 
del perdurare del respiro. Nè quest’ipotesi può essere negata dal fatto osservato da 
BaB&K che il centro respiratorio della rana e quello che presiede alla ventilazione 
della cavità boccale della salamandra non risentono nè la deficienza di ossigeno, nè 
l’azione eccitante dell’acido carbonico, perchè il centro potrebbe tuttavia aver con- 
servato la sua eccitabilità per gli stimoli nervosi periferici. 

Ma il fatto trovato da Lancenporre (63), da ScHRADER (64) e da KxoLx (65) 
che il respiro nella rana può continuare quando il centro respiratorio è isolato da 
tutti i nervi sensitivi e dal midollo spinale, permette di concludere che neppure per 
gli anfibi gli stimoli nervosi siano necessari a mantenere il respiro e che il centro 
respiratorio sia automatico. i 

Che così stiano le cose nei rettili è dimostrato da esperienze sicure. SIEFERT (53) 
fece sulle lucertole una serie di interessanti esperienze. Mettendo una lucertola in 
un'atmosfera di idrogeno, dopo un periodo di dispnea, di irrequietudine e di violente 
contrazioni muscolari, l’animale cade in profondo sopore e non reagisce agli stimoli. 
Riportato l’animale nell’aria il respiro dopo un po’ di tempo ritorna, e l’animale 

Serie II. Tow. LXII. st 


346 CARLO FOÀ 12 


continua lungo tempo a respirare, prima che i riflessi e l’eccitabilità per stimoli peri- 
ferici, riappaiano. 

Il respiro non può dunque avere un'origine riflessa e si deve ammettere che 
continui per un'attività automatica del centro respiratorio. Quest’attività venne poi 
messa in evidenza dal Siefert con uw’altra esperienza che è tra le più complete che 
siano state fatte in quest'ordine di studi. 

Ad una lucertola fece successivamente le operazioni seguenti: il taglio dei 
vaghi, il taglio trasversale di tutto l’animale al disotto della 4% vertebra dorsale, 
l'allontanamento degli arti anteriori, dei muscoli del collo, della pelle del tronco e 
del cervello medio e anteriore. Di tutto l’animale non restava che il bulbo attaccato 
al midollo cervicale e ad un pezzo di midollo dorsale in connessione con un fram- 
mento di torace, e ciò non di meno il respiro delle coste superstiti si mantenne di 
di altezza normale, sebbene molto rallentato. 

Chè se a questa esperienza ancora si volesse obbiettare che gli stimoli nervosi 
potessero giungere al centro respiratorio dai pochi muscoli intercostali e dalle poche 
fasce tendinee superstiti, questa obbiezione sarebbe destituita di ogni fondamento di 
fronte alle esperienze di FANno (26) sul respiro delle tartarughe ibernanti. Egli osservò 
che il respiro di questi animali ha un andamento periodico, e che non viene per 
nulla modificato nè dall’azione dell’acido carbonico, nè da quella di gaz asfittici, nè, 
ciò che più importa, da alcun eccitamento periferico. Un centro respiratorio che fun- 
zioni pur non essendo per nulla eccitabile non può trarre la propria attività se non 
da processi automatici che avvengono nell’intimità del suo tessuto. In questi ani- 
mali nei quali il ricambio è lentissimo, i gaz del sangue non esercitano influenza alcuna 
e il substrato automatico del centro respiratorio si rende più facilmente palese. 

Con queste esperienze sulle tartarughe ibernanti Fano ha posto per il primo 
una base sicura alla teoria dell’automatismo bulbare, sostenendo che il centro respi- 
ratorio possa funzionare indipendentemente dalla sua eccitabilità e da qualsiasi 
stimolo. È 

Per i mammiferi il problema è reso più complicato dalla difficoltà di dimostrare 
che i riflessi artificialmente provocabili, non avvengano anche normalmente ad ogni 
atto respiratorio. Tuttavia alcune antiche e recenti esperienze dimostrano che molti 
dei movimenti respiratori che si credettero conseguenza riflessa di altri movimenti, 
ne sono invece indipendenti. Così, se è vero che alcuna contrazione del diaframma 
provoca la chiusura delle narici (BAGLIONI (56)), è pur vero che i movimenti respi- 
ratori delle narici del coniglio si compiono anche dopo i tagli dei frenici. Anche la 
classica esperienza di Breur-HerING e i resultati di SreranIi e SieHICELLI (66) se 
sono veri per stimolazioni artificiali delle terminazioni polmonari del vago, provocate 
da energiche insufflazioni od aspirazioni nei polmoni, non dimostrano che i vaghi 
abbiano la stessa funzione anche nel respiro normale. Gap (67) aveva già affermato 
che nessuna fibra inspiratrice del vago viene eccitata durante un’espirazione normale, 
e ScHENK (68) riconfermò questo fatto dimostrando che soltanto un’espirazione for- 
zata è capace di provocare per via riflessa un atto inspiratorio. La prova più evi- 
dente di questo fatto è recata dalle esperienze di LewanpowsKy (69), di ALKocH e 
SEEMANN (70) e di ErnrHoven (71) i quali raccogliendo e registrando col galvanometro 
le correnti d’azione del nervo vago, trovarono che esse si svolgono nel respiro 


13 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 347 


normale soltanto durante l’inspirazione, e che l’espirazione non le provoca se non 
quando essa è violenta come quella che si ottiene facendo una rapida ed energica 
aspirazione in trachea. Non si può disconoscere che queste esperienze gettano 
gravissimi dubbi sulla teoria dell’autogoverno del respiro per opera dei vaghi, e in 
generale sulle dottrine che vorrebbero metter la funzione del centro respiratorio alla 
dipendenza esclusiva degli eccitamenti nervosi periferici. 

Ma noi vogliamo ora gettare uno sguardo sulle prove più dirette della insoste- 
nibilità di quella dottrina. 

Un'esperienza molto analoga a quella di Srererr sulla lucertola, fecero StewART 
e Pre sul cane (72, 73). Invece di produrre l'arresto del respiro e la ineccitabilità 
dell'animale portandolo in un'atmosfera di idrogeno, essi provocarono questi feno- 
meni coll’occlusione delle arterie del capo. A capo di pochi minuti il respiro si 
arresta ed il centro respiratorio diviene ineccitabile per stimoli portati sui vaghi, 
sul plesso brachiale o su altri nervi di senso. Se a questo punto si riaprono le 
arterie cefaliche e si permette al sangue di irrorare i centri nervosi, il respiro rico- 
mincia malgrado persista la ineccitabilità del vago e del plesso brachiale e di altri 
nervi centripeti. In questo periodo anche il taglio di quei nervi o la separazione 
del bulbo dal resto dell’encefalo rimane senza effetto. In conclusione il respiro per- 
mane quando ancora il centro non ha riacquistato l’eccitabilità per stimoli nervosi 
periferici e questo prova che il centro respiratorio deve essere dotato di potere 
automatico. 

Recentemente WinrERSsTEIN (74) portò una nuova prova dell’automatismo del 
centro bulbare. Egli si valse delle esperienze di DirtLER (75) che avevano dimo- 
strato con l’aiuto del galvanometro di ErnrHoven l’esistenza di ritmiche correnti 
lungo i frenici e corrispondenti agli atti respiratori. Tali correnti che rappresentano 
gli impulsi inviati ai frenici del centro respiratorio, persistono secondo WIxnTERSTEIN 
anche quando col curare si siano immobilizzati i muscoli respiratori di un coniglio 
e si sia sospesa la ventilazione polmonare. Erano così evitati tutti gli impulsi sen- 
sitivi che il movimento delle pareti toraciche avrebbe potuto inviare al centro. A 
dir vero, questa esperienza potrebbe ancora provocare l’obbiezione che gli stimoli 
possano ugualmente derivare al centro bulbare anche dai muscoli toracici in istato 
di riposo, e che anche un tale stimolo continuo possa trasformarsi nel centro in uno. 
stimolo ritmico. In ogni caso l’esperienza di WinrersrEIN nella quale ogni movi- 
mento respiratorio è abolito e pure il centro funziona in modo ritmico, dimostra 
tuttavia insostenibile la dottrina di Breur-Hrrine secondo la quale il respiro non 
‘sarebbe mantenuto che da un giuoco alterno di moti inspiratori che richiamerebbero 
per via riflessa moti espiratori e viceversa. 

La dottrina dell’automatismo del centro respiratorio ha del resto per i mammi- 
feri la sua piena conferma anche in altre esperienze. Si osservino i tracciati 2 e 3. 
Si tratta di un cane al quale sono stati recisi i vaghi da pochi minuti e al quale 
con un soffietto vien fatta la ventilazione artificiale dei polmoni con un ritmo molto 
più rapido di quello del respiro normale. L'esperienza dimostra che non solo non si 
produce l’apnea, ma che il respiro spontaneo continua malgrado i movimenti impressi 
al torace dalla ventilazione artificiale, e a questi si impone per modo che ne risulta 
chiara l'impronta nel tracciato. Quale più evidente dimostrazione che il centro respi- 


348 CARLO FOÀ 14 


ratorio funziona del tutto indipendente dagli stimoli nervosi recatigli dalle pareti 
toraciche ? Se così non fosse, potrebbe il centro non risentire l'influenza di stimoli 
che per opera della ventilazione artificiale gli giungono con ritmo tanto diverso dal 
normale? Esso invece conserva inalterato il proprio ritmo, anche se la ventilazione 
artificiale polmonare viene per lungo tempo praticata (fig. 3). 

Passiamo ora ad un’altra serie di esperienze (59) con le quali ho dimostrato 
possibile ottenere l’apnea ventilando i polmoni di un animale narcotizzato, anche 
quando sia escluso ogni eccitamento periferico, apnea alla quale ho riservato il nome 
di apnea da acapnia, perchè essa dipende dalla diminuita tensione dell’acido carbo- 


J UIAREEGRANEREERa RENE SU Rao ENROSSSRRRULEREOÌ ITFTTIIT 


nico del sangue. Coloro che spiegano l’automatismo del centro respiratorio e fanno 
dipendere la sua attività esclusivamente dagli eccitamenti periferici, potrebbero pen- 
sare che l’acido carbonico sia necessario a mantenere il respiro, solo perchè esso 
mantenga alta l’eccitabilità del centro respiratorio per gli stimoli nervosi periferici, 
e che l’apnea da acapnia dipenda da questa eccitabilità diminuita. 

Questa ipotesi non era difficile da controllare: bastava misurare la eccitabilità 
del centro respiratorio prima e dopo aver allontanato l’acido carbonico del sangue. 

Quelle esperienze permettono di concludere che durante l’apnea da acapnia, cioè 
quando l’acido carbonico sia stato allontanato dal sangue con mezzi che non provo- 


Fig. 3 


chino alcun eccitamento di nervi di senso, la eccitabilità del centro respiratorio per 
stimoli periferici portati da nervi di senso non viene per nulla modificata. 

La diminuzione dell'acido carbonico non produce dunque l’apnea perchè abbassi 
l’eccitabilità bulbare per gli stimoli nervosi periferici, ma per un'azione diretta che 
essa esercita sul centro respiratorio. Se dunque il respiro può arrestarsi quando nè 
quegli stimoli nè l’eccitabilità bulbare sono modificati, siamo indotti a ritenere che 
gli eccitamenti periferici non sono sufficienti a mantenere il respiro. 

Ed ora veniamo a dimostrare che essi ron sono neppur necessari. Tra le prove del- 
l’automatismo del centro respiratorio vien citata generalmente l’esperienza di RosENTHAL, 
il quale vide permanere i moti respiratori del naso e della laringe anche dopo aver 


15 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO S49 


separato il bulbo dal cervello e dal midollo spinale. Ma un’altra esperienza di 
RosENTHAL (76) pare a me abbia maggior importanza, ed è quella nella quale egli 
vide permanere il respiro costale dopo aver tagliato i vaghi, separato il bulbo dal 
cervello, il midollo cervicale dal dorsale, e dopo aver reciso tutte le radici posteriori 
del midollo cervicale. 

Questa esperienza non è tuttavia completa, e non tutte le vie sensitive che pos- 
sono recare eccitamenti al centro respiratorio sono state escluse, poichè non furono 
recisi il simpatico ed i frenici, e per la stessa ragione riuscì incompleta l’esperienza 
quale venne ripetuta da MarkwaLD (76°). L'azione esercitata sul respiro dal frenico 
è ben nota; quella che può esercitare il simpatico è stata messa in evidenza da 
HaxBureER (77). Era dunque necessario completare l’esperienza di RosentHAL esclu- 
dendo anche queste vie sensitive, ed è quanto io potei fare con buon resultato, 
prendendo per la gravissima serie di operazioni, quelle precauzioni che già RosENTHAL 
aveva detto esser necessarie, sopratutto quelle di mantener caldo l’animale, di evi- 
tare le emorragie troppo gravi, e di mantenere una moderata ventilazione polmonare. 

A due conigli e ad un cane sotto l’azione del cloralio, vennero tagliati i vaghi, 
il simpatico al collo, i laringei superiori ed inferiori, i frenici, vennero recise le 
radici posteriori del midollo cervicale, venne separato il midollo cervicale dal dor- 
sale e il bulbo dal resto dell’encefalo (*). Come si modifichi il respiro dopo ciascuna 
delle operazioni che ho detto, è descritto in parte da RosenTHAL, in parte ho io 
stesso descritto (59). 

Esso non solo è più lento del normale, ma è divenuto fortemente irregolare per 
ritmo, per profondità e per forma e manifesta due dei caratteri che assumono i 
movimenti dei muscoli degli arti, dopo il taglio delle radici posteriori corrispondenti : 
è divenuto atassico ed astenico. Atassico perchè disordinato nel ritmo e nella pro- 
fondità, astenico per il manifesto sforzo dei muscoli del torace ad ogni atto inspi- 
ratorio, e per la rapidità con la quale, dopo aver sollevato a stento le pareti toraciche 
essi ricadono nella posizione espiratoria di riposo. 

Ma sebbene così profondamente alterato il respiro non si arresta, e questo 
dimostra chiaramente due fatti importanti: che la funzione del centro respiratorio 
non è dipendente dagli stimoli nervosi periferici, ma che questi hanno una grande 
influenza sulla regolarità del respiro. 

L’azione regolatrice dei nervi sensitivi dell’apparato respiratorio è quella che 
secondo Luciani (78) obbliga il respiro ad assumere l'andamento “ più adatto a pro- 
durre col minimo dispendio di energia quel grado di ventilazione polmonare che è 
sufficiente ai bisogni chimici dell’organismo ,. La regolazione del respiro sarebbe, 
secondo Lucrani, mantenuta in modo diverso dai gaz del sangue e dall’azione dei 
vaghi, servendo i primi a regolare la profondità del respiro, i secondi a regolarne 
la frequenza. 

Una così netta distinzione non mi pare si possa sostenere, se si ponga mente 
che l'aumento della frequenza respiratoria prodotta dall’acido carbonico, si produce 


(*) Resterebbero ancora le vie sensitive intrabulbari del glosso-faringeo e del trigemino, ma, 
come già fecero osservare MarkwaLp (76 bis) e Luciani (79), questi nervi non sono in eccitamento 
tonico, e d’altra parte la profonda narcosi è sufficiente a metterli fuori d’azione. 


350 CARLO FOÀ 16 


nell’ animale sveglio e normale, anche dopo il taglio dei vaghi, purchè si lascino 
trascorrere alcune ore dopo l'operazione, perchè scompaiano i fenomeni irritativi da 
essa prodotti. Comunque, è certo che il sistema respiratorio rappresenta nel suo 
insieme un sistema a regolazione automatica, in quanto sull’ordegno principale e 
centrale si innestano diversi meccanismi regolatori, che ne rendono perfettamente 
ritmica e regolare la funzione. Ma da questo concetto di automatismo del sistema 
respiratorio, noi dobbiamo passare a quello dell’automatismo del centro, poichè è 
dimostrato che la funzione respiratoria non s’arresta se anche vengano a mancare 
gli ordegni regolatori estrinseci. 

Se vogliamo adunque sintetizzare i resultati e le considerazioni che siamo venuti 
fino ad ora esponendo, diremo che il centro respiratorio è automatico, o, per usare 
la parola di Gap, è autoctono, che a mantenerne la funzione concorrono condizioni 
di ambiente, quali tra le altre la presenza di ossigeno, e di una certa quantità di 
acido carbonico nel sangue che lo irrora, condizioni il cui grado di necessità aumenta 
coll’aumentare della complessità della funzione respiratoria nella scala zoologica, e 
che infine sovra la base dell’automatismo bulbare possono innestarsi i meccanismi 
regolatori rappresentati dagli eccitamenti recati al centro, dai nervi di senso del- 
l’apparato respiratorio. 


V. 


Lo sviluppo delle funzioni del centro respiratorio. 


Vediamo ora come si evolvano le funzioni del centro respiratorio nelle diverse 
specie di animali e nello sviluppo dell'individuo. Secondo BABAK l’attività del centro 
respiratorio è originalmente determinata dal bisogno di ossigeno. Le larve delle 
libellule respirano tranquillamente fino a che nell’acqua vi è un po’ di ossigeno: se 
questo viene a mancare, si produce la dispnea; se ve ne è in eccesso, il respiro subisce 
un arresto, che perdura fino a che l’ossigeno introdotto coi precedenti atti respira- 
torìî, sia consumato. Nello stesso modo si comporta il centro respiratorio della Sala- 
mandra, che presiede alla respirazione polmonare, mentre quello che presiede alla 
ventilazione della cavità boccale non risente i mutamenti dell’ossigeno. La differenza 
che è fra questi due centri, è pure tra quello della rana adulta e quello della larva 
di rana. 

Il primo non risente nè l'eccesso, nè la deficienza dell’ossigeno, il secondo sì. 
Secondo BagAx la ragione di queste differenze sta nel diverso consumo di ossigeno 
nell'organismo, in rapporto alla quantità disponibile. Il centro della respirazione boc- 
cale della salamandra deve funzionare di continuo, e portare l'ossigeno alla mucosa 
orale che ha funzione respiratoria; il centro della respirazione polmonare non deve 
funzionare se non quando sono deficienti la respirazione orale e cutanea, cioè quando 
vi è deficienza di ossigeno. 

Così la larva di rana che ha bisogno di molto ossigeno e non ne ha molto a 
disposizione nell’acqua risente l’azione della deficienza, mentre la rana adulta in cui 
le ossidazioni sono scarse e l'ossigeno a disposizione nell’aria molto abbondante, e 


17 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 951 


forte la respirazione cutanea, non ha un centro respiratorio dotato di quel mecca- 
nismo di autoregolazione. 

Il caso più evidente di un centro che non funziona se non quando la deficienza 
di ossigeno lo spinge, è quello offerto dal cobytis fossilis, pesce di acqua dolce, il cui 
respiro venne a fondo studiato da BapAK e Depfk (23) e da CaLuearrANU (80). È 
questo un animale che possiede due distinti ed attivi sistemi respiratori, uno rap- 
presentato dai polmoni, l’altro dalla mucosa intestinale. 

Questo pesce si porta ogni tanto alla superficie dell’acqua, deglutisce un po’ 
d’aria, poi ritorna sul fondo del vaso e la respirazione branchiale è sospesa. Consu- 
mata la riserva di ossigeno le branchie cominciano a muoversi ed il respiro branchiale 
continua fino a che l’animale non deglutisca altra aria, e se questa è ricca d’ossi- 
geno, l’apnea branchiale può durare molto a lungo, mentre se poco ossigeno è nel- 
l’aria e nell'acqua, il respiro branchiale diventa dispnoico. La possibilità di un respiro 
vicariante conferisce al centro respiratorio di questo animale la proprietà caratte- 
ristica che esso ha comune soltanto con quello delle larve delle libellule e con quello 
che presiede alla respirazione polmonare delle salamandre: la proprietà cioè di sospen- 
dere il proprio funzionamento, quando l'organismo abbia ossigeno a sufficienza. To 
credo che ci troviamo qui di fronte al solo caso conosciuto di apnoea vera nel senso 
di RosentHAL e di MrrscHER, poichè in tutti gli altri animali il solo eccesso di ossi- 
geno non basta ad arrestare il respiro. Nè si può più oggi sostenere che la cosi- 
detta apnea fetale dei mammiferi sia una apnoea vera, e che il primo respiro del 
neonato sia originato unicamente dal bisogno di ossigeno come RosENTHAL sostenne. 

Come nello studio sull’apnea sperimentale dell'animale adulto, così in questa 
dottrina RosentHAL tenne troppo poco in conto l’azione dei nervi di senso sul centro 
‘ respiratorio, lo stato di eccitabilità del centro stesso e la tensione dell’acido car- 
bonico del sangue. 

Luciani (81) pose la questione dell’apnea fetale nei suoi termini più esatti: 
“ È certo — egli dice — che se il feto non respira ciò dipende dal fatto che ai bisogni 
“ fisiologici dei suoi tessuti provvede a sufficienza lo scambio gassoso utero-placen- 
“ tare; ma bisogna anche ammettere che l’eccitabilità dei centri respiratori sia minore 
“ di quelli della madre, l’attività dei quali è mantenuta da un sangue che ha lo 
“ stesso grado di venosità di quello che circola nel feto ,. 

Come dunque si risveglia da questo stato di attività, il centro respiratorio dopo 
la nascita? Ricordiamo un’antica esperienza di Burron, che viene troppo di rado 
citata. Egli sommergeva un feto a termine di cane nel latte tepido o nell’acqua 
tepida e ne lo estraeva vivo dopo mezz'ora. Portato all’aria respirava e rimesso nel- 
l’acqua tepida cessava di respirare, ma si manteneva vivo malgrado una nuova som- 
mersione di mezz'ora, e l’esperienza poteva venir ripetuta più volte sopra lo stesso 
feto senza che esso morisse. LegALLOIS ripetendo la stessa esperienza sopra animali 
già nati vide che la resistenza alla sommersione dura sempre meno mano a mano 
che i giorni procedono e che al 10° giorno essa è minima ed uguale a quella del- 
l'adulto. Ricordiamo un’altra esperienza di ScHwaARTZ (82) ripetuta da MayER e da 
ZwrrreL (83): 

L’asfissia acuta della madre per strangolamento o per introduzione di liquidi 
in trachea fa diventare scurissimo il sangue della vena ombelicale, e può condurre 


392 CARLO FOÀ 18 


a morte anche il feto senza averlo fatto respirare, purchè il feto sia mantenuto 
immerso nel liquido amniotico o nell’acqua tepida. Da queste esperienze potremo noi 
concludere che l’acido carbonico del sangue non esercita alcuna influenza sul centro 
respiratorio del feto? 

Questa conclusione non appare affatto giustificata per l’esperienza di Burron, 
se si pensa che per la lentezza del ricambio respiratorio del feto, l’acido carbonico 
si produce nei suoi tessuti in quantità molto scarsa anche se il respiro subisca un 
arresto di 1/, ora. La prova di ciò è nelle esperienze di ConnsrEIn e Zuntz (84), i 
quali trovarono che il ricambio respiratorio del feto non rappresenta che la quarta 
parte di quello dell’adulto (84, 85). 

HassELBACcH (86) trovò che se la madre col feto emette per Kg. e per ora 509 ce. 
di acido carbonico, dopo l'asportazione del feto ne emette 462 cc., e che quindi 
il feto produce una minima quantità di acido carbonico. Quanto alle esperienze 
sull’asfissia della madre bisogna tener presente che questa produce bensì un forte 
accumulo di acido carbonico anche nel sangue fetale, ma gli toglie in pari tempo 
l'ossigeno, il che può produrre nel delicato centro respiratorio fetale, alterazioni così 
gravi, da renderlo insensibile all’azione dell’acido carbonico. 

È noto del resto che la morte della madre può produrre quella del feto senza 
che questa, malgrado il periodo d’asfissia che deve aver traversato, sia stato indotto 
a respirare. 

Se dunque alla funzione del centro respiratorio del feto non basta l’acido car- 
bonico contenuto nel sangue arterioso della madre, non è detto per questo che una 
maggior tensione di acido carbonico non possa riuscire a farlo funzionare. Alcune 
recenti esperienze di WinrERsTEIN (45) dimostrano invece tutto l'opposto. Facendo 
la circolazione artificiale di liquido di RincER nei centri nervosi di un coniglio di 
8 giorni di vita, egli vide che la vita dei centri poteva essere a lungo mantenuta, 
ma che l’animale non respirava se il liquido circolante non teneva disciolta una certa 
quantità di acido carbonico. Questa esperienza dimostra che l’acido carbonico è neces- 
sario e sufficiente a mantenere la funzione del centro respiratorio nel coniglio neonato. 

Vediamo ora che parte spetti agli eccitamenti nervosi periferici nel produrre 
il primo atto respiratorio. PrevEeR (87) dimostrò che un feto ancora congiunto alla 
madre, essendo inalterato il circolo placentare, si pone a respirare se, non appena rotti 
gli involucri, venga esposto all’aria. Questa esperienza è sufficiente a farci ritenere 
che il primo respiro possa anche essere determinato esclusivamente da un eccita- 
mento periferico, senza alcuna modificazione del gaz del sangue, ma questo non ci 
deve far ritenere che il neonato respiri esclusivamente in virtù degli eccitamenti 
periferici. Se questi possono servire a produrre un primo eccitamento del centro 
respiratorio, non possono mantenerne a lungo la funzione, perchè, come abbiamo detto, 
il respiro non si mantiene se il sangue non contiene una certa quantità di acido 
carbonico. Si potrebbe pensare a tutta prima che l’acido carbonico del sangue serve 
soltanto a mantenere alta l’eccitabilità per gli stimoli nervosi periferici, e che a 
questi soltanto sia dovuto il respiro del neonato. Per controllare il valore di questa 
ipotesi, ho ripetuto l’esperienza di WixrerstEIN sopra feti a termine di coniglio, 
appena estratti dall’utero e completamente sommersi nell’acqua tepida. Il respiro 
in questi animali non incominciava se non quando il liquido di RinceR conteneva 


cigi 


19 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 353 
acido carbonico, chè altrimenti il cuore continuava a pulsare ma il feto non respirava. 
In questa esperienza nessun eccitamento agiva sulla superficie del corpo, e l’acido 
carbonico non poteva agire se non per un’azione diretta sul centro respiratorio. Ma 
vi è un’altra prova indiretta che l’acido carbonico non induce in attività il centro 
respiratorio del neonato in quanto ne deve l’eccitabilità riflessa, e questa prova si 
può trarre dall'esperienza stessa di WINTERSTEIN. 

Infatti, mentre durante l’apnea basta un leggero pinzettamento di una zampa 
per provocare oltre ad uno o più atti respiratori, anche numerosi atti riflessi della 
zampa stessa e di altri muscoli del corpo, quando invece circola liquido di RincER, 
ricco di acido carbonico, l’eccitabilità riflessa del midollo spinale, diviene estrema- 
mente bassa, cosicchè gli stimoli prima sufficienti divengono insufficienti. Parrebbe 
molto strano che mentre tutti i riflessi vengono in tal modo, se non aboliti, certo 
molto ridotti, proprio l’eccitabilità riflessa del centro respiratorio venisse invece 
innalzata. Dobbiamo dunque concludere che gli eccitamenti nervosi periferici non 
sono affatto necessari a mantenere il respiro del neonato. 

Sulla base delle considerazioni svolte fin qui siamo condotti alla conclusione 
seguente : 

Fino a che il feto è nell’utero materno esso non respira perchè nessun eccita- 
mento periferico lo colpisce, e perchè l’acido carbonico del sangue materno non è 
sufficiente a determinare l’attività del suo centro respiratorio. Nell’atto della nascita, 
un po per l’azione eccitante dell’ischemia prodotta dalla compressione del cordone 
ombelicale, negli atti ecbolici del parto, un po’ in virtù dell’eccitamento portato 
dall'aria e dai contatti cui il feto è soggetto, il centro respiratorio entra in funzione. 

Da questo momento divien sempre minore la quantità di acido carbonico neces- 
saria a mantenere il respiro e, secondo le esperienze di LeGALLOIS, la cosidetta eccita- 
bilità del centro respiratorio per l’acido carbonico del sangue, raggiunge al 10° giorno 
quel massimo che si manterrà nell’adulto. Da quel momento l’automatismo del centro. 
è stabilito. 


WIE 


Analisi della funzione automatica del centro respiratorio. 


Così definita la funzione automatica del centro respiratorio cerchiamo ora di 
addentrarci nel difficile problema delle origini di tale automatica attività, e non 
vha dubbio che la via da seguire per compiere questo studio, stia nel ricercare le 
reazioni chimiche ed i mutamenti chimico-fisici che succedono nell’intimità del centro 
respiratorio. 

Che in generale tutte le funzioni dei tessuti traggano origine da reazioni chi- 
miche si deduce dal loro comportamento di fronte ai mutamenti di temperatura. 

La legge di Van’'t Horr che stabilisce come muti la velocità di una reazione 
chimica col mutare della temperatura, fu trovata valevole per moltissimi fenomeni 
biologici. Essa vale per le correnti protoplasmatiche delle cellule, per il geotropismo 
delle radici, per le pulsazioni dei vacuoli degli infusori, per lo sviluppo delle uova 
della rana e degli echinidi, per la contrazione muscolare, per le contrazioni spon- 

Seere Il. Tow. LXII. ni 


354 CARLO FOÀ 20 


tanee dei muscoli lisci, per la eliminazione dell’acido carbonico nel coniglio, ed entro 
limiti abbastanza ristretti anche per la pulsazione del cuore. 

Anche per il respiro vale la stessa legge, il che venne confermato da SwyDER (88) 
per il respiro delle marmotte e da RoBERTSON (44) per quello delle rane. La regola 
di Van'r Horr che permette di distinguere i processi chimici da processi di altra 
natura, ci fornisce dunque la prova che anche l’attività del centro respiratorio è 
legata a reazioni chimiche. 

L’ossigeno senza dubbio deve avere gran parte in queste reazioni e BABAK e 
Roéeg (89) hanno infatti dimostrato che il coefficiente termico per la frequenza del 
ritmo respiratorio delle larve di libellule, muta un poco a seconda che l’aria è ricca 
o povera di ossigeno, essendo uguale in un caso a 1,8, nell’altro caso a 2,2, dal che 
si deduce che i processi chimici che avvengono nel centro sono diversi a seconda 
che vi prende parte molto oppure poco ossigeno. 

L'importanza di questo gaz è pure resa evidente dalle esperienze di RoBERTSON (44) 
che constatò un forte rallentamento del respiro della rana, in seguito all’applica- 
zione diretta di agenti riduttori sul centro respiratorio, e un acceleramento per 
azione di agenti ossidanti. RoBERTSON giunge alla conclusione che l’attività del centro 
respiratorio dipenda da processi ossidativi, sui quali uno dei prodotti della reazione 
— l'acido carbonico — agisce come catalizzatore. Noi conveniamo che si tratti di 
processi ossidativi, ma — come già dicemmo — crediamo che a spiegare l’azione 
favorevole dell'acido carbonico, sia pure come prodotto della reazione, meglio che 
l'ipotesi che si tratti di una reazione autocatalitica, valga il considerare l’azione faci- 
litante che esso esercita sulla permeabilità cellulare in virtù del suo leggero potere 
lipoidolitico. 

Ma con questo noi non abbiamo toccato ancora il punto più difficile della que- 
stione: quello che riguarda il meccanismo per il quale le reazioni chimiche che 
avvengono nel centro respiratorio diano luogo ad una funzione ritmica. Il ritmo è 
fenomeno molto più frequente che non si creda nell’organismo vivente, e giusta- 
mente affermò BorrAzzI (90) che qualsiasi funzione automatica legata al metabolismo 
cellulare, non possa essere che ritmica, perchè soggetta inesorabilmente con ritmo 
più o meno frequente, più o meno palese, alle due fasi assimilativa e dissimilativa. 
Un ritmo è infatti nella contrazione tetanica apparentemente continua, nella fun- 
zione glicogenetica e glicogenolitica del fegato, nella secrezione dei succhi digestivi 
e così via. Spesse volte là dove appare a tutta prima un ritmo semplice si tratta 
invece di due o più ritmi che si sovrappongono, o di un ritmo periodico, come nel- 
l’avvicendarsi del sonno e della veglia che è un ritmo sul quale si sovrappongono 
tutte le altre ritmiche funzioni dell'organismo. A questa categoria di ritmi composti 
appartiene pure quello del centro bulbare, se si tien conto che ogni impulso respi- 
ratorio non è continuo, ma si rivela ad es. sul nervo frenico come una serie di rapidi 
impulsi susseguentisi con la rapidità di 60 al 1” (DirtLER). E se queste ritmiche cor- 
renti d'azione hanno la loro origine nel centro nervoso come alcuni ritengono, esse 
esprimono altrettanti ritmici mutamenti chimici o chimico-fisici nell'interno della cel- 
lula, ai quali sarebbe dovuta la funzione del centro, se sussiste per il centro respiratorio 
ciò che fu trovato per il cuore: che cioè la corrente d’azione precede la contrazione 
c sarebbe l’espressione più evidente delle attività chimiche che entrano in azione. 


21 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 355 


Ritmi semplici, ritmi doppi e ritmi periodici sono frequentissimi tra i fenomeni 
fisici e sarebbe lungo enumerarli tutti. 

Sono ben noti i due modelli proposti da RosenTHAL (91) e da HERMANN (92) 
per intendere i fenomeni ritmici dell'organismo, ma essi ebbero un’interpretazione 
errata. Il modello proposto da RosentHAL è così costituito: un tubo di vetro ver- 
ticale in cui penetri continuamente acqua, è chiuso alla sua estremità inferiore da 
una lamina sostenuta da una molla. Questa lamina si abbasserebbe, secondo RosENTHAL, 
quando il peso dell’acqua vince la resistenza della molla e appena l’acqua è uscita, 
la lamina tornerebbe a chiudere il tubo. RosenTHAL ne conclude che il ritmo si sta- 
bilisce quando di fronte ad una sorgente continua di forza sempre crescente si opponga 
una resistenza pure continua e costante. Ma questa asserzione riposa sopra una 
osservazione sperimentale errata. 

OrHRWALD (93) obbietta con ragione che così com'è stata enunciata l’esperienza 
di RosentHAL non conduce ad alcun ritmo nel deflusso dell’acqua, ma che questa 
quando ha raggiunto un peso sufficiente apre un poco la lamina e sfugge in modo 
continuo dalla piccola fessura che si è aperta. Perchè il ritmo si stabilisca, occorre 
che lamina e vetro vengano a contatto con una superficie larga e liscia per modo 
che si sviluppi una forte aderenza. La pressione dell’acqua deve allora vincere questa 
nuova resistenza, la quale non appena vinta cesserà di esistere, e dopo il deflusso 
dell’acqua, la forza della molla basterà a far risollevare la lamina. La resistenza 
non è dunque continua e costante, ma periodicamente crescente e decrescente, e 
questa periodicità è la causa del ritmo. Ugualmente ritmici sono il crescere e lo 
scomparire della resistenza rappresentata dalla tensione superficiale di un liquido, 
nello schema di HERMANN che considera il caso di un gaz che gorgogli bolla a bolla 
in un liquido, o nel caso di un liquido che cada a goccie da un tubo sottile. 

In questi e in altri numerosi esempi vale la regola che una forza continua può 
dar luogo ad un effetto ritmico, quando le si opponga una resistenza che varii ritmica- 
mente di intensità. Un modello elegante e preciso di una siffatta origine del ritmo 
è nella catalisi pulsante scoperta da BrEDIG (94), ove lo svolgimento delle bolle di 
ossigeno dall'acqua ossigenata in contatto col mercurio metallico, non è continuo 
ma ritmico e dovuto al formarsi periodico e al periodico scomparire di una mem- 
brana di ossido di mercurio. 

Anche in questo caso lo svolgimento di ossigeno è continuo, ma le bolle non 
appaiono se non quando la loro forza ascensionale, rompe la esile membrana che 
cessa così d'un tratto di fungere da resistenza, per riformarsi poco dopo. Anche la 
scarica oscillatoria dei condensatori dipende da un flusso continuo di energia elet- 
trica che incontra ritmiche resistenze nell’aria circostante, la quale periodicamente 
si rarefà e si condensa per opera della scarica stessa. 

Se due fenomeni ritmici entrano vicendevolmente in rapporto si può formare 
un doppio ritmo, come avviene in un orologio a soneria in cui distinguiamo il ritmo 
del pendolo e il ritmo della soneria. Nello stesso rapporto stanno fra loro le con- 
trazioni dell'atrio di tartaruga con le oscillazioni del tono illustrate da Fano e da 
Borrazzi. Se invece un fenomeno ritmico è soggetto a periodiche diminuzioni di 
intensità o addirittura a periodici arresti, si produrrà il fenomeno del ritmo perio- 
dico, e a questa categoria appartengono il respiro periodico, il periodico aggruppa- 


356 CARLO FOÀ 29, 


mento di contrazioni del cuore, scoperto da Luciani, lo svolgersi periodico delle bolle 
di un gaz quando esso gorgogli in un liquido ad alto peso specifico (95) e numerosi 
altri esempi (90, 93). 

Per giungere a scoprire quali intimi processi succedano nel centro respiratorio, 
quando esso funziona in modo ritmico o periodico, converrà rifarsi a modelli cono- 
sciuti, e un primo tentativo in questo senso venne fatto recentemente da Borrazzi (96). 
Dovremo tener presente la possibilità che accanto al procedere di reazioni chimiche, 
e accanto al formarsi di veri o falsi equilibri, possono aver una parte importante 
anche la precipitazione e la ridissoluzione di colloidi, il formarsi o il disfarsi di 
membrane, il mutare della loro permeabilità, e altri fenomeni chimico-fisici. Malgrado 
una così grande complessità di fenomeni, il paragonare la funzione del centro respira- 
torio con altre funzioni ritmiche o periodiche ben conosciute è per ora la sola via 
che possiamo seguire. 

Hertz (97) scrive: 

“ Ein materielles System heisst dynamisches Modell einen zweiten Systems, wenn 
“ sich die Zusammenhinge des ersteren durch solche Koordinaten darstellen lassen, 
“ dass den Bedingungen geniigt ist: I° dass die Zahl der Koordinaten des ersten 
“ Systems gleich der Zahl der Koordinaten des anderen Systems ist; II° dass nach 
“ passender Zuordnung der Koordinaten fiir beide Systeme die gleichen Bedingungs 
“ gleichungen bestehen ; III° dass der Ausdruck fiir die Gréòsse einer Verriickung in 
“ beiden Systemen bei jener Zuordnung der Koordinaten ibereinstimme , [citato da 
ZWAARDEMAKER (98)]. 

I fenomeni oscillatori conosciuti nella fisica sono retti dalla equazione diffe- 
renziale 


dove y e # designano le variabili del fenomeno; w, p, q sono costanti. Fra i feno- 
meni che seguono la legge espressa da questa equazione sono: il movimento del 
pendolo, le variazioni di un pendolo semplice elastico, la scarica di un condensatore 
elettrico, e il movimento di un liquido in due vasi uniti da un tubo orizzontale 
molto corto. 

Le lettere che indicano le variabili e le costanti trovano per ciascuno di questi 
fenomeni un valore perfettamente determinabile e conosciuto. Gli elementi di questi 
diversi fenomeni, che si corrispondono tra loro, sono racchiusi nella tabella seguente 
(99, p. 12): 


23 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 957 
CosrantI FunzioNI 
IRE: | dy dy 
Fenomeno Variabile y | m | q m aI3 TE qu 
Il == 
Movimento " | 
3 rapporto del compo- 
di un pendolo 
È ì massa peso del pendolo forza . nente 
semplice pesante | allungamento) jg) pendolo alla di inerzia attrito | orizzontale 
Din in LCA | sua lunghezza del peso 
resistente | 
| rapporto 
Vibrazioni momento della REL) 
di un pendolo |allungamento| di inerzia forza elastica MO attrito forza 
: 2 di inerzia elastica 
semplice elastico del pendolo alla 
| deformazione 
Scarica 6 forza forza forza 
di un carica | GERA l’inverso elettro- contro- elettro- 
condensatore elettrica | toi di ò della capacità motrice elettro- motrice 
elettrico AULOICUZIONE di induzione | motrice | Coulomb 
Movimento 
di un liquido massa totale rapporto fi 
n Di "e. orza peso 
_ In due vasi differenza della del peso totale RAZZE attrito |delliquido 
riuniti da un tubo| di livello colonna della colonna DEA 
È E del liquido spostato 
orizzontale oscillante | alla lunghezza 
molto corto 


I principî che determinano la periodicità sono, secondo NeRNsT, l’inerzia, l’au- 
toinduzione e la metastabilità. 

Quest'ultima è con tutta la probabilità la causa del ritmo di molti fenomeni 
biologici, e contribuisce a mantenere la proprietà che essi hanno di sistemi stazio- 
nari, il cui carattere essenziale è l’autoregolazione, sia che questa porti ad un ritmo 
semplice, oppure ad un ritmo periodico [W. Osrwarp (100)]. 

Con lo studio comparato di modelli offerti dalla fisica e dalla chimica potremo 
forse spiegare il ritmo dei fenomeni biologici, poichè spiegare non è in fondo che 
uno speciale modo di descrivere, caratterizzato solo da ciò, che in esso noi facciamo 
più largamente uso, da una parte di processi di comparazione e dall’altra di argo- 
mentazioni deduttive mediante le quali riesciamo a far rientrare in una stessa cate- 
goria fenomeni che, a chi li esamini superficialmente, appariscono come affatto diversi 
e non aventi tra loro alcun legame. 

Chè se fra questi fenomeni riusciamo a riconoscere un’analogia tanto intima 
da permetterci di dedurre il loro modo di comportarsi da uno stesso gruppo di leggi 
generali, noi diciamo di aver trovato una spiegazione dei fenomeni dell’altra classe 
per mezzo di quelli della prima (102). 


Dal Laboratorio di Fisiologia di Torino. 


358 CARLO FOÀ 24 


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25 SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 359 


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(36) WixteRsTEIN, “ Pfliiger’s Arch. ,, CXXV, 1908, 73. 
(37) Basa, # Centralblatt f. Physiol. ,, XXI, 1. 
(38) Hanpawe e Pourron, “ Journal of Physiologie ,, XXXVII, 1908, 369. 


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(40) A. Mosso, “ Rendiconti R. Ace. Lincei , 1° maggio 1904. 

(41) LancenpoRFE, “ Arch. f. (Anat. u.) Physiologie ,, 1884, “ Suppl. Bd. ,, 45. 
(42) Lancenporrr et Huror, “ Pfliiger’s Arch. ,, XCVI, 1903, 477. 

(43) Scorr, “ Journal of Physiologie ,, XXXVII, 1908, 301. 

(44) Rorertson, “ Arch. Intern. de Physiol. ,, VI, 1909, 388, 454. 

(45) WinrersreIn, “ Pfliiger’s Arch. ,, CXXXVIII, 1911, 167. 

(46) Giirser citato da HamBuRrGER, “ Osmot. Druck u. Jonenlehre ,, I, 228. 
(47) HoesrR, “ Pfliiger's Arch. ,, CI, 607, 1904 e CII, 196, 1904. 

(48) HeruImzKA, “ Arch. di Fisiologia ,, VI, 1909, 369. 

(49) Vrane, “ Arch. di Fisiologia ,, VIII, 1910, 537. 

(50) Overton, “ Pfliicer'îs Arch. ,, XCII, 115, 1902 e “ Nagel’s Handb. d. Physiol. ,, II, 817. 
(51) U. LomBroso, “ Pfliger's Arch. ,, CXIX, 1907, 1. 

(52) DecaneLLO, “ Arch. Ital. Biologie ,, 1908, 113. 

(53) Srerert, “ ‘Pfliiser’s Arch. ,, LXIV, 1896. 

(54) R. Du Bors-Rerwonp e KarzeNstEIN, citato nel Trattato di Luciani, 8* ediz., vol. 1°, p. 489. 
(55) Mrrawsky, “ Congresso Internazionale dei Fisiologi ,, Torino, 1902. 
(56) BaecronI, “ Centralblatt f. Physiol. ,, 1902, 469. 

(57) JaPPELLI, “ Arch. di Fisiologia ,, IMI, 1906, 215. 

(58) CarLo Foà, “ Arch. di Fisiologia ,, VII, 1909, 195. 

(59) In., Id. Id., IX, fase. 5, 1911. 

(60) In., Swl/apnea degli uccelli, “ Atti R. Ace. Sc. di Torino ,, 1910-1911. 
(61) SoroLow et LucasinerR, “ Pfliicer’s Arch. ,, XXIII, 283. 

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(66) SteranI e SIcHICELLI, “ Lo Sperimentale ,, 1888. 

(67) Gap, “ Arch. f.(Anat. u.) Physiol. ,, 1880, 1. 

(68) ScHENcK, “ Pflùger’s Arch. ,, C, 1903, 337. 

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(73) In. In. 3 È XX, 61. 

(74) WisrerstEmN, “ Pfliiger’s Arch. ,, CXXXVIII, 1911, 159. 

(75) DrrrLER, “ Pfliiger’s Arch. ,, CXXXI, 1910, 581. 

(76) RosentHAL, “ Arch. f. Anat. u. Physiol. ,, 1865, 191. 

(76%) Markwatp, “ Zeitsch. f. Biol. ,, XXIII, 1887, 149. 

(77) HamBureER, “ Zeitsch. f. Biol. ,, XXVIII, 305. 

(78) Luciani, Trattato di Fisiologia, vol. 1°, p. 427, 1* ediz. 

(79) I., Id. Id., p. 457. 

(80) CaLucareano, “ Pftiger's Arch. ,, CXX, 425. 


360 CARLO FOÀ — SULLE CAUSE DEL RITMO RESPIRATORIO 26 


(81) Luorani, Trattato di Fisiologia, 3° ediz., 502. 

(82) Sonwartz, Die vorzeitigen Atembewegungen, Leipzig, 1858. 

(83) Zwrrret citato da TARNIER et CHANTREUIL, Traité de l’art des accouchements, Paris, 1880, 425. 

(84) ConnsteINn et Zuntz, “ Pfliger's Arch. ,, XXXIV, 173. 

(85) L. Zuntz, Handb. d. Biochemie, IV, II, Abth., 97 e “ Ergebnisse d. Physiol. ,, 1908, 422. 

(86) HassenBaca, “ Skand. Arch. f. Physiol. ,, X, 413. 

(87) Prever, Physiologie des Embryo. 

(88) Swyper, “ American Journal of Physiol. ,, 1907, 128. 

(89) BasAk et Rokrk, “ Pfliiger's Arch. ,, CXXX, 1909, 477. 

(90) Bottazzi, “ Lo Sperimentale ,, LI, 1897. 

(91) RosentHAL, Die Athembewegungen, Berlin, 1862 e Bemerkungen ueber die Thotigheit der 
automatischen Nervencentra, Erlangen, 1875. 

(92) Hermann, Grundriss d. Physiologie. 

(93) CrErwaLD, “ Skand. Arch. f. Physiol. ,, VIII, 1898, 1. 

(94) BrepIe et WrINMAYR, “ Zeisch. f. Physikal. Chemie ,, XLII, 1903, 601. 

(95) LancenpoRFF, “ Arch. f. (Anat. u.) Physiol. ,, 1884, Suppl. 103. 

(96) BortazzI, Discorso letto in occasione delle onoranze rese al Prof. Giunio FANO, Firenze, 1910. 

(97) Hertz, Principien der Mechanik, 1, 197. 

(98) ZwAARDEMAKER, Ergebnisse d. Physiologie, VII, 1908, 1. 

(99) PerRovicat, La mécanique des phénomènes fondée sur les analogies, édition Gauthier- 
Willars, collezione “ Scientia ,. 

(100) WiLzeLM OstwaALD, Vorlesungen ueber Naturphilosophie, 272. 

(101) Varnati, Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella Storia delle Scienze e della 
Cultura (Scritti, Firenze, editore Seeher, 1911, 203). 


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GIOVANNI V. SCHIAPARELLI 


COMMEMORAZIONE 


LETTA DAL SOCIO 


NICODEMO JADANZA 


Approvata nell'adunanza dell'’11 Giugno 1911. 


ILLUSTRI COLLEGHI, 


Adempio l’incarico affidatomi di commemorare il Socio ScHIAPARELLI rapito alla 
Scienza ed all'Italia il 4 luglio del 1910. 

Non crediate però che la mia parola possa crescer lustro all’eminente astronomo, 
giacchè Egli fu uno dei pochi che avrebbe potuto dire col Poeta: 


IRODE opus exegi quod nec Iovis ira nec ignis 
Nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas. 


A nomenque erit indelebile nostrum. 

VirGInio Giovanni BarTISTA ScHIaPPARELLI nacque a Savigliano il giorno 
14 marzo 1835 dai genitori AnTtoNIO e CATTERINA SCHIAPPARELLI (*); frequentò le 
scuole elementari, il ginnasio ed il liceo nella città natia e nel novembre 1850 fece 
l'esame di ammissione alla Classe di Matematica nella Università di Torino. 

Il 14 luglio 1851 fece l’esame del 1° anno (Algebra — Trigonometria piana e 
sferica — Geometria analitica — Architettura); il 15 luglio 1852 fece l'esame del 
2° anno (Analisi infinitesimale — Geometria descrittiva — Architettura); il 14 luglio 1853 
fece l'esame del 3° anno (Meccanica razionale e macchine — Geometria pratica — Ar- 


chitettura); il 2 Agosto 1854 fece l’esame del 4° anno (Idraulica — Meccanica — 
Costruzioni — Architettura) e nel giorno 11 dello stesso mese di agosto fece l’esame 


(£ Vedi nota (@) in fine. 

Non so per qual ragione il cognome Schiapparelli sia in seguito diventato Schiaparelli. Una sola 
tra le sue memorie: Le variazioni dell’eccentricità del grand’orbe ed i climi terrestri nelle epoche geo- 
logiche, presentata al R. Istituto Lombardo il 3 dicembre 1868, è segnata col cognome Sehiapparelli. 


La famiglia Schiapparelli è di origine Biellese. 
Serie II, Tox. LXII. u! 


62 NICODEMO JADANZA 92 


(36) 


pubblico di INGEGNERE IDRAULICO ed ARCHITETTO CIVILE, ottenendone l'approvazione a 
pieni voti (*). 

Uscito dall'Università si diede all’ insegnamento privato delle matematiche ed 
allo studio delle lingue moderne e dell’astronomia a cui era stato invogliato dal 
Teologo Dovo che dall'alto del campanile di S. Maria della Pieve in Savigliano gli 
aveva più volte indicato il modo di procedere alla conoscenza del cielo stellato. 

A Torino fu allievo di Lorenzo BrLortI (**) che nelle modeste pareti del suo 
studio privato dava lezioni di matematiche a pochi ma eletti discepoli con efficacia 
non inferiore a quella dei più celebri professori di Università. 

Nel novembre del 1856 fu nominato insegnante di matematiche elementari nel 
Ginnasio di Porta Nuova a Torino, ma nel febbraio del 1857 lasciò quel posto avendo 
ottenuto dal Governo di essere mandato a Berlino a studiare astronomia sotto la 
direzione del celebre ExncKE. 

A Berlino seguì nel 1857 i corsi di astronomia dell’Encke, di meteorologia del 
Dove, di magnetismo terrestre dell’Ermax, di matematica del WeIERsTRASS, di storia 
della fisica del Poecenpore. Nel successivo 1858, oltre l’astronomia, studiò mate- 
matica col KummeR e coll’ArnpT, fisica coll’OÒm, geografia antica e moderna col 
RirreR e col KIEPERT. 

Il 14 aprile 1859 fu ammesso all’osservatorio di Pulkova presso Pietroburgo, 
dove si recò nel giugno successivo a far pratica astronomica sotto la direzione di 
Orto Struve e di WINNECKE; ivi rimase fino al 31 maggio 1860. 

Alla fine di giugno 1860 arrivò all’osservatorio di Brera a Milano, dove fin dal 
81 agosto 1859 era stato nominato 2° astronomo. Nel 29 agosto 1862 morì Frax- 
cesco CARLINI direttore di quell’osservatorio e con Decreto dell’8 settembre succes- 
sivo lo Schiaparelli fu nominato Direttore dell’osservatorio di Brera. Quarant'anni 
dopo la sua entrata, il 30 giugno 1900, egli si ritirò dalla direzione dell’osserva- 
torio di Milano. In tale occasione gli astronomi italiani pubblicarono un opuscolo 
intitolato: All’astronomo G. V. Schiaparelli, omaggio; in esso è narrata con tutti i 
particolari la storia della sua vita scientifica ed è data la lista completa delle sue 
pubblicazioni. Il senatore Celoria, degno successore dello Schiaparelli alla direzione 
dell’osservatorio di Brera, ha completato l’elenco delle di Lui opere fino alla data 
della sua morte; esso si trova nella magistrale: Commemorazione del Socio senatore 
Giovanni Virginio Schiaparelli fatta nella seduta del 6 novembre 1910 dalla R. Ac- 
cademia dei Lincei (***). 

L’opera scientifica dello Schiaparelli si può paragonare ad un campo ubertoso 
di frumento le cui spighe ben colme e mature non aspettano altro che la mano del 
coltivatore che di esse deve nutrirsi. Alcune, che si ergono al di sopra delle altre, 
sono più appariscenti; son quelle che hanno reso celebre il di Lui nome non solo tra 


(*) Vedi nota (®) in fine. 

(#*) Vedi nota (c) in fine. 

(#**) Nessuno meglio di Giovanni Celoria poteva commemorare più degnamente lo Schiaparelli. 
Allievo, amico e compagno per una lunga serie di anni, ha potuto, più di ogni altro, conoscerne la 
vastità e la grandezza della mente. Di qui la ragione di quel culto speciale, che Egli ha sempre 
dimostrato e dimostra in qualunque occasione si parli dello Schiaparelli. 


COMMEMORAZIONE 363 


= GIOVANNI V. SCHIAPARELLI 


gli astronomi del mondo intero, ma lo han reso popolare ed universale anche fra la 
gente mediocremente colta. 

Mi sia lecito parlare alquanto diffusamente degli argomenti che più di tutto 
hanno contribuito ad estenderne la fama consultando le stesse sue opere e toglien- 
done dei brani che sarebbe difficile sostituire con parole diverse da quelle da Lui 
adoperate. 


IE 


Le stelle cadenti (*). 


# Una fiaccola luminosa appare subitamente in una parte qualunque della sfera 
“ stellata, rapidamente corre subendo per lo più una costante direzione, e poi si 
“ estingue, talora scoppiando a modo di razzo, più spesso perdendo per gradi la 
“ propria luce. Niente si vedeva nel luogo dove la fulgida meteora è comparsa; 
“ niente è rimasto nel luogo dove cessò. Donde è venuta e dove è andata ? 
“ Nei tempi, per fortuna quasi interamente passati, in cui si badava poco ai 
“ fatti, ed in cui con un’abile combinazione di parole si credeva di render ragione 
“ di qualsiasi più arduo problema, furono fatte eruditissime e vanissime discussioni 
“ sulla natura delle stelle cadenti. 
“ Soltanto nel 1798 due studenti di Gottinga, Branpes e BENZENBERG, giunsero 
“a comprendere che per sapere alcuna cosa intorno ad esse era necessario prima 
“ farsi un'idea esatta del luogo dove esse appaiono. A nessuno fino allora si era pre- 
“ sentata l’idea, pur così semplice e naturale, di applicare alla misura della loro 
“ altezza e della loro distanza quelle medesime regole di geometria elementare delle 
“ quali fa uso qualunque topografo per determinare la distanza di una torre o l’al- 
“ tezza di una montagna ,. 
Dalle loro misure e da altre che sono state fatte in tempi posteriori furono 
dedotti i seguenti fatti: 
1° Che le stelle cadenti si accendono nelle regioni più elevate della nostra 
atmosfera. 
2° Che la velocità loro è la più grande delle velocità di cui si abbia esempio nei 
corpi materiali terrestri. Tale velocità varia dai 16 ai 72 chilom. al minuto secondo; 
vi sono dunque meteore che si muovono 200 volte più rapidamente del suono. 
3° Che esse cadono effettivamente, cioè piovono dall’alto in basso; e che quindi 
esse o vengono dagli spazii planetari, o almeno dagli strati più sublimi dell’atmosfera 
discendono più basso con subitaneo passaggio. 
4° Che col loro rapido muoversi nell’atmosfera resistente sviluppano il ca- 
lore necessario alla loro conflagrazione, e la luce spesso molto vivida che le rende 
visibili. 


(*) Cfr. Le stelle cadenti, tre letture di G. V. Schiaparelli Direttore dell’Osservatorio di Brera, 
con due tayole litografiche (Milano, fratelli Treves editori, 1873), vol. 164 della Biblioteca utile. 


364 NICODEMO JADANZA 4 


Altri risultamenti più importanti e più fecondi sì sono ottenuti colla guida della 
Natura stessa ed in prima la frequenza eccezionale, con cui le meteore si mostrano 
di tempo in tempo. Mentre nelle notti ordinarie un osservatore attento può appena 
contare 15 o 20 meteore ogni ora, vi sono delle epoche in cui avvengono delle vere 
piogge meteoriche, durante le quali sì contarono più di 10.000 stelle cadute in un’ora. 
In seguito fu confermata la nozione della periodicità di tali piogge meteoriche e che 
il loro ritorno non è legato colle stagioni terrestri e colle vicende dell’atmosfera, 
ma corrisponde ad una determinata posizione della Terra nella sua orbita; circo- 
stanza assai più favorevole alla ipotesi che le stelle cadenti siano un fenomeno 
cosmico, che all'ipotesi opposta della natura terrestre. 

Oltre questa periodicità, che dicesi annuale, ve ne è un’altra, la quale consiste 
nel ripetersi del fenomeno dopo un determinato numero di anni. Questi fatti accer- 
tati condussero all’abbandono della ipotesi della origine atmosferica delle stelle 
cadenti e si ritenne come cosa dimostrata che esse sono corpuscoli cosmici vaganti 
negli spazi planetari, i quali incontrando l’atmosfera terrestre con grandissima velocità 
si accendono in essa, e dopo un periodo brevissimo di conflagrazione si disperdono 
in vapori od in un pulviscolo impalpabile. 

Al trionfo completo della ipotesi della origine cosmica delle stelle cadenti giunse 
opportuna la scoperta della radiazione fatta nel 1833. Nelle grandi piogge meteoriche 
la maggior parte delle traiettorie prolungate idealmente all’indietro si vanno ad in- 
contrare in un punto unico o meglio in uno spazio ristretto della sfera celeste; 
questo punto fu detto radiante e segue la sfera celeste nel suo movimento diurno. 
Così si pervenne a stabilire che le piogge meteoriche provengono da infiniti corpu- 
scoli, i quali dallo spazio planetario cadono sopra la terra in direzioni parallele tra 
loro; essi sono riuniti con maggior densità in certe regioni speciali dello spazio celeste, 
e piovono sulla Terra quando essa nel suo corso annuale intorno al Sole attraversa 
la nube da essi formata. La Terra girando intorno al suo asse espone successiva- 
mente diverse parti della sua superficie alla caduta di tali corpuscoli, i quali ven- 
gono arrestati dall'atmosfera, e in essa disfatti e dispersi. Variando la posizione 
dell'osservatore sulla terra potrà. vedere le meteore luminose, ora sul suo capo cadere 
con grandissima velocità e brevissimo corso, ora penetrare in direzione obliqua negli 
strati superiori dell’atmosfera e percorrere una lunga traiettoria con minore velo- 
cità. I radianti sono molti; per le piogge meteoriche che si ripetono a determinate 
epoche, il radiante è sempre lo stesso e per la sua stabilità serve a caratterizzare 
una dall’altra le piogge meteoriche, le quali molte volte sono state chiamate col 
nome della regione del cielo in cui si trova il loro radiante. Così, p. es., le meteore 
del 10 agosto sono state chiamate Perseidi perchè il loro radiante si trova in prossi- 
mità della stella 7 di Perseo, quelle del 14 novembre hanno il nome di Leonidi 
perchè il loro radiante si trova nella testa del Leone. 

Al prof. Newton di Newhaven spetta il merito di aver additato una nuova via 
nelle ricerche relative alle stelle cadenti. Egli, nel 1864, consultando diligentemente 


le antiche narrazioni di piogge meteoriche ed interpretandole rettamente dimostrò 


che l'apparizione delle Leonidi si rinnova ogni 33 anni ed ; ; nel 1865 fu il primo 


a stabilire con molta probabilità che le orbite delle meteore non sono prossimamente 


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5 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 365 


circolari come quelle dei pianeti, ma che esse si avvicinano a quelle delle comete. 
Una simile investigazione fatta poco dopo dallo Schiaparelli indipendentemente -dal 
Prof. Newton condusse ad un risultato più categorico, alla identità cioè delle orbite 
delle comete con quelle delle stelle cadenti. La Natura ha risposto nel modo più 
incontrastabile, offrendo in quattro casi meglio determinati e conosciuti altrettante 
comete recenti e ben determinate che percorrono con quelle pioggie orbite identiche 
nello spazio celeste. Il primo caso constatato fu la relazione trovata dallo Schiapa- 
relli tra le Perseidi del 10 agosto e la cometa III del 1862, il secondo, notato dal 
Peters delle Leonidi del 14 Novembre con la cometa I del 1866, il terzo notato da 
Galle e da Weiss che accenna ad un legame tra la cometa del 1861 e la pioggia 
meteorica del 20 aprile; il quarto notato da d’Arrest e Weiss fin dal 1867 riguarda 
la celebre cometa di Biela e la pioggia meteorica del 27 novembre e che fu splen- 
didamente confermata dalla celebre pioggia del 27 novembre 1872. Adunque lo 
Schiaparelli ha dato come cosa molto probabile che: Le correnti meteoriche sono il 
prodotto dellu dissoluzione delle comete, e constano di minutissime particelle che certe 
comete hanno abbandonato lungo la loro orbita in causa della forza disgregante mecca- 
nica che il Sole od i pianeti esercitano sulla materia rarissima di cui sono composte. 
In altri termini le stelle cadenti non sono altro che polvere o farina di comete. 


II. 


Il pianeta Marte. 


Il 29 aprile 1861 Schiaparelli scoprì il pianeta Esperia, il 69° degli asteroidi. 
Tale scoperta fu una fortuna per l'osservatorio di Brera; il Ministro della Pubblica 
Istruzione Carlo Matteucci ed il Segretario generale Francesco Brioschi s’indussero 
a provvedere quella specola di uno strumento più moderno ed avente un potere ottico 
più potente di quello che aveva lo strumento con cui era stata fatta la scoperta di 
Esperia. Nel 1862 fu decretato l’acquisto di un Refrattore equatoriale di Merz di 
$ pollici d'apertura (218 millimetri). Esso giunse a Milano nel 1865, ma non fu 
messo a posto che molto tempo dopo, talchè le osservazioni cominciarono soltanto - 
nel febbraio del 1875 (*). 

Con tale istrumento nel 1877 furono iniziate le osservazioni sul pianeta Marte. 
Questo pianeta percorre intorno al Sole un'orbita ellittica il cui semiasse è all’in- 
circa una volta e mezza quello dell’orbita terrestre. Tale orbita è percorsa presso 
a poco in 687 giorni; esso perciò può trovarsi a distanze molto differenti dalla terra. 
Nelle grandi opposizioni cioè quando è alla minima distanza dalla terra si trova 
distante da questa circa 55.000.000 di chilometri. 

Ai 5 di settembre del 1877 ebbe luogo una di codeste grandi opposizioni che si 
rinnovano ogni quindici anni, e fu in tale circostanza che l’astronomo AsapH HALL 


(#) Cfr. Pubblicazione del Reale Osservatorio di Brera in Milano, N. XXXIII, Osservazioni sulle 
stelle doppie. Milano, Ulrico Hoepli, 1888. Sulla base piramidale di tale istrumento vi è la seguente 
iscrizione: 


PARATUM AERE PUBLICO ANNO MDCCCLXII — C. MATTEUCCI ET F. BRIOSCHI REM LITERARIAM GERENTIBUS. 


366 NICODEMO JADANZA . 6 


nell’osservatorio di Washington scoprì col cannocchiale avente l'obbiettivo di 02,66 di 
diametro i due satelliti del pianeta Marte la notte del 17 agosto. 

“ Io pertanto (è lo Schiaparelli che parla) (*) feci la risoluzione di profittare 
«“ della grande opposizione del 1877 per esperimentare fino a qual punto, coll’aiuto 
« del piccolo, ma ottimo refrattore equatoriale della specola di Brera in Milano, si 
« potesse avanzare le nostre cognizioni sul pianeta. Io desideravo pure di verificare 
“ per propria esperienza quanto nei libri di astronomia descrittiva si suole narrare 
«“ della superficie di Marte, delle sue nevi, della sua atmosfera, e delle sue macchie; 
“e qual grado di fede si meritassero alcune carte del pianeta, che oggi corrono per 
“le mani di tutti. Io devo confessare, che i primi saggi non furono molto incorag- 
«“ sianti. Trovai le carte così diverse dalla verità, che per molto tempo non riuscii 
“ad orientarmi su di esse, e a riconoscere l’identità di alcuno dei loro tratti coi tratti 
“ corrispondenti sul pianeta. Abbandonai dunque le carte, e cominciai a paragonar le 
“ mie osservazioni con quelle, che nella ultima grande opposizione del 1862 avevano 
“ fatto i sommi astronomi Secchi, Kaiser, Lockyer, Dawes, lord Rosse, Lassel, ecc. 
“ Ritrovai infatti nei loro disegni una parte dei miei; mi convinsi della completa 
“ stabilità dei contorni e del sito delle regioni da loro e da me delineate; le diffe- 
“ renze si potevano spiegare nella somma difficoltà delle osservazioni e colle nuvole 
« di cui or una or l’altra parte del pianeta è ingombra. 

“ Uno studio più accurato mi fece tosto comprendere, che nei lavori di quegli 
“ eccellenti osservatori, sebbene in parte fatti con strumenti maggiori del mio, molto 
ancora si poteva aggiungere e correggere; e da quel punto risolvetti d’intrapren- 
“ dere sul pianeta il sistema più completo e più preciso d’osservazioni, che mi fosse 
« possibile di fare col dato istrumento.... 


» 


“ Per applicare il calcolo e raggiungere la formazione di una carta veramente 
“ geometrica occorrono misure, ed io, senza negligere i disegni, mi applicai a quelle 
come a cosa di prima importanza ,. 

Così ebbe origine il più gran lavoro che sia stato fatto sul pianeta Marte costi- 
tuito dalle 7 memorie pubblicate nei volumi della R. Accademia dei Lincei (la prima 
nel 1878, la seconda nel 1881, la terza nel 1886, la quarta nel 1896, la quinta 
nel 1897, la sesta nel 1899, la settima nel 1910). 

Nella memoria prima presentata il 5 maggio 1878 trovasi il planisfero di Marte 
costruito secondo la proiezione di Mercatore. Codesta carta, frutto di un lavoro pa- 
ziente e di un metodo rigoroso di osservazione, ebbe un’accoglienza straordinaria 
nel mondo intellettuale; nessuno degli osservatori che lo precedettero aveva imma- 
ginato la possibilità di fare una cosa simile. 

A rendere più popolare lo studio del pianeta Marte pubblicò nel fascicolo XI 
della “ Nuova Antologia , del 1878 un sunto di quella memoria col titolo: Il pia- 


R 


neta Marte ed i moderni telescopi, dove sono riassunte tutte le sue osservazioni fatte 
sulla costituzione fisica di Marte, che per certi rispetti è tanto analoga e per altri 
è tanto differente da quella della terra. 


(*) Cfr. I pianeta Marte cd i moderni telescopi (“ Nuova Antologia ,, fase. XI, 1878). 


Yi GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 367 


«“ Ma lo studio accurato di Marte domanda una potenza ottica assai maggiore 
di quella che fino ad oggi vi sia stata impiegata. La carta annessa a questo arti- 
colo, sebbene più copiosa di particolari e più esatta delle altre finora pubblicate, 
è stata fatta con un istrumento eccellente sì, ma di dimensioni assai modeste..... 
“ Un altro istrumento più forte avrebbe potuto dare una carta anche molto più esatta 
“ e più ricca di particolari, mentre coll’equatoriale di Milano un oggetto non può 


x 


n 


“ essere visibile in Marte, se almeno non è grande come la Sicilia, e non se ne può 
« distinguere la forma, se almeno non uguaglia in misura l'Islanda o Ceylan. Questo 
“ limite, forzatamente imposto alle mie ricerche, più d’una volta mi ha condotto a 
considerare, se non vi sarebbe modo di togliere, o almeno di diminuire la troppo 
“ srande inferiorità nella quale noi osservatori italiani stiamo in confronto delle altre 


CS 


“ nazioni progressive, per quanto concerne la potenza degli strumenti destinati a 
«“ penetrare la profondità dei cieli ,. 

Ma che cosa si può ottenere con strumenti di maggiori dimensioni? è illimitato 
il loro potere? che cosa si può sperare di vedere coi più potenti telescopi? 

“ Sopra questo argomento ho fatto durante le mie osservazioni su Marte un 
“numero abbastanza grande di esperienze, che mi sembrano concludenti, perchè non 
“ dipendono da alcuna specie di teoria... ,. - 

Con un cannocchiale avente l'obbiettivo di 70 centimetri di diametro. 

Sopra un disco planetario simile a quello di Marte, una macchia oscura in fondo 
chiaro, o una macchia chiara in fondo oscuro si può ancora distinguere (supposte 


condizioni perfette nell’istrumento e nell'atmosfera) quando il suo diametro sia ala 


1 o B 
500.000 della distanza, si 
può anche aspirare a conoscere in grosso la forma di quella macchia e dire se è qua- 
drata o rotonda. 


Questo equivale al vedere un pezzo da 10 centesimi nella distanza di 20 chi- 


parte della sua distanza; e quando questo diametro arrivi ad 


lometri nel primo caso e a distinguerne la rotondità nella distanza di 12 + chilo- 


metri nel secondo caso... In Marte sarà visibile ogni oggetto che giunga a 70 chilometri 
di estensione, se esso fosse circoscritto in ogni senso. Quando si tratti di linee o di 
strisce allungate, basta che la larghezza sia la metà delle dimensioni assegnate pel 
diametro limite sopra detto; cosicchè su Marte un canale di 35 chilometri di lar- 
ghezza sarebbe visibile. 

Ogni perfezionamento dell’arte ottica sarà per Marte un nuovo progresso della 
sua carta, e una nuova fonte di nozioni sulla sua costituzione fisica. 

Dopo aver accennato ai diversi problemi di astronomia che aspettano la loro solu- 
zione soltanto dai grandi refrattori dice : 

“I grandi telescopi di cui sopra si è parlato, sono, e per qualche tempo saranno 
“ ancora molto rari a cagione del loro costo, che si novera per centinaia di mila 
“ lire. La moltiplicazione di questi e di altri simili dispendiosi apparati scientifici 
“ avverrà soltanto quando le nazioni, cessando dallo sprecare il meglio delle loro 
“ forze nel nuocersi reciprocamente, potranno occuparsi alquanto della loro felicità e 
€ del loro perfezionamento. Allora forse sentiremo parlare un po’ meno di Armstrong 
“e di Krupp, e un poco più di Herz, di Cooke e di Alvan Clark ,. 


368 NICODEMO JADANZA 8 


Il giusto desiderio espresso con sì eloquente e modesto dire fu appagato; con 
l'appoggio efficace dell’Accademia dei Lincei e specialmente del suo Pres. QuintINo 
SeLLA, il 7 luglio di quell’anno 1878 Re UmBERTO, essendo Ministro della Pubblica 
Istruzione il De-SAncrIS, sanziona e promulga la legge con la quale Senato e Camera 
approvano la spesa di Duecento cinquantamila lire per l'acquisto di un refrattore 
equatoriale con obbiettivo di 49 centimetri di apertura, munito di tutti gli occorrenti 
accessori, e per il suo collocamento nel R. osservatorio di Brera. 

ERI Ogni volta che lo consideriamo esso richiama a noi la memoria di quel- 
“ l’uomo non facilmente dimenticabile, che fu Quintino Sella, ai cui uffici la Specola 
“ di Milano deve questo suo principale ornamento. La lente obbiettiva, lavorata in 
“ Monaco da Merz successore di Fraunhofer, ha 49 centimetri di diametro nella 
“ parte libera; la macchina che porta il telescopio e permette di dirigere con tutta 
“ facilità in cinque minuti la gran mole verso qualunque punto del cielo, è un 
“ vero prodigio della meccanica moderna e fu lavorata in Amburgo dai fratelli 
“ Repsold , (*). 

Dei due strumenti di cui si è parlato lo Schiaparelli si è servito per la costru- 
zione della mirabile carta di Marte; l’emisfero australe, che si presenta in condizioni 
migliori nelle grandi opposizioni, è stato rilevato negli anni 1877-79 con quello di 
22 centimetri e coll’ingrandimento 360 o poco più; l’emisfero boreale è stato rilevato 
con quello di 49 centimetri nelle opposizioni meno favorevoli del 1888 e 1890 con 
ingrandimento da 500 a 650 ed anche più. 

Nella carta di Marte si vedono delle macchie oscure che sono state qualificate 
come mari e delle macchie rosseggianti che sono state qualificate come continenti. 
L’emisfero boreale del pianeta è quasi tutto formato da continenti, fatta eccezione 
da un gran lago; l'emisfero australe è un gran mare che è sparso di molte isole e 
spinge entro ai continenti golfi e ramificazioni di varia forma. La vasta estensione 
dei continenti è solcata per ogni verso da una rete di numerose linee o strisce sottili 
di colore oscuro il cui aspetto è molto variabile; sono desse i famosi canal di 
Marte su cui si è tanto discusso e si discuterà ancora per molti anni, fino a che lo 
studio diligente e minuto delle loro trasformazioni condurrà alla conoscenza della 
loro natura. Il fenomeno più sorprendente dei canali di Marte è stata la loro gemi- 
nazione che consiste nel loro sdoppiamento in due linee o strisce uniformi, per lo più 
parallele tra loro. L'osservazione delle geminazioni è una delle più difficili e richiede 
strumenti di grande potenza. Esse sono state vedute da parecchi osservatori, da altri 


(4) Cfr. G. ScarapareLLi, Il pianeta Marte, nella Rivista “ Natura ed Arte ,, fascicoli 5° e 6° 
(1° e 15 febbraio 1898). 

A pag. vi della pubblicazione N. XLVI del R. Osservatorio di Brera: Osservazioni sulle Stelle 
doppie, eseguite col Refrattore equatoriale Merz-Repsold negli anni 1886-1900 da G. V. Schiaparelli, 
sì trova, in nota, quanto segue: 

“ Ricorderò sempre con gratitudine il vivo interesse che per il buon esito di questa cosa mo- 
“ strarono le Loro Maestà il Re Umberto I e la Regina Margherita; a cui, ricevuto in privata udienza, 
“ ebbi l’alto onore di spiegare ciò che allora si sapeva del pianeta Marte e di indicare quel molto 
“ di più che si sperava di saperne dopo le osservazioni fatte col nuovo grande istrumento. Ed avendo 
“ fatto vedere le mie carte del pianeta dovetti stupire udendomi interrogare dalla Regina sulle pro- 
“ prietà delle proiezioni stereografica e di Mercator, che io avevo usato nel disegnarle; dalle quali 
“ interrogazioni appariva, che questo argomento non era nuovo per l’Augusta Signora ,. 


9 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 369 


sono state negate quali fenomeni reali, sicchè quelli che le hanno osservate sono stati 
anche tacciati d’illusione. 

Non è qui il caso di parlare della speranza di poter dimostrare mediante osser- 
vazioni dirette l’esistenza della vita e dell’intelligenza sul pianeta Marte, che è il 
solo astro che possa giustificare, fino ad un certo punto, tale aspirazione della 
mente umana. 

Passerà ancora molto tempo, si spenderanno ancora somme favolose per costruire 
telescopi sempre più potenti per spiare se qualche voce di simpatia e di fratellanza 
possa venire fino a noi dalle profondità cosmiche! Speriamo dunque e studiamo (#). 


[II. 
Le stelle doppie. 


Si dicono doppie o multiple quelle stelle che mentre ad occhio nudo sembrano 
semplici, osservate con cannocchiali sì trovano essere composte di due e talora di 
tre e più, vicinissime tra loro, di grandezze talora eguali, talora diversissime. La 
vicinanza di due stelle può derivare o da un semplice effetto di prospettiva, o da 
una forza qualunque che le tenga unite; nel primo caso si dicono doppie ottiche, nel 
secondo doppie fisiche. Lo stabilire se vi sia un tal legame è opera di delicate osser- 
vazioni e calcoli laboriosi. 

Fu W. HerscHEL che nel 1802, dopo che ebbe perfezionato i suoi strumenti in 
modo da poter penetrare più di tutti i suoi predecessori nella profondità del cielo, 
annunziò al mondo scientifico la grande scoperta: che realmente alcune stelle avevano 
dei satelliti luminosi che giravano loro attorno in tempi relativamente assai brevi. 

Assicurata l’esistenza di tali sistemi, lo studio deve rivolgersi a determinare il 
moto relativo di una stella rispetto alla sua compagna; e nel caso che questo moto 
relativo sia abbastanza veloce per diventare sensibile alle osservazioni in pochi anni, 
occorre seguirne le fasi con frequenti misure, onde poter costruire l’orbita che una 
stella descrive intorno all’altra e determinare il tempo della rivoluzione. 

Lo Schiaparelli fu attratto allo studio delle stelle doppie specialmente in causa 
dell’aver studiato sotto la guida di Otto Struve e dall’amicizia col barone Dem- 
bowski (*). Per coloro che conoscono le sue abitudini di perfezione, di attività per- 
severante e di attenzione alle più piccole particolarità non è sorprendente che tanto 
la quantità quanto la qualità del suo lavoro in questo campo lo mettano a pari con 
Guglielmo ed Otto Struve, con Dembowski, con Burnham come uno dei più grandi 
osservatori di stelle doppie del secolo decimonono. Circa dodicimila osservazioni di 
stelle doppie sono state fatte da lui in venticinque anni di lavoro con l’equatoriale 
di Merz di 8 pollici dal febbraio del 1875 al maggio del 1886 e con l’equatoriale di 


(*) Chi voglia conoscere quanto finora è stato osservato sul pianeta Marte consulti l’opera: 
La planète Mars di CamrcLo Frammarion (Paris, Gautier-Villars, 1892). Questo dotto ed immaginoso 
scrittore si è proposto di togliere alla fantasia dei poeti il problema della pluralità dei mondi 
abitati, circondandolo di tutto l'apparato scientifico possibile. 

(**) Vedi nota (d) in fine. 


Serie Il. Tom. LXIL vi 


370 NICODEMO JADANZA 10 


Merz e Repsold di 18 pollici dopo il 1886. Nel suo programma di osservazione egli 
ha sempre incluso i più importanti sistemi accessibili ai suoi strumenti, misurando 
i più interessanti dieci e perfino quindici volte in un anno. È difficile stimare l'alto 
valore che questa gran massa di lavoro possiede per gli studiosi delle stelle doppie, 
valore che crescerà ancora con l’andar del tempo. 


IV. 


Mercurio e Venere. 


“ Per quanto concerne Mercurio e Venere, tutto è ancora da fare; e neppure 
siamo ben certi della loro rotazione intorno ad un asse qualunque. Quanto si trova 


indicato sulla loro costituzione fisica nei libri popolari non è tutto fondato sopra osser- 
vazioni abbastanza degne di fede. Le difficoltà di osservare questi corpi, sono tal- 
mente grandi, da non lasciar molta speranza per l'avvenire , (#). 

Le osservazioni dello Schiaparelli su Mercurio furono fatte coi due strumenti di 
Merz di cui si è parlato precedentemente; con quello di 8 pollici negli anni 1881, 
1882 e 1883, e con quello di 18 pollici dopo il 1886. Dalle numerose osservazioni è 
risultato (contrariamente a quanto era fino allora ritenuto) che Mercurio ruota intorno 
al Sole presso a poco nello stesso modo che fa la Luna intorno alla Terra, presen- 
tando cioè al Sole (in generale e non senza qualche oscillazione) costantemente il 


x 


medesimo emisfero della sua superficie. La durata quindi della rotazione di Mercurio 
è uguale a quella della sua rivoluzione siderale cioè a giorni 87,9693 (**). Essa si 
esegue intorno ad un asse che non si scosta molto dalla perpendicolare al piano 
dell'orbita. 

Nel volume XXIII (1890) dei Rendiconti del R. Istituto Lombardo sono state 
pubblicate 5 note sul moto rotatorio del pianeta Venere. 

In esse sono state esaminate e discusse le osservazioni fatte dal 1666 (Gian 
Domenico Cassini) ai nostri giorni per determinare la rotazione del pianeta Venere 
che è uno dei punti più incerti dell'Astronomia. 

Da tali discussioni lo Schiaparelli ha conchiuso che : 

1° La rotazione di Venere è lentissima ; 

2° Dalle poche osservazioni di macchie ben definite sì ottiene come risultato 
molto probabile che la rotazione si fa in 224,7 giorni, cioè in un periodo esattamente 
eguale a quello della rivoluzione siderea del pianeta, intorno ad un asse presso a 
poco coincidente colla perpendicolare al piano dell'orbita. Non è però esclusa una 
certa deviazione dei veri elementi da quelli su indicati; 

3° Rotazioni di periodo poco differente da 24" sono affatto escluse. 

Le osservazioni di Domenico Cassini si spiegano meglio con un periodo di 
224,7 giorni che con la rotazione di 24°. 


(*) Cfr. ScaraparELLI, Il pianeta Marte ed i moderni telescopi, pag. 27. 
(**) Cfr. G. V. ScniapareLLi, Sulla rotazione di Mercurio. Nota pubblicata nel N. 2944 delle 
“ Astr. Nachr. , e nel vol. XIX (1890) delle “ Memorie della Società degli Spettroscopisti italiani ,. 


ll GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE S71 


La rotazione di 23° 21% (o di 23° 22%) proposta da Jacopo Cassini e che gli 
astronomi Schroeter e De Vico credettero di trovar confermata dalle loro osserva- 
zioni, è il risultato di una serie di paralogismi e di circoli viziosi. 

La soluzione esatta e definitiva si otterrà continuando le osservazioni con stru- 
menti adatti e con diligenza. 


Ve 


Lo Schiaparelli fu professore straordinario di Geodesia nell'Istituto tecnico supe- 
riore di Milano; vi fu nominato nell’ottobre del 1863 e cessò volontariamente da tale 
insegnamento alla fine del 5° anno (1867-68). 

Egli ebbe tutte le qualità di un ottimo professore e specialmente l’attitudine a 
ben esprimere le proprie idee; ma il dover attendere alle lezioni assorbiva molto 
del tempo che egli voleva consacrare all’astronomia. Ha però molto contribuito ai 
lavori geodetici fatti in Italia. 

Nell'ottobre 1864 assistette, a Berlino, in qualità di delegato del Governo ita- 
liano, alla prima conferenza generale geodetica per la misura dei gradi nell'Europa 
media insieme al generale Ricci, al colonnello De-Vecchi ed al Prof. Donati; fu nomi- 
nato membro della Commissione permanente dell’Associazione geodetica internazionale 
e vi rimase fino all'ottobre 1867. 

Costituitasi la Commissione geodetica italiana (*), Egli vi prese parte fin dalla 
prima seduta, che ebbe luogo a Torino dal 3 al 7 giugno 1865. L’ ultima riunione 
di tale Commissione a cui prese parte lo Schiaparelli fu quella che si tenne a Milano 
il 26-27 e 28 giugno 1900. Solenne riuscì la chiusura delle sedute. Avendo lo Schia- 
parelli fatto sapere alla Commissione che il Ministro aveva accolto la domanda di 
collocamento a riposo e che col 1° novembre venturo avrebbe cessato dalle funzioni 
di Direttore dell’osservatorio di Milano, il Presidente generale FeRRERO pronunziò 
commesso le seguenti parole: 


EereGI COLLEGHI, 


“ Im questo momento sento il bisogno di esprimere con tutto il cuore i vostri e 
miei sentimenti di gratitudine, di rispetto e di ammirazione per uno dei nostri 
“ colleghi, che forma il vanto nostro e che può chiamarsi, a giusto titolo, il fonda- 
“ tore della Commissione geodetica italiana. Alieno dal mettersi in evidenza, questo 


«i 


“ nostro collega nondimeno è stato l’anima della nostra Commissione, i cui presidenti 
“ si valsero largamente dei suoi consigli. 

“ Pur partecipando col mondo intero all’ammirazione per il grande astronomo, ho 
“ la presunzione di esprimere la convinzione che nessuno può aver potuto apprezzare 
“ più completamente il nostro maestro ed amico, quanto noi della Commissione geo- 
“ detica italiana, che abbiamo avuto il privilegio, a non tutti concesso, di poter indo- 


“ vinare ed apprezzare i tesori del suo cuore. 


() I primi membri della Commissione geodetica italiana furono: il generale Ricci (presidente), 
il colonnello De-Veccui (segretario), Doxari, De-GAspARIS, SCHIAPARELLI, SCHIAVONI. 


3172 NICODEMO JADANZA 12 


“ Il Prof. ScHIAPARELLI, per quanta sia la sua modestia, non può ignorare che il 
“suo nome è scritto a caratteri d’oro nella storia della scienza. 
«“ In questi giorni questo nostro maestro ed amico sta per compiere quarant'anni 
“ di luminosa carriera astronomica: ed io vi propongo che noi che l’abbiamo avuto 
“ per Mentore da oltre trentacinque anni, e che ne abbiamo accettato, con grato e 
“ devoto animo, i sapienti consigli nell’interesse di una grande impresa scientifica, ci 
“ procuriamo l’onore di dargli una pubblica dimostrazione dei nostri sentimenti di 
“ alta ammirazione e di profondo affetto. i 
“ Chiedo venia al Prof. ScHIAPARELLI se, violentando la sua modestia, domando 
ai colleghi di chiudere nel miglior modo possibile l’attuale sessione della Com- 
“ missione geodetica, con esprimergli i sentimenti comuni di affetto e di vene- 


ES 


R 


razione , (*). 

Queste parole esprimono nel modo più eloquente la convinzione di tutti i com- 
ponenti la Commissione geodetica nell’attribuire a Lui una gran parte del merito su 
quanto è stato fatto da essa. Ciò del resto risulta leggendo i verbali delle adunanze 
di detta Commissione pubblicati dal 1865 al 1900. 

Le memorie dello Schiaparelli che hanno maggiore attinenza colla Geodesia sono 

le seguenti : 

1° Delle operazioni fatte negli anni 1857-58-64 alla R. Specola di Brera per 
determinare il rapporto del klafter normale di Vienna col metro legale di Francia e 
colle pertiche impiegate nel 1788 per la misura della base del Ticino (Relazione pre- 
sentata all'Istituto Lombardo nell'adunanza del 25 agosto 1864); 

2° Relazione sulle operazioni fatte negli anni 1857, 1858, 1864 alla R. Specola di 
Brera per comparare fra di loro diversi campioni di misure lineari, con alcune riflessioni 
circa la vera lunghezza della base del Ticino ; 

3° Sulla compensazione delle reti trigonometriche di grande estensione (#*) (Nota 
presentata all'Istituto Lombardo all’adunanza del 28 dicembre 1865); 

4° G. V. ScHIAPARELLI e G. CrLorIA, Fesoconto delle operazioni fatte a Milano 
nel 1870 în corrispondenza cogli astronomi della Commissione geodetica svizzera per 
determinare la differenza di longitudine dell’osservatorio di Brera coll’osservatorio di 
Neuchatel e colla stazione trigonometrica del Sempione ; 

5° Il movimento dei poli di rotazione sulla superficie del globo (Discorso letto il 
30 agosto 1882 al XV Congresso degli alpinisti italiani in Biella); 

6° De la rotation de la Terre sous l’influence des actions géologiques (Mémoire 
présentée è l’observatoire de Poulkova è l’occasion de sa féte semi-seculaire, par 
J. V. SCHIAPARELLI, St.-Pétersbourg, 1889); 

7° Sulle anomalie della gravità (Discorso letto alla Società Italiana di Scienze 
naturali in Milano, il 1° marzo 1896). 


(*) Cfr. Processo verbale delle sedute della Commissione geodetica italiana, tenute in Milano 
nei giorni 5 e 6 settembre 1895 e nei giorni 26, 27 e 28 giugno 1900, pagg. 22 e 23. 

(**) In questa memoria, intesa a rendere meno penoso l’immane lavoro della compensazione di 
reti geodetiche molto estese senza perdere molto in esattezza, trovasi la curiosa osservazione 
seguente: il lavoro necessario alla risoluzione di m equazioni di primo grado con m incognite è (per 
valori molto grandi di 72) proporzionale ad mì. 


13 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 373 


Non sarà inopportuno ricordare qui le speciali attestazioni di merito ottenute 

dallo Schiaparelli da diverse Società scientifiche: 

1° La Società italiana detta dei XL assegna allo Schiaparelli una delle due 
medaglie d’oro istituite col Decreto reale 13 ottobre 1866 per i due autori italiani 
delle più importanti Memorie di matematiche e di scienze fisiche e naturali di questi 
ultimi tempi (4 gennaio 1868); 

2° L'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia conferisce allo Schiapa- 
relli la medaglia della fondazione Lalande, per i suoi lavori sulle stelle cadenti 
(18 maggio 1868); 

3° La “ Royal Astronomical Society , di Londra conferisce allo Schiaparelli 
la medaglia d’oro per le sue ricerche sulla connessione fra le orbite delle comete e 
delle stelle cadenti (9 febbraio 1872); 

4° L’Imperiale Accademia tedesca Leopoldina Carolina dei Naturalisti confe- 
risce a Schiaparelli la medaglia d’oro Cothenius per i meriti che egli si è acquistato 
con la sua opera: Note e riflessioni sulla teoria astronomica delle stelle cadenti 
(81 luglio 1876); 

5° L'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Francia conferisce allo Schiapa- 
relli il premio Lalande per le sue belle osservazioni sulla rotazione di Mercurio e 
di Venere (29 dicembre 1890); 

6° La Società astronomica del Pacifico, la cui sede è a San Francisco, ha 
conferito allo Schiaparelli la Medaglia Bruce (*) per segnalati servigi resi all’’Astro- 
nomia (29 marzo 1902). 


VI. 


« ..... l’Astronomia non è una scienza matematica, come volevano gli antichi e 
“ alcuni moderni ancora vogliono; ma una scienza naturale, la quale come scienza 
“ naturale vuole essere trattata. L’indole semplice dei suoi problemi la rende più 
“ accessibile al calcolo, che le altre scienze naturali, e per questo è avvenuto, che 
“ l’analisi e la geometria hanno riportato nel suo campo così luminosi ed insperati 
“ trionfi. Ma l’analisi e la geometria qui sono mezzi di studio, non essenza del sapere 
“ astronomico ; aiuti utilissimi anzi indispensabili, non completa ed unica misura dei 
“ fenomeni , (**). 

Così ha definito lo Schiaparelli la scienza da lui prediletta e coltivata con tutto 
l’ardore di una volontà ferrea che non gli è mai venuta meno fino all'estremo della 
sua vita. Si rimane meravigliati della quantità e qualità dei suoi lavori sopra argo- 
menti differenti l’uno dall’altro, ma quando si apprende che Egli aveva l’abitudine 
di riposarsi cambiando occupazione la meraviglia diventa ammirazione. Questa ammi- 
razione si prova maggiore quando si legge la serie dei lavori sulla Storia dell’Astro- 
nomia antica. 

Chi si accinge a scrivere la Storia dell'Astronomia antica dovrebbe poter leg- 
gere nella lingua originale i pochi frammenti che son pervenuti fino a noi, poichè 


(*) Vedi nota (e) in fine. 
(#*) Cfr. Le stelle cadenti. Tre letture di G. V. ScanapareLti (pagg. 79 e 80). 


974. NICODEMO JADANZA 14 


le traduzioni fatte nella lingua latina e nelle lingue moderne non sempre sono state 
fatte da persone competenti e nella scienza astronomica e nelle lingue antiche. Per 
tal ragione molte volte è accaduto che i traduttori abbiano detto proprio il contrario 
di ciò che era detto nelle opere originali. 

Lo Schiaparelli invece si preparò fin dalla giovinezza agli studi delle lingue clas- 
siche greca e latina ed a quello delle lingue moderne; negli ultimi anni della sua 
vita studiò anche l’Arabo e l’Ebraico dell'Antico Testamento. 

Le memorie più importanti sulla Storia dell'Astronomia antica sono: / precur- 
sori di Copernico nell'antichità, ricerche storiche di G. V. ScHraparELLI (N. II delle 
pubblicazioni del R. osservatorio di Brera in Milano) (1873). 

Le sfere omocentriche di Eudosso, di Callippo e di Aristotele (N. IX, idem), 1875. 

Origine del sistema planetario eliocentrico presso î Greci, 1898 (Memorie del 
R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, vol. XVIII). 

Quest'ultima non è che un complemento della prima, la quale fu presentata 
all'Istituto Lombardo il 20 febbraio del 1873 in occasione del 400° anniversario della 
nascita di Copernico. Lo scopo di essa è detto nelle seguenti parole con cui inco- 
mincia la memoria: 
aa; Ho scelto di narrarvi per quali difficili e recondite vie, negli aurei secoli 
« dell'antica coltura greca, l'ingegno umano tentò di avvicinarsi alla cognizione del 
“ vero sistema del mondo ; e per quali ostacoli la potenza speculativa degli Elleni, 
“ dopo d’aver raggiunto il concetto fondamentale di Copernico, non ha potuto traman- 
“ dare ai nipoti, invece di un monumento durevole, altro che un debole eco di sì ardito 
“ pensiero. Rammentando questi tentativi degli antichi padri della scienza sulla via 
“ da Copernico percorsa, e mostrando le difficoltà che in essa incontrarono, si renderà 
“ maggiore onore a Lui, che seppe vincerle colla sola forza del proprio ingegno ,. 

Si suol dire ordinariamente che Pitagora fosse il primo a professare il movi- 
mento della terra o intorno al suo asse, od anche intorno al Sole nello spazio; ciò 
non è conforme alla verità. Da diligenti studi fatti su documenti antichi dallo Schia- 
parelli e da altri si può con tutta probabilità assegnare l'ordine seguente al pro- 
gresso delle cognizioni umane sul sistema del mondo. 

1° A Frcovao pa Taranto, vissuto tra il 500 ed il 400 a. C. quando già era 
stata dispersa la società fondata da Pitagora in Crotona, fu attribuito il sistema 
cosmico più celebre delle scuole pitagoriche. 

Esso è il seguente : 

«“ L'armonia è il fondamento del mondo, o la sola forma sotto cui il mondo 
“ poteva generarsi. Non esiste che un mondo solo, il quale cominciò a formarsi nelle 
“ sue parti centrali. Intorno al centro è collocato ciò che egli chiama il fuoco, il 
“ focolare dell'universo, ecc., dove risiede il principio dell’attività cosmica. 

“ Il mondo è terminato esteriormente dall’Olimpo, al di là del quale esiste l’in- 
determinato o l’indefinito. L'’Olimpo è presentato come una sfera cava di fuoco, ed in 
esso stanno gli elementi in tutta la loro purezza. Or, come dalla mescolanza degli 
elementi derivano i colori dei corpi, la materia dell’Olimpo e il suo fuoco sono 
incolori e quindi invisibili. 

“ Fra la sfera dell'Olimpo e il focolare dell’universo, collocato al suo centro, si 
muovono in giro dieci corpi divini; primo e più esterno quello che porta le stelle 


K 


“ 


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15 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE DI 85) 


“ fisse; poi i cinque pianeti Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio ; indi il Sole 
“© la Luna, e finalmente la Terra: da ultimo e affatto vicino al fuoco centrale, 
l’Antiterra. 

“ L’Antiterra è, come la Terra e gli altri corpi, uno dei corpi divini; è collo- 


R 


cata fra la Terra e il fuoco centrale, al quale è costantemente rivolta. Al con- 
“ trario la Terra guarda sempre verso la parte esterna, cioè verso l’Olimpo ; con 
“ questa ragione, non essendo in quel tempo ancora molto estese le cognizioni 
«“ ceografiche, si spiegava perchè dalla Terra non si poteva vedere l’Antiterra. Il 
“ circolo descritto dalla Terra intorno al fuoco centrale nel medesimo senso che il 
“ Sole e la Luna (quindi da Occidente verso Oriente), è obliquo rispetto ai circoli 


A 


descritti da quei due astri: seguendo il primo l’equatore, gli altri lo zodiaco. Il 


G 


giro della Terra intorno al fuoco centrale si fa nello spazio di un giorno: e questa 
“ stessa condizione, unita all’altra, che la faccia della Terra è sempre rivolta all’in- 
“ fuori, produce il giorno e la notte e la rivoluzione diurna di tutti gli astri, com- 


n 


presi il Sole e la Luna ,. 
2° Prarone nel Zimeo ha svolto le sue idee sulla struttura dell'Universo. 

La Terra sferica ed immobile nel centro dell'Universo è circondata dalle orbite 
dei sette pianeti, regolati nel loro corso e nelle loro diverse velocità dai motori 
celesti, formanti parte dell'anima del mondo. Sulla natura però dei loro movimenti, 
e sul modo di rappresentarli geometricamente si avevano idee vaghe ed indetermi- 
nate. Pare però che agli ultimi anni della sua vita avesse avuto cognizione delle idee 
pitagoriche e si fosse convinto della verità del movimento della Terra. 

3° EracLipe Pontico (da Eraclea Pontica), uno dei pensatori più profondi e 

più indipendenti del suo tempo, aveva adottato l'ipotesi della rotazione diurna della 
Terra; supponeva grandi le distanze degli astri, ed infinita addirittura l’estensione 
del mondo. Egli sapeva ancora, che in questa ipotesi la durata della rotazione ter- 
restre, per soddisfare ai fenomeni, non deve essere di un giorno solare esattamente, 
ma alquanto più breve. 

Mentre i filosofi che lo precedettero si erano industriati di dare una spiega- 
zione approssimata dei movimenti celesti con rivoluzioni circolari e concentriche 
intorno al centro del mondo, Eraclide Pontico fu il primo a riconoscere che per i 
due pianeti inferiori, Mercurio e Venere, il migliore e più semplice modo di rappre- 
sentare le fasi osservate era quello di farli circolare intorno al Sole come centro, 
con periodo uguale a quello della rivoluzione sinodica e nel senso diretto, cioè secondo 
l'ordine dei segni. Così fu introdotto per la prima volta il concetto di far circolare 
un corpo celeste intorno ad un altro corpo celeste, girante esso medesimo intorno al 
centro dell'Universo. 

Analoghe indagini furono originate per spiegare le grandi variazioni dello splen- 
dore del pianeta Marte, le quali erano indizio sicuro di corrispondenti variazioni nella 
distanza del pianeta dalla Terra; si pervenne così ad estendere il sistema di 
Eraclide Pontico a Marte e quindi agli altri pianeti superiori Giove e Saturno. 

Tutti i pianeti diventarono satelliti del Sole, descrivendo intorno ad esso le loro 
orbite secondarie, nel periodo delle rispettive rivoluzioni sinodiche ; il Sole, centro 
comune a tutti, portava in giro intorno alla Terra sè medesimo e quelle orbite, con 
periodo di un anno. La Luna conservava la sua orbita geocentrica indipendentemente 


376 NICODEMO JADANZA 16 


da tutti gli altri corpi celesti. È questo il sistema che fu poi chiamato ticonico dal 
nome dell’astronomo Ticone Brahe che lo inventò una seconda volta. Il sistema di 
Eraclide Pontico era però più perfetto perchè ammetteva la rotazione della Terra, 
mentre Ticone la respingeva. 

4° ArIsrARco DA Samo. À raggiungere il sistema Copernicano non rimaneva più 
che una cosa sola, comprendere eioè, che, dato il Sole per centro dei pianeti, i feno- 
meni si possono rappresentare egualmente, sia facendo girare il Sole intorno alla 
Terra immobile (sistema di Ticone), sia facendo girare la Terra intorno al Sole in 
un circolo obliquo, giacente nel piano dello zodiaco (sistema di Copernico). 

Tale passo definitivo si compiè ancora durante la vita di Eraclide Pontico, e 
forse da Eraclide stesso (morì verso il 320 a. C.). ArIstARco pA Samo che visse fra 
gli anni 310 e 240 a. C. ebbe il vanto non solo di aver riconosciuto l’eccellenza del 
concetto copernicano, ma anche di averlo adottato come ipotesi sua propria e di 
averne pubblicata la spiegazione. Le orbite dei pianeti intorno al Sole erano tutte 
circolari concentriche al Sole, punto centrale dell'Universo, ad eccezione di un solo 
epiciclo, descritto dalla Luna intorno alla Terra e con essa aggirantesi di moto annuo 
intorno al Sole. 

La seconda delle memorie: Le sfere omocentriche, ecc., è una rivendicazione di 
Euposso da Cnido il quale si era proposto mediante semplici costruzioni geometriche 
di soddisfare alla domanda proposta da Platone: “ con quali supposizioni di movi- 
menti regolari ed ordinati si potessero rappresentare le apparenze osservate nel corso 
dei pianeti ,. 

Non è qui il caso di esaminare questa memoria, la quale mette in rilievo minu- 
tamente il sistema delle sfere omocentriche di Eudosso ; voglio soltanto citare due 
brani coi quali è messa in evidenza la inesattezza delle Storie dell'Astronomia antica 
di Barry, NonrucLA e DELAMBRE, e la obbiettività e la serenità dei giudizi dello 
Schiaparelli. 
agi gli astronomi, che si accinsero a scrivere la storia della loro scienza, non 
solo si occuparono assai leggermente delle speculazioni degli Jonii, dei Pitagorici 
“e di Platone: ma di tutti i lavori della scuola di geometria, che fiorì in Grecia 
“ fra gli anni 400 e 300 a. C., o parlarono inesattamente e succintamente, o tacquero 
affatto. Eppure in questo intervallo, e prima che cominciasse la scuola di Ales- 
sandria, si elaborava in Grecia il materiale degli Elementi di Euclide, si inventa- 
vano e studiavano le sezioni del cono, e si imparava a risolvere i problemi per 
mezzo della descrizione meccanica di linee curve. Allora fu fatto un grande e 
memorabile tentativo per rappresentare i fenomeni celesti con ipotesi geometriche, 
e queste ipotesi furono messe a cimento colle osservazioni, e rettificate ove occor- 
reva. Da queste investigazioni, a cui non mancò alcuno dei caratteri che costitui- 
scono una ricerca scientifica nel più stretto senso che i moderni sogliono dare 


(13 


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“ 


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questa espressione, era nato il sistema delle sfere omocentriche, per cui tant’alto 
si levò presso gli antichi il nome di Eudosso da Cnido. Del quale sistema, sebbene 
non rimanga più alcuna esposizione completa ed ordinata, tuttavia, dai cenni che 
ne fecero Aristotele ed Eudemo di Rodi, e Sosigene e Simplicio peripatetici, è 
ancora possibile ricostruire con certezza le linee principali. Ma vedi forza del pre- 


ES 


R 


R 


giudizio! Eudosso non fu uno degli Alessandrini, e fu anteriore ad Ipparco; perciò 
5 D ’ 


17 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE SII 


gli fu negata la qualità di astronomo, anzi anche quella di geometra. Tanta ori- 
ginalità di concetto, tanta sottigliezza di costruzioni geometriche, tanti ingegnosi 
sforzi per avvicinarsi al risultato delle osservazioni, tanta ammirazione dei contem- 
poranei, non trovarono grazia presso coloro che s’incaricarono di narrarci la storia 
dell'astronomia; e le sfere omocentriche procurarono ai loro autori assai maggior 
somma di biasimo che di lode ,. 

E più oltre: 


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n 


“ Nella presente memoria io mi sono proposto di completare e di correggere 
l’opera d'Ideler, e di mostrare infine agli astronomi ed ai geometri quale somma 
d’ingegnose combinazioni sta nascosta in ciò che ad altri è sembrato ridicolo, o 
non degno di attenzione alcuna. Noi vedremo messa per la prima volta in chiaro 
la natura di quella elegante epicloide sferica detta da Eudosso ippopeda, che è il 
cardine fondamentale di tutto il suo sistema. Investigheremo entro quali limiti di 
esattezza le ipotesi eudossiane potevano adattarsi a rappresentare le osserva- 
zioni; e da questo studio ricaveremo qualche luce (sebbene non tanta, quanta si 
potrebbe desiderare) per conoscere la natura delle riforme che Callippo e Polemarco 
v’introdussero posteriormente. E comprenderemo ancora la necessità e la ragione 
di quella grande moltiplicità di sfere, che a torto fu rimproverata da chi non ne 
intendeva l'ufficio, e che parve cosa degna di riso e di compassione alla nostra 
epoca, la quale, senza saperlo, nelle teorie planetarie fa uso degli epicicli, a 
decine e a centinaia, nascondendoli sotto il titolo di termini periodici di serie 
© infinite. 

“ Nel prender a meditare su quei monumenti dell’antico sapere, inspiriamoci, o 
lettore, a quel rispetto ed a queila venerazione che si devono avere per coloro, che, 
precedendoci in un’ardua strada, ne hanno a noi aperto ed agevolato il cammino. 
Con questi sentimenti impressi nell’animo ben ci avverrà d’incontrare osservazioni 
imperfette e speculazioni lontane dalla verità come oggi è conosciuta; ma non tro- 
veremo mai nulla nè di assurdo, nè di ridicolo, nè di ripugnante alle regole del 
sano ragionare. Se oggi noi, tardi nipoti di quegli illustri maestri, profittando dei 
loro errori e delle loro scoperte, e salendo in cima all’edifizio da loro elevato, 
siamo riusciti ad abbracciare collo sguardo un più vasto orizzonte, stolta superbia 
nostra sarebbe il credere per questo d’aver noi la vista più lunga e più acuta della 
loro. Tutto il nostro merito sta nell'essere venuti al mondo più tardi ,. 


VI. 


Le ricerche dello Schiaparelli non si limitarono all’astronomia greca; nel 1903 
pubblicò l’ Astronomia deli’ Antico Testamento (#), in cui è esposto quanto si è potuto 
sapere circa le conoscenze degli Ebrei in fatto di astronomia. Il volume si compone 
di otto capitoli (I. Introduzione; Il. Il Firmamento, la Terra, gli Abissi; III. Gli 
Astri; IV. Le Costellazioni ; V. Mazzaroth ; VI. Il Giorno e la sua divisione; VII. Mesi 


(*) Manuale Hoepli, N. 332 (Milano, 1903). 
Serie II. Tox. LXII. xt 


378 NICODEMO JADANZA 18 


ed Anno; VIII. Periodi settenari). I primi cinque contengono ciò che è puramente teorico, 
gli altri tre riguardano le applicazioni alla cronologia ed alle pratiche religiose. 

Tale ricerca è, per sè stessa, irta di difficoltà per molte ragioni, fra le quali 
le principali sono: 1° L’indole stessa del popolo Ebreo, che non gli ha consentito 
di occuparsi dei principii delle scienze ma di dedicarsi soltanto a purificare il senti- 
mento religioso e di preparare le vie al monoteismo. Assorto dal culto di un Essere 
Supremo onnipotente, dal cui arbitrio, spesso mutabile, faceva dipendere l’esistenza 
del mondo e le variazioni di esso, non ebbe mai la concezione che le operazioni 
della natura materiale si facessero secondo norme invariabilmente stabilite. Di qui 
una cosmologia semplice, in perfetto accordo colle idee religiose, atta a soddisfare 
interamente uomini di tipo primitivo, pieni d’immaginazione e di sentimento. 

2° L’Antico Testamento è stato opera di parecchi scrittori vissuti in epoche 

molto differenti, e non sempre aventi del mondo e delle cose celesti un concetto asso- 
lutamente identico. 

Il sistema cosmico degli Ebrei è stato rappresentato dallo Schiaparelli nella 
figura qui annessa; essa è molto propria ad aiutare l’immaginazione del lettore colle 
seguenti spiegazioni : 


B 


N cielo, la terra, gli abissi, secondo gli scrittori dell'Antico Testamento. 


ABC rappresenta il cielo superiore, A DC il contorno dell’abisso, AE C il 
piano della terra e dei mari; SS sono diverse parti del mare, EE E diverse 
parti della terra. 

In GHG si ha il profilo del firmamento o cielo inferiore, in XK i serbatoi 
dei venti, in L Li serbatoi delle acque superiori, della neve e della grandine. M è 
lo spazio occupato dall’aria, nel quale corrono le nubi. 

In NN le acque del grande abisso, in xxx le fonti del grande abisso. PP è lo 
Scheol o limbo, Q la sua parte inferiore, l’inferno propriamente detto. 


Intorno al firmamento si aggirano gli astri e prima il Sole e la Luna, posti, a 
quanto sembra, a distanze poco differenti l’uno dall'altra. Il loro ufficio era di rego- 
lare il tempo; e benchè tale ufficio richiedesse una certa regolarità di movimenti e 


19 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 379 
di periodi, pure non si considerava come impossibile che arrestassero il loro corso 
od anche tornassero indietro al comando di Giosuè e di altri uomini prediletti 
da Dio. 

Al di sopra del Sole e della Luna si estendeva il cielo delle stelle il quale era 
considerato come qualche cosa di sottile e di flessibile. Il potere di conoscere tutte 
le stelle, di numerarle e di distinguerle col loro nome era riservato a Dio solo. Le 
cognizioni astronomiche relative a qualche pianeta ed alle costellazioni principali 
furono importate probabilmente dai Babilonesi insieme al culto degli astri e ad altre 
superstizioni; però è merito del popolo Ebreo di aver saputo vedere l’inanità dell’Astro- 
logia e di tutte le altre specie di divinazione. 

Presso gli Ebrei il mese incominciava dall’istante in cui la falce luminosa della 
Luna incominciava a rendersi visibile. Di conseguenza ne derivò che il giorno inco- 
minciasse colla sera mezz'ora circa dopo il tramonto del Sole. 

Il principio dell’anno fu primieramente collocato in autunno dopo finite le rac- 
colte; fu poi trasportato in primavera all’epoca di Salomone. 

I mesi anticamente avevano nomi speciali e poi tali nomi furono surrogati dai 
numeri naturali dall'uno al dodici. 

In epoca posteriore furono adottati i nomi dei mesi adoperati dai Babilonesi. 

L'istituzione della settimana è stata senza dubbio fatta dagli antichi Ebrei : 
“ Il suo uso si può rintracciare fino a quasi 3000 anni addietro e tutto fa credere 
“ che durerà nei secoli avvenire, resistendo alla smania di novità inutili, ed agli 
“ assalti degl’iconoclasti presenti e futuri. 

« Gli Ebrei non davano nomi speciali ai giorni della settimana, fuori che al Sab- 
« bato, il quale era considerato come l’ultimo dei sette, come ben si conviene al 
“ riposo, che deve succedere al lavoro ,. 

Nel 1908 pubblicò due memorie aventi per titolo: I primordi dell’ Astronomia 
presso i Babilonesi (#) ed I progressi dell'Astronomia presso i Babilonesi (#*). 

“ Dell’aver scoperto e additato alla pubblica attenzione i documenti di ciò che 
“ veramente può chiamarsi Astronomia babilonese il merito è dovuto principalmente 
« al celebre assiriologo Padre Srrasswarer della Compagnia di Gesù. Questi, esplo- 
“ rando le copiose collezioni di tavolette raccolte nel Museo Britannico, ne scoprì 
“ parecchie riempite quasi esclusivamente di numeri, disposti in molte colonne. Non 
“ tardò a riconoscere in quelle i lungamente desiderati saggi delle osservazioni e 
“ delle tavole astronomiche, per cui tanto alta si era levata la fama dei Caldei nel 
«“ mondo Greco-Romano, e che invano si era sperato di trovare a Ninive..... 

“ Strassmaier si associò per la parte astronomica il suo compagno P. EpPine, e 
« dal loro comune lavoro uscì nel 1889 il primo saggio delle loro interpretazioni, 
“ sotto il titolo Astfronomisches aus Babylon, e fu per gli storici e per gli astronomi 
“ una vera rivelazione ,. 

Dopo la morte di Epping fu dato dai Superiori dell'Ordine l’incarico di prose- 
guire le ricerche al P. Kverer che seppe rendersi capace di trattare tutta questa 
spinosa materia come astronomo e come assiriologo. Egli ha già pubblicato due lavori 


(£) Cfr. 5 Rivista di Scienza, Scientia ,, vol. II, anno II (1908), pag. 213. 
(#5) Id., vol. IV, anno II (1908), pag. 24. 


lo) 


380 NICODEMO JADANZA 20 


uno nel 1899 sui principali sistemi di calcolo lunare usati dai Babilonesi, l’altro nel 
1907 relativo allo studio delle tavole planetarie. 

“ Qui tutto è nuovo; ovo appena cavato dalla miniera, e già perfettamente 
“lavorato e lucente. Il P. Kugler è ora occupato ad esplorare altre parti del nostro 
“ argomento: l’astrologia, il calendario, le relazioni intime dell’astronomia e dell’astro- 
“ logia colla religione e colla mitologia; e colle parti già stampate avrà così com- 
“ piuto un’opera monumentale , (*). 

Lo Schiaparelli espone quanto di più interessante è stato pubblicato dai suddetti 
esponendo le varie fasi delle ricerche astronomiche presso i Babilonesi, che si possono 
ridurre a due periodi separati dalla catastrofe di Ninive (607 a. C.). Nel primo 
periodo le cognizioni erano poche; si riducevano ad una conoscenza approssimata 
della via del Sole cioè della linea percorsa dal Sole tra le stelle in un anno, ad 
osservazioni di alcuni pianeti e specialmente di Venere. Era però conosciuto con 
notevole grado di precisione il moto medio della Luna e gli osservatori erano giunti 
a trovare qualche espediente per arrivare, con qualche buon successo, alla previsione 
di eclissi lunari. 

In quel paese aveva preso uno sviluppo enorme ogni specie di superstizione 
divinatoria. L’Astrologia (e quindi l’Astronomia) non fu che un ramo particolare di 
scienza divinatoria. Ai fenomeni celesti fu data speciale attenzione appunto perchè 
erano osservabili sopra un gran tratto di paese e ciò dava occasione di trarre pro- 
nostici di effetto più generale. 

Nel secondo periodo, che si è svolto non indipendentemente dalla influenza elle- 
nica, gli Astrologi Babilonesi hanno proseguito le osservazioni sul Sole, sulla Luna 
e sui maggiori pianeti ed hanno calcolato empiricamente i loro movimenti, sicchè 
non era difficile predire le eclissi di Luna ed i luoghi di alcuni pianeti. Le loro 
cognizioni geometriche erano però molto limitate e non si elevavano all’altezza di 
quelle dei Greci. Dopo le conquiste di Alessandro il Grande, si misero a contatto i 
vecchi ed indefessi calcolatori ed osservatori Babilonesi col genio filosofico dei Greci; 
e “ dall'unione dei tre elementi: osservazione, teoria speculativa, calcolo, nacque 
“ nella scuola di Alessandria l’edifizio dell’Astronomia geocentrica, che dominò in 
“ Oriente ed in Occidente tutte le scuole fino ai tempi di Copernico. 

“ Sommando in breve ogni cosa, diremo che il vero merito dei Babilonesi fu di 
“ avere, coll’osservazione assidua e coll’arte di calcolo, stabilito sotto forma empi- 
“ rica le prime basi di un’Astronomia scientifica. Partendo da questa, i Greci crea- 
“ rono l’Astronomia geometrica, cioè la descrizione dell’ordine e delle forme dei 
“ movimenti celesti. Questa ebbe il suo culmine e la sua perfezione in Copernico ed 
“in Keplero; dopo del quale, Newton, partendo dai principii meccanici di Galileo, 
insegnò a derivare tutte le leggi di tali movimenti da una causa fisica, la gra- 


» 


“ vitazione. ; 

“ Quest’Astronomia meccanica sembra ora giunta al suo compimento, quanto ai 
“ principi; ma nell’applicazione rimane lunga via a percorrere, perchè si tratta non 
“ più del solo sistema planetario solare, ma di tutto il sistema stellato. Problema 


(*) Cfr. F. X. KueLer, Sternkunde una Sterndienst in Babel. Minster, Aschendortf, 1907 e segg. 


1 


00 


Qi GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 9 


“ formidabile di cui appena adesso cominciano a determinarsi le prime linee. A 
«“ questo terzo stadio si è di già aggiunto il quarto, l’Astronomia fisica, che degli 
“ astri indaga la composizione chimica e le proprietà fisiche. Al principio di questa 
“ scala stanno sul primo gradino i calcolatori intrepidi, i vigili assidui delle Specole 
“ di Babele e di Borsippa, di Erech e di Sippara, di Ninive e di Nippur. Onore a 
“ voi, padri antichi della nostra scienza! 

“ Onore anche a quei dotti e pazienti uomini, per cui opera voi risorgete nella 
“ memoria dei posteri! , (*). 


VIII. 


Non alla sola Astronomia lo Schiaparelli dedicò il suo vasto intelletto, ma a 
molte altre questioni di filosofia naturale. È meritevole di essere ricordato lo scritto 
che ha per titolo: Forme organiche naturali e forme geometriche pure (#*), dedicato al 
Prof. Tiro ViewoLi, Direttore del Museo Civico di Storia naturale in Milano. 

L'origine e lo scopo di tale lavoro si trova nella Prefazione-Dedica, che qui tra- 
scrivo quasi interamente. 

“ Dedico a Voi questo opuscolo, che a Voi deve d’essere stato scritto e di 
“ essere ora pubblicato. L’idea di scriverlo, ben Vi ricorda, me la deste il 22 aprile 
“ passato in un colloquio, del quale conservo tuttora la più viva e la più gradita 
ricordanza. 

“ Si discorreva dell’ordinamento sistematico negli esseri della natura organica. 
Voi diceste allora che non potevate adottare l'opinione espressa già (colle usate 
cautele però) da Carlo Darwin, secondo cui tutte le specie della natura animale 
deriverebbero per evoluzione da un unico tipo. Che consideravate come vera e dimo- 
“ strata la derivazione di tutte le specie, ma però di ciascuna soltanto nel campo 
“ proprio dei quattro tipi fondamentali fissati da Cuvier e da Baer. Essere vostra 
“ intima persuasione che la materia vivente non potesse in origine ordinarsi che 
“in quelle quattro forme; come le sostanze minerali non cristallizzano in più che 
“ sette sistemi di figure poliedriche. E concludevate che la causa di tale divisione 
“ sia da cercare in rapporti necessari della materia vivente con definite forme geo- 
“ metriche di struttura. 

“ Colpito da queste riflessioni, Vi confidai allora che da molto tempo anch'io 
era giunto a congetturare relazioni fra le strutture organiche e quella Geometria, 
“ che tutto informa il Cosmo, così nel grande come nel piccolo. Considerando l’or- 
dinamento sistematico che dovunque regna nel campo degli esseri viventi, e le 
“ correlazioni e connessioni manifeste che si rivelano in ogni parte, io era stato 
condotto ad assimilare l'insieme delle forme organiche ad un sistema di forme 


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(£) Cir. * Rivista di Scienza ,, vol. 4°, 1908, pag. 54. Cfr. anche Gino Loria, l’interessante arti- 
colo avente per titolo: Giovanni Schiaparelli quale storico dell'antica Astronomia in BreLiornEcA 
Marnematica (“ Zeitschrift fiir Geschichte der Mathematischen Wissenschaften ,, dritte Folge, X Band, 
4. Heft, 15 novembre 1910). 

(#*) Cfr. il volume della “ Biblioteca Scientifico-letteraria ,, avente per titolo Tiro VienoLi e 
G. V. ScarapareLti, Peregrinazioni antropologiche e fisiche; Studio comparativo tra le forme organiche 
naturali e le forme geometriche pure (Milano, Hoepli, 1898). 


82 NICODEMO JADANZA 22 


I 


« pure geometriche, nella classificazione delle quali si manifesta in modo anche 
altrettanto evidente la disposizione logica e la connessione delle singole parti. Io 


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“ ne avevo concluso, che come in un sistema di forme geometriche l’infinita varietà 
“ di queste deriva dalla variazione dei parametri (od elementi discriminatori) di 
“ una medesima forma fondamentale, così possano i tipi organici della natura (o 
“ almeno di un regno di essa) derivare tutti dalle variazioni di un certo numero di 
“ elementi discriminatori secondo una formola o legge unica; per modo che alla for- 
“ mola sian dovuti tutti i caratteri comuni, alla diversità di detti elementi tutti i 
“ caratteri speciali ed individuali. 

“ Questa idea Vi parve degna di qualche attenzione, tanto che voleste farne pub- 
“ blico cenno in una conferenza poco dopo da Voi tenuta nel Museo; e mi esortaste 
“ vivamente a svilupparla per iscritto. E aggiungeste un benefizio, del quale Vi sarò 
“ grato in eterno; mi deste cioè a leggere le opere immortali di Carlo Darwin. 
“ Nuovi orizzonti si apersero alla mia mente; ciò che prima appariva sotto forma 
“ nebulosa e mal definita, acquistò precisione, consistenza e rigore. Vidi con grata 
“ sorpresa che quelle mie idee non solo non erano (come da principio sospettavo) 
“ contrarie alla teoria dell’evoluzione organica; ma che anzi potevano servire forse 
a sciogliere od almeno a rischiarare diverse difficoltà di questa teoria, davante 


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alle quali lo stesso Darwin s’era arrestato ,. 

Questo scritto si fa leggere volentieri da ogni persona colta e specialmente sarà 
letto attentamente dai naturalisti, dai quali, come persone più competenti, l’autore 
attende il verdetto. Se dall'esame risulterà che questo insieme d’ipotesi scientifiche 
non sarà altro che fumo “ faremo conto che non ne sia stato nulla, e considereremo il 
tutto come sogno di una notte d'estate , (*). 

Questa, per sommi capi, è l’opera scientifica di GrovannI VIRGINIO SCHIAPARELLI; 
essa si è svolta tutta durante il primo cinquantenario della indipendenza della 
nostra Patria. In quest'ora solenne l’Italia commemora con gratitudine tutti i suoi 
figli, che in diversa guisa Le fecero onore; chi versando il proprio sangue sui campi 
di battaglia per espellere il nemico straniero, e chi, meditando e lavorando silen- 
zioso nei laboratori scientifici per svelare i segreti della natura ed espellere il più 
temibile dei nemici interni, l'ignoranza. Tra questi lavoratori solitari, e forse in primo 
posto, va annoverato il sommo astronomo, cui, ora è un anno, si schiuse la tomba 
nella città di Milano. Il suo nome è scritto a caratteri indelebili sulla volta celeste: 
ivi gli astronomi del mondo intero lo troveranno nei secoli venturi (#*). 

Torino. Giugno 1911. 


(*) Alla fine del capitolo IV: Variazioni individuali ed accidentali nei tipi organici, Variazioni 
correlate. Selezione casuale, Mostruosità, si trova quanto segue: “ .....la presenza di un secondo ele- 
“ mento »m nella generazione, ha per effetto una tendenza maggiore del tipo a ritornare verso la 
“ normalità, tutte le volte che se n’è allontanato alquanto. È in certa guisa una forza centripeta, 
“ che finisce per impedire le grandi deviazioni che le cause accidentali potessero (come nel caso 
“ precedente) produrre nel decorso dei tempi. E la conclusione definitiva è questa: che a parità di 
circostanze, nella generazione bisessuale le digressioni dal tipo normale derivanti da cause accidentali 
“ sono relativamente più difficili a prodursi, e sono contenute in limiti più angusti che nei casì in cui 
un solo individuo basta all'atto generativo ,. 

(#*) Il chiarissimo Prof. Borserti Francesco, genero dello Schiaparelli, m'inviò i due ritratti che 
lo rappresentano all’inizio ed alla fine della sua vita scientifica. Ringrazio l'egregio Collega della 


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sua squisita cortesia. 


23 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 


APPENDICE 


Nota (a). 


PARROCCHIA DI S. PIETRO (SAVIGLIANO) 
Atto di nascita e battesimo. 


Dagli atti di Nascita di questa parrocchia risulta che il giorno quattordici marzo del mille- 
ottocentotrentacinqgue nacque da Schiapparelli Antonio e da Catterina Schiapparelli un figlio, il 
quale fu battezzato il giorno seguente e gli fu imposto il nome di Virginio Gio. Battista. 


Sottoscritto all'originale 


M. D. Ruecero BLunpo. 
P. Parroco 


Occero D. SEBASTIANO 
delegato. 
Savigliano, 15 marzo 1911. 


Visto: Savigliano, 16 marzo 1911. 
Il Sindaco 
M. Virra. 


Nota (0). 
REGIA UNIVERSITÀ DI TORINO 


Addì 11 del mese di Agosto 1854 ed alle ore 10 4/, di mattina nel palazzo della Regia Uni- 
versità, ivi avanti l’Ill.mo Sig. Comm. Brunari V. Preside della Classe di Matematiche, e dei 
Sigg. Membri della Classe medesima, si è presentato il Sig. ScniappareLri Giov. Battista da Savi- 
gliano figlio di Antonino nato il 14 marzo 1835 per prendere l’esame pubblico di Ingegnere idraulico 
ed Architetto civile, al quale esame è stato ammesso essendo munito degli opportuni requisiti. 

Il candidato fu esaminato verbalmente sull’Idraulica ed Architettura, e per mezzo dei temi 
propostigli dai rispettivi Sig. Professori, non che sugli argomenti tratti a sorte dall’ Idraulica, Mec- 
canica, Costruzione e Geometria pratica. 

Estratti a sorte per argomentare 


Presenti 
i Sig. C.e Giulio i Sig. Erba 1° 

C.e Promis 4 Giulio 2° 
Richelmy Richelmy 83° 
Erba Promis 4° 
Ferrati 

C.° Menabrea Assenti 

C.° Talucchi i Sig. B.2° Plana 
Martini C.° Pollone 
Bruno 


Terminato l’esame, dato giusta il prescritto, si è proceduto alla votazione, colla quale il can- 


didato è stato approvato a pieni voti. 


Del che 
Il V. Preside 


BRUNATI. 
Spedito il Diploma li 
12 Agosto 1854. 


(Ul) 
(0.0) 
Ha 


NICODEMO JADANZA 24 


Nota (c). 


Lorenzo BrcLorti nacque a Pollone (Biella) verso il 1820 e vi morì il 27 Marzo 1884. Laureato 
in medicina nell'Università di Pisa, verso il 1845 e tornato in patria, fu assalito da una terribile 
malattia, l’atrofia muscolare progressiva, che per tutto il resto della vita gli impedì (e in misura 
sempre crescente) l’uso libero delle membra; restando però sempre intatta la potenza della mente. 
Così, impedito nell’esercizio della medicina, si diede (1850) in Torino all'insegnamento privato delle 
matematiche, che aveva appreso da sè insieme alla Fisica durante il suo soggiorno a Pisa, inco- 
raggiato dal celebre Professore Mossotti. 

Lo Schiaparelli fu, come ho detto, allievo del Billotti, le cui lezioni non erano accademicamente 
elaborate, ma erano spiegazioni perspicue e ben ragionate dei problemi proposti, corredate di continue 
indicazioni istoriche sui progressi anteriori e su ciò che restava a fare per condurre quel dato argo- 
mento alla sua più desiderabile perfezione. Sotto l'influsso di quella chiara intelligenza e di quella con- 
vincente parola, le nostre menti si aprivano a poco a poco e quasi senza sforzo alla comprensione delle 
verità più difficili. La sua matematica non era una scienza astrusa, arida e repulsiva; era semplice- 
mente il buon senso e la logica comune, applicati allo studio dei numeri e delle figure. 

Più tardi, aggravandosi il male, si ridusse a Pollone, dove rimase per tutto il resto della sua 
vita. Quivi elaborò e condusse a termine la Teoria degli Strumenti ottici che fu stampata a Milano 
nel 1883 fra le Pubblicazioni della Specola di Brera in un grosso volume in quarto. È questo il solo 
monumento che ci resti di quell'uomo insigne; ma vale per molti. 

(Da un articolo di ScurarareLti pubblicato a pag. 51 nel libro: Il Biellese, pagine raccolte e 
pubblicate dalla Sezione di Biella del Club alpino italiano in occasione del XXX Congresso nazio- 
nale in Biella [Milano, Turati, 1898]). 


Nota (d). 


Ercore Dexsowskt (*), figlio del Generale Giovanni Dembowski e di Matilde Viscontini, nacque 
in Milano il 12 gennaio 1812. Rimasto orfano di padre e di madre in età ancora immatura, entrò 
a 13 anni nel Collegio della marina austriaca a Venezia: dal quale uscito, prese parte durante 
alcuni anni a diverse crociere nel Mediterraneo, per difendere il commercio dai pirati che lo infe- 
stavano ancora in quel tempo. Più tardi fu destinato a diversi viaggi in America ed in Oriente. 
Nel 1843, in età di 31 anno, dava le sue dimissioni dal servizio della marina austriaca. 

Rientrato nella vita privata, egli si stabilì a Napoli, e sciolto da ogni impegno profittò della 
sua libertà per completare la sua istruzione scientifica e letteraria. In Napoli attese più seriamente 
che prima non avesse fatto agli studi astronomici, giovandosi principalmente degli aiuti e dei con- 
sigli di Don Antonio Nobile, astronomo dell’Osservatorio di Capodimonte [marito della celebre 
poetessa Giuseppina Guacci]. 

Stabilitosi nel villaggio di San Giorgio a Cremano presso Napoli, alle falde del Vesuvio, vi 
costruì una piccola Specola nella quale pose un telescopio di 13 centimetri e mezzo di apertura 
del costruttore Plòssl di Vienna. Con tale istrumento Dembowski nel 1851 intraprese una serie di 
misure sulle stelle doppie, che continuò fino al 1858. 

Avendo abbandonato Napoli per tornare a Milano, ordinò a Merz di Monaco un Refrattore equa- 
toriale dell'apertura di 19 centimetri, munito di micrometro completo, e mosso da meccanismo 
parallattico: indi scelta a piccola distanza da Gallarate sopra un'eminenza una posizione amena e 
comoda, vi edificò un secondo Osservatorio, di cui quel Refrattore era il principale istrumento. Colà, 
libero, padrone di tutto il suo tempo, e non soggetto ad alcuna delle infinite vessazioni che distur- 
bano chi coltiva la scienza per incarico ufficiale, ei non visse più che col cielo. Nel 1862 cominciò 


(*) Da un articolo di Schiaparelli che si trova a pag. 65 e seguenti del periodico: La Natura, 
Rivista delle Scienze e delle loro applicazioni alle industrie ed alle arti, diretta da Paolo Mante- 
gazza, vol. 1°, 1° sem. 1884 (Milano, fratelli Treves editori). 


25 GIOVANNI V. SCHIAPARELLI — COMMEMORAZIONE 385 


e continuò per 17 anni quella colossale serie di osservazioni sulle stelle doppie, che è finora unica 
nell'Astronomia e che non sarà sì presto superata. Il grado di perfezione da lui raggiunto appena 
è uguagliato (seppure lo è) dai risultati ottenuti con strumenti di gran lunga maggiori dai più 
abili osservatori posteriori. 

Questo suo gran merito come osservatore fu da lui medesimo completamente ignorato; tanto 
fu eccessiva la sua modestia che egli non pensò a dare in luce la ricca collezione delle sue osser- 
vazioni. Pochi frammenti pubblicati nelle © Astronomische Nachrichten , bastarono a fare, che al 
Dembowski fosse aggiudicata nel 1878 la medaglia d’oro, che la Società Astronomica di Londra 
suole concedere ogni anno ad uno fra quelli che con recenti lavori meglio meritarono dello studio 
dei cieli. 

Dopo breve malattia morì il 19 gennaio 1881 in età di anni 69, dei quali consacrò 30 intie- 
ramente allo studio delle stelle doppie. 

T due strumenti fatti tanto celebri dai suoi lavori furono acquistati dal Ministro della Pubblica 
Istruzione, quello di Plòssl per l'Osservatorio del Collegio Romano e quello di Merz per l’Osserva- 
torio dell'Università di Padova. 

Gli eredi del Dembowski fecero dono all'Osservatorio di Brera di tatti i registri e dei giornali 
di lui, colla sola condizione che se ne ricavasse tutto il possibile vantaggio per la scienza. 

La R. Accademia dei Lincei pubblicò le osservazioni del Dembowski sotto il titolo: Misure 
micrometriche di stelle doppie e multiple fatte negli anni 1852-1878 dal Barone Ercole Dembowski. Tale 
pubblicazione fu curata da Otto Struve e G. V. Schiaparelli (Roma, Salviucci, vol. I, 1883; vol. II, 1884). 


Nota (e). 


Miss Caterina WoLre Bruce, nata nel 1516 e morta nel 1900 a Nuova York, fu donna di grandi 
meriti e contribuì largamente a molte utili imprese nel campo della carità, dell'educazione e della 
scienza. 

Suo padre, Giorro Bruce, fu un famoso fonditore di caratteri tipografici, ed essa, naturalmente, 
s'interessava molto all'arte della stampa, da lei definita come l’arte preservatrice di tutte le arti. 
Era valente pittrice e inoltre possedeva una vasta coltura letteraria. Sapeva il latino, il tedesco, 
il francese e l'italiano, avendo familiari anche le letterature di questi idiomi. Fondò e dotò larga- 
mente una biblioteca pubblica a Nuova York, dedicandola alla memoria di suo padre. Sono poi 
generalmente conosciute le cospicue elargizioni che fece a profitto dell'Astronomia. Molti progetti 
di ricerche astronomiche sarebbero finiti nel nulla senza il suo pronto e generoso intervento. In 
totale, le contribuzioni di Miss Bruce a favore dell'Astronomia sorpassano un milione di franchi. 
I suoi doni non rimasero limitati agli Stati Uniti, ma ne profittarono persone ed instituzioni in 
Inghilterra, in Germania, in Austria e in Danimarca. Le sue alte benemerenze furono riconosciute 
con distinzioni speciali: l'asteroide 323, scoperto dal prof. Max Wolf di Heidelberg il 22 dicembre 1891, 
ricevette il nome di Brucia, e quando più tardi, nel 1898, essa fece dono di un grande equatoriale 
fotografico al nuovo Osservatorio sul Konigstuhl presso Heidelberg, dove la sezione astrofisica è 
diretta dal medesimo prof. Wolf, il Granduca di Baden le conferì un'apposita medaglia d’oro. 

Nel 1897 Miss Bruce elargì un capitale di circa 13 mila lire alla Società astronomica del 
Pacifico, i cui interessi sono annualmente destinati ad essere convertiti in una medaglia d’oro, in 
premio di segnalati servigi resi all’ Astronomia. Tale medaglia non può essere data due volte alla 


stessa persona. 
(Da un articolo, pubblicato nella Perseveranza il giorno di lunedì 16 giugno 1902, avente per 


titolo: Nuove Onoranze al Professore Schiaparelli). 


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Serre II. Tom. LXII. x! 


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LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO 


(TRINO VERCELLESE) 


CONTRIBUTO ALLO STUDIO FITOGEOGRAFICO 
DELL'ALTA PIANURA PADANA 


MEMORIA 


Dott. GIOVANNI NEGRI 


Approvata nell'adunanza del 25 Giugno 1911. 


1. Una recente pubblicazione riassuntiva, alla quale ho avuto occasione di col- 
labo rare, raccomanda lo studio della vegetazione della Pianura Padana troppo tras- 
curato sin qui, almeno con intenti e procedimenti moderni (1). La presente memoria 
intende portare un contributo a tale lavoro, illustrando un settore della pianura 
vercellese, in corrispondenza del quale circostanze di varia natura hanno permessa 
la conservazione di tratti di vegetazione spontanea influenzata bensì, e senza dubbio 
profondamente, ma non ancora trasformata dall’azione dell’uomo in modo tale, che 
non ne traspaiano le linee essenziali della fisonomia primitiva. Le stazioni di questo 
genere presentano ordinariamente una flora abbastanza varia, che vanta qualche 
elemento a distribuzione sporadica, qualche specie in posizione eterotopica, qualche 
esclusione interessante: e nello studio dell’origine e della natura dei terreni sui quali 
sono stabilite, esse trovano la loro spiegazione, riassumendo abbastanza completamente, 
su breve area, i tipi ecologici, in complesso non molto numerosi, offerti dalla pia- 
nura padana alla vegetazione che la riveste. Per tutte queste ragioni pubblico i 
risultati della minuziosa esplorazione della flora del bosco di Lucedio, sembrandomi 
che essi possano condurre a qualche conclusione interessante sull’origine degli ele- 

menti costitutivi della vegetazione padana. 
; L’unico lavoro botanico dal quale io abbia potuto trarre dati sulla flora della 
regione è una nota del Ferraris sulla florula del Crescentinese: del resto, fatta astrazione 


(1) Lo stato attuale delle conoscenze sulla vegetazione dell’Italia e proposte per la costituzione di 
un Comitato permanente “ pro Flora Italica ,, per la regolare sua esplorazione. Relazione alla Società 
italiana per il progresso delle scienze dei Dott. A. Béguinot, Adr. Fiori, A. Forti, G. Negri, R. Pam- 
panini, A. Trotter, L. Vaccari, G. Zodda; Atti della Seconda Riunione. Firenze, ottobre 1908. 


388 GIOVANNI NEGRI 9 


dalle flore generali, non rimangono da ricordare che la Flora Aconiensis di Biroli e 
due vecchie note sulla Flora Vercellese del Cesati nelle quali ho trovato qualche dato 
di confronto (1). Molto ricco invece è il materiale floristico del quale ho disposto, in 
parte già conservato nelle collezioni del R. Istituto Botanico di Torino, in parte 
frutto di ripetute erborazioni personali (1908-1910) e delle comunicazioni dei colleghi 
ed amici raccoglitori. A loro ed ai proff. 0. Mattirolo, C. F. Parona e F. Sacco, alla 
cortesia dei quali debbo le comunicazioni di parecchie fra le pubblicazioni consultate, 
esprimo qui la più sentita ricenoscenza. Di vivi ringraziamenti sono pure debitore 
alla Amministrazione della tenuta di Lucedio, pel permesso di libera circolazione 
nella Riserva che ne dipende, favoritomi cortesemente. 


2. Nella parte più bassa della pianura vercellese a pochi chilometri di distanza 
dalla sponda sinistra del Po, che, in questo tratto del suo corso, costeggia la base diru- 
pata delle colline terziarie del sistema Torino-Valenza, l'uniformità del piano è inter- 
rotta da una lunga costa sopraelevata la quale, considerata nel suo assieme, si stende, 
talora poco distinta dalla pianura circostante, dal comune di Monte a quello di Rive, 
diretta presso a poco da O. ad E. per una lunghezza di circa 27 chilometri ed una 
larghezza di poco più di due nel suo punto più largo (Trino). La linea di vertice 
di questa piega della pianura, nota già nei vecchi documenti col nome di Montarolo 
o col più antico di M. Salio, è rappresentata dalle quote seguenti: Monte 164 m. s/m.; 
M. Kirie 166; S. Grisante 159; S. Genuario 153; Cascina M. S. Pietro (Favorita) 154; 
Madonna delle Vigne 183; Cascina Ariosa 158; Op. Grignolio 150; Rive 126. Più 
chiaramente ci si rende conto dell’ondulazione del suolo procedendo dal Po verso la 
pianura in senso normale al Montarolo: 


a) Po (m. 150); Crescentino (m. 154); S. Grisante (m. 154); M. Kirie (m. 166); 
Lamporo (m. 165); 

6) Po (m. 140); Fontanetto (m. 143); Cascina M. S. Pietro (m. 154); C. Apertole 
(m. 156); 

c) Po (m. 130); Palazzolo (m. 137); Mad. delle Vigne (m. 193); Lucedio (m. 149); 

d) Po (m. 126); Trino (m. 130); Montarolo (m. 142); Tricerro (m. 140); 

e) Po (m. 114); Balzola (m. 119); Torrione (m. 129); Saletta (m. 129); Costanzana 
(m. 129). 


Come si vede, è soltanto sul versante padano che la salienza del Montarolo ap- 
pare evidente in tutta la sua estensione; sul versante vercellese il suo pendìo si 
confonde gradualmente con quello della pianura. Come poi si rileva dalle cifre ripor- 
tate, il piano geometrico del Montarolo presenta una generale pendenza nel senso 
del fiume al quale decorre sensibilmente parallelo. Il territorio appartiene ora a 
parecchi comuni, Crescentino, Fontanetto, Palazzolo, Trino, Tricerro, Rive: è, nella parte 


(1) Ferraris T., Florula crescentinese e delle colline del Monferrato, 1° e 2* Contribuzione, “ Nuovo 
Giorn. Bot. ,, Nuova Serie, vol. VII, N. 4, ottobre 1900 e vol. X, N.4, ottobre 1908. — Biror1 G., 
Flora Aconiensis, Novara, 1808. — Crsati V., SyWabus plantarum quas in ditione Novariensi lectas 
ad floram aconiensem offert pro appendice prima, p. 306-312, Linnea X. — In., Die Pflanzenwelt im 
Gebiete 2wischen dem Tessin, dem. Po, der Sesia und den Alpen, “ Linnaea ,, XXXIII, 1863. 


Bb) LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 389 


piana, tutto occupato da risaie; nella sopra elevata, ridotto, specialmente ai due 
estremi, a cultura di grano, vite ed anche riso nei punti a rilievo meno accentuato. 
È solo nella porzione media, in corrispondenza della tenuta di Lucedio e dei terreni 
della Partecipanza di Trino, che le formazioni boschive perdurano tutt'ora in pro- 
porzione notevole, estendendosi anzi sul versante vercellese e sulla pianura per un 
piccolo tratto. 

Per fissare sul terreno (Carta d’Italia all’1:25000, Foglio 57 1° S. O. Trino) i 
limiti del presente studio, dirò che l’area in esame è limitata da: R. Canale di 
Rive (da quota 153 a quota 150), Canale R. del Calussano, Roggia Lamporo-Acqua- 
nera, Cavo della Regina — ha una forma grossolanamente trapezoidale, un asse 
maggiore, da quota 153 a C. Brusata, di m. 6500 ed uno minore, da C. Ronchi al 
confluente di Roggia Lamporo col canale passante per C. Valbischiera, di m. 2925 
ed un’area totale di m? 16.500.625. Come si rileva dalla carta, questa superficie è 
stata (recentemente) invasa dalla cultura risicola per m? 7.210.625, tantochè la parte 
incolta, comprendente complessivamente i boschi della P. di Trino e quelli delle 
T. di Lucedio, rimane ridotta a m? 9.290.000. Su quest’area si eleva, sino a m. 182, 
il vero Montarolo, la superficie occupata dal quale sta racchiusa dalla curva alti- 
metrica di m. 160 ed ammonta a m? 2.771.875: poco più di un quarto quindi di 
terreni di costituzione più antica in confronto al rimanente degli incolti, risalenti, 
in parte almeno, ad una fase più recente. In fine la minima distanza del Mon- 
tarolo dal Po è di m. 3375, misurati in linea retta dal punto più N. del corso del 
fiume fra Palazzolo e Trino e la €. Ronchi. 

Nel basso Vercellese la costa collinosa descritta, rappresenta, almeno nella sua 
parte media, il Montarolo, e per un certo tratto del piano che le sta a N., un lembo 
residuo della pianura diluviale anteriore all'ultima grande glaciazione e precisamente 
di una antica conoide deposta dalla Dora Baltea. A tergo si stende verso Vercelli 
il diluvium più recente, anteriormente, fra 11 Montarolo ed il Po, l’alluvium antico, 
mentre il fiume scorre ai piedi della collina sulle proprie recenti alluvioni. A destra 
ed a sinistra del Montarolo, sino a Monte e sino a Rive, cessando il terreno dilu- 
viale medio, lo slivello, che sulle carte topografiche figura come un prolungamento 
della costa. è costituito dal terrazzo fra il diluvium recente e l’alluvium antico; 
cosicchè, riassumendo, siccome la parte centrale del Montarolo è stratigraficamente 
sincrona delle barragie biellesi che le stanno a tergo ai piedi della catena alpina, 
sì può ragionevolmente dire che, dal punto di vista della costituzione del suolo, 
questo piccolo tratto del basso Vercellese, da questo punto più elevato al greto del Po, 
distante come ho detto poco più di 3 chilometri, riproduce in piccola scala i varii 
tipi di terreno della pianura padana (1). 


8. Questi dati ci forniscono la spiegazione del comportamento del terreno per 
rispetto alla vegetazione. Sta anzitutto il fatto che la provenienza dei ciottoli e delle 
sabbie che costituiscono le alluvioni della pianura vercellese, esclude di per sè la presenza 


(1) Sacco F., La pianura padana (° Ann. della R. Accad. d’Agricoltura di Torino ,, anno 1900, 
vol. XLIII). — Prever P. L., I terreni quaternari della Valle del Po dalle Alpi Marittime alla Sesia 
(© Boll. della Soc. Geologica italiana ,, vol. XXVI (1907), fase. III). 


390 GIOVANNI NEGRI 4 


in mezzo ad esse di materiale calcare in proporzione apprezzabile. Le ricerche com- 
piute del resto sul tenore del contenuto calcare nei terreni della pianura piemontese 
confermano direttamente questa presunzione (1); i campioni di terreno superficiali 
provenienti dal basso Vercellese, o non contenevano carbonato di calce in quantità 
determinabile (Fontanetto Po, Trino, Balzola, Rive), o si mantenevano ad un tasso 
inferiore all’1°/, (Fontanetto altro campione 0,18; Trino 0,28; Balzola 0,19; Villa- 
nova 0,19). D'altra parte, anche nelle acque scendenti alla pianura dall’arco Alpino 
corrispondente (2), quelle dei bacini della Sesia e del Cervo possono considerarsi 
come dolci, quelle della Dora Baltea presentano ad Ivrea, stazione inferiore fra quelle 
esaminate, una durezza di 7° gradi tedeschi, anche questa poco notevole se si tien 
conto che il tasso più elevato comportabile col mantenersi di un terreno geloide è 
già di 5°. Infine le acque assai dure scendenti dalla catena dai colli monferrini vengono 
intercettate dal corso del Po che corre lungo il lembo estremo e più basso della pianura 
terrazzata. Senza quindi tener conto dell’azione dilavante complessiva che si verifica 
in corso della’ degradazione meteorica attuale, anche sui terreni alluviale e diluviale 
recenti in cui manca la ferrettizzazione, l’aloidismo del substrato è naturalmente e 
generalmente assai basso. 

Fatta astrazione dai greti attuali di fiume dotati di flore caratteristiche, l’al- 
luviale recente, compreso entro il limite del letto di piena delle correnti fluviali, ed 
anche quello più distante dalle sponde ed elevato sulla falda acquea e sprovvisto 
ancora di un rivestimento forestale o di cotica erbosa continua, rientra nel novero 
dei terreni incapaci di fornire al sistema radicale delle piante che vi crescono un 
apporto notevole o per lo meno permanente di sali osmoticamente attivi (8). Ciò 
per l’accennata natura petrografica del suolo e per la poca salinità delle acque 
della falda, quando queste sieno abbastanza superficiali per raggiungere per capilla- 
rità la zona di espansione della radice; ed inoltre per l’alto grado di permeabilità 


che rende rapido il passaggio delle acque meteoriche attraverso il terreno col mas- 


simo di effetto utile pel dilavamento. Nel suolo alluvionale recente, ricoperto di fitte 
associazioni boschive riparie, entra in giuoco l’azione dell’Rumus nel determinare un 
substrato di natura caratteristica e ben nota: nelle aree paludose ed acquitrinose 
sono le proprietà dell’acqua inzuppante e ricoprente il substrato — in questo caso 
scarsamente aloide — quelle che ne determinano la natura. Infine, in corrispondenza 
delle aree abbastanza lontane dai corsi d’acqua od elevate sulla falda sotterranea 


(1) Fino V., Sulla deficienza di calce nei terreni della pianura piemontese (€ Ann. della R. Accad. 
d’agricoltura di Torino ,, XXXVII, p. 107. Torino, 1892). 

(2) Porro B., Sulla composizione chimica delle acque dell'alta Valle padana (ibid., parte 1% e 22, 
XLI, 79; XLIII, 171. Torino, 1898-1900). 

(8) Per quanto riguarda la spiegazione dei rapporti della vegetazione col terreno, mi sono atte- 
nuto alla recente teoria edafica del Gola, ed alla terminologia corrispondente; riscontrando, nel- 
l'ambito delle ricerche attualmente presentate, come già nel corso di altre già pubblicate, la per- 
fetta corrispondenza dei singoli fatti coi concetti dell'Autore. Cfr. Gora G., Studii sui rapporti fra 
la distribuzione delle.piante e la costituzione fisico-chimica del suolo (* Ann. di Bot. del prof. R. PrrottA ,, 
vol. III (1905), p. 455-512). — In., Saggio di una teoria osmotica dell’Edafismo (ib., vol. VII (1910), 
fasc. II) — In., Osservazioni sopra i liquidi circolanti nel terreno agrario (£ Ann. della R. Accad. di 
Agricoltura di Torino ,, vol. LIV (1911)). (Citati nel testo: Gola 1°, Gola 2°, Gola 3°). 


5 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUOEDIO (TRINO VERCELLESE) 391 


abbastanza per non risentirne un'influenza esclusiva, ma non tanto da non conser- 
vare un certo grado di umidità permanente; inoltre tali per la composizione del 
suolo, naturalmente od artificialmente commisto di materiale argilloide e d’Rumus, da 
possedere proprietà assorbenti abbastanza spiccate, le soluzioni circolanti riescono a 
mantenere una certa costanza di concentrazione molecolare. In questi terreni che sono 
specialmente quelli precedentemente rivestiti da un mantello vegetale da un tempo 
abbastanza lungo perchè vi si potesse formare una cotica erbosa continua (Gola 1°), 
predominano assolutamente piante appetenti una media concentrazione molecolare, 
ma sopratutto eustatiche, cosicchè al loro sviluppo è necessaria, come qui, una com- 
posizione prevalentemente acalcica del suolo od una preventiva decalcificazione degli 
strati superficiali quand’esso sia calcare. 

Diverse sono le condizioni dei terreni ferrettizzati. Questo processo di altera- 
zione, che risulta contemporaneamente disgregante e decalcificante, con abbandono di 
un residuo argilloso e ferruginoso, si è verificato in corrispondenza degli altipiani 
diluviali i quali, come è noto, sono rivestiti di una formazione di brughiera. In una 
pubblicazione che data da qualche anno (1) ho già definito le nostre brughiere come 
formazioni eliofile stabilite su terreno povero: intendendo come tale un substrato 
nel quale manchino sali solubili tali da elevare sensibilmente la pressione osmotica 
delle soluzioni circolanti. Le ricerche più recenti del Gola, che già sino d'allora aveva 
classificato come tipicamente geloide il terreno di ferretto mostrando come per vie 
diverse un terreno argilloso ed uno ghiaioso potessero condurre alla costituzione di 
una vegetazione gelicola, permettono di attribuire al terreno di brughiera un nuovo 
carattere, quello dell’eustatismo (Gola 2°); onde più precisamente la brughiera può defi- 
nirsi una formazione eliofila su terreno geloide eustatico. 

Chi conosce un poco però le nostre stazioni brughierose della valle del Po, sa 
come in esse la formazione di brughiera costituisca soltanto il tipo ecologico domi- 
nante. Osserva lo Stella che, nella pianura padana, solo su di un suolo del tutto piano 
è possibile riscontrare il ferretto vergine al disotto della pellicola superficiale del suolo 
agrario. Ma sugli altipiani diluviali, costituiti da materiali clastici, a superficie meno 
regolare e rivestiti da una coltre di terreno impermeabile, e quindi tanto più esposto 
alla erosione meteorica, le acque di scorrimento superficiale determinano ben presto 
una rete di rivoli e torrentelli che ne rende alquanto più tormentato il piano. Avviene 
così che, in corrispondenza dei tagli naturali, lo strato superficiale non appare formato 
da ferretto vergine, ma da una formazione variamente sabbiosa, ghiaiosa, ciottolosa, 
ferretto tanto più rimestato quanto maggiore è l’accidentalità del suolo. Che, se si 
esamina in particolare la natura del terreno in corrispondenza delle vallette scavate 
dai ruscelli, si seorge come la massa clastica del ferretto vergine, dopo essere stata 
per un certo spessore disgregata dagli agenti meteorici, vien distribuita a seconda 
della diversa resistenza di trasporto dei suoi elementi, in modo che le parti più fine 
e sgretolabili tenderanno a guadagnar i punti declivi, le più grossolane a spostarsi 
il meno possibile dalla sede originaria. “ Basta una leggera infossatura del ter- 


(1) Necri G., Sulle stazioni di piante microterme della pianura torinese (Atti del Congresso dei 
Naturalisti italiani in Milano, 1906). 


392 GIOVANNI NEGRI 6 


reno, scrive lo Stella, per determinare un leggero cappello di terra fine in un’area 
ghiaiosa: basta un salto di pendenza un po’ forte per determinare, in un’area di 
terreni medii, lo smagrimento del terreno, che diventa piuttosto ciottoloso; e ciò senza 
che il carattere generale dell’area cambi effettivamente in modo notevole... , (1). 
La vegetazione non può tuttavia mancare dal risentirsi di questo semplice cambia- 
mento. In corrispondenza delle aree ghiaiose si costituisce infatti un substrato ana- 
statico nel quale le oscillazioni di concentrazione possono condurre addirittura ad 
una condizione di aloidismo tale, che la brughiera non può più mantenervisi ed è 
sostituita da una formazione xerofila di gerbido, mentre, nei punti declivi, la filtra- 
zione dai fianchi della depressione di acque di dilavamento leggermente saline deter- 
mina o può determinare un aloidismo del substrato che si rispecchia, in grado vario, 
sulla costituzione del bosco ripario naturalmente igrofilo, ove le specie caratteristiche 
di brughiera sono soverchiate e talora affatto escluse da altre, più o meno alicole, 
di piccola mole e conseguentemente eliofobe. 

Queste le condizioni edafiche generali della regione, le quali possono facilmente 
essere applicate al caso del Montarolo. Da quanto è stato detto si comprende come l’area 
ferrettizzata sia quasi esclusivamente limitata alla porzione più elevata del terreno, più 
precisamente quella racchiusa dalla curva altimetrica 160. Su questo rialzo diluviale 
l’intensa attività meteorica del clima corrispondente all’ ultima espansione glaciale ha 
agito, come su tutto l’antico piano alluviale di cui essa è un relitto, degradandone 
profondamente i materiali costitutivi. Attualmente, come tutti i depositi dello stesso 
genere, esso presenta una costituzione sabbiosa-ciottolosa: e, come è carattere gene- 
rale pei depositi piuttosto lontani dalle falde alpine, manca di grossi elementi roc- 
ciosi. E tutto l’assieme, in seguito a quel complesso di azioni fisico-chimiche che 
costituiscono il fenomeno della ferrettizzazione, ha assunto una colorazione spiccata- 
mente ocracea che lo distingue dai terreni della pianura circostante. Nell’una come 
nell’altra manca, per tutto quanto si è detto, un vero aloidismo: ma si verificano 
tuttavia nel suolo escursioni abbastanza late fra un eustatismo, che può essere pra- 
ticamente considerato come assoluto, ed un certo grado di anastatismo. Sul deluvium 
ferrettizzato ciò sta in dipendenza del rimaneggiamento del ferretto e dell’accennata 
distribuzione dei suoi materiali, nonchè della denudazione meteorica od artificiale 
del terreno profondo che il terreno riveste: sul diluvium recente e sull’alluvium non 
degradati, permeabili e più prossimi alla falda acquea, sono i movimenti di quest’ul- 
tima quelli che, dall’eustatismo dei terreni inzuppati conducono all’anastatismo dei 
terreni aridi. 

Nell'ambito di tali condizioni edafiche generali sono naturalmente comprese le 
leggere oscillazioni in più od in meno nella statica delle soluzioni circolanti nel 
terreno, analoghe a quelle che si osservano nelle formazioni corrispondenti di tutta 
la pianura padana ed hanno piuttosto importanza come fattori determinanti le sin- 
gole associazioni od anche soltanto il facies differente che un’unica associazione può 
presentare: fenomeni locali che trovano localmente la loro spiegazione. Nello stesso 


(1) SveLrA A., Descrizione Geognostico-agraria del Colle Montello (Prov. di Treviso). Mem. descritt. 
della Carta geologica d’Italia, vol. XI. Roma, 1902, pag. 17. 


Ud LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 393 
modo un'importanza strettamente circoscritta hanno i forti aumenti di aloidismo che 
si osservano nelle stazioni ruderali, sepiarie, arvensi, stradali, antropiche in genere, 
i quali naturalmente non mancano neppure in questa regione. 


4. Considerazioni edafiche di questa natura stanno alla base di una classifica- 
zione generale delle stazioni vegetali di una pianura alluviale in genere e della pia- 
nura padana in particolare. È utile lo stabilire la natura di queste stazioni, anche 
perchè, in corrispondenza di ciascuna di esse, il clima generale della regione subendo 
una modificazione caratteristica, il loro riconoscimento costituisce in certo qual modo 
la premessa necessaria al retto apprezzamento delle condizioni climatiche offerte 
alla vegetazione. Non credo quindi di allontanarmi dall’argomento ponendone qui il 
prospetto generale, per riferirmici poi quando si tratterà di assegnare alle stazioni 
di cui il lavoro si occupa, la loro reale posizione ed importanza. A riscontro delle 
singole stazioni, che sono disposte secondo una classificazione che è quasi esattamente 
quella proposta dal Merril (1) per lo sfatticcio superficiale, stanno i gruppi ecologici 
in cui può distinguersi la vegetazione delle nostre regioni temperate, e per ciascuno 
di essi è indicata la parte che prende nella costituzione delle singole florule stazionali. 

Dovendo riunire in gruppi di tal natura la vegetazione della pianura padana, 
sorge tuttavia la difficoltà di distribuirla nelle categorie proposte sin qui dagli Autori, 
dato il fatto che esse sono informate a criteri multipli e disparati. Anche la clas- 
sificazione recentissima proposta dal Warming (2) non va esente da un tale incon- 
veniente, e già Gola (2. p. II), nel dare una classificazione ecologica dei terreni, ebbe 
a rilevare l’eterogeneità dei criteri adottativi nel definire ciascuna delle tredici classi 
proposte. 

In un lavoro che esce contemporaneamente a questo, il Gola (3) ed io ora pro- 
poniamo una modificazione alla primitiva (2? ed.) disposizione adottata dal Warming, 
che ci sembra affatto omogenea e sufficiente a comprendere tutti i casi che si pos- 
sono presentare, almeno nelle zone temperate e fredde. La distinzione prende le 
mosse da due gruppi maggiori, determinati dalla presenza o dall’assenza di un eccesso 
di acqua nel terreno, in conseguenza del quale i processi respiratori di una parte 
almeno dell’individuo vegetale non possono compiersi se non mediante particolari 
disposizioni morfologiche che si riassumono nella comparsa, nel caso dell’eccesso 
d’acqua, di tessuti aeriferi. I rapporti della nostra colla classificazione edafica del 
Gola (Gola 2°) sono necessariamente molto stretti: alle Idrofite corrispondono le Pedo- 
idrofite; alle Elofite, comprendenti le due suddivisioni delle Clizofite e delle Spon- 
gofite, le Pedoelofite; alle Xerofite, le Pedoxerofite. Quanto alle Mesofite, noi le 


(1) Merrit G.P., Rocks, rock-weathering and soils. Cfr. anche, per qualche dettaglio nelle pagine 
precedenti e seguenti: Van Hise C. R., A Treatise of Metamorphism (© Monographs of the United 
States Geological Survey ,, vol. XLVII. Washington, 1904 e Sanarer N. S., The origin and nature of 
soils (£ Twelfth Annual Report of the U.S. Geol. Survey ,, 1890-91. Washington, 1891. 

(2) Warmne E., Oecology of plants. An introduction to the study of plant-communities. Oxford, 1909 
pag. 136. È noto come VA. abbia in questa terza redazione notevolmente modificata la classificazione 
adottata nella precedente edizione tedesca (II, 1902, trad. Graebner). i 

(3) Gora G., La vegetazione del versante piemontese dell’ Appennino settentrionale (“ Annali di Bo- 
tanica del prof. R. PrrortA ,, in corso di stampa). 


Serre II. Tox. LXII. È Va 


394 GIOVANNI NEGRI 8 


distinguiamo, a seconda della insolazione a cui vanno soggette, in Sciafite ed Eliofite, 
due classi che non trovano nessuna corrispondenza nell’edafismo, essendo determi- 
nate dalle condizioni dell'ambiente epigeo. Naturalmente poi, in seno alle varie 
formazioni vegetali comprese in queste classi, l’azione di molteplici fattori ecologici, 
morfologici e storici determina il costituirsi delle singole associazioni. 

Le sei classi sono così caratterizzate: 

1° Idrofite. Piante immerse o sommerse provviste di tessuto aerifero di gal- 
leggiamento e di respirazione. 

2° EHlofite, Clizofite (da xA55e1v, bagnare, allagare), sommerse per la parte infe- 
riore e provviste, almeno in questa, di tessuti aeriferi. Terreno prevalentemente mi- 
nerale, sabbioso o limaccioso, aereazione scarsa o nulla. 

3° Elofite, Spongofite (da 07r6yyos, spugna). Piante riunite su di un substrato 
permanentemente inzuppato, ma non innondato e provviste, nelle parti inferiori 
almeno, di tessuti aeriferi più o meno sviluppati. Terreno prevalentemente torboso 
per feltro vegetale vivo o morto: aereazione scarsa. 

4° Mesofite, Sciafite (da ox.d, ombra). Piante viventi in terreno umido, ma 
leggero ed aereato, senza tessuti aeriferi. Apparato aereo sprovvisto di disposizioni 
difensive contro l’eccesso di traspirazione in quanto questo è ostacolato dalla costante 
umidità e dalla scarsa insolazione dell'ambiente. 

5° Mesofite, EVofite (da i{A0s, sole). Piante viventi in condizioni di ambiente 
non mai estreme rispetto alla insolazione, temperatura ed umidità dell’aria e del 
suolo. Questo è aereato e mantiene un certo grado di umidità indipendentemente 
dalla sua struttura meccanica. 

6° Xerofite (da Én96s, secco). Piante viventi in condizioni estreme per rispetto 
alla insolazione, alla temperatura ed alla secchezza fisica dell’aria, fisica o fisio- 
logica del terreno. Questo è costantemente aereato e, per periodi anche lunghi, as- 
solutamente secco, indipendentemente dalla sua struttura meccanica. 

Premessi questi dati generali, ai quali, come ho detto, dovrò ripetutamente 
riferirmi in seguito, e che riassumo per chiarezza nella tabella alla pag. seguente, 
lo studio ecologico del distretto in studio può essere proseguito coll’esame del- 
l’elemento climatico. 


5. Particolarmente delicato è lo studio delle condizioni climatiche. In primo 
luogo infatti la rete delle stazioni meteorologiche della pianura padana è ben lontana 
dall'essere nè molto fitta, nè completa e Ie osservazioni provenienti dalle singole 
fonti non sono tutte in egual grado attendibili, minute ed estese ad un periodo suf- 
ficiente di tempo. Poi, risalendo anche al tempo della nota discussione del De Candolle 
sul valore dei dati climatici forniti dagli osservatori meteorologici per la biologia 
vegetale, poco si è fatto in genere e nulla affatto nel nostro paese nell’indirizzo 
suggerito dal grande botanico ginevrino. In terzo luogo, quando anche queste condi- 
zioni fossero adempite; quando pure le ricerche fitogeografiche fossero compiute 
esclusivamente da botanici stazionarî in grado da completare per conto proprio le 
osservazioni necessariamente mancanti per località isolate, l'applicabilità dei dati 
dovrebbe sempre essere considerata come relativa. Per definizione infatti l’associa- 
zione vegetale è l’espressione di condizioni d'ambiente limitate alla stazione da essa 


395 


LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (ERINO VERCELLESE) 


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396 GIOVANNI NEGRI 10 


occupata e delle quali il clima è la principalissima: stazione per stazione dovreb- 
bero quindi essere ripetute le osservazioni, per condurre ad un risultato che sarebbe 
certo interessantissimo, rappresenterebbe il limite della precisione in questo campo 
e che pure dovrebbe essere apprezzato ancora con molta discrezione. Ogni pianta 
infatti ha il suo ambiente limitato alla zolla di terreno su cui cresce, un margine 
di adattabilità abbastanza lato alle variazioni possibili in seno ad esso: e del resto, 
senza spingere sino a questo estremo che sfugge ad ogni classificazione l'indagine, 
non vi è alcuno che abbia pratica di rilievi botanici sul terreno che non sappia 
quanto facili e frequenti sieno le interferenze fra le associazioni anche meglio carat- 
terizzate. 

Anche allo stato attuale delle nostre cognizioni in fatto di ecologia vegetale è 
possibile tuttavia discutere i singoli reperti delle ricerche botaniche dal punto di 
vista climatico prendendo come indici alcuni degli elementi del clima, le medie e le 
escursioni termiche, la piovosità, l'umidità, la serenità, i venti dominanti nelle regioni; 
ed esaminando quale indizio dell’azione di questi elementi ci presenti la vegetazione 
delle singole stazioni. È qui, però, che l’accennata adattabilità delle forme vegetali 
entra in gioco come una causa d'errore importante per l'osservatore, le visite del 
quale alla regione in studio sono necessariamente limitate in durata ed in numero. 
Così il sottobosco erbaceo ed arbustaceo di una associazione forestale può spesso 
mantenersi nel maggior numero dei suoi elementi floristici e nelle sue linee carat- 
teristiche nei casi di sostituzione graduale per opera dell’uomo, di una essenza arborea 
nuova alla primitiva: e, per attenerci alla vegetazione silvatica, è noto come, in caso di 
sboscamento, la scomparsa della specie del sottobosco sia soltanto graduale e come 
anzi, grazie alle nuove condizioni di insolazione e di umidità, qualcuna di esse acquisti 
sulle concorrenti meno adatte alle condizioni ecologiche bruscamente mutate, un grande 
predominio anche se in definitiva essa stessa non riuscirà ad occupare stabilmente 
la stazione. Nello stesso bosco Lucedio, per esempio, ho osservato lo scorso anno, 
in seguito al taglio di un largo appezzamento di querceto nelle proprietà della Par- 
tecipanza di Trino, la costituzione di una associazione estesa parecchie centinaia 
di m? e quasi affatto pura di Convallaria majalis (1): associazione che naturalmente 
non si manterrà e della quale non può essere quindi tenuto conto nello stabilire 
l'evoluzione della fisonomia della vegetazione regionale, la quale è molto più lenta. 
Lo stesso si dica, pei terreni ferrettizzati come il Montarolo di Trino, dell’alternanza 
che si verifica nei cedui di quercia, fra il querceto a ceppaia munito di un sotto- 
bosco di specie erbacee variate ed il calluneto, vera brughiera che si sviluppa negli 
anni in cui, essendo recente il taglio, i piedi di Calluna disseminati laddove manca 
l’ombra degli alberi, assumono, col favore delle condizioni mutate, uno sviluppo ca- 
ratteristico. Questa successione però che si ripete regolarmente e che rappresenta 
del resto l'espansione periodica della vegetazione normale di radure permanenti sul 
terreno nuovo costituitosi in seguito al-taglio, entra, a differenza delle precedenti, 
nella definizione del paesaggio botanico della regione. 


(1) Il fatto eccezionale stava in ciò che la Convallaria, specie mesofita eliofita, s'era, su que- 
st'area esposta a piena insolazione, sviluppata in modo da costituire un vero consorzio chiuso e 
quasi affatto omogeneo. 


Ù 
È 
la 


ila LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 397 


È del resto indispensabile fissare, dal punto di vista della distribuzione attuale 
dei climi, la posizione del distretto in esame anche per rendersi ragione del grado 
di possibilità, per gli elementi vegetali delle regioni circostanti, d’invaderlo. Poichè 
se la intensità dell’invasione di un distretto dipende dal rapporto fra la mobilità 
dei disseminuli delle specie invadenti e la loro attitudine a svilupparsi nelle stazioni 
invase (Clements), sta però il fatto che, nel caso in cui il distretto di provenienza e 
quello di arrivo non siano contigui, le condizioni delle regioni interposte possono 
creare alla migrazione ostacoli insormontabili. 

Ora è noto che, anche astraendo dal fatto generale dell'aumento dell’escursione 
termica procedendo dal mare verso l'interno della terra, e della piovosità, avvici- 
nandosi al piede delle catene montuose, le condizioni climatiche della pianura padana, 
malgrado la sua apparente uniformità, sono tutt'altro che omogenee. Nel senso del 
suo asse infatti, si dispongono due aree, l’una di minima, l’altra di massima tempera- 
tura, le quali non coincidono che su di una zona ristretta, rimanendo per la maggior 
parte l’area del massimo caldo spostata ad oriente, quella del maggior freddo ad 
occidente. Si comprende come la zona di sovrapposizione, che si estende dalla base 
dell’anfiteatro morenico del Lario sopra Monza, ai piedi dell'Appennino parmigiano, 
rappresenti un’area di massima continentalità che sbarra completamente la pianura 
padana e segna, lo si può verificare facilmente, il limite occidentale di diffusione di 
molte specie planiziarie orientali (1). 

La regolarità dell'aumento dell’escursione termica annuale dall’Adriatico verso 
l’alta pianura padana non subisce, del resto, questa sola eccezione interessante dal 
punto di vista fitogeografico. Chi ben guardi, riconosce come, dato l’adattamento della 
nostra vegetazione al riposo invernale e la scarsa importanza, dal punto di vista 
della capacità migratoria, della temperatura inferiore al punto nullo di vegetazione per 
ciascuna specie, l’alta pianura padana, esclusa dall’area dei massimi calori estivi, 
venga a godere botanicamente parlando, di un clima di una continentalità relativa. 
Ed anche questo fatto spiega come al limite orientale della pianura piemontese molte 
specie sì arrestino o non proseguano che lungo la linea della collina, le condizioni 
ecologiche della quale, come ho già avuto campo di dimostrare, sono affatto speciali 
e profondamente diverse da quelle del piano. 

La pianura rappresenta perciò un distretto botanico perfettamente individuato. 
Infatti le condizioni climatiche della zona immediatamente prealpina, le quali, come 
hanno recentemente dimostrato Wilezek e Vaccari (2), vanno estese a tutto il Piemonte 
orientale almeno, sono profondamente diverse. Ciò è dimostrato, oltre che dall’escur- 
sione termica minore nella regione prealpina e dal grado di serenità che vi è maggiore 
per buona parte dell’anno, in modo affatto speciale dalla distribuzione della pioggia, fat- 
tore di così grande momento nel determinare la fisonomia del rivestimento vegetale. 


(1) Roster G., Climatologia dell’Italia nelle sue attinenze coll’igiene e coll’agricoltura. Torino, 
Un. Tip.-Ed., 1909, p. 150 e fig. 32. 

(2) Vaccari L. e Wirczer E., La vegetazione del versante meridionale delle Alpi Graie orientali 
(Valchiusella, Val Campiglia e Val di Ceresole), (£ Nuovo Giornale Botanico ,, Nuova Serie, vol. XVI, 
Firenze, 1909). 


39 GIOVANNI NEGRI 12 


(0.0) 


Con poca mutazione sul primitivo lavoro di Schouw, il Millosevich (1) appoggiato ad un 
materiale di gran lunga più copioso, distingue nella pianura padana, procedendo dal 
piede delle Alpi al piede degli Appennini, quattro zone: una immediatamente preal- 
pina ad alta piovosità (più di 1300 mm. annui), una seconda attigua a questa 
(a piovosità superiore ai 1000 mm. annui), una terza fra la seconda zona ed il Po 
(mm. 750-800 annui), presso a poco corrispondenti alla transpadana di Schouw, infine 
una quarta subapennina (mm. 650-700), la cispadana di Schouw. Anche dalla carta 
pluviometrica del Gherardelli che accompagna l’edizione italiana del libro del Fischer 
sull'Italia appaiono queste quattro zone (mm. 1500-1200 di precip.; mm. 1200-1000; 
mm. 1000-800; mm. 800-650 rispettivamente). Il clima della zona cispadana appare 
anzi accentuare sia la scarsezza della precipitazione, sia l'estensione dell’escursione 
termica in corrispondenza della regione collinosa compresa fra il Tanaro ed il Po, 
in corrispondenza della quale le precipitazioni scendono sotto ai 500 mm. annui. Nel 
Veneto e subito ad occidente di Pavia, per buon tratto, il tipo pluviometrico cispadano 
passa sulla sinistra del Po: a monte di Torino poi esso domina l’alta pianura padana 
mentre fra Torino ed il Ticino predomina il tipo transpadano (2). 

Per quanto riguarda la migrazione delle specie in senso normale all'asse della 
pianura, si può ritenere, senza entrare per ora in distinzioni dei vari elementi floristici 
della flora insubrica e della loro mobilità, che la pianura rappresenti un campo 
poco adatto, anche dal punto di vista climatico, agli elementi di tipo mediterraneo 
adattati alle stazioni prealpine, a clima mediamente assai mite, con escursione ter- 
mica non molto estesa, alta piovosità nel periodo vegetativo e limpidità notevole 
dell'atmosfera. Qua e là la pianura potrebbe bensì offrire ospitalità limitata agli 
elementi xerofili della regione submontana, e se ne trovano effettivamente in stazioni, 
nelle quali tuttavia non si può escludere, l’immigrazione sia avvenuta piuttosto dalle 
propaggini collinose del subapennino, che non dalle prealpi. Ciò tanto più se si con- 
sidera che questi elementi xerofili non sono in ogni caso termofili ed hanno una 
distribuzione piuttosto orientale che mediterranea, indice della loro preferenza per 
un clima più continentale, di quanto non regni lungo le coste ed in genere anche 
nella regione insubrica: e che, nell'àmbito della nostra flora, essi sono comuni alle 
stazioni piuttosto aride che calde, tanto della regione subalpina che della subappenina. 
Invece essa si presta molto acconciamente e con varii tipi di stazione — come può 
farlo supporre anche quanto è stato detto sulle sue generali condizioni edafiche — 
all'immigrazione di elementi submontani e montani, specialmente mesotermi, ma in 
qualche caso anche microtermi. Ciò è tanto vero che essi costituiscono difatto la 
grande maggioranza della sua popolazione vegetale. 

Quanto del resto è stato detto sulla larghezza colla quale bisogna apprezzare i 
dati climatologici generali di cui possiamo disporre, deve essere ripetuto qui per giu- 
stificare il reperto sporadico, in tutte le formazioni vegetali della pianura padana, di 
elementi floristici eterotopici che sembrano in contraddizione colla condizione d’am- 


(1) Scnouw, Tableau du climat et de la végétation de l’Italie, Copenhagen, 1839. — Mirrosevica E., 
Sulla distribuzione della pioggia in Italia (“ Ann. Uff. Centr. meteorol. Ital. ,, vol. III, p.I, 1881. — 
Id., 2° Mem., Appendice, ecc., ibid., vol., V, p.I, 1888). 

(2) Fiscaer T., La Penisola italiana. Carta della distribuzione annua della pioggia in Italia, di 
A. Gherardelli, a pag. 362. Torino, 1902. 


» 


13 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 399 


biente di cui la formazione stessa è l’esponente. Queste condizioni si trovano ad 
essere in difetto sull'area limitata su cui il raccoglitore incontra le specie suddette, 
ospiti accidentali o relitti di formazioni scomparse, le quali hanno localmente trovato 
il mezzo di conservarsi o di acclimatarsi: ed il rilievo della presenza delle quali ha il 
valore documentario a tutti noto. Queste considerazioni varranno a far intendere nella 
loro reale importanza i dati climatologici seguenti e ad appoggiarne la discussione. 


Elementi meteorologici per Casale Monferrato, Lat. 45.7, Alt. m. 121 (1). 


CRI ee 
MESI SS| S| sal gal el os SdlZE| | a|2| 8 
IR ata) ai ea eat Nesi RES ES 
Ralesni fe d i Rss ha Seta 
| (bara Sl SA At MiA arida TO a CI 
| | | | 
Dicembre 03 ZA 91 A6:8 L4055) ALO] ALELA M81759 5A (| 150033 
Gennaio . a LS: Sa 020,726 INCI sz 63:45) Le 5 10:53 
Febbraio . 3A! 15.7|—4.3| 2010 M63t9 MINT RSA 745 MINO LO 9| 0.50 
Marzo. 7.2) 20.5|—2.8| 23.3|170.1| 9 | 14 | 72.0| 10) 11| 10 050 
Aprile L32220 20200 539 GI | 46208 | az 0.SE 
Maggio 15:2| 278 77/6100] 137 Mio 72:85 12 TAN 085 
Giugno 200 09 oe vo Sl I 
Luglio 22.9) 31.8! 13.8! 18.0) 54.501 o! 4|70.31 11! 18 2 0.64 
Agosto 23.4| 31.9) 13.7] 18.2/101.6] 7 8 | 70.21 6) 20 | O 
Settembre . . | 18.2) 28.8] 6.8) 22.0) 60.5] 4 ARI MO 3 ECO MIS DE K0153 
Ottobre eee 2A: 5227 MEA 2183 556007 480.9 8 | 14 9. | 0.48 
Novembre 5.4| 14:9--3.4| 18.3/117.2| 10| 8|83.1| 3) 13 | 14|0.30 
Elementi meteorologici per Torino, Lat. 45.4, Alt. m. 276 (2) 

MESI EE Gelee Eee e eee 
REGGE leer ala See ee 
rie ee 
| | | | 

Dicembre 1:2 10.5|—6.6| 17.1| 418| 7| 5828} 7) 14| 10 045 
Gennaio . O.di 9.3|/—7.7) 17.0) 43.8) 7 5 | 7 15 9. | 0.46 
Febbraio. . . 3.8) 13.1/—4.3| 17.4| 23.7) 5 Slo da 8 | 0.50 
Marzo (0 7.3) 18.2) 1.o| 16.7) 62.0 8 ta MO 240 MS 9 | 0.48 
Aprile. 17/2214] 1322] 19/21/2211 did db 664] (604 ao, 0743 
Maggio 16.2) 25.3] 7.5) 17.8/108.8| 12.) 13 | 66.2) 6 16 9 | 0.45 
Giugno 20.2) 30.3] 10.8| 19.5] 79.5) 10 O e 7.16 (A B0550, 
Luglio 22.6! 32.1| 13.8! 18.3! 58.5] 8 (A Sl RENOIR 6! 0.52 
A gosto 21.8) 30.7) 13.5] 17.2| 68.3) 8 8 | 64.1) 10 | 18 3 | 0.61 
Settembre 18.0| 27.3] 9.9] 18.4] 68.5) 8 8702 7.| 15 8 | 0.48 
Ottobre | 11.9) 21.3) 3.23] 18.0] 83.6] 9 | 10 | 74.5) 8 | 14 9 | 0.48 
Novembre . .| 5.6) 14.7.—1.8| 16.5] 69.1) 8 Zi zo 9 | 0.48 


(1) Per questa tabella e le seguenti, eccetto che per Torino, sono stati utilizzati i dati raccolti 
per cura dell’Osservatorio meteorologico di Moncalieri nel quinquennio luglio 1875-luglio 1879 e 
pubblicato nel “ Boll. del Club Alpino italiano ,, vol. X-XIV. 

(2) Rizzo G. B., IZ clima di Torino (° Memorie R. Accad. delle Scienze di Torino ,, Serie II, 
Tomo XLII, 1893). 


400 GIOVANNI NEGRI 14 
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Z ze Sa fo DG È oE| Sa = E 5 È 
#5|g5| #8| 3a) ®°| &®| 55/35] 8| #| S|& 
IS ‘asa le Sil & 
Vercelli, Lat. 45.19, Alt. m. 150. 
| | | | | 
Dicembre | 14 9.6/=7.1| 167] 78.7) 6| 8|822) 6 | 18 | 704/0058 
Gennaio . . | 0.84 9.874 17.2) 67.13 7) 7817 4/19] 8 | 04 
Febbraio . | 4.2| 15.9|-3.9| 19.8| 36.71 7| 4|7901 1] 23| 4|o4& 
Marzo. . | 7.8] 20.0/_2.2] 22.2] 940] 8| 10/685] 2|21| 8|02%0 
Aprile. 12.0) 22.7] 3.7| 19.0|153.9] 13 | 16| 80.9] 3| 21| 6|045 
Maggio | 15.5] 28.4]. 7.0) 20.6] 87.7] 14 | -9| 774] -2| 25| 4 | 046 
Giugno | 21.6] 31.9] 12.3] 19.6| 62.6| 11| 7|744) 3 26| 2 |oSss 
Luglio | 23.2| 32.3] 13.6] 18.7| 69.7) 8| 8|690) 7]|23| 059 
Agosto | 25.7) 32.9] 13.9 19.0] 643] 6| 7 | 72.6] 5 | 23 |RMMINE® 
Settembre | 18.5| 29.9] 8:0| 21.9] 484 6| 5|77s| s|25| 20062 
Ottobre 1 12.9] 22.9 3.9| 190 62.5] 7| 7|850 5| ast 3406 
Novembre | 5.7| 15.2/—2.1| 17.3|105.3) 10| 11| 85.3] 2 | 20 | 8 | 0.40 
| | I | | 
Biella, Lat. 45.34, Alt. m. 434 
| Î | | Î | | | Î 
Dicembre | 1.7| 8.2/46| 12.8/ 41.7] 4 iz 80.71 11| 12) 8|05£ 
Gennaio . aL 13.4] 802! 6| 51752| 10} 13 | 8053 
Febbraio . | 49) 140|—2.4| 164) 27.9] 6| 2|719 9 17] 2] 062 
Marzo. .| 7.1 17.7/14| 19.0/132.3) 7| 8|68.8] S| 16 | 7 | 058 
Aprile. . | 11.4) 19.8| 3.5) 16.3243.7) 12| 16|70.9 3| 18| 9040 
Maggio . | 14.7) 23.9] 6.4| 16.5|237.91 13 | 15] 719 3| 19 | 9 0.40 
Giugno - | 20.6] 28.3] 13.9) 14.4/149.1|] 9| 9|66.7| 3|22| 5 |046 
Luglio . | 21.8| 27.9| 13.8) 14.1| 92.9] 8| 6|661) 7|19| s|058 
Agosto | 22.8| 28.8] 15.3] 13.5/2120) 8 | 13| 67.8] 6|24| #1 058 
Settembre | 15.0| 26.8] 10.7| 16.1[117.3) 5.| 7|741) 6| 22 |//M2MN0Ga 
Ottobre . | 12.5) 19.8] 4.6| 12.61158| 9| 7|769 7| 17) 7 
Novembre . .| 5.5) 12.20.3] 12.8 82.6| 6| 6 | 787 TAGE | 8 0.53 
| 
Alessandria, Lat. 44.54, Alt. m. 98. 
| | | | | | 
Dicembre —17 82-93 17.5113.1| ni 10 | 878) 6 18 | 7|048 
Gennaio . —0.4| 6.5/—7.2) 13.71259.8| 8} 24|886 8| 11| 12|043 
Febbraio . 3.2] 12.6|—5.7 183 22.5) 6| 2798) 7] i4| 7/05 
Marzo. | 7.6] 19.7|—2.4] 22.4|132.5| 7| 12|661| 9|13| 9|050 
Aprile. 12.1j 22.1] 2.9) 19.2/104.0| o 10 | 67.1] 3| 12 | 150058 
Maggio - | 16.0] 27.4] 7.7) 19.7| 53.2) 13| 5|629 5| 16] 10 | 022 
Giugno . | 21.1] 31.9] 13.0] 18.9] 43.6| 8| 4|582| 5|20| 5|050 
Luglio .- | 22.8] 33.9| 13.3] 20.6] 430| 7| 4|536| 7|22| 2 |068 
Agosto . | 24.1) 33.2) 14.4) 18.8| 44.71 6| 4|65.1| 7|21| 3|056 
Settembre | 19.0 30.7) 5.9| 248] 312) 4| 366.71 7|17| 6|0Osf 
Ottobre . | 12.8 23.8] 2.0j 21.8] 72.01 6| 6799) 6, 16| 9|045% 
Novembre | 3.9] 143|—2.5 Lee 12 | 11| 82.2] 6| 10| 14| 0.35 


0.50 


15 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 401 


Il Montarolo di Trino essendo posto presso il Po fra Casale e Torino, può inte- 
ressare anche il riferire gli elementi climatici di quest’ultima stazione in quanto essa, 
quantunque più lontana dal bosco Lucedio di quanto non sia Casale, ha una situa- 
zione analoga ai piedi della collina, è climatologicamente ben conosciuta e può ser- 
vire come tipo del clima di queste stazioni situate nel piano a poca distanza dal 
fiume e probabilmente soggette ad una certa influenza anche da parte del sistema 
collinoso. 

Riporto anche gli elementi meteorologici di Vercelli pure prossima al Montarolo 
e quelli di Biella e di Alessandria, l'una nella zona prealpina, l’altra nella cispadana. 

E raccogliendo in una tabella riassuntiva i dati stazionali più interessanti per 
la vegetazione delle cinque stazioni precedenti abbiamo: 


Inverno Primavera 
| sg | È 
“RR 
< < 
— —. e. |—_-LkR Lr 
Temperatura media . RZ ZI Za 27 Oz | 101571158 [OLIO 
Escursione termica . . .|18.1|/17.2 17.9 14.2|16.5.|21.0|17.9|20.6 | 17.3|19.1 
Percentuale pluviometrica. | 33 | 13 | 19 | 10 36 | 35 | 35 | 35 | 39 | 19 
Prerpeze, posso e dI 22 19] 206209 
Serenità . . . . . . .|0.39|0.47|0.45|0.56|0.47|0.40|0.44|0.44|0.44|1.41 
Estate Autunno 
2 Ci = i N e e [= a | 
Sue o Sean 
| | | 2: 
Temperatura media. . .|22.2|21.4|23.5|21.7 22.6 |\12.0|12.8|124|110 119 
Escursione termica . . .||28.6|18.3|19.1|14.0 | 19.4|/20.9 (17.7 | 19.4|13.5.|21.1 
Percentuale pluviometrica. | 17 | 24| 22] 28| 12] 16] 26) 23| 20| 20 
Frequenza pioggia . . .| 20| 26] 25] 25° 21| 21| 2523 | 20 | 22 
Serenità. . . . . . .|0.55|0.54|0.56|0.53 0.55 ||0.44|0.48|0.48 | 0.53 | 0.44 


Si noti lo spiccato carattere di continentalità del clima di Casale. La temperatura 
media è una delle più basse d'inverno e di primavera, una delle più alte d'estate, 
mantenendosi anche piuttosto alta in autunno; l'escursione termica è la maggiore 
delle riportate in inverno, primavera ed estate ed una delle più alte in autunno. 
Della pioggia, cade a Casale una delle percentuali più elevate d’inverno e di 
primavera, una delle minime d’estate e la minima d’autunno. Infine la serenità è 
minima in inverno e primavera, bassa d’autunno e, invece, una delle più pronun- 

Serie II. Tow. LXII. a? 


402 GIOVANNI NEGRI 16 


ciate durante l’estate. Il confronto colle altre stazioni riportate permette di asse- 
gnare a Casale un clima di tipo piuttosto cispadano e vedasi in proposito l’affinità 
coi dati climatici così estremi di Alessandria; invece quanto ho avuto occasione di 
dire sul clima della zona prealpina risulta confermato dal paragone dei dati relativi 
rispettivamente a Casale ed a Biella; notevole specialmente in quest’ultima stazione 
l'estensione sempre modesta dell’escursione termica, la bassa piovosità invernale che 
si contrappone all’altissima primaverile continuata dall’estate assai piovosa, mentre 
l'autunno lo è poco, cosicchè la precipitazione annua rimane localizzata specialmente 
nei mesi di maggiore attività vegetativa, relativamente temperati ed umidi. Infine 
l’effetto dell'alta temperatura estiva viene anche mitigato dal grado di serenità, in 
questa stagione inferiore a Biella a quello delle altre quattro stazioni, mentre in 
primavera ed autunno e specialmente in inverno è costantemente più elevato. 

Secondo la già citata carta del Gherardelli, Casale e Vercelli sarebbero com- 
prese entrambe sull’area soggetta ad un clima di tipo transpadano. I dati della ta- 
bella: precedente parlano piuttosto in favore dell’attribuzione della prima stazione ad 
un clima cispadano: invece la seconda ed anche Torino sono davvero transpadani. 

In ogni modo il Montarolo di Trino dista da Casale ad occidente una quindicina 
di chilometri a volo d'uccello; in mancanza di dati climatici direttamente raccolti, 
alcune considerazioni possono tuttavia essere fatte sulle possibili differenze clima- 
tiche, in base alle carte climatologiche della pianura ed alle condizioni topografiche 
locali. 

Nella carta IX del libro del Roster l’isoterma annua di 12° comprende nella 
sua area Casale mentre il basso Vercellese rimane nell’ambito di 11°; la linea di 
demarcazione è segnata dalla cresta della collina di Gabiano-Camino. Questo dato 
non deve tuttavia essere preso come indice di un clima più mite perchè l'esame 
delle carte speciali del gennaio e del luglio ci mostrano come il basso Vercellese 
presenti un grado di continentalità superiore al territorio che circonda immediata- 
mente Casale. Le isoterme dello 0° infatti e quella del 24°, rispettivamente la più 
bassa ed una delle più alte della pianura padana, lasciano Casale all’esterno e com- 
prendono invece il basso Vercellese. Analogamente per quanto riguarda la piovosità, 
se, come ho detto, il Casalese deve considerarsi piuttosto come parte dell’area cispa- 
dana, non v'ha dubbio che il basso Vercellese non sia soggetto ad un regime di 
pioggia del tutto transpadano. E questo è molto importante specialmente di fronte 
alla maggiore continentalità sopra rilevata per la temperatura, perchè corrisponde 
(vedasi la tabella riassuntiva sopra riportata) bensì ad una minore piovosità inver- 
nale, ciò che per la vegetazione delle nostre regioni ha valore solo limitatamente 
alle condizioni edafiche, ma una assai maggiore piovosità estiva ed autunnale, una 
uguale piovosità primaverile ed infine una percentuale ed una frequenza di precipi- 
tazioni atmosferiche molto superiore lungo tutto il periodo vegetativo. Se esaminiamo 
le tabelle parziali precedenti, il confronto delle cifre assolute delle precipitazioni 
rispettivamente di Casale e di Vercelli nei mesi del periodo vegetativo e nei tre mesi 
estivi appaiono alquanto contraddittorie, Casale figurandovi più piovoso di Vercelli. 
Ma, anche tenuto conto che ciò può essere dovuto a condizioni strettamente locali e 
forse anche ad imperfezione di osservazione, gli stessi specchi ci permettono di 
rilevare una umidità relativa dei periodi corrispondenti notevolmente superiore a 


17 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 403 


Vercelli, che del resto presenta una superiorità anche rispetto alla frequenza; dei 
giorni piovosi (marzo-novembre, Vercelli 83, Casale 74) (1). 

Le condizioni strettamente locali del bosco Lucedio poi concorrono a mitigare 
quanto può esservi di eccessivo nel clima generale della regione. Anzitutto una vasta 
distesa di risaie circonda il Montarolo: l’acqua vi è immessa in marzo ed è tolta in 
settembre e concorre quindi a mantenere una umidità notevole e permanente con 
tutti i vantaggi che ne derivano allo sviluppo della vegetazione nei mesi in cui 
questa svolge la parte essenziale del suo ciclo annuale. Esponente di queste favo- 
revoli condizioni igrometriche è il rigoglio della vegetazione tanto legnosa che 
erbacea nel bosco Lucedio, tanto più notevole in quanto, in tutta la sua area, esso 
riposa su terreni ferrettizzati e quindi sovra substrati argillosi tali da imprimere 
un carattere piuttosto xerofilo alla vegetazione forestale; e del resto, almeno nella 
sua porzione collinosa, notevolmente sopraelevato sulla falda acquea della pianura, che 
passa sotto al Montarolo, come lo dimostrano le frequenti resorgive nelle risaie a 
valle di esso. 

Questa costituzione di una folta associazione boschiva, se per un lato è la 
conseguenza del clima umido locale, fornisce d'altra parte a tutta la vegetazione 
erbacea e sciafila del distretto una stazione in cui le condizioni di continentalità del- 
l’ambiente subiscono la massima attenuazione. È noto come le associazioni forestali 
presentino un clima loro proprio, in complesso più costante e più temperato di quello 
delle aree scoperte che la circondano (2). Per quanto riguarda la temperatura dell’aria 
infatti, la media è alquanto più bassa nell'interno che non all’esterno e la differenza 
può importare sino ad 1° C.; tale differenza poi è massima nell’estate, raggiungendo 
durante i maggiori calori anche i 2° ©. Anzi se si tien conto dell'andamento della 
temperatura nelle 24 ore, risulta che l’aria all’interno del bosco, costantemente più 
fresca di giorno e più calda di notte, presenta d'estate, nel corso della giornata, 
sino a 8° €. di differenza coll’esterno. Nell’interno delle associazioni boschive sono 
adunque meno sentiti gli estremi di temperatura e particolarmente i freddi precoci 
d’autunno ed i geli tardivi di primavera. Lo stesso vale per la temperatura del ter- 
reno, essendosi osservato che, sotto il bosco, d’inverno, essa è più calda (sino ad 1° C.), 
d’estate più fredda (sino a 5° C.), e che il gelo vi penetra fino a profondità minore. 


(1) Un quadro schematico delle condizioni della vegetazione nella pianura padana in rapporto 
col clima, è dato dalla distribuzione delle culture che vi dominano. L’osservazione è del Brunhes: 
© Il mais è proprio delle zone più umide e più calde che cingono verso sud la zona della cultura del 
© srano; ...il riso è per eccellenza il cereale delle regioni del globo molto calde e nello stesso tempo 
molto umide (oltre alle sue regioni d'origine è coltivato in qualche altra, soggetta ad estati secche 
e calde, nella quale le condizioni di suolo e di abitazione sono favorevoli, e dove ad ovviare alla 
“ siccità dell’estate è stato provveduto coll’irrigazione — così nella pianura padana); il mais, per le 
condizioni di distribuzione geografica della sua cultura, rappresenta in certo qual modo una zona 
intermediaria fra quella del grano e quella del riso. In due casi particolari questa disposizione si 
è concretata in un modo molto espressivo: nella pianura del Po, dove il grano, il mais ed il riso 
si succedono in proporzione dell’ amidità ed in zone approssimativamente concentriche, e nella 
grande valle Nord-Sud del Mississipì... ,. Cfr. Browues I., La Géographie humaine (Paris, Alcan, 1910), 
pag. 336. 3 

(2) Perona V., Foreste, idrologia ed igiene (£ Nuova Antologia ,, anno 42°, fase. 854, pp. 302-304. 
Roma, 1907). 


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404 GIOVANNI NEGRI 18 


L'aria dell'interno del bosco poi è tutto l’anno, tanto relativamente quanto assoluta- 
mente, assai più umida di quella della campagna aperta, presa ad egual altezza sul 
livello del suolo e l’azione si estende anche alle radure circondate da aree alberate, 
e si risente sino ad una certa distanza dai margini. Queste circostanze spiegano come 
la vegetazione del bosco Lucedio possa aver assunto un tipo microtermo e montano 
poco in accordo colla sua situazione geografica ed altimetrica e come in particolare 
possano farne parte elementi quali il Majanthemum bifolium o la Caltha palustris in 
sede del tutto eterotopica. All'incontro le condizioni climatiche generali della con- 
trada, quando non vengano mitigate dall’azione antagonistica di fattori ecologici 
locali, sono tali da spiegare la presenza in altre stazioni del bosco di specie xerofile 
come il Dianthus Carthusianorum e xerofile-orientali quale il Rhus Cotinus. Così si 
dà che il bosco Lucedio abbia assunta una particolare fisonomia, dovuta all’incontro 
di questi elementi disparati; fisonomia che il presente studio metterà in maggiore 
evidenza più innanzi, ma che colpisce di primo acchito l'osservatore che inizî le sue 
ricerche nel distretto in studio. 


6. Le condizioni di suolo e di clima non bastano a caratterizzare la vegetazione 
di una regione così anticamente e densamente popolata come la pianura padana. Il 
fattore antropico entra infatti nella definizione dell'ambiente, sia per la sua azione 
diretta, sia in quanto è capace di modificare quella dei primi due; e, sulla regione 
in discorso, dura sino da tempi preistorici e si è, come del resto dovunque, espli- 
cato secondo modalità assai varie, tanto che si può con sicurezza affermare non 
esistere in essa stazione sulla quale profondamente e ripetutamente non abbia agito 
l’uomo. 

Anche i terreni alluvionali di più recente deposizione ed inadatti ad ogni forma 
di sfruttamento, si risentono infatti di quell’azione di presenza e di passaggio che 
l’uomo ha comune cogli animali, pure esercitandola in una scala più vasta; per essa 
tutte le associazioni vengono, sia inquinate di forme vegetali estranee importate 
passivamente e che possono anche in qualche caso prendere il sopravvento sulla ve- 
getazione originaria; sia impoverite o private addirittura di specie ad importanza 
economica. Più tardi lo sfruttamento delle risorse regionali si farà più profondo ed, 
in vista dell’abitabilità della regione, verranno prese disposizioni (sboscamento, cana- 
lizzazione delle acque, ecc., agricoltura estensiva, ecc.) mercè le quali, non soltanto 
nuove forme vegetali verranno ad occupare aree di terreno disponibile, ma sì cree- 
ranno numerosi tratti di terreno nuovo aperto alla libera concorrenza delle specie 
invadenti, turbando così profondamente l’equilibrio primitivo della vegetazione. Lo 
stabilirsi di culture regolari attorno alle abitazioni fisse, infine, rappresenta un terzo 
stadio dell’azione antropica, caratteristica del quale, oltre ad una ulteriore modifi- 
cazione del suolo per la permanenza dell'occupazione umana e per le operazioni an- 
nesse ad una cultura intensiva, è la lotta pel mantenimento di queste modificazioni 
contro la tendenza a ripristinarsi della vegetazione spontanea. Infatti, per esempio, 
la florula degli arginelli limitanti le risaie recentemente stabilite su di una porzione 
declive del Montarolo, conserva tutt'ora alcuni elementi delle precedenti associazioni 
brughierose; similmente all'ombra dei boschi di Zobinia permane, nei punti più ripa- 


19 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 405 


rati, la vegetazione eliofoba precedente del bosco di Ontano, di Noceciuolo e di Car- 
pino, e via dicendo (1). 

A questa successione cronologica nell'azione dell’uomo sulla vegetazione originaria 
manca evidentemente un termine, esprimente lo stato di transizione, fra la vegeta- 
zione di un terreno trasformato dalla cultura ed il ripristino della vegetazione pri- 
mitiva, che fatalmente, in un tempo maggiore o minore, si dovrebbe verificare quando 
«cessi la tutela dell’uomo sull’opera sua. Da questo concetto appunto è partito il Ber- 
natzky (2) introducendo nella sua classificazione delle associazioni antropiche, una classe 
comprendente i casì di costituzione di formazioni vegetali abbandonate (&derlassene) in 
stazioni precedentemente occupate dalla cultura; tre essenzialmente, le ruderali, le 
così dette formazioni di transizione (Uedergangsformationen) e le formazioni termi- 
nali (Endformationen) rappresentanti la stabilizzazione su suolo, un tempo coltivato, 
di nuove associazioni esclusivamente spontanee. Ma l’A. stesso, a proposito di questa 
ultima sezione, riconosce che il ripristino può avvenire anche per mezzo di forma- 
zioni naturali differenti dalle originarie, in seguito ad alterazioni della natura del 
suolo o di fenomeni d’immigrazione; ripristino quindi del tipo di vegetazione, ma 
non delle associazioni originarie; noi ne abbiamo nel nostro paese esempi evidenti 
nello stabilirsi delle associazioni boschive della Robdinia, dell’ Eucaliptus, probabilmente 
persino nell'Italia settentrionale del Castagno, nonchè nel ripristino, mancato quasi 
completamente dopo il periodo glaciale, della associazione dell’ AMloro. E del resto 


(1) Per attenermi ai due esempi citati, ho raccolto sull’arginello di risaia (9. vr. 1910) le specie 
seguenti, fra le quali contrassegno con * i relitti della brughiera precedente: Zuncus conglomeratus, 
Stellaria graminea”, Malachiwn aquaticum, Lychnis alba, L. Flos-cuculi, Silene nutans*, Ranunculus 
acer, R. nemorosus", Hypericum perforatum*, Potentilla Tormentilla*, P. argentea”, P. collina*, Rosa 
gallica, Cytisus hirsutus*, Geniîsta germanica”, Medicago lupulina, Trifolium incarnatum, T. repens, 
Lotus uliginosus, Vicia hirsuta, Lithrum Salicaria, Pastinaca sativa, Rhamnus Frangula*, Calluna 
vulgaris, Linaria vulgaris, Mentha rotundifolia, Thymus SerpyUum*, Galium vernum*, G. palustre, 
Eupatorium cannabinum, Inula salicina*, Leucanthemum vulgare, Centaurea maculosa*, Cirsium arvense. 
Riferisco invece la florula di sottobosco (9. v. 1910) di due appezzamenti del bosco Lucedio ridotti, 
per guanto riguarda l’essenza arborea, a pura FRobinia: il primo su pendìo unito, rivolto a N. e poco 
accentuato, il secondo su di un valloncello d’erosione presentante i caratteri di scoscendimento 
recente. I. Melica nutans, Carex pallescens, Convallaria majalis, Polygonatum multiflorum, Moekringia 
trinervia, Dentaria bulbifera, Anemone nemorosa, Orobus niger, Tilia cordata, Euphorbia dulcis, Vinca 
minor, Symphitum tuberosum, Melittis melissophyIllum, Doronicum Pardalianches, Hieracium murorum. 
II. Poa pratensis, P. nemoralis, Melica uniflora, M. nutans, Brachypodium sylvaticum, Carex pallescens, 
C. pilosa, C. silvatica, Luzula multiflora, Asparagus tenuifolius, Convallaria majalis, Polygonatum mul- 
tiflorum, Tamus communis, Humulus Lupulus*, Phytolacca decandra*, Rumex obtusifolius*, Lychnis 
alba”, Arabis Thaliana, Anemone nemorosa, Ranunculus Ficaria, Rubus Caesius*, Geum urbanum*, 
Crataegus Oryacantha, Peucedanum officinale, Evonymus Europaeus, Euphorbia dulcis, Ligustrum vul- 
gare, Primula acaulis, Vinca minor, Pulmonaria officinalis, Melittis melyssophyUlum, Galium Aparine, 
Sonchus oleraceus”. Ho riportato i due elenchi, composti l’uno di piante tutte nemorali ed eliofobe, 
l’altro comprendente inoltre parecchi elementi alicoli (*); la presenza di questi ultimi sta in rapporto 
colla plastica del snolo della stazione, coll’asportazione degli strati superiori e quindi più dissalati 
del terreno, coll'azione emungente che la superficie d’erosione esercita sulle acque d’ infiltrazione 
superficiale, le quali contengono in soluzione una proporzione di materiali salini tanto più elevata, 
in quanto le condizioni speciali di ambiente favoriscono la nitrificazione. La robinia del resto, come 
tutte le altre leguminose, arriechendo il suolo di materiale azotato, aumenta per parte sua l’inten- 
sità di questo processo. 

(2) Bernarzxy I., Anordung der Formationen nach ihrer Beeinflussung seitens der menschlichen 
Kultur und der Weidetiere, È Engler's Jahrb. ,, etc., Bd. XXXIX, p. 8. Leipzig, 1905. 


406 GIOVANNI NEGRI 20 


questo concetto di originarietà delle associazioni e persino dei tipi di vegetazione 
è perfettamente relativo. Le nostre nozioni sulla variazione nell’estensione rispettiva 
dell’area occupata dalle associazioni forestali ed erbacee dal periodo glaciale all’inizio 
dei tempi storici, anche limitatamente all'Europa, sono molto vaghe. Come quindi il 
tipo che noi assumiamo come primitivo nello studio della vegetazione di un determi- 
nato distretto botanico ha per limite probabile nel passato l’ultima alterazione clima- 
tica generale alla quale la stazione è stata sottoposta, così noi non possiamo a priori 
asserire che, all'opera di ripristino delle associazioni vegetali che lo caratterizzano, 
quando vengano distrutte, non s'oppongano ulteriori modificazioni del clima. Si ag- 
giunga che, dato il nesso strettissimo che intercede fra le condizioni climatiche e le 
condizioni edafiche di una stazione, è presumibile che, alterata la natura del suolo, 
venga a mancare un altro importante elemento alla ricostituzione della vegetazione 
primitiva, tanto più che, e suolo e vegetazione, reagiscono alla loro volta sul clima. 

Che se poi, trattandosi di aree limitate, si credesse più rapida e più facile l’opera 
di ripristino di una vegetazione spontanea identica a quella di cui l’opera dell’uomo 
le ha spogliate, debbono ancora essere considerate alcune difficoltà di dettaglio. Come 
ho già detto, l’opera dell’uomo per preparare il terreno alla cultura ricorre a tras- 
formazioni di superficie di terreno più estese assai di quanto non sia l’area diretta- 
mente coltivata; bonifica, irriga, apre strade, regola il corso delle acque, lavori tutti 
che, quand’anche dall’incuria o dalla spopolazione vengano ridotti inutili allo scopo 
diretto che li aveva determinati, lasciano tuttavia traccie nella fisonomia del paese 
aprendo l’adito a trasformazioni della vegetazione precedente. Ora se ogni turba- 
mento nei delicati rapporti che intercedono fra suolo, clima e vegetazione si risolve 
immancabilmente nella creazione di aree maggiori o minori di terreno nuovo, im- 
mediatamente invase da disseminuli vegetali il cui apporto è continuo e di gran 
lunga superiore alla possibilità di sviluppo (1); esso crea contemporaneamente una 
condizione di malessere anche in una parte almeno della vegetazione circostante, 
incapace di adattarsi alle nuove condizioni e con ciò un momento di minore resi- 
stenza nella compagine della vegetazione în situ, una possibilità di soverchiamento 
da parte delle specie immigrate. In questo fenomeno, che è di rado repentino, ma 
nel cui verificarsi continuo e lento risiede il meccanismo delle successioni che si ve- 
rificano nelle vegetazioni di tutti i paesi, tendenti ad uno stato di equilibrio che la 
lenta vicenda dei climi rende in ogni caso temporaneo, sta il segreto della quasi 
impossibilità della ricostituzione esatta delle vegetazioni distrutte. Ricostituzione che, 
quantunque possibile in teoria, praticamente rappresenta soltanto un caso della infi- 
nita serie delle combinazioni probabili fra gli elementi preesistenti e quelli continua- 
mente immigranti, tanto varii di esigenze quanto è il loro numero e quindi associabili 
in una infinità di maniere, in stazioni che, una volta rotta la compagine della vege- 
tazione che le rivestiva, il combinarsi degli altri fattori dell'ambiente rende pure 
infinitamente varie. 

Non credo quindi di accettare la terminologia di Bernatzky, a primo aspetto 
così semplice e logica. Chi riduce ai processi normali di successione delle asso- 


(1) Crexents F. E., Research metods in Ecology. Lincoln (Nebraska U. S.) University Publishing 
Company, 1905. 


21 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 407 


ciazioni vegetali le trasformazioni indotte nella vegetazione dalla presenza e dal- 
l’opera dell’uomo, constata come nella sua azione lo si debba considerare, sotto a 
questo punto di vista, come un agente più o meno, talora molto attivo, di formazione 
di suolo nuovo per una parte, di disseminazione per l’altra. Le due azioni diventano 
intenzionali, si sommano nel caso delle culture, associazioni che, per le condizioni di 
anastatismo del terreno e di difesa contro l’invasione di specie estranee in cui l’uomo 
le mantiene, quando vengano abbandonate perdono la loro individualità in breve ter- 
mine di tempo. Ma appunto per questo le specie coltivate e le specie strettamente rude- 
rali non interessano direttamente il fitogeografo; esse rappresentano per lui, piuttosto 
che un documento, un istruttivo esperimento di ambiente (1). Allo stesso titolo della 
vicinanza delle abitazioni, i luoghi calpesti, le siepi, sono la sede di associazioni 
antropiche che debbono essere rilevate, in quanto si sono prodotte spontaneamente, 
ma sono strettamente legate alla presenza dell’uomo, sue commensali per dir così 
ed analoghe in complesso alle precedenti, pel loro sviluppo sul suolo permanente- 
mente anastatico e quindi per la loro impossibilità di fissarsi altrimenti che in rap- 
porto coll’attività dell’uomo, che le ha del resto passivamente introdotte. Esse com- 
paiono infatti solo sporadicamente e transitoriamente fuori dell’immediato contatto 
colle abitazioni o colle culture, laddove per un certo tempo si determinino le con- 
diziori edafiche necessarie (2). Un caso meno spiccato di azione umana: è quello in 


(1) Nei terreni che circondano il Bosco Lucedio e specialmente nei tratti del Montarolo elevati 
sul piano delle risaie e ridotti a cultura, ho annotato quali piante prettamente arvensi o segetali: 
Equisetum arvense, Sorghum halepense, Setaria glauca, Poa trivialis, Cynodon Dactylon, Ornithogalum 
umbellatum, Gagea arvensis, Muscari comosum, M.racemosum, Alliwn vineale, Chenopodium album, 
Polycarpon tetraphyllum, Portulaca oleracea, Spergularia rubra, Alsine tenuifolia, Stellaria media, 
Cerastium glomeratum, C. semidecandrum, Stellaria holostea, Agrostemma Githago, Lychnis Flos-Cuculi, 
Silene vulgaris, S. gallica, Viola arvensis, Brassica nigra, Br. campestris, Br. Napus v. oleifera, 
Raphanus Raphanistrum, Rapistrum rugosum, Bunias Erucago, Draba verna, Chamaelina sativa, 
Lepidium campestre, Fumaria officinalis, Papaver Rhoeas, P. dubium, Ranunculus acer, R. arvense, 
Trifolium arvense, T. campestre, Lathyrus Aphaca, L. Nissolia, L. hirsutus, L. pratensis, Vicia lutea, 
V. sativa, V. hirsuta, Acthusa Cynapium, Scandix Pecten-Veneris, Anagallis arvensis, Lithospermum 
arvense, Myosotis arvensis, v. stricta, Convolvulus arvensis, Linaria vulgaris, Veronica arvensis, V. per- 
sica, Melampyrum arvense, Stachys arvensis, Galium parisiense, Sherardia arvensis, Asperula arvensis, 
Valerianella olitoria, V. dentata, Knautia arvensis, Specularia Speculum, Erigeron canadense, Matri- 
charia Chamomilla, Anthemis arvensis, Centaurea Cyanus, Cirsium arvense, Sonchus arvensis. È come 
specie proprie delle associazioni ruderali: Urtica dioica, U: urens, Parietaria officinalis var. judaica, 
Polygonum aviculare, Rumex crispus, R. conglomeratus, Atripler hastatum, Chenopodium murale, 
Ch. album, Ch. ambrosioides, Amaranthus retroflexus, A. ascendens, A. deflexus, Phytolacca decandra, 
Portulaca oleracea, Lychnis alba, Brassica Erucastrum, Lepidium Iberîis v. graminifolium, Capsella 
Bursa pastoris, Chelidonium majus, Geum urbanum, Trifolium repens, Conium maculatum, Malva rotun- 
difolia, Pastinaca sativa, Daucus Carota, Euphorbia Chamaesyce, E. helioscopia, Borrago officinalis, 
Datura Stramonium, Solanum nigrum, Physalis Alleekengi, Lamium purpureum. Ballota nigra, Sambucus 
nigra, Verbena officinalis, Artemisia vulgaris, Xanthium spinosum, Arctium ninus, Cirsium lanceolatum, 
Cichorium Intybus, Tararacum officinale. 

(2) Ne consegne l’importanza pei nostri paesi, così profondamente influenzati dall'azione del- 
l’uomo, dello studio accurato, dal punto di vista fitogeografico, anche delle associazioni antropiche: 
ed ho già avuto occasione di accennarvi altrove (Cfr. Necri G., La vegetazione della Collina di Crea, 
“ Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino ,, Serie II, vol. LVI (1906), p. 387). Nella pianura 
padana i luoghi in permanente contatto colle falde acque sotterranee e non direttamente influenzati 
dalla cultura, tendono a rivestirsi di una vegetazione boscosa, di tipo eustatico e gelicolo, forma- 
zione per sua natura stabile e geloidale, fimchè le condizioni idrografiche ed edafiche non mutano, 


DÒ 


408 GIOVANNI NEGRI 22 


«cui, invece di aversi una trasformazione del suolo tale da rendere possibile soltanto 
lo stabilirsi di una associazione molto caratteristica, avviene la semplice introduzione 
di una specie capace di acclimatarsi facilmente, in modo che essa può essere abban- 
donata alla libera concorrenza colla specie indigena, colla quale si associerà col 
tempo a formare consorzi nuovi di tipo per la regione. È il caso di introduzione di 
essenze forestali al quale ho già accennato, le quali, per la loro mole, per la loro 
attività vegetativa, finiscono col diventare le forme caratteristiche delle associazioni 
di cui sono entrate a far parte; o quelle di altre resesi molto comuni fra di noi e 
veramente caratteristiche di certi paesaggi vegetali, senza però assumere una impor- 
tanza fisionomica così grande; tale, per esempio, l’Agare americana, l'Opunzia nana, 
la Galinsoga parviflora, Vl Erigeron canadense. Quando la specie dominante dell’associa- 
zione sia esotica e tale da creare alle specie compagne un habitat abbastanza parti- 
colare perchè esse costituiscano un consorzio caratteristico; quando specialmente alle 
specie dominanti se ne aggiungano altre pure esotiche e di provenienza affine, si potrà 
parlare non più di associazioni commensali come nel caso delle piante segetali o ruderali, 
ma bensì di associazioni acclimatate. Ho già citati i boschi di Robinia; ricordo come, in 
Piemonte per lo meno, essi presentino spesso un caratteristico sottobosco di Sambucus 
nigra. Nella stessa regione che studiamo del resto, lungo il Po, fra Trino e Palazzolo, 
alla boscaglia spontanea di sponda di Populus alba e nigra si è recentemente sosti 
tuita una associazione di Robinia pseudoacacia, all'ombra della quale prospera un 


sede preferita di relitti microtermi di associazioni vegetali un tempo più diffuse. Ma l’evoluzione 
del clima per un lato e l’azione di sistemazione idrografica da parte dell’uomo, essendosi esercitata 
nel senso di favorire l’estensione delle stazioni xerofite a scapito delle igrofite nella pianura padana, 
ne consegue che, mentre la vegetazione microterma restringe ogni giorno la sua area, la termofita 

si diffonde sempre più e costituisce nella sua maggioranza il materiale d'invasione; tanto più che, 
per quanto ho detto sopra, i terreni nuovi disponibili. aloidi, le si adattano esclusivamente. Ciò è 
mostrato anche dall'elenco che faccio seguire delle specie dei luoghi incolti, asciuiti e soleggiati che — 
circondano il bosco Lucedio: fra ie quali sono segnate con * le più caratteristiche. Notevole come 
può presumersi è la proporzione delle terofite, mentre le emicriptofite formano la quasi totalità 
della vegetazione microterma sciafila: Andropogon Ischaemon”, Chrysopogon Grillus*, Setaria viridis, 
Digitaria sanguinalis, Tragus racemosus”, Anthoranthum odoratum, Phleum pratense, war. bulbosum®, 
Alopecurus agrestis, Holeus lanatus, Aira caryophyllea*, A. capillaris*, Avena sterilis. Cynodon Daciylon, 
Eragrostis inegastachya*, E. pilosa, Cynosurus cristatus”, Briza media. Poa bulbosa, Festuca ovina w. ca- 
pillata”, Vulpia myurus”, Bromus tectorum”, Br. sterilis, Br. mollis, Hordeum murinum, Rumex pulcher, 
R. Acetosella, Thesium linophyllum v. divaricatum, Scleranthus annuus, Polycarpon teiraphyUum*, Sagina — 
procumbens, Alsine tenuifolia, Arenaria serpyllifolia, Cerastium glomeratum*, C. semidecandrum*, Silene 
vulgaris, Tunica sarifraga., Helianthemum Chamacystus®, Reseda lutea*, Arabis Thaliana*, Diplotaxis 
tenuifolia, Alyssum calycinum*”, Draba verna”, Ranunculus bulbosus, Saxifraga tridactylites*, Potentilla 
argentea”, Ononis spinosa”, Medicago lupulina. Melilotus officinalis, Trifolium arvense, T. fragiferumî, 
T. elegans, Astragalus glycyphyllos, Hippocrepis comosa*. Eryngium campesirè, Pimpinella Sarifraga, 
Foeniculum vulgare, Peucedanum Oreoselinum*, Tordilium marimum, Euphorbia Cyparissias*, Cynan- 
chum Vincetoricum, Lithospermum officinale”, L. arvense, Echium vulgare”, Heliotropium europaeum?, | 
Verbascum phlomoides*, V. blattaria, Linaria vulgaris, Scrophularia canina, Rhinanthus major, R. minor, 
Euphrasia officinalis, Thymus serpyUum, Origanum vulgare, Mentha rotundifolia, M. Pulegiam, Dipsacus 
laciniatus, D. silrestris, Scabiosa columbaria. Chrysanthemum Leucanthemum, C. vulgare, Artemisia 

campestris*, Achillaca tomentosa”, Filago Germanica, Guaphalium luteo-album, Inula Coyza*, Pulicaria 
vulgaris", Xanthium italicum, Centaurea amara”, C. paniculata x. maculosa*, C. Calcitrapa, C. Scabiosa, 

Carthamus lanatus”, Onopordon Acanthium, Hypochaeris radicata, Picris hieracioides, Tragopogon majus”, 
Cychorium Intybus, Chondrilla juncea*, Lactuca saligna, L. scariola, Hieracium pilosella”. 


