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Full text of "Memorie storiche forogiuliesi"

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SOCIETÀ  STORICA 
FRIULANA 


MEMORIE  STORICHE 

FOROGIULIESI 

GIORNALE 

DELLA 

SOCIETÀ  STORICA  FRIULANA 

ANNOXL  ^,^^    ^^ 


UDINE 


SEDE   DELLA   SOCIETÀ 

PALAZZO    BARTOLINI 
I915 


La  proprietà  letteraria  è  riservata 
agli  autori  dei  singoli  scritti. 


F^sM^    1121115 
V.  iì-iJf 


Le  elezioni  dei  patriarchi  aquileiesi. 

L'argomento  della  provvisione  delle  sedi  vescovili  trattato, 
fuori  d'Italia,  in  molti  lavori  generali  e  speciali,  è  stato  alquanto 
trascurato  dai  nostri  studiosi  ;  la  ragione  di  questo  fatto  è  facile 
a  scoprirsi  quando  si  pensi  che,  mentre  nei  vescovadi  d'oltralpe 
è  rimasto  ancora  in  vigore,  in  molti  casi,  il  diritto  d'elezione  ca- 
pitolare (o  canonica),  invece  nelle  sedi  italiane  vale,  come  regola 
generale,  la  provvisione  per  parte  della  sede  pontificia.  Ciò  toglie, 
naturalmente,  all'argomento  un  valore  diretto  per  la  pratica:  tut- 
tavia esso  non  deve,  per  questo,  essere  trascurato,  perchè  offre 
grande  interesse  storico  e  nel  tempo  stesso  non  manca  d'importanti 
riferimenti  ad  opinioni  e  a  dibattiti  del  mondo  moderno.  ^  Mi  li- 
miterò a  disegnare,  in  queste  brevi  pagine,  a  grandi  linee,  le  vi- 
cende del  sistema  elettivo  nella  sede  aquileiese,  una  delle  più 
importanti,  senza  dubbio,  della  penisola, 

L'argomento  è  reso  difficile  dalla  scarsezza  delle  fonti,  in 
special  modo  per  il  periodo  più  antico,  e  questa  scarsezza  si 
estende  a  tutta  la  storia  primitiva  della  chiesa  aquileiese  che   si 

1  Ved.  per  dò  le  istruzioni  del  conte  di  Cavour  dirette  ad  ottenere  il  ristabili- 
mento  dell'elezione  canonica,  nelle  trattative  per  un  accordo  colla  santa  Sede  avvenute 
nel  1861,  in  Artom,  L'opera  politica  del  senatore  I.  Artom  nel  risorgimento  italiano, 
Bologna,  1906,  I,  181,  e  la  nota  di  F.  Ruffini,  nel  Diritto  ecclesiastico  di  Emilio 
Friedbero,  p.  494  e  Scaduto,  Guarentigie  ecclesiastiche,  Torino,  1889,  p.  415  sg. 
nonché  le  discussioni  avvenute  sulla  legge  delle  guarentigie  nel  Parlamento  italiano  ; 
ved.  ora  Falco,  La  politica  ecclesiastica  della  Destra,  Torino,  1914,  p.  27  sg. 


2  PIETRO   SILVER \0    LEICHT 

deve  ricostruire  in  gran  parte  con  ipotesi.  '  Di  certo  sappiamo 
soltanto  che  nel  VI  secolo  i  vescovi  di  Milano  e  di  Aquileia,  i 
due  metropoliti  dell'Italia  superiore,  si  consacravano  a  vicenda 
per  antica  consuetudine.  -  Quanto  alla  elezione,  dobbiamo  ricor- 
rere alle  fonti  generali  e  ritenere  che  essa  avvenisse,  come  nelle 
altri  sedi,  per  opera  del  clero  e  del  popolo:  trattandosi  di  un 
metropolita,  bisogna  aggiungervi  i  vescovi  suffraganei.^  Dal  con- 
testo della  lettera  di  papa  Pelagio  relativa  alla  mutua  consacra- 
zione dei  metropoliti  di  Milano  e  d'Aquileia  si  può  dedurre  che 
ognun  di  questi  presiedesse  a  vicenda  l'elezione  dell'altro,  con- 
trollando, in  pari  tempo,  la  promovibilità  dell'eletto,  funzioni 
queste  che,  nel  caso  d'elezione  d' un  semplice  vescovo,  spettano 
agli  altri  vescovi  limitrofi  che  presiedono  all'elezione  e  poi  com- 
piono la  consacrazione.^  È  però  questa  una  consuetudine  singo- 
lare delle  due  sedi  d'Aquileia  e  di  Milano;  per  gli  ahri  metro- 
politi provvedono  alla  consacrazione  i  vescovi  suffraganeil 

L'elezione  di  tutti  i  vescovi  dell'Impero  era  pur  soggetta 
all'approvazione  imperiale.  ^ 

La  venuta  dei  Langobardi  non  portò  alcun  mutamento  a 
questo  stato  di  cose,  eccezion  fatta  per  la  mutua  consacrazione 
dei  due  metropoliti,  di  Milano  e  d'Aquileia,  che  cadde  in  disuso 
probabilmente  collo  scisma  che  distaccò  quest'ultima  sede  dalle 
altre  dell'Italia  superiore.''  Quanto  al  modo  d'elezione  del  pa- 
triarca possiamo  desumere  alcune  notizie  positive  dagli  atti  del 
concilio  di  Mantova,*  il  quale  avviene  bensì,  nell'età  franca, 
ma  si  richiama  continuamente  ai  precedenti  dell'epoca  langobarda. 
Così  il  patriarca  Massenzio  attacca  l'elezione  del  patriarca  gradese 
Candidiano  perchè  questi  non  fu  eletto  col  consenso  dei  vescovi 

»  Su  questo  periodo  ved.,  oltre  agli  scrittori  antichi,  Raschini,  La  chiesa  d'Aqui- 
leia ed  il  periodo  delle  origini,  Udine,  1909. 

«  Su  questo  punto  ved.  l'importante  opera  del  Palladini,  Della  elezione  degli 
arcivescovi  di  Milano,  Milano,  1834,  p.  28,  ed  anche  Raschini,  Le  vicende  politiche  e 
religiose  del  territorio  friulano  da  Costantino  a  Carlo  Magno,  estr.  dalle  Memorie 
Storiche  Forogiuliesi,  voli.  VII,  Vili,  IX,  1911-1913,  p.  73,  e  Savio,  Gli  antichi  ve- 
scovi d'Italia  :  La  Lombardia,  Firenze,  1913,  p.  186. 

'  LOENiNG,  Geschichte  des  deutschen  Kirchenrechts ,  Strassburg,  1898,  I,  110. 

*  LOENINO,   Op.   Cit.,   I,   110. 

^'  Così,  ad  esempio,  ved.  il  privilegio  dell'imperatore  Costante  II  (a.  666)  alla 
Chiesa  ravennate,  in  M.  G.  H.:  SS.  Rerum  Langob.,  p.  350,  n.  7:  «  . .  .  sicuti  reliqui 
«  metropolitae  per  diversas  reipublicae  manentes  provincias  qui  et  a  propriis  conse- 
«  cratus  episcopis,  utens  videlicet  et  decore  palli,  sicut  nostre  divinitatis  sanctione  . . . 
«  praelargitum  est...  ». 

•  HiNSCHius,  System  des  katholiscften  Kirchenrechts,  Berlin,  1878,  lì,  513. 
'  Palladini,  op.  cit.,  p.  36  e  Savio,  op.  cit.,  p.  252. 

«  M.  G.  H.:  Coiuilii  aevi  Karolini,  to.  I,  par.  II,  pp,  583-589. 


LE    ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI    AQUILEIESl  3 

comprovinciali,'  e  l'elezione  non  avvenne  in  Aquileia,  ma  in  una 
pieve  della  diocesi.  11  consenso  dei  suffraganei  doveva  dunque 
confortare  la  scelta  fatta  dal  clero  e  dal  popolo,  che  rimane  sem- 
pre l'elemento  fondamentale  2.  Le  parole  di  Massenzio  ci  fanno 
comprendere  come,  malgrado  lo  stato  d'abbandono  in  cui  si  trovava 
l'antica  metropoli  Aquileia,  le  elezioni  dovessero  seguire  però, 
sempre,  nelle  sue  mura,  anche  se  poi  il  patriarca  risiedeva  altrove. 
Nell'ordinazione  interviene,  come  nell'età  romana,  il  potere  pub- 
blico. 

Nei  primi  tempi,  quando  i  duchi  conservano  ancora  un  no- 
tevole grado  d'autonomia  di  fronte  al  re,  l'elezione  è  soggetta 
alla  conferma  d'ambedue,  più  tardi,  invece,  si  parla  soltanto  del 
consenso  del  re.  ^ 

Il  cronaco  gradese  afferma  addirittura  che  il  duca  Gisulfo, 
ai  tempi  di  Agilulfo  «  ordinavit  lohannem  abbatem  in  quo  tres 
«  episcopi  consenserunt  »  ;  ordinare  è  lo  stesso  termine  adoperato 
da  Gregorio  Magno  a  proposito  del  patriarca  costantinopolitano, 
il  quale  veniva  senz'altro  nominato  dall'  imperatore  d'Oriente.  ^ 
A  questa  narrazione  non  corrisponde,  veramente,  il  testo  di  Paolo 
Diacono,  il  quale  parla  soltanto  del  consenso  del  re  e  del  duca; 
nondimeno  è  facile  supporre  che,  come  accadde  a  Milano  susci- 
tando le  vivaci  proteste  del  pontefice  e  seguendo  l'esempio  bi- 
zantino,^ il  potere  pubblico  non  si  limitasse  a  sanzionare  l'elezione 
liberamente  avvenuta,  ma  influisse  invece  sull'elezione  stessa 
suggerendo  o  meglio  imponendo  il  candidato.®  Vordinare  va 
inteso  dunque  qui  come  l'assenso  dell'autorità  superiore  all'ele- 
zione che  dà  valore  definitivo  alla  nomina  del  vescovo.  La  con- 
secratio  dovette  seguire  nei  tempi  langobardi  per  opera  dei  ve- 

1  Fonti  deWIstituta  Storico  Italiano:  Cronache   Veneziane  antichissime,  Roma 

^ 

1890,  p.  50:  «  sub  cuius  tempore  per  consensum  Agilulfi  reg^s  Langobardorum,  Gisul- 
«  fus  dux  per  forciam  episcopum  in  Foroiulio  ordinavit  lohannem  abbatem,  in  quo 
«tres  episcopi  consenserunt,  Deo  sibi  contrario,  et  eum  consacraverunt  ». 

«  Palladini,  op.  cit.,  p.  39.  Ved.  a  questo  proposito  la  dichiarazione  del  pa- 
triarca Massenzio  nel  concilio  di  Mantova  relativa  alla  elezione  del  vescovo  di  Pola. 

3  Giovanni  è  ordinato  «  consensu  Regis  (Agilulfi)  et  Gisulfi  Ducis  »  ;  al  tempo 
del  re  Liutprando,  «  Calisto  adnitente  Liutprando  principe  Aquileiensem  ecclesiam  su- 
«scepit  regendam»:  Pauli  Diaconi///*^.  Langobardorum,  IV,  32  e  VI,  45;  ved.  sul 
proposito    Tamassia,  Langobardi,  Franchi  e  Chiesa  Romana,  Bologna,  1888,  p.  97. 

■*  HiNSCHius,  op.  cit.,  II,  513  e  specialmente  Greoori  Magni  Ep.,  VII,  6  ;  il 
pontefice  parla  délVordinatio  di  Ciriaco  patriarca  costantinopolitano  fatta  dall'impe- 
ratore Maurizio  :  «  non  enim  parvae  potuit  esse  mercedis  quod,  lohannes  sanctae  me- 
«  morie  de  hac  luce  subtracto,  ad  ordinandum  sacerdotem  pietas  vestra  diu  hesìtavit  ». 

5  Ved.  in  special  modo  il  passo  di  Agnello  Ravennate  relativo  alla  nomina  dì 
Massimiano. 

6  Palladini,  op.  cit.,  p.  39. 


4  PfETRO   SILVERIO    LEICHT 

scovi  suffragane!.*  Quanto  al  pontefice,  qualunque  sia  la  sua 
azione  nella  nomina  dei  vescovi  italiani,'  è  certo  che  fino  ai 
tempi  del  re  Cuniberto,  cioè  sino  alla  cessazione  dello  scisma 
aquileiese,  sul  finire  del  secolo  VII,  la  sedia  romana  non  potè 
aver  modo  d'intervenire  nelle  elezioni  dei  patriarchi.  Nell'età 
successiva  s'aprì  la  via  ad  una  tale  ingerenza  con  la  concessione 
del  pallio  metropolitico  che  Sereno  ricevette,  per  il  primo,  dal 
pontefice  Gregorio  II,  dietro  preghiera  di  re  Liutprando.'  Ma  di 
ciò  si  vedrà  in  seguito. 

11  periodo  franco  si  apre  con  un  documento  del  più  alto 
interesse  per  il  nostro  argomento:  il  diploma  rilasciato  da  Carlo 
Magno  al  patriarca  Paolino  nel  792,  nel  quale  il  patriarca  gli 
chiede  «  ut  quando  quidem  divina  vocatione  ipse  de  hac  luce  ad 
«  Dominum  migraverit,  qualem  meliorem  et  digniorem  ipsa  sancta 
«  congregatio,  quae  ibidem  sub  sancto  ordine  degere  videbitur, 
«  infra  se  nobis  filioque  nostro  Pippino  regi  et  omni  genti  nostre 
«  per  omnia  fidelem  aptumque  et  congruum  voluerit  ex  permissa 
«  indulgentia  nostra,  salva  principali  potestate  nostra,  sicut  et  in 
«  ceteris  ecclesiis  secundum  canonicam  auctoritatem  licentiam  ha- 
«  beant  super  se  eligendi  pastorem  ».* 

Come  il  Weise  ha  giustamente  osservato,  la  frase  :  sicat  in 
ceteris  ecclesiis  dimostra  che  qui  non  ci  troviamo  di  fronte  ad  un 
privilegio  eccezionale,  ma  soltanto  ad  una  conferma  del  diritto 
comune  alle  chiese  del  regno  langobardo,  conservato  dagli  im- 
peratori franchi  ;  ■'  del  resto,  il  successore  di  Carlo,  Ludovico  il 
Pio,  nel  capitulare  eccleslasticum  deir818-9,  riconobbe  a  tutte  le 
chiese  dell'impero  il  diritto  della  elezione  canonica.^ 

1  Palladini,  op.  cit.»  p.  48. 

«  Per  questa  ingerenza  vedasi  Palladini,  op.  cit.,  p.  49,  n.  3. 

3  Paschini,  op.  cit.,  p.  137. 

*  M.  a.  //..-  Diploin.  Karol.,  I,  n.  714,  a.  792. 

5  Weise,  Kónigthuni  und  Bisclwfswahl  iin  frdnkischen  und  deutsdien  Reich  vor 
dent  Investii utstreity  Berlin,  1912,  p.  13;  non  mi  par  esatta,  quindi,  l'asserzione  di 
G.  SCHWARTZ,  Die  BesetzuHg  der  Bistiimer  Reichsitaliens  iinter  dea  sàc/isischen  und 
salischen  Kaisern  ecc.,  Leipzig,  1913,  p.  14,  il  quale  ritiene  che  l'elezione  canonica 
sia  stata  concessa  da  Carlo  ad  Aquileia  (la  stessa  asserzione  già  in  1 9.kyB.nst^Corrado 
duca  di  Slesia  fu  veramente  patriarca  d' Aquileia  ?,  nel  Bullettino  della  aalioteca  e 
del  Museo  Civico  di  Udine,  ivi,  1910,  IV,  3,  p.  134).  11  diploma  carolingio  proviene 
certamente  dal  fatto  che  Carlo  s'ingerì  fortemente  nell'elezione  di  Paolino  e  questi 
volle  salvaguardata  la  libertà  della  sua  chiesa  dall'influenza  di  questo  precedente  giu- 
stificato, del  resto,  dallo  stato  eccezionale  in  cui  si  trovava  allora  il  Friuli,  dove  la 
ribellione  del  duca  Rotgaudo  contro  i  Franchi  era  stata  appena  domata. 

•  Non  so  perchè  il  Weise  voglia  fare  un'eccezione  per  l'Italia,  mentre  egli  stesso 
(p.  13,  n.  1)  osserva  che  anche  in  questo  regno  l'elezione  canonica  dovette  costituire 
la  regola,  come  si  ritrae  dal  capitolare  di  Pipino.  Come  ammettere  che  un  peggiora- 
mento sia  avvenuto  sotto  la  dominazione  di  Ludovico,  autore  del  Cap.  EccL? 


LE    ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI   AQUILEIESI  5 

Il  diploma  del  792  ci  parla  soltanto  della  «  sacra  congregati© 
«  quae  ibidem  (cioè  in  Aquileia)  sub  sancto  ordine  degere  vi- 
«  debitur  »  :  che  si  deve  intendere  indicato  con  tali  parole  ?  La 
s^ncta  vita  non  è  altro,  evidentemente,  che  la  vita  in  comune, 
la  canonica  vita,  che  il  clero  cittadino  conduceva,  in  molti  luoghi, 
ad  imitazione  delle  corporazioni  monastiche.*  Dobbiamo  ritenere 
perciò  che,  ai  tempi  del  patriarca  Paolino,  il  diritto  d'elezione 
fosse  già  ristretto  al  solo  clero  aquileiese  ?  ^  La  questione,  come 
si  vede,  è  duplice:  che,  ad  intendere  in  stretto  senso  le  parole 
della  petitio  del  santo  patriarca,  bisognerebbe  ammettere  l'esclu- 
sione dall'elezione  non  soltanto  dei  laici,  ma  anche  dei  suffra- 
ganeì.  Ora  tutto  ciò  offre  gravissime  difficoltà.  Abbiamo  già  ac- 
cennato, infatti,  come  il  sinodo  di  Mantova  tenuto  da  Massenzio, 
uno  dei  più  prossimi  successori  di  Paolino,  ci  sveli  ampia- 
mente il  sistema  d'elezione  in  uso  nel  territorio  ecclesiastico  aqui- 
leiese. Ivi  si  parla  del  consenso  dei  suffraganei,  a  proposito 
dell'elezione  patriarcale,  ed  a  proposito  di  quella  di  un  vescovo 
sì  ricorda  1'  «  universo  clero  et  cuncto  populo  »  dal  quale  eran 
stati  spediti  messi  al  metropolita  per  ottenere  l'ordinazione  del- 
l'eletto. D'altronde  il  sistema  corrisponde  appieno  a  quello  in 
uso  in  tutto  l'impero  carolingio;  il  capitolare  deir818-819  ordina 
infatti,  «  ut  episcopi  per  electionem  cleri  et  populi,  secundum 
«  statuta  canonum  de  propria  diocesi,  remota  personarum  et 
«  munerum  acceptione,  ob  vitae  meritum  et  sapientiae  donum 
«  eligantur  »,  e  le  testimonianze  contemporanee  sono  interamente 
concordi.  ^ 

D'ahra  parte  l'imperatore  Carlo  il  Grosso  confermando  nel- 
l'anno 879  il  diploma  di  Carlo  Magno,  ci  attesta  egli  stesso  che 
l'intervento  del  popolo  continuava  regolarmente,  giacché  concede 
che  «  memoratae  civitatis  clerus  ac  populi  licentiam  habeant  se- 
«  cundum  canonicam  institutionem  eligendi  pastorem  » . 

Dobbiamo  perciò  ritenere  che  la  frase  del  diploma  del  792, 
indicando  la  parte  più  cospicua  degli  elettori,  cioè  il  clero,  non 
escluda  il  popolo;  tutt'al  più  sì  può  pensare  che  Paolino  nella 
petitio  segua  le  orme  di  tanti  padri  della  Chiesa,  suoi  predecessori, 
i  quali  nei  loro  scritti  cercarono  di  mostrare  che  la  posizione  dei 

1  HiNSCHJUS,  op.  cit.,  p.  49.  Si  noti  che  un  tale  uso  s'era  diffuso  largamente  in 
Francia  nel  secolo  Vili  :  lo  avrà  portato  di  là  il  patriarca  Paolino  ? 

2  II  Tassini,  Questione  storico-giuridica  del  patriarcato  di  Venezia,  Genova, 
1906,  p.  56,  crede,  al  contrario,  che  il  diritto  d'intervento  all'elezione  patriarcale  sia  stato 
esteso  al  popolo  dal  diploma  di  Carlo  il  Grosso  dell'879. 

8  Palladini,  op.  cit.,  p.  63. 


6  PIETRO   SILVERIO    LEICHT 

laici  nella  elezione  canonica  doveva  essere  affatto  secondaria  dì 
fronte  a  quella  de!  clero.* 

Rimane  però  ancora  un  problema;  i  due  diplomi  parlano 
sempre  della  civitas  Aqulleia:  dobbiamo  ritenere  che  il  diritto 
d'elezione  sìa  ristretto,  in  questo  tempo,  al  clero  e  al  popolo 
aquileìese,  oppure  che  ad  esso  partecipi  ancora  tutta  la  diocesi  ? 
Quest'ultima  ipotesi  mi  sembra  più  probabile  per  motivi  d'indole 
generale  e  particolare.  Anzitutto  Aquileia  non  è,  ormai,  una  città  ma 
un  povero  villaggio,  ed  il  patriarca  non  vi  tiene  da  gran  tempo 
la  sua  residenza  che  da  Calisto  è  passata  a  Cividale.  Quest'ul- 
tima fu  anche  scelta  dal  patriarca  Paolino  come  sede  del  concilio 
del  796  malgrado  che  i  canoni  indicassero,  come  tale,  Aquileia.* 
Dato  tutto  ciò,  mi  pare  poco  probabile  che  a  favore  dì  quest'ul- 
tima potesse  manifestarsi  quel  processo  per  il  quale  il  clero  ed 
il  popolo  della  capitale  diocesana  vengono  un  po'  per  volta  ad 
escludere  il  territorio  dai  diritti  d'elezione.  Oltre  a  ciò  bisogna 
ricordare  che  la  diocesi  aquileìese  fu,  tra  le  italiane,  una  dì  quelle 
che  per  la  lunga  separazione  dovuta  allo  scisma  e  per  la  lonta- 
nanza da  Roma  più  a  lungo  conservarono  le  antiche  forme:  lo 
dimostra  il  prolungato  uso  del  proprio  rito.  Ora  mi  pare  molto 
probabile,  anche  per  questo,  che  essa  dovesse  conservare  meglio 
d'ogni  altra  quell'antico  procedimento  d'elezione,  di  cui  pure  in 
varie  diocesi  si  notano  tracce  ancora  nei  secoli  XH  e  Xlll.^  Quanto 
al  popolo,  una  prova  assoluta  del  fatto  che  mai  il  diritto  d'in- 
tervento fu  ristretto  ai  soli  cittadini  aquileiesi  sì  può  vedere  in 
ciò  che  più  tardi  tale  diritto  spetta  ai  nobili  e  ministeriali  della 
chiesa  aquileìese,  cioè  ai  malores  terrae  di  tutto  il  territorio  friu- 
lano. ^ 

I  rinnovati  privilegi  dei  Carolingi  alla  sede  aquileìese  ci  di- 
mostrano che  in  questo  periodo  rimase  inalterato  il  principio  del- 

1  Imbart  Dh  LA  Tour,  Les  élecHons  épiscopales  dans  l'église  de  Fratice  da  IX' 
<iH  XII*  siede,  Paris,  1891,  p.  11   sg. 

*  M.  G.  ti.:  Concilia  aevi  Karol.,  I,  par.  I,  p.  177. 

»  Cappelletti,  Chiese  d'Italia,  Venezia,  1844,  H,  497,  riporta  la  petitio  diretta 
nel  1163  dal  clero  e  dal  popolo  di  Sarsina  all'arcivescovo  di  Ravenna  per  chiedere  l'or- 
dinazione del  vescovo  :  la  firmano  l'arcidiacono,  sedici  fra  preti  e  suddiaconi ,  un  abate 
e  sei  arcipreti  ;  a  Como  nel  sec.  XI  il  diritto  di  elezione  spettava  al  capitolo,  a  tre 
abati  ed  ai  dodici  cappellani  curati  della  città:  ved.  Tatti,  Annali  della  città  di  Como, 
Milano,  1863,  p.  201  ;  per  la  Francia  ved.  Palladini,  op.  cit.,  p.  225,  il  passo  di 
Incmaro  relativo  ad  un'elezione  nella  diocesi  di  Cambrai  :  «  quae  electio  non  tantum 
«a  civitatis  clericis  erit  agenda:  et  de  omnibus  monasteriis  ipsius  parochiae,  et  de  ru- 
«  sticarum  parochiarum  arbitriis  occurrant  vicarii  commorantlum  secum  concordia  vota 
«  ferentes  >.  Ved.  anche  Tomassini,  Nov.  et  Vet.  Eccl.  DiscipL,  par.  Il,  1.  2,  e.  22,  n.  3. 

•♦  Ved.  su  ciò  la  «.  1  a  p.  16. 


LE    ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI    AQUILEIESI  7 

l'elezione  canonica.  *  Un  solo  caso  sembra  doversi  eccettuare,  cioè 
l'elezione  di  Paolino  che  dalle  parole  del  monaco  di  S.  Gallo  ap- 
pare nominato  direttamente  da  Carlo  Magno.  11  cronista  racconta 
infatti  che  l'imperatore,  saputo  che  al  patriarca  Sigualdo  rimaneva 
ormai  poco  spazio  di  vita,  rimase  in  Friuli  «  donec,  episcopo 
«[Sigualdo]  decedente,  dignum  ei  successorem  substitueret ».*  Le 
parole  sono  troppo  chiare  perchè  si  debba  discuterne  il  significato: 
davanti  a  questa  attestazione,  il  diploma  del  792  che  garantisce 
alla  chiesa  aquileiese  la  libera  elezione  appare  come  una  assicu- 
razione che  l'indebita  ingerenza  imperiale  non  si  sarebbe  più  ve- 
rificata; d'altronde  essa  fu  giustificata  probabilmente  dalla  ribel- 
lione del  Friuli  contro  il  governo  franco  appena  sedata. 

Se  dopo  quel  tempo  i  Carolingi  non  esercitarono  un  diritto 
di  nomina  della  sedia  aquileiese,  dovettero  però  mantenere  sal- 
damente le  altre  loro  prerogative  come  risulta  dalle  stesse  pa- 
role del  diploma  di  Carlo  Magno  :  «  salva  principali  nostra  po- 
«  testate  » .  Questa  «  principalis  potestas  »  si  esplicava  nell'appro- 
vazione che  l'imperatore  doveva  dare  all'elezione  del  nuovo 
patriarca,  senza  di  che  esso  non  poteva  essere  consacrato  dai 
vescovi  suffraganei.^  Naturalmente  oltre  a  questa  ingerenza  le- 
gale nella  provvisione  della  sede,  era  facile  all'autorità  imperiale 
di  esercitare  la  sua  influenza  sull'elezione  stessa,  proponendo  il 
candidato:  non  abbiamo,  però,  memorie  positive  di  un  tale  pro- 
cedimento, quanto  ad  Aquileia. 

A  questa  prestazione  dell'assenso  regio  segue  il  giuramento 
di  fedeltà  del  nuovo  eletto  al  sovrano.* 

Il  periodo  tempestoso  che  segue  lo  spegnersi  della  dinastia 
carolingia,  porta  con  sé  i  più  gravi  arbitri  dei  sovrani  che  a  volta 
a  volta  riuscivano  con  la  violenza  a  impossessarsi  del  trono  ita- 
V^o.  Divenuti  i  vescovi  nel  contempo  potenti  signori  temporali 
p^èr  le  ricche  concessioni  di  terre  e  diritti  giurisdizionali  ricevute 

1  GallandI,  BibL  Veterani  Putrum,  VenetiJs,  1779,  to.  XIII,  p.  591,  riporta  il 
«  liber  de  electionibus  episcoporum  »  di  Floro  del  sec.  IX,  dove  questi  protesta  contro 
4'uso invalso  in  molti  regni:  «  ut  consultu  principis  ordinatio  fieret  episcopalis  >.  Quanto 
alle  vicende  di  questa  elezione  regia  ved.  Imbart,  op.  cit.,  p.  78  sg. 

*  De  Rubeis,  Monumenta  Ecclesiae  Aquileiensis,  Argentinae,  1740,  col.  537. 

3  PivANO,  Stato  e  chiesa  da  Berengario  ad  Arduino,  Torino,  1908,  p.  34  e  Waitz, 
Deutsche  Verfassungsgeschichte,  Kiel,  1876,  VII,  273.  Quanto  alla  consacrazione  dei 
suffragane!,  ved.  ciò  che  accade  a  Milano,  in  Palladini,  op.  cit.,  p.  180. 

■*  Per  questo  giuramento,  ved.  in  generale  Waitz,  op.  cit.,  VI,  389,  n.  5,  e  per 
il  territorio  aquileiese  in  particolare,  ved.  il  concilio  di  Mantova  già  cit.,  nel  qaaltf 
il  patriarca  Massenzio  parla  dei  vescovi  istriani  che  si  lagnavano  di  dovere,  a  causa 
della  guerra  tra  i  Franchi  e  Bisanzio,  prestar  giuramento  ora  at  Carolingi  ed  ora  agli 
imperatori  greci. 


8  PIETRO   SILVERIO    LEICHT 

da  sovrani  e  da  privati,  si  comprende  come  fosse  necessario  ai 
vari  re  far  sì  che   le  sedi   vescovili  più  importanti  venissero  in 
possesso  di  lor  partigiani.  Non  abbiamo  notizie  particolari  rela- 
tive ad  Aquileia,  ma  sappiamo  che,  per  esempio,  Ugo  provvide 
di  proprio  arbitrio  alla  sede  di  Verona  concedendo  quel  vesco- 
vado al  suo  congiunto  lldoino  «  ad  stipendi  usum  » ,  dice  il  con- 
temporaneo Liutprando.'  Quest'ingerenza  del  potere  regio  nel- 
l'elezione fa  sì  che  l'elemento  canonico,  se  pure  non  perisce, 
perda  immensamente  d' importanza  dinanzi  all'azione  del  re.  Non 
si  parla  più  di  un  consentimento  regio  od  imperiale  all'elezione 
canonica,  ma  si  dice  addirittura  che  l'elevazione  del  nuovo  ve- 
scovo avviene  «dono  imperatoriae  potestatis » .^  11  regio  consen- 
timento alla  nomina  che  prima  aveva  luogo   mediante  un* epi- 
stola absoliitioniSy  ^    si  trasforma   ora  in   un  atto  formale,   col 
quale  l'imperatore,   servendosi   di   simboli,   un   bastone   ed   un 
anello,^  trasmette  al  nuovo  vescovo,  sia  esso  eletto  canonicamente 
oppure  direttamente  nominato  dal   potere  sovrano,   il   possesso 
del  vescovado.   Poiché  a  questa  trasmissione  di  possesso,  cioè 
vestitura,  segue,  come  s'è  detto,  il  giuramento  di  fedeltà,  ^  sì 
comprende  come  l'atto,  nel  suo  insieme,  prendesse  l'aspetto  della 
investitura  feudale.  D'aUra  parte,  in  molti  casi,  in  special  modo 
con  gli  Ottoni,  alla  sedia  vescovile  andava  congiunto  l'esercizio 
di  diritti  comitali  e  di  altre  temporalità  largite  dalla  corona  che 
avvicinavano  grandemente  i  vescovi  ai  maggiori  feudatari  della 
corona,  ed  è  certo  che  tali  concessioni  di  regalie  rendon  più  fa- 
cile e  più  giustificata,  l'ingerenza  imperiale  nell'elezione  vesco- 
vile, specialmente  nelle  sedi  che  per  la  loro  posizione  geografica 


*  PiVANO,  op.  cìt.,  p.  86,  n.  1  e  2;  d'altronde  Ugo  veniva  dalla  Provenza,  dove, 
come  nel  rimanente  della  Francia,  il  re  aveva  la  più  ampia  ingerenza  nelle  elezioni 
vescovili  :  quindi  non  faceva  che  applicare  all'Italia  il  suo  diritto  nativo. 

•  PiVANO,  op,  cit.,  pp.  280-81  :  le  frasi  «  regio  dono,  munere  regali  »  sono  da 
confrontarsi  con  quelle  consimili  adoperate  in  Germania  ed  in  Francia  dove  l'elezione 
è  regia:  Waitz,  op.  cit.,  VII,  283;  non  dobbiamo  però  inferirne  che  l'elezione  cano- 
nica sia  scomparsa,  altrimenti  non  si  comprenderebbe  come  mai  il  primo  documento 
che  si  riferisca  con  precisione  di  dati,  dopo  due  secoli  di  silenzio  (880-1070),  alla  no- 
mina di  un  patriarca  ci  parli  proprio  di  elezione  fatta  da  clero  e  da  popolo.  D'altronde 
il  regis  donum  può  accompagnarsi  all'elezione:  così  a  Milano.  Savio,  op.  cit.,  387, 
«  consultu  maiorum  ac  dono  imperatorie  maiestatis  »  può  significare  dunque  investitura. 

3  PiVANO,  op.  cit.,  p.  34,  ricorda  il  reg.  di  Jaffé,  Reg.  Pont.,  n.  3446,  nel  quale 
il  papa  scrive  all'imperatore  Guido  di  non  aver  consacrato  un  vescovo  perchè  non  era 
giunta  ancora  Vabsolutionis  epistola  dell'imperatore  stesso. 

4  Per  l'Italia,  vedi  gli  esempi  cit.  dal  Mayer,  Italienische  Verfassungsgeschùhte, 
Leipzig,  1909,  II,  518. 

5  Per  il  giuramento  ved.  Pivano,  op.  cit.,  p.  105,  n.  8. 


LE    ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI    AQUILEIESI  9 

era  più  importante  assicurare  in  mani  fedeli.^  Fra  queste  viene 
in  prima  linea  la  sede  patriarcale  aquileiese  che  era  venuta  in 
possesso  nei  secoli  X  e  XI  di  ampie  giurisdizioni  e  importanti 
castelli  nel  Friuli;  e  si  comprende  come  gl'imperatori  doves- 
sero tenere  il  patriarcato  in  particolare  considerazione.  Certa- 
mente non  si  può  affermare  che,  ai  tempi  della  casa  di  Sassonia 
e  sotto  i  primi  Franconi,  il  principio  dell'elezione  canonica  sia 
perito  del  tutto,  però  l'ingerenza  regia  è  così  forte  che  que- 
st'elezione si  riduce  il  più  delle  volte  ad  una  semplice  formalità  :  * 
l'eletto  è  previamente  designato  dalla  corona. 

Quanto  ad  Aquileia,  non  abbiamo,  è  vero,  notizie  dirette  delle 
elezioni  patriarcali  pel  secolo  X  e  per  il  principio  dell'XI,  ma,  come 
ha  osservato  giustamente  un  recente  scrittore,  questa  ingerenza 
imperiale  è  ampiamente  dimostrata  dal  fatto  che  dal  mille  in  poi 
i  patriarchi  aquileiesi,  come  buona  parte  dei  loro  suffraganei, 
appartengono  sempre  alla  nobiltà  germanica.^ 

Fino  ad  Enrico  IV,  non  abbiamo  prove  assolute  di  nomine  impe- 
riali riguardanti  la  sede  aquileiese:*  gli  Annales  Altahenses  maio- 
res  tramandarono,  soltanto,  il  ricordo  dell'  investitura  del  patriarca 
Gotepoldo.^  È  molto  probabile  però  che  anche  il  patriarcato  abbia 
avuta,  già  prima  di  Enrico  IV,  qualche  nomina  diretta  da  parte 
dell'imperatore,  visto  che  il  cronista  milanese  Arnolfo  parla,  nella 
seconda  metà  del  secolo  XI,  d' una  consuetudine  antica  del  regno 
italico  per  la  quale  il  re  provvedeva  alle  cattedre  vescovili,  dietro 
preghiera  fattagli,  in  proposito,  dal  clero  e  dal  popolo.® 

Tali  nomine  imperiali  avvennero  poi,  con  grande  frequenza, 
in  tutto  l'impero,  sotto  il  reggimento  di  Enrico  IV.  La  fiera  lotta 
che  questi  dovette   sostenere  contro   i  propri  vassalli  ribelli  da 

1  È  qui  che  troviamo  più  di  frequente  vescovi  di  nazionalità  tedesca:  ved. 
SCHWARTZ,  op.  cit.,  p.  12. 

*  Ved.  su  questo  punto  le  giuste  osservazioni  dello  Scharnaol,  nella  sua  recen- 
sione al  libro  già  cit.  del  Weise  nella  Zeitschrift  der  Savigny  Stiftang,  kanon,  Abth.y 
III,  1914,  505  sg. 

3  SCHWARTZ,  op.  cit.,   p.   12  Sg. 

■*  Invece  a  Milano  già  nel  1045  Guido  da  Velate  è  nominato  da  Enrico  IH  contro 
i  voti  del  clero  e  del  popolo:  ved.  Palladini,  op.  cit.,  p.  99. 

Ciò  sta  contro  l'opinione  del  Weise,  op.  cit.,  p.  120,  il  quale  crede  che  Enrico  III 
abbia  rispettato  l'elezione  canonica. 

5  M.  G.  //..-  SS.,  XX,  p.  804,  a.  1049.  Quanto  alla  sua  nomina  si  sa  soltanto 
che  egli  fu  eletto  per  il  favore  di  Arno  arcivescovo  di  Colonia  :  SS.,  VII,  p.  348. 

6  Sul  proposito  ved.  Waitz,  op.  cit.,  VII,  214.  Quanto  alla  elezione  di  Eberardo 
nel  1042,  di  cui  il  cronista  Ermanno  {SS.,  V,  124  e  Raschini,  op.  cit.,  p.  38)  dice: 
«  ab  imperatore  promovetur  »,  ved.  Weise,  op.  cit.,  p.  62  sg.,  il  quale  dimostra  come 
tali  frasi  non  sì  possano  intendere  come  prove  assolute  di  nomina  imperiale  diretta, 
ma  soltanto  dell'intervenuta  investitura. 


10  PIETRO   SILVERIO   LEICHT 

un  laio,  e  contro  il  pontefice  dall'altro  rendono  comprensibile, 
se  non  scusabile,  il  procedimento  arbitrario  dell'imperatore.  Du- 
rante il  lungo  regno  di  Enrico,  avvennero  sei  vacanze  della  sede 
patriarcale:  fra  queste  abbiamo  sicura  notizia  che  la  nomina 
dei  patriarchi  Enrico  e  Vodalrico  fu  fatta  direttamente  dall'im- 
peratore, quanto  a  Gotepoldo,  Ravangero,  Sigeardo  e  Federico 
ci  mancano  prove  di  questa  provvisione  imperiale,  per  quanto 
essa  si  possa  considerare  molto  probabile.' 

Questa  ingerenza  imperiale  non  fece  perire,  tuttavia,  il  prin- 
cipio dell'elezione  canonica,  anzi  è  proprio  in  questo  periodo,  e 
precisamente  nella  successione  di  Sigeardo  che  ci  si  presentano  i 
primi  documenti  relativi  a  tale  elezione  in  Friuli  dopo  il  periodo 
carolingio.  Si  tratta  di  due  lettere  di  Gregorio  VII  che  ci  atte- 
stano come,  dopo  la  morte  di  Sigeardo,  il  clero  ed  il  popolo 
avessero  eletto  patriarca  l'arcidiacono  aquileiese;  il  pontefice 
diresse  due  legati  in  Friuli  al  fine  di  controllare  la  legittimità  del- 
l'elezione e  le  qualità  della  persona:  ne  avverte,  nella  prima  let- 
tera, il  clero  e  il  popolo  d'Aquileia,  nella  seconda  scrive  ai  suf- 
fraganei  perchè  coadiuvino  i  legati  stessi.  Il  papa  si  dichiara 
disposto  a  riconoscere  l'eletto  se  si  tratti  di  persona  idonea  e 
se  l'elezione  ebbe  luogo  col  consenso  dei  vescovi  suffragane!," 
in  caso  differente  ordina  che  si  proceda  ad  una  nuova  elezione.* 
Eccoci  qui,  dunque,  di  nuovo  dinanzi  ai  consueti  elementi  del- 
l'elezione canonica,  alla  quale  intervengono  clero  e  popolo  e 
danno  il  loro  assenso  i  suffragane^  11  cronista  Bertoldo  ci  av- 
verte che  questa  elezione  non  sortì  alcun  effetto,  perchè  l' impe- 
ratore nominò  patriarca  il  proprio  cappellano  Enrico,  «  repro- 
«  bato  eo  qui  canonice  a  clero  et  populo  electus  est  » . 

Siamo  così  giunti  all'apogeo  dell'ingerenza  imperiale  nella 
elezione  dei  vescovi;  tale  ingerenza  fu,  come  a  tutti  è  noto,  ilf 
motivo  fondamentale  della  grande  lotta  fra  il  papato  e  l' impero 
sul  finire  del  secolo  XI.  Il  sinodo  di  Reims  diede,  nel  1049,  san- 
zione ufficiale  alle  proteste  che  erano  già  state  formulate  in  pre- 
cedenza da  molti  scrittori   ecclesiastici:-^  esso  si  limita,  però,  a 

1  Quanto  al  patriarca  Enrico,  ved.  BeRTHOLor  AnnaUs,  in  SS.,  V,  301  e  317  e 
Paschini,  op.  cit.,  p.  198;  qnanto  a  Volrico  I,  ved.  Casus  Monasterii  Petrishusensis, 
in  S5.,  XX,  656  e  Raschini,  op.  cit.,  p.  278.  Per  Gotepoldo  invece  il  cronista  Er- 
manno esce  nelle  solite  parole  :  «  ab  imperatore  promovetur  »,  per  le  quali  ved.  U 
nota  precedente. 

«  Jaffé,  Monumenta  Gregoriana,  in  Biblìotheca  rerum  ger manicar um,  Berlino, 
1865,  to.  II,  pp.  291-94. 

3  Solmi,  Stato  e  Chiesa  secondo  gli  scritti  politici  da  Carlo  Magno  fino  al  con- 
cordato di  Worms,  Modena,  1901,  pp.  43-46. 


LE    ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI   AQUILEIESI  11 

sostenere  la  necessità  dell'elezione  canonica,  senza  condannare 
l'investitura  imperiale  per  le  temporalità.  Più  tardi,  nel  corso 
della  lotta,  l'atteggiamento  del  pontefice  divenne  sempre  più 
risoluto  sino  a  proibire  che  gli  ecclesiastici  ricevessero  l'inve- 
stitura dai  principi  laici.  Caratteristico  è  a  tal  proposito  il  rac- 
conto fatto  dai  cronista  Bertoldo  della  conferma  data  dal  pon- 
tefice all'elezione  del  patriarca  Enrico.  Questi,  come  s'è  già 
detto,  era  stato  nominato  dall'  imperatore  in  opposizione  ai  voti 
del  clero  e  del  popolo  ;  recatosi  a  Roma,  due  anni  dopo,  riuscì 
a  persuadere  il  pontefice  della  legittimità  della  sua  elezione,^ 
ma  venne  da  questo  riprovato  «  prò  investitura  contra  canoni- 
*  cam  et  apostolicam  functionem  a  laica  persona  sibi  usurpata  >. 
Il  patriarca  riuscì  a  sfuggire  alla  censura  giurando:  «  diffinitio- 
«  nis  eiusdem  statutum  se  ignorasse»,  ciò  che  è  comprensibile 
quando  si  avverta  che  lo  stesso  Gregorio  VII,  nei  suoi  primi 
^nnì  di  pontificato,  non  sostenne  la  teoria  più  rigorosa  nei  ri- 
guardi dell'investitura.  Il  racconto  si  chiude  con  la  menzione 
della  investitura  «perannullum  et  virgam>,  che  il  patriarca  rice- 
vette dal  pontefice. 

Qui,  dunque,  il  papa  avoca  a  sé  l'investitura  del  metropo- 
lita aquileiese,  malgrado  che  questa  chiesa  fosse  in  possesso  di 
intere  contee  largite  dall'imperatore  al  suo  fedele  Sigeardo.* 

La  questione,  come  si  vede,  era  assai  involuta  perchè  si 
trattava  di  tutelare  in  pari  tempo  l'ecclesiastica  libertà  e  il  di- 
ritto imperiale  su  intere  province  concesse  alle  varie  chiese.  Non 
è  il  caso  di  seguire  qui  le  vicende  della  lotta:  basterà  accen- 
«are  come;  il  concordato  di  Worms  del  1122  stabilisse  quanto 
ai  vescovi  italiani  e  borgognoni,  che  essi  dovevano,  entro  sei 
mesi  dalla  consacrazione,  farsi  investire  dall'  imperatore  dei  beni 
-e  diritti  provenienti  dall'Impero  (regalie),^  quanto  alla  Germania 
l'investitura  doveva  precedere  la  consacrazione. 


1  Non  bisogna  dimenticare  che  l'elezione  dell'arcidiacono  aquileiese  a  patriarca 
per  opera  del  clero  e  del  popolo  non  era  apparsa  regolare,  a  primo  aspetto,  neppure 
al  pontefice. 

«  Questo  valga  a  confutare  l'opinione  di  Scharnagl,  Der  Begriff  der  Investi- 
tur  in  den  Qtiellen  und  der  Literatur  des  Investiturstreits,  nelle  Kirchenrechtliche 
AbhandluHgen  dello  Stutz,  n.  56,  Stuttgart,  1908,  p.  35  sg.,  secondo  il  quale,  nel 
sinodo  romano  del  1078,  sarebbe  stata  proibita  soltanto  l'investitura  di  chiese,  dignità 
e  decime  ecclesiastiche.  Le  parole  di  Pietro  Cassinese  sul  proposito  sono  :  «  in  synodo 
«  papa  Gregorius  constituit  ut  si  quis  a  laico  ecclesiae  investitura  acciperet  dans  et 
«accìpiens  anathemate  plecterentur  »  :  55,,  Vili,  733.  Nel  senso  del  testo  ved.  Solmi, 
«p.  cit.,  p.  65. 

3  Mayer,  op.  cit.,  II,  520  ;  M.  G.  fi.:  Const.,  I,  161  ;  Scharnagl,  op.  cit.,  p.  130. 


12  PIETRO   SILVERIO    LEICHT 

L'esito  della  lotta,  combattuta  con  tanto  accanimento  per 
quasi  mezzo  secolo,  fu  apparentemente  favorevole  alla  parte  im- 
periale; tuttavia,  proprio  in  questo  periodo  si  pongono  le  ferme 
basi  d'una  preponderante  influenza  pontificia  nelle  elezioni  ve- 
scovili, mentre  quella  imperiale,  specialmente  in  Italia,  va  gran- 
demente scemando.  Non  si  può  dire  però  che  questa  influenza 
sia  del  tutto  scomparsa,  in  Friuli,  fino  alla  estinzione  della  casa 
di  Svevia  e  ne  vediamo  la  prova  in  ciò  che  gli  eletti  apparten- 
gono sempre  alla  nobiltà  tedesca.  Si  tratta  però  sempre  di  un 
intervento  indiretto,  giacché  l'elezione  ha  luogo  d'ora  in  poi, 
regolarmente,  nelle  forme  canoniche.  Il  patriarca  è,  poi,  in  ob- 
bligo di  richiedere  all'  imperatore  l' investitura  delle  regalie,  non 
appena  questi  ponga  piede  sul  suolo  italiano,  essendo  i  presuli 
aquileiesi  principes  Itallae} 

Come  si  affermò,  nell'elezione  dei  patriarchi,  l' ingerenza  pon- 
tificia? Dobbiamo  distinguere  qui  due  periodi,  uno  che  va  dalla 
fine  della  lotta  delie  investiture,  sino  agli  ultimi  decenni  del  se- 
colo XIII,  e  l'altro  che  s'inizia  con  questo  periodo.  Nel  primo 
l'ingerenza  pontificia  si  manifesta  anzitutto  attraverso  alla  con- 
cessione del  pallio.  È  ormai  teoria  assolutamente  stabilita  che  il 
metropolitano  non  possa  esercitare,  prima  d'aver  ricevuto  il  pallio, 
i  suoi  poteri  essenziali,  l'ordinazione  dei  vescovi  e  la  consacra- 
zione delle  chiese:^  d'altra  parte  il  papa  Alessandro  li  in  una 
sua  lettera  a  Ravangero  allora  eletto,  gli  annunzia  che  i  suoi  an- 
tecessori decisero  che,  d'ora  innanzi,  la  concessione  del  pallio 
si  sarebbe  fatta  soltanto  a  coloro  che  si  fossero  recati  perso- 
nalmente a  riceverlo  dal  Pontefice.^  A  quest'ultimo  principio  fu 
fatta  poi  qualche  eccezione,*  però  la  concessione  del  pallio  fu 
la  via  che  servì  alla  sedia  romana  per  aumentare  la  sua  inge- 
renza nell'elezione  dei  metropoliti  e  per  assicurarsi  la  loro  ob- 
bedienza, giacché  quella  concessione  era  legata  alla  prestazione 


1  Vedi  su  questo  proposito  i  miei  Studi  e  Frammenti,  Udine,  1903,  p.  49.  Si  ri- 
corda l'investitura  di  Pellegrino  1  da  parte  di  Lotario  li  (De  Rubeis,  op.  cit.,  app.  11), 
di  Bertoldo  da  parte  di  Federico  II  (Winckelmann,  Acta  imperii  inedita,  446);  per 
Volchero  ved.  Bòhmer,  Acta  imperii  selecta,  222.  Il  Thesaurus  Ecclesiae  Aquileiensis, 
un  manuale  dei  diritti  e  oneri  del  patriarcato  composto  dalla  cancelleria  patriarcale 
nel  sec.  XIV,  ricorda  l'obbligo  che  aveva  il  patriarca  di  ottenere  l'investitura  appena 
il  re  venisse  in  Italia. 

8   IMBART,   op.   cit.,   p.   490. 

8  LÒWENFHLD,  Epistoloe  pontificum  ineditae,  Lipsiae,  1885,  p.  41,  n.  76. 

<  Così  il  pontefice  manda  il  pallio  a  Volchero,  ordinandogli  d'inviare  il  giura- 
mento per  via  epistolare  ;  però  per  l'importanza  della  regola  ved.  Imbart,  op.  cit.» 
p.  405,  n.  5. 


LE    ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI    AQUILE  IESI  13 

del  giuramento  di  fedeltà  al  pontefice  ed  ai  suoi  successori.' 
Ormai  era  fissato  il  principio  che  senza  l' intervento  dell'autorità 
pontificia  l'eletto  non  potesse  entrare  in  possesso  della  sua  ca- 
rica; dapprima  questo  intervento  avviene  soltanto  colla  forma 
larvata  della  concessione  del  pallio,'  ma  nel  secolo  XII  si  for- 
mulerà la  teoria  per  la  quale  al  papa  spettava  per  diritto  la  con- 
firmatio  del  metropolitano  eletto,'  ed  è  questa  teoria  che  reg- 
gerà da  Celestino  III  in  poi  il  mondo  cattolico.* 

Né  ciò  bastava  a  soddisfare  la  politica  pontificia  ;  con  altri 
mezzi  si  cercò  di  metter  da  parte  la  stessa  elezione  canonica  che 
pure  era  stata  l'arma  principale  del  papato  contro  l'impero  nella 
lotta  delle  investiture,  e  di  avocare  addirittura  alla  sede  apostolica 
la  nomina  di  vescovi  e  metropoliti.  Giovarono  a  tale  scopo  le 
riserve  pontificie.  Il  pontefice  cominciò  a  riservarsi,  cioè,  di  prov- 
vedere alla  sede  vacante  qualora  l'elezione  fosse  macchiata  di 
qualche  vizio  o  nella  procedura  o  quanto  alla  persona  dell'eletto. 
Più  tardi  la  sede  pontificia  si  riserverà  la  nomina  di  vescovi  e 
metropoliti  in  casi  singoli  o  per  regola  generale,  con  semplice  atto 
d'autorità;  ma  di  ciò  vedremo  più  tardi. 

Dalla  riserva  dipendente  da  interne  differenze  nel  capitolo, 
deriva  la  prima  nomina  diretta  d'un  patriarca,  fatta  dalla  sede 
pontificia,  cioè  quella  di  Bertoldo  di  Merania,  che  era  stato  eletto 
bensì,  da  una  parte  dei  canonici,  ma  dichiarata  nulla  per  vizio  di 
forma,  tale  elezione  dal  pontefice,  fu  poi  da  questi  nominato  di- 
rettamente.^ Così  più  tardi,  nel  1315,  per  difetto  di  natali,  sarà 
respinta  l'elezione  di  Gilone  di  Villalta,  e  nominato  direttamente 
dal  pontefice,  Gastone  della  Torre.'' 

Quanto  alla  consacrazione  è  da  ritenersi  che  fino  a  Bertoldo 
di  Merania  essa  sia  stata  compiuta  ancora  dai  vescovi  suffragane! 
mentre  più  tardi  essa  dovette  aver  luogo  a  Roma.  '^ 

1  Ved.  il  giuramento  di  Enrico  nel  1079  riportato  in  Baronio,  Ann.  Eccl.  ad 
ann.  e  in  Palladini,  op.  cit.,  p.  169;  per  quello  di  Volchero  ved.  Rubeis,  op.  cit., 
p.  654  sg.  Ved.  anche  la  questione  insorta  a  Milano  nel  sec.  XII  per  il  pallio  in  Sa- 
vio, op.  cit.,  p.  490. 

2  Questa  concessione  è  considerata  come  protnotio  dell'eletto  già  nel  sec.  X  ;  ved. 
HiNSCHius,  op.  dt.,  II,  535,  n.  1. 

3  Friedberq-Ruffini,  op.  cit.,  p.  491,  n.  15,  ove  si  cita  l'importantissima  lettera 
di  Alessandro  III  all'arcivescovo  Adalberto  di  Salisburgo. 

<  Ved.  delineate  le  conseguenze  diverse  della  confirmatio  e  della  consecratio 
nella  decretale  di  Celestino  in  e.  40,  X,  1,  6. 

5  De  Rubeis,  op.  cit.,  col.  677. 

«  De  Rubeis,  op.  cit,  col.  835. 

7  Questo  risulta  anzitutto  dall'esempio  offertoci  dagli  arcivescovi  di  Milano  fin 
da  quando  s'abbandonò  la  mutua  consacrazione  coi  patriarchi  Aquileiesi  ;  ved.  Savio, 


14  PIETRO   SILVERIO    LEICHT 

Dal  concordato  di  Worms  fino  al  cadere  del  secolo  XIII,  rele- 
zione canonica  fu  saldamente  mantenuta  nella  sede  aquileiese, 
se  si  prescinda  dalPeccezione  sopra  ricordata  che  si  giustifica 
colle  dissensioni  interne  del  capitolo. 

Gravi  mutamenti  avvengono  però,  nel  contempo,  nel  corpo 
elettorale.  Una  prima  osservazione  si  deve  fare  quanto  agli  elet- 
tori ecclesiastici  :  come  avviene  in  tutto  il  mondo  cattolico,  anche 
nella  chiesa  nostra  il  diritto  d'elezione  si  restringe  al  solo  capi- 
tolo aquileiese.  Il  primo  documento  che  ci  parli  esplicitamente 
d'una  tale  restrizione  è  la  lettera  di  papa  Innocenzo  111  relativa 
all'elezione  di  Volchero:  essa  ricorda  come  elettori  soltanto  i  laici 
ed  il  capitolo.  La  elezione  di  Volchero  avviene  nel  1204,  undici 
anni  prima,  dunque,  del  IV  concilio  Lateranense  che  regolò  le 
elezioni  canoniche  con  nuove  norme,  escludendo  i  laici  e  riserban- 
done il  diritto  al  solo  capitolo  (e.  24  e  25).  Dobbiamo  ritenere 
pertanto  che,  ad  Aquileìa,  l'esclusione  del  rimanente  clero  sia 
avvenuta  per  un'interna  evoluzione,  corrispondente  a  quella  che 
avviene  altrove,  in  conformità  alle  teorie  espresse  in  proposito 
dai  canonisti  e  sostenute  dai  papi.' 

La  stessa  lettera  di  Innocenzo  111  ci  dà  poi  notizia  d' un  al- 
tro mutamento  avvenuto  nel  corpo  dei  laici.  Il  Papa  avverte  il 
nuovo  eletto  Volchero:  «canonici  Aquileiensis  Ecclesiae...  adsen- 
«  tientibus  nobilibus  et  ministerialibus  in  te  convenerunt  » .  Le  for- 
mule precedenti  parlano,  invece,  di  clero  e  di  popolo.^  1  vassalli 
aquileiesi  ci  ricompaiono  dinanzi  anche  nella  elezione  di  Bertoldo 
come  lo  dimostra  la  lettera  di  Onorio  III,  nella  quale  annunzia  di 
aver  cassata  tale  elezione,  lettera  che  è  indirizzata  all'avvocato 
ed  ai  ministeriali  della  chiesa  d'Aquileia.  Evidentemente,  adunque, 
i  vassalli  della  Chiesa  hanno  sostituito  nella  formula  d'elezione 
il  termine  indeterminato,  populus.  È  quanto  accade,  del  resto,  in 
tutta  l'Europa,  non  solo  in  questo  caso,  ma  anche  in  altri:  un 

op,  cit,,  p.  252  ;  per  il  sec.  VII  e  per  i  tempi  successivi  Palladini,  op.  cit.,  180,  n.  1  ; 
poi  dal  fatto  che  la  lettera  del  pontefice  che  concede  a  Volchero  l'uso  del  pallio  esi- 
mendolo dal  venire  a  Roma  per  riceverlo  e  prestare  giuramento  tace  affatto  della 
consacrazione.  Quanto  ai  tempi  più  tardi  sappiamo  che  il  patriarca  Pietro  fu  consa- 
crato a  Roma:  De  Rubeis,  op.  cit.,  col.  804.  L'arcivescovo  di  Ferrara  è  consacrato 
dal  papa  già  nella  prima  metà  del  sec.  XII  :  ved.  Hinschius,  op.  cit.,  Il,  594. 

1  Ved.  in  proposito  V.  Below,  Die  Entstehung  des  ausschliess lichen  Wahlrechtes 

des  Domkapitels,  in  Historische  Studien,  XI,  Leipzig,  1883,  p.  12  sg.  Da  una  lettera 

di  Alessandro  III  al  clero  di  Alessandria  (Jaffé,  op.  cit.,  p.  8436)  appare  che  nel  1176 

canonici  delle  cattedrali  dell'archidiocesi  milanese  fossero  già  in  possesso  esclusivo 

del  diritto  di  elezione. 

«  Ved.  Raschini,  /  Ministeriali  del  medioevo,  in  queste  Memorie,  X,  1914, 
p.  53,  n.  1. 


LE   ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI   AQUILEIESI  IS 

po'  alla  volta  i  nobili  sostituiscono  il  popolo  nell'esercizio  delle 
pubbliche  funzioni  '  ed  è  certo  che  questa  trasformazione  delle 
antiche  assemblee  popolari  doveva  essere  accaduta  da  gran  tempo, 
se  anche  nel  diritto  le  formule  rimanevano  immutate.  D'altra  parte, 
quanto  alla  riunione  dei  laici  per  l'elezione  del  vescovo,  già  le 
leggi  giustinianee  danno  agli  honomtlores  un  posto  affatto  premi- 
nente,^ e  si  può  ritenere,  pertanto,  che  la  prevalenza  dei  malo- 
res  terrae  fosse,  in  questa  materia,  affatto  tradizionale.  È  da  os- 
servare piuttosto  che  dalla  lettera  indirizzata  da  Onorio  IH  al- 
l'avvocato ed  ai  ministeriali  aquileiesi  si  può  dedurre  che  costoro 
abbiano  avuto  qualche  parte  anche  nella  elezione  di  Bertoldo  di 
Merania,  e  ciò  contro  il  disposto  del  concìlio  Lateranense  avve- 
nuto tre  anni  prima  :  il  che  del  resto  dovette  accadere  anche  in 
altri  luoghi,  come  si  deduce  dalla  decretale  di  Onorio  IH,  che  rin- 
nova tale  proibizione.^ 

Dagli  ultimi  decenni  del  secolo  XllI  si  manifesta  apertamente 
la  tendenza  della  sedia  pontificia  a  provvedere  direttamente  alla 
nomina  dei  patriarchi  aquileiesi,  mettendo  da  parte  il  capitolo. 
Della  elezione  del  patriarca  Gregorio  di  Montelongo,  il  primo 
della  lunga  serie  dei  patriarchi  di  parte  guelfa,  non  sappiamo 
nulla  di  preciso;^  è  probabile  però  che  egli  sia  stato  eletto  dal 
capitolo  e  che  il  pallio  gli  sia  stato  inviato  dal  pontefice  perchè 
sappiamo  che  egli  morì  senza  esser  stato  consacrato:  ora  se  il 
pallio  gli  fosse  stato  conferito  personalmente,  in  tale  occasione, 
avrebbe  avuto  luogo  anche  la  consacrazione.^ 


1  Per  questo  fatto  ved.  in  generale  il  mio  Parlamento  della  Patria  del  Friuli, 
Udine,  1903,  negli  Atti  dell' Accad.  di  Udine,  estr.,  p.  131.  Da  questo  punto  di  vista 
è  caratteristica  la  elezione  avvenuta  dopo  la  morte  di  Ariberto  arcivescovo  di  Milano 
(UOHELLi-CoLETi,  Italia  Sacra,  IV,  107),  nella  quale  i  valvassori  esercitarono  una 
parte  del  tutto  preponderante.  Per  la  Germania  ved.  gli  esempi  addotti  dal  Hinschius, 
op.  cit.,  II,  534,  n.  8  e  da  V.  Below,  op.  cit.,  pp.  4-5. 

*  Nov.  liist.,  CXXIII,  e.  1  :  «  sancimus  igitur  quotiens  opus  fuerit  episcopum  or- 
«  dinare,  clericos  et  primates  Civitatis. . .  mox  in  tribus  personis  decreta  facere». 
Così  ved.  Conc.  Calcedon.,  actio  secunda. 

3  C.  56,  X,  1 ,  6  (degli  anni  1227-1234)  ;  la  decretale  è  particolarmente  interessante 
perchè  accenna  alla  «contraria  consuetudo  quae  dici  debet  potiiis  corruptela  ». 

*  E.  Traversa,  op.  cit.,  asserisce  che  Gregorio  fu  eletto  dal  pontefice  il  13  gen- 
naio 1252;  credo,  però,  che  la  sua  asserzione  non  sia  fondata:  la  data  è  quella  dataci 
da  Giuliano  per  l'ingresso  del  patriarca  in  Aquileia. 

5  II  PoTTHAST  diede  nel  reg.  14425,  29  novembre  1251,  la  notizia  che,  in  quella 
data,  papa  Innocenzo  IV  avrebbe  confermata  l'elezione  di  Gregorio  a  patriarca.  La 
lettera  esiste  nel  registro  dd  pontefice  ed  è  indirizzata  a  Gregorio  eletto,  ma  contiene 
una  concessione  al  Capitolo  aquileiese:  ved.  Beroer,  Les  registres  d'innocent  IV, 
n.  5509.  Consultati  anche  i  registri  originali,  non  si  trovò  la  lettera  di  conferma  indicata 
dal  Potthast.  Dì  questa  ricerca  devo  ringraziare  il  P,  M.  Martini  O.  S.  B. 


16  PIETRO   SILVERIO    LEICHT 

L'elezione  di  Filippo  di  Carinzia  fatta  dal  capitolo  aquileiese, 
coli'  intervento  dei  suffragane!,  alla  morte  di  Gregorio,  fu  cassata 
dal  pontefice  Gregorio  X,  perchè  avvenuta  durante  la  vacanza 
della  sedia  Romana;  tale,  almeno,  è  la  notizia  che  ne  dà  il  cro- 
nista cividalese  Giuliano.  Escluso  Filippo,  fu  nominato  diretta- 
mente dal  pontefice  Raimondo  della  Torre,  il  21  dicembre  1273/ 

Un'altra  elezione  del  capitolo  avvenne  il  5  marzo  1299  alla 
morte  di  Raimondo,  come  ci  riferisce  il  cronista  Giuliano;  l'eletto 
era  Corrado  duca  di  Slesia.  L'elezione  non  fu  confermata  dal 
papa  neppur  questa  volta,  anzi,  come  risulta  da  un  successivo 
diploma  di  Giovanni  XXll,  il  pontefice  Bonifazio  VII  riservò  alla 
sedia  apostolica  «  provisionem  Ecclesiae  Aquileiensis  si  tunc 
«  vacaret  vel  cum  ea  quocumque  modo  vacare  contingeret  »  .*  Ne 
seguì  la  nomina  diretta  del  patriarca  Pietro. 

Bonifazio  Vili,  coerente  alla  sua  riserva  ed  alla  vigorosa 
azione  da  lui  spiegata  in  tutta  Italia  per  restringere  nelle  mani 
del  pontefice  la  nomina  dei  vescovi,  respinse  di  nuovo,  nel  1302, 
alla  morte  di  Pietro,  l'elezione  di  Pagano  della  Torre  e  trasferì 
invece  alla  sedia  aquileiese  il  vescovo  di  Padova  Ottobono,  dando 
a  questo  per  successore  lo  stesso  Pagano.  La  politica  di  Boni- 
fazio, in  questa  materia,  fu  continuata  da  Giovanni  XXII,  il  quale, 
ricordando  la  riserva  del  suo  predecessore,  dichiarò  nulla  l'ele- 
zione fatta  in  forma  di  compromesso,  nel  1315,  dell'arcidiacono 
aquileiese  Gilone  di  Villalta,  elezione  che  era  illegale,  del  restOr 
anche  per  difetto  di  natali.  Fu  nominato  in  suo  luogo  dal  papa, 
l'arcivescovo  di  Milano  Gastone  della  Torre.  Quanto  a  Pagano, 
anch'egli  fu  nominato  patriarca  dal  pontefice  che  con  una  bolla 
del  4  settembre  1318,  si  riservò  la  provvisione  della  sede  aqui- 
leiese vacante.^  Tuttavia  noi  abbiamo  la  prova  che  il  capitolo 
aquileiese  si  riunì  per  procedere  all'elezione,*  e  dati  i  buoni 
rapporti  che  legavano  i  canonici  a  Pagano,  non  è  improbabile 
che  su  di  lui  cadessero  i  loro  voti.  Naturalmente,  se  anche  tale 
elezione  ebbe  luogo,  i  suoi  effetti  legali  furono  nulli  e  la  nomina 

1  Questo  risulta  chiaramente  dal  Cronicon  dì  Giuliano:  ved.  De  Rubeis,  op.  cit., 
col.  763;  è  dunque  da  escludere  la  notizia  data  dal  Cappelletti,  op.  cit.,  Vili,  385, 
che  in  tale  data  Raimondo  sia  stato  eletto  dal  capitolo  aquileiese. 

«  De  Rubeis,  op.  cit.,  col.  835. 

3  Bianchi,  Documenti  per  la  Storia  del  Friuli,  Udine,  1844,  n.  90. 

■*  Bianchi,  op.  cit.,  n,  88  :  è  una  procura  data  da  Gaarnero  di  Cucagna  canonico 
aquileiese  all'arcidiacono  Qilone  perchè  intervenisse  a  suo  nome  alla  riunione  asse- 
gnata dal  decano  e  dal  capitolo  aquileiese  :  "  ad  electionem  futuri  patriarche  celebran- 
«  dam  ».  Nella  cronaca  di  Odorico  c'è  la  menzione  :  «  X  latrante  Septembri  canonici 
Aquìleienses  elegerunt  patriarcham  currente  anno  MCCCXVIII  ». 


LE   ELEZIONI   DEI   PATRIARCHI   AQUILEIESI  17 

di  Pagano  si  deve  ritener  dovuta  ad  un  atto  del  tutto  indipen- 
dente della  Santa  Sede.  Il  pontefice  Gregorio  XXII  credette  oppor- 
tuno in  ogni  modo  di  rinnovare  nel  1322  le  riserve  sull'elezione 
patriarcale,  comprendendole  in  un  breve  di  riserva  generale  che 
riguardava  tutte  le  chiese  patriarcali,  vescovili,  collegiate,  abba- 
ziali,  prìorali,  ecc.,  che  si  fossero  rese  vacanti  nel  patriarcato 
d'Aquileia  e  nelle  provincie  di  Milano,  Ravenna,  Genova  e  Pisa 
e  questo  «  usque  ad  sedis  Apostolicae  beneplacitum».* 

La  fermezza  del  pontificato  nel  reprimere  il  principio  dell'ele- 
zione canonica^  che  pure,  in  altri  tempi,  aveva  così  fieramente 
difesa,  fiaccò  per  un  lungo  periodo  le  velleità  di  resistenza  del 
clero  aquileiese.  Ci  è  nota  infatti  l'umile  supplica  diretta  nel  1334, 
morto  Pagano,  al  pontefice  perchè  provvedesse  alla  nomina  di 
un  successore  che  fu,  com'è  noto,  il  grande  Bertrando.  Così  an- 
che Nicolò  di  Lussemburgo  fu  nominato,  come  pare,  direttamente 
dal  pontefice. 

Una  ripresa  del  principio  elettivo  si  ebbe  colla  elezione  del 
decano  Guglielmo  che  fu  eletto  dal  capitolo  il  6  agosto  1365.' 
Il  pontefice  nominò  invece  il  cancelliere  imperiale  Marquardo.  A 
questo  fatto  dobbiamo  attribuire,  certamente,  la  nuova  riserva 
fatta,  ancor  vivente  Marquardo,  dal  pontefice  Urbano  VI  della 
nomina  del  suo  successore  e  d'allora  in  poi  sino  all'elezione  di 
Ludovico  di  Teck,  i  vari  patriarchi  che  si  succedettero  sulla  sedia 
aquileiese  furono  tutti  nominati  direttamente  da  Roma.  Tuttavia 
il  capitolo  non  aveva  fatto  tacere  intieramente  il  desiderio  di  ri- 
stabilire i  suoi  antichi  diritti.  Nel  13Q5,  dopo  l'uccisione  del  pa- 
triarca Giovanni  di  Moravia  il  capitolo  elesse,  all'unanimità,  Ludo- 
vico duca  di  Teck  a  patriarca,  e  furon  fatte  istanze  a  cardinali 
per  ottenere  la  conferma  pontificia,  ma  il  papa  nominò  invece 
Antonio  Caetani;*  nel  1412,  reso  vacante  il  patriarcato,  i  cano- 
nici aquileiesì  si  affrettarono  a  nominare  di  nuovo  «  per  viam 
«  compromissi  »  il  duca  Ludovico  di  Teck  ed  a  chiederne  la  con- 

1  Raynaldi,  Annal.  Eccles.,  ad  annam. 

*  Le  vicende  di  queste  successive  nomine  furon  già  descritte  dal  Tassini,  op.  cit., 
p.  154  sg. 

3  Nella  raccolta  Bianchi,  ras.  nella  Biblioteca  Comunale  di  Udine  al  n.  4486,  vi 
è  questa  notizia  tolta  dalle  note  di  Antonio  Nicoletti  (sec.  XVI):  «  MCCCLXV,  die 
«  XXI  julii,  obiit  d.  Lodovicus  de  la  Turre  patriarcha  et  die  VI  Augusti  electio  d.  pa- 
«  triarchae  facta  fuit  per  capitulum  Aquileiense  ».  Nel  successivo  n.  4491  troviamo  che 
il  Comune  di  Udine  tratta  di  pregare  il  pontefice  affinchè  confermi  l'elezione  a  pa- 
triarca del  decano  Guglielmo  fatta  dal  capitolo  aquileiese. 

■*  Nella  raccolta  Bianchi  cit.,  al  n.  5786,  1395,  17  gennaio  havvi  una  supplica  della 
comunità  di  Cividale  al  cardinale  d'Alengon  affinchè  sostenesse  presso  il  pontefice 
l'elezione  intervenuta. 


18  PIETRO   SILVERIO   LEICHT 

ferma  al  pontefice.  È  singolare  che  l'ultima  elezione  coincida 
coir  innalzamento  alla  sede  aquileiese  dell'ultimo  patriarca  che 
abbia  tenuto  il  governo  temporale  del  Friuli  ;  è  innegabile,  d'altra 
parte,  che  la  scelta  era  stata  fatta  molto  più  con  criteri  politici, 
per  ottenere  un  principe  che  potesse  opporsi  alla  caduta  della 
signoria  patriarcale  in  mano  dei  Veneziani,  che  per  avere  un  pio 
rettore  delle  anime,  il  pontificato  resistè  molto  a  riconoscere  la 
legittimità  di  questa  elezione,  ma  alla  fine,  dopo  molte  istanze 
fatte  a  papi  ed  a  concili,  sei  anni  dopo,  il  pontefice  Martino  V 
confermò  il  patriarca  Ludovico  nella  sede  aquileiese.* 

La  Repubblica  veneta,  venuta  in  possesso  del  Friuli,  nel  1420, 
tenne  di  fronte  al  patriarcato  la  stessa  linea  di  condotta  che  aveva 
serbata  nelle  rimanenti  sue  relazioni  colla  Chiesa.'  Affermò  cioè, 
gagliardamente,  il  suo  diritto  alla  nomina  diretta  dei  patriarchi, 
come  di  tutti  i  suffraganei  della  chiesa  aquileiese.  1  primi  tre 
successori  di  Ludovico  di  Teck,  morto  in  esilio  a  Basilea  nel 
1437,  furono  ancora  nominati  dal  papa  senza  sentire  affatto  il 
voto  del  capitolo  d'Aquileia,  ma  il  terzo,  benché  nominato,  non 
potè  mai  prender  possesso  della  sua  sede  per  l'opposizione  ener- 
gica mossa  dalla  signoria  Veneziana  :  le  vicende  della  lotta  com- 
battuta in  quell'occasione  fra  Venezia  ed  il  Papato  sono  troppo 
note  perchè  convenga  ritornarci  sopra.^  Più  tardi,  dopo  la  guerra 
di  Cambray,  il  pontefice  Giulio  IH  riconobbe  alla  Signoria  di 
Venezia  un  diritto  di  presentazione  del  patriarca  *  che,  mediante 

1  De  Rubeis,  op.  cit.,  col.  1037.  Anche  il  capitolo  di  Trieste  cercò  di  riprendere 
possesso  del  diritto  d'elezione,  ed  anzi  i  suoi  tentativi  durarono  anche  più  a  lungo  di 
quelli  del  capitolo  aquileiese.  Infatti  alla  morte  del  vescovo  Nicolò  de  Aldegardi  nel 
1447,  il  capitolo  elesse  Antonio  Goppi  al  quale,  però,  al  solito,  il  papa  negò  la  con- 
ferma. Pio  li  conferì  poi  ai  duchi  d'Austrìa  la  facoltà  di  nominare  i  vescovi  Triestini  ; 
ved.  Rossetti,  Meditazioni  sulle  franchigie  di  Trieste,  Venezia,  1815,  p.  63. 

«  Incisive  sono  le  parole  dèi  Kasdlek,  Storia  del  consiglio  dei  patrizi  di  Trieste, 
Trieste,  1858,  a  proposito  della  politica  ecclesiastica  veneta:  «né  di  prelati  né  di 
«  interdetti,  né  di  scomuniche  aveva  timore  il  Leone  alato,  pratico  com'era  nel  maneg- 
«  giare  di  Bolle  e  di  Brevi  a  suo  modo. . .  ». 

3  Per  tali  vicende  ved.  Cappelletti,  op.  cit.,  VIII,  508;  l'eletto  era,  com'è  noto, 
il  grande  umanista  Ermolao  Barbaro. 

•*  VON  CzòRNiQ,  Dos  Land  Gorz  und  Gradisca,  Wien,  1873,  p.  354,  n.  2.  In  un 
ms.  della  race.  Càmpori  del  sec.  XVIII  (nella  biblioteca  Estense  di  Modena),  n.  2831 
si  trova  uno  sguardo  storico  sulle  vicende  del  patriarcato  che  così  termina  :  «  Nomi- 
«  nandosi  il  patriarca  ne'  suoi  titoli  per  tratto  di  fine  politica  patriarca  per  la  mise- 
«  ricordia  di  Dio,  senza  aggiungervi  :  per  grazia  della  S.  Sede,  permettendogli  la  re- 
«  pubblica  d'eleggersi  il  suo  coadiutore  per  evitare  con  l'astuto  ritrovato  i  dispareri 
«  coll'imperatore,  il  quale,  come  arciduca  d'Austria,  pretende  di  avervi  diritto  di  nomi- 
«  nare  a  questo  benefizio  e  perchè  in  tale  guisa  non  trovasi  mai  vacante  la  sede  pa- 
«  triarcale,  origine  di  tante  acerrime  contese  e  nuovi  disturbi  per  la  repubblica  e  di 
«  ragioni  molto  disputabili  per  il  casato  d'Austria  ». 


LE   ELEZIONI    DEI    PATRIARCHI   AQUILEIESI  19 

i  sottili  accorgimenti  della  politica  veneziana  si  risolse,  nella  pra 
tica,  in  un  vero  diritto  di  nomina;  le  cose  rimasero  in  questi 
termini  sino  alla  soppressione  del  patriarcato  che  avvenne  il  6  lu- 
glio 1751.  Com'era  accaduto  altrove,*  anche  qui  la  sedia  romana 
preferì  di  transigere  coi  principi,  deferendo  loro  in  tutto  o  in 
parte  la  nomina  dei  vescovi,  piuttosto  che  riconoscere  la  legit- 
timità dell'elezione  canonica  che  era  pur  parte  fondamentale  del- 
l'antica costituzione  ecclesiastica.*  Ciò  corrisponde  al  regime 
d'accentramento  che  i  pontefici  inaugurarono  nel  governo  della 
Chiesa  durante  il  secolo  XIII  e  condussero  a  termine  nei  secoli 
seguenti. 

Pietro  Silverio  Leicht. 


1  Imbart,  op.  cit.,  p,  IX  sg. 

«  Sono  da  ved.  le  severe  parole  del  co,  Gian  Rinaldo  Carli,  in  Opere,  to.  XV, 
Milano,  1876,  p.  279,  a  proposito  delle  regole  di  cancelleria  di  Benedetto  XII  :  «  tali 
«  regole  sono  per  verità  opposte  ai  sentimenti  degli  antichi  santi  pontefici,  i  quali 
«  tanto  gelosi  erano  nel  tutelare  i  diritti  di  tutte  le  chiese,  quanto  attenti  nel  conser- 
«  vare  quelli  che  loro  appartenevano:  Greg.  I,  p.  1,  II,  n.  39:  *  sicut  nostra  defendi- 
«nius,  ita  singulis  quibuscumque  ecclesiis  iura  servamus'.  In  Italia  le  regole  distrus- 
«  sero  ogni  diritto  ». 


Il  patriarcato 
di  Wolfger  di  Ellenbrechtskirchen 

(1204-1218). 

{Continuaz.  e  fine;  ved.  Mem.,  X,  p.  361  sgg.) 

VI. 

1.  Wolfger  si  accosta  a  Federico  II  nella  dieta  di  Augusta  (febbraio  1214);  sua 
attività  per  il  patriarcato  nel  1214-15.  —  2.  Il  patriarca  ed  il  concilio  ecumenico  Late- 
ranese  IV  (novembre  1215).  —  3.  Documenti  e  contese  riguardanti  il  diritto  d'avvocazia 
del  conte  di  Gorizia.  —  4.  La  guerra  per  il  fatto  del  castello  d'amore  e  l'intervento  pa- 
cificatore del  patriarca.  —  5.  Ultimi  atti  del  patriarca  e  sua  morte  il  23  gennaio  1218. 

1.  Finalmente  il  patriarca  Wolfger  uscì  dal  suo  riserbo,  ri- 
guardo agli  avvenimenti  che  si  maturavano  in  Germania,  e  si 
recò  alla  corte  di  Federico  11;  infatti  il  14  febbraio  1214  egli  fu 
presente  ad  un  atto  del  re  in  favore  del  monastero  di  S.  Lucio 
di  Coirà.*  S'era  messo  in  viaggio,  io  credo,  per  partecipare  in 
quei  giorni  in  Augusta,  alla  curia  solemnis,  che  riuscì  un  vero 
plebiscito  della  Germania  in  favore  dello  svevo.  Poi  Wolfger  fu 
testimonio  insieme  con  parecchi  vescovi,  fra  i  quali  era  anche 
Federico  di  Trento,  e  con  parecchi  laici,  il  IQ  febbraio,  pure  in 
Augusta,  ad  un  documento  di  Federico  II  in  favore  di  Eberardo  II, 
arcivescovo  di  Salisburgo.*  Poi  fu  la  volta  di  Wolfger  stesso: 
il  22  febbraio  Federico  II  gli  confermò  i  possessi  della  sua  chiesa, 
cioè:  ducato  e  contea  del  Friuli;  regalie  dei  vescovadi  d'Istria: 
Trieste,  Capodistria,  Parenzo,  Emona,  Pola  e  dei  due  vescovadi 
di  Concordia  e  Belluno  ;  le  tre  abbazie  di  Sesto,  Pero  e  S.  Maria 
in  Organo;  gli  altri  possessi  e  diritti,  specialmente  la  marca  di 
Carniola  e  d'Istria  col  comitato  secondo   quanto   avevano   con- 

»  BÒHMER,  Reg.  Imp.,  n.  715. 

8  BÒHMER,  op.  cit.,  n.  717;  VON  JAKSCH,  Die  Gìirket  ecc.  cit.,  n.  445. 


IL    PATRIARCATO   DI    WOLF  GER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  21 

cesso  i  suoi  predecessori  e  specialmente  Ottone  IV.*  Ed  il  giorno 
seguente  Federico  confermò  poi  a  Wolfger  ed  alla  chiesa  di  Aqui- 
leìa  Monselice,  secondo  le  condizioni  apposte  nella  sua  donazione 
dallo  zio  Filippo.^ 

Non  si  sa,  che  dopo  questa  dieta  d'Augusta  Wolfger  si  sia 
abboccato  più  con  Federico  II.  Questi  rimase  in  Germania  a  rin- 
saldare la  sua  posizione  politica,  e  fu  coronato  di  nuovo  in  Aqui- 
sgrana  il  25  luglio  1215;  il  patriarca  se  ne  tornò  in  Italia. 

Il  25  aprile  1214  Wolfger  era  già  nel  patriarcato,  poiché,  pro- 
babilmente in  Rosazzo  stesso  o  nei  dintorni,  concesse  a  quel 
monastero  una  piccola  selva,  per  allargarne  il  territorio  dalla 
parte  di  Oleis  e  por  fine  a  contese  che  si  ripetevano  colle  ville 
circostanti,  e  ne  fece  la  consegna  per  mezzo  di  Giovanni  di  Or- 
saria  suo  ministeriale.^ 

Connesso  con  questo  documento  è  un  altro  del  13  marzo  1215 
redatto  dinanzi  al  patriarca  prò  tribunali  sedente  a  Cividale.  I 
cittadini  laici  e  chierici  di  quella  città,  insieme  coi  contadini  abi- 
tanti air  intorno,  chiesero  che  le  terre  intorno  alla  città,  occupate 
da  loro  a  da  altri,  rimanessero  sempre  a  loro  comodo  ed  utilità. 
Ed  il  patriarca,  d'accordo  con  loro  e  coi  milites  del  territorio, 
acconsentì,  eccettuando  però  una  parte  dei  territori  di  quel  co- 
mune posti  presso  Rosazzo,  che  diede  a  quel  monastero,  il  quale 
li  aveva  occupati.  ^  Si  trattava  di  beni  pubblici  che  dovevano 
rimanere  a  libero  godimento  dei  cittadini  di  Cividale. 

Il  3  maggio  1214,  come  risulta  da  un  regesto,  Wolfger,  il 
quale  era  anche  Civitatensis  eccLesiae  prepositiis,  concesse  ad  Ot- 
tone decano  ed  al    capitolo  di  Cividale  una  casa  in  Cividale.  ^ 

1  BÒHMER,  op.  cit.,  11.  721  ;  De  Rubeis,  M.  E.  A.,  col.  665  B.  Fra  i  vescovi  pre- 
senti compare  anche  Corrado  eletto  di  Trieste;  come  testi  sono  degni  di  nota  Al- 
berto conte  del  Tirolo,  Federico  de  Comaco  (Caporiacco),  Rud  de  Cariano  (eh'  io 
ritengo  sia  Rudolfo  de  Cipriano),  Giovanni  di  Zuccola,  Walterpertoldo  di  Spilim" 
bergo,  Voltaco  (Ottaco)  di  Partistagno,  Enrico  di  Fontanabona,  Corrado  de  Porto 
(Portis);  c'erano  pure  Stefanq  decano  di  Aquileìa,  Unigardo  (Wigando)  preposito 
di  Sant'Odorico,  Detalmo  canonico  di  Aquileia,  Ognibene  giudice  e  notaio.  Questi  for- 
mavano parte  del  seguito  del  patriarca.  Cfr.  anche  Thesaurus,  n.  1158. 

2  BòHMER,  op.  cit.,  n.  722. 

3  Bianchi,  Doc.  Mss.,  n.  38;  Doc.  Reg.  ,  n.  40.  Il  patriarca  definisce  accurata- 
mente il  confine  della  selva  donata.  Presenti  :  l'abbate  Leonardo,  Leonardo  abbate  di 
Beligna,  alcuni  monaci  di  Rosazzo,  Leopoldo,  conte  di  Bogen,  Tremone  di  Feldkirchen, 
Hartmann  di  Raduvich,  cappellani,   ministeriali  del  patriarca  e  famuli  del  monastero. 

*  Bianchi,  Doc.  Mss.,  n.  43;  Doc.  Reg.,  n.  42.  Presenti  e  testi  furono:  Otto 
decano,  Corrado  de  Pertica  e  suo  fratello  Wecilone,  Wolrico,  Purcardo  e  Giovanni 
di  Zuccola,  Enrico  Cervo,  Giovanni  di  Orsaria,  Ermanno  de  Portis  ecc.  Cfr.  Statata 
Civitatis  Austriae,  ed.  Volpe,  Udine,  1891,  p.  20  H. 

5  De  Rubeis,  M.  E.  A.,  col.  671.  Col  titolo  di  preposito  di  Cividale  il  patriarca 
ci  si  presenta  già  il  20  giugno  1213;  v.  sopra. 


22  PIO   PASCHINI 

Convien  credere  ch'egli,  come  aveva  fatto  Pellegrino  II,  abbia 
ottenuto  di  unire  alla  mensa  patriarcale  anche  la  prepositura  di 
Cividale.  E  poiché  nel  documento  dell' 8  febbraio  1208  troviamo 
un  Enrico  preposito  di  Cividale,  dobbiamo  pur  supporre  che  il  pa- 
triarca ottenesse  la  prepositura  solo  alla  sua  morte,  che  dovette 
avvenire  in  questo  intervallo/ 

Poi  il  24  ottobre  a  Manzano  Wolfger  confermò  la  sentenza 
arbitrale  che  in  suo  nome  avevano  pronunciata  Leonardo  prepo- 
sito di  Juna  e  L.  pievano  di  Liefiing  nella  contesa  fra  l'abbate 
di  S.  Paolo  di  Lavant  ed  il  pievano  di  Kòtsch  (a  sud  di  Marburg) 
a  proposito  della  chiesa  di  S.  Lorenzo  in  der  Wiiste  (sud-ovest 
di  Marburg).  Essi,  seguendo  il  consiglio  del  priore  di  Seitz  e  di 
altri,  assegnarono  all'abbate  la  chiesa  in  lite  con  tutti  i  suoi  pos- 
sessi fra  i  torrenti  Lobniz  e  Welka,  ed  al  pievano  il  reddito  di 
una  marca  sulla  villa  di  Hollern  (ovest  di  Marburg).^ 

Il  4  dicembre  Wolfger  era  a  Parenzo  dove,  quale  «  patriarca 
«  nec  non  diocesis  Forojuliane  Istrie  et  Carniole  marchio»,  decise 
una  lite  su  decime  e  tributi  tra  Fulcherio  vescovo  di  quella  chiesa 
e  l'abbate  di  S.  Michele  di  Leme.^ 

Invece  il  dì  primo  di  marzo  del  1215  il  patriarca  Wolfger 
era  a  Treviso  insieme  con  Corrado,  vescovo  di  Trieste,  Gabriele 
di  Prata,  Giovanni  di  Zuccola,  Artuico  di  Valle,  Odorico  di  Cu- 
cagna,  Ottolino  di  [Gemona?],  Bertoldino  di  Polcenigo  nella  stanza 
di  Tiso,  vescovo  di  Treviso,  dov'erano  raccolti  altri  personaggi; 
colà  Loderengo  di  Martinengo  podestà,  a  nome  del  comune,  gli 
domandò  «tamquam  a  patre  et  domino»,  che  volesse  confer- 
mare la  carta  di  vendita,  per  cui  il  vescovo  di  Fettre  e  Belluno 
aveva  ceduto  il  castello  di  Soligo  al  comune  di  Treviso  ;  ciò  che 
il  patriarca  fece  ben  volenrieri.* 

Ed  in  quella  circostanza,  il  7  marzo,  si  presentò  dinanzi  al 
patriarca  e  ad  alcuni  testimoni  Uberto,  abbate  di  Pero,  e  dichiarò 
il  suo  monastero  «  non  teneri  ad  aliquam  prestationem,  collectam, 


1  Invece  il  Kalkoff,  op.  cit.,  p.  143,  suppone  che  questo  Enrico  fosse  vicario 
del  patriarca  nella  prepositura,  ma  mi  pare  un'asserzione  gratuita. 

«  VON  JAKSCH,  Die  Kàrntner  ecc.  cit.,  n.  1709  e  1710;  Zahn,  VB.  Steiermark, 
li,  p.  203,  n.  132.  Cfr.  Kalkoff,  op.  cit.,  p.  146.  Testi  furono:  i  preti  Ermanno  e 
maestro  Tieraone  e  il  suddiacono  Wolvingo  cappellani,  G/a/iarto  to6«///ort^rf/ flo/o^«a, 
Giovanni  di  Zuccola,  Giacomo  di  Buttrio,  Luvisino,  Enrico  di  Fontanabona,  Weci- 
lone,  Enrico  di  Maniago,  Corrado  di  Abrosa  (?)  ministeriale  della  chiesa  di  Aquileia, 
Purcardo,  Wollino  ed  Alberto  servitori  del  patriarca,  Erbordo  cameriere  del  letto  del 
patriarca. 

3  Cod.  dipi.  Istriano.  Testi  :  Corrado,  vescovo  eletto  di  Trieste,  Otto,  decano  di 
Cividale,  Filippo,  canonico  di  Aquileia,  Engelberto,  conte  di  Gorizia,  ecc. 

*■  Nuova  raccolta  d'opuscoli,  to.  34,  p.  83,  Mandelli,  Venezia.  Egli  agì  come  alto 
signore  del  vescovado  di  Belluno. 


IL    PATRIARCATO    DI    WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  23 

«  provisionem  imponendam  generaliter  vel  particuiariter  nec  spe- 
«cialiter  per  dictum  D.  Patriarcham...  exceptis  quod  In  confirma- 
«  tionibus,  visitationibus  et  omnibus  benedictionibus  »  ;  —  in  altre 
parole  ii  monastero  non  era  soggetto  a  prestazioni  di  qualunque 
sorte  verso  il  patriarcato;  eccetto  quegli  onorari  che  erano  soliti 
a  darsi  in  occasione  di  visite  o  della  conferma  dell'abbate/ 

Il  soggiorno  a  Treviso  dovette  durar  poco,  né  possiamo  sa- 
pere la  vera  ragione  per  cui  il  patriarca  si  recò  colà;  in  ogni 
modo,  come  abbiamo  accennato,  il  12  marzo  Wolfger  era  già 
tornato  a  Cividale. 

Poi  il  4  ottobre  1215  in  Aquileia  Wolfger,  col  consenso  del 
suo  capitolo,  concesse  a  Giovanni,  abbate  di  S.  Michele  in  monte 
a  Pola,  «fontanam  de  Vado  Pirin  cum  portu»  coll'obbligo  del- 
l'annua prestazione  di  un  bisanzio  il  dì  d'Ognissanti  al  patriarca*. 

2.  Fin  dal  19  aprile  1213  papa  Innocenzo  111  aveva  indetto 
un  concilio  ecumenico  a  Roma  per  provvedere  alla  Terra  Santa 
ed  alla  riforma  della  chiesa  universale,  ed  aveva  ingiunto  ai  ve- 
scovi di  fare  perciò  i  necessari  preparativi.  Il  patriarca  Wolfger 
tentò  presso  il  papa  di  sottrarsi  all'obbligo  di  intervenirvi,  al- 
legando la  sua  grave  età  ed  i  debiti  di  cui  era  gravata  la  chiesa 
d'Aquileia,  i  quali  non  gli  avrebbero  consentito  di  prendervi 
parte  collo  sfarzo  e  coll'accompagnamento  convenienti  al  suo 
grado.  Ma  il  papa  gli  rispose  il  9  settembre  1215:^  «  Poiché  si 
farebbe  danno  alla  pubblica  utilità,  e  si  derogherebbe  all'onor 
tuo,  se  una  tale  e  tanto  eccelsa  persona  come  la  tua  non  in- 
tervenisse al  concilio,  non  abbiamo  creduto  opportuno  di  acco- 
gliere in  questo  la  tua  domanda.  Noi  dunque,  volendo  prov- 
vedere al  tuo  decoro  ed  anche  all'indennità  della  chiesa  a  te 
affidata,  comandiano  con  queste  nostre  lettere  apostoliche  alla  tua 
fraternità  ed  ingiungiamo  che  tu  procuri  di  venire  al  concilio 
con  umiltà  e  mansuetudine,  senza  badare  a  difficoltà,  evitando 
ogni  pomposo,  oneroso  ed  inutile  accompagnamento  dì  chierici, 
militi  (ministeriali)  e  servitori,  osservando  nel  numero  dei  trasporti 
e  delle  persone,  quanto  fu  stabilito  nelle  lettere  di  convocazione 
del  concilio».  Il  concilio  si  aprì  1'  11  novembre  1215  e  si  tenne 

1  Carte  De  Rubeis,  ms.  in  Bibl.  Marciana,  Venezia. 

«  Valentinelli,  Catalogus  Codicum  mss.  de  rebus  Foroiuliensibus  ex  Bibliotheca 
D.  Marci,  n.  181;  Joppi,  Aggiunte  ecc.  cit.,  p.  17,  n.IV.  Compaiono  presenti:  Ste- 
fano, abbate  di  Sesto,  Enrico  arcidiacono,  Wigando,  preposito  di  S.  Odorico,  Gio- 
vanni, preposito  di  S.  Felice,  Filippo,  arcidiacono  di  Trieste,  Otto,  decano  di  Civi- 
dale, Leonardo  di  Tricano,  Wolrico  de  Petris,  Zoppo  de  Nidech  ed  altri. 

3  Seguo  la  data  del  Bòhmer,  op.  cit.,  n.  6177,  che  è  quella  anche  del  De  Rubeis, 
Diss.  Mss.,  p.  223.  Il  Buttazzoni,  op.  ciL,  p.  211,  ci  dà  erroneamente  il  Q  dicembre. 


24  PIO    PASCHINI 

nel  Laterano  coH'iniervento  di  412  vescovi,  di  800  abbati  ;  molti 
erano  rappresentati  da  procuratori.  Oltre  i  decreti  che  vi  furono 
sanzionati  per  la  chiesa  universale,  troviamo  che  fu  confermata 
l'erezione  del  vescovado  di  Chiemsee,  già  fatta  dall'arcivescovo 
Everardo  II  di  Salisburgo,  e  che  fu  decisa  la  questione  dell'im- 
pero.* Forse  era  questa  che  Wolfger  voleva  evitare,  temendo 
non  fosse  risolta  e  discussa  secondo  le  sue  mire.  Per  Ottone  IV 
perorarono  i  delegati  di  Milano;  per  Federico  li  parlò  il  mar- 
chese del  Monferrato,  li  papa  accettò  come  vero  e  legittimo  re 
di  Germania  Federico  11.  Qual  parte  avrà  avuto  Wolfger  in  questa 
decisione?  non  lo  possiamo  sapere.  11  concilio  non  si  protrasse 
oltre  il  novembre;  Wolfger  vi  intervenne  accompagnato  dai  ve- 
scovi di  Trento,  Mantova,  Verona,  Treviso,  Padova,  Ceneda, 
Pedena,  Pola  e  dall'eletto  di  Trieste,  suoi  suffragane^* 

3.  Il  12  dicembre  1215  Wolfger  era  nel  suo  palazzo  patriarcale 
di  Cividale.  In  quel  giorno  infatti  Mainardo  di  Gorizia  per  trenta 
marche,  che  Otto  decano  di  Cividale  diede  sicurtà  di  pagare, 
resignò  in  mano  del  patriarca  l'avvocazia  che  esercitava  su  al- 
cuni mansi  siti  in  Fagagna,  che  quel  capitolo  aveva  comperati 
da  Wolchero,  milite  di  Cividale.  Wolfger  allora  investì  il  capi- 
tolo stesso  di  quel  diritto  d'avvocazia;  poi  Mainardo  diede  si- 
curtà ad  Otto  che  avrebbe  ottenuta  la  rinuncia  dell'avvocazia 
anche  da  suo  fratello  Engelberto  e  dal  figlio  di  lui,  affinchè  pel 
tramite  del  patriarca  passasse  poi  nel  capitolo.^ 

Più  gravi  invece  furono  le  contese  per  il  diritto  di  avvocazia 
col  capitolo  di  Aquileia.  L'8  gennaio  1215  Innocenzo  111  delegò 
il  patriarca  di  Grado  a  giudicare  e  decidere  la  causa  che  ver- 
geva fra  questo  capitolo  e  Mainardo,  conte  di  Gorizia,  a  pro- 
posito dell'avvocazia  su  Marano.  La  causa  era  stata  decisa  in 
prima  istanza  a  favore  del  conte,  ma  i  canonici  avevano  inter- 
posto appello  presso  il  papa.^  Come  fosse  andata  la  cosa  io 
sappiamo  dal  giudizio  che  Angelo  Barozzi,  patriarca  di  Grado, 
tenne  a  Grado  il  14  luglio  di  quell'anno  per  giudicare  della  con- 
troversia. Sindaco  del  capitolo  era  l'arcidiacono  di  Aquileia;  Mai- 
nardo  si  presentò  pronto  a  provare,  «  secundum   quod  iudicari 


J  Hefele,  op.  cit.,  p.  1231. 

»  Hefele,  op.  cit.,  p.  1728,  p.  XIII. 

3  De  Rubeis,  M.  e.  a.,  col.  672.  Presenti  i  soliti  :  Enrico  arcidiacono  e  Stefano 
decano  con  alcuni  canonici  d'Aquileia,  Giovanni  di  Zticcola,  Artuico  di  Varmo,  Ro- 
dolfo di  Ariis. 

*  Joppi,  Docum.  Goriz.  cit.,  n.  XIII  ;  ne!  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  37,  quest'atto 
porta  la  data  10  gennaio  1214. 


IL   PATRIARCATO    DI    WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  25 

«  solet  in  curia  patriarchali  »,  d'avere  avuto  in  feudo  dal  patriar- 
cato l'avvocazia  su  Marano.  Furono  uditi  Dietrico  di  Fontanabona, 
Corrado  di  Strassoldo  e  Gabriele  di  Prata.  Questi  disse  che  la 
sentenza  della  prima  istanza  era  stata  approvata  «  a  maiori  parte 
«  laicorum  » ,  e  che  il  patriarca  «  dovette  ratificarla  secondo  la  co- 
stumanza della  sua  curia;  però  soggiunse  d'aver  sentito  dalla 
sua  bocca  che  gli  dispiaceva».  Il  giudizio  era  dunque  stato  prò 
nunciato,  secondo  il  diritto  feudale,  poiché  si  trattava  di  feudo, 
dalla  corte  dei  vassalli  e  dei  ministeriali.  Però  soggiunge  il  do- 
cumento :  «  Interrogato  Gabriele,  se  si  fosse  fatta  questa  mozione 
al  patriarca  come  duca  o  come  vescovo,  rispose  che  allora  non 
si  fece  questa  distinzione  ».  Infatti  l'accentramento  della  giurisdi- 
zione feudale  e  della  ecclesiastica  in  una  medesima  persona  e 
la  difficoltà  che  ne  derivava  di  distinguere  in  virtù  di  qual  po- 
tere essa  operasse,  impediva  spesso  la  chiara  conoscenza  delle 
cose.  Il  patriarca  di  Grado,  che  viveva  sotto  il  dominio  di  Ve- 
nezia, non  si  trovava  invece  in  queste  condizioni,  e  la  sua 
interrogazione  ci  pare  alquanto  ingenua.  Furono  poi  interrogati 
i  testi  del  capitolo;  e  fra  essi  Olrico  canonico  e  maestro  Lorenzo 
sostennero  che  Marano  era  un  allodio  della  canonica  di  Aquileia 
e  che  l'avvocazia  di  esso  spettava  ai  canonici  in  virtù  della  ri- 
nuncia fattane  da  Enrico,  duca  di  Carintia;  che  la  sentenza  già 
pronunciata  era  dispiaciuta  al  patriarca,  sebbene  non  lo  avesse 
manifestato,  e  che  i  canonici  s'erano  presentati  al  tribunale  di 
lui  come  patriarca.* 

Mentre  si  disputava  sull'avvocazia  di  Marano,  un'altra  que- 
stione s'era  presentata  e  riguardava  l'avvocazia  sulla  villa  di  Farra, 
posta  sull'Isonzo  a  mezzodì  di  Gorizia.  Infatti  con  lettera  del- 
l'I 1  febbraio  1216*  Innocenzo  III  deputò  Giordano,  vescovo  di 
Padova,  quale  giudice  in  questa  nuova  questione.  11  patriarca 
di  Grado  aveva  citato  dinanzi  a  sé,  perchè  dimostrasse  i  suoi 
diritti,  il  conte  Mainardo;  ma  egli  non  aveva  voluto  comparire 
e  perciò  era  stato  scomunicato  in  contumacia.  Mentre  il  patriarca 
era  a  Roma  per  il  concilio,  il  conte  era  entrato  in  Farra  e  aveva 
danneggiato  il  capitolo.  Il  vescovo  di  Padova  doveva  ora  dare 
esecuzione  alla  sentenza  già  pronunciata  e  costringere  colle  cen- 
sure il  conte  a  risarcire  il  capitolo.  A  questo  scopo  il  vescovo 
Giordano  inviò  al  conte  copia  della   lettera  papale  e  lo  citò  a 


1  Joppi,  Docum.  Goriz.  cit.,  n.  XIV. 

2  La  data  è:  ponti/,  anno  XVIII.  Il  papa  computa  gli  anni  non  dal  dì  dell'ele- 
zione (8  gennaio),  ma  da  quello  della  consecrazione  (22  febbraio). 


26  PIO    PASCHINI 

comparire  a  Padova  entro  quindici  giorni  per  dare  soddisfazione 
al  capitolo  d'Aquileia,  od  almeno  ad  inviare  un  suo  rappresen- 
tante, munito  di  procura.  Urso  e  Mingolino,  suddiaconi  d'Aquileia, 
testificarono  a  Padova  il  3  giugno  1216,  che  Mainardo  aveva 
realmente  ricevuta  l'intimazione  inviatagli.  Ma  già  il  lunedì  2  mag- 
gio, presenti  Gabriele  di  Prata,  Matteo  di  Rivarotta,  Federico  di 
Belgrado,  Ripoldo  figlio  di  Guarnero  de  Arrio  ed  altri,  Mainardo 
aveva  nominato  Guarnerio  de  Garro  suo  rappresentante  presso 
il  vescovo  di  Padova.^  Secondo  il  Nicoletti  ed  il  Palladio,  Wolfger 
tenne  nella  quaresima  del  1216  un  sinodo  provinciale,  al  quale 
sarebbero  intervenuti  anche  Giordano,  vescovo  di  Padova,  e 
Mainardo,  conte  di  Gorizia.  Tocco  dalle  esortazioni  del  patriarca, 
il  conte  si  sarebbe  sottomesso,  avrebbe  dato  soddisfazione  al 
capitolo  ed  avrebbe  ottenuto  l'assoluzione  della  scomunica.'  Ma 
lasciando  pure  l'osservazione  che  un  tale  concilio  non  sarebbe 
stato  possibile  nella  quaresima  del  1216,  l'autorità  dei  due  sto- 
rici è  troppo  debole  per  farci  accettare  la  loro  notizia.  Mancava 
nei  documenti  la  soluzione  della  vertenza,  essi  inventarono  quella 
che  parve  loro  più  verisimile. 

4.  Uno  dei  fatti  più  conosciuti  e  più  singolari  nella  storia 
della  regione  veneta  è  quello  noto  sotto  il  nome  del  castello 
d'amore.  Avvenne  nella  Pasqua  di  maggio  del  1214  (Pentecoste) 
a  Treviso;  ed  è  così  narrato  dal  Carducci,^  secondo  il  racconto 
lasciatoci  da  Rolandino:  «La  città  di  Treviso  essendo  dentro  e- 
di  fuori  senza  guerra  e  in  buono  stato  e  con  aumento  di  ric- 
chezza, pensò  di  bandire  gran  corte  per  otto  giorni  alla  qual 
corte  e  festa  invitò  con  gran  cuore  per  lettere  e  per  grida  tutti 
i  cavalieri  e  baroni  e  gentili  uomini  delle  parti  d'intorno,  per 
tutta  la  Marca  e  la  Lombardia  e  le  Venezie,  con  le  loro  donne 
e  donzelle...  Lo  spettacolo  non  più  veduto  fu  il  castello  d'amore, 
costrutto  all'  uopo,  fuori  di  porta  San  Tommaso,  in  luogo  detto 
la  Spineta,  oggi  Selvana  bassa.  Era  di  legno:  fingevano  le  mu- 

1  Poiché  è  monca  ed  incompleta  la  trascrizione  fatta  dal  De  Rubeis,  M.  E.  A., 
col.  673,  cfr.  Bòhmer,  op.  cit.,  n.  6181  ;  Bini,  Varia  Doc.  Antiqua,  ms.  in  Archiv. 
Capit.  di  Udine,  I,  64,  p.  62  ;  Bianchi,  Doc.  Mss.,  n.  46.  Il  Nicoletti  chiama  Guar- 
nero di  Gruaro  il  rappresentante  del  conte  di  Gorizia  e,  credo,  giustamente. 

2  Cfr.  G.  Marcuzzi,  Sinodi  Aquileiesi,  Udine,  1910,  p.  104.  I  dati  del  Palladio 
furono  accolti  anche  dal  Labbé,  Condì.,  voi.  XIII,  p.  1061,  e  di  là  passarono  anche 
nell'HEFELE,  op.  cit.,  p.  1399. 

3  Galanterie  cavalleresche  del  secolo  XII  e  XIII,  in  Opere,  Bologna,  1909,  voi.  XX, 
p.  70  sgg.  Sulla  guerra  che  ne  derivò  seguo  :  R.  Predelh,  Documenti  relativi  alla 
guerra  pel  fatto  del  castello  d'amore,  in  Nuovo  Archivio  Veneto,  XV,  1885,  p.  421 
sgg.,  dove  si  trova  il  testo  dei  trattati  e  dei  giuramenti  che  li  confermarono.  Cfr.  an- 
che: Enr.  Ant.  Cicogna,  Delle  iscrizioni  veneziane,  Venezia,  1834,  voi.  IV,  pp.  530  e  541. 


IL    PATRIARCATO    DI    WOLFGER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  27 

faglie  le  pellicce  di  grigi  e  vai  ed  erminì,  e  sciamiti  chermisi  e 
drappi  di  porpora  e  scarlatto  e  baldacchini  e  armesini  e  broc- 
cati ricci  pendevano  e  gonfiavano  intorno.  Stavano  alla  difesa 
duecento  donne  e  donzelle  di  Treviso  e  di  Padova...  Gli  assali- 
ori,  tutti  giovani  di  soave  età  e  di  nobil  lignaggio.  E  il  trarre 
e  il  gittare  e  lo  scagliare  dall'una  parte  e  dell'altra  doveva  es- 
sere di  fiori,  d'odori  e  di  simili  gentilezze  >. 

«  Ma  a  poco  a  poco  l'esercito  assalitore  si  spartì,  secondo 
i  geni  e  i  paesi,  in  tre  bande.  I  leggiadri  trevigiani  miravano 
ai  cuori  e  volevano  persuadere  le  dame  a  rendersi  a  loro,  con 
gentilezza  di  parole  e  di  preghiere  chiamandole  a  nome,  e  di- 
cevano —  Madonna  Beatrice,  madonna  Fiordiligi,  ora  prò  nobis  — 
e  gittavano  fiori.  1  pacchioni  padovani  tendevano  a  espugnar 
la  bellezza  per  la  via  della  gola,  e  buttavano  ravioli,  crostate, 
torte  e  tortellini,  e  anche  pollastri  e  galline  cotte.  Gli  accorti 
veneziani  si  fecero  avanti  collo  stendardo  di  San  Marco  ;  e  dopo 
le  noci  moscate  e  le  cannelle  e  le  altre  spezierie  orientali,  co- 
minciarono a  trarre  ducati  d'oro.  Di  che,  le  belle  donne,  am- 
mirando la  gentilezza  veneziana,  resero  il  castello  a  San  Marco. 
E  i  veneziani  stavano  per  entrare  e  inalberare  su  la  bastita  lo 
stendardo  rosso  del  santo;  se  non  che  i  padovani  anch'essi 
facevano  pressa  in  su  l'entrata,  mal  comportando  la  facile  e 
preziosa  vittoria  degli  avversari.  Un  dei  quali,  men  savio,  che 
portava  lo  stendardo,  si  volse  con  torvi  sembianti  e  parole  in- 
giuriose ai  padovani.  Non  '1  sopportarono  ;  e,  fatto  impeto  su 
'1  male  avvisato  alfiere,  gli  strapparono  dalle  mani  il  gonfalone 
ella  patria,  e  tutto  lo  stracciarono.  Scesero  dalla  lor  loggia  di 
rettori  e  messer  Paolo  di  Sermedole,  maestro  della  milizia  di 
Padova,  a  spartire  i  giovani.  Ma  la  festa  fu  turbata  e  rotto  il 
sollazzo  > . 

Questo  fatto  fu  causa  di  guerra  fra  Veneziani  e  Padovani, 
la  quale  però  scoppiò  propriamente  solo  nell'autunno  del  1215; 
dall'estate  precedente  dev'essere  corso  un  periodo  di  relazioni, 
come  sì  direbbe  oggi,  assai  tese  fra  i  due  comuni,  di  piccole 
scorrerie,  di  sequestri  di  merci  e  di  mercanti,  quali  sarebbero 
quelli  dei  francesi  e  dei  veronesi  accennati  poi  nei  trattati.  Il  fatto 
è,  che  non  furono  gli  offesi  veneziani  a  scendere  in  campo  per 
primi,  bensì  i  padovani,  coll'invadere  il  territorio  veneto  verso  le 
foci  dell'Adige  intorno  alla  Torre  delle  Bebbe  '  che  assediarono 
il  27  ottobre.  Le  pioggie  straordinarie  che  gonfiarono  i  fiumi  co- 

1  Località  situata  fra  Chioggia  e  Cavarzere 


28  PIO    PASCHINI 

strinsero  l'esercito  padovano  a  ritirarsi  ;  né  i  Trivigiani,  chiamati 
in  aiuto  da  quei  di  Padova  il  4  ottobre,  giunsero  a  tempo  per 
impedire  la  disfatta,  trattenuti  dalle  pioggie. 

Non  so  se  il  sopravvenire  dell'inverno  impedisse  altri  fatti 
d'arme  ;  certo  è  che  noi  vediamo  al  jDrincipio  di  primavera  del 
1216  intervenire  come  paciere  il  patriarca  Wolfger  «  ex  delega- 
«tione  domini  pape».  È  probabile,  dice  il  Predelli,  che  la  com- 
missione sia  stata  data  a  Wolfger  in  Roma  stessa,  e  dietro  i  suoi 
uffizi,  quand'egli  vi  fu  nel  novembre  1215  per  il  concilio.  Il  con- 
cilio infatti,  per  agevolare  la  buona  riuscita  della  crociata,  che 
doveva  predicarsi,  aveva  ordinata  pace  generale  fra  i  principi 
cristiani  od  almeno  voleva  che  si  facesse  tregua  per  quattro  anni; 
il  patriarca  quindi,  nella  cui  provincia  ecclesiastica  si  trovavano 
Padova  e  Treviso,  era  in  dovere  d' intromettersi  per  la  pace  e  ne 
ebbe  inoltre  dal  papa  speciale  delegazione.* 

Il  9  aprile  1216  a  S.  Giorgio  in  Alga,  riuscì  al  patriarca  dì 
stringere  due  trattati,  il  primo  fra  Venezia  e  Padova,  il  secondo 
fra  Venezia  e  Treviso.  Doveva  esservi  pace  fra  le  tre  città,  le 
offese  reciproche  dovevano  perdonarsi,  i  danni  essere  riparati, 
restituite  le  cose  prese  dal  giorno  della  festa  di  Treviso  in  poi  ; 
dovea  sciogliersi  ogni  lega  fatta  dopo  quel  tempo,  qualora  fosse 
dannosa  alle  altre  città;  Trivigiani  e  Padovani  dovevano  essere 
sicuri  a  Venezia,  e  così  pure  i  Veneziani  a  Padova  e  a  Treviso  ; 
sicuri  dovevano  pure  essere  i  mercanti  che  si  recavano  a  Vene- 
zia e  conservati  i  diritti  di  dogana  che  le  si  pagavano.  I  pode- 
stà ed  i  comuni  di  Treviso  e  di  Padova  dovevano  giurare  questa 
pace  e  lo  stesso  dovevano  fare  il  doge  ed  i  suoi  successori.  I 
padovani  in  particolare  dovevano  poi  restituire  quanto  avevano 
tolto  ai  Veronesi,  e  quanto  avevano  rubato  ad  alcuni  mercanti 
francesi.  II  patriarca  ed  il  vescovo  di  Mantova*  dovevano  risolvere 
le  questioni  per  il  borgo  di  S.  Ilario,  S.  Cipriano  e  Chioggia .  ^ 
Sul  finire  d'aprile  la  pace  fu  infatti  giurata  dai  cittadini   di   Pa- 


1  Predelli,  loc.  dt.,  p.  428.  Si  può  però  supporre  che  il  papa  stesso  conoscendo 
per  prova  l'abilità  di  Wolfger,  e  sapendo  le  buone  relazioni  ch'egli  aveva  coi  Vene- 
ziani, di  sua  spontanea  iniziativa  gli  desse  l'incombenza  di  negoziare  la  pace.  Che 
Innocenzo  III  s'intromettesse  nella  questione  ad  istanza  delle  parti  contendenti,  come 
suppone  il  Nicoletti,  non  mi  pare  probabile.  Disgraziatamente  manca  la  lettera,  che 
pure  fu  scrìtta,  colla  quale  il  papa  commise  l'affare  a  Wolfger. 

2  Enrico,  vescovo  di  Mantova,  firmò  i  due  trattati  come  testis;  egli  dovette  es- 
sere stato  aggiunto  dal  papa  al  patriarca  nell'ufficio  di  mediatore  ;  ma  i  maneggi  fu- 
rono condotti  da  Wolfger,  come  dice  espressamente  il  testo  dei  documenti. 

3  Fra  i  testes  che  sottoscrissero  i  due  trattati  trovo  firmato  un  friulano  soltanto  : 
«  dominus  Henricus  archidiaconus  Aquilegie  ». 


IL   PATRIARCATO   DI   WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  29 

dova,  dal  podestà  di  Padova,  da!  doge  di  Venezia;  e  si  deve 
credere  che  abbiano  fatto  altrettanto  anche  il  podestà  ed  il  comune 
di  Treviso,  quantunque  non  ci  sia  rimasto  il  relativo  documento.* 

5.  Negli  ultimi  mesi  del  1216  il  nuovo  papa  Onorio  III  ebbe 
a  dare  al  patriarca,  un  altro  incarico  riguardante  Treviso  ;  questo 
di  natura  puramente  ecclesiastica.  Con  sua  lettera  del  30  settembre 
ordinò  a  lui,  al  vescovo  di  Padova  ed  a  Giordano,  priore  di 
S.  Benedetto,  di  presentarsi  personalmente  a  Treviso  per  vedere 
e  computare  i  debiti  contratti  da  quel  vescovado.  Essi  dove- 
vano poi  designare  i  beni  che  fosse  necessario  di  alienare  per 
pagarli  e  costringere  il  vescovo  stesso  ad  usare  maggiore  eco- 
nomia per  l'avvenire.  Questa  missione  dovette  essere  subito 
stata  eseguita,  perchè  con  un'altra  lettera  del  14  novembre  egli 
deputò  gli  stessi  prelati  ad  esaminare  se  fossero  convenienti,  utili 
ed  opportune  certe  permute  di  beni  che  il  vescovo  di  Treviso 
aveva  proposte  a  vantaggio  della  sua  chiesa.^ 

Il  patriarca  però  si  trovava  a  Treviso  sin  dal  mercoledì  14  set- 
tembre 1216,  ed  erano  con  lui  Enrico  arcidiacono,  Stefano  de- 
cano e  Tommasino  preposito  d'Aquileia,  Vigan[d]o  preposito  di 
S.  Odorico,  Dietrico  di  Fontanabona,  Leonardo  di  Tricano,  Gio- 
vanni di  Zuccola,  Solico  de  Cambinardo  (?).  In  quel  dì  a  nome 
del  patriarcato  diede  in  feudo  ad  Eppo  di  Treviso,  giudice  di 
Pero,  un  manso  in  territorio  di  Stabluzzo  e  di  S.  Paolo  colla 
decima.^ 

Da  un'altra  lettera  di  papa  Onorio  111  del  22  settembre  1217, 
diretta  questa  solo  al  vescovo  di  Padova  ed  a  Giordano,  priore  di 
S.  Benedetto,  sappiamo  che  Wolfger  non  aveva  voluto  confermare 
l'elezione  di  G[erardoJ,  figlio  di  W[ecelloJ  da  Camino,  a  vescovo 
di  Ceneda,  perchè  V.  canonico  di  quel  capitolo  aveva  protestato 
essere   stata  «  minus   canonice  factam   et  in    eìus   praeiudicium 

1  Cfr.  anche:  Fr.  Stieve,  Ezzelino  voti  Romano,  Leipzig,  1009,  p.  13.  Un  regesto 
nel  PoTTHAST,  n.  5279  (anni  1215-1216),  ci  diceche  Innocenzo  IH:  «  Pacem  inter  po- 
«  testatem  populumque  Mediolanenses  et  Venetos  ac  Tervisinos  cives  per  (Wolfgeruni) 
«  patriarcham  Aquiiegensera  et  (Henricum)  episcopum  Mantuanum  reformatani,  confir- 
«  niat  »;  credo  che  invece  di  Mediolanenses,  si  debba  leggere  Paduanenses,  ed  attribuire 
l'errore  al  regestatore. 

«  Regesta  tìonorii  IH,  Romae,  1895,  voi.  I,  p.  8,  n.  43  e  p.  18,  n.  105. 

3  Collez.  Fontanini,  ms.  in  R.  Archivio  di  Stato  di  Venezia,  voi.  652,  p.  213. 
L'opera  di  quest'Eppo  fu  molto  apprezzata  dal  patriarca.  Infatti  l'S  novembre  1217  a 
Cividale,  per  premiarlo  delle  sue  prestazioni  a  vantaggio  del  patriarcato,  gli  diede  in 
feudo  «  universam  terram  que  dicitur  banum  et  iacet  in  territorio  S.  Pauli,  sive  S.  Oeorgii 
«  cum  decima  et  omni  iure  »,  coU'obbligo  di  pagargli  ogni  anno  a  Treviso  il  censo  di 
sei  sestarii  di  avena.  Quest'atto  nel  Bianchi,  Doc.  mss.,  n.  48,  porta  la  data  erronea 
del  13  novembre  ed  il  nome  di  Cipo  invece  che  Epo. 


30  PIO  PASCHINI 

«celebratam  >,  perciò  il  papa  commise  ai  due  destinatari  che 
«  decernant  quod  canonicum  fuerit>.* 

II  6  giugno  1217  a  Sacile  nella  chiesa  di  S.  Nicolò  si  svolse 
un  atto  importante,  che  ci  dimostra  assai  bene  il  modo  di  pro- 
cedere nella  Patria  a  quel  tempo.  Erano  presenti  Almerico,  ve- 
scovo di  Concordia,  Stefano,  abbate  di  Sesto,  Ropretto,  canonico 
di  Concordia,  Giordano  frate  maestro  dell'ospedale  di  S.  Leo- 
nardo, Furiano  e  Guido  preti,  Walterbertoldo  di  Spilimbergo, 
Maio  di  Sacile,  Ardrico  di  Polcenigo,  Almerico  di  Topolieo,  Siu- 
redo  di  Ragogna  ed  altri.  Wolfger  patriarca  stabilì  che  ogni  uomo 
di  Vigonovo  e  suo  distretto,  uno  per  fuoco,  dovesse  una  volta 
per  settimana  venire  a  lavoro  e  pluvico  a  Sacile,  nel  luogo  che 
gli  verrebbe  stabilito  dal  meriga  di  Sacile;  sotto  pena  di  cinque 
soldi  di  denari  veneti  di  multa  in  caso  di  mancanza,  a  meno  che 
un  qualche  giusto  impedimento  non  lo  scusasse.  Poi  il  patriarca 
si  volse  ad  Ardrico  di  Polcenigo  e  lo  invitò  a  pronunciare  il  suo 
lodo  e  dire  se  quei  di  Polcenigo  dovevano  fare  il  lavoro  ed  il  plu- 
vico a  Sacile;  ed  Ardrico  rispose  che  lo  dovevano  <  come  gli  altri 
uomini  della  terra,  perchè  là  raccolgono,  pascolano  e  dimorano, 
e  non  potevano  sottrarvisi  se  non  i  militi,  che  vi  si  trovassero  ». 
Poi  il  patriarca  interrogò  gli  altri  presenti  se  seguissero  questo 
lodo,  e  tutti  furono  d'accordo  e  quindi  divenne  giusto  lodo.* 

Forse  durante  il  viaggio  di  questa  comitiva  da  Sacile  per 
recarsi  a  Gemona,  avvenne  a  Turrida  sul  Tagliamento  la  rinun- 
cia che  il  conte  Alberto  del  Tirolo,  per  sé  ed  i  suoi,  fece  nelle 
mani  del  patriarca  della  masnada  che  aveva  in  Friuli.^ 

Il  patriarca  era  a  Gemona  il  9  luglio  1217,  e  là  s'incontrò 
con  Leopoldo,  duca  d'Austria,  che  era  in  viaggio  per  recarsi  alla 
crociata.  In  quel  giorno  nella  chiesa  maggiore  erano  con  loro 
anche  [Bertoldo],  arcivescovo  di  Calocza  in  Ungheria,  Cforrado], 
vescovo  eletto  di  Trieste,  AflmericoJ,  vescovo  eletto  di  Concor- 
dia, Mainardo  ed  Engelberto  conti  di  Gorizia,  Artuico  di  Varmo, 
L.  di  Tarcento,   Enrico,  già  marchese  di  Andechs,  Almerico  di 


J  Reg.  Honorii  III,  voi.  I,  p.  137,  n.  799. 

«  Bianchi,  Docum.  mss.,  n.  47.  Pluvico  o  piovego  era  la  prestazione  corporale, 
ossia  mano  d'opera,  a  cui  erano  tenuti  i  contadini  per  i  lavori  di  pubblico  e  comune 
vantaggio  sulle  strade,  canali  di  navigazione,  mercati  e  simili. 

3  Bianchi,  Docum.  niss.,  n.  48  (dal  Memoriale  Belloni).  Il  testo  chiama  il  pa- 
triarca col  nome  di  Wolrico,  facile  errore  invece  di  Wolfger.  Compaiono  presenti: 
Amelrìco,  vescovo  eletto  di  Concordia,  Stefano,  abbate  di  Sesto,  Artuico  di  Cusano, 
Artuico  di  Strasso,  Marquardo  di  S.  Daniele,  Ottolino  di  Gemona,  Bertoldo  di  Ar- 
cano, Aidrico  di  Polcenigo,  Volrico  di  Cuccagna.  Manca  l'indicazione  del  giorno  e 
del  mese. 


IL    PATRIARCATO    DI   WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  31 

Osoppo,  Suiredo  di  Peuma,  Corrado  di  Condrumberch  ;  e  si 
venne  ad  una  ripartizione  ed  assegnazione  di  famiglie  di  mini- 
steriali. Suiredo  di  Ragogna  e  suoi  eredi  erano  ministeriali  di 
Aquileia;  la  prole  di  Abramo  di  Weissenstein  era  ministeriale 
del  duca.  A  petizione  di  Suiredo  stesso  il  patriarca  cedette  al 
duca  Rodolfo,  Warnero  e  Berta  figli  di  costui,  i  quali  potevano 
così  ereditare  tutto  l'allodio  ed  il  feudo  che  Suiredo  possedeva 
a  Ragogna  e  fuori,  tanto  nei  territori  del  duca  quanto  in  quelli 
del  patriarca  ed  anche  acquistare  in  Ragogna  case  e  terreni  da 
quegli  abitanti  senza  bisogno  di  richiedere  il  permesso  del  duca. 
Il  duca  diede  in  cambio  al  patriarca  la  metà  della  prole  di  Abramo 
e  Pellegrino  figlio  di  Enrico  di  Cols,  perchè  potessero  ereditare 
tanto  nel  territorio  del  duca  quanto  in  quello  del  patriarca.^ 

Poi  troviamo  Wolfger  il  7  settembre  a  Cividale  in  pomerio 
prepositure;  ed  Enrico  q.""*  Corradino  di  Orzone  gli  restituì  un 
manso  presso  Buttrio  che  aveva  in  feudo  ;  il  patriarca  diede  quel 
manso  alla  fabbrica  della  chiesa  di  Cividale,  e  questa  in  com- 
penso diede  un  manso  presso  Buia  che  le  era  stato  dato  da  Mattia 
di  Soffumbergo.* 

L'8  novembre  Wolfger  era  ancora  a  Cividale  come  sap- 
piamo dalla  donazione  che  fece  ad  Eppo  di  Treviso. 

Può  appartenere  al  13  dicembre  1217  l'atto  di  conferma  che 
Wolfger  dal  suo  palazzo  di  Aquileia  rilasciò  a  Dietmaro,  prepo- 
sito  di  S.  Stefano,  in  favore  del  suo  capitolo.^  Esso  sarebbe  l'ul- 
timo atto  di  Wolfger  di  cui  ci  rimanga  memoria. 

Il  patriarca  Wolfger  morì  il  23  gennaio  1218.  11  Necrotogium 
Aquil.  ha  infatti  di  lui:  «  Xkal.  febr.  Anno  Dni  1218  sancte 
«  memorie  Dnus  Wolfkirus  patriarcha  obiit  in  Dno  qui  dedit  fra- 
«tribus  villam  de  Merlana  ».  11  Necrol.  di  S.  Maria  di  Aq.  :  «  Val- 
«  querus  patha  »  ;  quello  di  S.  Maria  in  Valle  :  «  Valterus  patriarca  » 
(di  mano  posteriore).  Fama  di  santità  lo  accompagnò  al  sepol- 
cro, o  meglio  si  formò  intorno  al   sepolcro,   circonfusa   di  leg- 


1  De  Rubeis,  M.  e.  a.,  col.  675;  Bòhmer,  op.  cit.,  n.  10811.  Ragogna  era  pro- 
prietà del  duca  d'Austria  :  un  testimonio  in  un  documento  del  1277  dice  :  in  «  Rago- 
«  nea  erant  proprietates  domini  ducis,  excepto  garicto  quod  erat  domus  Aquileiensis  ». 
Nel  1219  Ottofredo  di  Ragogna  era  gastaldo  di  Pordenone  in  rappresentanza  del  duca 
Leopoldo.  Cfr.  Zahn,  Studi  cit.,  pp.  44  e  47  ;  Valentinelli,  Diplomatarium  Portus- 
naonense,  n.  IV. 

*  Presenti  l'arcidiacono  Enrico,  Otto,  decano  di  Cividale,  Corrado  di  Pertica  ed 
altri.  Pergam.  Capit.,  ms.  nel  R.  Museo  di  Cividale,  to.  Ili,  40. 

3  De  Rubeis,  Dissert.  mss.,  p.  116,  dove  porta  l'anno  1218;  disgraziatamente 
manca  nella  copia  l'indizione.  Presenti  furono  Enrico  arcidiacono  e  Giovanni,  prepo- 
sito  di  S.  Felice. 


32  PIO   RASCHINI 

gende  che  non  è  il  caso  di  ripetere  qui*.  Certo  l'opera  sua  nel 
patriarcato  fu  opera  di  pace,  che  dopo  i  burrascosi  patriarcati 
dei  due  ultimi  antecessori,  diede  agio  al  Friuli  di  sviluppare  me- 
glio le  sue  energie  ed  al  patriarcato  di  adattarsi  con  maggiore 
profitto  alle  condizioni  politiche  e  sociali,  che  l'evoluzione  del 
feudalesimo  andava  preparando.  Come  ben  nota  il  Lenel*,  l'opera 
di  Wolfger  fu  anche  opera  di  organizzatore,  e  le  sparse  vestigia 
che  ne  rimangono  nei  documenti,  ci  fanno  capire  quel  tanto  di 
più,  di  cui  non  ci  giunse  notizia. 


VII. 

1.  Le  strade  di  comunicazione  fra  la  Germania  e  il  Frinii.  —  2.  Le  vie  interne 
del  Friuli  —  3.  Ospedali  dei  cavalieri  di  S.  Giovanni,  degli  ospitalieri  di  S.  Spirito, 
dei  Templari.  —  4.  Ospedali  dei  cavalieri  Teutonici. 

1.  Una  delle  più  importanti  questioni,  che  prospettano  la  loro 
luce  sullo  svolgimento  della  storia  del  Friuli,  è  quella  delle  strade. 
Diciamolo  però  subito:  le  grandi  arterie  stradali,  sulle  quali  si 
svolse  il  movimento  ed  il  traffico  commerciale  nell'alto  medioevo, 
furono  sempre  le  antiche  vie  romane  e  le  vie  fluviali.  Esse 
mettevano  in  relazione  il  mare  Adriatico,  sul  quale  si  concen- 
trava il  commercio  di  Venezia,  colle  valli  della  Drava  e  della  Sava 
superiore,  della  Stiria,  del  Salisburghese  e  dell'Austria  superiore. 
Aquileia  era  il  posto  marittimo  dove  avveniva  il  contatto  fra  l'ele- 
mento marinaro  e  l'elemento  teutonico;  ed  il  continuo  passag- 
gio delle  truppe  crociate,  che  durante  il  secolo  XII  e  la  prima 
metà  del  XIII  dalla  Germania  facevano  scalo  colà  per  recarsi  in 
Oriente,  ne  accrebbe  sempre  più  l'importanza.  Da  Aquileia  si 
dirigevano  verso  il  settentrione  due  strade:  l'una,  seguendo  sem- 
pre l'Isonzo,  per  Gorizia,  Canale,  Tolmino,  Caporetto,  Plezzo 
superava  la  Chiusa  ed  il  Predil,  e  di  là  per  Raibl  e  Tarvis  giun- 
geva a  Villaco.  Su  questo  canale  si  esigeva  la  muta  del  patriarca. 

>  Si  possono  leggere  in:  Coronini,  Sepolcri  cit.,  p.  58  e  più  lungamente  nella 
Vi^a  del  patriarca  Volchero  del  Nicoletti  {Arclieogr.  Triestino,  N.  S.,  II,  p.  35  sgg.) 
Cfr.  pure  Chronieon  tertiam,  in  De  Rubeis,  M.  E.  A.,  app.  col.  11.  Del  culto  verso 
lui,  locale  |>erò  e  di  carattere  temporaneo  e  popolare,  si  ha  memoria  anche  in  una 
escussione  di  testimoni  fattasi  ad  Udine  il  18  marzo  1278,  dove  si  parla  di  un  tale 
che  stava  «  in  ecclesia  aquilegensi  ante  archam  Sancti  Wolkeri  patriarche  »  .  (Atti  del 
notaio  Giov.  de  Lupico). 

*  Op.  cit.,  p.  130.  I  fac-simili  dei  denari  e  del  sigillo  di  Wolfger  son  riprodotti 
neir  Archeogr.  Triestino,  N.  S.,  voi.  II,  p.  220,  dove  ne  parla  Carlo  Kunz.  Cfr.  pure 
Fed.  ScHEtWTZER,  Serie  delle  monete  e  medaglie  di  Aquileia  e  di  Venezia,  Trieste, 
1848  p.  14. 


IL    PATRIARCATO    DI    WOLFGER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  33 

Un  altro  ramo  dì  strada  si  divideva  presso  Gorizia  e,  seguendo 
il  corso  del  Vippaco,  conduceva  nella  Carniola  inferiore. 

La  seconda  strada,  che  da  Aquileia  andava  verso  il  setten- 
trione, passava  per  il  territorio  friulano.  Essa  veniva  ad  Udine, 
Tricesimo,  Gemona,  dove,  come  l'antica  strada  romana,  si  divi- 
deva. La  strada  più  importante  e  più  frequentemente  battuta  se- 
guiva la  valle  del  Fella  ;  e  per  Pontebba,  Tarvis,  ed  Arnoldstein 
giungeva  a  Villaco,  che  fu  uno  dei  più  importanti  centri  com- 
merciali. Mentre  il  patriarca  percepiva  la  muta  della  chiusa  del 
Fella,*  il  vescovo  di  Bamberga  percepiva  a  Villaco  la  muta  del 
sale.  Infatti  da  un  documento  del  117Q  dì  Otto  II,  vescovo  di 
Bamberga,  in  favore  del  monastero  dì  Arnoldstein,  sappiamo  che 
«  cum  temporibus  felicis  memorìae  domini  Eberhardi  episcopi 
«  (1146-1172)  temporis  inequalitas  (cioè  la  lotta  fra  Alessandro  III 
«  ed  il  Barbarossa)  viam  Canalis  quae  ducit  Villacum  preclusisset 
«  negotiatoribus  et  muta  salis  propter  raritatem  de  Foro  Julii  ve- 
«  nientium  adeo  viluisset  ut  debitum  consuetae  pensionìs  minime 
«  solvi  potuisset  » ,  si  mormorava  assai  contro  la  chiesa  di  Bam- 
berga.* Prima  del  1233  il  vescovo  Eckardo  fece  costruire  a  Vil- 
lach  l'ospedale  di  S.  Caterina  per  ì  viaggiatori  poveri  ed  infermi, 
come  vedremo. 

Da  Villaco  si  poteva  risalire  la  Orava  sino  al  Tirolo,  oppure 
per  S.  Veit,  Friesach,  Neumarkt  e  Scheifling  passare  nella  valle 
della  Mur  per  spingersi  poi,  o  per  Bruck  verso  l'Austria,  o  per 
Radstadt  verso  Salisburgo.^ 

L'ahro  ramo  della  strada  che  divìdeva  a  Gemona,  batteva 
pure  l'antica  via  romana.  Per  Tolmezzo  e  Zuglio  giungeva  al 
passo  di  Monte  Croce  o  Pleckenpass,  e  per  Mauthen  metteva 
ad  Oberdrauburg  nella  valle  della  Orava.  Sebbene  meno  frequen- 
tata era  questa  per  sempre  una  via  importante  per  il  commercio 


1  L'abbazia  di  Moggio  fu  dal  patriarca  Pellegrino  liberata  dell'onere  di  pagare  la 
muta  della  Chiusa  nel  1136,  privilegio  riconfermato  poi  nel  1150;  quella  di  Ossiach 
fu  liberata  nel  1159,  il  capitolo  di  Salisburgo  nel  1151.  Il  capitolo  di  Gurk  era  stato 
liberato  dalla  muta  patriacale  nel  1136,  e  l'abbazia  di  S.  Paolo  di  Lavant  nel  1162  da 
Vodolrico  II. 

«  VON  JAKSCH,  Die  Kàrntner,  ecc.  cit.,  n.  1248  e  1298.  L'8  febbraio  1060  Enrico  IV 
a  petizione  di  Gunther,  vescovo  di  Bamberga,  aveva  concesso  i  diritti  di  mercato 
alla  villa  di  Villaco  ad  uso  e  sotto  la  giurisdizione  del  vescovado  di  Bamberga,  che 
aveva  i  suoi  possessi  in  quel  luogo,  concessigli  evidentemente  da  Enrico  II  imperatore. 
VoN  jAKSCH,  ibid.,  n.  338.  Più  tardi,  cioè  nel  giugno  1242,  Federico  II,  da  Avezzano 
presso  Taranto,  concesse  al  vescovo  di  Bamberga  facoltà  di  coniare  a  Villaco  moneta 
del  peso  e  del  valore  della  moneta  Frisacense.  VoN  Jaksch,  ibid.,  n.  2242. 

3  Fr,  Mart.  Mayer,  Die  òstliciten  Alpentdnder  ini  Investtturstreite,  Innsbruck, 
1883,  p.  224. 


34  PIO    RASCHINI 

ed  il  transito  tra  il  Friuli,  il  Tirolo,  la  Baviera  e  il  Salisburghese. 
Ci  fu  persino  un  momento  in  cui  quelli  della  Stiria,  della  Carintia 
e  dell'Austria,  per  sfuggire  alla  muta  patriarcale  della  Chiusa, 
si  diressero  in  Italia  per  questa  via;  tanto  che  questo  negozio 
formò  obbietto  di  una  speciale  convenzione  fra  il  patriarca  Ber- 
toldo e  Mainardo  conte  di  Gorizia  nel  1234.' 

Noi  sappiamo  che  una  via  romana  metteva  in  diretta  co- 
municazione Aquileia  per  Cormons  con  Cividale  :  e  poi  per  Ca- 
poretto  e  Plezzo  risaliva  l' Isonzo  e  per  il  PrediI  giungeva  a  Tarvis. 
Certo  il  tronco  Aquileia-Cividale  era  frequentato  nel  medio  evo. 
Invece,  secondo  lo  Zahn,^  la  strada  Cividale-Tarvis  «  serviva  solo 
di  collegamento  da  luogo  a  luogo.  Per  gli  scopi  principali  non 
serviva  se  non  all'occasione,  come  ausiliare  in  caso  di  neces- 
sità». E  così  pure  il  Ficker:'  «Quando  si  trovano  dati  ge- 
nuini, la  via  per  il  canale  del  Fella  e  Pontafel  compare  sempre 
come  il  collegamento  usuale  fra  la  Carintia  ed  il  Friuli,  sicché 
non  si  deve  pensare  al  PrediI,  se  non  quando  speciali  circo- 
stanze ce  lo  suggeriscono  » .  Questo  giudizio  mi  sembra  però 
troppo  reciso.  Sino  dai  tempi  di  Pellegrino  I  Cividale  era  mercato, 
e  dal  complesso  delle  circostanze  si  arguisce  che  dovea  essere 
assai  ragguardevole  ;  di  più  si  pagava  colà  la  muta  al  patriarca 
e  questo  attesta  che  v'era  un  passaggio  importante.  Inoltre  Cividale 
era  in  strette  relazioni  con  Tolmino  :  ciò  indica  facilità  di  comu- 
nicazioni. Crederei  che  la  via  Cividale-Tarvis  si  trovasse  con  la 
Gemona-Pontafel  nei  medesimi  rapporti  nei  quali  si  trovava  con 
questa  la  Gemona-Tolmezzo-Monte  Croce. 

2.  Da  Gemona  s'irradiavano  le  vie  che  solcavano  il  Friuli 
e  lo  mettevano  in  relazione  coi  territori  circostanti.  Ho  già  ac- 
cennato a  quella  che  per  Udine  metteva  ad  Aquileia.  Un'altra 
scendeva  verso  sud-ovest,  passava  fra  Osoppo  e  le  colline  di 
Buia,  toccava  S.  Tomaso  dove,  come  vedremo  tosto,  c'era  uno 
spedale  dei  cavalieri  Gerosolimitani,  e  poco  più  oltre  doveva  di- 
vidersi. Un  braccio  toccava  Ragogna,  dove  passava  il  Taglia- 
mento,  e  per  Pinzano  giungeva  a  Spilimbergo,  poi  di  là  si  dirigeva 
per  Aviano  a  Sacile  ;  un  ahro  braccio  toccava  S.  Daniele,  dove 

1  Lo  Zahn,  Studi  ecc.  cit.,  p.  117,  suppone  che  la  strada,  per  la  quale  si  fece  l'ac- 
cordo nel  1234,  passasse  per  Tolmezzo,  canal  di  Corto,  Sappada,  Comelico,  Monte 
Croce,  Innichen  ed  avesse  Augsburg  come  punto  finale.  Ma  fu  giustamente  confutato 
dal  Mayer,  op.  cit.,  p.  224  e  specialmente  da  J.  Ficker,  Die  Alpenstrassen  per  Ca- 
nales  und  per  Montem  Crucis,  in  Mittkeilungen  des  Instituts  fììr  oesterreichische  Ges- 
chichtsforschung,  I,  1880,  p.  301. 

8  Studi,  cit.,  p.  119.  Così  pure  il  Mayer,  op.  cit.,  p.  224. 

s  Loc.  cit.,  p.  299. 


IL    PATRIARCATO    DI    WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  35 

già  nel  secolo  XI  c'era  un  mercato,  e  poi  lungo  la  sinistra  del 
Tagliamento  si  dirigeva  per  Codroipo  a  Latisana.  Latisana  crebbe 
man  mano  col  deperire  d'Aquileia  durante  il  secolo  XIII,  in  gra- 
zia della  sua  posizione  favorevole  sul  Tagliamento  e  della  sua 
maggiore  vicinanza  con  Venezia.  L'antica  vìa  romana  littoranea 
la  metteva  in  comunicazione  con  Aquileia  e  con  Concordia,  presso 
la  quale  venne  sorgendo  il  nuovo  scalo  di  Portogruaro,  sul  Le- 
mene,  che  andava  acquistando  pure  man  mano  importanza,  fa- 
vorito dai  vescovi  di  Concordia. 

Finalmente  da  Aquileia,  per  l'antica  via  Postumia,  si  giun- 
geva, lungo  l'odierna  Stradalta,  a  Codroipo  e  si  proseguiva  per 
Casarsa,  dove  si  staccava  un  tronco  che  conduceva  a  Porto- 
gruaro, si  proseguiva  per  Pordenone  e  Sacìle;  e  di  là,  conti- 
nuando verso  occidente,  si  giungeva  a  Treviso,  o,  movendo  verso 
settentrione,  per  Ceneda  si  giungeva  a  Belluno.* 

«  I  numerosi  ospizi  di  pellegrini  fondati  in  questo  tempo 
lungo  le  due  vie  che  dal  Canale  del  Ferro  si  dirigevano  al 
mare,  attraverso  la  pianura  friulana,  il  frequente  passaggio  de- 
gli imperatori  della  casa  di  Svevia  per  queste  vie,  i  trattati  con 
Venezia  che  le  sorvegliava  con  gelosa  cura,  son  tutte  prove 
dell'importanza  dei  traffici  che  si  svolgevano  nel  domìnio  aqui- 
leiese».-  Degli  ospizi  adunque  noi  faremo  ora  qui  anzitutto 
parola,  poiché  gli  altri  fatti  abbiamo  già  potuto  a  suo  tempo  no- 
tare e  noteremo  in  seguito  trattando  del  patriarca  Bertoldo  dì 
Merania. 

3.  La  sollecitudine  dei  patriarchi  nel  provvedere  al  bene  dei 
viaggiatori  e  quella  dei  pii  donatori  per  soccorrere  i  poveri  vian- 
danti, s'era  dimostrata  durante  tutto  il  secolo  XII.  Altre  provvide 
istituzioni  sorsero  sul  volgere  dì  quel  secolo  e  sul  principio 
del  susseguente. 

Nel  luglio  119Q  nel  territorio  di  S.   Tomaso  presso  Maiano^ 
erano  insieme  raccolti  alcuni  confratelli  ospitalieri  di  S.  Giovanni, 
appartenenti  cioè  a  quell'ordine  cavalleresco  che  più  tardi   sarà 
chiamato  di  Malta;  ci  sono  conservati  i  nomi  di  Enrico,  maestro 
dell'ospedale  di  Sacìle,  del  prete  Pietro,  maestro  [dell'ospedale] 
di  Volta  (presso  Latisana),*    dì  Contolìno,  maestro  dell'ospedale 


I  Zahn,  Studi  cit.,  p.  115.  Cfr.  su  questa  materia  anche  un  cenno  del  Leicht» 
in  queste  Memorie,  IV,  1908,  p.  125. 

«  P.  S.  Leicht,  in  queste  Memorie,  V,  1909,  p.  87. 

s  Bini,  Varia  Docam.  antiqua  cit..  Ili,  66,  p.  79. 

■*  È  l'ospedale  di  S.  Giovanni  del  Tempio  a  Ronchis.  Un  «  Matheus  magister  lio- 
«spitalis  de  la  Volta  >  compare  poi  nel  1229  nel  documento  per  i  cavalieri  Teutonici 


36  PIO   RASCHINI 

di  Collalto  e  parecchi  preti  e  laici.  Artuico  di  Varmo  diede  a 
Giovanni,  frate  gerosolimitano  e  priore  dei  priorato,  perchè  edifi- 
casse in  quel  luogo  un  ospedale  soggetto  al  suo  ordine,  tutto 
ciò  che  possedeva  a  Susans  e  S.  Tomaso,  ville  di  sua  proprietà, 
con  tutti  i  diritti  e  pertinenze,  ad  eccezione  di  un  manso  che 
costituiva  la  dote  della  chiesa  di  S.  Giacomo  di  Varmo  e  di  un 
altro  posseduto  da  Raimondo  di  Saccodello;  e  riservò  per  sé  e 
per  i  suoi  figli  maschi  il  diritto  d'avvocazia  sull'ospedale.  Questa 
è  l'origine  della  commenda  gerosolimitana  di  S.  Tomaso  o  di 
Susans. 

Il  patriarca  Bertoldo  assegnò  pure  ai  cavalieri  di  S.  Giovanni 
anche  l'ospedale  di  S.  Nicolò  de  Levata,  fondato  dal  suo  ante- 
cessore Wolfger,  quando  nel  1249  ne  accrebbe  i  redditi.^ 

Poiché  non  doveva  essere  sufficiente  l'ospedale  che  l'abbazia 
di  Moggio  aveva  alla  Chiusa  del  Fella,  specialmente  quando  Ge- 
mona  crebbe  d'importanza  e  divenne  centro  di  grande  movimento, 
sorse  nelle  vicinanze  di  questa  terra  una  nuova  fondazione.  «  Le 
memorie  dell'ospedale  di  Ospedaletto  non  risalgono  oltre  al  1213 
(1  agosto),  né  la  fondazione  può  ritenersi  anteriore  che  di  pochi 
anni.  Difatti  certe  deposizioni  in  carta  del  6  marzo  1275  sembrano 
stabilire  che  i  testimoni  che  le  facevano  avessero  conosciuto  di 
persona  il  vescovo  Marzutto  della  famiglia  dei  signori  di  Gemona, 
(d'onde  poi  i  Prampero)  che  avea  edificato  detto  ospedale;  del 
qual  Prelato  mi  spiace  non  aver  potuto  sapere  né  il  titolo  epi- 
scopale, né  il  giorno  della  morte  » .  Però  da  quanto  diremo  su- 
bito, le  tradizioni  s'erano  alquanto  alterate  col  passare  di  bocca 
in  bocca. 

«  E  non  solo  edificato,  ma  generosamente  dotato,  come  ap- 
prendiamo dagli  stessi  testimoni,  i  quali  asseriscono  sapere  che 
non  altri  che  i  signori  di  Gemona,  cioè  D.  Enrico,  D.  Busoto 
o  Vassoto,  D.  Mattia  e  D.  Marzutto,  vescovo  sullodato,  aveano 
*  integram  dominationem  in  Villa  de  Diepolschirchen  '  (Leopolds- 
kirchen  sopra  Pontafel),  e  che  dopo  il  loro  decesso  detti  beni 
con  tutti  i  diritti  annessi  rimasero  all'Ospedale  stesso  per  dispo- 
sizione espressa  di  que'  signori ». 

«Da  quel  primo  documento  del  1213  impariamo  il  titolo 
primitivo  del  Pio  Istituto,  ch'era  di  S.  Maria...:  Hospitale  B.  S. 
Marie  Vie  stricte  de  Canale  de  Carentana ...  e  finalmente  :  '  Hospi- 
tale S.  Marie  de  Collibus  Glemone'  (12  nov.  1246)».^ 

1  De  Rubeis,  M.  a.  e.,  col.  670. 

«  Si  noti  che  nel   Thesaurus,  n.  2,  p.  5,  è  detto  «  licentia  coilationis  Ho$pitalis 
«  Glemone,  que  ad  D.  Patriarcham  primitus  pertinebat  ». 


IL    PATRIARCATO    DI    WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN  37 

«  Troviamo  che  alla  donazione  che  fa  sopra  l'altare  di  S.  Ma- 
ria dell'Ospedale  certo  Natale  Tamaruccio  d'un  suo  terreno  (1213), 
è  presente  Corrado  eletto  vescovo  di  Trieste,  al  quale  si  danno 
i  titoli  di  avvocato,  signore  e  amministratore  del  luogo.  Questo 
prelato  della  famiglia  Bojani  '  lo  troviamo  ancora  a  Oemona 
nel  1217  e  ancora  col  predicato  di  eletto;  ma  non  saprei  immagi- 
nare d'onde  gli  fosse  venuta  quell'autorità  sull'ospedale,* e  come 
conferitogli  quel  mandato.  Invece  nel  secondo  documento  (8  di- 
cembre 1233)  troviamo  un  maestro  Cristanno  col  titolo  di  custode, 
che  poi  nel  terzo  (9  giugno  1236)  è  mutato  in  quello  di  ospita- 
liere; e  insieme  con  lui  altri  suoi  confratelli  che  son  detti  frati 
dell'ospedale,  fra'  quali  un  sacerdote,  altro  cellario  o  dispen- 
siere; ma  se  fossero  propriamente  regolari  noi  saprei  dire». 

€  Nel  1274  il  Priore,  ch'era  un  D.  Matteo  da  Roma,  essendo 
qualificato  come  frate  dell'  Ordine  di  S.  Spirito,  veniamo  a  com- 
prendere che  l'Ospedale  dì  S.  Maria  era  stato  intanto  aggre- 
gato a  quello  di  S.  Spirito  in  Sassia  (eretto  o  meglio  ristabilito 
in  Roma  nel  119Q  da  papa  Innocenzo  111)  e  assoggettato  all'or- 
dine dello  stesso  nome  sotto  la  regola  di  Sant'Agostino  dallo 
stesso  Pontefice  approvato  »  .* 

Alla  chiesuola  di  S.  Maria  la  Bella,  posta  al  piede  della 
Olemina  a  mezzo  chilometro  da  Gemona,  «  asserisce  il  Bini 
constare  che  fosse  annesso  un  ospizio  di  Templari,  e  gli  si  può 
credere  volentieri,  perchè  non  soleva  dir  cose  che  non  avesse 
attinte  a  qualche  documento:  è  solo  a  dolersi  che  non  ne  ab- 
bia indicata  la  fonte,  e  che  non  se  ne  trovi  detto  altrove  di 
più».^  Del  resto  detto  ospizio  dovette  ben  presto  scomparire, 
tanto  più  che  nel  1312  l'ordine  dei  Templari  fu  soppresso  da 
Clemente  V. 

I  templari  ebbero,  in  tempo  che  non  possiamo  precisare,  da 
Ottocaro  VI  di  Traungau  il  paese  di  S.  Quirino  presso  Corde- 

1  Qui  il  Baldissera  sbaglia  ;  Corrado,  vescovo  di  Trieste,  era  fratello  di  Enrico  Ta- 
sot  figlio  di  Enrico,  come  si  rileva  da  un  documento  rogato  ad  Udine  il  2  febbraio 
1223  (Collezione  Fontanini  cit.,  voi.  652,  p.  264).  A  sua  volta  Enrico  Tasot  padre 
aveva  sposata  Qisla  figlia  di  Corrado  di  Manzano  ed  era  gemonese,  come  risulta  da 
nn  documento  del  1212,  12  aprile,  pubblicato  dal  Joppi,  per  Nozze  Strassoldo-OalHci, 
Udine,  1879.  Quindi  io  credo  che  il  vescovo  Marzutto  ignorato,  di  cui  fa  cenno  il 
Baldissera,  non  sia  altri  che  Corrado,  vescovo  di  Trieste;  egli  era  amministratore 
dell'ospedale,  perchè  questo  era  stato  fondato  coi  beni  della  sua  famiglia. 

«  Val.  Baldissera,  L'ospedale  di  S.  Maria  dei  colli  di  Gemona  ossia  S.  Spirito 
d'Ospedaletto,  in  Archivio  Veneto,  ser.  II,  to.  XXXIII,  par.  II,  1881.  L'ospedale  fu  sop- 
presso il  30  settembre  1780. 

3  Ib.  La  chiesuola  è  posta  al  di  sopra  della  strada,  che  ora  da  Gemona  conduce 
ad  Artegna. 


38  PIO   PASCHINI 

nons.  Ed  è  possibile  che  il  vicino  luogo  di  S.  Giovanni  del  Tem- 
pio si  colleghi  con  questa  donazione.* 

4.  Anche  la  casa  dell'  ordine  teutonico  di  Friesach  ^  posse- 
deva terre  in  Friuli,  e  precisamente  lungo  il  corso  inferiore  del 
Tagliamento,  sebbene  non  si  sappia  donde  le  fossero  pervenute. 
Infatti  il  7  aprile  1229  «in  ospitale  de  Vendoy  ante  Ecclesiam, 
«  Chuniemunt  magister  summus  omnium  hospitalium  theutonico- 
«  rum  ex  ista  parte  maris  »  vendeva  ad  Asquino  di  Varmo  «  rem 
«  quandam  proprietatis  pertinentem  hospitali  de  Vrisaco,  idest 
«  domum  unam  positam  iuxta  Vendoy,  et  dedit  ei  cum  ecclesia 
«  et  domibus,  campis,  pratis,  silva  cum  tribus  mansibus  positis 
«  in  Vendoio  prope  Madrisium  »  (Madrisio  di  Varmo)  per  qua- 
ranta marche  di  denari  aquileiesi  «  excepta  villa  de  Blasiz  » . 
Vendoio  e  Blasiz  non  sono  ora  che  prati  sulla  strada  da  Co 
droipo  a  S.  Martino.^ 

Di  maggiore  importanza  per  1'  ordine  dei  cavalieri  teutonici 
fu  la  donazione  che  gli  fece  Mainardo,  conte  di  Gorizia,  in  una 
epoca  che  non  possiamo  precisare,  ma  certo  in  sul  principio 
del  secolo  XIII.  Ne  abbiamo  notizia  da  un  documento  di  suo 
nipote  Mainardo,  redatto  in  Aquileia  nel  marzo  1232  alla  presenza 
di  Federico  II  imperatore,  di  Bertoldo  patriarca,  dei  vescovi 
Egberto  di  Bamberga  (fratello  del  patriarca)  ed  Enrico  di  Worms, 
di  B.  preposito  e  C.  arcidiacono  d'Aquileia,  di  Ottone  di  Merania, 
Alberto  co.  del  Tirolo,  Enrico  co.  d'Ortenburg,  Ulrico  co.  di 
Eppan,  Albero  di  Wangen,  Otto  Bergongia,  Volkero  di  Reifen- 
berg  ed  Ulrico  suo  fratello,  Cholo  di  Absberg,  Rodolfo  di  Arces, 
Volkero  di  Dornberg.*  In  esso  Mainardo  «  qui  paternis  (Engel- 


1  Zahn,  Studt  Friulani  cit.,  p.  40.  Ciò  apparisce  anzi  tutto  da  un  atto  del  10  no- 
vembre 1219:  Valentinelh,  Diploniatarium  Portusnaonense  ;  Fontes  RR.  Austriac, 
II,  voi.  24,  Wien,  1865,  p.  4,  n.  4. 

«  L'ordine  teutonico  era  stato  fondato  da  alcuni  tedeschi  nel  1190,  ed  il  19  feb- 
braio 1198  Innocenzo  III  l'aveva  riconosciuto  come  ordine  cavalleresco  ;  i  possessi  nel 
Friuli  gli  pervennero  quindi  sin  dai  primi  tempi  del  suo  sviluppo. 

8  Zahn,  Studi  cit.,  p.  88.  La  villa  di  Blasiz  era  stata  assegnata  dal  patriarca 
Wolfger  all'ospedale,  da  lui  fondato,  di  S.  Nicolò  de  Levata.  Seguo  la  data  trascritta 
da  V.  Joppi  dal  voi.  II  processi  del  not.  Giovanni  a  Varis  di  Udine  (Arch.  not.  Udine)  ; 
mentre  lo  Zahn  ci  dà  il  1219.  In  quello  stesso  volume  di  processi,  ci  è  conservato  un 
altro  atto  redatto  il  16  marzo  1265  nell'ospedale  di  Vendoi  ;  con  esso  Asquino,  Bre- 
gonia,  Federico  e  Duringo  fratelli  di  Varmo  donano  a  Pazienza,  monaca  del  mona- 
stero di  Costanzago:  «  hospitale  de  Vendoj  positum  infra  Varmum  et  Madrisum  »,  un 
mulino  e  tre  mansi  li  vicini. 

*  Il  documento  fu  pubblicato  dal  Huillard-Bréholles,  Histoire  Diploni.  de 
Frédéric  II,  to.  IV,  par.  I,  p.  318,  dall'originale  esistente  nell'Archivio  di  Stuttgart. 
Copia  in  Bianchi,  docc.  mss.  fuori  numero  (manca  nell'indice  stampato).  Il  Db  Ru- 
BEis,  Diss.  mss.,  p.  264,  ne  ebbe  copia  dal  co.  Sigismondo  di  Atteras. 


IL     PATRIARCATO    DI    WOLFOER    DI    ELLENBRECHTSKIRCHEN 

«  berto  III)  et  patruelibus  (Maìnardo)  bonis  successimus,  attendentes 
«  et  recognoscentes  qualiter  dare  memorie  comes  Meinhardus 
«  senior  patruus  noster  proprietatem  iti  Brissenich  (Precenicco  ad 
«  oriente  di  Latisana)  hospitali  sancte  Marie  Theutonicorum  in 
«  Hierusalem  prò  remedio  anime  sue  contulerit  »,  concede  di 
nuovo,  e  rinuncia  a  qualunque  suo  diritto  o  pretesa  in  favore  di 
«  Hermann©  (di  Salza,  il  celebre  gran  maestro)  venerabili  magistro 
«  eiusdem  hospitalis  »  riguardo  ai  beni  seguenti:  «  Brissenich  cum 
«  omnibus  sibi  attinentibus  in  sylvis,  in  aquis,  in  pratis,  in  pascuis, 
«  in  piscariis;  in  Carpenal  quicquid  dictus  comes  patruus  noster 
«  ibidem  habuìt,  et  in  Blankar  tres  mansos,  aput  sanctum  Pelegri- 
«  num  unum  mansum  qui  pertinet  ad  piscariam  ;  ...ita  quod  nec  ad- 
«  vocatias,  neque  iudicia,  neque  aliquid  iuris  in  predictis  bonis  vel 
«  nostris  heredibus  reservamus  ».*  Certo  quest'istituzione  doveva 
servire  di  preferenza  ai  pellegrini  di  lingua  tedesca  ;  mentre  l'altra 
di  Ronchis  doveva  servire  per  i  pellegrini  italiani  che  venivano 
a  sbarcare  nel  porto  di  Latisana. 

Mentre  nella  Taxatio  beneficio  rum,  fatta  nel  1247  per  volontà 
fxiel  patriarca  Bertoldo,  ritroviamo  menzionati  solo  «  Hospitale 
«  Glemonae,  Hospitale  S.  Aegidii,'^  Hospitale  de  Levata  »  ^  e  come 
dipendenti  dal  patriarcato;  nel  1330  essi  appariscono  invece 
fra  gli  exempti  insieme  cogli  ospedali  :  «  de  Susans,  de  Volta, 
«de  Prisinico»,  nell' occasione  della  estimazione  fatta  da  Pagano 
della  Torre,  allo  scopo  di  stabilire  i  diritti  del  patriarca  e  quelli 
dei  cardinali  legati."' 

Furono  questi  gli  ultimi  istituti  di  tal  genere;  il  sorgere  dei 
tempi  nuovi  e  l'influenza  degli  ordini  mendicanti  creeranno  ben 
tosto  un  nuovo  ideale  di  beneficenza,  un  nuovo  gruppo  di  fon- 
dazioni. 

Pio  Paschini. 


>^ 


1  Questa  donazione  ed  istituzione  fu  poi  confermata  ed  aumentata  da  Alberto  co. 
di  Gorizia,  l'S  aprile  1302.  Cfr.  De  Rubeis,  Diss.  /nss.,  p.  265.  Il  priorato  tentonico 
di  Precenicco,  per  diploma  di  Ferdinando  II  del  12  agosto  1623,  fu  concesso  ai  Ge- 
suiti per  loro  il  collegio  di  Gorizia  ;  i  cavalieri  ebbero  in  cambio  la  signoria  di  Ober- 
sdorf  nella  Slesia.  Cfr.  l'opuscolo  di  G.  Vale,  Precenicco,  Udine,  1910. 

*  Su  quest'ospedale,  destinato  per  i  poveri  ed  i  lebbrosi,  cfr.  queste  Memorie,  X, 
1914,  p.  11. 

3  Marcuzzi,  Sinodi  cit.,  p.  328. 

*  Marcuzzi,  Sinodi  cit.,  p.  338;  se  ne  ha  un'altra  nel  Necrologiunt  Ecclesiae 
Aquileiensis  A,  fol.  63  A  e  B.,  che  è  certo  anteriore  a  quella  di  Pagano;  anche" ìm 
questo  i  sei  ospedali  sono  excepti,  quantunque  siano  quotati. 


ANEDDOTI 


Primordi  dell'ordine  Francescano  nel  Friuli. 


1.  Gemona.  —  2.  Cividale.  —  3.  Udine.  —  4.  Portogruaro  e  Sacile.  —  5.  Villaco, 
Gorizia  ed  Istria. 

La  diffusione  della  regola  francescana  è  tale  un  fatto  storico,  che  ^ 
sorpassa  gli  interessi  e  le  vicende  di  un  singolo  ordine  religioso,  ed 
entra  tra  i  fattori  di  tutt'intera  la  civiltà  medievale.  Sorta  dall'ideale  pu- 
rissimo di  una  più  intima  imitazione  della  vita  del  Redentore,  diffusasi 
con  rapidità  prodigiosa  nelle  città  e  nelle  borgate,  che  anelavano  ad 
una  nuova  vita  civile,  favorita  da  tutto  un  rinnovellarsi  di  forme  eco- 
nomiche e  di  pratiche  religiose,  essa  ebbe  subito  il  plauso  fervente  di 
tutte  le  classi;  e  di  questo  fervore  e  del  credito  che  ne  fu  la  conse- 
guenza si  valse  per  influire  grandemente,  per  penetrare  sempre  piìi 
addentro  nel  sentimento  dei  popoli,  per  dirigerne  gli  impulsi  e  per 
correggerne  i  traviamenti.  Né  il  Friuli  si  sottrasse  a  questa  pacifica 
conquista.  Troppo  lungo  ed  intempestivo  sarebbe  ora  studiarne  tutti  i 
passi;  né  è  mio  compito  dire  quanto  i  seguaci  di  S.  Francesco  ope- 
rassero nel  secolo  XIII  in  mezzo  alle  tempestose  vicende  che  sconvol- 
sero il  patriarcato.  Questo  risulterà  meglio  dallo  studio  diligente  di 
quei  fatti  ;  mi  limiterò  per  ora  solo  a  notare  il  sorgere  dei  singoli 
istituti  che  si  governarono  secondo  le  regole  francescane. 

1.  Dell'erezione  di  un  convento  di  frati  minori  in  Gemona,  per 
opera  di  S.  Antonio  di  Padova  nel  1227,  fa  cenno  il  Wadding,  il  quale 
aggiunge  pure  la  relazione  del  miracolo  del  morto  risuscitato  in  oc- 
casione della  fabbrica  del  convento.*  È  impossìbile  per  ora,  allo  stato 

»  L.  Wadding,  Annales  Minomm,  Romae,  1732,  t.  Il,  p.  172,  n.  19;  egli  si  fonda  sulla 
testimonianza  della  Historia  Seraphicae  Religionis,  lib.  I,  scritta  dal  frate  Pietro  Rodolfi  da  Tossi- 
gnano,  morto  vescovo  di  Sinigallia,  nel  1601.  —  Cfr.  Bollandisti,  Acta  Sanctorum  Junii,  t.  Il, 
p.  710,  n.  20.  —  La  Legenda  prima,  scritta  anteriormente  al  1245,  probabilmente  a  Padova,  e  pub- 
blicata da  L.  DE  Kerval,  S.  Antonii  de  Padua  vitae  duae,  Paris,  1904,  non  fa  cenno  alcuno  di 
questa  e  di  altre  simili  fondazioni  dì  conventi  ;  e  neppure  la  Legenda  Benignitas,  edita  dallo  stesso 
Kerval,  la  leggenda  di  Giovanni  Rigault  {ib.,  p.  241)  e  le  altre  legendae  del  secolo  XIII. 


PRIMORDI    dell'ordine   FRANCESCANO    NEL    FRIULI  41 

in  cui  si  trovano  gli  studi  critici  sulla  vita  del  santo,  dare  un  giudizio 
sicuro  sulla  storicità  di  questo  avvenimento. 

Don  Valentino  Baldissera,  riprendendo  una  congettura  del  Bini, 
suppone  che  sul  luogo  scelto  dal  santo  vi  fosse  già  un  ospizio  di  Be- 
nedettini, e  convalida  questa  supposizione  col  fatto  che  il  sito  del 
convento  è  «  discosto  dall'abitato  anche  oggi,  e  molto  più  nel  se- 
colo XIII,  e,  come  si  dice,  fuori  di  strada  ;  ciò  che  non  era  poco  dopo 
il  mille,  allorché  vicina  al  luogo  passava  l'antica  strada  romana,  ab- 
bandonata quando  i  privilegi  imperiali  e  patriarcali  per  incremento  di 

Oemona  vi  obbligarono  il  transito  delle  merci Se  il  Santo  avesse 

dovuto  fondare  di  pianta  il  luogo,  certamente  non  lo  avrebbe  fatto  in 
quel  sito  discosto  che  ho  detto  ;  né  si  potrebbe  mostrare  la  cella  da 
Lui  abitata,  se  non  ammettendo  ch'Ei  qui  dimorasse  tanto  tempo 
quanto  ce  ne  sarebbe  voluto  per  fabbricare  il  Convento  e  per  abitarlo  : 
é  adunque  verosimile  che  vi  avesse  trovato  l'ospizio  su  ricordato,  forse 
già  abbandonato  dai  Monaci  ;  e  quello  Esso  acconciò  pe'  suoi  frati, 
aggiungendovi  la  Cappella  dedicata  alla  B.  Vergine . . .;  e  ch'esso  stesso 
desse  al  Luogo  il  titolo,  se  pur  non  lo  aveva  già,  di  S.  Antonio  Abate, 
non  è  improbabile  ».i 

Dirò  subito  :  l'ipotesi  di  un  antico  ospizio  benedettino  sul  luogo 
ove  sorse  la  chiesa  minoritica  non  ha  alcun  indizio  che  la  suffraghi. 
Nessuna  memoria  può  essere  chiamata  a  prestarle  favore.  Di  più  era 
proprio  conforme  alle  primitive  tradizioni  francescane  erigere  i  con- 
venti alcun  poco  discosto  dall'abitato,  e  persino  in  luoghi  rimoti  e 
solitari.  D'altronde  il  modo  col  quale  erano  costruiti  i  borghi  ed  i  ca- 
stelli, impediva  a  nuove  fondazioni  religiose  di  stabilirsi  entro  le  loro 
mura.  Si  trattava  infatti  di  piccoli  centri  nei  quali  la  popolazione  era 
ammassata  in  case  per  lo  più  piccole  ed  oscure,  le  une  a  ridosso 
delle  altre,  in  vie,  chiassuoli,  piazzette  strette  e  tortuose.  La  vita  la  si 
passava,  quando  la  stagione  lo  permetteva,  più  all'aria  aperta  che  en- 
tro le  case.  Era  impossibile  quasi  poter  condurre  in  tale  ambiente  una 
vita  ritirata  da  religiosi  ;  quindi  i  monasteri  muliebri  e  maschili  si  eri- 
gevano, eccetto  che  nelle  vere  città,  per  lo  più  o  presso  le  mura  od 
anche  a  distanza  dalla  cinta  fortificata,  munendoli  con  speciali  difese, 
quando  se  ne  presentasse  il  bisogno  o  l'opportunità. 

Se  S.  Antonio  fu  veramente  il  fondatore  del  convento  gemo- 
nese,  né  la  tradizione  ha  alcunché  di  ripugnante  ai  dati  storici,  ciò 
non  vuol  dire  che  egli  sia  stato  realmente  il  costruttore  della  chiesa. 
La  primitiva  e  povera  comunità  francescana  potè  accontentarsi  da  prin- 
cipio di  un  oratorio  provvisorio  ed  intanto  attendere  a  consolidare  la 

'  V.  Baldissera,  Cronachetta  della  Chiesa  e  Convento  diS.  Antonio  in  Gemono,  Oemona,  1895, 
p.  5  sg.  L'A.  infatti  ci  riferisce  che  la  chiesa  era  s  detta  in  passato  di  S.  Francesco,  e  in  origine  di 
«  S.  Antonio  abate,  in  memoria  di  che  nella  tavola  dell'Aitar  maggiore ...  il  Santo  anacoreta  è  raffigu- 
«  rato  col  Santo  di  Padova  in  devota  adorazione  del  SS.  Crocefisso  »  ;  ma  si  tratta  di  pittura  rela- 
tivamente recente.  Io  credo  che  fosse  un  principio  riflesso,  quello  che  indusse  a  supporre  la  chiesa 
dedicata  in  onore  di  s.  Antonio  abbate  :  se  s.  Antonio  era  fondatore  della  chiesa  e  del  convento 
non  poteva  aver  fatto  che  la  fondazione  portasse  il  suo  nome. 


42  PIO    RASCHINI 

propria  fondazione.  Frattanto  s.  Antonio  morì  (1231)  e  fu  santificato 
(1232).  Trattandosi  di  un  santo  tanto  popolare  e  venerato  nella  regione 
veneta,  quando  si  trattò  di  consecrare  la  novella  chiesa,  fu  consecrata 
in  onor  suo  senz'altro. 

Fortunatamente  infatti  ci  è  conservata  la  data  esatta  della  conse- 
crazione  della  chiesa  minoritica  gemonese;  ed  è  una  data  alquanto 
piti  tarda.  Nel  calendario  di  un  codice  della  Bodleiana  di  Oxford,  ap- 
partenuto un  tempo  all'abbazia  di  Moggio,  troviamo  l'annotazione  se- 
guente: 

«  Idus  Mar.  Anno  Domini  1248  dedicata  est  ecclesia  fratrum  mi- 
«  norum  in  Glemfona]  ».i 

Con  essa  concorda  perfettamente  anche  quest'altra  memoria: 

«  1248.  Dedicata  est  Ecclesia  Fratrum  Minorum  de  Glemona  »,  che 
il  Liruti  dice  di  aver  trovata  nell'Archivio  della  Badia  di  Moggio  in 
una  piccola  cronaca  in  pergamena  e  che  riportò  infatti  nei  suoi  Apo- 
grapha. 

Il  primo  dei  documenti  che  riguardano  il  convento  è  un  atto 
deirs  aprile  1259,  con  cui  Gabriello  di  Pinzano  manomise  alcuni  servi, 
essendovi  presente  Fr.  Bernardas  Custos  fratrum  Minorum  de  Ole- 
mona.  Un  altro,  del  6  maggio,  contiene  il  testamento  di  Elisa,  figlia  di 
Giuliano  Veneto,  abitante  in  Gemona,  nel  quale  ordina  di  essere  se- 
polta «  apud  Sanctum  Antonium  Fratrum  Minorum  de  Glemona,  iuxta 
«  patrem  suum  D.  Julianum  »  ;  e  fra  le  altre  disposizioni  lascia  una 
somma  «  prò  edificio  Ecclesie  et  loci  S.  Antonii  de  Glemona  ». 

Del  1260  è  una  bolla  di  Alessandro  IV,  con  cui  concesse  indul- 
genze a  coloro  che  visitassero  la  Chiesa  dei  Minori  in  Gemona  nelle 
feste  di  S.  Francesco,  S.  Antonio  e  S.  Chiara.^ 

In  relazione  col  convento  francescano  di  Gemona  è  pure  l'origine 
del  convento  di  Venzone.  Il  18  marzo  1298  Rodolfo  gastaldo,  il  con- 
siglio e  comune  di  Venzone  diedero  al  guardiano  dei  minori  di  Ge- 
mona un  terreno  presso  il  ponte  della  Venzonassa,  perchè  qualcuno 
dei  frati  prendesse  dimora  colà.^ 

Un  convento  di  frati  minori  non  poteva  non  coltivare  l'idea  di 
far  sorgere  pure  un  monastero,  dove  fosse  seguita  la  regola  di  S.  Chiara. 
Ma  se  un  convento  per  frati  era  per  natura  sua  di  facile  erezione,  un 
monastero  per  suore  presentava  ben  maggiori  difficoltà.  Le  suore  non 
potevano  andare  mendicando  di  porta  in  porta,  dovevano  vivere  dì 
rendita  e  di  lavoro,  e  l'una  e  l'altro  non  era  molto  facile  trovare.  Si 
cominciò  invece  in  forma  molto  più  umile. 

Il  10  novembre  1249  i  rettori  del  comune  di  Gemona,  «  conside- 
rando l'onesta  fama   delle  sorelle  converse  che  dimoravano   presso 


1  Cfr.  Memorie  Storiche  Forogiuliesi,  IX,  1913,  p.  299. 

a  Baldissera,  op.  cit.,  p.  7   sg.  —  Quest'è  pure  un'altra   prova  che  la  chiesa  sin    dalle 
sue  origini  era  stata  eretta  in  onore  di  S.  Antonio  di  Padova,  non  di  S.  Antonio  abbate. 
•  Bianchi,  Documenta  summ.  regesta,  n.  797. 


PRIMORDI    dell'ordine    FRANCESCANO   NEL    FRIULI  43 

S.  Agnese  nelle  pertinenze  di  Oemona  e  memori  della  loro  onesta  vita,  » 
concessero  loro  un  pezzo  di  terra  a  loro  scelta  presso  la  chiesa  di 
S.  Agnese;  e  Milia  conversa  l'accettò  a  nome  delle  sue  consorelie.1 

Era  proprio  il  tempo  in  cui  anche  ad  Udine  s'era  stabilita  presso 
alla  chiesa  di  S.  Quirino  una  casa  di  conversae,  la  quale  aveva  otte- 
nuto speciali  privilegi  dal  patriarca  Bertoldo  il  24  luglio  1242.2 

La  modesta  casa  delle  converse  gemonesi  ricevette  nuovi  benefici 
per  mezzo  del  testamento  di  Giacomo  Basadonna,  scritto  il  6  dicem- 
bre 1265.  Ognuna  delle  sorelle  ebbe  venti  soldi,  suora  Margherita 
cinque  libre,  suor  Maria  quaranta  soldi,  suor  Anghizia  quaranta  soldi, 
suor  Giacomina  venti  soldi.  Il  testatore  lasciò  pure  un'offerta  d'olio 
per  l'illuminazione  della  chiesa  di  S.  Agnese,  e  le  monache  ebbero  tre 
libre  veronesi.^ 

Accanto  dunque  alla  chiesa  di  S.  Agnese  fiorivano  due  istituzioni  : 
quella  delle  monache  propriamente  dette  e  quella  delle  conversae  o  so- 
rores.  La  cosa  non  rimase  e  lungo  così.  Il  17  novembre  1277  fra  Ge- 
rardino di  Gavazzo,  guardiano  dei  frati  minori  di  Gemona,  comprò  dai 
fratelli  Covatto  e  Biaquino  del  defunto  Pietro  Ciriali  di  Gemona,  per 
150  libre  di  piccoli  veronesi,  una  vigna  posta  in  Villa  di  Gemona  con- 
finante col  possesso  dei  detti  venditori  e  con  quello  di  Giacomo  Ba- 
sadonna. Il  Guardiano  agiva  per  conto  «  di  suora  Gertrude  priora  di 
S.  Agnese  di  Gemona  e  del  suo  convento,  che  volevano  venire  ed  abi- 
tare nel  luogo  e  cella  che  si  sarebbe  costituita  nelle  case  di  Giacomo 
Basadonna  ».* 

Così  dunque  avvenne  la  separazione.  Le  monache  di  S.  Agnese 
rimasero  al  loro  posto,^  le  suore  vennero  ad  occupare  la  casa  del  Ba- 
sadonna congiunta  colla  vigna  Ciriali,  posta  nell'amena  posizione  che 
ancor  oggi  si  chiama  Villa  e  rimaneva  fuori  delle  antiche  mura  ge- 
monesi. Questa  condizione  di  cose  ci  si  appalesa  chiaramente  nel  te- 
stamento che  Federico,  quondam  Enrico  di  Prampero,  fece  a  Gemona 
il  31  agosto  1281,  dove  fra  gli  altri  legati  lascia  «  mediam  marcham 
«  Celle  de  Glemona.  Item  monachabus  sante  Agnetis  de  Glemona  media 
«  marcha  detur.  Item  monachabus  S.  Blasii  de  Glemona  XL.  denarii  ».6 

1  Giampietro  Della  Stua,  Monumenti  per  la  storia  dell'antico  Monistero  di  S.  Chiara  di 
Oemona,  Nuova  Raccolta  opuscoli,  t.  XXXVM,  p.  3.  II  monastero  di  S.  Agnese  dovette  essere  un 
centro  di  vita  religiosa.  Infatti  il  30  novembre  1259  Enrico  di  Pernardis  di  Oemona  lasciava  20  soldi 
al  monastero  di  S.  Agnese  e  soldi  10  alla  eremita  di  S.  Agnese,  la  quale  si  chiamava  Giacomina, 
come  sappiamo  da  un  documento  del  1267.  [Ant.  Marchetti],  Accenni  e  documenti  sopra  l'an- 
tico monastero  di  S.  Agnese  di  Oemona,  Udine,  1887,  p.  21. 

'  In  appendice  alle  opere  di  S.  Paolino  patriarca,  ediz.  del  Madrisio,  in  Mione,  P.  L.,  t.  99, 
col.  647. 

*  Della  Stua,  Monumenti  cit.,  p.  5. 

*  Della  Stua,  Monumenti  cit.,  p.  9  ;  Bianchi,  n.  422. 

'  II  10  luglio  1290  è  ricordata  ancora  una  suora  Maria  eremita  di  S.  Agnese  la  quale  lasciò 
un  censo  a  quel  monastero.  Marchetti,  op.  cit.,  p.  22. 

*  Della  Stua,  Monumenti  cit.,  p.  12.  Il  2  marzo  1287  Pochena  del  fu  Andrea  Tuta  di  Oe- 
mona si  offrì  (cioè  si  fece  suora)  «  in  manibus  honeste  et  religiose  mulieris  sororis  Oertrudis  prio- 
«  risse  sororum  Ecclesie  et  Monasteri!  Beate  Agnetis  Virginis  de  Glemona  •»  consegnando  nelle  sue 
mani  una  vigna  che  doveva  servire  per  il  suo  mantenimento,  e  poi  alla  sua  morte  doveva  rima- 
nere al  monastero.  Marchetti,  op.  cit.,  p.  29.  Il  Della  Stua,  ib.,  p.  18,  assegna  a  questo  do- 
cumento la  data  del  1281,  che  contrasta  coU'indiz.  XV,  che  vi  è  segnata. 


44  PIO    PASCHINI 

Quale  regola  seguivano  le  buone  sorores  della  cella  di  Qemona  ? 
Il  vederle  assistite  nel  loro  trasloco  da  S.  Agnese  in  Villa  dal  guardiano 
dei  Minori  ci  fa  già  supporre  che  seguissero  la  regola  francescana  ; 
questa  supposizione  ci  è  confermata  da  un  documento  gemonese  del 
25  novembre  1283.  In  quel  dì  Nicolò  di  Altaneto  per  68  libre  di  piccoli 
veronesi  ebbe  un  manso  posto  a  Susans  sopra  S.  Tommaso,  presso 
la  villa  di  Maiano;  e  ricevuta  quella  somma  da  Giacomo  Basadonna, 
cedette  quel  manso  in  perpetuo  a  donna  Alzubetta  del  fu  Ermanno 
di  Nonta  ed  a  Francesca,  figlia  di  Cozanello  di  S.  Daniele,  «  sororibus 
«  celle  sancte  Giare  de  Glemona  recipientibus  prò  se  et  sororibus  diete 
«Celle  et  earum  successoribus  ».i 

Come  si  vede  Giacomo  Basadonna  non  solo  dava  le  sue  case, 
ma  contribuiva  anche  alla  dotazione  della  Cella.  Infatti  dal  santo  di 
cui  egli  portava  il  nome  fu  chiamata  la  chiesa  della  Cella  ;  ce  lo  pa- 
lesa chiaramente  un  atto  del  12  luglio  1297  con  cui  «  domina  Jaco- 
«  mina  loci  sancti  Jacobi  ordinis  sancte  Giare  de  Glemona  »  e  le  suore  del 
convento  costituirono  loro  procuratore,  per  la  vendita  di  un  manso  a 
Treppo,  Andalò  Bugni  ;  vendita  che  Andalò  fece  il  giorno  seguente, 
alia  presenza  del  patriarca  Raimondo  a  Cividale,  nelle  mani  di  Bernardo 
di  Ragogna  decano  di  Cividale.  Il  decano  comprava  a  vantaggio 
di  Bernardo  e  Matteo  detto  Pezmanno,  figli  di  suo  fratello  Matteo. 
Andalò  asseriva  che  la  vendita  era  fatta  «  per  evidente  utilità  ed  ur- 
«  gente  necessità  del  monastero  e  specialmente  per  pagare  le  doti  ed  i 
«  diritti  che  donna  Nida,  moglie  del  defunto  Giacomo  Basadonna  di  Ge- 
«  mona,  doveva  ricevere  dalle  suore  e  dal  monastero,  quali  eredi  dello 
«  stesso  Giacomo  ».  Il  prezzo  pattuito  fu  di  26  marche.^ 

Le  due  fondazioni  continuarono  a  sussistere  contemporaneamente  : 
il  monastero  di  S.  Agnese  sotto  il  governo  di  una  priora  è  ricordato 
sino  al  1389,  e  non  si  sa  quale  regola  seguisse;  ^  il  convento  di  S.  Chiara, 
sotto  il  governo  di  una  badessa,^  tenne  la  regola  francescana  sino  al 
1776,  quando  fu  soppresso. 

Da  Gemona  passiamo  ora  a  Cividale. 

2.  Se  dovessimo  credere  al  Ni  coletti,  i  Francescani  si  sarebbero 
stabiliti  a  Cividale  ancor  verso  il  1206  in  certi  eremitaggi  ch'erano  là, 
dove  sorse  poi  l'antico  monastero  di  S.  Chiara  annesso  al  nuovo. 
S.  Francesco  in  persona  avrebbe  visitato  il  convento  che  si  fabbricava.^ 

Rifiutando  naturalmente  tale  notizia,  possiamo  però  asserire,  che 
presto  si  piantò  nel  suburbio  cividalese  un  convento  dì  frati  minori. 
Infatti  nell'anno  1244  si  parla  di  una  terra  che  Adeleita  conversa  con- 

'  Della  Stua,  Monumenti  cit.,  p.  16. 

*  Della  Stua,  Monumenti  cit.,  pp.  20  e  22. 

*  Marchetti,  op.  cit.,  p.  20,  da  quel  tempo  in  poi  non  restò  che  la  chiesa,  che  ancora 
sussiste. 

*  L'abbatissa  è  già  menzionata  in  un  documento  del  1300,  5  ottobre.  Della  Stua,  Manu- 
mtnti  cit.,  p.  26. 

»  Vita  del  patriarca  Volfero.  Notizia  passata  poi  anche  negli  Annali  del  Friuli  del  Manzano, 
Annali,  voi.  lì,  p.  214. 


PRIMORDI    dell'ordine   FRANCESCANO    NEL    FRIULI  45 

cesse  al  capitolo  di  Cividale,  terra  situata  «  super  Natissam,  iuxta  ter- 
ram  fratrum  minorum  »  ;  e  poi  nel  1246  «fit  mentio  fratrum  s.  Franci- 
sci  »  ed  anche  di  una  «  ecclesia  fratrum  minorum  ad  portas  pontis  »A 

In  un  documento  del  1''  novembre  1249  si  fa  memoria  del  «  War- 
dianus  fratrum  sancti  Frangisi  de  Civitate  ».2 

In  un  altro  del  1254  si  parla  di  una  terra  situata  «  ultra  dictum 
«  pontem  apud  ecclesiam  S.  Francisci  »,  venduta  da  uno  dei  Manzano.^ 

L'il  luglio  1256  veniva  promulgata  in  Aquileia  l'indulgenza  di 
100  giorni,  concessa  da  papa  Alessandro  IV,  in  favore  di  coloro  che 
visitassero  la  chiesa  dei  frati  minori  di  Cividale.*  In  quest'anno  dunque 
il  convento  e  la  chiesa  dei  frati  minori  erano  già  saldamente  costituiti 
in  quel  luogo,  lungo  la  sinistra  del  Natisone,  che  passò  poi,  come 
vedremo  subito,  in  proprietà  delle  Clarisse,  le  quali  Io  tennero  sino 
al  momento  della  loro  soppressione. 

Non  mancarono  gli  ingrandimenti.  Il  17  luglio  1258,  a  Cividale, 
Nicolussio  di  Cividale  e  sua  sorella  Petra  vendettero  per  venti  marche 
di  denari  aquileiesi  ad  Alberto  de  Colle,  vicedomino  patriarcale,  un  fondo 
posto  oltre  ponte,  ch'era  stato  proprietà  di  Federico  di  Chiusa,  marito 
di  detta  Petra.  Confini  di  quel  fondo  erano  :  «  ab  uno  latere  firmat  in 
«  possessionem  fratrum  minorum,  ab  uno  capite  in  Ripam  fluminis  Na- 
«  tissae,  ab  alio  in  quandam  viam  per  quam  itur  ad  eandem  possessio- 
«  nem  ».  In  quel  dì  stesso  Alberto  donò  quel  fondo,  certo  assai  spazioso 
a  giudicare  dalla  somma  sborsata,  «  prò  animae  suae  remedio  »  al 
convento  dei  frati  minori.^  Il  nuovo  possesso  era  dunque  contiguo  al- 
l'antico ed  accrebbe  perciò  il  modesto  orto  dei  frati. 

Coll'opera  del  vicedomino  Alberto  è  certo  da  collegare  anche 
quella  del  patriarca.  Il  documento  che  riferisce  la  consecrazione  della 
chiesa  di  S.  Francesco  ad  Udine,  riferisce  pure  che  Gregorio  di  Mon- 
telongo  «  edificavit, .  .  et  conventum  in  Civitate  Austrie.  XVIII  Mar.  ». 
Ma  questa  frase  dev'essere  intesa  con  limitazione,  perchè  chiesa  e  con- 
vento esistevano  a  Cividale  ben  prima  che  il  Montelongo  entrasse  in 
Friuli  (1252);  l'opera  sua  dunque  dovette  consistere  nel  ricostruire, 
amplificandola,  la  piccola  e  povera  casa  dei  frati  minori. 

Il  21  gennaio  1265  sappiamo  presente  a  Cividale  Giovanni  guar- 
diano dei  frati  minori  di, Cividale ;6 


»  Primordi  francescani  in  Cividale,  Cividale  del  Friuli,  1913,  p.  11  ;  O.  Grion,  Guida 
Storica  di  Cividale,  Cividale,  1898,  p.  393,  afferma  trovarsi  menzionati  i  frati  minori  in  Cividale 
in  un  documento  capitolare  fin  dal  1241  ;  ma  non  cita  il  documento,  e  potrebbe  trattarsi  d' una 
sua  svista. 

*  Me/norie  Storiche  Cividalesi,  II,  1906,  p.  IH. 
»  Primordi  cit,  p.  11. 

*  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  213;  Primordi  cit.,  p.  7. 

'^  Presenti  all'atto:  fra  Enrico  da  Padova,  fra  Gerardo,  fra  Antonio,  fra  Vosalco,  fra  Ber- 
toldo e  fra  Alberto,  tutti  francescani  (v'erano  dunque  per  lo  meno  sei  frati  nel  convento  di  Ci- 
vidale), poi  Federico  gastaldo  d' Udine  e  Giovanni  gastaldo  di  Cividale,  con  altri  ancora.  —  Do- 
cum.  orig.  nel  Museo  Civico  Udinese.  —  Primordi  cit.,  p.  7. 

*  Dal  protocollo  di  Giovanni  de  Lupico. 


46  PIO    PASCHINI 

ril  agosto  1267  la  chiesa  di  S.  Francesco  è  ricordata  in  un 
documento  di  Landò  di  Montelongo,  nipote  del  patriarca  ;  i 

nel  1275  è  ricordata  anche  la  «  centrata  S.  Francisci  »  ;  2 

nell'anno  1277  Ermanno,  canonico  custode  di  Cividale,  fra  altri 
legati  in  favore  di  pii  istituti,  lasciò  otto  denari  ai  frati  minori,  ed  il 
suo  letto  «  cum  uno  plumacio  infirmarle  fratrum  mìnorum  »  ;  ^ 

il  26  marzo  1285  «  in  domo  fratrum  minorum  »  a  Cividale  Ugo 
di  Duino  costituì  un  procuratore  presso  il  patriarca  ;  * 

il  18-19  dicembre  1282  Prosperino,  custode  dei  frati  minori  di 
Cividale,  fu  presente  al  concilio  provinciale  di  Aquileia  presieduto  dal 
patriarca  Raimondo. 

Con  questo  noi  vediamo  ormai  completamente  costituiti  i  frati 
minori  a  Cividale,  nel  loro  convento  e  chiesa  di  S.  Francesco  oltre 
Ponte,  dietro  la  chiesa  di  S.  Martino.  Ma  questo  luogo  non  doveva 
essere  la  loro  dimora  definitiva;  ed  il  loro  trasferimento  è  in  relazione 
colla  fondazione  del  monastero  delle  Clarisse. 

Anche  a  Cividale  l'origine  di  queste  suore  ci  si  dimostra  assai  mo- 
desta ed  oscura.  Cominciamo  infatti  col  trovare  qui  ricordata,  il  30  giu- 
gno 1238,  una  Adeleyta  conversa;  pur  troppo  non  sappiamo  di  piiì; 
ma  è  un  indice  questo  che,  come  ad  Udine  ed  a  Oemona,  anche  a  Ci- 
vidale c'erano  sin  da  quel  tempo  delle  bonae  tnalieres  le  quali,  o  so- 
litarie "''  od  in  piccole  comunità,  attendevano  alla  vita  spirituale,  senz'es- 
sere propriamente  legate  ad  una  regola  ben  determinata;  la  povertà 
e  la  semplicità  della  loro  vita  le  ponevano  fuori  degli  ordinamenti  dei 
grandi  monasteri  feudali,  che,  come  quello  di  S.  Maria  in  Valle,  ave- 
vano larghi  interessi,  complicata  amministrazione,  diritti  signorili.  Era 
una  nuova  espressione  di  quella  vita  democratica  veramente,  che  sca- 
turiva dalla  vita  comunale  man  mano  che  questa  si  svolgeva  sotto 
l'influenza  dell'idea  guelfa. 

Un  gruppo  di  queste  buone  donne  si  stabilì  a  S.  Pietro  di  Poloneto, 
luogo  che  non  sappiamo  ora  bene  determinare.  Non  sappiamo  neppur 
quando  ciò  avvenisse.  Man  mano  l'istituzione  trovò  sviluppo.  Nel  1283 
Isabella,  figlia  del  milite  cividalese  Swichero,  donò  alle  pie  donne  di 
S.  Pietro  casa  ed  orto  presso  il  colle  di  S.  Pantaleone,  in  vicinanza  di 
Rualis,  perchè  si  costruissero  un  monastero.^  Ma  questo  crescere  com- 
plicava necessariamente  le  cose,  e  le  buone  donne  di  S.  Pietro  cer- 
carono un  luogo  per  costruirsi  un  convento,  che  non  fu  più   né  a 


^  R.  Archivio  di  Stato,  Venezia,  voi.  I,  Pergamene  dell'Abbazia  di  Sesto. 

*  Primordi  cit.,  p.  12. 
»  Ib.,  p.  6. 

*  V.  Joppi,  Appendice  ai  Docum.  Goriziani,  n.  IV. 

5  Nel  1292  troviamo  anche  a  Cividale,  menzionata  da  Giuliano,  «  una  Alzubetta,  nipote  di 
d  onna  Luicarde,  la  quale  fu  rinchiusa  come  eremita  presso  S.  Stefano  ». 

*  Primordi  cit.,  p.  11.  Siccome  Swichero  già  il  !•>  agosto  1213  faceva  testamento  prima  di 
recarsi  in  Terra  santa;  sua  figlia  nel  1283  doveva  essere  ben  vecchia.  Le  loro  parentele  quali, 
sono  esposte  dal  Torriani  (ib.)  sono  una  pura  sua  fantasia. 


PRIMORDI    dell'ordine   FRANCESCANO    NEL    FRIULI  47 

S.  Pietro,  né  a  S.  Pantaleone,  e  adottarono  una  regola  propriamente 
detta,  che  fu  quella  di  S.  Chiara. 

Questi  mutamenti  sono  narrati  dal  cronista  cividalese  Giuliano  : 

«  Il  giovedì  (era  veramente  venerdì)  13  gennaio  1284,  ottava  del- 
l'epifania, alcuni  frati  minori,  circa  sei  o  più,  del  convento  di  Cividale, 
che  stavano  fuori  di  Cividale  presso  la  chiesa  di  S.  Francesco,  ven- 
nero la  prima  volta...  ad  abitare  in  Cividale  in  domo  et  curia  di  Vo- 
dolrico  da  Cadore,  preposito  di  S.  Pietro  in  Carnia.  Quella  casa 
coll'adiacenza  l'avevano  comperata  da  Vodolrico  Sandrina  e  le  sorelle 
di  S.  Pietro  quondam  di  Poloneto,  che  abitavano  presso  S.  Pantaleone  ;  i 
e  la  cedettero,'  aggiungendovi  non  poco  denaro,  ai  detti  frati  ;  ed  esse 
alla  loro  volta  comperarono  per  loro  abitazione  il  luogo  dove  stavano 
i  frati  a  S.  Francesco  presso  Cividale  colla  chiesa,  chiostro,  edifici, 
orto  e  pertinenze  tutte  in  quel  luogo.  E  ciò  fu  fatto  col  consenso  ed 
autorità  del  venerabile  padre  Raimondo,  patriarca  di  Aquileia  ».2 

Per  questo  scambio  di  possessi  i  frati  minori  passarono  dunque 
nell'interno  della  città  e  si  diedero  le  mani  attorno  per  fabbricarsi 
chiesa  e  convento.  Ma  sorsero  contro  di  loro  i  frati  domenicani  di 
Cividale,  che  facendosi  forti  di  una  costituzione  pontificia,  la  quale 
vietava  che  si  costruissero  nuovi  conventi  di  frati  mendicanti  entro  una 
determinata  distanza  da  quelli  già  esistenti,  pretesero  di  impedire  l'opera 
loro.  Ma  Bernardo,  vescovo  di  Porto  e  legato  apostolico,  dichiarò  che 
la  costituzione,  della  quale  intendevano  profittare  i  Domenicani,  era 
stata  abolita  da  papa  Clemente  IV.  Perciò  il  23  dicembre  1284,  da 
Udine,  il  patriarca  Raimondo  concesse  licenza  ai  frati  minori  di  Cividale 
di  costruirsi  la  loro  chiesa.^  In  base  a  questo  documento  il  p.  Wad- 
ding  trattando  dei  conventi  donati  ai  frati  Minori  nel  1284  scrive: 
«  Locus  Austriae  in  provincia  S.  Antonii  et  custodia  Fori-Julii,  quem 
«  Raymundus  Turrianus  Episcopus  Comensis  die  IX  decembris*  inchoa- 
«  vit,  Marco  de  Malatravensi  Patavino  Praefecto  custodiae  Paduanae  co- 
«  ram  dicto  domino  Raimundo  comparente  et  petente  locum  hunc  aedi- 
«  f icari,  rogato  Joanne  de  Lupico  Notarlo  pubblico  ».5 

La  costruzione  della  chiesa  dei  frati  fu  infatti  cominciata  subito; 
ed  una  concessione  d' indulgenza  emanata  da  Marcio,  vescovo  di  Ce- 
neda,  il  26  gennaio  1285,  ci  fa  sapere  che  il  patriarca  aveva  stabilito 

*  Si  deduce  da  questo  evidentemente  che  Sandrina  e  le  sue  consorelle  si  erano  trasportate 
da  S.  Pietro  a  S.  Pantaleone;  ma  quest'ultima  località  non  doveva  essere  luogo  adatto  al  loro 
scopo  e  quindi  cercarono  una  combinazione  coi  frati  minori,  nel  modo  ch'è  espresso. 

«  luLiAN.,  §  XXXV,  p.  16,  in  R.  I.  S.^,  t.  XXIV,  p.  XIV. 
»  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  498. 

*  Qui  c'è  errore  nella  data,  perchè  non  si  badò  che  nel  documento  stava  scritto  :  «  die  IX 
«  exeunte  Dee.  ». 

»  Op.  cit.,  t.  IV,  p.  137,  §  XX.  E  soggiunge:  »  Maestro  Bonaventura  Vivaruccio  uomo  pratico 
negli  affari  restaurò  la  parte  del  convento  che  crollava  presso  il  fiume  Marsione  ;  il  quale  scorre 
con  tanta  abbondanza  d'acqua  da  poter  muovere  contemporaneamente  dieci  ruote  da  mulino  ;  il 
fiume  salendo  non  senza  soave  mormorio  con  acqua  cristallina  e  trasparente  sino  al  fondo  pro- 
duce trote  e  marsioni,  chiamati  così  dal  nome  del  fiume.  Morì  egli  a  Venezia,  segretario  della 
provincia  nel  1584  ». 


48  PIO   PASCHINI 

la  prima  domenica  di  febbraio  per  porne  solennemente  la  prima  pietra. 
Poi  il  14  marzo  il  cardinale  legato  Bernardo,  vescovo  di  Porto,  con- 
cesse quaranta  giorni  d'indulgenza  a  coloro  che  facessero  un  elemo- 
sina «in  opere  plurimum  sumptuoso  »  che  i  frati  minori  avevano 
principiato  sul  luogo,  dove  da  poco  avevano   cominciato  ad  abitare.^ 

La  chiesa  dovette  essere  stata  condotta  a  termine  assai  presto, 
perchè  il  15  aprile  1286  da  Aquileia  il  patriarca  Raimondo  confermò 
l'indulgenza  concessa  dai  vescovi  di  Padova,  Ceneda  ed  Emona  in 
favore  di  coloro  che  intervenissero  alla  predica  nella  chiesa  dei  frati 
minori  di  Cividale."^  Ed  è  pur  degno  di  nota,  che  con  suo  testamento 
del  15  ottobre  1293  Francesco  di  Fontanabona  volle  alla  sua  morte 
essere  sepellito  nella  chiesa  di  S.  Francesco  a  Cividale  «  apud  portam 
«  perguli  predicatorum  in  claustro  ».3 

Il  convento  dei  minori  a  Cividale,  doveva  essere,  almeno  nella 
comune  estimazione,  il  più  importante  fra  quelli  esistenti  in  Friuli. 
Eccone  una  prova. 

Era  impossibile  che  un  convento  potesse  prosperare  in  Aquileia. 
Le  circostanze  di  luogo  e  di  clima  non  avrebbero  potuto  che  impe- 
dire o  renderne  inutile  la  fondazione,  perciò  si  provvide  in  altro  modo. 

Il  regesto  di  un  documento  del  10  gennaio  1292  ci  dice  cosi: 
«  I  frati  minori  di  Cividale  hanno  una  casa  in  Aquileia,  concessa  a 
«  loro  ed  ai  loro  successori  ;  dall'una  parte  di  essa  sta  la  chiesa  di 
«  S.  Andrea,  dall'altra  un'altra  casa  dei  detti  frati,  dalla  terza  sta  il 
<' cimitero,  dalla  quarta  corre  la  via  pubblica  che  conduce  al  fiume; 
«  ed  essi  hanno  facoltà  di  celebrare  nella  detta  chiesa  di  S.  Andrea  ».* 
L'avere  una  chiesa  nella  capitale  stessa  del  patriarcato  non  era  certo 
per  i  frati  di  Cividale  pìccolo  segno  del  riguardo  in  che  erano  tenuti. 
Anche  l'antico  convento  dei  frati  fu  tosto  adattato  alla  sua  nuova 
destinazione.  Infatti  «  il  4  giugno  1284,  ottava  delle  Pentecoste,  alla 
presenza  di  Fulchero  di  Zuccola,  vescovo  di  Concordia,  di  Ulvino  da 
Cividale,  vescovo  di  Trieste,  di  Bernardo,  vescovo  di  Pedena  e  di  altri 
assai,  il  patriarca  Raimondo  diede  l'abito  della  regola  di  S.  Chiara  alla 
priora  Sandrina  ed  altre  sorelle  (undici),  olim  di  Poloneto,  e  le  con- 
secrò  e  le  rinchiuse  colà  »,  cioè  nel  convento  di  S.  Francesco.'' 

Da  Cividale  il  15  ottobre  il  patriarca  concesse  alla  badessa  ed 
alle  suore  di  S.  Francesco  di  Cividale,  di  passare  all'ordine  di  S.  Chiara 
e  le  esentò  dalla  giurisdizione  temporale  e  spirituale  del  patriarca,  perchè 
potessero  godere  tutti  i  diritti  e  privilegi  concessi  alle  Clarisse.*' 

«  Il  19  ottobre  1287,  giorno  di  domenica,  per  autorità  del  cardi- 
nale che  presiedeva  all'ordine  di  S.  Chiara,  furono  confermate  le  suore 

1  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n'.  44Q  e  501. 
'  Primordi  cit.,  p.  8,  dai  Doc.  Bianchi. 

*  Regesto  in  cod.  De  Rubeis,  pubblicato  dal  Bracato,  in  queste  Meni.,  IX,  1913,  p.  107. 
*•  Reg.  del  cod.  De  Rubeis  pubblicato  dal  Bracato,  in  queste  Mem.,  1909. 

*  Iulian.,  Ioc.  cit. 
Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  535. 


PRIMORDI    dell'ordine    FRANCESCANO    NEL    FRIULI  49 

di  S.  Chiara  presso  Cividale  da  frate  Pietro,  visitatore  delle  suore  del- 
l'ordine di  S.  Chiara;  e  fu  dato  loro  l'abito  e  la  regola  di  S.  Chiara  ».i 
Si  comprende  da  questo,  che  quanto  aveva  fatto  tre  anni  prima  il 
patriarca  Raimondo,  non  era  stato  che  un  primo  passo  per  ridurre  a 
vera  vita  claustrale  le  suore  di  S.  Pietro  di  Poloneto.  Tre  anni  di  una 
specie  di  noviziato  furono  reputati  sufficienti  per  costituire  secondo 
tutte  le  regole  canoniche  il  nuovo  monastero. 

Finalmente  «  il  5  febbraio  1288  venne  al  monastero  di  S.  Chiara 
di  Cividale  come  badessa  la  venerabile  signora. . .  di  Milano,  nipote 
di  Raimondo  patriarca  di   Aquileia».^ 

Anche  la  chiesa,  che  prima  era  dedicata  in  onore  di  S.  Francesco, 
mutò  nome,  e  fu  chiamata  chiesa  di  S.  Chiara.^  Il  28  novembre  1295  il 
monastero  di  S.  Chiara  fu  posto  sotto  la  protezione  della  Santa  Sede.* 

3.  Parrebbe  doversi  dire  che  la  regola  francescana  penetrasse  ad 
Udine  un  po'  piti  tardi. 

Da  una  deliberazione  del  consiglio  di  Udine,  del  21  febbraio  1343, 
si  sa  che  l'imperatore  Federico  II  aveva  concesso  ai  borghigiani  di 
Udine,  che  i  frati  minori  ed  i  frati  predicatori  non  potessero  mai  avere 
casa  o  comperare  terreno,  orto,  bearzo  od  altro  qualunque  possesso 
entro  le  mura  vecchie,  che  erano  costruite  sui  Gorghi  ed  intorno  al 
borgo  di  Qemona. 

Il  Joppi  suppone  che  questo  privilegio  dell'imperatore  sia  stato 
emanato  intorno  al  1232.5  Non  c'è  però  alcun  dato  sicuro  per  asse- 
gnargli un  anno  piuttosto  che  un  altro  ;  ma  forse  l'atto  fu  compilato 
qualche  anno  più  tardi,  quando  Federico  II  prese  a  perseguitare  acer- 
bamente gli  ordini  mendicanti,  risolutamente  avversi  alla  sua  politica 
ghibellina  ed  antipapale. 

Però  i  minori  poterono  stabilirsi  ad  Udine,  dopo  tramontata  la 
ortuna  dell'  imperatore  ;  e  fondarono  il  loro  convento  poco  fuori  l'an- 
tico recinto  delle  mura,  sul  luogo  dove  ora  sorgono  la  chiesa  e  gli 
edifici  dell'ospedale  civile. 

Giambattista  Raimondi  narrando  delle  origini  delle  chiese  di  Udine 
scrive  :  «  Gregorio  di  Montelongo  gli  (i  frati  minori)  introdusse  in 
«  questa  città,  dove  s' ingrandì  la  Chiesa  et  Convento.  Fu  parimente  am- 
«  plificata  sotto  Raimondo  Turriano  patriarca,  et  consecrata  la  prima 
«  domenica  di  Luglio  Tanno  1266  con  l' intervento  di  sette  vescovi  suf- 
«  fraganei  al  patriarcato  d'Aquileia  ».6 

La  notizia  sebben  confusa  è  esatta.  Consta  infatti  da  un  docu- 
mento che  la  prima  domenica  di  luglio  del  1266,  anno  decimosesto 
del  pontificato  di  Gregorio  di  Montelongo,  la  chiesa  di  S.  Francesco 

'  JuLUN.,  p.  20,  §  XLVII. 

2  JULIAN.,    p.   20,    §    L. 

*  Primordi  cit.,  p.  14. 

*  Fr.  di  Manzano,  Annali,  t.  Ili,  p.  256,  dal  Bianchi. 

»  Statuti  e  Ordinamenti  del  Comune  di  Udine,  ediz.  Joppi,  Udine,  1898,  p.  140,  n.  II. 
«  Preciosa  gioia  dell' Ill.ma  Città  di  Udine,  ms.  nel  Seminario  di  Udine,  e.    17;  operetta 
compilata  nel  maggio  1660. 


50  PIO    PASCHINI 

e  l'altare  maggiore  furono  consecrati  da  Alberto  de  Collis,  vescovo  d; 
Concordia,  da  Corrado  Faba  di  Zellaco,  vescovo  di  Capodistria,  e  da 
Bonaccorso,  vescovo  di  Emona  (Cittanova),  presente  lo  stesso  patriarca 
insieme  con  i  vescovi  di  Treviso,  di  Ceneda,  di  Trieste  e  di  Parenzo. 
L'anno  seguente  fu  consecrato  l'altare  di  S.  Andrea,  presenti  il  pa- 
triarca, i  vescovi  di  Concordia,  di  Emona,  di  Capodistria.  Il  documento 
asserisce  inoltre  esplicitamente  che  fu  il  patriarca  a  costruire  il  con- 
vento.i 

La  ecclesia  fratrum  minorutn  de  Utino  è  ricordata  poi  il  6  settem- 
bre 1269  in  un  atto  del  patriarca  moribondo.^ 

Si  comprende  quindi  quanto  erri  il  p.  Wadding  nella  brevissima 
notizia  che  consacra  all'erezione  del  convento  Udinese.  All'anno  1279 
egli  scrive:  «  Utinae,  nobilis  in  Foro-Julii  urbis,  extruxit  monaste- 
«  rium  Raymundus  Turrianus  Episcopus  Comensis;  qui  et  aliud  in 
«  eadem  regione  in  urbe  Austriae  extruxit  quinto  ab  hoc  anno  ».  ^ 
Può  darsi  che  anche  il  patriarca  Raimondo  abbia  fatto  qualcosa 
per  il  convento  di  Udine  ;  ma  non  spettano  a  lui  le  prime  parti  nel- 
l'opera. Né  il  convento  andò  poi  soggetto  a  tramutamenti  sostanziali 
sino  alla  sua  soppressione  verso  la  metà  del  secolo  XVIIl. 

Solo  alcuni  decenni  più  tardi  cominciarono  umilmente  in  Udine 
le  Clarisse.  Scrive  il  Raimondi:  «Di  quest'ordine  di  monache  fu  già 
<  principiata  una  chiesa  et  monasterio  in  questa  città  l'anno  1294,  come 
«consta  per  scrittura  di  Valtero  Nodaro  1294,  14  settembre,  che  il  pa- 
«  triarca  Raimondo  della  Torre  fece  una  permuta  con  Bianco  da  Udine 
«  d'una  pezza  di  terra  per  edificare  il  Monasterio  di  S.  Chiara  et  della 
«  Cella,  et  poi  Uccello  degli  Uccelli  nobile  di  Udine  lasciò  tutte  le  sue 
«  facoltà  acciò  fosse  accresciuto  et  compiuto  il  novo  Monasterio  sotto 
«  il  titolo  di  S.  Chiara».*  Esiste  inoltre  un  altro  documento  dell'undici 
dicembre  1294,  redatto  ad  Udine  nella  camera  del  patriarca,  col  quale 
Uccellutto,  cittadino  di  Udine,  volendo  stabilire  una  cella  per  religiose 
dell'ordine  di  S.  Chiara  nella  villa  di  Udine  in  un  luogo  detto  Somriva 
presso  la  porta  Gemona,  chiese  al  patriarca  Raimondo  che  volesse 
concedere  a  tale  scopo  la  terra  sulla  quale  aveva  cominciato  già  quella 
cella.  Ed  il  patriarca  annuì  .^ 

L'iniziativa  della  fondazione  apparteneva  dunque  ad  Uccello,  o 
Uccellutto  ;  ma  siccome  a  quest'atto  erano  presenti  anche  fra  Oalvaneo, 
lettore  nel  convento  dei  frati  minori  di  Cividale,  e  fra  Giacomo,  lettore 

»  Bini,  Doc.  Hist.,  V,  72,  ms.  nell'Archivio  capitolare  di  Udine  ;  Bianchi,  Doc.  ms.,  n.  319 

2  Vicino  ad  essa  era  posta  la  casa  di  Alberto,  vescovo  di  Concordia,  vicedomino  del  pa- 
triarca, ucciso  nel  1268.  R.  Archivio  di  Stato,  Venezia,  Collez.  Fontanini,   voi.  647,  p.  739. 

»  L.  Wadding,  op.'cit.,  tomo  IV,  p.  87,  XXIX.  In  questo  paragrafo  l'autore  parla  «quorum- 
«  dam Conventuum  ad  Patres Conventuales  spectantium  »,  di  incerta  origine.  II  patriarca  Raimondo 
della  Torre  era  stato  vescovo  di  Como,  prima  d'essere  designato  da  papa  Gregorio  X  patriarca 
d'Aquileia. 

*  Op.  cit.,  e.  33. 

»  Bini,  Varia  Patriarc.  Aqiiil.,  I,  148.  Cfr.  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  726,  dove  l'atto  ha  la  data 
del  21  dicembre.  Ad  Uccellutto  si  deve  pure  la  fondazione  della  chiesa  di  S.  Lazzaro,  presso  la 
casa  dei  lebbrosi  nelle  vicinanze  di  Udine,  IS  novembre  1285.  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  510. 


PRIMORDI    dell'ordine    FRANCESCANO    NEL   FRIULI  51 

in  quello  di  Udine,  dobbiamo  credere  che  ad  essi  ed  ai  loro  confra- 
telli appartenga  l'iniziativa  morale.  I  loro  suggerimenti  ed  il  loro  ap- 
poggio spirituale  devono  avere  suscitate  fra  le  donzelle  udinesi  le  prime 
vocazioni  ed  in  Uccellutto  e  nel  patriarca  stesso  i  primi  benefattori  e 
sostenitori  del  monastero  nascente. 

Alla  morte  del  patriarca  Raimondo,  Uccellutto  chiese  alla  S.  Sede 
la  conferma  dell'istituzione  del  monastero.  Benedetto  XI  infatti  la  con- 
cesse, ma  essendo  egli  morto  prima  che  alle  bolle  fossero  apposti  i 
consueti  suggelli,  il  patriarca  Ottobono  de'  Razzi  non  le  volle  accettare; 
perciò  Uccellutto,  coll'appoggio  anche  della  cittadinanza  Udinese,  fece 
appello  a  Napoleone,  cardinale  diacono  di  S.  Adriano,  il  quale  coU'auto- 
rità  di  legato  apostolico  il  4  settembre  1305  confermò  la  donazione  di 
Raimondo.  Ottobono  allora  accettò  le  lettere  del  legato  ed  intervenne 
anche  all'atto  di  donazione  fatto  da  Uccellutto  l'il  dicembre  1306,  per 
il  quale  il  monastero  ebbe  possessi  a  Rizzolo,  Sclaunicco,  Buia,  Biancada, 
Zugliano,  Morsano,  Paderno,  Bergonzani,  Collegrigioni  ed  il  molino 
sulla  roggia  che  scorre  per  Grazzano. 

La  chiesa  del  monastero  era  stata  già  consacrata  nel  febbraio  1303 
dal  patriarca  coll'assistenza  di  sette  vescovi  comprovinciali."  Le  Clarisse 
tennero  ininterrottamente  il  loro  monastero,  finché  nel  1806  fu  sop- 
presso dal  governo  italico. 

4.  Di  due  altre  fondazioni  francescane  in  Friuli  si  ha  notizia  nel 
secolo  XIH. 

Il  10  maggio  1281  a  Portogruaro  frate  Fulcherio,  vescovo  di  Con- 
cordia, considerando  il  bisogno  che  aveva  la  terra  di  Portogruaro  del- 
l'assistenza dei  religiosi  e  specialmente  di  quelli  dell'ordine  di  S.  Fran- 
cesco, concesse  a  fra  Guglielmo,  ministro  della  provincia  di  S.  Antonio 
nella  Marca  Trivigiana,  un  possesso  che  apparteneva  alla  chiesa  di 
Concordia,  «  per  edificare  la  chiesa,  il  chiostro,  il  dormitorio,  le  altre 
officine  e  l'orto  ed  il  giardino  e  la  casa  che  aveva  cominciata  a  costruire 
e  che  intendeva  condurre  a  compimento  »  ;  e  gliene  diede  l'investitura 
coll'anello.  Il  luogo  era  a  Portogruaro  stesso  ■-<  presso  la  porta  supe- 
riore che  conduceva  al  porto  vecchio  »  ed  il  muro  del  comune.*  Però 
i  frati  minori  s'erano  già  da  qualche  tempo  stabiliti  a  Portogruaro, 
perchè  l'atto  del  vescovo  fu  rogato  «  in  capitulo  loci  fratrum  Minorum  ». 

Incerta  sinora  è  l'origine  del  convento  dei  frati  minori  a  Sacile; 
non  si  può  però  errare  dal  vero,  qualora  si  supponga  che  v'interve- 
nissero le  premure  ed  il  favore  del  patriarca  Gregorio  e  del  patriarca 
Raimondo  suo  successore.  In  ogni  modo  si  ha  memoria  che  nel  1295 

»  F.  Blasic,  La  parrocchia  di  S.  Quirino  in  Udine,  memorie  storiche,  Udine,  1885,  p.  49  sgg. 

*  Erano  presenti  Uguccione  gastaldo  del  vescovado,  Genorio  di  Cadore,  Ouarnerio  camer- 
lengo del  vescovo,  ecc.  La  donazione  fu  confermata  dal  capitolo  di  Concordia  in  quello  stesso 
giorno.  UoHELLi,  Italia  sacra',  V,  p.  342.  Fulcherio  di  Zuccola,  frate  minore,  morì  il  17  aprile 
1292  e  fu  sepolto  nella  chiesa  del  convento;  ib.,  p.  344.  Il  p.  Wadding  all'anno  1281  :  «  In  pro- 
'  vincia  S.  Antonii  et  custodia  Foro-Julii  extructus  hoc  anno  Conventus  Portusgruarii  per  Fulche- 
«  rium  Inculthum  e  Spilimberga  familia  episcopum  Concordiensem,  quem  amplissimis  praediis  hone- 
«  stavit.  Ibidem  conditus  est  ad  laevani  maioris  arae  >  (op.  cit.,  p.  104,  §  XII). 


52  PIO    PASCHINI 

donna  Hengerada,  moglie  di  Gerardo,  lasciava  cento  lire  all'uopo  dì 
restaurare  il  convento  e  la  chiesa  dei  frati  minori  di  Sacile.i  Ciò  fa- 
rebbe credere  che  la  sua  fondazione  risalisse  ad  alcuni  anni  prima. 

5.  Per  meglio  comprendere  e  valutare  il  movimento  francescano 
nella  regione  friulana,  è  utile  assai  gettare  uno  sguardo  anche  al- 
l'intorno di  essa.  E  prima  di  tutto  fermiamoci  ad  un  territorio  che 
stava  in  strette  continue  relazioni  col  Friuli. 

Il  p.  Wadding  ci  riferisce  che  Enrico,  vescovo  di  Bamberga,  «  costruì 
sotto  il  titolo  di  S.  Maria  il  monastero  dei  frati  minori  a  Villaco  *  in 
Walfperch  in  provincia  Austriae  et  custodia  Styriae'».^  La  cosa  non 
deve  far  meraviglia,  se  si  pensi  che  Villaco  ed  i  territori  circostanti 
dipendevano  allora  feudalmente  dal  vescovado  di  Bamberga.  Poiché 
il  vescovo  Enrico  morì  il  17  settembre  1257,  la  fondazione  risale  ad 
un  tempo  anteriore;  ed  infatti  il  12  novembre  1252  è  già  ricordato 
un  fra  Michele,  guardiano  dei  frati  di  Villaco.^ 

La  fondazione  del  convento  di  Villaco  non  è  dovuta  dunque  in 
alcun  modo  all'influenza  del  patriarca  d'Aquileia.  Ben  altrimenti  invece 
debbono  essere  andate  le  cose  nel  Goriziano  e  nell'Istria.  Ma  anche 
qui  le  notizie  sicure  sono  poche  ed  oscure,  quantunque  le  tradizioni 
parlino  abbastanza  esplicitamente  ;  ma  si  tratta  di  tradizioni  tanto  tardive 
e  di  origine  tanto  sospetta,  che  difficilmente  possono  accettarsi  senza 
grande  cautela. 

Riferendosi  alla  vita  volgare  di  S.  Antonio  scritta  da  frate  Angelico 
di  Vicenza,  il  Coronini  afferma  che  intorno  il  1225  S.  Antonio  fondò 
il  convento  di  S.  Francesco  in  Gorizia  e  che  ne  fu  il  primo  guardiano.* 
Lo  Czoernig  vi  aggiunse  che  S.  Antonio  vi  fu  invitato  dallo  stesso 
conte  Mainardo  e  condusse  seco  a  Gorizia  come  compagno  il  beato 
frate  Luca.^  La  cella  di  S.  Antonio  fu  tramutata  in  oratorio,  in  cui 
si  collocò  la  statua  di  S.  Caterina  vergine  e  martire,  singolarmente 
venerata  dal  taumaturgo.  «  Forse  non  si  andrebbe  lungi  dal  vero 
dicendo,  che  i  figliuoli  del  serafico  patriarca  da  principio  aveano 
una  chiesetta,  la  quale,  crescendo  la  popolazione  della  città,  in  tempi 
posteriori  venne  ingrandita.  Due  religiosi  di  questo  convento  ogni 
settimana  dovevano  recarsi  al  castello  dei  conti  di  Gorizia,  onde  nella 
cappella  domestica  sacra  a  S.  Bartolomeo  celebrare  la  santa  messa  pel 
conte  e  sua  famiglia.  Il  conte  in  ricompensa  erasi  obbligato  di  dare 
ogni  anno  al  convento  sei  botti  di  vino  e  sei  carra  di  formento  ».  Nel 
1433  fu  al  convento  confermato  questo  reddito  dal  conte  Enrico.^ 


1  Sacile  e  suo  distretto,  Udine,  1868,  p.  44. 

»  Op.  cit.,  ad  ann.  1257,  §  XXV. 

'  voN  Jaksch,  Die  Kàrntner  Oeschichtsquellen,  n.  250S. 

*  Tentamen  genealogico-chronologicum  Comitum  Ooritiae,  Viennae,  1759,  p.  1.  La  notizia 
passò  di  là  nella  Strenna  cronologica  per  l'antica  storia  del  Friuli  di  G.  D.  Della  Bona,  Gori- 
zia, 1856,  p.  63. 

»  Das  Land  Gòrz  und  Gradisca,  Wien,  1873,  p.  715. 

•  Periodico  L'Istria,  anno  V,  1850,  p.  249. 


PRIMORDI    dell'ordine   FRANCESCANO    NEL    FRIULI  53 

«  È  tradizione,  e  tradizione  costante,  che  il  convento  patentino 
fosse  stato  fondato  da  S.  Antonio  di  Padova  fra  il  1226  e  il  1228,  la 
qual  tradizione  è  ricordata  ed  accettata  da  autori  seri  e  dotti.  Vuoisi 
che  S.  Antonio  di  Padova  venuto  a  visitare  il  Friuli  e  l'Istria  fondasse 
i  conventi  di  Gorizia,  di  Muggia,  di  Trieste  e  di  Pola  ».i  II  Babudri  tenta 
appunto  di  salvare  questa  tradizione  per  quanto  riguarda  Parenzo.  «  La- 
sciando Trieste  e  prendendo  i  soli  conventi  prettamente  istriani,  diremo 
che  del  convento  di  Pola  si  ha  notizia  appena  nel  1314,  sebbene  alcune 
parti  di  finestre  trovatesi  sotto  il  portico  si  dimostrino  opera  della  se- 
conda metà  del  sec.  XIII  ;  e  del  convento  di  Muggia  si  sa  che  fu  fabbricato 

nel  febbraio  1388, mentre  del  convento  di  Parenzo  si  hanno  notizie 

scritte  già  nel  1270».  Infatti  nel  catastico  capitolare  del  1270  si  legge: 
«  et  usque  ad  rotam  fratrum  minorum  »  quale  indicazione  della  palude 
di  S.  Giovanni  di  Prato;  ed  il  17  giugno  1280  sono  ricordati  Francesco 
guardiano  e    Venturino   frate  del   convento   dei   minori   di   Parenzo.^ 

Una  lettera  di  Bonifacio  VIII  del  31  gennaio  1^02  ci  fa  conoscere 
come  stessero  le  cose  a  Trieste.  Il  vescovo  Enrico  aveva  tentato  colla 
violenza  di  togliere  ai  frati  minori  la  direzione  del  convento  delle 
Clarisse  di  quella  città  ;  ed  il  papa  comandò  al  vescovo,  sotto  gravi 
pene,  di  rimettere  il  tutto  nello  stato  di  prima  e  di  portarsi  a  Roma 
entro  due  mesi  per  rendere  conto  del  suo  operato.^ 

Il  monastero  delle  Clarisse  qui  ricordato  è  certo  quello  di  S.  Maria 
della  Cella,  eretto  poco  dopo  il  1265  nel  sito  dov'era  la  chiesa  di  S.  Cri- 
stoforo ;  monastero  che,  fondato  col  consenso  del  vescovo  Arlongo,  fu 
da  lui  il  10  luglio  1278  reso  esente  dalla  giurisdizione  vescovile.  Esso 
nel  1282  professava  la  regola  di  S.  Chiara;  ed  il  26  febbraio  veniva 
affidato  da  papa  Martino  IV  alla  difesa  e  protezione  del  decano  di 
Concordia  per  tre  anni.* 

A  Capodistria  sarebbero  stati  introdotti  i  Francescani  dal  vescovo 
Corrado  nel  1260;  nel  1263  Aurelia  Falier,  badessa  di  S.  Giacomo  a 
Murano,  concesse  loro  un  orto  spazioso.^ 

II  18  marzo  1264  in  Capodistria  stessa  Senesio,  ricario  patriarcale 
in  Istria,  concesse  ai  frati  minori  una  piazza  {platea)  in  Caprillo,  in 
cambio  di  un'altra  che  già  avevano,  situata  nel  medesimo  luogo  presso 
la  chiesa  del  patriarca.^ 

Come  abbiamo  già  accennato  sopra,  esisteva  pure  nel  secolo  XIII 
un  convento  di  Francescani  anche  entro  le  mura  di  Pola.  Uno  dei 
frati  nella  sommossa  del  1270  pose  in  salvo  un  fanciullo  dei  Castropola, 
sottraendolo  in  tal  modo  alla  rovina  di  tutta  la  sua  famiglia."^ 

1  Fr.  Babudr    ijLe  antiche  chiese  di  Parenzo,  Parenzo,  1912,  p.  52. 
2  Ibid.,  p.  54  e  p.  52. 
»  Registres  de  Boniface  Vili,  n.  4495. 

*  Periodico  L'Istria,  III,  1848,  p.  27.  I  documenti  sono  nel  Codice  Diplom.  Istr. 
»  Periodico  L'Istria,  III,  184S,  p.  28. 

«  Codice  Diplom.  Istriano.  Era  guardiano  frate  Umile.  Gian  Rinaldo  Carli,  Appendici  di 
documenti  alla  parte  quarta  delle  Antichità  Italiche,  Milano,  1791,  p.  107,  n.  34. 
'  L'Istria  cit.,  p.  28. 


54  rio  PASCHiNi 

A  Pirano  i  minori  si  sarebbero  stabiliti  sul  principio  del  secolo  XIV. 
La  loro  chiesa  cominciata  nel  1301  dal  podestà  Matteo  Manolesso,  fu 
compiuta  nel  1319.^ 

Come  si  vede  da  questa  rapida  rassegna,  i  primordi  francescani 
furono  nelle  nostre  regioni  umili  e  modesti;  nessuna  ripercussione 
in  essi  delle  divisioni  che  straziavano  l'ordine  ;  nessun  nome  illustre, 
eccetto  Fulcherio  che  fu  vescovo  di  Concordia,  diede  lustro  speciale 
a  queste  fondazioni  ;  ma  ben  presto  un  personaggio  ne  uscì,  che  rag- 
giunse una  fama  mondiale  e  mostrò  quali  caratteri  vi  si  andassero 
temprando:  il  beato  Odorico  da  Pordenone. 

Pio  Paschini 


Un  documento  inedito  del  patriarca 
Vodolrico  II  (28  ottobre  1171). 

Dal  necrologio  del  capitolo  di  Aquileia  si  sapeva,  che  il  patriarca 
Vodolrico  II  aveva  concesso  al  capitolo  stesso  la  villa  di  Muzzana, 
posta  fra  S.  Giorgio  di  Nogaro  e  Palazzolo  dello  Stella  ;  ^  ma  l'atto  di 
donazione  era  sfuggito  alle  ricerche  dei  raccoglitori  dei  nostri  docu- 
menti. Il  professor  don  Giuseppe  Vale  me  lo  indicò  conservato  in  un 
fascicoUi  di  scritture  radunate  insieme  per  tutelare  i  diritti  del  capitolo; 
per  questo  certamente  esso  non  fu  posto  insieme  colle  altre  pergamene 
nella  raccolta  dei  documenti  conservata  nell'Archivio  Capitolare  di 
Udine.  Fu  redatto  nella  sacrestia  della  basilica  di  Aquileia  il  28  ot- 
tobre 1171.  Il  patriarca  espone  anzitutto  che  la  villa  di  Muzzana  era 
posta  entro  il  territorio  che  ai  canonici  di  Aquileia  aveva  conceduto 
il  patriarca  Poppo  sin  dal  13  luglio  1032.^  Veramente  in  quel  docu- 
mento ed  in  quello  di  papa  Alessandro  III  del  20  luglio  1177,  che  lo 
ricopia,*  Muzzana  non  è  nominata  espressamente,  ma  solo  in  modo 
implicito  là  dov'è  detto  «  villam  etiam  de  Mariano  (Marano)  et  villam 
«  de  Carlinis  (Carlino)  et  villas  S.  Georgii  a  mari  et  a  flamine  quod 
«  dicitur  Cornium  usqae  ad  aquam  quae  dicitiir  Arvuncus  »  (roggia  Ra- 
vonchia  e  Turgnano).  Muzzana  è  invece  apertamente  indicata  sin  dal 

1  U Istria  cit.,  p.  33. 
'  CItr.  queste  Memorie,  X,  1914,  p.  181. 
'  Cfr.  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  29. 
*  Cfr.  queste  Memorie,  X,  1914,  p,  178. 


UN    DOCUMENTO    INEDITO    ECC.  55 

21  gennaio  824  in  una  donazione  di  Lodovico  il  pio  in  favore  del 
patriarca  Massenzio.^  Nell'atto  del  13  dicembre  1202  col  quale  furono 
regolati  i  diritti  d'avvocazia  che  spettavano  al  conte  di  Gorizia,  Muz- 
zana  è  designata  come  l'unica  villa  dipendente  dal  capitolo  aquileiese 
sulla  quale  il  conte  poteva  esercitare  i  suoi  diritti  d'avvocato  2.  Questo 
fatto  trova  la  sua  spiegazione  in  quanto  viene  esposto  nel  documento 
stesso. 

Muzzana,  ci  dice  il  patriarca,  era  stata  contro  ogni  buon  diritto 
invasa  e  posseduta  da  un  incognito  usurpatore,  al  quale  egli  con  grande 
fatica  era  riuscito  a  riprenderla  e  l'aveva  poi  concessa  a  Udalrico, 
marchese  di  Attems  suo  consanguineo,  finché  fosse  vissuto.  Di  questo 
marchese  Udalrico  ho  già  parlato  ;  ^  ma  quello  che  riesce  nuovo  è 
la  sua  parentela  col  patriarca  cioè  colla  casa  dei  conti  di  Treffen.  È 
impossibile  determinare  il  grado  di  questa  parentela,  ma  essa,  in  ogni 
modo,  ci  spiega  meglio  la  donazione  che  Udalrico  fece  il  2  febbraio  1 170 
in  favore  della  chiesa  d'Aquileia. 

La  villa  fu  posta  dal  patriarca  sotto  la  giurisdizione  del  preposito 
coll'obbligo  di  prestare  ai  canonici  un  determinato  servitlum,  ossia 
distribuzione  di  vino  e  denaro,  come  si  trova  di  frequente  nelle  do- 
nazioni che  si  facevano  ai  capitoli,  e  coll'obbligo  di  far  pure  un'ele. 
mosina  ai  poveri.  Ma  quando  colla  sua  costituzione  del  23  febbraio  1 181 
il  patriarca  riformò  il  suo  capitolo,  anche  Muzzana  passò  certo  sotto 
l'amministrazione  diretta  del  collegio  capitolare,  come  le  altre  ville. 

Quanto  ad  Erbordo  di  Faedis,  destinato  dal  patriarca  a  dare  il 
possesso  al  capitolo  della  villa  donata,  esso  compare  più  volte  presente 
insieme  con  altri  ministeriali  agli  atti  del  patriarca.  Così,  per  esempio, 
a  Villacco  il  24  marzo  1169;  il  2  febbraio  1170  in  Aquileia  alla  dona- 
zione del  marchese  Udalrico;  il  26  maggio  1172  ad  una  donazione 
di  decime  in  favore  del  capitolo,  ecc.  Nel  privilegio  del  12  febbraio  1176 
in  favore  del  mercato  di  Cividale  il  patriarca  fece  a  lui  e  ad  Enrico 
di  Gemona  faYori  particolari,  per  premiare  la  speciale  devozione  e  fe- 
deltà da  loro  dimostrata  nel  servire  la  chiesa  di  Aquileia.  Era  insomma 
un  uomo  di  fiducia. 

Ecco  il  testo  del 

Documento 

[Archivio  Capitolare  di  Udine,  Jurisdict.  temp.,  Sez.  IV,  busta  III].* 

In  nomine  sancte  et  individue  trinitatis,  amen. 

Nos  quidem  Volricus  dei  grafia  sancte  Aquilegensis  ecclesie  pa- 
triarcha  et  apostolice  sedis  legatus  cunctis  christifidelibus  tam  futuris 
quam  presentibus  notum  esse  volumus  qualiter  villam  que   Muzana 

1  Cfr.  il  mio  Le  vicende  politiche  e  religiose  del  Friuli  nei  secoli  IX  e  X,  Venezia,  1911,  p.  14. 
a  Cfr.  queste  Memorie,  X,  1914,  p.  29. 
»  Ibid.,  p.  137. 

^  Pergamena  originale  oblunga  mis.  mm.  410  X  120,  da  un  lato  alquanto  guasta,  senza  sigillo, 
con  tracce  di  cordicella. 


56  PIO    PASCHINI 

vocatur  secundum  privilegium  domini  Popponis  pie  recordationis  pa- 
triarche  in  predio  canonicorum  Aquileiensis  ecclesie  constitutam,  ab 
his  qui  eam  invaserant  et  violenter  per  multa  tempora  tenuerant,  cum 
magno  labore  expedivimus  et  eam  cum  massariciis,  famulis,  vineis,  mo- 
lendinis,  campis,  pratis,  silvis,  venatione,  piscatione,  aquis  et  aquarum 
ductibus,  paludibus,  introitibus  et  exitibus,  cultis  et  incultis  et  cum 
omnibus  pertinentiis  eius  in  remedium  anime  nostre  et  antecessorum 
nostrorum,  dilectis  fratribus  nostris  prefatis  canonicis  in  perpetuum 
proprietario  iure  habendam  et  possidendam  super  altariolum  aureum 
tradidimus,  eisque  iusticiam  eorum  recognovimus  et  [privilegium]  pre- 
fati Popponis  per  hoc  corroboravimus  et  sta[tuimus    ut    preposit]us  i 

eorumdem  causuicorum  qui  prò  tempore  fuerit 

iurisdictionem   in  eadem  villa  habeat in  die 

consecrationis  nostre,  prò* anniversario  nostro  cuicumque 

fratrum urnam  vini  et  Vili  denarios 

bonum  servicium  et.  e.  pauperibus  ....  de  redditibus  eiusdem 
ville  omni  occasione  remota  ministret.  Quod  si  non  fecerit,  nihil  iuris 
in  eadem  villa  habeat.  sic  canonici  eam  quiete  possideant.  Ministerialem 
quoque  nostrum  Herbordum  de  Faedis  eisdem  canonicis  nuncium 
intromittende  possessionis  assignavimus  ita  ut  post  obitum  consangui- 
nei nostri  Volrici  marchionis  de  Attens,  cui  usum  fructum  eiusdem 
ville  tantum  in  vita  sua  concesseramus,  canonicos  in  possessionem  ipsius 
ville  inducat.  Quod  quidem  ut  verius  concessum  et  inconvulsum  in 
evum  permaneat,  presentem  paginam  inde  conscribi  et  sigillo  nostro  cor- 
roborari  fecimus.  Actum  est  Aquileie  in  sacrario  anno  domini  M.C.LXXI. 
indict.  V.  festo  sanctorum  Symonis  et  Jude.  presidente  domino  Alexan- 
dro  papa  et  regnante  domino  friderico  imperatore.  Interfuerunt  vero 
Volricus  Aquileiensis  archidiaconus.  Luiprandus  decanus,  Romulus  ma- 
gister  scolarum,  Hermannus  thesaurarius,  Henricus  de  Glemona  et 
predictus  Herbordus. 

Pio  Paschini 


<  Che  si  tratti  qui  del  preposito  si  desume  dalle  annotazioni  fatte  in  diversi  tempi  sul  dorso 
della  pergamena,  e  scritte  da  chi  le  lesse  ancora  intera. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  57 


Rassegna  bibliografica 


Gellio  Cassi.  —  //  mare  Adriatico,  sua  funzione  attraverso  i 
tempi,  con  sei  carte  geografiche  fuori  testo.  Collezione  Storica 
Villari.  Milano,  Hoepli,  1Q15;  -16",  pp.  xix-532. 

L'Adriatico  fu,  sino  dai  più  antichi  tempi,  una  delle  principali  ar- 
terie del  commercio  e  della  civiltà  europea.  La  sua  posizione  nel 
centro  del  continente,  il  suo  protendersi  sino  al  piede  delle  Alpi  lo 
renderà  sempre  sommamente  atto  a  servir  di  passaggio  tra  l'Oriente 
e  le  regioni  settentrionali;  basta  pensare,  quanto  a  ciò,  al  centro  di 
civiltà  Micenea  che  fu  a  Nesazio  nell'Istria,  e,  per  converso,  alle  ambre 
provenienti  dal  Baltico  che  si  commerciavano  ad  Aquileia.  Questa  via 
così  preziosa  doveva,  naturalmente,  sino  dai  tempi  più  antichi  esser 
oggetto  di  cupidigie  e  di  lotte  fra  le  popolazioni  litoranee,  e  l'esito 
di  questi  contrasti  non  poteva  aver  poco  peso  nella  storia  della  civiltà. 
Queste  lotte  secolari  che  s'iniziano  con  l'azione  di  Roma  contro  i 
popoli  Illirici,  e  contro  i  Macedoni,  continuano  nel  Medio  Evo  con  la 
politica  risoluta  di  Venezia,  e  conducono,  finalmente,  alla  rivalità  italo- 
austriaca  dei  nostri  giorni,  hanno  precipuo  interesse  per  la  storia  friu- 
lana che  alle  vicende  dell'Adriatico  è  intimamente  legata. 

Nel  libro  del  Cassi,  lo  studioso  delle  vicende  friulane  troverà 
esposte  interessanti  osservazioni  sulla  primitiva  storia  delle  regioni 
adriatiche  e  suU'  importanza  delle  correnti  migratorie  che  dall'Oriente 
vi  portarono  nuovi  abitatori  ed  una  più  intensa  civiltà.  Poco  poterono, 
invece,  a  quanto  sembra,  in  questo  più  intimo  seno  dell'Adriatico,  i 
Greci,  benché  sull'Isonzo  siansi  trovate  necropoli  che  risalirebbero  al 
VI  secolo  a.  C.  e  tracce  del  loro  commercio. 

Alla  lotta  di  Roma  per  la  conquista  dell'Adriatico  si  collega  più 
tardi  la  fondazione  d' Aquileia,  la  grande  colonia  Romana,  destinata 
non  solo  a  fronteggiare  le  incursioni  dei  Galli,  ma  anche  il  pericolo 
d' un' invasione  dell'Italia  dall'Illirico.  Ad  Aquileia  fa  capo  la  flotta 
Romana,  nei  tempi  successivi,  per  la  lotta  contro  i  pirati  della  Japidia. 

La  conquista  completa  dell'Adriatico,  divenuto  un  lago  Romano 
dà  alimento  alla  navigazione  ed  ai  commerci  che  da  Aquileia  si  svol- 
gono per  le  vie  di  terra  e  di  mare  e,  per  mantener  sicuro  quest'  ultimo» 
due  squadre  risiedono  ad  Aitino  e  ad  Aquileia.  L'A.  seguendo  le  tracce 
del  Mommsen  dimostra  come  la  prosperità  del  litorale  italico  sia  in- 


58  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

teramente  legata  alla  sicurezza  delle  vie  marittime;  soltanto  quando 
questa  fu  completa,  Roma  potè  stendere  attraverso  le  Alpi  la  rete  me- 
ravigliosa delle  sue  strade  e  far  penetrare  sino  al  Danubio  la  sua  pos- 
sente civiltà. 

Dalla  caduta  dell'impero,  la  storia  dell'Adriatico  s'accentra  a  Ve- 
nezia e  per  lungo  tempo  il  Friuli  vi  ha  parte  solo  in  quanto  esso  è 
attraversato  dalle  vie  che  portano  dalle  regioni  transalpine  alla  città 
delle  lagune  le  merci  che  servono  agli  scambi  coll'Oriente.  L'A.  disegna 
le  lotte  sostenute  dai  Veneziani  contro  gli  Arabi,  contro  i  Croati  e  gli 
Ungheresi  per  il  possesso  del  mare,  e  dimostra  come  si  formassero 
un  po'  per  volta,  in  parte  per  sottili  maneggi  diplomatici,  in  parte  per 
fortunate  circostanze,  i  legami  che  avvincono  a  Venezia  tanti  porti 
dell'Adriatico.  Qui  la  storia  della  Dominante  s'intreccia  di  nuovo  con 
quella  del  Friuli  perchè,  come  bene  osserva  l'A.,  la  politica  veneziana 
fu  mossa  dal  duplice  intento  di  combattere  gli  Stati  che  minacciassero 
la  sua  egemonia  sul  mare,  o  che  contrastassero  lo  svolgersi  dei  suoi 
commerci  per  le  vie  di  terra.  Di  qui  proviene  la  lotta  fra  Venezia  ed 
il  patriarcato  d'Aquileia  padrone,  dal  secolo  XI,  del  Friuli  e  dell'  Istria, 
lotta  per  il  possesso  delle  città  costiere  dell'Istria  e  di  Trieste  nella 
quale  Venezia  vedeva  una  pericolosa  rivale,  mentre  il  patriarcato  vi 
scorgeva  il  porto  naturale  della  regione  Friulana,  lotta  per  la  conquista 
del  Friuli,  al  possesso  del  quale  Venezia  mira,  per  assicurarsi  l'uso 
monopolistico  delle  strade  che  attraverso  ad  esso  scendono  dalla  Ger- 
mania. Naturalmente  le  vicende  di  questa  lotta  entrano  soltanto  in 
piccola  parte  nel  quadro  tracciato  dal  Cassi  che  ha  di  mira  il  problema 
generale  dell'Adriatico  e  non  può  soffermarsi  nei  particolari.  Spetta 
alla  storia  friulana  mettere  in  luce  (ed  in  parte  fu  già  fatto)  le  gelose 
cure  di  Venezia  per  impedire  lo  svolgersi  d'una  marineria  patriarcale, 
gU  sforzi  dei  patriarchi  per  sostenere  Trieste  nella  sua  lotta  contro 
Venezia,  e  finalmente  la  parte  avuta  dalla  sede  Aquileiese  nei  fatti 
storici  che  conducono  alla  guerra  di  Chioggia.  Il  patriarcato  è  uno 
dei  potentati  antagonistici  più  interessanti  della  storia  Veneziana  dei 
secoli  VII-XV,  se  anche  la  particolare  fisionomia  di  questa  lotta  non 
è  stata  finora  perfettamente  chiarita. 

L'opera  del  Cassi  tocca,  poi,  più  tardi,  di  nuovo  la  storia  friulana 
colle  incursioni  turchesche  e  poi  colle  lotte  fra  casa  d'Austria  e  Ve- 
nezia per  il  dominio  dell'Adriatico.  Non  si  dimentichi  che  la  repres- 
sione degli  Uscocchi  fu  il  pretesto  che  condusse  alla  famosa  guerra 
di  Gradisca. 

Arriviamo  così  alla  decadenza  e  poi  alla  caduta  della  repubblica 
di  San  Marco  della  quale  il  Cassi  pone  in  luce  le  varie  cause.  Natu- 
ralmente lo  sfacelo  dello  Stato  veneto  e  con  esso  la  caduta  del  Friuli 
sotto  la  dominazione  austriaca  non  sta  in  relazione  soltanto  con  le 
antiche  mire  degli  Absburgo  sull'Adriatico.  Il  possesso  del  mare  è  un 
complemento  del  predominio  sul  continente  e  la  dinastia  austriaca 


RASSEGNA    BIBI.IOORAFICA  59 

vedeva,  di  certo,  già  nel  1797  la  possibilità  dì  congiungere  attraverso 
le  Provincie  Venete,  i  suoi  antichi  possessi  del  Trentino  e  del  Gori- 
ziano colla  Lombardia,  per  il  momento,  perduta. 

Non  mi  soffermerò  sull'ultima  parte  del  libro  del  Cassi  che  ri- 
guarda la  prevalenza  austriaca  nell'Adriatico  fino  al  1866,  e  poi  il 
comune  predominio  italo-austriaco  su  quel  mare;  negli  ultimi  capitoli 
il  Cassi  si  trattiene  lungamente  sui  conflitti  contemporanei  con  una  cita- 
zione assai  abbondante  di  lavori  speciali  ed  articoli  sulle  varie  questioni 
che  vi  si  riferiscono.  Questa  parte  esce,  naturalmente,  dai  limiti  di 
questa  recensione  ;  basterà  dire  che  l'opera  del  Cassi  è  interessante  e 
ricca  di  materiali  e  sarà  sempre  consultata  con  profitto  da  chi  voglia 
rendersi  ragione  degli  ardui  problemi  che  si  rannodano  alla  storia 
dell'Adriatico. 

P.  S.  Leicht 


60  APPUNTI    E   NOTIZIE 


Appunti  e  notizie 


?%f  Un  friulano  giustiziato  a  Roma  nel  1504.  —  Nella  raccolta  di 
studi  critici  che  il  dottor  Francesco  Saverio  Seppelt  riunì  insieme  per 
festeggiare  il  giubileo  sacerdotale  di  mons.  Antonio  de  Waal/  ce  n'è 
uno,  dovuto  a  Joseph  Schlecht  col  titolo  Deutsche  Berichte  aus  Rom  1492 
und  1504  (pp.  251-269),  che  riguarda  fra  altri  anche  un  tristo  e  disgra- 
ziato friulano. 

Un  certo  Leonardo  Cantzler,  tedesco,  che  aveva  anche  delle  vel- 
leità poetiche,  spedì  da  Roma,  dove  s'era  recato  per  i  suoi  studi,  in 
Germania  il  testo  della  sentenza  pronunciata  da  Pietro  Menzi  di  Vi- 
cenza, vescovo  di  Cesena  ed  uditore  generale  della  camera  apostolica,  il 
6  marzo  1504,  contro  Asquino  di  Colloredo,  suddiacono  della  chiesa  di 
Aquileia,  che  aveva  propinato  il  veleno  al  veneziano  Giovanni  Michie 
cardinale  vescovo  di  Porto  e  patriarca  di  Costantinopoli,  detto  anche 
il  cardinale  di  S.  Angelo. 

Ecco  come  la  sentenza  narra  il  fatto:  Nel  marzo  dell'anno  ante- 
cedente Asquino  di  Colloredo  si  trovava  presso  il  cardinale  Michiel 
quale  magister  domus  ed  era  «  eidem,  cardinali  inter  ceteros  familia- 
«  res  valde  acceptus».  Mentr'egli  si  tratteneva  nel  palazzo  vaticano,  un 
notevole  personaggio  insieme  con  altri  suoi  compagni  gli  fece  la  pro- 
posta di  propinare  o  far  propinare  un  veleno  mortale  al  cardinale  suo 
padrone.  Il  disgraziato  maggiordomo  non  seppe  rifiutarsi  alla  iniqua 
trama  e  nel  mese  d'aprile,  nello  stesso  palazzo  apostolico  e  dalla  stessa 
persona,  «  cuius  nomen  propter  honestatem  tacetur  »,  dice  espressa- 
mente il  giudice,  egli  ricevette  un  veleno  mortale  di  color  bianco  e  dolce 
riposto  in  cartocci,  che  doveva  essere  mescolato  nel  cibo  o  nelle 
bevande  del  cardinale.  Il  maggiordomo  consegnò  il  veleno  ad  un  certo 
Desiderio  francese,  cuoco  di  casa  ;  e  fu  propinato  al  cardinale  la  prima 
volta  il  venerdì  sette  aprile  provocandogli  vomito,  dolori  ed  altri  gravi 
malanni,  che  si  ripeterono  tutte  le  volte  che  al  cardinale  fu  propinato 
quel  veleno.  Alla  sera  dell'indomani,  10  marzo,  quando  il  cardinale  già 
si  sentiva  meglio,  alla  cena  Asquino  per  mezzo  del  cuoco  gli  propinò 
un  pessimo  veleno,  che  provocò  di  nuovo  vomito  e  sincope,  per  cui 
morì. 

Il  giudice  conferma  poi,  che  Asquino  aveva  fatto  ciò  per  compia- 
cere «  nonnuUis  notabilibus  personis  »  che  lo  avevano  esortato  e  per 

'  Kirchengeschichtliche  Festgabe  Anton,  de  Waal,  ecc.  herausgegeben  von  Dr.  theol.  Franz 
Xavfr  SEPPfXT,  Freiburg,  1913. 


APPUNTI    E   NOTIZIE  61 

comando  «  eiusdem  notabilis  personae  »  ;  ed  insieme  ad  un  dotninus 
Antonius  suo  complice  aveva  ricevuto  da  costui,  nella  propria  stanza  e 
nello  stesso  palazzo  del  cardinale,  mille  ducati  d'oro  quale  prezzo  del 
delitto. 

Questa  l'esposizione  del  fatto  quale  risultava  dagli  interrogatori 
e  dalle  testimonianze.  Finché  fu  vivo  papa  Alessandro  VI,  Asquino  potè 
ritenersi  sicuro,  ma  morto  lui  i  le  cose  cambiarono.  In  un  dispaccio 
del  17  dicembre  1503  l'ambasciatore  veneziano  Antonio  Oiustinian  ri- 
feriva che  Asquino,  già  prima  sospettato  reo  di  quel  veneficio,  era  stato 
arrestato  dall'uditore  della  camera;  due  suoi  compagni,  il  mozzo  ed 
il  cameriere,  erano  fuggiti,  ma  si  teneva  come  certo  di  averli  nelle 
mani;  si  sperava  di  far  finalmente  buona  giustizia,  benché  i  cardi- 
nali spagnoli  si  opponessero  col  pretesto  dell'onore  di  papa  Alessan- 
dro e  del  rispetto  verso  il  Valentino  che  non  era  ancora  libero.  In  un 
altro  dispaccio  del  20  dicembre  il  Oiustinian  riferiva  che  erano  fuggiti 
la  notte  antecedente  i  cardinali  di  Sorrento  ^  e  Borgia  ^  spaventati, 
perché  Asquino  aveva  confessato,  che  mandanti  del  suo  delitto  erano 
stati  anche  dei  cardinali,  benché  non  avesse  detto  quali.  Il  10  gennaio 
1504  lo  stesso  scriveva,  che  quel  tristo  de  Asquino  aveva  confessato  e 
ratificato  il  suo  delitto,  ma  si  temeva  non  si  volesse  fare  giustizia 
«  con  mormorazione  di  buoni,  che  non  stanno  senza  sospetto  di  ve- 
«  derlo  ancor  liberato,  con  mezzo  de  favori  che  suol  tegnire  in  questa 
«  Corte  ».  Ma  il  sospetto  questa  volta  era  ingiusto  :  l' uditore  era  uomo 
dotto  ed  integerrimo,  ch'era  stato  incarcerato  a  caste!  S.  Angelo  dai 
Borgia  e  n'era  stato  liberato  solo  alla  morte  di  Alessandro  VI  ;  il  nuovo 
papa  Giulio  II  non  era  uomo  che  avesse  riguardi  di  punire  una  tale 
colpa. 