Do 


3 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 409 


sottobosco di Phytolacca decandra, Amorpha fruticosa, Oenothera biennis, Erigeron ca- 
nadense, E. annuus, Solidago glabra, tutte specie dell'America settentrionale tempe- 
rata. Quando queste specie crescano isolate o non siano capaci di assumere un’im- 
portanza così notevole; quando sopratutto la loro presenza non alteri sensibilmente 
la fisonomia vegetale delle associazioni indigene, allora si potrà parlare, dal punto di 
vista antropico, solo di associazioni inquinate. La scala dell’influenza umana sulla 
vegetazione va quindi dalle associazioni originarie alle culturali, per termini dell’in- 
quinamento, dell’acclimatazione, del commensalismo; condizioni che, pure rappre- 
sentando fatti attuali, corrispondono anche ai modi sopra accennati secondo i quali 
l’azione dell'uomo si svolge nel tempo; fase di passaggio, fase di sfruttamento, fase 
di abitazione stabile e di cultura. 

Mi sono diffuso su queste distinzioni in quanto esse possono preparare una clas- 
sificazione delle associazioni vegetali in cui si distribuisce la vegetazione padana. 
Qui, per quanto riguarda il bosco Lucedio e il distretto al quale appartiene, basti 
rilevare che, mentre mancano le associazioni originarie, il bosco rappresenta un’asso- 
ciazione inquinata; attorno ad esso i dintorni delle abitazioni ed i campi albergano 
florule prettamente commensali; le risaie ed i prati, florule ancora commensali, ma 
caratterizzate dal iargo contributo alla loro costituzione di elementi indigeni. Final- 
mente i tratti di bosco, in corrispondenza dei quali la quercia è stata sostituita 
dalla robinia e le boscaglie suddescritte delle alluvioni recenti del Po, sono asso- 
ciazioni acclimatate. 


7. È opinione degli storici (1) locali che i popoli che si sono succeduti prima 
della dominazione romana nella pianura fra la Dora Baltea e la Sesia, le Alpi ed 
il Po e dei quali, da un punto di vista fitogeografico, è tutto al più utile ricordare 
l’immediata provenienza dal littorale mediterraneo, non abbiano potuto, per l’alter- 
narsi continuo delle migrazioni, mutare la fisonomia della vegetazione più di quanto 
non lo consenta un certo grado di inquinamento. All’inizio dell'occupazione romana 
infatti (III sec. a. Cr.) il piano vercellese risulta nella sua parte superiore costi- 
tuito da una estesissima landa incolta circondata da foreste da ogni lato. Un’estesa 
foresta era il Brianco comprendente i territori di Salussola, Carisio ed in parte 
Santhià; una vastissima selva, che aveva principio nel territorio di Crescentino e si 
estendeva sino a Cortanzana, divideva poi l’alto dal basso Vercellese. Parte di essa 
erano appunto la silva Palazzolasca e la silva de Lucejo comprendenti le terre attual- 
mente dipendenti da Fontanetto, Palazzolo, Lucedio, Tricerro, Saletta e Rive. I vecchi 
nomi locali di Montarolo, Montarucco, Monti, Costa, le numerose indicazioni di valli 
alludono ab antiquo all’accidentalità di questo tratto del basso Vercellese; mentre già 
nelle più antiche informazioni toponomastiche e documentarie è conservata la menzione 
della grande ricchezza d’acqua di questa regione. Causa non ultima questa dell’ab- 
bandono in cui essa era lasciata, mentre attigue zone della pianura padana e più 
ancora della fronteggiante collina del Monferrato venivano attivamente coltivate dalle 
popolazioni, liguri prima e romane dipoi. 


(1) Droxisorti C., Studii di Storia patria subalpina. Torino, Roux e Frassati ed., 1896, pp. 9 sgg. 
Serre II. Tox. LXII. Bì 


410 GIOVANNI NEGRI 24 


In ogni modo è colla occupazione romana che cessa, per la vegetazione del basso 
Vercellese, il periodo di inquinamento puramente incidentale e passivo ed aumenta 
il numero e l’importanza delle sedi fisse di abitazione e con esso quello della cultura 
e dello stabilirsi delle reti stradali. Di queste c’interessano principalmente tre arterie, 
ammesse, con variazioni di dettaglio nel percorso, che per noi non hanno importanza, 
dagli autori; l’una parallela e poco distante dalla sponda sinistra del Po per tutto il 
basso Vercellese, l’altra attraversante il medio e l'alto Vercellese secondo la linea 
Novara, Vercelli, Ivrea; la terza, meno importante ed anche meno nota nel suo 
decorso, dal Po (Pontestura = Ad Pontem?) a Vercelli (1). Il periodo romano si può 
considerare, per l'agricoltura della pianura padana e quindi sotto il punto di vista 
dell'influenza dell’uomo sulla vegetazione autoctona, come un’epoca di aumentata inva- 
sione da parte di elementi estranei, non stabilitisi però definitivamente, almeno in 
tutte le loro sedi. Ciò vale anche pel basso Vercellese, a proposito del quale e per quanto 
riguarda l'intensità della occupazione romana, si potrebbe citare l'opinione del Dioni- 
sotti (Studi, ecc., op. cit., p. 25) che in molte località di esso, oltre che alla cultura 
del suolo, si procedesse all’estrazione dell'oro dalle alluvioni; a queste antiche miniere, 
l'esercizio delle quali doveva provocare un forte concorso di popolazione alloctona, 
alluderebbero molte indicazioni toponomastiche duranti tutt'ora. In ogni modo le 
testimonianze storiche concordano nel dimostrare che, cessata la dominazione romana, 
nel corso del medio-evo il lungo abbandono e le mutate condizioni della proprietà 
determinarono una estesa ripresa della vegetazione spontanea. Fatto che per la pia- 
nura piemontese, territorio di passaggio e devastato da continue guerre, si verificò 
in iscala minore, ma ripetutamente anche negli ultimi secoli. 

Nel caso speciale del bosco Lucedio, la conservazione dell’associazione forestale 
primitiva ininterrotta, per quanto certamente assai alterata nei frammenti residui, 
sino ai giorni nostri deve attribuirsi, pei tempi romani, ad una protezione parziale 
o totale a fini di culto (2), poi al suo successivo passaggio, avvenuto sino dai tempi 
di mezzo, in proprietà di enti religiosi durati sino all’inizio del secolo ultimo scorso. 
Prima infatti la chiesa di Vercelli, poi due abbazie, quella di S. Michele e quella 
di S. Maria in Lucedio (3), fondate rispettivamente nell’ VIII e nell’ XI secolo, ne 
ebbero la proprietà. Le prime carte che parlano del convento di S. Genuario, poi 
di S. Michele attribuiscono ad esso la Wualda Montadea, ossia la brughiera boschiva 
(Wualda ev. = Vauda, nome tutt'ora in uso in Piemonte per questo genere di for- 
mazioni) comprendente i due già accennati territori di Montarueco e di Montarolo; 
particolare interessante quale indice dell’estensione — dodici secoli addietro — e 
probabilmente originaria, della associazione della Quercia e della Calluna a tutto il 
territorio diluviale, sopraelevato sulla pianura circostante e ferrettizzato. 


(1) Duranpr I., Schiarimenti sopra la carta del Piemonte antico e dei secoli mezzani (© Mem. R. Ace. 
delle Scienze di Torino ,, Serie I, vol. XIX. — Casaris G., Dizionario geogr. ein. degli Stati di S. M. 
il Re di Sardegna, Torino, 1837-1856, voci Crescentino, Fontaneto, S. Genuario, Palazzolo, Trino, 


Vercelli. — Dioxisorti, Op. cit. — Sincero C., Trino, i suoi tipografi e l’Abbazia di Lucedio, Torino, 
Bona, 1897. — Droxisorti C., Memorie storiche della città di Vercelli, Biella, Amosso, 1861-64. 

(2) Cfr. Casanis G., Op. cit. 

(3) Cfr. Sixcero C., Op. cit. — Dionisorri C., Ilustrazioni storico-geografiche della regione sub- 


alpina. Torino, 1898, pp. 36-48. 


25 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 411 


Tutto attorno al bosco Lucedio il basso Vercellese si trasformava assai lenta- 
mente. Il disboscamento e la riduzione a cultura di gerbidi, pruneti, roveti ed altri 
terreni non coltivati si svolse con lentezza in Piemonte fra l'XI ed il XIII secolo (1). 
Nel caso speciale del basso Vercellese le difficoltà generali di scarsa popolazione, 
comunicazioni malagevoli, cattive condizioni economiche per lo stato di guerra con- 
tinua, erano aumentate dalle necessità di lavori di bonifica tanto più necessari in 
quanto, oltre agli straripamenti frequenti e disastrosi delle grandi arterie fluviali, 
il Po, la Dora Baltea, la Sesia, ancora nel XII secolo il Cervo e l’Elvo lo attraver- 
savano direttamente, mettendo separatamente foce nel Po fra Trino e la Sesia (2). 
Il regolamento idrografico della regione sta in rapporto, per una parte col così detto 
canale del Rotto, derivato dalla Dora Baltea presso Saluggia, scavato in parecchi 
tempi nel corso del secolo XV e spingente le sue propaggini sino a Balzola con 
diramazioni nei territori di S. Genuario e di Fontanetto, mercè le quali si mette in 
rapporto colla roggia Stura. Per altra parte con questa roggia stessa, originantesi 
da fontanili siti presso l’abitato di S. Genuario alimentati da polle minori e da coli 
di varia provenienza e scaricantesi. dopo aver attraversati i territori di Fontaneto, 
Palazzolo, Trino, Balzola e Villanova, nella Sesia. Prima dell’escavo di questi corsi 
gli avvallamenti interposti fra le ondulazioni del terreno di questa regione, valle 
Orcaria, valle di Credo, ecc., costituivano altrettanti tratti di bosco acquitrinoso in- 
tercalati nella formazione di brughiera. 

Anche dopo l'esecuzione di queste opere, l'agricoltura praticata intensivamente 
rimase limitata ad alcuni centri, regolarmente citati come esempi nelle statistiche 
che cominciavano ad ordinarsi da parte dei governi, ma poco imitati. S'era infatti 
introdotta nel Vercellese tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo la cultura del 
riso, la quale, praticata estensivamente, dava un forte reddito con moderato impiego 
di mano d'opera e non era tale da indurre variazioni notevoli nè nella composizione, 
nè nella estensione rispettiva delle associazioni naturali (3). Il riso infatti non veniva 
dapprima seminato che nei luoghi umidi ed acquitrinosi, non suscettibili di altra cul- 
tura; inoltre non si praticava la monda, e sino dalla metà del XVI secolo i governi 
ebbero piuttosto a combattere od almeno a limitare l’estensione delle risaie, consi- 
derate come altamente malsane, perchè, causa la cattiva distribuzione delle acque, 
il creare nuovi campi di riso equivaleva ad estendere le paludi. Tutte le primavere 
torme di contadini scendevano alle terre basse, quasi deserte ed invase da perio- 
diche inondazioni, e, dopo una scarsa lavorazione, seminavano il riso nelle paludi e 
nelle bassure suscettibili di venir facilmente irrigate, indi se ne partivano abbando- 
nando i luoghi sino al momento della raccolta. Le terre si lasciavano poi alternati- 
vamente a maggese, ed in queste condizioni si comprende come la fiora delle risaie 
si sia, sino ai giorni nostri — una cultura intensiva non si pratica da molto più di 
mezzo secolo — conservata assai ricca, aumentata anzi di specie d'importazione cul- 
turale senza perdere i propri elementi originari. a 


(1) Gasorro F., L'agricoltura nella regione saluzzese dal sec. XI al sec. XV, È Bibliot. della Soc. 
Stor. Subalpina ,, XII, 1. Pinerolo, 1901. 

(2) Drowisorti C., Memorie storiche ecc., Op. cit., vol. I, pp. 31, 32, 33, 37. 

(3) Pueriese S., Due secoli di vita agricola. Torino. Bona, 1908, pp. 41 e 48. 


412 GIOVANNI NEGRI 26 


Una cultura più varia, accompagnata da una notevole riduzione delle associa- 
zioni vegetali spontanee e da una forte infiltrazione di elementi avyentizi nelle aree 
rimaste incolte, esige anzitutto un’occupazione più intensa del territorio; ed i dati 
demografici, per quanto non si possedano oltre la metà del XVI secolo (1), mo- 
strano di quanto si sia aumentata la popolazione in un periodo affatto recente e 
perfettamente corrispondente all’estendersi dello sfruttamento agricolo presso a poco 
a tutta l’area disponibile. Quanto all'estensione rispettiva delle varie culture e del- 
l’area coltivata in rapporto all’area incolta, il più antico catasto completo è quello 
fatto eseguire da Carlo Emanuele II alla metà del secolo XVIII (2). Il Pugliese 
(op. cit., p. 41) distingue, usando una divisione territoriale alla quale ho ricorso 
più sopra io pure, nella pianura vercellese una porzione ‘centrale che può conside- 
rarsi come delimitata a N. dal corso attuale del fiume Elvo, a S. da una linea teo- 
rica che vada da Saluggia a Caresana; fra questo confine meridionale ed il corso 
del Po è compreso il basso Vercellese. In esso, nel corso di 150 anni, come risulta 
dal confronto dei dati dell’accennato catasto sabaudo con quelli riferiti da Dionisotti 
sul 1860, i boschi risultano assai diminuiti e ridotti, fatta eccezione pei boschi della 
Partecipanza di Trino, a macchie isolate od allineate lungo il corso dei fiumi. Si- 
milmente i gerbidi ed i pascoli naturali si possono considerare come scomparsi. Non 
è variata sensibilmente l’area occupata da culture campestri o prative, cosicchè si può 
ritenere che gli incolti utilizzati sieno stati quasi esclusivamente sostituiti da risaie. 
Di qui l’estensione sempre maggiore della fiora palustre, la quale tuttavia nell’ul- 
timo cinquantennio ha cominciato a risentirsi anch'essa, impoverendosi, dei più eyvo- 
luti metodi di cultura e della monda eseguita metodicamente (3). Nelle condizioni 


(1) Per quanto riguarda le ricerche demografiche cfr. Prato G., Censimenti e popolazione in Pie- 
monte nei secoli XVI, XVII e XVIII, È Riv. it. di Soc. ,, anno X, fasc. III e IV, maggio-agosto 1906. 
— Poueuiese, Op. cit. — Casaris G., Op. cit. — Dioxisorti C., Mem. stor., Op. cit. Da queste fonti 
è tratta la tabella seguente che dà la variazione, presso a poco cinquantennale, della popolazione 
nei Comuni del basso Vercellese per gli ultimi quattro secoli: 


| | | | | | 
Comuni 1° Menzione | 1571) 1612 1663 1700-02) 1752 I ud 1848| 1901 
| I | 
pra resp) er 
Saluggia Str.rom.Vercelli-Torino, poi XIIsec., — = = 1210 | 1956) 12400) 3ILT 4245 
Lamporo XVII secolo. . . o aa = — | 706| 920] 1109) 1529 


Crescentino } | Avanzi romani. XI secolo » 


serra DE | | 
S. Genuario $ | Ceste? (rom.). XI secolo Ma 2835,(2058.|, —..| .15710|:2864/ (4480) ui 6745 
Fontanetto XI secolo. . DE tei cene ez Sa za 11279 \1751| 2265] 2883 
Palazzolo X secolo Palaciolum) è — {= |= | = |_979|1024/1677/02920 
Trino VI sec. (ap. Rigomagus) Luced. VIII. | — | — | — | 2024 | 3294/6605) 849012013 
Morano XII secolo . . È = pe == \1160| — | 3326 
Balzola | XI secolo (Carentia?) (com) = ee \1250| — | — | 3685 
Rive | | — | 526j — | — 525 | 779 991 1441 
Villanuova — | VI secolo. 0 > cutter lella 2 (MR 
Mottadei Conti — = Wi =. = 708! 977] 1333! 2062 


Caresana ACCOLTI 98) — (1542 (es se 3720 


(2) Cfr. Praro G., La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII. Torino, STEN, 1908. 
— Puserisse S., Op. cit. — DroxIsortI C., Mem. stor., Op. cit. 

(3) Può interessare, allo scopo di tener dietro alla ulteriore evoluzione della vegetazione del 
bosco Lucedio, nel quale specialmente nella parte bassa non mancano, come appare dallo specchio 


27 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 413 


attuali anche una larga parte del Montarolo è invasa dalla cultura campestre e risi- 
cola, le quali del resto lo circondano da ogni lato. Il nucleo più importante di vege- 
tazione boschiva tutt'ora conservata è rappresentato dai boschi di cui ho descritto 
più addietro l’ubicazione e le condizioni ecologiche e che nel loro complesso rappre- 
sentano l’avanzo dell’antica Silva Lucedia. 


8. Al quadro d'ambiente, di cui ho cercato di tracciare le linee generali, corri- 
sponde una formazione forestale della quale faccio seguire il catalogo floristico. Il bosco 
viene in parte tenuto a ceduo, in parte lasciato crescere a fustaia. Secondo osserva- 
zioni risalenti alle vecchie inchieste forestali piemontesi, la perfetta crescita della 
quercia, che nella stazione è l’essenza dominante, richiede dagli otto ai nove anni 
per lo sviluppo dei cedui, dai settanta ai novanta per quella delle fustaie; vengono 
così dall'evoluzione completa dell’ associazione, individuati quattro facies che nelle 
tabelle seguenti sono rappresentati dalle specie inscritte nelle prime quattro colonne: 
A. vegetazione erbacea eliofila immediatamente successiva al taglio delle fustaie; 
B. vegetazione cespugliosa eliofila (ca. 2 m. d’altezza); C. vegetazione macchiosa 
elevata (ca. 6-8 m. d’altezza) con sottobosco più o meno ricco di specie sciafile; 
D. vegetazione di fustaia adulta con sottobosco arbustaceo sporadico e vegetazione 
erbacea uniforme e povera. Nelle tre colonne successive sono rispettivamente elen- 
cate: £. le specie vegetanti nei punti acquitrinosi, specialmente nella parte bassa del 
bosco sul versante vercellese del Montarolo, in corrispondenza del quale la vicinanza 
della falda acquea imprime un carattere sensibilmente igrofito e qua e là alicolo 
ruderale alla vegetazione, ed offre alle specie nettamente spongofite o anche clizofite, 


floristico che segue, stazioni acquitrinose, l’elenco delle specie di igrofite, clizofite e spongofite, da 
me annotate nelle risaie che lo circondano da ogni lato: cfr. anche a questo proposito il citato 
catalogo del Ferraris: 

Salvinia natans, Marsilia quadrifolia, Panicum Crus Galli, Oryza sativa (var. Birmania, Chinensis, 
Giapponese nero, Melghetto), O. clandestina, Phalaris arundinacea*, Alopecurus geniculatus*, Calama- 
grostis arundinacea*, Phragmites communis*, Glyceria fluitans, GI. aquatica, Cyperus serotinus, C. fla- 
vescens, C. fuscus, C. difformis, C. glomeratus, C. longus, Scirpus silvaticus*, Sc. maritimus, Sc. Holo- 
schoenus, Sc. lacuster, Se. mucronatus, Heleocharis palustris, Carex muricata*, C. remota, C. coespitosa 
v. stricta*, C. coespitosa v. acuta, C. verna typ.* e v. longifolia, C. pallescens*, O. glauca*, C. silvatica*, 
C. pendula*, C. pseudocyperus, ©. vesicaria, C. riparia*, ©. hirta*, Typha minima*, T. angustifolia*, 
T. latifolia, Sparganium ramosum, Lemna polyrrhyza, L.trisulca, L. minor, Potamogeton pectinata, 
P. pusilla typ. e var. trichoides, P. graminea, P. natans, P. lucens, P. crispa, P. perfoliata, P. densa, 
Zannichellia palustris, Najas minor, N. graminea, Anacharis canadensis, Hydrocharis Morsus-ranae, 
Sagittaria sagittaefolia, Alisma Plantago typ.* e var. graminifolium, Juncus conglomeratus, J. effusus$, 
J. lamprocarpus*, J. bufonius”, Iris pseudo-Acorus, Polygonum Hydropiper, P. minus, Rumex Hydro- 
lapathum, Malachium aquaticum*, Myricaria germanica, Elatine herandra, Nasturtium officinale, N. am- 
phybium, Ranunculus aquatilis, var. fluitans e var. trycophyUus, R. Flammula*, R. repens*, Nymphaea 
alba, Nuphar luteum var. fluitans, Ceratophyllum demersum, Spiraea Ulmaria*, Lotus uliginosus*, 
Lythium Salicaria*, L.hyssopifolia, Epilobium Dodonaei, E. parviflorum*, E. hirsutum*, Ludwigia 
palustris, Myriophyllum verticillatum, Sium erectum, Peucedanum palustre”, Oenanthe silaifolia*, Althea 
officinalis, Callitriche stagnalis, Lysimachia nwnmularia, L. vulgaris, Myosotis palustris*, Scrophularia 
nodosa*, Gratiola officinalis", Lindernia pyridaria, Veronica Beccabunga, V. Anagallis, Scutellaria gale- 
riculata, Stachys palustris, Lycopus europaeus*, L. exaltatus, Mentha aquatica, Utricularia dubia, Galium 
palustre, Valeriana dioica, Eupatorium cannabinmn*, Petasites officinalis*, Bideus cernuus, B. tripar- 
titus”, Cirsium palustre”. 

Con * sono segnate le specie di questo elenco che ho raccolte anche nell’interno del bosco Lucedio. 


414 GIOVANNI NEGRI DIS 


relitti termofughi. per lo più, le prime ed immigrate dalle risaie circostanti, le se- 
conde, opportune e frequenti stazioni: F. le specie crescenti nel sottobosco di sosti- 
tuzione, costituito qua e là dalla Robinia introdotta da non molti anni pel ripianta- 
mento delle aree franose, colla consueta incuria dello svalutamento al quale, pel suo 
progressivo estendersi, andranno rapidamente incontro i boschi dell'intera tenuta; 
G. le specie delle aree scoperte. calve, in corrispondenza delle quali la degradazione 
meteorica, esportato lo strato superficiale di humus, ha creato piccole stazioni xerofile 
argilloso-ghiaiose secondo il già descritto procedimento. 

Nelle singole colonne della tabella è indicata anche la frequenza relativa delle 
specie costituenti le singole fiorule, secondo cinque gradi che corrispondono alle 
sigle: D (dominante); C (copiosa): S (sporadica); R (rara); Sol. (solitaria). Quanto ai 
quattro facies principali è pure da notarsi come, rimanendo nelle linee essenziali 
costanti, le variazioni anche piccole nel contenuto salino del suolo determinino la 
comparsa di tratti fisionomici secondari della formazione, tale da conferirle una no- 
tevole varietà. E questo non soltanto fra la parte più elevata e la più bassa del 
bosco, rispettivamente. cioè il Montarolo e la pianura retrostante, ma anche fra aree 
comprese nella porzione sopraelevata, la quale. secondo la descrizione che ne ho — 
fatto, appare percorsa da solchi e da rilievi a condizioni idrografiche ed edafiche 
opponentisi, per quanto con variazioni di non grande estensione. 


29 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 415 
Nome delle Specie A B (0; D E G 

1 Polypodium vulgare L. R 

2 | Nephrodium Filix-mas Rich R 

3 | Asplenium Filix-foemina Bernh R 

4 | Pteris aquilina L 3 | S 

5 | Equisetum maximum Lam . S 

6 | Juniperus communis L IS SA NARRA RL 

7 | Andropogon Ischaemon L C (0; 
8 | Setaria viridis L dyd: Cal C 
9 | Digitaria filiformis Koel. . R 

10 | Anthoxanthum odoratum L . CANC 

11 | Phleum tenue Schrad. R R 
1123) MAGNO asperum Jacq . MS S 
13 a pratense L v. nodosum (Jacq) . S 

14 | Alopecurus pratensis L . ARONNE S 

15 È geniculatus L (0; 

16 | Agrostis canina L. (0, 

a alba 3. CHIC S 

18 | Calamagrostis arundinacea Roth . 5 

19 Phragmites communis Trin . S 

20 | Holcus lanatus L . . OS S 
21 | Aira caryophyllea L . C (0, 
22 | Deschampsia coespitosa PB S 

23 | Cynodon Dactylon Pers . (0, (0, 
24 | Molinia coerulea Moench CAO 

25 | Koeleria cristata Pers SAR S 
26 | Eragrostis megastachya Lk . S (0; 
27 | pilosa PB . R C 
28 Melica nutans L 7 (0) 

29 Hi uniflora Retz . C 

30 | Briza media L . . . S (0; 
S1 | Dactylis glomerata L. CC 

32 | Poa bulbosa L S 0 
33 |, annual. C (0, 
34 | , nemoralis L ST 

35 | , pratensis L CAINC 

36 civas gine C 

87 | Festuca ovina L . . C Cc 
38 3 capillata Lam C | C 

39 5 heterophylla Lam . (OI 

40 | Vulpia myurus Gmel . S 
41 | Bromus sterilis L . (6) C 
49 ta mollis L 3 0 € 
43 | Brachypodium silvaticum PB . S| S 

44 pinnatum PB SAS 

45 | Hordcum murinum L . S Cc 
46 | Carex muricata L . S| C 

47 »  brizoidesL . SMS 

48 -  leporina L S| S 
49 » montana L . S|S|S 

50 s  verna Chaix CASS 


416 GIOVANNI NEGRI 30 
Nome delle Specie A B (0) D | EF F G 

DIRO ar FOLLA SIE SR SEO | S 

52 SiufipallescensMni piera cha S CES 
Ball 23 posa gScop iena ant S S 
54 » pendula Huds . IS INCILE S 

55 s nitida Host . ERIN ES NITÒ 

RR i ai arie Inno te 5 et ao ani [lo:S'aet Cas 
57 isilvaticaRE A SER e S.SÙaS 
58 s  riparia Curt S 

59 irta bl (0, 

60 | Scirpus silvaticus L c 

61 | Typha angustifolia L . S 

62 | Alisma Plantago L S 

63 | Iuncus effusus L S 

64 n bufonius L. . S 

65 | lamprocarpus Ehrh . | (0; 

66 | Luzula pilosa W rat. S| S 

67 »  Forsteri DC SUSA: 

68 s  Silvatica Gaud SS 

69 3 min IDO 1 S| S d 
70 multifiora Laj . i S S 
71 | Colchicum autumnale L . S S 

72 | Ornithogalum umbellatum L (0; 

73 narbonense L . . . .|S S 
74 Allium paniculatum L' . . . . .. | R 

75 mesi IS S S 
76 | Muscari comosum Mill SEE S 
77 | Asphodelus albus Mill S R 

78 | Anthericum Liliago L STR 

79 | Hemerocallis flava L . | | R R 

80 | Convallaria majalis L D'asdast a SCUO SO 
81 | Majanthemum bifolium DET R 

82 | Polygonatum multiflorum AE ESE SAS S 
S30|VAsparagusivenuifollus DON 4° 0 EST SAROS S 
84 | Ruscus aculeatus L VASIMR RS DINO 

85 | Tamus communis L PRATI CAN c 
EG Lene veni Io o sea 

STA ENArcisSUSNpocti cus pit I CÒ 

88 | Iris pseudoacorus L siii S 

89 | Gladiolus imbricatus L . S 

90 | Platanthera bifolia Rich . S|R 

91 | Cephalanthera ensifolia Rich SS | C 

92 | Salix alba L. È È (0, 

93 » Caprea L. | Sia|rtiS,ieeSA Ss 

94 | Populus nigra L_ . STNMISA SAS 

95 2 tremula L | S S 

96 | È Abito ICSANISEESI SS 

97 | Alnus glutinosa Gaertn . S| Cc Cc 

98 | Betula alba L . . R 

99 | Carpinus Belulus L STUSÙES 
100 | Corylus Avellana L SNTSONOS 


Serie II. Tom. LXII. 


c 


2 


Sul LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 417 
Nome delle Specie A B Cc D E F G 

101 | Quercus pedunculata Ehrh . Si ea REDIRI AED) 

102 ” pubescens Willd SS 

103 | Castanea sativa Mill . ST US RESA RS 

104 | Ulmus campestris L . RA USA OS 

105 | Humulus Lupulus L CS C 

106 | Urtica dioica L. ; S S S 

107 | Asarum europaeum L. . R 

108 | Aristolochia Clematilis L S| S S 

109 7 pallida WK R 

110 | Polygonum dumetorum L CMS C 

111 Pi Persicanri te (0; 

112 È Hydropiper Huds . (0; 

113 aviculare L . © S (0) 

114 | Rumex conglomeratus Murr SBINS S 

115 obtusifolius L . SS S 

116 1 Acetosella L . (0; (0; 

117 s Acetosa L . GS 

118 | Chenopodium album L S S 

119 | Phytolacca decandra L S| S S 

120 | Scleranthus annuus L C|R C 

121 perennis L . CRIME Cc 

122 Alsine tenuifolia Cratnz . CR (0, 

123 | Arenaria serpyllifolia L . CR C 

124 | Moeringia trinervia Clairv . CER S 

125 | Stellaria media Cyr CNG, C 

126 5 graminea L . GS 

127 3} holostea L , SC 

128 | Holosteum umbellatum L S R 

129 | Malachium aquaticum Fries S 

130 | Cerastium glomeratum Thuill . (0; S 

131 4 semidecandrum L C S 

132 manticum L S 

133 Lychnis Flos-cuculi L CIS | Cc 

134 È alba Mill . SACRI SUS 

135 | Cucubalus baccifer L . Si NR: S 

136 | Silene vulgaris Gark . CANCER BRE CRE ESA SAS 

137 italica tPersit S S 

138 > uan dh cc C| S 

139 | Gypsophyla muralis L S S 

140 | Tunica Saxifraga Scop C (0; 

141 s prolifera Scop S S 

142 | Dianthus Armeria L . . . S| S 

143 È Carthusianorum L Ta || IR S 

144 A Seguieri Chaix S| S S 

145 | Hypericum tetrapterum Fries . (0; S 

146 5 perforatum L C 

147 È humifusum L C S 

148 7 montanum L . : CAS 

149 | Helianthemum Chamacistus Mil . (0, 

150 | Viola canina L. f. nemorum C 


418 GIOVANNI NEGRI 99 


| | 

Nome delle Specie Alì Binp @ | DIE|F|G 
151 | Viola tricolor L v. arvensis (Murr) ere, NG c 
152 | Atabisielapra@Bernh ee S | 
TR IATA 1A AR SCOPI IS | S 
154 | Alliaria officinalis . e Ghia 
155 | Cardamine amara L . . . . S S 
156 | s Matthioli Morr . - (0) 
157 | A hirsuta L . COMO S 
158 A impatiens L . S 
159 | Dentaria bulbifera L . CRIS 
160 | Draba verna L.. 5 (0; i C 
161 | Capsella Bursa- Pastoris Moench . COUS (0; 
162 | Clematis Vitalba L > CEEILE CS 
163 | Thalictrum aquilegifolium TALI | S R 
164 | Anemone nemorosa L CAR C SIMO 
165 È Hepatica L. . RMCOAI | c 
166 | Ranunculus flammula L. . . .. . C 
167 È Rica SAMO Cc 
168 3 auricomus L USO - Sol i 
169 | z repens L . S Cc 
170 È nemorosus DC . SUCRE S 
171 s SCOLMI RO E O GuiluS als : 
172 3 bulbosas@Ia 0 Ei ce SAC as | c 
173 sardous L SIAE aloe Cala 
174 | Caltha PAlUStrISsRER Acea ese si Sol i 
175 | Epimedium alpinum L_. . . .. . Sol i 
176 | Saxifraga tridactilites L .....|S S i 
177 > bulbifera L S| 0 S 
178 | Sedum maximum Hoffm. . . . . . | i 
1/98 RErunuskCerasns ti RT R È, 
180 »  SpinosaL. . toa CH SAS E 
181 | Spiraea Filipendula L S| S 
182 O Ulmaria L C 
183 | Geum urbanum L . CIS CS 
184 | Potentilla alba L . ; C | C 
185 È erecta Hampe S| C | S 
186 È reptans L . S | (6; 
187 3 verna L S| S | S 
188 È argentea L S|S | S 
189 3 collina Wib SAS 
190 È rupestris L S 
191 | Fragaria vesca L ; Sali È 
192 | Rubus discolor Weihe CS a 
193 | Rubus caesius L ; S|jC|S c 
194 | Agrimonia Eupatoria I CASA NR c 
195 | Poterium Sanguisorba L. S| R 
196 | Rosa arvensis Huds S|S 
197 » gallica L. CSR 
198 s canina L . Lg S 
199 | Crataegus monogyna Jacq - SUS S ; 
200 | Mespilus Germanica L R 


33 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 419 
Nome delle Specie A B Cc D E G 

201 | Pirus torminalis Ehrh R 

202 | Cytisus sessilifolius L MCIRREC R 

203 3 hirsutus L 0 

204 i, capitatus Scop C 

205 | Genista tinetoria L CANG S 

206 | n germanica L. CANC S 

207 | Ononis spinosa L S S 

208 | Medicago lupulina . C|S S S 

209 | Melilotus officinalis L S S 

210 | Trifolium arvense L . CS 

211 | È pratense L . (0; SaS 

212 È medium L . C 

213 | 5 rubens L C 

214 | a elegans Savi S| S R 

215 | 5 repens L . STESSE SANS 

216 5 patens Schreb . CS 

217 È campestre Schreb CIC S 

218 | Lotus corniculatus L . CC S 

219 »  uliginosus Schk . . Cc 

220 | Astragalus glycyphyllos L . SMEG Cc 

221 | Galega officinalis L .c. . (0; S 

222 | Robinia pseudoacacia L . 

223 | Coronilla varia L . SMS 

2924 | A Emerus L C 

225 | Lathyrus silvestris L. CIS 

226 » latifolius L . S 

227 ; niger Bernh S|S 

228 È montanus Bernh . S 

229 vernus Bernh . S 

230 | Vicia saepium L S 

231 s  lutea L S 

232 n, sativa L. SMR S 

233 , CraccaL. S S 

234 s hirsuta Graes (0) S 

235 | Lythrum Salicaria L . . ; C 

236 | Epilobium parviflorum Schreb . S 

237 È hirsutum L 7 S 

238 | Circaea lutetiana L S 

239 | Hedera Helix L 3 Sti AC MC 

240 | Eryngium campestre L . S Cc 

241 | Pimpinella major L S 

242 | È Saxifraga L . S (0; 

243 | Angelica silvestris L . S 

244 | Pastinaca sativa L È S|S 

245 | Peucedanum officinale L ; S 

246 | 5 palustre Moench . 

247 | A venetum Koch S | R 

248 | Tordylium maximum L . SIR 

249 | Daucus Carota L È CE MG S 

250 | Laserpitium prutenicum Lot S R 


420 GIOVANNI NEGRI 34 


| | | 
| | 
Nome delle Specie A | B | GLi: | ‘Edie 
| | 
| | | | 
251 | Torilis Anthriscus Bernh . . . . . c | | S|S 
252 | Anthriscus silvestris Hoffm. c|Ss|s 
253 | Oenanthe pimpinelloides L . . S 
254 ° v. silaifolia Qu). 
255 | Cornus sanguinea L i. CANSMES 
256 | Rhamnus cathartica L S| S 
257 È Frangula L S.S 
258 | Evonimus europaeus L RS S 
259 | Acer campestre L . S| G S 
260 | Rhus Cotinus L. i Sol 
261 | Polygala vulgaris L Cc | C i S Cc 
262 | Geranium Robertianum L C| Cc S 
263 5 molle Rini C S 
264 È columbinum L GS 
265 3 dissectum L Cares 
266 n sanguineum L C | 
267 A nodosum L. . (6) S 
268 | Erodium cicutarium L’Herit (06) (0; 
269 | Oxalis corniculata L . C | C S 
270 s Acetosella L | S 
271 | Linum gallicum L.. c | | 
272 | Malva Alcea L. . S|,S | 
273 n Silvestris L. SUS S 
274 | Tilia cordata Mill . S| | S 
275 | Euphorbia verrucosa Lam . G_|_C I S 
276 DS dulcis L (0) Cc 
277 5 helioscopia L . c | 
278 Cyparissias L CRIS 
279 | Calluna vulgaris Salisb Coal RieS AE 
280 | Primula acaulis L . S|C| Cc S 
281 | Lysimachia vulgaris L : S | S| 
282 a nummularia L . S| | Si 
283 | Ligustrum vulgare L. G, | CH WS | S 
284 | Fraxinus excelsior L . 9 US 
285 | Vinca minor L . . SS. GAS ae 
286 | Cynanchum Vincetoxicum Pers Cc (SMS 
287 | Erythraea Centaurium Pers C|C \ESAIUS. 
288 | Myosotis palustris Lam . Cc 
289 È silvatica Hoff . . SAINGS 
290 h hispida Schlecht . c | Cc 
291 | Pulmonaria officinalis L . IRE | CS (0) 
292 | Symphitum officinale L. . . . . . | CIS] 
293 È tuberosum L | C | | Cc 
294 | Convolvulus arvensis L . CAIRG | | S 
295 saepium L . . C| C| 
296 | Cuscuta Epithymum Mur . S | 
297 | Solanum Dulcamara L | ST {UR 
298 5 nigrum L S | S 
299 | Verbascum phlomoides L S | | S 
300 5 Lychnitis L . S|S| | S 


LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 421 
Nome delle Specie A B Cc D E F G 
801 | Linaria vulgaris L S| S 
302 | Serophularia nodosa L Si MR IS 
303 canina S S 
304 Gratiola officinalis L . C 
305 | Veronica spicata L SMS 
306 s Chamaedris L SAS S 
307 î officinalis L . NSIINS 
308 3 serpyllifolia L . ISSTCS 
309 persica Poir. S 
310 Digitalis ambigua Murr . CSR MS 
311 Melampyrum nemorosum L SAC 
312 pratense Tausch . Gi | S 
313 | Euphrasia officinalis L Cas 
314 | Ajuga reptans L Ch MS SS MSAC 
315 | Glechoma hederacea L (GG 
316 | Brunella vulgaris L COSTE NSA S 
317 È laciniata L. . . (O, S C 
318 | Melittis melissophyllum L . CS (0, 
319 | Galeopsis pubescens Bess Sa 
320 di Ladanum L SMS 
321 | Lamium purpureum L S 
322 : maculatum L SAS 
323 5) Galeobdolon Crantz S| Cc 
324 | Ballota nigra L. . . SUS. 
325 | Betonica officinalis L. S| C R 
326 | Stachys silvatica L (CAI GR S 
327 | Salvia glutinosa L. C| R 5 
328 » pratensis L. CSAR S 
329 | Melissa officinalis L . . . SUS 
330 | Satureia Calamintha Scheele CS 
331 n Nepeta Scheele S 
332 n Clinopodium Cav . SG R S 
833 | Thymus Serpyllum L. (0; 
334 | Origanum vulgare L . CRC S 
335 | Lycopus europaeus L. . C 
336 | Mentha longifolia Huds . S 
337 5 arvensis L o S S 
338 È Pulegium L S S 
339 | Verbena officinalis L . S S 
340 | Plantago major L . C Cc 
341 È. media L . CIC 
342 3 lanceolata L GG 
343 | Galium cruciata L. S S 
44 »  Vernum Scop . GG 
345 È verum L . (0; 
346 5 Mollugo L. (0; C 
347 a silvestre Poll . S| R 
348 Aparine L. CIS S 
349 | Sambucus nigra L. SR TCS 
350 | Viburnum Opulus L CECA NS 


GIOVANNI NEGRI 


Nome delle Specie 


Lonicera Caprifolium L . 
Valeriana officinalis L E 
Valerianella dentata Pollah 
Dipsacus silvestris Huds 

5 laciniatus 


| Succisa pratensis Moench 


Knautia arvensis Coult . 
= silvatica Duby . 
Scabiosa Columbaria L . 
Bryonia dioica Jacq . 
Tasione montana L 


2 | Campanula glomerata it 


3 Rapunculus L 
A rapunculoides L . 
d Trachelium L 


| Eupatorium cannabinum L . 


7 | Tussillago Farfara L. 


Petasites officinalis Moench 
Senecio vulgaris L 
5 Jacobaea L 


| Doronicum Pardalianches t 


2 | Bellis perennis L _. 


Solidago Virga-Aurea L . 
Erigeron canadensis L 


> annuus Pers 
5 acer L . 
Chrysanthemum Leucanthemum T: 
È pallens Gay . 
3 vulgare L. 


Artemisia vulgaris L. 
Achillaea Millefolium L . 
5 nobilis L 


| Filago germanica L . 
Gnaphalium luteo-album L . 


silvaticam L 


i Inula ‘salicina L 


»  Conyza DC E 
Pulicaria vulgaris L . . 

È dysenterica FI. Wett 
Bidens tripartitus L - 
Carlina vulgaris L. 

Lappa minor DC 
Serratula tinctoria . 
Centaurea Jacea L 


5 amara . : 
Z vochinensis. Bernh 3 
5 maculosa Lam 

= Scabiosa L 


| Carthamus lanatus L . - 
| Cirsium lanceolatum Scop . 


ana 207% QQ QMNNRNI DWODNA 


Phu Lele ie) 


QRaANnNnNAIAQ 


QQIOMOINAaaLQa 


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(lil deheA) 


arie a 


(021) 


aQnRaOa a 


37 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 423 
Nome delle Specie A B Cc D KH G 

401 | Cirsium arvense Scop. CRIMS | S 

402 | 3 palustre Scop S| S 

403 | Cichorium Intybus L . CSO | C 

404 | Lapsana communis L. . ICAO ESTAS 

405 | Hypochaeris radicata L . (O; | 

406 | Leontodon hirtus L CC 

407 3 autumnalis L. C (0; 

408 a hastilis L . € |0S 

409 | Picris hieracioides L . CASCO ST ACRI 

410 | Tragopogon pratensis L . (0; 

411 |) Taraxacum officinale Wit (0) SA IS 

412 | Sonchus asper Will COS C 

413 - arvensis L (0) C 

414 | Lactuca saligna L. S Cc 

415. | 3 Scariola L S C 

416 | Crepis vesicaria (0; S 

417 s setosa Hall. S S 

418 A Viren sl O Cc S 

419 | Hieracium Pilosella L CAS C 

420 È Auricula L , S 

421 | È auriculaeforme Fr sad R 

422 | A 5 v. Schultesii Sch R 

493 | ì prealtum Vill Mica S| S 

424 D mona ID Su CECO 

425 3 »  V. microcephalum Gr . CRC 

426 | 5 » V.subcaesium Fr . CO 

427 2 umbellatum L G CAS 

428 È boreale Fr SS 


9. La distribuzione della vegetazione del bosco Lucedio nelle categorie biologiche 


proposte dal Raunkiaer (1) come guida alle analisi fitogeografiche, permette di ca- 
ratterizzarla brevemente e da un punto di vista generale. Le specie elencate nello 


(1) Cfr. RaunzisER C., Types biologiques pour la géographie botanique (“ Acad. roy. de sc. et lettres 
de Danemark ,, Bull. 1905, N. 5, p. 347-437, 41 fig. — In., Statistik der Lebensformen als Grundlage 
fur die biologische Pflanzengeographie (* Beihefte zum Bot. Centralblatt. Original-Arbeiten ,, Bd. XXVII, 
II Abth., Heft. 1, 20. vi. 1910). Per le sigle delle tabelle, do qui il significato: S= succulente; 
E=epifite; MM= mega- e mesofanerofite; M= microfanerofite; N= nanofanerofite; Ch=chamefite; 
H=emicriptofite; G= geofite; HH= idrofite; Th= terofite. 


424 GIOVANNI NEGRI 3g 


specchio che precede, possono infatti essere distribuite, seguendo questo metodo, se- 
condo il modulo (1) seguente: 


DISTRIBUZIONE PERCENTUALE DELLE SPECIE NELLE CATEG. BIOLOGICHE 


Numero 
delle specie 


| 
Bosco Lucedio. . .}427|0.2|0.2)0.7] 4) 6 3 |54)|15|09| 16 
Modulo tipo (2) -. -|.400| 101 3 | 6 | 17:|-20] ‘(9 er] Re 


L’esame dello specchietto suggerisce subito aleune considerazioni. Prima di tutto, 
malgrado la loro scarsità, sono rappresentate le due categorie delle succulente e delle 
epifite, rispettivamente le prime dal Sedum maximum, nelle stazioni soleggiate in cui 
il ferretto è commisto ad abbondante pietrisco, le seconde dal Polypodium vulgare, 
su di un tronco di quercia in stazione particolarmente umida. Poi il numero delle 
terofite si eleva al disopra della percentuale tipica, ciò che sembra poco corrispon- 
dente all’indole della stazione, questa forma vegetativa rappresentando il migliore 
adattamento ad un ambiente in cui la condizione avversa è piuttosto data dalla 
riduzione dell'umidità che da quella della temperatura. Nel caso speciale la percen- 
tuale abbastanza elevata deve piuttosto essere considerata come un indice dell’inqui- 
namento delle associazioni originarie, poichè, come giustamente osserva il Raunkiaer, 
nel secondo dei lavori citati, le terofite, che sono essenzialmente piante adattate ai 
climi con estate secca e calda, vengono diffuse dalle culture più facilmente delle 
specie di qualunque altra categoria, e, quando sieno eventualmente distrutte, rein- 
vadono pure colla maggior facilità: ed il perchè si capisce. 

Nondimeno è anche da notarsi che lo stesso Autore commentando una delle 
tabelle della detta memoria (Tab. 6. p. 183 e 184) osservi come probabilmente il 
limite fra il clima a terofite, che regna ancora nell’Arcipelago Toscano, ed il clima 
ad emicriptofite, studiato da lui nelle Alpi per la vallata di Poschiavo, venga a cadere 
sull'Italia Superiore; ritengo però che bisognerà cercare questo limite nelle Prealpi, 
nel Preappennino, negl’inclusi della pianura padana, in corrispondenza dei quali i dati 
climatici richiesti si verificano, non certamente sulla pianura vera e propria, ove 
l’eccessività non rara del fattore climatico viene regolarmente compensata dall’azione 
dell'elevato contenuto acqueo del suolo. 

Del resto le forme caratteristicamente predominanti in confronto al modulo tipo 
sono le emicriptofite e le geofite. Anche per quanto riguarda queste ultime il Raunkiaer 
raccomanda molta precauzione nell’apprezzamento dei dati statistici, perchè assai 
spesso è difficile l’accertare con sicurezza se una specie sia realmente geofita od 
emicriptofita. Che un certo numero di specie recensite come geofite debba passare 


(1) Vegetationsspe£ktrum di Raunkiaer. 
(2) Normalspektrum Id. 


39 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 425 


ad ingrossare il numero delle emicriptofite ha relativamente poca importanza per 
queste ultime, perchè la loro proporzione nella flora corrispondente è in genere così 
elevata che non può essere alterata da qualche centesimo in più od in meno; invece 
anche una piccola variazione nel computo delle geofite ha la sua importanza, poichè 
la loro percentuale è piccola anche nel modulo tipo. In ogni modo, quando, come 
nel caso in questione, il loro numero supera di molto il normale, non se ne può 
non tener conto, ricordando che, delle geofite, specialmente quelle a bulbo sono assai 
comuni nei paesi asciutti ed a clima continentale temperato caldo. 

La flora del bosco Lucedio corrisponde essenzialmente ad un clima ad emicriptofite, 
cioè proprio della zona temperata fredda o di una zona montana corrispondente. e pre- 
senta, quale traccia d’invasione da parte di elementi caratteristici della zona tem- 
perata calda, la proporzione notevole delle geofite e delle terofite, le prime assegnabili 
con verisimiglianza ad una invasione spontanea, le seconde piuttosto ad una invasione 
culturale. Non escludo la possibilità, sebbene mi manchino pel momento gli elementi sta- 
tistici sufficienti di giudizio, che, in tesi generale, nel passaggio dalla flora della pianura 
alluvio-diluviale a quella degli inclusi collinosi terziari od anche più recenti, vulcanici, 
si accentui la proporzione delle geofite, quasi preludendo ad un clima di tipo più 
francamente continentale; e che, in quello alla flora della fascia insubrica di vege- 
tazione termofila, si verifichi un aumento nella percentuale delle ferofite, delle quali 
abbiamo veduto l'importante sviluppo nella flora mediterranea. 

Ma lo specchio sopra riportato ci offre anche una classificazione delle Fanerofite 
che, per essere limitata al carattere dell’altezza delle gemme ibernanti sul livello del 
suolo, non è per questo meno naturale, data la subordinazione generale dei fenomeni 
biologici dell'individuo vegetale alla necessità di difesa dalle condizioni ecologiche 
sfavorevoli della stagione di riposo. Necessità che, nel caso speciale, si svolgerà con 
adattamenti diversi, diverse essendo le esigenze delle micro e nanofanerofite eliofile 
della macchia e delle mesofanerofite del bosco, da quelle del sottobosco, naturalmente 
sciafilo e composto di elementi in prevalenza termofughi. Osservo inoltre che, come 
nel modulo tipo, la percentuale delle fanerofite progredisce in ragione inversa delle 
loro dimensioni, ciò che può ancora spiegarsi, per la specie sciafite, colla protezione 
del coperto arboreo, per le eliofite, coll’effetto utile del più regolare riscaldamento 
degli strati dell’aria in contatto col terreno, grazie all’irradiazione notturna ed in- 
vernale; e che la percentuale complessiva delle fanerofite della stazione in studio, 
paragonata ai dati riferiti dal Raunkiaer per le diverse zone nella vallata di Po- 
schiavo, corrisponde a quella della zona montana media (10 °/,), vale a dire a quella 
zona di massima piovosità e di minima escursione termica, in cui la vegetazione 
arborea ed arbustacea assumono il loro massimo sviluppo. 

Delle poche mesofanerofite della fiora del bosco Lucedio i due Populus spora- 
dicamente diffusi, con un certo e comprensibile aumento nelle aree più depresse, 
costituiscono un elemento affatto subordinato e la comparsa del quale si comprende 
facilmente in una stazione che non è la loro caratteristica, data la sua permanente 
umidità e la prossimità delle estese associazioni che essi formano sulle alluvioni 
padane. Il castagno e la robinia, entrambi artificialmente e recentemente introdotti, 
si mantengono tutt'ora allo stato di elementi sporadici e piuttosto della macchia che 
della fustaia. La quercia rimane adunque, come avviene di solito sugli altipiani dilu- 

Serie II. Tow. LXII. DÎ 


426 GIOVANNI NEGRI 40 


viali, la specie dominante e caratteristica dell’associazione, conferendole un facies 
che l’avvicina alla brughiera boschita. 

Dal punto di vista delle sue attitudini ecologiche il Quercus pedunculata trova, 
per quanto riguarda il terreno, sugli altipiani diluviali in genere, e quindi anche sul 
Montarolo, il suolo argilloso, mediocremente fresco e profondo, e povero di calcare 
che gli si conviene, e ne fa fede l’abbondanza ed il vigore dei rimessiticei che pul- 
lulano nel sottobosco, e la fioridezza della ceppaia nei tratti in cui il bosco è colti- 
vato a ceduo. La quercia, come osserva il Busgen, tollera bene una grande escur- 
sione termica dall’estate all’inverno, ma soffre facilmente pel gelo, che determina nel 
suo legno gravi screpolature (1); ora è da ritenersi che, come ho detto parlando del 
clima del basso Vercellese, l’alta umidità della regione mitighi alquanto la rigidità 
dell'inverno e la secchezza dell'estate avvicinandone, localmente, il tipo climatico a 
quello della regione insubrica, della quale sono appunto proprie le fioride brughiere 
boschite a quercia; e di queste il bosco Lucedio può considerarsi come una propag- 
gine, nello stesso modo che il Montarolo che esso riveste è geneticamente legato 
agli altipiani diluviali e che lo era, per esempio, anche l’altipiano novarese, occu- 
pato, sino a tempi recenti, da associazioni della stessa natura. 

Nella brughiera boschita è molto agevolmente rilevabile il noto e stretto rap- 
porto fra le condizioni idriche del suolo e la distribuzione della quercia. Malgrado 
infatti che questa specie sia una delle più esigenti in fatto di luminosità dell'ambiente, 
noi la vediamo, a seconda dell’ondulazione del terreno, addensarsi notevolmente negli 
avvallamenti, costituendo un'associazione a sottobosco ricco, denso, proteggente a 
sua volta una vegetazione erbacea spiccatamente sciafila; man mano poi che da 
queste stazioni più declivi ed umide procediamo verso le più salienti, asciutte e sco- 
perte, la vegetazione arborea si dirada tanto da assumere, per la disposizione spora- 
dica degli individui, il facies particolare della brughiera pura e disalberata. Nei punti 
piani, in condizioni ecologiche intermedie, nei quali, anche in uno stadio avanzato 
di sviluppo della vegetazione arborea, larghi spazi rivestiti di Calluna sono intercalati 
ad essa, sì fa piuttosto l'impressione di due associazioni strettamente ‘interferenti che 
non quella di un consorzio unico. Sotto altri climi, nei paesi tropicali, e con una com- 
posizione floristica affatto diversa, la Savana, formazione vegetale similmente sta- 
bilita su di un fondo asciutto e parimente eliofila, dà una impressione fisionomica 
analoga, anche pel corrispondente costituirsi, in vicinanza delle raccolte d’acqua per- 
manenti, di consorzi vegetali particolari e perfettamente distinti dalla fiora circostante. 

Sul Montarolo, causa la permanente elevata umidità relativa dell’aria nel corso 
dei mesi dell'attività vegetativa, manca la genuina brughiera boschita; la calluna 
vi cresce. ma non in formazione permanente di cui sia la specie dominante e carat- 
teristica, bensì in tutto il bosco nei primi anni consecutivi ai tagli, poi nelle radure 
che rimangono scoperte a sviluppo avanzato della specie arborea, riducendosi sempre 
più, anzi quasi scomparendo all'ombra di questa. La fustaia di quercia rappresenta 
quindi in questo caso la vera associazione originaria, salvo a costituirsi secondo i 


(1) Krrcaxer S., Loew und Scaròrer C., Lebengeschichte der Blutenpflanzen Mittel-Europas. Genève, 
1904 e seg., fasc. 12 (1911). 


LA 


41 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 427 


due facies sopra descritti rispettivamente, per quanto riguarda la vegetazione subor= 
dinata, sciafilo mesotermo e microtermo. 

A questa differenza di facies ed alla interferenza fra consorzio e consorzio dovuta 
al notevolissimo variare della sensibilità, dirò così, ecologica della specie, è dovuta 
l'estrema varietà della vegetazione del bosco Lucedio; varietà che colpisce l’osser- 
vatore sino dalla prima visita e che ne distingue la fisonomia da quella, pure così 
affine, della brughiera boschita occupante la fascia subalpina degli altipiani diluviali. 
Ritengo anzi che tale sia stato tutto il margine della pianura diluviale, quand’essa, 
più estesa e subcontinua, si stendeva assai più avanti a S. delle Alpi; e ciò appunto 
analogamente a quanto, in fatto di sviluppo florido e disordinato di vegetazione, si 
osserva nelle stazioni ad estesa escursione termica associata ad una forte umidità 
relativa. Il fatto trova del resto una corrispondenza anche nella maggior ricchezza e 
nel vigore della vegetazione lianosa (Tamus communis, Humulus Lupulus, Polygonum 
dumetorium, Cucubalus baccifer, Clematis Vitalba, Lotus uliginosus, Lathyrus sylvester 
e var. latifolius, Vicia saepium, V. sativa, V. lutea, V. Cracca, V. hirsuta, Hedera 
helix, Convolvulus saepium, Galium Aparine, Lonicera Caprifolium, Bryonia dioica), 
nonchè del già accennato epifitismo del Polypodium vulgare. 

Dal punto di vista della sua origine, gli studi dell’ Andersson sulle torbiere del- 
l’Italia superiore, hanno mostrato che l'espansione del bosco di quercia vi è rappre- 
sentata da avanzi copiosi in uno strato superiore, sotto al quale ne giace un altro 
caratterizzato da abbondanti residui di Pinus sivestris. Qua e là, nello strato supe- 
riore, compaiono anche traccie del faggio che attualmente non incontriamo vivente 
che ad un livello assai più elevato s/m. Queste osservazioni sono assai importanti, 
ma per la loro interpretazione è necessario ricorrere alle estese ricerche compiute 
fuori d’ Italia sull’evoluzione della vegetazione dal periodo glaciale in poi, ricerche 
di cui riassumerò i risultati secondo me applicabili nelle condizioni particolari del 
nostro Paese. 


10. Tutti i dati raccolti sinora sui relitti della vegetazione spontanea della pianura 
padana, possono riassumersi nella conclusione, che, qualora l’azione modificatrice 
dell’uomo, che vi si esercita da un tempo così lungo e con una attività tanto pro- 
fonda ed estesa, non fosse entrata in giuoco, la regione, abbandonata al libero con- 
trasto dei fattori ecologici che vi dominano, sarebbe tutt'ora uniformemente rivestita 
dalle associazioni forestali costituitesi primitivamente. Queste associazioni assumono, 
considerate nei loro residui, essenzialmente due tipi: uno più xerofito rappresentato 
dalla quercia (Quercus pedunculata) e che abbiamo visto essere caratteristico degli 
altipiani diluviali; l’altro più igrofilo rappresentato dal pioppo (Populus alba e P. nigra) 
e, secondariamente, dall’ontano e dal salice, proprio della pianura alluviale, dove, 
-anche attualmente, costituisce numerosi boschi di sponda. Ad alterare il tipo non 
valgono, data la loro estensione di gran lunga inferiore, nè la florula igrofita delle 
paludi e degli acquitrini, rispettivamente comuni sull’alluvium e sul diluvium, nè 
quella xerofila delle ghiaie scoperte, rivestite di gerbidi o dei sabbioni, dotati di una 
vegetazione sporadica e peculiare; esse costituiscono tuttavia altrettante stazioni ete- 
rogenee intercalate un tempo nella foresta, oggi nelle culture padane, le quali, prima 
che l'estensione di queste ultime a scapito della prima ne mascherasse l’azione colla 


9 0) 


49; GIOVANNI NEGRI 49, 


( 


propria di gran lunga preponderante, debbono aver funzionato quali altrettante sta- 
zioni d’invasione, altrettanti focolai, se mi è permesso esprimermi così, d’inquina- 
mento della grande formazione forestale nei punti in cui, per spontanea od artificiale 
degradazione, la difesa dei consorzi preesistenti contro le specie immigranti diveniva 
meno attiva (1). Nel caso della pianura padana una forte riserva di specie d’inva- 
sione, oltre a quelle che vi possono giungere dal littorale e dalle zone perimetrali 
subalpina e subappennina, è data dalle isole di terreni terziari incluse in essa; regioni 
accidentate, a terreno di varia origine e composizione e molteplici stazioni le quali 
conservano, a disposizione dei terreni nuovi che per avventura si formino nell’attigua 
pianura, una copia ed una varietà di disseminuli tali da aumentare in grado note- 
vole la probabilità di attecchimento su di essi di elementi eterogenei, ad onta della 
concorrenza esercitata dall’invasione di specie locali dalle aree. attigue rimaste in- 
disturbate. 

Come, anche recentemente e giustamente, ha osservato il Fiori (2), la flora della 
pianura del Po ha un carattere prettamente submontano. Del resto di una flora pa- 
dana, intesa come entità fitogeografica, sarebbe meglio non parlare: noi sappiamo 
troppo poco, da una parte sull'origine e sulla distribuzione delle pochissime specie 
che vi figurano come endemiche, per poterne sostenere l'origine locale e quindi poco 


(1) Sull’'importanza di tali stazioni per spiegare l’attuale distribuzione dei vegetali e sulla loro 
antichità e stabilità ha insistito anche il Grapmawx (cfr. BezieRungen 2wischen Pflanzengeographie 
und Siedlungsgeschichte, in ° Geographische Zeitschrift ,, Bd. XII, Heft 6, 1906, pp. 305-325). Fondan- 
dosi sullo studio delle specie steppiche, anch’egli fa dipendere la conservazione di nuclei di tale 
vegetazione, non mai interrotta, per quanto in certi periodi ridottissima, da un clima stazionale 
risultante dal cooperare dei varii fattori ecologici, talora su di un’area estremamente limitata, a 
mantenervi le condizioni d’esistenza indispensabili alle specie in questione. L’A. si è pure posta la 
domanda dell’estensione che dovevano presentare le stazioni delle piante steppiche, perchè le specie 
caratteristiche potessero raggiungerle e stabilirvisi al momento della loro invasione. Dal fatto che 
le superficie occupate oggidì dalle loro colonie, presentano una estensione insignificante e s’incon- 
trano specialmente in corrispondenza delle roccie e dei pendii più o meno ripidi, se tutte le nostre 
nozioni concordano in ciò che, dato un clima come l’attuale, non potrebbe supporsi sprovvista di ve- 
getazione boschiva una superficie maggiore della presente, intendendo naturalmente come tale anche 
la somma delle aree ridotte a cultura, rimane fuori questione, che dati i mezzi di disseminazione 
delle specie che c’interessano, perchè l’invasione ne diventasse possibile, le radure debbono essere 
state più estese e più numerose (la scomparsa completa delle associazioni arboree non è necessaria 
e, nella nostra regione neppure probabile), e spingersi nel piano, il che non può avvenire che dato 
un clima più continentale ed in genere più asciutto. Il Gradmann discute anche la realtà o meno 
del nesso causale, che sembra intercedere fra la distribuzione delle piante steppiche e quella delle 
abitazioni preistoriche. Il problema è di grande momento, data anche l'opinione del Penck e del 
Brockmann, alla quale accenno più avanti, secondo me ingiustificatamente favorevole alla quasi 
esclusiva introduzione antropica degli elementi termoxerofili della nostra flora. L'A. esclude pure 
questa diretta dipendenza, ritenendo come altrettanto plausibile il riferire la causa dell’accanto- 
namento di numerose specie steppiche in stazioni antropiche, alla fertilità del suolo (più esatta- 
mente al suo aloidismo ed anastatismo — efr. Gola 3° — il quale del resto può, oltre che da cause 
artificiali, dipendere anche da cause naturali e valer quindi, dato l’alicolismo generale della vegeta- 
zione termo-xerofila, come predisponente all'invasione di stazioni vergini di azione umana), senza 
escludere neppure una semplice coincidenza dovuta all’aver le antiche popolazioni ricercate, appunto 
come le piante steppiche, le località aperte e sboscate od almeno non rivestite dalle foreste primitive 
e chiuse, e quindi liberate, per azione degli agenti atmosferici, della coltre geloide di terreno ori- 
ginale di foresta. 

(2) Cfr. Frorr A., Paorerti G. e Bicuinor A., Flora analitica d’Italia, Introduzione, pag. rvu. 
Padova, 1908. 


<<» 


43 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 429 


probabile, data la recente costituzione della stazione, piuttosto che l'immigrazione dopo 
l’alluvionamento del golfo padano durante il periodo glaciale, ed il loro successivo 
isolamento nelle stazioni che oggi occupano allo stato di relitti. Esse sono poi in ogni 
modo troppo scarse, troppo sporadiche, troppo scarsamente sviluppate per assumere 
un valore caratteristico. D'altra parte i due tipi di vegetazione boscosa citati, sono 
appunto la continuazione delle due formazioni nemorali submontane mesofite, la sciafila 
e l’eliofila, rispettivamente di vallone e di pendìo soleggiato, notissime a tutti gli 
studiosi della nostra vegetazione e quali io stesso ho avuto occasione di descrivere 
in corso di ricerche sulla vegetazione delle colline terziarie piemontesi (1). Natural- 
mente, dato il facile eustatismo delle stazioni occupate da spongofite e da sciafite e 
la conseguente maggior latitudine fra i limiti altimetrici estremi delle loro specie; 
data la protezione più attiva contro le escursioni termiche estese, degli elementi del 
sottobosco, da parte del coperto di fogliame, e di quelli degli acquitrini, da parte del- 
l’elevata umidità relativa degli strati atmosferici più prossimi al terreno ; una copia mag- 
giore di elementi microtermi prenderà parte alla costituzione della florula dei boschi 
di alluvione e delle aree acquitrinose, conferendo loro un tipo più spiccatamente mon- 
tano di quanto non presentino i tratti asciutti delle brughiere: Inversamente la dispo- 
sizione pianeggiante di queste ultime e la potenza della coltre di materiale detritico 
ferrettizzato sul quale sono costituite, le rende meno esposte ad un intenso e con- 
tinuo rimaneggiamento superficiale da parte delle acque meteoriche di quanto non 
siano i pendii submontani attigui; e più raro in corrispondenza ad esse, l’affiorare 
di roccie in posto o l’accumularsi di residui ghiaiosi, substrati adatti alla invasione 
di specie termofile delle rupi della zona submontana o dei greti recenti dei fiumi. 
Anch'esse quindi, e pel predominare alla superficie della coltre di ferretto, e pel non 
raro costituirsi di acquitrini dovuti, non alla falda freatica che è profonda, ma al 
raccogliersi delle acque di precipitazione nelle bassure del terreno quasi impermeabile, 
sono piuttosto adatte all’attecchire di associazioni di specie eliofile bensì ed anche 
xerofile, ma piuttosto mesoterme o parzialmente microterme che termofile. Questi 
dettagli di distribuzione. che trovano la loro spiegazione in fattori stazionali, spie- 
gano la costituzione da parte di elementi termofughi delle associazioni boschive e, da 
parte di elementi termofili, l'invasione di quelle sole stazioni scoperte, che sono abba- 
stanza lontane dalle falde acquee per mantenersi asciutte; elementi propri e prove- 
nienti, sempre in un caso e spesso nell’altro, dalla regione submontana. In tesi generale, 
quando si tratti di forme delle quali non possa dimostrarsi l’ invasione recente, il 
carattere che permette di considerarne la presenza nella flora padana come normale, 
cioè durante sino dalla sua costituzione nelle sue linee attuali, è l’ uniforme distri- 
buzione, la costante comparsa ogni qualvolta si verifichino le condizioni, sia pure 
d'eccezione, loro favorevoli. In queste condizioni si trovano la maggior parte delle 
specie submontane ed è questa la ragione per la quale noi le consideriamo come 
caratterizzanti la flora della pianura del Po. Finchè l'inquinamento delle associazioni 
naturali da parte di elementi alloctoni non è così pronunciato da diventare testimonio 


(1) Neeri G., La vegetazione della collina di Torino, ©“ Mem. della R. Accademia delle Scienze di 
Torino ,, Serie II, vol. LV, anno 1905, p. 33 (145) e seg. 


430 GIOVANNI NEGRI 4 


di uno stato di trasformazione molto avanzata per deciso mutamento del clima, la 
sporadicità di specie sicuramente stabilite è segno di variazioni pregresse nelle con- 
dizioni di ambiente, principalmente nelle condizioni climatiche; la loro costante com- 
parsa nelle stazioni adatte, l’indice della loro corrispondenza alle condizioni ecologiche 
generali attualmente in atto e della immutata natura di queste condizioni dalla loro 
comparsa nella regione in poi. 

Ma, come ho già detto, se noi consideriamo come assenti le estese culture che 
hanno ormai quasi completamente accaparrato il piano padano, nelle attuali con- 
dizioni climatiche, la brughiera boschita a quercie ed il bosco d’alluvione costituito 
essenzialmente di specie dei generi Populus, Salix, Alnus lo rivestirebbero del tutto, 
rispettivamente pei terreni diluviale ed alluviale, o presso a poco, tenuto conto di 
qualche variazione dovuta ad eccezionale allontanamento od avvicinamento della 
falda acquea dalla superficie del suolo: e, quando si escludano, oltre a questa massa 
di vegetazione di tipo submontano diffusa nel piano per continuità topografica, le 
specie microterme delle quali è evidente la discesa ad un livello inferiore al nor- 
male per via fluviale, o quelle la cui eventuale disseminazione a distanza per mezzo 
di altri agenti è ben dimostrata, nulla ci soccorre nella spiegazione dell’Raditat delle 
specie isolate e non disseminabili con mezzi propri, se non ricorriamo all’ ipotesi 
sopradetta della loro natura di relitto di una vegetazione precedentemente diffusa. 
Lo stesso si dica nel caso delle stazioni xerofile di cui ho gia fatto menzione, sab- 
bioni, gerbidi, affioramenti argillosi nudi e simili, dei quali possa dimostrarsi l’esi- 
stenza, anche nei limiti circoscritti attuali, durante da un’alta antichità: senza una 
oscillazione climatica, in senso naturalmente inverso a quella precedentemente sup- 
posta, non è possibile spiegare la localizzazione in esse di specie ad area disgiunta, 
che non possono esservi giunte per trasporto attuale o disseminate con mezzi propri e 
che non compaiono neppure costantemente in tutte le stazioni dello stesso tipo e pros- 


sime a quelle in cui la loro presenza è stata ripetutamente e da tempo accertata (1). 


(1) In un recentissimo lavoro il Beeuinor (Le colonie di piante microterme sui terreni torbosi 
della provincia di Padova, pubbl. del Comitato © Pro Flora Italica ,, 1°, in ° Nuovo Giorn. Botan. 
Italiano ,, Nuova serie, vol. XVIII, luglio 1911) ha concluso che “ le torbe padovane post-diluviali, 
col complesso della loro vegetazione, documentano recentissime vicende del geologicamente recente 
bassopiano padano , (pag. 374). Le specie orofile che attualmente vi appaiono localizzate avrebbero 
verosimilmente raggiunto il piano per disseminazione a più o meno grandi distanze, facilitate anche 
da stazioni intermediarie fuori della formazione torbosa. Parecchie di esse sono infatti tipiche 
anemocore, ed altre, che costituiscono il fondo della vegetazione torbicola, possono essere state 
disseminate, oltre che per via acquea, anche dagli uccelli acquatici. In nota l’egregio A. aggiunge 
che anche Negri non ha escluso di recente avvento ed introduzione, per le comuni agenzie disse- 
minatrici di elementi microtermici nella brughiera ed in altre stazioni dell’Agro Torinese, mentre 
più recisamente De Lorenzi e Gortani hanno interpretati questi elementi come relitti glaciali. Ciò 
può valere sino ad un certo punto pel Friuli, dati gli stretti rapporti che le espansioni glaciali vi 
contrassero colla collina ed il piano, non per la pianura padovana e tanto meno per le regioni 
poste a S. di questa, dove pure esistono su larga scala giacimenti torbosi. 

Per quanto riguarda l’alta pianura Padana, della quale ho più sicura conoscenza, a me pare 
che l'immigrazione quaternaria di molti relitti termofughi sia indiscutibile, e del resto recisamente 
affermata anche nella mia comunicazione al Congresso dei Naturalisti del 1906, alla quale il Béguinot; 
sì riferisce (p. 12 e 13 estr.). Il recente avvento e distribuzione per opera delle comuni agenzie disse- 
minatrici è suggerito come una possibilità, verificantesi senza dubbio con frequenza diversa nelle varie 


ao 


45 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 431 


Siamo giunti così alle variazioni precesse nel clima ed all’azione sulla vegeta- 
zione delle sue condizioni nei tempi geologici immediatamente precedenti l’attuale. 
A proposito dei quali fatti, la grande massa di ipotesi, di teorie, le molteplici inter- 
pretazioni dei fatti fitogeografici, venuti in campo in questi ultimi anni, debbono 
essere apprezzate partendo da due considerazioni preliminari. La prima che molte 
conclusioni troppo schematiche e non sufficientemente autorizzate dal confronto con 
fatti geofisici attualmente osservabili e coi dati della fisiologia vegetale sono state tratte 
sui rapporti fra l'estensione delle glaciazioni e le condizioni corrispondenti della 
vegetazione. La seconda, che, sotto la suggestione dei numerosi e bellissimi studi 
compiuti dai naturalisti d’oltralpe sulla flora silvatica dell'Europa centrale e setten- 
trionale, si sono troppo dettagliatamente applicate alla nostra vegetazione, che è quella 
di una zona marginale dell’area interessata dalle glaciazioni quaternarie, osservazioni 
e deduzioni che questa sua stessa posizione rendeva solo in parte corrispondenti. 

Fondandoci su dati glaciologici che trovano la loro corrispondenza nei residui 
vegetali fossili o nelle traccie delle variazioni di estensione e di distribuzione subite 


stazioni ed associazioni, che deve però essere presa in esame caso per caso, prima di concludere pro 
o contro (p. 15). Per esperienza mia, fatta eccezione per la flora alveale dei fiumi, nella quale del 
resto le specie microterme, che compaiono in corrispondenza delle alluvioni recenti, sono rela- 
tivamente poco numerose e quasi sempre le stesse, ritengo si verifichi troppo raramente per farla 
entrare in linea di conto nello spiegare la vegetazione termofuga della pianura. Maggiore impor- 
tanza assumono certamente i fatti di trasmissione a piccole tappe, per via di stazioni intermediarie, 
e mi pare anzi che in esse si compendi tutta la storia della vegetazione della pianura padana, 
stabilita su di un suolo così incessantemente rimaneggiato, prima che l’opera dell’uomo ne fissasse 
i dettagli topografici a beneficio dell’agricoltura, mediante opere di bonifica che risalgono ai tempi 
preistorici. Ma anch’essa, dopo l’ultima oscillazione del clima in senso oceanico (periodo silvatico 
di Briquet. fase postglaciale di Daun?), deve essersi piuttosto esercitata fra stazioni padane e sta- 
zioni padane, che fra di esse e le montane, salve, bene inteso, le eccezioni. 

L'analisi della vegetazione microterma del bosco di Trino (95 specie su 428= 22.2 °%/) presa 
anche nel suo complesso, dimostra del resto come i suoi mezzi di diffusione sarebbero stati insuf- 
ficienti a permetterle di raggiungere il Montarolo dopo il suo distacco dalla pianura diluviale, 
per trasporto dei semi a distanza. Le condizioni topografiche della stazione escludono la disse- 
minazione idrocora e la scarsezza delle forme microterme clizofite e spongofite, un’attiva azione 
in questo senso degli uccelli palustri. Le specie di cui la fiorula microterma si compone, mesofite 
per lo più, con qualche xerofita, sono pel 39% prive di disposizioni atte a favorire la disseminazione, 
per l°8 ed il 5°, rispettivamente bolocore e mirmecocore, il che, ai fini della nostra dimostrazione, 
presenta la stessa importanza. A questo 52 °/ di specie a disseminazione lontana impossibile, se non 
intervenga un trasporto passivo, poco probabile, almeno su vasta scala, data l’ubicazione e la natura 
della stazione, può essere contrapposto il 39%, di anemocore (9% per leggerezza dei semi, 12% per 
appendici tricomatose, 18% per apparecchi in forma di ali), ed il 9° di zoocore (2 °/ per attacco 
e 7° per ingestione). Del resto anche queste ultime percentuali rappresentano una notevole infe- 
riorità di fronte a quelle fornite dal complesso della flora del bosco Lucedio, la quale conta il 47 °/p 
di anemocore ed il 14 °/, di zoocore. Un calcolo analogo potrebbe essere stabilito per le brughiere 
del tavoliere torinese. 

A dimostrare il reale isolamento del Montarolo, nelle condizioni attuali geologiche e topogra- 
fiche della pianura padana, considerato come stazione botanica, vale anche la localizzazione di 
aleune specie e la mancanza di alcune altre. Così vi si raccoglie il Ranunculus auricomus estre- 
mamente raro in Piemonte, e l’Epimedium alpinum, limitato in Piemonte alle brughiere comprese 
fra il lago di Viverone ed il Ticino, vi aveva una stazione disgiunta ora distrutta (es. in Erb. pe- 
demontano). Invece alcune specie sciafite (Paris quadrifolia, Scilla bifolia, Helleborus foetidus, Sani 
cula europaea, Heracleum Sphondilium, Phyteuma betonicaefolium e simili) dei boschi delle prospicienti 
colline terziarie di Gabiano e Camino, parimenti stabilite su suolo ferrettizzato, vi mancano affatto. 


432 GIOVANNI NEGRI 46 


dalle formazioni vegetali contemporanee, noi possiamo considerare i periodi di mag- 
giore espansione dei ghiacciai alpini come quelli in cui, nel clima, s'è più accentuata 
l'evoluzione verso un tipo oceanico freddo ed umido per sensibile diminuzione della 
temperatura media estiva e notevole aumento nelle precipitazioni atmosferiche. Alle 
contrazioni delle aree glaciate, proprie delle fasi interglaciali, corrisponderebbe una 
variazione del clima in senso inverso, cioè verso un tipo continentale, per eleva- 
zione della temperatura estiva media e forte diminuzione delle precipitazioni atmosfe- 
riche. Così, senza grande divario nella media temperatura annuale, senza, d'accordo 
col Penk, ammettere per le fasi interglaciali un clima propriamente caldo, potreb- 
bero essere spiegati i fenomeni distributivi della vegetazione, che si possono dedurre 
dai residui vegetali scoperti sinora in terreni quaternari. ‘ i 

Il Penck stesso ha recentemente proposto una classificazione geofisica dei 
climi (1) che, come si adatta alle condizioni attuali delle varie zone terrestri, può 
essere utilmente applicata alle variazioni che i climi hanno subite nel tempo. Egli 
osserva che i ghiacciai, originatisi nella regione a clima nivale, si spingono neces- 
sariamente fuori di essa, nella regione subnivale, ove essi cominciano a sciogliersi. 
I caratteri di una origine glaciale del suolo compaiono quindi anche lungi dalla 
regione a clima nivale ed i confini di una precedente glaciazione non coincidono ne- 
cessariamente colla estensione corrispondente del clima nivale. Questo fatto, formulato 
precisamente in una classificazione generale e prettamente geofisica dei climi, trova 
la sua giustificazione nella osservazione già antica della discesa del fronte di ghiacciai 
in regioni a clima tutt'altro che nivale e la sua spiegazione nelle condizioni speciali 
in cui si stabilisce il rapporto rilevato dal De Marchi (2) fra le precipitazioni atmo- 
sferiche che riforniscono i ghiacciai nella loro parte superiore e l’ablazione che li 
spoverisce dal basso. Quand’esso venga tenuto presente si comprende come, nello 
stesso modo che l'indice principale del clima nivale, il ghiacciaio, può nelle regioni 
di limite, spingersi anche laddove sono venute a cessare le condizioni climatiche 
che ne hanno permesso e ne mantengono la costituzione nella zona superiore da cui 
discende, così, a più forte ragione, il rivestimento vegetale, che sta in rapporto con 
un numero ben più grande di fattori ecologici (l’azione dei quali, considerati su 
di uno spazio ristretto, può anche sostituirsi e compensarsi in modo da fornire in 
modo assai diverso alla vita vegetale la quantità necessaria e sufficiente di luce, 
di umidità, di calore, di nutrimento), può variare grandemente, anche su di uno spazio 
molto ristretto. anche sotto condizioni generali di clima relativamente contrarie; e 
come il concetto di periodi glaciale, xerotermico, silvatico, debba essere inteso con 
molta discrezione, considerando ciascuno di essi come un periodo in cui, pur essendo 
probabilmente presenti nella regione tutti gli elementi floristici, tutte le formazioni 
vegetali che vi si riseontrano attualmente, è variata rispettivamente l'estensione degli 


(1) Pescx A., Versuch einer Klimaklassification auf physiogeographischer Grundlage, “ Sitzber. d. 
kòn. Preuss. Ak. der Wiss. Phys.-Math. Classe ,, 1910, XIL 

(2) De Marcri L., Nuove teorie sulle cause dell’Epoca glaciale (con riferimento ai lavori precedenti 
dell'A. sullo stesso argomento), © Atti della Soc. Italiana pel progresso delle Scienze ,, IV Riunione, 
Napoli, Dicembre 1910, pag. 217 e seg. 


47 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 433 


uni, la diffusione degli altri, mutandone corrispondentemente piuttosto la fisonomia 
vegetale che la flora. 

Per quanto riguarda la regione a sud delle Alpi ed in parte anche il loro pendìo 
meridionale, esposto a solatìo e scoperto dalle formazioni glaciali almeno sino a 
1300 m.s/m, ad eccezione ben inteso delle fronti di ghiacciai, non può quindi valere 
in senso assoluto l'affermazione del Briquet (1), non interessare alla storia della 
vegetazione attuale tutto il tempo anteriore al ritiro dell'ultima grande espansione 
glaciale, la Wurmiana. Il Briquet stesso, in un lavoro posteriore ha riconosciuto 
come la foresta, coll’intermezzo di una zona di vegetazione di tundra, si sia man- 
tenuta a S. ed all’esterno dell’inlandsis alpino durante tutto il periodo glaciale. 
Questa vasta formazione silvana, nella quale anche attualmente noi riconosciamo, 
come dissi, le traccie di lacune, occupate da paludi, da sabbioni, da gerbidi, e del 
resto parecchie associazioni arboree di tipo ed esigenze ecologiche assai diverse, non 
può non aver subito, in rapporto colle variazioni climatiche, alternanze comples- 
sive di espansione e di ritiro seguendo l’avanzata e la ritirata delle fronti dei ghiacciai, 
senza però scomparire mai completamente; e, nella sua compagine stessa, variazioni 
nella estensione reciproca delle associazioni di cui consta, con corrispondente facili- 
tazione nella migrazione attraverso tutta la regione delle specie proprie alle asso- 
ciazioni predominanti. In una recensione del libro del Penck anche il Biasutti (2) 
ha affermato la contemporanea esistenza, durante il periodo glaciale, di tutte le for- 
mazioni vegetali che noi vediamo figurare con rapporti differenti di estensione e 
d'importanza a seconda del tipo climatico prevalente. Il suo concetto però, dell’al- 
ternarsi della posizione entroalpina ed estraalpina per la vegetazione boschiva, a 
seconda dell’estendersi rispettivo della tundra o della steppa, non vale, secondo me, 
in senso assoluto. Anche laddove, infatti, per deficienza nei due fattori, calore od 
umidità, viene a mancare la costituzione di associazioni arboree, la vegetazione in 
rapporto diretto coi corsi d’acqua permanenti, mantiene il tipo igrofita legnoso e 
l’attività vegetativa continua. A sud delle Alpi, quindi, e specialmente nella pianura 
padana, la vegetazione di tundra periglaciale, la vegetazione di steppa delle aree 
sottratte all’azione diretta della falda acquea, e quella boschiva, nei facies differenti 
delle sue associazioni xerofile ed igrofile, può benissimo aver coesistito, come coesiste 
ora, anche durante il periodo glaciale e le fasi interglaciali, assumendo tuttavia cia- 


(1) Cfr. Briquer Jonn, Le développement des Flores dans les Alpes Occidentales avec apergu sur 
les Alpes en général (° Rés. scientif. du Congr. Intern. de Botanique ,. Vienne, 1905; Jena, 1906, 
pp. 130-173). — In., Les réimmigrations postglaciaires des Flores en Suisse (@ Actes de la Société Hel- 
vétique des Sciences Naturelles ,, 90° Session, 28. 31. vir. 1907, vol. I, Conférences et Procès Verbaux 
des Séances). 

(2) Brasurri R., Glaciali ed interglaciali nel quaternario europeo (“ Arch. per l’Antropologia e 
l’Etnologia ,, vol. XXXVII, Firenze, 1906), pp. 204-206. L'intera oscillazione climatica fra una gla- 
ciazione e la successiva, viene ad essere così composta nella regione circumalpina: clima europeo- 
nord-orientale-subartico, poi europeo-occidentale-oceanico, poi europeo-suborientale-continentale ed 
infine di nuovo subartico; ai quali termini corrispondono dal punto di vista della vegetazione i 
termini tundra, foresta, steppa e di nuovo tundra. L’A. crede tuttavia che essi non debbano essere 
presi in senso assoluto e che depositi di foresta, a parte considerazioni d’indole paleontologica o 
stratigrafica, possano a rigore coincidere colle altre due fasi di tundra e di steppa. 


Serre II. Tom. LXII. E? 


434 GIOVANNI NEGRI 48 


scuna formazione una estensione diversa e mutando, pel variare delle interferenze 
fra associazioni ed associazioni, il loro aspetto e l'aspetto generale della regione. 
Questo modo d'intendere la reazione della vegetazione alle condizioni assai mutevoli 
del clima durante e dopo il quaternario, oltre al tener conto dei dati delle osser- 
vazioni recenti, permette di coordinare anche le osservazioni degli autori che si sono 
occupati di questo argomento. in accordo con quanto giustamente osserva il Brockmann- 
Jerosch, che cioè mentre ì giacimenti geologici non valgono che ad orientarci sul 
modo col quale si sono svolte le variazioni climatiche, la loro natura, il loro carat- 
tere, non ci vengono svelati che da documenti biologici. 

Dalla teoria più antica di Kerner, Nehring, Briquet dei periodi xerotermico e 
silvatico, alle molteplici fasi d’invasione e di ritirata delle specie appartenenti aî 
cinque gruppi da lui descritti ammesse dallo Schulz, alla concezione forse iroppo 
semplicista del Brockmann, pel quale, dal quaternario in poi, non è avvenuta altra 
mutazione climatica che quella da un clima prettamente oceanico ad uno di tipo inter- 
medio fra l’oceanico ed il continentale, tutte le idee che possiamo formarci sui rap- 
porti fra la vegetazione ed i climi di cui essa è l'esponente, debbono partire dal concetto 
fondamentale della inassimilabilità del clima stazionale col clima generale. Le nostre 
osservazioni, tanto su materiale vivente che su materiale fossile, riposando sempre su 
dei relitti, prima di trarre qualunque conclusione, dobbiamo aver presente quanto fre- 
quenti nella vegetazione attuale sieno i contrasti in piccolo, dovuti. come già ho 
accennato, tanto alla natura strettamente locale delle condizioni ecologiche usufruite 
o subite dalla pianta. quanto all’azione vicariante che i vari elementi dell'ambiente 


esercitano per procurare al vegetale la quantità di energia che occorre allo svolgi- 


mento delle sue attività vitali, e che fino ad un certo punto, è indifferente gli per- 
venga pel funzionare di questo o di quel meccanismo dell'ambiente esterno. Così, per 
quanto riguarda i numerosi lavori dello Schulz (1), pare a me, giudicando dalle specie 
addotte da lui come esempio dei vari gruppi proposti, e delle quali l'A. studia con 
tanta diligenza la distribuzione attuale, che tali gruppi, se possono essere ecologi- 
camente giustificati, non corrispondano però, da un punto di vista fitogeografico 
generale, ai tipi che gli altri autori hanno chiamati xerotermici o silvatici, eurasici, 
pontici, o mediterranei: piante di tipo continentale o piante riferibili invece ad un 
gruppo oceanico del quale, dopo che l’importanza ne è stata segnalata dal Nageli (2), 


(1) Scavtz A., Das Klima Deutschlanas wahrend der seit dem Beginne der Entiwicklung der Gegen- 
wirtigen Phanerogamen Flora und Pflanzendecke Dewischianas verfiossene Zeit (“ Leitschr. der Deutschen 
Geologischen Gesellschafi ,, Bd. 62, Jahrg. 1910, Heft 2). Cfr. anche, fra i numerosi ed estesì lavori 
nei quali l'A. con molto spirito polemico ha sostenuio le sue idee, per quanio riguarda il metodo: 
Ueber die Eniwicklungsgeschichte der gegenwariigen phanerogamen Flore und Pflanzendecke der nora- 
deuischen Tieflandes, in © Ber. der Deut. Botan. Gesellsch. ,, Bd. 25 (1907), S. 515 e 536 e seg.; e per 
la discussione, dal suo punto di vista, delle idee di Briquei: Ueber Briqueis zercihermische Periode, 
“ Ber. der Deut. Bot. Gesell. ,, Bd 22, 25 e 26 a, anni 1904, 1907 e 1908. 

(2) Cfr. Nazext1 0., Ueber oesiliche Florenelemente in der Nordosischiceiz (“ Berichte der schwei- 
zerischen Botanischen Gesellschaft ,, Heft XV, Bern, 1905, pp. 14-25). Questo elemento è, nella fiora 
dell’Italia settentrionale, assai diffuso e comprende, appunto come l’elemento orientale, specie xerofite 
e specie mesofite (cfr. rispettiv. sp. pontiche e sp. pannoniche); esso meriterebbe uno siudio a sè, che 
non sarebbe senza interesse per determinare la genesi della nostra fiora. Intanto nella fiorula det 
bosco Lucedio possono considerarsi come occidentali: Alopecurus praiensis, Fesiuca capillata, Carex 


49 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 435 


i fitogeografi cominciano ad interessarsi: elementi infine più propriamente termofili, 
che, molto opportunamente, dopo le ricerche dell’Hegi (1), del Gradmann, del Beck 
e di altri si vogliono ora generalmente distinguere dagli elementi puramente xerofili, 
quantunque anche negli ultimi lavori il Briquet tratti tuttavia la vegetazione termo- 
xerofila come un tutto unico. Mi sembra perciò, malgrado l'opinione espressa ripetuta- . 
mente in contrario dall'egregio Autore, che alle categorie dello Schulz si debba asse- 
gnare piuttosto un valore biologico che un valore fitotopografico, che esse, anzichè 
gruppi ben caratterizzati ed assumenti fra di loro le relazioni molto varie da lui 
descritte pel continuo migrare in rapporto colle variazioni climatiche, rappresentino 
piuttosto la popolazione vegetale di aree ecologicamente ben caratterizzate, tendenti 
come tutta la flora ad espandersi con una attività che non è uguale per tutte le specie 
e che dovette variare molto sensibilmente, è vero, a seconda delle vicende dei climi 
postquaternari, delle quali l’estendersi ed il ritrarsi dei ghiacciai possono considerarsi 
l'indice e fino ad un certo punto la misura. È certamente un grande merito dello 
Schulz quello dell’avere, con una copia imponente di osservazioni e con una vasta 
dottrina perfettamente al corrente di tutti i risultati della moderna glaciologia, 
mostrato quanto vario e complicato sia stato questo movimento, quanto continua Vin- 
terferenza delle singole formazioni, quanto instabile l’equilibrio della nostra flora. 
Ma, secondo me, alle sue conclusioni sulla successione delle vegetazioni, dal quater- 
nario ai nostri giorni, non può essere data l’estensione che è nella opinione dell’Autore. 

Meno accettabili mi sembrano le conclusioni del Brockmann (2). Anche recente- 
mente infatti, per limitarci alle regioni che ci interessano direttamente, il Taramelli 
ha seritto che (3) “ uno dei migliori risultati della lodata opera dei signori Penck e 
Briickner è certamente quello di avere dimostrato come il ritiro dei ghiacciai alpini 
sia avvenuto per gradi, almeno con tre stadi di fermata, che furono anzi tentativi di 
avanzamento ,, e più oltre che “ dagli studi di Andersson sulla flora delle torbiere 
postglaciali dell'Alta Italia, risulta che in esse si ravvisano le prove di due climi 
preistorici. uno ancora rigido conseguente all’ultima glaciazione — (clima del Pinus 


pilosa, Luzula nivea, Narcissus poeticus, Quercus pubescens (mediterr. occ.), Hypericum humifusum, 
Rosa arvensis, Cytisus sessilifolius, C. capitatus, Trifolium patens, Lathyrus montanus, Primula acaulis, 
Coronilla Emerus, Geranium nodosum, Scrofularia canina, ecc. 

(i) Heer G., Mediterrane Einstrahlungen in Bayern (° Verandl. der Botan. Vereins der Provinz 
Brandenburg ,, Bd. XLVI (1904), pp. 1-60. — Grapmanx R., Das Pflanzenleben der Schwabischen Alb, 
2° Aufl., Tiibingen, 1900. — Beck von Manmacerra (G.) und LercuenAau G., Vegetationsstudien in 
der Ostalpen, 1 e Il (“ Sitzungsber. der Math. Naturwissensch. Ak. der K. Ak. d. Wissenschaften ,, 
Bd. CXV-CXVI, 1907-1908). 

(2) Cfr. l’utilissima inchiesta: Die Verhanderungen des Klimas seit dem Maximum der letzen Eiszeit. 
Eine Sammlung von Berichten herausgegeben von dem Esecutivkomitee des 11. Internationalen 
Geologen-Kongresses. Stockholm, 1910, colla memoria di H. Brocxmanw-Jerosca, Die Anderungen des 
Klimas seit der letzten Vergleischerung in der Schweiz. Inoltre dello stesso Autore: Neue Fossilfunde 
aus dem Quartar im deren Bedeutung fiùr die Auffassung des Wesens der Eiszeit; e Das Alter des 
schwcizerischen diluvialen Lòsser; entrambi in “ Vierteljahrsschrift der Naturforschenden Gesellschaft 
in Ziirich ,, Jahrg. 54, 1909; nonchè: H. und M. Brockmanxn-Jerosca, Die naturlichen Walder der - 
Schweiz, © Ber. der Schweizerischen Botan. Gesellsch. ,, Jahrg. 1910. — Neuweicer È., Untersuchungen 
ziber die Verbreitung prihistorischer Holzer in der Schweiz, “Vierteljahrschrift, ecc. ,,1. cit.,Jahrg.55,1910. 

(3) Taraxerti T., L'epoca glaciale in Italia (IV. Riunione della Società Italiana per l'avanzamento 
delle Scienze). Napoli, dicembre 1910. 


436 GIOVANNI NEGRI 5 


silvestris), l’altro probabilmente alquanto più temperato dell’attuale — (clima della Quercus 
pedunculata) in corrispondenza dell’epoca delle palafitte. D'altra parte le frammenta- 
zione o l’estrema contrazione delle aree di molte specie della nostra vegetazione sub- 
alpina non può essere spiegata che come una riduzione in aree ristrette e partico- 
larmente favorevoli, nel corso di una alterazione del clima abbastanza accentuata per 
rendere loro inabitabili le stazioni che collegarono precedentemente gli haditat attuali; 
senza la presenza delle quali poi, non è possibile spiegarne l’ubicazione attuale, neppure 
ricorrendo al trasporto da parte dell’uomo, del quale mezzo di disseminazione, un 
tempo troppo poco curato, mi sembra si faccia oggi un abuso ingiustificabile. Così io 
non posso consentire col Penck (1) e col Brockmann nelle applicazioni, troppo estese, 
che, secondo me, essi fanno di questa agenzia. L’isolamento di molte specie nelle nostre 
valli subalpine e di qualcuna nella pianura padana è bensì un dato di fatto, ma 
lo è altrettanto la loro inadattabilità ad uno dei tanti mezzi di trasporto antropico, 
o l'impossibilità che questi siano stati messi in opera, o, dato che ciò fosse avve- 
nuto, che il loro effetto non sia stato una diffusione più efficace, a tante stazioni 
similmente adattate. Una certa contraddizione di termini sembra intercedere fra il 
rilievo nelle nostre torbiere delle due sole alternanze accennate di clima rigido 
e di clima un po’ più caldo dell’attuale, ed il fatto che anche nei nostri paesi la 
esistenza di almeno tre avanzate postglaciali dei ghiacciai alpini (le fasi di BuAf, 
di Gschnitz e di Daun) ha finito coll’essere accettata. Come anche recentemente ha 
scritto il De Marchi, avanzata dei ghiacciai equivale ad abbassamento della tempe- 
ratura, specialmente della media estiva, ed, almeno nelle nostre regioni non molto 
lontane dai mari, anche ad una maggior nuvolosità e piovosità: le oscillazioni attuali 
dei ghiacciai rispondendo, con ritardo, a periodi freddo-umidi che ne determinano 
l'avanzamento, alternati a periodi caldo-asciutti che ne determinano i ritiri. Non vi è 
ragione che altrimenti — ed in scala maggiore — non sia avvenuto durante le gla- 
ciazioni quaternarie. Sempre limitandoci alle condizioni che si verificano nella nostra 
regione — che, ripeto, fu regione marginale delle grandi espansioni glaciali —, e ram- 
mentando il rapporto che intercede fra un clima piovoso e la costituzione di asso- 
ciazioni forestali, fra un clima a stagioni asciutte e l’espansione della vegetazione 
erbacea xerofila, possiamo dunque, senza staccarci dai dati della fisiologia e dell’osserva- 
zione attuale, ritenere che, agli accennati fenomeni glaciologici e climatici, sia andata 
congiunta, come una contingenza necessaria, anche la variazione già accennata nella 
estensione rispettiva delle formazioni di xerofite e mesofite. Nel caso di una pianura 
alluvionale come la valle del Po, come causale di queste variazioni deve essere entrato 
in gioco anche l’innalzarsi e l’abbassarsi della falda acquea sotterranea per rispetto 
alla superficie del suolo ed il dilatarsi ed il restringersi degli acquitrini, fenomeni ca- 
paci, come s'è visto; di influenzare alla lor volta il clima locale delle stazioni con essi 
direttamente in rapporto. Io non so come di fronte a variazioni nella vegetazione che 
debbono essere state abbastanza grandiose per spiegare tutti i fenomeni attuali di distri- 
buzione delle specie isolate e che, come ho detto già, debbono avere necessariamente 
mutata la fisonomia vegetale della regione se non la sua flora, si possa parlare di una 


(1) Pexcx A. u. Briicener E., Die Alpen im Eiszeitalter. Leipzig, 1909, vol. III, p. 822. 


51 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 437 
transizione graduale e senza alternanza di climi. Il Biasutti (1) anzi osserva acconcia- 
mente che le tre fasi di avanzata postquaternarie dei ghiacciai, ci informano proba- 
bilmente del modo tenuto nel ridursi da tutte le glaciazioni, anche cioè dalle pre- 
cedenti alla Wurmiana; e l’ammettersi la ripetizione del fenomeno in tutte le sue 
modalità, ha un valore speciale nel caso della pianura a Sud delle Alpi, nella quale 
noi sappiamo che le conseguenze sulla vegetazione di ciascuna glaciazione e della 
fase interglaciale seguente, non sono state che parzialmente abolite dalla variazione 
climatica che ha determinata la glaciazione successiva. In questo senso deve essere 
intesa anche la distinzione fra la data d’immigrazione delle piante pontiche sempli- 
cemente xerofite e quella delle piante mediterranee spesso pure xerofite, ma sempre 
presentanti un carattere termofilo. Non c'è infatti ragione di pensare che l’immi- 
grazione interglaciale sia stata limitata alle specie della prima categoria; soltanto 
esse, grazie alla loro maggiore adattabilità a climi rigidi, hanno potuto attraversare 
il periodo della glaciazione o delle glaciazioni successive nelle stazioni rimaste sco- 
perte e, per la natura del loro terreno e per la loro esposizione, asciutte, mentre le 
piante mediterranee vere e proprie perivano, cosicchè quelle che incontriamo attual- 
mente sono tutte d’immigrazione posteriore alla fine del quaternario e la loro even- 
tuale disgiunzione d'area è dovuta alle alternanze di clima postglaciali. Questo vale 
bene inteso per le prealpi, ed a più forte ragione per le alluvioni padane; non certo 
per gli inclusi terziari nella pianura, per esempio per le colline monferrine, sulle 
quali non c'è ragione di credere che le glaciazioni abbiano potuto abolire del tutto 
l'elemento mediterraneo termofilo (2). 

Quale valore conserva d’altra parte il concetto più antico del periodo xerotermico 
e silvatico unici e con caratteri ben distinti, posteriori al periodo glaciale? Da quanto 
ho detto risulta che questa limitazione esclusiva al tempo postwurmiano non può 
valere per le nostre regioni, come non potrebbe valere l’assegnamento delle piante ter- 
moxerofile unicamente ad immigrazioni interglaciali. Tuttavia, quantunque l’ unicità 
delle fasi rispettivamente caldo-asciutta e umida postglaciale, neppure dal punto di vista 
della glaciologia e della climatologia, possa essere ammessa; dal punto di vista botanico 
può essere utile lo studio complessivo dell’elemento corrispondente, specialmente quando 
l'elemento xerofilo venga distinto da quello termoxerofilo; ed anche fino ad un certo 
punto giustificato, in quanto l'estensione assai differente dei vari ghiacciai e la durata 
assai diversa del loro ritiro dopo il massimo avanzamento, deve aver reso in qualche 
caso poco distinto il trapasso da un.tipo floristico all’altro e comunque non sincrono 
anche in regioni non molto distanti fra di loro. Questo criterio, in ogni caso pratico, 
nella trattazione dei singoli elementi floristici che compongono la nostra vegetazione 
è del resto ammesso anche dal Briquet (3) e mi pare tanto più legittimo in quanto 
le considerazioni precedentemente svolte ci mostrano con quale discrezione debbano 
essere accettate le distinzioni troppo minute sulla distribuzione topografica delle 
singole specie. Distinzioni sulle quali appunto lo Schulz mi sembra essersi trattenuto 
con più dottrina che fortuna. 


(1) Brasurri R., Glaciali ed interglaciati ecc., loc. cit., pag. 204. 
(2) Neri G., La vegetazione della collina di Crea, loc. cit., p. 22 (208) e seg. 
(3) Briquer J., Le développement des Flores, ecc., loc. cit., p. 173. 


438 GIOVANNI NEGRI 52 


11. Il Penck (1), dalla considerazione del complesso delle specie vegetali rico- 
nosciute nei depositi interglaciali del versante meridionale delle Alpi. deduce che vi 
regnasse, durante le fasi interglaciali, quale associazione caratteristica. un bosco 
di quercia corrispondente a quello che è tuttavia dominante nella regione balcanica. 
Osserva poi il Korzchinsky (2) che, data l'estensione nell'Europa occidentale della 
steppa diluviale, Ja prima specie che vi potesse prosperare era la quercia, capace di 
costituirsi dapprima in vegetazione cespugliosa, poi di svilupparvisi in associazioni 
boschive rivestenti tutto il territorio. I risultati degli studi più recenti — e F'ae- 
cennato studio delle torbiere dell'alta Italia, mostra come le conclusioni debbano 
essere per noi analoghe — non hanno affatto contraddetto questo modo di vedere. 
Alla vegetazione di Pinus silrestris accompagnante il grande sviluppo dei ghiacciai 
all’esterno della loro zona periferica, ridotta ad una vegetazione di tundra, succede, 
per l'evoluzione del clima verso un tipo più continentale, il diradamento della vegeta- 
zione boschiva ed, in caso estremo, la sua riduzione in prossimità delle scarse raccolte 
di acque superficiali stagnanti o correnti e sulle alluvioni a falda acquea sotterranea 
non molto profonda. Il ritorno ad un clima. bensì sensibilmente più caldo, ma ad 
umidità più elevata con notevoli differenze climatiche stagionali, è segnato dalla ri- 
presa della vegetazione boscosa rappresentata questa volta dalla quercia, senza esclu- 
sione tuttavia del Pinus (3) ‘del quale è nota la forte tolleranza ecologica; è a questo 


(1) Paxcx A. u. Bricsssz E., Die Alpen, ecc. Le., p.822-23. 

(2) Koazcamssr S.. Ueber die Enisichung und das Schicksal der Eichenwalder im mitileren Russland 
(° Englerî:s Jahrb. ,, eic., Bd. XII (1891), pp. 471-485). 

(3) Del resto, anche laddove il Pinus silresiris è scomparso, sono rimaste a partecipare all’as- 
sociazione della Quercia, come elementi di notevole frequenza. parecchie delle sue specie accom- 
pagnatrici. Cito nel caso del Bosco Lucedio, contrassegnando con * le specie per le quali il rapporto 
è più chiaro: IJuniperus communis”, Poa praiensis, Festuca ovina, Majanthemum bifolium, Populus ire- 
mula. Beiula alba”, Gypsophyla muralis*, Dianthus Carihusianorum*, Helianthemum Chamaecysius 
var. culgare”, Spiraca Filipendula*. Euphorbia Cyparissias”, Calluna vulgaris’, Veronica spicata”, 
Thymus Serpyllum, Scabiosa Columbaria*, Campanula glomerata”, Solidago Virga aurea, Carlina vul- 
garis*, Hieracium umbellatum (cfr. Sròcx F., Begleitpflanzen der Kiefer in Norddeutschland, © Ber. d. 
deutsch. Bot. Gesellsch. ,, Bd. XI, Berlin, 1893, pp. 242-248; Grxsx, Ferzeichniss der in Witim- 
Olenkma-Lande, von dem Heron G. S. Polrakow und Baron G. Maydell gesammelie Pfianzen). È note- 
role come questa specie e le congeneri, che s'incontrano in altre simili stazioni della pianura 
padana, o che si accompagnano ancora al Pino dove questo s'è conservato od è stato ripiantato, 
prendano larga parte alla costituzione delle brughiere, le quali hanno del resto quale specie domi- 
nante, nell’alta pianura del Po, la Calluna. È pure interessante di rilevare come esse presentino 


fra di loro affinità tanto edafiche che climatiche, essendo per una parte quasi esclusivamente gelicole, 


per l’altra sia termofughe, sia tolleranti di grandi variazioni termiche; condizioni che fanno pensare —. 
che esse, unitamente al Pinus silresiris abbiano potuto sostituire la prima vegetazione di bosco e 
sottobosco periglaciale. Sull’alto grado di dilavamento dei terreni in diretto rapporto con espansioni 
glaciali in atto o di poco precesse, è infatti inutile insistere. Quanio al clima, malgrado le discus- 
sioni tuttora vive sulle condizioni termiche del quaternario, e la probabilità che tali condizioni 
rappresentassero in genere piuttosto un’accentuazione del tipo elimatieo oceanico, che un abbassa- 
mento molto pronunciato della media termica, è innegabile il fatto che in prossimità delle fronti 
glaciali, esse dorerano essere assai ingrate: “ inverni non molto rigidi, ma estati assai fredde, in 
media una temperatura molto bassa, nebbie frequenti, pioggie e nevi abbondanti, frequenti bufere , 
(cîr. Da Marcar L., Le cause dell'epoca glaciale, Pavia, 1895). Anche il Lozisssi (Ueber die mechanische 
Verrcitterung der Sandsterne in gemassigien Klima, “ Bull. de l'Ac. des Sciences de Cracovie ,, CL Math. 
et Sc. nat., Janvier 1909) dalla decomposizione intensa delle roccie, rilevata in prossimità delle 
regioni già rivestite di grandi massi ghiacciati, deduce che yi regnasse nel plistocene un clima 


53 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 439 


punto che avviene la costituzione del querceto di tipo balcanico, mesofito bensì, ma 
con caratteri di xerofilia abbastanza salienti. Una ulteriore evoluzione è poi avve- 
nuta in tutta la zona silvatica dell'Europa; la sostituzione cioè delle essenze sciafile 
alla quercia, i rigetti della quale non possono reggere alla concorrenza di quelle, 
per es., del faggio, nell'ambiente poco illuminato del sottobosco. Così, senza giungere 
alla distruzione completa delle foreste di querce, che sono rimaste a rappresentare 
la vegetazione boscosa xerofila, il predominio nelle regioni temperate fredde è stato 
assunto dal faggio e dall’abete. 

Le regioni periferiche all’area interessata dalla grande invasione glaciale non 
hanno compiuto completamente quest'ultima evoluzione, ma se ne trovano in esse gli 
accenni, rappresentati dall'invasione più o meno frequente e pronunciata di elementi 
termofughi, eterogenei alla associazione della quercia od in qualche luogo del castagno 
che l’ha sostituita. Basta scorrere, per convincersi di ciò, gli elenchi della vegeta- 
zione dei querceti della regione balcanica, quali ci sono dati dalle recenti opere d’as- 
sieme del Beck e dell’Adamowich (1). Pure interessante è uno studio pubblicato dal 
Bernatsky (2) sulla vegetazione arborea della pianura ungherese, nel quale egli mostra 
come il clima ed i residui della vegetazione naturale non vi corrispondano affatto al 
tipo steppico comunemente ammesso dai fitogeografi. Nel caso speciale anzi, gli elenchi 


molto rigido, che indica anzi come clima periglaciale. Sino a che distanza dalle calotte di ghiaccio 
sì stendesse l’azione di questo clima, non è possibile dire in generale, perchè essa probabilmente 
variò molto in funzione delle più diverse circostanze locali. Certo si è che l’Anpersson (Beitrége 
zur Kenniniss des Spùtquartiren Klima Norditaliens, in Die Vervanderung des Klimas seit dem 
Maximum der letzen Eiszeit ete., op. cit., pp. 92-98) dall'esame delle torbiere della pianura padana, 
nelle quali ho messo in evidenza, come ho già detto, la costante presenza di un orizzonte a Pinus 
silvestris, anteriore a quello della Quercia, è giunto alla conclusione che vi dominasse un clima 
caratterizzato da una media estiva non superiore ai 13°-15° C.: ricordo però a questo proposito 
quanto ho detto sul valore strettamente stazionale da darsi ai dati climatici in rapporto colla com- 
posizione della vegetazione. Le osservazioni dello stesso A. portandolo a discutere pel nostro paese 
anche la dibattuta questione della successione o della contemporaneità della Betulla e del Pino, 
lo inducono a concludere che i ghiacciai quaternari, al margine meridionale della regione dei laghi 
insubrici, fossero circondati da una zona di boschi, verosimilmente costituiti, nella porzione più pros- 
sima ai ghiacciai, di sole betulle, però all’esterno certamente frammiste ad una forte proporzione 
di pini. Il fatto che la betulla è diffusa nella nostra brughiera padana (cfr. Appendice, 2°) e che 
si spinge nella pianura sino all'isola diluviale del Montarolo, associata tutt'ora ad un certo numero 
di elementi della vegetazione del pino, mi sembra fornire un argomento fitogeografico per ammet- 
tere l’associazione di queste due essenze nelle formazioni boscose immediatamente periglaciali. 
Quello della ricchezza della brughiera in elementi residui della stessa formazione depone per stretti 
rapporti fra di esse; mentre ricordo d’aver accennato all’impressione che mi fa la brughiera boschita 
a quercia della compenetrazione di due associazioni distinte, piuttosto che di una associazione 
unica. Nel Montarolo gli elementi stessi permangono piuttosto come residui, che come una vera 
formazione di brughiera, sebbene il Pinus non vi sì trovi più, nè si conservi memoria di individui 
relitti. Infine la giustificazione ecologica dell’essersi mantenute nella flora del bosco Lucedio le 
specie xerofile della vegetazione del Pinus silvestris è la stessa che per altri tipi xerofili viene data 
più avanti (pag. 56, cfr. testo e nota). 

(1) Exerer A. u. Drupe 0., Die Vegetation der Erde. IV. Die Vegetationsverhiltnisse der illyrischen 
Linder, von dr. G. Becx von Maxxacetta, Leipzig, 1901, p. 223 e seg.; XI. Die Vegetations verhiilt- 
nisse der Balkanlinder, v. dr. L. Apamovica, Leipzig, 1909, p. 253 e seg. 

(2) Berwamsxy J., Ueber die Baumvegetation der ungarischen Tieflandes (Festschrift zur Feier des 
siebzehnten Geburtstages des Herrn Professor Dr. Patr Asczerson. Leipzig, 1904, pp. 73-86). 


440 GIOVANNI NEGRI 54 


di piante da lui riportati come caratteristici, mostrano appunto quella miscela di 
elementi orientali subxerofili e di elementi silvatici che distingue anche il facies 
del bosco Lucedio da quello della stessa brughiera tipica della pianura padana. Per 
quanto l'alterazione profonda dovuta all’azione umana permette di rilevarlo, questo 
consorzio lascia l'impressione di una formazione veramente spontanea, di un accenno, 
nella lotta continua delle associazioni vegetali, al predominio di elementi testimoni 
di un clima pregresso, meno continentale e più umido. 

Infatti, senza diffondermi qui su di una questione che mi propongo di svolgere 
separatamente, io ritengo che di una diffusione postglaciale del faggio possa parlarsi 
anche nei nostri paesi. Lo provano la presenza scarsa bensì, ma ormai indiscutibile, 
dei suoi avanzi nello strato superiore delle torbiere; la frequenza di esemplari spo- 
radici di questa specie in stazioni assai più basse sul livello del mare del suo nor- 
male limite inferiore di distribuzione: qualche dato toponomastico e storico accen- 
nante alla presenza di faggete nella pianura del Po: l’abbassarsi della vegetazione 
del faggio nelle regioni, come il Friuli, ad alta piovosità e clima spiccatamente ocea- 
nico: infine, l’accennata invasione delle formazioni di mesofite sciafile della pianura 
e dei suoi inclusi da parte di elementi della florula accompagnante normalmente il 
faggio. L’Hock ha accennato alla affinità delle due florule di sottobosco del faggio e 
dell’ontano ed ai loro continui scambi; io ho, per conto mio, rilevata l’esistenza della 
florula concomitante al faggio sulla parte più alta della collina torinese dove il 
faggio ha esistito e s'incontra ancora sporadicamente (1). Pel bosco di Trino è notevole 
come questo elemento sia riccamente rappresentato. Attenendomi ai dati del citato 
Autore, così competente in materia, elenco qui le specie del bosco di Trino carat- 
teristiche della vegetazione del faggio e dell’ontano, segnando con * quelle che più 
esclusivamente si possono dir proprie delle faggete: Nephrodium Filix mas., Asplenium 
Filix foemina, Pteris aquilina, Equisetum maximum, Melica uniflora*, M. nutans, Dactylis 
glomerata, Poa nemoralis, Festuca heterophylla, Brachypodium sylvaticum, B. pinnatum, 
Carex muricata, C. brizoides, C. montana, ©. pallescens, C. sylvatica, Luzula pilosa, 
Majanthemum bifolium, Convallaria majalis, Polygonatum multiflorum, Platanthera 
bifolia, Cephalanthera ensifolia*, Carpinus Betulus*, Asarum europaeum*, Moehringia 
trinervia, Stellaria holostea*, Silene nutans, Hypericum montanum*, Alliaria officinalis, 
Cardamine amara, C. impatiens, Dentaria bulbifera*, Anemone Hepatica*, A. nemorosa, 
R. Ficaria*, R. nemorosus, Pyrus torminalis*, Genista tinetoria, Astragalus glycyphyllus, 
Vicia saepium, Lathyrus niger, L. montanum, L. vernus*, Trifolium medium, Circaea 
lutetiana, Hedera Helix*, T'ilia cordata*, Polygala vulgaris, Euphorbia dulcis, Vinca minor, 
Pulmonaria officinalis, Myosotis silvatica, Scrophularia nodosa, Digitalis ambigua, Melam- 
pyrum nemorosum, Ajuga reptans, Melittis melissophyllum, Lamium maculatum, L. Ga- 
leobdolon, Stachys silvatica, Satureia Clinopodium, Sambucus niger. Viburnum Opulus, 
Galium silvaticum*, Gnaphalium silvaticum, Campanula Trachelium, Lapsana communis, 
Hieracium boreale. Fino ad un certo punto la definizione di questa espansione forestale 


(1) Hoòcx F., Brandenburger Buchenbegleiter ($ Verhandl. des Botan. Vereins der Provinz Bran- 
denburg , (1894), XXXVI Jahrg., p.7 e seg... — In., Studien uber die geographische Verbreitung der 
Waldpfianzen Brandenburgs (ibid., XXXVII-XLIV (1893-1902)). — Neri G., La vegetazione della col- 
lina di Torino, loc. cit., pag. 40 (152). È 


55 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 441 


mesoterma rientra nella terminologia del Briquet, che ne classifica gli evidenti relitti 
nel suo periodo silvatico postglaciale. Periodo che, come il periodo xerotermico, va 
però inteso colle riserve esposte più addietro circa la sua estensione e la continuità 
della sua formazione. Nella pianura padana, in particolare, è opportuna quest’avver- 
tenza perchè la condizione palustre postglaciale della sua formazione si è mantenuta, 
nella porzione più bassa e precisamente alluvionale sino ad epoca storica. Una tale con- 
dizione, contraria colla costituzione di estese associazioni steppiche, vi ha determinata 
la costante permanenza di quelle particolari associazioni forestali di sponda alle quali 
ho già accennato e che debbono essersi assai poco risentite delle mutazioni clima- 
tiche generali. Associazioni nelle quali un notevole contingente di piante montane, 
trasportate in basso dalle correnti in epoca postglaciale e mantenutesi nelle stazioni 
più fresche, può aver costituito una riserva di materiale microtermo d’invasione per 
le finitime associazioni degli altipiani diluviali ed averne a sua volta ricevuti scambi, 
dei quali bisogna sempre tener conto nell’apprezzamento del valore documentario di 
ipotetici relitti nella flora della regione. È invece sugli altipiani stessi, sottratte 
all’azione diretta delle falde acquee, che vengono ad affiorare soltanto al loro piede 
lungo la linea delle risorgive, che le variazioni climatiche debbono essersi fatte essen- 
zialmente sentire sulla vegetazione, nello stesso modo che particolarmente influenzati 
ne sono stati i pendii esterni e più salienti delle catene montane. Anche sugli alti- 
piani diluviali tuttavia io non credo alla scomparsa completa della vegetazione arborea 
durante le fasi steppiche, per la facilità colla quale anche oggigiorno vi si incontrano 
acquitrini e ruscelli circondati da folte macchie; nè ritengo d'altronde possibile la loro 
completa ed ininterrotta occupazione da parte delle associazioni forestali, data la diffi- 
cile disseminabilità della quercia e la difficoltà colla quale essa ripristina i tratti di 
associazione distrutti dagli agenti fisici o dall'uomo. Tutto ciò riesce a conferma del- 
l'opinione già espressa, che la reazione della vegetazione al clima debba essere stata 
rappresentata dalla dilatazione e dalla contrazione di associazioni complessivamente 
stabilite in modo permanente nel distretto in questione. Le traccie di questo fatto 
sarebbero più facilmente rilevabili qualora le culture non avessero ridotta la vegeta- 
zione originaria alle condizioni di frammentarietà surricordate. Chi segua, del resto, 
nei suoi vari stadi la costituzione di una fustaia di quercie, constaterà come la vege- 
tazione della brughiera nuda si mantenga nelle sue radure e la sostituisca automa- 
ticamente quando essa venga abbattuta, salvo a cederle nuovamente il passo se le 
condizioni ecologiche si mantengano tali da permettere la ricostruzione dell’associa- 
zione forestale. Ed anche sotto questo punto di vista appaiono notevoli le condizioni 
intermedie già rilevate pel bosco Lucedio, la vegetazione del quale, partecipando pure 
piuttosto dei caratteri di quella d’altipiano diluviale che di quella dei boschi di allu- 
vione, assume di questi ultimi la fisonomia lussureggiante, l’aspetto e gli adattamenti 
più spesso mesofili che xerofili e la frequenza di microterme sciafile: della quale anzi 
qualcuna è propriamente caratteristica e piuttosto palustre che boschiva, ricordando, 
colla sua presenza, l'osservazione già fatta dal Gortani (1) per la flora friulana, della 
tendenza eliofoba delle specie montane che discendono al piano (Agrostis canina, 
Deschampsia coespitosa, Caltha palustris, Cirsium palustre, Hieracium auriculariaeforme). 


(1) Gorrani L. e M., Flora Friulana, vol. I, p. 163 e seg. Udine, 1905. 
Serie II. Tox. LXII. F° 


442 GIOVANNI NEGRI 56 


D'altra parte nelle radure del bosco stesso, cioè fra le specie eliofile, non man- 
cano forme montane, quali noi siamo avvezzi a raccoglierne in stazioni in cui, se per 
la natura del suolo e le sue condizioni di recente costituzione e di scarsa irrigazione, 
l'escursione termica è certamente molto estesa, le condizioni meteoriche generali 
compensano in parte l'eccessiva continentalità del tipo climatico stazionale. Nell’uno 
come nell'altro caso le disposizioni xerofile di cui queste specie sono provvedute, 
testimoniano del loro avanzato adattamento alla instabilità dei fattori ambientali: 
mentre, nel caso speciale del Montarolo, il basso grado di - salinità del suolo, 
anche denudato della coltre di ferretto, ed il tenore elevato dell’umidità relativa, 
mantengono necessariamente in un limite modesto l’anastatismo della stazione. Delle 
specie riferite nell'elenco floristico precedente cito: Koeleria cristata, Asphodelus albus, 
Anthericum Liliago, Leucoium vernum, Narcissus poeticus, Gladiolus imbricatus, Sele- 
ranthus perennis, Dianthus Carthusianorum, D. Seguieri, Hypericum humifusum, H. mon- 
tanum, Cardamine impatiens, Epimedium alpinum, Potentilla alba, P. erecta, P. rupestris, 
Cytisus sessilifolius, C. hirsutus, CO. capitatus, Trifolium medium, Tr. rubens, Calluna 
vulgaris, Satureia Calamintha, Serratula tinctoria, Centaurea Scabiosa (1). 


12. La varietà nella composizione fioristica del bosco di Lucedio è, del resto, 
resa più evidente dalla presenza anche in esso, malgrado la natura e la posizione 
della stazione, di un certo contingente di elementi meridionali ed orientali. Dalla 
tabella precedentemente riportata estraggo le specie che mi sembrano appartenere 


(1) Queste specie sono considerate come termofughe, per rispetto alle condizioni elimatiche 
della pianura e quindi da un punto di vista puramente ecologico. Non dovrà quindi recar meraviglia 
il veder ricomparire il nome di parecchie di esse, negli elenchi dati più avanti di specie mediterranee 
ed orientali appartenenti alla fiorula del bosco Lucedio; in quel caso è il criterio geografico che viene 
preso a guida, indipendentemente dall’altitudine alla quale le forme citate prosperano. Sì comprende 
come nella invasione, durante il quaternario, del terreno nuovo rappresentato dalle alluvioni padane, 
l'elemento immigratore non potè essere dato che dalle regioni confinanti, almeno nella sua gran- 
dissima maggioranza; e che, fatta eccezione pel littorale adriatico, dalla flora assolutamente specialè 
e diffusibile verso l’interno quasi esclusivamente nelle stazioni sabbiose, tali regioni erano tutte 
montane — Alpi od Appennini — e quindi tali da fornire al piano specie migranti, solo in quanto 
le condizioni ecologiche speciali di questo, lo rendevano favorevole ad elementi propri di zone 
altitudinari più elevate. Limitandoci alle specie che solo eccezionalmente scendono al disotto 
della zona submontana e fatta eccezione per le ubiquiste, che nel nostro caso non hanno impor- 
tanza, e per le specie proprie delle stazioni rocciose o scoperte, sempre aride e soleggiate (alle 
esigenze delle quali il bassopiano risponde poco e male e fra cui del resto le specie xerofile citate 
sì possono considerare come una scelta, alla quale fu possibile occupare aree limitate del bosco 
Lucedio, per le condizioni ecologiche speciali in cui esso si trova), è legittimo il considerare queste 
specie complessivamente come elementi termofughi. In un caso simile ha giudicato analogamente 
anche il Beguinot. Nel suo studio sui colli Euganei egli ha considerato: “...come elementi di clima 
freddo, sia quelle specie la cui origine deve ricercarsi in regione nordiche e la cui massima attuale 
dispersione coincide appunto con questi territori, sia quelle che hanno un'evidente origine in paesi 
di clima caldo, ma che sono note come più comuni o più proprie di zone altitudinari elevate, che 
spesso servono a caratterizzare. La termofobia di queste specie è inoltre rivelata, sia dalla man- 
canza o rarità delle stesse, man mano che avanzano da distretti continentali a distretti littoranei, 
come dall’innalzamento della zona di vegetazione, procedendo da Nord a Sud , (Becuisor A., Saggio 
sulla flora e sulla fitogeografia dei Colli Euganei, È Mem. della Società Geografica italiana ,, vol. XI, 
p. 143, Roma, 1904). 


57 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 445 


più caratteristicamente a questi due gruppi, raccogliendole anch'io sotto i due nomi 
d’uso di mediterranee e pontiche (1). 

Possono essere considerate come mediterranee: Andropogon Ischaemum, Phleum 
tenue, Cynodon Dactylon, Muscari comosum, Asphodelus albus*, Tamus communis*, Aspa- 
ragus tenuifolius*, Quercus pubescens, Tunica Saxifraga, Dianthus Carthusianorum$, 
Genista tinctoria, Trifolium rubens*, Coronilla varia, C. Emerus (?), Peucedanum offici- 
nale, P. venetum, Gratiola officinalis, Melittis melissophyUum*, Satureia Nepeta, Mentha 
Pulegium, Dipsacus laciniatus, Doronicum pardalianches*, Achillea nobilis, Carthamus 
lanatus. 

Debbono invece considerarsi come tipi pontici: Digitaria filiformis, Phleum 
asperum, Carex brizoides, C. pilosa*, C. nitida, Anthericum liliago*, Aristolochia pallida, 
Gypsophila muralis, Tunica prolifera, Dianthus Armeria, Arabis glabra*, Epimedium 
alpinum*, Potentilla alba, P. collina, P. rupestris*, Genista germanica, Lathyrus vernus$, 
Laserpitium pruthenicum, Malva Alcea, Euphorbia verrucosa, Cynanchum Vincetoricum, 
Digitalis ambigua, Galeopsis pubescens, Salvia glutinosa, Lonicera Caprifolium, Inula 
salicina, Centaurea Scabiosa, Lactuca scariola. 

Una semplice scorsa a quest’elenco basta a mostrare come la natura stessa 
della stazione ha fatto sì che l’invasione di specie mediterranee e pontiche fosse 
limitata in numero ed anche per lo più ai tipi meno spiccatamente xerofili ed a 
forme montane ad esigenze termofile ridotte e spesso sciafile. Nondimeno non man- 
cano neppure i tipi propri di stazioni asciutte, localizzati nei punti in cui, non sol- 
tanto il rivestimento arboreo ed erbaceo si sono fatti discontinui, ma ciò è avvenuto 
per la lontananza della falda acquea, la facile ventilazione della superficie del suolo 
per la posizione saliente delle stazioni e la distruzione della coltre argillosa del fer- 
retto; punti nel Montarolo molto rari, come è facile comprendere, ma esempi tanto 
più significativi di costituzione di climi stazionati estremamente localizzati pel concorso 
di circostanze ecologiche contrastanti in piccolo dall'ambiente. Come ho già detto, queste 
piccole stazioni sono tappe di migrazione delle specie che vi si adattano, conservatori 
di materiali d’invasione ai quali un mutamento generale di climi può dare un’espan- 
sione notevolissima con alterazione del tipo floristico prima delle associazioni che le 
rinserrano, poi di tutta la regione. Ma nel caso del Montarolo, isolato frammento del- 
l’antica pianura diluviale, completamente circondata un tempo da terreni paludosi, 
oggidì dalla distesa delle risaie, e quindi dotato di una umidità relativa media tale 
da favorire il costituirsi ed il mantenersi di una vegetazione arborea ed il pronto 
formarsi, quando venga distrutta, di un denso rivestimento cespuglioso, le oscillazioni 
delle aree coperte e scoperte debbono essere state minori, le seconde anzi essenzial- 
mente dovute a disturbi, dirò così, meccanici della compagine della vegetazione arborea 
riparate al più presto possibile. È quanto, del resto, avviene per la vegetazione 
delle alluvioni recenti, in corrispondenza della quale l'abbondanza e la vicinanza di 
una ricca sorgente di umidità agisce come equilibratore dell'ambiente, ne determina 
una specie di eustatismo, grazie al quale il rivestimento vegetale tende ad occupare 


(1) Sulle differenze fra le esigenze ecologiche di queste specie, vedasi la nota a pag. prece- 


dente: con * sono contrassegnati i tipi più precisamente orofili. 


444 GIOVANNI NEGRI 58 


tutto lo spazio disponibile, rimanendo scoperte, e quindi accessibili all'invasione di 
specie particolarmente adattate, soltanto le aree, per le ragioni accennate, capaci 
di mantenersi permanentemente asciutte, o quelle in cui le dette cause meccaniche 
— così le inondazioni regolari del letto di piena nel caso delle alluvioni — impe- 
discono la costituzione di associazioni vegetali chiuse e perenni. Nelle rimanenti 
stazioni più numerose ed estese, la popolazione sì fa da parte di specie che entrano 
in concorrenza fra di loro colla maggiore attività possibile, escludendo ogni nuovo 
elemento dalla formazione strettamente chiusa che ne risulta. Solo una forte muta- 
zione climatica od una causa distruttiva eccezionale o l’azione decisa dell’uomo 
(boschi di Rodinia citati) possono rompere questa compagine e mutare la fisonomia 
della vegetazione favorendo decisamente l’invasione di qualche nuovo elemento che 
sfrutti, sia le nuove condizioni di ambiente, sia la particolare protezione che riceve, 
coll’aiuto anche di disposizioni biologiche particolarmente adatte. 


59 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 445 


APPENDICI ® 


1%. Floruia dei boschi d’alluvione del Po fra Crescentino e Trino 


(Appunti ed erborizzazioni personali) (2). 


Equisetum arvense L., E. ramosissimum Desf., Selaginella helvetica Spring., Tuniperus com- 
munis L., Andropogon Ischaemon L., Setaria glauca P. B., Panicum Crus-galli L., Tragus ra- 
cemosus Hall., Digitaria sanguinalis Scop., Alopecurus agrestis L., Phragmites communis Trin., 
Holeus lanatus L., Cynodon Dactylon Pers., Melica uniflora Retz., Eragrostis megastachya Lk., 
E. pilosa, Dactylis glomerata L., Poa nemoralis L., Festuca capillata Lam., F. heterophylla Lam., 
Vulpia myuros Gm., Bromus tectorum L., Br. sterilis L., Br. mollis L. e var. nanus, Brachy- 
podium silvaticum P. B., Agropyrum repens P. B., Cyperus flavescens L., C. fuscus L., C. glo- 
meratus L., Scirpus Holoschoenus L., S. lacuster L., S. mucronatus L., Carex stricta Good., 
C. verna Chaix., C. longifolia Vill., C. nitida Host., C. glauca Murr., Typha minima Funk., 
Potamogeton natans L., Iuncus conglomeratus L., I. lamprocarpus Ehrh., I. bufonius L., Allium 
vineale L., Asparagus tenuifolius, Iris Pseudoacorus L., Orchis tridentata Scop., O. militaris L., 
Listera ovata R. Br., Salix alba L., S. viminalis L., Populus nigra L., P. alba L., Alnus gluti- 
nosa Gaertn., Quercus pedunculata Ehrh., Humulus Lupulus L., Urtica dioica L., Parietaria 
officinalis, Thesium divaricatum Jacg., Aristolochia Clematitis L., Polygonum dumetorum L., 
P. viviparum L., P. lapathifolium L. e var. Persicaria (L.), P. aviculare L., Rumex conglo- 
meratus Murr., R. obtusifolius L., Chenopodium album L., Ch. Botrys L., Ch. murale L., Ama- 
ranthus retroflexus L., A. adscendens Lois., Phytolacca decandra L., Portulaca oleracea L., Stel- 
laria media Cyr., Holosteum umbellatum L., Malachium aquaticum Fr., Cerastium semidecan- 
drum L., C. glomeratum Thuill., Silene vulgaris Garke, Cucubalus baccifer L., Lychnis alba Mill., 
Saponaria officinalis L., Myricaria germanica Desv., Hypericum acutum Moench., H. perfo- 
ratum L., Helianthemum vulgare Gaertn., Reseda lutea L., Viola arvensis Murr., Arabis Tha- 
liana L., Nasturtium silvestre R. Br., Sysymbrium officinale Scop., Dentaria bulbifera L., Brassica 
Erucastrum L., Diplotaxis tenuifolia D. C., Alyssum calycinum L., Draba verna L., Hutchinsia 
petrea R. Br. (? Ferr.), Papaver Rhoeas L., Clematis Vitalba L., C1. recta L., Thalictrum flavum L., 
Berberis vulgaris L., Sedum acre L., Spiraea Ulmaria L., Geum urbanum L., Potentilla reptans L., 
Rubus discolor Weihe, R. caesius L., Poterium Sanguisorba L., Rosa canina L., Crataegus mo- 
nogina Jacq., Ononis spinosa L., Medicago lupulina L., Melilotus albus Desv., Trifolium arvense L., 
T. repens L., T. montanum L., T. pratense L., T. campestre Schreb., Anthyllis vulneraria L., 


(1) Data la necessità di confronti fra la flora del bosco Lucedio e quella delle formazioni più 
prossime di bosco ripario e di brughiera, riferisco qui gli elenchi inediti, frutto di ricerche perso- 
nali sul terreno e negli erbarii dell'Istituto Botanico di Torino. Per la collina fronteggiante di 
Gabiano-Camino, yedasi oltre al lavoro citato dal Ferraris, anche la mia memoria, pure menzionata 
più addietro: Sulla vegetazione della collina di Crea. Ho constatato personalmente la estensibilità 
dei dati riferiti in quest’ultimo studio, alla regione in discorso, del resto vicinissima. 

(2) Cfr. anche Ferraris T., Florula del Crescentinese, ecc., loc. cit., passim. 


446 GIOVANNI NEGRI 60 


Astragalus glycyphyllos L., Robinia Pseudoacacia L., Amorpha fruticosa L., Coronilla varia L., 
Hippocrepis comosa L., Onobrychis sativa Lam., Lathyrus silvester L., Vicia lutea L., V. sativa L., 
V. Cracca L., Lythrum Salicaria L., Epilobium Dodonaei Vill., Oenothera biennis L., Myrio- 
phyllum verticillatum L., Circaea lutetiana L., Eryngium campestre L., Angelica silvestris L., 
Aethusa Cynapium L., Pastinaca sativa L., Peucedanum Oreoselinum Moench., Torilis Anthriscus 
Bernh., Anthriscus silvestris Hoffm., Conium maculatum L., Cornus sanguinea L., Rhamnus Fran- 
gula L., Polygala vulgaris L., Geranium columbinum L., Oxalis corniculata L., Malva silvestris L., 
Euphorbia plathyphylla L., E. Cyparissias L., Lysimachia nummularia L., L. vulgaris L., Li- 
gustrum vulgare L., Erythraea Centaurium Pers., Chlora perfoliata L., Echium vulgare L., Myo- 
sotis silvatica Hoffm., M. palustris Lam., Symphitum officinale L., Convolvulus saepium L., Da- 
tura Stramonium L., Solanum nigrum L., Verbascum Blattaria L., V. phlomoides L., Linaria 
vulgaris Mill., L. supina Desf., Scrophularia nodosa L., Sc. canina L., Euphrasia officinalis L., 
Rhinanthus minor Ehrh., Teucrium Chamaedrys L., Scutellaria galericulata L., Brunella vul- 
garis L., Lamium maculatum L., Ballota nigra L., Stachys recta L., Salvia glutinosa L., Satu- 
reia Nepeta Scheele, S. Clinipodium Caruel., Thymus Serpyllum L., Orisanum vulgare L., 
Lycopus Europaeus L., Mentha longifolia Huds., M. rotundifolia Huds., M. Pulegium L., Ver- 
bena officinalis L., Globularia vulgaris L., Plantago major L., PI. lanceolata L., Galium Mollugo L., 
G. Aparine L., Dipsacus silvestris Huds., Knautia arvensis Coult., Scabiosa Columbaria L., Bryonia 
dioica Jacq., Campanula Rapunculus L., C. Trachelium L., Eupatorium cannabinum L., Petasites 
officinalis Moench., Tussilago Farfara L., Senecio erraticus Bert., Bellis perennis L., Solidago ca- 
madensis L., Erigeron canadense L., E. annuus Pers., Matricharia Chamomilla L., Chrisanthemum 
Leucanthemum L., Ch. vulgare Bernh., Arthemisia vulgaris L., Achillaea Millefolium L., A. tomen- 
tosa L., Filago germanica L., Bidens tripartitus L., Xanthium italicum Moretti, Arctium minus 
Bernh., A. nemorosum Lej., Centaurea Jacea L., C. scabiosa L., Carthamus lanatus L., Cirsium 
arvense Scop., Onopordon Acanthium L., Lapsana communis L., Cichorium Intybus L., Hypo- 
chaeris radicata L., H. maculata L., Leontodon autumnalis L., Picris hieracioides L., Trago- 
pogon dubius Scop., Taraxacum officinale Web., Sonchus arvensis L., S. asper Hill., Chondrilla 
juncea L., Lactuca scariola L., Hieracium Pilosella L., H. Florentinum L., H. umbellatum L. 


2. Florula delle brughiere fra Arborio e Gattinara (Appunti ed erbora- 
zioni personali e materiali dell’'Erbario Malinverni in “ Herb. Pedem. R. Isti- 
tuto Botanico di Torino ,). 


Polypodium vulgare L., Nephrodium Filix-mas Rich., Asplenium Filix-foemina Bernh., 
Pteris aquilina L., Juniperus communis L., Andropogon Ischaemon L., Chrysopogon Gryllus Trin., 
Phalaris arundinacea L., Anthoxanthum odoratum L., Alopecurus geniculatus L., Agrostis 
canina L., A. alba L. var. vulgaris With., Holcus mollis L., Aira caryophyllea L., Danthonia 
provincialis D. C., Triodia decumbens P. B., Molinia coerulea Moench., Cynosurus cristatus L., 
Eragrostis pilosa P. B., Melica nutans L., Briza media L., Dactylis glomerata L., Poa annua L., 
P. nemoralis L., P. pratensis/ L., P. trivialis L. var. glabra Dòll., Festuca glauca Lam. var. Pe- 
dancana Belli n. v., F. pannonica Wulf. var. Barragina Belli n. v. (1), F. capillata Lam., 


(1) Festuca glauca Lam. var. Pedancana Belli n. v. Glaucissima, foliis setaceis longissimis culmo 
subaequantibus, spiculis pubescentibus. — Belli ex schedis Herbarii Pedemontani R. Horti Botanici 
Taurinensis. 

Festuca pannonica Wulf var. Barragina Belli n. v..Culmo et rachide superne laevibus; floribus 
et gluma fertili 5-6 m. longis. His notibus differt a typo, cui ceterum convenit (Il:tipo è stato rac- 
colto dal Ferrari in Piemonte, anche sulla Vauda di Leynì, e da F.Crosetti e P. Fontana alla 
Rocca di Cavour). Belli, loc. cit. 


x 


61 LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO (TRINO VERCELLESE) 447 


F. pratensis L. var. angustifolia Auet., F. heterophylla Lam. var. lejophylla Haekel, F. rubra L. 
var. fallax Haekel, F. pratensis Huds. var. genuina (f. depauperata ad Fest. pseudololiaceam 
vergens), F. arumdinacea Schreb. var. genuina Haek., Gliceria fluitans R. Br. var. plicata Fries (1), 
Vulpia myurus @mel., Nardus strieta L., Bromus mollis L., Br. erectus Huds., Brachypodium 
pinnatum P. B., Scirpus silvaticus L., S. Holoschoenus L., S. setaceus L., Heleocharis carniolica 
Koch., H. ovata R. Br., Rbynehospora fusca Dryand., Carex brizoides L., C. leporina L., €. mu- 
ricata L., C. strieta Good., C. vulgaris Fries., C. pallescens L., C. panicea L., C. silvatica Huds., 
C. flava L., €. hirta L., C. vesiearia L., Typha latifolia L., T. angustifolia L., Alisma Plan- 
taco L., Iuncus conglomeratus L. e var. effusus (L.), I. lamprocarpus Ehrh., I. bufonius L., Lu- 
zula pilosa W. e var. Forsterii D. C., L. albida D. C., L. multiflora Lej., Veratrum album L., 
Lilium bulbiferum L., Anthericum Liliago L., Hemerocallis flava L., Convallaria majalis L., 
Majanthemum bifolium D. €., Polygonatum multifloram All, Leucoium vernum L., Narcissus 
poeticus L., Gladiolus imbricatus L., Gl. paluster Gaud., Iris Pseudoacorus L., Orchis maculata L., 
Gymnadenia conopsea R. Br., Platanthera bifolia Reichb. e var. montana Reichb., Spiranthes 
aestivalis Rehb., Cephalanthera ensifolia Rich., Salix alba L., S. purpurea L., S. Caprea L., 
S. repens L., Populus tremula L., P. alba L., Betula alba L., Alnus glutinosa Gaertn., Corylus 
Avellana L., Quercus pedunculata Ehrhb., Q. sessiliflora Salisb., Castanea sativa Mill., Humulus 
Lupulus L., Thesium divaricatum Jaec., Polygonum Persicaria L., Rumex Acetosella L., R. Ace- 
tosa L., R. erispus L., Seleranthus annuus L., Illecebrum verticillatum L. (?), Arenaria serpil- 
lifolia L., Stellaria holostea L., Malachium aquaticum Fr., Cerastium glomeratum Thuill., C. se- 
midecandrum L., C. manticum L., Agrostemma Githago L., Lichnis Flos-cuculi L., Silene vul- 
garis Garke, S. rupestris L., S. nutans L., S. italica Pers., Tunica saxifraga Scop., Viola hirta L., 
V. canina L., f. nemorum, Hypericum perforatum L., H. humifusum L., Helianthemum vulgare 
Gaertn., Arabis arenosa Scop., Barbarea vulgaris R. Br., Capsella Bursa-Pastoris Mench, Tha- 
lictrum aquilegifolium L., Anemone ranunculoides L., A. nemorosa L., Ranunculus Flammula L., 
R. nemorosus, D. C., R. repens L., R. acer L., R. bulbosus L., Epimedium alpinum L., Drosera 
intermedia Hayn., Prunus spinosa L., Spiraea Filipendula L., Sp. Aruncus L., Sp. Ulmaria L., 
Geum urbanum L., Potentilla alba L., P. erecta Hampe, P. reptans L., P. verna L., P. recta L., 
P. argentea L., Agrimonia Hupatoria L., Fragaria vesca L., Rubus discolor Weihe, R. caesius L., 
Rosa gallica L., R. arvensis Huds., Crataegus monogyna Jacq., Sarothamnus scoparius Koch., 
Cytisus hirsutus L., Genista Germanica L., G. tinetoria L., Ononis spinosa L., Medicago lupu- 
lina L., Trifolium campestre Schreb., Tr. pratense L., Tr. medium L., Tr. repens L., Tr. mon- 
tanum L., Lotus corniculatus L. var. uliginosus Schk., Robinia Pseudoacacia L., Hippocrepis 
comosa L., Lathyrus montanus Bernh., Vicia lutea L., V. sativa L. var. angustifolia (Reich.), 
Lythrum Salicaria L., Ludwigia palustris Ell., Astrantia major L., Sanicula europaea L., Pasti- 
naca sativa L., Peucedanum Oreoselinam Moench., Oenanthe pimpinelloides L., Cornus san- 
guinea L., Rhamnus Frangula L., Evonymus europaeus L., Polygala vulgaris L., Geranium 
pusillum Burm., G. columbinum L., Linum catharticum L., L. gallicum L., Oxalis corniculata L., 
Euphorbia Lathyris L., E. palustris L., E. dulcis L., E. Cyparissias L., Calluna vulgaris Salisb., 
Primula acaulis Jacq., Lysimachia nummularia L., L. vulgaris L., Centunculus minimus L., 
Ligustrum vulgare L., Fraxinus excelsior L., Vinca minor L., Cynanchum Vincetoxicum Pers., 
Gentiana Pneumonanthe L., Cicendia filiformis Delarb., Myosotis palustris Lam., M. stricta Lk., 
Pulmonaria officinalis L. f. saccharata, P. angustifolia L., Symphitum officinale L., Convolvulus 
arvensis L., €. saepium L., Cuscuta epithymum Murr., Solanum Dulcamara L., S. nigrum L., 


(1) Gliceria fluitans R. Br. var. plicata Fries 0. Floribus majoribus, 7 mm. longis. Gluma fertilis 
fortissime nervata, 7. nervis; apice obtusissimo scarioso-sphacelato. Belli, loc. cit. 


448 GIOVANNI NEGRI — LA VEGETAZIONE DEL BOSCO LUCEDIO, ECC. 62 


Verbascum phoeniceum L., Serophularia nodosa L., S. canina L., Gratiola officinalis L., Vero- 
nica spicata L., V. serpyllifolia L., V. arvensis L., Melampyrum pratense L., M. nemorosum L., 
Rhinanthus Alectorolophus Poll, Odontites lutea Rehb., Orobanche Rapum-Genistae Thuill., 
Ajuga reptans L., Brunella vulgaris L., Br. laciniata L., Glechoma hederacea L., Melittis melis- 
sophyllum L., Galeopsis Tetrahit L., G. pubescens Bess., Lamium Galeobdolon Crantz., L. al- 
bum L., Ballota nigra L., Stachys officinalis Trevis, S. silvatica, Salvia pratensis L., S. gluti- 
nosa L., Satureia Clinopodium Caruel., Thymus Serpillum L., Lycopus europaeus L., Mentha 
rotundifolia Huds., M. arvensis L., M. aquatica L., Verbena officinalis L., Plantago major L., 
P. laneeolata L., Galium vernum Scop., G. verum L., G. Mollugo L., G. palustre L., Vaillantia 
muralis L., Lonicera Caprifolium L., Viburnum Opulus L., Valeriana officinalis L., Knautia 
arvensis Coult., K. silvatica Duby., Jasione montana L., Phyteuma betonicaefolium Vill., Cam- 
panula patula L., Eupatorium cannabinum L., Senecio vulgaris L., S. nemorensis L., S. al- 
pester D. C. e var. Gaudini Greml., Arnica montana L., Solidago Virga-Aurea L., Erigeron 
annuus Pers., Matricharia Chamomilla L., Chrysanthemum Leucanthemum L., Ch. vulgare Bernh., 
Arthemisia vulgaris L., Achillea Millefolium L., Gnaphalium sylvaticum L., Inula salicina L., 
I. hirta L., L montana L., Xanthium italicum Moretti, Carlina vulgaris L., Arctium minus 
Bernh., Serratula tinctoria L., Centaurea Jacea L., C. vochinensis Bernh., Cirsium palustre Scop., 
Hypochaeris radicata L., H. maculata L., Leontodon hispidus L. var. danubialis Jacq., Trago- 
pogon dubius Scop., Hieracium Pilosella L., H. prealtum Vill., H. fiorentinum All, H. Auri- 
cula L., H. murorum L., H. vulgatum Fr., H. murorum L. e var. microcephalum Gremli, . 
H. boreale Fr. 


Torino. R. Istituto Botanico. Giugno 1911. 


NUOVA: CONTRIBUZIONE ALL'ANATONIA: DELLE SOLANEE 


MEMORIA 


Prof. EDOARDO MARTEL 


(CON UNA TAVOLA) 


Approvata nell'adunanza del 18 Dicembre 1910. 


PRIMO QUESITO 


Dell’ufficio devoluto al libro interno nelle Solanee 
in relazione coll’anatomia del fusto. 


In una memoria precedente presentata alla Accademia dei Lincei, essendomi 
trattenuto esclusivamente su l’anatomia del fiore, ho pensato continuare i miei studi 
col trattare ora dell'anatomia del fusto, fermandomi in modo speciale sulla questione 
tanto discussa dell’origine e dell’ufficio del libro interno. 

Convinto che nei lavori di anatomia sono le illustrazioni grafiche ricavate dai 
preparati microscopici, quelle che più giovano per formarsi un concetto esatto dei 
fatti e trarne le debite conseguenze, mi sono applicato a corredare le mie brevissime 
descrizioni col numero maggiore di disegni. 

I generi e le specie di cui mi servii in questo lavoro furono le seguenti: 


Nicandra physaloides Cestrum Parquei 
Lycium carolinianum Solanum tuberosum 
Atropa belladonna 5 esculentum 
Atropa arborea 5 lycopersicum 
Datura stramonium 5 nigrum 
Datura Metel 5 glaucescens 
Physalis alkekengi 5 argenteum 
Alkekengi somniferum Nicotiana tabacum 
Hyosciamus niger Petunia nyctaginiflora 
Cestrum pendulinum Verbascum blattaria. 


Serie II. Tox. LXII. (E° 


450 EDOARDO MARTEL 2 


Avrei desiderato di fermarmi assai più lungamente di quello che ho fatto, sulle 
varie teorie emesse degli autori riguardo agli argomenti di cui questa memoria si 
occupa. ma il tempo di cui posso fruire per lavori di laboratorio è troppo ristretto 
per permettermi di entrare in lunghe discussioni. 

Nulla trascurai però per mettere in rilievo i punti culminanti delle varie con- 
troversie e specialmente le conseguenze che i varì autori credettero trarre dalle loro 
osservazioni. 

Mi sia concesso prima di terminare questo breve lavoro di porgere alla Dire- 
zione dell'Orto Botanico della R. Università di Torino i miei più sinceri ringrazia- 
menti per gli aiuti in materiali ed in opere di cui mi fu larga nel corso delle mie 
ricerche. 


T 


Tessuti meccanici. 


Numerosi sono i gruppi vegetali nei quali spiccano differenze talora considerevoli 
nelle qualità del fusto fra le varie specie. 

Questi gruppi però offrono anche per altri versi, tali particolari, da aver 
costretto i sistematici a suddivisioni più o meno numerose, e si comprende che in 
questo caso la descrizione anatomica del fusto possa acquistare certa importanza nel 
definire i limiti fra le varie sottodivisioni. 

La famiglia delle Solanee invece, a consenso di tutti. forma per la omogeneità 
dei caratteri, uno dei gruppi vegetali più naturali, ma quella omogeneità non è però 
tale da escludere che anche nel fusto non vi siano differenze superficiali così spiccate, 
da richiedere corrispondenti variazioni di struttura, interessanti a rilevare, special- 
mente per lo scopo a cuì miro. 

Fra gli autori che in modo speciale si occuparono dei tessuti meccanici nel fusto 
delle Solanee, vanno ricordati in particolar modo: Vesque, Chalon, Herail du Sablon, 
Méller, Wettstein-Boris, De Toni e Paoletti. 

Le indagini compiute dagli scienziati sono ai nostri tempi così numerose da 
rendere difficile l'aggiunta di altri fatti a quelli già noti. 

M'è duopo dire però che il più gran numero dalle osservazioni vennero com- 
piute su’ generi esotici e che i lavori per essere stati compiuti indipendentemente 
gli uni dagli altri e sparsi in opere numerose, non sempre facili a procurarsi, per- 
mettono difficilmente a chi lo desidera di formarsi un concetto sintetico dell’ana- 
tomia del fusto e dello sviluppo prevalente che acquistano alcune parti di esso in 
relazione con determinate condizioni speciali. 

A colmare, in parte almeno, questa lacuna ed anche a scopo di accrescere in 
una certa misura il materiale scientifico già acquistato, dò qui un quadro delle par- 
ticolarità osservate in ognuno dei tessuti meccanici del fusto e delle specie in cui 
queste particolarità vennero rilevate. 

ErmermpE. — Nulla di particolare che valga di essere menzionato, se non la 
persistenza del nucleo nell’epidermide del Solanum glaucescens. 


3 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL’ ANATOMIA DELLE SOLANEE 451 


Iponerma. — Nel gen. Cestrum pendulinum, le cellule dello strato sotto-epider- 
mico che nel periodo giovanile della pianta poco si distinguono da quelle! degli strati 
sottostanti, coll'andare del tempo si allungano così da acquistare nella sezione una 
forma schiettamente rettangolare e di notevoli dimensioni. Alla segmentazione di 
questa cellula va dovuta, come dirò, la formazione del fellogene (fig. 1). 

CoLLeNcHIMA. -— Tutte le Solanee in genere sono provvedute di uno strato di 
collenchima interposto tra il sistema epidermico ed il parenchima corticale. Questo 
strato, meno spesso di quello che si osserva nelle Borraginee, varia alquanto di potenza 
nei diversi generi. 

Nella Salpichroma rhomboidea, il collenchima, al pari di quanto avviene nelle 
vicine Labbiate, si concentra in quattro cordoni che trasmettono alla sezione la 
forma quadratica. 

Nel Solunum Lycopersicum (fig. 2) potei osservare la presenza in strati succes- 
sivi, delle due specie di collenchima distinte da Karl Miiller, coi nomi di platten 
collenchym e knorpel collenchym, la prima delle quali si distingue pel solo ispessimento 
tangenziale, il secondo per ispessimento in varie direzioni. 

Nel Solanum glaucescens, specie annuale coltivata nell’Orto Botanico di Torino e 
che giunge a discreta altezza, l’intero spazio compreso tra l'epidermide ed il libro 
è occupato da una massa unica di collenchima le cui file più esterne son ricche di 
materiali di riserva. 

PaRENCHIMA CORTICALE. — Notevole è quello del Solanum esculentum al quale 
questa specie deve le sue qualità commestibili e del Lycium carolinianum per la pre- 
senza in esso di due strati di cellule presto vuote, di straordinarie dimensioni e con 
pareti mediocremente ispessite. 

Queste cellule, senza nulla togliere alla corteccia delle sue qualità meccaniche, 
sembrano comportarsi specialmente da coibenti pel calore (fig. 3). 

SrraTO su@HEROSo. — Quantunque raggiunga uno sviluppo completo solo nelle 
specie perenni, pure si rende già sensibile in varie specie annuali e fra queste nella 
Nicotiana tabacum (fig. 4). 

Osservai formazione di fellogene : 1° A spese dell’ipoderma nel Cestrum Parquei 
e della Nicotiana tabacum, contrariamente a quanto asseriscono De Toni e Paoletti, 
i quali nella loro memoria Zur Kenntnis der anatomischen Baues von Nicotiana 
Tabacum (1) negano alla Nicotiana tabacum formazione di sughero. 

È probabile che quei scienziati si siano serviti per le loro osservazioni di pre- 
parati troppo giovani. 

2° A spese dell'epidermide: nel Solanum argenteum (fig. 5). Finalmente nel- 
l’Alkekengi somniferum osservai la produzione di fellogeno negli strati più profondi 
del parenchima corticale, immediatamente a contatto coll’endoderma. 

Il Solederer asserisce di aver scorto un fellogeno dermatico nella Nicandra Phy- 
saloîdes. Le mie osservazioni a questo riguardo giunsero a risultati negativi. 


(1) © Berichte der Deutsch. Bot. Ges. ,, IV Band, 1871. 


452 EDOARDO MARTEL 4 


Rilevai pure nell’Alketengi somniferum la formazione di lenticelle, cosa assai rara 
nelle piante annuali. Questi organi però non offrono nella loro struttura nulla che 
valga a essere particolarmente menzionato. 

FiBRE PERICICLICHE (1). — Fibre di questa specie fortemente selerenchimate, for- 
manti insieme un anello quasi continuo, trovai nel Cestrum pendulinum (fig. 1) e nel 
Solanum argenteum (fig. 5). 

Notevoli pure per ispessimento quelle dell’ Atropa ardorea e Belladonna (fig. 6), 
del Capsicum annuum, nel Petunia (fig. 8) mediocri, poi in un gran numero di altri 
generi. 

XrremA (2). — Mentre in esso, come osserva Solederer, abbondano fibre con pun- 
teggiature di due sorta, scarso è invece il parenchima lignoso. 

Raggi midollari generalmente stretti; regola alla quale fa eccezione il gen. Ver- 
bascum (fig. 7), il quale anche per altri motivi è da molti classificato nelle Sero- 
fulariacee. 

Se in un gran numero di generi, com'è facile verificarlo dalle figure unite a 
questo lavoro, lo xilema raggiunge uno sviluppo notevolissimo e ciò specialmente nei 
generi Lycium, Cestrum, Solanum, Atropa, Capsicum, Nicotiana, Petunia (fig. 8), ecc., 
all'opposto nel Solanum glaucescens già ricordato per lo spessore straordinario del 
collenchima e nel Hyosciamus niger le fibre lignose sono in numero scarsissimo o 
mancano anche del tutto. 

Fibre sclerose a difesa del libro interno, sì trovano in un certo numero di generi, 
ma sono particolarmente da notarsi quelle del Solanum argenteum, del Cestrum, della 
Datura, del Capsicum. 

SCLERENCHIMA MIDOLLARE. — Notevole specialmente nel Cestrum pendulinum (fig. 1). 

Nella Nicastra Physaloides ebbi occasione di osservare delle linee di otricoli con 
cristalli di ossalato di calce. 

Dalla esposizione che precede, si viene a concludere che l’apparato meccanico 
del fusto nelle Solanee è, a parte poche eccezioni, assai più sviluppato che nel più 
gran numero delle piante annuali degli altri gruppi vegetali. 

Nel periodo che precede la fioritura, l'apparato meccanico è rappresentato essen- 
zialmente dal collenchima cioè dal tessuto che meglio sì presta a reggere alla flessione 
senza opporsi all’accrescimento. 

Nel secondo periodo e cioè dopo che la chioma del vegetale ha acquistato 
l’intero suo sviluppo e che la pianta sta per caricarsi di fiori e di frutti, l’appa- 
rato meccanico anch’esso si rinforza colla formazione di uno xilema talora potente 
colla sclerotizzazione delle fibre pericicliche e talora con quella del parenchima 
midollare. 

Neppure manca totalmente la formazione del sughero. Un fatto da essere rile- 
vato è quello che presenta la Nicandra physaloides, la quale, povera di mezzi mec- 
canici, supplisce in parte a questa deficienza, disponendo la periferia del suo fusto a 
festoni. 


(1) Comprese cioè nella zona del periciclo. 
(2) Zona dei fasci vascolari e delle fibre legnose. 


NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 453 


ur 


Le Solanee perenni, per la maggior parte esotiche, non oltrepassano le dimen- 
sioni di un arboscello con rami esili. La rigidità necessaria si ottiene in quelle piante 
non tanto per mezzo dell'estensione dello xilema, quanto per la potente sclerotizza- 
zione dello xilema stesso, del periciclo e del parenchima midollare. I rami rimangono 
perciò alquanto snelli. 

Im molte Solanee la radice propriamente detta è straordinariamente ridotta ed 
è allora sostituita dalla parte inferiore del fusto, che in quella regione si modifica 
sensibilmente nella sua struttura così da reggere con facilità alle pressioni laterali. 

Conformemente ai principî stabiliti da Schwendener (Das Mechanische Prinzip,1874) 
si vede infatti il midollo del rizoma ridursi ai minimi termini, mentre lo xilema ed il 
parenchima corticale acquistano uno sviluppo straordinario (fig. 9). 


II. 


Del libro e della zona meristemale. 


Nel principiar questo secondo capitolo mi è duopo premettere alcune parole 
riguardo al significato del libro. 

Il Van Tieghem in un articolo inserito nel “ Journal de botanique ,, An. V, 
T. XXXIII, pag. 117, 1886, scrive: “ Nel linguaggio anatomico moderno, il libro è 
“ quella parte del fusto o della radice dove si trovano i tubi cribrosi, ma è da 
“ notarsi che questi possono mancare mentre vi possono figurare altri elementi. Vi 
“ sono poi tubi cribrosi fuori del libro e vasi fuori del legno ,. 

Bisogna secondo i casi distinguere tali elementi coi nomi di midollari-periciclici- 
peridesmici. Per Van Tieghem il libro è semplicemente una regione di posizione 
determinata della quale possono far parte elementi varî. Per l’eminente scienziato 
cioè la definizione del libro anzichè fisiologica dev'essere morfologica, e rammenta quella 
dello stomaco che alcuni vogliono consistere in una dilatazione del tubo digerente 
anzichè sede delle glandole pepsiche. 

Quantunque varî possano essere i componenti del libro pur tuttavia nessun vorrà 
negare che ai tubi cribrosi ed alle cellule compagne è riservato un compito di tale 
importanza da costringerci a considerarli quali elementi caratteristici del libro stesso. 

Eliminati che siano i vasi cribrosi si ha bensì un avanzo del libro ma non più 
il libro. 

Per questo motivo, credetti bene unirmi a quelli che accettano una definizione 
del libro informata al concetto moderno, e nelle linee che seguono, la parola libro 
verrà adoprata ogni qualvolta si tratterà dell’asse vegetativo, caratterizzato dalla 
presenza dei tubi cribrosi. 

La presenza nell'interno dell’anello lignoso di fasci liberiani in varie famiglie 
vegetali, quali Cucurbitacee, Melastomacee, Primulacee, Acantacee e Solanee, fissò l’at- 
tenzione di molti botanici, dediti a ricerche di anatomia vegetale, ma il significato 
fisiologico di quei fasci rimase, malgrado gli studi sinora fatti, ancora indeterminato. 

Dopo che Hartig nel 1854 ebbe scoperta nell’anello lignoso la presenza di fasci 
liberiani, il De Bary diede all'insieme del libro esterno, dello xilema e del libro 


454 EDOARDO MARTEL 6 


interno, il nome di fasci bicollaterali, lasciando così supporre, che le tre parti aves- 
sero origine comune. 

Il Petersen, nel 1882, in un suo lavoro avente per titolo: Ueber das Auftreten 
bicollateralen gefassbundel (1), sostiene che il libro interno fa parte integrante del 
sistema lignoso e prende origine da cellule particolari poste sul limite interno dello 
anello d’ispessimento. 

Tre anni dopo e cioè nel 1886, Herail du Sablon nella sua bella memoria Éfude 
de la tige des dicotylédones (© Ann. Sc. Nat. ,, I, Sez. VII, 1883), sostiene invece che 
i fasci liberiani posti all’interno dell'anello lignoso hanno origine dal midollo, che 
essi nascono dopo dei fasci normali e che alcuni di essi sono non solo periferici ma 
addirittura midollari. i 

Van Tieghem nel suo Traifé de botanique, 2° édition, pag. 755, dice di condivi- 
dere le idee di Herail du Sablon, colla restrizione però, che il libro interno deriva 
non dal midollo propriamente detto ma dallo strato perimedullare ed insiste sulla 
distinzione tra fasci liberiani periferici, interni e centrali. Ii Lamourette pure nella 
sua memoria Recherches sur l'origine morphologique du livre intérieur (© Ann. St. 
Nat. ,, 1891). si rannoda alle idee di Herail du Sablon. — Léon Flot nel suo lavoro 
Recherches sur la zone périmedullaire (© Ann. St. Nat. ,, 7 série, 1883) ammette che 
il fascio lignoso è sempre coperto dal lato del midollo da alcuni strati cellulari for- 
manti una specie di guaina al fascio dermogeno. guaina alla quale l'A. dà il nome 
di zona perimedullare. Questa zona darebbe sempre secondo lo stesso A. origine in 
certi casì a soli fasci di fleoma ed in altri a fasci vascolari. 

Il Lignier, Recherches sur l’anatomie comparée des Calycanthées, des Mélastomées et 
des Myrtées, asserisce che il libro interno può secondo i casì formarsi dalle cellule 
le più interne del fascio desmogeno oppure da quelle del midollo. 

Se la discussione intorno all’origine del libro interno, come si vede dalla esposi- 
zione che precede, è lontano di essere chiusa, incerto rimane pure l’ufficio fisiologico 
devoluto a quella regione del fusto. 

Così mentre per l’Haberlandt (Physiologische Pflanzen-anatomie, pag. 273) al Hbro 
interno è riservata una funzione protettrice, per Strasburger (Leitungsbahnen, pag. 474 
und Lehrbuch der Botanik, 6 Aufl., pag. 93) la presenza del libro interno significa 
maggiore divisione di lavoro fisiologico. 

Per l'A. infatti il libro esterno avrebbe semplicemente l'ufficio di trasportare 
alle giovani foglie i materiali di costruzione, mentre il libro interno sarebbe ineari- 
cato di trasportare alle varie parti della pianta le combinazioni azotate formate 
nelle foglie. 

M'è duopo ricordare pure che i così detti fasci bicollaterali vennero raggrup- 
pati intorno a due tipi e cioè a quelli delle Cucurbitacee in cui il libro interno fa 
corpo col fascio desmogeno, non essendo questo separato da quello da nessuno strato 
particolare di parenchima, ed a quelli del gen. Vitis in cui il fascio desmogeno ed il 
libro interno rimangono fra loro indipendenti per essere separati da parenchima. A 
quest’ultimo tipo si rannodano le Solanee. 


(1) * Botanische Jahrbicher fiir Systematik ,. 


NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 455 


=] 


Nulla di speciale, nelle tante opere che consultai, ho trovato, che si riferisca 
alla zona cambiale (1) fra libro esterno e legno, ed anzi rimasi non poco meravigliato 
che una parte così interessante per la soluzione della questione fosse stata in tal 
modo trascurata. 

Dal punto di vista puramente anatomico, un problema importante da risolversi 
era quello di sapere se il libro interno è una dipendenza del fascio desmogeno oppure 
ne è indipendente. 

È possibile, anzi probabile, che varî fra gli autori che si sono occupati dell’ori- 
gine del libro interno nelle Solanee, abbiano ricorso nelle loro indagini a sezioni 
dell’apice vegetativo, ma di essi, solo Leone Flot ha fornito di quella sezione un 
disegno dettagliato. 

Avendo io, per quello che riguarda le Solanee, dovuto operare in fine di sta- 
gione, su preparati troppo meschini per ottenere risultati concludenti, pensai ricorrere 
all’Acanthus mollis, nel quale pure è spiccatissimo un libro interno, dello stesso tipo 
di quello delle Solanee. 

L'esame dell’apice vegetativo in quel genere e in una sezione verticale mi 
dimostrò che il fascio desmogeno ed il libro interno non ancora differenziati nei loro 
elementi, formano un solo tutto. Nell’internodio seguente però, si vede il libro 
interno scostarsi dal fascio desmogeno, rimanendo lo spazio interposto occupato da 
parenchima (fig. 10). 

La sola conseguenza logica che io possa trarre da questa mia osservazione è 
che il libro interno ha col fascio desmogeno comunanza di origine e che solo dopo 
certo tratto si rende da esso indipendente, conservando però nella sua via una dire- 
zione parallela alla sua. 

La separazione del libro interno dal fascio desmogeno non è per altro sempre 
ugualmente spiccata e potei accertarmi che nello stesso genere vi può essere un 
divario sufficientemente grande. Non mancano poi esempi specialmente nelle Solanee 
esotiche in cui il parenchima di separazione è così sottile da lasciare dubbi sulla sua 
presenza (Atropa arborea). 

Come al solito è probabile che si sia esagerato il valore del carattere offerto 
dal parenchima interposto fra fascio desmogeno e libro interno e che fra i due tipi 
di fasci bicollaterali vi siano passaggi. 

L'esame isolato dell’apice vegetativo non mi pare sufficiente per chi voglia for- 
marsi un'opinione precisa riguardo alla indipendenza del libro interno dal fascio 
desmogeno e ciò per la ragione che le parti non sono in quella regione differenziate 
e che lo spazio di cui possono giovarsi è troppo ristretto per essere certi del loro 
modo di comportarsi. 

A controllo delle conclusioni ricavate dall'esame dell’apice vegetativo, pensai 
procedere a quello di una serie di sezioni trasversali che dal livello corrispondente 
al colletto nella radice risalisse nel fusto a quello in cui l'anello libro-vascolare si 
trova completamente costituito. Serie A (Fig. 11°, 11°, 11°, 11°). 

La figura 11° della serie rappresenta una sezione della radice in vicinanza 


(1) Cambium di Grew e Duhamel. 


456 EDOARDO MARTEL 2 


del colletto, dove cioè i fasci libro-vascolari posseggono ancora una disposizione rag- 
giata. I due gruppi vascolari fra loro a contatto assumono nell’insieme una configu- 
razione romboidale coi vertici estremi posti alla periferia. Lateralmente al rombo 
vascolare sono due masse di libro /.e così disposte da trasmettere all’intera figura forma 
circolare. Manca ogni traccia di libro interno. 

Più in alto i due gruppi primordiali si sdoppiano ed î quattro sottogruppi che 
ne derivano, si dispongono nella sezione in due curve fra loro a contatto per la parte 
convessa o se sì vuole come i due rami di un X che poi si separano, lasciando fra 
loro uno spazio libero sul quale appaiono due isolette di tessuto liberiano (Fig. 11°). 

Le due masse di libro esterno pure si suddividono in quattro gruppetti, ciascuno 
dei quali viene a collocarsi alle estremità delle curve vascolari, cosicchè da questo 
punto i fasci da raggiati sono diventati collaterali. 

Nelle sezioni che seguono (Fig. 11° e 11°) i quattro gruppi vascolari prosieguono 
a scindersi e le parti che ne provengono vanno graduatamente disponendosi a cerchio 
e nello stesso modo sì scindono e sì dispongono i gruppi di libro esterno. 

Mentre i fasci vascolari ed i fasci del libro esterno si distribuiscono nel modo 
predetto, le due isolette di libro interno che occupavano il centro della sezione, 
anch'esse si suddividono. Le suddivisioni si dispongono prima in due archi (Fig. 11°). 
che dopo di essersi congiunti formano un cerchio che rimane incluso in quelli dei fasci 
vascolari e di libro esterno. 

Di regola i gruppetti di libro interno vengono a disporsi dinnanzi ai fasci vasco- 
lari, ma siccome in natura è difficile di ottenere una regolarità perfetta, così avviene 
che alcuni gruppetti rimangono indietro nel midollo oppure vanno a finire fra î gruppi 
vascolari anzichè rimpetto ad essi. 

Herail du Sablon prende argomento dal fatto che non tutti i gruppetti di libro 
interno sono posti dinnanzi ai fasci desmogeni, per asserire che il libro interno è 
indipendente dal fascio desmogeno; ora è probabile che quell’autore non sarebbe 
giunto a questa conclusione, se al pari di me avesse proceduto colle serie. 

Se poi si restringe il significato di libro a quello dei tubi cribrosi, è facile assi- 
curarsi che la corrispondenza fra libro esterno e fasci vascolari non si opera più 
esattamente di quella osservata fra quei fasci ed il libro interno. 

Dopo che i gruppetti di libro interno si sono collocati dinnanzi ai fasci vasco- 
lari, le sezioni, astrazione fatta dai tessuti di rinforzo (collenchima, sclerenchima), 
sono teoricamente complete, poichè l'anello vascolare è ora formato dal libro esterno, 
dai vasi e dal libro interno. 

Noto di passaggio che il libro interno si esaurisce alla base del fusto, e cioè 
non oltrepassa il colletto. Questo fatto, già posto in chiaro dalla serie A, è poi posto 
particolarmente in rilievo da una sezione praticata alquanto al disotto del colletto. 

Ebbi cura, nel mentre compivo le mie osservazioni, di confrontare fra loro la 
struttura anatomica dei fasci di libro interno con quella del libro esterno, entrambi 
considerati nello stesso periodo di sviluppo, e posso affermare di essere giunto a risul- 
tati identici (fig. 12°, 12°). 

Le divergenze sorte fra gli autori riguardo all’origine del libro interno, dipen- 
dono secondo me principalmente da ciò che i metodi d’investigazione per essere uni- 
laterali non si prestavano ad un autocontrollo e che le sezioni da esaminarsi, per 


A 
ti 
P 


9 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 457 


essere state prelevate a livelli diversi per esemplari di stessa età o da uno stesso 
livello per esemplari di varia età, dovevano necessariamente condurre a risultati 
divergenti. 

L'armatura libro-vascolare del peziolo delle foglie ha origine dal fatto che uno 
o più fasci libro-vascolari dell'anello lignoso del fusto si portano alla periferia, con- 
ducendo con sè le parti di cui erano accompagnate nel fusto: cioè epidermide, col- 
lenchima, parenchima corticale, endoderma e periciclo, e perciò è evidente che l’ana- 
tomia del peziolo deve riprodurre quella del fusto, colla differenza però che nel 
peziolo l'anello vascolare è ridotto ad un arco. 

L'origine del peziolo quale l’ho descritta e per conseguenza l’identità di strut- 
tura fra peziolo e fusto, possono rilevarsi dalla Fig. 13 che unisco a questa memoria. 

Potrei fare a meno, per lo scopo cui miro, di insistere su questo argomento, se 
non credessi di chiamare l’attenzione sulla continuità singolare che esiste nel peziolo 
fra la catena dei gruppi delle due specie di libro. 

È innegabile che una continuità così perfetta parla pure altamente în favore 
della comunanza di origine, e perciò, tenuto conto di questa osservazione, dei risultati 
forniti dall'esame dell’apice vegetativo, di quelli ricavati dall’esame della serie delle 
sezioni trasversali e finalmente dall’identità di struttura fra le due specie di libro, 
ho motivi per credere che il De Bary fosse nel vero, quando chiamò bicollaterali i 
fasci libro-vascolari delle Solanee. 

La figura 9 rappresenta il passaggio degli elementi anatomici, dalla parte rizo- 
matosa del fusto ad una ramificazione sotterranea. 

Quello che più spicca in questa figura è la straordinaria differenza fra la quantità 
di libro esterno quasi scomparso in questo esemplare, già avanti nell’età, e la quan- 
tità notevole di libro interno. 

Questa differenza fra la quantità e la qualità del libro esterno e del libro interno 
che è nulla nei primordi della pianta va sempre rendendosi maggiore a misura che 
il vegetativo procede verso la vecchiaia. 

La progressione di cui parlo è posta in rilievo dalle Fig. 14, 15, 16, dalle quali 
risulta chiaramente che coll’andar del tempo il libro interno prende il sopravvento sul- 
l'esterno e mentre quest’ultimo tende a sparire in mezzo alla massa del parenchima 
che lo avvolge (figg. 14-15) od a trasformarsi in modo da rendersi irriconoscibile 
(fig. 16), il libro interno invece mantiene per lungo tempo inalterati i caratteri che 
lo distinguono. 

La figura (15), ricavata da un esemplare vecchio di Datura Stramonium, è anzi 
a questo riguardo interessante, inquantochè mostra che mentre il libro esterno non 
appare nella sezione, l’interno invece è rigoglioso e difeso da una guaina di cellule 
ispessite. Le sezioni trasversali del fusto provano nel loro complesso, che contraria- 
mente a quello che avviene in genere nel più gran numero delle specie annuali dove 
il meristema secondario non appare ed è ridottissimo, nelle Solanee invece può 
raggiungere uno sviluppo considerevole. 

Mentre dal lato interno la zona generatrice o meristemale dà origine allo xilema, 
dalla parte esterna origina poco o niente libro secondario. 

Questa essenza del libro secondario si spiega secondo me pensando che le Solanee 

Serie II. Tom. LXII. H° 


458 EDOARDO MARTEL 10 


sono bensì piante annuali ma con tendenza alla perennità. Non poche specie di 
questa famiglia infatti sono perenni. 

Le specie annuali, in genere, prolungano la loro esistenza molto avanti nell’au- 
tunno e raggiungono in un tempo relativamente limitato delle dimensioni ed acqui- 
stano una consistenza insolita nel maggior numero delle piante di stessa durata. 

Ora quelle dimensioni e quella consistenza che talora va sino alla rigidità 
(tabacco) non possono nel primo periodo della vita andare disgiunte da un potente 
sviluppo di collenchima e di parenchima corticale, nell’ultimo da una sclerotizzazione 
più o meno profonda di alcuni tessuti. 

Siffatta sclerotizzazione, come ebbi occasione di dirlo prima, non si limita sempre 
alle fibre lignose, ma il più delle volte raggiunge pure le fibre pericicliche, isolando 
in questo modo il libro esterno dall’endoderma, vero serbatoio di materiale di riserva. 

Il libro esterno posto fra uno xilema che lo comprime da una parte ed i tessuti 
corticali straordinariamente sviluppati ed irrigiditi dall’altra, isolato per sopraggiunta 
dal serbatoio del materiale di riserva col quale dovrebbe mantenersi in relazione 
continua, si trova da quel momento in condizioni così disastrose da non potere più 
esercitare le sue funzioni. A questa inettitudine del libro esterno a compiere le sue 
funzioni, fa riscontro naturale il deperimento che potei rilevare. 

G. Haberlandt (op. cit., pag. 323) spiega la presenza del libro interno nel 
midollo col pretesto che in questa posizione esso si trova al riparo dalle forze che 
potrebbero danneggiarlo ed in special modo dalla trazione e dalla pressione. 

Questa spiegazione non mi pare del tutto soddisfacente per la ragione anzi- 
tutto che le forze che agiscono sulle Solanee e su poche altre famiglie vegetali. 
munite di libro interno, agiscono pure nello stesso modo e colla stessa intensità sulle 
altre famiglie molto più numerose che ne sono sprovviste, e si deve notare inoltre 
che non è nell’ultimo periodo della vita, quando cioè la pianta ha acquistato tutti i 
suoi mezzi di resistenza, che l’effetto delle forze di cui è parola è da temersi. bensì 
nel primo e propriamente nel periodo in cui primeggia il libro esterno. 

Lo Strasburger ricordato da Haberlandt (op. cit., pag. 322) interpreta la pre- 
senza del libro interno quale prova di maggiore divisione nel lavoro fisiologico. Rife- 
rendosi agli studi di Fischer, Sfudien ber die Siebròhren der Dicotylen-blatter (“ Berichte 
der math. Class. der sachs. Akademie der phys. Wissensch. ., 1885), lo Strasburger 
ammette infatti che il compito del libro esterno sia limitato a quello di trasportare alle 
foglie i materiali di costruzione. mentre al libro interno sarebbe invece affidato il com- 
pito di distribuire alle varie parti della pianta i materiali elaborati nelle foglie stesse. 

La teoria sostenuta dallo Strasburger è di certo molto ingegnosa, ma però vul- 
nerabile in vari punti. 

Non si vede anzitutto per quale ragione il benefizio di quella divisione del 
lavoro debba essere riservato a sole poche famiglie, nè si conoscono le osservazioni 
dirette per mezzo delle quali si venne a distinguere non solo quel sistema di doppia 
circolazione, ma bensì pure quella differenza di materiali trasportati dall'uno e dal- 
l’altro libro. 

Alla teoria dello Strasburger si può obiettare inoltre che l’attività del libro 
esterno essendo limitata al primo periodo della vita vegetale. effimera deve essere 
la durata di quella, tanto ben trovata, divisione del lavoro. 


11 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 459 


Finalmente il vario modo di funzionare e la varia qualità dei prodotti posti in 
circolazione, sembrano richiedere qualche differenza di struttura degli elementi con- 
duttori; ora questa differenza non esiste. Alle due teorie che precedono, si potrebbe, 
secondo me, aggiungerne una. terza fondata sul fatto che il libro esterno ha una 
durata di attività fisiologica non corrispondente alla longevità della pianta. 

Tenuto conto che nessun tessuto vegetale si trova nelle condizioni di sostituirsi, 
nelle funzioni circolatorie, ai vasi cribrosi ed alle cellule compagne, elementi essen- 
ziali del libro; tenuto conto d'altra parte che non esiste parte del fusto, all’infuori 
del midollo, che possa albergare un altro tessuto conduttore; così è naturale che 
al libro che sta per mancare se ne sostituisca un altro e questo occupi il solo posto 
disponibile e cioè una zona fra l’anello vascolare ed il midollo. 

Questa teoria semplicissima che, fisiologicamente parlando, fa del libro interno 
una continuazione di quello esterno, ha il vantaggio di avere per base un fatto 
posto fuori di discussione ed è quella che mi pare meglio adattarsi ad una cate- 
goria di vegetali che segnano un passaggio tra le piante schiettamente annuali e 
le perenni. 


SECONDO QUESITO 
Sul rovesciamento del calice nel fiore del ‘ Datura stramonium ’. 


Il calice del Datura stramonium presenta due fenomeni ben noti a tutti quelli 
che si occupano di sistematica, ma finora, che io sappia, non studiati. Il calice di 
quella pianta, poco dopo dell’apertura della corolla, si scinde in due parti, una delle 
quali, la superiore, di forma tubulosa, avvizzisce e cade, mentre l’inferiore, prima fog- 
giata a coppa con orlo rivolto all'insù, non solo si accresce sensibilmente ma col 
tempo si rivolta all’ingiù, assumendo così l'aspetto di un collaretto o breve guaina 
ricuoprente il pedicello florale, immediatamente al disotto del frutto. 

La causa che provoca la separazione delle due parti del calice si deve sempli- 
cemente al fatto che mentre nella parte superiore, di debole spessore e di rapido 
accrescimento, le cellule al momento dell’ apertura della corolla, non solo hanno 
raggiunto il loro completo sviluppo ma sono entrate in un periodo regressivo posto 
in evidenza dalla dissociazione degli elementi e dalla formazione di numerose lacune, 
gli elementi della parte persistente del calice invece continuano a-crescere ed a mol- 
tiplicarsi, donde uno squilibrio di tensione che determina il distaccamento e indi 
la caduta della parte superiore (1). 

Il secondo fenomeno, quello cioè che si riferisce al rovesciamento del calice, è 
alquanto più interessante e va dovuto a varie cause di carattere meccanico. 

Ricordo anzitutto che l’androceo è nelle solanee, come in genere in tutte le 
corolliflore, saldato alla corolla, così da formare con questa apparentemente un solo 
verticillo. : 


(1) Vedi E. MarreL, 1° Contribuzione all'Anatomia del fiore delle Solanee. 


460 EDOARDO MARTEL 12 


Esaminando la fig. 1 sì scorge che mentre nel fiore giovane e prima della 
scissione del calice, questo verticillo e la corolla che gli sta vicina sono posti quasi 
allo stesso livello, più tardi la corolla si trova spinta visibilmente ad un livello 
superiore ed il calice all'infuori. 

Questo primo spostamento dei due verticilli va dovuto all’ accrescimento note- 
vole del parenchima fra loro interposto (fig. 2). 

A questo primo spostamento ne succede un altro per cui la corolla a sua volta 

per essere spinta all'infuori, viene così a sovrapporsi al calice e quest’ultimo in 
seguito alla pressione cui è sottoposto obliquamente dall’insù all’ingiù, descrive un 
arco e da verticale che era, si dispone orizzontalmente. Inutile ch'io dica che nel 
momento in cui avviene questa serie di fenomeni il calice è già dimezzato. 
3 Questo secondo spostamento va attribuito, in parte, è vero, alla divergenza 
sempre maggiore dei fasci f. vascolari che formano l'armatura superficiale del ricet- 
tacolo, ma in massima parte alla pressione che lateralmente alla corolla viene eser- 
citata dalla base dell’ovario (Fig. 3). 

Le pareti dell’ovario infatti, specialmente alla base, acquistano un enorme spes- 
sore, dovuto alla formazione di un parenchima spugnoso di natura sugherosa (fig. 4). 

Dopo della caduta della corolla, si verifica un ultimo spostamento. La corolla 
che era posta al vertice di una specie di piramide, da verticale ch’era descrive un 
arco di circa 90' e si dispone orizzontalmente. 

Nel mentre si produce questa rotazione della base della corolla il calice che 
già sì era, come dissi poc'anzi, disposto orizzontalmente, in seguito allo spostamento 
della corolla che gli è sovrapposta, s'ineurva all’ingiù (fig. 3). 

Questo terzo spostamento insieme della corolla e del calice va dovuto all’accre- 
scimento enorme della base dell’ovario, la quale spingendosi all'infuori preme late- 
ralmente sulla piramide che sosteneva la corolla, l’obbliga a rotare su sè stessa ed 
anzi col tempo si stende al disopra di essa comprimendola di tutto il suo peso. La 
pressione che si esercita sulla corolla viene poi, per mezzo del parenchima, trasmessa 
al calice sottostante, il quale, già in parte spostato, sì rovescia come dissi addirit- 
tura all’ingiù. 

La passività completa del calice nel decorso dei fenomeni di cui mi sono trat- 
tenuto e più ancora la struttura anatomica di esso, lasciano in chi osserva, il dubbio 
che cioè nel Datura stramonium il calice sia un semplice prolungamento fogliaceo 
del ricettacolo. 

L'esame microscopico delle sezioni tanto longitudinali che trasversali del calice, 
provano infatti che il tessuto che ne forma lo spessore è in perfetta continuità con 
quello del ricettacolo ed è costituito da un parenchima omogeneo i cui elementi 
debolmente allungati sono disposti parallelamente alla superficie. 

Manca ogni traccia di stomi. 


13 NUOVA CONTRIBUZIONE ALL'ANATOMIA DELLE SOLANEE 461 


SPIEGAZIONE DELLE FIGURE 


1° Quesiro — Dell’ufficio devoluto al libro interno nelle Solanee 
in relazione coll’anatomia del fusto. 


Fig. 1. Cestrum pendulinum: e epidermide - ip ipoderma - p.c parenchima corticale - f.p fibre 
pericicliche - /.e libro esterno - xi xilema - Z.i libro interno - sc? sclerenchima - 
scl.m sclerenchima midollare. 

» 2. Solanum Lycopersicum: p.c platten collenchym - %.c knorpel collenchym. 
3. Lycium Carolinianum: c.s cellule speciali del tessuto corticale. 

» 4 Nicotiana Tabacum: t.s tessuto sugheroso - e libro interno. 

5. Solanum argenteum: e epidermide in via di divisione (fellogene) - f.p fibre pericicliche - 
sc sclerenchima midollare. 

6. Atropa Belladonna: f.p fibre pericicliche - sc selerenchima midollare. 

7. Verbascum Blattaria: r.m raggi midollari. 

s 8. Petunia nictiginiflora: f.p fibre pericicliche - xi xilema. 

9. Nicotiana Tabacum: p.c parenchima corticale - xi xilema - /.î libro interno. 

10. Acanthus mollis: m meristema - d biforcazione del meristema per la formazione delle 
due specie di libro. 

La serie delle fig. 11 a, 115, 1lc, 114 serve a mostrare i cambiamenti di posizione ai quali 
vanno soggetti il libro esterno, i fasci vascolari ed il libro interno dal colletto 
della radice sino al livello in cui i fasci bicollaterali hanno nel fusto raggiunto la 
loro posizione normale. 

In ognuna delle figure: Z.e libro esterno - /.î libro interno - f.v fasci vascolari. 

Fig. 12. Nicotiana Tabacum: a isola di libro interno - è isola di libro esterno. 

13. Sezione trasversale di una gamma fogliacea: P peziolo - F fusto — nel peziolo: p peri- 
ciclo - Z.e libro esterno - Zi libro interno. 

Da notarsi che nella sezione del peziolo i fascetti liberiani delle due specie for- 
mano una curva senza soluzione di continuità. Nel fusto v.f. zona vascolare. 

14. Datura stramonium (esemplare giovane): Z.e libro esterno - l.î libro interno. 

15. Datura stramonium (esemplare adulto): f.p fibre pericicliche in via di sclerotizzazione - 
te isola di libro esterno in via di distruzione - Z.î isola di libro interno in pieno 
sviluppo. 

16. Datura stramonium (esemplare vecchio): Z.e libro esterno sclerenchimato. 

» 17. Alkekengi somniferum: fc fellogene. 


2° Quesito — Sul rovesciamento del calice del fiore 
del Datura stramonium. 


Nelle fig. 1, 2, 3, 4, 5: # calice - co corolla - 0 ovario. 


di Torino, CL se. fia. nat. e nat.— Serie 2"Tomo LXII 


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Lit. Salussolia, Torino. 


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SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 


RICERCHE 


DEL SOCIO 


Prof. PIO FOÀ 


(CON DUE TAVOLE) 
Approvata nell'adunanza del 26 Novembre 1911. 


La letteratura contemporanea intorno alla presenza, alla struttura e alla pro- 
babile funzione delle cellule interstiziali del testicolo è già molto ricca, e non è 
presumibile che su tale argomento si possano trovare dei fatti fondamentalmente 
nuovi seguendo gli ordinari metodi di ricerca. Tuttavia, vi sono alcuni dati parti- 
colari che meritano un’indagine più accurata, come ad esempio quello della relazione 
esistente fra le cellule interstiziali e la sostanza fibrillare del connettivo, oppure 
quello della capacità delle cellule interstiziali di traslocarsi, o quello della parte che 
esse prendono nelle infiammazioni semplici o specifiche, o anche quello del loro com- 
portamento di fronte a corpi estranei. 

Per mettere in luce i fatti riferentisi ai suddetti particolari, possono adottarsi 
i vari metodi della tecnica istologica moderna come già hanno fatto diversi autori, 
ma un metodo fu particolarmente introdotto in questi ultimi anni che mi è sem- 
brato dovesse riuscire molto profittevole, voglio dire, quello della colorazione intra- 
vitale col mezzo di sostanze che Ehrlich ha scoperto, e che sono il bleu di pyrrolo 
e isanamina (pyrrholblau, isanaminblau, B). Il pyrrolo si forma colla condensazione di 
tetrametil-diamino-benzoydrolo e pirrolo e ha proprietà di sostanza basica; l’isana- 
minblau appartiene alla serie delle sostanze sulforate e manifesta le proprietà di 
una sostanza acida. 

Entrambe queste sostanze si sciolgono facilmente nell’acqua in qualunque pro- 
porzione, e non precipitano per l’azione degli ordinari liquidi di fissazione (alcool, 
sublimato, formol, acido cromico, acido osmico, molibteno). Da numerose esperienze 
eseguite col bleu pirrolo e colla isanamina, dal Prof. E. Goldmann di Friburgo */8r. (1) 
è risultato che nei diversi organi e nelle diverse parti degli stessi s'incontra sempre 


(1) Die aussere und innere Sekretion des gesunden Organismus im Lichte der “ vitale Fàrbung ,, von 
Prof. Dr. Edwin Gorpwans. Tibingen, Verlag der H. Zaupp’schen Buchhandlung, 1909. 


464 PIO FOÀ 


Do 


un determinato elemento che domina il campo. Si tratta di una cellula di una gran- 
dezza che sta fra quella di un piccolo e d’un grosso linfocito, generalmente tondeg- 
giante con un grosso nucleo ricco di cromatina, e con un protoplasma finemente gra- 
nuloso. I granuli sono colorati in bleu chiaro, sono rotondi, di grandezza uniforme e 
di numero vario secondo gli elementi, ma non mai così grande da coprire il nucleo. 
Le suddette cellule possono secondo la località in cui si trovano presentare la forma 
più diversa, e cioè: sono rotonde nel peritoneo, fusiformi nel connettivo intermusco- 
lare, rotonde e finemente granulose nel testicolo, stellate e a grossi granuli nel fegato. 
Per conoscere la ripartizione e la genesi degli elementi in discorso è necessario 
fissare gli organi e procedere ai tagli microscopici. 

A tale scopo serve ottimamente il formolo (10%). nel quale liquido possono 
anche gli organi rimanere a lungo senza alterarsi. Reputo conveniente cambiare il 
liquido un paio di volte, e dopo 5-6 giorni si possono i pezzi porre direttamente in 
alcool senza passaggi in acqua, conservandosi il colore sugli elementi in cui si è 
fissato. Al più segue che dopo poche ore dalla prima immersione in aleool il colore 
si diffonde un poco; allora si cambia l’alcool, e occorrendo, anche una seconda volta, 
poi si ha il pezzo ben fissato che può durare molti mesi inalterato. 

Come termine di confronto è opportuno allestire anche dei preparati con pezzi 
fissati in formolo col mierotomo a congelazione, colorando i tagli con allume carmino 
e completando la colorazione con una leggera soluzione di orange. il quale colora 
bene il protoplasma e fa meglio risaltare i globuli rossi entro i vasi dell’organo. In 
mezzo ad altri elementi spiccano in modo molto evidente per un forte contrasto di 
colore le cellule su cui si è fissata la materia colorante azzurra. 

Per avere una colorazione della cute, delle membrane sierose e dei vari organi 
a scopo di studio si adoperano topolini o ratti cui si pratica l'iniezione di 1 c. c. 
della materia colorante diluita all'1°/ sotto cute. ripetendola ogni 5-6 giorni per 
6-8 volte e anche più. Nei topi e ratti maschi si può studiare bene, ad esempio, il 
testicolo in cui solo le cellule interstiziali assumono la colorazione azzurra onde 
appariscono facilmente i loro accumuli negli spazi intercanalicolari, intorno alle sezioni 
dei vasi sanguigni. 

Volendo io studiare il diportamento delle cellule interstiziali di coniglio nei pro- 
cessi patologici ad arte provocati, mi occorrevano animali di maggior taglia, e quindi 
conigli, cavie e cani, ma se avessi dovuto adottare il metodo delle iniezioni sotto- 
cutanee, in attesa che tutto il corpo dell'animale si fosse colorato avrei dovuto 
impiegare ingenti quantità di sostanza, onde ho preferito ricercare se fosse stato pos- 
sibile limitare la colorazione ad un organo solo. 

Dapprima, riferendomi alle ricerche che avevo compiuto l’anno precedente intorno 
alle alterazioni che si potevano produrre nel fegato per la via della milza, ho ten- 
tato di ottenere nel cane e nel coniglio delle colorazioni specifiche delle cellule di 
Kupfer, iniettando appunto nella milza la materia colorante, e sul principio credetti 
la cosa possibile. Senonchè col proseguire le esperienze sopratutto nel cane ho potuto 
persuadermi che la materia colorante restava precipitata nella milza al posto della 
iniezione di dove lentamente si diffondeva a colorare qualche granulo di qualche ele- 
mento della polpa o del reticolo, e solo casualmente qualche granulo colorato in bleu 
sì vedeva anche nel fegato intorno ai vasi, onde ho dovuto tralasciare queste espe- 


3 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 465 
rienze. E anche riuscì infruttuoso ogni tentativo di iniezione parenchimatosa nel 
fegato, perchè la colorazione poteva prodursi nelle cellule di Kupfer solo isolatamente 
in una breve estensione. Anche al rene non era il caso di pensare, perchè anche 
nelle lente preparazioni generali nei topi, il risultato che si ottiene non è costante 
ed eccezionalmente si colorano anche le cellule epiteliali dei canalicoli. 

Più opportuno ho trovato di spingere la materia colorante nel testicolo, e sulle 
prime ho tentato di farlo nel cane, nella cavia, nel ratto e nel coniglio; poscia per 
varie ragioni ho trovato più adatto a questo genere di esperienze il coniglio. La 
pelle dello seroto è sottile e si può più facilmente perforare coll’ago-canula, la albu- 
ginea non è molto resistente, il volume dell’organo è abbastanza grande per potervi 
praticare a distanza di tempo parecchie iniezioni di seguito. Infatti, adoperando solu- 
zioni all’1°/, io iniettavo nel parenchima del testicolo 1 c.c. di liquido, e facevo 
seguire all’iniezione un po’ di massaggio e dopo una settimana ripetevo spesso l’inie- 
zione e poi lasciavo a riposo l’animale, riservandomi di fare nei testicoli già pre- 
parati quelle esperienze che avessi creduto. Esse hanno consistito in varì traumatismi 
nella introduzione di certe sostanze nel parenchima stesso, o nella circolazione ge- 
nerale. Lasciato a sè l’animale dopo l’operazione per qualche tempo, gli veniva 
estirpato il testicolo operato e tosto veniva immerso nella formalina al 10 °/. Dopo 
alcune ore di fissazione si praticavano tagli col microtomo a congelazione, e li si 
coloravano coll’allume carmino e con orange allungato; indi venivano montati in 
balsamo. Spesso i tagli fatti col microtomo a congelazione erano colorati col 
sudan III e venivano montati in levulosio. Dopo qualche giorno di fissazione nel for- 
molo rinnovato un paio di volte, il rimanente dell'organo veniva passato diretta- 
mente in alcool e dopo circa un giorno l’alcool veniva rinnovato. Il colore non si 
diffondeva oltre nel liquido e dopo un soggiorno breve nell’alcool assoluto, si pro- 
cedeva all’impregnazione in paraffina secondo il solito procedimento, e i tagli veni- 
vano colorati come sopra, e posti così in confronto colle sezioni naturalmente più 
grossolane fatte col microtomo a congelazione. 

Il bleu d’isanamina colora splendidamente e solamente i granuli delle cellule 
interstiziali del testicolo, i cui nuclei si colorano in rosso coll’allume carmino. 

Per ottenere la fissazione della materia colorante nelle dette cellule, occorre 
qualche tempo. Infatti, se si asporta il testicolo poco dopo aver fatta l’iniezione si 
trova che la materia colorante si è diffusa dappertutto nello spazio intercanalicolare 
occupandolo come una massa omogenea intensamente azzurra. È solo estirpando il 
testicolo dopo un certo tempo che si osserva la presenza di cellule granulose azzurre 
nello spazio interstiziale e lungo i vasi, mentre tutto il resto dell’organo è rimasto 
incoloro. Talora si trovano granuli colorati o piceoli blocchi di sostanza colorata 
anche nel lume dei canalicoli seminali, ma col tempo tutto scompare eccetto la bella 
colorazione delle cellule interstiziali. Se l’iniezione si fa direttamente nel testicolo 
non si colora che la parte compresa dalla iniezione; ossia la materia colorante non 
passa mai direttamente nell’epididimo, onde se si vuole che si colorino anche le 
cellule intercanalicolari dello stesso, bisogna iniettarlo direttamente. 

Per avere il reperto netto, è necessario lasciare l’organo iniettato per qualche 
giorno nell’animale prima di asportarlo. La materia colorante si diporta nel testicolo 
a un dipresso come nella cute per iniezione sottocutanea; cioè, essa stenta a dif- 

Serie II. Tox. LXII se 


466 PIO FOÀ 4 


fondersi, tanto che è raccomandato di fare dopo l'iniezione un po’ di massaggio; ma 
a poco a poco dal posto dell'iniezione si estende alle parti più lontane e colora 
il suo elemento specifico, che per il testicolo è la cellula interstiziale. 

Quando la materia iniettata sia molto densa e abbondante, è meno facile distin- 
guere le parti onde si compone l'elemento cellulare; esso appare come un grosso 
cumulo di granulazioni grossolane intensamente colorate. 

Una molto ricca letteratura tratta delle cellule interstiziali del testicolo che la 
maggior parte degli autori ascrive oggidì al tessuto connettivo, e aventi particolar- 
mente in alcuni animali un’apparenza di cellule epiteliali. Nell’uomo appariscono 
abbondanti nell'età fetale e sono ricche di grasso nei neonati; scompaiono nel fan- 
ciullo per riapparire abbondanti nella pubertà, indi diminuiscono nell’età adulta per 
tornare ad aumentare nella tarda età. In alcuni stati morbosi generali, diminuisce 
la spermogenesi e aumenta la quantità delle cellule interstiziali. È forte l'aumento 
nei testicoli criptorchici, e nei casi di pseudoermafroditismo mascolino. Waldeyer, 
v. Hansemann, Diirck, Kauffmann e U. Stoppato (1) hanno accuratamente descritto 
tumori del testicolo a carattere sarcomatoso e provenienti dalle cellule interstiziali. Si 
sono pure descritti casi di pigmentazione abbondante delle cellule interstiziali nel- 
l’anemia perniciosa progressiva e nella emocromatosi, e v. Hansemann rilevando in 
esse la presenza di gocciole adipose anche in casi perfettamente normali e in attività 
di sviluppo ne concluse che esse non dovessero reputarsi solo elementi di un tessuto 
di sostegno, ma sibbene elementi destinati a compiere una funzione. In processi pato- 
logici può trovarsi una degenerazione grassa o una loro progressiva scomparsa nei 
casì di processi infiammatori che conducano a formazione di ascessi o di necrosi nel 
testicolo. 

Spesso le cellule interstiziali si moltiplicano e dànno luogo a una più o meno 
considerevole iperplasia, come quella che v. Hansemann (2) ha veduto nelle marmotte 
parecchio tempo dopo il risveglio dal sonno letargico, e che paragonò alle cellule inter- 
stiziali grosse e numerose del testicolo del cignale, così da paragonarle ad un sar- 
coma a cellule grandi. Numerose cellule interstiziali si riscontrano nei tisici, nelle 
cachessie cancerose e sifilitiche, nel tifo addominale, nella lebbra, nello stato timico- 
linfatico, nell’atrofia senile, nei testicoli sottoposti all’azione dei raggi X o a quella 
del radio, al dintorno di focolai tubercolotici del testicolo, alla periferia di focolai 
infiammatori, nei casi di legatura del dotto deferente. In genere si ha l'aumento 
delle cellule interstiziali accanto alle gravi lesioni dei canalicoli seminali, siano esse 
in forma di processi degenerativi delle cellule germinative o in forma di una reale 
atrofia dei canalicoli. 

Sull’andamento e sull’esito delle ferite dei testicoli diversi autori hanno fatto 
ricerche sperimentali. Così il Jacobsohn (3) ha visto che dopo l'esportazione di un pez- 


(1) Vedi la letteratura nel lavoro di U. Sropparo, Ueber Ziwvischenzellen der Hoden (“ Beltuages zur 
Path.-Anat. u. zur Allgem.-Path. ., von AscHorr u. MarcHanp, Bd. 50, 1911). 

(2) v. Hansemanx, “© Virchow's Archiv ,, Bd. 142, 1895. Uedber die sogenannten Zwischenzellen des 
Hodens. 

(3) Jacossons, “ Virchow’s Archiv ,, Bd. 75, 1879. Zur Path. Histologie der Traumat. Hoden 
Entzindung. 


5 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 467 


zetto di parenchima e di pelle si formava una crosta bruna, caduta la quale appariva 
un tessuto di granulazione, da cui si produceva la cicatrice che copriva il difetto 
di sostanza. Colla introduzione di un filo attraverso il testicolo vedeva formarsi in 
48 ore un accumulo di cellule rotonde e di eritrociti. Le cellule interstiziali erano 
aumentate, ma poi andavano distruggendosi nel tessuto di granulazione. Sanfelice e 
prima di lui il Griffini (1) ricercarono particolarmente la rigenerazione dei canalicoli 
seminiferi, concludendo in senso positivo. Maximow da ultimo ricereò minutamente 
il processo di guarigione delle ferite nel testicolo di diverse specie di mammiferi e 
di rana. 

Trovò che immediatamente dopo la ferita segue la necrosi e l’infiltrazione di 
sangue e di fibrina. Al 2° giorno comincia la reazione attiva colla poliferazione degli 
elementi connettivi e colla formazione di un ricco tessuto di granulazione, dal quale 
vengono compressi i canalicoli seminiferi. Più tardi apparisce l’ingrossamento delle 
cellule interstiziali e la loro moltiplicazione per cariocinesi. Alla periferia del tessuto 
necrotico si accumulano leucociti, e nel tessuto necrotico stesso penetrano cellule 
connettive e vasi. Alla fine della prima settimana apparisce il tessuto connettivo 
fibrillare; alla fine di un mese è formata la cicatrice. Le cellule di Sertoli e gli sper- 
matogonii resistono di più di ogni altro elemento alla lesione, la quale invece pro- 
duce variazioni negli spermatidi e negli spermatociti. 

Le mie esperienze furono fatte, come sopra ho detto, sopra testicoli previamente 
operati di iniezione parenchimatosa di bleu di isanamina. I testicoli così operati si 
presentano all'osservazione dopo vari giorni dalla iniezione unica, o ripetuta una 
volta, senza modificazione del loro volume e della loro forma, e colorati uniforme- 
mente in azzurro o pallido o intenso, secondo il numero delle iniezioni e la quantità 
di sostanza introdotta. Dove ha luogo il traumatismo quivi segue la necrosi circo- 
scritta, ma tutto intorno la materia colorante si diffonde lentamente e colora solo, 
come si è detto, il tessuto interstiziale. In questi testicoli così preparati ho intro- 
dotto colle debite cautele un filo assettico oppure un filo impregnato di bacillo 
Friedlànder, oppure un filo impregnato di coltura netta di bacilli tubercolari. Il ba- 
cillo Friedlinder fu da me adoperato perchè a causa della poca recettività che il 
coniglio ha verso di quello, si ottengono più facilmente in esso delle infiammazioni 
interstiziali a lento decorso. Il bacillo tubercolare era di tipo bovino e dotato di 
sicura virulenza. L’asportazione del testicolo operato fu fatta dopo un minimo di 
7 giorni di tempo fino ad un massimo (per il filo assettico) di 2 mesi. Di tutti 
questi furono fatti esami a fresco (formolo e microtomo a congelazione) e sui pezzi 
fissati e imparaffinati. 

Esperienze: Ad un coniglio del peso di gr. 2000 si fa una prima iniezione di 
2 ce. c. di una soluzione di bleu d’isanamina all’1 °/ direttamente nei testicoli. Dopo 
7 giorni si ripete la stessa operazione; dopo altri 6 giorni si opera la introduzione 
di un filo assettico attraverso il testicolo sinistro, e dopo 14 giorni si pratica la 
castrazione dei due testicoli. Il coniglio pesava 1900 gr. e non sembrava aver sof- 


(1) L. Garerisi, Sulla riproduzione parziale del testicolo, ©“ Archivio delle Scienze mediche ,, 
Vol. II, 1887. 


468 PIO FOÀ 6 


ferto dalla operazione. In altri casì si sagrificò l’animale e si trovò che appena 
qualche piccolo ganglio linfatico prelombare aveva assunto una tinta azzurra e qualche 
volta si trovava leggermente colorato anche l’omento, ma d’ordinario l’animale non 
presentava altro di notevole. Il testicolo operato appariva uniformemente azzurro ed 
era di consistenza normale e al posto di ingresso e di egresso del filo eravi un po’ 
di tessuto di granulazione d’aspetto rossiccio. Fissato il testicolo in formolo al 10% 
per 24 ore, ho eseguito parecchi tagli col microtomo a congelazione e li colorai col- 
l’allume carmino e coll’orange; oppure immersi il resto del testicolo in alcool a 97° 
per un giorno e poi cambiai l’alcool e ve lo lasciai altri tre o quattro giorni, e col 
solito metodo l’imparaffinai e lo sezionai in tagli di 5-10 u col mierotomo. In altri 
casi ho fissato il testicolo in liquido di Zenker o direttamente, o previa una perma- 
nenza di alcune ore in formol, e poi in alcool rinnovato di spesso nei primi giorni. 
In tutti i casi simili ho trovato un reperto corrispondente. Fatta astrazione’ da un 
gruppo di canalicoli necrotici dove è penetrato l’ago-canula e con esso la massa 
d’iniezione che talora era ancora in gran parte addensata e colorava tutto uniforme- 
mente, penetrando anche nel lume dei canalicoli, tutto all’intorno e più lontano dove 
la massa colorante era venuta a poco a poco diffondendosi si scorgevano cumuli di 
cellule colorate negli interstizi di canalicoli normali e naturalmente poco discoste dai. 
vasi pieni di sangue, o addirittura a ridosso delle loro pareti. Dove il filo assettico 
era passato aveva destato una infiammazione interstiziale produttiva, e si vedevano 
molto abbondanti e di varia grossezza le cellule azzurre tondeggianti od elittiche, e 
insieme abbondante il connettivo fibrillare e le rispettive cellule fibroblastiche (Vedi 
Fig. 2). Eseguendo tagli di pezzi di testicolo operato allo stesso modo che fu sopra 
descritto che era stato fissato in liquido di Zenker e poi in alcool, si seorgeva l’identico 
reperto, perchè il suddetto liquido fissativo non altera affatto la colorazione vitale 
delle cellule interstiziali, ma appariva anche più spiccato il connettivo intersti- 
ziale. Colorando i tagli col liquido di v. Gieson le fibrille si rendevano assai evi- 
denti, e così pure i nuclei delle cellule fibroblastiche, mentre le cellule interstiziali 
come blocchi di granulazioni azzurre sembravano applicate al connettivo. Dai miei 
preparati mi è parso sempre risultasse con evidenza l'indipendenza delle cellule 
interstiziali dalle fibre e dalle cellule del tessuto connettivo, di cui quelle erano 
elementi concomitanti, ma non direttamente costitutivi. Un coniglio i cui testicoli 
furono preparati alla solita maniera colle iniezioni d'isanamina, e in cui pure era 
stato introdotto un filo assettico, fu lasciato a sè per 75 giorni, e fu trovato 
aumentato di peso, e in piena apparenza di salute. Operata la castrazione, e usati 
i soliti metodi di preparazione, è risultato all'indagine microscopica che negli in- 
terstizi dei canalicoli seminiferi d’apparenza normale esisteva una rete vascolare 
molto ampia e i vasi erano ingorgati di sangue, e le loro pareti erano elegante- 
mente accompagnate o fiancheggiate da grosse cellule interstiziali intensamente 
azzurre. In talune sezioni appariva che le cellule interstiziali rafforzassero le pareti 
dei vasi dilatati, come fossero vere cellule perivascolari, mentre era scarso il con- 
nettivo fibrillare coi rispettivi fibroblasti (Vedi Fig. 2 bis). 

In altre esperienze il filo che traversò il testicolo già preparato con iniezioni 
di isanamina, era stato prima dell'operazione impregnato di una cultura in brodo 
di stafilococco. Dopo 10-14 giorni si è trovato molto ampia e congesta la rete va- 


7 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 469 


scolare interstiziale, e in vicinanza del filo si sono trovati dei cumuli fittissimi di 
piccole cellule, come tanti piccoli nodi infiammatori, in mezzo ai quali si trovavano 
pure delle cellule azzurre, alcune ben conservate; altre che evidentemente andavano 
frantumandosi, così che non restava altro di esse che qualche blocchetto di sostanza 
azzurra. Più lontano dai nodi infiammatori, il tessuto interstiziale si era fatto abbon- 
dante; distinta vi era la sostanza fibrillare con fibroblasti, e numerose e grosse vi 
erano le cellule interstiziali rappresentate da cumuli di granulazioni grosse inten- 
samente azzurre, e per lo più mascheranti il nucleo, il quale dove si vedeva appariva 
colorato in rosso dall’allume carmino. 

Ancora altre molte esperienze furono fatte passando attraverso il testicolo pre- 
parato un filo impregnato in una cultura pura in brodo di bacillo di Friedlinder. 
È noto che il coniglio è assai poco recettivo al suddetto bacillo, il quale se imman- 
cabilmente uccide la cavia, molto spesso invece risparmia il coniglio. Questo ha una 
discreta recettività locale, onde il bacillo Friedliinder è un mezzo prezioso per pro- 
vocare delle infiammazioni subacute in organi parenchimatosi, come ho dimostrato 
nelle mie ricerche sull’infiammazione del rene. Ho potuto seguire i risultati prossimi 
e remoti della infiammazione interstiziale prodotta nei testicoli di coniglio iniettati 
previamente di isanamina e ne ebbi i seguenti risultati. 

Se il testicolo viene esaminato troppo in prossimità del tempo in cui fu operato, 
non si può discernere esattamente quanto sia dovuto all’azione fagocitaria contro j 
bacilli e quanto alla reazione successiva del connettivo interstiziale, ma esaminando 
il testicolo operato dopo 4-5 giorni dall’introduzione del filo si osserva già la pro- 
duzione di una decisa infiammazione interstiziale che parte dalla zona intorno al filo 
e si diffonde più o meno lontano. Dove ebbe luogo il trauma necessariamente si 
produce necrosi dei canalicoli; ma più intorno ad essi e meglio ancora più da lontano 
si scorge la produzione di un tessuto connettivo fibrillare ricco di cellule fibrobla- 
stiche, e tra esse stanno le cellule azzurre senza alcun evidente rapporto colle fibrille. 
I testicoli operati possono anche essere fissati in liquido di Foà (sublimato-Miiller), 
o in liquido di Zenker e poi colorati con carmino o con ematossilina, e v. Gieson; 
allora spicca assai bene il tessuto connettivo fibrillare coi nuclei delle sue cellule 
fibroblastiche, mentre da esse indipendenti si scorgono le cellule azzurre come grossi 
accumuli di granulazioni grossolane colorate intensamente e raccolte intorno a un 
nucleo reso evidente dal carmino. 

Se il testicolo operato viene esaminato dopo più di 14 giorni, allora si scorge 
sugli interstizi un vero tessuto di granulazione fornito di una rete di vasi capillari 
di nuova formazione e il connettivo fibrillare che li circonda è molle, quasi retico- 
lato e fra le sue cellule fibroblastiche contiene le grosse cellule azzurre. Queste talora 
si raccolgono di preferenza accanto alle pareti vascolari, così da parere cellule peri- 
vascolari. La stessa apparenza abbiamo scorto in testicoli che da molto tempo 
(2 !/s mesi) erano stati operati col filo assettico; anche in quelli era resa evidente 
un’ampia rete vascolare e un quasi addossamento di cellule azzurre lungo la loro 
parete. Non è l’unica interpretazione possibile quella che si tratti di cellule peri- 
vascolari, perchè nel tessuto interstiziale normale dei testicoli le cellule interstiziali 
sono bensì necessariamente vicine ai vasi, ma tuttavia abbastanza discoste da non 
figurare come vere cellule avventiziali. 


470 PIO FOÀ 8 


Può darsi adunque che le cellule interstiziali in questi casi si dispongano accanto 
alle pareti dei vasi dilatati o dei vasi di nuova formazione, e li accompagnino nel 
loro percorso. Finalmente se si esaminano testicoli operati di più vecchia data, si 
scorge che il tessuto interstiziale è divenuto omogeneo sclerotico, povero di cellule 
fibroblastiche, mentre le cellule interstiziali o isolate o a gruppi si distinguono 
sempre in mezzo al tessuto fibroso, ma esse pure subiscono lentamente un processo 
di disgregazione che le diminuisce di volume e di numero. Se quando il testicolo è 
in piena infiammazione interstiziale si esaminano i tagli fatti col microtomo a con- 
gelazione e colorati col sudan II, allora si scorgono altri particolari interessanti. 
Molto grasso si trova accumulato negli epiteli dei canalicoli seminali, e intorno ai 
canalicoli necrotici vi è molto grasso negli spazi intercanalicolari. Le cellule intersti- 
ziali non si alterano affatto; anzi parecchie di esse presentane-delle goccioline adi- 
pose, e in alcune cellule azzurre le goccioline tinte in rosso dal sudan sono più 
numerose: in altre poche le goccioline aumentano così da occupare quasi tutta la cel- 
lula mentre si riducono i granuli azzurri; finalmente vi sono cellule interstiziali di cui 
non si vedono che cumuli di gocciole adipose intorno al nucleo leggermente azzurro. 

Il fenomeno della trasformazione delle cellule interstiziali, in elementi che sem- 
brano solo composti di un accumulo di gocciole adipose intorno al nucleo, con frap- 
posto qualche rarissimo granulo azzurro come ad attestare l’origine dell’elemento, si 
riscontra anche più accentuato in altri casi in cui si è operato nel testicolo un’inie- 
zione di liquido fisiologico, o una emulsione di sperma. Questi liquidi provocano una 
larga distruzione di parenchima, ossia forma delle isole in cui tutto è necrotico, ma 
alla periferia della massa necrotica si trovano canalicoli circondati da connettivo 
interstiziale accompagnato da cumuli di cellule azzurre. In alcune parti in cui il 
taglio comprende rami arteriosi si vede che intorno all’avventizia si accumulano in 
ordine seriato le cellule azzurre. In taluni spazi interstiziali più larghi sì scorgono 
molti elementi azzurri forniti di gocciole di grasso; e isolatamente si trovano delle 
cellule totalmente composte di gocciole di grasso con qualche granulo azzurro, oppure 
anche senza di questi. Tale reperto si è ottenuto sia iniettando il liquido in testicoli 
già preparati colle iniezioni di isanamina, sia in testicoli senza alcuna preparazione, 
e iniettando, invece, la soluzione colorata dopo 4-3 giorni dalla operazione. L’aspor- 
tazione dei testicoli veniva fatta dopo altri 6-7 giorni, e in questi come nei casi 
precedentemente descritti, i tagli colorati col sudan dimostravano il graduale pas- 
saggio delle cellule azzurre in cellule costituite da gocciole di grasso e simili affatto 
a vecchi corpuscoli purulenti. 

La reazione interstiziale intorno alle masse necrotizzate dalle iniezioni di liquidi 
fisiologici, apparve molto viva e dopo 7-8 giorni in pezzi fissati in Zenker e colorati 
con carmino e v. Gieson vi scorgeva una ricca quantità di fibrille -sottilissime e 
numerose le corrispondenti cellule fibroblastiche, mentre si trovavano ad accumuli 
le cellule azzurre voluminose col loro grosso nucleo tinto dal carmino. 