La  sentenza  infatti  fu  pronunciata  e  condannò  Asquino,  come 
omicida  venefico  del  cardinale  suo  signore,  alla  deposizione  e  degra- 
dazione da  ogni  ufficio  ed  ordine  clericale,  e  lo  consegnò  alla  curia 
secolare,  dichiarandolo  incorso  nella  scomunica  maggiore.  Mariano 
de  Cuccinis,  procuratore  del  fisco  e  della  camera  apostolica,  aveva 
già  fatto  richiesta  al  papa  che,  qualora  fosse  stata  pronunciata  sentenza 
di  degradazione,  la  cerimonia  della  degradazione  stessa  fosse  affidata  a 
Pietro  Stornello  dei  predicatori,  vescovo  di  Tempio  in  Sardegna,  il  quale 
per  delegazione  del  cardinale  camerlengo  amministrava  in  Roma  gli 
ordini  sacri. 

La  degradazione  si  fece  quella  stessa  mattina  del  sei  marzo  in 
piazza  san  Pietro,  davanti  la  gradinata  su  di  un  palco,  dal  detto  ve- 
scovo, senza  intervento  d'altri  prelati,  come  aveva  imposto  il  papa, 
secondo  quanto  ci  narra  il  cerimoniere  Burcardo  che  vi  assistette;  pre- 

*  Alessandro  VI  morì  il  18  agosto  1503. 

^  Francesco  Remolino,  vescovo  di  Sorrento,  cardinale  dei  Ss.  Giovanni  e  Paolo  promosso  il 
31  maggio  1503;  era  governatore  di  Roma  quando  successe  l'avvelenamento. 

»  S.  Pietro  Lodovico  Borgia,  cardinale  diacono  di  S.  Maria  in  via  Lata,  poi  cardinale  prete 
di  S.  Marcello. 


62  APPUNTI    E    NOTIZIE 

senti  pure  V  uditore  della  camera  ed  Angelo  de  Cesis  suo  luogotenente, 
che  stavano  in  un  banco  di  fronte  al  palco;  presente  il  senatore  di 
Roma  coi  suoi.  Asquino,  ch'era  suddiacono,  fu  apparato  coi  paramenti 
soliti;  fu  letta  l'inquisizione  sua  e  la  commissione  papale  per  la  de- 
gradazione da  Agapito  de*  Cerretani  notano  camerale;  dopo  ciò  il 
reo  fu  degradato  secondo  il  solito  e  consegnato  al  senatore  che  lo 
fece  condurre  al  carcere  del  Campidoglio,  a  cavallo,  perchè  non  po- 
teva camminare,  certo  in  causa  della  tortura  alla  quale  era  stato  sotto- 
posto nei  giorni  antecedenti.  Soggiunge  ancora  Burcardo  che  «  mentre 
si  leggeva  l' inquisizione  Asquino  ripetutamente  interloquì,  dicendo  che 
quel  delitto  gli  era  stato  commesso  da  papa  Alessandro  e  dal  duca  Va- 
lentino ;  ma  ch'egli  non  aveva  voluto,  e  che  non  aveva  ricevuto  denaro  ».^ 

Il  disgraziato  andò  al  supplizio  il  16  marzo;  Luca  de  Rainaldis, 
ambasciatore  dell'  impero,  aveva  ottenuto  per  grazia  da  Giulio  II  che 
fosse  decapitato,  come  realmente  avvenne  in  piazza  del  Campidoglio. 

L'uditore  della  camera  apostolica  nella  sua  sentenza  non  aveva 
voluto  dire  esplicitamente  i  nomi  di  coloro  ch'erano  i'  diretti  respon- 
sabili del  veneficio  ;  Asquino  dal  palco  della  sua  degradazione  li  aveva 
pubblicamente  manifestati  ;  del  resto  non  erano  un  mistero  per  nessuno 
a  Roma.  Fra  gli  orrori  e  delitti  che  dai  romanzieri  furono  attribuiti 
ai  Borgia,  e  sui  quali  tanto  si  sbizzarrì  la  fantasia  popolare,  questo  è 
purtroppo  uno  di  quelli  che  sono  più  chiaramente  provati,  sì  che  si 
deve  considerare  inutile  ormai  qualunque  riserva  in  proposito.- 

Pio  Raschini 

?W  Alessandro  di  Masovia,  patriarca  di  Aquileia.  —  Il  21  mag- 
gio 1437  Ludovico  di  Teck,  patriarca  di  Aquileia,  era  presente  in  Ba- 
silea al  concilio  e  partecipava  alle  discussioni,  quantunque  vecchissimo  : 
«  extremo  senio  confectus»,  come  dice  di  lui  Enea  Silvio  Piccolomini, 
lo  squisito  e  dottissimo  umanista,  che  era  presente.'^  Egli  morì  durante 
il  luglio  1439;  ed  il  18  dicembre  1439  Eugenio  IV  gli  diede  per  succes- 
sore nel  patriarcato  l'arcivescovo  di  Firenze  Lodovico  Scarampo-Mez- 
zarota  padovano. 

Ma  il  Teck  era  morto  al  concilio;  e  questi,  già  apertamente  sci- 
smatico, volle  anch'esso  fosse  nominato  un   patriarca  aquileiese  suo 

'  Jo.  BuRKARDi  Liber  notarum,  in  R.  I.  S.",  to.  XXXII,  p.  I,  voi.  II,  p.  438.  II  Oiustinian 
nel  suo  dispaccio  del  16  marzo  dice  semplicemente  che  Asquino  aveva  confessato  d'avere  commesso 
il  delitto  «  costretto  da  papa  Alessandro  e  dal  Valentino  ». 

»  Cfr.  LuD.  Pastor,  Storia  dei  Papi  ecc.,  ediz.  ital.,  Roma,  1912,  voi.  Ili,  p.  470.  Egli 
ebbe  dal  Seppelt  comunicazione  privata  della  sentenza  contro  Asquino. 

*  Le  sue  lettere  furono  j  ecenteuiente  ristampate,  dopo  le  edizioni  difettose  del  secolo  XV, 
nelle  Fontes  Rerum  Austriacaruni,  II:  R.  Wolkan,  Der  Briefwechsel  des  Eneas  Silvius  Picco- 
lomini, Wien,  1909,  in  due  tomi.  Il  brano  citato  or  ora  ib.,  I,  pp.  63  e  66.  Il  Teck  potè  però  re- 
carsi al  convegno  dei  principi  tedeschi  a  Magonza,  quale  legato  del  concilio  il  26  marzo  1439 
(Raynald.,  ad  an.,  §  XIX),  e  partecipare  attivamente  alle  discussioni  per  la  nomina  di  un  nuovo 
papa  (ib.,  §  XX).  Era  reputato  una  delle  colonne  del  concilio  di  Basilea;  ferocissimo  nemico  di 
Eugenio  IV,  aveva  proposto  lo  si  condannasse  a  morte  (ib.,  %  XXVII). 


APPUNTI    E    NOTIZIE  63 

partigiano.  E  per  averne  lustro  e  sostegno,  si  scelse  Alessandro  dei 
duchi  di  Masovia,  polacco,  zio  dell'imperatore  Federico  HI.^  Costui, 
che  era  vescovo  di  Trento  sino  dal  20  ottobre  1423,  accettando  il  pa- 
triarcato, non  dimise  quel  vescovado  che  conservò  sempre  in  ammi- 
nistrazione nelle  sue  mani.  Il  12  ottobre  1440  l'antipapa  Felice  V  no- 
minò Alessandro  cardinale,  assegnandogli  il  titolo  di  s.  Lorenzo  in 
Damaso;  titolo  che  il  1°  luglio  1440  Eugenio  IV  aveva  assegnato  allo 
Scarampo,  suo  emulo,  nell'elevarlo  alla  dignità  cardinalizia. 

Ed  Alessandro  portò  solennemente  il  titolo  di  cardinalis  Aqui- 
leiensis,  col  quale  fu  anche  chiamato  da  Federico  III  ~  suo  nipote  e  dal 
Piccolomini.  Ma  la  Repubblica  di  Venezia,  che  teneva  la  parte  italiana 
del  patriarcato,  non  gli  permise  di  porre  mai  il  piede  in  Friuli,  né  di 
esercitarvi  giurisdizione. 

Enea  Silvio  era  commensale  e  segretario  del  cardinalis  Aquileiensis 
a  Basilea  nell'aprile  1443,^  quando  questi  fu  designato  legato  a  latere 
nell'Austria,  Polonia  ed  Ungheria,  e  divisava  di  condurlo  seco  o  di  in- 
viarlo a  Milano.  Ma  Enea  Silvio  divenne  invece  allora  segretario  im- 
periale. La  legazione  affidata  al  duca  di  Masovia*  non  era  che  un 
controaltare  a  quella  che  Eugenio  IV  aveva  affidato  al  grande  cardi- 
nale Giuliano  Cesarini,  allo  scopo  di  opporsi  all'avanzata  dei  Turchi 
e  di  salvare  l'Ungheria. 

Enea  Silvio,  ch'era  amico  del  Cesarini,  in  una  lettera  che  scrisse 
da  Vienna  nell'ottobre  1443,  descrive  con  quel  suo  fine  umorismo  le 
mosse  goffe  e  violente  di  Alessandro  per  paralizzare  l'opera  del  grande 
suo  amico.  «  L'Aquileiese  minacciava  molto  e  voleva  combattere  colle 
croci  e  difendere  le  cose  della  fede  colle  mani  e  coi  pugni,  poiché 
confidava  più  in  questo  che  nelle  parole.  Ora  non  è  atto  a  nessuna 
delle  due  cose,  poiché  né  molto  può  parlare,  né  alzarsi  sui  piedi  ».^ 
Era  allora  infatti  ammalato  ed  incapace  di  gareggiare  col  Cesarini 
sia  in  energia,  sia  in  ingegno,  sia  in  avvedutezza  diplomatica,  benché 
avesse  dalla  sua  le  parentele  imperiali. 

Come  annunciava  Enea  Silvio  da  Vienna  a  Giovanni  Peregallo, 
che  stava  in  Basilea,  il  1°  giugno  1444  il  cardinale  di  Aquileia  era  mo- 
ribondo e  non  voleva  saperne  di  morire,  tanto  che  nemmeno  volle 
fare  testamento.  Morì  infatti  l' indomani  e  fu  sepolto  il  4  a  S.  Stefano 
di  Vienna,  come  Enea  stesso  annunciò  il  4  allo  stesso  Peregallo  ed 
il  6  al  cardinale  Giovanni  di  Segovia  aggiungendo:  «non  credo  che 
la  sua  morte  sia  di  grande  nocumento  al  concilio  (di  Basilea,  che  non 
s'era  ancora  formalmente  sciolto),  perché  nemmeno  la  vita  fu  molto 
utile.  I  suoi  poi  abusavano  della  sua  legazione  ;  nemmeno  il  papa  fa, 

1  Federico  era  figlio  di  una  sorella  di  Alessandro.  La  nomina  deve  essere  stata  fatta  dopo 
l'elezione  dell'antipapa  Felice  V,  che  avvenne  il  5  novembre  1439;  la  notizia  giunse  a  Venezia  il 
31  dicembre,  come  riferisce  il  Sanudo.  Cfr.  De  Rubeis,  M.  E.  A.,  col.  1051. 

2  Op.  cit.,  to.  Il,  p.  182. 
'  Ib.,  I,  p.  149. 

*  Il  duca  di  Masovia  partì  da  Basilea  verso  Vienna  il  19  maggio,  come  ci  narra  un  corri- 
spondente del  Piccolomini. 

"■  «  Multa  minabatur  Aquileiensis,  pugnareque  crucibus  et  rem  fidei  raanibus  et  pugfnis  tueri 
«  volebat,  in  quibus  magis  confidebat  quam  in  verbis.  nane  neutri  rei  est  idoneus,  quoniam  nec 
*  loqui  multum  potest,  nec  in  pedes  se  tollere  »   ib.,  I,  p.  203. 


64  APPUNTI    E    NOTIZIE 

ciò  che  faceva  costui.  Tutto  era  piano  per  lui.  Talché  si  sollevarono 
mormorazioni  contro  il  concilio,  tali  che  non  saprei  esprimere  ».^  Ed 
Enea  ci  dà  degli  esempì  degli  abusi  di  lui,  e  riferisce  persino  abbastanza 
causticamente  il  sunto  del  discorso  funebre  tenuto  sul  suo  feretro.  Ciò 
non  ostante  egli  compose  un  epigramma  obituario  per  quel  prelato, 
ma  non  è  certo  esso  l'opera  migliore  del  grande  letterato.^  Non  gli  fu 
concesso,  aggiunge  egli,  il  cappello  rosso  sulla  bara,  mentre  si  tolle- 
rava che  lo  portasse  quando  era  vivo  ;  e  ciò  in  omaggio  a  quella  neu- 
tralità che  gli  stati  germanici  avevano  proclamato  fra  Eugenio  IV  e  Fe- 
lice V.  Neutralità  del  resto,  che,  come  molte  altre  in  questo  mondo, 
era  rigorosa  nelle  forme  esteriori,  interessata  invece  nella  sua  sostanza. 
Così  scompare  anche  questa  figura,  piuttosto  buffa,  ma  che  pre- 
tendeva di  essere  presa  sul  serio.  Non  ci  consta  che  dai  Basileesi  e 
dal  loro  antipapa  si  pensasse  di  eleggere  un  successore. 

Pio  Raschini 

?i^  Il  più  antico  storico  degli  Slavi.  —  Ai  lettori  nostri  segnaliamo 
una  importante  monografia  uscita  dalla  penna  di  quell'eminente,  ope- 
roso e  dotto  uomo,  che  risponde  al  nome  di  Luigi  Rava,  intorno  ad 
un  oscuro  e  fin  qui  presso  che  dimenticato  storiografo  degli  Slavi, 
Mauro  Orbini,  edita  a  Bologna  nel  1913. 

L'Orbini,  originario  di  Ragusa,  abate  melitense,  sembra  essere  il 
più  antico  storico  degli  Slavi,  avendo  esso  pubblicato  in  Pesaro  nel  1601, 
in  lingua  italiana,  l'opera  intitolata  //  regno  degli  Slavi  hoggi  corrot- 
tamente detti  Schiavoni  etc,  la  quale  narra  le  imprese  di  questa  gente 
dalle  lontane  origini  sue  fino  al  tempo  della  sua  conversione  al  cristia- 
nesimo, le  vicende  dei  re  di  Dalmazia  e,  da  ultimo,  quelle  della  Bosnia, 
Croazia  e  Bulgaria  fino  al  1370. 

L'opera  dell'ab.  Mauro,  sebben  confusa  e  soggettiva,  è  ricca  di 
dati  e  di  notizie  interessanti,  e  bene  ha  fatto  S.  E.  Rava  a  darcene  un 
accurato  riassunto,  al  quale  vanno  uniti  opportuni  ragguagli  biografici 
e  giudiziose  osservazioni  critiche. 

?y  I  reliquiari  del  San  Marco  di  Pordenone.  —  L'egregio  nostro 
consigliere  di  Presidenza  mons.  Ernesto  Degani  ha  testé  inserito  nel- 
VArte  Cristiana  (III,  p.  50  sgg.)  un  erudito  ed  interessante  scritto  in- 
torno ai  Reliquiari  del  San  Marco  di  Pordenone,  nel  quale  raccoglie, 
con  diligente  cura,  tutte  le  notizie  relative  alla  preziosa  collezione  dì 
oggetti  sacri,  che  gli  venne  fatto  di  attingere,  nelle  sue  pazienti  e  frut- 
tuose ricerche,  agli  archivi  ed  alla  tradizione. 

Degno  di  speciale  nota  é  fra  le  memorie,  che  l'erudito  nostro  con 
socio  riunisce  intorno  ai  cimeli  pordenonesi,  un  documento  sicuro  che 

'  *  Non  puto  magno  detrimento  esse  concilio  mortem  eius,  quia  non  multum  utilis  vita  fuit. 
«  Sui  namque  legatione  abutebantur,  nec  papa  id  agit,  quod  hic  faciebat.  omnia  ei  plana  erant. 
«itaque  morraur  fuit  adversus  concilium,  quale  vix  queam  dicere»  ib.,  I,  p.  336. 

*  Ibid.,  p.  335.  Il  De  Rubeis,  non  potè  usare  di  queste  notizie  per  i  suoi  Monumenta  Ec- 
clesiae  Aquil.,  perchè  nelle  antiche  edizioni  le  lettere  del  Piccolomini  sono  senza  data. 


APPUNTI    E    NOTIZIE  65 

ne  tratta,  e  cioè  l'inventario  degli  arredi  sacri  e  delle  cose  preziose 
esistenti  nel  tempio  maggiore  e  nelle  minori  chiese  del  luogo,  che  tro- 
vasi allegato  agli  atti  della  visita  pastorale,  compiuta,  nel  gennaio  1536, 
per  incarico  del  patriarca  Marino  Grimani,  dal  suo  vicario  generale, 
mons.  Sebastiano  de  Rubeis  ;  atti  adesso  conservati  nella  vescovile  curia 
di  Concordia. 

Dopo  di  avere  offerto  altri  ragguagli  sul  tesoro  pordenonese,  che 
ammiriamo  nitidamente  riprodotto,  mons.  Degani  si  fa  a  considerare 
l'articolo  illustrativo,  che  su  di  esso  divulgò  V.  Ceresole  nel  tomo  VII, 
1878,  deìVArts  de  Paris,  facendo  delle  giuste  riserve  sul  valore  delle 
conclusioni  di  lui  circa  l'origine  de'  reliquiari,  ed  infine  esprime  il 
ragionevole  avviso,  nel  quale  pur  l'autorevole  redazione  della  rivista 
consente,  che  tali  oggetti  possano  essere  usciti  dalle  botteghe  d'orefici 
del  nostro  paese. 

^  Il  copialettere  Marciano  della  Cancelleria  Carrarese.  —  Al- 
l'erudita diligenza  della  doti  Ester  Pastorello,  la  valente  sottobiblio- 
tecaria della  Nazionale  di  S.  Marco  ed  autrice  di  un  pregiato  volume 
di  ricerche  sulla  storia  di  Padova  e  dei  principi  da  Carrara  al  tempo 
di  G.  G.  Visconti  (Padova,  1908),  dobbiamo  una  pubblicazione  pode- 
rosa e  rilevantissima,  che  interessa  davvicino  gli  studiosi  delle  vicende 
storiche  e  politiche  del  Friuli  nel  primo  Quattrocento,  e  che  siamo  lieti 
di  qui  registrare  con  sincero  plauso  e  viva  lode  :  //  copialettere  Marciano 
della  Cancelleria  Carrarese  (genn.  1402-genn.  1403),  edito  nei  Documenti 
della  benemerita  Deputazione  Veneta  di  storia  patria  (Venezia,  1915). 

La  signorina  Pastorello,  nella  sobria  introduzione,  descrive  il  pre- 
zioso ms.,  alla  libreria  di  S.  Marco  nel  1787  pervenuto  dall'archivio 
della  Serenissima,  quale  unico  superstite  di  quella  parte  dell'archivio 
Carrarese,  che  passò  a  Venezia  dopo  la  cattura  di  Francesco  II,  avve- 
nuta nel  novembre  del  1405,  e  ragiona  poscia  della  sua  importanza  per 
il  valore  paleografico,  diplomatico,  linguistico  e  particolarmente  storico, 
facendo  opportunamente  notare  che  il  codice  stesso  costituisce  la  più 
ragguardevole  raccolta  originale  di  documenti  fra  le  pochissime,  che 
ci  rimangono,  della  signoria  dei  da  Carrara. 

Questo,  che  sembra  essere  l'unico  copialettere  della  cancelleria 
Carrarese,  si  compone  di  altre  ottocento  lettere  variamente  interessanti, 
delle  quali  circa  400  sono  dettate  in  volgare,  le  altre  in  latino,  ed  è 
una  delle  più  autorevoli  e  ricche  fonti  per  la  storia  dell'anno  1402. 

La  edizione  del  ms.,  che  ora  reca  la  segnatura  Marc.  App.  Lat.  XIV, 
93,  è  condotta  con  accuratezza  e  buon  metodo,  ed  è  corredata  da  un 
commento  storico  e  dichiarativo  sempre  molto  bene  informato. 

Al  volume  sono  uniti,  in  fine,  un  glossario  delle  voci  volgari  ed 
un  indice  dei  nomi  propri  e  delle  cose  notevoli. 


66  NECROLOGIO 


*}■  Non  manchi  in  queste  pagine  una  parola  commossa  e  reverente  dedicata  alla  me- 
moria compianta  e  indimenticabile  di  Alessandro  D'Ancona,  il  più  insigne  maestro 
del  metodo  storico  che  l'Italia  vantasse,  spentosi  a  Firenze,  quasi  ottantenne,  addì 
8  novembre  1914. 

Dell'uomo  eminente  ed  integerrimo,  delle  incomparabili  benemerenze  di  lui  nel 
campo  della  letteratura,  della  nobile  ed  efficace  azione  patriottica  altresì,  ch'egli  svolse, 
altamente  stimato,  in  particolar  modo  ne'  tempi  fortunosi  del  nostro  riscatto,  ampia- 
mente e  degnamente  si  ragionò  su  pe'  giornali,  nelle  riviste,  negli  atti  accademici  ; 
qui,  deponendo,  in  segno  di  viva  ammirazione,  un  fiore  lagrimato  sul  tumulo  di  quel 
valentuomo,  staremo  paghi  a  rammentarne,  con  devota  gratitudine,  le  scritture  che 
s'attengono  al  Friuli,  come  la  magistrale  monografia  su  La  leggenda  d^ Attila  «■  fla- 
gelluin  Dei»  in  Italia,  apparsa  primamente  negli  Studi  di  critica  e  storia  letteraria, 
Bologna,  1880,  e  riprodotta  nei  Poemetti  popolari  italiani,  ivi,  1889,  ed  i  preziosi  rag- 
guagli sulle  rappresentazioni  sacre  a  Cividale  ed  Aquileia  nei  secoli  XIII  e  XIV,  rinchiusi 
nel  primo  volume  della  monumentale  opera  Origini  del  Teatro  italiano,  Tonno,  \if)\. 

Intorno  al  venerato  Maestro,  si  vegga  il  volume  In  niemoriam:  A.  D'Ancona, 
Firenze,  1915,  amorosamente  messo  insieme  dai  figli,  ed  il  bellissimo  elogio,  che  di 
lui  tessè  alla  R.  Accademia  dei  Lincei  un  suo  fido  ed  illustre  discepolo,  F.  Novati, 
ed  ora  si  legge  stampato  nei  Rendiconti,  ser.  V,  voi.  XXIV,  1915,  p.  34  sgg.  La  co- 
spicua bibliografia  D'Anconiana,  condotta  fino  al  1914,  uscirà  prossimamente  a  Fi- 
renze, presso  G.  Barbèra. 

t  Addì  20  gennaio  1915  spirava  in  ancor  verde  età  il  consocio  cav.  Italico  Piuzzi 
Taboga.  Dopo  essersi  consacrato,  ne'  suoi  giovani  anni,  al  commercio,  in  Trieste, 
prese  più  tardi  dimora  a  San  Daniele,  di  cui  fu  apprezzato  e  benvoluto  sindaco,  e 
quindi  rappresentante  in  seno  al  Consiglio  provinciale,  che  lo  chiamò  a  far  parte  della 
Deputazione.  Era  d'animo  mite,  di  modi  sempre  amabili  e  cortesi  e  raccolse  fiduciose 
simpatie. 

t  In  seguito  a  breve  ma  violenta  malattia,  moriva  addì  19  febbraio  1915  don  Luiot 
Rosso,  arciprete  di  Sesto  al  Reghena  per  ben  trentadue  anni.  L'eletto  sacerdote,  amato 
e  stimato  da  quanti  lo  conobbero,  era  dotato  di  squisite  virtù,  ed  era  inoltre  un 
sincero  e  caldo  innamorato  dell'arte.  La  importante  chiesa  abbaziale  di  Sesto,  ben 
nota  agli  studiosi  di  antichità  medievali,  venne  restituita  al  suo  primitivo  splendore 
specialmente  grazie  all'entusiastico  amore  che  ad  essa  recava  l'ottimo  arciprete,  il 
quale,  per  raggiungere  l'agognato  intento,  seppe  superare  difficoltà  che  altri  non 
avrebbe  certo  potuto.  L'opera  di  restauro  coscienziosa  e  intelligente,  ch'egli  con- 
dusse largamente  e  validamente  appoggiato  dalla  Sopraintendenza  dei  monumenti  del 
Veneto,  era  appena  ultimata  quando  il  fato  venne  a  troncargli  la  nobile  esistenza, 
impedendogli  così  di  godere  i  meritati  frutti  del  suo  sudato  lavoro.   Fu   tra  i  fedeli 

della  Società  nostra,  che  ne  piange  vivamente  la  perdita. 

L.  S. 


ATTI  DELLA  SOCIETÀ  STORICA  FRIULANA 

Adunanza  del  Consiglio  direttivo  del  giorno  16  gennaio  1915. 
Presidenza  del  Vicepresidente  prof.  A.  Battistella. 

La  seduta,  che  ha  hiogo  nella  sede  sociale  (Palazzo  Bartolini,  sala 
dell'Accademia  di  Udine),  è  aperta  alle  ore  14.15,  presenti  Battistella, 
Fracassettì,  Frangipane,  Morpurgo,  Panciera  di  Zoppola,  Suttina,  ed 
il  vicesegretario  dott.  E.  Morpurgo. 

Il  Consiglio  delibera  di  convocare  l'assemblea  generale  dei  soci 
il  10  febbraio  p.  v. 

Stabilisce  poscia  di  proporre  al  voto  dell'assemblea  le  località  di 
Cividale,  Spilimbergo  e  Tolmezzo  per  la  scelta  della  sede  del  V  Con- 
gresso. 

Approva  quindi,  su  proposta  del  Segretario  e  del  Tesoriere,  il 
bilancio  preventivo  per  il  1915  nella  cifra  di  L.  6845.00  nell'entrata 
e  di  altrettante  nell'uscita. 

Da  ultimo  ammette  a  far  parte  della  Società  in  qualità  di  soci 
ordinari  i  signori:  Deciani  co.  comm.  dott.  Vittorio,  in  Roma  ;  Giaco- 
muzzi  sac.  prof.  Lodovico,  in  Portogruaro  ;  Nievo  cav.  dott.  magg.  Ip- 
polito, in  Colloredo  di  Montalbano  ;  Spessot  sac.  Francesco,  in  Aquileia. 

Dopo  di  che,  la  seduta  è  levata  alle  ore  15. 


//  Presidente 
A.  Battistella. 


//  Vicesegretario 

En.   Morpuroo. 


Adunanza  generale  ordinaria  del  giorno  10  febbraio  1915, 

Presidenza  del  Presidente  prof.  P.  S.  Leicht. 

La  seduta,  che  ha  luogo  nella  sede  sociale  (Palazzo  Bartolini,  sala 
dell'Accademia  di  Udine),  è  aperta  alle  ore  14.45,  presenti  i  soci  Bat- 
tistella, Bellavitis,  di  Caporiacco  Giuliano,  Capsoni,  Fracassetti,  Fran- 


68  ATTI    DELLA   SOCIETÀ 

gipane,  Leìcht,  Malattia,  Mistruzzi,  Morpurgo  Elio  ed  Enrico,  Musoni 
Pecile  D.,  de  Pollis,  di  Prampero  A.,  Ronchi,  Suttina  L.,  della  Torre 
del  Torso. 

Si  sono  fatti  rappresentare  per  delegazione  i  soci  :  Accordini,  d'At 
tems,  Biasutti,  Butti,  Braida  F.,  Candussio  A.,  Cabrici  di  Craigher,  di 
Maniago,  de  Marchi,  Marcotti,  Measso,  Misani,  Molmenti,  Morossi  C. 
Municipi  di  Cividale  e  di  Udine,  Nussi,  Poletti,  Provincia  di  Udine 
Rubini,  Schiavi,  Villari. 

Hanno  scusato  la  loro  assenza  i  soci:  Bertolini  G.  L.,  Brosa 
dola,  Cassi,  Chiaradia,  Costantini,  Cucavaz  A.,  Donadon,  Isola,  Lu 
chini,  Panciera  di  Zoppola,  Piccoli,  Rosso,  Tassini. 

Si  legge  ed  approva  il  verbale  della  precedente  assemblea. 

Il  Presidente  commemora,  con  elevate  parole,  i  soci  defunti  comm. 
prof.  Crivellucci,  marchese  Corrado  de  Concina,  il  conte  Niccolò  d'At- 
timis  Maniago,  ed  il  venerato  patriotta  triestino  comm.  dott.  Ferdi- 
nando Pitteri,  padre  del  consigliere  di  Presidenza  cav.  Riccardo,  al 
quale  l'assemblea  delibera  unanime  d'inviare  un  telegramma  di  con- 
doglianza. 

Il  Presidente  invita  il  Tesoriere  a  dar  lettura  del  Consuntivo  1Q14 
(ved.  Allegato  A),  il  quale,  previa  relazione  favorevole  dei  Revisori 
dei  Conti  (ved.  Allegato  B),  viene  approvato  nei  seguenti  estremi: 

Entrata L.    6446.11 

Uscita »      2924.33 

Avanzo L.    3521.78 


Il  Tesoriere  presenta  quindi,  ad  invito  del  Presidente,  il  preven- 
tivo 1915  (ved.  Allegato  C),  il  quale,  dopo  qualche  osservazione  del 
socio  di  Caporiacco  Giuliano,  cui  risponde  il  Presidente,  ed  una  breve 
discussione,  alla  quale  partecipano  di  Prampero  A.,  Battistella,  Suttina 
ed  il  Presidente  stesso,  viene  approvato  nei  seguenti  estremi  : 

Entrata L.     6845.00 

Uscita »      5008.35 

Avanzo .     .     L.     1836.65 


11  Presidente  espone  che  il  Consiglio  direttivo  nella  tornata  del 
16  gennaio  a.  e.  ha  deliberato,  in  conformità  dell'art.  XIV  dello  Sta- 
tuto, di  proporre  all'Assemblea  i  nomi  delle  località  di  Cividale,  Spi- 
limbergo  e  Tolmezzo  per  la  scelta  della  sede  del  V  Congresso  sociale 
e  chiede  all'Assemblea  stessa  di  esprimere  il  suo  avviso.  Su  proposta 
del  cons.  Fracasetti,  il  quale,  ricordando  ricorrere  verso  il  1915  il  cen- 
tenario della  fondazione  del  R.  Museo  Archeologico  di  Cividale,  rileva 
l'opportunità  che  il  Sodalizio,  a  conferire  maggior  solennità  all'impor- 


ATTI    DELLA   SOCIETÀ  69 

tante  avvenimento,  abbia  a  tener  colà  la  propria  riunione,  viene  una- 
nimemente designata  Cividale. 

De  Pollis,  sindaco  di  Cividale,  ringrazia  e  dice  che  la  sua  città 
sarà  lieta  e  superba  di  ospitare  i  congressisti. 

Il  Presidente  dichiara  aperta  la  votazione  per  la  nomina  di  due 
membri  del  Consiglio  direttivo,  irr  sostituzione  dei  membri  sorteggiati, 
giusta  il  disposto  dell'art.  XII  dello  Statuto,  Chiurlo  prof.  dott.  Bindo 
e  Frangipane  march.  Luigi,  e  nomina  scrutatori  i  soci  de  Pollis  e  Mi- 
struzzi  Freisinger.  Vengono  proclamati  eletti  Consiglieri  i  signori  Fran- 
gipane march.  Luigi  e  del  Torso  nob.  dott.  Enrico.  Vengono  poi 
rieletti  Revisori  dei  Conti  per  l'anno  1915  gli  uscenti  signori  Bellavitis 
co.  avv.  Mario,  Capsoni  avv.  Urbano  e  Malattia  Giuseppe. 

Dopo  di  che  la  seduta  è  tolta  alle  ore   15.20. 

//  Presidente 

P.  S.  Leicht. 

//  Vicesegretario 

En.    Mg r purgo. 
Allegato  A. 

Bilancio  consuntivo  1914. 

Entrata. 

Avanzo  dell'esercizio  1913 L.  1500.26 

Quote  di  N.  248  soci  ordinari 2480.00 

Quote  di  N.  3  soci  benemeriti »  1500.00 

Quote  degli  associati  2ì\\q^  Memorie »  291.50 

Assegno  del  Ministero  della  P.  I »  500.00 

Interessi  sulle  somme  depositate »  67.35 

Proventi  diversi »  107.00 

L.    6446.11 


Uscita. 

Importo  della  stampa  delle  Memorie  Storiche  Forogialiesi .    L.  2000.00 
Importo  della  stampa  delle  copertine  e  della  esecuzione 

e  stampa  dei  clichés  delle  Memorie. »  284.00 

Ricchezza  mobile  sull'assegno  del  Ministero  della  P.  I.    .     »  38.35 

Assegno  al  personale »  120.00 

Spese  di  posta,  telegrafo,  stampati,  cancelleria,  ecc.    .    .     »  301.98 

Spese  impreviste »  180.00 

L.  2924.33 

Avanzo  in  cassa »  3521.78 

L.  6446.11 


70  atti  della  società 

Riassunto. 

Entrata .    .    .    L.    6446.11 

Uscita »     2924.33 

Avanzo  in  cassa L.    3521.78 

Allegato  B. 

Relazione  dei  Revisori  dei  Conti. 

Udine,  9  febbraio  1915. 

Onorevoli  Consoci, 

Chiamati  dalla  vostra  fiducia  a  rivedere  il  bilancio  annuale  della 
nostra  Società,  e  presi  in  esame  i  registri,  le  pezze  giustificative  e  gli 
altri  documenti  che  il  tesoriere  ed  il  segretario  ci  hanno  esibito,  e 
avuti  tutti  gli  schiarimenti  necessari,  dobbiamo  esprimere  la  nostra 
intera  fiducia  e  l'approvazione  piena  per  l'esatta  ed  avveduta  ammini- 
nistrazione  dei  fondi  sociali. 

Notevoli  economie  si  fecero  quest'anno  specialmente  nelle  spese 
per  le  copertine  e  per  le  pubblicazioni  sociali  :  così  si  potè  realizzare  un 
avanzo  netto  di  L.  3521.78,  laddove  erano  preventivate  solo  L.  811.91. 
È  da  notarsi  però  che  questo  avanzo  è  formato  per  circa  un  terzo 
di  quote  di  associazioni  e  di  abbonamenti  alle  Memorie  non  ancora 
versati  :  ritardo  di  pagamenti  dovuto  al  fatto  che  molti  soci  risiedono 
air  Estero,  dove  le  condizioni  anormali  del  paese  hanno  prodotto  una 
certa  stasi  nelle  comunicazioni.  Si  raccomanda  però  alla  Presidenza 
di  sollecitare  gli  incassi. 

Concludendo:  noi  vi  invitiamo  a  votare  ad  unanimità  il  bilancio 
propostovi  dagli  egregi  amministratori  nelle  cifre  di  L.  6446.11  nel- 
r  entrata,  di  L.  2925  nell'uscita,  di  L.  3521.78  quale  avanzo. 

Mario  Bellavitis,  Urbano  Capsoni,  Giuseppe  Malattia. 

Allegato  C. 

Bilancio  preventivo  1915. 

Entrata. 

Fondo  presunto  di  avanzo  dell'esercizio  1914 L.    3300.00 

Contributi  sociali  : 

Quote  dei  soci  ordinari *     2450.00 

Quote  di  nuovi  soci   ordinari »        100.00 

Quote  di  N.  1  soci  perpetui »       200.00 

Associazioni  al  periodico  <t  Memorie  y>,  ecc.: 

Quote  degli  associati  alle  Memorie »       270.00 

Sussidi  dello  Stato-, 

Sussidio  del  Ministero  della  P.  I.  per  l'anno  1915.    .     >       500.00 

Introiti  eventuali: 

Provento  dalla  vendita  delle  pubblicazioni  sociali    .     »         25.00^ 

L.    6845ÌÓ0 


ATTI    DELLA   SOCIETÀ  71 


Uscita. 
Pubblicazioni: 

Fondo  per  la  stampa  delle  Memorie,  ecc L.    2500.00 

Fondo  per  la  copertina,  ì  clichés  e  le  tavole  fuori 

testo  delle  Memorie,  ecc »       700.00 

Fondo  per  le  altre  pubblicazioni  sociali »      1000.00 

Biblioteca  : 

Fondo  per  l'acquisto  di  libri  e  riviste  ad  uso   della 

Biblioteca »        100.00 

Fondo  per  la  manutenzione  della  Biblioteca   ...»       100.00 
Ritenute: 

Ricchezza  mobile  sul  sussidio  del  Ministero  della  P.  I.     »         38.35 
Spese  d'amministrazione: 

Assegno  al  personale »       120.00 

Spese  di  posta,  telegrafo,  cancelleria,  stampati,  ecc.     »       400.00 

Spese  diverse »         50.00 

Spese  straordinarie: 

Spese  impreviste  a  pareggio »      1836.65 

L.    6845!^ 


Adunanza  del  Consiglio  direttivo  del  giorno  9  marzo  1915. 
Presidenza  del  vicepresidente  prof.  A.  Battistella. 

La  seduta,  che  ha  luogo  nella  sede  sociale  (Palazzo  Bartolini, 
sala  dell'Accademia  di  Udine),  è  aperta  alle  ore  14.10,  presenti  Batti- 
stella,  Fracassetti,  Frangipane,  Morpurgo,  Suttina,  del  Torso,  e  il  vi- 
cesegretario dott.  E.  Morpurgo. 

Si  legge  ed  approva  il  verbale  della  precedente  seduta. 

Il  Presidente  legge  una  lettera  con  la  quale  il  Comune  di  Cividale 
si  dice  lieto  che  la  città  sia  stata  scelta  a  sede  del  congresso  sociale. 

Suttina,  ricordando  aver  luogo  verso  il  1915  il  centenario  della 
fondazione  del  R.  Museo  Archeologico  di  Cividale,  esprime  il  voto  che 
il  Consiglio  direttivo,  a  degnamente  solennizzare  tale  ricorrenza  e  in 
considerazione  della  importanza  storica  ed  artistica  di  detta  città  e  dei 
cospicui  monumenti  che  ne  fanno  fede,  dia  incarico  alla  Presidenza  di 
studiare  le  modalità,  ove  le  condizioni  politiche  abbiano  a  consentirlo, 
per  organizzare  in  occasione  del  congresso  sociale,  un  convegno  delle 
Deputazioni  e  delle  Società  storiche  italiane,  non  escluse  quelle  riguar- 
danti la  storia  del  patrio  Risorgimento;  convegno  nel  quale  abbiansì 
a  trattare,  con  opportune  disposizioni,  tanto  argomenti  storici  generali 


72  ATTI    DELLA   SOCIETÀ 

e  regionali,  quanto  questioni  concernenti  l'esistenza,  l'attività  e  gl'inte- 
ressi delle  singole  Società  e  Deputazioni  ;  e  di  presentare  al  più  presto 
un  programma  per  dare,  nel  caso,  pratica  attuazione  alla  idea. 

Dopo  breve  discussione,  alla  quale  partecipano  Battistella,  Fra- 
cassetti,  Frangipane  e  Morpurgo,  il  Consiglio  stabilisce  di  affidare  alla 
Presidenza  lo  studio  della  proposta. 

Il  Consiglio  delibera  di  concorrere  con  la  quota  di  L.  20.00  all'ere- 
zione di  un  ricordo  marmoreo  a  don  Luigi  Rosso,  in  Sesto  al  Reghena. 

II  Presidente  comunica  una  proposta  del  prof.  Leicht,  circa  l'acqui- 
sto di  una  carta  del  Friuli  del  '700  tirata  su  seta.  Il  Consiglio,  in 
considerazione  del  costo  elevato,  non  accoglie  la  proposta  stessa  per 
ragioni  di  bilancio. 

Si  procede  alla  nomina  del  Tesoriere:  viene  confermato  per  ac- 
clamazione in  tale  carica  il  march.  Luigi  Frangipane. 

Da  ultimo  il  Consiglio  ammette  a  far  parte  della  Società  in  qua- 
lità di  socio  ordinario  la  R.""  Sopraintendenza  dei  Musei  e  Gallerie  del 
Veneto,  in  Venezia. 

Dopo  di  che  la  seduta  è  tolta  alle  ore  14.45. 


//  Presidente 
A.  Battistella. 


//  Vicesegretario 
En.    Morpuroo. 


15  maggio  1915. 


Stampato  in  Città  di  Castello,  nella  Officina  della  Casa  editrice  S.  Lapi. 
Marchese  Luigi  Frangipane  responsabile 


Le  nozze  in  Friuli  nei  secoli  XVI  e  XVII. 

Le  ricordanze  familiari  interessanti  e  frequenti  nel  secolo  XVI 
in  tutta  l'Halia,  mancano  in  Friuli,  \  friulani  laconici  per  natura, 
laboriosi  e  guerrieri  per  necessità,  trascurarono  nelle  loro  cro- 
nache i  ricordi  della  vita  familiare,  preferendo  annotare  un'in- 
cursione dei  turchi,  una  devastazione  degl'imperiali,  un  triste 
episodio  d'assedio  e  di  carestia.  Ridussero  le  descrizioni  dei  fatti 
più  importanti  della  loro  vita  privata,  primo  fra  tutti  il  matrimonio, 
al  ricordo  di  un  contratto  avvenuto. 

Fonti  al  presente  lavoro  furono  i  rogiti  notarili,  gli  statuti, 
le  deliberazioni  del  maggiore  e  del  minore  Consiglio,  i  libri  di 
conti  più  degli  epistolari,  delle  cronache,  delle  memorie  private. 
Da  questi  documenti  non  traspare  l'essenza  della  vita  domestica, 
la  sua  parte  più  intima  e  più  cara. 

Per  questa  aridità  e  laconicità  delle  fonti  sia  scusabile,  in 
parte,  l'aridità  del  lavoro. 

I. 

COME    SI    PREPARA   IL   MATRIMONIO. 

Nel  secolo  XVI  si  facevano  due  simpatiche  feste  friulane,  che 
modificate  e  trasformate  a  traverso  i  tempi  vivono  ancora  in  tutta 
la  loro  bellezza  fra  t  contadini  del  Friuli.   Sono   la  festa  delle 


74  ALICE   SACHS 

cldulis  e  quella  del  majos.  La  festa  delle  cidulis  ^  era  più  usata 
nelle  campagne  e  specialmente  in  Carnia.  Alla  festa  del  majos 
accorrevano  i  nobili  castellani  e  quelli  di  Udine  non  la  sdegna- 
vano. La  sera  precedente  a  un  giorno  di  festa  i  giovani  del  paese 
salivano  sopra  un  poggio  vicino,  a  gettare  lis  cldulis. 

Le  cldulis  erano  rotelle  stellate  di  legno  resinoso  forate  nel 
centro,  si  mettevano  sopra  un  gran  fuoco  e,  quando  erano  in- 
candescenti, s' infilavano  a  un  ferro.  Allora  si  batteva  il  ferro  a 
terra,  facendole  scivolare  dalla  collina.  Ogni  giovanotto  poteva 
mandarne  una,  consacrandola  alla  ragazza  del  paese  che  prefe- 
riva e  che  intendeva  fare  sua. 

Cavallerescamente  tutti  i  giovanotti  inneggiavano  alle  ragazze 
scelte  dagli  amici,  la  cldule  era  accompagnata  nella  sua  corsa  giù 
pel  poggio  dalle  acclamazioni,  dalle  grida  festose  dei  giovani,  dal 
canto  delle  villotte,  dal  suono  dei  pifferi,  strumento  comunissimo 
in  Friuli.  Nel  '500,  quando  si  rese  comune  la  polvere,  il  volo  delle 
cldulis  si  accompagnava  agli  spari  degli  archibugi  e  dei  mortaretti. 

Al  piano,  affacciate  a  tutti  i  balconi  di  legno,  stavano  le  ra- 
gazze, trepide  di  sentire  il  loro  nome.  Quando  i  giovanotti  scen- 
dendo dal  poggio  passavano  sotto  le  loro  finestre,  esse,  se  non 
sdegnavano  l'omaggio,  gettavano  al  cavaliere  un  fiore.  Era  quello, 
allora  come  ora  presso  i  contadini,  la  manifestazione  dell'amore 
ricambiato,  il  tacito  consenso  al  fidanzamento  ufficiale,  il  quale 
portava  quasi  sempre  al  matrimonio. 

La  festa  del  majos^  si  faceva  nel  primo  giovedì  di  maggio, 
detto  jovls  crlspellarum.  I  nobili  udinesi  uscivano  alla  mattina 
dalla  città  con  i  cavalli  riccamente  bardati.  Erano  preceduti  dai 
suonatori,  percorrevano  le  vie  con  tutto  il  chiasso  e  il  lusso  pos- 
sibile e  andavano  in  campagna.  Passavano  all'aperto,  correndo  per 
i  prati  quel  primo  giovedì  di  maggio  e  ritornavano  verso  sera 
in  città  con  i  cavalli  ricoperti  di  fiori  e  di  fronde.  Ogni  cava- 
liere portava  in  mano  un  ramo  fiorito. 

L'allegra  brigata  percorreva  di  nuovo  al  suono  delle  trombe 
la  città,  spargendo  per  le  vie  i  fiori  raccolti.  Il  ramo  fiorito,  che 
ogni  cavaliere  portava  sulla  porta  di  una  ragazza,  era  come  la 
cidule  del  popolo,  la  manifestazione  d'amore  e  diceva  che  la 
ragazza  a  cui  il  ramo  spettava  era  la  preferita  e  quella  che  il 
cavaliere  desiderava  sposare. 


1  V.  Joppi,  Testi  inediti  friulani  dal  sec.  XIV  al  XIX,  Torino,  1878,  p.  199. 
8  F.  DI  Manzano,  Annali  del  Friuli,  Udine,  1868,  voi.  VI,  p.  64. 


Le   nozze   in    FRIULI    NEI   SECOLI   XVI    E   XVII  75 

Questa  festa  rimane  ancora  trasformata  presso  i  contadini 
friulani  e  si  chiama  schiarnete.  Ora  i  contadini  nel  maggio  spar- 
gono di  fiori  la  soglia  delle  case  delle  ragazze,  alle  quali  poi 
molto  probabilmente  si  fidanzano.  Ogni  fiore  ha  un  suo  simbolo 
e  la  schiarnete  con  la  sua  varietà  di  fiori  costituisce  una  vera 
dichiarazione  d'amore. 

Queste  spontanee  manifestazioni  d'amore,  che  precedono  il 
matrimonio,  potrebbero  far  credere  che  nel  secolo  XVI  e  XVII 
il  matrimonio  fosse  concluso  con  tutte  le  considerazioni  di  inte- 
resse e  di  buon  senso  necessarie,  ma  che  il  suo  movente  primo 
ed  unico  fosse  la  simpatia  reciproca,  fosse  il  desiderio,  che  un 
uomo  o  una  donna  giovane  avevano,  una  volta  incontrati,  di  con- 
tinuare insieme  la  via,  di  unirsi  per  formare  una  nuova  famiglia, 
per  raccogliersi  insieme  intorno  a  un  nuovo  focolare. 

Ma,  consultando  quanto  resta  intorno  ai  matrimoni  nel  '500 
e  nel  '600,  si  vede  che  le  feste  di  maggio  erano  soltanto  feste, 
giuochi  cavallereschi,  le  fronde  fiorite  erano  poste  forse  come 
semplice  omaggio,  oppure  come  domanda  di  matrimonio  se  que- 
sto era  già  stato  concluso  da  parenti,  amici  o  sensali. 

Nel  Friuli  del  rinascimento,  il  matrimonio  avviene  per  amore: 
nel  popolo,  il  gran  numero  di  matrimoni  clandestini  lo  prova. 
Ma  la  borghesia  cercava  che  un  matrimonio  non  turbasse  le  con- 
dizioni economiche  della  famiglia,  cercava  che  la  sposa  del 
figlio  avesse  una  buona  dote,  che  lo  sposo  della  figlia  avesse 
una  posizione  onorata  o  fosse  un  buon  lavoratore. 

La  nobiltà  voleva  che  non  entrassero  nella  famiglia  elementi 
nuovi  e  borghesi,  e,  più  che  alle  doti  della  sposa,  guardava  alla 
sua  origine. 

Nelle  trattative  di  matrimonio  la  sposa  non  è  mai  consultata, 
poco  si  parla  di  lei,  del  suo  valore,  delle  sue  qualità.  In  qualche 
contratto  è  ricordata  la  sua  bellezza,  la  sua  robustezza,  qualità 
buonissima  quest'ultima  per  fare  apprezzare,  specialmente  in  Friuli, 
una  sposa,  lavoratrice  e  madre  futura.  Così  non  solo  dai  rogiti 
dei  notari,  ma  dalle  lettere,  dalle  cronache,  le  trattative  per  fare 
un  matrimonio  appaiono  a  noi  spogliate  da  qualsiasi  considera- 
zione d'indole  sentimentale.  Vediamo  la  donna  contrattata  come 
una  merce,  come  un  essere  senz'anima  e  senza  volontà.  La  fa- 
miglia si  costituisce  invece  che  su  una  base  d'amore  su  una  di 
denaro,  e  il  matrimonio  friulano  giunge  a  noi  accompagnato 
quasi  unicamente  da  un  prepotente  e  necessario  tintinnio  di  ve- 
neti ducati. 


Ì6  Alice  sachs 

L' Misieme  delle  pratiche  facili  o  laboriose  per  concludete  un 
matrimonio,  chiamate  trattative,  erano  fatte  o  per  ordin*  del  Con- 
siglio di  Udine,  o  da  amici  degli  sposi,  o  dai  genitori  stessi. 
Prima  di  tutto  era  necessario  che  le  due  famiglie  fossero  con- 
tente di  imparentarsi,  poi  che  il  giovane  fosse  contento  di  pren- 
dere moglie.  Quando  ciò  era  stabilito  il  matrimonio  era,  si  può 
dire,  concluso.  I  friulani  erano  onesti  mantenitori  della  parola 
data,  la  sposa,  come  s'è  visto,  per  la  sua  condizione  poteva  met- 
tere pochi  impedimenti.  Restavano,  quindi,  da  fissare  nelle  trat- 
tative le  questioni  dotali;  e  con  queste  si  giungeva  sempre  ad 
accontentare  le  due  famiglie. 

U  Consiglio  della  maggior  città  della  Patria  del  Friuli  sentiva 
tutta  l'importanza  del  costituirsi  di  nuove  famiglie.  Questa  pro- 
vincia era  posta  in  una  posizione  aperta  a  qualunque  incursione 
straniera.  La  stessa  continua  preoccupazione  che  dimostrano  gli 
udinesi  per  l'erezione  delle  mura  di  Udine,  lo  stesso  desiderio 
intenso  più  volte  manifestato  in  Consiglio,  perchè  queste  mura 
sorgano,  la  si  dimostra  pure  contemporaneamente  perchè  si  fac- 
ciano i  matrimoni  «  per  ampliare  il  numero  de  li  cittadini  »,  neces- 
sari alla  difesa  della  terra.  Fino  dal  tempo  del  potere  temporale 
dei  patriarchi  ^  il  maggior  Consiglio  destinava  tre  persone  per 
ogni  quartiere  della  città,  perchè  trattassero  i  matrimoni. 

Sotto  il  governo  della  Serenissima  questo  bisogno  di  accre- 
scere il  numero  dei  cittadini  è  sentito  e  ogni  anno  sono  eletti  i 
procuratori  a  trattare  lo  stesso  soggetto. 

Il  luogotenente  mandato  dalla  Repubblica  di  Venezia  a  reg- 
gere la  Patria  propose  il  18  febbraio  1518*  che  dal  Consiglio 
della  città,  mediante  votazione,  fossero  nominati  tre  cittadini,  uno 
dell'ordine  dei  nobili,  un  secondo  dell'ordine  dei  borghesi,  e  il 
terzo  dell'ordine  dei  popolani,  per  restare  in  carica  quanto  pia- 
cesse alla  comunità,  coll'obbligo  di  adoperarsi  tutti  insieme  o 
separatamente  per  concludere  i  matrimoni  come  ad  essi  piacesse 
o  sembrasse  più  opportuno.^  Affinchè  i  sensali  si  sforzassero 
in  quella  «  pia  e  lodevole  opera  » ,  il  Consiglio  decretò  che  quello 
fra  essi  il  quale  fosse  riuscito  a  concludere  qualche  matrimonio 

i  Archivio  Comunale  dì  Udine,  Annalium  to.  I,  f.  172,  an,  1365;  to.  XVl,  f.  124, 
aii.  1405;  to.  XX,  f.  91,  an.  1415.  Ad  indicare  l'Archivio  Comunale  di  Udine,  adot- 
tiamo, per  brevità,  la  sigla  ACU. 

«  ACU.,  Annalium  to.  XLII,  f.  163-164. 

3  La  decisione  fu  presa  quando  da  poco  era  finita  in  Friuli  la  guerriglia,  che  fece 
seguito  alla  lega  di  Cambra!  :  quando  cioè  la  Patria  aveva  maggior  bisogno  di  forti  sol- 
dati che  la  difendessero. 


LE   NOZZE   IN   FRIULI    NEI   SECOLI    XVÌ    E   XVII  77 

ricevesse  un  compensa  dagli  sposi.  La  somma  era  proporzio- 
nale alla  quantità  della  dote.  11  Consiglio  fissava  che  lo  sposo 
e  la  sposa  dovevano  pagare  a  metà  un  ducato  d'oro  per  cento 
ducati  di  dote  e  corredo,  dati  o  promessi.  Il  compenso  cresceva 
di  un  ducato  per  ogni  cento  ducati  di  dote,  ma  su  qualsiasi 
somma  i  sensali  non  potevano  ottenere  un  compenso  superiore 
ai  dieci  ducati. 

Dalle  cronache  nan  è  dato  capire  quanto  utile  fosse  l'opera 
dei  pubblici  sensali. 

Sembra  che  il  Consiglio  della  Patria  se  ne  trovasse  contento 
poiché  li  elesse  ininterrottamente  durante  il  XVI  e  il  XVll  secolo. 
La  loro  opera  di  unione  deve  essersi  manifestata,  e  questo  spe- 
cialmente per  il  popolo,  durante  gli  annui  convegni  in  occasione 
di  mercati  e  feste  religiose,  accompagnate  da  giostre,  danze  e 
altri  spettacoli  istituiti  fin  dal  tempo  del  patriarca  Bertrando  per 
promuovere  i  matrimoni.^  Ma  l' ufficio  di  sensale,  benché  ricom- 
pensato, doveva  essere  ingrato,  poiché  nel  1543  in  Consiglio  si 
dovette  ricordare  la  santità  della  missione,  e  per  di  piiì  stabilire 
una  multa  per  indurre  i  cittadini  ad  accettarne  l'incarico:  «Li 
«  nostri  adunque  antiqui  e  boni  vecchi  conoscendo  questo  esser 
«  perfetto  bene  e  verità  che  falir  non  po'  però  ordinarono  lo 
«  offitio  sopra  la  pace  et  matrimonii  et  acciò  tal  opera  santa  si 
«  conservi  e  si  mantegni  et  revivisca  a  laude  del  omnipotente  Dio 
«  et  del  excellentissimo  Dominio  nostro,  noi  vostri  Deputati  in- 
«  sieme  cum  lo  ci."""  signor  nostro  Luogotenente  mettemo  parte 
«  che  ogni  anno  alla  creazione  di  detti  signori  ellegger  si  deb- 
«  biano  cittadini  di  buona  fama  et  bon  exemplo  quali  non  pos- 
«  sino  refudar  sotto  pene  de  ducati  XXV  per  uno  da  esser  ir- 
«  remissibilmente  tolti  et  sanza  alcun  intervallo  di  tempo  siano 
«  exsborsati  et  poi  divisi  parte  ai  poveri  mendicanti  et  parte  a 
«  mandare  orfane  »  .^ 

Il  Consiglio  cercava  in  ogni  modo  di  favorire  i  matrimoni 
e  se  l'ufficio  dei  sensali  accennava  a  venir  meno,  cercava  che 
per  le  orfane  qualche  cosa  si  facesse  e,  per  rendere  più  facile  a 
queste  d'accasarsi,  costituiva  la  dote. 

La  legislazione  statutaria  condannava  i  rapitori  di  fanciulle 
e  la  condanna  era  gravissima;  l'unica  scappatoia  era  il  matri- 
monio :  con  ciò  lo  statuto  lo  favoriva  e  lo  incitava.  Lo  statuto  di 


i  O.  Ma«COTT!,  Donne  e  Monache,  Firenze,  1884,  p.  382. 
«  ACU.,  Annalium  to.  LI,  f.  82-83. 


78  alìce   SACHS 

Concordia  *  puniva  il  rapitore  con  la  condanna  a  morte.  Ma  se 
col  consenso  dei  genitori  esso  poteva  sposare  la  rapita,  non 
aveva  che  una  multa  di  50  lire.  Lo  statuto  di  Cordovado  ^  con- 
dannava il  rapitore  a  tre  libbre  grosse  e  a  scontare  la  sua  colpa 
con  la  morte  ed  opponeva  il  sequestro  in  caso  di  fuga.  Permet- 
teva però,  se  i  genitori  acconsentivano,  il  matrimonio  entro  i 
quindici  giorni.  Questa  comunità  non  dimenticava  ì  suoi  interessi, 
perchè  imponeva,  anche  in  caso  di  matrimonio,  una  multa  a  be- 
neficio della  sua  cassa. 

Anche  i  patriarchi  cercavano  di  mettere  meno  impedimenti 
che  fosse  stato  possibile  alla  celebrazione  dei  matrimoni.  A  tal 
fine  proibivano  ^  che  più  di  un  uomo  e  di  una  donna  tenessero 
un  fanciullo  a  battesimo  o  alla  cresima  e  minacciavano  una  multa 
a  quel  sacerdote  che  aveva  battezzato  e  cresimato  un  ragazzo 
con  più  matrine  e  più  padrini.  La  ragione  di  ciò  si  deve  ricer- 
care nel  fatto  che  tra  madrine  e  padrini  si  costituiva  una  paren- 
tela spirituale  che  restringeva  la  libertà  e  la  possibilità  di  con 
trarre  matrimonio. 

Molte  volte  i  parenti  non  aspettavano  che  i  sensali  si  occu- 
passero per  maritare  le  ragazze  della  loro  famiglia  e  s' interessa- 
vano direttamente  al  matrimonio. 

I  matrimoni  si  facevano  quando  la  sposa  era  giovanissima 
ed  anche  lo  sposo  spesso  era  molto  giovane.  Nelle  trattative  si 
ricorda  l'età  della  sposa,  e  si  può  osservare  che  essa  raramente 
raggiunge  i  venti  anni.  Gli  statuti  stessi  permettevano  i  matri- 
moni alle  ragazze  giovani.  Lo  statuto  di  Venzone  *  permette  alla 
ragazza  orfana  di  16  anni  «od  in  circa»  di  maritarsi  a  «chi 
vuole».  Lo  statuto  di  Udine  impone  il  consenso  dei  parenti  alle 
ragazze  che  si  maritano  prima  dei  venti  anni."*  Giulia  Savorgnana 
nel  1520  ricordava  dì  aver  maritata  la  figlia  Vittoria  «  de  ani  16 
mesi  4  et  giorni  5  »  ^  e  si  mostrava  soddisfatta  che  quel  matrimo- 
nio fosse  avvenuto  così  presto.  Una  ragazza  di  26  anni  che  si 
maritava  era  ritenuta  già  matura  e,  considerata  la  necessità  d'ac- 
casarsi e  la  sua  età,  non  si  poteva  disapprovare  se  si  maritava 
senza  il  consenso  dei  parenti. 

i  statuti  civili  e  criminali  della  diocesi  di  Concordia  {1450),  Venezia,  1882,  n.  208. 

«  Statuti  di  Cordovado  (1337),  Udine,  1875,  n.  11. 

3  Q.  Marcuzzi,  Sinodi  Aquileiesi,  Udine,  1910,  pp.  148  e  218. 

*  Statati  municipali  della  terra  di  Venzone  {1425),  Udine,  1871,  cap.  189. 
5  Statati  de  la  Patria  del  Friuoli,  Utini,  1484,  e.  96. 

•  Copia  di  memoria  fatta  dalla  sig.  Giulia  Savorgnana,  ms.  in  Archivio  de  Con- 
cina,  in  S.  Daniele  del  Friuli,  te.  XIV. 


LE    NOZZE    IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E   XVII  79 

Lo  sposo  raramente  aveva  sorpassati  i  25  anni  e  molte  volte 
non  raggiungeva  i  20.  Nel  1584,  Federigo  di  Strassoldo  di  18  anni 
col  consenso  dei  genitori  tolse  per  moglie  Rutiglia  Brazzà  più 
giovane  del  marito.^  La  giovane  età  degli  sposi  era  ricercata  dai 
genitori  :  e  ciò  può  spiegarsi  col  desiderio,  a  cui  si  è  già  accen- 
nato, di  veder  crescere  numerose  le  famiglie,  e  anche  colla  brama 
dei  genitori  di  stabilire  i  parentadi  come  meglio  credevano,  va- 
lendosi della  remissività  propria  dei  giovani. 

I  matrimoni  si  facevano  sempre  tra  friulani,  spesso  fra  com- 
paesani, specialmente  in  Carnia,  dove  la  forma  stessa  del  terreno 
rendeva  difficili  le  comunicazioni  e  perciò  il  mezzo  di  allargare 
il  numero  dei  conoscenti.  I  cittadini  sposavano  le  castellane  e, 
al  più,  qualche  veneziana  viene  sposa  ai  nobili  della  Patria; 
nel  1527  una  bresciana  sposa  un  Porcia.  La  comunità  di  Udine 
stabiliva  *  che  di  «  sua  ragione  »  le  fanciulle  non  potessero  ma- 
ritarsi fuori  della  terra.  Anche  col  permesso  dei  genitori,  il  Con- 
siglio proibiva  il  matrimonio  coi  forestieri  ed  in  alcuni  casi  non 
lo  permetteva  che  fra  gli  abitanti  della  città.  Queste  restrizioni 
servivano  a  mantenere  il  carattere  antico  nelle  famiglie,  e  la  man- 
canza di  elementi  nuovi  non  toglieva  la  rozzezza  e  alcune  abi- 
tudini selvaggie,  ma  forti.  La  vita  all'aperto,  il  lavoro,  la  caccia, 
la  guerra  fortificavano  i  friulani,  togliendo  il  pericolo  dell'inde- 
bolimento della  razza  troppo  rinchiusa  in  se  stessa. 

Abbiamo  già  visto  che  la  nobiltà  mal  volentieri  tollerava  che 
elementi  nuovi  entrassero  nella  sua  stretta  cerchia.  I  padri  stessi 
in  molti  testamenti  mettevano  come  condizione  per  poter  usu- 
fruire dell'eredità  che  i  figli  non  sposassero  borghesi  o  popolane.' 
Buonissimo  argomento  per  ottenere  presso  la  Curia  patriarcale 
l'annullamento  di  un  matrimonio  era  la  differenza  di  condizione 
tra  i  coniugi.  Qualche  elemento  nuovo  entrava  nella  classe  dei 
nobili.  Più  spesso  era  qualche  ragazza  nobile  che  degnavasi  di 
accasarsi  con  i  popolani,  e  la  sposa,  entrata  nella  nuova  fami- 
glia, era  considerata  come  un  onore  per  il  parentado  borghese. 
Antonio  Belloni  notaro,  erudito,  poeta,  dell'alta  borghesia,  sen- 
tiva il  dovere  di  scusarsi  per  aver  permesso  il  matrimonio  di 
una  sua  figlia  con  il  nobile  Strassoldo.  Come  tutti  a  quei  tempi. 


1  S.  DI  Strassoldo,  Cronaca  (1509-1603),  Udine,  1895,  p.  55. 

2  ACU.,  Annalium  to.  XXXI,  f.  355,  an.  1460. 

3  Già  nel  secolo  XI  si  trovano  di  tali  proibizioni:  vedi  Leicht,  Ricerche  pel  di- 
ritto privato  nei  documenti  preirneriani,  Roma,  1914,  I,  p.  46:  a.  1083  (Camaldoli) 
«  idest  non  accipiant  uxores  ex  ancillis  vel  malis  vilanis  ». 


80  ALICE  SACHS 

anche  quest'  uomo  intelligente  subiva  l'attrazione  per  quella  classe 
privilegiata  ed  era  lieto  ed  orgoglioso  che  una  figlia  di  Ermes 
di  Salvarolo  avesse  sposato  Martino  Kinskì,  suo  parente.  La  de- 
gnazione della  giovane  contessa  Salvarolo  dimostrava,  secondo 
il  Belloni,  che  tutta  la  famiglia  dello  sposo  non  era  ritenuta  né 
vile  né  da  poco.^ 

Awche  ad  Elisabetta  Savorgnana,  soggiunge  il  notaro,  per 
opera  della  quale  quel  matrimonio  fu  concluso,  non  erano  de- 
rivate noie  e  disonori.* 

Nella  prima  metà  del  'SOO  le  tre  classi  erano  ben  divise,  e 
le  gentili  dame,  che  del  concludere  un  matrimonio  si  facevano 
un  dovere  e  una  festa,  dovevano  essere  guardinghe,  non  tanto 
per  unire  due  persone  che  non  potessero  star  bene  insieme, 
quando  due  famiglie  di  non  uguale  nobiltà. 

In  molti  patti  dotali,  si  accenna  a  chi  conclude  il  matrimonio. 
Molto  spesso  sono  le  donne,  zie,  cognate,  vecchie  parenti,  ami- 
che degli  sposi  ;  mancando  queste,  intervengono  zii,  nonni,  ge- 
nitori. Alle  volte  vecchi  zii  s'interessano  a  maritare  le  nipoti, 
trascurando  anche  le  loro  abituali  occupazioni. 

Gregorio  Amaseo  nel  1 533  scriveva  :  «  Restai  per  qualche 
«  giorno  de  notar  qui  alcune  novelle,  per  essermi  tutto  in  pra- 
«tiche  per  maridar  mia  nezza  Dorothea  figliola  che  fu  de  mio 
«  fradello  miser  Hieronjmo  »  .^  Il  matrimonio  di  una  fanciulla  sem- 
brava un  buon  peso  levato  alla  famiglia,  se  lo  stesso  Amaseo 
aggiunge  poco  dopo:  «et  bona  sorte  nostra  nel  medesimo  dì 
«  fo  maridada  Eugenia  filiola  de  Romulo  mio  figlio  a  Bologna 
«  cum  dote  equivalente  in  miser  Vincenzo  Aldovrando,  genti- 
«Ihuomo  bolognese.  Dio  li  conceda  ogni  bona  gratia». 

Lo  sposo  trattava  quasi  sempre  direttamente  con  il  padre 
della  sposa,  seguiva  i  desideri  dei  suoi  genitori,  ma  era  libero 
di  scegliere  la  sua  donna.  Tuttavia  faceva  il  possibile  per  ren- 
dere favorevole  il  padre  alle  sue  nozze.*  Se  lo  sposo  era  orfano 
cercava  il  consenso  della  madre  che  in  segno  di  assentimento 
interveniva  agli  sponsali.  Se  lo  sposo  era  accettato  dal  padre  e 
la  figlia  promessa,  il  matrimonio  era  concluso.  Era  un  fatto  in- 
solito che  la  sposa  fosse  conosciuta  prima  del  giorno  del   ma- 


1  11  passo  fu  già  ricordato  dal  Marcotti,  op.  cit.,  p.  262. 

2  A.  Belloni,  Epistolae,  ms.  in  Bibl.  Comnn.  di  Udine,  scgn.  565,  lib.  II,  p.  30, 
lett.  59. 

3  L,  O.  Amaseo,  Diarii  udinesi  dall'anno  1508  al  1541,  Venezia,  1884,  p.  342. 
*  Amaseo,  op.  cit.,  p.  LXI. 


LE   NOZZE   IN   FRIULI  NEI   SECOLI   XVI   E   XVII  Bl 

trimonio.  Se  il  marito  futuro  desiderava  assolutamente  di  vederla 
poteva  ricorrere  ai  travestimenti.'  Abbiamo  pochi  esempì  di  pa- 
dri che  si  occupano  direttamente  delle  trattative  di  matrimonio; 
uno  fra  questi  è  il  notaro  Belloni.  Nel  suo  epistolario  già  citato, 
resta  una  serie  di  lettere  tra  il  notaro  e  un  futuro  probabile  ge- 
nero. Sono  interessantissime  perchè  ci  mostrano  come  si  svol- 
gevano le  trattative,  assai  tristi  perchè  ci  rivelano  il  vero  e  puro 
mercato. 

Antonio  Belloni  desiderava  sposare  sua  figlia  Camilla.  Un  no- 
taro, il  Robortello,  incaricò  un  parente  di  presentarsi  al  padre 
della  ragazza,  perchè  gliela  promettesse  con  dote  conveniente.  Il 
padre  la  promise  senza  consultarla.  II  Robortello  era  allora  in 
Toscana  e  non  pensò  neppure  alla  possibilità  di  un  lungo  e  di- 
sastroso viaggio  per  vedere  la  sposa.  Sembra  che  i  promessi  si 
vedessero  la  prima  volta  il  giorno  delle  nozze.  11  Belloni,  adun- 
que, scriveva  al  giovane  *  promettendo  la  figlia  in  isposa  con 
una  dote  di  seicento  ducati.  Aggiungeva  il  corredo  del  valore 
di  altri  cento  ducati.  Il  Belloni  temeva  però  che  al  genero  fu- 
turo la  dote  non  sembrasse  conveniente  poiché  gli  faceva  no- 
tare che  una  dote  grande  rappresenta  sempre  un  pericolo:  la 
moglie  non  fa  che  parlare  delle  sue  ricchezze  e  la  vita  di- 
venta insopportabile.  Lo  consigliava  a  scegliere  con  prudenza 
la  compagna  di  tutte  le  vicende,  dalla  quale  sarebbe  stato  pre- 
scelto per  giudizio  d'amore. 

Ma  benché  il  Belloni  parlasse  delle  doti  di  mente  e  di  cuore 
della  figlia,  gli  sposi,  s'è  detto,  non  s'erano  mai  visti;  la  simpatia 
quindi  per  la  ragazza,  futura  compagna  di  tutta  la  vita,  doveva 
ridursi  a  una  simpatia  per  la  dote.  Nonostante  le  tante  parole 
del  suocero  futuro,  il  Robortello  voleva  più  denaro  e  non  accen- 
nava a  venire  a  più  miti  pretese.  In  un'altra  lettera^  il  Belloni 
lo  rimprovera  di  pretendere  settecento  ducati  di  dote,  preferendo 
a  una  donna  di  buoni  costumi  una  bene  dotata.  Dimostra  poi 
che  la  dote  promessa  è  sufficiente;  che  non  avrebbe  potuto 
sopportare  un  onere  maggiore  e  resta  deciso  a  non  concedere 
più  di  seicento  ducati.  Si  pente  subito  di  questa  ferma  decisione 
e  promette  un  aumento  di  cinquanta  ducati.  Il  Robortello  era,  o 
si  mostrava,  sdegnato  e  non  intendeva  di  rinunciare  alla  somma 
che  voleva.  Al  Belloni  premeva,  invece,  che  la  figlia,  nonostante 

i  A.  PuRLlLiESE,  Cronaca,  in  Archivio  veneto,  to.  XXXVI,   fase.  71-72,  p.  318. 
«  A.  Belloni,  op.  cit.,  lib.  IX,  p.  206,  lett.  303. 
3  A.  Belloni,  op.  cìt.,  lib.  IX  p.  209,  lett.  307. 


82  ALICE  SACHS 

i  suoi  molti  e  ricchi  pretendenti,  sposasse  il  Robortello  e  in  un'altra 
lettera/  benché  protesti  ch'è  impossibile  venire  ad  una  concilia- 
zione, rinnova  l'offerta  di  seicento  e  cinquanta  ducati  e  consiglia 
di  nominare  un  procuratore  per  celebrare  il  matrimonio.  Sog- 
giunge, quasi  timidamente,  che  per  un  affare  così  serio  sarebbe 
opportuno  ch'egli  si  liberasse  da  ogni  impegno  e  venisse  in 
Friuli  direttamente. 

Finalmente  il  Robortello  cedette,  accontentandosi  di  seicento 
e  cinquanta  ducati  di  dote.  In  molti  altri  casi  le  discussioni  per 
la  dote  sono  lunghe  prima  di  giungere  a  una  conclusione.  Le 
ragazze  impazienti  di  conoscere  il  marito  futuro  ricorrevano  alle 
pratiche  superstiziose.  Alcune  perfino  raccolgono  di  notte  nei 
cimiteri  le  ossa  dei  morti  per  farle  servire  ai  sortilegi.*  I  processi 
per  questi  reati  sono  frequentissimi,  gli  statuti  stessi  hanno  multe 
per  i  sortilegi  d'amore.  Le  contadine,  per  conoscere  la  loro  sorte, 
nella  notte  di  S.  Giovanni  tentano  tanti  mezzi  comuni  ad  altre 
città  venete.'  In  Friuli  legavano,  la  sera  di  S.  Giovanni,  con  nastri 
rossi  alcuni  arbusti  di  nocciuola.  La  mattina  seguente  slegavano 
le  piante,  e  uscivano  dal  campo  ornate  del  nastro  umido  di  rugiada. 
Il  primo  uomo  incontrato  era  lo  sposo  destinato  da  Dio.  Noi 
sentiamo  pietà  per  queste  giovanette  vendute,  mandate  lontane 
con  un  uomo  che  non  amano  e  nemmeno  conoscono,  ma  questa 
pietà  si  cambia  in  un  alto  omaggio  di  reverenza  e  ammirazione, 
quando  vediamo  che  esse  riescono  a  poco  a  poco  a  conquistare 
un  posto  ben  alto  vicino  al  marito,  a  diventare  non  solo  le  educa- 
trici dei  figli,  ma  le  consigliere  e  le  amiche.  Con  commozione 
osserviamo  con  quanta  stima  i  mariti  parlano,  dopo  molti  anni 
di  matrimonio,  delle  loro  mogli.  Niccolò  Maria  Strassoldo  *  ricorda 
la  «tanto  cara  e  dilecta  consorte»  e  Gregorio  Amaseo  la^  «optima 
«et  dilecta  consorte,  unanime  rifugio  et  consolation  de  tutti  li 
«  miei  pensieri  »  e  quando  perde  la  moglie  la  ricorda  e  piange 
«  ogno  '1  zorno  più  volte  da  poi  in  qua,  perchè  l'era  persona 
«  dignissima  et  Io  mazor  amigo  ch'io  avessi  al  mondo».  Tom- 
maso di  CoUoredo  rinuncia  alla  carica  lungamente  sperata  di 
capitano  di  Venzone  per  la  morte  della  moglie  diletta." 


1  A.  Belloni,  op.  cit.,  lib.  IX,  p.  210,  lett.  308. 

»  V.  OSTERMANN,  La  Vita  in  Friuli,  Udine,  1894,  p,  313. 

3  G.  Bernoni,  Credenze  popolari  veneziane,  Venezia,  Antonelli,  p.  9. 

*  Cronaca  {1459-1509),  Udine,  1878,  p.  22. 
5  Amaseo,  Diarii  {1540)  cit.,  p.  478. 

•  F,  DJ  Manzano,  Annali  cit.,  voi.  VII,  p.  172, 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI   SECOLI   XVI   E   XVII  83 


*  Di 


Quando  le  condizioni  di  dote  erano  fissate  privatamente,  si 
facevano  gli  sponsali  e  si  dichiaravano  con  atto  pubblico  davanti 
al  notaro.  Si  riunivano  il  padre  e  la  madre  della  sposa,  il  padre 
dello  sposo,  lo  sposo,  due  o  più  amici  che  fungevano  da  testi- 
moni. La  sposa  era  promessa  dal  padre,  lo  sposo  giurava  di 
prendere  per  sua  legittima  consorte  la  figlia  del  signore  presente, 
che  nominava.  Si  fissava  nello  stesso  contratto  il  giorno  dello 
sposalizio,  la  quantità  e  qualità  della  dote,  in  qual  tempo  sarebbe 
stata  pagata.  Il  notaro  redigeva  il  contratto,  che  era  firmato  dal 
padre,  spesso  dalla  madre  della  sposa,  poi  dallo  sposo,  da  suo 
padre,  dai  testimoni,  dal  notaro.  Il  documento  autentico  era  con- 
segnato dai  castellani  al  parroco  del  castello.  Erano  fatte  poi 
due  copie  :  una  per  la  famiglia  dello  sposo  e  una  per  quella  della 
sposa. 

La  madre  della  sposa  invitava  il  giovane  a  casa  sua  a  vedere 
finalmente  la  moglie  futura.  Con  questo  invito  il  fidanzamento 
era  ritenuto  ufficiale,  lo  sposo  faceva  le  visite  ai  parenti  suoi  per 
annunciarCjil  prossimo  matrimonio,  e  scriveva  a  quelli  della  sposa, 
presentandosi  come  il  nuovo  entrato  nella  famiglia.  La  sera  del 
fidanzamento  la  fidanzata  entrava  nella  stanza  ov'erano  riuniti  i 
parenti  e  gli  amici.  Era  condotta  per  mano  dalla  mamma  o  da 
un  vecchio  amico  di  casa;  quest'uso,  che  si  ritrova  spesso  verso 
la  metà  del  '500,  era  forse  derivato  dall'uso  veneziano:  che  la 
sposa  fosse  condotta  alla  presenza  del  fidanzato  da  un  uomo 
maturo,  chiamato  il  ballerino.  A  Venezia  la  sposa  usciva  subito 
in  gondola  per  recarsi  a  visitare  i  conventi  di  monache  dove  si 
trovavano  i  suoi  parenti,  e  si  metteva  a  sedere  fuori  del  felze  * 
per  poter  essere  ammirata  dai  concittadini.  La  sposa  friulana  nei 
primi  giorni  di  fidanzamento  non  si  faceva  vedere  che  da  quelli 
di  casa.*  L'avesse  fatto  o  per  sfuggire  alla  curiosità,  o  per  dedi- 
carsi in  quei  giorni  di  clausura  alla  preghiera  e  alla  meditazione, 
non  sappiamo  disapprovare  questa  abitudine  friulana. 

Le  giovanette  della  Serenissima  si  tenevano  appartate,  e  nel 
giorno  degli  sponsali  entravano  nella  vita  gaia  e  festosa  della 
Venezia  del  '500.  Le  giovanette  friulane  frequentavano  invece  con 

1  P.  MoLMENTi,  La  storia  di  Venezia  nella  vita  privata,  Bergamo,  1906,  par.  II, 
p.  541. 

»  C.  DI  Pers,  Lettere,  ms.  in  Bit)!.  Com,  di  S,  Daniele  del  Friuli,  io.  XIX  (LXXI). 


84  ALICE  SACHS 

la  mamma  le  conversadoni  e  le  feste;  la  reclusione  nei  primi 
giorni  del  loro  fidanzamento,  fatta  come  la.  preghiera  prima  di 
ricevere  un  sacramento,  dimostra  che  le  fanciulle  si  prepara- 
vano con  piena  coscienza  dei  loro  doveri  alla  vita  nuova,  e 
che  sentivano  la  nobiltà  e  la  difficoltà  della  missione  che  inco- 
minciavano. 

Passati  due  o  tre  giorni  così,  la  sposa  riceveva  le  visite  degli 
amici  e  dei  parenti.  I  nobili  castellani  in  queste  occasioni  si  scam- 
biavano le  visite  da  un  castello  all'altro;  portavano  un  piccolo 
dono  alla  sposa.^  Sulla  gradinata  o  sul  ponte  del  castello,  la  fidan- 
zata aspettava  gli  ospiti  e  li  conduceva  nella  sala  maggiore  dov'era 
riunita  la  famiglia.  Presso  i  nobili  udinesi  c'era  pure  l'uso  delle 
visite  di  fidanzamento. 

In  un  giorno  stabilito  si  riunivano  nella  casa  della  sposa  le 
nobili  udinesi.  Vi  andavano  in  carrozza  accompagnate  da  alcuni 
servi,  ed  era  una  buona  occasione  per  sfoggiare  vesti  e  livree. 
Quando  la  sposa  era  di  famiglia  nobile,  alla  visita  di  fidanza- 
mento interveniva  anche  la  moglie  del  luogotenente  mandato 
da  Venezia  a  reggere  la  Patria  del  Friuli.  Il  3  novembre  1561  * 
Adriana  Morosini,  moglie  del  luogotenente,  andò  a  rallegrarsi 
con  Anna  Candido  fatta  sposa  a  G.  B.  Melso.  A  lei  si  unirono 
ventiquattro  fra  le  più  belle  dame  della  città.  Madonna  Adriana 
scese  col  suo  cocchio  dal  castello,  e  la  seguivano  le  carrozze 
delle  gentildonne  udinesi.  Il  fratello  della  sposa  le  accolse  con 
gran  festa  nella  sala  più  grande  della  sua  casa.  In  un'altra  stanza, 
«  nella  camera  sopra  l'orto  »,  furono  intanto  preparate  le  tavole 
con  un  suntuosissimo  rinfresco.  In  questo  ricevimento,  come  in 
ahri,  si  dimenticò  che  la  sposa  era  la  festeggiata  e  le  attenzioni 
maggiori  si  usarono  alla  luogotenentessa.  Nelle  famiglie  nobili 
udinesi  si  faceva  a  gara  per  rendere  gradita  alla  donna  illustre 
l'ospitalità.  Con  orgoglio  il  cronista  nota:  «la  detta  dar."""  Ma- 
«  donna  Adriana  disse  al  marito  che  l'era  stata  fatta  più  cortesia 
«  in  casa  nostra  che  in  alcun  altro  luogo  di  questa  città  » .  Anche 
in  altre  famiglie  nobili  il  lusso  di  questi  ricevimenti  non  era  mi- 
nore; sono  frequenti  le  spese  piuttosto  alte  per  dolci  e  confetti,  per 
aver  preso  alcuni  servi  ad  aiutare  quelli  di  casa.  Non  manca  la 
spesa  di  tre  tappeti,  comperati  per  far  più  bella  la  casa,  più  degna 
di  accogliere  gli  ospiti  che  venivano  a  salutare  la  giovane  sposa. 


^Calcoli  delle  entrate  e  spese  (1500-46),  in  Arch.  d'Arcano,  in  Rive  d'Arcano. 
»  E.  Candido,  Cronaca  udinese  (1554-64),  Udine,  1886,  p.  26. 


LE   NOZZE   IN    FRIULI    NEI   SECOLI   XVI   E   XVII  65 

Udine  voleva  mostrare  alla  dama  veneziana  la  sua  ricchezza, 
perchè  ne  parlasse  ammirata  alle  nobili  della  Serenissima,  e  il 
marito  la  ricordasse  nelle  sue  relazioni  al  Senato. 

Il  tempo  che  corre  tra  gli  sponsali  e  lo  sposalizio  è  gene- 
ralmente di  pochi  mesi.  Alle  volte  è  più  lungo,  quando  nei  patti 
dotali  la  dote  è  promessa  in  contanti  per  il  giorno  della  tradu- 
zione. È  spiegabile  quindi  il  lungo  periodo  di  fidanzamento.  I 
friulani  erano  e  sono  bene  equilibrati  ed  economi  e  per  prepa- 
rare la  somma  dotale  impiegavano  molto  tempo.  La  dote  si  gua- 
dagnava parte  col  lavoro,  parte  si  prendeva  dal  capitale  già  for- 
mato, in  modo  che  tutti  gli  interessi  della  famiglia  non  risentissero 
danno  per  una  somma  levata  al  patrimonio  comune. 

Nel  fissare  il  mese  e  il  giorno  del  matrimonio,  si  seguivano 
usi  e  superstizioni  speciali.  Il  mese  di  maggio  era  ritenuto  infausto 
alle  nozze.  11  6  marzo  1600  il  santo  Officio  '  incaricava  il  rev.  Do- 
nato Casella  pievano  di  S.  Quirino  di  ìfmmonire  alcuni  indi- 
vidui del  paese  che  rifiutavano  di  sposarsi  di  maggio.  Questa 
superstizione  era  diffusissima.  Consultando  i  registri  parrocchiali, 
nei  quali  dopo  il  Concilio  di  Trento  si  registravano  i  matrimoni, 
si  osserva  che  il  mese  di  maggio  è  quasi  privo  di  sposalizi. 
Invece  erano  ritenuti  fausti  i  mesi  di  luglio  e  di  febbraio.  Il  mag- 
gior numero  di  matrimoni,  sempre  secondo  le  registrazioni  par- 
rocchiali, avvengono  nel  settembre,  ottobre,  nella  stagione  del 
raccolto  delle  messi  quando  la  famiglia  che  si  costituisce  trova 
pronto  qualche  cosa  per  iì  suo  mantenimento.  11  numero  dei  ma- 
trimoni continua  ad  essere  abbastanza  alto  durante  tutti  i  mesi 
d'inverno,  fino  a  marzo.  Da  marzo  si  passa  all'agosto:  i  matri- 
moni non  avvengono  durante  i  mesi  di  gran  lavoro  nella  cam- 
pagna. Senza  scendere  a  particolari  di  statistica,  possibili  soltanto 
dopo  il  Concilio  di  Trento,  essendo  prima,  come  vedremo,  fre- 
quenti i  matrimoni  non  registrati,  si  osserva  che  il  numero  di 
questi  è  in  relazione  strettissima  alle  condizioni  economiche  del 
paese.  Quando  c'è  un  anno  di  carestia,  si  ha  pure  una  note- 
vole diminuzione  nel  numero  dei  matrimoni;  viceversa,  negli 
anni  di  abbondanza,  il  numero  dei  matrimoni  cresce  considere- 
volmente. 

Secondo  la  superstizione  anche  fra  i  diversi  giorni  della  setti- 
mana c'erano  quelli  fausti  e  quelli  infausti  per  il  matrimonio.  Il 
giorno  preferito  in  Friuli  è  quello  che  in  molte  regioni  d'Italia 

1  V.  OSTERMANN,   Op    Cit.,   p,   330. 


éó  ALICE  SACHS 

era  creduto  nefasto:*  il  mercoledì  era  ritenuto  in  Friuli  comedi 
buon  augurio,  mentre  il  venerdì  e  il  giovedì  erano  giornate  di 
streghe,  il  lunedì  la  sposa  sarebbe  stata  lunatica,  il  martedì  mar- 
tire, il  sabato  «  Sabide  sabidine,  di  cent  une  buine  » . 

Anche  la  domenica,  il  giorno,  secondo  la  credenza  popolare 
veneziana,  tanto  fausto  per  i  matrimoni,  era  creduta  di  cattivo 
augurio  in  Friuli. 

II. 

DOTE,    PRESTAMENTI,   DONI. 

La  dote,  la  parte  cioè  di  patrimonio  che  la  sposa  reca  al 
marito,  è  istituzione  tutta  romana.  Presso  i  longobardi  la  donna 
non  portava  una  somma,  ma  lo  sposo,  per  acquistare  il  mundio 
dal  padre  o  dai  parenti,  doveva  pagare  una  somma  detta  meta 
che  andava  a  beneficio  del  mundoaldo.  Questa  compera  subì 
trasformazioni:  si  finse  la  vendita  della  donna  dando  al  mun- 
doaldo un  prezzo  simbolico,  mentre  il  prezzo  reale  fu  dallo  sposo 
pagato  alla  donna.  A  poco  a  poco  perdette  il  suo  carattere  di 
prezzo  del  mundio,  per  divenire  un  assegno  in  caso  di  vedovanza. 

La  dote,  dunque,  presso  i  Germani  era  il  prezzo  che  per 
l'indebolimento  della  patria  potestà  e  per  il  formarsi  ed  affer- 
marsi della  personalità  della  donna,  era  dato  ad  essa  anziché  ai 
suoi  parenti.  Il  pagamento  della  dote  era  necessario  per  avere 
un  matrimonio  col  mundio.  A  questa  dote  data  dal  marito  si 
aggiunge  poi  il  morgengab  di  cui  parleremo  in  appresso.* 

Anche  presso  i  longobardi  le  fanciulle  portavano  una  dote 
il  faderfio;  questo  però  era  assai  limitato.  Nei  primi  secoli  del 
medio  evo,  secondo  le  consuetudini  longobarde  sopravvissute  in 
Friuli,  sembra  che  gli  apporti  matrimoniali  fossero  di  valore  limi- 
tato, ma  poi,  coll'aumentare  del  lusso,  i  matrimoni  si  fecero  piti 
difficili,  e  le  consuetudini  romane,  che  non  si  erano  mai  spente 
in  Italia,  presero  di  nuovo  grande  espansione,  restituendo  in  onore 
il  sistema  dotale  colla  controdote  o  donatio  propter  nuptias  data 
dal  marito  alla  moglie.  Però  in  Friuli  gli  avanzi  del  sistema  ger- 
manico si  trovano  ancora  nel  secolo  XIV  e  XV. 


1  E.  RoDOCANACHi,  Lm.  ftmme  italUnne  à  Vépoqut  de  la  Renaissance,  Paris,  1907, 
p.  71. 

«  Q.  Salvigli,  Trattato  di  storia  del  diritto  italiano  ecc.,  Torino,  1908,  p.  449  sgg.; 
Leicht,  op.  cit.,  p.  102  sgg. 


Le   nozze  in   FRIULI   I4EI   secoli   XVI   E  xvii  St 

La  personalità  della  donna  ebbe  uno  sviluppo  e  una  consi- 
derazione maggiore:  ella  non  fu  più  un  soggetto  di  compra  e 
vendita  ma  un  ente  che  poteva  godere  alcuni  diritti  come  i  ma- 
schi. Possedette  una  parte  del  patrimonio  di  famiglia,  e  lo  recò 
al  marito:  la  dote  nella  sua  essenza  romana  era  costituita.  La 
Chiesa  favorì  la  istituzione  della  dote,  perchè  rappresentava  un 
elemento  di  stabilità  ;  dava  luogo  a  un  atto  pubblico,  evitando  la 
confusione  tanto  frequente  tra  i  matrimoni  d'allora.  Per  questo 
il  patriarca  riconosceva  opera  di  carità  dotare  orfane.^ 

In  Carnia  e  nelle  parti  più  montuose,  alle  ragazze  era  asse- 
gnata una  dote  molto  minore  di  quella  che  donne  di  egual  con- 
dizione avevano  in  Friuli.  Invece  era  lasciata  loro  una  parte  del 
patrimonio  alla  morte  del  capo  di  famiglia.  Queste  disposizioni 
potrebbero  dimostrare  la  considerazione  maggiore  in  cui  era  te- 
nuta la  donna  nel  Friuli  settentrionale.  Poteva  come  l' uomo  ere- 
ditare per  testamento,  la  piccola  dote  assegnata  al  tempo  del 
matrimonio  rappresentava  un  regalo  dei  parenti  come  i  doni 
nuziali  e  il  corredo.  La  donna  ritenuta  eguale  ai  fratelli  era  vera- 
mente eguale  come  lavoratrice.  Essa  attendeva  al  lavoro  dei  campi, 
all'allevamento  del  bestiame;  era  un  valore,  una  macchina  da 
lavoro  che  si  sfruttava.  Di  conseguenza  il  padre  non  aveva  biso- 
gno di  dotarla  riccamente  perchè  potesse  sposarsi.  La  dote,  infatti, 
si  riduce  tra  le  fanciulle  della  Carnia  al  solo  corredo,  anche  per 
le  più  agiate,  che  alla  morte  del  padre  ereditano  una  somma  di- 
screta. Oltre  a  questo,  è  proprio  dei  camici  l'amore  al  denaro 
prodotto  con  il  proprio  lavoro  ;  è  quindi  naturale  il  desiderio  di 
conservare  il  patrimonio  intatto  fino  alla  morte,  dividendolo  poi 
tra  gli  eredi.  Nella  pianura,  invece,  si  formano  le  grandi  famiglie, 
le  donne  attendono  unicamente  ai  lavori  domestici.  Sono  econo- 
micamente un  peso  più  che  un  aiuto  e  quest'onere  dev'essere  pa- 
gato con  una  somma  dotale.  Dai  rogiti  dei  notari  delle  diverse 
parti  del  Friuli  appare  questo  crescere  o  diminuire  delle  doti 
secondo  Paltimetria,  la  ricchezza  dotale  varia  da  isoipsa  ad 
isoipsa,  in  modo  che  si  potrebbe  quasi  concludere  che,  dove 
l'animale  da  soma  non  può  giungere,  per  aiuto  all'  uomo  è  presa 
la  donna,  che  il  lavoro  da  lei  prodotto  sostituisce  la  parte  del 
patrimonio  di  famiglia,  di  cui  ha  bisogno  la  donna  non  lavoratrice. 

Manca  in  Friuli  un'istituzione  come  quella  fiorentina  del  Monte 
delle  Doti.  Quest'istituzione  era  stata  creata  a  Firenze  nel  1425; 

i  M.  A.  NicoLETTi,  Leggi  antiche  e  costumi  dei  forlani,  ms.  n.  629  della  Bibl. 
Com.  di  Udine. 


88  ALICE  SACHS 

per  un  deposito  dì  cento  fiorini  la  cassa  ne  dava  cinquecento, 
dopo  quindici  anni,  alla  ragazza  che  si  maritava.'  Rappresentava 
quindi  una  misura  di  preveggenza,  un  risparmio.  Al  tempo  del 
matrimonio  la  dote  si  trovava  formata  senza  che  la  famiglia  do- 
vesse pensarci.  I  Friulani  non  avevano  un  istituto  simile,  ma 
arrivavano  ad  ottenere  gli  stessi  vantaggi.  Spesso  depositavano, 
quando  la  fanciulla  nasceva  od  era  molto  giovane,  una  somma 
al  Monte  di  Pietà,  e  la  lasciavano  finché  la  ragazza  doveva  acca- 
sarsi. La  somma  cogl'interessi  accumulati  in  tanti  anni  di  deposito, 
uniti  a  qualche  diecina  di  ducati,  serviva  a  dotare  la  sposa. 

Gli  statuti  della  Patria  non  tentarono  nemmeno,  come  fu  fatto 
a  Venezia,*  di  regolare  e  fissare  il  massimo  della  dote,  ma  pau- 
rosi che  i  beni  d'un  paese  passassero  ad  un  altro,  non  permisero 
alle  ragazze  ricche  che  matrimoni  fra  concittadini.  Il  consiglio 
di  Udine,  decretava  che  ^  nessuna  donna  di  Udine  o  del  suo 
distretto,  che  avesse,  oltre  al  corredo,  una  dote  di  mille  lire  di 
soldi,  in  nessun  modo  e  con  nessun  consenso  potesse  maritarsi 
fuori  della  comunità.  La  previdenza  si  spingeva  fino  a  preten- 
dere che  il  marito  dovesse  avere  ottenuta  la  cittadinanza  da  almeno 
cinque  anni  prima  della  celebrazione  del  matrimonio,  che  non 
potesse  rinunciarvi  o  assentarsi  lungamente  sotto  pena  di  mille 
ducati  d'oro.  Se  avesse  osato  lagnarsi  sarebbe  incorso  nella  pena 
di  duecento  ducati.  In  una  successiva  deliberazione  l'arrengo  de- 
cretava necessario  che  lo  sposo  depositasse  in  Consiglio  una 
cauzione  di  mille  ducati  e  che  abitasse  nella  terra  di  Udine  egli 
co*  suoi  discendenti  fino  al  quarto  grado.^  Lo  statuto  di  Venzone 
proibiva  ^  pure  il  matrimonio  con  forestieri  alle  ragazze  che  aves- 
sero in  dote  500  ducati  o  più.  Le  disposizioni  degli  statuti  friu- 
lani sono  più  spiegabili  di  quelle  di  Venezia.  Si  capisce  benis- 
simo il  timore  delle  comunità  di  vedere  i  loro  beni  passare  in 
altre  terre.  Non  è  spiegabile  l'assoluta  norma  veneziana  di  non 
dare  che  una  data  somma  in  dote,  mentre  qualunque  somma 
avrebbe  dovuto  essere  permessa  specialmente  all'orfana  che  non 
avesse  fratelli  o  sorelle. 

Fissare  un  valore  medio,  anche  approssimativo,  alla  dote  friu- 
lana non  è  possibile.  Varia  non  soltanto  da  classe  a  classe,  da 
famiglia  a  famiglia,  ma  anche  da  una  sorella  all'altra.  Una  figlia  del 

1   RODOCANACHI,   Op.   Cit.,  p.   63. 

«  MOLMENTI,  op.  cit.,  p.  539. 

3  ACU.,  Annalium  cit.  t.  XX,  f.  180  (an.  1415). 

*  ACU.,  Annalium  cit.  t.  XXVI,  f.  273  (an.  1438). 

s  Statuti  municipali  della  terra  di  Venzone  cit.,  cap.  190. 


LE   ^fOZZE   IN   FRIULI    NEI   SECOLI   XVI    E   XVII  80 

Bellonì  ha  una  dote  doppia  delle  sorelle,  le  figlie  del  pittore  Pom- 
ponio Amaiteo  hanno  una  dote  differente  una  dall'altra.  La  somma 
è  maggiore  o  minore  secondo  la  nobiltà,  la  posizione  dello  sposo  : 
si  cerca  con  la  dote  di  ricompensare  la  nobiltà  dei  natali,  la  fama, 
la  ricchezza. 

C'erano  doti  piccolissime  :  una  Maria  da  Udine  portava  nel  1505 
in  dote  dieci  ducati  ;  Anna,  fante  di  casa  Polcenigo,  portava  quin- 
dici ducati.'  Esempì  di  doti  piccolissime  come  queste  ce  ne  sono 
molti  :  alcune  di  donne  di  servizio,  contadine,  dotate  dai  padroni  ; 
altre  di  giovanette  dotate  da  persone  pie  e  dalle  suore.  Le  doti 
delle  borghesi  e  delle  popolane  non  sono  sempre  minori  di  quelle 
delle  nobili  ;  nel  secolo  XVII  c'è  un  notevole  aumento  nella  ric- 
chezza :  l'industria,  il  commercio  arricchiscono  le  classi  lavoratrici, 
e  il  loro  benessere  economico  si  rispecchia  nei  patti  dotali,  che 
promettono  grosse  somme.  Nel  1634  una  contadina  di  Cercivento 
porta  in  dote  trentaquattro  ducati.  Nella,  moglie  di  Domenico 
Monticoli,  ha  una  dote  di  cento  ducati,  che  si  trovavano  «  essere 
«  in  man  di  detta  sposa  al  tempo  del  sponsalitio  » .'  In  questa 
stessa  classe  al  principio  del  '500  si  trovavano  invece  doti  di 
venti  ducati  al  massimo.  La  ricchezza  delle  nobili  cresceva  pure: 
nel  1520  Vittoria  Savorgnana  aveva  ottocento  ducati,  nel  1632 
Oiovannina  di  Prampero'  ne  portava  tremila.  Ci  sono  doti  di 
quattrocento,  ottocento,  duemila  e  cinquemila  ducati,  la  maggiore 
è  quella  di  Sulpicia  Florio,  moglie  in  secondi  voti  a  Turrismondo 
della  Torre.  La  somma  senza  rinuncia  ai  beni  materni,  aviti,  col 
laterali  era  di  ventimila  e  seicento  ducati.  È  una  buona  somma 
anche  ora  :  a  quel  tempo  doveva  sembrare  grandissima.  La  madre 
dello  sposo  «  a  contemplatione  per  tanto  di  detto  matrimonio  e 
«  per  dimostranza  d'affetto  »  regalava  agli  sposi  tremila  ducati. 
11  fratello  dello  sposo  «  per  dimostrar  l'amore,  che  porta  al  fra- 
«  fello,  et  a  contemplazione  pure  del  predetto  matrimonio,  dà  et 
«  dona  ducati  settemille  »  .*  Eleonora  di  Colloredo  ^  ha  sedicimila 
fiorini. 

Questa  dote  era  chiamata  paterna,  ma  era  sempre  notato  che 
era  formata  in  massima  parte  con  i  beni  materni.  Il  capitale  pa- 

1  Varia  ms.,  to.  XX,  dell'Arch.  de  Concina  di  S.  Daniele  del  Friuli. 

"  Patti  dotali  di  Nella  sposa  a  Nicolò  Monticoli,  in  Protocolli,  instr omenti  testa- 
menti (1624-1638)  Corveno,  in  Arch.  Not.  di  Udine. 

3  Varia  ms.,  to.  XIX,  Patti  dotali  Prampero  Cosso  (1632),  in  Arch.  Concina  di  S.  Da- 
niele del  Friuli. 

<  Copia  patti  dotali  Florio-delia  Torre  (1669). 

5  Patti  dotali  Colloredo-della  Torre  Valsassina,  in  Arch.  d'Arcano. 


00  ALICE  SACHS 

terno  restava  intatto  per  essere  diviso  tra  i  maschi.  La  dote  pas- 
sava da  madre  in  figlia,  si  accresceva  prima,  si  suddivideva  poi 
tra  le  eredi.  Per  questo  i  friulani  davano  con  tanta  facilità  beni 
immobili  alle  figlie.  Infatti,  per  raggiungere  le  somme  stabilite,  si 
mettevano  in  conto  orti,  campi,  case.  Eleonora  di  Colloredo  aveva 
tanti  campi  stimati  diecimila  fiorini.  Todeschina  di  Prampero  su 
tremila  aveva  duemila  ducati  in  beni  immobili,  Elena  Sana,^  oltre 
al  corredo,  portava  580  ducati  tutti  in  beni  immobili,  cioè  «in 
«terreni  arati  e  piantati».  Oltre  al  denaro  in  beni  immobili,  tutto 
era  accettato  purché  rappresentasse  un'utilità.  Così  Maria  di 
Tolmezzo  porta  in  dote  un  carro  di  fieno  e  uno  di  legna.  Anna 
Rossi  di  Pordenone  porta  una  gallina  con  i  pulcini,  che  fanno 
crescere  la  somma  dotale  di  cinque  ducati.  I  beni  di  questo  ge- 
nere erano  prima  stimati;  gli  estimatori  erano  molto  generosi 
perchè  davano  alle  derrate  un  valore  superiore  a  quello  che  le 
stesse  merci  avevano  sul  mercato.  A  Giulia  Pittiano,  moglie  del 
conte  Orazio  d'Arcano,  erano  dati,  per  raggiungere  la  somma 
promessa  di  duemila  e  settecento  ducati,  tre  stala  di  frumento, 
tre  di  miglio,  due  di  grano  e  un  paio  di  galline  con  due  uova. 
Soltanto  per  dar  un'idea  dell'inganno  nell'estimazione  dirò  che 
le  galline  erano  valutate  sette  ducati,*  mentre  il  prezzo  d'allora 
era  di  circa  quattro  lire  venete  cioè  poco  più  di  mezzo  ducato. 

Alcune  doti  servivano  a  pagare  i  debiti  dello  sposo,  come 
quella  di  Lodovica  Arcana,  il  cui  padre'  si  obbliga  a  pagare  i 
debiti  dello  sposo. 

Alla  dote  paterna  i  parenti  facevano  spesso  una  aggiunta, 
promettendola  negli  stessi  patti  dotali  oppure  in  un  contratto  a 
parte.  Se  il  padre  moriva  prima  di  avere  dotate  le  figlie,  lasciando 
eredi  soltanto  i  maschi,  questi  avevano  l'obbligo  di  dotarle:  «non 
«  prolongi  et  tegna  in  longo  gli  matrimonii  et  per  malicia  o  ne- 
«  gligentia  no  faza  stima  de  apparecchiar  la  dote  et  prestamenti 
«o  fornimenti:  ordenemo  che  se  la  dona  sarà  de  marìdo:  a  sua 
«  istantia  o  requisitione  de  alcun  suo  parente  per  el  giudice  del 
«  logo  dove  sta  l'herede  o  dove  sta  il  suo  domicilio  sia  fatto  a 
«  tal  herede  un  comandamento  il  quale  sia  scritto  che  fino  a  un 
«  ano  dal  zorno  de  quel  comandamento  :  debbia  ver  maridada  e 
«  dotada  tal  dona  per  haverla  fornida  co  li  prestamenti  e  forni- 


1  Patti  dotali  Cecchetti-Sana  (1658),  not.  Foenis,  in  Arch.  Not.  di  Udine, 
«  Patti  dotali  Pittiana-Arcano  (1697),  in  Arch.  de  Concina,  to.  X, 
3  Patti  dotali  Arcoloniauo-Arcano  (1518),  in  Arch.  d'Arcano. 


Le  Mozze  ìn  friuli  nei  secoli  xvi  e  xvii  9i 

€  menti  »  .^  A  Chiara  Caimo  la  madre  prometteva  oltre  la  dote  un 
regalo  di  duecento  ducati.*  Uno  zio  in  aumento  di  dote  a  Gero- 
loma  Bandiera  prometteva  mille  ducati.  Era  fatta  solenne  consegna 
dei  beni  immobili  il  giorno  dello  sposalizio.  Nel  maggior  numero 
dei  casi,  il  denaro  era  dato  a  più  riprese.  La  Caimo  ricevette 
ottocento  dei  milleseicento  ducati  al  tempo  della  traduttione, 
quattrocento  in  un  terreno  e  gli  altri  entro  il  termine  di  un  anno. 
Il  tempo  è  molte  volte  più  lungo.  Anna  Strassoldo  non  fu  pa- 
gata dell'  intera  dote  che  nel  termine  di  sette  anni.  Questi  paga- 
menti promessi  a  lontana  data  erano  alle  volte  dimenticati  e 
negati:  si  hanno  così  lunghi  e  noiosi  processi  e  anche  ricorsi 
presso  la  curia  patriarcale.  Ettore  Alferano  di  Udine  contrasse 
matrimonio  con  la  nipote  di  un  prete  Scaruffo,  che  promise  cin- 
quanta ducati  per  dote.  Non  essendo  stato  soddisfatto,  ricorse 
ai  superiori  perchè  obbligassero  il  prete  a  pagare  il  suo  debito.^ 

Le  sentenze  favorivano  sempre  quello  che  domanda  la  dote. 
Oli  statuti  stessi  permettevano,  qualora  il  dotante  non  pagasse  la 
dote  promessa,  di  pegnorare  i  suoi  beni,  e  se  nell' istromento 
dotale  era  stabilito  il  tempo  del  pagamento,  decorresse  da  quello 
r  interesse  del  sette  per  cento.*  In  una  causa  fatta  dal  genero  a 
Gerolamo  di  Polcenigo  per  pagamento  di  dote,  si  scelsero  due 
arbitri,  l'uno  condannò,  l'altro  diede  ragione  alla  parte  recla- 
mante. Dall'albero  genealogico  del  giudice  condannante  appare 
che  era  carico  di  discendenza  specialmente  femminile,  quindi 
questo  unico  esempio  di  condanna  a  chi  chiedeva  la  dote,  è 
umano.  La  dote  era  pagata  direttamente  allo  sposo  ;  se  questo 
era  giovanissimo  la  riceveva  il  padre;'  allora  si  rilasciava  rice- 
vuta al  suocero.  Nei  rari  casi  nei  quali  tutta  la  dote  fosse  con- 
segnata al  tempo  del  matrimonio,  lo  sposo  faceva  l' intera  ricevuta 
chiamata  renoncia  o  istromento:  istromento  perchè  era  ricevuta 
fatta  davanti  a  notaro. 

Ci  sono  però  pochi  esempì  di  istromento,  quando  cioè  lo 
sposo  dichiarava  di  aver  ricevuta  la  dote  della  moglie,  che  avrebbe 
poi  ereditato  per  testamento  dalla  madre,  dal  padre  o  dai  parenti. 
Più  spesso  faceva  la  rinuncia,  cioè  dichiarava  di  avere  ricevuta 

1  Costituzione  de  la  Patria  cit.,  p.  75. 

-'  Per  matrimonio  Caimo  Rinaldo  (1593),  Raccolta  Cairao,  carte  ras.  IX,  in  Bibl. 
Com.  di  Udine. 

3  Supplica  di  Ettore  Alferano  (1554).  Busta  1553  dell'Ardi.  Patriarcale  di   Udine. 

*  Statuti  della  Patria  del  Friuli  rinnovati  con  le  aggiunte  (1658),  Udine,  Gal- 
lici, 1785,  p.  108. 

>  Di  Strassoldo,  op.  cit.,  p.  56. 


92  ALICE  SACHS 

la  somma  dotale  e  si  obbligava  a  «  renonciare  a  qualsiasi  altra 
«  pretesa  nell'eredità,  sia  paterna  che  materna  avita  o  collaterale  » . 
Nei  patti  dotali  si  stabiliva  spesso  che  i  beni  della  moglie  fos- 
sero divisi  da  quelli  del  marito.  La  comunione  universale  usata 
in  tanti  paesi  *  non  esisteva  in  Friuli.  Gli  statuti  cercavano  in 
tutte  le  maniere  di  assicurare  il  patrimonio  della  donna  e  di  ga- 
rantirne gli  interessi.  La  divisione  dei  beni  era  possibile  nelle 
condizioni  del  Friuli  del  XVI  e  XVII  secolo.  Erano  condizioni  di 
paese  non  povero  e  non  dedito  al  grande  commercio;  senza 
questo  la  comunione  dei  beni  sarebbe  stata  necessaria,  per  avere 
il  capitale  necessario  agli  acquisti,  nel  primo  caso,  per  averlo 
nella  maggior  quantità  possibile  e  farlo  fruttare  col  commercio, 
nel  secondo. 

Nei  patti  dotali  si  prometteva  al  marito,  nel  caso  che  la  mo- 
glie premorisse,  un  lucro  sulla  dote,  l'altra  parte  sarebbe  ritornata 
al  dotante.  Eccezione  :  Leonardo  Nusso  di  S.  Daniele  confessa 
di  aver  ricevuto  parte  della  dote  e  fa  formale  rinuncia  del  bene- 
fizio del  terzo.^  Il  marito  sul  suo  capitale  prometteva  e  fissava  alla 
moglie  la  controdote  del  valore  di  un  terzo  della  dote.  La  contro- 
dote serviva  come  assegno  vedovile,  era  fissata  nei  patti  dotali. 
Per  legge,  alla  vedova  spettavano  soltanto  i  mobili,  la  controdote 
solo  nel  caso  che  fosse  stata  promessa  nei  patti  dotali.  Gli  sta- 
tuti della  Patria,  per  «  provvedere  a  la  debilitate  et  fragilità  de  le 
done  »,  proibivano  di  alienare  la  dote  anche  con  il  permesso  della 
moglie  e  in  caso  di  bisogno.  L'alienazione  era  permessa  soltanto 
quando  i  genitori  e  i  prossimi  parenti  della  donna  giuravano  che 
essa  era  necessaria.  Il  giudice  doveva  dare  il  permesso  dopo 
aver  segretamente  parlato  con  la  moglie  e  ascoltati  i  suoi  voleri. 
Si  favoriva  anche  in  questo  la  donna  e  si  riduceva  la  dote  a  una 
sua  proprietà  assoluta.  Lo  statuto  poi  aggiungeva  che  qualsiasi 
alienazione  fatta  senza  tutte  le  solennità  era  ritenuta  nulla  anche 
se  la  donna  avesse  prestato  giuramento  perchè  «  el  tal  sagra- 
«  mento  se  presume  esser  sta  cavado  de  la  dona  per  inganno  et 
«  fraude  o  per  paura,  et  esser  contra  li  boni  costumi  et  esser  in- 
«  tervegnudo  per  respetto  de  la  reverentia  o  ver  paura  del  ma- 
«  rido  »  .^  Premorendo  il  marito,  la  dote  era  restituita  alla  donna 
non  più  tardi  di  un  anno  e  un  giorno  da  quando  il  matrimonio 


1  A.  Fertile,  Storia  del  diritto  italiano,  Padova,  1875,  voi.  Ili,  p.  307. 
«  Renoncia  formale  di  L.  Nusso,  pergamena  del  1629,  in  Bibl.  Com.  di  S.  Daniele 
del  Friuli. 

3  Costituzione  de  la  Patria  del  Friuli  cit.,  p.  71. 


LE   NOZZE   IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E   XVII  93 

era  stato  disfatto.  Durante  quell'anno  si  passavano  i  viveri  o  il 
quindici  per  cento  sul  capitale,  secondo  il  volere  della  donna.  Se 
la  dote  non  si  poteva  restituir  subito,  nel  secondo  anno  si  pas- 
sava il  dieci  per  cento  d'interesse.  La  dote  era  restituita  nella  stessa 
forma  in  cui  era  data:  beni  immobili  e  denaro.  La  dote  paterna 
ritornava  al  dotante,  ma  se  c'erano  figli  e  questi  morivano  dopo 
i  quattordici  anni,  la  dote  passava  ai  loro  eredi,  cioè  al  padre  e 
alla  sua  famiglia.  I  beni  della  donna  erano  talmente  divisi  da 
quelli  del  marito  che  essa  poteva  darli  in  nota  al  giudice  per 
salvarli  dai  creditori.^  Se  il  marito  incominciava  a  fare  mal  uso 
delle  sue  sostanze,  la  moglie  poteva  ricorrere  e  far  stimare  una 
somma  corrispondente  alla  sua  dote  contro  la  quale  nulla  pote- 
vano parenti  e  creditori.  Molti  altri  statuti  friulani  imponevano 
che  i  beni  dotali  non  fossero  venduti."  Tutti  cercavano  di  dare 
alla  donna  una  posizione  economica  indipendente. 

Fino  dai  tempi  romani  e  longobardi  la  sposa  riceveva  vesti  e 
oggetti  dalla  famiglia.  In  Friuli  nel  secolo  XV  le  vesti  erano  tre  : 
una  di  lana,  una  di  velluto,  l'altra  di  seta;  i  mobili:  un  letto  ed 
un  cassettone.  L'insieme  dei  mobili,  della  biancheria,  delle  vesti 
era  chiamato  prestamento.  Il  notaro  faceva  inventario  dei  presta- 
menti  e  il  giorno  della  traduzione  erano  portati  alla  casa  dello 
sposo.  I  notari  suddividevano  i  prestamenti  in  vestimenti,  bellissie, 
mobili.  Questa  divisione  seguiremo  anche  noi  aggirandoci  fra 
questi  inventari,  fredde  ed  aride  note,  che  pure  danno  uno  scin- 
tillio d'oro  e  d'argento,  una  visione  di  bellezza,  una  festa  di  co- 
lori, tradiscono  una  ricerca  d'eleganza,  indice  sicuro  della  raffina- 
tezza estetica  di  chi  la  voleva.  La  sera  avanti  alle  nozze  a  Udine 
si  esponevano  le.vesti  della  sposa,  ed  accorrevano  ad  ammirare 
i  vicini  e  le  donne.'  Si  rinchiudevano  le  vesti  nelle  casse  e  con 
i  carri  si  trasportavano  alla  casa  della  nuova  sposa.  Ogni  presta- 
mento aveva  tre,  alle  volte  quattro,  casse,  una  per  i  vestiti,  una 
per  la  biancheria  personale,  la  terza  per  la  biancheria  da  casa 
Un  forzierino  elegante,  molto  spesso  in  argento  lavorato  a  filo 
conteneva  i  gioielli.  Le  casse  di  legno  scolpite  rappresentavano 
quali  restano  nei  castelli  friulani,  scene  di  battaglia  o  miti  scene 
della  vita  familiare.  Ahre  tra  i  fregi  d'ornato  avevano  due  circoli 
dipinti  a  figure  mitologiche  o  sacre.  Le  borghesi  le  portavano  di 
noce  intagliata,  le  popolane  di  legno  dipinte  dei  fatti  della  ceri 

1  statuti  civili  e  criminali  della  diocesi  di  Concordia  cit.,  n.  91. 
«  Statati  della  terra  di  Monfalcone  {1456),  Udine,  1881,  n.  19-20. 
3  V.  Joppi,  Notariorum  to.  XIII,  ms.  in  Bibl,  Com.  di  Udine. 


94  ALICE  SACHS 

monia  nuziale.  Sempre  belle,  i  castellani  cercavano  a  gara  che  i 
maggiori  artisti  friulani  le  dipìngessero.  Una  sposa  di  casa  Spìlim- 
bergo  ottenne  di  avere  le  sue  casse  nuziali  dipinte  dal  Tiziano.^ 
I  forzieri  delle  gioie  richiedevano  pure  un  lavoro  lungo  ed  arti- 
stico, sia  che  fossero  fatti  in  argento,  sia  in  legno  e  cuoio  lavo- 
rato, con  molte  e  ricche  borchie  d'argento  e  d'oro. 

La  parte  più  importante  delle  vestimenta  era  formata  dalla  bian- 
cheria. Dal  principio  del  '500  la  biancheria  da  casa  è  abbondante, 
quella  personale  cresce  da  una  generazione  all'altra,  il  numero 
delle  camicie,  dei  fazzoletti  raddoppia.  In  quei  secoli,  in  cui  il  lusso 
maggiore  era  generalmente  nelle  vesti,  trovare,  in  questa  piccola 
e  rozza  provincia,  la  biancheria  tenuta  nel  suo  giusto  conto  fa 
meraviglia  e  piacere.  Si  cerca  la  pulizia  per  un  inconscio  deside- 
rio d'igiene.  Nei  primi  anni  del  secolo  XVI  qualche  borghese  van- 
tava quindici  camicie,  le  nobili  ne  avevano  anche  venti  di  forme 
e  tessuti  vari.  Il  numero  in  questo  capo  di  biancherìa  va  sempre 
crescendo,  quello  delle  spose  del  '600  è  tale  che  non  disdirebbe 
in  qualsiasi  buon  corredo  moderno.  Sulpicia  della  Torre  aveva 
cinquanta  camicie,*  Felicita  Rabatta  '  ne  portava  trentaquattro.  Le 
popolane  avevano  pure  la  loro  biancheria,  nel  1515  un'ostessa 
portava  sedici  camicie,  la  figlia  di  un  carrettiere  nel  1520  ne  aveva 
quindici.  Le  camicie  erano  lavorate,  ricamate,  fatte  a  fogge  di- 
verse «  con  cordelle,  con  merletti  alla  moneghina,  alla  moderna 
con  berta».  Quelle  alla  moneghina  avevano  delle  ampie  mani- 
che, erano  chiuse  al  collo:  data  l'ampiezza  e  la  forma  dovevano 
tenere  il  posto  delle  nostre  camicie  da  notte.  Quelle  alla  moderna 
con  berta  avevano  un'ampia  scollatura,  un  colletto  rivoltato  piut- 
tosto grande,  che  poteva  uscire  dal  vestito.  Il  colletto  si  ricamava 
con  quei  meravigliosi  punti  furiarti,  si  ornava  con  pizzi  fatti  ad 
ago,  per  il  lavoro  dei  quali  Venezia  era  maestra,  ma  dei  quali 
erano  non  peggiori  esecutrici  le  castellane  friulane  e  le  suore  di 
S.  Chiara  e  S.  Benedetto.  Le  camicie  si  ricamavano  anche  in 
seta  colorata,  in  argento  e  oro.  Quelle  di  Aurelia  d'Arcano  dove- 
vano essere  bellissime  con  piccoli  uccelli  tutti  d'oro  e  rami  di 
fiori  di  seta  verde  e  rosa.  Quasi  ogni  prestamento  nobile  ha  una 
o  più  camicie  di  seta;  non  mancano  quelle  con  lo  strascico.  Le 


1  A.  DI  Maniaco,  Saggio  di  lettere  famiUari  (1761-70),  Portogruaro,  1884,  p.  54. 

'  «  Inventario  de  lì  habiti  cioè  vesti  che  si  trova  avere  Sulpitia  delia  Torre  »  (1669), 
ms.   in  Arch.  d'Arcano. 

3  Inventario  de  li  prestamenti  di  F.  Rabatta  (1668),  ms.  in  Arch.  march,  di  Collo- 
redo,  in  Colloredo  di  Montalbano. 


LE    NOZZE    IN    FRIULI   NEI   SECOLI   XVI    E   XVII  95 

mutande  fecero  la  loro  apparizione  in  Friuli  nel  1517  *  nel  presta- 
mento  di  Giulia  da  Ponte  Spilimbergo:  calzoni  di  tabi  bianco  con 
cordoncini  foderati  di  ermesino  bianco.  Giulia  da  Ponte  veniva 
da  Venezia;  dalle  figlie  della  Serenissima  le  friulane  impararono 
l'uso  di  questo  indumento.  Andarono  un  po'  adagio  nell'adottarlo: 
in  pochi  prestamenti  lo  troviamo  e  in  scarso  numero.  Anche  nel 
600  molte  nobili  non  le  portano.  Erano  ornate  con  merletti,  con 
ricami  in  oro  e  argento,  avevano  un  prezzo  alto,  rappresentavano 
quindi  un  oggetto  di  lusso  e  d'eleganza  più  che  di  utilità. 

In  ogni  prestamento  si  ritrova  un  gran  numero  di  blanchette, 
cioè  vesti  di  lana  bianca  ;  dovevano  essere  delle  maglie  :  si  tro- 
vano da  dieci  a  quindici:  oggetto  necessario  alle  castellane  e 
alle  cittadine  nei  lunghi  inverni,  per  poter  sfidare  il  freddo  di  una 
giornata  nevosa.  Nei  prestamenti  nobili  si  trovano  spesso  e  nu- 
merosi i  mantelletti  da  pettiniera.  Non  si  può  rendere  conto  esatto 
di  che  cosa  fosse  questo  oggetto,  fatto  in  tela  finissima,  alle  volte 
in  seta  ornato  con  pizzi.  Probabilmente  si  metteva  per  pettinarsi, 
questo  potrebbe  far  credere  anche  la  forma  :  mantelletti,  cioè  senza 
maniche,  per  lasciar  libere  le  braccia  ad  acconciare  nel  miglior 
modo  possibile  i  capelli.  Fra  la  biancheria  trovano  posto  anche 
i  manegotti  di  tela  bianca,  di  tela  fina,  di  tela  più  grossa,  ai  quali 
non  sappiamo  assegnare  altro  ufficio  di  quello  di  metterli  sopra 
le  maniche  del  vestito  per  non  insudiciarlo.  Anche  i  prestamenti 
delle  nobili  ricordano  questi  manegotti.  Male  immaginiamo  le 
dame  dalle  ricche  e  sontuose  vesti  riparate  dai  manegotti  come 
qualunque  bottegaia  dei  tempi  nostri.  Il  numero  dei  fazzoletti  è 
straordinario.  Aurora  d'Arcano*  ne  ha  sessantotto,  ricamati  in  seta 
e  oro,  in  tela,  in  seta.  Riccarda  d'Arcano  '  ne  porta  sei  di  tela 
tessuta  d'oro,  Felicita  Rabatta  ne  porta  sessanta,  di  cui  venti  con 
pomoli,  cioè  con  nappine  in  giro.  Le  friulane  usavano  portare 
i  fazzoletti  di  seta  intorno  al  collo.  Nei  prestamenti  delle  po- 
polane, i  fazzoletti  da  collo  si  ritrovano  tessuti  a  vivacissimi  co- 
lori, stampati  a  grandi  figure,  ornati  da  frange  di  seta.  Facevano 
parte  del  loro  abbigliamento,  li  portavano  continuamente  allora, 
come  ora,  in  testa.  La  contadina  friulana  anche  adesso  di  rado 
e  mal  volentieri  esce  a  capo  scoperto.  Nei  castelli  sparsi  per  le 
colline,  per  le  prealpi  carniche,  mancava  il  riscaldamento  e  le  ca- 
stellane si  raccoglievano  con  i  familiari  intorno  ai  caminetti  pro- 

1  G.  Margotti,  op.  cit.,  p.  370. 

2  Inventario  de  li  prestamenti  di  Aurora  d'Arcano  (1567),  in  Arch.  co.  d'Arcano. 

3  Inventario  de  li  prestamenti  di  Riccarda  d'Arcano  (1571)^  in  Arch.  co.  d'Arcano. 


96  ALICE  SACHS 

lettori,  ravvolte  nei  fazzoletti  da  spalla,  foderati  di  pelle  di  lepre, 
di  agnello,  di  vaio.  Orsina  Venier  aveva  sei  fazzoletti  da  gpalla, 
larghi  due  metri:  erano  dei  veri  e  propri  scialli.  Quelli  delle  bor- 
ghesi e  delle  popolane  erano  più  piccoli  e  meno  ricchi,  li  fode- 
ravano alle  volte  di  pelliccia.  Fra  la  biancheria  erano  messe  anche 
le  calze  di  lana,  di  cotone  e  di  seta.  11  primo  paio  appartenne 
nel  1521  a  una  contessa  di  Polcenigo.'  Furono  pochissime  usate 
in  tutto  il  '500,  anche  nel  '600  il  loro  numero  è  limitato.  Il  presta- 
mento  della  ricchissima  Sulpicia  della  Torre  non  ha  che  quattro 
paia  di  calze  di  seta  e  sei  di  cotone.  L'uso  di  andare  a  piedi  nudi 
si  mantiene  fra  le  contadine  anche  ai  giorni  nostri;  nel  '600  i 
piccoli  piedi  bianchi  delle  donne  friulane  erano  cantati  dai  poeti  : 
Ciro  da  Pers  ha  un  sonetto  *  per  bella  donna  che  passeggia  scalza 
in  un  giardino.  Alla  mancanza  di  riparo  e  di  calze  esse  suppli- 
vano, nelle  fredde  giornate,  con  i  sacconi  foderati  di  pelo  e  fatti 
di  lana:  sono  specie  di  federe,  si  ritrovano  spesso  nei  presta- 
menti  e  in  esse  le  castellane  mettevano  i  piedi.  Le  donne  ricche 
potevano  condannarsi  all'immobilità.  Non  sappiamo  come  le  po- 
polane provvedessero  al  freddo  e  alla  mancanza  di  calze.  Con  i 
sueciafs,  asciugatoi  da  capo,  l'enumerazione  della  biancheria  per- 
sonale è  finita.  11  numero  di  questi  asciugatoi  è  abbastanza  alto. 
Le  friulane,  come  le  veneziane,  usavano  lavarsi  spesso  i  capelli 
per  applicarvi  poi  quelle  tinture,  delle  quali  ampiamente  si  parla 
nt\Y  Opera  nuova  piacevole  la  quale  insegna  a  far  varie  campo- 
sltioni  odorifere  per  far  bella  ciascuna  donna?  I  sueciafs  servi- 
vano per  asciugare  i  capelli  :  per  fare  il  massaggio  le  signore  li 
mettevano  sulle  spalle  quando  i  capelli  erano  sciolti  e  passeggia- 
vano al  sole  per  imbiondirli.  Dunque  la  biancheria  della  friu- 
lana del  '500  e  del  '600  era  della  stessa  quantità  di  quella  delle 
donne  moderne,  ma  più  ricca  e  più  vivace  per  lo  scintillio  dei 
colorì,  per  l'amore  dell'oro  e  dell'argento.  La  stoffa  usata  per  la 
biancheria  era  la  tela,  trasparente  come  il  renso,  forte  come  la 
tela  lucida  che  usciva  dagli  opifici  di  Udine  e  di  Gemona.  Per  la 
biancheria  da  casa  era  pure  usata  la  tela;  poco  è  nella  biancheria 
di  cucina  il  cotone.  In  tutti  i  prestamenti,  anche  in  quelli  delle 
popolane,  sì  nota  una  grande  ricchezza  della  bella  tela  che  le 
donne  si  tessevano,  che  ogni  contadina  creava  quasi  da  sé.  Era 
infatti  usanza  friulana  di   dare  un  pezzo  di  terreno  alla  ragazza 

»  O.  Margotti,  op.  cit.,  p.  370. 

*  C.  DI  Pers,  op.  cit. 

>  Eustachius  Celebritms  Utinensis,  1532. 


lE   NOZZE    IN   FRIULI    NEI   SECOLI    XVI    E   XVII  97 

promessa  perchè  vi  coltivasse  il  lino,  che  doveva  servire  al  suo 
prestamento. 

La  biancheria  da  casa  comprendeva  asciugamani,  federe, 
lenzuola,  tovaglie.  In  questi  vestimenti  avviene  l'inverso  di  quello 
che  avviene  nella  biancheria  personale  che  è  molto  più  abbon- 
dante nei  prestamenti  nobili.  La  biancheria  da  casa  si  trova  sempre 
nei  prestamenti  delle  borghesi  e  delle  contadine,  non  sempre 
negli  altri.  Nelle  ricche  casate  la  famiglia  dello  sposo  aveva  la 
biancheria  da  casa  ornata  con  lo  stemma  di  famiglia,  la  sposa 
portava  pochi  oggetti:  un  paio  di  tovaglie  ricchissime  ricamate 
a  punto  in  aria,  e  alcune  paia  di  lenzuola.  La  maggior  quantità 
di  biancheria  da  casa  portata  da  Claudia  di  Colloredo  ^  ha  sei 
tovaglie  damascate  con  l'arma,  altre  con  un  segno  di  croce,  alcune 
damascate  a  fiorami  e  con  segni  diversi  ;  alle  tovaglie  corrispon- 
devano tovagliuoli  uguali.  Portava  inoltre  sette  paia  di  lenzuola 
fini,  sette  per  la  servitù,  venticinque  ordinari  e  molte  federe. 
Molti  prestamenti  avevano  «  mantili  lavorati  per  cassa  o  altro  »  : 
si  mettevano  sui  cassettoni,  sulle  casse  nuziali,  sulle  credenze.  In 
tutti  i  prestamenti  indistintamente,  anche  nei  più  poveri,  ci  sono 
almeno  due  paia  di  lenzuola  di  tela,  quattro  federe,  una  tovaglia, 
alcuni  tovagliuoli  e  asciugamani.  Anche  la  biancheria  delle  bor- 
ghesi era  ricamata;  tutti  gli  inventari  distinguon  tra  biancheria 
schietta  e  lavorata.  Non  solo  nelle  biancherie,  ma  nelle  calze, 
nei  guanti,  nelle  vesti  specialmente,  c'era  abbondanza  di  ricami. 
Nel  '500  sulle  vesti  si  faceva  tutto  con  Vago  e  la  seta:  il  ricamo 
rivaleggiava,  nei  limiti  del  ragionevole,  con  la  pittura.*  I  magnifici 
lavori  si  facevano  sulle  stoffe  di  seta  e  l'Italia  era  il  paese  più 
progredito  nell'  industria  dei  tessuti.  Venezia  aveva  non  soltanto 
manifatture  proprie,  ma  era  anche  il  principale  centro  d'impor- 
tazione di  sete  dall'Oriente.  Le  ricche  stoffe  erano  dappertutto 
nelle  case  e  negli  abiti,  il  lusso  non  era  ancora,  come  forse  di- 
venne in  seguito,  sfoggio  volgare  di  ricchezza,  ma  era  accom- 
pagnato sempre  dalle  più  alte  ragioni  dell'arte.  Dagli  inventari 
che  elencano,  dalle  leggi  suntuarie  che  proibiscono,  possiamo 
farci  soltanto  una  meschina  idea  di  quali  fossero  gli  abiti  ricor- 
dati alle  volte  con  nomi  a  noi  nuovi  e  inspiegabili.  Udine  aveva 
una  buona  fabbrica  di  stoffe  :  un  mercante  di  panni,  un  tessitore 
e  due  nobili  erano  deputati  ogni  anno  a  giudicare  se  il   lavoro 

1  Inventario  deUa  biancheria  di  Claudia  di  Coloredo  {1633),  ras.  in  Archivio  march. 
di  Colloredo,  in  Colloredo  di  Montalbano. 

»  A,  Melani,  Svaghi  artistici  femminili,  Milano,  1892,  p.  34. 


98  ALICE  SACHS 

era  fatto  con  tutte  le  regole.*  Dalle  fabbriche  friulane  uscivano 
molte  stoffe,  di  cui  si  vestivano  le  spose,  il  lusso  c'era,  ma  non 
era,  come  in  altri  paesi,  procurato  con  denari  accumulati  dai  padri, 
che  i  figli  sperperavano;  derivava  dall'agiatezza,  dall'economia, 
dal  lavoro.  Operai  friulani  lavoravano  le  stoffe,  giovani  pure 
friulani  al  servizio  della  Serenissima  o  dai  porti  di  Ugnano  e  di 
Marano  partivano  per  l'Oriente,  dove  prendevano  le  spezie  e  le 
sete  che  li  arricchivano  e  le  perle  di  cui  incoronavano  le  loro 
donne.  I  padri,  i  fratelli  stessi  delle  spose,  di  ritorno  dalla  caccia, 
passatempo  e  occupazione  preferita  quando  la  guerra  o  le  incur- 
sioni dei  turchi  non  richiedevano  la  loro  presenza,  portavano 
alle  donne  le  pelli  di  martora,  di  volpe  e  di  lupo  perchè  faces- 
sero le  pellicce  di  cui  è  ricco  ogni  prestamento.  Anche  le  popo- 
lane hanno  almeno  una  pelliccia  di  agnello  ricoperta  di  panno, 
le  borghesi  e  le  nobili  ne  portano  due  o  tre  di  vaio,  di  martora, 
di  volpe,  ricoperte  di  damaschi  o  di  velluto.  Non  usavano  le 
pellicce,  come  usano  ora,  col  pelo  esterno;  più  pratiche  e  forse 
più  eleganti,  col  pelo  foderavano  le  loro  cappe.  Le  vesti  erano 
pure  foderate  di  pelo,  alle  volte  col  collare  di  martora  o  di 
volpe.  Le  vesti  nuziali  si  facevano  sulla  moda  veneziana  cambiata 
e  deformata  un  po'.  Mentre  a  Venezia  l'instabilità  della  moda 
era  insuperabile,  paragonabile  solamente  a  quella  della  Francia 
del  XVII  e  XVIII  secolo,^  la  moda  friulana  non  variava.  Meno 
alcune  poco  fortunate  innovazioni  nei  due  secoli  che  studiamo, 
la  moda  si  mantiene  nelle  vesti  quasi  costante.  Contribuì  a  man- 
tenere questa  stabilità,  oltre  al  desiderio  di  economia,  la  ricchezza 
delle  vesti  che  passavano  come  le  gioie  da  una  generazione  ad 
un  altra.  Possiamo  farci  idea  delle  peregrinazioni  di  un  vestito: 
«  D' una  sua  veste  Madonna  Agnesina  madre  de  Monsignor  Hiero- 
«  nimo  fece  una  vestitura  paonazza  a  Madona  Cicilia  madre  del 
«  conte  Federico,  da  poi  la  fo  datta,  a  mia  madre  in  dotta  ;  mia 
«  Madre  la  dite  a  Marcia  mia  sorella  in  dotta;  anchuo  lo  di  è 
«  bona  » .'  Una  veste  che  serve  a  quattro  persone,  che  non  è  sde- 
gnata da  due  spose,  rappresenta  quanto  si  può  desiderare  d'eco- 
nomia e  di  solidità.  Ogni  prestamento  ricorda  alcune  vesti  già 
usate  e  quasi  nuove.  Gli  abiti  migliori  del  corredo  materno  riposti, 
dopo  i  primi  giorni  di  matrimonio,  passavano  alla  figlia  sposa. 

1  M.  A.  FiDUCio,  Del  modo  di  governo  della  comunità  di  Udine  nel  secolo  XVI, 
Venezia,  1862,  p.  18. 

»  MOLMENTI,  op.  cit.,  p.  408. 

3  A.   PURLILIBSE,  op.  dt.,  p.   207. 


LE   NOZZE   IN   FRIULI   NEI   SECOLI   XVI   E   XVII  99 

Anche  ora  fra  i  contadini  passano  da  madre  in  figlia  non  sol- 
tanto i  coralli  e  gli  scialli,  ma  le  vesti  migliori  e  le  scarpe  che 
le  nostre  contadine  mettono  soltanto  nelle  grandi  ricorrenze.  11 
vestito  era  formato  da  tre  parti  :  la  veste  che  comprendeva  la  sot- 
tana e  il  corpetto,  il  busto,  le  maniche.  Il  busto  era  della  stessa 
stoffa  della  sottana,  le  maniche,  differenti,  si  cambiavano  spesso 
anche  con  lo  stesso  vestito  per  ottenere  una  varietà  maggiore. 
Le  vesti  di  prammatica  in  ogni  prestamento  erano  quelle  di  raso 
bianco,  di  velluto  cremisino  ;  ma,  oltre  a  queste,  quale  varietà  di 
abiti  di  velluto  nero,  verde,  azzurro,  paonazzo  o  rosso,  di  seta 
a  fiori  d'oro  e  d'argento,  di  ormesino  bianco  tessuto  a  perline, 
tramato  d'oro.  11  corpetto  era  ornato  da  un  collare  di  pizzo 
sostenuto  da  vergole,  ricopriva  parte  della  capigliatura,  era  attac- 
cato alla  fodera  del  vestito  e  sopra  si  metteva  il  busto  ricamato 
in  oro  ed  argento.  Scendeva  a  punta  davanti  per  allungare  la 
vita,  la  breve  scollatura  ovale  dava  grazia  alla  persona.  Alla  fodera 
del  vestito  s'attaccavano  le  ampie  maniche  ricadenti  fino  a  terra, 
aperte  sopra  l'avambraccio  in  modo  da  far  vedere  le  maniche 
differenti  che  si  mettevano  sotto.  Erano  ricamate  in  oro,  ornate 
nella  loro  lunghezza  da  pelli,  finivano  con  un  pizzo  bianco  uguale 
al  colletto  che  ricadeva  sulla  mano,  nascondendone  quasi  metà. 
Dal  capo,  per  tutta  la  lunghezza  del  vestito  e  dello  strascico,  scen- 
deva un  velo  nero  trapunto  d'oro.  11  velo  era  fermato  con  il 
frinellum,  una  ghirlanda  di  seta  '  lavorata  d'oro  a  perline  e  a  bot- 
toni e  posava  molto  avanti  quasi  a  metà  della  fronte.  Spesso  il 
frinellum  portava  a  metà  una  grossa  perla  pendente,  che  scendeva 
sulla  fronte  tra  i  piccoli  riccioli  biondi.  La  cura  per  l'acconciatura 
del  capo  era  minuziosa:  le  donne  cercavano  tutti  gli  ornamenti 
che  potevano  accrescere  lo  splendore  delle  magnifiche  chiome 
biondo-dorate.  Portavano  ricche  cuffie  ricamate  o  fatte  interamente 
d'oro.  L'uso  ne  era  molto  diffuso;  le  nobili  avevano  da  venti 
a  venticinque  cuffie  d'oro;  l'uso  passò  alle  popolane.  Nel  1548 
Beatrice,  nipote  di  un  parroco,  portava  una  cuffia  d'oro  con  gli 
ornamenti  d'argento  che  scendevano  fino  a  mezza  vita.*  Nel  1548 
la  figlia  di  un  barbiere  oltre  a  una  cuffia  d'oro  ne  aveva  una 
di  lino  per  la  notte.  Ai  capelli  appuntavano  delle  trecce,  che 
chiamavano  code,  di  seta  ornate  di  perle  d'argento.  Erano  soste- 
nute internamente  da  un  filo  di  ferro  che  le  rendeva  mobilissime, 

>  V.  Joppi,  Dei  corredi  nuziali  delle  gentildonne  friulane  nel  secolo  XIV,  Udine 
1887  ;  ved.  voci  latine  dei  bassi  tempi,  p.  23. 
*  V.  Joppi,  Notar iorum  cit.,  voi.  I. 


100  ALICE  SACHS 

e  i  capelli  ricevevano  un  riflesso  di  perie  e  d'oro.  Lo  stesso 
effetto  raggiungevano  con  gli  strezzadori:  nastri  e  fili  d'oro  e 
d'argento  che  intrecciavano  ai  capelli.  Gli  strezzadori  s'appunta- 
vano agli  stropuli  che  non  differivano  dal  frinellum  ;  erano  fascie 
di  velluto  scuro  che  giravano  intorno  al  capo  e  sorreggevano 
la  massa  dei  capelli.  Nella  prima  metà  del  '500  s' usavano  anche 
i  cappelli  e  incominciarono  i  berretti  alla  francese  di  velluto  nero 
con  una  piuma  bianca. 

Non  per  riparo  ai  vestiti,  come  ora,  ma  ricchi  in  ogni  pre- 
stamento  si  trovano  i  grembiuli  di  seta  lavorati  d'oro,  di  tela  di 
renso  o  di  forte  tela  greggia,  che  male  non  si  addiceva  con  i 
manegotti.  I  ricami  di  cui  erano  ornati  si  spargevano  dappertutto, 
sui  guanti,  sulle  scarpette,  sulle  scarpe,  sui  ventagli.  I  guanti, 
dopo  la  metà  del  '500,  divennero  di  uso  comune,  erano  di  seta, 
di  tela,  di  trina.  Molte  volte  si  profumavano.  La  vera  mania  dei 
profumi,  che  nel  '500  invase  tutta  l' Italia,  si  sparse  anche  nel  Friuli  : 
i  prestamenti  ricordano  i  guanti  e  le  pettorine  profumate,  le  spille, 
gli  orecchini  d'ambra.  Ma  il  profumo  preferito  era  la  maggio- 
rana, e  lo  statuto  della  Patria  infliggeva  forti  multe  a  chi  osava 
rubarlo  dalle  finestre,  dai  giardini.  Le  friulane  usavano  gli  alti 
zoccoli,  che  non  raggiungevano  però  le  altezze  esagerate  dei  cal- 
cagnetti  veneziani.*  Erano  di  uso  frequente:  una  popolana  nel  1542 
ne  aveva  quattro  paia,  tre  di  cuoio,  uno  di  velluto.  Più  spesso 
però  usavano  le  scarpette,  scarpe  di  velluto  dalla  suola  di  panno. 
Le  nobili  avevano  le  scarpe  e  le  scarpette  che  adoperavano  per 
casa.  Sarebbe  troppo  lungo  fermarci  su  tutti  gli  altri  indumenti 
che  ogni  sposa  portava  nelle  sue  casse  :  sulle  collarine,  pettorine, 
baveri,  su  tutti  i  piccoli  oggetti  di  eleganza,  che  servivano  a  dare 
a  un  vestito  mille  aspetti  diversi.  La  seconda  parte  dei  presta- 
menti era  formata  dalle  gioie.  Nel  XVI  e  XVII  secolo  si  fece  un 
grand'  uso  di  gioielli,  si  tenevano  come  un  patrimonio  di  riserva, 
che  le  friulane  spesso  e  senza  rammarico  davano  alle  casse  pub- 
bliche, perchè  servisse  ai  poveri  nei  momenti  di  carestia  o  pro- 
vedesse dì  soldati  la  Patria  e  la  Serenissima,  combattenti  con 
fede  e  con  entusiasmo  per  salvare  S.  Marco  dall'  insidie  dei  col- 
legati a  Cambrai.  I  braccialetti,  gli  orecchini,  le  corone,  le  gar- 
gantiglie  si  fondevano  e  si  trasformavano  nelle  monete  d'oro 
della  Serenissima.  Alla  fine  del  '500  ai  gioielli  d'oro  cesellati  si 
sostituirono  in  parte  le  pietre  preziose,  che  si  ritrovano  più  fre- 

i   MOLMENTI,  Op.  Cit.,  p.  418. 


LE   NOZZE   IN    FRIULI    NEI   SECOLI  XVI   E   XVit  lOl 

quenti  nei  prestamenti  insieme  alle  perle  preferite  e  usate  anche 
nei  secoli  precedenti.  Le  popolane  avevano  sempre  le  stesse  gioie  : 
un  anello,  il  cordone  (una  grossa  catena  d'oro),  gli  spadini  con 
i  quali  si  ornavano  il  capo  come  ora  le  contadine  del  Milanese. 
Fra  le  gioie  trovavano  posto  le  cinture,  gli  agorai,  gli  specchi 
con  le  cornici  d'argento,  le  corone  da  rosario  fatte  in  pietre  dure 
con  i  segni  in  oro.  Erano  tutti  oggetti  d'arte  e  di  valore,  come 
i  paternostri,  che  si  tenevano  appesi  alla  cintura  per  ornamento 
più  che  per  devozione.  L'oreficeria  era  nel  secolo  XVI  in  Friuli 
un'arte  ;  si  discuteva  il  lavoro  nei  manitti  e  nelle  gargantiglie  delle 
donne,  come  ora  si  discuterebbe  un  quadro  e  non  si  ammirano 
e  osservano  i  gioielli,  nei  quali  la  ricchezza  delle  pietre  preziose 
toglie  quasi  interamente  il  pregio  del  cesello  e  della  legatura. 
Dopo  i  gioielli  trovava  posto  l'argenteria:  piatti  grandi  e  piccoli, 
i  torreggianti  candelabri,  che  ogni  sposa  doveva  portare,  con  i 
relativi  smocaorl,  nel  suo  prestamento.  L'uso  delle  forchette  e 
dei  coltelli  andò  diffondendosi  durante  il  XVI  secolo.  Nella  prima 
metà  del  '500  una  Veronica  ostessa  *  aveva  forchette  d'argento 
in  buon  numero.  Era  uso  antico  di  porre  in  ogni  prestamento  due 
bacini  d'argento  e  due  di  bronzo  come  ricordo  dei  lavori  fami- 
liari, ai  quali  le  spose  dovevano  attendere. 

Alla  fine  del  '500  il  lusso  nelle  case  e  nei  castelli  friulani  diventa 
grandissimo.  I  castellani  che  visitavano  Venezia  ritornavano  entu- 
siasti della  magnificenza  dei  suoi  palazzi,  su  quelli  cercavano  di 
modellare  l'arredamento  dei  loro  massicci  palazzi  o  dei  turriti 
castelli.  Dai  prestamenti  delle  spose  traspare  la  ricerca  della  bel- 
lezza nella  casa  e  nei  mobili,  che  dovevano  figurare  nelle  sale 
dai  soffitti  di  legno  meravigliosamente  intagliati  o  sotto  le  volte 
affrescate  dall'Amalteo  o  da  Giovanni  da  Udine.  In  Friuli,  come 
a  Venezia,*  si  cercava  il  bello  nei  più  utili  e  umili  oggetti,  un 
gusto  signorile  e  vario  avvolgeva  tutta  la  vita  domestica.  Le  stanze 
da  letto  ricoperte  da  ricchi  damaschi  accoglievano  i  cassettoni 
dai  cento  piccoli  cassetti  visibili  e  segreti,  dal  ripiano  intagliato 
a  scene  della  storia  dell'antico  e  nuovo  testamento.  I  letti  di  legno 
di  noce,  con  le  colonnette  che  salivano  snelle  e  lavorate  a  sor- 
reggere il  baldacchino  di  seta,  di  damasco  e  di  velluto,  che  le 
leggi  suntuarie  invano  proibivano,  le  casse  lavorate,  le  alte  pol- 
trone ricoperte  di  velluto,  i  tavolini,  le  sedie  più  piccole,  i  grandi 


>  V.  Joppi,  Notariorum  cit.,  voi.  I. 
*  MoLMENTi,  op.  cit.,  p.  369. 


Ì02 


ALICE   SACHS 


specchi  delle  fabbriche  veneziane  si  ritrovano  in  ogni  ricco  pre- 
stamento.  Al  letto,  che  tutte  le  spose  anche  le  più  povere  con- 
tadine portavano,  erano  uniti  i  materassi,  i  cuscini,  le  coperte. 
Fra  i  mobili  si  ricordavano  gli  oggetti  da  cucina,  pentole,  mar- 
mitte, padelle.  11  rame,  come  lo  chiamavano,  si  trova  spesso  nei 
prestamente  Si  trovano  anche  le  tende  di  seta,  le  acquesantiere, 
i  quadri  a  soggetti  sacri  e  profani.  Isabella  Borato  *  portò,  oltre 
alle  solite  vestimenta,  mobili  e  bellissie,  tre  quadri,  uno  rappresen- 
tante il  presepio  con  l'adorazione  dei  pastori,  un  altro  con  i  santi, 
un  terzo  di  pietra  a  soggetto  pure  sacro.  Portò  anche  tre  libri, 
un  breviario  e  tre  libretti.  Il  piccolo  libro  da  messa,  l'astuccio 
per  il  cucito,  gli  oggetti  per  ornamento,  il  libro  dei  conti  si  ritro- 
vano in  ogni  prestamento.  Così  noi  lontani  possiamo  seguire  la 
vita  della  sposa  friulana,  nelle  feste  splendente  di  gioia  e  di  vesti 
sontuose  ed  eleganti,  la  seguiamo  nel  lavoro,  nel  governo  della 
famiglia,  nella  preghiera,  nella  casa,  sempre  attraverso  a  oggetti 
d'arte  e  di  lusso  che  intravediamo  appena,  ai  quali  la  frettolosa 
e  borghese  vita  moderna  ci  ha  appena  abituati. 


In  Friuli  si  facevano  alle  spose  molti  doni,  ricordati  anche 
dagli  statuti.  Nei  secoli  precedenti  i  doni  erano  un'assicurazione 
in  caso  di  vedovanza  e  nel  caso  che  il  marito  non  pensasse  più 
alla  famiglia.  Nel  rinascimento  la  forma  giuridica  resta  ancora 
come  cristalizzazione  di  un  periodo  di  civiltà  anteriore;  si  man- 
tiene in  condizioni  cambiate  come  consuetudine.  Uno  dei  doni  era 
quello  delle  dismontaduris,  che  il  marito  faceva  alla  sposa  quand'ella 
giungeva  a  cavallo  dalla  casa  del  padre  a  quella  nuziale.  Glielo 
presentava  solennemente  quando  la  sposa  scendeva  da  cavallo  ; 
e  da  ciò  sembra  derivare  il  suo  nome.  Nelle  consuetudini  di 
Concordia  e  di  Gradisca  *  insieme  al  vocabolo  lis  dismontaduris 
si  trova  quello  di  descensuris  e  in  qualche  documento  hono- 
randis  regalia  palafrenatus  cavalcata}  Durante  il  medio  evo  i 


»  Istromenti  del  not.  N.  Foenis  (1663-72),  in  Arch.  Not.  di  Udine. 

*  C.  FoRNERA,  Lis  dismontaduris,  uso  nuziale  friulano,  Udine,  1885,  p.  18. 

'  La  traduzione  di  dismontaduris  in  descensuris  appare  ovvia  :  però  è  da  chie- 
dersi se  la  forma  dismontadura  sia  molto  antica,  o  non  si  tratti  di  una  modifica- 
zione volgare  di  un'originaria  dismundiatura  ;  questa  ipotesi  fu  fatta  già  nel  1884 
da  Michele  Leic  it,  Lis  dismontaduris,  Venezia,  per  nozze.  P.  S.  Leicht  poi, 
nel  Parlamento  della  Patria  del  Friàli,  Udine,  1903,  p.  171,  avvicinò  queste  dismon- 


Le   nozze   in   FRIULI   NEI    SECOLI   XVI   E   XVIl  103 

doni  per  dismontaduris  avevano  un  valore  rilevante,  erano  fatti 
da  tutte  le  classi  per  solennizzare  la  traduzione  della  sposa.  Era 
uso  gentilissimo  che  la  sposa,  appena  arrivata  alla  casa  nuova, 
ricevesse  una  manifestazione  della  benevolenza  con  la  quale  era 
accolta,  della  gioia  che  portava  nella  famiglia.  Nel  secolo  XV  e 
al  principio  del  XVI,  come  dono  d'arrivo  la  sposa  riceveva  un 
servo  di  masnata,  oppure  un  cavallo  bianco  riccamente  bardato 
con  appesa  alla  briglia  una  borsa  contenente   denaro.   Durante 
il  '500,  e  molto  piìi  in  seguito,  i  doni  di  dismontaduris  diminui- 
rono di  valore.  L'assegno  vedovile  era  rappresentato  dalla  con- 
trodote e,  pur  sussistendo,  aveva  un   valore  più  simbolico  che 
reale.  Si  regalavano  bronzini  (vasi  di  bronzo),  anelli,  cinture.  An- 
cora nel  1571  Riccarda  d'Arcano  *  riceve  per  dismontaduris  un 
cavallo  bianco  con   la  sella  lavorata  e  Filippo  d'Arcano  regala, 
nella  stessa  occasione,  a  Chiara  di  Valvasone  Maniago  una  cassa 
con  molte  monete.  L'uso  meno  poetico,  ma  più  pratico,  di  rega- 
lare monete,  invece  che  oggetti,  divenne  frequente.  Già  nel  1504  il 
pittore  O.  A.  Pordenone  *  dà  alla  moglie  in  dono  cinquanta  lire 
e  la  libertà  di  usarne.  Resta  un  solo  esempio  '  di  un  dono  fatto 
dallo  sposo  alla  sposa,  mentre  partiva  dalla  casa  paterna:  il  dono 
d'assenturis.  Non  sappiamo  il  suo  valore,  perchè  era  promesso 
insieme  alla  controdote,  dismontaduris  e  altri  doni:   la  somma 
complessiva  era  fissata  a  cinquecento  ducati.  Un  altro  dono  era 
il  morgengabio.  In  antico  consisteva  in  oggetti  o  in  denaro;   in 
quest'ultimo  caso  aveva  lo  scopo  d'assegno  vedovile,  poiché  la 
meta  era  pagata  al  padre,  il  morgengabio  ;  era  una  largizione  alla 
moglie  per  provvedere  al  suo  avvenire.  Questo  dono  scomparve 
nel  secolo  XII  e  XIII  in  molte  città.*  Nel   secolo  XV  finì  quasi 
interamente.  Si  ritrova  invece  in  Friuli  per  tutto  il   secolo  XVI, 
alle  volte  anche  nel  XVII,  forse  per  quel  carattere  conservatore 
proprio   dei  popoli  abitanti   i   monti.  In   quasi  tutte  le  città  era 
dato  alla  mattina  dopo  il   matrimonio  e  rappresentava  il  regalo 
del  marito  alla  moglie  che  era  pura.  Il  Fontanini  pubblicò  nelle 


taduris  alle  dismundiaciones  toscane.  Si  tratterebbe  di  un  tardo  ricordo  del  prezzo  del 
mundio.  Questa  opinione  fu  accolta  anche  dal  Solmi,  Manuale  di  storia  del  Di- 
ritto Italiano,  Milano,  1908,  p.  834  e  dall'ERCOLE,  Vicende  storiche  della  dote  ro- 
mana, Roma,  1908,  p.  210.  Per  l'opinione  opposta  ved.  di  Prampero,  Dismontaduris 
e  Morgengabium,  Udine,  1884,  per  nozze  Schiavi-Bressanutti. 

1  Patti  dotali  R.  d'Arcano-F.  di  Cordovado,  in  Arch.  co.  d'Arcano. 

*  JOPPI,  //  primo  matrimonio  del  pittore  G.  A.  detto  il  Pordenone,  Udine,  1886. 
3  Patti  dotali  A.  Strassoldo  -  F.  Arcano  (1574),  in  Arch.  co.  d'Arcano, 

*  Fertile,  op.  cit.,  p.  276. 


104  ALICE   SACHS 

sue  Vtndiciae^  un  documento  cividalese  del  1163,  nel  quale 
Folco  dà  a  Gerlint  sua  sposa,  omnia  sua  propter  pretium  in  mane 
quando  surrexit  de  ledo.  Non  si  potrebbe  accennare  più  chia- 
ramente al  pretium  virginitatis,  che,  per  Tappunto,  è  il  signifi- 
cato originario  del  morgengabio.  Questo  però  in  Friuli,  più  tardi, 
si  confuse  talvolta  con  un  altro  dono,  che  veniva  invece  offerto 
alla  sera  e  perciò  portava  il  nome  caratteristico  di  antelectum.* 
In  ogni  modo  il  morgengabio  perde  un  po'  alla  volta  1*  importanza 
grandissima  che  aveva  avuta  in  antico  ;  nei  tempi  di  cui  parliamo 
i  rapporti  patrimoniali  fra  i  coniugi  erano  sostanzialmente  re- 
golati dal  sistema  dotale.  Il  morgengabio  era  promesso  insieme 
alle  dismontaduris  nei  patti  dotali.  Alle  volte  in  uno  strumento  a 
parte,  quand'era  indicata  la  controdote.  Il  suo  valore  oscillava 
tra  i  venticinque  e  i  cinquanta  ducati.  Gli  statuti  della  Patria  or- 
dinavano ^  che  la  donna  fosse  assoluta  padrona,  anche  contro  la 
volontà  del  marito,  di  questi  doni,  come  e  di  tutti  gli  altri  che 
il  marito  le  faceva,  e  di  quelli  che  riceveva  per  le  nozze.  I  doni  di 
morgengabio  e  di  dismontaduris  erano  assolutamente  suoi  in  vita 
e  in  morte.  Questa  concessione  era  fatta  per  escludere  l'analogia 
con  la  dote,  che  non  poteva  essere  alienata  che  in  casi  speciali. 
Serviva  alla  donna  per  provvedere  le  vesti,  teneva  il  posto  in- 
somma del  moderno  spillatico.  Le  consuetudini  gradiscane*  af- 
fermano quello  che  stabiliscono  le  leggi  della  Patria,  distinguono 
invece  nei  doni  per  nozze:  spettavano  alla  moglie  soltanto  se 
erano  personali.  Ma  tutti  i  doni  che  la  sposa  riceveva  dal  ma- 
rito o  da  altri  erano  oggetti  personali  :  anelli  e  cinture.  L'anello 
nuziale,  semplice,  d'oro,  chiamato  la  vera,  poi  altri  anelli  più  o 
meno  ricchi.  Alcuni  raggiungevano  la  somma  di  due  o  trecento 
ducati  come  quello  di  Aurora  d'Arcano  che  aveva  bellissime  perle. 
Il  Pordenone  prometteva  alla  sposa  per  dono  nuziale  anelli  e 
cinture.  Altri  anelli  erano  regalati  dal  compare.^  I  doni,  che  face- 
vano i  parenti,  raggiungevano  pure  una  somma  considerevole.  I 
nobili  regalavano  alle  sorelle,  alle  nipoti  spose,  dei  veri  valori  :  i 
regali  di  Aurora  d'Arcano  ^  raggiungono  la  somma  di   duemila 


i  FoNTANiNi,  Vindiciae  antiquorunt  Diplomatum,  Roma,  1705,  p.  253  ;  ved.  Leicht, 
//  parlamento  della  patria  del  Friuli  cit.,  p.  174. 

*  Prampero,  Dismontaduris  e  morgengabium  cit.,  p.  12,  a.  1295:  donazione  di 
7  marche  iure  antelecti  et  morgengabil;  così  p.  11,  a.  1291. 

■^  Costitutioni  de  la  Patria  cit.,  p.  71. 

*  Consuetudines  Gradiscane  (1575),  Udine,  1878,  cap.  XXXIV. 
5  O.  DI  Strassoldo,  op.  cit.,  p.  56. 

«  Regali  di  Aurora  d'Arcano  {1567),  in  Arch.  co,  d'Arcano. 


LE    NOZZE   IN    FRIULI    NEI   SECOLI   XVI    E   XVIl  l05 

ducati  cioè  quanto  una  dote.  Fra  i  doni  nuziali  si  trovano  anelli, 
braccialetti,  orecchini,  cinture,  le  quali  erano  un  dono  preferito, 
di  tutti  i  generi,  ricamate,  lavorate,  ornate  di  perle,  fatte  d'oro  con 
la  fibbia  di  pietre  preziose.  Non  mancano  fra  i  doni  nuziali 
quelli  di  stoffe  :  una  pezza  di  «  ormesin  » ,  alcune  braccia  di  velluto 
cremisino,  molti  metri  di  tela,  ^  dono  frequente  e  utile,  che  ser- 
viva alla  sposa  per  preparare  la  biancheria,  che  le  mancava  o  i 
nuovi  corredini  ai  quali  avrebbe  dovuto  pensare. 

A  Udine  si  seguiva  l'uso  che  i  conoscenti  mandassero  alla 
sposa  in  regalo,  nel  giorno  delle  nozze,  confetti,  marzapani,  polli, 
carne  e  perfino  uova.  Regali  utili  anche  questi,  che  permettevano 
alle  famiglie,  senza  sostenere  una  spesa  troppo  forte,  di  prepa- 
rare quei  ricchi  e  interminabili  banchetti  nuziali,  dei  quali  par- 
leremo in  seguito.  Manca  negli  inventari  dei  doni  il  ricordo  di 
quei  tanti  piccoli  oggetti  graziosi  ed  inutili  con  i  quali  si  rega- 
lano ora  le  spose.  Se  si  dovessero  in  qualche  modo  classificare 
i  doni  nuziali  ora,  ci  sarebbe  una  minuta  divisione  di  gioielli, 
oggetti  per  casa,  gingilli.  1  doni  d'allora  si  possono  dividere  nei 
tre  gruppi  :  gioie,  stoffe,  cibi,  doni  tutti  fatti  a  seconda  della  pa- 
rentela con  gli  sposi  e  della  somma  che  si  voleva  spendere.  Dei 
doni  non  destinati  ad  uso  speciale  delle  spose,  di  cui  parlano 
le  consuetudini  gradiscane,  non  resta  notizia  alcuna.  I  castellani 
obbligavano  i  vassalli  a  fare  alcuni  doni  in  tempo  di  nozze.  Rap- 
presentano quasi  un  livello  dei  vassalli:  essi  dovevano  con  spa- 
vento vedere  le  nozze  dei  padroni,  perchè  la  spesa  diventava 
ingente  quando  il  signore  aveva  un  discreto  numero  di  figlie. 
11  livello,  in  caso  di  nozze,  era  generalmente  di  cinque  stala  di 
frumento,  tre  di  avena,  sette  paia  di  galline.*  A  questi  doni  ob- 
bligatori la  sposa  ricambiava  con  vesti  e  fazzoletti  dati  alle  donne, 
borse  agli  uomini.  Erano  tutti  oggetti  vecchi,  che  avevano  già 
servito  alla  sposa.  Non  c'era  davvero  pericolo  che  la  sposa  friu- 
lana regalasse  ai  servi  e  alle  donne  di  casa  le  vesti  di  seta  e 
di  scarlatto,  le  calze  ricamate,  che  le  leggi  suntuarie  bresciane  ' 
proibivano  che  si  donassero  in  simili  occasioni.  Restano  da  ve- 
dere i  regali  che  le  comunità  facevano  agli  sposi.  Ognuna  di 
esse  incaricava  il  massaro  di  fare  i  regali  ai  principi  in  occa- 
sione di  nozze.  I  Consigli  tenevano  pronto  il  capitale  che  do- 
veva servire  a  comperare  i  regali  ai  signori  del  luogo,  che  si 

1  Regali  di  Riccarda  d^ Arcano  {1571),  in  Arch.  co.  d'Arcano. 

'  Calcoli  delle  entrate  e  spese  cit. 

3  A.  Cassa,  Funerali,  pompe  e  conviti,  Brescia,  1887,  p.  124. 


Ì06  ALICE  SACHS 

maritavano.*  Il  Comune  dì  Udine  aiutava  con  un  dono  in  de- 
naro a  sostenere  le  spese  di  nozze  della  famiglia  Savorgnan 
amica  del  governo  e  protetta  da  esso.  Il  24  ottobre  1580  Ni- 
colò Deciani  scriveva  al  Comune  di  Udine  una  lettera  che  fu 
Ietta  in  Consiglio  e  diceva  :  «  V  111.  signor  Ascanio  Savorgnano  è 
«  fatto  sposo  in  una  figliuola  del  q.™  Ecc.""*  m.  Giovanbattista  lusti- 
«  niano  parente  dell'Ecc.  nostro  luogotenente  al  quale  W.  M.  M. 
«  si  degneranno  dar  tal  nuova.  Sua  Sig.  invita  la  Mag.*  Comunità 
«  ad  esser  compadre  de  l'anello  insieme  con  il  Ecc.  mess.  Zorzi 
«  Oradenigo  nel  suo  sponsalitio  et  la  prega  con  instantia  grande 
«  ad  accettar  tal  invito  a  nome  di  essa,  che  così  a  noi  ha  dato 
«  commissione  che  le  invitiamo  et  preghiamo.  Accettando  elle 
«  r  invito,  come  crediamo,  manderanno  alcuno  o  daranno  com- 
«  missione  a  chi  li  piacerà,  che  faccia  tal  effetto  a  nome  di  essa. 
«  Et  di  ciò  aspetteremo  in  breve  risposta  per  risolverlo  »  .*  11 
Consiglio  nella  stessa  seduta  deliberava  di  accettare  l'invito  e 
nominava  il  sig.  Francesco  Maseri  a  rappresentare  il  Comune. 
Il  Maseri  doveva  recarsi  a  Venezia  per  assistere  allo  sposalizio, 
«  come  tocca  a  un  vero  compare  e  lo  stesso  compare  deve  tro- 
«  vare  e  far  formare  un  bel  diamante  in  forma  d'anello  spen- 
«  dendo  del  denaro  della  comunità  fino  a  ducati  150,  per  re- 
«galarlo  alla  sposa».  Un  uso  che  si  mantenne  fino  al  cadere 
della  repubblica  era:  le  figlie  dei  luogotenenti,  che  nascevano  a 
Udine,  mentre  il  padre  era  reggente  della  Patria,  erano  tenute  a 
battesimo  dalla  Comunità.  Una  di  queste  figlioccie  di  Udine  era 
Maria  Duodo,  e  il  24  gennaio  1584  il  Comune  ricevette  un'altra 
lettera  che  si  lesse  pure  in  Consiglio  :  «  A  me  parerla  de  mancar 
«  de  quel  amore  che  porto  a  quella  magnifica  città  se  non  li 
«  dessi  nova  che  agli  cinque  del  presente  io  ho  maritato  l' ul- 
«  tima  mia  fiola,  furlana  et  nata  i  quella  magnifica  città  et  sua 
«  fiozza;  e  ne  son  certissimo  che  ne  ha  però  quel  contento  che 
«  ne  sento  mi  medesimo.  Il  sposo  si  è  magn.°  M.  Francesco  Diedo, 
«  nipote  del  vescovo  di  Crema,  giovane  virtudioso  et  di  bon 
«  nome,  che  il  signor  Iddio  li  dia  quella  consolatione  che  a  tutti 
«  doi  li  sposi  lei  medema  desidera.  La  sposa  si  ha  nome  Maria, 
«  e  spero  ancor  le  forse  non  passerà  molto  tempo  che  le  veni- 
«  ranno  con  qualche  occasione  a  veder  quella  magnifica  città 
«  dove  mi  allegro  con  le  Mag."'  V."  alli  suoi  cavallieri,  che  il 


>  NlCOLETTI,  op.   Cit. 

«  ACU.,  Annaìium  cit,  lo.  LX,  f.  218. 


Le  nozze   in   FRtULl   NEI  SECOU  XVl   E  XVIt  Ì01 

€  n.'"  S.'  Iddio  ne  doni  vita  di  poter  veder  maritare  anche  de  le 
«  prole  di  essi  :  e  con  questo  venirò  a  far  fine  offrendomi  di 
«  continuo  alli  suoi  piaceri.  »  *  Anche  questa  volta  il  consiglio  de- 
libera di  non  lasciare  passare  le  nozze  senza  un  segno  della 
propria  benevolenza  e  ordinava  di  regalare  alla  sposa;  ma  non 
è  detto  quale  fosse  il  regalo.  Nel  1587  la  Comunità  dovette  so- 
stenere un'altra  spesa  per  un  regalo  di  nozze.  Una  figlia  di  Giu- 
stiniano Giustiniani,  che  era  stato  luogotenente  di  Udine,  era 
fatta  sposa.  Il  consiglio  deputò  un  nobile  a  fare  un  piccolo  re- 
galo alla  sposa,  spendendo  quanto  abbisognava  del  pubblico 
denaro.* 

III. 

LA  CELEBRAZIONE  DEL  MATRIMONIO. 

Presso  le  popolazioni  romane  il  legittimo  matrimonio  aveva 
origine  dal  consenso.  Anche  la  coabitazione,  purché  fatta  colla 
volontà  di  vivere  coniugalmente,  costituiva  vero  e  proprio  ma- 
trimonio. Nella  società  germanica  i  matrimoni  avvenivano  per  ratto 
o  per  compera.'  Il  ratto  era  divenuto  raro,  perchè  il  mundio  non 
si  poteva  ottenere  che  con  la  compera,  poiché  nel  diritto  germa- 
nico il  consenso  della  donna  non  aveva  alcun  valore,  ma  valeva 
soltanto  il  consenso  del  padre  o  del  mundoaldo.  Con  semplici 
forme  di  consenso  e  col  portare  la  sposa  alla  casa  nuziale  il 
matrimonio  si  aveva  per  concluso.  Nemmeno  il  cristianesimo 
impose  qualche  cerimonia  speciale  al  costituirsi  del  matrimonio. 
È  soltanto  con  l'età  carolingia  che  questo  consenso  deve  esser 
manifestato  dagli  sposi  in  forma  solenne,  ciò  che  dimostra  come 
la  personalità  della  donna  avesse  acquistata  ormai  un'importanza 
tutta  nuova.*  La  manifestazione  del  consenso  e  la  consegna  po- 
tevano avvenire  nello  stesso  tempo  o  in  due  momenti  diversi, 
allora  il  primo  si  chiamò  degli  sponsali,  il  secondo  della  traditlo. 
Oli  sponsali  nel  diritto  romano  producevano  una  spes  matrimonii, 
ma  nessuna  speciale  obbligazione  e  non  formavano  parte  essen- 
ziale del  contratto,  si  poteva  avere  la  traditlo  non  preceduta  da- 
gli sponsali.^  Nel  diritto  germanico  gli  sponsali  costituivano  l'ob- 

i  ACU.,  Annalium  cit.  to.  LXI,  f.  145. 
«  ACU.,  Annalium  cit.  to.  LXII,  f.  167. 
»  G.  Salvigli,  op.  cit.,  p.  307. 

*  P.  S.  Leicht,  Ricerche  sul  diritto  privato  cit.,  p.  91. 

3  F.  CicCAOLiONE,  Gli  Sponsali  e  la  promessa  di  matrimonio  nello  storia  e  nel 
diritto  italiano,  Milano,  1888,  p.  15. 


108  ALICE   SACHS 

bligo  per  lo  sposo  di  prendere  la  sposa,  e  per  questa  di  seguire 
lo  sposo,  la  traditio  non  era  che  il  mantenimento  necessario 
della  promessa  precedente.  Gli  sposi  avevano  già  degli  obblighi 
reciproci,  erano  già  uniti  prima  della  traditio.  La  consegna  si 
faceva  solennemente  e  con  questa  era  concluso  il  matrimonio. 
Per  le  popolazioni  viventi  a  legge  romana  e  per  quelle  viventi 
a  legge  longobarda  la  storia  della  celebrazione  del  matrimonio 
si  divide  in  due  periodi,  il  primo  anteriore  al  concilio  di  Trento, 
il  secondo  che  s'inizia  con  quello  nel  1563.  Fino  al  concilio  di 
Trento  i  matrimoni  erano  riguardati  come  contratti.  Nessun  in- 
tervento della  Chiesa  era  necessario,  nemmeno  la  presenza  del 
sacerdote  e  la  benedizione  data  in  chiesa  o  fuori.  Nessun  rito  ec- 
clesiastico influiva  sul  compimento  del  contratto.  Le  popolazioni 
romane  o  quelle  viventi  a  legge  romana  si  maritavano  senza 
l'intervento  dello  Stato.  Quelle  viventi  a  legge  longobarda  con- 
cludevano i  loro  matrimoni  in  presenza  della  pubblica  autorità.  ' 
Lo  Stato  riconosceva  valida  una  forma  di  celebrazione  o  l'altra, 
obbligava  alle  volte  a  celebrare  il  matrimonio  in  presenza  della 
pubblica  autorità,  ma  non  riteneva  nulli  i  matrimoni  celebrati  pri- 
vatamente. Al  tempo  dei  longobardi  e  dei  franchi  i  matrimoni 
si  celebravano  alla  presenza  dei  giudici.  Ma  siccome  all'ufficio 
di  giudice  andava  unito  quasi  sempre  quello  di  notaio,  essendosi 
nella  stessa  persona  uniti  due  uffici,  non  si  tenevano  distinte  le 
due  attribuzioni.  Il  potere  dei  giudici  di  rappresentanti  della  pub- 
blica autorità,  innanzi  ai  quali  i  matrimoni  erano  legalmente  ce- 
lebrati, passò  ai  notari.  La  pratica  romana  e  quella  longobarda 
coesistevano  in  Friuli.  Si  avevano  i  matrimoni  celebrati  privata- 
mente e  alcuni,  come  in  tutta  l'Italia  centrale  e  settentrionale 
dal  XII  secolo,  conclusi  davanti  ai  notari,  che  esercitavano  atti  di 
giurisdizione  volontaria,  rogavano  attestazioni  di  atti  compiuti  alla 
loro  presenza.  La  pratica  romana  e  quella  longobarda  coesistenti 
fino  dal  IX  secolo,  poiché  la  lex  romana  utinensis  permetteva  di 
celebrare  i  matrimoni  «  inter  parentes  aut  iudices,  vel  bonos  vi- 
«  cìnos»,  durava  ancora  nel  XVI  secolo  in  Friuli  e  durò  fino  al 
concilio  di  Trento.  Alcuni  sposalizi  si  celebravano  davanti  al  no- 
taro  altri,  e  questi  erano  in  numero  maggiore,  davanti  a  testimoni 
non  rivestiti  di  alcuna  pubblica  autorità.  Il  matrimonio  si  cele- 
brava in  una  stanza,  sotto  una  tettoia,  sull'aia,  sotto  un  albero. 

»  F.  Brandileone,  V intervento  dello  Stato  nella  celebrazione  del  matrimonio  in 
Italia  prima  del  concilio  di  Trento,  in  Atti  della  R.  Accademia  di  scienze  morali  e 
politiche,  voi.  XXVU,  p.  271. 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E   XVII  109 

Uno  dei  testimoni  domandava  alla  sposa:  laudas  tu,  N.  come 
marito  a  letto  e  a  mensa  secondo  le  lodevoli  consuetudini  della 
Patria?  La  sposa  rispondeva  tre  volte:  laudo.  La  stessa  domanda 
si  rivolgeva  allo  sposo,  ottenendo  la  stessa  risposta.  Dopo  questa 
affermazione  della  volontà  dei  contraenti,  il  matrimonio  si  riteneva 
concluso.  Gli  sposi  si  davano  la  mano,  si  scambiavano  l'anello, 
si  abbracciavano  davanti  ai  testimoni,  per  dimostrare  che  il  ma- 
trimonio era  concluso  e  che  essi  erano  uniti  ormai  per  l'eternità. 
Fra  i  testimoni  non  rivestiti  di  nessuna  autorità  dallo  Stato  o 
dalla  Chiesa  erano  i  chierici.'  Per  quella  speciale  attrattiva,  che 
esercitano  sul  volgo  le  persone  più  colte  che  sanno  di  latino, 
i  preti  nelle  celebrazioni  erano  ricercati  come  testimoni.  Un  po' 
per  volta  fecero  prevalere  la  loro  ingerenza  nella  celebrazione 
del  matrimonio,  il  quale,  benché  restasse  un  atto  puramente  ci- 
vile e  privato,  poiché  la  chiesa  era  luogo  naturale  di  riunione, 
si  celebrava  in  facle  ecclesiae.  I  matrimoni  non  celebrati  in  faccia 
alla  chiesa  erano  riprovati  come  clandestini,  ma  ritenuti  validi. 
La  domanda  di  assenso,  che  poteva  esser  fatta  dal  chierico  o  da 
qualunque  testimonio,  poteva  anche  esser  fatta  direttamente  dagli 
sposi.  Invece  della  domanda  si  faceva  qualche  volta  già  l'affer- 
mazione: «Io  accetto  te  per  mio  legittimo  marito  secondo  le  lo- 
devoli consuetudini  della  terra.  —  Io  accetto  te  per  mia  legittima 
moglie  secondo  le  lodevoli  consuetudini  della  terra».*  Così 
la  celebrazione  del  matrimonio  ci  si  presenta  in  Friuli,  dopo  la 
promessa  fatta  nei  patti  dotali,  sotto  forma  di  semplice  consenso, 
espresso  dalle  parti  contraenti  alla  presenza  di  due  o  più  testi- 
moni. Questi  erano  alle  volte  parte  attiva,  perché  rivolgevano 
le  domande,  alle  volte  erano  semplici  spettatori  che  udivano  so- 
lamente le  domande  e  le  risposte,  che  si  rivolgevano  gli  sposi. 
Nel  secolo  XVI  la  domanda  di  assenso  era  seguita  dalla  dichia- 
razione: secondo  i  riti  della  santa  romana  chiesa,  della  chiesa 
aquileiese  e  delle  antiche  consuetudini  della  Patria  del  Friuli 
Nessun  statuto  prescriveva  l'intervento  di  un  rappresentante  del- 
l'autorità pubblica  nella  celebrazione  del  matrimonio  :  questa  in- 
gerenza, benché  ci  fosse,  poiché  resta  qualche  dichiarazione  di 
sposalizio  rogata  da  notaro,  doveva  ridursi  a  pochi  casi  speciali. 
Gli  statuti  sempre  pronti  a  dettare  qualche  norma  affinché  in 
nessun  modo  avvenissero  abusi,  mentre  fissavano   particolareg- 

>   FORNERA,   Op.   Cit.,   p.   15. 

*  A.  Battistella,  Un  curioso  processo  matrimoniale,  in  Memorie  storielle  Foro- 
giuliesi,  Vili,  1912,  p.  73. 


110  ALICE   SACHS 

giatamente  la  mercede  ai  notari  che  redigevano  Tatto  dei  patti 
dotali,  non  fissavano  e  non  nominavano  nemmeno  la  mercede 
per  atto  di  sposalizio.  Lo  statuto  della  Patria  così  preciso  e  si- 
curo nelle  sue  misure,  non  avrebbe  dimenticato  di  farlo  se  gli 
sposalizi  davanti  a  notaro  fossero  stati  frequenti.  L'azione  dello 
Stato  prescriveva  alcune  condizioni  e  i  limiti  dell'attività  dei  pri- 
vati. Lo  statuto  interveniva  a  provare  la  giuridica  consistenza  degli 
atti,  ma  era  lasciata  all'opera  privata  la  cura  di  compierli.  Il  ma- 
trimonio non  cessò  d'essere  privato,  l'intervento  di  un  pubblico 
ufficiale  fu  una  forma  accresciuta  e  intensificata  dell'intervento 
di  una  terza  persona  qualunque.'  Lo  Stato  forse  fu  costretto  a 
lasciare  questa  libertà  per  un  rispetto  all'autorità  ecclesiastica. 
Questa  era  stata  anche  temporale  fino  al  1420  e  in  sua  mano 
era  rimasto  esclusivamente,  anche  durante  la  dominazione  veneta, 
il  potere  civile  e  giudiziario  in  materia  matrimoniale. 

La  curia  patriarcale,  nonostante  i  decreti  dei  sinodi  e  le  di- 
sposizioni dei  patriarchi,  lasciava  che  la  celebrazione  del  matri- 
monio avvenisse  privatamente  senza  imporre  la  presenza  di  un 
suo  rappresentante  e  dichiarava  insolubili  e  legittimi  i  matrimoni 
risultanti  dal  consenso,  dal  semplice  desiderio  di  vivere  coniu- 
galmente manifestato  e  provato  dalla  coabitazione.  *  La  chiesa  era 
molto  potente,  essa  era  sicura  della  sua  forza,  ed  appunto  per 
questo  non  dettava  alcuna  prescrizione  assoluta,  poiché  aveva 
coscienza  che,  qualora  questa  fosse  stata  necessaria,  l'avrebbe  im- 
posta senza  difficoltà  e  lotta  alcuna.  Data  questa  intera  indipen- 
denza da  parte  della  chiesa  e  da  quella  dello  Stato,  il  matrimonio 
si  celebrava  indifferentemente  davanti  a  testimoni,  fossero  questi 
notari  o  sacerdoti  poco  importava,  la  cerimonia  voleva  soltanto 
e  otteneva  solennità  e  pubblicità.  La  benedizione  data  agli  sposi 
dal  sacerdote  quand'era  esso  l'interrogante,  benché  non  fosse, 
come  non  era  in  nessuna  regione  d'Italia,^  ritenuta  sacramento 
e  causa  efficiente  alla  validità  nel  matrimonio,  era  desiderata.  In- 
fatti, poteva  dare  la  voluta  pubblicità  e  conferire  al  matrimonio 
un  che  di  sacro  che  non  spiaceva  ai  friulani  profondamente  e 
costantemente  religiosi.  Qualche  cosa  nel  medio  evo  i  patriarchi 
avevano  tentato.  Nel  1335  un  capitolo  del  concilio  provinciale, 


»  N.  Tam  ASSIA,  La  famiglia  italiana  nei  secoli  XV  e  XVI,  Palermo,  1910,  p.  187. 

*  Opposizione  al  matrimonio  di  0.  Rupil  (1514),  ms.  in  Arch.  Patriarcale  di 
Udine,  busta  1553. 

»  O.  Salvigli,  La  benedizione  nuziale  fino  al  Concilio  di  Trento,  in  Archivio  giu- 
ridico, voi.  LUI,  fase.  1-2,  p.  173  sgg. 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI   SECOLI   XVI    E   XVII  111 

tolto  soltanto  nel  1565,  quando  già  vigevano  le  disposizioni  date 
a  Trento,  proibiva  di  contrarre  matrimoni  senza  premettere  nella 
chiesa  le  pubblicazioni,  infliggeva  una  multa  al  sacerdote  che 
senza  obbedire  a  questo  ordine  impartiva  la  benedizione.'  Tre 
anni  dopo  un  altro  concilio  comandava  che  i  matrimoni  si  fa- 
cessero in  facie  Ecclesiae,  riprovava  i  matrimoni  fatti  fuori  senza 
l'intervento  del  sacerdote,  ma  non  li  dichiarava  nulli.  11  concilio 
del  1448  ordinava  che  i  matrimoni  fossero  annunziati  al  sacer- 
dote che  doveva  investigare  per  conoscere  i  possibili  canonici 
impedimenti.  Ordinava  che  la  benedizione  nuziale  fosse  data  so- 
lennemente in  chiesa,  ma  poteva  esser  data  senza  solennità  anche 
fuori.  Nonostante  queste  disposizioni,  la  Chiesa  stessa  tollerava 
e  difendeva  i  matrimoni  fatti  privatamente,  perchè  ripetiamo  Stato 
e  Chiesa  seguivano  il  vecchio  principio  romano  che  il  consenso 
fa  le  nozze.  1  frequenti  abusi  derivanti  da  questa  libertà  non  erano 
sentiti,  né  previsti  dall'autorità,  che  continuava  imperturbabile 
nelle  sue  vecchie  patriarcali  consuetudini,  senza  pensare  che  ogni 
disordine  nella  costituzione  della  famiglia  si  rifletteva  necessa- 
riamente in  un  disordine  dello  Stato.  Tanta  era  la  libertà  e  tanti 
gli  abusi  fra  i  matrimoni  celebrati  tra  gli  sposi  senza  l'intervento 
di  alcun  testimonio,  che  per  farne  valere  poi  la  legittimità  si  ri- 
correva anche  ai  giudizi  di  Dio.*  Vicino  a  questi  matrimoni  ri- 
conosciuti e  legittimi,  si  hanno  gli  altri  più  regolari  di  cui  cro- 
nologicamente gli  atti  costitutivi  erano  i  patti  dotali,  la  desponsatio 
per  verta  de  presenti  avanti  a  notaro,  la  benedizione  sponsalizia. 
I  patti  dotali  registravano,  oltre  alla  promessa  della  dote  e  dei 
doni,  quella  che  lo  sposo  faceva  al  padre  della  sposa  di  far  se- 
guire legittimo  matrimonio  secondo  le  lodevoli  consuetudini  della 
Patria,  secondo  i  comandamenti  della  Chiesa  aquileiese  e  della 
santa  romana  Chiesa.  Questa  promessa  in  un  atto  civile,  fatto  da- 
vanti a  notaro,  benché  non  alteri  il  carattere  laico  della  cerimonia, 
dimostra  che  a  questa  promessa,  come  a  quella  seconda  fatta  il 
giorno  degli  sponsali  per  verta  de  presenti,  si  riconosceva  un  ca- 
rattere sacro.  Gli  sponsali  non  portavano  un  obbligo  giuridico 
alla  celebrazione  del  matrimonio.  Anzi,  in  ogni  patto  è  contem- 
plato il  caso  nel  quale  il  matrimonio  non  fosse  celebrato.  Ma  la 
promessa  però  portava  un  obbligo  morale.  La  parola  stessa,  con 
cui  gli  sponsali  sono  chiamati  nel  linguaggio  friulano,  indica 
il  dovere   riconosciuto  di   mantenere  la  parola  data;  si  chiama 

1  O.  Marcuzzi,  op.  cit.,  p.  14Q. 

»  S.  Mantica,  Cronaca  di  Pordenone  (1432-1544),  Pordenone,  1881,  p.  U. 


112  ALICE  SACHS 

Vimpegn  (l'impegno);  per  impegno  si  dava  anche  un  segno  evi- 
dente, un  anello,  una  moneta  o  una  medaglia  d'oro.  La  costu- 
manza dell'impegno  friulano  dava  certi  tenui  diritti  all'impegnato, 
come  quello,  fra  i  contadini,  di  ballare  con  la  sposa  e  di  accompa- 
gnarla alla  messa,  ma  non  arrivava  mai  alla  grande  libertà  che  le 
costumanze  longobarde  permettevano  dopo  gli  sponsali.*  I  patti 
dotali  erano  fatti  in  casa  dello  sposo  o  della  sposa,  o  in  quella 
del  notaro.  Incominciavano  sempre  con  la  data  e  l'indicazione 
del  luogo  dove  si  redigevano.  Cito  per  tutti  un  esempio  qualun- 
que: «In  Christi  nomine  amen.  Anno  nativitatis  ejusdem  1522, 
«  ind.  X,  die  vero  Mercurìi  IQ  mensis  novembris.  Actum  Utini 
«  in  contrata  Sancti  Christofori  in  studio  infrascritti  domini  Ve- 
«  gentii,  presentibus  nobilibus  ser  Petro  de  Atempto,  ser  Paulo 
«  Tursio,  ser  Hieronymo  Colleto  civibus  utinensibus  et  ser  Ber- 
«  nardo  de  Susan  aromatario  testibus  vocatis  et  rogatis.  Ibique 
«  ad  laudem  dei  omnipotensis  convenientibus  in  unum  causa  ma- 
«  trimonii  contraendi  spectabili  domino  Vegentio  Emiliani  doctore 
«  et  nobili  ser  Lapo  eius  fratre  prò  nobili  domina  Deiopea  eorum 
«  sorore  ex  una,  et  nobili  ser  Francisco  Tursio  quondam  domini 
«  Nicolai  cive  utinensi  prò  se  ipso  ex  altera.  Ubi  quidem  praefati 
«  domini  fratres  eidem  ser  Francisco  promiserunt  facere  et  cum 
«  effectu  curare  quod  prefata  domina  Deiopea  eumdem  ser  Fran- 
«  ciscum  accipiet  in  suum  verum  sponsum  et  maritum  secundum 
«  precepta  sacrosancte  Romane  Ecclesie,  Ecclesie  Aquilejensis  et 
«  laudabilis  patrie  foriiulii  consuetudines  semel  bis  et  tertio  ;  et 
«  versa  vice  prefatus  stipulantibus  nomine  diete  eorum  sororìs, 
«  eamdem  dominam  Deiopeam  acceptare  in  suam  veram  sponsam 
<^  et  uxorem  secundum  dieta  precepta  et  consuetudines  antedictas 
«  semel  bis  et  tertio  » .'  In  molti  casi,  dopo  la  data  e  dopo  aver 
nominati  i  presenti,  c'è  l'invocazione  della  divinità  : 

«  Ibique  ad  laudem  et  gloriam  omnipotentis  Dei,  eius  Gloriose 
«  Virginis  Matris  Mariae  simul  convenerunt  causa  matrimonii  con- 
«  trahendi,  etc.  » . 

La  cerimonia  degli  sponsali  alla  quale,  come  si  è  già  detto, 
non  assisteva  la  sposa,  si  faceva  senza  alcuna  solennità  e  senza 
speciali  inviti  e  preparativi.  Nei  castelli  soltanto,  per  darle  qualche 
imponenza,  si  faceva  nella  sala  maggiore,  nella  sala  d'armi  ;  anche 
fra  i  borghesi  si  trovano  i  patti  dotali  fatti  nella  stanza  maggiore. 

1  A.  Fertile,  op.  cìt.,  p.  254. 

2  Patti  dotali  stipulati  tra  F.  Del  Torso  e  V.  D.  Emiliani  {1522),  ed.  Biasutti, 
Udine,  1903. 


LE   NOZZE   IN   FRtULl    NEI   SECOLI   XVI    E   XVIl  113 

Gii  sponsali  per  verba  de  presenti,  anche  se  fatti  davanti  ài  no- 
taro,  si  facevano  in  qualsiasi  luogo  tra  il  popolo  sempre  alFaperto 
sotto  il  sole,  o  sotto  una  tettoia,  dove  conveniva  gente.  Nel  1503 
sì  ebbe   un  matrimonio   di  contadini  e   la  formula  di   consenso 
fu  pronunciata  vicino  al  cimitero  della  chiesa  di  S.  Maria  d'Ar- 
tegna.*  La  rogazione  del  notaro  per  sposalitio  per  verba  de  pre- 
senti non  differiva  nella  forma  da  quella  per  gli  sponsali.  Si  ri- 
cordavano t  patti  dotali  e  si  dichiarava  avvenuto  il  matrimonio 
per  verba  de  presenti.^  Per  ottenere  maggior  solennità,  il  contratto 
davanti  a  notaro  poteva  essere  fatto  anche  in  chiesa,  alla  presenza 
dei  testimoni  e  del  sacerdote.  Il  contratto  era  sempre  puramente 
civite,  la   benedizione   sponsalizia  si  dava  dopo.^   Il  notaro  che 
interrogava  gli  sposi  pronunciava  alcune   parole  sulla  santità  del 
matrimonio  e  finiva  con   gli  auguri.   Gli  sposi  si   scambiavano 
ranello,  ma  più  spesso,  celebrato  il  laudo  davanti  al  notaro,  gli 
anelli  erano  dati  in  chiesa  dal  sacerdote  o  davanti  a  lui.  Se  era 
Io  sposo  che  metteva  l'anello,  era  aiutato  dal  compare  delVanetto, 
che  teneva  fermo  l'anulare  della  sposa,  mentre  essa  porgeva  la 
mano  al  marito  perchè  l'inanellasse.  In  queste  cerimonie  un  po' 
oscure  anche  nel  loro  svolgersi,  non  sappiamo  quasi  nulla  del 
come  si  comportassero  la  sposa,  lo  sposo,  le  famiglie,  gl'invitati. 
Intravvediamo  appena  la  sposa  biancovestita,  timida,  che  risponde 
tre  volte:  laudo,  porgendo  la  mano  per  ricevere  la  vera. 

Possiamo  figurarci  il  suo  vestito:  «  Le  spose  del  Friuli  ornano 
«  le  tempie,  et  la  fronte  di  molti  ricci,  e  gli  altri  capelli  accolgono 
«  sotto  una  reticella  d'oro  carica  di  gioie,  e  perle  con  le  quali 
«  ornano  anco  le  orecchie,  e  il  collo,  usano  lattughe  di  renso  molto 
«  ben  fatte,  le  vesti  sono  di  raso  bianco  con  busti  bottonati  d'oro 
«  e  altro,  le  maniche  sono  listate  di  broccato,  e  aperte,  per  dove 
A  escono  le  braccia  vestite  pure  di  raso  bianco,  o  di  teletta  d'ar- 
«  gento  o  d'oro  ».*  Nel  600  le  spose  portavano,  invece,  il  vestito 
di  velltito  cremisi  con  il  busto  di  colore  diverso,  ricamato  d'oro, 
le  maniche  erano  ornate  di  pizzi  d'oro  e  d'argento.  Dalle  villotte 
e  dalle  poesie  popolari  nate  dal  popolo  e  tramandate  con  lui, 
possiamo  trarre  qualche  altra  incerta  notizia  della  sposa  nel  mo- 
mento delle  nozze.  La  vediamo  incerta  o  piangente,  mentre  stende 

»  V.  JOPPi,  Notarieram  cit.  voi.  VII, 

>  Contratto  nuziale  tra  P.  Amalteo  e  G.  Pordenone.  Stromenti,  not.  S.  Decio,  in 
Arili.  Nòt.  di  Udine. 

5  O.  Savorgnan,  Memoria  cit. 

<  C.  Vecellio,  Habiti  antichi  et  moderni  di  tutto  il  mondo,  Venetia,  Sessa  ;  Degli 
■e'nti  d'Italia,  voi.  I,  p.  150. 


114  ALICE   SACHS 

la  mano  che  dovrà  essere  inanellata.  Sappiamo  che  si  rivolge  itet 
momento  in  cui  dice  laudo  al  padre,  ai  parenti,  chiedendo  d'esser 
protetta  da  loro  sempre,  anche  quando,  uscita  dalla  casa,  avrà 
preso  un  altro  nome. 

La  terza  cerimonia  è  sempre  fatta  in  chiesa  ed  è  chiamata  la 
benedizione  sponsalizia.  La  solennità  maggiore  era  data  a  questa 
cerimonia  ed  era  seguita  spesso  da  tutti,  e  specialmente  dai  no- 
bili,* anche  quando  era  tralasciata  la  manifestazione  del  consenso 
davanti  a  notaro.  Presso  i  castellani,  che  avevano  sempre  unita 
al  castello  la  chiesa  e  che  tra  i  familiari  tenevano  il  sacerdote, 
la  benedizione  sponsalizia  non  mancava  mai.  Come  tutti  in  Friuli, 
castellani  erano  religiosi  e  non  trascuravano  questa  solennità. 
Per  di  più  non  sempre  i  castellani  erano  amici  di  Venezia,  pa- 
drona e  rappresentante  del  potere  temporale  tolto  ai  patriarchi, 
e  quindi  tale  manifestazione  di  fede,  anche  in  caso  di  matrimonio, 
si  può  forse  considerare,  in  Friuli,  come  una  manifestazione  di 
simpatia  alla  causa  dei  patriarchi  spodestati.  Così,  benché  la 
Chiesa  con  il  suo  intervento  non  fosse  parte  necessaria  nella 
celebrazione,  si  era  spinta  più  avanti  in  Friuli  che  in  altre  regioni 
d'Italia,  e  il  consenso  s'esprimeva  spesso  davanti  al  sacerdote. 
Essendo  possibile  seguire  nella  celebrazione  così  la  consuetu- 
dine approvata  dalla  Chiesa  di  richiedere  la  benedizione,  come 
l'altra,  che  del  resto  aveva  per  sé  le  maggiori  autorità  anche  fra 
i  padri  della  Chiesa  stessa,  che  non  riteneva  necessaria  tale 
benedizione,  lo  Stato  non  poteva  imporsi  in  nessun  modo  né 
mettere  impedimento  alcuno  e  così  si  andavano  preparando  len- 
tamente gli  animi  per  accogliere  le  disposizioni  del  Concilio 
tridentino.  Per  ricevere  la  benedizione  sponsalizia,  la  sposa  era 
accompagnata  alla  chiesa  da  un  numeroso  corteo  di  parenti  e 
invitati. 

Per  le  nozze  dei  nobili  gli  udinesi  addobbavano  le  finestre  con 
tappeti  ed  arazzi,  il  corteo  andava  alla  chiesa  fra  il  popolo  ac- 
corso. Se  le  nozze  avvenivano  in  un  castello,  nel  giorno  della 
celebrazione  del  matrimonio  le  campane  della  chiesa  suonavano 
a  festa.  Le  torri  e  le  mura  erano  tappezzate  di  arazzi,  dai  balconi 
pendevano  ghirlande  di  sempreverde  e  di  fiori.  Gli  invitati  si  ra- 
dunavano e  si  ordinavano  al  castello  e  poi  si  avviavano  alla 
chiesa.  I  vassalli  stavano  schierati  lungo  la  via  e  gridavano  gli 
auguri  e  gli  evviva.  Dai  gradini  dell'altare  il  sacerdote  scendeva 

»  S.  Strassoldo,  op.  cit.,  p.  29. 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI   SECOLI    XVI    E   XVII  115 

ad  incontrare  gli  sposi,  indossava  i  paramenti  sacri  migliori,  la 
stola  ricamata.  Spesso  era  lavoro  della  sposa  che  la  regalava  alla 
chiesa  il  giorno  prima  delle  nozze.*  Gli  sposi  s'inginocchiavano 
su  inginocchiatoi  coperti  da  un  ricco  tappeto  sul  quale  stavano 
i  cuscini.  Gli  invitati  si  mettevano  sui  banchi,  in  fondo  alla  chiesa 
stavano  i  vassalli.  Il  sacerdote  rivolgeva  tre  volte  la  domanda 
prima  alla  sposa,  poi  allo  sposo,  ed  avuta  la  risposta  affermativa, 
pronunciava  forte  solennemente  le  parole:  Ego  conjungo  vos  in 
matritnonium}  Impartiva  solennemente  la  benedizione  alla  coppia, 
faceva  gli  auguri  a  questa  e  ai  discendenti,  ricordava  la  nobiltà 
delle  due  case  che  si  imparentavano;  la  cerimonia  nuziale  era 
finita.  Quando  il  sacerdote  benediceva  coppie  contadine,  riceveva 
in  regalo  dalla  sposa  un  fazzoletto.  Riceveva  il  prete  una  mer- 
cede in  denaro?  Fra  i  contadini  in  molte  località  friulane,  si  usa 
ancora  dare  al  sacerdote  celebrante  la  messa  nuziale  lire  tre  e 
dieci.  Questa  somma  corrisponde  in  valore  a  un  ducato  veneto, 
questo  potrebbe  far  dedurre  che  l'usanza  fosse  tradizionale  e  che, 
al  tempo  della  Serenissima,  il  sacerdote  ricevesse  per  nozze  il 
regalo  d'un  ducato. 

Gli  statuti  e  la  chiesa  si  trovavano  d'accordo  nel  disappro- 
vare i  matrimoni  clandestini,  cioè  quelli  contratti  dalle  donne  e 
dai  minorenni  senza  il  consenso  dei  genitori  o  dei  tutori.  La 
chiesa  nei  suoi  sinodi  li  proibiva  come  atti  contrari  alla  salva- 
zione delle  anime,  gli  statuti  della  Patria  li  proibivano  e  li  puni- 
vano con  delle  multe  agli  uomini,  col  non  concedere  la  dote 
alle  donne.  Ma  i  matrimoni  clandestini  erano  frequenti,  i  sacer- 
doti continuavano  inascoltati  a  condannare  dal  pergamo,  gli  sta- 
tuti si  moltiplicavano,  accrescendo  le  multe  e  le  pene.  I  matrimoni 
dei  vedovi  si  celebravano  con  le  stesse  cerimonie  usate  per  gli 
altri,  il  caso  di  vedove  e  vedovi  che  si  rimaritavano  non  era  raro. 
Nessuno  statuto  proibiva  le  seconde  nozze,  ma  lo  sfavore  verso 
i  vedovi  che  si  rimaritavano  era  evidente  nel  500,  continuò  in 
seguito  e  dura  anche  ora.  I  nobili  reputavano  disonore  che  una 
donna  entrata  nella  loro  casata,  ne  uscisse  per  sposare  un  altro.^ 
II  popolo  disapprovava  le  seconde  nozze  e  segno  di  questa  di- 
sapprovazione erano  le  sdrondenadis.  Si  facevano  quando  gli 
sposi  si  recavano  alla  chiesa  ;  consistevano  in  un  chiasso  assor- 


1  Calcoli  delle  entrate  e  spese,  cit. 
•  F.  DI  Manzano,  op,  cit.,  voi.  Ili,  p.  156. 

s  Lettera  del  march.  Colloredo  a  G.  Rabatta,  in  Arch.  March.  Colloredo  ÌB  C«l- 
loredo  di  Montalbano  (Busta  lettere). 


116  ALICE  SACHS 

dante  prodotto  percuotendo  in  terra  casseruole,  secchi  e  qualsiasi 
oggetto  di  rame.  Questo  strepito  volgare  fatto  dal  popolo  nelle 
campagne  e  a  Udine,  era  implicitamente  approvato  dal  Consiglio, 
che  lo  proibiva  soltanto  quando  gli  sposi  pagavano  una  somma 
destinata  ai  restauri  della  città.^  La  servitù  di  masnata,  durata  in 
Friuli  fino  alla  seconda  metà  del  secolo  XV,  si  era  trasformata 
nel  secolo  XVI  nel  libero  colono,  che  restava  vincolato  al  padrone 
con  obblighi  che  risentivano  della  sua  condizione  anteriore. 

il  legittimo  matrimonio  fra  i  servi  avveniva  per  un  regolare 
contratto  fra  i  padroni.  Questo  contratto  costituiva  l'affermazione 
di  legittimo  matrimonio,  che  si  riteneva  com^  avvenuto.  Gene- 
ralmente si  faceva  anche  un  secondo  atto  notarile,  il  quale  com- 
prendeva i  patti  dotali.  Era  fatto  direttamente  tra  i  contraenti, 
costituiva  il  matrimonio  civile  simile  a  quello  che  si  rogava  per 
il  matrimonio  dei  liberi.  Per  i  servi  era  il  consenso  manifestato 
dai  padroni  prima  che  dai  contraenti,  che  costituiva  legittimo  ma- 
trimonio, nella  stessa  maniera  che  tra  i  liberi  il  solo  consenso 
era  necessario. 

Abbiamo  visto  come  la  Chiesa  aspirasse  a  sottoporre  a  sé 
anche  la  celebrazione  del  matrimonio.  In  Friuli  era  riusciuta  a 
trovar  posto  in  molte  celebrazioni  e  a  rivolgere  direttamente  le 
domande  ai  contraenti.  Ma  la  Chiesa  aquileiese,  come  quella  ro- 
mana, non  aveva  dettata  ancora  nessuna  norma  assoluta  per  re- 
golare e  rendere  obbligatorio  il  suo  intervento.  La  cerimonia  re- 
ligiosa, che  non  aveva  importanza  giuridica,  divenne  col  concilio 
di  Trento  la  sola  e  necessaria  causa  efficiente  alla  celebrazione 
del  matrimonio.  Col  concilio  si  comandò^  che  soltanto  i  riti 
ecclesiastici  producessero  celebrazione,  e  si  vietò  il  matrimonio 
davanti  ai  soli  testimoni.  Il  punto  essenziale  e  necessario  divenne 
W  consenso  manifestato  davanti  al  parroco,  anche  se  nolente.  Il 
sinodo  comandò  che  prima  di  celebrare  il  matrimonio,  esso  fosse 
deminciato  in  chiesa  in  tre  giorni  di  festa  fra  le  solennità  della 
messa.  Se  non  risultava  impedimento  alcuno,  il  matrimonio  si 
poteva  celebrare.  11  parroco,  interrogati  l'uomo  e  la  donna  e  ot- 
tenuto il  loro  consenso,  doveva  dire:  *  lo  vi  congiungo  in  ma- 

«  Ek  actis  {161 1),  t.  XXXI V.  f.  II,  in  Arch.  Com.  di  Udine. 

*  A.  Battistella,  La  servitù  dì  Masnada  in  Friuli,  Venezia,  1908. 

8  P.  SARPr,  Istoria  del  concilio  Tridentino,  Londra,  De  Tournes,  1757,  p.  701  sgfg.; 
S.  Pallavicino,  Istoria  del  concilio  di  Trento.  Venezia,  Zanardi,  1803,  t.  XIII, 
P'.  142  sgg.,  ove  insieme  rifiutasi  con  autorevoli  testimonianze  una  falsa  stoffa  divul- 
gata sullo  stesso  argomento  da  Pietro  Soave  Polano. 


LE   NOZZE   IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E    XVII  117 

trimonio  in  nome  del  Padre,  Figlio  e  dello  Spirito  Santo  '.  Era  in 
potere  del  vescovo  di  tralasciare  una  o  due  denuncie  ;  ma  erano 
nulli  i  matrimoni  non  fatti  alla  presenza  del  parroco  e  di  due  o 
tre  testimoni.  11  parroco  doveva  tenere  un  libro,  per  registrare  i 
matrimoni.  Il  decreto  doveva  avere  vigore  in  tutte  le  parrocchie 
trenta  giorni  dopo  la  sua  pubblicazione,  doveva  essere  spiegato 
al  popolo  allo  scopo  di  mostrare  la  sua  forza  e  importanza. 

I  matrimoni  clandestini  tanto  riprovati  dalla  Chiesa  nei  prece- 
denti sinodi  aquileiesi,  biasimati  e  puniti  dagli  statuti  friulani, 
furono  dichiarati  degni  di  sacramento  e  ritenuti  validi.  Paolo  Sarpi 
fece  primo  la  critica  di  queste  disposizioni,  che  s'imponevano  a 
tutto  il  mondo  cattolico,  rappresentando  un'usurpazione,  alla  quale 
la  chiesa  non  era  autorizzata  :  «  Cosa  di  somma  esaltazione  del- 
«  l'ordine  ecclesiastico,  poiché  un'azione  tanto  principale  nell'am- 
«  ministrazione  politica  e  economica,  che  fino  a  quel  tempo  era 
«  stata  in  sola  mano  di  chi  toccava,  veniva  tutta  sottoposta,  al 
«  clero,  non  rimanendo  via,  né  modo  come  far  matrimonio,^  se 
«  dei  preti,  cioè  il  parroco  e  il  vescovo,  per  qualche  rispetto 
«  interessati,  ricusavano  di  prestar  la  presenza  ».* 

Ma  questa,  che  può  veramente  chiamarsi  usurpazione  dei  po- 
teri dello  Stato,  in  quelli  stati  che  sentivano  il  loro  dovere  di 
fronte  all'istituto  del  matrimonio,  che  imponevano  il  loro  rappre- 
sentante, e  che  avevano  ordinato  i  registri  dello  stato  civile,  può 
riprovarsi  e  chiamarsi  usurpazione  esaminata  soltanto  per  quanto 
riguarda  il  Friuli?  In  Friuli,  abbiamo  detto,  c'era  la  più  completa 
e  la  più  disordinata  libertà  che  dava  luogo  a  frequenti  equivoci, 
un  decreto  che  stabilisse  una  norma  assoluta  e  inviolabile  in  virtù 
della  quale  fossero  tolti  gli  abusi,  i  frequenti  divorzi,  i  casi  di 
bigamia,  non  poteva  che  essere  accettata  come  utile  e  adottata 
come  misura  d'ordine.  La  pubblica  coscienza  sentiva  la  necessità 
di  una  riforma,  da  qualsiasi  parte  essa  venisse;  in  mancanza  d 
quella  dello  Stato,  si  accettò  senza  resistenza  quella  della  Chiesa. 

Si  ebbe  un  solo  caso  di  ribellione  isolato  e  senza  conseguenze. 
Nel  1580,  mentre  il  parroco  spiegava  al  popolo  la  necessità  di 
non  contrarre  matrimonio  senza  l'intervento  del  sacerdote,  un 
parrocchiano  affermò  pubblicamente  di  non  voler  obbedire  e 
disse  che  mai  nessun  prete  avrebbe  congiunto  in  matrimonio  al- 
cuna delle  sue  figlie.*  Il  sinodo  aquileiese  nel  1595  prescriveva^ 


i  P.  Sarpi,  op.  cit.,  p.  653. 
9  O.  Margotti,  op.  cit.,  p.  70. 
5  O.  Marcuzzi,  op.  cit.,  p.  246. 


ut  ALICE   SACHS 

che  per  togliere  i  troppi  abusi  fosse  pubblicato  il  decreto  triden- 
tino de  reformatlone  matrìmonii  e  spiegato  al  popolo  durante  la 
messa  ogni  prima  domenica  del  mese  in  tutte  le  chiese,  che  fosse 
tradotto  nelle  lingue  e  nei  dialetti  perchè  tutti  lo  capissero.  Nei 
sinodi  successivi  la  questione  del  matrimonio  non  fu  più  trattata, 
si  era  venuti  ad  un  assetto  definhivo,  alla  celebrazione  religiosa 
accettata  unita  ad  alcune  cerimonie  speciali  al  Friuli,  che  erano 
usate  anche  prima  delle  disposizioni  tridentine.  Nella  diocesi  di 
Aquileia,  secondo  le  prescrizioni  del  vicario  patriarcale  O.  Ma- 
racco  del  1574,  le  pubblicazioni  si  facevano  un  momento  prima 
di  celebrare  il  matrimonio.  Era  possibile  sapere  se  alla  celebra- 
zione si  opponeva  qualche  impedimento,  avvenendo  ancora  i 
matrimoni  sempre  tra  friulani,  spesso  tra  compaesani.  Il  sacer- 
dote vestiva  la  stola  e  diceva  rivolto  al  popolo:  '  Queste  due  per- 
sone N.  N.  vogliono  contrarre  matrimonio,  se  qualcuno  conosce 
qualche  impedimento  tra  queste  due  persone,  che  renda  impos- 
sibile il  matrimonio,  lo  denunci  per  primo,  secondo  e  terzo'. 
Quando  nessuno  affacciava  impedimento,  il  sacerdote  interrogava 
lo  sposo:  *N.  t'interrogo  in  coscienza  come  vorresti  essere  innanzi 
a  Dio  nel  punto  di  morte,  se  sei  libero  da  ogni  legame  di  ma- 
trimonio con  altra  donna  all'infuori  di  questa  N.  E  se  vuoi  con- 
durla in  sposa  avanti  a  Dio'.  Lo  sposo  rispondeva:  *  sì  *.  Poi  il  sa- 
cerdote faceva  la  stessa  domanda  alla  sposa  che  rispondeva:  *sì  '. 
n  sacerdote  prendeva  l'anello  dello  sposo  per  metterio  nell'anulare 
sinistro  della  sposa  «  dove  c'è  una  vena  che  porta  direttamente 
al  cuore»,  pronunciando:  'ricevi  l'anello  segno  dell'unione  co- 
niugale '.  Prendeva  l'anello  della  sposa  per  darlo  allo  sposo  con 
queste  parole:  '  ricevi  anche  tu  l'anello  segno  della  fedeltà  coniu- 
gale e  l'onnipotente  e  pio  Padre  e  misericordioso  Iddio  vi  con- 
gìunga  nel  perpetuo  amore  '.  Poi  il  sacerdote  univa  le  destre  degli 
sposi  e  l'uomo  diceva:  '  lo  N.  prendo  te  N.  in  mia  legittima 
moglie  '.  La  donna  diceva:  *  Io  N.  prendo  te  N.  in  mio  legit- 
timo marito  '.  Il  sacerdote  poneva  la  stola  in  forma  di  croce 
sulle  destre  strette  e  diceva:  *  Ed  io  per  l'autorità  di  cui  sono 
investito  vi  congiungo  in  matrimonio  nel  nome  del  Padre,  del 
Figlio  e  dello  Spirito  Santo  '.  Faceva  il  segno  della  croce  e 
aspergeva  gli  sposi  con  l'acqua  benedetta  dicendo  :  '  Per  l'asper- 
sione di  questa  acqua  benedetta,  Iddio  onnipotente  vi  conceda 
la  sua  grazia  e  la  sua  benedizione  '.  La  cerimonia  nuziale  era 
finita;  si  celebrava  la  messa,  alla  fine  della  quale  gli  sposi  do- 
vevano baciare  il  vangelo.*  In  alcune  località  restava  l'uso  antico 

*  Agenda  Sanetae  Aqailegensis  Ecclesiae,  Venetiis,  Regazola,  1575. 


LE   NOZZE   IN    FRIULI    NEI   SECOLI    XVI    E   XVII  119 

éì  aspergere  gli  sposi  d'acqua  benedetta  quand'erano  ancora 
sulla  soglia  della  chiesa.  In  altri  paesi,  erano  ricevuti  alla  porta 
della  chiesa;  usanza  questa  che  resta  ancora  nei  matrimoni  dei 
conti  dì  Spilimbergo;  si  accompagnavano  all'altare  cantando  in 
salmo. 

Le  disposizioni  di  Trento  erano  dunque  interamente  accettate 
dalla  diocesi  d'Aquileia,  che  vi  aggiungeva  anche  alcune  ceri- 
monie speciali.  I  sinodi  aquileiesi  *  prescrivevano  in  quale  modo 
ì  matrimoni  dovevano  essere  registrati  e  imponevano  al  curato 
della  sposa,  dopo  la  celebrazione  del  matrimonio,  di  mandarne 
avviso  al  parroco  dello  sposo.  La  formula  di  notificazione  era 
semplicissima  con  poche  variazioni  da  paese  a  paese,  con  lievis- 
sime da  curato  a  curato. 

Le  notificazioni  indicavano  per  prima  cosa  dove  il  matri- 
monio era  stato  fatto,  essendo  possibile  celebrarlo  fuori  della 
chiesa,  alla  presenza  dei  testimoni  e  del  sacerdote.^  Le  disposi- 
zioni date  a  Trento,  riguardanti  la  registrazione  dei  matrimoni, 
non  furono  subito  seguite:  i  primi  Matrimonia  delle  chiese  di 
Udine  e  della  provincia  datano  dal  1566,  mentre  le  disposizioni 
sono  del  1563;  ma  i  matrimoni  contratti  senza  l'intervento  del 
sacerdote,  contro  i  quali  tanti  sinodi  provinciali  ^  lanciavano  sco- 
muniche scomparvero  del  tutto  in  Friuli  come  pure  scomparvero 
f  disordini  dell'età  precedente,  che  ancora  duravano  a  Venezia.* 
Ai  matrimoni  per  verta  de  presenti  si  premisero  ancora  i  patti 
dotali,  uguali  nella  forma  e  nei  capitoli  a  quelli  della  prima  metà 
dei  secolo  XVI,  soltanto  la  promessa  di  contrarre  matrimonio 
secondo  le  lodevoli  consuetudini  della  Patria,  della  Chiesa  Aqui- 
teiese  e  delia  santa  Romana  Chiesa  era  sostituita  da  quella  di 
contrarre  matrimonio  secondo  i  riti  del  concilio  di  Trento. 

Era  comune  tra  i  nobili  l'uso  di  partecipare  agli  amici  e  ai 
jwrenti  lontani  l'avvenuta  celebrazione  dei  matrimoni  dei  figli. 
La  letteratura  del  600  in  Friuli  è  ricca  di  questo  genere  episto- 
lare, fiorito  di  frasi  ridondanti,  di  manifestazioni  di  stima  e  d'af- 
fetto, in  fondo  alle  quali  trovava  posto  la  voluta  partecipazione 
de!  matrimonio  concluso.  Ci  sono  pure  esempi  di  orazioni  nu- 

•J  Detreti  dei  sinodi  (1605),  in  Opuscoli  storici,  voi.  IV,  ms.  in  Bibliot.  ArdTesco- 
vile  di  Udine. 

*  Matrimonio  C.  Sbroiavacca  e  F.  Fratina  {1566),  Matrimonia  1566-2598,  libro  l, 
ia  Ardi,  del  Duomo  di  Udine. 

*  F.  Brandileone,  Saggi  sulla  storia  del  matrimonio  in  Italia,  Milano,  1906,  p.  95. 

*  O.  Oallicciolli,  Delle  memorie  antiche  profane  ed  ecclesiastiche,  Venezia,  Fra- 
casso, 1795,  lib.  II,  cap.  XII. 


120  ALICI:   SACHS 

ziali  pronunciate  dai  testimoni  prima  che  fosse  chiesto  agli  sposi 
il  consenso.  L'uso  di  queste  orazioni  durava  dal  400  in  FriuU. 
Erano  brevi  discorsi,  che  ricordavano  la  solennità  del  matrimo- 
nio. Questa  forma  di  eloquenza  usata  dai  Greci  e  dai  JRomani 
continuò  in  Italia  nel  medio  evo  e  nel  rinascimento.'  L'orazione 
nuziale  era  sempre  quella  classica,  incominciava  con  l'invocazione 
a  Dio,  esprimeva  la  gioia  e  gli  auguri.  Come  derivazione  forse 
dell'orazione  nuziale,  nella  seconda  parte,  in  quella  cioè  che  ri- 
cordava la  nobiltà  della  sposa  e  la  valentia  dello  sposo,  si  hanno 
alla  fine  del  secolo  XVI  le  pubblicazioni  per  nozze. 

È  impossibile  ricordarle  tutte:  è  una  fioritura  continua  e  noiosa: 
ogni  nobile  che  va  sposa  trova  amici  conoscenti  e  preti,  che 
cantano  la  sua  bellezza,  che  augurano  felicità.  Ogni  gentiluomo 
che  prende  donna  trova  parecchi  amici  che  gli  augurano  eredi 
forti  e  valorosi  quanto  lui.  Dame  e  monache,  guerrieri  e  poeti 
si  provano  in  questo  genere  di  letteratura  :  gli  epitalami,  gli  ir»ni, 
i  sonetti,  le  canzoni  nascono  e  si  riuniscono  in  raccolte,  si  mol- 
tiplicano in  edizioni  di  lusso  offerte  agli  sposi  e  alle  famiglie 
amiche,  sopportabili  appena  fra  tanto  sfoggio  retorico,  perchè 
danno  qualche  notizia  sulle  feste  nuziali. 


IV. 

Le  feste  e  gli  usi  nuziali. 

Le  feste  che  accompagnano  le  nozze  dei  nobili  sono  splen- 
dide e  direi  quasi  solenni.  Non  raggiungono  la  magnificenza 
delle  feste  veneziane,*  né  i  castelli  della  Patria  potevano  offrire 
le  bellezze  naturali  di  Venezia,  le  regate  sui  canali,  le  fantastiche 
illuminazioni  dei  palazzi. 

I  castellani  altro  cercavano  per  le  loro  figlie  spose.  Anche  nel 
giorno  lieto  e  pacifico  delle  nozze,  i  friulani  si  mostrano  guer- 
rieri, quali  non  invano  desiderava  e  incitava  dal  seggio  del  Mag- 
gior Consiglio  il  reggente.  Ogni  castellano,  all'arrivo  o  alla  par- 
tenza delle  spose,  radunava  i  nobili  della  provincia  per  gare 
d'armi,  giostre,  tornei,  finti  combattimenti  e  assedi  ai  castelli. 
Ogni  rocca  abbandonata  ha  una  storia   di  guerra   e  d'assedio, 

1  F.  BRANDtLEONE,  Nuove  ricerche  sugli  oratori  matrimoniali  in  Italia,  in.  Rivistn 
storica  Italiana,  voi.  XII,  p.  619. 

'  J.  Morelli,  Delle  solennità  e  pompe  nuziali  già  usate  presso  li  veneziani,  Ve- 
nezia, Lassa,  1793. 


LE    NOZZE   IN    FRIULJ    NEI   SECOLI    XVI    E   XVII  J21 

finiti  i  quali  sorridente  e  gemmata  usciva  la  sposa  ad  accogliere 
lo  sposo,  che  la  doveva  portare  ad  un  altro  castello,  che  con 
altre  feste  l'avrebbe  accolta.  Ma  questi  castelli,  di  cui  ancora 
giunge  l'eco  della  ricchezza  e  della  bellezza  antica,  sono  finiti. 
Villalta,  Flambro,  Prodolone,  Solimbergo,  Pinzano,  Ragogna, 
famose  e  magnifiche  sedi,  dov'era  raccolto  quanto  di  più  forte 
e  di  più  bello  poteva  vantare  il  500  friulano,  dove  ai  rac- 
conti e  alle  gesta  d'arme  s'alternavano  i  giuochi  e  le  canzoni 
d'amore,  dove  si  ricercavano  in  ogni  maniera  e  per  ogni  occa- 
sione feste  magnifiche,  sono  in  rovina.  Sulle  loro  mura  s'arram- 
picano le  piante  per  nascondere  e  corrodere  gli  ultimi  affreschi 
visibili,  le  ultime  madonne  che  ancora  sorridono  e  impallidiscono 
fra  tanta  miseria  e  rovina.  Per  ricordare  e  immaginare  tutte  quelle 
feste  splendide,  tutte  quelle  spose  giovani,  che  scendono  nelle 
mattinate  radiose  dal  castello  avito,  ricordiamo  poche  feste  di 
cui  ancora  resta  notizia,  povere  descrizioni  che  danno  soltanto 
una  misera  immagine  e  un  desiderio  vano  della  bellezza  antica. 
Venceslao  di  Porcia  è  uno  dei  pochi  nobili  che  abbiano  spo- 
sate ragazze  forestiere.  Nel  settembre  del  1527,'  il  conte  partì 
dal  suo  castello  per  recarsi  a  Brescia  a  prendere  la  sposa.  Partì 
con  una  scorta  di  parenti  e  di  gentiluomini  per  rendere  più  so- 
lenne la  traduzione  della  castellana  novella.  Al  suo  seguito  c'erano 
un  cappellano  e  un  cancelliere  per  benedire  e  celebrare  le  nozze. 
Ci  meraviglia  che  il  conte  di  Porcia  portasse  con  sé  un  sarto, 
un  barbiere  e  parecchi  servi.  Il  viaggio  da  Udine  a  Brescia  fu 
compiuto  lentamente;  a  cinque  miglia  da  Brescia  il  fratello  della 
sposa  con  molti  gentiluomini  bresciani  andò  ad  incontrare  la 
compagnia,  che  giungeva  dalla  Patria.  A  un  miglio  dalla  città 
aspettava  il  padre  della  sposa  con  alcune  persone  notabili.  Si 
formò  un  regolare  corteo  e  lo  sposo  entrò  in  città  accanto  al 
suocero.  I  bresciani  erano  saliti  sulle  mura  della  città,  le  finestre 
e  ì  balconi  erano  gremiti  di  gente  che  volevano  vedere  lo  sposo. 
Alla  finestra  della  sua  casa  aspettava  la  sposa  «  ornata  che  dir 
«non  lo  potria»,  alle  aUre  finestre  stavano  signore  e  donzelle. 
Lucrezia  Martinengo  «  guardò  el  so  sposo  cum  la  so  barba 
«  rossa,  rubicondo,  et  lu  guardò  lei  cum  quel  viso  adorno  ed 
«  bocca  che  par  sempre  la  rida».  Con  questo  breve  sguardo  gli 
sposi  si  erano  visti  e  piaciuti,  il  matrimonio  era  ormai  preparato. 
Incominciarono  in  casa  della  sposa  i  festeggiamenti:  balli,  ban- 

»  A.   PURLILIESE,    Op.   Cit.,  p.    316. 


122  ALICE  SACHS 

Ghetti,  concerti,  che  si  seguirono  senza  posa.  Più  importanti  per 
noi  sono  i  festeggiamenti  che  si  fecero  alla  sposa,  al  suo  arrivo 
in  Friuli.  Essa  era  accompagnata,  oltre  che  dal  corteo  del  ma- 
rito, dal  fratello  e  da  molti  bresciani.  Dal  castello,  dove  la  sposa 
fu  accolta  con  «  festa  assai  de  sonare  e  ballare  »,  il  conte  condusse 
tutti  gli  invitati  a  Valvasone  con  una  magnificenza  maggiore 
della  solita,  appunto  per  mostrare  ai  forestieri  la  ricchezza  e 
l'ospitalità  della  Patria.  A  Valvasone  tutti  gli  abitanti  accolsero 
la  sposa  con  feste,  con  acclamazioni,  con  gioia,  usarono  genti- 
lezze a  tutti  i  Bresciani  per  far  piacere  alla  nuova  e  gentile  si- 
gnora. A  Valvasone  incominciarono  le  cacce,  intramezzate  da 
canti  e  suoni,  «ed  sollazzi  per  rallegrare  la  sposa».  Le  feste 
durarono  vari  giorni,  furono  tali  che  non  «  erano  stati  li  simili 
in  Friuli  »  e  i  bresciani  ritornarono  entusiasti  della  ricchezza  della 
Patria,  dell'ospitalità  del  Porcia. 

Riccarda  d'Arcano  era  stata  promessa  a  Francesco  di  Cordo- 
vado,  che  veniva  a  prenderla.*  II  castello  si  era  tutto  rivestito  di 
fiori  e  di  fronde,  i  servi  erano  saliti  sulle  torri  più  alte  per  pian- 
tarvi ì  rami  fioriti  e  i  vessilli  con  l'arma  dei  signori  d'Arcano. 
Su  ogni  merlo  della  triplice  cerchia  di  mura  un  fiore  indicava 
Popera  vigile  dei  coloni,  che  tutta  la  casa  avevano  ornata.  Per 
tre  giorni  le  campane  della  chiesa  avevano  suonato  e  i  familiari 
si  erano  raccolti  a  pregare  per  la  felicità  della  sposa.  AI  quarto 
giorno,  dall'alto  della  torre,  la  vedetta  diede  il  segnale  :  lontano 
tra  i  boschi  si  vedeva  luccicare  qualche  cosa,  erano  le  armi  e 
gli  elmi  dei  cavalieri  nemici  che  si  avvicinavano  a  gran  corsa. 
Il  signore  del  castello  diede  subito  gli  ordini.  I  corni  di  guerra 
suonarono,  i  guerrieri  erano  pronti,  nascosti  dietro  ai  merli, 
guardinghi  alle  feritoie.  Il  gran  portone  ferrato  fu  chiuso,  il  ca- 
stello era  in  assetto  di  guerra.  Più  vicine,  più  vicine  sotto  il 
poggio  squillavano  a  festa  le  trombe  nemiche.  Le  donne  di  casa 
andavano  e  venivano  per  preparare  la  sposa.  Vestita  dei  suoi 
abiti  migliori,  Riccarda  d'Arcano  apparve  finalmente  al  balcone. 
Portava  una  lunga  veste  verde  ricamata  d'oro,  un  velo  d'oro  le 
ricopriva  i  capelli  che  cadevano  inanellati  sulle  spalle,  le  perle 
le  ornavano  il  collo  e  la  testa.  Il  balcone  era  coperto  d'arazzi, 
festoni  di  fiori  cadevano  dai  merli  giù  fino  a  lei  quasi  a  recin- 
gerla. Così  essa  apparve  al  suo  signore  e  padrone  che  forse 
non  aveva  mai  visto  e  che  veniva  a  reclamarla.  Gli  uomini  gri- 

t  Delle  nozze  Riccarda  d'Arcano  e  Francesco  di  Cordovado  (1571),  in  Arch.  co. 
d'Arcano,  in  Rive  d'Arcano. 


LE   NOZZE   IN   FRIULI   NEI   SECOLI   XV!    E  XVII  !23 

darono  evviva,  lo  sposo  si  levò  il  cappello  piumato  e  guardò 
ta  donna.  Allora  essa  mandò  il  primo  saluto  giù  allo  sposo,  poi 
si  ritrasse.  11  castello  era  ancora  chiuso  per  lui,  con  la  forza  e 
con  l'armi  doveva  rendersi  degno  d'entrare  per  prenderne  la 
gemma  più  beila.  La  lotta  fu  lunga,  ben  tre  volte  tentarono  l'as- 
salto, i  guerrieri  d'Arcano  dall'alto  dei  merli  dominavano  la  si- 
tuazione. Per  tre  ore  la  pugna  continuò,  i  parenti  della  famiglia 
d'Arcano  difendevano  il  castello,  gli  amici  dello  sposo  aiutavano 
all'assalto;  alla  fine  per  necessità  o  per  generosità  il  castello  si 
arrese,  il  castellano  diede  il  segnale.  Due  valletti  vestiti  di  velluto 
cremisi  scesero  correndo,  il  portone  ferrato  fu  aperto,  il  padrone 
offriva  pace,  gli  assalitori  potevano  entrare.  I  cavalieri  percorsero 
il  tratto  fra  la  prima  e  la  seconda  cerchia  di  mura.  Il  corteo  ma- 
gnifico di  armi,  di  vesti,  di  cavalli  sfilò  davanti  ai  familiari  rac- 
colti: i  guerrieri  nemici  di  prima,  che  salutarono  e  s'inchinarono 
allo  sposo.  Sulla  seconda  porta  ad  aspettare  lo  sposo  stavano 
ì  castellani.  Francesco  di  Cordovado  scese  da  cavallo  e  salutò 
i  suoceri,  essi  l'accolsero,  lo  baciarono  e  lo  benedissero  come 
figlio.  11  corteo  si  mosse  ancora,  arrivò  alla  terza  cerchia,  le  don- 
zelle del  castello  lo  salutarono  cantando  le  più  cordiali  parole 
d'augurio,  le  più  dolci  parole  d'amore.  Mai  si  era  sentito  canto 
più  bello,  diretto  a  corteo  più  splendido  di  cui  sì  lungamente 
si  parlò  «et  che  pareva  a  tutti  meraviglia  grande».  Sulla  terza 
e  ultima  porta  finalmente  apparve  la  sposa.  Come  aveva  essa 
passato  il  tempo,  mentre  sotto  il  castello  si  combatteva  per  lei  ? 
Aveva  spiato  lo  svolgersi  del  combattimento?  Aveva  seguito  le 
mosse  del  suo  sposo,  o  aveva  passato  il  tempo  ad  adornarsi  ? 
È  probabile  questo,  poiché  essa  indossava  un  altro  vestito  di 
panno  paonazzo,  aveva  tutte  le  sue  gioie,  le  perle  magnifiche, 
che  avevano  appartenuto  a  tante  donne  d'Arcano.  Lo  sposo  la 
guardò  «  in  quella  sua  bocca  piccoletta  et  ne  li  occhi  chiari  »  e 
sorrise:  la  piccola  sposa,  la  nuova  castellana  del  suo  castello 
gli  era  piaciuta.  Non  sappiamo  invece  come  la  sposa  trovasse 
lo  sposo,  con  quale  animo  gli  desse  la  mano  per  condurlo  nella 
sala  maggiore  destinata  a  riceverlo.  La  sala,  ornata  di  specchi, 
con  la  grande  tavola  apparecchiata,  doveva  veramente  sembrare 
tm  giardino  incantato,  tanto  era  piena  di  fiori,  di  doppieri,  di 
luce.  Allora  incominciò  il  primo  banchetto,  mentre  una  musica 
invisibile  allietava  i  commensali. 

Non  credo  opportuno    ricordare    qui  tutto  il    lungo   pranzo, 
anche  perchè  non  sappiamo  come  fossero  preparati  e  serviti  i 


124  ALICE   SACHS 

cibi.  Un  libro  di  conti  ricorda  soltanto  la  quantità  della  roba, 
sufficiente  e  proporzionata  all'appetito  dei  guerrieri,  dopo  una 
lunga  cavalcatura  e  tre  ore  di  combattimento.  Finito  il  banchetto, 
i  castellani  condussero  lo  sposo  sulle  torri.  Nella  notte  stellata 
ammirarono  lo  spettacolo:  avanti  a  ogni  casa  vicina  dei  conta- 
dini, brillava  un  fuoco  di  gioia.  Più  lontana  e  più  lontana,  su 
ogni  collina  una  nuova  fiamma  appariva  e  cresceva.  Oltre  il 
bosco  apparvero  altri  fuochi,  altri  fuochi  ancora,  la  campagna 
sembrava  ardente  e  viva,  mentre  mandava  agli  sposi  il  suo  cantico 
di  fuoco.  1  castellani  vicini  videro  tutti  quei  fuochi  e  allora  da 
S.  Daniele  s'inalzò  magnifica  e  possente  una  fiamma,  da  Ragogna 
un'ahra  rispose,  lontano  oltre  il  Tagliamento,  Pinzano  accese  la 
sua  e  i  fuochi  si  unirono  a  festa,  mentre  imponente  dal  cortile 
del  castello  d'Arcano  un  altro  fuoco  s'alzava  per  rispondere  a 
tutti  quelli  auguranti,  e  attorno  al  fuoco,  come  attorno  ai  roghi 
della  Grecia  antica,  le  fanciulle  danzavano  gettando  legna  e  fiori, 
danzavano  mai  stanche  di  inni  e  di  canti.  A  poco  a  poco  i  fuochi 
si  spensero,  tutti  avevano  finita  la  loro  laboriosa  prima  giornata 
di  festeggiamenti.  Al  secondo  giorno  di  feste  arrivarono  gli  altri 
invitati  e  le  dame.  Allora  il  lusso  divenne  maggiore  e  più  vario. 
Ogni  donna  brillava  nella  sua  veste  dorata,  ogni  fanciulla  era 
un  fiore,  un  sorriso,  un  canto  che  s'univa  a  quello  delle  altre 
fanciulle.  .41  pranzo  del  secondo  giorno  c'erano  tutti  gl'invitati, 
le  dame  e  i  cavalieri  giunti  da  Udine  e  dai  più  lontani  castelli 
della  Patria,  per  prender  parte  alla  giostra  che  si  sarebbe  tenuta 
nel  pomeriggio.  I  giostranti  erano  divisi  in  due  schiere,  secondo 
il  colore  della  sopravveste.  Il  combattimento  fatto  nel  cortile  durò 
fino  al  tramonto.  Dalle  finestre  la  sposa  e  le  donne  guardavano, 
incitavano  e  tremavano  per  i  cavalieri  vincitori  o  vinti.  Finita  la 
giostra,  i  servi  girarono  con  i  rinfreschi,  la  sposa  aiutata  dalle 
donne  dispensò  a  tutti  confetti  e  marzapani,  con  pensiero  gen- 
tilissimo «  più  ne  dette  a  chi  perde  ».  Le  fanciulle  ripresero  i  canti, 
la  musica  ricominciò,  la  brigata  si  sparse  nel  giardino,  nel 
cortile,  tra  le  mura  a  conversare  e  a  passeggiare  fino  all'ora  del 
nuovo  pranzo.  Dopo  quello,  le  signore  cambiarono  veste  e,  <  odo- 
rate e  a  nuovo  »,  scesero  nella  sala  preparata  per  il  ballo.  Gli  sposi 
ballarono  primi,  poi,  a  poco  a  poco,  ogni  cavaliere  si  scelse  la 
dama,  la  festa  divenne  animata  e  durò  fino  alle  più  tarde  ore. 
Quando  gli  invitati  uscirono  di  nuovo  nel  cortile,  nei  campi  sot- 
tostanti morivano  gli  ultimi  fuochi,  che  i  contadini  avevano  acceso 
anche  quella  notte.  Il  terzo   giorno   passò  senza  speciali  festeg- 


LE    NOZZE    IN    FRIULI    NEI   SECOLI    XVI    E   XVH  125 

giamenti^  le  giovanettte  cantarono  ancora,  la  musica  ancora  suonò, 
ma  sui  merli  e  nelle  sale  i  fiori  appassivano  e  tutti  sentivano 
vicino  il  momento  della  partenza  ed  erano  tristi.  Valse  un  po'  a 
richiamare  la  brigata  il  pranzo  ricco  più  dei  precedenti,  che  durò 
quasi  fino  al  momento  della  partenza.  Riccarda  d'Arcano  nel 
cortile  de!  castello  salutò  i  familiari  e  gli  invitati.  Lo  sposo  l'aiutò 
a  salire  sul  cavallo  bianco  ricoperto  di  velluto,  salì  egli  pure  vi- 
cino, dietro  venivano  a  scorta  i  cavalieri.  Il  corteo  si  mosse  lenta- 
mente per  la  via  più  lunga,  gli  sposi  avanti  inchinandosi  e  ri- 
spondendo ai  saluti  della  folla.  Sul  portone  i  genitori,  i  parenti 
scesi  prima,  salutarono  gli  sposi.  Essi  uscirono,  il  portone  si 
chiuse,  Riccarda  d'Arcano  ne  era  uscita  ormai  per  avviarsi  ad 
un  altro  castello. 

Non  sappiamo  nulla  delle  feste  nuziali  dei  castellani  camici, 
per  farcene  una  povera  idea  dobbiamo  ricorrere  alla  leggenda.^ 

Ogni  sera  sotto  la  finestra  più  bella  di  una  bella  casa  di  Siajo 
una  dolce  e  profonda  voce  d'uomo  cantava: 

O  Ritute,  biele  frute, 
Fati  fur  su  chel  balcon: 
Une  sole  peraulute 
Tant  co  spieghi  la  passion. 

La  bella  invocata  s'affaccia  alla  finestra,  ascoltava  la  parola 
di  passione,  sorrideva  al  dolce  cantore  e  si  ritirava  in  fretta.  La 
voce  dell'uomo  risuonava  ancora  per  un  pezzo  fra  le  valli  pro- 
fonde, si  accompagnava  alla  voce  del  torrente,  gettava  lunga  e 
appassionata  l'ultima  nota  d'addio.  Le  altre  belle  udivano  il  saluto 
ividiando,  i  giovanetti  invidiavano  anch'essi.  Perchè  Paolo  e  Rita 
erano  entrambi  belli  e  forti.  Rita  aveva  riflessi  d'oro  nella  chioma 
nera,  e  un  indicibile  fascino  nel  volgere  lento  del  capo.  Paolo  aveva 
occhi  d'aquila  e  voce  di  flauto.  Quand'egli  partì,  chiamato  lontano, 
rinchiuse  nella  nota  d'addio  il  sogno  dì  una  casetta  sua,  sorta 
dai  guadagni  che  egli  si  proponeva,  dall'amore  che  lo  entusias- 
mava. 

Nei  giorni  successivi  chi  ascoltava  attentamente  sotto  la  casa 
di  Rita  sentiva  una  voce  mesta  cantare: 

Se  io  fos  une  sisille 
Ben  lontan  o  vores  là, 
Vores  là  suU'armadure 
La  ca  le  a  lavora. 

*  Questa  leggenda  è  stata  anche  raccolta  da  A.  Arboit,  Memorie  della  Carnia, 
Odiae,  1871,  r.  82. 


126  ALICE  SACHS 

Sulla  strada  rìpida  di  Siajo  che  c'è  oggi  d'insolito,  perchè 
tante  facce  nuove  e  tanti  nuovi  colori?  Qualche  cavallo  porta 
faticosamente  il  cavaliere  verso  il  castello  del  signore  e  le  trombe 
squillano,  invitando  e  acclamando.  Che  festa  di  luci,  che  gioia 
di  spari,  com'è  azzurro  il  cielo  sopra  il  candore  del  Pizzo  TimauJ 
il  Bùt  ha  qualche  fremito  nello  scroscio  e  sembra  desideroso 
di  volgere  il  corso  per  lambire  un  po'  di  quel  terreno  festante. 
Solo  la  torre  del  Moscardo  non  ha  cambiata  la  sua  aria  di  mesta 
castellana.  Il  vento,  che  le  corre  sempre  vicino,  ascolta  qualche 
cosa  da  lei  e  fugge  gemendo.  Sul  poggio  di  Siajo  salgono  intanto 
le  cavalcature.  I  valligiani  guardano  attoniti  le  belle  dame,  che 
dai  più  lontani  castelli  sono  giunte  per  le  nozze  del  potente  signore 
•  di  Siajo  e  di  Rita  la  bella.  Paolo  è  ancora  lontano  e  lo  credono 
morto.  Rita,  nel  suo  abito  bianco  da  sposa,  con  tutte  le  perle  delle 
antiche  castellane  di  Siajo,  sembra  ornata  e  rifulgente  di  lacrime 
brillanti.  Nei  suoi  occhi  c'è  tanta  nostalgia  per  qualche  cosa  che 
è  lontano  e  perduto.  Ella,  distratta,  s'inchina  alle  dame,  che  augu- 
rano, sente  appena  la  musica,  vede  appena  le  fanciulle,  che  cantano 
per  lei.  Ma,  quando  giungono  dalla  Carnia  e  dal  Friuli  i  pellegrini, 
i  vecchi  e  stanchi  pellegrini,  richiamati  dall'annunzio  di  quelle 
nozze,  dalla  speranza  dei  doni,  Rita  si  rianima.  Passa  tra  le  donne 
e  i  vecchi  benedicenti,  carica  d'involti,  prodiga  di  sorrisi.  Non 
mai  contessa  di  Siajo  fu  tanto  benefica  nelle  sue  nozze.  I  pel- 
legrini guardano  meravigliati,  il  conte  sorride,  le  gentildonne  bi- 
sbigliano. In  lode  della  sposa  s'alza  allora  un  canto,  dai  cortili  i 
servi  rispondono,  dalla  valle  le  fanciulle  cantano  anch'esse.  Ma  che 
avviene?  Il  canto  cessa,  e  quasi  si  fosse  cambiato  in  una  sola  voce 
d'angelo,  un  suono  di  liuto  dolce  e  doloroso  giunge  al  castello. 
Che  è,  chiedono  tutti?  Un  pellegrino  viene  da  paesi  lontani  e 
vuole  entrare.  Il  conte  di  Siajo,  nel  giorno  delle  sue  nozze,  non 
rifiuta  ospitalità  né  ad  amici  né  a  nemici,  per  tutti  c'è  il  rosso 
vino  delle  sue  cantine,  il  bianco  pane,  che  i  suoi  uomini  lavorano. 

Il  suonatore  di  liuto  entra,  è  bello  e  suona  come  un  angelo. 
I  suoi  occhi  fissano  sempre  la  sposa,  sembra  che  il  liuto  suoni 
da  sé,  raccogliendo  le  melodie  dall'anima  del  suonatore.  Dio  che 
note  di  spasimo!  Il  signore  ne  è  turbato,  perchè  il  pellegrino 
guarda  sempre  Rita  e  Rita  è  pallida  come  la  morte.  La  mestizia 
si  propaga,  nessuno  parla  più,  ma  il  liuto  racconta  una  storia 
di  disperata  passione,  ma  il  viandante  ha  negli  occhi  il  suo  se- 
greto. Egli  è  preso  dai  servi  ed  è  gettato  nel  fosso  del  castello. 
Altri  canti  s'intonano,  altre  musiche  cominciano,  ma  dal  burrone 


LE   NOZZE   IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E   XVII  127 

il  liuto  continua  la  sua  storia  di  disperata  passione,   ma  Rita  è 
sempre  più  pallida  e  più  intenta.  Ascoltate,  una  voce  canta: 

O  Ritute,  biele  frute, 
Fati  fur  su  chel  balcon: 
Une  sole  peraulute 
Tant  co  spieghi  la  passion. 

I  paesani  riconoscono  il  saluto  della  sera,  Rita  si  protende  al 
richiamo,  gli  invitati  impallidiscono.  Il  signore  con  un  ultimo  atto 
di  prepotenza  trae  la  sposa  nella  stanza  nuziale.  Ma  chi  volle 
al  mattino  vedere  la  sposa,  trovò  il  letto  vuoto  e  il  balcone 
aperto.  Se  si  protese  sul  fossato  e  ne  ascoltò  la  voce,  riconobbe 
il  suono  del  liuto  che  accompagnava  un  bacio  d'amore. 

Le  feste  nuziali  dei  nobili  udinesi  erano  simili  a  quelle  dei 
castellani,  nello  svolgersi  dei  divertimenti  tradizionali:  gioslre, 
balli,  mascherate,  banchetti.'  La  città  e  il  Consiglio  favorivano 
grandemente  i  divertimenti  guerreschi,  proponevano  più  volte 
all'anno  giostre  e  palii,  invitando  a  prendervi  parte  i  nobili  della 
Serenissima  non  solo,  ma  quelli  di  Ferrara  e  di  Bologna.  Du- 
rante il  secolo  XVI,*  le  giostre  proposte  dal  Comune  furono  fre- 
quenti, poi  diminuirono  per  sollevare  le  spese  dell'erario,  in  loro 
vece  furono  favorite  le  giostre  private.  Anche  la  comunità  di 
S.  Daniele  le  aiutava  con  regali,  con  denaro,  con  permessi  e 
facilitazioni  di  ogni  genere.^ 

Occasione  buonissima  per  queste  giostre  erano  le  nozze.  Si 
facevano  nei  cortili  dei  palazzi,  quand'era  possibile,  oppure  nella 
piazza  di  Mercatovecchio.  Vi  prendevano  parte  molti  invitati  ed 
era  possibile  che  anche  qualche  dama  gentile  combattesse  gio- 
stratrice  ammirata.^  Le  finestre  si  ornavano  di  tappezzerie  a  vari 
colori,^  nella  bella  piazza  tra  l'arco  del  Palladio  e  il  palazzo  di 
Giovanni  il  Ricamatore,  i  cavalieri  lottavano  in  onore  della  sposa. 
Era  grandissimo  il  concorso  del  popolo,  le  feste  nuziali  non  ral- 
legravano soltanto  la  famiglia  degli  sposi,  ma  chiamavano  par- 
tecipi i  rappresentanti  del  Comune,  offrivano  a  tutta  la  città  uno 
spettacolo  che  la  rallegrava  e  del  quale  era  vaga.  Per  i  bambini 

J  G.  M.  Panizzolo,  Panegirico  nelle  nozze  dei  magnifici  e  generosi  sig.  G.  Co- 
bentio  e  L.  di  Dorinbergo,  Gradisca,  1575. 

•  M.  A.  FiDUCio,  op.  cit.,  p.  49. 

3  Libri  di  tirar  al  Palio,  sec.  XVI,  Arch.  Com.  di  S.  Daniele  del  Friuli,  n.  72, 
A.  III. 

*  A.  Antonini,  Rime,  ras.  in  Bibl.  Coni,  di  Udine. 

6  Giostra  di  cavalieri  fatta  in  Udine  il  giorno  17  dell'aprile  1590  raccontata  da 
nn  anonimo  contemporaneo,  Udine,  1890. 


128  ALICE   SACHS 

del  popolo,  la  sposa  udinese  aveva  pronti  dolci  e  vivande  che 
dispensava  con  generosità.  11  giorno  delle  nozze  era  giorno  di 
abbondanza  e  di  gioia.  La  partecipazione  della  città  intera  alle 
nozze  durò  a  lungo,  anche  durante  il  600,  la  sposa  nobile  pas- 
sava, dispensando  doni  alle  popolane,  che  auguravano  e  bene- 
dicevano. Le  feste  di  Udine,  benché  non  differiscano  da  quelle 
nei  castelli,  perdono  un  po'  della  caratteristica  rozzezza.  Cessano 
gli  spari,  gli  urli,  i  fuochi  di  gioia.  Il  divertimento  unico  e  ne- 
cessario resta  la  giostra.  Le  rappresentazioni  di  drammi  e  di  fa- 
vole, che  tanto  piacevano  a  Venezia,  non  erano  incominciate  an- 
cora in  Friuli.  Incominciarono  alla  fine  del  500,  ma  il  pubblico 
non  le  amava  e  non  le  cercava.  Soltanto  nell'inverno  del  1595, 
per  le  nozze  di  Giovanni  Martino  Marchesi  e  di  Lucina  Savor- 
gnano,  fu  rappresentata  YElpina,  favola  pastorale  di  cinque  atti 
in  versi  dell'udinese  Vincenzo  Giusti.'  VElplna  è  andata  per- 
duta: non  abbiamo  quindi  idea  di  quest'unico  trattenimento  dram- 
matico, in  occasione  di  nozze.  Dagli  altri  lavori  del  Giusti,  poeta 
mediocrissimo,  si  arguisce  che  anche  VElplna  non  era  un  capo- 
lavoro letterario.  Oltre  aWElpina,  si  fecero  molte  feste  nel  pa- 
lazzo Marchesi.  Le  sale  magnifiche  ricoperte  di  cuoio  rosso,  di 
damasco,  di  velluti  e  rasi  di  diversi  colori,  «  per  la  grandezza 
«  del  sito,  per  la  bellezza  delle  fabbriche,  per  l'ordine  dell'archi- 
«  tettura,  per  l'artificio  delle  pitture  e  sculture  di  mano  di  mae- 
«  stri  eccellentissimi  et  per  la  magnificenza  di  molti  altri  nobilis- 
«  simi  et  preziosissimi  ornamenti,  rendeva  gran  meraviglia  e  stu- 
«  pore  agli  occhi  dei  riguardanti  ».*  In  queste  sale  per  vari  giorni 
furono  dati  concerti,  ai  quali  fu  invitato  il  fiore  delle  lettere  e 
della  nobiltà  udinese.  Vi  convennero  le  più  belle  ed  eleganti 
dame  di  Venezia,  che  portarono  il  lusso  delle  vesti,  la  raffina- 
tezza dei  gusti,  che  le  nobili  della  Patria  non  avevano  raggiunto. 
Nell'ampio  cortile  del  palazzo  si  fecero  i  tornei,  ai  quali  presero 
parte  tutti  i  cavalieri  invitati,  soltanto  come  intermezzo  alle  gio- 
stre si  rappresentarono,  in  vari  giorni,  i  cinque  atti  deWElpina. 
Le  descrizioni  delle  feste  nuziali  udinesi  sono  tanto  sommarie 
che  possiamo  immaginarle  più  che  seguirle  nel  loro  svolgersi.  La 
famiglia  Marchesi  entrata  di  fatto,  se  non  di  nome,  nella  vera 
nobiltà  udinese,  per  la  sua  condizione  e  per  la  sempre  crescente 

1  D.  Ongaro,  Dei  giochi  militari  che  hanno  avuto  corso  in  Friuli,  Udine,  del 
Fedro,  1663,  p.  XXVHI. 

2  J.  Bratteolo,  Rime  di  diversi  elevati  ingegni  della  città  di  Udine,  Udine,  1597, 
dedica. 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI   SECOLI    XVI    E   XVII  129 

ricchezza,  dava  i  festeggiamenti  più  ricchi  e  più  vari.  Nfelle  nozze 
di  Caterina  Marchesi  e  di  Giulio  delia  Torre  nel  1601,  si  abbellì 
il  palazzo,  che  doveva  accogliere  i  più  illustri  cavalieri  vene- 
ziani e  friulani.  Si  prepararono  giostre  e  concerti,  i  quali  dove- 
vano durare  varie  settimane.  Il  secolo  XVII  è  più  mite  perchè 
più  debole.  La  smania  guerresca  dei  secoli  precedenti,  dei  di- 
vertimenti a  base  di  colpi  di  lancia,  restava  ancora,  ma  soltanto 
nei  castelli  che  continuano  a  solennizzare  le  nozze  con  giostre 
e  tornei. 

I  nobili  udinesi  e  quei  castellani  che  si  erano  stabiliti  in 
città,  cercano  divertimenti  meno  faticosi  e  forse  anche  meno  co- 
stosi, riducendoli  a  balli,  a  banchetti.  Le  giostre  durano  ancora, 
ma  non  erano  più  di  prammatica  come  nel  500  in  ogni  matri- 
monio nobile.  Si  ricercava  di  più  il  lusso  delle  vesti  e  della  casa 
e  prendono  maggior  sviluppo  i  divertimenti  musicali,  che  nel  se- 
colo precedente  si  riducevano  al  solo  canto.  Le  nozze  di  Sulpizia 
Florio  e  Torrismondo  della  Torre  del  166Q,  sembrano  riunire  il 
vecchio  e  il  nuovo,  la  raffinatezza  degli  ultimi  anni  del  600  e  la 
forza  cara  ai  tempi  passati.  Ai  concerti  eseguiti  nelle  superbe 
sale  di  casa  Florio,^  seguirono  banchetti  dati  con  lusso  di  vi- 
vande, di  dolci  e  di  vini,  e  anche  con  ricchezza  di  stoviglie,  di 
maioliche,  d'argenti  e  di  cristalli. 

Ci  fu  una  giostra,  e  vi  presero  parte  tutti  i  nobili  invitati. 

Questi  in  truppe  guerriere 

Tripartiti  in  drappelli, 

Hor  raccolti  in  difesa, 

Hor  sortiti  in  offesa 

E  seguendo  chi  fugge, 

E  fuggendo  chi  insegue 

Vedi  rappresentar  d'un  finto  Marte 

A  pieno  e  gli  usi  e  l'arte. 

A  questa  giostra  prese  parte  anche  lo  sposo  riuscendo  vinci- 
-tore,  e  la  vittoria  fu  ritenuta  da  tutti  un  segno  auspicatissimo  per 
la  felicità  della  nuova  famiglia.  Dopo  la  giostra,  gli  sposi  par- 
tirono per  Sagrado,  loro  nuova  residenza.  I  Torriani  passarono 
per  le  vie  di  Udine  seguiti  da  un  lungo  corteggio  di  dame  e 
cavalieri.  Alcuni  accompagnarono  gli  sposi  fino  alle  mura  della 
città,  altri  li  seguirono  fino  a  Sagrado,  dove  i  parenti  accolsero 

»  Serto  pomposo  et  immortale  tessuto  di  fiori  odoriferi  colti  dalle  muse  negli 
amcnissimi  giardini  di  Parnaso  per  coronare  i  felicissimi  imenei  dell'Ili,  sig.  T. 
Della  Torre  e  S.  Contessa  Torrìana  nata  Floria,  Udine,  Schiratti,  1669. 