Un'altra piccola serie di esperienze fu fatta coll’iniezione in testicoli preparati 
o non, di una sospensione di pelviscolo di carbone nella soluzione fisiologica. Nei 
testicoli non preparati, cioè che non avevano subìto preventivamente l'iniezione di 
isanamina, era sorprendente il vedere gli identici risultati che si ottengono ordinaria- 
mente colla iniezione di quest’ultima soltanto, cioè, le cellule interstiziali completa- 


9 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 471 


mente impregnate di carbone così da celarne il nucleo e la struttura protoplasmatica, 
seguivano il tratto di tessuto connettivo i cui fibroblasti e le cui fibrille erano come 
d’ordinario semplicemente colorati col carmino. Le cellule interstiziali facevano 
corona in serie regolare alle sezioni trasversali dei vasi accanto all’avventizia dei 
medesimi, oppure se ne scorgevano in serie sotto la capsula (Vedi Fig. 3). somma 
se si toglie il colore e la sostanza che le impregnava, il reperto, come si disse, era 
identico a quello che si aveva da una iniezione di bleu di isanamina. 

Se il testicolo era stato preventivamente preparato coll’iniezione di sostanza 
colorante, e in seguito, cioè dopo qualche giorno, sì iniettava la sospensione di carbone 
animale finemente triturato, si scorgeva facilmente che in ciascuna cellula azzurra si 
conteneva uno o più blocchetti di carbone (Vedi Fig. 3). Anche se prima si iniettava 
carbone e dopo qualche giorno si iniettava sostanza colorante, si dimostrava la colo- 
razione azzurra nelle cellule che già avevano arrestato le minute particelle di car- 
bone. Anche queste iniezioni, come è naturale, determinavano qualche area di necrosi, 
intorno a cui si produceva una leggera infiammazione interstiziale, e le cellule fibro- 
blastiche non trattennero il carbone. 

Per meglio apprezzare la importanza della estensione della necrosi operata dal 
traumatismo della iniezione di liquidi nel testicolo nella produzione della infiamma- 
zione interstiziale, si sono fatte delle semplici ferite traversando il parenchima di 
un testicolo preparato, coll’ago-canula della siringa da iniezione, oppure praticando 
prima la ferita e poi la iniezione di isanamina a distanza di qualche giorno, e lon- 
tano, in ambi i casi, dal luogo della iniezione o rispettivamente della ferita. Si 
ottenne allora una reazione assai limitata e rappresentata da qualche striscia di 
ispessimento del connettivo interstiziale, il quale col tempo si faceva sempre più 
fibroso e alla fine sclerotico, accompagnata da cellule azzurre o a gruppi o isolate, 
e che col tempo divenivano più scarse di numero. 

Un’altra serie di esperienze fu fatta colle iniezioni di licopodion sospeso nella 
soluzione fisiologica di NaCl, nel testicolo di coniglio già preparato col bleu d’isa- 
namina, oppure questa ultima si faceva qualche giorno dopo l’iniezione del licopodion. 
Conviene non esagerare nella quantità del licopodio iniettato e l'iniezione conviene 
sia fatta lentamente. Può in caso contrario seguire il caso che la materia troppo 
abbondante e iniettata bruscamente rigurgiti nel sacco della vaginale, ove si raccoglie 
in una specie d’essudato che contiene il licopodio. Operato convenientemente, non è 
difficile di scorgere negli spazi intercanalicolari i grani di licopodion circondati da un 
anello di cellule azzurre. Queste sono accumulate tutto intorno al corpo estraneo e 
sì presentano talora inalterate col loro ammasso di granuli azzurri e col loro nucleo 
caratteristico. Altrove si trovano piuttosto dei detriti di cellule azzurre intorno al 
licopodion esso stesso in disgregazione. Si ha così l’impressione di una progressiva 
distruzione delle cellule azzurre e nello stesso tempo di un assottigliamento e pro- 
gressiva scomparsa del licopodion (Vedi Fig. 5). 

Osservando i tagli più sottili ove i corpi estranei sono meglio conservati e 
sono ancora circondati da un cumulo di cellule azzurre integre, si ha la riproduzione 
quasi identica della figura che Marchand ha pubblicato nel 1° Vol. dei “ Verhandlungen 
d. Deutsche Pathol. Gesellsch. , (Berlin, 1899, pag. 75), in cui è rappresentato un 
grano di licopodion circondato dalle cellule che egli ha denominato leucocitoidi. 


472 PIO FOÀ 10 


Più innanzi sarà detto del significato che potrebbe essere attribuito ai risultati 
di queste due ultime serie di ricerche. 

Ancora un’altra lunga serie di esperimenti fu fatta rendendo tubercolosi i testi- 
coli preparati colle iniezioni di isanamina. Alcuni casi si sono prodotti accidental- 
mente, perchè per errore fu adoperata ad iniettare i testicoli una siringa che aveva 
servito a iniettare in alcune cavie della materia caseoso-tubercolare. Altri invece 
furono operati in due modi: o introducendo attraverso il testicolo un filo che era 
stato dianzi immerso in una sospensione di bacilli tubercolari in liquido fisiologico, 
oppure iniettando nella vena auricolare di conigli robusti 1 c.c. di sospensione 
di un’ansa di coltura di b. tubercolare in 2 c. c. di soluzione fisiologica. Ne seguì 
una tubercolosi generalizzata, e si trovarono spesso dei noduli recentissimi di tuber- 
colosi intorno ai vasi del tessuto intercanalicolare dei testicoli, che erano già stati 
preparati con una o con due distanziate iniezioni di isanamina. I risultati ottenuti 
furono vari secondo il metodo adoperato per rendere tubercolosi i testicoli, e certo 
non furono privi di importanza per la questione di cui ci occupiamo. 

Un coniglio grosso, del peso di 2200 gr., ebbe due volte alla distanza di 7 giorni 
due iniezioni parenchimatose nel testicolo sinistro, di isanamina. Una di tali iniezioni 
fu fatta molto vicina alla testa dell’epididimo, il che è da rilevare perchè nei casi 
in cui l'iniezione cade esclusivamente sul corpo del testicolo, essa non penetra mai 
nell’epididimo. Lasciato a sè l’animale, si trovò che il testicolo era divenuto molto 
grosso, caldo e duro, e si suppose che fosse avvenuta accidentalmente una infezione 
comune, probabilmente da piogeni. Invece, quando dopo circa 14 giorni si è tolto il 
testicolo operato (l’altro era singolarmente atrofico), si vide che esso era in parte 
infiltrato di sostanza caseosa. Fissato in formol per 8 giorni, indi trasportato in 
alcool, si sono fatti molti preparati da pezzi inclusi in paraffina affine di controllare 
con maggiore finezza di particolari quei tagli che dopo sole 10 ore di fissazione in 
formolo si erano fatti col microtomo a congelazione, e che avevano dimostrata l’esi- 
stenza di una affezione tubercolare. Questa poi era anche più confermata dall’esi- 
stenza di granulazioni tubercolari nel rene, nella milza, nel fegato, nei gangli lin- 
fatici della pelvi, nel ganglio retrosternale, che aveva anche assunto la colorazione 
azzurra, e abbondantissime nei polmoni. La robustezza pregressa dell’animale faceva 
escludere che si fosse iniettata la materia colorante in un soggetto già affetto da 
tubercolosi; invece, parve più logico ammettere che questa si fosse accidentalmente 
prodotta coll’iniezione mediante una siringa inquinata. 

Dall'esame microscopico è risultato che nel testicolo esistevano vari focolai 
costituiti da una massa centrale caseosa densa, circondata da un abbondante tessuto 
di granulazione in cui prevalevano piccoli elementi linfatici. All’infuori delle masse 
caseose e grunulomatose, si osservava il fatto singolare che i canali seminiferi erano 
invasi nel loro lume da cumuli di cellule azzurre (Vedi Fig. 7). Queste erano grandi 
a granuli grossi e si scorgeva un bel nucleo colorato in rosso dal carmino. In mezzo 
ad esse erano elementi appartenenti evidentemente all’epitelio germinale, ma non era 
facile il dire quale ordine di elementi essi rappresentassero. In talune parti si osser- 
vava bensì il canalicolo seminifero penetrato da qualche gruppo di cellule azzurre, 
ma qualche elemento azzurro si trovava ancora impegnato nella parete, e altri pochi 
ancora si vedevano nel tessuto interstiziale. Il quale in verità era esso pure rap- 


11 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 473 


presentato da una infiltrazione di piccole cellule linfatiche e solo eccezionalmente vi 
si scorgeva frammezzo qualche cellula azzurra. 

Esaminando l’epididimo, si scorgeva che molti canalicoli non presentavano alcuna 
particolarità, o non era facile lo scorgerla; invece, in taluni altri gruppi di cana- 
licoli si trovava che la materia colorante era penetrata nell’epididimo colorandone 
alcuni elementi interstiziali, mentre le pareti dei canalicoli stessi dell’epididimo, 
addimostravano la presenza di alcune cellule azzurre nella parete e di altre che 
smagliando le fibre più interne erano penetrate nel lume stesso del canalicolo. I 
fenomeni suddescritti non erano limitati ad alcune parti, ma erano visibili in tutti 
i preparati, col contrasto evidente fra la sostanza intercellulare povera o mancante 
affatto di cellule azzurre, mentre ne era zaffato il lume dei canalicoli, e le cellule 
in questa contenute erano grosse, a granuli voluminosi e a nucleo molto evidente. 

In un’altra serie di esperienze fu, come si è detto più sopra, espressamente 
introdotto nel testicolo di coniglio un filo di seta impregnato di una coltura pura 
di bacilli tubereolari. Là dove il filo passava determinava necrosi di canalicoli e un 
fitto accumulo di piccoli elementi intorno ad esso, ma un po’ più discosto si scor- 
gevano dei noduli microscopici composti di piccoli elementi, tra i quali erano pure 
penetrate parecchie cellule interstiziali azzurre col loro aspetto caratteristico. 

Finalmente più lontano ancora, dove il virus tubercolare non era penetrato, si 
scorgevano come in un testicolo normale le cellule azzurre intercanalicolari; solo esse 
sembravano più numerose e più grosse dell’ordinario, il che per vero dire avrebbe 
anche potuto essere determinato dalla copiosa iniezione di materia colorante fatta 
due volte di seguito, e dal lungo tempo passato fra l'iniezione e l’esame dell’organo. 

Finalmente si operò un’altra serie di conigli con una iniezione nella vena auri- 
colare di una tenue e omogenea sospensione di bacilli tubercolari virulenti. Essi 
penetrarono in tutti gli organi e anche nei testicoli, determinandovi la produzione 
di numerosi noduli microscopici costituiti da cumuli di piccoli elementi addensati 
alla periferia del nodulo, e già in incipiente necrosi nella rispettiva parte centrale. 
Anche in questi noduli, come in quelli ottenuti col filo attraverso il testicolo, si 
osservava che quando erano recentissimi presentavano nella periferia del nodulo 
dapprima, e poi fino alle parti centrali, una ricca quantità di elementi azzurri volu- 
minosi e bene conservati (Vedi Fig. 6). Man mano il nodulo invecchiava e le parti 
centrali cadevano in necrosi, sì trovava anche l’impallidimento, la disgregazione e la 
scomparsa degli elementi azzurri, i quali qui e là erano solo più rappresentati da 
residui di granulazioni. Il parenchima del testicolo fuori dell’ambito di questi noduli pre- 
sentava l'aspetto normale con numerose cellule azzurre nel tessuto intercanalicolare. 

A chiudere la serie degli esperimenti, viene ora quello di iniezioni di bacilli 
tubercolari nell’addome di topolini, resi universalmente azzurri col mezzo di molte- 
plici iniezioni sottocutanee di bleu di isanamina, a distanza di tempo l’una dall’altra. 
I topolini, ai quali era stata fatta nell’addome l'iniezione di 1 c.c. di sospensione 
di un’ansa di bacilli tubercolari nel liquido fisiologico, sopportarono indifferentemente 
l'operazione, e fu per ‘curiosità che li ho sacrificati dopo 30-45 giorni dall’iniezione 
affine di esaminare che cosa era seguito nel peritoneo e sopratutto nel fegato e nella 
milza della materia iniettata. È noto dalle belle esperienze di E. Goldmann (I. c.) che 
il fegato dei topolini a lungo trattati con iniezioni sottocutanee di isanamina si pre- 

Serie Il. Tow. LXII I? 


474 PIO FOÀ 12 


senta macroscopicamente senza grande variazione di colore, ma nei preparati micro- 
scopici, esso offre costantemente colorate intensamente in azzurro le sole cellule 
di Kupfer, ossia gli endoteli dei capillari intralobulari. Era pertanto interessante il 
conoscere quale aspetto avrebbe potuto presentare il fegato di topo dopo l’iniezione 
dei bacilli tubercolari e di altri microorganismi. Il primo esperimento fu fatto sopra 
un topo maschio al quale furono fatte in 100 giorni dieci iniezioni sottocutanee 
di 1 c.c. di soluzione 1° di isanamina. Il topo sopportò assai bene le iniezioni, 
tanto che fu trovato di peso leggermente aumentato, e fu scelto fra altri topi ugual- 
mente preparati e che dovevano servire allo studio della struttura normale, per 
iniettargli nella cavità peritoneale mezzo c.c. di sospensione di bacilli tubercolari 
di tipo umano, fatta con un’ansa di coltura stemperata in 2 c. c. di soluzione fisio- 
logica. L'animale apparentemente non ne ha risentito affatto, onde dopo 25 giorni fu 
sacrificato. Un altro topo pure preparato con ripetute iniezioni sottocutanee di isa- 
namina fu operato coll’iniezione di mezzo c.c. di cultura di bacilli di tubercolosi 
come il precedente, ma fu sacrificato in apparente buono stato dopo 30 giorni dalla 
iniezione; finalmente un terzo topo ugualmente trattato fu sacrificato dopo 25 giorni. 
Il reperto anatomo-patologico macroscopico parve negativo se si eccettua nel 2° e 
nel 3° un notevole tumore di milza. Ciò che ha più particolarmente colpito nell’in- 
dagine microscopica degli organi è stato il fegato, le cui cellule di Kupfer erano 
colorate intensamente in azzurro e le cui cellule epatiche ben conservate presenta- 
vano-ora un grosso nucleo, ora due nuclei, oppure forme di scissione nucleare in 
corso, ma ciò che era veramente interessante, era la produzione di numerosi noduli 
costituiti da un cumulo di piccole cellule i cui nuclei si tingevano vivamente in rosso 
col carmino e fra queste un gruppo di grosse cellule azzurre che le coprivano in gran 
parte (Vedi Fig. 8). Accanto ai noduli era facile scorgere alcune singole cellule di Kupfer 
più grosse e più intensamente colorate delle altre congeneri, e appariva una gradazione 
di volume fra le cellule singole intralobulari, e quelle che penetrando nel nodulo ne 
costituivano la parte più caratteristica. L'esame del fegato di quei topolini che erano 
stati uccisi più lungo tempo dopo l’infezione, presentava ugualmente la presenza di 
molti noduli, ma si distinguevano dai precedentemente descritti per essere meno 
numerose le cellule azzurre e più pallide, onde era più evidente il cumulo delle 
piccole cellule che si coloravano col carmino. Se queste differenze fossero da ascri- 
versi a variazioni individuali, oppure al più lungo tempo decorso tra l’infezione e 
la morte dell'animale, o al numero di bacilli che hanno determinato la formazione 
di noduli è cosa che non si potrebbe decidere, anche atteso il numero troppo scarso 
degli sperimenti; tuttavia sembra più logico ammettere che la maggiore o minore 
copia di cellule grosse e colorate, nello spessore dei noduli, possa dipendere dal nu- 
mero di bacilli, perchè in un medesimo taglio di fegato si possono talora trovare 
dei noduli carichi di cellule grosse intensamente azzurre e degli altri prevalente- 
mente costituiti di visibili piccole cellule inframmezzate da poche e sottili cellule di 
Kupfer. I noduli sono disseminati tra le cellule epatiche, e spesso accostano i vasi 
sanguigni le cui pareti separano i noduli dal lume del vaso. È singolare che identico 
reperto si è potuto ottenere in fegati di topi preparati come i precedenti, ma 
infettati di pneumococchi, sì che ne morirono in tre o quattro giorni. In questi casi 
il fegato presentava una rete sanguigna molto larga e congesta, e solo intorno ai 


13 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 475 


vasi quasi a ridosso della loro parete si trovavano cumuli di cellule grosse azzurre 
e di piccole cellule come nei noduli precedentemente descritti. L'esame di molti 
fegati normali di topolini azzurri, e di fegati di topolini che dopo la preparazione 
coll’isanamina ricevettero infezioni di altri bacteri, come lo stafilococco e il dacillus 
coli, ha però rilevato che nel fegato di topolini normali si trovano abbastanza di 
frequente dei piccoli noduli costituiti da piccole cellule, e anche inframmezzate da 
scarse e sottili cellule azzurre, onde il reperto avuto nei topi infetti da tubercolosi 
e da pneumobacillo potrebbe indicare solo una esagerazione dello stato normale. 

Nella milza dei topolini morti di tubercolosi non esisteva che una iperplasia dei 
follicoli linfatici, e una grande abbondanza di elementi della polpa, ma nulla che 
potesse ascriversi effettivamente alla tubercolosi. 

Rileggendo la descrizione che del fegato dei suoi topolini azzurri ha fatta il 
Prof E. Goldmann nell'opera citata, e nella figura da lui presentata nelle tav. IV, 
fig. 1°, e V, fig. 2°, non risulta che l’autore abbia rilevata la presenza dei noduli 
suddescritti. Egli ha descritto invece dei casi abbastanza frequenti nei topi, di pre- 
senza di vermi nel fegato con netta separazione della capsula che li circonda dal- 
l'organo circostante, e vide nella capsula la presenza di molte Mastzellen colorabili 
col rosso neutro. i 

Se vuolsi ora prendere in considerazione tutto quanto si è venuto descrivendo 
in merito agli esperimenti eseguiti col mezzo della colorazione intravitale, si rileverà 
innanzi tutto la capacità che hanno le cellule interstiziali di moltiplicarsi rapida- 
mente anche quando abbiano fissato nei loro granuli la sostanza colorante. I testicoli 
preparati col bleu di isanamina, mostrano le cellule interstiziali azzurre in propor- 
zione e per forma normali come con qualunque altro metodo. Ma se si attraversa 
il testicolo con un filo assettico oppure impregnato di germi virulenti, si osserva una 
rapida moltiplicazione degli elementi interstiziali preesistenti, sebbene col metodo 
della colorazione intravitale non si possa esaminare il procedimento di tale molti- 
plicazione; se, cioè, per scissione diretta, oppure indiretta. Il Maximow a tale riguardo 
ha coi metodi ordinari dimostrato che le cellule interstiziali possono proliferare per 
scissione indiretta. Proliferano anche le cellule del connettivo interstiziale e si vede 
che l’esito ordinario sia di una ferita semplice assettica come quella che si produce 
col passare un’ago-canula attraverso il testicolo, oppure l’esito di una irritazione 
assettica provocata da un corpo estraneo, come un filo di seta, è sempre quello di 
una parziale mortificazione del parenchima, e di una proliferazione del connettivo 
interstiziale e delle cellule interstiziali propriamente dette. Queste sono anche spesso 
molto grosse se la preparazione colla isanamina fu ripetuta con abbondate quantità 
di soluzione, e sono numerose sopratutto nelle infiammazioni recenti. Il connettivo è 
dapprima squisitamente fibrillare; più tardi diventa sclerotico, e allora diminuisce 
ad un tempo il numero delle cellule fibroblastiche e quello delle cellule interstiziali. 
L’orchite interstiziale che si provoca con un filo impregnato di b. Friedlinder, pro- 
voca dei grandi accumuli di cellule interstiziali, e anche la neoformazione di abbon- 
dante connettivo areolato fibrillare intorno ai canalicoli seminiferi; oppure se l’in- 
fiammazione data da più lungo tempo si produce un’orchite interstiziale sclerotica, 
con grosse cellule interstiziali o accumulate o isolatamente sparse lungo la sostanza 
fondamentale. Ciò che col metodo delle colorazioni vitali spicca in modo particolare 


476 PIO FOÀ 14 


è la differente disposizione, il differente ufficio delle cellule connettive e fibroblastiche 
propriamente dette, da quello delle cellule interstiziali. Quello fabbrica sostanza fon- 
damentale e fibrillare; queste invece ne rimangono indipendenti, nè ho mai potuto 
avere alcun indizio sicuro della trasformazione delle cellule interstiziali in cellule 
connettive propriamente dette, in nessuna fase del loro sviluppo. 

È interessante nella produzione di infiammazioni assettiche, il rilievo che quello 
che potrebbe essere intitolato l’essudato, oppure l’infiltrazione infiammatoria, non ha 
nulla a che fare con elementi sanguigni. Infatti non si scorgono leucociti nè lin- 
fociti, ma solo cellule interstiziali proliferate. Ed è pure interessante in certi casi 
l'osservazione di preparati colorati col sudan II e fatti sopra testicoli intensamente 
infiammati per introduzione di fili imbevuti di soluzione di bacteri oppure per inie- 
zione abbondante di liquido fisiologico o di emulsione di sperma, provocanti una 
necrosi piuttosto estesa del parenchima. Allora si osserva la presenza di cellule 
interstiziali azzurre con pochissime gocciole adipose, il che potrebbe essere anche 
fisiologico, e insieme molte altre che vanno così caricandosi di granulazioni adipose 
che i granuli colorati scompaiono, si disgregano e non se ne scorge che qualche 
residuo nel protoplasma della cellula. Si direbbe di avere sott’occhi dei corpuscoli 
purulenti in piena infiltrazione grassa, mentre si tratta di elementi istiogeni d’ori- 
gine locale e da causa flogogena. L’infiltrazione, o il prodotto cellulare infiamma- 
torio, può essere dunque, come nei casi suddescritti è molto evidente, un prodotto 
puramente istiogeno ossia da proliferazione degli elementi locali, bene conservati o 
in totale infiltrazione adiposa, senza intervento alcuno degli elementi circolanti nel 
sangue. Si tratta di elementi, nei casi descritti, che appartengono bensì ai tessuti 
connettivi, ma indipendenti dalle celle fibroblastiche e dalla rispettiva sostanza inter- 
cellulare. Essi, anche secondo Goldmann (1. c.), partecipano attivamente alla cica- 
trizzazione delle ferite. 

Dalle esperienze eseguite colle iniezioni di carbone nei testicoli preparati, o colla 
iniezione di azzurro di isanamina in testicoli che già avevano ricevuto iniezioni di 
carbone, è risultata la facoltà che hanno le cellule interstiziali di arrestare le par- 
ticelle di carbone, le quali si vedono come corpuscoli neri in mezzo alle granula- 
zioni intensamente azzurre del protoplasma. Certo che il metodo in discorso non 
basterebbe a dimostrare che le cellule interstiziali compiano una vera funzione fago- 
citaria, perchè esse rimangono sempre come sono coi loro corpuscoli di carbone, ma 
intanto rivelano la loro qualità di cellule d’arresto di fronte a certi corpi estranei. 
Un simile reperto ha descritto il Goldmann nei polmoni dei topi preparati coll’az- 
zurro d’isanamina, avendovi egli trovato che si coloravano in azzurro anche le cellule 
contenenti le particelle di carbone. Un qualche cosa di più addimostrano le espe- 
rienze fatte col licopodio, perchè vi è reso evidente che intorno a quei corpi estranei 
le cellule azzurre si accumulano come un anello, e man mano passava il tempo dalla 
eseguita iniezione gli elementi accumulati si disgregavano e si scomponevano, mentre 
anche si assottigliavano e sembravano distruggersi granuli di licopodio. 

Le esperienze col bacillo tubercolare casualmente introdotto in un testicolo che 
ricevette varie iniezioni di azzurro, hanno dimostrato che il blocco caseoso è cir- 
condato da un tessuto composto di piccoli elementi linfocitari o linfocitoidi, e che 
tutto intorno i canalicoli seminiferi furono invasi dalle cellule interstiziali penetrate 


15 SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 477 


nel loro lume. Sia nella parte testicolare sia nell’epididimo si potè scorgere la gra- 
duale penetrazione delle cellule attraverso le pareti dei canalicoli, e la loro pene- 
trazione nel lume rispettivo, mentre il tessuto interstiziale non conteneva più gli 
elementi azzurri caratteristici. 

La capacità delle cellule interstiziali ad emigrare nel lume dei canalicoli am- 
messa da Bardeleben e da Spangaro, fu con particolare evidenza in singoli esemplari 
raffigurata da Goldmann nella sua opera citata. Ora, nelle esperienze suddescritte è 
risultata la penetrazione in massa delle cellule interstiziali nei canalicoli, in casi 
patologici e particolarmente intorno a focolai caseosi. 

Diverso fu il risultato della infezione tubercolare del testicolo per mezzo di un 
filo di seta impregnato di.una sospensione di bacilli tubercolari nel liquido fisiologico, 
perchè in questi casi si ebbe una produzione di noduli recenti di tubercolosi, a com- 
porre i quali si accumularono le piccole cellule linfocitoidi, ma insieme vi concorsero 
le cellule interstiziali, le quali erano evidenti e ben conservate nella zona periferica 
del nodo, mentre andavano sempre più disgregandosi nella parte centrale, che è la 
prima a subire la degenerazione caseosa. 

Finalmente è riuscita singolare la produzione e la presenza di noduli nel fegato 
di topi lungamente iniettati coll’isanamina, e da ultimo trattati colla iniezione di 
bacilli tubercolari, o di pneumococchi nell’addome, perocchè essi manifestavansi pro- 
dotti da grossi accumuli di cellule azzurre coi quali erano mascherati i cumuli con- 
trapposti di piccoli elementi linfocitari. I casi più recenti presentavano gli accumuli 
più grossi; i casi più vecchi presentavano i cumuli più diradati di cellule azzurre, 
oppure nel medesimo taglio di fegato si trovavano entrambi.i tipi a cellule grosse 
e numerose, e a cellule piccole e scarse, di un azzurro intenso, e identiche per 
forma e per volume, oppure più grosse e più tondeggianti delle cellule di Kupfer, 
che lontano dai nodi si presentavano normali o a vari gradi progressivi di ingros- 
samento. Eccetto che nei casi di infezione col diplococco pneumonico per cui gli 
animali morirono in pochi giorni, quelli trattati col b. tubercolare non soccombettero 
affatto, ma furono espressamente uccisi dopo 15-20 giorni e nessuna apparenza 
di malattia si poteva macroscopicamente rilevare. In fegati apparentemente nor- 
mali si poterono però osservare, più radi è vero, ma pure esistenti, dei noduli a 
piccole cellule con qualche elemento azzurro, onde rimane sospesa l’interpretazione 
del fatto, se esso debba essere attribuito almeno in parte all’azione dei bacteri 
iniettati nella cavità del peritoneo, oppure se si tratti di variazioni individuali. In 
via sintetica si può concludere che le cellule interstiziali, distinte dalle cellule con- 
nettive propriamente dette, non fabbricano esse il tessuto fibrillare, sono capaci di 
moltiplicarsi e di costituire da sole la massima parte di un’infiltrazione interstiziale 
infiammatoria, con o senza infiltrazione grassa dei suoi elementi e indipendentemente 
dagli elementi circolanti del sangue. Le cellule interstiziali sono elementi d'arresto 
di corpi estranei, e forse compiono anche una vera funzione fagocitaria. Sono dotate 
della facoltà di traslocarsi e possono penetrare in massa nel lume dei canalicoli 
seminiferi; infine possono accumularsi in nodi flogistici probabilmente costituiti da 
bacteri, senza che si possa accertare col metodo adoperato, se esse vi compiano 
un’azione fagocitaria o difensiva. 


478 PIO FOÀ — SULLE CELLULE INTERSTIZIALI DEL TESTICOLO 16 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 


Fig. 1. Rappresenta le cellule interstiziali azzurre per iniezione parenchimatosa. d’isanamina ne] 
testicolo normale di coniglio. 

Fig. 2. Rappresenta la reazione interstiziale del testicolo di coniglio traversato da un filo asset- 
tico con proliferazione delle cellule azzurre interstiziali, e delle cellule fibroblastiche. La 
sostanza fibrillare è indipendente dalle cellule azzurre. 

Fig. 2 bis. Un testicolo di coniglio preparato coll’iniezione parenchimatosa di isanamina e tra- 
versato da filo assettico, asportato dopo 75 giorni. Una larga rete di vasi è fiancheggiata 
da grosse cellule azzurre interstiziali. 

Fig. 3. Cellule interstiziali di testicolo di coniglio in cui fu fatta un’iniezione di polvere di 
carbone animale sospesa nel liquido fisiologico. 

Fig. 4. Iniezione di minutissimo pulviscolo di carbone a lungo triturato, nel testicolo di coniglio. 
Reazione interstiziale connettiva: le cellule azzurre trattennero un blocchetto di carbone. 

Fig. 5. Iniezione parenchimatosa nel testicolo di una sospensione di granuli di licopodion nel 
liquido fisiologico. Reazione interstiziale. Licopodion circondato dalle cellule azzurre. 

Fig. 6. Nodulo di tubercolosi periarterioso d’origine ematogena. Le cellule azzurre partecipano 
in principio alla formazione del nodulo; più tardi impallidiscono, si disgregano e scom- 
paiono. 

Fig. 7. Penetrazione delle cellule azzurre interstiziali nei canalicoli seminiferi in caso di tuber- 
colosi sorta accidentalmente durante la preparazione del testicolo di coniglio con inie- 
zione di azzurro di isanamina. 

Fig. 8. Noduli parvicellulari, con accumuli di cellule azzurre, e cellule interstiziali (Kupfer) 
azzurre nel fegato di un topolino reso azzurro con iniezioni sottocutanee di bleu d’isa- 
namina, e successivamente iniettato di tubercolosi nella cavità peritoneale. 


Tav, 1:92 


Memorie dR.Accad.d. Scienze di Torino Ser. IT Vol IXII 


mea 


Lit. Tacohinardi e Fernari-Favia 


L'EQUILIBRIO ELASTICO 


DAL 


PUNTO DI VISTA ENERGETICO 


MEMORIA 


DEL 


Dott. Ing. G. COLONNETTI 


Approvata nell'adunanza del 3 Dicembre 1911. 


Difficilmente in tutta la teoria dell’elasticità potrebbe trovarsi un teorema il 
quale abbia sollevato attorno a sè discussioni più lunghe e più vivaci di quelle a 
cui ha dato luogo il noto principio del minimo lavoro. 

Le prime difficoltà, le quali datano dall’epoca stessa in cui il principio in discorso 
venne per la prima volta enunciato dal Menabrea, si mutarono infatti in un vero e 
proprio disaccordo tra matematiei ed ingegneri allorquando, per opera del Castigliano, 
esso si affermò definitivamente nel campo delle applicazioni. 

Ed il dissidio non è per anco cessato; il principio del minimo lavoro fa oggi 
parte dell’insegnamento della Scienza delle Costruzioni nelle Scuole di Ingegneria, 
ma viene sistematicamente escluso dai più accreditati corsi di Fisica Matematica e 
di Teoria Matematica dell’Elasticità. 

Nell’accingermi qui a presentar la questione sotto un punto di vista nuovo, che 
mi sembra non del tutto privo di interesse, non starò a dire di quanti mi hanno 
preceduto nello studio di questo argomento: all’opera loro accennerò via via che mi 
se ne presenterà l’occasione. 

Soltanto delle dotte Memorie del Prof. Donati (1) mi sembra doveroso far fin 
d’ora parola, come di quelle a cui io farò nel seguito più frequente ricorso. 


Premesse (?). 


In un primo studio approssimato dei fenomeni che si manifestano in un mezzo 
qualsiasi, questo si può paragonare ad un sistema di punti materiali ciascuno dei 


(1) L. Dowxami, £ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna ,, serie IV, 
t. IX (1888), pag. 345; serie IV, t. X (1889), pag. 267; serie V, t. IV (1894), pag. 449. 

(®) Ad ovviare ogni possibile equivoco, ed a definire nel modo più preciso la portata dei teoremi 
che in seguito verranno dimostrati, si riportano qui brevemente poche nozioni note sulla parte che, 
al concetto di energia, spetta nella teoria dell’elasticità. 


480 G. COLONNETTI 92 


quali è completamente definito dalla sua massa invariabile e dalle tre sue coordinate, 
in generale variabili. 

Se le forze che sollecitano i singoli punti di un cosiffatto sistema sono cen- 
trali e dipendono soltanto dalle distanze mutue dei punti stessi, il lavoro da esse 
forze eseguito durante una qualsiasi deformazione non dipende da tutti gli stati pei 
quali il sistema passa successivamente nel suo movimento, ma bensì soltanto dalle 
due configurazioni iniziale e finale: sussiste allora il principio della conservazione 
dell'energia, il sistema si dice conservativo ed il lavoro in discorso viene espresso 
sotto forma di differenza dei valori, relativi a quelle due configurazioni, di una 
funzione uniforme, finita e continua di quelle variabili da cui dipende la forma del 
sistema dato. 

Lagrange, pel primo, ha, nella classica sua “ Mécanique analitique ,, insistito 
sulla importanza di questa funzione (3) che sta oggi a base di ogni teoria meccanica 
così dell'equilibrio che del movimento dei corpi. 

Ma sarebbe evidentemente impossibile limitarsi, nello studio dei corpi quali 
effettivamente si trovano in natura, a considerare soltanto sistemi materiali così 
semplici; il fisico è pertanto inevitabilmente condotto a considerare i corpi continui, 
a caratterizzare i quali non bastano più le sole coordinate di certi loro punti. 

Perchè un corpo continuo sia infatti completamente definito occorre conoscerne, 
in ogni punto, la densità, la temperatura, nonchè un certo numero di parametri 
dipendenti dal suo stato fisico, chimico, ecc. 

I principii della meccanica non bastano più allo studio di simili corpi; ed anche 
quando si escludano, come qui vogliam fare, tutti i cambiamenti di stato sia fisici 
che chimici, è pur sempre e soltanto alla termodinamica che possono chiedersi i 
principi fondamentali (4). 

Si ritrova così che ad ogni stato del sistema corrisponde un valore ben definito 
di una funzione U detta potenziale termodinamico totale, la quale appare costituita da 
due parti fra loro ben distinte: l’una TT nota sotto il nome di energia potenziale delle 
forze esterne ed eguale ancor qui al lavoro eseguito da tali forze quando il sistema 
passa dalla sua configurazione attuale a quella particolare configurazione per la quale 
si ammette che il potenziale si annulli; l’altra ® che denomineremo potenziale ter- 
modinamico interno, funzione uniforme, finita e continua dello stato del corpo. 

Noi studieremo soltanto problemi nei quali ciascuno degli elementi del corpo 
che si considera è definito da un certo numero di caratteri che gli sono proprii, senza 
che si debba fare intervenire nella sua definizione la natura degli altri elementi che 
compongono lo stesso corpo nè la posizione loro per rapporto al primo. 

Il potenziale termodinamico interno del corpo avrà dunque per noi la forma: 


(1) ®=|@dS, 


(9) Ad essa Gauss ha dato il nome di potenziale delle forze; W.Tnoxsox e Rankine l'hanno chia- 
mata energia potenziale; la stessa funzione, ma cambiata di segno, è stata detta funzione di forza 
da Hamrrron e da Jacosi. 

(4) W. Taoxsox, Thermo-elastic properties of matter, # Quarterly Journal of Mathem. , (vol. I, 1855). 
Vedi anche Taoxsow et Tarr, Treatise of natural philosophy, t. 11, pag. 462, ovvero E. BertI, Teoria 
della elasticità, È Il Nuovo Cimento ,, serie 2*, t. VII (1872), pag. 15. 


Bj L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 481 


l'integrale essendo esteso a tutto lo spazio S (connesso) occupato dal corpo, e © es- 
sendo una funzione uniforme, finita e continua dei parametri che definiscono lo stato 
della materia nell’interno dell'elemento di volume dS. 

Abbiamo già detto che questa forma del potenziale termodinamico interno è ben 
lungi dall'essere la più generale che possa immaginarsi. È da rimarcarsi anzi che 
la dipendenza del potenziale elementare @. di un elemento dS di volume, dallo stato 
della materia che occupa gli altri elementi del sistema, ovvero dalla posizione di 
questi elementi per rapporto a dS, non è affatto una concezione puramente ideale: 
essa si verifica, ad esempio, in tutti i fenomeni di capillarità, di elettricità, di ma- 
gnetismo, ecc. 

Limitata per altro, così come abbiamo detto, la questione, incominciamo col 
precisare bene che cosa dobbiamo intendere per deformazione di un corpo, e in quali 
casi lo studio di una deformazione può farsi coi mezzi di cui più innanzi vogliamo 
occuparci (?). ; 

Immaginiamo, a tal fine, suddiviso il corpo in tanti elementi: 


Se tali elementi esistessero soli nello spazio indipendentemente gli uni dagli altri, 
essi possederebbero certi ben determinati potenziali elementari: 


che, sommati, debbono, per le ipotesi fatte, fornirci il potenziale termodinamico 
interno dell’intiero sistema: 


d=p' Lp" + + REESE 


Immaginiamo che il corpo sia stato preso in considerazione in una prima sua 
configurazione perfettamente definita, che noi chiameremo stato naturale, senza per 
altro introdurre, pel momento, alcuna ipotesi sulle particolari sue caratteristiche. 

In questo stato naturale quei certi elementi del corpo possederanno ben deter- 
minati potenziali elementari: 


e ni dio se 
La quantità: 


®o = Plot Dod Pi 


mantenendosi costante qualunque siano le modificazioni a cui il corpo viene assog- 
gettato, e l’espressione del potenziale termodinamico interno del sistema essendo 
sempre e soltanto definita a meno di una costante, noi possiamo assumere come 
nuova espressione dello stesso potenziale la differenza: 


d_-d®b= (9 — po) + (pie Po) + (9! — ee 


(3) P. Dunex, Hydrodynamique, élasticité, acoustique (Paris, 1891, litograf.), t. II, pag. 205. 
Serre II. Tow. LXII. E° 


482 G. COLONNETTI 4 


Ciò premesso, si dirà che il corpo ha subita una semplice deformazione, senza 
cambiamento alcuno di stato fisico o chimico, se, per conoscere il valore di una 
qualunque delle differenze elementari: 


I ni 


= ah de Be 
che corrispondono ad un dato stato arbitrario del corpo, basta conoscere: 

1° lo stato naturale dell'elemento a cui tale differenza si riferisce; 

2° gli spostamenti che occorre dare ai diversi punti materiali che compongono 
l'elemento stesso per condurre ciascuno di essi dalla sua posizione nello stato natu- 
rale alla nuova posizione che esso occupa nel corpo deformato. 

La teoria dell’elasticità, entro i cui limiti noi intendiamo contenere le conside- 
razioni che stiamo per esporre, si occupa di queste deformazioni semplici, cioè non 
accompagnate .da cambiamento alcuno di stato fisico o chimico nè da alterazione di 
temperatura, soltanto subordinatamente ad una condizione essenzialissima: essa sup- 
pone che il passaggio del corpo dallo stato naturale allo stato attuale non richieda alcuna 
deformazione finita. 

In tal caso ciascuna di quelle differenze elementari può esprimersi in funzione 
di un numero finito di parametri variabili: gli ordinari mezzi dell’analisi bastano 
allo studio del comportamento del potenziale termodinamico interno il quale prende 
allora più frequentemente il nome di energia elastica o lavoro di deformazione come 
quello che rappresenta, sia il lavoro che il corpo può svolgere nel restituirsi dallo 
stato attuale allo stato naturale, sia fautato-di-seeno) il lavoro che hanno dovuto 
compiere le forze esterne per condurre il corpo stesso dallo stato naturale all'attuale 
suo stato di coazione elastica (*). 


81. 


Come stato naturale del corpo si sceglie sempre lo stato di equilibrio che esso 
assume quando i diversi elementi di volume che lo compongono ed i diversi elementi 
di superficie che lo limitano non sono soggetti ad alcuna forza esterna ad essi diret- 
tamente ed esplicitamente applicata. 

Nell’ordinario modo di presentare la teoria, si suppone che, nello stato naturale, 
tutti gli elementi del corpo si trovino allo stato naturale, di guisa che ogni sua por- 
zione, anche supposta isolata e sottratta all’azione del resto, conservi invariata la 
propria forma. 

Dette allora x, y, 2 le coordinate cartesiane ortogonali, dei punti del corpo o 
sistema preso in considerazione, nello stato naturale So si indichino con: 


a+ y+v z+w 


(9) BeLrramI, Sulle condizioni di resistenza dei corpi elastici, “ Rendiconti dell'Istituto Lombardo 
di Scienze e Lettere ,, 11 giugno 1885. 


5 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 483 


le coordinate dei medesimi punti materiali nello stato deformato $, denotando, come 
di consueto, con «, v, w le componenti dello spostamento del punto generico, com- 
ponenti che si suppongono funzioni continue delle coordinate. 

Indichiamo poi con a, è, c, f, 9, % le sei componenti della deformazione nel- 
l'intorno del punto (x, y, 2): 


gore = I se 

Dida fia dy de 

dv du dw 

(2) dy de dr 
Or a 

Sus e Li de dy 


È da queste sei grandezze, e da queste sole, che può farsi dipendere quell’energia 
elastica elementare che abbiamo testè contrassegnata colle lettere @, o meglio, colle 
differenze @ — gp. Chè anzi nel caso particolarissimo delle deformazioni infinitesime, 
da noi assunto come unico oggetto del nostro studio, si può senz’altro asserire che 
tale energia elastica elementare è una funzione omogenea di 2° grado (") di quelle 
componenti di deformazione: 


(a, d, c, f,9, 1) 


essenzialmente positiva e che solo si annulla per: 


cioè in corrispondenza dello stato naturale So. 

Tale funzione permette notoriamente di esprimere le componenti di tensione, 
secondo Kirchhoff, X,, Y,, Z., Y.,4,, X, (8) come forme lineari delle componenti di 
deformazione mediante le relazioni: 


dp dp 

\ er — Da Wa= 5 

) dp —_ DE 

8) Tall z,=3 
dg dp 

L= de KyT dA 


(*) Sono assai importanti a questo riguardo le note ricerche del Prof. SowieLiANA, “ Rendiconti 
della R. Accademia dei Lincei ,, serie V, vol. 3° (1894, 1° sem.), pag. 238 e serie V, vol. 4° (1895, 
. 1° sem.), pag. 25; “ Annali di Matematica pura ed applicata ,, serie II, t. VII (1902), pag. 129. 

() Si riterrà qui al solito: 


Z,= Y: Xx= Zx Ya=Xy. 


484 G. COLONNETTI 6 


laddove per contro le componenti di deformazione possono venire espresse come 
forme lineari delle componenti di tensione per mezzo delle relazioni reciproche: 


ZIAR0 SNO, 

se lia 

—_ DO ZIONI 

(4) es Siniozz 
_ dy RIO 

sn NZ: OS 


essendo: 
w(X., Vr Zi Vi ZA X,) 


la forma quadratica reciproca della @. 
La variazione dell’energia elastica elementare può adunque, in virtù delle (3) e 
delle (4), essere scritta sotto due forme fra loro reciproche: 


(5) do = X.da + Y,db + Zac + Ydf + Z.dg + X,ih 
tre 
(6) dy = adX, + bdY, + coZ. + f0Y.+ 9dZ, + hdX, 


a cui corrispondono due espressioni pure reciproche della variazione del lavoro di 
deformazione: 


(7) do = [(X.da + Y,dbb + Zde + Y.df + Z.dg + X,5h) ds 
e 
(8) d0 = [(adX. + 50Y, + cdZ. + f6Y. + 9dZ, + hd.X,) dS 


delle quali avremo in seguito occasione di trarre profitto. 

Noi abbiamo così stabilita a mezzo delle (8) e (4) una corrispondenza biunivoca 
tra le componenti di deformazione e le componenti di tensione, corrispondenza che 
noi implicitamente presupporremo sempre nel seguito, ed in virtù della quale dato 
arbitrariamente il sistema delle a, bd, c, f, g. &, ne risulta determinato il sistema delle 
X., Y,, 4, Y.,Zz, X, e reciprocamente. 


$ 2. 


Non è però affatto detto che, dato a priori un sistema, sia pure continuo, di 
sei funzioni a, ò, c, f, g, a delle coordinate x,y, = dei punti del corpo nel suo stato natu- 
rale, debba tale sistema di componenti di deformazione necessariamente rappresen- 
tare una vera e propria deformazione di quel corpo; chè anzi perchè ciò avvenga, 
cioè perchè esista un sistema continuo (v, v,w) di componenti di spostamenti da cui 


7 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 485 


si possano far dipendere le a, d, c, f, g,} giusta le (2), è necessario e sufficiente che 
siano soddisfatte le sei equazioni: 


Msi db dc 


dy de de? IPO 


(9) 


da IIOIA0f dg Li 3 
\ dyde t 2 de D dy de ae 


che risultano dalle (2) eliminandovi le «,v,w per via di derivazione (?). 

Notiamo però che se, per un punto (x,y, 2) si considera un intorno o particella 
elementare che si riguardi come isolata ed indipendente dal resto, si può sempre 
intendere che le a, è, c, f, g, f arbitrariamente date in quel punto, rappresentino una 
deformazione della particella considerata, e le X., Y,, Z,, Y., Z., X, dedotte colle (8), 
rappresentino le componenti di tensione che ne derivano: e reciprocamente date ad 
arbitrio le X., Y,, 4, Y:,Zx, X, si può sempre imaginare che ad esse corrisponda, in 
virtù delle (4), una ben determinata deformazione della particella, atta a riprodurre, 
colle tensioni a cui dà luogo, i valori dati. 

Le sei equazioni testè scritte esprimono le condizioni che debbono essere veri- 
ficate se si vuole che tutte queste deformazioni parziali siano conciliabili insieme, 
fondendosi a costituire una deformazione continua di tutto il corpo connesso. 

Noi chiameremo pertanto le (9) condizioni di congruenza, denotando col nome di 
congruente ogni sistema di componenti di deformazione il quale rappresenti una 
deformazione del corpo effettivamente realizzabile se questo, soggetto a forze tutte 
esplicitamente date, è, o si rende, del tutto libero nello spazio (19). 

È noto però che i corpi della natura, intorno al cui comportamento vertono le 
nostre ricerche, sono di solito soggetti a vincoli atti a limitare più o meno la ca- 
pacità loro di deformarsi. 

Può darsi pertanto che il sistema degli spostamenti w, v,w che corrisponde ad 
un dato sistema congruente a, d, c, f, g,f conduca ad una nuova configurazione del 
corpo incompatibile coi vincoli ad esso imposti, epperò praticamente irrealizzabile. 

Noi chiameremo adunque possibile una deformazione quando, il sistema delle 


(°) Cfr. ad esempio: A. E. H. Lowe, A Treatise on the Mathematical Theory of Elasticity (Cam- 
bridge, 1906), Ch. I. ovvero: R. MarcoLoneo, Teoria Matematica dello equilibrio dei corpi elastici 
(Milano, 1904), Cap. III, $ 6. Queste relazioni erano del resto già state rilevate da Barré de Saint-Venant; 
Cfr. Navier, Résumé des legons ete. (Paris, 1864), App. III. Esse vengono a volte sostituite da altre 
nelle quali compaiono le componenti di tensione in luogo delle componenti di deformazione. Pei 
corpi isotropi, detto 7 il coefficiente di contrazione, e posto T= Xx +Yy + Z:, esse prendono allora 
la forma: 


1 PT 
CIAOO E TE È 
Se mt 1 dgr 2 
1 d°T 
2V_ — È 
dir meli dyda i 


indicata dapprima senza dimostrazione dal Bertram [% Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, 
serie V, vol. I, pag. 142] e più tardi dimostrata da E. Armansi, “ Memorie della R. Accademia delle 
Scienze di Torino ,, serie II, t. XLVII (1897), pag. 115. © Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, 
serie V, vol. XVI (1° semestre 1907), pag. 23. 

(49) L. DowarI, £ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna ,, serie IV, 
t. IX (1888), pag. 345. 


486 G. COLONNETTI 8 


a, b, c,f,g,h essendo congruente, il sistema v,v, w che ne deriva soddisfa alle equa- 
zioni dei vincoli. 
Queste equazioni possono essere assai varie a seconda dei casi: nella necessità 
di ridurle ad un unico tipo, onde meglio fissar le idee, noi introdurremo una volta 
per tutte le ipotesi seguenti: 
1° Ogni vincolo imposto ad un punto di coordinate x,,Y,,z1 può esprimersi 
mediante una o più eguaglianze del tipo: 


f(c» Y1 z)=0 


come se il punto in questione fosse costretto ad appartenere ad una o più superfici 
aventi equazioni della forma: 


f(2,4,2) =0; 


2° Nel muoversi sopra ciascuna di queste superfici, reali od ideali che siano, 
il punto non incontra resistenza alcuna di attrito. 
In altri termini la reazione incognita di ciascun vincolo semplice ha per compo- 
nenti secondo gli assi: 


| df 


(10) op dr 
VEST + (26) + (25) 
df 
de i 


Segni di | (di | (dè 
| IRE 
Dalle quali ipotesi segue che ogni vincolo semplice, mentre introduce una inco- 


gnita nel sistema delle forze, determina una delle variazioni delle coordinate, impo- 
nendo al sistema di spostamenti (v,v,w) una condizione del tipo (11): 


Of ei OA EA da, 
(11) e an 


GE. 


Riprendiamo ora in considerazione un qualsiasi sistema continuo di componenti 
di deformazione insieme col suo corrispondente sistema di componenti di tensione; 
dopo di aver ricercato a quali condizioni il primo sistema deve soddisfare perchè la 
deformazione risulti compatibile colle condizioni geometriche imposte al problema 


(4!) Naturalmente nelle espressioni delle derivate de, D, L si devono intendere qui sosti- 
tuite le coordinate generiche x,y,2 colle particolari coordinate x, %1,z1 del punto che si considera. 


9 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 487 


dell’equilibrio, dovremmo proporci di indagare in quali condizioni lo stato di tensione 
elastica definito dal secondo sistema risulti in equilibrio colle forze esterne esplici- 
tamente date. 

Riescirebbe però una inutile ripetizione di cose note, qualsiasi deduzione teorica 
delle equazioni generali dell’equilibrio, che qui perciò ci limitiamo a riportare (12): 


20% dI, q d& 
7 da NE DE 
MO STR 
9 == > » 
(12) Yz gone dy | de 


OZ ED dZ: 
\ Z= dr nto dy ale dz 


\ —L=X;cos(nx) + X, cos (24) + X: cos (ne) 
(13) < — M=Y.cos(rx)- Y, cos (ny) + Y.cos (nz) 
| —N=4Z;cos(nx) + Z, cos (ny) + Z; cos (ne) 


indicando, al solito, con X, Y, Z e con L, M, N le componenti unitarie, rispettivamente 
della forza esterna agente sulla massa dei singoli elementi di volume, riferita all’unità 
di volume, e della pressione esterna applicata ai singoli elementi della superficie 
(di normale x), riferita all’unità di superficie. 

S'intende che tali forze e pressioni sono date in ogni punto così dell’interno che 
della superficie del corpo sempre quando esso sia del tutto libero nello spazio, rite- 
nendosi come data la forza zero in tutti quei punti sui quali non agisce forza di sorta. 

Ogniqualvolta poi il corpo in esame è soggetto a vincoli, vengono, come già si 
è detto, a mancare tante equazioni di equilibrio quanti sono i vincoli semplici imposti, 
cioè quante sono le condizioni che legano le componenti di spostamento (18). 


(12) Cfr. ad esempio A. E. H. Lowe, A Treatise on the Mathematical Theory of Elasticity (Cam- 
bridge, 1906), Ch. II, ovvero R. MarcoLonco, Teoria Matematica dello equilibrio dei corpi elastici 
(Milano, 1904), Cap. III, $9 e 10. 

(4) La cosa può esser facilmente precisata nei singoli casi particolari. Così per es.: se il punto 
che si considera è fisso nello spazio (ciò equivale a supporlo ritenuto da tre superfici generiche 
fisse, cioè ad imporgli tre vincoli semplici nel senso sopra definito), debbono ritenersi note (e pre- 
cisamente nulle) le tre componenti di spostamento, mentre per contro, restando incognita così in 
grandezza come in direzione la forza (reazione) ad esso punto applicata, vengono a scomparire le 
tre equazioni generali dell’equilibrio che ad esso si riferiscono. 

Che se invece trattasi di un vincolo doppio, se cioè il punto in questione è ritenuto da una 
linea fissa senza attrito, resta indeterminata la sola componente dello spostamento tangente alla 
linea e deve considerarsi come nota la analoga componente della forza applicata. Due delle tre 
equazioni generali dell’equilibrio relative ad un tal punto possono farsi scomparire, in quanto sono 
imeognite la grandezza ed uno dei coseni di direzione della reazione, ma vengono sostituite, agli 
effetti della determinazione del problema, dalle due relazioni fra le componenti di deformazione, 
che esprimono l’annullarsi di ogni spostamento normale alla linea data. 

Ed infine ove si consideri un punto ritenuto da una superficie fissa senza attrito (vincolo sem- 
plice), la sola grandezza della reazione (componente, normale alla superficie, della forza applicata) 
resta incognita, epperò le tre equazioni generali dell’equilibrio relative a quel punto possono essere 
ridotte a due sole. In compenso l’annullarsi dello spostamento normale alla superficie stessa ci per- 
mette di scrivere una relazione fra le tre componenti di deformazione, con che il problema si con- 
serva sempre completamente determinato. 


488 G. COLONNETTI 10 


Noi denomineremo d’or innanzi, per brevità, equilibrata una deformazione allor- 
quando le componenti di tensione che la caratterizzano soddisfano alle (12) ed alle (13), 
e ciò indipendentemente dal fatto che essa sia, o non, possibile, od anche soltanto 
congruente. 

Con ciò il teorema dell’unicità della soluzione del problema dell’equilibrio ela- 
stico (!4) può venire enunciato brevemente dicendo che esiste sempre uno ed un solo 
sistema di deformazioni di un corpo dato, soggetto a forze esterne ed a vincoli pure dati, 
che sia ad un tempo possibile ed equilibrato. 

Questo unico sistema di deformazioni risolvente deve adunque potersi determi- 
nare per due vie diverse: 

1° considerandolo come l’unico sistema equilibrato fra i varii possibili; 
2° ricordando che esso è l’unico possibile fra gli eventuali sistemi equilibrati. 

Un'applicazione ed una discussione diretta dei due procedimenti potrebbe facil- 
mente metterne in evidenza pregi e difetti. Ma il paragone può divenir più istrut- 
tivo e, sotto l’aspetto teorico, più interessante se si osserva che dal punto di vista 
energetico tali procedimenti fanno capo a due ben distinti teoremi di minimo. 


8 4. 


Consideriamo infatti il corpo dato nel suo stato di equilibrio sotto l’azione delle 
forze date; e cerchiamo il valore della variazione d® dell’energia elastica da esso 
posseduta, prodotta da un sistema: 


Da.) sbbefNiOc , Sdf 0g dh 


di variazioni delle componenti di deformazione atto a far passare il corpo dallo stato 
di deformazione: 


a d e f g h 
possibile ed equilibrato per ipotesi, ad un altro stato di deformazione: 
a+ da b+ db c+ de f4 df g+ dg hH4 dh 


ancora possibile, per quanto non più equilibrato. 
Affinchè ciò avvenga occorre e hasta che esista un sistema dx, dv, dw di varia- 
zioni degli spostamenti tale che si abbia: 


/ __ dd) _ dd) d(do) 
\ ti dr di dy ill dz 
Ì _ dd») __ ddu) d(dw) 
(2) e Oi aa 


de — db ph= 20) L ol 


(4) Cfr. ad esempio E. Cesàro, Introduzione alla teoria matematica dell'elasticità (Torino, 1894), 
pag. 38. ì 


i 
È 
È 


11 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 489 


e che inoltre questo sistema soddisfi, nei punti soggetti a vincoli, a condizioni 
del tipo: 


A df df O TETI 
(GU) = du + > dv —| % dw = 0. 
Applicando allora alla (7): 
dd = f(X.da + Y,db + Zde + Y.df + Z.dg + X,5h) dS 


un noto processo di trasformazione, si ha: 


pen (4 3E 4 


dae 


dYx dY, OY: 
È L Y 
E( i dy sla de ) do L 


de 


batto IS 


— fl }X, cos (n2) + X, cos (24) + X, cos (nz) } du + 
+ )Y. cos (na) + Y, cos (ny) + Y. cos (nz) } de + 
+}Z., cos (nx) + Z, cos (ny) + Z. cos (ne) { dw] do. 


Tenendo presenti le (12) e (13), ed osservando che tutti i termini che si riferi- 
scono a forze incognite, cioè derivanti da vincoli, sono della forma: 


Rdu + R,bv + E.dw 


epperò si annullano per la coesistenza delle (10) colle (11°), si avrà pertanto la rela- 
zione semplicissima: 


do —=f[Xdu + Yov + Zow] dS + { [Ldu + Mdv + Ndw] do 


il cui secondo membro rappresenta il lavoro eseguito dalle forze esterne esplicita- 

mente date durante la considerata variazione di deformazione, epperò, preso col segno 

cambiato, è eguale al differenziale esatto dell’energia potenziale TT di quelle forze. 
Ora l'equazione: 


(14) d(©4T)=dU=0 


che così si è condotti a scrivere, coincide con quella a cui soddisfano i massimi ed 
i minimi della funzione U. Se pertanto si mette in relazione questo risultato col- 
l'ipotesi, implicita nei casi della pratica, che la configurazione di equilibrio cercata 
sia stabile (1), si può concludere che: tra tutte le configurazioni possibili, l’unica equi- 
librata è quella per cui il potenziale termodinamico totale è minimo. 

Questo teorema rientra, come caso particolare, nella nota legge generale di 


(4) Cfr. P. AppeLr, Traité de Mécanique rationnelle, t. II (Paris, 1911), pag. 329-332, ovvero anche 
G. Morera, Lezioni di meccanica razionale (Torino, 1903-04, litograf.), pag. 365-367. 


Serie II. Tow. LXIL ne 


490 G. COLONNETTI 12 


equilibrio enunciata per la prima volta da Lagrange (!5) e, più tardi, rigorosamente 
dimostrata da Lejeune-Dirichlet (1°). 

È perciò da tenersi ben presente che esso è assai più generale di ciò che la 
deduzione qui espostane non lasci supporre; e precisamente esso non dipende che 
apparentemente dalle particolari ipotesi relative alla forma della energia elastica, 
che qui sono state messe innanzi al solo scopo di istituire un parallelo fra questa 
proposizione e l’altra che ora passiamo a dimostrare. 


$ 5. 


Riprendiamo, a tal fine, in esame il medesimo corpo dato, in quello stesso suo 
stato di equilibrio sotto l’azione delle medesime forze date; e proponiamoci di deter- 
minare il valore della variazione è® dell'energia elastica da esso posseduta, prodotta 
da un sistema: 


on] uetaloz ar oz ose 


di variazioni delle componenti di tensione atto a far passare il corpo dallo stato di 
coazione elastica caratterizzato dal sistema: È 


> CM RAI pri lr 


per ipotesi equilibrato e possibile, ad un altro stato di tensione caratterizzato dal 
sistema: 


X4bXsg, Wok 0, V4,-Ld4) Vo dY ZZZ 


ancora equilibrato per quanto non più possibile. 
Per il che è evidentemente necessario e sufficiente che le variazioni dX, dY,, dZ,, 


è Y., dZ.,0X, soddisfino alle condizioni: 


Ito (DX) d(bX) dx) 
\ de di dy A DZ 0 


Lap argine 
(12’) rire va 


| OZ) + dOZ) | dz) _ 
de ni dy nie dz 0 


\ 
\ 


(dX.) cos (nx) + (d.X,) cos (2) + (d.X.) cos (ne) = 0 
(13/) ‘  (0Y.)cos(nx) + (dY,) cos (ny) + (dY.) cos (n2)= 0 
| (dZ.) cos (ne) + (dZ,) cos (ny) + (dZ.) cos (22) =0 


(4°) LacranGe, Mécanique analytique, 1° partie, section II. 
(!*) Leseune-Drricarer, Ueber die Stabilitàt des Gleichgewichts, “ Crelle's Journal,, t. XXXII 
(1846), pag. 85. 


13 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 491 


in tutti quei campi, rispettivamente interni o superficiali, del corpo nei quali la forza 
esterna è data. 
In virtù del solito processo di trasformazione la (8): 


d® = f (adX, + 8dY, + cdZ_ + for. + 9dZ. + hdX,) dS 


diviene allora: 


___ [{[/26Xa) (OX) | dI) 
ie Îl( TT dy +e 


d(òYa) d(dY,) d(d Yz) 
+ (Pie po oe, 


d(dZx) d(òZ,) d(òZ.) Pai 
+( dr * Òy ZIP dz )w| as 


— [[) ©X2) cos (12) + X,) cos (ny) + ©X,) cos (nz) } u + 
+} (®Y.) cos (22) + (dY,) cos (24) + (dY.) cos (n2) { v + 
+ { (dZ.) cos (ne) + (dZ,) cos (24) + (dZ.) cos (nz) { w] do. 


Nel secondo membro tutti i termini relativi a campi non vincolati son nulli in 
virtù delle (12’) e (13'), mentre tutti quelli che corrispondono ad un vincolo assu- 
mono la forma: 

udR, + vd, + wdR, 
con 


(101) dR,=dR 2) 


dr 
dr. =dR —_—_ Da, TA 
I 
\ VA) +(55) (55) 
epperò si annullano essi pure per la coesistenza delle (10’) colla (11). 
L'equazione a cui si è così condotti: 


(15) d®= 0 


è quella stessa a cui soddisfano i massimi ed i minimi della funzione ®; se pertanto 
si riesce a dimostrare che la variazione seconda di © è essenzialmente positiva (19), 
si è condotti a concludere che: tra tutte le configurazioni equilibrate, l’unica possibile 


(45) Si confronti a tal fine: L. DowamI, “ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto 
di Bologna ,, serie IV, t.IX (1888), pag. 362. 


492 G. COLONNETTI 14 


è quella per cui la funzione d, CONVENZIONALMENTE DETTA LAVORO DI DEFORMAZIONE, è 
minima (1°). i 

In questa proposizione, annunciata per la prima volta dal Menabrea (2°) alla R. Ace- 
cademia delle Scienze di Torino nel 1857, sotto il nome di principio di elasticità 0 
del minimo lavoro, noi abbiamo conservato il nome di lavoro di deformazione alla 
quantità ®, sebbene, quando non si tratta di una vera e propria deformazione del 
corpo, essa ® non abbia più alcun significato fisico, nè possa riguardarsi come un 
reale incremento di energia dovuto alla deformazione. 

All’espressione lavoro di deformazione dovrà in tal caso attribuirsi soltanto un 
significato astratto di somma ideale delle energie elastiche dei singoli elementi del 
corpo considerati come indipendenti. 

Tutto al più si potrà attribuire, nelle applicazioni, un significato fisico più concreto 
alla funzione ®, immaginando il sistema convenientemente diviso in un certo numero 
ben determinato di parti (21), e considerando delle variazioni corrispondenti a defor- 
mazioni possibili di ciascuna parte presa separatamente; con ciò ® verrà a rappresentare 
la somma delle energie di deformazione possedute dalle singole parti riguardate 
come indipendenti. 

Si è però sempre soltanto nella configurazione di equilibrio, unica possibile tra 
tutte le equilibrate, che ® rappresenta un vero e proprio lavoro di deformazione 
del sistema preso nel suo insieme. 

Il teorema dovrebbe perciò, a rigore, enunciarsi dicendo che #l sistema di com- 
ponenti di tensione che definisce la configurazione di equilibrio fra tutte le configurazioni 
equilibrate, è quello che soddisfa alla relazione (15): 


dp = 0. 


Il valore della funzione ® è allora precisamente eguale al lavoro di deformazione 
del sistema (?°). 


(5°) Nell’unico enunciato a cui qui si perviene, risultano compresi, come casi particolari, entrambi 
i teoremi in cui il Donati aveva creduto di dover scindere il principio di Menabrea: quello cioè 
riferibile a variazioni non congruenti che lascino invariate le forze in tutti i punti, e l’altro, per 
sistemi soggetti a legami invariabili, riferibile a variazioni congruenti che lascino invariate le forze 
nei punti liberi. Cfr. L. Donati, “ Memorie della R. Accad. delle Scienze dell'Istituto di Bologna ,, 
serie IV, t. X (1889), pag. 273. 

(2°) Mewagrea, “ Comptes rendus de l’Académie des Sciences ,, t. XLVI (Paris), 31 maggio 1858; 
‘ Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, serie II, t. XXV (1871), pag. 141 (letto nella 
seduta del 21 maggio 1865); © Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, vol. V (1869-70), 
pag. 686; “ Atti della R. Accademia dei Lincei ,, serie II, vol. II (1875), pag. 201 (Memorie). 

(£4) Ai tagli ideali, a cui qui si allude, possono, a volte, sostituirsi opportune variazioni nelle 
condizioni di vincolo. Non si escludono del resto con ciò altre eventuali interpretazioni fisiche della 
funzione ®. Così per es.: nel caso di travature reticolari ad aste sovrabbondanti essa è stata anche 
interpretata come il lavoro di deformazione che nel sistema potrebbe effettivamente prodursi qualora 
all’azione delle forze esterne date si sovrapponessero gli effetti di variazioni di temperatura diverse 
da asta ad asta. Cfr. 0. Monr, Abhandl. aus dem Gebiete der Technischen Mechanik (Berlin, 1906), pag. 385. 

(2) Il primo tentativo di precisar le idee in questo senso è dovuto al BerrRAND: di esso si ha 
traccia in una sua lettera al generale Menabrea, pubblicata negli © Atti della R. Accademia delle 
Scienze di Torino , [vol. V (1869-1870), pag. 702]. 

Tra gli studii posteriori è notevole quello del Vrora, “ Ann. della Soc. degli Ingegneri e degli 
Architetti Italiani , (Roma), 1890, pag. 193 e 439. Vedi anche S. Cawevazzi, “ Il Politecnico , (Milano), 
1889. pag. 107 e seguenti. 


(ve) 


15 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 49 


$ 6. 


Poche osservazioni bastano a mettere in rilievo la identità di questa proposi- 
zione con quella che l’opera di Castigliano (28) ha resa tanto diffusa nel campo delle 
applicazioni. 

Allorquando infatti noi ci proponiamo di determinare lo stato di equilibrio ela- 
stico di un corpo considerandolo come l’unica configurazione possibile fra le confi- 
gurazioni equilibrate noi implicitamente presupponiamo che di configurazioni equili- 
brate ne esistano infinite. 

Ora non sempre ciò si verifica; può avvenire che di configurazioni equilibrate 
ve ne sia una sola: in tal caso l’asserire che essa corrisponde ad un minimo della 
funzione ® è privo di ogni significato. 

Per compenso il problema dell'equilibrio risulta in tal caso implicitamente risolto, 
perchè la configurazione cercata deve necessariamente coincidere con quell’unica con- 
figurazione equilibrata, certamente anche possibile. 

I sistemi cosiffatti, pei quali le sole leggi della statica dei corpi rigidi, indipen- 
dentemente da ogni considerazione di elasticità, bastano a caratterizzare l'equilibrio, 
furono detti pertanto sfaticamente determinati. } 

Per essi non ha alcuna ragione di sussistere il teorema del minimo lavoro, il 
quale dipende necessariamente dalle ipotesi fatte a proposito della natura e della 
forma dell'energia elastica epperò appartiene alla teoria dell’elasticità nello stretto 
e preciso senso che fu definito fin da principio. 

Il teorema interviene utilmente ogni qualvolta di configurazioni equilibrate ne 
esistono co (£= 1). Si possono allora infatti riferire tali configurazioni, in modo 
biunivoco, a % parametri indipendenti convenientemente scelti: 


, Na; Neon 


esprimendo il lavoro ® come funzione (certamente quadratica) di essi. 

Quei valori delle \ che caratterizzano la configurazione di equilibrio cercata 
risulteranno allora, a mezzo del teorema in discorso, completamente determinati dal 
sistema di % equazioni lineari nelle incognite: 


d® gi 3 _ 


JO 
DIR: Dar 0 


Oi 


0a, 


Praticamente come incognite iperstatiche convien sciegliere precisamente le ten- 
sioni interne relative a connessioni sovrabbondanti e le reazioni dei vincoli non 
determinabili in base alle sole leggi della statica dei corpi rigidi. 


(2) A. CasriGLIAno, “ Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino ,, t. X (1875), pag. 380; 
Théorie de Vequilibre des systèmes élastiques et ses applications (Turin, 1879). 

Sulla questione di priorità si confronti “ Atti della R. Accad. dei Lincei ,, serie II, t. II (1875), 
pag. Lix (transunti). Î 

Sui difetti delle dimostrazioni di Menabrea e di Castigliano, vedi Cerrumi, “ Atti della R. Accad. 
dei Lincei ,, serie II, t. II (1875), pag. 570 (Memorie). 


494 G. COLONNETTI 16 


È in questo senso, ed in questo solo, che può giustificarsi l’enunciato che di 
solito si incontra nei trattati di ingegneria secondo il quale i valori delle incognite 
iperstatiche sono quelli che rendono minimo il lavoro di deformazione del sistema. 

Delle riserve e delle limitazioni subordinatamente alle quali esso si avvera, non 
viene d’ordinario fatto cenno alcuno; tutto al più esse vengono adombrate dicendo 
che il lavoro di deformazione è minimo compatibilmente colle forze date. 

Ma il rimedio è peggiore del male, perchè, non accompagnata da ulteriori schia- 
rimenti, questa proposizione è affatto priva di significato (24). 

Infatti, considerato il sistema come un tutto unico soggetto inevitabilmente a 
dati vincoli, il suo stato di equilibrio sotto l’azione di date forze esterne è piena- 
mente determinato ed unico; nessuna sua deformazione è più compatibile coi dati 
del problema, epperò non è lecito, anzi non ha senso, parlare di minimo del lavoro 
compatibilmente colle forze esterne date. 

Solo la circostanza, già rilevata a suo tempo, che l’espressione della funzione ® 
si presenta spontaneamente nei casi pratici, come una somma di termini spettanti 
alle singole parti costituenti il sistema distintamente prese, spiega perchè, pur fa- 
cendone l'applicazione, il senso vero della proposizione passasse generalmente inav- 
vertito, a volte anche fosse frainteso. 

Ma, rimesse le cose nei loro veri termini, il teorema del minimo lavoro è degno 
di figurare, nella teoria dell’elasticità, accanto all’altro principio che potrebbe per 
analogia chiamarsi teorema della minima energia potenziale. 

Fsso non ha, è vero, la grande generalità di quest’ultimo nè può ad esso attri- 
buirsi quella interpretazione finalista che, abbandonata oggi, ha avuto però una parte 
assai importante nella storia della Meccanica ed ha dato a certi principii fisici una 
forma che essi, malgrado tutto, hanno conservato (29). 

Ma, sotto il punto di vista della pratica risoluzione dei problemi che si presen- 
tano nella Scienza delle Costruzioni la superiorità del teorema del minimo lavoro 
sul teorema della minima energia potenziale è fuor di dubbio. 

Si riesce, coll’aiuto di quel principio, o di altri che ad esso equivalgono (2°), a 
determinare direttamente, spesso in modo semplicissimo, la distribuzione di equilibrio 
delle tensioni interne dei sistemi elastici, senza passare per lo studio delle deforma- 
zioni, laddove un tale studio potrebbe riescire, in base al principio della minima 
energia potenziale, così complesso da essere praticamente irrealizzabile. 

La cosa dipende essenzialmente da ciò, che nei sistemi elastici che più frequen- 
temente si presentano all’ingegnere il numero delle incognite iperstatiche è assai 
inferiore al numero delle incognite geometriche 0, se così si vuol chiamarlo, al grado 
di libertà elastica del sistema. 


(**) Cfr. ad esempio Wernearten, “ Zeitschrift fir Architektur und Ingenieurwesen ,, t. LIMI (1907), 
pag. 107-110. 

(25) Cfr. a questo proposito: E. Jouuet, Lectures de Mécanique, t. I (Paris, 1908), pag. 198, e t. II 
(Paris, 1909), pag. 265. 

(8) Si tenga presente la particolare forma data al teorema dei lavori virtuali da H. Muccer 
BresLau, Die Neueren Methoden der Festigkeitslehre (Leipzig, 1904) ovvero Die Graphische Statik der 
Baukonstruktionen (Stuttgart, 1905-1908). 


17 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 495 


Così ad esempio la risoluzione del problema dell’equilibrio di un sistema reti- 
colare costituito da p punti o nodi collegati fra loro ed a dati punti fissi da » sbarre 
od aste articolate a cerniera senza attrito agli estremi e sollecitate soltanto a sforzo 
assiale, comporta, in generale, 3p incognite geometriche ed n — 3p incognite iper- 
statiche, quest’ultimo numero essendo, d’ordinario, assai minore del primo. Ciò non 
esclude, ben s'intende, che eccezionalmente possa verificarsi il caso contrario: di esso 
sì farà anzi speciale cenno nell’applicazione che dei teoremi suesposti verrà fatta, 
più innanzi, al caso particolarmente semplice ed istruttivo in cui è p= 1. 


SU 


Per ora, al fine di esaurire la questione dal punto di vista teorico, è opportuno 
prendere in considerazione anche quei sistemi i quali nel loro stato naturale, pur 
essendo liberi da ogni forza esterna data, in virtù dei vincoli a cui sono soggetti, 
ovvero anche soltanto in causa della connessione esistente fra le loro diverse parti, 
non soddisfano alla condizione precedentemente supposta, che cioè gli elementi del 
corpo siano tutti allo stato naturale e-le tensioni siano nulle dovunque. 

In tal caso (2) le quantità a, 5, c, f, 9, è definite dalle (2) non rappresentano più la 
deformazione assoluta o totale nell'intorno del punto (x,y, 2), ma bensì la nuova de- 
formazione che, per effetto del sistema di spostamenti (v, v, w), viene a sovrapporsi 
a quella già preesistente nello stato naturale So di equilibrio. 

Limitandoci a considerare il caso che questa ultima sia dello stesso ordine di 
grandezza della prima, potremo porre al posto delle a, 8, c, f, g, & le differenze: 


a- do, b_b, C_ Co, îf-fo, I-Io0; h — ho 


dove i nuovi simboli si riferiscono alle deformazioni assolute, che, invertite, servi- 
rebbero a ricondurre allo stato naturale ogni particella del corpo considerata sepa- 
ratamente. 

Accanto alle componenti di deformazione: 


a—=a@A — Aq, b=b—b docs 000 h=h— hoy 
prenderemo naturalmente in considerazione anche le componenti di tensione: 
Xx= Xx -(Xo)o; v= = (Yo - Ay= XA Xyo 


legate alle prime dalle relazioni: 


__ dIP(A,dy ... To) __ dP(A90,... ey) __ dP(a0 do... To) 
= to (Te (e ta 
__ d9(ad... h) __ d9(a d... h) __ dp(ad... h) 
eta A ti AIA 
Ta dIY((Xz)o (Yo vee (X)o) = IW((Xx)o ( Yy)o (Ty) = Iwo (Yao na (Xy)o) 
des: Axa E eg IVao Aaa AAy)o 
a _- dA Yy Dr) X,) = UA YV, — My) h Ed dI Y, 320 D.@) 
na dX, 7 "® og A dXy SIA 


€?) Cfr. L. Doxari, È Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Betogna ,, serie IV, 
t.IX (1888), pag. 345. 


496 G. COLONNETTI 18 
essendo rispettivamente 
(00 do ... To) = W((Kao (Lo)o -.. (X,)o) 
pad... h)=y(X, Y,...X,) 


i valori dell'energia elementare di deformazione nei due stati S, ed S. 
Introducendo la funzione 


D(@D 00 0) = WGI 000 d6) 


quelle relazioni danno luogo alle seguenti, più semplici e perfettamente identiche alle 


(3) e (4): 


PUB O (DISTA) __ d9(abd... h) __ dP(ed... h) 
x = Pty, = A, 3 SRI 
= dW(Xx Vy Xy) d= DUE Yy ns Xy) De dy(Xx Yy so Xy) 
DX 3 i} dYy, e A ITTT dXy i 


È da tenersi ben presente che questa funzione: 


Pad... MM =y(X Y,...X) 


non rappresenta affatto, come forse a prima vista si sarebbe tentati di credere, la 
variazione di energia dell’elemento di volume nel passaggio dallo stato S, allo 
stato S. 

Si ha infatti (28): 


p(a d...h)= (a, 4a, do + db, Moth) = 


=@(A00... IM) + (ad...) + IPA do... ho qa L dP(A) do ... To) Bloo dP(Ao do ... Teo) = 
da0 do dro 
= p. (00 do ... ho) + 9(4 8... 1) + (Xo)o@ + (Yo b +. + o hi 
dalla quale si ricava per la cercata variazione di energia l’espressione: 


Pad... h) — p(a0 bo... Io) = (ad...) + (Xe + (Lod +... + (o. 


Ma se si integra a tutto il corpo è facile constatare, in base al solito processo 
di trasformazione, che dev'essere: 


[}(Aa)oa + (E)ob +... + (A) A} dS=0 


epperò: 
[o(ad...h)dS-{o(@0bo Mo) dS=|@(ad... h) dS | 


(?8) Cfr. L. Dowart, “ Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna ;, serie IV, 
t. IX (1888), pag. 352. 


19 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 497 


o sotto la forma reciproca: 
Suo Hi... LAS Su((Kao (Lo (To) = fu Vr... X) ds 


ciò che noi esprimeremo brevemente dicendo che la funzione ®, che in passato con- 
siderammo sempre come l'energia di deformazione del corpo nello stato $, rappre- 
senta ora l'eccesso di energia dello stato S sullo stato Sy epperò può assumersi 
ancor qui come misura del lavoro di deformazione nel passaggio da Sp ad S. 


Ciò premesso, sì consideri il sistema in un suo qualsiasi stato di equilibrio e si 
ricerchi come varii l’energia elastica: 


®P=fp(ad... n) ds 
da esso posseduta, per variazioni : 
da = da, 0510070 ON 


possibili delle componenti di deformazione. 
Ripetendo identicamente il procedimento già esposto nel $ 4 si ritrova inalte- 


rato il primo teorema di minimo colà dimostrato, o teorema della minima energia 
potenziale : 


d(P_LTM=0 


come era del resto da attendersi, data la già ricordata generalità di tale principio. 
In particolare applicando questo risultato al caso in cui tutte le forze esterne 
son nulle si trova che nello stato naturale So l'energia di deformazione: 


Po=SP(40d ... fto) dS 
ha il minimo valore che è compatibile coi vincoli imposti e colla compagine del sistema. 

Questa proposizione può essere utilmente applicata nello studio dello stato na- 
turale di equilibrio di quei sistemi iperstatici nei quali esistono tensioni interne non 
dipendenti dai carichi dati. 

Dopo di che nulla impedisce evidentemente di considerare l'energia ®, (energia 
latente 0 vincolata, come di solito vien detta), come conglobata nella costante che è 
inerente al concetto stesso di potenziale termodinamico scrivendo il principio della 
minima energia potenziale sotto la usuale sua forma: 


U=©-+IT= minimum 


valida indifferentemente in ogni caso. 
La stessa libertà d’azione non è concessa dal teorema del minimo lavoro. 
Nel procedimento che ha servito a stabilirlo ($ 5) si presuppone infatti di par- 
tire da un sistema di componenti di deformazione possibile ed equilibrato e di pro- 
durre una variazione equilibrata. i 
Se pertanto si prende in considerazione il sistema a, d, €, f, g, che caratterizza 
un qualsiasi stato S del corpo quale ora intendiamo considerarlo, quel procedimento 
Serie II. Tox. LXIL 


2 
M° 


498 G. COLONNETTI 20) 


non può venire applicato perchè il sistema ron è possibile, nel senso da noi dichia- 
rato, come non è possibile il sistema &, do; Co: 70; Yo; o che caratterizza lo stato 
naturale in quanto che il ritorno dei singoli elementi allo stato naturale non è, nè în 
un caso nè nell’altro, compatibile colla compagine del corpo e coi vincoli a cui esso 
è soggetto. Soltanto può dirsi possibile, nel senso sopra definito, il sistema a, b, c, f. g, h 
che caratterizza la nuova deformazione derivante dal sistema u, r,w di spostamenti; 
da ciò segue che per una qualsiasi variazione equilibrata delle componenti di tensione 
si può dimostrare che deve essere: 


dp 0. 


La distribuzione delle nuove tensioni X,, Y.,, ..... X.,, che per effetto delle forze 
esterne si sovrappongono a quelle che già preesistevano nel sistema, è dunque, nello 
stato di equilibrio, quella che rende minima la funzione: 


0 = [lp AS) 


Il valor minimo che essa assume è poi, come si è già detto, eguale al lavoro 
di deformazione del sistema nel passaggio da S5 ad $, cioè all’eccesso di energia 
dello stato S sullo stato Sp. ; 

Questa estensione, che non trovasi generalmente nei trattati, è perfettamente 
analoga a quella proposta dal Siacci pel teorema delle derivate del lavoro (#9): essa 
giustifica completamente l’uso invalso nella pratica di calcolare gli sforzi prodotti 
dai carichi come se nello stato naturale le tensioni fossero tutte nulle, salvo a tener 
conto separatamente degli eventuali sforzi preesistenti. 


A pplicazione. 


Sia 0 un punto materiale collegato ad » punti fissi da » aste elastiche, retti- 
linee, omogenee e senza massa, articolate a cerniera senza attrito agli estremi epperò 
sollecitate sempre e soltanto da sforzo assiale. 

Supponiamo, al fine di rendere il problema sicuramente possibile, che si abbia n> 3. 

Ammettiamo dapprima, per semplicità, che nella configurazione naturale del 
sistema tutte le tensioni siano nulle o, in altri termini, che la posizione che il 
punto 0 assume naturalmente quando il sistema non è cimentato da alcuna forza 
esterna disti dai punti fissi dati di lunghezze identicamente eguali a quelle delle 
singole aste. 

E proponiamoci di determinare come si comporti il sistema quando in 0 agisca 
una forza esterna P che riterremo data e costante così in grandezza che in di- 
rezione. 

Riferito il sistema a tre assi coordinati ortogonali aventi per origine la posi- 
zione naturale del punto 0, indicheremo con «, y, 2 le coordinate dello stesso punto 


(®) Cfr. Sraccr, © Rendiconti della R. Accademia dei Lincei ,, serie V, vol. 3° (1894, 2° sem), 
pag. 214-215. 


21 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISDA ENERGETICO 499 


dopo la deformazione e con XY, Y, Z le componenti secondo i tre assi della forza 
_data P. 

Le configurazioni possibili del sistema, cioè congruenti (a norma delle ipotesi 
fatte sul comportamento elastico delle aste) e compatibili coi vincoli (punti fissi dati) 
sono ovviamente in numero triplamente infinito e possono tutte ottenersi facendo 
assumere ai tre parametri x,y, tutti i possibili valori, purchè sufficientemente piccoli. 

A ciascuna configurazione possibile del sistema corrisponderà pertanto un lavoro 
di deformazione che noi seriveremo sotto la forma: . 


ran 


1 1 à 
d= 3 DI (et By + 1,0)? 
el 


denotando con €, l'allungamento prodotto nell’asta y-esima da una tensione unitaria, 
e con @,, 8,, Y, i tre coseni direttori della stessa asta r-esima, da ritenersi costanti 
in vista della, piccolezza delle , y, 2. 

Alla stessa configurazione generica corrisponderà poi un’energia potenziale della 
forza esterna, che, mediante opportuna scelta della costante, può scriversi: 


Mes l@= = 


La condizione che caratterizza tra le 0c0° configurazioni possibili quella che è 
anche equilibrata: 


U=®+TT= minimum 


dà luogo pertanto, nel caso attuale, alle tre equazioni: 


Duan ug DO — 
ceci 0 dy 0 OE o 
ovvero sostituendo: 
DS <= (0484 +1)=X 
= 
(a) i x 1a (cx + By+ 12) = Y 
ail 
Di T (ax + By +12) = Z. 
=l 


Queste tre equazioni, lineari nelle x, y, 2, epperò atte a determinare quei valori di 
questi tre parametri che caratterizzano la configurazione di equilibrio, possono evi- 
dentemente essere interpretate come le condizioni da soddisfarsi affinchè le tensioni, 
che nelle aste del sistema si producono quando il punto 0 dall'origine passa nel 
punto di coordinate «, y, 2, siano in equilibrio colla forza esterna P data. 

Constatato così come il teorema della minima energia conduca alla risoluzione 


500 G. COLONNETTI 29 


del problema proposto a mezzo di 3 equazioni lineari fra 3 incognite, indipendente- 
mente dal numero n delle aste che compongono il sistema, passiamo ora a vedere 
a qual tipo di soluzione si giunga quando, utilizzando il teorema del minimo lavoro, 
si tenti di determinare la configurazione di equilibrio come l’unica possibile fra le 
eventuali equilibrate. 

Si osservi a tal fine che, nelle ipotesi fatte, l’equilibrio del punto O alla tra- 
slazione può essere assicurato mediante tre sole delle » aste purchè non complanari, 
qualunque siano i valori delle tensioni esercitate sul punto stesso dalle altre n — 3 aste. 


In altri termini le configurazioni equilibrate sono in numero c0** 


e possono essere 
riferite ai valori di n—-3 parametri indipendenti, per esempio delle n —3 ten- 
sioni Ny; ....- Na. 

Il sistema di valori di questi parametri che definisce la configurazione risol- 


vente cercata sarà pertanto quello che rende minima l’espressione: 


r=n 


1 “R 
2 Men 


= 


somma dei lavori di deformazione delle n aste supposte opportunamente sconnesse 
in 0 (59). 
Espresse le N,, N., N3 a mezzo delle variabili indipendenti N,, ....., N, la condi- 
zione da realizzarsi può scriversi: 
i=n 
®=® + 3 \e.N°— minimum 


T=4 


dove ®' è la forma quadratica delle X, Y, Z, N,, ..... N, che rappresenta il lavoro di 
deformazione delle tre aste principali chiamate a mantenere in equilibrio il punto 0 
supposto sollecitato non soltanto dalla forza P ma altresì dalle n» — 3 tensioni arbi- 
isa Neg NE 

I valori di queste tensioni relativi all’equilibrio cercato saranno pertanto quelli 
che soddisfano alle n —3 equazioni lineari: 


dd 


on 0» 2 RRVOIE 0 
ovvero sostituendo: 
i e e N, F 
(5) 
Rn 


Si può dimostrare che queste esprimono precisamente le condizioni necessarie 
perchè lo spostamento del punto 0, considerato come estremo comune delle tre aste. 


(5°) Le considerazioni accennate nella nota (2!) potrebbero trovare qui facile ed opportuna ap- 
plicazione. 


23 L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 501 


principali, nella direzione di ciascuna delle n» —3 aste sovrabbondanti sia eguale 
rispettivamente alla variazione di lunghezza di quell’asta. 

L'essere pertanto più raccomandabile, dal punto di vista della pratica applica- 
zione, l’uno piuttosto che l’altro dei due procedimenti generali da noi presi in esame, 
dipende qui soltanto dall'essere n = 6. 

La stessa libertà di scelta non sussiste invece più quando nel sistema esistano 
tensioni indipendenti dai carichi epperò proprie dello stesso stato naturale. 

In tal caso la stessa posizione naturale del punto 0 è incognita. 

Sì scieglierà pertanto come origine di un nuovo sistema di assi 9, y, una qua- 
lunque, arbitrariamente scelta, delle posizioni che il punto 0 può assumere. 

Alla configurazione che così si viene a definire, e che chiameremo, per intenderci, 
col nome di configurazione iniziale, spetterà un lavoro di deformazione che scrive- 
remo sotto la forma: 


EE) 
Ly nè 
2 Er 
r=1 


denotando con n, l'allungamento dell’asta r-esima relativo alla considerata configu- 
razione iniziale. 

Ad una qualsiasi altra configurazione possibile, definita al solito dalle coordi- 
nate 2, y, # della nuova posizione di 0, spetterà in conseguenza il lavoro di defor- 
mazione: 

r=n 
DE j = (n.4 0,90 + By + r70)?. 


E 
= 


La configurazione di equilibrio naturale del sistema dovendo soddisfare alla nota 
condizione: 


r=n 
D, = ; 00] Si (n. + C,%Io + B,.Yo + Yr#0)? = minimum 


g=sil 


risulterà definita da quei valori 20, Yo. # delle coordinate di 0 che soddisfano alle 
tre equazioni lineari nelle coordinate stesse: 


dDo sa dD, 


al Dn no 
OVVero: 
> = (n-4- 0,960 + B-Yo + Yo) = 0 
(0) VE MH 0004 840 +16) =0 


VE Mm + 4,000 + Bo + 180) = 0. 


(2 


502 G. COLONNETTI — L'EQUILIBRIO ELASTICO DAL PUNTO DI VISTA ENERGETICO 24 


Esse avrebbero potuto, al solito, scriversi direttamente imponendo l’equilibrio 
alla traslazione del punto 0 supposto sollecitato dalle tensioni delle n aste deformate. 

Le coordinate ,, della posizione che 0 assume sotto l’azione della solita 
forza P di componenti X, Y, Z sono, in modo analogo, determinate dal sistema: 


VE M+a0+8y+14)=X 
al 


=) 


(d) za Pe (N. + a,% + By +1.) = Y 


= 


r=% 


VE M+ ax +89+r2)=Z 


= 


Che se poi si conosce a priori 0, ciò che fa lo stesso, si è determinata in pre- 
cedenza una volta per tutte, la configurazione naturale del sistema, la ricerca delle 
componenti: 


r=3I—- Ko Yy=YU—-%Uo REA xo 


dello spostamento che il punto 0 subisce sotto l’azione della solita forza P ad esso 
applicata, può eseguirsi a mezzo delle tre equazioni che si ottengono col sottrarre 
le (c) dalle (4). Questo procedimento ci riconduce, come era da attendersi, alle (a) 
così come l'applicazione, qui novellamente lecita, del teorema del minimo lavoro non 
potrebbe che condurci a determinare gli incrementi: 


NINAZN EIN NZZÙ\NA 


che per effetto della stessa forza si verificano nelle n —3 tensioni staticamente inde- 
terminate, a mezzo delle equazioni (8). 


Torino, Ottobre 1911. 


SCIENZE 
MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE 


Serie Il. Tom. LXII. 


INTE CE 


CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE 
E FILOLOGICHE 


Le fazioni politiche di Bologna e i signori di Lombardia (1298-1299); Memoria 


del Socio CARLO CipoLLa : 5 3 : , NOE ag: 
Blossio Emilio Draconzio; Studio biografico e letterario del Dr. Errore 
PROVANA 


La Logica aristotelica, la Logica kantiana ed hegeliana e la Logica matematica 
con accenno alla Logica indiana; Memoria del Socio PasquaLe D’ERcoLE , 
Partiti politici e lotte politiche in Bisanzio alla morte di Manuele Comneno; 


Memoria del Dr. Francesco Coexnasso . È 


IL E 


FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA 


SIGNORI DI LOMBARDIA 
(1298-1299) 


MEMORIA 


DEL SOCIO 


CARLO CIPOLLA 


Approvata nell'adunanza del 14 Maggio 1911. 


I 


Le Signorie dei Visconti e degli Scaligeri nella seconda metà del sec. XIII si 
costituiscono e vanno poco a poco preparando quella condizione politica, da cui trarrà 
vantaggio di lì a pochi anni Enrico VII. Una delle caratteristiche che coloriscono 
l’opera congiunta di Matteo Visconti e di Alberto della Scala apparisce nella sempre 
crescente unione degli interessi dell’una e dell’altra riva del Po. Come le relazioni fra 
Bologna e Firenze si moltiplicano, come i contrasti fra Bologna e la Signoria d'Este 
si estendono, così avviene che le due giovani Signorie, che vanno formandosi a Milano 
e a Verona, sentono il bisogno di espandersi verso il mezzogiorno per rassodare la 
loro influenza, collegandola colle tendenze generali della politica nell'Italia superiore 
e nella media. Fu in mezzo a questi avvenimenti che Alberto Scaligero formò il 
disegno di costruire un ponte sul Po, dove esso è larghissimo, a Ostiglia. Tale disegno 
ardito nei riguardi della politica come in quelli dell'ingegneria, allora non si realizzò, 
nè lo poteva essere; ma è già un fatto notevole che tale progetto sia stato pensato. 


II. 


Negli ultimi giorni del 1280, dopo una lunga serie di urti, di vittorie e di scon- 
fitte, i Guelfi di Bologna riportarono vittoria sopra i Ghibellini, così che le famiglie, 
che costituivano il gruppo dei Lambertazzi, presero la via dell’esilio: essi si raccol- 
sero a Faenza il 29 dicembre 1280 (1). Com'era naturale, gli esuli si accostarono ai 


(1) V. Vrrate, Il dominio della Parte Guelfa in Bologna, Bologna, 1901, p. 59. 
Serre II Tow. LXIL x 


2 CARLO CIPOLLA 


nobili romagnoli (1). Quelli che erano rimasti in Bologna, non rifuggirono da pensieri 
d'accordo, e ne fanno prova alcune disposizioni prese nel 1292 (2). Bonifacio VM 
fece qualche tentativo di pacificazione, per mezzo dell’abbate dei Santi Nazaro e Celso 
a Verona (1295) (3). 

Ma nel mentre queste disposizioni pacifiche non riuscivano a buon esito, le com- 
plicazioni crescevano; l’Estense da una parte, dall’altra le Case dei Visconti e degli 
Scaligeri volgevano la loro attenzione verso questo centro di agitazione. Che anzi 
Riccardo da Pirovano, quale capo di guerrieri, fu mandato a Bologna da Matteo 
Visconti, Ghibellino in Lombardia, ma alleato dei Guelfi di Bologna contro l’Estense, 
sostenitore dei Torriani (4); cercava tutte le vie per allargare la cerchia delle regioni 
su cui facesse sentire la sua influenza e per combattere anche di lontano i suoi. 
nemici (5). 

Nella storia di Bologna le relazioni colla Casa d’Este intrecciansi coi turbamenti 
causati -dalle fazioni; essa rispecchia i contatti colla politica delle città dell’Italia di 
Oltrepò. 

Siretta e combattuta da Obizzo d'Este, Bologna si rivolse come ad “ àncora di 
salvezza , a Bonifacio VIII (gennaio 1297). cercando nel medesimo tempo di strin- 
gersi a Firenze. Quest'ultimo Comune, seguendo le traccie segnate da Bonifacio VII, 
pubblicò il lodo del 16 novembre 1298: un altro lodo promulgò il papa addì 27 di- 
cembre 1299 (6), e questo fu in vantaggio di Bologna. Ma l’Estense si affrettò a 
riprendere le ostilità. Alma Gorreta (7). che narrò dottamente ie vicende in poche 
parole qui riassunte, a questo punto stabilisce il punto di osservazione in questo 
modo: “ Solo un momento pare che la sua (di Bologna) ambizione di dominio debba 
“ rimanere soffocata: allorquando il laudo pronunciato dallo Scaligero e dal Visconti, 
“ per le città nemiche di Romagna, univa in concordia Guelfi e Ghibellini, sì che i 
“ Lambertazzi, deposte le armi che poc'anzi brandivano a fianco del Marchese, se 
“ ne tornavano, dopo 19 anni di esilio, a rivedere la patria terra ,. 

L'esilio dei Lambertazzi e i combattimenti di questi colla fazione dei Geremei 
diedero persino occasione ai poeti di scriver versi. C'è il “ serventese , dei Lam- 
bertazzi e dei Geremei, che stampato per la prima volta nel 1841. venne parecchi 
anni or sono ripubblicato e largamente illustrato da F. Pellegrini (8), che se ne giovò 
a narrare gli avvenimenti svoltisi dal 1274 al 1280 a Bologna. 


(1) Vrrace, Op. cit., p. 59. 

{2) Ibid., p. 65. 

(3) F. PeuLecai, Un documento inedito delle lotte fra Lambertazzi e Geremei nel sec. XIII. < Att 
e Mem. Deput. Romagna ,, 1896, XIV, 119. 

(4) Viraze, Op. cit., p. 69. 

(5) E. Jonpax (Les origines de la domination Angervine en Italie, Paris. 1909, p. 53) parla delle 
nostre città nel sec. XIII; dice addirittura che passavano da un partito all’altro per motivi di inte- — 
ressi; se con questo non si escludono anche altre cause, la proposizione è accettabile; ma non sî 
può certo lasciar da parte il fatto che i partiti politici esistevano e violenti assai. 

(6) A. Tarmer, Coder Diplom. Sanctae Sedis, I, 350. n. 526. 

(7) La lotta fra il Comune Bolognese e la Signoria Estense (1293-1303), Bologna. Zanichelli, 1906. 
Cfr. Vrrace, Op. cit., p. 72. 

8) Il serventese de’ Lambertazzi e de’ Geremei, © Atti e Mem. Deputaz. Romagna, 1891, IX, 
196 sge. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 3 


I Lambertazzi avevano cercato requie ad Imola e appoggio nell’alleanza con Faenza 
ed altre città di quella regione. Nelle trattative che con Bologna si negoziarono per 
la pace coll’opera di frate Agnello da Faenza, l’una e l’altra parte contendente chiesero 
l’arbitrato di Matteo Visconti e di Alberto della Scala. Questo è abbastanza noto 
nelle sue linee generali, giacchè furono molti i documenti già pubblicati o riassunti, 
più che tre secoli or sono, dal Ghirardacci (1); chè anzi a lui dobbiamo essere assai 
tenuti anche per questo, ch'egli diede conto di documenti che ora più non si tro- 
vano o che almeno non furono posteriormente segnalati. Il Verci (2), da una privata 
raccolta bolognese, vari documenti mise in luce. Nonostante queste dotte ricerche 
pur qualche cosa di nuovo mi pare di avere ancora racimolato, spigolando special- 
mente quello che interessa piuttosto ai fatti del Visconti e dello Scaligero, che a quelli, 
largamente studiati, dei Lambertazzi (3). 

Le fonti documentarie alle quali feci ricorso nell'Archivio di Stato di Bologna 
sono le seguenti: 

1° Anziani, Consigli minori, Riformagioni, 1245-1300. Grosso volume perga- 
menaceo, composto di libercoli un dì staccati e poi insieme rilegati. Lo studiai 
nel 1902. Il fascicolo, che si riferisce allo scopo nostro, arrestasi alle trattative del 
1° maggio 1299 e chiudesi colla sottoscrizione del notaio: 


(S. T.) Eso Petrus condam Francischi imperiali auctoritate notarius interfui et de mandato 
dictoruam dominorum Potestatis ac Capitanei, Ancianorum et Sapientum scripsi et in publicam 
formam redegi. 


2° Pergamene sparse riguardanti i “ Diritti del Comune, 1299 ,. Me ne occupai 
nel 1910. 


Grandi cose non ho davvero trovato, ma non mi pareva inutile riassumere quanto 
fu detto e aggiungere qualche briciola nuova. 


III. 


La parte dei Lambertazzi era stanca ed esausta, come impariamo espressa- 
mente da una lettera dei Bolognesi a Matteo Visconti del 9 maggio 1299 (4). Il 
primo passo decisivo che la parte fece per giungere alla conclusione dell'accordo col 
Comune di Bologna fu compiuto ad Imola il 31 ottobre 1298 (5) col scegliere Uguc- 
cione de’ Principi a segnare il compromesso in Matteo Visconti, capitano generale di 


(1) Della historia di Bologna, libr. XII, Bologna, 1596, tomo I. 

(2) Marca Trevigiana, IV. 

(3) Di scarso giovamento riesce, per lo scopo indicato, il Codex diplomaticus Bononiae (sec. XVIII), 
vol. LXXVII (Monumenta civitatis Bononiae, XLI [1294-1300], che si conserva nella Biblioteca Uni- 
wersitaria di Bologna. I documenti in questo volume inserti, rispetto al nostro argomento, proven- 
gono tutti dalla citata Historia del Ghirardacci. 

Raffronto i numeri dei Monumenta coll’edizione del Ghirardacci: 

LXV = Ghir. I, 387-8 — LXVI= I, 388-9 — LXVII=1,390 — LXVII=1I,391 — LXIX= 
I, 391 — LXX=I, 392 — LXXI=1, 392-3 — LXXII=1I,394 — LXXII=1I,3945 — LXXIV= 
I, 396-9 — LXXV=1I, 400 — LXXVI=1, 400-1. 
(4) GatraRDAceT, I, 400. 
(5) Verci, Marca Trevigiana, IV, doc., p. 122, n. 405. Griragpacci, I, 360 (sunto in italiano). 


4 CARLO CIPOLLA 


Milano, e in Alberto della Scala, capitano generale di Verona, rispetto alle questioni 
ch’essa parte aveva con Bologna. 

Questo atto ne presuppone uno consimile stipulato il 31 ottobre (1) colla nomina 
di Rozzo dei Rozzi, quale procuratore di Bologna. E per ciò addì 10 novembre 1298, 
a Milano, nel palazzo vecchio del Comune, i due ricordati procuratori rimisero la 
decisione delle controversie loro nel Visconti e nello Scaligero (2). 

Le nostre notizie intorno al modo con cui queste pratiche si svolgevano a Milano 
e a Verona sono lacunose, nè a me riuscì di trovar nulla di nuovo. Che qualche 
difficoltà siasi presentata, forse si può congetturarlo da quanto segue. 

Una lettera infatti scrissero i Bolognesi sotto la data del 12 gennaio 1299 a 
Matteo Visconti (3), in risposta ad altra da lui ricevuta. Il Visconti comunicava di 
aver risposto ai nunzi di Alberto della Scala, che i propri ambasciatori destinati a 
Venezia si sarebbero soffermati a Verona per abboccarsi con Alberto e con suo figlio(4): 
la risposta che avrassi dagli Scaligeri sarebbe poi dal Visconti partecipata ai Bolo- 
gnesi. I Bolognesi manifestano quindi gratitudine, ringraziano il Visconti delle sue 
buone disposizioni e promettono di seguirne il parere. 

Par manifesto che questo documento altri parecchi ne lasci sottintendere, che 
appena possiamo immaginare, piuttosto che congetturare. Solo possiamo asserire che i 
negoziati furono lunghi ed attivi, e possiamo comprendere come la perdita di parecchi 
documenti ci nasconda fatti che molto chiarirebbero una pagina storica pur troppo 
molto sbiadita. Per buona sorte almeno le carte bolognesi possono recarci qualche 
aiuto. 


LIVE 


Dalle Riformagioni degli Anziani e dei Consigli Minori trascrivo vari documenti 
che ci permettono di conoscere ben addentro i maneggi diplomatici. 

Il primo documento che vuol essere qui preso in esame è del 17 maggio 1299: 

In Christi nomine, anno [nativitatis] eiusdem millesimo ducentesimo nonagesimo nono indi- 
cione duodecima, die septimodecimo marcij. Dominus Octolinus de Mandello honorabilis potestas 
Bononie, esistens in camera ipsius, una cum domino Blaxio de Tholomeis capitaneo Populi Bononie 
et cum quaiuor Ancianis dicti mensis, quibus per Conscilium et massam Populi Bononiae super 
factis guerre generalle arbitrium est concessum, audiverunt et inteleserunt quedam verba eisdem 
exposita et narata per fratrem Agnellum priorem fratrum et conventus Ordinis Predicatorum 


de Faventia, super responsione eidem priori facta per ipsos dominos Potestatem et Capitaneum — 


et quatuor Ancianos ad domum fratrum Predicatorum de Bononia. 


La deliberazione della risposta da darsi a frate Agnello spetta al giorno seguente: 
Die vigesimo secundo marci]. 

In Christi nomine, sancte et individue Trinitatis Patris et Filii et Spiritus Saneti amen. 
Ad portata et relata per reverendum et relisiosum virum d. fratrem Agnellum priorem 


(1) È citato nell’atio 9 maggio, con cui il procuratore di Bologna confermò il compromesso 
9 maggio 1299. Vzzci, IV, doc., p. 138, n. 414. 

(2) Verci, Marca, IV, doc., p. 126, n. 409. Grmrazpacor, I, 361. 

(3) Gamsazpacci, I, 369-70. Di lì dipeude Vazci, Marca, IV, doc., p. 129. n. 407. 

(4) Bartolomeo correggente al padre nel Capitanato. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 5) 


capitulli et conventus fratrum Predicatorum de Faventia ex parte magnificorum virorum domi- 
norum, .. Potestatis, .. Capitanei, quatuor Angianorum Populi Civitatis Bononie et Sapientum quos 
super hijs habere voluerunt, respondetur et deliberato consilio in generalli Parlamento Ami- 
corum provincie Romaniolle datur responsum..... 

Placuit dictis dominis Potestati et Capitaneo, Ancianis et Sapientibus essequendo conscilia 
predictorum dominorum Capitanei, Bonincontri, Dominici et Guidotti, partito facto inter eos de 
sedendo ad levandum, quod intendent procedere in predictis, dum modo negocium Lamberta- 
ciorum in predicta scriptura et pace facienda non comprehendatu» nec inteligatur, cum Co- 
mune Bononie et ipsi sint compromissi in dominos Capitaneum Mediolanensem (1) et Albertum 
de la Schala. 


Di qui apparisce che a Bologna si accettava la mediazione di frate Agnello per 
quanto riguardava le città di Romagna, ma da questo affare si distaccava quello 
dei Lambertazzi, poichè questo riserbavasi esclusivamente alla mediazione dei due 
Signori di Lombardia (2). 

Identico criterio prevale nel seguente documento, dove pure si tiene distinto 
l’affare dei Lambertazzi da quello delle città di Romagna. 


In Christi nomine, ad aportata secundo loco die [vigesimo] (8) secundo marcij per 
fratrem Agnellum priorem Ordinis et conventus fratrum Predicatorum de Faventia ex parte domini 
Cappetini (cioè de Ubertinis) capitanei generalis amicorum suorum provincie Romaniolle et alliorum 
in cedula contentorum, adest responsum dominorum Potestatis, Capitanei, quatuor Angianorum 
et Sapientum, solempni per eos deliberatione premissa. d In primis, videlicet super primo 
capitullo, quod bonam et puram pacem intendunt cum ipsis Capetino, Maghinardo Pagano de 
Soxenana (4) potestate et capitaneo civitatis Faventie (5) et Galusso comite Montisferetri et cum 
civitatibus et locis Forollivii, Favencie, Cesene et Ymolle et Castrocharij et cum eorum amicis 
de dicta provincia Romaniolle, secundum quod per eos oblatum fuit fratri Agnello predicto et 


(1) Proprio in data del 20 marzo 1299 il Comune di Bologna pregava Matteo Visconti ad aiu- 
tarlo con tutte le sue forze. Repertorio diplomatico Visconteo, edito dalla Società storica Lombarda, 
Milano, 1911, I, 8. 

(2) Da G. Villani (VIII, c. 46) dipende sostanzialmente il seguente passo, che riproduce la frase 
grande tiranno in Lombardia , attribuita dal celebre cronista ad Alberto della Scala, in corrispon- 
denza a quella del “ gran Lombardo , (Parad., XVII, 71). Sant'Antonino (Chronicon, ed. Lugdunensis, 
1587, III, 249) scrive: “ Inter Veronenses etiam et dominum de T[rid]Jento fuit durum bellum; in 
“ quo proelio Veronenses fuerunt profligati et devieti. Et paulo post obiit d. Albertus de Scala, 
° magnus tyrannus in Lombardia, cui successit in dominio seu tyrannide Veronae civitatis dominus 
° Canis. Sed ante quam moreretur, fecit milites filios suos, licet parvulos. In processu post tem- 
© poris inter se rixantes, ut mus et rana..... 

(3) Nel ms. è qui omessa questa parola. 

(4) Inf., XXVII, 50; Purg., XIV, 118. 

(5) Mainardo Pagano da Susinano fu “ grande e savio tiranno , per quanto ne dice G. VicranI, 
VII, 147. Uno schizzo della vita di questo energico ghibellino, che morì nel 1302, scrisse Paget 
Torxsre, A dictionary of proper names and notable in the works of Dante, Oxford, 1898. — Su questo 
personaggio veggasi T. Casmi, IZ e. XIV del Purgatorio, Firenze, 1902 (p. 20, e p. 31-2: “ di Maghi- 
nardo non m’indugierò, perchè già altra volta furono qui esposti i suoi fatti e i suoi torti ,). MrcneLe 
Barsi nel “ Boll. Soc. Dantesca ,, 1899, p. 228, 20, 31, 32, desume dalle Consulte Fiorentine pubbli- 
cate con tanta maestria dal compianto A. GrerarpI, un manipolo di notizie sullo stesso argomento. 
Il citato Casmi, Dante e la Romagna, © Giorn. dantesco ,, I, 19, 112, 303; IV, 43, iniziò un lavoro che 
se fosse stato condotto a termine sarebbe riuscito veramente utile. Si ricordino ancora G. Mini, I nobili 
Romagnoli e la Div. Comm., Forlì, 1907; P. BermranIi, La Romagna di Dante nel c. XIV del Purga- 
torio, Fermo 1904. 


6 CARLO CIPOLLA 


secundum responsionem alias factam ipsì fratri Agnello. d Ad secundum articullum, qui incipit 
quod intendunt ipsum tractatum pacis fieri etc. ex eadem deliberatione datur responsum, quod 
cum Lanbertacijs civitatis Bononie extrinsecis singullaris tractatus pacis factus est inter eos et 
Comune Bononie, ex compromisso facto per ipsos Lanbertacios et Comune Bononie in dominum 
capitaneum Mediolanensem et dominum Albertum de la Schala, et ideo non intendunt quod 
in ipso presenti tractatu pacis includantur vel comprehendantur dieti Lambertacii..... 


Il congresso dei nobili di Romagna radunato addi 29 marzo (1299) accondi- 
scese a dividere l'affare loro da quello dei Lambertazzi, e di tale decisione frate 
Agnello diede informazione ai Bolognesi, che risposero con carta del 31 di detto mese. 


Die ultimo marcij. d Infrascripta scriptura, fuit per dictum fratrem Agnellum domino 
Potestati, Capitaneo et Angianis et Sapientibus presentata, cuius tenor talis est. 

In nomine sancte et individue Trinitatis, Patris et Fili et Spiritus Saneti, Amen. Ad 
portata et relata ultimo, scilicet die vigesimosexto marcij per reverendum et religiosum virum 
d. fratrem Agnellum priorem Capitulli et Conventus fratrum Predicatorum de Faventia ex parte 
magnificorum virorum dominorum, .. Potestatis, .. Capitanei, quatuor Angianorum Populi [cijyitatis 
Bononie et Sapientum, quod super hijs habere voluerunt, deliberato conscilio, in generalli Par- 
lamento Amicorum Provincie Romaniolle celebrato in civitate Faventie die vigesimonono mensis 
marcij, datur responsum per dominos Cappetinum de Ubertinis Capitaneum generalem Ami- 
corum suorum de dicta provincia et potestatem Forollivii, Gal[ussum] comitem Montisferetri 
potestatem et capitaneum civitatis Cesene, Machinardum Paganum de Soxenana potestatem et 
capitaneum civitatis Faventie et capitaneum civitatis Ymolle, necnon per ambaxatores civitatum 
et terrarum Forollivii, Favencie, Cesene, Ymolle et Castrocharii. 

In primis, videlicet super primo capitulo, quod incipit: in primis ete. (1), quod bonam et 
puram pacem habere intendunt et cupiunt cum Popullo et Comuni Bononie et omnibus eorum 
amicis de Provincia Romaniolle, secundum quod alias per eos oblatum fuit per dietum fratrem 
Agnellum et secundum responsionem factam alias predicto fratri Agnello. 

T Ad secundum articullum quod incipit: ad secundum articullum ete. (2) eadem delibe- 
ratione datum responsum quod propter tractatum pacis inter Comune Bononie et Lanbertacios 
ex compromisso facto in d. capitaneum Mediolanensem et in d. Albertum de la Schala, in quo 
tractatu proceditur prout retullit dietus prior, condescenditur quod in presenti tractatu dicti 
Lanbertacii non conprehendantur et procedatur in ipso presenti tractatu, sicut dictum est. 

Ad tertium et ultimum articullum... 

Existentes predicti domini Potestas et Capitaneus, quatuor Anciani et Sapientes quatuor 
superius nominati... 

In refformatione quorum dominorum Potestatis et Capitanei, Ancianorum et Sapientum et 
preconsulis et preministralis, essequendo consilium domini Guidotis de Camandinis... 


V. 


Così la sorte dei Lambertazzi rimase decisamente staccata dalle trattative coi 
nobili Romagnoli e attribuita soltanto all’arbitrato dei due ricordati Signori di Lom- 
bardia, dei quali è bene aggiungere che pochi mesi innanzi avevano stretta paren- 


(1) Corrisponde all’inizio della risposta dei Bolognesi ai nobili Amici di Romagna 22 marzo 1290, 
che testè ho riferito. 
(2) Ezuale corrispondenza col secondo paragrafo del documento del 22 marzo. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 7 


tela fra loro. Infatti alla festa di S. Michele (29 settembre) del 1298 si tenne in 
Verona una solenne “ curia militum ,, e in questa occasione Alboino figlio di Alberto 
della Scala sposò Caterina figlia di Matteo Visconti (1); nell’anno 1289 (2) Costanza 
figlia di Alberto della Scala aveva sposato Obizzo d’ Este. 

Tuttavia per quanto le due pratiche, per motivi politici e per ragioni giuridiche 
sì volessero tenere separate, l’ una e l’altra si incontravano inevitabilmente; e il 
processo dei fatti ce ne darà le prove. 

Le relazioni fra Matteo Visconti e Bologna erano così intime, che quegli chiese 
a questo Comune un aiuto militare, e Bologna accondiscese; per il che il Visconti 
ringraziò i Bolognesi con lettera datata da Milano, 20 marzo 1299 (3). 


Die sabati quarto aprilis, in terra Conpletori]. 

D. Rogerius Tragla ambaxiator domini Capitanei Mediolani, 4 d. Nicolaus de Regio am- 
baxator d. Alberti de la Scala redientes de partibus Romaniolle retullerunt ex parte dicti fratris 
Agnelli prioris Faventie (4) et predictorum nobilium partis adverse provincie Romaniolle, quod 
tractatus coloquii et ratiocinarij, qui haberi debet cum eis differebatur usque ad diem mercurii 
octavum mensis aprilis presentis faciendum. 


Subito dopo comparirono a Bologna, siccome appare, gli ambasciatori del Visconti 
e dello Scaligero, che erano stati nella Romagna occupandosi anche delle cose dei 
nobili romagnoli, quantunque le intenzioni di questi fossero state espresse in modo 
diverso e distinto da quello che seguivasi nella questione dei Lambertazzi. 

Due giorni dopo, cioè il 6 aprile, a Castel S. Pietro (5) recaronsi i magistrati 
di Bologna per le cose dei nobili di Romagna. Gli ambasciatori dei Signori di Milano 
e di Verona recaronsi egualmente colà, ma essi si occuparono piuttosto delle cose 
dei Lambertazzi che non degli Amici, pur comprendendo che i due affari non pote- 
vano procedere interamente dissociati. Il giorno antecedente (e quindi il 5 aprile) 
nel Consiglio del Comune di Bologna era stato approvato il richiamo dei Lamber- 
tazzi, cioè erasi deliberato di mettere finalmente un termine al lunghissimo periodo 
di lotte e di dolori. 


Millesimo ducentesimo nonagesimo nono, die lune sexto aprilis. 

D. Ottolinus de Mandello potestas Bononie, d. Blaxius de Tholomeis capitaneus Populi 
Bononie fecerunt Antianos et Consules dicti mensis et infrascriptos Sapientes ad cameram ipsius 
d. potestatis more solito congregari, in qua quidem congregatione affuerunt ultra due partes 
Antianorum et Consulum, et ipsi Sapientes, ambaxatores [iverunt ?] cum d. potestate predicto 
ad castrum Sancti Petri, ochasione tractatus coloquii habendi cum Romaniollis adverse partis... 

Inter quos ipse d. potestas legi fecit quamdam litteram ex parte fratris Agnelli prioris 
fratram Predicatorum de Faventia d. Potestati, Capitaneo et Antianis et Sapientibus trans- 
missam, in qua inter allia continetur, quod parlamentum tractatum differtur usque ad diem mer- 
curij octavum mensis aprilis et quod inibeatur ex parte comunis Bononie illis de Massa et 


(1) SyIlabus Potestatum, in “ Ant. cron. Veron. ,, I, 401-02. A queste nozze accenna la Chronica 
illorum de la Scala, nel citato volume, p. 500. 

(2) Syllabus, p. 399; De Romavno, p. 434. 

(3) GarrarpAceI, I, 381-2 (parte per tenore e parte in sunto). 

(4) Quale rappresentante di Cappetino de Udertinis capitano generale della lega degli Amici di 
Romagna. 

(5) Nell’Imolese. 


8 CARLO CIPOLLA 


Thauxignanum (1) et de Corvaria et alliis terris comitatus Bononie ad confinia existentibus, quod 
durante dicto parlamento et essistente d. Hoc... giprato Feliciani in partibus Romaniolle quod non 
debeant adversus partes inimicorum comitare seu facere aliquam lesionem. 

Inter quos etiam dominos Potestatem, Capitaneum, Antianos et Sapientes d. Rugerinus (?) 
Tragla ambaxator domini Capitanei Mediolani, qui nuper de partibus Romaniolle cum d. Nicholao 
de Regio ambaxatore d. Alberti de Scala rediit, exposuit et dixit quod Lambertatij, Ymolle 
essistentes, de refformatione pridie faeta in Conscilio Populi, quod ad mandata Comunis Bononie 
reciperentur, repleti fuerunt gaudio magno, valde agentes gratias Christo Jesu et omnibus 
Sanctis eius, et quod fecerunt fieri cridam, quod nulus de dicta parte vel eorum sequacibus in 
comitatu Bononie dampnum dari deberet, pena haberis et personarum, de qua crida fides 
[daretur ?]  predictis dominis Potestati, Capitaneo, Antianis et Consulibus et Sapientibus per 
publica instrumenta et quod ipsi Lambertatij fecerunt fieri syndicum dictis dominis Capitaneo 
et Alberto..... et a Comuni Bononie petebant illud idem et quod intendebant..... ad tractatum (2) 
faciendum et habendum cum adversarijs Romaniolle, nomine anbaxatoris (8) dicti domini Alberti 
et ipse idem si de dictorum dominorum processerit voluntate. 

Item d. comes Bernardinus de Cunio..... 

Qui dominus Potestas, predictis lectis et expositis et naratis, de consensu et voluntate d. 
Capitanei Populi antedicti, proposuit inter dictos Angianos et Sapientes et conscilium petiit, 
quid sit super predictis et quolibet eorum presentialiter faciendum. 

In refformatione quorum Angianis et Sapientibus placuit omnibus, nemine discordante, 
partito facto per dictum dominum Potestatem de sedendo ad levandum et essequendum 
conscilium..... ; ; 

Item facto partito eodem modo et forma et essequendo conscilia predictorum Bonincuntri 
et Dominici (4) placuit eis quod per Comune Bononie constituatur syndicus Comunis Bononie 
d. Roycus de Roycis notarius ad presentandum se coram d. Mediolanensi et ad sententiam 
audiendam ab eo, et consensu domini Alberti de Scala predicti, et quod instrumentum sinda- 
catus formetur, et fiat de consilio Sapientum virorum per Johannem d. Anthonij Auliverii not., 
et quod ante quam dictus Roycus se a civitate bene asentet, quod per sapientes viros et per 
d. Johannem de Calcina et Roygum videantur et examinentur omnia capitulla vel articulla pro- 
nuncianda per dictum d. Capitaneum Mediolanensem, et refformatio pridie super facto Lanber- 
taciorum in Conscilio Populi bene facta et instrumentum syndicatus nuperrime per Lanbertatios 
in civitate Ymolle cellebratum ita et taliter quod in dictis negociis esse non possit et quod 
Comune Bononie oblicum non recipiat in predictis et quod sindicus predictus plene instruetus 
ad omnia accedat, prout dietis Sapientibus videbitur expedire (5). 


Le due pratiche procedevano quindi parallelamente, da una parte quella della 
pacificazione da conchiudersi tra Bologna e i Signori di Romagna, pacificazione che 
trattavasi direttamente, e dall'altra quella dei negoziati per il ritorno dei Lamber- 
tazzi in città, dove i Signori di Lombardia continuavano a trattare per mezzo dei 
loro oratori. 


(1) Thaux. Cioè Tossignano in quel di Imola. 

(2) Più di una volta in questi documenti, e in questo luogo in particolar modo forse, la parola 
tractatum si usa in un senso piuttosto vicino all’uso nostro, che non a quello dell’atto di trattare, 
di negoziare. L'uno e l’altro significato stanno fra loro accostati, così che non sempre riesce agevole 
il separarli. 

(3) anbax. 

(4) Cioè: Dominici Tholomei preconsulis. 

(5) Un sunto di questo documento può leggersi presso il GaIrarpacci, I, 384. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 9 


L'affare dei Lambertazzi fece ancora un nuovo passo addi 7 aprile, per opera 
dei magistrati di Bologna, come appare da quest'altro documento che si continua 
ai riferiti, nel citato volume delle Riformazioni degli Anziani. 


Millesimo ducentesimo nonagesimo nono, indicione duodecima, die septimo aprilis, essistente 
domino Octolino potestate Bononie ad castrum Sancti Petri, 

In primis, quid videtur Ancianis et Sapientibus faciendum super eo quod Priores partis 
Lanbertaciorum, Ymolle civitati commorantes, petunt eis per Comune Bononie dari formam 
quomodo et qualiter facere debeant inter eos formam refformacionis quod d. Mafheus (1) Capi- 
taneus Mediolanensis et d. Albertus de la Schala procedant ad pronumciationem laudi ferendi 
per eos (2). 


Addì 4 aprile, siccome vedemmo, gli ambasciatori del Visconti e dello Scaligero, 
ritornando dalla Romagna, avevano riferito da parte di frate Agnello e dei nobili di 
quella regione, che il colloquio era rimandato al giorno 8. Ci resta (3) il testo del docu- 
mento del giorno 8 aprile con cui Ottolino da Mandello podestà, gli Anziani e i Savi 
di Bologna convennero con Zappetino Ubertini capitano della Lega degli Amici di 
Romagna promisero di dar mano sinceramente alla pace. L’atto fu stipulato a Castel 
S. Pietro, nel distretto e comitato di Imola. Sono presenti frate Agnello da Faenza, 
Eartolomeo da Farina dottore in decreti e Nicolò da Reggio notaio ambasciatori di 
Alberto della Scala; Ruggero Traglia ambasciatore di Matteo Visconti. 

Al medesimo tempo ascriveremo un documento (4), senza data, nel quale leggiamo 
la deliberazione presa dalla parte dei Lambertazzi, residente ad Imola, di ricono- 
scere che il Visconti e lo Scaligero erano autorizzati a pronunciare il loro lodo, il 
che significa implicitamente ch’erano invitati a farlo. Tale deliberazione presa dai 
Lambertazzi era in piena armonia colle concilianti disposizioni manifestate, come 
vedemmo, dal Consiglio di Bologna. 

Riproduco, sebbene edito, il documento, importante e breve nel tempo stesso, 
seguendo la lezione del manoscritto. 


In Christi nomine amen. Coadunata generali Parte Lanbertaciorum civitatis Bononie, 
ad sonum canpane et voce preconia, in ecclesia ete. de civitate Ymolle, et ipsa Parte et homi- 
nibus dicte Partis coadunata et coadunatis in predicta ecclesia, ut moris est, et proposita inter 
eos ambaxata prudentum virorum dominorum Rugerini Tragle anbaxatoris domini Mafhei (ste) 
capitanei Mediolani et Bartholomei Farine decretorum doctoris et Nicholay de Regio ambaxa- 
torum d. Alberti de la Schala Capitanei civitatis Verone et audita refformaccione Populi et 
Comunis nuper facta ad requisitionem predictorum ambaxatorum eorumdem et proposita per 
eos ... de voluntate dominorum Duodecim, qui presunt aliis de dicta Parte Lanbertaciorum, et 
per ipsos dominos Duodecim et Priores eorumdem quod placet provideri super dicta anbaxata 
facta per dictos anbaxatores dictorum dominorum Mafhei (séc) et Alberti et super reformacione 
Conscilii Populi Bononie facta die ultimo marcii suprascripti, manu d. Gozadinis notarii Angia- 
norum et Consulum, diligenti examinatione prehabita et auditis voluntatibus singullorum, qui 


(1) Sie. 

(2) GriraRDACCI, I, 386. 

(3) GairaRDACCI, I, 387-8. 

(4) GatraRDAccI, I, 386 al 7 aprile: Veci, IV, doc., p. 135, a. 412 (al 7 aprile). Nel manoscritto 
delle Riformagioni degli Anziani c'è il documento. 


Serre II. Tox. LXII. 2 


10 CARLO CIPOLLA 


super predictis arengare et consullere voluerunt, et partito facto inter eos, placuit omnibus de 
dicta parte Lanbertaciorum [nemine] (1) discrepante, quod per dominos Capitaneos antedictos yel 
per d. Mafheum (sic) antedictum, de voluntate dicti d. Alberti vel eius procuratoris, procedatur 
et procedi possit ad decissionem eorum que per syndicum dicte partis et per sindicum Comunis 
Bononie deducta fuerunt in compromissum per dictos sindicos in predictos dominos Capitaneos, 
secundum formam refformationis predicti Conscilij Populi, scripte manu dicti Benni not. et in 
tantum ipsa pars Lanbertaciorum, nemine discrepante, dictam refformacionem et omnia contenta 
in ea reformatione aprobant, amolagant et confirman[t] in omnibus et per omnia. 

Que quidem forma refformationis fuit per dictos Sapientes et Ancianos sive ambaxatores 
deliberata[a] (1) Conscilio aprobata in totum. 


Addì 10 aprile Bologna si rivolse ancora a frate Agnello (2). la cui opera con- 
tinuava tanto efficace, quanto accorta. 

Ma nel mentre ogni cosa pareva procedere pacificamente, così che la stipula- 
zione della pace dovesse riuscire facile, sicura e rapida, un ostacolo si sollevò da 
parte dei Bolognesi. Infatti i magistrati del Comune di Bologna, radunati a Castel 
S. Pietro, vollero che, a pace fatta, venisse loro consegnata la città d’Imola. forse 
sotto la veste ch’era necessario ch’'essa rimanesse nelle mani dei Bolognesi, come 
pegno di pace. Tale grave richiesta fu dai Bolognesi fatta non solo per mezzo di 
frate Agnello, ma anche colla partecipazione, del resto amichevole, degli oratori dei 
Signori Lombardi; e fu presentata agli Amici di Romagna, forse perchè se Imola 
era la residenza dei Lambertazzi, apparteneva pur sempre alla Romagna e agli 
Amici di quella lega. I nobili di Romagna di tale domanda si impensierirono, e in 
data del 14 aprile chiesero un giorno di tempo per preparare una risposta. L'affare 
dei Lambertazzi si mescolava ancora una volta con quello dei nobili di Romagna, 
e questo avveniva probabilmente perchè Bologna ne traeva il proprio vantaggio. 


die mensis quartadecima aprilis. 

Essistentibus dominis Octollino de Mandello potestate predicto, Ancianis, Sapientibus et 
Anbasatoribus apud castrum Sancti Petri receperunt litteras a domino Cappetino predicto, 
tenorem infrascriptum in se specialiter continentem. 4 Magnificis viris dominis Ottollino de 
Mandello potestati, Angianis et Sapientibus civitatis Bononie in Castro Sancti Petri congregatis, 
Capetinus de Ubertinis capitaneus generalis Amicorum suorum de Romaniolla, Galassus comes 
Montisferetri, Maghinardus Paganus de Soxenana, Ubertus de Malatestis comes de (sic) et alii 
Sapientes Lige ipsorum, Ymolle congregati, salutem et comunem prosperitatem. Intelles- 
simus votum vestrum a religiosso viro fratre Agnello priore fratrum Predicatorum de Faventia 
cum testimonio fratris Jacobi de Bononia eius consocii, et iurisperiti d. Bartholomei Farine de 
Verona et prudentis viri domini Rogerii de Mediolano anbaxatorum, quod volebatis, pace facta 
inter syndicos vestros et nostrum vice vestri et nostri, et factis firmationibus pactorum statu- 
torum, ordinamentorum et sacramentorum, secundum quod melius pro securitate nostra et comuni 
utilitate et pace videbitur expedire, habere dominium, guardam et potestatem civitatis Ymolle 
ut per hoc publice utilitati nostre et provincie tocius scilicet Romaniolle possetis comodius pro- 
videre, quod factum et propter novitates et multa que possent contingere decrevimus consultius 
et plenius deliberato conscilio diffinire. Unde rogavimus predictum fratrem Agnellum et socium 


(1) L'inserzione di questa parola è richiesta dal senso. 
(2) Gamrarpacer, 2, 388-9: Monum. Civitatis Bononiae, n. 66. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA it 


et memoratos dominos quod differant usque in crastinum et tune vobis per eosdem plenam 


dabimus responsionem. Quapropter dominationem vestram rogamus attente quatenus vobis 
placeat usque ad prefinitum tempus, scilicet die crastina, in loco ubi manetis, predictos fratres 
et dominos expectare. Data Ymolle die . x1y . Aprilis. 


Frate Agnello e gli ambasciatori dei Signori Lombardi riferirono ai magistrati 
Bolognesi, i quali risiedevano sempre a Castel S. Pietro, che i nobili di Romagna non 
intendevano affatto di consegnare Imola in potere loro, ma i detti magistrati per 
parte propria, nella radunanza del 15 aprile, chiaramente dichiararono che essi rite- 
nevano il possesso di Imola necessario per la conservazione della pace. 


Die . xv . aprilis, venientibus predicto fratre Agnello et socio et anbaxatoribus a civitate 
Ymolle ad dictum dominos potestatem, et Angianos et Sapientes ad burgum Castri Sancti Petri, 
ubi erant, et refferentibus ex parte dictorum nobillium Cappitini, Galassi et Machinardi et 
alliorum sequacium eos nolle tradere civitatem Ymolle in manibus Comunis et Populi Bononie, 
ipse d. potestas proposuit inter dietos Ancianos et Sapientes quod et quale responsum dandum 
esset predictis et super hoc petiit conscilium exhiberi. 

In refformatione quorum Angianorum et Sapientum, partito facto per dietam dominum 
Potestatem de sedendo ad levandum, essequendo conscilium d. Ubaldini de Malavoltis, placuit 
omnibus, nemine discordante, quod responsum detur dicto fratri Agnello et ambaxatoribus et 
illis qui eos miserunt, quod non potest provinciam pacificari nisi per modum Imolle petitum 
non separando se dieti domini Potestas Anciani et Sapientes a verbis tractatus nec a tractatu. 

Que quidem responsio predicto fratri et anbaxatoribus per dictum d. Ubaldinum subicto facta 
fuit, dicendo insuper eis quod exponant et narent predictis nobilibus et alliis provincie quod 
cogitent et deliberent yeterum in predictis. 


I magistrati di Bologna, ricevuta questa dichiarazione, non si dimostrarono av- 
versi ed aderirono a trattare, pur dichiarando che essi avevano parlato a frate 
Agnello della consegna di Imola, collo scopo di assicurare la pace. In questa occa- 
sione non si parla affatto degli ambasciatori dei Signori Lombardi. Abbiamo soltanto 
ricordati gli ambasciatori di Forlì, Faenza, Cesena ed Imola che vengono a Castel 
S. Pietro per esporre i loro pensieri al Podestà, agli Anziani ed ai Savi di Bologna e a 
riceverne la risposta. 


Die sextodecimo aprilis, anbaxatores civitatum Forollivii, Faventie, Cesene et Imolle ad 
burgum Castri Sancti Petri ad dominum Potestatem, Angianos et Sapientes predictos venerunt, 
inter quos d. Aliotus iudex de Forollivio naravit et dixit, de voluntate alliorum qui Imollam 
remanserant, quod unquam per fratrem Agnellum eis civitas Imolle petita non fuit, et quod 
quilibet pacem faciens cum suis adversariis eam facit ad meliorandum suum statum et condi- 
cionem, et quod placeret ipsis Potestati, Ancianis et Sapientibus pro eodem super tractatu pacis 
et esse iterum ad parlamentum, remanendo civitas Imolle Amicis lige eorum, sicut est. 

Qui dominus Potestas, separacione facta per ipsos anbaxatores de dicto loco, inter dictos 
Sapientes et Ancianos proposuit atque dixit quid eis videbitur super recitatis et expositis per 
dictum d. Aliotum. 

Im refformatione quorum Sapientum, essequendo conscilium d. Alberti Bonacapti, placuit 
omnibus quod respondeatur et dicatur dictis anbaxatoribus quod pluries fratri Agnello de facto 
Ymolle fuit impositum atque dictum, et quod erat intentio d. Potestatis, Sapientum et Ancia- 
norum quod eisdem disiset, et quod placet d. Potestati et eis quod provincia pacifieret et quiescat 
per vias ordinatas et per allias, et quod ea que dicta sunt super facto Ymolle videntur eis 


12 CARLO CIPOLLA 


conveniencia et quod acceptant ea que offerunt, dum tamen redeundum ad tractandum et ad ea 
que ordinari et examinari debent per utramque partem sit ad eorum voluntatem. Que quidem 
resposio per dictum modum et formam eis per d. Potestatem facta fuit. 


E da Forlì risposero i nobili di Romagna sotto la data del 17 aprile, e poi le 
trattative ancora continuarono. Anche nei documenti nei quali non compariscono gli 
ambasciatori del Visconti e dello Scaligero, noi possiamo sentirne la loro azione, 
incessante ed energica. Pietro Catinelli, cronista degno di fede, ci fa ben compren- 
dere che essi non se ne stavano inoperosi (1). 

Il fascicolo delle Riformagioni degli Anziani e dei Consigli Minori, donde ricavai 
così numerosi documenti, si arresta al 1° maggio 1299, quando i Romagnoli nega- 
rono la consegna di Imola a Bologna, rifiuto dato perchè essi speravano di essere 
sciolti dall’interdetto ecclesiastico, che li colpiva, cedendo Imola alla Chiesa; tuttavia, 
dicevano, studieranno di dar soddisfazione ai Bolognesi, acconsentendo che in Imola 
rientrino gli estrinseci ai quali saranno restituiti i loro beni. 


VI. 


La Pasqua fu solennizzata nel 1299 addì 19 aprile. Sotto la data del 20, i ma- 
gistrati di Bologna convennero di incontrarsi coi sindaci delle città di Romagna il 
secondo giorno dopo l’ottava di Pasqua (2), il che vuol dire il 28 del mese stesso. 

Finalmente il 4 maggio 1299 (3) si stipulò la pace fra Bologna da una parte e 
dall’altra i nobili e le città della lega degli Amici di Romagna, cioè Forlì, Cesena, 
Faenza, Imola e Castrocaro. 

Nel primo capitolo si scioglie la questione di Imola, che quasi metteva in forse 
la stipulazione dell’ accordo, e lo si fa dando parte non piccola ai Signori di Lom- 
bardia. Infatti si determina così: 


In primis, quod civitas Imole sit et debeat esse sub guardia et custodia magnificorum 
virorum dominorum Mathei de Vicecomitibus capitanei civitatis Mediolani et Alberti de la Scala 
capitanei civitatis Verone, per ipsorum custodem custodienda et salvanda, quousque diete partes 
erunt in concordia, quod dicta custodia ulterius non fiat. Item quod dicti custodes habeantur 
et esse debeant in civitate Imole extra communia et universitates diete Lige. Item quod no- 
minandi per dietos dominos Matheum et Albertum eligi debeant per Commune Imole et debeant 
esse Potestates dicte terre toto supradicto tempore et ipsam terram regere in officio Potestarie 


(1) Chronicon ed. Franc. Torraca, Città di Castello, 1902, p. 90 (Rer. Italic. Script., XXVII, 
pars 2.: © .... die martis xxr mensis aprilis, in civitate Faventie convenerunt simul ad presentiam 
“d. Maghinardi Pagani de Sosenana, tunc potestatis et capitanei civitatis Imole, anbaxiatores 
“ d. Mathei de Viscontis capitanei Mediolani et d. Alberti de la Scala domini civitatis Verone et 
“ dominorum Aconis et Francisci marchionum de Ferraria, et comunis Bononie causa tractandi 
“ concordiam inter Bononienses intrinsecos et extrinsecos et super aliis que habebant in mandatis ,. 
Anche il Catinelli per altro attribuisce a fra Agnello di Faenza il merito dei negoziati per la con- 
cordia; su di che veggasi anche la lettera dei Bolognesi a frate Agnello, 26 aprile; GHirARDACGI, 
I, 395; Monum., n. 73 (ms.). 

(2) Grirarpacer, I, 393; Monwm., n. 71. 

(3) GurrarpaAccI, pp. 396-399; Monum., n. 74. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 13 


et non alii in dicto officio et habere debeant guardiam et custodiam dicte civitatis Imole cum 
custodibus eligendis per dictos dominos Matheum et Albertum et cum salario et familia consuetis. 
Item quod sì contingeret Ecclesiam Romanam exposcere seu postulare restitutionem civitatis 
Imole sibi fiendam... Item quod nominatio confirmandorum dictorum extrinsecorum civitatis 
Imole, numerus, tempus et loca confinium remaneant in deliberatione, provisione et dispositione 
dictorum Matthei et Alberti; et ceteri alii de civitate et comitatu Tmole, adherentes comuni 
Bononie, libere revertantur et reverti possint in dicta civitate Imole..... 

V. Vitale (1) riassume così gli avvenimenti di cui ci occupiamo: “ Le trattative 
“ coi Romagnoli iniziate nell'aprile del ‘99 condussero in breve all’accordo, che fu 
“ conchiuso in Castel San Pietro (2); quelle coi Lambertazzi cominciate nel ‘98 dura- 
“ rono per buona parte anche dell’anno seguente, finchè il lodo di pace fu pronunciato 
“ da Matteo Visconti e Alberto della Scala nominati arbitri , (3). E sostanzialmente, 
questa esposizione storica è esatta, salvo che gli ambasciatori dei due Signori di 
Lombardia, trovandosi nella Romagna, ebbero talvolta in cura anche le cose dei 
nobili romagnoli, non mai del tutto dissociabili da quelle dei Lambertazzi. 


VII. 


Per quello che riguarda il lodo chiesto al Visconti e allo Scaligero, abbiamo 
sicure notizie dall’ atto datato da Verona 24 aprile 1299, col quale Alberto della 
Scala nominò il giudice Bonmesio Paganotti a collaborare con Matteo Visconti nella 
preparazione del lodo. In questo documento si dice ancora che la città di Bologna 
aveva eletto il suo ambasciatore, Rozzo dei Rozzi, e la parte dei Lambertazzi 
aveva nominato con simile mandato Uguccione dei Principi; questi due giudici anda- 
rono ad affidare a Matteo Visconti, e in lui anche ad Alberto della Scala, il sud- 
detto arbitrato. 

Il documento ci fu conservato in originale (4), e da esso ricavo alcuni brani di 
maggiore interesse, trascurando le formule sovrabbondanti, secondo lo stile notarile 
del tempo. 

Fra i presenti leggiamo del dottore di leggi Nicolò de Altemanno, che pure chia- 
mavasi de Lege, ben noto come professore, come giurista e come diplomatico, il cui 
nome s'incontra con molta frequenza fra quelli dei più fidati e più illustri fra i 
servitori degli Scaligeri. 

Ha sempre uno speciale interesse quel documento che descrive come era ammi- 
nistrata e governata una fazione, che espulsa dalla sua città, si ordina come una 


(1) Op. cit., p. 73. 

(2) E qui rimanda al Cantinelli e al Ghirardacei. 

(3) Questo fu affermato esattamente dal Garrarpacci, I, 385: “ Et perchè in questo medesimo 
“ tempo si trovarono in Bologna Ruggero Treglia oratore del Capitano di Milano et Nicola da Reggio 
“ ambasciatore di Alberto della Scala che haveano trattato col Consiglio della suddetta causa, ritor- 
“ narono addietro, apportando la felice novella a’ Lambertazzi ,. 

(4) Fra le Pergamene sparse. Sul verso della pergamena, d’altra, ma pur antica mano, si legge: 
“ Instrumentum sindicatus Comunis Verone est in membranis Comunis Verone registratum per... 
Borchexani notarii sub m°.Jy°.Ixxxxvim] “ die ultima septembris, vi f°. ,. Quest'ultima abbreviazione 
significa probabilmente: “ nono folio ,. In tanta scarsezza di dati sulla cancelleria scaligera anche 
queste poche parole meritano d’essere tenute in considerazione. Il documento fu pubblicato dal 
Verci, IV, doc., p. 136, n. 413. 


14 CARLO CIPOLLA 


specie di Stato a parte, una forma di Comunità che vive senza il proprio territorio, 
nella speranza di ritornare in patria, mentre più o meno conserva ancora la sua 
autonomia politica, attendendo il momento o di nuove sconfitte o di decisiva vittoria. 
Nel documento che segue, l’organamento della parte dei Lambertazzi è con sufficiente 
larghezza esposto e chiarito, ancorchè non tutte le oscurità siano tolte, non tutte le 
incertezze siano eliminate. 


(S. T.) In nomine Domini amen. Die veneris vigessimo quarto aprilis, Verone, in 
guayta Sancte Marie Antique, in palacio magnifici viri domini Alberti Capitanei generalis Co- 
munis et Populi Verone, presentibus prudentibus viris dominis Nicolao de Altemanno legum 
doctore, Conrado de Ymola Comunis Verone iudice, ac nobilibus viris dominis Gerardo de 
Castellis de Tarvisio, Castellano del Mesa, Silvestro de Gabaldianis, Bocca domini Cavalcachani, 
Nicolao de Bertramo notario et Bonaventura notario de Sancta Sophia testibus vocatis rogatis 
et aliis. b Magnificus vir dominus Albertus de la Scala Capitaneus generalis Comunis et 
Populi Verone arbiter et arbitrator et amicabilis compositor, una cum magnifico viro domino 
Matheo Vicecomite Vicario generali sacri Imperij in Lombardia, et Capitaneo Populi Mediola- 
nensis, electus a discreto viro domino Roygo de Roycis cive Bononiensi misso sindico nuncio 
speciali et procuratore dominorum,.. Potestatis,.. Capitanei,.. Ancianorum et Consulum et 
Consilii DCCC virorum et Comunis et Populi Bononie, nomine predictorum ex parte una, eta 
nobili viro dominio Hugutione de Principibus filio quondam domini Bartholomei, certo misso 
sindico et nuncio speciali et procuratore dominorum,.. Priorum, .. XX Sapientum, Consilii Cre- 
dencie, Universitatis et Partis Lambertatiorum extrinsecorum de Bononia et dominorum,.. qui 
sunt de dietis XX Sapientibus Consilii Credentie supradicti et domini, .. Prioris, XIJ Sapientum 
presidentium Consilio generali dicte Universitatis et Partis domini [Vicarij] et .., qui sunt de dietis 
XIJ Sapientibus et Consili generalis dicte Universitatis et Partis, nomine et vice predictorum 
et Universitatis et Partis, et omnium illorum de ipsa Parte de Lambertatijs extrinsecorum civitatis 
Bononie et eius diocesis et districtus et cuiuscumque eorum ex altera parte, electus utigue una 
cum dicto dominio Vicario, ita quod unus eorum cum nuncio alterius ad hoc specialiter depu- 
tato possit precepta facere inter partes ad audiendum, diffiniendum et terminandum, iure vel 
usu vel amicabili compositione, omnes guerras, lites, questiones et controversias, que yertuntur 
vel verti et esse sperarentur et posse inter Comune civitatis Bononie ex una parte, et illos de 
Lambertatiis et de parte sua et quemlibet de illa parte extrinsecos civitatis Bononie ex altera 
parte, occasione offensionum, assaltuum, feritarum, percussionum, vulnerum, homicidiorum, damp- 
norum, guastorum, robariarum, incendiorum, maleficiorum et iniuriarum omnium, cuiuseumque 
maneriei dici possent... Dictus quidem dominus Albertus cum audientie diffinitioni et erimi- 
nationi gsuerrarum, litium, questionum et controversiarum predictarum presentiam suam acco- 
modare non possit, fecit constituit et ordinavit ac specialiter deputavit prudentem virum 


dominum Bomesium iudicem, domini Bonapaxij de Paganottis, civem Veronensem presentem — 


et suscipientem, suum certum nuncium et procuratorem ad audiendum, diffiniendum et termi- — 
nandum cum domino Vicario memorato iure vel usu vel amicabili compositione omnes guerras, 
lites, questiones... Dans et concedens eidem procuratori et nuncium generalem et liberam pote- 
statem in omnibus et singulis supradictis... sub ypotheca bonorum suorum, semper tamen salva 
et repetita protestatione premissa. } 

Anno Domini millesimo ducentessimo nonagessimo nono. ind. duodecima. 

EGo Bonmassarius quondam domini ('ambonini notarii, auetoritate imperiali notarius, Ve- 
ronensìis civis, interfuy et rogatus et (sic) scripsi (1). 


(1) In sunto, il documento si legge presso il Gargarpacci, I, 393, e anche a pagina 358 col- 
l'anno 1298. ; 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 15 


VII. 


A Milano nel palazzo vecchio del Comune, si compiè l’ultimo atto del com- 
promesso. Infatti, avvegnachè Roizo de’ Roizi nominato procuratore di Bologna con 
atto del 29 settembre 1298 e Uguccione de’ Principi costituito procuratore dei Lam- 
bertazzi con atto del 31 ottobre, avevano stabilito il compromesso nel Visconti e nello 
Scaligero, Roitzo conferma il predetto atto di compromesso. Ha il nuovo docu- 
mento la data del 9 maggio 1299 (1). 

Ci è pervenuto in originale (2) il lodo pronunciato da Matteo Visconti e Bon- 
mesio dei Paganotti, per mettere termine alla lunga controversia vertente fra Bologna 
e i Lambertazzi. 

Infatti si venne alla promulgazione dell’arbitrato, pubblicato a Milano nel palazzo 
del Comune, addì 9 maggio 1299 (3). Fra i presenti ricomparisce Nicolò de Altemanno, 
che abbiamo incontrato a Verona il 24 aprile precedente, per prender parte all’atto 
con cui Alberto della Scala nominò il suo procuratore. È probabile che l’Altemanno, 
venendo a Milano, si sia seriamente occupato della stipulazione di una convenzione, 
per la quale era indispensabile la compartecipazione di uomini legali, dotti e pratici, 
che sapessero trattare gli interessi politici, quanto gli affari per i quali la conoscenza 
del diritto era indispensabile. 

E fra questi è evidentemente da comprendersi l’Altemanno. 

Il documento, che qui pubblico quasi nella sua integrità, c'insegna che fino dal 
10 novembre 1298 (4) le trattative coi Signori di Lombardia perchè accettassero 
l’arbitrato fra Bologna e i Lambertazzi erano cotanto avanzate da dare luogo ormai 
alla redazione delle prime carte. 

La pergamena non è bene conservata, in qualche luogo è consunta. 


Milano, 9 maggio 1299. 


Premesso che dai Bolognesi e dai Lambertazzi era stato fatto compromesso nel Visconti 
e nello Scaligero, con atti 10 novembre 1298 e 6 aprile 1299, il Visconti e il rappresentante 
dello Scaligero stabilirono quanto segue: 1) pace e remissione delle offese, da giurarsi dalle 
parti interessate; 2) reciproca liberazione dei prigioni; 3) i Lambertazzi siano reintegrati 
nei loro beni e diritti; 4) come si decida nei casi in cui sorgano questioni sul diritto di 
possessione; 5) siano annullati i processi e bandi emanati dal Comune di Bologna contro 
qualsiasi dei Lambertazzi dopo la loro espulsione; 6) il Popolo di Bologna possa collocare 
a confine alcuni dei Lambertazzi; 7) l’esiglio non alteri il tempo dei pegni, e ciò tanto peri 
Lambertazzi come i Geremei; 8) i Lambertazzi siano esenti dall’obbligo di pagare le colte per 


(1) Vercr, IV, doc., p. 188, n. 414. 

(2) Diritti del Comune, 1299. 

(3) Brevissimo cenno di questo documento si fece nel Repertorio diplomatico Visconteo edito dalla 
Soc. Stor. Lombarda, Milano, 1911, t.I, p. 89. — Gli Annales Veronenses di Ubertino de Romano (Cron. 
Veron., I, 456) dicono: “ Eodem anno et mense (giugno) lata fuit sententia per d. Capitaneum Medio]. 
“ de voluntate d. Alberti de la Scala de pace facienda inter Commune Bononie et Lambertacios 
“ extrinsecos ,. Cfr. Maffeo de’ Griffoni ap. Muratori, R. I. S., XVII, 132. 

(4) Varo, Marca Trevigiana, IV, doc., pp. 126 sgg., n. 407. Cfr. quanto dissi nel $ 3. 


16 CARLO CIPOLLA 


il tempo in cui furono espulsi; 9) 10) sul modo da contenersi rispetto ai contratti, veri 
e simulati; 11) se contro qualcuno che chiedesse la restituzione venisse opposto ch'egli non 
è della parte dei Lambertazzi, la decisione si faccia da quattro Savi dei Lambertazzi e da quattro 
dei Geremei scelti dai Bolognesi; 12) Come questi capitoli si applichino verso i Geremei; 
13) i Lambertazzi, ora espulsi da Bologna, debbano prestar giuramento al Podestà e al Capi- 
tano di Bologna. 


(S. T.) In nomine Domini nostri Jesu Christi millesimo ducentesimo nonagesimo nono, 
indietione duodecima, die sabati nono die mensis madij. Cum discordia, guerra, inimicitia 
essent et diutius stetissent inter Comune et Populum civitatis Bononie ex parte una et Uni- 
versitatem seu Partem Lambertatiorum de Bononia extrinsecorum civitatis prediete ex parte 
altera et verti et esse maiores sperarentur (sic) occaxione offensionum homicidiorum insultuum 
feritarum vulnerum robariarum incendioram dampnorum guastorum maleficioram et iniu- 
riarum hine inde illatorum et illatarum seu que illate et illata dici possent in predictis partibus 
seu in aliqua vel aliquibus predictarum partium, alteri parti seu alicui vel aliquibus alterius 
partis, et placuisset predictis partibus, ad preces et instantiam amicorum Comunium compro- 
mittere et se compromisissent (1) in magnificos et potentes viros dominum Matheum Vicecomitem 
Vicarium sacri Imperii in Lombardia generalem et Capitaneum Populi Mediolanensis ete., et 
dominum Albertum de la Scalla Capitaneum generalem Comunis et Populi Verone tamquam 
in arbitros et arbitratores et amicabiles compositores, penna apposita decem milium marcharum 
argenti boni et puri, videlicet discretus vir dominus Royzus de Royzis civis Bononie, sindicu 
dominorum Potestatis, .. Capitanei, .. Anzianorum ete., .. Consulum et Consilij octocentum virorum 
et Comunis et Populi Bononie ad hoe spetialiter constitutus, et dominus Ugutio de Principibus 
sindicus et procurator Sapientum Consilii Generalis, Credentie, Universitatis et Partis Lamber- 
tatiorum extrinsecorum de Bononia ad hoc specialiter constitutus, hoc acto inter cetera, quod 
unus predictorum arbitrorum cum nuntio alterius ad hoc specialiter deputato, possit precepta 
et arbitramenta facere inter partes predictas, ut constat per instrumentum unum traditum per 
me notarium anno proxime preterito die lune decimo novembris, et postmodum predictus 
dominus Royzius sindicus Potestatis Capitanei Anzianorum et Consulum et Consilii Comunis 
Bononie, ut constat per instrumentum unum scriptum per Johannem Antonij de Auliveriis no- 
tarium civitatis Bononie hoc anno, die sexto aprilis, ratifficasset et confirmasset dictum compro- 
missum alias factum per eum ut supra, ut constat per instrumentum hodie paulo ante editum 
per me notarium, modo predictus illustris et magnificus vir dominus Matheus Vicecomes et 
diseretus vir dominus Bomesius iudex domini Bonapaxij de Paganotis civis Verone nuntius 
prefati magnifici viri domini Alberti de la Scalla ad hoc specialiter constitutus, ut constat per 
instrumentum unum rogatum et scriptum per Bomasarium condam domini Zambaneni notarium 
auctoritate imperiali civitatis Verone hoc anno indictione duodecima, die veneris vigesimo quarto 
aprilis, ad honorem Dei et beate Virginis et sanctorum Petri et Pauli, Ambroxij et Petroni, 
Dominici et Francischi diffensorum et protectorum Comunis et Populi Bononie et totius Curie 
Celestis et ad honorem sanctissimi patris et domini domini Bonifatij sacrosanete Romane Ec- 
clesie summi pontificis et ipsius Ecclesie Romane et sacri Imperii, et ad honorem et bonum 
pacificam et tranquilum statum Comunis et Populi Bononie et ad honorem et exaltationem 
omnium amicorum, Christi nomine invocato, concorditer et unanimiter fecerunt et fatiunt infra- 
dicta precepta et arbitramenta pro bono pacis et concordie perpetuo et inviolabiliter inter pre- 
dictas partes observanda. [1] In primis dicunt precipiunt et arbitrantur seu arbitramentantur 
et laudant quod prediete partes seu eorum sindici, nomine eorum, ad invicem faciant bonam, 


(1) Di prima mano fu aggiunto interlinearmente: È de predictis et aliis generaliter... , 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA Ir 


veram et perpetuam pacem et finem et remissionem de omnibus homicidiis asaltis feritis per- 
cusionibus vulneribus robariis incendiis dampnis guastis mallefitiis et offensionibus hine inde 
illatis, seu que illate et illata dici possent a predictis partibus seu ab aliquo vel aliquibus pre- 
dictarum partium alteri parti seu alicui vel aliquibus alterius partis et de omnibus pennis in 
quibus predicte partes seu aliqua earum possent dici incurisse, et generaliter de omnibus que pre- 
dicte partes seu aliqui predietarum partium petere vel requirere possent alteri parti seu alicui 
vel aliquibus alterius partis, occaxionibus suprascriptis, vel alique earum, et quod predicta 
pax et finis et remissio iuretur ad sancta Dei Evangelia tactis Scripturis per legiptimos sindicos 
partium predictarum. [2] Item quod capti per predictas partes seu per aliquem de dictis 
partibus libere relaxentur hine inde, sive sint de civitate Bononie et eius districta, sive de 
sequacibus partium predictarum vel alicuius earum. [8] Item quod illi de parte Lamberta- 
tiorum restituantur per Comune et Populum Bononie integre in omnibus eorum bonis et iuribus, 
que tenebant et possidebant vel quasi, tempore prime expulsionis vel postea, Statutis, Refor- 
mationibus, Ordinationibus quibuscumque aliis non obstantibus, nisi probetur quod legiptime 
teneantur vel possideantur, vel quasi, per aliquem vel aliquos civitatis Bononie vel districtus, 
eorum nomine, salva tamen vendicatione, seu actione cuiuscumque habenti[s] ius, et pre- 
dicta restitutio fatiendi inteligatur tam in clericis quam in laycis, et tam in civitate quam in 
diocesi vel distrietu Bononie. [4] Item quod si questio oriretur de possessione seu detten- 
tatione, credatur ei qui petierit sibi (1) restitui de amissa possessione vel quasi, cum duobus 
testibus, nìsì probetur quod legiptime teneantur vel possideantur vel quasi, vel aliquis vel 
aliqui (2) de civitate Bononie et districtu (et) inteligantur tantum legiptime tenere et possidere 
si habuerint iustam causam seu titulum ab ipsis vel ab aliquo eorum vel ab aliis qui habuerint 
iustam causam seu titulum in predictis vel eorum nomine. [5] Item quod omnes processus 
et banna facta vel lata de iure vel de facto per Comune Bononie post dictam expulsionem, 
cuiuscumque conditionis existant, contra aliquem de dicta parte Lambertatiorum vel eius occa- 
xione, pro irritis habeantur et in totum anulentur; et hoc si processus vel banna facti vel lata 
sunt occaxione partis; et si dubitatio tuerit que banna data sint occaxione Partis, remaneant 
in arbitrio dictorum dominorum arbitrorum et arbitratorum. [6] Item quod illi de Parte 
Lambertatiorum, quos Populus Bononie duxerit elligendos, teneantur et debeant stare et morari 
ad mandata ipsius Populi et ubi ipsi Populo placuerit, ad ipsius Populi liberam voluntatem. 

[7] Item si aliquis contractus pignoris seu venditionis foret factus alicuius rei per aliquem de 
Parte Lambertatiorum, in quo esset certum tempus appositum infra quod dicte res deberent exigi 
vel redimini et illud esset cursum post expulsionem (3) de eis factam, quod dictum tempus resti- 
tuatur tantum quantum supererat quando facta fuit expulxio (4) et illud idem servetur illis de parte 
Geremensium contra illos de parte Lambertatiorum. [8] Item quod illi de parte Lambertatiorum 
qui restituentur (5) ut supra, non cogantur per Comune Bononie ad solutionem aliquam colectarum 
hactenus impositarum, munerum vel gravaminum, seu debitorum contractorum per homines intrin- 
sechos civitatis Bononie nomine Comunis dicte Civitatis vel per aliam personam nomine dicti 
Comunis seu Hominum civitatis predicte, a tempore dicte expulsionis usque ad diem reversionis 
eorum, et super immunitate onerum seu munerum futurorum, reliquantur arbitrio et discretioni 
Populi Bononie. [9] Item quod illi de parte Lambertatiorum non possint conveniri personaliter 
nec realiter occaxione alicnius debiti vel contractus hactenus facti usque ad annos quinque post 


(1) Ms. se. 

(2) Ms. aliquem vel aliquos. 
(3) Ms. expusionem. 

(4) Ms. expusio. 

(5) Ms. restituerant... 


Serie II. Tox. LXII. 3 


1 


(0.0) 


CARLO CIPOLLA 


eorum reversionem, agere et consequi tamen possint sibi debita ab omnibus eorum debitoribus, 
ita tamen quod si voluerint agere infra dictum tempus possint et[iam] conveniri. [10] Item 
quod omnes contractus simulati vel per vim facti aut factitiis facti post eorum expulsionem, in 
totum tollantur et anullentur, et eorum cognitio fiat sumarie et expediatur infra mensem, ad 
cognitionem quorum contractuum per littigantes eligantur quatuor Sapientes comunaliter. 
[11] Item quod si aliquis qui dictam restitutionem peteret, negaretur esse de dicta parte Lam- 
bertatiorum, super hoc credatur quatuor Sapientibus Partis Lambertatiorum et quatuor Sapien- 
tibus Partis Gerimensium super hoc eligendis per Potestatem et Capitaneum Civitatis Bononie. 
[12] Item quod omnia et singula sepedicta capitula inteligantur tangere tam in Gerimiatos quam 
Gerimenses amicos super restitutione bonorum vel quasi facienda contra in Gerimenses et non 
ut Gerimiati restituantur contra Gerimenses antiquos. [13] Item quod omnes banniti et; 
rebeles de parte Lambertatioraum, qui nunc sunt expulsi et sunt inimici Comunis et Populi 
Bononie, debeant promittere et iurare quod stabunt et obedient mandatis et preceptis dominorum 
.. Potestatis et... Capitanei Comunis et Populi Bononie, qui nunc sunt vel per tempora erunt, et 
habere et tenere inimicos Populi Bononie pro inimicis et amicos pro amicis. Salvis et reser- 
vatis predictis dominis arbitris et arbitratoribus et amicalibus compositoribus omni facultate et 
potestate addendi diminuendi mutandi corrigendi et emendandi et omnia alia faciendi eis con- 
cessa per predictos sindicario nomine, secundum in compromisso facto séemel et pluries et 
totiens quotiens eis videbitur expedire; et salvo semper et reservato quod sì aliqua questio seu 
dubium oriretur inter predietas partes super predictis seu aliquo predictorum, quod predicti 
domini arbitri et arbitratores seu unus eorum... 

Actum in palatio veteri Comunis Mediolani, presentibus ser Notario Lazarino domini Tixij 
de Insulo Verone notario et Philipo de Affuri et Thomasino Usbergini civis Mediolanensis not. 
Interfuerunt testes dominus Robertus Vicecomes archipresbiter ecclesie maioris Mediolanensis et 
dominus Matheus Vicecomes ordinarius eiusdem ecelesie ... et nobilis vir dominus Thomasius de 
Ramponibus de Bononia potestas Comunis Mediolani et dominus Nicolaus condam domini Ber- 
nardi de Altemano doctor legum, et domini Gasparrus de Garbagate, Maynfredus de Cropa, 
Stephanus de Vicomercato..... 


Ibigue in contenenti in presentia predicti illustris et magnifici viri domini Mathei Vice 
comitis, et discreti viri domini Bomensis iudicis domini Bonipaxi] de Paganotis civitatis Verone? 
nuntij prefati magnifici domini Alberti de la Scala ut supra et in presentia testium et nota- 
riorum suprascriptorum, predictus discretus vir dominus Royzus de Royzis civis Bononie, sin- 
dicus dietorum dominorum Potestatis Capitanei Anzianorum et Consulum et Consilii et Comunis 
Bononie ad infradicta constitutus, ut plenius fit mentio in quolibet instrumento ibi viso et lecto, 
scripto per Johannem Antonij de Auliveriis not. de Bononia hoc anno, indietione duodecima, die 
sexta aprilis... 


Quapropter predieti sindici promiserunt et guac...m dederunt, obligantes omnia bona pre- 
dictorum quorum sunt sindici et procuratores videlicet.... Insuper quoque predicti sindici iura- 
verunt ad saneta Dei Evangellia tactis Seripturis predictam pacem et omnia predicta et singula 
attendere et inviolabiliter observare. 


(S. T.) Ego [Franciscus filius quondam d. Leonis de Brioscho] civis Mediolanensis... (1). 


(S. T.) Ego Jacobinus filius Gulielmi Panis notarius civis Mediolanensis... (2). 


(1) Due tratti assai consunti e illeggibili. 
(2) Anche questa firma è poco leggibile. L’atto è scritto da questo secondo notaio. Sul verso 
d'altra mano, del sec. XIV, si legge: Concordia inter Gerimenses et Lambertacios. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 19 


IDG 


Secondo i patti combinati per la pace di Romagna (1) era stabilito che Imola 
venisse a trovarsi sotto la custodia dei Signori di Lombardia, e ancora che le con- 
danne a confine dipendessero dai detti Lombardi, sia rispetto al numero dei Lamber- 
tazzi, sia riguardo al luogo ed al tempo. In corrispondenza a questa convenzione, 
Ottolino Podestà, Blasio Capitano, gli Anziani, i Consoli e i Savi della Credenza di 
Bologna si rivolsero, 1299, 9 maggio (2), a Matteo Visconti pregandolo a voler sce- 
gliere, d'accordo con Alberto della Scala, alcuni pochi dei loro amici di Imola e 
di segnare il luogo del loro confine, stabilendolo in Bologna, per aver riguardo alla 
loro povertà. In questa lettera si trovano infatti le parole seguenti: “ ...secundum pro- 
“ visionem et deliberationem vestram ac etiam magnifici d. Alberti della Scala alti- 
“ tudinem igitur et potentiam vestram omni qua possumus prece requirimus ac pre- 
“ camur, quatenus vobis placeat brevem numerum confinatorum nostrorum amicorum 
“ civitatis Imole, prout commode potestis eligere et ordinare, ac etiam confinia desi- 
« gnare solummodo in civitate Bononie propter eorum indigentiam et securitatem 
“ ipsorum... ,. 

Le trattative circa il ritorno dei Lambertazzi, per quello che riguardava i Signori 
di Lombardia, ebbero compimento colla lettera che Alberto della Scala inviò “ no- 
“ bilibus et magnificis dominis Ottolino de Mandellio Potestati, Blasio de Tolomeis 
“ Capitanio, Antianis et Consulibus, Consilio Octingentorum, honoratissimo Populo et 
“ Communi Bononie , (3). 

L'inizio non è senza valore anche per la soluzione dell’intricata questione intorno 
alla data della compartecipazione di Bartolomeo della Scala al potere, mentre poi 
tale questione si collega a quella della data della nascita di Cangrande e delle rela- 
zioni di Dante colla corte Scaligera. Il documento presente non ci dà proprio nulla 
di nuovo, poichè da un documento mantovano già risulta che almeno dal 20 maggio 1293 
Alberto e Bartolomeo erano insieme Capitani generali del popolo e del Comune di 
Verona (4). Ma ogni prova nuova conta per qualche cosa, in cose di simil genere. 

L'atto di cui-ora mi occupo comincia adunque così: 

“ Albertus della Scala et Bartholomeus primogenitus eius penes eum Communis 
et Populi Verone Capitaneus Generalis salutis et felicitatis applausum. Divina 
imminentibus casibus clementia prompta succurrere et tam periculis hominum, 
quam rerum providere, nec passa guerrarum incommoda ulterius pervagare, cedente 
dissidii turbine et odii rancore propulso, vestros et extrinsecos vestrorum animos 


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(1) Garrarpaccei, I, 396-9; Monumenta, n. 74. Cfr. sopra $ 6. 

(2) Garrarpaccr, 1, 400; Monumenta, n. 75. Donde estrasse questo documento il Verci, IV, doc., 
p. 139, n. 415. 

(3) Gammazpacci, I, 401; Monumenta, n. 76; Verci, IV, doc., p. 140, n. 416. 

(4) Lo pubblicai fra i Documenti per la storia delle relazioni diplomatiche fra Verona.e Mantova, 
Milano, 1901, p. 259. 


20 CARLO CIPOLLA 


« pacis lenimento composuit et dissidia cordium redegit et concordie unionem..... 

Annuncia quindi l’arbitrato promulgato, confermato e sancito coi giuramenti da Matteo 
q to) 1 to) 

Visconti e proprio sotto la data del 9 maggio. Ma si lagna perchè i Bolognesi non 


“ 


CI 


si erano comportati come era a pensare: “ expectavimus igitur et expetivimus, quod 
“a laudatissima vestra prudentia et eminenti iustitia tanti boni acceleretur impletio 
“ et civium vestrorum ac nostris desideriis executionis commoda preberetur..... Que 
“ enim dabitur discordantibus pax, si nec legitimis acquiescatur sententiis ?... , E dopo 
altre parole amare, viene lo Scaligero a chiedere che il lodo sia eseguito: “ ..... ex 
“ corde requirimus et affectuose rogamus, quatenus prefatam pacis sententiam cele- 
“ riter, qua decet, quatenus honori vestro congruit ac civibus et nobis spes indu- 
“ bitate suadet, exequi, prosequi, observare et adimplere vellitis ,. Dopo di che la 
lettera chiudesi colla datazione: “ Data Verone, die iovis undecimo iunii ,. Nel 1299 
il giorno 11 giugno scadeva appunto in giovedì. 

Fra i Lambertazzi e il Comune di Bologna continuarono ancora per qualche 
mese le trattative. Il Vitale (1) ricorda a tale proposito le Provvigioni del 21 set- 
tembre e del 23 ottobre, e quindi conclude dicendo che finalmente, raggiunto l’ac- 
cordo, i Lambertazzi usciti diciannove anni innanzi, cioè al cadere del 1280, ritor- 
narono in città quasi tutti. 

Alberto della Scala proprio nei giorni stessi in cui stendeva la sua azione e dif- 
fondeva la sua influenza a Bologna e nelle terre di Romagna, preparava la caduta 
di Tagino e Bardellone Bonacossi a Mantova e li sostituiva per mezzo della elezione 
di Guido Bonacossi a Capitano perpetuo e generale di quella città (2 luglio 1299) (2), 
col quale strinse subito alleanza (6 luglio 1299) (3) mercè l’opera di Nicola de Alte- 
manno di cui si parla anche qui varie volte. Questa lega venne raffermata colle nozze 
fra Guido Bonacossi e Costanza figlia di Alberto della Scala (30 luglio 1299) (4). 

Forse il motivo per cui Alberto della Scala non si recò a Milano in occasione 
della promulgazione dell’arbitrato il 9 maggio 1299 è da cercarsi appunto in questo 
che i suoi maneggi contro Mantova procedevano allora con molta alacrità. Oltre a 
quanto dissi or ora, mi pare utile ricordare come egli stava eseguendo alcuni lavori 
in legno e l'impianto di pali, appresso ad Ostiglia, lavori che riuscivano sospetti ai 
Mantovani, mentre invece venivano palliati come opera di semplice difesa da parte 
di Alberto; quei pali erano collocati nel Po “ non ad ripe sustentationem, set ad 
instar pontis , (5). Fin d'allora alla corte Scaligera si aveva riconosciuta la somma 
importanza del ponte sul Po ad Ostiglia, ed era ben questo un affare grave perchè 
Alberto se ne preoccupasse. Ma Alberto morì poco dopo (18301) senza aver avuto 
tempo di realizzare il suo progetto, che fu raccolto da suo figlio Cangrande, il quale 
nel 1327 ottenne da Lodovico il Bavaro il consenso imperiale per tale costru- 


(1) Op. cit., p. 74. 

(2) Documenti per la storia delle relazioni, ecc., p. 331 sgg. 

(3) Op. cit., p. 343. 

(4) Op. cit., p. 357. Sopra questi avvenimenti, veggansi anche gli Arnales di Ubertino da Ro- 
mano, Ant. Cron. Veron., I, 456. 

(5) Documenti per la storia delle relazioni, ecc., pp. 293-319. 


LE FAZIONI POLITICHE DI BOLOGNA E I SIGNORI DI LOMBARDIA 21 


zione (1). Ma le vicende politiche e militari resero anche questa volta impossibile 
eseguire quell’opera, che solo adesso sta eseguendosi, in tutt'altra maniera da quella 
che gli antichi costruttori volevano, e con uno scopo, non politico nè militare, ma 
pacifico e commerciale. 

Matteo Visconti stabilì definitivamente la sua potente e gloriosa dinastia a 
Milano, dove rientrò dopo che i peccati dei Torriani soperchiarono i propri (2), e 
preparò il giorno in cui si maturò il dominio visconteo in Bologna. Se l’epiteto di 
“ Gran Lombardo , volessimo impersonarlo in Alberto della Scala commetteremmo un 
errore di cronologia dantesca, ma di certo non pronunceremmo un errore di storia; 
quanto più lo si studia, tanto meglio apparisce il suo valore politico e militare. 
La nascita delle due Signorie vicine e alleate costituiva un pericolo per le Signorie 
e i Comuni dell’Italia media, e a poco a poco predisponevano gli animi alle grosse 
Signorie; che caratterizzano la vita politica del sec. XIV. 


(1) Cfr. Documenti, pp. 284-5. 
(2) G. Viccani, VII, 61. 


BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 


STUDIO BIOGRAFICO E LETTERARIO 


DEL 


Dr. ETTORE PROVANA 


Approvato nell'adunanza del 28 Maggio 1911. 


Le parole colle quali il Monceaux chiude il terzo volume della sua storia della 
letteratura latina cristiana in Africa, esprimono in rapida e sicura sintesi il programma 
di quello che sarà il suo studio di quella letteratura nel quinto secolo (1): “ Les 
“ dernières Muses , — egli dice — “ s’enfuient devant l’invasion des Vandales. Cepen- 
“ dant, quelques générations plus tard, sous la domination de ces mémes Vandales, 
“ puis au début de l’occupation byzantine, on verra se dessiner en Afrique une véri- 
“ table renaissance littéraire. La poésie y tiendra le premier rang, avec Luxorius 
“ et les poètes de l’Anthologie de Carthage, avec Dracontius, avec Corippus et Vere- 
“ cundus. Sauf des rares et obscures exceptions ce sera une poésie de forme toute 
“ classique, et non sans mérite, infiniment supérieure aux médiocres essais du IV° siècle. 
“ Par une suprème ironie de l’histoire littéraire, l’ Afrique chrétienne produira ses 
“ meilleurs poètes, et les plus respectueux des antiques traditions, pour honorer les 
“ rois ariens des Vandales et les empereurs théologiens de Byzance ,. Tutti i tratti 
caratteristici di quella rifioritura poetica, tanto curiosa e interessante sia per il luogo 
sia per il modo e le circostanze nelle quali si è manifestata, sono segnati dal Mon- 
ceaux acutamente e nitidamente. Ma il fenomeno di una rinascita letteraria in con- 
dizioni apparentemente così sfavorevoli resta ancora inspiegato; e a me pare che 
la via migliore per giungere a tale spiegazione sia quella di studiare uno per uno 
questi poeti, che seppero ricondurre per qualche tempo le Muse nell’imbarbarito 
suolo africano. Il maggiore di essi è senza dubbio Draconzio, al quale, non saprei 
veramente il perchè, il Monceaux premette il nome di Lussorio, e accompagna quelli 
di Corippo e Verecondo, alquanto posteriori di tempo e inferiori assai di valore. 
Se non vè nome in tutto quel circolo di numerosi e loquaci poeti che possa essere 
accostato a Draconzio (e ciò non è posto in dubbio da nessuno, nemmeno da chi 
lo ha letto e considerato soltanto alla sfuggita), a lui senza dubbio è dovuta la lode 
maggiore; in lui dobbiamo cercare la sintesi di tutti gli elementi migliori, senza 
chiudere gli occhi dinanzi ai difetti pur molto gravi che guastano la sua poesia, e 
che lo riannodano alle tradizioni letterarie della sua terra, al suo tempo, ai suoi 


(1) Monceavx, Histoire littéraire de V Afrique Chrétienne, vol. III, Paris, 1905, p. 524. 


DI ETTORE PROVANA É 2 


contemporanei o precursori immediati (1). Ma io non sono certamente d’accordo col 
Manitius(2). quando dice: “ Heutzutage dirfte das Epos des Dracontius, ganz abgesehen 
“ von seinem dichterischen Werte, als ein sehr Wichtiges Denkmal fiùr die Kultur- 
“ geschichte anzusehen sein ,. È stranissimo davvero che il Manitius venga a questa 
conclusione, dopo di aver riconosciuto che nel poema De laudibus dei di Draconzio 
noi abbiamo uno dei più maturi e dei più attraenti prodotti della prima poesia 
cristiana, che l'elemento soggettivo ed oggettivo vi sono sapientemente fusi, che 
l’espressione lirica in particolare, limpida e sincera, conferisce al poema non scarsa 
attrattiva. L’elogio del Manitius così preciso, per quanto rapido e sommario quale 
doveva necessariamente essere in un’opera d’indole generale come la sua, appare 
veramente la smentita della sua affermazione. ed è l’incitamento migliore a studiare 
l’opera di Draconzio dal punto di vista letterario, non dirò con esclusione degli altri, 
ma a preferenza di essi. Parecchie interessanti notizie si ricavano senza dubbio dal- 
l’opera di Draconzio per la storia della cultura; ma queste risultano anche da parecchi 
altri del suo tempo, dei quali sì può dire veramente che tali notizie costituiscono 
tutto il valore e tutto l'interesse. Ma dal poeta della misericordia divina sì ricava 
assai meglio l’espressione limpida e sincera di un’ingenua pietà e di un lungo dolore, 
che hanno ispirato la sua arte, gli hanno dato un’individualità così caratteristica, 
l'hanno sollevato al di sopra della pleiade dei versificatori. In questo, e non soltanto 
in questo, è il contenuto vero, intimo della sua poesia: quanto alla forma, vale per 
lui più che per ogni altro l'osservazione del Monceaux che essa è tutta classica, o 
per lo meno si sforza di essere tale. Anzi l'elemento classico, fatto naturalmente 
tutto d’imitazione, penetra anche in gran parte del contenuto poetico dell’opera di 
Draconzio, perchè non v'è, si può dire, poeta classico latino, da Lucrezio a Clau- 
diano, che non abbia lasciato nell'opera sua traccie numerose. Non è un fenomeno 
nuovo; è anzi fenomeno comunissimo e generalissimo negli ultimi secoli della lettera- 
tura latina: ma non per questo mi pare che debba esserne trascurato lo studio a 
proposito di Draconzio. Appunto perchè egli ci appare poeta vero, noi non possiamo 
concepire la sua poesia come un aggregato artificioso e puramente meccanico dî 
elementi estranei. Può benissimo il fenomeno comune, che ha naturalmente come 
tale cause comuni, colorirsi e trasformarsi in lui in modo caratteristico e nuovo. 
Il compito è agevolato moltissimo dalle ricerche compiute in un lungo periodo d’anni 
da parecchi dotti tedeschi, i quali serutarono e spigolarono ogni frase, ogni parola 
di Draconzio, che sapesse anche lontanamente dell’espressione altrui: lavoro lun- 
ghissimo. i cui risultati raccolse e completò Federico Vollmer nella sua edizione 
delle opere di Draconzio, che è la più recente e senza dubbio la migliore (3). 


(1) Se si eccettuano i repertori e le opere d'indole generale, non sono state pubblicate finora 
trattazioni speciali riguardanti Draconzio, se non a proposito di questioni e di punti molto parti 
colari. Noi le citeremo man mano, quando se ne presenterà l’occasione, tralasciando di ricordare i 
numerosissimi articoli, sparsi per le riviste tedesche, che trattano questioni critiche riguardanti il 
testo, essendo essi estranei allo studio che noì intendiamo di fare. 

(2) M. Masrrios, Geschichte der Christlich-Lateinischen Poesie, Stuttgart, 1891, p. 331. 

(3) FI. Merobaudis Reliquiae, Blossii Aemilii Dracontiî Carmina, Eugenii Toletani Episcopi Car- 
mina et Epistulae, ed. Frid. Vollmer (Mon. Germ. Hist., Auct. Antiguiss., XIV, 1905). Per le citazioni 
di Draconzio e di Eugenio di Toledo mi riferirò sempre a questa edizione. 


3 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 25 


La considerazione degli elementi estranei che sono penetrati nell’arte di Draconzio 
ci conduce a quella della conciliazione, anzi della fusione avvenuta nella sua poesia 
di elementi cristiani e pagani. Non è una conciliazione identificabile con quella di 
altri che vissero assai prima di Draconzio: il periodo della vera lotta fra Paganesimo 
e Cristianesimo è ormai quasi terminato, e la fusione degli elementi contrastanti è 
avvenuta coll’assorbimento da parte del Cristianesimo di tutto quanto v'era nella 
paganità di utile e di assimilabile. Im Draconzio non troviamo la tragica e simpatica 
lotta di S. Gerolamo tra l’affetto antico e le credenze nuove, non troviamo nemmeno 
l'accoglienza dapprima alquanto peritosa, poi via via sempre più libera e sicura degli 
elementi pagani, come in Ambrogio e in Agostino (1). Draconzio è poeta ed accoglie 
ciò che può dar vita alla sua poesia senza serupoli dogmatici, senza riflessione di 
sorta: e in ciò va compagno a tanti altri poeti che non si comportano altrimenti. 
Tuttavia, se tale fusione è avvenuta spontaneamente nei suoi versi, essa non è se 
non il riflesso della fusione avvenuta nella sua anima: egli scrive poesie pretta- 
mente pagane di spirito, di forma, di contenuto, e poesie cristiane che portano non 
deboli traccie di spirito pagano. È questo un fatto letterario che giustifica lo studio 
psicologico che si può e si deve fare del poeta africano. In questi caratteri e pro- 
blemi fondamentali che l’opera di Draconzio ci offre sta, mi pare, tutta la ragion 
d'essere di uno studio su di lui: e anche astraendo da essi, mi pare che non sia 
davvero opera vana il divulgare la voce sincera e accorata (sia pur una tra le 
infinite) di un dolore umano. 

Ben diversamente dal Monceaux, sentenziava l’ Ebert (2), quando forse la lettera- 
tura africana del quinto secolo era meno nota e più superficialmente studiata, che 
si deve escludere l'Africa da quel territorio dell'impero romano nel quale la cultura 
antica aveva trovato un ottimo asilo. Ma poche pagine prima egli faceva un’osserva- 
zione acutissima: quella che la lotta combattutasi fra elementi incompatibili nella 
educazione e il pericolo morale che risultava da questa lotta, avevano prodotto un 
elevamento straordinario nella vita dell'anima. Di questa nuova forza spirituale che 
si manifesta nell'opera di Draconzio per i motivi che l’ Ebert adduce ed anche per 
altri ch'egli tace od esclude, ho cercato di fare l’argomento fondamentale del mio 
modesto lavoro. 


(1) Fra le numerose trattazioni generali storico-letterarie riguardanti la vita del mondo romano 
e cristiano nel periodo che c’interessa, citerò le seguenti: a) Storiche: G. Boissier, La fin du Paga- 
nisme, Paris, 1891; id., L’Afrique romaine, Paris, 1901; A. Bury, A history of the later Roman Em- 
pire, London, 1889; S. Diu, Roman Society in the last century of the Western Empire, London, 1906; 
L. Duc®eswe, Histoire ancienne de VEglise, Paris, 1910-1911; E. Gisson, History of the decline and 
fall of the Roman Empire (Ed. W. Youngmann), London, 1830; Ta. Honexin, Italy and her Invaders, 
Oxford, vol. I e II, 1892-1893; D. LecLerco, L’ Afrique chrétienne, Paris, 1904; F. Marrroye, L’Occident 
à l’époque byzantine: Goths et Vandales, Paris, 1904; F. Ozanaw, La civilisation au V° sièele, Paris, 1862; 
L. Scamipr, Geschichte der Vandalen, Leipzig, 1901; id., Allgemeine Geschichte der germanischen Vòlker 
bis zur Mitte des sechsten Jahrhunderts, Minchen, 1909. — 5) Letterarie: 0. BarpeNnHEWER, Patro- 
logia (Trad. Mercati), Roma, 1903; D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, Firenze, 1896; A. EseRT, 
Histoire générale de la littérature du M. A. en Occident (Trad.), Paris, 1883-89; M. MawITIUS, Op. cit.; 
P. MoxnceAUX, Op. cit. 

(2) V. op. cit., vol. I, p. 380. 


Serie II. Tox. LXIL 4 


26 ETTORE PROVANA 4 


La vita del poeta. 


La scarsità e l'incertezza dei cenni che Draconzio ci dà della sua vita nelle sue 
opere a noi pervenute e il silenzio quasi assoluto dei contemporanei e dei posteri 
intorno a lui, hanno condotto da principio gli studiosi all’errore di considerarlo non 
africano, ma spagnuolo di nascita. L'errore che passò dall’Arevalo (1), il primo editore 
del poema De laudibus dei e della Satisfactio, breve componimento in verso elegiaco, 
fino al repertorio dello Chevalier (2) e al Dictionary of Christian Biography di W. Smith 
e H. Wace (3), derivò molto probabilmente dal fatto che entrambi questi componi- 
menti ebbero più tardi una parziale rielaborazione per opera di Eugenio di Toledo. 
Se spagnuolo di origine, doveva esser vissuto quando i Vandali non erano ancora 
passati dalla Spagna in Africa (4), perchè risulta all’evidenza dai suoi poemi che 
coi principi Vandali egli ebbe relazioni importanti. Un passo della Satisfactio, nel 
quale il poeta narra la colpa per la quale fu posto in carcere, ne esprime il motivo 
con le parole (vv. 21-22): 

ut qui facta ducum possem narrare meorum 

nominis Asdingui bella triumphigera..... 
Egli accenna dunque in plurale ai suoi principi; e ciò indusse a pensare che egli 
sia vissuto in tempo nel quale i Vandali non erano sotto il dominio di un solo, 
ossia quando, circa l’anno 425, regnavano sui Vandali Guntario e il fratello Gen- 
serico, che succedettero insieme al padre Godigisdo. Ma basta osservare che il verso 22 
indica che Draconzio si riferisce qui in generale a tutte le vittorie dei principi Vandali 
e non soltanto a quelle dei regnanti d’allora. Del resto altrove egli allude ad un 
principe solo: e quindi nessun appoggio trova in questo passo l’ipotesi fantastica 
ch'egli vivesse nella Baethica appunto quando i Vandali passarono colà dalla Gal- 
laecia, e che, condotto prigioniero in Africa, sia poi stato liberato e si sia recato 
in Italia. Non c'è davvero bisogno di una tale ipotesi per spiegare il viaggio com- 
piuto dai codici di Draconzio fino al monastero di Bobbio, e le imitazioni stesse di 
S. Colombano: sopratutto perchè se è vero, come dice il redattore dell’articolo su 
Draconzio nel Dictionary citato, che S. Colombano nella epigrafe dei suoi Carmina (5) 
lascia intendere ch’egli si giova di “ Vetera dicta ,, noi tutti sappiamo che S. Colom- 
bano visse alla fine del VI e in principio del VII secolo e non al principio del VI, come 


(1) L'edizione dell’Arevalo è del 1791; essa seguì la scoperta del codice Vat. Urb. contenente il 
De laudibus dei, e del Vat. Reg. contenente la Satisfactio. 

(2) CaevaLier, Répertoire, 2* ed., vol. I, col. 1237. 

(3) A Dictionary of Christian Biography, edited by W. Smith and H. Wace, vol. I, London, 1877. 

(4) V. Hydatii Lemici Continuatio Chronicorum Hieronymianorum (M. G. H. Auct. Ant., XI, 1893), 
ed. Th. Mommsen; ad olymp. 229, a. 419. — Cfr. pure Isidori Historia Vandalorum (M. G. H., vo- 
lume citato, p. 296). 

(5) V. Miexe, Patr. Lat., vol. LXXX, col. 285-6: 


Quae facere meliora nequii, utor pro meis 
Nam dicta vetera invertere impietas mera est. 


5 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 217 


asserisce il redattore di quell’articolo. Del resto basta un solo passo (tralasciando 
î dubbi che possono sorgere dalla subscriptio della Satisfactio e del V° carme minore) 
per escludere che Draconzio sia vissuto prima dei regni di Unerico, Guntamondo e 
Trasamondo : ed è quello dove Draconzio ricorda il perdono concesso da Genserico 
al dotto Vincomalo (1), in grazia della sua eloquenza (Sat. 299 e segg.). Non ha 
dunque valore alcuno l'affermazione del Dictionary che nulla vi sia nei carmi di 
Draconzio che contraddica alla sua origine spagnuola e alla sua antica cronologia. 

Sbarazzato così il terreno da queste vecchie ipotesi, che nessuno s'era mai curato 
di abbattere con argomenti decisivi, potremo ricostrurre la vita del poeta ex novo, 
per quanto è possibile, movendo immediatamente da quei dati che il poeta stesso 
ci offre (2). Se dalle opere del poeta soltanto ci è dato di ricavare notizie biografiche, 
molto gioverà senza dubbio a fissarne la cronologia e le vicende il fissare contem- 
poraneamente la cronologia delle opere sue: una cosa non può andare disgiunta 
dall’altra. Draconzio nacque certamente in Africa; ciò risulta sia dalla subscriptio 
della Satisfactio: “ Explicit Satisfactio Dracontii ad Guthamundum regem Guanda- 
“ lorum dum esset in vinculis , (3), sia da quella del carme V° dei cosidetti Ro- 
mulea: “ Controversia statuae viri fortis quam dixit in Gargilianis thermis Blossius 
“ Emilius Dracontius vir clarissimus et togatus fori proconsulis almae Carthaginis 
“ apud proconsulem Pacidegium ,. Dunque Draconzio, se non nacque a Cartagine 
(cosa difficile ad asserirsi con sicurezza), certo vi passò lungo tempo della sua 
vita, e fiori al tempo del re Guntamondo, il nipote di Genserico, che regnò sui 
Vandali dal 484 al 496. Naturalmente egli, vir togatus, esercitò l’avvocatura (4), e 
ciò si può desumere anche da numerosi altri passi (5): fu una fenice di avvocato, 
perchè seppe conciliare lo studio del diritto e il culto delle Muse, cosa rarissima 
in ogni tempo; e noi dobbiamo forse interpretare la frase curiosa e modesta colla 
quale egli chiama sè stesso “ exiguum inter iura poetam , (6) non tanto come espres- 
sione di umiltà; quanto giustificazione e scusa di aver scritto poco per colpa delle 
molte occupazioni professionali. E se molto attinse per la sua poesia alla propria 
ispirazione e alla propria sventura, tuttavia anch'egli, come tutta la miglior gioventù 
d’allora, incominciò ad esercitarsi in una scuola di retorica nell’arte delle Muse. Noi 
conosciamo il suo maestro, il grammatico Feliciano, al quale egli dedica con grande 
lode e con affettuose parole i carmi II e IV con due brevi prefazioni (carmi I e III) (7). 
Sono particolarmente notevoli i versi 12-15 del carme I: 


“ 


Sancte pater, o magister, taliter canendus es, 
qui fugatas africanae reddis urbi litteras, 
barbaris qui Romulidas iungis auditorio, 
cuius ordines profecto semper obstupescimus. 


(1) Generalmente è detto Vincemalo, ma ottime ragioni porta il Vollmer nella sua edizione di 
Draconzio (p. 812) per tale dizione. 

(2) L'ultima parola a questo proposito ci è fornita dal Vollmer, sia nell’ articolo Dracontius 
della R. E. del Pauly (2° ediz., a. 1905), sia nella prefazione alla sua edizione di Draconzio. 

(3) Così pure l’izscriptio della stessa Satisfactio: Incipit Satisfactio Traconi ad Gunthamundum 
regem. 

(4) V. FriepLinDER, Sittengeschichte Roms, Leipzig, 8° ediz., 1910, vol. I, p. 329. 

(5) Cfr. ZLaud. d., 3, 630-654 e segg. 

(6) Rom., VII, 123. 

(7) V. le inscriptiones ai carmi I e III, Vollmer, p. 132 e 137. 


28 ETTORE PROVANA 6 


Draconzio amava il suo maestro, e lo ammirava per aver egli fatto risorgere le 
lettere in Cartagine non solo, ma per averle persino rese gradite ai barbari. Non 
era un complimento quello che il poeta romano indirizzava ai terribili dominatori, 
ed io dubito molto che Draconzio potesse pubblicare questi versi, non certo rispet- 
tosi verso i Vandali, sia pure sotto il regno di Trasamondo, che si piccava di essere 
il più valente letterato del suo tempo. Ciò è bene rilevare sin d’ora di fronte all’as- 
serzione del Vollmer, che il supporre che i Romulea non siano stati pubblicati 
tutti insieme e nell'ordine a noi tramandato dal codice napoletano sia un “ evertere 
“ fundamentum artis notitiaeque , (1). Da Feliciano appunto il poeta apprese l’arte del 
;erso, ed egli lo riconosce con le magniloquenti parole nel carme III (2), che alludono 
solamente a carmi di argomento e di spirito pagano. Io non so davvero donde lo 
Chevalier abbia ricavato la notizia che Draconzio fosse prete, non solo per l’intima 


indole dell’opera sua, ma anche per accenni espliciti del poeta: così alla fine del. 


libro 3° del poemetto De laudibus dei, egli dice nell’ultima preghiera che rivolge 
a Dio (vv. 746-47): 


sit mihi longa dies felici tramite vitae 
sit bona vel perpes felix numerosa propago. 


Così nella Satisfactio lamenta che non egli solo, ma anche i suoi subiscano le dolorose 
conseguenze della sua colpa (vv. 283-84): ed è troppo naturale che alludendo ai suoi 
egli voglia alludere alla moglie ed alla prole. Visse da principio, come risulta dalle 
sue parole (3), una vita tutta felice per materiale benessere e per ambitissimi onori. 
Nè del resto, se egli non fosse stato personaggio di alto grado, se non avesse avuto 
un impiego importante presso il proconsole di Cartagine Pacidegio, avrebbe dovuto 
scontare così duramente e lungamente (4) la colpa imputatagli dal suo sovrano, nè 
sarebbe sorta l’invidia che l’esagerò ore maligno (VII, 123 e segg.). Dalla condizione 
altissima ed agiatissima precipitò d'un tratto (5), colpito dall'ira del re, per aver 
scritto un carme in lode di un principe straniero. Volle taluno che ciò accadesse 
negli ultimi anni della sua vita (6), ma dai suoi carmi risulta che riuscì poi a riacqui- 
stare gran parte dell’antica fortuna, che passò lunghi anni in carcere, che liberato 
da Trasamondo, mentre era stato incarcerato da Guntamondo, compose per lo meno 
ancora un carme in onore di lui (7), e un epitalamio (Rom. VI); del resto la Satisfuetio 
stessa fu scritta dopo lungo tempo di pena (8), e d’altro lato il poeta stesso negli 
ultimi versi del De laudibus dei chiede al suo Dio la grazia di esser virtuoso fino alla 
vecchiaia (3, 724: “ sit virtus usque senectam ,), e di condurre ancora lungamente 
un vita felice (“ sit mihi longa dies felici tramite vitae ,). Nè d’altra parte poteva 


(1) Vollmer, p. V. 

(2) Versi 16 e segg. 

(3) Lo si sente nei lamenti che gli vengono sul labbro al pensiero di quanto egli ha perduto 
e ancora va man mano perdendo. Cfr. L. d., 3, 600-601, 605 e segg.; 724, ece. — Pare per sua 
stessa confessione che la sua fortuna non fosse dovuta tutta ai mezzi più onesti; cfr. 3, 654 e segg. 

(4) Cfr. L. Scamipr, Geschichte der Wandalen, Leipzig, 1901, p. 184-185. 

(5) V. 3, 653: me miserum! quanto ceeidi de culmine lapsus. 

(6) V. F. Banr, Geschichte der Ròmischen Literatur, vol. IV, p. 34. 

(7) V. B. Corro, L’Historia di Milano (edit. Paolo Frambetto), Padova, 1646. 

(8) V. 120: tempore tam longo non decet ira pium. 


7 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 29 


essere giovane ancora egli, padre di numerosa prole, avvocato di grido, salito già 
ad un’alta condizione sociale. 

Quale fu la sua colpa? Il Manitius (1) crede che essa si possa ritenere un de- 
litto di tradimento ; colpa gravissima tanto più in chi copriva, come Draconzio, 
una carica pubblica. Sotto un qualsiasi governo un delitto di tal genere sarebbe 
punito colla massima pena; da un re vandalo, sia pure relativamente buono e 
mite come Guntamondo, colla morte. La gravità eccezionale della colpa di Dra- 
conzio fu desunta dal verso 94 della Satisfactio: “ ignotumque mihi scribere vel 
dominum ,, interpretato erroneamente, mi pare, da tutti nel senso che Draconzio 
abbia realmente celebrato quale suo signore un principe straniero. Nel verso 94 il vel 
posto dal Sirmond, accettato dall’Arevalo, e ultimamente anche dal Vollmer, fu cor- 
retto in nec dal De Duhn (2); il quale a torto immagina che sia caduto un nome 
proprio, o un ceu, perchè dappertutto Draconzio evita di proferire quel nome, ben 
sapendo che non si ode mai di buon animo il nome di persona che ci fu preferita 
e che si ebbe le lodi da noi ambite. A me pare che stia benissimo il vel, ma che 
non gli si debba dare il significato di quasi o di quale: i versi 93 e 94 si possono 
tradurre benissimo : “ La mia colpa era stata quella di aver taciuto le lodi di principi 
miti e di aver cantato addirittura un principe a me ignoto , (3). Il vel quasi dapper- 
tutto nei versi di Draconzio non ha se non il significato di et, se mai con una leggiera 
forza intensiva. Ma qui appare evidente il chiasmo (figura molto amata da Draconzio) 
di dominos... modestos con ignotum... dominum, e quindi non si deve considerare 
dominum come attributo di ignotum, ma come sostantivo : in sostanza il significato 
di vel è qui come altrove quello di persino, addirittura (4). È vero che subito dopo 
Draconzio chiarisce l’indole della sua colpa per via d’un paragone (5): egli si para- 
gona a coloro che pur conoscendo il vero Dio “ idola vana colunt ,, come fece il 
popolo ebreo quando “ deum oblitus flans vitulum coluit ,. È senza dubbio un con- 
fronto impressionante, che indurrebbe realmente a credere che Draconzio abbia cantato 
quale suo signore un principe straniero. Nè può trattarsi di un principe vandalo, 
che Draconzio non conobbe, e che era in odio a Guntamondo, come fu da altri sup- 
posto; lo escludono chiaramente i versi 21-26 della stessa Satisfactio: 


ut qui facta ducum possem narrare meorum 
nominis Asdingui bella triumphigera, 

unde mihi merces posset cum laude salutis 
munere regnantis magna venire simul, 

praemia despicerem tacitis tot regibus almis, 
ut peterem subito certa pericla miser (6). 


(1) V. op. cit., p. 327. Veramente il Manitius non dice che tale fosse in realtà la colpa di Dra- 
conzio, ma che come tale la considerò Guntamondo; il che per la nostra discussione è tutt'uno. 

(2) Dracontii Carmina Minora plurima inedita ex codice Neapolitano, ed. Fridericus De Duhn, 
Lipsia, 1873. — Veramente il Von Duhn toglie il rec dal rimaneggiamento di Eugenio di Toledo, 
ma (lo vedremo meglio parlando di proposito di tale rimaneggiamento) la correzione di Eugenio 
derivò dal fatto che egli non comprese bene il testo di Draconzio. — L'edizione del Sirmond è 
nella redazione di Eugenio. 

(3) Quale altro esempio in Draconzio di vel che occupa nel verso posizione analoga ed ha ana- 
logo significato, V. L. d., 1, 559: mors mundanorum requies vel certa laborum. 

(4) Cfr. VI, 36; VIII, 77 e altrove. 

(5) Versi 95-98. 

(6) Cfr. anche VII, 70: Sut.,, 44. 


30 ETTORE PROVANA 8 


Ma forse il poeta ha scelto qui male egli stesso i suoi confronti (cosa che è del resto 
frequente in lui) (1), perchè, come si rileva dai passi citati, ciò che gli era anzitutto 
ascritto a colpa, era di non aver cantato le glorie degli Asdingi; d'altra parte nel 
confronto stesso che egli fa cogli Israeliti, il più specifico ed il più grave, non dice 
che abbiano rinnegato il vero Dio, ma che lo hanno dimenticato. In sostanza egli 
aveva più che altro suscitato l’invidia di Guntamondo, al quale nella stessa Sazisfactio 
ricorda, per solleticarne l’orgoglio, i trionfi sulla terra e sul mare (vv. 213-214). 
Ma v'è un argomento assai forte per ritenere che la colpa di Draconzio non fosse 
tanto grave. Ce l’offre l'Epithalamium Joannis et Vitulae (2) dov’egli prega, a quanto 
pare, i potenti amici a intercedere per lui, dicendo che la sua colpa non è stata 
tanto grave, nè tanto grande da principio l'ira del re, ma che fu l’opera di persona 
maligna quella che lo spinse alla crudeltà. Sarebbe impossibile che Draconzio potesse 
affermare tutto questo, se davvero avesse celebrato quale suc signore un principe 
straniero, e già l'avesse riconosciuto egli stesso. Se nella Satisfactio, dove pure avrebbe 
dovuto cercar di attenuare la gravità della sua colpa, l’afferma invece candidamente 
e crudamente, altri motivi lo dovevano consigliare: forse il suo scopo era quello di 
magnificare la bontà e la mitezza del principe e di commoverlo; ma certamente era 
pur quello di scongiurare un grave, imminente pericolo, di fronte al quale dissimulare 
o attenuare la colpa poteva nuocergii piuttosto che giovargli. Nessun critico s'è 
accorto finora di questo speciale significato della Satisfactio, e della luce che ne può 
derivare sui suoi rapporti cronologici col De laudibus dei. 

Ma converrà forse porci prima la domanda: a quale principe straniero rivolse 
Draconzio le sue lodi? La risposta è già stata data dal Vollmer, e io sono per questo 
lato pienamente d’accordo con lui nel ritenere che si tratti dell’imperatore d’ Oriente 
Zenone, che regnò dal 474 al 491 (3), sia perchè l’imperatore rappresentava natural- 
mente allora la romanità ed il cattolicismo, sia perchè Zenone si adoperò per otte- 
nere la pacificazione religiosa nel suo impero e per aiutare come poteva i cattolici 
soggetti ai barbari. Era infatti l'abitudine dei cattolici sottomessi ai Vandali e da 
essi vessati, di ricorrere all’aiuto degli imperatori bizantini: lo dimostra chiaramente 
il testo di un giuramento che il predecessore di Guntamondo, il re Unerico, imponeva 
al clero cattolico per assicurarsene la fedeltà verso il figlio Ilderico (4). Del resto 
tanto fugace è l’accenno di Draconzio a questo principe, e tale è la mancanza di ogni 
determinazione precisa dei suoi intendimenti e dei suoi motivi, che siamo costretti 


(1) Ad es. nella stessa Satisfactio il confronto di Stefano con una serie di tiranni (V. 171 e segg.). 
(2) VII, 127-131: 

non male peccavi nec rex iratus inique est, 

sed mala mens hominis quae detulit ore maligno 

et male suggessit tunc et mea facta gravavit. 

poscere quem veniam decuit, male suscitat iras 

et dominum regemque pium saevire coegit. 


(3) V. Cassiodori Chronica (M. G. H. Auct. Ant., XI, 1894, ed. Mommsen), p. 158-159; J. B. Burr 
A History of the later Roman Empire, vol. I, p. 250-260. 

(4) V. Victoris Vitensis Historia persecutionis africanae provinciae (Corp. Script. Eccles. Lat., VII, 
ed. Petschenig), I, 51; III, 19; L. Scam, G. d. Wandalen, p. 203; F. GoòrrEs, Kirche und Staat im 
Vandalenreich, in Deutsche Zeitschrift fiir Geschichiswissenschaft, vol. X (1893), p. 14. 


9 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 21 


a sorvolare affatto su tale questione. Il silenzio di Draconzio è spiegabilissimo: o 
i motivi erano troppo gravi e inconfessabili, oppure (e questo è più probabile) non 
valevano affatto a giustificare la mancanza di riguardo verso la casa regnante. È 
tuttavia da deplorare che rimanga così oscura una questione, la cui soluzione gette- 
rebbe tanta luce sui rapporti dei cattolici di quel tempo con l’impero. Noi abbiamo 
invece il “ terminus ante quem , per fissare la data della composizione della Satisfactio 
nell’accenno dell’elegia alle vittorie di Guntamondo su Ansila e sui Mori. Quanto a 
questi ultimi si sa non soltanto da Draconzio, ma anche dalla Vita Fulgentii (cap. 9) (1), 
che sotto il suo regno essi cominciarono a fare delle scorrerie entro i confini della 
Byzacena e obbligarono molti abitanti alla fuga in luogo più sicuro. Se anche è un 
po’ esagerata la lode di Draconzio: “ Maurus ubique iacet , (2), e Guntamondo non 
riuscì a vincere definitivamente i Mauri, certo riuscì a ricacciarli nelle loro sedi, 
oltre i confini. Questo avvenne forse ad intervalli: certo in tempo non ben deter- 
minato: un'iscrizione scoperta nella Mauritania Caesarensis e datata coll’anno 495 (3), 
prova che ancora in quel tempo i Mauri guerreggiavano coi Vandali. Giustamente 
però rilevò lo Schmidt che il cambiamento di politica verificatosi sotto Guntamondo 
in favore dei cattolici nel decimo anno del suo regno, potè essere stato determinato 
almeno in parte dal fatto che il re aveva bisogno del loro appoggio per combattere 
vi Mauri, perchè non si può davvero pensare ad un intervento in loro favore dell’im- 
peratore Anastasio I, che aveva ben altre preoccupazioni a casa sua (4). Quanto ad 
Ansila, si sa che Guntamondo tentò di approfittare della lotta di Odoacre e Teodorico 
in Italia per occupare la Sicilia; ma il tentativo non riuscì; anzi Guntamondo fu 
costretto non solo a desistere dalle devastazioni nell’isola, ma anche a rinunziare 
al tributo che essa fino a quel tempo pagava, e questo avvenne, secondo il racconto 
di Cassiodoro, l’anno 491 (5). Prima di quest'anno adunque le truppe di Guntamondo 
ottennero quel piccolo successo sopra un Ansila, luogotenente (per ragione crono- 
logica) di Odoacre, non, come vuole il Vollmer, di Teodorico; anzi prima di tale 
anno fu composta la Satisfactio, perchè altrimenti Draconzio non ricorderebbe certo 
al re un effimero trionfo, seguìto da una grave sconfitta. Nè d'altra parte potè la 
Satisfaciio essere stata composta appena il poeta fu posto in carcere o poco dopo. 
Non solo con le parole già citate (v. 120): “ tempore tam longo non decet ira pium ,, 
egli accenna alla sua colpa come a cosa lontana, e più oltre dice ancora (v. 312): 
“ pristina sufficiant verbera, vincla, fames ,, ma tutta quanta l’elegia non appare 
un grido di dolore strappato al poeta dalla punizione recentemente inflitta, nè un 
tentativo di difesa, nè una riparazione. Vi traspare piuttosto, ed io richiamo l’atten- 
zione su questo punto al quale sinora nessuno ha badato, la preoccupazione di scon- 
giurare un male più grave di cui si legge tra le righe la minaccia: si direbbe che 


(1) V. Miexe, Patr. Lat., LXV, col. 117. 

(2) Sat., 214. 

(3) Cfr. Scammr, Gesch. der Wandalen, p. 112-114; Herx, Rhein. Mus., LIV (1899), p. 126 seg. 

(4) Cfr. Bury, op. cit., vol. I, p. 290-303; R. KrumsacHer, Geschichte der Byzantinischen Litteratur 
(23 ediz.), Minchen, 1897, p. 920 segg. 

(5) V. Cassiodori Chronica (ediz. citata), p. 159; Cfr. pure Ennodii Panegyricus dictus Theoderico 
(M. G. H. Auct. Ant., VII, 1885, ed. Vogel, p. 211), XIII, 70; Ta. Hopexix, Italy and her Invaders, 
vol. III, Oxford, 1894, p. 218 segg. 


32 ETTORE PROVANA 10 


il poeta tema la morte o qualche forte aggravamento di pena. Dopo di aver con- 
fessato la gravità della sua colpa, dopo di aver detto: “ ast ego peccando regi 
“ dominoque deoque peior sum factus deteriorque cane , (vv. 41-42), aggiunge: “ Iddio 
comanda e comanderà al mio signore 


ut me restituat respiciatque pius, 
servet avi ut laudes dicam patriasque suasque 
perque suas proles regia vota canam. 

E qui sorge naturale la domanda: non poteva Draconzio celebrare anche in 
carcere le lodi del suo sovrano ? non era anzi questo il modo migliore di meritarne 
il perdono? perchè mai dice: “ servet avi ut laudes dicam , ?. Più innanzi il poeta 
ricorda al re la sua mitezza, e si paragona in certo modo al nemico prigioniero, 
insistendo sopratutto sul fatto che questi ha sempre in grazia la vita (1); solo il 
ribelle incontra la morte: “ captivus securus agit ,, egli dice; “ nessuno cada per 
ordine tuo di morte sanguinosa; sa che vivrà chiunque vorrà essere tuo ,. E adduce 
l'esempio del leone che non infierisce più se il cacciatore desiste dalle insidie; e 
così via via l’idea dominante è sempre quella che a chi si sottomette e confessa la 
propria colpa è perdonata Ja vita. È vero che in seguito cogli esempi di Cesare, di 
Augusto, di Tito, viene a parlare di un perdono ancora più magnanimo e generoso ; 
ma poi ritorna alla primitiva idea, attribuendo i trionfi del re ad un premio di Dio, 
per non voler egli macchiarsi di sangue (v. 211: “te deus aspiciens effundere nolle 
“ cruorem ,). E dopo la lunga divagazione sul tempo, dopo il ragionamento abba- 
stanza strano, che la colpa deve servire a palesare la magnanimità di chi la perdona, 
dopo aver ricordato al re le belle parole della Scrittura (2): “ etsi peccavi sum tamen 
“ ipse tuus ,, finisce con un paragone che allude se non proprio alla pena di morte, 
certo ad una punizione molto grave (vv. 313-316): 

3 sessorem dum carpit iter si cornua pulsans 
ungula concutiat quadrupedantis equi, 
vertere corrigitur culpa plectente flagello: 

non simul abscisi crura pedesque iacent. 

Dunque il poeta è disposto ad accettare una pena, ma non troppo grave, non 
irrimediabile. Del resto anche altrove noi troviamo accenni a questo pericolo, più 
grave certo della prigionia, che minacciò per un certo tempo Draconzio: nell’ Epi- 
thalamium Joannis et Vitulae lagnandosi di essere stato abbandonato dice (vv. 125-26): 


Quid prodest servasse hominem post tanta pericla 
et clausum liquisse diu sub clade salutis? 


e accusa un maligno di aver aggravata la sua colpa (vv. 130-31): 


Poscere quem veniam decuit, male suscitat iras — 
et dominum regemque pium saevire coegit. 


Quindi, mentre qualche maligno invidioso aveva aggravato agli occhi del re la 
colpa del poeta, Giovanni e Vitula l'avevano salvato “ post tanta pericla ,. L’ina- 


(1) Versi 125 segg. 


(2) Sapient., 15, 2: Etenim si peccaverimus, tui sumus, scientes magnitudinem tuam: et si non 
peccaverimus, scimus quoniam apud te sumus computati. 


11 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 09 


sprimento dell’ira del principe contro di lui derivò forse da un’interpretazione più 
grave ch'egli diede, per istigazione altrui, al carme di Draconzio; forse anche da 
mutate disposizioni d’animo verso i cattolici: cose passeggiere delle quali non pos- 
siamo più ora darci conto, ma che pure possiamo supporre pensando all’instabilità 
del carattere di Guntamondo. Altrimenti quale movente potrebbe avere la Satisfuctio ? 
Non quello di ottenere il perdono non appena, o poco dopo inflitto il castigo, perchè 
il testo dell’elegia, come vedemmo, lo esclude. D'altra parte Draconzio, mite e pie- 
ghevole assai più del suo signore, non avrebbe certamente atteso tanto ad implorarne 
il perdono, sapendo che una poesiola poteva procurarglielo, o mitigarne l’ira. 

Se però la nuova ipotesi che noi abbiamo fatto giova a spiegare la composizione 
della Satisfactio, e ad illuminarne il significato, non serve d’altra parte affatto a stabilire 
se essa sia anteriore o posteriore al De laudibus dei. A proposito di tale questione ha 
forse ragione l'Ebert (1), quando afferma che è impossibile formarsi un’opinione che 
non sia affatto personale. La difficoltà aumenta, se noi consideriamo attentamente 
alcuni indizi interni, che hanno forse maggior valore di ogni altro. Sia nella Satis- 
factio, sia nel De laudibus dei troviamo descritta la triste condizione del poeta e 
talora anche quella dei suoi cari. Nella .Satisfaczio si sente l’eco di uno stato più 
doloroso non tanto del poeta stesso, quanto della sua famiglia (vv. 282-284): 


ecce etiam insontes noxia poena petit. 
Si ipse peccavi, quaenam est, rogo, culpa meorum, 
quos simul exagitat frigus inopsque fames? 


Nel De laudibus dei invece dice di essere “ exutus magna de parte bonorum ,, 
e si lamenta dell'abbandono non solo dei servi, dei clienti, degli amici, ma persino 
dei parenti più prossimi. Ma d'altra parte non v'è nella Satisfactio quella dispera- 
zione, quella stanchezza profonda che traspare dal terzo libro del De laudibus dei ; 
notevolissimo anzi è il verso 643: “ ergo, deus, miserere mei; iam te rogo solum ,. 
Si può pensare, è vero, che non soltanto al re colla Sazisfactio, ma anche a potenti 
amici Draconzio si sia rivolto per la sua liberazione (2), ma è difficile che il poeta, 
scrivendo: “ iam te rogo solum ,, non pensasse al suo principe, al quale aveva pure 
rivolto una preghiera. In conclusione io ritengo che vi sia qualche indizio migliore 
per stabilire la precedenza della Satisfactio sul De laudibus dei, pur ammettendo che 
una parola decisiva non si può dire. 

Esaminerò ora in breve gli altri argomenti addotti dall’Ebert, dal Lohmeyer, dal 
Vollmer (3). non tanto per trarne conclusioni cronologiche, quanto per fare alcune 
considerazioni d’indole letteraria. Metto anzitutto assolutamente da parte l'argomento, 
caro al Barwinski (4), dell’imitazione più o meno grande di autori precedenti, nel 
senso che l'imitazione significhi priorità sull’ispirazione, legge questa quasi generale, 
quando l'ispirazione si sostituisca in tutto o in parte all’imitazione — e tale non è 


(1) A. Esser, op. cit., vol. I, pag. 408 segg. 

(2) L’Epithalamium Joannis et Vitulae stesso lo prova. 

(3) C. Lonmever, De Dracontii carminum ordine (Schedae Philol. Herm. Usener oblatae, Bonn, 1891, 
p. 60-75). i 

(4) B. Barwixsas, Quaestiones ad Dracontium et Orestis tragoediam pertinentes: I. De genere di- 
cendi, diss., Gottingen, 1887, p. 10. 


Segre II, Tox. LXII. 5 


(SO) 


4 ETTORE PROVANA 12 


davvero il caso di Draconzio —; e neppure nel senso opposto. Cercheremo a suo 
luogo di studiare un po’ meglio il fenomeno; ma non certo per trarne deduzioni di 
questo genere, anzi piuttosto per distruggerle. A proposito dei carmi cristiani pos- 
siamo osservare soltanto che un tale criterio può valere meno che mai, per il fatto 


“ verbera, 


che non si può pensare davvero che il poeta in carcere, dove soffriva 
vincla, fames ,, avesse a sua disposizione una biblioteca e potesse dalle letture trarre 
nuovi elementi d’imitazione. Poteva bensì Draconzio conservare anche in carcere le 
innumerevoli reminiscenze delle letture fatte nella scuola e fuori, ma allora io non 
vedo il perchè egli debba essersene giovato piuttosto in un dato momento della sua 
attività letteraria, o piuttosto in un dato componimento che nell’altro. L'Ebert crede 
che la Satisfactio sia anteriore al De laudibus dei, perchè tratta press’a poco lo stesso 
argomento, e si può aggiungere che lo tratta con le stesse idee fondamentali e ad- 
ducendo quasi gli stessi esempi (1): ora l’Ebert ritiene che sia più naturale il sup- 
porre che il poeta abbia sviluppato in un carme maggiore le idee appena accennate 
nel minore. Il Lohmeyer invece pensa tutto il contrario, ed asserisce che è appunto 
l'abitudine di Draconzio quella di ripetere idee e cose già espresse; e per spiegare 
la strana e certo assai sconnessa composizione della Satisfactio si appella al facile 
e da tutti citato giudizio del Teuffel (2), che la Satisfactio appare lavoro buttato giù 
alquanto in fretta. Sono tutte cose verissime, ma che non conducono a nessuna con- 
clusione. Sarebbe veramente cosa meno strana sviluppare più ampiamente idee con- 
tenute in germe in altro componimento, che non da un’opera maggiore fare un tale 
transunto senza scopo e senza sugo. Importa invece più di tutto lo scoprire tale 
scopo, e con esso motivare l’opera nuova: questo io ho cercato di fare pocanzi, os- 
servando che appunto da questo particolare intento derivava il colorito della Satîs- 
factio assolutamente nuovo e diverso da quello del De laudibus dei. Se il poema 
minore è composto tanto in furia, ciò dipende dall’imminenza del pericolo; e sotto 
questo punto di vista parrebbe invece più naturale che il poeta si servisse di idee 
e di immagini già espresse, piuttosto che cercare del nuovo. La stessa lunga divaga- 
zione che per quasi cinquanta versi (219-264) parafrasa ed esemplifica le parole : 
“omnia tempus agit, cum tempore cuncta trahuntur, tempora sunt vitae tempora 
mortis eunt ,, sarebbe pienamente ingiustificabile se non si ponesse mente al pensiero 
che domina in tutta la poesia: quello d’inculcare l'orrore per una fine violenta ed 
immatura (3). E non ha valore neppure l’altro argomento dell’Ebert che nel De Zau- 


(1) Cfr. Sat., 7-9, L. d., 2, 595; Sat., 81, L. d., 8, 718 (donde risulta però che l’esempio è molto 
più svolto nella Satisfactio che nel De laudibus dei); Sat., 39, L. d., 2,616; Sat., 57, L. d., 1, 292 segg.; 
Sat., 67, L. d., 2. 282; Sat., 99, L. d., 2, 565; Sat., 102, L. d., 1, 29; Sat., 171, L. d., 2,582; Sat., 235, 
L. d., 1, 733 segg.; Sat., 307, L. d., 3, 617. 

(2) TeurreL-ScawaBe, Geschichte der ròmischen Literatur (5° ed.), Leipzig, 1890, p. 1220-1225. 