130  ALICE   SACHS 

tutti  con  l'ospitalità  usuale.  I  festeggiamenti  fatti  agli  sposi  non 
si  possono  «  solennizzar  con  rime  » .  Ma  questi  grandi  festeggia- 
menti si  ridussero  a  interminabili  banchetti. 

Le  nozze  dei  borghesi  erano  solennizzate  semplicemente  con 
balli  e  banchetti,  ai  quali  interveniva  il  maggior  numero  possi- 
bile di  invitati.  I  banchetti  nuziali  erano  fatti  con  lusso  e  ab- 
bondanza. Come  per  tutti  gli  italiani  del  rinascimento  *  erano 
il  lusso  preferito,  per  il  quale  si  sostenevano  volentieri  spese 
considerevoli.  La  cura  per  i  banchetti  nuziali  incomincia  nella 
ricerca  di  un  abile  cuoco  e  di  un  valente  scalco,  c'erano  cuochi 
e  scalchi  che  si  prestavano  in  simili  occasioni,  altri  erano  ceduti 
dalle  famiglie  nobili,  anche  il  cuoco  del  vescovo  si  prestava  a 
preparare  il  banchetto  nuziale.*  Le  stanze  da  pranzo  si  ornavano 
con  un  lusso  che  diventava  sempre  maggiore.  Si  ricerca  l'armo- 
nia dei  colori,  la  profusione  di  fiori  e  di  piante,  di  argenti,  di 
profumi,  di  acque  odorose  per  le  mani.  I  candelabri,  di  cui  sono 
ricchi  i  prestamenti,  rallegravano  ogni  tavola;  i  piatti,  che  ogni 
famiglia  possedeva,  erano  sufficienti  al  numero  degli  invitati,  le 
coppe  di  Murano,  le  maioliche  lavorate  comparivano  e  allieta- 
vano ogni  banchetto.  L'uso  della  forchetta,  che  in  Italia  divenne 
comune  soltanto  verso  la  fine  del  500,'  era  abbastanza  diffuso 
in  Friuli  non  soltanto  tra  le  classi  più  elevate,  ma  anche  tra  i 
popolani.  Questa  raffinatezza  era  passata  al  Friuli  da  Venezia, 
che  conosceva  e  usava  la  forchetta  fino  dal  XV  secolo.  La  ma- 
niera di  preparare  i  cibi  formava  un'arte  speciale,  per  la  quale 
non  mancavano  i  trattati.  Il  numero  delle  vivande  era  sempre 
abbondante  e  molti  erano  i  pesci  e  le  ostriche.  Su  tutto  si  met- 
tevano le  droghe:  Venezia  aveva  il  monopolio  delle  spezie,  e 
nella  Patria  si  faceva  spreco  della  ricchezza  della  Serenissima. 

Le  spese  per  ginepro,  pepe,  garofani,  noce  moscata,  sono 
rilevanti  in  ogni  pranzo:  dalla  loro  maggiore  o  minore  profu- 
sione si  deduceva  la  diversa  ricchezza  degli  ospiti.  Nel  600  si 
abusò  dei  dolciumi:  confetti,  marzapani,  pignocadi,  pasticci  e 
dolci  di  ogni  genere  entrano  in  numero  considerevole  in  ogni 
pranzo  nuziale.  I  vini,  di  cui  era  ricco  il  Friuli,  erano  abbon- 
danti e  i  brognoli  famosi  anche  a  Venezia,  erano  i  preferiti. 

Il  ballo  era  il  divertimento  più  cercato,  una  vera  passione  del 
ballo  sembrava  aver  invaso  il  Friuli:  ballavano  tutti,  nobili  bor- 

1   E.  RODOCANACHI,   Op.  Cit.,  p.  76. 

«  S.  DI  Strassoldo,  op.  cit.,  p.  57. 

3  L.  Stecchetti,  La  tavola  e  la  cucina  nei  sec.  XIV  e  XV,  Firenze,  1884,  p.  8. 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI   SECOLI   XVI    E   XVII  131 

ghesi  e  popolani.  Invano  i  sinodi  aquileiesi*  gridavano  contro 
lo  scandalo,  invano  gli  statuti  cercavano  di  evitarlo.  I  balli  con- 
tinuavano, dati  dalla  stessa  comunità  di  Udine.  Si  seguivano 
senza  posa  nelle  stanze,  nelle  sale,  sulle  piazze,  nelle  vie  e  nei 
cortili,  ogni  paese  aveva  i  suoi  balli  speciali:  ìsl  furlana,  la  staira, 
la  monferrina,  la  ziguzaine,  la  schiava,  il  ballo  resiano.  A  questi 
balli  friulani  si  univano  quelli  venuti  da  fuori,  che  trovavano 
larga  accoglienza  fra  i  nobili. 

Mentre  per  i  nobili  e  per  i  borghesi  la  festa  nuziale  aveva 
l'unico  scopo  di  salutare  gaiamente  e  con  lusso  la  giovane  che 
se  ne  andava,  la  festa  nuziale  dei  contadini  voleva  ricordare  sem- 
pre i  nuovi  doveri  ai  quali  la  sposa  si  preparava,  mostrandole 
in  quel  primo  giorno  di  vita  nuova  la  missione  sua,  mite  e  grande 
missione  di  lavoro  e  di  pace.  Descriviamo  queste  feste  nuziali 
del  popolo,  come  restano  ora  in  pochi  paesi  conservatori  ;  da 
qualche  accenno  trovato  nelle  poesie  friulane  del  secolo  XVII 
possiamo  dedurre,  che  le  feste  del  600  non  differiscono  molto 
da  quelle  dei  contadini  d'oggi. 

1  preparativi  per  la  festa  nuziale  incominciavano  alcuni  giorni 
prima  del  matrimonio,  col  lavoro  di  riordinare  e  pulire  la  casa, 
per  renderla  degna  di  ospitare  gli  invitati  e  la  futura  suocera 
che  dall'ordine  che  regna  nella  casa  paterna  può  immaginare 
quello  che  regnerà  nella  benedetta  casa  comune.  Nelle  parti  me- 
ridionali del  Friuli  la  vera  festa  nuziale  incomincia  alla  vigilia  del 
matrimonio,  quando  lo  sposo  con  alcuni  amici,  con  un  carro  ti- 
rato da  due  forti  giovenchi,  ornati  di  fiori  e  di  nastri  va  a  pren- 
dere l'arca  (la  cassa  contenente  il  corredo).  L'arca  fra  canti  e 
grida  di  giubilo  è  recata  alla  casa  dello  sposo,  sopra  ad  essa 
sono  messi  gli  oggetti  più  belli,  perchè  siano  ammirati  da  tutto 
il  paese. 

L'esposizione,  che  i  nobili  facevano  in  una  stanza  la  sera  prima 
del  matrimonio,  è  imitata  dai  contadini,  che  mettono  la  rossa 
coperta  del  letto  sul  carro  infiorato,  appesa  su  in  alto,  perchè 
fiammeggi  nella  grande  luce  del  sole  o  sventoli  nella  gloria  di 
un  tramonto  fra  la  campagna  e  i  monti  friulani.  La  sfilata  def 
cittadini  davanti  alle  gioie  e  alle  vesti  della  sposa  ricca,  si  con- 
verte nella  campagna  in  una  passeggiata  dell'arca  che  passa  fra 
il  popolo  che  grida,  ammira,  augura.  L'arca  è  accolta  dal  suocero, 
lo  sposo  intanto  offre  agli  amici  il  suo  vino  migliore  si  rifanno 

1  G.  Marcuzzi,  op.  cit.,  p.  253. 


132  ALICE  SACHS 

gli  auguri  e  per  quella  sera    il  corteo  si  scioglie  per   ritrovarsi 
il  giorno  dopo. 

il  giorno  delle  nozze  la  sposa  del  600  vestiva  un'ampia 
gonna  a  fondo  scuro  sparso  di  fiorellini,  un  corpetto  dello 
stesso  colore  molto  scollato  e  senza  maniche,  dal  quale  usci- 
vano le  maniche  e  un  pezzo  della  camicia  bianca.  Portava 
in  testa  un  fazzoletto  di  seta  bianca,  indossava  un  giubbino 
di  panno  o  di  velluto  a  colori  vivaci,  rosso  o  turchino,  un 
grembiule  ornato  di  fettucce  a  diversi  colori.  La  gonna  un 
po'  corta  lasciava  vedere  le  calze  rosse,  verdi  o  gialle.  Le  belle 
trecce  nere  giravano  attorno  al  capo,  in  un  largo  giro,  in 
modo  che  i  capelli  si  vedevano  in  parte  uscenti  dal  fazzoletto 
annodato.*  Lo  sposo  portava  calzoni  corti  fino  al  ginocchio,  una 
giubba  corta  davanti  e  più  lunga  dietro,  una  grande  cravatta, 
un  ampio  cappello  di  feltro  nero.  La  celebrazione  del  matrimo- 
nio avviene  alla  mattina,  il  corteo  nuziale  ritornava  dalla  chiesa 
alla  casa  della  sposa,  passando  tra  una  schlamete  sparsa  dalle 
fanciulle  del  paese,  sotto  archi  di  sempreverde  e  di  bosso.  Ap- 
pena ritornati  a  casa,  incomincia  il  pranzo  nuziale. 

Tra  i  contadini  generalmente  benestanti,  i  quali  per  le  feste 
di  nozze  non  devono  sostenere  altre  forti  spese  e  che  hanno 
molti  prodotti,  il  pranzo  nuziale  è  abbondante.  Nel  600  consi- 
steva in  un  arrosto  di  vitello  e  di  pollo  condito  con  pinoli  e 
mandorle,  in  molta  carne  in  umido.  Erano  tradizionali  i  gamberi, 
di  cui  sono  ricchi  i  ruscelli  del  Friuli  e  le  trote  abbondanti  nel 
Tagliamento  e  nei  suoi  affluenti.  Si  tralasciava  mal  volentieri  la 
frittura  di  glavedon,  un  piccolo  pesce  abbondante  negli  stagni. 
Era  in  uso  pure  la  confezione  :  una  conserva  di  frutta  e  miele 
condita  con  anici  e  coriandoli.  I  dolci  e  i  vini  erano  pure  ab- 
bondanti.* Molti  cibi  del  pranzo  nuziale  erano  e  sono  portati  da 
parenti  ed  amici  come  regalo  di  nozze.  Il  regalo  preferito  era  il 
croccante,  un  dolce  piramidale  raffigurante  castelli  e  case,  vuoto 
internamente,  sotto  al  quale  s'imprigionavano  uccelli  che  poi 
prendevano  il  volo,  e  dal  quale  i  presenti  traevano  gli  auguri 
per  la  nuova  famiglia.  Dopo  il  pranzo,  la  sposa  usciva  sull'aia, 
e  ai  suono  dei  pifferi  incominciava  il  ballo.  Quello  preferito  era 
la  farlatuLy  ma  nel  600  era  nuovissimo  e  si  ballava  volentieri  il 
mattazin?  La  danza  durava  varie  ore,  poi  tutti  gli  invitati  accom- 
pagnavano gli  sposi  alla  casa  nuziale.  Il  modo  con  cui  la  sposa 

1  e.  Veceluo,  op.  cit.   p.  144. 

*  E.  DI  CoLLOREDO,  Catizotie  in  occasione  di  nozze,  in  Poesie  scelte  edite  ed  inedite, 
Udine,  1828,  p.  179. 

3  Canzone  friulana  del  secolo  XVll  di  anonimo  udinese,  in  Pagine  friulane,  II,  n.  1. 


LE    NOZZE    IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E  XVll  133 

era  accolta  variava  da  paese  a  paese.  Quasi  dappertutto  la  suo- 
cera aspettava  il  corteo  sulla  porta  di  casa.  Oli  oggetti  che  te- 
neva simbolicamente  in  mano  variavano.  Nella  valle  d'Arzino  la 
suocera  si  presentava  con  un  fuso  in  mano.  La  sposa  lo  pren- 
deva subito  e  filava  per  mostrare  la  sua  capacità;  la  suocera  le 
prendeva  le  mani,  dimostrando  così  di  accoglierla  come  figlia, 
e  la  faceva  entrare  nella  casa  ormai  sua. 

In  altri  paesi  la  cerimonia  era  un  po'  cambiata,  la  suocera  si 
presentava  con  la  scopa  in  mano  e  incominciava  a  scopare  la  cu- 
cina, la  sposa  si  opponeva.  Avveniva  una  piccola  lotta  t^a  suo- 
cera e  nuora,  la  quale  riusciva  vincitrice.  Altre  volte  la  suocera 
si  presentava  con  un  mazzo  di  chiavi  per  offrirle  alla  sposa. 
Essa  si  guardava  bene  dall'accettarle,  perchè  quest'atto  avrebbe 
dimostrato  che  desiderava  far  da  padrona  in  quella  casa,  levando 
il  primato  che  spettava  alla  madre  del  marito. 

Nel  Friuli  occidentale  si  regalava  alla  sposa  una  gallina,  lo 
sposo  la  prendeva,  le  tagliava  la  testa,  schiacciandola  contro  il 
muro  e  gridando:  '  Morte  alla  gallina,  viva  la  sposa!  '  La  gallina 
simboleggiava  l'abbondanza  che  regnava  nella  famiglia.  Le  co- 
gnate, le  donne,  aiutavano  la  sposa  a  levare  la  coperta  dal  letto, 
quella  stessa  coperta  che  era  stata  esposta  sul  carro  infiorato. 
Nel  Friuli  orientale  la  sposa,  appena  uscita  di  chiesa,  fuggiva 
per  correre  a  rinchiudersi  nella  sua  casa,  dove  l'aspettava  il 
padre.  Giungeva  lo  sposo  chiedendo  se  in  quella  casa  si  era 
rifugiata  una  colomba.  Il  padre  rispondeva  di  non  aver  visto 
nessuno.  Il  dialogo  continuava,  finalmente  la  sposa  usciva  e  dal 
padre  era  presentata  al  marito.  Dopo  questa  specie  di  consegna, 
che  può  ricordare  le  antiche  costumanze  longobardiche,  la  sposa 
entrava  senza  altri  finti  impedimenti  nella  casa  del  marito.  Nella 
valle  del  Meduna  si  facevano  quasi  due  feste  nuziali.  Una  il 
giorno  degli  sponsali,  quando  i  genitori  della  ragazza  davano 
il  consenso  al  matrimonio  futuro,  e  questa  si  chiamava  le  prime 
nozze.  Questa  festa  consisteva  in  una  cena,  alla  fine  della  quale 
il  fidanzato  faceva  la  formale  domanda  ai  genitori  della  ragazza. 
Il  giorno  delle  vere  nozze,  lo  sposo  e  gli  amici  andavano  a  pren- 
dere la  sposa.  Dopo  la  celebrazione  del  matrimonio  si  formava 
il  corteo  che  andava  alla  casa  della  sposa.  Durante  il  tragitto  il 
compare  offriva  confetti  agli  amici  e  ai  compaesani.  Il  corteo, 
come  in  tutti  gli  altri  paesi,  procedeva  tra  il  rumore  più  vario  e 
festoso,  lo  scampanio  delle  campane,  lo  sparo  degli  archibugi, 
i  canti,  gli    evviva.  La    sposa    restava  con   i   genitori,    il  primo 


134  ALICE  SACHS 

giorno  di  matrimonio  alla  sera  i  parenti  venivano  a  prenderla 
per  accompagnarla  alla  sua  nuova  casa.'  L'aspettava  il  suocero, 
che  s'induceva  ad  aprire  la  porta  soltanto  dopo  esser  stato  assi- 
curato che  facendolo  compiva  un'opera  buona;  dava  cioè  rifu- 
gio a  poveri  pellegrini  stanchi  che  temevano  di  passare  la  notte 
all'aperto.  Allora  la  porta  si  apriva  e  si  presentava  alla  sposa, 
simbolo  forse  della  futura  maternità,  un  bambino.  La  sposa  lo 
prendeva,  lo  baciava  e  riceveva  poi  la  benedizione  dai  genitori 
del  marito.  Dopo  il  pranzo  e  il  ballo,  la  festa  era  finita.  In  Car- 
nia,  quando  il  corteo  nuziale  usciva  dalla  chiesa,  si  trovava  sbar- 
rato il  passo.  Un  compaesano  mascherato  affermava  che  gli 
sposi  non  potevano  passare  se  non  avevano  le  carte  in  regola. 
E  osservava  se  la  donna  portava  in  dito  la  vera.  Allora  permet- 
teva il  passaggio  al  corteo  a  condizione  però  che  lo  sposo  la- 
sciasse una  piccola  somma  chiamata  paia  il  traghet  (pagare  il 
passaggio).  Anche  questa  usanza  risente  della  sua  lontana  origine 
longobarda:  quella  per  cui  i  forestieri  dovevano  pagare  una 
somma  maggiore  era  una  corruzione  degli  ordinamenti  statutari 
che,  come  abbiamo  visto,  proibivano  alle  ragazze  ricche  il  ma- 
trimonio con  forestieri.  Anche  in  Carnia  nelle  feste  nuziali  si 
faceva  il  ballo,  mentre  continuavano  i  suoni  e  l'allegria  la  sposa 
era  accompagnata  nella  stanza  nuziale. 

Il  giorno  dopo  le  nozze,  in  Carnia  e  in  Friuli,  essa  prendeva 
non  soltanto  il  fuso  e  la  scopa,  ma  l'aratro  e  la  vanga,  essa 
diventava  il  docile  animale  da  soma,  si  dedicava  tutta  alla  sua 
vita  di  sacrifizio. 

V. 

Le  leggi  suntuarie  che  si  riferiscono  al  matrimonio. 

In  nessun  paese  d'Europa^  il  lusso  era  tanto  raffinato  e  ricer- 
cato come  in  Italia.  Si  cercava  non  solo  la  ricchezza  e  lo  sfarzo, 
ma  il  buon  gusto  e  si  raggiunse  una  perfetta  eleganza.  L'arte 
era  in  tutto  :  nelle  vesti,  nelle  case,  nelle  carrozze,  nelle  livree, 
nei  più  piccoli  e  utili  oggetti.  Ma,  se  il  lusso  nella  giusta  misura 
rappresenta  un  felice  grado  di  ricchezza  e  di  civiltà,   portato  al 

1  G.  L.  BiDOLi,  Costumi  nuziali  nella  valle  di  Tramonti,  in  Pagine  friulane, 
anno  XI,  n.  1. 

8  J.  BuRCKARDT,  La  civiltà  del  secolo  del  rinascimento  in  Italia,  Firenze,  1876, 
p.  130. 


LE   NOZZE    IN    FRIULI    NEI    SECOLI    XVI    E    XVii  135 

grado  massimo,  qual'era  nel  500,  tradisce  uno  stato  di  corruzione, 
un  desiderio  del  piacere  e  di  godere  la  vita  in  tutti  i  modi  possi- 
bili, trascurando  doveri  e  lavori  più  seri.  Lo  spreco  che  si  faceva 
di  tempo  distoglieva  da  altre  e  più  gravi  cure,  si  consumava  il 
denaro  accumulato  e  non  prodotto.  Contro  questo  stato  di  cose 
sorsero,  a  frenare  le  spese  soverchie,  i  legislatori.  In  ogni  città 
d'Italia  si  trovano  alcune  leggi  suntuarie,  destinate  a  reprimere 
V  invadente  smania  di  godimento  la  ricerca  esagerata  della  bellezza 
e  dell'eleganza.  Le  nozze  offrivano  la  migliore  occasione  per 
mostrare  le  vesti  più  ricche,  per  mostrare  la  magnificenza  della 
casa. 

A  frenare  le  spese  soverchie  in  occasione  di  nozze,  ogni 
città  d'Italia  aveva  dal  secolo  XV  le  sue  leggi  suntuarie.  E  inu- 
tile ricordare  Firenze  e  Venezia,  centri  magnifici  d'arte  e  di  bel- 
lezza, che  nelle  feste,  nei  doni,  nei  corredi  raggiungevano  quel 
grado  di  raffinatezza  per  il  quale  la  festa  diventa  un  godimento 
puramente  artistico.  E  Firenze  e  Venezia  erano  ricche  di  leggi 
suntuarie.  Anche  molte  città  minori  avevano,  dai  primi  anni  del 
500,  le  loro  leggi  suntuarie,  che  regolavano  minutamente  le  feste 
nuziali,  il  numero  degli  invitati,  quello  dei  regali,  il  lusso  delle 
vesti  della  sposa  e  delle  dame  che  l'accompagnavano.*  I  friu- 
lani non  dedicavano  tanto  tempo  a  leggi  così  particolareggiate.* 
Il  popolo,  finito  il  triste  e  sanguinoso  periodo  della  dominazione 
dei  patriarchi,  si  era  risvegliato  a  una  vita  laboriosa  e  tranquilla. 
Alla  povertà  di  alcune  province  del  dominio  veneto,  faceva  con- 
trasto l'opulenza  della  Patria  ricca  di  grani,  di  vino,  fiorente  di 
industria,  la  più  ragguardevole  del  dominio  e  quindi  «  più  delle 
altre  cara».'  La  vita  dei  friulani  non  aveva  raggiunto  ancora 
una  raffinatezza  e  un  lusso  eccessivo,  il  denaro  era  considerato 
nel  suo  giusto  valore  e  non  si  sprecava.  Mentre  da  tutte  le  parti 
si  seguivano  senza  tregua  le  leggi  suntuarie,  la  Patria  non  aveva 
e  non  sentiva  bisogno  delle  sue.  Le  prime  furono  proposte  nella 
seconda  metà  del  500  e  si  riferivano  al  lusso  delle  donne.  Le 
leggi  suntuarie  del  1567''  proibivano  le  vesti  d'oro  o  d'argento, 
di  velluto,  di  panno,  di  seta,    «  stoccati,  saldati,  pontisati   né  di 

1  A.  Cassa,  op.  cit.,  p.  139. 

*  Di  questo  periodo  conosciamo  soltanto  le  leggi  parlamentari  del  1342  contro 
il  lusso  nei  vestiti  :  Constitutiones  Patrìae  Foruulii,  ed.  Joppì,  Udine,  1900,  p.  100, 
doc.  XVII. 

3  P.  MOLMENTi,  //  dominio  veneto  in  Friuli,  in  Nuovo  Archivio  veneto,  t.  VI, 
p.  1,  p.  93. 

*  Annalium  cit.,  t.  LVII,  f.   47  sgg. 


136  ALICE   SACHS 

più  colori  tessuti  né  vesti  con  ricami,  frastagli  o  disegni  di  sorte 
alcuna».  Erano  proibiti  nei  prestamenti  più  di  quattro  vestiti 
di  seta,  dei  quali  uno  poteva  esser  di  velluto  ;  oltre  a  questi 
quattro,  era  permessa  una  pelliccia.  Si  proibivano  le  fodere  di 
martora,  di  lupo,  di  zibellino,  gli  ermellini,  le  volpi  bianche  sia 
sulle  spalle  «  né  anco  in  mano».  Come  semplice  riparo  al  freddo, 
erano  permessi  gli  zibellini  che  non  valessero  più  di  dieci  du- 
cati. Non  si  potevano  portare  vezzi  di  perle  che  costassero  più 
di  cento  ducati,  e  catene  d'oro  superiori  ai  venticinque.  Due 
anelli  soltanto  oltre  la  vera.  Erano  proibiti  i  braccialetti  troppo 
ricchi,  gli  anelli  e  le  catene  dovevano  essere  d'oro  senza  smalto, 
muschio  o  ambracane. 

Non  si  potevano  portare  gli  orecchini  con  pietre  preziose, 
le  perle  vere  o  false  che  fossero,  sui  veli  sulle  cuffie  e  in  testa. 
Alle  spose  era  fatta  qualche  concessione  poiché  era  lecito  *  portare 
il  giorno  dello  sposalizio,  e  per  due  anni  dopo,  un  vezzo  di  perle, 
gli  orecchini,  la  catena  d'oro  senza  smalto.  Si  permettevano  le  ca- 
micie ricamate  soltanto  allo  scollo  e  alle  maniche,  ma  si  vietavano 
gli  scialli  e  gli  altri  ornamenti  da  collo  superiori  ai  quattro  du- 
cati, le  calze  e  i  guanti  ricamati  in  seta  e  profumati.  Le  proibi- 
zioni severe  erano  fatte  a  tutte  le  donne,  nessuna  eccettuata: 
«  non  solamente  le  donne  che  hanno  abitazione  in  Udine  sian 
«  tenute  osservar  le  cose  capitolate  e  terminate  di  sopra,  ma  anco 
«  altre  donne  che  venissero  in  questa  città  non  possono  portar 
«alle  feste  pubbliche  e  private  cose  proibite».  Le  leggi  della 
Patria  erano  più  imparziali  di  quelle  della  Serenissima,  che  di- 
spensavano dall'osservanza  delle  leggi  contro  il  lusso  il  Doge 
la  Dogaressa,  i  loro  parenti  che  abitassero  in  palazzo  e  le 
mogli  degli  ambasciatori.^  Ma  benché  le  leggi  friulane  fos- 
sero imposte  ugualmente  a  tutti,  erano  da  tutti  ugualmente  messe 
in  dimenticanza.  I  censori  sulle  pompe  risiedevano  a  Udine, 
nei  castelli  lontani  le  spose  potevano  sfoggiare,  nei  presta- 
menti, la  seta  e  il  velluto,  l'argento  e  l'oro,  il  lupo  e  la  volpe 
bianca.  Le  cittadine  avevano  sempre  buone  scuse  quand'erano 
trovate  in  flagrante  disobbedienza  alla  legge  suntuaria.  I  censori 
sulle  pompe,  eletti  nell'ordine- dei  nobili,  transigevano  spesso  e 
volentieri  sulle  palesi  disobbedienze  delle  belle  concittadine.  Se 
non  erano  nobili  trovavano  lo  stesso  la  maniera  di  deludere  le 
leggi.  «  Essendo   mandato  un  figlio  di  M.  Claudio   Sasso  stato 

»  AnnaUtttn  cit.,  t.  XVIII. 

*  P.  MOLMENTi,  La  vita  prlvatr.  dei  veneziani  cit.,  p.  454. 


LE    NOZZE   IN    FRIULI    NEI   SECOLI    XVI    E   XVII  137 

«  grigìoni,  ed  ora  cittadin  da  Udine  in  una  nezza  di  M.  Francesco 
«  Lesso  anch'esso  grigìone  tacconalo  la  moglie  andava  per  la  città 
«  ben  attillata  e  pomposa,  ma  senza  oro  attorno,  e  in  loco  di  lei 
«  portava  una  sua  massera  drio  una  collana  di  valuta  di  ducati 
«trecento,  che  faceva  una  vista  ridicolosa».' 

Le  ricche  vesti  nei  prestamente,  le  gioie  si  portavano  ancora, 
le  leggi  suntuarie  si  succedevano,  date  però,  più  che  per  timore 
di  un  reale  pericolo,  per  obbedienza  alla  Serenissima  o  per  se- 
guire l'esempio  che  essa  dava.* 

La  seconda  disposizione  suntuaria  trattava  dei  banchetti:  si 
proibivano  i  fagiani,  gli  uccelli,  i  galli  selvatici  e  nostrani,  i  tac- 
chini e  le  pernici  insieme.  Queste  disposizioni,  più  che  per  di- 
minuire le  spese,  erano  date  come  una  norma  di  previdenza  per 
gli  uccelli  e  quindi  per  l'agricoltura.  La  stessa  legge  proibiva  i 
pasticci,  permettendo  soltanto  due  piatti  di  allesso  e  due  di  arrosto, 
oltre  ai  salati.  Erano  proibiti  i  pesci,  si  permettevano  soltanto  le 
ostriche.  Non  si  potevano  offrire  canditi  e  dolci,  ma  era  permesso 
spargere  la  tavola  di  confetti.^ 

I  regali  in  dolci  che  la  famiglia  della  sposa  faceva  quand'ella 
era  promessa  ai  compari  e  agli  amici,  erano  pure  proibiti  e  si 
ordinava  che  la  «  mala  usanza  sia  del  tutto  levata  » ,  si  permet- 
teva soltanto  di  regalare  «  confetti  e  confezioni  il  giorno  del  dar 
la  mano  e  in  quello  dello  sposalizio».  Anche  queste  leggi  non 
furono  osservate  e  i  banchetti  continuarono  ricchi  di  pesci,  di 
uccelli,  di  dolci,  di  carni  di  ben  più  di  due  sorta.  I  consiglieri 
stessi  quando  l'argomento  si  discuteva  in  Consiglio  si  dividevano 
in  due  parti,  una  sfavorevole  ai  nuovi  ordinamenti,  così  che  il 
luogotenente  era  costretto  a  rimandarne  sempre  la  discussione.* 
La  proposta  della  legge  che  proibiva  a  tutti  i  cittadini  di  portare, 
per  conto  proprio  o  per  ordine  ricevuto,  in  giro  per  la  città  dolci 
o  altri  regali  ricevuti  in  dono  dalla  sposa  e  da  questa  fatti  dispen- 
sare al  popolo,  non  ebbe  vigore  per  la  ferma  opposizione  del 
contraddicente.^  11  contraddicente  era  l'eletto  dal  popolo,  il  ma- 
gistrato che  rappresentava  i  suoi  diritti  e  che  cercava  di  farli 
valere.  In  questo  caso  si  oppose  validamente  affinchè  il  bene- 
ficio, che  i  popolani  potevano  trarre  dalle  nozze  dei  ricchi,  non 
venisse  meno. 

»  M.  L.  Emiliani,  Cronaca  udinese  dal  1532  al  1616,  Udine,    1881,  p.  10  (1653), 

«  Annalium  cit.,  t.  XVIII,  f.  337. 

3  Annaliam  cit.,  t.  LVII,  f.  49  (anno  1567). 

*  Annalium  cit.,  t.  IJ(V,  f.  144-145,  (anno  15%). 

5  Annalium  cit.,  t.  L,  f.  93  (anno  1541). 


138  ALICF.  SACHS 

Come  si  vede,  le  leggi  suntuarie  che  regolano  il  matrimonio 
sono  pochissime,  date  per  ordine  o  imitazione  di  Venezia  più 
che  per  sentita  necessità. 

A  far  rispettare  queste  leggi  erano  scelti  ogni  anno  tre  censori 
e  tre  sopra  censori.  L'ufficio  non  era  agevole,  ma  non  si  poteva 
rifiutarlo  senza  sopportare  una  multa  di  venticinque  ducati.  Un 
notaro  era  eletto,  perchè  istituisse  i  processi  contro  i  trasgressori 
delle  leggi  suntuarie.  Riceveva  un  compenso  proporzionale  alle 
multe  che  riscuoteva.  Le  denuncie  potevano  esser  fatte  da  qua- 
lunque cittadino,  il  quale,  se  non  voleva  essere  conosciuto,  po- 
teva deporre  le  accuse  in  una  cassetta  esposta  al  pubblico,  di 
cui  il  censore  e  il  sopra  censore,  più  vecchi,  tenevano  le  chiavi. 
Le  multe  andavano  per  un  terzo  all'accusatore,  quand'era  noto, 
un  altro  terzo  era  per  i  censori,  l'uHimo  doveva  essere  impiegato 
per  le  mura  di  Udine. ^  L'antico  desiderio,  la  preoccupazione 
antica  per  la  difesa  del  piccolo  cuore  del  Friuli  era  vivo  ancora 
nell'assegnare  le  pene,  nel  riordinare  le  pompe.  A  noi  non  spiace 
pensare  le  spose  inosservanti  delle  non  necessarie  leggi  suntuarie, 
bellissime  nei  loro  abiti  di  velluto,  di  seta  «  stoccata  saldata  ponti- 
sata  »,  adorne  dei  più  bei  manitti,  delle  più  rilucenti  cuffie  d'oro 
dei  loro  prestamenti,  mentre  con  le  multe  fioccate  alle  ribelli 
vorremmo  sorte  possenti  e  turrite  le  mura  di  Udine. 

Alice  Sachs 


1  Annalium.  ciL,  t.  LVII,  f.  49  (anno  1567)  ;  Capitoli  della  città  di  Udine  in  ma- 
teria di  pompe,  Udine,  Schlratti,  1683. 


ANTICHI    EPISCOPATI    ISTRIANI  13Q 


ANEDDOTI 


Antichi   episcopati   istriani. 

Note  critiche. 


1.  In  queste  Memorie^  il  Leicht,  facendo  una  recensione  dello  studio 
dello  Schiaparelli  sui  diplomi  dei  re  Ugo  e  Lotario,-  si  fermava  a  no- 
tare una  correzione  che  lo  Schiaparelli  stesso  proponeva  di  introdurre 
nel  diploma  concesso  da  re  Ugo  il  7  agosto  929  in  favore  della  chiesa 
di  Trieste.  Il  re  concedeva  allora  Veplscopatus  Separiensis  sive  Hamago 
plebs  ipsias  episcopii^  e  rendeva  immune  ecclesiam  Tergestinam  cam 
ipsa  ecclesia  Separierise  sibi  concessa  et  catti  iatn  dicto  Huttiago . . .  sub 
tiostrae  taiciotiis  itiuiidburdo.  La  correzione  proposta  consiste  nel  mutare 
Veplscopatus  Separletisls  in  ecclesia  Separletisls  e  nel  togliere  un  inciso, 
supponendo  un  rimaneggiamento  dovuto  probabilmente  allo  stesso 
trascrittore  del  documento  originale  del  re  Ugo,  che  purtroppo  non 
ci  è  stato  conservato. 

Il  Leicht  invece  suppone  clie  Sipar  sia  stato  davvero  un  vescovado, 
e,  mi  pare,  assai  ragionevolmente.  Si  noti  infatti  che  nel  testo  del  do- 
cumento V ecclesia  Separletisls  è  posta  a  paro  coW ecclesia  Tergestltia; 
ambedue  erano  episcopati  prima  dell'incorporazione  della  prima  nella 
seconda. 

Di  più  abbiamo  un  fatto  analogo  a  questo.  11  7  giugno  983 
Ottone  II  donava  ad  Adamo,  vescovo  di  Parenzo,  Ruulgnutn  quantum 
ad  eplscopatum,  confermando  e  rinnovando  una  donazione  già  fatta  dal 
re  Ugo,  della   quale  non   ci  fu   conservato   il    documento   originale. 

»  Voi.  X,  1914,  p.  351. 

*  L.  Schiaparelli,  /  diplomi  di  Ugo  e  Lotario,  in  Ballettino  dell'Istituto  Storico  Italiano, 
n.  34,  1914,  p.  202  sgg.  L'autore  ammette  che  la  pergamena  sia  stata  interpolata,  ma  sul  docu- 
mento primitivo,  già  sulla  fine  del  secolo  X  od  al  principio  del  seguente. 

'  Sipar  è  luogo  vicinissimo  ad  Umago,  dal  testo  del  documento  risulta  che  un  tempo  ?  epi- 
«  scopatus  Separiensis  sive  Humago  plebs  ipsius  episcopi!  fuit  ».  Come  già  suppose  il  Kandler, 
Sipar  con  Umago  formò  un'unica  lilebs  e  poi  un  unico  episcopatus. 


140  PIO    RASCHINI 

Ho  supposto  altrove  che  questo  episcopato  di  Rovigno  non  sia  altro 
che  l'antico  episcopato  di  Cissa,  ricordato  nel  secolo  VI,  che  sorgeva  lì 
presso  e  del  quale  non  s'era  perduto  il  ricordo.*  È  infatti  ben  noto 
quanto  difficilmente  si  cancellino  queste  memorie  di  una  passata  gran- 
dezza ecclesiastica  dalle  menti  dei  popoli. 

Episcopato  effimero  quello  di  Sipar  Umago,  la  cui  origine  si  po- 
trebbe riportare  ai  tempi  in  cui  i  vescovi  dell'interno  della  Pannonia, 
cacciati  verso  le  coste  dalle  invasioni  avare  e  slave,  si  piantarono  colle 
loro  popolazioni  fuggiasche  su  lidi  più  sicuri  sotto  la  protezione  dei 
bizantini.  A  questo  fatto  si  attribuiscono  le  origini  dei  piccoli  episco- 
pati della  Dalmazia  e  fors'anche  dell'Istria  stessa. 

Ma  anche  alla  distruzione  di  Sipar  si  può  assegnare  con  buona 
probabilità  un'epoca  precisa.  Il  cronista  veneziano  Giovanni  diacono, 
narrando  di  un'invasione  barbarica  avvenuta  intorno  all'STQ,  dice:  «  Scla- 
«  vorum  pessime  gentes  et  Dalmacianorum  Ystriensem  provinciam  de- 
«  predare  ceperunt;  quattuor  videlicet  urbes  ibidem  devastaverunt  ìd  est 
«  Umacus,  Civitas  nova,  Sipiares  atque  Ruinius  »."  Queste  località  sono 
chiamate  urbes,  avevano  dunque  diritti  uguali  fro  loro  ;  Cittanova  era 
episcopato  :  chi  ci  impedisce  di  credere  che  lo  fossero  anche  le  altre  ? 
Ma  causa  l' invasione  slava  Sipar  ed  Umago  dovettero  rimanere  in  con- 
dizione inferiore  a  Cittanova  e  Rovigno,  e  questo  fatto  suggerì  come 
opportuna  la  loro  unione  con  Trieste,  ch'era  rimasto  ancora  forte  e 
potente. 

C'è  rimasta  anche  qualche  traccia  che  farebbe  testimonianza  come 
Sipar  avesse  raggiunto  un'importanza  non  trascurabile  in  Istria. 

L'abbate  Laugier,  nella  sua  storia  di  Venezia,  al  terminare  del- 
l'anno 1770  narra:  «Venezia  andò  soggetta  a  due  innondazioni  ma- 
«  rine:  nella  seconda  di  queste  allagazioni,  spirando  un  impetuoso  vento 
«  lungo  le  spiagge  dell'Istria,  il  mare  agitato  e  commosso  soverchiò  gran 
«  tratto  di  quel  litorale,  e  ne  sollevò  per  alquante  miglia  la  superficie 
«  trasportando  altrove  sabbia,  cespugli,  sassi,  e  disseppellendo  tortuita- 
«  mente  una  antica  città,  che  conserva  tuttavia  la  disposizione  delle  strade 
«  interne,  quella  delle  muraglie,  de'  pòrtici,  delle  colonne,  dei  pavimenti 
«  di  mosaico,  e  di  tutti  gli  altri  vestigi  di  un'ampia  e  ricca  popolazione, 
«  la  quale  estendesi  per  due  miglia  incirca  tra  Umago  e  il  vecchio  ca- 
«  stello  di  Sipar. 

«  Persone  degne  di  fede,  portatesi  in  persona  a  vedere  in  allora 
«  la  cosa,  attestavano  essere  vero  quanto  lo  storico  narrava. 

•  Cfr.  il  mio:  Le  vicende  politiche  e  religiose  del  Friuli  nei  secoli  IX  e  X,  Venezia,  1911, 
pp.  75,  e  82  sg.  Da  Verona  il  12  febbraio  §28  il  re  Ugo  concesse  ad  Orso,  patriarca  d'Aquileia» 
l'unione  del  vescovado  di  Concordia  con  tutti  i  suoi  annessi  alla  sede  patriarcale,  ib.,  p.  56.  Schu- 
PARELLi,  loc.  cit.,  p.  16.  Però  con  quest'unione  il  vescovado  di  Concordia  non  perdette  la  sua 
esistenza,  ma  fu  unito  solo  quanto  agli  effetti  feudali. 

a  Q.  MoNTicoLO,  Cronache  veneziane  anìichissime,  Fonti  dell'Istituto  storico  italiano,  Roma, 
1890,  p.  75.  Il  Dandolo  nella  sua  cronaca  ripete  il  medesimo  racconto,  muta  il  nome  di  Civitas 
nova  in  quello  di  Aemonia,  che  è  di  uso  posteriore. 


ANTICHI    EPISCOPATI    ISTRIANI  141 

«  Delle  quali  rovine  comunque  ricoperte  da  terra  e  cespugli  sovram- 
«  mucchiati  si  mostrano  tutto  giorno  visibili  le  traccie  lungo  la  costa 
«  tutta  che  si  distende  da  S.  Stefano  di  Umago,  fino  al  castello  Sipar, 
«  le  cui  muraglie  sorgono  ancora  sopra  piccola  isoletta  o  penisola.  Alla 
«  punta  Catòro  specialmente  veggonsi  assai  rovinacci,  e  mosaici,  e  cotti 
«  e  frammenti  di  marmo  che  attraggono  i  cercatesori,  indizio  quest'ul- 
«  timo  assai  certo  di  antiche  cose  sepolte  »/ 

[n  una  lettera  scritta  da  Pirano  in  data  11  aprile  1771  si  ha  pure: 
«Nel  dicembre  1770  una  fiera  marea  tra  Umago  e  il  castello  dì  Sipar 
«  scoprì  per  lungo  tratto  di  terreno  un  sotterraneo  con  fabbriche  anti- 
«  che,  quasi  per  due  miglia  principiando  dalla  punta  di  Catòro  inter- 
«  rottamente.  Consistevano  in  muraglie  fatte  di  sasso  di  monte,  tratto 
«  tratto  divise  da  due  piccoli  muri  questi  formanti  una  camera.  In  taluna 
«  vedeansi  scalinate  e  finestre.  Tutto  il  pavimento  era  a  mosaico.  Vi  si 
«  trovò  gran  quantità  di  crostacei,  forse  perchè  conservassero  meglio  le 
«  urne.  Un'urna  si  trovò  con  alcune  ossa.  Fu  creduto  da  alcuni,  che  fos- 
«  sere  ruine  dell'antica  città  Sipària.  Testificano  eziandio  i  pescatori  di 
«  quelle  acque,  che  in  bonaccia  e  mare  chiaro  veggonsi  dal  fondo  della 
«  punta  di  Catòro  certe  muraglie,  e  le  vestigie  di  un  molo,  riputato 
«  quello  di  Siparia,  città  posta  un  tempo  non  lungi  dal  mare.  Vedevansi 
«  pure  non  ha  molto  le  reliquie  di  un  molo  coperto  dall'acqua  vicino 
«  alla  chiesa  di  S.  Basso,  riputate  il  porto  del  castello  di  Alieto  del  fondo 
«  di  1000  passi,  come  trovasi  in  alcuni  antichi  scrittori  ».- 

Piuttosto  un'altra  questione  ci  si  presenta.  In  quali  relazioni  era 
questo  vescovado  di  Sipar-Umago  con  quello  di  Capodistria  posto  fra 
esso  e  Trieste?  È  noto  che  il  vescovado  di  Capodistria  fu  ristabilito 
per  consenso  di  Alessandro  III  al  tempo  della  pace  di  Venezia  (1177), 
togliendolo  dalla  dipendenza  di  Trieste,  e  che  il  primo  vescovo  fu  eletto 
nel  1184  circa.'  Ma  il  cronista  veneziano  Andrea  Dandolo  ci  fa  sapere, 
che  «  col  favore  del  patriarca  di  Grado  Vitaliano  (eletto  nel  755),  papa 
Stefano,  placato  dalle  suppliche  del  clero  e  del  popolo  Giustinopoli- 
tano,  concesse,  che  la  chiesa  Giustinopolitana  (Capodistria)  amodo 
cathedralis  existeret;  perciò  essendo  stato  eletto  dal  clero  e  dal  popolo 
di  quel  luogo  Giovanni,  il  patriarca  diede  a  costui  la  conferma  e  la 
consacrazione,  e  morto  lui  fece  poi  altrettanto  con  Senatore  successore 
di  lui  ».^  Questo  vescovado  di  Capodistria,  che  sembrerebbe  istituito  e 
creato  alla  metà  del  secolo  Vili,  non  ricompare  più  nominato  sino  alla 
fine  del  secolo  XII;  dal  documento  di  Alessandro  III  si  sa,  che  non 

>  Periodico  L'Istria,  anno  I,  1846,  p.  36. 

*  Tratta  dal  ms.  Svaier,  n.  12,  registrata  nel  primo  volume  Delle  memorie  Venete  Antiche 
Profane  ed  Ecclesiastiche  Raccolte  da  Giambattista  Galliclolli,  Venezia,  Fracasso,  1795,  riportata 
ne  L'Istria,  anno  I,  1846,  p.  294. 

»  Cfr.  il  mio  :  /  patriarchi  d'Aqnllela  nel  secolo  XII,  in  queste  Memorie,  X,  1914, 
pp.  171  e  257. 

*  Dandol.  Cìiron.  Venet.,  Libr.  VII,  10,  2,  in  Muratori,  R.  I.  S.,  to.  JCU.  Cfr.  Fr.  Babu- 
DRi,  Cronologia  dei  vescovi  di  Capodistria,  Trieste,  1909,  p.  14. 


142  PIO    RASCHINI 

esisteva  più  da  parecchio  tempo,  tanto  che  si  decise  di  farlo  rivivere. 
Esso  infatti  s'era  fuso  col  vescovado  di  Trieste,  dal  quale  venne  di 
nuovo  staccato  ;  ma  prima  di  erigerlo  canonicamente  sì  aspettò  la 
morte  di  Benardo,  vescovo  di  Trieste,  per  non  fare  a  lui  un  torto  di- 
mezzandogli il  vescovado.  Viene  ora  spontanea  la  domanda:  il  vesco- 
vado Sipar,  che  nel  929  venne  dal  re  Ugo  incorporato  a  quello  di 
Trieste,  non  potrebb'essere  tutt'una  cosa  col  vescovado  Capodistria 
di  cui  si  parla  nel  secolo  Vili  ?  La  risposta  affermativa  appare  tanto 
più  verisimile  quando  si  pensi,  che  il  Dandolo  sostituisce  corrente- 
mente ai  nomi  più  antichi  quelli  ch'erano  in  uso  al  tempo  in  cui  scri- 
veva.^ Per  esempio  egli  attribuisce  ai  metropoliti  di  Grado  e  di  Aquileia 
il  titolo  di  patriarca  anche  in  un  tempo  in  cui  questo  non  era  il  loro 
titolo  ufficiale,  e  chiama  Emoniense  il  vescovado  di  Cittanova  in  Istria, 
che  prende  quella  denominazione,  come  già  osservò  il  De  Rubeis,  solo 
a  partire  dal  secolo  XI.  Egli  avrebbe  in  tale  ipotesi  chiamato  vesco- 
vado di  Capodistria  nel  secolo  Vili,  quello  che  realmente  era  il  vesco- 
vado di  Sipar.  Ovvero  il  vescovado  di  Capodistria,  che  aveva  la  sua 
sede  su  di  un'  isola,  diventato  troppo  esposto  alle  incursioni  marittime, 
fu  trasportato  in  luogo  che  sembrò  più  forte  e  sicuro,  cioè  a  Sipar- 
Umago?  rovinati  anche  quei  luoghi,  re  Ugo  l'avrebbe  unito  poi  con 
Trieste?  Questa  seconda  ipotesi  parrebbe  pure  attendibile,  ma  anch'essa 
si  fonda  sul  presupposto  che  il  vescovado  di  Capodistria  sia  stato 
realmente  tutt'uno  con  quello  di  Sipar-Umago  ;  ma  anche  quest'  ipotesi, 
per  quanto  possa  sembrare  verisimile,  non  esce  dal  campo  delle  pro- 
babilità, perchè  Sipar-Umago  è  realmente  più  vicino  a  Cittanova  che 
a  Trieste.  Più  probabile  mi  sembra  invece  una  terza  ipotesi:  tanto 
Capodistria  che  Sipar-Umago  furono  realmente  episcopati;  il  primo 
sparì  in  tempo  anteriore  al  secondo  ;  volendo  poi  il  re  Ugo  rendere  più 
forte  e  più  ben  provvisto  il  vescovado  di  Trieste,  la  cui  estensione 
entro  il  continente  era  ristretta,  gli  unì  Sipar-Umago,  dandogli  così 
una  lunga  estensione  di  lido  istriano  :  in  tal  modo  esso  confinava  con 
Pedena  nell'interno  e  con  Cittanova  sulla  costa  e  signoreggiava  sul- 
r  intero  golfo. 

2.  Riguardo  alle  divisioni  amministrative  dell'Italia  settentrionale  e 
del  vicino  Illirico  al  declinare  dell'impero  occidentale,  nella  lista  delle 
Provincie  romane,  nota  sotto  il  nome  di  Polemio  Silvio,  troviamo 
queste  indicazioni: 

In  Italia: 

VI.  Liguria  in  qua  est  Mediolano; 
VII.  Venetia  cum  Histris  in  qua  est  Aquileia,  ecc. 

>  Sembrerebbe  che,  se  al  principio  del  secolo  X  fosse  esistito  ancora  il  vescovado  di  Capo- 
distria, Uraago  e  Sipar  sarebbero  stati  dipendenti  da  Capodistria,  piuttosto  da  Trieste  che  sta  pia 
lontano  ;  invece,  come  abbiamo  veduto,  dal  testo  del  documento  del  re  Ugo  risulta  che  Sipar-Umago 
era  originariamente  una  plebs  del  vescovado  Triestino,  non  di  quello  di  Capodistria. 


ANTICHI    EPISCOPATI    ISTRIANI 


143 


In  Illyrico: 

I.  Dalmatia  super  mare  ; 

II.  Pannonia  prima,  in  qua  est  Sirmium  ; 

III.  Pannonia  secunda  ; 

IV.  Valeria,  ecc.^ 

Queste  indicazioni  sono  pure  esattamente  ripetute  nell'elenco  delle 
Provincie  conservato  dal  cardinale  Albino  alla  fine  del  secolo  XII.^ 
Esso  infatti  ripubblicava  esattamente  la  divisione  in  Provincie  dell'  im- 
pero romano  quale  era  al  momento  della  sua  caduta. 

Passiamo  ora  al  Liber  censaum  di  Cencio  Camerario,  redatto  ad 
uso  della  cancelleria  papale  verso  il  1192,  allo  scopo  di  dare  un  elenco 
di  tutti  i  censi,  che  dalle  diverse  parti  della  cristianità  si  pagavano 
alla  Santa  Sede.  1  censi  sono  disposti  secondo  le  metropoli  e  gli  epi- 
scopati nei  quali  erano  posti  i  luoghi  tributari  ;  di  modo  che  abbiamo 
nel  Liber  non  solo  un  elenco  di  censi,  ma  anche  un  elenco  ordinato  di 
sedi  e  metropoli  episcopali  :  un  provinciale  ecclesiastico.^ 

Ecco  ora  il  brano  di  Cencio  che  c'interessa: 


Dalmatia  supra  mare  : 

In  patriarchatu  Aquileiensi 

In  episcopatu  Mantuano 
Cumano 
Tridentino 
Veronensi 
Paduano 
Vicentino 
Tervisino 
Concordiensi 
Senecensi  (Ceneda) 
Filtrensi 
Belunensi 
Polanensi 
Parentino 
Triestino 
Commaclensi 
de  Capite  Istrie 
Maranensi 
Civitatis  Novae 

Istria  supra  mare: 

In  patriarcato  Gradensi 


In  episcopatu  Castellano 

Torsellano  (Torcello) 
Aquilensi  (lesolo) 
Caprulensi  (Caorle) 
Cosensi  (Chioggia) 
Civitatis  novae  (l'antica 
Eraclea) 
In  archiepiscopatu  ladrensi  (Zara) 
In  episcopatu  Signensi  (Segna) 
Ausarensi  (Oserò) 
Veglensi  (Veglia) 
Arbensi  (Arbe) 
Nonensi  (Nona  presso 
Zara) 
In  archiepìscopatn  Spala^nsi 
In  episcopatu  Traguriensi  (Traù) 
Signensi 
Scardonensi  ecc. 

SCLAVONIA 

In  archiepiscopatu  Ragusiae 
In  episcopatu  Stagnensi  ecc. 
Ungaria  ecc.* 


Poiché  il  cardinale  Albino,  sebbene  quasi  contemporaneo,  fece  un 
elenco  di  censi  indipendentemente  da  quello  di  Cencio,  giova  riportare 


«  M.  O.  H.  :  Auctt.  Antiquissimi,  IX,  p.  536  sgg. 

»  P.  Fabre,  Le  "■  liber  censuum  »  de  l'église  Romaine,  Paris,  1905,  to.  II,  p.  96  sg.,  n.  68. 

»  Quegli  episcopati,  nel  territorio  dei  quali  la  Sede  Apostolica  non  percepiva  alcun  censo, 
sono  pure  elencate  in  ordine,  ma  senz'alcuna  indicazione  ed  aggiunta. 

*  Fabre,  op.  cit.,  I,  p.  123  sgg.  Anche  nel  Registro  di  papa  Gregorio  X  le  bolle  colle  quali 
fu  indetto  il  concilio  generale  (13  aprile  1273)  furono  inviate  «in  Istria  supra  mare:  ladriensi  et 
<  Spalantesi  archìepiscopis  >  {Registr.,  n.  307). 


144  PIO    RASCHINI 

anche  quanto  trascrive  egli.  Anzitutto  ecco  la  divisione  provinciale 
ecclesiastica  da  luì  trascritta. 

In  Dalmatia  saprà  mare:  Metropolis  Aquileia  XI  habet  suffraga- 
neos  :  epìscopum  Veronensem,  Paduanum,  Vìcentinum,  Cumanum, 
Mantuanum,  Tervisinum,  Trìdentinum,  Concordensem,  Senecensem,  Fil- 
trensem  et  Belunensem. 

In  Ystria  saprà  mare:  Metropolis  Gradus  habet  suffraganeos :  Pola- 
num,  Parentinum,   Triestinum,   Comaclensem,   episcopuni   de  Capite 
Istrie,  Maranensem,  episcopum  Civitatis  Nove,  Castellanum,  Torsella- 
num,  Aquilensem,  Caprulensem  et  Closensem. 
Metropolis  ladera 
Metropolis  Spalatus 
In  Sclavonia:  metropolis  civitas  Ragusia  ecc. 
In  provincia  Flaminea:  metropolis  Ravenna  ecc. 
In  Liguria:  Metropolis  Mediolanum  ecc. 
In  alpibus  Gotiae:  Metropolis  lanua  (Genova)  ecc.* 
Nell'elenco  dei  censi  i  vescovadi  sono  disposti  così  : 
In  Patriarchatu  Aquileiensi:  In  episcopatu  Vicentino...  Feltrensi... 
Tridentino...  Senecensi...  Paduano...  Mantuano...  Veronensi...  Tarvisino... 
Cenetensi..."  Polae...  Comaclensi. 

In  patriarchata  Venetie  Qradensi...  In  episcopatu  Torsellano.^ 
La  prima  cosa  che  colpisce  in  queste  liste  è  la  collocazione  del 
patriarcato  Aquileiese  sotto  la  rubrica  :  Dalmatia  sapra  mare.  All'epoca 
imperiale  infatti  con  questo  nome  era  designata  la  Dalmazia  marittima 
con  capitale  Salona,  a  confronto  della  Dalmazia  interna  o  Prevalitana 
con  capitale  Scodra  (Scutari  d'Albania). 

«  Io  credo  che  ci  troviamo  qui  pure  dinanzi  ad  un  tentavivo 
d'adattamento  del  provinciale  ecclesiastico  col  Liber  provinciaram  del- 
l'impero romano.  Come  nel  secolo  IX  i  personaggi  illustri  della  rina- 
scita carolingia  sembra  abbiano  considerato  la  Notitia  provinciaram 
et  civitatam  Galliae  come  la  base  fondamentale  dell'organizzazione 
della  chiesa  gallicana  ;  così  i  chierici  romani  della  rinascita  gregoriana 
ebbero  una  tendenza  speciale  di  far  combaciare  le  grandi  divisioni 
àoìV Orbischris  tianas  con  le  antiche  divisioni  dell'Or^/s  romanus.  Ciò 
era  conforme  allo  sviluppo  storico  ed  anche  alle  antiche  decisioni  con- 
ciliari, ma  l'esecuzione  fu  tutt'altro  che  perfetta.  Causa  ne  fu  sì  la  falsa 
interpretazione  data  degli  antichi  cataloghi  provinciali,  ma  in  parte 
anche  lo  stato  di  alterazione  nel  quale  questi  antichi  cataloghi  sono 
giunti  nelle  mani  dei  redattori  del  provinciale  ecclesiastico  ».* 

1  Fabre,  op.  cit.,  II,  p.  102,  n.  6Q. 

2  È  curioso  che  il  vescovado  di  Ceneda  sia  elencato  due  volte,  cioè  come  Senecensi  e  Ce- 
nettnsi.  È  questa  una  correzione,  uno  scrupolo,  per  così  dire,  di  Albino  stesso,  oppure  si  tro- 
vava nella  fonte  da  cui  trascriveva  ?  È  probabile  la  prima  ipotesi,  perchè  nell'altro  elenco  si  trova 
solo  Senecensem. 

»  Fabre,  op.  cit.,  II,  p.  115. 

*  Fabre,  op.  cit.,  I,  p.  123  sg.,  nota. 


ANTICHI    EPISCOPATI    ISTRIANI  145 

Aquileia  non  cessò  mai  di  appartenere  alla  provincia  della  Venezia 
e  dell'Istria,  e  d'altra  parte  il  termine  Dalmazia  rimase  sempre  localiz- 
zato dal  secolo  primo  all'undecimo  sulle  medesime  regioni,  anzi  in- 
vece di  estendersi  a  comprendere  anche  nuovi  paesi,  andò  piuttosto 
limitandosi.  Per  conseguenza  l'attribuzione  del  termine  Dalmatia  sapra 
mare  alla  provincia  ecclesiastica  di  Aquileia  non  può  spiegarsi  che 
come  un'interpolazione,  un  rimaneggiamento  parziale  delle  antiche 
liste  provinciali  dell'  impero.  Infatti,  mentre  non  se  ne  trova  traccia 
prima  del  secolo  XII,  cioè  prima  di  Cencio  e  di  Albino,  si  trova  in 
seguito  in  tutti  i  provinciali  della  chiesa  romana  dal  secolo  XII  al  XIV 
ed  anche  nel  Liber  Cancellariae  del  1380. 

Come  si  spiega  quest'anomalia?  Il  Fabre  nota  giustamente  che 
nel  secolo  sesto  i  vescovi  dell'Illirico  occidentale,  quando  Sirmio  andò 
distrutto  (ma  la  tendenza  per  una  parte  di  loro  c'era  già  prima  di 
questa  distruzione),  piegarono  verso  Aquileia,  ch'era  loro  abbastanza 
vicina.  Siccome  nell'elenco  delle  provincie  s'aveva  originariamente  : 
In  Illirico  XVIII  {proviticlae):  Dalmatia  saprà  mare.  Pannonia  prima 
in  qua  est  Sirmiiim  ecc.,  dopoché  Sirmio  mancò  e  non  rappresentava 
per  conseguenza  più  niente,  ci  dovette  essere  un  correttore  che  can- 
cellò Sirmiiim  e  sostituì  Aquileia,  dimodoché  si  ebbe  :  Dalmatia  saprà 
mare  in  qua  est  Aquileia.  Indicazione  che  passò  poi  tale  e  quale 
nelle  liste  ecclesiastiche.  Il  Fabre  corrobora  questa  sua  ipotesi  colle 
sottoscrizioni  al  concilio  di  Arles,  le  quali  pare  sieno  state  rimaneg- 
giate nel  secolo  VI,  nelle  quali  c'è  la  firma  :  «  Theodorus  episcopus... 
de  civitate  Aquileiensi,  Provincia  Dalmatiae».  Valeriano  suo  mediato 
successore  fu  chiamato  da  s.  Basilio  vescovo  degli  Illirici. 

Ma  mi  pare  questa  una  spiegazione  troppo  tirata,  con  un  punto 
di  partenza  troppo  remoto.  Colui  il  quale  ebbe  fra  mano  a  Roma 
l'antico  elenco  delle  provincie  dell'impero,  ch.e  gli  doveva  servire  di 
base  per  compilare  l'elenco  delle  provincie  ecclesiastiche,  dovette  tro- 
varsi in  un  impiccio  non  lieve.  Col  nome  di  Venezia  si  chiamava  ormai 
al  tempo  suo  in  senso  stretto  la  città  delle  lagune,  in  senso  più  largo 
anche  i  luoghi  circonvicini  dell'estuario,  in  altre  parole  il  patriarcato 
Gradese  ;  il  resto  del  paese,  che  noi  chiamiamo  ora  Veneto,  si  chiamava 
allora  invece  marca  Trivigiana  o  Veronese  e  Friuli  ;  ecclesiasticamente 
formava  il  patriarcato  d'Aquileia  e  comprendeva  oltre  l'Istria  una  gran 
parte  dell'antica  Pannonia  superiore,  cioè  dell'Illirico  Occidentale,  ed 
una  parte  dell'antico  Norico  Mediterraneo.  Di  più:  tutte  le  provincie 
dell'antico  Illirico  e  specialmente  la  Dalmazia,  in  seguito  alle  invasioni 
barbariche,  specialmente  slave  ed  unghere,  avevano  completamente 
mutato  nome,  circoscrizioni  ecclesiastiche,  governo  civile:  l'adattamento 
per  quei  luoghi  si  presentava  difficile  assai.  Come  fare?  il  redattore 
cancellò  la  parola  Venetia  e  creò  la  frase  Istria  supra  mare^  e  vi  adattò 

»  Forse  Albino  o  la  sua  fonte  creò  questa  frase  sul  modello  dell'altra:  Dalmatia  saprà  mare 

10 


146  PIO    PASCHINI 

il  patriarcato  di  Grado,  aggiungendovi  i  due  arcivescovadi,  di  Zara  e 
di  Spalato,  ch'erano  in  stretta  relazione  con  esso.  Conservò  la  dicitura: 
Dalmafia  saprà  mare,  interpretandola  nel  senso  di  Dalmazia  superiore 
ed  in  essa  comprese  il  patriarcato  di  Aquileia.  Aggiunse  in  ultimo 
anche,  col  nome  di  Sclavonia,  l'arcivescovado  di  Ragusa,  che  faceva 
parte  dell'antica  Dalmazia/  Così  vennero  eliminate  tutte  le  altre  Pro- 
vincie dell'antico  Illirico  romano  (Pannonia,  Valeria  ecc.)  ch'era  impos- 
sibile inquadrare  nelle  circoscrizioni  ecclesiastiche.  Fu  un  adattamento 
compilato  molto  malaccortamente:  ma  ci  può  fare  meraviglia?  È  sem- 
pre cosa  pericolosa  mettere  vino  nuovo  in  otri  vecchi. 

Notiamo  un'altra  cosa.  Il  cardinale  Albino  conobbe  come  già  esi- 
stente il  vescovado  di  Capodistria,  ristabilito  da  Alessandro  IH  verso 
il  1177,  come  abbiamo  veduto;  viceversa  poi  assegnò  ancora  ì  vesco- 
vadi istriani  al  patriarcato  di  Grado,  che  in  quell'epoca  furono  aper- 
tamente riconosciuti  come  dipendenti  dal  patriarcato  d' Aquileia.  È  una 
cosa  abbastanza  strana  ;  ma  che  si  può,  credo,  spiegare  così  :  il  pa- 
triarcato Gradese  da  secoli  vantava  diritti  metropolitici  su  quei  vesco- 
vadi e  non  mancava  di  reclamarli  ad  ogni  occasione.  Erano  reclami 
ormai  teorici,  ma  in  ogni  modo  erano  sempre  pretese  che  si  accam- 
pavano. Esso  non  vi  rinunciò  definitivamente  che  nel  1180,  quando  a 
Roma  il  30  luglio  si  venne  al  famoso  accordo  fra  Aquileia  e  Grado, 
che  pose  fine  alle  secolari  contese.  I  vescovadi  istriani  furono  allora 
definitivamente  aggiudicati  ad  Aquileia.  Il  cardinale  Albino  non  conobbe 
questa  decisione  e  perciò  elencò  ancora  quei  vescovadi  nel  patriarcato 
di  Grado.  Cencio  invece,  che  scrisse  alquanto  dopo,  la  conobbe  e  li 
trasportò,  com'era  giusto,  nel  patriarcato  di  Aquileia. 

3.  Non  può  non  fare  meraviglia  il  vedere  recensito  fra  i  vescovadi 
istriani  Vepiscopatus  Cotnmaclensis  (Comacchio),  tanto  presso  Albino, 
quanto  presso  Cencio;  mentre  è  omesso  Vepiscopatus  Petenensis  (Pe- 
dena)  che  pure  certamente  esisteva.  Siccome  i  due  autori  scrissero  indi- 
pendentemente l'uno  dall'altro,  questo  fatto  accresce  la  meraviglia.  E  si 
noti  che  facendo  l'elenco  dei  censi  Cencio  scrive  così  nell'elenco  dei 
vescovadi  istriani  :  In  episcopatu  Comtnaclensi  :  monasterium  de  Pomposa 
III  solidos  denarios  argenti  ;  e  trascrive  poi  questa  stessa  dicitura  nel- 
l'elenco dei  vescovadi  soggetti  alla  metropoli  di  Ravenna.-  Sicché  que- 
sta medesima  indicazione  viene  ripetuta  in  due  luoghi  diversi.  II  mo- 
nastero di  Pomposa  infatti  non  è  in  Istria,  bensì  nel  territorio  di 
Comacchio.  Dice  a  questo  proposito  il  Fabre,  che  il  vescovado  di  Pedena 
fu  chiamato  anche  col  nome  di  Comacchio.  «  I  provinciali  manoscritti 
n.  4998  di  Parigi  e  P.  II.  17  di  Bamberga  portano:  Commaclensem  vel 
Petenensem,  e  questo  non  lascia  alcun  dubbio  sull'identità  delle  due 


•  Per  completare  l'opera   d'adattamento   Cencio  v'aggiunse   immediatamente   dopo  anche 
V  litigar  ia. 

»  Fabre,  op.  cit.,  I,  p.  133  e  p.  97. 


ANTICHI    EPISCOPATI    ISTRIANI  147 

designazioni.  Forse  questo  nuovo  nome  iia  qualche  rapporto  con  quello 
della  città  di  Umago  sulla  costa  istriana,  nella  quale  riposava  il  corpo 
del  patrono  della  diocesi/  Assai  tardi  e  per  pura  negligenza  fu  iscritto 
qui  il  monastero  di  Pomposa  ;  si  credette  infatti  che  la  parola  Co/nma- 
clensis  indicasse  il  vescovado  di  Comacchio  nella  provincia  di  Ravenna». 

Ma  Vepiscopatus  Petenensis  non  si  trova  mai  una  volta  colla  de- 
nominazione Cominaclensis  nei  documenti  ;  e  questo  fatto  merita  d'es- 
sere ben  preso  m  considerazione  ;  solo  Albino  e  Cencio  gli  sostituiscono 
concordi  questa  denominazione.  Mi  pare  evidente  la  conclusione  che 
ambedue  copiarono  un  codice  dell'archivio  papale,  dove  c'era  un  errore, 
errore  probabilmente  dovuto  all'interpolazione  di  qualche  annotazione 
marginale  fatta  malaccortamente.  I  redattori  dei  mss.  di  Parigi  e  di 
Baraberga  s'accorsero  bene  dell'errore  e  cercarono  di  rimediarvi  senza 
danneggiare  sostanzialmente  il  testo.  In  altre  parole  l'errore  di  Albino 
e  di  Cencio  o,  per  parlare  piìi  esattamente,  della  loro  fonte,  non  con- 
sistette nel  porre  il  monastero  di  Pomposa  neWepiscopatus  Comma- 
clensis  (a  Pedena),  come  suppone  il  Fabre;  ma  invece  nel  porre  Vepi- 
scopatus Commaclensis  nell'Istria,  cancellando  Vepiscopatas  Petenensis; 
errore  che  si  può  spiegare  colla  creazione  del  vescovado  di  Comac- 
chio posteriore  agli  altri  della  regione,  che  dovette  essere  inserito  in 
margine  nella  lista  dei  vescovadi  soggetti  alla  metropoli  di  Ravenna.^ 
Passando  poi  nel  testo,  fu  inserito  erroneamente  in  due  luoghi  diversi, 
in  uno  dei  quali  come  correzione  di  Petenensis^  che,  forse  per  qualche 
tempo  rimase  senza  vescovi. 

4.  Tanto  Albino  che  Cencio  registrano  un  episcopatas  Maranensis, 
che  non  si  trova  affatto  ricordato  in  altri  documenti.  «  Si  ha  il  diritto 
di  domandare  se  c'era  veramente  alla  fine  del  secolo  XII  vescovo  a 
Marano,  e  se  la  menzione  di  questo  vescovado  sia  dovuta  soltanto 
ad  un  ricordo  dell'importanza  che  aveva  avuto  Marano  al  secolo  VI  ».^ 
Però  nemmeno  nel  secolo  VI  Marano  è  ricordato  come  vescovado.  E 
si  noti  che  Albino  pone  Marano  fra  i  vescovadi  soggetti  a  Grado, 
Cencio  fra  quelli  soggetti  ad  Aquileia;  ambedue  in  modo  che  sembra 
lo  annoverassero  fra  i  vescovadi  dell'Istria.  Siamo  qui  dinanzi  ad  un 
problema  analogo  a  quello  deW episcopatas  Utinensis  ricordato  nel  di- 
ploma Ottoniano  del  996,  ma  più  difficile  a  spiegarsi  perchè  documenti 
non  mancano  per  il  secolo  XII,  come  per  il  secolo  X.  Si  ricordi  infatti 
che  Marano  apparteneva  al  capitolo  d' Aquileia  sin  dal  1031  in  grazia 
della  donazione  Popponiana,*  che  il  conte  di  Gorizia  vi  esercitava  di- 


»  Il  patrono  della  diocesi  di  Pedena  era  s.  Niceforo,  martire  orientale,  che  si  festeggia  il 
30  dicembre  ;  il  suo  corpo  si  diceva  trasportato  a  Pedena.  Umago  apparteneva  alla  diocesi  di  Trie- 
ste, come  abbiamo  veduto  sopra,  non  a  quello  di  Pedena. 

3  Si  riteneva  che  Comacchio  fosse  già  vescovado  nel  502  ;  ma  quel  Pacaziano  che  sottoscrisse 
al  concilio  di  papa  Simmaco  era  vescovo  Corneliense  (Imola),  non  di  Comacchio. 

•  Fabre,  op.  cit.,  I,  p.  134  nota. 

*  E  ciò  vuol  dire  che  prima  di  quell'anno  faceva  parte  dei  beni  donati  alla  chiesa  di  Aqui- 
leia. E  si  può  supporre  con  grandissima  verisimiglìanza  che  venisse  in  possesso  di  questa  g^razie 


148  PIO    RASCHINI 

ritti  d'avvocazia,  quantunque  fossero  contrastati  dal  capitolo,  come 
risulta  dal  documento  del  dicembre  1202.'  Che  il  patriarca  di  Grado, 
trattandosi  di  una  località  situata  proprio  sulle  lagune,  vi  abbia,  in 
tempo  non  determinabile,  istituita  una  sede  episcopale  per  eliminare 
così,  coll'aiuto  delle  navi  veneziane,  la  signoria  spirituale  e  temporale 
che  vi  esercitavano  il  patriarca  di  Aquileia  ed  il  suo  capitolo?  Sarebbe 
stato  questo  un  tentativo  del  Gradese,  quando  pretendeva  essere  an- 
cora metropolita  dell'Istria,  per  affermare  il  suo  dominio  su  un  terri- 
torio al  quale  lo  legava  la  storia  delle  origini  della  sua  sede.  Se  ciò 
fu,  il  vescovado  ebbe  vita  effimera  assai,  tanto  da  non  lasciar  traccia 
nei  documenti,  e  dovette  in  ogni  modo  sparire,  perchè  il  vescovo  non 
poteva  tenere  residenza  in  un  paese  compreso  entro  i  possessi  del 
patriarcato  d'Aquileia. 

Come  si  vede  le  vicende  ecclesiastiche  dell'Istria  nell'alto  medio 
evo  sono  quanto  mai  fortunose  ed  oscure.  Altrettanto  avveniva  delle 
condizioni  politiche.  La  penisola  ed  i  suoi  territori  contermini  verso 
oriente,  posti  fra  le  nuove  dominazioni  barbariche  e  le  influenze  ve- 
neto-bizantine in  conflitto  fra  loro,  si  trovarono  in  una  situazione  assai 
complessa,  che  a  mala  pena  i  documenti  e  le  memorie  ci  fanno  intra- 
vedere. Fra  questi  scarsi  ricordi  storici  mettere  un  po'  d'accordo  e 
d'ordine  è  opera  ancora  oggi  né  facile,  né  definitiva;  i  tentativi  però, 
per  quanto  umili  come  questo,  possono  sempre  guidare  altri  a  vederci 
più  chiaro  ed  incitare  a  ricerche  più  larghe  e  profittevoli. 

Pio  Raschini 


^^0 
i<^ 


L'identificazione  di  Anselino. 

C'è  un  feiiilleton  di  J.  von  Zahn  che  minaccia  di  diventare  celebre 
e  di  assumere  un'autorità  inconcussa.  Si  tratta  di  un  breve  studio  dal 
suggestivo  titolo  Aingili  pubblicato  nella  Literarìsche  Beilage  del  Mon- 
tags  Revue  al  n.  46  del  1881,  il  quale  prende  in  esame  certe  relazioni 
che   sarebbero  intei'venute,  verso  il  1245,    fra   Bertoldo    di    Merania, 

alle  donazioni  di  Ottone  I  del  29  aprile  067,  di  Ottone  III  del  28  aprile  1001  e  di  Corrado  11  del 
9  ottobre  1028.  Cfr.  il  mio:  Le  vicende  del  Friuli  nei  secoli  IX  e  Xcit.,  pp.  68  e  85,  e  Vicende 
del  Friuli  durante  il  dominio  della  casa  imperiale  di  Franconia,  Cividale  del  Friuli,  1913,  p.  12. 
»  Queste  Memorie,  X,  1914,  p.  294,  §  11. 


l'identificazione  di  anselino  149 

patriarca  di  Aquileia,  Federico  II  di  Babenberg,  duca  d'Austria  e  di 
Stiria,  e  Federico  II  d'Hohenstaufen,  imperatore  di  Germania.  Veramente 
questo  studio  non  riguarda  il  Friuli  che  in  modo  indiretto,  ma  sic- 
come lumeggerebbe  un  disegno  politico  del  patriarca  ed  avrebbe  per 
oggetto  un  personaggio,  per  parte  di  madre  e  per  nascita,  cividalese, 
merita  che  vi  poniamo,  per  un  momento,  un  po'  d'attenzione. 

Le  guerre  fra  l'imperatore  ed  il  duca  d'Austria  e  di  Stiria  sono 
note.  Indarno  il  primo  aveva  tentato  di  fiaccare  il  vassallo  ribelle; 
s'era  dovuto  adattare  ad  una  pace  con  lui,  la  quale  condusse  ad  un 
ravvicinamento,  preludio  di  un  più  stretto  accordo  fra  loro. 

Già  Enrico,  il  primogenito  dell'  imperatore,  aveva  sposata  Mar- 
gherita, sorella  maggiore  del  duca  Federico  ;  ma  quel  vincolo  fami- 
gliare s'era  rotto  per  la  morte  di  Enrico.  Ora  il  già  maturo  imperatore 
pensò  di  sposare  Gertrude,  la  quasi  ventenne  figlia  di  Enrico  di 
Mòdling,  fratello  del  duca. 

In  questo  matrimonio  l' imperatore  prevedeva  vantaggi  speciali  per 
la  sua  casa.  Il  duca  Federico,  benché  avesse  appena  trentasei  anni, 
ed  avesse  sposata  in  terzi  voti  Agnese  di  Merania,  nipote  del  patriarca 
Bertoldo,  non  aveva  eredi  legittimi,  a  cui  potesse  tramandare  la  for- 
tuna ed  i  feudi  della  sua  schiatta  dei  Babenberg.  Se  la  linea  maschile 
si  estingueva  con  lui,  l'eredità  avrebbe  dovuto  passare  alle  sue  sorelle 
e  nipoti  ed  eventualmente  ai  loro  mariti  e  figliuoli.  Se  il  matrimonio 
di  Gertrude  coli' imperatore  fosse  avvenuto,  questi,  a  cui  per  diritto 
feudale  toccavano  i  feudi,  li  avrebbe  concentrati  con  quelli  che  già 
possedeva  casa  Hohenstaufen,  ed  avrebbe  inoltre  aggiudicata  a  sé  parte 
almeno  della  fortuna  dei  Babenberg.^ 

D'altra  parte  il  duca  d'Austria  anelava  a  procurarsi  la  corona 
reale,  e  l' imperatore  dovette  cullarlo  nell'  illusione  di  poterla  ottenere. 
Infatti  per  mezzo  del  véscovo  di  Bamberga  egli  inviò  in  dono  al  duca 
an  anello  reale,  probabilmente  nel  s.  Giorgio  del  1245,  quando  il  duca 
ricco  d'oro  e  d'argento,  a  Vienna,  armò  cavalieri  140  nobili.  Da  parte 
sua  r  imperatore  aveva  già  la  parola  impegnativa  del  duca  riguardo 
al  matrimonio  con  Gertrude.  Altrimenti  come  avrebbe  egli  potuto 
scrivere  nella  lettera,  colla  quale  lo  chiamava  in  Italia  per  partecipare 
alla  c'ieta  di  Verona,  di  condurre  seco  sua  m^oìt  nostra  futura  sposa? 
ed  indicare  i  nomi  di  quei  principi,  che  dovevano  essere  invitati  quali 
testimoni  di  tale  festiva  venuta? 

•  Per  maggiore  chiarezza  ecco  lo  schema  di  queste  discendenze  e  di  queste  parentele: 
LEOPOLDO  VI  t  1230,  duca  d'Austria  e  di  Stiria. 


Enrico  f  1228                                   Margherita  Federico  f  1246 

I  sposa  Enrico  VII  duca  d' Austria 

Gertrude  sposa  di  Hohenstaufen,  e  Stiria 

Ermanno  VI  poi  Ottocaro  II 
del  Baden  di  Boemia 


l-  I 

Federico  f  1268  Agnese 

decapitato  a  Napoli  sposa  Ulrico  III  duca 
con  Corradino  di  Carintia 


150  PIO    PASCHINI 

Nei  paesi  austrìaci  c'era  la  convinzione  che  il  duca  Federìco  si 
recava  nel  maggio  1245  a  Verona  alia  dieta  per  ricevere  la  corona 
reale  ;  ne  sono  testimoni  gli  annali  di  più  di  un  monastero.  Ma  egli 
non  condusse  seco  Gertrude  e  non  ritornò  in  Austria  colla  corona 
reale.  Esiste  invece  un  abbozzo  di  documento,  che  non  uscì  dagli 
archivi  della  cancelleria  imperiale  prima  del  1566,  quando  fu  reso  di 
pubblica  ragione  ;  si  spiega  perciò  come  i  cronisti  dell'Austria  non  ne 
abbiano  affatto  conosciuto  né  il  tenore  né  l'esistenza.  Esso  contem- 
pla appunto  l'erezione  del  nuovo  regno  col  beneplacito  imperiale  e 
regola  i  rapporti  e  la  costituzione  interna. 

Gli  storici  hanno  ripetutamente  dubitato  dell'autenticità  di  tale 
atto,  ma  non  poterono  prescindere  dalla  sua  esistenza.  Benché  gli 
manchi  la  sanzione  definitiva,  esso  sarebbe  sempre  un  atto  impor- 
tante, un  testimonio  degno  di  attenzione  di  un  complicato  maneggio 
politico.  Compare  infatti  nelle  raccolte  di  lettere  dell'  infelice  Pier  della 
Vigna,  il  fido  consigliere  di  Federico  li  ;  e  queste  lettere,  simili  a  for- 
mulari, servirono  a  redigere  più  documenti.  Ma  la  critica  guardò  tale 
atto  con  molta  diffidenza,  specialmente  per  il  luogo  e  le  circostanze 
nelle  quali  venne  alla  luce.  Però  storici  di  valore,  senza  pronunciarsi 
ed  impegnarsi  riguardo  a  tutte  le  sue  parti,  ne  accettano  i  punti  essen- 
ziali. Che  un  tal  passo  sia  stato  ritenuto  soltanto  come  cosa  possibile, 
è  già  una  cosa  strana  e  spiega  le  riserve  degli  storici. 

Il  documento  in  sostanza  si  divide  in  tre  parti. 

1°  Anzitutto  l'imperatore  espone  al  duca  (a  cui  lo  scrittore  della 
cancelleria,  con  formula  strana,  ma  forse  non  del  tutto  erronea,  dà  il 
titolo  anche  di  comes  Carnìolae,  conte  di  Carniola),  che  in  seguito  a 
sua  domanda  e  col  consiglio  dei  principi  imperiali,  che  nomina,  aveva 
inalzato  i  ducati  d'Austria  e  di  Stiria  coi  territori  annessi  ai  grado 
di  regno  ereditario.  Siccome  si  sa  che  i  principi  nominati  erano  vera- 
mente nel  1245  a  Verona  e  consta  d'altre  fonti  del  disegno  di  creare 
il  nuovo  regno,  non  vi  sarebbero  obbiezioni  serie  contro  questa  parte 
del  testo. 

2'  La  seconda  parte  tratta  dell'ordine  nella  successione  e  delle  con 
dizioni  politico-amministrative  del  nuovo  re  nelle  sue  relazioni  col  capo 
dell'  impero.  Questi  punti  corrispondono  al  diritto  dell'  impero  ger- 
manico ed  alla  sua  storia,  e  non  pare  sia  stata  sollevata  contro  di  essi 
obbiezione  alcuna. 

3^  Segue  la  parte  più  sospetta  ed  oscura,  la  quale  suona  press'a 
poco  così  :  «  per  accrescere  la  dignità  del  tuo  regno,  ti  concediamo  di 
costituire  nel  territorio  della  Carniola  un  ducato,  il  quale  sarà  sog- 
getto immediatamente  a  te  e  per  mezzo  tuo  ai  nostri  successori  ed 
air  impero  e  di  costituire  in  esso  quale  duca  il  nostro  diletto  e  fedele 
Anselino  tuo  cognatus>^.^ 

»  '  ut  de  provincia  Carniole  ducfitum  facias,  immediate  tibi  et  per  te  nobis  et  successoribus 
t  iiostris  et  imperio  responsiirura,  et  ut  in  ducatu  ipso  Anselinum  cognatum  tuum  fidelem  nostrum 
«  in  ducera  valeas  promovere  plenam  tibi  concedimus  potestatem  -  Huillard-Bréholles,  Hist.  Di- 
olom.  Friderici  II,  to.  VI,  p.  300;  Zahn,  Urktindenbuch  Steiermark,  to.  U,  p.  568. 


l'identificazione  di  anselino  151 

Ora  per  quanto  si  conoscono  le  relazioni  del  Babenberg  in  Car- 
niola  e  le  parentele  del  duca  Federico  in  causa  del  suo  terzo  matri- 
monio, questo  brano  presenta  tante  difficoltà  quasi  quante  sono  le 
frasi,  e  rovina  la  buona  impressione  lasciata  dai  due  brani  antecedenti. 
Infatti  quali  diritti  di  sovranità  territoriale  possedeva  Federico  d'Austria 
in  Carniola  ?  Nessuno,  per  quanto  si  sappia.  Poiché  il  duca  Leopoldo 
suo  padre  acquistò  nel  1229  pubblicamente  feudi  in  Carniola  dalla 
chiesa  di  Frisinga,  portò  d'allora  in  poi  il  titolo  di  dominas  Carniole 
ed  accrebbe  la  sua  importanza;  non  ebbe  però  diritti  signorili  sul 
paese,  ma  soltanto  il  solito  dominio  territoriale.  E  chi  sarebbe  mai 
questo  Anselinas,  cognatas  dei  duca  Federico,  questo  parente  per  causa 
di  matrimonio?  L'albero  genealogico  della  casa  di  Melania  ci  è 
sufficientemente  noto  e  non  ci  presenta  a  questo  tempo  nessun  indi- 
viduo con  tal  nome.  E  d'altra  parte  sarebbe  assai  strano  che  venisse 
presentato  in  un  modo  tanto  generico  un  membro  legittimo  dell'il- 
lustre casa  dei  conti,  marchesi,  duchi  di  Merania,  Istria,  Dalmazia,  il 
quale  per  soprappiù  veniva  creato  duca  di  Carniola.  La  cosa  ha  quindi 
del  misterioso. 

Perciò  su  questo  brano  si  presentano  due  questioni  :  una  poli- 
tica riguardante  la  Carniola,  un'altra  genealogica  riguardante  Anse- 
lino.  Quanto  alla  prima  è  necessario  ricordare  che  a  quel  tempo 
col  nome  di  Carniola  s' intendeva  quella  parte  del  paese  che  fu  poi 
chiamata  marca  Venda,  e  comprendeva  press'a  poco  l'odierna  Carniola 
centrale  e  meridionale  colla  denominazione  di  marca  di  Carniola.  Sin 
dai  tempi  di  Enrico  IV  era  stata  concessa  al  patriarcato  di  Aquileia; 
ma  durante  il  secolo  XII  vi  dominarono  soltanto  principi  secolari  e 
sulla  fine  di  quel  secolo  vi  primeggiavano  sopratutto  i  duchi  di  Mera- 
nia. Costoro  continuarono  a  godere  della  loro  preponderanza  anche 
quando  Federico  II  restituì  la  marca  al  patriarcato  ;  per  cui  nel  tempo 
a  cui  si  riferisce  il  nostro  documento  la  casa  di  Merania  dominava 
realmente  sul  paese  :  signore  legittimo  di  fronte  all'  impero  ed  all'  im- 
peratore era  il  patriarca  di  Aquileia,  cioè  appunto  Bertoldo  di  Merania; 
signore  sui  territori  anteriormente  posseduti  ed  erede  dei  diritti  e 
possessi  della  sua  casa  era  Ottone,  duca  di  Merania,  nipote  del  pa- 
triarca. Tutta  r  influenza  si  divideva  dunque  fra  questi  due  personaggi  ; 
e  si  può  ben  supporre  che  essi  avessero  nelle  loro  mani  il  mezzo  di 
regolare,  col  consenso  dell'  impero,  in  modo  definitivo  il  destino  poli- 
tico della  Carniola.  E  modificare  i  rapporti  interni  del  paese  secondo 
l'interesse  della  famiglia  o  secondo  le  circostanze  del  momento,  non 
era  alieno  dalle  mire  dei  meranesi.  Infatti  la  schiatta  era  proprio  allora 
tocca,  per  così  dire,  da  quel  marasma,  che  era  diventato  quasi  epide- 
mico dopo  la  fine  del  secolo  XII  nelle  principali  famiglie  bavaresi  e 
che  le  condusse  all'estinzione.  Dal  1231  non  la  rappresentavano  più 
che  il  patriarca  e  suo  nipote.  L'espressione  cognatas  del  diploma  non 
può  designare  che  un  personaggio  della  stirpe  della  moglie  del  duca 


152  PIO    PASCHINI 

Federico.  Il  fatto  che  quel  cognatus  abbisognava  d'essere  protetto  dal 
duca  e  futuro  re,  indica  ch'egli  non  era  di  origine  legittima;  un  mem- 
bro legittimo  della  famiglia  meranese  sapeva  patrocinarsi  da  solo  e 
difficilmente  si  sarebbe  rassegnato  a  perdere  la  diretta  dipendenza  dal- 
l'impero. Ed  eccoci  così  alla  questione  della  personalità  diAnselino; 
ed  essa  ci  conduce  alla  corte  del  patriarca  a  Cividale. 

La  vita  del  patriarca  Bertoldo  in  Friuli,  se  non  fu  così  scapigliata 
come  quella  che  aveva  condotto  in  Ungheria,  dove  aveva  dimorato, 
non  fu  però  molto  morigerata.  Documenti  non  ancora  stampati  ci 
provano  che  il  patriarca  ebbe  a  Cividale  relazioni  con  una  certa  signora 
Bettina  dalla  quale  ebbe  un  figlio,  di  nome  Enrico  o,  come  fu  detto 
con  forma  piìi  raddolcita,  Ayncio,  Aincil,  Ainzilin.  Si  può  provare  che 
il  padre  dotò  assai  riccamente  con  beni  in  Friuli  questo  suo  rampollo 
per  elevarlo  ad  una  condizione  sociale  conveniente;  e  finalmente  tentò 
di  procurargli  più  cospicui  favori.  Intendo  dire,  conclude  lo  Zahn, 
«  che  io  riconosco  in  Aincili,  figlio  del  patriarca,  l'Anselin  sinora  favo- 
loso del  ricordato  diploma  imperiale,  arricchito  già  dal  padre  e  dallo  zio 
con  beni  e  diritti  in  Carniola  e  che  doveva  ora  essere  sottoposto  alla 
difesa  del  marito  della  cugina  sua  Agnese,  cioè  a  Federico  II  duca 
d'Austria  e  di  Stiria  ».^ 

Questa  sua  conclusior.e  la  Zahn  rincalza  con  altri  argomenti,  che 
chiameremo  complementari,  perchè  diretti  a  prevenire  obbiezioni,  l 
rapporti  fra  il  patriarca  Bertoldo  ed  Anselino  spiegano  perchè  il  primo 
non  fu  presente  alla  dieta  di  Verona,  benché  la  sua  signoria  sulla  Car- 
niola quale  patriarca  e  le  nuove  condizioni  che  si  creavano  a  quel 
paese  avrebbero  richiesto  il  suo  personale  intervenuto.  Della  protezione 
di  Anselino  egli  incaricò  suo  nipote  Ottone,  il  quale  si  sa  che  fu  pre- 
sente alle  trattative. 

Il  titolo  di  cognatus  de!  duca  Federico  dato  ad  Anselino  doveva 
nel  medesimo  tempo  salvaguardare  diritti  provenienti  da  parentela  natu- 
rale, senza  palesarne  al  gran  pubblico  la  vera  origine.  Certo,  gli  alti 
circoli  feudali  non  avevano  rossore  di  ostentare  i  loro  bastardi,  i  docu- 
menti dei  Traungau  e  dei  Babenberg  ne  offrono  le  più  chiare  prove. 
Lo  stesso  Aincili  non  nasconde  nei  suoi  documenti  la  sua  origine,  né 
altri  ha  riguardo  di  dire  il  nome  del  padre  suo.  L'imperatore  Fede- 
rico II  a  sua  volta  non  mancava  quasi  mai,  nei  suoi  atti  ufficiali,  di 
riconoscere  come  suoi  figli  naturali  i  prediletti  Manfredi  di  Taranto, 
Federico  d'Antiochia,  Enzo  di  Sardegna;  quindi  egli  e  la  sua  corte  non 
dovevano  avere  scrupolo  di  creare  una  posizione  ad  un  bastardo  di 
una  stirpe  tanto  illustre  quale  era  quella  dei  Meranesi.  Solo  trattan- 
dosi del  figlio  naturale  di  un  principe  ecclesiastico  tanto  eminente,  era 

'  «  Che  colui  il  quale  fu  proposto  quale  duca  di  Carniola,  cioè  l'Anselinus  cognatus  tuus 
fidelis  noster  fosse  un  figlio  naturale  di  Bertoldo,  patriarca  d'Aquileia,  ha  dimostrato  verisimil* 
lo  Zahn  »  dice,  riferendosi  a  questo  studio,  anche  il  Luschin,  Oestericichische  Rechisgeschichte, 
Batnberg,  1914,  p.  109,  n.  6. 


l'identificazione  di  anselino  153 

necessaria  e  conveniente  una  certa  riserva  ed  una  circonlocuzione  nel 
designarlo. 

Come  il  duca  Federico  non  raggiunse  il  suo  ambizioso  intento, 
così  nemmeno  Anselino  ebbe  il  ducato  di  Carniola;  ed  il  documento 
rimase  lettera  morta.  Fin  qui  lo  Zahn. 

Ed  ora  alcune  brevi  ossservazioni.  Aynz  od  Agnius  «  olim  domine 
«  Betine  (7  febbraio  1251),  domini  Bertoldi  Patriarche  Aquil.  >>  (16  no- 
vembre 1256),^  sposò  una  figlia  Wilelmini  q.""  Jacomini  e  ne  ebbe  tre 
figli  Enrico,  Rainaldo,  Bertoldo,  ricordati  rispettivamente  nel  1277,  nel 
1281,  e  nel  1288.  Il  primo  dunque  portò  il  nome  del  padre  e  del 
prozio  marchese  d'Istria,  l'ultimo  il  nome  del  nonno.  Non  v'ha  dubbio 
infatti  che  Aynz  od  Aincius,  che  compare  più  volte  nei  documenti  friulani 
della  seconda  metà  del  secolo  XIII,  sia  un  addolcimento  ed  un  vez- 
zeggiativo del  nome  di  Enrico.  Ma  chi  dice  che  Ainz  od  Aincili,  come 
piace  di  scrivere  allo  Zahn,  sia  un  tutt'uno  con  Anselino?  È  curioso 
il  modo  spicciativo  con  cui  lo  Zahn  se  la  sbriga  in  una  nota  :  «  Si 
noti  qui,  che  il  nome  di  Anselin  non  sta  assolutamante  in  relazione 
coll'altro  assai  posteriore  di  Haensel,  Haenselin.  Invece  esso  palesa 
soltanto  una  forma  allungata  ed  addolcita,  dovuta  a  pronuncia  ed  a 
penna  italiana,  del  nome  Heinrich,  cioè  Hinzo.  Forme  posteriori  e 
derivate  da  essa,  o  dalla  sua  corrispondente  latinizzata  (Hinzelinus), 
sono  in  territorio  italiano  quelle  di  Enzius,  Ayncius,  Ainzil,  Aincili- 
nus  ecc,  ».  Ora  VAnselinus  del  documento  fa  evidentemente  pensare 
ad  un  Haensel  piuttosto  che  ad  un  Henricus.  Di  pili  quando  una 
persona  è  chiamata  correntemente  con  vezzeggiativo,  questo  diviene 
il  suo  nome  proprio  e  specifico  ;  ora  il  figlio  di  Bertoldo  è  chiamato 
bensì  Aynz  od  Agnius,  ma  non  Anselinus.  Mancherebbe  con  ciò  il 
fondamento  per  questa  identificazione.  Ma  passiamo  pur  sopra  a  que- 
st'argomento. 

Nel  ragionamento  delio  Zahn  è  evidente,  mi  pare,  quel  garbuglio 
che  i  logici  chiamano  petitio  principii  o  circolo  vizioso.  Per  dimostrare 
che  il  documento  è  attendibile  ricorre  alla  ipotesi  che  Anselino  deve 
essere  tutt'uno  coli' Aynz  di  Bertoldo,  che  a  costui  bisognava  formare 
una  posizione,  che  questa  posizione  gliela  doveva  creare  il  marito  di 
sua  cugina  Agnese.  Ma  tutto  questo,  o  parte  almeno,  dovrebbe  risul- 
tare da  altri  documenti,  avere  una  qualche  base  storica;  allora  potrebbe 
servire  di  sostegno  al  documento  ;  invece  tutto  ciò  non  risulta,  oppure 
non  lo  si  fa  risultare  che  dal  documento  stesso.  Ma  passi  anche  questo. 

Chi  avrebbe  potuto  credere  nel  giugno  del  1245,  che  l'anno  dopo, 
a  trenta  sei  anni  sarebbe  morto  in  battaglia  il   duca  Federico?  chi 


•  Questo  «  Ayncius  olim  Domine  Betyne  de  Civitate  Austrie  »  compare  pure  nel  Thesaurus 
Ecclesiae  Aquilejensis,  p.  81,  n.  127.  Nel  1275  egli,  infatti,  dichiarò  al  patriarca  Raimondo  di 
avere  in  feudo  dalla  chiesa  di  Aquileia  tre  mansi  ed  una  braida  ad  Udine,  altri  mansi  a  Buttrio, 
Bergona,  Predigoi,  Romans,  Versa  Schiavona,  Campomarzio  (Villa  Vicentina)  e  Fiumicello.  Non 
era  certo  mal  provveduto,  ma  non  pare  godesse  veri  diritti  signorili. 


154  PIO    PASCHINI 

avrebbe  potuto  sospettare  nel  1248  sarebbe  morto  immaturamente 
Ottone  Vili  duca  di  Merania  ?  ed  ambedue  senza  lasciare  eredi  legit- 
timi? Era  tolta  già  ogni  speranza  nel  1245,  che  essi  potessero  averne?^ 
ed  è  presumibile  che  si  disponesse  allora  definitivamente  dell'  istituendo 
ducato  di  Carniola  a  favore  del  bastardo  di  un  loro  comune  parente? 
D'altronde  Ottone  di  Merania  aveva  già  la  dignità  ducale,  aveva  il 
dominio  delle  terre  della  Carniola;  non  è  supponibile  affatto  ch'egli 
permettesse  che,  con  suo  danno,  queste  passassero  sotto  l'alto  dominio 
del  duca,  futuro  re,  d'Austria.  D'altra  parte  la  sede  d'Aquileia  aveva 
di  recente  ottenuto  dallo  stesso  Federico  II  imperatore  il  riconosci- 
mento dei  suoi  diritti  marchionali  sulla  marca  di  Carniola;  diritti 
poco  meno  che  teorici,  è  vero,  ma  diritti  non  facilmente  alienabili; 
non  è  affatto  probabile  quindi  che  se  ne  facesse  alienazione  a  favore 
del  duca  d'Austria,  senza  nemmeno  farne  un  cenno.  Da  parte  sua  il 
patriarca  Bertoldo,  per  quanto  lo  si  voglia  credere  preoccupato  di 
provvedere  ad  Aynz,  non  avrebbe  certo  né  voluto  né  potuto  consen- 
tire ad  una  diminuzione  dei  diritti  della  sua  chiesa,  senza  almeno  salvare 
le  apparenze.  E  d'altronde  la  storia  ci  dice  di  lui  quanto  pertinace- 
mente lottasse  per  rivendicare  i  diritti  della  sua  chiesa  in  Istria:  di 
più  egli  ereditò  buona  parte  dei  diritti  che  in  Carniola  aveva  avuto 
suo  fratello  Enrico,  ereditò  poi  quelli  che  ci  aveva  avuto  il  nipote 
Ottone;  erano  roba  sua  famigliare  quei  possessi,  avrebbe  potuto  di- 
sporre a  modo  suo  e  farne  larga  parte  ad  Aynz;  non  consta  che 
l'abbia  mai  fatto,  ne  beneficò  invece  alla  sua  morte  la  sua  chiesa  ;  è 
credibile  quindi  che  nel  1245  avesse  tanto  a  cuore  di  fare  di  lui  un 
duca?  è  presumibile,  che,  per  amor  suo,  il  duca  Ottone  avesse  tanta 
premura  di  procurare  a  suo  cugino  quella  dignità  con  evidente  danno 
proprio  ?  Inoltre  nel  1245  Ottone  doveva  supporre  che,  secondo  ogni 
possibilità,  sarebbe  stato  egli  l'erede  di  suo  zio,  non  viceversa;  per 
conseguenza  era  nel  suo  interesse  che  le  dignità  ed  i  possessi  della 
famiglia  non  fossero  distratti  a  vantaggio  d'un  bastardo,  tanto  più 
ch'egli  poteva  ancora  sperare  di  tramandarli  ai  suoi  figli  ed  alla  sua 
discendenza. 

Ed  ora  che  si  deve  concludere  su  questo  famoso  documento  del 
1245?  Poiché  è  certo  ch'esso  non  ebbe  mai  esecuzione,  anzi  non  fu 
nemmanco  redatto  in  forma  pubblica,  si  possono  dare  due  risoluzioni  : 
la  prima  ch'esso  sia  stato  manipolato  più  tardi,  verso  la  metà  del 
secolo  XVI,  a  vantaggio  delle  preoccupazioni  che  allora  dirigevano  la 
politica  interna  ed  estera  degli  Absburghesi;  la  seconda,  che  nel  1245 
veramente  si  agitasse  alla  corte  imperiale  il  nuovo  ordinamento,  quale 
si  ritrova  nel  documento  stesso,  e  lo  si  agitasse  come  uno  spaurac- 
chio contro  i  Meranesi,  sulla  cui  fedeltà  e  costanza  si  cominciava  a 


>  La  stessa  ambizione  del  duca  Federico  di  ottenere  le  corona  reale,  indica  in  lui  la  spe- 
ranza di  poterla  tramandare  ai  suoi  figli. 


MUTAMENTI    NELLA    PREPOSITURA    DI    CIVIDALE,    ECC.  155 

dubitare.^  Per  umiliare  i  Meranesi  Federico  II  imperatore  avrebbe 
accarezzato  il  duca  d'Austria,  facendogli  balenare  dinanzi  agli  occhi 
un'ingrandimento  di  territori  e  di  titoli  a  danno  de'  Meranesi  stessi. 
Se  si  accetta  questa  seconda  ipotesi,  che  non  mi  pare  improbabile, 
il  misterioso  Anselino  non  può  essere  affatto  il  figlio  di  Bertoldo; 
ma  un  nome  qualunque  che  sarebbe  poi  meglio  stato  determinato, 
quando  il  documento  sarebbe  stato  steso  in  forma  solenne.  Né  al 
duca  Federico  mancavano  parenti  più  o  meno  stretti,  che,  quali  cognati 
in  genere,  avrebbero  potuto  partecipare  alla  sua  nuova  grandezza  ed 
eventualmente  alla  sua  eredità. 

Ma  non  era  Agnese  di  Merania  moglie  del  duca  Federico  ?  non 
è  presumibile  che  anch'essa  lavorasse  in  favore  del  figlio  di  Bertoldo, 
suo  cugino  ?  Notiamo  però  che  ci  furono  momenti  in  cui  le  relazioni 
fra  il  Babenberg  ed  i  Meranesi  erano  assai  tese  ;  che  non  sembra  che 
il  matrimonio  di  Agnese  con  Federico  fosse  molto  fortunato;  anzi 
Agnese  visse  volentieri  presso  lo  zio  a  Cividale  piuttosto  che  presso 
il  marito.  Non  risulta  quindi  affatto  che  il  duca  Federico  dovesse 
sentire  tenerezze  speciali  verso  i  parenti,  legittimi  o  no,  della  moglie. 
Lasciamo  dunque  il  povero  Anselino  nell'oscurità  degli  enimmi  storici, 
e  risparmiamogli  delle  parentele  che  non  onorerebbero  la  sua  origine  ; 
diciamo  piuttosto  che  non  sappiamo  nulla  di  preciso  a  questo  riguardo, 
perchè  nulla  di  preciso  e  di  definitivo  fu  determinato  a  Verona  nel 
1245  riguardo  al  regno  d'Austria  ed  al  re  Federico  di  Babenberg. 

Pio  Paschini 


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Mutamenti  nella  prepositura  di  Cividale 
nella  seconda  metà  del  secolo  XIIl. 

Farebbe  opera  veramente  proficua  chi  si  adoperasse  a  darci  notizie 
esaurienti  ed  ordinate  sulla  storia  dei  nostri  maggiori  istituti  ecclesia- 
stici. Influirono  essi  infatti  enormemente  sia  nello  sviluppo  agricolo 
delle  nostre  campagne,  sia  nel  sorgere  dei  comuni  rurali  e  nel  creare 
la  classe  compagnuola,  sia  nelle  vicende  politiche  interne  ed  esterne. 

'  Si  noti  che  in  questo  momento  il  patriarca  Bertoldo  si  recava  a!  concilio  di  Lione,  e  che 
non  consta  affatto  che  egli  si  recasse  allora  colà,  presso  Innocenzo  IV,  col  compito  di  difendere 
gli  interessi  dell'  imperatore. 


156  PIO   RASCHINI 

Sin  dall'alto  medio  evo,  anzi  specialmente  nell'alto  medio  evo,  la  loro 
azione,  correttrice  di  quella  del  feudalesimo  nobiliare,  si  estendeva  in- 
termediaria e  moderatrice  fra  quella  del  patriarca  e  quella  delle  classi 
inferiori,  cooperando  così  efficacemente  a  creare  il  benessere  econo- 
mico, la  libertà  individuale  e  sociale,  l'equilibrio  nel  potere  supremo  e 
nei  feudi  della  nobiltà.  Perciò  questa  tentò  ripetutamente  di  impadronirsi 
e  di  sfruttare  a  proprio  vantaggio  questi  istituti  ;  ed  una  lotta  tenace  si 
perpetuò  per  conservarne  il  carattere,  per  impedirne  quelle  trasforma- 
zioni che,  pur  conservandone  in  apparenza  lo  stato  ecclesiastico,  ne 
mutassero  in  realtà  il  carattere  a  vantaggio  della   classe  dominante. 

Non  posso  fare  qui  una  storia  della  prepositura  del  capitolo  di 
Cìvidale  ;  non  ne  illustrerò  che  un  momento  storico,  che  ha,  mi  pare, 
una  grande  importanza  locale. 

1 .  La  prepositura  era  stata  creata,  o  meglio  riordinata,  dal  patriarca 
Giovanni  colla  celebre  costituzione  del  1015  che  regolò  i  diritti  del 
capitolo  di  Cividale.*  La  sua  storia  continuò,  senza  mutazioni  degne 
di  speciale  rilievo,  per  quasi  due  secoli,  sinché  il  preposito  Pellegrino 
non  fu  fatto  patriarca  di  Aquileia  verso  la  fine  del  1194.^ 

Il  30  marzo  1196  papa  Celestino  III  concesse  al  novello  patriarca 
di  conservare  la  prepositura  di  Cividale,  che  aveva  ottenuto  ancor  prima 
del  1173,  perchè  coi  redditi  essa  potesse  pagare  i  debiti  della  chiesa 
d'Aquileia.  E  Pellegrino  II  conservò  di  fatti  quel  beneficio.  Anche  il 
suo  successore,  il  patriarca  Wolfger,  ci  si  presenta  quale  preposito  di 
Cividale  il  20  giugno  1213  ed  il  3  maggio  1214;  ma  nei  primi  anni 
del  suo  governo  ci  si  presenta  come  preposito  un  Enrico,  il  quale  il 
29  agosto  1206  compilò  un  elenco  dei  redditti  della  prepositura.^ 

II  patriarca  Bertoldo  ottenne  la  prepositura  Cividalese  da  papa 
Onorio  III  il  7  dicembre  1224.  Avevano  fatto  istanza  al  papa  per  tale 
concessione  il  decano  ed  il  capitolo  di  Cividale,  mossi  dal  fatto  che 
la  prepositura  «  circa  temporalia  tantum  consistit  »  e  che  «  in  medio 
«  quasi  catulorum  leonum  exposita  »  correva  pericolo  di  venire  impove- 
rita e  rovinata  dalle  ambizioni  e  dall'  ingordigia  di  coloro  che  vi  aspi- 
ravano. È  probabile  però  che  il  motivo  vero  di  una  tale  petizione,  fosse 
quello  di  rendersi  sempre  più  favorevole  il  potente  patriarca. 

Durante  il  pontificato  di  Gregorio  IX  non  avvenne  nulla  che  mu- 
tasse Io  stato  di  fatto  della  prepositura.  Diventato  papa  Innocenzo  IV, 
ecco  un  improvviso  cambiamento,  che  si  spiega  solo  col  proposito  del 
papa  di  piegare  l'animo  del  potente  patriarca,  aperto  difensore  di  Fe- 
derico II.  Innocenzo  IV  concesse  la  prepositura  di  Cividale  a  Filippo 

•  De  Rubeis,  Moti.  Eccl.  Aquil.,  col.  493.  Cfr.  il  mìo.Le  vicende  politiche  e  religiose  del  Friuli 
nei  secoli  IX  e  X.  Venezia,  1911,  p.  89. 

2  Cfr.  queste  Memorie,  X,  1914,  p.  276  sgg. 

*  R.  Museo  di  Cividale,  Pergamene  Capitolari,  to.  Ili,  n.  12.  Il  Kalkoff,  nella  sua  opera 
sul  patriarca  Wolfger,  p.  143,  suppone  che  questi  avesse  la  prepositura  sin  dal  momento  del  suo 
ingresso  nel  patriarcato  e  che  Enrico  non  fosse  che  un  suo  vicario,  ma  mi  pare  un'  ipotesi  senza 
fondamento. 


MUTAMENTI    NELLA    PREPOSITURA    DI    CIVIDALE,    ECC.  157 

di  Saviola,  canonico  di  Mantova  ;  '  ed  allora  il  patriarca,  leso  nel  suo 
possesso,  intentò  lite  al  suo  avversario.  Il  papa  delegò  giudice  fra  i  due 
0[ttaviano  degli  Ubaldini]  cardinale  diacono  di  S.  Maria  in  via  Lata; 
e  dinanzi  a  lui  si  presentarono  Bonacorso,  quale  procuratore  di  suo 
zio  Filippo,  e  Guglielmo  decano  di  Aquileia,  quale  procuratore  del 
patriarca.  La  sentenza,  pronunciata  il  6  febbraio  1246,  fu  che  Filippo 
rinunciasse  alla  prepositura,  e  che  il  patriarca  in  compenso  gli  asse- 
gnasse de  camera  sua  ottanta  lire  di  imperiali,  pagabili  annualmente  nel 
monastero  dei  Crociferi  a  Venezia,  finché  non  fosse  provvisto  di  bene- 
ficio; Filippo  inoltre  era  liberato  da  ogni  obbligo  di  residenza  a  Civi- 
dale.  Papa  Innocenzo  a  Lione  confermò  questa  sentenza  il  7  febbraio.- 

II  10  febbraio  1246,  di  nuovo  ad  istanza  del  capitolo  di  Cividale, 
Innocenzo  IV  confermò  al  poi  patriarca  Bertoldo  il  possesso  della 
prepositura.'*  Ed  infatti  il  31  gennaio  1248  a  Soffumbergo,  quale  pa- 
triarca e  preposito  di  Cividale,  Bertoldo  diede  a  Bernardo  di  Zuccola 
l'investitura  feudale  di  certe  decime." 

Strano  riesce  quindi  il  comando  per  cui,  con  lettera  del  4  giu- 
gno 1248,  papa  Innocenzo  IV  impose  al  patriarca  Bertoldo  di  conferire 
a  Manfredo  di  Saviola,  canonico  di  Mantova,  la  prepositura  di  Cividale 
ch'era  stata  posseduta  per  il  passato  da  Filippo  di  Saviola.-' 

Filippo  cercò  dunque  di  far  passare  a  Manfredo  i  diritti  che  s'era 
acquistati  sulla  prepositura.  Ma  quello  eh'  è  curioso  si  è  che,  come  se 
nulla  fosse,  il  7  aprile  1249  da  Soffumbergo  il  patriarca  Bertoldo  diede 
incarico  a  Leonardo,  abbate  di  Rosazzo,  di  recarsi  a  Cividale,  di  con- 
vocare Peregrino  di  Cornoleto,  alcuni  canonici  ed  altri  personaggi  di- 
nanzi agli  ufficiali  ed  agli  altri  uomini  della  prepositura,  e  di  interrogar- 
gli sui  diritti  che  avevano  i  canonici  di  Cividale  sulla  prepositura  stessa. 

L'abbate  fece  le  interrogazioni  a  Cividale  il  21  aprile;  ed  il  13  feb- 
braio 1250  colà,  nella  casa  di  Beringerio  vicedomino,  in  presenza  del 
vicedomino  stesso  e  di  altri.  Bertoldo  confermò  quanto  l'abbate  aveva 
assunto.^' 

Quest'atto  del  patriarca  può  interpretarsi  come  una  precauzione  : 
poiché  un  forestiero  avrebbe  potuto  riuscire  a  prendersi  la  preposi- 
tura, conveniva  salvaguardare  i  diritti  dei  canonici  che  risiedevano 
sul  posto.  Finché  visse  Bertoldo  le  cose,  a  quanto  pare,  rimasero  a 
questo  punto. 

>  Un  Giacomo  della  Saviola  di  Riva  di  Trento  è  ricordato  con  sua  moglie  Letizia  il  10  aprile 
1208  a  Stenego,  come  venditore  di  certi  beni.  Codex  Wangianus,  p.  770,  in  Fontes  RR.  Aastriac, 
lì,  to.  V.  Il  canonico  fu  forse  suo  figliolo. 

2  Questo  risulta  da  una  pergamena  originale,  guasta,  senza  sigillo,  conservata  nell'Archivio 
Capit.  di  Udine,  fra  i  documenti  patriarcali. 

»  De  Rubeis,  Disseri,  mss.,  p.  235.  Nel  Bianchi,  Doc.  mss.,  n.  151,  il  documento  è  dato  coi- 
ranno 1245;  ma  la  datazione  originale  è  «  pontific.  anno  III  i,  che  ci  porta  indubbiamente  al  1246. 
Manca  questa  lettera  nel  Registr.  Innocent.  IV. 

'  Carreri,  Spilimbergensia  Documenta,  Venezia,  1895,  p.  3.  v, 

»  Registr.  Innocent.  IV,  n.  3920. 

«  Archivio  Capit.,  pergam.  in  folio. 


158  PIO    PASCHINI 

2.  Pietro  Capocci,  cardinale  di  S.  Giorgio  al  Velabro,  concesse 
infatti  a  Manfredo  di  Saviola  la  prepositura;  ma  Gregorio  di  Monte- 
longo,  patriarca  eletto  di  Aquileia,  si  oppose  a  questa  collazione  ;  perciò 
il  papa  affidò  allo  stesso  cardinale  la  decisione  della  causa;  ed  il  car- 
dinale il  23  dicembre  1252  a  Perugia  pronunciò  sentenza  pienamente 
favorevole  a  Manfredo  ;  sentenza  che  fu  anche  confermata  dal  papa 
il  17  gennaio  1253  a  Perugia,  dove  si  trovava/ 

Contro  questa  decisione  si  fecero  allora  innanzi  il  capitolo  di  Civi- 
dale  ed  il  podestà  di  quel  comune,  per  mezzo  di  un  loro  procuratore, 
ed  accusarono  Manfredo  di  certe  colpe,  che  non  ci  sono  di  meglio 
specificate.  Quindi  nuovo  esame  della  vertenza,  esame  che  fu  affidato 
a  Rodolfo  di  Mirabello.  E  Rodolfo  decise  che  non  si  poteva  ammet- 
tere il  procuratore  di  Cividale  a  provare  le  sue  accuse  contro  Man- 
fredo ;  perciò  il  papa,  confermando  questa  decisione,  delegò  il  priore 
di  Figarolo  (Ferrara)  a  dare  a  Manfredo  il  possesso  della  prepositura 
con  decreto  emanato  in  Assisi  1'  11  maggio  1253.^ 

Sembrava  oramai  chiusa  ogni  via,  per  impedire  che  la  prepositura 
di  Cividale  avesse  a  cadere  in  mano  di  un  chierico  forestiero  per  suo 
privato  vantaggio,  con  danno  evidente  del  capitolo,  della  città  ed  anche 
del  territorio  Cividalese.  Ma  né  il  patriarca,  né  il  capitolo  si  diedero 
ancora  per  vinti;  ed  il  14  agosto  di  quello  stesso  anno  1253,  raduna- 
tisi insieme  nel  palazzo  patriarcale  di  Cividale,  addivennero  alla  sop- 
pressione della  prepositura  stessa  ed  alla  ripartizione  delle  rendite  sue 
a  loro  proprio  vantaggio.  Le  ragioni  di  questa  misura  sono  esposte 
nell'introduzione  dell'atto  che  fu  allora  compilato:  «nei  tempi  pas- 
sati fra  i  prepositi  della  chiesa  di  Cividale  ed  il  suo  capitolo  avven- 
nero spesso  liti,  o  discordie  e  scandali,  con  grave  danno  della  chiesa 
stessa,  in  causa  della  durezza  e  dell'avidità  dei  prepositi,  i  quali,  ba- 
dando più  ai  propri  interessi  che  a  quelli  di  Cristo,  non  si  curavano 
di  soddisfare  ai  propri  obblighi,  ed  anche  per  causa  della  malizia  e 
della  negligenza  dei  loro  ufficiali,  i  quali  sottraevano  in  alcune  cose 
maliziosamente  ed  indebitamente  al  capitolo  i  proventi  e  gli  altri  diritti 
consueti  e  dovuti...  Perchè  cessasse  per  l'avvenire  qualunque  discor- 
dia e  si  potesse  invece  godere  pace  e  tranquillità  »,  il  patriarca  Gregorio 
da  una  parte  e  maestro  Rainaldo  decano  insieme  col  suo  capitolo 
dall'altra,  decisero  anzitutto  che  la  prepositura  fosse  completamente 
soppressa.  Il  patriarca,  quale  loci  diocesanus,  tenne  per  sé  la  pieve  di 
Tolmino  coi  mansi,  decime,  diritti  ad  essa  pertinenti,  la  villa  de  Osel- 
lano,  i  mansi  di  Gemona  e  di  Artegna,  la  casa  che  la  prepositura  pos- 
sedeva a  Cividale  colla  torre  corte  ed  orto.  A  lui  fu  riservato  il  diritto 
di  conferire  la  custodia  e  lo  scolasticato  (che  dovevano  essere  dati  solo 
a  canonici)  e  di  confermare  i  canonici,  che  prima  spettava  al  preposito. 

»  Registr.  Innocent.  IV,  n.  6221, 
»  Ibid.,  n.  6547. 


MUTAMENTI   NELLA   PREPOSITURA    DI   CIVIDALE,    ECC.  159 

Il  capitolo  a  sua  volta  ebbe  quanto  si  esigeva  di  lino  e  di  for- 
maggio nel  pievanato  di  Tolmino  e  parte  del  beneficio  e  dei  proventi 
S.  Maria  del  Monte,  per  riparare  il  chiostro,  i  luoghi  e  le  officine  dei 
canonici  ;  ad  esso  fu  riservata  pure  la  collazione,  istituzione  e  destitu- 
zione nelle  cappelle  dentro  e  fuori  la  città;  ebbe  pure  le  decime  delle 
porte  della  città,  i  beni  ed  i  possessi  nelle  ville  circonvicine,  i  mulini 
del  Natisone,  i  campi  di  S.  Daniele,  Tarcento  e  Segnacco,  i  possessi 
della  Carnia. 

Al  capitolo  dovevano  pure  ricadere  i  feudi  concessi  dal  preposito 
a  Risano  e  a  Premariacco,  quando  i  feudatari  morissero  senza  eredi  ; 
ed  i  famuli  della  prepositura  dovevano  prestare  al  capitolo  i  loro 
ministeria  et  officia  consueta  e  pagargli  i  censi  rimasti  sulle  terre  e 
sui  mansi. 

Il  patriarca  diede  come  sicurtà  dell'osservanza  del  patto  i  possessi 
ed  i  diritti  che  aveva  a  Premariacco  e  promise  di  ottenere  l'assenso 
del  capitolo  di  Aquileia  su  quanto  s'era  deciso.  Da  parte  sua  il  capi- 
tolo giurò  osservanza  per  bocca  di  Gardemomo  scolastico,  suo  procu- 
ratore, e  di  maestro  Berengerio,  preposito  di  s.  Odorico.^ 

Come  avrebbe  accettata  questa  disposizione  la  Curia  Romana,  inte- 
ressata nel  mantenimento  della  prepositura? 

Esiste  nel  registro  di  Innocenzo  IV  una  lettera  che  poi  è  stata 
cancellata.  In  essa  il  papa  incaricava  Alberto  canonico  di  Spira  di 
concedere  al  patriarca  Gregorio  ed  ai  due  suoi  prossimi  futuri  suc- 
cessori la  detta  prepositura  «  ad  opus  mense  patriarchalis  »,  perchè  essi 
ne  applicassero  a  proprio  vantaggio  i  proventi,  non  ostante  la  divisione 
fatta  tra  il  patriarca  ed  il  capitolo  e  la  collazione  già  fatta  a  Manfredo 
[di  Saviola]  canonico  di  Mantova  per  mandato  apostolico  (23  mag- 
gio 1254).*  Si  trattava  evidentemente  di  una  mezza  misura  per  conser- 
vare la  prepositura  e  porre  le  cose  com'erano  ai  tempi  di  Pellegrino  II. 
Certo  però  se  questa  decisione  non  fu  applicata,  il  patriarca  mantenne 
il  suo  possesso  sulla  prepositura.  Infatti,  in  un  documento  del  30  ot- 
tobre 1267,  il  patriarca  Gregorio  agiva  «  tamquam  praepositus  et  rector 
prepositurae  »  di  Cividale.^ 

3.  Non  sappiamo  come  procedessero  poi  le  cose  sin  verso  la  fine 
del  secolo  XIII.  È  probabile  però  che  realmente  avesse  esecuzione 
il  patto  concluso  fra  il  capitolo  ed  il  patriarca  Gregorio,  quantunque 
in  diritto  la  prepositura  avesse  ancora  la  sua  esistenza  canonica. 


•  Presenti  :  Rogerio,  vescovo  eletto  di  Ceneda;  Asquino,  decano  di  Aquileia,  gli  abbati  :  Al- 
berto di  Sesto,  Wecellone  di  Moggio,  Pietro  di  Summaga,  Wecellone  di  Beligna;  Erchemperto 
priore  di  Sittich,  Adamo  camerario  di  Aquileia,  maestro  Nicolò  di  Lupico,  Giovanni  di  Cucagna. 
De  Rubeis,  M.  E.  A.,  col.  73Q;  Cappelletti,  Chiese  d'Italia,  to.  Vili,  p.  307;  Bianchi,  Doc. 
Reg.,  n.  191.  Nel  voi.  V,  pergam.  6,  dell' Archiv.  Capit.  di  Cividale  (R.  Museo),  c'è  una  specie 
d'inventario  preciso  dei  redditi  della  prepositura,  che  dev'essere  stato  redatto  in  questa  circo- 
stanza per  servire  di  norma  nelle  modalità  della  soppressione. 

*  Reg.  Innoc.  IV,  n.  7507. 

»  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  314  ;  Doc.  niss.,  n.  332. 


160  PIO    RASCHINI 

Un  tentativo  di  mutare  questa  condizione  di  cose  si  ebbe  verso  la 
fine  del  patriarcato  di  Raimondo  della  Torre. 

II  20  aprile  1296  papa  Bonifacio  Vili  costituì  Pietro,  cardinale 
diacono  di  S.  Maria  nova,  legato  apostolico  a  Bologna  e  Romagna 
nella  Tuscia  e  marca  Trivigiana,  nel  patriarcato  di  Aquileia,  nelle  Pro- 
vincie di  Ravenna  e  Ferrara,  nelle  città  e  diocesi  della  Venezia  e  della 
marca  d'Ancona/  Tra  le  altre  facoltà  concessegli  c'era  quella  di  con- 
ferire le  prebende  vacanti  e  di  toglierle  a  coloro  che  se  ne  fossero 
mostrati  indegni. 

Un  atto  della  sua  legazione  ce  lo  fa  vedere  a  contatto  colla  pre- 
positura di  Cividale.  Qualcuno  deve  avere  scovato  fuori  che  la  prepo- 
situra, non  essendo  stata  giuridicamente  soppressa,  era  di  fatto  vacante  e 
poteva  essere  conferita  dal  cardinale  legato.  Ne  fu  tosto  investito,  in 
un  tempo  che  non  possiamo  precisare.  Sciatta,  vescovo  di  Bologna/ 
ch'era  stato  chierico  di  Pietro  cardinale  legato.  Costui  a  sua  volta 
rinunciò  nelle  mani  di  maestro  Giacomo  detto  Pagano,  cappellano  del 
medesimo  legato,  alla  prepositura  ed  al  canonicato  nella  collegiata 
di  Cividale.  Il  detto  cardinale  Pietro,  durante  la  sua  legazione  conferì 
allora  quei  due  benefici  a  suo  nipote  Pietro,  figlio  di  Duraguerra  Va- 
leriane di  Piperno,  e  papa  Bonifacio  VIII  1'  undici  marzo  1299  confermò 
quella  collazione  e  concesse  a  Pietro  che,  non  ostante  il  difetto  del- 
l'ordine e  dell'età,  potesse,  insieme  con  quei  due  benefici,  conservare 
anche  i  canonicati  e  le  prebende  che  possedeva  nelle  diocesi  di  Reims, 
Chartres,  Bologna,  Langres,  Terracina  ed  a  Piperno  in  diocesi  di 
Terracina.^  Come  si  vede,  costui  era  stato  largamente  provveduto  ! 

Non  sappiamo  quando  Pietro  da  Piperno  abbia  ottenuto  la  pre- 
positura di  Cividale,  ma  probabilmente  verso  la  fine  del  1296.  Poiché 
durante  il  1297  egli  aveva  già,  per  mezzo  di  un  suo  procuratore,  in- 
tentata lite  per  riottenere  alla  sua  prepositura  le  rendite  ed  i  diritti 
originari;  o,  meglio,  per  accrescerne  a  proprio  vantaggio  le  rendite. 
L'andamento  di  questa  lite  ci  è  noto  da  un  documento  del  24  lu- 
glio 1297,  col  quale  le  parti  litiganti  designarono  a  loro  arbitro  comune 
Tolberto,  vescovo  di  Treviso,  perchè  risolvesse  la  controversia;  e  da 
un  altro  del  31  luglio  quando,  a  Treviso  stesso,  il  vescovo  udì  le  parti 
e  proferì  la  sentenza  alia  presenza  di  alcuni  chierici  Trivigiani. 

Pietro  de  Felectinis,  procuratore  di  Pietro  da  Piperno  preposito 
di  Cividale,  chiese  che  //  patriarca  Raimondo  restituisse  alla  prepositura 
di  Cividale  18  mansi  nella  contrada  di  Tolmino,  e  la  decima  del  vivo 
e  del  morto  in  quel  luogo,  un  50  mansi  nella  villa  di  Ossellan,  altri 

*  Registr.  BonifdC.  Vili,  n.  1599,  1604  ;  1605.  Pietro  Valeriane  Duraguerra,  promosso  cardi- 
nale il  17  dicembre  1295,  morì  il  17  dicembre  1302. 

2  Schiatta  Ubaldini  compare  come  vescovo  di  Bologna  dopo  il  14  settembre  1295,  morì- 
nel  1298.  Egli  era  fratello  di  Ottaviano  degli  Ubaldini,  vescovo  di  Bologna  dal  1263;  ambedue 
erano  nipoti  del  celebre  cardinale  Ottaviano.  Cfr.  A.  Hauss,  Kardinal  Ottavian  Ubaldini,  Hei- 
delberg, 1913,  p.  80  n.  2. 

»  Registr.  Boniface  Vili,  Paris,  1903,  p.  2953. 


MUTAMENTI    NELLA    PREPOSITURA    DI    CIVIDALE,    ECC.  161 

mansi  a  Oeniona  ed  Artegna  con  altri  possessi,  la  torre  della  prepo- 
situra a  Cividale  colle  case  e  le  pertinenze,  parecchi  vassalli,  servì  di 
diversa  condizione  e  sesso,  beni,  diritti  e  possessi  diversi  della  prepo- 
situra stessa,  la  pieve  di  Volzana  colle  sue  cappelle  di  Tolmino,  S.  Vito, 
Caporetto  e  Plez  coi  loro  diritti,  il  diritto  di  conferire  lo  scolasticato  e 
la  custodia  della  collegiata  di  Cividale  e  di  confermare  i  canonici,  che 
spettava  alla  prepositura;  chiese  inoltre  dal  patriarca  la  restituzione 
dei  frutti  precepiti  e  la  rifusione  delle  spese  processuali  ;  chiese  pure 
che  //  decano  ed  i  canonici  di  Cividale  restituissero  la  villa  di  Risano 
con  quanto  ad  essa  spettava  di  giurisdizione  e  di  pertinenze,  i  mansi  di 
di  Premariacco  colla  giursidizione  su  quella  villa,  la  decima  delle  porte 
Brossana,  S.  Pietro,  S.  Silvestro,  Ponte  a  Cividale  coU'orto  e  la  braida 
di  S.  Stefano  a  Gagliano,  le  decime  di  Lauco,  e  Vinaio  in  Carnia 
coi  mansi,  diritti  e  pertinenze,  i  formaggi  delle  pecore,  il  lino  della 
pieve  di  Volzana  e  di  Tolmino,  la  chiesa  di  S.  Maria  di  Monte  (eccetto 
la  parte  che  spettava  alla  sagrestia  della  collegiata),  i  mansi  della 
pieve  di  Cividale,  un  manso  in  Accorea,  il  mulino  Pustervale  sul  Na- 
tisone,  due  mole  nel  mulino  de  Vato,  servi,  serve,  possessi,  beni,  diritti 
di  spettanza  della  prepositura,  il  diritto  di  conferire  le  cappelle  poste 
nel  pievanato  Cividalese,  e  la  rifusione  dei  danni  e  delle  spese  giu- 
diziarie. In  altre  parole  si  domandavano  tutti  i  beni  che  costituivano 
la  prepositura  e  che  erano  stati  divisi  tra  patriarca  e  capitolo. 

Valtero,  canonico  di  Cividale  procuratore  del  patriarca,  di  Bernardo 
decano  e  del  capitolo  di  Cividale,  a  sua  volta  richiese  che  il  preposito 
desse  alla  sua  collegiata,  com'era  suo  dovere  :  666  stala  ed  un  pe- 
sinale  di  frumento;  46  stala  e  due  pesinali  di  miglio;  15  stala  e  due 
pesinali  pisti{?);  23  stala  di  fave;  1116  conzi  e  due  boccali  di  vino; 
25  stala  di  noci;  209  agnelH;  181  pecore;  11  montoni;  14  porci;  420  gal- 
line; 10  oche;  66  polli;  3000  uova;  72  zonclate;  7  marche,  3  fortoni 
e  5  denari  aquileiesi;  1610  libre  di  cacio;  due  urne  d'olio;  tutta  la 
lana  delle  pecore  della  contrada  di  Tolmino  ;  —  ogni  anno  ;  —  chiese 
pure  la  rifusione  delle  spese  processuali.  Queste  evidentemente  erano 
le  contribuzioni  di  cui  il  preposito  per  il  passato  era  tenuto  verso 
il  capitolo. 

Il  vescovo  pronunciò  la  sua  sentenza  ed  aggiudicò  al  preposito 
Pietro  la  metà  della  decima  di  vivo  e  morto  della  pieve  di  Volzana,  le 
decime  di  Lauco  e  Vinaio  in  Carnia  coi  loro  mansi  diritti  e  pertinenze  ; 
il  mulino  Pusternote  e  le  due  mole  del  mulino  di  Vado  ;  tre  mansi  a 
Purgesimo;  5  mansi  a  porta  S.  Pietro  di  Cividale;  un  manso  in 
Oborza;  un  manso  in  Lesa;  5  mansi  a  Porta  Brossana;  sentenziando 
che  questi  beni  costituivano  la  dote  della  prepositura  ;  ed  obbligò 
Valtero,  quale  procuratore  del  patriarca  e  del  capitolo,  a  fare  la  de- 
bita consegna; 

sentenziò  poi  che:  la  villa  di  Risano  colle  giurisdizioni,  diritti  e 
pertinenze,  i  mansi  di  Premariacco  colla  giurisdizione  su  quella  villa, 


162  PIO    PASCHINI 

le  decime  delle  porte  :  Brossana,  S.  Pietro,  S.  Silvestro,  Ponte,  coll'orto 
e  la  braida  di  S.  Stefano  di  Gagliano,  i  formaggi  delle  pecore  ed  il 
lino  della  pieve  di  Volzana  e  di  Tolmino,  la  chiesa  di  S.  Maria  di  Monte 
(eccettuata  la  parte  che  spettava  e  la  sagrestia  di  Cividale)  i  servi  e  le 
serve,  la  collazione  delle  cappelle  poste  nella  pieve  di  Cividale  dove- 
vano appartenere  al  capitolo; 

decise  inoltre  che  :  i  mansi  posti  in  Osela,  Gemona  ed  Artegna,  la 
torre  della  prepositura  colle  case  e  pertinenze  ;  la  collazione  dello  sco- 
lasticato  e  della  custodia  di  Cividale,  la  conferma  dei  canonici,  i  vas- 
salli ed  i  servi  dovevano  appartenere  al  patriarca;  in  comune  a!  pa- 
triarca ed  al  capitolo  furono  assegnati  la  pieve  di  Volzana  con  metà 
della  decima;  18  mansi  nella  contrada  di  Tolmino  colle  cappelle  di 
S.  Vito,  Tolmino,  Caporetto  e  Plezzo  e  diritti  annessi; 

condannò  poi  il  preposito  Pietro  a  pagare  le  prestazioni  annue 
in  natura  richieste  dal  procuratore  del  capitolo  ;  ma  decise  che  per 
liberarsi  da  quest'onere  egli  assegnasse  al  capitolo  i  mansi  posti  a 
porta  Brossana,  Lesa  ed  Oborza  con  tutti  i  loro  redditi; 

stabilì  inoltre  che  l'esazione  dei  frutti  della  prebenda  prepositu- 
rale  toccasse  al  capitolo  di  Cividale  ;  questi  doveva  dare  annualmente, 
quale  reddito  fisso  per  questa  riscossione,  300  fiorini  d'oro  pagabili  a 
Natale  a  Padova  ed  a  Venezia  ;  per  amore  di  pace  e  concordia  stabilì 
pure  che  il  capitolo  desse  al  preposito  Pietro,  vita  sua  durante,  altri 
300  fiorini  d'oro  all'anno. 

I  procuratori  delle  due  parti  accettarono  e  ratificarono  subito  la 
sentenza  pronunciata.  Poi  ad  Orvieto  nella  casa  dello  zio  cardinale  il 
17  settembre,  Pietro  da  Piperno  approvò  a  sua  volta  la  sentenza  e  si 
mostrò  contento  che  fosse  eseguita.* 

Pietro  di  Piperno  doveva  davvero  essere  giovane  assai  se  1'  undici 
dicembre  1302  papa  Bonifacio  nel  concedergli  un  canonicato  aCambrai 
e  l'arcidiaconato  di  Brabante  in  questa  stessa  diocesi,  oltre  la  prepo- 
situra di  Cividale  che  già  aveva,  dovette  aggiungere  che  questa  conces- 
sione dovesse  avere  valore,  benché  egli  non  avesse  ancora  raggiunta 
l'età  canonica  e  ricevuti  gli  ordini  sacri.^  In  quest'anno  adunque  egli 
non  aveva  ancora  i  ventìquattr'anni  richiesti  dal  diritto  per  le  dignità 
capitolari.  Aveva  perciò  dinanzi  a  sé  una  carriera  splendida  ;  ma  la 
morte  gliela  troncò. 

II  canonico  Giuliano  nella  sua  cronica  ci  riferisce  che  «  il  4  marzo 
1314  morì  il  venerabile  uomo  Pietro  di  Piperno,  preposito  della  chiesa 
di  Cividale  ;  da  lui  il  capitolo  aveva  ad  jermam  la  prepositura  e  al 
prebenda  di  Cividale,  coll'obbligo  di  pagargli  ogni  anno  a  Venezia  od 

>  O.  B.  Verci,  Storia  della  Marca  Trivigiana,  doc.  n.  400  ;  tutto  il  documento  vi  è  stampato 
con  molti  errori,  specialmente  nei  nomi.  Un'  edizione  di  tutti  i  documenti  che  contengono  l'elenco 
dei  beni  della  prepositura  e  del  capitolo  di  Cividale  sarebbe  cosa  non  difficile  e  molto  utile  ed 
opportuna. 

»  Regìstr.  Boniface  VIU,  n.  4891  ;  quei  due  benefici  erano  stati  tolti  a  Guglielmo,  figlio 
di  Pietro  de  la  Flotte,  il  celebre  giurista  di  Filippo  il  Bello,  re  di  Francia. 


DELLA   TORRE   E   GRIMANl,    ECC.  163 

a  Padova  per  Natale  300  fiorini  »/  In  seguito  a  quella  morte  il  de- 
cano ed  il  capitolo  procedettero  all'elezione  del  successore.  E  con 
questo  ci  avviciniamo  al  tempo  dell'ultima  e  definitiva  soppressione 
della  prepositura  compiuta  dal  patriarca  Bertrando  il  2  febbraio  1338.- 

Pio  Raschini 


m 


Della  Torre  e  Grimani 
nei  versi  latini  di  un  cinquecentista. 

I.  —  Nel  1563  coi  tipi  di  Giordano  Zileto  usciva  a  Venezia  un 
volume  di  versi  latini  che  pubblicava  Publio  Francesco  Sp  inola  di  Mi- 
lano. ^  La  prima  parte  di  quel  volume  col  titolo  Poematon  libri  III 
porta  una  dedica  colla  data  del  15  dicembre  1562,  indirizzata  a  Massi- 
miliano li  di  Germania,  ch'era  stato  eletto  re  dei  Romani.  In  essa,  dopo 
le  lodi  di  prammatica,  egli  narra  :  «  Del  resto,  essendo  io  intervenuto, 
«  come  avviene,  al  convito  del  Torriano,  barone  ornatissimo,  legato 
«  dell'imperatore  tuo  padre  presso  i  Veneziani,  al  quale  parteciparono 
«  tutti  i  legati  e  questa  nobiltà,  non  potei  far  a  meno  di  cantare  con 
«  metri  eroici  al  suono  degli  strumenti  presso  di  loro  un  canto  per  la 
«  nuova  dignità  regale  a  te  concessa  ».  E  questi  canti  insieme  con  altri 
suoi  egli  appunto  dedicava  a  Massimiliano. 

Ed  infatti  il  primo  dei  componimenti  è  il  carme  in  esametri  detto 
in  quell'occasione,  e  termina  con  un'apostrofe  all'ambasciatore  cesareo 
Francesco  della  Torre  per  esortarlo  a  celebrare  ogni  anno  con  solenne 
convito  l'anniversario  della  fausta  data: 

At  Francisce,  Deis  est  quae  gratissima  cunctia, 
Quam  Pater  omnipotens  vultu  radiante  serenai, 
Hanc  epulae  Incera  celebrent,  et  vina  quotannis  : 
Hac  dtharae  re(feant,  et  suavi  tibia  cantu, 
Atque  ferant  Superis  tibi  debita  dona  beatis, 
Raimundusque  puer,  Laura  et  dulcissima  coniux. 

Francesco  della  Torre,  del  ramo  di  Gorizia,  era  figlio  di  Giovanni 
Febo  e  nipote  di  Febo,  ch'erano  stati  al  servizio  degli  ultimi  conti  di 

»  Muratori,  R.  /.  S.,«to.  XXIV,  p.  xiv,  p.  49,  §  134.  L'espressione  ad  fermam  significa 
appunto  la  cessione  dei  redditi  in  natura  verso  un  annuo  assegno  fisso  in  denaro.  » 

»  De  Rubeis,  Mon.  Eccl.  Aquil.,  coL  897  sgg. 

»  P.  Francisci  Spinulae  Mediolanensis  Opera,  Venetiis,  ex  off.  Jordani  Zileti,  MDLXIII, 
in-16°,  non  in-so,  come  fu  talvolta  affermato. 


164  PIO    TASCHINI 

Gorizia  e  degli  Absburghesi.  Fu  dapprima  consigliere  alla  corte  di  Fer- 
dinando I  d'Austria;  ne!  1555  fu  proclamato  barone  dell'impero  e 
nel  1558  ambasciatore  di  Germania  a  Venezia.  Quando  morì  Paolo  IV, 
il  quale  non  aveva  voluto  mai  tener  per  valida  la  rinunzia  di  Carlo  V 
all'impero,  perchè  fatta  senza  le  debite  forme,  e  per  conseguenza  non 
aveva  riconosciuto  come  imperatore  eletto  suo  fratello  Ferdinando,  il 
della  Torre  fu  inviato  ambasciatore  cesareo  presso  il  conclave  (anno 
1559).  Egli  giunse  a  Roma  il  27  agosto  e  fu  dai  cardinali  riconosciuto 
nel  suo  ufficio.  Partì  presto  da  Roma,  per  ritornare  all'ambasceria  di 
Venezia,  dove  morì  di  47  anni  nel  1566.  Aveva  sposata  Laura,  figlia  di 
Paolo  conte  d'Arco,  e  ne  ebbe  il  figlio  Raimondo  che  morì  nel  1623.^ 
Lo  Spinola  fu,  almeno  per  qualche  tempo,  di  casa  presso  il  Tor- 
riano;  infatti  un  altro  breve  componimento  in  tre  distici  è  a  lui  diretto 
per  chiedergli  i  testamenti  di  Mosca  e  di  suo  padre  Napo  della  Torre, 
che  il  Torriano  gli  aveva  letto  e  che  anche  il  legato  del  re  di  Francia 
desiderava  leggere: 

Quae  mihi  legisti  magni  antiquissima  Muscae 

Testamenta,  Napi  Turrigerique  patris, 
Fortibus  Insubrìum,  quos  edomuere  feroces 

Anguigeri,  te  ortum  Regibus  esse  docent. 
Nuncius  Huraltus  Regis  cupit  illa  videre: 

Mitte  utramque  mihi  protinus  ergo  notam.* 

Certo  nessun  bagliore  di  poesia  sprizza  da  questi  distici  e  nem- 
raanco  dalla  seguente  elegia,  che  riproduco  integralmente,  la  quale 
doveva  essere,  nell'intenzione  dell'autore,  una  glorificazione  della  casa 
Torriana. 

Ad  Franciscum  Turrianum  Baronem  illustriss. 

Ferdinandi  Imperatoris 

et  Consiliaram  et  ad  Venetos  oratorem. 

Quam  variaeque  vices  sint  rerum,  et  quanta  potentis 

Fortunae  sit  vis,  Turriger  ipse  vides. 
Namque  tuis  sceptrum  nostrae  maioribus  urbis 

Eripuit,  magnìs  et  dedit  Anguigeris: 
Inde  suo  constans  dedit  illud  Sfortiae  alunino, 

Egregius  Princeps  nunc  quod  Iberus  habet.' 
Non  tamen  eripuit  virtutem  bruta,  nec  ingens 

Cum  prisca  generis  nobilitate  decus. 
Ipse  refers  animos  patrum  vultusque:  creatur 

Nam  bonus  et  fortìs  fortibus  atque  bonis. 

»  LiTTA,  Famiglie  celebri  italiane:   Torriani  di  Valsnsxina,  tavole  Vili,  e  IX. 

*  «Ad  Joannetn  Huraltum  Boistallerium,  Caroli  IX  Galliarum  regis...  ad  Venetorum  Rem- 
«  pubticam  oratorem  >  Io  Spinola  dedicò  il  libretto  dei  suoi  Epoclon  il  5  giugno  1562. 

»  In  questi  versi  lo  Spinola  ricorda  il  trionfo  definitivo  dei  Visconti  (chiamati  anguigeri 
dal  serpente  che  campeggiava  sul  loro  stemma)  dopo  lunghe  e  feroci  lotte;  il  succedere  degli 
Sforza  ai  Visconti,  e  finalmente  l'occupazione  spagnuola  del  ducato  di  l\<ilano. 


DELLA    TORRE    E   ORIAtANI,    ECC.  165 

Ut  Pater  ille  Patruni  sapiens  Raimundus  avorntn 

Laudas  et  sequeris  splendida  gesta  Ducam  : 
Non  minus  es  prudens  Castone  Antistite,  inani 

Cuius  laetitiae  sors  inimica  fnit: 
Ut  profugam  Dantem  Patriarcha  Paganus  amanter 

Excepit,  sanctis  vatibus  ipse  faves: 
Ludovicus  uti  dilexit  episcopus  aequum, 

Tu  veri  leges  iustitiaeque  colis. 
Munificus  tanquam  Michael  Praesnl,  houoras 

Dicere  magna  quibus  Cynthius  ore  dedit: 
Est  quae  miratus  Rex  olim  saepe  Quiritnm, 

Cum  Komae  orator  Caesaris  ipse  fores, 
Quae  pulchra  in  coelura  feri  Thuscia  laudibus  omnis, 

Quae  Veneti  celebrante  et  mea  Musa  canit. 
Ergo,  quae  dederat  patribus  sors,  despice  cuncta, 

Laetare  et  quae  sunt  haec  bona  vera  tibi. 

Ed  ora  fermiamoci  a  vedere  quali  sieno  i  personaggi  ricordati  in 
questi  due  componimenti. 

II  primo  è  Napo  della  Torre,  fratello  del  patriarca  Raimondo  e  figlio 
di  Pagano.  Dopo  perduto  Como  fu  sconfitto  coi  suoi  a  Desio  da  Ottone 
Visconti,  l'undici  gennaio  1277,  e  morì  prigione  a  Como  il  16  agosto  1278. 

Corrado,  detto  Mosca,  figliuolo  di  lui,  fu  pure  in  prigione  a  Como 
insieme  col  padre;  dalla  quale  uscì  liberato  nel  1284.  Il  quattro  lu- 
glio 1293  accettò  la  podesteria  di  Trieste,  con  speciali  patti.  Ci  resta 
il  suo  testamento  del  20  aprile  1298  in  favore  dei  figli  Pagano,  Adoardo, 
Rainaldo,  Floramonte  detto  Moschino  e  Napoleone.*  Non  conosco  invece 
memoria  del  testamento  di  suo  padre  Napo.  Mosca  ritornò  a  Milano  nel 
1302,  quando  prevalse  il  partito  dei  suoi,  e  vi  morì  il  24  ottobre  1307. 

Raimondo  fu  figlio  di  Pagano  e  fratello  di  Napo;  arciprete  di 
Monza  dapprima,  poi  vescovo  di  Como  intorno  al  1262,  fu  eletto  pa- 
triarca di  Aquileia  il  21  dicembre  1273,  morì  ad  Udine  il  23  febbraio 
1299  e  fu  sepolto  in  Aquileia.  Grande  principe,  e  forse  più  principe 
che  prelato,  portò  nel  suo  governo  in  Friuli  tutto  l'ardore  impetuoso 
della  sua  schiatta  e  le  forme  ed  i  modi  dei  tempi  nuovi. 

Gastone  fu  dapprima  arcivescovo  di  Milano  ed  ebbe  il  pallio  per 
quella  sede  il  15  luglio  1308.  Coronò  imperatore  Enrico  VII  di  Lus- 
semburgo a  S.  Ambrogio  di  Milano  il  6  gennaio  1311.  Costretto  a 
starsi  lontano  dalla  sua  sede  per  il  prevalere  di  Matteo  Visconti,  fu  eletto 
patriarca  di  Aquileia  il  10  gennaio  1317  ;  non  potè  prendere  possesso 
della  nuova  sede,  perchè  morì  a  Firenze  per  una  caduta  di  cavallo  il 
20  agosto  1318  e  colà  fu  sepolto.  Era  figlio  di  Corrado  Mosca  e  di  Al- 
legranza  di  Rho. 

Pagano,  figlio  di  Caverna,  altro  fratello  del  patriarca  Raimondo 
che  morì  prigione  a  Como,"^  rimase  in  Friuli  collo  zio  e  divenne  de- 

»  Bianchi,  Docum.  summatim   regesta,  n.  691  e  798.  Rimarrebbe  però  a  vedere  se  alluda 
proprio  a  questo  testamento  Io  Spinola. 
*  LiTTA,  op.  cit.,  tav.  X. 


166  PIO    PASCHINI 

cano  di  Aquileia.  Alla  morte  di  Pietro  Gerra  (19  febbraio  1301),  che  fu 
patriarca  un  anno,  sperò  di  diventar  egli  patriarca;  ma  gli  fu  invece 
preferito  Ottobono  de'  Razzi,  vescovo  di  Padova;  ed  egli  fu  fatto  ve- 
scovo di  Padova  in  vece  sua,  il  9  aprile  1302.  Successe  poi  al  cugino 
Gastone  nel  patriarcato  il  23  marzo  1319,  morì  il  19  dicembre  1331 
e  fu  sepolto  in  Aquileia.  Della  benevola  accoglienza  ch'egli  avrebbe 
fatta  a  Dante  Alighieri,  come  accenna  lo  Spinola,  tratteremo  a  parte. 
Quarto  dei  patriarchi  fu  Lodovico,  che  eletto  vescovo  di  Corone 
in  Grecia  il  15  maggio  1357,  fu  chiamato  a  succedere  a  Nicolò  di 
Lussemburgo  nel  patriarcato  il  10  maggio  1559; 

e  sulla  fronte 
italica  gli  sta,  traccia  cruenta, 
il  tradimento  dì  Rodolfo  d'Austria.  ' 

Ma  di  questo  lo  Spinola  non  poteva  parlare  all'ambasciatore  di  un 
altro  Absburghese,  e  si  contenta  di  proclamarlo  amico  della  giustizia. 
Morì  il  30  luglio  1365. 

L'ultimo  dei  celebri  Torriani  qui  ricordati  è  un  personaggio  assai 
meno  noto  e  del  quale  lo  Spinola  non  potè  celebrare  il  termine  della 
carriera. 

Il  vescovo  Michele,  che  egli  presenta  come  munifico  protettore 
dei  letterati,  è  Michele  della  Torre,  che  da  chierico  Aquileiese  fu  no- 
minato vescovo  di  Ceneda  il  7  febbraio  1547,  dopoché  il  patriarca  Gio- 
vanni Grimani  ebbe  rinunciato  a  quella  sede.  Il  20  agosto  fu  mandato 
da  Paolo  IH  nunzio  in  Francia,  poco  o  nulla  potè  quindi  occuparsi 
del  vescovado.  Dall'undici  ottobre  1551  al  28  aprile  1552  fu  presente 
al  concilio  di  Trento.  Il  15  settembre  1553  fu  destinato  quale  vice- 
legato a  Perugia,  donde  il  31  maggio  1555  fu  chiamato  presso  il  papa. 
Il  10  ottobre  1561  fu  di  nuovo  presente  a  Trento.  Piti  tardi,  dal  1566 
al  1568  fu  di  nuovo  nunzio  in  Francia.  Finalmente  il  12  dicembre  1583 
fu  da  Gregorio  XIII  nominato  cardinale  ;  ma,  non  avendo  potuto  venire 
a  Roma  a  prendere  le  insegne  della  sua  dignità,  non  gli  fu  assegnata 
la  chiesa  titolare.  Morì  il  21  febbraio  1586.  ^ 

Un  altro  componimento  dello  stesso  Spinola  in  onore  di  France- 
sco della  Torre  si  trova  nel  libretto  degli  Epodon  ^  Ne  riferirò  solo  la 
parte  che  interessa.  Febo  fa  osservare  al  poeta  essere  cosa  inutile  ch'egli 
canti  le  Iodi  del  Torriano. 

V.  9.  Ista  urbs  (Milano),  ad  immortalitatem  in  qua  patris 

Avique  virtutes  sui, 
Napique,  Cassoni  atque  robur  incliti  et 
Tot  fama  maiorum  Ducum 


'  O.  Ellero,  Canti  della  patria,  Udine,  1913,  p.  26. 

»  EuBEL,  Hierarchia  Catholica  Medii  Aevi,  to.   Ili,  p.  177,  dagli  Ada  Consistorialìa. 
»  Nello  stesso  volume  delle  opere  a  p.  33  degli  Epodon.    Le  diverse  sezioni  sono  paginate 
a  parte. 


DELLA   TORRE    E   ORIMANI,    ECC.  167 

Est  consecrata,  praedicabit  iugiter 

Trophaea  Francisci  fidem, 
Recturaque,  mentis  et  suae  altitudinem  : 

Quartus  Pius  quae  Pontifex 
Miratus  hoc  Insubrium  in  legato  ait 

Domesticis  quotidie  ; 
Quid?  Turrianus  ille  avorum  Principum 

Regumque  patriae  meae 
Suùra  comasque,  et  ora,  vultum,  et  pectora,  et 

Aequum,  sonosque  non  refert? 

Ma,  conclude  il  poeta,   se  non  c'è  una  musa,  che  celebri  degna- 
mente le  lodi  del  Tornano,  s'accontenti  questi  del  fatto   che  non    'è 
città  o  casa  della  patria   che  ne  taccia.   Pio  IV,  come  è  noto,  era  d 
nascita  milanese  ;  e  lo  Spinola  non  era  affatto  alieno  dal  dare  origine 
regale  ai  personaggi  che  celebrava.  Come  chiama  qui  i  Torriani  pro- 
genie di  principi  e  di  re,  così   faceva  derivare  gli  Ugonii   di  Brescia, 
da  Ugo  Capeto  re  di  Francia.  * 

E  ritorniamo  ora  al  patriarca  Pagano  della  Torre.  Piace  immagi- 
narlo quale  Io  scolpì  il  poeta: 

Ecco,  tra  loro,  in  regio  atteggiamento 

rifulgere  Pagano  della  Torre, 

e  gettare,  tra  colpi  aspri  di  spade, 

fiorite  d'arte  e  frutti  di  scienza  ! 

AUor  passò  nell'ombra  del  castello 

turrito  il  fiero  spirito  di   Dante, 

colse  l'acre  ges  fasta,  ultimo  suono 

latino  a  pie  dell'Alpe,  e  sul  tuo  viso 

lo  scosse  a  segno  di  tua  stirpe,  o  Italia  !  ' 

Ma  che  dire  dell'incontro  di  Dante  con  Pagano  e  del  soggiorno 
di  lui  in  Friuli? 

Una  bella  pagina  dello  Zingarelli  riassume  quanto  finora  s'è 
detto  sull'argomento  :  «  Molto  incerta,  e  quasi  condannata,  è  la 
tradizione  che  Dante  abbia  visitati  gli  estremi  confini  orientali  della 
penisola  ;  sebbene  egli  ricordi  il  Ces  fasta  degl'Istriani  in  De  Vulg. 
Eloqu.,  I,  XI,  5,  e  noti  come  questo  dialetto  differisca  dal  veneto 
e  da  quel  d'Aquileia  (I,  x,  7)  ;  ^  v'è  anche  chi  vuole  che  li  abbia  var- 
cati, e  visitata  la  grotta  di  Adelsberg.  Lo  storico  friulano  Giovanni 
Candido,  della  seconda  metà  del  secolo  XV,  scrisse  che  Dante  era  stato 
un  anno  in  Udine  presso  il  patriarca  Pagano  della  Torre,  venutovi 
nel  1319;  ma   poiché  egli   dà   prova  di  copiare  spesso  il  Platina,*  e 


*  Prefazione  agli  epigrammi. 

*  Ellero,  Ioc.  cit. 

»  Veramente  non  mi  pare  che  questo  risulti  dal  testo  di  Dante. 

*  Ed  infatti  il  Candido  prese  dal  Platina  quasi  alla  lettera  il  passo  che  riguarda  le  vicende 
politiche  del  principio  del  secolo  XIV.  Cfr,  Gius.  Bianchi,  Del  preteso  soggiorno  di  Dante  in 
Udine  ed  in  Tolmino,  Udine,  1844,  p.  14. 


168  PIO    RASCHINI 

anche  dove  parla  eli  Dante  ripete  parecchie  sue  parole,  è  probabile  che 
scambiasse  nel  Platina  Foramliuiij  Forlì  con  Forum] iilii,  Friuli,  indot- 
tovi dai  famosi  anfra  Julia  dell'epistola  metrica  di  Boccaccio.  '  È  vero 
che  una  leggenda  popolare  narra  come  nella  grotta  di  Tolmino,  sulle 
rive  dell'Isonzo,  si  ricoverasse  Dante  per  sfuggire  ai  nemici,  e  avesse 
abitato  nel  castello  sulla  collina  soprastante;  ma  la  sua  origine  lette- 
raria si  accusa  col  riferirsi  al  racconto  di  uno  storico  della  fine  del 
secolo  XVI,  Giacomo  Valvasone  di  Maniago,  e  questi  attinse  principal- 
mente al  Candido.  A  ciò  si  aggiunge  che  Pagano  della  Torre  era  ne- 
mico di  Cangrande,  ed  amicissimo  dei  suoi  peggiori  nemici  !  A  queste 
conclusioni  dell'abate  Bianchì,  generalmente  accettate,  il  Bassermann 
ha  contrapposto  alcune  sue  belle  osservazioni  ispirategli  dalla  visita 
dell'angusta  e  strana  grotta  di  Tolmino...  D'altra  parte,  è  riconosciuto 
che  anche  l'accenno  al  sepolcreto  di  Pola,  presso  la  foce  del  Quar- 
nero  {Inf.,  ix,  133  sg.): 

Che  Italia  chiude  e  suoi  termini  bagna, 

non  prova  la  presenza  di  Dante  in  quel  luogo,  siccome  già  ad  Arli  presso 
le  foci  del  Rodano:  erano  curiosità  locali  molto  note  allora,  per  racconti 
scritti  e  orali,  nella  frequenza  delle  relazioni  con  quei  paesi».  E  con- 
tinua lo  Zingarelli  notando,  che  fu  il  Bassermann  a  supporre  che  Dante 
entrasse  nella  grotta  di  Adelsberg  e  che  il  Tambernic  si  dovesse  identifi- 
care col  monte  di  Javornik  presso  Zirknitz.  «  Pure  un  argomento  storico 
egli  addita  felicemente  nell'amicizia  di  Cangrande  col  conte  Enrico 
di  Gorizia,  sino  all'ottobre  1319;  nell'ottobre  1316  anzi  questi  venne 
con  magnifico  seguito  di  cavalieri  ad  un  torneo  bandito  in  Vicenza  ».  ^ 
È  un  indizio  però  troppo  tenue  questo;  un  altro  fatto  merita  invece 
messo  in  rilievo  a  questo  riguardo. 

Nota  giustamente  lo  Zingarelli  che  un  avvenimento  della  vita  di 
Albertino  Mussato  ebbe  su  Dante  maggiori  effetti  che  non  paia  ;  «  che 
il  Mussato  il  3  dicembre  1314,  dopo  aver  composta  la  patriottica  tra- 
gedia Eccerinis,  otteneva  con  grande  pompa,  tra  il  giubilo  di  tutta  Pa- 
dova, l'alloro  poetico...  Nobili  ed  ecclesiastici,  il  vescovo  e  il  rettore 
dello  Studio,  dottori  e  mercatanti,  avversarli  ed  amici  gli  s'inchinavano, 
e  decretavano  per  di  più  una  festa  annuale  in  suo  onore  ».  La  corona 
di  lauro  gli  fu  conferita  come  una  laurea  dottorale,  ma  con  cerimo- 
nia nuova  e  solenne.  «  E  Dante  non  sarebbe  stato  egli  meritevole  di 


"  Anche  quest'ipotesi  e  del  Bianchi,  ib.,  p.  17.  Il  Platina  dice  così:  «Albi  (i  Bianchi) 
«  Florentia  pulsi  Forumlivii  populariter  comraigrarunt  :  quorum  de  numero  habitus  est  Dantes  Al- 
«  degerius  ecc.  -.  Invece  il  Candido  ha:  «  Apud  quem  (Pagano,  vescovo  di  Padova)  Dantes  Alige- 
«  rius...  urbe  pulsus  per  annum  Utinae  summo  favore  commoratus  est».  Il  passo  è  ben  diverso 
nei  due  autori. 

•  N.  ZiNOARELLi,  Dante,  Milano,  Vallardi,  p.  321  sg. 


DELLA   TORRE   E  ORIMANI,    ECC.  169 

altrettanto?  Non  era  anch'egli  poeta  e  non  amava  di  pari  amore  la 
sua  Firenze,  e  non  aveva  corso  pericoli  per  lei  ?  Se  non  sentì  invidia 
per  il  Mussato,  cominciò  di  certo  a  nutrire  più  gagliardamente  che 
mai  una  speranza,  l'alloro  poetico  ».  ^ 

Ma  come  il  Mussato  ebbe  il  lauro  nella  sua  Padova,  che  cele- 
brava coll'opera  e  coi  versi,  così  Dante  voleva  averlo  nella  sua  Firenze, 
com'egli  dice  in  quel  sospiroso  ricordo  della  patria,  col  quale  inco- 
mincia il  canto  XXV  del  Paradiso. 

Con  altra  voce  ornai,  con  altro  vello 
Ritornerò  poeta,  ed  in  sul  fonte 
Del  mio  battesmo  prenderò  il  cappello  (vv.  7-9). 

Si  noti  ora  che  il  vescovo,  il  quale  insieme  coi  dottori  dell'uni- 
versità e  coi  cittadini  di  Padova,  diede  la  corona  al  Mussato  era  pro- 
prio Pagano  della  Torre;  e  che  a  Pagano  il  Mussato  dedicò  la  sua 
De  Qestis  Italicorum  post  mortem  Menrici  VII  Caesaris  historia;  per- 
chè Pagano  stesso  aveva  pregato  il  Mussato  di  non  lasciare  andare  in 
dimenticanza  le  vicende  accadute  dopo  il  1313,  ma  di  tramandarne 
col  suo  scritto  memoria  ai  posteri.  ~  Quest'amicizia  col  Mussato  ci  fa 
intendere  che  Pagano  doveva  essere  un  fautore  dei  buoni  studi,  una 
mente  aperta  alle  manifestazioni  della  vita  dello  spirito,  che  era  allora 
in  sul  più  be!  fiore  in  Italia. 

Qual  meraviglia  dunque  che  Dante  si  portasse  presso  di  lui  per 
averne  protezione  e  soccorso  nelle  amarezze  dell'esilio  !  Del  resto  tanti 
erano  i  fiorentini  che  commerciavano  in  Friuli  e  che  vi  avevano  piantata 
salda  dimora,  tanti  erano  pure  quelli  che  dai  della  Torre  avevano  uf- 
fici ed  incombenze,  che  Dante  poteva  credersi  come  in  famiglia.  E  poiché 
un  soggiorno  di  Dante  a  Verona  in  più  riprese  è  certissimo  ;  un  sog- 
giorno a  Padova  ed  a  Treviso  ed  in  altri  luoghi  della  Marca  è  quasi 
sicuro,  quale  meraviglia  che  Dante  si  sia  incontrato  con  Pagano  ?  quale 
meraviglia  che  si  sia  recato  anche  in  Friuli,  ch'era  allora  in  dirette  rela- 
zioni politiche  col  comune  di  Padova  e  coi  Caminesi  di  Treviso?  E 
qui  ora  ci  soccorrono  le  testimonianze  degli  scrittori. 

Ecco  le  parole  del  Candido:  «  Pontifex  (Giovanni  XXII)  autem 
«  audita  morte  Castoni  ne  quid  amisisse  Guelphi  viderentur,  Paganum 
«  Turrianum  Episcopum  Patavinum  Patriarcham  surrogavit,  apud  quem 


'  Op.  cJt.,  p,  292.  Avevo  scritto  da  parecchi  mesi  queste  righe,  quando  lessi  nel  Giornale 
Statico  della  Lettenitura  italiana,  voi.  68,  1916,  fase.  1,  p.  209  sgg.,  uno  studio:  Dante  e  Al- 
bertino Mussato  di  Antonio  Belloni.  Il  Belloni  vede  una  chiara  ostilità  in  Dante  contro  Padova, 
ed  una  specie  di  gelosia  contro  il  Mussato,  e  la  cosa  è  assai  probabile  quando  $i  pensi  all'amicizia 
del  poeta  verso  Cangrande  della  Scala;  ma  egli  ammette  pure  un  soggiorno  di  Dante  a  Padova 
nel  1306;  come  non  avrebbe  egli  allora  conosciuto  Pagano  che  ne  era  il  vescovo?  Ed  è  tutt* altro 
che  improbabile  che  Dante  avesse  parte  nei  negoziati  che  corsero  poi  in  seguito  fra  Padova,  Ve- 
rona, il  conte  di  Gorizia  ed  il  Friuli. 

*  MijRATORi,  R.  I.  S.,  to.  X,  p.  571. 


170  PIO    PASCHINI 

«  Dantes  Aligerius,  poeta  insìgnis  Oibelinos  secutus  a  Florentlnis  Ouel- 
«  phis  urbe  pulsus,  per  annum  Utinae  summo  favore  commoratus  est  : 
«  inde  ad  Canem  Orandem  Veronensium  regulum  digressus,  cuius  ope, 
«  quamvis  frustra,  persepe  in  patriam  redire  conatus  est  ».  ^ 

L'opera  del  Candido,  già  completata  nel  1519,  fu  pubblicata  per  le 
stampe  il  15  luglio  1521  a  Venezia  coi  tipi  di  Alessandro  dei  Bindoni,*  e 
fu  subito  esaltata  da  un  coro  di  lodi  da  parte  di  coloro  che  ebbero  la 
ventura  di  leggerla.  Certo  non  vi  mancano  errori  e  dimenticanze  ;  ma 
era  quanto  di  meglio  si  poteva  allora  pretendere  da  un  umanista  eru- 
dito, il  quale  aveva  fatto  il  possibile  per  illuminare  il  passato  di  un 
paese,  ignorato  dai  più.  Il  supporre  poi  col  Bianchi,  ch'egli  avesse 
potuto  confondere  il  Foramlivii  del  Platina  con  il  Forumialii  è  un  torto 
che  gli  si  fa  gratuitamente;  non  era  tanto  ignorante  il  Candido  da 
prendere  un  equivoco  così  grossolano. 

Merita  qualche  attenzione  un'altra  testimonianza. 

Il  cividalese  Marcantonio  Nicoletti  nelle  sue  Vite  degli  scrittori 
volgari  illustri,  scrivendo  di  Dante,  dopo  avere  narrato  il  soggiorno 
di  lui  in  Lunigiana  e  l'andata  a  Parigi,  soggiunge:  «Girò  anco  gran 
parte  della  Germania . . .  ripassando  in  Italia  si  fermò  in  Friuli.  Al  go- 
verno della  provincia  sedeva  allora  Pagano  della  Torre  di  Milano, 
patriarca  d'Aquileia,  che  con  sincerità  d'animo  e  larghezza  d'effetti  in 
Udene,  città  nobile,  per  un  anno,  appresso  molti  altri  forusciti,  lo  tenne 
ed  onorò,  facendolo  anche  in  un  luogo  celebre  da  mano  eccellente 
ritrarre  al  naturale.  Quindi  partito,  appresso  diversi  signori  assai  agia- 
tamente visse,  ecc.  ».^ 

Può  darsi  che  il  Nicoletti,  posteriore  al  Candido,  abbia  presa 
da  lui  la  notizia  della  venuta  di  Dante  in  Friuli,  e  che  abbia  avuto 
la  pretesa  di  completarlo  con  una  supposizione  sua,  che  cioè  Dante 
venisse  in  Friuli  nel  ritorno  dal  viaggio  della  Germania.  Viaggio  questo 
che  non  trova  certo  grazia  al  cospetto  dei  moderni  scrittori  della 
biografia  del  grande  poeta. 

Ma  è  proprio  necessario  supporre  che  il  Nicoletti  copiasse  il  Can- 
dido? Ecco  che  qui  ci  soccorre  la  testimonianza  dello  Spinola,  anteriore 
a  quella  del  Nicoletti.  Quando  costui  scriveva  i  suoi  distici,  era  da 
poco  tempo  giunto  a  Venezia  da  Milano  e  da  Brescia.  Da  alcune  no- 
tizie che  egli  ci  dà  di  sé  nei  suoi  versi,  sappiamo  che  venne  a  Venezia 
verso  la  fine  di  settembre  del  1561,  dove  si  pose  subito  in  relazione 
colla  casa  Mocenigo  e  coU'ambasciatore  francese.  Il  15  dicembre  1562 
dedicava  poi  i  suoi  versi  a  Massimiliano  II.  Donde  tolse  egli  le  notizie 


»  Jo.  Candidi  Commentariorum  Aqnileiensium,  Lib.  VI  ;  riprodotto  nel  Thesaurus  Antiqui- 
taUtm  et  Historiarum  Italiae  Jo.  Georg.  Graevii,  Lugduni  Batav.,  1722,  to.  VI,  p.  IV,  p.  49. 

*  O.  G.  LiRUTi,  Notizie  delle  vite  ed  opere  scritte  da^  letterati  del  Friuli,  Venezia,  1762, 
to.  II,  p.  220.  Cfr.  pure  nel  Graevio,  op.  cit.,  la  prefazione. 

»  Le  vie  di  Dante,  Petrarca  e  Boccaccio  scritte  fino  al  sec.  XVI,  raccolte  dal  prof.  A.  So- 
lerti, Milano,  Vallardi,  p.  229. 


DELLA   TORRE    E   ORIMANI,    ECC.  171 

riguardanti  i  della  Torre?  Dal  Candido?  può  darsi.  Ma  allora  facciamo 
un'altra  domanda:  ed  il  Candido  donde  tolse  la  sua  notizia,  che  trovò 
tanto  credito  a  Venezia  (Spinola)  ed  a  Cividale  (dove  scriveva  il  Ni- 
coletti)  ?  Io  credo  si  tratti  di  una  tradizione  famigliare  rimasta  viva  nella 
famiglia  dei  della  Torre  ;  e  mi  conferma  in  questa  ipotesi  il  fatto  che 
lo  Spinola  ebbe  in  mano  documenti,  veri  o  falsi  non  so,  riguardanti 
i  Torriani  stessi  e  li  lesse  e  li  ammirò. 

C'è  però  una  difficoltà  abbastanza  grave.  Le  tre  testimonianze  par- 
lano di  un  ricetto  offerto  da  Dante  dal  patriarca  Pagano  ;  ma  Pagano 
non  divenne  patriarca  che  nel  1319;^  è  proprio  il  momento  in  cui 
Dante  si  raccoglieva  a  Ravenna  presso  i  signori  di  Polenta  ;  ed  è  quindi 
impossibile  che  potesse  fare  un  soggiorno  di  un  anno  in  Friuli  presso 
il  nuovo  patriarca. 

Ma  distinguiamo  a  questo  proposito  due  cose:  il  soggiorno  di  Dante 
presso  Pagano,  e  la  dimora  in  Friuli  per  un  anno.  Non  è  affatto  im- 
probabile che  Dante  soggiornasse  per  qualche  tempo  presso  Pagano  a 
Padova.  Con  lui  forse,  oppure  per  suo  incarico,  venne  anche  in  Friuli, 
dove  i  Torriani  erano  potenti  e  ricchi  e  godevano  grande  credito.  Oli 
scrittori  citati,  che  poco  conoscevano  la  cronologia  dantesca,  attingendo 
ad  una  tradizione  famigliare,  pensarono  senz'altro  e  completarono  la 
tradizione  collo  scrivere,  che  Dante  stette  un  anno  presso  Pagano  pa- 
triarca in  Friuli.  Chi  abbia  un  po'  di  pratica  di  tradizioni  e  del  loro 
successivo  trasformarsi,  non  si  può  meravigliare  di  questa  evoluzione. 

Ma  quale  valore  dare  a  quella  primitiva  tradizione?  Non  è  del  tutto 
inverisimile  e  non  trova  un  aperto  contrasto  coi  fatti  accertati;  ecco 
tutto.  Sono  tali  e  tante  le  incertezze  sulla  vita  di  Dante  a  cominciare 
dal  suo  esilio  da  Firenze,  che  per  un  soggiorno  di  lui  a  Padova  ed 
anche  in  Friuli  c'è  ben  posto  ;  ma  di  una  sua  relazione  e  famigliarità 
con  Pipano  non  c'è  alcun  documento  prima  dei  tre  scrittori  cinque- 
centisti ;  ciò  non  vuol  dire  che  non  se  ne  possa  ancora  trovare  qualcuno. 

Contro  quest'ipotesi  si  potrebbe  però  sollevare  una  difficoltà  di 
carattere  politico. 

«  Si  converrà  facilmente  che  il  partito  Ghibellino  non  aveva  in 
Italia  di  lui  [Dante]  né  più  coscienzoso  seguace,  né  banditore  più  fe- 
condo, né  più  acerrimo  difensore  ». 

«  Quando  non  bastasse  saper  soltanto  chi  fosse,  per  esser  convinti 
che  Pagano  esser  non  potea  che  uno  dei  più  fanatici  tra  i  Guelfi,  noi 
diremo  col  Rubeis  che  prima  ancora  della  sua  venuta  in  Friuli  '  in 
Longobardiae,  Italiaeque  motibus  R.  Ecclesiae  obsequebatur,  validumque 
factioni  Ouelfae  patrocinium  impendebat  '  e  concluderemo . . .  che  anche 
dopo  la  sua  venuta  '  maximum  Guelfarum  partium  columen  illustre 
caput  erat  Paganus  patriarcha  '  » . 


•  Egli  fu  anche,  per  un  quattro  mesi,  amministratore  del  patriarcato,  prima  d'essere  nomi- 
nato patriarca. 


172  PIO   PASCHINI 

€  Ora  due  uomini,  che  professando  principi!  contrari!,  potuto  non 
avrebbero  in  alcun  modo  accordarsi,  che  legati  da  obblighi  e  doveri 
diversi,  potuto  non  avrebbero  in  alcuna  cosa  giovarsi,  e  che  diretti 
per  altra  via  ad  un'opposta  meta,  non  si  sarebbero  in  alcun  modo 
incontrati,  è  egli  probabile  che  malgrado  l'antica  avversione,  le  sinistre 
prevenzioni,  l'universal  biasimo,  in  pegno  di  amistà  porgessersi  la  de- 
stra, e  dessersi  pubblicamente  in  Friuli  scambievoli  prove  di  benevo- 
enza  e  di  stima?  »  * 

Questo  è  il  perno  dell'argomentazione  che  il  Bianchi  svolge  per 
dimostrare  l'impossibilità  morale  di  un'amicizia  fra  Dante  e  Pagano. 
Egli  dimostra  l'intransigenza  guelfa  di  Pagano  a  cominciare  special- 
mente dal  1320;  e  d'altra  parte  aggiunge  :  «Tra  i  Ghibellini  stessi  poi 
quello  che  con  maggior  audacia  e  fierezza,  impugnò  tali  (dei  guelfi  e 
di  Giovanni  XXII)  dottrine,  certamente  fu  Dante  ;  e  ne  fan  ampia  fede 
le  di  lui  opere.  Esso  non  solamente  professò  principi  e  massime  to- 
talmente opposte,  ma  cercò  di  trasfondere  anche  negli  altri  i  suoi  er- 
rori, e  tanto  crebbe  in  superbia  ed  in  temerità,  che  non  si  tenne  dallo 
scagliare  contro  i  Pontefici  stessi,  e  contro  i  Padri  augusti  dell'Apo- 
stolico Senato  i  più  amari  rimbrotti  e  le  più  villane  invettive  >. 

«  Condannato  replicatamente  in  Firenze  come  barattiere  e  falsario  ; 
condannato  dalla  Chiesa  come  banditore  di  dottrine  da  essa  riprovate: 
senza  patria,  senza  tetto,  ramingo  e  mendico  ;  e  con  tutto  ciò  maledico 
sempre  superbissimo,  incorreggibile,  eran  questi  i  titoli  che  ostentar 
potea  Dante  per  aspirare  ai  favori  di  un  giudice  del  Santo  Uffizio?  >  ^ 

Queste  parole,  le  quali  al  tempo  del  Bianchi  avrebbero  fatto  im- 
pressione sul  lettore  e  sugli  studiosi,  fanno  sorridere  oggi,  che  meglio 
conosciamo  le  relazioni  fra  i  partiti  italiani  al  principiare  de!  Trecento, 
e  le  idee  di  Dante  e  dei  suoi  contemporanei  nei  rapporti  coU'impero. 
Per  citare  un  solo  esempio  basti  ricordare  il  guelfissimo  «  giudice  Nin 
gentil  »  del  canto  ottavo  del  Purgatorio,  amico  di  Dante,  il  quale  fa 
una  così  acerba  invettiva  contro  Beatrice  d'Este  sua  moglie  andata 
sposa  in  seconde  nozze  con  Galeazzo  Visconti,  capo  de'  ghibellini 
lombardi  nel  1300,  e  la  profezia 

Non  le  farà  sì  bella  sepoltura 

La  vipera  che  i  Milanesi  accampa 

Com'avrìa  fatto  il  gallo  di  Gallura,  (vv.  79-81). 

Ed  il  «  dritto  zelo  »  di  Nino,  osserva  giustamente  il  Del  Lungo, 
non  è  solamente  maritale,  ma  politico,  per  avere  essa  lasciata  la  fa- 
miglia del  padre  e  del  marito,  guelfe,  per  entrare  in  una  casa  ghi- 
bellina. 

Si  ricordi  poi  che,  quando  sembrava  giunta  finalmente  la  pace  per 
l'Italia,  colla   discesa  di    Enrico  VII  di  Lussemburgo,  fu   l'arcivescovo 

"  Bianchi,  op.  cit.,  p.  32. 

•  Bianchi,  op.  cit.,  pp.  97  e  99. 


DELLA    TORRE    F.    ORIMANI,    ECC.  173 

Gastone  della  Torre  che  coronò  re  d'Italia  a  Milano  il  sovrano  che 
tante  speranze  e  tante  illusioni  creò  nel  cuore  di  Dante;  e  che  furono 
i  Visconti,  ghibellini,  quelli  che  profittarono  delle  circostanze  per  rom- 
pere j  patti  giurati  dinanzi  ad  Enrico  e  cacciare  i  Torriani  da  Milano, 
rendendo  così  vana  la  missione  pacifica  che  Enrico  VII  voleva  eserci- 
tare. Quale  giudizio  Dante  si  facesse  delle  lotte  fra  Torriani  e  Visconti  in 
sull'inizio  del  1311  non  sappiamo;  esse  non  ebbero  eco  nella  sua  Come- 
dia.  Nemmeno  quelle  che  le  precedettero  vengono  menomamente  accen- 
nate ne!  poema  sacro,  che  pure  ricorda  tante  simili  contese  e  tanti 
personaggi  di  que'tempi  e  della  Marca  Trivigiana. 

n.  —  Lo  Spinola  ebbe  qualche  relazione  anche  con  Giovanni  Gri- 
mani,  patriarca  di  Aquileia.  Questo  prelato,  di  cui  sono  note  le  disgraziate 
vicende,  era  stretto  parente  di  due  illustri  cardinali.  Il  primo  era  Do- 
menico Grimani  fratello  di  Gerolamo  e  figlio  di  Antonio  che  fu  doge 
di  Venezia  dal  1521  al  1523.  Domenico,  da  protonotario  apostolico 
grazie  alle  istanze  della  republica  di  Venezia,  era  stato  nominato 
da  Alessandro  VI  cardinale  di  S.  Nicolò  inter  imagines  il  25  settem- 
bre 1493.  Teologo  insigne,  come  viene  chiamato  dal  Pastor,  ^  aveva 
raccolto  una  preziosa  biblioteca,  che  rese  celebre  il  suo  nome;  il 
20  dicembre  1503  assunse  il  titolo  di  S.  Marco,  che  tenne  sino  al 
22  settembre  1508,  in  cui  divenne  vescovo  di  Albano,  sede  che  resse 
sino  al  3  giugno  1509,  quando  optò  per  quella  di  Frascati,  che  tenne 
sino  al  20  gennaio  1511,  quando  passò  a  quella  di  Porto.  Nel  conclave 
del  1513  era  quotato  come  papabile,^  e  non  mostrò  certo  poi  arrende- 
volezza con  Leone  X.  Egli  era  anche  vescovo  di  Urbino  ^  e  solo  fra 
i  suoi  colleghi  rifiutò  di  sottoscrivere  all'atto  con  cui  Leone  X  concesse 
a  Lorenzo  de'  Medici,  suo  nipote,  il  ducato  d'Urbino  nel  18  agosto  1516.* 
Al  concistoro  del  22  giugno  1517  non  volle  riconoscere  tradimento 
nella  condotta  dei  cardinali  Petrucci,  Sauli  e  Riario  ed  ebbe  perciò 
vivo  cotrasto  col  papa,  ^  il  1  febbraio  1517  si  oppose  in  concistoro 
alla  chiusura  del  concilio  Lateranese  aperto  da  Giulio  IL** 

Forse  in  grazia  della  sua  cultura  fu  da  Leone  X  scelto  come  giu- 
dice nella  clamorosa  contesa  fra  il  domenicano  Hochstraten  e  l'uma- 
nista tedesco  Reuclin,  e  citò  le  due  parti  a  Roma  l'S  giugno  1514; 
ma  l'affare  non  ebbe  seguito.  ^ 

'  storia  dei  Papi,  Roma,  1912,  to.  IH,  p.  306  e  p.  720.  Da  Lovanio  il  13  novembre  1517 
Erasmo  di  Rotterdam  dedicò  al  Grimani  la  sua  Paraphrasis  alla  lettera  di  s.  Paolo  ai  Romani. 
DESIDERI!  Erasmi  Opera  omnia,  Lugduni  Batav.,  P.  Vander,  1706,  to.  VII,  p.  773.  L'elenco  delle 
sue  opere  sta  nel  Ciaconio,  to.   Ili,  p.  ISl. 

»  Pastor,  ib.  IV,  i,  p.  11. 

»  11  cardinale  divenne  vescovo  commendatario  di  Urbino  il  29  maggio  1514;  egli  ebbe  come 
coadiutore  con  diritto  di  successione  Giacomo  de  Nordis,  chierico  d' Aquileia  che  ebbe  la  conferma 
in  concistoro  iJ  17  luglio  1523  e  morì  il  14  gennaio  1540.  Van  Gulik-Eubf.l,  Hier.  Caih.  M.  Aevi, 
III,  p.  344. 

*  Pastor,  op.  cit.,  IV,  I,  p.  101. 

»  Ib.,  p.  116. 

«  Ib.,  p.  512. 

'  /*.,  p.  207. 


174  PIO    FASCHINI 

Quando  morì  nel  1521  Leone  X,  il  Grimani  era  fra  i  cardinali  che 
parevano  sospetti  al  partito  dell'imperatore,  ma  non  ebbe  la  tiara  alla 
quale  aspirava.  Il  31  dicembre  1521  ottenne  d'uscire  dal  conclave,  prima 
che  il  papa  fosse  nominato,  portando  come  ragione  la  malattia  che  lo 
tormentava.^  S'ammalò  gravemente  a  Roma  il  5  agosto  1523,  e  morì 
nella  notte  sul  27  di  quel  mese. 

Il  cardinale  Grimani  era  patriarca  di  Aquileia  sino  dal  13  settembre 
1497  ^  ed  il  19  gennaio  1517  resignò  in  favore  di  Marino  Grimani,  figlio  di 
suo  fratello  Gerolamo.  Marino,  ch'era  vescovo  di  Ceneda  sin  dal  16  ago- 
sto 1508,  rilasciò  allo  zio  il  vescovado  di  Ceneda  per  assumere  il  pa- 
triarcato. Ma  non  è  mio  compito  qui  seguire  i  Grimani  nelle  mutue 
loro  resignazioni.  Marino  divenne  il  cardinale,  diremo  così  di  famiglia, 
dopo  la  morte  di  suo  zio  Domenico.  Egli  fu,  infatti,  creato  da  Cle- 
mente VII  nel  concistoro  del  3  maggio  1527  e  fu  riservato  in  petto; 
sopraggìunsero  le  tristi  vicende  del  sacco  di  Roma,  ed  il  Grimani  non 
fu  pubblicato  cardinale  che  nel  febbraio  del  1528  ed  il  7  di  quel  mese 
ebbe  il  titolo  di  s.  Vitale,  che  mutò  con  quello  di  s.  Marcello  il  12  no- 
vembre 1532  e  poi  con  quello  di  s.  Maria  in  Trastevere  il  4  agosto 
1539.  Il  13  marzo  1541  passò  al  vescovado  di  Tuscolo,  il  24  settembre 
1543  a  quello  di  Porto. 

Marino  fu  inoltre  amministratore  del  vescovado  di  Concordia  dal 

1533  al  1537  in  cui  rinunciò  in  favore  di  un  nipote;  il  13  novembre 

1534  diventò  amministratore  della  diocesi  di  S.  Pons  de  Tomières, 
(nella  Francia  meridionale),  alla  quale  rinunciò  presto  riservandosi  una 
pensione;  il  19  aprile  1534  prese  pure  ad  amministrare  la  diocesi  di 
Città  di  Castello  e  vi  rinunciò  il  5  marzo  1539  riservandosi  un'altra 
pensione.  Tutto  questo  dimostra  che  Marino  fu  in  auge  durante  il  pon- 
tificato di  Paolo  III.  Ma  v'è  di  più:  alla  morte  del  cardinale  Ippolito 
de'  Medici,  l'eccellente  cardinale  Grimani,  come  lo  chiama  il  Pastor,^ 
divenne  legato  di  Perugia  e  dell'Umbria  il  17  settembre  1537.  Nel  set- 
tembre di  quello  stesso  anno  si  adoperò,  perchè  la  repubblica  di  Ve- 
nezia concedesse  la  città  di  Vicenza  come  sede  del  concilio.* 

Poi  il  24  giugno  1543  nel  convegno  avvenuto  a  Busseto  presso 
Parma  fra  Paolo  III  e  Carlo  V,  il  cardinale  tenne  un  magnifico  discorso 
in  favore  della  pace  colla  Francia.^  Ed  in  grazia  forse  di  questo 
il  5  marzo  1544  fu  nominato  legato  della  Gallia  cispadana,  Parma  e 
Piacenza  in  luogo  del  cardinale  Gambara  che  fu  richiamato. 

»  Pastor,  op.  cit.,  IV,  11,  p.  5,  7  sg.,  14. 

»  EuBKL,  Hierarch,  Cath.  M.  Aevi,  W,  p.  103. 

»  Storia  dei  Papi,  to.  V,  p.  197.  È  curioso  che  P.  Tacchi-Venturi,  Storia  della  compagnia 
di  Gesii  in  Italia,  Roma-Milano,  1910,  p.  9,  n.  3,  parlando  del  conclave  del  1534  dica:  «  i  biografi 
riprendono  nel  Grimani  [Marino]  il  soverchio  spirito  secolaresco  >,  e  cita  il  Cardella,  Memorie 
storiche  dei  cardinali  della  S.  R.  Chiesa,  to.  IV,  p.  89  sg.,  103-105.  Il  cardinale  era  allora  nei 
quarant'anni.  L'accusa  deriva  dal  Ciaconio,  che  a  sua  volta  la  tolse  dallo  storico  veneziano  Pie- 
tro Giustiniani  (Alph.  Ciaconii  Vitae  et  Res  gestae  Pontificum  Rom.  ti  S.  R.  E.  Cardinalium, 
Romae,  1677,  to.   IV,  p.  487). 

♦  Pastor,  op.  cit.,  p.  70. 

*  Ibid.,  p.  466.  Lo  riporta  il  Ciaconio,  ib.,  p.  486,  desumendolo  dal  Oiovio. 


DELLA   TORRE    E   ORIMANI,    ECC.  175 

Marino  morì  in  Orvieto  il  28  settembre  1546  e  colà  fu  sepolto.  Il 
suo  corpo  fu  poi  trasferito  a  Venezia.^ 

Suo  fratello  Qiovanni  iniziò  la  sua  carriera  prelatizia  col  diventare 
vescovo  di  Ceneda  il  20  febbraio  1540,  e  cedette  quell'episcopato  al 
fratello  Marino,  quando  questi  il  23  gennaio  1545  gli  cedette  il  patriar- 
cato di  Aquileia. 

Durante  il  1546-47  fu  il  Grimani  delegato  a  fungere,  insieme  col 
nunzio  Della  Casa,  da  giudice  ed  esecutore  apostolico  nella  causa  di 
eresia  intentata  contro  il  Vergerio,  vescovo  di  Capodistria.  Il  processo 
per  l'astuzia  dell'accusato  andò  a  lungo,  ed  il  Grimani  cadde  in  so- 
spetto di  avere  tenute  le  parti  di  lui.  Fu  questa  forse  l'origine  delle 
sue  disgrazie  e  delle  prevenzioni  contro  di  lui  in  materia  di  fede. 

Il  Grechetto,  cioè  Dionisio  de  Zannettinis,  vescovo  di  Milopotamo  e 
Chironissa,  scriveva  da  Trento,  il  13  settembre  1546,  dove  s'era  recato  al 
concilio,  al  cardinal  camerlengo  Guido  Ascanio  Sforza,  che  fra  i  princi- 
pali confederati  «  con  certi  fautori  de  la  secta  lutherana...  è  il  patriar- 
cha  Aquilegiense,  fratel  del  R.'""  Grimano;  ancora  che  '1  cardinal  sia 
catholico,  il  suo  fratelo,  predicto  patriarcha,  è  assai  perversso,  del 
qual  più  fiate  ho  scripto  a  S.  S*^^  che  favoriva  etiam  l'episcopo  di 
Capo  d'Istria,  decto  Vergerlo...;  non  fa  altro  che  favorir  Lutherani». 
Ed  il  26  aprile  1547  da  Bologna,  dove  s'era  trasferito  il  concilio,  scri- 
veva al  cardinale  Alessandro  Farnese  :  «  Ho  inteso  per  più  vie  che  il 
patriarcha  Aquilegiense  noviter  facto  se  iacta  et  pensa  di  esser  cardinal. 
Se  questo  sarà,  quod  non  credo,  sarano  molti,  che  si  farano  Lutherani 
pensando  per  questa  via  di  esser  cardinali,  perchè  lui  è  Lutheranissimo. 
Et  facto  sempre  questa  mala  et  pessima  professione  et  favorito  sem- 
pre li  Lutherani  ».- 

Le  accuse  del  Grechetto  non  ebbero  allora  seguito,  quantunque 
rappresentassero  probabilmente  le  voci  che  correvano  fra  i  prelati  più 
intransigenti  del  concilio.  Ma  nel  1549  Leonardo  Locatelli  iuniore,  do- 
menicano, predicando  la  quaresima  in  Udine,  conchiuse  come  cosa 
certa  che  i  predestinati  da  Dio  alla  gloria,  secondo  la  dottrina  di 
S.  Tomaso  (p.  I,  quest.  23,  art.  VI),  non  possono  dannarsi,  né  i  pre- 
sciti salvarsi.  Riferita  questa  conclusione  al  Grimani,  rispose  il  17  aprile 
da  Venezia  al  suo  vicario  in  Udine,  approvandola  e  corroborandola 
di  nuove  prove. 

Fu  allora  questa  lettera  deferita  al  Santo  Ufficio  a  Roma,  il  quale 
prese  tosto  ad  inquisire  contro  il  Grimani,  e  fu  cagione  che  né  Giu- 
lio III,  né  Paolo  IV  acconsentissero  ad  elevare  al  cardinalato  il  disgra- 
ziato patriarca,  nonostante  tutte  le  sollecitazioni  della  Repubblica.  Egli 


•  CiACONius,  op.  cit.,  p.  487. 

»  GoTT.  BuscHBELL,  Refortnatìon  und  Inquisition  in  Italien  um  die  Mitte  des  16. 
Jahrhunderts,  Paderborn,  19T0,  pp.  259  e  266.  Queste  parole  del  Grechetto  rimasero  sconosciute 
a  L.  Carcereri,  Giovanni  Grimani,  patriarca  di  Aquileia  ecc.,  Roma,  1907,  il  quale  comincia  a 
narrare  delle  accuse  contro  il  patriarca  dal  1549  (ib.,  p.  5). 


176  PIO    PASCHINI 

era  un  inquisito,  e  perciò  bollato  come  da  una  nota  d'infamia  indele- 
bile.^ Evidentemente  a  Roma  non  si  voleva  ch'egli  diventasse  cardinale, 
oltre  che  per  l'accusa  che  gravava  sopra  di  lui,  anche  per  non  perpe- 
tuare il  cardinalato  in  una  medesima  famiglia. 

Quando  fu  eletto  papa  Pio  IV,  la  Repubblica  rinnovò  le  istanze  a 
favore  del  Grimani;  e  questi  corse  senz'altro  a  Roma  colla  speranza  di 
indurre  il  papa  a  concedergli  la  tanto  bramata  porpora  (marzo  1560). 
Fu  allora  di  nuovo  tratta  fuori  la  faccenda  della  famosa  lettera  del  1549. 
Il  Grimani  avrebbe  voluto  che  fossero  accolte  le  sue  spiegazioni  e  le 
sue  scuse  al  proposito;  il  papa  invece  avrebbe  voluto  che  ne  rispon- 
desse personalmente  all'Inquisizione.  A"  questo  il  Grimani  non  voleva 
acconciarsi  per  timore  che  poi  non  gli  si  volesse  concedere  la  porpora, 
col  pretesto  ch'egli  era  un  inquisito  sospetto  nella  fede. 

Il  26  febbraio  1561  Pio  IV  fece  la  sua  seconda  creazione  di  car- 
dinali e  fra  i  diciotto  promossi  furono  i  due  veneziani  Bernardo  Na- 
vagero  e  Marcantonio  Da  Mula.  Secondo  l'Eubel,*  Daniele  Barbaro,  in 
favore  del  quale  il  Grimani  aveva  rinunciato  cum  regressa  al  patriar- 
cato di  Aquileia,  fu  riservato  in  petto  e  non  consta  che  sia  mai  stato 
pubblicato.  Ma  gli  Ada  consistorìalia  dicono  soltanto  :  «  patriarcha  Aqui- 
«  legien[is]  reserv[atur]  in  pect[ore]»;  e  con  questo  titolo  era  chiamato 
correntemente  dal  papa  e  da  tutti  il  Grimani,  non  il  Barbaro.  Ed  infatti 
i  cardinali  Madruzzo,  Simonetta  e  Cornaro  affermarono  poi,  che  il 
Grimani  non  aveva  bisogno  di  altra  promozione,  essendo  già  cardi- 
nale; entro  pochi  giorni  si  aspettava  la  sua  proclamazione,  purché,  be- 
ninteso, il  patriarca  si  purgasse  dinanzi  all'inquisizione  al  piti  presto.^ 

Ma  Pio  IV,  io  credo,  aveva  consentito  alla  condizionata  nomina 
del  patriarca,  più  per  sottrarsi  alle  insistenze  della  repubblica,  che  per 
vera  voglia  che  avesse  di  concedere  al  Grimani  il  cardinalato.  Questi  in- 
sistette ancora,  acconsentì  a  rispondere  in  iscritto  ad  un  questionario 
propostogli  sulla  dottrina  della  grazia  ;  le  cose  andarono  in  lungo,  sin 
che  la  repubblica  diede  ordine  al  suo  ambasciatore  di  non  insistere 
più  sull'affare  ;  ed  il  Grimani  si  allontanò  da  Roma  alla  fine  di  set- 
tembre del  1561  e  tornò  a  Venezia.* 

Il  più  grave  suo  torto  era  stato  quello  di  avere  troppo  insistito 
e  con  poca  discrezione;  un  po'  di  pazienza  avrebbe  trovato  il  papa  più 
ben  disposto. 

'  Carcereri,  op.  cit.,  p.  6  sgjj.  Realmente  il  contegno  dei  Grimani  fu  troppo  compromet- 
tente; il  Carnesecchi  lo  chiamava  nelle  sue  lettere,  che  poi  passarono  nell'incarto  dell'Inquisizione 
Romana,  il  nostro  patriarca  (cfr.  Miscellanea  di  Storia  d'Italia,  to.  X,  p.  480).  Francesco  Negri, 
frate  eretico  fuggito  in  Svizzera,  parlava  di  lui  con  ammirazione,  nei  riguardi  dei  propri  errori, 
si  capisce.  Cfr.  Qiornale  Storico  della  Letteratura  Italiana,  to.  68,  1916,  II,  p.  130. 

«  Hierarch.  Catti.  M.  Aevi,  IH,  p.  43,  n.  22.  Cfr.  ib.,  p.  41,  nota  U. 

»  CAacp.RERi,  op.  cit.,  p.  20. 

*  ibid.,  p.  45.  Dopo  lunghi  negoziati  col  papa,  il  Oritnani  ottenne,  nel  marzo  15a3,  di  essere 
giudicato  dal  concilio  di  Trento  ;  colà  si  recò  O'jli  stesso  in  persona  il  13  giud^no,  ed  il  17  settembre 
fu  prosciolto  da  ogni  sospetto  ed  accusa  di  eresia.  Ricevette  per  questo  fatto  le  congratulazioni 
universali,  ma  non  il  tanto  bramato  cappello,  non  ostante  le  rinnovate  istanze  delia  repubblica  in 
suo  favore.  Peggio  ancora,  non  potè  nemmeno  ottenere  il  pallio  che  gli  toccava  come  metropolita. 


DELLA  TORRE   E  ORIMANI,   ECC.  177 

Di  questo  scacco  amaro  tentò  di  consolarlo  il  nostro  Spinola  coi 
suoi  versi,  composti  poco  dopo  questi  ultimi  avvenimenti,  ricordando 
anche  per  incidenza  i  due  cardinali  Domenico  e  Marino. 


Ad  illustriss.  et  reverendiss.  D.  D.  Joannem  Grimanurn, 
Patriarcham  Aquileiae. 

Quatti  turpe  Consulatui  fuit,  Cato 
De  se  solebat  ille  magnus  dicere, 
Catonem  in  urbe  non  fuisse  Consulem. 
Quam  turpe  sanctis  Patribus  Quiritium  est 
In  purpura  Grimanum  eos  inter  minus 
Fulgere  adhuc,  de  te  inquit  Adria  furens  : 
Praesentia  eius  atque  maiestas  gravis, 
Eius  nitor  virtutis  et  sapientiae 
Quantum  sacro  splendoris  afferret  loco. 

Sed  nobilem  fatalis  invidia  domum 
Ad  tempus  istam  deprimit.  non' ne  inclytus 
Antonius  dux  urbis  huius,  qui  fuit 
Avus  tibi,  Hieronymusque  postea 
Clarus  parens,  duo  et  Patres  in  purpura 
Digna  raicantes,  frater  eius  et  tuus, 
Permulta  passi  sunt  ab  invidiae  impetu. 

At  invidi  quicunque  mortales  bonos 
Soletis  impedire,  vos  odit  Deus 
Vos  et  Quirini  Martia  odit  civitas. 
Si  quod  paravit  Urbis  electissimo 
Princeps  viro,  illud  non  teneret  conditum 
Per  vos,  videt  Roma  alta,  quam  suus  foret 
Felix  senatus,  quam  beata  concio. 
Per  hunc  enim  se  sperat  antiquum  decus 
Et  religionis  posse  fideique  assequi. 

Quae  vos  amatis,  ipse  nil  curat  Pater: 
Quae  vos  amatis  negligit:  nihil  crepat 
Mortale,  nil  desiderat  vanura  et  fugax. 
Fallacium  contemptor  unus  omnium, 
Est  in  hoc  uno,  pervenire  qua  ad  Deùm 
Beata  tempia  possit  iramortalium.i 

Curioso  davvero  il  parallelo  fra  Catone,  bocciato  al  consolato,  che 
dice  essere  una  vergogna  per  l'ufficio  consolare  che  Catone  non  fosse 
console,  e  Venezia  che  proclama  essere  una  vergogna  per  il  collegio 
cardinalizio  che  il  Grimani  non  abbia  ricevuto  il  cappello,  mentre  tanto 
se  lo  meritava  per  virtìi  e  sapienza.  Colpa  l'invidia  che  da  tempo  per- 
seguita la  casa  Grimana  !  Ma  gli  invidiosi  sono  odiati  da  Dio  e  da 
Roma.  Che  se  per  causa  loro  il  papa  non  tenesse  nascosto  ciò  che 
preparava  al  prelato,  vedrebbe  Roma  quanto  felice  ne  sarebbe  il  Sacro 
Collegio.  Ma  il  Grimani  non  cura  gli  invidiosi  ;  intento  solo  a  guada- 

»  Spinula,  op.  cit.,  Poematon  lib.  II,  p.  18  sg. 

12 


178  PIO   PASCHINI 

gnarsi  i  gaudii  celesti,  disprezza  le  cose  vane  e  passeggere.  Così  con- 
clude lo  Spinola. 

Veramente  quest'ultima  era  una  smaccata  bugia;  ma  che  non  è 
lecito  osare  ai  poeti? 

Lo  Spinola  indirizzò  pure  al  patriarca  Grìmani  un  breve  compo- 
nimento di  cinque  distici,  col  quale  gli  dedicava  la  traduzione  da  sé 
fatta  della  profezia  della  Sibilla  riguardante  Cristo,  profezia  che  era 
stata  da  altri  tradotta  ma  con  barbarico  stile.  Ed  infatti  ai  distici  tien 
dietro  la  traduzione  in  esametri  acrostici  che  danno  la  frase:  «  Jesus  Cri- 
stus  Dei  Filius  servator  cruce  ».*  Ma  non  riporto  né  l'uno  né  l'altro 
componimento,  che  non  hanno  per  noi  importanza. 

Maggiore  importanza  avrebbero  altri  componimenti  dello  Spinola 
per  la  vita  cinquecentesca,  ma  poiché  non  riguardano  direttamente  né 
persone,  né  avvenimenti  del  Friuli,  faccio  punto  sperando  che  almeno 
queste  poche  note  non  siano  riuscite  discare  a  chi  si  sofferma  con 
piacere  sulle  figure  più  significative  della  storia  nostra. 

Pio  Raschini 


»  Spinula,  op.  dt.  Poematon  lib.  II,  p.  15  sgg. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  179 


Rassegna  biliografica 


Francesco  Musoni.  —  Udine  dalle  origini  al  principio  del  se- 
colo XIX.  Note  di  geografia  urbana.  Udine,  tip.  del  Bianco, 
1915;  8",  pp.  30  con  8   figure  ed  una  tavola  fuori  testo. 

La  storia  del  nucleo  urbano  di  Udine  offre  un  particolare  interesse 
per  i  cultori  delle  discipline  storiche  geografiche  e  giuridiche,  perchè 
si  tratta  d'una  delle  poche  città  italiane  di  formazione  medievale.  La 
grandissima  maggioranza  dei  nostri  aggregati  urbani  deriva,  infatti, 
dall'età  romana  e  di  questa  lontana  origine  porta  evidenti  impronte 
nella  pianta  stessa  della  città,  nella  distribuzione  dei  rioni  e  nello  svol- 
gimento della  cerchia  murata;  anche  la  costituzione  comunale,  per  quanto 
non  si  possa  sostenere  l'esistenza  di  rapporti  diretti  fra  il  municipio 
romano  ed  il  comune  medievale,  ne  subisce  gli  influssi.  Nel  caso  di 
Udine,  invece,  le  condizioni  sono  diverse. 

Il  colle  fu  certamente  abitato  non  solo  a  tempo  romano,  ma  pure 
nel  periodo  protostorico,  come  fu  dimostrato  ampiamente  ed  anche 
di  recente  nei  lavori  di  Raffaele  Sbuelz  sul  castello,  ma  tale  primitivo 
aggregato  non  ebbe  un'influenza  immediata  sul  sorgere  della  città  ed 
anche  quando  questa  fu  formata,  vi  rimase  lungamente  estraneo. 
L'aggregato,  che  sorgeva  sul  colle  era  infatti  un'abitanza  feudale,  cioè 
un  feudo  collettivo,  concesso  dal  patriarca  ad  un  certo  numero  di  fa- 
miglie, che  avevano  l'obbligo  di  difendere  e  di  tenere  in  assetto  il  ca- 
stello e  ricevevano  in  cambio  determinati  beni  e  diritti;  tale  abitanza 
continua  a  sussistere  per  tutto  il  secolo  XIII,  ed  ancora  al  principio 
del  XIV  ha,  nel  parlamento  friulano,  una  rappresentanza  separata  che 
figura  nel  corpo  della  nobiltà,  mentre  la  città  manda  i  suoi  deputati 
nel  corpo  dei  comuni.  A  piedi  del  colle  s'era  formato,  infatti,  dal  se- 
colo XII  (e  forse  anche  prima)  un  nuovo  abitato.  Accennai  in  un 
breve  studio  edito  in  queste  stesse  Memorie  ad  una  delle  cause  che 
determinarono  l'annodarsi  di  relazioni  commerciali  considerevoli  intorno 
a  questo  secondo  aggregato  :  in  esso  si  contenevano,  infatti,  i  depositi 
di  derrate  dell'amministrazione  patriarcale,  dove  convenivano  i  tributi 
provenienti  al  principe  da  censi,  livelli,  contribuzioni  straordinarie  di 
natura  laica  od  ecclesiastica  provenienti  dalla  parte  centrale  dello  Stato 
Friulano.  Ciò  può  aver  dato  luogo  a  scambi  importanti  resi  più  facili 
dal  convergere  di  varie  strade  provenienti  dalla  pianura  e  dirette  ai 
valichi  alpini. 


180  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

il  patriarca  Bertoldo,  che  fu  il  vero  fondatore  del  comune  di  Udine, 
costituì  in  questo  nuovo  aggregato  un  foro  permanente,  cioè  gli  diede 
la  importantissima  concessione  che  vi  potessero  sorgere  fondaci  e  bot- 
teghe di  mercanti.  Infatti,  ogni  commercio  che  non  fosse  quello  delle 
cibarie  necessarie  per  la  vita  quotidiana  era,  in  quei  tempi,  assogget- 
tato a  privilegi  sovrani.  Il  principe  poteva  concedere  una  fiera  annua, 
mensile  o  settimanale  secondo  i  casi,  ma  assai  di  rado  dava  Io  stabile 
privilegio  del  foro  cioè  di  un  mercato  permanente.  Al  principio  del 
secolo  XIII  sembra  che  in  Friuli  l'avessero  soltanto  Aquileia,  Cividale, 
Gemona,  Sacile,  a  cui  poi  si  aggiunse  Udine.  Alla  concessione  del 
foro,  Bertoldo  fece  seguire  un  privilegio  di  borghesia,  concesse,  cioè, 
la  costituzione  del  comune,  equiparando  i  privilegi  dei  nuovi  bargenses 
a  quelli  degli  abitanti  di  Cividale  e  delle  altre  terre  patriarcali.  Di  tali 
privilegi  doveva  godere  chiunque  venisse  ad  abitare  nell'ambito  cittadino 
assegnato  al  comune  nascente,  se  anche  fosse  servo  della  Chiesa;  il 
dimorare  sul  suolo  libero  del  comune,  affrancava  dunque  anche  costoro 
dalla  macula  servile:  è  il  consueto  effetto   delle  franchigie  comunali. 

Il  Musoni  studia  con  acume  e  con  ricca  documentazione  grafica, 
in  questo  suo  elegante  opuscolo,  lo  svolgersi  dell'aggregato  urbano 
che  si  costituì,  come  libero  comune,  coi  diplomi  Bertoldiani,  e  ci  fa 
seguire  il  progressivo  suo  crescere.  In  origine,  accanto  al  comune  che 
aveva  territorio  assai  pìccolo,  si  trovano  degli  aggregati  estranei  :  anzi- 
tutto la  ricordata  abitanza  del  colle,  e  poi  le  ville  cioè  le  vicinìe  ru- 
stiche immediatamente  attigue  che  hanno  il  loro  minuscolo  comune 
governato  dal  decano,  come  qualunque  altro  villaggio  del  Friuli.  Poi 
un  po'  alla  volta  questi  aggregati  minori  sono  assorbiti  dal  maggiore 
ed  il  comune  si  fa  più  ampio,  fino  a  divenire  già  nel  secolo  XV  il 
centro  urbano  pili  popoloso  dell'intera  regione.  La  fusione  dtìVabitanza 
col  comune  dovette  avvenire  all'incirca  nel  secondo  decennio  del  tre- 
cento ;  da  allora,  infatti,  essa  perde  la  sua  rappresentanza  separata  in 
parlamento;  quanto  alle  ville  l'unione  avviene  poco  dopo.  Dagli  studi 
del  Musoni  appare  che  «  il  periodo  culminante  nella  storia  della  evo- 
«  luzione  urbana  della  metropoli  del  Friuli  »  avviene  fra  il  1330  ed  il 
1440  circa;  nella  sua  parte  centrale,  la  città  non  ha  da  quel  tempo 
cambiato  molto  nella  sua  topografia.  Molti  rilievi  importanti  fa  il  Mu- 
soni nel  suo  studio,  sia  per  la  serie  delle  piante  della  città,  che  dà  in 
ottime  riproduzioni,  sia  per  il  variare  della  popolazione. 

L'autore  si  arresta  al  1811,  ma  ci  promette  di  prendere  in  esame, 
in  seguito,  anche  l'evoluzione  urbana  più  recente. 

Ci  auguriamo  di  veder  presto  tali  nuovi  studi,  che  saranno  senza 
dubbio,  come  questi,  un  importante  contributo  alla  storia  civile  del 
Friuli. 

P.  S.  Leicht 


APPUNTI    E   NOTIZIE  181 


Appunti  e  notizie 


?i^  Un'alfabetica  compartimentale  della  Patria  del  Friuli  nei  ma- 
noscritti DEL  Macini.  —  Nei  manoscritti  di  G.  A.  Magini,  che  si  con- 
servano nell'Archivio  di  Stato  di  Bologna,  e  che  presentano  il  materiale, 
che  quell'illustre  cosmografo  e  geografo  aveva  raccolto  per  la  sua 
grande  opera  illustrativa  d'Italia,  vi  hanno  alcune  carte  che  riguardano  la 
Patria  del  Friuli.  Di  queste  particolarmente  dette  notizia  il  prof.  Roberto 
Almagià,  che  ne  riprodusse  anche  un  disegno  cartografico  che,  secondo 
l'A.,  aveva  Io  scopo  di  rappresentare  la  posizione  della  fortezza  di  Palma, 
costruita  nel  1593,  e  che  compare  per  la  prima  volta  nell'Atlante  del 
Magini.  Dalle  pagine  manoscritte  del  Magini  appare  che  il  disegno 
dell'opera  sua  comprendeva  anche  una  positiva  notizia  delle  condizioni 
politico-amministrative  delle  singole  regioni.  Su  questo  carattere  del- 
l'opera del  Magini  ha  discorso  appunto  l' Almagià  ed  io  stesso  in  una 
nota  apparsa  nella  Rivista  Geografica  Italiana} 

Dal  manoscritto  del  Magini  io  avevo  già  da  parecchio  tempo  ri- 
copiato un'Alfabetica  o  elenco  alfabetico  di  tutti  i  luoghi  del  Friuli 
(82  fra  città,  come  dice  il  Magini,  terre  e  castelli,  e  sino  ad  881  vil- 
laggi) ripartiti  in  sei  quartieri  al  di  qua  e  sei  al  di  là  del  Tagliamento. 

II  documento,  come  si  comprende,  è  di  quelli  sui  quali  abbiamo 
basato  la  nostra  Carta  politico-amministrativa  della  Patria  del  Friuli. 
Come  Alfabetica  crediamo  sia  la  più  antica  che  esista  :  deve  essere  fra 
la  fine  del  500  e  i  primi  anni  del  600  (Magini  f  1618).^ 

Credo  perciò  interessante  pubblicarla,  avvertendo  che  nel  mano- 
scritto l'ordine  della  località  è  assolutamente  alfabetico,  io  invece  le 
ho  raccolte  alfabeticamente  nei  singoli  quartieri.  I  quali,  come  ho  detto, 
erano  6  a  destra  eòa  sinistra  del  Tagliamento.  A  quale  divisione 
amministrativa  essi  corrispondessero  non  saprei  dire,  forse  ce  lo  potrà 
suggerire  il  nostro  illustre  Presidente;  certo  si  tratta  di  una  compar- 
tizione a  base  demografica,  data  l'unità  territoriale  dei  singoli  compar- 


*  R.  Almaqià,  La  Carta  e  la  Descrizione  del  Friuli  di  O.  A.  Magini  Padovano,  in  Boll, 
del  Museo  divico  di  Padova,  anno  XI V,  1911,  p.  93.  sgg.  con  tav.  Dì  questo  scritto  dell' Almagià 
ho  dato  notizie  in  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  314.  O.  Lod.  Bertolini,  Su  l'opera  di  Q.  A.  Ma- 
gini nella  delineazione  dei  confini  territoriali,  in  Riv.  Oeogr.  Ital.,  aprile  1913.  Nelle  carte  del 
Magini  si  trova  anche  una  Alfabetica  compartimentale  del  Trevigiano.  La  pubblicherò  in  altra 
sede,  e  potrà  servire  di  base  a  una  Carta  storica  di  quella  regione. 

«  Ctt,  G.  LoD.  Bertolini,  Per  la  Carta  storica  della  Patria  del  Friuli  al  cadere  della  Repub- 
blica Veneta.  Nota  dichiarativa  dei  documenti,  in  Boll,  della  Soc.  Oeogr.  Ital.,  1910,  n.  5. 


182  Al>PUNTI   E   NOTIZIE 

timenti,  mentre  le  giurisdizioni  feudali  hanno  carattere  topografico 
frammentario. 

Si  avverta  che  nell'elenco  delle  Ville  sono  compresi  anche  i  Ca- 
stelli contrassegnati  nel  manoscritlo  da  un  C. 

G.  LoD.  Bertolini 

/o  di  qua. 
Alture,  Bagnarla,  Chjarenzan,  Campolongo  di  Bagnaria,  Cussignà,  Cargnà, 
Chiasottis,  Claujano,  Campolongo  di  Chiarenzan,  Cisis  di  Strasoldo,  Lutnignà,  Lau- 
zacco,  Lovaria,  Meredo  di  Capitolo,  Muscli,  Moruzzis,  Mortesins,  Melarolo,  Merlana, 
Privan,  Perteole,  Perserean  di  Lauzzacc,  Ronchiettis,  S.  Maria  la  longa,  Sevean,  Stra- 
soldo C,  Scodavacca,  Saciletto  C,  Sotfoselva,  Tissan. 

2»  di  qua. 
Ariis  C,  Basaldella,  Corgnol,  Castions  di  Strada,  Cucana  C,  Carpeneto,  Chiarmacis, 
Cornazzai,  Felettis,  Flumigna,  Glaunicco,  Oris,  Oalerian,  Lauarian,  Musons,  Morsan 
di  Strada,  Muzzana,  Mortean,  Madrisio  di  Varmo,  Musclet,  Orgnan,  Puzzuol,  Pam- 
paluna,  Pozzicco,  Puzzinia,  Palazzuol,  Plancada,  Petrons,  Romans  di  Varmo,  Rivi- 
gnan,  Rividischia,  Sammardenchia,  Strazzis,  Santo  Andrat,  S.  Martin,  S.  Marizza,  Ter- 
renzan,  Villa  di  Varmo,  Zugliano  C. 

3^  di  qua. 
Bean,  Bugognins,  Basagliapenta,  Biauzzo,  Blessan,  Bressa,  Colorado  di  Prato, 
Campoformio,  Codroipo  Terra,  Camin  di  Codroipo,  Coderno,  Flalban,  Gradisca  di 
Sedean,  Jutiz,  Lonca,  Malazumpica,  Mereto  di  Tomba,  Orgnan,  Pasian  di  Prato, 
Perserean  di  Lonca,  Pozzo,  Pantianins,  Plasenzis,  Pasian  Schiavonesco,  Passons,  Ra- 
volto,  Rosa,  S.  Steffano,  S.  Vidotto,  S.  Odorico  C,  S.  Lorenzo  di  Sedean,  Sedean, 
San  Marco,  Savalons,  Turrida,  Tomba,  Vuirch,  Vicendon. 

4*  di  qua. 
Attimis,  Belveder,  Bellagioja-,  Bolzan,  Bergamo,  Bergon,  Baivars,  Camin,  Como, 
Campeio,  Canal  di  Qrivò,  Cergneo  C,  Cortal,  Dolognan,  Faedis,  Qrions  di  Torre, 
Oramoglian,  Codia,  Leuros,  Laipa,  Lamonte  di  Rosazzo,  Manzinello,  Midìuzza,  Mir- 
nich,  Magredis,  Monte  di  Buri,  Noax,  Nimis,  Ozzan,  Predaman,  Povolen,  Quals, 
Ravose,  Rutars  C,  Raclus,  Ronche  di  Faedis,  Rizzol,  Suffimbergo,  Salt,  Sia,  Subit,  Sa- 
vorgnan,  Trus,  Taipana,  Tarcento  C,  Ueliis,  Varran,  Viscon  di  Torre,  Zirà. 

50  di  qua. 
Ara,  Adorgnan,  Adoglià,  Artegna,  Biveriis,  Buia,  Chiauris,  Chiarvà,  Chianali, 
Chiassa,  Conoglan,  Colugna,  Frielaco,  Felettan,  Feletto,  Giemona,  Luserià,  Lonerià, 
Laipa,  Luinà,  Magnan,  Montenars,  Martinaz,  Montegnaco  C,  Monastet,  Paderno, 
Prarapero  C,  Rumignan,  Ribis,  Reana,  Raspan,  Segna,  Tricesimo  C,  Treppo  grande, 
Tavagnà,  Val,  Vendoi,  Vergna,  Villafredda,  Zeglia,  Zumpitta. 

6"  di  qua. 
Alnico,  Arca  di  sopra.  Arca  di  sotto,  Brazza,  Battala,  Bonzicco,  Barazzetto,  Ca- 
stelliero,  Cereset,  Cicunins,  Cosean,  Coseanet,  Chiarpà,  Cisterna,  Coloredo  di  M.  Al- 
bano, Cudugnella,  Dignan,  Fontanabona  C,  Farla,  Fagagna  C,  Faugna,  Qiavons, 
Lauzana,  Lazza,  Marzanins,  Martigna,  Moruzzo  C,  Moruzzo,  Modot,  Mels  C,  Melsio, 
Maian,  Madrisio  di  Fagagna,  Maseriis,  Pissignan,  Pagna,  Pozzallis,  Plain,  Pers  C, 
Ragogna  C,  Rivis  di  Arca,  Rausclet,  Rodean,  Rivolta,  S.  Margarita,  S.  Tomat,  S.  Vido 
di  Fagagna,  Silvella,  Torrean,  Vidulis,  Villata,  Zampis. 

/o  di  là.  ' 

Bagnarola,  Bando,  Bagnara,  Boldara,  Bolpare,  Cordovado  C,  Concordia,  Casal 
del  Taù,  Fratta  C,  Fossalta,  Fratuzza,  Gleriis,  Oruaro,  Gaio,  Gorgo,  Jussago,  Ligfu- 
gnana,  Marignana,  Nojare,  Ponte  Casal,  Portovecchio,  Ramussiel,  Rivago,  Saleto, 
Stalis,  Sesto,  Sacudiel,  Savorgnan,  S.  Giusto,  Sumaga,  Telo,  Venchiareto,  Versola , 
Villanuova,  Vado,  Villanova  di  Concordia,  Zuzulins. 


APPUNTI    E   NOTIZIE  183 

20  di  là. 
Arba,  Azzanello,  Bosco  di  S.  Biasio,  Bosco  del  Forestier,  Blisiola,  Boschetto,  Ba- 
racetto,  Bìveron,  Blessaia,  Barco,  Belvedere,  Brischie,  Cinto,  Cidrugno,  Corbolon,  Ca- 
sali diversi,  Chions,  Corte  dell'Abbà,  Danon,  Frattiaa  C,  Giai  di  Spadacenta,  Lison, 
Melon,  Musil,  Mura  della  Meduna,  Meduna,  Oltrafossa,  Pravisdomini,  Paaigai  C,  Pa- 
nigai,  Pra  di  Pozzo,  Prodolon  C,  Pramaggior,  Rabedoi,  Stagninbecco,  Spadacenti, 
S.  Stin  di  sopra,  S.  Stin  di  sotto,  Sbrojavacca  C,  Salvarolo  C,  Squarzareto,  Villuta  di 
sopra,  Villuta  di  sotto,  Villotta  di  Sbrojavacca,  Villuta  di  Chions,  Villa  blesa. 

30  di  là. 
Avian  C,  Baseglia,  Barcis,  Budoia,  Cavasso,  Colle,  Cimulais,  Claut,  Cultura,  Dar- 
dago,  Ert,  Fana  C,  Frisan,  Griz,  Gai  d' Avian,  Istra,  Midum,  Maniago  C,  Manialivro, 
Montereal  C,  Malnins,  Navarone,  Pofabro,  Polcenigo  C^  Spilimbergo  C,  Sequalsi  So- 
lumbergo  C;  S.  Lucia,  S.  Giovanni  di  Polcenigo,  S.  Lunardo,  Sidran,  S.  Avocat, 
Topo,  Tranionz,  Urgnes. 

4"  di  là. 
Atnanins,  Arzene,  Arzenut,  Aurava,  Basaldella,  Barbean,  Baseglia,  Cosa,  Cevraia, 
Casarsa,  Castions,  Cusan  C,  Gradisca  di  Spilimbergo,  Gai  di  Spilimbergo,  Marzinis, 
Ovoledo,  Pustincicco,  Pissincana,  Pozzo,  Raussedo,  Roveran,  S.  Martin  di  Valvason, 
S.  Zorzi,  S.  Giovanni  di  Casarsa,  Taureana,  Tesis,  Torre  C,  Vivaro,  Valvason  C, 
Urcenis  di  sopra,  Urcenis  di  sotto.  Villa  Sii,  Villa  franca,  Versutta,  Zoppoia. 

5»  di  là. 
Campagnola,  Cornazzai,  Corva,  Cimpello,  Codopet  di  Tiez,  Codopet  Rudioso, 
Fiume,  Fiume  di  là,  Fiumisins,  Gradisca,  La  Mantova,  Morsan  di  Pratta,  Pozzo,  Pratta, 
Pratta  vecchia,  Pratta  di  là,  Pratta  di  qua,  Perisine,  Pasian  di  sopra,  Pradolìn,  Piagno, 
Praturlon,  Rivarotta,  S.  Martin,  S.  Andrea,  Tiez,  Villanova  di  Pratta,  Villotta  di  Pratta, 
Visinal,  Villaricolt. 

60  di  là. 
Brugnera  C,  Civolin,  Canderan,  Cigana,  Campo  Molin,  Fontanafredda,  France- 
nigo,  Gaiarine,  Maron,  Nogareto  di  Corno,  Nogareto  di  Prato,  Porcia  C,  Paisà,  Ronche, 
Roveredo,  Rovebasso,  Ristuizza,  Rorai  piccolo,  S.  Cassan,  Sidran,  S.   Gio.  del  Tem- 
pio, S.  Odorico. 

Altri  luoghi. 
Gemona,  Venzone,  Tolraezzo,  Sacile  -  rettor  veneto,  Portogruar  -  rettor  veneto, 
M.  Falcone  -  rettor  veneto,  Fagagna,  Aviano,  Caneva  -  rettor  veneto.  Mossa  è  sotto 
gli  Arciduchi,  Meduna,  S.  Vito  sotto  il  Patriarca,  S.  Daniele  sotto  il  Patriarca,  Bel- 
grado C,  Castelnuovo  C  dei  SS.  Savorgnani,  separati  dalla  Patria,  Tissana  C  separ. 
dalla  Patria,  Budrio,  Pordenone  Terra  -  rettor  veneto,  Cividale  Città  -  rettor  veneto. 


■?V  Le  monete  friulane  in  un  recentissimo  dizionario  di  numisma- 
tica. —  Ripetere  la  frase  del  Sella,  se  non  isbaglio,  che  le  cose  friu- 
lane non  hanno  eco  oltre  il  Tagliamento,  potrebbe  parere  una  cosa 
banale,  troppo  suffragata  da  una  quotidiana  esperienza;  eppure  il 
comprovarne  la  verità  non  manca  mai  di  produrre  in  noi  un  senso 
di  disgusto  e  di  avvilimento.  E  non  mancano  pur  troppo  le  occasioni  ! 
Si  dice  che  la  guerra  farà  conoscere  un  po'  più  e  meglio  questo 
estremo  lembo  d'Italia;  speriamo  che  ciò  abbia  ad  essere  vero.  Ecco 
frattanto  un  motivo  di  doglianza.  Sono  ben  noti  fra  noi  gli  studi  ri- 
guardanti la  numismatica  locale  a  cominciare  dal  Fabricio,  dal  De  Ru- 
beis  e  dal  Liruti,  passando  per  lo  Schweitzer  sino  al  Leicht  ed  al 


184  APPUNTI    E    NOTIZIE 

Puschi.  È  un  contributo  non  indifferente  alla  scienza,  che  si  dovrebbe 
ritenere  ormai  per  acquisito  anche  per  i  manuali  generici.  Invece, 
sfogliando  il  recentissimo  lavoro:  La  moneta,  vocabolario  generale  com- 
pilato dall'ingegnere  Edoardo  Martinori,  vice  presidente  dell'Istituto 
Italiano  di  Numismatica,  Roma,  1915,^  fornito  di  numerose  illustrazioni, 
si  prova  una  dolorosa  delusione  per  quanto  riguarda  il  Friuli  ed  il  Pa- 
triarcato. Ecco,  infatti,  quanto  vi  troviamo: 

«  Aquileiese,  Aquileiensis.  Moneta  coniata  in  Aquileia  dai  Patriar- 
«  chi,  ai  quali  fu  concesso  il  diritto  di  zecca  da  Ludovico  II  di  Oer- 
«  mania  nell'anno  856.  Sotto  il  patriarca  Volkero  (1204-1218)  V Aquila 
«  rimpiazza  nella  moneta  il  Tempio.  Le  monete  aquilegiesi  sono  :  De- 
«  nari.  Oboli,  Piccoli  e  Bagattini  e  raramente  dei  Doppi  denari.  Nel 
«  1305  troviamo  che  un  Grosso  matapane  di  Venezia  valeva  2  Denari 
«e  4  Piccoli  Aquileiesi». 

Curioso,  non  è  vero?,  quel  diritto  di  zecca  concesso  neir856 
dopoché  il  Leicht,  con  altri  molti,  dovette  sudare  assai  per  difendere 
la  genuinità  del  diploma  di  Corrado  II,  che  lo  concedeva  nel  1028  al 
patriarca  Poppo  !  Tacciamo  pure  sul  resto,  e  proseguiamo  : 

«  Fresacensis,  Fresiacensis,  Friacensls,  Fresachensis  moneta  ed  anche 
«  Frisalicus,  Frixerius.  Era  detta  la  moneta  coniata  in  Friesach  (Carin- 
«  zia)  dai  patriarchi  d' Aquileia.  Carta  di  Volrico  patr.  1176:  qaisqae  prò 
«  ano  passa  de  terra  quam  occupavit  duo  denarios  Frisancensis  monetae 

<  singulis  annis  nobis  perso Ivant.  Nel  computo  delle  decime  del  1278: 
«  Librae  7  e.  2.  e  sol.  9  veronensium  parvoram  et  due  marchae  frisa- 
«  censium  novorum  argenti  de  Aquileia  computato  mihi  per  collectores 
«  qualibet  Friziacensi  prò  XIII  veronensibus  parvis.  (E  si  cita  11  Qlos- 
«  sarium  del  Du  Cange).  Perciò  ogni  Frisiacense  valeva  14  Piccoli  ve- 
€  ronesi.  Oli  arcivescovi  di  Salzburg  coniarono  di  queste  monete  a 
somiglianza  di  quelle  di  Aquileia.  Vedi  Frisacco  » . 

E  vediamo  pure  Frisacco: 

«  Frisacco,  Frignacco,  Frisacense  e  Frisaco.  Presero  questo  nome 
«  i  Denari  dei  patriarchi  di  Aquileia  in  comune  con  quelli  di  Friesach, 
«  dì  Gorizia,  e  dei  vescovi  di  Salzburgo,  che  li  avevano  imitati.  Una 
«  carta  del  Senato  veneto  del  1420  lamenta  che  in  Zara  e  nel  suo  ter- 
«  ritorio  si  spendono  per  1  Sol.  i  Frignacchi  che  non  tengono  3  onc. 
«di  argento  per  marca». 

«  Frisseri.  Lo  Zanetti  le  dice  monete  ideali  di  Aquileia,  ma  con 
«molta  probabilità  si  tratta  dei  cosidetti  Frisacchi».  Non  c'era  biso- 
gno di  dire  «  con  molta  probabilità  »,  dal  momento  che  sopra  s'era 
detto  Frixerius  ^  Frisacensis,  Ma  l'autore  non  seppe  che  i  Frisacensi 

>  tielVArchivio  deUa  R.  Società  Romana  di  Storia  Patria,  voi.  XXXVIII,  1915,  p.  733  sg., 
il  numismatico  Camillo  Serafini   loda  l'opera  del  Martinori  «come  sobriamente  redatta,   ma  in 

<  forma  chiara  e  metodica  >,  e  la  dice  <  ricca  di  tutti  quei  dati  che  possono  contribuire  alla  esatta 

<  conoscenza  della  moneta  *.  Ciò  vorrà  dire  che  tutti  i  difetti  sono  concentrati  nelle  poche  righe 
che  riguardano  le  monete  patriarcali,  il  che  non  è  certo  lusinghiero  per  noi. 


APPUNTI   E    NOTIZIE  185 

erano  appunto  i  denari  dell'arcivescovo  di  Salisburgo,  il  quale  non 
ebbe  affatto  bisogno  di  imitare  i  denari  patriarchini. 

«  Marca  Aqaileiese  valeva  160  Den.  cioè  Sol.  6  e  Den.  16  ». 

«In  Aquileia  si  diceva  Portone  la  4^  parte  del  inarco^. 

Ed  è  tutto:  fra  tanto  lusso  di  illustrazioni,  non  una  che  riproduca 
un  tipo  di  monete  friulane,  che  pure  sono  tutt'altro  che  trascurabili 
dal  lato  numismatico.  Tutta  l'opera  paziente  dei  nostri  studiosi  è  com- 
pletamente trascurata.  Ma  speriamo  che  il  Corpus  nummorum  italicoram, 
che  si  stampa  per  la  illuminata  dottrina  e  la  munificenza  di  Sua  Maestà 
il  Re,  abbia  a  darci  soddisfazione,  e  che  così  in  seguito  abbiano  ad 
essere  un  po'  meglio  conosciute  le  cose  nostre  a  questo  riguardo. 

P. 

'?V  Una  Società  forestale  a  Gemona  sul  principio  del  Milleotto- 
cento. —  Nel  fase.  5-12,  anno  IV,  1915,  p.  84  sg.,  con  cui  VAlbero, 
l'utile  bullettino  della  Società  friulana  Pro  Montibus  et  Sylvis,  ha  so- 
spese, causa  le  attuali  circostanze,  le  sue  pubblicazioni,  rinveniamo 
l'accenno  ad  un  programma  dell'  istituzione  in  Gemona  di  una  Società 
di  georgofili  per  la  semina  ed  educazione  di  un  bosco  nelle  montagne 
dette  Ambruseit  e  monte  della  Guardia,  pubblicato  dalla  deputazione 
comunale  di  Gemona,  con  la  superiore  approvazione,  il  12  aprile  1812. 
Il  documento,  del  quale  qui  sono  offerti,  a  titolo  di  saggio,  alcuni  dei 
39  articoli,  onde  si  compone  il  Regolamento  sociale,  è  «  veramente 
«  interessante  per  il  calore  con  cui  si  propugna  la  causa  del  rimbo- 
«  schimento,  essendo  indicati  con  commossa  parola  i  danni  recati  a 
«Gemona  da  un'improvvida  distruzione  dei  boschi  dell' Ambruseit  ». 
Auguriamo  che,  al  riprendere  delle  sue  pubblicazioni,  il  citato  periodico 
abbia  a  mettere  in  luce  il  notevole  documento,  la  cui  esumazione 
dall'importante  Archivio  municipale  è  dovuta  al  segretario  del  Comune 
gemonese,  cav.  Carlo  Rossini. 

?t^  La  nostra  guerra. —  lì  24  maggio  1915,  con  la  dichiarazione  di 
guerra  all'eterno  implacabile  nemico,  l' Italia  ha  preso  il  posto,  che  il 
destino  suo  grande  le  additava,  per  la  tutela  del  diritto  e  della  civiltà 
atrocemente  offesi  e  pel  conseguimento  delle  nazionali  aspirazioni,  cui 
la  Società  Storica  Friulana  è  orgogliosa  di  avere  essa  pure  recato  il 
suo  contributo  di  lavoro  modesto  sì,  ma  avvivato  dalla  fede  incon- 
cussa nel  riconoscimento  della  incontrovertibile  verità  della  storia  ;  ed 
oggi  essa,  da  questa  forte  ed  invitta  regione,  ha  il  vanto  di  assistere 
da  vicino  alle  mirabili  gesta  dei  prodi  figli  d'Italia,  ai  quali  manda 
un  grato,  entusiastico  saluto.  Sotto  la  guida  sapiente  e  magnanima  di 
Sua  Maestà  il  Re  beneamato,  i  valorosi  nostri  soldati  compiranno 
trionfanti  l'opera  piena  di  nobile  ardimento,  che  i  padri  eroici  gene- 
rosamente iniziarono. 


186  APPUNTI   E   NOTIZIE 

?W  Per  la  storia  della  nostra  guerra.  —  Il  Comitato  Nazionale  per 
la  Storia  del  Risorgimento,  presieduto  da  S.  E.  il  cav.  Paolo  Boselli,  fin 
dall'  inizio  della  nostra  impresa  redentrice  avvisò  l'opportunità  di  racco- 
gliere testimonianze  e  documenti  sull'attuale  guerra,  la  quale  si  presen- 
tava come  un  corollario  storico  delle  guerre  per  la  nostra  indipendenza 
ed  unità  politica.  Tale  raccolta  il  Comitato  ha  deciso  di  condurre  con 
un  disegno  sistematico  ed  organico  e  con  un  programma  adeguato 
all'altezza  della  grande  impresa  e  al  fine  da  conseguire  a  profitto  degli 
studiosi.  II  programma  fu  sottoposto  all'approvazione  del  Governo, 
attesa  l'indole  delicata  e  talora  riservata  delle  indagini,  che  si  dove- 
vano compiere. 

Ottenute  dal  Governo  non  pure  l'approvazione  ma  eziandio  la  col- 
laborazione, e  conseguite  altresì  quelle  degli  Stati  Maggiori  della  Guerra 
e  della  Marina,  il  Comitato  diramò  largamente  addì  1  agosto  1915  una 
circolare  contenente  i  capisaldi  del  programma. 

Ad  attuare  tale  programma,  fu  subito  data  opera  intensa  ed  as- 
sidua e  fu  chiesto  ed  ottenuto  il  consenso  e  il  concorso  dei  Corpi 
scientifici  (Accademie,  Deputazioni  di  Storia  patria.  Università),  cercan- 
dosi nello  stesso  tempo  di  far  giungere  l'eco  dei  propositi  fino  al 
popolo  e  fino  ai  combattenti  tutti,  interessandoli  allo  scopo  prefisso. 
Per  mezzo  dei  membri  delle  due  Camere  e  dei  sindaci  di  tutti  i  Co- 
muni, il  Comitato  mandò  il  suo  appello  in  ogni  angolo  di  provincia; 
per  mezzo  dei  provveditori  agli  studi,  giunse  alle  scuole;  per  mezzo 
dei  rispettivi  Stati  Maggiori  e  delia  stampa  quotidiana,  ai  combattenti 
di  terra  e  di  mare. 

Il  Comitato,  con  avveduta  e  felice  scelta  ed  il  consenso  del  R.  Go- 
verno e  del  Comando  supremo  del  R.  Esercito,  ha  nominato  suo 
Delegato  generale  per  la  zona  di  guerra  il  comm.  prof.  Libero  Fracas- 
setti,  nostro  consigliere  di  Presidenza,  conferendogli  un  ampio  e  spe- 
ciale mandato  per  le  ricerche  in  servigio  del  programma  prestabilito. 

Il  solerte  comm.  Fracassetti,  pur  procurando  per  ogni  parte  del 
programma  stesso  largo  e  pregevole  materiale,  si  dedica  specialmente 
alla  faticosa  ricerca  metodica  e  alla  paziente  raccolta  delle  pubblica- 
zioni effimere  nelle  rispettive  edizioni  originali,  pubblicazioni  fatte  di 
solito  in  piccolo  numero  di  esemplari  e  difficilmente  rintracciabili. 
?V  La  tutela  dei  monumenti  e  degli  oggetti  d'antichità  e  d'arte 
NEI  territori  occupati.  —  Con  ordinanza  in  data  31  agosto  1915, 
S.  E.  il  generale  conte  Luigi  Cadorna,  capo  supremo  del  R.  Eser- 
cito, ha  emanato  opportune  disposizioni  per  la  tutela  dei  monumenti 
nei  territori  occupati  (ved.  Comando  supremo.  La  gestione  dei  ser- 
vizi civili,  documenti,  fase.  1",  1915,  p.  106  sg.). 

Il  Comando  supremo  poi  ha  dato  incarico  al  comm.  Ugo  Ojetti, 
membro  del  Consiglio  superiore  delle  belle  arti,  di  sopraintendere  alla 
tutela  degli  edifici,  oggetti,  archivi,  che  nelle  terre  conquistate  hanno 
importanza  di  storia  e  d'arte. 


APPUNTI    E   NOTIZIE  187 

Del  lavoro  con  sagace  diligenza  compiuto  in  esecuzione  al  man- 
dato conferitogli,  Ugo  Ojetti,  nella  tornata  29  novembre  1915  del 
Consiglio  superiore,  ha  presentato  una  lunga  relazione,  descrivendo 
minutamente,  da  Monfalcone  e  da  Aquileia,  fino  a  Storo  e  a  Condino, 
le  condizioni  dei  monumenti  e  delle  cose  a  lui  affidate  ed  i  provvedi- 
menti presi  dal  Comando  supremo. 

Dopo  la  relazione  dell' Ojetti,  cui  fecero  vivo  plauso  i  colleghi, 
S.  E.  il  Ministro  della  P.  I.,  on.  Grippo,  anche  per  incarico  unanime 
del  Consiglio,  ha  indirizzato  al  generale  Cadorna  il  seguente  telegramma: 

«  Il  Consiglio  Superiore  delle  antichità  e  belle  arti,  radunatosi  sotto 
la  mia  presidenza  per  la  prima  volta  dopo  l'inizio  di  questa  guerra 
di  redenzione,  udita  e  approvata  la  relazione  di  Ugo  Ojetti  su  quanto 
il  Comando  supremo  ha  fatto  e  fa  per  la  tutela  dei  monumenti  e 
e  degli  oggetti  pregevoli  per  l'arte  e  per  la  storia  nelle  terre  ricon- 
quistate da  Condino  ad  Aquileia,  che  non  sono  stati  rapiti  o  distrutti 
dalla  rabbia  del  nemico,  invia  a  S.  E.  il  capo  di  Stato  Maggiore  l'espres- 
sione della  sua  unanime  fede  e  riconoscenza  per  l'Esercito  italiano, 
il  quale,  nei  gloriosi  monumenti  della  civiltà  romana  e  veneta,  ritrova 
ad  ogni  passo  i  segni  incancellabili  della  nostra  forza  vittoriosa  e  del 
nostro  diritto  ». 

?W  Aquileia  e  Grado  redente.  —  Addì  24  maggio  1915  le  nostre 
gloriose  milizie  entrarono  in  Aquileia,  restituendo  così  alla  madre  pa- 
tria una  terra  ricchissima  di  memorie  cospicue  della  civiltà  latina:  la 
vetusta  e  rinomata  colonia  dedotta  da  Roma,  divenuta  poi  1'  «  emporio 
d'Italia»  e  quindi  ragguardevole  centro  ne'  primi  tempi  cristiani  e 
patriarcali. 

Il  Museo  archeologico  ben  noto  agli  studiosi,  dal  quale  il  28  aprile 
un  funzionario  dell'  imperiale  governo  aveva  di  nascosto  asportato  oltre 
un  migliaio  e  mezzo  degli  oggetti  più  preziosi  come  monete,  ambre, 
vetri,  gioie  nonché  la  bella  testa  di  donna  detta  il  ritratto  di  Livia,  è 
rimasto  aperto,  per  disposizione  del  Comando  supremo,  che  vi  dedica 
le  più  diligenti  cure,  ed  ha  provveduto  per  la  pronta  compilazione  di 
un  esatto  inventario. 

Al  primo  parroco  italiano  d'Aquileia,  il  valente  nostro  consocio 
sac.  prof.  Celso  Costantini,  è  stata  opportunamente  affidata  la  custodia 
della  insigne  basilica,  cui  egli  consacra,  con  singolare  sollecitudine, 
la  parte  migliore  della  sua  dotta  ed  apprezzata  attività. 

Anche  Grado  è  stata  da'  nostri  soldati  ridata  air  Italia,  ed  il  pre- 
gevolissimo tesoro  di  quell'antica  basilica,  rinvenuto  intatto  nel  suo 
nascondiglio,  venne  tosto  collocato  al  sicuro. 

I  magnifici  pavimenti  della  basilica  aquileiese,  messi  in  luce  dagli 
scavi  recenti  e  dal  luglio  in  poi  rimasti  scoperti,  richiamano  giusta- 
mente la  viva  ammirazione  di  quanti,  alti  personaggi,  valorosi  soldati, 
ospiti  eminenti,  hanno  occasione  di  recarsi   ad   Aquileia,  che  fino  al 


188  APPUNTI    E    NOTIZIE 

momento  della  sua  liberazione  dal  giogo  straniero  era  familiare  pres- 
soché solo  a  coloro,  che  amorosamente  indagavano  le  passate  vicende 
della  terra  friulana. 

In  essa,  come  in  tutti  gli  altri  luoghi  occupati,  le  insegne  dei  prodi 
legionari  romani,  ritornatevi,  dopo  secolare  lontananza,  hanno  rievo- 
cato le  più  eloquenti  prove  della  prisca  civiltà,  del  pieno  ed  incrolla- 
bile diritto  italico. 

La  Società  Storica  Friulana  intimamente  lieta  che  Aquileia  sia  stata 
ricongiunta  a  Roma,  a  dimostrare  questi  suoi  sentimenti,  come  eziandio 
ad  esprimere  la  ferma  intenzione  di  potervi  tenere,  dopo  la  pace  vit- 
toriosa, una  sua  riunione  solenne,  ha  diretto  a  quel  Municipio  la  se- 
guente lettera  augurale: 

Udine,  li  29  inaggio  1915. 

Ad  Aquileia  veneranda  per  quindici  secoli  di  glorie  romane  e  patriarcali,  la  So- 
cietà Storica  Friulana  invia  il  suo  augurale  saluto,  e  sì  ripromette  di  rinnovare  fra 
breve,  appena  l'aquila  sabauda,  degna  erede  della  romana,  avrà  coperto  colle  sue 
grandi  ali  tutta  la  Regione  Giulia,  il  pellegrinaggio  compiuto  tre  anni  or  sono  alle 
sue  mirabili  antichità,  argomento  allora  per  noi  d'immenso  desiderio  e  d'inesauste 
speranze,  oggi  di  parentale  gioia  infinita. 

//  Presidente 
P.   S.   Leicht 

//  Segretario 

L.    SUTTINA. 

?V  II  Friuli  illustrato.  * —  11  libraio  G.  Malattia  di  Udine,  già 
benemerito  degli  studi  friulani  per  le  sue  diligenti  ricerche  biblio- 
grafiche, ha  formato  una  bella  raccolta  di  24  cartoline  intitolata  il 
Friuli  illastrato,  nella  quale  ha  riprodotto  vedute  antiche  delle  terre 
friulane,  costumi  caratteristici  e  paesaggi  notevoli.  Ricordiamo,  fra  le 
altre,  la  riproduzione  della  bella  incisione  settecentesca  della  piazza 
Contarena  di  Udine,  e  quella,  della  metà  dello  scorso  secolo,  del  ponte 
di  Cividale.  Vi  si  aggiungono  poi  cartoline  dedicate  ai  migliori  poeti 
dialettali  friulani.  L*  iniziativa  merita  sincero  plauso  ed  incoraggiamento. 

?i*  Segnaliamo  ai  lettori  nostri  due  belle  pubblicazioni  di  vera  at- 
tualità :  /  lembi  di  patria  di  Tommaso  Sillani  (Milano,  Alfieri  e  Lacroix, 
1915)  ed  /  mosaici  d'Aqaileia  di  Onorio  Fasiolo  (Roma,  «  Tiber  »  Arti 
Grafiche,  1915). 

Il  volume  del  Sillani,  adorno  di  una  elegante  veste  tipografica  e 
di  numerose  illustrazioni,  offre  una  sommaria  ma  garbata  descrizione 
delle  terre,  che  debbono  essere  restituite  all'Italia,  e  qui  notiamo 
con  lode  i  capitoli  su  Aquileia,  Grado  e  i  valli  romani  delle  Alpi 
Orientali. 

L'opera  del  Fasiolo,  riccamente  provveduta  di  tavole  fuori  testo 
anche  a  colori,  dopo  avere  brevemente  trattato  di  Aquileia  colonia  ro- 


APPUNTI    E    NOTIZIE  189 

mana  e  delle  condizioni  sue  nei  primi  tempi  cristiani,  passa  in  ras- 
segna i  mosaici  romani,  pre  e  postcostantiniani  della  veneranda  città, 
non  senza  considerare  l'origine  del  mosaico  antico  ed  aggiungere,  in 
fine,  una  copiosa  bibliografia  sulla  storia  aquileiese  e  l'archeologia  del 
mosaico. 

?W  Nel  volumetto  La  nostra  guerra,  edito  a  cura  dell'Associazione 
nazionale  fra  i  professori  universitari  (Firenze,  tip.  Domenicana,  1915) 
rinveniamo  due  succosi  scritti,  che  ci  piace  segnalare  ai  nostri  lettori 
e  cioè  /  diritti  d' Italia  sulle  Alpi  e  sull'Adriatico  e  Le  terre  irredente 
nella  storia  d' Italia,  dovuti  rispettivamente  ai  professori  Carlo  Errerà 
e  P.  S.  Leicht. 


^yn 


190  NECROLOGIO 


^       RICCARDO  PITTERI 

La  Società  nostra  è  stata  duramente  provata  dalla  sventura:  il  24  ottobre  1915, 
poco  dopo  subita  un'operazione  chirurgica,  soccombeva  al  crudele  destino  l'emi- 
nente letterato  e  poeta  Riccardo  Pitteri,  amatissimo  nostro  consigliere  di  Pre- 
sidenza. 

Il  Pitteri  nel  gennaio  1915,  essendo  stato  inchiuso  dall'Austria  nella  nota 
dei  cittadini  d4  prendere  in  ostaggio  nel  caso  di  guerra  con  l'Italia,  abbandonò 
insieme  alla  consorte  diletta  ed  al  venerando  genitore  la  Trieste  nativa  e  riparò  a 
Venezia,  ad  attendere  giorni  migliori.  Quivi,  mortogli  il  padre,  cui  profondamente 
dolse  non  aver  potuto  vedere  liberata  la  patria,  la  sua  malferma  salute  fu  anche 
maggiormente  scossa  e  piii  essa  ebbe  a  risentirsi  dell'acerba  ferita  e  del  prolun- 
gato esilio  allorché,  dopo  lo  scoppio  della  guerra  con  l'odiato  nemico,  ei  si  recò  a 
Roma.  Trascorsa  l'estate  a  Frascati,  tutto  intento  all'  idea  e  agli  studi  prediletti, 
si  ricondusse  a  Roma,  con  grande  fervore  coadiuvando  il  benemerito  Comitato 
dei  fuorusciti  adriatici  e  trentini,  e,  nella  eterna  città,  dove  egli  s'era  trovato  in 
compagnia  di  molti  amici  profughi  della  fedele  Trieste,  abbattuto  da  un  male, 
che  quasi  all'improvviso  aveva  assalito  la  delicata  sua  fibra,  chiuse  gli  occhi  per 
sempre  con  l'indicibile  straziante  pena  di  non  veder  compiuto  il  sogno  della 
redenzione  della  sua  città,  per  la  quale  egli  aveva  strenuamente  lottato  senza 
tregua  con  l'azione  politica  e  letteraria. 

Sortiti  i  natali  il  29  maggio  1853  da  una  cospicua  famiglia  di  ardenti  pa- 
triotti  e  di  giureconsulti,  il  Pitteri,  seguiti  i  corsi  di  diritto  a  Graz  e  a  Padova, 
si  diede  tutto  agli  studi  ed  alla  poesia,  nella  quale  divenne  maestro.  L'indefesso 
studio  de'  classici  latini  e  de'  migliori  nostri  scrittori  e  poeti  unitamente  a  quello 
della  storia  del  passato  nostro  glorioso  conferì  all'arte  sua,  con  la  eleganza  della 
forma,  la  finezza  della  concezione  e  del  sentimento  ed  il  classico  sapore,  una 
gagliarda  impronta  di  bella  italianità  si  da  renderla  la  più  perfetta  espressione 
dell'anima  nazionale,  forte  sempre  ne'  suoi  palpiti  generosi,  sebbene  barbara- 
mente oppressa.  Ogni  suo  verso,  infatti,  è  pervaso  dall'indomita  coscienza  del 
diritto  conculcato,  da  un  costante  anelito  al  radioso  giorno  del  riscatto. 

Per  le  medesime  caratteristiche  si  distinguono  cosi  la  sua  prosa  dotta,  lim- 
pida, incisiva,  come  i  discorsi  franchi,  robusti,  efficaci,  che  spesso  tenne,  anche 
come  presidente  di  quella  Lega  Nazionale,  cui  egli  da  ben  tre  lustri  aveva  dato 
tutte  le  sue  migliori  energie,  riuscendo,  com'è  ben  noto,  a  contrapporre  una 
mirabile  azione  di  feconda  propaganda  italiana  alle  sacrileghe  mene  del  Governo 
austriaco. 

Il  Friuli  fu  particolarmente  caro  al  Pitteri.  A  Farra  d'Isonzo,  nella  splendida 
villa  dell'avo,  egli  piacevasi  soggiornare,  in  mezzo  alla  verde  quiete  dei  campi,  molta 
parte  dell'anno.  Dotato  di  uno  squisito  sentimento  della  natura,  egli  cantò  in 
molti  componimenti  bellissimi  la  pianura  friulana;  ed  al  Friuli,  al  suo  Friuli,  aveva 
di  recente  intitolato  una  collana  di  freschi  sonetti,  recitati  a  Gorizia  e  messi  in 
luce  poco  prima  divampasse  il  tragico  incendio,  che  portò  l'Italia  a  compiere  la 


NECROLOGIO  191 

sua  unità;  ed  in  quei  versi,  gli  ultimi  da  lui  pubblicati,  egli  precorse  la  santa 
nostra  impresa  redentrice,  che  fatalmente  doveva  effettuarsi. 

In  Roma,  quando  seppe  che  la  ricchissima  biblioteca  d'oltre  5.000  volumi, 
gelosamente  da  lui  conservata  nella  sua  villa,  era  stata  dispersa  e  la  villa  stessa 
danneggiata  e  profanata,  con  cieco  astio  contro  l'esecrato  abitatore,  dalle  ma- 
snade imperiali  prima  di  abbandonare  il  paese,  premute  dall'incalzante  procedere 
dei  nostri,  si  confortava  al  pensiero  che  su  quei  vecchi  muri  ignudi  stava  final- 
mente la  croce  di  Savoia  e  che  presto  il  fatidico  tricolore  italiano  avrebbe  sven- 
tolato, libero  al  sole,  sul  colle  del  suo  anelato  San  Giusto. 

A  noi  piace  ricordare  il  Pitteri,  che,  pur  non  essendo  uno  storico  di  pro- 
fessione, della  patria  storia  era  tuttavia  cultore  zelantissimo  (di  lui  abbiamo  una 
lodata  conferenza  su  di  Una  pagina  della  storia  di  Aquileia),  sempre  sollecito 
della  nostra  opera,  che  con  noi,  nell'ansiosa  vigilia,  aveva  iniziato,  delle  nostre 
intraprese,  che  egli  a  ragione  considerava  come  sue  proprie,  e  non  senza  com- 
mozione profonda  ripensiamo  a  quando,  dopo  le  sedute,  cui  spesso  partecipava, 
del  nostro  Consiglio  di  presidenza,  si  allontanava  da  noi  con  le  lagrime  agli 
occhi  per  il  dolore  che  la  sua  dolce  Parrà,  la  sua  diletta  Trieste  erano  ancora 
lacerate  dagli  artigli  del  grifagno  uccello  bicipite. 

La  sua  salma  riposa  a  Venezia  accanto  a  quella  del  padre,  e  sarà  per  volere 
di  lui  trasportata,  dopo  la  guerra,  a  Parrà,  ove  è  sepolta  la  madre  sua,  che 
egli  amò  di  affetto  intensissimo. 