(3) Sono d’accordo col Vollmer nel ritenere che questa “ de tempore sat molesta declamatio , 
non riesca alla conclusione: “ a tempo opportuno cadrà anche la tua ira ,; conclusione non troppo 
consolante per Draconzio stesso; ma trovo molto artificiosa la spiegazione che il Vollmer ne dà 
(p. 128, in nota). I versi 211-219 non possono secondo me interpretarsi che nel seguente modo, che 
è anche il più ovvio e il più naturale: “ Iddio vedendo che tu non volevi spargere sangue, affinchè 
tu ne avessi lode .senza colpa, ti concedette, benchè assente, trionfi sulla terra e sul mare... Che 
periscano i nemici, è ritenuta una fortuna del re, che la gente perisca, dipende dall'ordine del 


13 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 95 


dibus dei il poeta arriva sino alla minaccia, mentre nella Satisfactio prega ed implora 
soltanto. Difficilissimo è il determinare in un caso simile se sia più probabile il 
passaggio dall’abbattimento all’irritazione e alla minaccia, o il passaggio opposto; e 
non è vero del resto che dalla Satisfactio sia esclusa ogni forma di minaccia. Basta 
leggere i versi 123-24 : 


puniat ut sit quod Christus, tu parcis iniquis, 
vindice quo regnas, quo vigilante viges. 


Si pensi ancora che il poeta ha nel De laudibus dei molta più libertà di parola, 
rivolgendosi non al suo sovrano direttamente, ma a Dio stesso, che anche il suo 
persecutore riconosce ed adora. Ma se una certa maggior libertà si deve ammettere 
in questo caso, riesce assai difficile a spiegare come il poeta, incarcerato per un 
carme in lode di un principe cattolico, forse appunto perchè tale, abbia osato proprio 
mentre sperava e forse indirettamente chiedeva la liberazione, scagliarsi violente- 
mente contro la fede religiosa del suo sovrano (2, 98 e segg.), fino a chiamare Ario 
“ insipiens, omnis rationis egenus ,. È vero che altri cattolici di quel tempo pubbli- 
carono opere apologetiche ed aggressive; basti l’esempio di Vittore di Vita, che 
compose circa il 486 la già citata Historia persecutionis africanae provinciae tempo- 
ribus Geiserici et Hunirici regum Vandalorum (1), nella quale dipinge a vivissimi 
colori le crudeltà di quei due principi, sul conto dei quali non risparmia acri giu- 
dizi. Ma occorre osservare che Vittore, il quale pubblicò la sua opera non più tardi 
del 489 (2), scrisse sotto il regno di Guntamondo, avversissimo alla casa dello zio 
Unerico, alle cui persecuzioni aveva dovuto sottrarsi colla fuga, insieme col fratello 
suo primogenito Godagis, che era appunto morto in esilio. Da principio sappiamo 
che anche Guntamondo perseguitò i cattolici (8), ma presto mutò a loro riguardo in 
meglio richiamando parte del clero e dei vescovi esiliati da Unerico. Può darsi 
però che la pubblicazione dell’opera di Vittore non sia avvenuta in Africa (Vittore 
di Vita compare tra i vescovi africani nel sinodo romano del 487 o 488), e che 
Vittore vi sia ritornato soltanto nel 494, quando Guntamondo richiamò ancora dal- 
l'esilio molti che vi erano rimasti, e, secondo lo Schmidt (4), sopratutto vescovi. Ad 
ogni modo, le tendenze di Guntamondo verso i cattolici erano tutt’altro che costanti; 
tant'è vero che verso la fine, spinto dalle rimostranze del clero ariano, pare che sia 
ritornato ad una politica ostile. Affatto particolare era poi il caso di Draconzio, che, 
trovandosi in disgrazia, doveva evitare qualunque cosa che offrisse pretesto ad un 


tempo; poichè se fosse la debolezza quella che allontana la morte, non potrebbero cadere i fan- 
ciulli e le donne. Invece è il tempo quello che opera ogni cosa, insieme col tempo tutte le cose 
sono trascinate ,. Evidentemente qui il poeta contrappone la morte dei nemici, che ridonda a gloria 
del re, a quella dei cittadini, che deve dipendere dall’arbitrio del tempo. 

(1) V. BarpenzEWER, op. cit., vol. III, p. 111-112. Confronta l’enumerazione di tali opere pole- 
miche (non molto numerose del resto) in D. H. LecLerco, L’Afrique Chrétienne, vol. II, p. 153-154, in 
nota; cfr. anche ScamIpr, op. cit., p. 198. 

(2) V. Herzoc, Realencyklopidie fim protestantische Theologie und Kirche, art. Victor von Vita, 
vol. XX, p. 612-613. 

(3) Cfr. Vict. Vit., I, 1; III, 64 segg. 

(4) Op. cit., p. 113. Cfr. Latereulus regum Vandalorum et Alanorum (M. G. H. Auct. Ant., XII: 
Chron. min., ed. Mommsen, p. 456), parag. 9 e 10. 


36 ETTORE PROVANA 14 


prolungamento od aggravamento della pena. Se noi pensiamo che il successore di 
Guntamondo, Trasamondo, seguì una politica molto meno ostile ai cattolici, e che 
anzi Fulgenzio di Ruspe potè liberamente discutere con lui attorno ai punti di diver- 
genza fra Cattolici ed Ariani, si potrebbe piuttosto pensare che Draconzio abbia 
scritto il De laudibus dei non soltanto dopo la Satisfactio, ma in tempo molto poste- 
riore sotto il regno di Trasamondo: e tale opinione sarebbe confermata dal fatto 
che Draconzio fu liberato da Trasamondo, ed a lui diresse quel carme panegirico al 
quale abbiamo già accennato. Nè a ciò si oppone l’Epithalemium Joannis et Vitulae, 
il quale è certamente scritto ancora sotto il regno di Guntamondo, ch'egli chiama 
con lo stesso appellativo della Satisfactio “ dominum regemque pium , (v. 131) (1); 
ma nulla induce a credere che Draconzio sapesse allora già prossima la sua libera- 
zione, come vogliono il Lohmeyer e il Vollmer. Non hanno certamente tale significato 
i versi 134-136: 


at cum liber ero domino ignoscente reductus, 
dum tacet os vestrum nec nos sermone iuvatis, 
nomina vestra reor praeconia nulla manebunt, 


i quali del resto potrebbero anche esprimere una speranza mal fondata. Mi pare 
piuttosto che non così acerbamente si lagnerebbe il poeta dell'abbandono in cui è 
lasciato, in un componimento di carattere giulivo, e verso di chi aveva fatto tanto 
per lui. Anzi i paragoni del soldato che al suono della tromba risente il desiderio 
della guerra, del cavallo che anela di nuovo alla corsa “ hinnitus si forte sonent 
strepitusque rotarum ,, dell’uccello che, preso nel laccio, “ silet intus habens captiva 
dolorem, libertatis amans auras nemorumque cacumen ,, e al gorgheggio degli altri 
uccelli “ ingenuos dat capta sonos quasi libera, vernans — ut credatur avis ramo ceci- 
nisse virenti ,, tali paragoni, dico, non alludono certo ad una condizione migliorata, 
e illuminata da ragionevoli speranze. Però questa ipotesi di una redazione tardissima 
del De laudibus dei è non solo infirmata dalle considerazioni già fatte più innanzi, 
ma anche è resa superflua dall’osservazione che i tre libri poterono essere, se non 
pubblicati, composti anche integralmente prima della Satisfactio e prima dell'avvento 
al trono di Trasamondo; in particolare poi il libro primo che uon contiene nuila 
contro l’arianesimo. Troviamo infatti un indizio della pubblicazione separata dei due 
poemetti nel fatto che essi ci sono giunti in codici separati. In sostanza se la discus- 
sione intorno al rapporto cronologico tra la Satisfactio e il De laudibus dei ci ha 
condotto a importanti rilievi intorno all’opera letteraria e intorno alle vicende del 
nostro poeta, non ci può condurre ad una risoluzione definitiva, risoluzione che del 
resto importa poco, dopo l’esame compiuto di tuttii lati interessanti della questione. 

Resta a dire alcune cose sull’ordine di composizione e di pubblicazione di quei 
carmi minori di Draconzio, ai quali non abbiamo ancora sotto questo rispetto accen- 
nato: mi limiterò a brevi osservazioni, rimettendomi nella sostanza allo studio citato 
di Carlo Lohmeyer. È evidente che i carmi I-IV appartengono alla giovinezza del 


(1) Cfr. Sat., vv. 191-193: 


ne facias populum mendacem, qui tibi clamat 
vocibus innumeris “rex dominusque pius ,. 


15 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 87 


poeta, perchè, come abbiamo veduto, il primo e il terzo (che non sono se non la pre- 
fazione al secondo e al quarto) sono rivolti dal poeta al grammatico Feliciano come 
all'attuale suo maestro. Inoltre il contenuto dei carmi II e IV ha tutta l'apparenza 
di quelle esercitazioni scolastiche che si facevano dai giovani d’allora, benchè noi 
vedremo a suo luogo come essi non siano tutta retorica, com'è stato detto e soste- 
nuto da tutti. Sono essi regolarmente incorniciati in una serie continua di înserip- 
tiones e subscriptiones, onde è lecito supporre che siano stati pubblicati insieme, e 
certamente prima della prigionia, perchè, come già abbiamo incidentalmente osser- 
vato, il poeta non avrebbe più potuto sotto il regno di Trasamondo pubblicare, senza 
urtare le suscettibilità vandale, le parole che rivolge al maestro (1). Prima della 
prigionia pubblicò la Controversia de statua viri fortis, ossia il carme V dei Romulea ; 
ce lo dice la subscriptio, dalla quale risulta che tale declamazione egli recitò in pub- 
blico, quando già godeva rinomanza e copriva un alto impiego (2). Se si possa rite- 
nere che anche il carme V sia stato pubblicato insieme coi primi quattro, come vuole 
il Lohmeyer, non so, perchè certamente dobbiamo collocare un intervallo di tempo 
non indifferente tra le prime esercitazioni giovanili, e questa prova oratoria molto 
posteriore; e non si possono spiegare i carmi I e IIl se non come composti in occa- 
sione dell'edizione dei carmi II e IV. 

È a parer mio affatto insostenibile che la raccolta dei carmi minori, quale ci è 
conservata nel codice napoletano, derivi direttamente da Draconzio: è quasi certo, ad 
esempio, che l’Orestis tragoedia doveva essere uno dei carmi intitolati Romulea, per 
la sua grande somiglianza col De raptu Helenae e con la Medea; ma il fatto che 
essa ci giunse in codici separati, il fatto che nell’attuale raccolta dei Romulea man- 
cano alcune poesie (De mensibus e De origine rosarum) edite nel secolo XVI da 
Bernardino Corio (3), e così pure un frammento inserito nel F/orilegium Veronense (4) 
sotto l'indicazione “ Bloxus in Romulea ,, il fatto che non c’è nell’attuale raccolta alcun 
ordine nè cronologico, nè logico (l’accostamento logico fatto dal Lohmeyer fra il 
carme VII e il IX in base ad una relazione di causa ed effetto, non mi pare felice), 
credo che dimostrino all'evidenza, contro l’opinione del Vollmer, che è affatto im- 
probabile che la raccolta dei Romulea, quali ci sono pervenuti, risalga a Draconzio 
stesso. E l'ipotesi del Vollmer che l’antica raccolta fosse divisa in quattro parti, in 
seguito alle nostre precedenti considerazioni, mi pare insostenibile. Il meglio è forse 
rinunciare a far la storia della collezione di queste poesie minori, accontentandoci, 
come del resto fa ottimamente il Vollmer, di raccogliere ciò che ci è pervenuto così 
frammentario e sparso. Nulla poi ci dà il diritto di supporre che il carme rivolto al 
principe straniero potesse essere unito ai Fomulea piuttosto che separato, o associato 
ai carmi cristiani, perchè dovette essere d’indole letterariamente affatto diversa da 


(1) V. I, vv. 13-14. 

(2) Explicit Controversia statuae viri fortis quam dixit in Gargilianis thermis Blossius Emilius 
Dracontius vir clarissimus et togatus fori proconsulis almae Chartaginis apud proconsulem Pacidegium. 

(3) V. Historia di Milano, Venezia, 1554, p. 18. — Nell’ediz. citata del Frambotto (Padova, 1646) 
si trova a pag. 25. 

(4) Questo Florilegium Veronense è stato consultato direttamente dal Vollmer a Verona. V. ediz. 
di Drac., p. xx. { 


S ETTORE PROVANA 16 


(3) 


quella degli altri Romulea (1), e specialmente perchè, essendo rivolto all'imperatore 
d'Oriente, è assai probabile che fosse di contenuto cristiano piuttosto che pagano. 

Interessante a determinarsi sarebbe la cronologia dei carmi VIII, IX e X (2). Il IX 
è per l'indole dell'argomento molto simile al IV, e questo può far pensare che sia 
pur esso un carme di gioventù; ma bisogna osservare che con tali gingilli letterarii 
si trastullavano allora uomini di ogni età e di ogni condizione. Molta luce su tale 
questione potrebbe gettare la ricerca linguistica, stilistica ed estetica del carme in 
rapporto con la rimanente produzione letteraria di Draconzio. Il Lohmeyer asserisce 
a questo proposito che la musa giovanile di Draconzio differisce in più cose dai 
carmi dell’età più adulta; per quanto possa sembrare un paradosso, io non credo 
affatto che ciò sia vero, o per lo meno che lo si possa esattamente verificare. Bi- 
sognerebbe anzitutto sapere con certezza quali siano i carmi giovanili di Draconzio, 
per non cadere in un circolo vizioso, in secondo luogo bisognerebbe riscontrare una 
profonda differenza fra i carmi che sono certamente dell’età più matura (il V ei 
due epitalamii) ed i rimanenti: e questo non è assolutamente. A me pare anzi che 
sia, ad esempio, molto più ricco di spunti originali e vivi di fantasia e di sentimento 
il carme II che non il V. Esamineremo in seguito il valore estetico dell’opera di 
Draconzio, ma possiamo dire fin d’ora che, se è innegabile la superiorità dell’espres- 
sione e dell’arte nei carmi cristiani e nell’epitalamio di Giovanni e Vitula, ciò dipende 
più che altro dalla nota personale che predomina sul resto, e assai meno da una 
maggiore maturità di studi, da una più profonda conoscenza di classici, dall’imita- 
zione più o meno spiccata o più o meno dissimulata, e nemmeno da una maggiore 
perfezione linguistica (3). Sono senza dubbio fenomeni interessanti anche questi, ma 
noi cercheremo di considerarli sotto un aspetto diverso e, noi crediamo, più vero di 
quanto non sia stato fatto finora; sopratutto dovremo discernerli ed eliminarli da 
ciò che veramente costituisce il poeta. L’infelice poeta che ritrovò sè stesso non 
nella scuola e sui libri, ma nella solitudine e nei dolori del carcere, e nell’amarezza 
dell'abbandono ; che non immaginò certo la fastidiosa anatomia dell’opera sua, quando 
il suo verso, non più studiata riesumazione di reminiscenze stantìe, gli sgorgò limpido 
dal cuore; e pianse tanto, a lungo, come un fanciullo. 


(1) Nessuno dei Romulea infatti ha carattere panegirico. 

(2) Quanto ai carmi VII e X, e quanto alla loro composizione hanno senza dubbio valore le 
osservazioni del Lohmeyer; ed anche noi li confronteremo sotto lo stesso punto di vista. Ma io non 
ho nessuna fiducia sul confronto letterario di un singolo episodio per stabilire la cronologia di due 
o più opere. Dato il carattere di epillii dei due carmi, dato che non cì possono illuminare affatto 
sulle vicende del poeta, non ha nemmeno importanza di sorta lo stabilirne la cronologia. 

(3) Le differenze linguistiche e grammaticali tra le varie opere di Draconzio sono insignificanti. 
Basta dare uno sguardo al materiale raccolto a tale scopo dal Vollmer in fondo alla sua edizione 
per vedere come le peculiarità linguistiche di Draconzio sono sparse quasi in egual misura un po’ 
dappertutto. Così è anche per il caso di licet, citato dal Lohmeyer, che si trova coll’indicativo, non 
solo nei carmina minora, ma anche ad es. in 3, 398-493-623; d'altra parte si trova col congiuntivo 
anche nei carmina minora: VII, 466; IX, 81, 229; X, 9, 65, 164, 196; Or., 146. 


ILY/ BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 99 


Draconzio e la cultura del suo tempo. 


Abbiamo già avuto occasione di notare che l’opera di Draconzio ci fornisce 
informazioni non certo molto abbondanti, ma preziose tuttavia sulle condizioni della 
cultura al suo tempo. In generale si cercano di preferenza le traccie della civiltà 
romana in Italia o in Gallia o nell’Oriente, lasciando piuttosto in disparte l'Africa e 
la Spagna (1), e certo più la prima che la seconda. A ciò può contribuire il fatto 
che nuove e assai più vandaliche invasioni dopo quella dei Vandali, spazzarono via 
violentemente da quelle terre quasi ogni resto della civiltà antica, e l’ombra della 
barbarie su di esse non è ancora dissipata ai nostri giorni. Ma non è nemmeno giu- 
stizia il dimenticare il grande contributo alla civiltà, che venne dall’Africa nei suoi 
anni più felici: basti il ricordare quelle grandi anime che raccolsero in sè in una 
sintesi meravigliosa e simpatica tutti i migliori elementi della romanità decadente 
e del cristianesimo nascente: Tertulliano ed Agostino. Il Monceaux ha risuscitato 
tutto quel mondo, dimostrando che la storia della letteratura latina Africana si può 
quasi considerare come la storia della letteratura latina negli ultimi secoli dell’im- 
pero. L'invasione vandala portò un grande scompiglio in quella società africana: essa 
non perdette però tutti i caratteri e tutti i pregi antichi. Forse perchè giunti in 
Africa dopo un lungo pellegrinaggio attraverso le terre romane, forse perchè già 
indeboliti e minacciati, non solo ad oriente dall'imperatore bizantino, ma anche ad 
occidente e a nord dall’immenso e sempre crescente sviluppo della potenza dei Goti, 
è certo che i Vandali seguirono in Africa una politica relativamente temperata, e 
non distrussero quanto vi era di romano, e lasciarono che si compiesse una certa 
assimilazione. La crudeltà raffinata che loro attribuisce nella sua storia Vittore di 
Vita è alquanto esagerata, e del resto proveniva forse più da fanatismo religioso 
che da odio contro la civiltà romana. Fra tutte le manifestazioni di questa civiltà 
ebbe a soffrirne meno quella che in generale ne soffre di più, ossia la cultura. Nel 
mantenimento di essa non contribuì tanto la Chiesa, che fu, generalmente parlando, 
la grande conservatrice di molti elementi di romanità nel mondo occidentale, quanto 
forse lo spirito tenacemente conservatore e tenacemente regionalista di quelle popo- 
lazioni: a tutta la cultura esse avevano dato un colore particolare, e avevano le 
loro preferenze regionaliste persino nella scelta e nel gusto dei classici (2). I Vandali 
non furono tanto alieni dalle arti della pace forse anche perchè in questi tempi più 
tardi cessarono, a quanto pare, di essere tanto valenti nell'arte della guerra. Ce lo 
dice persino uno straniero, il gallo Sidonio Apollinare, il quale fa l’osservazione cu- 
riosa che la vecchia lotta fra Cartagine e Roma rivive nell’invasione vandala, ma 


(1) Per il contributo che l'Africa portò alla diffusione della civiltà, sia pagana, sia cristiana, 
vedi le due opere del Moxcraux, la citata Histoire Littéraire de V Afrique chrétienne, e Les Africains, 
Élude sur la Littérature Latine d’Afrique. Les Paîens, Paris, 1891; V. anche G. Boissier, L’Afrique 
Romaine, Paris, 1901. i 

(2) Così gli Africani avevano una certa preferenza per Terenzio e per quelle parti dell’Eneide 
che parlano dell’Africa e di Didone. 


40 ETTORE PROVANA 18 


che ora Roma e il mondo sono in balia dei Vandali insidiosi (1). Si aggiunge un’altra 
causa particolare del momentaneo risorgere delle lettere in Africa nel fatto che gli 
ultimi re vandali, da Unerico in poi, furono personalmente d’animo molto mite, e 
compresero che non potevano fare astrazione dall’elemento romano, pure tenendolo 
in uno stato di inferiorità rispetto ai sudditi vandali: qualcuno fra essi anzi si pie- 
cava di proteggere i letterati, e ne accoglieva e ne sollecitava le lodi. Così fu di 
Trasamondo, levato alle stelle in una poesia di un tal Florentinus a noi pervenuta 
in quell’antologia latina del codice Salmasiano, che è il documento più importante 
della rinascita letteraria in Africa (2). Scorrendo le pagine di questa antologia, si 
vede come fosse in generale una rinascita molto effimera: sono versi sopra futilis- 
simi argomenti, epigrammi sboccati e mordaci, centoni virgiliani, panegirici dei prin- 
cipi vandali, e sopratutto poesie di argomento assai libero, talora oscenissime. Una 
ultima causa infatti di quel persistere di certe forme della letteratura antica si può 
scorgere nell’indole sensuale di quelle popolazioni, nell’immoralità veramente spa- 
ventosa, la quale risulta non solo da questi documenti diretti, ma anche dagli seritti 
di Agostino (specialmente le Confessiones e il Sermo de tempore barbarico), di Salviano 
(De gubernatione Dei), di Vittore di Vita, i quali attribuirono tutti l’invasione vandala 
ad una punizione di Dio peri cattivi costumi degli Africani. Ed in sostanza Vinva- 
sione vandala non mancò di portare per questo rispetto dei buoni frutti. Genserico 
represse energicamente i costumi disciplinando persino i pubblici giuochi, che per 
colpa delle fazioni dei Verdi e degli Azzurri (3) erano continuamente causa di disor- 
dini. Ma ben presto il clima insidioso di quelle regioni, il contatto con una civiltà 
raffinata trascinò pure i Vandali nella stessa corruzione. Procopio stesso ci dice che 
fra tutti i popoli dei quali egli ha udito parlare nessuno è più sensuale dei Van- 
dali (4). Non sono certo i costumi immorali quelli che possano alimentare una let- 
teratura grande e forte; ma di essì si alimenta la letteratura decadente ; e la deca- 
denza delle lettere e quella del costume vanno molto spesso unite. Quando poi 
l’espressione di tendenze volgari e di istinti non buoni andò congiunta in tutto il 
corso di una letteratura a certe forme tradizionali, è naturale che presso una società 
corrotta queste forme sopravvivano anche quando quella letteratura è morta; o 
potremmo anche dire che sopravviva la letteratura per il sopravvivere di quelle 
forme. Così avvenne, nel campo delle usanze popolari, dei giuochi del circo, i quali 
durarono a lungo, perchè durarono a lungo nel cuore del popolo le passioni più 
volgari e più feroci. Nella letteratura la forma tradizionale era l’epigramma, o la 
breve elegia: e nel codice Salmasiano epigrammi ed elegie prevalgono assoluta- 
mente sopra qualsiasi altra forma poetica : così l’immoralità del costume serviva in 
certo modo a mantenere il culto della civiltà antica, ma questo culto della gran- 


(1) Carm., VII, 441 segg. 

(2) V. Barnrens, P. L. M., IV, 530: in questa poesia è anche lodata esplicitamente Cartagine 
(vv. 28-36), il che è una riprova del grande amore di quegli Africani per la loro terra. Cfr. la Vita 
S. Fulgentii, cap. 21-23 (Micne, P. L., LXV, col. 117 segg.) 

(3) A proposito dei Verdi e degli Azzurri V. Anthol. Lat. (Riese), 293, 306, 324, 327, 328, 336. 

(4) De bello Vandalico, I, 5, 16; De Aedificiis, VI, 6; Cfr. Smnon. Aport., Paneg. Maioriani, IV, 
327 segg. 


a — PEER 


19 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 41 


dezza letteraria passata compiva il triste ufficio di coprire la bassezza e la corru- 
zione presente. Draconzio, il quale si eleva molto al di sopra di questa letteratura 
frivola e scioperata, senza contenuto e senza elevatezza di forma, si tiene sempre 
molto lontano dall’oscenità, pur avendo anch’egli vivissimo, come vedremo, il senso 
e il sentimento. 

Insieme con tutte queste cause particolari della rinascita letteraria in Africa, 
se ne potrebbero addurre più altre comuni a tutto il mondo romano; ma di esse 
sono pieni i libri che presero a studiarne lo sfacelo, e noi le accenneremo soltanto 
in quanto ci condurranno a fare qualche rilievo particolare concernente il nostro 
territorio. La cittadella della cultura romana rimaneva, come lo era stata per tanti 
secoli, la scuola, con i pochi pregi e i molti difetti; essa personificava il culto cieco 
del passato, e mentre conservava la memoria dei grandi, inaridiva le fonti di qual- 
siasi produzione nuova, fresca ed originale. Frutto della scuola era la conoscenza 
vasta, ma frammentaria e caotica della letteratura passata, e non sempre della 
migliore; insegnamento supremo l'imitazione e con l'imitazione la retorica. La scuola, 
la retorica, la grammatica avevano in Africa una tradizione gloriosa: Frontone di 
Cirta, Apollinare di Cartagine, Aulo Gellio (probabilmente), Numeriano, Terenziano 
Mauro, Nonio Marcello, Vittorino, Carisio, Aurelio Vittore, Marziano Capella costi- 
tuiscono una bella lista di nomi, la quale ci testifica quanto fosse in onore presso 
gli africani lo studio della grammatica e dell’eloquenza, studio che aveva la scuola 
come punto di partenza e come punto d'arrivo, da allievo a maestro. Poche e mi- 
serabili invece erano state durante tutto il periodo pagano, e anche in principio di 
quello cristiano, le manifestazioni poetiche degli africani (1); onde appare tanto più 
strano che la poesia abbia avuto un certo sviluppo sotto il dominio dei Vandali. 
Altra causa generale della sopravvivenza della civiltà romana fu il grande attacca- 
mento dell’aristocrazia alle tradizioni di cultura del passato. Credo opportuno citare 
a questo proposito le belle parole del Dill (2): “ Si può ammettere, egli dice, che 
lo studio della cultura nel quinto secolo non è affascinante. L’idolatria della pura 
forma letteraria congiunta con la povertà delle idee, il culto entusiastico dei grandi 
modelli, senza un soffio dello spirito che diede loro una durevole attrattiva, l’im- 
mensa ambizione letteraria senza il potere di creare una singola opera di reale ec- 
cellenza artistica, non è un soggetto che prometta molto interesse... [Ma gli epigoni 
della letteratura antica] possono richiamare una certa attenzione appunto per questo 
loro amore. La storia offre pochi esempi di un’aristocrazia più devota alle lettere 
che alla guerra, o allo sport, o alla politica. E con tutta la loro vanità e la loro 
affettazione letteraria, i grandi nobili del quinto secolo conservano una certa distin- 
zione nella loro fedeltà alle cose dello spirito ,. Bella e verissima quest’ultima os- 
servazione del Dill, alla quale si può aggiungere, come causa del fenomeno che egli 
nota, che mai quest’aristocrazia conservò sotto i barbari gli antichi privilegi. Presso 
i Vandali i Romani furono posti al disotto del diritto comune e considerati come 
soggetti: la nobiltà ne fu sopratutto colpita, sia per la differenza di nazionalità, sia 


(1) Il solo degno di nota è Nemesiano di Cartagine. 
(2) Op. cit., p. 390, 
Serie II. Tox. LXIL 6 


42 ETTORE PROVANA 20 


per la lotta religiosa. Anche i matrimoni fra Vandali e Romani erano rigorosamente 
vietati (1): e se nel complesso le disposizioni fino allora vigenti non furono tutte 
soppresse anche dopo l'invasione vandala, e alte cariche furono lasciate in mano ai 
Romani, ciò avvenne solamente perchè i Vandali si sentivano incapaci di una nuova 
organizzazione della cosa pubblica. Draconzio apparteneva certamente alla più alta 
nobiltà romana; lo dimostra non solo il fatto che un Dracontius era stato Vicario 
imperiale in Africa nel terzo secolo, ma anche il fatto ch’egli possedeva una grossa 
fortuna, nonostante le spogliazioni commesse dai Vandali al tempo della loro inva- 
sione. E vivissimo è il suo sentimento, il suo orgoglio romano, nonostante la mi- 
tezza del carattere; non solo egli dice al suo maestro: “ barbaris qui Romulidas 
iungis auditorio , (I. 14), ma non tralascia mai occasione di ricordare le glorie ro- 
mane, anche se talora, come nel De laudibus dei, un momentaneo soffio di misticismo 
gliele presenta offuscate. 

Del resto se la poesia di Draconzio è per noi documento dell'amore all’antica 
cultura sopravvivente in modo particolare in seno alla nobiltà romana, essa ci serve 
non meno di documento sicuro ed interessante per tutto ciò che sopra la civiltà e 
la cultura del suo tempo abbiamo sinora affermato. Nulla più dell’ira di Guntamondo, 
perchè il poeta aveva cantato un principe straniero, e non le glorie nazionali degli 
Asdingi, dimostra come i principi Vandali non ostacolassero sempre la cultura ro- 
mana, ma desiderassero anzi che essa si mettesse al servizio dei nuovi dominatori. 
E Draconzio sapeva certamente che non era tanto ostico il nome romano al re 
vandalo, se ne chiedeva il perdono, ricordandogli insigni esempi di mitezza degli 
imperatori romani (2). Da Draconzio noi rileviamo che non solo continuavano le 
scuole fedeli alla tradizione romana, ma cominciavano a frequentarle i barbari stessi. 
La notizia di Fulgenzio (3) (che lo Schmidt (4) stranamente riferisce al caso di Dra- 
conzio), che i barbari fossero così avversi ad ogni facoltà letteraria, da porre alla 
tortura, senza interrogatorio, chiunque sapesse scrivere il suo nome, è una vera e 
curiosa esagerazione. Assai importante per la storia della cultura è il carme V dei 
Romulea, la Controversia de statua viri fortis. È una controversia autentica sul tipo 
di quelle che si usarono in Roma dal primo secolo dell'impero in poi, condotta per- 
fettamente secondo i modelli di Seneca e le regole di Quintiliano: futilissimo il 
soggetto, ridicole e declamatorie le argomentazioni pro e contro la tesi sostenuta. 
La declamazione fu recitata dal poeta nelle terme Gargiliane, in età matura; e se 
noi la confrontiamo coi carmi cristiani composti non molto dopo, e coi primi carmi 
pagani che incontriamo nella silloge dei Romulea, scritti probabilmente in età molto 
giovane, ne risulta sempre più quanto sia fallace il criterio. che parte dall’imi- 
tazione o dal valore estetico, per la cronologia delle opere del nostro autore. Nè 
Draconzio è solo a provarci come la declamazione fiorisse anche sotto i Vandali. 
L’antologia latina ci conserva una declamazione, dovuta probabilmente ad un tal 


(1) Cfr. Vict. Vit., III, 62. 

(2) V. Sat., vv. 175-190: esempi di Cesare, di Augusto, di Tito, di Commodo. 
(3) Mythologiae, p. 9 (Ed. Helm, Lipsia, 1898). 

(4) Gesch. d. W., p. 196. 


21 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 43 


Ottaviano (1), che si pone questa questione: Sacrilegus capite puniatur. De templo 
Neptuni aurum pertt . interposito tempore piscator piscem aureum posuit et titulo in- 
scripsit — de tuo tibi Neptune . — reus fit sacrilegii . contradicit. Si tratta quindi di 
una suasoria, la cui somma oziosità e miseria di contenuto e di forma non appare 
soltanto dall’ argomento, ma da tutta la trattazione. Basta leggere gli ultimi 
. versi (292-285): 

Hic tamen [in riva al mare] exesis tumulos conponite membris 

Et titulum facite et versu hoc includite carmen: 

© Piscibus hic vixit, deprensus piscibus hic est, 

Piscibus occubuit. Spes crimen poena sub uno est ,. 

Altre declamazioni di Draconzio, al quale pure, tante volte poeta vero e spon- 
taneo, un tal genere di poesia era caro, sono i carmi IV: Verda Herculis cum vi- 
deret Hydrae serpentis capita pullare post caedes, e IX: Deliberativa Aclillis an corpus 
Hectoris vendat. E se del primo di essi sappiamo che fu esercitazione scolastica (2), 
non possiamo certo asserire con sicurezza altrettanto per il carme IX, che nulla 
c'induce a credere che sia stato pubblicato insieme cogli altri Romulea, occupando il 
posto che gli assegna il codice napoletano. 

Nulla più di quanto abbiamo brevemente accennato noi possiamo desumere dai 
carmi di Draconzio sulle condizioni generali della cultura al suo tempo e nella sua 
regione: un ambiente letterario guasto e isterilito nel culto della forma, forma più 
ingegnosa che splendida, più varia e ricca che perfetta, senza un lampo d’origina- 
lità e senza un soffio di vita, se si eccettua qualche volgare motto di spirito e 
qualche frizzo osceno. Questa rinascita letteraria, agonia prolungata, consentita ap- 
pena dalle speciali condizioni storiche che abbiamo esaminato, era certamente poca 
cosa, ma non era l’imbarbarimento completo. Tutti coloro che vi hanno accennato, 
più speditamente e superficialmente di quanto noi abbiamo cercato di fare, si sono 
compiaciuti (non eccettuato il Monceaux) di chiamarla rinascenza della poesia di 
forma classica: e, generalmente parlando, hanno ragione. Certo, se noi cerchiamo 
altre manifestazioni di quella civiltà, entriamo nel campo teologico, religioso, pole- 
mico, nel quale risplende l’intelletto di Fulgenzio di Ruspe; e questo non è affatto 
il nostro campo, nè si può a tal proposito parlare di risurrezione di civiltà romana 
propriamente detta; oppure entriamo nel campo della storia, nel quale c’imcontriamo 
con Vittore di Vita; ma se l’opera sua è molto preziosa come documento, non ha 
valore affatto dal punto di vista letterario. Per parte sua Draconzio manifesta una 
conoscenza veramente strabiliante di tutta la letteratura anteriore classica e post- 
classica, pur potendosi porre la questione, che non è qui il caso di risolvere, se egli 
abbia conosciuto direttamente gli autori, dei quali si trovano reminiscenze nell’opera 
sua, o se non si sia servito anch'egli, come altri hanno fatto, delle antologie molto 
in voga al suo tempo. Insieme con la cultura letteraria va strettamente congiunta 
la cultura mitologica, che è pur essa grandissima; ma avremo occasione di trattarne 
a parte, secondo il concetto e il colore della mitologia in Draconzio, secondo la sua 
evoluzione, eventualmente anche secondo le sue fonti, trattando delle poesie d’argo- 


(1) V. Barnmrens, P. L. M., IV, p. 244. 
(2) V. la inscriptio del carme IM: Incipit praefatio ad Felicianum grammaticum cuius supra in 
auditorio cum adlocutione. 


44 ETTORE PROVANA 22 


mento pagano. Le cognizioni scientifiche di Draconzio sono molto poche e molto 
imperfette (1): sovente esse si confondono con quelle mitologiche (come per il caso 
della leggenda della Fenice) (2); in parte sono superstizione. Draconzio crede nella 
virtù profetica del sonno e degli animali, crede ai mostri di natura (3), e sopra- 
tutto crede all’influenza degli astri; nel che ubbidisce ad una tendenza in quel 
tempo comune, ma predominante nell'Africa, la vera patria degli indovini. Sappiamo 
che la magia e la divinazione di ogni forma, già poste al bando dall'impero, vi ri- 
tornarono ben presto, e non soltanto alla chetichella, di contrabbando, ma per opera 
degli stessi ufficiali imperiali (4). Negli ultimi anni dell’impero occidentale gl’ indo- 
vini d'Africa praticavano la loro arte fra i cristiani di Aquitania (5). Non v'è quindi 
da far meraviglia se anche Draconzio, sinceramente cristiano, cede talora alle ten- 
denze del tempo, più per difetto di cultura scientifica che di sentimento religioso. 
Migliore è la cultura storica ch'egli dimostra con frequenti citazioni di Storia ro- 
mana. Le sue fonti sono generalmente poetiche, in particolare Virgilio, Silio Italico 
e Lucano: conosce inoltre gli epitomatori di Livio, Valerio Massimo, Giustino, e 
l’opera degli Seriptores Historiae Augustae. Da buon africano ricorda di preferenza 
ciò che in qualche modo riguarda la sua patria, manifestando anch’egli in questo 
modo, molto blando e molto innocente del resto, il regionalismo caratteristico degli 
africani (6). Ma fra le cognizioni storiche del nostro poeta s'incontrano anche gravi 
errori. Nella Satisfactio, ad esempio, dimostra di non sapere che Cesare è morto di 
morte violenta: infatti quale commento al verso 174: “ Vir sine morte gerens nil 
habet ipse necis ,, cita il caso di Cesare, che perdonò ai nemici; “ et quod erat 
peius, — osserva Draconzio, — civis et hostis erat ,. Ma egli (vv. 177-178): 
sponte facultatem redhibens reparavit honores, 
inde vocatus abit, dignus honore, deus. 

Nella stessa Satisfuctio adduce più innanzi (vv. 189-190) l'esempio di Commodo al quale 
attribuisce le parole: “ nobile praeceptum, rectores, discite post me: sit bonus in vita qui 
volet esse deus ,, parole che molto probabilmente vanno se mai attribuite a Marco 
Aurelio (7). Ad ogni modo Draconzio possedeva certamente una disereta cultura storica, 


(1) V. ad es. ZL. d., 1, 639-640: 1 cervi riproducono le loro corna ramificate mangiando serpenti; 
1, 212-213: l’aquila ringiovanisce battendo il becco troppo adunco sui sassi. — Cfr. S. Gamer, Le 
livre de la Genèse dans la poésie latine au V° siècle, Paris, 1899, p. 73 segg. 

(2) V. L. d., 1, 653-660. 

(3) V. L. d., 1, 56 segg. Altrove (L. d., 1, 519 segg.) giunge a dire che Iddio non ci vieta, anzi 
ci esorta a cercare di conoscere il futuro: cur exempla damus homines prescire futura — cum testante 


deo doceatur nosse quod instat? — “natio viperea ,, clamans mortalibus inquit — “ signa poli 
nostis, praedicitis “ imminet imber, — et veniet, nec fallit hiems nec tardat adesse , — ecce genus 
hominum ventura scire probatur. — nec mirum, Christi si sensit imago futurum, — cum nos ven- 


turum moneant animalia muta. Il poeta fa qui un'applicazione un po’ troppo lata di un passo del 
Vangelo: MarrE., 12, 34; Cfr. 16, 2-4. 

(4) V. Dixt, op. cit., p. 52-53. — Per quanto riguarda l'astrologia, vedi il breve articolo di 
A. E. Housman, Astrology in Dracontius, The Classical Quaterly, 1910, IV, 3, p. 191-195. Draconzio, 
come molti altri antichi, chiama il Cancro sede della luna (De. mens., 13; Medea, 400), e oroscopo 
del mondo (Medea, 400; giustamente lo Housman legge: cui Cancer domus est, Rore clarissima 
mundi); la luna poi è anche per Draconzio corporis domina (Medea, 403). 

(5) Cfr. Sip. ApoLt., Ep., VII, 11. 

(6) Cfr. V, 109 segg., 148, 208 segs.; VI, 80. 

(7) Cfr. Script. Hist. Aug., IV, 18, 2-3. 


23 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 45 


e se ne servì nell'opera sua un po’ alla brava, senza criterio, e dando talora inter- 
pretazioni curiose. Citerò un solo esempio tipico, quello del libro terzo del De lau- 
dibus dei, v. 419, dove il poeta rimprovera a Regolo l'infedeltà della parola data 
ai Cartaginesi di perorare per la pace. Mai un romano puro sangue avrebbe dato 
un’interpretazione tanto sfavorevole a quella leggenda gloriosa. Ma in Draconzio 
noi abbiamo pure il cartaginese, che in tono d’ironia e di scherno si domanda: 
“ quid Romana fides? , quasi a vendicarsi della taccia di slealtà che la tradizione 
romana aveva lanciato contro i Cartaginesi. 

Del resto più ancora che il romano dei tardi tempi, troppo lontano di nazio- 
nalità e di tempo per sentire ancora romanamente, noi abbiamo in Draconzio 
il cristiano. Il Teuffel (1) osserva che la sua dottrina giuridica non è più pro- 
fonda del suo cristianesimo. E cita per quanto riguarda la prima un passo del 
carme V (v. 250). Io non so veramente come al Teuffel sia caduto in capo di 
fare una citazione simile: se il poeta dice nella sua declamazione: “ quid plebs 
nostra taces? dives praeiudicat urbi — et pariter tua iura negat, praescriptio 
surgit — quae populo vitam libertatemque negabit ,, ciò non vuol dire affatto 
ch'egli non conosca il principio dell’eguaglianza di diritti fra i cittadini, ma tutto 
il contrario. Lo dimostra anche il fatto di Virginia e della ritirata del popolo sul- 
l’Aventino, che il poeta cita subito dopo (vv. 253-259). Del resto non è davvero 
da una controversia di quel genere che si possa desumere la cultura giuridica del 
poeta: su di essa è quasi impossibile dare un giudizio sicuro. Si può dire soltanto 
che Draconzio dovette essere avvocato per i suoi tempi valente, se egli stesso at- 
tribuisce gran parte della sua passata fortuna all’esercizio di una tale professione. 
Quanto alla poca profondità del cristianesimo di Draconzio il Teuffel cita alcuni 
passi. Così Sat. 263: “ horam quaesivit faciens miracula Christus ,; Rom. VIII, 466, 
dove un augure interpreta il volo dei cigni e dello sparviero osservato da Paride, 
e dice: “ licet hora peracta — tertia quippe sinat Phoebo candente volucrem — 
vera per immensum praesagia ferre rapacem ,; om. X, 600: “ sitque nefas coluisse 
deos, quia crimen habetur — relligionis honos, cum dat pro laude pericla ,. Io 0s- 
servo che, se è molto strana l’affermazione che Cristo abbia compiuto i suoi mira- 
coli ad un’ora determinata (2), non si può su questo solo indizio dire che la cultura 
cristiana del poeta fosse tanto scarsa, e molto meno che fosse debole il suo senti- 
mento cristiano. Il riaccostamento che il Teuffel vuol fare col passo dell’epillio VIII è 
affatto illegittimo, perchè l’affermazione della Satisfactio è di Draconzio stesso, mentre 
quella del carme VIH, posta in bocca ad un augure pagano e in tempi assolutamente 
mitici, sarà da attribuirsi alla sua speciale cultura mitologica, ma non certamente 
ad una mancanza di sentimento cristiano. Tanto meno poi ha valore l’ultima cita- 
zione, la quale se mai ha il significato opposto di uno spunto cristiano in una poesia 
tutta pagana: è una vera requisitoria che il poeta fa in tono del resto più retorico 
e declamatorio che profondamente sentito contro tutte le aberrazioni della mitologia. 


(1) TeurreL-ScewAEE, op. cit., p. 1221. 

(2) Non mancano del resto nella Scrittura passi che possono aver suggerito al poeta la strana 
idea. Cfr. Joann., II, 3-4: Et deficiente vino, dicit mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit 
ei Jesus: Quid mihi et tibi est mulier? nondum venit hora mea. Cfr. ancora Juann., V, 25 segg.; 
Luc., XXII, 53. 


46 ETTORE PROVANA 24 


Se l’imprecazione di Draconzio ci può ricordare molto alla lontana quella assai più 
sublime e sincera di Lucrezio (1), si rileva subito che Lucrezio condanna ogni sorta 
di religione, in nome di un alto ideale umano, mentre Draconzio condanna il culto 
degli dei e della religione soltanto in un caso: “ cum dat pro laude pericla ,. Se 
mai, si può vedere in queste parole un accenno all’atteggiamento particolare del suo 
sentimento religioso, alla sua simpatia per le manifestazioni religiose più miti, più 
serene, alla sua limitata ammirazione per gli atteggiamenti di lotta, di eroismo, di 
martirio. Draconzio è tutt'altro che un eroe, egli ama troppo la vita, e nella reli- 
gione ama tutto ciò che favorisce e celebra e dà valore alla vita. Il suo misticismo 
non è mai troppo di buona lega; ma il suo cristianesimo è senza dubbio profondo 
e sincero. Se qualche cosa di pagano, o meglio di profano gli sorrise, quando la 
fortuna lo favoriva, o anche quando nel colmo della sventura lo richiamava alla 
vita, fu forse l’amore, un amore animato forse più di sentimento pagano che subli- 
mato dall’austerità cristiana. Io non mi fermo per ora a studiare la psicologia di 
Draconzio, e a vedere come mai sentimenti e principi opposti abbiano trovato per 
avventura una conciliazione nello spirito suo. Ma per convincersi che egli abbia 
avuto anche sentimento sinceramente cristiano, basta leggere il De laudibus dei e 
la Satisfactio. Da entrambi i poemi risulta che Draconzio non solo fu cristiano, ma 
cattolico: non solo gli assalti contro gli Ariani, che già abbiamo avuto occasione 
di ricordare, ma anche il carme al principe straniero, motivato forse più da ragioni 
religiose che politiche, e l'ira del re verso di lui, mentre la politica vandala favoriva 
piuttosto l'elemento romano pur di trascinarlo all’eresia, lo dimostrano già a suffi- 
cienza. Ma Draconzio ci offre la sua esplicita dichiarazione di fede nel secondo libro 
del De laudibus dei (vv. 60 e segg.) (2): 


quo libuit genuisse deum ante omnia Christum, 
semine quem verbo conceptum corde ferebas. 

quo sine non ungquam fuerat mens sancita parentis, 
ergo deum deus auctor eructuat ore. 

corde sacer genitus mox constitit ipse parenti, 

et consors cum patre manens, et spiritus unus, 
trina mente deus deus auctor temporis expers (3). 


È una vera affermazione nella credenza della dottrina cristologica dell’ ovaie 
contrariamente alla dottrina ariana che sosteneva la creazione e la non eternità del 
Figlio, e negava la sua identità di sostanza col Padre. Profondo anzi doveva essere 
il sentimento cristiano di Draconzio, perchè non si prende così decisamente posi- 
zione pro o contro di due determinate fedi che hanno una stessa radice. quando 
non si ammettono i postulati fondamentali dell’una o dell’altra: tanto più quando, 


(1) De rerum natura, I, 56 segg. 

(2) V. A. Hasnacx, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. II, Freiburg, 1909, p. 186 segg. — I versi 
di Draconzio sembrano ripetere in tutti i punti essenziali la formula cristologica di Alessandro, il 
più noto avversario e contemporaneo di Ario: “Asì deds, deè vids, Gua mero, Gue vids, cvvvadoget 
6 viòs ayevritos tO deg, dGeryevijs, ayevntoyevijs, où troie, où arduo tivì apogyer 6 deds toù 
viod, del Beds, deì vids, #5 adroù toù deod 6 vids. Cfr. anche vol. HI, p. 165 segg. 

(3) V. anche 2, 101 segg. 


25 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 47 


come nel caso di Draconzio, tale professione aperta ed esplicita può essere perico- 
losa. Strana davvero questa ardita professione di fede in un poema quale il De lau- 
dibus dei da parte di un poeta come Draconzio. Noi potremo dare un giudizio sin- 
tetico sul suo carattere soltanto quando avremo analizzato l’opera sua; ma il modo 
di comportarsi nella sciagura, quel suo passare tanto facilmente dalla preghiera alla 
minaccia, dalla lode al biasimo, la varietà stessa del suo giudizio sull’indole e la 
gravità delle sue colpe, ci palesano sin d’ora nel nostro poeta un carattere debole 
e incostante. Alcune volte i mistici ardori, altre volte la febbre del senso, talora 
l'affermazione recisa delle proprie idee e l’assalto violento dei suoi avversari, talora 
il prudente silenzio intorno a questioni spinose. Del resto anche negli altri egli ap- 
prezza in modo particolare la mitezza, la bontà, non di rado la debolezza. Iddio 
stesso è concepito sempre da Draconzio sotto l’aspetto mite e pietoso di chi bene- 
fica e perdona (1): cosa naturale nel poeta che voleva celebrare la misericordia di- 
vina, come insegnamento ed esempio della implorata pietà del suo principe. Ma 
Draconzio riscatta le deficienze del suo carattere col pregio raro della sincerità : 
egli è sincero quasi sempre, anche quando ne darebbe a dubitare il suo ibridismo 
poetico, quel suo modo di comporre tutto a brani, a pezzetti spesso mal collegati 
tra loro. Piene di cose altrui sono le sue opere: ma ha saputo egli fondere tutti i 
vari elementi in poderosa unità artistica ? O ha cercato semplicemente di farsi bello 
della veste altrui? O fu soltanto la piccola ambizione di sfoggiare dell’erudizione 
letteraria? È tutta una serie di problemi generalmente trascurati da coloro che si 
accontentano di osservare il fenomeno e di fermarsi ad una spiegazione meccanica 
e superficiale. Noi cercheremo di dare ad essi una soluzione, penetrando per quanto 
è possibile nell'anima dell’autore ; persuasi che riesce fatalmente vana e inconcludente 
ogni ricerca letteraria, che voglia essere prettamente storica, sdegnando lo studio 
psicologico, mentre nello spirito è la radice vera di ogni forma di letteratura, come 
di ogni forma di attività umana. 


Osservazioni sull’autenticità delle opere di Draconzio. 


Intorno all’autenticità delle opere ora generalmente attribuite a Draconzio vi 
fu lunga disputa, e l’attribuzione a lui di alcune poesiole e di alcuni frammenti non 
è ancora definitivamente certa. Capitò a Draconzio come a tanti altri la sventura 
di un rimaneggiamento che fece dimenticare le opere originali, le quali risuscitando 
per le investigazioni di qualche dotto, si trovarono attribuite nei manoscritti ad 
autori di maggior fama. Così l’opera maggiore di Draconzio, il De laudibus dei, è 
attribuita ad Aurelio Agostino (2); ma la falsità dell’indicazione dei codici e la retta 
attribuzione a Draconzio risultarono subito dal confronto con la recensione di Eu- 
genio di Toledo e dalla scoperta dei frammenti del poeta tra i centoni di un codice 


(1) Affermazioni in contrario come quella di L. d., 1, 690-691, sono subito mitigate nei versi 
seguenti dalla solita idea della bontà divina. L'appellativo terribile di Tonante non è che un vezzo, 
una reminiscenza mitologica. 

(2) V. Vorruer, ed. di Draconzio, pref. p. xr-xI1. 


48 . ETTORE PROVANA 26 


berlinese illustrati da Guglielmo Meyer (1). Del resto abbiamo anche testimonianze 
di scrittori antichi: così Isidoro di Siviglia (De vir. ll, 37) (2): “ Dracontius com- 
posuit heroicis versibus Hexameron creationis mundi, et luculenter quidem com- 
posuit et scripsit ,. Così S. Ildefonso, vescovo di Toledo, nel cap. XIV del suo Liber 
de viris illustribus (8), enumera le opere del suo predecessore Eugenio, e fra l’altro 
dice: “ Libellos quoque Dracontii de creatione mundi conscriptos, quos antiquitas 
protulerat vitiatos, ea quae inconvenientia reperit subtrahendo, vel meliora conii- 
cendo, ita in pulchritudinis formam coégit, ut pulchriores de artificio corrigentis, 
quam de manu processisse videantur auctoris. Et quia de die septimo idem Dra- 
contius omnino reticendo, semiplenum opus visus est reliquisse, iste et sex dierum 
recapitulationem singulis versiculis renotavit, et de die septimo, quae illi visa sunt 
eleganter dicta subiunxit ,. Lasciando per ora da parte il modo certo troppo bene- 
volo col quale S. Ildefonso giudica l’opera di Eugenio di Toledo, è certo che non si 
può dubitare dell’autenticità del De laudibus dei. Nè per l’identico motivo della re- 
censione di Eugenio, e anche per motivo del suo explicit, può correr dubbio sull’au- 
tenticità della Satisfactio. Del resto v'è tra il De laudibus dei e la Satisfactio una 
tal parentela di contenuto e di forma che, quand’anche nessun indizio esterno ce 
ne informasse, non vi potrebbe essere il menomo dubbio sull’identità dell’autore dei 
due poemi. Quanto ai Romulea il solo codice che ce li conservi, se non tutti, almeno 
in buona parte, il Neapolitanus, li attribuisce chiaramente a Draconzio, anzi ci for- 
nisce alcune informazioni che non potremmo attingere da altra fonte. Il titolo che 
probabilmente fu dato (non a tutti, ma ad una parte di essi) dal poeta stesso, non 
si legge nel codice Neapolitanus ma nel Florilegium Veronense della biblioteca. capi- 
tolare di Verona, che porta alcuni frammenti (due del carme IX, v. 5, vv. 8-9; uno 
dell’ VIII, vv. 131-132; e uno di un carme ignoto) sotto l'indicazione “ Bloxus , 0 
“ Blosus in Romulea ,. Lo stesso Florilegium ci dimostra che la silloge dei carmi 
minori a noi pervenuta non è completa; ma è a parer mio molto incerto, anzi molto 
improbabile che ad essa appartenesse il carme in lode del principe straniero, o quello 
in lode di Trasamondo, e che si possa stabilire una divisione qualsiasi di un arche- 
tipo dei Romulea, per spiegare il distacco dell’Orestis #ragoedia (dato che nel loro 
numero la considerasse Draconzio stesso), come crede di poter fare il Vollmer. La 
nostra ipotesi non è che Draconzio abbia fatto egli stesso un’edizione complessiva 
di tutte ie sue poesie minori, ma ne abbia pubblicato piccoli gruppi a parte, e nulla 
si oppone all’ipotesi che egli abbia pubblicato a parte anche la sola Orestis tragoedia. 
La stessa subscriptio del carme V mi parve che difficilmente possa risalire a Dra- 
conzio stesso (4). Il titolo poi allude puramente al carattere pagano di tali poesie 
contrapposto a quello cristiano, e si deve quindi supporre che sia stato posto dopo 


(1) W. Merer, Die Berliner Centones der Laudes Dei des Dr., Sitzungsberichte der Berliner Aka- 
demie, 1890, p. 257 segg. 

(2) Mine, P. L., LXXXIII, col. 1101. 

(3) Mrewe, P. L., XCVI, col. 204. 

(4) Anche ‘astraendo dalle osservazioni già fatte a questo proposito, è troppo naturale che Dra- . 
conzio non abbia aspettato la vecchiaia, o quasi, per pubblicare le sue prime poesie; nè avrebbe 
potuto chiamarsi sia pure exriguum inter iura poetam. 


27 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 49 


la composizione delle poesie cristiane, cioè dopo la prigionia, senza ammettere però 
che sotto quel titolo Draconzio comprendesse tutta intera la silloge delle sue poesie 
di argomento pagano. I carmi minori di Draconzio, pubblicati prima parzialmente da 
Cataldo Jannelli e da Angelo Mai (1), apparvero per la prima volta in edizione 
completa per opera di Federico Von Duhn, edizione forse troppo aspramente giudi- 
cata dalla critica tedesca. Ad essa infatti ritorna in alcune cose il Vollmer (2), che 
pubblicò anche i carmi minori insieme con le poesie cristiane di Draconzio, esten- 
dendo però ingiustamente, come io credo, a tutti il titolo di Romulea. Sono dieci, 
e furono pubblicati, seguendo il codice napoletano, sia dal Von Duhn sia dal Vollmer 
nell'ordine seguente: “ I. Praefatio Dracontii discipuli ad grammaticum Felicianum ; 
I. Hylas; II. Praefutio ad Felicianum grammaticum; IV. Verba Herculis cum videret 
Hydrae serpentis capita pullare post caedes; V. Controversia de statua wiri fortis; 
VI. Epithalamium in fratribus dictum; VII. Epithalamium Joannis et Vitulae; VIII. De 
raptu Helenae; IX. Deliberativa Achillis an corpus Hectoris vendat; X. Medea. A. queste 
opere minori va aggiunta la cosiddetta Orestis tragoedia, la quale ebbe nel medio evo 
miglior fortuna che tutte le altre opere di Draconzio (3): l’edizione più recente di 
essa non è quella del Vollmer, ma quella di Cesare Giarratano che la pubblicò a 
parte nel 1906. Il medesimo Giarratano in un altro suo lavoro dello stesso anno 
tratta brevemente dell’autenticità per tanto tempo discussa dell’Orestis tragoedia (4): 
egli non fa che esporre le conclusioni, nè davvero l’autenticità di quest'opera ha 
bisogno oggi di essere dimostrata. Io desidero piuttosto di fare qualche osservazione 
sui criteri seguiti dal Barwinski per la sua dimostrazione. Il Barwinski (5) fa uno 
studio certamente lodevole delle peculiarità linguistiche di Draconzio, fermandosi 
specialmente su quelle comuni all'Oreste e agli altri carmi: e senza dubbio l’ugua- 
glianza del vocabolario, la somiglianza degli elementi volgari nella lingua dei due 
autori, i caratteri di latinità africana, le voci usate solo dai due autori, o solo in 
quel determinato significato, sono tutti buoni indizi per concludere all’identità di 
essi; sono anzi i soli, quando manchino, come nel caso attuale, le prove esterne. 
Ma v'è una prova più forte ancora: così nell’Oreste come negli altri carmi di Dra- 
conzio ricorre un'infinità di espressioni perfettamente uguali per le immagini e i 
pensieri affini; per questo lato la corrispondenza è addirittura sorprendente (6), ed 
ha tanto maggior valore di prova per Draconzio in quanto egli ha appunto l’abitu- 
dine di ripetersi frequentemente. A tutto questo s'aggiunga il fatto dei numerosi 
poeti classici e postelassici imitati sia da Draconzio, sia dall’autore dell’Oreste, non 


(1) D JanweLLi pubblicò soltanto i carmi VIII e X, ossia il Ratto d’Elena e la Medea nel 1813. 
Vent'anni dopo il Mar ripubblicò il solo carme VIII. 

(2) Frammezzo apparve l’edizione del BAnrens, P. L. M., vol. V, p. 126-261. Il Bahrens si di- 
stingue per l’audacia delle emendazioni. ; 

(3) V. VoLuxer, p. x, nota 15. 

(4) Blossii Aemilii Dracontii Orestes recognovit Caesar Giarratano, R. Sandron, Mediolani-Pa- 
normi-Neapoli, MCMVI. Il G. non conosce l’edizione del Vollmer anteriore di un anno; C. Grarra- 
tano, Commentationes Dracontianae, Napoli, 1906; IV. De Dracontio Orestis auctore. 

(5) B. BarwinszI, Quaestiones ad Dracontium et Orestis tragoediam pertinentes; Quaestio I: De 
genere dicendi, Dissert., Gòttingen, 1887. 

(6) Cfr. BarwInsxI, loc. cit., p. 18-33. 

Serie II. Tox. LXII. 7 


50 ETTORE PROVANA 98 


perchè sia impossibile che due autori differenti abbiano avuto le stesse preferenze, 
o pressochè la stessa cultura poetica, ma piuttosto perchè in parecchi casi si tratta 
di locuzioni particolarissime ripetute in casi analoghi (1). Del resto non è chi non 
pensi subito che questa corrispondenza si può spiegare benissimo anche con un’imi- 
tazione più tarda dell’opera di Draconzio da parte d'altri; e che perciò assai più 
che questi materiali confronti possono giovare a riconoscere in Draconzio l’autore 
dell’Oreste le considerazioni più generali sullo stile, sull'arte, sul carattere di quella 
poesia. E questo noi vedremo a suo luogo; ma se non si può dire davvero che 
l’Orestis tragoedia sia una grande opera d’arte, e nemmeno un’opera d’arte, è certa- 
mente ingiustificato il disprezzo in cui il Barwinski involge non solo l’Orestis tra- 
goedia, ma tutta l’opera di Draconzio. Sarà invece forse qualche scintilla di quel 
sentimento poetico che è proprio di Draconzio, quello che ci può far riconoscere 
nell’autore dell’Orestis tragoedia il poeta del De laudibus dei. 

Un’altra poesiola di un certo interesse si è voluto attribuire a Draconzio, ed 
è quella intitolata Aegritudo Perdicae, scoperta nel codice Harleianus 3685 del sec. XV 
e pubblicata dal Baehrens (2). Si vede chiaro che già il Baehrens, per quanto non 
si risolva pienamente, è tentato di attribuirla al nostro poeta; ma più di lui il 
Vollmer (3), che si fonda sopratutto sulle particolarità linguistiche, metriche e pro- 
sodiche. Ma, a dire il vero, queste sono alquanto scarse (come la misura quoque dei 
vv. 91 e 209; quella regreditur del v. 21, cfr. Or., 179 reperdere, 397 recerpite; vel 
invece di et nel verso 286 — poco davvero in 290 versi (4) mentre in Draconzio 
tale uso è frequentissimo —; secum invece di cum eo): e d'altra parte lo stesso Vollmer 
osserva che i riscontri coi rimanenti carmi di Draconzio sono piuttosto rari, mentre 
sono, ad esempio, numerosissimi per l’Orestis tragoedia. Senza dubbio non è questo 
argomento che abbia forza grandissima: talora è appunto l’imitatore servile quello 
che si giova a man salva del materiale altrui; mentre è più facile che un compo- 
nimento nuovo del medesimo autore tradisca con qualche rara frase la comunanza 
d’origine con le opere anteriori. Ma se noi pensiamo che la Satisfactio stessa, sulla 
quale non è possibile il dubbio, è piena di riscontri con il De laudidus dei, e che lo 
stesso ultimo libro dell’opera maggiore è ricco di reminiscenze dei primi due, dob- 
biamo credere piuttosto che per Draconzio sia avvenuto il fatto inverso. L'ipotesi 
che l’Aegritudo Perdicae fosse uno dei Romulea non è inaccettabile: non tutti i carmi 
che andavano sotto quel nome ci sono pervenuti, anzi molti più essi dovettero essere, 
data la professione di poeta dell’autore, e dato il titolo altisonante da lui imposto 


(1) A proposito di questo elemento imitativo in Draconzio, si trovano nei ricercatori più minu- 
ziosi esagerazioni veramente deplorevoli. Ricorderò fra i passi citati dal Barwinski quello di Ov., 
Metam., I, 772: “ Nec longus patrios labor est tibi nosse penates ,, che il B. confronta con l’Or., 661: 
© Nec labor ullus erit mulierem sternere turpem , e con L. d., 2, 200: “ Omnia cum fierent, sic nee 
labor ullus erit, iam ,, e 1,445: “ Nec rubor ullus erat, cum staret origo pudoris ,; onde l'imitazione 
incomincia dalla parola labor (e non ve n'era altra migliore per esprimere tale concetto) per pas- 
sare all’aggettivo w//us, e finire in una forma del verbo sum. 

(2) Il Baehrens la pubblicò due volte: prima nella raccolta Unedirte Lateinische Gedichte, Leipzig, 
1877, e poi nei P. L. M., vol. V, p. 112-125, immediatamente prima delle poesie di Draconzio. 

(3) V. articolo Dracontius nella R. E. di Paury-Wissowa, vol. V, col. 1644. 

(4) Si trova però anche vel in luogo di et al y. 98 (numerazione del BarnrEns, P. L. M.), ma 
qui forse con leggiero significato avversativo. 


99 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 51 


ad una sua raccolta particolare. Ed a favore di tale ipotesi (1) sta il confronto impres- 
sionante che si può fare dell’epillio di Perdicca con quello di Hylas. L'uno e l’altro 
incominciano con l'esaltazione del gran potere di Amore che spinge gli uomini alle 
passioni contro l'onestà e contro la natura, ambedue narrano il caso pietoso di una 
vittima di Amore. Di più c'è nello stesso epillio d’Hylas un accenno esplicito alla favola 
di Perdicca, quale appunto ce la narra la poesia del codice Harleianus, vv. 36-44: 

sive, parens, optas homines his ignibus ustos 

inlicitos violare toros, ut non pia patris 

oscula nata petat nec natus matris amator 

dulce nefas cupiat, frater vitietque sororem 

privignoque suo potiatur blanda noverca: 

alter erit Perdica furens atque altera Myrrha, 

Tuppiter alter erit terris de fratre maritus, 

(parva loquor) tauro, si iusseris, altera regis 

fiammetur coniunx, reddetur et altera Phaedra (2). 
E evidente che nei versi 41-44 Draconzio intende di esemplificare quello che ha detto 
nei versi precedenti: se questa esemplificazione sia ordinata, e se corrisponda ad un 
determinato criterio, è altra questione; ma troppo noti sono i nomi che Draconzio 
mette in bocca a Cupido, e troppo note le loro imprese, per non veder subito a quale 
sorta di amore illecito servano di esempio. Così se Mirra è la figlia amante del 
padre, Giove della sorella, Fedra del figliastro, è naturale che Draconzio intenda por- 
tare Perdicca quale esempio di 
il concetto che della leggenda di Perdicca s'era fatto Draconzio, e la luce viene ap- 


“ 


natus matris amator ,. Ne resta quindi illuminato 


punto dall’epillio Aegritudo Perdicae. L'origine di questa favola di Perdicca è ricer- 
cata dal Rohde (3) e dopo di lui dal Baehrens e dal Vollmer nella biografia di 
Ippocrate, falsamente tramandata sotto il nome di Soranus, ma attinta, secondo il 


(1) Si può osservare che l’esagerazione e l’altisonanza è propria di Draconzio come di tutti gli 
Africani; e che d’altra parte non si può considerare nemmeno troppo altisonante il titolo di Ro- 
mulea, se esso deve servire di contrapposto alla produzione cristiana del poeta. — Quanto alla forma 
Perdica con un solo ec cfr. Barnrens, Uned. Lat. Gedichte, p. 12, in nota; e Vorrmer, p. 307. 

(2) Il Baehrens sì preoccupa molto del fatto che gli esempi dati nei vv. 41-44 non corrispon- 
dono ordinatamente ai fatti adombrati dai vv. 37-40, e propone l’audace emendazione: 


Alter erit Perdica furens atque altera Myrrha, 
Tuppiter alter erit, reddetur et altera Phaedra. 
Parva loquor: tauro, si iusseris, altera regis 

flammetur coniunx Cretis iungatque maritum. 


Certamente vi sarebbe in tal modo un ordine logico perfetto; ma, a parte la correzione già 
ardita di “ Cretis iungatque ,, questo scambio di due emistichii saltando un verso medio, è diffi- 
cilmente ammissibile; appena lo sarebbe se i due versi fossero contigui. Del resto osservo che se 
ha un senso .il dire: “ alter erit Perdica furens atque altera Myrrha ,, perchè qui basta il nome a 
ricordare il fatto, non ha più senso il dire semplicemente: “ Iuppiter alter erit ,. È anzi un errore 
il voler mutare ferris in Oretis, perchè terris è pure ablativo di luogo, secondo l’uso più costante 
di Draconzio che tralascia la preposizione (cfr. VIII, 566; IV, 38; V, 146, 277, 284; IX, 26, 31, 59, 
201; X, 116, 183, 186, 190, ecc.); ed ha questo senso: “ capiterà anche in terra ciò che è avvenuto 
in cielo ,. Quanto al venire l’esempio di Fedra dopo quello più grave di Pasife, derivò forse dal 
fatto che Fedra fece ricordare al poeta Pasife per ragioni di parentela. Comunque a me pare che 
si possa ammettere benissimo un piccolo spostamento nell’ordine degli esempi. 

(8) E. Roanne, Der Griech. Roman, Leipzig, 1876, p. 52 e 54. — Per la Vita Hippocratis dello 
Pseuposorano vedi WesrermanN, Broy., p. 450. 


52 ETTORE PROVANA 30 


Rohde, a buone fonti. Secondo lo Pseudo-Sorano, Perdicca, figlio di Alessandro, si 
sarebbe invaghito della concubina del padre, Fila. Dopo di lui Luciano nel “ Z7@g 
de iorogiav 0cvyyodpew , (cap. 35), parla già dell'amore di Perdicca non per una 
concubina del padre, ma per la matrigna, che egli chiama Stratonice. Più interes- 
sante a tale proposito, trattandosi di un africano contemporaneo di Draconzio, è 
l’accenno a Perdicca di Fulgenzio, nel terzo libro delle sue Mythologiae: “ Perdicam 
ferunt venatorem esse; qui quidem matris amore correptus, dum utrumque et inmo- 
desta libido ferveret et verecundia novi facinoris reluctaret, consumptus atque ad 
extremam tabem deductus esse dicitur ,. Fulgenzio dunque parla non più della ma- 
trigna, ma della madre; egli non ricorda, come l’autore dell’ Aegritudo Perdicae, Ip- 
pocrate, il medico che scopre l’origine della malattia di Perdicca nella sua passione; 
inoltre chiama Policaste e non Castalia la madre (1): “ Matrem etiam Policasten 
habuit quasi Policarpen, quod nos Latine multifruetam dicimus, id est terram ,. La- 
sciamo da parte l’interpretazione curiosa che al nome stesso dà Fulgenzio, in rela- 
zione del resto con tutto il colore della sua Fabula Perdicae. Noi rileviamo subito 
che, se la redazione di Fulgenzio fa un passo innanzi su quella dello Pseudo-Sorano 
e di Luciano, d'altra parte v'è nell’Aegritudo Perdicae una combinazione di elementi 
tale, e un tal progresso di redazione, che c’induce a ritenere posteriore di qualche 
tempo la sua composizione a quella delle Mythologiae di Fulgenzio. È troppo naturale 
che se questi avesse potuto attingere al poemetto scoperto da Baehrens, opera tanto 
recente di un africano, si sarebbe attenuto ad esso più fedelmente. Ora risulta che 
Fulgenzio, piuttosto che contemporaneo, è alquanto posteriore a Draconzio: il Teuffel (2) 
pone la sua vita fra il 480 e il 550, e lo Skutsch nel suo articolo della Realeney- 
klopiidie del Pauly (3), mantiene pressapoco gli stessi limiti, e crede anzi di poterlo 
identificare con Fulgenzio, vescovo di Ruspe dopo il 507. Questo mi pare un indizio 
molto importante per togliere a Draconzio la composizione dell’ Aegritudo Perdicae. 
Del resto i pochi riscontri con gli altri carmi di Draconzio, il vocabolario forse 
alquanto più libero (vi sono parole affatto ignote a Draconzio, come il tristificus del 
v. 116), la mancanza infine di ogni spunto fortemente e sinceramente sentimentale, 
che s'incontra sempre anche nelle composizioni più aride del poeta, m’inducono a 
credere che l’Aegritudo Perdicae non sia opera sua. Sono tanti i poeti che si occu- 
parono di tale genere di versificazione fino agli ultimi tempi di quella fioritura poetica, 
ossia fino al primo quarto del sesto secolo, e tale è la loro parentela di lingua e di 
stile, che ben difficilmente si può assegnare un componimento anonimo piuttosto 
all’uno che all’altro di essi. Non andremo se mai molto lontani dal vero asserendo 


(1) V. Aegrit. Perd., vv. 171 segg.; Fulg., Myth., III, 2 (Ed. R. Helm., p. 61-62). Non sono del 
resto queste le sole differenze: fra le altre noto quella che, secondo Fulgenzio, Perdicca è un oscuro 
cacciatore, mentre l’autore dell’Aegritudo Perdicae pare consapevole della sua alta condizione, e ci 
dice com’egli ritorni a casa dopo di aver compiuto i suoi studi ad Atene. 

(2) V. TeurreL-ScHwABE, p. 1238, $ 480. 

(3) V. art. Fulgentius, col. 222: © beschliesst er plotzlich, auf die weltlichen Giiter zu verzichten 
und schligt den Weg ein, der ihm im J. 507 zum Episkopat von Ruspe fiihrt. Sein Leben fallt in 
die J. 467-532 ,. Gli argomenti dello Skutsch per provare l’identificazione mi paiono convincenti. 
Del resto egli non fa che corroborare l’opinione dello stesso editore di Fabio Planziade Fulgenzio, 
R. Helm, esposta nel Rhein. Mus., LIV (1899), p. 111-134. 


sul BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 59 


che Draconzio fu molto imitato dall'autore dell’epillio, del resto non privo di grazia. 
Quanto al cenno che fa Draconzio di Perdicca, si può spiegare benissimo col fatto 
che egli abbia raccolto la leggenda, forse un po’ alterandola, quale correva fra gli 
eruditi e nelle scuole: e che Perdicca non fosse ignorato, lo dimostra il carme 220 (1) 
dell’Antologia Latina che ne descrive e ne celebra la bellezza, giungendo a dire: “ solus 
vincebat Adonem ,. 

A Draconzio si può attribuire ancora con sicurezza un frammento che si trova 
nel già citato codic» dell'archivio capitolare di Verona, che contiene tra i “ flores 
moralium auctoritatum , (oltre i versi di Draconzio VIII, 131 e 132; IX, 5,8 e 9)i 
versi seguenti (2): 

quia numina semper 

irasci miseris possunt, felicibus autem 

et praestare volunt. 
Che questo frammento dovesse appartenere ai Romu/ea (chiamerò anch’io con questo 
nome convenzionale tutte le poesie pagane di Draconzio) risulta non soltanto dal- 
l'affermazione esplicita del codice, ma anche dal suo contenuto. Molto probabilmente 
però appartengono ad un carme a noi ignoto, perchè non si possono inserire, io 
credo, in nessuna delle lacune dei carmi a noi noti, e che il Lohmeyer cita (II. 42, 
127; V, 197, 232; VIII, 212). Certamente tali parole potrebbero trovar luogo, ad es., 
quanto al concetto nel carme V: ma quivi lo stesso Vollmer tra i versi 197 e 198 
non ammette lacuna, ma solo mancanza del titolo della nuova quaestio; e al v. 232 
v'è solamente corruzione del testo, nè vi si troverebbero a posto le parole citate. 
Anche nel carme IX potrebbero inserirsi quanto al concetto, ma non si notano 
lacune nel manoscritto e noi non abbiamo il diritto di supporne. 

Non meno sicvra è l’attribuzione a  Draconzio di due poesiole: De mensibus e 
De origine rosarum, conservateci nella già citata Historia di Milano di Bernardino 
Corio, che nella più antica edizione del 1554, giustamente indicata dal Baehrens come 
più autorevole di quella del 1565, usata dal Riese (3), dice: “ Transimondo, conte 
di Capua, a laude del quale Dracontio poeta elegantemente scrisse, et l’opera del 
quale noi in caratteri Longobardi avendo trovata, per Giovan Cristoforo Daverio, la 
cui famiglia già per Federico primo a Milano fu ornata della cittadinanza, è stata 
tradotta in lettere latine. Onde per dignità dell’ elegante poeta, n'è parso metter 
questi suoi versi ,. E trascrive appunto il De mensibus e il De origine rosarum. Na- 
turalmente l’espressione che il Daverio tradusse in lettere latine ciò che era scritto 
in caratteri longobardi non significa che il Daverio abbia tradotto in latino un'opera 
scritta in lingua longobarda, e nemmeno che il Daverio abbia tradotto dal latino in ita- 
liano, come molto stranamente interpreta il Riese, ma che ha trascritto dalla serit- 
tura longobarda di lettura assai difficile, in quella latina, ossia nella neo-carolina 


(1) Credo che abbia ragione il Baehrens quando ritiene erronea l'ipotesi che questi versi siano 
rivolti ad un contemporaneo, e non si riferiscano al mitico Perdicca (Uned. Lat. Gedichte, p. 8), ap- 
punto perchè sono dello stesso tipo degli epigrammi 219: De Narciso, e 221: De Cupidine; ma per 
questo medesimo motivo, e anche per l’indole generale di tali poesiole dell’Antologia, non è affatto 
probabile che i versi su Perdicca siano un frammento di un carme più ampio. 

(2) V. A. Riese, Literarisches Centralblatt, 1877, p. 1689. 

(3) Cfr. A. Riese, Rhein. Mus., vol. XXXII (1877), p. 319; E. Barmrens, Rhein. Mus., vol. XXXIII 
1878), p. 313: Neue Verse des Dracontius. 


54 ETTORE PROVANA 32 


od umanistica, molto bella ed elegante. L’errore col quale Bernardino Corio confonde 
il conte Transimondo di Capua con Trasamondo, re dei Vandali, successore di Gun- 
tamondo, è stato rilevato da tutti. Anche i riscontri che le due poesiole hanno con 
l’opera di Draconzio, ci palesano la loro paternità: esse si possono considerare come 
parte dei Romulea per quanto abbiano un carattere alquanto diverso, quello epigram- 
matico e leggiero della massima parte delle poesie dell’ Antologia Latina, dove non 
mancano altri componimenti della stessa natura, ed anche dello stesso argomento (1). 
Se poi i versi De mensibus siano anteriori o posteriori al carme VIII. dato il riscontro 
del y. 5 col v. 469 di quest’ultimo, è cosa impossibile a dirsi: il Lohmeyer (2) osserva 
che, dato che il v. 469 del carme VIII non è fuori luogo, è probabile che Draconzio 
abbia foggiato il verso del carme minore su quello del maggiore, e questo è vero; 
ma bisognerebbe provare che viceversa esso non fosse del tuito a posto nel carme 
De mensibus. Senza dubbio è il solo accenno (insieme forse con l’Airia Solis del 
verso 15) a concetti astrologici, ma è pur vero che, contrariamente a quanto asse- 
risce il Lohmeyer, c'è un tale concetto del marzo anche alirove, cioè nel carme 117 
dell’ Antologia Latina (Laus omnium mensium) v. 5: “ Martius in campis ludens simu- 
lacra duelli ,. Sarà meglio quindi neppur tentare tali cronologie inutili e mal fon- 
date, pensando pure che quasi sempre Draconzio riesce ad amalgamare assai bene 
nei suoi versi ciò che egli toglie ad altri: e questo vedremo meglio in seguito. Peggio 
poi è il fondare la cronologia sul fatto che questi brevi carmi si trovavano nello 
stesso codice insieme col poema in lode di Trasamondo. Abbiamo visto già a tale 
proposito che l’ordine, o meglio il disordine col quale ci sono pervenute nei codici 
le opere di Draconzio non ha nulla a che fare con l'ordine cronologico della compo- 
sizione, e forse nemmeno della pubblicazione fatta da Draconzio medesimo. 

Vi sono ancora alcuni carmi di dubbia o anche certamente falsa attribuzione. 
Sono del resto povere poesiole che non meritano davvero lo scalmanarsi di taluno 
per accettarle o per respingerle. Così il carme 676 dell’Antologia, composto di soli 
12 esametri, che incomincia: “ Me legat, annales cupiai qui noscere menses ., è un 
miserabile centone di otto versi della Satisfacito, più uno (1°11°) del De laudibus 
dei (3). Molto difficilmente si tratta di un’opera di Draconzio, una prefazione al 
carme De mensibus, come vorrebbe il Rossberg (4), perchè, sebbene Draconzio usi 
ripetersi, non cè nessun motivo di attribuirgli una compilazione così meschina, senza 
altra testimonianza. Quanto al fatto che i vv. 2-12 del carme 676 si trovano ripro- 
dotti nell'Epistola ad Hunaldum di S. Colombano (vv. 78-87), con l'omissione del v. 10 
il quale è invece il verso 24 della medesima epistola, osservo solamente che è 
cosa di nessuna importanza, tranne quella di riconfermare l'abitudine di Colombano 


(1) Cfr. Anth. 117 (11 quale però è diverso di forma, essendo in distici, ed anche di contenuto, 
che è tutto d’indole mitologica. mentire Draconzio vi mette un po’ del suo sentimento della natura), 
394, 395. Per quest’ultimo vedi un’edizione più recente in Barmazss, P. L. MI p. 205; cfr. ancora 
Barmzexs, P. L. M., V, p. 359 e 379. 

(2) Schedae Phil.. p. 73. n 

(3) V. A. Riese, Jahresbericht der Hass. Alteriumswiss., 1881, 2, p. 100. Cfr. Volimer, p. 128, 
(nota a Sat, 247). 

(4) C. Rossszre, De Dracontio et Orestis quae rocatur iragoediae auciore eorundem poriarum Ver- 
gilii, Ovidii, Lucani, Statii, Claudiani imitatoribus, Norden, 1880, p. 34 (Corollariam). 


. 


33 BLOSSIO LMILIO DRACONZIO 55 


di prendere dappertutto ciò che gli talentava. Io non credo poi, come 11 Lohmeyer 
dice, che la presenza nel c. 676 di quel verso 24 provi tanto all’evidenza l’anterio- 
rità dell'epistola sul carme: piuttosto essa sarebbe dimostrata dal fatto che il primo 
verso è molto probabilmente tolto a Beda, come il Vollmer ritiene. Sono pure attri- 
buiti falsamente, secondo me, a Draconzio i versi In Zaudem solis (1), essendo certa- 
mente insufficienti le vaghe somiglianze metriche, prosodiche, linguistiche, le quali 
abbondano nei carmi dell’Antologia, vicini quasi tutti di origine e di tempo. Lo stesso 
dicasi dei Versus Octaviani Caesaris Augusti (2), che, come ben osserva il Lohmeyer, 
trattano materia diversa da quella che Draconzio suol trattare. È pure da respin- 
‘gersi per mancanza assoluta di prove l’attribuzione fatta dal Baehrens (3) a Dra- 
conzio dei carmi: Quis deus hoc medium vallavit vepribus aurum, è Fabula constituit 
toto notissima mundo; e così anche altre attribuzioni probabilmente arbitrarie fatte 
a Draconzio di poesie perdute, delle quali non ci è rimasto che il titolo: così nel 
catalogo di manoscritti Lorscher del XIII secolo (4) è citato al n° 465: Dracontii metrum 
de virginitute. Nello stesso catalogo vi sono i titoli (n° 469 e segg.): metrum Cresconii 
in Evangel., l. I: eiusdem de duis gentium luculentissimum carmen; eiusdem versus de 
principio mundi vel de die iudicti et resurrectione carnis (5). J. Huemer pensa a Dra- 
conzio, ma sono fantasie. 


I carmi minori di Draconzio. 


Prima di stabilire, con la breve discussione del precedente capitolo, quali siano 
i documenti autentici dell'attività letteraria di Draconzio a noi pervenuti, ci eravamo 
posti intorno ad essa alcune domande che ora attendono risposta. Esamineremo tutte 
le opere di Draconzio ricercando quanto vi sia in esse di originale, di veramente 
suo: sarà questa l’espressione più intima e più sincera del suo spirito, questo il vero 
contributo di Draconzio alla storia della letteratura latina ormai agonizzante. Esa- 
mineremo anzitutto le opere di argomento e di carattere pagano, la variopinta e 
barocca cornice, entro la quale il poeta ha racchiuso i poemetti più semplici ed 
omogenei, in cui esprime limpida e tersa la sua anima cristiana. Varii di tempo e 
d’argomento, i Romulea fanno un curioso contrasto coi carmi cristiani, pressochè con- 


(1) Riese, Anth. Lat., 389; BarmrENs, P. L. M., IV, p. 434. 

(2) Riese, Anth. Lat., 672; Barmrens, P. L. M., IV, p. 179. 

(3) Barmrens, P. L. M., V, p. 216-217. 

(4) Baenr., Geschichte d. Rim. Liter., IV, $ 34. — Cfr. Becker, Catalogi bibliothecarum antiqui, 
Bonnae, 1885, p. 111. 

(5) Wiener Studien, VII, 1885: Aus alten Biicherverzeichnissen, p. 880. Questo Cresconius sarebbe 
il Flavius Cresconius Corippus, poeta africano della metà del VI secolo. L'ipotesi dell’Huemer, che 
si fonda, non so perchè, sulla testimonianza di Isidoro di Siviglia: de vir. ill, 24, è assolutamente 
infondata. Nemmeno comprendo come possa l’Huemer senz’altro asserire che a Draconzio si.riferisca 
l'indicazione al n° 465: “ ... de fabrica mundi metrum columbani et alii versus quam plurimi ,. Cfr. 
E. E. di Paury-Wissowa, art. Corippus (Skutsch). 


56 ETTORE PROVANA 34 


temporanei nella loro composizione, strettamente collegati per i concetti, le imma- 
gini, gl’'intendimenti, lo spirito informatore. Ma io credo che grande sia la loro 
importanza, e quindi in certo senso il loro interesse, perchè ci rivelano quello che 
io direi la parte negativa di un’anima di poeta, tutto ciò che tenacemente lo lega 
alla tradizione, alla scuola. alla corrente letteraria compassata ed erudita. Se nes- 
suno, nemmeno chi fu o si credette ribelle, è sfuggito mai completamente alla loro 
influenza, meno benefica forse che nefasta, tanto meno ne andò immune Draconzio 
che si concedette tutto ad esse, e non sognò mai certamente di cercare in una vi- 
gorosa reazione la salvezza e la grandezza dell’arte. Ma tutto ciò anzichè nuocere, 
giova assai a riconoscere e caratterizzare l’arte sua, perchè Draconzio non è mai 
forse tanto poco artista come quando si studia di esserlo maggiormente. Nei fre- 
quenti lampi di spontaneità e di sentimento che illuminano la massiccia tetraggine dei 
suoi carmi minori, Draconzio si manifesta assai bene quello che egli poteva essere, 
quello che fu, per quanto glielo consentirono l'educazione e i tempi, nei carmi cristiani. 

Le due prefazioni al grammatico Feliciano (Rom., I e III) hanno entrambe ca- 
rattere di elogio e di raccomandazione dell’opera del poeta al maestro, senza spe- 
ciale attinenza colla materia trattata nei carmi II e IV. Nella prima il poeta paragona 
il maestro ad Orfeo che col suo canto ammansa le belve più feroci, riconciliando ed 
amicando nature opposte: così Feliciano col fascino della coltura e dell’arte riunisce 
gli elementi più disparati, Romani e barbari (1). Il Vollmer avvicina il confronto 
istituito da Draconzio con passi di Seneca (Erc. Oet., vv. 1031 e segg.), Claudiano 
(Carm. XXXIV) e Frontone (Epist., Ed. Naber, p. 58) (2): ma io dubito molto che 
questo riaccostamento sia legittimo. Nel coro dell’Ercole Oeteo v'è la descrizione 
pura e semplice del mito di Orfeo, e così in Claudio Claudiano: in Frontone noi non 
troviamo un confronto, ma un'interpretazione allegorica del mito, la più semplice e 
la più naturale, quella che verrebbe in mente a chiunque, anche senza conoscere 
affatto il celebre grammatico africano. Draconzio invece stabilisce evidentemente un 
confronto; nei vv. 10-11 egli afferma il miracolo, e non cerca di spiegarlo allego- 
ricamente, il che equivarrebbe a negarlo. Ne sono una riprova i tre distici dell’An- 
tologia latina, pure dedicati ad Orfeo. che il Vollmer cita (3): quivi l'autore dà 
apertamente un'interpretazione allegorica, negando che il mito di Orfeo sia, per così 
dire, storicamente vero. Nessun motivo speciale ce’ induce a credere che Draconzio 
abbia pensato piuttosto a Seneca che a Claudiano o Frontone (4): basta il pensare 
ch'egli udì certamente la storiella di Orfeo nella stessa scuola di Feliciano, come la 


(1) Notiamo per incidenza che il confronto è stilisticamente male espresso (cosa non certo rara 
in Draconzio), perchè il poeta riunisce i termini di confronto in questo modo: ° v. 1, Orpheum 
vatem enarrant ut priorum litterae... v. 12, sancte pater, o magister, taliter canendus es ,; onde 
i due termini del confronto enarrant e canendus es non sì corrispondono bene. 

(2) L’epistola di Frontone incomincia con una grossa lacuna, ma si comprende subito che si 
tratta del mito di Orfeo. Certamente l’accenno di Frontone alle differenti nazioni in modo speciale, 
si accorda assai col pensiero di Draconzio, ma la differenza fondamentale è profonda. 

(3) Riese, 628. È un componimento assai breve attribuito a Palladio. Cfr. i versi 7-12. 

(4) L'espressione “ enarrant ut priorum litterae , è generalissima e può corrispondere alla 
nostra “ come narrano le antiche storie _. senza mensaro 24 nn lavoro storico o leggendario par- 
ticolare. 


35 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 57 


si ode ancora nelle scuole d'oggi. Noi rileviamo piuttosto che Draconzio si pone fin 
da principio da un punto di vista prettamente pagano senza preoccuparsi affatto di 
qualsiasi interpretazione allegorica, come si usava in quei tempi nell'Africa stessa (1). 
— D'indole affatto diversa è il paragone che il poeta fa nella seconda prefazione : 
senza ingombro mitologico, con sincerità e forza di espressione, egli paragona l’opera 
del maestro alla fecondazione che rende fertile la terra: vi appare già quel parti- 
colare senso della natura che così spesso anima Draconzio; egli si compiace di fer- 
marsi ad esemplificare i modi, i frutti, gli aspetti varii della fecondazione; e se pure 
si è ricordato di qualche frase delle Bucoliche e delle Georgiche virgiliane (2), noi 
leggiamo versi come quelli dall’8 al 10: “... et palmes verberet ulmos — contor- 
tusque fluat nodo viridante corymbus — et numquam positura comas flectatur oliva ,, 
nei quali l’espressione ha una classica semplicità ed efficacia. Le lodi colle quali si 
chiudono entrambe le prefazioni, hanno un accento sincero: vi si sente ancor vivo e 
giovanile l'entusiasmo del discepolo per il suo maestro. E l’ultimo verso: “ nam tua 
sint quaecunque loquor, quaecumque canemus ,, dimostra che solo le primissime sue 
poesie egli dedicava allora a Feliciano, e che è perciò cosa molto mal sicura l’attri- 
buire l'appellativo Romulea che appare nel v. 17, a tutta una silloge completa dei 
carmi di Draconzio d’'argomento pagano. 

La patetica favola di Hylas (3), il giovinetto compagno di Ercole, che le ninfe, 
invaghite della sua straordinaria bellezza, rapiscono, è narrata da Draconzio nel 
secondo dei carmi minori con quella mescolanza di artificio e di sentimento che è 
caratteristica di tutti gli epillii del poeta. Se veramente, come pare dalla prefazione, 
essa è opera di gioventù, certo assai per tempo Draconzio possedette vasta cultura 
mitologica ed anche vasta conoscenza della letteratura anteriore. Conosceva non sol- 
tanto gli autori più in voga: Virgilio, Orazio, Ovidio, Stazio, Lucano, Claudiano, 
ma anche i meno noti, e, secondo il Vollmer, anche Catullo. Non vi sono novità 
mitologiche tranne quell’accenno a Perdicca (4), che già abbiamo avuto occasione di 
discutere. Molto probabilmente del resto le fonti di Draconzio per il mito furono 
tutte latine, ed esso appare nella sua forma più recente, come ad esempio in quello 
di Ganimede, rapito da Giove “ fulminis ales ipse sui , (vv. 18-19). Il carme difetta 
molto di unità: il poeta, dopo una breve proposizione, si diffonde dal verso 4 al 94 
in una lunga digressione, che ha molto poco a che fare col mito vero e proprio, 
anzi è in parte in contraddizione logica col resto. In modo assai curioso benchè non 
nuovo (5), Draconzio riferisce un colloquio fra Venere e Cupido, nel quale la dea, 
afflitta ed irritata dei pettegolezzi delle ninfe sul suo conto, invoca l’aiuto del figliuolo 
per una degna vendetta: ciò porge occasione al ricordo di tutte le prodezze di 
Cupido, che ha spinto uomini e dei agli amori più illeciti e mostruosi; onde l’elenco 


(1) Lo dimostra l’opera del poco anteriore Marziano Capella e del poco posteriore Fulgenzio 
Planziade. 

(2) Vere., Georg., 1, 116; Bucol. 1, 48. 

(3) Cfr. Anthol. Lut., 69 (Riese): De Hyla et Hercule. 

(4) Altre novità insignificanti sono il presentarci Amore amante delle Furie (v. 120), e un'amazzone 
amante di Licasto (v. 119). 

(3) Lo troviamo ad esempio in Apuleio, Metam., I, 28-30 (ed. R. Helm, Lipsia, 1907, p. 98-99). 


Serie IL Tox. LXII. 8 


58 ETTORE PROVANA 36 


delle avventure di Giove, poi quelle di Pallade e così via fino a Mirra e a Fedra. 
Venere chiede a Cupido che Climene la quale canta le colpe della dea, e le ninfe 
che stanno ad udirla, “ noscant quid sit amor , (v. 64), e soffrano in pena “ ut vota 
trahantur — ipsarum in longum, donec pubescat amatus ,. Così Draconzio riunisce 
due motivi mitologici e cerca la causa del fatto che prende a narrare in qualche cosa 
di anteriore e di nuovo. Nessuno prima di lui aveva congiunto il fatto d’Hylas con 
l’idea d'una vendetta di Venere; ma appare subito la sproporzione del mito con l’an- 
tefatto, e il poco valore di fronte al mito della digressione sulle imprese audaci di 
Cupido. Tanto più sottile poi è il filo di unione tra l’antefatto e il mito, in quanto 
le ninfe non mostrano affatto di accorgersi di dover aspettare che il giovinetto amato 
“ pubescat ,; se mai, colpito dalla sventura appare piuttosto Hylas medesimo che 
si spaventa e piange. Ridono invece le ninfe, quando lo trascinano nell’acqua, e con- 
solano il suo pianto con quelle parole semplici e belle, che non hanno riscontro in 
esempi classici (vv. 132-134): 
non te decet ora rigare 


fletibus, alme puer; ploret deformis imago, 
non est flere tuum, mundum tibi nullus ademit. 


Solo e desolatissimo rimane Ercole, la cui forza brutale il poeta sa mettere in bel 
contrasto con l’infantile debolezza di Hylas, e che manifesta il suo dolore con un 
lamento sincero e commovente (vv. 157-160); ed è veramente a deplorare che l’epillio 
si chiuda con un freddo e vuoto aforisma. Questo primo carme di Draconzio è, ab- 
biamo detto, già abbastanza ricco di imitazioni (chiamiamole così dando al vocabolo 
il valore più tecnico, più convenzionale che gli si possa attribuire): il Vollmer ne 
trova anche di quelle che per me non esistono affatto, come la frase (v. 64): “ noscant 
quid sit amor ,, che il Vollmer accosta a quella di Virgilio (Bue., 8, 43): “ nune scio 
quid sit amor .; è troppo evidente che il poeta per esprimere il suo pensiero non 
poteva usare parole diverse. Ma quando Draconzio usa le parole altrui, quasi sempre 
le incastona assai bene fra le proprie, e dà loro un colore affatto nuovo. Così al 
v. 115, dopo aver espresso forse con frase non bella (“ cunctis respirat hiatus — 
oris et ad crines digiti mittuntur amantum ,) atteggiamenti veramente belli e naturali, 
e aggiunge: “ incipiunt fari mediaque in voce resistunt ,, evidentemente egli qui si 
è ricordato dell’espressione di Virgilio (Aen., 4, 76): “ incipit effari mediaque in voce 
resistit ,, ma essa non si trova certamente meno a suo luogo nei versi di Draconzio 
che in quelli di Virgilio. Esempio caratteristico del nuovo colore che può assumere 
in Draconzio l’espressione imitata noi lo troviamo nel verso 125: “ ut puer est visus, 
faciles (1) risere puellae ,, che ricorda probabilmente il “ sed faciles nymphae risere , 
di Virgilio (Buc., 3, 9). Ma in Virgilio il faciles si può tradurre benissimo con indul- 
genti, o anche pieghevoli, condiscendenti, nel senso di poco serupolose; in Draconzio 


(1) Il fatto che Draconzio ripete più volte questo appellativo di facilis applicato alle Ninfe non 
è contro la libera interpretazione, perchè cento volte accade nella poesia latina e in ogni altra 
poesia che anche l'aggettivo stereotipo assuma in casi speciali significati speciali, o che sia diven- 
tato stereotipo appunto per influsso di un caso speciale e caratteristico. Noto poi ch’esso è usato 
in significato analogo anche da Properzio (ciò che è sfuggito al Vollmer), I, 11, 11: © nimium fa- 


ciles aurem praebere puellae ,. 


- 


è 
È 


S7 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 59 


invece il significato è assolutamente diverso. Già nel verso 102 il poeta dice: “ o 
faciles Penei numina nymphae ,, e in questo caso il faciles non può significare se 
non flessibili, agili, svelte. Ma qui vi si aggiunge il significato di denevole, propizie, 
carezzevoli (1), in relazione coll’aggettivo lentus riferito ad Hylas: le ninfe ridono 
faciles appunto perchè credono che il giovinetto sia /entus (2); onde l’espressione ri- 
veste quel carattere grazioso, veramente infantile, che dà freschezza, sentimento, vita 
a tutta quest'ultima parte del carme. E noi dobbiamo sinceramente riconoscere che, 
se in esso non manca la retorica, l'inutile e vuota erudizione mitologica, l'imitazione 
talora servile e inceppata, d’altra parte già vi si rivela il poeta. La stessa felice 
scelta dell'argomento lo aiuta a manifestarsi: Ercole, eroe invitto e terribile, si tras- 
forma; di fianco al piccolo Hylas, la sua grandezza anzichè giganteggiare per virtù 
di contrasto, si attenua piuttosto e scompare; e il fato che lo perseguita, toglien- 
dogli anche il debole oggetto della sua affezione, ce lo rende più umano e simpatico. 
Quello che compie il miracolo è il sentimento; sentimento che abbassa l'eroe da- 
vanti alla nostra fantasia e lo eleva davanti al nostro cuore. Fin da questo primo 
saggio del nostro poeta noi troviamo in lui quella prevalenza del sentimento che è 
l’intima animatrice della sua arte: egli riesce fin d’ora, inconsciamente forse, ad 
analizzarlo, a colorirne anche le sfumature. La ninfa, che vuol consolare il fanciullo 
Hylas, gli dice tutto ciò ch’ella tiene in serbo per lui: Giacinto e Narciso che sono 
giovani e belli, perchè egli non si trovi solo; e poi tutti i fiori e tutti i profumi, 
per abbagliarlo, per istordirlo (3). Ci voleva davvero la critica che nella ricerca mec- 
canica delle imitazioni e dei riscontri perde il senso del bello. per non ravvisare altro 
in quest'epillio che un'esercitazione scolastica. 

Vera declamazione invece, retorica e vuota, è il carme IV dei Komulea, intito- 
lato: Verba Herculis cum videret Hydrae serpentis capita pullare post caedes. Esso non 
ha per noi che il valore di documento di ciò che continuasse ad essere dopo secoli 
l'educazione nelle scuole romane; dal punto di vista filologico ed estetico il suo in- 
teresse è minimo. La condizione dell'eroe infelice che lotta invano contro il nuovo 
mostro poteva avere alcunchè di grandioso e di patetico; ma il poeta cristiano non 
ne sa approfittare. Non gli soccorre nemmeno questa volta l’erudizione mitologica, 
e non lo ispirano e nemmeno lo aiutano le reminiscenze classiche. Però se vi scar- 
seggia il solito uso della frase altrui, si avverte invece molto l'imitazione di Seneca, 
che spesso nell’Hercules furens o nell’Oetaeus (4) mette in bocca tali lamenti ad An- 
fitrione o ad Ercole stesso. Se nelle tragedie attribuite a Seneca non troviamo Vor- 


(1) Tale è del resto il significato quasi costante di facilis in Draconzio: cfr. L. d., 2,761; sat. 77 
(dove nota opportunamente il Vollmer che prende il significato di bandus: ° aspera vel facilis... 
natura ,; e tale significato conviene ottimamente al caso nostro); X, 266; Or., 279, 963. 

(2) L’interpretazione che il Vollmer (ed. di Drac., p. 368) dà all’aggettivo lentus in questo caso 
è certamente erronea. Il Vollmer non ha inteso qui lo spirito del testo, nè ha badato al significato 
letterale di pufant che esclude affatto l’interpretazione: amore captae tam serum venisse dolent, tanto 
più che si tratta di un fanciullo non ancora giunto alla pubertà. 

(3) V. versi 135-136: 


nos rosa, nos violae, nos lilia pulchra coronant 
nos Hyacinthus amat, noster Narcissus alumnus. 


(4) Cfr. Hercules furens, vv. 205 segg.; Herc. Oetaeus, vv. 1 segg. 


60 ETTORE PROVANA 38 


dine delle fatiche quale ce lo dà Draconzio, nell’intonazione e nei concetti la cor- 
rispondenza è invece evidentissima (1). Del resto è fenomeno abbastanza comune 
quello che si possa talora parlare a maggior diritto di imitazione colà dove man- 
cano i riscontri letterali e la somiglianza sta piuttosto nel concetto. Naturalmente 
un giovane poeta dinanzi a un tema che non lo ispira, e non può ispirarlo, ricorre 
a letture e a reminiscenze poetiche, che gli forniscono un caotico materiale, ch'egli 
poi tratta con altre parole, illudendosi di fare opera sua. L’eroica impresa di Ercole 
non poteva ispirare Draconzio, che non ha nulla di eroico, ed anzi, quando tenta di 
esprimerlo, cade facilmente nel grottesco, come in questa stessa declamazione (2); 
nè lo poteva ispirare l’ infelicità dell’eroe, una cosa troppo epica, troppo sublime. 
Draconzio non comprende il fato: in questo non è, e nemmeno sa fingersi, pagano. 
E la falsità della situazione dell’eroe, e quindi del suo lamento disperato, si desume 
anche dal fatto ch’egli già conosce il modo di trionfare dell’idra (vv. 50 e segg.): le 
sue parole avrebbero dovuto perciò essere in quel momento piuttosto di speranza 
che di sconforto. Draconzio non sapeva, pare, in che modo terminare, e freddamente, 
insulsamente, dopo aver parlato del male, termina con la ricetta. Del resto non fu 
certamente il solo a scrivere tali declamazioni: nella stessa Antologia Latina troviamo 
un esempio di declamazione attribuita a un personaggio mitico: Verba Achillis in 
parthenone, cum tubam Diomedis audisset (198, Riese): anche qui troviamo una breve 
parte espositiva nella quale il protagonista stesso descrive le sue condizioni; poi una 
seconda parte più propriamente declamatoria. 

Ancora più vuota, più falsa, più plumbea è l’altra declamazione che costituisce 
il carme V: Controversia de statua viri fortis. Lavoro dell’età matura, essa ci dimostra 
quanto poco valore abbia per certe tempre artistiche lo studio e l’opera di perfeziona- 
mento: una maggiore maturità d’anni non giova loro affatto ad una maggiore maturità 
d’arte. In tale nuova declamazione Draconzio cade assolutamente nel ridicolo, tro- 
vando modo di esagerare ancora quanto di assurdo e di ridicolo era, si può dire, 
connaturale alla controversia latina dai tempi di Quintiliano e di Seneca in poi. Nella 
stessa enunciazione dell’argomento (3) troviamo l’assurdo, perchè è ben strano che 
il rieco nemico del povero domandi che appunto della sua statua si faccia, non saprei 
in che modo, un rifugio. Del resto tale pasticcio grottesco non è neppure invenzione 


(1) Così, nonostante la differenza dell’espressione, è facile vedere quanto siano affini il concetto di 
quel passo dell’Herc. Oet., dove Ercole stesso impreca ed invoca su di sè l'ira degli dèi (vv. 1313 segg.), 
e il concetto di Draconzio, che muta l’imprecazione in preghiera (vv. 40 segg.). C'è talora una specie 
di parafrasi del concetto di Seneca. Così nei vv. 12-16 troviamo quasi una parafrasi e un’inversione 
del concetto dell’Herc. furens, vv. 35 seg., dove Giunone dice di sè stessa: © dum nimis saeva 
impero, patrem probavi, gloriae feci locum ,. 

(2) V. ad es. i vv. 15-18, dove non vi sono che grosse parole; e così i vv. 41-44. In un punto 
solo forse troviamo la semplice e graziosa espressione del nostro poeta, là dove Ercole parla della 
sua eroica impresa, mentre era ancora fanciullo, vv. 24-25: 


terror erat visus cunetis sonitusque dracorum 
quos manibus ridens compressi parvulus ambo. 


(3) Vir fortis optet praemium quod volet . pauper et dires inimici . bellum incidit civitati . dives 
fortiter fecit: reversus praemii nomine statuam petitt et meruit . secundo fortiter egit: reversus petiit 
praemii nomine usylum fieri statuam suam et meruit . tertio fortiter fecit: reversus petiit praemii no- 
mine caput pauperis inimici . pauper ad statuam divitis confugit . contradicit. 


39 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 61 


originale di Draconzio, ma è una combinazione di motivi presi qua e là dalle con- 
troversie attribuite a Quintiliano, o da quelle di Seneca. L'argomento generale è uno 
di quegli aforismi proposti a tema, quasi norme legali a cui si deve applicare il caso 
particolare (1). Ma neppure l'applicazione di Draconzio è originale: il concetto del- 
l’inimicizia tra il povero ed il ricco si trova nelle declamazioni attribuite a Quintiliano 
(Declam. maior. VII e XI, ove ricorre appunto la frase: pauper et dives inimici); così 
l’idea del ricco che riesce vittorioso in guerra e domanda un premio s'incontra nella 
declamazione XI* di Quintiliano (2), quella del chiedere in premio una statua in Seneca, 
nella controversia citata. Quindi l’unica trovata veramente originale di Draconzio è 
quella di trasformare la statua in un asilo. Si tratta del resto di una vera contro- 
versia, secondo le regole di Quintiliano, con il suo prooemium, la narratio, le varie 
quaestiones, le relative refutationes e perorationes, gli ercessus e gli epilogi (3). Ma 
forse la stranezza maggiore della controversia è la sua composizione in versi: non 
si può dire che sia un’originalità del solo Draconzio, perchè ne abbiamo un altro 
esempio nell’ Antologia Latina (4), onde è lecito supporre che fosse invalsa tale assur- 
dissima abitudine in quell’ultimo rifiorire della retorica nelle terre africane. Ma non 
fa certo onore a Draconzio il non essersi accorto che nulla v'era di meno poetizzabile 
che una controversia: la mancanza assoluta di sincerità, il ragionamento sofistico 
e parolaio, la falsità del sentimento, lo sforzo vano della fantasia formano un com- 
plesso mostruoso, dal quale la poesia semplice, affettuosa, ispirata, quella che tanto 
sovente è la poesia di Draconzio, resta cento miglia lontana. Io non cercherò fra 
questi cavilli il pensiero giuridico del nostro poeta; già in Seneca e Quintiliano del 
resto il materiale della discussione è fornito assai più da considerazioni e da astra- 
zioni morali, che non dalla positiva legislazione romana. Richiamano piuttosto la 
nostra attenzione gli accenni storici, scelti preferibilmente dalla storia o dal mito di 
Cartagine (5), e il fatto, del resto molto naturale, che in essi principalmente noi 
troviamo i riscontri con la letteratura anteriore, che mancano quasi del tutto nelle 
altre parti. Del resto il pensiero dominante in tutta la controversia è sempre il 
medesimo; quello che il potente ed il ricco devono servirsi delle loro facoltà per 
beneficare, e non per opprimere i deboli; è l’imprecazione contro la guerra civile, 
ripetuta più volte con parole diverse. I sentimenti di mitezza e di carità che l’argo- 
mento induce Draconzio a palesare ed esaltare, dovrebbero, pare, anche inconscia- 
mente portarlo a manifestarsi cristiano: su di essi egli insiste continuamente nelle 
poesie cristiane, usando anche talora le stesse immagini. Nel carme V si trova non 


(1) V. Seneca, Contror. X, 2 (31): Vir fortis quod volet praemium optet. Quinm., Declam. maior. IV: 
Vir fortis optet praemium quod volet. , 

(2) Reversus est dives victor a bello . petit ad supplicium filios pauperis. Cfr. anche Quinr., Decl., 
103, 104. 

(3) Cfr. Quinr., Ist. orat., III, 9, 11. 

(4) Riese, 21. Non mancano nemmeno esempi classici, come le epistole erotiche di Ovidio, ma 
fra esse e le declamazioni giuridiche in versi di Draconzio vi è ancora distanza grandissima. 

(5) Così per illustrare il concetto che il ricco dovrebbe piuttosto farsi protettore del debole e 
del povero che desiderarne la morte, cita l’esempio di Roma che volle risparmiare a Cartagine la 
rovina (vv. 108-110). Cfr. F/or., 1, 31, 5. Non mancano d’altra parte gli errori storici; così al v. 214 
dice che Scipione “ Minturnas depulsus obit ,, confondendo Scipione con Mario. Scipione morì a 
Liternum. 


62 ETTORE PROVANA 40) 


solo il confronto colla generosità del leone che risparmia la preda giacente, come 
nella Satisfactio, v. 137 e segg., ma vi sitrova il verso 312: “ gramina non tangunt, 
“ feriunt sed fulmina quercus ,, al quale corrispondono perfettamente i versi 277-280 
della Satisfactio, nei quali si parla della bontà del principe, che, ad esempio della 
bontà divina, deve essere misericordiosa con gli umili. Ma a chi legga tutto il carme 
appare manifesto che il poeta si mette anche in esso da un punto di vista assoluta- 
mente pagano, non solo per i frequenti cenni mitologici, ma anche perchè ad un 
certo punto la patria esorta apertamente il potente a non farsi tiranno per meritarsi 
anch'egli, come già Ercole, come Castore e Polluce, l'onore della divinizzazione (1). 
Così proprio là, dove sembrerebbe più giustificata l’ipotesi della derivazione e della 
fonte letteraria, maggiormente si scopre la lontananza dello spirito e del pensiero. 

Nei due epitalamii che il codice napoletano ci ha conservato del nostro poeta 
(VI e VII), noi ritroviamo qualcuno dei tratti caratteristici di Draconzio, il quale 
in un genere di poesia, congiunto anch’esso indissolubilmente ad una vecchia usanza, 
che nulla gli offriva di per sè stesso di fresco e di originale, si sollevò alquanto 
al di sopra dei precedenti carmi. Naturalmente egli imitò l’indole e l’andamento 
dell’epitalamio, quale da Licinio Calvo e da Catullo in poi si era venuto schema- 
tizzando nella letteratura latina. Im Roma, dove, a differenza della Grecia, non cor- 
rispondeva ad una precisa usanza, l’epitalamio (2) assunse subito il carattere descrittivo 
e panegirico. Il canto nuziale non manca quasi mai, ma non è indipendente; inserito 
entro la descrizione o il racconto, sovente non consiste in un coro di giovani e di 
fanciulle, ma in un augurio messo in bocca ad una divinità: e questo carattere così 
libero e particolare va sempre più accentuandosi nei poeti più tardi e in quelli 
cristiani. In tutti questi epitalamii di carattere convenzionale (3) troviamo sempre 
i soliti elementi: riesumazione dei più celebri amori che la mitologia ricordi, elogi 
agli sposi e alla loro famiglia, e infine l’epitalamio vero e proprio, ossia l’invito 
all'amore. Talora negli ultimi epitalamii s'incontrano anche accenni di circostanza, 
come in quello di Claudiano: In nuptias Honorii Augusti (4), dove si trova in mas- 
sima parte l’elogio delle imprese guerresche dell’imperatore; e in quello di Sidonio 
Apollinare: Epithalamium Ruricii et Hiberiae, ed assai più nel secondo: Epithalamium 


x 


Polemii et Araneolae (5), che è tutto di natura filosofica per la qualità di filosofo 


(1) V. versi 321-323: 
accipe thura potens ut Tirynthius aris, 
ut Thebis partus, magnus cum Castore Pollux 
semidei post fata vigent. 


(2) V. Daremsere et SacLio, Lex. des ant. gr. et rom., art. Hymenaeus; R. Scammr, De Hymenaeo 
et Talasio dis veterum nuptialibus, Kiliae, 1886, p. 41. Cfr. J. MarquarDI, La vie privée des Romains 
(Trad.), vol. I, Paris, 1892, p. 64 segg. 

(3) Escludo naturalmente quelli di Catullo, del quale i carmi 61 e 62 sono veri epitalamii di 
tipo greco, e il 64, l’epitalamio di Peleo e di Teti, è tale soltanto dal v. 323 in poi. — Epitalamii 
di genere descrittivo o panegirico sono ad es. quello delle Silvae di Stazio (I, 2), l’AMlocutio spon- 
salis di Avito, il Cento Nuptialis di Ausonio, l’Epithalamium Fridi di Lussorio; inoltre quelli di 
Claudiano, quello di Paolino di Nola per Giuliano, quelli di Sidonio Apollinare, quello di Ennodio: 
Epithalamium Maximi. 

(4) V. M. G. H., Auct. Ant., X, 1892, ed. T. Birt, p. 126. 

(5) V. Carm., XII e XV (M. G. H., Auct. Ant., VII, 1887, ed. Luetjohann, p. 227 e 234). 


41 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 63 


dello sposo. Dappertutto poi in questi epitalamii abbonda lo scurrile e l’osceno; ed 
è notevole come l’oscenità e l’artifizio procedano quasi di pari passo, forse perchè 
la situazione da descriversi è sempre la stessa, od anche perchè l’oscenità, sovente 
purtroppo spontanea, ha bisogno dell’artifizio per farsi tollerare (1). Draconzio non 
poteva prescindere da questa tradizione dell’epitalamio che si era formata in Roma: 
eppure noi troviamo nei due epitalamii di Draconzio, molto simili del resto fra loro, 
una nota affatto personale. Nella poesia d’occasione Draconzio inserisce la voce del 
proprio dolore, o quella della propria riconoscenza ; e l’interesse del poeta incarcerato 
per chi vive la vita e la gioia, e il suo lamento mite ed accorato, e nell’epitalamio VI, 
il libero e sincerissimo giubilo di un animo riconoscente, coloriscono e ravvivano di 
spontaneità e di schiettezza questi componimenti convenzionali. Lo stesso apparato 
mitologico è meno ingombrante, trattato con una certa snellezza e senza sforzo. 
E l’oscenità che deturpa alcuni epitalamii della letteratura latina, è assolutamente 
eselusa da Draconzio, il quale pure non ha scrupoli eccessivi, e concede alla natura 
tutto ciò che si può e si deve concedere. Descrive anch'egli l’amplesso coniugale, 
e parla candidamente della violenza che la sposa deve soffrire, e l’esorta, come già 
altri, a non temere e a non resistere all'amore; ma colorisce tutti questi vecchi 
motivi dell’epitalamio di una semplicità quasi ingenua, che altrove difficilmente s’in- 
contra: spirito sano e sereno, parla con semplicità e naturalezza di ciò che è naturale, 
senza la ritrosia schifiltosa degli uni e il sogghigno sguaiato degli altri. V'è ad 
esempio certa delicatezza e nobiltà di espressione in quei versi 53-56 del carme VI, 
che pure trattano una materia scabrosa; egli dice delle due spose: 


has matronali societ de more catervae 

blanditus sub fraude dolor sub vulnere casto 

servatumque diu rapiat hac nocte pudorem 

et poenae sit merces amor, pia pignora nati (2). 
Potrebbe parere strano che un poeta cristiano, come Draconzio, abbia composto un 
carme d’indole schiettamente pagana, quale è l’epitalamio: tanto più che i suoi due 
epitalamii furono composti l’uno durante la prigionia e l’altro immediatamente dopo, 
quando cioè egli aveva già limpidamente manifestato il suo sentimento cristiano nel 
De laudibus dei. Io noterò non soltanto che l'esempio di Draconzio non è certamente 
per questo rispetto il solo, ma anche che nulla v'è negli accenni al rito pagano che 
sia, negli epitalamii di Draconzio, direttamente opposto al concetto cristiano del 
matrimonio (3): nè d’altra parte egli poteva comporre un epitalamio, togliendovi 
quanto sapesse di pagano, senza distruggerlo. Ma, se Draconzio ha naturalmente 
imitato la generale forma poetica, se ha preso a prestito da altri, ma con molta e 
notevole moderazione, qualche verso o qualche parola, tutto ciò non distrugge il 


(1) Il più caratteristico sotto questo aspetto è il famoso Cento Nuptialis di Ausonio, che dice 
le cose più sconce servendosi dei più innocenti versi di Virgilio; non mai il Virgilianismo, che in 
questi ultimi secoli della letteratura diventa cosa affatto esteriore e meccanica, cadde tanto in basso. 
Cfr. L. VarmaGci, IL “Virgilianismo , nella letteratura romana, “ Riv. di Fil. ,, XVIII, p. 373 segg. — 
V. anche D. Comparemmi, Virgilio nel Medio Evo, vol. I, p. 71 segg. 

(2) Vi corrispondono nel carme VII i versi 51-64, certo non meno delicati. 

(3) Strano è anzi il fatto che il nostro poeta trasforma talora il rito pagano dandogli un aspetto 
diverso. V. ad es. VII, 64 segg. 


64 ETTORE PROVANA 49, 


merito grande della sincerità, nè il valore delle espressioni sue personali. Nell’epi- 
talamio VI, pieno della sua riconoscenza per gli illustri benefattori, le lodi sono 
temperate (1). Nell’epitalamio VII, scritto ancora dal carcere, piange pietosamente 
la sua sventura: al pensiero della festa che si celebra fuori delle mura che lo chiu- 
dono, sente un desiderio pazzo di libertà e di vita, una tristezza profonda per la 
sua solitudine tanto lunga e tanto buia, e manifesta tutto il suo animo nel modo 
più sincero. E vero ch'egli ricorre a vecchi confronti, tante volte ripetuti, ma la 
sincerità sua appare evidentissima, sia perchè egli è parte viva in ciò che dice, sia 
per il modo col quale lo dice. Io non so come avrebbe potuto meglio paragonarsi, 
poeta incarcerato, al cui orecchio giungono i canti festivi di chi è libero e beato, 
all’uccello chiuso nella rete (vv. 96-105): 
insidiis curvato vimine clausa, 

quae cantu mulcere solet sub voce canora 

arboreum per cuncta nemus durosque labores 

agricolum, silet intus habens captiva dolorem 

libertatis amans auras nemorumque cacumen 

et tacet omne melos retinens sub voce silenti; 

altera si resonet modulatis cantibus ales, 

ingenuos dat capta sonos quasi libera vernans 

ut credatur avis ramo cecinisse virenti 

illa tamen querulas miscet male garrula voces. 
Quanta concretezza e grandiosità di visione in quell’ “arboreum per cuncta nemus ,! 
E quanta profondità di sentimento in tutte le immagini, in tutte le espressioni! Il 
canto del povero uccello soleva mitigare non meno la selvaggia asprezza del bosco 
che i “ duros labores , dei contadini: così Draconzio abbraccia la natura inanimata 
e la natura umana in una sola immagine e in un sentimento solo. L'uccello tace 
perchè chiude entro di sè il suo dolore, agognando proprio la vetta degli alberi, dove 
c'è più aria, aria di vita e di libertà; e quando sente i gorgheggi altrui, istintiva- 
mente, dimenticando a un tratto il suo stato, risponde, ma il suo canto stesso, senza 
che esso se ne accorga, si vela del suo dolore. L’arte vera e spontanea soccorreva 


sempre Draconzio quando si trattava di cose che ne interessassero profondamente 


lo spirito. 

Modestissimo sempre quando parla di sè, egli esordisce invece con una solennità 
tutta nuova l’Epillio De Raptu Helenae (Rom. VIN), il quale non ha, mi pare, l’im- 
portanza particolare che gli vollero dare alcuni studiosi (2). Il poeta pare che voglia 
promettere grandi cose (vv. 1-3): 


Troiani praedonis iter raptumque Lacenae 

et pastorale scelerati pectoris ausum 

aggrediar meliore via. 
Naturalmente quell’ “ aggrediar meliore via , fa subito pensare come mai Draconzio 
presuma di narrare meglio una favola già consecrata dai più grandi e più vetusti 


(1) Non si può certo dire esagerato l'elogio dei primi versi, tanto più che in essi sì allude ap- 
punto a quella beneficenza, della quale il poeta ha avuto tante prove. 

(2) Vedremo parlando dell’Orestis tragoedia, che non ha nemmeno l’importanza che gli vuol dare 
il Barwinski (Quaest. ad Drac. et Or. trag. pertinentes; II. De rerum mythicarum tractatione, progr. 
Deutsch-Krone, 1888) per dimostrare l'autenticità dell’Oreste. 


43 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 65 


monumenti della letteratura greca e romana, e cento volte ripetuta da minori poeti 
e da mitografi. Ma Draconzio stesso spiega subito meglio il suo concetto (v. 3 e segg.): 
“ nam prodimus hostem — hospitis et thalami populantem iura mariti ,; e poco innanzi 
si rivolge in tono dimesso ad Omero e a Virgilio (1) scusandosi quasi di osar tanto, 
e dicendo che si accontenta di narrare ciò che essi hanno tralasciato, come la volpe 
s'accontenta dei resti del pasto del leone. Non pretende quindi Draconzio di ritrat- 
tare in modo artisticamente più perfetto la favola già nota, ma di dare una nuova 
versione, secondo lui, più razionale, sulle cause della guerra troiana: questo rile- 
varono già il Wagener e il Barwinski (2). Io credo che Draconzio abbia voluto alludere 
ad un nuovo intendimento, un intendimento morale, ch'egli sì propone trattando quel 
mito: tanto più che era, l'abbiamo già osservato, tendenza generale in quel tempo, 
ein modo particolare tra gli africani, quella di razionalizzare, o moralizzare il mito (8). 
Ad ogni modo noi rivedremo brevemente la ricerca che il Wagener e il Barwinski 
hanno fatto della fonte mitologica di Draconzio ; senza voler negare con questo sin- 
cerità al vanto del poeta, sia perchè tale redazione non ha precedenti poetici, sia 
per il motivo che già abbiamo esposto. I due dotti tedeschi hanno scoperto la fonte 
di Draconzio nel De excidio Troiae attribuito a Darete Frigio, composto, pare, nel quinto 
secolo, fonte principale nel Medio Evo di tutte le leggende relative ai cavalieri del 
ciclo troiano. In parecchie cose Draconzio si discosta dalla favola tradizionale, e quasi 
sempre s’'accorda in esse con Darete Frigio (4). Egli fa che Paride, ancora pastore 
sull’Ida, conosciuta la sua vera origine, ritorni a Troia, e a questo punto ricorda 
alcuni fatti miracolosi, che sono di sua invenzione : si piegano le torri, la terra geme, 
cadono in parte le mura, cadono le porte Scee : un subbisso disordinato e mostruoso, 
come accade sempre in Draconzio, quando vuol descrivere ciò che è ad un tempo 
strano e grandiosamente terribile. Nonostante tutto questo, Paride è accolto a braccia 
aperte da Priamo, da Ecuba, da tutto il popolo festante; e neppure servono a farlo 
allontanare o a mitigare gli slanci affettuosi, i foschi vaticinii di Eleno e di Cas- 
sandra. Qui il racconto di Draconzio comincia ad accostarsi a quello di Darete Frigio 
e lo segue poi con sufficiente fedeltà fino al fondo. Paride è irrequieto di dimostrare 
ch'egli sa fare qualche cosa di meglio che il pastore, e di andare in cerca della sua 
bella, quale Minerva gliela promise : allora Priamo lo manda a Salamina a reclamare 


(1) È curioso il modo col quale aposirofa Virgilio, prendendo occasione da un semplice episodio, 
per quanto lunghissimo, del suo poema (vv. 19-21): 


et qui Troianos invasit nocte poeta 
armatos dum clausit equo, qui moenia Troiae 
perculit et Priamum Pyrrho feriente necavit; 


ma ciò si può spiegare col fatto che Draconzio vuol parlare di cose attinenti alla guerra troiana, 
anzi anteriori ad essa, e che non avrebbe senso chiedere scusa a Virgilio di trattare ciò che egli 
ha trascurato, se non alludendo a una relazione qualsiasi tra i fatti che Virgilio canta, e quelli che 
Draconzio prende a narrare. 

(2) C. Wacener, Beitrag zu Dares Phrygius, Philologus, XXXVIII (1879), p. 120 segg.; BaRWINSRI, 
loc. cit. 

(3) V. la trattazione del Monceaux intorno a Marziano Capella nell’opera citata: Les Africains, 
p. 445-459. 

(4) Naturalmente in questa rassegna dei rapporti fra Draconzio e Darete non faccio che seguire 
i lavori del Wagener e del Barwinski. 


Serie II, Tox. LXII 9 


66 ETTORE PROVANA 44 


presso Telamone la sorella Esione, che Ercole aveva condotto colà e Telamone 
aveva sposato: ma, per prudenza, lo fa accompagnare da Antenore, Polidamante ed 
Enea (1). Così in Darete Antenore è mandato a Salamina a fare la stessa richiesta, 
ma quand’egli ritorna col rifiuto, Priamo manda una spedizione armata agli ordini 
‘ di Paride, accompagnato da Deifobo, Enea, Polidamante. In Draconzio Paride ritor- 
nando dalla pacifica, ma infruttuosa spedizione, separato da una tempesta da tutti 
gli altri, rapisce Elena a Cipro, mentre Menelao si trattiene in Creta, e ritorna a 
Troia, quando già Enea e gli altri vi erano giunti, e già Priamo temeva che il figlio 
fosse perito in mare : allora Paride ed Elena sono accolti secondo il solito con grande 
affetto. In Darete Frigio la legazione guerresca approda nell'isola di Citera, dove 
Paride ed Elena, saputo della reciproca vicinanza, si trovano in Elea, che Paride 
espugna portandosi a Troia la sua Elena (2). Draconzio concorda anche con Darete 
nella considerazione, in cui mostra di tenere Troilo, il minore dei fratelli di Ettore, 
come hanno riscontrato il Wagener e il Barwinski. Io credo però che vi sia qualche 
differenza nel ritratto morale che noi abbiamo di Troilo in Darete e in Draconzio: 
nel primo è sopratutto eroe fortissimo e sterminatore di nemici: in Draconzio è pure 
un forte eroe, ma più gentile; vi appare un certo contrasto fra Ettore, il massimo 
eroe, e Troilo, giovane ed infelice. Alle giulive accoglienze fatte agli sposi Ettore 
è presente senza partecipare alla festa, ma anche senza timore (v. 624): “ Non 
invitus adest nec gaudet fortior Hector ,; ma Troilo è meno forte e più pensoso: 
“ quem Troilus sequitur, nec lividus, at tamen aeger — non membris sed mente gravis ,. 
Se dunque fra il racconto di Darete e quello di Draconzio vi sono delle somiglianze 
notevoli, non mancano le differenze. Ora noi dobbiamo escludere che Draconzio sia 
stato fonte di Darete, perchè, secondo le ottime ricerche del Wagener, molto difficil- 
mente le fonti di Darete sono state latine, se pure non si tratta di una traduzione 
o di un rifacimento dal greco. Molto importante sarebbe il poter dimostrare cate- 
goricamente che Darete sia stato fonte di Draconzio: sarebbe risolta la questione 
tanto discussa, se l'opuscolo di Darete appartenga al quinto o al sesto secolo (3); 
ma le differenze fra i due racconti lasciano sussistere il dubbio. L’ipotesi più proba- 
bile è che abbiano attinto entrambi ad una medesima fonte; non però ad una fonte 
singola e ben determinata, come vogliono il Wagener e il Barwinski, ma piuttosto 
ad una tradizione corrente e diversa da quella consecrata dalle opere classiche. Si 


(1) Alla spedizione di Paride si oppongono in Darete Frigio Eleno, Panto e Cassandra; così 
in Draconzio all'accoglimento di Paride in Troia e al suo invio a Salamina si oppongono Eleno e 
Cassandra; ma non si dà loro retta per l’intervento di Apollo Timbreo in favore di Paride. 

(2) La narrazione di Draconzio presenta somiglianze non soltanto con la versione di Darete 
Frigio, ma anche con quella di Servio nella sua nota ai versi dell’Eneide, X, 90-91: 


quae causa fuit consurgere in arma 
Europam Asiamque et foedera solvere furto? 


(3) Su questo punto, come su quello delle fonti di Darete, e ipoteticamente della sua fonte unica 
che avrebbe tradotto, o sunteggiato, o rimaneggiato, dura ancora l’incertezza e il dissidio fra gli 
studiosi. Cfr. E. Gorra, Testi inediti di storia Troiana, Torino; 1887 (Introd., p. 16-32); egli pone 
Darete nel VI secolo, d’accordo con quasi tutti gli altri: il Koerting, il Meister, il Wagner. Solo 
il Rossbach nel suo articolo nella R. Z. del Pauly ammette che quella di Darete possa essere opera. 
del V secolo. Il Teuffel (Gesch. d. Ròm. Lit., p. 1209) non si pronunzia. 


acne —— — 


45 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 67 


trattava adunque di leggenda ben nota, usufruita già dallo stesso Servio ; nè si deve 
quindi pensare che il vanto di Draconzio fosse fondato essenzialmente sulle novità 
introdotte nel mito. Il vero vanto di Draconzio è quello di scegliere una versione 
che sì presta meglio ad un'interpretazione morale della causa che condusse alla guerra 
troiana. E così si spiega assai meglio la proposizione dell’epillio, e si spiegano i versi 
immediatamente seguenti (3-6), che parrebbero a primo aspetto un’inutile divaga- 
zione. Come dal principio, così dalla chiusa dell’epillio risulta l’intendimento morale 
(vv. 654-655): 

orbentur superi, coelum gemat et mare plangat: 

crimen adulterii talis vindieta sequatur. 


Tutto il lungo e pesante carme di Draconzio è dominato dal concetto e dal senti- 
mento di riprovazione dell’adulterio : lo si sente in tutto il colloquio fra Antenore 
e Telamone. Il poeta insiste a descrivere l'ira di quest’ultimo per l’indegna richiesta 
dei Troiani (vv. 285 e segg.): 


at Telamon mentes armabat in iras, 
nam pietas affectus amor concordia proles 
accendunt motus in pectore fellis amari. 
conubium regni thalami consortia casti 
scindere poscebant, et quod mens nulla tulisset 
Aiacis haec mater erat. 


Bello veramente quest’ultimo pensiero del poeta al quale ricorre subito alla mente 
la grande nobiltà dell'ufficio materno, che già aveva celebrato in principio dell’epillio. 
Particolarmente interessante sotto questo aspetto è il colloquio di Paride con Elena, 
quando si palesano il proprio amore. Gli eroi veri e propri trattano l’amore un 
po alla brava, come tutto il resto; il vero eroe rifugge da ogni galanteria e da 
ogni sdolcinatura. Nelle parole di Elena e di Paride invece noi troviamo un vero 
squarcio di psicologia borghese. Elena, che già brucia di passione, fa naturalmente 
la ritrosa e la “ pudibunda ,, e si accontenta di invitare il giovane a palesare la 
sua stirpe, e come mai egli sia capitato in Cipro. Poi tace con pudibonda confusione 
e con reticenze espressive. Ma il perfido pastore, £ ut sensit fragiles mulieris pectore 
sensus , (v. 508), non si cura di rispondere subito a ciò che Elena gli ha chiesto, ma 


reginam laudabat amans, culpare maritum 
coeperat absentem quod iam pulcherrima coniunx 
a tepido deserta viro neglecta vacaret, 


e aggiunge che se a lui toccasse una moglie come quella, così splendida di bellezza, 
non cesserebbe naturalmente di adorarla e di servirla. Quanto alla sua stirpe, egli 
vi accenna in fine in modo molto misterioso, ma anche più lusinghiero. Allora anche 
Elena vince ogni titubanza e si concede al nuovo amante con una curiosa e impu- 
dente giustificazione (vv. 535-539). Da tutto questo lavorio del poeta per illuminare 
di luce antipatica la psicologia del rapitore e della rapita, da quel metter loro in 
bocca i più comuni e più artificiosi sofismi dell’adultero, appare che sopratutto egli 
vuole imprimere un marchio d’infamia sulla colpa, sia pure commessa dagli eroi del 


68 ETTORE PROVANA 46 


mito (1). E tale riprovazione sussiste, nonostante l'intervento di quel benedetto fato, 
che Draconzio porta in scena senza sentirlo e senza comprenderlo. Parrebbe a primo 
aspetto che egli dia al fato una parte preponderante nell’azione, ma in realtà non è 
così (2). Intanto egli confonde il fato coll’intervento divino, coll’ira degli dèi, quando 
dice che Paride non s’accorge del pericolo che corre giudicando Minerva, onde non 
egli solo è dannato alla rovina, ma con lui tutta la sua stirpe e la sua città, Troia 
e la Grecia. Così quando, chiedendosi anch'egli, come Virgilio, la causa di tante sven- 
ture, la trova nella mancata restituzione di Esione a Priamo, onde il ratto di Elena: 
“ Sie dolor — egli dice — exurgit divum, sic ira polorum — saevit et errantes talis 
vindicta coércet? , E ne dà, pare, tutta la colpa ai fati, agli empi, agli inflessibili 
fati (vv. 57-60); la verità è che sia gli dèi, sia i fati, ma certo più ancora i fati 
che gli dèi sono per lui una cosa postiecia, presa a prestito dalla tradizione, ma non 
penetrata affatto nel suo spirito. Naturalmente i fati ritornano nelle declamazioni 
di Eleno e di Cassandra, e più esplicitamente ancora nelle parole di Apollo che 
predice i grandi destini della stirpe troiana: ma i poveri fati cadono fin nel ridicolo 
nelle parole dell’adultera, secondo la quale sono proprio essi quelli che, vivente il 
primo marito, gliene offrono un secondo. Ben diverso sarebbe il linguaggio di chi 
si senta trascinato dal fato; vi sarebbe nelle sue parole qualche cosa di profondo 
e di solenne, qualche cosa forse di accorato e di triste, come di chi si sente domi- 
nato da una forza contro la quale è vana la lotta. Nelle parole di Elena non v'è 
ombra della tragica grandezza del fato, non c'è neppure quell’ “ amor che a nullo 
amato amar perdona ,, vi sono soltanto i miserabili pretesti sotto i quali si pallia 
la colpa. Quindi quella stessa apparente prevalenza del fato che parrebbe contraria 
alla mia ipotesi di un intendimento morale del poeta, si palesa invece a favore di 
essa, quando la si consideri un po’ attentamente. Possiamo del resto osservare che 


(1) È notevole che in ciò si allontana dalla tendenza di Darete Frigio, generalmente più favo- 
revole ai Troiani che ai Greci in tutta la sua storia, come anche nell'episodio particolare che Dra- 
conzio narra. 

(2) Per i vv. 49-56 il Vollmer muta assai l’interpunzione e quindi il significato della lezione 
accettata dal Dubn; ma non mi pare che in questo caso egli abbia ragione. Il Vollmer scrive: 


pro matris thalamo poenas dependit Achilles 
(unde haec causa fuit), forsan Telamonius Aiax 
sternitur invictus, quod mater reddita non est 
Hesione Priamo; sic est data causa rapinae, 
cur gentes cecidere simul, cum sexus uterque 
concidit, infanti nullus post bella pepercit. 

sie dolor exsurgit divum, sic ira poloram 
saevit et errantes talis vindicta coercet? 

Dalla lezione del Vollmer risulterebbe quindi che il poeta negasse affatto altra causa di tutte 
le sventure tranne quella dell’empio fato. Ma ciò è in aperta contraddizione con quanto dice poco 
prima (vw. 37 segg.), dove dà chiaramente per causa della guerra troiana il giudizio di Paride e la 
conseguente ira di Minerva. Evidentemente qui il poeta pensa a tre cause, o meglio due: quella, 
per così dire, storica e quella religiosa dell’ira degli dèi che non distingue bene da quella del fato. 
Quindi meglio è tenersi alla lezione del Duhn, perchè in essa le cause sono ben distinte; il ratto 
è prodotto dall'ira degli dèi e insieme dal fato, che ad esso spingono Paride, la sventura di Troia 
è causata dal ratto. Del resto ad interpretare le parole: “ unde haec causa fuit , (v. 50) come una 
interrogazione, induce anche il confronto con Virgilio, Aen., X. 90-91. 


” 
47 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 69 


appunto là dove egli parla del fato, o di argomento prettamente pagano, riesce 
maggiormente vuoto e declamatorio: così il vaticinio di Cassandra è una breve, ma 
perfetta suasoria (1). A dispetto invece della logica e del fato, Draconzio rivela qua 
e là i suoi lati migliori. Egli non può immaginare che Paride, riconosciuto per figlio 
al suo ritorno a Troia, non abbia dai genitori accoglienza affettuosa. Primo è il 
padre (2), il quale sente la vergogna di avere allontanato da sè quel figliuolo e lo 
abbraccia; e se la madre giunge più tardi, la colpa è dell’età assai più, che del 
sentimento. Insieme con questa pittura del sentimento imperfetta, ma vera, troviamo 
ben espresso l’amore alla vita semplice, pastorale. Certamente anche per questo 
elemento, come per quello epico, il carme è tutto pieno di Virgilio, e quando Dra- 
conzio fa dire ad Apollo: “ ego pastor Apollo — ipse fui domibusque canens pecus 
omne coegi, — cum procul a villa fumantia tecta viderem , (vv. 206-208), più che 
lo spirito di Virgilio si appropria le parole stesse (3); ma il sereno ricordo del dio, 
che vuole nobilitare col suo esempio la condizione di pastore, è molto opportuna- 
mente messo a contrasto con le solenni espressioni di prima. E si sente tutta la 
delicatezza e la semplicità del poeta là dove dice la trasformazione che si compie 
nell'animo di Paride che disprezza il gregge, le fonti, le umili case, i pascoli, le 
selve, i fiumi, i campi; disprezza persino la buona compagna sua fino a quel tempo, 
la ninfa Enone; egli al quale Venere “ talem promisit in Ida, — qualis nuda fuit , 
(vv. 64-65). Così in questo epillio, dove manifestamente il poeta ha voluto fare qualche 
cosa di più che negli altri carmi, sono accumulati tutti i difetti che guastano le sue 
opere minori: il vano sforzo di giungere all’espressione epica, la vuota declamazione, 
il traviamento di fondamentali concetti pagani, il contrasto fra l’ordine morale e 
quello cieco impreteribile del fato, fra la sublimità eroica e la bassezza borghese. 
Perciò il poeta non riesce a nulla di quanto si era proposto : riesce invece, inconscia- 
mente, a taluna di quelle espressioni semplici ed affettuose che sempre gli cadono 
dalla penna, quando una materia ribelle non gl’inaridisce il sentimento. 

Ill carme IX: Deliberativa Achillis an corpus Hectoris vendat, è forse il più infelice 
di tutti: è questa volta un esempio di deliberativa, vera falsificazione di una delle 
più grandi e più commoventi scene che l’arte greca abbia saputo dipingere. Nulla 
di più pazzo, di più irragionevole, di più fanciullesco che l’ira del divino Achille 
sempre, e più che mai quando fa inutile strazio del corpo dell’eroe infelice; nulla 
di più sublime di quella commozione un po’ ruvida e fiera che lo induce a cedere 
alle lagrime di Priamo. Ma Achille agisce sempre a scatti e ad impulsi: chiunque 
altro potrà ragionare, Achille non ragiona mai: e proprio a lui il buon poeta rivolge 
la sua suasoria composta secondo tutte le buone regole di Quintiliano. Notevole è 
il concetto col quale egli esordisce: nulla più importa all’anima delle vicende di 
quel corpo dal quale è uscita come dal carcere; e questo è evidentemente un con- 
cetto cristiano, per quanto non affatto nuovo nella poesia pagana (4), tanto più che 


(1) Vi si possono riscontrare persino le varie parti della declamazione: il prooemium dal v. 135 
al 144, la narratio dal 144 al 159, poi le varie perorazioni dal 159 al fine; non manca neppure una 
quaestio, della quale naturalmente non compare che la risposta nei versi 169-175. 

(2) V. versi 106-111. x 

(3) Cfr. Vere., Buc., 6, 85; 1, 82. — V. anche Horar., Carm., 1, 2, 1. 

(4) V. ad es. Lucano, VI, 720-722; cfr. anche Mario Virrore, Alethia, vv. 50-52. 


70 ETTORE PROVANA 48 


il poeta v’insiste lungamente. Non certo agli eroi d’Omero, che anche nella pace 
degli Elisi vivono sospirando il dolce sole, potevano riuscire persuasive le ascetiche 
parole di Draconzio (cfr. vv. 23-30). Infatti al poeta stesso s’affaccia subito alla 
mente la quaestio: “ at inquies: si pest vitam animae corpora sua despiciunt, pro 
Hectore cur rogamus? , È come se ciò potesse avere un valore per Achille, gli dice 
che egli non prega per Ettore, ma per la madre, la sposa, il figlio di lui. per quella 
Troia che ha perduto il suo più grande eroe. Anche in questo carme come nel IV 
egli termina col rimedio preparato già fin dal principio: venda Achille il cadavere 
del suo nemico, e rechi così un nuovo danno ai Troiani coll’immiserirli. Più mise- 
rabile davvero non potrebbe essere la conclusione di un carme, il quale del resto 
non lasciava sperare nulla di meglio. Anche in quegli spunti patetici nei quali il 
sentimento di Draconzio poteva trovare alimento e vita, le tinte sono troppo cariche, 
e la vuota declamazione guasta ogni cosa, come nei versi 149-183, ove descrive 
Andromaca, Ecuba, Priamo che cercano disperatamente i resti dispersi del loro Ettore. 
Qualche pennellata più viva e più vera egli riesce a tracciare, quando descrive la 
bambinesca incoscienza del piccolo Astianatte (vv. 173-176): o quando contrappone 
al dolore tutto lacrime e lamenti della moglie di Ettore, Andromaca, quello più com- 
posto e meno rumoroso della sorella Polissena (1). Peccato che egli guasti subito 
la bella scena con un enfatico : “ cognosce puellam ,. Quanto a noi non spenderemo 
altre parole attorno a questo carme, che non dovremo forse più ricordare. 

Nessuna novità importante troviamo nell’ultimo epillio che il codice napoletano 
ci ha tramandato, il carme X: il poeta non ha qui altro intento, che quello di nar- 
rare le gesta di Medea, la potenza prodigiosa della sua arte magica. D'altra parte 
i versi coi quali l’epillio si chiude sono una protesta contro tutte le irrazionalità e 
le barbarie del mito: e l’orrendo e il mostruoso che il poeta sparge a piene mani in 
questo epillio ribadiscono l'ipotesi che esso sia una piccola battaglia contro il mito, 
che persiste, non già come fondamento della fede del tempo, ma come elemento caro 
alla cultura e oggetto preferito dall'arte. Ma questo cenno finale può esser semplice- 
mente diretto a lasciar trapelare quale fosse la vera credenza del poeta; del resto 
egli prende il mito sul serio (2), con perfetta finzione artistica. Egli anzi accoglie 
il mito di Medea tale e quale senza introdurre modificazioni di sorta, e lo attinge 
naturalmente, più che da un determinato autore, dalla tradizione ancor viva, special- 
mente nella scuola. 

Il Vollmer indica quali fonti di Draconzio Apollonio Rodio e Valerio Flacco: 
anche Ovidio (3) qua e là è imitato, ma non si tratta che di riscontri verbali assai 
sparsi, e non collegati nè nel loro complesso, nè caso per caso con l'argomento 
speciale che Draconzio tratta. Per Valerio Flacco invece, per il quale si tratterebbe 
di argomento affine, i riscontri sono molto scarsi ed anche, secondo me, molto dubbi: 


(1) Opportunamente il Vollmer nella sua nota al v. 43, che riaccosta a Six. Im., 6, 567: © Vultu 
interdum sine voce precati ,, respinge la correzione del Rossberg che vorrebbe, in conseguenza di 
tale raffronto, mutare il nutu di Drac. in rultu. A me pare che si può davvero fare a meno di ri- 
correre a Silio Italico per spiegare le naturalissime parole di Draconzio (vv. 38-43). 

(2) Cfr. i primi versi dell’epillio (1-6). 

(3) Quasi tutte le reminiscenze di Ovidio provengono dalle Metamorfosi. 


CIT) 


i 


49 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 71 


certamente non sì può negare che Draconzio si sia ricordato nello scrivere la sua 
Medea dell’Argonautica di Valerio Flacco, tanto più che lo imita qua e là anche 
all'infuori di questo epillio; ma la disposizione della materia, il modo della trat- 
tazione appare subito anche ad una superficiale considerazione molto differente, e 
fa credere che Draconzio non abbia cercato di imitare Valerio Flacco più che altri 
poeti e mitografi, che trattarono lo stesso argomento. Più impressionante forse riesce 
il raccostamento di Draconzio al poemetto famoso di Apollonio Rodio che fu quello che 
fissò, si può dire definitivamente, nelle sue linee fondamentali, il mito degli Argo- 
nauti e in gran parte quello di Giasone e di Medea (1). In entrambi i poeti Giunone 
interviene in favore del suo Giasone, inducendo Venere ad invitare il protervo figlio- 
letto a ferire il cuore di Medea colle sue freccie (2): anzi il verso 55 di Draconzio 
“ est nimis acceptus iuvenis mihi pulcher Iason ,, ricorda benissimo quello di Apol- 
lonio Rodio (3, 66): “ xaì d° @Zl20s éu xaè mov éuoì uéya piAtav ’INo@v ,, dove 
Giunone dice il suo affetto per Giasone, che un giorno era stato pietoso con lei, ap- 
parsagli in figura di vecchia. Io non negherò una lontana derivazione di Draconzio 
da Apollonio, perchè la stessa autorità del grande alessandrino contribuì a fissare 
nella leggenda mitica certi luoghi comuni, passati poi nella tradizione. Nè d’altra 
parte ha troppa importanza il riscontro letterale citato: i due poeti trovarono en- 
trambi cosa troppo naturale che Giunone ricordasse il motivo della sua predilezione 
per Giasone; ma Draconzio chiama Istro (3) e Apollonio Anauro il fiume attraverso 
il quale l'eroe avrebbe portato la dea: ora ben difficilmente Draconzio avrebbe mutato 
nome al fiume se avesse seguìto anche in questo solo episodio l’alessandrino. Quanto 
al resto le narrazioni dei due poeti sono assai differenti: in Apollonio non soltanto 
Giunone, ma anche Minerva si reca a perorare la causa dell’eroe; inoltre Venere non 
va ella stessa in cerca di Amore, ma spedisce Imeneo, il quale non trova Amore 
nell'Olimpo, occupato in trastulli con Ganimede; ma Amore gli balza dinanzi dal 
fondo del mare. Ma più ancora che in queste varianti di particolari, la differenza 
dei due racconti si rileva dal fatto che in Apollonio abbiamo un congruo svolgimento 
di tutte le parti, mentre in Draconzio troviamo piuttosto un complesso di episodii 
mal riuniti. A me pare più naturale il supporre che Draconzio, così avvezzo all’am- 
plificazione retorica di particolari insignificanti, abbia se mai cercato fonti più suc- 
cinte ed anche a lui più vicine. Tutto lo svolgimento del fatto quale Draconzio lo 
narra, si trova nella favola XXV di Igino, intitolata appunto Medea (4); è un racconto 


(1) Per il mito di Medea cfr. DaremBERG ET SagLio, Dictionnaire des antiquités grec. et rom., ar- 
ticoli Medea e Jason; R. E. del Pauty, art. Argonautai; Roscner, Ausfiihr. Lexicon der griech. und 
rim. Mythologie, art. Jason e Medeia. 

(2) Notiamo che in Apollonio non è per nulla accennato il fatto della prigionia di Giasone e 
della sua condanna ad essere sacrificato a Diana. 

(8) Le parole di Draconzio sono (vv. 56 segg.): 

est nimis acceptus iuvenis mihi pulcher Iason, 
qui gelidum quondam mecum transnaverat Istrun 
et nune infelix trabitur captivus ad aulam. 

Nel verso 57 Draconzio non fa che ripetere una frase di Claudiano, Carm., XXVI, 489 (ed. Bir., 
M. G. H., Auct. Ant. X, p. 271). 1 

(4) V. Hygini Fabulae, ed. M. Schmidt, Iena, 1872, p. 55. Draconzio per rendere la cosa più ter- 
ribile fa che Medea stessa, e non i suoi figli, presentino la corona alla sposa. 


72 ETTORE PROVANA 50 


affatto schematico, ma che presenta tutti i tratti caratteristici della favola di Dra- 
conzio, come l’innamoramento di Giasone per Glauce, la figlia di Creonte; onde la 
gelosia e l'ira di Medea, la quale con una corona avvelenata, composta di materie 
infiammabili, fa perire nelle fiamme Glauce insieme con Giasone e Creonte ; poi uccide 
ella medesima i figli che ebbe da Giasone, Mermero e Ferete. Molto probabilmente 
insieme con la versione corrente del mito e insieme con le favole di Igino, Draconzio 
ha avuto presente anche la curiosa tragedia intitolata Medea, un centone virgiliano 
che il codice Salmasiano dell’antologia latina ci ha conservato, e che Tertulliano 
attribuisce ad Hosidius Geta (1). Un indizio lo si può scorgere nella presenza di 
quella nutrice che nella tragedia di Geta compare appena (vv. 374-381) quale com- 
plice nell’uccisione dei due figlioletti, e nell’epillio di Draconzio (225-238) cerca di 
vincere le esitanze di Medea, mentre essa sta per uccidere Giasone. Del resto tutta 
la tragedia di Geta presenta il mito quale Draconzio lo narra: solo nell’incendio 
finale non perisce anche Giasone, al quale però Medea “ ex alto , predice la morte. 
Lo scarso interesse che l’epillio di Draconzio presenta per quanto riguarda la leg- 
genda, diminuisce ancor più se noi ne consideriamo la composizione. Sotto questo 
punto di vista il confronto con Apollonio riesce disastroso ; la viva grazia infantile 
che allieta i versi dell’Alessandrino non trova che qualche debole riflesso in Dra- 
conzio. La prima parte dell’epillio ha un’intonazione graziosa e delicata, ma senza 
anima, senza sincerità : il sorger di Amore dal mare è tutta una pittura secentistica. 
Più vero e più efficace riesce il poeta là ove descrive i figli di Medea che cercano 
rifugio dalle fiamme in seno alla madre che li ucciderà (vv. 531-536). Anche qui 
tuttavia il fatto è più narrato che descritto, più pensiero che sentimento ed imma- 
gine. Tutta poi la psicologia di Medea è falsa ed assurda. Il mito, aggravando man 
mano i delitti e le colpe di Medea, cercò sempre di farne una vittima infelice della 
passione e del fato, e di temperare l’atrocità che la circonda con l’immensità tre- 
menda del suo stesso dolore. In Draconzio v'è l’atroce e il mostruoso, e manca qual- 
siasì cosa, che possa renderci non dico simpatica, ma tollerabile Medea. Ella giusti- 
fica tutte le atrocità non tanto colla gelosia e la passione chela trascina, quanto col _ 
desiderio di lavare una colpa più grave: la sua infedeltà quale sacerdotessa di 
Diana. In fondo la passione più forte che domina Medea è, per Draconzio, un feroce 
egoismo : ella teme l’ira divina, e commette i delitti più orrendi per placarla ed 
evitarne la vendetta. Non v'è dubbio che Draconzio ha voluto fare più che altro un 
lavoro retorico dando grande rilievo ai contrasti; così se la prima parte dell’epillio 
è tutta soave ed idillica, la seconda è tutta una pittura a colori foschi: la Medea 
della prima parte contrasta con quella della seconda, e tutto l’epillio è diretto ad 
illuminare tale contrasto, mentre le imprese di Giasone sono accennate appena. 
Draconzio del resto non descrive affatto nemmeno lo svolgimento dei sentimenti di 
Medea e trasvola sull’episodio dell'uccisione di Absirto con tre versi frettolosi e 
pedestri (363-365): 


(1) Riese, 67; Barurens, P. L. M., IV, p. 219. Cfr. ScHanz, Gesch. d. rim. Lit., parte III, p. 44-45. 


51 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 73 


dormierat serpens: pellis subtracta marito 
traditur, et pariter fugerunt fratre necato. 
accipiunt natos et singula pignora portant (1). 

Il poeta aveva fretta di passare alla seconda parte (che incomincia appunto dal 
verso 366), per mettere in chiara evidenza il contrasto della Medea odiatrice con la 
Medea amante. E Giasone nell’epillio di Draconzio non è nulla: da principio egli 
implora la pietà di Medea, e le concede tutto, non per riuscire a compiere le sue 
imprese, ma per aver salva la vita. Draconzio che a tante cose rinunzia in que- 
st’epillio, affinchè ne spicchi precisa e viva la figura di Medea, non riesce affatto a 
plasmare questo carattere, perchè lo porta oltre i confini del reale e del possibile, 
e ne falsa il posto che esso occupava nel mito, senza farne una creazione nuova. 

Insieme coi carmi minori di Draconzio va considerata anche quella curiosa 
Orestis tragoedia, attorno alla quale già la critica si è esercitata non poco (2), spe- 
cialmente per quanto ne riguarda l’autenticità, la quale del resto è ormai innegabile 
ed evidente. Persino la storia di tutto questo lavoro critico è già stata fatta recen- 
temente dal Giarratano nella quarta parte delle sue Commentationes Dracontianae. È 
strano che quest'altro epillio di Draconzio abbia avuto una certa fortuna nel medio 
evo, e persino forse nel rinascimento, come appare dalle citazioni che ne conser- 
viamo (3); perchè, se per ampiezza e anche per l’importanza dell’argomento può ap- 
parire quale il maggiore degli epillii di Draconzio, non ha certo alcun valore parti- 
colare. Il Barwinski, dopo di aver studiato le peculiarità linguistiche nell’Oreste, e di 
averle dimostrate molto affini a quelle di Draconzio, cercò di confermare i risultati 
della sua ricerca, con quella di particolarità mitologiche e di composizione, che di- 
mostrano l’identità dei due autori (4). Ame non pare ammissibile la congettura del 
Barwinski che nei primi versi (22-27) del carme VIII vi possa essere un accenno a 
quest Oreste che Draconzio aveva già scritto o intendeva di scrivere. E nemmeno ha, 
secondo me, valore di prova il fatto che sia nell’Oreste, sia nel carme VIII s'incontrano 
novità mitologiche, tanto più che neppure il Barwinski può provare che esse deri- 
vino da una stessa fonte e nemmeno da una stessa tradizione. Il fatto che Servio, 
commentando il verso dell’ Eneide, XI, 268, fa cenno ad un’altra versione del mito (5), 


(1) V. anche i versi seguenti più sciatti e più prosaici ancora (366-370). — Di fronte all’esiguità 
della narrazione vera e propria sta la lunghezza e il gran numero dei discorsi, posti in bocca agli 
dèi e agli eroi, che occupano circa la metà di tutto l’epillio. 

(2) Ricordiamo qui i lavori principali che trattano dell’Orestis tragoedia: L. Miner, Anonimi 
Orestis tragoedia, Rhein. Musewmn, 21 (1866), p. 455 (oltre alla solita critica del testo l'A. fa alcune 
osservazioni filologiche); A. Roramaer, Jahrbb. f. kl. Phil., 95 (1867), p. 861; H. Hacen, Philologus, 
27 (1867), p. 157 (tratta dell’autenticità); B. WesrHorr, Quaestiones Grammaticae ad Dracontii car- 
mina minora et Orestis tragoediam spectantes, Diss. Monaco, 1883. Inoltre i lavori citati del Barwinski 
e del Giarratano. 

(3) V. Voruxer, prefaz. all’ed. di Drac., p. x, nota 15, p. xxx segg. (p. xxxv: Proverbia Orestis). 
Cfr. G. Carpucei, Opere, vol. XX: Cavalleria e Umanesimo, Bologna, 1909, p. 133. 

(4) V. Quaestiones cit.: II. De rerum mythicarum tractatione. 

(5) Osserviamo tuttavia che dal cenno di Servio parrebbe che l'iniziativa e l’esecuzione del de- 
litto spettasse ad Egisto in particolare, mentre in Draconzio Egisto è tutto pauroso e titubante, e 
solo si lascia indurre al delitto dalle esortazioni di Clitemnestra, la quale ne è veramente l’ispira- 
trice e anche l’esecutrice principale. Ciò del resto potè essere consigliato a Draconzio dal suo solito 
gusto di fare le cose tremende ed efferate quanto più è possibile. 


Serie II. Tox. LXII. 10 


74 ETTORE PROVANA i 52 


quella che noi troviamo in Draconzio, nel racconto dell’assassinio di Agamernone, 
mentre d’altra parte la versione del mito nel Ratto d’Elena, corrisponde a quella 
accolta da Servio nel commento a Virgilio, Eneide, X, 90 e segg., non conduce ad. 
alcuna conclusione veramente ragionevole e sicura. Che poi da quelle parole del com- 
mento di Servio: “ in ipso limine imperii, id est in litore, quia Clytaemnestra Aga- 
memnoni occurrit et illie eum susceptum cum adultero interemit ,, possa essere 
derivata l’idea di Draconzio di porre Micene in riva al mare, mi pare molto dubbio, 
sia per il fatto che egli espone la seconda versione e non la prima, sia perchè le 
parole: “ in ipso limine imperii, id est in litore , inducono piuttosto a pensare che 
Micene fosse distante dal lido, se il commentatore pone in rilievo il fatto che Cli- 
temnestra andò ad attendere il marito fino al confine dei suoi dominii. Inoltre altri 
elementi di tale versione, come quello di aver usato lo stratagemma di una veste 
“ clauso capite ,, si trovano già, come osserva il Barwinski stesso, in molti altri 
poeti. In conclusione non è certo che Servio sia stato fonte di Draconzio per il Ratto 
d’Elena, nè per alcuni particolari fonte dell’Oreste, e quand’anche lo fosse, ciò non 
avrebbe valore di sorta per attribuire a Draconzio la paternità dell’Orestis tragoedia. 

Lo Schenkl (1), prima del Barwinski, rilevò altre novità mitologiche, come V’in- 
contro in Tauride di Agamennone di ritorno da Troia e di Ifigenia, ch'egli credeva 
morta, e invece si trova colà sacerdotessa di Diana, il nome di Dorylas (2) dato al 
pedagogo di Oreste, la spedizione di Oreste in terra straniera per sfuggire alle in- 
sidie di Molosso, Oreste chiamato in giudizio da quest’ultimo nel tempio di Minerva 
in Atene. Sono tutte novità abbastanza strane, ed io credo che siano frutto dell’im- 
maginazione di Draconzio stesso. Può darsi che glie le abbiano suggerite, come vuole il 
Barwinski, analoghe situazioni che s'incontrano nell’Eneide o nelle Metamorfosi d’Ovidio; 
ma in tal caso, osservando che altre d’indole non diversa vi corrispondono nella 
Medea e nel Ratto d’Elena, mi pare che vi si possa aggiungere un altro movente: la 
tendenza del poeta, specialmente nei carmi minori, a destare l’interesse e l’attenzione 
del lettore più colla novità e colla stranezza delle situazioni che per forza di fan- 
tasia e di sentimento. Questa ed altre particolari caratteristiche dell’arte del poeta 
possono aiutarci forse meglio di ogni altra cosa a riconoscerlo: e il Barwinski stesso 
opportunamente ricorre a questi speciali caratteri per confortare la sua tesi. Primo 
fra tutti è la quasi esclusione dell'intervento divino: gli dèi sono nominati per tradi- 
zionale vezzo letterario in principio e in fine dei carmi, e non hanno alcuna efficace 
ingerenza nello svolgimento dell’azione. Veramente l’intervento divino ha una certa 
importanza nella Medea; nel Ratto d’Elena sta più nelle affermazioni del poeta che 
nel fatto stesso; nell’Oreste è quasi nullo. Noi possiamo aggiungere l’osservazione 
che nemmeno Draconzio cerca di descrivere un naturale svolgimento di passioni e di 
sentimenti che diano impulso all’azione. Ma da tutti e tre i suoi maggiori epillii 
appare che una passione, un sentimento solo egli mette in fondo all’azione: l’amore 
sensuale o illegittimo, che conduce inevitabilmente alla catastrofe. Abbiamo veduto 
come nel Ratto d’ Elena egli volesse dimostrare le funeste conseguenze dell’adulterio : 


“ 


(1) Nella sua edizione dell’Orestis tragoedia, Praga, 1867. 
(2) Il Barwinski osserva che tale nome può essere stato tolto o da Ovidio (Met., 5, 130; 12, 380) 
o da Stazio (Theb., 2, 571; 3, 13). 


53 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 75 


nella Medea invece appare evidente che, mentre l’amore illecito è quello di Glauce 
e di Giasone, il poeta colorisce in modo assai più antipatico l’amore di Medea e di 
Giasone (1), più subìto e tollerato, che non desiderato da quest’ultimo, e la catastrofe, 
se ha per causa indiretta l’adulterio di Giasone, è provocata piuttosto dall’egoismo 
e dalla gelosia furibonda di Medea. Nell’Oreste non v'è traccia di un intento qual- 
siasi: nei primi versi il poeta non fa che enunciare il suo argomento, negli ultimi 
esce in una vuota declamazione contro la mitologia, o meglio contro la crudeltà di 
essa (2). Del resto il carme è vuoto e declamatorio tutto intiero, pieno di quei pro- 
cedimenti secenteschi di stile, che guastano un po’ tutta la poesia di Draconzio. 
Sopratutto poi vi domina l’antitesi; non si leggono dieci versi senza incontrare queste 
antitesi rafforzate da giuochi di parola di pessimo-conio. Tutti questi procedimenti 
artificiosi e formali, se da un lato contribuiscono ad escludere che Draconzio avesse 
un serio intendimento dimostrativo, dall’altro confermano che la materia dal poeta 
trattata era assolutamente estranea al suo spirito, ponendosi egli forzatamente anche 
in questo epillio da un punto di vista pagano. Io non credo che si possa affermare 
con tanta sicurezza insieme con lo Schenkl e col Barwinski (3), che siano veramente 
indizi di fede cristiana alcune espressioni d’indole molto generale, come “ clementia 
coeli , del v. 949, “ origo polorum, naturae caelestis amor , dei vv. 857 e seg.; e 
così quella “ sapientes lumine cordis , del v. 911, e il v. 923: “ dum medicinalem 
tribuunt per corda salutem ,. Invece i versi 470-473 si possono considerare forse più 
d’ogni altra quale vera espressione di fede cristiana, specialmente per la scelta delle 
frasi (ad es.: “ si transitus est mors ,). Quanto alla frase “ armentur pietate manus , 
del v. 607 non occorre certo ricorrere, come fa il Barwinski, a tanti passi della 
Vulgata per ispiegarla (4); nè si trova in essa vero indizio della fede cristiana del- 
l’autore. L’Orestis tragoedia adunque, che tanto ha dato da fare alla critica, ha per 
noi un minimo interesse; perchè, se poco importa per la storia del mito una sua 
tarda manifestazione, quando il mito stesso nell’animo del poeta è cosa morta, tanto 


(1) Tutta la pittura graziosa e attraente che il poeta cerca di fare dell'amore nella prima parte 
dell’epillio, è cosa generica, che non ha intima relazione col caso speciale di Medea e Giasone. Medea 
anzi non è mai tenera e carezzevole nel suo amore, le sue parole sono sempre od incolori od aspre; 
ella non prega, anzi comanda e trionfa (vv. 138-139): 


mox thalamos subiere pares, laetatur Tason 
sponsus et in castris Veneris Medea triumphat. 


(2) Infatti solo pochi versi prima dice tutto il contrario nelle parole che pone in bocca ad 
Oreste, quando parla in sua difesa (vv. 920-924): 


non de lite mea sententia vestra ferenda est, 
sed de iure deum, qui me purgasse probantur, 
dum medicinalem tribuunt per corda salutem. 
nemo poli servare deum puto velle iniquum. 


Cfr. anche i vv. 279-281. 

(3) Op. cit.; ugualmente si dica di quasi tutte le citazioni che il Duhn fa a questo proposito 
nell’indice della sua edizione di Draconzio, a p. 90. 

(4) Osserviamo del resto che nessuna delle espressioni della Vu/gata, citate dal BarwInsKI, Epist. 
Petr., 1, 4, 1: © Christo igitur passo in carne et vos eadem cogitatione armamini ,; Corinth., 2, 6,1: 
5 per arma iustitiae ,; Rom., 6, 13: “ arma iniquitatis... arma iustitiae ,; Ephes., 6, 14: “ succineti 
lumbos vestros in veritate et induti loricam iustitiae ,, corrispondono bene alla frase di Draconzio. 


76 ETTORE PROVANA 54 


meno ci può interessare una favola di questo genere, quando l’arte del poeta non 
sappia farci sentire vivamente l'elemento umano del mito. E Draconzio non fa nè 
l’una cosa nè l’altra (1), benchè qualche espressione viva e fortunata gli cada anche 
qui dalla penna. Ecco ad esempio le prime parole colle quali Clitemnestra eccita il 
debole Egisto al delitto (vv. 162-166): 


quae sexus armata dolis sub fraude latenti 
incipit effari: “ iuvenis, dic quid sit agendum. 
occidimus, redit ille meus post bella maritus 
victor et armatus zelo mordente minatur 
moribus argolicis leges inducere castas ,. 


Le parole dell’adultera sono veramente insinuanti, piene di astuzia e di fiele; 
specialmente la frase: “ redit ille meus post bella maritus victor , esprime mirabil- 
mente tutto l’odio e il disprezzo di un animo travolto da una nuova passione. Ma 
sono rapidi tocchi, che si smarriscono nella farragine vuota e sonora di tutto il 
resto. L’epillio, singolarmente pieno di reminiscenze, usate molto sovente a sproposito, 
corona degnamente i carmi minori di Draconzio; o forse essi meritavano un corona- 
mento migliore, perchè il poeta, che pure qualche parola sincera di affetto e di dolore 
aveva sparso qua e là, si concede qui a tutti i peggiori artifizi del suo stile, mentre il 
tema gli offriva spesso occasione di manifestare le particolari attitudini del suo spi- 
rito e della sua arte. 


La Satisfactio. 


La Satisfactio è stata composta (e noi l’abbiamo a suo luogo dimostrato) in un 
momento di grave pericolo per il poeta: e la disgregazione e il disordine delle varie 
sue parti sono prova della fretta e del turbamento di spirito del poeta nel comporre 
questo carme singolare. Noi troviamo, è vero. delle lunghe digressioni, ma in esse 
non si perde del tutto, oziosamente, il concetto e il sentimento informatore di tutto 
il carme. 

Un poeta che per lunga abitudine si è avvezzato a certi procedimenti nelle sue 
composizioni, non smette di punto in bianco l’abito suo, quando gli accada di dover 
scrivere dietro un impulso affatto spontaneo, e per un motivo imprevisto. Se mai 
trasformerà l’abito suo, lo colorirà in un determinato modo, ma non lo svestirà mai 
del tutto. D'altra parte noi troviamo nella Satisfactio ripetuti pensieri, immagini, 
motivi del De laudibus dei (2); ma dobbiamo pensare che al poeta, chiuso in carcere, 
naturalmente nacquero, o rinacquero in cuore sentimenti che ne informarono per 
tutto quel tempo il pensiero, l’opera letteraria, l’azione. Se tanto rieca si palesa nei 


(1) Anche nelle scene più delicate di sentimento e di affetto, Draconzio riesce in questo epillio 
quanto mai esagerato e ridicolo; cfr. ad es. l’incontro di Agamennone e di Ifigenia in Tauride 
(vv. 60-64). 

(2) Il concetto e il procedimento col quale il poeta incomincia la Satisfactio, è il medesimo col 
quale incomincia il secondo e il terzo libro del De laudibus dei, e molto analogamente, sebbene con 
parole differenti, anche il primo. 


55 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 77 


Romulea la sua cultura mitologica, mentre nei carmi cristiani ricorrono con curiosa 
insistenza gli stessi esempi e spesso le stesse parole, tratte più o meno liberamente 
dalla Sacra Scrittura, ciò non è indizio d'una minor conoscenza dei libri sacri che di 
quelli profani, nè (se pure per altri motivi la nostra conclusione potrà essere 
questa) di una certa povertà di fantasia nell’autore, ma piuttosto del naturalissimo 
predominio di certe idee e di certe immagini. La fretta stessa che trascina il poeta 
a ripetersi è quella che lo porta, secondo me, alla più lunga digressione del carme, 
quella sul tempo e le sue influenze sopra le vicende umane (1): egli segue il suo 
pensiero ciecamente, in tutte le divagazioni, e non lo interrompe invece, o lo violenta, 
come avviene nelle digressioni artificiosamente e studiatamente introdotte. Egli si 
stacca man mano dal concetto fondamentale, ma poi ad esso ritorna. Il poeta in 
sostanza vuol dire : la vita e la morte dei cittadini non devono essere all’arbitrio 
del principe, poichè dipendono da una legge estranea, quella del tempo, che regola 
tutte le cose. Del resto i punti di contatto della Satisfactio cogli altri carmi furono 
molto esagerati dal Lohmeyer (2): solo una dozzina di luoghi nei 316 versi del 
carme, hanno riscontro in altri carmi di Draconzio, e spesso si tratta di poche parole. 
E nessuno vorrà negare che il poeta parli con vivo accento di sincerità sia dove 
confessa la sua colpa, dicendo con umile e robusta frase (vv. 41-42): 


ast ego peccando regi dominoque deoque 
peior sum factus deteriorque cane, 


“ 


sia dove ricorda al principe la sua fama e le sue benemerenze, quale “ rex dominusque 
pius ,, sia dove ne implora il perdono, e ricorda le belle parole del libro della Sa- 
pienza: “ etsi peccavi sum tamen ipse tuus , (vv. 307-311) (3). Naturalissimo questo 
prevalere di reminiscenze della Scrittura, che offriva al poeta tante belle espressioni 
di pentimento e di dolore, e gli poteva servire in certo modo quale documento di 
difesa davanti al principe. Certamente la Satisfactio non è, nemmeno parzialmente, 
un’opera d’arte; ma Draconzio probabilmente si trovò inceppato dalla necessità di 
trovare materia poetica gradita al principe, cercando nel tempo stesso di patrocinare 
la propria causa e di commuoverlo. Poco avrebbe giovato a Draconzio il semplice e 
libero sfogo del suo dolore, mentre forse Guntamondo meditava di aggravargli la 
pena: e d’altra parte nei momenti del pericolo parla assai più la preoccupazione per 
il futuro che non l’affanno presente. La difficoltà del còmpito, l’ansia del pericolo, 
il timore di dir troppo o troppo poco, o male, dovettero essere ostacoli gravi per il 
nostro poeta alla libera ed artistica espressione di ciò che gli agitava lo spirito. 
Della Satisfactio, come di buona parte del De laudibus dei, conserviamo un rima- 
neggiamento di Eugenio, vescovo di Toledo (4), che per incitamento di Chindasvinto 
re dei Visigoti (642-649), sottopose ad una revisione parte dei carmi cristiani di 
Draconzio. Era poeta anch'egli, e di lui conserviamo un certo numero di. poesiole di 


(1) Comprende i vv. 219-264. V. sopra, la nostra discussione a proposito di essi. 

(2) De Dracontii carminum ordine, Schedae Phil. cit. 

(3) V. Sap., 15, 2: “ Etenim si peccaverimus, tui sumus, scientes magnitudinem tuam ,. 

(4) Per gli elementi di una biografia di Eugenio, vedi Vollmer, ediz. di Draconzio, Index no- 
minwn, p. 300. 


78 ETTORE PROVANA 56 


carattere panegirico e morale (1); ma sia per i tempi assai più tardi nei quali visse, 
sia per la mancanza assoluta di ogni ingegno poetico, resta molto al di sotto del 
poeta africano. Ma, pur riconoscendolo egli stesso nella prefazione poetica ai libelli 
Dracontii, com'egli li chiama (vv. 13-17), egli pretende di fare. (e lo dice chiaramente 
nella dedica a Chindasvinto) anzitutto una correzione estetica dell’opera di Dra- 
conzio (2). Sebbene Eugenio abbia rimaneggiato anche parte del De laudibus dei, pure 
la sua lima si esercitò maggiormente sulla Satisfactio. È strano che Eugenio la con- 
sideri quale “ liber secundus , dopo il primo libro del De /laudidus dei (3): più 
strano ancora che nell’ “ argumentum , che ad essa premette, distingua due colpe 
per le quali Draconzio l'avrebbe scritta: l'una verso Dio, e sarebbe un errore con- 
tenuto nel primo libro del De laudibus dei; l’altra verso il principe, il quale sarebbe, 
secondo Eugenio, Teodosio II. Si tratta evidentemente di errori di Eugenio : lo dimo- 
strano non solo la subscriptio della Sutisfactio autentica di Draconzio, ma anche gli 
accenni interni dell’elegia, come quello agli Asdingi, quello ad Ansila, quello a Vin- 
comalo. E se è vero che Draconzio chiede perdono prima a Dio e poi al principe, 
appare chiaro che la sua colpa è una sola da quei versi nei quali, dopo aver detto 
che essa era di aver taciuto le glorie dei suoi principi e di aver celebrato un si- 
gnore ignoto, prima che al suo re ne chiede perdono a Dio: “ quem non ulla iuvat 
ultio, sed venia — cuius sancta manus sustentat corda regentum , (102-103) (4). 
Ma la correzione di Eugenio non ha esclusivamente uno scopo estetico: lo di- 
mostra a priori, secondo taluni, il fatto che egli si pone a quel lavoro per esortazione 
del re Chindasvinto. I carmi di Draconzio dovevano avere una certa diffusione in 
Ispagna, se Chindasvinto stesso se ne occupava: ma probabilmente non correvano 
per le mani dei lettori nella loro integrità ; già prima di Eugenio, il primo libro del 
De laudibus dei doveva essere stato pubblicato a parte, e unito poi con la Satisfactio, 
se Eugenio di Toledo limita la sua correzione a questi brani dell’opera di Draconzio, 
classificandoli come libro primo e secondo (5). Ma che Eugenio abbia avuto nella sua 
revisione anche un intento politico, come sostennero coloro che la ricordarono, asso- 
lutamente non credo. Si pensò a questo intento politico per due motivi: per ispiegare 
l'intervento del re in questa revisione, e il fatto che Eugenio ha voluto, pare, omet- 
tere tutti i brani dove più Draconzio elogiava il suo re, perchè si diceva che non 
poteva certo piacere ad un re cattolico quella lode ad un principe ariano e vandalo. 
Ma contro tale asserzione stanno le parole citate di Eugenio e le allusioni di Ilde- 


(1) Lo stesso volume dei M. G. H., che ci dà l'edizione di Draconzio, ci dà pure, opera anche 
essa del Vollmer, l’ediz. di queste poesiole di Eugenio. 

(2) Così pensa pure Ildefonso che tributa grandi lodi al suo compatriota per tale correzione; 
De vir. ill., 14. 

(3) Alla fine del rimaneggiamento del libro primo sta la subscriptio: Explicit Dracontii Liber 
Primus De Fabrica Mundi. E poi di seguito: Argumentum — hoc sequenti libello auctoris Satisfactio 
continetur, qua omnipotenti deo veniam petit, ne praecedenti carmine aliquid incautus èrrasset, 
dein Theodorico iuniori Augusto precem defert, cur de triumphis illius eodem opere tacuisset. — 
Segue l’'inscriptio della Satisfactio: Incipit Liber Secundus Dracontii Satisfactio pro se. 

(4) Cfr. Proverb., 21, 1: sicut divisiones aquarum, ita cor regis in manu domini; quocumque 
voluerit inclinabit illum. 

(5) Cosa notevole è che Eugenio parla dell’opera di Draconzio come molto esigua (Praef., 
vv. 23-25). 


57 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 79 


fonso a lui quasi contemporaneo, e suo immediato successore nella sede episcopale 
di Toledo (1). Im primo luogo nè l'uno nè l’altro dei due vescovi accenna se non ad 
un intento estetico ; in secondo luogo sarebbe troppo naturale che Eugenio, il quale 
era assai ben visto da Chindasvinto, nè gli risparmiava lodi ed omaggi, si vantasse 
di correzioni quali gli si vollero attribuire, anzichè tacerne. Moltre egli erede che la 
Sutisfactio fosse rivolta a Teodosio II, che non era nè ariano nè vandalo. A me 
sembra che basti supporre che il re visigoto abbia invitato il dotto vescovo ad una 
revisione di quei carmi senz'altro intento che quello letterario, pensando sul serio 
ch’egli fosse capace a migliorarli. Vi fu in quel tempo in Ispagna una vera rinascita 
letteraria, e fu lungamente famosa la biblioteca di Reccesvinto, il figlio e successore 
di Chindasvinto (2). Notiamo ancora che alcuni dei passi che sarebbero stati corretti 
da Eugenio, avrebbero suonato tutt’altro che male all’orecchio di Chindasvinto, il 
quale con una politica molto energica riuscì a domare l'anarchia fino allora spadro- 
neggiante in Ispagna, e ciò anche contro il clero, uno dei principali istigatori delle 
sommosse (3). Se tale era il dispotismo del re, come mai Eugenio avrebbe soppresso 
nella Satisfactio versi come quelli dal 112 al 114, nei quali dice che come ai suoi 
sudditi il re è benigno, così pure con lui 

sit pietate sua, sit bonus et placidus. 

nam tua sunt quaecunque gerit, quaecunque iubebit, 

iudiciumque dei regia verba ferunt? 
E nemmeno avrebbe soppresso i versi 125-128 (4). Quindi parecchie delle omis- 
sioni di Eugenio sono invece una nuova prova che i carmi di Draconzio giunsero 
nelle sue mani già mutilati e rimaneggiati; il che è confermato dalla mancanza di 
una parte rilevante del carme (Eugenio si ferma al v. 200 corrispondente al 251 
della Satisfactio di Draconzio), senza ch’essa sia giustificata da motivi di sorta (5). 
Le mutilazioni del carme avvennero probabilmente, appunto per le lodi tributate ad 
un principe ariano e vandalo, in un tempo anteriore, mentre durava ancora l'impero 
vandalico in Africa, duravano le rivalità fra i due popoli, nè era avvenuta ancora 
intorno ai carmi di Draconzio quella confusione che poi fece Eugenio. 

Insieme con l’intento estetico, Eugenio ha senza dubbio un intento religioso. 

Draconzio si lascia talora sfuggire espressioni apparentemente poco ortodosse, ed 


(1) V. H. LecLerco, L’Espagne chrétienne, Paris, 1906, p. 347 segg. 

(2) Cfr. LecLerco, op. cit., p. 313 segg. 

(8) Lo dimostra il primo canone del VII° concilio di Toledo (646) radunato da Chindasvinto, ove 
è detto che,se vivente il re, un ecclesiastico, sia egli vescovo o no, si mette dalla parte di un pre- 
tendente al trono, sarà scomunicato fino alla morte. Il re vuole che il concilio dichiari che nem- 
meno i suoi successori potranno mutare le severe disposizioni. Cfr. C. J. Herrre, Histoire des Con- 
ciles (trad. Leclercq), tom. III, parte 1%, Parigi, 1909, p. 285 segg. 

(£) “ Chindasvinto (dice il Leclercq, p. 313) fece uccidere tutti coloro che aveva visto sollevarsi 
contro i re precedentemente detronizzati... Si dice ch’egli abbia fatto morire duecento personaggi 
della più alta condizione fra i Goti, cinquecento di condizione media, e finchè non fu sicuro d'aver 
domato la viziosa abitudine (di sollevarsi contro il sovrano) dei suoi compatrioti, non cessò di far 
morire coloro ch’egli sospettava ,. Cfr. i vv. 133-136, pure omessi da Eugenio. 

(3) L'ipotesi che ciò dipenda da guasto dei codici non è accettabile, perchè segue la subscriptio: 
Explicit eiusdem Dracontii liber secundus. E subito dopo: Incipit monostica recapitulationis septem 
dierum. 


80 ETTORE PROVANA 58 


Eugenio si fa sempre premura di mutarle, affermando anche talora tutto il contrario. 
Così nei vv. 13-16 nei quali corregge e, ampliando, spiega i vv. 15-16 di Draconzio, 
così nei vv. 19-20 nei quali molto ingegnosamente egli corregge i corrispondenti 
versi di Draconzio. Ma in generale dove Eugenio pretende di correggere, riesce in- 
vece a guastare, e talvolta dimostra di non comprendere. Interessante può riuscire 
a questo proposito il confronto dei versi 216-224 di Draconzio coi corrispondenti 
versi 186-192 di Eugenio. Questi muta il regit, molto preciso, del v. 216 in un più 
vago gerît; salta i due versi 217-218, perchè molto probabilmente non ha inteso il 
processo del pensiero di Draconzio; muta nel 219 la bella espressione: “ cum tem- 
pore cuncta trahuntur ,, nell’altra insignificante: “ 
vuol essere più preciso nel v. 220 cambiando il primo eunt in sunt e il secondo in 
erunt, e toglie all’espressione il suo senso della vicenda continua delle cose; al 
“ procul usque senectam , del v. 221, che indica bene il protrarsi della vita fino 
all'ultima vecchiaia, sostituisce quel “ cuiusque senectae ,, che fa dire al poeta una 
sciocchezza; caccia l’adulterio nel v. 223, dove proprio esso non ha nulla a che 
fare (se mai, l’adulterio fugge più che può gli strepitus, e non li va certo a cercare), 
e toglie la necessaria antitesi fra la virilità e l’infanzia ; nel v. 224 infine guasta la 
semplice efficacia dell’Radet col suo preferito gerit. In conclusione dovremmo più 
deplorare questa correzione di Eugenio che rallegrarcene, se non servisse di docu- 
mento della completa assenza di senso poetico nel rifacitore e nei contemporanei 
suoi, dei quali nessuno può dirsi per questo rispetto superiore ad Eugenio, e di 
sussidio (da usarsi però con molta cautela) a ristabilire qua e là il testo del 
nostro poeta. 


cum tempore cuncta creantur ,; 


Il De laudibus dei. 


Nel poema maggiore di Draconzio, frammezzo a tutti i difetti che la varia 
analisi fatta sinora dell’opera sua ci ha rivelato, noi troviamo finalmente vivo ed 
intero il poeta; il poeta modesto che nella vecchia materia sa infondere un calore 
nuovo di sentimento personale; una voce triste e buona che nell’ora della sventura 
loda Iddio e la sua bontà e l’opera sua. Egli che amò ed ama la natura e gli uo- 
mini non rinnega questi sentimenti profondamente umani per annientarsi davanti al 
suo principe nè davanti a Dio; egli giunge a Dio attraverso il suo amore e il suo 
dolore. In questo sentimento personale che informa ed avviva tutto il poemetto di 
Draconzio sta il suo vero elemento sintetico dal punto di vista dell’arte. Il Vollmer 
riconobbe in esso una trama fondamentale, un filo conduttore; ma non affermò in 
tal modo che un’unità esteriore e meccanica. Altri cercarono e scoprirono il con- 
cetto dominante in quello della misericordia divina, che, spesso smarrito nei parti- 
colari, domina però senza dubbio tutto il poema; ma anche costoro non pensarono 
affatto a chiedersi se il concetto diventava nell’opera di Draconzio sentimento e il 
sentimento arte, perchè, se il concetto può essere l’elemento sintetico di un’opera 
di scienza, non lo è, non lo può essere dell’opera d’arte. Noi piuttosto chiederemo 
al poeta stesso quale sia stato il suo intendimento, e, senza fare il riassunto del 


59 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 81 


poemetto che giù da parecchi è stato fatto (1), lo seguiremo con una libera analisi 
nel corso dei suoi pensieri e delle sue immaginazioni. Subito, nei due primi versi 
Draconzio ci dice il suo scopo: 

Qui cupit iratum placidumve scire tonantem 

hoc carmen, sed mente legat, dum voce recenset. 

Pare che il poeta voglia narrarci più che la bontà l'ira di Dio: e nei versi 
seguenti insiste nel darci una immagine grandiosa e tremenda dell’onnipotenza di- 
vina. Ma ben presto il tono delle sue parole muta, ed egli non si ricorda più che 
della pietas, della bontà indulgente di Dio che benefica e perdona. Il primo beneficio 
divino è la creazione, e la storia di esso occupa quasi tutto il primo libro; ma 
poichè l’uomo ha peccato, è necessario il beneficio della redenzione, e in lode e rin- 
graziamento di essa è quasi tutto il secondo; l’infinita misericordia divina che pre- 
viene e premonisce l’uomo, e ancora gli perdona dopo la colpa, è l'argomento fonda- 
mentale del terzo libro, e in certo senso quello di tutto il poema. Infatti, fin dal 
principio il poeta parla degli strani fenomeni naturali, coi quali Iddio previene, se- 
condo lui, il peccatore (vv. 89 e segg.): 7 


» 


nemo ferire volens se praemonet ante cavendum, 
sed qui terret, amat; sic indulgentia poenam 
praevenit et nullos capiunt tormenta reatus. 


Potremmo chiederci se in questa prefazione di Draconzio abbiamo un riflesso 
della sua infelice condizione, e se anzi tutto il carme non abbia in qualche modo 
un intento affine a quello della Satisfactio. Se si vuole da questo proemio, come ta- 
luno volle, ricavare una prova che tutto il carme sia stato composto nella prigionia, 
si fa, a mio parere, un’induzione troppo ardita: solo dagli ultimi duecento versi del 
libro terzo risulta in modo esplicito che il poeta gemeva in carcere; onde nulla si 
opporrebbe all'ipotesi che il libro terzo sia stato aggiunto in seguito, tanto più che 
vi si trovano ripetute molte cose già dette, e che più degli altri esso appare fram- 
mentario e disgregato. Può sembrare anzi strano che un poeta, il quale si dimostra 
nel De laudibus dei così profondamente cristiano, abbia aspettato l’ora della sven- 
tura per ispirare ai concetti e alle smaglianti immagini del mondo cristiano la sua 
musa (2). Io trovo invece assai naturale il rinascere del sentimento religioso nella 
sventura, o almeno il suo manifestarsi in modo vivo e spontaneo. Mai forse la co- 
scienza di ciò che veramente e intimamente vive nel nostro spirito è tanto spenta 
come nella gioia più spensierata, mai tanto desta e profonda quanto in un grande 
dolore; e forse l’ora della sventura è l’ora di Dio, perchè è la più vera e la più 
sublime. Ed è cosa naturalissima, mi pare, il supporre che Draconzio, il quale nei 
giorni della fortuna non aveva visto altro nella poesia che un frivolo ed elegante 


(1) Così VEsert, Hist. générale de la litt. du M. A. en Occident (Trad.), vol. I, p. 408 segg.; M. Ma- 
mms, G. d. christ.-lat. Potsie, p. 331 segg.; Vorumer, R. E. di Paury-Wissowa, art. Dracontius. 

(2) Veramente noi abbiamo supposto che fosse d’indole cristiana il carme inviato al principe 
straniero, causa delle sue sventure; ma certo, se qualche accenno alla fede cattolica si trova in 
esso, la sua indole generale doveva essere piuttosto panegirica e profana. Quindi altri carmi reli- 


giosi o dal nostro poeta non furono scritti o andarono smarriti. 
Serie II. Tox. LXII. 11 


82 ETTORE PROVANA 60 


esercizio retorico, abbia poi sentito nei momenti tristi del bisogno una vena sincera 
e feconda, e si sia servito del verso per esprimere il sentimento religioso rinascente 
in lui limpido e spontaneo. Per tutti questi motivi io credo di dover escludere che 
Draconzio nello scrivere il De laudibus dei abbia avuto altro scopo che quello di 
render lode a Dio e di chiedergli perdono delle sue colpe, alle quali attribuisce in 
gran parte le sventure che lo hanno colpito. Veramente anche nella Satisfactio il 
poeta chiede perdono della sua colpa prima a Dio che al suo principe: e ciò indur- 
rebbe a credere che egli in quel carme, causa di tutte le sue sciagure, non abbia 
celebrato un principe cristiano in quanto cristiano. Ma occorre notare che nella 
Satisfactio egli tenta di conciliare per quanto è possibile il suo pensiero religioso con 
la fede politica, insistendo anzi sul concetto che da Cristo stesso deriva l’autorità 
del principe. Nel De laudibus dei invece professa apertamente la fede cattolica, e 
chiede umilmente perdono, senza alcuna particolare menzione, di tutte le sue colpe, 
le quali non sono, a quanto pare, nè poche nè leggiere. E lo confessa con espres- 
sioni che sembrano iperboliche, ma hanno in fondo un tono sincero, perchè la ridon- 
danza della frase dipende dall'immagine biblica, potente e sublime, della quale il 
poeta si serve (3, 588 e segg.) (1). Se adunque il contatto fra il De laudibus dei e 
la Satisfactio non è molto stretto, se fra i due poemetti non v'è affinità di intenti, 
dovremo anche escludere che le tristi condizioni del poeta trovino un’eco più nel- 
l'introduzione del carme maggiore che in tutta la rimanente parte di esso. Sarebbe 
molto strano che il poeta nell’esecuzione del suo piano seguisse poi tutt'altro cri- 
terio da quello che si era proposto da principio. Piuttosto a difesa dell’unità di 
concezione del poemetto, noi potremo addurre il fatto che il suo proemio allude chia- 
ramente al contenuto di tutti e tre i libri che seguono, segnando uno svolgimento 
molto logico e naturale del pensiero che condurrà infine il poeta a invocare verso 
di sè la pietas divina. 

La massima parte del primo libro del De laudibus dei è costituita dal racconto 
della creazione del mondo e dell’uomo, della prima colpa e del suo castigo. Il tema 
è tutt'altro che nuovo; anzi nello stesso quinto secolo troviamo altri quattro poe- 
metti che trattano lo stesso argomento con varia ampiezza e con vario scopo (2). 
Anzitutto la Genesis di un tal Cipriano, composta fra il 397 e il 450; in secondo 
luogo l’Alethia in tre libri, attribuita a Claudio Mario Vittore di Marsiglia, morto 
alla metà del secolo quinto; in terzo luogo il Metrum in Genesim di un Ilario, com- 
posto fra il 440 e il 461; infine il De spiritalis historiae gestis di S. Avito, vescovo 
di Vienne, composto prima dell’anno 507. Si può dire che tutta la fioritura della 
poesia latina nel quinto secolo si compendia in questi poemi della Genesi, che rap- 
presentano i primi tentativi di porre in forma epica la storia religiosa del Cristia- 
nesimo. Il Gamber (3) si pone a ragione il problema perchè mai questi poeti abbiano 
attinto il loro argomento ai fatti primordiali della Genesi, anzichè a quelli più vicini 
e d’interesse enormemente maggiore della vita di Cristo e delle lotte della Cristia- 


(1) Cfr. Psalm., 17, 5; 68, 2, 3. 
(2) V. Gamer, Le livre de la Genèse dans la Poésie latine au V° siècle, Paris, 1899, cap. I, p. 12 segg. 
(3) Op. cit., cap. II, p. 32 segg. 


61 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 83 


nità primitiva contro i persecutori. E il Gamber lo risolve osservando che questi 
ultimi erano fatti troppo grandiosi per le limitate facoltà poetiche di quei tardi 
poeti, ed anche troppo vicini ad essi per poter essere veduti nelle linee più generali 
della loro epica grandezza (p. 52). Sono cose molto ovvie quelle che il Gamber os- 
serva, ma assumono nel nostro caso un valore speciale, tanto più che questa deter- 
minata scelta del materiale poetico si ricollega col fatto più generale del tardo ap- 
parire della poesia nella letteratura cristiana, mentre essa avrebbe dovuto sorgere 
molto spontaneamente tra un popolo agitato da tanti sentimenti nuovi, nel quale 
una profonda trasformazione spirituale si andava compiendo (1). Io non credo affatto 
che la causa si debba ricercare, come vuole il Gamber, nel fatto che nel momento 
della lotta non v'era tempo a pensare all'espressione poetica, che il bisogno pratico 
distruggeva il lavoro della fantasia, l’azione uccideva la parola. Il Gamber dice che 
vi sono dei momenti nei quali lo spettacolo stesso delle lotte è troppo vicino, nei 
quali la verità è troppo forte per fare dei poeti, essa non può fare che dei martiri. 
E cita le parole di un critico di autorità molto discussa, Saint-Marec Girardin (2): 
“ Elle se refuse è la poésie, comme à une sorte de frivolité et de faiblesse: elle 
l’anéantit parce qu'elle la surpasse ,. 

Per me questo è un argomento che ha valore molto relativo: esso vale sol- 
tanto nel senso che in quei dati periodi di tempo è impossibile un lungo lavoro 
riflesso, e le manifestazioni poetiche sono necessariamente più frammentarie, più 
brevi, meno elaborate. Ma è assurdo, mi pare, il supporre che in quei periodi tem- 
pestosi taccia ogni espressione dei sentimenti che agitano gli animi; se esiste il 
sentimento, esiste la sua espressione: sarà espressione più o meno perfetta, più o 
meno adeguata (e ciò può dipendere da innumerevoli altre cause), ma una qualche 
espressione non potrà mancare mai. Peggio poi è il supporre che in determinate 
condizioni tutti siano martiri, o apologisti, o polemisti. È impossibile che nella mol- 
titudine dei cristiani mancassero affatto le nature poetiche, contemplative, ricche di 
fantasia e di sentimento, ribelli per natura all’azione, alla lotta, alla polemica. Io 
sono perciò convinto che il ritardo della poesia non sia dovuto che in minima parte 
a tutti questi motivi e che la vera cagione vada ricercata soltanto nella tradizione 
classica che signoreggiava tutte le forme letterarie. Nella letteratura latina la poesia 
e il culto degli dèi e l'imitazione pedestre dei grandi modelli dell’età d’oro e d’ar- 
gento s'erano talmente andati identificando, che per lungo tempo non si potè nem- 
meno concepire poesia (quella almeno che avesse forma letteraria) all'infuori di 
quell’orbita: e quindi la poesia di forma classica era necessariamente qualche cosa 
di inconciliabile per i cristiani colle loro idee e i loro sentimenti. Soltanto nel se- 
colo quarto, quando incomincia la conciliazione del mondo pagano col mondo cri- 
stiano, incomincia la poesia cristiana di forma e carattere classicheggiante, e nel 
secolo seguente giunge al suo massimo fiore. Ma il fatto più importante che spiega 
il fenomeno, ed al quale accenna appena il Gamber, mentre opportunamente vi in- 


(1) V. a proposito di questo problema le prime pagine del II° volume del Borssier, La fin du 


Paganisme. 
(2) Revue des Deux Mondes, III, 1849, p. 624. 


84 ETTORE PROVANA 62 


siste il Monceaux (1), è che non mancano affatto manifestazioni poetiche (sia pure 
soltanto nella sostanza) nei primi secoli cristiani: naturalmente esse andarono in 
gran parte perdute, ma ne abbiamo testimonianze non solo, ma trammenti e docu- 
menti di varia specie. Quindi la musa cristiana non rimase muta per secoli, ma 
non produsse opere di spiccato carattere letterario, appunto perchè la forza della 
tradizione impedì che lo spirito cristiano potesse manifestarsi nelle forme più nobili 
e più alte. A spiegare poi la scelta particolare della materia narrativa, valgono 
assai bene le osservazioni del Gamber: ma più ancora di lui io insisterei sul con- 
cetto che la letteratura classica offriva coi grandi modelli di Lucrezio, Virgilio ed 
Ovidio un incitamento a trattare la materia della Genesi. Questa del resto si pre- 
stava assai più che i Vangeli o gli Atti degli Apostoli ad una trattazione un po’ 
libera, ad amplificazioni, a mutamenti, a interpretazioni speciali: cose tutte neces- 
sarie sia per l'indispensabile originalità e libertà che debbono vivificare l’opera poe- 
tica, sia per lo scopo didascalico che ebbero in generale i poeti della Genesi. Anche 
Draconzio (il quale del resto non imita gli altri poeti che in minima proporzione) (2), 
ha in parte uno scopo didascalico, in parte quello di propiziarsi la benevolenza di- 
vina celebrandone le lodi. Il racconto della creazione è in certo modo un grosso 
episodio che il poeta inserisce nel De laudibus dei, e vi si sofferma perchè il tema 
lo trascina; ma non protrae il racconto oltre la caduta dei due progenitori e il 
castigo di Dio, nel quale egli ravvisa una prova della bontà anzichè dell’ira divina (8). 
La celebrazione di questa bontà è lo scopo principale di Draconzio pure nel lungo 
racconto della creazione; e questo suo intento lo conduce anche ad una maggior 
libertà non solo di svolgimento artistico, ma anche di interpretazione e di osserva- 
zioni personali. Tuttavia io non sono d’accordo col Vollmer ov’egli suppone che il 
poeta non abbia seguito l’ordine biblico della creazione, sia pur soltanto per ricapi- 
tolare o ripetere il già detto. Il Vollmer (4) ai vv. 255 e segg., che incominciano: 
t recapitulasse poetam 
res adhuc creatas antequam bestiarum et hominis creationem aggrederetur non sensit 
HKugenius: ideo quinto diei subiecit versus 252-272 et post 272 duos versus de suo 
addit ,. Infatti Eugenio muta il sexta dies in ipsa dies, e continua attribuendo al 
quinto giorno ciò che Draconzio attribuisce già al sesto; poi giunto al v. 272, ne 


“ 


sexta dies folium ramis et floribus herbas -— evomit ,, nota: 


aggiunge due di suo conio: 


sexta die Phoebi rutilo processerat ortu, 
cum natura parens gignit animantia terris. 
Sono d'accordo col Vollmer nel ritenere che Eugenio non ha capito Draconzio 
questa, come tante altre volte: ma che Draconzio si sia allontanato dal racconto 
biblico solo per ricapitolare non credo: piuttosto qui, come in altri punti, egli vuole 


(1) Hist. litt. de VAfr. chrét., ILI, lib. 7°; Les débuts de la poésie chrétienne en Afrique, p. 426 segg. 

(2) Imitazioni sicure non s'incontrano che per l’Alethia di Mario Virrore, ed anche queste assai 
poco numerose (ad es. Drac., ZL. d., 1, 199, Mar. Virr., A7., 1, 228; LZ. d., 1, 377, Al, 1,374 seg.; 
L. d., 1, 380, Al., 1, 380 e altrove. Spesso del resto si tratta di imitazione comune di uno stesso 
modello). 

(3) V. vv. 544 segg. 

(4) V. p. 36 dell’ediz. di Draconzio. 


63 © BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 85 


interpretare. Notiamo che, a differenza degli altri poeti (ed a torto il Gamber non 
lo rileva) (1), egli descrive assai bene la separazione della terra dall’acqua nel terzo 
giorno nei versi 152 e segg.; anzi, più che di separazione, egli parla di vera ori- 
gine, di vera derivazione: nè la terra soltanto, ma anche gli uccelli sorgono dalle 
acque (vv. 241-242), e sorgono prima degli altri animali per servir loro di cibo (2). 
Quindi Draconzio ravvisa tutto un ordine logico nell’ordine della creazione. Quando 
poi il poeta dice ai versi 255-256: “ sexta dies folium ramis et floribus herbas — 
evomit ,, mi pare che occorra forzare il testo per interpretare, come il Vollmer, 
nel senso che Draconzio ricapitoli tutta la creazione dei primi cinque giorni. Piut- 
tosto egli presenta le cose da un punto di vista diverso; ossia ci presenta il creato 
non în fieri, ma nella condizione in cui si trovava nel sesto giorno, prima della crea- 
zione degli animali terrestri e dell’uomo. Del resto il poeta parla in modo partico- 
lare della riproduzione degli uccelli (vv. 262-263), riproduzione alla quale concorre 
un secondo elemento, il fuoco (vv. 267 e segg.): 


sed cum discordent inter se elementa coacta, 
fetibus eductis concordant unda vel ignis 
unda creat volucres, producit flamma volucres. 


Dall’accostamento delle due forme verbali creat e producit, risulta evidente il 
loro vario significato e il processo del pensiero del poeta che vuole applicare la 
teoria degli elementi al racconto biblico. Infatti il poeta collegando in un ordine 
provvidenziale la creazione delle piante, la creazione e la riproduzione degli uccelli 
con quella degli animali terrestri (e in ciò segue molto da vicino il testo sacro) (3), 
nel verso 277 asserisce apertamente che “ impia terribiles producit terra leones ,. 
Onde ai due primi elementi Draconzio ne aggiunge un terzo, la terra, dalla quale 
“ erumpunt , gli animali terrestri. Tutta sua è quest’applicazione della teoria degli 


« 


elementi alla Genesi, teoria che non si trova così completa negli altri poeti della 
creazione. E quando passa a parlare della creazione dell’uomo, osserva ancora che 
egli non deriva da qualcuno degli elementi naturali, ma è foggiato dalle mani 
divine (4). 

Io non credo però che Draconzio avesse veramente un intento filosofico: la sua 
è piuttosto una naturale e spontanea interpretazione del testo biblico alla luce di 
quel principio provvidenziale che egli vuol celebrare. Del resto egli continua ad illu- 
strare il concetto della provvidenza divina nel descrivere la creazione della donna. 
Toglie al solito occasione da un versetto della Bibbia, ma gli dà un colore tutto per- 
sonale in quei versi mirabili nei quali descrive la triste solitudine dell’uomo in 
mezzo al creato. E non la descrive solo esternamente, alla superficie, ma è l'intimo 
sentimento del primo uomo quello che il poeta penetra e ci svela (5): si sente in 
quei versi la voce di lui, che, incarcerato, capiva quanto è orrenda la solitudine 
fisica e spirituale; quel non poter espandere, non poter comunicare la vita del corpo 


(1) Gaxseg, op. cit., p. 92. 

(2) Gamer, op. cit., p. 96-97. 

(3) V. vv. 270 segg. — Genesis, I, 24-25. 
(4) V. vv. 332 segg. — Gen., I, 20-21. 
(5) V. vv. 345-859. 


n) 


86 ETTORE PROVANA 64 


e dell'anima. E le solenni parole della Genesi, colle quali Iddio delibera la creazione 
della donna sono animate da Draconzio da un sentimento sublime della pietà divina: 
‘la Genesi allude piuttosto a un motivo naturale ed etico, il poeta invece pensa che 
Iddio abbia voluto soddisfare a quel bisogno delle gioie famigliari che egli stesso 
sentiva (1). 

La nota sentimentale ritorna dove il poeta vuole spiegare perchè Iddio trasse 
Eva dal corpo di Adamo anzichè dalla polvere stessa; e pur ripetendo il pensiero, 
di Mario Vittore: “ semet in alterius cogens agnoscere membris ,, lo irrobustisce, 
esprimendo meglio l’impeto e lo slancio dell’affetto (vv. 377 e segg.) (2). Così il 
poeta procede sempre collegando la lode della provvidenza divina con l’espressione 
dei suoi sentimenti più cari: l’amore della natura e della vita in tutte le forme 
più semplici e più serene, l’amore della donna ch’egli non avvilisce e condanna come 
tanti cristiani prima di lui, ma nobilita ed esalta con religioso sentimento. Iddio: 
stesso ha dato all’uomo la donna perchè egli ne aveva bisogno per il suo spirito e. 
per i suoi sensi, per il corpo e per l’anima. In Draconzio infatti noi troviamo la 
conciliazione completa del senso naturalistico col sentimento religioso. La convin- 
zione della purezza essenziale di tutto ciò che è opera della natura, e quindi opera 
di Dio (anche la voluttà Iddio concede all’uomo, secondo il pensiero di Draconzio, 
col fine diretto che egli ne goda) (3), tale convinzione, dico, è tanto profonda in 
lui che egli descrive candidamente colle tinte migliori e colla compiacenza più se- 
rena l'apparire di Eva dinanzi ad Adamo: ella è nuda, candidissima in tutte le 
membra, bella del rossore che le colora le guancie, tutta tutta bella, proprio 
« qualem possent digiti formare tonantis , (vv. 393-397) (4). E dopo che Iddio con 
parole piene di epica solennità ha dato ad Adamo ed Eva il dominio del mondo (5), 
essi se ne vanno “ per flores et tota rosaria leti — inter odoratas messes lucosque 
virentes — simpliciter pecudum ritu vel more ferarum — corporibus nudis et nescia 
corda ruboris ,. E il poeta non dissimula la sua simpatia per questo stato ingenuo 
e semplice: e ingenuamente si meraviglia che, dopo la colpa, i progenitori abbiano 
ritenuto “ membra pudenda , quelle che non avevano concorso al peccato, mentre 
fu ritenuta innocente (vv. 487 e segg.) la bocca “ aditus mortis ,, la lingua “ suada, 


(1) V. vv. 360 segg. — Cfr. Gex., II, 18: “È Dixit quogue Dominus Deus: Non est bonum esse 
hominem solum: faciamus ei adiutorium simile sibi ,. 

(2) V. A/eth., 1, 380. Mario Vittore conserva appunto il carattere morale e dogmatico del testo 
biblico (vv. 373 segg... È evidente anche il fare più compassato e assai meno spontaneo e ispirato 
del retore marsigliese in confronto del nostro poeta. 

(3) Lontanissimo in questo è il concetto di Draconzio da quello di S. Agostino, che pure rap- 
presentava naturalmente allora lo spirito più autentico del cattolicismo ortodosso. S. Agostino, che 
conosce bene la vita, sostiene che tutto ciò che nell'amore è voluttà e senso è frutto del peccato 
originale, ed è quindi essenzialmente impuro (Cfr. De civ. deî, XIV, 10 segg.). 

(4) È strano che Draconzio il quale esprime così bene la solitudine e la tristezza di Adamo, 
non ne descriva affatto la gioia all’apparire della sua compagna. La splendida visione si presenta 
piuttosto alla fantasia innamorata del poeta, che agli occhi stupefatti del primo uomo, al quale 
egli in certo modo si sostituisce. 

(5) V. vv. 404-411. Sono veramente forti e grandi pennellate che dànno un’impressione profonda; 
in quelle parole poi: © dum luna tenebras — dissipat et puro lucent mea sidera caelo , c'è vera- 
mente una grandiosità lucreziana. 


6 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 87 


UU 


mali , e le orecchie “ limina mortis ,. Nè aveva tutti i torti il povero poeta, a 
cui le ciarle maligne, troppo facilmente credute, avevano procurato tanti dolori. 
Così Draconzio prosegue colorendo continuamente dei sentimenti suoi l’opera della 
pietà divina: ricordando la pena di morte inflitta da Dio ai progenitori, dirà (v. 528): 
“ poena mori cerudelis erat, sed vivere peius ,, alludendo alle infinite miserie che 
affliggono la vita (1); e in fine del libro, sciolto l’inno allo spirito di Dio che anima 
tutte le cose, ripeterà, parafrasandole, nei suoi versi le sublimi parole che il Vangelo 
di Luca pone in bocca a Maria (1,32): “ deposuit potentes de sede, et exaltavit 
humiles ,. 

Fra il racconto della punizione inflitta ai progenitori, e l’inno alla bontà di Dio, 
Draconzio si diffonde in una lunga descrizione delle vicende naturali: e l'ampia vi- 
sione del creato posto al servizio dell’uomo nonostante la sua colpa, conduce il poeta 
a descrivere l’opera incessante e perenne della natura, e a sviluppare in fondo la 
medesima idea sulla quale tanto insiste Lucrezio nel suo primo libro dell’incorrut- 
tibilità della materia nonostante l’apparente consumo. È davvero interessante questo 
contatto fra il nostro poeta e quel Lucrezio la cui opera e il cui pensiero dovevano 
essere tanto lontani da chi era cristiano, e scriveva per dimostrare l’opera prov- 
videnziale di Dio, che Lucrezio recisamente nega. Non è una novità questa imi- 
tazione di Lucrezio da parte di poeti cristiani (2): e quanto a Draconzio, è abba- 
stanza naturale che gli ricorressero alla mente per virtù di contrasto i versi del 
poeta epicureo, e che egli si accorgesse come gli stessi pensieri e le stesse immagini 
di Lucrezio gli potevano servire a dimostrare il perenne influsso della provvidenza 
nel conservare intatte le cose nonostante le loro mutue vicende. Ma ciò che poteva 
trascinare Draconzio ad una speciale simpatia per Lucrezio è quel profondo senso 
della natura, che anima anche il poeta africano, quel valore che egli dà agli ele- 
menti naturali nonostante il concorso divino. Del resto non solo di Lucrezio si è 
molto ricordato Draconzio in questo primo canto, ma naturalmente anche di Ovidio 
(specialmente, come ben osserva il Gamber, nella descrizione del paradiso terrestre) (3) 
e di Virgilio: sono le frasi del grande poeta che cadono spontaneamente dalla penna 
di tutti questi poeti della decadenza, che della sua lettura e del suo studio, nella 
scuola e fuori, hanno fatto il fondamento della propria cultura artistica. Natural- 
mente però questo primo libro s’ispira anzitutto alla Genesî: certo il poeta amplia, 
parafrasa, colorisce, interpreta: ma in fondo la fonte che gli suggerisce i pensieri 
e talora le immagini è sempre quella. Sarebbe molto interessante il poter stabilire 
se Draconzio abbia seguito il testo della Vu/gata, o quello della più antica versione 
Itala (4): ricerca molto difficile, perchè, trattandosi di poesia, le espressioni tratte 


(1) Del resto lo dice chiaro alcuni versi dopo, 555 segg. 

(2) V. J. Puiciepe, Luerèce dans la théologie chrétienne du III au XIII sidele, in Revue de VHis- 
toire des Religions, 1905, vol. XXXII, p. 284 segg. 

(3) Op. cit., p. 110 segg. 

(4) Sulla storia della Bibbia lutina in Africa, vedi la lunga trattazione del Moncr4ux, Mist. litt. 
de VAfr. chrét., vol. I, cap. 3°. Cfr. Herzoc, Realeneyklopidie fiir prot. Theol. und Kirche, vol. III, 
art. Bibeliibersetzungen, n. 2, p. 24 segg. — I frammenti dell'antica Itala più importanti (quelli del 
Pentateuco, di Giosuè, della maggior parte del libro dei Giudici) trovati in un manoscritto del 
sec. V° o VI° a Lione, furono pubblicati da Lord AsaBuRnHAM (Londra, 1868) e dal Rosert, Pentateuchi 


88 ETTORE PROVANA 66 


letteralmente dal testo biblico sono assai poche. Ma è mia convinzione che Dra- 
conzio seguisse la Vu/gata, sia perchè questa doveva già a quel tempo aver acqui- 
stato diffusione e autorità anche in Africa, sia perchè le parole che Draconzio cita 
trovano abbastanza fedele riscontro nella VulZgata. Del resto se ciò può avere una 
relativa importanza per la storia della Vulgata, non l’ha certo per noi, perchè le 
differenze tra le due versioni (specialmente per quanto riguarda i Vangeli, che Dra- 
conzio ha pure qua e là sott'occhio) sono di forma, piuttosto che di sostanza: nè è 
da supporre che, se il poeta avesse avuto sott'occhio una versione diversa, avrebbe pure 
svolto il suo tema diversamente. 

Anche di questo primo libro del De laudibus dei conserviamo un rifacimento di 
‘ Eugenio di Toledo: meno gli avviene di doverlo mutare per motivi dogmatici, ma 
talora lo vuol conciliare meglio col testo della Scrittura, o perchè non interpreta 
bene il poeta o perchè non gli concede troppa libertà. Cosa notevole è ch'egli inco- 
mincia al verso 118 di Draconzio, ossia là ove s’inizia il racconto della creazione : 
e questa è una prova di più che Eugenio non aveva sott'occhio il testo del De lau- 
dibus dei, ma un rifacimento, o meglio un estratto contenente soltanto il racconto 
della creazione fino al termine del primo libro (1). Eugenio vi aggiunge di suo sei 
monostici, che ricapitolano l’opera dei sei giorni e una trentina di versi nei quali 
parla del riposo divino nel settimo giorno; infine considerazioni religiose e morali. 
Termina col paragonare l’opera dei sei giorni alle sei età della vita umana. 

Il concetto informatore del secondo libro è sempre quello della bontà divina, 
che si esplica inviando Cristo in terra alla rigenerazione dell’uomo, il quale nono- 
stante i benefizi ricevuti, ha peccato innumerevoli volte: ma esso si smarrisce quasi 
in divagazioni e continui ritorni a concetti già precedentemente svolti o accennati. 
Numerosissime poi le esemplificazioni, giustificate del resto dall’indole didascalica 
del lavoro: tutti i poemi didascalici trovano la loro debolezza e la loro forza insieme 
in questa esemplificazione. Naturalmente ne scapita alquanto l’interna connessione, 
e l’unità organica della trattazione; ma d’altra parte la fantasia si libera e si esplica, 
e ci dà l’opera d’arte. Esempio sommo è e sarà sempre il De rerum natura di Lu- 
crezio, nel quale il poeta sublime sa far scaturire il pensiero filosofico dalle sue 
plastiche visioni fortemente immaginate e profondamente sentite. In Lucrezio il pen- 
siero è sentimento e il sentimento è immagine: di qui la potente sintesi artistica 
che anima il suo poema. Tuttavia nessuno vorrà negare che anche nel De rerum 
natura non si avverta talora certa dissonanza fra la parte teorica e quella fanta- 


versio lat. antiquissima, Parigi, 1881, e Lione, 1900. — Cfr. Rònsca, Itala und Vulgata, 2* ed., Mar- 
burg, 1875. Per il Nuovo Testamento vedi la recente pubblicazione di Hans FreIHERR von Sopen. 
Das Lateinische neue Testament in Afrika zur Zeit Cyprians, edito in Texte und Untersuchungen di 
A. Harnack e C. Schmidt, XXXIII, 1909. 

(1) Che Eugenio non avesse notizia se non di un Hexaemeron di Draconzio, lo prova anche il 
fatto ch'egli aggiunge un cenno sul settimo giorno. Dice egli stesso nella dedica a Chindasvinto: 
“ idcirco in fine libelli, quamvis pedestri sermone, sex dierum recapitulationem singulis versiculis, 
quos olim condidi, renotavi; de die vero septimo quae visa sunt dicenda subnexui ,. Dunque, come 
crede anche Ildefonso (De vir. è0l., 14), Eugenio pensava incompleta l’opera di Draconzio, mancan- 
dovi ogni cenno al settimo giorno, e quindi non si avvide punto che per Draconzio, il quale voleva 
celebrare la bontà divina nell'opera della creazione, non serviva affatto ricordare il riposo del set- 
timo giorno. 


67 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 89 


stica: il che dipende, mi pare, dal fatto che Lucrezio non si accontenta di illustrare 
nelle linee più generali il suo pensiero, ma vuol discendere allo svolgimento parti- 
colareggiato della sua teoria. Draconzio invece non ha tutta una teoria da svolgere, 
i suoi concetti sono pochi e molto semplici: onde la diffusione della parte esempli- 
ficativa non conferisce molto alla bellezza del suo lavoro, perchè gli esempi sono 
accumulati gli uni sugli altri senza che se ne veda il motivo o se ne senta il bi- 
sogno. Inoltre i suoi esempi sono tutti d’un colore, tutti veduti da un lato solo; 
per quanto una certa varietà non manchi nemmeno nel De laudidus dei. Descriven- 
doci i miracoli di Cristo, egli tocca di preferenza quelli, dove Gesù manifestò una 
pietas più gentile ed affettuosa, ad esempio la risurrezione di Lazzaro e della figlia 
di Giairo; mentre di ciò che nella vita di Cristo è più importante e sostanziale, la 
morte e la risurrezione, tocca appena rapidamente (vv. 149 e segg.). Poi, ritornando 
al concetto del modo col quale Iddio conserva le cose create, pare che abbia ancora 
presenti le idee di Lucrezio, osservando che Iddio tiene le cose opportunamente 
congiunte e disgiunte (vv. 196 e segg.). Insieme con la varietà, per quanto relativa, 
delle esemplificazioni, troviamo anche una certa varietà descrittiva: ora è descri- 
zione ampia a grandi pennellate, come nei versi nei quali il poeta dice che tutte 
le creature celebrano Iddio, che le anima e le investe tutte (vv. 223 e segg.) (1), 
ora sono descrizioni a rapidi tratti, incisivi ed efficaci, come la seguente (vv. 347-348): 
splendet sole dies, illustrat Cynthia noctes 
et quasi gemmatum distingunt sidera caelum. 

Generalmente poi tali descrizioni non sono vuote, fredde, puramente oggettive: 
vi spira un certo impeto lirico o di lode o di riconoscenza o di tristezza: l’idea stessa 
della provvidenza divina che è in fondo a tutte, se dà loro da un lato intonazione 
uniforme, dall’altro riesce a presentarci vive e operanti anche le cose inanimate. 
Anche in questo libro del resto fa qua e là capolino l’atteggiamento di spirito del 
poeta stesso con le sue ire spontanee o contro l’arianesimo, o contro le divinità pa- 
gane (2), o contro la malvagità degli uomini, con quella calda simpatia che lo lega 
alla natura, con quell’umiltà sincerissima che gli fa dire: “ est homo grande malum , (3). 
E ciò che più lo colpisce è la preveggenza pietosa di Dio che prima ancora di creare 
l’uomo aveva pensato a redimere la colpa: egli loda la fretta che Iddio ha avuto 
di venire in aiuto all’uomo, appunto perchè la pietà odia le dilazioni. Iddio ha 
lasciato al nostro arbitrio anche il credere, disposto poi sempre a perdonare: 
anche Giuda, se avesse sperato, avrebbe ottenuto il perdono. Nonostante le curiose 
reminiscenze mitologiche, Draconzio si dimostra profondamente cristiano in questo 
libro sopratutto per il profondo senso di umiltà come peccatore, per quell’accento 
commosso col quale lo riconosce. Notevolissima è poi la frequenza colla quale egli 
ricorda la liberazione del popolo Ebreo dalla schiavitù dell'Egitto: un’eco forse del 
suo dolore di prigioniero, certo un’aspirazione potente alla libertà e alla vita. An- 


(1) V. un’altra belia descrizione di questo tipo ai vv. 377-396, che descrivono il diluvio universale. 