O  anima  buona,  nobilissima,  o  amico  indimenticabile,  siaci  tu  genio  tutelare, 
sia  la  tua  fede  incrollabile  di  buon  auspicio  per  la  vittoria  I 

L.  S. 


FRANCESCO  NOVATI 

Con  profondo  inconsolabile  dolore  ricordiamo  la  scomparsa  di  Francesco 
Nevati,  spentosi  nella  notte  fra  il  26  e  il  27  decembre  1915  a  San  Remo,  dove, 
per  consiglio  dei  medici,  era  andato  a  cercare  ristoro  al  suo  corpo  indebolito 
dalle  terribili  conseguenze  di  un  vespaio  alla  nuca,  che  nell'estate  l'aveva  colto 
a  Milano,  mentre,  nel  pieno  vigore  delle  forze  e  dell'ingegno,  era  intento  al  suo 
costante,  fruttuoso  lavoro. 

La  perdita  dell'insigne  uomo,  ch'era  uno  de'  piti  versati  conoscitori  del 
medio  evo,  è  lutto  gravissimo  per  l'Italia,  il  cui  nome  egli  aveva  mirabilmente 
contribuito  a  tenere  alto  e  rispettato  nel  campo  degli  studi. 

Non  è  questo  il  luogo  a  discorrere  delle  rare  doti  della  mente  lucida  e  sa- 
gace del  Novati,  del  suo  non  comune  valore  d'insegnante  e  delle  preclare  virtù 
di  cittadino,  della  sua  vasta  sconfinata  erudizione,  del  rigoroso  metodo  da  lui 
seguito  nella  ricerca,  della  versatilità  della  sua  feconda  vena,  onde  scaturivano 
le  trattazioni,  tutte  importanti  e  bene  informate,  sui  più  svariati  argomenti  vuoi 
nel  dominio  della  letteratura  vuoi  in  quello  della  storia,  della  sua  singolare  pe- 
rizia nell'avviare  e  guidare  imprese  e  sodalizi  scientifici;  in  queste  pagine,  che 
egli  sempre  accolse  con  benevola  simpatia,  vuol  solo  essere  rammentata  l'opera 
sua  in  quanto  s'attenga  specialmente  al  Priuli. 

Delle  indagini  relative  alla  regione  nostra,  egli  si  rese  in  peculiar  modo 
benemerito  con  la  sontuosa  e  dotta  pubblicazione  del  Fior  di  battaglia  di  Fiore 


1Q2  NECROLOGIO 

dei  Liberi  da  Premariacco  (Bergamo,  1902),  in  cui  rivendicò  ad  un  italiano,  anzi 
ad  un  friulano,  il  merito  di  avere  scritto  il  primo  trattato  sull'arte  di  armeggiare; 
con  l'avere  discorso  così  nel  suo  lodato  Influsso  del  pensiero  latino  sulla  ci- 
viltà italiana  del  medio  evo  (Milano,  1899)  come  nella  magistrale  opera,  pur- 
troppo incompiuta,  Le  origini,  del  nostro  Paolo  Diacono  e  degli  altri  poeti  che 
fiorirono  nell'età  carolingia;  con  l'aver  consacrato  un'acuta  comunicazione,  in- 
serita nella  Miscellanea  di  studi  storici  e  ricerche  critiche  sul  patriarca  Paolino 
(Milano,  1905),  a  rilevare  lo  strano  abbaglio  dell'Ebert  che  riteneva  Paolino 
un  facile  trasgressore  della  prosodia  latina,  e  la  coscienza  che  il  culto  patriarca 
ebbe  piena  della  propria  dottrina,  sebbene,  secondo  il  costume  de*  suoi  compagni 
d'arte,  non  se  ne  mostrasse  troppo  sicuro;  e  ancora  con  altre  più  modeste  scrit- 
ture. Né  va  qui  sottaciuta  l'opera  maggiore  del  Novati,  la  edizione  A^W'Episto- 
lario  di  Coluccio  Salutati,  pubblicato  dall'Istituto  Storico  Italiano  fra  il  1891  e  il 
1911,  la  quale,  nelle  sue  note  preziose,  illustra,  con  lunghe  e  compiute  ricerche, 
tutta  la  vita  politica,  sociale  e  letteraria  italiana  della  seconda  metà  del  sec.  XIV 
e  dei  primi  anni  del  successivo. 

Alla  Società  nostra,  cui  appartenne  come  socio  onorario,  il  Novati  molto 
s'interessava,  seguendone  con  compiacimento  lo  sviluppo,  e  fu  lieto  di  prender 
parte  al  congresso  tenutosi  nel  1912  a  Latisana. 

Alle  Memorie  egli  si  proponeva  di  dare  in  breve  la  illustrazione  del  codice 
già  Soranzo,  poi  Sneyd  indi  Murray  ed  infine  De  Marinis,  contenente  l'autografo 
del  Flos  duellatorum  di  Fiore  da  Premariacco,  ed  una  nota  intesa  a  chiarire  i 
rapporti  tra  Filippo  d'Alen^on,  patriarca  d'Aquileia  e  Filippo  Villani;  ma  la  morte, 
che  lo  abbattè  sì  immaturamente  (non  aveva  che  57  anni,  essendo  nato  a  Cre- 
mona il  10  gennaio  1859),  distruggeva  inesorabilmente  anche  questi  con  i  disegni 
de'  molti  lavori  e  delle  iniziative  che  egli  vagheggiava  di  compiere. 

A  noi  è  caro  l'augurio  che  fra  le  sue  carte,  dal  desolato  fratello  nobilmente 
donate  alla  Biblioteca  Braidense,  si  possa  rintracciare  quel  materiale,  che  all'uopo 
egli  aveva  radunato  con  tanto  amorosa  sollecitudine,  e  sia  dato  trarne  profitto  per 
gli  studi,  che  egli  sì  ardentemente  amava. 

Alla  memoria  deU'intemerato  maestro,  del  lagrimato  amico,  scomparso  men- 
tre con  gioia  vedeva  la  patria,  affratellata  con  le  nazioni  vindici  del  diritto  e 
della  civiltà,  compiere  i  suoi  alti  gloriosi  destini,  porgiamo  commossi  un  reve- 
rente e  riconoscente  saluto. 

L.  S. 

■j-  L'8  agosto  1915,  in  seguito  ad  un  male,  che  da  tempo  l'angustiava,  si 
spense  in  Udine  il  conte  Giuseppe  Savorgnan  di  Brazzà  Ceroneu.  Nato  a 
Roma  nel  1849,  egli  aveva  colà  trascorsa  gran  parte  della  sua  esistenza  e  solo 
da  un  ventennio  circa  erasi  stabilito  in  Friuli,  donde  è  oriundo  il  suo  cospicuo 
illustre  casato.  Nobile  d'animo  e  di  modi,  assai  colto,  gentile  ed  affabile,  il  conte 
Brazzà  aveva  saputo  destare  molte  e  cordiali  simpatie.  Fu  anche  scrittore  e  pub- 
blicò memorie  di  cose  idrauliche,  come  un  progetto  per  l'acquedotto  di  Marti- 
gnacco  e  dei  paesi  vicini.  S'interessò  altresì  di  cose  archeologiche  e  storiche, 
mettendo  in  luce  alcuni  opuscoli  sul  Friuli  nell'alto  medio  evo. 

t  Pochi  giorni  appresso,  il  16  dello  stesso  mese,  scendeva  nel  sepolcro 
l'avy.  Romano  Zuliani  di  Cividale.  Un  morbo  implacabile  venne  a  troncargli, 
non  ancora  quarantenne,  la  vita  e  a  togliergli  la  soddisfazione,  da  lui  tanto 
agognata,  di  partecipare  con  le  armi  alla  nostra  impresa  di  redenzione.  Pro- 


NECROLOGIO  19S 

i'essionista  intelligente,  volenteroso  nel  disimpegno  dei  pubblici  uffici,  egli  aveva 
coltivato  gli  studi  del  diritto  specie  in  relazione  al  passato  della  sua  terra,  e 
parecchi  anni  addietro  aveva  pubblicato  una  memoria  sui  vecchi  usi  nuziali 
friulani. 

t  Compiuti  appena  i  quarant'anni,  venne  a  morte,  dopo  brevi  sofferenze 
addì  7  settembre  1915,  in  Udine,  il  sig.  Giuseppe  Bracato,  ufficiale  della  ci- 
vica Biblioteca  ed  apprezzato  indagatore  della  storia  artistica  friulana.  Il  Bra- 
gato,  con  grande  buon  volere  e  tenacia,  pur  in  mezzo  a  difficoltà  e  ad  onta 
della  cagionevole  salute,  era  giunto  a  formarsi  una  buona  cultura  storica  ed  ar- 
tistica, che  egli  accrebbe  anche  nel  cosciente  disimpegno  delle  sue  funzioni  di 
addetto  alla  libreria  udinese.  In  ciò  sta  il  suo  maggior  merito,  che  giustizia  vuole 
siagli  appieno  riconosciuto.  Assimilatore  facile  ed  espositore  garbato,  egli  scrisse 
sovente  di  storia  e  d'arte  su  pe'  giornali  della  provincia  ed  ultimamente  mise  in 
luce  una  Guida  artistica  di  Udine  (Udine,  1913)  ed  una  monografia  illustrata  su 
Qemona  e  Venzone  facente  parte  ùtW Italia  artistica  di  C.  Ricci.  Diede  inoltre 
una  larga  e  proficua  collaborazione  alla  Quida  delle  Prealpi  Giulie,  edita  dalla 
benemerita  Società  Alpina  Friulana  nel  1912.  Nel  Bollettino  della  Biblioteca  di 
Udine,  dove  inserì  vari  interessanti  scritti  di  erudizione  e  di  bibliografia,  aveva 
iniziato  la  utile  pubblicazione,  poi  rimasta  sospesa,  del  catalogo  dei  manoscritti 
della  Raccolta  Joppi,  conservata  presso  la  Biblioteca  Comunale.  In  queste  Me- 
morie egli  pubblicò  un  importante  regesto  di  documenti  friulani  del  sec.  XIII, 
tratto  da  un  codice  de  Rubeis,  ora  esistente  presso  l'Archivio  di  Vienna.  Il  Dra- 
gato tenne  pure  l'ufficio  di  bibliotecario  della  nostra  Società. 

t  Nel  successivo  novembre,  il  giorno  16,  in  Udine,  cessava  di  vivere,  dopo 
di  avere  subita  una  operazione  chirurgica,  il  cav.  dott.  QiACO.wo  Perusini,  che 
non  contava  ancora  otto  lustri.  Conseguita  all'Ateneo  pisano  la  laurea  in  scienze 
agrarie,  il  compianto  nostro  consocio  s'era  dedicato  con  particolare  amore  al 
progresso  agricolo  della  Provincia,  occupandosi  anche  di  zootecnia  e  specialmente 
d'ippica.  Fondò  a  Udine  la  Società  ippica  friulana,  divenendone  presidente  attivo 
e  benemerito,  e  fu  apprezzato  consigliere  dell'Associazione  agraria  friulana.  Pur 
non  essendosi  di  proposito  dedicato  agli  studi,  tuttavia,  dotato,  com'era,  di  in- 
teiligenza  e  di  cultura,  non  poteva  non  essere  fautore  di  quanto  tornar  si  pre- 
figgesse di  lustro  e  decoro  alla  terra  nativa,  e,  quindi,  la  Società  nostra  lo  ebbe 
tra  i  fondatori.  Di  maniere  cortesi  e  distinte,  il  dott.  Perusini  era  benvoluto  e 
stimato  da  quanti  lo  conoscevano,  e  la  sua  dipartita  ha  destato  sincero  rim- 
'j'anto. 


ij 


ATTI   DELLA  SOCIETÀ   STORICA  FRIULANA 

Adunanza  del   Consiglio  direttivo  del  giorno   16  ottobre  1915. 
Presidenza  del  Presidente  prof.  P.  S.  Leicht. 

La  seduta,  che  ha  luogo  nella  sede  sociale  (Palazzo  Bartolini,  sala 
dell'Accademia  di  Udine),  è  aperta  alle  ore  14.15,  presenti  Fracassetti, 
Frangipane,  Leicht,  di  Pranipero. 

II  Presidente  commemora  il  bibliotecario  sociale  sig.  G.  Bragato, 
ed  il  Consiglio,  su  proposta  del  presidente  stesso,  delibera  di  espri- 
mere le  condoglianze  della  Società  alla  famiglia. 

Il  Presidente  espone  al  Consiglio  le  difficoltà  che,  nell'ora  pre- 
sente, si  oppongono  alla  sollecita  pubblicazione  delle  Memorie,  e  legge 
una  lettera  della  tipografia  Stagni  di  Cividale,  da  cui  risulta  che,  per 
la  difficoltà  di  procurarsi  la  carta  e  per  difetto  di  personale,  essa  non 
può  continuarne  la  stampa.  La  Presidenza  ha,  quindi,  iniziate  trattative 
con  altre  tipografie  della  provincia  e  di  fuori  per  il  proseguimento 
della  pubblicazione. 

Fracassetti  e  di  Prampero  osservano  che  probabilmente  anche  le 
altre  tipografie  si  troveranno,  date  le  circostanze  attuali,  nelle  mede- 
sime condizioni,  e  ritengono  che  non  sarà  facile  continuare  regolar- 
mente la  pubblicazione. 

Dopo  ampia  discussione,  il  Consiglio  stabilisce  che  si  abbia  a  sol- 
lecitare la  pubblicazione  del  fase.  4  del  voi.  X,  tuttavia  in  corso  presso 
la  tipografia  Stagni  ;  e  di  dar  mandato  alla  Presidenza  di  provvedere, 
mediante  altra  tipografia,  alla  stampa  del  seguito. 

Il  Consiglio,  constatata  la  impossibilità,  nelle  presenti  circostanze, 
di  convocare  il  Congresso,  delibera  di  parteciparne  ai  soci  il  rinvio, 
e  di  rendere  nota  tale  decisione  anche  alle  Deputazioni  e  Società  sto- 


ATTI    DELLA   SOCITiTA 


193 


riche,  che  erano  state  invitate  al  convegno  '  progettato  per  quest'anno 
a  Cividale,  nell'occasione   del  Congresso. 

Il  Presidente  avverte,  in  fine,  che  con  il  corrente  anno  decadono, 
per  anzianità,  i  consiglieri  Degani  e  Fracassetti  ed  il  presidente  Leicht. 

Dopo  di  che,  la  seduta  è  levata  alle  ore  14.45. 


//  Presidente 

P.  S.  Leicht. 


//  Segretario  ff. 

L.  Frangipane. 


'  Questo  convegno  la  Società  ha  fermamente  in  ariiitio  di  tenere  non  appena  le  circostanze 
lo  consentiranno,  ed  essa  si  propone  di  trovarsi  allora  insieme  coi;  le  Società  consorelle  in  una 
delie  località  della  terra  friulana  ricongiunta  alla  Patria. 


31  decembre  1915. 


stampato  in  Città  di  Castello,  nella  Officina  della  Casa  editrice  S.  Lapi. 
Marchese  Luigi  Frangipane  res;jjnsabile. 


INDICE  197 


Indice  delle  materie  dell'XI  volume. 


Memorie 

Leicht  Pietro  Silverio,  Le  elezioni  dei  patriarchi  aquileiesi    .     .     .  Pag.  1 
Paschini    Pio,    Il    patriarcato    di    Wolfger    dì    Ellenbrechtskirchen 

(1204-1218)  (seguito  e  fine). >  20 

Sachs  Alice,  Le  nozze  in  Friuli  nei  secoli  XVI  e  XVII.     ....  »  73 


Aneddoti 

Paschini   Pio,  Primordi  dell'ordine  francescano  nei   Friuli ....  »  40 
Raschini   Pio,    Un    documento    inedito   del   patriarca  Vodolrico    II 

(28  ottobre   1171) >  54 

Raschini  Pio,  Antichi  episcopati  istriani »  1 39 

Raschini  Rio,  L'identificazione  di  Anselino »  148 

Raschini   Rio,   Mutamenti    nella   prepositura    di    Cividale   nella   se- 
conda metà  del  sec.  XIII >  155 

Raschini  Pio,  Della  Torre  e  Grimani  nei  versi  latini  di  un  cinque- 
centista    ->  163 


Rassegna  bibliografica 

Leicht  Pietro  Silverio:  Q.  Cassi,   Il  mare  Adriatico »        57 

Leicht  Pietro  Silverio:  F.    Musoni,    Udine  dalle  origini  al  prin- 
cipio del  secolo  XIX. >      179 


Appunti  e  Notizie 

Appunti:  Un  friulano  giustiziato  a  Roma  nel  1504  (Pio  RA- 
SCHINI). —  Alessandro  di  Masovia,  patriarca  d'Aquileia  (Pio 
Raschini).  —  Un'Alfabetica  compartimentale  della  patria   del 


1Q8  INDICE 

Friuli  nei  manoscritti  del  Magini  (G.  L.  BERTOLINO.  — ■ 
Le  monete  friulane  in  un  recentissimo  dizionario  di  numi- 
smatica (P.).  —  Una  Società  forestale  a  Gemona  sul  princi- 
pio del  Milleottocento Pag.   60,181 

Notizie:  Il  più  antico  storico  degli  Slavi.  —  I  reliquiari  del 
S.  Marco  di  Pordenone.  —  Il  copialettere  Marciano  della 
Cancelleria  Carrarese.  —  La  nostra  guerra.  —  Per  la  storia 
della  nostra  guerra.  —  La  tutela  dei  monumenti  e  degli  og- 
getti d'antichità  e  d'arte  nei  territori  occupati.  —  Aquileia  e 
Grado  redente.  —  Il  Friuli  illustrato.  —  Annunzi  di  nuove 
pubblicazioni »       64,185 

Necrologio:  f  A.  D'Ancona;  f  '•  Piuzzi  Taboga;  f  L.  Rosso 
(L.  S.)  ;  t  R-  Pitteri  (L.  S.)  ;  f  F-  Novati  (L.  S.)  ;  f  G-  Sa- 
vorgnan  di  Brazzà  ;  f  R-  Zuliani  ;  f  G.  Bragato  ;  f  G-  Pe- 
rusini »       66,190 


Atti  della  Società  Storica  Friulana 

Adunanza  del  Consiglio  direttivo  del  16  gennaio  1915.  —  Adu- 
nanza generale  ordinaria  del  10  febbraio  1915.  —  Adunanza 
del  Consiglio  direttivo  del  9  marzo  1915 »  67 

Adunanza  del  Consiglio  direttivo  del  16  ottobre  1915  ..     .     »  194 


(Ilio  correnla  colla  "Posta 


TpubbllcastòRe  trlmaslral 


^Jllemorie  Storielle  JForogìuUesi 


anni  \2\^ 


In  radice  arborts  nulla  frorsus  af- 
farti f  ulcbrltu&lnlx  tptcXts.  et  tamen 
quU<)uiò  est  In  arbore  |>ulcbrituòlnts 
vel  òecorU  ex  Ma  proceòlt. 

A.  AUGUSTINI  Sup.  Johann. 


3n  Homa 

presso  la  Società  Storica  TF^rlulana 


SOMMARIO. 

MEMORIE 

Carlo  Cecchelli  —  Arte  barbarica  cividalese     ....     Pag.       i 
Pio    Paschini   —   Gregorio    di    Montelongo  patriarca   d'Aquileia 

(1251-1269) »       25 

ANEDDOTI 

Pio  Paschini  —  Confini  friulani.  Note »       85 

Pietro  Silverio  Leicht  —  Aquileia  e  Trieste  alla  pace  di  Torino        »       92 

RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA »       99 

Si  parla  di  :  C.  Costantini. 

APPUNTI  E  NOTIZIE »      loi 

Appunti'.  Dopo  l'angoscia,  la  vittoria  e  la  liberazione.  — 
La  difesa  del  confine  Veneto-Istriano  sotto  l' Impero 
Romano.  —  Documenti  dei  Torriani  a  Modena  (P.  S. 
Leicht). 

Notizie  :  Il  Parlamento  friulano. 

ATTI  DELLA  SOCIETÀ »     109 

Adunanza  del   Consiglio  direttivo  del  20  decembre  191 7. 

INDICE  DEL  VOLUME  XII -XIV »     iii 


Le  Memorie  storiche  ForogiuUesi,  giornale  della  Società  Sto- 
rica Friulana,  si  pubblicano  in  fascicoli  trimestrali  di  oltre  80  pa- 
gine ciascuno,  con  copertina  illustrata,  e  talora  con  tavole  illu- 
strative dentro  o  fuori  del  testo. 

L'abbonamento  anticipato  è  annuale  e  costa  per  l'Italia  L.  7, 
per  r  Estero  (Unione  postale)  L.  8.  Un  fascicolo  separato  si  vende 
a  L.  2,50. 

Indirizzare  tutto  quanto  concerne  l'amministrazione  e  la  di- 
rezione del  periodico  alla  Società  Storica  Friulana,  Piazza  Ve- 
nezia,  II,  Belle  Arti,  Roma. 


SOCIETÀ  STORICA 
FRIULANA 


MEMORIE  STORICHE 

FOROGIULIESI 

GIORNALE 

DELLA 

SOCIETÀ  STORICA  FRIULANA 

ANNI  XII-XIV 


ROMA 

SEDE  PROVVISORIA  DELLA  SOCIETÀ 


PIAZZA  VENEZIA,   ii 

BELLE   ARTI 


I9I8 


La  proprietà  letteraria  è  riservata 
agli  autori  dei  singoli  scritti 


Arte  barbarica  cividalese. 


Molt'anni  fa  un  opuscolo  di  Michele  Leicht  portava  per  la 
prima  volta  un  po'  di  logica  nello  studio  dei  monumenti  civida- 
lesi  e  nello  stesso  tempo  sferzava  certa  critica  che,  seguendo 
falsi  metodi,  giunge  a  non  meno  false  conclusioni  *. 

Tuttavia,  dopo  lo  studio  del  Leicht  si  è  continuato  a  fanta- 
sticare; ne  sia  prova  la  Guida  storica  di  Cividale  del  Grion  ^, 
che  accatasta  materiali  senza  esattezza  e  senza  discernimento.  Solo 
negli  ultimi  tempi  è  apparso  uno  scritto  del  dott.  Pio  Paschini 
che  rivela  da  parte  dell'autore  un'indagine  scrupolosa,  un  me- 
todo sicuro  ed  il  desiderio  di  portare  un  vero  contributo  ai  vari 
problemi  ^.  Il  presente  scritto  è  un  nuovo  tentativo  d' impiantar 
su  basi  positive  lo  studio  di  monumenti  che  di  tanta  luce  ravvi- 
vano un  periodo  poco  documentato  della   civiltà  nostra. 

I.  —  L'altare  di  Ratchis. 

Prendiamo  le  mosse  da  questo  poiché  l'iscrizione  che  gli  è 
indivisibile  non  fa  nascere  alcun  sospetto  sulla  sua  appartenenza 
ad  altro  monumento.  Inoltre  tutta  l'iscrizione  ha  tali  contrassegni 
di  autenticità,  tali  particolarità  che  possono  servire  di  sicuro  ter- 
mine di  confronto.  I  rozzi  caratteri,  le  abbreviazioni  hanno  poca 

i  M.  Leicht,  Monumenti  cividalesi  (studi  critici  di  classificazione), 
Udine,  1895. 

~  Cividale,  1899. 

3  P.  Paschini,  Brevi  note  archeologiche  sopra  un  gruppo  di  monumenti 
longobardi  a  Cividale  (Estr.  dal  Bollettino  della  Civica  Biblioteca  e  del  Mu- 
seo di  Udine,  1910,  n.  2). 


Carlo  Cecchelli 


affinità  con  gli  altri  molto  più  regolari  del  battistero  Callistiano, 
ma  tutti  e  due  appartengono  ad  un  tipo  di  capitale  rustica.  Sin- 
golare è  qui  la  forma  della  D  che  è  quasi  un  A  ;  il  x  sposato  alla 
V  e  all'È;  la  coloritura  con  minio  di  tutte  le  lettere,  ciò  che  le 
riannoda  alle  più  antiche  iscrizioni  cristiane. 

Avverto  che  porrò  in  nota  tutte  le  osservazioni  relative  alla 
mia  lettura. 

I*  (fronte  anteriore): 

XIMA   DONA    XPI    AD    CLARIT   .   SVBEIMI    CONCESSA    PEMMONI 

VBIQUE   DIR....O  ^ 


1  Segnalo  anche  la  lettura  dell' Eitelberger,  in  op.  Cividal  in  Friaul 
und  scine  Monumente,  Wien,  1857,  la  quale  però,  per  quanto  ostenti  una 
precisione  nella  trascrizione  delle  parti  ben  chiare,  segue  vecchie  e  fantasti- 
che interpretazioni  nelle  dubbie.  Poco  mi  curo  del  Leclercq,  il  quale  nel 
recente  Dictionnaire  d' archeologie  chréticnne  et  de  liturgie  di  F.  Cabrou 
(II,  p.  423)  fa  opera  di  compilatore  e  non  d'indagatore  originale. 

XIMA.  Un  punto  ed  un  segnetto  obliquo  prima  dell' x  fanno  sup- 
porre la  presenza  dell'  a  di  waxima.  Questo  è  supplemento  sicuro  anche  per 
il  Paschini,  op.  cit.,  p.  II.  Suppone  anche  la  presenza  di  una  croce  ini- 
ziale come  nella  lapide  di  Orso  patriarca  (f  811)  nel  duomo;  non  ammette 
però  un  de  avanti  al  maxima  perché  gli  pare  che,  ammessa  la  presenza  della 
croce,  non  vi  sarebbe  spazio  per  contenerlo.  Osservo  però  che  il  lapicida  dà 
prova  nel  resto  dell'epigrafe  di  saper  ben  sfruttare  il  poco  spazio  unendo 
lettere  o  facendone  di  più  piccole  sotto  la  linea.  Del  resto  il  De  maxim,a 
dona  è  frase  comune  a  molte  altre  iscrizioni  dell'  Italia  nord-orientale,  come 
mi  assicurò  anche  il  prof.  R.  della  Torre.  Di  Roma  mi  sovviene  l' iscrizione 
sul  puteale  di  S.  Marco  in  Fallacine,  che  comincia  :  de  dono  di  et  sci  m.arci 
iohannes  prb  fieri  rogabit.  Il  ciborio  di  S.  Giorgio  di  Valpolicella  ha  : 
De  donis  Sanati  luvannes  Bapteste  (anno  712)  ;  il  ciborio  di  Bagnacavallo 
(Vili  secolo)  ha  :  De  donis  Di  etc.  È  curioso  ricordare  che  il  maxima  fece 
credere  un  tempo  ad  alcuni  esser  questo  il  sepolcro  di  Santa  Massima  (CoUett. 
Liruti  Biasutti,  e.  8,  in  Grion,  op.  cit.,  p.  397). 

XPI.  È  il  monogramma  scomposto  nelle  sue  parti. 

SVBEIMI.  Dice  il  Paschini  :  «  Il  primo  i  (mozzo  in  cima  come  le  due 
«  lettere  seguenti  per  una  scheggiatura  della  pietra)  porta  le  due  trasversali 
«  inferiori  di  un' E  dovute  forse  ad  uno  svarione  di  uno  scalpellino  ».  In- 
terpreta perciò  SVBLIMI.  Ma  è  nient' altro  che  una  felice  interpretazione.  Su- 
blimis  sublimitas,  titulus  honorarius  Regum,  apud  Nicolaum  I  PP.  Ep.  36-50, 
in  Charta  Caroli  Simpl.  Regis,  etc.  Du  Gange,  Gloss.,  s.  v. 

DI....0.  Nel  mezzo  della  parola  manca  il  marmo  ed  è  supplito  da  malta. 
Il  Paschini  vorrebbe  integrare:  Dir,  yb  |  rmarentvr  perché  crede  che  il  fo 
non  avesse  esistito  nel  principio  della  faccia  seguente,  quantunque  il  consi- 
derevole spazio  vuoto  lascierebbe  supporvelo.  A  sostegno  di  ciò  nota  che  i 
fregi  verticali  degli  altri  angoli  non  lasciano  sopra  di  sé  spazio  per  le  lettere. 
Ciò  è  contradetto  dall'esame  delle  altre  righe  dove  il  fregio  termina  al  disotto 


Arte  barbarica  cividalese 


2*  (lato  destro): 

....RMARENTVR   VT   TEMPLA  NAM   El    INTER  RELIQVA  S  * 

3"  (fronte  posteriore)  : 

DOMVM   BEATI   lOHANNIS  ORNABIT  PENDOLA  >ì<  TECVRO  PVLCHRO 
ALT  ^ 

4*  (lato  sinistro):  '  * 

ARE   DITABIT   MARMORIS   COLORE   RATECHIS   HIDEBOHOH 

RIT  ' 

dell'epigrafe  e  le  lettere  occupano  buona  parte  dello  spazio  ove  sarebbe 
entrata  la  continuazione  in  alto  del  fregio  stesso.  Il  preteso  resto  di  treccia 
della  seconda  riga  non  è  altro  che  una  nota  di  separazione,  tanto  più  che 
una  modanatura  la  divide  dal  fregio. 

Detto  ciò,  se  il  DIR....0  debba  interpretarsi  diruto  (Bertoli)  o  direpto 
(Grion)  o  pure  il  diruto  debba  considerarsi  un  errore  ed  interpretarsi  diruta 
(Paschini),  ciò  che  avrebbe  il  pregio  di  concordare  con  tempia^  non  saprei 
dire  con  sicurezza.  Ad  ogni  modo  il  senso  delle  varie  locuzioni  è  pressoché 
il  medesimo. 

*  ...RMARENTVR  (v.  nota  preccd.). 

VT  TEMPLA.  L'  VT  ed  il  TE  sono  uniti  ognuno  in  una  sola  lettera.  Io  li 
ho  sciolti  per  esigenze  tipografiche.  Quest'  unione  ha  dato  luogo  ad  omis- 
sioni e  letture  assurde  che  il  Paschini  registra.  Tralascio  di  riportarle,  perché 
son  frutto  di  una  poco  accurata  osservazione. 

NAM  Ei.  Sopra  l'i  c'è  una  scheggiatura  che  ha  dovuto  abrasare  la  corta 
traversa  della  t.  Perché  è  logico,  anche  grammaticalmente,  che  si  legga  et 
e  non  ei.  Il  Paschini  costruisce  :  hiter  reliqua  maxima  dona  concessa  sublimi 
Pemmoni  ad  claritatem,  Christi  ut  forìnarentur  tempia  ubique  diruta  nam  ei 
{Cristo  opp.  lohanni);  Ratchis  domum  etc.  Va  bene  che  ci  siano  nell'iscri- 
zione delle  strane  forme;  ma  questa  è  un  po'  troppo  strana. 

s.  Non  è  una  lettera.  È  la  nota  di  separazione  tra  un  periodo  ed  un 
altro  o  fra  un  verso  ed  un  altro  se,  come  crede  il  Paschini  e  come  sospetto 
anch'io,  l'iscrizione  segue  lontanamente  le  regole  di  una  specie  di  cursus. 
Notisi  poi  che  questo  segno  è  rilevato  mentre  le  altre  lettere  sono  ad  in- 
cavo ;  che  non  è  uguale  alle  altre  s  ;  che  non  è  una  prosecuzione  dell'  ornato 
verticale  a  treccia  come  crede  il  Paschini  (vedi  in  altra  nota  prec),  dato 
pure  che  è  molto  più  piccolo  di  questo. 

~  DOMVM.  La  lettura  è  evidentissima  per  chi  ci  ponga  un  po'  d'atten- 
zione e  sia  sgombro  da  preconcetti.  Eppure  1'  Eitelberger  ha  letto  solarium 
e  tanti  altri  con  lui.  Il  Paschini  ha  il  merito  di  aver  letto  per  primo  domum. 

^  Notisi  questa  parola  figurata.  Non  v' è  dubbio  che  debba  leggersi 
così.  Sulla  crux  penduta  parlerò  nell'illustrazione  dell'epigrafe. 

TECVRO.  Il  T  e  I'e  sposati  han  dato  luogo  a  false  interpretazioni.  Cor- 
risponde, come  bene  osserva  il  Paschini,  al  tegvrivm  dell'  iscrizione  calli- 
stiana  sul  battistero  del  duomo. 

3  HiDEBO  HOHRiT.  La  I  finale  è  appena  appena  accennata  da  un  se- 
gnetto  in  alto.   È  un  appellativo  intraducibile.  Il  Grion  di  sua  testa  spiegò: 


Carlo   Cecchelli 


Anche  essendovi  parti  di  dubbia  lettura,  mi  pare  che  questa 
dedica  sia  da  interpretare  a  senso  in  tal  modo  : 

«  Ratchis  hidehohohrit  con  le  grandissime  donazioni  lasciate 
a  gloria  di  Cristo  dal  ^  sublime  (?)  Pemmone  allo  scopo  di  rifor- 
mare i  tempi  ovunque  fossero  devastati,  avendo  ornato  fra  gli 
altri  anche  il  sacrario  di  S.  Giovanni  ;  arricchì  (questo)  altare  di 
croce  pendula  sotto  il  tegurio  bello  ^  per  coloritura  di  marmo  »  ^. 

Il  nome  di  Ratchis  ci  riconduce  ad  un'era  di  grandezza  per 
il  Forogiulio  e  per  il  regno  longobardico.  L'amico  di  Paolo  Dia- 
cono, che  nella  reggia  pavese  novellava  di  Cunimondo  mostran- 
done la  coppa  del  cranio,  il  pio  re  che  alla  pompa  mondana  pre- 
ferì l'umile  saio  benedettino,  magnifica  qui  la  memoria  di  suo 
padre  Pemmone,  il  marito  di  Ratperga. 

La  chiesa  di  S.  Giovanni  cui  si  accenna  nell'iscrizione,  stava 
dappresso  al  duomo.  In  essa  era  collocato  questo  altare  col  te- 
gurio, con  la  pendula  croce  *  ;  ma  rovesciata  la  chiesetta   da   un 


lancia-prudente,  irruente  in  battaglia.  Ma  potrebbe  anche  corrispondere  a 
devotus. 

Il  prof.  Wunch,  distinto  studioso  di  lingue  germaniche,  il  quale  fu  da 
me  consultato  in  proposito,  non  ha  potuto  darmi  neanche  lui  una  spiegazione 
esauriente  della  misteriosa  parola,  visto  che  la  lingua  longobarda  non  fu 
scritta,  ma  tramandata.  Egli  crede  tuttavia  che  nell'appellativo  si  possono 
ravvisare  due  radicali  :  hoh  =  alto  e  rit  =  cavaliere.  Nel  nome  proprio  egli 
vede  poi  'un  nome  originario  denotante  una  qualità:  Rate  =  consigliere. 
I  nomi  propri  in  tutte  le  lingue  hanno  un  significato  ed  è  naturale  che  lo 
abbiano  anche  in  quella  longobarda. 

^  Dal  o  a/  ?  Mi  sembra  più  logico  dal,  come  farebbe  supporre  del  resto 
tutta  la  rimanente  iscrizione. 

2  II  bello  si  riferiva  forse  a  tegurio  e  mensa. 

3  Si  allude  alla  coloritura  e  agli  smalti  incastrati  poiché  1'  uso  di  più 
marmi  colorati  è  cosa  moderna,  ma  d' imitazione  classica, 

4  Per  queste  croci  pendule  io  intendo  quelle  molto  in  uso  nel  VII-VIII 
secolo  donate  dai  re  barbari;  per  esempio,  quelle  di  Swentila  (621-631)  e 
Recesvinto  (649-672),  visigotiche,  al  museo  di  Cluny  che  hanno  una  corona 
ed  in  mezzo  la  gran  croce  pendente.  Così  quella  di  Teodolinda  con  la  croce 
di  Agilulfo,  esistente  nel  tesoro  di  Monza.  Dovevano  stare  presso  o  dentro 
l'aitar  grande,  poiché  sono  preziose. 

L' uso  della  croce  sull'altare  venne  in  Occidente  molto  tardi.  In  Oriente 
appare  già  nel  VI  secolo.  In  una  biografia  in  versi  del  monaco  nestoriano 
Bar  =  Utà  della  croce  che  appoggiava  contro  l'altare  e  a  cui  rivolto  il 
prete  celebrava  si  narra:  «  mentre  una  domenica  stavamo  a  vegliare  e  alla 
preghiera  comune  la  croce  cadde  dal  xaxdaxpwiia  per  terra  e  si  ruppe  » 
(Baumstark,  Croci  d' altare  nei  chiostri  nestoriani  del  sec.  VI,  in  Roemische 
Quartalschrift,  1900,  70  sgg.). 


Arte  barbarica  cividalese 


terremoto  nel  1463,  «  la  mensa  di  marmo  tutta  lavorata  alla  go- 
tica (sic),  dopo  qualche  tempo  fu  trasportata  nella  chiesa  di  San 
Martino  di  là  del  ponte  ».  Così  riferisce  da  più  antiche  memorie 
il  canonico  Belgrado  in  un  suo  manoscritto  ^ 

Apparteneva  forse  al  tegurio  l'archetto  coi  nomi  di  Ratchis 
e  Pemmone  visto  nel  1594  da  Pietro  Paolo  Locatelli  nel  pavi- 
mento del  duomo  *?  Non  sappiamo.  Limitiamoci  quindi  ad  illu- 
strare questa  mensa  che  è  forse  di  tutto  il  gruppo  la  parte  più 
importante.  Essa  appartiene  all'  angusto  tipo  ravennate  e  consta 
di  un  parallelepipedo  di  pietra  del  Carso  di  m.  1.80  di  lunghezza 
e  m.  0.90  di  altezza  ^.  La  compongono  quattro  lastre  tutte  deco- 
rate e  disposte  così: 

fronte  posteriore 
(croci   e  fenestella) 


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faccia  anteriore 
(Majesias  Domini) 


Descriviamole  singolarmente: 

Fronte  anteriore-.  Quattro  angeli  nimbati  sorreggono  la  mi- 
stica mandorla  centrale  formata  da  una  corona  di  palme.  Nel 
mezzo  di  essa  il  uavxoxpa-cop,  assistito  da  due  cherubini  con  le 
ali  occhiute,  siede  su  di  un  trono  invisibile  e  benedice  con  la 
destra  alla  maniera  greca  mentre  con  la  sinistra  stringe  il  rotolo 
degli  Evangeli.  La  mano  di  Dio  padre,  attraversando  dall'alto  la 
mandorla,  gli  tocca  il  nimbo  solcato  dalla  crux  immissa. 

*  Cfr.  R,  DELLA  Torre,  //  battistero  di  Callisto  in  Cividale  del  Friuli^ 
Cividale,  1899,  p.  25. 

2  Da  un  ms.  del  Locatelli,  Commentario  delle  cose  di  Cividal  di  Frioli, 
p.  50.  Copio  dal  Paschini  che  lo  riporta  (op.  cit.,  p.  15):  «  Di  Pemone  et 
«  parimente  de  Rachi  suo  figliolo,  et  Duca  successore  si  vede  memoria  in 
«  un  arco  di  pietra  vagamente  lavorato  alla  Longobarda,  il  qual  arco  di 
«  pietra  si  ritrova  in  terra  nel  Duomo  di  Cividale  dirimpetto  alla  porta  del 
«  Cimiterio  eh' è  presso  la  Sacrestia;  quivi  tuttoché  sia  guasto  e  gli  manchi 
«  '1  principio  et  il  fine  leggonsi  in  caratteri  Longobardi  queste  parole  : 

«  TERE  FLOROLENTOS  PEMONEM  RATC(Az)  SVM  ATQ.  PROGRES...  ». 


3  Cf.  M.  Leicht,  op.  cit.,  p.  15. 


Carlo   Cecchèlli 


É  la  scena  della  Majestas  Domini,  comunissima  nell'antica 
arte  cristiana.  La  parte  di  centro  è  assai  interessante  anche  per 
una  questione  d'arte  locale:  nel  cosiddetto  tempietto  longobardo 
la  lunetta  della  parete  d'ingresso  conserva  traccie  di  un  affre- 
sco nel  quale  scorgesi  un  Cristo  di  tipo  identico  fiancheggiato 
dagli  arcangeli  s.  Michele  e  s.  Gabriele  (leggende  verticali  sul 
fondo  verde  agli  estremi:  scs  mihael  —  scs  Gabriel).  Quale 
delle  due  sarà  la  rappresentazione  più  antica?  Per  ora,  non  ose- 
rei pronunciarmi  in  proposito. 

La  concezione  di  questa  scena  è  tutta  orientale  :  non  ce  ne 
stupiremo  pensando  al  tempo  cui  appartiene  e  paragonandola 
con  analoghe  scene  su  monumenti  di  altre  città  italiane. 

Alle  tradizioni  del  primitivo  cristianesimo  innestate  sul  ceppo 
della  romanità,  si  sovrappongono  e  preponderano,  nei  secc.  VIILIX, 
le  idealità  di  tutte  le  parti  d'Oriente  fusesi  nel  centro  più  lumi- 
noso :  Bisanzio.  Talché  io  penso  che  l'immobilità  delle  figure,  la 
uniformità  delle  rappresentazioni,  siano  volute  dagli  artisti  di 
quest'epoca,  i  quali  seguono  determinate  regole,  riunite  in  parte 
dal  tardo  «  Manuale  di  pittura  »  del  Monte  Athos. 

Qui,  per  esempio,  si  ha  un  saggio  delle  idee  che  il  topografo 
Cosma  Indicopleuste  aveva  espresso  sulla  conformazione  dell'Uni- 
verso ^  I  quattro  angeli  nimbati  che  qui,  come  nella  cappella  di 
San  Zenone  in  S.  Prassede  (Roma)  sorreggono  la  reggia  del 
cielo  (paaiXsJa  toO  oùpavoù)  in  cui  domina  Cristo  come  Ttavxoxpdxop  ; 
sono  le  colonne  del  cielo  (ol  oxuXoi  toù  oùpavoO),  simili  per  funzione 
ai  pilastri  o  colonne  della  cosmografia  egizia  e  personificate  nei 
Toth  del  noto  affresco  di  Denderah  ^.  Disporre  questi  angeli  in 
una  zona  intermedia  fra  cielo  e  terra,  come  nella  tavola  del  codice 
di  Smirne  riprodotta  dallo  Strzygowski  ',  era  cosa  ardua  per  l'ar- 

*  V.  l' edizione  della  Topografia  di  Cosma  Indicopleuste  fatta  da  mgr. 
C.  Stornajolo,  Milano,  Hoepli,  1911.  V.  anche  De  GrCneisen,  //  Cielo 
nella  concezione  religiosa  e  artistica  dell'  alto  ni.  evo,  in  Arch.  d.  Soc.  Rem. 
d.  st.  patria,  voi.  XXIX,  1907  (riportato  nel  libro  dello  stesso  autore  su 
Santa  Maria  Antiqua,  Roma,  1910),  e  il  bell'articolo  di  G.  L.  Bertolini 
nel  Bollettino  della  Soc.   Geograf.  Ital.,  1908. 

~  Cf.  Maspero,  Archéol.  égyptienne,  Paris,  1887,  cap,  II.  Nella  cosmo- 
grafia di  Cosma  e  nell'egizia,  la  forma  della  terra  è  quadrangolare,  più 
lunga  che  larga:  qui  infatti  gli  angeli  sostenitori  puntano  i  piedi  verso  gli 
angoli  dell'orlo  rettangolare. 

^  Der  Bilderkreis  des  Griechischen  Phisiologus,  des  Cosmas  Indicopleu- 
stes  und  Ottateuch  nach  Handschriften  der  Bibliothek  zu  Smirna,  in  Byzant. 
Arch.,  2,  Leipzig,  1899,  tav.  XXX,  p.  60,  n.  180.  Vi  si  vede  Cristo  con  mo- 


Arte  barbarica  cividalese 


tista  data  l'orizzontalità  di  questa  fronte  rettangolare,  e  dato  il 
proposito  di  far  convergere  l'attenzione  dei  fedeli  sulla  figura  del 
Redentore.  Soppresse  quindi  lo  atepétoiia,  la  volta  solida  del  fir- 
mamento che  intercetta  la  vista  dell'  Empireo  ^  ;  e  chi  sa  quanto 
il  suo  cervello  si  sarà  sforzato  per  produrre  in  iscorcio  questi 
angeli  che  devono  partire  dalla  terra  (orlo  rettangolare  della 
mensa),  attraversare  il  firmamento  di  cui  si  vedono  le  stelle, 
giungere  alla  mistica  mandorla  ed  innalzarla,  innalzarla  sempre 
più  negli  spazi  siderei.  «  ...  All'alta  fantasia  qui  mancò  possa  », 
ed  il  tentativo  fallito  ci  si  dimostra  per  alcuni  particolari  veri- 
stici alquanto  singolari.  Tali  sono  :  il  vario  obliquare  dei  corpi  in 
direzione  della  cornice,  il  fluttuare  delle  stole,  delle  chiome,  il 
movimento  di  pieghe  delle  vestaglie,  dovuti  all'impeto  del  volo. 

Lo  scultore,  non  avendo  calcolato  la  distanza  occorrente  alle 
braccia  di  questi  angeli  per  giungere  alla  curva  della  mandorla, 
ha  dovuto  allungarle  eccessivamente  (in  uno  son  più  lunghe  del 
corpo  !)  e  quindi  farle  anche  grosse  (per  sfigurare  di  meno)  ingi- 
gantendo le  mani  in  proporzione.  Del  resto  il  criterio  delle  pro- 
porzioni esula,  come  vedremo,  da  molti  prodotti  di  quest'arte. 

Passando  ad  altri  particolari,  osserviamo  che  le  vestaglie 
sono  strette  da  una  fascia  ornata  sotto  il  ginocchio,  hanno  sul 
davanti  delle  fascie  traverse  e  galloni  alle  maniche  ed  al  bordo 
inferiore.  Le  ali,  trattate  con  minuzia  tale  da  farne  distinguere 
tutte  le  specie  di  piume,  si  piegano  in  varie  direzioni  a  seconda 
dello  spazio  libero.  Occhi  e  gemme  splendono  sul  centro  delle 
capigliature  in  tutti  e  quattro,  però  ai  due  del  basso  soltanto 
splende  sul  nimbo  una  croce. 

Entriamo  ora  nella  celeste  mandorla  -,  ove,  per  distinzione 
sottilizzata  dai  padri  orientali  e  ripetuta  da  Cosma,  vivono  le  es- 


nogramma,  dominante  nel  Cielo.  Sotto  la  volta  del  firmamento  sono  sospesi, 
due  per  parte,  gli  angeli.  Poi  la  montagna  della  terra  e,  sul  piano  della 
terra,  gli  uomini. 

*  Nei  mosaici  ed  altrove  è  segnato  da  una  striscia  retta  o  curva,  tal- 
volta colorita  in  turchino,  tal' altra  (come  nel  cod.  Vat.  dell' Indicopleuste) 
in  rosso  di  fuoco. 

~  La  mandorla  composta  dai  simbolici  rami  di  palmizio  prende  le  mosse 
dalla  più  antica  e  classica  corona  d'alloro.  Anche  sulla  bizantinissima  capsella 
rotonda  del  tesoro  di  Grado,  riportata  dal  Kandler  {Bull,  d'arch.  crisi., 
n.o  IV,  ser.  II)  al  V  secolo,  una  ghirlanda  di  palme  circonda  la  regale  figura 
della  Panaghia  che  innalza  la  croce  astile  e  tiene  sulle  ginocchia  il  Cristo. 
Nella  capsella  elittica  (che  a  torto  è  stata  ritenuta  posteriore  alla  rotonda  dal 


Carlo  Cecchelli 


senze  più  pure,  ì  cherubini  dalle  sei  ali  occhiute,  a  fianco  del 
trono  di  Cristo. 

L'artista,  ligio  al  tipo  iconografico  dei  cherubini  S  ha  dispo- 
sto le  ali  in  maniera  che  due  ne  fascino  ed  occultino  interamente 
il  tronco,  due  altre  si  librino  ai  lati  delle  spalle,  le  ultime  due 
uniscano  le  loro  punte  al  di  sopra  della  testa.  Ed  ha  fatto  pro- 
tendere le  mani  (attaccate  a  braccia  troppo  corte)  verso  il  Si- 
gnore, quasi  per  mostrarlo  al  mondo.  Si  noti  il  particolare  veri- 
stico della  curvatura  di  alcune  ali,  che  ne  fa  scorgere  un  lembo 
del  dorso. 

Dall'alto  della  mandorla,  attraversando  la  cornice  che  s'apre 
ai  lati  a  mo'  di  raggi,  scende  la  mano  di  Dio  padre  (simbolo  bi- 
blico della  potenza)  e  tocca  il  nimbo  crucigero  del  Figliuolo  per 
confermare  la  divinità  di  Lui.  Questo  mistero  trova  in  tal  motivo 
icpnografico  (derivato  in  specie  dai  mosaici  absidali)  l'espressione 
artistica  più  pura;  noi,  con  tutta  la  nostra  perfezione  spirituale, 
non  sapremmo  forse  concepirlo  meglio. 


Kandler  e  che  invece  deve  considerarsi  anteriore,  come  opinò  il  De  Rossi) 
si  rimarcano  bei  giri  di  fogliami  classici  e  medaglioni  di  tipo  prettamente 
romano. 

L' autore  del  passante  cividalese  con  l' augurio  molto  gotico  sabastane  . 
VTERE  FELis,  ha  posto  il  nome  in  una  coroncina  che  vuol  essere  ancora  di 
fogliame  d'alloro.  E  così  nei  lavori  più  antichi  e  più  saturi  di  latinità.  Man 
mano  i  fogliami  d'alloro  o  di  palma  sì  confondono  in  ima  gran  fascia  a  spina 
dì  pesce,  motivo  tanto  comune  nei  tempi  longobardici.  Noi  ne  riscontriamo 
un  largo  uso  nelle  sculture  barbariche  dì  Civìdale,  e  nell'arte  preromanica 
spagnuola  del  IX  sec.  in  S.  Miguel  de  Lino  e  S.  Maria  de  Naranco,  presso 
Oviedo,  dove  servono  a  bordare  capitelli,  cornici,  archivolti,  medaglioni  fra 
le  arcate  delle  pareti  (cfr.  Dieulafoy,  Spagna  e  Portogallo,  Bergamo,  1903, 
pp.  61-66). 

*  Sarebbero  per  il  Fogolari  {Civìdale  del  Friuli,  Bergamo,  1905,  p.  42) 
più  specialmente  ì  tetramorfì.  Il  tipo  del  tetramorfo,  secondo  il  Berteaux 
{L'art  dans  l' Italie  meridionale,  pp.  217-218),  risalirebbe  a  Cosma  Indico- 
pleuste  ed  è  l'angelo  sul  cui  corpo  sono  attaccate  le  teste  del  bue  e  del 
leone,  che  io  qui  non  vedo.  Il  tetramorfo  inventato  in  Egitto  o  in  Siria, 
vien  dipinto  ai  lati  del  Salvatore  e  presso  il  ritratto  di  papa  Paolo  I  (757-767) 
nell'abside  di  S.  Maria  Antiqua.  In  un  rotulo  dì  exultet  anteriore  al  1028 
della  cattedrale  dì  Bari  lo  si  vede  in  figura  giovanile  con  le  due  teste  ani- 
malesche ai  lati  del  capo  e  con  un'  aquila  nimbata  sulle  alette  incrociate 
superiormente  al  nimbo  (v.  Tavola  con  iconografia  comparata  degli  exultet, 
annessa  all'opera  del  Berteaux,  I,  i).  Nel  IX  secolo  passa  nell'iconografia 
carolingia. 


Arte  barbarica  cividalese 


Il  tipo  di  Gesù  è  giovanile  ed  imberbe  ^  Il  volto  a  pera  ro- 
vescia, come  bene  osserva  il  Venturi  ^,  è  simile  a  quello  di  tutte 
le  altre  figure  di  questa  mensa.  Simile  pure  è  il  collo  a  tronco 
di  cono  che  serve  per  incastrarlo  al  busto.  I  capelli,  discriminati 
nel  mezzo  del  capo,  scendono  ad  incorniciare  il  volto  in  riccioli 
lunghi  che  si  risollevano  in  basso,  forse  per  lo  stesso  effetto  di 
vento  che  notammo  negli  angeli. 

Il  naso  è  un  perfetto  triangolo  acuto  ;  gli  occhi  sono  piccoli  e 
vacui  d'espressione  poiché  nel  loro  incastro  dovettero  ricevere  gli 
smalti;  la  bocca  piccola  s'incurva  duramente  sopra  il  mento  lun- 
ghissimo. Sotto  a  questo  faccione  c'è  una  corporatura  tozza  rive- 
stita di  tunica  discinta,  manicata,  i  cui  davi  con  ornati  quadran- 
golari ed  ovali  giungono  sino  a  metà,  secondo  la  foggia  invalsa 
dopo  il  IV  secolo.  Un  timido  studio  di  panneggio  rende  più 
naturale  la  caduta  delle  fitte  pieghe  e  le  incurva  al  disopra  dei 
troppo  bassi  ginocchi,  unico  segno  dello  star  seduto.  Le  due 
corte  braccia  infelicemente  girate  sul  petto  terminano  in  mani 
troppo  grosse  e  singolare  è  la  mossa  della  mano  benedicente, 
poiché  fa  vedere  la  palma  con  il  pollice  e  l' anulare  ripiegati, 
mentre  le  altre  dita  son  distese.  Ci  si  vede  l'intento  dell'artista 
di  far  sì  che  il  Cristo  benedica  proprio  i  devoti  che  stanno  di 
prospetto  all'altare. 

Tutta  piena  di  smalti  policromi  doveva  essere  questa  fronte 
d'altare,  pari  ad  un'oreficeria  barbarica:  smalti  nei  cavi  degli 
occhi  di  tutti  i  personaggi,  smalti  nelle  catene  degli  occhi  sulle 
ali  cherubiche,  smalti  nelle  gemme  delle  capigliature  angeliche, 
nelle  branche  delle  croci,  nei  centri  delle  stelle  a  nove  punte 
(come  le  due  ai  lati  del  nimbo  di  N.  S.  G.  Cristo),  smalti  nelle 
due  rosette  del  basso  e  fors'anco  negli  ornati  della  cornice,  di 
cui  tratteremo  assai  più  avanti. 

Oltreché  per  le  paste  vitree,  il  marmoris  colore  dell'epigrafe 
di  Ratchis  era  giustificato  da  una  vera  e  propria  coloritura  del 
marmo,  di  cui  restano  buone  traccie  perché  il  tipo  alquanto  po- 


^  È  uno  dei  tipi  più  antichi,  d'origine  gnostico-letteraria.  Prima  lo  si 
vede  di  media  grandezza  e  qualche  volta  con  fattezze  infantili  :  capo  tondo, 
capigliatura  corta  e  sembiante  sereno.  Dal  sec.  Ili  in  poi  la  capigliatura  si 
fa  più  arricciata.  A  Roma  lo  si  trova  però  anche  nella  prima  metà  del  se- 
colo III  con  barba  intera  e  lunga  capigliatura  (cubie.  Ili  catac.  di  Domitilla), 
poi  nel  IV  sec.  (catac.  ss.  Pietro  e  Marcellino)  con  la  capigliatura  discri- 
minata (Dagli  studi  del  Wilpert,  Malereien,  io6  e  sgg.). 

2  Storia  dell'  Arte,  voi.  II,  p.  i8o. 


I  o  Carlo   Cecchelli 


roso  della  pietra  ha  contribuito  alla  sua  conservazione,  fatto 
rarissimo. 

L'uso  di  policromare  le  sculture  fu  tramandato  dal  pagane- 
simo *.  Lo  Swoboda  distinse  nelle  cristiane  tre  gruppi  di  tratta- 
menti :  primo  :  preponderanza  del  giallo,  bruno  e  verde  o  por- 
pora dati  scarsamente  in  linee  o  strisele  quasi  in  aiuto  dello 
scalpello  insufficiente;  lettere  marcate  in  minio;  secondo:  intera 
pittura  ed  eventuale  indoratura  dei  capelli;  terzo:  preponderanza 
dell'  indoratura  ^.  Qui  ci  avviciniamo  al  secondo  trattamento  : 
giallo  dorato  ricopre  le  capigliature  di  Cristo  e  degli  angeli; 
l'angelo  di  sinistra  in  basso  ha  un  bell'azzurro  di  cielo  sulle  ali, 
quello  di  destra  un  violaceo  intenso  sul  vestito;  la  veste  del 
Cristo  reca  traccie  di  rosso  infuocato. 

Si  pensi  quindi  che  impressione  doveva  produrre  questa  scena 
simbolica  alla  luce  multipla  dei  candelabri  a  corona;  quale  bar- 
baglio dovevano  produrre  gli  smalti,  se  pure  (datane  la  man- 
canza assoluta  negli  incastri  a  ciò  eseguiti)  non  si  credette  più 
munifico  mettervi,  specie  negli  occhi,  delle  pietre  preziose. 

Faccia  laterale  destra.  —  Adorazione  dei  Magi  :  La  Vergine 
sedente  su  trono,  tiene  sulle  ginocchia  il  Divino  Infante  che,  con 
mossa  piena  di  naturalezza,  piega  il  corpo  ed  allunga  le  manine 
bramose  verso  i  doni  che  il  primo  re,  nell'atto  d' inginocchiarsi, 
gli  offre.  Il  secondo  re  segue  sollevando  con  tutt'  e  due  le  mani 
uno  scrigno  ovale  in  cui  si  scorgono  i  grani  d' incenso  ;  l' ultimo 
re  solleva  anch' egli  il  suo  cofanetto.  Un  angelo  nimbato,  V  exultet, 
fila  orizzontalmente  nell'aria  ed  indica  con  il  braccio  destro  semi- 
disteso, il  nato  di  Dio.  Splende  la  stella  fatidica.  Sfondo  della 
scena  è  un  colonnato  ad  archivolti  di  tutto  sesto  e  di  doppia 
ghiera  impostanti  su  capitelli  cubici  scantonati,  come  ve  ne  sono 
in  edifici  coevi;  il  pavimento  reca  fiori  e  fogliami  stilizzati. 

In  un  canto  dietro  il  trono  sta  un  personaggio  ritto,  uno 
strano  individuo  cui  più  in  là  chiederemo  di  svelarsi. 

L'esame  minuto  delle  varie  parti,  potrà  fornirci  (anche  più 
della  fronte  anteriore)  importanti  dati  positivi. 


^  Cf.  Le  Blant,  Les  ateliers  de  sculpttire  chez  les  prémiers  chrétiens, 
in  Mélanges  d' archeologie  et  d' histoire  pubi,  par  l' Ecole  francaise  de  Rome, 
Roma,  1884. 

^  Cf.  H.  Swoboda,  Zur  altchristlichen  Marmorpolychromie,  in  Roem. 
Quartalschri/t,  1889,  134-157;  ibidem,  1887,  100-105.  Cf.  anche  Kauffmann, 
Man.  arch.  crisi.,  Roma,  1908,  p.  435. 


Arte  barbarica  cividalese  1 1 


Il  tipo  dei  magi  (che  son  ora  in  numero  di  tre  ^  proviene 
da  quello  comune  all'  arte  più  antica,  ispirato  dagli  Evangeli  apo- 
crifi e  raffigurato  su  mosaici  (S.  Maria  Magg.  in  Roma),  pitture 
(specie  cemeteriali),  sarcofagi  (romani  e  ravennati),    arte  minuta. 

Non  v'  è  ancora  distinzione  di  età  e  di  razze  fra  i  tre,  come 
l'evoluzione  più  tarda  della  tradizione  ha  voluto  far  credere,  ma 
sono  ancora  tutti  giovani,  come  nell'  arco  trionfale  della  basilica 
liberiana,  tutti  d' un  viso,  tutti  con  lo  stesso  vestito  caratteristico, 
che  ne  designa  la  comune  origine  asiatica.  Sono  in  tutta  la  mensa 
le  uniche  figure  col  volto  di  profilo  ^  (poiché  le  altre  seguono  la 
legge  di  frontalità,  anche  quando  gambe  e  piedi  sono  di  fianco) 
ed  è  un  volto  allungato  col  mento  puntuto  che  parrebbe  un  pizzo 
di  barba,  mentre  è  il  naturale  profilo  di  quel  mento  lunghissimo 
che  vedemmo  al  Pantocrator  di  fronte. 

Hanno  in  capo  il  pileo  frigio,  ma  di  tal  forma  che,  nella 
parte  larga,  parrebbe  un  turbante,  ed  osservando  insieme  il  cono 
superiore,  si  crederebbe  ad  una  mitra.  Indossano  una  tunichetta 
corta,  stretta  alla  vita  da  una  fascia  o  cordone,  e,  dal  re  che 
più  si  china,  può  scorgersi  anche  il  lembo  di  un  mantello.  Alle 
gambe  hanno  stretti  calzoni  o  anassiridi  (distintivo  barbarico  sin 
dai  tempi  traianei)  ^,  cui  più  in  basso  s' avvolgono  le  fascie 
scendenti  fino  al  piede. 

Ridicolissimo  a  vedersi  è  1'  angelo  il  quale  vola  in  un  piano 
perfettamente  orizzontale  ed  è  rivolto  con  la  faccia  e  col  tronco 
di  prospetto,  viceversa  poi  ha  i  piedi  di  profilo  ed  il  braccio  in- 

1  Così  dico  perché  nelle  varie  scene  anteriori  c'è  stata  un'oscillazione 
fra  due,  tre,  quattro;  la  simmetria  e  lo  spazio  hanno  spesso  soverchiato  la 
verità  tradizionale. 

2  Le  avrà  fatte  così  probabilmente  perché  in  tutte  le  rappresentazioni  che 
potevano  servirgli  di  modello,  sono  di  profilo.  Sull'iconografia  dei  Re  Magi 
non  faccio  citazioni,  perché  ogni  manuale  di  archeologia  cristiana  potrà 
fornirne.  Segnalo  solamente  il  pregevole  studio  di  mgr.  G.  Biasiotti  sui 
Mosaici  dell'arco  trionfale  di  S.  Maria  Maggiore,  nel  Bollett.  d'arte  del  Mini- 
stero della  P.  I.,  anno  1914.  V.  anche:  U.  Kehrer,  Die  heilige  drei  Kd- 
nige  in  der  Legende  und  in  der  Kunst,  Strassburg,  1904. 

3  Ved.  i  bassorilievi  della  Colonna  Traiana  in  Roma.  Rappresentazioni 
di  barbari  se  ne  hanno  moltissime.  Ricordo  la  statua  non  finita  del  barbaro 
prigioniero  nel  Museo  Lateranense.  I  magi  però  si  avvicinano  di  più  alla 
iconografia  del  dio  Mitra.  Il  Paschini  {Brevi  note  ...,  p.  io)  ben  riconfronta 
la  nostra  rappresentazione  con  altra  del  codice  di  Sedulio  nel  Museo  Plantin 
di  Anversa  (riprod.  in  St.  Beissel,  Geschichte  der  Verehrung  Marias  in 
Deutschland,  Freiburg,  1909,  p.  11).  V.  anche  una  moneta  bizantina  in 
Kauffmann,  Man.  cit.,  p.  330. 


1 2  Carlo  Cecchelli 


dicante  pende  come  slegato  dalla  spalla;  se  si  aggiunge  il  paio 
d'ali  appiccicate,  la  testa  del  solito  tipo  a  pera  infilata  al  busto, 
il  vestito  rigido,  lungo,  gallonato,  fasciato  in  basso  ;  si  avrà  la 
sagoma  burattinesca  di  questo  messo  celeste. 

Una  figura  elegantissima  è  invece  quella  del  bambino  Gesù, 
unica  in  cui  l' artista  abbia  infuso  un  vero  palpito  di  vita  :  sul 
nimbo  crucigero  spicca  il  bell'ovale  del  volto  incorniciato  dì 
riccioli  capricciosamente  arruffati  in  basso  così  da  aggraziare  un 
pochino  la  serietà  dei  corretti  lineamenti.  La  veste  infantile  si 
drappeggia  bene  sullo  snello  corpicciuolo,  che  si  protende  verso 
i  magi  quasi  sfuggendo  dalle  mani  della  Vergine  Madre  ;  e  due 
piedini  uscenti  dall'orlo  della  tunichetta  par  che  s'agitino  per  la 
brama  di  possedere.  Il  braccio  sinistro  (il  cui  attacco  alla  spalla 
è  provvidamente  coperto  dalla  mano  di  Maria)  si  ripiega  sul 
petto  e  la  mano  stringe  il  rotulo,  particolare  che  l'artista  non 
ha  osato  togliere  ;  l' altra  mano,  come  abbiam  detto,  si  dirige 
sulla  prima  offerta. 

In  un'arcata  campeggia  la  figura  della  Vergine  col  nimbo 
che  avvolge  la  gran  testa  a  pera  rovescia  (un  po'  più  illeggia- 
drita delle  altre)  ricoperta  da  un  velo,  con  il  corpo  che  s'allunga 
rigido  e  si  piega  ad  angolo  retto  sul  cuscino  del  trono.  Se  non 
vi  fosse  un  tentativo  di  studio  nel  panneggiare  la  veste,  stretta 
da  un  cordone  ai  fianchi,  questo  corpo  avrebbe  qualcosa  di  le- 
gnoso e  non  andrebbe  errato  il  paragone  con  un  idolo  maoro  o 
con  altro  qualsiasi  feticcio  selvaggio.  Ma  i  grandi  occhi,  pro- 
fondamente cerchiati,  son  là  per  penetrarci  nell'  anima  e  più  ci 
avrebbero  impressionato  se  avessero  conservati  gli  smalti.  Sono 
questi  occhi,  sormontati  da  una  crocetta  greca  incisa  sulla  fronte, 
che  ci  fanno  dimenticare  l' infelicità  del  braccio  corto,  grossolano  e 
slogato  dalla  spalla,  la  durezza  del  naso  allungantesi  a  triangolo 
acuto,  la  smorfia  severa  della  bocca. 

Non  è  certamente  questa  la  Vergine  sognata  dai  primitivi 
umbri  e  toscani  dei  secoli  XIII  e  XIV,  la  mater  amabilis  che 
Jacopone  da  Todi  e  Francesco  d'Assisi  riconducevano  dal  cielo 
in  terra  per  rendere  più  umana,  più  atta  a  comprendere  i  nostri 
bisogni  spirituali  e  materiali  nel  suo  immenso  amore.  Invece 
questo  tipo  di  Madonna  s'avvicina  molto  alle  altre  dell'arte 
bizantina;  ed  ha  inoltre  nei  lineamenti  delle  caratteristiche  bar- 
bare che  diminuiscono  il  fascino  insito  nei  prodotti  orientali. 

L'ultimo  personaggio  è  vestito  in  modo  simile  alla  Vergine: 
velo  (che  si  rileva    debolmente  dal  fondo),    scollatura    arricciata, 


Arte  barbarica  cividalese  13 


fregio  al  lembo  della  veste,  cordone  ai  fianchi,  maniche  strette 
ricoperte  sino  a  mezzo  braccio  dalle  maniche  più  larghe  della 
sopravveste,  tutto  insomma  corrisponde  con  esattezza.  Il  volto  è 
più  rotondo  ed  ha  il  naso  di  giuste  proporzioni,  la  bocca  meno 
dura,  gli  occhi  (con  il  cavo  per  gli  smalti)  saviamente  delineati. 
Alcune  graffiature  sulla  sommità  della  testa  indicano  i  capelli. 
La  mano  sinistra  preme  sul  petto  in  atto  forse  di  preghiera,  la 
destra  scende  al  ventre  e  stringe  la  veste  poiché  se  ne  vedono 
al  fianco  le  pieghe  oblique,  incavate  rozzamente.  I  piedi  che  son 
di  profilo,  si  avviano  verso  la  Vergine. 

Da  tutto  ciò  può  arguirsi  che  si  tratti  di  una  donna  e  non 
di  un  uomo,  come  molti  hanno  creduto.  Chi  potrà  essere?  Nes- 
sun confronto  ci  fornisce  un  dato  qualsiasi  per  identificarla;  bi- 
sognerà dunque  ricorrere  ad  induzioni. 

Nei  monumenti  contemporanei  a  questo  od  anteriori  si  è  quasi 
sempre  usato  riprodurre  la  figura  del  donatore  e  talvolta  lo  si  è 
accompagnato  con  quelle  dei  suoi  congiunti,  tal'  altra  con  quelle 
del  suo  seguito.  Certe  volte  si  sono  poste  le  figure  del  donatore 
e  dei  congiunti,  ognuna  in  un  quadro  a  sé  come  le  figure  di 
Giustiniano  e  di  Teodora  nei  mosaici  ravennati  di  S.  Apolli- 
nare. Queste  iconi  messe  vicino  alle  imagini  dei  santi,  oppure  in 
prossimità  del  sacrario  erano  intenzionalmente  poste  sotto  lo 
sguardo  protettivo  dei  celesti  e  gli  offertori  vivi  o  defunti  dove- 
vano risentirne  gli  effetti.  Noi  vediamo  qui  che  la  figura  de- 
scritta è  vicina  alla  Vergine,  dietro  il  suo  trono  :  anche  questa 
collocazione  dev'  essere  intenzionale  ;  si  ricordi  infatti  1'  episodio 
del  patriarca  Callisto,  riportato  da  Paolo  Diacono  *  ove  si  narra 


^  «  Gravis  sane  per  idem  tempus  ìnter  Pemmonem  ducem  et  Calistum 
«  patriarcham  discordiae  rixa  surrexit.  Causa  autem  huius  discordiae  ista 
«  fuit.  Adveniens  anteriore  tempore  Fidentius  episcopus  de  castro  Juliensi 
«  cum  voluntate  superiorum  ducum  intra  Forojuliani  castri  muros  habitavit 
«  ibique  sui  episcopatus  sedem  statuit.  Quo  vita  decidente,  Amator  in  eius 
«  loco  episcopus  ordinatus  est.  Usque  ad  eundem  enim  diem  superiores  pa- 
«  triarchae,  quia  in  Aquileia  propter  Romanorum  incursionem  habitare  minime 
«  poterant,  sedem  non  in  Forojuli,  sed  in  Cormones  habebant.  Quod  Calisto, 
«  qui  erat  nobilitate  conspicuus,  satis  displicuit  ut  in  eius  diocesi  cum  duce 
«  et  Langobardis  episcopus  habitaret  et  ipse  tantum  vulgo  sociatus  vitam 
«  duceret.  Quid  plura?  Contra  eundem  Amatorem  episcopum  egit  eumque 
«  de  Forojuli  expulit  atque  in  illius  domo  sibi  habitationem  statuit.  Hac  de 
«  causa  Pemmo  dux  contra  eundem  patriarcham  cum  multis  nobilibus  Lan- 
«  gobardis  consilium  iniit  adprehensumque  eum  ad  Castellum  Potium  (;uar. 
«  Pocium,  Pucium,  Putium)  quod  supra  mare  situm  est,  duxit  indeque  eum 


14  '  Carlo   Cecchelli 


che  re  Liutprando,  dopo  aver  graziato  per  intercessione  di 
Ratchis  il  duca  Pemmone  e  gli  altri  due  suoi  figli,  Ratchait  ed 
Aristulfo,  ordinò  che  si  fermassero  dietro  il  suo  seggio,  rimet- 
tendoli così  nella  sua  intimità.  Chi  è  dunque  questo  personaggio 
onorato  in  effigie  dalla  protezione  della  Regina  coeli  e  del  suo 
divin  Figliuolo?  Non  Ratchis  o  Pemmone,  poiché  abbiam  visto 
trattarsi  di  una  donna.  La  mente  corre  invece  a  Ratberga  cui, 
senza  addur  prove,  pensò  anche  il  Grion. 

Il  ritratto  fisico  e  morale  che  di  lei  fa  il  Diacono,  ha  molte 
rassomiglianze  con  quello  della  Griselda  boccaccesca:  Ratberga 
avendo  rustico  aspetto,  forse  corrispondente  agli  umili  natali, 
«  ...  seguitava  a  pregare  il  marito  di  ripudiarla  e  di  sposare  altra 
donna  più  appariscente  Egli  però,  essendo  di  rette  vedute,  affer- 
mava che  a  lui  piacevano  i  suoi  buoni  costumi,  l' umiltà,  la  vere- 
condia, più  che  la  bellezza  del  corpo.  Essa  gli  dette  tre  figli, 
Ratchis,  Ratchait  ed  Aristulfo,  uomini  di  gran  merito,  la  cui 
nascita  mutò  in  tanta  gloria  l'umiltà  della  madre  »  *.  Nessuna 
creatura  più  degna  della  soave  Ratberga,  madre  dello  stesso 
offertore,  poteva  aspirare  al  posto  onorifico  dietro  il  trono  della 
Vergine,  nessuna  meglio  di  lei  poteva  impetrare  venia  per  lo 
sposo  e  per  i  figliuoli. 

Credono  alcuni  che  questa  sia  una  figuretta  simbolica  ;  che 
sì  debba  invece  riconoscervi  un  ritratto,  lo  provano,  oltre  il  già 
esposto,  due  altre  considerazioni  :   i  .^  la  maggior  cura  usata  dal- 

in  mare  praecipitare  voluit,  sed  tamen  Deo  inhibente  minime  fecit  ;  intra 
carcerem  tamen  eum  retentum  pane  tribulationis  sustentavit.  Quod  rex 
Liutprand  audiens,  in  magnam  iram  exharsit  ducatumque  Pemmoni  aufe- 
rens,  Ratchis,  eius  filium,  in  eius  loco  ordinavit.  Tunc  Pemmo  cum  suis 
disposuit,  ut  in  Sclavorum  patriam  fugeret  ;  sed  Ratchis  eius  filius  a  rege 
supplicavit  patremque  in  regis  gratiam  reduxit.  Accepta  itaque  Pemmo 
fiducia,  quod  nihil  mali  pateretur,  ad  regem  cum  omnibus  Langobardis, 
quibus  consilium  habuerat,  perrexit.  Tunc  rex  in  iudicio  residens,  Pem- 
monem  et  eius  duos  filios  Ratchait  et  Aìstulfum  Ratchis  concedens,  eos 
post  suam  sedem  consistere  praecepit.  Rex  vero  elevata  voce  omnes  illos 
qui  Pemmoni  adhaeserant  nominative  comprehendere  iussit.  Tunc  Ajstulfum 
dolorem  non  ferens,  evaginato  pene  gladio  rege  {yar.  regem)  percutere 
voluit,  nisi  eum  Ratchis,  suus  germanus,  cohibuisset.  Hoc  modo,  his  Lan- 
gobardis comprehensis,  Herfemar,  qui  unus  ex  eis  fuerat  evaginato  gladio, 
multis  se  insequentibus,  ipse  se  viriliter  defensans,  in  basilica  beati  Michaelis 
confugit  ac  deinde  regis  indulgentia  solus  impunitatem  promeruit,  ceteris 
longo  tempore  in  vinculis  excruciatis  »  (P.  DiAC.  Hist.  Lang.,  lib.  VI,^ 
cap.  LI,  ed.  Waitz,  in  M,  G.  H.). 

1  P.  DiAC.  Hist.  Lang.,  lib.  VI,  cap.  XXVI. 


Arte  barbarica  cividalese  15 

l'artista  nello  scolpire  i  lineamenti  del  volto,  sì  che  ha  un  po' 
tralasciato  le  sue  teste  di  tipo  unico;  2.^  la  corrispondenza  di 
questa  figura  con  altre  sbalzate  sulle  braccia  delle  croci  auree 
barbariche  contemporanee.  A  proposito  di  ciò  fa  d'uopo  una 
digressione. 

Negli  scavi  di  necropoli  barbariche  specialmente  italiane^ 
poiché  in  Italia  i  barbari  si  professavano  maggiormente  devoti 
del  cristianesimo,  si  son  rinvenute  numerose  crocette  di  lamina 
d'oro  puro  aventi  fori  (in  numero  disuguale)  che  servivano  per 
fissarle  sui  vestiti  a  salvaguardia  della  persona,  come  dimostrano 
i  busti  efiigiati  su  talune  monete  longobarde  di  Cuniberto  e  di 
Ariperto,  ora  nel  Gabinetto  Numismatico  di  Berlino  ^  Se  ne 
son  trovate  in  tombe  ricche  ed  in  loculi  poveri,  semplici  ed  or- 
nate, più  grandi  e  più  piccole,  in  mezzo  a  suppellettili  più  an- 
tiche ed  in  mezzo  ad  altre  più  recenti,  in  sepolcreti  all'  aperto  ed 
in  sarcofagi  dentro  o  presso  basiliche  ^.  vSon  quasi  tutte  croci 
equilaterali  spesso  ad  estremità  un  po'  espanse  ;  di  frequente 
constano  di  due  pezzi  sovrapposti  e  l' ornato  fu  eseguito  a  stampa 
anteriormente.  L'ornato  più  comune  è  un'intrecciatura  di  nastri 
periati  terminanti  con  teste  di  fantastici  rettili,  motivo  che  si 
ritrova  nell'arte  germanico-primitiva,  dato  pure  che  il  serpente 
era  da  essi  adorato.  Una  di  esse  croci,  rinvenuta  a  Civezzana 
nella  sepoltura  di  un  guerriero  e  conservata  nel  museo  di 
Innsbruck,  ha  nel  centro  un'aquila  circondata  da  un  cerchio  di 
perline  simile  ad  altra  che  sta  in  una  croce  del  museo  di  Bre- 
scia ^.    Si    tratterà   di    aquile    araldiche    o   simboliche?   È  difficile 

^  Vedile    riprodotte   in   F.   Dahn,    Popoli  germanici,   trad.   it.,   te.    V, 

PP-  315-335- 

2  Ricordo  le  croci  di:  Cividale  (ne  parleremo  più  avanti),  Brescia,  Bene- 
vento, Civezzano,  Cellore  d'illasi,  Chiusi,  Castel  Trosino,  Cantacucco,  Lavis, 
Lezzago  di  Novara,  Piedicastello,  Testona,  Zanica,  Wittisligen  (Baviera),  Eber- 
mergen  (Baviera),  Schwabmùnchen,  Riedlingen  (Wiirttemberg).  Cf.  le  opere 
di  I.  De  Bave,  Croìx  lombardes  trouvées  en  Italie,  in  Gazette  archéoL, 
t.  XIII,  1888;  FoGOLARi,  op.  cit.  ;  Fr.  Wieser,  Das  langobardische  Fùrsten- 
grab  und  Reihengràberfeld  von  Civezzano  bei  Trient,  Innsbruck,  1887,  p.  300; 
L.  Campi,  Le  tombe  barb.  di  Civezzano,  Trento,  1886;  Necropoli  trovate  a 
Castel  Trosino,  nei  Mon.  Accad.  Lincei,  t.  XII,  p.  145  ;  E.  Calandra,  Di 
una  necr.  barb.  scoperta  a  Testona,  Torino,  1880  ;  Ohlenschlaeger,  Die 
Inschrift  des  Wittislinger  Fundes,  1884,  in  Gazette  archéoL,  1888,  t.  XIII; 
L1NDENSCHMIDT,  Die  Alteri.,  t.  IV,  p.  io.  Un  buon  riassunto  in  Cabrol,. 
Dictionn.,  col.  3079,  voc.  Croix. 

3  Fu  trovata  a  Fiero  in  prov.  di  Brescia.  Si  trova  riprodotta  nella  Illu- 
strazione dei  civici  Musei  di  Brescia  di  P.  RizziNi,  Brescia,  1914,  tav.  I. 


i6  Carlo  Cecchelli 


determinare  quando  il  simbolo  cristiano  dell'aquila  (derivato  dal- 
l' insegna  legionaria)  si  sia  fuso  o  trasformato  nella  corrispondente 
figurazione  araldica  prediletta  dalle  stirpi  nordiche  ^ 

C'è  tutto  un  gruppo  di  croci  che  portano  teste  e  figure  in- 
tere di  persone  sbalzate  sulle  branche.  Tal' è  la  croce  di  Lavis 
che  reca  una  testa  (così  rozza  che  par  demoniaca)  e  l'iscrizione 
CNC-IFFO  o  TNC  IFFO  ^  Ma  la  più  bella  fu  rinvenuta  in  Civi- 
dale,  nella  tomba  cosiddetta  di  Gisulfo  e  sul  luogo  del  petto 
dello  scheletro,  come  testimonia  il  Grìon  '  ed  altri.  Vuol  dire 
che  doveva  esser  cucita  sulla  tunica  ;  poi  questa  fu  mangiata  dal 
tempo.  E  arricchita  da  pietre  preziose  rotonde,  triangolari,  qua- 
drate, che,  strette  da  cerchi  di  filigrana,  intramezzano  le  teste 
tutte  eseguite  con  uno  stampo  unico.  Riproducono  queste  un 
tipo  d'uomo  barbaro,  con  i  capelli  lunghi  e  discriminati,  il  mento 
allungato,  la  bocca  con  gli  estremi  ricurvi  in  basso,  il  naso  pic- 
colo e  grossolano,  gli  occhi  incavati  e  con  la  pupilla  ben  marcata, 
il  collo  a  tronco  di  cono.  Il  tipo  è  assai  prossimo  a  quello  di 
tutti  i  personaggi  dell'altare  di  Ratchis  *. 


*  Nell'arte  mesopotamica  l'aquila  è  antichissimo  motivo.  La  ritroviamo 
sui  sepolcri  della  Gallia  meridionale  (sec.  IV),  con  corona  e  monogramma. 
Il  Kauffmann,  El.  di  arch.  crisi.,  p.  284,  la  spiega  come  simbolo  della 
resurrezione  e  propriamente  dei  morti  in  Cristo.  In  molte  manifestazioni 
dell'arte  nordica  si  trova  magnificamente  stilizzata.  Forse  l'idea  del  dominio 
di  Cristo,  corrispondente  all'aquila  delle  legioni,  suggerì  questa  figurazione. 
Molti  cippi  sepolcrali,  anche  copti  (El  Kargeh)  1'  offrono,  talvolta  in  forma 
araldica.  Quasi  sempre  vi  si  scorge  sul  capo  la  croce  in  una  corona  ;  questa 
bolla  crociata  è  raramente  posta  sul  petto. 

2  L'  ultimo  nome  fu  letto  su  di  una  moneta  di  Ariberto. 

3  Op.  cit.,  I,  p.  419- 

4  Ha  pure  molta  parentela  con  le  teste  di  varie  croci  auree  bresciane, 
poco  conosciute  perché  semplicemente  descritte  e  passabilmente  riprodotte 
neir  opuscolo  :  Gli  oggetti  barbarici  raccolti  nei  civici  Musei  di  Brescia. 
P.  RizziNi,  Notizie  e  Catalogo  (estr.  dai  Commentari  dell'  Ateneo,  1894). 
Nella  tav.  I  di  quest'opuscolo  sono  croci-figura  i  nn.  i,  2,  4,  5.  Nella  tav.  II 
il  n.o  9.  Il  n.o  I  è  interessante  per  la  figura  centrale  con  capigliatura  lunga, 
viso  allungato  con  occhi  a  mandorla  e  baffi  spioventi,  collana  (somigliante 
a  quelle  di  paste  vitree  policrome)  e,  pare,  orecchini.  Vi  sono  altre  testine 
laterali  sulle  branche  le  quali  evidentemente  denotano  lo  stesso  individuo, 
ma  sono  più  allungate  a  causa  del  maggior  spazio.  Il  n."  2  ha  quattro  teste 
uguali  alle  anse  con  baffi  e  barba  a  pizzo  (cosi  sembra)  ;  hanno  una  specie 
di  aureola  a  perlature,  che  può  essere  anche  un  ornato  della  croce,  tanto 
più  che  le  perlature  ricompaiono  tra  gl'innumeri  viluppi  di  nastri  della  croce 
stessa.   Consimili  sono  le  altre  croci;   ricordo  solo  la  n.°  5,  che  ha  cinque 


Arte  barbarica  cividalese  17 

Un'altra  croce  cividalese  che  fu  rinvenuta  l'anno  1750  nel 
coro  della  chiesa  grande  di  S.  Maria  in  Valle  (S.  Giovan  Bat- 
tista), ha  sulle  branche  una  figura  intera  che  par  fatta  dalle 
mani  di  un  bimbo,  tanto  è  primitiva  ^.  Non  se  ne  distingue  bene 
il  sesso,  ma,  a  giudicare  dal  tronco  molto  ingrossato  al  petto  e 
ristrettissimo  ai  fianchi,  dagli  orecchini  che  s' intra vvedono  sotto 
la  corona  di  riccioli  o  di  perle  che  sovrasta  il  cranio,  dagli  stessi 
tratti  del  volto  addirittura  schematici;  si  direbbe  che  è  fem- 
minile. Questa  pupattola  ha,  come  la  presunta  Ratberga,  volto 
tondeggiante,  capelli  non  ricadenti  sugli  omeri  ma  raccolti  e  pet- 
tinati secondo  la  moda  del  tempo,   veste  ristretta  ai   fianchi.  Il 


teste  barbate  con  una  specie  dì  berretta  rotonda  (diadema?)  e  nastri  periati. 
Mi  sovviene  a  proposito  di  questi,  che  io  considero  ritratti  barbarici,  dei  busti 
marmorei  molto  rilevati  (ad  imitazione  dei  classici)  di  due  coniugi,  che  spor- 
gono da  due  nicchiette  ad  arcate  e  si  trovano  incastrati  presso  il  duomo  di 
Gemona  (l'antica  Glemona  fortificata  dai  Longobardi  nel  6ii  per  timore 
degli  Unni-Avari:  P.  Diac.  Hist.  Lang.,  IV,  38).  L' uomo  è  chiomato  come 
la  donna  ed  il  lembo  dei  suoi  riccioli  si  risolleva  come  negli  angeli  della 
mensa  di  Ratchis.  Gli  occhi  sono  allungati,  il  naso  è  grossolano. 

i  Notevoli  furono  i  ritrovamenti  di  sepolcri  dell'epoca  longobarda  in 
quel  luogo,  e  si  spiegano  poiché  il  titolare  della  chiesa  era  il  santo  più 
venerato  dai  Longobardi.  La  stranezza  dell'esistenza  di  sepolcri  in  un  coro 
può  appianarsi  immaginando  in  quel  punto  il  nartece  primitivo,  cioè  pen- 
sando ad  altra  orientazione  dell'antica  chiesa,  come  credo  possa  provare  con 
documenti  il  prof,  della  Torre,  che  ne  studia  la  topografia.  Notizia  del  rin- 
venimento ci  è  stata  tramandata  dal  can.  Mich.  della  Torre.  In  alcune  stanze 
sotterranee  si  videro  tre  sarcofagi  di  pietra  e  in  ognuno  una  cassa  ben  ar- 
mata di  lame  di  ferro.  La  prima  poteva  contenere  un  ragazzo  di  15  anni, 
le  altre  un  uomo  di  giusta  statura.  Nella  piccola  fu  veduta,  quasi  una  luce 
risplendente,  dell'oro  in  polvere,  avanzi  di  una  ricca  veste  che  in  buona 
parte  venne  raccolta  (saran  stati  pezzetti  di  canutiglia  come  ve  ne  sono  an- 
cora tra  le  ceneri  delle  vesti  di  Gisulfo)  e  vi  furono  trovate  quattro  o  cinque 
crocette  simili,  dice  M.  della  Torre,  «  a  quella  del  disegno  che  unisco  a  tav.  I  » 
(si  tratta  di  quella  con  la  pupattola  da  me  studiata).  Forse,  argomenta  il 
Fogolari,  una  delle  crocette  del  Museo  di  Bologna  studiate  da  P.  Orsi  {Di 
due  crocette  auree,  Bologna,  1887)  appartenne  a  S.  Maria  in  Valle.  Si  noti 
che  la  figura  bambinesca  della  croce  cividalese  si  accorda  con  l'età  del  pro- 
prietario o  proprietaria  della  croce.  Nella  seconda  cassa  si  trovarono  altre 
cinque  crocette  in  oro,  una  maggiore  delle  altre  senza  figure  con  intrecciature 
di  nastri  a  sbalzo  e  lo  scudetto  d'oro  col  cervo.  Cfr.  Zorzi,  Notizie,  guida 
e  bibliografia  dei  RR.  Museo  Archeologico,  Archivio  e  Biblioteca  di  Cividale 
del  Friuli,  ivi,  1899,  p.  141,  n.*  182;  Fogolari,  Storia  degli  scavi  a  Civi- 
dale per  la  ricerca  delle  antichità  medioevali,  in  Memorie  storiche  civid.,  I, 
1905,  PP-  28-29. 


i8  Carlo  Cecchelli 


museo  di  Torino  possiede  una  croce  con  figura  intera  (ripetuta 
quattro  volte),  che  ha  in  testa  una  corona  e  deve  perciò  riferirsi 
ad  un  personaggio  esistente  o  esistito. 

Basandoci  sulle  differenze  notevoli  fra  le  immagini  delle 
varie  croci  auree,  dovremo  concluderne  che  ognuna  di  queste 
figure  senza  attributi  di  divinità  si  riferisce  ad  un  personaggio 
reale  e  non  simbolico,  forse  lo  stesso  che  le  portava  sul  petto  \ 
Caratteristiche  ad  esse  comuni  possiede  la  figuretta  della  mensa,, 
posta  presso  la  Vergine  con  lo  stesso  scopo  devoto  che  collocava 
le  altre  sulle  branche  delle  croci.  Assolutamente  però  non  creda 
che  gli  altri  personaggi  di  questa  scena  e  quelli  della  Visita- 
zione (che  descriveremo)  raffigurino  personaggi  storici  *.  Essi 
non  alterano  affatto  i  tipi  iconografici  corrispondenti  e  noti  nel- 
l'arte coeva  od  anteriore. 

Prima  di  terminare  la  descrizione  di  questa  faccia  dell'altare 
di  Ratchis,  accenneremo  ad  altre  particolarità:  Il  portico  di 
sfondo  (i  cui  spazi  fra  l'estradosso  degli  archi  sono  occupati  da 
stelle  a  fiori)  serve  a  porre  meglio  in  rilievo  i  personaggi,  se- 
condo i  dettami  dell'  arte  bizantino-ravennate  ^.  Analogamente  le 
figure  della  Vergine  e  di  s.  Elisabetta,  nella  scena  della  Visita- 
zione che  appresso  descriveremo,  son  poste  sotto  due  arcate.  Il 
trono  della  Theotókos  è  di  alta  spalliera.  Il  suo  sedile  da  cui 
sporge  un  suppedaneo  è  diviso  in  due  ripiani  da  fori  rettango- 
lari e  dai  pinoli  che  sporgono  sulle  fascie  traverse  come  le  gambe 
dagli  angoli;  sopra  di  sé  ha  un  alto  cuscino,  di  cui  l'artista  ha 
voluto  far  vedere  la  morbidezza  segnandovi  delle  pieghe.  Una 
curiosità  sono  le  scanalature  (come  di  colonnine  cosmatesche) 
percorrenti  le  gambe  anteriori  del  sedile,  i  pinoli  traversi  e  sa- 
lienti a  spiga  su  per  il  fianco  della  spalliera  culminato  da  un 
pomo.  I  fogliami  ed  i  fiori  stilizzati  del  basso  completano  questo 
quadro,  avvicinandolo  stranamente  a  quelle  ingenue  pitture  um- 
bre in  cui  pochi  fiori  e  foglie  sopra  un  cielo  intensamente  azzurro 
materializzano  lo  spirituale  profumo  della  verginità  di  Maria. 


^  Allo  stesso  modo  che  l'aquila  simbolica  (di  cui  dicemmo)  porta  la 
bolla  crociata. 

-  Cfr.  P.  S.  Leicht,  in  Guida  d.  Prealpi  Giulie,  Udine,   1912,  p.  600. 

3  Sono  notissimi  i  sarcofagi  ravennati  con  figure  in  arcate.  Un  gruppo 
importantissimo  di  tali  sarcofagi  è  a  Roma  ove  alcuni  hanno  perfino  due 
ordini  di  arcate  ed  in  ogni  arcata  v'è  tutta  intera  una  scena  appartenente 
al  ciclo  del  Vecchio  e  del  Nuovo  Testamento. 


Arte  barbarica  cividalese  19 

Fronte  posteriore.  —  Due  croci  equilaterali  con  rosa  al  centro, 
quadrati  e  rombi  sulle  branche,  anse  alle  estremità  un  po'  allar- 
gate, fiancheggiano  il  foro  quadro  della  custodia  di  reliquie  *. 
Altre  due  rose  stanno  in  basso,  ai  lati  ;  una  stella  a  raggi  trian- 
golari è  inscritta  in  un  circolo  da  cui  sporgono  quattro  gigli. 
Più  avanti  parlerò  degli  ornati  a  treccia,  delle  fuseruole,  delle 
volute  che  incorniciano  tutte  le  scene. 

Faccia  laterale  sinistra.  —  La  Visitazione.  Sotto  tre  archi- 
volti a  doppia  ghiera  impostanti  ai  lati  della  scena  sul  capitello 
trapezoidale  di  due  colonne  vitinee  molto  esili,  si  abbracciano  le 
figure  grossolane  della  Vergine  e  di  s.  Elisabetta  ambedue 
coperte  da  velo  e  da  manto.  Contrassegno  della  Vergine  è  la 
solita  croce  incavata  sulla  fronte  ;  il  suo  volto,  manco  a  dirlo,  è 
a  pera  rovescia  e  gli  occhi  sono  come  volute  laterali  del  naso 
piuttosto  corto  cosicché  rassomigliano  a  quelli  rilevati  sulle 
testine  in  basso  alle  fibule  germaniche  od  incisi  sui  rozzi  capi- 
telli cubici  zoomorfici,  prodotti  anch'essi  d'arte  barbarica.  La 
bocca  del  solito  tipo  è  spostata  lateralmente  per  indicare,  come 
notò  anche  il  Venturi  ^,  che  il  volto  è  di  tre  quarti.  E  poiché 
le  due  bocche  delle  sante  donne  tendono  ad  avvicinarsi,  noi 
possiamo  comprendere  lo  sforzo  dell'  artista  per  far  sì  che  si 
baciassero.  La  poca  abilità,  la  mancanza  di  esemplari,  non  gli 
permise  di  riprodurre  i  volti  in  profilo  ;  solo  a  fatica  ha  potuto 
ottenere  che  il  braccio  di  ogni  figura,  prolungato  ed  ingrossato 
innaturalmente,  ricercasse  la  spalla  dell'altra  appoggiandovi  una 
mano  con  dita  terribilmente  lunghe.  Nelle  pieghe  dei  vestiti  c'è 
lo  stesso  studio  veristico  notato  nelle  altre  scene  ;  sono  però  un 
po'  più  trite  ed  uniformi.  In  basso,  fiori  e,  sotto  un  archivolto 
dietro  la  Vergine,  un  alberello  stilizzato  che,  nell'intenzione  del- 
l'artista, doveva  raffigurare  un  palmizio.  Lucidi  smalti  dovettero 
scintillare  negli  occhi  di  ogni  testa.  La  scena  della  Visitazione  è 
estremamente  rara  nell'antica  arte  cristiana.  Io  non  ne  ricordo  che 
una  dubbia  delle  Catacombe  di  S.  Valentino,  forse  del  VII  secolo  ^. 

Abbiamo  così  finito  di  spiegare  e  descrivere  minutamente 
tutte  le  scene  della  mensa  ;  ci  rimane  lo  studio  degli 

1  Alquanto  errato  sarebbe  paragonarlo  con  la  fenestella  confessionis,  la 
quale  si  trovava  sul  davanti  e  permetteva  di  calare  i  brandea  nel  chiuso  ora- 
torio della  cripta.  Certamente  nel  battistero,  ove  era  collocato  quest'altare, 
non  esisteva  cripta. 

2  Op.  cit.,  II,  p.  180. 

3  Garrucci,  tav.  84,  i. 


20  Carlo   Cecchelli 


Ornati  e  tecnica.  —  Ogni  scena  della  mensa  s' inquadra  in 
una  cornice  di  bande  variamente  ornamentate  e  comprese  tra 
linee  di  fuseruole  mediocremente  riprodotte  dalle  classiche,  cor- 
doni, rozzi  listelli. 

L'artista  medievale,  non  ossessionato  da  ideali  di  simme- 
tria, traccia  la  decorazione  come  il  cuore  gli  detta  e,  pur  imi- 
tando, varia  a  suo  talento  preferendo  le  più  bizzarre  e  compli- 
cate forme  :  così  nella  fronte  della  Majestas  ha  sviluppato  lungo 
il  bordo  una  sobria  catena  di  S  contrapposte,  legate  da  minu- 
scole palmette  ;  intorno  all'  «  Adorazione  dei  Magi  »  ha  fatto  cor- 
rere una  treccia  di  quattro  capi,  intorno  alla  «  Visitazione  », 
un'altra  di  sei,  intorno  alle  croci  equilatere  ansate  della  fronte 
postica,  una  grossa  di  otto  fiancheggiata  e  centrata  da  fusetti 
simili  a  gusci  di  noce;  ha  inoltre  addoppiato  le  bande  verticali 
a  treccia  che  sono  al  fianco  destro  della  «  Visitazione  »  e  sinistro 
della  «  Adorazione  »  con  altre  contenenti  la  catena  ad  S. 

Rimarchevoli  pure  come  elemento  decorativo  sono  i  pal- 
mizi stilizzati,  le  rose  canine  dai  petali  bordati  e  racchiuse  in  un 
cerchio  di  cordone  come  se  ne  vedono  sulla  croce  argentea  di 
S.  Maria  in  Valle  S  i  quadrati  ed  i  rombi  (puerilmente  ripetuti 
nel  loro  interno)  che  riempiono  le  braccia  delle  croci  figurando 
forse  delle  gemme.  Tutti  i  motivi  descritti  hanno  gran  voga 
nelle  sculture  cividalesi  ed  in  talune  altre  rinvenute  in  varie  parti 
d'Italia;  non  parlo  delle  produzioni  barbariche  in  avorio  e  me- 
tallo, tanto  accette  ai  contemporanei  di  Pemmone  e  di  Ratchis, 


^  Questa  croce  processionale  in  lamine  d'argento  rudemente  chiodate 
sull'anima  di  legno  ed  indorate  ha,  come  ben  osserva  il  Fogolari,  op.  cit., 
p.  52,  la  forma  esatta  di  quella  del  museo  di  Brescia.  Rosette  cordonate  e 
centrate  da  circoli,  foglie  di  palma  raggruppate  ai  lati  d'un  fiore,  bastoni 
gigliati  simili  a  scettri;  riempiono  le  braccia,  dando  l'idea  di  cosa  tutta 
primitiva.  Una  spina  di  pesce  borda  il  disco  centrale  ove  s'inscrive  una  croce 
dai  lembi  filigranati,  ed  in  essa  la  figura  molto  appiattita  del  Cristo  ostenta 
un  corpo  allungatissimo,  sproporzionato  con  le  braccia  e  ai  lati  del  quale 
stanno  i  busti  di  s.  Giovanni  e  di  Maria  in  piccole  proporzioni,  come  nella 
più  fine  croce  dell'  arcivescovo  milanese  Ariberto. 

Non  credo,  come  vorrebbe  il  Fogolari,  che  questa  croce  debba  ripor- 
tarsi all'  XI  o  XII  secolo,  perché  la  specie  dei  motivi  e  del  rilievo  ha  troppe 
attinenze  con  il  nostro  altare;  né  può  entrarvi  dell'imitazione  poiché  in  tempi 
assai  più  evoluti  non  si  accettano  tali  ornati  insignificanti,  specie  quando  si 
tratti  di  un  lavoro  prezioso,  certo  non  maneggiato  da  un  artista  qualunque. 

Confrontandole  con  altri  lavori  d'oreficeria  io  porrei  la  croce  di  S.  Maria 
in  Valle  alla  metà  del  IX  secolo. 


Arte  barbarica  cividalese  21 


ove  le  treccie,  i  fiori,  le  palme,  le  spine,  i  cordoni  ^  la  catena 
di  S  contrapposte  ^,  le  perlature,  gli  archettini  ^,  le  croci  ansate  *, 
formano  F  abituale  tema  ornatistico. 

Immaginatevi  ora  Io  scultore  della  nostra  mensa  che  si  ac- 
cinge ad  incavare  il  lastrone  liscio  sul  quale  già  delineò  il  sog- 
getto inspirato  da  chi  sa  quali  rilievi  romani  e  bizantini  o  codici 
miniati  d'Oriente.  Lo  scalpello  incomincia  con  l'approfondire  i 
contorni,  ma  non  troppo  perché  la  mano  inesperta  non  arriva 
alle  audacie  dei  sottosquadra;  indi  appiattisce  gli  spigoli  troppo 
vivi  ed  inizia  la  fattura  dei  particolari  ^.  Per  la  rifinitura  di  que- 
sti ci  vuole  uno  scalpello  molto  più  fine  che  persegua,  leggero 
come  una  carezza,  le  rigature  delle  piume  e  le  pieghe  delle  vesti 
e  senza  confondersi  metta  in  evidenza  le  complicate  annodature 
delle  treccie;  ci  vuole  anche  il  trapano  mosso  dal  violino  che 
dia  l'effetto  degli  scuri  bucando  i  centri  delle  rose,  delle  stelle, 
degli  occhi  '.  In  ultimo  la  pomice  che  lisci  tutte  le  scabrosità  ed 

^  Un  singolare  sviluppo  ha  preso  nell'alto  medioevo  l'ornato  di  cordoni. 
Essi  cerchiano  lo  scudetto  aureo  con  il  cervo  trovato  in  S.  Maria  in  Valle  e  tanti 
altri  pezzi  d'oreficeria,  corrono  su  molte  sculture  coeve  dell'  Italia  e  dell'estero, 
visigotiche,  galliche,  anglo-sassoni,  germaniche  e  talvolta  su   bizantine. 

2  La  catena  di  S  con  lievi  modifiche  figura  in  molti  oggetti  di  prove- 
nienza barbarica.  Delle  treccie  che,  involte  nelle  forme  più  strane,  tengono 
il  campo  di  tutti  i  lavori  barbarici,  avrò  occasione  di  parlare  più  ampia- 
mente in  appresso. 

3  Gli  archetti  tipici  di  molte  sculture  ravennati  e  romane  compaiono  a 
Grado,  a  Brescia  (S.  Salvatore)  ed  altrove  in  molte  sculture.  Un  uso  vario 
se  n' è  fatto  anche  nell'arte  preromanica  della  Spagna.  La  cassa  di  Terracina, 
di  evidente  fattura  nordica  secondo  il  Venturi,   ha  figurazioni   sotto  archetti. 

•*  Croci  con  risvolti  di  questo  tipo  sono  state  molto  in  uso  nella  scultura 
dell' VIII-IX  secolo.  Vedine  altri  esempi  in  Cividale  e  in  Roma. 

°  È  un  procedimento  che  è  uguale  in  tutte  le  arti  primitive.  Così  oprava 
lo  scultore  della  Grecia  arcaica  e  l' egiziano,  riuscendo  ad  ottenere  effetti  non 
comuni.  Aumentando  il  rilievo  si  venne  fin  quasi  alla  statua,  la  quale  però  ha 
le  sporgenze  estreme  ed  esterne  in  uno  stesso  piano.  Si  ebbe  così  la  statuaria 
che  ora  chiamiamo  disegnativa  in  contrapposizione  alla  frontale  e  libera  eseguita 
prendendo  per  punto  di  partenza  il  rilievo  che  la  figura  esige.  La  nostra 
mensa  ha  un  rilievo  molto  timido  e  addolcito  agli  spigoli  sì  che  mi  venne 
l' idea  di  rassomigliarlo  a  quello  dei  lavori  in  isbalzo.  Vedremo  nei  plutei  del 
battistero  di  Callisto  un  rilievo  assai  più  accentuato  e  a  spigoli  di  taglio  vivo. 

6  La  pietra  alquanto  tenera  si  prestava  certamente  ai  lavori  di  rifinitura  ; 
ma  osservo  che  in  molti  lavori  di  questi  due  secoli  (il  VII  e  l'VIII)  si  nota 
in  contrasto  stridente  con  la  grossolanità  di  contorno  delle  figure  una  finezza 
straordinaria  nel  cesellare  alcuni  particolari.  La  sviolinatura,  usata  con  abi- 
lità, fornisce  begli  effetti  all'arte  dell'ultimo  periodo  imperiale  romano  e  bi- 
zantino del  medioevo.  Qui  però  ha  un  impiego  puerile. 


2  2  Carlo  Cecchelli 


il  pennello  tinto  di  minio,  di  giallo  o  di  ceruleo  che  ravvivi 
ogni  figurazione.  Altri  forse  avrà  incastrato  gli  smalti  e  le  pietre. 

In  Friuli,  un  lavoro  che  può  lontanissimamente  paragonarsi 
al  nostro  altare  è  un  sarcofago  ridotto  a  conca  battesimale,  che 
trovasi  presso  il  duomo  di  Gemona.  Vi  si  vede  a  sinistra  un 
uomo  barbato  seduto  di  profilo  (senza  dubbio  il  vescovo  seduto 
sulla  cathedra  episcopalis)  il  quale  tocca  un  putto  nudo  sollevato 
dalle  braccia  distese  di  un  uomo  sopra  l' incavo  dì  una  piscina 
somigliante  al  sarcofago  stesso.  L'artista  tentò  di  far  la  testa 
dell'  uomo  di  tre  quarti  ed  a  tal  fine  fece  sporgere  l' ovale  del 
volto  piiÀ  da  un  lato  che  dall'  altro  deformandolo  in  prospettiva, 
come  pure  spostò  occhi,  naso  e  bocca  più  verso  il  fondo.  E  riu- 
scito fino  ad  un  certo  punto,  ma  non  si  può  negare  che  ci  sia  uno 
studio  veristico.  La  nuca  è  ricoperta  da  un  cappuccio  {cucullus) 
il  quale  è  attaccato  ad  una  tunica  manicata  stretta  ai  fianchi  da  un 
cìngulum.  Osservare  gli  occhi  ellissoidali,  il  naso  corto  e  schiac- 
ciato, la  bocca  aperta  in  atto  di  parlare  ;  osservare  anche  le  lunghe 
e  grosse  braccia  delle  tre  figure,  sproporzionate  ai  corpi  (come  se 
ne  vedono  nella  nostra  mensa)  e  le  teste  con  il  medesimo  difetto 
che  curiosamente  le  ravvicina  ad  alcune  caricature  moderne  *. 

In  un  altro  lato  del  sarcofago  due  rozzi  angeli  sollevano  un 
putto,  il  che  mi  fa  credere  che  questa  vasca  abbia  servito  spe- 
cialmente per  r  immersione  degli  infanti.  Due  amorini  che  s' ab- 
bandonano alla  gioia  di  cavalcare  sul  dorso  di  un  delfino,  molto 
ben  riprodotto,  formano  ]'  ornato  dei  due  lati  lunghi  :  son  giudi- 
cati lavoro  pagano.  Dice  il  Bragato  ^  che  un'  altra  vasca  identica 
con  la  figura  del  delfino  trovasi  nel  duomo  di  Pirano  (Istria)  e 
che,  con  ogni  probabilità  i  due  sarcofagi  provengono  dalla  di- 
strutta Aquileia,  le  cui  rovine  emigrarono  un  po'  dappertutto. 
Il  Bragato  crede  anche  più  antica  dell' Vili  sec.  la  vasca  di 
Gemona  ;  io,  confrontandola  con  l' altare  di  Ratchis  e  trovandovi 
una  maggiore  emancipazione  dalle  forme  bizantine,  la  stimerei 
della  fine  del  IX  secolo.  C  è  in  essa  qualcosa  che  nella  sua  roz- 
zezza prelude  alle  statue  delle  cattedrali  dette  romaniche. 

*  I  piedi  di  colui  che  porta  il  bimbo  a  battezzare  sono  di  profilo  e 
stanno  ad  un  livello  più  alto,  quasi  fossero  su  di  un  gradino  della  piscina. 
II  bimbo  è  di  fronte,  ha  una  testa  rotonda  con  occhi  rotondi  e  bocca  chiusa 
in  un  segmento  ;  le  sue  braccia  si  agitano  quasi  presentendo  la  vicinanza 
dell'acqua  fredda.  Il  vescovo  ha  un  naso  aquilino  rimarchevole  e  l'occhio 
a  mandorla  senza  pupilla. 

2  Da  Gemona  a  Venzone,  Bergamo,  1913,  p.  65. 


Arte  barbarica  cividalese  23 


Tornando  alla  nostra  mensa,  stabiliamo  i  limiti  di  tempo 
nei  quali  potè  essere  eretta.  Dopo  la  caduta  di  Pemmone  abbiam 
visto  che  Ratchis  fu  scelto  dal  re  per  la  successione  nel  ducato 
forogiuliano :  questi  fatti  accadevano  intorno  al  737  ^  Nell'otto- 
bre del  744  Ratchis  fu  eletto  re  e  si  recò  alla  sede  del  reame 
lasciando  nel  ducato  il  fratello  Aistolfo  ^.  Poiché  nell'iscrizione 
non  si  fa  cenno  di  Pemmone  come  dedicante,  ma  come  di  uomo 
trapassato  od  in  ogni  modo  non  più  presente  noi  dovremo  ri- 
tenere che  questa  mensa  fu  eretta  nei  sette  anni  circa  del  du- 
cato di  Ratchis,  il  quale,  unico  signore,  vi  fa  porre  il  suo  ap- 
pellativo barbarico. 

Perché  nella  mensa  sono  state  scelte  dal  ciclo  cristologie© 
le  rappresentazioni  descritte?  Il  Fogolari  ha  su  ciò  una  bella 
pagina  che  mi  par  geniale  nelle  conclusioni  e  mi  piace  trascri- 
vere ^  :  «  Neil'  esaltazione  del  Cristo  uomo  e  Dio  che  occupa  la 
«  faccia  anteriore  dell'altare,  c'è  significata,  io  credo,  la  esalta- 
«  zione  della  fede  cattolica  anastasiana  nel  punto  in  cui  più  cru- 
«  delmente  la  aveva  ferita  l'errore  di  Ario.  L'eretico  negava  la 
«  divinità  di  Cristo  uomo,  e  qui  il  Cristo  è  rappresentato  sedente 
«  in  trono  con  gli  attributi  della  potestà  terrena,  ma  in  diretto 
«  contatto  con  la  mano  di  Dio  è  dentro  la  mistica  mandorla,  è 
«  venerato  dalle  essenze  più  pure,  dai  tetramorfi  (?),  e  con  tutto 
«  l'orifiamma  è  levato  in  alto  dagli  angeli.  Il  Cristo  imberbe  e 
«  dai  capelli  lunghi  e  fluenti,  come  le  facce  della  croce  di  Gi- 
«  sulfo,  ha  il  nimbo  crociato,  ha  vesti  regali  e  sacerdotali,  tiene 
«  in  mano  il  bastone  del  comando  (?)  e  con  l' altra  benedice  alla 
«  greca  come  forse  il  patriarca  d'Aquileia.  Nella  lite  tremenda 
«  fra  il  duca  Pemmone  e  il  patriarca  Callisto  forse  fu  lanciata 
«  contro  i  longobardi  friulani  l' accusa  di  ritornare  alle  passate 
«  violenze  degli  ariani  contro  il  clero,  d'  essere  ritornati  ariani. 
«  Perciò  nel  monumento  espiatorio  qui  si  esalta  il  potere  della 
«  Chiesa  che  deriva  direttamente  dal  Dio  fatto  uomo.  Ma  in  alto, 
«  in  alto  deve  elevarsi  tale  potere  ;  e  perciò  gli  angeli  non  hanno 
«  braccia  lunghe  né  mani  tanto  grandi  a  sufficienza  per  elevare 
«  la  celeste  mandorla  ». 


*  De  Rubeis,  Dissertai.,  p.  277;  Muratori,  Annali,  ad  an. 

2  Cfr.  Paschini,  Le  vicende  politiche  e  religiose  del  territorio  friulano 
da  Costantino  a  Carlo  Magno  (sec.  IV-VIII),  in  queste  Mem.,  Vili,  1912, 
pp.  272,  275.  Ratchis  si  fece  monaco  nel  749. 

3  Op.  cit.,  p,  42. 


24  Carlo  Cecchelli 


Poesia,  dirà  taluno,  ma  intanto  chi  dalle  vite  dei  santi,  dai 
monchi  Cronicon,  dagli  atti  pontificali  ed  imperatorii,  abbia  in- 
travisto quali  lotte  si  combattessero  allora  fra  la  Chiesa  romana 
ed  i  longobardi,  quegli  esseri  estrani  dai  capelli  lunghi  e  dal 
profilo  duro  che  abbiamo  conosciuto  sulla  nostra  mensa  e  sulle 
croci  auree,  troverà  tanto  più  significativa  l' erezione  di  questo 
altare  che  ha  figurazioni  così  contrastanti  con  le  tendenze  ariane. 
Vero  è  che  al  tempo  di  Ratchis  i  longobardi  erano  quasi  tutti 
cattolici  ed  anzi  in  grazia  di  ciò  pare  che  da  tutta  l'opera  di 
Paolo  Diacono  salga  alla  Chiesa  madre  una  invocazione  di  per- 
dono per  le  loro  passate,  orribili  colpe.  Ma  il  sangue  non  men- 
tiva: l'istinto  selvaggio  balzava  fuori  in  ogni  controversia  ed 
animato  dalle  relazioni  tese  fra  essi  e  la  Chiesa,  tramutava  1'  ar- 
dore superstizioso  dei  neofiti  nell'apostasia  più  nera:  è  negli  ul- 
timi tempi  che  vediamo  il  patriarca  Paolino  scagliarsi  in  questa 
stessa  Cividale  contro  le  mene  degli  eretici. 

* 
*  * 

La  mensa  di  Ratchis,  monumento  che  può  dirsi  unico  nel 
suo  genere,  oltre  ad  essere  cospicuo  ricordo  di  un'  era  turbolenta 
ed  oscura,  attende  chi  la  liberi  dal  lustro  sovraltare  di  marmo 
di  cui  forse  un  pio  quanto  ignorante  mecenate  volle  ricoprirla. 
Son  sicuro  che  il  clero  cividalese  o  lo  Stato  non  tarderanno  *. 

Carlo  Ceccrelli. 

(Continua) 

*  Per  tale  ostacolo  non  si  possono  eseguire  fotografie  decenti  dell'  al- 
tare. Un  mio  amico,  il  ten.  Attilio  Mereu,  si  provò  a  riprendere  le  faccie 
laterali  di  scorcio  e  qui  presento  le  sue  prove  insieme  alle  fotografie  note 
delle  parti  più  libere.  Così  per  la  prima  volta  si  potrà  avere  un'  idea  com- 
pleta di  tutto  l'altare.  La  chiesa  di  S.  Martino,  in  cui  trovasi  la  mensa,  ha 
qualche  memoria  rimarchevole.  Scavi  eseguiti  l'anno  i66i  nel  suo  viridario 
misero  in  luce  due  tombe  con  un  elmo,  un'asta,  un  pettine  d'avorio,  un 
coltello,  una  crocetta  di  lamina  d'oro  con  cinque  teste  sbalzate,  una  moneta 
d'argento,  filigrane,  un  cranio  poggiante  su  scalino  di  pietra.  Il  i°  novem- 
bre 1249  si  ricorda  in  un  lascito  l'ospedale  di  S.  Martino;  nel  1263  è  ricor- 
dato il  suo  cimitero;  nel  1308  e  1314  le  sue  cappelle  di  S.  Croce  e  S.  Eli- 
sabetta. Una  Cella  S.  Martini  è  ricordata  nell'805  (Grion,  Guida  cit.,  p.  397). 


Gregorio    di    Montelongo 

patriarca  d'Aquileia 

(1251-1269). 


I. 

I.  Nascita  e  primi  uffici  di  Gregorio.  —  2.  È  designato  da  Gregorio  IX 
legato  in  Lombardia.  —  3.  La  lotta  contro  Federico  II  dal  1239  al  1241.  — 

4.  Gregorio  e  papa  Innocenzo  IV.  —  5.  La  legazione  del  cardinale  Otta- 
viano degli  Ubaldini  e  la  vittoria  di  Parma  (1248).  —  6.  Il  Montelongo  a 
Novara  ed  a  Milano  nel  1248;  viene  eletto  vescovo  di  Tripoli.  —  7.  Sua  at- 
tività nel  1249.  —  8.  Morte  di  Federico  II;  ritorno  di  Innocenzo  IV  in  Ita- 
lia; termine  della  legazione  del  Montelongo.  —  9.  Il  Montelongo  secondo 
frate  Salimbene. 

I.  La  prima  notizia  sicura  su  Gregorio  di  Montelongo  si  ha 
in  una  lettera  colla  quale  papa  Innocenzo  III,  il  14  giugno  12 14, 
imponeva  a  Lotario,  vescovo  di  Vercelli,  ed  al  capitolo  di  quella 
cattedrale,  di  conferire  a  Gregorio,  figlio  del  nobile  Landò  di 
Montelongo,  cugino  dello  stesso  papa,  una  prebenda  canonicale 
rimasta  vacante  per  la  morte  di  Giovanni,  cardinale   diacono  di 

5.  Maria  in  Cosmedin  e  cancelliere  della  chiesa  *.  A  quel  tempo 
Gregorio  doveva  avere  per  lo  meno  una  quindicina  d' anni,  ma 
probabilmente  ne  aveva  di  più.  La  sua  famiglia  traeva  il  nome 
dal  castello  di  Montelongo,  ben  presto  distrutto,  situato  presso 
Villa  Magna  tra  Gorga  e  Montelanico  in  quel  di  Ferentino  nella 
Campania  ;  si  chiamò  anche  Longo  ;  ebbe  la  custodia  del  castello 
di  Fumone,  la  rocca  più  forte  della  Campania,  dove  più  tardi  fu 
rinchiuso  da  Bonifacio  Vili  papa  Celestino  dimissionario,  ed  era 

i  G.  Marchetti-Longhi,  La  legazione  in  Lombardia  di  Gregorio  di 
Montelongo  negli  anni  1238-1251,  in  Archivio  della  R.  Società  Romana  di 
storia  patria,  voi.  XXXVI,  1913,  p.  231  sgg. 


2  0  Pio  Paschini 


imparentata  colle  nobili  schiatte  di  Anagni,  Fresinone  e  Feren- 
tino. Landò,  il  padre  di  Gregorio,  fu  conestabile  di  Tancredi,  re 
delle  Due  Sicilie,  e  poi  rettore  di  Campania  e  Marittima  per  il 
cugino  Innocenzo  III  ^ 

Dopo  il  1213  per  lunghi  anni  non  si  hanno  più  notizie  di 
Gregorio,  Il  6  maggio  1231  egli  ricompare  finalmente  a  Siniga- 
glia,  il  13  maggio  a  Pesaro,  il  3  ed  il  4  settembre  a  Cingoli  a 
fianco  di  Milone,  vescovo  di  Beauvais,  rettore  del  Patrimonio  e 
della  Marca  d'Ancona;  e  questo  fa  supporre  che  facesse  parte 
del  suo  seguito;  nell'ultimo  di  quei  documenti  egli  porta  il  ti- 
tolo di  suddiacono  papale,  che  continuerà  a  portare  in  seguito  in- 
sieme coir  altro  di  notaro. 

Nel  luglio  del  1236  egli  ebbe  da  papa  Gregorio  IX  una 
missione  presso  Tebaldo  IV,  conte  di  Sciampagna  e  re  di  Na- 
varra,  per  indurlo  al  pagamento  di  un  debito  che  aveva  con- 
tratto con  un  mercante  romano  ^. 

2.  Finalmente  il  17  marzo  1238  cominciò  Gregorio  quell'a- 
zione energica,  anzi  quasi  accanita,  contro  Federico  II,  per  cui 
egli  divenne  il  più  abile  e  fortunato  campione  della  causa  guelfa. 
Il  papa  gli  affidò  l'incarico  di  spingere  l'imperatore  a  muovere 
guerra  a  Vatace  imperatore  greco  che  metteva  in  serio  pericolo  l'im- 
pero latino  di  Costantinopoli.  Ma  a  Federico  II  sembra  non  pia- 
cesse troppo  tale  inviato,  per  cui  il  papa  dovette  raccomandar- 
glielo una  seconda  volta  il  17  marzo  ^.  Agli  ultimi  di  luglio  1238 
gli  ambasciatori  di  Federico  II  lasciavano  Roma  colla  speranza 
di  avere  indotto  il  papa  alla  pace  col  loro  signore;  invece  il 
6  agosto  improvvisamente  Gregorio  IX  creò  legato  in  Lombar- 
dia con  pieni  poteri  Gregorio  di  Montelongo  colla  missione  di 
ristabilirvi  la  pace,  di  evitare  rovine  e  stragi  di  anime  e  di  corpi 
e  di  resistere  anche  ai  progressi  che  andava  colà  facendo  l'im- 
peratore dopo  la  sua  vittoria  di  Cortenuova  (1237)  sopra  i  Mi- 
lanesi. Federico  II  ben  conobbe  che  la   designazione   di   un  tale 


*  Altro  è  il  parere  del  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p.  239  sg.  Cfr.  il 
mio  :  Ciociari  ed  altri  italiani  alla  corte  di  Gregorio  di  Montelongo  in  queste 
Memorie,  voi.  X,  1914,  p.  483  sgg.  Cfr.  pure  Rivista  Araldica,  voi.  XIV, 
1916,  p.  314. 

2  Altre  notizie  meno  sicure  cfr.  in  Marchetti-Longhi,  op.  cit., 
p.  245  sgg. 

3  Regìstr.  Gregoire  IX,  n.'  4154  e  4110:  «  magistrum  Gregorium  subdia- 
«  conum  et  notarium  nostrum,  virum  utique  providum  et  expertum  ».  Mar- 

CHETTI-LONCm,   op.   Cit.,    p.    25O   Sgg. 


Gregorio  di  Montelo7igo  patriarca  d' Aquileia         27 

personaggio  era  un  colpo  diretto  contro  di  lui  e  senz'  altro  la 
ritenne  una  dichiarazione  aperta  di  guerra  ^ 

Rivestito  di  quest'  ufficio  commessogli  dalla  fiducia  del  papa, 
il  Montelongo  riuscì  tosto  a  diventare  il  perno  della  resistenza 
guelfa  nell'Italia  settentrionale.  L'amicizia  stretta  con  pubblico 
trattato  fra  Venezia  e  Genova  il  30  novembre  1238,  poi  la  ri- 
bellione di  Alberico  da  Romano  fratello  di  Ezzelino  che  il  14  mag- 
gio 1239  occupò  Treviso  d'accordo  coi  signori  di  Camino  e  di 
S.  Bonifacio,  finalmente  il  distacco  di  Azzo  d'Este  dal  partito 
imperiale  (io  giugno),  furono  fatti  importantissimi,  dovuti  certo 
alla  cooperazione  del  nuovo  legato,  che  ai  primi  di  marzo  si  tro- 
vava certamente  a  Milano. 

3.  Il  28  giugno  1239  Federico  II  iniziò  una  nuova  campa- 
gna contro  la  lega  lombarda;  ma  trovò  il  legato  pronto  alla  re- 
sistenza. L'invasore  fu  respinto  in  tutti  gli  scontri  e,  ricacciato 
dal  territorio  milanese,  si  ritirò  a  Lodi  il  7  novembre  e  poi  a 
Pisa  il  2 1  dicembre.  Il  legato  si  recò  quindi  all'  assedio  di  Fer- 
rara, cominciato  il  2  febbraio  1240,  dove  fu  proclamato  ducem 
exercitus  et  rectorem  e  combatté  a  fianco  di  Alberico  da  Ro- 
mano, del  marchese  d' Este,  del  doge  di  Venezia  ;  ma  non  riuscì 
ad  espugnare  Ferrara  se  non  col  tradimento  (2  giugno),  del 
quale  i  cronisti  attribuirono  a  lui  la  preparazione  *.  Concluso  un 
trattato  fra  Ferrara  e  Venezia  ed  un  altro  fra  Ferrara  e  Bolo- 
gna a  tutto  vantaggio  della  lega  guelfa,  il  Montelongo  venne  a 
Venezia  nel  luglio  ^  e  rivolse  le  sue  cure  agli  affari  della  marca 
Trivigiana.  In  questo  momento  infatti  sappiamo  ch'egli  era  in 
relazione  con  Bertoldo,  patriarca  di  Aquileia;  ma  non  pare  che 
per  allora  questi  accogliesse  con  molto  entusiasmo  le  premure 
che  r  astuto  legato  si  dava  per  attirarlo  nella  lega  guelfa  da  lui 
diretta. 

La  presenza  del  Montelongo  nel  Bolognese  dal  settembre  al 
dicembre  1240  è  accertata  da  diversi  documenti  ;  ed  oltre  alcune 
trattative  col  patriarca  Bertoldo,  ebbe   probabilmente   per  scopo 

^  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p.  255  sgg. 

3  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p,  585. 

3  II  9  luglio  il  Montelongo  concesse  in  Venezia  indulgenze  a  chi  visi- 
tasse la  chiesa  di  S.  Mattia  di  Murano.  Cfr.  Fl.  Cornelii  Ecclesiae  Tor- 
cellanae,  Venetiis,  1749,  parte  III,  p.  129,  dove  al  privilegio  è  assegnato 
l'anno  1249  (che  manca  nel  documento);  ma  erroneamente,  perché  il  legato 
non  porta  il  titolo  dì  vescovo  eletto  di  Tripoli,  che  già  aveva  nel  luglio  1249; 
credo  perciò  che  quella  concessione  possa  assegnarsi  al  1240. 


Pio  Paschini 


anche  di  soccorrere  Faenza  e  di  impedire  ad  Ezzelino  da  Ro- 
mano di  portare  aiuto  all'imperatore  che  l'assediava. 