(2) V. vv. 590 segg. 

(3) V. vv. 360 sego. V'è in questi versi la solita esuberanza draconziana, ma non si può negare 
che vi sia anche della forza sincera. 


Serie II. Tox. LXII. 12 


90 ETTORE PROVANA 68 


cora negli ultimi versi (788 e segg.) egli ricorda con efficaci parole l'apparizione di 
Dio, avvolto nelle fiamme, a Mosè, per venire in soccorso del suo popolo “ pro libertate 
gementis , (1). 

Nel terzo libro l’elemento personale prende decisamente il sopravvento, con l’in- 
vocazione finale che il poeta rivolge a Dio, affinchè gli perdoni le sue colpe e lo 
liberi dai suoî dolori. Parve a taluni che il terzo libro sia il più debole di tutti, 
perchè non aggiunge nulla allo svolgimento del concetto; anzi è tutto una ripeti- 
zione di argomenti e di esempi già noti. Sono osservazioni vere, ma soltanto in parte: 
tralasciando anche i versi che si possono considerare la chiusa generale del poema, là 
dove il poeta parla di sè stesso (dal v. 565 in poi), a me pare che noi troviamo in 
questo libro illustrato molto chiaramente il concetto che, se Iddio è stato pietoso e 
buono con tutti gli uomini, lo è stato in modo speciale col popolo suo, mentre il 
paganesimo non ha fatto altro che accumulare delitti, coprendo col manto della virtù 
il delitto stesso. Draconzio s'avvede che, come cristiano, deve ricordare la predile- 
zione che Iddio aveva dimostrato per il popolo ebreo prima e per il cristiano poi. 
Chiunque avrebbe potuto fargli l’obbiezione: ma la bontà di Dio si manifesta forse 
solo nel perdonare la colpa, o non anche nel premiare la virtù? E ancora: ma le 
virtù e gli eroismi del paganesimo non dimostrano una certa superiorità dei pagani 
sui cristiani, non dimostrano, se mai, che Iddio è ingiusto, e che, se al suo popolo 
perdona le colpe, a chi non crede in lui concede la fortuna e la gloria? È quindi 
un vero e naturalissimo progresso del concetto fondamentale quello che il terzo libro 
ci presenta. Il poeta osserva da principio che Iddio è buono sopratutto con l’infelice 
e l’oppresso, e adduce l’esempio del ricco epulone. E lo stesso sacrificio di Isacco 
dimostra che l’uomo deve essere pronto a qualunque cosa per la divinità, ma, nello 
stesso tempo, che Iddio non vuole nè la morte degli innocenti nè quella dei colpe- 
voli (2), che serba al perdono. E per trarre tale conclusione il poeta trasforma la 
frase esplicita della Bibbia (Gen., XXII, 1): “ tentavit Deus Abraham , nell’altra 
affatto opposta che Iddio (v. 131) “ non est temptator habendus ,, osservando, ma- 
nifestamente contro lo spirito della Bibbia (3), e con intima contraddizione, che Iddio 
non voleva provare per mezzo di un “ tam grande nefas , la fedeltà di Abramo e 
Isacco, ma voleva dimostrare fino a che punto egli vuol essere amato: noi sappiamo, 
e Draconzio non doveva ignorare, che il sacrificio di Abramo in quanto consigliato 
ed accettato, era cosa moralmente compiuta. Ma la conseguenza più importante che 
Draconzio trae dall’esempio di Isacco è quella che dobbiamo disprezzare la vita pre- 
sente per la futura: Iddio soccorre chi è pronto al sacrificio della vita, come ha soc- 
corso Daniele salvandolo dai leoni e dalle fiamme (4). È vero, dice il poeta, che tali 


(1) Cfr. Esod., IIl, 7: © Vidi afflietionem populi mei in Aegypto, et clamorem eius audivi propter 
duritiam eorum qui praesunt operibus .. 

(2) V. vv. 125-127. Pochi versi prima ha ricordato invece il mito di Saturno che divorava i 
suoi figli. 

(3) Il Vollmer cita a questo proposito il passo della Bibbia, Jacob., 1, 13: © nemo cum temptatur, 
dicat quoniam a deo temptatur; deus enim intemptator malorum est, ipse autem neminem temptat ,; 
ma è certo, mi pare, che il fentarit della Genesi vuole significare che Iddio ha messo in prova 
Abramo, vedendo se era disposto anche al sacrificio inumano del figlio pur di serbarsi fedele. 

(4) V. vv. 171 segg. 


69 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 9l 


benefiche e portentose imprese sono dal mito pagano attribuite anche ad Ercole, del 
quale ricorda l'uccisione del leone nemeo; ma, senza togliere ogni fede al fatto, ag- 
“ si tamen hune vera per saecula fama locuta est ,; e si affretta 
a contrapporre l’apostolato miracoloso e benefico di Pietro e Paolo alla crudeltà del 
culto di Diana: “ quae solet insontum fuso gaudere cruore , (v. 118), paragonando 
la catastrofe di Simon Mago a quella di Salmoneo fulminato da Giove per aver vo- 
luto imitare il fulmine (1). E dopo questi confronti più casuali che sottoposti ad un 
generale disegno, il poeta si fa chiaramente l’obbiezione che anche i pagani, Romani 
e Greci, furono felici pur non adorando il vero Dio: e, percorrendo rapidamente la 
storia greca e romana, sì propone di dimostrare che nè vera felicità nè virtù vera 
s'incontra presso i pagani (vv. 257 e segg.). È, pare, l’orrore del sangue quello che 
perseguita Draconzio: in ciò egli si dimostra non soltanto cristiano, ma uomo debole, 
che rifugge da tutto ciò che costa sangue e lacrime, e lo condanna senza badare 
assolutamente nè ai motivi nè agli scopi (2). Così, ricordando alcuni episodi della 
storia antica, condanna insieme con la violenza irragionevole e delittuosa anche quella 
che può essere un dovere, o quella che, disapprovata da una morale più progredita 
e più illuminata, non si può tuttavia confondere con la pura efferatezza. Egli invece 
mette in un fascio le atrocità e le sventure dei Labdacidi, le stragi avvenute fra i 
Persiani in occasione dell’assalto notturno di Leonida (3), l'episodio dei fratelli Fileni 
narrato da Sallustio (4), e le violenze che permise quello che il poeta chiama in 
tono di sprezzo romanus amor (v. 322): l'uccisione del figlio di Bruto, di Virginia, 
di Manlio Torquato. Ricorda poi l’episodio di Scevola e quello di Curzio (e qui trova 
modo di sfoggiare ancora una volta la sua erudizione mitologica) (5); e per colpire 
insieme col romanus amor anche la romana fides cita il tipico esempio di Regolo, la 
cui fedeltà alla parola data non trova meno riprovevole che quella di Sagunto all’a- 
micizia di Roma, e quella di Numanzia alla propria libertà. Ma la storia di Grecia 
e di Roma ci presenta numerosi esempi di violenze commesse da parte di donne: e il 
poeta paragona anche qui la donna ebrea, Giuditta, colle donne pagane: Semiramide, 
Tomiri, Euadne, Didone, Lucrezia. E conclude (vv. 521 e segg.): 


giunge (v. 214): 


milia femineis numerantur ubique catervis 
exempla scelerum: modicae vel laudis amore 
aut certe fecere pie pro numine vano. 


(1) V. vv. 237-239. 

(2) Senza dubbio la morale cristiana non può approvare la rigidezza violenta della morale ro- 
mana che non teneva conto dei vincoli del sangue, o puniva la violenza con la violenza, o appro- 
vava il suicidio per sfuggire al disonore o alla schiavitù; ma in fondo il punto di vista di Draconzio 
non è quello della morale cristiana: questa parte dal concetto dell’inviolabilità della vita umana, 
sulla quale ha diritti assoluti Iddio solo, Draconzio invece parte dal concetto che l’affetto a sè 
stesso o ai congiunti deve essere superiore ad ogni altro sentimento, e deve tenerci lontani dalla 
violenza. 

(3) In questa interpretazione Draconzio risente naturalmente anche l’influenza delle sue fonti, 
ad es. Paolo Orosio (Ad Pag., II, 9,8 segg.). Fonti di Draconzio furono anche Giustino e Valerio Mas- 
simo, come ben osserva il Vollmer. Questo excursus storico va dal v. 257 al v. 467. 

(4) Cfr. Bell. Jug., 19, 3.79, 5 segg. 

(5) Notevole è il tono declamatorio di quasi tutti questi episodii, parecchi dei quali sono molto 
diffusi e pieni di considerazioni soggettive e di apostrofi; caratteristici sono i versi 401-406 coi 
quali chiude la serie degli esempi, illustranti il f Romanus amor ,, e in particolare l'esempio di 
Scevola. ò 


Ne) 
DO 


ETTORE PROVANA 70 


Si debbono considerare questi episodi che occupano tanta parte del libro terzo 
una semplice ed oziosa divagazione del poeta? Io credo di no: non soltanto per il 
nesso logico del pensiero che illustrano con quello dei due primi libri, ma anche 
perchè essi palesandoci bene in che luce il poeta vedeva i fatti della storia pagana, 
preparano opportunamente l'atto di fede e la preghiera fiduciosa e accorata che 
chiude e sintetizza tutto il carme. Sincerissima preghiera, perchè il poeta non cerca 
punto di scusarsi, nè di chiamare ingiusta la sventura che lo ha colpito; confessa 
anzi le sue colpe che, dice e ripete, sono innumerevoli. E se anche in essa noi tro- 
viamo la solita esuberanza del nostro poeta. se vi troviamo brevemente ripetuti i 
concetti già espressi, e gli esempi già addotti, ciò non dovrà indurci a pensare che 
tutto ciò sia fittizio e falso. Nulla ci dà il diritto di negare che Draconzio abbia 
tanto sofferto: gli stessi sconsolati lamenti, così monotoni e così stucchevoli talora 
ne sono una prova, appunto perchè l’esperienza c'insegna che anche il lamento più 
spontaneo e più sincero ci annoia e ci sazia quando non conosce il freno dell’arte: 
tanto più ci colpisce il breve e disperato grido di dolore, o la muta e forte rasse- 
gnazione. Il De laudibus dei di Draconzio che, nonostante tutte le imperfezioni, è 
l’espressione sintetica dell’aspirazione alla vita, della fede risorta in cuore al poeta, 
delle sue lunghe e gravi sofferenze, ha forse anzitutto il valore di dimostrarci che 
se il dolore ci può rivelare l’uomo e il poeta, esso non basta da solo nè a distrug- 
gerli nè a crearli. 


Dopo l'esame che siamo andati facendo dell’opera di Draconzio il problema che 
ci eravamo proposti della sua originalità e del suo valore di poeta, della sua dipen- 
denza più o meno diretta dalla precedente letteratura, è in gran parte risolto. Il 
Barwinski, il Rossberg, il Vollmer col loro lungo e diligentissimo lavoro di ricerca 
ci hanno fornito il materiale caotico, in mezzo al quale noi abbiamo cercato di far 
penetrare un po’ di luce eliminando, scegliendo, interpretando secondochè se ne presen- 
tava l’occasione. Certamente anche Draconzio imitava, come tutti imitavano al suo 
tempo: ma se noi pensiamo che i tratti più belli e più caratteristici dell’opera sua 
vanno immuni per lo più da ogni imitazione, non siamo in diritto di ritenere che 
imitasse per incapacità o per povertà d’ispirazione poetica: l’imitazione di Draconzio 
è per lo più incosciente, quasi mai deliberata e frutto di artificio e fatica. Io credo 
che non il pensiero e l’immagine altrui gli suggeriscano pensieri ed immagini, ma 
che quelle idee e quelle immagini che spontaneamente gli vengono in mente gli 
ricordino le espressioni usate dai grandi suoi modelli in casi analoghi; e se ne giovi 
contento di potersene giovare, contento forse di dimostrare fino a che punto egli sa 
valersi della sua cultura letteraria (1). Fanno certamente eccezione quei luoghi (e 


(1) Analoghi a quello di Draconzio sono i casi di Sidonio Apollinare e di Ennodio, a lui quasi 
contemporanei. Però in Sidonio troviamo anche nei passi imitati quella certa compostezza e gra- 
vità che è propria del suo stile; in Ennodio, oltre alla freddezza e al vuoto di contenuto che gli 
è proprio, troviamo una grandissima prevalenza di Virgilio sugli altri poeti imitati. 


diede se 


71 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 93 


noi li abbiamo rilevati) nei quali l'imitazione abbraccia tutta una situazione, tutto 
un motivo poetico che non si trova bene là ove Draconzio lo usa. Ma quando, come 
nella grande maggioranza dei casì, le reminiscenze di Ovidio, di Lucano, di Stazio, 
di Claudiano sì incrociano e si completano a vicenda, senza che le une prevalgano sulle 
altre, senza che per nulla si senta lo sforzo del poeta, vuol dire che nel suo spirito 
è avvenuta una vera conciliazione, una vera fusione del suo e dell’altrui, e che anche 
allora l’arte sua, benchè debolissima, non cessa di essere sincera. Noi possiamo do- 
mandarci: quando mai Draconzio è più lui, quando imita, o quando procede libero 
con le sole sue forze? Chi seguisse lo schematismo letterario, facilone, che è tanto 
in voga, non esiterebbe a rispondere: certamente quando non imita, anzi soltanto 
allora è veramente lui. Io invece non credo: fu detto che l’uomo non è mai tanto 
sincero come quando posa: sentenza che parrà, ed è certamente troppo assoluta. Si 
può dire che non tutte le qualità dell’individuo e nemmeno, in generale, le migliori, 
si manifestano quand’egli posa, ma certamente una o parecchie delle qualità fonda- 
mentali. Così mi pare che si possa dire dell’imitazione in Draconzio: è uno dei pro- 
cedimenti della sua arte, senza del quale, data la sua educazione letteraria, dati i 
tempi in cui scriveva, non avremmo forse nessuna delle sue opere, ed è anche un 
procedimento molto caratteristico e individuale, perchè noi sentiamo il poeta non 
meno nei passi imitati che in quelli più originali, perchè molte volte anche le parole 
di Virgilio e di Ovidio hanno un sapore draconziano. 

Ad illuminare il valore molto incerto di quella ricerca delle fonti, che si fonda 
su raccostamenti troppo spesso cervellotici, gioverà rivedere rapidamente la questione 
che il Barwinski si pone, se Draconzio sia imitatore di Catullo, e se per conse- 
guenza i suoi carmi possano smentire la convinzione lungo tempo durata che Catullo 
sia stato sconosciuto affatto (almeno di conoscenza diretta) negli ultimissimi tempi 
della letteratura romana. Il Barwinski (1) risponde citando alcuni passi di Draconzio, 
dai quali risulta per lui evidente l'imitazione di Catullo: io non credo affatto che 
gli esempi addotti dal Barwinski abbiano forza dimostrativa. V’è una serie di riscontri 
nei quali l'imitazione si riduce alle due ultime parole dell’esametro, e si tratta di 
espressioni che nei casi addotti non potrebbero essere diverse. Io mi domando se, 
dovendo tutti e due i poeti parlare di un amore tra madre e figlio, o tra matrigna 
e figliastro, potevano esprimersi diversamente che chiamando mater la madre, natus 
il figlio, noverca la matrigna, e usare altro verbo tranne potiri per esprimere ciò che 
noi diremmo conquistare (cfr. Dr., II, 38 e segg. e Cat., LXIV, 402 e segg.); o se par- 
lando delle candide membra di una fanciulla, sia tanto strano che entrambi usino 
l’espressione: “ niveos... virginis artus , (cfr. Dr., VII, 22 e Cat., LIV, 261). E se il 
Barwinski vuol dare tanta importanza alla collocazione delle parole, non so perchè 
tale importanza debba cessare quando non solo la collocazione varia, ma anche l’uso 
e il significato delle parole poste a riscontro (cfr. Dr., 0r., 264 e Cat., LXIV, 305-807), 
La stessa descrizione del leone infuriato che troviamo in Draconzio (VIII, 352 segg.), 
confrontata con quella di Catullo (LXIII, 81 segg.), non serve affatto, perchè si tratta 


(1) Quaest. ad Drac. ct Orestis Trag. pertinentes, I. De Gen. dicendi, p. 95 segg.; 106 segg. — 
Cfr. Barwinsxi, Rhein. Mus., XLIII (1888), p. 310-311. 


94 ETTORE PROVANA 72 


di frasi molto comuni e molto naturali dato l'argomento stesso che i due poeti trat- 
tano: la stessa immagine suggerisce naturalmente le medesime parole. Io non nego 
che Draconzio abbia conosciuto in qualche modo Catullo, ma eredo che non bastino 
le prove addotte dal Barwinski per asserirlo. 

Abbiamo già avuto occasione di osservare come in Draconzio s’incontrino alcuni 
di quei particolari caratteri che oggi vanno sotto il nome complessivo di secentismo: 
è fenomeno questo, che, incominciato insieme con la decadenza delle lettere latine, 
andò aumentando in estensione ed importanza sopratutto in Africa e nell'ambiente 
letterario nel quale visse il nostro poeta. Una vasta e complessiva trattazione di 
quest’argomento manca purtroppo ancora: solo vi supplisce in qualche modo un lavoro. 
assai breve di Martino Hertz (1), che scrutando acutamente nella sua rapidità il 
fenomeno, trascura alquanto, mi pare, lo studio delle cause. L’opera di Draconzio, 
che del resto non è tutta intera una manifestazione di secentismo, ci presenta il 
fenomeno nei suoi aspetti più comuni e più generali. Come in parecchie altre cose, 
così pure in questa, egli subisce l'influenza del suo tempo: e forse più ancora che 
della tradizione letteraria latina, quella del suo luogo d’origine, dello stesso carat- 
tere africano, amante per natura dell’amplificazione, dell’enfasi, della frase ampia e 
reboante. In Draconzio molte volte non troviamo tanto lo sforzo minuto e ingegnoso 
di dire tutto ciò che si può dire, senza nessun criterio di scelta, quanto una congerie 
indigesta e pesante di nomi e di aggettivi e di verbi, coi quali egli non riesce nem- 
meno a colpirci, a sbalordirci; riesce a farci sbadigliare (2). Si vede proprio che il 
poeta si lascia trasportare balordamente, senza alcun freno. Ma se questa tendenza 
all’enfasi e alla sovrabbondanza gli veniva in parte dal carattere africano e da tutta 
la tradizione letteraria degli Africani (l’Antologia latina è piena di un tale secen- 
tismo), essa era anche molto favorita dalla generale tradizione retorica della lette- 
ratura latina. La retorica era il pane col quale si nutrivano le giovani generazioni 
romane nelle scuole: essa forniva i temi, i materiali, ed era impossibile che con 
simili materiali si evitasse il secentismo della forma. Draconzio, avvezzatosi per sua 
disgrazia alla declamazione poetica, cadde talora in essa persino nei carmi cristiani. 
Altra grande responsabile del fittizio e del vuoto che immiseriscono la tarda lette- 
ratura latina è la mitologia: sostituitosi con Valerio Flacco e con Claudiano l’epillio 


(1) Renaissance und Rococo in der ròmischen Litteratur, Berlin, 1865. L’Hertz medesimo intitola 
il suo lavoro semplicemente “ ein Vortrag ,; e difatti, per quanto riguarda il barocco, limita assai 
il suo studio, accorgendosi a ragione che il fenomeno ebbe la più saliente manifestazione in Africa, 
e studia in particolare l’opera di tre grandi africani: Frontone, Aulo Gellio ed Apuleio. Per quanto 
riguarda Apuleio vedi anche G. Borssier, L’'Afrigue romaiîne, p. 272-299. 

(2) Gli esempi sono numerosissimi; ne citerò almeno uno, tolto da quel De Zaudibus dei dove 
pure il poeta è più poeta (vv. 11 segg.); il poeta vuol dire che di tutte le vicende umane è au- 
tore Iddio: 

miseris hince atque beatis 
pro meritis morum, pro certo tramite vitae 
paupertas mors vita salus opulentia languor 
gaudia nobilitas virtus prudentia laudes 
affectus maeror gemitus successus egestas 
via potestatum, trux indignatio regum. 


Sembra un vocabolario, senza l'ordine alfabetico. 


73 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 95 


mitologico alla grande epopea, l'eleganza, la minuzia, la frivolezza, frutto di studio 
e di artificio, rinsanguarono la decadente poesia già fra i poeti pagani (1): nei poeti 
cristiani, per i quali il mito era morto, costituirono tutta la poesia. Il procedimento 
retorico più comune che noi troviamo negli epillii di. Draconzio è quello dell’antitesi: 
l’Oreste è, si può dire, tutto un tessuto di antitesi. Ed anche negli epitalamii, i carmi 
pagani meno guasti dall’artifizio, l’antitesi abbonda; esempio interessante a questo 
proposito ci offrono i versi del carme VII coi quali definisce l’amore (vv. 12 segg.) (2): 


impubes lascivus atrox violentus amoenus, 

lis pacis tacitusque loquax, fur garrulus audax 

nudus et armatus, ferus et pius, improbus insons. 
Le metafore ardite, comunissimo procedimento dello stile barocco, raramente sono 
cercate da Draconzio, più spesso gli sono suggerite dal testo biblico, e non si può 
dire che sempre egli le guasti e tolga loro la robustezza e l'efficacia che hanno nella 
Bibbia. Un bell'esempio è quel luogo del libro terzo del De laudibus dei, dov'egli 
parla delle sue colpe ripetendo in sostanza le ardite metafore della Scrittura (8). 
Draconzio del resto è fra coloro che ricevettero meno falsa impressione dalla let- 
tura della Bibbia, la quale fu per i cristiani una delle maggiori fonti di secentismo: 
in lui v'è quasi sempre un fondo vivo e simpatico di sincerità (4). Ciò accadde forse 
anche perchè l'argomento condusse il poeta ad attingere dalla Scrittura sopratutto 
quelle espressioni che parlano fortemente e profondamente del dolore e della mal- 
vagità umana, oppure della grandezza di Dio e della sottomissione a lui di tutte le 
cose create: sentimenti tutti profondamente radicati anche nell’anima di Draconzio (5). 
La sincerità è quella che spesso salva Draconzio dal formalismo secentistico nel quale 
tanti impulsi lo indurrebbero a cadere (6). Possiamo negare del suo secentismo ciò 
che abbiamo affermato della sua imitazione, negare cioè che esso sia in certo modo 
un procedimento costitutivo della sua arte: è un difetto grave e diffuso, dal quale 
egli non sa liberarsi, perchè il suo spirito, privo di forza, è incapace alla ribellione. 


(1) Ciò avvenne pure per l’influenza dell’Alessandrinismo in Roma. La illustra assai bene l’Hertz 
a proposito di Frontone (op. cit., p. 29 segg.). 
(2) Questi versi richiamano subito alla memoria quelli che sullo stesso tema scrisse il Marino 
(Adone, VI): 
Volontaria follia, piacevol male, 
Stanco riposo, utilità nocente, 
Disperato sperar, morir vitale, 
Temerario timor, riso dolente, ecc. 


(3) V. 3, 588 segg.; cfr. Psalm., 1, 5; 37, 5; 68, 2, 3. 

(4) V. Moxceavx, Hist. litt. de VAfr. chrét., I, p. 173; Cfr. S. Agostino, De doct. Christ., II, 14. 

(5) V. 3, 611-616, 645-647. 

(6) Naturalmente Draconzio usa anche in abbondanza, come tutti i poeti della decadenza, le 
figure retoriche, quali giuochi di parola, chiasmi, epanallessi ed altre simili abbominazioni. — Cfr. 
Vollmer, ediz. di Drac., p. 440-441. 


96 ETTORE PROVANA 7 74 


L'analisi dell’opera di Draconzio ci ha in parte svelato l’uomo e il poeta, in 
parte ce l’ha occultato; sciogliendo i problemi minimi si scoprono e si pongono, ma 
non si risolvono i problemi maggiori. Noi non abbiamo aspettato sin qui a cercare 
la conciliazione, la sintesi degli elementi diversi che l’analisi ci ha rivelato: sopra- 
tutto abbiamo cercato di spiegare come sia possibile conciliare l’imitatore e il poeta 
originale, spontaneo; ora rimane un’altra antinomia, quella fra il poeta pagano: e il 
poeta cristiano. So che per molti questo problema non esiste, od è di soluzione faci- 
lissima; il poeta cristiano, essi dicono, ce lo danno le credenze, le convinzioni, i 
sentimenti personali, quello pagano la consuetudine, la tradizione letteraria, l'am- 
biente di educazione e di vita (1). Io non nego che si possano trovare come due 
anime diverse in una stessa persona, e tanto meno che un poeta conceda all’an- 
dazzo, alla tradizione ciò che di proprio impulso non farebbe; ma per me questo è 
ancora il problema e non la soluzione. Per quanto riguarda Draconzio poi, il pro- 
blema tanto più si presenta in quanto abbiamo visto che gli elementi pagani e cri- 
stiani si confondono talora nei medesimi carmi, e in quanto, se l’arte sua più vera 
e più spontanea è quella dei carmi cristiani, tuttavia anche nei carmi pagani vive 
e palpita qua e là il suo spirito. La critica letteraria ha detto finora di Draconzio 
che è poeta riflesso e d’imitazione senz’altro, oppure che è tale nei carmi pagani, 
mentre è originale, o quasi, in quelli cristiani. Noi, astenendoci da queste distinzioni 
e classificazioni che non penetrano nello spirito dell'autore nè in quello dell’opera 
sua, notiamo anzitutto che in Draconzio la questione psicologica e la questione arti- 
stica sono strettamente congiunte, non solo per quegli elementi di sincerità e di 
spontaneità che troviamo anche nei carmi pagani, ma anche per il fatto della sua 
prigionia che tanta influenza ebbe sul suo spirito e quindi sull’indirizzo della sua 
opera letteraria. La fede che abbiamo veduto rinascere in cuore al poeta sotto l’im- 
pulso della sventura esisteva certo già in lui, e perfettamente sincera (come fede, 
se non come pratica), negli anni precedenti: non sarebbe altrimenti spiegabile il ri- 
torno ad essa. Non si può dire, io credo, che sia avvenuta nell'anima di Draconzio 
un'evoluzione religiosa : questa almeno non traspare dalle opere che ci sono perve- 
nute, come d’altra parte, data la cronologia che di esse abbiamo fissato, non appare 
un'evoluzione artistica. Certamente in Draconzio non vi fu evoluzione religiosa, nel 
senso che le sue convinzioni siano man mano mutate, avvicinandosi sempre più al 
dogma cattolico: piuttosto conviene ammettere una certa evoluzione del sentimento 
religioso. Ricordiamo che durante il carcere, anzi forse negli ultimi tempi, egli scrisse 
l’epitalamio di Giovanni e Vitula. e poco dopo la liberazione, l’epitalamio i fratribus, 
pieni entrambi non soltanto di immagini e di simboli mitologici, ma anche di uno 


(1) Questa è pure la soluzione del Dill, ammirabile talora per l’acutezza e la genialità delle 
sue osservazioni; pure egli non va molto più innanzi nello stadio lungo e minuzioso dell’opera di 
Sidonio Apollinare, che presenta caratteri analoghi a quelli di Draconzio. Verissima l’influenza della 
scuola e della tradizione, verissima anche la sincerità del sentimento cristiano; ma ciò significa 
che, o fra i due fatti ugualmente veri non v'è contraddizione, o che qualche cosa di più intimo 
concilia nello spirito gli elementi opposti. Ma che fra le due tendenze non vi sia opposizione di 
sorta, è cosa assurda che nessuno vorrà ormai sostenere. Cfr. A. Grar, Roma nell’immaginazione e 
nelle memorie del Medio Ero, Torino, 1883, vol. II, p. 155; V. anche p. 368. 


75 BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 97 


spirito pagano nel modo di concepire e di rappresentare l’amore. Anche nel De 
laudibus dei vedemmo che dell’amore e della donna il poeta serba un concetto 
e un sentimento in parte pagano: l’unione sessuale per lui non cessa di essere un 
piacere, come piacere egli la domanda al suo Dio, e nella donna egli esalta ed 
apprezza sopratutto la bellezza delle forme e la fecondità di madre (1). È curioso 
il fatto che quasi sempre nel De laudibus dei, quando vuol portarci esempi dell’ira 
o della bontà divina, fa consistere pena e premio nella fecondità tolta o ridonata; in 
principio del De raptu Helenae insiste sul valore della donna come madre, e madre 
nel senso di procreatrice e nulla più (2). Veramente questo concetto si avvicina 
assai più all’ideale cristiano della donna, che quello che la considera come puro stru- 
mento di piacere; ma non è ancora il vero concetto cristiano, che dà alla donna un 
valore indipendente, spirituale, e, come madre, la considera non solamente strumento 
di procreazione, ma elemento indispensabile all’educazione, alla formazione spirituale 
dei figli. Draconzio parla anche sovente con lode della castità; ma apprezza assai 
più nella donna l'onestà, la fedeltà di sposa, e nelle sue poesie non s'incontra mai 
il nome della Vergine, pur presentandosene più volte l'occasione. Certamente tutto 
questo ha un'importanza molto relativa, e non ci dà affatto il diritto di concludere 
che Draconzio fosse fondamentalmente uno spirito pagano: solo ci spiega in parte 
come anche gli argomenti pagani potessero interessare sotto un certo aspetto il suo 
spirito. Nè soltanto troviamo in Draconzio una tendenza paganeggiante per quanto 
riguarda l’amore, ma anche per ciò che riguarda il sentimento affine e più generale 
della natura. Il Gamber (3) osserva che la natura parla ai poeti della creazione, 
che egli studia comparativamente, un linguaggio nuovo e commovente, e mentre il 
paganesimo non vi scorgeva che linee e forme e una perpetua festa dei sensi, essi 
vedevano nella natura il creatore; e aggiunge: “ Sans doute, ici encore, malgré la 
tendance morale et religieuse qui se révèle, il arrive souvent que le pinceau demeure 
profane, et que l’imagination se reporte aux lieux célèbres de la fable immortalisée 
par les auteurs paîens ,. Sono due ottime osservazioni che si possono applicare benis- 
simo anche a Draconzio; ma questo sentimento della natura, se non è per nulla 
anticristiano, tuttavia in Draconzio non si trasforma affatto in misticismo nè pro- 
fondo, nè superficiale. È un puro e semplice sentimento della natura: leggendo il 
De laudibus dei come qualsiasi altro dei migliori brani descrittivi, vi si trova il pit- 
tore della natura, pieno di affetto e di ammirazione per essa, anche indipendente- 
mente da ogni sentimento religioso. Quando il poeta, dopo averci descritto in quel 
bellissimo brano da tutti citato, il volo e il canto degli uccelli, conclude dicendo 
“ et puto conlaudant dominum meruisse creari , (4), aggiunge molto graziosamente 
uno spunto religioso alla sua descrizione, ma non toglie proprio nulla, anzi corona 
assai bene con quel “ meruisse creari , la compiacenza tutta oggettiva e il senti- 
mento profondo col quale ha descritto lo spettacolo naturale, ammirandolo di per 


(1) Solo esempio in contrario è quello di Giuditta che (3, 480). “ Holofernem castissima finxit 
amare ,. 
(2) Cfr. vv. 6 segg. 
(3) Le livre de la Genèse, p. 178. 
(4) L. d., 1, 241 segg.; V. anche la bella descrizione dei pesci, che precede immediatamente. 
Serie II. Tox. LXII. 13 


98 ETTORE PROVANA 76 


se stesso. E così accade in molti altri casi. Quindi Draconzio non ha per nulla un 
sentimento mistico della natura, e tanto meno quel disprezzo che altri ebbero per 
essa, in nome del puro ideale cristiano, come a nemica della vita interiore dello 
spirito. Ed appunto in questo profondo senso della natura in tutte le forme e in tutti 
gli aspetti (non escluso l'aspetto umano), io trovo l'elemento conciliativo del paga- 
nesimo e del cristianesimo di Draconzio. È un elemento sentimentale, perchè quasi 
sempre quando nel campo razionale v'è inconciliabilità, bisogna cercare la concilia- 
zione nel campo del sentimento. In questo fondamentale amore alla natura e alla 
vita viva si poteva benissimo innestare tanto la tendenza pagana a dare un sommo 
valore all'universo e all'uomo di per se stessi, quanto quella cristiana a riconoscere 
nell'universo e nell'uomo null'altro che la manifestazione del divino dal quale tutte 
le cose dipendono. Egli è pagano quando nei Romulea o nei carmi cristiani si com- 
piace di ciò che la natura gli offre di bello indipendentemente da ogni altra consi- 
derazione, e allora anche il simbolo pagano rivive nel suo spirito, ed egli lo usa 
naturalmente, senza sforzo alcuno: è cristiano quando il bello e il buono della natura 
lo spinge a lodare la bontà provvidenziale del Creatore. Sopratutto questo sentimento 
della bontà divina lo rende cristiano: nel mito stesso egli vede due serie di simboli. 
i buoni e i malvagi; e se usa volentieri i primi, dimostra talora antipatia profonda 
per gli altri. Onde nella mitezza naturale del suo animo noi troviamo un altro ele- 
mento di conciliazione che lo porta a trasformare il suo naturalismo pagano in un 
sincero entusiasmo cristiano: in lui è veramente profonda e libera questa concilia- 
zione tra lo spirito e la materia, Dio e il mondo, la morale ed il piacere: ciò che 
succede in tutti i tempi in tutte le anime più miti, più serene, più buone. 
Draconzio è anche alquanto ingenuo, cosa naturalissima in un temperamento 
come il suo. Abbiamo notato in qualche punto talune sue espressioni ingenue; ma 
più che dai particolari, l'’ingenuità si manifesta dal tono generale, semplice e fan- 
ciullesco: si manifesta non soltanto nel pensiero bambino, nella facile credulità, nel- 
l’avversione ai problemi più gravi, ma nella semplice ed efficace espressione dei 
sentimenti più affettuosi e famigliari. Ed è questa ingenuità e freschezza del suo 
spirito quella che ce lo fa apparire talora psicologo. Pare a primo aspetto una con- 
iraddizione, un assurdo, perchè la psicologia vuole acutezza e maturità di riflessione; 
ma per il nostro poeta, come in generale per tutti i poeti, la cosa è diversa. Dra- 
conzio ci descrive Adamo che appena creato volge l’oechio curioso e stupefatto ad 
ammirare ad una ad una le cose che gli stanno intorno, e solo da ultimo rivolge 
l'occhio a se stesso; e poi si domanda in qual relazione mai egli sì trovi col resto 
del creato, e poi osservando i rapporti che passano fra gli animali, sente la propria 
solitudine, e si domanda perchè mai, mentre gli animali vivono in società, egli 
si trovi solo (1). Ora nessuno vorrà sostenere che Draconzio abbia fatto per com- 
porre quei yersi così spontanei e così belli, tutto uno studio psicologico sul formarsi 
della coscienza dall’esterno all’interno, e sull’anteriorità dell’intuizione sopra i pro- 
cedimenti riflessi dello spirito, fatti di confronti e di analogie. Certamente no: egli 


si è messo, si è sentito nella condizione stessa di Adamo e ne ha ricevute le stesse 


(1) V. L. d., 1, 348-359. 


VAI BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 99 


impressioni fresche e primitive. Egli dà, è vero, del simplex ad Adamo, perchè ignora 
la causa e il fine della propria esistenza: ma sembra il bambino che dà dell’asino 
all’altro perchè non sa una cosa, mentre poi in fondo non ne ha egli stesso un'idea 
più chiara. Nè Draconzio ci dice affatto: “ quid sit homo, quos factus ad usus ,, 
il che egli rimprovera Adamo di non sapere. E questa psicologia fresca e spontanea 
vedemmo che si manifesta non soltanto nel De laudibus dei, ma anche nei carmi 
minori, come nella Fadula Hylae e qua e là nel De raptu Helenae e persino nella 
Medea, sopratutto poi nell’Epithalamium Joannis et Vitulae. Così l’uomo e l'artista, 
data la sincerità fondamentale della sua arte (che si manifesta non meno nei pregi 
che nei difetti), formano in Draconzio una cosa sola; onde in lui si possono e si 
debbono conciliare le opposte tendenze di spirito. 

La fantasia di Draconzio non è ricca: egli ripete molto sovente ‘le stesse imma- 
gini e gli stessi esempi: è piuttosto una fantasia viva, la quale riesce spesso a rap- 
presentare all'evidenza gli oggetti. Non è forte e creatrice, possiamo dire, mai; dove 
l'invenzione è tutta di Draconzio, difficilmente egli si salva dal mostruoso e dal 
grottesco; la sua originalità consiste piuttosto nel colorito nuovo, sentimentale di 
ciò che descrive. Il De laudibus dei è tutto pieno di questo sentimento, e vi si riscontra 
la frequenza di quei motivi, che si chiamano volgarmente romantici, come la quiete 
notturna, e lo splendor lunare, e le ombre dei boschi. Certo la massima parte dei 
carmi di Draconzio è occupata da descrizioni, e questo ne costituisce sotto un certo 
aspetto la debolezza. Fu osservato a ragione che la prevalenza dell’elemento descrit- 
tivo è fenomeno generale di tutte le letterature in decadenza; e sono descrizioni 
molto minute, che scendono ai minimi particolari, facendo sì che in essi si smar- 
risca la visione complessiva, e che il lettore resti annoiato e infastidito. Sono osser- 
vazioni verissime; ma io non direi che la descrizione anche minuta sia sempre 
condannabile: può essere anch'essa animata o da uno spirito sottile, grazioso di 
osservazione, o più ancora dal sentimento, dall’affetto anche per le cose minime. 
Draconzio, insieme con alcune descrizioni a brevi tratti efficaci, ci offre in numero 
considerevole descrizioni minute, aride, stucchevoli, giunge fino al più pedestre tipo 
della descrizione, alla semplice enumerazione. Ma spesso egli riesce a farci sentire 
quella specie di compiacenza, di simpatia, che lo lega all’oggetto che descrive; e 
allora anche la più minuta descrizione non stanca, perchè è tutta viva di calore e 
intimità di sentimento: sovente egli descrive la cosa îw fieri (1), sovente pur descri- 
vendo tutti i particolari li unifica in un concetto al quale tutti ritornano (2). Insieme 
con l’elemento descrittivo, occupa nella poesia di Draconzio un posto preponderante 
l'elemento sentimentale e passionale. Ma se l’espressione dei sentimenti proprii è 
quasi sempre sincera e felice, benchè talora egli insista troppo e troppo si ripeta, 
quella dei sentimenti altrui, sentimenti molto lontani dalla sua anima, è general- 
mente imperfetta, esagerata, falsa. Draconzio non riesce ad uscire da sè e a farsi 
per ragioni d’arte una psicologia diversa dalla propria; se egli si trasforma un 
momento in Adamo, o in Hylas, è perchè ad essi egli impresta, e molto felicemente, 


(1) Cfr. ad es. la descrizione della creazione dell’uomo, L. d., 1, 382 segg. 
(2) L. d., 1, 570 segg. 


100 ETTORE PROVANA — BLOSSIO EMILIO DRACONZIO 78 


la sua anima. In sostanza i caratteri della poesia di Draconzio sono assai più lirici 
che epici: il lirismo sincero che egli irasfonde nell’opera sua le dà tutto il valore e 
tutta la vita. La poesia di Draconzio non è certamente grande, è appena mediocre; 
sincera manifestazione di uno spirito buono e addolorato, fra la miseria di una let- 
teratura tutta futile, vuota, falsa, suscita più la simpatia che l'ammirazione, ed io 
credo che l'antico poeta sarebbe d'accordo con me nel preferire un po’ della prima 
che molto della seconda. : 


Osservazione. — A rendere completa la presente irattazione, sarebbero necessarii ancora la 
ricerca e lo studio della foriuna che l’opera di Draconzio ebbe presso i contemporanei e durante 
il Medio Ero. Ma la ricerca è stata fatta in modo esauriente dal Vollmer nella sua prefazione 
(p. vin segg.); e i materiali scoperti sono tanto pochi e miserabili che ogni studio su di essi riu- 
scirebbe ozioso. Opporiunamente il Vollmer si oppone alle esagerazioni nelle quali è incorso per 
questa partie il Manitius; sarebbero forse da mettere alirettanto in dubbio le conelusioni del Helm 
a proposito del mitografo Fulgenzio, quale imitatore di Draconzio. io non credo sicurissimo nessimo 
dei riscontri stabiliti dal Helm, il quale del restio non lì da neppure come tali. — Credo opporiano 
solianio di dare l'elenco dei lavori che precedettero quello del Vollmer: 

Awaxs, De Corippo priorum poziarum imitoiore, Oldemburg, 1888. 

Bisre, Disseri. (su Draconzio e Patricius), Marpurg, 1891. 

Ezx1s, Journal of philology, V (1874), p. 252. 

Hz, Der Bischof Fulgentius und der Myihograph; Rhein. Mus., LIV (1899), p. Lil. 

Masrrros, Zeifschrifi far Gsierr. Gymnasiza, 31 (1886). p. 245 segg. e p. 407 segg. 

Ip. Wiener Siizungsb., CXII (1886). 2, p. 579 sese. 
Ip. Neues Archiv, Xi (1886), p. 553 sege. 
Ip. Wiener Siizungsb.. CXVII (1888). 12. p. 15. 


LA LOGICA ARISTOTRLICA, LA LOGICA KANTIANA RD HEGBLIANA 


E LA 


LOGICA MATEMATICA 


CON ACCENNO ALLA 


LOGICA INDIANA 


MEMORIA 


DEL SOCIO 


PASQUALE D’ERCOLE 
Approvata nell'adunanza del 10 Dicembre 1911. 


Dividerò e tratterò in varii punti la quintuplice forma di Logica enunciata nel 
titolo. 

Il primo punto è che questa quintuplice forma di Logica si riattacca nel modo 
più intimo al mio scritto già pubblicato ed intitolato: L’Essere evolutivo finale come 
tentamento di una nuova concezione ed orientazione del pensiero filosofico uscente dal- 
l’Hegelianismo. E si riattacca in guisa che la concezione, la posizione e la soluzione 
delle indicate forme logiche dipendono in tutto e per tutto dal medesimo. 

Il secondo punto concerne la importanza della trattazione delle enunciate forme 
logiche. 

La importanza, quanto alla Logica aristotelica, è addirittura immensa, in quanto 
sì fatta Logica conta ormai 24 secoli di esistenza, di ammirazione e di attuazione 
nel pensiero umano in genere e nel pensiero filosofico in ispecie. 

Per ciocchè concerne la importanza della Logica kantiana, benchè questa, rela- 
tivamente al tempo, conti poco più di un secolo di esistenza, pur la sua importanza 
è assai grande, in quanto, da una parte, continua ed ulteriormente esplica la Logica 
aristotelica, dall’altra, prepara la via, l’indirizzo e la stessa materia alla susseguente 
Logica di Hegel. 

Quanto poi alla Logica hegeliana, se la sua importanza rispetto al tempo è 
immensamente minore della aristotelica, e, relativamente, della stessa kantiana, con- 
tando appena circa un secolo di vita, pur non di meno, considerata come entità del 
fatto logico in sè stesso, è grandissima anch’ essa. Giacchè, la Logica hegeliana, da 
una parte, riattaccandosi e contrapponendosi come reale od ontologica alla aristotelica 
ritenuta e detta formale, e, dall’altra, sviluppando, integrando e realizzando in un 
compiuto organismo dialettico il tentativo ontologico kantiano, è divenuta il più impor- 
tante fatto e pensiero logico de’ tempi nostri. 


102 PASQUALE D'ERCOLE 2 


Quanto alla importanza della così detta Logica matematica, tale importanza 
rispetto al tempo è di bel nuovo assai minore non solo della 24 volte secolare ari- 
stotelica, e della poco più che secolare kantiana, ma della stessa secolare hegeliana. 
Giacchè la Logica detta matematica conta soltanto pochi decennii di vita, ed anzi, 
nella sua ultima determinata forma, appena una ventina d'anni. 

E da ultimo, per ciocchè concerne la importanza della Logica indiana, tale impor- 
tanza è grandissima anch'essa; in primo luogo, perchè la Logica indiana è una reale 
e vera forma logica distinta dalle altre, e pensata ed esercitata da un popolo anti- 
chissimo tuttora pensante e logicante con essa; in secondo luogo, perchè, rispetto 
alla universale evoluzione della Logica in genere, la Logica indiana è la prima ma- 
nifestazione, avente ragion di essere come le altre. A queste ragioni essenziali potrei 
aggiunger l’altra di opportunità; ed è che essa è assai poco conosciuta, ed è invece 
degnissima di esserlo, il che avverrà coll’accenno mentovato della medesima. 

Un'ultima considerazione rispetto alle predette forme logiche, e specialmente 
rispetto alla sequela storica delle medesime, è la seguente. Che, cioè, benchè la 
indiana sia la prima in ordine di tempo, pur non nuoce, anzi giova di esporla, e trat- 
tarla in ultimo, perchè essendo essa di un tipo abbastanza dissimile dalle altre enun- 
ciate, sarà più agevole di intenderne ed apprezzarne la natura dopo aver esposte 
quelle che rappresentano lo sviluppo maturo e razionale rispetto ad essa. 

Il terzo punto concerne lo scopo della trattazione delle predette Logiche. Il quale 
scopo è quello di determinare quale è la vera natura di ciascuna di esse, consi- 
derandole sì dal punto di vista storico, epperò evolutivo, sì dal punto di vista 
teoretico. 

Di tutti questi punti dunque tratterò separatamente, cominciando dalla Logica 
aristotelica. 


I 


La Logica aristotelica. 


Aristotele è stato detto il Padre della Logica. 

Sorge subito la quistione: Ma non c'è un’altra Logica prima della sua? e se ce 
n'è un’altra, in qual relazione sono quest'altra e la aristotelica, da una parte, dal 
punto di vista della anteriorità e della posteriorità, dall’altra, dal punto di vista della 
evoluzione storica dall’una all’altra ? 

La risposta a tal quistione sarà più opportunamente fatta e compresa dopo la 
trattazione e giudicazione di tutte le predette Logiche. E veniamo alla Logica ari- 
stotelica. 

Innanzi tutto è bene di allegare le Fonti della nostra esposizione e trattazione. 

Tutti intendono che la prima ed essenzial Fonte è Aristotele stesso e questa 
noi avrem sempre presente nel testo originale. Aggiungiamo solo che, come Aristo- 
tele, specialmente attraverso del Medio evo e del Rinascimento, è stato ripensato e 
riferito nella famosa traduzione latina “ interpretibus variis ,, riconosciuta come 


Cna Pelle Pau 


3 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 103 


giusta interpretatrice del grande filosofo greco, così noi ci serviremo anche di questa, 
allegandola persino ordinariamente accanto al testo greco. 

La edizione de’ due testi che noi abbiam presente e seguiamo è quella della 
“ Academia Regia Borussica, Berolini, 1831-1836 ,, fatta da Emanuele BeKKER e da 
Cristiano Augusto BRANDIS. 


Altre Fonti importantissime sono le seguenti : 


Severino Boezio (l’infelice e insigne filosofo, condannato a morte e fatto uccidere 
dal re Teodorico). Egli è uno de’ più benemeriti della Logica aristotelica come tradut- 
tore e illustratore degli scritti logici di Aristotele: Aris. StAG., Organum, Boethio 
Sever. interp. etc., Venetiis, 1547. 

Geschichte der Logik ete., von D.r Carl PraNTI, che è un’opera addirittura mo- 
numentale nel suo genere. 

System der Logik und Geschichte der Logischen Lehren von D. Friedrich UEBERWEG, 
4° Aufl., Bonn, 1874: opera eccellente anche questa, dovuta al merito e alla giusta 
fama di quell'uomo, che ha lasciato durevole traccia di sè anche nella Storia della 
Filosofia. 

Aristotelis Organon ete., edidit Theodorus Warrz Philos. Dr. Lipsiae, MDCCCXLIV: 
importantissima e stimatissima opera in due volumi contenenti il testo greco e il 
commento di lui al medesimo. 

D. Eduard ZeLLer, Die Philosophie der Griechen ete., nella quale (zweiter Theil, 
zweite Abtheilung) vi è un volume speciale, di quasi un migliaio di pagine, trattante 
di Aristotele. 

Dello stesso Zeller è fonte anche preziosa il suo Grundriss der Geschichte der 
griechischen Philosophie, specialmente nella 10% edizione del 1911 (Leipzig) elaborata 
(bearbeitet) dal D.r Franz LortzINe. 

TrENDELENBURG, Elementa logices Arist., Berolini, 1836, 9* ediz. 1892: notissima 
e importante operetta. 

Barthelemy Sarnr-Hirarre, Logique d'Aristote, traduite, ecc. 4 vol. 


Alle Fonti già indicate, che son le più importanti, aggiungerò quella del nostro 
Garcuppi che ha due opere sulla Logica, l’una quella degli Elementi di Filosofia, in 
cui ha una lunga trattazione della Logica pura; l’altra, amplissima, quella delle 
Lezioni di Logica e metafisica; e, occasionalmente, forse anche qualche altra Fonte, 
per esempio quella di Ruggiero BoncHI. 

E ora vengo alla indicazione ed esposizione degli scritti logici aristotelici. 

Gli scritti logici o l'Organo (tò doyavor) della filosofia aristotelica. 

È opportuno riferire una osservazione che fa il Warrz (Arist. 0rg., II, 293 ss.), 
e che accoglie e riferisce anche il ZeLLeR (nel suo terzo volume precitato, pag. 187, 
nota 3), sulle denominazioni di Logica ed Organo. Questi cioè dice che “ presso gli 
“ espositori greci fino al sesto secolo , non si trova nè l’una nè l’altra di queste deno- 
minazioni come l’espressione tecnica e generalmente accettata degli scritti logici di 
Aristotele: ma che però più tardi questi vengono “ già denominati organici (6oy@- 
“ vizd), perchè essi si riferiscono all’doyavov (ovvero all’ooyavizòv uéo0o0s) piAo- 
“ COpias ,. 


104 PASQUALE D'ERCOLE bi 
Cid posto, gli scritti logici costituenti l'Organo sono: 


1° Le Categorie (Kamtzyogior): 

2° De Interpretatione (I/egì “Eounveias) ;- 

3° I Primi Analitici (due libri): ‘AveZvtizà m96te90:; 

4° I Secondi (o Posteriori) Analitici: ‘Ava4vizà sote00; 

5° I Topiei (8 libri): Toruzd; 

6° Gli Elenchi Sofistici (De Sophisticis elenchis): Zoqpiotizoè “Eeyyor. 


Le Categorie. Questa prima parte degli scritti logici aristotelici è importantis- 
sima, perchè essa costituisce come un anello di congiunzione tra la Logica e la Me- 
tafisica di Aristotele. Il lor significato e la loro estensione appartengono e si allar- 
gano ad entrambe queste parti del pensiero filosofico aristotelico. 

Il significato è che essi esprimono i supremi pensabili, cioè, i supremi concetti 
sotto cui cadono e si aggruppano nel nostro pensiere gli oggetti della universale 
realtà. 

Il numero di tali supremi pensabili, ovvero delle categorie, secondo Arist., è, 
notoriamente, di dieci: infatti, egli dice (Xateg., cap. 4, all’inizio): TOv zatà unde- 
uiav ovurhozizv heyouévaov Ezactov fjTor oùciov cnuaiver 7) tocòv 7 smoròv Î 1796 
t 7) où 7 motè 7) zeicdoer 7 Eyeuv 7 noreîv 7} ndoyew. La traduzione latina men- 
tovata di questo luogo suona : È Eorum quae sine coniunctione dicuntur, unumquodque 
“ aut substantiam significat aut quantum aut quale aut ad aliquid aut ubi aut quando 
# aut situm esse aut habere .aut agere aut pati .. 

Il predetto numero e la denominazione delle Categorie son anche riferiti in modo 
chiaro e preciso nei Topici (I, 9, al principio) come segue: éorr dè TedTA (scilie. tà 
yévn TtOVv zamnyogrov) tòv dorduòv déza, ti éoti, moGdv, moròv, To0s TL, ITOÙ, TOTÈ, 
zeicdar, Eyev, soreiv, adogewv (1). 

Per lo scopo che io mi propongo non posso entrare in tutte le particolarità, 
nelle quali entra la maravigliosa mente analizzatrice di ArisroreLe. Ma come rias- 
suntivo dell’essenziale a tal riguardo allegherò il seguente luogo del ZELreR (loc. 
cit., pag. 267). 

“ Fra le singole Categorie, dice questo, la più importante è di gran lunga la 
“ Sostanza, della quale in seguito dovrà parlarsi più diffusamente. La Sostanza, in 
“ senso stretto, è sostanza singola. Ciocchè si lascia dividere in parti è un Quanto — 
“ (ein Quantum); se queste parti son divise (getrennt), il Quantum è discreto, una 
“ Moltitudine (Menge): se esse sono insiem congiunte, il Quantum è una Grandezza; 
“ se sono in una determinata posizione (4015), la Grandezza è spaziale; se poi le 
« parti son soltanto in un ordine (t@É:5) senza posizione, allora la Grandezza non è 


(1) Vedi pei due luoghi greci Zerrer, 3° vol. citato, pag. 259; e nel testo greco stesso, vedi 
Arisr., Karzy., cap. 4° e Toziz@ al luogo indicato. 
Secondo il gusto e l’uso de’ versi memoriali, queste 10 Categorie furono espresse dal seguente 
distico: 
Arbor sex servos calore refrigerat ustos: 
Cras ruri stabo, sed tunicatus ero. 


5 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 105 


“ spaziale (ist eine unriiumliche). L’Indiviso (das Ungetheilte) o l'Unità, per mezzo 
“ di cui vien conosciuta (erkannt) la Grandezza, è la Misura della Grandezza stessa; 
“ ed è questa appunto la nota distintiva della Grandezza, che essa è misurabile, che 
“ ha una Misura. Come la Quantità spetta (zukommt) al Tutto sostanzialmente di- 
“ visibile, così la Qualità esprime le distinzioni mediante le quali vien diviso il'Tutto. 
“ Giacchè per Qualità in senso stretto Aristotele non intende altro che la nota distin- 
tiva, o la determinazione più vicina, in cui si specifica un dato Generale. E come 
le due specie principali delle Qualità egli designa quelle che esprimono una deter- 
minazione essenziale, e quelle altre che esprimono un movimento od attività. In 
altro luogo egli novera quattro determinazioni qualitative come le principali; ma 
queste però si lasciano sottordinare a quelle due, Siccome nota propria della Qua- 
lità vien considerato il contrapposto di Simile e Dissimile. Del resto, l’istesso Ari- 
stotele è imbarazzato nel conterminare questa Categoria verso altre. Al Relativo 
appartiene tutto ciò, la cui propria natura o essenza (Wesen) consiste in un deter- 
minato comportarsi verso altro; e come tale il Relativo è quella Categoria cui 
corrisponde la minima realtà. Aristotele distingue di esso tre specie, le quali però 
si lasciano ridurre a due. Ma in ciò egli non rimane eguale a sè stesso; ed ancor 
meno sa evitare più di una miscela (Vermischung) con altre Categorie, ovvero ot- 
tenere una nota sicura di quella costituente il Relativo. Le altre Categorie furono 
da Aristotele sì brevemente trattate nello Scritto delle Categorie, che anche noi 
non possiamo trattarne più diffusamente ,. 

E basti di ciocchè concerne le Categorie, e passo a dire del secondo scritto del- 
l'Organo, cioè del 


“ Ilegì &ounveias ,, o De Interpretatione. Rispetto al tempo in cui fu composto 
questo scritto, è bene di rilevare, che esso fu composto dopo gli Analitici, come lo 
stesso ArisrorELE dice chiaramente ed esplicitamente al cap. 10 di questi. 

L'oggetto di questo piccolo trattato dell’Ermeneia è la proposizione, e non nel 
senso di pura e semplice proposizione grammaticale, ma di proposizione logica od 
esprimente un pensiere logico. 

AristorELE, analizzatore per eccellenza, comincia coll’esaminare e stabilire gli 
elementi della proposizione stessa, i quali non sono altro che i nomi delle cose. E 
comincia a farlo con una osservazione importantissima intorno al nome (rò dvopo) 
e al verbo (rò é7ua), la quale è che i nomi prima della loro unione, sia tra loro sia 
col verbo, non esprimono nulla di vero e di falso. Ed anzi, secondo lui, quando si 
dice nome ($vou@) in senso lato, vi si comprende anche il verbo (é7u@). Ilegì yào 
(dic'egli al Capo I dell’Ermeneia) c6v3e00v zaì diaigeciv fori tò Weddos rai tò dAndés 
(nella corrispondente traduzione latina: “ nam in compositione et divisione est ve- 
“ ritas aut falsitas ,). 

Quando poi col collegamento e colla divisione delle parole, ossia dei nomi, co- 
mincia la verità e la falsità, allora il nome, come specificamente logico, è propria- 
mente Z6yos. Uno scrittore che ha rilevata bene la differenza di dvoua e di 46y0s 
è il Brese (Die Philosophie des Aristoteles, Berlin, 1835, I Bd., p. 55 e 90), dicendo 
che “ Z6yos designa la parola in quanto è espressiva del pensiere ,. In altri termini, 
A6yos è la parola logica per eccellenza. 

Serie II. Tox. LXII 14 


106 PASQUALE D'ERCOLE 6 


Altra cosa notevolissima è che, secondo Aristotele (ZZeoì ‘Eounvetas, c. 4), ogni 
discorso, 46yos, è significativo di alcun che (o7uavtizés);... ma non ogni discorso 
è enunciativo, giudicativo (&r0gartizés), si bene quello che ha che fare (6rr@0ye1) 
col vero e col falso. E soggiunge, ad esempio, che la preghiera (e0%7, deprecatio) 
è certamente un discorso, ma non è nè vera nè falsa. Son dunque la verità e la 
falsità che costituiscono la proposizione logica, o il giudizio, il quale senza di esse 
non sorgerebbe nè verrebbe ad esistenza. 

Che il giudizio sia da Aristotele così concepito, ha una importanza straordinaria 
rispetto alla quistione della Logica formale e della Logica reale od ontologica. 

Comunemente si dice che la Logica di Aristotele è formale. Ciò è vero in certi limiti 
e non in tutto e per tutto. Infatti, il dire che un giudizio è tale soltanto rispetto 
alla verità ed alla falsità, val tanto quanto dire che un giudizio è vero o falso se- 
condo che esso è conforme o non conforme alle cose, ossia alla realtà. Per forma 
che un giudizio non potrebbe neppure aver luogo, se, a così dire, non sorgesse ed 
anzi non fosse prodotto dalle stesse cose reali. 

Il TrENDELENBURG, autorevolissimo in tal materia, dice (1): “ Senza un tal rap- 
“ porto alle cose non v'è alcun giudizio ,. E, conformemente a ciò, lo stesso Tren- 
delenburg ne’ suoi Elem. logic. Arist., p. 63, aggiunge: Aristotelem, qui quidem enun- 
ciationis naturam in rerum verîtate positam esse voluit etc. Del resto, già in antico 
aveva pensato ed espresso lo stesso Borzio (nel cit. Arist. Stag. Organum, ete. pag. 6) 
dicendo: “ Sed denominationes istae (scilic. categoriae) ex rebus pendent ete. , 

Ciò posto, passiamo a dire del giudizio, 0, che vale lo stesso, della proposizione 
logica. E per l’esposizione di questo punto, ne’ limiti dello scopo che ci proponiamo, 
ci varremo degli stessi Analitici, i quali furon composti prima dell’Ermeneia, e nei 
quali Aristotele ne aveva appunto trattato. 


La Proposizione (Io6racis) (2). La definizione che ne dà Aristotele è la seguente: 
Io6taois uèv oòv gori Adyos zatapartizòs Î) daropatinòs tivÒòS rata tIVOG: cioè: “ La 
“ proposizione è un discorso affermante o negante alcunchè di alcunchè ,. E la fa- 
mosa traduzione latina ha: “ Propositio igitur est oratio affirmans vel negans aliquid 
“ de aliquo ,. 

Subito appresso, determinando l’estensione e la specifica natura della proposi- 
zione, o del predetto discorso, dice: oòrog dè 7) xaddAov 7) év uéger 7) dÒLdototos. 
Agya dè xa96Aov uèv tò mavtì 7) undevì èragyer, èv uéoer dè tÒò ivÌ 7) più) mavti 
brdoyewv,: dòborotov dè tÒò drrkogew 7 ui) badogerv dvev toùò xad64ov, 7) xatà né00s, 
oîov tò tOv évavtiov eivar tv aùtiv érot)UNv i) tò Tv Qdov)v ui) sivar dyaddv. 
Cioè, nella traduzione latina: “ Haec (scilic. oratio) autem aut est universalis, aut 
“in parte (particolare), aut indefinita. universale appello omni aut nullo inesse. in 
“ parte vero, alicui aut non alicui aut non omni inesse. indefinitum autem, inesse 
“aut non inesse absque universali aut particulari nota, veluti contrariorum eandem 


(4 


esse scientiam, aut voluptatem non esse bonum ,. 


(1) In Erlauterungen zu den Elementen d. aristot. Logik, 2° Aufl. Berl., 1861, pag. 6. 
(2) In Warrz, Aristotelis Organon etc., vol. I, pag. 368, vi è una interessante nota sulla voce 
nodtacis e le corrispondenti in Cicerone, negli Stoici ecc. 


{ LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 107 


E qui ad ulteriore intelligenza della cosa, debbo ricordare al lettore, la famosa 
distinzione delle quattro forme di proposizioni che rappresentano una parte rilevante 
nella funzione del Sillogismo, cioò la universale affermativa, la universale negativa, la 
particolare affermativa e la particolare negativa designate nelle Logiche aristoteliche 
delle scuole colle note iniziali di «, e, î, 0, prendendo @ ed i da affirmo ed e ed o da 
nego (1). i 

Richiamo egualmente l’attenzione del lettore su di un’altra particolarità ricor- 
rente poco appresso nel luogo stesso e riattaccantesi a ciocchè è testè detto, che, 
cioè, il dire di una cosa che è interamente in un’altra val tanto quanto dire che 
essa è interamente attribuita ad un’altra (xatà martòs xatnyogeîodai); e, viceversa, 
che il dire che una cosa non è in alcun modo (xartà undev6s) in un’altra, valtanto 
quanto dire che essa non è in alcun modo attribuita all’altra. Tutti riconosceranno 
nelle due espressioni del x@zà mavtòs e del xatà undevòs xatnyoostoda. la famosa 
corrispondente espressione latina del Dictum de omni et de nullo (2). 

Avendo testè detto che nel trattare della Logica aristotelica mi sarei limitato 
ai punti fondamentali, v'è rispetto alle proposizioni un altro punto che è senza dubbio 
tale e che non posso a meno di riferire. Questo concerne le regole della conversione 
di esse, e ricorre (ibid.) al paragrafo secondo; e per migliore intelligenza ed apprez- 
zamento lo allego nella sua integrità. Però nell’allegarlo, sì perchè è comunemente 
nota la lingua francese, sì per la grande autorità che ha un traduttore delle opere 
aristoteliche, quale è il BarrHafLemy pe Saint-HrLatrE, mi valgo della tradu- 
zione di lui. 

“ Comme toute proposition (così quest’ultimo) exprime que la chose est sim- 
“ plement, ou qu'elle est nécessairement, ou qu'elle peut étre; et que dans toute 
“ espèce d’attribution, les propositions sont affirmatives ou négatives; comme, de 
“ plus, les propositions affirmatives et négatives sont tantòt universelles, tantot par- 
“ ticulières, tantòt indéterminées, il y a nécessité que la proposition simple univer- 
“ selle privative puisse se convertir en ses propres termes; par exemple, si aucun 
“ plaisir n’est un bien, il faut nécessairement aussi qu'aucun bien ne soit un plaisir. 
“ La proposition affirmative doit aussi se convertir, non pas en universelle, mais 
“en particulière ; si, par exemple, tout plaisir est un bien, il faut aussi que quelque 
“ bien soit un plaisir. Parmi les propositions particulières, l’affirmative se convertit 
“ nécessairement en particulière; car si quelque plaisir est un bien, il faut aussi 
“ que quelque bien soit un plaisir. Mais il n'y a pas de conversion nécessaire pour 
“ la proposition privative: en effet, si homme n'est pas attribuable è quelque animal, 
“ il ne s’ensuit pas que animal ne soit pas attribuable è quelque homme. 

“ La règle (così ibidem, al paragrafo terzo) sera Ja mèéme encore pour les pro- 


(1) Notoriamente in queste Logiche delle Scuole, si esprimeva ciò, dicendo: 


Asserit a, negat e, verum universaliter ambo: 
Asserit i, negat 0, verum particulariter ambo. 


(2) Il significato di questo Dictum de omni et de nullo è che quidquid valet de omni valet etiam 
de quibusdam et singulis; quidquid de nullo valet, nec de quibusdam nec de singulis valet. 


108 PASQUALE D'ERCOLE 8 


» 


positions nécessaires, c’est-à-dire que l’universelle privative se convertit en uni- 
verselle, et que chacune des deux affirmatives se convertit en particulière... Quant 
à la proposition particulièbre privative elle ne peut ici non plus se convertir, par 
“ la méme raison que nous avons dite plus haut. 

“ Pour les propositions contingentes, comme contingent se prend dans bien des 
sens, puisque nous disons que le non-nécessaire et le possible sont contingents, 
“ la conversion de toutes les propositions affirmatives se fera ici de la méme ma- 
«“ nière... La règle change pour la conversion des négatives; mais elle est encore la 


n 


[ai 


» 


méme pour les propositions où les choses sont dites contingentes, soit parce que 
“ nécessairement elles ne sont pas, soit parce qu’elles ne sont pas nécessairement. 
“ Par exemple, si l’on dit que l'homme peut ne pas étre cheval, et que la blancheur 
“ peut n’étre à aucun vétement, de ces deux choses l’une nécessairement n’est pas, 
“ l’autre n’est pas nécessairement. Ici donc la convertion a lieù de la méme ma- 
“ nière. En effet, si étre cheval peut n’appartenir à aucun homme, étre homme peut 
“n’appartenir aussi à aucun cheval; et si blancheur peut n’ètre è aucun vétement, 
“ vétement aussi peut n’ètre à aucune blancheur. Autrement, s'îl n°y a nécessité que 
“ vetement soit è quelque blancheur, blancheur aussi sera nécessairement è quelque 
“ vétement. C'est ce qu'on a démontré plus haut. Au contraire, pour les choses que 
l’on dit contingentes, parce qu’elles sont le plus habituellement et naturellement 
“ de telle facon, ce qui est la définition que nous donnons de contingent, il n°en 
sera plus de mème pour les conversions négatives. Ainsi la proposition universelle 
privative ne se convertit pas, et la proposition particulière se convertit. Ceci de- 
“ viendra évident quand nous traiterons du contingent. Bornons-nous ici è constater, 
après tout ce qui précède, que pouvoir n’étre è aucune chose ou pouvoir n'ètre 
“ pas è quelque chose, ont la force d’affirmation. C'est que le verbe pouvoir est 
placé dans la proposition comme le verbe étre; et que le verbe étre, àè quelques 
attributions qu’on l’ajoute, forme toujours et absolument une affirmation : par 
exemple, ceci est non bon, ceci est non blane; ou, d’une manière toute générale, 
ceci est non cela. Du reste cette théorie sera reprise et confirmée plus loin. Mais, 
quant aux conversions, ces propositions contingentes seront comme les autres pro- 
positions ,. 

E ciò basti per lo scopo propostomi, delle proposizioni, e passo a dire dell’ele- 
mento del termine. 


(S 


» 


ES 


Il Termine (590s). Questo è definito da Aristotele (ibidem), così: °O0g0v dè xa4@ 
sis dv diadvetar i r96va015, oiov TÒ te xatnyogovuevov zai tò rad’oò xatnyogettar 
7) agoondeuévov 7) diargovuevov toù eivar raè ui) sîvar. Ossia: Io chiamo termine 
quello in cui la proposizione si scioglie, cioè l’attributo, e quello a cui si attribuisce, 
sia che si aggiunga sia che si separi l’essere o il non essere (nella traduzione latina : 
“ Terminum vero appello in quem dissolvitur propositio, ut attributum et id cui at- 
“ tribuitur, sive adiiciatur sive separetur verbum esse vel non esse ,). L’attributo e 
quello a cui si attribuisce sono ciocchè comunemente chiamiamo il predicato ed il 
soggetto. i 

Ciocchè è qui allegato intorno al termine concerne il concetto e la definizione 
del medesimo. Ma vi sono altre particolarità essenziali che si riferiscono ad esso. 


9 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 109 


Se non che, come queste si riferiscono più direttamente al Sillogismo, e si inten- 
dono meglio dopo aver detto di questo, così io passo a dir prima di questo. 


IL Sillogismo (cvAAoyiouds). — Prima di venire ad Aristotele stesso, è bene 
ricordare un importante luogo di Boezio, il qual luogo è tanto più importante, in 
quanto si riferisce alla natura non solo del Sillogismo, ma anche degli Analitici, che 
sono la teoria del Sillogismo stesso. 

“ Duo sunt, dice Borzro (1), in syllogismo, tamquam in homine corpus et animus. 
“ Im corpore est materia et dispositio ac ordo partium: in animo vis et vita et 
“ actio. In superioribus Analyticis (Primi Analitici) Aristoteles velut de syllogismi 
“ praecipit corpore, hoc est, de partibus, deque illarum nexu et compositione : ideoque 
“ priora nominantur. In his autem posterioribus, hoc est, interioribus, et magis re- 
“ conditis de anima ipsa syllogismi, nempe de demonstratione, de vi et efficacia 
“ rationis. Analytici libri sub Aristotelis nomine multi olim circumferebantur, sed hi 
“ quatuor ex orationis filo, totiusque praecipiendi rationis modo ac facie, Aristoteli 
“ sunt adiudicati, caeteris reiectis ,. 

Veniamo ora ad ARISTOTELE stesso, e primamente alla stupenda definizione che 
egli dà del Sillogismo, la quale è e rimarrà sempre una delle più belle, più precise 
e più espressive della vera natura del medesimo. 

ZvAloyiouòs dé fot Adyos (2) év © tedévtOv tVOV EtEOdv tl TOV zeruevov 8E 
dvdyans cvupaiver tO tadta eîvar. Cioè (in italiano): Il Sillogismo è un discorso, 
nel quale, posto alcun che, segue necessariamente qualcosa d’altro da quel che è 
posto, per ciò solo che è posto. E la corrispondente traduzione latina ha: “ Syllo- 
“ gismus autem est oratio, in qua quibusdam positis aliud quiddam diversum ab iis 
“ quae posita sunt, necessario accidit eo quod haec sunt ,. 

A spiegar meglio il modo e la necessità della consecuzione, ArisroTELE (nella 
predetta traduzione) soggiunge subito in continuazione: “ Dico autem eo quod haec 
“ sunt, propter haec evenire, ac propter haec evenire intelligo, nullo externo ter- 
“ mino opus esse ut sit necessaria consecutio ,. Il caso della consecuzione necessaria 
senza bisogno di altro termine esteriore è poi quello che costituisce il Sillogismo 
perfetto (ré4eros 0vA40yiouds), come AristoTELE lo appella. 

Che il Sillogismo imperfetto (@78%7j5) si possa poi ridurre al perfetto coi mezzi 
da ArIsrorELE indicati, è cosa a tutti nota, che occorre appena di rilevare. 

Invece è bene di rilevare intorno al concetto aristotelico del Sillogismo alcune 
cose degnissime di attenzione. La prima è che il rapporto delle proposizioni o de’ 
giudizii sillogistici ed il procedimento de’ medesimi son tali che costituiscono una 
necessaria connessità. Il che importa che il Sillogismo non è un fatto accidentale, 
ma è tale che ha una necessaria ragion di essere. La seconda è che la conclusione 
non è una ripetizione e riproduzione delle due premesse, ma esprime altro da quel 
che è espresso da esse: insomma, esprime un principio nuovo. Questa seconda cosa 
è tanto più importante, in quanto in tempi posteriori ad ARIsroTELE è stata messa 


(1) In Arisr. Srae., Organum, già mentovato, pag. 7. 
(2) Dic'egli subito all’inizio dei Primi mnalitici. 


110 PASQUALE D ERCOLE 10 


innanzi la opinione (1) che nella conclusione non si contenga un novello principio, 
ma soltanto la ripetizione del contenuto delle premesse. Una terza cosa è che la 
parola conclusione è a prendere ed intendere nel vero significato di inclusione di uno 
de’ termini negli altri due: per forma che la conclusione esprime addirittura il vero 
chiudersi de’ termini l’un nell'altro. 

E giacchè si è accennato al concetto del Sillogismo, è bene di accennare anche 
al concetto del Sofisma, il cui concetto è proprio l'opposto di quello del Sillogismo. 
Infatti, il concetto di quest'ultimo. come si è visto, è costituito da ciò, che le due 
premesse conducono ad una necessaria conclusione. Il concetto del Sofisma (rò c6- 
qioua) (2), al contrario, è costituito da ciò, che la conclusione è in contraddizione 
colle premesse, che. cioè, queste non concludono rettamente, e però concludono fal- 
samente. Ma del Sofisma si dirà più ampiamente in seguito. 

Ora è opportuno di ritornare alla esposizione dei Termini, ad integrazione di 
ciocchè di questi è stato testè detto. I Termini di un Sillogismo son tre, e non pos- 
sono essere più di tre (600: toeîc). I quali tre hanno un contenuto od estensione 
diversa; e sono il termine maggiore (usifov &x90r), il minore (#Zettor) e il medio 
(tò uéG0v). Aristotele li designa anche puramente e semplicemente coi nomi di 
primo (tò =0@©ror), ultimo (tò #0zetor) e medio (tò uéG0r). 

Il numero di soli tre termini non vien contradetto neppure dal caso del Poli- 
sillogismo, nel quale vi possono essere più medii. Perchè i più medii son ciascuno 
sempre il medio di un solo Sillogismo nei varii Sillogismi costituenti il Polisillo- 
gismo stesso, cominciando dal cosidetto Prosillogismo e terminando coll’Episillogismo. 

Indicata la denominazione e l’estensione de’ Termini, la maravigliosa e precisa 
mente aristotelica passa alla definizione di essi, che è la seguente: 

= Agyo dè usitov uèv Gxoov Èv © tò uécov Ectiv, Ehlattov dè tÒ drrò tÒò uEGov 
ov... Kahò dè uécov uèv è zaì aòtò év Elio zei dillo év tovtw Ectiv, è zai ti] 
Séoer yiyverar uécov. dr005 dè tò aùtò te èv Giio dv zaì ér © dillo Ectiv (3). 
Cioè (in italiano): Chiamo (termine) maggiore quello in cui è (contenuto) il medio; 


x 


e (termine) minore quello che è accolto nel medio. .....Chiamo termine medio quello 
il quale è esso stesso in un altro, e nel quale è alla sua volia un altro, che divien 
medio anche per posizione. Chiamo poi estremi sì quello che è in altro, sì quello in 
cui è altro. E la nota traduzione latina ha: # Maius extremum appello, in quo medium 
“ est, minus autem quod est sub medio... Voco autem medium quod et ipsum est 
“ in alio, cum aliud in ipso sit, et positione quoque sit medium. Extrema autem 
“ appello et id quod est in alio, et id in quo est aliud .. 

L’esser medio per posizione vuole uno schiarimento, che fa comprendere come 
questa espressione aristotelica nella dizione greca è perfettamente esatta. Infatti, 
nella prima Figura sillogistica (che è quella del Sillogismo perfetto) noi diciamo: 

B (l’uomo) è A (mortale); C (Pietro) è B: dunque C è A. 

ARISTOTELE, invece, nella dizione greca dice: 

A vale di B:; B vale di C; dunque A vale di C. 


(1) Opinione già espressa dagli antichi scettici, e poi ripetuta ne’ tempi moderni. 
(2) Arrsr., Top., 8, 11. 
(3) Ibid., paragr. 4. 


11 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 111 


Siechè dunque il medio rimane addirittura nel mezzo per posizione. 

Ma questa posizione mediana non è quello che costituisce veramente la vera 
natura del medio: tal vera natura è che esso è medio per contenenza, ossia come 
contenente in sè i due estremi. Ed è solo quando il medio esprime tal contenenza, 
che si effettua il vero Sillogismo. 

Va, inoltre, rilevato che i tre predetti termini nel Sillogismo ricorrono prima- 
mente già tutti nei due giudizii, che costituiscono le due premesse (dup@ rà dia- 
otmueta), dai quali due se ne deduce poi necessariamente un terzo che costituisce 
la conclusione. 

Però, quanto a numero di proposizioni nel Sillogismo, Aristotele ne fa cadere 
tutto il peso sulle premesse, e persino in guisa che egli dice che nel Sillogismo non 
vi sono che due proposizioni. E dopo aver detto constare ogni dimostrazione ed ogni 
Sillogismo di soli tre termini (nella traduzione latina: “ Cum autem hoc perspicuum 
“ sit, planum est etiam syllogismum constare ex duabus propositionibus non pluribus ,: 
proposizioni che qui sono indubbiamente le premissae), soggiunge: “ Nam tres ter- 
«“ mini sunt duae propositiones (où yo tosîs door dio roordosis), nisi quid adsu- 
“ matur, ut initio dictum est, ad perficiendos syllogismos..... itaque si secundum prin- 
“ cipales propositiones (xatà AS vgias rrgordoes) syllogismi accipiantur, omnis 
syllogismus ex propositionibus paribus, terminis vero imparibus constabit. uno enim 
€ plures sunt termini quam propositiones. conclusiones (cvuregdoueta) autem erunt 
“ dimidia pars propositionum ,. 


“ 


Delle regole finora esposte intorno alla teoria del Sillogismo la Logica aristo- 
telica delle Scuole ne ha, notoriamente, composte ed espresse le principali nelle 
seguenti otto (ricorrenti in tutte le Logiche delle Scuole): 


Terminus esto triplex, medius, maiorque, minorque; 
Latius hos quam praemissae conclusio non vult; 
Nequaquam medium capiat conclusio oportet; 

Aut semel, aut iterum medius generaliter esto; 
Utraque si praemissa neget, nihil inde sequetur; 
Ambae affirmantes nequeunt generare negantem; 
Nil sequitur geminis ex particularibus unquam; 
Peiorem sequitur semper conclusio partem. 


Ad integrazione di queste regole si allegano nelle Logiche delle Scuole, anche 
le così dette diverse forme di Sillogismo, come sono l’Entimema, V’Epicherema, il Di- 
lemma, il Trilemma, il Tetralemma, il Sorite, ecc. 

Valendomi del citato nostro GaLLuppi (Elementi di Filosofia, Milano, 1846, 
pag. 95 seg.), ne allego qualche esempio. 

Dell’Entimema egli ricorda il celebre luogo ovidiano: “ Servare potui: perdere 
“ an possim, rogas , ? E lo spiega riducendolo alla forma sillogistica di tre propo- 
sizioni, ecc. 

Ricorda l’esempio ancor più celebre di ArisroTELE stesso, cioè: “ O mortale, non 
“ conservare un odio immortale ,. Del quale Entimema le corrispondenti parole greche 
(dal Galluppi non riportate) sono: “ °4A9dvarov doyiv ui qpuiorte dvntòs dv ,. 

| Ma di tutte le predette Forme di Sillogismo e di altre pur ricordate dal Gal- 
luppi mi astengo di allegarne ulteriori esemplificazioni ed illustrazioni: perchè il 


112 PASQUALE D'ERCOLE 12 


lettore ne trova in tutte le Logiche che vanno per le Scuole; e passo a dire delle 
Figure sillogistiche pur ricorrenti negli Analitici, e intimamente connesse col Sil- 
logismo. 


Le Figure (tà oguara) sillogistiche. 


Secondo ArisroreLE il Sillogismo è di tal natura che si distingue in tre Figure 
sillogistiche, delle quali la prima (cx7u@ 20©tov) poggia sul Sillogismo perfetto, 
la seconda e la terza (czî7jua devtegov e oyijua togitov) poggiano sul Sillogismoe im- 
perfetto. 

E qui è necessario di rilevare una cosa, che a primo aspetto pare di poco mo- 
mento, ma che è invece importantissima. Ed è che ArIsrorELE nella esposizione e 
dimostrazione delle predette tre Figure si serve come simboli delle lettere dell’Al- 
fabeto greco, specialmente delle prime tre del medesimo a, #, y. 

Il significato dell’adoperamento di tali simboli, specialmente per l'applicazione di 
queste alle Matematiche, sarà detto tra poco. 

Tornando alle Figure, è bene avvertire che Aristotele per esse si vale in com- 
plesso degli stessi esempi allegati per triplicità di termini, dovendo ciascun di questi 
rappresentare uno de’ tre termini sillogistici. 

Così, per darne una idea, nella prima Figura (ove adopera i simboli alfabetici @, 8,7) 
si vale de’ termini piacere - bene - animale; animale - uomo - cavallo; scienza - linea - 
medicina; bene - abito - sapienza ; bene - abito - ignoranza; bianco - cigno - neve. 

Nella seconda Figura (ove adopera i simboli alfabetici dò, e, £, ecc.) si vale di 
questi esempi, animale - cavallo - uomo; animale - inanimato - uomo; animale - scienza - 
animale selvaggio; corvo - neve - bianco. 

Nella terza Figura (ove adopera i simboli alfabetici , 0, 0) si vale di bel nuovo 
degli stessi esempi, che ricorrono nella prima e nella seconda. 

E, per essere quanto è possibile esatti, soggiungo che nelle stesse due #?- 
gure seconda e terza, oltre agli indicati simboli alfabetici, si vale anche dei primi 
tre a, 8, y. 6 : 

La conclusione cui giunge Aristotele nelle indicate operazioni è che “ tutti i 
“ sillogismi imperfetti diventan perfetti mediante la prima Figura (nel famoso testo 
“ latino: perspicuum est omnes imperfectos syllogismos perfici per primam figuram) ,. 

La maravigliosa analisi di Aristotele intorno al Sillogismo non si arresta a ciò, 
ma si estende alla considerazione e determinazione di altre forme del medesimo, 
quali sono il Sillogismo per Analogia, il Sillogismo per Riduzione all’impossibile, quello 
per Induzione, per Ipotesi, per Verisimiglianza, ecc. Ma noi non possiamo entrare 
anche nella considerazione di queste forme speciali sillogistiche, e passiamo a consi- 
derare la seconda delle tre predette cose. 

Questa seconda è quella concernente la diretta relazione delle Scienze matema- 
tiche colla prima Figura, o, che vale lo stesso, col Sillogismo perfetto: il qual punto 
è da Aristotele trattato nel Primo degli Analitici Posteriori. 

Prima di riferire da questi ciocchè concerne le Matematiche, rilevo che Aristo- 
tele anche per queste, come ha fatto per le altre discipline, si vale di esempi per 
chiarire e determinare la cosa. Se non che gli esempi che egli arreca per esse sono 


13 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 113 


sopratutto di natura matematica. Infatti (nel paragrafo 5 ibid.) allega i seguenti 
esempi tratti dal punto, dalla linea, dal triangolo, ecc.: “ Triangulo, dic’egli nella 
“ famosa traduzione latina, inest linea et lineae punctum; ed anche: Triangulo, 
“ qua est triangulum, insunt duo recti, quia per se triangulum est aequale duobus 
“ rectis, etc. ,. 

Ed è, inoltre, oltremodo importante per la determinazione della natura delle 
Scienze matematiche, che per lui (ibid., paragr. 13) “le Scienze matematiche versano 
“intorno alle forme, perchè le cose matematiche non sono in alcun soggetto , (“ etenim 
“ scientiae mathematicae circa formas versantur, quia res mathematicae non sunt in 
“ ullo subiecto ,) (1). 

Ciò posto, venendo alla considerazione della diretta relazione delle Scienze mate- 
matiche col Sillogismo e colle Figure sillogistiche, dice (ibid., paragr. 14): “ Delle 
“ Figure /4 prima è attissima a produrre la scienza; imperocchè le Scienze matematiche 
“ effettuano le dimostrazioni mediante tal Figura, come l’aritmetica, la geometria e 
“ l’ottica , (nel testo latino: “ Ex figuris autem prima est ad scientiam gignendam 
“ aptissima; nam mathematicae scientiae per hanc figuram demonstrationes afferunt 
“ ut arithmetica et geometria et optice ,). 

Passo alla terza ed ultima delle tre cose predette, a quella, cioè, concernente 
la formazione della conoscenza. La qual formazione è dal grande filosofo (al paragr. 19, 
ultimo. degli Analitici Posteriori) espressa come segue: “ Dal senso si genera la 
“ memoria..... Ma dalla memoria, formatasi dalla ripetuta riproduzione della stessa 
“ cosa, si genera l’esperienza; giacchè molte memorie costituiscono una sola esperienza. 


“ Se non che, dalla esperienza..... si genera il principio dell’arte e della scienza; 
“ dell’arte, se spetta alle cose della generazione (2); della scienza, se spetta a ciocchè 
“è ,; (nella traduzione latina: “ ex sensu igitur fit memoria..... ex memoria vero 


“ saepe eiusdem rei facta fit experientia; multae enim memoriae numero sunt una 
“ experientia; at vero experientia..... fit principium artis et scientiae, artis, si per- 
“ tineat ad generationem, scientiae, si pertineat ad id quod est ,) (3). 

La considerazione dell’arte è ciocchè con stupenda designazione poco appresso 
è denominato dé$e, mentre la considerazione della scienza è appellata Aoyuouòs (4). 

Ed ora è tempo che veniamo a determinare quale è in Aristotele il significato 
dell’adoperamento dei simboli alfabetici come espressione del Sillogismo e delle Figure 
sillogistiche. Ebbene, tal significato, brevemente indicato nella sua genericità, è che 
le proposizioni del Sillogismo (le premesse e la illazione) in tutte le Figure sillogi- 
stiche di questo vengono intese e adoperate in Forma universale, ossia in forma 
estensibile ed applicabile a tutti gli elementi della Realtà. 

Ora, questi elementi sono tre, il quantitativo, il qualitativo, e l’unità di entrambi, 
ossia il modale (il modo, la misura). Che questo triplice elemento sia costitutivo 


(1) E subbietto val qui obbietto, cioè, singola e determinata cosa della realtà. 

(2) La generazione concerne il sorgere e perire delle cose. 

(3) È Id quod est ,, nel corrispondente greco rò dv, è ciocchè nell’Hegelianismo, e propriamente 
nella Logica hegeliana, è stato designato come das Sein an und fi sich. 

(4) Anche questa denominazione di 40y.0u6s è degna della più grande considerazione, perchè 
Aristotele ha già con essa additato e determinato l’elemento logico come elemento scientifico per 
eccellenza, lasciando all’arte il carattere di elemento soltanto opinativo. 


Serie II. Tox. LXII. 15 


114 PASQUALE D'ERCOLE 14: 


della Realtà, emerge indirettamente dalla stessa tavola aristotelica de’ giudizii, cioè 
de’ giudizii quantitativi, qualitativi e modali, come più chiaramente si sono appellati 
nelle posteriori Logiche aristoteliche delle Scuole. 

Qui basti l'avere accennato di ciò; le importanti applicazioni che ne derivano 
rispetto alla Scienza matematica e alla voluta corrispondente Logica matematica le 
faremo, quando giungeremo alla esposizione e giudicazione di quest’ultima; e ritor- 
niamo per ora all'argomento delle Figure sillogistiche, per prendere in considerazione, 
da una parte, i Modi, dall’altra, il Numero di esse. 

Quanto ai Modi, è di bel nuovo il caso di dire che essi sono comunemente al- 
legati e discussi in tutte le Logiche aristoteliche delle Scuole. Fra i tanti uomini 
autorevoli che potrei citare a tal riguardo, rimando il lettore alla citata Logica e 
Storia della dottrina logica di Friedrich UzBERWEG, che ne tratta ampiamente a 
pp. 296-344. Ma, per un breve ricordo di questo punto della Si/logistica, mi varrò 
invece del nostro insigne Galluppi. il quale, nelle Lezioni di Logica e Metafisica, 
Milano, Vol. I pp. 358-385. espone tal dottrina con la solita sua lucidezza e preci- 
sione. Della sua esposizione e discussione di questa materia, io riferirò brevemente 
l'essenziale. 

“ N Modo del sillogismo (dice egli, p. 36) consiste nella disposizione delle tre 
“ proposizioni secondo le loro quatiro differenze A. E, 1,0... 

Ora. = secondo la dotirina delle combinazioni. quatiro termini quali sono A, E, 
“ I, O. venendo presi tre a tre. non possono diversamente disporsi in più di 64 ma- 
© niere; ma di queste 64 maniere, 54 sono escluse dalle regole generali sillogistiche , 
che sono state innanzi allegate: “ restano perciò soli dieci Modi concludenti .. 

Ma ciò non vuol dire “ che solo dieci sieno le specie de’ Sillogismi, perchè un 
“ solo di questi Modi può formare diverse specie ,, secondo la varia disposizione de’ 
tre iermini innanzi detta. 

E qui il nostro Galluppi dispone addirittura i tre termini secondo le possibili 
combinazioni, e ne risulta una favola di 64 Modi, emergenti dalle quattro Figure 
sillogistiche, delle quali egli indica anche brevemente le diverse regole. 

A questo breve cenno aggiungo però volentieri due cose: l'una, alcuni versi 
memoriali dei Modi delle quattro Figure: l'alira, un esempio di Sillogismi secondo i 
predetti Modi. i 

I versi memoriali, fra i tanti, li allega Federico UeBERWEG, loc. cit., p. 343 seg., 
come segue: 

Barbara, Celarent primaz. Darii Ferioque. 
Cesare, Camesires, Festino. Baroco secundae. 
Tertia grande sonans recitat Darapi, Felapton, 


Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Quartae 
Sunt Bamalip, Calemes. Dimatis, Fesapo, Fresison. 


Dinanzi a queste parole stranissime e non additanti per sè stesse alcun senso, 
il buon Galluppi fa la seguente sensata osservazione: “ Queste formole (dic'egli, 
5 ibid.. p. 368), di cui la prima cominciava infelicemente con barbara, sembreranno in 
= effetto oggi molto barbare. Esse hanno ricevuto più ingiurie in un secolo, che onore 
“ in mille anni; esse hanno terminato col cadere in un intiero obblio; ..... coloro che 


15 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELTANA, ECC. 115 


“ oggi le volgono in ridicolo non si hanno sempre dato la pena di meditarle... Il filo- 
“ sofo che riflette con attenzione sulle regole dell'antica Logica è sorpreso nel vedere 
sino dove gli autori avevano portato l’analisi del ragionamento. Colla più severa 
imparzialità alcuno non può impedirsi di convenire che ciascuna di queste regole 
era di una rigorosa esattezza, e che il loro insieme era sì completo che una sola 
delle forme possibili del ragionamento non era loro sfuggita. Aristotele, senza dubbio 
non aveva sovente il soccorso dell'esperienza: era questa la disgrazia del secolo, nel 
quale egli nacque; ma egli è stato forse il pensatore più profondo, il genio più 
“ eminentemente didattico che sì sia mostrato sull’orizzonte della filosofia. Io dubito 
“ che siensi innalzate dopo teoriche sì belle come quelle di cui egli ci ha lasciato il 
“ modello ,. ; 

Quanto alla profondità e genialità di Aristotele, il Galluppi ha perfettamente 
ragione, e queste due doti spiccano di tale luce e verità proprio nella sillogistica 


« 


“ 


aristotelica e ne’ Modi della medesima, che i posteri non hanno avuto ad aggiungervi 
nulla, o nulla d’ importante. Solo che, contrariamente al Galluppi, che accoglie il 
pensiere, da non pochi seguito, delle quattro Figure, il grande Stagirita non ne 
ammette che tre con tre soli corrispondenti Modi (1). Ma del Numero delle Figure 
e de’ Modi fra poco. Un esempio, intanto, del ragionare e concludere secondo le quattro 
Figure, è pel Galluppi il seguente: 


(1) La favola aristotelica dei Modi, quale ricorre in Warrz, Arist. Organon, vol. I, pag. 385 
{rilevando le espressioni tecniche di xazà zarròs, atà undevòs ece., sia colle corrispondenti De omni 
et de nullo ecc., sia colle note quattro iniziali A, E, I, 0), è la seguente: 


I u'. tò A xarà mavtòs toò B, 8. tò A uarà undevòs toù B, 
tò B xatà mavtòs toòù I, tò B xatà rmavtòs toòù IT, 
tò A xatà mavtòs toù I. tò A nortà undevòs toò I. 
II. o’ ò A xarà undevòs toù B, 8. tò A natà mavtòs toò B, 
tò A zarà mavtòs toù I,  rò A narà undevòs toò I, 
tò B zatà undevòs toò IT. tò B xarà undevòs toù I. 
y'. tò A zatà undevòs toù B, 6’. tò A norà mavtòs toù B, 
tò A xarà tuvòs tod I, tò A sarà tivòs toù I' 0%, 
tò B zarà tivòs toùò T' od. tò B xoartà tivòs toù T' 0%. 
HI. @'’. rò A zatà mavtòs tod I, B'. tò A narà undevòs toù I, 
tò B zarà mavtòs toù I, tò B xatà mavtòs toòù I, 
tò A zatà twvòs toù B, tò A xarà tivòs tod B où. 
y. tò A zorà uvòs toù TI, d'. tò A xatà mavtòs toò I, 
tò B zatà mavtòs toò I, tò B zatà twvòs où T, 
tò A zatà tvòs toù B. tò A xarà twòs tod B. 
e. tò A zarà tvòs toù I' 0, E. tò A varà undevòs toò T, 
rtò B zatà mavtòs toù I, tò B sarà vvòs tod I, 
tò A sarà tvòs toù B 0% tò A narà tvòs rov B od. 


116 PASQUALE D'ERCOLE 16 


I Fieura 
(avente il medio come sogg. del magg. e predice. del minore) 
Ogni sostanza pensante è semplice, 
L'anima umana è sostanza pensante, 
L'anima umana è dunque semplice. 
II Fieura 
(avente il medio come predicato de’ due estremi) 
Niun corpo è una sostanza pensante, 
L'anima umana è una sostanza pensante. 
L'anima umana dunque non è corpo. 
II Fieuzs 
(avente il medio come soggetto de’ due estremi) 
Ogni sosianza pensanie è semplice. 
Ogni sostanza pensante è indistruttibile. 
Danque qualche sostanza indistruttibile è semplice. 
IV Fiera 
(avente il medio come predic. del maggiore e sogg. del minore) 


Qualche essere semplice è sostanza pensante, 
Ogni sostanza pensante è attiva, 
. Dungue alcune sostanze attive sono esseri semplici. 


Ml numero delle Figure e de Modi. — Illettore ha visto a pie’ di pagina le tre 
Figure e i tre corrispondenti Modi aristotelici allegati dal Waiîz. Del Waitz riferisco 
volentieri una osservazione concernente la seconda e la terza Figura. nelle quali ei dice 
(loc. cit.): * ultimum modum secundae et quintum iertiae Figurae non demonstrari nisi 
“ deductione facta ad absurdum DI 7 

Galluppi, come si è visto, ha opinato doversi ammetter come valida anche la 
quarta figura e i corrispondenti Modi. Ma, francamente detto, il Sillogismo, ch'egli 
ne arreca ad esempio, da una parie, cammina steniatamente, dall’altra, è di difficile 
comprensione. In generale. potrebbe dirsi che la mente umana nel suo naturale proce- 
dimento logico non ragiona in quel modo. E un ragionamento logico che contraria 
la natura nè può considerarsi come il migliore, nè deve ammettersi come buon proce- 
dimento logico. i 

AÀ conferma di iale osservazione rilevo che in generale i grandi filosofi si son 
tenuti alla aristotelica triplità di Figure e di Modi. 

Notoriamente, è stato il famoso medico Claudio G4reno di Pergamo (1) quello 
che ha così “ legato il suo nome alla Dottrina del Sillogismo (2), che apparisce in 
“ quasi tutti i compendii della Logica, anche ne’ più triviali. Garexo, cioè, secondo 
l’espressione comune, ha accresciuto il numero delle tre Figure aristoteliche del Sillo- 
“ gismo categorico coll'aggiunzione di una quarta, nella quale il concetto (o termine) 
“ medio è predicato della maggiore e soggetto della minore .. Soggiunge che “la 
“ notizia di tale innovazione . 5 non si trova in tutta la Letteratura greco-romana ., 


1) Zerrze, Grundriss d. Gesch. d. Griechischen Philosophie. nella citata 10* ediz. del 1911 del 
Lozrzwe, pag. 298. come anni di nascita e di morte 131-201 d. C. 
(2) Così Prastr, Gesch. der Logik, ete., I Bd.. pag.570 s. 


17 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA RANTIANA ED HEGELIANA, ECC. IUib7: 


e che proviene da fonte arabica, e propriamente da Averroe. Il quale Averroe, per 
giunta, ne fa menzione proprio nella confutazione che fa della quarta Figura. 

Alcune altre particolarità importanti tanto rispetto ai Modi, quanto rispetto alle 
Figure sono le seguenti. 

Quanto ai Modi, Aristotele, per ognuna delle tre Figure da lui ammesse e cor- 
rispondentemente alle possibili combinazioni delle loro proposizioni secondo le indi- 
cate lettere A EI O, ha trovato che i Modi valevoli, perchè non contrarii alle otto 
regole sillogistiche, sono 4 per la prima Figura, 4 per la seconda e 6 per la terza, 
in tutto dunque quattordici. 

Galluppi, che (con Galeno) ha ammesso la quarta Figura, ha anch’egli esaminato 
le combinazioni e Modi che son possibili e valevoli in questa; ed ha trovato che, 
accanto ai molti Modi contrarii alle otto regole sillogistiche, ve ne sono però 5 validi; 
sicchè il nostro filosofo napoletano, invece di 14, ammette 19 Modi validi. 

Quanto poi alle Figure, va considerato un ultimo punto importante, cioè, quello 
della riduzione della 2* e 3* Figura, che dànno sillogismi imperfetti, alla 1* che 
sola li dà perfetti. 

Ora, tal riduzione, secondo Aristotele, avviene per mezzo di conversione: ‘Asì yào 
yiyrvetar did tijs Avtiotgogpijs cvAZoyiouds, dic'egli, Anal. Pr., I, cap. 7. 

Inoltre, la conversione può avvenire in due modi, cioè, o ostensivamente, ovvero 
per riduzione all’assurdo (7) derxmiz®s 7) toò ddvvator). 

E da ultimo, secondo lui, “ tutti i sillogismi, quando sono rettamente convertiti, 
“ si riducono a sillogismi universali della prima figura , (gavegòv oùv du mavtES 
dvaydioovrar eis toùs év TO T00T0 cxiuar zadbiov cvAl0yiouovS). 

Di quest’ultimo punto, a maggior intelligenza e a complemento della cosa, allego 
la solita traduzione latina non soltanto de’ passi corrispondenti a quelli da me alle- 
gati in greco, ma anche della rimanente parte, che è dimostrativa e illustrativa dei 
medesimi. La traduzione suona così: “ Semper enim fit syllogismus per conversionem, 
“ praeterea manifestum est pronuntiatum indefinitum pro attributivo particulari 
“ acceptum efficere eundem syllogismum in omnibus figuris. item perspicuum est 
omnes imperfectos syllogismos perfici per primam figuram. aut enim demonstratione 
aut per impossibile perficiuntur omnes: utroque autem modo fit prima figura. ac 
demonstratione quidem si perficiantur, fit prima figura, quia sic omnes perficie- 
bantur per conversionem: conversio autem efficiebat primam figuram. si vero per 
impossibile confirmentur, adhuc fit prima figura, quia posito quod falsum est, syl- 
logismus conficitur in prima figura. ut in postrema figura si tò @ ac vò 6 omni y, 
probatur rò @ inesse alicui f. nam si ò @ insit nulli f ac tò f omni y, tò @ 
inerit nulli y. sed antea positum erat omni inesse. similiter fit etiam in aliis. licet 


« 


“ 


etiam reducere omnes syllogismos ad syllogismos universales primae figurae. nam 
qui fiunt in secunda figura, sine dubio per illos perficiuntur, non tamen omnes 
eodem modo, sed universales converso pronuntiato privativo. particularium autem 
utergue per deductionem ad impossibile. particulares autem primae figurae perfi- 
ciuntur quidem per se ipsos, sed licet etiam secunda figura eos confirmare ducendo 
ad impossibile. ut si rò @ inest omni 8 ac tò f alicui y, tò @ inerit alicui y: nam 
si nulli insit, omni autem £ insit, certe nulli y tò f inerit: hoc enim scimus per 
secundam figuram. similiter enim in privativo syllogismo erit demonstratio. nam 


118 PASQUALE D'ERCOLE 18 


“ si 7ò @ nulli f ac tò f# alicui y inest, tò « alicui y non inerit. etenim si omni 


R 


insit ac nulli 8 insit, 7ò f nulli y inerit: hoc enim erat media figura. itaque cum 
“ omnes syllogismi mediae figurae reducantur ad syllogismos universales primae 
figurae, particulares autem primae ad syllogismos secundae, perspicuum est etiam 
“ syllogismos particulares primae figurae reduci ad syllogismos universales primae 
“ figurae. qui vero fiunt in tertia figura, terminis quidem universaliter acceptis statim 
« per eos syllogismos perficiuntur, terminis autem in parte sumptis perficiuntur per 
“ syllogismos particulares primae figurae. hi vero ad illos reducti sunt: quapropter 
“ad eosdem reducentur etiam syllogismi particulares tertiae figurae. perspicuum 
“ igitur est omnes reduci ad syllogismos universales primae figurae ,. 

E ora, ritenendo di aver detto a sufficienza della Sillogistica aristotelica, passo 
a dire del quinto scritto dell'Organo, cioè di quello de’ Topici. 


R 


I Topici (Toruza). — Di questo scritto del grande Stagirita Boezio (loc. cit., p. 7) 
dà la seguente notevole informazione e giudicazione: “ Topica: hoc est, loci, unde 
“ ducuntur argumenta. Opus est octo voluminibus distinetum, varium sane, hoc est, 
“ multae eruditionis et observationis rerum diversarum. Sed ut illa omnia primus 
“ ipse pariebat, non potuit tam multa simul edere, simul expolire: itaque relicta est 
“ velut ingens quaedam materia et dives, ad extruendum pulcherrimum aedificium ,. 

Questo giudizio di Boezio, primamente, è vero, come il lettore stesso se ne 
convincerà dal cenno che noi faremo de’ Topici; secondamente, ha grande importanza 
anche per l’influenza da Boezio esercitata nell’insegnamento logico delle Scuole cri- 
stiane medioevali (1). Accanto al giudizio di Boezio debbo riferirne un altro vera- 
mente acuto e profondo di PranTtL (Gesch. d. Logik im Abendlande, I° Bd., 1855, 
Leipzig, pag. 341) sulla grandezza speculativa della mente di Aristotele. PRANTL dice 
che “ la superiorità (UederZegenheit) della mente di lui era capace di esaminare secondo 
“ il concetto (begrifflich) e di costruire teoricamente secondo concetti adeguati anche 
“ campi (Gebiete) ed aspirazioni che sono al di sotto della speculazione propriamente 
“ detta ,, come sono il campo e la materia de’ Topici. 

Rispetto a’ Topici riferisco volentieri anche una circostanza rilevata dal ZELLER (2), 
che cioè, “ il 5° libro de’ Topici rimastoci non provenga da Aristotele, come dimostra 
“ PrLue, de Ar. Topicorum libro V (1908) ,. Ma, ciò nonostante, noi ne accenneremo 
egualmente. 

Cominciando dal Libro I, Aristotele subito nel primo paragrafo indica lo scopo 
de’ Topici in genere, il quale scopo è quello di trovare il metodo di argomentare 
di ogni problema proposto da’ probabili (éÉ #v06É©»v), e disputarne in guisa da non 
dir nulla di ripugnante. Nella traduzione latina il predetto scopo è indicato così: 
“ Propositum huius tractationis est invenire methodum per quam possimus argumentari 


(1) Tale influenza viene attestata da tutte le parti; la confermano, tra gli altri, Friedrich 
UxserweG-Hemze nel Grundriss d. Gesch. d. Philosoph., 8° Aufl., das Alterthum, Berl., 1894, p. 213. 
(2) Nel Grundriss d. Gesch. d. Griechischen Philosophie della citata ediz. 10%, 1911 del LorrzIsG, 


pag. 174. 


19 LA LOGICA ARISPOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 119 


“ de omni proposito problemate ex probabilibus, et ipsi disputationem sustinentes 
“ nihil dicamus repugnans , (1). 

E soggiunge doversi innanzi tutto dire “ che cosa sia il Sillogismo ,, estenden- 
dosi intorno a questo ed indicarne le diverse specie, ecc. E non ha torte di dire del 
Sillogismo, della sua natura, delle sue specie, ecc.; perchè, se lo scopo della tratta- 
zione de’ Topici è quello di trovare il metodo di argomentare, foss'anche da’ probabili, 
l’argomentare è un si/logizzare, e quindi bisogna conoscere come si sillogizza, ecc. 
Ed in generale il lettore vedrà che in questi Topici si tratta di una grande quantità 
di cose di cui si è già trattato nelle Categorie, nell’Ermeneia e negli Analitici tanto 
Primi quanto Secondi. 

Intanto Aristotele, sempre preciso, dice subito ivi stesso che cosa debba inten- 
dersi per probabile. E lo determina dicendo (nella traduzione latina): “ Probabilia 
“ autem sunt ea quae videntur omnibus vel plerisque vel sapientibus, atque his vel 
omnibus vel plerisque vel maxime notis et claris ,. 


“ 


« 


Nel secondo paragrafo investiga e determina “a quante e quali cose sia utile 
“ questa trattazione , de’ Topici. E statuisce che ella sia “ utilis ad tria, ad exerci- 
tationem, ad congressus, ad philosophicas scientias. quod igitur ad exercitationem 
sit utilis, ex his perspicuum est, quoniam hanc methodum habentes facile de omni 
re proposita poterimus argumentari, ad congressus autem, quia multorum opinionibus 
enumeratis, non ex alienis sed ex propriis singulorum sententiis poterimus cum 
eis agere, refellentes quod non recte dicere nobis videtur. ad philosophicas autem 
scientias, quia cum poterimus in utramque partem dubitare, facile in singulis per- 
spiciemus verum et falsum ,. 


DI 


Il predetto metodo, soggiunge egli nel terzo paragrafo, sarà perfettamente pos- 
seduto, quando lo si adoprerà nella retorica e nella medicina, come fanno l’oratore 
e il medico. 

Ho rilevata volentieri questa circostanza della retorica e dell’oratore, perchè 
tutti sanno come questa materia trattata ne’ Topici è passata realmente, se non in 
tutto, certo in buona parte nella Retorica: Retorica, che specialmente noi vecchi 
abbiamo studiata, con qualche profitto sì, ma anche con non poca pedanteria d’in- 
segnanti e d'insegnamento. 

Sono stato piuttosto diffuso nella indicazione di queste generalità del 1° Libro 
de’ Topici, per dare una idea della trattazione e del modo di trattazione de’ mede- 
simi. Ma ora procederò più speditamente e più brevemente, fermandomi però alquanto 
di più ne’ punti di maggiore importanza. 

Nel paragrafo 4 continua ad occuparsi di sillogismi e di proposizioni, ma con 
riguardo ai principii comuni ad entrambi, come sono il genere, il proprio, l’accidente, 
la differenza, la definizione, ecc.; e nei seguenti paragr. 5 e 6 determina e illustra 
siffatti principil. 

Nel paragr. 7 pone il quesito: “ Quot modis idem dicatur , ; e lo risolve dicendo: 


(1) Quanto alla materia de’ problemi proposti, anch'essa, secondo l’uso delle Scuole, fu espressa 
nel seguente verso memoriale: 


Quis?-quid? ubi? quibus auxiltis? cur? quomodo? quando? 


120 PASQUALE D'ERCOLE 20 


= Videri autem possit idem, ut typo explicem, tripertito distributum esse. aut enim 
5 numero aut specie aut genere idem soliti sumus appellare, etc. ,. 

Più avanti al paragr. 9 si propone di definire i generi delle Categorie, e di indi- 
carne il numero, che è di dieci; e il relativo luogo è stato già riferito. 

Nei paragr. susseguenti determina la natura della proposizione dialettica, del 
sillagismo dialettico, della tesi (determinata al paragr. 11 come * sententia alicuius 
“ nobilis philosophi...... ut dicebat Antisthenes .). 

Nel seguente paragr. 12 si propone di “ explicare quot sint rationum dialecti- 
* carum species ,; e in seguito si occupa ancora de’ generi delle proposizioni, per 
quindi occuparsi nel paragr. 17 della simiglianza (e propriamente della “ similitudo 
“ consideranda in iis quae sunt in diversis generibus .). E con ciò si chiude la consi- 
derazione del I° Libro. j 

Il lettore che consideri bene la trattazione aristotelica deve convenire nell’acu- 
tezza e giustezza del giudizio di Boezio intorno ai Topici. 

Ligro Il. Nel primo paragrafo di questo, Aristotele torna ad occuparsi de’ pro- 
blemi, in quanto “ alia (scilic. problemata) sunt universalia, alia particularia ,; e si 
fa a considerarli ne’ diversi rispetti della generalità e della particolarità. 

Nei paragrafi immediatamente susseguenti torna a considerare i varii modi 
secondo cui alcunchè si dica, sia quantitativamente sia qualitativamente. 

Ma nel paragr. 7 passa a considerare un punto importantissimo, e propriamente 
quello concernente: 

La Opposizione e il Principio di contraddizione: il qual punto è da lui considerato 
nè più minuti casi ed aspetti, con relative distinzioni, suddistinzioni ece.; e noi ne 
riferiremo con qualche ampiezza. 

“ Quoniam autem contraria (dic'egli, nella traduz. latina) sex modis inter se 
“ coniunguntur, contrarietatem autem efficiunt quattuor modis coniuncta, oportet 
“ accipere contraria prout expedit evertenti et adstruenti. sex igitur modis ea coniungi 
 manifestum est. aut enim utrumque utrique contrariorum iungitur, atque hoc bi- 
* fariam, ut de amicis bene mereri et de inimicis male, vel contra de amicis male 
“ et de inimicis bene. autem ambo de uno, et hoc quoque bifariam, ut de amicis 
# bene mereri et de amicis male, vel de inimicis bene mererì et de inimicis male. 
“ aut autem de ambobus, et hoc quoque bifariam, ut de amicis bene et de inimicis 
=" bene, vel de amicis male et de inimicis male. primae igitur duae coniunctiones 
“ quas dixi, non faciunt contrarietatem: de amicis enim bene mereri et de inimicis 
“ male non sunt contraria, cum ambo sint optabilia et corundem morum effectus . (badi 
il lettore alla circostanza e corrispondente espressione del morum effecius, che nel 
testo greco suona: Gugorega yùo cigetà zai toù aùtod 73F0vs). * neque item contraria 
“ sunt de amicis male et de inimicis bene mereri. nam et haec suni ambo fugienda - 
“ et eorundem morum effecius ,. 

E Aristotele nelle dette distinzioni e suddistinzioni non sì arresta neppur qui, 
ma procede ad altre, che noi omettiamo di riferire. 

Se non che, continuando a parlare de’ contrarii, passa a considerarli da quel 
rispetto, che è stato appellato il principio di contraddizione, sostenendo: * fieri nequit 
“ ut contraria simul eidem subiecto insint , (cioè, nel corrispondente testo greco: 
ddivatov yào tAvaviia due tO cbr dadoygemr). > 


21 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 121 


E trattandosi di un principio tanto importante, che, per giunta ha avuto poste- 
riormente una rigida e non sempre bene intesa applicazione, voglio allegarlo anche 
nella forma più compiuta in cui ricorre in Metaph. INI, 3; ciod: rò ydo aùtò dua 
drdoyew te xaì ui) èndogewv ddvvarov tb aùdrp xaì xatà tò aùtò (nella traduzione 
latina: “ idem enim simul inesse et non inesse eidem et secundum idem impossibile 
“ est ,). E soggiunge poco appresso che questo è il più certo di tutti i principii: av? 
d) nacov éorì feBeroramtn tOV @og®v (traduz. latina: “ hoc autem est omnium prin- 
“ cipiorum certissimum ,). 

Noti però il lettore che, per non fraintendere il principio aristotelico di contrad- 
dizione, si deve aver presente ciocchè Aristotele ha detto testè, che, cioè gli opposti 
non sono contraddittorii, epperò non escludentisi-{poniamo, come amici e nemici) 
quando siffatti opposti sono morum effectus, ossia effetto della natura di essi. L'uomo, 
per chiarire ancor meglio l'esempio, ha nella propria natura umana l’essere amico 
ed anche l'essere nemico, come per sua natura può esser buono e può essere anche 
cattivo. Non sarà l’una e l’altra cosa due, nel medesimo tempo; ma l’uomo è però 
pur sempre il medesimo soggetto, che ora è amico ora nemico, ora buono ora cat- 
tivo: ed inoltre, è amico e buono ne’ tali e tali uomini, ed è nemico e cattivo ne’ 
tali e tali altri uomini. 

E basti di questo importantissimo punto. 

Ne’ paragrafi immediatamente susseguenti sì continua a parlare dell'opposizione, 
si accenna anche alle simiglianze, e non ricorre altro di rilevante. Passo a dire del 

Ligro III. Aristotele apre questo Libro col quesito di ciocchè sia migliore e più 
desiderabile, e, per giunta, di esaminare e a tal riguardo “ sermonem instituere 
“ (paragr. 1) non de iis quae longe inter se distant et magnam differentiam habent..., 
“ sed de iis quae vicina sunt ,. E risolve la quistione dicendo che “ quod est diuturnius 
“ et constantius, magis est eligendum quam quod est minus tale ,. 

E nella elezione è certo anche di peso “ quod eligat vir prudens, aut lex recta..., 
“ aut il qui in uno quoque genere scientes sunt ,. 

Ne’ due seguenti paragrafi continua in grosso l'esame e soluzione dell’istesso 
quesito, per poi venire, ne’ paragrafi 4 e 5, a prendere in considerazione i luoghi 
utili a conoscere ciocchè debba eleggersi e ciocchè fuggirsi. E statuisce (paragr. 5): 
“ Sumendi sunt loci de eo quod magis vel maius est quam maxime universales. sic 
“ enim sumpti ad plura problemata utiles erunt ,. i 

E questa è la sostanza della ricerca e soluzione del quesito proposto in questo 
Libro. Passo al 

Ligro IV. E qui posso essere ancora più breve di quel che sono stato nell’an- 
tecedente Libro. Giacchè in questo IV si torna a discorrere “ de iis quae ad genus 
“ et proprium pertinent ,, colla considerazione di differenze, specie, distinzioni e 
suddistinzioni di casi, di esempii, di applicazioni (anche al principio di contraddizione), 
che servono ad illustrare e confermare il proposto quesito. E si giunge così al - 

Ligro V (che, come è detto innanzi, non proverrebbe da Aristotele). 

Ma in questo stesso Libro V non vi sono altri argomenti veramente nuovi, ma 
si torna a trattare di quelli antecedentemente trattati. 

Infatti questo Libro comincia così: “ Utrum autem proprium sit necne id quod 
est propositum, ex his locis quos deinceps exponemus considerandum est ,. E 

Serie II. Tox LXII. 16 


« 


122 PASQUALE D'ERCOLE 29 


prosegue dicendo: “ Proponitur autem proprium vel per se et semper, vel per com- 
* parationem cum altero et interdum ,. E passa ad investigare e determinare, quando 
il proprio è per sè, quando per comparazione, ecc. 

E ne’ seguenti paragrafi 2, 3 e 4 continua ancor sempre il discorso intorno al 
proprio ne’ suoi più diversi aspetti e rapporti: ne’ quali aspetti e rapporti non manca 
la considerazione de’ principii contrarii (fatta nel paragrafo 6), e de’ principii con- 
trarii relativamente al proprio, per scorgere “an contrarium sit contrarii proprium , etc. 

In grosso è lo stesso nel paragrafo 7, in cui “ ex casibus refellitur, si ille casus 
“ non est illius casus proprium . etc. 

E finalmente, nel nono ed ultimo paragrafo, “ refellitur, si quis potestate proprium 
“ tradidit, etiam ad id quod non est rettulit illud potestate proprium, cum potestas 


le 


“ rei quae non est, inesse nequeat , etc. 

Rispetto alla predeita opinione di Prrue accennata dal ZerreR, dico rispetto a 
tale opinione, non contro ad essa, mi permetto di fare una personale osservazione. 
Ed è che, leggendo e considerando attentamente questo V Libro, la materia, il modo 
di pensarla, ordinarla, distinguerla e suddistinguerla ne’ suoi varii rispetti e rapporti, 
si mostra, da una parte, interamente simile a quella degli antecedenti Libri topici, 
dall’altra, interamente conforme alla mente di Aristotele. 

Ed ora vengo al 

Lisro VI. Questo si inizia coll’argomento delle definizioni, e si continua tutto 
con esse; ma queste stesse vengono di bel nuovo considerate ed esaminate con rife- 
rimento al proprio, al genere, alle differenze, ecc. Trattandosi di un argomento che ha 
della importanza, e che si addentra nella natura delle definizioni e nelle diverse 
parti costitutive di esse. allegherò un lungo luogo, in cui ciò è effettuato. 

Della trattazione dunque “ quae ad definitiones pertinet quinque sunt partes. 
vel enim definitio reprehenditur, quia omnino non vere dicitur, de quo nomen, 
“ etiam oratio, quandoquidem oportet hominis definitionem de omni homine vere 
“ dicitur. vel quia cum sit aliquod genus, non collocavit rem definitam in genere 
aut non collocavit in proprio genere, quoniam debet is qui definit, cum in genere 
definitum collocaverit, differentias adiungere, si quidem eorum quae in definitione 
“ ponuntur, maxime genus videtur rei definitae essentiam declarare; vel quia oratio 
“ non est propria (nam oportet definitionem propriam esse, quemadmodum et supra 
fuit): vel quia, cum omnia quae dixi perfecerit, tamen non definivit, nec dixit 
quidditatem rei definitae. reliquum est praeterea definitionis vitium, si definivit 
quidem, non tamen recte definivit. an igitur de quo nomen dicitur, non etiam 
“ oratio vere dicatur, ex locis ad accidens pertinentibus considerandum est. nam ibi 
“ quoque omnis consideratio in eo consistit ut intelligatur utrum sit verum an non 
verum. cum enim disserendo ostendimus accidens inesse. dicimus esse verum. cum 
“ autem ostendimus non inesse, dicimus non esse verum. an autem non in proprio 
“ genere posuerit, vel non propria sit oratio tradita, ex dictis locis, qui ad genus 
et ad proprium pertinent considerandum est. reliquum est ut dicamus quomodo 
“ disquiri debeat an non sit definitum, vel an non recte sit definitum, etc. ,. 

Nel susseguente paragr. 2 vien la considerazione dell'omonimo, del simmetrico, con 
le corrispondenti definizioni. Qui stesso Aristotele si fa a considerar la definizione in 
rapporto al sillogismo, e se in tal rapporto essa sia fatta chiaramente od oscuramente ecc. 


DO 
(40) 


LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 1293 


Ne’ paragrafi 3 e 4 continua sempre l'argomento delle definizioni. Nel para- 
grafo 5 sì considera la definizione del corpo, determinandolo (come si è poi sempre 
ripetuto e si ripete tuttora, meno il caso presentemente considerato da Zòllner ed 
altri, della così detta 4% dimensione) siccome “id quod habet tres dimensiones ,. 

Nel paragr. 6 Aristotele fissa l’attenzione alle differenze, in quanto in esse 
“ considerandum est an generis differentias dixerit ,. Se tali differenze non sono 
state indicate e precisate, non vi sarebbe stata vera definizione. | 

Nei susseguenti paragrafi continua sempre lo stesso argomento delle definizioni, 
con esemplificazioni intorno all’abito (paragr. 9), alla simiglianza (paragr. 10), e si 
termina con la considerazione della composizione delle cose, della quale, per avere 
una giusta definizione, bisogna indicare tutti gli elementi che la costituiscono. E così 
sì passa al 

Ligro VII. — Gli argomenti di questo Libro sono anch'essi suppergiù i medesimi 
di quelli trattati negli antecedenti Libri con speciale riguardo all’Oratoria, la quale 
naturalmente vien congiunta coi modi e forme di sillogizzare, obbiettare, ecc., col 
consueto riguardo ai generi, specie, differenze, opposizioni, casi tali o tali altri. 

Ecco, infatti, come al principio del Libro è enunciata la materia da considerare 
in essa: “ Utrum autem id de quo agitur sit idem an diversum, secundum eum modum 
“ qui inter modos supra de eodem expositos est maxime proprius, nunc dicendum 
“ est. dicebatur autem maxime proprie idem esse quod est numero unum. considerare 
“ autem oportet atque argumenta sumere ex casibus et coniugatis et oppositis. nam 
“ si iustitia est idem quod fortitudo, etiam iustus est idem quod fortis, et iuste idem 
“ quod fortiter. similis ratio est oppositorum ete. ,. Qui stesso vien la volta di pren- 
dere in considerazione anche il sorgere e perire “ ortus et interitus , delle cose. 
Poco appresso ricorre un riferimento anche alle cose che accadono: “nam quae 
“ alteri accidunt, etiam alteri accidere debent ,. E ciò vien messo ivi stesso in rela- 
zione anche colle Categorie, in quanto “ videre oportet an non in uno categoriae 
“ genere ambo sint, sed alterum qualitatem, alterum quantitatem vel ad aliquid 
“ relationem declaret ,. 

Al paragrafo 3 vien la considerazione della definizione e del sillogismo, pur 
con riferimento ai generi, alle specie, alle differenze, non che ai contrarii, alle diffe- 
renze contrarie, ecc. 

Al paragrafo 4 si ritorna sui luoghi atti a disputa, oratoria, ecc., ma con riferi- 
mento all’aiuto della memoria. Infatti statuisce: “ Maxime autem locorum omnium 
“ apti sunt ii quos nune dixi, necnon ex casibus et coniugatis. Ideoque maxime me- 
“ moria tenere et in promptu habere oportet hos locos (utilissimi enim sunt ad 
“ plurima problemata), atque etiam ex ceteris eos qui sunt maxime communes, quo- 
“ niam inter reliquos sunt efficacissimi ,. 

Nel seguente ed ultimo paragrafo 5 ricorrono ulteriori considerazioni pur attinenti 
a definizione, sillogismo, a genere, proprio, ecc.; e con esse si chiude il Libro. 

Ligro VII. — L'argomento principale di questo Libro de’ Topici è la disposi- 
zione della materia del discorso, con riguardo speciale ad interrogazioni, risposte, 
e ritrovamento (inventio) di quegli argomenti che spettano ed importano al dialettico, 
al filosofo. Il quale argomento conduce naturalmente Aristotele a connettervi, come 
d’ordinario, i modi di argomentare, sillogizzare, ecc. Ma sentiamo Aristotele stesso. 


124 PASQUALE D'ERCOLE 24 


Egli indica (nella traduzione latina) lo scopo e la materia della trattazione con 
queste parole: “ Post haec de dispositione, et quomodo interrogare oportet, dicendum 
# est. primum autem debet is qui interrogaturus est, locum invenire ex quo argu- 
« mentetur, deinde interrogare et disponere singula ipse per se, tertio et postremo 
“ haec dicere contra alterum. ac loci quidem inventio aeque ad philosophum et ad 
# dialecticum pertinet, eorum autem quae inventa fuerunt dispositio et interrogatio 
=“ dialectici est propria, quoniam hoc totum adversus alterum est: philosopho autem 
et ei qui ipse secum veritatem inquirit, curae non est, si vera sint et nota ea ex 
“ quibus efficitur syllogismus, nec tamen ea ponat is qui respondet, propterea quod 
propinqua sint quaestioni ab initio propositae ac provideat quod eventurum sit. 
quin immo fortasse dat operam ut axiomata sint maxime nota et problemati pro- 
pinqua, quandoquidem ex his constant syllogismi qui scientiam pariunt ,. 

Sillogismo senza proposizioni intanto non si dà; perciò Aristotele rivolge la sua 
attenzione a queste. Di queste ve n’'ha di necessarie ed anche di non necessarie. 
«“ Necessariae autem ,, dic'egli, “ dicuntur eae ex quibus syllogismus conficitur. quae 
“ vero praeter has sumuntur, quattuor sunt: vel enim sumuntur inductionis causa, 
“ ut detur quod est universale, vel ut amplificetur oratio, vel ut celetur conclusio, 
“ vel ut magis perspicua sit oratio etc. ,. 3 

Nell’anzidetto si contiene il pensiere aristotelico di questo Libro, e s'intende 
che ciocchè segue non può essere che l’ulteriore e più ampia esplicazione di ciò con 
applicazione a singoli casi e quesiti ed a singole corrispondenti soluzioni. 

A conferma di ciò, nel paragrafo 2 si pone che nel dissertare “ utendum syllo- 
# gismo apud dialecticos potius quam apud multos; contra inductione apud multos 
“ potius ,. Si fanno di ciò, ad illustrazione, applicazioni a casi vari, poniamo al caso 
della salute, valetudo, della malattia, mordum, ecc. Quanto alla natura della proposi- 
zione dialettica e al corrispondente elemento dialettico, si dice poco appresso : “ Pro- 
“ positio enim dialectica est, ad quam respondere licet etiam aut non ,. 

Al paragrafo 3 si prendono in considerazione le Aypotheses, le captiosae argu- 
mentationes con riferimento ai principia ultima, da cui tutte le dimostrazioni e tutti 
i principî subordinati traggono origine e ragione probativa. “ Nam cetera (scilic. 
# principia) per haec probantur, ipsa vero per alia probari non possunt ,. 

Nel paragrafo 4, riferendosi all’interrogare e rispondere, dice: “ De responsione 
autem primun determinandum est, quod eius sit officium qui recte respondet, quemad- 
modum eius qui recte interrogat. est autem interrogantis ita disputationem deducere, 
ut respondentem cogat maxime incredibilia dicere ex iis quae praeter thesim sunt 
necessaria; respondentis vero, ne sua culpa videatur evenire quod absurdum vel 
praeter opinionem est, sed propter thesim ,. 


“ 


L’istesso argomento dell’interrogare e rispondere viene svolto nei paragrafi 5, 6 
e seguenti con ulteriori considerazioni di altri casi e rispetti. 

Ma più innanzi nel paragrafo 11, a proposito della reprehensio argumentationis, 
ricorre l’accenno ad argomentazioni false e vere nel senso ed intendimento di ciocchè 
si è discorso ed esposto negli Analitici; e il corrispondente luogo, relativo a molti 
modi di argomentazione, è degno di essere riferito e suona così : “ Qui vero ,, dice 
Aristotele, “ ex falsis verum concludunt, non possunt iure reprehendi, quoniam falsum 
“ quidem semper necesse est ex falsis concludi, sed verum licet interdum etiam ex 


25 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 125 


“ falsis concludere: hoc autem est perspicuum ex Analyticis. quando autem argu- 
“ mentatio quae dicta est, alicuius rei est demonstratio, si quid aliud sit quod nihil 
cum conclusione probanda commune habeat, profecto non erit ex eo syllogismus. 


“ 


“ 


sin autem videatur, sophisma erit, non demonstratio. est autem philosophema syllo- 
gismus demonstrativus, epicheirema vero syllogismus dialecticus, sophisma syllo- 
gismus contentiosus, aporema syllogismus dialecticus contradictionis ,. 

Per ragione del tecnicismo di queste ultime espressioni della Logica aristotelica, 
allego quest’ultima parte del luogo nel testo greco, il quale suona così: Hot dè 
piriocdpnua uèv ovAdoyiouòs drroderatinds, érugeionua dè cvAloyiouòs dialextizds, 
ooquoua dè ovAloyiouòs Eouotixds, arrdomua dè ovAloyiouòs dralextizòs avtIpPdoE0s. 

Nel seguente paragrafo 12 si stabilisce come massima che “ argumentatio est 
“ perspicua uno modo, eoque maxime vulgari, si ita concludat ut nihil amplius opor- 
“ teat interrogare ,. E dopo altre consimili considerazioni si conclude il Libro VIII 
con quest'altra massima di carattere generale: “ oportet paratas argumentationes 
“ habere adversus eiusmodi problemata, in quibus cum paucae argumentationes 
“ suppetant, adversus plurima problemata utiles erunt. hae vero sunt argumenta- 
“ tiones universales, et quas assumere ex rebus passim obviis difficile est ,. 

Dopo siffatte, se non diffuse, certo sufficienti indicazioni sulla materia, sullo 
scopo e sul modo di trattazione de’ Topici, passo a dire degli Elenchi Sofistici. 

Ieoì tOV copiotimov éhéyyov. — Anche per questa parte, come ho fatto per 
le altre, della Logica aristotelica comincio coll’allegare un notevole giudizio di Borzro, 
il quale (loc. cit., p. 7) dice: “ Elenchus multa significat, sed hoc loco pro redar- 
“ gutione sumitur. Libri sunt duo, ad cavendas sophisticas captiones, et ne in disse- 
rendo falsa pro veris per ignorationem colligamus, aut admittamus. Huic operi 
initium dedit Plato in Euthydemo : ostenduntur illic pauci quidem doli disputatoris 
captiosi: Aristoteles autem rem omnem, ut solet, a primis initiis complexus, 
digessit in ordinem et formulas ,. 


K 


“ 


(13 
K 
U 


& 


A questo giudizio di Boezio si unisce PrantL, il quale colla sua autorità in tal 
materia, lo allarga ed integra con altre importanti osservazioni. La qual cosa egli 
fa nella pagina 346 della sua citata opera Gesch. d. Logik, ete., vol. I, primamente, 
osservando come questi Elenchi Sofistici si colleghino intimamente ai Libri topici 
in genere ed al Libro VIII in ispecie; e secondamente, esponendo in un breve e 
succoso cenno la materia e lo scopo de’ medesimi. 

Ma vi è stato in Italia un uomo, che, riattaccandosi ai due nominati scrittori, 
ha fatta una traduzione eccellente de’ primi 14 capitoli degli Elenchi, facendovi pre- 
cedere un elaborato ed illustrativo proemio, corredando i capitoli stessi di sommari 
ragionati abbastanza diffusi, estendendosi a dar sommarii anche de’ rimanenti venti 
capitoli, e, per giunta, a confermare ed illustrare il tutto con note amplissime e 
dottissime, nelle quali è abbracciata tutta la parte storica dell'argomento fino al 
secolo XIII inclusivamente. 

Quest'uomo, veramente sommo e a tutti noto, è Ruggero Bonexi, il quale non 
solo mostrò vastità di dottrina in questo speciale argomento della Logica aristotelica, 
ma ha allargato ed approfondito i suoi studi nella traduzione e illustrazione delle 
opere di Platone e della Metafisica di Aristotele, traducendo ed illustrando quasi tutte 
le opere del primo, e i primi sei Libri della Metafisica del secondo. E, per giunta, 


126 PASQUALE D'ERCOLE 26 


fortificò i suoi studi filosofici, oltre che collo studio della Storia della Filosofia fino 
agli ultimi tempi inclusivamente, anche colle sue amplissime conoscenze di Storia 
di tutti i tempi, e con un’ampia erudizione nelle altre discipline dello scibile. 

La esposizione che io, per assolvere il mio scopo e còmpito, farò di questi 
Elenchi, consisterà in tre diversi cenni: il primo, quello di valermi della traduzione 
italiana stessa e delle corrispondenti illustrazioni del Bonghi; quale migliore e più 
sicura guida nell'adempimento del mio scopo? il secondo, nell’allegamento di un 
brevissimo luogo del Boezio, riportato in nota dallo stesso Bonghi, luogo che ser- 
virà alla indicazione delle espressioni /atine de’ sofismi trattati da Aristotele; il terzo, 
nell’allegamento di un luogo importantissimo dell’Ueberweg, nel quale, in breve e 
succoso cenno, sono distinti e. illustrati tutti i sofismi con le relative denominazioni 
greche. E vengo alla esposizione. 

Cominciando .dal Bonghi, è bene ed utile di rilevare alcune importanti afferma- 
zioni e considerazioni di lui in riattaccamento a Boezio, a Prant], allo stesso sorgere 
e costituirsi della Sofistica, ed anche a Socrate, Platone ed Aristotele in quanto 
riferentisi alla medesima. 

Per ciocchè concerne il sorgere e costituirsi della Sofistica, benchè egli ricordi 
cose note, pur voglio ricordar le parole di lui. Prodico, Gorgia e Protagora (dic’egli 
nella prima parte dell’ Introduzione alla traduzione dell’Eutidemo, pag. 15) “ per i 
“ primi accettarono i nomi di sofisti e fondarono la sofistica ,. E, come essa “ è il 
“ principio e il fondamento dell’eloquenza e il più grande stimolo e sprone di coltura, 
“ essi furono maestri di eloquenza, e diffonditori di cultura in tutta la Grecia ,. 

Senonchè, pur troppo la sofistica degenerò in eristica. Ora, Platone (ibid., pag. 18) 
“ si oppose a questa perversione di giudizii ,: tanto più che “ non si sarebbe potuto 
“ mai far intendere il valore di Socrate, fino a che questa confusione avesse preoccu- 
“ pato le menti ,. Si aggiunga a ciò, che quando “ in Grecia si moltiplicò il numero 
“ di quei professori o maestri che si ripromettevano d’insegnare al cittadino la miglior 
“ maniera di condursi per sè e per gli altri nello stato ,, nacque una gran “ contra- 
“ rietà d’opinioni ne’ nuovi metodi d’insegnamento ,. E da questa, e dal “nome di 
uno degli Eristici che vi discorre , trasse origine l’Eutidemo di Platone. 

Vengo ora alle Confutazioni Sofistiche. 

Nell’avvertenza alle Confutazioni Sofistiche, come Bonghi traduce il trattato e0ì 
tOv copuotizòv EXéyyov (1), egli dice di essere stato indotto alla traduzione “ dal 
“ pensiero, che avrebbe potuto riuscire di molto interesse e utilità il vedere come una 
“ mente così sottile, investigatrice, sistematica (come quella di Aristotele) abbia per 
“la prima volta messo ordine e luce in una materia per sè così complicata e buia, 
“com'è questa del ragionamento usato a inganno altrui. Nell’Eutidemo Platone aveva 
“ rappresentata l’arte; nelle Confutazioni Sofistiche Aristotele, che vi ricorda tante volte 
“ l’Eutidemo e Platone, ne dette la feorica ,. 

Soggiunge, Aristotele “ non esser facile in nessuno suo scritto; e questo è uno 
“ di quelli ne’ quali è più difficile ,. Indicando la ragione, i limiti e il modo come ha 


» 


(1) Vedi Dialoghi di Platone, trad. da Ruggero Boncni, vol. IV (continuaz.), Eutidemo, 2* ediz.; 
Aristotele, il primo Libro Delle Confutazioni Sofistiche, ecc. Torino-Roma-Firenze, Fratelli Bocca, 1883. 


DO 
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LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGRLIANA, ECC. 127 


“ 


condotto la propria opera, dice essergli “ mancato il tempo , di condurre a termine 
la traduzione; ma che, ciò non ostante, “ la trattazione teorica de’ sofismi è ne’ primi 
“ (14 capitoli) compiuta ,, essendo “ nei seguenti (venti capitoli) solo indicate le vie 
“«“ praticamente utili a cavarsene fuori ,; e che, per giunta, come si è detto, anche per 
questi ultimi ha aggiunto “ lunghi sommarii ,; sì che il lettore finisce per aver 
conoscenza di tutta la materia dell'ultimo trattato logico di Aristotele. 

Ora ecco i punti sostanziali di questo. 

Aristotele nel Primo Capitolo, paragrafo 1, di questo dice che “ prende a 
discorrere.... delle Confutazioni Sofistiche e di quelle che paiono bensì confutazioni, 
“ ma sono paralogismi e non confutazioni ,. 


“ 


E nel seguente paragrafo 2 fonda questo suo giudizio con questa osservazione: 
“ Che de’ sillogismi alcuni son veramente tali, altri paiono e non sono, è manifesto; 
chè come questa apparenza ha luogo nelle altre cose per una cotal simiglianza, 
così accade ancora nei ragionamenti. E difatti, la persona, che altri hanno aitante, 
altri col gonfiarsi e acconciarsi.... paiono averla.... E delle cose inanimate è del 
pari; chè di queste quale è argento e oro davvero; quale non lo è, ma pare al 
senso; per mo’ d'esempio, d’argento quelle di stagno e di piombo; d’oro quelle 
tinte di giallo ,. E allo stesso modo, sillogismi e confutazioni, quali sono, quali 


“« 


K 


non sono, ma paiono per l’imperizia. 

“ Dappoichè (continua egli nel paragrafo 3, indicando la ragione dottrinale della 
“ differenza di sillogismo e confutazione, ossia di sofismo) il sillogismo si compone 
“ di alcune premesse per modo, che di necessità per via di esse proposizioni dica 
“ qualcosa di diverso dalle proposizioni; e confutazione è sillogismo in cui si con- 
“ traddice la conclusione ,,. 

Nel paragrafo 4, cominciando ad enumerare le cause, dice che di queste “ una 
fonte è più copiosa e comune di tutte, quella per via di vocaboli..... I vocaboli 
sono finiti di numero e i ragionamenti altresì ; dove gli oggetti sono infiniti ; sicchè 
è necessario che un solo ragionamento e un unico nome significhi più oggetti ,. 

Nel paragrafo 5 fa ulteriori esemplificazioni sulla sofistica, che si intendono e spie- 
gano con ciocchè è detto innanzi. 

Ma nel seguente Capitolo Secondo, passando ad indicare “ le specie de’ ragiona- 
menti sofistici ,, Aristotele, nel paragrafo 2, dice che di quelli “ che occorrono nel 
“ conversare, vha quattro generi: didascalici, dialettici, pirastici ed eristici. Sono : 

“ Didascalici (insegnativi) quelli che si sillogizzano da’ principî propri di ciascuna 
disciplina e non dalle opinioni di chi risponde ; (chè chi impara, deve credere): 

« Dialettici (discorsivi) quelli che da proposizioni probabili sillogizzano la con- 
“ tradittoria: 

« Pirastici (tentativi) quelli che lo fanno da proposizioni ammesse da chi risponde 
e necessarie a sapere da chi ha la scienza (e in che modo si è chiarito altrove): 

« Eristici (contenziosi) quelli che sillogizzano o paiono sillogizzare da proposi- 


Kw 


193 


zioni ammesse solo in apparenza, ma non in realtà ,. 

Nel paragrafo 3, ricordando che “ de’ ragionamenti upodittici (dimostrativi) 8° è 
« discorso negli Analitici, de’ dialettici e de’ pirastici altrove ,, dice doversi “ discorrere 
“ al presente degli agonistici (garosi) e degli eristici ,. E ciò fa nel 
CapiroLo III. — Aristotele, proponendosi in questo “ di fermare quante sono le 


12 PASQUALE D'ERCOLE 28 


0 


* mire di quelli che gareggiano e si puntigliano nel ragionare ,, dice che queste 
“ son cinque di numero : confutazione, falsità, paradosso, solecismo, e quinto il far 
“ cianciare chi conversi teco (e questo è il costringerlo a dire più volte il medesimo); 
“o non la realtà, ma l'apparenza di ciascuna di queste cose ,. 

E, spiegando nel paragrafo 3, le predette cinque cose, dice che “ quello che 
“ sopratutto si propongono, è di parere di confutare ; in secondo luogo, di mostrare 
“che uno dica il falso in qualcosa; terzo, di tirarlo a un paradosso; quarto, di 
“ fargli commettere un solecismo ; e questo è, il fare che chi risponde, per effetto 
“ del ragionamento. barbarizzi; per ultimo, il fargli dire più volte la stessa cosa ,. 

CapiroLo IV. — In questo Capitolo, venendo alla indicazione “ dei modi di con- 
“ futare ,, dice esservene “ di due sorte; gli uni stanno nella dizione, gli altri fuori 
“ della dizione ,. 

Nel paragrafo 2, indicando “i motivi che per effetto della dizione generano un 
“ falso vedere ,, dice che di essi “ ve n’ha sei; e sono l’egquivocazione, l’anfibologia, 
“ Ja composizione, la divisione, l'accento, la figura della dizione. & la prova di ciò s'ha 


“ 


“ per induzione ,. E ne’ susseguenti paragrafi chiarisce e illustra con esempi i pre- 
detti sofismi della dizione. 

CapiroLo V. — In questo Capitolo passa il nostro filosofo alla designazione 
de’ “ paralogismi fuori della dizione ,, e ne novera 


“ 


sette specie, una dell’accidente, 
“la seconda dal dirsi una cosa in assoluto o non in assoluto, ma per un certo modo 
“o posto 0 tempo o rispetto; la terza dall’ignoranza della confutazione; la quarta dal 
“ susseguente; la quinta dalla petizion di principio; la sesta dal porre la non causa 
“ come causa; la settima dal fare di più interrogazioni una sola ,. 

E anche per questi paralogismi Aristotele fa nei seguenti paragrafi illustrazioni 
ed esemplificazioni. 

Notevole è in questo Capitolo ciocchè Aristotele statuisce, al paragr. 11, intorno 
all'ultimo de’ sette paralogismi allegati, cioè intorno a quelli che “ nascono dal fare 
“ di due interrogazioni una sola ,. Rispetto a questi, “ quando resti nascesto che son 
“ più, e come se fossero una sola, le si dia una unica risposta ,; benchè rispetto a 
tal caso riconosca che “ in alcune è facile scorgere che son più, .... ma in altre meno ,. 

CaprroLo VI. — In questo Capitolo, al paragrafo 1, pone l’alternativa che “ o 
“ s'hanno a distinguere così i sillogismi e confutazioni apparenti ,, come si è detto 


K 


14 


e fatto negli antecedenti paragrafi, 
K 


o a ridurre tutti all’ignoranza della confuta- 
zione, ponendo per principio questa: chè v'è modo di risolvere tutti i modi che 
se ne son detti, nella definizione della confutazione ,. E l'alternativa e corrispon- 
dente soluzione proposta vien discussa a proposito degli altri ultimi paralogismi 
allegati. 

CapiroLo VII. — In questo Capitolo si continua a prendere in considerazione 
altri degli allegati paralogismi, come quelli dall’equivocazione, dall’anfibolia, dalla 
composizione e dalla divisione, dall’accento e dalla figura della dizione, dall’accidente, ecc., 
e si indica il modo di conoscerli e confutarili. 


« 


CaprroLo VII. — “ Poichè sappiamo (si dice nel paragrafo 1) per quante vie 
sì generino i sillogismi apparenti, sappiamo altresì per quante si possano generare 
i sillogismi e le confutazioni sofistiche ,. 


“ 


& 


“ E dico (paragrafo 2) sillogismo e confutazione sofistica non solo il sillogismo 


29 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 129 


“o la confutazione che appare e non è, ma anche quello che è bensì, ma proprio della 


cosa appare soltanto. E cotesti sono quelli che non confutano secondo la cosa, e 
non mostrano che altri l’ignora, che era il caso della Pirastica. Ora, la Pirastica 
è parte della Dialettica; e questa può sillogizzare il falso per ragione dell’igno- 
ranza di chi rende ragione. Invece, le confutazioni sofistiche, quando anche sillo- 
gizzino la contradizione, non fanno manifesto se altri ignora; poichè anche chi sa, 
impacciano con siffatte argomentazioni ,. 

“ E che gli otteniamo (paragrafo 3) collo stesso metodo, è chiaro ; dappoichè 
per quante vie appare a chi ascolta, che si siano sillogizzate appunto le proposi- 
zioni di cui gli s'era fatta interrogazione, per altrettante potrebbe altresì parere 
a chi risponda; sicchè per queste, o tutte o aleune, verran fuori sillogismi falsi, 
chè quello che uno non interrogato crede d’aver conceduto, interrogato lo conce- 
derebbe. Eccettochè in alcuni paralogismi succede insieme che si dimandi quello 
che manca, e la falsità si chiarisca, come in quelli dalla dizione e dal solecismo ,. 

Si fanno, ne’ paragrafi seguenti, consimili considerazioni intorno ad altri para- 
logismi, come quelli risultanti dall’accidente, dal conseguente, ecc. 

CapiroLo IX. — In questo Capitolo, nel paragrafo 1, Aristotele statuisce che 
“da quanti luoghi si traggano confutazioni di quelli che son confutati, non bisogna 
“ provarsi a determinarlo senza la cognizione delle cose tutte. Ora, ciò non è di 
“ nessun’arte; stantechè le scienze sieno infinite forse, sicchè è chiaro che anche 
“le dimostrazioni son tali ,. 


“ 


« 


» 


“ E di confutazioni ve n’ha anche di vere; stantechè quante cose v’ha luogo 
a dimostrare, tante v' ha luogo a confutare a chi asserisca il contraddittorio del 
Vero ; p. es., se uno ha asserito commensurabile il diametro, altri lo confuterebbe col 
“ dimostrare ch’ è incommensurabile. Sicchè bisognerà essere scienti d’ogni cosa, ecc. ,. 
“ Però (paragrafo 2), anche le confutazioni false saranno del pari infinite; chè 
v'ha secondo ciascuna arte il sillogismo falso; p. es., secondo geometria il geo- 


« 


K 


« 


« 


metrico, secondo medicina il medico; e dico secondo ciascun’arte quello secondo 
i principî di essa ,. E ne’ seguenti paragrafi, su questi stessi principî stabiliti, si 
fanno consimili considerazioni. 


“ 


CapitoLo X. — In questo Capitolo si pone in discussione e si risolve la seguente 
importante quistione intorno a ragionamenti relativi al vocabolo e al pensiero: “ Non 
“ v' ha, dic’egli, tra i ragionamenti la differenza che taluni dicono ; alcuni ragiona- 
“ menti riferirsi al vocabolo, altri al pensiero; chè è assurdo il pensare, che altri 
sono i ragionamenti che si riferiscono al vocabolo, e altri quelli al pensiero, e 
non già i medesimi ,,. 


“ 


«x 


“ Poichè (paragrafo 2), che è egli mai il non riferirsi al pensiero se non quando 
“ uno non usi del vocabolo nel senso cui l’interrogato ha consentito, credendo che 
“ fosse quello che avesse nella interrogazione? Ora, questo stesso è riferirsi al voca- 
“ bolo. E riferirsi al pensiero è, quando l’altro pensi quello cui egli ha consentito, ecc. ,. 

E ne’ paragrafi immediatamente seguenti viene confermando ciò con ulteriori non 
meno acute illustrazioni ed applicazioni, delle quali voglio rilevare l’applicazione che 
ne fa alle Matematiche, che attirano in modo speciale la nostra attenzione per la 
trattazione della così detta Logica matematica. “I ragionamenti nelle matematiche, 
“ dice infatti Aristotele al paragrafo 7, si riferiscono al pensiero o no? E se ad uno 

Serie II. Tox. LXII. 17 


130 PASQUALE D'ERCOLE 30 


« pare, che il triangolo significhi più cose, e non ha ammesso, che esso sia la figura (1), 
“ della quale s'è coneluso, che son due retti, cotesto ragionamento s'è egli diretto 
“ al pensiero di questo o no? , 

CapiroLo XI. — In questo Capitolo il grande filosofo ritorna a fare ulteriori con- 
siderazioni sulla Pirastica, e conseguentemente sulla Dialettica; giacchè “ la pirastica 
(paragrafo 1) o arte di saggiare è una dialettica ,. La quale ultima, quando non è 
seguìta ed applicata nel suo vero concetto e natura, conduce alla sofistica; giacchè, 
“ chi riguarda (paragrafo 2) il comune a più cose secondo ciascuna è dialettico; chi 
“ fa questo in apparenza, è sofistico ,. Donde è condotto a ritornare sull’eristica, alla 
quale conducono i sofisti stessi, che “ prefiggendosi (paragrafo 3) di vincere a ogni 
“ modo, s’appigliano a tutto ,, come appunto “ fanno gli eristici ,. 

Come Aristotele è sottile, serrato, conseguente in questa materia degli Elenchi 
Sofistici, che è tutta nuova e da lui creata siccome una teoria di questa parte logica! 

CapiroLo XII. — In questo Capitolo considera e tratta della Sofistica un altro 
lato costitutivo di questa. “ Quanto poi al mostrare (dic’egli, infatti, al paragrafo 1) 
“ che alcuno dica falso in qualcosa, e menare il ragionamento in un paradosso — chè 
questa era la seconda parte della professione sofistica, — or bene ciò soprattutto 
riesce in primo luogo, quando tu dimandi in un certo modo, e per via d’inter- 
“ rogazione. Dappoichè l’interrogare non definendo nulla a cui si miri, è modo di 
caccia adatta a ciò; chè quelli che parlano a caso, errano di più; e. parlano a 
caso, quando non si siano proposto nulla ,. 

“ E l’interrogare di più cose (paragrafo 2), anche quando sia definito ciò rispetto 
a cui si disputa, e il richiedere altri di dire checchè gli paia, dà qualche agevo- 
lezza al menare in un paradosso o una falsità; e sia che, «interrogato, neghi o 
affermi alcuna di tali dimande, condurlo in luoghi, dove si ha copia d’attacco. 
Però, ora è possibile di misfare per questi mezzi assai meno di prima; stantechè 
chiedono: che fa mai questo a quello in principio? , 


“ 


“ Ed elemento poi (paragrafo 3) all’abbattersi a una falsità o a un paradosso 
è il cominciare dal non fare nessuna proposizione oggetto dell’interrogazione, ma 
dire d’interrogare per voglia d’imparare; dappoichè la disquisizione dà modo 
d’attacco ,. 
In questo paragrafo mi pare che Aristotele abbia presente e rilevi la maniera 
di fare e ragionare di Socrate. 
“ AI mostrare (continua Aristotele al paragrafo 4) che uno dica falso, è proprio 
“ luogo quello sofistico, il menare a tali cose, che s'abbia contro esse copia di argo- 
“ mentazioni; e questo vi sarà modo di farlo bene e non bene, secondo s'è detto 
“ prima ,. 
Rilevo un ultimo luogo importante del fare sofistico, quello relativo alla nature 
ed alla legge e del quale Aristotele rileva il lato paradossastico come segue: “ Il 
“ luogo il più copioso (paragrafo 8) del far dite paradossi è (come anche è fatto 
« parlare Callicle nel Gorgia, e gli antichi tutti credevano che risultasse) è da quel 
“ secondo natura e secondo legge; giacchè sieno contrari natura e legge, e la giustizia 


(1) La qual figura, se lo noti il lettore, rappresenterebbe qui l’elemento del vocabolo. 


Si LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 131 


“ essere cosa bella secondo legge, ma secondo natura non bella. Sicchè bisogna chi 
“ parla secondo natura, affrontarlo secondo legge; e chi secondo legge, menarlo alla 
“ natura; giacchè vi sia luogo a dir paradossi ne’ due modi ,. 

CaprroLo XIII. — In questo Capitolo si tratta di un argomento che par futile, 
cioè quello del cianciare; eppur questo dà luogo a una acuta e teorica disamina della 
sofistica da parte di Aristotele. 

Prima di allegare le parole del grande filosofo, allego una osservazione inter- 
pretativa che fa il Bonghi in proposito, e che è questa: Col cianciare, cioè, dice 
quest’ultimo, “ sì passa al quarto fine del sofista, che è il forzare l’avversario a dir 
“ più volte la stessa cosa, che torna al cianciare o infilzar parole senza senso. Il 
« presupposto di tali sofismi è che il vocabolo è tutt'uno colla sua definizione e quello 
“ non differisce in nulla da questa, sicchè si può in una proposizione surrogare l’uno 
“ all'altra. P. es. doppio si definisce doppio di metà: ora, se la definizione può essere 
“ surrogata al definito, noi possiamo definirlo: doppio di metà di metà; e da capo 
“ doppio di metà di metà e così in infinito ,. 

. Giò posto, ecco ciocchè dice Aristotele (al paragrafo 2) intorno al discorrere 
per puro cianciare: “ Tutti i siffatti discorsi vogliono far questo; se non differisce 
“ per nulla il dire il vocabolo o la definizione, doppio e doppio di metà è tutt'uno; 
“ se adunque è doppio di metà, sarà doppio di metà di metà ; e di novo, se in luogo 
“ di doppio, si ponga doppio di metà si sarà detto tre volte: doppio di metà di metà 
“ di metà (1). Ed evvi egli il desiderio del piacevole? Ora, questo è appetito del 
“piacevole; dunque, desiderio è appetito del piacevole del piacevole, ecc. ,. 

CapiroLo XIV. — L’argomento di questo Capitolo è il Solecismo e la sofistica- 
zione in cui può incorrersi con esso. 

Aristotele (al paragrafo 2) parla e ragiona in questo modo: “ Questo (cioè il 
“ Solecismo) v'è luogo a farlo e a parere senza farlo, e a non parere facendolo; 
“ siceome diceva Protagora, se è w7v1s e ò xM)A7É sono un mascolino; giacchè chi 
“ dice odAouévnv solecizza secondo lui, ma agli altri non pare; chi odAduevov pare 
bensì, ma non solecizza , (Si noti che u7v15 e 274né$ son propriamente femminili). 

“ Sicchè è chiaro (paragrafo 3) che uno potrebbe ad arte far questo ; per il che 


& 


molti ragionamenti pur non sillogizzando un solecismo paiono di sillogizzarlo, sic- 
come nelle confutazioni ,. 

“I solecismi apparenti (paragrafo 4) hanno occasione pressochè tutti dal r6de, 
“ e quando la desinenza non manifesta nè maschio nè femmina, ma il di mezzo. Difatti 
“ oòtos significa maschio ed bt femmina; ma toto vuole bensì significare il di 
mezzo, pure spesso significa anche l’uno o l’altro di quelli: p. es., che è zodro? 


“ Calliope, legno, Corisco. D'altronde, del maschile e del femminile le desinenze de’ casi 


« 


(1) Qui mi par di vedere Aristotele (senza menomare la fina osservazione e interpretazione del 
nostro Bonghi) riferirsi al famoso dialettico Zenone eleate, del quale uno degli argomenti famosi, 
quello cioè del non potersi andare da un punto all’altro dello spazio, era pensato e condotto 
appunto in tal guisa: cioè, di non potersi percorrere l’intero spazio senza giungere alla metà di 
questo, non potersi giungere a questa metà senza percorrere la metà di questa metà, e così non 
potersi giungere a questa seconda senza percorrere la metà della metà della metà, ecc. in infinito, 
il che era impossibile a fare in un tempo finito. 


132 PASQUALE D'E=-COLE 32 


* differiscono tutte, ma del genere di mezzo quali sì, quali no. Ed ecco che spesso, 
* essendosi lor concesso rodro, sillogizzano, come se fosse stato detto todTor; e del 

* pari una desinenza in luogo d'un’altra. E il paralogismo si genera perchè il z6de 
“ è comune a più desinenze; giacchè rovro significa quando oòros quando todrovr. 
* Però deve significare quando l’uno e quando l’altro; con è odtos, con essere ToÙtOr, 
* per es., è Kogiozos, essere Kogiozov. E nei vocaboli femminili del pari ; e in quelli, 
* che son bensì d'utensili, ma però hanno appellazione femminile o maschile. Dap- 
poichè tutti quelli che terminano in o e in », hanno soli l’appellazione da utensili, 
* come É4or, czorviov; ma quelli che non così, l'hanno maschile o femminile, di 
“ cni applichiamo alcuni agli utensili; p. es. @ozòs è vocabolo maschile, 2Zivy fem- 
“ minile. Per il che anche rispetto a questi differirà del pari l'è e Vessere ,. 

“ E in un certo modo (paragrafo 5) il solecismo è simile alle confutazioni tratte 
= dal prendere per simili cose non simili. Giacchè come a queste accade di sole- 
“ cizzare sulle cose. così a quello su’ vocaboli; chè uomo e bianco sono e cosa e 
vocabolo .. 

“ Siechè è manifesto (paragrafo 6) che da simili desinenze bisogna sforzarsi di 
sillogizzare il solecismo. 

“ Le specie, dunque, de’ discorsi contenziosi e le parti delle specie e i modi son 
“ quelli che si son detti , 

Con questi estiiohe: Capitoli finisce la parie feorica degli ita Sofistici, e 
che, come si è detto, nei seguenti venti Capitoli si espone e fa l'applicazione dei 
primi quattordici. Io ometto di esporre anche questa parte applicativa, ritenendo suffi- 
ciente pel mio scopo la conoscenza della teoria. 

Passo perciò al secondo punto del triplice cenno che io voleva fare degli Elenchi 
predetti, cioè alla indicazione latina de’ paralogismi o sofismi, secondo la indicazione 
di Borzio. Questi infatti (vedi Boxexi, nota 129 alle Confutazioni Sofistiche, pag. 529) 
indica le tredici denominazioni.sofistiche di Aristotele così : 1° Aequivocatio; 2° amphi- 
bolia; 3° compositio; 4° divisio; 5° accentus; 6° figura dictionis: 7° propter accidens; 
8° propter id quod simpliciter vel non simpliciter ; 9° propier redargutionis ignorantiam ; 
10° propter consequens ; 11° propter id quod est in principio sumere; 12° propter id 
quod non est causa ut causam ponere, ovvero, propter non causam ut causam; 13° pei? 
plures interrogationes unam facere. 

In questa stessa nota 129 il Bonghi ha un notevole accenno ad Alberto Magno, 
che pure scrisse degli Elenchi Sofistici. E altri accenni non meno notevoli ha nella 
nota 160 per Alfarabi:; nella nota 161 per S. Tommaso; e nella nota 163 per Duns 
Scotus, il cui fractatus logicae è l’ultimo nella Scolastica, e che è intitolato De syllo- 
gismo sophistico sive fallaciis. 

Ed ora pongo termine alla mia esposizione coll’allegamento dello stupendo e 
comprensivo luogo dell'’UzseRWwEG (Syst. d. Logik u. Gesch. d. Logischen Lehren, citato, 
pag. 370), che suona come segue: 

“ Aristotele nel suo scritto segì tOV coguotiz@v éléyyov si è fatto guidare 
nelle diverse parti del medesimo dallo speciale riguardo ai sofismi molto disputati 
“ al suo tempo. Egli definisce (Top. VII, 11) il G6gicua come cviZoyicuòs éouotizds, 
“ e divide i Sofismi in due Classi principali: smag@ tiv AéÉiv e #Éo tig HéÉews. 

© Alla Prima Classe principale novera (De Soph. Elench., c. 4) come appartenenti 


La 


Li 


I 


GS 


R 


E 


» 


D 
(9) 


3 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 133 


sei specie: duovuzia (aequivocatio), GugeBoZie (ambiguitas), c8vdsos (fallacia a 


‘ sensu diviso ad sensum compositum), deeiosors (fallacia a sensu composito ad sensum 


divisum), 7000@die (accentus), cy)jua 175 A85e0s (figura dictionis): de’ quali Sofismi 
però il terzo ed il quarto (la confusione del senso distributivo e del collettivo, 
ovvero la confusione di ciocchè vale in modo speciale di tutti i singoli od in ogni 
singolo rapporto, e di ciocchè vale della generalità come tale), in quanto appar- 
tenenti alle fallaccis secundum dictionem, si lasciano aggruppare (subsumere) sotto 
il concetto dell’anfibolia nel senso indicato di sopra. (Per oyQuata 775 AéÉe0s 
Aristotele intende qui le forme grammaticali de’ nomi e de’ verbi, e, secondo 
Pot. c. 19, in modo speciale le proposizioni grammaticali fondate sui diversi rap- 
porti di Predicato con Soggetto: proposizioni grammaticali, alla cui espressione 
servono in parte i Modi verbali, come Comando, Preghiera, Minaccia, Enunciazione, 
Domanda e Risposta). i 

“ Alla Seconda Classe principale, cioè ai Sofismi #É@ 7775 A8É806, Aristotele novera 
come appartenenti le seguenti sette specie: zaoà tò couteByxòs (fallacia rationis 
ex accidente), tò dA 7 ui) arÀ@5 (a dicto simpliciter ad dictum secundum quid), 
î) toù éXéyyov &yvora (ignoratio elenchi), za0@ tò émduevov (fallacia rationis ex 
consequente ad antecedens), zò év dog) AauBavew, aiteîcdar (petitio principi), 
tò uî) altiov tdEvar (fallacia de non causa ut causa), tò rà Asi éomm)uata èv 
mov (fallacia plurium interrogationum). 

“ Se non che questi errori sono in parte errori di dimostrazione (Beweisfehler; 
ved. appresso paragr. 137). Degli errori indicati adduce Aristotele stesso esempi 
nel suo scritto zzeoì tOv copiotizòv éléyywv ; si può paragonare con esso il Dialogo 
di Platone (o di un platonico) Kutidemo. Antiche e moderne esemplificazioni, però 
in gran parte già fatte, dà il Frirs (System der Logik, paragr. 109). Una diffusa ed 
esatta disamina di Sofismi si trova in Mitt, Log. trad. da Schiel, 2 (e 3) Ediz., 
pag. 398-432. Rispetto al ‘carattere nebuloso e confuso di parecchie moderne spe- 
culazioni, e rispetto ad innumerevoli sofismi, per mezzo de’ quali, dato l’insolvibile 
còmpito di derivare il pieno dal vuoto, si è creduto di ottenere l’apparenza di una 
soluzione, ha detto il TRENDELENBURG (El. 2u den Elem. der Arist. Log., 1842, p. 69) 
con ragione: “ Sarebbe tempo di tradurre secondo il tempo moderno (ins Moderne) 
lo scritto aristotelico degli Elenchi Sofistici ,. Questo còmpito è stato risolto sol- 
tanto in modo unilaterale mediante I’ Antibardarus logicus von Cajus, 1851; 28 Ediz., 
1° fasc., 1853, comunque il suo autore nel campo del pensiero filosofico sappia 
esercitare con destrezza di Polizia certe funzioni (polizeiliche) di vigilanza ,. 

Chiudo la mia considerazione ed esposizione della Logica aristotelica, e concludo 


dicendo che questi punti fondamentali del pensiero logico aristotelico e la corrispon- 


dente legislazione del medesimo sono addirittura una immortale creazione, che non 


i 


soli 24 secoli passati han già confermata e glorificata, ma che continueranno a 


confermare e glorificare anche i secoli venturi. Una più specificata illustrazione e 


determinazione di tal giudizio verrà data in seguito. 


Ed ora vengo alla Logica kantiana. 


134 > PASQUALE D'ERCOLE 34 


IL 
La Logica kantiana. 


La Logica di Kant non è scompagnabile da quella di Hegel. della quale è l'im- 
mediata preparazione ed antecedenza. Carlo Rosenkranz, insigne conoscitore ed espo- 
sitore delle dottrine di entrambi, dice giustamente a tal riguardo (1), che “ l’intima 
= parentela e il legame de’ due grandi architettori del pensiere (Gedankenarchitekten) 
* Kant ed Hegel, dell’ iniziatore e del compitore di una delle più grandi epoche 
= della filosofia, congiungono insieme i lor sistemi nel circolo dell'eternità (2um Ring 
3 der Ewigkeit) .. 

Fonti per l'esposizione della Logica kantiana. 

La fonte principale e diretta sono le stesse opere logiche di Kant, le quali son 
contenute ne primi ire rolumi delle opere di lui edite, come è detto, da Rosenkranz 
e Schubert. Vi sono però alire fonti anche importanti, che sono le seguenti. 

Dr. Monitz SteczeLwacHer, Die formale Logi Kant's in ihren Beziehungen 2ur 
transcendentalen, Breslau, 1879. 

Friedrich Uszerwzes Grundriss der Gesch. d. Philosophie. 37 Theil. Die Neuzeit, 
1° Bd., 8° Aufi.. bearbeitet u. herausgegeben von Dr. Max Hemze, ete., Berlin, 1896 
(esiste già anche la 9* edizione di questo volume). Quest'opera è indispensabile ad 
ogni cultore della filosofia, sopratutto per la ricchissima parte bibliografica che essa 
contiene; e quanto a Kant, essa contiene una esposizione, biografia, bibliografia e 
disamina compiutissima della filosofia di lui, e persino con estensione ai seguaci ed 
oppositori di Kant con notizie bibliografiche dei medesimi. 

Hrezr's Vorlesungen iiber die Gesch. der Philosophie herausgegeben von Dr. C.L. Mi 
chelet, 37 Theil, 2° verbesserte Aufiage, Berlin, 1844. Vedi pp. 499-553, nelle quali 
Hegel espone, giudica e apprezza la filosofia di Kant con speciale riguardo alla Cri- 
tica della Ragion Pura, e però alla Logica kantiana. 

Dr. C. L. Miceerer, Geschichte der letzten Systeme der Pilociplara in Deutschland 
von Kanî bis Hegel, Berlin, 1837. Michelet tratta lungamente di Kant nella 12 parte 
della sua opera in 218 pagine di questa; ed è stato uno de’ primi in Germania, dopo 
Hegel, ad esporre e trattare in modo speculativo la filosofia kantiana. 

Carlo RosenxrRANZ è importantissimo anch'egli non solo per la mentovata Storia 
della filosofia di Kani fatta nel 12° vol. delle opere kantiane, ma anche per la “ Pre- 
fazione alla raccolta degli scritti logico-metafisici di Kant ,. ed in generale per tutta 
la pubblicazione de’ primi tre volumi delle opere di Kant, i quali primi tre concer- 
nono appunto gli scritti logici del grande filosofo. 

Il Criticismo presso gl’Ttaliani. Uno dei primi a studiare, esporre ed apprezzare 


(1) In Immanuel Kanîs Simmiliche Werkz, herause. ron Karl Rosessranz und Friedr. Wilh. 
Scavszzr, Leipzig, 1838-1842. 12 Bd. Il vol. 11° contiene le Lettere di Kant e la Biografia del me- 
desimo scritta da Schubert, e il yol. 12° contiene la Sioria della Filosofia di Kani, scritta da 
Rosenkranz; il luogo allegato è di quest’ultimo volume, pas. 494. 


35 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 135 


il Kantismo da noi fu l'Abate A. Tesra collo scritto: Della Critica della Ragion Pura 
di Kant esaminata e discussa, ece., Lugano-Piacenza, 1841-1844. Altro scritto del 
Testa, pure relativo al Kantismo, è: Del male dello Scetticismo trascendentale e del 
suo rimedio, Piacenza, 1840. : 

Il Prof. Luigi CrepARO, con riferimento al Testa ed al Kantismo, scrisse: A. Testa 
o è primordii del Kantismo in Italia (in “ Rendic. Acc. Lincei ,, Roma, 1885-1886); ed 
anche: Quistioni Kantiane (in Filosofia d. Scuole Italiane, 1885). 

Ma una fonfe, ed anche più feconda di studio, esposizione ed apprezzamento del 
Kant ha suscitato in Italia specialmente Bertrando Spaventa fin dal 1860 con lo 
scritto: La filosofia di Kant, Torino, 1860. A questo scritto ne fece seguire altri, 
per es., La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofia italiana; Kant e Vem- 
pirismo; ed anche altri. I discepoli e i seguaci dello Spaventa han continuato gli 
studi sul Kantismo e tra essi ricordo specialmente il FrorenTINO, assai benemerito 
pe suoi studi e produzioni sulla Filosofia del Rinascimento. Pel Fiorentino rimando 
il lettore al bello ed accurato studio di lui fatto dal Prof. Giovanni GentILE (in La 
Critica, Rivista, ecc. diretta da B. Croce, anno IX, 20 marzo 1911); e mi associo al 
giudizio che, ad onta delle grandi benemerenze del Fiorentino per la Filosofia, questo 
rimase nell'orbita del Kantismo e “ non potè penetrare davvero nella speculazione 
“ hegeliana ,, cui pure aspirava. — Ricordo anche Filippo Masci con lo scritto: Una 
polemica su Kant, l Estetica trascendentale e le Antinomie, Napoli, 1872, ed anche con 
altri; Felice Tocco con gli scritti: L’ Analitica trascendentale e i suoi recenti espositori 
(in Filosofia delle Scuole Italiane); Filosofia di Kant (ibid.). Anche altri, non discepoli 
nè seguaci di Spaventa, si sono occupati del Kantismo, per es.: P. RAGNISco, La Cri- 
tica della Ragion Pura di Kant, Napoli; F. Cniapperri, Kant e la psicologia contem- 
poranea, Napoli; G. BarzeLLOTTI, La critica della conoscenza e la metafisica dopo il 
Kant (in Filosofia delle Scuole Italiane, vol. 20); G. Cesca, Storia e dottrina del Cri- 
ticismo, Verona, 1884; C. CanToNI, con un’opera di tre grossi volumi, intitolata: 
Emanuele Kant, e trattanti il primo la Filosofia teoretica, il secondo la Filosofia pra- 
tica, il terzo la Filosofia religiosa, ecc., Milano, 1884. 

Degno di ricordo è anche l’insigne collega di Spaventa, cioè A. Tar, il quale 
scrisse: Del Kantismo, Torino, 1861. 

A questo novero già lungo di Italiani potrei aggiungerne altri molti, come il 
Marani, che nella “ Nuova Antologia ,, 1866, scrisse: Del Kant e della filosofia pla- 
tonica, e in “ Filos. d. Scuole Italiane ,, 1870, scrisse: Kant e lontologia; R. Ma- 
RIANO, che in “ Atti Accad. Scienze ,, Napoli, 1888, scrisse: ZI ritorno a Kant e i 
neo-Kantiani ; il MaruRI, il TARANTINO, ed altri. Ma l'allegato è più che sufficiente. 

Notevolissime fonti sono anche A. TrEnpELENBURG e Kuno FiscHER per i loro 
giudizii e polemiche intorno a Kant. 

TRENDELENBURG scrisse: Ueder e. Liicke in Kant's Beweis v. d. ausschliessenden 
Subjectivitit des Raumes u. der Zeit, e Krit. und antikrit. Blòtt., negli “ Hist. Beitr. 
zur Philos. ,, II, 1867, pp. 215-276; ed anche: Kuno Fischer u. sein Kant, eine 
Entgegnung, Leipzig, 1869. 

Kuxo FiscHeR scrisse (ed anche con riferimento al Trendelenburg): Logik u. 
Metaph., 2 Aufl., p. 153 ss.; ed inoltre: Anti-Trendelenburg, eine Duplik, Jena, 1870. 
E, per giunta, in Gesch. d. n. Philos. ha un volume su Kant. 


136 PASQUALE D'ERCOLE 


6 


(DS 


La polemica tra’ due notevoli scrittori fu seguita e riferita da molti. La riferi 
in modo molto particolareggiato il Dr. H. Varaiserg, Der Streit 2wisch. Trende- 
lenburg u. Fischer, Exrcurs in sein. Comment. 2. Kritik d. Reinen Vernunft, pp. 290-326. 

Notevolissimo per la famosa Cosa in sè è lo scritto di P. Asmus, Das Ich u. 
das Ding an sich, Gesch. ihrer begriffl. Entwicklung in der mneuesten Philosophie, 
Halle, 1873. È 

Non dimenticabile è Eduard von Hartwaxx, che scrisse, oltre al Neukantia- 
nismus, molte altre cose relative a Kant. 

E, tacendo di altri moltissimi, ricordo da ultimo due altri uomini, il Paulsen e 
lo Zeller: il Prof. Fed. Paursex ha uno speciale importante volume intorno a Kant 
intitolato: Immanuel Kant, Sein Leben u. seine Lehre; lo Zerter poi nel 1872 (in 
Vortrige und Abhandlungen, Leipzig, 1877, pp. 467-479), coll’accentuare il Riforno a 
Kant, dette un possente impulso ed incoraggiamento agli studi kantiani. 

Ed ora è tempo di venire alla Logica kantiana. 

Di Logiche il Kant non ne ba una sola, ma due: l'una puramente e semplicemente 
intitolata Logit, che è la logica veramente formale kantiana:; l’altra intitolata Logica 
trascendentale, che ricorre nella Critica della Ragion Pura. Di queste due Logiche ho 
già fatto un breve cenno nella * Rivista di Filosofia Neo-Scolastica , (1), e prego 
il lettore di prenderne notizia. Ma qui ne iratterò più lungamente. specialmente 
della seconda. 

La prima Logica, o la formale, fu pensata e scritta in un tempo nel quale in 
Germania dominava la Filosofia di Wolfio, alla quale s'ispirò l'istesso Kant nel suo 
primo periodo filosofico ancora dogmatico e antecedente al critico. 

È però notevole in proposito, rispetto alla Logica formale, una notizia che ci 
dà il RosexnxRaxz (nelle mentovate Sammiliche Werke kantiane, vol. III, p. vi) e 
che è la seguente. Cioè, il Kant, come guida del suo insegnamento logico © si ser- 
“ viva della Vernunftlehre di G. F. Meyer (Halle, 1752), che era uno dei wolfiani di 
“ maggior gusto, e che da Kant era pregiato in modo speciale .. 

Intanto, la gran mente di Kant, mai passiva, per una serie di anni, a margine 
della citata opera del Meyer, fece non poche postille, e dette incarico al Dr. Amedeo 
Jasche, libero docente all'Università di Konisberga, da lui assai stimato, di pubbli-. 
care la Logica (Logik) tenendo conto di tutte le predette postille. E Jàsche pubblicò 
l’opera kantiana nel 1800 (ibid., Rosenkranz, p. 1x). 

Di quest'opera, che ho dinanzi a me nel nominato III vol. delle Opere, pp. 167-344, 
ecco alcuni tratti importanti. 

Kant premette una Introduzione sul Concetto della Logica, e vi ricorrono alcuni 
principii generali ne’ quali a me sembra di scorgere i germi della stessa concezione 
Kantiana della futura Logica trascendentale. Eccone un saggio. - 

“ Tutto nella Natura , tanto inanimata quanto animata (pag. 169) “ avviene 
“ secondo Regole ,. benchè queste “ non ci sieno sempre conosciute .. La caduta delle 
acque, il movimento degli animali “ avvengono anche secondo Regole ,. I pesci nel- 


(1) Vedi in questa Rivista, anno III, 20 giugno 1911, pag. 437 ss., il mio scritto intitolato: 
Kant quale immediato antecessore di Hegel nella Logica ontologica. 


37 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 137 


“ 


l'acqua, gli uccelli nell'aria “ si muovono secondo Regole ,. In una parola “ tutta 
“la Natura non è propriamente altro che una connessità di fenomeni secondo Regole; 
“ed in generale non si dà irregolarità di sorta ,. 

“ Anche l'esercizio delle nostre forze avviene secondo certe Regole, che noi se- 
guiamo da prima inconsciamente, ma delle quali mano mano, con tentamenti e col 
lungo uso delle nostre forze stesse, giungiamo a conoscenza ,. 


“ 


Come le nostre forze, così è “ anche l'intelletto legato nelle sue azioni (pag. 170) 
a Regole che possiamo investigare. Sì, l'intelletto è in generale a considerare come 
la sorgente e la facoltà di pensare Regole. Giacchè, come la Sensibilità è la facoltà 
delle intuizioni (Anschauungen), così l' Intelletto è Ia facoltà di pensare, ossia di 
ridurre a Regole le rappresentazioni de’ sensi ,. Queste Regole però “ sono o ne- 
cessarie (nothwendig) o accidentali (2ufàllig) ,. Inoltre, queste Regole, in quanto 
accidentali “ dipendono da un determinato obbietto della conoscenza, e sono così 
“ varie (vielfiltig) come sono gli stessi obbietti ,. Se non che, le predette Regole 
possono essere anche « priori, cioè possono essere considerate come indipendenti 
da ogni esperienza, perchè esse, senza distinzione alcuna degli obbietti, contengono 
soltanto le condizioni dell’uso dell'intelletto, sia questo puro ovvero empirico ,. 


« 


« 
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« 


E di qui scende la conseguenza, che “le Regole generali e necessarie del pen- 
sare possono concernere soltanto la forma non la materia del medesimo. Perciò la 
scienza che contiene queste Regole generali e necessarie è soltanto una scienza della 


«“ 


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forma della nostra conoscenza intellettiva o del pensare ,. 

E “ questa scienza delle Leggi necessarie dell’Intelletto e della Ragione in ge- 
nere, ovvero — il che è lo stesso — della pura e semplice forma, noi l’appelliamo 
“ Logica ,. 

E germi ancor più palesi della futura Logica trascendentale contengono queste 
ulteriori affermazioni e conclusioni, cui Kant perviene dopo altre considerazioni e 
discussioni. Che, cioè, “ la Logica (ibid., pag. 175) è una scienza razionale (Vernunft- 


« 


« 


wissenschaft) non secondo la sola forma, ma anche secondo la materia; è una scienza 
a priori delle leggi necessarie del pensare; però non rispetto ad oggetti speciali, ma 
rispetto a tutti gli oggetti in genere; è dunque una scienza del retto uso dell’Intel- 
“ letto e della Ragione in genere; però non in modo soggettivo (subjectiv) (1), ossia non 
“ secondo principii (psicologici) empirici, siccome l’Intelletto pensa, ma in modo ogget- 
“ tivo (objectiv) (2), ossia secondo principii « priori, come esso deve pensare ,,. 

Ciò posto, passa alle principali partizioni (Hauptabtheilungen) della Logica. 

“ La Logica, dic’egli, vien divisa: 

“ 1° in Analitica e in Dialettica ,. 

“ L’Analitica , (ibid., pag. 176) come “ esponente i criterii formali della verità ,, 

e la Dialettica “ come contenente le note e le Regole, secondo cui possiamo cono- 


« 


« 


« 


scere ,. 
2° Si suole dividere ulteriormente la Logica “in naturale o popolare e arti- 
“ ficiale o scientifica ,. 


(1) E noti il lettore che tal modo subbiettivo della scienza è di una scienza che procede e si 
costituisce soltanto @ posteriori. 
(2) Qui c'è in germe il pensiero hegeliano della Logica. 


Serie II. Tom. LXII. 18 


138 PASQUALE D'ERCOLE 98° 


Ma questa Logica, secondo Kant, è errata. “ Perchè la Logica naturale o la 

“ Logica della Ragion pura (sensus communis) non è propriamente una Logica, ma una 
“ scienza antropologica, che ha principii soltanto empirici ,, ecc. 

3° Un'altra divisione della Logica è quella in “ teoretica e pratica ,, la qual 

divisione è “ anche errata ,. Giacchè “ la Logica generale, che, qual semplice canone, 
«“ astrae da qualsiasi oggetto, non può avere una parte pratica ,. 

4° La Logica vien anche divisa “ in pura e applicata (reine und angewandte) ,. 

Nella Logica pura noi segreghiamo l’Intelletto dalle rimanenti forze dell’animo, e 

questo l’Intelletto già lo fa da sè stesso per suo proprio carattere ed ufficio. La 

Logica applicata, al contrario, considera l’Intelletto come frammischiato (vermischt) 


colle altre forze dell'animo, e questo gli può dare un indirizzo storto, che “ non lo 


“ fa procedere secondo le leggi , 

5° La divisione della Logica (ibid., pag. 179) in Logica “ dell’Intelletto comune 
“ e speculativo (gemeinen und speculativen) , non è una giusta divisione. Giacchè “ V'In- 
“ telletto comune è una facoltà che vede le Regole della conoscenza in concreto; e la 
“ Logica dev'essere una scienza delle Regole del pensare în abstracto ,. 

Fa poscia una scorsa nel campo storico della Logica, ed osserva che “ la Logica 
“ odierna , origina da Aristotele. “ Il modo didattico (Lehrart) di essa è molto seola- 
“ stico e considera l’esplicazione de’ più generali concetti, che sono a fondamento della 
“ Logica, e da cui non si trae alcun utile (Nutzen), perchè ogni cosa riesce a sotti- 
“ gliezze ,. 

Accenna ulteriormente all’Organo di Lambert, che ha il difetto di accrescere le 
usuali “ sottili partizioni ,; a quella di Leibniz; ma pensa che “ la miglior Logica 
“ che si ha è quella di Wolfio , concentrata dal Baumgarten e ulteriormente commen- 
tata dal Meyer. 

Fra’ nuovi logici ricorda il Crustus (pag. 182), “la cui Logica contiene principii 
metafisici, e quindi oltrepassa i limiti di questa scienza ,. 

Da ciocchè il grande filosofo pensa delle Logiche di Wolfio e di Crusio, emerge 
ad evidenza che egli era ancora nel punto di vista della Logica formale e subbiet- 
tiva e non della sua stessa posteriore Logica trascendentale, reale ed obbiettiva. E 
ciò, ad onta degli stessi germi di questa seconda Logica innanzi rilevati rispetto 
alla Logica formale. 


« 


Dalla scorsa fatta nel campo della Storia della filosofia si rileva quanto grande 
e anche abbastanza precisa fosse la conoscenza che Kant avea di questa. 

Dopo avere accennato alle tre prime Scuole greche, ionica, pitagorica, eleatica, 
dice che “ la più importante epoca della filosofia greca (ibid., pag. 192) comincia con 
“ Socrate. Giacchè fu egli che diede un indirizzo pratico del tutto nuovo allo spirito 
“ filosofico e a tutte le teste speculative ,. E fra tutti gli uomini egli è stato 
“ quasi il solo che col suo comportamento si è più avvicinato alla Idea del Saggio ,- 

Accenna al grande discepolo di lui PLATONE, e ai discepoli di quest’ultimo, dei 
quali “ fu il più celebre ArIsrorELE, che elevò di bel nuovo la filosofia speculativa ,. 

Dopo altri accenni all’ulteriore filosofia de’ Greci, dice che questa passò ai Ro- 
mani, i quali però “ rimasero sempre discepoli , de’ Greci (ibid., pag. 194). 

Fa ulteriori accenni alla filosofia degli Arabi, e degli Scolastici, i quali ultimi, 
nell’accogliere e illustrare Aristotele, spinsero all’infinito le sottigliezze del medesimo. 


39 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 139 


Ma un “ miglioramento avvenuto ne’ nuovi tempi la filosofia lo deve, parte, a 
un maggiore studio della Natura, parte, all’unione della Matematica e della Scienza 
naturale ,. 


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“ Il primo e maggiore investigatore della Natura nei nuovi tempi fu BAconE 
pa VeRULAMIO ,, il quale nelle sue investigazioni battè la via dell'esperienza. 

“ Un servizio non minore rese , alla filosofia speculativa “ CAaRTESIO, coll’ aver 
molto contribuito alla chiarezza del pensare e allo stabilimento del criterio di verità, 
consistente nell’evidenza della conoscenza ,. 

“ Tra i più grandi riformatori della filosofia ai nostri tempi son da annoverare 
LernIiz e Locke ,. Rispetto a quest’ultimo rileva quel tratto che è divenuto proprio 
e preminente nella Critica Kantiana: cioò “ Locke cercò di analizzare l’intelletto 
umano, e di additare quali forze animiche e quali operazioni di esse appartenessero 
a questa o a quella conoscenza. Però non condusse a compimento il suo tentativo ,, 
il quale, con tutto l’utile prodotto, ebbe il difetto di “ un procedimento dogmatico ,. 

Quanto a procedimento dogmatico, “ ebbero lo stesso difetto LerBNIZ e WoLrFIo ,. 

Rispetto alla Filosofia della Natura, fiorentissima al nostro tempo, “ nessun nome 
tra gl’investigatori della Natura è maggiore di quello di NEWTON ,. 

Nella Filosofia morale “ non abbiam progredito rispetto agli antichi ,. 

Per ciocchè poi concerne la Metafisica, v'è ora una specie di indifferentismo ri- 
spetto ad essa; si ritien persino “ come un onore di parlar di essa con disprezzo, 
“ siccome di una scienza di puri e semplici lambiccamenti di cervello (Gribeleien). 
“ Eppure la Metafisica è la vera e propria filosofia ,. 


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S'intende bene che Kant pensa ed afferma ciò come ancora accoglitore-e seguace 
della filosofia di Wolfio. 

Come altro notevolissimo pronunziato ricorrente in questa Introduzione, vi è 
quello che costituisce il carattere dominante della filosofia kantiana: cioè (dic’egli 
ibid. a pag. 196): “ Il nostro tempo (Zeitalter) è il tempo della Critica ,. È dunque 
espresso il pensiere e metodo del Criticismo; e questo pronunziato, benchè espresso 
nella Logica formale di Kant, pur certamente ha dovuto appartenere alle ultime po- 
stille a margine della guida logica del Meyer, innanzi mentovate. 

A compimento del cenno della Logica formale kantiana, è necessario toccare 
dell’ulteriore contenuto di essa. Di tal contenuto considera i quattro principali punti 
di essa, cioè i Concetti, i Giudizii, i Sillogismi e la Metodologia (Methodenlehre), e li 
considera ne’ “ momenti principali (Hauptmomente, ibid., pag. 203) , della conoscenza, 
che sono “ la Quantità, la Qualità, la Relazione e la Modalità ,. 

Sono gli stessi momenti fondamentali della materia considerata nella posteriore 
Logica trascendentale. La differenza, naturalmente, è che tali momenti nella prima 
Logica son considerati dal punto di vista formale, nella seconda dal punto di vista 
reale od ontologico. 

Un brevissimo cenno di tali momenti secondo la prima Logica è il seguente, e 
ricorre nelle due parti appellate l’una Generale Dottrina elementare (Elementarlehre), 
l’altra Generale Metodologia (Methodenlehre). 

I Concetti. “ Tutte le conoscenze (dic’egli, ibid., pag. 269), ossia tutte le rappre- 
“ sentazioni (Vorstellungen) riferite consciamente ad un obbietto, sono o Intuizioni 
“ (Anschauungen) o Concetti (Begriffe). L’Intuizione è una rappresentazione singola; il 
“ Concetto una rappresentazione generale o riflessa ,. 


140 PASQUALE D'ERCOLE 40 


E qui comincia una serie di disamine ed osservazioni intorno ai Concetti, in ciascun 
de’ quali distingue la Materia e la Forma: “la Materia di essi è l’Oggetto, e la 
“ Forma è la Generalità ,. Inoltre, i Concetti si distinguono in empirici e puri: “ un 
“ Concetto puro è quello che non è tratto dall'esperienza, ma che sorge dall’Intelletto 
“ anche rispetto al contenuto ,. 

Dalle rappresentazioni, sia intuitive sia concettuali, distingue l’Idea, la quale è 
da lui definita “ un Concetto razionale (Vernunftbegriff), il cui obbietto non può 
“ ricorrere nell'esperienza , (ibid., pag. 270). 

Entra in ulteriori particolarità e definizioni rispetto all'origine de’ Concetti, agli 
atti logici della comparazione, della riflessione e dell’astrazione. 

Per ciocchè concerne quest’ultima, è notevole la seguente determinazione, cioè: 
“ Il Concetto più astratto (pag. 274) è quello che non ha niente di comune con qual- 
“ siasi altro distinto da esso. Tale è il Concetto di Qualcosa (Etwas); giacchè quello 
“ che da esso è diverso è il Nulla (Nichts) e non ha niente di comune col Qualcosa ,. 

Seguono ulteriori determinazioni intorno al contenuto ed estensione, al genere 
ed alle specie, all’ampiezza e ristrettezza de’ Concetti; e ne ometto il riferimento. 

I Giudizii (Urtheile). “ Un Giudizio (ibid., pag. 282) è la rappresentazione della 
“ unità della coscienza delle rappresentazioni stesse, ovvero è la rappresentazione del 
“ rapporto delle medesime, in quanto esse esprimono un Concetto ,. 

Seguono ulteriori determinazioni intorno ai Giudizii, tra le quali la più impor- 
tante è la determinazione delle forme logiche di essi secondo la Quantità, la Qualità, 
la Relazione e la Modalità. 

Secondo la Quantità i Giudizii sono notoriamente generali, particolari, singolari. 

Secondo la Qualità sono affermativi, negativi, infiniti. 

Secondo la Relazione sono categorici, ipotetici, disgiuntivi. 

Secondo la Modalità sono problematici, assertorii, apodittici. 

Seguono alcune altre investigazioni e determinazioni intorno ai principii (Grund- 
séitze) intuitivi e discorsivi; intorno a postulati e problemi, nonchè intorno a teoremi, 
corollarii, scolii, ecc.; e anche rispetto ai medesimi omettiamo di riferire. 

Il Sillogismo e la teoria di esso. — Il Sillogismo “ è quella funzione del pensare, 
“ mediante la quale un giudizio vien derivato (inferito) da un altro. Un sillogismo 
“è dunque la inferenza di un giudizio da un altro , (ibid., pag. 298). 

Anche rispetto ai Sillogismi Kant procede ad una serie di distinzioni e relative 
determinazioni di essi, per es., in quelle di sillogismi immediati e mediati ; sillogismi 
intellettivi, sillogismi razionali e sillogismi della facoltà critica (UrtheWlskraft), con 
l’allegamento di regole relative ad essi tutti. Ma anche di ciò non facciamo speciale 
rapporto, e accenniamo alle 

Figure sillogistiche. — Kant accenna alle quattro tradizionali Figure sillogistiche 
(alle tre aristoteliche e alla quarta galenica), rilevando anche come esse sorgano dalla 
posizione del concetto medio (Mittelbegriff), e accennando le regole mediante le quali 
esse vengono ridotte alla Prima Figura, che, secondo lui, “ è Za sola regolare (ibid., 
“ pag. 312), che è fondamento alle rimanenti, ed alla quale, mediante conversione 
“ delle premesse, vengono ricondotte le altre ,. 

La Metodologia (Methodenlehre) generale. — “ Ogni conoscenza (dic egli, ibid., 
“ pag. 327) ed ogni totalità della medesima dev’esser conforme ad una Regola. La 


41 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 141 


“ irregolarità è irrazionalità (Unvernunft) ,. Ma questa regola è o quella di modo libero, 
ovvero quella di un metodo obbligatorio. 

E qui il grande filosofo procede ad una disamina e determinazione della Forma 
della Scienza in conformità del Metodo; dell’oggetto e dello scopo della Metodologia; 
della Definizione e delle condizioni logiche della sua compiutezza; della compiutezza 
(Vollkommenheit) della conoscenza mediante una logica partizione de’ concetti; delle 
Regole di una partizione logica; della partizione dicotomica e politomica; del Metodo 
scientifico e del popolare; del metodo acroamatico o dell’erotematico, il quale ultimo è 
alla sua volta divisibile in socratito e catechistico; e. da ultimo, della meditazione, 
che, a senso kantiano, per esser buona, dev'essere “ un' pensare metodico , (ein me- 
thodisches Denken) con accompagnamento di lettura, ecc. 

Tali sono l’oggetto, lo scopo e i fondamentali punti trattati nella Metodologia ge- 
nerale, e ometto anche per essi di entrare nelle particolarità; sì perchè queste, come 
ingredienti della comunale logica formale delle Scuole, sono note; sì anche perchè 
del senso, dello spirito specificamente kantiano di concepirli, esporli e determinarli, 
mi sembra di aver detto ed allegato abbastanza nell’anzidetto. 

Prima però di passare all’esposizione della Logica trascendentale, a compimento 
del cenno della Logica formale kantiana, debbo ricordare un breve scritto del 1762 
di Kant stesso, intitolato: La falsa sottigliezza delle quattro Figure sillogistiche (vol. I 
delle Opere complete, pp. 35-74). 

Per buona fortuna posso esser breve anche rispetto a questo scritto kantiano, 
perchè il pensiere di esso è stato già poco innanzi enunciato, e bastano soltanto 
alcuni altri tratti per ulteriormente chiarirlo e determinarlo. 

Kant, come in ogni suo lavoro breve o lungo, procede con un acume ed una 
ponderazione incomparabili. E anche qui, a giustificazione del suo pensiere, comincia 
col determinare la natura del giudizio (dovendo ogni sillogismo consistere di giudizi), 
e de’ sillogismi razionali (Vernunftschliisse), che compiono per eccellenza la funzione 
sillogistica; ed inoltre col distinguere i sillogismi razionali in puri e misti, e, per 
giunta, indicando per tutto ciò le corrispondenti regole e i corrispondenti esempi. 

E dopo aver fatto ciò, afferma ed esprime il suo pensiere così (La falsa sotti- 
gliezza, ecc., pag. 62): “ Solo nella così detta prima Figura son possibili sillogismi 
“ razionali puri, nelle tre rimanenti i soli misti ,. 

Quanto alla quarta Figura poi, osserva (ibid., pag. 64) che “ in questa il modo 
di concludere è così innaturale (unnatiirlich), e si basa sopra tanti possibili sillogismi 
intermediarii da pensarsi come interpolati (cingeschoben, interposti), che la Regola, 
che io dovrei trarne ed esprimere, sarebbe molto oscura ed incomprensibile ,. 

Egli fa persino contro sè stesso la seguente osservazione, di “ non potersi, cioè, 
negare che in tutte queste quattro Figure si concluda nettamente. Se non che, è 
incontestabile che esse, eccetto la prima, determinano la consecuzione soltanto con 
ambage (Umschueif, giro di parole) e sillogismi infrapposti , (ibid., pag. 67). 

“ Ma lo scopo della Logica (conclude egli) non è di inviluppare (verwickeln), ma 
“ di sciogliere e di presentare qualche cosa non in modo coperto (versteck?), ma ocu- 
“ larmente visibile (augenscheinlich) ,. i 

A compimento del cenno fatto della Logica formale kantiana in genere, e della 
“ Falsa sottigliezza delle quattro Figure sillogistiche , in ispecie, rimando il lettore 


142 PASQUALE D’'ERCOLE 49, 


all'importantissimo ed eruditissimo $ 103 della citata opera di F. UeBERWEG, System 
d. Logik u. Gesch. der logischen Lehren, Bonn, 1874, pp. 278-296, e specialmente a 
pag. 293, ove si accenna a Wotrro, antecessore di Kant nella quistione, e poi a 
pag. 294, ove si parla di Kant stesso. E debbo dire che Ueberweg sostiene valida- 
mente la ragion di essere delle tre Figure aristoteliche, e combatte vittoriosamente 
l'opinione di Kant. 

E basti della Logica formale kantiana e veniamo alla Logica trascendentale. 


La Logica trascendentale. 


La data più memorabile e ad un tempo più innovatrice dell’epoca e del pen- 
siere moderno è quella del 1781, nel quale anno vide la luce la Critica della Ragion 
Pura (Kritik der Reinen Vernunft). Di opere, ed anche grandi e memorabili, Kant 
ne ha tante; ma senza dubbio la più importante di tutte e che delle altre tutte è 
fondamento, è questa Critica. Ed è da essa e per essa che il nome di Kant, prima 
in Germania e poi da per tutto, fu celebrato ed immortalato. 

FicHte, sempre grande nell'ammirazione, nella concezione e nell'esecuzione del 
pensiere speculativo, dopo letta e studiata la Critica, andò a Konisberga per cono- 
scerne l’autore. E, conosciutolo, gli scrive: “ Uomo onorando, io venni a Konisberga, 
“ per conoscere da vicino l’uomo, cui tutta l’ Europa onora, ma che in Europa tutta 
“ pochi uomini amano come me , (1). E poco appresso: “ La Sua Grandezza, o uomo 
“ eccellente, ha innanzi ad ogni altra pensabile umana Grandezza, quel carattere che 
“ distingue e somiglia la Divinità, che cioè uno si avvicina ad essa con fiducia (Ver- 
“ frauen) ,. 

E in altra lettera e in altra occasione gli scrive (Lettere, ibid., pag. 147): “ No, 
“o uomo altamente importante pel genere umano, i Suoi lavori non tramonteranno, 
“ essi porteranno ubertosi frutti, che opereranno nel medesimo un nuovo slancio e una 
* totale rigenerazione (Wiedergeburt) de’ suoi principii, opinioni, costituzioni ,. 

HeRpER, che udì le lezioni di Kant negli anni 1762-64, diceva che queste “ erano 
“ ricchissime di pensiere ,, condite da “ scherzi, motti spiritosi ed umorismo , e che 
costituivano “il più piacevole intrattenimento ,. ; 

Senza ulteriori citazioni, l'ammirazione e la propagazione della Scuola Critica 
giunse a tal punto di sublimazione, che pel Baecesen il fondatore di essa valeva 
“ per un secondo Messia , (2). 

Ed ora, venendo alla stessa Logica trascendentale di Kant, debbo premettere 
una importante osservazione; ed è che, l'esposizione della Logica trascendentale è 
ad un tempo una esposizione, e persino minuta ed integrale, della stessa Critica 
della Ragion pura. La quale esposizione assolverà un doppio còmpito, da una parte, 
l'esposizione integrale della Logica trascendentale, dall’altra, quella della Critica 
della Ragion pura. Il qual doppio còmpito riuscirà tanto più utile, in quanto nel 


(1) Im Lettere di Kant ed a Kant pubblicate da Scavszzr nel vol. 11° delle Opere complete, pag. 132. 
(2) Per Herder e Baggesen, vedi F. Uzserwecs-Hemze, Grundriss d. Gesch. d. Philos., opera e 
volume citati, pp. 237 e 239. 


45 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 143 


modo come è da me effettuato, non è stato ancora effettuato in altro lavoro italiano 
antecedente. Veniamo dunque alla Logica trascendentale. 

È stata già allegata la massima: “ Il nostro tempo è il tempo della Critica ,. 
Ma questa massima non esprime veramente e propriamente il nuovo pensiere e il 
nuovo indirizzo, che colla apparizione della Critica della Ragion Pura. Anzi coll’ap- 
parizione di questa, la predetta massima è stata più ricisamente e più integralmente 
espressa, e persino con una importantissima giunta rispetto a Religione e Legisla- 
zione (sociale), come segue: “ Il nostro tempo (così Vol. II, Op. Compl., pag. 4, in 
“ nota) è propriamente il tempo della Critica, alla quale tutto deve soggiacere. La 
“ Religione colla sua santità e la Legislazione (sociale, Gesetzgebung) colla sua maestà 
“ vogliono entrambe sottrarsi ad essa. Ma allora esse suscitano giustamente sospetto 
“ contro di sè, e non possono pretendere quella sincera stima che la Ragione accorda 
“ soltanto a ciò che può sostenere il suo libero e pubblico esame ,. 

È stata parimenti allegata la massima kantiana riferibile alla Metafisica: che, 
cioè, questa “ è la vera e propria filosofia ,. Ma questa seconda massima, colla 
fondazione e pubblicazione della predetta Critica, acquista un altro aspetto e un 
altro senso, in quanto che Kant comincia a dubitare della verità e realtà della 
Metafisica stessa. 

Infatti, proprio nella prima Prefazione della Critica, inizia il discorso e l’investi- 
gazione con queste parole: “ La Ragione umana ha lo speciale destino in una specie 
“ delle sue conoscenze, che essa è molestata da domande che non può respingere, 
“ perchè date ad essa dalla natura, e a cui essa non può rispondere, perchè oltre- 
“ passano la potenza (das Vermigen) della Ragione umana stessa ,. Comincia con prin- 
cipii (Grundsditzen), a cui “la conduce inevitabilmente l’esperienza ,: sale con essi 
sempre più in alto (2mmer hoòher); ma le domande non cessan mai. Cade quindi in 
oscurità, contraddizioni, dispute. “ Il campo di queste incessanti dispute è la Meta- 
S HGO, co 

Gli è perciò che quella che un tempo fu detta la Regina delle scienze, è ora 
come una matrona respinta e abbandonata, che esclama come Hecuba: 


Modo maxima rerum, tot generis natisque potens, 
nune trahor exsul inops (Ovip., Metam.). 


“ Il suo dominio (osserva e scrive egli ulteriormente), sotto il governo de’ Dog- 
“ matici, era dispotico ,. Ma, in conseguenza di guerre intestine (imnere Kriege), “ de- 
“ generò in piena Anarchia, e gli Scettici, che paventano ogni persistente edificazione 
“ del suolo, scissero di tempo in tempo l’unione sociale ,. 

Kant non solo pensa, investiga e determina le cose in modo ammirabile, ma 
le scrive e descrive in modo altrettanto stupendo ed ammirabile. 

Intanto il pensiero di Kant intorno alla Metafisica non è neppure sì dubitoso e 
sì poco confortante, come apparisce da’ luoghi allegati. E potrei dire che egli stesso 
non è pienamente conscio della rivoluzione che inizia ed effettua non solo intorno alla 
Logica, ma anche intorno alla Metafisica. Giacchè la prosecuzione del suo pensiere e 
della sua opera critica via via perverrà alla indispensabile unione di Logica e Meta- 
fisica, e quindi alla immediata preparazione della susseguente Logica hegeliana. 

Rispetto alla Critica sono di notevole importanza due altre cose, concernenti 


144 PASQUALE D’ERCOLE 44 


l’una la Prima edizione dell’opera, l’altra il principio della Subbiettività accentuan- 
tesi in essa. 

Quanto alla Prima edizione, filosofi e storici della filosofia sono in genere con- 
cordi nell’affermare (per es., Jacobi, Schopenhauer, Herbart, Michelet, Rosenkranz ed 
altri) che essa contiene e rivela il vero carattere speculativo, sì idealistico che critico, 
del Kant. Nelle posteriori edizioni, invece, Kant soppresse molti luoghi, ed altri mutò 
in conseguenza di aspre critiche ed opposizioni fattegli: le quali gli facevano il 
“ rimprovero che la sua dottrina fosse non altro che un rinfrescato Idealismo Berke- 
“ leyano , (vedi vol. II, Op. Complete, pag. XI). Ma con tali soppressioni e muta- 
menti, rileva ScHoPENHAUER (ibid.), “ Kant ha mutilata, sfigurata (verunstaltet), gua- 
“ stata la sua opera , a danno del predetto carattere. 

Quanto al principio della Subbiettività, quello che lo rileva è C. L. Michelet (1). 
Ma per intendere l’importanza di ciò, debbo premettere il luogo, al quale il Michelet 
fa seguire il rilievo di tal principio. Il luogo ricorre non nella Critica d. R. P., ma 
ne’ Prolegomena zu einer jeden kinftigen Metaphysik, pubblicati 16 anni dopo, nel 
DIE (2). Or bene, in questi Prolegomeni Kant disse: “ Finora si ammetteva che 

ogni nostra conoscenza dovesse conformarsi (sich richten, adattarsi) agli oggetti: ma 
“ tutti i tentativi fatti a priorî su questi per esprimere qualche cosa mediante Con- 
cetti, coi quali si potessero estendere (erweîtern) le nostre conoscenze, fallirono 
con una tale presupposizione. Si tenti perciò una volta, se nel compito della Meta- 
“ fisica non sarebbe meglio di progredire, ammettendo che gli oggetti debbano con- 
formarsi alla nostra conoscenza: il che si accorda meglio colla richiesta possibilità 
“ di una conoscenza di essa a priort. ..... Facendo così, faremmo secondo il primo pen- 
“ siere di Copernico, il quale, non potendo riuscire a spiegare i movimenti celesti 
“ammettendo che tutto il cielo stellato girasse intorno allo spettatore, tentò, se non 
“ si riuscisse meglio, quando lo spettatore girasse e le stelle invece stessero ferme 
“ (in Ruhe) , 

A tale stupendo luogo il Michelet fa seguire l’ osservazione, che “il rile- 
“ vare la Subbiettività del pensiere è a riconoscere come un merito imperituro 
“ della Filosofia kantiana. Non vi sarebbe mancato nulla, se Kant, riconducendo 
“ la sorgente della conoscenza all’interiorità dello spirito umano, avesse distrutta 
quella divisione (Scheidewand, muro divisorio) tra il Pensare e la Cosa in sè, che 
soltanto talvolta sembra vacillare (wanken) nel suo Sistema. In sè però (an sich) 
o inconsciamente (dewusstlos) (3) quella divisione è distrutta, in quanto la Cosa 
“ in sè, nella sua verità, a noi non si presenta altrimenti che come un Pensiero 


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“ vuoto, un’astrazione dell’Intelletto ,. 

Ma io fo ulteriormente osservare che, per quanto il mio venerato maestro ed 
amico Michelet abbia fatto egregiamente ad allegare il luogo de’ Prolegomeni, nel 
quale la Subbiettività è espressa ed accentuata in modo sì chiaro e riciso, pur non 
manca l’istessa Critica della Ragion Pura di accennarla in modo abbastanza notevole. 


(1) Nella mentovata Gesch. d. Zeteten Systeme d. Philos. in Deutschland, Berlin, 1837, vol. I, p. 49. 

(2) Tal luogo è riportato anche al vol. II delle Opere edite da RosenKRANZ, ecc. ne' Supple- 
menti, pag. 670. 

(3) An sich è qui adoperato dal Michelet nel senso hegeliano, cioè nel senso di virtualmente, 
che è da lui agguagliato all’inconsciamente, o alla mancanza di coscienza saputa come tale. 


45 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 145 

Infatti, a pag. 644 della medesima, Kant dice: “ Se io fo astrazione da ogni 
contenuto della conoscenza, obbiettivamente considerato, ogni conoscenza è subbiet- 
“ tiva, sia storicamente, sia razionalmente. La conoscenza storica è cognitio ex datis, 


K 


x 


ma la conoscenza razionale è cognitio ex principtis. Una conoscenza, quale pur 
“ siasi la sua origine, in chi la possiede è storica, ..... provenga in lui questa da 
“ esperienza immediata, o da racconto od anche da istruzione (Belehrung) ,. E fa 
di ciò un'applicazione quasi contro di sè, facendola ad un tempo al Sistema filo- 
sofico Wolfiano da lui appreso e seguito. Giacchè, in continuazione ei soggiunge: 
“ Perciò colui che ha appreso (gelernt, imparato) un Sistema della Filosofia, per es., 
“ il wolfiano, benchè abbia nella testa tutti i principii (Grundsdtze), schiarimenti e 
“ dimostrazioni congiuntamente a tutto l’edifizio dottrinale, e possa noverare (abzéQlen) 
“ ogni cosa sulla punta delle dita, pur non ha se non la conoscenza compiuta storica 
“ della Filosofia Wolfiana; egli sa e giudica tanto quanto gli è stato dato ,. 

Vuol con ciò dire che il possessore e riproduttore di tal conoscenza storica, è 
ancora fuori della Conoscenza critica iniziata e fondata da lui appunto con la Cri- 
GICOMOERAE) 

Ed ora è tempo di passare alla esposizione del contenuto di quest’ultima. 

Quanto ai punti considerati di questo contenuto, abbiamo già visto innanzi che 
essi sono i medesimi nella Logica formale e nella trascendentale, cioè i Concetti, i 
Giudizii, i Sillogismi e la Metodologia. La differenza è nel modo di concezione e di 
trattazione. Di tal modo stesso quello costitutivo della Logica formale è stato già 
espresso e delineato ne’ suoi tratti fondamentali: quello costitutivo della Logica tra- 
scendentale nel general carattere critico, idealistico, subbiettivo è stato pure rilevato. 
Ora bisogna passare alle particolarità della Logica trascendentale stessa, e nel far 
ciò seguiremo passo a passo Kant nella effettuazione e sistemazione del suo pensiere. 

Una delle cose più memorabili rispetto all’origine e costituzione del Criticismo 
è la lettura e lo studio di quel trattato di Davide Hume, che interruppe il sonno 
dogmatico di Kant. Questi, infatti (nella 2* ediz. della Critica, come riferisce Michelet 
nella citata sua opera Gesch. d. leteten Syst. d. Philos. in Deutschland, 1 Th., pag. 43), 
scrisse: “ Il ricordo di Davide Hume fu appunto ciocchè molti anni fa m’interruppe 
“ la prima volta il sonno dogmatico, e dette un tutt'altro indirizzo alle mie ricerche 
“ nel campo della filosofia speculativa ,. 

A questo luogo kantiano Michelet fa seguire, da una parte, una sua notevole 
osservazione, dall’altra, un passo importantissimo della 6? edizione fatta da Kant 
della Critica d. R. P. 

L'osservazione del Michelet è, che Kant dal proprio punto di vista dogmatico- 
metafisico combinato coll’elemento scettico di Hume procedette “ alla fondazione di 
“una più alta Metafisica ,. E conferma la sua osservazione coll’allegamento del 
predetto passo, che è il seguente: “ Per ciocchè concerne (così Kant) gli osservatori 
“ di un metodo scientifico, essi han qui la scelta di procedere sistematicamente sia 
“in modo dogmatico, sia in modo scettico, in ogni caso poi di unire insieme (Ver- 
“ bindlichkeit) l'uno e l’altro modo. Se io, rispetto al primo modo nomino Wolfio, e 
“ rispetto al secondo Hume, posso, secondo il mio presente avviso, tralasciare di fare 
altri nomi. La via che rimane ancor soltanto aperta è la via critica. Se il let- 
“ tore avrà avuta la cortesia e la pazienza di percorrere tal via insieme con me, 


Senie Il. Tox LXIL 19 


& 


146 PASQUALE D'ERCOLE 46 


“ può ora giudicare, ove gli piaccia, se non voglia contribuire ad allargare questo 
“ sentiero a strada regia (diesen Fusssteig zur Heerstrasse zu machen), per far sì che 
“ ciocchè non potettero effettuare (leisten, fare) molti secoli possa essere raggiunto prima 
“ che scorra il presente: in altri termini, a far sì che l’umana Ragione giunga a pie- 
“ namente soddisfare quel desiderio di sapere, che sempre ebbe e rimase finora pur 
“ sempre insoddisfatto ,. 

Seguendo il Kant nelle sue ricerche, incontriamo subito in una Introduzione 
(Einleitung) alla Filosofia trascendentale parecchie cose, la cui. notizia e determina- 
zione son della massima importanza. 

La prima di queste è quella concernente l’Esperienza (Erfahrung), intorno alla 
quale si esprime così: “ L’Esperienza è senza dubbio il primo prodotto dell’Intel- 
“ letto, in quanto questo elabora la materia greggia de’ sentimenti sensibili (sinn- 
“ liche Empfindungen) ,: sentimenti sensibili che in fondo son quelli che comune- 
mente appelliamo sensazioni. “ Essa (Esperienza) è perciò il primo ammaestramento 
“ (Belehrung), che nel suo ulteriore sviluppo diventa inesauribile nella produzione di 
“ nuova istruzione ,. 

Se non che il campo dell’Esperienza è limitato, in quanto essa ci dà notizia 
“ di ciocchè soltanto è, e non di ciocchè debba essere necessariamente così e non 
“ altrimenti ,. 

Una seconda cosa congiungentesi alla prima e progressiva rispetto a questa 
stessa è che, perchè la Ragione umana possa pervenire a conoscenze veramente sod- 
disfacenti, queste debbono avere due caratteri essenziali, cioè quelli di gereralità e 
di necessità. “ Tali conoscenze generali, che debbono avere anche il carattere di inte- 
“ riore necessità, debbono essere indipendenti dall’Esperienza, chiare e certe per sè 
“ stesse; e perciò si chiamano conoscenze a priorî, mentre, al contrario, ciocchè si 
“ toglie a prestanza dall’Esperienza, secondo la comune espressione, si chiama «& 
“ posteriori, ovvero empirico ,. 

Ma una terza cosa “ oltremodo maravigliosa è che nelle nostre Esperienze si 
“ mescolano (sich mengen) conoscenze, che debbono avere la loro origine @ priori, e 
che forse servono a procacciare un legame alle nostre rappresentazioni (Vorstel- 
“ lungen) de’ sensi. Giacchè, se dalle prime si toglie tutto ciocchè appartiene ai 
“ sensi, rimangon pur sempre certi Concetti originarii e certi giudizii prodotti da 
“ questi, che debbono esser sorti interamente a priori, indipendentemente dall’Espe- 
rienza ,. Di siffatte conoscenze, dic’egli (ib., pag. 19), £ ci porge un luminoso 
“ esempio la Matematica ,, la quale così ci prova “ quanto innanzi noi possiamo 
“ giungere in esse a priori indipendentemente dalla Esperienza ,. 

Ciocchè è testè esposto ci conduce ad una quarta cosa di non minore impor- 
tanza e pur congiunta intimamente colle anzidette, cioè alla distinzione de’ Giudizii 
in analitici e sintetici. Eeco come l’immortale filosofo li distingue e determina. 

“In tutti i Giudizii (dic’egli, ibid., pag. 21), ne’ quali è pensata la relazione 
“ di un Subbietto col Predicato (prendendo in considerazione soltanto i Giudizii affer- 
“ mativi; giacchè l’applicazione ai negativi è facile), questa relazione è possibile in 
“ due modi. 0 il Predicato B appartiene al Subbietto A siccome qualche cosa che 
“ è contenuta (in modo ascoso, versteckter Weise) in questo concetto A; ovvero B è 
“ interamente fuori (liegt ganz ausser) del concetto A, benchè però sia in legame 


n 


47 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 147 


« (Verbindung) con esso (1). Nel primo caso io chiamo il giudizio amaQitico, nel se- 
“ condo sintetico ,. 

Nei Giudizii analitici il collegamento (Verkniipfung) del Predicato col Subbietto 
è pensato come avvenente mediante identità; ed invece son sinteticì que’ Giudizii, 
nei quali il collegamento è pensato come avvenente senza identità. “I primi pos- 
“ sono essere anche appellati Giudizii di schiarimento (Erlduterungs-), gli altri, Giu- 
dizii di estensione (Erwezterungs-Urtheile), perchè quelli mediante il Predicato non 
aggiungono nulla al concetto del Subbietto, ma sciolgono questo stesso, mediante 
smembramento (Zergliederung, cioè mediante analisi), nei suoi concetti parziali 
(Theilbegriffe), che eran pensati (benchè confusamente) esistenti nel medesimo. Gli 
altri, al contrario, aggiungono al concetto del Subbietto un Predicato che non era 
pensato in esso, e che non avrebbe potuto esser tratto fuori mediante nessuno 
smembramento (Zergliederung, analisi). Per es., quando io dico: Tutti i corpi sono 
estesi, questo è un Giudizio analitico; perchè io non ho bisogno di uscire dal con- 
cetto che unisco alla parola corpo, per trovare l'estensione come congiunta col 
medesimo..... A] contrario, quando dico: Tutti i corpi sono pesanti, il Predicato è 
tutt'altra cosa di quel che io penso nel semplice concetto di un corpo. L'aggiun- 
gimento di un tal Predicato produce dunque un Giudizio sintetico ,. 

Dalla. distinzione e determinazione de’ Giudizi analitici e de’ sintetici trae la 
conseguenza, che coi primi la nostra conoscenza non si estende, e ne’ secondi, “ oltre 
“ al concetto del Subbietto, io debbo avere qualche altra cosa (X), su cui si ap- 
“ poggia l’Intelletto per conoscere come appartenente a quel Subbietto un predicato 
“ non esistente nel medesimo ,. 


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R 


Questo punto dell’X incognita diventa ora per Kant una delle cose più impor- 
tanti della Critica della È. P., e importante sopratutto per i Giudizii sintetici @ priori. 
Dico sopratutto per questi ultimi, perchè “ ne’ Giudizii empirici o sperimentali non 
“ v'è difficoltà di sorta, in quanto che quest’X è la compiuta esperienza dell’Ob- 
“ bietto, che io penso mediante il concetto A, concetto A, che non è altro se non 
“ una parte dell’esperienza stessa ,. ..... Ma ne’ Giudizii sintetici a priori la cosa è 
interamente diversa. Giacchè, “ se io (ibid., pag. 23) esco dal concetto A per cono- 
“ scere un altro B che è con esso congiunto, che cosa è mai quello su cui mi ap- 
“ poggio, e per cui divien possibile la sintesi, non avendo io il vantaggio di rivol- 
germi all'esperienza per scoprirlo? Si prenda la proposizione: Tutto ciocchè avviene 
ha la sua cagione. Nel concetto di ciocchè avviene io penso bensì un esistente (ein 
Dasein), cui deve precedere un tempo, ecc., e da cui si lasciano trarre Giudizii 
analitici. Ma il concetto di una cagione mostra alcun che di diverso da quel che 


« 


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(1) Richiamo l’attenzione del lettore su questa espressione del Kant, che, cioè, B, uno degli 
elementi del Giudizio, sia interamente fuori dell'altro elemento, che è A. A modo mio di vedere, se 
fosse interamente fuori, mancherebbe tra loro quel legame, che Kant pur vuole e dice esistente. 
To eredo che Kant, sempre preciso e determinatamente esprimente i suoi pensieri, qui sia stato 
poco preciso. E il suo yero pensiere a me sembra questo, che cioè il legame vi sia tra i due, ma 
vi sia, come egli stesso dice, in' modo ascoso (versteckter Weise): od anche cke vi sia, ma non in 
‘ modo da essere scorto immediatamente, bensì mediatamente, come avviene, per es., nel rapporto 
di causa e di avvenimento, esprimentesi col dire: Ciocchè avviene ha una cagione. 


148 ; PASQUALE D'ERCOLE 48 


“ avviene, e non è punto contenuto nel medesimo ,. Come giungo io ora a tal diverso 
concetto di cagione? e quale è l’X a cui l'Intelletto si appoggia per giungervi? 

Tanto più per Kant questo innegabile fatto è importante, in quanto esso con- 
tiene ed esprime una conoscenza, da una parte generale, dall’altra necessaria: cioè 
contiene ed esprime due elementi conoscitivi aprioristici, che son più larghi e più 
fondati di quel che l’esperienza può offrire. 

E qui Kant pone e risolve quel famoso quesito, che costituisce il pensiere nuovo, 
grande ed imperituro della sua Critica della R. Pura, cioè: “ Come son possibili i 
“ Giudizii sintetici a priori? , 

Il significato di tal quesito e soluzione è che Kant pone e risolve il massimo 
problema filosofico, cioè quello della siînfesi, ossia dell'unione dello sperimentale e 
del sovrasperimentale, del sensibile e del soprasensibile, dell’a posteriori e dell’a 
priori, del reale e dell'ideale, dell’oggettivo e del soggettivo, dell’identico e del di- 
verso, della logica e della metafisica, ecc.; massimo problema che può anche esser 
designato come il problema della relazione e conciliazione de’ principii contrarii. 

E si comprende e scorge subito ad un tempo che Kant diviene il padre spiri- 
tuale generatore di tutti i grandi filosofi a lui posteriori: di FicHTEe, che dall’Io finito 
e relativo kantiano perviene ad un Io infinito ed assoluto, e che con processo eri- 
tico-dialettico pone quest’'Io, gli contrappone il Non-Io, e compone, ossia sintetizza 
l’uno e l’altro nell’'Io stesso come essente ed esprimente l’universale realtà; di 
SczeLLING, che, movendo dal principio della fagione assoluta (che, in fondo, è la 
Ragion pura kantiana allargata ed obbiettivata), la concepisce e descrive come l’as- 
soluta indifferenza dell’Ideale e del Reale, del Soggettivo e dell’Oggettivo, dello Spi- 
rito e della Natura, ecc.; di Heeer, che allargando l'Io relativo kantiano, l'Io asso- 
luto fichtiano e la Ragione assoluta schellinghiana all’Idea assoluta, fonda l’universale 
Idealismo assoluto, dialetticamente e tricotomicamente esplicantesi ed organantesi a 
sistema assoluto come Idea logico-ontologica, Idea naturale e Idea spirituale; di 
HerBarr, che all’/Zealismo kantiano-fichtiano-schellinghiano-hegeliano oppone un Rea- 
lismo (coadiuvato nella opposizione realistica da Fries e BeNEKE), col quale, movendo 
dalla elaborazione de’ concetti, e trovando in questi delle contraddizioni, li chiarisce e 
rettifica mediante la Metafisica, la quale ultima, esaminando l'apparenza delle cose, 
trova in questa l’accenno all'essere, e si eleva così a quei tali Reali, che sono gli ele- 
menti primigenii, veri ed immutabili delle cose apparenti e mutabili; di SCHOPENHAUER, 
che, collegandosi ai filosofi tedeschi predetti, anche nella opposizione ad essi afferma 
il principio universale della Volontà esplicantesi, costituentesi e comprendentesi come 
l'assoluta realtà, da prima inconscia, poi mano mano divenente conscia; di Lorze 
che, riattaccantesi, da una parte, all’antecedente filosofo tedesco Leibniz, dall'altra, 
agli ultimi filosofi tedeschi predetti, nel suo Microcosmo concepisce ed effettua una 
specie di Monadismo spiritualistico, nel quale come elemento supremo egli pensa esi- 
stente la stessa Divinità siccome infinita personalità; di EpuARDO von HARTMANN, 
che, ricongiungendosi a Kant e ai posteriori filosofi nominati in genere, e a Scho- 
penhauer ed Hegel in ispecie, pone qual principio dell’universale realtà l’Inconscio, 
che esplicandosi in questa si fa successivamente e gradatamente conscio; della riper- 
cussione ed influenza delle concezioni kantiana, fichtiana, schellinghiana, hegeliana 
in tutta la filosofia europea (ed ora persino nell’americana), e, naturalmente, nella 


49 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 149 


stessa filosofia italiana, come sì vede cominciando dai grandi pensatori Rosmini e 
Gioberti, e continuando, con speciale riattacco alla filosofia hegeliana con Vera, 
Spaventa e seguaci di questa fino ai giovani Gentile e Croce nell'Italia meridionale, 
ed estesasi anche all'Italia settentrionale con Pietro Ceretti, una delle grandi per- 
sonalità filosofiche hegeliane. 

Chiedo venia al lettore di questa digressione dalla esposizione di Kant, ma essa 
era opportuna sì per meglio intendere la rivoluzione operata dal Criticismo kantiano, 
sì per conoscerne l'ulteriore esplicazione, la propagazione e le conseguenze. 

Ritorno all'esposizione del contenuto della Critica della Ragion Pura. Feci già 
notare come esso si divida in Dottrina elementare trascendentale e Metodologia tra- 
scendentale. Feci anche notare che la prima di queste due si divide in Estetica tra- 
scendentale e Logica trascendentale, e che la Logica trascendentale alla sua volta 
si suddivide in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale, Analitica che è 
una ritrattazione, però in modo critico, di quel contenuto, che fu l’oggetto dell’Ana- 
litica di Aristotele, e Dialettica, che è una ritrattazione, parimenti in modo critico, 
della Dialettica di Platone. Feci innanzi ulteriormente notare quale è l’oggetto del 
contenuto della Metodologia trascendentale. Il mio còmpito ulteriore è di entrare 
nelle particolarità e nel modo di trattazione di queste diverse parti, e comincio da 
quella dell’Estetica trascendentale. 

L’ Estetica trascendentale. — La natura dell’Estetica trascendentale, l'oggetto e 
la scienza di essa versano e poggiano interamente sulla Sensibilità. La quale sensibilità 
è tanto più importante, in quanto senza di essa non divengono possibili le funzioni 
deli’ Intelletto e della Ragione nella costituzione e produzione de’ Concetti e delle Idee. 

“ La Sensibilità poi, quale pur sia il modo e il mezzo di una conoscenza relativa 
“ agli oggetti ,, ha per inizio e base fondamentale la intuizione (die Anschauung). 
La quale però ha luogo “ solo in quanto l'oggetto ci è dato ,: il che, d'altra parte, 
divien possibile “ solo in quanto l'oggetto affetta (afficire) in certa guisa il senti- 
“ mento (das Gemiith) ,. Ed in genere “ la capacità (Fahigkeit, Receptivitàt) di otte- 
“ nere rappresentazioni ( Vorstellungen) mediante e secondo il modo di essere affetti dagli 
“ oggetti si chiama Sensibilità , (loc. cit., pag. 31). 

A complemento di questo punto, il grande filosofo soggiunge: “ L'azione di un 
“ oggetto sulla capacità rappresentativa (Vorstellungsfihigkeit), in quanto siamo af- 
“ fetti dal medesimo, è la sensazione (Empfindung). La intuizione, che si riferisce 
“ all’oggetto mediante sensazione, si dice empirica. L'oggetto indeterminato di una 
“ intuizione empirica si dice fenomeno (Erscheinung) ,. 

“ Nel fenomeno, prosegue Kant, chiamo Materia ciocchè corrisponde alla sensa- 
“ zione; chiamo poi Forma ciocchè fa sì che la varietà (das Mannigfaltige) venga 
“ ordinata in certi rapporti ed intuita ,. Se non che, “ come ciò in cui le sensazioni 
“ si ordinano e possono essere rappresentate in una certa Forma, non può essere di 
“ bel nuovo sensazione, così la Materia di ogni fenomeno ci vien data bensì « poste- 
“ riori, ma la Forma di essa dev’esser già a priori nel sentimento, e quindi deve 
« poter essere considerata separatamente (abgesondert, segregata) da ogni sensazione ,. 

Come risultato dell’anzidetto il Kant perviene alla determinazione della Estetica 
trascendentale, cui egli definisce “ la Scienza di tutti i principii a priori della Sen- 
4 sibilità , (ib., pag. 32). 


150 PASQUALE D'ERCOLE 30 


Di codesta Scienza sono elementi fondamentali lo Spazio ed il Tempo, de’ quali 
il filosofo passa ad indicare la natura e la funzione. 

Lo Spazio. — “ Lo Spazio (dice Kant, ib., pag. 34) non è un concetto empi- 
“ rico che possa esser tratto dalle nostre esperienze. Giacchè, perchè certe sensazioni 
£ possano essere riferite a qualcosa fuori di me (ossia, a qualcosa che è in un luogo 
« dello Spazio, in cui mi trovo) , in diverse posizioni, in diversi luoghi, ecc., è neces- 
sario che già vi sia “ a fondamento di ciò la rappresentazione dello Spazio , stesso. 

Ciò vuol dire che “lo Spazio è una necessaria rappresentazione a priori, che è 
“ a fondamento delle nostre rappresentazioni tutte ,. “ È su tale necessità a priori 
“ che si basa la certezza apodittica di tutti i principii (Grundsdtze) geometrici e la 
“« possibilità delle loro costruzioni a priori. Se questa rappresentazione dello Spazio 
* fosse un concetto acquisito a posteriori, desunto dalla generale esperienza esteriore, 
“i primi principii matematici non sarebbero che percezioni ( Wahrnehmungen) (1), che 
“ avrebbero perciò tutta l’accidentalità della percezione; e non potrebbe quindi esser 
necessario che tra due punti vi fosse una sola linea retta ,, ecc. 

Lo Spazio è una inzuizione pura, che può esser “ rappresentata siccome una 
grandezza infinita , (unendliche Gròsse, ib., pag. 36). 

Ad ulteriore schiarimento e determinazione, il filosofo di Konisberga dice che 
lo Spazio non è altro che la forma di tutti i fenomeni (Erscheinungen), cioè la 
“ condizione subbiettiva della sensibilità colla quale soltanto ci è possibile una in- 
“ tuizione esteriore ,, condizione che “ dev'essere 4 priorî nel sentimento ,. 

E da ultimo, per far intendere in tutta la sua ampiezza e determinazione ciocchè 


n 


n 


sia lo Spazio, Kant, dopo altre discussioni in proposito, soggiunge (ib., pag. 38): 
“ Le nostre discussioni insegnano la realtà (vale a dire la oggettiva validità) dello 
“ Spazio rispetto alle cose, quando queste vengono esaminate (erwogen, apprezzate) 
“ in sè stesse mediante la Ragione, ossia indipendentemente dalla natura (Beschaffen- 
“ heit) della nostra sensibilità. Noi sosteniamo così la realtà empirica dello Spazio 
“ (rispetto ad ogni esperienza possibile), comunque ad un tempo noi ammettiamo la 
“ trascendentale idealità del medesimo, ossia, che esso sia un Nulla (Nichfs sey), ap- 
“ pena che togliamo via la condizione della possibilità di ogni esperienza, e lo con- 
“ sideriamo come qualcosa in fondo alle cose stesse .. Vuol dire, insomma, che lo 
Spazio è una realtà e ad un tempo una trascendentale idealità, ma non è però qual- 
cosa di realmente esistente nelle cose in sè stesse, sibbene è qualcosa in noi stessi, 
e propriamente una rappresentazione subbiettiva. 

Il Tempo. — © Il Tempo (come lo Spazio, ib., pag. 40) non è un concetto empi- 
rico, che possa esser tratto da una qualche esperienza. Giacchè la contemporaneità 
o la successione (das Zugleichseyn oder Aufeinanderfolgen) non si mostrerebbe nella 
percezione, se in fondo a questa non vi fosse la rappresentazione del Tempo. Sol 
con siffatta presupposizione del Tempo noi possiamo rappresentarci che alcunchè 
sia nel medesimo tempo (zugleich), ovvero in tempi diversi ,. E qui in grosso 
Kant ripete pel Tempo le cose affermate per lo Spazio; naturalmente però nell’or- 
dine delle cose attinenti al Tempo. 

Infatti, egli dice che “il Tempo è una rappresentazione necessaria, che è in 


& 
x 
« 
2° 


[4 


(1) Per le quali Wahrnehmungen Kant intende percezioni sensibili. 


51 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 151 


“ fondo a tutte le intuizioni ,. E perciò “il Tempo è dato @ priori. Solo nel Tempo 
“ è possibile ogni realtà de’ fenomeni. Questi posson tutti sparire, ...ma il Tempo 
“ stesso non può esser soppresso (aufgelroden) ,. 

Inoltre, “ su questa necessità « priorî si fonda anche la possibilità di principii 
“ (Grundsdtze) apodittici nelle relazioni del Tempo, ovvero di assiomi del Tempo in 
“ genere. Esso ha una sola dimensione: Tempi diversi non son contemporanei, ma 
“ successivi (mentre Spazii diversi non sono l’uno dopo l’altro, ma sono nel mede- 
“ simo tempo, eugleich). Questi principii non possono esser tratti dall’esperienza, 
“ perchè questa non darebbe nè stretta generalità nè certezza apodittica ,. 

«“ Il Tempo non è un concetto discorsivo (ibid., pag. 41), o, come lo si appella, 
“ un concetto generale, ma è una forma pura (reine Form) della intuizione sensibile. 
“ Tempi diversi son soltanto parti del medesimo Tempo. La rappresentazione però, 
“ che può esser data da un solo oggetto, è una intuizione ,. 

“ La infinità del Zempo non significa altro se non che ogni grandezza determi- 
“ nata del Tempo è possibile soltanto colla limitazione (Einschrinkung) che è in fondo 
“ al Tempo stesso. Perciò la rappresentazione originaria di Zempo bisogna che sia 
“ data come illimitata ,. 

Dalle quali cose stabilite il grande filosofo (come per lo Spazio) inferisce che 
“ il Zempo non è qualcosa che sia per sè esistente, ovvero sia annessa alle cose 
“come una determinazione obbiettiva (ib., pag. 42) ,, ...ma “ è la condizione sub- 
“ biettiva, in virtù della quale possono aver luogo in noi tutte le intuizioni ,. 

“ Il Tempo non è altro che la Forma del senso interno, cioè dell’intuizione di 
“ noi stessi e del nostro stato interno. Giacchè il 7'empo non può essere una deter- 
minazione di fenomeni esterni; esso non appartiene nè ad una figura, nè ad una 
“ posizione, ecc.; al contrario, esso determina la relazione delle rappresentazioni nel 


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nostro stato interno ,. 

Se noi facciamo astrazione da ogni intuizione sì di cose a noi interne che di 
cose a noi esterne, “ il Tempo non è nulla (die Zeit ist nichts). Esso è di validità 
“«“ obbiettiva soltanto rispetto ai fenomeni, perchè noi ammettiamo questi come oggetti 
“ de’ nostri sensi. Ma esso non è più obbeettivo, quando facciamo astrazione dalla na- 
“ tura sensibile (Sinnlichkeit) della nostra intuizione, epperò di quel modo di rap- 
“ presentazione (Forstellungsart) che ci è proprio, ed in generale parla di cose ,. 

Ciocchè ha detto della realtà e della trascendentale idealità dello Spazio, lo dice 
anche del Tempo. Infatti, “ le nostre affermazioni insegnano, conformemente all’an- 
“ zidetto (demnach), la realtà empirica del Tempo, cioè la sua obbiettiva validità ri- 
“ spetto agli oggetti, che possano esser dati ai nostri sensi ,. ...Ma, all'incontro, 
“ proprietà che competono alle cose in sè stesse non possono esserci mai date per 
“ mezzo de’ sensi. Ed è in ciò che consiste la idealità trascendentale del Tempo, se- 
“ condo la quale il Tempo, se facciamo astrazione dalle condizioni soggettive della 
“ intuizione sensibile, non è nulla (nichts ist), ecc. ,. 

A ciocchè è detto intorno all’ Estetica trascendentale, il Kant fa seguire, a 
schiarimento e a rimozione di equivoci, alcune altre considerazioni; ma in queste 
non si aggiungono cose nuove. Ed io, tenendomi all’anzidetto, che è l’essenziale e 
costitutivo, passo a dire della Logica trascendentale. 


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I 


152 PASQUALE D'ERCOLE 


II. 
La Logica trascendentale. 


Rispetto alla Logica trascendentale alcune cose essenziali sono state già riferite 
innanzi, e non ritorno su di esse. Che essa si distingua in due speciali trattazioni, 
in quella della Analitica trascendentale e in quella della Dialettica trascendentale è 
stato pur detto, ma passo ora a dire della speciale natura di ciascuna delle due, 
esponendo il proprio, caratteristico ed importante delle medesime. cominciando dal- 
l’ Analitica. 

L'Analitica trascendentale. — Nella esposizione di questa, è necessario di rife- 
rire innanzi tutto alcuni punti cardinali concernenti la sua concezione e trattazione, 
i quali Kant delinea come segue. 

“ Questa Analitica (dic'egli, loc. cit., p. 66) è la scomposizione (Zergliederung) 
“ dell'intera nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intellet- 
“ tiva. Rispetto a ciò sono importanti le quattro seguenti cose: 1° Che i concetti 
# sieno puri e non empirici; 2° Che essi non appartengano alla intuizione ed alla 
“ sensibilità, ma al pensare ed all’intelletto: 3° Che essi sieno concetti elementari, 
“ e sien distinti dai lor derivati, ovvero da’ composti che ne risultino ; 4° Che la loro 
“ Tavola sia compiuta, e che riempiano interamente tutto il campo dell’ Intelletto 
puro .. Ed inoltre, “ questa parte della Logica trascendentale (cioè la Analitica) costi- 
tuisce due Libri, di cui l’uno contiene i concetti, l’altro i principiî (Grundsàùtze, 
“ massime) dell’Intelletto puro .. 

Venendo alla considerazione del primo Libro rileva che © per Analitica de’ con- 
* cetti (ibid., p. 67) egli non intende l’Analisi di questi,..... ma l’ancor poco tentata 
“ scomposizione (Zergliederung, analisi) della facoltà intellettiva stessa, per ricercare 
la possibilità de’ concetti a priori, sì che li cerchiamo nell’Intelletto solo, come 
nella lor fonte di nascita, e ne esaminiamo specialmente il lor puro uso. Giacchè 
“ è questa propriamente la bisogna (Geschdft) di una Filosofia trascendentale: il resto 
“ è trattamento logico de’ concetti nella Filosofia in genere .. 

Passando alla più determinata funzione dell’ Intelletto puro, dice che questo, a 
distinzione della conoscenza sensibile, che è intuitiva. © è conoscenza discorsiva (ibid., 
“ p. 69. discursir) mediante concetti ,. E in modo più speciale l’Intelletto è per eccel- 
lenza funzione giudicativa, per forma che “ l'Intelletto (ibid., p. 70) può esser rap- 
“ presentato come una facoltà di giudicare ,. E come giudicare, far giudizii, non è 
possibile altrimenti che mediante concetti contenuti come elementi ne’ giudizii stessi; 
così la bisogna principale dell’ Analitica è quella di conoscere e fissare questi ele- 
menti, ossia questi concetti contenuti ne’ giudizii stessi. 

Come si comporta Kant nella effettuazione di tal bisogna ? Si comporta ricor- 
rendo a quella classificazione di giudizii già fatta da Aristotele e dalle logiche for- 
mali aristoteliche posteriori. Solo che egli fa un elenco più compiuto e più corrispon- 
dente alla natura categorica dell’ Intelletto puro. 


n 


53 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 1593 


Abbiamo già visto ed allegato che Kant distingue i giudizii in quattro categorie 
fondamentali, cioè quelle di Quantità, Qualità, Relazione e Modalità. Abbiamo pari- 
menti visto e allegato che, secondo lui, i giudizii quantitativi sono generali, partico- 
lari, singolari: i qualitativi sono affermativi, negativi, infiniti : i relativi sono categorici, 
ipotetici, disgiuntivi: e finalmente i modali sono assertorii, problematici, apodittici. 

Data questa Tavola de’ Giudizii, l’ulteriore compito del nostro filosofo è di tro- 
vare ed indicare i concetti, o le categorie, che si contengono ne’ Giudizii stessi. 
Cercatili e trovatili, ci dà la seguente Tavola de’ medesimi. 

Secondo la Quantità i Concetti, o Categorie, sono quelli di Unità, Moltiplicità, 
Totalità ; 

Secondo la Qualità son quelli di Realtà, Negazione, Limitazione; 

Secondo la Relatività i concetti sono (a paia) Sostanza e Accidente, Causa ed 
Effetto, e Reciprocità: Reciprocità, che alla sua volta è rappresentata da un altro 
paio di Concetti, o Categorie, cioè Azione e Reazione. 

Secondo la Modalità, essi sono (di bel nuovo a paia) Possibilità ed impossibilità; 
Essere e Non-essere; Necessità e Contingenza (vedi p. 79). 

Intorno a questa Tavola sono a fare varie importanti considerazioni, che sono 
le seguenti. 

La prima concerne il numero delle categorie: queste vengono ordinariamente 
indicate nel numero di dodici; ed è a maravigliare che non si veda immediatamente 
che il lor numero è superiore di molto. Infatti, i cosidetti dodici concetti categorici 
vengono collocati nella quadruplice ripartizione della Quantità, Qualità, Relatività e 
Modalità. Ma si rifletta che queste quattro sono concetti categorici anch’esse, e non 
categorici delle dodici in esse collocate. E così abbiamo non dodici ma sedici con- 
cetti categorici. Si rifletta, inoltre, che le categorie della Relatività e della Modalità, 
contengono ciascuna tre paia, cioè sei altri concetti categorici ognuna; accrescendo 
così di dodici altri il numero de’ concetti categorici. Sicchè nel totale non abbiamo 
dodici ma ventidue concetti o categorie. i 

E la maravigliosa mente investigatrice di Kant asserisce che non si è neppur 
certi sulla compiutezza del lor numero (Vollzahlichkeit, ibid., pag. 79), essendo essi 
inferiti soltanto mediante induzione, senza pensare che per tal via non si scorge 
mai perchè questi e non altri concetti sien contenuti nell’Intelletto puro ,. 

La seconda considerazione la fa lo stesso Kant, e concerne, da una parte, la 
schiettezza de’ concetti categorici, dall’altra, la parte meritoria e la difettiva di 
Aristotele in proposito. Infatti “ fu un disegno (Anschlag) degno della mente acuta 
“ di Aristotele quello di cercare questi concetti fondamentali. Ma, siccome egli non 
“ aveva alcun principio, li pigliò alla rinfusa (raffte er sie auf), come gli vennero 
“ innanzi, e ne indicò da prima dieci, che chiamò Categorie (Praedicamente). In seguito 
“ credette di averne trovati ancora cinque, che aggiunse ai primi col nome di Post- 
predicamenti. Ma la sua Tavola rimase ancor sempre manchevole. Oltre a ciò vi si 
trovano alcuni modi della pura Sensibilità (quando, ubi, situs; ed anche prius, simul), 
“ e, per giunta, anche un concetto empirico (motus), che non appartengono punto a 
“ questo registro genealogico (Stammregister) dell’Intelletto; ovvero, ai concetti origi- 
“ narii (Urbegriffe) vi son frammischiati de’ concetti derivati (actio, passio): ed alcuni 


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14 


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de’ concetti originarii mancano persino del tutto ,. 
Serie II. Tox. LXH 20 


154 PASQUALE D'ERCOLE 54 


Una terza considerazione, ancor più importante delle antecedenti, è quella che 
concerne la relazione e natura tricotomica delle Categorie dell’Intelletto. Lo stupendo 
pensiere kantiano in proposito non ricorre esplicitamente nè nella prima, nè nella 
seconda edizione della Critica d. E. P., ma nella terza, ed io lo rilevo e allego dal 
Michelet (nella sua cit. opera, pag. 63). che lo riporta, e suona così: “ Si è trovato 
“ rischioso (bedenklich) che le mie partizioni nella filosofia pura riescano quasi sempre 
“ ternarie. Ma secondo ciocchè in generale sì richiede per una unità sintetica « priori, 
“ cioè: 1° una condizione (Bedingung), 2° un condizionato (ein Bedingtes), 3° il con- 
“ cetto che sorge dalla unione del condizionato colla sua condizione, la partizione 
“ deve esser per necessità una tricotomia .. 

= In ciò, osserva ivi stesso giustamente il Michelet, si contiene addirittura la 
“ giusta visione della natura del metodo speculativo ,. E la osservazione del Michelet 
diverrà ancor più vera, quando si pensi che le categorie kantiane nella Tavola alle- 
gata sono allogate in guisa che ogni due di esse sono opposte e le segue una ierza 
che le unisce e concilia. 

Una quarta considerazione concerne la sintesi dei principii, posta a capo e fon- 
damento della Critica della R. P. colla domanda: Come son possibili î Giudizii sintetici 
a priori? Ebbene, una parte della risposta con la relativa soluzione era stata data 
nella Estetica trascendentale, ove la sintesi di principii diversi e persino opposti era 
stata effettuata per mezzo della Sensibilità. Qui tal sintesi è ulteriormente e progres- 
sivamente affermata, in quanto è fatta per mezzo dell’Inzelletto puro nella conce- 
zione e posizione di principii contrarii uniti, cioè sintetizzati, nel modo che si è 
visto testè. 

Tornando ora, dopo siffatte considerazioni, al nostro compito espositivo dell’ Ana- 
litica, e tenendoci in que’ limiti consentiti dal nostro scopo. passiamo ad accen- 
nare il punto principale che Kant stesso accenna dopo l’anzidetto, punto che si rife- 
risce alla deduzione de’ concetti a priori. 

A tal riguardo egli dice (loc. cit., pag. 89): “ La deduzione trascendentale di 
tutti i concetti a priori, ha un principio, a cui dev'essere rivolta tutta la poste- 
riore ricerca, cioè questo: che essi debbono essere conosciuti come condizioni 
a priori della possibilità delle esperienze (sia della intuizione, che si trova in essa, 
sia del pensare) .. 

E più specificatamente, e al medesimo riguardo, aggiunge (ibid., pag. 90): “ Vi 
son tre fonti originarie (facoltà o potenze dell’ anima), che contengono le condi- 
zioni della possibilità di ogni esperienza, e che non possono essere derivate da 
qualsiasi altra potenza del sentimento. cioè il Senso, la Fantasia e I° Appercezione. 
Su di ciò si fonda: 1° la Sinossi del molteplice (Synopsis des Mannigfaltigen) me- 
“ diante il Senso; 2° la Sintesi del molteplice mediante la Fantasia; 3° l'Unità di 
“ questa sintesi mediante Appercezione originaria .. 

E dopo una discussione illustrativa e confermativa di ciò, raccoglie il risultato 
della medesima dicendo (loc. cit., pag. 105): “ Tre sono le fonti conoscitive sogget- 
“ tive, su cui poggia in generale la possibilità di una esperienza e la conoscenza 
“ degli oggetti della medesima; Senso, Immaginazione ed Appercezione; ciascuna di 
“ esse (fonti) può esser considerata empiricamente, cioè nell’applicazione a fenomeni 
“ dati; ma tutti però son anche elementi o fondamenti (Grundlagen) a priori, che 


& 


5 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 155 


Ut 


rendon possibile questo stesso uso empirico. Il Senso presenta i fenomeni empiri- 
camente nella percezione, la Fantasia li presenta nella associazione (e riproduzione), 
l’Appercezione li presenta nella coscienza empirica dell'identità di siffatte rappresen- 
tazioni riproduttive coi fenomeni, con cui eran dati, e perciò con ricognizione ,. 

“ Se non che, a priori è a fondamento (cum Grunde) di tutte le percezioni l’in- 
tuizione pura (rispetto ad essa, come rappresentazione, la forma dell’intuizione interna, 
il Tempo); a fondamento dell’associazione la sintesi pura della fantasia; e a fon- 
damento della coscienza empirica l’appercezione pura, cioè la generale (durch- 
gingige) identità di sè in tutte le possibili rappresentazioni ,. 

Se vogliamo ora (continua Kant, ibid., pag. 106) cercare e seguire “ l’intimo 
fondamento dell’ unione (Verkniipfung, sintesi) delle rappresentazioni fino a quel 
punto in cui esse si raccolgono in unità ,, esso consiste in un “ principio che sta 
saldo « priori e può esser chiamato il principio trascendentale dell’unità di tutto 
il molteplice delle nostre rappresentazioni (e quindi anche nella intuizione) ,. 

Giunto a tal punto, Kant fa un passo ulteriore, che è quello di considerare il 
prodursi della fantasia e la produzione della medesima. Come il lettore sta vedendo, 
il grande filosofo procede di sintesi in sintesi, ed ogni sintesi posteriore, da una parte, 
è più larga e più complessa dell’anteriore, dall’altra, è più elevata in dignità. 

E veda ora in che modo stupendo egli prepara l'avvenimento e la costituzione 
di questa sintesi della fantasia (il cui prodotto saranno gli Schemi fantastici). 

Nella fattura della conoscenza e. nella progressione della sintesi, cominciando 
“ dal basso all’alto (von unter auf, ibid., pag. 108), il primo che ci è dato è il feno- 
“ meno (die Erscheinung), il quale, quando è congiunto alla coscienza, si chiama per- 
“ cezione (Wahrnehmung) ,- 


R 


Intanto, “ siccome ogni fenomeno contiene una molteplicità ,, fenomeno che già 
sappiamo esser da noi appreso mediante intuizione, così è richiesta “ una facoltà 
“ attiva della sintesi di questa moltiplicità (ibid., pag. 109), la quale facoltà noi 
“ appelliamo fantasia ,. E che cosa effettua la fantasia rispetto a “ tale moltiplicità 
“ dell’intuizione ,?: “ la riduce ad una immagine (Bild) ,. 

Se non che “ è chiaro che l’apprensione della moltiplicità non produrrebbe alcuna 
immagine ed alcun legame delle impressioni (Eindricke), se non vi fosse un fon- 
damento soggettivo (subjectiver Grund) di richiamare una percezione alla perce- 


zione susseguente,... cioè, se non vi fosse una facoltà riproduttiva della Fantasia ,. 


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Se le rappresentazioni riprodotte non avessero “ un determinato legame ,, e co- 
stituissero “ de’ mucchi senza regola di sorta (regellose Haufen), non sorgerebbe alcuna 
“ conoscenza ,. Vi dev’esser perciò una regola nell’ unione delle rappresentazioni. 
Ebbene, “ siffatto fondamento soggettivo ed empirico della riproduzione secondo regola 
“ lo si appella associazione delle rappresentazioni ,. 

Alla sua volta poi, “ se questa unità dell’associazione f(ibid., pag. 110) non avesse 
un fondamento oggettivo (einen objectiven Grund), .... sarebbe anche cosa del tutto 
accidentale, che fenomeni si unissero in un complesso collegato delle conoscenze 
umane ,. 

Ora, “ un siffatto fondamento oggettivo della associazione de’ fenomeni io lo 


appello affinità de' medesimi ,. 


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Dunque “ l’unità oggettiva (ibid., p. 111) di ogni (empirica) coscienza in una 


156 PASQUALE D'ERCOLE 56 


“ coscienza (dell’appercezione originaria) è persino la concezione di ogni possibile 
“ percezione; e l’affinità di tutti i fenomeni (vicina o lontana) è la necessaria con- 
“ seguenza di una sintesi nella fantasia, che è fondata « priori sopra regole ,. E per 
parte sua “la fantasia è anche facoltà di una sintesi a priori, per la qual cosa noi 
“le diamo il nome di fantasia produttiva ,. 

E qual è ora la produzione della fantasia ? Colla risposta a tal domanda pas- 
siamo a quel secondo Libro della Analitica, che Kant ha chiamata l'Analitica dei 
principii (Grundsdtze, massime). } 

E la risposta è che la Fantasia produce Schemi fantastici. 

Per ciocchè concerne la natura di questi, tal natura è facile a desumere e com- 
prendere dalla stessa natura della Fantasia. Questa “ da una parte, ha omogeneità 
« (Gleichartigkeit, ibid., pag. 123) colla categoria, dall’ altra col fenomeno, e rende 
« possibile l'applicazione della prima al secondo. Questa mediana rappresentazione 
“ (vermittelnde Vorstellung) dev'esser pura (senza alcunchè di empirico), e pure, da 
“ una parte, dev'essere intellettuale, dall’altra, sensibile. Una sì fatta è lo Schema tra- 
“ scendentale ,. 

A maggiore intelligenza e determinazione, Kant soggiunge (ibid., pag. 124): 
“ lo Schema è in sè in ogni tempo un prodotto della Fantasia; ma in quanto la sin- 
“ tesi della medesima non è una intuizione singola, ma mira all’unità nella deter- 
“ minazione della sensibilità, così lo Schema è a distinguere dall'immagine (Bild) ,. 
Tanto più quello è a distinguere da questa, in quanto l’attività fantastica muove 
da un concetto, ossia da qualcosa d’intellettuale, per quasi figurarla in una imma- 
gine. Infatti, il grande filosofo dice (ibid., pag. 125): “ La rappresentazione di un 
“ generale procedimento della Fantasia di procacciare (dare, verschaffen) ad un con- 
“ cetto la sua immagine, io lo chiamo lo Schema a tal concetto ,. E ancora: “ La 
“ Immagine è un prodotto della facoltà empirica della Fantasia produttiva ; lo Schema 
“ di concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e ad un tempo 
“un monogramma (ein Monogramm) della Fantasia pura 4 priori ,. 

Di siffatti Schemi se ne producono molti e diversi, come lo Schema della gran- 
dezza; lo Schema della realtà; lo Schema della sostanza; lo Schema della causa ; lo 
Schema della reciprocità; lo Schema della possibilità, della necessità, ecc. E, quanto a 
numero e natura di essi, per determinarli ordinatamente e sistematicamente, Kant 
dice che dobbiamo “ prender per guida la sua Tavola delle Categorie. Giacchè son 
“ esse appunto quelle il cui rapporto alla possibile esperienza, ed in generale il rap- 
“ porto alla sensibilità, deve costituire ogni conoscenza intellettiva pura @ priori , 
(ibid., pag. 125-132). 

Ciò posto, egli passa a dire quale sia il principio (Grundsatz) supremo di tutti 
i Giudizii analitici. 

Enuncia innanzi tutto una generale condizione (Bedingung) de' medesimi, la quale 
è che “ essi (ibid., pag. 133) non debbano contraddire a sè stessi ,. La qual condizione 
è richiesta dalla massima generale che * a nessuna cosa conviene (kommt 2) un 
“ predicato che ad essa contraddice ,. E tal massima, la riconoscono tutti, non è 
altra se non quella del Principio di contraddizione. 

Tal principio è veramente un Criterio soltanto negativo di ogni verità, in quanto 
è indipendente dal contenuto di questa. Ciò non ostante, si può far di esso anche 


DI LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 157 


un uso positivo (positiven Gebrauch), non solo per evitare errore e falsità, ma anche 


« 


per conoscere verità. Giacchè, “ se un Giudizio è analitico, sia negativo, sia afferma- 
“ tivo, deve sempre poter essere sufficientemente conosciuto secondo il Principio di 
“ contraddizione ,. } 

E qui Kant, rispetto a tal Principio stesso, mette innanzi un tal modo di con- 
cepirlo ed adoperarlo, che anticipa quel modo conciliativo de’ principi contrari, che 
vien poi proseguito da’ suoi grandi immediati successori, Fichte, Schelling ed Hegel. 
Egli dice, infatti, ad esemplificazione: “ Un uomo che è giovane non può essere ad 
“un tempo (2ugleich) vecchio; è ben possibile però che il medesimo sia, in un tempo, 
“ giovane, e in un altro tempo, non giovane, ossia vecchio ,. Ed arreca quest'altro 
esempio: “ Un uomo che è inerudito (urgelerrt), non è erudito (gelelrt) ,: ma per 
dire -ciò secondo verità, bisogna aggiungere “ad un tempo (zugleich) ,; giacchè 
«“ quello che in un dato tempo è inerudito, può bene in un altro essere erudito , 
(ibid. pagg. 134-135). 

Continuando nell'esame e determinazione del Principio supremo de’ Giudizii sin- 
tetici, egli lo trova nell’ Intelletto puro, il quale “ non solo (ibid., pag. 139) è la 
“ Facoltà (das Vermogen) delle Regole rispetto a ciocchè avviene, ma è esso stesso 
“la sorgente (der Quel) de' Principii, secondo la quale ogni cosa (che può occor- 
“ rere come oggetto) è sottoposta a Regole, perchè senza di queste non potrebbe mai 
“ spettare ai fenomeni conoscenza alcuna di un corrispondente oggetto ,. 

“ Nell’applicazione (continua egli, ibid., pag. 140) de’ concetti puri dell’ intelletto 
“ all'esperienza possibile, l’uso della sintesi di questa è o matematica, ovvero dina- 
“ mica: perchè essa è rivolta, parte, soltanto alla intuizione, parte, alla esistenza di 
“ un fenomeno in generale. Le condizioni a priori della intuizione sono, rispetto ad 
“ una esperienza possibile, interamente necessarie; quelle della esistenza degli og- 
“ getti di una possibile intuizione empirica in sè stessa, soltanto accidentale ,. 

E volendo ora, in conformità di ciò, stabilire e delineare un sistema de’ Prin- 
cipii (Grundsdtze), ricorre di bel nuovo come a guida e norma alla Tavola delle 
Categorie, e dice che questa porge “un naturale additamento per la Tavola de’ 
“«“ Principii, perchè questi non sono altro che Regole dell’uso oggettivo delle prime 
“ (cioè, delle Categorie) ,. 

Onde segue che i Principii dell’ Intelletto puro sono: 


1° Assiomi dell’Intuizione; 
2° Anticipazioni della Percezione; 3° Analogie dell’Esperienza; 


4° Postulati del pensare empirico in genere. 


Ed aggiunge che “ tali denominazioni le ha scelte con precauzione, tenendo 
conto, nella distinzione di esse, della evidenza e della esercitazione (Ausibung, pra- 
“ tica) di questi Principii ,. 

Su di una cosa richiamo l’attenzione del lettore, cioè, sul maraviglioso 0orga- 
nismo del pensiere kantiano anche a tal riguardo, in quanto la quadruplice divisione 
de’ Principii dell’Intelletto puro vien fatta, come anche realmente è, in corrispon- 
denza colle quattro fondamentali Categorie della Turola kantiana, cioè: Quantità, 
Qualità, Relazione e Modalità. 


& 


158 PASQUALE D’'ERCOLE 58 


Non posso entrare in tutte le particolarità dell'esame e delle determinazioni del 
nostro filosofo rispetto ai quattro Principii predetti. Allegherò qualche punto essen- 
ziale di ciascuno: 

1° Gli Assiomi della Intuizione. — Gli Assiomi della Intuizione, che si fon- 
dano sulla Categoria della Quantità, hanno a base il seguente Principio dell’Intelletto 
puro: “ Tutti i fenomeni, secondo la Intuizione di essi, sono Grandezze esfensive , 
(ibid., pag. 142). E, ad illustrazione ed esemplificazione di ciò, aggiunge: “ Chiamo 
“ Grandezza estensiva quella, in cui la rappresentazione delle parti rende possibile la 
“ rappresentazione del tuto (e che quindi deve necessariamente precedere quest’ul- 
“ tima rappresentazione). Io non posso rappresentarmi alcuna linea, per piccola che 
“ sia, senza tirarla in pensiere, cioè senza produrre da un punto tutte le parti l’una 
“ dopo l’altra, e delinearne da prima in tal modo la Intuizione ,. 

È su tal principio che poggia la “ Matematica dell'estensione (Geometria) coi suoi 
“ Assiomi, i quali esprimono le condizioni dell’Intuizione sensibile a priori, in virtù 
“ di cui soltanto può venire ad esistenza lo Schema di un concetto puro del feno- 
“ meno esteriore; per es.: Tra due punti è possibile soltanto una linea; due linee 
“ rette non chiudono alcuno spazio ,. 

2° Le Anticipazioni della Percezione. — Queste Anticipazioni, che avvengono 
secondo la Categoria della Qualità (e a proposito delle quali ricorda la 0047ws di 
Epicuro, ibid., pag. 145), hanno a fondamento questo Principio: “ In tutti i feno- 
“ meni la sensazione e il reale che le corrisponde nell’oggetto (realitas phenomenon), 
# hanno una Grandezza intensiva, cioè un Grado ,. 

Egli fa notevoli applicazioni della Grandezza intensiva ‘alla causa ed alla 

continuità. 

3° Le Analogie della Esperienza. — Di queste Analogie, che si basano sulla 
Categoria della Relazione, il Principio generale è questo: “ Tutti i fenomeni (ibid., 
“ pag. 152), secondo la loro esistenza, sono @ priori soggetti alle Regole della de- 
“ terminazione del lor rapporto di subordinazione (unter einander) in un dato tempo ,. 

Per ciocchè riguarda poi il tempo “i tre modi di questo sono persistenza, sue- 
“ cessione causale, comunione (Beharrlichkeit, Folge, Zugleichseyn) (1); le quali danno 
“ origine ed esistenza alle seguenti tre analogie dell’Esperienza. sia 

L’Analogia sperimentale basantesi sul Principio della persistenza è: “ Tutti i 
“ fenomeni (ibid., pag. 156) contengono il Persistente (Substanz) siccome l'oggetto 
“ stesso, ed il Mutante (o Mutabile, das Wandelbare) siccome semplice determina- 
“ zione, ossia, siccome una specie del modo di esistere dell'oggetto ,. È un modo 
profondo e speculativo in Kant quello di vedere la relazione del Persistente o So- 


(1) Fo osservare che le espressioni kantiane di Folge e Zugleichseyn non sembrerebbero di cor- 
rispondere esattamente alla mia traduzione di esse con successione causale e comunione, ma il vero 
senso dato da Kant (come si vedrà meglio fra poco) è proprio quello corrispondente alla mia tra- 
duzione delle due parole. L’adoperamento delle due parole tedesche di Folge e Zugleichseyn è stato 
in Kant dipendente dal significato e concetto di tempo, tempo che è meglio espresso dalle due 
allegate parole tedesche. La espressione di Beharrlichkeit è poi chiaramente da Kant agguagliata 
a quella di sostanza. E così le tre espressioni corrispondono propriamente ai tre Principii (Grundsatze) 
di sostanzialità, causalità e reciprocità. 


59 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 159 


stanziale verso il Mutabile, il quale ultimo non è altro dal primo e fuori del primo, 
ma è il semplice modo di essere, di svilupparsi e determinarsi della sostanza stessa. 

Kant si trattiene ulteriormente su tal prima Analogia e corrispondente enun- 
ciata relazione per illustrarla e dimostrarla; ma io, senza seguirlo nelle particola- 
rità di ciò, mi limito a ricordare il principio fondamentale, mediante il quale dimostra 
nella sostanza (ossia in ciocchè persiste) “ la necessità che essa sia sempre esistita ,: 
il qual principio è: Gigni de nihilo nihil; in nihilum nil posse reverti (ibid., pag. 159). 

L’Analogia sperimentale della successività (Folge) si fonda su questo Principio: 
“ Ciocchè avviene (o comincia ad essere) presuppone qualcosa a cui segue secondo 
“ una Regola , (ibid., pag. 162). È, in altri termini, il Principio del nesso causale 
(Der Satz der Causalverknipfung). 

Anche qui il grande filosofo entra in una particolareggiata illustrazione e dimo- 
strazione: ma il principio (che, cioè, “ 
per sè stesso così chiaro e generalmente accettabile ed accettato, che io mi astengo 
di ulteriormente accennarne. 

La terza ed ultima Analogia dell’Esperienza si basa sul Principio della comu- 


ad una causa deve seguire il suo effetto ,) è 


nione (Grundsate der Gemeinschaft), e che suona così: “ Tutte le sostanze (ibid., p. 178), 
“in quanto sono ?nsieme (2ugleich, contemporaneamente), stanno fra loro in generale 
“ comunione (cioè in reciprocità, Wechselwirkung) » (1). 

Anche qui la cosa è sì chiara che mi astengo di entrare nelle particolarità di 
illustrazione e dimostrazione, in cui entra Kant. 

4° JI Postulati del pensare empirico in genere. — Questi Postulati sono per Kant 

i tre seguenti: 

1° “ Ciocchè coneorda (tibereinkommit) con le condizioni formali dell’Espe- 
“ rienza (secondo la intuizione ed i concetti) è possibile ,; 

2° “ Ciocchè è collegato (2usammenhéingi) colle condizioni materiali dell’Espe- 
“ rienza (secondo la sensazione) è reale (wirklich) ,; 

3° “ Ciò, il cui legame col reale è determinato secondo le condizioni gene- 
“ rali dell’Esperienza, è (eristàrt), è necessario , (ibid., pag. 183). 

I tre predetti Postulati, come si vede, poggiano sulle tre Categorie della Modalità, 
che sono appunto la possibilità, la realtà e la necessità. 

A ciocchè è qui detto de’ Postulati Kant fa seguire non una dimostrazione, rite- 
nendoli già dimostrati, ma soltanto degli-schiaràmenti (Erliuterungen) i quali non man- 
cano certo d’interesse e d’importanti pensieri (ibid., pagg. 183-196), ma sui quali 
passiamo per non esser troppo lunghi. 

Ci fermeremo invece all'ultimo punto considerato da Kant rispetto all’ Analitica 
trascendentale, e propriamente a quello che tratta “ del fondamento della distin- 
“ zione di tutti gli oggetti in Fenomeni e Noumeni (Phaenomena und Noumena) , : il 
qual punto è di importanza grandissima. 


(1) Qui il lettore vede chiaramente come la parola tedesca Zugleichseyn aveva il preciso signi- 
ficato di comunione, la quale ultima stessa dice equivalente e corrispondente a reciprocità. Del 
resto, alla pag. 179 Kant dice testualmente che la parola Gemeinschaft corrisponde alla latina 
communio. 


160 PASQUALE D'ERCOLE . 60 


Ne comincia il discorso e la considerazione con le seguenti bellissime parole: 
“ Noi abbiamo ora (ibid., pag. 196) non solo percorsa viaggiando la terra (das Land) 
“ dell’ Intelletto puro, e presa visione accurata d'ogni parte di essa, ma l’abbiamo 
“ anche interamente misurata, assegnando il proprio posto ad ogni cosa che vi è 
“ contenuta. Questa terra però è un'isola, che dalla stessa Natura è chiusa in im- 
“ mutabili confini. E la terra della verità (grazioso nome, ein reizender Name), cir- 
= condata da un ampio e burrascoso oceano, sede propria dell'apparenza (des Scheins), 
“ nella quale più d'un banco nebbioso (Nedelbank) e parecchio gelo vicino a scio- 
gliersi simulano (nascondono, /igi) menzogneri nuove terre; e mentre di continuo 
“ inganna con vane speranze il nocchiero che vi gira intorno entusiasta (herum- 
schwirmenden Seefahrer) a fin di scoperta, lo intrica (rerflicht) in avventure, da cui 
non può desistere, e cui non può condurre a termine. Prima di arrischiarci su 
“ questo mare, per investigarlo nella sua ampiezza, e accertarci, se vi sia a sperar 
“ qualche cosa, sarà utile, primamente, di gettare ancora uno sguardo sulla carta 
= della terra, che abbiam testè lasciata, e domandare, se non possiamo, in ogni caso, 
“# od anche per necessità contentarci, se altrove non v'è altro suolo, su cui inse- 
“ diarci; secondamente a qual titolo noi possediamo questa stessa terra, e possiamo 
“ conservarla contro nemiche pretese. Comunque avessimo sufficientemente risposto 
“ a tali domande già nel corso della Analitica, pure un bilancio (Ueberschlag) som- 
“ mario delle soluzioni date può rafforzarne la convinzione, riunendone i momenti in 


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un sol punto ,. î 

Perdoni il lettore, se gli ho allegato un luogo troppo lungo, ma ho creduto 
di farlo per mostrargli e convincerlo, che Kant non è soltanto il grande pensatore, 
ma è anche tal grande scrittore da tenere in suo possesso e adoperarle le lusinghe 
e le grazie dello stile. 

Non lo seguiamo nel dilazcio che vuol rifare, ma qualche punto importante del 
medesimo lo rileveremo. 

Un primo punto è che “ i concetti puri dell’Intelletto (ibid., pag. 204) non possono 
“ esser mai di uso trascendentale, ma sempre di solo uso empirico, e che i principii 
“ (Grundsdtze) dell’Intelletto puro possono, rispetto alle generali condizioni di una 
“ possibile esperienza, esser riferiti soltanto agli oggetti de’ sensi, non mai alle cose 
“in genere (senza avere riguardo al modo come poterne avere l'intuizione) ,. 

“ L’Analitica trascendentale ha quindi questo importante risultato: che l’ Intel- 
“ letto a priori non può mai fare (/eisten) di più che anticipare la forma di una 
“ possibile esperienza in genere; ..... e che esso non può mai oltrepassare i limiti 
“ del sensibile (der Sinnlichkeit), entro i quali soltanto ci son dati degli oggetti ,. Se 
l'Analitica oltrepassasse questi limiti, da trascendentale si farebbe trascendente affer- 
mando delle cose una oggettività analiticamente non consentita. 

Un secondo punto della massima importanza e immediatamente risultante dal- 
l’anzidetto è quello che concerne la differenza di fenomeno e noumeno e il lor rapporto 
alla Cosa in sè (das Ding an sich). 

A tal riguardo dice Kant (ibid., pag. 208) che “ il concetto di un noumeno non 
“ è punto positivo, nè significa (bedeutet, esprime) una determinata conoscenza di una 
“ qualche cosa, ma soltanto il pensare (das Denken) di qualche cosa, rispetto a cui 
“ io astraggo da qualsiasi forma della intuizione sensibile ,. 


61 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 161 


Qui si vede chiarissimamente come Kant, già prima de’ suoi immediati succes- 
sori, aveva egli stesso ridotta la Cosa in sè a un semplice noumeno, ossia al puro e 
semplice nostro pensiere del fenomeno. 

Trattandosi di un punto di straordinaria importanza, mi permetto, ad ulteriore 
rincalzo del riferito, di esprimerlo colle parole, con cui Michelet (nella sua cit. opera, 
pag. 79 e segg.) la esprime. Cioè: “ Il fenomeno presuppone un saldo In-sè, di cui 
“ è la manifestazione. Senza esplicar più vicinamente il legame dei due lati, Kant, 
in un'ultima sezione dell’Analitica, accenna alla Cosa in sè, indicandone la rela- 
zione: siccome la Cosa in sè non può mai esser data in una esperienza possibile, 
epperò noi non possiamo, senza diventar trascendenti, arrischiarci di affermar 

“ qualche cosa della obbiettività di essa, così il pensar trascendentale (trascendentale 
“ Ansicht) intorno ad essa le assegna il suo posto unicamente nel pensare (im Denken) ,. 
E qui debbo dire a lode di tutti i grandi immediati successori tedeschi di Kant, 
che essi han soppresso appunto l'in sè come esprimente una cosa che esista oltre e 
di là del pensare; e debbo aggiungere a biasimo del Positivismo francese e inglese 
esteso all’istesso evoluzionismo spenceriano (di Comte, Littré, Stuart Mill e dell’istesso 
Spencer dunque), che ha ritenuta e riprodotta la Cosa în sè come realmente esistente 
e come impenetrabile col nostro pensiere: il qual biasimo è tanto maggiore, in quanto 
Positivismo ed Evoluzionismo affermano la necessità e ragion di essere dell’esperienza 
che dev'essere come la base del pensare. E giacchè ho accennato al biasimo del po- 
sitivismo francese ed inglese e dell’istesso evoluzionismo spenceriano, rilevo a titolo 
d'onore del positivismo italiano capitanato dall’Ardigò, che ha soppressa la Cosa în sè 
nel cattivo senso di essere un realmente esistente fuori e indipendente dal nostro 
pensiere. 


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Un terzo punto, pur riferentesi all’Intelletto puro nella sua relazione colle cose 
e colla possibile esperienza di esse, è il giudizio che Kant esprime a tal riguardo 
rispetto a Leibniz ed a Locke. Dice del primo che egli “ prese (na7m, considerò) i 
“ fenomeni come Cose in sè, quindi come ?ntelligibilia, ossia come oggetti del puro 
“ intelletto ,: per forma che “ Leibniz intellettualizzò (intellectuirte) i fenomeni ,. Il 
contrario di Leibniz, dic’egli, lo fece Locke, il quale “ col proprio sistema della 
“ Noogonia (se mi è permesso di servirmi di tale espressione) ha sensificato (sensificirt) 
“ i concetti intellettuali, cioè li ha dati per non altro che concetti empirici, astratti 
“ per mezzo di riflessione , (vedi ibid., pagg. 217 e 222). 

La giudicazione e rispettiva critica è giusta. E rispetto a Leibniz e al Cartesia- 
nismo in genere estende la critica all’ Armonia prestabilita del primo, e alla nota 
Assistenza divina (Systema assistentiae) del secondo (ibid., pagg. 224 segg.). 

Un quarto ed ultimo punto anche importante è quello che si riferisce ai con- 
cetti di qualche cosa e di nulla, il quale secondo, alla sua volta, si congiunge di bel 
nuovo col noumeno. Intorno ad essi (e prendendo le mosse da’ già allegati concetti 
categorici di totalità, moltiplicità, unità) si esprime nel modo seguente. 

1° Ai concetti (ibid., pag. 236) di Tutto, Molto, Uno si oppone “ un concetto 
che non esprime alcun oggetto, e a cui non corrisponde alcuna intuizione asse- 
“ gnabile, cioè il concetto di nulla (Nichts), che è un concetto senza oggetto, come 
“i noumeni, che non possono essere annoverati tra le possibilità, comunque perciò 
“ stesso non possano neppur essere tenuti per impossibili (ens rationis) ,. 


Serie II. Tox. LXII. 21 


162 PASQUALE D'ERCOLE i 62 


13] 


2° “ Realtà è Qualcosa (Etwas), negazione è Nulla (Nichts), cioè un con- 
cetto mancante di un oggetto, come, per esempio, l'ombra, il freddo (mihi! pri- 


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vativum) ». 

3° “ La semplice forma della intuizione, senza sostanza, non è in sè stesso 
“ alcun oggetto, ma soltanto la condizione formale di esso (come fenomeno, Er- 
scheinung), come, p. es., lo Spazio puro, il Tempo puro (ens imaginarium), i quali 
“ sono bensì qualche cosa come forme intuibili, ma mancano di oggetti che possano 


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essere intuiti ,. 
4° “ L'oggetto di un concetto che contraddice a sè stesso è il NuZla (Nichts), 
“ perchè il concetto del Nulla è una impossibilità, come per avventura quello della 
figura rettilinea di due lati (nihil negativum) ,. 
“ La Tavola di questa divisione del concetto del Nulla (giacchè la Tavola a 


“ questa corrispondente della divisione del Qualche cosa consegue da sè stessa) do- 


» 


vrebbe esser allegata così: 


Il Nulla come 
1° concetto vuoto senza oggetto: ens rationis. 
2° concetto vuoto (Zeerer) di un concetto 3° intuizione vuota senza oggetto 
nihil privativum ens imaginarium. 
4° oggetto vuoto senza concetto 


nihil privativum ,. 


Così Kant termina la trattazione dell’ Analitica trascendentale, passando a quella 
della Dialettica trascendentale; e fo lo stesso anch'io, terminando l'esposizione della 
prima e passando a quella della seconda. 


La Dialettica trascendentale. 


Il lettore non ha dimenticato che anche la Dialettica trascendentale fa parte 
della Logica trascendentale in genere. Va anche rilevato che Kant, come per le altre 
parti della Critica d. R. P. ha. sempre premesso una Introduzione, così ne premette 
una anche per questa terza parte. Va, inoltre, rilevato che questa terza parte si 
distingue dalle due prime sì per l'oggetto della conoscenza sì per l’elevazione di 
grado della conoscenza stessa. La prima parte (Estetica trascendentale), come grado 
primo ed infimo, è rappresentata dal Senso, e pel lato conoscitivo è circoscritta ne' 
limiti della sensibilità e dell’intuizione. La seconda parte (Analitica trascendentale), 
come secondo ed ulteriore grado, è rappresentata dall’Intelletto, e pel lato conoscitivo 
si muove nell’ambito de’ concetti; ma è, d’altra parte, pur circoscritta in questi, 
comunque possa rivolgersi anche agli oggetti, per applicare a questi i concetti (o 
le categorie), ed inoltre elevare l’intuire al pensare sotto determinate Regole. La 
terza parte, che imprendiamo ad esporre (la Dialettica trascendentale), come ultimo: 
e supremo grado, è rappresentata dalla Ragione, che pel lato conoscitivo si muove 
nell’ambito delle idee, idee che per natura ed oggetto conoscitivo sono nettamente 
da distinguere da’ concetti (o categorie) intellettivi, rappresentando i concetti prin- 


69 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 163 


cipii condizionati, e le idee principii incondizionati, come meglio si vedrà e determi- 
nerà appresso. 

Ciò posto, passiamo ora alla Introduzione predetta, la quale, lo dico subito, 
rileva il punto importantissimo dell’apparenza (des Scheins), apparenza già manife- 
statasi (nell’Analitica) presso l'Intelletto: ma l'apparenza dell’Intelletto e quella della 
Ragione sono assai diverse ed hanno un diverso significato ed uso, come dobbiamo 
ora chiarire e stabilire. 

Kant comincia per rilevare che “ la Dialettica (loc. cit., p. 238) sia in generale 
“ una Logica dell'apparenza (eine Logi des Scheins) ,. E stabilisce, inoltre, “ non 
“ doversi tener per la medesima cosa fenomeno (Erscheinung) ed apparenza. Giacchè 
verità od apparenza non sono nell'oggetto, in quanto viene intuito, ma nel giudizio 
“ sul medesimo, in quanto vien pensato ,. 

Fermato ciò, dice che l'apparenza di cui vogliam trattare qui “ non è l'apparenza 
“ empirica (come p. es. l'apparenza ottica) ,..... ma “l'apparenza trascendentale, la 
quale mette capo a principii (auf Grundsdtze einfliesst), il cui uso non poggia sopra 
alcuna esperienza ,. E, a maggior determinazione di ciocchè intende per questa 


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seconda apparenza, aggiunge: “ Noi vogliamo chiamare îmmanenti i principii, la cui 
“ applicazione si tiene interamente ne’ limiti di una possibile esperienza, e #rascen- 
“ dentî quelli che li oltrepassano (berfliegen) ,; facendo quindi osservare come “ non 
sieno la stessa cosa (einerlei) trascendentale e trascendente ,. 


E ritornando sull’apparenza, come logica e come trascendentale, scrive: “ L’ap- 


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parenza logica (ib., p.241), che consiste nella sola imitazione della forma razionale 
(Vernunftform; cioè l'apparenza sofistica, der Schein der Trugschliisse), sorge unica- 
mente dal mancamento di attenzione alla regola logica; e perciò, appena che vien 
“ questa inculcata nel caso presente, essa (l’apparenza sofistica) sparisce del tutto ,. 

“ L’apparenza trascendentale, al contrario, non cessa anche che la si scopra e 
“ la si scorga mediante critica trascendentale che ne indichi chiaramente la nullità 
“ (come per es., l'apparenza che è nella proposizione: Il mondo, secondo il tempo, 
“ deve avere un cominciamento). La causa di ciò è questa: che nella nostra Ragione 
“ (considerata subbiettivamente come una facoltà umana conoscitiva) giacciono regole 
“ fondamentali (Grundregeln) e massime del suo uso, le quali hanno in tutto e per 
“ tutto l’aspetto di principii obbiettivi: in virtù del quale aspetto avviene che la 
necessità subbiettiva di un certo legame de’ nostri concetti, vien presa, a favor 
dell’Intelletto, per una obbiettiva necessità come determinazione delle cose in sè 
stesse. È questa una illusione, che è tanto inevitabile, quanto è inevitabile che il 
“ mare nel suo mezzo sembri più alto che alle spiagge, perchè il mezzo lo vediamo 
“ con raggi luminosi più alti di quelli con cui vediamo queste ultime , ecc. 

Sicchè dunque “ la Dialettica trascendentale deve contentarsi di scoprire l’ap- 
“ parenza di giudizii trascendentali, e ad un tempo evitare che questa c’inganni; 
“ ma che poi (come l’apparenza logica) questa sparisca e cessi di essere un inganno, 
ciò non potrà mai effettuare (bewerkstelligen, raggiungere); perchè abbiam che fare 
“ con una illusione naturale e inevitabile; che riposa sopra principii subbiettivi e li 
interpola (unterschiebt, inserisce) come obbiettivi ,. 

Ciò posto, veniamo all’obbietto diretto e conoscitivo della Dialettica trascenden- 

tale, il quale è costituito dalle Idee della Ragione. 


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164 PASQUALE D'ERCOLE 64 


Le Idee della Ragione. — Kant rivolge primamente la sua attenzione alla Ragione, 
per determinarne la natura e l’uso, poscia all'oggetto di essa, ossia alle Idee. 

Quanto alla natura della Ragione, egli dice (loc. cit., pag. 243): * Nella prima 
“ parte della nostra Logica trascendentale dichiarammo che l’Intelletto sia la Facoltà 
“ delle Regole, qui distinguiamo da esso la Ragione appellandola la Facoltà de 
« Principii (das Vermigen der Principien) , 

Intanto, continua Kant, ibid.: Siccome la Ragione è anch'essa un principio cono- 
scitivo, “ io chiamerei conoscenza da principii quella, nella quale io conosco il Parti- 
“ colare nel Generale mediante concetti. E così ogni sillogismo della Ragione ( Vernunfi- 
schluss) è una specie (eine Form, una forma) di inferenza (Ableitung) della conoscenza 
da un Principio ,. 


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Intanto (ibid., pag. 246). “ in ogni sillogismo della Ragione io penso primamente 
una Regola (major) mediante l’Intelletto. Secondamente, assumo (subsumire) una 
conoscenza sotto la condizione della Regola (minor) mediante la forza giudicativa 
(Urtheilskraft). Finalmente io determino la mia conoscenza mediante il predicato 
della Regola (conclusio), e perciò 4 priori mediante la Ragione. Il rapporto dunque 
che la Maggiore siccome Regola, rappresenta tra una conoscenza e la condizione 
della medesima. costituisce le diverse specie de’ Sillogismi della Ragione. Questi 
son dunque proprio triplici (dreifach), a quel modo che i Giudizii in genere si distin- 
guono nella specie secondo che essi esprimono il rapporto della conoscenza nell’In- 
telletto: cioè, sono sillogismi razionali (Vernunftschliisse) 0 categorici, o ipotetici, 
disgiuntivi .. 

“ Onde si scorge (conclude egli ibid., pag. 247) che la Ragione, nel concludere 
(im Schliessen) cerca di ridurre la grande varietà di conoscenza dell’Intelletto al 
minor numero de’ Principii (di condizioni generali), e perciò di raggiungere la 
massima unità de’ medesimi ,. 

Tale è la natura della Ragione. 

Quanto poi all'uso (Gebrauche) di essa, Kant pone il seguente quesito: # Può la 
Ragione venire isolata, ed in tal caso essere ancora una sorgente di concetti e 
giudizii, uscenti dal suo fondo stesso e riferirsi in tal modo agli oggetti (auf 
Gegenstinde), ovvero è una facoltà soltanto subalterna valevole a dare una certa 
forma (eine gewisse Form) a conoscenze date? ,. 

Questo quesito equivale per lui a quest'altro: * La Ragione in sè, ossia la Ra- 
gione pura contiene ella in sè stessa a priori principii (Grundsdtze, massime) e 
Regole, e in che cosa possono consistere questi principii? , 

E la risposta a tal quesito è: 

“ Primamente, il Sillogismo razionale (o il ragionamento della Ragione) ( Vernunft- 
scluss) verte non sopra intuizioni (Anschauungen) per ridurle a Regole {cano fa VIn- 
telletto colle sue Categorie), ma sopra concetti e giudizi ,. 

“ In secondo luogo, la Ragione nel suo uso logico cerca la condizione generale 
del suo giudizio (della conclusione, des Schlusssatzes), e lo stesso Sillogismo razionale 
non è altro che un giudizio effettuantesi mediante l'assunzione (Subsumtion) della 
sua condizione sotto una Regola generale (la maggiore, Obersatz). Ma siccome 
questa Regola è esposta di bel nuovo allo stesso sperimento della Ragione, e quindi 
deve esser cercata (mediante un Prosillogismo) la condizione della condizione, così 


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65 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 165 


si vede bene che il principio generale della Ragione (nell’uso logico) sia quello di 
trovare l’Incondizionato alla conoscenza condizionata dell’Intelletto, affinchè si 
compia (vollendet wird) l’unità del medesimo ,. 

Senonchè “ questa massima logica (ib., p. 249) non può divenire un principio 
della Ragione pura altrimenti che coll’ammettere: Che, dato il condizionato, è 
anche data tutta la serie delle condizioni subordinate l’una all’altra, la quale è 
perciò incondizionata essa stessa (ossia è contenuta nell'oggetto e nel suo colle- 
gamento, Verknipfung). Un siffatto principio della Ragione pura è chiaramente 
sintetico ». 

Va però rilevato che “i principii (Grundséitze, massime) emergenti da tal prin- 
cipio supremo della Ragione pura, rispetto ai fenomeni (Erscheinungen) sono tra- 
scendenti, cioè il predetto principio non può mai fare un uso empirico ad esso 
adeguato. Ma esso è però interamente diverso da tutti i principii (Grundsdtzen, 
massime) dell’Intelletto (il cui uso è pienamente, vdllig, immanente, avendo essi per 
“tema soltanto la possibilità dell'esperienza) ,. 

Come ora la stia con questo salir di condizione in condizione fino all’Incondi- 
zionato nel procedimento dialettico della Ragione, lo vedremo distintamente da prima 
nell'oggetto stesso della Ragione, ossia nelle Idee, poscia ne’ Sillogismi razionali 
(Vernunftschliissen) trascendenti e dialettici della medesima. 

Delle Idee. — A differenza dei concetti intellettivi ( Verstandesbegriffe), che ven- 
gono pensati « prior? prima dell'esperienza e ad uso e pro (zum Behuf) dell'esperienza 
stessa, il Kant chiama (ib., pag. 251) anche le Idee concetti, però concetti della 
Ragione pura. “ La quale denominazione mostra già anticipatamente (vorliufig, preli- 
“ minarmente), che il concetto della Ragione non voglia contenersi entro i limiti 
“ dell'esperienza; giacchè esso concerne una conoscenza, della quale ogni conoscenza 
“ empirica è soltanto una parte (forse l’integrità dell’esperienza possibile o della sua 
“ sintesi empirica) ,. 

Venendo alla determinazione diretta delle Idee, volge primamente il proprio 
pensiere e quello del lettore a Platone, dal quale accoglie la denominazione di Idea. 
E dice: “ Platone (ib., p. 253) si serve dell’espressione Idea, dalla quale si scorge 
“ bene che egli per essa non solo intende qualcosa che non è mai improntata dai 
“ sensi, ma che oltrepassa persino i concetti dell’Intelletto, dei quali si occupava 
“ Aristotele, in quantochè nell’esperienza non può mai rinvenirsi qualcosa che sia 
“ congruente ad esse. Le Idee son per lui gli esemplari (Urdilder) stessi delle cose, 
e non soltanto chiavi (SehZsse) per una possibile esperienza, come le Categorie ,. 

E, conformemente a ciò, definisce l’Idea con le seguenti parole: “ L’Idea è un 
concetto da nozioni (ein Begriff aus Notionen), che trascende (tdersteigt) la possibilità 
dell'esperienza ,. E soggiunge stupendamente che “a chi è abituato a tal distin- 
zione dev'essere insopportabile di sentir chiamare Idea la rappresentazione (Vor- 


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“ stellung) del color rosso ,, rappresentazione che “ non può esser chiamata neppure 


una nozione (Vestandesbegriff) ». 

E a pag. 263, ripetendo l’affermazione che all’Idea non può corrispondere alcun 
oggetto congruente dato da’ sensi, aggiunge che “i concetti razionali (Vernunftbe- 
“ griffe) così determinati sono Idee trascendentali ,. 

Ad integrazione ed ulteriore determinazione di ciocchè si è testè detto “ della 


« 


166 PASQUALE D'ERCOLE 66 


«“ Totalità delle condizioni e dell’Incondizionato (ib., pag. 261), siccome titolo comune 
« de’ concetti razionali (Vernunftbegriffe, che son poi le Idee) ,, Kant rivolge la mente 
ad un’altra parola generalmente nota ed anche abbastanza generalmente accolta, 
che ha per questi una grande importanza, cioè la parola assoluto (das Wort absolut). 

Questa parola, dic’egli, viene adoperata talvolta in un senso, che “ esprime #/ 
“ meno di ciocchè può dirsi di un oggetto ,; qualche altra volta però viene adope- 
rata “ per additare che qualcosa è valevole (illimitatamente) in ogni rispetto (p. es., 
“ il dominio, o regno, Herrschaft, assoluto) ,; in una parola, viene adoperata “ per 
“ additare il più (das Meiste) di ciocchè può dirsi della possibilità di una cosa ,. 

Ora, è in questo secondo senso che Kant accoglie e adopera la parola assoluto 
e l’applica alle Idee: il che vuol dire in altri termini che le Idee (o i Concetti razio- 
nali, Vernunftbegriffe) sono assolute, o principii assoluti, ed hanno ad oggetto l’Incon- 
dizionato, il quale è esso stesso assoluto come unità e fondamento della totalità delle 
condizioni. 

Ciò posto, il Kant passa addirittura a trattare delle Idee considerate nella loro 
sistemazione, o, come dice, “ del Sistema delle Idee trascendentali (ib., p.268 ss.) ,. 

E a tal riguardo già ha stabilito innanzi, che “ tutti .i Sillogismi razionali 
“ (Vernunftschliisse) sono o categorici, 0 ipotetici, o disgiuntivi ,. Nei quali Sillogismi 
“ tutte le Idee trascendentali (ib., pag. 269) si lasciano ridurre a tre Classi, delle 
«“ quali la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del Subbietto pensante, la 
“ seconda l’unità assoluta della Serie delle condizioni de’ fenomeni, la terza l’assoluta 
“ unità della condizione di tutti gli oggetti del pensare ,. E queste tre Idee (come tutti 
sanno) son quelle dell'Anima, del Mondo e di Dio, e sono oggetto la prima della 
Psicologia, la seconda della Cosmologia e la terza della Teologia. 

E qui una triplice importante osservazione. 

La prima è, che tutti i modi del procedimento raziocinativo delle Idee “ seguono 
“ il filo delle Categorie. Giacchè la Ragione pura non si riferisce mai direttamente 
“ agli oggetti, ma ai concetti intellettivi (Verstandesbegriffe) de’ medesimi ,. 

La seconda è, che tutto l’esame e il risultato dell'esame, che Kant imprende 
ed effettua qui rispetto alle tre indicate discipline, la psicologica, la cosmologica e la 
teologica, e discipline costituite specialmente secondo la nota dottrina wolfiana, hanno 
valore di affermazione, di negazione o di limitazione secondo che il risultato del- 
l'esame è affermativo, negativo o limitativo. 

La terza è, che secondo i modi di ragionare e concludere rispetto alle tre Idee 
mentovate ne seguono de’ sillogismi sofistici, che non sono “ nè immaginariamente 
“ inventati (erdichtet, ibid., pag. 274) nè accidentalmente sorti, ma che si originano 
“ dalla natura stessa della Ragione. Sono, cioè, sofisticazioni non dell’uomo (des 
“ Menschen), ma della Ragione pura, da cui non può liberarsi neppure il più saggio ,. 
E di tali Sillogismi falsi, o sofisticazioni, ve n’ha tre, costituenti tre Classi, corri- 
spondenti alle tre Idee. 

Nel Sillogismo sofistico della prima Classe “ io concludo dal concetto trascen- 
“ dentale del Subbietto (ossia dell'Anima), che non contiene nulla di vario (di molte- 
“ plice, nichts Mannigfaltiges), all'unità assoluta del Subbietto stesso, unità della quale 
“io non ho alcun concetto (gar keinen Begriff) ,. E tal conclusione dialettica “ io 
“ l'appello Paralogismo trascendentale ,. 


67 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA' KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 167 


Nel Sillogismo sofistico della seconda Classe, poggiante sul concetto della men- 
tovata Totalità assoluta della Serie delle condizioni de’ fenomeni, £ io dalla incon- 
«“ dizionata unità sintetica della Serie, di cui in ogni tempo ho un concetto contrad- 
“ dittorio, concludo alla rettitudine (£icktigkeit) dell'unità opposta, della quale non ho 
“ parimenti alcun concetto ,. Lo stato della Ragione in questi sillogismi dialettici “ lo 
“ appellerò l’ Antinomia della Ragione pura ,. 

E finalmente nella terza Classe della Ragione sofisticante “ io dalla totalità delle 
“ condizioni di pensare oggetti in genere, in quanto questi mi son dati, concludo 
“ all’assoluta unità sintetica delle condizioni tutte delle cose ,, ossia, concludo “ ad 
“un Essere di tutti gli esseri, cui io conosco ancor meno mediante un concetto 
“ trascendentale, e della cui incondizionata necessità non posso farmi alcun concetto ,. 
Un sì fatto sillogismo (o ragionamento) dialettico “ io l’appellerò l’Ideale della 
# Ragione pura ,. 


Dei Paralogismi della Ragion pura, ossia della Psicologia razionale. 


Il Paralogismo è un ragionamento logico formalmente falso, “ quale pur sia 
“ (ibid., pag. 275) il contenuto del medesimo ,. Ciò posto, il Kant rileva parecchie 
cose importanti, che sono le seguenti. 

La prima è, che un sì fatto ragionamento falso, come si è detto testè, si origina 
dalla stessa Ragione pura, però (e qui sta l’importanza) “ la illusione da esso prodotta 
“ non è insolubile ,. Conosciuta la erroneità del ragionamento, la si può rettificare. 

La seconda è, che va rilevato e tenuto presente un Concetto, che, comunque 
non registrato “ nella lista generale de’ concetti trascendentali ,, pure si deve 
supporre come appartenente alla medesima. E questo concetto, o meglio “ Giudizio 
« è: Io penso ,. È facile scorgere ed intendere che esso è “ il veicolo (das Vehikel) 
“ di tutti i concetti in genere, quindi anche de’ concetti trascendentali ,. E, ad 
ulteriore intelligenza e determinazione della cosa, a pag. 276, aggiunge: “ Questa 
“ percezione (Wahrnehmung) interna non è altro che la semplice appercezione: o 
“ penso, la quale rende persin possibili tutti i concetti trascendentali, ne’ quali si 
“ dice: Io penso la sostanza, la causa, ecc. ,. 

La terza, che si riattacca alla seconda, è di una portata grandissima rispetto 
all'oggetto diretto della Psicologia, ossia all’Anima, ma che si estende necessaria- 
mente anche al Corpo, nel quale l’Anima si manifesta e agisce. La quale terza cosa 
importante è espressa dal nostro filosofo con queste parole: “ Io, come pensante, sono 
“ un oggetto del senso interno, e mi chiamo Anima. Quello che è un oggetto de’ sensi 
esterni si chiama Corpo ,. Si noti bene il lettore questo luogo, rispetto al quale più 
innanzi gli allegherò altre parole kantiane di una importanza ancora più grande. 

Dopo le predette indicazioni concernenti l’ Anima e i Paralogismi ad essa relativi, 
Kant (ib., p. 274) allega ciocchè egli chiama la Topica della Psicologia razionale, 
dicendo che questa Topica “ da cui dev'essere derivato soltanto ciocchè essa contiene 
“«“ è la seguente: 


“ 


1° L’anima è sostanza. 


2° Secondo la sua Qualità 3° Ne’ tempi diversi, in cui essa esiste (is?), è nu- 
è semplice mericamente identica, cioè è urità (non mol- 
teplicità). 


4° È in relazione con possibili oggetti nello spazio ,. 


168 PASQUALE D'ERCOLE 68 


Da sì fatti elementi (soggiunge egli a pag. 278) sorgono tutti i concetti della 
Psicologia pura, o, come anche si è detto, razionale. Cioè: “ La sostanza, come og- 
« getto del senso interno, dà il concetto della Immaterialità; come sostanza semplice 
« (il concetto) della Incorruttibilità; la identità di essa, come di sostanza intellettuale, 
“ dà (il concetto) della Personalità; e tutte queste insieme (cioè, Immaterialità, In- 
“ corruttibilità e Personalità) danno la Spiritualità; la relazione cogli oggetti esistenti 
“ nello spazio dà il commercio .(Commercium) con corpi, quindi rappresenta la sostanza 
“ semplice come principio della vita nella materia ,, e finalmente ne afferma, come 
“ circoscritta dalla Spiritualità, la Immortalità ,. 

È intorno a tali concetti che si costruiscono quattro Puralogismi di una * Psi- 
“ cologia trascendentale, falsamente tenuti per una scienza della Ragione pura ,, ma 
che non hanno a fondamento e contenuto “ che una rappresentazione interamente 
“ vuota (ginzlich leere Vorstellung) ,. “ Mediante questo Io, o Egli, o Esso (la Cosa) 
“ che pensa non vien rappresentato altro che un Subbietto trascendentale de’ pen- 
«“ sieri = X (Durch dieses Ich, oder Er, oder Es (das Ding), welches denkt, wird nun 
“ nichs weiter, als ein transcendentales Subiect der Gedanken = X)..... rigirandoci 
“ quindi in un Circolo incessante ,. 

E passa alla indicazione e disamina de’ quattro Paralogismi. 


Primo Paralogismo della Sostanzialità. 


Dunque, conformemente all’anzidetto, “ Io (ibid., pag. 280) sono, come essere 
“ pensante (come Anima), sostanza ,. 

Il nostro filosofo critica come paralogica tale affermazione, ricordando come, 
conformemente alla parte analitica della Logica trascendentale, “ le Categorie pure 
“ (ibid., pag. 281), e tra queste anche quella di sostanza, non hanno per sè stesse 
“ (an sich selbst) alcuna significazione oggettiva, quando ad esse non sia sottoposta 
“ (untergelegt) una intuizione, alla cui molteplicità possano essere applicate come fun- 
“ zioni dell'unità sintetica ,. La qual cosa non avviene nel caso della Categoria di 
sostanza, rispetto alla quale “ io non posso dunque in modo alcuno concludere (schliessen), 
“ che io, come essere pensante, nè sorgo nè trapasso (weder entstehe noch vergehe) ,. 
Se si vuole quindi affermare “la proposizione: L'Anima è sostanza (ibid., pag. 282), 
“ si può ben lasciarla valere (gelten lussen) ,, ma senza ulteriormente ed erratamente 
inferirne, per es., “ la permanente durata di essa (sostanza) in tutti i mutamenti 
“ (Vertinderungen, alterazioni), ed anche dopo la morte dell’uomo ,. 


Secondo Paralogismo della Semplicità. 


Questo argomento, dice Kant (ibid., pag. 283), “ che è l’Achille de’ sillogismi 
“ dialettici della Psicologia pura ,, è dal Dogmatismo così artificiosamente tessuto, 
che sembra di sostenersi persino contro il più acuto esame di chi lo investiga. 
Esposto in modo comune e popolare, esso suona come segue. 

“ Ogni sostanza composta (zusammengesetzte) è un aggregato di molti, e l’azione 
“ di un composto, ovvero ciocchè inerisce al medesimo come tale, è un aggregato di 
“ molte azioni o accidenze ( Accidentien), che è distribuito tra molte sostanze. Ora, 


È 
| 
4 


6 


n 


R 


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n 


x 


9 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 169 


una azione che sorga dalla concorrenza di molte sostanze agenti è ben possibile, 
quando questa azione è soltanto esteriore (come per es., l’azione di un corpo è il 
movimento unito di tutte le parti di esso) ,. Ma la cosa è ben diversa “ con pen- 
sieri, quali accidenze appartenenti ad un essere pensante. Giacchè ponete che il 
composto pensasse: allora ogni parte di questo conterrebbe una parte del pensiere, 
e tutte le parti unite insieme conterrebbero primamente il pensiere. Ora questo è 
contraddittorio ,. E quindi consegue che l’anima, come sostanza pensante, è “ una 
sola sostanza, e non un aggregato di molti, e quindi è assolutamente semplice ,. 

Contro siffatto argomento Kant rileva: 

“ Il così detto nervus probandi di questo argomento sta nella proposizione: che, 
per formare un pensiere, debbano esser contenute molte rappresentazioni nell’unità 
assoluta del Subbietto pensante. Ma una tal proposizione non può dimostrarla nes- 
suno da concetti. Giacchè come dovrebbe egli fare per dimostrarla ? La propo- 
sizione: Un pensiere può esser soltanto l’azione dell’ unità assoluta dell’ Essere 
pensante, non può essere trattata (derandelt) analiticamente. Perchè l’unità del 
pensiere, il quale consiste di molte rappresentazioni, è collettiva e può, secondo 
i puri e semplici concetti, riferirsi tanto all’unità collettiva delle sostanze che vi 
cooperano (der daran mitwirkenden Substanzen; come il movimento di un corpo è 
il movimento composto di tutte le parti del medesimo), quanto all'unità assoluta 
del Subbietto. Dunque la necessità della presupposizione di una sostanza semplice 
in un pensiero composto (dei einem zusammengesetzten Gedanken) non può essere 
concepita (eingesehen) secondo la Regola dell’identità. Che poi la stessa proposizione 
debba essere riconosciuta sinteticamente ed interamente a priori mediante puri e 
semplici concetti, non ardirà di farlo alcuno, il quale conosce la possibilità di pro- 
posizioni sintetiche « priorî, secondo che abbiamo innanzi esposto ,. 

“ È anche parimenti impossibile (ibid., pag. 284) di derivare dall'esperienza 
questa necessaria unità del Subbietto siccome condizione della possibilità di ogni 
pensiere. Perchè l’esperienza non offre alcuna necessità di conoscere, tanto più 
che il concetto dell’ unità assoluta è di gran lunga superiore alla sfera speri- 
mentale ,. 

E allora “ anche qui (ibid., pag. 285), come nell’antecedente Paralogismo, rimane 
come totale fondamento la proposizione formale dell’appercezione: Io penso: fonda- 
mento, sul quale la Psicologia razionale arrischia la estensione delle sue conoscenze: 
e proposizione, che non è esperienza di sorta, ma la forma dell’appercezione che è 
annessa ad ogni esperienza e la precede ,,. 

Sicchè in conclusione “ la proposizione: Io son semplice, dev’esser considerata 
come una immediata espressione dell’appercezione, a quel modo stesso che l’opi- 
nato sillogismo cartesiano, cogito, ergo sum, nel fatto è tanto logico, in quanto cogito 
(sum cogitans) esprime immediatamente la realtà ,. 

Trattandosi dell’Achille degli argomenti della Psicologia razionale, il grande 


filosofo di Konisberga entra in ulteriori illustrazioni e confermazioni della critica da 
lui fatta. Ma io credo che l’allegato è più che sufficiente per esprimere ed intendere 
quest’ultima. 


Serie II. Tox. LXII. 22 


170 PASQUALE D'ERCOLE 70 


Terzo Paralogismo della Personalità. 


L'argomento paralogico della predetta Psicologia è: * Ciocchè è conscio della iden- 
* tità di sè stesso in tempi diversi, è, come tal coscienza, una Persona. Ma l’anima ece.; 
“ essa è dunque una Persona .. Così ibid. a pag. 290. Ela disamina e la critica di 
Kant sono le seguenti. 

“ Se io voglio conoscere mediante esperienza l'identità numerica di un oggetto 
“ esteriore, farò attenzione al permanente (auf das Beharrliche) di quel fenomeno 
(Erscheinung), a cui si riferisce tutto il rimanente siccome a Subbietto, ed osser- 
vare la identità di questo nel tempo, in cui muta. Ma io sono un oggetto del senso 
“ interno, e la totalità del tempo (alle Zeit) è soltanto la forma del senso interno. 
“ Per conseguenza io riferisco tutte e singole le mie successive determinazioni al Sè 
 (Selbsi) numericamente identico in ogni tempo, ossia nella forma della intuizione 
“ interna di me stesso ,. 

Sicchè dunque * la identità della Persona (ibid., pag. 291) è a ritrovare imman- 
cabilmente nella mia stessa coscienza ,. * È nell’appercezione il tiempo è rappre- 
3 sentato soltanto in me ,. Il che vuol dire che da questa mia appercezione interiore 
“ io non posso concludere alla obbieitiva persistenza (Beharrlichkei) di me stesso ,. 

Kant, ad ulteriore dimostrazione, fa qualche altra considerazione e chiude la 
critica del terzo Paralogismo con queste parole: “ Come la identità della Persona 
5 fibid.. pag. 293) non segue in modo alcuno dalla identità dell'io nella coscienza 
“ di tutti i tempi, nella quale io mi riconosco. così non ha potuto esser fondata su 
“ di essa neppure la sostanzialità dell'Anima .. 


r 


Il quarto Paralogismo della Idealità. 


Il filosofo di Konisberga formola da prima l'argomento concernente tal Paralo- 

gismo nel seguente modo: 
. ® Quello alla cuì esistenza (ibid., pag. 294) può concludersi soltanto come di una 

* causa, in date percezioni, non ha che un'esistenza dubbiosa (zweifelhafie): 

* Ma tutti i fenomeni esterni sono di tal natura, che la ioro esistenza (Daseiyn) 
° non può essere immediatamente percepita. ma che si può concludere ad essi come 
“ alla causa delle percezioni date: 

“ Dunque la esistenza di tutti gli oggetti de’ sensi esteriori è dubbiosa. Questa 
° incertezza (Ungewissheit. dubbio) io la chiamo la Idealità de’ fenomeni esterni, e la 
“ dottrina di questa Idealità si chiama l’/dealismo, a paragone del quale l’afferma- 
© zione (die Behaupiung) di una possibile certezza di oggetti de’ sensi esteriori viene 
* appellata il Dualismo .. 

A tale argomentazione il grande filosofo fa seguire la Critica di questo quarto 
Paralogismo. 

Prima però di indicare la Critica, è bene di sentire un ulteriore schiarimento 
di Kant intorno alla natura del predetto Idealismo. * Per Idealista (dic'egli, ibid., 
° pag. 295) non bisogna intendere quello che nega l’esistenza di oggetti esteriori dei 
* sensi, ma soltanto quello che non ammette che essa (esistenza) si conosca mediante 


vai LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 171 


“ percezione immediata, ma che però da ciò conclude, che noi non possiamo mai 
“ divenire interamente certi della loro realtà per mezzo di qualsiasi esperienza ,. 

E soggiunge (a pag. 301) che “ Idealista dommatico sarebbe quello che nega 
“ l'esistenza della materia, e Idealista scettico quello che la mette in dubbio (bezweifelt), 
“ perchè la crede indimostrabile ,. Il quale Idealista scettico non solo non riesce dan- 
noso, ma è persino “ un benefattore della Ragione umana (ibid., pag. 302), in quanto 
“ ci obbliga ad aprir bene gli occhi, e a non ritenere per possesso bene acquistato 
« quello che ci procacciamo forse soltanto surrettiziamente (was wir erschleichen) ,. 

Ciò posto la Critica di Kant al quarto Paralogismo, è da lui come raccolta nel 
seguente luogo. 

« Io non posso (così egli, ibid., pag. 295) propriamente percepire cose esteriori, 
“ ma soltanto concludere dalla mia interna percezione alla loro esistenza esteriore, 
“ in quanto io considero questa come l’azione (die Wirkung), rispetto a cui la causa 
più vicina è qualcosa di esteriore. Ma il concludere (der Schluss) da una data 
azione ad una causa determinata è sempre incerto; perchè l’azione può essere ori- 


“ 
« 


“ ginata da più di una causa. Quindi nel rapporto della percezione alla sua causa 


riman sempre incerto, se questa sia interiore od esteriore, se dunque tutte le così 
dette percezioni non sieno un semplice giuoco (eîn blosses Spiel) del nostro senso 
interno, ovvero si riferiscano a reali oggetti esteriori come a loro causa. L’esi- 
stenza di quest'ultima è almeno soltanto conclusa, e corre il rischio di tutte le 
conclusioni, mentre al contrario l’oggetto del senso interno (cioè, Io stesso colle 
mie rappresentazioni) viene immediatamente percepito, e l’esistenza del medesimo 
non patisce alcun dubbio ,. 

A ciocchè è qui detto a scopo di Critica del quarto Paralogismo si collega un 
altro luogo, che voglio pure allegarlo, perchè riesce addirittura memorabile rispetto 
ad un posteriore famoso filosofo, che vi si collega direttamente. Il luogo (collimante, 
del resto, col generale pensiere critico kantiano) è questo: “ Io sono (ibid., pag. 297) 
“a me stesso consapevole (dewusst) delle mie rappresentazioni: dunque esistono queste 
ed io stesso, il quale le ha. Ma gli oggetti esterni (i corpi) son soltanto fenomeni, 
e perciò non sono altro che una specie (eine Art, un modo) delle mie rappresen- 
tazioni, i cui oggetti son qualcosa soltanto mediante queste rappresentazioni, e 
scongiunti (abgesondert) da esse non son nulla ,. 

Tutti riconosceranno in questo luogo il pensiere cardinale di quell’opera che s’in- 
titola: “ Il Mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vostellung) , 
e del suo autore Arturo Schopenhauer. 

Ma il punto più importante che rispetto ai Paralogismi e come a conclusione 
di essi vien qui da Kant considerato e diffinito, è quello che concerne la relazione 
di Anima e Corpo in vita e dopo morte, e la conseguente immortalità dell'Anima, 


« 


& 


& 
« 
& 


« 


che dalla esaminata Psicologia razionale viene affermata e sostenuta. 

Per intendere bene il pensiere di lui debbo ricordare che esso si collega all’ap- 
parenza trascendentale, di cui più volte si è parlato innanzi. E affinchè il lettore 
abbia presente il senso e il valore di essa, gli allegherò queste parole di Kant (ibid., 
pag. 315): “ Si può riporre ogni apparenza (allen Schein) in ciò, che la condizione 
“ subbiettiva del pensare vien tenuta (gehalten) per conoscenza dell’oggetto ,. 

Ciò posto Kant scrive: “ Su questa apparenza trascendentale de’ nostri con- 


172 PASQUALE D'ERCOLE 72, 


« cetti psicologici (ibid., p. 306) si fondano tre quistioni dialettiche, che costituiscono 
“ lo scopo proprio della Psicologia razionale, e che non possono essere risolte che dalle 
“ ricerche antecedenti: vale a dire: 1° quella della comunione (Gemeinschaft, com- 
« mercio) dell'Anima con un Corpo organico, ossia, della animalità e dello stato 
“ (Zustand) dell'Anima nella vita dell’uomo; 2° quella dell’ inizio (Anfang) di tale 
“ comunione, ossia dell'Anima nella nascita e dopo la nascita dell’uomo; 3° quella 
“ della cessazione di questa comunione, cioò dell'Anima nella morte e dopo la morte 
“ dell’uomo (la quistione della immortalità) ,. 

E a tali quistioni Kant risponde col seguente importantissimo luogo (della prima 
edizione della Critica della R. P., e omesso nelle edizioni posteriori), cioè: “ Io sostengo 
“ (ibid., pag. 307) che tutte le difficoltà, che vi si crede d’incontrare in tali qui- 
stioni, e colle quali, come con obbiezioni dommatiche, si cerca di darsi l’importanza 


»R 


‘ di penetrare nella natura delle cose più di quel che può il comune intelletto, riposi 
sopra una illusione (Blendwerk, fantasma), secondo la quale si ipostatizza (4ypo- 
stasirt) ciocchè esiste soltanto nel pensiere: cioè la illusione di tenere l'estensione, 


n 


ES 


R 


la quale non è che un fenomeno (Erscheinung), per una sussistente qualità di cose 
esteriori anche senza la nostra sensibilità, e di tenere il movimento per una azione 
“ (Wirkung), che è in sè reale (an sich wirklich) anche fuori de’ nostri sensi. Impe- 
rocchè, la materia, il cui commercio coll’ Anima suscita tanti dubbii (so viel Bedenken), 
‘ non è altro che la pura e semplice forma 0 una certa specie di rappresentazione di 
un oggetto incognito mediante quella intuizione che si chiama il senso esterno. 


ES 


ES 


R 


Può dunque esservi fuori di noi qualcosa a cui corrisponde ciocchè chiamiamo 
materia; però essa non è fuori di noi nella stessa qualità di un fenomeno (#r- 
scheinung), ma è in tutto e per tutto (lediglich) un pensiere in noi, comunque questo 
pensiere mediante il mentovato senso se la rappresenta come esistente (befindlich) 
fuori di noi. Materia dunque non significa una specie di sostanza interamente di- 
versa ed eterogenea dell’oggetto del senso interno (anima), ma soltanto la etero- 
geneità (Ungleichartigkeit) delle manifestazioni di oggetti (in sè stessi a noi inco- 
gniti), le cui rappresentazioni noi chiamiamo esteriori in paragone di quelle che 
‘ noveriamo come pertinenti al senso interno ,. 

Il fare di Anima e Corpo o Materia “ due specie di sostanze (ibid., pag. 312), 
“ della pensante e della estesa, pone il fondamento ad un grossolano dualismo ,, e 
fa sì che quelle che “ sono soltanto rappresentazioni del subbietto pensante diven- 
“ gano cose per sè (Dinge fiir sich) ,. E la conseguenza di ciò è che noi “ ci avvol- 
“ giamo (ibid., pag. 314) in un circolo eterno di equivoci e di contraddizioni ,. 

Tra i filosofi hegeliani quello che più ha accolto, inteso e ulteriormente svilup- 
pato questo luogo kantiano concernente la natura e la relazione di Anima e Corpo 
è Pietro Ceretti, come si può chiaramente scorgere dalla mia ultima opera intorno 
a lui, intitolata “I Saggio di Panlogica dell’hegeliano Pietro Ceretti ,. 


ES 


ES 


n 


CS 


R 


G 


L’Antinomia della Ragione pura, e la Cosmologia razionale. 


Nell’iniziare l’esame di tal parte della Dialettica trascendentale, il Kant rileva 
subito tra il Paralogismo e l’Antinomia una differenza, ch’ egli dice maravigliosa 


x 


(merkwiirdig, ibid., pag. 323). La qual differenza è, che “ il Paralogismo trascenden- 


73 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 173 


“ tale ha un'apparenza (Schein) soltanto unilaterale rispetto alla Idea del Subbietto 
« del nostro pensare ,; mentre nell’Antinomia e nella “ corrispondente applicazione 
“ della Ragione alla Sintesi obbiettiva de’ fenomeni (Erscheinungen) ,, si mostra “ un 
“nuovo fenomeno della Ragione, cioè un’Antitetica interamente naturale, intorno 
a cui nessuno ha bisogno di lambiccarsi il cervello e tender lacciuoli artificiosi 
(griibeln und kiinstlich Schlingen legen), ma in cui la Ragione cade da sè stessa e 
“ inevitabilmente ,. 

Ciò posto, il nostro grande filosofo inizia l’esame di ciocchè egli chiama “ il 
Sistema delle Idee cosmologiche ,, rispetto al quale nota due cose. La prima è che 
è soltanto dall’ Intelletto (ibid., pag. 325), che possono sorgere concetti puri e tra- 
scendentali, e che la Ragione invece non produce (erzeuge) propriamente alcun con- 
cetto, ma in ogni caso libera (frei mache) soltanto il concetto intellettivo dalle 
inevitabili restrizioni di una possibile esperienza, e cerca di allargarlo (erweîtern) al 
di sopra de’ limiti dell’empirico, però in collegamento col medesimo ,. Questo 
allargamento, cioè superamento di limiti, si continua e sale fino all’Incondizionato. La 
Ragione lo cerca, fondandosi sulla massima (Grundsate): Quando è dato il condizio- 
nato, è data anche tutta la somma delle condizioni, e con essa è dato l’assolutamente 


K& 


“ 


“ 
& 


“ 


x o 


Incondizionato, mediante il quale soltanto il condizionato è possibile. Dunque le idee 
trascendentali son primamente non altro che Categorie allargate fino all’Incondizio- 
nato, e si lasceranno allogare in una Tavola, che è ordinata secondo il titolo di 
queste ultime. “ La seconda è però che non tutte le Categorie son buone all’uopo, 
“ ma soltanto quelle, in cui la sintesi costituisce una serie (Reihe), e propriamente 
“ quelle che son condizioni subordinate l’una dopo l’altra (non una accanto all’altra) 
“ad un condizionato. La totalità assoluta è dalla Ragione richiesta solo in tanto, in 
“ quanto concerne la serie ascendente delle condizioni ad un dato condizionato; perciò 
“non quando si tratta della linea discendente delle sequele (Folgen) e neppure del- 
“ l’aggregato di condizioni coordinate a queste sequele ,. 

Quanto alla Tavola delle Categorie testè mentovata, l'importante della cosa con- 
cerne innanzi tutto “ i due quanti (quanta, quantità) originarii di tutta la nostra 
“ intuizione, Zempo e Spazio (ibid., pag. 327). Il Tempo è in sè stesso una serie 
“ (Reihe, e la condizione formale di tutte le serie), e perciò in esso, rispetto a un 
«“ presente (Gegenwart), gli antecedenti (antecedentia) siccome condizioni (il Passato, 
“ das Vergangene) sono a distinguere da’ conseguenti (dal Futuro, dem Zukiinftigen). 
“ Per conseguenza la Idea trascendentale dell’assoluta totalità della serie delle con- 
“ dizioni ad un dato condizionato si riferisce soltanto al Tempo passato. Secondo la 
“ Idea della Ragione vien necessariamente pensato come dato tutto il Tempo tra- 
“ scorso quale condizione del momento (Augenblick, istante) dato. Per ciocchè con- 
“ cerne poi lo Spazio in sè stesso, in esso non vi è alcuna distinzione di progresso 
“e di regresso, perchè esso costituisce un aggregato e non una serze, essendo le sue 
“ parti tutte eguali ,. 

Ciocchè qui vien chiamo l’aggregato nello Spazio, aggregato che costituisce poi 
“ Ja realtà nello Spazio stesso , equivale a ciocchè è altrimenti appellato Materia 
(ibid., pag. 328). 

L’altro punto importante considerato nel predetto “ Sistema delle Idee cosmo-. 
“ logiche , è quello che concerne la Idea del Mondo. “ Noi abbiamo (dice Kant, 


174 PASQUALE D'ERCOLE ui 


“ ibid., pag. 332) due espressioni: Mondo e Natura (Welt und Natur), che talvolta si 
* scambiano. La prima espressione indica la totalità matematica de’ fenomeni tutti 
“ e la totalità della loro sintesi, tanto nel grande quanto nel piccolo, vale a dire, 
“ nella progressione (Forischritt) di essi tanto mediante la composizione quanto me- 
“ diante la divisione. Ma quel medesimo Mondo vien anche chiamato Natura, in 
“ quanto vien considerato come un Tutto dinamico, e si guarda non all’aggregazione 
“ nello Spazio e nel Tempo, ma all’unità nella esistenza (Daseyn) de’ fenomeni .. 

Nella seconda Sezione concernente l’Antinomia della Ragion Pura Kant statuisce 
molto nettamente e determinatamente i concetti di Tetica ed Anfifetica nel modo 
seguente: “ Se Tetica (dic’egli, ibid., pag. 334) è ogni complesso di dottrine dom- 
“ matiche, per Antitetica io non intendo asserzioni dommatiche dell’opposto (des 
“ Gegentheils), ma il contrasto (den Widerstreit, l'opposizione) delle dottrine domma- 
“ tiche secondo l'apparenza (thesin cum antithesi), senza preferenza di approvazione 
“ dell'una rispetto all'altra .. 

Noi dobbiamo dunque siccome giudici imparziali del combattimento (unpar- 
“ teische Kampfrichter) lasciar da banda se la causa per cui i combattenti combattono 
sia buona o cattiva (ibid., pag. 336). Tal modo o metodo di comportarci nella giu- 
dicazione si può chiamare il Metodo scettico: metodo che procede verso la certezza 
(Gewissheit), in quanto cerca di scoprire il punto di frantendimento, e giungere alla 
conoscenza del difettivo che è nel contrasto. 

Ed ora il nostro filosofo passa addirittura alla esposizione dell’ Antinomia esi- 
stente nella Idea cosmologica, mettendoci dinanzi e a riscontro la Tesi e l’Antttesi. 


Prima Antinomia. 
Tesi. ANTITESI. 


“ Il Mondo ha un inizio nel Tempo, e, 
secondo lo Spazio, è anche inchiuso (einge- 
schlossen, confinato) in limiti ,. 


DmirosTRAZIONE. 


“ Giacchè, se si ammette che il Mondo 
secondo il Tempo non abbia avuto un inizio, 
dev'essere fino ad ogni istante dato trascorsa 
una eternità, ed esser quindi trascorsa una 
serie infinita di stati delle cose nel Mondo 
succedentisi l’uno all’altro. Ora, la infinità di 
una serie consiste appunto in ciò, che essa 
non può maì compiersi mediante una sintesi 
successiva. Dunque è impossibile una trascorsa 
serie del Mondo, e quindi un inizio del Mondo 
è una necessaria condizione della sua esi 
stenza: il che era primamente a dimostrare. 

“ Se si ammette il contrario di ciò, il 
Mondo diviene una infinita Totalità data di 
cose insieme esistenti. Ora, noi non possiamo 
pensare la grandezza di un quanto, dato entro 


“ DI Mondo non ha alcun inizio ed aleun 
limite nello Spazio, ma è infinito tanto rispetto 
al Tempo quanto rispetto allo Spazio ,. 


DiMosTRAZIONE. 


“ Giacchè, se si ammette che il Mondo 
abbia un inizio, come l’inizio è una esistenza, 
alla quale precede un Tempo, in cui la cosa 
(das Ding) non è, così deve aver preceduto 
un Tempo, in cui il Mondo non era, ossia 
deve esser preceduto un Tempo vuoto. Ma în 
un Tempo vuoto non è possibile il sorgere 
di alcuna cosa..... Dunque nel Mondo può 
bensì cominciare più di una serie di cose, ma 
il Mondo stesso non può avere alcun comin- 
ciamento, ed è quindi infinito rispetto al Tempo 
passato. 

“ Quanto alla seconda affermazione, si 
ammetta pure il contrario, che cioè il Mondo 
secondo lo Spazio è finito e limitato. Vi do- 
vrebbe dunque essere non soltanto una rela- 


=] 
O 


certi limiti di qualsiasi intuizione, in altro 
modo se non mediante la sintesi delle parti, 
e la totalità di un tal quanto soltanto me- 
diante la compiuta sintesi, ovvero mediante 
ripetuta addizione dell’unità a sè stessa. Con- 
formemente a ciò, per pensarsi il Mondo sic- 
come un Tutto, che riempie tutti gli Spazii, 
dovrebbe la sintesi successiva delle parti di 
un Mondo infinito esser considerata come com- 
piuta (vollendet), cioè, nel novero ( Durch- 
edhlung) di tutte le cose coesistenti, dovrebbe 
esser considerato come trascorso un tempo 
infinito, il che è impossibile. Quindi un ag- 
gregato infinito di cose reali non può esser 
considerato come un Tutto dato, e perciò nep- 
pure come contemporaneamente (zugleich) dato. 
Conseguentemente un Mondo, secondo l’esten- 
sione nello spazio, n0n è infinito, ma circo- 
scritto (eingeschlossen) nei suoi limiti; che era 
la seconda ammissione ,. 


LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 175 


zione delle cose nello Spazio, ma anche una 
relazione di queste verso lo Spazio. Ma sic- 
come il Mondo è un Tutto assoluto, fuori di 
cui non può esservi aleun oggetto della in- 
tuizione e quindi aleun correlato del Mondo, 
col qual correlato questo sia in rapporto, così 
il rapporto del Mondo allo Spazio vuoto sa- 
rebbe un rapporto di quello a nessun oggetto. 
Ma un siffatto rapporto, e quindi anche la 
limitazione (Begrenzung) del Mondo mediante 
uno Spazio vuoto è il Nulla (Nic4?s); dunque 
il Mondo, secondo lo Spazio, non è limitato, 
ossia esso rispetto alla estensione è infinito ,. 


Il Kant fa delle osservazioni a questa prima Antinomia. Rispetto alla Tesi 
osserva che egli non ha cercato ragioni avvocatesche, ma che le ragioni, con cui la 
sostiene, sorgono da essa medesima. E quanto all’Antitesi osserva essergli ben noto 
che non manchino di quelli che credono che “ un limite del Mondo, secondo il Tempo 
“ e lo Spazio, sia possibile ,. Ma egli ritiene ciò errato ed adduce ulteriori illustra- 
zioni e dimostrazioni per sostenere la verità di ciocchè nell’Antitesi ha sostenuto. 


Seconda Antinomia. 


TESI. 


© Ogni sostanza composta nel Mondo con- 
siste di sostanze semplici, e da per tutto non 
esiste che il semplice, ovvero ciò che è com- 
posto da questo ,. 


DIMOSTRAZIONE. 


“ Giacchè, se si ammette che le sostanze 
composte non consistano di parti semplici, 
non rimarrebbe, ove ogni composizione ve- 
nisse soppressa (aufgehoben) in pensieri, al- 
cuna parte composta, e (non dandosi parti 
semplici) neppure alcuna parte semplice; 
quindi non vi rimarrebbe nulla, e conseguen- 
temente non vi sarebbe stata neppure alcuna 
sostanza. Siechè dunque, o non è possibile 
che si sopprima (auffieben) ogni composizione 
în pensieri, ovvero, dopo la soppressione di 
questi, deve rimaner qualche cosa di essente 
(Bestehendes) senza alcuna composizione, ossia 
deve rimanere il semplice. Ma nel primo caso 


ANTITESI. 


“ Nessuna cosa composta nel Mondo con- 
siste di parti semplici, e da per tutto non vi 
ha in alcuna alcunchè di semplice ,. 


DIMOSTRAZIONE. 


“ Si ammetta pure che una cosa composta 
(come Sostanza) consista di parti semplici. 
Siccome ogni rapporto esteriore, e quindi 
anche ogni composizione di sostanze è possi- 
bile soltanto nello Spazio, così di quante parti 
consiste il composto, di altrettante deve con- 
sistere lo Spazio occupato dal composto. Ma 
lo Spazio non consiste di parti semplici, ma 
di Spazii. Dunque ogni parte del composto 
deve prendere (eimnehmen, occupare) uno 
Spazio. Ma le parti assolutamente prime 
(schlechthin ersten) di ogni composto sono sem- 
plici. Dunque il semplice occupa uno Spazio. 
Ma, come ogni reale che occupa uno Spazio 


176 PASQUALE D'ERCOLE 76 


il composto di bel nuovo non consisterebbe 
di sostanze (perchè in queste la composizione 
è soltanto un rapporto accidentale delle so- 
stanze, senza il quale queste, come esseri 
(Wesen) permanenti, dovrebbero sussistere). 
Ma, come questo caso contraddice alla pre- 
supposizione, così non rimane che il secondo 
caso, che cioè nel Mondo il sostanziale com- 
posto consiste di parti semplici. Conseguenza 
immediata di ciò è che le cose del Mondo son 
tutte esseri ( Wesen) semplici ,. 

Notoriamente, questo è il pensiere dot- 
trinale di Leibniz. 


comprende in sè un molteplice (Mannigfaltige, 
vario) esistente esteriormente, ed è perciò com- 
posto, e persino, qual reale composto, non è 
composto di Accidenze (perchè queste senza 
sostanza non possono essere l’una fuori del- 
l’altra), ma di sostanze, così il semplice sa- 
rebbe un sostanzialmente composto, il che è 
contraddittorio. 

“ La seconda proposizione dell’Antitesi, 
che cioè nel Mondo non esiste nulla di sem- 
plice, deve qui significar soltanto che l’esi- 
stenza dell’assolutamente semplice non può 
esser mostrata (dargethan) da alcuna espe- 
rienza o percezione nè esterna, nè interna, e 
che l’assolutamente semplice sia una semplice 
Idea, la cui realtà obbiettiva non può esser 
mai mostrata (dargethan) in alcuna esperienza 
possibile, e manca quindi nella esposizione dei 
fenomeni di qualsiasi applicazione ed oggetto. 
Giacchè, se noi ammettiamo che per sì fatta 
Idea trascendentale si lasciasse trovare un og- 
getto dell’esperienza, allora la intuizione em- 
pirica di un qualche oggetto dovrebb’ essere 
conosciuta come tale, che non contiene asso- 
lutamente alcun molteplice (Mannigfaltiges) 
estrinseco e congiunto ad unità (unificato). Ma; 
come dalla mancanza di coscienza (Nichtbe- 
wusstseyn) di un tal molteplice non può con- 
cludersi alla totale impossibilità del medesimo 
in qualsiasi intuizione di un obbietto, il quale 
ultimo. però è assolutamente necessario alla 
semplicità assoluta; così segue che questa non 
può esser conclusa da alcuna percezione, quale 
pur sia ,. 

Così riman ferma la proposizione che nel 
Mondo sensibile (Sinnenwelî) £ non vi sia 
nulla di semplice ,. 


Osservazioni alla seconda Antinomia. 


Rispetto alla Tesi Kant dà ulteriori schiarimenti rispetto al modo come egli . 
intende il semplice, cioè * come elemento del composto ,. Al qual riguardo, riferen- 
dosi a Leibniz dice che “ il significato proprio della parola Monas (ibid., pag. 350) 
“ dovrebbe essere quello di semplice come sostanza, e non come elemento del 


“ composto ,. 


E, quanto all’Antitesi, dice che contro il principio sostenuto di una * infinita divi- 
“ sione della materia, la cui dimostrazione è soltanto matematica ,, i Monadisti op- 
pongono argomentazioni degne di sospetto (verdichtig), e tratte da “ concetti arbi- 
“ trarii, che non possono essere riferiti a cose reali , (ibid., pag. 348). E, oltre a 
ciò, allega ulteriori illustrazioni e argomentazioni a sostegno del proprio asserto. 


“I 
Dei 


LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. IC77) 


Terza Antinomia. 


Tesi. 


“ Secondo le leggi della Natura la Cau- 
salità non è la sola, da cui i fenomeni del 
Mondo nel lor complesso possano essere de- 
dotti. È anche necessario di ammettere, per 
la spiegazione de’ medesimi una Causalità me- 
diante Libertà (eine Causalitàt durch Freiheit),. 


DIMOSTRAZIONE. 


“ Si ammetta pure che non vi sia altra 
Causalità se non quella che è secondo le leggi 
della Natura, allora tutto ciocchè avviene pre- 
suppone uno stato antecedente, a cui imman- 
cabilmente segue secondo una Regola. Ma lo 
stato antecedente stesso dev'essere qualche 
cosa che è avvenuta (e avvenuta nel Tempo, 
perchè essa prima non era); per la ragione 
che, se fosse stata sempre (Jederzeit, in ogni 
tempo), la conseguenza di essa non sarebbe 
primamente sorta, ma sarebbe stata sempre. 
Dunque la Causalità della causa, per cui 
qualche cosa avviene è essa stessa (Causalità) 
qualche cosa di avvenuto, il quale, secondo la 
legge della Natura, suppone di bel nuovo uno 
stato precedente e la Causalità del medesimo, 
il quale presuppone alla sua volta uno stato 
di data anteriore (noch dlteren Zustand), e 
così di seguito. Se dunque avviene tutto sol- 
tanto secondo le leggi della Natura, vi è 
sempre un inizio (Anfang) subalterno, e 
giammai un primo inizio, ed in generale non 
vi è mai la compiutezza ( Vollstindigkeit) della 
Serie delle Cause orisinantisi l’una dall’altra. 
Ma la legge della Natura consiste appunto in 
ciò: che, cioè, senza una causa sufficiente- 
mente determinata 4 priorî, nulla avviene ,- 

Donde il Kant stima necessario “ doversi 
ammettere (ibid., pag. 354) una Causalità, me- 
diante la quale avvenga qualche cosa senza 
che la causa di questa sia determinata, se- 
condo necessarie leggi, da un’altra precedente, 
doversi, cioè, ammettere un’ assoluta sponta- 
neità delle Cause, perchè inizii da sè stessa 
una Serie di fenomeni che corra secondo leggi 
di Natura, e quindi una Libertà trascenden- 
tale, senza della quale, nel corso della Natura, 
la sequela (Reihenfolge) de’ fenomeni dal lato 
delle Cause non è mai compiuta ,. 


Serie II. Tox. LXIL 


ANTITESI. 
“ Non c’è alcuna Libertà, ma ogni cosa 
nel Mondo avviene puramente secondo leggi 
di Natura ,. 


DIMOSTRAZIONE. 


“ Si ammetta pure che vi sia una Libertà 
nell’Intelletto trascendentale (im transcenden- 
talen Verstande, nel senso trascendentale) sic- 
come una specie particolare di Causalità, se- 
condo cui potessero seguire (erfolgen) gli avve- 
nimenti del Mondo, cioè un Potere ( Vermogen) 
di iniziare uno stato e quindi di iniziare as- 
solutamente una Serie di conseguenze (Rezhe 
von Folgen) del medesimo: allora non sorge 
soltanto una Serie mediante questa Sponta- 
neità, ma sorge la stessa determinazione di 
questa Spontaneità per produrre la Serie, vale 
a dire, dovrà iniziarsi assolutamente la Cau- 
salità, in guisa che non preceda alcuna cosa 
per mezzo della quale l’azione avvenente sia 
determinata da leggi costanti. Ma ogni inizio 
di azione presuppone uno stato della Causa 
non ancora agente; e l’inizio dell’azione dina- 
micamente primo presuppone uno stato che 
non ha alcun legame (Zusammenhang) di Cau- 
salità con quello che precede la stessa causa, 
ossia non ne consegue in alcuna guisa. Dunque 
la Libertà trascendentale si oppone alla legge 
causale ,, ecc..... ‘“ Dunque non abbiamo niente 
altro che la Natura, nella quale dobbiamo 
cercare il legame e l’ordine degli avvenimenti 
del Mondo ,. Ibid., pag. 354. 


23 


178 PASQUALE D'ERCOLE 78 


Osservazioni alla terza Antinomia. 


In queste osservazioni non ricorre nulla di nuovo rispetto alle illustrazioni ed 
argomentazioni arrecate nella Tesi e nell’Antitesi. Si aggiungono soltanto ulteriori 
considerazioni per mostrare la rettitudine delle argomentazioni fatte e la necessità 
di ammettere, in virtù del modo di procedere degli avvenimenti mondani, ciocchè 
sostengono sì la Tesi che l’Antitesi. 


Quarta Antinomia. 


Tesr. 


€ Al Mondo appartiene qualche cosa, la 
quale è un Essere assolutamente necessario, 
o come Parte ovvero come Causa del mede- 
simo ,. 


DIMOSTRAZIONE. 


“ Il Mondo sensibile, siccome la totalità 
(das Ganze) de’ fenomeni, contiene una Serie 
di mutamenti. Giacchè, senza di questi non 
ci sarebbe data neppure la rappresentazione 
(Vorstellung) della Serie temporale siccome 
condizione della possibilità del Mondo sensi- 
bile. Ma ogni mutamento soggiace alla sua 
condizione, la quale secondo il tempo antecede 
(vorhergeht), e sotto la quale è necessaria (1). 
Intanto, ogni condizionato dato, rispetto alla 
sua esistenza, presuppone una Serie compiuta 
di condizioni fino all’ assolutamente Ineondi- 
zionato, il quale solo è assolutamente neces- 
sario ,. 

Ma la necessaria esistenza di un Essere 
assolutamente incondizionato dev’ essere ac- 
compagnata dalla esisenza che un sì fatto 
Essere non sia fuori del Mondo, ma nel Mondo 
stesso. Giacchè, “ se fosse fuori di esso (ibid., 
pag. 361), la Serie de’ cangiamenti mondani 
trarrebbe il suo inizio da esso, senza che questa 
Causa necessaria appartenesse al Mondo ,. 
Dunque è rel Mondo stesso che si contiene 
l’Essere assolutamente necessario, ecc. 


(1) È necessaria, cioè necessariamente avviene. 


ANTITESI. 


“ Non esiste da per tutto alcun Essere 
assolutamente necessario nè nel Mondo, nè 
fuori del Mondo come Causa del medesimo ,. 


DIMOSTRAZIONE. 


Giacchè “ si ponga pure che il Mondo 
sia, o nel Mondo vi sia un Essere necessario, 
in tal caso nella Serie de’ mutamenti mondani 
vi sarebbe un inizio (Arfang) incondizionata- 
mente necessario, e quindi senza una Causa, 
il che contraddice (widerstreitel) alla legge di- 
namica della determinazione (Bestimmung) di 
tutti i fenomeni nel tempo, ovvero la Serie 
sarebbe essa .stessa senza qualsiasi inizio; e 
benchè accidentale e condizionata nelle sue 
parti (i ihren Theilen), pur sarebbe nel tutto 
(im Ganzen) assolutamente necessaria ed in- 
condizionata, il che è contraddittorio; perchè 
l’esistenza di una moltitudine (Menge) non 
può essere necessaria quando nessuna parte 
di essa possiede un’esistenza in sè necessaria ,. 

“ Se, al contrario, sì ponga vi sia fuori 
del Mondo una Causa di esso (eine Weltur- 
sache) assolutamente necessaria, questa come 
il membro supremo (das oberste Glied) nella 
Serie delle Cause de’ mutamenti mondani, 
inizierebbe primamente l’esistenza e la Serie 
de’ medesimi. Ma allora dovrebbe anche co- 
minciare ad agire (iniziare l’azione), e la sua 
Causalità apparterrebbe al Tempo, e perciò al 
complesso de’ fenomeni, ossia farebbe parte 
del Mondo, ..... il che contraddice alla presup- 
posizione. Dunque non v'è nè nel Mondo, nè 
fuori di esso (con esso però in legame cau- 
sale) un Essere assolutamente necessario ,. 


«I 
[Yo] 


LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 179 


Osservazioni alla Quarta Antinomia. 


Quanto alla Tesi il punto principale delle osservazioni fatte dal Kant è che 
l'argomento sul quale egli fonda il sostegno della medesima è un argomento cosmo- 
logico, che muove dal condizionato per giungere attraverso la Serie delle condizioni 
«ad un Essere incondizionato. E aggiunge che “ il tentare la dimostrazione (ib., 
“ pag. 362) dalla semplice Idea di un Essere supremo rispetto a tutti gli altri esseri 
“ appartiene ad un altro principio della Ragione, e una tal dimostrazione sarà fatta 
“ in modo speciale ,. 

«“ Quanto all’Antitesi, osserva che anche per essa si è valuto di una argomenta- 
zione parimenti cosmologica, nella quale si è potuto validamente, secondo questa 
“ però, sostenere il contrario della prima ,. 

To continuo intanto la esposizione del pensiere di Kant rispetto al modo di con- 
cepire e risolvere l’Antinomia dell’Idea cosmologica, e dopo esporrò la mia opinione 
in proposito. 

Il Kant passa intanto in una terza Sezione a trattare “ dell’interesse della Ra- 
“ gione in questo conflitto ( Widerstreite) , antinomico, e trova che la Ragione vi ha 
un triplice interesse. Il primo è un interesse pratico, in quanto le quattro Tesi poste 
e dimostrate costituiscono, secondo il nostro filosofo (ib., pag. 370), “ tante pietre 
“ fondamentali (Grundsteine) della Morale e della Religione ,.Il secondo è un “ inte- 
“ resse speculativo (ib., pag. 371) ,, mostrantesi nella stessa opposizione fatta alla 
Tesi, con le opposte dimostrazioni dell’Antitesi; perchè è certo un vantaggio specu- 
lativo “ il potere cogliere (fassen) interamente « prior: tutta la catena delle condi- 
“ zioni, e comprendere la deduzione del condizionato, cominciando da un Incondizio- 
“ nato, che l’Antitesi non dà (leîstet) ,.Il terzo è un interesse che ha “ la preferenza 
“ (Vorzug) della popolarità, preferenza che non costituisce la parte minima , nell’in- 
teresse della Ragione. 


« 


Il filosofo di Konisberga, in una quarta Sezione passa a considerare i “ compiti 
“ trascendentali della Ragione pura, in quanto debbono assolutamente poter essere 
“ risolti (aufgelòset) ,. 

“ Voler risolvere (dic’egli, ib., pag. 377) tutti i quesiti sarebbe tal vantamento 
“ e tale eccessiva vanità, da perder presto ogni fiducia ,. E, d’altra parte, vi sono 
scienze che possono risolvere tutti i quesiti che sorgono in esse, ed altre che non lo 
possono. “ Nella spiegazione de’ fenomeni della Natura (ib., pag. 378) molte cose 
“ debbono rimanerci incerte, molti quesiti insoluti; perchè ciocchè sappiamo della 
“ Natura rispetto a quello che dobbiamo spiegare è di gran lunga insufficiente in 
“ tutti.i casi... 

Quanto alla Filosofia trascendentale, alla domanda se essa possa o non possa 
risolvere tutti i quesiti ed in quali limiti e in qual modo lo possa, Kant risponde: 
“ Io sostengo che la Filosofia trascendentale rispetto alla conoscenza speculativa abbia 
“ questo di proprio, che nessun quesito (/rage) che concerne un dato oggetto della 
“ Ragione pura sia insolubile ,. ...Senonchè in tal Filosofia trascendentale “ i quesiti 
rispetto ai quali si può dare con diritto (mit Recht) una risposta soddisfacente sono 
i cosmologici, risposta che concerne la qualità (Beschaffenheit, il modo di essere) 
dell’oggetto ,. 


« 


“ 


« 


180 PASQUALE D’ERCOLE so 


Di scienze razionali (Vernunftwissenschaften), che abbiano principii certi e pos- 
sano dare risposte soddisfacenti ai loro quesiti non ve n’ha che due altre, cioè la 
Matematica pura e la Morale pura. Rispetto alla prima di queste due non si è mai 
sentito dir da alcuno che “ per ignoranza delle condizioni , sia incerto il sapere 
= quale rapporto abbia il diametro col circolo .. E rispetto alla seconda, © nei Prin- 
=“ cipii generali de’ costumi non può esservi nulla d’incerto. perchè le sue massime 
“ (die Satze, ib., pag. 380) o non sono in modo alcuno e non hanno senso (sind 
“ sinnleer), ovvero debbono sorgere soltanto da’ nostri-concetti razionali ( Vernunft- 
= begriffen) .. Del resto, sozgiunge Kant (ib.. pag. 381), se non giungiamo alla solu- 
zione de’ quesiti proposti, non “ dobbiamo lagnarci dei limiti ristretti della nostra 
“ Ragione ,, e “ non attribuirne la colpa alla cosa che a noi rimane nascosta ,, ma 
“ dobbiam cercarne la causa nella nostra Idea stessa, la quale è un Problema che 
“ permette una soluzione. e per cui noi ostinatamente ammettiamo che alla nostra 
“ Idea corrisponda un reale oggetto .. 

Kant procede, in una quinta Sezione, a considerare le Antinomie dal punto di 
vista di una rappresentazione scettica rispetto ai quattro quesiti della Tesi e dell’An- 
titesi innanzi discorsi. 

Questa rappresentazione scettica e l'utile risultante da essa egli li intende in 
questo modo: che cioè egli torna a riesaminare criticamente gli argomenti cosmo- 
logici tanto della Tesi quanto dell’Antitesi. e trova che comunque questi argomenti 
paiano diritti, pur giungono a sostenere i secondi l'opposto di ciocchè sostengono i 
primi. Ora tale contraddicente conflitto di essi (dic’egli. ib., pag. 387) “ ci conduce 
“ al sospetto fondato, che le Idee cosmologiche . e il contrasto contraddittorio “ possan 
“ poggiare sopra un vuoto ed immaginario concetto rispetto al modo come ci è dato 
“ l'oggetto di tali Idee .. il qual sospetto ci può forse mettere “sulla traccia di 
“ scoprire la illusione (das Blendererk), che ci ha così lungamente fuorviati ,. 

Alla quinta succede una sesta Sezione pur concernente l’ Anfinomia delle Idee 
cosmologiche, e consistente nel sostenere “ l'Idealismo trascendentale come la chiave 
< della soluzione della Dialettica pura cosmologica .. 

A ricordo e determinazione di ciocchè Kant chiama Idealismo, egli dice qui 
(ib., pag. 388): “ Tutti gli oggetti di una possibile esperienza non sono altro che 
“ fenomeni, cioè semplici rappresentazioni (Vorstellungen). le quali, quando vengono 
“ rappresentate come esseri (Wesen) estesi, o Serie di mutamenti, non hanno alcuna 
“ fondata esistenza fuori dei nostri pensieri. Un così fatto concetto dottrinale (Lehr- 
 begriff) io chiamo l'Idealismo trascendentale .. 

Ad ulteriore determinazione dell’Idealismo trascendentale e a rimuovere ogni 
equivoco in proposito, soggiunge: * Il Realista in senso trascendentale fa di talî 
“ modificazioni della nostra Sensibilità Cose in sè sussistenti, e quindi fa di semplici 
“ rappresentazioni Cose in sè stesse .. è 

“ Si farebbe a noi un torto, se si volesse attribuirci un Idealismo empirico da 
“ Innga pezza screditato (rerschrieenen). il quale. mentre ammette la realtà dello 
“ Spazio, nega, o almeno trova dubbiosa l’esistenza degli esseri estesi in esso, e non 
“ ammette a tal riguardo alcuna distinzione sufficientemente dimostrabile. Quanto 
“ ai fenomeni del senso interno nel Tempo, nei quali non trova difficoltà di tenerli 
“ per Cose reali, sostiene persino che la esperienza interna a sufficienza e da sola 


DO 
i 


LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 181 


«“ dimostra la reale esistenza del suo obbietto (in sè stesso e con la determinazione 
“ del tempo) ,. 
Contrariamente a ciò 


“ 


il nostro Idealismo trascendentale (ibid., pag. 389) am- 
mette che gli oggetti della nostra intuizione sieno reali come sono intuiti nello 
“ Spazio, e come se ne rappresenta i mutamenti nel Tempo ,. “ Ma quello Spazio 
“ stesso e con questo il Tempo, e con essi entrambi, i fenomeni (die Erscheinungen) 
non sono Cose (Dinge), ma son soltanto rappresentazioni che non possono esistere 
“ fuori del nostro sentimento (Gemzità, come oggetto della coscienza) ,. 
Nella settima Sezione dell’Antinomia cosmologica Kant prende in considerazione 
“ la deliberazione critica della Ragione con sè stessa rispetto al conflitto (tre) 
cosmologico ,. ì 
Il nostro filosofo torna a considerare il procedimento delle argomentazioni cosmo- 
logiche finora fatte intorno alla Tesi ed all’Antitesi, e trova che esse sono regolar- 
mente fatte. E viene alla conclusione che “le dimostrazioni anteriormente fatte 
“ (ibid., pag. 400) intorno alle Antinomie non sono illusioni (Blendwerke), ma erano 
“ fondate, sotto la presupposizione però, che i fenomeni o il Mondo sensibile nel 
“ complesso erano Cose in sè stesse ,. 
Passa in una ottava Sezione pur concernente l’Antinomia predetta, a conside- 
rare il “ Principio regolativo della Ragione pura rispetto alle Idee cosmologiche ,. 
E in tal considerazione prende a norma della Ragione i seguenti principii: “ La 
« massima (Grundsatz, ibid., pag. 401) della Ragione è propriamente una Regola, 
“ che nella Serie delle condizioni di fenomeni dati prescrive un regresso, al quale 
“ non è mai permesso di arrestarsi ad un assolutamente Incondizionato ,. Ma tal Prin- 
cipio non è costitutivo; è però capace “ di estendere il concetto del Mondo sensibile 


“ 


“ al di là di ogni possibile esperienza ,. Ciò non ostante, è “ un Principio della 
« Ragiore che postula (postulirt, domanda) ciocchè deve avvenirci nel regresso, e non 
“ anticipa ciocchè è dato nell’oggetto prima di qualsiasi regresso. Perciò io lo chiamo 
un Principio regolativo della Ragione, mentre al contrario il principio dell’assoluta 


totalità della Serie delle condizioni, come data nell’oggetto (ne’ fenomeni) in sè 


stesso, sarebbe un Principio cosmologico costitutivo ,. 

Nella seguente nona Sezione, sempre intorno all’ Antinomia, tratta “ dell’uso 
“ empirico del Principio regolativo della Ragione rispetto a tutte le Idee cosmo- 
logiche ,. 

A maggiore illustrazione e determinazione di ciocchè Kant vuol qui fare, dice 
che, avendo dimostrata la (Ungiiltigkeit) invalidità della Ragione come Principio costi- 
tutivo, ora prende in considerazione “ la validità (die Giiltigkeit, ibid., pag. 406) del 
€ principio razionale come Regola della continuazione (Fortsetzung) e grandezza di una 
“ esperienza possibile ,. E fa questo rispetto a varii punti, che sono i seguenti. 

Il primo di questi punti è da lui designato come “ Soluzione della Idea cosmo- 
“ logica, concernente la totalità della composizione de’ fenomeni di un Tutto Mon- 
“ dano (Weltganzen, integrità del Mondo, ibid., pag. 407 segg.) ,. Il secondo è desi- 
gnato come “ Soluzione della Idea cosmologica, concernente la totalità della divisione 
“ di un tutto dato nella intuizione , (ibid., pag. 412 segg.). Segue a questi due punti 
un ferzo concernente la “ Soluzione delle Idee sì matematicamente che dinami- 
“ camente trascendentali ,. Un quarto punto di considerazione (ibid., pag. 418 segg.) 


182 PASQUALE D'ERCOLE s2 


(0.6) 


è quello intitolato: * Soluzione delle Idee cosmologiche, concernente la Totalità 
“ degli avvenimenti del Mondo dalle loro Cause .. Un quinto punto concerne (ibid., 
pag. 422 segg.) “ la Possibilità della Causalità mediante Libertà in unione (Vereinigung) | 
= colla legge generale della necessità naturale .. A questo quinto punto stesso fa 
seguire uno schiarimento (ibid., pag. 425 segsg.). Indi il Kant passa alla considera- 
zione di un sesto punto designato come * Soluzione (ibid., pag. 438) della Idea 
= cosmologica rispetto alla Totalità della dipendenza de’ fenomeni secondo la loro 
“ esistenza .. i 

Io credo di poter dire, senza tema di errare. che. ad onta dell’interesse che suscita 
tutto ciocchè pensa e scrive Kant, non escluso ciocchè pensa e scrive de’ mentovati 
sei punti, pur non di meno non vi sono punti veramente nuovi di trattazioni: sono 
gli stessi punti già trattati nelle Sezioni antecedenti con ulteriori illustrazioni e di- 
mostrazioni. 

Un punto, che possiam designare come settimo ed ultimo qui rilevato e trattato, 
ed anche assai brevemente (ibid., pag. 442-444), è quello intitolato: “ Osservazione 
* finale (Schl/ussanmerkung) rispetto a tutta l'Antinomia della Ragione pura .. 

Kant statuisce in proposito: * Finchè coi nostri concetti razionali abbiamo ad 
“ oggetto soltanto la totalità delle condizioni nel Mondo sensibile e ciocchè rispetto 
“ ad essa può avvenire in servizio della Ragione, le nostre Idee sono bensì trascen- 
= dentali, ma cosmologiche. Ma appena che noi poniamo l’/ncondizionato (del quale 
“ propriamente abbiam che fare) in ciocchè è fuori del Mondo sensibile, e quindi 
“fuori di ogni possibile esperienza, le Idee divengono irascendenti ., e, come tali 
“ divengono esse stesse oggetti (Gegenstande) . della Ragione pura. 

Importantissimo è intanto di notare che “ siffatte Idee trascendenti (ibid., pa- 
“ gina 443) hanno un oggetto soltanto intelligibile (intelligibelen), che è bensì per- 
“ messo di ammettere come oggetto trascendentale, del quale però non si sa nulla ., 
e che è una cosa soltanto intellettuale (Gedankending). Quanto a sì fatte entità intel- 
letiuali, non ricorrenti in una esperienza possibile. noi non possiamo formarcene un 
concetto se non secondo analogia. 

In generale poi, nell’uscire dal Mondo sensibile, il primo passo (der erste Schritt) 
che siamo obbligati a fare è quello della * ricerca dell'Essere assolutamente neces- 
“ sario, e da’ concetti del medesimo derivare (ableiten) i concetti delle altre cose, in 
“ quanto sono soltanto intelligibili ,. E tal ricerca il nostro filosofo la fa in quella 
parte della Dialettica trascendentale che si occupa dell’'Ideale. 


L’Ideale della Ragione pura. 


La maravigliosa precisione della mentalità di Kant, come già in ogni altra cosa 
finora trattata, si mostra anche qui rispetto all’/deale. Questa parola, secondo lui, 
benchè in senso non proprio (ib., p.446). avrebbe potuto essere adoperata già nella 
stessa Estetica trascendentale, a proposito del prodotto della fantasia (Einbildungskraft), 
il prodotto della quale è appunto un “ Ideale della sensibilità, perchè è il Modello 
“ (Muster, esemplare) non mai raggiungibile di una possibile intuizione empirica ,. 

Più su e dopo delle intuizioni sensibili fantastiche vengono i Concetti intellettivi 
(Verstandesbegriffe): per lor mezzo non possiamo * rappresentarci oggetti di sorta 


83 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 183 


(ibid., pag. 444), perchè privi delle condizioni della loro realtà oggettiva, e non 
essenti altro che la pura e semplice forma del pensare ,. 

Le /dee alla lor volta sono ancor più delle Categorie “ lontane dalla realtà og- 
gettiva, in quanto non si dà alcun fenomeno nel quale esse possano rappresentarsi 
in concreto ,. 

“ Ma ancor più lungi che la stessa Idea, sembra di esser lontano dalla realtà 
oggettiva quello che io chiamo l’Ideale, pel quale io intendo: l’Idea non soltanto 
in concreto, ma în individuo, ossia una singola Cosa non determinata, o determi- 
nabile soltanto mediante l’Idea ,. 

A. proposito dell’ /deale il nostro filosofo si riferisce naturalmente a PLATONE, 
dicendo (ibid., pag. 445): “ Ciocchè un Ideale è per noi, era per Platone una Idea 
“ dell’Intelletto divino ,. Non entro qui nella quistione e relativa opinione, se Pla- 
tone ammettesse un Intelletto divino come sede delle Idee. Il grande storico della filo- 
sofia, Zeller, nella monumentale Philosophie der Griechen, 2 Th., 1° Abth., 3° Aufi., 
Leipzig, 1875, pag. 557 segg., lo nega, e con ragione e documentazione. 

Ma l'importante a rilevare rispetto all’Ideale kantiano è che questo “ non è, come 
il platonico, creatore (schòpferisch), ma è però forza pratica (come Principio rego- 
“ lativo), e contiene in sè la possibilità della perfezione di certe azioni ,. Per la 
qual ragione “ sì fatti Ideali, benchè privi di realtà (esistenza) oggettiva, pur non 
“ sono a considerare come fantasmi (Hirngespinnste) ,. 

Una ulteriore determinazione del predetto Ideale è fatta da Kant nella susse- 
guente seconda Sezione, che tratta “ dell’/deale trascendentale (Prototypon transcen- 
“ dentale) ,. 

A proposito di esso il nostro filosofo statuisce le seguenti cose: “ La proposi- 
“ zione (Der Satz, ibid., pag. 448): Ogni esistente è in tutto e per tutto determinato, 
“ significa non solo che di ogni due opposti predicati dati, ma anche di tutti i pre- 
“ dicati possibili al predetto esistente ne spetta (2utomme, conviene) sempre uno ,. 
Espressa in altri termini, la predetta proposizione vale tanto quanto dire: “ Per co- 
“ noscere una cosa (ein Ding) compiutamente, bisogna conoscerne tutta la possibilità 
“ (alles Méogliche) e con ciò determinarla, sia affermativamente, sia negativamente ,. 

“ Quando noi consideriamo (ibid., pag. 449) tutti i possibili predicati non solo 
logicamente, ma anche trascendentalmente, ossia secondo il lor contenuto, che può 
essere in essi pensato 4 priori, troviamo che mediante alcuni di essi (predicati) 
vien rappresentato un essere, mediante altri un semplice non-essere ,. 

Se non che, “ anche mediante questo totale possesso (AWlbesttz, ib., p. 450) della 
“ realtà è rappresentato il concetto di una cosa in sè stessa come in tutto e per tutto 
determinato; e il concetto di un essere realissimo (entis realissimi) è il concetto di 
un unico essere, perchè di tutti i possibili opposti predicati se ne trova determi- 


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nato uno, cioè quello che appartiene assolutamente all’essere ,. Il qual concetto 
di un essere realissimo è poi “ l’unico Ideale propriamente detto (ib., p. 451), di cui 
“ è capace la Ragione umana ,. 

Onde segue anche che sì fatto “Ideale (ib., p. 452) è l'esemplare (Urbild, Pro- 
“ totypon) di tutte le cose, le quali tutte insieme sono copie difettive (ectypa) ,, che 
prendono da esso la materia (Stoff) della loro possibilità, “in quanto gli si appros- 


“< 


simano più o meno ,. Una ulteriore conseguenza di tale Ideale è che esso è “ l'Es- 


184 PASQUALE D'ERCOLE 4 


ci 


“ sere originario (ens originarium) ,, che, “ in quanto non ha un Essere superiore a 
“ sè, è l’Essere supremo (ens summum), e che, in quanto ogni cosa, come condizio- 
“ nata, gli è sottoposta, è appellato l’Essere degli esseri (ens entium). Se non che, 
“ tutto ciò non significa (bedeutet, esprime) il rapporto oggettivo di un reale oggetto 
“ verso altre cose. ma di una /dea rerso concetti (Idee zu Begriffen), e ci lascia in 
“ piena incertezza rispetto all'esistenza di un Essere di così singolare pregio , 

Quando noi ipostatizziamo (hypostasiren) il puro concetto (ib., p. 453) della Su- 
prema Realtà, o dell'Essere originario come quello “ dell'Essere unico, semplice, au- 
“ tosufficiente, eterno, ecc. nella incondizionata pienezza (Vollstindigkeit) di tutti i 
“ suoi predicati, abbiamo il concetto di Dio nel senso trascendentale, e così l' /deale 
“ della Ragione pura è oggetto di una Teologia trascendentale, come ho anche in- 
“ dicato innanzi ,. 

Nella terza Sezione Kant passa a trattare “ delle ragioni (o argomentazioni) 
= dimostrative (Beweisgriinden) della Ragione speculativa per giungere alla esistenza 
“ di un Essere supremo .. 

Prima di dire del numero e della natura degli argomenti dimostrativi dell’esi- 
stenza dell'Essere supremo, ossia dell’esistenza di Dio, prende in esame la mente 
umana ne’ procedimenti che tiene in proposito e trova appunto (ib., p. 459) che questa 
“ primamente, da una data esistenza (in ogni caso anche dalla mia propria) conclude 
“ all'esistenza di un Essere incondizionatamente necessario; secondamente, che io 
“ debbo considerare come assolutamente incondizionato un Essere, che contiene ogni 
“ realtà, e quindi ogni condizione. e che quindi sia trovato il concetto. della cosa, 
“ che conviene (sich schicki) alla assoluta necessità ., ece. Ma Kant trova che un tal 
procedimento sia giusto. E passa ad indicare i modi veramente tenuti dalla Ragione 
speculativa nell’argomentare all'esistenza di Dio, i quali modi, com’egli qui dimostra, 
on tre, e propriamente quelli dell'argomento ontologico, dell'argomento fisici 

(o cosmologico) e dell'argomento teleologico. 


L'argomento ontologico. 


Prima di venire alle indicate prove kantiane dell’esistenza di Dio. avverto il lettore 
che io, nella mia opera intitolata * Il Teismo filosofico cristiano teoricamente e storica- 
mente considerato ., ecc.. Torino, 1884, pp. 209-329. ho lungamente parlato e fatta 
esposizione di tali prove sì ne’ tempi precedenti a Kant, sì da quest’ultimo filosofo 
stesso; rimando quindi il lettore alla mia opera, facendogli in pari tempo conside- 
rare, che con tal rimando posso esser qui più breve nella esposizione delle prove 
kantiane. 

Nel rimandare il lettore alla mia opera, lo avverto di una cosa importante, ed 
è che Kant, già nel 1763, in unopera intitolata “ Il fondamento dimostrativo (Be- 
weisgrund) unicamente possibile di dimostrazione dell’esistenza di Dio , (Vedi Opere 
complete, ecc., vol. I, pp. 161-286), aveva creduto e tentato di dimostrare l’esistenza 
di Dio, allegandone persino quattro diverse dimostrazioni, delle quali però non ne 
riteneva legittima che una sola. Ciò fece nel tempo in cui egli era ancora seguace 
della filosofia teistico-wolfiana. Senonchè di questa stessa ei cominciò fin d’allora a 


S5 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGPELIANA, LCC. 185 


dubitare, allegando i motivi del dubbio, che già spuntava, per finir poi al pensiere 
critico della “ Critica della Ragion pura , del 1781. 

Ciò posto, vengo alla prova ontologica, che nella quarta Sezione ricisamente ei 
dichiara come “ dimostrativamente impossibile ,. 

A mostrare tale impossibilità egli ritorna a ciocchè innanzi è stato più volte 
detto, che cioè “ il concetto di un Essere assolutamente necessario (ib., p. 462) è un 
“ puro concetto della Ragione, ossia una pura e semplice Idea, la cui obbiettiva realtà 
“ non è di gran lunga dimostrata, sol perchè la Ragione ne ha bisogno ,. E sog- 
giunge: “ Voi avete già posta (begargen, ib., p. 465) una contraddizione, quando voi, 
“ sotto qual nome simulato (versteckien) si voglia, al concetto di una cosa che pen- 
“ saste unicamente secondo la sua possibilità, interpolaste (Rinein brachtet) il concetto 


della sua esistenza ,. Questa non è che “ una pura e semplice tautologia ,. 

E a conferma esemplificativa di ciò, allega il famoso esempio de’ 100 talleri. 
Cento reali (wirkliche) talleri non contengono menomamente più di cento possibili. 
“ Giacchè, come questi esprimono il concetto, e quelli l'oggetto e la sua posizione 
in sè stesso, così, nel caso che questo contenesse più di quello, il mio concetto 
non esprimerebbe l’oggetto tutto intero, e quindi neppure il concetto esatto del 
medesimo ,. Il nostro concetto di un oggetto può dunque (ib., p. 468) contenere 
“ ciocchè vuole e quanto vuole, noi dobbiamo uscire da tal concetto per dargli 


p 


(ertheilen) V'esistenza ,. 

“«“ Gli è perciò che (ib., p. 469) nel celebre argomento ontologico (cartesiano) 
« dell’esistenza di un Essere supremo dedotta da concetti, son perdute ogni pena e 
“ fatica; e un uomo potrebbe tanto meno diventar ricco di sapere per semplici Idee, 
= quanto un mercante di patrimonio (Vermòogen), se questo, per migliorare la sua si- 
“ tuazione, volesse aggiungere alcuni zeri al suo stato di cassa (Cassendestande) ,. 


L'argomento cosmologico. 


Nella quinta Sezione Kant già ricisamente annunzia “ la impossibilità di una 
“ prova cosmologica dell’esistenza di Dio , ; e ne adduce la ragione nel seguente modo. 

“ Era qualche cosa interamente innaturale (ib., p. 470) ed una semplice innova- 
“ zione di artificio di scuola il voler dedurre per mezzo di sottigliezze (ausklauben) 
“ da un'Idea del tutto arbitrariamente abbozzata (entworfenen) la esistenza stessa 
“ dell'oggetto corrispondente ,, procedimento, come abbiam visto innanzi, dovuto al 
bisogno che sente la Ragione di elevarsi alla necessità di un Essere superiore ed 
incondizionato. 

“ L'argomento cosmologico, che vogliamo ora investigare, mantiene il legame della 
assoluta Necessità colla suprema Realtà; ma, diversamente dall’antecedente, invece 
“ di concludere dalla suprema Realtà alla Necessità dell’esistenza, conclude piuttosto 
“ dalla incondizionata Necessità di un Essere supremo antecedentemente (2um voraus) 
data alla illimitata Realtà del medesimo, facendo entrare in carreggiata (ins Geleis), 
“ non so se in modo razionale o razionaleggiante (verniinftelnden), un modo almeno 
naturale di concludere ,. 

E, riferendosi a Leibniz, che appellò tal modo di ragionare e concludere a con- 
tingentia mundi, dice che tal modo di argomentazione suona così (ib., p. 471): “ Se 

Serie II. Tow. LXII. 24 


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n 


n 


186 PASQUALE D'ERCOLE 86 


“ qualcosa esiste, deve esistere un Essere assolutamente necessario. Ma esisto almeno 
“io stesso: dunque esiste un Essere assolutamente necessario. La minore contiene 
“ una esperienza, la maggiore esprime in generale la consecuzione (Sehlussfolge) da 
“ un'esperienza all'esistenza del Necessario. Dunque l'argomento comincia coll’espe- 
“ rienza, perciò non procede interamente a priori, od ontologicamente ,. 

Nell’esàme di questo argomento cosmologico dice che “ la Ragione speculativa 
“ (ib., p. 472) commette un’astuzia (List) palese ,. La quale astuzia è che essa co- 
mincia bensì dall’esperienza, ma argomenta in guisa che la vera forza probante del- 
l'argomento viene dall’argomento ontologico. “ È dunque (ib., p. 473) soltanto l’ar- 
“ gomento ontologico da puri concetti quello che nel così detto argomento cosmologico 
“ contiene tutta la forza probativa, e la pretesa esperienza è del tutto oziosa 
“ (miissig) ». 

Il grande Konisberghese entra in ulteriori illustrazioni ed argomentazioni per 
dimostrare tutta l’erroneità dell'argomento cosmologico, delle quali mi limito a rile- 
vare ancora che, secondo lui, tale argomento “ non solo è ingannevole (triglich), 
“ come l’ontologico, ma che, per giunta, merita il biasimo (dieses Tadelhafte) di com- 
“ mettere una ignoratio elenchi ,. Kant finisce per dire, ma dimostrandolo, che “ l’ar- 
“ gomento cosmologico contiene in sè ascoso (verborgen) tutto un nido (ein ganzes 
« Nest) di pretensioni dialettiche ,. È 

E giunge alla conclusione finale (ib., p. 481) che per tutte le considerazioni fatte 
“ l’Ideale dell'Essere supremo non è altro che un Principio regolativo della Ragione 
“ di vedere nel Mondo siccome tutto collegato, affinchè ne sorga una Causa auto- 
“ sufficientemente necessaria ,, per quindi “ affermarne la necessaria esistenza ,. 


L'argomento teleologico. 


Di questo argomento, appellato dal nostro filosofo anche argomento fisico-teo- 
logico, egli sostiene, nella sesta Sezione, come per tutti i precedenti, parimenti “ la 
“ impossibilità di dimostrazione ,. 

“Quando (dic’egli, ib., p. 483) nè il concetto di cose, nè l’esperienza di una 
“ esistenza in genere posson dare ciocchè è richiesto, non rimane che un sol mezzo 
“ a tentare, quello cioè, se una esperienza determinata, e quindi delle cose del Mondo 
“ presente, la loro qualità ed il loro ordinamento offrano una ragione dimostrativa 
“ (Beweisgrund), che possa esserci di aiuto a convincerci dell’esistenza di un Essere 
“ supremo ,. 

Ed egli stesso si sforza di esporre come la Ragione, nella osservazione delle 
cose ha dinanzi a sè “ un così incommensurabile (ib., p. 484) spettacolo di varietà, 
“ ordine, finalità, bellezza nell’immensità e nella illimitata divisione dello Spazio ,, 
scorge una tale “ catena di effetti e di cause, di mezzi e di fini, una regolarità nel 
“ sorgere e nello sparire , delle cose del Mondo, che gli ritorna sempre la stessa 
domanda e lo stesso pensiere, che “ la Totalità delle cose dovrebbe precipitare nel- 
“ l’abisso del Nulla ,, se non si ammetta qualche cosa, che “ fuori di questo stesso 
“ 


infinito contingente, esistendo per sè qual Causa originaria della propria origine, lo 
“ tenesse insieme e ne assicurasse la continuazione (Fortdauer) ,. Noi stessi (sog- 


DD 
=I 


LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 187 


giunge egli, ib., p. 486) non solo “ non ci opponiamo alla finalità ed utilità della 
“ Ragione nel procedere in tal guisa, ma dobbiam persino raccomandarlo ed inco- 
“ raggiarlo ,. 

Ma, ciò non ostante, “ non possiamo approvare le pretensioni che vorrebbero 
ridurre un tal modo dimostrativo ad una certezza apodittica encomiabile per sè 
stessa e non bisognevole di alcun favore e di alcun appoggio (Unterstitzung) 
estraneo ,. 


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E anche per l'argomento teleologico il Kant sostiene che esso “ non può giammai 
“ da sè solo dimostrare l’esistenza di un Essere supremo, ma che dev’esser lasciato 
“ all'argomento ontologico l’integrar questo mancamento (Marge) ,; sicchè è sempre 
questo che contiene l’unica ragion probante possibile, a cui la Ragione umana non 
può sottrarsi. 

Nè Kant si arresta a ciò nel suo esame critico, ma procede a trovare e rile- 

“i momenti principali del pensato argomento fisico-teologico ,, che sono i se- 
guenti: 1° “ Nel Mondo si trovano da per tutto segni chiari di un ordinamento 
“ secondo una determinata intenzione ,; 2° “ Alle cose stesse del Mondo tale ordi- 
namento è interamente estraneo ed accidentale ,, se non venga posto “ in fondo 
ad esse da un Principio ordinante ,; 3° “ Esiste dunque una Causa superiore e 
sapiente (o più d’una), che sia Causa del Mondo non per cieca onnipossanza della 
Natura, ma dotata d’Intelligenza operante con Libertà ,;4° “ L’unità di tal Causa 
si lascia concludere dalla stessa reciproca relazione delle parti del Mondo ,. 

Ciò posto, esaminando questi stessi quattro momenti rilevati, li fa seguire, pri- 
mamente, da una spiegazione di essi secondo la Ragione naturale, secondamente da 
una spiegazione de’ medesimi secondo la Ragione critico-speculativa. 

Quanto alla prima spiegazione, egli dice di comprendere bene che la Ragione 
naturale proceda secondo “ l’Analogia di alcuni prodotti naturali ,, confrontati con 
quelli dell'Arte umana (“ per es., con quelli di Case, Navigli, Orologi ,), e che, 
mediante tale Analogia “ concluda ad una Causalità dotata d’Intelligenza e Volontà ,, 
ossia, “ concluda ad un’Arte sovrumana ,; conclusione, che “ la più acuta Critica 
“ trascendentale non potrebbe tener per legittima ,. 

Quanto alla seconda spiegazione, quivi stesso, con la sua mente geniale altis- 
sima e larghissima, egli soggiunge subito dopo che a tal Ragione naturale, così pro- 
cedente e argomentante, avviene pur troppo “ di far violenza (Gewalt) alla Natura, 
“ facendola procedere non secondo i suoi proprii fini, ma accomodandola ai fini nostri, 
“ derivando da un’altra, cioè da un’Arte sovrumana (ibermenschlichen Kunst) , “ la 
“ possibilità (lo noti il lettore, è questa la maravigliosa e geniale spiegazione della 
propria Ragione critico-speculativa) della Natura liberamente operante, Natura che 
rende possibile ogni Arte e forse primamente la stessa Ragione ,. 

E termina con questo monito: “ Ed ora voglio sperare (ib., p. 489) che qualcuno 
non osi di tenere (einzusehen) il rapporto della grandezza (secondo estensione e 
contenuto) del Mondo da lui osservata per onnipossanza; dell’ ordine del Mondo 
per suprema sapienza; della unità del Mondo per l’assoluta unità dell’autore (del 
creatore) ,, ecc. - 


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188 PASQUALE D'ERCOLE 88 


“ Critica di ogni Teologia da Principii speculativi della Ragione ,. 


Esaurito l'esame critico de’ tre considerati argomenti dell’esistenza di Dio, non 
che delle speciali osservazioni rispetto a ciascuno de’ medesimi, Kant affronta la 
generale critica della Teologia, che ha appunto ad obbietto la considerazione e di- 
mostrazione di essi. 

E innanzi tutto, a rimozione di frantendimenti intorno alla Teologia di cui qui 
è parola. Kant ricorda doversi distinguere due specie di Teologia (ib., p. 491), una 
considerante e dimostrante l’Essere originario “ secondo la pura Ragione ,, theologia 
rationalis, altra secondo la Rivelazione, fheologia rerelata. Suddistingue, inoltre, la 
prima di queste in Teologia trascendentale, che pensa il suo oggetto soltanto me- 
diante la pura Ragione e per via di semplici concetti trascendentali (ens originarium, 
realissimum, ens entium). e in Teologia naturale. che pensa il suo oggetto mediante 
un concetto, che impronta, qual suprema Inielligenza dalla Natura (della nostra 
anima). Chi ammette soltanto una Teologia trascendentale si chiama Deista, e chi 
ammette anche una Teologia naturale si chiama Teista. Îl primo concede che noi 
possiamo in ogni caso conoscere l’esistenza di un Essere originario (Urwesens) me- 
diante la pura Ragione; ..... il secondo sostiene che la Ragione possà più vicina- 
mente determinare il suo oggetto secondo l'analogia, cioè siccome un Essere che 
sia il fondamento originario di tutte le altre cose mediante Intelligenza e Libertà, ece. 

Omettendo altre distinzioni, in cui pure entra l’immortale filosofo, una cosa è. 
chiara, ed è che la Critica che egli qui fa è di ogni Teologia in genere, la quale 
poggi sopra Principii speculativi della Ragione. 

E rispetto a tale Critica ei fa qui una distinzione, che, mentre da una parte 
conduce all’insostenibilità del procedimento e degli effetti della speculazione teoretica 
della Teologia. conduce, dall'altra, per via pratica, alla soluzione, da Kant tenuta 
vera, del problema critico-teologico dell’esistenza di Dio. A tal fine egli scrive ciocchè 
segue. 

“ Io mi contento qui (dic’egli, ib., p. 492) di dichiarare la conoscenza #eoretica 
5 per una sì fatta, mediante cui io conosco ciocchè esiste (da ist). e la pratica per 
“ una sì fatta, mediante cui io mi rappresento (rorstelle) ciocchè dere essere (da seyn 
“ soll). Conformemente a ciò, l’uso teoretico della Ragione è quello, mediante il quale 
“ io a priori conosco (come necessario, als nothwendig), che qualche cosa sia, ma l’uso 
“ pratico è invece quello, mediante cui si conosce ciocchè deve avvenire .. E “ noi 
“ (ib.. p. 493) mostreremo in seguito delle leggi morali. che esse non solo presup- 
= pongono l’Esistenza di un Essere supremo, ma che sono anche, per altra conside- 
“ razione, assolutamente necessarie, e che a ragione postulano (postuliren), a dir vero 
“ soltanto praticamente, la predetta esistenza di un essere Supremo. Per ora lasciamo 
“ da banda questo modo di concludere .. 

Quanto al procedimento teoretico speculativo, “ io sostengo (ib., p. 495) che 
“ tutti i tentativi di un uso soltanto speculativo della Ragione rispetto alla Teologia 
sono tutti infruttiferi, e, per la loro intima natura, interamente nulli (null und 
nichtig) .. E tale risultato critico della Ragione teologica speculativa rincalza con 
ulteriori considerazioni tratte da ogni banda. E finisce sempre per trovare che, finchè 


LA 


” 


89 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 189 


la Ragione teologica speculativa conclude da concetti razionali, non può uscir da sè, 
e se esce da sè e li ipostatizza, allora si fa trascendente, e tutti i suoi ragionamenti 
sono sofistici. Dunque la Teologia è incapace di dimostrare il suo oggetto, della 
quale incapacità fa altre analisi dimostrative, e perviene alla seguente conclusione 
finale. 

“ Oramai (dic’egli, ib., p. 527) possiamo porre chiaramente dinanzi agli occhi il 
risultato di tutta la Dialettica trascendentale, e determinar con precisione l’inten- 
dimento finale (die Endabsicht) delle Idee della Ragione pura, le quali divengono 
dialettiche soltanto per frantendimento e mancanza di cautela. La Ragione pura, 
infatti, non si occupa nè può occuparsi che di sè stessa, perchè ad essa son dati 
non gli oggetti per l’unità del concetto sperimentale, ma i concetti intellettivi 
(Verstandesbegriffe) per l’unità del concetto razionale (Vernunftbegriffes), ossia del- 
l’unione (des Zusammenhanges) in un principio ,. 4 

“ E questa unità sistematica stessa la Ragione non la può pensare altrimenti 
che dando alla sua Idea un oggetto, il quale non può esser dato da alcuna espe- 
rienza, perchè l’esperienza non offre mai un esempio di perfetta unità sistematica. 
Questo Essere della Ragione (es rationis ratiocinatae, cioè questo Essere concepito 
dalla Ragione) è soltanto una semplice Idea, e non vien mai preso come qualche 
cosa di assolutamente reale in sè stesso, ma posto a fondamento (zum Grunde 
gelegt) soltanto problematicamente per vedere il legame delle cose del Mondo sen- 
“ sibile in guisa da pensarle fondate in questo Essere razionale , 

Siechè dunque la Idea dell'Anima, la Idea del Mondo e la io di Dio vengono 
accolte e son concepite soltanto siccome Principi regolativi, e quando la Ragione da 
trascendentale si fa trascendente e ne afferma la realtà oggettiva fuori della Ra- 
gione, non fa che ragionamenti sofistici (quali sono quelli di ignava ratio, faule 
Vernunft; di ragione pervertita, verkehrte Vernunft, Boteoov modtegov rationis: e di 
Causa ipostatizzata, ragione confusa. Vedi ib., pp. 528-536). 

E, avendo terminata la esposizione dell’Estetica, dell’Analitica e della Dialettica 
trascendentali, passo all’ultima parte della Ragion pura, cioè alla Metodologia tra- 
scendentale. 


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CS 


La Metodologia trascendentale. 


“ Per Metodologia trascendentale (dice Kant subito, ib., p. 547) intendo la de- 
“ terminazione delle condizioni formali di un sistema compiuto della Ragion pura , 
E soggiunge che a tale intento “ avrem che fare con una Disciplina, con un Canone, 
“con una Architettonica e finalmente con una Storia della Ragion pura ,; e quello 
che con ciò si effettuerà “ costituirà una Logica pratica ,. 

La Disciplina della Ragion pura. 

Il nostro filosofo rileva innanzi tutto due cose. L’una è che “la Disciplina (ib., 
“ p. 550) è a distinguere dalla Coltura, la quale non deve procacciare altro che una 
«“ destrezza (Fertigkeit) senza bisogno di sopprimerne un’altra esistente ,. La seconda 
è che qui “ nella Disciplina della Ragion pura non si ha di mira (ib., p. 551) il con- 
“ tenuto, ma soltanto il metodo della conoscenza secondo la stessa Ragion pura ,. 

Ciò posto, passa a considerare la Disciplina sotto varii rispetti; che accennerò 
brevemente. 


190 PASQUALE D'ERCOLE 90 


Il primo di tali rispetti è quello concernente “ la Disciplina della Ragion pura 
= nell'uso dommatico ., nel qual rispetto quella che offre “ il più splendido esempio 
= (das glinzendsie Beispiel) è la Matematica .. E ad illustrazione di ciò. rilevando la 
differenza della conoscenza filosofica dalla conoscenza matematica, statuisce alcuni 
punti cardinali di quest'ultima. 

= La conoscenza filosofica (dic'egli. ib.. p, 552) è la conoscenza razionale da con- 
cetti (aus Begriffen); la conoscenza matematica è la costruzione de’ concetti. Costruire 
un concetto significa esporre (darstellen) la intuizione a priori corrispondente al 
medesimo ,..... “ La conoscenza filosofica (ib., p. 553) considera il particolare nel 
generale, la conoscenza matematica il generale nel particolare, sì persino nel sin- 
golo ,. Inoltre, “ la Matematica costruisce non soltanto grandezze (Quanta) come 
“ la Geometria, ma anche la semplice quantità (Quantifatem) ,, e “ si sceglie in 
“ genere una certa designazione (Bezeichnung) di tutte le costruzioni di grandezze 
“ (numeri, per es., di addizione, sottrazione, ecc.), estrazione della radice, ece. .. 

Ma il fondamento della Matematica, rileva Kant, poggia sopra Defirizioni, As- 

siomi e Dimostrazioni, e determina sul fondamento. 

1° Le Definizioni. © Definire. come lo indica la stessa espressione (ib., p. 562) 
“ deve significare non altro che esporre originariamente il concetto particolareggiato 
“ (ausfuhrlichen) di una cosa ne' limiti della medesima. Secondo una tale esigenza, 
“ un concetto empirico non può esser definito, ma soltanto esplicato {erpliciri) ,. 

2° Gli Assiomi. © Questi sono (ib., p.566) principii (Grundsàtze) sintetici a priori, 
“ in quanto sono immediatamente certi ,. Nella Filosofia “ non ricorre alcun prin- 
cipio che meriti il nome di Assioma. La Matematica, invece, è capace di Assiomi, 
“ perchè essa, mediante la costruzione de’ concetti nella intuizione dell'oggetto può 
© unire (rerknipfen) a priori ed immediatamente i predicati del medesimo, come, 
per es., che tre punti son sempre in un piano. Al contrario, un principio sintetico 
non può mai essere immediatamente certo per semplici concetti. come è, per es., 
il caso della proposizione: Tutto ciocchè avviene ha la sua cagione: perchè io non 
“ posso conoscere direttamente da’ concetti una tale proposizione, ma debbo pensare 
“ ad una terza cosa (einem Dritten), cioè alla condizione della determinazione del 
“ tempo in una esperienza. Ì principii discorsivi son dunque ben altro che gl’intui- 
tivi, ossia Assiomi ,. 

3° Le Dimostrazioni. © Soltanto una dimostrazione apodittica (ib., p. 567), in 
quanto essa è intuitiva, può chiamarsi dimostrazione. L'esperienza c'insegna ciocchè 
“ esiste, non però che esso non possa essere altrimenti; quindi fondamenti (Beweis- 
© griinde, ragioni) empirici non possono dare alcuna dimostrazione apodittica. Da 
“ concetti a priori (nella conoscenza discorsiva) non può mai sorgere certezza in- 
“ tuente, ossia evidenza, per quanto, del resto, il giudizio può essere apoditticamente 
certo. Solo la Matematica dunque contiene dimostrazioni, perchè essa non deriva 
“ la sua conoscenza da concetti, ma dalla costruzione di essi, ossia dalla intuizione, 
che può esser data a priori come corrispondente ai concetti ,. 

Dopo di ciò Kant considera la Disciplina della Ragion pura “ rispetto al suo 
uso polemico .. 

“ Per uso polemico della Ragion pura (dic’egli. ib.. p. 572) io intende la difesa 
de’ suoi principii (ihrer Saize) contro le negazioni (Verneinungen, opposizioni) dom- 


n 


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n 


91 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, BOC. 191 


“ matiche. Qui non è quistione se le sue affermazioni non possano essere anche false, 
“ ma soltanto, che nessuno possa mai sostenere il contrario con certezza apodittica 
€ (sì anche soltanto con maggiore apparenza, Scheîme) ,. Il modo di comportarsi in 
proposito è che “ la Ragione dell'avversario (ib., p. 575) sia combattuta colle armi 
« della Ragione ,. 

Di sì fatti combattimenti polemici non c'è da impensierirsi nè dispiacersi; essi 
contribuiscono anzi (ib., p. 577) a render matura la Critica. 

Un altro punto della Disciplina considerato da Kant è quello della “ impossi- 
« bilità di una soddisfazione speculativa della Ragione pura discorde con sè stessa ,. 

L'essenziale di questo punto consiste in ciò, che Kant considera ed enumera i 
passi che fa la Ragione pura nella sua esplicazione e costituzione critica. Questi 
passi secondo lui son tre. Il primo è quello dommatico già indicato (ib., p. 587), e 
che può essere designato “ come l’età infantile (Kindesalter) della Ragione ,. Il se- 
condo è quello del dubbio (Zweifel); è “ il passo scettico, ed è indice (2eigt) della 
“ cautela della Forza giudicatrice fatta accorta (der gewitzigten Urtheilskraft) dalla 
“ necessario, quello dell’età virile e matura 
della Forza giudicatrice, che poggia sul fondamento di massime salde e provate 
dalla generalità ,: terzo passo, che è quello della “ Critica della Ragione, mediante 
la quale vengono, non soltanto presupposti, ma dimostrati per via di principii (aus 
Principien) non i soli limiti (Schranken), ma anche i confini determinati della stessa, 
nè soltanto ignoranza in una od altra parte, ma rispetto a tuttii possibili quesiti 
(Fragen) di una certa specie ,. 


(A 


esperienza ,. Ma vi è un terzo passo 


Una delle cose notevoli a proposito del mentovato triplice passo è la conside- 
razione e giudicazione di Hume (pp. 589-592), “ che è forse il più ingegnoso (der 
“« geiîstreichste) tra tutti gli scettici, e indubitabilmente il migliore (der vorziiglichste) 
“ rispetto all’influsso esercitato ,. 

Altro punto importante considerato rispetto alla Disciplina è quello concernente 
l'ipotesi; e si esprime in proposito così: 

“ Se dunque (dic’egli, ib., p. 594), mediante la Critica della nostra Ragione, 
“ sappiam finalmente, che noi nel suo puro e speculativo uso sappiam di fatto (en 
“ der That) che non possiam nulla sapere, non dovrebbe forse aprirsi un più largo 
“ campo alle ipotesi? ,. 

Le ipotesi, naturalmente, si posson sempre fare; però si richieggono certe con- 
dizioni che le rendano ammissibili. 

Una prima condizione è che “ una ipotesi trascendentale (ibid., pag. 596), nella 
“ quale una semplice Idea della Ragione fosse adoperata a spiegazione (Erk/drung) 
“ delle cose naturali, non sarebbe una spiegazione, perchè ciocchè non s'intende ab- 
“ bastanza mediante noti principii empirici verrebbe spiegato mediante qualche cosa, 
“ della quale non si comprende nulla ,. 

“ Una seconda condizione richiesta per l'ammissione d’una ipotesi è la suffi- 
cienza (ibid., pag. 597, Zulinglichkeit) della medesima a determinare @ priori le 
conseguenze date ,. Se è insufficiente “ bisogna ricorrere ad altre ipotesi ,. 

“ Le ipotesi (soggiunge, ibid., pag. 599) nel campo della Ragion pura son. per- 
messe come armi di guerra (Kriegswaffen), non per fondarvi su un diritto, ma sol- 
tanto per difendersi ,. o 


“ 


“ 


192 PASQUALE D'EKCOLE 92 


E conchiude © risultare dall’anzidetto {ibid., pag. 602) che nell’uso speculativo 
= della Ragione le ipotesi non hanno alcuna validità come opinioni in sè stesse, ma 
= soltanto relativamente ad opposte pretensioni (Anmaassungen) trascendenti .. 

L'ultimo punto considerato rispetto alla Disciplina della Ragione pura è quello 
concernente le sue dimostrazioni (Beweise). Rispetto al qual punto Kant ritorna in 
grosso sulle stesse ragioni già antecedentemente allegate intorno alla possibilità e 
validità delle dimostrazioni della Ragion pura critica. 

Queste ragioni si possono riassumere in ciò, che “ la Ragione (ibid., pag. 603) 
=“ in sì fatte dimostrazioni avvenenti mediante concetti non deve riferirsi all’oggetto, 
“ ma deve prima esporre la validità dei concetti stessi e la possibilità della sintesi 
= de medesimi a priori. Questo costituisce non una semplice regola necessaria di 
5 precauzione, ma l'essenza stessa delle dimostrazioni .. 

Ad additare errori e sofismi in proposito, adduce delle regole, e propriamente 
le seguenti tre. 

“ La prima regola è questa (ibid., pag. 606). di non tentare alcuna dimostra- 
“ zione trascendentale senza aver prima riflettuto e giustificato onde yoglian trarsi 
“ i principii, su’ quali si pensa di fondare (errichfen) e con qual diritto si possa at- 
“ tendere da esse il buon successo de’ ragionamenti (Schlisse) ,. 

= La seconda proprietà de’ giudizii trascendentali è questa, che per ogni pro- 
5 posizione (Safz) trascendentale possa esser trovata soltanto una sola dimostrazione .. 
La ragion di ciò è che “ come ogni proposizione trascendentale muove da un con- 
“ cetto e pone la condizione sintetica della possibilità dell'oggetto secondo questo 
“ concetto ., così “ la dimostrazione non può esser che una sola, perchè fuori di tal 
* concetto l'oggetto non potrebbe esser determinato .. ; 

Ciò s'intende detto anche “ per la dimostrazione trascendentale (ibid., pag. 608) 
° dell’esistenza di Dio, perchè tal dimostrazione poggia sulla reciprocabilità de’ con- 
“ cetti dell'Essere realissimo e necessario, e non può esser cercata in altro modo ,. 
Perciò. soggiunge egli. “ quando si vede il dommatico farsi innanzi con dieci argo- 
“ menti, si può con certezza credere che egli non ne ha alcuno .. 

La terza regola è che le dimostrazioni trascendentali di una Disciplina “ non 
“ debbono essere mai apagogiche, ma sempre ostensire. La dimostrazione diretta od 
“ ostensiva è in ogni specie di conoscenza quella che alla convinzione della verità 
“ unisce le sorgenti (Quellen) della medesima. La dimostrazione apagogica, al con- 
“ trario, può produrre certezza. ma non comprensibilità della verità rispetto al legame 
“ (Zusammenhanges) coi motivi della loro possibilità .. Il modo dimostrativo apago- 
gico (ibid., pag. 611) è “ anche la vera illusione (Blendwer4) da cui sono stati sempre 
“ tenuti a bada (hingehalten, menati pel naso) gli ammiratori della fondatezza de’ 
° nostri argomentatori dommatici .. 

Ed ora veniamo alla seconda parte della Metodologia trascendentale, cioè al 
Canone. 


Il Canone della Ragion pura. 


Inizia questa seconda parte con queste notevoli parole: “ È umiliante (demithigend) 
© per la Ragione umana, che essa nel suo puro uso (nella sua pura esercitazione) 
° non riesce a nulla (nichés ausrichtet), ed ha persin bisogno di un’altra Disciplina 


93 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 193 


per frenave i proprii traviamenti (Aussehweifungen), e per evitare le illusioni 
(Blendwerke) che ne provengono ,. 

Venendo alla natura e significato del Canone, serive: “ To intendo, in generale, 
per Canone (ibid., pag. 614) il complesso de’ principii @ prior? del retto uso di 
certe potenze conoscitive. Così la Logica generale nella sua parte analitica è, in 
generale, un Canone per l’Intelletto e la Ragione, però soltanto secondo la forma, 
perchè essa astrae da ogni contenuto ,. 

Ed ora, ecco i punti fondamentali, secondo cui. Kant considera il Canone. 

Il primo punto è quello di considerarlo secondo “lo scopo finale dell’uso della 
nostra Ragione ,. “ La Ragione (dic’egli, ibid., pag. 615, a tal riguardo) è spinta 
da una sua propensione naturale (Hang <hrer Natur) di elevarsi al di sopra del- 
l'uso dell'esperienza, di arrischiarsi (sich wagen) in un uso puro e per via di sem- 
plici Idee fino agli estremi limiti di ogni conoscenza, e, nel compimento della sua 
orbita (ilres Areises), di trovar posa (Ruhe, quiete) in un tutto sistematico consi- 
stente in sè stesso. Ma questa aspirazione (Bestredung) è essa fondata sul suo inte- 
resse speculativo, ovvero piuttosto sul suo solo interesse pratico ? ,. Come il 
lettore tosto vedrà, tale aspirazione è fondata specialmente sopra la pratica della 
Ragione, ma vi troverà interessato anche l'elemento speculativo o teorico, sicchè i due 
elementi finiscono per congiungersi e integrarsi. 

Intanto, badi il lettore, che qui Kant tenta quella tale già annunziata soluzione 
del problema dialettico trascendentale con la corrispondente prova dell’esistenza di un 
Essere sommamente intelligente e perfetto, cioè di Dio; e procede come segue. 

“ L'intento finale, dic'egli, cui mira la speculazione della Ragione nell’uso tra- 
scendentale, concerne #re oggetti: la Libertà della volontà, l'immortalità dell’anima, 
“ e l'esistenza di Dio ,: tre punti cardinali, che, se non sono propriamente necessarii 
per l'elemento conoscitivo (zum Wissen), sono assai importanti per l'elemento pratico 
(das Praktische). i 

«“ Pratico (ibid., pag. 617) è tutto ciò che è possibile mediante Libertà ,; e 
“ tutto l'apparecchio (die ganze Zuriistung) della Ragione è rivolto , ai tre predetti 
punti cardinali, costituenti un friplice problema: cioè: “ Che cosa deve farsi, quando 
“ il Volere è libero, quando un Dio esiste e quando vi è un Mondo futuro? ,. 

La Libertà intanto, distinta dal libero arbitrio (freie W.22kihr, arbitrium liberum), 
costituiscono, uniti, ciocchè si appella la Pratica, la Ragione pratica, e, ad un tempo, 
l'elemento morale propriamente detto. Inoltre, “ sì fatta Ragione (ibid., pag. 619) dà 
“ anche Leggi, che sono Imperativi, ossia Leggi oggettive della Libertà, e che indi- 
“ cano (sagen, dicono) quel che deve avvenire (geschehen soll) ». 

Ciò posto, viene il Kant alla Sezione che tratta “ dell’ Ideale del sommo Bene 
“ come motivo determinante dello scopo finale della Ragione ,; e tenta ed effettua 
la mentovata soluzione del problema dialettico trascendentale. 

Visto, dic’egli, ibid., pag. 620, che la Ragione nel suo uso speculativo non rag- 
giunge mai “ un pieno soddisfacimento (vUllige Befriedigung) ,, vediamo se questo 
sia da essa raggiungibile nel suo uso pratico. 

Tutto l’interesse della mia Ragione (sì speculativo che pratico) si riunisce nelle 
seguenti tre domande (Fragen, quesiti): 

Segig II. Tox LXIIL 25 


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194 PASQUALE D ERCOLE 94 


1° Che cosa posso sapere? 
2° Che cosa debbo fare? 
3° Che cosa posso sperare ? 

La prima domanda è soltanto De nr e il lettore conosce tutte le risposte 
ad essa date. 

“ La seconda (ibid., pag. 621) è soltanto pratica. E come tale può bensì appar- 
“ tenere alla Ragione pura, ma allora non è trascendentale, ma morale, e quindi non 

“ può occupare la nostra Critica in sè stessa , o 

“ La ierza domanda, cioè: Quando fo cioechè debbo, che cosa posso sperare i 
“ è pratica e teorica insieme ,; e come “sperare (foffen, speranza) mira alla 
“ Felicità ,. 

= La legge pratica per motivo di Felicità io la chiamo prammatica (regola di 
= prudenza, Klugheitsregel): ma chiamo morale (Sittengesetz) ciocchè siccome movente 
* (Bewegunsgrund) non ha altro che l’esser degno di esser felice (die Varta 

« glicklich zu seyn) .. 

A complemento degli elementi necessari alla dimostrazione, allega anche la 
distinzione di Mondo morale e Mondo intelligibile. © Chiamo il Mondo (ibid., pag. 623) 
“ morale, in quanto conforme a tutte le leggi morali (sifflichen) ,. Tal Mondo è poi 

* pensato soltanto come intelligibile, perchè in esso si fa astrazione da tutte le con- 
= dizioni (fini) ed anche da tutti gl’impedimenti (Hindernissen) della morale debolezza, 
" o impurità dell'umana natura ,. 

“ Ora {continua egli, ibid., pag. 624), in un Mondo intelligibile, ossia nel Mondo 
“ morale, nel cui concetto noi astraiamo da tutti gl’impedimenti della costumatezza 
“ (inclinazioni), si lascia pensare anche come necessariamente congiunto colla mora- 
* lità un sistema della proporzionata Felicità .. E la proporzione della Felicità im- 
porta una ricompensa di essa, quando “ uno fa ciocchè deve ,. 

Se non che, si può sperare la Felicità, quando * a fondamento di essa sì pone 
“ non soltanto la Natura, ma una Ragione suprema ,, che mentire * comanda (gebietet) 
“ secondo le leggi morali viene insiememente posta a fondamento siccome Causa 
“ (Ursache) della Natura .: e Causa congiunta ad Intelligenza. 

“ La Idea di una sì fatta Intelligenza, in cui il volere moralmente più perfetto 
“ è congiunto colla suprema beatitudine (Seligkeit, felicità). ed è la causa d'ogni Feli- 
“ cità nel Mondo, in quanto è in preciso rapporto colla costumatezza (come degnità 
“ di esser felice), la Idea di sì fatta Intelligenza, dico, io la chiamo l'/deale del 
* Sommo Bene ..Il1 quale Ideale del Sommo Bene perciò congiunge insieme necessa- 
riamente il Mondo intelligibile e il Mondo morale. 

“ La costumatezza (Sifilichkeit) costituisce un sistema, il quale è possibile nel 
“ Mondo intelligibile sotto un sapiente Autore (Urheber) e Reggitore ,. Giacchè sol- 
tanto con sì fatto Autore e Reggitore chi spera sa che saranno effettuate le pro- 
“ messe (Verheissungen) e le minacce , 

“ Le ieggi morali (ibid.. pag. 626), in quanto divengono ad un tempo motivi 
“ soggettivi delle azioni, cioè principii soggettivi, si appellano Massime. La giudica- 
* zione della costumatezza, secondo la purità e le conseguenze avviene secondo Idee; 
* l'osservanza (Befolgung) delle sue leggi avviene secondo Massime ,. 

“ È necessario che tutto l'andamento della nostra vita sia sottoposto a Massime 


95 LA LOGICA ARISTOPELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 195 


“ costumate (sittlichen); ma è però insiememente impossibile che ciò avvenga, se la 
“ Ragione alla legge morale, che è una semplice Idea, non congiunge una Causa effet- 
“ trice (wirkende Ursache), che al comportamento conforme alla legge morale non 
“ determini un esito (4vsgang) corrispondente ai nostri supremi fini, sia in questa 
“ vita, sia in un’altra. Senza dunque un Dio ed un Mondo per noi ora invisibile ma 
“ sperato le magnifiche (herrlichen) Idee della costumatezza sono bensì oggetti di 
“ approvazione e ammirazione, ma non sono stimoli (Tyiebfedern) del proposito e della 
esercitazione ,. 
“ Questa teoria morale (ibid., pag. 627), a confronto della speculativa propria- 
“ mente detta, ha il privilegio (Vorzug) che essa conduce immancabilmente al con- 
“ cetto di un unico Essere originario (Urwesen) perfettissimo e razionale ,. 
Kant fa però osservare che, “ quando la Ragion pratica (ibid., pag. 630) ha rag- 
“ giunto questo punto elevato, ossia il concetto di un unico Essere originario qual 
“ sommo Bene, ella non deve osare, come se si fosse innalzata al di sopra di tutte 
“ le condizioni empiriche del suo esercizio ed alla immediata conoscenza di nuovi 
“ oggetti, di prender le mosse da tal concetto per derivare dal medesimo le stesse 
“ leggi morali. Giacchè eran proprio esse quelle, la cui intima necessità pratica ci 
“ condusse alla presupposizione di una Causa indipendente, ovvero di un sapiente 


» 


“ Reggitore del mondo ,. 

Ed ecco dunque come Kant è giunto alla dimostrazione della esistenza di Dio, 
non solo come soggettivamente pensata, ma anche come oggettivamente effettuata. 
Ma è retta e libera da sofisma tal dimostrazione kantiana ? No; di ciò appresso nella 
mia giudicazione del modo di soluzione de’ problemi dell’Estetica, dell’Analitica e 
della Dialettica trascendentale. 

Ma, quanto al Canone, Kant prende in considerazione un ultimo punto, e cioè 
quello “ dell’Opinare, del Sapere e del Credere ,. 

Rispetto a tal punto egli si esprime così: “Il tener per certo (das Firwahr- 
“ halten, ibid., pag. 633), ovvero la validità soggettiva del giudizio rispetto alla con- 
“ vinzione (Ja quale vale insiememente come oggettiva) ha i seguenti tre gradi (Stufen) : 
“ Opinare, Credere e Sapere (Meinen, Glauben, Wissen). L Opinare (1 opinione) è un 
“ insufficiente tener per certo (Firwvahrhalten), tanto soggettivamente quanto ogget- 
“ tivamente. Se il tener per certo è stimato sufficiente soltanto soggettivamente ed 
“ insufficiente oggettivamente, si chiama Credere (aver Fede). Finalmente il sufficiente 
“ tener per certo tanto soggettivamente quanto oggettivamente si chiama il Sapere. 
“ La sufficienza soggettiva si chiama convinzione (Ueberzeugung) per me stesso; la suf- 
“ ficienza oggettiva si chiama certezza (per ognuno) ,. 

E ad illustrazione e conferma di ciò, il grande filosofo entra in una minuta e 
dotta analisi de’ tre predetti gradi, nella quale non lo seguirò interamente; ma ne 
rileverò soltanto qualche punto interessante. Per es., egli dice (ibid.): “ Nel giudi- 
“ care per pura Ragione non è permesso di opinare ,. Ora in tal giudizio Kant 
s'incontra perfettamente con Platone, Aristotele ed Hegel, i quali stimarono appunto 
che la Ragione non può ad un tempo pensare ed opinare; giacchè il pensare è l’ap- 
prendere ed affermare le cose quali esse sono in sè e per sè, e per tutti; mentre 
l’opinare è l’apprenderle ed affermarle secondo il mio personale avviso. 

Del genere del sapere, e del sapere secondo Ragione e certezza, è, secondo Kant, 


196 PASQUALE D'ERCOLE 96 


il sapere della Matematica: “ perciò, dice egli, ibid., pag. 634, è insulso (ungereimt) 
“ nella Matematica l’opinare, bisogna sapere, o astenersi da ogni giudizio ,. 

Una così minuta e interessantissima analisi Kant fa anche rispetto al Credere, 
o alla Credenza, alla Fede. Egli distingue, analizza e definisce, per es., la Credenza 
dottrinale, la Credenza morale, la Credenza razionale (Vernunftglaube), e persin la Cre- 
denza certa e la Credenza negativa. E su questa varia analisi ricorre come impor- 
tantissimo, rispetto alla dottrina, e quindi anche rispetto alla stessa dimostrazione 
dell’esistenza di Dio, questo luogo: “ Noi dobbiamo confessare (ibid., pag. 636) che 
“ la Dottrina dell’esistenza di Dio appartiene alla Credenza dottrinale (zum doctri- 
“ nalen Glaubden) ,. 

Ed ora passo a dire della terza parte della Metodologia trascendentale, alla 
mentovata 


Architettonica della Ragione pura. 


“ Per Architettonica, dic egli, ibid., pag. 641, io intendo l’ arte (die Kunst) de’ 
sistemi. Essendo l’unità sistematica ciocchè primamente riduce a scienza la co- 
munale conoscenza, cioè, ciocchè di un aggregato di questa fa un sistema, l’Ar- 
chitettonica è la dottrina dello scientifico (die Lehre des Scientifischen) in genere, 
ed appartiene quindi necessariamente alla Metodologia ,. 

“ Per sistema io intendo l’unità delle molteplici conoscenze sotto una Idea..... 
Il concetto razionale (Vernunftbegriff) scientifico dunque contiene lo scopo e la forma 
del Tutto (des Ganzen) che è congruente col medesimo ,. Per forma che “ il Tutto 
{ibid., pag. 642) è organato (articulatio) e non ammucchiato (coacervatio) ,. * Nes- 
suno (ibid., pag. 642) tenta di effettuare una. scienza senza porvi a fondamento 
una Idea ,. 

Ciò posto, procede “ ad uno schizzo (ibid., pag. 643) dell’Architettonica di tutte 
“ le conoscenze secondo la Ragione pura ,, considerando nella Ragione stessa i due 
elementi che in essa si costituiscono ed oppongono, cioè l’elemento razionale e l’ele- 
mento empirico. 

“ Se io, dic'egli, ibid., pag. 644, fo astrazione da ogni contenuto della cono- 
scenza, oggettivamente considerata, allora la conoscenza, in quanto soggettiva, 
o storica o razionale. La conoscenza storica è cognitio ex datis, la razionale è 
cognitio ex principiis ,. 

Fa un'alta distinzione della conoscenza razionale (Vernunfterkenntniss, ibid., 
pag. 645) dicendo, che questa è “ tale per concetti, ovvero per costruzione di con- 
“ cetti ,, delle quali due “ la prima è filosofica, la seconda matematica ,. 

E da tutte sì fatte determinazioni e distinzioni dell’Architettonica giunge alla 
importaute determinazione della sistemazione della Ragione e della Filosofia, dicendo 
che “ il Sistema di tutta la conoscenza filosofica è la Filosofia ,, Filosofia designata 
da lui stupendamente come “ la legislazione (ibid., pag. 647) della Ragione umana ,. 

La Filosofia così concepita e definita è da lui ulteriormente designata come 
avente un duplice oggetto: Natura e Libertà, in quanto contenente sì la legge na- 
“ turale (Naturgesetz), che la legge della costumatezza (Sittengesetz), e primamente in 
“ due speciali sistemi, indi in un solo sistema filosofico. La Filosofia della Natura 
“ concerne tutto ciò che è, quella de’ costumi soltanto ciocchè deve essere ,. 


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97 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 15)7/ 


Ciò posto, passa il nostro filosofo alla determinazione di quella parte della Filo- 
sofia, che, dopo quella della Filosofia in genere, tiene per importanza il secondo 
posto, cioè della Metafisica; e lo fa nel seguente modo. 

Statuisce primamente che “ tutta la Filosofia è o conoscenza per Ragione pura, 
“ ovvero conoscenza razionale (Vernunflerkenntniss) per principii empirici: la prima 
“ di queste si appella Filosofia pura, la seconda Filosofia empirica ,. 

Suddistingue la Filosofia della’ Ragione pura (ibid., pag. 648) in Propedeutica, 
che come investigante la potenza (Vermogen) della Ragione rispetto alla conoscenza 
pura « priorì si appella Critica (Kritik), ovvero in Sistema della Ragione, investi- 
gante tutta la conoscenza filosofica nella sua connessità (Zusammenhang), e si appella 
Metafisica. i 

La Metafisica, alla sua volta, si divide in “ Metafisica dell’uso speculativo e Me- 
tafisica dell’uso pratico, ed è perciò o Metafisica della Natura, o Metafisica de’ co- 
stumi (Sitter) ,. E quella che in “ senso più stretto (im engeren Verstande) si suol 
chiamare Metafisica è la Metafisica della Ragione speculativa ,. 

“ La cosidetta Metafisica in senso stretto consiste (besteht) della Filosofia tra- 
scendentale e della Fisiologia della Ragione pura. La prima considera soltanto l’In- 
telletto e la Ragione stessi in un sistema di tutti i concetti e principii (Grundsdtze), 


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‘ che si riferiscono ad oggetti (Gegenstinde) in genere, senza ammettere obbietti 


ES 


(Objecte) che sarebbero dati (Ontologia); la seconda considera la Natura, cioè il com- 


x 


plesso (Unbegriff) di oggetti dati (sieno essi dati da’ sensi, ovvero da un’altra specie 
di intuizione), ed è quindi Fisiologia (comunque soltanto rationalis) ,. 
oltre, “ l’uso della Ragione in questa razionale considerazione della Natura 


R 


(Naturbetrachtung) è o fisica o iperfisica, o meglio, o immanente o trascendente. Il primo 
verte sulla Natura fino al punto che la sua conoscenza può essere adoperata (an- 
gewandt, applicata) nell'esperienza (in concreto); il secondo verte su quella connessità 
(Verkniipfung) degli oggetti dell'esperienza, che oltrepassa l’esperienza stessa ,. 

“ Questa Fisiologia trascendente ha quindi o una connessità interiore o una esteriore, 
le quali entrambe però vanno, trascendendo ogni possibile esperienza, al loro oggetto: 
“ quella è la Fisiologia della Natura intera, cioè la conoscenza trascendentale del 
“ Mondo, questa la conoscenza trascendentale della connessità di tutta la Natura con 
“un Essere superiore alla Natura (ber der Natur), ossia la conoscenza trascenden- 
“ tale dell’esistenza di Dio ,. 

“ La Fisiologia immanente, al contrario, considera la Natura come il complesso 
di tutti gli oggetti de’ sensi, perciò quale essa ci è data, ma soltanto secondo con- 
dizioni a priori, secondo le quali in genere può esserci data. Ella ha un duplice 
oggetto: 1° E quello de’ sensi esterni, perciò il complesso de’ medesimi, la Natura 
corporea; 2° L'oggetto del senso interno, l’anima, e, secondo i concetti fondamen- 
tali di essa, la Natura pensante. La Metafisica della Natura corporea si chiama 
Fisica, ma, come contenente soltanto i principii della sua conoscenza a priori, Fi- 
“ sica razionale. La Metafisica della Natura pensante si chiama Psicologia, e, per la 
testè allegata ragione, da intendere come Psicologia razionale ,. 

“ Conformemente a ciò (ibid., pag. 652) l'integrale sistema della Metafisica con- 
“ siste di quattro parti principali: 1° della Ontologia; 2° della Psicologia razionale ; 
“ 3° della Cosmologia razionale; 4° della Teologia razionale ,. 


178 PASQUALE D'ERCOLE 18 


= Da tutto il corso della nostra Critica si sarà acquistata la sufficiente convin- 
“ zione che, benchè la Metafisica non possa essere la fortezza principale (Grundveste) 
“ della Religione, pur deve rimaner sempre la difesa (Schuizicehr) di essa .; e che 
* l'umana Ragione non possa fare a meno di una tale scienza ,. E ad onta del disprezzo 
di essa da parte di chi non ne conosce la natura “ si può esser certi,... che si tornerà 
“ sempre ad essa come ad una Amata con noi corrucciata ,. 

E finalmente * la Metafisica è il complemento di ogni cultura (Cultur) della Ra- 
“ gione umana .. 

Dopo questa mirabile rassegna e determinazione di ciocchè egli chiama l'Archi- 
tettonica della Ragione, ove chi conosce la posteriore Filosofia hegeliana scorgerà 
tanti germi, e persino abbastanza sviluppati, delle posteriori idee hegeliane in fatto 
di Filosofia in genere, di Metafisica, di Filosofia della Natura, di dottrina de’ costumi, 
o della costumatezza (Sifflichkeit) ece., dopo tal mirabile rassegna, dico, l'autore 
passa a dire della Sforia della Ragione pura, la quale è brevemente considerata in 
tre sole pagine (le tre ultime della Critica della R. P.). 


La Storia della Ragione pura. 


Conscio di tal brevità, dice che questo titolo (ibid.. pag. 656) di Storia della 
Ragione pura “ dev'essere riempito in avvenire ,. limitandosi egli qui a gittarvi un 
“ fuggevole sguardo .. 

E nota esser “ maraviglioso, comunque non potesse essere altrimenti, che gli 
“ uomini nell'età infantile (Kindesalier) della Filosofia cominciassero da ciò, con cui 
“ noi ora vorremmo piuttosto finire, cioè collo studiare la conoscenza di Dio e la 
“ speranza, o ben anche la natura di un altro Mondo .. “ Per rozzi che furono i 
“ concetti della Religione, addotti dallo stato rozzo de’ popoli, ciò non impedì che 
“ si facessero posteriormente libere ricerche ,..... * intorno all’invisibile Potenza che 
“ regge il Mondo , per raggiungere la felicità. E furono la Teologia e la Morale le 
due discipline, che si occuparono di ciò, delle quali due la prima “ in prosieguo (ibid., 
" pag. 557) divenne celebre sotto il nome di Metafisica .. 

Il mio scopo è ora non di distinguere i tempi in cui avvennero i “ mutamenti 
“ della Metafisica .. ma di far qui un breve cenno della “ diversità di Idea, che ca- 
“ gionò i principalissimi rivolgimenti . nel campo del pensiere. E a tal riguardo io 
trovo che si manifesta “ un triplice intento..... sul campo di questa lotta (auf dieser 
“ Biihne des Streites) .. 

1° “ Rispetto all’obbietto delle nostre conoscenze razionali alcuni furono filosofi 
“ soltanto sensuali (Sensualphilosophen), altri soltanto intellettuali (Intellectualphilo- 
= sophen). Epicuro può essere appellato il più ragguardevole filosofo della Sensibilità, 
“ Platone della Intelletiualità ,. Sorsero così due Scuole “ fin da’ primissimi tempi 
“ e sì mantennero ininterrotte ,. I sostenitori e seguaci * della prima sostenevano: 
“ Ogni realtà è negli oggetti de’ Sensi; il rimanente è fantasia (Finbildung): quelli 
“ della seconda, al contrario, dicevano: Nei Sensi non w'è che apparenza (Schein); 
“ solo l’Intelletto conosce il vero ,. I primi © concedevano esservi concetti intellet- 
" tuali, ma ammettevano oggetti soltanto sensibili ,. I secondi “ esigevano che i veri 
“ oggetti fossero soltanto intelligibili ,. ; 


99 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 199 


2° “ Rispetto all'origine delle conoscenze razionali pure, può considerarsi come 
“ Capo degli Empiristi, ArisroreLe, e come Capo de’ Noologisti, PLaroNnE ,. Locke, 
che nei nuovi tempi seguì al primo, e Leibniz nell'ultimo tempo (benchè a sufficiente 
distanza} al secondo, “ non han potuto giungere a decisione di sorta in questa lotta ,. 

3° “ Rispetto al Metodo. Se qualche cosa dev'essere appellata Metodo, essa 
“ dev'essere un procedimento secondo Principii (cin Verfahren nach Grundsctzen). Il 
“ Metodo ora vigente in questo campo di ricerca può essere diviso in naturalistico 
e scientifico. Il Naturalista della Ragione pura pone come principio (Grundsate), che, 
“ rispetto alle più sublimi domande (Fragen, quesiti), costituenti il compito della 
“ Metafisica, colla comunale ragione senza scienza si possa riuscir meglio che colla 
“ Speculazione ,..... Quanto a quelli che si tengono al “ Metodo scientifico (ibid., pa- 
“ gina 659), essi hanno in questo la scelta di procedere o dommaticamente o scettica- 
mente, in ogni caso però l’obbligo di procedere sistematicamente ,. Se nomino WoLrIo 


“ 


K 


pel procedimento dommatico, e Hume pel procedimento scettico, posso tacere i rimanenti. 

«“ La via critica è l’unica che rimane ancora aperta. Se il lettore ha avuto la 
“ compiacenza e pazienza di percorrerla in mia compagnia, è nel caso di giudicare, se, 
“ con suo compiacimento, voglia per parte sua contribuire ad allargare questo sen- 
“ tiero (Fussteig) a via regia (Heeresstrasse), e far sì che ciocchè non potettero effet- 
“ tuare molti secoli possa essere raggiunto prima della fine del presente (1), ossia, 
“ che la Ragione umana sia condotta al pieno soddisfacimento (Befriedigung) di ciocchè 
“ la sua curiosità di sapere l’occupò sempre, ma finora indarno ,. 


Mio Giudizio sulla “ Critica della Ragion Pura , 
e sulla “ Logica , di Emanuele Kant. 


Ho unito insieme, in una sola giudicazione, la Critica della Ragion Pura e la 
Logica di Kant, perchè queste due (come ho in modo chiaro e sufficiente innanzi 
dimostrato) costituiscono realmente ad un tempo un’opera nuova ed unica sì per la 
Critica della Ragion Pura, sì per la Logica kantiana. Se non che, benchè la giudicazione 
debba abbracciare l’una e l’altra, è pur necessario di rivolgere il pensiere prima alla 
Critica della R. P.. come ad un Libro che inizia un nuovo indirizzo, cioè l'indirizzo 
critico propriamente detto, e corrispondentemente un nuovo tempo od epoca. 

È, infatti, fuori di dubitazione che, comunque l’elemento critico sia già comin- 
ciato fin dal Rinascimento con varii filosofi, specialmente col nostro Giordano Bruno 
(e in più special modo con gli scritti italiani del medesimo), sia continuato con 
Cartesio, si sia poscia maggiormente accentuato ed affermato con Locke, sia stato, 
inoltre, accolto posteriormente dal nostro G. B. Vico (2), dal Condillac, da Davide 


(1) Cioè in una ventina d’anni; giacchè Kant finì e pubblicò la Critica della Ragion Pura 
l’anno 1781. 

(2) I quale, nella Prima Scienza Nuova (della mentovata edizione del nostro Giuseppe Ferrari) 
nella stessa Dedica di essa al Cardinale Lorenzo Corsini (divenuto poscia Papa Clemente XII), dice 
la sua opera pensata e pubblicata “in questa età illuminata, in cui ..... ogni qualunque autorità de’ 
© più riputati filosofi alla Critica di severa ragione si sottomette ,. } 

E giacchè ho accennato a Vico pel suo riferimento al Criticismo in genere, accennerò un altro 
punto di questo maraviglioso uomo, quello cioè che si riferisce al connubio dell’elemento logico 


200 PASQUALE D'ERCOLE 100 


Hume e dagli Enciclopedisti francesi, pur non di meno sì fatto elemento diventa in 
Kant il Criticisno propriamente e specificamente detto, pensato ed esposto siccome 
tutto un Sistema critico del pensiere. E, siccome tale, la Critica della R. P. è per 
eccellenza un Libro nuovo, che pensa, pone, tratta e risolve i problemi filosofici in 
modo interamente nuovo. 

Il qual modo nuovo, per giunta, è tanto più importante, in quanto non rimane 
isolato nella Coscienza del tempo, ma penetra questa in tutte le sue sfere e si fa 
generatore di una sequela di uomini grandi e di corrispondenti grandi opere (Fichte, 
Schelling, Hegel, Schleiermacher, Schopenhauer, Herbart, Lotze, Ed. von Hartmann, ece. 
coi loro poderosi prodotti). 

Ma, d'altra parte, tal nuovo Libro critico è alla sua volta una nuova Logica, 
che non solo è tale rispetto all'antica Logica aristotelica, ma è generatrice, prima- 
mente, di una Dottrina della Scienza (Wissenschafislehre) di Fichte, sviluppantesi 
nell’orbita del Criticismo, ed inoltre esprimentesi in una Scienza che è Logica e 
Metafisica insieme; secondamente, di un’altra nuova Logica più importante, cioè, 
della Logica hegeliana, diversa ad un tempo, oltre che dall'antica aristotelica, anche 
dalla kantiana e dalla fichtiana. 

Essendo le cose così, io posso, riunendo nella mia giudicazione, Critica della È. P. 
e Logica kantiana, dire: 

1° Che la Critica della R. P. è Libro eminentemente logico; 

2° Che è Libro logico nuovo e di una natura speciale, cioè, non è più la vecchia 
Logica formale, ma è tale che disposa l'elemento logico e l'elemento metafisico, e, 
per giunta. v'introduce l'elemento crifico interamente nuovo in fatto di Logica; ed 
inoltre v'introduce, modificandolo, l'elemento metafisico platonico. parte per la intro- 
duzione delle Idee (principii metafisici platonici), parte per l'elemento dialettico; 

3° Che, se il Libro che ha fatta la rivoluzione del pensiere moderno è Libro 
di natura logico-metafisica, ciò vuol dire che tal rivoluzione muove da un principio 
e concetto nuovo, che è appunto il connubio dell’elemento logico coll’elemento 
metafisico: 

4° Che la Critica della R. P. è il primo Libro logico-metafisico moderno, che 
ha iniziato quel generale movimento filosofico moderno, che si sviluppa e continua 
con la Dottrina della Scienza (Wissenschaftslehre) fichtiana, e si concreta e compie 
nella Logica hegeliana. 

La Logica hegeliana, ad ulteriore illustrazione e conferma della cosa, è il frutto 
più diretto e più maturo della Ragione pura di Kant: Ragione pura, che, arricchita 
della predetta Dottrina della Scienza di Fichte, e poscia di quella che Schelling chia- 
mava La RFagione siccome indifferenza e identità del Subbiettivo e dell’Obbiettivo, 
dello Spirito e della Natura ece., si allarga appunto ed organizza a Sistema de’ prin- 
cipii categorici universali della Ragione stessa, o, come Hegel la chiama più pro- 
priamente, dell’Idea, e però dell’Idealismo assoluto. 


coll’elemento metafisico della Logica Kantiana. Rispetto al connubio di questi due elementi in 
genere già Vico aveva detto: © Primum verum metaphysicum et primum verum logicum unum 
“ idemque esse ,. — E, ad intender compiutamente il pensiere del Vico, soggiungo che per lui il 
Primo Vero è ad un tempo Dio. Vedi Opere di Vico per Frane. Sav. Pomodoro (pubblicate insieme 
ai volumi editi da Giuseppe Ferrari). Napoli, 1858, p. 19. 


101 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 201 


Da ciò, ci lusinghiamo, si rileva «d evidenza che sarebbe un interamente fran- 
tendere Kant, quando lo si dicesse un formaliste in Logica. Kant è formalista in 
Logica, quando è ancora il Kant wolfiano dommatico, cioè, quando non è ancora il 
Kant del Criticismo: quando egli diviene questo secondo, allora egli diviene il grande 
ed immortale innovatore del pensiere moderno in genere e della Logica reale, in 
ispecie. Quanto all'essere tale iniziatore della Logica reale, avrò ulteriore e migliore 
occasione di dimostrarlo fra poco nel trattato della Logica hegeliana; e ora passo 
a un mio secondo giudizio su Kant, antecedentemente annunziato. 


Mio Giudizio sulle Soluzioni date da Kant ai Problemi dell’ Estetica, 
dell’ Analitica e della Dialettica-trascendentali. 


Prima di venire all'argomento mi è necessario di ricordare brevissimamente il 
pensiere fondamentale della Evoluzione cosmica di Kant, la quale sarà uno degli ele- 
menti principali per la mia giudicazione delle Soluzioni da lui date ai problemi della 
Critica della Ragion Pura. 

Quanto all’Evoluzione cosmica il nostro Filosofo conosce e rileva esservi già 
state in antico concezioni di sì fatta Evoluzione, anzi dice esplicitamente nella famosa 
sua opera che la espone (1): “ La Teoria di Lucrezio, o del suo antecessore EpicuRO, 
“ LeuciePo e Democrito, ha molta simiglianza colla mia. Io pongo lo stato originario 
“ della Natura, come quei sapienti, nella generale dispersione (Zerstreuung) della 
“ Materia originaria (Urstoffes) de’ corpi cosmici, ovvero degli atomi... Epicuro (ib., p.50) 
“ ammetteva una pesantezza (Schwere) che spingeva queste particelle elementari a 
cadere; e ciò sembra non esser diverso dall’attrazione di Newton, che io accolgo ,. 

Venendo poi alla determinazione della propria teoria, dice (ib., p. 51) che dalla 
Materia esistente originariamente “in uno stato di totale soluzione (Auflésung, scom- 
“ posizione) e dissipazione si svolge naturalmente una bella ed ordinata Totalità ,. 
E descrive il costituirsi del Cosmo nel modo seguente. 

“Io ammetto (dic'egli, ib., p. 95): Che tutte le Materie, onde consistono le Sfere 
facenti parte del nostro sistema solare, i Pianeti e le Comete, esistenti originaria- 
mente disciolte ne’ loro elementi fondamentali, hanno riempito tutto lo spazio della 
fabbrica mondana, nel quale ora circolano questi corpi formati ,. La Materia “ nel 
suo stato più semplice (ib., p. 96) ha una tendenza (Bestrebung) a costituirsi, me- 
diante evoluzione naturale, in una forma più compiuta ,. 

Intanto, secondo l'opinione di Kant, “ le specie di elementi fondamentali... sono 
senza dubbio infinitamente diverse. Quelle di massima specifica intensità e forza 


(3 


« 


attrattiva, che occupano meno spazio e son più rare, saranno quindi, in una eguale 
distribuzione nello spazio mondano, più diffuse (zerstreuter) delle specie più leggere. 
Elementi, di una gravità specifica mille volte maggiore sono mille volte, forse 
milioni di volte più diffusi nella massa mondana, che non quelli più leggeri ,. Gli 
Elementi “ hanno (ib., p. 97) essenzialmente la forza di porsi in movimento l’un 
“ l’altro, e sono a sè stessi una fonte (Quelle) di vita. La Materia è tosto tendente 
“a conformarsi (bilden) ,. 


« 


« 


(1) AUgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, già pubblicata nel 1755 (Vol. 6° delle 
Opere complete, pag. 49). 


Serie II. Tox. LXIL 26 


202 PASQUALE D'ERCOLE 102 


A far bene intendere tal conformazione, la quale avviene in tutto 1’ Universo, 
Kant ne fa prima una esemplificazione nel nostro Sistema solare, a modo ed imita- 
zione del quale avviene appunto nell'Universo intero; e la fa con queste parole: 
“ Quando (ib., p. 98) in uno spazio molto grande si trova un punto, ove l'attrazione 
“ degli elementi circostanti agisce più fortemente che altrove, la Materia fondamen- 
“ tale (der Grundstoff) delle particelle elementari sparsa in tutto il suo ambito cadrà 
“ (wird hinsinken) verso tal punto. Il primo effetto di questa caduta è la formazione 
“ di un corpo in questo punto centrale (Mittelpunct) dell’ attrazione: il qual corpo, 
cominciato da un germe, a dir così, infinitamente piccolo, continua a crescere ve- 


“ locemente per gradi ,. 

Crescendo la massa di questo corpo centrale, 
“ grandi vortici (Wirbel) di particelle, ciascuna delle quali descrive per sè linee curve 
“ lateralmente condotte mediante l’unione della forza attraente: linee, che si inter- 
“ secano l’una l’altra come tanti circoli verso quella parte dello spazio in cui la loro 
“ diffusione lor lascia un posto ,. E Kant aggiunge, che tal concezione della forma- 
zione del Sistema cosmico “ presuppone (ib., p. 101) che l’origine (Ursprung) delle 
“ masse sia nel medesimo istante origine del movimento e posizione dei circoli 
“ (Stellung der Kreise) ,. Sicchè dunque “i Pianeti si formano da particelle che, 


“ 


sì producono (erzeugen sich) 


“ nell’altezza in cui pendono (Schweben), hanno precisi movimenti circolari; dunque 
“ le masse da essi composte hanno gli stessi movimenti, e nel medesimo grado e 
“ nella medesima direzione ,. 

Tali sono le idee, veramente grandi, mirabili ed accoglibili, di Kant intorno 
alla Evoluzione cosmica; adoperiamole ora nella soluzione da lui data ai Problemi 
della Critica della Ragion Pura. 


Estetica trascendentale. 


Rileverò i punti principali del pensiere di Kant espressi in questa Estetica, e 
le relative soluzioni. I primi due punti da prendere in considerazione sono: 

Il Tempo e lo Spazio. Questi sono entrambi considerati dal grande filosofo come 
due Intuizioni a priori. Per giudicare tal pensiere, bisogna ricordare l’altro che è 
fondamentale di tutto il Criticismo Kantiano, cioè quello della Esperienza. Essendo 
l'’Esperienza tal fondamento, non possono a mio parere (e i giudizii posteriori a tal 
riguardo, segnatamente i recentissimi, non sono di parere diverso) sottrarsene il 
Tempo e lo Spazio, i quali se fossero intuitivamente a priori sarebbero sovrasperi- 
mentali. 

Il giusto a tal riguardo è ciocchè ha pensato ed espresso il primo iniziatore del 
Criticismo, cioè Giovanni Locke, il quale, dopo aver combattuto nel 1° libro del suo 
Saggio sull’intendimento umano, le Idee innate (ammesse da Cartesio), pone nel 2° libro 
il principio che l’anima umana sia originariamente come una carta bianca (whife- 
paper) non scritta, sulla quale si vengono successivamente imprimendo per esperienza 
tutte le sensazioni, ecc. (1). Tale giusto principio deve valere anche per Kant, che 


(1) Carta bianca già nel Medio evo denominata tabula rasa. Vedi per questo UrseRwEG-HrIxzE, 
Grundriss d. Gesch. d. Philos., Neuzeit, 8° Aufl., Berlin, 1896, p. 139. 


103 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 203 


pone come primo fondamento della Sensibilità, dell’ Intellettualità e della Razionalità 
l’Esperienza. 

Il Sapere matematico. Come il lettore ha visto dalla minuta nostra esposizione 
della Critica della Ragion Pura, il Kant pone tal sapere come aprioristico. E il mio 
parere a tal riguardo (e non dissimile è il parere del Positivismo e dell’ Evoluzio- 
nismo posteriori a Kant) non può essere dissimile da quello da me espresso rispetto 
all’apriorità del Tempo e dello Spazio. Certo, anche il Sapere matematico in genere 
non è a priori, ma sorge da prima sperimentalmente, come tutto il rimanente sapere 
umano. E ciò vale anche per gli Assiomi. È presto detto, che una cosa è certa e 
saputa come due e due fan quattro. Questo non è punto saputo; e non è neppur 
saputo a priori che due sono uno più uno. Per sapere ed esprimere la prima unità, 
bisogna averne sperimentalmente la prima intuizione, poi così anche per la seconda, ecc. 
Perchè un bambino giunga alla intuizione e nozione di uno, bisogna additargliela 
(e ripetergliela chi sa quante volte!) sul suo dito, e fargli notare che v'è un altro 
dito, che sarebbe come l’espressione sensibile di due rispetto ad uno, ece. Quello che 
in Matematica si tiene come a priori ed evidentemente noto ci è bensì divenuto 
abitualmente tale, ma soltanto dopo lunga e ripetuta esperienza, foss’ anche espe- 
rienza e conseguente conoscenza ottenuta mediante calcolazione. 


Analitica trascendentale. 


Anche rispetto a questa prenderò in considerazione quei punti fondamentali che 
la costituiscono e la soluzione data da Kant ai quesiti che vi si connettono. 

Riguardo all’ Analitica quale Dottrina delle Categorie, credo dover dire in generale 
che Kant fa un progresso rispetto ad Aristotele; ed il progresso è persin duplice. 
Primamente progredisce, perchè la Tavola Kantiana delle Categorie è più sistemata 
e più compiuta della Tavola Aristotelica. Secondamente, perchè esclude dalle Cate- 
gorie quelle che Aristotele impropriamente designava come tali ed accoglieva, come 
sono, per es., alcuni modi appartenenti alla Sensibilità (quando, ubi, situs, prius, simul, 
motus, ecc. Vedi vol. II delle Opere, ecc., p. 80) e non all’Intellettualità, alla quale 
propriamente appartengono secondo Kant le Categorie. 

Se non che, con tutto il duplice progresso rispetto ad Aristotele, Kant riconosce 
e confessa candidamente, che anche la sua Tavola delle Categorie è incompiuta, per 
la ragione che, “ essendo queste (ib., p. 79 s.) inferite per via induttiva, non se ne può 
“ mai con certezza stabilire il numero compiuto (die Vollzahligkeit) ,. 

Alla fine della trattazione dell’ Analitica trascendentale Kant, considerando il 
risultato della trattazione stessa, pone una quistione importantissima, quella cioè re- 
lativa alla distinzione di realtà esterna, o fenomenica, e di realtà interna, o noumenica, 
di Mondo sensibile e Mondo intelligibile, che è poi la stessa quistione della Cosa è sè 
a noi estrinseca ed inconoscibile, e dell’To o dell'Anima, che sia il Noumeno stesso 
d'incontro al Fenomeno. 

Ma la quistione qui posta non viene risolta che nella Dialettica trascendentale, 


alla cui considerazione ora passiamo. 


204 PASQUALE D’ERCOLE 104 


La Dialettica trascendentale. 


I tre punti cardinali della considerazione di questa sono quelli delle tre dee, 
dell'Anima, del Mondo e di Dio, rispetto alle quali la Ragione, sofisticando (ver- 
niinftelnd, come Kant dice), cade nei Paralogismi della prima Idea, nelle Antinomie 
della seconda, e nell’/deale della terza. 


I Paralogismi della Ragione Pura. 


È proprio rispetto a questi che sorge e vien risolta la quistione or ora mento- 
vata della Cosa in sè. Ora, a riguardo di questa il Kant, da una parte, cade in ge- 
nerale in quell'errore, in cui è caduto anche rispetto al Tempo ed allo Spazio, non 
che rispetto alla Scienza matematica; ma, dall'altra, ha avuto anche una grande in- 
tuizione della verità, ed ha dato una corrispondente felice soluzione della quistione. 

L'errore è già nell’istesso solo ammettere una Cosa în sè, perchè tale ammissione 
contraddice in tutto e per tutto al principio dell’Esperienza, pur ammessa da Kant, 
e persino come la prima e fondamentale base della conoscenza in genere. Ora, am- 
mettere come altro da questa ed oggettivo rispetto ad essa un principio (quello della 
Cosa in sè), una entità, che non è sperimentalmente conoscibile, è senza dubbio errato 
e contrario agli schietti principii kantiani stessi. 

Ma, d'altra parte, il grande filosofo ha avuto l’idea geniale di risolvere felice- 
mente la quistione nel seguente modo: “ Io (dic’egli, ib., p. 290) son un oggetto del 
“ senso interno, ed il Tempo è soltanto la forma del senso interno. Conseguente- 
“ mente Zo riferisco tutte e ciascuna delle mie determinazioni al Sè (Selbst, subbietto) 
“ numericamente uno, in ogni tempo, ossia nella forma della intuizione interna di 
“ me stesso ,. La “ Identità della persona (soggiunge egli, p. 291) è a ritrovar co- 
“ stantemente nella mia propria coscienza ,; e non si può “ concludere (schliessen) 
“ alla oggettiva persistenza (Beharrlichkeit) di me stesso ,. E notoriamente la Psi- 
cologia razionale fa proprio tal conclusione, onde poi trae l'immortalità dell’ Anima 
dopo morte. 

Ora, il Kant osserva in contrario che il procedimento e la conseguente conclu- 
sione della Psicologia * poggiano su di una semplice illusione (Blendwerke, ib., p. 307), 
“ secondo la quale si ipostatizza (hypostasirt) ciocchè è soltanto nel pensiere ,. E sog- 
giunge che * la Materia, la cui unione (Gemeinschaft) coll’Anima suscita tanta diffi- 
“ coltà, non è altro che una semplice forma o guisa di rappresentazione di un og- 
“ getto incognito, prodotta da quella intuizione, che si chiama il senso esterno ,. 
Ma “ la Materia significa non una specie di sostanza eterogenea e interamente di- 
“ versa dall'oggetto del senso interno (dall’Anima), bensì soltanto la eterogeneità 
“ (Ungleichartigkeit) delle manifestazioni di oggetti (a noi in sè stessi incogniti), le 
“ cui rappresentazioni noi chiamiamo esterne in paragone di quelle che annoveriamo 
“ (eGhlen) al senso interno .. 


Le Antinomie della Ragione Pura. 


Anche rispetto a queste Antinomie le Soluzioni date da Kant non sono sempre 
giuste, anzi sono assai sovente contrarie ai suoi stessi principii; e, a conferma di 
questo mio giudizio, debbo ricordare due cose, le quali, se avute da lui presenti, gli 
avrebbero suggerite, anzi imposte le giuste Soluzioni. 


105 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECO. 205 


La prima è il principio tricotomico, da lui stesso mirabilmente divinato e pro- 
clamato, come attestano i seguenti dati, oltre ad uno specifico luogo in proposito. 

Quanto ai dati, egli ha scritto tre Critiche, quella della Ragion Pura, quella 
del Giudizio e quella della Ragion Pratica. E si noti riguardo ad esse il fatto im- 
portante, che Kant pone la Critica del Giudizio (Opere compl., cit., vol. IV, p. 15) 
come anello di congiunzione (Mittelglied) o di unione delle altre due Critiche. Si noti, 
inoltre, che la Critica della Ragion Pura, che è il Libro e il Pensiero moderatore 
di tutto il Criticismo, è distinta nelle tre Sezioni dell’ Estetica trascendentale, del- 
l’Analitica trascendentale e della Dialettica trascendentale. Le quali Sezioni sono 
contrassegnate da #re corrispondenti funzioni spirituali, cioè dalla Sensibilità e dalle 
intuizioni sensibili, dall'Intellettualità e da” Concetti o Categorie intellettive, e dalla 
Razionalità e corrispondenti Concetti razionali o Idee. I Concetti o Categorie sono 
alla lor volta distinti ed ordinati per triplicità, in quella guisa che anche delle Idee 
le principali son le tre di Anima, Mondo e Dio. Potrei allegare altri dati a conferma 
del principio tricotomico, ma bastano i già indicati, tanto più che essi pervadono come 
trama tutto intero il pensiere critico Kantiano. 

Ma ecco ora la testuale parola del grande filosofo stesso, il quale (nella 3? edi- 
zione della Critica del Giudizio, che io non possiedo, ma di cui trascrivo il luogo 
dal MicreLer, loc. cit., p. 63) scrive: “ E stato trovato pericoloso (bendenklich, in- 
“ quietante) il fatto che le mie divisioni riescan sempre tripartite (dreitheilig). Ma da 
“ ciocchè si richiede da una unità sintetica « priori in genere, cioè: 1° la condizione; 
“ 2° un condizionato; 3° il concetto che emerge dalla unione del condizionato colla 
“ sua condizione, la divisione dev'essere necessariamente una tricotomia ,. 

Un'ultima considerazione fo a riguardo del principio tricotomico, ed è che i tre 
momenti che lo costituiscono sono la tesiî, l’antitesi e la sintesi, ovvero la posizione, 
l'opposizione e la composizione, ossia due principii contrario ed un terzo conciliativo 
di essi. 

La seconda cosa è la teoria Kantiana dell’Evoluzione cosmica testè esposta nei 
suoi tratti fondamentali. Ora io penso ed affermo che l'applicazione di essa, spe- 
cialmente congiunta al mentovato principio tricotomico, avrebbe risolto, se Kant lo 
avesse fatto, felicemente e giustamente i problemi del Criticismo, che stiamo esa- 
minando. Ai Paralogismi ci siam riferiti, veniamo alle Antinomie. 

1° Antinomia. Che cosa pensa e stabilisce questa? Pensa ‘e stabilisce come 
Tesi che il Mondo ha un cominciamento nel Tempo ed è limitato nello Spazio. 
L’ Antitesi invece sostiene che il Mondo non ha cominciamento nè limite nello Spazio, 
ma è infinito nel Tempo e nello Spazio. 

Ebbene, coll’applicazione del principio tricotomico e dell’Evoluzione cosmica, so- 
stenuti entrambi dall’istesso Kant, si spiega perfettamente tanto la Tesî quanto 
l’Antitesi. Infatti, il Mondo, osservato e considerato nelle sue diverse parti, cioè soli, 
pianeti, comete, ecc., ha un cominciamento, perchè ciascuna di queste è realmente 
cominciata in un dato Tempo ed è limitata rispetto alle altre parti ed al Tutto. Ma, 
al contrario, il Mondo, considerato nella sua Totalità, non ha avuto alcun principio 
nè ha, come Tutto, alcuna finitezza, ma è infinito. E inoltre, se il Mondo è ciocchè 
sostengono e dimostrano sì la Tesi che l’Antitfesi, esso, giusta il principio tricotomico, 
è realmente l’unità, ossia la Sintesi della Tesi e dell’ Autitesi. 


206 PASQUALE D'ERCOLE 106 


23 Antinomia. Questa pensa e statuisce nella Tesi, che ogni sostanza composta 
consiste di parti semplici, e da per tutto non esiste altro che il semplice o il com- 
posto dal semplice. L’Antifesi, al contrario, sostiene che nel Mondo nessuna cosa 
consiste di parti semplici, e da per tutto non esiste nulla di semplice. 

Ebbene, anche questa seconda Antinomia mediante l'applicazione dell’ Evoluzione 
cosmica e del principio fricofomico si risolve in modo eccellente e razionale. Infatti, 
secondo l’Eroluzione cosmica il Kant sostiene che tuffa la realtà mondana, quindi 
anche ogni singola sostanza di essa, consiste nella sua elementarità di parti od ele- 
menti semplici. Ma, d'altra parte, egli sostiene che nella realtà mondana nessuna cosa 
consiste di parti semplici, ma è composta; e ciò è egualmente vero e sostenibile, 
in quanto nel mondo realmente tutte le singole cose esistono come composte. Se è 
dunque vero e dimostrabile tanto che il Mondo nella Totalità consiste di parti ele- 
mentari semplici, quanto che nelle speciali e singole sue esistenze consiste di sostanze 
composte, segue, secondo il principio iricotomico, che è vera l’unità ossia la Sintesi 
della Tesi e dell’ Antifesi. 

33 Antinomia. La Tesi sostiene che la Causalità, agente secondo le Leggi 
di Natura, non è sufficiente a spiegare i fenomeni di questa; ma, a spiegarli, si 
richiede una Causalità agente con libertà, ossia si richiede una Causa libera. Al 
contrario, l’ Antifesi sostiene che non esiste Libertà di sorta, ma che nella Natura 
tutto avviene assolutamente secondo le Leggi di questa. 

Ebbene, anche qui tutto si spiega e risolre col principio dell’ Evoluzione cosmica 
congiunto al principio fricotomico. Infatti, secondo Kant, tale Eroluzione non ha avuto 
cominciamento ed effettuazione mediante Causa estranea ad essa, ma per opera e 
virtù propria; quindi essa è realmente Causa libera nella propria effettuazione. Ma, 
al contrario, tale effettuazione è avvenuta, in quanto le parti della Materia cosmica, 
essendo per natura loro gravitanti, la Causa della costituzione cosmica non è Causa 
libera, ma è Causa naturale ed avvenente secondo le Leggi di Natura. Ora, se la 
Causa della Evoluzione e costituzione cosmica, per un rispetto è libera, e per un 
altro rispetto non è libera, ma soltanto naturalmente effettuantesi, ne consegue, se- 
condo il principio fricotomico, che la Causa è Vunità, ossia la Sinzfesi della Tesi e 
dell’ Antifesi. 

4° Antinomia. Secondo la Tesi. al Mondo appartiene (gehòri) un Essere asso- 
lutamente necessario, sia come parte, sia come Causa di esso. L'Antitesi, al contrario, 
sostiene che al Mondo non appartenga alcun Essere assolutamente necessario, nè 
fuori di esso, nè come Causa di esso. 

Ebbene, anche questa quarta Antinomia si giustifica e risolve cogli stessi modi 
e principii anzidetti. Infatti, il Mondo, in quanto sorgente, srolgentesi e costituentesi 
per propria virtù ed opera, è un Essere e ad un tempo una Causa originariamente 
e necessariamente esistente. Ma, d’altra parte, se il Mondo si costituisce tale da sè 
solo e per propria opera, è giustissimo che non vi sia una Causa di esso, che sia 
fuori di esso e diversa da esso. Ed allora, secondo il principio tricotomico, consegue 
che il Mondo è l’unità, ossia la Sinfesi della Tesi e dell’ Antifesi della quarta Anti- 
nomia stessa. 


107 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 207 


L’Ideale della Ragione Pura. 


Anche riguardo all’/I@eale, ultimo punto della Dialettica trascendentale, la solu- 
zione data da Kant non è sempre giusta e corrispondente ai suoi proprii principii; 
anzi in qualche punto essa è ancor più errata e più contraddicente a questi, che 
non nelle antecedenti soluzioni. E vediamo come e perchè. 

Qual era l’oggetto di questo terzo ed ultimo punto? Era la dimostrazione del- 
l’Esistenza di Dio. E a tal riguardo Kant ha statuito, a mio modo di vedere, giu- 
stamente che i modi, o forme di argomentazione per sì fatta dimostrazione sono i 
tre già allegati della prova ontologica, cosmologica (o fisico-teologica) e teleologica. 
Ha criticamente discussi ed esaminati i tre modi, ed ha dimostrato, io ritengo, irre- 
pugnabilmente che essi son falsi e sofistici. E la conseguenza di tal dimostrazione 
è stata, che la /dea di Dio non è dimostrabile come corrispondente ad un reale Essere 
divino oggettivamente esistente nell’universale realtà, ma è soltanto un Ideale della 
nostra Ragione. 

E che ha fatto, per giunta, il grande filosofo per spiegare il processo formativo 
e costitutivo della Ragione naturale (noti il lettore, Ragione naturale, non già spe- 
culativa), che, facendo violenza alla Natura e ai naturali procedimenti di questa, 
deriva da un’Arte sovrumana la realtà oggettiva dell’esistenza di Dio? Ha mostrato 
l’erroneità di tal procedimento, e, ad un tempo, felicemente intuendo ed allegando 
la vera soluzione del quesito, quella, cioè, della “ interiore possibilità della Natura 
€ liberamente operante, Natura che rende possibile ogni Arte, e forse primamente 
“ la Ragione stessa ,. E tal soluzione è perfettamente consona alla teoria Kantiana 
della Evoluzione cosmica. 

Ma, mentre ha fatto egregiamente tutto ciò, ha pur creduto e voluto dimostrare 
l’esistenza oggettiva di Dio, e lo ha fatto con modo e mezzo pratico da lui ritenuto 
diverso dal modo e mezzo speculativo; il qual modo pratico è quello ricorrente nella 
teoria del Canone da lui trattata (vol. II, p. 613 ss.) e da noi già esposta. Con tale 
teoria, appoggiantesi alla Felicità e procedente appunto in modo pratico, ei finisce 
per ritenere come validamente dimostrata la necessaria ed oggettiva esistenza di 
Dio, colla quale esistenza soltanto l’uomo giusto può trovare la ricompensa adeguata 
di premio in un altro Mondo, il Mondo celeste e soprannaturale, che non ha trovata 
nel Mondo terrestre e naturale. 

Mondo celeste e soprannaturale! Ma ha il Kant realmente dimostrato l’esistenza 
di questo come un Mondo di là altro ed essenzialmente spirituale diverso dal natu- 
rale? No. Io non dico che tal Mondo non esista; dico e affermo che Kant non lo 
ha dimostrato; quindi la Critica finisce per negar sè stessa, sottoponendosi ad un 
Imperativo etico, il quale, benchè etico, è pur sempre un semplice /deale anch'esso, 
ossia una delle Idee da concetti (Ideen aus Begriffen). E, come egli ha sempre detto 
non potersi da un concetto dedurre legittimamente il corrispondente oggetto, così egli 
commette la illegalità, e però il sofisma, del passaggio. 

Sicchè dunque Kant anche nel punto di vista pratico rimane nel campo sogget- 
tivo, nel Soggettivismo, per adoperare una parola, colla quale comunemente si designa 
il punto di vista kantiano in genere. 


208 PASQUALE D'ERCOLE 108 


IL Soggettivismo specialmente in Religione e Filosofia. 


E qui mi si porge occasione, e volentieri la colgo, per parlare di un argomento 
della più alta importanza, che è anche tanto franteso, e franteso sopratutto dai 
Rosminiani. Questi accusano il Kantismo, e col Kantismo anche altri punti di vista 
congeneri e consimili, di Soggettivismo, e, s'intende, nel senso che il Soggettivismo 
non perviene nè perverrà mai a conoscere e statuir nulla della realtà oggettiva, e 
quindi della verità. 

E il Rosmini, domando, è egli fuori e lungi del Soggettivismo? Punto. Egli è 
tanto soggettivista quanto Kant e quanto tutti gli uomini in genere in ogni forma 
di umana conoscenza, non escluse Religione e Filosofia. Ed eccone la prova irrefra- 
gabile, additata ne’ principali punti della realtà, nell’ Uomo, nella Natura e nella 
Realtà stessa divina. 

L'Uomo. — Come ci si presenta questo ? come una entità estesa nella corpo- 
reità, e ad un tempo come una entità sensitiva, emotiva e intellettiva nell’interiorità 
della corporeità stessa. Lo sperimentare, determinare ed esprimere che la natura umana 
ha le tali e tali altre proprietà corporee, e, ad un tempo, le tali e tali altre pro- 
prietà così dette incorporee e spirituali, è o non è proprio ed unicamente derivante 
da esperienze, determinazioni ed espressioni del Soggetto umano ? non si può rispon- 
dere che sì. Ed allora la conoscenza e determinazione della natura umana è e non 
può essere che unicamente soggettiva. Ed è tale non solo in un soggetto individuale, 
ma anche nel particolare e collettivo soggetto umano; ed è tale persino nell’uni- 
versale soggetto umano; giacchè il singolo uomo, i molteplici uomini e tutti gli uo- 
mini fanno le stesse esperienze ed osservazioni, gli stessi ragionamenti e deduzioni, 
e quindi pensano ed esprimo ciò siccome verità. E la verità, che comunemente la 
si dice oggettiva, è la più soggettiva di tutte le cose, ed è essa la sola determina- 
trice di ciò che si appella oggettività. 

La Natura. — È questa come si presenta all'Uomo, ed all'Uomo tanto sîngo- 
lare, quanto particolare (o collettivo), quanto anche universale? Si presenta come una 
moltiplicità di cose, od oggettt detti naturali, Stelle, Sole, Pianeti, Comete, Terra, 
Mare, Piante, Animali, Uomini. E chi è che comincia per distinguere tutti questi 
oggetti l’uno dall'altro indicandone la natura, il rapporto, l’individuale, il reciproco e 
il generale fanzionamento ? È il Soggetto umano. Il qual Soggetto umano è persino esso 
e solo esso che distingue sè come Soggetto da tutta la Natura come oggetto; e, con- 
formemente a ciò, è una verità non soltanto umana, nè soltanto naturale, ma per- 
sino universale ed assoluta il dire che è il Soggetto stesso quello che pone, genera, 
e, con frase enfatica, quello che crea l’Oggetto. Quindi anche nella conoscenza, affer- 
mazione e determinazione della Natura la conclusione a cui si giunge è quella del 
Soggettivismo, a cui si giungeva colla conoscenza, affermazione e determinazione del- 
l'Uomo. E non c'è Rosmini che tenga. Il nostro grande filosofo, che dev’esser l’or- 
goglio di ogni italiano, non può negare e non accogliere egli stesso il Soggettivismo 
nel modo predetto. E i Rosminiani, se vogliono far onore al fondatore del rosminia- 
nismo ed a sè stessi, debbono non solo accettare, ma anzi proclamare il Soggettivismo 
come l’unica sorgente dell’intendere e del determinare la realtà soggettiva ed ogget- 
tiva delle cose. 


109 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 209 


La Realtà divina. — La si chiami Realtà divina, la si appelli Dio, anche a tal 
riguardo chi ne ha il sentimento, la credenza (o fede) e il culto è sempre il Soggetto 
umano. È il Soggetto umano quello che sente, crede e coltiva Dio come Oggetto del 
proprio culto; e anche qui è il caso di dire con frase enfatica che Dio non sarebbe 
neppur come Oggetto, se non fosse sentito, creduto, posto e coltivato dal Soggetto 
umano; e Soggetto umano, anche qui non solo individuale, ma anche particolare (0 col- 
lettivo) e persino universale. 

E non ho bisogno di stare a dimostrare nelle particolarità (perchè queste emer- 
gono dall’anzidetto), che è il Soggetto umano che sente, crede e coltiva l’Oggetto divino 
come Essere originario, poniamo naturale, quale lo ha pensato la quasi totalità del 
mondo antico orientale; o come Essere originario spirituale, intelligente, sopranna- 
turale, personale, creante il Mondo ecc., quale lo ha pensato il mondo cristiano me- 
dioevale, ecc. Dunque Soggettivismo nella conoscenza e determinazione del triplice 
Oggetto dell’universale realtà, Uomo, Mondo, o Natura e Dio. 

La stessa dimostrazione può fare agevolmente ognuno per tutte le altre branche 
dello Scibile, nessuna esclusa: branca dell'Arte in tutte le diverse manifestazioni di 
questa; branca delle varie Scienze naturali, come astronomia, meccanica, geologia, 
paleontologia, botanica, zoologia, ecc.; branca delle Scienze filosofiche, come logica, 
metafisica, storia della filosofia, ecc. 

Ma ora rivolgo in modo specialissimo l’attenzione su due discipline, la Religione 
e la Filosofia, e fo su ciascuna di esse una domanda. 

Domanda intorno alla Religione. — Ma la Religione, potrebbe domandarsi, non 
va ella distrutta, se si ammette il predetto Soggettivismo, foss'anche questo una ne- 
cessità, come si è dimostrato ? 

No, non va distrutta: il Soggettivismo è persin forse il vero ed unico modo di 
conservarla e perpetuarla. Trattandosi qui specialmente di Kant, è bene prima di tutto 
di sentir lui. Ora, la Fede, secondo lui, “ è un fener per vero (Fiirwahrhalten) per una 

_ “ ragione, che è bensì oggettivamente insufficiente, ma è soggettivamente sufficiente , 
(Opere citate, vol. IV, pag. 240). Quanto alla natura soggettiva della Religione, è fuori 
di dubbio che essa è la tua, la mia, la nostra comune credenza, la credenza di tali e 
tali altri popoli, la credenza dell’istesso intero genere umano. 

Ed inoltre, la credenza non è una dimostrazione, ma un fatto ed una convin- 
zione. Se si volesse far della credenza una dimostrazione scientifica, essa perderebbe 
il suo vero carattere e natura. 

E, d’altra parte, guai, se la Religione perdesse il suo carattere soggettivo di 
credenza, e dovesse assumere quello di pensiere ragionante! Un esempio valga per 
tutti, la persona di Cristo. Cristo è un uomo, come te, come me; ha dolore, passione, 
morte, è posto sulla croce, intorno alla quale son Maria e l’altre donne ecc.: Maria, 
che è sua madre, come è suo padre Giuseppe il falegname. 

Ebbene, se sto alla semplice credenza e convinzion soggettiva, Cristo fa i noti 
miracoli, risuscita Lazzaro, moltiplica i pesci, sale in Cielo, è Figlio di Dio, è Dio 
egli stesso ecc.; e i fedeli ci credono, adorano ecc. 

Ma se tutto ciò dovesse non credersi, ma dimostrarsi con ragionamento scien- 
tifico, fondato sopra consimili fatti ed esperienze umane, come potrebber queste ve- 


Serie I. Tox LXII. 27 


210 PASQUALE D'ERCOLE 110 


nire alla conclusione sicura, non sofistica ecc., che Cristo è Figlio di Dio, che siede 
in Cielo alla destra di questo ecc.? 

Ciò non pertanto, la Religione è eterna ed immortale, per la ragione che essa 
è un fatto costitutivo della natura umana: per perir la Religione, dovrebbe perire 
il genere umano stesso. Solo che la Credenza, fondamento della Religione, va sog- 
getta alla esplicazione (o evoluzione che voglia dirsi) che è propria della natura 
umana stessa. Come si svolge e perfeziona la natura umana, così si svolge e per- 
feziona anche la Credenza, che fa parte di questa (1). 

Tale esplicazione e perfezionamento della Credenza (che è poi uno svolgimento 
e perfezionamento del Soggettivismo stesso) è quello che costituisce il fatto del così 
detto Modernismo, il qual fatto non è soltanto moderno, ma si è verificato ed effet- 
tuato in tutti i tempi: ogni tempo susseguente si dice diverso e progressivo rispetto 
al tempo antecedente. E condannare il Modernismo, come fan quelli, che non progre- 
discono, ma stan fermi ad un dato stadio dell’esplicazione della coscienza umana, po- 
niamo allo stadio medioevale, val tanto quanto condannare la natura umana stessa. 

Domanda intorno alla Filosofia. — Anche rispetto alla Filosofia si potrebbe far - 
la stessa domanda fatta intorno alla Religione. E cioè: Se il sapere filosofico è sog- 
gettivo, non diventa impossibile la conoscenza oggettiva della realtà ? 0, che vale lo 
stesso, non diventa impossibile la conoscenza della verità ? 

La vera e geniale risposta a tal domanda, già adombrata nel pensiere di molti 
filosofi, l’ha formolata ed espressa Schiller (moventesi nell'orbita del pensiere Kan- 
tiano) nel seguente modo: ; 

Quale delle Filosofie rimane? Non so. 
Ma Filosofia, spero, rimarrà eterna (2). 

Certo, le Filosofie, ossia le singole concezioni filosofiche soggettive dell’universale 
oggetto, che è la realtà scrutata e determinata, cadono, ma la Filosofia permane. E, 
per giunta, nel permanere e perpetuarsi sì rinnova, si accresce d’ insegnamenti, di 
nuove verità, avvicinandosi il più che è possibile all’Ideale filosofico, che è la più 
larga ed alta conoscenza, e ad un tempo, la più alta Verità che il Soggetto umano 
universale può avere dell’Oggetto universale, o, che vale lo stesso, della univer- 
sale realtà. 

Chiudo queste considerazioni sul Soggettivismo coll’affermare, che la Verità stata 
detta assoluta e oggettiva, è soggettiva anch'essa, e mutantesi, progredente e perfe- 
zionantesi, come si muta, progredisce e si perfeziona il Soggetto stesso. Giaechè solo 


il Soggetto ha sempre pensato e detto, pensa e dice e penserà e dirà come è e quale è 
la Verità delle cose. 


La realtà del Mondo esterno. 


= 


Un'ultima mia osservazione è che, secondo lo stesso Criticismo Kantiano, non 
solo si può, ma si deve ammettere la realtà del Mondo. Giacchè di tal Crificismo 


(1) Quanto al Soggettivismo, rimando volentieri il lettore all'opera del Prof. Ambrogio FeRRARI, 
intitolata: Introduzione alla Logica, Alessandria, 1895, pp. 137-184, ove troverà cose notevoli in pro- 
posito. Rispetto a tale opera rilevo che. senza esser sempre e in ogni cosa d'accordo coll’autore, 
essa è certamente un'opera notevole e uno studio importante dell’argomento trattato. 

(2) Fr. ScaiLcer’s, Sammliche Werke, Stattg. u. Tiibing., 1840, p. 92. 


111 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 211 


uno degli elementi essenziali e costitutivi è l’esperienza (die Erfahrung). Ora, l’espe- 
rienza reale, realissima che noi facciamo del nostro senso e pensiero interno, ossia 
del così detto mondo interno, è interamente diversa da quella che facciamo del 
mondo esterno sentito, percepito e appercepito col nostro senso e colla nostra intel- 
lezione e ragione. E benchè sia vero che nella apprensione sperimentale del mondo 
interno e dell’esterno sieno, secondo il Criticismo, condizioni indispensabili le rappre- 
sentazioni del Tempo e dello Spazio, pur queste rappresentazioni, da una parte, son 
vere e reali entità dello spirito umano, dall’altra, ci fanno sentire e percepire il mondo 
interno e il mondo esterno come dissimili, anzicome del tutto diversi. Infatti, nel mondo 
interno il passaggio che avviene da una sensazione ad una rappresentazione, ad una 
intellezione ece., si mostra di una natura perfettamente diversa, e talvolta persino 
perfettamente opposta a quella del mondo esterno. Nel mondo interno senso, fantasia, 
intelletto, emozioni, ragionamenti, ece. son tutti raccolti in uno e medesimo soggetto, 
il quale si riconosce uno. e medesimo in tempi diversi, rispetto a cose diverse, ecc. 
Nel mondo esterno, invece, le cose da noi sensibilmente percepite e sperimentate si 
mostrano proprie, inerenti ed esistenti in diversi soggetti, e insiememente in diverso 
Tempo e in diverso Spazio. Questi soggetti esterni stessi si mostrano inoltre di na- 
tura essenzialmente diversa, come son, per esempio, una pietra, una pianta, un ani- 
male, ecc.: diversità, che si mostra per giunta sì diversa per diversità di fenomeni, 
fenomeni di luce e tenebre, di caldo e di freddo, di attrazione e ripulsione, di gran- 
dezze ed estensioni diverse, ecc. ecc. (1). 

La conclusione di ciò è che il così detto Soggettivismo in Kant rispetto ai feno- 
meni interni ed esterni non è punto incompatibile coll’oggettività e realtà del Mondo, 
la-quale è anzi richiesta dallo stesso kantismo. Solo che anche a tal riguardo riman 
pur vero, come si è mostrato antecedentemente, il Soggettivismo della conoscenza. 
Giacchè è sempre il Soggetto umano quello che sente, pone, giudica e determina il 
Mondo oggettivo esterno come altro e diverso dal Mondo soggettivo interno. 

Rispetto a tal punto ricordo da ultimo il pensiere importante di RosENKRANZ e 
di Mic®eLer. Michelet aveva rilevato come gran merito in Kant l’accentuazione della 
Subbiettività. Rosenkranz ne accoglie e ripete il pensiere ed il merito, ma chiarendo e 
additando ciocchè vi ha di vero in una tal Subbiettività. “ Certo, dice egli (in Geschichte 
« der Kant schen Philosophie, etc., vol. 12° già mentovato delle Opere complete di Kant, 
“ pag. 230), la Filosofia di Kant è quella della Subbiettività, ma di quella Subbiet- 
“ tività per mezzo di cui il Subbietto vuole aprirsi la via all’Obbietto e saturarsi 
“ (sich erscittigen) coll’infinito contenuto del medesimo ,. Rosenkranz ha perfettamente 
ragione; e chi vuol giudicare il Criticismo di Kant deve penetrare nell’altissimo e 
profondissimo pensiere del medesimo. 

E con ciò pongo fine alla trattazione, esposizione e giudicazione della Critica 
della Ragion Pura e della Logica di Emanuele Kant, e passo alla trattazione della 
Logica hegeliana. 


(1) Quanto alla diversità del mondo interno e del mondo esterno, additata dallo stesso Kant, 
vedi vol. II delle Opere, pag. 586, e ibid. ne’ Supplementi, p. 686 in nota. 


-.--- _ eeocfer—- > 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO 


ALLA 


MORTE DI MANUELE COMNENO 


MEMORIA 


DI 


FRANCESCO COGNASSO 


Approvata nell’ adunanza del 5 Maggio 1912. 


I 
La Reggenza. 


Dal matrimonio con Berta di Sulzbach, Manuele I Comneno aveva atteso, durante 
anni ed anni, con ansia indicibile, un figlio maschio, erede legittimo ed incontrastato 
dell'impero, ch’egli si studiava, con ogni sforzo, di rendere maggiormente glorioso 
e potente (1). Ma la maledizione che il vecchio Cosmas, nel dì della sua deposi- 
zione dal trono patriarcale, aveva lanciato contro le viscere della basilissa, pareva 
adempirsi in tutto il suo orrore, sì che nell’animo di Manuele le più gravi inquie- 


(1) Il periodo di storia bizantina, oggetto del presente studio, ha già dato motivo a più lavori. 
Senza ricordare le trattazioni generali, ricordo Wirxen, Andronicus Comnenus, in Raumer: © Histo- 
risches Taschenbuch ,, II, 2831, 431-545; ParvanoeLu, Historische Bilder, Leipzig, 1879; UspPensEIJ, 
Alessio ed Andronico Comneno, nel “ Giornale del Ministero della Pubblica Istruzione , di Russia, 1880, 
vol. CCXII, 95-130 e 1881, vol. CCXIV, 52-85; Raposcit, Dova posljednja Komnena na Carigradskom 
prijestolju, Agsram, 1907 (a me noto solo per la recensione del Kvrrz, in “ Byzantinische Zeitschrift , 
1908, XVII, pag. 182); L. pu Sowxerarp, Agnès de France, in Deux Princesses d’Orient au XII siècle, 
Paris, Perrin, 1907; Dreat, Figures byzantines, Il° série, Paris, 1908. 

Le fonti bizantine sono citate regolarmente secondo l'edizione di Bonn; ho omesso, per ragioni 
ovvie, sistematicamente le citazioni della Synopsis Sathas. Per la critica delle fonti (Giovanni Cin- 
namo, Niceta Acominato, Michele Acominato, Eustazio di Tessalonica, etc.) rinvio senz’altro a 
Kart KrumBacuer, Geschichte der byzantinischen Litteratur, Il ed., 1896, ed alla bibliografia ivi ricordata. 
Le fonti latine sono citate solo quando presentano uno speciale interesse. Per le questioni crono- 
logiche, vedi, con le dovute cautele, l’opera, oramai invecchiata, di E. pe Murarr, Essai de Chro- 
nographie byzantine (1057-1453), Saint-Pétersbourg, 1871. 

Abbreviazioni usate : C.= Giovanni Cinnamo, Ezr0wi; N.:=-Niceta Acominato, Xgovrxi) dejyno1s; 
E.= Eustazio di Tessalonica, Zvyyeupà ts rat adtijv GAbceos; WT.= Willelmi Tyrensis, Rerum 
in partibus transmarinis gestarum Historia; BI.= Byzantinische Zeitschrift; Viz. Vr. = Vizantijskij 
Vremmenik; PG. = Migne, Patrologia Graeca; HC. = Recueil des Historiens des Croisades; 
MG.= Monumenta Germaniae Historica. 


214 FRANCESCO COGNA3SO 2 


tudini si disegnavano, mentre l’irrequieta ambizione di qualche congiunto e cortigiano 
ritraeva da questo fatto nuovo alimento (1). 

Moriva l'imperatrice Irene verso il 1158, e Manuele sperò che il suo desiderio 
verrebbe soddisfatto col matrimonio che breve tempo dopo strinse con Maria d’An- 
tiochia. la seconda figlia di Raimondo di Poitiers e della principessa Costanza. Per 
molti anni ancora, però, l'aspettativa del basileus rimase delusa, e Manuele, scon- 
fortato, decise di lasciare erede del trono la porfirogenita Maria, la sola figlia rima- 
stagli delle due nate dal suo primo matrimonio (2). 

Verso il 1169, finalmente, Maria d’Antiochia divenne madre di un maschio, e 
Manuele, ebbro di gioia, vide, per questo fausto avvenimento, sfumare ogni preoccu- 
pazione per l'avvenire dell'Impero e della sua dinastia (3). Come già si era fatto per la 
proclamazione ad erede della Porfirogenita, tutta la popolazione della capitale con- 
venne nel Tempio delle Blacherne a giurare fedeltà al giovane principe Alessio — 
quale augurio nel nome dell’avo! — proclamate ed incoronato basileus. collega del 
padre nella dignità e suo successore. Tale proclamazione, però. avvenne solo nel 
marzo del 1171, ed appunto il giorno 24 di tal mese, il patriarca ecumenico, Michele 
d’Anchialo, prestò giuramento di fedeltà insieme coi ventiquattro vescovi raccoltisi 
per l'occasione nella capitale, impegnandosi a nome suo e dei successori suoi, a rispet- 
tare e sostenere le nuove disposizioni prese da Manuele per regolare stabilmente la 
successione nell'impero (4). 


(1) C., 256; N. 107. 3. Vedi Caaraxpox, Jean II Comnène ei Manuel I Comnène, Paris, 1912, pag. 212. 
Il libro del Chalandon mi giunse pur troppo quando già attendeyo alla correzione delle bozze. 

(2) C., 184, 13; 210 e 214; N., 146 e segg.; 151; WT., XIX, xv, S74 

(3) La data precisa della nascita del porfirogenito Alessio è incerta. N. ne parla dopo la spe- 
dizione in Egitto del 1169 (219. 16); poi a pag. 356. 1, dice che alla sua morte (poco dopo il 20 set- 
tembre 1183) non aveva ancora compiuto 15 anni. Nel suo Byoevoòds 775 6edodofias (redine alcuni 
importanti frammenti in Uspensay, Il movimento filosofico in Bisanzio nel sec. XII, in © Giornale del 
Ministero della P. I. ,, di Russia, 1891, 315-316) dice che alla morte di Manuele, Alessio non aveva 
ancora 13 anni. WT.(XXII, rv, 1067) dice che Alessio, all’epoca del suo matrimonio (2 marzo 1180). 
non aveva ancora 13 anni; Michele il Siriaco (HC.. Doc. Arméniens, I, 383) gli da 12 anni alla morte 
del padre; Codino (#egì 70» darò rricews a6cuov #r@v, 159) dice che Alessio nacque il 10 settembre 
dell’indizione II, l’anno del mondo 6678, ed il 28 del regno di Manuele (1170). I data cronologici 
di Codino non sono però del tutto sicuri. È da notare anzi che negli atti della Sinodo del sennaio-feb- 
braio 1170 non figura più il despota Alessio-Bela (vedi sotto, pag. 215 e nota 2); e che Alessandro, 
scrivendo ad Enrico arcivescovo di Reims, per indurre Luigi VII a far incoronare il figlio Filippo, 
gli pone innanzi l'esempio del Porfirogenito fatto incoronare ° cum vix sit triennis, (Boveusr, 
Recueil, XV, 925, n.339), mentre la lettera, datata solo 3 agosto, non può portarsi al di là del 1172, 
troppo lungi dal ricordo dell’incoronazione di Alessio (1171). Il Chalandon (Jean II Comnène ete., 
pag. 212) accetta senza discussione la data 10 settembre 1169. Vedi in Mrrzz, Catalogue des manuscrits 
grecs de l’Escurial, Paris, 1866, pag. 216, l'accenno ad una orazione del didascalo ecumenico Schizino, 
recitata per la nascita di Alessio II, del noto codice escurialense Y. II. 10. 

(4) Il giuramento di Michele d’Anchialo è edito dal Paulov in Viz. Vr., II, 1895, 388 e segg. 
Non è senza importanza il rilevare l’uso che si aveva nel sec. XII alla Corte bizantina d’incoro- 
nare l'erede dell'impero, ancora vivente l’imperatore: questi aveva i titoli di dbasileus ed autocrazore, 
mentre l’erede portava solo quello di basileus. Così l’Ottateuco del sebastocratore Isacco Comneno 
fu scritto: érì facrAé0s ueyehov tv Xpiotò nuotod nai G0doddEov atrorodiopos “Popoiov “AkeEiov 
où Kouvrvoòù raì ‘Iodvrov peydhov facrhéas toù m0ppvpoyervizrov (Uspessz, L’Ottateuco della 
Biblioteca del Serraglio, in “ Bollettino dell’Istituto archeologico rasso di Costantinopoli ,, XII): vedi 
pure una miniatura rafficurante Cristo con ai lati Giovanni Il ed il figlio primogenito di questo, 
Alessio, del cod. Urbinate Greco. 2, in Scamirr, Veber den Verfasser des Spaneas, in BZ, I, 316 e segg. 


(2) 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 215 


Della nascita — oramai davvero inaspettata — del principe Alessio, non dovette 
certo allietarsi gran che la porfirogenita Maria, avvezza a considerare da anni, oramai, 
la corona imperiale come cosa a lei spettante di diritto. Nata verso il 1153, orfana di 
madre pochi anni dopo, priva non molto appresso della sorella minore, che aveva ben 
presto raggiunto la madre nella tomba, essa era cresciuta isolata, trascurata ugualmente 
dal padre occupato in mille faccende di guerra e dalla giovane indifferente matrigna (1) 

Non aveva certo essa più di dieci anni, quando dal padre era stata fidanzata 
al fratello cadetto di Stefano III d'Ungheria, il principe Bela, non ostante il mal- 
contento della popolazione e della Corte, irritate che un principe barbaro non solo 
sposasse la figlia dell’autocratore dei Romani, ma diventasse l’erede del trono. Tale 
matrimonio, però, Manuele aveva combinato, allorchè eragli stato necessario rinun- 
ziare a voler far riconoscere con la forza il primato dell'Impero agli Ungheresi, nella 
speranza che, venendosi a spegnere presto o tardi la linea diretta della famiglia reale 
d’Ungheria, la figlia od i suoi discendenti potessero legittimamente pretendere a quella 
successione. Ed il giovanetto fu dal fratello, lieto di terminare con un matrimonio 
una guerra pericolosa, inviato a Bisanzio; quivi assunse il nome di Alessio ed 
ebbe l’altissima dignità aulica di Despota; poi, celebrato il suo fidanzamento con la 
Porfirogenita, fu con essa dichiarato erede dell'Impero, ed incoronato come tale in 
Santa Sofia (2). 

Lo stesso Manuele però si era rassegnato a questo matrimonio come ad una 
dolorosa necessità in mancanza di un erede maschio legittimo; ma già nel 1166, 
morto appena Guglielmo I di Sicilia, apriva tosto trattative con la vedova Mar- 
gherita, tutrice e reggente per il minorenne Guglielmo II, proponendo una alleanza 
fra i due Stati, ed il matrimonio del giovane Re con la Porfirogenita (3). Nato poi 
il principe Alessio, il basileus si affrettò a far sciogliere il fidanzamento di Bela 
con Maria, pretestando certi impedimenti canonici. Bela dovette lasciare la dignità 
di Despota per quella meno importante di Cesare; e quando, morto davvero, il 
4 marzo 1172, senza figli, il re Stefano III, fu chiamato a succedergli il fratello minore 
Bela, allora Manuele, per tenerlo legato a sè ed alla sua famiglia, gli diede in isposa la 


Della associazione all'impero di Alessio II abbiamo traccia nelle dispute di Teoriano (Miene, PG., 
CXXXIII, col. 232), avvenute “ l’anno, della fondazione del mondo, 6680, trentesimo dell’impero di 
Manuele Porfirogenito Comneno, e secondo e tre mesi dell'impero del figlio di Manuele, il basileus 
Alessio Comneno ,. 

(1) La nascita della porfirogenita Maria è posta dagli uni nel 1153, dagli altri nel 1156. Vedi 
per la discussione cronologica B. Keir, in © Wiener Studien ,, XI, 1899, 106 e segg., e ParapnamRIOU, 
in Viz. Vr., V, 1898, 91 e segg. Il Chalandon (op. e loc. cit.) mette la nascita della principessa nel 1152. 

(2) Il fidanzamento di Maria con Bela e la proclamazione ad eredi dell'impero son da porsi fra 
il 1163 ed il 1166, nel quale anno Bela figura con il titolo di Despota (non di Sebasto, come dice 
il Chalandon, Jean II Comnène ete., 476), subito dopo Manuele, negli atti della Sinodo (Mai, Veterum 
Scriptorum Nova Collectio, IV, pag. 1). Anche il Craranpon (Jean IT Comnène ete., pag. 223, n. 2) 
inclina per il 1164. Sulle relazioni con l’Ungheria vedi Marrara, Geschichte der Magyaren; HuBER, 
Geschichte Oesterreichs, Gotha, 1885; Gror, Ir istorij Ougrij i Slavianstva v. XII viékié, Varsavia, 
1899 (da me non visto); poi sopratutto H. von Kar-Herr, Die abendlindische Politi Kaisers Manuels, 
Strassburg. 1881, Jrrece&, Geschichte der Serben, Gotha, 1911 e Cmaranpox, Jean II Comnène etc. 

(3) Vedi Caaranpon, Hist. de la domination des Normands en Italie. II, pag. 358 e dello stesso, 
Jean II Comnène etc., pag. 570. È da notare come probabilmente queste trattative coincidano con 
una gravidanza sciagurata della basilissa Maria, appunto del 1166: cfr. C., 256. 15 e segg. 


216 FRANCESCO COGNASSO 4 


sorellastra della basilissa, Agnese di Antiochia, — nata a Costanza dal principe 
Rinaldo di Chatillon, e venuta con il fratello Baldovino a Bisanzio qualche anno 
prima, — facendogli giurare eterna amicizia, alleanza e fedeltà (1). 

Per la figlia Maria, il basileus pensò ora a nozze di maggiore importanza per 
la sua politica europea. Trattò dapprima con Federico Barbarossa per il principe 
Enrico e con Enrico II d’Inghilterra per il figlio minore, Giovanni, detto poi Senza 
Terra, poi nuovamente con Guglielmo II di Sicilia: questi accettò, e già tutto era sta- 
bilito; ma Manuele, all’ultimo momento, venne meno — e fu grave errore! — agli 
accordi. Guglielmo II invano aspettò a Taranto la nave che doveva portargli la sposa. 
Così la povera principessa vedeva trascorrere tristemente la sua giovinezza nel gineceo 
imperiale, dove dominava, superba della sua maternità, Maria d’Antiochia (2). 

Altri malumori aveva la nascita del porfirogenito Alessio suscitati a Corte; più 
d'uno dei molti cugini e nipoti di Manuele doveva aver accarezzato nel più profondo 
dell'animo, forse senza osare confessarlo neppure a sè stesso, una più o meno vaga 
aspirazione all’impero. Rancori sordi vi erano; ma se alcuno doveva poi dare tristi 
frutti, per ora nulla appariva, e Manuele poteva sperare in una retta esecuzione 
della sua volontà. 

Alla vigilia della sua morte, però, le condizioni generali dell'Impero eransi ag- 
gravate, e l'avvenire appariva fosco. Il basileus durante tutto il suo regno aveva 
atteso insistentemente a quella politica grandiosa di guerre e di conquiste, già ini- 
ziata dal padre suo Giovanni II. Egli aveva educato nel suo animo i ricordi di Roma 
antica, e con la mente offuscata dai sogni dei diritti imprescrittibili dei basileis di 
Costantinopoli al dominio del mondo, come eredi di Augusto, di Costantino e di 
Giustiniano, si era illuso di poter fare della sua capitale il centro, il fulcro di tutta 
la politica europea. Non si era però chiesto se l’Impero fosse capace degli sforzi a 
ciò necessari, e la complessità delle sue aspirazioni ebbe per unico risultato un im- 
menso e spossante dispendio di energie umane e finanziarie, mentre un profondo 
malcontento sorgeva da tutte le classi della popolazione e serpeggiava attorno allo 
stesso trono imperiale (3). 

A Manuele, più che per ogni altra cosa, si muoveva dai sudditi rimprovero per 
le sue relazioni con le potenze occidentali, per la protezione assidua e zelante che 
ai latini accordava nell'impero, accogliendoli perfino nelle dignità di Corte, a detri- 
mento degli indigeni. Il grande basileus era stato indotto a tale condotta da motivi 
di politica estera ed interna ad un tempo. Egli non intendeva solo allargare i con- 
fini dello Stato, ma anche infondervi nuova vita; a questo risultato doveva condurre 
la cooperazione concorde dell’elemento indigeno e dell’elemento latino, cooperazione 
cui avrebbe favorito la riunione delle due Chiese. 


(1) C., 287. 2. Cfr. pure Caaranpon, Jean II Comnène ete., pag. 491. Nella Sinodo del 1170 non 
fisura più Bela, vedi Penit, Documents inédits sur le concile de 1166... (Viz. Vr., XI, 490 e seggi). 

(2) N. 221. 17. Cfr. Gresesrecat, Geschichte der deutschen Kaiserzeit, V, 674; CnaLanDoN, Hist. de 
la dom., II, 371, e dello stesso, Jean II Comnène ete., 571 e 596; Chronicon anonymi canonici Lau- 
dunensis, MG., SS., XXVI, 447; e vedi HarpeGen, Imperial-Politit Konig Heinrichs Il von England, 
Heidelberg, 1905, 20 e segg. 

(3) Vedi il giudizio che da lo Chalandon della politica di Manuele, nella sua recente opera, 
Jean IT Comnòne etc., pag. 555 e segg. 


Ur 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 217 


Mentre l'opinione publica in Bisanzio, quale, ad esempio, è rispecchiata da Niceta 
Acominato, il quale scriveva — è giusto notarlo — quando la politica di Manuele 
aveva raggiunto le estreme sue conseguenze, era avversa ai Latini, Manuele I della 
civiltà occidentale aveva massima stima, anzi, ammirazione; opinava che la capacità 
intellettuale dei latini fosse superiore a quella dei suoi sudditi, come superiore era 
la loro potenza militare. E come coll’adottare le costumanze militari occidentali, cogli 
arruolamenti numerosi di avventurieri, fossero latini od anglosassoni, egli sperava di 
poter accrescere la forza dell'impero, per potere competere con gli eserciti occiden- 
tali, bellicosi, bene armati, avidi di ricchezze e di conquiste, acerrimi nemici della 
Romania, così credeva di poter far fronte alla decadenza economica di Bisanzio, atti- 
rando nei porti e città principali commercianti latini, favorendo i loro commerci di 
importazione ed esportazione, per essi abbandonando, più che non avessero fatto i 
suoi predecessori, quella politica di rigoroso protezionismo ch’ era stata una tra- 
dizione secolare dell’ Impero d'Oriente. Mercò la protezione della Corte, la popola- 
zione latina dell'impero andò sotto il regno di Manuele sempre più aumentando: 
alla morte del basileus, nella sola capitale vi sarebbero stati, secondo Eustazio di 
Tessalonica, ben sessantamila latini. Per le necessità dei loro commerci, se una parte 
dei latini prendeva dimora in terra d’Impero solo temporaneamente, un’altra parte vi 
aveva fissato residenza stabile; ai rapporti d’ interesse e di amicizia fra latini ed 
indigeni avevano seguito assai spesso rapporti di parentela. Ma nonostante questo 
inizio di affratellamento fra i due popoli, nonostante che a molti commercianti ita- 
liani il basileus avesse concesso e concedesse il diritto di borghesia, assoggettandoli 
alle leggi ed ai tributi dello Stato, il tentativo di fondere le colonie occidentali con 
la classe commerciante indigena era fallito completamente. Le divergenze di civiltà, 
costumi, lingua, religione e tradizioni erano troppo gravi. Manuele, però, nonostante 
le oscillazioni della sua politica estera, era stato sempre fedele alle sue simpatie 
per i latini e per gli occidentali in genere, sì che di essi si serviva in guerra ed 
in pace, riempiendo di funzionari latini la Corte e le Cancellerie imperiali, con grave 
onta e danno dei greci: questi, trattati con una certa diffidenza dal basileus, con 
disprezzo dai latini, che riputavano la loro raffinatezza prova non dubbia di effemi- 
natezza, e li dicevano infingardi, doppi e smascolinati, nutrivano vivo risentimento 
verso Manuele ed odio terribile contro l’invisa razza latina. Tale corrente senofoba 
aveva seguaci in tutte le classi della popolazione, ma specialmente fra i borghesi ed 
i commercianti, gravemente danneggiati dai mercanti occidentali e desiderosi di 
liberarsi di questi terribili concorrenti (1). 

Per ora l’eminente figura di Manuele teneva tutti in soggezione, ma si affila- 
vano le spade per la lotta che s’ intuiva non lontana. 

Con la scelta fatta della sposa per il Porfirogenito, e dello sposo per la figlia 
Maria, Manuele dimostrò, ancora poco prima di morire, di volere rimanere sempre 


(1) N., 266. 20; per i rapporti di Manuele con l'Occidente, e la sua politica verso i latini, oltre alle 
note opere del Giesebrecht, dello Heyd, dello Schaube, del Chalandon, vedi sopratutto H. v. Kar-HerE, 
op. cit., e Norpen, Papsttum und Byzanz, Berlin, 1903; il lavoro del Gruan, Die byzantinische Politik 
zur Zeit der Kreuzziige, Berlin, 1904, non reca nulla di nuovo. 


Serie II. Tow. LXII. 28 


21 


(7.2) 


FRANCESCO COGNASSO 6 


fedele alla sua politica latinofila e di desiderare che per tale via si continuasse anche 
per l'avvenire. 

Nel 1178, quando Filippo, conte di Fiandra, di ritorno dalla Palestina, era pas- 
sato per Costantinopoli, il basileus, accoltolo con quella sua ospitalità ben nota e 
celebrata in tutta Europa, lo aveva incaricato di chiedere al re di Francia, Luigi VII, 
la mano della figlia Agnese, natagli dalle sue terze nozze, per il porfirogenito 
Alessio. Non molto dopo, un’ambasciata bizantina venne — portando ricchi doni — 
appositamente in Francia, incaricata di conchiudere il contratto nuziale. Luigi VII, 
che da lunghi anni era in ottime relazioni con il basileus, aveva presto aderito. 

E così nel 1179, la principessa Agnese, a soli otto anni, partiva per l'Oriente; 
da Genova la trasportarono fino al Corno d'Oro le galee del fido del basileus, il geno- 
vese Baldovino Guercio. L'entrata della sposa nella Capitale avvenne fra feste sontuose: 
Eustazio di Tessalonica salutò la principessa con eloquente discorso, poeti di corte 
celebrarono l'avvenimento con epitalami, dei quali alcuno ci giunse (1). 

Tale matrimonio era stato già consigliato a Luigi VII, fin dal 1171, dal papa 
Alessandro III, quando si era sparsa voce di trattative matrimoniali fra la Corte 
francese e la Corte imperiale di Germania. All’arcivescovo di Reims, incaricandolo 
di questa proposta, il papa aveva allora promesso, il 28 gennaio 1171, di appoggiare 
presso il basileus la richiesta ufficiale; così a Bisanzio. Regnum et consanguinei puellae 
aerarium indeficiens semper invenient. Non sappiamo però se fra queste trattative del 1171 
e del 1178-1179 esistano rapporti diretti. Il 2 marzo 1180, nella Basilica costantiniana 
del Trullo, fu solennemente celebrato il matrimonio, e lo stesso giorno, il basileus 
Alessio, veniva nuovamente incoronato con la sposa; questa assunse, passando alla 
Chiesa ortodossa, il nome di Anna (2). 

Contemporaneamente alle trattative con la Francia, Manuele ne aveva condotto 
in porto altre, di ben maggiore importanza, con il marchese di Monferrato, Gu- 
glielmo V l'Antico. 

Erano questi gli anni in cui il basileus lavorava attivamente in Occidente a 
riconciliarsi i vecchi amici, a procurarsene dei nuovi, mirando solo a suscitare dif- 
ficoltà al Barbarossa. Il trattato di Venezia del 1177 era stato una vera sconfitta 
diplomatica per Manuele, abbandonato perfino dal Papa nelle trattative finali, 
sebbene, prima, nei preliminari di Anagni, avesse potuto e voluto far comprendere 
l’imperatore costantinopolitano fra gli aderenti alla pace. Il grave rovescio di Myrio- 
Kephalon era probabilmente la vera causa dell’indebolimento diplomatico di Manuele 


(1) Le fonti principali sono: RantLesi DE Dicero, Chronicon (Bovever, XII, 201); RoserTI DE 
Moxre, Chronicon (MG., SS., 527 e sgg.); WT., (XXI, rv, 1066); Arserici Triox Foxrivy, Chronicon 
(Bovouer, Recueil, XIII, 708); Rosert DE Crary, ed. Hopf, pag. 12 e sgg.; Orrosoni, Annales (MG., SS., 
XVII, 99). Il discorso di Eustazio è in ReceL, Fontes rerum byzantinarum, Petropoli, 1893, pag. 81; 
per l’epitalamio cui accenno nel testo, vedi l'edizione commentata dallo Srrzy6owsxi, in BZ., X, 544, 
che lo attribuì alle nozze di Andronico II Paleologo o con Anna di Ungheria nel 1271 o con Irene 
di Monferrato nel 1285. Vedi però in contrario le buone argomentazioni del Parapnirriov, pure in 
BZ., XI, 452, che lo restituì alle nozze di Alessio II. L'epitalamio, di poca importanza artistica, 
presenta qualche curiosità sotto il punto di vista aneddotico. 

(2) La lettera di Alessandro III è in Bovquer, Recueil, XV, 901; cfr. A. CarreLnigrI, Philipp II- August, 
I, pag. 21 e Craranpon, Jean II Comnène etc., pag. 605. 


7 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 11219 
negli affari d’Italia (1). Tuttavia, nonostante le diffidenze degli uni, le ostilità degli 
altri, Manuele aveva ripreso i suoi progetti antitedeschi. La situazione era, del resto, 
non troppo sfavorevole per una ripresa d’armi contro Federico I; i suoi rappresentanti 
dovunque in Italia erano detestati per la loro oltracotanza: i Marchesi di Monferrato 
odiavano il Cancelliere dell’ Impero, Cristiano di Magonza, specialmente per la 
recente cattura di Corrado, il quale era stato liberato solo dopo il pagamento di 
una ingente somma; Genova e Pisa erano piuttosto favorevoli a Bisanzio per i loro 
commerci; il Papa era sempre lusingato dalle promesse, a volte sincere, di Manuele, 
per l'unione delle due chiese (2); Ungheria, Francia, Inghilterra, erano amiche (3). 
Con tali aderenze, poteva Manuele, non ostante la ostilità della lega veneto-nor- 
manna, pensare alla riscossa. Il basileus riuscì abilmente ad attirare a sè i Marchesi 
di Monferrato: a Guglielmo V diede ricche rendite ed ampi possessi nell’ isola di 
Creta, a Corrado promise aiuto d’ogni genere — specie finanziario — contro l’arci- 
vescovo di Magonza, a Raineri mandò invito di recarsi alla sua Corte: gli avrebbe 
dato alte dignità, grandi ricchezze, e la porfirogenita Maria in isposa. 

L’oro bizantino, come influì vivamente nel malcontento che i Comuni lombardi 
mostrano in questi anni contro l’Impero tedesco, così agì potentemente nella vasta 
cospirazione che il marchese Corrado, lungo il 1179, andò preparando nell’Italia cen- 
trale contro Cristiano di Magonza. Intanto, il giovane marchese Raineri, aderendo 
all'invito di Manuele, verso la fine dell’agosto di quell’anno, lasciava il Castello 
paterno, i ridenti colli del Monferrato per i miraggi orientali (4). Ebbe accoglienza 
magnifica: gli fu conferita — con il nuovo nome di Giovanni — la dignità di Cesare, 
cui furono forse aggiunte laute rendite in Macedonia. Seguì, nell'autunno, il basileus 
in una sua spedizione; al ritorno, secondo i patti, sposò — aveva soltanto diciassette 
anni — la porfirogenita Maria che era non lontana ora dai trenta (febbraio 1180) (5). 


(1) Vedi Craranpoxn, Hisf. de la dom. des Normands; II, pag. 380; e, dello stesso, Jean Il Com- 
nène etc., pag. 598. 

(2) Ancora il 13 novembre del 1177, scrivendo ad Ugo Eteriano di Pisa, da molti anni resi- 
dente alla Corte bizantina, con l’ ufficio d’interprete per le lettere latine, Alessandro III, mentre 
si congratulava per un suo scritto sulle differenze fra le due chiese, lo esortava a sollecitare per la 
unione tanto auspicata “ carissimum in Christo filium nostrum illustrem et gloriosum Constantino- 
politanum imperatorem ,. Mine, PL., CC., col. 1154. } 

(8) Per le relazioni con l’ Inghilterra, dopo le trattative matrimoniali del 1173 (vedi sopra, 
pag. 216) vedi in The Great Rolls of the Exchequer commonly called the Pipe Rolls, XXIII (Henry Il), 
London, 1905 (pag. 116, 187, 192, 208), diversi pagamenti per spese di ambasciatori inglesi a Co- 
stantinopoli e bizantini in Inghilterra, fra il 1176 ed il 1177. Forse gli ambasciatori bizantini, di 
cui ivi si tratta, portarono ad Enrico II la lettera di Manuele edita in Bovouer, XVI, 652, annun- 
ziante la sconfitta di Myriokephalon. Vedi pure per la corrispondenza fra Enrico Il e Manuele che 
chiedeva informazioni “ super insulae Britannicae situ ac natura ,, GreaLpr CamprensIS, Descriptio 
Cambriae, I, cap. VINI, ed. Dimock, pag. 181. 

(4) In base ai dati di Guglielmo di Tiro (XXII, 1v, 1067); credo che l'andata di Raineri di Mon- 
ferrato, dal Chalandon (Jean II Comnène etc., pag. 600) messa nell’ottobre 1179, sia da anticiparsi 
alla fine di agosto o principio di settembre. 

(5) L’età di Raineri è data da Guglielmo di Tiro, XXII, rv, 1067; l’esattezza è controllata da 
quanto dice N. 222. 9, e dal fatto che il 1 aprile 1177 esso è- ancora dichiarato minorenne (Mo- 
zionpi, Monumenta Aquensia, I, col. 635), mentre il 6 maggio 1178, Raineri riceve dalla sorella 
Agnese il feudo imperiale di Poggibonsi, di cui investe — ancora però con l’assistenza del padre — 
il Comune di Siena (Ficxer, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, IV, 206, n. 165). 


220 FRANCESCO COGNASSO 8 


Alle sue nozze assisteva il fratello Corrado (1), venuto poco prima a Costantinopoli 
a render conto dell'impresa contro il Cancelliere di Federico I, caduto verso il 
29 settembre 1179, nell’insidia tesagli presso Camerino (2). 

Alle solenni feste celebrate, in occasione di questi due matrimoni, con il maggior 
sfarzo possibile alla Corte di Bisanzio, la popolazione della capitale — raccontano — 
partecipò con il più vivo entusiasmo (3) ed Eustazio potè celebrare con retorico eloquio 
il grande trionfo diplomatico del basileus; ma certo è che il partito nazionalista vide 
con rammarico e sdegno questi nuovi legami consacranti una politica che esso ripu- 
tava dannosa allo Stato (4). 

Questo malcontento, Manuele non lo ignorava, ora, certo. Egli stesso, più che 
ai successi della sua politica, riandando gli avvenimenti del suo regno, pensava con 
dolore alle disfatte, più numerose delle vittorie, pensava a quelle valli di Tzibritze, 
dove quattro anni prima era caduto il fiore dell’esercito bizantino; da quei tristi giorni 
del settembre 1176, nessuno più lo aveva visto ridere, chè sempre aveva presente 
alla mente l’onta patita ed il cordoglio di migliaia di madri. La sua salute stessa da 
allora era andata declinando; nel marzo del 1180, poco dopo le solenni cerimonie del 


(1) Erra il Chalandon (Jean II Comnène ete., pag. 600) attribuendo al vecchio Guglielmo V varie 
imprese del figlio Corrado, come la lotta con Cristiano di Magonza ed il viaggio a Costantinopoli ; il 
trattato per la liberazione di Cristiano non fu ° signé entre Christian et Conrad de Montferrat 
agissant pour le compte de Boniface . ma fra Cristiano e Bonifazio a nome di Corrado. 

(2) Per i rapporti di Manuele con i Marchesi di Monferrato, vedi N.. 220. 22; WT., XXII, 1, 
1067 e sego.: Vita Henrici II, ed. Stubbs, London, 1867, I, 243; cfr. quindi GresesrREcHT, Op. cit., 
VI, 888; Ircen, Markgraf Conrad von Moniferrat, 54 e segg.; F. Savio, Studi storici sul marchese Gu- 
glielmo III di Monferrato, Torino, 1885; Braper, Bonifaz von Monferrat, Berlin, 1907; Toretti, I patti 
della liberazione di Cristiano di Magonza, in ° Miscellanea di Storia Italiana ,, Serie II, XII, 321 
e segg.; Caaranpon, Jean Il Comnène etc., 599 e segg. L’ assenza di Bonifacio dal Monferrato nel- 
l'agosto 1182 non è argomento sufficiente per supporre un viaggio suo a Bisanzio, come pensa il 
BrapeR (op. cit., pag. 182 e segg.) fra il 1180 ed il 1182. Riguardo poi alla questione del regno di 
Tessalonica concesso da Manuele a Raineri in feudo (RosertI DE Monte, Chronicon, in MG., SS., IX, 528; 
Sicarpi CremoneNsIS, Chronicon, ib., XXX, 173; Sarmsene Parmensis, Chronicon, ib, ed. Holder-Egger, 
pag. 3), credo non si possa pensare ad altro che al conferimento delle rendite di quella provincia o 
di parte di esse: la confusione nelle narrazioni occidentali fu prodotta dalla incoronazione a Cesare, 
cosa conforme al cerimoniale di corte a Bisanzio. 

Vedi però a questo proposito le opinioni dell’Ilgen (op. cit., pag. 61) che pensa pure ad una confu- 
sione nata in Occidente, senza però spiegarsene l’origine; dello Holder-Egger(MG., SS., XXXI, 173, 
n. 6) che pensa 2 voci sparse più tardi verso il 1204, ad arte, da Bonifacio per legittimare la sua 
conquista di Salonicco; del Brader (op. cit., pag. 182) che obbietta allo Holder-Egger l'avere Sicardo 
di Cremona e Robert du Mont scritto prima del 1203, e crede ad una vera concessione in feudo 
di Tessalonica; del Chalandon (Jean II Comnène ete., pag. 400, n. 1) che suppone l'origine della diceria 
nell’altra diceria raccolta da Robert du Mont, che la Porfirogenita non avrebbe voluto sposare se non 
un re. Un caso consimile è forse quello ricordato da Anna Comnena (A/erias, II, 116): Alessio I, in 
cambio dell’aiuto chiesto a Niceforo Melisseno, avrebbe voluto conferirgli la dignità di Cesare, asse- 
gnandogli con una crisobolla la città di Tessalonica. La dignità di Cesare era ora la maggiore dopo 
quella dell'Imperatore e ben conveniva che avesse unito l’° honorem Thessalonicensium, qui est 
maxima potestas regni sui post civitatem Costantinopolitanam ,. Per il dono di Manuele a Gu- 
glielmo V di Monferrato vedi Tarer und Tuoxas, Urkunde zur Aelteren Handels- und Staatsgeschichte 
der Republik Venedig, I, 503, in Fontes Rerum Austriacarum, II Abt., I, 513. 

(3) Se l’interpretazione è esatta, sarebbe stata battuta poco dopo le nozze la moneta, con l’ef- 
figie di Manuele, Alessio ed Agnese, che il Sabatier illustrò in Description générale des Monnaies 
Byzantines, II, 414 (cfr. tav. LVII, n. 3). 

(4) WT., XXII, rv, 1067; Eusrazio, Oratio in Agnesem, in ReceL, Fontes rer. byz., pag. 80 e segg. 


9 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 221 


matrimonio e dell’incoronazione del figlio Alessio, peggiorò ancor più, ed invano si fece 
trasportare al castello imperiale di Scutarion presso Damali, nella speranza che, lungi 
dagli affari del governo e dai rumori della popolosa capitale, le aure balsamiche 
della Riva d'Asia gli fossero generose di alcuna tregua nei suoi dolori. Per vero, 
neppure allora egli volle e potè dimenticare le cure dello Stato. Appunto fra il 
marzo ed il giugno 1180 fu tutto occupato dalla grave questione degli anatemi che 
nei libri catechici si trovavano contro i dogmi mussulmani sulla Divinità. Egli, in 
omaggio alla libertà religiosa, che voleva in Bisanzio protetta dallo Stato, temeva 
che quegli anatemi colpissero troppo duramente i mussulmani che volessero passare 
alla ortodossia, e propose al patriarca una correzione di quei passi e della formula 
di abiura. Fu lotta aspra per l’intransigenza di parte dell’episcopato, capitanato da 
Eustazio di Tessalonica; la vittoria del governo non fu completa, e le condizioni di 
salute di Manuele sentirono non lievemente il contraccolpo di queste preoccupazioni, 
mentre nuove inquietudini recavano gli astrologi con le loro profezie di prossimi 
cataclismi (1). 

Sovra ogni altra cosa, però, un pensiero lo angosciava: il pensiero del figlio, 
ancora così giovane e del tutto incapace di fronteggiare i bisogni dell’impero e le 
difficoltà del governo. Egli fino all’ultima ora sperò di poter trionfare del male, e 
quando ogni speranza svanì e sentì le forze venir meno, funeste previsioni gli si 
presentarono innanzi e l’ultima sua benedizione al figlio, all’imperatrice, ai famigliari, 
si accompagnò a profondi lamenti (24 settembre 1180) (2). 

“ Morto il basileus Manuele, esclama accorato Eustazio di Tessalonica, parve 
che ad un tratto, scomparso il sole che ci illuminava, una immensa caligine tutto 
ravvolgesse , (3). Ed in verità, Manuele era l'intelligenza dominatrice dello Stato; 
e la potenza, di cui pareva dotato l'impero, non risultanza era di energie coordinate 
e composte della nazione intera, ma solo creazione appariscente e fuggevole della 
forte volontà dell’autocratore. 

Come realmente fosse organizzato il governo che doveva reggere l'impero du- 
rante la minore età di Alessio II, noi non sappiamo con precisione. Fermo nella 
speranza di una pronta guarigione, non pare che Manuele abbia ascoltato i consigli 
del patriarca Teodosio, allorchè l’invitava a regolare minutamente la questione della 
Reggenza, mentre ancora gliene rimanevano le forze. Teodosio avrebbe voluto che 
Manuele affidasse il governo ad un uomo sicuro che si prendesse cura dell’erede e 
proteggesse lui e la basilissa; ma la morte impedì all’ imperatore di trattenersi a 
lungo con i famigliari su questo punto. Nell’incertezza in cui si trovarono i ministri, 
morto Manuele, si dovettero probabilmente regolare le cose in base alle disposizioni 
del 24 marzo 1171 (4). 


(1) N., 287; WT., XXI, x, 1024. 

(2) N., 286; E., Elogio funebre di Manuele, PG., CKXXV, 1032, n. 79; vedi in K. KrumBACHER, 
(op. cit., pag. 762), per una curiosa poesia che sarebbe stata composta da Alessio II con l’aiuto della 
madre, per la morte di Manuele. Ma la poesia, che si trova in un codice di Napoli, potrebbe ben 
essere opera di qualche retore, anche posteriore. 

(3) E., 380. 11; vedi poi lo stesso Eusrazio, in PG., CXXXV, 1032, n. 86, e Nrcera, nei fram- 
menti del suo 070av9ds 69dodogias, ed. Uspenskij, 316. i 

(4) N., 286; WT., XXII, x, 1079, dove però si dice che Alessio successe sul trono a Manuele 
“ tam ex testamento patris quam ex jure haereditario ,. 


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DO 
Lo 


FRANCESCO COGNASSO 10 


Con il giuramento prestato in quel giorno, per sè edi successori suoi, Michele 
d'Anchialo si era impegnato a riconoscere come futuro imperatore, Alessio II, 
senza che fosse necessaria, alla morte del padre, una nuova incoronazione, anche se 
non avesse, salendo al trono, toccato ancora i sedici anni. In questo caso, però, il 
potere sarebbe stato affidato alla madre, Maria d’Antiochia, che veniva quindi rico- 
nosciuta come tutrice del figlio e reggente del trono. Se Alessio II fosse premorto 
al padre, senza lasciar figli, il trono sarebbe toccato ad altro figlio che a Manuele 
potesse nascere, od, in mancanza di questo, alla principessa Maria. L'Imperatrice per 
essere considerata come la Reggente fino alla maggiore età del figlio, doveva però 
vestire l’abito monastico e difendere l’onore di Alessio II; identiche condizioni vi 
erano per la Reggenza in nome dell’altro eventuale figlio ed erede. Ma se la basilissa 
venisse a morire o non si comportasse nel modo anzidetto, allora sarebbe venuto 
meno ogni obbligo di obbedienza, che si sarebbe in questo caso dovuto osservare solo 
verso i Ministri ai quali Manuele avrebbe affidato il governo e l'educazione del figlio, 
e se quelli a loro volta fossero venuti a mancare, i Reggenti sarebbero stati scelti, per 
comune accordo, dagli altri più autorevoli personaggi del governo (1). 

Le fonti ci affermano che attorno a Maria d’Antiochia si trovava un Consiglio 
di tutela; uno storico orientale ci sa perfino dire che questo consiglio era formato 
da dodici membri. Eravi, secondo le fonti, il patriarca Teodosio, cui Manuele morente 
aveva raccomandato il figlio in modo particolare, Alessio Comneno, il Protovestiario, 
forse il protostratore Alessio, bastardo di Emanuele, poi Andronico, il famoso cugino 
del basileus, e forse un altro nipote di Manuele, Giovanni Comneno Vataitze (2). 

Il governo era dunque doppio: l'imperatrice madre, ed il Consiglio: conflitti fra 
le due parti potevano nascere facilmente, specialmente per la condizione imposta a 
Maria d’Antiochia della vita monastica. È questo un punto assai notevole. Purtroppo, 
le nostre fonti nulla dicono che possa aiutarci nel ricostruire la figura morale di 
Maria d’Antiochia. Mentre di Berta di Sulzbach conosciamo la poca avvenenza, le 
nobili doti della mente e del cuore (3), della principessa antiochena nulla è ricordato se 
non la meravigliosa bellezza che aveva destato vero entusiasmo fra i Bizantini quando 
i legati imperiali l'avevano condotta a Costantinopoli, per essere sposata ed incoro- 
nata in Santa Sofia il 25 dicembre 1161 (4). Essa era stata proclamata la più bella del 
suo tempo. Era allora ancora giovane, benchè già sei anni prima, nel 1155, il padrigno 
Renaud di Chatillon, scrivendo al re di Francia, gli parlasse delle due figlie del prin- 
cipe Raimondo, giunte oramai ad nubiles annos. Filippa e Maria erano allora nimis 
pulcherrimae, e Renaud chiedeva se non fosse possibile accasare le due nobili donzelle 
in Francia, perchè laggiù, in Siria, per l’arduità della terra e la loro consanguineità 


(1) Vedi Pautov, op. cit., in Viz. Vr., Il, pag. 390. 

(2) Sulla reggenza, vedi N., 292. 22; 329. 20: E., 381. 1; Grecorm AsurrB4RaGI sive Bar-HEBRAFI, 
Chronicum Syriacum, ed. Bruns et Kirsch, Lipsiae, 1789, pagg. 388-89; Mic®eLe x Sigiaco, Chronicon, 
in HC., Doc. Arm., I, 389 e segg. In SceLtxsercer, Sigillographie byzantine, 713, trovasi un sigillo di 
Giovanni Comneno Vatatze con il titolo di “ Tarxas._= Tutore ,. 

(3) C., 10, 36. 2; 277; N., 72, 23; Basrcro p'Acarma, Elogio funebre di Irene, ed. Vasiljewskij, 
in Viz. Vr., I, 109. 5; cfr. Diznt, op. cit., pag. 183, Caaraxpon, Jean II Comnène etc., pag. 210. 

(4) Sul matrimonio di Manuele con Maria d’Antiochia, vedi ora Caaraxpos, op. cit., pagg. 517-523. 


11 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 223 


(A V402 


non v'era mezzo di trovar per esse un degno consorte. Nel 1180, alla morte di 
Manuele, la basilissa Maria non aveva, certo, più di trentasette anni e doveva avere 
conservato più che il solo ricordo della sua bellezza giovanile (1). 

Certo, mentre Berta di Sulzbach era troppo fredda e troppo grave per un prin- 
cipe di venticinque anni, ardente di voluttà, Maria d’Antiochia, bel fiore cresciuto 
sotto l’ardente sole di Siria, si era presto adattata all'ambiente bizantino, ed aveva 
senza dubbio secondato lo sposo desideroso di fare della Corte sua il centro di ogni 
splendore ed eleganza. Principi e cavalieri latini di Siria e d'Europa vi passavano, 
ed il loro soggiorno favoriva l'incremento e la maggior voga delle costumanze occi- 
dentali, così care al basileus. Ma aveva Manuele trovato in lei quel decoro, quella 
dignità ‘che gli aveva resa, se non amata, rispettata e venerata la sua prima con- 
sorte? L'atto del 1171 suscita i più gravi dubbi. Se era tradizione delle imperatrici 
bizantine il consacrarsi a vita religiosa dopo la morte del consorte, perchè farne 
una condizione della capacità di Maria alla reggenza? Si direbbe dunque che Ma- 
nuele diffidasse della consorte, più giovane di lui di vent'anni, e temesse che alla 
sua morte, essendo ancora fanciullo il figlio Alessio, l'imperatrice non imitasse Eudocia 
Macrembolissa ed adducesse al talamo ed al trono imperiale, qualche suo favorito. 

Manuele Comneno, nel settembre del 1180, sentendo davvero l’approssimarsi 
dell’ora solenne, scacciò dal suo letto i fedeli astrologhi ed indovini che si affanna- 
vano a predirgli lunghi anni di vita, gioconde avventure d'amore e molte gloriose 
imprese, e, ripudiata alla presenza del Patriarca ogni sua teoria astrologica e teo- 
logica non consona con i dogmi della Chiesa, desiderò, secondo l’uso di Corte, essere 
vestito dell’abito monastico che doveva avvolgerlo nel suo eterno riposo nella Chiesa 
del Pantocratore. Il basileus si chiamò ora il monaco Matteo. Fin d’ora e, crediamo, 
solo per volere di Manuele, l'imperatrice vestì anch'essa l’abito monastico e divenne, 
di imperatrice, la monaca Xene (2). 

Deposti i suoi imperiali abbigliamenti, sacrificato le sue chiome, non pare ab- 
bandonasse la basilissa il Palazzo per ritirarsi come era abitudine in un monastero, 
allorchè Manuele morì, benchè in ricordo del defunto fondasse il monastero detto 
di Ioannitza (3). Conservò però a Palazzo l’abito impostole dai voti; Eustazio di Tes- 
salonica, recitando non molto dopo alla presenza della Corte l’elogio funebre di 


(1) C., 210. 8; N., 151. 19; WT., XVIII, xx1v, 876; la lettera di Rainaud de Chatillon è in Bouquer, 
Recueil, XVI, 14, n. 67. Vedi una miniatura del cod. greco vaticano 1176, rappresentante Manuele 
e Maria d’Antiochia, in Mar, Veter. scriptorum Nova Collectio, IV, ed ora in Cmaranpon, Jean II 
Comnène etc., pag. 212. 

(2) N., 286-287; MruceR, op. cit., pag. 201; WT., XXII, 1v, 1067; Bar-HerarI, Chronicon, ed. cit., 389. 
Credo opportuno ricordare come per la lunga permanenza di Guglielmo di Tiro alla Corte bizantina, 
ed il viaggio successivo di Baldovino di Ramla e Joscellin de Courtenay, le notizie dateci da Gu- 
glielmo si debbono ritenere come di grande importanza. La basilissa è detta Xene in N., 381. 10. 16; 
432. 22; 548. 11; E., 394. 16. Il Mircer (HC., Hist. grecs, II, 347) opina che la basilissa fosse 
detta dal popolo Xene (= la straniera) per disprezzo. Ma è senza dubbio invece il nome assunto 
come monaca; così eransi chiamate: la madre di Alessio I (Mirrosica et MiLcer, Acta et diplomata 
graeca, V, 327); la vedova di Giovanni II (DeLenaye, Le Synazraire de VÉglise de Constantinople, Bru- 
xelles, 1902, pag. 888); Irene d’Alania, cognata di Alessio I (Gerzer, Das Patriarchat Acridas, in 
“ Abhandlungen d. hist. K1. d. Kgl. sichs. Gesell. d. Wissens. ,, 1902, XX, 280). Vedi del resto il 
parere esplicito di Copmso (op. cit., 160. 5). 

(3) N., 548. 11. 


224 FRANCESCO COGNASSO 12 


Manuele, diceva della basilissa, che essa era apparsa dall'Oriente qual fulgido sole, 
benchè ora una nube la velasse, se pur nube si poteva dire quel nero abito mona- 
stico nel quale più splendido appariva il divin sole della virtù. Ma di frasi non diverse 
doveva servirsi alcuni anni dopo per insultarla, dicendo che alla morte del consorte, 
la basilissa era in età propizia agli amori che cercava di nascondere, ricoprendo il 
sole della sua bellezza con la rozza tonaca religiosa (1). 

Alessio II non aveva più di dodici anni, quando saliva al trono imperiale, e per 
quattro anni quasi il governo doveva essere affidato alla Reggenza. Pur prescin- 
dendo dal grande movimento antilatino, vi era certo in Bisanzio più d’uno malcon- 
tento di dovere obbedire ad una donna, neppure capace, pare, di educare seriamente 
il figlio. Eustazio stesso, nel suo magnificente Elogio Funebre di Manuele, diceva, non 
so se soltanto per adulazione, che certamente la basilissa, dopo avere condiviso, per 
tanti anni, con Manuele la vita e l'impero. doveva ora conoscere assai bene tutte 
le arti della politica, necessarie per reggere lo Stato, seguendo l’esempio del defunto, 
traducendo in atti i suoi ammaestramenti, sì che ora utilmente avrebbe assistito il 
giovane basileus Alessio; ma aggiungeva però che essi — i Bizantini — piangevano 
la mancanza di una mente imperiale, e desideravano un principe forte come Manuele, 
per difenderli contro i nemici. L'essere stato però Alessio incoronato fin dalla sua 
prima infanzia, doveva essere un importante elemento della stabilità della dinastia. 
Alessio II avrebbe accresciuto la potenza e la gloria dell'impero, compiendo l’opera 
alla quale il padre aveva gettato basi solidissime (2). 

La pace che Eustazio augurava non durò a lungo, morto Manuele. Lo Stato 
parve ben presto “una nave trasportata fatalmente da terribile tempesta e dalle 
onde impetuose ,; il pericolo sorse quasi ad un tempo internamente ed esterna- 
mente (3). Maria d’Antiochia, approfittando della debolezza dei suoi consiglieri, si 
appoggiò, nel governare, al protovestiario Alessio Comneno che divenne l'interprete, 
l’esecutore dei suoi voleri, mentre tutti gli altri si trovarono esclusi da ogni parte- 
cipazione al governo (4). 

Alessio Comneno, detto comunemente, dalla sua dignità, il Protovestiario, non aveva 
avuto finora, a differenza del fratello maggiore Giovanni, ora defunto, una notevole im- 
portanza nella Corte di Manuele. Erano essi figli del fratello maggiore del basileus, il 
sebastocratore Andronico, il quale, morto il porfirogenito Alessio, primogenito di Gio- 
vanni II, nel 1142, lasciando una sola figlia, era stato, per pochi mesi, l'erede pre- 
suntivo della corona (5). Alle cure della vedova Irene, dotta protettrice di poeti e 
letterati, lasciò Andronico, morendo, cinque figli: due maschi, Giovanni ed Alessio, e tre 
femmine; di queste, la maggiore, Maria, fidanzata a Teodoro Dasiota, sposò poi il valo- 
roso Giovanni Cantacuzeno; Teodora, consorte, forse, prima di un Chaluph, sposò verso 
il 1148 l'arciduca d’Austria, Enrico; Eudossia, vedova una prima volta, consolata 


(1) Mrexe, PG., CXXXV, 381, n. 16; E., 380.19. 

(2) Miexe, PG., CXXXV, 1025, 1023, 1013. 

(3) Nicera Acommsato, Byoevods tijs dododofias, frammenti editi da Uspenskij, pag. 316. 
(4) N., 232; E., 381. 3. 

(5) Vedi Craranpoxn, Jean II Comnène ete., pag. 213 e segg. 


13 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 225 


nella sua vedovanza dal cugino Andronico, divenne poi la consorte del generale 
Michele Gabra (1). 

Ai due nipoti, Giovanni ed Alessio, accordò Manuele tutto il suo amore, la sua 
protezione; egli era diventato come il loro secondo padre, esecutore premuroso delle 
ultime volontà del fratello (2). Poco cordiali, anzi aspri addirittura, furono invece 
i rapporti fra Manuele e la cognata Irene. Fin dal 1143 era scoppiato il dissidio. 
L’infelice principessa, su accuse che un suo fedele difensore, Teodoro Prodromo 
l’autore delle numerose poesie che ci illuminano in parte su questi fatti, protesta essere 
mere calunnie, venne incarcerata a due riprese. Soffrì privazioni ed umiliazioni terribili, 
forse persino la tortura (3). Quali i motivi? Aveva essa cospirato contro Manuele? 
Forse parteggiato per l’altro cognato, il sebastocratore Isacco? Erano, infatti, quelli gli 
anni in cui dopo l'apparente conciliazione con il fratello più abile e più fortunato, 
Isacco si agitava per i suoi piani segreti, benchè il basileus avesse cercato di ammansarlo, 
conferendogli la dignità di Megaduca (4). Solo più tardi, dopo quel famoso diverbio fra 
i membri della famiglia imperiale, avvenuto in un banchetto, dove lo stesso Manuele 
rimase ferito, Isacco dovette abbandonare per qualche tempo la Corte (5). 

D'altra parte, si desidererebbe pure conoscere quali legami poterono passare fra 
la persecuzione contro la sebastocratorissa Irene ed un altro episodio della vita pri- 
vata di Manuele. È noto come la Corte bizantina avesse smesso sotto il governo di 
questo principe quegli abiti di vita così severi e rigidi che l'avevano caratterizzata 
ai tempi di Giovanni II. Il giovane Manuele, alle cure della politica e delle guerre 
si compiaceva alternare i sollazzi cavallereschi e le più gioconde avventure. Fra i molti 
amorazzi che lo occuparono, è notevole la veemente passione dei primi anni del suo 
regno per la nipote Teodora, la figlia appunto del fratello Andronico, e sposa — come 
dicemmo — forse diun Caluph. Essa, senza ipocrisie e senza veli, visse per qualche tempo 
‘a Corte, considerata come la favorita ufficiale, pretendendo persino alla scorta dei 
Varangi, orgogliosa e superba. Certo, questa tresca dovette precedere il matrimonio 
di Manuele con Berta di Sulzbach, poichè soltanto in quegli anni, la bella Teodora, 
fatta audace dalla nascita di un figlio, potè comportarsi come imperatrice, sperando 
forse di riuscire a far consacrare la sua unione con lo zio; inutilmente però, chè 
nel 1146, quella contessina tedesca che da più di un lustro era stata inviata dal- 
l’imperatore Corrado a Giovanni II perchè fosse sposa del sebastocratore Manuele, 
diventava per necessità di politica estera la basilissa. Teodora sposò poi l’arciduca 
d'Austria. Quale contegno aveva tenuto Irene di fronte alla tresca fra la figlia ed il 
cognato? È certo assai difficile che quella donna saggia dimostrasse l’indulgenza del 
figlio Giovanni e del genero Cantacuzeno, che secondavano le passioni di Manuele 
per ritrarne favori e si sdegnavano contro chi — come il cugino Andronico. — 


(1) N., 135-136. Sulla famiglia imperiale, vedi ora Caaranpon, Jean IT Comnène etc., pag. 212 e segg. 

(2) Cfr. la poesia di Teodoro Prodromo in HG., Hist. grecs, II, 288. : 

(8) Per le lotte fra Manuele e la cognata, cfr. Parapmarziov, Il È Prodromo , del Marciano etc., 
în Viz. Vr., X, 102 e segg.; e dello stesso, Teodoro Prodromo, Odessa, 1905, pag. 383 e segg. 

(4) Isacco è detto Megaduca in un sigillo della figlia Teodora (cfr. ScALUMEERGER, Op. cit., pag. 645); 
Cinnamo (127. 16) lo dice invece Megastratarche. 

(5) C. 127 e segg.; vedi Czaranpox, op. cit., pag. 215. 


Serie II. Tom. LXII. 29 


226 FRANCESCO COGNASSO 14 


osasse motteggiare su questo punto (1). E Giovanni godette tutta la benevolenza 
dello zio. Fu governatore della Bulgaria, poi di Cipro; ebbe il titolo di Protosebasto 
e la dignità di Protovestiario; era insomma uno dei personaggi più eminenti del- 
l'impero e la sua morte a Tzibritze addolorò gravemente Manuele (2). Alessio era 
il più giovane figlio di Irene: nato verso il 1142, rimase pochi mesi dopo orfano 
del padre; Irene, di cui era il prediletto, ebbe il cuore straziato quando ancor gio- 
vane dovette lasciarlo partire per il campo imperiale. D’allora Alessio era rimasto 
a Corte e con il fratello maggiore compare, negli atti delle Sinodi, subito dopo lo zio. 
Dopo la caduta in disgrazia di Alessio Asuch, Alessio ebbe dallo zio la dignità di 
Protostratore; dopo la morte del fratello fu nominato Protovestiario; verso il 1180, 
a circa 38 anni, dalla necessità delle cose era destinato a rappresentare all’ indo- 
mani della morte di Manuele una parte importantissima nel governo (3). 

AI tramonto del regno di Manuele, infatti, non erano numerosi fra l'aristocrazia 
di Corte gli individui dotati d’inteiletto e di volontà, capaci di pensare e di dare 
inizio alle cose pensate. Il volere autoeratico del basileus aveva compresso funzio- . 
nari e cortigiani; egli a tutto aveva voluto personalmente provvedere, e se la sua 
mente possente aveva infuso per tanti anni forza e vita in tutto l’ organismo dal 
centro alla periferia, ora, mancata questa sorgente di attività, la macchina dello 
Stato, stanca dopo una vita quasi millenaria. accennava ad arrestarsi. Sotto il go- 
verno della imperatrice Maria, gli alti funzionari delle cancellerie tosto si accorsero 
della mancanza di un occhio vigile come quello che li aveva fino allora guidati: si 
attribuirono le cariche più proficue; si divisero le provincie stesse per sfruttarle, 
danneggiarono l’erario con le loro malversazioni, i consigli andarono deserti e gli 
uffici vennero abbandonati; il privato interesse prevalse sull’utile della collettività (4). 

L'elemento latino era più che mai in auge: l'imperatrice ed il Protovestiario 


(1) N. 73. 9; 266. 3; cfr. pure K. Kruxsacner, Michael Glykas, in È Sitzungsberichte d. Kgl. 
Bayerl. Akad. ,, 1894, pag. 430, e, sulle sue tracce, il catalogo che il Vasilievskij dà delle nipoti 
di Manuele, che si chiamano Teodora, in Viz. Vr., VI, pag. 533; cfr. poi Neumana, Griechische 
Geschichtschreiber und Geschichtsquellen im XII. Jahrh., Leipzig, 1881, pag. 89. La cronologia proposta 
dal Krambacher per la relazione di Manuele con la nipote è arbitraria; se Niceta parla di questa 
relazione d'amore, giunto a parlare degli avvenimenti dell’anno 1151, la cosa è puramente causale; 
l’identificazione dell'amante del basileus con la figlia del sebastocratore ‘Andronico risulta chiara- 
mente da N. 136. Il primo matrimonio di Teodora risulterebbe da una lettera di Giovanni Apocauco 
a Giorgio Bardanes, metropolita di Corcira, ed. da Papadopoulos Kerameus in Kegxvoatzd, Viz. Vr., 
XIII, 1906, p. 346. È singolare il soprannome di Calusina che Teodora ha in WT. Vedi ora su 
questo punto l’opinione, contraria alla mia identificazione, del Cnaranpown, Jean II Comnène ete., 
pag. 210 e 213. 

(2) ParapiirRIOv, IZ “ Prodromo ,'del Marciano ete., in Viz. Vr., X, 102; C., 126.2; 178.22; 179. 3; 
N., 236; WT., XXI, x, 1024. Erra il Cmaranpon, in Jean IT Comnène ete., pag. 217, dicendo che 
dopo il 1170, Giovanni Comneno fu fatto Sebastocratore. Il passo da lui addotto, C. 51, dà al nostro 
Giovanni il titolo di Protosebasto, ma non fu capito dall’autore della traduzione latina inserita 
nella edizione di Bonn. Del resto anche in WT., XVIII, xx1v, e XXI, xn, Giovanni è detto Protosebasto. 

(2) Papapimimrio, Teodoro Prodromo, 383; HC., Hist. grecs, II, 288; Mar, Spicilegium Romanum, 
X, 58 e segg.; Mai, Vet. Script. Nora Collectio, IV, 28; Pemir, op. cit., 477. Il Lambros in é Mog- 
mavòs aGÒLE 524 (“ Néos “EXAnvouviuor ,, VIII, pag. 35) publica una poesia di Teodoro Prodromo 
per un Alessio che è detto figlio del Sebastocratore Andronico. Si tratta molto probabilmente del 
nostro personaggio. Avrebbe quindi avuto una moglie di nome Maria. 

(4) N. 292. 


15 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. PAZIA 


si il 


di latini sì servivano per consigli ed aiuti, e molti ebbero famigliari, benchè non 
mancasse fra i latini qualche malumore riguardo al Reggente, che pare fosse alquanto 
avaro, od almeno, non così spensieratamente prodigo come Manuele (1). La basilissa 
giudicava la sua potenza incontrastata e non si accorgeva di quanto nel silenzio si 
andava preparando. Infatti, poichè essa era latina e proteggeva i suoi connazionali, 
era naturale che in lei convergessero gli odì di tutti i nazionalisti, dagli operai e 
commercianti attaccati ai loro interessi, al clero, tenace difensore della ortodossia; 
e di riverbero quell’odio, quel disprezzo si rivolgeva contro il basileus Alessio, col- 
pevole di essere stato portato da viscere latine. La basilissa poi aveva una fiera 
avversaria nella virile porfirogenita Maria, che nella matrigna non odiava tanto la 
straniera quanto la madre di Alessio II, e che, pensando a lottare contro di essa, 
mirava forse soltanto a soppiantare sul trono il fratello. 

Questione difficile a risolvere è quella che concerne i rapporti della basilissa 
con Alessio il Protosebasto. Le fonti sono unanimi, quasi, nel raccogliere l’ accusa 
che Maria d’Antiochia fosse l'amante del cugino, nè solo dopo la morte del consorte 
— ci dice l’informatissimo Guglielmo di Tiro — ma ancor prima, negli ultimi tempi 
della vita di Manuele, ed anche quando la basilissa aveva già vestito l’abito monastico. 
Altro ancora sì diceva in Bisanzio: correvano voci secondo le quali i due amanti 
intendevano sbarazzarsi del giovane Alessio II per regnare da soli. Quanto di vero? 
Certo le accuse potrebbero ben essere spiegate attribuendo loro una ‘sola origine, 
una sola officina, il partito dei Cesari, ma d'altra parte la loro autorevolezza è 
accresciuta dal vederle raccolte dalle stesse fonti latine (2). 

Grazie alla fiducia, all'amore della basilissa, il Protosebasto aveva raccolto nelle 
sue mani ogni autorità; l'appoggio dei cortigiani gli era assicurato da Maria d’An- 
tiochia, la quale con la bellezza del volto e lo splendore degli occhi, con l’affabilità 
del trattare e la dolcezza nel parlare, incatenava chiunque l’avvicinasse, sì che tutti 
— nel desiderio — erano a lei profondamente devoti. Ma pare che il Reggente 
mirasse ancora oltre, mirasse cioè a sostituirsi alla stessa imperatrice: attorno ad 
essa, come attorno al basileus, aveva infatti collocato persone di sua fiducia, sì da 
essere informato con accuratezza e sollecitudine di quanto si venisse, nel Palazzo, 
dicendo o facendo; non solo, ma a legittimare il proprio potere, aveva fatto firmare 
ad Alessio II un decreto che dichiarava validi gli atti imperiali, soltanto se oltre 
alla rossa firma del basileus, vi fosse stata la firma del Reggente, in inchiostro verde 
e l'ordine: sia eseguito. 

Intanto Alessio II occupava le sue giornate con caccie e giochi insieme alla 
schiera di giovanetti della più alta aristocrazia di Corte che secondo la tradizione 
lo circondava, felice nella sua spensieratezza e nell’ignoranza delle lotte che attorno 
al suo trono stavano per combattersi (3). 


(1) N. 293; WT., XXII, 1v, 1069; Vita Henrici II, ed. Stubbs, London, I, 245; SicesERTI, Conti- 
nuatio Aquicinctina, MG., SS., VI, 421; Robert de Clary, ed. Hopf, in Cronicques Gréco-Romanes, pag. 12. 

(2) N., 293; WT., XXII, iv, 1069; cfr. inoltre Gregori AsurpHaraGII, Chronicon, pag. 389; MricHELE 
IL Sreraco, ed. cit., 490; Varran, Storia Universale, in HC, Doc. Arm., I, 345. 

(3) N., 293; 299. 14; 318. 4; E., 381. 7; vedi nel “ Néog “EZAnvouviuov,, 1911, pag. 128, una 
poesia, adespota, per la corona preziosa offerta ad Alessio II dal Protovestiario, come prova della 
sua fedeltà e del suo amore. 


928 FRANCESCO COGNASSO 16 


Qual tempra d’uomo fosse il protosebasto Alessio, non sappiamo bene. Niceta 
Acominato e Guglielmo di Tiro lo dicono uomo effeminato, che dedicava al sonno ed 
all’ozio gran parte del giorno, ma non gli negano una certa abilità, e certo è note- 
vole il modo con il quale riuscì senza violenze ad impadronirsi delle redini del 
governo. Donazioni di denaro, concessioni di onori erano certo stati i mezzi per 
procurarsi l'appoggio di molti funzionari e cortigiani; ma Alessio non avrebbe dovuto 
dimenticare come fosse, questa, gente vile, di dubbia fede, pronta a seguire chi pro- 
mettesse loro maggiori favori. 

Gli avversari del governo trovavano, nelle tristi condizioni economiche della 
popolazione, acconcio argomento per eccitare gli animi. In quali proporzioni la con- 
correnza dei latini avesse danneggiato gl’ interessi dei commercianti indigeni, noi 
non sappiamo. Certo però era scomparsa l’agiatezza dei tempi in cui i bizantini erano 
od i soli od i principalissimi intermediari del commercio fra l'Oriente e l'Occidente, 
e di questo naturalmente ogni responsabilità era addossata ai latini, per quanto in 
realtà le vicende del commercio bizantino fossero sopratutto dipendenti dalle stesse 
basi giuridiche ed economiche della società greco-romana (1). 

Dal giorno in cui Alessio I salì al trono, non consta che in Bisanzio sia avve- 
nuta alcuna ribellione della popolazione, alcun tumulto, quali troviamo così sovente 
nell’età precedenti, ad esempio, nei secoli X e XI. Eppure le discordie nella famiglia 
imperiale, quelle di Giovanni II con la sorella Anna ed il fratello Isacco, di Manuele 
con lo zio, il fratello, il cugino Andronico, il tentativo del Cesare Roggero nel 1143, 
avrebbero potuto servire come eccellenti pretesti a rivolte. Il popolo non vi aveva 
preso parte alcuna, ed era stato invece indifferente e tranquillo, quasi che quelle lotte 
dinastiche, quei contrasti non di idee, ma di persone, non lo riguardassero punto; 
ora però non poteva rimanere calmo dinanzi a fatti che profondamente lo colpivano. 
Niceta invece credeva che, se, maggiormente che non in altra città, la plebe della 
capitale si dimostrò poi amante del chiasso, dei tumulti, questo dipendesse, unica- 
mente, sia dal mescolarsi di genti delle più diverse razze e nazioni, sia dal grande 
numero degli operai (2). 

L’anima popolare, ora, era profondamente colpita ed occorreva soltanto che al 
popolo venisse chi agitasse la bandiera della libertà, chi interpretasse i suoi pensieri 
e sentimenti: se questo fosse avvenuto, a tanto uomo allora la popolazione tutta si 
sarebbe rivolta, in lui riponendo ogni speranza. 

In verità, sarebbe stata necessaria una vera rigenerazione di quella società, una 
ricostituzione ex novo dell’organizzazione dello Stato, liberandola dai tronchi secchi 
di quella morta burocrazia, drizzando alla pura linfa vitale canali e vie facili ed 
agili. Se questo fosse allora possibile a compiersi, è problema degno di molte rifles- 
sioni ed esitanze per parte del critico moderno, ma era impresa che assunta da 
persona di grande energia ed intelletto non avrebbe potuto non dare qualche risul- 
tato vantaggioso. Ma come poteva sorgere un rigeneratore dell’ impero da quella 


(1) Vedi Zacmarrae von LincentHAL, Geschichte des ostròmischen Rechts, pag. 300; cfr. alcuni Poèmes 
vulgaires de Théodore Prodrome, ed. Miller, in © Revue Archéologique ,. 1874, XXVIII, 368, 374. 
(2) N., 304. 4. 


17 PARTITI POLITICI E LOPTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 229 


aristocrazia degenere, priva di ogni pensiero nobile e generoso, da quella democrazia 
esausta ed avvilita? 

I Romani dei dì nostri, esclamava con aspra rampogna Giovanni Cinnamo, per 
nulla si affaticano quando si tratti del bene comune e solo ogni travaglio affrontano 
per emergere nella folla, ma sempre soltanto per il privato interesse ‘(1). 

Fra le tristezze dell'ora presente, i bizantini rivolgevano il loro pensiero non 
al Reggente od al giovane basileus, e neppure al protostratore Alessio, il figlio di 
Manuele e della sua nipote Teodora, persona saggia e buona, ma timida, debole, 
incapace di imporsi agli amici come ai nemici: essi pensavano ad un altro Comneno, 
il governatore di Sinope, Andronico (2). 

Era figlio del sebastocratore Isacco, il fratello di Giovanni II: ad una energia 
poderosa univa una intelligenza aperta e profonda, abilità grandissima, acquistata 
durante tutta una vita di lotte e d’avventure. Ma tutte le sue qualità erano come 
soffocate da un’ambizione sfrenata d’imperare, avuta, come dice Giovanni Cinnamo, 
in eredità dal padre Isacco, il quale già era stato travagliato da questa brama insa- 
ziata di dominio, brama con lui nata e cresciuta. 

Alla morte di Alessio I, Isacco — era allora Cesare — aveva sostenuto vigo- 
rosamente il fratello Giovanni nello sventare le trame della madre Irene e della sorella 
Anna, e la riconoscenza dell’imperatore gli accordò, non sappiamo quando, quel titolo 
di Basileopatore che sta su qualche suo sigillo. Certo però solo alla morte del fratello 
Andronico ebbe la dignità di Sebastocratore. Ma in quello stesso tempo (verso il 1130) 
piccola causa produsse gravissimo dissidio fra i due fratelli, sì che Isacco, abban- 
donando la consorte ed il figlio Andronico, nato forse dieci anni prima, sì rifugiò 
con il figlio maggiore, Giovanni, all’estero. Poco sappiamo delle sue peregrinazioni 
ad Iconio e ad altre Corti turche, dove cercò, ma inutilmente, aiuto contro il pos- 
sente basileus, la fama delle cui gloriose imprese dovunque incuteva terrore. Dopo 
essersi spinto fino a Gerusalemme, rientrò Isacco, dopo quasi nove anni di vita avven- 
turosa, in patria: il fratello lo accolse affettuosamente e gli restituì dignità ed onori 
(1138). Ma la riconciliazione non era sincera, nemmeno per parte di Giovanni II che 
ben sapeva con quanta gioia il popolo avesse visto il suo favorito Isacco rientrare 
in Bisanzio (8). 

E di questo dissidio fra i due fratelli si ebbe presto un nuovo episodio: già due 
anni dopo il ritorno d’ Isacco il figlio Giovanni, il compagno delle sue peregrina- 
zioni, veniva in violento urto con lo zio, mentre si era all’assedio di Neocesarea. La 
causa era stata assai futile: più che altro, un capriccio, un fatuo puntiglio d'onore. 
Durante una battaglia, vedendo il basileus che non lungi da lui era stato scavalcato 


(1) G. 259. 

(2) Sul bastardo di Manuele, vedi N. 558 e segg. 

(3) N., 42. 20 e sgg.; cfr. ScarumERGER, Op. cit., 641; Kurrz, Unedierte Texte. aus der Zeit des 
Kaisers Johannes, in BZ., XVI, 1907, 101 e segg.; Parapimarriov, Teodoro Prodromo, 349; Caa- 
LanDon, Jean II Comnène etc., pag. 18 e 152, dove è rettificata la cronologia proposta dal Kurtz; 
vedi un probabile accenno ad Isacco Comneno in una poesia di Afral Eddin-Haqaiqui (o Khacani) 
edita dal Khanikof in £ Journal Asiatique ,, 1865, V, 296. Il Caaranpow, Jean II Comnène ete., pag. 216, 
pensa invece che il titolo di Basileopatore sia stato conferito ad Isacco solo più tardi dal nipote 
Manuele. 


230 FRANCESCO COGNASSO 18 


un cavaliere italiano, pregò il nipote — fornito di egregi cavalli — di cedere al 
cavaliere franco, il suo bel cavallo. Al rifiuto villano del nipote, Giovanni II rispose 
con un’'ingiunzione precisa, respingendo la proposta di decidere la cosa a singolar 
tenzone. Quegli dovette obbedire, ma, accecato d'ira, balzò su altro cavallo e senz'altro 
passò al campo turco. Nè più ritornò: accolto festosamente dai turchi, non tardò ad 
abiurare il cristianesimo, ed il nipote dell’Isapostolos — trasformatosi in emiro — 
sposava poi la figlia di Mesjoud, sultano d’Iconio (1). Si comprende come le relazioni 
fra Giovanni II ed Isacco, per questo incidente, dovessero peggiorare non poco: negli 
ultimi tempi del regno di Giovanni, il sebastocratore Isacco, per i suoi incessanti rag- 
giri, si trovava, pare, confinato ad Eraclea sul Ponto. Alla morte del fratello, poi, soffrì 
breve prigionia ordinata per precauzione dal nuovo imperatore Manuele, il quale 
però, appena fu sicuro sul trono, richiamò lo zio novamente ed onoratamente a Corte. 

Benchè avanzato negli anni oramai, non rinunziò Isacco alle sue aspirazioni ed 
ai suoi intrighi: sappiamo che alcuni anni dopo, durante una spedizione contro i 
turchi, un giorno che Manuele si era baldanzosamente avanzato a combattere contro 
alcuni cavalieri nemici, lo zio Isacco,.vistolo ad un tratto in procinto di essere so- 
praffatto, invece di portargli soccorso, si affrettò alla tenda imperiale, pronto a farsi 
proclamare basileus se Manuele avesse avuto la peggio. 

Per l’ultima volta abbiamo notizia di lui nel 1152, anno nel quale fondava il 
monastero della “ Theotokos Cosmosotera , a Vera non lungi dalla foce della Ma- 
ritza, scrivendone egli stesso il Typikon; poscia, di lui si tace del tutto. Al suo posto, 
nella lizza contro Manuele si fa innanzi il figlio Andronico (2). 

La figura di Andronico Comneno, che è con Giovanni II e Manuele I la più 
importante personalità di Bisanzio del secolo XII, mostra molte caratteristiche del 
padre, ma non tutte le qualità pregevoli. Il sebastocratore Isacco era versato in 
più parti dello scibile; di lui si conoscono varie opere di diversa natura, e fra i 
volumi della ricca biblioteca che egli donò al monastero della Cosmosotera, qualcuno 
conteneva anche sue poesie. Andronico invece, pur avendo anch'egli una coltura 
larga e degna di un Comneno, era un uomo d’azione, aveva una natura più violenta 
e più ribelle del padre. Agli studi, alle occupazioni serie, richiedenti una tensione 
di forze coordinate e costanti, egli preferiva la bella vita, gli spassi con la gioventù 
aristocratica, egli amava ostentare la maestà della persona, l’eleganza del vestire, 
l'abilità squisita nel saper ammaliare le nobili gentildonne. Aveva parola facile, dolce, 
insinuante, era capace di commovere ed anche di commoversi. “ E chi mai vi era 
“ nato da sì duro macigno, provvisto di cuore così ferreo, da poter rimanere im- 
“ passibile dinanzi alle lacrime di quell’uomo, alle magiche lusinghe dei discorsi che 
“ egli versava come fonte di fosca acqua? ,, (3). 


(1) N., 48. 4; 72. 8; vedi in ScHLUMBERGER, op. cit., 642, un sigillo forse di Giovanni figlio del 
Sebastocratore. 

(2) Sulle ultime avventure di Isacco, vedi C., 32. 9; 53. 17; 70. 18; per il typikon della Cosmo- 
sotera, vedi l’ed. di Th. Uspenskij nel “ Ljetopis istorik. philolog. obScesta pri imperat. novorossijsk. 
Univ., Viz. Otdjel ,, II, 1906; sul Sebastocratore Isacco, oltre al citato articolo del Kurrz (Unedierte 
Texte, etc.) vedi lo studio dell’Uspenskij nell’ “ Isviestja , dell'Istituto archeologico russo di Costan- 
tinopoli, 1907, pag. 1 e segg. 

(3) GC, 250; Ni, 135. 3; 317. 7. 


19 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. z 


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(a) 
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Andronico e Manuele erano cugini e forse quasi coetanei, ma gravi contrasti 
non tardarono a dividere ed a rizzare l’un contro l’altro i due principi, che pure 
erano stati probabilmente nella fanciullezza compagni di giochi. Andronico trovava 
infatti, nel dissidio fra il padre e lo zio, argomento sufficiente per avversare il cu- 
gino, ed alla morte del padre si atteggiò tosto a rappresentante delle pretese del 
ramo cadetto dei Comneni. All’antagonismo politico, si aggiungeva un malanimo per- 
sonale. Manuele invidiava al cugino la sua forza, l'ingegno, l’eloquenza, tutte le 
qualità che lo facevano emergere fra i congiunti e cortigiani. Alla corte di Bisanzio 
i nobili torneavano e giostravano come baroni francesi, e Manuele ambiva primeg- 
giare: occorreva quindi non gareggiare con lui, ma adularlo, acclamarlo come face- 
vano i cortigiani. Andronico invece, era franco di parola, audace e sprezzante, amante 
di libertà ed indipendenza. Egli bramava dominare, riputava turpe l’obbedire. In 
guerra era valoroso: univa coraggio a fierezza. È vero che si raccontava dai maligni 
come durante una spedizione contro Iconio, dopo essere, un giorno, partito tutto solo, 
fiero e pettoruto, spirante ardore dallo sguardo e da tutta la persona, per compiere 
chi sa quali mirabolanti imprese, invidioso delle gesta del basileus, se ne era poi 
ritornato al campo, contento di condurre in trionfo i cavalli dei nemici che Manuele 
aveva dianzi abbattuto. La sua audacia però ben la dimostrò un giorno a Pelagonia, 
quando disdegnando avvolgersi in vesti femminili come gli consigliava la sua cugina 
ed amica Eudossia, che l’aveva avuto nella notte ospite gradito, si aprì la via auda- 
cemente, con la spada in pugno, fra i fratelli e famigliari della sua amante, i quali, 
irritati contro di lui per l’affronto fatto alla famiglia, erano venuti armati ad atten- 
derlo alla sua uscita dall’amoroso colloquio. “ Per l’amore di una donna come la mia 
Eudossia — egli diceva — nessun pericolo mi è grave , (1). 

Vi era in lui una insofferenza di freni, che, a parte ogni altra considerazione, 
doveva attirare la diffidenza ed i sospetti di Manuele, quando questi, salito al trono 
per volontà paterna, ma contro i diritti del fratello maggiore, era portato a scor- 
gere dovunque nemici e tradimenti. E Manuele non aveva fatto nulla per conciliarsi 
il cugino; già agli stessi inizi del regno, quando il basileus con tutta la Corte 
ritornava dalla Cilicia a Bisanzio, essendo caduto un giorno Andronico con Teodoro 
Dasiota prigioniero dei Turchi, Manuele non si fermò a tentarne con armi o con 
denaro la liberazione, ed Andronico dovette rimanere in prigione per non breve 
tempo. E la noncuranza continuò anche dopo: non pare che Andronico ottenesse 
mai alcuna dignità di corte, ed egli si doleva di questo e più della preferenza che 
il basileus mostrava per i nipoti Giovanni ed Alessio che furono sempre suoi nemici 
tenaci. Così grandemente fu addolorato Andronico quando Manuele diede al nipote 
Giovanni le dignità di Protosebasto e Protovestiario (2). 


(1) C., 62 e segg.; N., 137. 

(2) C., 132; N., 68. 2. Forse però è da riferire al nostro Andronico il sigillo pubblicato da 
At. Sortin-Dorieny in Sceaur et Bulles des Comnènes, in “ Revue Archéologique ,, 1877, I, pag. 83: 
“ Mino deod Zefaotòv “Avdoévizov Kouvnvév ozéro1s ,; è noto come il titolo di sebasto fosse 
comune fra tutti i cortigiani imperiali nel sec XII. Codino però (op. cit., 160) dice il nostro Andro- 
nico Protosebasto e Protovestiario, ma certo per confusione con il Protosebasto Alessio, nipote di 
Manuele. 


Do 
Do 


FRANCESCO COGNASSO 20 


Quando Manuele diede ad Andronico qualche ufficio, lo inviò con comandi mi- 
litari nelle provincie più lontane, ai confini. Inviato in Cilicia con un esercito, do- 
veva cercare di riacquistare Mopsuestia e respingere gli Armeni. Dice Cinnamo che 
Andronico avrebbe certamente compiuto qualche cosa di nobile, riuscendo nell’im- 
presa, se non si fosse dato totalmente ai divertimenti, trascurando i nemici, che 
ben seppero giovarsene. Una impresa dove non vi fosse da combattere con ardore, 
con irruenza, ma da insistere con pazienza e costanza, non era fatta per lui. La 
spedizione, pare, falli: dopo un viaggio ad Antiochia, a proposito del quale corse 
voce che Andronico avesse stretto rapporti segreti con il sultano d’Iconio ed il re 
di Gerusalemme, ritornò a Bisanzio, accolto dal basileus, contro la comune aspet- 
tazione, con benevolenza; ma si diceva che Manuele non avesse tralasciato di muo- 
vergli, privatamente, grave rimprovero per la sua condotta, pur continuando in 
pubblico ad onorario, nel timore di irritare troppo quel così irrequieto cugino (1). 

Qualche anno dopo, Andronico fu inviato al confine danubiano, come duca di 
Nis, Branitevo e Castoria. Mosso dalla sua ambizione, dall’odio contro Manuele, 
come prima aveva intrigato con i principi d'Asia, ora ricorse al re d'Ungheria, cui, 
in cambio dell’aiuto contro Manuele, avrebbe promesso di cedere le due piazze tanto 
agognate di Nis e Branicevo. Per poter agire con maggior libertà, avvertì il basileus 
di certe sue trattative con alcuni magnati ungheresi per indurli a dichiararsi per 
l'impero. Manuele, pur sospettando e facendo sorvegliare il cugino, gli consigliò 
di continuare tranquillamente le sue trattative. Stretti gli accordi con il re d’ Un- 
gheria e pare anche con Federico Barbarossa, sicuro del fatto suo, Andronico partì 
per annunziare al basileus il buon esito della negoziazione: per verità, della per- 
manenza di Manuele a Pelagonia, nel cuore della Macedonia, lungi dalla capitale, 
egli voleva approfittare per un colpo di mano contro il cugino e sostituirsi a lui 
sul trono. E per ben due volte egli tentò di colpire Manuele. Sperò dapprima di 
poterlo sorprendere di notte nella sua tenda, durante una spedizione di caccia sulle 
montagne circostanti. Andronico, presi con sè alcuni dei suoi fedelissimi Isauri, si 
avviò segretamente dove Manuele aveva messo il suo attendamento. Appostò i se- 
guaci nelle vicinanze, ed egli stesso — voleva in persona godere della vendetta — 
si accostò nella notte alla tenda di Manuele, con il pugnale pronto nella mano. Ma 
la sorveglianza di cortigiani ed ufficiali attorno alla tenda imperiale gli impedì di 
avvicinarsi troppo; fu gridato all’armi e prima che fosse riconosciuto, avvolto nel 
suo ampio mantello all’ italica, dovette ritirarsi in tutta fretta con i suoi fedeli 
Isauri. Benchè si sospettasse di lui, Andronico ritentò la prova: ora pensò di assa- 
lire durante la caccia il cugino e fingere che esso fosse caduto sotto le zanne di 
qualche cinghiale. Le precauzioni prese dalla basilissa Irene, la quale, avvertita 
della partenza di Andronico dal protostratore Alessio Asuch, si affrettò ad inviare 
trecento uomini sul luogo della caccia, salvarono ancora una volta Manuele: ma 
questi fu stanco ora di tanta audacia: Andronico fu arrestato, condotto a Costan- 
tinopoli e rinchiuso nelle carceri Palatine (2). 


(1) C., 121. 24; 123. 14; 124. 6. 
(2) C., 124. 20; 126 e segg.; N., 133. 9; 136. 38. 


21 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 239 


409 X1 


In quel carcere dei Numera, che Michele Glykas doveva poco dopo definire 
come peggiore dell’Ade (1), non pare che ad Andronico, benchè appartenesse alla 
famiglia imperiale, si usassero troppi riguardi. Egli, quando vide che il cugino Ma- 
nuele non scherzava, occupò le lunghe ore della sua solitudine nel cercare il modo 
di evadere. Tre anni e più passarono prima che riuscisse a combinare alcunchè. Verso 
il 1158, scoperta l’esistenza di un sotterraneo abbandonato, attiguo alla sua cella, 
riesce dopo lungo e paziente lavoro a forare la parete, ma invano si aggira nel 
sotterraneo per trovare una via d’uscita. Quando, stanco, rientra nella cella, vi trova 
la propria consorte, che, appena fra la sorpresa generale si era constatata la scom- 
parsa del prigioniero, era stata, come presunta complice, arrestata e gettata in 
quello stesso carcere. La povera donna fu davvero spaventata dell’improvviso ricom- 
parire del marito; e così trascorre qualche tempo: di notte Andronico tiene com- 
pagnia alla consorte, di giorno si nasconde nell’ignorato sotterraneo; ma poichè ora 
la sorveglianza — per una sola donna! — è rilassata, egli riesce finalmente a fug- 
gire. Con l’aiuto di qualche fido, può attraversare il Bosforo, si addentra in Bitinia 
fin nella valle del Sangario; ma poi da alcuni contadini è riconosciuto — chi non 
conosceva la gigantesca figura del figlio di Isacco? —, denunciato e ricondotto in 
nuovo e più forte carcere. La consorte liberata, doveva a suo tempo dare alla luce un 
figlio, Giovanni, generato durante una avventura così curiosa. Andronico aveva già 
due altri figli, Manuele e Maria. © 

Ora finalmente la basilissa Irene è tranquilla, tutta la Corte respira, e Manuele, 
dalla Cilicia, dove allora si trovava, spedisce il Logoteta Camatero ad assicurarsi 
della robustezza delle catene di Andronico. Questi.tace ed aspetta un'occasione più 
propizia. Passano gli anni: muore la basilissa Irene, un’altra imperatrice sale sul 
trono, avvengono guerre, principi stranieri vengono a Corte, ed il basileus non si 
piega ad indulgenza. Verso il 1164, finalmente, Andronico ottiene, per una improv- 
visa malattia, l'assistenza di un servo fedele di casa sua, e tosto si combina la 
fuga. Si prendono con cera le impronte delle chiavi, e poco dopo Andronico riceve 
dal figlio Manuele delle chiavi false. Le catene sono spezzate: la notte dà mezzo di 
uscire inosservato, ed Andronico si trova libero nei giardini incolti che da quella 
parte giungevano fino alle mura. Sta tre giorni nascosto fra i folti cespugli, ora spe- 
rando, ora disperando di sottrarsi alle insistenti ricerche che si fanno in tutta la 
capitale. Poi riesce a scavalcare il muro di cinta: sotto vi è il mare, vi è la barca 
salvatrice del suo fedele Crisocopulo. Ma ecco avanzarsi in barca soldati dal vicino 
palazzo del Bucoleon. Andronico non si perde d’animo: si finge uno schiavo fuggi- 
tivo, dice una fonte storica, un prigioniero per debiti, oppone un’altra: il padrone — 
Crisocopulo — chiede l’aiuto dei soldati per riprendere lo schiavo, e questi è dai 
soldati stessi respinto nella barca. 

Ma la casa sua, il noto Palazzo del Sebastocratore, presso il porto di Vlanga, 
non è rifugio sicuro; occorre che l’alba trovi Andronico lungi da Bisanzio. E dopo 
breve ristoro, incomincia una furiosa cavalcata attraverso alla pianura tracia. Ad 
Anchialo, lo stesso governatore Pupace dà al fuggitivo vettovaglie e guide per rag- 


(1) Cfr. Lecranp, Bibliothèque grecque vulgaire, I, 21, vv. 86 e sgg. e 169 e segg. 
serie IL Tos. LXII. 30 


234 FRANCESCO COGNASSO 22 


giungere il Danubio. Ma alcuni Valacchi lo riconoscono, ed egli ricade nelle mani 
dei messi inviati sulle sue traccie. Incomincia il triste viaggio di ritorno, triste per 
certo, dopo aver visto così da vicino la libertà tanto sospirata. Le risorse di An- 
dronico, però, non sono esaurite. Frequenti disturbi gastrici lo obbligano a fermarsi 
e ad appartarsi: la finzione è così abile, ogni volta egli riprende la sua via così 
docilmente, che i custodi sono tranquilli e non hanno diffidenza di sorta. 

Ma un giorno una sua fermata è più lunga, e quando le guardie si decidono 
a ricercare il principe, Andronico è già molto lontano, attraverso a boschi, prati, 
colline e torrenti, con tutta l’energia che gli dava il timore di ricadere fra le mani 
dei suoi sorveglianti che erano rimasti a sorvegliare soltanto il suo mantello che 
si muoveva al vento sul cespuglio cui astutamente era stato appeso. 

Manuele, furente, sfogò la sua collera sul povero Pupace, che fu destituito, 
frustato ed esposto alla berlina, come colpevole di aver soccorso un nemico del- 
l’impero. Andronico riusciva frattanto ad attraversare il Danubio; ad Haliteh, alla 
Corte del principe Iaroslaw trovò ottima accoglienza, sì che presto divenne l’amico 
intimo, il compagno inseparabile di quel principe. Due anni dopo, però, Manuele lo 
richiamò in patria, non tanto perchè gli avesse perdonato, quanto per timore dei 
nuovi intrighi che Andronico — si diceva — stava tessendo in Russia, e pericolosi, 
ora, mentre ferveva la guerra contro l'Ungheria (1). 

Invitato a prestare giuramento di fedeltà alla porfirogenita Maria ed al despota 
Alessio, proclamati eredi dell'impero, egli rifiutò, affermando essere quel giuramento 
inutile poichè a Manuele era ancora speranza di un erede maschio, e protestando 
che in ogni caso la successione non poteva toccare ad un principe barbaro. Così, 
fin d'allora egli si atteggiava a difensore del sentimento nazionale gravemente 
offeso dal basilens, e già d'allora le sue idee trovavano. presso non pochi, approva- 
zione, o tacita od aperta (2). 4 

Poco dopo il suo ritorno, ebbe dal basileus nuovamente il governo della Cilicia 
e di Cipro: nuovamente doveva far guerra agli Armeni. Ma ben presto si siancò 
delle fatiche di quella vita fra armi e pericoli: con il tesoro di guerra si recò ad 
Antiochia, e tosto la lieta vita di quella Corte e l’amore per la bella Filippa, la sorella 
maggiore della basilissa Maria, ancora nubile, gli fecero del tutto dimenticare la 
guerra. Filippa. che già aveva trascorso il quinto lustro, non rimase insensibile alle 
dimostrazioni d’affetto del bel cavaliere. che pur contava ben circa quarantacinque 
anni, ed aveva moglie e tre figli. e ne divenne l'amante, sperando di esserne presto 
la sposa (3). 

Il basileus Manuele, sì tosto fu avvisato della nuova avventura del cugino, si 
affrettò ad inviare in Cilicia il sebasto Costantino Calamano, non solo, ma trattò 
con il principe d'Antiochia perchè Filippa sposasse questo stesso funzionario. 


(1) Per i tentativi di fuga di Andronico, le fonti sono: C., 232. 3. 22; N. 72. 22; 136. 168; per 
Andronico in Russia, vedi Kar-Hzrr, op. cit., 144, e Karawsrs, Histoire de l'’Empire de Russie, ed. 
francese di St.-Thomas, II, pag. 382; Caaraxvox, Jean JI Comnène eic., pag. 408. 

(2) N., 179. 14. 

(3) C., 250; N. 180 e segg.; WT., XX, n, 943; XXI, xi, 1026. Sulle imprese di Andronico in 
Cilicia, vedi Caaraxpox, op. cit., pag. 426 e segg. 


DO 
DI 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 29 


Quando il sebasto Calamano venne ad Antiochia, alla proposta di nozze, Filippa 
rispose che per quel plebeo, per quell'uomo piccolo e brutto, essa non avrebbe mai 
abbandonato il suo mirabile Andronico. Purtroppo essa non conosceva la volubilità 
dell'amante, il quale non molto dopo, sazio di lei e di quella vita sedentaria, avido 
di nuove avventure, improvvisamente l’abbandonava recandosi con il figlio, decenne, 
Giovanni, che aveva condotto seco, in Palestina. 

Correva l’anno 1167; il re Amaury era allora assente, per la sua spedizione 
in Egitto, ed Andronico rimase ad aspettarlo a Tiro, dove conobbe — forse — Gu- 
glielmo, l’arcidiacono, futuro arcivescovo di quella città. Viveva solitaria ad Acri 
la regina Teodora, la vedova di Baldovino III. Questa nipote di Manuele — figlia 
del sebastocratore Isacco — era andata sposa al re di Gerusalemme nel 1158, a 
tredici anni; vedova dal 1162, se ne viveva ora in Acri, assegnatale come dovario 
dal consorte. La giovane vedovella “ formae venustate singulariter conspicua , destò 
l’ardore dell’intraprendente cugino, e presto giunse a Bisanzio fama dei loro amori. 
Era uno scandalo grave: inoltre ora con gli altri nemici di Andronico, presso il 
basileus agiva contro quell’avventuriero, quel seduttore, la stessa basilissa, sdegnata 
per l’affronto fatto alla sorella (1). Manuele non tardò a scrivere al re di Gerusa- 
lemme ed agli altri principi latini, chiedendo che Andronico fosse arrestato e senza 
altro abbacinato. 

Ritornato Amaury dall'Egitto, presso di lui non solo Andronico aveva trovato 
ottima accoglienza, ma aveva ottenuto dal re in feudo la città di Berito. Del grave 
pericolo che minacciava il suo amico, non tardò Teodora ad essere consapevole: 
essa od ora o poco prima si era portata, con il pretesto di visitare la nuova resi- 
denza del cugino, ad abitare secolui a Berito, e quando seppe dell'ordine di Manuele, 
senza indugio, Andronico, con il figlio Giovanni e la regale amante, si rifugiò in 
terra turca. 

Grave fu il dispetto di Manuele nel vedersi sfuggire la preda ancora una volta; 
solo forse fu più grave il dolore di quei commercianti Pisani che ad Andronico 
-- a corto di denaro quando da Antiochia erasi portato a Gerusalemme — avevano 
dato in imprestito una cospicua somma di denaro; egli si era dimenticato di pagare 
il debito; più tardi, durante gli anni del suo governo, i creditori non osarono certo 
andar a chiedere il loro denaro e si accontentarono di reclamare poi, ma con poco 
frutto, presso Isacco II Angelo (2). 

I turchi dovevano conservare ricordo del padre suo e, più ancora, del fratello 
Giovanni, ed Andronico trovò quindi presso di essi accoglienza cortese e grandi 
onori; stette qualche tempo a Damasco, ospite di Nour-ed-Din, poi fu ad Harran, 
dove la bella Teodora, che aveva abbandonato per suo amore lo sfarzo di una vita 
principesca per i disagi di tante peregrinazioni, dava alla luce un figlio, Alessio; 
da Harran si spinse Andronico a Mardin, poi fino nella lontana Georgia, ma respinto- 
da quel principe, fedele alleato di Manuele, ritornò a Kharin, in Armenia, e quivi 


(1) C., 250; N., 183 e segg.; WT., XVII, xxm, 857; XX, n, 943; XXI, xo, 1026. 
(2) Miîccee, Documenti per le relazioni delle città toscane con l'Oriente, 1873, pag. 41. 


236 FRANCESCO COGNASSO 24 


si fermò a lungo con la famiglia, accresciutasi frattanto di un’altra figlia, Irene (1). 
Andronico trovò l'amicizia e la protezione dell’emiro turco di Erzeroum, Saltouch, 
che gli diede un castello, di dove egli intraprese delle frequenti scorrerie verso i 
territori bizantini di Trebisonda, cercando di fare gran numero di prigionieri cri- 
stiani che poi rivendeva sui mercati dell’interno (2). Secondo Cinnamo, la chiesa di 
Costantinopoli, per queste sue malvagità lo avrebbe scomunicato, e forse egli era 
passato all’islamismo (3). Soltanto nel luglio del 1180, tre mesi prima della morte 
di Manuele, ritornò Andronico a Costantinopoli. Probabilmente, il basileus, amma- 
lato, già dubbioso per l'avvenire della dinastia, si impensieriva del contegno che 
alla sua morte avrebbe potuto tenere il cugino, e desiderò impadronirsi di lui. Ma 
ogni tentativo fallì: solo riuscì a Niceforo Paleologo, governatore di Trebisonda, di 
avere nelle sue mani la donna ed i figli di Andronico, che si affrettò ad inviare 
alla capitale. E per amore della sua Teodora, per amore dei figli, Andronico, ras- 
segnato, decise di sottomettersi. Ritornò a Costantinopoli: venuto a Palazzo, intro- 
dotto alla presenza di Manuele. gli sì gittò ai piedi, si umiliò a terra. Al collo si 
era messo una grossa catena e volle per essa essere trascinato da un cortigiano, 
in segno di umiliazione. Il basileus, commosso da questa scena, alla presenza di 
tutta la Corte, scese, piangendo, dal trono, abbracciò il cugino e lo sollevò da terra. 
Andronico giurò fedeltà a Manuele e ad Alessio II. solennemente si impegnò a pro- 
teggere il giovane principe contro qualsiasi nemico, ed il basileus, per avvincerlo 
maggiormente, morendo volle che anch'egli facesse parte della reggenza (4). 

Andronico era rientrato senza secondi fini, stanco — a poco meno di 60 anni — 
di quella vita agitata, cercando pace e riposo: però sì lui che Manuele sentivano 
che, dopo tutto, l’inconciliabilità dei loro caratteri era un fatto persistente, e che 
dalla convivenza sarebbe nata nuovamente la discordia; quindi ben volentieri l'uno 
fece e l’altro accettò l’offerta del governo del Ponto, a Sinope sul Mar Nero, e colà 
Andronico si trovava allorchè Alessio II saliva sul trono paterno (5). 


(1) Per il figlio di Andronico, Alessio, vedi Brosset, Histoire de là Géorgie, St.-Pétersbourg, 
II, 412. È da notare che quest’ultima fonte è favorevole ad Andronico di cui loda il contegno in 
guerra; Giorgio III avrebbe fatto grandi doni al principe esule (Brosser, op. cit., II, 396). 

(2) Su Saltouch, vedi Cnaranpon, Jean II Comnène etc., pag. 221. 

(3) C., 250. 6; N., 184. 15; Annales Colonienses Maximi, MG., SS., XVII, 790; Continuatio Zivetlensis, 
altera, ib., IX, 542; Continuatio Aquicinctina, ib., VI, 423. 

(4) È probabile che Niceta Acominato abbia avuto visione del documento di giuramento di 
Andronico: a pag. 297. 23, riferisce infatti evidentemente dal testo originale. Ì 

(5) N., 295.12; 297. 15; E., 391. 12; WT., XXII,xr, 1081. Il Caaranpon in Jean II Comnène ete., loc. cit. 
afferma, che Andronico si ritirasse a vita privata nei suoi possedimenti d’Asia: Guglielmo di Tiro 
è però esplicito: “ missus est in Pontum sub honoris praetextu praesidialis ,, ed ancora: “ evo- 
catus est ex Ponto cui preerat , (WT., XXII, x1, 1081). Niceta Acominato ed Eustazio di Tessalo- 
nica danno ad Andronico Comneno come residenza ora Sinope, ora Oinaion (Unieh); aveva cioè la 
© Provincia Oenei et Sinopii et Pabrei , come è detto nell’atto della divisione dell'Impero del 1204 
(vedi Tafel u. Thomas, op. cit., pag. 476) il resto dell’antico Tema Armeniacon, quale si aveva nel 
sec. XI, dopo la formazione del Tema di Caldea con capitale Trebisonda, e dei Temi di Coloneia 
e del Carsiano. 


Do 
(Ai 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 297 


II. 


La caduta della Reggenza. 


Contrasti di persone e conflitti di tendenze politiche, disagio economico e mal- 
contento popolare, disegni ambiziosi di governanti e debolezza inspiegabile nell’effet- 
tuarli, antagonismi religiosi, etnici e commerciali fra latini ed indigeni, concorsero 
a creare un ambiente tale, tale stato d'animo in Costantinopoli da suscitare i più 
gravi dubbi sull’avvenire più prossimo. 

La prima scintilla del vasto incendio doveva naturalmente partire di colà dove 
più violento era l’urto. Fra la basilissa, mal difesa dal suo sacro abito contro le più 
gravi accuse, e la Porfirogenita che non ancora aveva appreso ad essere suddita e 
non signora, fra la matrigna altera e la figliastra disdegnosa, il dissidio era troppo 
aspro perchè non finisse con il prorompere in lotta aperta. Di questo antagonismo 
potevano essere espressione per qualche tempo, forme piccine e basse di offese perso- 
nali, di ripicchi, di pettegolezzi d’anticamera e d’alcova, ma in presenza di tanti 
contrasti d’idee esso doveva inevitabilmente venir immedesimandosi con queste lotte 
politiche e determinarne lo scoppio terribile. 

Pochi mesi erano passati dalla morte di Manuele e già sotto la protezione e per 
istigazione di Maria Comnena che mal vedeva la preponderante influenza del cugino 
e ne temeva gli ambiziosi disegni, — il marito, il Cesare Giovanni era a lei devoto — 
gli avidi di cose nuove tramavano contro il governo e preparavano un colpo di Stato. 
Nella figlia di Manuele pareva essersi rincarnato il maschio spirito della sua ava, la 
porfirogenita Anna (1). Nessuna eco aveva negli animi il ricordo del defunto impera- 
tore, e gli ultimi accordi per la cospirazione dovettero seguire di brevi giorni la com- 
memorazione che di Manuele veniva fatta il 20 gennaio 1181, alla presenza, certo, di 
tutta la Corte (2). Il 7 febbraio successivo fu il giorno stabilito dai congiurati per la 
caduta e la morte del protovestiario Alessio, e per quanto affermassero con giuramento 
di essersi uniti solo in difesa dell’imperatore contro le insidie del Protosebasto, non 
oserei negare che quello non dovesse anche essere l’ultimo giorno, se non della vita, 
almeno del regno di Alessio II (3). Della congiura pare fossero partecipi una dozzina 
circa di illustri personaggi della Corte, tutta gente quant’altri mai ambiziosa (4). Vi era 
fra d’essi, il protostratore Alessio, il bastardo di Manuele, i due figli di Andronico 
Comneno, Manuele e Giovanni, la sua stessa figlia Maria, poi Andronico il Lombardo, 
originario italiano forse, sposo di una nipote di Manuele, Teodora, inoltre Giovanni 


(1) Un’allusione notevole al carattere della Porfirogenita si ha nel Chronicon di Robert du Mont, 
ed. cit., pag. 528: essa avrebbe detto * se numquam alicui nupturam, nisi esset rex ,. 

(2) Cfr. Miccer, Catalogue des manuscrits grecs de VEscurial, pag. 200. Il discorso fu pronunciato 
120 giorni dopo la morte di Manuele. 

(8) Le fonti per la congiura del 7 febbraio sono N., 301; E., 381. 13; WT., XXII, v, 1070; 
Bar-Hesrarvs, 388; Warrax, 435; cfr. per la data, De Murat, op. cit., I, 212. 

(4) E., 382. 5. 


238 FRANCESCO COGNASSO 26 


Duca Camatero, Eparco di Bisanzio, personaggio autorevolissimo (1). La porfiro- 
genita Maria con il consorte Raineri di Monferrato era l’iniziatrice od almeno quella 
che ne era moralmente responsabile. 

Sicari prezzolati dovevano assalire il corteo imperiale, mentre nel dì di San Teo- 
doro, sarebbe ritornato — fra la folla dei cittadini — dalla tradizionale visita al 
Tempio dedicato a quel Santo, che sorgeva nella località detta al Bathyn Ryaka, meta, 
in quel giorno, ai pellegrinaggi popolari (2). 

Ma il colpo, non sappiamo perchè, fallì completamente. Solo più tardi. verso il 
principio del marzo, si scoperse la congiura, ed avvenne ora rapidamente l’arresto 
dei complici: i figli di Andronico, Giovanni Duca, Andronico Lombardo, lo stesso 
bastardo di Manuele, furono in breve assicurati alla vendetta di Alessio Comneno ; 
ma ben presto il Reggente e la basilissa Maria si accorsero che i fili della cospira- 
zione partivano dallo stesso palazzo imperiale (3). Dubitandosi però delle disposizioni 
della popolazione, e non osandosi per una certa riverenza toccare i Cesari, pare si: 
risolvesse di ignorare la loro partecipazione alla congiura e la loro responsabilità. Del 
processo contro gli arrestati fu incaricato il tribunale imperiale, del quale era presi- 
dente il giudice Teodoro Pantecne, uomo assai esperto. avanti negli anni, di famiglia 
devotissima ai Comneni; egli aveva già servito Manuele per più di 30 anni, riportan- 
done onori, dignità e fama di uomo abilissimo (4). 

Agli interrogatori degli accusati di lesa maestà assistevano così la basilissa come 
il giovane Alessio II, il che mostra come al processo si fosse voluto dare una impor- 
tanza ed una solennità non comune. Mentre Andronico Lombardo riusciva a fuggire 
ed a ricoverarsi all’estero, gli altri, senza quasi che fosse loro dato di difendersi, 
vennero condannati; gli uni abbacinati, gli altri giustiziati; i due figli di Andronico, 
il protostratore Alessio, Giovanni Duca, dopo aver subìto l’onta della frusta, furono. 
condannati al carcere. Altri che erano meno direttamente implicati nella congiura o 
si ritirarono nelle provincie, nelle proprie possessioni, o lasciarono l’impero. Teodoro 
Pantecne, forse per ricompensa della sua devozione, fu nominato Eparco invece di 
Giovanni Duca. 

Superata la crisi, non scomparve affatto il pericolo, come forse credevano i 
governanti. Alle maggiori prepotenze da parte dei trionfatori del momento, corri- 
spose un accresciuto malcontento degli avversari; ed a Palazzo la posizione non 


(1) Giovanni Camatero Duca era figlio del Grande Drungario, Andronico Camatero, discendente 
da Gregorio, che, sotto Alessio I. aveva sposato una parente dell'imperatrice Irene, trasmettendone 
il cognome Duca a tutti i discendenti. Da segnalarsi è la confusione con Giovanni Duca Angelo, 
fatta dal Rrezt, op. cit., pag. VIILIX, e pag. 16. È probabile che Giovanni Camatero sia preci- 
samente quel “ frater logotethe, qui canaclivi utebatur officio , di cui parla WT. loc. cit. 

(2) Sul tempio di S. Teodoro al Bathyn Ryaka, presso Costantinopoli. vedi Anna Comnena 
(Alerias), I, 393 e le note del Ducange a questo passo. Il Dersnave (Le Synazaîre de Sirmond, in 
© Analecta Bollandiana ,, XIV, pag. 416 e segg.) lo confonde, seguendo l’ Evaxcermes (20770, XI, 
1889, 276), con il monastero del Salvatore al Bathyn Ryaka d’Asia Minore. 

(3) La data della scoperta della congiura * Kalendis martiis , è in WT., XXII, v, 1066. 

(4) Teodoro Pantecne che è detto da Eustazio (382.19) dixcioddizs ai fai 1Ov olzevazov 
(cfr. N. 306. 6) apparteneva certamente alla famiglia di Michele Pantecne, il medico fidato di 
Alessio I. Compare per la prima volta nel 1148 (cfr. “ Revue de l’Orient Chrétien ,, IV, 1909, 203). 
Vedi per la sua carriera, PG., CXL, 152; “ Annuario dell’Università d’Odessa ,, Sez. Byz., IL pag. 45; 
Mar, Vet. Script. Nova Collectio, IV; Perrr, op. cit., in Viz. Vr., IX, 479; Tzerzes, Epistulae, ed. Pressel, 
pag. 90; MicaeLe Acowmaro, Tà Zof6ueva, ediz. Lambros, Atene, 1879, II, 416. 16; E., 382. 21. 


2 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 239 


tardò a farsi insostenibile per la principessa Maria. Eustazio di Tessalonica ci dice 
che i giudici erano adirati contro i Cesari, ma che nascondevano dentro di sè la 
collera, sì che lo stesso patriarca Teodosio credette che essi fossero loro favorevoli 
e cercò di mantenerli in questa disposizione d’animo (1). 

Non sì osò attaccarli di fronte, ma incominciò una lotta sorda tale che non 
molto tempo dopo, una notte del marzo, la Porfirogenita ed il Cesare in preda ai più 
vivi timori sì rifugiarono improvvisamente in Santa Sofia, mettendosi sotto la prote- 
zione del patriarca contro i persecutori. 

Il patriarca Teodosio, che, uso alla vita pacifica del suo monastero di Boradion, 
non aveva saputo opporsi in alcun modo allo spadroneggiare del Protosebasto, ora, 
irritato così contro di questo, come contro la basilissa, forse perchè aveva infranto 
i suoi voti, senza esitazione accolse al proprio palazzo i principi fuggitivi, e diede 
loro conforto ed appoggio (2). 

Sotto la sua protezione, la Porfirogenita, ricuperata la calma, potè pensare fred- 
damente ai casi suoi. Mentre essa aveva sicuro l'appoggio potente dell'elemento ecele- 
siastico, la grande popolarità che godeva nella popolazione si venne ora accrescendo, 
così per la commiserazione naturale per i suoi casi, come per le elargizioni abbon- 
danti di denaro che i suoi agenti andarono facendo. 

Benchè l’infelice esito della congiura avesse significato per lei la perdita di molti 
importanti partigiani coinvolti nel processo, pure per la mancanza di abili provve- 
dimenti del governo che ne mostrassero la ferma volontà di eliminare le cause del 
malcontento generale, vi era ancora speranza di rovesciare la potenza di Alessio 
Comneno e di impadronirsi del governo, se la principessa Maria, anzichè farsi sga- 
bello del popolo per le proprie ambizioni, si fosse audacemente messa alla sua testa, 
sfruttando il malcontento contro i governanti e contro i latini, se essa avesse saputo 
e potuto assumere quell’atteggiamento che doveva dare poi ad Andronico la porpora 
imperiale. Ma forse essa non ebbe chiara coscienza dei bisogni dell’ora, ed inoltre 
essa non poteva agire in questo senso, avendo per sposo un latino. 

Il patriarca Teodosio, dopo avere accolto in un impeto di generosità i fuggiaschi, 
ben presto si avvide della difficile posizione in cui si era venuto a porre. Si giunse 
alla vigilia, di Pasqua (era il 14 aprile), nella qual solennità, secondo le tradizioni 
della Chiesa e della Corte bizantina, il patriarca doveva recarsi con il clero a Palazzo 
per la cerimonia del bacio di pace. Ma come avrebbe egli potuto recarsi l’indomani 
ad ossequiare la basilissa ed il Protovestiario, dopo essersi dichiarato così aperta- 
«mente loro avversario? E del resto era egli sicuro che il governo non prendesse 
rapida rivincita dell’affronto recatogli con l’offrir ospizio ai Cesari, e non lo facesse 
arrestare qualora fosse uscito di Santa Sofia? Annunciò quindi al basileus che rin- 
viava ad altro giorno la cerimonia, e se ne rimase rinchiuso nel Patriarcheion. Così la 
Pasqua del 1181 fu celebrata a Corte ed in tutta la città con un penoso senso di 
tristezza e di inquietudine (3). 


(1) N., 302; E., 382 e segg.; WT., XXII, v, 1067; Bar-Hegrarus, 388. 

(2) N., 302; E., 384; sul monastero del Boradion, vedi Parcorre, in BZ., XII, 449 e segg. 

(3) E., 385. 15; sulla cerimonia del bacio di pace, che usava svolgersi nel Triclinio dei Dician- 
nove Letti, cfr. Cosrantino PorriroceNnITO, De cerimoniis, 22. 26; vedi sull’ argomento, EsersoLt, 
Le Grand Palais de Constantinople, Paris, 1910, pag. 58 e segg. 


240 FRANCESCO COGNASSO 28 


Quando un mattino era stato annunziato ad Alessio Comneno ed a Maria d’An- 
tiochia che nella notte i Cesari avevano abbandonato il Palazzo imperiale, traspor- 
tandosi con i loro fedeli al Patriarcheion, essi furono spaventati da questo atto che 
precipitava le cose più che essi non avessero voluto. Ad impedire che le cose si 
aggravassero a loro svantaggio, conveniva cercare di ricondurre in qualche modo la 
pace e calmare la furibonda principessa. Non sappiamo se subito dopo la fuga o se 
solo dopo qualche tempo, ambasciatori si recarono presso i Cesari recando loro a_ 
nome del basileus Alessio e della imperatrice una parola di pace, l'assicurazione 
del loro amore, la promessa di dimenticare tutte le discordie passate. Ma era troppo 
tardi: essi non potevano rientrare, ora che avevano spezzato il giogo, per risottomet- 
tersi a quelle condizioni umilianti che avevano fuggito; forse quella mitezza nascon- 
deva qualche tranello, e l'ambasciata produsse un effetto contrario al desiderato. 
Maria Comnena rispose sdegnosamente che pace non poteva essere se non a questi 
patti: amnistia ai congiurati incarcerati, rinnovamento del processo per lesa maestà, 
espulsione da Palazzo di Alessio Comneno, la cui presenza, secondo essa diceva, era 
un continuo pericolo per il giovane basileus (1). 

A nulla giovando gli inviti pacifici, si ricorse alle minaccie, e poichè il patriarca 
- si rifiutò di cacciare i Cesari, si inviò loro da Palazzo un decreto firmato da Alessio II, 
che ingiungeva di ritornare al Palazzo imperiale al più presto, minacciandoli, qualora 
persistessero nella ribellione. di costringerli ad uscire da Santa Sofia a mano armata. 
Così in vane trattative ed in minaccie trascorse il marzo e l’aprile. Alle minaccie 
del Reggente, irritato in modo speciale per l'espulsione dal Palazzo, chiesta dalla 
Principessa, egli che non poteva star lontano dalle stanze di Maria d’Antiochia, 
= come il polipo dalla roccia ,, i Cesari risposero mettendosi sulle difese: furono 
raccolti i servi, i partigiani, e forniti di armi furono messi a custodire le entrate 
del Tempio e del Patriarcheion, benchè Teodosio vedesse assai di malavoglia questi 
preparativi bellici nella casa di Dio, e di sovente inquietandosi con i suoi princi- 
peschi ospiti, esortasse la Porfirogenita a badar bene a quanto stava per fare (2). 
Intanto agenti di fiducia di Maria Comnena andavano per i vari quartieri della città, 
assoldando avventurieri e mercanti, non solo indigeni, ma anche Latini e Georgiani 
che erano in Bisanzio numerosissimi, dediti anch'essi ai commerci. SATA 

Costantinopoli continuava ad essere alla fine del secolo XII il punito centrale, 
dove affiuivano da ogni parte pellegrini e guerrieri, commercianti ed avventurieri, 
d'ogni razza e nazione. Slavi e Turchi, Comani ed Arabi, Latini ed Anglosassoni, for- 
mavano una non trascurabile parte della popolazione immensa della capitale: perfino 
i musulmani erano così numerosi da avere moschee e professare liberamente il loro 
culto (3). 

Splendida era la città vista dal mare; ma ad eccezione della Mese, la grande 
via, che partendo dall’Augusteon, attraverso ai Fori di Costantino, di Teodosio, d’Ar- 
cadio, conduceva alla Porta Aurea, e di poche altre vie che da questa grande arteria 


(1) N., 302. 16; E., 384. 23. 
(2) N., 303. 8; E., 385. 10. 
(3) N., 303. 17; Basramisi Toperexsis, Ifinerarimm, ed. Adler, 13 e sega. 


9 OT ni x 
29 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 241 


andavano alle altre porte di terra, ornate anch'esse di portici, palazzi, archi, colonne, 
monumenti, tutta la città era sporca ed oscura; nessuna sorveglianza e nessuna 
cura per la manutenzione delle vie, dove la sicurezza, scarsa di giorno, era di notte 
cosa del tutto problematica. Un latino che visitava la capitale verso la metà del 
secolo XII, scriveva che la popolazione viveva “ sine iure ,. I ricchi, sicuri nei loro 
palazzi, splendidi internamente, vasti come piccole città, lasciavano le strette vie nella 
penombra, regno dei poveri, che erano — dice quel latino — tutti ladri. Dalle case 
si gettavano tutte le immondezze sulla via, e nel sudiciume si aggiravano — già 
allora — a torme i cani vaganti (1). 

In questi quartieri, non era difficile, con denaro, radunare gente pronta a tutto, 
ad urlare oggi chi ieri acclamavano, ad applaudire oggi chi domani per denaro in- 
giurieranno (2). 

Esortavano poi il popolo ad accorrere in difesa dei Cesari, sacerdoti e monaci, 
loro partigiani. L'elemento ecclesiastico dimostrava di avere ancora alla fine del 
secolo XII quella stessa influenza che aveva esercitato nei secoli dell’alto medioevo. 
Se Manuele, come già il padre e l’avo, con doni ingenti, con crisobolle conferenti 
doni, privilegi, proprietà, aveva cercato di tenersi fedele il partito ecclesiastico, non 
aveva potuto mai ottenere d’essere da lui secondato nella sua politica di conciliazione 
con Roma. 

Un secolo dopo la chiusura delle chiese e dei monasteri latini della capitale 
ordinata da Michele Cerulario, con la protezione degli stessi basileis, erano sorte 
chiese, conventi ed ospedali latini. Tale infiltrazione occidentale non poteva non 
destare il malcontento del clero ortodosso, e si capisce come questo parteggiasse 
contro Maria d’Antiochia. E sacerdoti ornati dei loro abiti sacri, portando solennemente 
delle croci, scesero ora in piazza, raccogliendo dietro a sè il popolo tumultuante (3). 
La folla, dopo essersi per qualche giorno accontentata di scorrazzare per le vie e 
le piazze o di raccogliersi nella Sfendone dell’ Ippodromo, urlando imprecazioni ed inso- 
lenze alla imperatrice ed al Protosebasto, acclamando il nome di Alessio II, poichè 
vide che non trovava ostacolo di sorta, ardì ben altro e ben presto si gettò sui 
palazzi dell’alta aristocrazia, dei partigiani più conosciuti della basilissa, ed anzitutto 
del Protosebasto e di Teodoro Pantecne che fu costretto alla fuga; nel saccheggio del 
palazzo dell’Eparco vennero pure distrutti gli Archivi conservanti i preziosi diplomi 
che i vari imperatori avevano nei tempi andati conferito alla Città (4). 

Alessio Comneno non potè fare nulla per domare immediatamente il popolo ribelle. 
A Bisanzio, eccezion fatta dei Varangi, non v'era, pare, alcun presidio, ed il Reggente 


(1) Cfr. Oponis DE DeoGIro, Liber de via sancti Sepulchri, MG., SS., XXVI, 66; Mercati, Aneddoti di 
un codice bolognese, in BZ., VI, 1897, pag. 129 e segg. Per la topografia della Capitale, vedi: MorprMANN, 
Esquisse topographique de Constantinople, in © Revue de l'Art Chrétien ,, 1892; OreRHumMER, Constan- 
tinopolis, in PauLy-Wissowa, Real-Encyklopidie, III, col. 9683-1021; Mrtrincen, The walls of Constan- 
tinople, London, 1908; per il Palazzo Imperiale, vedi Lasarte, Le Grand Palais de Constantinople, 
Paris, 1861, ed FsersoLT, op. cit. 

(2) N., 305. 3. 

(3) N., 305 e segg.: E., 387. 

(4) N., 306. 

Seri II. Toxm. LXII 31 


242 FRANCESCO COGNASSO 30 


dovette tardare ancora qualche giorno per radunare un corpo di soldati fatti venire 
dai presidîì d'Asia. Intanto gli avversari provvedevano alla loro difesa. 

Lungo il lato meridionale di Santa Sofia si apriva l’amplissimo Fero dell’Au- 
gusteon, ancora oggi esistente, sebbene non più come allora lastricato di marmi e 
non più ornato da portici, da statue e da monumenti. Non lungi dal punto dove 
sboccava nel Foro la Mese, sorgeva famoso il Milliario, donde si calcolavano le 
distanze su le grandi strade dell'impero; per quanto anche colà sorgessero in lunga 
fila dalla porta di Calcé al Milion i banchi dei venditori di unguenti e di profumi, 
era l’Augusteon la piazza imperiale per eccellenza, il vero ombelico della città (1). 

Su questa piazza stava ora per decidersi il conflitto fra le due fazioni. Mentre 
le milizie imperiali si ordinavano nell'interno del Palazzo, di fronte, i Cesariani, ulti- 
mati i loro preparativi, raccolte provviste di armi e di vettovaglie, occupavano il 
Milliario, che dominava l’imboccatura della Mese, e la piccola chiesetta di Sant'Alessio 
nell'angolo N-0. della piazza; sull’alto degli edifici radunavano freccie e pietre da 
getto. Per facilitare la difesa furono persino abbattuti vari edifici attigui a Santa Sofia. 

Il 2 maggio — era un sabato — per tempissimo, gli imperiali uscirono dal 
Palazzo sotto il comando dell’ armeno Sabbazio e mossero all’ attacco, occupando 
subito qualche posizione avanzata, come il Tempietto di San Giovanni il Teologo, 
detto “ ai due cavalli . (Diippeion) dal gruppo dei due cavalli di bronzo che ivi presso 
aveva collocato l’imperatore Foca. Frattanto dall’alto dei vari edifici, specialmente 
dal Tomaite e dalle gallerie superiori del Tempio i Cesariani incominciarono a far 
piovere sugli avversari dardi e pietre in quantità (2). 

Ma il comandante degli imperiali rispose subito con un’azione energica e pronta; 
poichè il popolo che per più giorni aveva tumultuato, poteva molestare il Palazzo 
imperiale dalle altre parti, fu occupato dagli imperiali tutto il quartiere circostante 
a Santa Sofia, chiudendo l’accesso dalla Mese e da ogni altra via, in modo da impe- 
dire ogni relazione fra i ribelli della chiesa ed il popolo. La lotta ingaggiata nell’Au- 
gusteon durò vivissima e sanguinosa per tutta la giornata; molti caddero dei Cesariani, 
moltissimi degli assalitori che marciavano allo scoperto. Verso sera gli imperiali, 
più numerosi e rinforzati forse da altre schiere. riuscirono a ricacciare i Cesariani 
dal Foro in Santa Sofia; dopo avere inalberato lo stendardo imperiale sull’alto del 
Milliario, li sloggiarono dai porticati, e con le scuri impugnate, spezzate le porte 
del tempio, giunsero fin nel pronao, dove si ergeva la famosa statua di S. Michele 
trionfante; ma essendo l’ora tarda, non osarono avanzarsi nel Tempio (8). 

Quella sola giornata vide così rovinare tutti i sogni di Maria Comnena, ogni spe- 
ranza di impadronirsi dell'impero in poche ore si dileguò. Ansiosa dalle finestre del 
palazzo, dove il patriarca trepidava e pregava, essa aveva seguìto le diverse fasi 
della battaglia, aveva osservato atterrita il ripiegarsi ed il cedere dei suoi difensori. 


(1) Sulla posizione del Milliario, cfr. EsersoL7, op. cit., pag. 3; peri mercanti di profumi, vedi 
NicoLe, Le livre du Préfet, Genève, 1893, pag. 41. 22. | 

(2) Riguardo a S. Giovanni il T'eologo, vedi G. Lasxrms, Zamietki po drévnostiam Konstantinopolia, 
in Viz. Vr., VI, pag. 187 e segg. e Reser, Der Karolingische Palastbau, in È Abhand]. d. Bayer. AK. 
d. Wiss., ,, Hist. Clas., XIX, 757. 

(3) N.. 307-309. Sul tempio di Santa Sofia, vedi EsersoLr, Sainte Sophie de Constantinople, 
Paris, 1910. 


DO) 
nea 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 243 


Su nelle sale essa ora meditava sulla sua ruina, sul forse imminente arresto, l’igno- 
minia, la morte forse; intanto il non ancora ventenne consorte conservava intera la 
padronanza di sè, e con la sua rude energia piemontese, mettendo insieme nell’in- 
terno del tempio i domestici della sposa, gli avventurieri arruolati, i cavalieri latini 
venuti probabilmente di Monferrato al suo seguito, e che Niceta paragona per le loro 
gravi armature a statue di bronzo, radunava ben un cento e cinquanta uomini, e 
dopo aver loro tenuto un discorso per infiammarli d’ardore in difesa del luogo sacro, 
si avanzava con essì nel vestibolo scacciandone i nemici che fin lè avevano osato 
spingersi. Già prima, il patriarca Teodosio, temendo che l’entrata degli imperiali nel 
Tempio segnasse l’inizio di un violento saccheggio, era sceso, vestito dei sacri palu- 
damenti, nel protecdiceo, pronto a fermare con le minaccie dell’ira divina i profa- 
natori della Casa di Dio (1). 

Passato il pericolo e ritornato il Patriarca a palazzo, attorno a lui si racco- 
glievano i Cesari ed i principali loro fautori per decidere sul da farsi. Quella sera 
stessa Teodosio inviò un suo messo al Reggente per offrire pace a nome della Porfi- 
rogenita; e durante la notte si svolsero le trattative fra i due palazzi. Mediatori del- 
l’accordo furono alcuni membri della famiglia imperiale e principalmente il megaduca 
Andronico Contostefano, cugino del basileus, essendo figlio di Stefano Contostefano e 
di Anna, sorella di Manuele I, e Giovanni Angelo Duca, mega eteriarca, figlio di 
Costantino Angelo e di Teodora, sorella di Giovanni II (2). 

Non fu cosa facile mettere d'accordo le due parti, ma al mattino, mentre forse 
già le milizie erano in procinto di ricominciare la lotta, le trattative riuscirono in 
porto. Maria Comnena, rinunciando alla pretesa di far espellere da Corte il pro- 
tosebasto Alessio, si accontentò che esso e la basilissa giurassero che nulla avreb- 
bero ordito contro di lei, nè nella persona, nè nella dignità, e che quanti l’ave- 
vano seguita ed .aiutata, fossero amnistiati. Così, deposte le armi, i suoi difensori 
sì dispersero, ed essa la sera del 3 maggio rientrava al palazzo imperiale, dove, 
uscendone varie settimane prima, aveva sperato di rientrare solo come trionfatrice 
e padrona. 

E davvero le poche forze, di cui poteva disporre, non le avrebbero potuto per- 
mettere di ostinarsi nel suo atteggiamento bellicoso. Il Reggente, infatti, dopo avere 
esitato sì a lungo, aveva preso delle misure energiche, chè, temendo non fossero 
sufficienti le forze che aveva radunato, già pensava a far uso del diritto che il go- 
verno aveva di chiamare sotto le armi tutti i membri delle colonie latine trovantisi 
in terra d’impero; tale provvedimento fu però reso superfluo dalla rapida conclu- 
sione della pace (3). 

Oramai l’azione politica di Maria Comnena era terminata con due sconfitte; essa 
aveva dimostrato di avere grandi ambizioni, ma di mancare di abilità pratica e di 


(1) N. 310; si comprende che il discorso attribuito da Niceta al marchese Raineri è di fab- 
brica nicetiana. 

(2) N. 312 e seg.; si osservi che per le trattative con il Palazzo imperiale, il Patriarca usa un 
messo speciale detto /aAerzzvos. 

(3) E., 395. 2. 


DA4 FRANCESCO COGNASSO 32 


forza. Chiunque avesse in lei riposto una qualche speranza per risollevare lo Stato, 
doveva ora volgere altrove il suo sguardo. 

Il protosebasto Alessio aveva dunque acconsentito alla Porfirogerita di rientrare 
a Palazzo con la stessa dignità di prima. Fu forse questa debolezza provocata dal 
sentimento di parentela: forse furono le esortazioni di Andronico Contostefano, di Gio- 
vanni Duca, fu forse anche prudenza. Egli non volle stravincere. Una troppo grande 
vittoria forse gli avrebbe tolto il favore di molti dei cortigiani e dei parenti che 
ora l'avevano secondato. Ma se la constatazione della propria debolezza avrebbe 
dovuto trattenere Maria Comnena da ogni pensiero di rivincita, quella stessa gene- 
rosità del Reggente e della matrigna doveva profondamente umiliarla; nè essa era 
donna da perdonare tale affronto. 

Compreso che riprendere la lotta con le sole sue forze era vana speranza, su- 
scitò contro il governo un terribile nemico, Andronico Comneno. 

Questi, da quando se ne era partito per recarsi al suo governo nel Ponto, più 
non era ritornato a Bisanzio alla Corte, forse neppure per la morte di Manuele, benchè 
sapesse di essere uno dei tutori e reggenti per Alessio II. Ma d'allora, egli che 
aveva lasciato alla capitale la famiglia, seguiva di su le informazioni che dai figli 
riceveva, con grande attenzione, lo svolgersi della vita politica in Costantinopoli. 
Scopertasi la congiura contro il Reggente. erano stati arrestati e incarcerati i due 
figli di Andronico, Manuele e Giovanni, ma la sorella loro. l’ardita Maria. che an- 
ch’'essa aveva partecipato al movimento, temendo di venire a sua volta arrestata, 
riuscì a fuggire da Costantinopoli e si recò, nonostante la lunghezza edi pericoli del 
viaggio, a Sinope, presso il padre, per indurlo ad intervenire nelle lotte della capitale, 
senza però che la impressione profonda prodotta su di lui da questi avvenimenti 
decidesse Andronico ad uscire dal suo riserbo (1). a 

La sconfitta di Maria Comnena. mise in tutta evidenza quel discendente di 
Alessio I, come l’unico uomo che fosse capace di governare, nelle presenti condizioni, 
l’impero. 

Le dissolutezze della sua vita giovanile erano oramai state dimenticate; nel 
silenzio in cui pareva assorto, nei suoi lunghi viaggi, Andronico Comneno s'era quasi 
rifatta una verginità politica: la riconciliazione solenne con Manuele aveva se- 
polto definitivamente le sue antiche cupidigie e trame, e se alcuno ancora ricor- 
dava le sue avventure attraverso a mezzo mondo, era solo per conchiudere che 
avendo visti tanti paesi, conosciuti tanti uomini, di civiltà, costumi, religione, di- 
yersissimi fra di loro, Andronico doveva avere acquistato una grande perizia nelle 
cose di governo (2). 

Egli non era più lo zerbinotto, attillato e galante, seduttore di donne, di tren- 
t'anni prima, ma sessantenne, con la folta barba bianca, figura austera che conser- 
vava negli occhi e nelle movenze la sua vivacità giovanile, poteva sembrare a nu- 
merosi cittadini l’ideale del governante. L'essere l’imperatore un fanciullo, faceva più 


(1) N., 237. 3; E., 390. 8. 
(2) Vedi Micazr= Acomrsaro, op. cit., ed. Lambros, L pag. 166, a. 23. 


33 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 245 


che mai desiderare che lo Stato fosse retto da un uomo cui una vita lunga ed at- 
tiva avesse dato grande esperienza degli affari e serietà di propositi (1). 

Di qui il crescere rapido della popolarità di Andronico Comneno: si formò un 
partito a lui favorevole; anzi, in gran parte della popolazione si venne ad avere 
una tale idolatria per lui, che Eustazio di Tessalonica ammette che quel gaudente 
a riposo fosse amato da tutti più di ogni altra cosa, più di Dio stesso, od almeno, 
dopo Dio, subito. Andronico sarebbe stato il salvatore, il rigeneratore dell'Impero: 
egli sarebbe stato l’uomo forte, che senza essere avvinto da pregiudizi di sorta, 
senza appartenere ad alcuna congrega o partito, si sarebbe frapposto alle fazioni, 
avrebbe soffocato gli antagonismi di persone e di tendenze, e con l'appoggio di tutti 
gli uomini di buona volontà, con una visione larga e chiara dei bisogni dell’ora che 
passava, avrebbe atteso alla rinnovazione dell’ Impero. 

Non v'ha dunque da stupire se da amici e partigiani arrivassero alla sua remota 
residenza, inviti e scongiuri, affinchè si recasse al più presto alla capitale per dare 
assetto alle cose del governo, e se al suo aiuto ricorresse la Cesarissa stessa dopo 
il fallimento dei suoi tentativi (2). 

Frattanto, pareva che Alessio Comneno non s’accorgesse, tutto inteso alla sua 
vita oziosa, al suo amore per Maria d’Antiochia, che, nonostante l'apparente calma, 
non era cessato in Costantinopoli il fermento degli animi. Invece di dimenticare e 
fare dimenticare le passate discordie, con un altro contegno ed altre direttive nella 
sua politica, egli volle vendicarsi aspramente del patriarca Teodosio. 

Pare che dapprima il Protosebasto intendesse liberarsene, accusandolo come 
facinoroso e ribelle dinanzi alla Santa Sinodo, ed a questo scopo egli già si veniva 
preparando il terreno, comperandosi con la solita corruzione il consenso di vescovi 
e dignitari dell’alto clero della Capitale. L'accusa sarebbe stata doppia: di compli- 
cità nella ribellione all’autocratore, di profanazione sacrilega del tempio per avervi 
dato ricetto ad armati. 

Le pressioni ed il denaro del Governo avrebbero certamente saputo strappare 
alla Sinodo un decreto di condanna per il Patriarca, condanna che avrebbe colpito, 
indirettamente sì, ma non meno gravemente, gli altri ribelli e la porfirogenita Maria, 
tanto più poi se veniva emanata la scomunica per i profanatori del tempio. 

Si comprende quindi che la porfirogenita Maria, vivacemente protestasse e si 
opponesse ricordando l’amnistia giurata. Il Reggente rinunciò alla Sinodo, procedi- 
mento troppo lungo e pericoloso, qualora inaspettatamente avesse prevalso nella 
Sinodo la corrente antilatina e favorevole al Patriarca; ma dopo essersi consigliato 
con alcuni cortigiani, funzionari dello Stato e dignitari della Chiesa, risolse rapida- 
mente la questione, facendo improvvisamente arrestare il Patriarca e rinchiudere 
nel monastero di Pantepopte. 

Nulla doveva recare maggior danno al Reggente quanto questa violenza improvvisa, 
poichè lo zelo religioso di tutto il popolo sarebbe stato rinfervorato, commosso dalla 


(1) N., 238. 21; E., 388. 
(2) N., 304. 1; E., 386. 7, dove l’espulsione del patriarca è collocata subito dopo la Pasqua. È 
noto come Niceta abbia avuto presente lo scritto di Eustazio, quindi, dove, per gli avvenimenti 


della Capitale, se ne discosta, la sua versione è da considerarsi come la più sicura. 


246 FRANCESCO COGNASSO 34 


persecuzione del Patriarea Ecumenico. del rappresentante più sacro della tradizione 
religiosa dell'Impero, per parte di un governo ligio ai latini, mentire ancora era a 
Corte un rappresentante altissimo del Pontefice di Roma (1). Ed infatti, se l'esilio 
del Patriarca Teodosio non fu visto di cattivo occhio da una parte dell’alto clero 
bizantino. se più d'un prelato accordò al Reggente l'approvazione del suo decreto, 
forse non tanto per timore, quanto per invidia verso Teodosio Boradiote, e per la 
speranza di ottenerne la successione, il malcontento scoppiò invece grave nel popolo 
devoto ai suoi sacerdoti. nel basso clero, e penetrò persino a Corte. Mentre qui non 
pochi sorridevano di queste lotte, altri infuriati da questa prepotenza del Reggente, 
misero tutto il palazzo a rumore, ed alcuno riuscì persino ad arrivare presso il 
giovane basileus per denunciargli le mene del cugino (2). 

Assai probabilmente. appunto durante questi contrasti, il Reggente pubblicava 
in nome di Alessio II una novella nella quale questi dichiarava di voler imitare il 
padre anche nella protezione dei monaci — avendo grande bisogno delle loro pre- 
ghiere —, e confermava ai monasteri i privilegi concessi loro dagli imperatori pre- 
cedenti, in ispecie da Manuele, ordinando agli esattori di cancellare senz’aliro dai 
loro registri dei contribuenti le proprietà monastiche (luglio 1181) (3). Il governo 
cercava di riacquistare partigiani. : 

L’agitazione nuovamente prodottasi in Costantinopoli andò vieppiù crescendo, 
sì che il Protosebasto. dopo avere resistito a lungo. vedendo che la stessa basilissa 
era imbarazzata da questa condizione di cose e quasi favorevole al Patriarca, cedette 
e Teodosio — dopo più di un mese — potè nuovamente ritornare al Patriarcheion. 
Il ritorno del Patriarca, dal monastero del Pantepopto a Santa Sofia, fu come un 
grande dispiegamento delle forze nazionaliste pronte alla lotta contro gli occidentali. 
Il corieo immenso percorse trionfalmente iutti i quartieri della capitale; partito al 
mattino dal monastero, giunse a sera al palazzo patriarcale. Tutta Costantinopoli, 
tutte le classi parteciparono a quella vera apoteosi di Teodosio Boradiote; e riunito 
attorno al suo massimo Pastore. il popolo attinse nuova energia per la difesa della 
Chiesa ortodossa, nuovo odio contro i latini (4). 

Il governo da questa festa pare si sia tenuto lontano, e ben si comprende come 
per questa sua astensione, la festa venisse ad acquistare un carattere spiccatamente 
avryrerso al governo stesso. Oramai il Reggente si trovava in una posizione tale da 
non avere facile via di scampo: per la persistenza ostinata in quelle tendenze de- 
terminate, si era venuto siringendo in un cerchio sempre più angusto di odio per 
rompere il quale occorreva ben altra energia. D'altronde, dato il vento che soffiava, il 
continuare a favorire i latini era una vera pazzia. 

Il padrone della situazione era il lontano Andronico Comneno. Il popolo stanco 


(1) Vedi sotto, pag. 253. 

(2) E. 386. 13. 

(3) Cfr. Zaczaziaz vos Liscesraar, Jus Graeco-Romanum, III, n. SI, paz. 505. 

(4) N., 315-316; E., 389. 21; riguardo alla durata della relegazione di Teodosio, è da notare 
che E. parla di circa un mese; mentre Bar-Hebraeus (ed. cit., 389) dice che fu di nove mesi e che 
Teodosio lanciò l'anatema contro Costantinopoli. 


dd PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 247 


del governo attuale vorrà esperimentare il senno politico del rappresentante del ramo 
cadetto, prima di esclamare, come poi farà: “ Siamo stanchi dei Comneni! , (1). 

E finalmente l'appello di Maria Comnena, il pensiero dei due figli rinchiusi in 
carcere da vari mesi, decisero Andronico a ritornare alla capitale. Iniziò la lotta 
indirizzando al basileus, al Patriarca, ad eminenti personaggi della Corte, lettere che 
erano veri proclami, dove, dopo aver ricordato le ultime volontà del defunto Ma- 
nuele, protestava vivamente contro l’indirizzo dato da Alessio Comneno al governo, 
la disorganizzazione, gli sperperi del pubblico denaro, e dichiarava la sua ferma 
intenzione di intervenire in nome di Manuele che a lui aveva fatto giurare di difen- 
dere Alessio II contro chiunque attentasse alla sua corona (2). 

Queste sue lettere, le minaccie in esse contenute, allorchè vennero conosciute 
per Bisanzio, destarono applausi ed ottennero l’approvazione quasi generale ; solo a 
Corte si dovette sorridere delle provocazioni di quel vecchio senz’'armi e senza sol- 
dati. Incoraggiati intanto dal contegno di Andronico, i suoi partigiani con maggior 
zelo attendevano alla propaganda contro il governo. Dove la notizia delle intenzioni 
di Andronico produsse maggior fermento, fu nelle classi popolari. Gli urti fra indi- 
geni e latini avevano prodotto necessariamente un ambiente così saturo di elettricità, 
da doversi dire meraviglioso il fatto che fino allora non fossero ancora successe delle 
lotte sanguinose. Quando fosse caduto l’ultimo ritegno alla saliente marea popolare 
con la ruina del governo della imperatrice, il popolo si riprometteva la più allegra 
vendetta di anni ed anni di continue umiliazioni. Così ai latini abitanti nella capitale 
l’annuncio della venuta di Andronico dovette apparire come foriero di prossimi mali. 

A decidere Andronico a ritornare a Bisanzio, ed a combattere il Protosebasto, 
non influirono soltanto le invocazioni di quanti lo aspettavano. 

Alla sua mente si affollavano in quei momenti tutti i ricordi della sua giovi- 
nezza disordinata, e, fra gli altri ricordi, assai vivo doveva essere quello dell’odio 
feroce nutrito verso Alessio Comneno, allora giovanissimo, ed il suo fratello Grio- 
vanni. La lotta ch'egli aveva sostenuta contro i due figli del sebastocratore An- 
dronico aveva avuto grande influenza sulla sua vita. Le cause di questo dissidio 
erano la preferenza di Manuele per i nipoti e la relazione amorosa stretta da Andro- 
nico con Eudossia, sorella di Giovanni e di Alessio. I due amanti persistettero per 
molto tempo nel loro amore, nonostante l'opposizione di tutta la famiglia imperiale; ai 
rimproveri dei parenti, Andronico rispondeva sogghignando che egli procedeva soltanto 
sulle orme del basileus, di Manuele. I fratelli di Eudossia giunsero a tal punto nel loro 
odio contro Andronico, che più di una volta meditarono di ucciderlo, sì che Andro- 
nico si salvò solo grazie alla sua rara abilità; poi ebbe termine la relazione amo- 
rosa, ma l’odio dei due fratelli contro Andronico non venne mai meno; protessero 
Manuele dalle insidie del cugino, fecero questo oggetto alle più gravi accuse, vere 
o false che esse si fossero: il basileus prestava fede ad ogni loro accusa e soltanto 
sotto tale influsso, molto probabilmente, egli assunse verso il cugino Andronico un con- 
tegno assai aspro (8). 


(1) N., 601. 1. 
(2) N., 238. 5. 
(8) N., 137-188. 


248 FRANCESCO COGNASSO 36 


Tutte queste antiche vicende doveva riandare ora nella sua mente Andronico 
Comneno, sì che la lotta contro il Reggente aveva, per un uomo così tenace nei 
suoi amori e nei suoi odî quale egli era, un colorito di passione personale che 
rimaneva agli estranei celato, coperto interamente dal contrasto d’idee del momento 
presente. 

Ai primi inizi della primavera del 1182, Andronico Comneno aveva finito i suoi 
preparativi. Gli scarsi mezzi finanziari non gli avevano permesso se non di arruo- 
lare una certa quantità di turchi per rinforzare quello che più che un corpo di 
milizie regolari era una accozzaglia di contadini male armati. Così pure il termine 
di flotta era certamente sproporzionato per quelle poche navi malamente equipag- 
giate che per suo ordine partirono da Sinope (1), accompagnando Andronico che 
con il suo minuscolo esercito si avanzava lungo la costa. Per spiegarsi la lentezza 
del viaggio, il maligno Eustazio afferma che Andronico procedeva lentamente per 
fare credere agli abitanti della capitale di essere seguito da ingenti forze; in realtà 
Andronico temporeggiava per cercare di radunare nuovi partigiani e rinforzare le 
magre file, prima di esporsi ad un combattimento. 

Per questo motivo, egli dopo essersi portato ad Eraclea, si studiò di procurarsi 
l'appoggio di Nicea e di Nicomedia, ed avere mezzi di comunicare con le altre pro- 
vincie sia dell'Asia sia d'Europa (2). Un governo forte non ‘avrebbe indugiato ad impe- 
dire al ribelle di avanzarsi liberamente; il Reggente invece quasi nulla fece contro 
Andronico. 

Nicea era governata in quel momento da Giovanni Angelo Duca, quegli che 
l’anno prima aveva procurato di riconciliare la porfirogenita Maria con la matrigna 
ed il Protosebasto. Il governo di Nicea era forse la ricompensa della sua fedeltà, e 
fedele si mostrò anche in questi frangenti, respingendo così le profferte di Andro- 
nico come le sue minaccie. Tentò allora Andronico di avere l’appoggio di Giovanni 
Comneno Vatatze, che era allora governatore della provincia di Filadelfia o, per 
usare la classica espressione, del Tema Tracense (3). Ma neppure in questo suo cugino, 
trovò Andronico aiuto e rinforzo, che anzi fu vivamente minacciato se osasse avan- 
zarzi (4). Furono quelle brutte ore per Andronico; dopo avere con le sue lettere 
minacciose e con la sua spedizione iniziate le ostilità, si trovava ora respinto dai 
capi delle provincie che certo preferivano un governo debole come il presente ad 
un governo forte, per poter essere onnipossenti nella loro provincia. Andronico 
però non si perdette d'animo, ed avanzatosi verso Tarsia e Nicomedia, fu accolto 


(1) N., 316 e segg.; E., 331. 15; sulla presenza di turchi nell'esercito di Andronico vedi la 
Continuatio Zwetlensis altera (MG., IX, 542), Axssermi, Historia de expeditione Federici imperatoris, 
Wien, 1861, pag. 16; Roserti pe MostE, Chronicon, ed. cit., pag. 547. 

(2) N., 318. 14; EF., 391. 21, 332. 1. 

(3) Non della Tracia, come dice il Caaranpon in Jean II Comnène etc., pag. 648, n. 3. 

(4) N. 318. Riguardo alla famiglia Vatatzes, per il sec. XII, abbiamo notizie di dubbio valore 
nel Bos del basileus Giovanni Vatatzes, edito dallo HrisenserG (Kaiser Johannes Batatzes der Barm- 
herzige), in BZ., XIV, 1905, pag. 160 e segg. In questo testo agiografico del sec. XIV, si ricorda un 
avo di detto imperatore, che combattè in Asia per il basileus Manuele, e che poi contrastò il trono 
ad Andronico; ma questo personaggio è detto Costantino, i due figli Niceforo e Teodoro. Sull’im- 
portanza e le fonti del testo vedi l'introduzione dell’editore. 


DI 
SI 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 249 


lietamente dalla popolazione, riuscendo almeno ora a rinforzare notevolmente l’esercito. 
Proseguì il cammino più sicuro di sè : in una località detta Carace, Andronico si trovò 
il passo vietato da un esercito imperiale capitanato da Andronico Angelo Duca (1). 

Figlio del pansebastypertato Costantino Angelo e della porfirogenita Teodora (2), 
sorella minore di Giovanni II, aveva questo Andronico coperto più d’una importante 
carica negli ultimi tempi del regno di Manuele. Non era la sua una razza di guer- 
rieri, nè l'eroismo era la sua dote precipua. Famoso era certo ancora in Bisanzio il 
coraggio dimostrato pochi annì innanzi, nell’ultima grande guerra contro i Turchi. 
Capitanava insieme con Manuele Cantacuzeno un corpo d’esercito spintosi da Chonae 
sulla via di Iconio fin oltre Lampe. Una notte gli si annunciò l’avvicinarsi dei 
Turchi; ma invece di armarsi ed ordinare l’esercito a battaglia, il coraggioso gene- 
rale, colto da panico, balzò in sella ed al galoppo si gettò sulla via di Chonae, 
quasi i Turchi gli fossero alle calcagna, e corse fino a Laodicea di Frigia, dove. 
finalmente si fermò, forse però soltanto per lo sfinimento del cavallo. 

L'esercito fu salvo, grazie alla prudenza del valente Cantacuzeno; ma il basileus 
Manuele fu tanto sdegnato, che solo per la stretta parentela rinunciò a far condurre 
il vigliacco patrizio in giro per la capitale, vestito con un abbigliamento fem- 
minile (3). 

A tal generale aveva ora il governo affidato il proprio destino; e ben si com- 
prende come, benchè fossero truppe regolari ed avessero di fronte una folla racco- 
gliticcia, gl’imperiali fossero in breve respinti e dispersi da quella gente che si 
batteva piena di entusiasmo per il proprio capitano. 

Andronico Angelo si rifugiò subito a Costantinopoli senza fare altri tentativi 
per trattenere il nemico. A Corte si gridò al tradimento, e s'impose allo spregevole 
uomo di rendere conto esatto della ingente somma di denaro affidatagli per le spese 
di guerra. A tale intimazione, Andronico Angelo dapprima si asserragliò nel suo 
palazzo vicino a Porta Aurea, nel quartiere dell’Exokionion, armando sè, i figli, la 
numerosa servitù e molti suoi partigiani, poi, disperando di potersi sostenere, con 
la consorte ed i figli, s'imbarcò di nascosto e, traversato il Bosforo, si rifugiò al 
campo di Andronico Comneno, il quale vittorioso ed incoraggiato dalla presenza 
degli Angelo, si portò, senza più indugiare, per occupare Nicea e Nicomedia, a Calce- 
donia, per accamparsi su di un colle nelle vicinanze della città, nella località detta 
Peucia, ben visibile da Costantinopoli stessa (4). 

I maligni sussurravano che Andronico Comneno, per far credere agli abitanti 
della capitale più numerose le sue truppe di quello che in realtà esse si fossero, 
disponesse in linee molto lunghe, ma poco profonde, le tende del suo campo, e che 
ordinasse d’accendere a sera nel campo un maggior numero di fuochi che non fosse 
quello delle tende (5). 


(1) N., 319. 2 e segg. 

(2) Zowara, III, 739. 31; cfr. Dirat, op. cit., II, pag. 83. 

(3) N., 254. 22 e segg. 

(4) N., 319. 18 e seg.; E., 392. 1; sulla località dell’Exokionion, efr. Last, in Viz. Vr, IV, 
524-532, e Mricuaes, op. cit., 18-20. 

(5) E., 392. 5 da cui dipende N., 320. 


“e IL 10 La 32 


250 FRANCESCO COGNASSO 38 


Ed al campo di Peucia incominciarono ad arrivare gli amici dalla Capitale, 
seguendo l'esempio di Andronico Angelo; a ragione, quando questi era giunto al - 
suo campo, l’arguto Andronico Comneno, traendo dal cognome del fuggiasco buon 
auspicio per l’esito della sua impresa, aveva ricordato sorridendo il biblico: “ Ecco, 
io invierò un Angelo dinanzi a te, che ti prepari la via ,. 

Non sappiamo quale fosse l'impressione provata da Alessio Comneno e da Maria 
di Antiochia, quando un mattino dalle gallerie del Grande Palazzo videro sulle alture 
della opposta riva d'Asia le tende di Andronico. Forse il protovestiario Alessio do- 
vette ricordarsi dell'episodio di tanti anni prima, quando, a Pelagonia, avendo Ma- 
nuele chiesto al cugino Andronico a che mai dovesse servire un cavallo ch’ei teneva 
lì pronto, quegli rispose essere quel cavallo destinato ad agevolargli la fuga, uccisi 
ch’'ei avesse i suoi nemici, i due figli del sebastocratore Andronico (1). 

Non era più questo, oramai, il momento di sconfessare il proprio operato e 
sottomettersi alla opinione popolare. Quello che al Reggente sarebbe stato possibile 
un anno prima, anche solo pochi mesi avanti, ora con il nemico minaccioso di fronte, 
sarebbe stata una viltà mostruosa. Ma in Costantinopoli non verano forze sufficienti 
per respingere Andronico; il fare nuove leve, troppo tempo avrebbe chiesto, mentre 
le provincie più vicine erano od occupate dal nemico, o dominate da governatori i 
quali preferivano rimanersene spettatori della lotta, per aderire poi al vincitore. La 
Guardia Imperiale dei Varangi a pena poteva bastare a proteggere la famiglia 
imperiale contro gli umori della popolazione. Al Protosebasto rimaneva l’unica spe- 
ranza di riuscire a proibire con la flotta il passaggio del Bosforo ad Andronico, il 
quale, per verità, si sarebbe trovato imbarazzato a passare sulla riva europea con 
le poche e deboli navi ch’egli aveva a sua disposizione. Ed in tutta fretta erasi 
lavorato a riattare le navi della flotta, dalla morte di Manuele trascurata assai, e 
nell’urgenza del bisogno si dovette, per completare gli equipaggi, ricorrere all’aiuto 
dei latini, ed assoldarne un certo numero, dando loro stipendi altissimi. Anzi, poichè 
tutti l’abbandonayano, o che passassero, apertamente, ora, al campo nemico, o che 
si tenessero in riserbo, in neutralità, giudicando che questo fosse già una prova grande 
della loro devozione, il non prendere apertamente le armi contro di lui, Alessio 
Comneno trattò perchè tutti gli occidentali prendessero le armi in difesa della ca- 
pitale, ed i latini certo non avrebbero esitato ad intervenire poichè la causa del- 
l’attuale governo era la loro propria. La popolazione, apprendendo queste trattative, 
vieppiù si inviperì; del resto, a nulla questi accordi servirono, poichè gli eventi pre- 
cipitarono prima che essi avessero effetto (2). 

Il protosebasto Alessio avrebbe voluto affidare il comando della flotta a qualche 
suo parente od amico fidato, ma il cugino Andronico Contostefano, che aveva da 
molti anni l’ufficio di megaduca, essendo successo in tale officio al padre Stefano, 
protestò vivamente, dicendo che a lui solo doveva toccare quell’incarico. 

Alessio Comneno, temendo di essere abbandonato se rifiutava, dovette accon- 
sentire; egli sperava — ed aveva messo a bordo, vicino al capitano, qualche suo 


(1) C., 130. 14. 
(2) N., 321. 10: E., 394. 19. 


39 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 251 


fidato — che in tal modo Andronico Contostefano gli si conservasse fedele, con 
grande suo vantaggio, nella presente lotta. Così la squadra si dispose nel’ Bosforo 
per intercettare il passaggio dei nemici. Ed il megaduca forse già pensava al tra- 
dimento (1). 

Per altre vie cercava pure il Reggente di sottrarsi alla bufera imminente. Per 
suo ordine, Giorgio Sifilino, diacono di Santa Sofia, futuro Gran Sceuofilace e Pa- 
triarca, andò al campo di Andronico per un ultimo tentativo di accordo. Alessio 
Comneno, affidando tale missione di pace ad un alto dignitario della chiesa, cercava 
di guadagnarsi l'appoggio del clero (2). 

Giorgio Sifilino rimise ad Andronico lettere di Alessio Comneno, che prometteva 
all'avversario perdono, pace, ricchi doni, alte dignità, qualora rinunciasse ai suoi 
propositi e ritornasse pacificamente al governo della sua provincia. Ma se il Proto- 
vestiario sperava che il prelato appoggiasse le sue proposte, errava, chè Giorgio 
Sifilino, seguendo l'esempio dato altra volta da Michele Psello nella lotta fra Mi- 
chele VI ed Isacco I, dopo aver per serupolo di coscienza riferita l'ambasciata com- 
messagli, privatamente — così si narrò a Costantinopoli — consigliò Andronico a 
persistere nel suo atteggiamento, respingendo le proposte fattegli. E così infatti 
Andronico Comneno incaricò il suo segreto partigiano di annunciare a Palazzo che 
egli solo si sarebbe ritirato qualora il protovestiario Alessio venisse destituito e 
sottoposto a processo, l'imperatrice Maria lasciasse il palazzo e si ritirasse in un 
monastero, lasciando che il giovane basileus assumesse direttamente le redini del 
governo (3). 

Questa intimazione non doveva più lasciare alcun dubbio sulle intenzioni di 
Andronico. 

Mentre al Palazzo imperiale si consumavano giornate preziose nella incertezza 
e nella inazione, nel campo di Peucia si lavorava vivamente a stringere nuove rela- 
zioni, ad intrecciare intrighi con i partigiani della capitale, e di codesta attività si 
videro i risultati, quando dopo pochi giorni il megaduca Andronico Contostefano 
riuniva le navi della flotta imperiale, ed andava a gettare l’èncora a Damali, met- 
tendosi completamente ai servizi di Andronico Comneno (4). 

Dopo questo tradimento, la partita era per il governo virtualmente perduta. 
Alessio Comneno fu talmente colpito dal fatto, che, senza speranza di nulla più, non 
pensò neppure a fuggire. Andronico Comneno trovò nella letizia del successo la 
ricompensa per la fiducia avuta nei primi inizi; ora che il mare era libero, i suoi 
partigiani poterono a frotte passare a Calcedonia per presentare al vincitore e libe- 
ratore i loro omaggi, sentire la sua faconda eloquenza calda ed entusiastica, ricevere 
ordini per il da farsi. E come sempre succede nei grandi movimenti popolari, i par- 
tigiani di Andronico apparvero più numerosi che in realtà non fossero; molti corti- 


(1) N., 321. 14. 

(2) Secondo il Lausros, op. cit., II, pag. 555, già sotto Andronico, Giorgio Sifilino sarebbe stato 
eletto Gran Sceuofilace. Vedi una lettera di Michele Acominato a Giorgio, in Laxe£0s, op. cit., II, pag. 18. 

(3) N., 321. 23 e segg. 

(4) N., 326. 16. 


DAS. FRANCESCO COGNASSO 40 


ulti 


giani, perfino i Varangi, ottimi guerrieri, se ben pagati, ora parteggiavano per il 
vincitore (1). 

Andronico Comneno poteva ora sbarcare al porto del Bucoleon od a quello 
delle Blacherne. Ma Andronico pare abbia voluto che il governo della Reggenza 
crollasse per opera della cittadinanza: se, però, egli non intervenne direttamente, per 
lui, naturalmente, lavoravano gli amici. 

La rivoluzione scoppiò qualche giorno dopo il tradimento della flotta, in città 
ed a palazzo. Le carceri furono aperte, liberati i prigionieri politici, portati in trionfo 
i due figli di Andronico Comneno che da più di un anno ivi languivano; al loro 
posto furono gettati quanti si potè arrestare dei parenti ed intimi di Alessio Comneno. 
Questi, poi, fu arrestato a Palazzo dai Varangi e rinchiuso nelle carceri palatine; 
ma la notte stessa per maggior sicurezza venne trasferito sotto buona scorta al pa- 
lazzo del Patriarca (2). 

Così ignobilmente cadde senza speranza di rivincita il figlio della sebastocrato- 
rissa Irene: egli si vide affidato a quel Teodosio Boradiote che pochi mesi innanzi 
aveva fieramente combattuto; e perchè l'umiliazione fosse completa, al patriarca do- 
vette quella notte ricorrere per avere, insieme con consigli di moderazione e di calma, 
qualche protezione contro i suoi troppo burberi custodi. 

Nei quartieri latini Ja caduta del Reggente, i clamori del popolo tumultuanie 
destarono un vero panico; a migliaia i commercianti abbandonarono i loro fondachi 
e le loro dimore cercando rifugio gli uni in casa di amici e di patrizi che osassero 
sfidare la collera del popolo, i più sulle navi ancorate agli scali del Corno d’Oro (3). 

Quel che avvenisse, mentre gli avvenimenti precipitavano, al Palazzo imperiale 
non ci venne tramandato, ma non è difficile il ricostruirlo. L'arresto dell'amante, la 
notizia, venuta alcuni giorni dopo, che dopo d’essere stato condotto per la città 
su di un ronzino esposto ai ludibrii ed agli insulti della plebaglia, esso era stato 
trasportato al di là del Bosforo per comparire dinanzi ad un tribunale di guerra, 
fecero passare la disgraziata imperatrice di inquietudine in inquietudine, di angoscia 
in angoscia: le urla trionfanti del popolo poi le dovettero dire che il suo fido era 
stato, per ordine di Andronico, consenzienti tutti i dignitari, abbacinato e mutilato 
orribilmente (4). 

E quando su le folate del vento primaverile spirante dal Bosforo, salì ai lus- 
suosi triclini del Gran Palazzo il confuso rumore prodotto da mille irose voci del 
popolaccio precipitantesi, ebbro d’ira, sui quartieri latini, certo, allora. Maria d'An- 
tiochia dovette maledire l’ora in cui la cupidigia del potere ed una vana ebbrezza 
d'amore l'avevano tratta a violare i voti, a spregiare la tranquilla calma della vita 
monastica. 

Poichè lo sbarco di alcune compagnie dell’esercito di Andronico, determinò 
quello che il popolo non aveva ancora osato: l'attacco ed il saccheggio dei quartieri 
degli occidentali. La fuga dei latini fece sì che la furia popolare non incontrasse alcuna 


(1) N., 323; E., 393 

(2) N., 323 e segg. 

(3) N., 325. 20; E., 394; WT., XXII, 1v, 1066. 
(4) N., 324. 20; WT., XXII, rv, 1067. 


41 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 250 


resistenza, chè tutti ì più validi non avevano aspettato l'assalto ritenuto da qualche 
giorno come inevitabile. 

Per più giorni durarono i saccheggi, le uccisioni, gli incendi, e nella caccia al 
latino mostrò la plebe quegli stessi istinti feroci apparsi già secoli innanzi nella sol- 
levazione della Nike. Fu strage senza pietà, senza quartiere; di qualunque età, sesso, 
classe, uomini e donne, vecchi e lattanti, sani ed ammalati, quanti non avevano 
potuto o voluto fuggire, tutti soggiacquero o sotto i colpi degli inferociti popolani, 
o sotto le macerie delle case rovinanti fra gli incendi. 

E non solo i laici soggiacquero, ma anche, e più ancora, i preti ed i monaci 
latini. 

E chiese e monasteri ed ospedali latini furono anch’essi assaliti, devastati, 
distrutti: il famoso senodochio di San Giovanni fu rovinato, i ricoverati uccisi; 
preti e monaci perirono fra crudeli torture, vittime dell’odio dei loro confratelli or- 
todossi, i quali, anzichè predicare parole di pace, senza ritegno alcuno, guidarono la 
folla all’assalto, instigandola alle stragi. 

Vittima illustre di queste giornate dell’aprile 1182 fu un ambasciatore ponti- 
ficio, il cardinale suddiacono Giovanni, venuto poco prima a Bisanzio; arrestato nella 
sua abitazione, donde non aveva voluto, sebbene sollecitato, fuggire, fu tra i vituperì 
decollato; la testa dell’infelice, legata per ludibrio alla coda di un cane, fu trascinata 
nel fango per le vie della città. 

Questo cardinale era stato inviato da Alessandro III per un nuovo tentativo di 
unificare le due Chiese, aderendo all’invito fatto nel marzo del 1180 da Manuele; e 
forse queste trattative avevano in qualche misura influito per affrettare lo scoppio 
di quegli odî che troppo lungo tempo avevano taciuto. Dopo nemmeno due anni dalla 
morte di Manuele, tutta la sua opera per la riconciliazione delle due chiese e delle 
due nazionalità (1) si mostrò vana. 

L’odio ortodosso non rispettò i portati nel seno materno, non rispettò le tombe 
latine; scoperti i sepoleri, estratti i cadaveri e vilipesi, trascinati per le vie e le piazze 
quasi illatas sentirent iniurias. 

Immensa fu la strage: e numerosissimi latini, più di quattromila, risparmiati, 
vennero, carichi di catene, tradotti in Asia ed ivi venduti ai mercanti turchi di 
schiavi. 

Per quanto la folla avesse trovato appoggio nelle milizie di Andronico, benchè 
da diversi giorni già si parlasse fra i latini di un movimento organizzato contro di 
loro, non si può però credere che la strage corrispondesse ad un disegno premedi- 
tato da Andronico, e che essa rientrasse nel suo piano d'azione. La strage fu la ven- 
detta del popolo per anni ed anni di vergognose umiliazioni mal celate, ed Andro- 
nico appunto per non compromettersi si astenne dall’entrare in città, pur vedendo 
con favore questa insurrezione del popolo contro l'elemento occidentale (2). 


(1) Per il cardinale Giovanni, cfr. WT., XXII, x1, 1084, Roeerti DE Monre, Chronicon, ed. cit., 
pag. 527; Eusrazio (396. 4 e segg.) dice di ignorare se questo latino fosse stato mandato da Roma o 
dalla corte di Palermo: ignorava quindi anche le trattative di Manuele con il Pontefice. Vedi sopra, 
pag. 246. 

(2) Per le stragi vedi N., 326-327; E., 394-395; WT., XXII, x, 1082 e segg.; la data, aprile, èin WT. 


254 FRANCESCO COGNASSO i 49, 


In Bisanzio, oramai, non vi era più governo: all’imperatrice Maria più nessuno 
badò, ed al campo di Peucia l’un dopo l’altro si seguirono premurosi i dignitari di 
Corte, gli alti funzionari delle cancellerie imperiali a ricevere gli ordini del nuovo 
signore. Pochi giorni dopo, scortato da tutto il clero di Santa Sofia, venne in gran 
pompa a presentare i suoi omaggi ad Andronico il patriarca Teodosio, e tale visita 
significò il riconoscimento formale del nuovo governo per parte della Chiesa (1). 

Teodosio Boradiote aveva sempre avversato il Reggente, e con il suo contegno, 
dopo aver favorito la Cesarissa, aveva aiutato validamente la riscossa dell’elemento 
nazionalista contro il Protosebasto ed i Latini. Al suo appoggio doveva in parte 
Andronico la sua vittoria. Ma questo abboccamento invece di segnare il trionfale 
ritrovo di due alleati, segnò invece l’inizio di quella diffidenza reciproca che doveva 
portare fra non molto ad una rottura totale dei rapporti e più oltre ancora. A quanto 
pare, il patriarca Teodosio non aveva ancora avuto occasione di incontrare e cono- 
scere personalmente Andronico, il quale, dopo lunghi anni di assenza, era stato nel 1180 
pochi giorni alla capitale — se pur non solo al palazzo di Scutarion — per riconciliarsi 
con Manuele, senza avere rapporti con l'elemento ecclesiastico che lo aveva sco- 
municato. 

Sceso a Damali, Teodosio procedette a cavallo al campo di Andronico. Questi 
gli venne incontro in segno di rispetto; ed il buon vecchio dovette guardare con 
viva curiosità quello strano tipo, dalla figura erculea, dalla lunga e bianca barba, 
vestito di un disadorno abito color violaceo, di tela di Georgia, con in capo un gran 
cappello a cono, pure secondo l’uso dei Georgiani. Andronico inginocchiatosi, gli baciò 
i piedi, lo salutò, con grande ardore, salvatore del basileus, ardente d’amore per il 
Bello, fiero propugnatore del Vero. 

Durante la conversazione, l’uno e l’altro fecero meraviglie di abilità per delu- 
dersi a vicenda, e se ritornando a palazzo Teodosio, che aveva appreso ora quanta 
energia e volontà. vi fosse in Andronico, diceva ad un suo fido che, se finora lo aveva 
conosciuto solo dalla descrizione fattagliene dal basileus Manuele, ora lo conosceva 
abbastanza di persona, Andronico Comneno, scherzando con gli amici, usò d'allora 
chiamare il Patriarca, il profondo, l’impenetrabile Armeno (2). 

Ad ogni modo, diffidenze e sospetti rimanevano per ora al fondo degli animi, e 
l'apparente amicizia fra i due personaggi bastò ad eliminare in chicchessia ogni pos- 
sibile dubbio e serupolo. 


(1) N., 328. 6. 
(2) N., 329. 15. Teodosio di Boradion era di origine armena. 


43 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 


DO 
Ut 
(Dai 


II. 


Il governo di Andronico Comneno. 


Dopo il suo trionfo, Andronico non entrò subito in Costantinopoli, ma lasciò che 
ì due figli Manuele e Giovanni ed i suoi fidi ponessero in ordine, secondo le sue 
istruzioni, gli affari del governo, che nella città, calmati i furori antilatini, scom- 
parse le maggiori traccie delle stragi e delle rovine, riprendesse il suo corso la vita 
normale (1). 

Se il popolo aveva accolto con grande entusiasmo il suo idolo, l’aristocrazia 
aspettava fredda e diffidente una qualche manifestazione politica del nuovo padrone, 
più esplicita di quanto si fosse fino allora avuta. Ma l’abile uomo se ne rimaneva 
tranquillamente nel suo accampamento a Peucia, mentre a Palazzo, la basilissa Maria 
attendeva anch'essa ansiosa quali deliberazioni Andronico fosse per prendere in ri- 
guardo del figlio suo, e del governo. Intanto il basileus Alessio continuava nella sua 
vita spensierata, poco comprendendo le condizioni in cui si trovava, ignaro, certo, 
delle tempeste che attorno al suo capo s'addensavano (2). 

Dopo alcuni giorni, arrivarono finalmente ordini di Andronico; il basileus Alessio 
e Maria d’Antiochia dovevano partirsi dal Palazzo Sacro e trasportarsi al Filopathion 
interno, al Palazzo di Mangane, presso le mura a mare, ed ivi attendere ulteriori 
disposizioni. Egli stesso poi vi sì recò: narrano, che imbarcatosi su di un dromone 
imperiale a Damali, contemplando dal Bosforo la città, sorridesse ed esclamasse: 
“ Riposa, anima mia, poichè il Signore ti beneficò, strappò la mia vita alla morte, i 
miei occhi alle lacrime, i miei piedi alla rovina , (3). 

Al Filopathion avvenne l’incontro dall'una parte come dall’altra ugualmente te- 
muto, chè il ritardo di Andronico ad entrare in città è forse da attribuirsi, in parte 
almeno, alla indecisione in cui egli si trovava sul da farsi. La vittoria sul Reggente 
era stata più facile e più pronta di quanto Andronico stesso si fosse pensato. Che 
cosa avrebbe egli ora dovuto fare ? Ritornarsene alla sua remota provincia, o pren- 
dere accanto al giovine basileus l’ufficio lasciato vacante dalla caduta del protove- 
stiario Alessio? 

In una delle sale del Palazzo, Andronico si incontrò con il giovane Alessio che 
lo attendeva, gli si gettò ai piedi, lo baciò ed abbracciò piangendo, e dichiarò so- 
lennemente di voler rimanere presso di lui a proteggerlo. A pochi. passi dai due 
stava l'imperatrice Maria: Andronico non nascose l’antico odio nutrito contro di lei, 
e le fece saluti brevi e freddi. Ad un inviato del Reggente egli aveva non molti 
giorni prima posto come condizione per accettare l’offertagli pace, il ritiro della 


(1) N., 330. 19. 

(2) Riguardo alla principessa Agnese, vedi le pagine ad essa dedicate dal Dient, op. cit., 
pag. 141 e segg. e lo studio citato sopra del Du Sommerarp. 

(3) N., 331. 6; è noto come sia da distinguere fra Filopathion interno e Filopathion esterno; 
cfr. N., 380. 17, e 529. 4; vedi Du Cance, Constantinopolis christiana, pag. 134 e 173, ed ora Cua- 
Lanpon, Jean II Comnène etc., pag. 7. 


256 FRANCESCO COGNASSO 44 


basilissa in un monastero; ma ora, non sappiamo per quali motivi, non osò tradurre 
in atto questo suo disegno. Forse giudicò la cosa ora inutile, forse credette la mossa 
pericolosa. 

Dopo quella udienza, Andronicò si ritirò in un padiglione che aveva fatto in- 
nalzare a poca distanza dal Palazzo, nel parco, ed attorno numerose tende avevano 
eretto i suoi ufficiali e molti patrizi amici. L’idolatria per Andronico già allora era 
tale che nella notte un povero mendicante, sorpreso in prossimità della tenda di 
Andronico, fu ritenuto come uno stregone intento a sue diaboliche trame contro il 
principe e come tale venne poi arso vivo alla presenza della folla nella Sfendone 
dell’Ippodromo. Dopo essersi fermato alcuni giorni in quell'ameno luogo, Andronico 
decise finalmente di entrare in città e recarsi al Palazzo. La solenne entrata di 
Andronico in città dovette certamente essere simile ai trionfi da Giovanni Il e da 
Manuele celebrati dopo le loro più splendide vittorie (1). Con tutti i fiori della reto- 
rica, ricordava Michele Acominato, in un suo discorso di non molto tempo dopo, 
quel solenne ingresso: “ Quale giubilo nella popolazione! Costantinopoli aveva spa- 
lancato tutte le sue porte: i cittadini accorrevano come sciami di api: il mare era 
coperto di navi e di barche...: gli stessi mostri del mare, i delfini, danzavano...; la 
Propontide fu come agitata o commossa da una corrente di gioia...: tutti erano desi- 
derosi di vedere il grande, l’eccelso Andronico, giunto finalmente, dopo tanto tempo! 
Egli era come una fonte da cui proveniva un fiume di pace: egli portava ai Romani 
miriadi di beni, lo scioglimento delle catene, il ritorno degli esuli, la caduta della 
tirannide, la fine dei torbidi; finalmente cessava la diuturna agitazione che trava- 
gliava la capitale, si aveva la liberazione dalla proterva dissipatezza del tiranno e 
dei Latini, si aveva la purificazione dell'impero dall’intrusione dei barbari ,. E questi 
erano senza dubbio i pensieri dei cittadini della capitale in quel giorno (2). 

Prima d'ogni altra cosa, volle Andronico recarsi al monastero del Pantocratore 
a visitarvi la tomba di Manuele. Dinanzi al sarcofago che racchiudeva i resti mor- 
tali del suo grande rivale, pianse, ci dicono, dirottamente, ma se molti per queste 
lacrime lo ammirarono, altri se ne fece beffe; ed avendo voluto Andronico rimanere 
qualche minuto solo nella cappella funeraria, alcuno più maligno affermava che avesse 
voluto dire al defunto cugino: “ Ora finalmente, o mio persecutore, che mi obbligasti 
a tante peregrinazioni e tante pene, ho vinto; e mentre tu giaci nella tomba, io pren 
derò le mie vendette sulla tua discendenza , (3). 

Quasi non potesse capacitarsi di essere il vero padrone dell’impero, Andronico 
andò peregrinando dall’uno all’altro palazzo imperiale, compiacendosi delle ricchezze 
in essi accumulate da Manuele, delle comodità che offrivano e delle quali egli faceva 
maggior conto ancora dopo la sua vita randagia (4). 

Ma presto, fermata la sua residenza al Grande Palazzo, dove meno lo turbavano 
i ricordi di Manuele, egli prese ad occuparsi con grande sollecitudine delle cose del 
governo, consacrandovi non piccola parte della sua attività; e sotto l'impulso potente 


(1) N., 331. 

(2) Mric®eLE AcommnaTo, op. cit., ed. Lambros, I, 164, n. 15. 
(3) N., 332. 20. 

(4) N., 333. 11. 


45 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 257 


del suo ingegno e del suo volere, una nuova vita parve ravvivare l'organismo dello 
Stato. 

Sventuratamente, in Andronico due uomini si combattevano e si contrastavano il 
primato: l'uomo politico, amante della patria, desideroso di farla forte, di liberarla 
dai vampiri che ne succhiavano il sangue, e l’uomo di parte, erede di una tradizione 
famigliare di lotte e turbolento egli stesso. In quell’anima ai più intensi amori si 
associavano gli odì più feroci; e se questi non riuscirono a soffocare del tutto la 
benefica attività politica e sociale di Andronico, poterono però colorirla in tal modo 
che i suoi propositi furono attuati con maniere violente assai spesso, feroci e san- 
guinose non di rado. 

L'aristocrazia che sotto la protezione dei Comneni si era venuta rinforzando, 
ed aveva rialzato il capo sì da considerarsi come la vera padrona dello Stato, doveva 
cercare — era logico — di opporsi alle misure riordinatrici e severe del nuovo go- 
verno. Quando le opposizioni furono lievi, Andronico non le curò; quando divennero 
veri ostacoli, egli, senza scrupoli, ricorse al carnefice. Arte di governo e morale pri- 
vata per lui erano cose assolutamente distinte. 

Per occupare il potere egli s'era giovato dell'appoggio di varî membri della 
famiglia imperiale, del clero, di parte della stessa aristocrazia. Tutti volevano ab- 
battere il protovestiario Alessio perchè erano invidiosi della sua autorità e perchè 
troppo pochi vantaggi dava loro; anzichè ad una purificazione del governo, mi- 
ravano a mettere a capo dell'Impero una persona ad essi devota, e che permettesse 
loro di sfruttare liberamente lo Stato. Ma Andronico non era uomo da abbandonare 
vilmente alla loro cupidigia insoddisfatta, alla loro libidine di guadagno, l'Impero; 
e trovando in lui resistenza, essi dovevano presto riprendere a combatterlo, pronti, 
dopo che l'avessero rovesciato, a formare un altro governo, per combattere anche 
questo se ancora una volta la loro avidità avesse trovato opposizione. 

La cesarissa Maria, determinando per la sua irrequietezza e la sua ambizione 
i tumulti del 1181, era stata la prima causa della venuta di Andronico, da lei desi- 
derato ed invocato. Quale contegno abbia tenuto essa ed il marchese Raineri, dopo 
l’arrivo del cugino, noi non sappiamo. 

Certo però, se essa credeva di potersi appoggiare ad Andronico per i suoi di- 
segni, si dovette ben presto accorgere del grave errore commesso, chè Andronico non 
aveva inteso e non intendeva certo adoprarsi in favore della cugina, e fra i due 
doveva quindi, a non lungo andare, manifestarsi il più vivo antagonismo. Andronico, 
quando aveva intrapreso la spedizione contro Costantinopoli, aveva cercato l’aiuto 
e l'alleanza di Giovanni Angelo Duca e di Giovanni Vatatze, personaggi di grande 
autorità e potenza che non gli avrebbero certo permesso di operare contro il basileus. 

È quindi difficile che egli già fin d’allora mirasse a sostituirsi sul trono ad 
Alessio, con un prestabilito piano d’azione. I pensieri ambiziosi egli dovette più pro- 
babilmente sviluppare ed educare dentro di sè durante la lotta ch’ei venne soste- 
nendo contro l’aristocrazia bizantina, osservandone l’ignavia e la incapacità. 

Se egli non avesse incontrato tanti ostacoli e tante battaglie, forse egli sarebbe 
stato contento della posizione già conquistata. Ma nella dura lotta sostenuta, il timore 
che il giovane basileus potesse diventare per alcuno un’arma ed una bandiera contro 
di lui, come già lo era stato contro il protovestiario Alessio per lui stesso, dovette 


Serie II. Tox. LXII 33 


2 FRANCESCO COGNASSO 46 


(0.0) 


5 


convincerlo che occorreva consacrare solennemente e legalmente il suo potere. E 
dalla proclamazione imperiale alla soppressione del giovane collega nell’impero breve 
era il passo. 

Come già aveva risposto a Giorgio Sifilino nel campo di Peucia, Andronico vo- 
leva che il governo fosse assunto personalmente dal basileus Alessio II. Nello stesso 
modo Romano di Lacapè aveva inteso liberare Costantino VII dalla tutela della 
madre Zoe. E quando fu padrone di Costantinopoli, appunto per segnare solenne- 
mente l’inizio del governo personale del quattordicenne Alessio, egli lo volle fare 
nuovamente incoronare, con Agnese di Francia, in Santa Sofia. Era la terza incoro- 
nazione oramai. La solenne cerimonia si svolse il 16 maggio 1182, il dì di Pente- 
coste. Dopo l'incoronazione, Andronico giurò fedeltà al basileus: gittatosi a terra, 
pose sul proprio collo il piede destro di Alessio, e per significare il suo proposito di 
volergli essere colonna e scudo, sollevò il cugino sulle proprie spalle. L’immensa folla 
accorsa dovette prorompere in clamorosi applausi diretti più al suo favorito che 
all'imperatore (1). 

La caduta del protovestiario Alessio, pare che incontrasse in molte provincie 
lo stesso consenso della capitale. Noi conosciamo però l'opposizione del governatore 
della provincia di Filadelfia, Giovanni Comneno Vatatze, Gran Domestico dell’Oriente. 
Aveva fatto parte della Reggenza, almeno di nome, e come già si vide, già da prin- 
cipio non aveya dato ad Andronico motivo di dubitare dei suoi sentimenti. Era uomo 
valente ed abile, ed audacemente rifiutò di riconoscere il cambiamento di governo ; 
non spaventato da ordini e da minaccie, decise di opporre la forza ai voleri di An- 
dronico. Per questo atteggiamento si ebbero in tutte le città d'Asia dissensi e lotte 
intestine fra i partigiani dei due contendenti; lotte più dannose all'impero, dice 
Niceta, che non l'invasione delle provincie d’Asia fatta poco prima dal Sultano di 
Ieonio (2). | 

Andronico non tollerò — nè poteva tollerare — una simile ribellione, ed inviò 
contro il Vatatze un suo partigiano, Andronico Lombardo, uno dei congiurati del- 
l’anno innanzi, esule poi, ed ora ritornato con il nuovo governo. Contro di lui, essendo 
Giovanni Vatatze caduto ammalato, scesero in campo i due suoi figli, Alessio e Ma- 
nuele. La battaglia avvenne presso Filadelfia. Giacchè la fortuna delle armi era 
incerta, e pareva piuttosto piegare verso gli imperiali, Giovanni Vatatze si fece tras- 
portare in lettiga su di una altura prospiciente il campo di battaglia, e le sue milizie 
rianimate dalla presenza del duce, riportarono bella vittoria sul nemico. Ma senza 
alcun risultato, chè, pochi giorni dopo, Giovanni Vatatze veniva a morte; Filadelfia 
sì affrettò a pronunciarsi in favore di Andronico ed a lui mandò ambasciatori per 
umiliarsi ed attribuire la colpa della ribellione ai Vatatze: i due fratelli Alessio e 
Manuele Vatatze si affrettarono a varcare il confine per rifugiarsi ad Iconio, dove 
speravano di trovare appoggio presso quel vecchio Sultano, allora in rotta con l'impero. 
Ma anche qui sol poco tempo poterono posare; il Sultano infatti rifiutò di sostenerli 


(1) N., 343. 8; cfr. De Muratm, op. cit., I, 215. 
(2) N., 340. 18; da N. 343. 8 risulta che la lotta con il Vatatze è anteriore alla incoronazione 
di Alessio II, della Pentecoste del 1182. 


47 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 2599 


con le armi, ed essi dovettero imbarcarsi per la Sicilia, senza giungervi, che, spinti 
da una tempesta sulle coste di Creta, e riconosciuti, per quanto il governatore dell’isola 
desiderasse salvarli, vennero poco dopo, per ordine di Andronico, accecati (1). 

La cerimonia della Pentecoste in Santa Sofia, non valse a conciliare ad An- 
dronico gli animi di molti malevoli. Le potenti famiglie degli Angelo e dei Conto- 
stefano erano, pare, il principale suo incubo. Andronico Contostefano, il megaduca, 
era troppo gran personaggio, per non sentirsi, almeno in parte, adombrato dalla nuova 
grandezza del cugino; aveva tradito una volta, una seconda volta poteva tradire (2). 

Andronico Comneno, che tanti anni era stato lontano dalla capitale, apparteneva 
ancora, per formazione intellettuale, ad un'età precedente, e poca simpatia, a parte 
anche ogni antagonismo politico, aveva per questa effeminata aristocrazia che con- 
fondeva mollezze orientali ed occidentali, incapace di ubbidire e di comandare. Nei 
funzionari che ebbe al suo servizio, trovò poca volontà di operare, e si comprende 
che Andronico si sentisse qualche volta sfiduciato, e minacciasse di volere abban- 
donare il governo, per ritirarsi nuovamente nella sua remota provincia. È vero che 
Kustazio di Tessalorica lo accusa di aver ciò detto, e non una volta sola, affinchè 
. il popolo lo invitasse a restare e gli confermasse i) suo appoggio, ma questo fatto 
mostra appunto come Andronico combattendo l’aristocrazia intendesse interpretare i 
desideri del popolo, e volesse assicurarsene la fiducia, prima di impegnarsi in una 
lotta violenta. L’aristocrazia insofferente di imposizioni, solo tollerava Andronico in 
quanto aveva timore del popolo, ed i suoi desideri — e la sua ignavia — inter- 
pretava certo quel patrizio che venuto a contesa con Andronico, alle costui minaccie 
di ritornarsene in Paflagonia, rispose aspramente, lo facesse pure, senza preoccuparsi 
dell'impero, la Odegitria sarebbe stata sufficiente a difenderlo (3). 

Andronico per rimediare a questo stato di cose, licenziati quanti seguivano opi- 
nioni a lui avverse, volle circondarsi di amici fidati, collocò nelle dignità di corte, 
nelle cancellerie imperiali, gente nuova, molti venuti con lui dalle provincie d'Asia, 
che, se ai bizantini parevano barbari, erano a lui devoti; il basileus e l'imperatrice 
madre furon circondati da una fitta rete di sorveglianti e di spie che controllassero 
ogni loro atto, ostacolando le relazioni degli estranei, dei suoi avversari in ispecie, 
con l’imperatrice (4). 

Dati i motivi per i quali Andronico era salito al potere, era a temere che alcuno, 
che: molti, anzi, per suo mezzo, sotto specie di punire malversazioni e malversatori, 
cercassero vendetta contro privati nemici. Ma benchè attorno a lui si agitasse un 
nugolo di adulatori e delatori, desiderosi di mettersi in evidenza, Andronico proce- 
dette con abilità ed oculatezza. Più: di una volta colpì con destituzioni, trasferimenti, 
o pene più gravi, invece che gli accusati, gli accusatori; non solo condannava seguaci 
del governo precedente, ma quei malversatori del pubblico erario che speravano di 
poter gettare un pio velo sulle loro colpe, sbracciandosi nel sostenere e magnificare 
il nuovo governo. Così Giovanni Cantacuzeno che si affannava ad accusare un tal 


(1) N., 341-342: cfr. inoltre la Vita di Giovanni Vatatze; ed. cit., in BZ, XIV, pag. 163 e segg. 
(2) E., 398. 11. 

(3) E., 398. 18; 402. 16. 

(N, 333: 23. 


260 FRANCESCO COGNASSO 48 


Tziza come colpevole di tenere relazioni politiche con il basileus Alessio, venne egli 
stesso colpito, e così quello stesso Teodoro Dadivreno, prefetto dei Varangi, devo- 
tissimo ad Andronico, fu fatto per suo ordine, una volta, frustare a sangue (1). 

A metterlo maggiormente in cattiva luce presso l'aristocrazia bizantina, con- 
tribuivano assai i suoi rapporti con i più influenti capi del popolo (2). Appunto per 
l'appoggio della borghesia e delle classi inferiori, Andronico aveva abbattuta la Reg- 
genza. E si capisce bene il perchè di questo appoggio. Solo con l’aiuto delle truppe 
di Andronico era stata distrutta la potenza commerciale dei latini; i vantaggi che 
di qui ne dovevano — od, almeno, speravasi dovessero — scaturire, spingevano tutta 
la classe dei commercianti e dei lavoratori verso il nuovo governo, che usò uomini 
nuovi, abili ed energici dei quali gli storici bizantini, se parlano con dispregio, devono 
riconoscere le grandi doti, la. grande capacità: venuti su dal popolo, erano delle 
tendenze popolari presso Andronico i rappresentanti diretti. Costantino Patreno, 
uomo del popolo, è per Eustazio mirabile modello di adulatore, dopo essere stato 
avversario di Andronico. Michele Aplucheir, affabile all’eccesso nel trattare, terribile 
nelle malvagità, era non solo uomo politico, ma anche poeta; Stefano Agiocristo- 
forite, il principal ministro di Andronico, era uomo abilissimo. Plebeo, figlio di un 
collettore d’imposte, aveva osato sposare una patrizia; le pene infamanti che lo ave- 
vano, a quanto pare, colpito, la frusta e la recisione del naso, non avevano per nulla 
diminuito la sua audacia e la sua influenza sul popolo. 

Una novelletta raccolta da Eustazio ce lo descrive come cinico fino alla spudo- 
ratezza, ma certo è che egli aveva già sotto Manuele raggiunto un importante ufficio 
nell’ esercito; Andronico, poi, ricompensò la sua devozione, facendolo Sebasto e 
Logoteta del Dromo; ma il popolo lo odiava: lo chiamava non Agiocristoforite, ma 
Anticristoforite; lo giudicava il più malvagio dei funzionari imperiali (3). 

Il governo di Andronico fu detto essere stato una serie innumerevole di incar- 
cerazioni, acciecamenti, confische, esecuzioni (4). Ma questo è solo in parte vero. Il 
governo di Andronico si divide in varii periodi contrassegnati da un diverso grado 
di violenze, cui egli arrivò via via insensibilmente, mentre cercava di compiere il 
suo programma. Del resto il suo rigorismo pare fosse per qualche tempo accompa- 
gnato dal consenso della popolazione. F 

La basilissa Maria, per quanto trascurata ed allontanata completamente dagli 
affari, non aveva sentito la convenienza di ritirarsi decisivamente a vita privata, ma 
se ne era rimasta a Palazzo, sperando che non si sarebbe osato toccare la madre 
dell’imperatore, mentre, quand’anche non fomentasse intrighi secreti contro Andronico, 
essa, con la sola sua presenza, doveva costantemente tenere sveglia l’attenzione e 
la diffidenza dell'avversario, che presto o tardi si sarebbe stancato della sua ostina- 
zione. Nella seconda metà del 1182 si venne rapidamente determinando la lotta fra 


(1) N., 335. 11 e segg.; 429. 21. 

(2) E., 403. 9. 

(3) E., 405. 1 e segg.; per Michele Aplucheir, vedi Trev in BZ., I, 1892, pag. 338-339; che Ste- 
fano Agiocristoforite fosse Logoteta, risulta pure dai Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 258. 

(4) Cfr. fra gli altri, Gerzer, Abriss der byz. Geschichte in K. Krumsacarz, Geschichte der byz. 
Litt., pag. 1028. 


49 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 261 


Andronico e la basilissa. Noi non sappiamo se allora fossero ancora ‘in vita i Cesari. 
Sulle voci che corsero allora in Bisanzio su quelle morti, e che Niceta ci riferisce, 
senza affermarne neppur egli l’esattezza, non possiamo in alcun modo decidere. Si 
disse che la Cesarissa fosse stata avvelenata con vivande, da un suo eunuco, tale 
Pterigionite, corrotto con denaro da Andronico, e tal voce parve confermata dal- 
l'essere seguita, a non molta distanza, la morte di Raineri di Monferrato, che fu 
detto anch'egli avvelenato. Fosse la loro morte procurata da Andronico, o puramente 
naturale, certo è che nella principessa Maria scomparve quello che sarebbe stato un 
grave ostacolo per Andronico Comneno (1). 

La rottura dei rapporti amichevoli, che erano fino allora corsi fra Bisanzio ed 
il Regno d'Ungheria, offri mezzo ad Andronico di liberarsi della basilissa Maria. 
Morto Manuele, parve infatti a Bela di potersi considerar sciolto dagli obblighi con 
giuramento verso di quello contratti (2). Nonostante l'educazione ricevuta alla Corte 
imperiale, egli, che sentiva altamente i suoi doveri verso la nazione ungherese, con- 
siderò come un fine da raggiungere senza esitazione, la rioccupazione di Branitevo 
e di Belgrad, la conquista della Dalmazia. E nel 1182, approfittando delle lotte di 
Bisanzio, un esercito ungherese varcò i confini mal guardati da deboli presidi, spin- 
gendosi fino a Sofia, di dove portò a Gran — prezioso bottino! — le reliquie di 
S. Giovanni di Rila. Contro di lui Andronico inviò con un esercito Alessio Brana 
ed Andronico Lombardo, il vincitore di Giovanni Vatatze. La guerra continuò ancora 
nell’anno seguente; contro gli Ungheresi appoggiati dai Serbi, rimase, per la ribel- 
lione del suo collega, il solo Alessio Brana. Branicevo, Belgrado, Nis ebbero nella 
guerra danni gravissimi, furono anzi ridotti in rovina, ma Bela non potè mantener- 
visi e dovette rivarcare il fiume; ancora sei anni dopo, i crociati di Federico Bar- 
barossa poterono vedere le ruine fatte dagli ungheresi (3). La Dalmazia che da soli 
quindici anni era stata riconquistata da Bisanzio e riorganizzata in un ducato fu 
però definitivamente perduta per l’impero (4). Ora il destino della basilissa Maria fu 
deciso. Andronico non aveva cessato mai, dopo il suo ritorno a Bisanzio, di accu- 
sarla di raggiri e di insidie al basileus Alessio ed a sè stesso, di tentativi per 


(1) N., 336. 21, WT., XXII, xr1, 1086, dove, a proposito della incoronazione della Pentecoste 1182, 
sì dice: “ sororem [di Alessio] quoque et sororis maritum, simul et matrem imperatoris, intra septa 
palatii, adhuc tractans humanius ,. L'ultimo ricordo di Raineri è fatto l’8 agosto 1182, nella pace 
fra Vercelli e Guglielmo V (cfr. Braper, op. cit., pag. 26). 

(2) G., 287. 6; N., 347. 1; cfr. Huser, Geschichte Oesterreichs, I, 371; JiRECECE, op. cit., I, pag. 265. 

(3) N., 349; 363. 18; AnsBerto, op. cit., pag. 30; cfr. Drinov, in “ Archiv fiir slavische Philo- 
logie ,, II, 173. 

(4) Cfr. Craranpon, Jean Il Comnène etc., pag. 490. Lo stesso autore in Hist. de la dom. des 
Norm., II, 280, crede che la provincia di Dalmazia, dopo la conquista bizantina. fosse stata deno- 
minata Provincia di Schiavonia: la prova sarebbe nella presenza in Dalmazia nel 1180 di un fun- 
zionario imperiale “ Rogerio Selavone Duca ,. Ma il doc. del 10 giugno 1180 (in Swrctrras, Codex 
Diplomaticus Regni Croatiae ete., II, n. 165) dice “ in ducatu Dalmatiae et Croatiae existente domino 
Rogerio Sclavone duca ,; dunque non ducato di Schiavonia, ma Ducato di Dalmazia e Croazia. Il 
duca che si chiamava davvero Roggero Sclavo, è da identificarsi non con il figlio del Cesare Rog- 
gero, marito di Maria, sorella di Manuele, ma con quel barone normanno di tal nome che si ribellò 
a Guglielmo II e, sconfitto, dovette andare in esilio, come dice Romualdo di Salerno, “ ultra mare , 
(MG., SS.. XIV, 432). Roggero Sclavo era figlio naturale di Simone, conte di Policastro (vedi Ugo 
Falcando, ed. Siragusa, pag. 63). 


262 FRANCESCO COGNASSO 50 


riacquistare il potere. Fossero esatte o no, queste accuse dovevano nel popolo, ecci- 
tato dalle non ancora dimenticate giornate di aprile, fomentare nuove agitazioni, e 
nuovi torbidi. 

L’espulsione di Maria d’Antiochia dal Palazzo fu il primo atto di Andronico. 
Ma occorreva far approvare tale decisione dal patriarca e da un’assemblea di giu- 
dici imperiali ed altri dignitari, sia perchè il provvedimento avesse alcuna veste di 
legalità, sia perchè l’odiosità del fatto, e ie conseguenze, non ricadessero in ogni 
caso sul solo Andronico (1). 

La risolutezza di Andronico, la pressione del popolo strapparono il consenso 
agli uni ed agli altri. La basilissa si sarebbe forse ancora salvata se avesse voluto 
volontariamente allontanarsi dal Palazzo e dalla Capitale, ma essa si ostinò a rima- 
nere colà, quasi avvinta da una forza segreta a quel rudere di trono che andava 
ruinando. Andronico chiese al Patriarca il suo consenso all’allontanamento di Maria 
d’Antiochia da Palazzo. Teodosio, che ricordava certo, tristemente, come egli stesso 
con il suo contegno nelle passate vicende avesse concorso a produrre il presente 
stato di cose, sentendo profonda pietà verso la sventurata principessa, cercò di op- 
porsi alle intenzioni di Andronico. Ma questi, gettando, forse, nuovamente la minaccia 
di abbandonare il governo, fece sì che il popolo si sollevasse. Nuovamente Costan- 
tinopoli fu in tumulto: dalle officine e botteghe a frotte si diressero gli operai verso 
il Foro Augusteo ed il Palazzo Patriarcale, imprecando all’ Imperatrice ed al Pa- 
triarca che pochi mesi prima avevano portato in trionfo come un Iddio. Irruppero, 
pare, nel Patriarcheion, e fra i clamori della plebe, minacciante cose peggiori, il 
Patriarca rinunciò alla sua resistenza, ed accettò il decreto di Andronico. 

Questi, d’altra parte, vinceva la resistenza incontrata nell'adunanza dei giudici, 
presso i quali egli stesso intervenne a presentare e ad appoggiare la sua proposta. 
Mentre i più servilmente inclinavano ad acconsentire, tre giudici che non ancora 
avevano aderito al partito di Andronico, Demetrio Tornicio, Leone Monasteriote; 
Costantino Patreno, osarono resistere, chiedendo se quell’adunanza fosse stata ordi- 
nata da un decreto imperiale. Era questa od audacia straordinaria o colossale inge- 
nuità. Ma Andronico, furioso di vedersi contrariato, si alzò di scatto dal suo seggio, 
urlando ai suoi partigiani ed armigeri: “ Eccoli, quelli che consigliavano al Proto- 
vestiario le sue malvagità! Arrestateli! ,. I Varangi che facevano corona al suo 
seggio, si slanciarono contro i tre poveretti e li spinsero fuori della sala del con- 
siglio, ma quivi i giudici furono assaliti dalla folla che, strappatili ai loro cu- 
stodi, li andò malmenando e vituperando per tutta Costantinopoli, sì che fu caso 
avventurato l’aver essi potuto salvar la vita (2). Sgominata così la piccola Dupri 
zione, Andronico ottenne dal tribunale quanto voleva. 

Questa violenta levata di scudi contro l’Imperatrice per parte di Andronico è 
strettamente connessa ad una cospirazione contro lo stesso Andronico. Gli aderenti 
a questa congiura avevano giurato di non darsi requie prima di aver schiacciato il . 
loro fiero nemico (3). Se la basilissa Maria fosse a parte di questo progetto, noi non 


(1) N., 343. 19; E., 400. 17. 
(2) N., 344 e segg. 
3) N., 345. 


51 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 263 
sappiamo; ma era logico che Andronico colpisse con i cospiratori anche chi, legit- 
timamente o no, doveva essere ritenuta l’anima della congiura, chè solo a suo favore 
sarebbe questa riuscita. 

Ma tutte queste mene fallirono contro la sorveglianza di Andronico, e molti 
pagarono o con il carcere o con la vita stessa la loro arditezza e sfortuna. Le mag- 
giori famiglie del patriziato bizantino furono colpite: Andronico Angelo, ora nuova- 
mente propenso all’imperatrice, riuscì a fuggire con i figli, nascondendosi in una 
nave carica di vasi vinari; Andronico Contostefano, che, pentito forse d'aver vali- 
damente cooperato ad abbattere il governo della Reggenza, parteggiava anch'egli 
contro il nuovo governo, con quattro suoi figli fu arrestato, così pure Basilio Cama- 
tero, Logoteta del Dromo, nipote del famoso ministro di Alessio I e Giovanni II; 
tutti quanti furono abbacinati; alcuni, come il Logoteta Camatero, privato anch'esso 
solo di un occhio, furono poi inviati in esilio in Russia. Non pochi patrizi furono incar- 
cerati ed accecati anche per il solo sospetto che avessero partecipato alla cospira- 
zione. Poco più tardi caddero nelle mani di Andronico due figli di Andronico Angelo, 
poi il loro cognato Giovanni Cantacuzeno, ed anch'essi vennero abbacinati (1). 

Andronico Comneno rispose adunque a questa vasta cospirazione colpendo la 
basilissa; strappato, come sopra vedemmo, il consenso del patriarca e del tribunale 
imperiale, la disgraziata principessa già era stata arrestata, separata dal figlio e 
tradotta dal palazzo imperiale al monastero di S. Diomede, vigilata rigidamente, 
trattata in modo orrendo. Ora l'accusa di tradimento, di rapporti con il re d’Un- 
gheria, fu nuovamente presentata da Andronico al tribunale, cui chiese qual pena 
stabilissero per i traditori le costituzioni dell’Impero. I giudici risposero proponendo 
la morte: tosto una crisobolla fatta firmare al disgraziato Alessio II sancì la con- 
danna, ed ordinò l'esecuzione della sentenza contro la madre (2). 

Andronico affidò la direzione della esecuzione al figlio maggiore Manuele ed al 
cognato, il sebasto Giorgio (3). Si ebbe in risposta un aspro rifiuto, chè essi dichia- 
rarono solennemente di non approvare la condanna e di non voler quindi farsene 
complici. Di qui scene tragiche a Palazzo, imprecazioni di Andronico, lamenti per 
la sua sventura di non trovar nemmeno in famiglia fedeli esecutori dei suoi ordini. 

Pochi giorni appresso, grazie al fedele Costantino Tripsico ed all’eunùco Pteri- 
gionite, la figlia di Raimondo d’Antiochia giacque soffocata sul giaciglio della cella 
monastica che aveva visto le ultime sue sofferenze, e le profonde acque del Mar di 
Marmara l’accolsero misteriosamente (4). 


(1) N., 345 e segg.; riguardo alla famiglia Contostefano, cfr. le due lezioni differenti del cod. A, 
che attribuisce complessivamente alle due famiglie Contostefano ed Angelo sedici figli e del cod. B, 
che parla solo di undici figli. Poichè da N. 313. 23 pare che Andronico Angelo avesse cinque figli, 
è probabile che Andronico Contostefano ne avesse sei. La cattura del Cantacuzeno è narrata da N. 
a pag. 336, ma dal contesto appare chiaramente a quale serie di fatti si riferisce; per gli esiliati 
in Russia, cfr. Lamsros, op. cit., I, 346. 6. 

(2) N., 347. 1; E., 400. 22. 

(3) N., 348. 1 e segg. Non sappiamo a quale famiglia appartenesse la prima consorte di An- 
dronico: il nome di Giorgio dato al cognato, può forse far pensare alla famiglia Paleologa; certo non 
credo possa riferirsi a lui il sigillo di Giorgio Comneno, dato dallo ScaLumEERGER, Op. cit., pag. 641. 

(4) N. 348. 18. 


264 FRANCESCO COGNASSO 52 


Così la sciagurata principessa terminò la sua vita, e dopo aver goduto le gioie 
e gli splendori del trionfo per vent'anni, seppe alla fine tutti gli orrori della caduta. 
In verità non ci resiste l'animo d’imputare a Maria d’Antiochia colpa alcuna per 
quanto era successo. I contrasti di idee, di interessi che la vollero loro vittima, 
domandavano persone che avessero ben diversa capacità intellettuale del proto- 
sebasto Alessio e dell’imperatrice Maria. In quel terribile cozzo di due tendenze 
essa fu attrice inconscia ed incapace: gli eventi la sorpresero smarrita e sbigottita, 
senza sostegno e senza energia, e si accasciò e cadde su quel trono che tanto aveva 
amato (1). i 

Il popolo, che aveva aiutato Andronico ad abbatterla, considerò quella morte 
come una vendetta, e ne gioì; pochi — ed in segreto — la compiansero. 

Sfogata la sua libidine di vendetta, Andronico procedette con maggiore sicu- 
rezza e tranquillità nell'attuazione dei suoi progetti. Dopo quel primo colloquio nel 
campo di Damali, Andronico ed il Patriarca averano avuto modo di incontrarsi in 
varie circostanze, ad esempio, nella incoronazione del basileus Alessio. Ma i loro 
rapporti non erano punto migliorati: anzi nè l’uno nè l’altro avevano mai nascosto 
reciprocamente i proprii sentimenti. Ci si narra come un giorno in cui Andronico 
discorrendo con il patriarca Teodosio si era lagnato che questi non avesse, avanti 
il suo arrivo, assunto di fronte al Protovestiario la protezione dell’imperial pupillo 
con maggiore energia, come sarebbe stato suo dovere, Teodosio Boradiote rispose 
seusandosi e dicendo che, occupato come egli era in tante faccende, aveva creduto 
sufficiente il visitare il basileus ad intervalli, e malignamente avrebbe aggiunto avere 
dovuto ora, da quando egli Andronico era ritornato, rinunciare a prendersi cura 
qualsiasi del giovane Alessio. Con questa frase, secondo il cronista, egli avrebbe 
fatto sentire come egli conoscesse oramai che il basileus era bellamente spacciato. 

Andronico arrossì, sorpreso di questo attacco improvviso, vedendo che l’ay- 
versario aveva indovinato i progetti che venivano nel suo animo segretamente ma- 
turando, e gli intimò di spiegare le sue parole; ma il patriarca ironicamente gli disse 
che credeva inutile la sua protezione, essendo il basileus oramai al sicuro grazie alle 
cure di Andronico. Ed il discorso piegò istintivamente per parte di entrambi ad 
altre cose; ma queste schermaglie ben dimostravano l'animo di Andronico e di 
Teodosio (2). 

Andronico Comneno doveva aver certo compreso come ogni suo progetto avrebbe 
trovato sempre opposizione nell’austero monaco di Boradion: occorreva quindi cer- 
care di sostituirlo con un individuo più malleabile, termine che in questo caso voleva 
significare meno onesto. L'opposizione fatta da Teodosio alle prime intenzioni di 


(1) Il racconto di Niceta non ci dà elementi sufficienti per stabilire la data della morte della 
basilissa. Codino (op. cit., 160. 10) dice che Maria regnò con il figlio Alessio un anno, undici mesi 
e tre giorni; Andronico con Alessio pure un anno, undici mesi e ventiquattro giorni; Andronico 
solo, un anno, dieci mesi e giorni dieci. Ma i due primi dati sono probabilmente errati. Alessio II, 
infatti, regnò, con Andronico, dal maggio 1182 al settembre 1183; con la madre solo dal 24 set- 
tembre 1180 all'aprile 1182. Il De Muralt (op. cit., I, 214) mette la morte di Maria d’Antiochia alla 
fine dell’agosto 1182; credo che debba ritardarsi di qualche mese. È probabile che non alle gior- 
nate d’aprile, ma alla prigionia della basilissa si riferisca il doc. di cui vedi al cap.IV, pag. 299, n. 1. 

(2) L'aneddoto è narrato da E., 309. 11, dal quale lo toglie N., 328. 19. 


bs PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 265 


Andronico riguardo alla basilissa, diede modo all’abile uomo di smorzare l'entusiasmo 
ortodosso del popolo e staccare questo dal patriarca, il cui prestigio soffrì non poco, 
additato come il protettore della basilissa Maria, colpevole di tradimento; ed è assai 
probabile che quando la basilissa Maria perì, Teodosio Boradiote non fosse più sul 
trono patriarcale di Costantinopoli. La causa fu una nuova e più grave controversia, 
sorta certamente ancora nel 1182. Vivevano a Corte insieme con Andronico i varii 
suoi figli avuti sia nel matrimonio sia nel concubinaggio con l’ex-regina di Geru- 
salemme, Teodora. Maria, la figlia legittima, della cui energia è prova l’ardimentosa 
fuga dalla metropoli fino a Sinope, sposò in questi anni un tal Teodoro Sinadeno, strin- 
gendo poi forse, alla morte dello sposo, nuovi legami matrimoniali con quel Romano che 
troviamo nel 1185 indicato come genero di Andronico (1). La figlia illegittima, Irene, 
volle egli unire al figlio illegittimo di Manuele, il protostratore Alessio. Il matri- 
monio era contrario alle leggi della chiesa bizantina in quanto Irene ed Alessio 
erano cugini in secondo grado, ma questo non poteva essere un ostacolo per An- 
dronico che si incaponì nel volere il matrimonio, sebbene la sproporzione d’età fra 
i due cugini non fosse piccola. Questa decisione non può trovare una spiegazione 
sufficiente solo nell'amore profondo che Andronico nutriva ad un tempo per la figlia 
e per il protostratore Alessio. Andronico obbediva a motivi in parte politici. Infatti, 
poichè sorsero nel clero opposizioni violente al suo progetto, Andronico presentò alla 
Sinodo una laconica memoria in cui giustificava il matrimonio, affermando che, mentre 
presentava solo piccolo difetto rispetto ai canoni sacri, esso era di grande importanza 
politica “ per l'unione dell'Oriente con l'Occidente, e per la liberazione dei prigio- 
nieri , (2). Sebbene la cosa non sia molto chiara, è probabile che Andronico inten- 
desse acquistarsi l’animo di quanti, conservando gelosamente nel cuore il ricordo del 
basileus Manuele, non s'erano ancora affezionati al suo governo. 

Ma in qual modo per Andronico e per l’impero, quel matrimonio significasse 
accordo fra l’Oriente e l'Occidente, è difficile spiegare. Forse esso significava paci- 
ficazione fra la tendenza nazionalista ed il partito latinofilo, nel comune amore per 
la dinastia e per la patria; forse esso significava un riavvicinamento con l’Occidente 
europeo, con l'impero tedesco. Così si dovrebbe supporre da quanto più tardi 
dice Niceta, ritornando su tale argomento. I partigiani del matrimonio fra Alessio ed 
Irene sarebbero andati affermando che per esso nuovamente si sarebbe avverato 
quanto col tempo era decaduto e tralasciato, e, riappacificato l’Oriente con l’Occi- 
dente, sarebbe cessata l’antica ostilità, si sarebbero affratellati popoli pur così diversi 
per lingua e per costumi, ed alla pristina inimicizia sarebbe succeduta un’'uguaglianza 
di costumi..... (3). È da ricordare ancora a questo proposito che nell’estate del 1182 
passava per Costantinopoli, diretto in Palestina, Leopoldo d'Austria, figlio dell’ar- 
ciduca Enrico e di Teodora Comnena, ancora, in quell’anno, vivente (4). Sappiamo 


(1) E., 423. 14. 

(2) N., 330 e segg. 

(3) N, 402. 14. 

(4) Sull’arcidaca Leopoldo e la madre Teodora, vedi la Continuatio Zwetlensis altera, MG., SS., 
IX, 542; la Continuatio Claustroneoburgensis secunda, ibid., 612; la Continuatio Cluustroneoburgensis 
tertia, ibid., 633. 


Serie il. Tom. LXIL 34 


266 FRANCESCO COGNASSO 54 


come fosse ricevuto a Corte con grandi onori, nonostante la freddezza, l'ostilità anzi, 
fra i due imperi; forse il matrimonio in questione — Alessio era fratello uterino di 
Leopoldo — è da mettersi in rapporto con la politica estera di Andronico. Non è 
però da insistere troppo su tale supposizione. 

Riguardo poi all’essere il matrimonio necessario per la liberazione dei prigio- 
nieri, nulla pure si può dire: solo si può supporre che si-trattasse di avversari di 
Andronico, incarcerati, che egli prometteva di liberare per compiere la pacificazione 
degli animi. Nel luglio del 1132 usciva un importante editto di Alessio II, che as- 
solveva dall’accusa di lesa maestà quei patrizi che si erano uniti con giuramento, 
poichè non era la loro una congiura, ma un giusto giuramento fatto in favore del 
basileus. Sventuratamente dell’editto ci giunse solo un breve riassunto che non ci 
permette di precisare se si tratti di una cospirazione contro Andronico, o, come è 
più probabile, di quella contro il Protosebasto dell’anno precedente (1). 

In ogni modo, la questione del matrimonio era grave per la Sinodo: da una 
parte l’inflessibilità dei canoni, dall'altra la necessità politica. La discussione fu 
vivacissima, e finì per essere favorevole ad Andronico, che aveva a sè guadagnato, 
con doni, promesse e minaccie, molti prelati e giudici. 

Alcuno fra i giudici, gente avida di denaro ed abietta, osò anzi sostenere la 
perfetta legittimità del matrimonio con questo argomento: l’uno e l’altro dei fidan- 
zati era illegittimo e nato da matrimonio incestuoso; quindi non esisteva fra di essi 
alcuna parentela di natura. Era un farsi gioco del diritto e dei canoni, ma a qualche 
cosa poteva servire con gli ingenui. 

Adunque l’opposizione si ridusse presto al patriarca ed a pochi vecchi prelati; 
e poichè la Sinodo approvò il matrimonio, l’inflessibile Teodosio Boradiote abban- 
donò, sdegnato, il palazzo patriarcale, e si rifugiò nell’iscla di Anderovithos, sul Mar 
di Marmara. Quivi, presso alla tomba che già s'era costrutto, rimase fino alla morte 
avvenuta solo varii anni dopo, consolandosi nei prediletti lavori agricoli e nella cor- 
rispondenza con il dotto vescovo di Atene, Michele Acominato (2). 

Qualora Teodosio di Boradion non avesse deciso di cedere il campo spontanea- 
mente, noi non sappiamo se Andronico avrebbe osato procedere a misure energiche 
contro di lui. Ma ora che il patriarca si era ritirato, Andronico, lieto, non tardò a 
chiamare all'alto seggio il Cartofilace di Santa Sofia, suo devoto seguace, il diacono 
Basilio Camatero Filacopulo (3). Ancora prima, durante la vacanza patriarcale, il 
matrimonio tanto desiderato e tanto contrastato veniva benedetto dall’ arcivescovo 
di Bulgaria, allora presente a Costautinopoli (4). Assai probabilmente Andronico con- 
ferì ora al suo genero il titolo di Sebastocratore (5). 


(1) Vedi Zaczariae von LixGentHAL, Jus graeco-romanum, INI, 307, n. 82. 

(2) Sull’isola di Terebinto (= Anderovithos) cfr. Biirrner-Wossr, in BZ., VI, 98; ParGorre, Les 
monastères de Saint Ignace et les cinq plus petits îlots de l’Archipel des Princes, in “ Yzyvjestja , del- 
l'Istituto Archeologico russo di Costantinopoli, VII, pag. 64; sulla corrispondenza del patriarca 
Teodosio con il vescovo di Atene, vedi Laxsros, op. cit., II, 68. 

(3) N., 339; cfr. il catalogo dei patriarchi di Costantinopoli in Baspuri, Imperium Orientale, I, 198. 

(4) N., 339 e segg. 

(5) N., 556. 2 e segg. 


55 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 267 


Mentre Andronico trionfava del clero, il suo governo andava incontro ad una 
difficile crisi: alcuni grandi funzionari, alcuni membri di quella prepotente aristo- 
crazia, stanchi di quella sorveglianza incessante, di quella severa repressione di abusi 
e di malversazioni, si ribellarono apertamente, e qualche città d'Asia aderì ad essi. 

Im una città gl’ insorti sono capitanati da un Cantacuzeno, in un’altra dagli 
Angelo. Dopo la fuga da Costantinopoli, Andronico Angelo era giunto con i figli 
ad Acri, dove, forse per le sofferenze del viaggio, venne poco dopo a morte (1). Lui 
morto, alcuni dei figli si illusero di poter ritornare senza pericolo a Costantinopoli ; 
ma giuntivi, tosto furono accecati. Alcuni altri, che diffidavano, ed a ragione, di 
Andronico, si recarono presso il Saladino e quindi portatisi nelle provincie asiatiche 
dell'impero, innalzarono la bandiera della ribellione. 

Fra la riscossa aristocratica d'Asia e la fiducia assoluta ed immutata che il popolo 
della Capitale riponeva nel governo di Andronico, non era facile trovare una via 
conciliativa. Ed agli «aristocratici, postisi con la ribellione fuori della legge, il popolo 
rispose proclamando basileus il loro martello, Andronico. 

Poichè infatti, più che di un colpo di Stato di Andronico per soddisfare solo la 
propria ambizione, si tratta di una necessità riconosciuta da lui come da tutto il 
popolo. I ribelli di Bitinia davano al loro movimento un indirizzo recisamente avverso 
ad Andronico, e per giustificare la loro ribellione ed acquistarsi le simpatie dell’ele- 
mento devoto al giovane basileus, affermavano di voler restituire la libertà al basileus. 
Ad impedire che la corrente che aveva portato Andronico al governo venisse scon- 
fitta dalla reazione, era urgente che al più presto si investisse Andronico di una auto- 
rità sacra ed inviolabile (2). 

In una adunanza cui intervennero numerosi partigiani di Andronico, fra i quali 
il logoteta Stefano Agiocristoforite, il patriarca Basilio Camatero, numerosi borghesi 
e plebei, alcuni patrizi, fu deciso di fronteggiare gli avvenimenti, allargando i poteri 
di Andronico, elevandolo cioè alla dignità di basileus e collega di Alessio II (3). 
Certo, essi interpretavano quella che sapevano essere una vecchia aspirazione di 
Andronico; quanti sedevano in quel consiglio dovevano ad Andronico la loro fortuna, 
ed il suo innalzamento speravano che si rivolgesse anche per loro in un beneficio. 
Ma nessuno v'era fra essi, e neppure nella moltitudine cittadina, che non lo ripu- 
tasse degno della suprema dignità, e tutti giudicavano che non altrimenti l'Impero 
avrebbe potuto essere libero dalle agitazioni che lo travagliavano (4). Così, bal- 
zando in piedi, lanciarono solenne l’ acclamazione di rito: “ Ad Alessio ed An- 
dronico, grandi basileis ed autocratori dei Romani, Comneni, molti anni di vita!, 
{settembre 1183). 


(1) Le notizie sulla fuga degli Angelo ci sono date dalla nota “ Lettera dall'Oriente, inserta 
nel Chronicon Magni Presbyteri, in MG., SS., XVII, 511; vedi la critica fatta a questo documento 
dal Riezuer, Der Kreuzzug Kaiser Friedrichs IL in € Forschungen zur deutschen Geschichte ,, X, 37, 
e la difesa fattane dallo Hey», Histoire du commerce dans le Levant, I, 230. 

(2) N., 349; E., 407 e segg. Cfr. Lampros, op. cit., I, pag. 220 e segg. 

(3) N., 350-351; E., 408-409; riguardo alle fonti latine, è da ricordare la deformazione leggen- 
daria che vi assumono i fatti, anche se le notizie sono provenienti da fonte eccellente, come ad 
esempio, nei Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, pagg. 251 e segg. 

(4) N., 349. 18. 


268 FRANCESCO COGNASSO 56 


Rapidamente la notizia della proclamazione si sparse per la città; da tutte le 
case, da tutte le officine, popolani e borghesi accorsero come sciami d'api verso il 
palazzo imperiale, congratulandosi, acclamando ad ambedue i basileis, ma special 
mente al nuovo eletto. Nelle vie, sulle piazze, siimprovvisarono danze e canti in segno 
di gioia, e si videro persino dei funzionari, un giudice del velo ed un protonotario 
partecipare alla pazza allegria del popolo (1). La proclamazione imperiale era avvenuta 
nel palazzo detto di Michelitza, che faceva parte del Patriarcheion. Quando l’annunzio 
fu recato ad Andronico, egli dal Grande Palazzo si recò alle Blacherne. E là nel 
Palazzo che varii autocratori avevano innalzato, che da Manuele era stato riedificato 
quasi completamente ed abbellito con immenso sfarzo, sì da essere dal popolo deno- 
minato “ lo Splendidissimo ,, in quella sala forse che i pittori bizantini avevano ornato 
— solenne apoteosi di Manuele — delle rappresentazioni delle sue gesta bellicose 
contro i barbari, Andronico Comneno ricevette l’annuncio ufficiale della sua elezione. 

Stefano Agiocristoforite, il patriarca Basilio ed altri l’invitarono ad assumere la 
corona, e poichè egli — fosse o no sincerità — esitava e rifiutava, essi insistettero, 
pregarono, scongiurarono in nome del popolo e dell’impero, affinchè non chiudesse quella 
che era l’unica via per provvedere alle necessità urgenti. Ed alle preghiere dei varii 
personaggi aggiunse le sue il basileus Alessio, il quale, avvisato dell’avvenimento 
dalle acclamazioni festose del popolo, si era affrettato, senza comprendere la gravità 
della cosa, a festeggiare il cugino e protettore. i 

Ma Andronico si ostinava a non piegare, e gli altri maggiormente si commo- 
vevano ; la farsa, poichè ad un qualche cosa di simile si ridusse presto la cosa, si 
svolse alla perfezione: suppliche e dinieghi, terrore dei supplicanti, timore che il 
rifiuto fosse decisivo; tentativi di Andronico per sottrarsi alle preghiere, all’onore 
troppo grande — e che egli tanto desiderava —, sua fuga per le aule del palazzo, 
inseguimento, poi l'imposizione solenne e perentoria del patriarca e quindi la resa. 

Andronico fu assiso sul seggio patriarcale e, dimessi gli abiti modesti che tuttora 
indossava, vestì la clamide imperiale, calzò i purpurei calzari. Intanto una folla di 
gente, pazza di gioia, si recava al Palazzo Grande, ed andava a proclamare Andro- 
nico nel tempietto del Salvatore che sorgeva attiguo al palazzo di Calcè. 

Già il giorno appresso, in mezzo a grande concorso di popolo, Basilio Camatero 
incoronava i due imperatori colleghi, Alessio per la quarta volta, Andronico per la 
prima volta, in Santa Sofia (2). Dopo l'incoronazione, dovendo ricevere, come era 
tradizione, il Pane Divino, Andronico, preso in mano il calice portogli dal Patriarca, 
giurò ad alta voce dinanzi a tutto il popolo che egli aveva acconsentito alla elezione, 
solo per proteggere meglio il giovane basileus Alessio. Nuovamente avvenne l’accla- 
mazione ai due basileis, ma la formola era stata ora modificata: ora il popolo acclamò 
ad Andronico ed Alessio imperatori. 

I partigiani di Andronico, per giustificare il trasmutamento” di posto dei nomi 
dei due basileis, affermavano non essere decoroso che un giovanetto di appena quat- 
tordici anni fosse acclamato prima del vecchio ed illustre Andronico. In realtà era 


(1) N., 350, 17. 
(2) N., 352. 6; E., 410. 20. 


Ol PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 269 


riconoscere che il vero imperatore oramai era il neo-eletto, e che il porfirogenito 
Alessio era e doveva essere trascurato. 

Ma Andronico dovette pensare che se per ora la sua autorità si poteva imporre 
al giovane porfirogenito, fra qualche anno, senza dubbio, sarebbero sorti contrasti, 
con male conseguenze per l'impero; necessità di Stato richiedeva un unico principe, 
un principe forte: il disgraziato Alessio doveva sparire. E poche settimane dopo l’inco- 
ronazione, al palazzo imperiale si radunava un Consiglio di amici fedeli; e questo 
inspirandosi al concetto della necessaria unità di governo, disponeva che il gio- 
vane Alessio fosse senz'altro deposto dall’impero e ridotto a vita privata. 

Ma non ancora forse sì era diffusa fra la popolazione questa notizia, che una 
novella più grave, più triste, venne alle orecchie dei cortigiani: fosse ordine di An- 
dronico, od iniziativa di satelliti, Alessio Comneno venne segretamente soffocato da 
Stefano Agiocristoforite, Costantino Tripsico, Teodoro Dadivreno, prefetto dei Varangi. 
“ Figlio di uno spergiuro e di una meretrice , si narrò essere stato l’elogio funebre 
recitatogli da Andronico; poscia due cortigiani, Giovanni Camatero prefetto del Canicleo 
e Teodoro Cumno Cartulario, si tolsero in una barca il corpo dell’infelice, che nella 
notte stessa raggiunse la madre nella. Propontide (1). 

La deposizione e la morte di Alessio Il non produssero alcuna emozione e nep- 
pure sorpresa nella popolazione bizantina. Tutto quanto erasi venuto operando, nei 
tre anni trascorsi dalla morte di Manuele, aveva costituito una vera preparazione 
— conscia od inconscia — di questi ultimi avvenimenti. Le ragioni messe innanzi 
dai partigiani di Andronico per spiegare e giustificare la soppressione del collega 
nell'impero, non erano affatto necessarie: il popolo bizantino, che era stato nel 
secolo X e XI così affezionato alla sua dinastia regnante, non aveva mai amato quel 
giovane principe nelle cui vene scorreva tanto sangue latino. Nelle provincie la notizia 
della incoronazione di Andronico dovette venir accolta con sensi varii; ma dovunque 
l’attività riformatrice di Andronico era irraggiata con benefiche conseguenze per la 
popolazione, essa fu certo salutata con giubilo, come valida garanzia di una più ener- 
gica e fruttuosa operosità del governo. Non certo ne furono liete quelle fra le famiglie 
nobili bizantine che erano fino allora riuscite a sottrarsi ai colpi di Andronico (2). 

L’incoronazione di Andronico era una sfida ai malcontenti ed ai ribelli d'Asia; 
e mentre questi si preparavano a sostenere una lotta senza tregua, era naturale che 
qualche membro di quella aristocrazia si levasse ad accettare la sfida. A capo dell’eser- 
‘cito che operava sul Danubio al confine ungherese stavano i generali Alessio Brana 
ed Angronico il Lombardo: erano ambedue generali di grande fama acquistata com- 
battendo nelle guerre del basileus Manuele; ma specialmente il secondo, che aveva 
sposato una Teodora Comnena, era celebre, temuto per il suo valore anche dai turchi. 
Da tutto il suo contegno, da tutte le sue vicende dopo la morte di Manuele, parrebbe 
risultare che in lui Andronico Comneno aveva un fido partigiano. Per quali motivi ora 
la notizia della proclamazione ad imperatore di Andronico lo abbia spinto a ribel- 


(1) N., 353-354; E., 411. 8; cfr. LamBros, op. cit., I, 219. 21. 

(2) Per le monete ed i sigilli di Alessio II e di Andronico vedi Sazarier, Description générale 
des monnaies byzantines, II, pag. 214 e segg.; ScurumserGER, op. cit., 418; W. Wrora, Catalogue of 
the imperial Byzantine coins in the British Museum, London, 1908, II, pag. 582 e segg. 


270 FRANCESCO COGNASSO 58 


larsi a noi è ignoto. nè è facile il mettere innanzi delle ipotesi. Perchè si ribellava a 
chi, affidandogli ripetutamente delicati incarichi, aveva mostrato di avere in lui la 
maggiore fiducia? 

Checchè sia, i suci sentimenti non pare avessero alcuna corrispondenza nelle 
milizie che erano ai suoi ordini, tanto più che il collega Alessio Brana si era affret- 
tato ad approvare il passaggio del potere imperiale. Andronico Lombardo, sentendo 
essere insostenibile la sua posizione a capo di un esercito su cui non poteva far 
fidanza, prese congedo dal collega, cui disse di voler recarsi alla capitale a visitare 
il nuovo basileus, e se ne partì, dirigendosi ad Adrianopoli, sua patria, dove aveva 
delle sorelle, e dopo un brevissimo soggiorno in famiglia, certamente inteso a tastare 
il terreno e vedere se in quella regione fosse possibile costituire una base d’azione, 
scese di nascosto al mare con alcuni compagni, ed a Jellocastellion, su navi già 
all’uopo allestite, si imbarcò per l'Asia, terra sacra alle ribellioni. 

Frattanto la voce della sua diserzione si diffondeva e giungeva alla capitale. 
sorprendendo il neo-imperatore fra le feste ed i bagordi destinati a celebrare il suo 
fausto avvento, ed Andronico, che apprezzava davvero assai le qualità militari del 
ribelle, fu vivamente spaventato. Temendo la superiorità che avrebbero gli Angelo ed 
i Cantacuzeni acquistato se spalleggiati da quel fulmine di guerra, che, per la rapidità 
nel progettare e nell'eseguire il Sultano d’Iconio chiamava avoltoio (1), Andronico, non 
potendo proibirgli il passo, aveva scritto. con grande accortezza, ai governatori delle 
provincie d'Asia, avvertendoli che Andronico Lombardo veniva a suo nome per pren- 
dere i provvedimenti necessari per rassodare l’autorità del governo imperiale. Questa 
notizia, destinata ad essere pubblicata e diffusa, doveva spargere, specie fra i ribelli. 
diffidenza verso Andronico Lombardo, far credere la sua fuga e ribellione una semplice 
manovra insidiosa di Andronico per avere una spia nel campo dei ribelli. Ma a queste 
lettere, Andronico ne unì, senza dubbio, altre, segrete e ben diverse; e quando il fug- 
giasco sbarcò ad Adramittio, Cefala. ricco signore del luogo e funzionario fedele ad An- 
dronico, l’arrestò e lo spedì alla Capitale; quivi fu abbacinato ed internato nel monastero 
del Pantepopto, dove ben presto, lamentando la triste sua fortuna. morì. La consorte, 
Teodora, fu anch’essa rinchiusa in convento e tonsurata; i beni vennero confiscati (2). 

La morte di Alessio Il aveva fatto vedova, prima che sposa, la giovanetta 
Agnese di Francia. Che doveva farsi ora di costei? Rinviarla in patria? Rinchiu- 
derla in un monastero? In ambo i casi vera a temere il corruccio del fratello, 
Filippo II Augusto, e la situazione politica era già a sufficienza pericolosa. 

Poichè la principessina era stata inviata perchè fosse sposa del basileus, Andronico 
si decise a sposarla egli stesso, per quanto contasse quasi mezzo secolo più di lei. Così 
sposando la vedova del basileus. anche il suo potere avrebbe guadagnato in legittimità. 

Certo, Andronico la sposò solo dopo che il figlio maggiore Manuele si era rifiutato 
di farla propria sposa; ma tale matrimonio fu dagli avversari di Andronico considerato 
come una prova della sua sfroniatezza. buon argomento per la lotta contro di lui (3). 


(1) E.. 383. 7; su Andronico Lombardo vedi ora la poesia edita dal Lawzros nel “ Néos “E4Ay».,, 
VUI, pag. 177. 

(2) N., 359. 1 e segg.; Taropori Barsamosis, Comm. in Canones, in Micse. P. G., CXXXYVII, col.1132. 

(3) N., 357. 1; E_, 411. 18: Radulpbi Coggeshalensis, Chronicon, in Mazràse, Amplissima Collectio, 
V, 3843; Rosszzi pe Mosrz, Chronicon, ed. cit., 527, etc. 


59 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 271 


La devozione che il nuovo patriarca, Basilio Camatero, aveva per il suo protet- 
tore, apparve ben presto nell'occasione di una richiesta fatta dal basileus alla Sinodo. 
Obbedendo ciecamente ad Andronico, il patriarca non adempiva del resto, se non gli 
impegni che è detto avesse preso, con regolare atto, prima di avere la nomina a 
Patriarca, l'impegno cioè di appoggiare e servire Andronico in tutti i suoi disegni. 
Non sappiamo se veramente questo contratto simoniaco sia una realtà: certo però, 
dal tono delle lettere, da Michele Acominato, vescovo di Atene, indirizzate, sia allo 
stesso Basilio, sia ad altre persone, come al Sacellario di Atene, non si direbbe che 
Basilio Camatero, da Eustazio detto persona assai vivace, sia stato una persona del 
tutto spregevole (1). 

Andronico, adunque, per quanto persona spregiudicata, scevra da serupoli morali 
e religiosi di sorta, pensava alla impressione che su alcuno poteva fare il ricordo 
di quel famoso giuramento, pronunciato fra pianti e suppliche, anni prima, a Manuele 
ed Alessio, e consegnato in un documento scritto; e fedele al suo principio di addos- 
sare ad altri, per quanto fosse possibile, le responsabilità poco accette e gli insuc- 
cessi, volle, per impegnare maggiormente l’elemento ecclesiastico, che la Sinodo lo libe- 
rasse da tale impaccio. Ciò accadeva poco dopo la sua proclamazione ad imperatore. 

La profonda decadenza del clero, la devozione del patriarca, fecero sì che non 
vi fosse ostacolo di sorta ai voleri dell’autocratore. La Sinodo trattò la questione 
come una buona occasione per fare un ottimo affare. 

Andronico, in cambio della assoluzione richiesta, fece ai prelati una generosa 
elargizione, e concedette che nelle solenni cerimonie i vescovi potessero sedere in 
appositi seggi ai due lati del trono imperiale. Era una concessione alla vanità perso- 
nale; ma Andronico, il quale voleva che la sua potenza e la sua maestà fossero non 
solo reali, ma visibili, non si fece scrupolo di abrogare non molto dopo, quanto aveva 
concesso, facendosi beffe del clero scornato e deriso da tutti (2). i 

N basileus Andronico, secondo Niceta, nonostante la sua età, non aveva rinun- 
ciato a divertirsi, ed attorno a sè aveva sempre suonatrici di fiauto e danzatrici; si 
lusingava di conservare con cure speciali l’energia antica. Conduceva però una vita 
abbastanza regolata: non amava il bere ed il banchettare; sottoponeva il proprio 
organismo a regolari diete. La frugalità e le privazioni sopportate nella sua vita 
avventurosa avevano irrobustito il suo corpo. Sano e robusto, egli si riprometteva 
ancora una vita assai lunga, e sperava di chiuderla nella pace e nella tranquillità 
di una morte serena nel proprio letto (3). 

Tuttavia pensò, appena salito al trono, a regolare la propria successione. Pare 
che dapprima egli pensasse di dichiarare erede del trono il genero Alessio, il bastardo 
di Manuele. Il Sebastocratore godeva tutta la fiducia e la simpatia di Andronico 
che lo amava — afferma lo stesso Niceta — più che non i proprii figli; e come al 
suo matrimonio era stato dato un significato politico, di riconciliazione e concordia 
fra i partiti, così la sua proclamazione ad erede dell'impero avrebbe assunto una 
importanza ben maggiore (4). Ma poi questo progetto cadde. Il pensiero di farsi 


(1) N., 339. 19; Lam8ros, op. cit., II, 39. 46. 
(2) N., 357. 11 e segg. 

(3) N., 458. 17. 

(4) N., 557. 7 e segg. 


272 FRANCESCO COGNASSO 60 


fondatore di una nuova dinastia era naturale che dovesse allettare Andronico ed 
indurlo a trasmettere il potere ai figli. Questo cambiamento nei suoi progetti fu pre- 
sentato alla popolazione come imposto da motivi d’ordine — dirò — astrologico; fu 
creduto e fu affermato anche da Niceta Acominato. In quella società colta e raffinata 
che si aveva nel secolo XII a Bisanzio, l'astrologia e le scienze occulte godevano fama 
grandissima. A Corte vi sono regolarmente astrologi ed indovini: prima di una de- 
cisione importante, occorre trarre l'oroscopo; all’astrologia ricorrono gl’ imperatori 
per governare, come i ribelli per trarre motivo e giustificazione dei loro raggiri. 
L'opinione che in “ Ama , siano le iniziali dei nomi di tuttii basileis di Casa Comnena, 
presenti, passati e futuri, è comune e diffusa ovunque. Vi crede il popolo, vi credono 
i Comneni, vi crede forse anche lo stesso incredulo Andronico ; dunque dopo di lui deve 
regnare un principe, il cui nome incominci con J, non con A, altrimenti la dinastia 
sarebbe prossima allo spegnersi (1). Per questo motivo adunque Andronico avrebbe 
anteposto il figlio minore Giovanni — aveva questi venticinque anni circa — così al 
sebastocratore Alessio come al primogenito Manuele. Ma la preferenza al figlio cadetto 
è facilmente spiegabile. Andronico aveva avuto con sè nelle sue avventure in Oriente 
il figlio cadetto, l’affezione per lui era maggiore; in lui ritrovava maggiormente le 
proprie caratteristiche. Il primogenito era stato invece allevato lungi da lui, dalla 
madre, nel palazzo di Vlanga e poi forse alla corte di Manuele I; era di un altro 
temperamento, come apparve in più occasioni, quando Andronico trovò opposizione 
alla sua politica nel figlio primogenito. Giovanni adunque fu dichiarato erede del 
trono, e futosto proclamato ed incoronato basileus e collega del padre (2). 

Dimostratosi vano ogni timore per la ribellione di Andronico Lombardo, poichè 
forse sul Danubio ancora si combatteva, nè era prudente il richiamare anche solo 
una parte dell’esercito, il basileus dovette rinviare alla primavera del 1184 la spe- 
dizione contro i ribelli di Bitinia. Frattanto egli se ne andò con i suoi cortigiani 
alla residenza di Cipselle, sulla Maritza, centro di grandi proprietà imperiali, e dopo 
alcune partite di caccia, si diresse verso Vera, alla foce dello stesso fiume, dove il 
padre aveva, come vedemmo, nel 1152, fondato il monastero della Cosmosòtera. 
Andronico visitò nel monastero la tomba del padre, ed ivi soggiornò fin verso il 
Natale, restituendosi allora alla Capitale, per festeggiare quella grande solennità con 
i noti spettacoli popolari oramai tradizionali a Costantinopoli. Nei primi mesi del- 
l’anno nuovo, dalle varie provincie si vennero raccogliendo le leve, mentre Alessio 
Brana scendeva con le sue milizie da Branicevo al Bosforo (83). 

I ribelli intanto avevano avuto mezzo nell’inverno di rafforzare le loro posizioni; 
ad essi erano confluiti quanti si accordavano nell’odiare Andronico; erano stati or- 
ganizzati dei corpi di soldati, dove l'elemento turco, assoldato forse dai fratelli An- 
gelo, provenienti di recente dalla Siria, non era il meno importante (4). 

Nicea era occupata da Isacco Angelo e da Teodoro Cantacuzeno, forse fratello 


(1) N., ibidem. 

(2) N., 412.8; 556. 2; F., 381.19; 411.12; 429.17. In F., 485, 7, in RosertI DE Monte, Chronicon, 
ed. cit., pag. 533, il figlio di Andronico è detto Caloianni. 

(3) N., 363. 3 e segg. 

(4) Sulla ribellione di Bitinia e la spedizione di Andronico, vedi N., 363-374. 


— _—_—_—_——___———————_——————————————————————————_——_—t— 


61 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 273 


dell’abbacinato Giovanni Cantacuzeno, cognato degli Angelo; Prusa, era in potere 
di Teodoro Angelo, fratello di Isacco. Anche Lopadio, l'importante centro fortificato 
posto sul Rindaco, presso alla Propontide, era passato con l’aiuto del vescovo, alla 
parte ribelle. Questa ribellione non risultava però da un vero movimento popolare. 
È degna di rilievo a questo proposito una lettera che nel periodo, probabilmente, 
anteriore al moto ribelle, Andronico Comneno inviava a due funzionari di Prusa, 
Leone Sinesio e Manuele Lacana, per richiamarli al dovere. Il basileus con severa 
semplicità scriveva: “ Veri principi della menzogna, tu, o insensato Sinesio, e tu. 
o venale Lacana, la mia Maestà udì che voi commettete molte cose ingiuste; o ces- 
sate di operare ingiustamente o di vivere, poichè nè a Dio piace che voi operiate 
malvagiamente e viviate, nè a me è lecito tollerarlo , (1). Nobili arroganti, adunque, 
desiderosi di conservare privilegi ed abusi, burocratici corrotti e disonesti, che tra- 
scinavano dietro a sè la popolazione. La repressione non era per Andronico solo un 
diritto, ma un dovere, se egli voleva mantenersi fedele alla sua politica tutelatrice 
dello Stato contro le forze indiyidualistiche, tendenti alla disgregazione (2). 

La ribellione di Lopadio dava ai ribelli libera la via per le altre provincie asia- 
tiche del sud. A riacquistare quel punto fu inviato Alessio Brana con le sue mi- 
lizie, mentre Andronico in persona andava a mettere il campo sotto i potenti baluardi 
di Nicea, dove, compiuta rapidamente e senza troppe difficoltà la sua missione, venne 
a raggiungerlo Alessio Brana (83). 

Mentre dagli spalti della città si lanciavano ingiurie e contumelie agl’imperiali, 
questi preparavano un regolare assedio ed incominciavano a battere le mura con le 
macchine apposite. Andronico, ad impedire che i difensori disturbassero l'avvicinarsi 
delle macchine, fece condurre da Bisanzio la madre degli Angelo, Eufrosina Casta- 
monite, che fu legata sull’alto di una torre di legno, credendo che i figli di lei, per 
tema di colpirla, rinunziassero a scagliare contro la torre freccie e proiettili di sorta. 
Inutilmente, però, chè la difesa continuò ostinata, ed una notte i difensori riuscirono 
in una audace sortita ad impadronirsi delle macchine, a distruggerle, ed a portare 
in salvo in Nicea la madre del loro duce (4). 

Il successo, se rinfrancò gli assediati, irritò gravemente Andronico, che giurava, 
tutto furioso, di voler distruggere la città. Agitato, percorreva il campo, eccitando 
i soldati alla lotta, minacciando i capitani, cui rimproverava l’incertezza e le opera- 
zioni troppo lente. Altra sortita tentarono qualche tempo appresso gli assediati, un 
giorno in cui avevano scorto Andronico uscire dal campo, e portarsi con una scorta 
di cavalli e fanti, tutt’attorno alle mura per esplorarne le condizioni. Uscirono dalla 
Porta Orientale, e Teodoro Cantacuzeno si lanciò contro il basileus, ma caddegli ad 
un tratto il cavallo colpito da una freccia, e Teodoro, abbattuto a terra, oppresso 


(1) Niceta ne parla a pag. 430. 10; credo però sia da riferirsi senza dubbio veruno a questo 
ordine di fatti. 

(2) Vedi come Eustazio di Tessalonica prospetta i fatti in LaxBros, op. cit., I, 219. 22. 

(3) N., 363. 17 e segg. 

(4) N., 365 e 366. 17; che la madre di Isacco Angelo appartenesse alla famiglia Castamonite 
risulta da N., 511. 5, dove si parla di Teodoro Castamonite, zio di Isacco, il quale può essere zio di 
Isacco solo per parte di madre. Eufrosina morì quando Isacco era già basilens (cfr. Miccer, op. cit., 211). 


Serie I. Tox. LXII. 35 


274 FRANCESCO COGNASSO 62 


ed impacciato dalla cavaleatura e dalle armi, fu ben presto finito; la sua testa, re- 
cisa, fu su di una picca portata in trionfo alla capitale (1). 

Teodoro Cantacuzeno era l’anima della difesa, e con lui parve estinguersi ogni 
energia nei difensori già stanchi dalla lunga lotta. Isacco Angelo fu invitato a pren- 
dere la direzione della resistenza, ma rifiutò e si ritrasse in disparte. Tra gli asse- 
diati allora si sparse il timore della vendetta che Andronico avrebbe senza dubbio 
tratto della lord ostinazione, qualora si fosse impadronito di Nicea a viva forza, e 
si pensò alla resa (2). 

Il vescovo Niecolò, radunato il popolo, lo persuase ad implorare dal basileus 
perdono dell'appoggio dato ai ribelli, mostrando come oramai fosse inutile ogni resi- 
stenza, essendo imminente la presa della città. Con a capo il vescovo, tenente in 
mano i sacri evangeli, ed il clero parato a festa, tutto il popolo, a piedi scalzi, con 
rami di palma in mano, si avviò, chiedendo pietà, al campo imperiale. Stupito e 
commosso rimase Andronico dinanzi a tal moltitudine supplicante e concedette il 
perdono implorato. Non però generale, chè il basileus fu spietato con l’elemento 
aristocratico: molti furono mandati in esilio ed i loro beni confiscati, i principali e 
più conosciuti avversari furono precipitati dalle mura. Ma sopratutto Andronico fu 
inesorabile con i Turchi venuti in aiuto dei ribelli; i vigneti attornianti Nicea videro 
per lungo tempo gli uccelli di rapina infierire contro i corpi degli innumerevoli 
disgraziati appesi ai filari delle viti (3). 

Isacco Angelo fu risparmiato, e potè con la madre ritornare alla sua casa a 
Costantinopoli. Il perchè di tanta generosità di Andronico non è chiaro, per Isacco An- 
gelo specialmente, che aveva assistito alla famosa umiliazione di Andronico dinanzi 
a Manuele ed a tutta la corte, quando per suo volere precisamente il nostro Isacco 
lo aveva trascinato con una catena ai piedi del basileus (4). Forse Andronico volle 
mostrarsi grato al patrizio di aver rifiutato di assumere la direzione della difesa, 
cosa che aveva appunto piegato i ribelli alla sottomissione, forse fu il prezzo del 
tradimento. 

Molto dovette certamente umiliarsi Isacco e chiedere perdono, ed il suo con- 
tegno fiacco non poteva affatto ispirare sospetti al basileus. Nè l'uno nè l’altro pre- 
vedevano certo che a poco più di un anno di distanza il vinto d’oggi avrebbe de- 
tronizzato e mandato a morte l'avversario. La lotta e la pace di Nicea non furono 
fatti gloriosi per Isacco Angelo, e solo un retore come Michele Acominato, potè 
qualche anno dopo elogiare il basileus Isacco, per la difesa opposta al “ tiranno , 
in Nicea, ed esaltare i dardi lanciati dalla sua nobile mano contro il nuovo Tifone (5). 

Prusa ribelle, ostinata nella sua ribellione, subì tutte le conseguenze della sua 
pervicacia. La città, situata su di un contrafforte dell’Olimpo, era in luogo alto, 
naturalmente forte. Le fortificazioni di cui l'avevano munita i Comneni, per la sua 


(1) N., 368. 

(2) N., 368. 17. 

(3) N., 369-370; E., 414. 21. Cfr. LaxBgros, op. cit., I, pag. 222. 

(4) N., 296. Eustazio nel suo Panegirico ad Isacco Angelo (LaxBROs, op. cit., 1, 232, n. 41) allude 
a patti conchiusi a Nicea. 

(5) N., 371. 9; 444. 7; Law8ros, op. cit., I, 217, n. 18; 220. 


63 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 275 


importanza strategica, accrescevano la fiducia dei ribelli ed il disprezzo per l’esercito 
di Andronico. Rifiuti oltracotanti si -ebbe quindi questi, quando, portatosi all’as- 
sedio di quella piazza, lanciò con freccie in città proclami promettenti perdono asso- 
luto purchè fossero consegnati i tre capi della ribellione, Teodoro Angelo, Lacana 
e Sinesio. 

Praticate, con le macchine, varie breccie nelle mura, per il solo lato accessibile 
— gli altri lati erano difesi da dirupi e precipizi impervii — fra i valorosi difen- 
sori si sparse tal panico che abbandonarono le mura in massa, rifugiandosi e na- 
scondendosi nelle case. Facile fu quindi allora per le deserte fortificazioni gettarsi 
sulla disgraziata città, la quale, quasi piazza conquistata da nemici, vide tutti gli 
orrori del saccheggio e della strage. Teodoro Angelo, giovane ancora, ancora im- 
berbe, fu accecato, condotto su di un asino al confine turco e quivi abbandonato 
alla pietà di alcuni commercianti turchi di là passanti; Leone Sinesio e Manuele 
Lacana con quaranta altri complici furono impiccati ad alberi fuori delle mura; 
numerosissimi altri, accecati o mutilati (1). 

Andronico venne quindi a Lopadio dove punì i capi della ribellione; anche qui 
molti ebbero i beni confiscati, diversi — fra di essi lo stesso vescovo — furono 
abbacinati (2). In tal modo fu restituita la tranquillità alle provincie d'Asia, ed An- 
dronico ritornò trionfante a Bisanzio, accolto con entusiasmo dalla popolazione (8). 
L'estate del 1184 trascorse a Corte in feste, spettacoli di mimi e di buffoni, in 
tornei. 

Adunque ancora verso la metà dell’anno, durava l’idillio fra imperatore e popolo, 
almeno apparentemente, con quello stesso calore dell’anno precedente, ma non dove- 
vano tardare ad apparire i primi sintomi della non lontana rottura (4). 

Un fatto della più alta importanza per l'avvenire dell'impero, e per la storia 
del bacino orientale del Mediterraneo, si compieva frattanto, con lo staccarsi dal- 
limpero dell’isola di Cipro, che si costituiva in uno Stato indipendente sotto Isacco 
Comneno. 

Chi fosse questo Isacco, non ci è detto dalle fonti con tutta precisione. Niceta 
lo dice nato da una delle figlie del sebastocratore Isacco, fratello del basileus Ma- 
nuele (5). Questo principe, la cui vita si avvolge, dopo il 1143, quasi completamente 
nella oscurità, pare abbia avuto numerosa figliolanza. Sappiamo che due figli, Alessio 
e Giovanni, morirono ancora in età giovane (6). Delle figlie alcune sono invece note- 


(1) N., 371. 20: 372. 1. Cfr. Lamgros, op. cit., I, 223, n. 27. 

(2) N., 374. 22. 

(3) N., 375. 12. 

(4) Un accenno a questo malcontento si ha, forse, in N., 375. 16, dove si narra che mentre un 
giorno Andronico assisteva a giochi nell’ Ippodromo, improvvisamente due colonne, poco lungi 
dal seggio di Andronico, precipitarono, uccidendo sei persone. Andronico, spaventato, fece per riti- 
rarsi, ma i cortigiani lo trattennero, dicendo che se il basileus si fosse ritirato, la folla che gre- 
miva l’Ippodromo si sarebbe levata a tumulto. x 

(5) N., 376. 10; cfr. Annalium Salisburgensium additamentum, in MG., SS., XII, 238. A torto, il 
Craranpon (Jean II Comnène etc., pag. 526, n. 2) lo dice figlio del sebastocratore Isacco stesso. 

(6) Vedi Taerc, in Notices et ertraits des Manuscrits de la Nationale, VIII, 1r, 166-67, e Papapi- 
aorgrIOÙ, Yeodoro Prodromo, pag. 363. 


276 FRANCESCO COGNASSO 64 


volmente conosciute: Teodora fu consorte a Baldovino III di Gerusalemme, e, vedova, 
divenne, come fu detto, l'amante del nostro Andronico; Maria sposava un principe 
ungherese rifugiato alla Corte di Manuele (1); Eudossia sposava Guglielmo VIN di 
Montpellier; una quarta sposò Costantino Macroduca, ed un’altra fu la madre del 
nostro Isacco, ma nè di essa, nè del consorte suo, fu tramandato il nome, chè Isacco, 
Comneno solo si disse, come altri patrizi, per l'origine materna. 

Verso gli ultimi anni della vita di Manuele era stato affidato ad Isacco il co- 
mando di Tarso dell’importante provincia della Cilicia, sui cui confini erano incessanti 
le lotte sia coi Turchi, sia con gli Armeni (2). In uno scontro, il giovane ed impetuoso 
Isacco cadde prigioniero degli Armeni, intervenuti — pare — in aiuto del sultano 
d'Iconio contro gli odiati Bizantini. Poichè il Sultano non volle comperare il nobile 
prigioniero, gli Armeni vendettero Isacco al principe d’Antiochia Boemondo, il quale 
stabi — pare — per il riscatto la somma di sessantamila aurei. Era venuto infatti 
frattanto a morte Manuele, ed approfittando delle circostanze favorevoli, Boemondo III, 
nonostante che fosse fratello della imperatrice Maria, si era affrettato a ripudiare la 
sposa Teodora, una nipote di Manuele Comneno, rinunciando così alla alleanza ed 
amicizia con l'Impero bizantino. Lo scompiglio avvenuto a Bisanzio impedì che si 
pensasse al povero Isacco il quale rimase per vari anni a languire nelle carceri 
d’Antiochia. 

Solo quando sali al governo Andronico, Isacco potè avere speranza di aiuto, 
chè presso il basileus agirono ora, per ottenerne l’intervento ad Antiochia, la sua amata 
Teodora, zia di Isacco, e Costantino Macroduca che aveva sposata un’altra figlia 
— pare — del sebastocratore Isacco. Finalmente il prigioniero fu riscattato, con 
l'appoggio finanziario di Andronico, dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. 
Secondo altra fonte però, Isacco avrebbe ottenuto dalla popolazione di Cipro la metà 
della somma da pagare, ed in pegno per l’altra metà avrebbe dato in ostaggio al 
principe d'Antiochia due suoi figli (3). Certo è che invece di restituirsi a Costanti- 
nopoli per ringraziare Andronico, egli si portò a Cipro, dove presentò lettere apocrife 
dell’imperatore, facendosi riconoscere come legittimo governatore (1185). Ma presto 
sì proclamò principe autocratore dell'isola, si cinse la corona imperiale ed aboh 
l'invio dell’annuo tributo a Costantinopoli (4). Cipro era un'isola floridissima, e le sue 
entrate erano considerevoli, essendo il granaio degli Stati latini di Siria: un viag- 
giatore latino le calcolava a settanta centenari d’oro all’anno, e per le finanze 
dell'impero tale contributo non era cosa di poco conto (5). 


(1) C., 203. 8; N., 165. 7; Eudossia avrebbe sposato (verso il 1174?) Guglielmo VIII di Montpellier; 
a questo proposito, vedi S. SrronskIi, Le Troubadour Folquet de Marseille, Cracovie, 1910, pag. 13 e 
153 sgg.; e poi la polemica Srronsgr-LaurENs, in © Annales du Midi ,, XXIII, 1911, 333 e 491. 

(2) N., 376.13; Neoriro, Iegì 70v xarà t)v yooav Kirgov cosa ròv, in HC., Hist. grecs, I, 559; 
Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 254-255, dove non mancano-errori di cronologia; gran parte del 
racconto è poi del-tutto incontrollabile, non però da respingere. : 

(3) Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 254. 

(4) N., 377.13; NeorITo, op. cit., 559; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 255; vedi in ScHLUMBERGER, 
Sigillographie byzantine, 428, un sigillo di Isacco Duca Comneno, con il titolo di Despota. 

(5) ArnoLpi LusecensIs, Chronica Slavorum, rv, MG., SS., XXI, 178, dove sette centenari è da 
correggere in settanta come è proposto in HC., Hist. grecs, II, 364. 


74 


65 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 277 


Di qui l'ira di Andronico, impotente a richiamare all'ordine il ribelle, per le 
disastrose condizioni della flotta; di qui il malcontento della popolazione, sdegnata 
che Andronico avesse lasciato ribellare quell'importante isola e non si affrettasse a 
domare il ribelle. 

Ira e timore ad un tempo provava Andronico riguardo ad Isacco Comneno; 
poichè, mentre ambiva vendicare l’insulto atroce e riacquistare l'isola, era spaventato 
dalla diffusione di certi vaticinii astrologici che affermavano un Isacco sarebbe stato 
nefasto all'impero di Andronico. Egli, nella sua impotenza di colpire il ribelle, si 
vendicò sui suoi amici (1). 

A Corte, erano influentissimi presso di lui Costantino Macroduca ed Andronico 
Duca. Erano zelantissimi partigiani del basileus,-ambedue, ma Niceta dice che tutti 
sorpassava, per adulazione e servilità spregevole, Andronico Duca, il quale, allorchè 
il basileus voleva condannare alcuno all’abbacinamento, non solo si affrettava ad 
approvare, ma proponeva per soprappiù che il disgraziato venisse anche mutilato, 
incalzando Andronico come troppo timido e mite (2). Non era questo certo il solo cat- 
tivo genio del basileus: con lui rivaleggiava, ad esempio, in zelo e perfidia quell’Aronne 
Isaac, che dopo avere servito per molti anni Manuele, era stato abbacinato per 
accuse di tradimento e di magia. Questi, ritornato in auge con Andronico, vedendo 
che il basileus limitava le sue punizioni all’abbacinamento, si affannava a predicare 
non essere questa una pena sufficiente, poichè anche essendo ciechi, si può parlare, 
vivere, muoversi, operare in mille modi, e portava come esempio sè stesso, chè, dice 
Niceta, usava della lingua come di affilatissima spada. In tal modo era Andronico 
aizzato dai cortigiani. Isacco II Angelo, quando poi salì al trono, applicò ad Aronne 
Isaac le sue teorie, e perchè non potesse più servirsi della sua lingua velenosa, or- 
dinò che glie la si strappasse (83). 

Ritornando adunque ad Isacco Comneno, narra Niceta che quando si era discusso 
se si dovesse intervenire in suo favore ad Antiochia per il riscatto, quei due corti- 
giani anzidetti si erano fatti garanti presso Andronico, che Isacco, se fosse stato 
liberato, non avrebbe esitato a riconoscere il governo nuovo, e si sarebbe messo ai 
suoi servigi (4). Ma ora, poichè Isacco aveva smentito — ed in qual modo! — le 
parole dei due zelanti mallevadori, Andronico rivolse la sua ira contro di essi, e 
stabilì di infliggere loro una morte non comune. 

Era l’Ascensione del 1185 (30 maggio); si convocarono tutti i cortigiani al 
Filopathion fuor delle Mura, dove allora era la Corte. Dinanzi ad essi, raccolti da- 
vanti al Palazzo, vennero tradotti i due disgraziati, e Stefano Agiocristoforite od 
Anticristoforite, come veniva più comunemente chiamato, ordinò in nome del basileus, 
di lapidare i due patrizi. Sorpresi, sbigottiti, non osarono ribellarsi, e durante il sup- 
plizio, il Logoteta instava, urgeva quanti procedessero con troppa lentezza, minac- 
ciandoli dell’ira dell’autocratore e di ugual morte. 

Poi i corpi dei due infelici vennero tolti di sotto la greve mora e messi in croce 


(1) N., 379. 18. 

(2) N., 380. 1 e segg. 

(3) N., 188. 5, 190. 15, 101 e segg. 
(4) N;, 379. 16. 


278 FRANCESCO COGNASSO 66 


per incutere terrore nella popolazione: l'uno a Pera, nel cimitero degli Ebrei, l’altro 
sulla spiaggia del Corno d'Oro, dinanzi al monastero dei Mangani (1). 

Con questi avvenimenti ci siamo portati fin quasi alla metà del 1185, e non 
molto doveva tardare la bufera travolgitrice dell'impero di Andronico. 

A primo aspetto, reca certo meraviglia il vedere come a due anni di distanza 
dagli osanna, con i quali la popolazione aveva nel 1183 accolto e festeggiato l’inco- 
ronazione del suo favorito, questi abbia potuto essere precipitato dal trono appunto 
per volere ed opera del popolo. 

Le molteplici cause di questo fatto possono essere sintetizzate in una frase sola: 
la politica popolareggiante e nazionalista di Andronico aveva fatto fallimento. Il 
popolo aveva chiesto al suo basileus una determinata politica interna ed estera, ma 
Andronico, dopo aver seguito questa via per qualche tempo, si era accorto che le 


condizioni generali, sia dell'impero sia dell'Europa, erano contrarie a quelle tendenze, 


ed egli aveva quindi recisamente virato di bordo, accostandosi alla politica di Ma- 
nuele. Di qui il distacco del popolo e la caduta dell’autocratore. 

Andronico Comneno aveva assunto le redini del governo con l’intenzione di con- 
durre in porto molte riforme, e senza dubbio egli in così poco tempo aveva fatto 
abbastanza per meritare la gratitudine dei suoi sudditi. Egli aveva saputo reagire 
contro l'avviamento seguito dal governo di Manuele. L’opera di rinnovamento ini- 
ziata da Alessio I era stata continuata dal figlio e dal nipote, ma mentre prima era 
stato rinnovamento interno ed esterno, fu poi solo continuato nella parte esteriore, 
nelle conquiste, non nell'ordinamento amministrativo e finanziario dello Stato. Troppo 
a lungo le guerre attirarono l’attenzione di Giovanni II e di Manuele, troppo assor- 
birono le loro energie, perchè essi potessero attendere ad una politica interna oculata 
e saggia. Perfino la stessa capitale si risentiva di questa debolezza dell'impero. A 
Giovanni II un anonimo, in una sua supplica assai vivace, diceva: “ Il basileus spande 
come acqua per terra e per mare le sue ricchezze, le spenda dunque anche per la 
sua patria... (2) ,. E questa frase avrebbe potuto ripetere quarant'anni dopo, circa, 
Eustazio di Tessalonica quando invitava Manuele a provvedere perchè la popolazione 
di Bisanzio più non dovesse soffrire della mancanza d’acqua, perfino nella stagione 
invernale (3). 

Il basileus Giovanni aveva però trovato una opposizione alle sue tendenze gran- 
diose per una parte in quel senso della misura e della convenienza, che formava 
una delle sue doti migliori, per l’altra parte nella resistenza del Gran Logariaste, 
Giovanni di Putze (4). Questo ministro delle finanze era rigorosissimo riscotitore di 
tributi, indemoniato ideatore di nuovi aggravi per i contribuenti. Nel suo dicastero 
egli era sovrano quasi indipendente; i decreti del basileus trovavano in lui poca 
riverenza, chè, invece di firmarli e dar loro corso, alle volte li stracciava e li an- 
nullava, quando nella loro generosità spensierata contraddicessero alle disposizioni da 
lui prese per il retto andamento dei bilanci. 


(1) N., 380-381. 

(2) Mercati, Aneddoti di un codice bolognese, in BZ., VI, 140 e segg. 
(3) Recet, op. cit., n. VIII, pag. 126 e segg. 

(4) N., 73-74. 


67 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC, 279 


Più facile sarebbe stato — dice lo storico — smuovere una rupe che Giovanni 
il Logariaste; incorruttibile, non piegava a lacrime od a suppliche di sorta; isolatosi 
dalla vita di corte, viveva intento ai suoi lavori, ai suoi studi; amava far poche 
parole e le erano comandi. Egli predicava un fiscalismo rigoroso ed una più rigorosa 
economia. Ma questo prineipio della economia per il quale Giovanni II aveva potuto 
lasciare, morendo, il tesoro imperiale fornitissimo non poteva accordarsi con le ten- 
denze fastose del giovane Manuele, il quale non tollerò, specie nella giovinezza, di 
dover essere sottomesso al Gran Logoriaste. 

Così il suo potere andò declinando, e dopo essere stato l’incorruttibile per eccel- 
lenza, accortosi ora dell’errore commesso trascurando i proprii interessi per curare 
solo quelli dello Stato, cedette anche lui alia corrente di corruzione che dilagava per 
‘tutta la burocrazia imperiale. E volendo ricuperare il tempo perduto diceva ad un 
famigliare: “ Suvvia attendiamo ad arricchirci ,, ed a man salva attinse, nei tesori 
imperiali, denari per i suoi figli (1). 

Nei tesori, che il basileus Giovanni aveva lasciato al figlio, attingevano del resto 
i cortigiani come in un proprio tesoro privato: il nostro Niceta li paragona a sciami 
d’api. Manuele, specialmente quando non era ancora ben saldo sul trono, ed aveva 
bisogno di procurarsi la devozione di quanti più potesse, libero da ogni turpe gret- 
tezza, era come un mare di liberalità, un abisso di misericordia, e quanti avevano 
vissuto in quell'età a Corte, rimpiangevano quei tempi beati. Poichè Manuele, con 
il passar degli anni, accortosi della sua follia generosa, strinse i freni per quanto 
era ancora possibile (2). 

Continuò il fiscalismo gretto dei tempi passati, chè ai successori di Giovanni di 
Putze il basileus chiedeva incessantemente oro ed oro. Ed essi ai voleri dell’auto- 
crate non osavano e non volevano opporsi. I nuovi favoriti erano ora Giovanni Agio- 
teodorite e Teodoro Stippiote, il quale riuscì poi ad avere egli solo tutta la fiducia 
di Manuele; “ a lui piaceva tutto quanto voleva il basileus, donde ne veniva che 
questi ordinasse quanto volesse il suo ministro , (3). 

Per soddisfare ai bisogni della politica estera di Manuele, sia per le spese di 
guerra, sia per i sussidi agli alleati, occorrevano somme immense; si sa come la 
sola spedizione d’Italia contro i Normanni sia costata circa trecento centenari d’oro (4). 
Inoltre occorreva pensare alle spese della corte e dei cortigiani, costruzione di chiese, 
monasteri, palazzi, e poi vi era la burocrazia. Poichè le pubbliche cariche e magi- 
strature erano venali, ne veniva che dopo avere tanto speso per acquistarlo, i pub- 
blici funzionari sfruttassero quanto più era possibile il loro ufficio per ricuperare il 
denaro speso. E noto il caso di quel commerciante Pisano che scriveva d'aver speso 
per una successione ben duecentosedici aurei in donativi, poichè negli uffici imperiali 
omnes diligunt munera (5). 

Ma poichè, come ci afferma Beniamino di Tudela che visitava l'impero bizan- 


(1) N., 74. 22, 74. 16. 

(2) N., 78. 24, 79. 14. 

(3) N., 78. 16. Vedi Craranpon, Jean II Comnène ete., pag. 221 e segg. 

(4) N., 127. 20. 

(5) Miter, Documenti sulle relazioni delle città toscane ete., pag. 11 e segg. 


280 FRANCESCO COGNASSO 6% 


tino verso il 1173, l'impero era ancora ricco, le entrate abbondanti, non doveva 
essere difficile ottenere un miglioramento. Il viaggiatore ebreo ci dice che la capitale 
versava al tesoro imperiale ben ventimila fiorini d’oro, sia per le imposte dirette, 
sia per i diritti doganali. Corfù, secondo uno scrittore inglese, ancora qualche anno 
dopo, nel penultimo decennio del secolo, dava al basileus, per i tributi, quindici quin- 
tali d’oro all'anno, cioè 1500 libbre; Cipro, settanta centenari, e così pure, ricchi 
tributi dovevano certo versare all’erario le altre provincie dell'impero, secondo l’os- 
servatore ebreo, ugualmente fertili e ricche (1). 

Era necessario riorganizzare l’amministrazione dello Stato, rendendo più ener- 
gica e più vigile l’opera del governo centrale, più operosi i governi provinciali; 
disciplinare il corpo dei funzionari, rinnovandolo, espellendo gl’impiegati imbelli o 
malvagi, impedendo che i pubblici uffici diventassero delle sinecure; poi occorreva 
incoraggiare e confortare la classe borghese e la plebe, sia delle città sia della cam- 
pagna, proteggendola contro i soprusi e le violenze dell’aristocrazia latifondista, 
che seguiva fatalmente tendenze eminentemente feudali: combattere poi con la nobiltà 
la chiesa prepotente; ecco quanto si presentò alla mente di Andronico quando giun- 
geva al governo dell'Impero. Ed Andronico si sobbarcò a questa impresa d’Ercole, 
slanciandosi nell’agone con tutta l'energia e l’impetuosità a lui particolare. 

Pur troppo, assai poco sappiamo delle riforme compiute o tentate dall’audace 
Andronico. In odio all’autore, tutto quanto era stato fatto da Andronico, venne, dopo 
la rivoluzione del 1185, distrutto, e per quanto era possibile, dimenticato, senza che 
però i suoi nemici potessero in coscienza, oltre che odiarlo, anche disprezzarlo del 
tutto. Così Niceta Acominato, che è come l’eco del giudizio che si dava di Andronico 
nell’età immediatamente seguìta, nello sfacelo dell'impero, sotto gli Angelo, giunge 
ad ammettere che se egli non avesse ecceduto in ferocia e crudeltà, insozzando di 
sangue il manto imperiale, avrebbe potuto compiere imprese grandissime ed 
eccellenti (2). 

Di qualche sua riforma ci è giunta però notizia. 

Data la grande estensione dell'impero e la lontananza del governo centrale, i 
governatori delle provincie avevano un'autorità estesissima; fu quindi fra le sue più 
importanti misure il riordinamento dei governi provinciali. Pare che allora le pro- 
vincie dell'impero fossero ancora distinte in due categorie, secondo l’estensione e 
l’importanza: poichè gli stipendi che godevano i governatori erano insufficienti, es- 
sendo essi forse stati fissati in un’età di molto anteriore, î governatori se ne rifa- 
cevano aggravando i poveri provinciali. Inoltre è probabile che ancora sotto i Comneni 
alcuni governatori non fossero pagati direttamente dallo Stato, ma attingessero per 
il loro onorario alle entrate della provincia stessa. Ora per liberare i contribuenti da 
tali aggravi, Andronico stabilì che gli strateghi di prima categoria avessero uno 
stipendio di ottanta mine d’oro, quelli di seconda, solo di trenta mine (3). 


(1) Basra: Toperensis, Ifinerarium, ed. Adler, pag. 13-14; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 204; 
ArnoLpi Lusecexsis, Chron. Star., ed. cit., pag. 178. 

(2) N., 462. 1. 

(3) N., 429. 1 e segg. 


visà. 


69 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 281 


Andronico voleva, e lo diceva apertamente, che i governatori non solo non fos- 
sero di peso ai sudditi, ma provvedessero anche a soccorrere i poveri; di gravi pene 
li minacciò se si rendessero colpevoli di abusi. Una piaga inveterata, e quasi insa- 
nabile, del sistema tributario bizantino, consisteva nell'essere il fiscalismo del governo 
aggravato dagli arbitrii degli esattori che esigevano troppo spesso, con il tributo per 
l'anno in corso, anche l'anticipo per gli anni prossimi. Andronico non indugiò a re- 
primere con grande severità tale inveterato ‘abuso. 

Riguardo ai provvedimenti di Andronico, noi conosciamo l'opinione ed i giudizi che 
di essi diede il vescovo di Atene, Michele Acominato, il fratello dello storico, in 
due orazioni pronunciate per il solenne ingresso in Atene di nuovi governatori (1). 

Il vescovo di Atene diceva che Andronico.-sapiente in tutte le cose, non igno- 
rava come e perchè le città dell'impero decadessero e giacessero inferme, come la 
maggior parte, anzi, già fossero oramai pressochè morte; e neppure ignorava come 
questo triste stato di cose fosse prodotto dalla insaziabilità del fisco, e l’oligarchia 
dei potenti per parte sua non opprimesse meno il povero popolo. Per questo ora 
egli inviò in ciascuna circonserizione un giudice che con la spada della giustizia re- 
primesse la mala cupidigia e ne impedisse il diffondersi (2). E dopochè Andronico 
si fu impadronito del potere, quando ancora era vivo il basileus Alessio, fu ad Atene 
inviato Niceforo Prosuch (8). Il discorso di Michele Acominato, recitato all'arrivo 
di Prosuch ribocca di lodi entusiastiche per Andronico, e delle affermazioni della 
profonda soddisfazione provata nel paese (4). Il vescovo di Atene non risparmia le 
adulazioni più smanciate per il basileus. Ora sono elogi ed incensi, più tardi comin- 
cierà a lamentare con l’ex-patriarca Teodosio la tristezza dei tempi: “ sparì oramai il 
pudore dalla terra; nessuno più vi ha che operi il bene, grande necessità vi sarebbe 
di un nuovo diluvio per distruggere la terra stessa , (5). E così sarà pronto per la 
palinodia completa, quando vorrà soffocare ogni possibile ingrato ricordo delle adu- 
lazioni di un tempo con i più fieri insulti. “ Andronico, allora dirà Michele Acomi- 
nato, dopo aver compiuto molte pellegrinazioni in terre deserte, dopo aver vissuto 
fra popoli di altra razza, adottandone i più erudeli costumi, ritornò in patria feroce 
sette volte più che non fosse prima della sua fuga. Trovò la pace nella casa impe- 
riale, egli malvagiamente provocò torbidi. Si finse fedele al basileus, bene intenzio- 
nato, amante del popolo, pacificatore dei sediziosi, e noi ingannati da queste appa- 
renze fallaci, ci affidammo, non saprei neanch'io dire come, ad un tal uomo: poi 
dopo, conoscemmo che nè i viaggi nè la vecchiaia avevano mutato Andronico, indu- 
cendolo a costumi più umani. Era invecchiato barbaro fra barbari , (6). 

Ora invece il retore di Chone diceva in lode di Andronico: “ Noi eravamo af- 
flitti da privazioni, colpiti da illegalità, da ingiustizie, eravamo servi di malvagie 
cupidigie, eravamo esacerbati dai dolori..... Che cosa non fece il basileus Manuele di 


(1) Mrcazce Acommnaro, op. cit., ed. Lambros, I, 142 e segg., 15 
(2) Ibidem, I, 174, n. 40. 
(3) Su questo personaggio vedi C., 33. 15; N., 71. 10. 
(4) MicneLE Acominato, op. cit., ed. Lambros, I, 142 e segg. 
(5) Ibid., II, 38. 20. 
(6) Ibid., I, 217, n. 78 e segg. 
Serir Il. Toxw. LXII. 36 


282 FRANCESCO COGNASSO 70 


beata memoria per noi? Che cosa non fece che fosse veramente cosa nobile e degna 
di un imperatore? Con quanti decreti non ci difese, con quanti ordini, con quante 
punizioni non cì rese giustizia? Ma non era possibile, a lui solo, recidere del tutto 
le innumerevoli teste sempre rinascenti di questa così grave calamità; era necessario 


che venisse Iolao, e che questi arditamente usasse il ferro per la cancrena ,. E più 


sotto Michele Acominato pare approvare la condotta di Andronico verso l’aristocrazia 
bizantina, e specialmente la sua repressione della “ tirannide latina insinuantesi di 
soppiatto ,. 

Per il basileus Alessio, Andronico è come un secondo padre, è il salvatore, il 
protettore, il custode. Manuele lasciò in eredità al figlio il trono; Andronico gli salvò 
e conservò l’eredità paterna. E questi non ha meno: meriti che quello. Quegli lasciò 
il trono al figlio quando venne a morte, Andronico per proteggerlo sfida ad ogni 
momento mille morti. Per questo Iddio salvò il grande Andronico “ aureo fiore della 
stirpe Comnena ,, protettore del basileus e dei Romani, conducendolo in salvezza, dal 
fuoco e dall’acqua, attraverso a tanti pericoli: per noi e per l’autocratore, Andronico 
fu salvo. E questi non concesse sonno agli occhi, riposo al capo, finchè non fu il 
protettore di questo sconvolto stato, provveditore delle città romane (1). 

L’invio del nuovo governatore era un’opera caritatevole e pietosa del governo, 


per ricondurre alla primitiva dignità l’ufficio di governatore, decaduto per la malva- 


gità di quanti l'avevano prima d’allora tenuto. Niceforo Prosuch non deluse le spe- 
ranze dei provinciali greci, chè, certamente per ordine di Andronico, attese a stabi- 
lire un nuovo registro dei contribuenti, rinnovato in modo da eorrispondere alle 
vere condizioni economiche attuali (2). Per queste misure — non tutte noi le cono- 
sciamo — per la mitigazione di certi tributi, diminuirono forse per breve le entrate, 
ma poi queste, col riordinamento delle esazioni e coll’opposizione rigida al mal fare 
dei funzionari, divennero regolari e sicure. Grazie a questo riordinamento dei tri- 
buti, basato su onesti criteri, — cosa questa insolita davvero nell’amministrazione 
finanziaria bizantina, — le città dell’Ellade, e certamente anche delle altre provincie, 
ripresero a: risorgere ed a rifiorire, vicuperando una parte dell’antica floridezza, mentre 
la popolazione non fu più stimolata ad emigrare. Per i poveri poi Andronico pare 
provvedesse con elargizioni di denaro e distribuzioni di vettovaglie. Riguardo ai 
tributi egli diceva che non era dignitoso per il governo che alcunchè provenisse al 
tesoro imperiale, ingiustamente estorto ai sudditi (3). 


Così Michele Acominato come suo fratello Niceta — il quale, scrivendo la sua 
storia, forse in più di un punto ebbe presenti i discorsi di Michele, di cui ci occu- 
piamo —, senza alcun dubbio indulgono alle tendenze retoriche del loro tempo 


quando ci dicono dei meravigliosi effetti delle riforme di Andronico. Certo però la 

popolazione dovette, con il mitigarsi, se non proprio con lo scomparire delle violenze 

fiscali governative, sentire un certo sollievo; e si ha forse da prestare fede a Niceta 
te) 7, 


quando afferma che il prezzo delle granaglie e di tutte le altre vettovaglie diminuì 


(1) Ibid., I, 143 e segg. 
(2) Ibid., II, 52, lettera di Michele Acominato a Demetrio Tornicio. 
(3) Ibid., II, 63. 


71 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 283 


assai. A questo fatto contribuì probabilmente l’essersi arrestato, per conseguenza 
delle stragi del 1182, per qualche tempo almeno, quasi completamente il commercio 
di esportazione, praticato su vasta scala dai navigatori italiani, dai porti di Tracia 
e Macedonia verso l’Italia ed altre regioni (1). 

E Niceta conclude, dicendo che ogni piccolo proprietario potè ora dormire tran- 
quillamente nelle sue terre, all’ombra dei suoi alberi, senza tema alcuna di esattori 
cupidi: quando a Cesare fosse stato dato ciò che a Cesare si apparteneva, nessuno 
più aveva a richiedere ai provinciali alcunchè (2). 

Occorreva epurare il corpo dei funzionari di Stato, opporsi alla venalità ‘dei 
pubblici offici: a tutto questo pensò Andronico, che diresse le sue cure, in modo 
speciale, a fare sì che le provincie fossero affidate non più a chiunque avesse denaro 
sufficiente per corrompere i personaggi influenti, ed ottenere le prefetture che dove- 
vano poi ricompensare ampiamente delle spese fatte per ottenerle, ma solo a per- 
sone scelte con grande severità fra i funzionari più distinti. Essi dovevano attendere 
a che l’autorità dello Stato fosse rispettata, sopratutto contrastando il terreno alla 
classe dei potenti — l’ aristocrazia fondiaria — affinchè cessassero dalle loro vio- 
lenze contro i deboli, perchè questi avessero a cedere ed a vendere loro i proprii 
beni. Nei nuovi governatori inviati da Andronico, i piccoli proprietari sapevano di 
avere un appoggio ed una difesa contro i prepotenti latifondisti, senza essere co- 
stretti a comperare questo aiuto con gravosi doni come era stata secolare usanza (3). 

Morto Niceforo Prosuch, gli successe nel governo della Grecia Demetrio Drimo (4), 
il quale al suo arrivo ad Atene fu salutato anche lui dal vescovo come un novello 
Teseo, salvatore dell’Ellade e del Peloponneso, come l’uomo inviato da Dio per do- 
mare con le armi della giustizia quelli che sono spinti dall’assillo della cupidigia; 
e per la sua venuta, per la prossima liberazione dai mali, tutta la città già si ral- 
legra, sperando di risollevarsi dalla sua triste condizione. Di Niceforo Prosuch come 
del suo successore si conservò in Atene il migliore dei ricordi, ed ancor dopo l’ascen- 
sione al trono di Isacco II, Michele Acominato scriveva al logoteta Demetrio Tornicio 
che si inviassero come governatori persone simili al mirabile Drimo (5). 

Andronico Comneno, secondo il vescovo d’Atene, era dolce coi poveri (6). Mentre i 
precedenti basileis si erano sempre tenuti lontani dal popolo, Andronico permise di 
accedere a lui per presentare suppliche o lagnanze contro chicchessia, senza badare 
a dignità maggiore o minore, senza separare dal giusto il diritto, ma facendo ugual 
conto di personaggi illustri e di gente vile. Tale sua missione di pacificatore e di 
giustiziere supremo egli aveva forse voluto indicare, quando dinanzi al suo prediletto 
tempio dei Quaranta Martiri, aveva eretto a sè una statua che lo rappresentava non 
nei sontuosi abiti imperiali, ma tutto avvolto e velato in fosco manto, tenendo con 
una mano un’ampia e solida falce, mentre sorreggeva con l’altra un lembo del man- 


(1) N., 429. 11. 

(2) N., 421. 19. 

(3) N., 423. 1 e segg. 

(4) LauBros, op. cit., I, 157 e segg. 
(5) Ibid., I, 145, n. 9. 

(6) Ibid., II, 65. 


IA FRANCESCO COGNASSO 72 


tello dove giaceva il corpo di un giovanetto, allusione, secondo Niceta, al basileus 
Alessio II (1). 

Gli insolenti che avevano agito ingiustamente verso le persone umili, qualora 
fosse manifesto il loro torto, venivano da Andronico severamente puniti. Un giorno, 
ci racconta Niceta, vennero al basileus Andronico alcuni contadini a lagnarsi di Teo- 
doro Dadivreno, fedele amico suo, uno degli assassini del basileus Alessio. Con tutto 
il suo seguito, aveva albergato presso di essi, facendosi provvedere tutto il necessario, 
ma senza dare poi ricompensa alcuna. Andronico, verificati i fatti, risaraà larga- 
mente quei poveretti e condannò il prepotente alla pena infamante di dodici fru- 
state (2). 

Con gli umili adunque contro i potenti, fu la divisa di Andronico: con la piccola 
proprietà contro il latifondo. La venuta all'impero della dinastia Comnena era stata, 
il trionfo dell’aristocrazia fondiaria, cui poi la nuova dinastia cercò reggere e discipli- 
nare, stringendola a sè con matrimoni e conferimenti di cariche e dignità. Andronico 
ora vi si mette risolutamente contro, inutilmente si capisce, chè gli sforzi di un 
individuo a nulla valgono contro l’inesorabile sviluppo di un processo storico. 

Alla attività riformatrice di Andronico spetta pure una crisobolla emanata an- 
cora nel dicembre 1182, quando ancora regnava Alessio II. Manuele I con ben due 
crisobolle aveva vietato che i beni, le proprietà dal basileus donate ai membri della 
aristocrazia potessero passare in qualsiasi modo a persona che fosse di bassa nascita. 
Contro queste disposizioni, che contribuirono a fare della aristocrazia la padrona 
perpetua di immense distese di terre, provvide ora Andronico, permettendo lo scambio, 
la vendita delle proprietà: la perdita della crisobolla ci impedisce di conoscere bene 
i provvedimenti del governo (3). 

Mentre si occupava degli interessi generali dell’impero, Andronico non dimenti- 
cava di abbellire pure la Capitale. Ad impedire la siccità che altre volte aveva 
afflitto la cittadinanza, egli provvide restaurando l’antieo acquedotto di Adriano, 
immettendo in esso e portando in città l’acqua dall'attuale Belgrad, fino alle princi- 
pali piazze, in fontane dove l’acqua non stagnasse, ma sempre si rinnovasse: mentre 
a Belgrad faceva costrurre un palazzo per residenza estiva, senza però terminarlo, 
chè troppo presto sopraggiunsero i torbidi politici (4). 

Scelto l'antico tempio dei Quaranta Martiri per costruirvi il sepolcro per sè e 
la famiglia, vi fece trasportare dal monastero d’Ankurion i resti della sua prima 
consorte, morta durante le sue peregrinazioni, e rinnovò tutto l’edificio con nuove 
opere e nuova magnificenza. Per abbellirlo, iniziò la spogliazione del Grande Palazzo, 
togliendone dai giardini una mirabile vasca di porfido sostenuta da draghi, per ador- 
nare il cortile precedente al tempio; ornò splendidamente l’antica leggendaria icone 
del Salvatore, quella stessa che aveva parlato all'imperatore Maurizio; costrusse 


(1) N., 432. 3. 

(2) N., 429. 21. 

(3) Vedi Zacmariae von LincentHAL, Jus graeco-romanum, INI, nn. LXIV, LXXIII, LXXXIM. 

(4) N., 428. 7; cfr. Hammer, Constantinopolis und der Bosphoros, Pest, 1822, I, pag. 573; Pa. Forca- 
zemer und I. Strzycowskt, Die Byzantinischen Wasserbehilter von Konstantinopel, Wien, 1893, pag. 10 


e segg. 


19 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 285 
vicino alla chiesa un trielinio con portici, tutto ornato di pitture di caccie e di scene 
agresti, ricordanti la sua vita avventurosa attraverso l’Asia misteriosa, ed altro 
ancora fece, e più voleva fare: così pensò, ma non condusse a termine il progetto 
di erigere una propria statua di bronzo sulla altissima colonna dell’Anemodulio (1). 

Tutto questo però non toglieva che i cittadini della capitale non notassero che 
le loro speranze erano state in gran parte deluse. 

Andronico era sempre stato aspro e violento — Niceta dice che aveva natura 
in parte belluina, in parte solo umana — ed invecchiando questo suo difetto si era 
venuto aggravando, sì da irritare spesso non solo gli avversari, ma persino i parti- 
giani e gli amici suoi; poichè non agiva egli molte volte con lo scopo determinato 
di offendere, ma per lo più spinto dalla irrequietezza e nervosità del suo animo (2). 

Il suo spirito caustico procurava a cittadini ed a cortigiani frizzi e motteggi 
sanguinosi, talora persino per la loro cieca devozione verso di lui. Racconta Niceta, 
che Andronico aveva ornato i portici dell’Augusteon di trofei di caccia, formati da 
corna di cervi da lui stesso uccisi, e dice che nell’intenzione di Andronico quei trofei 
dovevano irridere alla dabbenaggine dei molti buoni mariti della capitale da lui 
ingannati ed ora beffati (3). Altra volta aveva ordinato di trasformare i varii ritratti 
che di Maria d’Antiochia si avevano qua e là in città, in figure di vecchia rugosa ed 
orribile a vedersi: però tosto comprese l’irreverenza e la volgarità della cosa, ed 
ordinò di far sostituire quelle pitture con il proprio ritratto, o solo o con la nuova 
e giovane basilissa Anna (4). 

Se‘nei primi tempi del suo governo, come sopra fu detto, l’accesso a lui era 
libero a quanti volessero presentargli lagnanze e suppliche, ora, quando non fosse 
al Filopathion od al Meludion, assai spesso si racchiudeva nel suo appartamento, 
rimanendo invisibile per giorni e giorni, solo dilettandosi allora di suoni e di canti; 
aveva a noia l’essere sempre circondato da ciambellani, cortigiani ed armigeri: il 
suo appartamento era affidato continuamente alla guardia di un grosso cane, che 
avrebbe sopraffatto magari un leone ed atterrato un guerriero armato di tutto punto. 
Uno storico inglese dice che Andronico era arrivato a tal punto d’arroganza che 
non permetteva ad alcuno dei suoi cortigiani e famigliari di sedere in sua presenza, 
ma voleva che tutti, di qualsiasi grado e dignità, lo servissero more servientium 
astantium, în palliis depositis. E queste imposizioni non potevano non produrre malu- 
mori pericolosi (5). 

Andronico era portato a questo contegno dal grande concetto che egli aveva 
dell’autorità imperiale, dal desiderio di far piegare tutti innanzi alla sua maestà, 
Se questa tendenza era stata dapprima contenuta entro certi limiti, per gli ostacoli 
che egli aveva dovuto superare, Andronico aveva sentito presto come il bisogno di 
affermare il suo potere. “ Non per nulla l’imperatore ha la spada ,, amava dire, 
oppure: “ Nessun ostacolo è così grave che l’imperatore non lo possa superare a 


(1) N., 482. 13, dove il cod. B. aggiunge: “ da z60var yvvaîres elyov tiv otmnow ,. 
(@) N., 433. 10. 

(3) N., 462. 9. 

(4) N., 433. 21. 

(5) N., 418. 7; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 259. 


286 FRANCESCO COGNASSO 74 


qualunque costo , (1). Quando ritornava dai suoi frequenti soggiorni in questa od 
in quella villa, pare che fosse come preso dal sospetto che della sua assenza aves- 
sero tratto profitto i suoi avversari per trame e congiure: allora, con chiunque 
avesse a trattare, sì irritava, e Niceta con la solita esagerazione retorica dice che 
Andronico avrebbe creduto essere sprecata la giornata che fosse passata senza alcuna 
condanna a grave pena, come l’abbacinamento e la morte, od almeno senza un qualche 
terribile rabbuffo ed orrenda minaccia come egli solo sapeva fare. 

Era simile, dice Niceta, ad un pedagogo irritato, che troppo spesso, a tempo o 
fuor di tempo, meni la sferza sul dorso dei suoi discepoli; egli rispondeva con colpi 
a qualunque cosa udisse che non gli andasse a genio. 

Sicchè, allora i cittadini tutti vivevano in preda allo spavento; il che scrivendo, 
Niceta assai probabilmente estendeva, e certamente a torto, a tutta la popolazione 
quanto poteva dirsi solo della coorte dei cortigiani.e dei funzionari, e solo negli 
ultimi tempi del suo regno. 

A molti, a troppi, continua il nostro storico, era il sonno non dolce riposo e 
ristoro, ma un tormento, chè sognavano o di Andronico e delle sue vendette atroci, 
o dei parenti ed amici che già ne erano stati vittima. All'età di Andronico si sa- 
rebbe potuto applicare quel detto biblico: “ due giaceranno nello stesso letto, e di 
essi uno sarà colpito, l’altro sarà lasciato ,. Il padre fu privato dei figli, i figli del 
padre: nelle case ove eranvi cinque persone, ve ne rimasero tre, dove tre, due. E 
neanche le donne furono libere dal pericolo di cadere vittima di Andronico, chè 
molte di esse persero la vista, soffrirono la fame, il carcere, la tortura. E dopo aver 
colpito nelle grandi famiglie aristocratiche i padri, i mariti, i figli, egli obbligò non 
poche dame a prendere l’abito monastico. Così sulle rovine dell’aristocrazia Andro- 
nico sperava di fondare l’impero suo e della famiglia (2). 

Ma tutto ciò solo indirettamente toccava il popolo: il contrasto più grave con 
esso era altrove. 

Andronico per abbattere il protovestiario Alessio e giungere al potere, aveva 
sfruttato i sensi latinofobi — che egli stesso, del resto, almeno in parte, condivi 
deva — e democratici della popolazione; ma allorchè poi si trovò a reggere uno 
Stato che aveva avuto fino allora una politica basantesi su un meraviglioso intreccio 
di accordi internazionali, dovette riconoscere che non si poteva rinunciare a questo 
indirizzo senza rinunziare alle cause stesse della vita. Ma se egli poteva conoscere 
e giudicare del vero stato di cose, il popolo, i borghesi che vedevano la realtà solo 
attraverso al prisma dei loro piccoli interessi, si accontentavano di paragonare quanto 
desideravano con quanto vedevano. 

E vedevano che Andronico aveva sposato la latina vedova di Alessio II, che 
permetteva la costruzione di chiese latine, faceva pace con Venezia, la maggiore 
rappresentante dei mercanti occidentali (3), e pagava loro grave tributo, che irri- 
deva alla Chiesa Nazionale. 


(1) N., 424. 11. 
(2) N., 419. 1 e segg. 
(3) Cfr. cap. IV, pag. 294. 


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UL 


PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC, 287 


Contro Andronico poi era gravemente irritato il clero bizantino, che non poteva 
dimenticare così il brutto scherzo dal basileus giocatogli in principio del suo regno, 
come il disdegno che egli non si era fatto serupolo di palesare alle volte per le 
cose e persone di chiesa. 

È vero che Andronico aveva stima per le persone dotte: amava averle presso 
di sè, conversare con esse su gravi argomenti, quando non fosse troppo occupato 
dagli affari politici, ed era largo di doni. Aveva in grande stima i filosofi e la 
filosofia diceva essere una scienza divina, per quanto preferisse parlare a lungo di sè, 
della sua vita, delle avventure, della fortuna che lo aveva condotto a salvamento, 
novello Davide, attraverso a tante traversìe. Detestava però le discussioni teolo- 
giche, e questo non doveva certo procurargli le simpatie del clero bizantino (1). 

È ben noto come Manuele si fosse sempre occupato di queste discussioni con 
grande ardore. Diversi concilî, attorno ai quali sì imperniano tutte le contese teo- 
logiche dibattute sotto il regno di Manuele, si svolsero con la più viva partecipa- 
zione e sotto la direzione del basileus stesso. Così la famosa questione sulla espres- 
sione evangelica “ il Padre Mio è maggiore di Me , fu risoluta dopo lunghe dispute 
con l'imposizione delle deliberazioni volute da Manuele (2). 

Morto Manuele, le agitazioni politiche fecero dimenticare per qualche tempo le 
questioni religiose. Ma quando Andronico si fu impadronito del potere, allora, nella 
calma universale, si incominciò nuovamente ad occuparsi e ad agitarsi per la famosa 
questione. Erano, si capisce, quelli che dopo aver visto le proprie dottrine condan- 
nate dai concilì e da Manuele, avevano dovuto abiurarle e piegarsi all’opinione uffi- 
ciale del governo. Ora essi speravano di essere per riuscire ad avere a loro volta 
la vittoria, a far riconoscere le loro teorie, abbattere la stele eretta in Santa Sofia 
nel 1166, su cui erano stati incisi i decreti della Sinodo. Andronico, in odio al cu- 
gino Manuele, avrebbe agito nelle questioni religiose, senza alcun dubbio, in senso 
contrario a quello del defunto basileus, e con il suo appoggio, essi speravano di 
riuscire trionfalmente nel loro intento (3). 

Ma i loro calcoli fallirono del tutto. Andronico non solo non aderì ai loro desi- 
deri, ma non volle neanche sentir parlare di nuove discussioni, dispute, concilî, 
dogmi. Un giorno, al campo di Lopadion, nella tenda imperiale, incominciarono a 
discutere sulla frase “ il Padre Mio è maggiore di Me , il segretario imperiale e 
noto storico Giovanni Cinnamo ed il vescovo di Neopatras, Eutimio Malaki, che ve- 
nuto poco prima dalla sua sede alla capitale, per una sua controversia con il vescovo 
di Euripo, era stato accolto dal basileus Andronico con magnificenza, sì da fargli, 
in dimostrazione della sua simpatia, ricchi doni, e da condurlo seco nella sua spe- 
dizione contro i ribelli d'Asia, durante la quale campagna appunto avvenne l’epi- 
sodio che ricordiamo. Andronico, che era presente, tosto che vide i due cortigiani 
accendersi nella disputa, proibì loro di continuare, minacciandoli, se si ostinassero, 
di farli gettare senz'altro nel Rindaco. Curioso modo di risolvere una controversia 


K 


(1) N., 434. 16. 

(2) Vedi Cratanpon, Jean II Comnène ete., pag. 646 e segg. 

(3) Per il contegno di Andronico nelle controversie religiose, vedi Nicera Acommato, 431. 2; e 
dello stesso, i frammenti del Tesoro dell'ortodossia, ed. Uspenskij, op. cit. a pag. 2, n.2. 


288 FRANCESCO COGNASSO <_ 76 


teologica, ma ben degno di Andronico, che non avrebbe certo esitato un istante a 
passare dalle minaccie all’azione (1). 

I retori ed i teologi non dovevano quindi avere per lui soverchia simpatia. E 
così il malcontento del clero, che certo, poi, lo lamentava poco generoso — non 
conosciamo di Andronico donazioni a chiese ed a monasteri (2) — il malcontento 
del popolo che egli più non accarezzava, si univano al malcortento, logico e ben 
naturale, dell’aristocrazia. 

Ed egli si rinchiudeva in sè, si isolava, perdeva contatto con l’anima popolare, 
che si commoveva ora, dimentica di sè e dei suoi bisogni, anche per la rovina della 
classe aristocratica, stata sempre l'onore della Romania. L’aumentare del numero 
delle condanne verso gli ultimi tempi del regno di Andronico, più che l’efferatezza 
sanguinosa, mostrano la debolezza del suo piedestallo, l’inquietudine che nel suo 
animo veniva nascendo dalla sempre più chiara coscienza che la sua popolarità an- 
dava via via scemando ed illanguidendo. La psiche popolare, che si nutre non di 
ragionamenti ma di impressioni, non comprendeva, inoltre, che potesse sussistere 
ancora adesso quel malessere economico che si era ingenuamente creduto di com- 
battere e vincere, rovinando i commerci degli occidentali: e la stessa severa eco- 
nomia praticata da Andronico, e da lui imposta a Corte, aveva senza dubbio finito 
per essere dannosa al commercio, spingendo molti che erano lesi nei loro interessi, 
ad aderire al movimento degli oppositori. 

La lotta sorda fra Andronico ed i suoi avversari mette capo a congiure che, 
scoperte, finiscono nel sangue: alle volte, una parola sola oziosa ma indipendente 
e sincera, può attirare l'ira di Giove tonante. Come Manuele, anche Andronico ha 
in sospetto gli indigeni ed anch'egli si circorida di stranieri e ripone unicamente 
la sua fiducia negli Angli, Danesi e Scandinavi della Guardia imperiale dei Varangi (8). 

Andronico, nella sua eccitazione, non risparmia neppure i fedeli partigiani: chi 
ieri aveva caro e metteva fra i suoi più intimi, oggi è capace di scacciare da sè, 
se non di trattare anche peggio (4). 

Costantino Tripsico, Grande Eteriarca, uno degli assassini di Maria d’Antiochia 
e di Alessio II, cade ora vittima della gelosia di un suo rivale, e della eccitazione 
nervosa di Andronico. Ministro zelantissimo e devotissimo, aveva sempre interpretato 
con il più vivo fervore gli ordini ed i voleri dell’imperatore, quasi in gara con il Logo- 
teta, Stefano Agiocristoforite (5). Aveva avuto grande influenza su Andronico e questi 
aveva a sua volta avuto in lui piena fiducia, ricontraccambiandogli il suo amore, 
trattandolo nelle lettere che gli scriveva, non come servo, ma come figlio. Ora è 
accusato da uno dei più intimi del basileus, forse dallo stessò Logoteta Agiocristo- 


(1) N., 431. 2; su Eutimio Malaki, vedi Treu, in AsZziov 1897, V, pag. 196 e segg.; Papapo- o 
pouros-Keramevus in Magveocòs, 1903. pag. 18 e segg. e Lamgros, op. cit., II, 36, 38. 

(2) Si ha per il periodo 1180-1185 un solo diploma, spurio, pare, per la famiglia Scordili, di 
Creta, attribuito ad Alessio Il (1184?), in Mixrosica et MirLer, Acta et dipl. graeca, II, pag. 235. 
(3) N., 418. 2; cfr. Historia de profectione Danorum in Terram Sanctam in MG., SS., XX1X, 162. 

(4) N., 336. 7. 

(5) Di Costantino Tripsico vedi il sigillo illustrato da Morprmanx in Sw les sceaua et plombs 
byzantins in “ Revue Archéologique ,, 1873, pag. 60. Sulla famiglia Tripsico vedi LamBros, op. cit., 
II, pag. 573. 


7° PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 289 


forite, di non mostrare più zelo alcuno per il suo ufficio, anzi di aver osato biasi- 
mare Andronico e lagnarsi di lui. Il basileus, nello stato d'animo in cui ora si tro- 
vava, si irritò vivamente per l’ingratitudine di Tripsico; e la sorte del Grande Ete- 
riarca fu decisa quando l’accusatore aggiunse che esso aveva osato farsi beffe del 
basileus Giovanni, ed aver esclamato un giorno, vedendolo passare: “ O qual razza 
di imperatore avrà l'Impero! ,, paragonandolo a Zinziflize, quel mostricciattolo che 
con i suoi giochi ed i suoi lazzi divertiva il popolino nell’Ippodromo. La vendetta 
di Andronico. per questo oltraggio alla maestà imperiale, raggiunse tosto Nicola 
Tripsico: i suoi beni furono confiscati, egli fu abbacinato (1). 

Poco dopo la morte di Costantino Macroduca e di Andronico Duca, due pa- 
trizi, i fratelli Sebasteiani, furono per ordine imperiale impiccati a Pera, sotto una 
accusa gravissima: avevano ordito una congiura per portare al trono il genero di 
Andronico, il sebastocratore Alessio. Già da qualche tempo questi era scaduto nella 
stima e nell'amore di Andronico, il quale ora forse diffidava di lui come di tutti, 
e solo più lo tollerava a Corte in quanto era il marito della sua Irene (2). 

Se vi fosse qualche cosa di vero in questa accusa di congiura, noi non sap- 
piamo; ad ogni modo Alessio fu incarcerato, abbacinato e rinchiuso in una torre a 
Chelai, sul Bosforo, non lungi dalla bocca nord nel Ponto; nè bastò: poichè Irene 
cercò interporsi in favore del disgraziato consorte, Andronico, dopo averle invano vie- 
tato di piangere per quel traditore, irato, la scacciò da sè. Come complici del Sebasto- 
cratore, non pochi fra i suoi amici furono mutilati od uccisi. Fra di essi fu un tal 
Mamalo, segretario del Sebastocratore, cui si imputava di aver istigato il suo signore 
a congiurare, mostrandogli certi scritti misteriosi, magici, che facevano profezie sui 
futuri imperatori; e per tale motivo, che lo stesso Niceta ritiene come giusto, quale 
reo di arti magiche, salì il rogo che fu acceso nella Sfendone dell’Ippodromo (3). 

I suoi modi contro il patriziato, contro chiunque, diventavano sempre più vio- 
lenti; di giorno in giorno Andronico perdeva l’energia necessaria per padroneggiarsi. 
I famigliari si dimostravano impensieriti, ed un giorno lo stesso suc figlio e collega, 
Giovanni, inquieto per l’avvenire, osservando l’accrescersi di tale malcontento, osò 
richiamare su di esso l’attenzione del padre, invitandolo alla mitezza. Se ne sdegnò 
Andronico e chiamò i figli femminuccie; egli disse volere che dopo la sua morte essi 
fossero veramente e senza contrasto i signori dell'impero, che essi regnassero ma- 
gari soltanto su macellai, su fabbri, su conciatori, ed altre classi umili di lavo- 
ratori, ma che fosse per sempre fiaccata, schiacciata del tutto, quella prepotente 
aristocrazia (4). 

Quante fossero le vittime di questo tramonto d’impero non sappiamo. Niceta 
Acominato, che scriveva nel tempo degli Angelo e non dimenticava di aver dovuto 
abbandonare sotto Andronico la carica di segretario imperiale, — non sappiamo se 
volontariamente, per timore di persecuzioni, o se ne sia stato da Andronico scac- 


(1) N., 410 e segg. 
(2) N., 384. 3 e segg. 
(3) N., 401. 20. 

(4) E., 413. 13. 


Serre Il. Tom. LXII. 37 


290 FRANCESCO COGNASSO 78 


ciato (1), — afferma che immense furono le stragi ordinate da quel fiero tiranno, 
ma poi non sa recare se non pochissimi esempi, tutti riferentisi ai primissimi od 
agli ultimi tempi del governo di Andronico, in più d’uno dei quali del resto non 
sapremmo biasimare l'operato del principe. D'altra parte, un cronista orientale, in- 
spirato ad un evidente e costante odio contro Andronico, afferma che esso fece 
uccidere in varii modi un migliaio di personaggi fra i più cospicui di tutto l’Im- 
pero (2). È questa una cifra certamente esagerata, ma quand’anche alcuno la vo- 
lesse ritenere come vicina alla vera, bisognerebbe ad ogni modo sempre convenire 
che essa nè spiega nè giustifica quella fama di sanguinario, di feroce tiranno, che 
da sette secoli offusca il nome di Andronico Comneno. La repressione delle ribellioni 
di Bitinia non è da paragonare con altre simili repressioni in paesi civili, in età 


moderne; mille vittime — se vi furono — sarebbero un nulla di fronte alle stragi 
di Ivan il Terribile. 
Andronico cercò sempre — egli affermava — di voler rimanere nella legalità; 


quando Costantino Macroduca ed Andronico Duca furono giustiziati, egli pianse e 
si lamentò di non aver potuto impedire alla vendetta della legge di avere il suo 
corso (3). Nè rifuggiva dall’accettare consigli: il giudice del velo Leone Monasteriote, 
che pure era stato dapprima avversario di Andronico, divenne poi suo consigliere ac- 
cetto ed influentissimo, sì che il basileus lo chiamava, scherzando, “ Bocca del Senato ,. 
Questi potè salvare dall’ira di Andronico il proprio genero, Giorgio Disypatos, ana- 
gnoste di Santa Sofia, che s'era attirata la collera del basileus per avere biasimato 
la sua condotta. Andronico, nell’eccitazione in cui si trovava negli ultimi giorni del 
suo regno, aveva bizzarramente ordinato di farlo arrostire infilzato su di uno spiedo, 
ed inviarlo poi in dono alla moglie. Leone Monasteriote ne ottenne la grazia dal 
basileus, e, pochi giorni dopo, avvenuta la rivoluzione, egli ricuperava la libertà (4). 

Abbiamo ricordato sopra Ivan IV di Russia, e senza dubbio la sua opera trova 
riscontro in quella di Andronico. 

Come questi, la prepotenza dell’aristocrazia bizantina, così quegli intende rovi- 
nare la potenza dei bojari, e tutti e due, ma più lo zar russo, ricorrono necessa- 
riamente a mezzi violenti. Era purtroppo un male, chè abbattendo l’aristocrazia, 
indebolirono ambedue lo Stato: Ivan IV si trovò disarmato dinanzi ai polacchi di 
Stefano Bathory, come Andronico dinanzi ai normanni di Guglielmo II. Ivan, signore 
di un popolo giovane e robusto, potè salvare l’opera sua e la Russia con pronti 
provvedimenti, Andronico cadde prima che l'impero si riorganizzasse e si rinforzasse. 
L'organismo vecchio più non si sorreggeva, ed il nuovo corpo organico, sognato da 
Andronico, fu confidato troppo presto a mani inette. 


(1) Vedi in LamBros, op. cit., I,349, quanto dice Michele Acominato nella Monodia per la morte 
del fratello. 

(2) Bar-HeBraAEUS, Chronicon, ed. cit., 393. 

(3) N., 383. 5. 

(4) N., 406. 5. 


79 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 291 


DVE 
Dall’invasione normanna all’insurrezione popolare. 


Dall'improvviso peggiorare delle relazioni dell'Impero con la Corte di Palermo 
e dalla susseguente invasione della Macedonia, doveva venire l'impulso a rovesciare 
il trono di Andronico I. Mentre in Bisanzio, dopo la morte di Manuele, i dissidi 
interni occupavano tutte le menti e paralizzavano ogni attività diplomatica, l’unione 
fra la Monarchia normanna e l'Impero tedesco si era andata rassodando e raffor- 
zando sempre più (1). 

Quali fossero i rapporti dell'Impero tedesco con Bisanzio negli ultimi anni della 
vita di Manuele, già abbiamo avuto occasione di accennare a proposito delle nozze 
della Porfirogenita con Raineri di Monferrato. La lettera che, verso il 1179, Fede- 
rico inviava a Manuele, in risposta ad una ambasciata a lui apportatrice di ricchi 
doni del basileus, mostra come fra i due Principi non solo vi fosse freddezza, vi fos- 
sero rancori reciproci, ma anche già elementi — di non dubbia importanza — 
preparatori di un conflitto gravissimo (2). Le reciproche lagnanze sul diritto recipro- 
camente contestato al titolo di Imperatore Romano, erano forse solo schermaglie diplo- 
matiche, e così, non altro è, evidentemente, l’aspirazione, che Federico mostra, a volersi 
occupare degli affari di Bisanzio, sino ad offrirsi come arbitro in certe contestazioni 
fra il basileus ed il patriarca bizantino. Tutto, però, contribuisce a mettere in evi- 
denza l’audace ingiunzione fatta da Federico a Manuele di inchinarsi alla sua supe- 
riorità, di riverire come massimo pastore il Pontefice Romano. Con franchezza poco 
men che brutale, l’imperatore svevo rilevava il contrasto stridente fra quanto pro- 
mettevano gli ambasciatori bizantini venuti a lui con doni e moine, e quanto invece 
facevano gli inviati segreti di Manuele in Italia. — Prometti — dice al -basileus — 
fraterno amore ed intanto ti sforzi di sedurre e di distogliere dal mio servizio con 
donativi ed ambascerie i miei fedeli. — E questo infatti inquietava Federico I più che 
il titolo di Imperator romano negatogli dalla cancelleria di Costantinopoli. Ed am- 
moniva ancora Manuele — Con i tuoi intrighi potrai, al più, attrarre a te i malvagi, 
i migliori mi resteranno fedeli: a me poco danno, a te poco onore. Ma se invece tu 
tenessi verso di me un contegno sincero, osservando gli accordi, io identici senti- 
menti avrei verso di te — Così nettamente colpiva Federico la sottile trama dell’au- 


(1) GiesesrecaT, op. cit., VI, 86-87; Cmaranpon, Hist. de la dom. des Norm., Il, 386 e segg. 

(2) La lettera della quale gli Annales Stadenses (MG., SS., XVI, 349) ci conservarono un fram- 
mento, fu edita da H. v. Kar-Herr, op. cit., appendice, pag. 156; cfr. GiresesgEcHT, op. cit., VI, 554. 
Il v. Kap-Herr attribuisce la lettera federiciana al 1177, ma penso che si debba trasportarla più tardi, 
ed avvicinarla al 1179, al periodo preparatorio della cattura di Cristiano di Magonza: cfr. infatti 
gli Annales Stadenses, ed. e loc. cit., e la Continuatio Zwetlensis altera, MG., SS., IX, 541, all'anno 1179. 
Per quest’ultimo passo che riguarda veramente il 1179-1180 e che trova riscontro in N., 261, vedi 
invece in contrario il Craranpon, Hist. de la dom. des Norm. II, 184, n. 3; però nella recente 
opera Jean II Comnène etc., pag. 600, n. 4, il Caaranpox ha creduto di dovere anch'esso riferirlo al 
periodo che segue la pace di Venezia. 


299 FRANCESCO COGNASSO 80 


tocratore: doni, gentilezze, attestazioni, di amicizia, a voce; in segreto, poi, preparativi 
attivi di guerra. Sappiamo infatti da una lettera di Alessandro III a Federico I, 
del principio del 1178, che, nonostante il trattato di Venezia, Manuele aveva ancora 
tenuto suoi rappresentanti e sue milizie nelle Marche; schiere bizantine, rinforzate 
— pare — da elementi normanni, avevano poco prima, molto probabilmente dalla 
amica Ancona, fatto incursioni nei domini imperiali marchigiani e nelle terre dello 
stesso Patrimonio di San Pietro. Il fatto aveva perfino destato un dissidio fra il Papa 
ed il Barbarossa. Questi, prestando fede — dice il Papa — a non so quali “ susur- 
rones et detractores , che avevano accusato Alessandro II di favorire contro di lui 
i Lombardi, nella loro nuova agitazione contro i tedeschi, ed i Bizantini, nei loro 
movimenti militari, si era affrettato a scrivere acerbamente al Pontefice (1). 

Alessandro HI, per scolparsi della grave accusa, inviò il suo medico personale 
con lettere non solo per l’imperatore, ma anche per gli arcivescovi di Colonia e di 
Magdeburgo. Non solo mai eccitò i Lombardi, ma piuttosto li ha sempre consigliati 
ad “ treugam servandam et complendam ,; si adopri piuttosto l’imperatore ad allon- 
tanare da sè per quanto è possibile “ omnem materiam detractionis et suspicionis ,, 
non pensando solo alla pace dell'impero, ma anche a quella della chiesa, compiendo 
“ que promissa sunt , ed osservando “ que completa sunt .. 

E per quanto riguardava i sospettati rapporti con l’imperatore bizantino, Ales- 
sandro III portava come valida prova della sua innocenza, il fatto che i bizantini 
invasori obbligavano le popolazioni a riconoscere come somma autorità spirituale 
“ quem iidem Graeci apostolicum appellant ,. Come era possibile, adunque, che essi 
avessero l’aiuto del Papa ? (2). 

Il basileus infatti era irritato del contegno tenuto a suo riguardo da Ales- 
sandro III a Venezia; alle tendenze aggressive dei suoi inviati il Papa doveva affret- 
tarsi ad opporsi, ed infatti, come ne scriveva all’imperatore tedesco, egli non aveva 
indugiato a sollecitare Ruggero conte d’Adria e Tancredi conte di Lecce, perchè 
richiamassero, sotto minaccia di confisca dei beni, quei Normanni che si trovavano 
agli stipendi dell’imperatore bizantino (8). 

Ma se Federico Barbarossa aveva di che lagnarsi perchè gli emissari di Manuele 
cercavano nel 1178-1179, e vedemmo con quale profitto. di eccitare gli animi degli 
Italiani contro di lui, d’altra parte anch'egli aveva avuto trattative con il Sultano 
d'Iconio per una alleanza matrimoniale (4), trattative che erano state, dal governo 
del Corno d'Oro, considerate come una minaccia non oscura, non ostante le proteste 


(1) Cfr. la lettera di Alessandro II al Barbarossa, edita dal LòwexreLn, Epistulae Pontificum 
ineditae, pag. 164; su di essa vedi, dello stesso autore, Die unmittelbaren Folgen des Friedens von 
Venedig, in È Forschungen zur deutschen Geschichte ,, XXV, 449 e segg. 

(2) È probabile che l’aggressione patita nel 1178 nell'Italia centrale da una ambasceria di Fede- 
rico I a Guglielmo Il (vedi Caarawnpox, Hist. de la dom. des Norm., II, pag. 383) sia opera di gente 
istigata da emissari bizantini. 

(3) Della tensione fra Alessandro III e Manuele nel 1178 è prova la lettera inviata dal Papa al 
clero di Antiochia, ordinante di stare in guardia contro i tentativi di Manuele per trarre quella 
Chiesa alla obbedienza del Patriarca bizantino (Vedi LiwenreLD, Epistulae, pag. 164). 

(4) Per i rapporti di Federico 1 con il Sultano d’Iconio, vedi, oltre la lettera di cui alla n. 1, 
la Continuatio Sanblasiensis in Muratori, R. I. S., VI, 883. 


Q n PIO STIA € 
sl PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 293 


di Federico, che si diceva pronto a palesare tutte le trattative avute con il Sultano, 
senza dovere punto arrossire. A Manuele, i buoni rapporti del Barbarossa con il 
Sultano di Roum e con Guglielmo [I, non potevano non essere sospetti, tanto più 
pensando a quanto gli scriveva Federico I, del suo desiderio, cioè, che non solum 
Romanum imperium nostro disponatur moderamine, verum etiam regnum Greciae ad 
nutum nostrum regi et sub nostro gubernari debeat imperio (1). 

Tali essendo i rapporti diplomatici fra i due Monarchi, la cattura di Cristiano 
di Magonza dovette più che mai irritare Federico Barbarossa. Fece questi tutto 
quanto gli era possibile per liberare il suo fedele cancelliere, ma a nulla valsero i 
suoi sforzi. Noi non sappiamo per quali motivi Manuele abbia acconsentito alla libe- 
razione del fiero arcivescovo, secondo i patti stipulati da Bonifacio di Monferrato; 
certo però in quest'ultimo anno di sua vita è difficile che fra lui ed il Barbarossa 
siano intercedute trattative ed accordi fermi di pace (2). Quando Manuele scomparve 
dalla scena politica del tempo, il dissidio fra i due Imperi era più vivo che mai. 

Morto Manuele, ogni resistenza che da quel lato potesse trovare il Barbarossa 
ai suoi progetti in Italia venne a mancare, riuscendo quindi a condurre in porto 
felicemente il progettato matrimonio fra il figlio Enrico e Costanza d'Altavilla. 
Manuele I aveva profuso tesori per impedire l'affermarsi della casa Sveva in Italia, 
ed ora l’imperatore tedesco acquistava pacificamente, se non per sè, certo per i suoi 
discendenti, tanta parte della penisola. 

La gravità di questo avvenimento non poteva non impensierire i governanti del 
Bosforo, tanto più poi perchè quasi contemporaneamente essi si trovavano dinanzi la 
gravissima questione delle stragi del 1182, che parevano dover produrre gravissime 
complicazioni con più d'una potenza mediterranea. 

T profughi da Costantinopoli, non si erano riputati paghi di scorrere con le loro 
navi il Mar di Marmara e l’Egeo, dappertutto dove approdavano recando la desola- 
zione con stragi, saccheggi ed incendi; ma ritornati in patria avevano sollecitato i 
rispettivi governi a prender fiera vendetta dell’insulto e dei gravi danni sofferti (3). 
Le republiche marinare italiane, per il terribile colpo inflitto ai loro commerci trans- 
marini, furono gravemente corrucciate. 

Inoltre i malcontenti del governo di Andronico, quanti abbandonavano, volenti 
o nolenti, il territorio dell’Impero, sentivano l’odio contro il loro persecutore più 
fortemente della carità di patria. Nessun principe dimenticarono nei loro tentativi di 


(1) Sui rapporti fra i due Imperi ed il Papato, vedi pure NorpeNn, Pupsttum und Byzanz, 
pag. 112 e segg.; questi però usa i noti documenti pubblicati dal Baronio come riguardanti Fede- 
rigo I, mentre invece il Vasiljevskij (vedi Kurrz, in BZ., XV, 603 e segg.) dimostrò che !si riferi 
scono alla politica orientale di Federico II nel terzo decennio del sec. XII. Il Mirrer, The Latins 
in Orient, London, 1908, ritornò recentemente, ma a torto, alla vecchia opinione. 

(2) Sulla liberazione di Cristiano di Magonza pattuita, a quanto pare, fin dal gennaio 1180, 
salva però ogni approvazione di Corrado di Monferrato e di Manuele, vedi ToreLLI, op. cit., a pa- 
gina 330. Le diverse questioni tentate dal Torelli, se, ad es., la cattura di Cristiano abbia rela- 
zioni con la rivolta avvenuta a Roma contro Alessandro II e relativa nomina di un antipapa, se 
Cristiano doveva essere, come dice Niceta (262. 9), veramente portato a Costantinopoli, se esso fu 
liberato ancora vivo Manuele e con il suo consenso, e per quali motivi, non credo possansi, per 
insufficienza di documenti, definire neanche approssimativamente. 

(3) E., 415. 16 e segg.; N., 325. 10; WT., XXII, x1u, 1085 e segg. 


294 FRANCESCO COGNASSO 82 


procurarsi l'appoggio di qualche Potenza: il Re di Gerusalemme ed il Principe di 
Antiochia; il Sultano d’'Iconio ed il Saladino; le republiche italiane, il Pontefice 
Romano, il Re d'Ungheria, l'Imperatore tedesco; fecero sollecitazioni allo stesso Mar- 
chese di Monferrato. 

Sopratutti attivi furono i bizantini rifugiatisi in Sicilia. Vi erano fra di essi 
non pochi membri della maggiore aristocrazia, come un Maleino, un Dalasseno; capo 
ufficiale di questa emigrazione era un Alessio Comneno, figlio forse del protosebasto 
Giovanni, il già ricordato nipote di Manuele I. Era ancora giovane; alla corte di 
Manuele era stato Gran Coppiere; Andronico l'aveva esiliato in Bulgaria. Di colà, dopo 
essersi recato fra i Comani e poi successivamente a Kiew ed a Novgorod, riusà a 
portarsi a Palermo, dove con grande ardore cercava di convincere Guglielmo II ad or- 
ganizzare una spedizione contro Andronico I (1). Le parole del principe fuggiasco, e 
con lui di un notevole gruppo di Normanni che dopo avere servito Manuele ed 
Alessio II erano ritornati in patria all'avvento di Andronico, cadevano su terreno 
già pronto, chè il re Normanno da lungo tempo desiderava di misurare le proprie forze 
con quelle del signore della opposta riva adriatica (2). Dal padre aveva ereditato il 
dovere di vendicare gli attacchi di Manuele contro il Regno; inoltre Guglielmo Il 
non doveva avere dimenticato il grave insulto fattogli dal basileus nel 1172, rifiu- 
tandogli in isposa la figlia Maria, pur ufficialmente promessagli. 

Di fronte a tale pericolo. si comprende come Andronico Comneno giudicasse pru- 
dente il riavvicinarsi a Venezia, la quale in un conflitto normanno-bizantino sarebbe 
diventata senza dubbio l’arbitra dell’esito finale. 

È noto come il dissidio fra Venezia e Bisanzio non fosse stato punto provocato 
dalle stragi del 1182, ma già si trovasse nell’eredità politica di Manuele, che l’aveva 
determinato con la nota persecuzione del 1171 (3). Pace vera, dopo d’allora, più non 
si era conchiusa, non ostante ogni trattativa iniziata dal basileus (4). Nel 1175, 
Venezia era stata costretta, dalla rottura con il basileus, ad accostarsi a Guglielmo II, 
ottenendo, in un trattato d’alleanza per vent'anni, notevolissimi privilegi per i loro 
commercianti. Il trattato aveva naturalmente intenzione ostile alla Romania, come 
appare dall'articolo che privava di ogni diritto e privilegio quelli che contra» regnum 
nostrum egerint, et qui fuerint in aurilio Imperatoris Costantinopolitani ad defendendum 
eius imperium..... (5). Manuele, inquieto, cercò di indurre Venezia a rompere il trat- 
tato con il re normanno: suoi legati andarono a Venezia, legati andarono da Venezia 
a Costantinopoli. Non se ne fece nulla; chè Venezia dovette forse chiedere cosa 
troppo gravosa per l'Impero. Probabilmente però, già durante queste trattative 


(1) E., 415 e segg.; N., 384. 18 e 394. 11: sulle avventure di questo Alessio Comneno in Russia 
ed in occidente, vedi l'articolo del Lorarev nel ° Giornale del Ministero della P. I. di Russia ,, 
1897, giugno, 415 e segg.; cfr. pure Craranpox, Hist. dela dom. des Norm., II, 371. 

(2) N. 385. 11. 

(3) Cfr. Besra, La cattura dei Veneziani in Oriente e le sue conseguenze nella politica interna ed 
estera del Comune di Venezia, in ° Antologia Veneta ,, I, 1900, pag. 35 e 111. 

(4) Vedi però le diverse opinioni di Herp, Histoire du commerce, I, 220; Scuause, Handels- 
geschichte, 224; Besra, op. cit., 115; Krerscamaya, Geschichte v. Venedig, 261; Heyxrx, Zur Entstehung 
des Kapitalismus in Venedig, Stuttgart, 1905. 60; Caaraxpox, Jean II Comnène ete., 592. 

(5) Tare und Tromas, Urkunden cur dlteren Handels-und Staatsgeschichte der Republik Venedig, 
I, Wien, 1856, pag. 173. 


(00) 


B) PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. 295 


Manuele liberò i Veneziani che avevano ottenuto altra volta diritto di borghesia, indu- 
cendosi a reintegrarli nei loro beni e ad indennizzarli dei danni subìti (1). 

Dopo il trattato di Venezia, venne il basileus a nuove trattative e si venne ‘ad 
un accordo. Manuele avrebbe forse liberato i Veneziani che ancora erano in carcere, 
promettendo una indennità complessiva di quindici centenari d’oro da versarsi in più 
rate. Non pare però che tale promessa fosse tradotta in atto, chè Venezia, legata 
ora all'eterno nemico di Bisanzio Guglielmo II da un trattato assai proficuo per il 
suo commercio, non poteva dare a Manuele se non promesse e nulla più (2). 

E così, dopo queste trattative (da collocarsi forse negli ultimi tempi della vita di 
Manuele), Venezia si considerò ancora come in istato di ostilità verso l'Impero, e nel 
trattato Veneto-Pisano del 13 ottobre-23 novembre 1180, essa mette una riserva 
donec guerra inter nos et imperatorem Costantinopolitanum fuerit (3). È probabile 
però, che, tollerata da Manuele desideroso di pace, la colonia veneziana di Bisanzio si 
venisse ricomponendo. Le fonti.veneziane tacciono completamente delle stragi del 1182; 
queste però, in qualche misura, colpirono pure i commercianti veneziani; sappiamo 
infatti, che in quei giorni due commercianti veneziani trovarono a Naupatto quam- 
plures naves veneticas provenienti dal Bosforo: si non fugitis, omnes mortui estis, quia 
nos et omnes latini de Costantinopoli sunt discomissi (4). Gli storici veneziani tacciono 
del tutto sulle stragi, anzi affermano che Andronico aveva dei meriti verso Venezia: 
trattative sarebbero corse fra la republica ed il basileus. Soltanto ora sarebbero 
stati liberati i prigionieri del 1171; Andronico ut Venetos sibi favorabiles exhiberet, 
avrebbe acconsentito a pagare l’indennità annua, promessa forse, ma non pagata, da 
Manuele. Quando sarebbe avvenuto questo accordo? (5). Nel 1183, una carta privata 
di commercianti veneziani, stabiliti a Bisanzio, ha ancora questa riserva: excepto pe- 
riculo incendii et violentia Imperatoris (6). Il 17 febbraio del 1184, due commercianti 
veneziani in un loro contratto, prevedevano il caso che la pace firmata fuerit inter 
Veneciam et Costantinopolitanum imperium (7). In un altro documento fatto a Costan- 
tinopoli nel marzo dello stesso anno, si dichiara che due commercianti avevano pro- 
messo di fare un pagamento in Venezia postquam pax esset inter imperatorem Costan- 
tinopolitanum et Veneciam (8). Diversi documenti del 1185 parlano del versamento 
di una rata dell’indennità fatto da Andronico (9). 

Che Andronico accarezzasse, dopo gli avvenimenti del 1182, le republiche mari- 
nare, risulta pure dalle cure consacrate ad impedire che le navi gettate sulle coste 


(1) N. 225. 22; A. Danporo, Chronicon, Muratori, R. JI. S., XII, 298; cfr. però Besra, op. cit., 114. 

(2) Vedi Besra, op. cit., pag. 115 ed Heyxen, op. cit., pag. 58. 

(3) Cfr. MiLeR, op. cit., n. XVIII. 

(4) Il documento del giugno 1182 dell'Archivio di Venezia, S. Zaccaria, busta 1°, fu riassunto 
dal Ceccnerm in “ Archivio Veneto ,, II, 118. Di questo documento ho copia fornitami cortesemente 
dal dott. R. Cessi. 

(5) Anprea Danporo, ed. e loc. cit., col. 309. 

(6) Tare et Tomas, op. cit., I, pag. 177, n. 69; cfr. il documento edito dal Baracca in 
“ Archivio Veneto ,, X, 332, n. 83, del maggio 1183. 

(7) Cfr. SacerpotI, Le colleganze nella pratica degli affari e nella legislazione veneta, in © Atti del- 
l’Istituto Veneto ,, LIX, 1899-1900, 35. 

(8) Archivio di Stato di Venezia, Pergamene di S. Zaccaria, b. I. 

(9) Vedi Bxsra, op. cit., pag. 115 e segg.; Heyxen, op. cit., 61, n. 5, 67, n. 2; altri documenti 
dello stesso tipo mi furono comunicati dal dott. Roberto Cessi. 


296 FRANCESCO COGNASSO 84 


dalle tempeste, venissero saccheggiate dagli abitanti del luogo. A nulla avevano 
servito gli sforzi dei precedenti basileis. Quando Andronico aveva manifestato ai suoi 
consiglieri l'intenzione di eliminare tale abuso, essi avevano risposto dicendo che il 
male era insanabile. “ La volontà imperiale, rispose Andronico, è sufficiente ad impe- 
dire, quando veramente voglia, ogni male, purchè non manchino le sanzioni necessarie, . 
Ora egli voleva che i suoi ordini non svanissero' come una bolla d’aria, e dando le 
sue disposizioni a questo riguardo, raccomandò severamente a quanti, lì presenti, 
avevano governo di provincie marittime, o possedevano terre sulle coste, affinchè 
essi stessi incominciassero ad osservare il decreto, e lo facessero, sotto la loro perso- 
nale responsabilità, osservare ai loro dipendenti. E sapendo che una minaccia di 
Andronico non era una cosa vana, ognuno — afferma Niceta Acominato — prov- 
vide a far osservare fedelmente i suoi ordini (1). 

Adunque, proprio quando si stipulava il matrimonio normanno-svevo, il basileus 
si accordava con Venezia. Del trattato nulla sappiamo di preciso. Nel conflitto nor- 
manno-bizantino del 1185, Venezia pare conservasse una rigorosa neutralità; ma si 
comprende come, mentre durava il trattato veneto-normanno del 1175, Venezia ripu- 
tasse di concedere molto, ed Andronico, pro firmitate Imperii, di ottenere moltissimo, 
con la assicurazione appunto della più perfetta neutralità. Ad ogni modo la sua 
caduta impedì ad Andronico di soddisfare totalmente agli impegni assunti, ed 
Isacco Angelo, salendo al trono, doveva poi nuovamente pensare a risolvere la 
questione dei rapporti con le varie republiche italiane. 

Accenniamo ora brevemente alla politica orientale di Andronico. Dopo la scon- 
fitta di Myriokephalon, che tanta impressione aveva destato non solo in Asia, ma 
anche, e più, in Europa, Manuele aveva ripreso le armi, rivendicando i morti, e co- 
stringendo — pare — il Sultano d’Iconio a chiedere pace (2). Dopo la morte di 
Manuele, gli avvenimenti di Bisanzio avevano concesso al sultano Kylidi-Arslan 
la maggiore libertà di movimenti, e mentre Andronico attaccava la Reggenza, un 
esercito turco occupava improvvisamente la forte Sozopolis in Pisidia. Era una piazza 
forte del confine, di prim'ordine. Anche Kotyaion (Kutaya), centro di notevole impor- 
tanza, veniva occupata e distrutta. Fatti audaci dalla debolezza del governo bizan- 
tino, i Turchi assediarono la stessa Attaleia (Adalija). Quando però la lotta fra 
Andronico e Giovanni Vatatzes cessò, il Sultano non osò più muoversi e dalla sua 
corte dovettero allontanarsi gli emigrati bizantini (3). 

Andronico pare abbia rivolto l’animo ad una politica orientale nuova. Fino allora 
il governo bizantino aveva sempre inteso ad un accordo con gli Stati latini di Siria 
contro il pericolo mussulmano. Ancora negli ultimi suoi anni, Manuele aveva seguito 
tale ordine di idee. Nel 1177 è pronto con la fiotta ad una nuova spedizione in 


(1) N., 423-428. E notevole la copia di notizie su questo argomento dataci da Niceta, sì da far 
supporre che od egli stesso abbia presenziato l'udienza imperiale, od almeno tenga tali notizie da 
un testimonio oculare. 

(2) Sui rapporti di Manuele con i turchi nel periodo 1176-1180, vedi Craranpon, Jean IY Com- 
nène etc., pag. 514-515; un chiaro accenno alla pace conchiusa a richiesta del Sultano d'Iconio, trovi 
nel discorso di Eustazio per l’arrivo di Agnese di Francia, in ReeeL, op. cit., pag. 89, 22 e segg. 

(3) N., 340-9; cfr. Ramsay, The historical Geography of Asia, pag. 78 e segg. 


S5 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC, 297 


Egitto, mentre in Asia Minore attende a vendicare la umiliazione di Myrioke- 
phalon (1); nel 1179 Guglielmo di Tiro viene a Bisanzio, di ritorno dal Concilio La- 
teranense, e riparte solo dopo la Pasqua del 1180, con ambasciatori imperiali per 
Antiochia, incaricato di trattative politiche (2); pochi mesi dopo, Joscellin de Cour- 
tenay, Gran Senescalco del re di Gerusalemme, viene a Bisanzio pro quibusdam regni 
negotiis, ed il suo compagno, Baldovino di Ramla, ottiene dal basileus ricco sussidio 
per il riscatto che deve pagare al Saladino; ambedue si fermano nella capitale 
anche dopo la morte di Manuele (3). Questi pensava sempre al suo progetto di Cro- 
ciata per ricacciare indietro i Turchi da tutte le loro posizioni maggiormente minac- 
ciose così per Bisanzio come per la Siria latina (4). 

Ora però le condizioni sono grandemente mutate: i principati latini di Siria sono 
debolissimi, incapaci di prestare un appoggio vivace, inoltre Antiochia è così ostile, 
che il principe Boemondo, dopo la morte di Manuele, osa ripudiare la propria con- 
sorte Teodora, nipote del basileus (5). 

Andronico, che nei lunghi anni della sua vita avventurosa aveva appreso a cono- 
scere la società mussulmana, e sapeva quanta energia vi si racchiudesse, aveva 
grande timore del Saladino, se questi, abbattuti gli Stati latini di Siria, avesse con- 
giunto al suo impero il sultanato di Roum. Se è vero quanto ci si racconta, egli 
avrebbe quindi osato, sfidando l'opinione publica europea e le imprecazioni dei latini 
di Siria, stringere accordi con lo stesso Saladino. Andronico avrebbe abbandonato al 
Saladino la Siria, riservando per sè l’Asia Minore fino ad Antiochia. Il tentativo di 
Andronicò, se esistè, era audace, difficile il tradurlo in opera (6). 

Intanto il pericolo che minacciava Bisanzio dall’occidente si veniva precisando. 
Il 29 ottobre 1184, ad Augsbourg, si celebrava il fidanzamento fra Enrico di Svevia e 
Costanza d’Altavilla (7); e del significato antibizantino dato a tale matrimonio dai 
contemporanei si fanno eco gli Annales Colonienses dicendo: Imperator, regno Grecorum 
infestus, filiam Ruotgeri, regis Siciliae, filio suo copulare procurat... (8). Di tale matri 
monio avrebbe dovuto essere inevitabilmente avversario ostinato il Papa, stretto ora 
dal nord e dal sud dalla stessa potenza. Se Andronico Î avesse saputo conservare 
con la Curia di Roma le buone relazioni corse fra Manuele ed Alessandro III, forse 
si sarebbe potuto impedire quell’unione che poteva riuscire nefasta ad ambedue. 

Manuele, fedele alla sua politica antitedesca, aveva voluto riprendere, nel suo 
ultimo anno di regno, ottime relazioni con il Papa, mostrando grande zelo per i suoi 
progetti di Crociata, promettendo ancora una volta la riunione delle chiese. Nel marzo 
del 1180, Manuele scriveva ad Alessandro III di avere appreso, con gioia, diceva, 


(1) Vedi, a questo riguardo, RomzIcar, Geschichte des Konigreichs Jerusalem, 372 e segg. 

(2) WT., XXI, 1v, 1066 e segg. 

(3) WT., XXII, 1v. 1069; Chronique d'Ernoul, ed. De Mas-Latrie, pag. 46 e segg. 

(4) Per i progetti di crociata di Manuele, vedi una importante lettera di Alessandro III al car- 
dinale Pietro del Titolo di San Crisogono, in Bovousr, Recueil, XV, pag. 952, n. 385 e vedi CHa- 
LANDON, Op. cit., pag. 505. 

(5) WT., XXII, 1, 1069; Bar-Hesrarr, Chronicon, 331. 

(6) La notizia di quest’accordo è data dalla Lettera dall'Oriente, MG., SS., XVII, 511. 

(7) Vedi Caaraxnon, Hist. de la dom. des Norm., II, 384. 

(8) MG., SS., XVII, 730. 


Serie IT. fox. LXII 38 


298 FRANCESCO COGNASSO 86 


l'annuncio inviatogli della partecipazione del re di Francia e d'altri principi alla 
prossima Crociata, che allora pareva quasi imminente. Egli si dichiarava pronto a 
provvedere, come ne lo pregava il Pontefice, ogni cosa che fosse necessaria ai Cro- 
ciati, nel viaggio attraverso al suo impero, purchè, diceva esplicitamente, essi, quidquid 
receperint civitatum a Turcis, quod intra confines Romaniae perstiterit, quarum catalogus 
missus est cum apocrisiariis Imperii mei, tradant hoc Imperio meo. Inoltre chiedeva al 
Papa che, per ovviare ad inconvenienti quali erano avvenuti nel passaggio di altri 
eserciti Crociati, inviasse a Bisanzio un cardinale a sorvegliare il transito dei Cro- 
ciati, ad impedire qualsiasi attentato alla integrità del suo impero, dappoichè quod in 
tanta multitudine non sint quidam etiam stulti, omnino impossibile est. Manifestava poi 
ancora Manuele il desiderio di avere notizie della salute del Papa (non est enim 
inconveniens ut Imperium meum crebro discat de salute tue Sanctitatis) e chiudendo la 
lettera, diceva ad Alessandro che se plus etiam quid vult inter nos fieri tua Sanctitas 
ad unionem nostri et concordiam muaiorem, ciò sarebbe stato graditissimo al governo 
bizantino (1). Il Papa, nonostante — probabilmente — l’opposizione di Federico I, inviò 
a Bisanzio un cardinale, Giovanni, che doveva, d’accordo con Manuele, trattare per 
revocare ecclesiam Graecorum ad instituta et subiectionem Romane ecclesie (2). Fin 
dove però le due parti fossero sincere, è difficile dirlo, chè da ambo le partì si inten- 
deva solo — probabilmente — minacciare il Barbarossa. Pura minaccia, ad esempio, 
al Patriarca ed ai Vescovi che s’opponevano alla desiderata correzione dei libri 
catechici, fu quella di Manuele quando diceva che avrebbe convocato un Concilio 
generale, ed a questo ed al Papa romano, sottoposto la questione (3). E già Fanno 
prima, al III Concilio Lateranense, pare che alcuni vescovi bizantini avessero inviato 
dei rappresentanti (4). 

Morto Manuele, quali rapporti siano corsi fra Roma e Bisanzio, la mancanza di 
documenti non permette di precisare. Il cardinale Giovanni, come già sappiamo, era 
ancora a Bisanzio nell’aprile del 1182, e fu vittima della agitazione senofoba della 
popolazione. 

Gli avvenimenti di quell’anno si conobbero in Italia solo assai lentamente: verso 
la fine dell’anno, in dicembre, Lucio III spediva a Bisanzio, con sue lettere, mastro 
Fabrizio, nipote del defunto cardinale di Sant'Angelo, Ugo Eteriano di Pisa, pro 
inquisitione illorum que in civitute regia noviter accidisse dicuntur, incaricandolo di una 
ambasceria per il basileus; e scriveva insieme all’altro zio di Fabrizio, mastro Leone 
Eteriano, interprete imperiale, pregandolo di inviargli un resoconto fedele fam de 
turbatione que in eadem civitate dicitur accidisse, quam de predicti imperatoris vel impe- 


(1) Bouquer, Recueil, XV, 974, n. 418 (con la data: marzo, indizione XIII). 

(2) Roserti DE Monte, Chronicon, ed. cit., 527. Non è possibile stabilire con precisione chi sia 
questo cardinal Giovanni. Osservo però che Giovanni, cardinal di Sant'Angelo, è ricordato in bolle 
pontificie per l’ultima volta il 28 agosto 1181; il suo successore Ugo Eteriano compare per la prima 
volta il 14 luglio 1182; e così pure Giovanni, cardinale dei SS. Giovanni e Paolo, è ricordato per 
l’ultima volta il 27 marzo 1181; nell'agosto 1182, in suo luogo vi è Raineri. Fra i due, propenderei 
per il secondo, che già aveva partecipato alle trattative per l'unione nel 1166, e si era recato allora 
a Costantinopoli (Casranpon, Hist. de la dom. des Norm., II, 358 e segg., e Jean Il Comnène etc., 565). 

(3) N., 287. - 

(4) Vedi Sigeberti Continuatio Aquicinctina (MG., SS., VI, 417). 


87 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 299 


ratricis et ipsius imperii statu (1), con che si riferiva probabilmente alla morte della 
basilissa. Allora la politica bizantina era già nelle mani di Andronico, e non sappiamo 
se rispondesse, e come, a Lucio III. E difficile però, data la tendenza politica da lui 
rappresentata, che avesse relazioni particolari con il pontefice; non è tuttavia da 
dimenticare quanto scrive un informatissimo cronista inglese, che Andronico, cioè, 
contro il volere del patriarca e del clero aveva costruito quandam ecclesiam nobilem 
în civitate Costantinopolitana: et eam honore et redditibus multis ditaverat, chiamando 
ad officiarla preti latini (2). 

Poichè ora l'unione con la Germania era sicura, Guglielmo II poteva ardire accin- 
gersi all'impresa orientale della conquista del trono imperiale, cui già eransi dimo- 
strati insufficienti Roberto il Guiscardo, Boemondo, il grande Ruggero, Guglielmo I. 
Occorreva affrettarsi, approfittare del contrasto fra il basileus e l'aristocrazia, prima 
che, risoltasi in qualche modo la crisi, l'impero si ricomponesse in tutta la sua com- 
pattezza. Il giovane Alessio Comneno prometteva al re Normanno, che lo ospitava, 
mari e monti, se lo avesse appoggiato nell’occupare il trono dei suoi avi, ed affer- 
mava che la sua venuta sarebbe stata sufficiente a determinare una sollevazione 
generale del popolo contro il tiranno (3). 

E nell'inverno dell’anno 1184-1185, Guglielmo, nonostante l’opposizione degli arci- 
vescovi di Palermo e Messina, si decise finalmente per la guerra; in verità però egli 
anzichè farsi semplicemente l’alleato disinteressato del pretendente, pensava soltanto 
a sfruttare il suo nome, contrapponendolo ad Andronico e riserbandosi di disfarsi di 
lui, qualora l'impresa fosse riuscita felicemente, per diventare egli stesso l’impera- 
tore d’Oriente (4). 

A facilitare il gioco del re Normanno, sopraggiunse in quel torno a Palermo 
un nuovo pretendente al trono di Bisanzio. Era questi un preteso Alessio II, che da 
qualche tempo destava grande rumore nelle provincie europee dell'impero. Se nel 
mistero che avvolgeva la scomparsa e la fine di Alessio II, i cittadini della capitale 
avevano saputo riconoscere senza troppa difficoltà il vero, nelle provincie lontane 
nulla si sapeva di preciso. Eustazio di Tessalonica ancora dieci anni dopo dichiarava 
di non conoscere con sicurezza il vero modo della morte di Alessio, e si comprende 
quale fosse la sorpresa e la gioia delle ignoranti e credule popolazioni di certe terre 
della Macedonia, dell'Albania, quando di bocca in bocca corse novella, essere il giovane 
basileus sfuggito alla morte decretatagli dal feroce tiranno, per pietà dello stesso figlio 
suo, e trovarsi egli ora nei loro stessi paesi, in segreto, sotto la tutela di un tale 
Alessio Sicunteno di Filadelfia (5), monaco, affermava lui, benchè dall’aspetto belli- 
coso, dall’abilità nel maneggiare la spada, lo si potesse piuttosto dire soldato. 

Sotto la guida di costui, viaggiava infatti un giovanetto sui quindici anni, per 
età e per fattezze, assai rassomigliante al giovane basileus: il Mentore suo lo trat- 


(1) MùcceR, op. cit., pag. 11. 

(2) Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 257 e segg. Nel 1184 era a Costantinopoli Assalonne, arci- 
vescovo di Lund (Ex Saronis Gestis Donorum, MG.. SS., XXIX, 157). 

(3) E., 418. 82; N., 414. 10. 

(4) E., 421; vedi Cnaranpox, Hist. de la dom. des Norm., II, 403. 

(5) E. 411. 12; 413. 20. 


300 FRANCESCO COGNASSO 88 


tava con i massimi riguardi, volendo, astutamente, si diceva, essere da lui trattato 
con alterigia di principe; con piccolo seguito e pochi bagagli viaggiando nelle regioni 
più infeste ad Andronico; i discorsi del monaco, i racconti che il ragazzo faceva a 
quanti lo visitassero, sui dolori sofferti nelle sue traversie, gli procuravano dagli 
ascoltatori già predisposti dall’odio contro Andronico, fede, omaggi e doni. Se alcuno 
poi dubitava, Alessio Sicunteno si affaccendava a mettere in evidenza tutte le ras- 
somiglianze del giovanetto con Alessio II, perfino la mancanza di un dente. 

A Costantinopoli, si diceva lo pseudo Alessio fosse soltanto un contadinetto di 
Vagenezia; Andronico poi, si faceva beffe del redivivo — egli era sicuro del fatto suo — 
e della credulità popolare (1). Era questa, senza dubbio, una impostura, ma anch'essa 
contribuiva a recar danno alla posizione del basileus. Dopo qualche tempo lo pseudo 
Alessio e la :sua guida stimarono prudente mettere fra sè ed una possibile insidia 
di Andronico, il mare, e si recarono in Sicilia a richiedere quel re di aiuto. Le sue 
affermazioni in Palermo furono credute da molti. Ibn Giobair, che appunto nella pri- 
mavera del 1185 visitava la Sicilia, narra come il giovanetto misterioso, sottoposto 
dal re Guglielmo a lungo interrogatorio, avesse dapprima serbato il suo segreto, 
dichiarandosi semplicemente servo del monaco suo compagno, finchè alcuni Genovesi 
che erano stati a Costantinopoli, avevano riconosciuto in lui veramente lo scomparso 
basileus. La nobiltà dei natali appariva da molti indizi; così si narrava che in un 
ricevimento solenne a Corte, mentre tutti i cortigiani si inchinavano profondamente 
dinanzi alla Maestà del Re, egli solo, non un inchino fece, ma un semplice e fiero 
segno di saluto, come di chi era conscio dei diritti spettantigli per la sua nascita 
più che reale (2). 

Guglielmo II l’aveva accolto ospitalmente nel suo palazzo, sottoponendolo ad 
una accurata sorveglianza per timore di un qualche attentato di emissari di Andro- 
nico, e frattanto il giovanetto sotto la guida di maestri datigli dal re andava com- 
piendo la sua istruzione. L'altro pretendente, Alessio Comneno, aveva dichiarato che 
il porfirogenito Alessio era morto e che questi era soltanto un vile impostore. Se 
veramente Guglielmo II lo avesse riconosciuto per Alessio II, in perfetta buona fede, 
è assai dubbio; al re Normanno non importava gran che; fosse o no davvero Alessio II, 
a lui bastava fingere di crederlo, affinchè fosse riconosciuto da tutti, per poter così 
ingannare le popolazioni dell'impero e mascherare le sue vere intenzioni: nel medesimo 
modo, Roberto il Guiscardo aveva affermato, partendo per la conquista dell’impero, 
di voler conquistare Bisanzio non per sè ma per quello pseudo Michele VII che si 
era presso di lui ricoverato. 

Intanto, nella maggior segretezza, negli arsenali di Sicilia si andava allestendo 
una potente flotta (3). Perfino nell’isola si ignorava per quale impresa si facessero 
tanti febbrili preparativi. Maiorca, l'Africa, l'Egitto, erano, a volta a volta, la meta 
che il volgo assegnava alla bella flotta che si stava armando. Guglielmo, per impe- 
dire che la notizia dei suoi preparativi si diffondesse e mettesse in sospetto Andronico, 
sul principio del 1185 fece mettere l’ “ embargo , su tutte le navi che si trovassero 


(1) E., 412. 3. 
(2) Ien Grogarr, ed. Amari, “ Bibliot. arabo-sicula ,, I, 170. 
(3) Sulla organizzazione della spedizione, vedi Cnaranpon, Hist. de la dom. des Norm., II, 402. 


$9 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 501 


nei vari porti dell’isola: tutte le navi, anzi, furono requisite per il trasporto dell’eser- 
cito, con grave danno dei commercianti e dei pellegrini avviati in Palestina, che 
furono obbligati od a rinunziare od a cambiare via (1). 

Qualche notizia però era giunta a Bisanzio, ed Andronico si era affrettato ad 
inviare a Durazzo un suo parente Romano, allora in Bulgaria, e Giovanni Brana con 
alcune milizie. Ma Romano si era occupato solo di reprimere l’alterigia dei ricchi possi- 
denti che furono quindi mal disposti ora verso il governo imperiale; e prima che Giovanni 
Brana potesse mettere la città in condizione di respingere un attacco, la flotta nor- 
manna compariva dinanzi al porto, ed il 24 giugno senza difficoltà alcuna, Durazzo fu 
occupata. Giovanni Brana aveva fatto qualche resistenza nel castello, pur sapendo che 
era cosa inutile, per il piccolo numero di soldati che aveva; fu fatto prigioniero e traspor- 
tato in Sicilia (2). Pare che temesse l'accusa di tradimento e la vendetta di Andronico. 

Durazzo doveva essere per l’esercito normanno la base d’operazione. Era la tattica 
già seguita cent’ anni prima da Roberto il Guiscardo, ed ora, come allora, stava per 
dimostrarsi insufficiente. Infatti la occupazione delle provincie macedoniche doveva 
consumare molte energie dei Normanni, i quali solo dopo qualche mese di campagna 
faticosa avrebbero poi dovuto sostenere l’urto delle forze fresche degli imperiali. Un 
attacco all'impero bizantino sarebbe riuscito mortale, solo se portato direttamente alla 
capitale, isolandola dalle provincie. Fu poi la tattica della quarta Crociata. 

La flotta normanna, forte di più di duecento navi, sotto il comando di Tancredi, 
conte di Lecce, dopo avere sbarcato l’esercito a Durazzo, ripartì tosto per l’Egeo, 
per essere pronta a cooperare con le forze di terra, all’assedio di Tessalonica. L’eser- 
cito, che pare consistesse di ottantamila uomini fra truppe regolari ed avventurieri 
attirati dalla speranza di bottino, comandati da Riccardo d’Acerra e da un tal conte 
Baldovino, lasciato un presidio a Durazzo, scese lungo la via Egnazia nell’interno 
della Macedonia, senza incontrare nessuna opposizione, ed il 6 agosto si accampava 
dinanzi alle mura della seconda metropoli dell'impero (3). Non vi ha dubbio, che la 
marcia dei Normanni fu agevolata da quanti fra gli abitanti prestavano fede allo 
pseudo Alessio ed alle asserzioni dei Normanni di essere venuti solo in suo aiuto, 
da quanti nutrivano odio verso Andronico. D'altra parte sì comprende come, data la 
disorganizzazione dell'impero e la subitaneità dell’attacco, non preceduto da dichiara- 
zioni di guerra o da differenze diplomatiche immediate, Andronico non avesse potuto 
opporre tosto una resistenza efficace. 

L'esercito normanno aspettò allora l’arrivo della flotta che comparve il 15 agosto 
dinanzi a Tessalonica; tosto l’assedio di blando divenne rigido, i nemici si distesero 
attorno alla città come una falce da mare a mare, e già il giorno appresso avvenne 
un primo assalto (4). 


(1) Ian Grozarr, ed. cit., I, 168; Annales Colonienses Maximi, MG., SS., XVII, 790. 

(2) Per quanto riguarda l’assedio di Tessalonica, N. si riferisce al racconto di E. che è racconto, 
per questo tratto, di vita vissuta. Del conflitto normanno-bizantino vedi l’esposizione in CHALANDON, 
op. cit., II, 400 e segg.: e Tarer, Komnenen und Normannen, Ulm, 1852. 

(3) E., 425. 9; 504. 22; N., 385. 21. 

(4) E., 451. 2; 424. 21. Riguardo alla topografia di Tessalonica, vedi il lavoro del Tarer, De 
Thessalonica eiusque agro, Berolini, 1839. Per i confronti con le altre due prese di Tessalonica, 
del 904 e del 1430, cfr. Strucx, Die Zroberung Thessalonikas im Jahr 904, in BZ., 1905, XIV, 534-563. 


302 FRANCESCO COGNASSO 90 


Le vicende dell'assedio ci furono narrate con qualche ampiezza dal buon vescovo 
di Tessalonica, il dotto Eustazio, in uno scritto pieno di retorica, sì, ma pure assai 
prezioso, dal quale provengono pure quasi tutte le notizie dateci da Niceta sul con- 
flitto normanno-bizantino. 

Durante il mese di luglio, mentre i Normanni attraversavano la Macedonia, il 
panico aveva preso i Tessalonicesi, e tutti i più agiati si allontanarono con le loro 
ricchezze, diretti, per lo più, alla Capitale; Eustazio pare aver inviato pure colà 
alcuni giovani del clero, ed egli stesso forse se ne sarebbe andato, se non fosse 
stato trattenuto dal pensiero del popolo che protestò di non voler rimanere se anche 
il suo maggior pastore lo avesse abbandonato (1). 

Non sappiamo di qual branca della famiglia imperiale provenisse David Comneno, 
il governatore della provincia di Tessalonica. Veramente, già da non poco tempo 
esso sarebbe stato destituito dal basileus che aveva per lui poca simpatia, ma lo 
stesso figlio di Andronico, il sebastocratore Manuele, si era interposto in suo favore; 
David soleva, però, dire di temere sempre un improvviso arrivo di un funzionario 
imperiale per sostituirlo e mandarlo a morte, appunto sapendo che il solo appartenere 
alla famiglia Comnena gli era di danno. In questa sfiducia, anzi, in questa inimicizia 
vera fra Andronico e David, sta, secondo Eustazio, la causa principale della rovina 
di Tessalonica (2). 

Davide Comneno aveva goduto fino allora la stima e l’amicizia dello stesso 
Eustazio (3), nè era uomo del tutto spregevole, ma, disgraziatamente, era un buro- 
cratico, non un capitano. Appunto per questo, egli è aspramente vilipeso dall’arci- 
vescovo nel suo racconto, poichè durante l’assedio mai egli vestì corazza e rinserrò 
il capo in un elmo; burocratico cortigiano, egli si attirava gli scherni dei soldati, 
quando fra il piovere delle freccie e dei sassi lanciati dagli assedianti, egli attra- 
versava la città su di una mula, vestito di elegante abito, avendo ai piedi calzari 
tutti belli, in capo un cappello rosso, secondo la moda introdotta dai commercianti 
Georgiani, tutto a pieghe attorno, stendentesi sulla fronte a proteggere con una larga 
ala gli occhi ed il viso dai raggi del sole; portava freccie ed arco, ma questo — 
dice il maligno Eustazio — lo teneva come fosse un oggetto or ora comperato, prima 
ignorato, e non come un'arma. Ed un bel giorno — continua Eustazio — dalla rocca, 
ben sicuro, si disse che osasse scagliare una freccia (4). 

Eustazio lo accusa di avere trascurato i preparativi per la difesa, e molto di 
vero vi ha in questa accusa, molto di esagerato. Occorreva fare riparare la cisterna 
della rocca da molto tempo non più usata: e se il lavoro fu compiuto, a nulla servì, 
poichè per quanto un tal Leone Mazida, personaggio non oscuro, avesse raccomandato 
di non riporvi acqua prima di alcuni giorni, per aspettare che le pareti rifatte asciu- 
gassero, già poche ore dopo essa vien ricolma d’acqua, rovinando i lavori prima fatti. E 
di questo, la colpa, Eustazio l’ascrive a Davide. Eustazio si domanda se questa tras- 
curatezza non sia una specie di tradimento. Certo, Davide temeva per la madre ed 


(1) F., 425. 15; 434. 21. 
(2) E., 428 e sega. 

(3) E., 377; 428 e segg. 
(4) E., 439. 20. 


91 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 803 


il fratello che si trovavano a Bisanzio, esposti alla vendetta di Andronico, ma esso 
è da paragonare, dice, a quel guardiano di vigne, che per odio feroce contro il suo signore, 
non guasta, no, l'uva, ma rimanendo nella vigna finge di non vedere i ladri, pronto 
a giurare di esser sempre rimasto sul posto, e di non aver nè visto nè aiutato i 
ladri. Era da biasimare quindi Andronico per avere lasciato un comando così impor- 
tante ad un individuo tanto malvagio (1). 

Mancavano le freccie per gli arcieri, e inutilmente gli addetti alle macchine per 
lanciare sassi chiedevano a Davide, munizioni ora, ora del legno per riparare le 
macchine stesse; se poi si lamentavano che queste non erano adatte a sostenere i 
colpi lanciati da quelle degli avversari, egli rispondeva tranquillo: e che posso fare? 
quando però non toccavano bastonate, come a quel soldato che osò audacemente rimpro- 
verare al governatore la sua infingardaggine. A chi lamentasse la debolezza delle mura 
egli non dava alcuna soddisfazione, poi si metteva magari a sedere all’ombra, talora, 
al riparo dai colpi, e guardando il piover dei dardi, esclamava: — brutte cose 
queste! — e se ne stava tranquillo a riposare delle sue gravi fatiche mentre la 
battaglia ardeva (2). Ma Eustazio accusa ancora il governatore di speculare sul 
prezzo delle vettovaglie per fare denaro, di acconsentire che i ricchi cittadini 
abbandonassero la città, sotto la scorta di uomini armati, che venivano così sottratti 
alla difesa. 

È probabile che Davide Comneno non avesse coscienza del pericolo, essendo 
convinto di non dover sostenere un assedio troppo lungo: egli sperava che all’av- 
vicinarsi dell’esercito imperiale, i Normanni fossero costretti a lasciare l'assedio di 
Tessalonica. Certo egli avrebbe dovuto avvertire il governo di Bisanzio delle cattive 
condizioni delle fortificazioni, ma questo sarebbe stato confessare la sua negligenza 
durante tutto il tempo del suo governo, attirandosi l’ira di Andronico. Così egli per 
vivere in quiete e non essere destituito —- se non peggio — aveva convinto Andro- 
nico che le cose andavano ottimamente a Tessalonica: tutto essere pronto, nulla 
mancare alla difesa, non resistenza di torri, non balestre, non munizione di mura e 
di baluardi, non quantità e bellezza di carri, nulla insomma; così egli mentiva, nel 
suo interesse momentaneo, senza che alcuno, ignorando tali sue affermazioni, potesse 
rivelare il vero stato di cose (3). 

Quando ancora i nemici non avevano rinchiuso totalmente la città con le loro 
linee d’assedio, in una ricognizione si era fatto prigioniero un Normanno. Davide, 
per farsi bello agli occhi di Andronico, gonfiando la cosa, aveva scritto al basileus 
che la guerra procedeva bene. Altro giorno, in altra sortita, il bottino fu di due 
muli, più un elmo gettato da un Normanno in fuga: il tutto fu portato in città come 
un trofeo, e nuovamente Davide mandò un corriere ad Andronico per avvisarlo della 
vittoria; un duello fra due cavalieri nemici ed una diecina degli assediati divenne 
per opera del governatore un nuovo trionfo (4). 


(1) E., 435 e segg.; 449. 20. 

(2) E., 432. 21 e segg.; 440, 16 

(3) E., 429. 3. 

(4) E., 427.5 e segg. E. parla (428. 5) di cavalieri #4 70d z@v Ioperevrtosvwv t3vovs; suppongo 
trattarsi dei noti avventurieri Brabanzoni, per i quali yedi H. GerarD, Les Routiers au XII siècle, 
in “ Bibl. de l'École des Chartes ,, I Série, 1841, III, 125 e segg. 


304 FRANCESCO COGNASSO 92 


Poi cessarono le sortite, chè l'assedio divenne più stretto così per terra come 
‘per mare ed i Normanni si fecero più incalzanti. Qualche capitano del presidio avrebbe 
voluto fare regolari sortite per disturbare i lavori di approccio degli assedianti, ma 
non mai sì potè strappare il consenso del governatore: Eustazio dà a Davide Comneno 
gran colpa di questo, colpa di certo non molto grave nella realtà, chè egli proba- 
bilmente temeva un assalto improvviso dalla marina, mentre le truppe fossero occu- 
pate in qualche grave azione nel piano. E ad ogni esortazione perchè ordinasse una 
sortita, egli rispondeva di non poter farlo: a lui era stata ordinata esplicitamente 
dal basileus la pura e semplice difesa della città (1). È chiara dunque la tattica 
di Andronico: fidando che Tessalonica, come aveva assicurato ed assicurava Davide 
a più riprese, fosse pronta a sostenere un assedio, sì da trattenere per qualche tempo 
l’esercito normanno, il basileus intendeva compiere accuratamente i suoi preparativi, 
in modo che quando gli invasori si fossero fiaccati sotto gli spalti tessalonicesi, non 
potessero opporre grave resistenza all’attacco degli imperiali (2). 

I nemici frattanto con grande animo attendevano all'assedio. Le macchine per 
lanciare proiettili erano continuamente in azione; fra di esse ve ne era una più 
grossa e più rumorosa, capace di lanciare pesanti macigni, e gli assediati le avevano 
affibbiato il nomignolo di “la vecchia ,, probabilmente perchè operava lentissima- 
mente; ma, essendo per la sua stessa grandezza difficile a maneggiare, riusciva poco 
utile. Dalla parte del mare, per la poca profondità delle acque, non vi furono attacchi; 
non così ad oriente dove la difesa essendo più debole, più vivace ed insistente era 
l'attacco; delle mura speravano i Normanni di aver ragione, scavando alla loro 
base delle fosse, e cercavano ogni altro mezzo per riuscire presto nel loro scopo (3). 

Intanto l’esercito imperiale si organizzava nella Tracia. Lo comandavano il figlio 
stesso di Andronico, il basileus Giovanni, Alessio Guido, un latino entrato al servizio 
di Manuele e salito all’altissima carica di Gran Domestico dell’Oriente, inoltre An- 
dronico Paleologo, Manuele Camitze, ed il cartulario Teodoro Cumno. Poi venne lo 
stesso suo Paracoimomeno, l’eunuco Niceforo, l’uomo di fiducia del basileus, il quale 
scrisse a Davide avvertendolo dell’avvicinarsi dell’esercito e sollecitandolo a resistere, 
chè il suo esercito era così forte da temere che i Normanni non fuggissero appena 
conosciuto il suo venire. i 

Per ora, però, gli imperiali avevano ricevuto l’ordine di non attaccare i nemici, 
finchè i preparativi fossero finiti. 

Più tardi, pare che Andronico ordinasse al Paracoimomeno di cercare di entrare 
in città per sostituire nel comando l’imbelle Davide, le cui gesta erangli ora certa- 
mente note per il racconto dei Tessalonicesi rifugiatisi alla capitale; ora però nulla 
più si poteva fare e Niceforo arrivò la vigilia stessa della presa della città. Im questa 
si trovava il sebasto Giovanni Maurozoma, proveniente dal Peloponneso, e rinchiusosi 
in città con le milizie seco condotte: più volte ebbe contese con il governatore che 
non riusciva ad eccitare all’azione. 


(1) N. 411. 15, dove l’autore riferisce parole autentiche dell'ordine di Andronico. 
(2) E., 442. 7. 
(3) E., 431 e segg.; 452 e segg. 


93 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 305 


Teodoro Cumno si era accostato maggiormente alle linee degli assedianti, e 
riuscito ad entrare in comunicazione con la città, invitò Davide ad operare una sor- 
tita per un determinato giorno, mentre egli avrebbe attaccato il nemico dall'altra 
parte. Invito inutile: il Cartulario attaccò, ma Davide si accontentò di salire sulla 
piccola altura orientale dell’Acropoli, guardare la pianura dove si combatteva, fare 
induzioni coi suoi adulatori, chè neppure questi mancavano, sulle mosse dei due 
partiti e sull’esito. E Cumno dovette ritirarsi, mentre David Comneno ordinava che 
si richiudessero le porte dietro a quanti, senza suo ordine, anzi, contro i suoi ordini. 
avevano osato uscire. Dopo la presa della città, i Normanni raccontavano ai vinti 
che se in quel giorno avessero fatto una sortita, sarebbe stato possibile distruggere 
tutta la flotta ancorata nel porto e lasciata senza equipaggi (1). 

Di fronte alla inerzia colposa del governatore rifulge maggiormente 1’ eroismo 
delle poche milizie — vi erano Alani, Iberi, Serbi — e della cittadinanza, che, non 
ostante la fuga della classe più abbiente, tutta fervidamente attendeva alla difesa. 
Non solo gli uomini, ma anche le donne, non solo i validi, ma anche i fanciulli; gli 
stessi preti, dimenticando i divieti canonici, smesso l’abito sacerdotale, combattevano. 
Più di una volta, manipoli di eroi, scesi dalle mura con grave pericolo, poichè il 
governatore teneva loro chiuse le porte, si spinsero fino al campo nemico, portando 
via dalle tende dei viveri. 

Se la pioggia dei proiettili normanni era terribile, anche il tiro degli assediati 
non era innocuo; da Porta d'Oro — la gran porta Occidentale — i dardi giungevano 
fino al tempio di S. Nicola fuor delle mura, sulle stesse tende del nemico ivi accam- 
pato, e più di una volta i Normanni dovettero sloggiare dalla zona battuta dagli 
avversari, come dalla parte della marina, alcuna volta i Normanni dovettero ritirare 
dal porto le navi troppo esposte ai colpi provenienti dalle mura, benchè sull’alto 
degli alberi in appositi ripari stessero frombolieri a tirare sulla città. 

I Normanni avevano scavato gallerie per giungere sotto le mura e diroccarle: 
Basilio Tzisco, accortosene, aveva avvertito i capi, e dopo di aver ponderato se si 
potesse lasciar compiere le gallerie per poi gettarvi fasci di legna accesa e soffocare 
i nemici, si decise di costruire nei punti minacciati, più addentro, un nuovo muro 
che fermasse i Normanni quando abbattuto il primo si fossero creduti padroni della 
città. Ma il segreto non fu mantenuto e quel punto fu speciale bersaglio dei 
nemici, sì che l’impresa fu dovuta abbandonare (2). 

Ma non era possibile continuare a lungo, chè le munizioni mancavano ed i difen- 
sori erano troppo pochi. La caduta era irreparabile, mentre ad oriente gli attacchi 
si facevano più irruenti, dal mare alle porte degli Asomati. Il 22 agosto le mura 
del lato orientale — le più battute dal nemico — non avevano quasi più difensori: 
gli uni caduti, gli altri sfiduciati (3). A produrre lo scoramento dei cittadini contri- 
buivano le voci di tradimento. Manuele Abudino, per esempio, cittadino egregio e 
commerciante dabbene, dice Eustazio, era convinto del tradimento e lo proclamava 


(1) Sui preparativi di difesa, cfr. E., 430-431; su Niceforo il Paracoimomeno, E., 439. 12; per Teo- 
doro Maurozoma, E., 445. 9; su Teodoro Cumno ed i suoi tentativi, E., 443. 19 e N. 412-413. 

(2) Vedi le notizie sui diversi episodi di tradimento in E., 449. 8; E., 450; 454.7 

(3) Sulla resistenza della cittadinanza vedi E., 446-459. 


“== MEA 39 


306 FRANCESCO COGNASSO 94 


apertamente, dopo la presa della città. Narrava infatti quel valentuomo che il 24 agosto, 
lo stesso giorno della caduta della piazza, egli si era alzato per tempissimo, ed ar- 
matosi, s'era avviato alle mura. Per via si era imbattuto in cinque cavalieri Alemanni, 
del presidio, uno dei quali, estratta la spada, gli aveva menato tal fendente da 
recidergli la mano destra. Nè basti: il giorno prima, altri tre Alemanni, si erano 
apertamente recati al campo Normanno; due giorni prima, a tarda sera, tal Teofane 
Probate, che già a Durazzo aveva mostrato di parteggiare per i Normanni, era riuscito 
ad entrare in città. A che fare, se non per preparare il tradimento? Un Leone 
Agioeufemite lo aveva saputo, da lui altri, ma nessuno aveva avvertito il governa- 
tore. Senza dubbio, ai Normanni fu di grande utilità l’aver potuto comunicare con 
latini abitanti in città che ragguagliavano gli assedianti su quanto avveniva fra 
cittadini e delle condizioni della difesa. Da una torre, quella detta dei Borghesi, 


i 
i 


vicino al porto, ad esempio, due fratelli facevano segnali ai Normanni, come dopo 
raccontava ad Eustazio un Normanno; poi, presa la città, quei due non dubitarono 
di darsi anch'essi al saccheggio. 

La notte dal 23 al 24 agosto fu finalmente aperta nelle mura, vicino al mare, 
dalla parte orientale, una larga breccia, presso la torre di Camedracone, e fattosi 
giorno i disgraziati cittadini compresero essere per loro venuta l'ora fatale (1). 

Davide Comneno, che aveva giurato di voler piuttosto uccidersi anzichè fuggire, 
di poter sostenere l'assedio per quaranta giorni, anche senza mura, ora, appena vide 
una lancia nemica spuntare sulle mura presso il mare, ed i marinai ed i seguaci del 
pirata Sifanto, e gli avventurieri francesi venuti al servizio dei Normanni nella sola 
speranza del bottino (&vdoes toù dilizov) (2). slanciarsi su per le rovine, assetati di 
sangue e di preda, si diede alla fuga, sulla sua mula, tutto ‘elegante ed aitillato, 
indifferente alle invocazioni dei cittadini che lo supplicavano di consiglio ed aiuto (83). 

Non mancarono neppure ora cittadini generosi ed audaci che ardissero aspettare 
il nemico a piè fermo, tentando una ultima ed inutile resistenza. Così quel Leone 
Cotala. uomo di grande coraggio, che rimase imperterrito al suo posto sulle mura 
occidentali, quando già la città era piena di nemici così quel prete Boleas che 
animosamente combattè, e cadde dopo aver colpito più di trenta nemici (4). 

I cittadini fuggenti per la città si diressero all’Acropoli sperando di trovarvi 
rifugio: la moltitudine dei fuggiaschi fu tale che nella ressa non pochi caddero, 
mentre sui loro corpi gli altri passavano, solo euranti della propria salvezza: la chiu- 
sura improvvisa delle porte costò la vita ad altri ancora (5). L’arcivescovo Eustazio, 
disdegnando la rocca, ove difettaya l’acqua, ed il tempio di San Demetrio, pieno 
zeppo di gente accorsa a pregare, a supplicare il Patrono della città che salvasse 
anche ora, come già altra volta. i suoi divoti, se ne rimase a casa, dove fu poco 
dopo sorpreso dai vincitori (6). 


(1) E, 449. 

(2) Vedi pag. 303, n. 4. 

(8) Sulla iattanza e viltà di Davide Comneno e sulla sua fuga, E., 371, 11; 374; 457. 19: 462. 4. 
(4) Per alcuni atti eroici dei cittadini, E., 459; 462. 

(5) E. 371-372. 

(6) E., 462-463. 


95 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 307 


I Normanni, entrati in città, saziarono la loro brama di strage: quanti sorpre- 
sero nelle vie, e, dapprima, anche nelle case, tutti furono massacrati. Chiese, conventi, 
ospedali non furono risparmiati: gli uomini uccisi, violentate le matrone, profanate 
le vergini, trastullo di quei barbari crudeli e lussuriosi. Durò la strage non più di 
un giorno, ma bastò perchè vi perissero settemila infelici. Sulla pubblica via i con- 
quistatori ne fecero poi raccogliere cinque mila; gli altri erano stati colpiti nelle 
loro stesse abitazioni (1). Sull'Acropoli e sulle piazze furono fatti roghi per distrug- 
gere rapidamente tanti cadaveri. 

I pirati di Sifanto non pensavano però solo a stragi, ma a far denaro, e quindi 
molti ragguardevoli personaggi, fra i quali l'arcivescovo e Giovanni Maurozoma, furono 
trasportati prima all’Ippodromo, poi al porto e rinchiusi nella nave di Sifanto, piena 
zeppa di prigionieri. Dice Eustazio che i cavalli usati per il loro trasporto incontra- 
vano difficoltà nella marcia per i cumuli di cadaveri o di roba estratta dalle case e 
depositata sulla via. Dopo di aver nella nave trascorsa quella notte, furono il giorno 
appresso condotti, onorevolmente, ad Alessio Comneno, venuto anch'egli a Tessalonica, 
e presso di lui rimasero finchè ebbero pagato il prezzo di riscatto. Dice Eustazio 
di essere stato su quella nave molto angustiato da un tale Guglielmo, latino fuggito 
da Nicea per causa di Andronico e che era contro i bizantini veramente furioso. 
Quattromila aurei dovette sborsare il povero arcivescovo; piccola cosa per lui, cui, se- 
condo affermavano i Normanni, l’arcivescovado rendeva cento centenari d’oro all’anno. 

Restituito finalmente in libertà, trovò Eustazio tutta la sua casa occupata da 
Normanni, ed egli dovette acconciarsi alla meglio su fieno nell'atrio del bagno e nel 
piccolo giardino dove i suoi non desiderati ospiti venivano a mangiar la frutta benchè 
ancora acerba, ed a scandalizzare Eustazio ed î suoi compagni con le loro maniere 
rozze e brutali, ignari delle raffinatezze della vita bizantina. Della sua roba nulla più 
ebbe, solo un capitano normanno gli concesse cinquanta aurei per il sostentamento (2). 

Anche le chiese vennero saccheggiate, ed Eustazio narra, tutto addolorato, delle 
innumerevoli nefandità commesse dai sacrileghi vincitori, orrori cui solo pose fine 
l'intervento energico di Tancredi di Lecce, che a cavallo entrò nel tempio di San 
Demetrio, scacciandone gli empi profanatori (3). 

Già lo stesso giorno della presa della città, nel pomeriggio, i capi Normanni 
avevano cercato di frenare i loro soldati, facendo cessare i saccheggi e le distruzioni, 
le morti; e si pensò a dare assetto al nuovo stato di cose, installando i soldati nelle 
case private, assegnati ai capi i palazzi principali, dopo averne scacciati i proprietari, 
cui nulla rimase, nè vesti, nè danaro, nè vettovaglie; e molti si videro degl’indigeni 
errare seminudi, ludibrio dei vincitori (4). 

Chi sfruttò quant’era possibile la triste condizione dei cittadini superstiti furono 
gli Ebrei e gli Armeni abitanti i paesi, posti non lungi da Tessalonica, di Crania e 
di Zemenico, i quali dopo aver parteggiato per gli assalitori, sfruttando la mancanza 
di mercati, la sospensione totale della vita commerciale, vendevano viveri a prezzi 


(1) E. 475.21. 
(2) E., 463-466. 
(8) E., 470. 
(4) E., 473. 


30$ FRANCESCO COGNASSO 96 


favolosi, a tre stateri, ad esempio, un pane di un obolo. Ebrei ed Armeni specula- 
vano pure sulla ignoranza dei Normanni, dai quali comperavano per poco denaro cose 
preziosissime. Avidi di oro, quei barbari cedevano a vil prezzo stoffe preziose, tessuti, 
abiti di seta, libri preziosissimi, dopo averne accumulati a mucchi nelle piazze, alla rin- 
fusa. Tenevano per sè solo le armi. Neppure ad essi piacque il vino greco, resinato, per 
quanto vecchio e famoso, come già era dispiaciuto a Liutprando alla Corte bizantina (1). 

In tanti dolori i cittadini che non erano fuggiti prima o che non partivano adesso, 
si raccoglievano con i loro sacerdoti attorno alla tomba del Santo, invocandone aiuto. 
Nel Tempio tutto era distrutto, e la desolazione era tale che lo stesso conte Baldovino 
volle donare all'arcivescovo del denaro per riparare ai danni più gravi, mentre egli 
stesso lo provvedeva di libri sacri e della suppellettile per le funzioni religiose. Nei 
primi giorni dopo la presa della città, naturalmente, non vi furono nelle chiese fun- 
zioni di sorta: solo più tardi, ricominciata una vita per quanto possibile regolare, si 
richiamarono i fedeli ai templi; ma, allora, i Normanni presero sospetto delle tavo- 
lette di legno che sostituivano in Oriente le campane, e temendo fosse il segnale di 
una ribellione, per poco non diedero principio ad una nuova strage. Quando i fedeli 
si raccoglievano in chiesa a pregare, anche i Normanni vi venivano per turbare con 
schiamazzi le funzioni, e poco poteva fare l'autorità del conte Baldovino, che pure 
cercava di ristabilire la disciplina con severe punizioni per i più prepotenti (2). 

Si cercava ora di lenire i dolori dei vinti, ma pure vi era fra i Normanni una 
tendenza recisamente avversa alla popolazione indigena, e desiderosa di espellerla in 
massa, anzichè stabilire con essa un modus vivendi. Questi Normanni si rammari- 
cavano di non avere, subito dopo la presa della città, distrutta completamente la 
popolazione greca, ed anche ora pensavano di chiedere al re che Tessalonica fosse 
concessa come abitazione solo a latini, per costituire così un vigoroso centro della 
latinità. Eustazio, stimato e venerato anche fra i vincitori, che le sue preghiere e 
suppliche in favore dei suoi concittadini ascoltavano con benevolenza, fu talmente 
intimorito da queste voci minacciose, che si affrettò ai generali Normanni, i quali 
lo rassicurarono e garantirono la sicurezza del suo popolo (3). 

Nonostante ogni sforzo dei capi, i Normanni tenevano verso i cittadini un con- 
tegno poco atto a conciliar loro la stima e l’affezione. Se si incontrasse un indigeno con 
un Normanno, non solo insulti, ma gli toccavano non di rado anche busse; se con 
un Normanno a cavallo, allora doveva affrettarsi a cedere il passo per non essere 
travolto; le perquisizioni sulla persona per rintracciare denaro ed armi erano fre- 
quenti: i Normanni avevano una antipatia speciale per le barbe degli indigeni, e 
non si facevano scrupolo di tagliarla a quanti incontrassero e così pure per le lunghe 
capigliature. Per questo i rozzi vincitori si servivano alle volte del rasoio, alle volte 
di un coltello od anche della spada, prendendo gioco dello spavento del malcapitato. 

Se alcuno ardiva ritornare alla propria casa, era dapprima ben accolto dai Nor- 
manni che vi si erano stanziati, ma poi volevano ad ogni costo sapere dove avesse 
nascosto i suoi denari, ed il poveretto assaggiava allora il bastone, se pur non veniva 


(1) E., 480-481. 
(2) E., 440. 9; 482. 8; 489. 19. 
(3) E., 483. 13; N., 400. 


97 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 309 


esposto alle esalazioni del zolfo ardente. Chi avesse fatto per ribellarsi, o li avesse 
minacciati di denunziarli ai superiori, allora non ne usciva più vivo dalle loro mani, 
ed il buon Eustazio si commoveva, pensando a quel poveretto d’un Costantino Ceca- 
lesmeno, ricchissimo, che, dopo essere stato sferzato a sangue affinchè rivelasse il 
nascondiglio del suo tesoro, poichè disse che avrebbe raccontato tutto ai Conti, fu 
senz'altro ucciso. 

Questo nel giorno; di notte era poi addirittura impossibile uscire: occorreva 
barricarsi e spegnere i lumi per non attirare l’attenzione delle pattuglie giranti per 
le vie. E le invasioni notturne delle case, anche con queste precauzioni, non erano 
rare; e se gli uni, ubbriachi, si accontentavano di insultare e bastonare i disgraziati, 
altri più petulanti ardivano rapire quella sposa o quella fanciulla che nel giorno 
avesse attirato la loro attenzione (1). 

Vi fu però una parte della cittadinanza che si adattò presto al nuovo stato di 
cose: la feccia della popolazione imitò nelle rapine e nel disordine i Normanni e 
fece peggio; donne del volgo ricevettero in dono abiti preziosi, vesti sacerdotali ed 
a maggiore sguaiataggine e profanazione se ne vestirono; in più di un caso un padre 
offrì la figlia ad un Normanno per averne protezione; altre volte le fanciulle gradi- 
rono gli omaggi di qualche rozzo damo; le unioni matrimoniali non mancarono, più 
spesso libere chè consacrate, per quanto cercasse di opporvisi lo sgomentato Eustazio, 
e nonostante la differenza di civiltà fra ì due popoli (2). 

L'assedio e la presa di Tessalonica, se poco aveva costato in tempo, aveva valso 
ai Normanni una perdita di più di sei mila uomini, fra i caduti in campo, edi soggia- 
ciuti ad una epidemia che tormentava l’esercito (3). Occorreva ora non addormentarsi 
sul trionfo e procedere innanzi con energia e rapidità, per sfruttare il senso di terrore 
destato in Costantinopoli e nelle provincie dalla presa di Tessalonica. 

Lasciato un considerevole presidio in questa città, per evitare possibili attacchi 
alle spalle, l’esercito normanno si avanzò verso Costantinopoli, su due colonne. L’una, 
la più forte, marciò per Bolero e Mosinopoli, diretta verso la capitale, l’altra, pro- 
cedendo più lentamente, occupava Serre ed Anfipoli, saccheggiando la regione: l’as- 
senza di un nemico che contrastasse loro il terreno passo passo, faceva sperare che 
la marcia fino al Bosforo non avrebbe costato maggior fatica di quella da Durazzo 
a Tessalonica, e tutti fidenti, senza disciplina e cautela di sorte, procedevano sac- 
cheggiando (4). 

L’esercito imperiale era sempre immobile ed inerte. Il basileus Giovanni, senza 
pensare a nemici ed a battaglie, se ne rimaneva a Filippopoli, occupato nelle sue 
caccie: gli altri generali condividevano il panico delle milizie e non ardivano avan- 
zarsi. Teodoro Cumno — come fu detto — aveva cercato di muovere incontro al 
nemico, ma' alla vista sola dei Normanni, racconta Niceta, i suoi soldati si erano dati 
alla fuga. Altre forze inviò Andronico con Alessio Brana, ma neanche ora si ebbe 
una vigorosa offensiva. I bizantini si sentivano deboli. Il loro esercito era formato da 


(1) E., 485 e segg.; 491-492; N., 396. 
(2) E., 478. 13, 493. 

(3) E., 504. 

(4) N., 413-414. 


310 FRANCESCO COGNASSO 98 


leve novissimamente raccolte, inesperte di guerra, e si trattava di combattere con la 
terribile cavalleria normanna. La caduta di Tessalonica aumentò la paura nelle file 
bizantine, e quando i Normanni incominciarono la lorò avanzata, gl’imperiali si misero al 
sicuro sulle alture, lasciando scoperta ai nemici tutta la pianura, sicchè non trovando 
resistenza, le due colonne normanne, dopo l'occupazione di Mosinopoli, si riunirono 
per marciare insieme. Accompagnava sempre i duci Normanni Alessio Comneno, che 
eccitandoli ad avanzarsi, giurava e spergiurava che i cittadini della capitale lo avreb- 
bero accolto con entusiasmo pati a quello avuto per il basileus Manuele (1). 

Frattanto, a Costantinopoli, Andronico con grande sollecitudine visitava le mura, 
ordinava riparazioni urgenti e necessarie. Si distrussero molti edifici attigui alle 
mura che avrebbero facilitato gli attacchi nemici (2). Si raccolsero tutte le navi da 
guerra giacenti negli arsenali, si riattarono e si armarono di tutto punto: se ne 
ebbero in tutto cento. La caduta di Tessalonica aveva destato nella cittadinanza dap- 
prima sorpresa, poi dolore e sdegno. Andronico, mentre getta in carcere e condanna 
a morte il fratello e la madre di Davide Comneno, cerca di consolare l’ afflitta 
popolazione, mostrando come già altra volta Tessalonica fosse caduta in potere del 
nemico, e come non vi fosse motivo per disperare del buon esito della guerra ;. pro- 
metteva che ora più che mai vi era speranza di distruggere di un sol colpo l’esercito 
normanno (3). i 

Ma tale freddezza d’animo del basileus irrita i cittadini, le notizie della immo- 
bilità ed inerzia dell’esercito, della presa di Anfipoli, di Mosinopoli, li atterrisce; i 
fuggiaschi dalla Macedonia recano una più viva impressione degli orrori che laggiù 
avvengono: ogni mattino i pacifici borghesi credono di vedere sventolare sullo sfondo 
azzurro del Mar di Marmara, le bandiere della flotta normanna. Il malcontento non 
è più frenato: il rivolgimento dell'anima popolare, già così devota ad Andronico, è 
ora completo. Se prima solo a bassa voce, ora apertamente sì protesta, e nelle offi- 
cine e sui mercati si accusa Andronico di trascurare gli affari dell'impero, di assi- 
stere indifferente alle vittoriose imprese dei nemici (4). 

La freddezza d’animo di Andronico era però più ostentazione per rincorare i 
pavidi cittadini, che una realtà: anche il basileus si trovava in uno stato d’eccita- 
zione assai grave. Egli vedeva che da ogni parte le cose si mettevano per lui vera- 
mente male. I Normanni erano oramai padroni di mezzo Impero e dominavano la 
situazione ; i cittadini imprecavano a lui, si auguravano ad ogni minuto la sua morte, 
ed egli si sentiva solo, e forse rimpiangeva d’aver tolto all'impero il presidio della 
aristocrazia (5). 

Del suo stato d’animo è prova sufficiente il seguente aneddoto. Egli era un 
ammiratore di San Paolo, e le sue lettere egli aveva assunto a modello per la propria 
corrispondenza. Ineredulo, soleva recare doni ed ornamenti ad una antichissima icone 


(1) N., 412 e segg.; 430. 6. 

(2) Dovette appunto ora avvenire la distruzione del Philopathion di S. Giorgio dei Mangani, 
ordinata da Andronico (N. 880. 20). 

(3) N., 414-415; 434; E., 480. 6. 

(4)) Ni, 415. 17. 

(5) N., 416. 11. 


99 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECO. sli 


dell'Apostolo, al Tempio dei Quaranta Martiri. Un giorno — sulla fine del suo regno 
— sì sparse voce che quell'immagine avesse pianto. Andronico inviò tosto il suo fido 
Stefano Agiocristoforite a verificare il portento. Andò questi, salì su di una scala, 
con un panno fece per pulire al ritratto gli occhi, ma questi parevano come due 
fonti. Andronico, quando seppe ciò, pieno d’angoscia, scuotendo tristamente il capo, 
mormorò che egli ben sapeva il motivo del pianto di Paolo: egli amava Paolo, Paolo 
amava lui ed ora l'avvertiva di grave imminente sventura. In preda a terribile 
affanno, volle scrutare nel mistero del suo avvenire, ed incaricò il Logoteta Agio- 
cristoforite di recarsi a consultare il vecchio Seth, ben noto negromante, ed a chie- 
dergli chi sarebbe stato il futuro basileus. Lo stregone, secondo il racconto di Niceta, 
avido di narrare prodigi, rispose tracciando le lettere I ed S, e disse che Andro- 
nico sarebbe caduto, avanti la Festa della Esaltazione della Santa Croce, per opera 
di un Isacco. Andronico pensò ad Isacco Comneno, il tiranno di Cipro, e si beffò 
di questa profezia (1). 

A Stefano Agiocristoforite ed ai suoi compagni non poteva sfuggire quella 
agitazione del popolo, anzi, ne erano impensieriti non poco. Combattere ad un tempo 
i nemici interni e gli esterni era difficile: pericoloso poi, se il nemico avesse potuto, 
avanzandosi sotto le mura della capitale, confidare in alleati segreti ed interni, che 
paralizzassero l’opera del governo e magari si sollevassero nell’ora decisiva. Occor- 
reva provvedere senza indugi: era necessaria molta audacia per schiacciare defini- 
tivamente l'opposizione interna, prima che comparissero i Normanni. I cortigiani 
quindi urgevano il basileus affinchè fossero condannati a morte quanti già si trova- 
vano in carcere. Andronico finalmente vi acconsentì. 

Radunati a consiglio i giudici e tutti i grandi ufficiali dello Stato, l’autocratore 
prese la parola, e con quei gesti tragici ch'egli tanto amava, venne ricordando 
quante malvagità avessero i Normanni compiuto, quanti danni arrecati alle pro- 
vincie occidentali, quante città saccheggiate e desolate, e di tutto questo egli ren- 
deva responsabili i suoi nemici, i quali, non potendo avere aiuto dal popolo, assetati 
del suo sangue, avevano istigato i Normanni, questi nemici tradizionali dell'impero. 

Aggiungeva però Andronico, che non a lungo i suoi nemici avrebbero esultato, 
poichè — ed egli citò qui il detto di San Paolo “non faccio il bene che vorrei, 
faccio il male che non vorrei , — era necessario che essi stessi soffrissero ciò che 
si proponevano di fare soffrire a lui. Conveniva troncare le speranze che i Normanni 
avevano su appoggi segreti nella Capitale, ed egli terminò chiedendo che l'assemblea 
prendesse dei provvedimenti straordinari contro quanti si trovavano in carcere, contro 
1 parenti e gli amici degli esuli. 

Tutti i presenti, gente interessata a non lasciar cader l’attuale regime, ad una 
voce acconsentirono nel desiderio del basileus, e dissero che bisognava contro quei 
malvagi ribelli decretare la pena di morte. Ed il decreto di proscrizione fu imme- 
diatamente steso dal protoasecretis, dal cancelliere, dal protonotario del Dromo. 
Niceta ci conservò il preambolo dell’interessante documento, notevole anche perchè 
i giudici sentenziavano non in nome del basileus, ma di Dio. Dicevano infatti: 


(1) N., 442; 461. 4; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, I, 257. 


312 FRANCESCO COGNASSO 100 


“ Mossi dal volere divino, e non da un decreto del nostro potente e santo signore 
ed imperatore, affermiamo e deliberiamo essere utile sia alla cosa pubblica, sia ad 
Andronico salvatore dei Romani, in particolare, che muoiano quanti, arrestati come 
ribelli e sediziosi, si trovano nelle carceri, e che, di quanti si sono rifugiati all’estero, 
siano arrestati tutti i parenti ed aderenti, i quali tutti pure siano inviati a morte, 
così che sia possibile al basileus Andronico, ora per nostra buona fortuna reggente 
lo scettro imperiale, essere libero da affanni per lo Stato e dalle insidie dei malvagi, 
ed i Siciliani siano costretti a ritirarsi, più nessuno essendovi che li aiuti nelle loro 
male imprese contro i Romani....... » Seguivano quindi le liste dei condannati; per 
ciascuno era specificato il genere di morte assegnatogli. 

Avuto questo decreto, Andronico lo volle far firmare al figlio Manuele, cui aveva 
dato, in cambio della negatagli corona imperiale, la dignità di Sebastocratore, ma 
esso rifiutò, dicendo di non voler approvare con la sua sottoscrizione un atto non 
emanato dal basileus, e così Andronico dovette accontentarsi di porre la sua firma in 
fondo al decreto (1). Prese queste deliberazioni, fidando nell'esercito per i Normanni, 
nei suoi ministri per i nemici interni, Andronico credette di aver assicurata la propria 
posizione, e tranquillo, se ne andò — erano i primi giorni di settembre — alla sua 
diletta villa del Meludion sul Bosforo (2). Stefano Agiocristoforite avrebbe pensato 
lui a dare esecuzione al decreto. Per quanto questo riguardasse assai probabilmente 
solo membri della aristocrazia, nel segreto ufficialmente conservato, le voci vaghe 
ed esagerate, diffondendosi, dovettero agitare vieppiù la popolazione, e ciascuno potè 
temere per sè. 

Su quelle liste di proscrizione vi era pure Isacco Angelo. Soddisfatto di aver 
distrutta la potenza di quella famiglia, Andronico Comneno aveva permesso che 
Isacco abitasse nuovamente nella capitale. Abitava nella casa paterna all’Exokionion 
nel quartiere del Deuteron, presso il monastero del Periblepton. 

La sua casa era il ritrovo di tutti i malcontenti: se dobbiam crederlo, vi veniva 
pure di nascosto il patriarca Basilio Camatero (3). Se presso di lui si andasse 
ordendo qualche congiura, non sappiamo. Nel meriggio dell’11 settembre, con piccolo 
drappello di armati, Stefano Agiocristoforite stesso, lasciò il Grande Palazzo, per la 
Mese risalì in direzione della Porta Aurea, e si presentò dinanzi alla casa di Isacco 
Angelo. Niceta afferma che l'arresto del patrizio era stato deciso dall’Agiocristoforite 
per semplice misura di prudenza. A Palazzo si sarebbe bensì parlato del pericolo che 
quel giovane poteva presentare, ed un giudice del Velo, Giovanni Tira, affezionato fino 
all'eccesso al basileus, perchè gli era debitore del suo ufficio, avrebbe proposto la sua 
condanna a morte; ma Andronico aveva riso, non temendo punto quell'uomo debole 
ed inetto. Però Michele Acominato, ricordando poi in un suo discorso quella tragica 


(1) Credo difficile l’identificazione proposta dal Caaranpoxn (Jean II Comnène ete., pag. 481, n. 5) 
del figlio di Andronico con quel Manuele Comneno, per il quale vedi Caaranpox, op. e loc. cit. 
Del resto, contro il parere del Chalandon, Manuele dovette nascere prima del 1155, inizio della 
prigionia di Andronico. Manuele compare con la dignità di Sebastocratore in E., 429. 18. 

(2) N., 435-436; 448. 12, afferma che e la forma speciale della sentenza suddetta e la richiesta 
ai figli di firmarla furono pensate da Andronico per togliersi la responsabilità di quell’atto: così 
si sarebbe poi difeso quando fu arrestato. 

(3) N., 444. 14; Gesta Henrici II, ed. Stubbs, 1, 257. 


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101 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 313 


giornata, diceva chiaramente che Isacco avrebbe dovuto essere abbacinato, e non è 
dubbio che anch'esso si trovasse sulle liste di proscrizione (1). i 

Stefano Agiocristoforite, adunque, fece annunziare la sua venuta, e dalla via 
intimò ad Isacco di scendere ed arrendersi. Isacco Angelo, compreso il pericolo immi- 
nente, anzichè obbedire, si armò, mentre per ordine del Logoteta i soldati si accinsero 
a sfondare la porta per entrare a fare ricerca del patrizio. Già gli armati si slan- 
ciavano per l'atrio seguiti dall’Agiocristoforite, rimasto a cavallo, quando compare 
sotto l’atrio Isacco, il quale con la spada in pugno si apre la via fra gli armigeri, 
e si getta sul Logoteta. Fa questi per fuggire, ma l’altro lo raggiunge, e con quel 
coraggio e con quella forza che ai deboli dà alle volte la disperazione, gli menò un 
terribile fendente al capo. Cadde il disgraziato a terra, ed Isacco, balzato sul suo 
cavallo, aprendosi la via fra gli armigeri, ancora tutti in preda allo stupore, si slanciò 
al galoppo per le vie della città, sempre tenendo ed agitando la spada insanguinata; 
e mostrandola a quanti incontrava, urlava: “ Ho ucciso Stefano Agiocristoforite! ,. 

Non era però il suo l’aspetto di un Bruto che liberi la patria dal servaggio, 
ma, affannato e spaventato, mentre i cittadini si fermavano sorpresi, sempre urlando 
giungeva a Santa Sofia, dove, per il sacro diritto di asilo, sperava di trovare riparo (2). 

Rapidamente la notizia dell'accaduto si sparse per tutti i quartieri, per tutte le 
vie e i chiassuoli della grande città, penetrò in tutte le case, portando dappertutto 
lo stesso senso di meraviglia. Meraviglia e sorpresa, chè in quelle ore nessuno pensò 
a libertà, nessuno si infiammò delle più belle speranze per l'avvenire, come poi affer- 
mava Michele Acominato. Ed i buoni borghesi, piuttostochè compiacersi dell’assassinio, 
commiserarono il colpevole, poichè credevano che, anzi che il sole del tutto tramon- 
tasse, Isacco avrebbe pagato il fio della sua audacia. Ai parenti di Isacco la notizia 
recò il massimo terrore. Poichè Andronico per assicurarsi meglio della fedeltà dei 
patrizi, li aveva costretti a rendersi mallevadori gli uni degli altri, e la vendetta di 
Andronico avrebbe colpito con Isacco lo zio, il vecchio ed illustre Giovanni Duca Angelo, 
che Andronico non aveva osato fino allora toccare, suo figlio Isacco, ed altri parenti 
e famigliari; anche questi corsero a raggiungere il congiunto in Santa Sofia. 

I popolani intanto cominciavano ad accorrere a Santa Sofia per vedere l’eroe 
della giornata e molti aderivano alle preghiere degli Angelo, di fermarsi nel tempio 
per assisterli ed aiutarli. Ma, fra la maraviglia generale, mentre nuova folla conti- 
muava ad arrivare, non si presentavano nè soldati nè i Varangi, e neppure notizie 
di sorta giungevano dal Palazzo imperiale. Hi 

Quando finalmente corse la notizia essere Andronico non al Grande Palazzo ma 
al Meludion, un senso di liberazione e di soddisfazione si ebbe nel tempio; timidità 
e spavento cedettero luogo alla sicurezza, poi all’audacia. 

Circondato dai parenti, da amici, da molti popolani, Isacco passò tutta la notte 
appiè dell’altare, alla fioca luce di alcune lampade; ancora era tutto spaventato per 
quel suo atto di audacia. Il patriarca Basilio, prudentemente, non intervenne, ma 


(1) N., 443. 1; LamBros, op. cit., I, 225. 

@) N., 445 e segg.; vedi in Lam8ros, op. cit., I, pag. 225 e segg., il panegirico che Eustazio fa 
“ di quel nobile colpo che spezzò le catene della tirannide ,. Credo inutile elencare e riferire tutti 
i racconti confusi, spesso, e guasti che si trovano in molte cronache occidentali. 


Serie HI. Tow. LXIL 40 


314 FRANCESCO COGNASSO 102 


tacitamente acconsentì che tutta quella gente rimanesse in chiesa. Se non Isacco, 
certo i suoi famigliari preparavano la resistenza ed un grande movimento popolare 
per il giorno appresso (1). 

Gli avvenimenti dell’11 settembre mostrano chiaramente quanto fosse debole il 
governo di Andronico: lui assente, ucciso il suo fido ministro, tutto si era arrestato; 
nessuno v'era che prendesse provvedimenti per fronteggiare la situazione. La sera 
stessa però Andronico era al Meludion avvisato di quanto era avvenuto, ma, per 
nulla inquietandosene, invece di ritornare immediatamente e provvedere in persona, 
si accontentò di inviare a Costantinopoli un breve proclama ai cittadini esortandoli 
a non cedere ai sediziosi ed a rimanere calmi. Il mattino del 12 settembre, poichè 
le notizie che giungevano non erano rassicuranti, Andronico si imbarcò, ed evitando 
la città rumorosa, venne a sbarcare al porto del Bucoleon. 

Ma questo ritardo di poche ore gli fu fatale. Il popolo, sulla cui fedeltà egli 
forse sì illudeva, contando su di essa per reprimere la ribellione di pochi patrizi, 
aveva rinnegato decisivamente il suo favorito, ed a frotte, cittadini di ogni classe, 
affluivano a Santa Sofia, armati di corazza e di spada, chi le possedeva, gli altri con 
bastoni, picche, od arnesi da lavoro. Santa Sofia fu ben presto occupata da tutta 
questa folla tumultuante, dove nessuno forse sapeva precisamente quel che si dovesse 
fare. La proposta di detronizzare Andronico e proclamare imperatore in suo luogo 
Isacco Angelo, proposta partita certamente da qualche amico di quest'ultimo, trovò 
rapidamente favore, e sollevò entusiasmo l’idea di restaurare il diritto popolare di 
elezione dell’autocratore, da secoli abbandonato. Ora il movimento popolare aveva 
uno scopo preciso. Uno stuolo di facinorosi assalì le carceri, e ne trasse i prigionieri 
politici, fra i quali molti patrizi, che si unirono senz’altro agli Angelo (2). 

Il successo incontrastato accrebbe dei rivoltosi l’audacia ed il numero, chè i 
timidi, gli incerti incominciarono ad aderire al movimento, spinti dalle sollecitazioni, 
dai rimproveri dei più entusiasti che, a quanti trovavano per via indifferenti e 
disarmati, scagliavano insulti, vituperavano come gente infrollita e corrotta, che non 
sentiva il dovere di unirsi a tutta la cittadinanza contro l’oppressore. 

Mentre per tutta la città si diffondevano i tumulti ed i saccheggi, in Santa Sofia, 
sotto la grande cupola giustinianea, si svolgeva una scena solenne. Il popolo non solo 
aveva acconsentito a proclamare imperatore Isacco Angelo, ma pieno di entusiasmo, 
aveva voluto attuare senza indugio il progetto. Se per prudenza il patriarca non era 
ancora sceso fra il suo popolo, il clero della chiesa già aveva aderito, ed uno dei 
diaconi, salito su di una scala, si affaccendava a staccare la corona di Costantino, 
sospesa sul grande altare. Poscia, sull'ambone si procedette all’incoronazione. 

La scena era solenne, ma gli attori dappoco e spregevoli. 

Isacco, anzichè allietarsi di questo improvviso ed insperato trionfo, trema, vor- 
rebbe rifiutare: egli teme che tutto questo non riesca se non ad irritare maggiormente 
Andronico, ed a rendere più feroce la vendetta. Tale fiducia egli aveva in sè! Il 
vecchio Giovanni Angelo Duca è sdegnato che gli sia anteposto il nipote, ed appro- 


103 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. SI 


fittando delle sue esitanze, sì toglie di capo il cappello, e, presentando al diacono 
che sorregge la corona, la calva testa, l’invita ad incoronare lui. 

Ma il popolo vince con la violenza l’esitanza dell’uno, respinge le pretese del- 
l’altro. Gridano i popolani, per un giorno i veri padroni dell'impero, di essere stufi 
d'obbedire ad un imperatore vecchio ed incapace, sotto il quale lo Stato ha provato 
tanti danni: essi vogliono un principe giovane e forte (1). 

Scende allora la corona a cingere le tempia di Isacco Angelo, e tutto il tempio 
echeggia delle acclamazioni rituali: “ Ad Isacco, grande basileus ed autocratore dei 
Romani, Angelo, molti anni di vita! , Per quanto di mal animo 


anch'egli teme 
ancora Andronico —, viene, sotto la pressione della folla, finalmente il patriarca e 
benedice il nuovo basileus. Isacco è portato in trionfo. Passano presso al tempio in 
quel momento scudieri di corte con dei cavalli: la folla se ne impadronisce; su uno 
di essi vi fan salire il nuovo basileus; fra le acclamazioni si muove il corteo impe- 
riale. Non vi partecipano, no, solenni dignitari sfarzosamente abbigliati, ma solo 
operai fetenti di sudore, in abiti da lavoro: non mai vi era stato in Bisanzio un 
trionfo così sincero e spontaneo. 

Ma la turba non dimentica Andronico. Isacco Angelo deve essere dal popolo, 
dai suoi elettori, installato a Palazzo, ed a Palazzo domina il tiranno. Poichè ora 
Andronico è il “ tiranno ,. Solo vero autocratore è l’eletto del popolo, ogni altro è 
un principe illegittimo, un usurpatore. Ed il popolo, per aprire la via al suo basileus, 
marcia contro il tiranno (2). 

Andronico, appena arrivato, compresa tosto tutta la gravità della situazione, 
aveva atteso alla difesa. Dall’Augusteon salivano i frastuoni della turba: acclamazioni 
ad Isacco, per lui, imprecazioni. I suoi cortigiani si erano, per la massima parte, 
dileguati: a lui pochi soldati, forse i Varangi, rimanevano fedeli, e si preparavano 
a respingere la folla che si addensava alla Porta Carea. Dall'alto della torre del 
Centenarion che rafforzava da questa parte la cerchia delle mura della residenza 
imperiale, Andronico contemplava, triste, la moltitudine. Anch’egli si era armato, ed 
irritato prese a lanciare sui tumultuanti qualche freccia, che contribuì certo solo 
ad aumentare il tumulto e gli sforzi che si facevano per abbattere le porte del 
Palazzo. 

Tentò un ultimo espediente per calmare e placare la moltitudine, e, dall’alto 
della torre, Andronico annunciò che avrebbe abdicato per sè e per il figlio Giovanni, 
a favore dell’altro figlio Manuele, amato assai dal popolo. Ma era troppo tardi. 
L'annuncio fu accolto con urla, cui tennero dietro presto grida di trionfo, e per la 
sfondata porta si precipitò la folla, ebbra di vendetta, nel palazzo. Dalla porta Carea 
e lIppodromo era possibile ai ribelli, per la vasta sala detta dei Trofei e la lunga gal- 
leria di Giustiniano II, limitante a sud tutte le varie costruzioni imperiali, il rendersi 
rapidamente padroni dei vari palazzi che costituivano l'immensa residenza del basileus. 
La torre del Centenarion era a poca distanza, situata fra l’Ippodromo e gli Seyla, 


(1) Su Isacco II Angelo ed il suo regno, mi permetto di annunciare un mio lavoro, di prossima 


pubblicazione, seguito al presente studio. 
(2) N., 450. 14 


316 FRANCESCO COGNASSO 104 


sicchè ad Andronico non era possibile indugiare più a lungo (1). La sua calma, la sua 
freddezza d’animo era oramai esaurita; si toglie i rossi calzari, buttasi in capo il 
cappello di un suo mercenario, si strappa dal collo la croce che soleva portare, ed 
abbandonati a sè i Varangi ed i pochi fedeli, attraversa di corsa i palazzi ed i 
giardini, giunge al porto del Bucoleon, tosto partendone sulla stessa nave che poche 
ore prima lo aveva colà condotto. Ritornò al Meludion; quivi tolse con sè la giovane 
sposa, Agnese, e Mareptica, una flautista, umile ma gradita amica, e poi ripartì per 
il Mar Nero (2). 

Abbandonava Costantinopoli tumultuante ed andava verso l'ignoto, verso una 
nuova vita avventurosa, chiusasi solo ora la sua più grande avventura : i due anni 
d’impero. 

Il popolo aveva vinto. Quando poco dopo, il nuovo basileus entrò nel Grande 
Palazzo ed andò al Crysotriclinion a prendere possesso del trono, ben dovette accor- 
gersi che avanti a lui già era passato il vero trionfatore, il popolo, e che era passato 
per il palazzo come una bufera devastatrice. L’ingente tesoro accumulato da Andronico, 
cioè dodici centenari d’oro, trenta d’argento, duecento di bronzo, era scomparso: i 
depositi di armi, saccheggiati. Isacco, dopo pochi giorni, si recò ad abitare alle 
Blacherne (3). 

Colà lo raggiunse la notizia che Andronico Comneno, sulle cui traccie aveva tosto 
inviato suoi messi, era stato raggiunto ed arrestato a Chelai (4). Quivi, infatti, si era 
recato dal Meludion, sul lento dromone imperiale, ed agli abitanti aveva ordinato 
di allestirgli una nave veloce. Intendeva egli recarsi in Russia, dove altra volta — 
venti anni prima — aveva trovato ottima accoglienza. Sbigottiti, quegli abitanti 
avevano obbedito — tanta era la forza dell’abitudine! — e, senza indugio, Andronico 
era ripartito per il Nord con le donne e qualche servo. Ma una burrasca nuova- 
mente lo ricaccia all’imboccatura del Bosforo, a Chelai, dove i satelliti di Isacco II lo 
arrestano, e l’ex-imperatore riprende, carico di catene, la via della capitale, lamen- 
tando il suo triste destino, paragonando il picciol stato presente alla nobiltà dei suoi 
natali, alla gloria delle sue imprese. 

Ai suoi lamenti facevano eco quelle due strane figure femminili, le ultime con- 
solatrici del vegliardo possente: una figlia di re, sposa di imperatori, ed una suona- 
trice di flauto. 

Andronico giacque incatenato nel castello di Anema sul Bosforo; tradotto dinanzi 
ad Isacco, ebbe umiliazioni, insulti, percosse: tutto sopportò. Recisagli la mano destra, 
accecato d’un occhio, ferito di mille ferite, trasportato per tutta Costantinopoli, 
ludibrio del volgo, sul dorso di un cammello, finì la sua vita meravigliosa nell’ Ip- 
podromo, sospeso per i piedi a due colonne (vicino al famoso gruppo di bronzo della 
lupa e della iena azzuffantisi), dopo avere eroicamente resistito a nuove crudeli ed 


(1) Sulla topografia del luogo vedi EsersoLr, op. cit., pag. 156. 

(2) N., 451-453. 

(3) N., 453. 

(4) È l’attuale Kitscheli liman, sulla riva d'Asia, non lungi dall'entrata nord del Bosforo. 


105 PARTITI POLITICI E LOTTE DINASTICHE IN BISANZIO, ECC. 317 


odiose torture. I suoi martirizzatori e carnefici non riuscirono a strappargli un 
lamento. Tanto era ad essi superiore (1). 

Giacque il suo corpo, lacerato ed abbandonato, per più giorni, in un androne 
dell’Ippodromo: poscia, pietose mani lo recarono in un luogo appartato, poco lungi 
dai bagni dello Zeusippo, presso il monastero dell’Eforo: Isacco Angelo proibì che 
i resti di Andronico ricevessero sepoltura alcuna (2). 


(1) Vedi il racconto minuto della morte di Andronico in Drert, op. cit., pag. 130. 

(2) N., 453-458. Dell’impressione esercitata da Andronico sulla mente popolare, sono prova quei 
due o tre epigrammi riferiti da Niceta, e quel cosidetto Figlio di Andronico, in LeGrAND, Coll. de 
Mon., n. s.1(1874), 186-190 (cfr. K. KruxBacHER, op. cit., pag. 832, e la bibliografia ivi citata); cfr. 
ancora due monodie per la morte di Andronico, una di un codice barocciano, per la quale vedi 
Kart KeUMBACHER, Op. cit., pag. 466, e l'altra di un codice parigino, per la quale vedi pure K. Krux- 
BACHER, Op. cit., pag. 527. 


V° Si stampi: 


PaoLo BoseLti, Presidente. 


CorrADO SEGRE 


Segretario della Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali. 


GarTtANO DE SANCTIS 


Segretario della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. 


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