Il  19  marzo  1241  Gregorio  fu  chiamato  a  Roma  per  rife- 
rire al  concilio  indetto  dal  papa  sugli  affari  di  Lombardia.  Non 
sappiamo  se  Gregorio  vi  andasse;  ma  sta  il  fatto  che  Faenza 
dopo  una  resistenza  eroica  cadde  il  14  aprile;  i  prelati  che  si 
recavano  al  concilio  sulle  navi  genovesi  furono  imprigionati  nella 
disgraziata  battaglia  della  Meloria  del  3  maggio  ;  l' 1 1  maggio  i 
Milanesi  e  le  truppe  di  Gregorio  furono  sconfitti  dalle  milizie  di 
Pavia,  e  lo  stesso  legato  potè  sfuggire  a  stento.  Tutto  sembrava 
perduto  per  i  Guelfi.  Ma  il  Montelongo  non  si  perdette  d' animo  ; 
egli  riusci  a  sostenere  il  coraggio  dei  Milanesi  e  fece  eleggere 
a  loro  arcivescovo  Leone  da  Perego,  provinciale  dei  minori 
(15  giugno)  ^ 

4.  La  morte  di  Gregorio  IX  (21  agosto  1241)  non  inter- 
ruppe il  corso  degli  avvenimenti.  Però  del  Montelongo  e  dell'o- 
pera sua  poco  si  sa  per  l'anno  1242;  ma  nel  gennaio  1243  i  rap- 
presentanti di  Milano  e  Piacenza  ed  i  marchesi  Bonifacio  di  Mon- 
ferrato, Manfredo  del  Carretto,  Giorgio  ed  Emanuele  di  Ceva 
convennero  a  Genova  ed  insieme  coi  rappresentanti  di  questa 
città,  giurarono  nelle  mani  di  Astachio,  delegato  del  Montelongo, 
una  lega  di  mutuo  aiuto  contro  qualsifosse  nemico.  Poi  ai  primi 
d'aprile  il  Montelongo  entrava  in  Vercelli,  che  d'allora  in  poi 
passò  a  far  parte,  sino  al  1248,  della  lega  guelfa;  a  questa  ade- 
rirono pure  i  conti  di  Biandrate  ed  il  comune  di  Novara  ^. 

Papa  Innocenzo  IV  ^  conservò  nell'  ufficio  di  legato  in  Lom- 
bardia il  Montelongo,  non  ostante  le  istanze  di  Federico  II,  che 
lo  avrebbe  voluto  lontano.  Fu  invece  il  Montelongo  stesso  che 
al  principio  di  novembre  del  1243  chiese  di  essere  esonerato  dal- 
l'ufficio; ma  il  papa  con  lettera  del  20  novembre  ne  lo  con- 
fermò ed  ingiunse  inoltre  al  vescovo  di  Mantova  di  far  sì,  che 
al  legato  fossero  pure  pagate  le  procurazioni  che  gli  erano  do- 
vute per  l'ufficio  suo.  Ed  infatti  il  Montelongo  rimase  saldo  in 
Lombardia  a  capo  della  lega  guelfa,  anche  dopo  la  fuga  del  papa 
dall'Italia  e  durante  il  concilio  di  Lione.  Nel  novembre  1245  egli 
coi  Milanesi  constrinse  Federico  II,  che  anelava  ad  occupare  Mi- 

^  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p.  613  sgg. 

2  Ibid.,  p.  625  sgg. 

3  Egli  fu  eletto  papa  il  25  giugno  1243.  La  lunga  vacanza  della  Sede 
Apostolica  sarebbe  stata  certo  disastrosa  per  la  lega  guelfa,  che  da  essa  ri- 
ceveva coesione  e  soccorsi,  senza  il  coraggio  e  l'energia  del  Montelongo. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  <£  Aquileia         29 

lano,  a  rifugiarsi  a  Pavia  ed  a  Lodi,  dove  si  ricongiunse  col  figlio 
Enzo,  le  cui  scorrerie  guerresche  non  avevano  avuto  esito  mi- 
gliore di  quelle  del  padre  ^ 

5.  Nel  marzo  1247  fu  designato  legato  in  Lombardia  il  car- 
dinale Ottaviano  degli  Ubaldini;  ma  non  per  questo  il  Monte- 
longo abbandonò  l' impresa  a  cui  aveva  consecrate  tutte  le  sue 
forze.  Anzi  il  16  giugno  1247  con  abile  stratagemma  i  Guelfi, 
spinti  da  lui,  s' impadronirono  di  Parma,  e  la  tolsero  all'  impera- 
tore; egli  tosto  vi  accorse,  la  fortificò  e  si  difese  strenuamente 
contro  Federico  II  ed  il  re  Enzo,  che  nel  luglio  si  gettarono  con- 
tro la  città  per  riconquistarsela.  Fu  allora  che  l'imperatore  eresse 
contro  Parma  la  sua  nuova  città  di  Vittoria,  sicuro,  come  si  te- 
neva, di  riuscire  a  fiaccare  la  costanza  degli  assediati.  Ma  il  18  feb- 
braio 1248  i  Parmigiani,  condotti  dal  loro  podestà  e  dal  Mon- 
telongo, conquistarono  di  sorpresa  Vittoria,  la  distrussero,  mi- 
sero in  rotta  precipitosa  T  imperatore  e  le  sue  genti  e  tornarono 
nella  città  liberata  carichi  di  preda. 

Grati  i  Parmigiani  al  Montelongo,  gli  diedero  come  parte  sua 
della  preda  «  gli  oggetti  particolari  che  l'imperatore  usava  in 
guerra,  come  le  tende  e  cose  simili  »;  tende  che  poi,  come  ci 
riferisce  il  Belloni,  egli  trasportò  a  Cividale  e  ripose  in  quel 
duomo  come  trofeo  delle  sue  gesta  ^. 

Questa  impresa,  dovuta  in  gran  parte  alla  tenacia  ed  al  co- 
raggio del  Montelongo,  segnò  il  declinare  definitivo  della  po- 
tenza di  P'ederico  II  ed  assicurò  il  trionfo  dalla  lega  guelfa  ^. 

6.  Tentato  invano  di  prendere  Brescello,  il  Montelongo  ri- 
mase assai  probabilmente  a  Parma,  dove  certo  si  trovava  11 
15  agosto.  Poi,  entrato  in  quella  città  il  cardinale  Ottaviano,  egli 
si  volse  verso  Milano  ed  il  Piemonte,  dove  l'imperatore  aveva 
assalito  il  marchese  di  Monferrato.  Per  impedire  che  Federico  II, 
il  quale  aveva  occupato  Vercelli  il  1°  ottobre,  entrasse  anche  a 
Novara,  il  Montelongo  entrò  in  questa  città  insieme  colle  truppe 
milanesi  e  piacentine,  frustrando  così  con  una  mossa  improvvisa 
le  speranze  del  suo  nemico.  Infatti  nel  gennaio  1249  l'impera- 
tore abbandonò  il  Piemonte  per  ritirarsi  a  Pavia  e  poi  a  Cre- 
mona ed  accusò  in  una  pubblica  lettera   il  papa,    e   più   precisa- 


*  Marchetti-Longhi,  loc.  cit.,  voi.  XXXVII,  1914,  p.  139  sgg. 

2  R.   I.   S.,   tomo    XVI,    col.    46.    Cfr.    pure    De    Rubeis,   M.   E.   A., 
app.,  p.  12, 

3  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p.  225  sgg. 


30  Pio  Paschini 


mente  il  Montelongo,  di  avere  voluto  avvelenarlo  colla  compli- 
cità di  un  medico,  eh'  era  stato  suo  prigioniero  di  guerra  a  Parma. 
E  questo  l'oscuro  dramma  in  cui  perdette  la  grazia  imperiale 
Pier  della  Vigna.  L'accusa  non  riposa  che  sulla  testimonianza 
dello  stesso  Federico,  pubblicata  in  un  momento  in  cui  vedeva 
andare  a  vuoto  ogni  suo  sforzo  per  riacquistare  la  potenza  per- 
duta; vi  possiamo  benissimo  scorgere  un  brutale  sfogo  di  pas- 
sione. Vi  sarà  stata  una  congiura  contro  Federico;  ma  il  papa 
ed  il  legato  sarebbero  stati  ben  sciocchi  a  pensare  d' avvelenarlo 
proprio  quando  la  sua  potenza  già  declinava. 

Da  Novara  il  Montelongo  era  venuto  a  Milano  e  consta 
eh'  egli  chiedesse  un'  altra  volta  al  papa  d' essere  esonerato  dal 
suo  ufficio  di  legato.  Vi  diedero  motivo  probabilmente  certe  discor- 
die col  cardinale  Ottaviano  suo  collega  di  legazione  ;  ma  non  ab- 
biamo notizie  particolari  a  questo  riguardo  *. 

Il  papa  non  accettò  queste  dimissioni;  anzi  volle  dare  al 
Montelongo  un  pubblico  segno  di  approvazione  per  l' opera  sua, 
perché  servisse  a  dargli  maggior  lustro  non  solo,  ma  anche  mag- 
giore autorità  nella  sua  legazione.  Infatti  in  una  lettera  di  In- 
nocenzo IV  del  19  febbraio  1249  Gregorio  compare  col  titolo  di 
vescovo  eletto  di  Tripoli  e  di  legato  della  Sede  Apostolica.  Que- 
sta chiesa  gli  fu  concessa  certamente  poco  prima,  poiché  un'  altra 
lettera  dello  stesso  papa  del  18  febbraio  tratta  dell'assegnazione 
dei  beni  lasciati  dal  defunto  vescovo  di  quella  sede  ^.  Natural- 
mente per  il  Montelongo,  che  sino  allora  era  stato  semplice  sud- 
diacono e  notaio  della  Chiesa,  la  nuova  dignità  era  semplice- 
mente onoraria;  egli  non  ricevette  nemmeno  la  consecrazione 
episcopale,  ma  gli  dava  maggiore  autorità  in  faccia  all'  Ubaldini. 
Mentre  Innocenzo  IV  affidò  a  questo  la  cura  delle  milizie  che 
operavano  nel  Mantovano  e  nella  Romagna,  al  Montelongo  in- 
vece commise  tutto  il  resto  della  legazione,  che  comprendeva 
l'Italia  subalpina  sino  al  Friuli  ed  alla  luguna  veneta:  ufficio  di 
maggiori  difficoltà  e  responsabihtà. 

7.  Partito  definitivamente  di  Lombardia  Federico  II  nel 
marzo,  ambedue  i  legati  pensarono  di  raccogliere  nel  maggio  a 
Parma  un  parlamento  generale  di  tutti  i  rappresentanti  della  lega 

i  MARCHETTi-LoNGm,  loc.  clt.,  vol.  XXXVIII,  1915,  p.  283  sgg. 

-  Les  Registres  d' Imiocent  IV  publiés  par  É.  Berger,  Paris,  1897, 
n.'  4367  e  4364.  Alberto  de'  Roberti  di  Reggio,  predecessore  del  Montelongo, 
dev'essere  morto  verso  la  fine  del  1248.  Cfr.  Salimbene,  in  M.  G.  H.  :  Scriptt., 
to.  32,  p.  319. 


Gregorio  di  Montelo7igo  patriarca  ci'  Aquileia        31 


guelfa  *.  Nel  frattempo  Enzo,  figlio  di  Federico  II,  veniva  fatto 
prigioniero  dai  Bolognesi  a  Fossalta  il  25  maggio  1249;  ed  il 
Montelongo  avrebbe  potuto  ormai  con  maggior  energia  condurre 
innanzi  la  lotta  contro  il  partito  imperiale,  ma  non  si  hanno  no- 
tizie per  determinare  con  precisione  la  sua  personale  attività  ed 
i  luoghi  di  sua  residenza  nella  fine  del  1249  e  durante  il  1250. 
Ciò  ci  fa  sospettare  che  si  avesse  una  sosta  nel  proseguimento 
delle  operazioni  militari  e  diplomatiche. 

Da  alcune  lettere  del  Montelongo,  che  disgraziatamente  sono 
senza  data  ^,  ma  sono  certo  posteriori  alla  sua  nomina  a  vescovo 
di  Tripoli,  sappiamo  che  in  questo  tempo  egli  fu  tormentato  assai 
da  una  malattia  che  gli  impediva  di  condurre  a  termine,  com'  egli 
avrebbe  voluto,  i  suoi  maneggi  politici.  Egli  esortava  Mantova  e 
Verona  a  continuare  gli  accordi  con  Brescia  e  con  Bergamo  a 
vantaggio  di  tutti  i  partigiani  della  Chiesa  in  Lombardia  .  An- 
nunciava pure  ai  Mantovani  d'essersi  recato  a  Fornovo  insieme 
colla  milizia  e  col  popolo  di  Parma,  dove  aveva  ricevute  le  loro 
lettere;  comunicate  queste  al  podestà  ed  al  popolo  di  Piacenza, 
era  subito  ritornato  a  Parma.  E  colà  s' era  subito  deciso  dal  Con- 
silium  generale  *  di  comune  accordo  di  accogliere  le  proposte  dei 
Mantovani  stessi  e  di  muovere  coi  loro  aiuti  e  coli'  esercito  gene- 
rale sopra  Guastalla.  Il  Montelongo  aveva  perciò  subito  mandato 
ambasciatori  ai  fuorusciti  di  Reggio,  ai  Modenesi  ed  ai  Bolognesi  ; 
e  sollecitava  i  Mantovani  stessi  ad  esporre  quello  che  fosse  da 
fare.  I  preparativi  per  l'impresa  si  fecero  tosto.  Il  Montelongo 
prese  nuovi  accordi  coi  Mantovani  per  stabilire  l' ora  ed  il  giorno 
nel  quale  dovessero  piantare  il  loro  ponte  sopra  Tagliata.  Egli 
si  sarebbe  al  tempo  stabilito  recato  presso  Brescello  per  unirsi 
poi  con  loro  presso  Guastalla.  Per  affrettare  l' impresa  aveva  spe- 
dito Gerardo  di  Correggio  e  Alberto  Galiotti  nunzi  al  cardinale 
Ottaviano,  ai  comuni  di  Bologna  e  Modena  ed   ai   fuorusciti    di 


1  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p.  318. 

'  Muratori,  Antiq.  Hai.  M.  Aevi,  tomo  IV,  pp.  511-512.  Senza  ra- 
gione sufficiente,  mi  pare,  il  Marchetti-Longhi  assegna  due  di  quelle  let- 
-tere  al  1251  (op.  cit.,  p.  343). 

3  La  pace  fra  Bergamo  e  Brescia  fu  conchiusa  poi  il  21  maggio  1251  ; 
queste  lettere  che  riguardano  tale  affare  sono  dunque  certo  anteriori,  ma  di 
quanto?  Cfr.  Marchetti-Longhi,  ibid.,  p.  351.  Le  credo  contemporanee 
alle  altre. 

*  Credo  che  sia  senz'altro  il  parlamento  del  maggio  1249.  La  sconfitta 
dì  Enzo  doveva  spronare  tutti  a  ben  usare  della  vittoria  ottenuta. 


32  Pio  Paschini 


Reggio.  Queste  trattative  si  facevano  in  Parma.  Infatti,  secondo 
quanto  narra  l' annalista  ghibellino  di  Piacenza,  poco  dopo  l' a- 
gosto  1249  «  Gregorio  di  Montelongo  legato,  congregati  i  Par- 
migiani, i  soldati  di  Bologna  e  Piacenza,  il  conte  di  S.  Bonifacio, 
il  marchese  d'Este  ed  altri,  irruppe  contro  il  ponte  di  Brescello 
tenuto  dai  Cremonesi.  Alla  difesa  del  ponte  stavano  800  fuoru- 
sciti ferraresi  ed  altri  pedoni  di  Cremona.  Parte  del  ponte  po- 
sava su  pile,  parte  su  barche.  I  Parmigiani  si  lanciarono  su  di 
esso  con  grandissimo  furore,  e  per  abilità  di  certi  Ferraresi, 
quelli  di  loro  che  si  trovavano  sul  ponte  furono  presi  nelle  bar- 
che che  furono  sommerse  »^  Il  cronista  non  dice  dell'esito  del- 
l'impresa, ma  il  suo  silenzio  fa  credere  che  il  tentativo  avesse 
buon  successo,  come  si  arguisce  da  altre  fonti. 

Il  3  dicembre  1249  il  Montelongo  si  trovava  a  S.  Benedetto 
Po,  dove  impartiva  ordini  per  risolvere  una  controversia  sorta 
fra  due  monasteri.  La  sua  presenza  colà  forse  fu  motivata  dalla 
necessità  di  consolidare  la  recente  conquista  del  ponte  di  Bre- 
scello ^. 

8.  La  morte  di  Federico  II,  avvenuta  il  13  dicembre  1250, 
riempì  di  gioia  il  Montelongo,  che  vedeva  così  tolto  di  mezzo  il 
suo  nemico  e  rovinata  tutta  l'opera  sua.  Ne  scrisse  giubilando  a 
Giovanni  da  Riva  podestà  ed  al  comune  di  Milano  ^.  La  lega- 
zione doveva  parere  ormai  un  ufficio  facile  anzi  quasi  superfluo 
al  tenace  lottatore,  che  era  riuscito  a  tener  alto  il  vigore  del 
partito  guelfo  in  momenti  quasi  disperati.  Ma  non  tutti  i  nemici 
erano  scomparsi;  perché  i  Ghibellini  avevano  capi  potenti  e  ri- 
soluti :  più  terribile  fra  tutti  Ezzelino  da  Romano  che  per  lunghi 
anni  ancora  tenne  in  iscacco  i  suoi  avversari. 

Non  possiamo  seguire  il  Montelongo  nella  sua  attività  dei 
mesi  seguenti  :  ci  mancano  le  testimonianze.  Da  Ferrara  il  4  mar- 
zo 1251  egli  delegò  l'abbate  di  S.  Ilario  e  Benedetto  di  Venezia 
a  giudicare  una  causa  vertente  fra  il  pievano  di  S.  Silvestro  ed 
il  patriarca  di  Grado  *.  Ma  il  motivo  per  cui  egli  venne  allora  a 
Ferrara  non  si  sa.  Forse  si  trattava  di  negoziati  colla  repubblica 
di  Venezia. 


*  M.  G.  H.\  Scriptt.,  tomo   18,  p.  499;   Marchetti-Longhi,  op.  cit., 

P.  325- 

*  Marchetti-Longhi,  ibid.,  p.  326. 
3  Marchetti-Longhi,  ibid.,  p,  337. 

*  Fl.  Cornelii  Ecclesiae  Venetae  cit.,  tomo  IV,  p.  106. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  d  Aquileia         33 

Il  17  maggio  1251  il  Montelongo  si  trovava  a  Brescia,  forse 
per  stringere  gli  accordi  fra  questa  città  e  Bergamo  che  si  sta- 
vano trattando  sin  dal  principio  di  quel  mese  e  che  furono  final- 
mente conclusi  il  21  ^ 

Il  Montelongo  non  fu  dunque  presente  il  18  maggio  125 1 
all'arrivo  in  Genova  di  papa  Innocenzo  IV,  che  tornava  final- 
mente in  Italia,  dopo  il  lungo  soggiorno  di  Lione.  Era  proposito 
del  papa  di  andare  direttamente  a  Roma,  ma  il  cardinale  Otta- 
viano ed  il  Montelongo  lo  persuasero  a  passare  anzitutto  attra- 
verso la  Lombardia.  Partito  di  Genova  il  21  giugno,  il  1°  luglio  il 
papa  era  a  Milano  ;  il  2  settembre  era  a  Brescia,  poi  per  Man- 
tova e  Ferrara  venne  a  Bologna  (11  ottobre)  e  di  là  a  Cesena  e 
Perugia  (5  novembre)  dove  si  fermò  qualche  tempo.  Il  Monte- 
longo lo  accompagnò  certo  attraverso  i  territori  della  sua  lega- 
zione cominciando  da  Genova,  dove  dev'essersi  recato  subito 
dopo  conclusi  i  patti  fra  Bergamo  e  Brescia:  ma  fin  dove?  Pro- 
babilmente sino  a  Bologna,  dove  ricevette  la  sua  nomina  a  pa- 
triarca di  Aquileia.  Siccome  nella  voluminosa  corrispondenza  di 
Innocenzo  IV  non  si  trova  nessuna  lettera  che  riguardi  diretta- 
mente questa  nomina,  possiamo  credere  che  il  papa  la  facesse  a 
voce  al  suo  fedele  legato. 

La  legazione  di  Lombardia  era  terminata,  ormai  il  Monte- 
longo poteva  essere  adibito  ad  altri  negozi  ;  quale  più  impor- 
tante di  quello  di  consolidare  la  parte  guelfa  all'estremo  limite 
orientale  d'Italia? 

9.  Nessuno  era  in  grado  di  schizzare  un  ritratto  di  Gregorio 
di  Montelongo  meglio  di  frate  Salimbene  che  lo  conobbe  da  vi- 
cino. Ed  infatti  egli  racconta  alcuni  aneddoti  che  riguardano  la 
sua  carriera  di  legato  papale  e  ci  riferisce  alcuni  tratti  del  suo 
carattere.  Nulla  dice  invece  dell'  opera  sua  come  patriarca,  tut- 
tavia quanto  egli  scrive,  serve  assai  per  lumeggiare  la  sua  figura. 
«  Gregorio  di  Montelongo  era  uomo  di  cuor  grande  ed  esperto 
in  guerra;  poiché  aveva  un  libro  sull'astuzia  e  sull'arte  del  pu- 
gnare ,  sapeva  ordinare  le  schiere  e  le  battaglie,  simulare  e  dis- 
simulare molto  bene  ;  sapeva  quando  conveniva  posare  e  quando 
assalire  i  nemici...  e  sperava  ed  aspettava  la  vittoria  da  Dio... 
L'imperatore  [Federico  II]  più  volte  tentò  l'animo  di  lui  con 
molte  preghiere  per  tirarlo  dalla  sua  parte  e  renderselo  amico, 
promettendogli  di  farlo  il  primo  fra   i   suoi    cortigiani,   in   modo 

*  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  p.  354. 


34  Pio  Paschini 


che  sarebbe  diventato  il  secondo  dopo  di  lui.  Ma  invano  Fede- 
derico  tentatore  ed  ingannatore  si  faticava  presso  Gregorio  e  gli 
faceva  tali  proposte...  perché  Gregorio  di  Montelongo  da  nes- 
suno potè  essere  mai  indotto  a  mancare  di  fede...  Trattò  e 
condusse  fedelmente  i  negozi  della  Chiesa  e  perciò  meritò  il  pa- 
triarcato di  Aquileia  e  lo  tenne  molti  anni,  finché  morì...  Però 
su  Gregorio  di  Montelongo  si  deve  notare  che  fu  podagroso  e 
non  del  tutto  casto.  Infatti  ho  avuto  notizia  di  una  sua  amante. 
Ma  molti  chierici  secolari,  che  sono  nel  governo  e  nelle  prela- 
ture e  vivono  comodamente,  sembra  che  poco  badino  alla  ca- 
stità »  ^  Quando  si  legga  quello  che  invece  frate  Salimbene  dice 
del  cardinale  Ottaviano,  l'elogio  ch'egli  fa  del  Montelongo,  non 
ostante  le  riserve  riguardo  il  costume,  assume  un'importanza  an- 
che più  singolare.  Il  disinteresse  e  la  fierezza  del  suddiacono  pa- 
pale, diventato  vescovo  di  Tripoli,  sono  in  perfetto  contrasto  col 
carattere  fastoso,  versipelle  ed  infido  del  cardinale  diacono  di 
S.  Maria  in  Via  Lata. 

II. 

I.  Ottocaro  II  di  Boemia,  duca  d'Austria  e  di  Stiria.  —  2.  Ulrico  III, 
duca  di  Carintia,  e  suo  fratello  Filippo,  arcivescovo  eletto  di  Salisburgo.  — 
3.  Mainardo  IV  conte  di  Gorizia  ed  i  suoi  interessi  germanici.  —  4,  Mai- 
nardo  IV  ed  i  Veneziani.  —  5.  Mainardo  IV  ed  i  suoi  affari  nel  Tirolo  e 
nel  Friuli  dopo  il  1253.  —  6.  Morte  di  Mainardo  (1258):  i  suoi  figli  Mai- 
nardo  V  ed  Alberto  I. 

I .  La  morte  di  Federico  II  condusse  ad  un  mutamento  assai 
importante  nei  ducati  transalpini.  Del  ducato  d' Austria-Stiria  non 
era  stato  ancora  investito  nessuno:  eredi  ne  erano  Gertrude,  fi- 
glia di  Enrico,  fratello  di  Federico  ultimo  duca  d'Austria,  la 
quale  aveva  sposato  Ermanno  del  Baden  e  ne  era  rimasta  ve- 
dova nel  1250  con  un  figlio  ed  una  figlia;  e  Margherita,  sorella 
dello  stesso  duca  e  vedova  del  re  Enrico  VII,  il  defunto  figlio 
dell'imperatore.  Benché  Margherita  fosse  più  vecchia  di  lui,  non 
parve  troppo  caro  l'acquisto  del  ducato  a  Ottocaro  II,  figlio  di 
Wenceslao  di  Boemia,  collo  sposarla.  Dopoché  egli  e  suo  padre 
ebbero  preparato  l' impresa  nella  Boemia  meridionale,  Ottocaro  II, 
invitato  da  una  parte  dei  signori  austriaci,  s'impossessò  sulla 
fine  del   1251   del  territorio  dell'Austria  superiore.  Conti,  signori 

1  M.  G.  H.  :  Scriptt.,  tomo  32,  p.  388  sgg. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  d! Aq^iileia         35 


e  monasteri  ebbero  pronta  conferma  dei  loro  diritti  e  delle  loro 
libertà.  A  metà  inverno  egli  passò  il  Danubio,  e  città  e  castelli 
aprirono  volentieri  le  porte  al  nuovo  signore  ;  solo  Wiener-Neu- 
stadt  fece  qualche  difficoltà.  Fedele  alla  parola  data  Ottocaro 
sposò  Margherita  in  Hainburg  l'ii  febbraio  1252;  e  questa  de- 
pose nelle  sue  mani  un  documento  con  bolla  d'oro,  col  quale 
Guglielmo,  nuovo  re  di  Germania,  la  riconosceva  legittima  erede 
del  ducato  dopo  la  morte  di  suo  fratello,  e  le  riconfermava  tutti 
i  diritti.  Così  senza  violenza  e  senza  spargimento  di  sangue  tutto 
il  paese  riacquistò  pace  e  prosperità. 

Causa  però  una  guerra  mossagli  da  Bela  IV,  re  d' Ungheria, 
geloso  della  potenza  che  s'erano  acquistata  i  Przemislidì,  Otto- 
caro,  il  3  aprile  1254,  dovette  cedere  a  costui  una  parte  della  Sti- 
ria.  Nel  frattempo,  mortogli  il  padre  Wenceslao,  egli  riunì  nelle 
sue  mani  anche  la  Boemia;  e  finalmente  nel  1260,  dopo  sconfitto 
Bela  IV  col  quale  di  nuovo  era  sceso  in  lotta,  riebbe  tutto  il  ter- 
ritorio che  aveva  dovuto  cedere  sei  anni  prima;  e,  colla  media- 
zione di  Otto,  vescovo  di  Passau,  fece  pace  definitiva  con   lui  *. 

Questa  prospera  fortuna  fece  sì  che  ad  Ottocaro  fossero  ri- 
conosciuti anche  i  diritti  che  il  ducato  d' Austria-Stiria  possedeva 
in  Friuli.  Noi  sappiamo  infatti  che  il  patriarca  Gregorio  gli  diede 
nel  1257  l'investitura  del  girone  di  Pordenone,  poi  nel  1263  l'in- 
vestitura dell' o^cium  pìncernatus,  ch'era  stato  tenuto  dal  duca 
Federico  II  nella  sua  qualità  di  signore  di  Stiria  ^.  Ed  il  14  di- 
cembre 1264  a  Brùnn  in  Moravia  lo  stesso  Ottocaro,  quale  erede 
dei  marchesi  di  Stiria,  confermò  a  Giacomo  di  Ragogna  ed  ai 
suoi  fratelli  «  feuda  et  possessiones  quas  actenus  a  nostris  ante- 
«  cessoribus  principibus  Austrie  tenuistis  proprietario  vel  feudali 
«  iure  »  ^. 

Così  se  durante  tutto  il  suo  pontificato  Gregorio  Montelongo 
non  ebbe  a  temere  dall'impero,  che  rimase  di  fatto  vacante,  però 

i  A.  Bachmann,  Geschichte  Bòhmens,  Gotha,  1899,  tomo  I,  pp.  547  sgg. 
e  571  sgg. 

2  Fontes  Rerum  Austriac,  Diplont.,  I,  p.  58;  cfr.  Thesaurus  Eccles. 
Aquileien.,  p.  171,  n.  343;  Bianchi,  Doc.  mss.  (Bibliot.  Com.  Udine),  n.  301. 
Ottocaro  delegò  Bruno,  vescovo  di  Olmùtz,  a  ricevere  l' investitura.  Le  de- 
cime annesse  all'ufficio  egli  concesse  ad  Enrico  di  Scharfenberg  (Carniola  inf. 
presso  Ratschach)  il  25  gennaio  1264  da  Praga. 

3  Font.  RR.  Austr.,  Dipi.,  I,  p.  62;  Bianchi,  Doc.  mss.,  n.  305.  In- 
fatti in  un'escussione  di  testimoni  del  7  gennaio  1277,  si  attesta  espres- 
samente che  Ragogna  era  proprietà  del  duca  d'Austria,  eccetto  il  garrito. 
MiNOTTO,  Doc.  ad  Forumjul.  etc,  Venetiis,   1871,  p.  32. 


36 


Pio  Paschini 


dovette  tenere  gli  occhi  aperti  sull'ambizioso  Przemislide  che 
tendeva  ad  allargare  sempre  più  i  suoi  domini  ^  Infatti,  sulla  fine 
della  vita  del  patriarca,  Ottocaro  trovò  modo  di  rendersi  neces- 
sario nel  patriarcato  e  di  presentarsi  come  salvatore  dello  stesso 
patriarca.  C'era  però  di  mezzo  anche  un  altro  personaggio  che 
aveva  le  sue  mire  e  i  suoi  disegni  sul  patriarcato:  il  duca  di 
Carintia. 

2.  Il  patriarca  Bertoldo  aveva,  il  3  settembre  1250,  stretto 
patti  d'alleanza  con  Ulrico,  figlio  di  Bernardo,  duca  di  Carintia. 
Quando  Bernardo  dopo  un  lungo  governo  morì  il  4  gennaio  1256  ^, 
Ulrico  III  suo  figlio  gli  successe  nel  ducato.  Egli  s' era  ammo- 
gliato con  Agnese  di  Merania,  eh'  era  rimasta  vedova  di  Fede- 
rico II,   duca   d'Austria,   ed   era   diventato   così   nipote   del   pa- 


*  L'energia  di  Ottocaro  destò  l'ammirazione  anche  di  Dante,  che  po- 
nendolo a  fianco  del  suo  avversario,  Rodolfo  d'Asburgo,  nella  valletta  amena 
del  monte  del  Purgatorio,  dice  di  lui: 

L'altro,  che  nella  vista  lui  (Rodolfo)  conforta, 
Resse  la  terra  dove  l'acqua  nasce. 
Che  Molta  in  Albia,  ed  Albia  in  mar  ne  porta: 

Ottacchero  ebbe  nome,  e  nelle  fasce 

Fu  meglio  assai  che  Vincislao  suo  figlio 
Barbuto,  cui  lussuria  ed  ozio  pasce. 

Purg.,  VII,  97  sgg. 

Perché  più  chiaro  appaia  quanto  si  dirà  anche  in  seguito,  aggiungo  qui 
la  parte  che  ci  riguarda  dell'albero  genealogico  dei  Przemyslidi  di  Boemia: 

Wladislao 
re  di  Boemia,  f  ii74 
I 


Ottocaro  I 
t  1230 


I 

Adalberto 

arcivescovo  di  Salisburgo 

t  1200 


I 

Wenceslao  I 

t  1253 

sposa  Cunegonda 

figlia  del  re  Filippo 

di  Germania 

I 

Ottocaro  II 

t  1278 

duca  d'Austria  e  di  Stiria 

nel  1251 

re  di  Boemia  nel  1253 

I 
Wenceslao  II 


Anna 

moglie  di  Enrico 

duca   di    Breslavia 

I 

Wladislao 

arcivesc.  di  Salisburgo 

1267-1270 


JUTTA 

moglie  di  Bernardo 

duca  di  Carintia 

t  1256 


Ulrico  III 

duca  di  Carintia 

t  1269 


Filippo 
arcivescovo  eletto  di  Salisburgo 
poi  patriarca  eletto  di  Aquileia 


2  A.  VON  Jaksch,  Die   Kdrntner    Geschichtsguellen,    Klagenfurt,  1904, 
n.  2614. 


Gregorio  di  Monielongo  patriarca  et Aquileia         2)7 


triarca  Bertoldo.  Morta  costei,  sebbene  ormai  avanzato  in  età, 
sposò  nel  1263  Agnese,  figlia  di  Gertrude  d'Austria  e  di  Er- 
manno del  Baden  ^  Per  sua  disgrazia  egli  non  ebbe  eredi  legit- 
timi ;  sorgeva  perciò  preoccupante  la  questione,  a  chi  sarebbero 
alla  sua  morte  toccati  il  ducato  ed  i  feudi  annessi  al  ducato. 

Egli  aveva  un  fratello  Filippo,  il  quale  era  stato  sin  dal 
1247  eletto  arcivescovo  di  Salisburgo,  benché  non  avesse  né  co- 
stumi, né  attitudini,  né  inclinazione  alcuna  per  la  vita  ecclesia- 
stica. I  giudizi  che  sul  suo  conto  diedero  i  contemporanei  sono 
tutt' altro  che  lusinghieri.  Egli  non  si  curò  di  farsi  consacrare, 
nemmeno  quando  Alessandro  IV,  il  5  aprile  1255,  emanò  la  bolla 
colla  quale  obbligava  tutti  i  vescovi  eletti  a  farsi  consacrare  en- 
tro sei  mesi.  Perciò  il  papa,  accogliendo  le  rimostranze  che  si  fa- 
cevano contro  di  lui,  lo  privò  definitivamente  della  sede  il  5  settem- 
bre 1257  ed  accettò  la  postulazione  che  il  capitolo  di  Salisburgo 
gli  aveva  presentato  per  avere  ad  arcivescovo  Ulrico,  vescovo  di 
Seckau  *.  Però  Filippo  non  abbandonò  la  pretesa  di  tenersi  ancora 
quella  sede,  che  governò  tirannicamente;  tanto  più  che  Ulrico  non 
era  tempra  d'  uomo  capace  di  tenergli  fronte  con  energia. 

Il  4  aprile  1256  i  due  fratelli  divisero  fra  loro  i  beni  paterni 
e  materni,  anzi  Ulrico  stabilì  che  tutta  la  sua  parte  dovesse  pas- 
sare al  fratello  Filippo,  qualora  egli  ed  i  suoi  eredi  gli  premo- 
rissero, e  si  promisero  vicendevole  aiuto  e  difesa^.  Questa  divisione 
non  riguardava  certo  i  beni  ecclesiastici  che  la  casa  ducale  aveva 
sotto  la  sua  dipendenza,  né  i  feudi  imperiali  ;  i  primi  infatti  man- 
cando la  discendenza  ritornavano  alla  Chiesa  ;  i  secondi,  in  grazia 
di  un  decreto  di  re  Guglielmo  del  21  marzo  1249,  dovevano  es- 
sere amministrati  insieme  dai  due  fratelli  e  passare  a  Filippo  sen- 
z'  altro,  qualora  Ulrico  fosse  morto  senza  figli  *. 

Infatti  Filippo  fu  contemplato  nel  patto  che  Ulrico  fece  col 
patriarca  di  Aquileia  nel  1261  ;  portò  il  titolo  di  heres  Karinthie 
et  Carniole  ^  e  quello  di  dominus  Karinthie  et  Carniole  ^  ancora 
vivente  il  fratello. 


1  Gertrude  era  figlia  di  Enrico,  fratello  di  Federico  II  d'Austria.  VoN 
Jaksch,  Die  Kàrntner  cit.,  n.  2812. 

-  PoTTHAST,  Reg.  Pontiff.,  n.  16998;  voN  Jaksch,  op.  cit.,  n.  2658.  Fi- 
lippo era  stato  ordinato  diacono  a  Praga  il  1°  aprile  1251.  Ibid.,  n.  2458. 

3  VoN  Jaksch,  Die  Kàrntner  cit.,  n.  2627. 

4  Ibid.,  n.  2406. 

5  Ibid.,  n.  2797,  sul  sigillo:  18  genn.   1263. 

6  Ibid.,  n.  2937  e  2942;  18  e  28  luglio  1267. 


38  Pio  Paschini 


È  evidente  però  che  con  queste  misure  la  questione  della 
successione  nel  ducato  non  era  che  spostata  di  tempo.  Infatti  Fi- 
lippo non  era  in  grado  di  avere  discendenti  legittimi.  Non  po- 
teva quindi  mancare  chi  sì  facesse  avanti  ad  ottenere  in  qua- 
lunque modo  i  beni  che  dovevano  rimanere  vacanti  o  ad  acca- 
parrarseli per  il  momento  opportuno.  Di  questa  caccia  all'eredità 
anche  il  Friuli  ebbe  a  risentire  le  conseguenze;  ma  chi  ci  per- 
dette fu  il  disgraziato  Filippo. 

Per  ben  comprendere  le  vicende  storiche  del  Friuli  nelle  sue 
relazioni  con  questi  paesi  transalpini  durante  il  governo  del  Mon- 
telongo  e  del  suo  successore,  è  necessario  ricordare  quanto  os- 
serva il  Dopsch.  La  condizione  del  duca  in  Carintia  non  era  in 
alcun  modo  tale,  che  potesse  competere  con  quella  del  duca 
d'Austria  e  di  Stiria.  Colà  una  concentrazione  voluta  da  un  po- 
tere efficace  ;  in  Carintia  invece  il  potere  ducale  era  più  scom- 
paginato, ed  in  causa  di  uno  speciale  svolgimento  storico  era  li- 
mitato e  ristretto  ancor  più  in  diversi  modi.  In  modo  simile  alla 
Carintia  anche  la  Carniola  nel  secolo  XIII  subì  una  dissoluzione 
riguardo  i  suoi  possessi  e  la  sua  signoria;  anzi  si  può  dire  che 
ormai  non  formava  più  una  vera  circoscrizione  territoriale.  Ac- 
canto ai  grandi  possessi  immuni  delle  chiese  di  Aquileia,  Brixen 
e  Frisinga,  v'  erano  numerose  signorie  secolari  ;  ma  con  questo 
di  particolare,  che  i  beni  ecclesiastici  ci  si  presentano  qui  più 
chiusi  e  raccolti  insieme,  giacché  quelli  di  Brixen  e  Frisinga 
erano  concentrati  specialmente  nella  parte  settentrionale  del  paese; 
mentre  Aquileia  dominava  nella  Carniola  inferiore  e  nella  Marca 
(Venda).  Dunque  nessuna  unità  di  signoria  territoriale,  in  tutta 
la  Carniola,  benché  alla  fine  del  secolo  XI  Aquileia  avesse  ot- 
tenuto il  marchesato  di  Carniola  ed  il  patriarca  nel  secolo  XIII 
ne  portasse  il  titolo  ^ 

3.  Per  quanto  riguarda  i  conti  di  Gorizia,  sembrò  da  princi- 
pio, che  le  cose  volgessero  piuttosto  male  e  che  fosse  uno  svan- 
taggio per  loro  l'essere  rimasti  fedeli  alla  politica  imperiale. 
Colla  morte  di  Federico  II  imperatore  cessò  il  capitaneato  di 
Mainardo  in  Stiria  ed  egli  dovette  ritirarsi  dal  paese. 

Il  7  luglio  1251  il  conte  Mainardo  IV  di  Gorizia  a  Latisana 
rinnovò  la  concessione  di  certe  decime  in  favore  di  Pietro  Dan- 


^  A.  DoPSCH,  Die  Kàrntner - Krainer  Frage  ecc.,  in  Archiv  fùr  oester- 
reichische  Geschichte,  voi.  87,  1899. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  (£ Aquileia         39 

dolo,  che  fino  dal  17  marzo  12  io  avevano  ricevuto  dai  conti 
Mainardo  III  ed  Engelberto  III  Andrea,  avo  di  Pietro,  suo  fra- 
tello Enrico  e  Marino  loro  nipote  ^ 

A  Latisana  egli  accolse  l' imperatore  Corrado  IV  nel  no- 
vembre 1251,  quando  scese  colà  per  imbarcarsi  e  recarsi  in  Pu- 
glia. Ciò  non  gli  impedì  però  d'incontrarsi  a  Cividale  col  pa- 
triarca nel  maggio  1252  per  regolare  le  loro  mutue  obbligazioni 
derivanti  dal  trattato  dell' 8  gennaio   1251. 

Per  allora  il  Goriziano  non  s' immischiò  di  più  nelle  faccende 
del  patriarcato,  sia  che  avesse  voglia  di  scandagliare  meglio  l' a- 
nimo  e  le  intenzioni  del  nuovo  patriarca,  sia  che  altre  imprese 
tenessero  occupata  la  sua  mente. 

Sovraggiunse  poi  anche  una  violenta  ostilità  dei  Goriziani  e 
del  conte  del  Tirolo  loro  alleato  contro  Filippo  di  Carintia;  non 
sappiamo  bene  quali  ne  sieno  stati  i  motivi,  ma  la  ragione  ul- 
tima doveva  essere  la  sete  di  dominio  e  di  preminenza. 

Nell'autunno  del  1252  i  conti  Alberto  III  del  Tirolo  e  Mai- 
nardo  IV  di  Gorizia  ^  con  forte  esercito  posero  l' assedio  al  castello 
di  Greifenburg;  «  ma  sì  fece  loro  incontro  Filippo,  arcivescovo 
eletto  di  Salisburgo,  li  vinse  in  battaglia  campale  1'  8  settembre 
e  condusse  seco  prigioni  i  conti  del  Tirolo  e  di  Eschenlohe  con 
molti  loro  ministeriali  ed  ausiliari  »  ^.  Ed  aggiunge  il  cronista 
Giovanni  di  Viktring,  che  «  in  quella  battaglia,  come  si  diceva, 
Filippo  s'era  macchiate  di  sangue  le  mani,  per  rendersi  inabile 
agli  ordini  sacri  »  *. 

Il  conte  del  Tirolo  fu  condotto  prigione  a  Friesach,  e  fu  li- 
berato solo  il  21  dicembre  per  intervento  di  Bruno,  vescovo  di 
Brixen  suo  nipote  ^.  In  quello  stesso  dì  2 1  dicembre  i  signori 
friulani,  eh'  erano  stati  fatti  prigioni,  poterono  pure  ottenere  la  li- 
bertà a  Gmiind,  ma  obbligandosi  a  pagare  forti  somme  all'  eletto 
di  Salisburgo  prima  dell'otto  giugno  1253  e  posero   dei  fideius- 

^  Si  trattava  di  metà  delle  decime  di  Castillono  e  PidrÌ9ago  e  di  otto 
decime  a  Pirano.  Presenti  furono  Marco  Zeno  e  Marino  Soranzo  veneziani, 
Ottobergogna  di  Spilimbergo,  Volrico  di  Reifenberg,  Filippo  di  Weissenstein, 
Bonomo  di  Varmo.  Dee,  nell'Archivio  di  Stato  a  Vienna.  Per  l'albero  genea- 
logico dei  Goriziani  cfr.  il  mio  :  Vicende  del  Friuli  durante  il  dominio  della 
casa  imperiale  di  Franconia,  Cividale,  1913,  p.  93. 

2  Si  noti  che  Mainardo  di  Gorizia  aveva  sposata  Adelaide,  una  delle 
due  figlie  di  Alberto  II  conte  del  Tirolo;   questi  non   aveva  prole  maschia. 

3  Annal.  s.  Rudberti,  in  M.  G.  H.\  Scriptt.,  IX,  p.  792. 
*  VoN  Jaksch,  Die  Kàrntner  cit.,  n,  2500. 

^  Ibid.,  n.'  2507  e  2509. 


40  Pio  Paschini 


sori  per  il  pagamento:  Enrico  di  Mels  fece  suo  garante  Ditmar 
di  Weisseneck  per  40  marche  d' argento  ;  Biaquino  q.^'"  Uda- 
scalco  di  Duino  fece  garante  il  co.  Ermanno  di  Ortenburg  per 
20  marche  ;  Rodolfo  di  Duino  fece  garante  Rudolf o  e  Colo  di 
Ras  per   100  marche*. 

Ma  anche  il  conte  Mainardo  dovette  sottostare  a  gravi  sa- 
crifici per  liberare  il  conte  del  Tirolo.  Il  conte  Ermanno  di  Or- 
tenburg aveva  dato  in  pegno  per  la  somma  di  400  marche  d' ar- 
gento, da  pagarsi  per  il  San  Martino,  i  suoi  beni  a  Kals  in  Ti- 
tolo. La  somma  doveva  servire  allo  scopo  sopradetto  ;  ed  a  sua 
volta,  con  atto  rogato  a  Millstatt  il  22  dicembre,  Mainardo  diede 
a  lui  in  pegno  dei  beni  a  Naklas  in  Carniola  ed  i  proventi  del- 
l' avvocazia   sul   castello  di  Sommereck  ^. 

Poi  il  23  dicembre  a  Gmùnd  lo  stesso  Mainardo  diede  fi- 
deiussori alla  chiesa  di  Bamberga  per  il  pagamento  che  avrebbe 
fatto  a  Villach  di  cento  marche  d' argento  ^. 

Finalmente  il  27  dicembre  1252  fu  fatta  a  Lieserhofen  a  nord 
di  Spittai  la  pace  tra  Filippo  di  Salisburgo  da  una  parte  ed  i 
conti  del  Tirolo  e  di  Gorizia  dall'  altra  *,  e  finirono  queste  inimi- 
cizie per  allora;  ma  dovevano  ripullulare  un  quindici  anni  più 
tardi,  per  terminare  con  una  completa  rivincita  dei  Goriziani  sopra 
r  odiato  avversario. 

4.  Dal  trattato  d' alleanza  che  il  patriarca  Bertoldo  aveva 
stretto  con  Venezia  il  14  settembre  1248  era  stato  positivamente 
escluso  il  conte  di  Gorizia,  i  cui  interessi  nei  trattati  antecedenti 
erano  sempre  legati  con  quelli  del  patriarca.  Una  tale  condi- 
zione di  cose  era  insostenibile  ;  ed  il  conte  Mainardo  si  trovò 
ben  presto  costretto  a  regolarla.  Nell'aprile  1253  noi  lo  troviamo 
a  Venezia,  intento  appunto  a  regolare  i  suoi  affari  colla  repub- 
blica e  coi  mercanti  veneziani.  Nel  palazzo  ducale  il  12  di  quel 
mese,  accompagnato  da  Ugo  di  Reifenberg,  Corrado  di  Lienz, 
Pezemanno  e  Leopoldo  di  Ragogna,  Aincio  di  Ragogna,  alla 
presenza  di  Guglielmo  de  Stasio  di  Treviso  e  di  alcuni  Vene- 
ziani, il  conte  costituì  Rinieri  Zeno,  doge  di  Venezia,  suo  arbitro 
nelle  discordie  che  aveva  colla  repubblica,  promettendo  di  adem- 
piere a  quanto  il  doge  avrebbe  sentenziato,    sotto   pena   di    200 

^  VoN  Jaksch,  Die  Kàrntner  cit.,  n.'  2512-13-15. 

2  Ibid.,  n.'  2516  e  2522,  2526  (26  dicembre). 

3  Ibid.,  n.'  2517  e  2523,  2525,  2528  (26  dicembre). 

4  Ibid.,  n.  2529  ed  anche  2530-31  ;  furono  compresi  nella  pace  anche 
i  Mels. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  d' Aquileia         41 

marche  d' argento  ;  diede  come  sicurtà  Porto  Latisana  colla  muta 
e  con  tutto  ciò  che  vi  possedeva,  e  pose  come  suoi  fideiussori: 
Detalmo  di  Caporiacco,  Guglielmo  di  Fontanabona,  Glizoio  di 
Mels,  Wicardo  di  Grisignana,  Bernardo  di  Zuccola,  Carello  di 
Flagogna  ^.  Era  questa  una  completa  dedizione  alla  repubblica, 
la  quale,  come  si  può  ben  comprendere,  anelava  ad  avere  in  sua 
mano,  in  un  modo  o  nell'altro,  gli  sbocchi  fluviali  per  il  com- 
mercio coir  interno. 

Questo  per  la  parte  politica;  veniamo  ora  alla  parte  finan- 
ziaria. Se  le  finanze  del  patriarcato  erano  spesso  gravate  di  pre- 
stiti rovinosi  e  depauperanti,  quelle  dei  conti  di  Gorizia  non 
erano  certo  più  floride.  Ne  vediamo  subito  le  prove. 

Il  13  aprile  di  quell'anno  1253  in  Venezia  si  sciolse  la  so- 
cietà che  Marco  e  Jacopo  Ferioli  avevano  stretta  con  Gerardino, 
Guglielmino,  Guerretta  e  Zilio  di  Cividale,  e  si  divise  fra  le  due 
parti  il  credito  di  326  marche  che  la  società  aveva  verso  Mai- 
nardo,  conte  di  Gorizia.  I  Ferioli  rinunciarono  alle  140  marche 
eh'  erano  toccate  loro  in  quella  divisione,  e  ad  altre  40  marche 
dovute  loro  dal  conte  per  panni  e  merci  somministratigli.  Ma 
non  si  deve  credere  che  quei  banchieri  facessero  un  atto  di  ge- 
nerosità; non  si  fece  che  mutare  il  titolo  esterno  dell'obbliga- 
zione, rinnovare  il  mutuo,  liquidare  il  vecchio  credito  ;  perché  in 
quel  dì  stesso  il  conte  si  professò  debitore  verso  i  Ferioli  di 
180  marche  e  promise  di  pagarle  in  rate  prima  del  24  dicem- 
bre 1254  sotto  pena  di  pagare  altrimenti  il  doppio,  meno  cin- 
que soldi,  coi  danni  e  le  spese  ed  obbligò  per  questo  tutti  i  suoi 
beni  ^. 

Un  nuovo  patto  fece  a  Venezia  in  quest'occasione  il  conte 
Mainardo  per  avere  denaro,  che  doveva  servirgli,  io  credo,  per 
pagare  i  debiti  contratti  nella  sfortunata  impresa  contro  Filippo 
di  Salisburgo.  Il  25  aprile,  per  mille  lire  veronesi  ricevute  da 
Marco  Zorzano,  per  tremila  avute  da  Marino  Soranzo,  Marco 
(Matteo,  è  chiamato  anche  nel  documento)  Polo,  e  dallo  stesso 
Marco  Zorzano,  il  conte  vendette  al  Polo,  al  Soranzo  ed  al 
Zorzano  gli  introiti  delle   case    di   Porto    Latisana,    la    muta   del 

i  V.  Joppi,  Documenti  goriziani  del  secolo  XII  e  XIII,  Trieste,  1892, 
n.  27.  Come  vedremo  a  suo  luogo,  il  conte  accettò  più  tardi  anche  per  parte 
sua  i  patti  del  trattato  che  il  patriarca  Gregorio  rinnovò  colla  repubblica. 

2  R.  Predelli,  //  «  liber  communis  »  detto  anche  «  plegiorum  »,  Ve- 
nezia, 1872,  p.  170,  n.  721.  Giurarono  per  il  conte  Ugo  di  Reifenberg  e 
Wicardo  di  Grisignana. 


42  Pio  Pas chini 


Porto  col  provento  del  macello,  e  tutto  ciò  che  colà  aveva  «  iu- 
«  dicio  dumtaxat  seu  wadiis  sive  bannis  et  penìs  memorato  do- 
«  mino  corniti  reservatis  »,  per  quattro  anni  da  S.  Ermacora  in 
poi  ;  colla  clausola  che  se  prima  dei  quattro  anni  i  tre  soci  aves- 
sero realizzato  le  4000  libre,  il  sovrappiù  che  fosse  percepito 
spettasse  per  un  terzo  al  conte  e  per  i  due  terzi  a  loro  ^ 

Nel  luglio  del  1553  vedremo  anche  il  patriarca  Gregorio  ri- 
correre a  Venezia  per  trovare  denaro:  in  questo  almeno  erano 
ambedue  alla  pari,  e  Venezia  era  in  grado  di  provvedere  ad 
ambedue. 

5.  Ma  il  conte  Mainardo  volgeva  le  sue  speranze  verso  il 
Tirolo,  dove  la  sua  ambizione  aspettava  un  grande  incremento 
per  sé  e  la  sua  casa.  Il  5  luglio  1253  presso  Napoli  Corrado  IV 
di  Germania  diede  in  feudo  al  conte  Alberto  del  Tirolo  ed  ai 
figli  di  Mainardo,  conte  di  Gorizia,  il  castello  di  Ulten  ed  i  luo- 
ghi tra  Fern  e  Scharnitz,  che  erano  ricaduti  all'  impero  dopo  la 
morte  di  Ulrico,  conte  di  Ulten  ^. 

Questo  fatto  ci  induce  a  credere  che  tanto  il  conte  Alberto, 
quanto  Mainardo  V  ed  Alberto  I,  figli  del  conte  Mainardo,  ave- 
vano seguito  Corrado  nella  sua  spedizione  verso  il  regno  della 
Sicilia,  e  quest'investitura  doveva  essere  il  premio  per  i  loro 
servigi. 

Il  conte  Alberto  del  Tirolo  morì  nel  1253  ^,  lasciando  suoi 
eredi  i  due  generi  Gebardo,  conte  di  Hirschberg  (località  bava- 
rese presso  Eichstàdt)  e  Mainardo  conte  di  Gorizia.  L'eredità 
rimase  per  allora  indivisa,  forse  in  causa  dei  torbidi  causati  dal- 
l' ambiziosa  condotta  di  Ottocaro  II,  re  di  Boemia,  fors'  anche 
per  r  assenza  di  Corrado  IV,  che  doveva  concederne  l' investitura. 

Scoppiata  la  guerra  fra  Bela  IV,  re  d' Ungheria,  ed  Otto- 
caro,  re  di  Boemia,  Mainardo  non  vi  prese  parte  diretta.  Ma  ci 
narra  un  cronista  tedesco  che  nel  1253  «  Ottone,  duca  di  Ba- 
viera, divisò  di  andare  incontro,  insieme  con  suo  figlio  Enrico, 
a  Bela,  re  d' Ungheria,  che  in  quell'  anno,  come  nell'  antecedente, 

^  Archivio  Imper,  di  Vienna;  Joppi,  Doc.  goriz.  cit.,  n.  26.  Presenti,  oltre 
alcuni  veneziani,  Detalmo  di  Caporiacco,  Glizoio  di  Mels,  Carlo  di  Flago- 
gna,  Ugo  di  Reifenberg,  Ainzo  di  Ragogna.  Come  risulta  dal  documento,  il 
conte  aveva  contratto  un  debito  di  3000  libre  con  Giovanni  Barozzi,  Leo- 
nardo Babilonio  e  soci;  per  pagare  questo  debito  egli  fece  il  nuovo  prestito 
col  Soranzo,  il  Polo  e  lo  Zorzano. 

2  BóHMER-FiCKER-WiNKELMANN,  Regcsta  Imperii,  tomo  V,  n.  4599* 

3  Annal.  S.  Rudberti  cit.,  in  M.  G.  H.:  Scripti.,  IX,  p.  792. 


Gì' eg  or  io  di  Montelongo  patriarca  d' Aquileia         43 


era  entrato  con  forte  esercito  nell'  Austria  e  nella  Moravia,  ma 
ne  era  stato  impedito  dalle  fortificazioni  e  dalle  soldatesche  del- 
l' Austria  superiore  (postevi  da  Ottocaro)...  Allora  coli'  aiuto  di 
Mainardo,  conte  di  Gorizia,  e  di  Ezzelino,  nobile  di  Treviso, 
Enrico,  figlio  di  Ottone  duca,  per  la  valle  di  Trento,  passò  in 
Ungheria  presso  il  suo  suocero,  il  re  Bela  ».  Sicché  il  conte 
Mainardo  concesse  il  transito  per  i  suoi  stati  alle  soldatesche  ba- 
varesi scese  dalla  valle  dell'  Adige.  Non  sappiamo  quale  via  tenes- 
sero per  attraversare  il  Friuli  ;  certo  è  che  ritornarono  l' anno  se- 
guente coir  aiuto  di  Filippo,  arcivescovo  di  Salisburgo  ;  il  che 
vuol  dire  che  attraversarono  la  Carintia  od  il  Salisburghese  ^ 

Noi  troviamo  invece  il  conte  Mainardo  il  sabato  13  giu- 
gno 1254  a  Pordenone  nell'oratorio  di  S.  Antonio,  dove  ven- 
dette a  Guido  di  Porcia  per  2000  libre  di  piccoli  e  poi  lo  investì 
a  retto  e  legale  feudo  «  de  tota  dominatione  que  pertinet  Por- 
«  tunaoni  ac  predio  scilicet  de  villa  Portunaonis  et  de  Ruralia  »  ; 
col  patto  che  se  Guido  avesse  a  catturare  qualche  ladrone,  per 
corrigiam  lo  dovesse  consegnare  al  conte  ^.  Il  conte  Mainardo 
era  venuto  dunque  in  possesso  della  villa  di  Pordenone  ed  adia- 
cenze, forse  quale  erede  od  in  forza  di  qualche  contratto  coi 
Prata  o  coi  signori  di  Castello. 

Più  tardi,  1' 1 1  settembre  1254,  dinanzi  al  patriarca  Gregorio 
nel  palazzo  patriarcale  di  Udine,  Mainardo  diede  in  feudo  ad 
Ainzo  di  Ragogna,  Villanova,  località  posta  a  mezzodì    di    Por- 

1  M.  G.  H.  :  ScrtptL,  XVII,  p.  395  sg.  Si  ricordi  che  Otto,  duca  di 
Baviera,  era  stato  scelto  nel  1248  a  capitano  dell'Austria  da  Federico  II, 
quando  Mainardo  di  Gorizia  era  stato  designato  capitano  della  Stiria.  M.  G. 
H.:  Scriptt.,  IX,  p.  598  e  p.  790. 

-  Presenti:  Detalmo  di  Caporiacco,  Glizoio  di  Mels,  Federico  di  Pin- 
zano, Vielmo  di  Fontanabona,  Leonardo  di  Versola,  Odorico  di  Reifenberg, 
Rodolfo  di  Udine,  Svarzmano  di  Cormons,  Odorico  di  Portogruaro,  Arpidino 
cerdo  di  Pordenone.  Joppi,  Doc.  goriziani  cit.,  n.  28;  Bianchi,  Doc.  Reg., 
n.  195;  Doc.  mss.,  n.  217.  Nel  Bianchi,  ibid.,  n.  214,  si  ha  un  regesto  Ni- 
coletti  colla  data  13  gennaio;  ma  credo  si  tratti  di  errore,  cioè  di  un  Jan 
invece  di  Jim  :  altri  se  ne  trovano  in  quei  regesti.  Questo  regesto  specifica 
però  meglio  i  Ruralia  cioè:  dominio  e  giurisdizione  nella  curia  di  Corde- 
nons,  villa  di  Zoppola,  villa  di  Pordenone  exlra  terrani,  villa  di  Rorai,  villa 
di  Villotta,  terra  e  mulini  di  Pordenone.  Cfr.  E.  S.  di  Porcia,  /  primi  da 
Praia  e  Porcia,  p.  51.  Guido  di  Porcia  s'era  trovato  con  Ezzelino  a  Verona 
il  28  marzo  1253  (ibid.,  p.  50  e  p.  118  sg.);  egli  quindi  insieme  con  Guecello 
di  Prata  e  con  Mainardo  di  Gorizia  formava  il  gruppo  di  coloro  che,  par- 
teggiando per  Ezzelino,  sostenevano  il  più  forte  e  fortunato  rappresentante 
del  partito  imperiale  in  Italia. 


44  Pi(^  Paschini 


denone  ^  Altro  non  sì  sa  che  Mainardo  facesse  in  questo  mo- 
mento in  Friuli.  Il  26  settembre  1254  era  già  a  Lienz,  dove  donò 
all'  abbazìa  di  Admont  un  prato  a  Stali  presso  Grosskircheim  ^. 
Affari  ben  più  importanti  lo  avevano  chiamato  oltr'  Alpe. 

Morto  l'imperatore  Corrado  IV  il  20  maggio  1254  a  Lavello 
presso  Melfi,  doveva  ben  regolarsi  anche  la  faccenda  dell'  eredità 
del  conte  Alberto  del  Tirolo,  ch'era  rimasta  indivisa  e  della 
quale  non  s'era  ancora  avuta  l'investitura  imperiale.  Finalmente 
il  IO  novembre  1254  a  Merano  Mainardo  di  Gorizia  ed  il  conte 
Gebhard  di  Hirschberg  divisero  fra  loro  i  beni  dì  quell'eredità: 
al  goriziano  toccarono  tutti  i  beni  posti  nel  vescovado  di  Brixen 
sino  a  Peisser  Brùcke  presso  Mittewald  (a  nord  di  Franzenfeste 
in  Tirolo),  nella  Carintìa  e  nel  Friuli.  E  dei  feudi  situati  in  que- 
ste due  ultime  regioni  Mainardo  ed  i  suoi  eredi  ebbero  il  diritto 
di  disporre  a  loro  piacimento  ^.  Da  questo  momento  Mainardo 
portò  i  titoli  dì:  comes  Goritiae  et  Tirolis,  et  Aquileiensìs .  Tri- 
dentinae,  Brixinensis  ecclesiarum  advocatus. 

Terminata  anche  questa  faccenda,  Mainardo  tornò  in  Friuli. 
Noi  lo  troviamo  il  17  aprile  1255  col  patriarca  Gregorio  a  Pre- 
mariacco,  dove  accettò  anche  per  conto  proprio  i  patti  che  questi 
aveva  stretti  colla  repubblica  di  Venezia. 

Il  24  maggio  1255  Mainardo  era  a  Cormons,  dove  per  500 
marche  di  denari  aquileìesi  vendette  e  diede  in  feudo  ad  Otto 
detto  Bergogna  dì  Spilimbergo  l' avvocazia  di  Villacaccìa,  l' ari- 
mannia  di  Gagliano,  i  suoi  possessi  di  S.  Maria  di  Sclaunicco, 
di  Sclaunicco,  di  Pozzuolo  e  dintorni,  tre  mansi  a  Manzano,  ri- 
servandosi il  diritto  di  ricomprare  tutti  questi  beni  verso  il  pa- 
gamento della  stessa  somma  ricevuta  *. 

i  Archivio  di  Stato  di  Vienna,  cod.  447,  f.  29.  Il  castello  di  Pordenone 
ed  altre  adiacenze,  che  non  appartenevano  a  Mainardo,  ebbero  nel  1262  altra 
destinazione. 

-  VoN  Jaksch,  Die  Kàrntner  cit,,  n.  2576. 

3  Ibid.,  n.  2578. 

•1  Archivio  di  Stato  di  Vienna,  Presenti  :  Odolrico  di  Reifenberg,  Odol- 
rico  di  Treffen,  Ainzo  di  Wolporgo,  Olvino  di  Ragogna,  Wicardo  di  Gri- 
signana,  Warzmanno  di  Cormons,  Wariento  di  Cerò,  Ernesto  di  Wisnivich, 
Fulchero  di  Flassberg,  Fulcheruzzo  di  Floiana,  Almerico  di  Osoppo,  Gio- 
vanni Spancio  ed  altri.  Cfr.  con  F.  K.  Carreri,  Spilimbergensia  Documenta 
Regesta,  in  Misceli,  di  Storia  Veneta,  ser.  Ili,  voi.  Ili,  p.  3,  che  lo  dedusse 
da  una  copia  del  sec.  XVIII  dove  invece  di  Villacaccia  ci  sta  s.  Zeno;  certo 
per  errore.  Villacaccia  era  proprietà  dell'abbazia  di  S.  Paolo  di  Lavant.  Sino 
dal  2  giugno  1242  il  conte  Mainardo  aveva  venduti  per  300  libbre  di  piccoli 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  d' Aquileia         45 


Come  s'è  visto  parlando  degli  atti  del  patriarca  Bertoldo,  i 
conti  di  Gorizia  avevano  possessi  e  diritti  in  Istria  che  s'erano 
notevolmente  accresciuti  coli'  eredità  di  Matilde  di  Andechs, 
moglie  di  Engelberto  III.  Nessuna  meraviglia  quindi  che  il 
conte  Mainardo,  figlio  di  Engelberto,  ed  i  suoi  vassalli  cercassero 
di  accrescere  quei  possessi  e  quei  diritti. 

Ne  abbiamo  ricordo  in  un  atto  solenne  avvenuto  il  15  gen- 
naio 1256  a  Pola  nella  chiesa  di  S.  Maria  di  Canneto.  Otto,  ve- 
scovo di  Pedena,  chiese  al  conte  Mainardo,  se  Vodolrico  di 
Reifenberg  ed  Artuico  di  Parenzo  avessero  operato  a  nome  suo 
neir  usurpare  il  diritto  di  avvocazia  sul  castello  di  Orsera;  ed  il 
conte  riconobbe  non  avere  alcun  diritto  in  quel  luogo  e  luoghi 
vicini  ^  Siccome  troviamo  presenti  a  questo  fatto,  oltre  Guglielmo 
vescovo  di  Pola,  anche  Rugerino,  vescovo  eletto  di  Ceneda,  Be- 
rengero,  preposito  di  S.  Odorico,  e  Nicolò  de  Lupico,  dobbiamo 
credere  che  quest'interrogazione  del  vescovo  di  Pedena  sia  stata 
provocata  per  volere  od  ispirazione  del  patriarca  d' Aquileia,  cui 
premeva  impedire  che  il  conte  di  Gorizia  avesse  a  complicare 
colle  sue  pretese  le  abbastanza  difficili  condizioni  dell'Istria. 

Dopo  un  soggiorno  oltr'  Alpe,  che  ci  è  attestato  da  un  do- 
cumento redatto  a  Lienz  il  20  ottobre,  col  quale  confermò  una 
donazione  fatta  in  favore  dell'  abbazia  di  Admont  ^,  noi  troviamo 
il  conte  Mainardo  di  nuovo  a  Pola  il  14  gennaio  1257,  dove 
Pietro  quond.  Facino  di  Capodistria  gli  promise  di  far  sì  che 
Monfiorito  e  Glizoio  fratelli  di  Pola  gli  consegnassero  per  un  anno, 
a  cominciare  da  vS.  Michele  (29  settembre),  la  villa  di  Piagna, 
dietro  il  compenso  di   1444  lire  di  piccoli  veneziani  ^. 

6.  E  questo  l'ultimo  atto  compiuto  dal  conte  Mainardo,  di 
cui  ci  rimanga  memoria.  Egli  morì  durante   il    1258  *,    lasciando 

veronesi  i  suoi  diritti  dì  avvocazia  su  Villacaccia  alla  stessa  abbazia  di 
S.  Paolo  con  diritto  di  recuperarli  sborsando  la  stessa  somma  (Von  Jaksch, 
Die  Kàrntncr  cit.,  n.  2243).  Si  capisce  che  prima  del  1255  era  riuscito  a 
riaverli  ;  bisogno  di  denaro  lo  costrinse  di  nuovo  ad  alienarli. 

^  JoPPi,  Aggiunte  al  Cod.  Diplom.  Istr.,  1878,  p.  38,  n.  XIV. 

-  Von  Jaksch,  Die  Kàrntner  cit.,  n.  2638. 

3  Archivio  di  Stato  di  Vienna.  Presenti  :  Giovanni  di  Cucagna,  Ainzo  di 
Mels,  Ainzo  di  Pisino,  Mainardo  di  Cero,  Cono  di  Momiano,  Ainzo  di 
Procolpurg,  Ratolfo  di  Trieste. 

4  Gli  An?iales  S.  Rudberti  cit.  ci  riferiscono  all'anno  1255:  «  Meinhardus 
«  Comes  Goricie,  filiis  suis  prò  Alberto  quondam  comite  Tyrolense  in  capti- 
«  vitate  constitutis,  obiit  ».  Questa  morte  dovrebbe  assegnarsi  al  28  gen- 
naio   1256,  secondo   l' editore   di   quella   cronaca.  M.  G.  H.  :  Scriptt.,  IX, 


4-6  Pio  Paschini 


eredi  dei  suoi  titoli  e  della  sua  fortuna  i  suoi  due  figli  Mainardo 
ed  Alberto  \  che  continuarono  per  lungo  tempo  ancora,  a  tenere 
indivisa  l'eredità  paterna. 

Egno,  vescovo  di  Trento,  che  sino  dal  28  luglio  1254  aveva 
concesso  a  Mainardo  stesso  l'investitura  dei  feudi  che  il  conte 
del  Tirolo  aveva  dalla  chiesa  di  Trento,  morto  lui,  tentò  di  ri- 
vendicarli alla  sua  chiesa;  ed  infatti  il  23  ottobre  1258  fece  i 
suoi  reclami  contro  l' infeudazione  del  1254,  asserendo  dì  averla 
allora  concessa  unicamente  per  paura  di  Ezzelino  da  Romano, 
nemico  della  chiesa  di  Trento  ^.  Ma  i  due  figli  di  Mainardo,  non 
si  lasciarono  impaurire  da  queste  proteste,  ed  il  vescovo  dovette 
di  nuovo  capitolare.  Infatti  il  19  febbraio  1259  egli  si  trovò 
costretto  a  dare  a  Mainardo  ed  Alberto  di  Gorizia  ed  ai  loro 
eredi  d' ambo  i  sessi,  non  solo  l' investitura  dei  feudi  che  il  conte 
Alberto  del  Tirolo  aveva  ricevuto  dalla  chiesa  di  Trento,  ma 
anche  quella  dei  feudi  che  essi  avevano  ereditato  dai  conti  di 
Ulten  e  di  Eppan  ^. 

Rassodata  in  tal  modo  e  definitivamente  la  situazione  feudale, 
poteva  ormai  Mainardo  V,  come  primogenito,  attendere  a  cercarsi 
una  sposa,  quale  bramavano  le  sue  ambizioni.  Il  6  ottobre  1259 
infatti  egli  sposò  a  Monaco  in  Baviera  Elisabetta,  figlia  di  Ottone  II 
di  Baviera,  vedova,  sin  dal  1254,  del  re  Corrado  IV  *.  Mainardo  di- 
venne così  patrigno  del  giovane  Corradino,  ultimo  germoglio  della 
casa  degli  Hohenstaufen,  ultima  speranza  del  partito  ghibellino. 

p.  793.  Ma  questa  notizia  è  errata,  come  sì  rileva  chiaramente  da  quanto 
abbiamo  già  esposto.  Secondo  una  cronaca  del  monastero  di  Stanis  citata 
da  R.  CoRONiNi,  Tentamen  genealogico- chronologicutn  comituni  et  rerum  Go- 
ritiae,  Vienna,  1753,  Mainardo  morì  il  22  luglio  1258.  Il  monastero  cistcr- 
ciense di  Stams,  nella  valle  dell'  Inn,  era  una  fondazione  dei  Goriziani  conti 
del  Tirolo,  quindi  la  notizia  è  attendibilissima. 

1  II  nome  di  Engelberto,  che  era  un  nome  famigliare  nella  schiatta  go- 
riziana, fu  abbandonato  e  sostituito  con  quello  di  Alberto,  certo  in  grazia 
della  parentela  col  conte  del  Tirolo,  la  quale  risaliva  ancora  a  Mainardo  III. 

•  Cfr.  Fontes  RR.  Austr.,  II,  tomo  V  (Cod.    Wangianus),  p.  387  n. 

3  Fontes  RR.  Austr.,  II,  tomo  V,  p.  387  n.  ;  Bòhmer,  Reg.  Imp.,  V, 
n.  15091. 

*  VoN  Jaksch,  Die  Kàmtner  cit.,  n.  2711.  Come  morgengabe  il  conte 
Mainardo  diede  alla  moglie  i  castelli  di  S.  Michelsburg  e  di  Rasen  (il  giorno 
9  ottobre  a  Monaco).  Fontes  RR.  Austr.,  Diplom.,  I,  p.  48.  In  questa  cir- 
costanza del  suo  matrimonio  egli  si  fece  pure  armare  cavaliere  per  volere 
della  sposa;  che  intese  in  tal  modo  riparare  alla  distanza,  nella  scala  feudale, 
che  v'era  fra  lei,  regina,  e  lui  semplice  conte.  Jo.  Victorien.,  edit.  Schnei- 
DER,  1909,  p.  194. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  d!  Aquileia         47 


Questo  matrimonio  è  un  indice  della  grandezza  e  dell'im- 
portanza che  aveva  saputo  acquistarsi  la  casa  dei  conti  di  Go- 
rizia nella  Germania  sud -orientale.  La  caduta  di  Ezzelino  da 
Romano,  che  tanti  interessi  aveva  anche  nel  Tirolo  meridionale 
e  nel  Trentino,  e  di  suo  fratello  Alberico,  avvenuta  negli  ultimi 
mesi  di  quest'anno  1259  non  potè  compromettere  le  sue  sorti, 
ed  essa  potè  con  rinnovata  energia  far  valere  le  sue  pretese  ed 
i  suoi  diritti  anche  negli  affari  interni  del  patriarcato. 


ni. 

I.  Gregorio  di  Montelongo  eletto  patriarca  di  Aquileia.  —  2.  Modifica- 
zioni nel  capitolo  patriarcale.  —  3.  Lamentele  del  capitolo  di  Cividale.  — 
4,  Il  Montelongo,  Corrado  IV  e  l' impero  germanico. 

I.  Quale  fosse  il  motivo  per  cui  il  capitolo  patriarcale  di 
Aquileia  non  potè  procedere  alla  nomina  del  patriarca,  non  ci 
è  dato  di  sapere.  Possiamo  supporre  che  in  seguito  alla  politica 
tenuta  negli  ultimi  suoi  anni  dal  patriarca  Bertoldo  due  correnti 
si  siano  create  in  tutto  il  Friuli:  l'una  più  feudale  e  più  tedesca, 
condotta  dal  conte  di  Gorizia,  l' altra  più  comunale  ed  italica  che 
raccoglieva  con  sé  buona  parte  dei  ministeriali.  In  queste  circo- 
stanze una  nomina  regolare  era  difficilissima.  Certo  è  ad  ogni 
modo,  che  Gregorio  di  Montelongo  fu  eletto  patriarca  di  Aqui- 
leia da  papa  Innocenzo  IV  ^  il  24  ottobre   1251  ^: 

L'ingresso  in  Friuli  del  nuovo  patriarca  fu  però  ritardato 
per  più  di  due  mesi  e  mezzo.  Il  Montelongo  fece  il  suo  ingresso 
solenne  in  Aquileia  il   13    gennaio    1252  ^,    ma   non    ricevette   la 

i  II  Chron.  Patriarch.  Aquil.  dice  apertamente  :  «  factus  fuit  Patriarcha 
«  per  papam  Innocentium  quartum  »  ;  De  Rubeis,  M.  E.  A.,  Append.,  p.  12  ; 
così  pure  gli  Annales  S.  Rudperti  Salisburg.,  in  M.  G.  H.\  Scriptt.,  IX,  972. 
Il  Lib.  Regimin.  Padue  (anno  1252):  «  Gregorius  de  Montelongo  ordinatus 
«  patriarcha  Aquilegiensis  ».  R.  I.  S.~,  tomo  Vili,  parte  I,  p.  321. 

2  Questa  data  la  si  desume  dalla  cronaca  di  Giuliano  che  dà  a  Gregorio 
un  patriarcato  di  17  anni,  io  mesi  e  i6  giorni,  e  concorda  a  meraviglia  con 
tutti  i  dati  storici.  Per  abbaglio  I'Ughelli,  Batia  Sacra-,  V,  col.  92  pone 
la  nomina  del  Montelongo  al  21  novembre. 

3  La  data  precisa  ci  fu  conservata  dal  cronista  Giuliano.  R.  I.  S.^y 
tomo  XXIV,  parte  XIV,  p.  3.  Il  Lib.  Regitn.  Padue,  loc.  cit.  ;  il  Chronic. 
Estense,  ibid.,  tomo  XV,  parte  III,  p.  22  e  gli  Annales  S.  Justinae,  in  M^ 
G.  H.  :  Scriptt.,  XIX,  p.  162,  dicono  genericamente  che  il  patriarca  fece  il 
suo  ingresso  nel  gennaio  1252. 


48  Pio  Paschini 


consecrazione  episcopale  che  più  tardi,  nell'agosto  1256,  come 
vedremo  a  suo  luogo. 

Sino  dal  13  novembre  1251  papa  Innocenzo  IV  indirizzò  al 
Montelongo,  patriarca  eletto  di  Aquileia,  due  lettere  colle  quali 
liberava  il  monastero  di  S.  Abbondio  a  Como  da  ogni  esazione 
ed  incaricava  lo  stesso  Montelongo  di  provvedere  alle  esauste 
finanze  di  quello  \  Questo  ci  dimostra  che  la  legazione  di  Gre- 
gorio in  Lombardia  non  era  ancora  terminata. 

2.  Prima  ancora  di  entrare  nel  patriarcato  il  Montelongo 
ebbe  ad  occuparsi  del  capitolo  aquileiese.  Questo  aveva  riferito 
al  papa,  «  che  la  prepositura  della  sua  chiesa,  per  l' incuria  di 
certi  prepositi  i  quali  l' avevano  tenuta  temporaneamente,  era  di- 
ventata inutile  e  dannosa  per  la  chiesa  stessa  »,  ed  avevano 
chiesto  che  fosse  trasformata  in  cantorato  ;  il  papa  con  lettera 
del  29  novembre  1251  commise  al  nuovo  patriarca  eletto  di  dare 
esecuzione  con  autorità  apostolica  al  mutamento  domandato,  qua- 
lora lo  avesse  ritenuto  opportuno  ^. 

Infatti  dopo  la  riforma  introdotta  nel  capitolo  dal  patriarca 
Vodolrico  II  nel  1181  e  dopo  sopite  le  ultime  pretese  accam- 
pate dai  prepositi  Gabriele  e  Poppo,  la  prepositura  aveva  per- 
duta ogni  importanza.  Altre  riforme  erano   state   poi   introdotte. 

11  patriarca  Bertoldo  vi  aveva  introdotto  la  recita  dell'ufficio  della 
Madonna,  affidandolo  a  sei  cappellani  che  provvide  di  rendite 
speciali  (anno  1224)^.  Da  Lione  il  20  dicembre  1244  papa  Inno- 
cenzo IV  colla  sua  autorità  apostolica  aveva  approvato  uno  sta- 
tuto emanato  dal  decano  e  dal  capitolo,  col  quale  si  erano  istituiti 
dodici  mansionari,  cioè  quattro  preti,  quattro  diaconi,  quattro 
suddiaconi,  per  il  servizio  divino  e  si  erano  assegnati  per  il  loro 
mantenimento   ì   redditi    di   sei    prebende   canonicali  *  ;  di   modo 

1  BóHMER,  R.  /.,  n.  8425;  Registr.  Innocent.  IV,  n.'  5511-12.  Per  er- 
rore il  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  187;  Doc.  mss.,  n.  210,  rimanda  questi  do- 
cumenti al  1252. 

2  BòHMER,  R.  /.,  n.  8429;  Registr.  Innocent.  IV,  n.  5509.  Il  Bianchi, 
Doc.  Reg.,  n.  188,  assegnò  questa  lettera  al  1252,  ma  nei  Doc.  mss.  corresse 
l'errore.  Risulta  dalla  lettera  che  il  reddito  della  prepositura  non  superava  le 

12  marche,  però  numerosi  erano  i  feudi  che  da  essa  dipendevano  e  che  furono 
assegnati  al  capitolo.  Già  Onorio  III  aveva  detto  della  prepositura  che  «  circa 
«  temporalia  tantum  consistit  ».  Reg.  Honor.  Ili,  tomo  II,  p.  287,  n.  5207. 

3  Istituzione  confermata  poi  da  Gregorio  IX  il  9  giugno  1230.  G.  Cap- 
pelletti, Le  Chiese  d'Italia,  Venezia,  1851,  tomo  Vili,  p,  293. 

^  Registr.  Innocent.  IV,  n.  783.  Cfr.  De  Rubeis,  Diss.  variae  eruditionis 
mss.,  p.  250. 


Gregorio  di  Mo7itelongo  patriarca  d  Aquileia         49 

che  ogni  mansionario  percepiva  la  metà  di  quanto  percepiva  ogni 
canonico. 

Né  le  riforme  s' erano  limitate  a  questo.  Soppressa  la  pre- 
positura, il  decano  era  rimasto  il  vero  capo  del  capitolo,  ma  le 
sue  rendite,  fissate  nella  costituzione  di  Vodolrico  II,  parvero  in- 
sufficienti a  coloro  eh'  erano  rivestiti  dell'  alta  carica. 

Il  5  dicembre  1251  da  Perugia,  papa  Innocenzo  IV  scriveva 
a  Gregorio,  patriarca  eletto,  per  informarlo  come  il  vescovo  di 
Camerino  gli  avesse  riferito,  che  sin  da  quand'  egli  era  decano 
d' Aquileia,  i  redditi  di  quel  beneficio  appena  superavano  sei  mar- 
che d' argento  e  perciò  aveva  chiesto  che  fossero  aggiunte  al  be- 
neficio le  distribuzioni  quotidiane  che  toccavano  ad  un  canonico  ; 
ed  il  papa  (il  5  novembre  1246  ^)  le  aveva  concesse,  purché  il 
decano  osservasse  la  residenza.  Ma  ora  il  capitolo,  per  non  di- 
minuire le  distribuzioni  stesse  già  esigue,  aveva  chiesto  che  si 
unisse  invece  al  decanato  una  delle  quaranta  prebende  che  com- 
ponevano il  capitolo  ;  il  papa  perciò  delegò  il  patriarca  eletto  a 
fare  la  chiesta  unione,  qualora  la  credesse  utile  ^.  Ed  è  ben  pro- 
babile che  la  volontà  del  papa  avesse  la  sua  esecuzione. 

Poco  dopo  anche  i  canonici,  visto  che  col  lamentarsi  si  ot- 
teneva qualcosa,  si  mostrarono  malcontenti  della  tenuità  delle 
loro  prebende.  Infatti  una  lettera  di  Alessandro  IV  del  3  marzo 
1255  al  patriarca  eletto  ci  fa  sapere,  che  i  canonici  d' Aquileia  si 
lamentavano  di  non  poter  vivere  decorosamente  con  tre  marche 
e  colle  distribuzioni  quotidiane,  che  costituivano  tutti  i  loro  red- 
diti ;  perciò  il  papa  comandò  che,  coli'  assenso  del  capitolo  stesso, 
man  mano  che  le  prebende  rimanevano  vacanti,  si  riducesse  il 
numero  dei  canonici  ^.  Ed  infatti  il  6  marzo   1260  il  patriarca  sta- 

*  Bolla  in  Archivio  Capit.  di  Udine. 

~  Registr.  Innocent.  IV,  n.  2210.  Questi  è  il  decano  Guglielmo,  diven- 
tato vescovo  di  Concordia  il  5  gennaio  1251  e  poi  vescovo  di  Camerino. 
Poi  il  25  maggio  1254  a  Cividale  Vernerio  di  Cuccagna,  Volrico  Cadorino 
e  Corrado  di  Brazzacco,  incaricati  di  risolvere  alcuni  dubbi  su  una  sentenza 
arbitrale  da  loro  pronunciata  fra  Asquino  decano  di  Aquileia  ed  il  suo  ca- 
pitolo il  giorno  14  maggio,  stabilirono  che  il  vicedecano  dovesse  essere  sa- 
lariato coi  beni  del  decanato,  se  il  decano  dimorava  più  di  due  mesi  fuori  di 
Aquileia  senza  che  avesse  commissione  di  trattare  gli  affari  del  capitolo.  Quando 
il  decano  era  assente  per  trattare  gli  affari  capitolari  doveva  ricevere  doppia 
prebenda.  Il  decano  doveva  ricevere  quanto  i  canonici  negli  anniversari,  ben- 
ché nel  resto  avesse  il  doppio.  La  sentenza  eh'  era  stata  pronunciata  dai  tre 
arbitri  non  ci  fu  conservata.  Cappelletti,  op.  cit.,  p.  309. 

3  Ughelli,  Italia  Sacra^,  V,  p.  93. 


50  Pio  Paschini 


bili  che  le  prebende  canonicali  fossero  per  l' avvenire  ventiquattro  ; 
ed  Asquino  decano  ed  i  suoi  canonici  promisero  di  non  violare 
questa  decisione  ^ 

Il  patriarca  Gregorio  avrebbe  esteso  più  oltre  ancora  la  sua 
influenza  riformatrice  sul  capitolo  d'Aquileia.  A  lui  infatti  si  at- 
tribuisce un  primo  abbozzo  di  statuto  capitolare,  il  quale  poi  si 
sarebbe  accresciuto  col  volgere  degli  anni,  finché  fu  redatto  in 
iscritto  in  forma  pubblica  nel  1492.  Ma  dal  testo  degli  statuti 
stessi  nulla  risulta  che  attesti  un  intervento  diretto  del  Monte- 
longo  in  questo  campo.  Al  tempo  suo,  oltre  i  documenti  ora  ri- 
cordati appartiene  solo  forse  un  decreto,  senza  data,  di  A[squino] 
decano  e  vicedecano  e  del  capitolo^,  col  quale  «  si  divisero  propor- 
zionalmente certe  possessioni  que  ohedientie  nuncupantur  »,  per- 
ché l'industria  dei  singoli  avrebbe  provveduto  all'amministra- 
zione di  quei  beni  meglio  che  la  comunità  ;  e  si  obbligò  ciascun 
canonico  a  giurare  di  conservare  i  diritti  del  capitolo,  della  pre- 
benda propria  e  degli  altri,  «  senza  gravare  i  massari  ed  i  co- 
loni del  capitolo,  che  si  amministravano  in  comune  od  in  diviso, 
con  ospizi,  angherie,  e  servizi  per  sé  o  per  loro  inviati.  Nessuno 
venda,  infeudi,  doni  od  alieni  in  qualunque  modo  una  parte,  par- 
ticella, o  l'intera  possessione  della  prebenda  che  gli  appartiene 
senza  il  consenso  del  capitolo.  E  nemmeno  potrà  dare  in  pegno 
o  vendere  i  proventi  di  quella  a  qualche  potente  milite  o  ad  un 
servo  non  suo  ;  né  per  alcuna  ragione  potrà  affittare  mai  i  pos- 
sessi della  prebenda  in  parte  od  in  tutto  a  qualche  milite  potente, 
o  qualche  hurgense  potente  o  servo.  Giurerà  pure  di  non  dete- 
riorare la  sua  prebenda,  ma  di  conservarla  e  di  migliorarla  ecc.  ». 
Il  decreto  termina  col  regolare  l' opzione  e  la  permuta  delle  pre- 
bende e  coir  imporre  pene  ai  trasgressori. 

Queste  regole  e  questi  mutamenti  dimostrano  all'  evidenza 
che  la  vita  comune,  introdotta  nel  capitolo  d'Aquileia  nel  1181, 
andò  man  mano  sfasciandosi  sino  a  ritornare  alla  divisione  delle 
prebende  ed  all'amministrazione  separata  di  ciascuna  di  esse.  Il 
cumularsi  di  più  benefici  su  di  una  stessa  persona,  malanno  che 
andò  crescendo  sempre  più  a  cominciare  dalla  seconda  metà  del 
secolo  XIII,  rese  necessaria  una  tale  modificazione  ;  i  canonici  in- 

i  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  259;  Doc.  mss.,  n.  282;  Cappelletti,  op. 
cit.,  p.  310. 

2  Cappelletti,  op.  cit,,  p.  312  sg.,  dove  il  decreto  è  distinto  in  tre 
paragrafi,  e  tien  dietro  agli  altri  sopra  ricordati.  Lo  statuto  occupa  poi  le 
pp.  313-372  e  termina  colle  bolle  che  lo  confermarono  a  p.  377. 


Gregorio  di  Mo7itelo7igo  patriarca  cC  Aquileia         5  i 


fatti,  ed  i  decani  specialmente,  non  risiedendo  più  presso  la  loro 
chiesa,  volevano  avere  in  denaro  le  loro  rendite  per  potersele 
spendere  a  piacere,  altrimenti  sarebbe  stato  loro  inutile  avere  il 
beneficio  ;  crebbe  per  conseguenza  la  trascuranza  del  culto  divino 
ed  il  numero  di  quei  canonici,  che  liberati  o  sottrattisi  all'ob- 
bligo dell'  ufficiatura  tenevano  vita  secolaresca  od  attendevano  ad 
altre  incombenze,  talvolta  ben  poco  convenienti  al  loro  grado. 

3.  In  analoghe  condizioni  dovette  pure  ritrovarsi  il  capitolo 
di  Cividale.  Troviamo  spesso  persone  che  avevano  contempora- 
neamente prebenda  là  ed  in  Aquileia,  talora  anche  un  vescovado 
nell'Istria.  Ma  non  possiamo  dilungarci  in  queste  particolarità. 
Merita  piuttosto  che  ci  fermiamo  su  di  un'  altra  carta,  che  ci  di- 
mostra le  violenze  che  si  commettevano  contro   gli    ecclesiastici. 

Verso  il  1252,  probabilmente  durante  i  primi  mesi  del  suo 
governo,  il  capitolo  di  Cividale  indirizzò  al  nuovo  patriarca  un 
memoriale  per  chiedere  giustizia  contro  le  usurpazioni  di  cui  era 
oggetto.  Rizzardo,  ch'era  stato  privato  della  pieve  di  Fagagna, 
continuava  a  molestare  il  capitolo  nel  possesso  di  quella  chiesa. 
Un  certo  Otto,  che  aveva  alcune  terre  a  censo,  non  pagava  i 
censi,  e  benché  una  clausola  del  contratto  lo  privasse  per  ciò 
stesso  del  possesso  di  quei  beni,  egli  continuava  sempre  a  te- 
nerli. Bregogna  [di  Spilimbergo],  ministeriale  d' Aquileia,  colla 
violenza  aveva  usurpato  un  manso  a  Camino,  lasciato  al  capìtolo 
da  una  certa  Cesara  colla  clausola  che  i  redditi  si  dessero  in 
elemosina  il  dì  del  suo  anniversario.  Non  venivano  quasi  af- 
fatto pagati  i  legati  in  denaro  lasciati  per  testamento  al  capi- 
tolo. Enrico  di  Strassoldo  teneva  colla  violenza  un  mulino,  che 
doveva  fruttare  ogni  anno  più  di  venti  misure.  Un  certo  Mizolo, 
milite  del  conte  [di  Gorizia],  pretendeva  esercitare  l' avvocazìa  su 
certi  possessi,  mentre  il  solo  patriarca  era  il  verus  advocaius  del 
capitolo  ^  Spanello,  servitore  del  conte,  aveva  preso  le  armento 


^  Le  prepotenze  di  costui  sono  esposte  a  parte  :  egli  esercitava  l' av- 
vocazìa sulla  villa  de  Biarcio,  dove  aveva  il  solo  diritto  di  decima;  aveva 
dato  in  affitto  un  manso  nella  villa  di  Candallis,  che  apparteneva  alla  custo- 
dia e  per  questo  quella  villa  perdeva  i  pascoli  e  gli  altri  suoi  diritti  ;  aveva 
tagliato  un  piede  ad  un  contadino  di  quel  luogo  e  non  aveva  dato  risarci- 
mento ;  imponeva  oneri  ai  contadini  di  Biarcio  ed  aveva  costituito  colà  ga- 
staldo  un  certo  Enrico  di  Antro,  servo  del  patriarcato,  il  quale  più  volte 
all'anno  si  faceva  dare  agnelli,  galline  e  tutto  ciò  che  gli  piaceva  ;  aveva 
tagliato  un  bosco  a  Pradielis  ;  aveva  resi  soggetti  a  sé  i  contadini  di  Ga- 
gliano, à  danno  della  collegiata. 


52  Pio  Pas chini 


del  capitolo  e  fatte  prepotenze  in  alcuni  possessi;  un  altro  servi- 
tore del  conte  a  Bertiolo  aveva  fatte  altre  prepotenze  ed  il  capi- 
tolo non  aveva  potuto  ottenere  soddisfazione  dal  conte  in  alcun 
modo. 

Essendo  la  carta  male  conservata,  non  possiamo  bene  com- 
prendere la  natura  di  altre  proteste  ;  si  arguisce  però  che  il  ca- 
pitolo chiedeva  di  essere  liberato  dal  peso  delle  provvisioni  mo- 
leste, che  fossero  redintegrati  certi  diritti  della  prepositura,  che 
fosse  punito  Enrico  di  Zegliacco,  che  abitava  un  castello  patriar- 
cale, che  fosse  resa  giustizia  di  una  rapina  subita  a  Cornozano. 
Cono  di  Moruzzo  aveva  tolto  al  massaro  del  capitolo  in  Orsaria 
tutti  gli  animali  che  aveva,  e  Radio  di  Gagliano  aveva  usurpato 
un  censo. 

Finalmente  il  capitolo  chiedeva,  che  il  patriarca  comandasse 
al  podestà  ed  al  gastaldo  di  Cividale  che  facessero  eseguire  le 
pene  temporali  che  il  capitolo,  in  forza  della  sua  podestà  arcidia- 
conale,  lanciava  contro  gli  usurai,  gli  adulteri  e  gli  altri  colpe- 
voli, delle  quali  condanne  essi  invece  s' infischiavano. 

In  un  altro  elenco,  annesso  a  questo  ma  forse  alcun  poco 
posteriore,  perché  vi  si  parla  di  ripetute  lagnanze  presentate  al 
patriarca,  troviamo  memoria  di  altre  usurpazioni  compiute  nei 
dintorni  immediati  di  Cividale.  Pabilino  aveva  tolto  al  capitolo 
un  manso  rilasciato  da  suo  fratello  Dietmaro  ;  —  Enrico  di  Vil- 
lalta  occupava  una  terra  a  Zuccola  presso  la  chiesa  di  S.  Mauro  ; 
ed  Ermanno  di  Portis  un'altra  terra  in  quello  stesso  luogo  — , 
Bunino  di  Togliano  con  suo  figlio  Giovanni  aveva  usurpato  mezzo 
manso  a  Togliano  ed  altre  terre  e  prati  ;  —  donna  Cosa  occupava 
una  casa  a  Cividale,  e  perciò  il  capitolo  aveva  perduto  un  censo. 

Il  capitolo  si  lamentò  pure  che  il  suo  decano  intendesse 
alienare  un  manso  a  Botenicco,  che  gli  era  stato  dato  dal 
capitolo  stesso  quale  feudo  personale  per  concederlo  ad  un  suo  ni- 
pote, e  che  inoltre,  sebbene  ammonito  dal  vicedomino  patriarcale 
e  dal  capitolo,  non  aveva  ancora  voluto  riconoscersi  obbligato 
verso  la  chiesa  per  alcuni  libri,  privilegi  e  possessi  che  gli  erano 
stati  dati  ad  personam  ;  —  e  si  lamentò  pure  contro  il  patriarca 
perché  aveva  occupate  le  prebende  «  que  in  coquina  dantur  de 
«  pasca  usque  ad  aliud  pasca  »  ^ 

Non  sappiamo  come  e  quando  il  patriarca  rendesse  giustizia  ; 
ma  se,  come  è  assai  verisimile,  non  il  solo  capitolo  di    Cividale 

*  R.  Museo  di  Cividale,  Archivio  Capitolare,  voi.  IV,  98. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  cC  Aquileia         53 


si  trovava  in  tali  critiche  circostanze,  possiamo  valutare  quale 
difficile  compito  gravava  sul  Montelongo  ;  ma  egli  seppe  assol- 
verlo da  uomo  valente  quale  egli  era. 

4.  Le  guerre  che  avevano  sconvolto  il  patriarcato  negli  ul- 
timi anni  avevano  dato  libero  campo  a  tutte  le  cupidigie  ed  a 
tutte  le  prepotenze;  le  necessità  in  cui  s'era  trovato  il  patriarca 
avevano  fatto  sì  ch'egli  non  le  potesse  punire,  specialmente  in 
coloro  dei  quali  più  aveva  bisogno  ;  i  mutamenti  prodotti  dal- 
l'evolversi  delle  forme  politiche  e  sociali  avevano  creati  dissensi 
colle  antiche  costumanze  —  a  tutto  bisognava  provvedere.  E  non 
v'  era  più  un'  autorità  imperiale  che  colle  sue  leggi,  colle  sue  de- 
cisioni, colle  sue  condanne  rincalzasse,  come  per  il  passato,  il 
potere  del  patriarca.  Questi  doveva  fare  da  sé  e  reggersi  colle 
sue  forze  di  fronte  ai  nuovi  interessi  che  i  signori  confinanti  ten- 
tavano creare  a  loro  vantaggio. 

È  evidente  che  il  Montelongo  avrebbe  continuato  in  quella 
politica  guelfa,  ch'egli  aveva  fatto  trionfare  in  Lombardia.  Una 
nuova  difficoltà  che  avrebbe  potuto  diventare  molto  grave  sorse 
prima  ancora  eh'  egli  ponesse  piede  nel  patriarcato. 

Neil' ottobre  -  novembre  1251  Corrado  IV,  re  di  Germania, 
figlio  di  Federico  II,  partì  dalla  Germania,  per  venire  a  pren- 
dere possesso  del  regno  di  Sicilia.  A  Verona  fu  accolto  con 
grande  festa  da  Ezzelino  da  Romano,  capo  del  partito  imperiale 
nella  Marca  ;  venne  a  Vicenza,  a  Pordenone  e  di  là  a  Latisana  *, 
dove  nel  dicembre  s'imbarcò  per  recarsi  in  Puglia.  I  documenti 
non  lo  dicono  espressamente,  ma  si  può  agevolmente  supporre, 
che  fosse  il  conte  di  Gorizia,  fedele  aderente  di  casa  Hohenstaufen, 
a  proporre  l'imbarco  in  quel  luogo,  che  era  sotto  la  sua  imme- 
diata giurisdizione,  e  dove  avevano  potuto  approdare  le  navi  del 
regno.  I  venti  contrari,  com'  io  suppongo,  impedirono  poi  al 
giovane  principe  la  navigazione  diretta.  Il  14  dicembre  mentre  era 
a  Pirano,  egli  ingiunse  al  podestà  ed  ai  nobili  di  Capodistria  di  non 
fare  atto  di  obbedienza  e  fedeltà  a  Gregorio,  patriarca  eletto, 
perché  l' Istria  era  stata  data  in  feudo  dal  padre  suo  al  patriarca 
Bertoldo,  e  dopo  la  morte  di  lui  era  ritornata  all'impero,  e  pro- 
mise di  aiutarli  e  difenderli  contro  chiunque  li  avesse  a  molestare. 


1  Jo.  ViCTORiENsis,  ed.  ScHNEiDER,  1909,  pp.  131  e  194;  LibcT  Re- 
gim.  Paduc,  in  R.  I.  S.-,  tomo  Vili,  parte  I,  p.  320.  Non  è  arrischiato  supporre 
che  il  viaggio  di  Corrado  ritardò  l'ingresso  del  Montelongo  in  Friuli,  ed  è 
degno  di  nota  che  appena  partito  Corrado  egli  si  affrettò  a  recarsi   in  sede. 


54  Pio  Paschini 


Inoltre  con  un  altro  documento,  ad  istanza  di  Andrea  Zeno 
podestà  e  della  comunità,  egli  concesse  per  grazia  speciale  a  Ca- 
podistria  di  potersi  eleggere  a  piacimento  un  podestà  fra  i  fe- 
deli dell'  impero  e  sopratutto  di  godere  completa  libertà  *.  Ana- 
loghi favori  concesse  Corrado  alla  città  di  Parenzo  da  Pola  dove 
si  fermò,  cioè  :  la  libera  scelta  del  podestà,  tutte  le  regalie  della 
città  stessa,  ai  notai  imperiali  il  libero  esercizio  del  loro  ufficio, 
r  esenzione  dal  pedaggio  o  muta  per  tutto  ciò  che  si  vendesse 
in  città  e  fosse  importato  per  via  di  terra,  libero  permesso  ai 
mercanti  parentini  di  negoziare  nel  regno  di  Sicilia  ^. 

Dopo  una  breve  fermata  a  Spalato,  l'S  gennaio  1252  Cor- 
rado IV  sbarcava  nel  regno  a  Siponto. 

E  evidente  che  la  concessione  dei  tre  ricordati  diplomi  fu 
fatta  in  odio  al  patriarca  eletto,  ch'era  stato  il  più  attivo  e  va- 
lente nemico  di  Federico  II  nell'  Italia  settentrionale.  La  sua  ele- 
vazione a  patriarca,  e  quindi  la  sua  signoria  su  un  territorio  di 
confine  così  importante  per  le  relazioni  fra  l'Italia  e  la  Germania, 
non  era  certo  tale  che  potesse  piacere  al  partito  ghibellino.  Che 
Corrado  non  compisse  allora  che  una  vendetta,  risulta  dal  fatto 
che  le  franchigie,  ch'egli  concedeva  alle  città  istriane,  se  inde- 
bolivano il  potere  del  patriarca,  non  accrescevano  il  potere  del- 
l' impero. 

D' altra  parte  l' opera  di  Corrado  IV  non  era  certo  tale  che 
potesse  spaventare  il  Montelongo.  Egli  continuò  tenacemente  nella 
sua  aperta  inimicizia  contro  gli  Hohenstaufen  ed  i  loro  partigiani, 
finché  non  rimasero  sterminati.  Per  lui  il  vero  imperatore  era 
Guglielmo  d' Olanda,  che  era  stato  eletto  contro  Federico  II  ;  ma 
costui  non  aveva  né  i  mezzi  né  la  forza  di  far  sentire  la  sua 
autorità. 

Quando  il  26  gennaio  1256  morì  anche  Guglielmo,  l'impero 
di  Germania  piombò  nella  confusione.  Un  anno  dopo,  il  13  gen- 
naio 1257,  fu  eletto  Riccardo  di  Cornovaglia,  che  fu  riconosciuto 
anche  dall'inviato  di  Ottocaro,  re  di  Boemia.  Ma  il  1°  aprile  Ar- 
noldo, arcivescovo  di  Treviri,  fece  proclamare  imperatore  Alfonso 
di  Castiglia,  ed  Ottocaro  si  buttò  dalla  parte  di  lui,  per  ritornare 
il  9  agosto  fra  i  fedeli  a  Riccardo  ^.  Fu  forse  per  suggerimento 
di  Ottocaro  che  questi   si   pose   in   relazione   col   patriarca  Gre- 


*■  BòHMER,  R.  /.,  n.'  4566b,  4568. 

2  BòHMER,  R.  /.,  n.  4569. 

3  Ch.  J.  Hkfele,  Histoire  des  Conciles,  Paris,  1914,  voi.  VI,  p.  25. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  cT  Aquileia         55 


gorio.  Questi  a  sua  volta,  verso  il  1258,  con  un'enfatica  lettera 
ringraziò  Riccardo  delle  lodi  e  degli  auguri  da  lui  ricevuti,  pro- 
mise di  fare  in  modo  che  tutto  in  Italia  riuscisse  a  sua  maggiore 
gloria  e  grandezza,  e  riferì  di  avere  già  mandati  nunzi  al  papa, 
perché  il  papa  stesso  si  movesse  a  chiamarlo  in  Italia,  Anche  la 
lettera  di  Gregorio  al  papa  ci  fu  conservata  :  egli  mostrava,  come 
mancando  il  capo  dell'impero  tutto  in  Italia  andasse  in  rovina 
per  le  guerre  e  le  discordie,  e  come  la  stessa  autorità  papale 
fosse  conculcata;  giacché  era  stato  eletto  re  Riccardo,  pregava 
il  papa  a  chiamarlo  in  Italia  ed  a  coronarlo  imperatore  \ 

Ma  non  pare  che  in  realtà  il  patriarca  desse  troppa  impor- 
tanza a  questo  ricco  inglese,  che  pretendeva  di  aver  le  forze  per 
guidare  il  rovinoso  e  discorde  impero  germanico.  La  sua  accor- 
tezza politica  deve  avergli  ben  fatto  capire,  che  dopo  i  rovesci 
subiti,  l'impero  non  aveva  più  né  autorità,  né  mezzi  per  diri- 
gere le  sorti  dell'  Italia  e  non  si  preoccupò  affatto  di  lui.  Le  sue 
lettere  del  1258  colla  loro  retorica  esuberante  sembrano  scritte 
senz' alcuna  fiducia  di  riuscita,  e  soltanto  per  salvare  le  appa- 
renze di  suddito  feudale,  quale  egli  era,  dell'impero. 


IV. 

I.  Interessi  del  patriarcato  nell'Istria.  —  2.  Capodistria  e  Pirano.  — 
3,  Parenzo  e  Montona,  Valle  e  Rovigno.  —  4.  Cittanova,  Isola,  Miiggia, 
Buie,  S.  Lorenzo.  —  5.  Pola. 

I.  Oggetto  di  speciali  premure  del  Montelongo  durante  tutto 
il  suo  governo  furono  gli  affari  dell'  Istria.  E  si  comprende.  Era 
di  là  che  venivano  redditi  cospicui;  era  là  una  base  di  approv- 
vigionamento per  il  Friuli.  Anche  Gregorio,  come  il  suo  ante- 
cessore, portò  costantemente  il  titolo  di  ?narchese  d' Istria  in 
tutti  gli  atti  che  riguardavano  il  governo  e  l'amministrazione  di 
quel  paese.  Egli  nominava  i  gastaldi  che  nei  diversi  luoghi  tu- 
telavano i  diritti  patriarcali  ;  egli  confermava  i  podestà  che  le 
singole  comunità  si  sceglievano  ;  od  anche  nominava  e  confer- 
mava a  suo  piacimento,  tra  i  due  o  tre  che  le  comunità  stesse 
gli  presentavano,  quello  che  stimava  più  idoneo  ^. 

1  E.  WiNKELMANN,  Ada  imperii  inedita  saec.  XIII,  Innsbruck,  1880, 
p.  586  sg. 

'  Cfr.  Lenel,   Venetian.-Istr.  Studien,  Strassburg,  1911,  p.  149. 


56  Pio  Paschini 


È  evidente  però  che  la  distanza  dei  luoghi,  la  cresciuta  im- 
portanza dei  negozi  e  la  necessità  di  sorvegliare  da  vicino  la 
costante  infiltrazione  veneziana,  richiedevano  la  presenza  sul 
luogo  di  un  incaricato  che  tutelasse  i  diritti  del  patriarca. 

Infatti  durante  il  suo  pontificato  Gregorio  tenne  in  Istria, 
come  suo  rappresentante  un  rictarius  o  ritharius;  che  probabil- 
mente sostituì  il  generalis  gastaldio  del  patriarcato  precedente. 
Il  Lenel  argomenta  che  essendo  il  titolo  di  richtarius  una  pa- 
rola tedesca,  è  poco  probabile  sia  stato  introdotto  la  prima  volta 
da  un  patriarca  italiano  ;  e  quindi  suppone  che  fosse  già  in  uso 
sotto  il  tedesco  patriarca  Bertoldo,  quantunque  i  documenti  non 
ce  ne  parlino.  Ma  la  ragione  non  tiene,  perché  poteva  benis- 
simo anche  Gregorio  usare  un  tìtolo  che,  per  quanto  tedesco, 
poteva  essere  ben  compreso  nel  paese.  Solo  di  tre  ritari  co- 
nosciamo i  nomi  ;  forse  furono  gli  unici  :  Landò  di  Montelongo 
suo  nipote,  Senisio  de  Bernardis  milite  di  Padova  ^  e  Siurido 
di  Toppo  ministeriale  della  chiesa  aquileiese  ^. 

Se  poi  ci  volgiamo  alle  singole  città  istriane,  possiamo  os- 
servare, che  durante  il  pontificato  del  Montelongo  cessa  di  com- 
parire al  seguito  patriarcale  il  vescovo  di  Trieste,  che  vi  era 
stato  assiduo  sotto  i  due  precedenti  patriarchi,  L' importanza  di 
questo  vescovado  che  chiudeva  a  mezzodì  il  centro  dei  possessi 
del  conte  di  Gorizia,  serviva  assai  a  rinfiancare  il  potere  del  pa- 
triarcato. Ma  le  vicende  avevano  troppo  sconcertato  le  sue  rela- 
zioni interne.  In  un  atto  del  6  maggio  1253  il  vescovo  Odorico 
confessava,  che  la  sua  chiesa  si  era  ridotta  nella  massima  distru- 


^  Landò  di  Montelongo  era  infatti  podestà  di  Capodistria  e  Pirano  e 
ritario  d' Istria  il  9  ottobre  1254.  Cod.  Diplom.  Istr.  Il  Lenel,  op.  cit.,  p.  148, 
non  conobbe  che  questo  richtarius. 

Senisio  era  il  7  marzo  1255  senescalco  patriarcale  (Bianchi,  Doc.  Reg., 
n.  207;  Doc.  mss.,  n.  228);  poi  fu  podestà  di  Muggia  nel  1257  e  di  Montona 
nel  1258  (MiNOTTO,  Doc.  ad  Forumjul.,  p.  26),  nel  1261  di  S.  Lorenzo  (ibid., 
p.  27)  ed  in  quest'anno  era  già  rittarius  e  tenne  quest'  ufficio  per  Io  meno 
sino  al  7  aprile  1266  (ibid.,  p.  29).  II  io  gennaio  1278  a  Due  Castelli  il  pa- 
triarca Raimondo  diede  a  Monfiorito  di  Pola,  quale  suo  ricario  in  Istria,  la 
custodia  di  Due  Castelli  stesso.  Monfiorito  tenne  quell'ufficio  un  anno;  il 
i»  giugno  1278  il  patriarca  lo  concesse  per  un  anno  a  Genisio  de  Bernardis 
(Bianchi,  Doc.  mss.,  n.'  422  e  436).  Quell'ufficio  dunque  non  cessò  col  pa- 
triarcato del  Montelongo.  Cfr.  il  mio  Ciociari  ed  altri  italiani  alla  corte  di 
Gregorio  di  Montelongo  cit.,  in  queste  Memorie,  to.  X,  1914,  pp.  484  sg.,  491  sg. 

3  Nel  doc.  del  27  ott.  1269  {Cod.  Dipi.  Istr.)  è  chiamato  Silbrido  de 
Foff;  ma  mi  pare  sicura  la  correzione  che  propongo. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  d' Aquileia        57 


zione  e  rovina  e  s' era  gravata  di  un'  enorme  quantità  di  debiti, 
per  le  grandi  spese  fatte  all'assedio  di  Brescia  (1238)  a  petizione 
e  per  comando  del  patriarca  Bertoldo,  nell'andare  e  tornare  dal 
concilio  di  Lione  (1245),  nei  viaggi  in  Austria,  Stiria  ed  Unghe- 
ria; inoltre  per  le  gravi  collette  e  provvisioni  imposte  a  lui  ed 
alla  chiesa  da  Ottaviano  cardinale  e  da  Gregorio  di  Montelongo, 
legati  della  Sede  Apostolica,  per  provvedere  al  regno  d'Unghe- 
ria, ai  vescovi  Arezeno  (?)  Trivigiano  e  Cenedese,  per  i  gravi 
danni  e  spese  sostenuti  nella  guerra  fra  il  patriarca  ed  il  conte 
di  Gorizia.  Perciò  il  vescovo  dovette  per  800  marche  di  denari 
vendere  al  comune  ed  ai  consoli  di  Trieste  «  ius  collectae  vini 
«  et  olei  (dazio  sulla  produzione),  ius  calcifìcum  et  pellipariorum 
«  (tassa  personale  sui  redditi  del  mestiere),  ius  appellationum, 
«  ius  consulatus,  ius  condemnationum  »,  e  concedere  piena  fa- 
coltà di  fare  statuti  e  di  giudicare  ^  Era  insomma  una  quasi 
completa  alienazione  dei  diritti  signorili  sulla  città.  Ed  il  2  aprile 
1257  anche  il  vescovo  Arlongo  dovette  dare  al  comune  ed  ai 
consoli  r  investitura  di  questi  diritti,  nello  stato  in  cui  ormai  li 
possedevano  ^. 

Se,  durante  il  pontificato  di  Gregorio,  nelle  numerose  carte 
che  riguardano  l'elezione  del  podestà  nelle  città  istriane  non  si 
fa  mai  cenno  di  Trieste,  si  deve  al  fatto  che  il  comune  dipen- 
deva direttamente  dal  vescovo,  quantunque  questa  dipendenza 
fosse  ormai  molto  larga. 

A  differenza  di  quanto  avveniva  sotto  gli  antecedenti  pa- 
triarchi, anche  i  vescovi  delle  altre  città  istriane  si  vedono  as- 
sai poco  presenti  agli  atti  ed  alle  imprese  del  Montelongo.  Gre- 
gorio tenne  seco  Rogerino  vescovo  di  Ceneda  ed  Alberto  ve- 
scovo pure  di  Ceneda  e  poi  di  Concordia.  Egli  preferì,  io  credo, 
questi  due  personaggi,  in  grazia  delle  loro  qualità  di  governo; 
il  primo  egli  conobbe  certo  prima  di  venire  in  Friuli  ;  il  secondo 
sperimentò  negli  anni  in  cui  tenne  1'  ufficio  di  vicedomino,  ca- 
rica che  non  dimise  neppure  quando  fu  nominato  vescovo. 

Molto  ebbe  invece  a  che  fare  il  patriarca  Gregorio  colle 
città  istriane.  Queste,  come  del  resto  in  tutto  il  mondo  feudale, 
non  erano  tutte  governate  ad  un  modo,  né  godevano  dei  mede- 
simi diritti  e  privilegi.  La  differenza  maggiore  stava  fra  le  città 
costiere,  che  avevano  speciali  contatti  e  trattati  coi  Veneziani,  e 

^  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  190;  Doc.  mss.,  n.  211. 
~  Bianchi,  £>oc.  Reg.,  n.  226;  Doc.  mss.,  n.  245. 


58  Pio  Paschini 


le  terre  ed  i  castelli  dell'  interno  dove  maggiore  era  la  forza 
della  feudalità. 

2.  Come  nel  pontificato  antecedente,  Capodistria  era  la  città 
che  godeva  maggior  libertà,  e  sulla  quale  i  Veneziani  facevano 
maggior  assegnamento  per  isfruttare  i  mercati  e  le  risorse  dell'  I- 
stria.  Corrado  IV,  come  abbiamo  veduto,  ne  accrebbe  i  privilegi  ; 
ma  il  patriarca  Gregorio  potè,  da  principio  almeno,  far  valere 
i  propri  diritti,  senza  però  poterli  allargare.  Nel  1253  egli  se- 
dette prò  tribunali  a  Capodistria  e  d'accordo  coi  cittadini  decretò, 
che  a  lui  spettava  la  nomina  del  gastaldo  patriarcale;  ma  il  pa- 
triarca doveva  sempre  designare  a  quell'ufficio  un  capodistriano 
«  sedendo  in  sede  sua  in  eadem  civitate  prò  tribunali  »  ^ 

Nel  1254  concesse  alcuni  feudi  in  Capodistria  a  certi  citta- 
dini del  luogo,  ma  solo  vita  loro  durante  ^  ;  ed  a  Vercio  di  Ca- 
podistria, suo  gastaldo  colà,  diede  in  feudo  tutti  i  beni  tenuti  in 
Capodistria  ed  in  Isola  da  Domenico  Fabro  di  Capodistria,  col- 
r  onere  di  un  annuo  censo  in  frumento  da  pagarsi  alla  canipa 
patriarcale  di  Castel  venere  ^. 

Anche  nella  nomina  del  podestà  l'autorità  del  patriarca  fu 
assai  limitata.  Il  7  maggio  1255  da  Cividale  il  patriarca  per 
grazia  speciale  concesse  ai  cittadini  di  Capodistria  di  eleggersi 
per  queir  anno  a  podestà  chiunque  volessero  *  ;  e  l'anno  dopo 
concesse  loro  persino  il  permesso  di  scegliersi  a  podestà  un  ve- 
neziano '".  E  questa  concessione  continuò  poi. 

Il  3  febbraio  1264  in  Aquileia  il  patriarca  al  comune  di 
Capodistria,  che  gli  aveva  chiesto  un  podestà  veneziano,  presentò 
diverse  persone;  ed  allora  Leazario  de  Qillaco  e  Bernardo  di 
Belgramone,    inviati  del    comune,  scelsero    Giovanni  Badoer  che 


i  Thesaurus,  p.  231,  n.'  567  e  569.  Poiché  i  regesti  ci  hanno  conser- 
vata r  indiz.  XI,  possiamo  concludere  che  il  patriarca  fu  a  Capodistria  prima 
del  settembre  di  quell'anno. 

•  Thesaurus,  p.  232,  n.  571,  indiz.  XII. 

3  Thesaurus,  p.  156,  n.  302  ;  G.  Bracato,  Regesti  di  Documenti  Friu- 
lani del  sec.  XIII  da  un  Cod.  De  Rubeis,  Cividale  del  Friuli,  1914,  p.  25. 

4  Presenti:  Ropretto  di  Buttrio,  Enrico  di  Capodistria,  Rainaldo  Rai- 
naldini  e  Giov.  Turolo  senesi,  Genisio  di  Padova  senescalco  patriarcale. 
Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  207;  Doc.  mss.,  n.  228.  Come  si  è  veduto  sopra, 
podestà  di  Capodistria  e  Pirano  era  il  9  ottobre  1254  Landò  di  Montelongo. 
Cod.  Dipi.  Istriano. 

^  Thesaurus,  p.  232,  n.  572;  a  meno  che  quest'atto  non  sia  un  tutt'uno 
con  quello  seguente,  e  ci  sia  qui  errore  di  data. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  (£ Aquileia         59 

il  patriarca  confermò  ^  Anche  questa  volta  dunque  si  trattava 
di  un  podestà  veneziano. 

Curioso  poi  è  un  privilegio,  di  cui  si  trova  notizia  in  un 
regesto  del  1292,  ma  che  certo  deve  essere  già  esistito  anche  a 
questo  tempo.  Gualengino  di  Capodistria  ebbe  allora  l'investitura 
di  questo  suo  privilegio  :  «  ogni  qualvolta  il  patriarca  tiene  il  suo 
placito  di  regalia  nella  città  di  Capodistria,  egli  e  quelli  del  suo 
casato  debbono  avere  uno  dei  hànna  di  regalia  che  toccano  al  pa- 
triarca (cioè  i  redditi  di  uno  di  quei  hanno),  cioè  se  i  banna  sono 
tre,  uno  spetta  a  loro,  ma  se  sono  due,  niente  tocca  più  a  loro  »  ^. 

Vedremo  però  che  la  politica  longanime  del  patriarca  verso 
Capodistria  portò  frutti  ben  diversi  da  quelli  che  egli  si  aspet- 
tava. Negli  ultimi  anni  del  suo  governo  la  città  si  schierò  aper- 
tamente coi  suoi  nemici. 

Terra  vicina  a  Capodistria  e  che  andava  acquistando  im- 
portanza era  Pirano. 

Fin  dal  1252  i  cittadini  di  Pirano  chiesero  un  podestà  al 
novello  patriarca,  e  questi  concesse  loro  Guarnero  de  Gillaco  di 
Capodistria^.  Secondo  il  Thesaurus  nel  1253  egli  cassò  la  no- 
mina dello  stesso  Varnero  a  podestà  di  Pirano,  perché  fatta  da 
quei  cittadini  senza  suo  permesso  ;  ma  poi  a  preghiera  del  con- 
siglio e  del  comune,  di  propria  autorità,  lo  concesse  loro  come 
podestà  per  un  anno  *.  Ci  resta  testimonianza  che  anche  nel  1258 
i  Piranesi  chiesero  ed  ottennero  licenza  di  eleggersi  un  podestà  ^. 
Ma  nel  1261  il  patriarca  dovette  imporre  a  quei  di  Pirano  di 
non    eleggersi  altro  rettore  all'  infuori    del   podestà  ^.   Il  podestà 


^  Presenti  :  Alberto,  vescovo  di  Concordia  vicedomino,  Mainardo  di 
Prata,  Giovanni  di  Cuccagna,  Enrico  di  Mels,  Ropreto  di  Buttrio.  Minotto, 
Doc.  ad  Forumjul.,  p.  28.  In  questo  momento,  il  9  febbraio,  Capodistria 
fece  pace  colla  città  di  Aquileia  e  col  preposito  di  S.  Stefano  coi  quali  era 
in  lotta  d'interessi  (ibid.). 

-  Reg.  in  Cod.  De  Rubeis,  loc.  cit.,  p.  25.  Riguardo  i  diritti  del  nota- 
riato a  Rovigno  ed  a  Pola  cfr.   Thesmirus,  n.'  190  e  259. 

3   Thesaurus,  p.  230,  n.  562;  p.  231,  n.  56S. 

•*  Thesaurus,  p.  226,  n.  529;  p.  231,  n.  570,  la  variante  de  Villacho  è 
certamente  erronea.  Fu  al  termine  di  quest'anno  che  il  patriarca  nominò 
podestà  di  Pirano  e  Capodistria  per  il  1254  suo  nipote  Landò  di  Montelongo. 
Cod.  Diplom.  Istriano. 

'"  Thesaurus,  p.  232,  n.  575.  Concorda  con  questo  anche  un  regesto 
mutilo  di  Giov.  de  Lupico,  dal  quale  risulta  che  Marquardo  fece  la  peti- 
zione a  nome  del  comune  di  Pirano.  L' eletto  fu  uno  di  Momiano. 

^  Thesaurus,  p.  232,  n.  577. 


6o  Pio  Paschini 


governava  a  nome  del  patriarca,  e  probabilmente  i  Piranesi 
avrebbero  voluto  costituire  un  altro  rettore  per  liberarsi  così 
sempre  meglio  dalla  diretta  dipendenza  di  lui.  Il  Thesaurus  ci 
fa  cenno  anche  di  una  pace  fatta  dal  patriarca  Gregorio  cogli 
uomini  di  Pirano  ^  ;  ma  non  sappiamo  affatto  in  quali  circostanze 
ciò  avvenisse. 

3.  Come  Capodistria  così  anche  Parenzo  era  stato  gratifi- 
cato da  Corrado  IV  di  uno  speciale  diploma  di  esenzioni  e  pri- 
vilegi a  danno  del  vescovo  e  del  patriarca.  Tali  concessioni  sem- 
bra desiderassero  i  Parentini  dì  rendere  esecutive,  poiché  il  primo 
maggio  1252  nella  chiesa  di  S.  Mauro,  durante  la  messa  solenne, 
Giovanni,  vescovo  di  Parenzo,  intimò  in  nome  di  Dio,  del  papa 
e  del  patriarca  al  podestà  consiglio  e  comune  di  Parenzo  di  non 
alienare  od  impegnare  la  terra  che  gli  uomini  di  Parenzo  ave- 
vano avuto  dalla  chiesa  sia  in  comune  sia  in  parti,  conforme  al 
privilegio  del  vescovo  Eufrasio  e  di  Bertoldo  marchese  d' Istria 
e  duca  di  Merania  ;  e  annullò  preventivamente  ogni  atto  che 
tentassero  di  compiere  in  contrario  ^. 

Non  saprei  qual  esito  avesse  questo  solenne  bando,  che  ci 
dimostra  come  i  comuni  istriani  tendessero  ad  emanciparsi  dalle 
strettoie  di  vincoli  contrattuali  d'altri  tempi  che  limitavano  evi- 
dentemente il  loro  sviluppo  commerciale  e  politico.  Troviamo 
invece  pochi  anni  dopo  il  comune  di  Parenzo  in  lotta  con  quello 
di  Montona. 

Il  5  luglio  1257  nel  palazzo  patriarcale  di  Cividale  Men- 
gosso  e  Nicolò  gastaldo  di  Montona  ottennero  il  permesso  di 
eleggersi  il  podestà  per  un  anno  a  cominciare  dal  i*'  agosto,  e 
nominarono  Senisio  podestà  di  Muggia,  che  il  patriarca  con- 
fermò ^.11  19  marzo  1258  da  Cividale  Senisio  fu  confermato  per 
un  altro  anno  podestà  di  Montona,  perchè  v'era  stato  nominato 
di  nuovo  dagli  uomini  di  quel  comune,  col  permesso  patriarcale  *. 

1  Thesaurus,  p.  229,  n.  550.  Pirano  fu  nel  1267  fra  le  terre  ribelli  al 
patriarca. 

2  Joppi,  Aggiunte  al  Cod.  Diplom.  Istriano,  1878. 

3  Presenti  :  Giovanni  Verracclo  arcidiacono  d'Aquileia,  Giovanni  Rubeo 
canonico  di  Ferentino,  Peregrino  gastaldo,  Valesio  e  Giovanni  Sagomario  di 
Muggia.  MiNOTTO,  Doc.  ad  ForumjuL,  p.  26. 

^  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  234;  Doc.  mss.,  n.  253.  Atti  di  Giov.  di  Lu- 
pico.  Il  patriarca  aveva  imposto  a  Pilotto  e  ad  Azano  di  Montona,  procura- 
tori del  loro  comune,  di  scegliere  a  podestà  un  uomo  a  lui  fedele.  Furono 
presenti  all'atto:  Everardo  pievano  di  Mnggia,  Giovanni  prete  ed  Andrea 
scolastico  in  Montona. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  cT Aquileia         6i 


11  24  aprile  1258  ì  procuratori  di  Montona  e  di  Parenzo  fe- 
cero a  Cividale  un  compromesso  nelle  mani  del  patriarca  e  lo 
elessero  arbitro  delle  contese  che  avevano  fra  loro  K  Perciò  il 
1°  maggio  a  Cividale,  Alberto,  vescovo  eletto  di  Ceneda  e  vi- 
cedomino patriarcale,  comandò  a  nome  del  patriarca  al  podestà 
di  Parenzo  ed  al  meriga  ^  di  Montona  di  osservare  la  tregua 
fra  le  loro  città  sino  alla  prossima  festa  di  S.  Pietro  sotto  pena 
di  1000  marche  d'argento  ^  Nel  frattempo  il  patriarca  potè  pre- 
parare la  sentenza,  che  pronunciò  a  Cividale  il  13  giugno.  Il 
comune  di  Mantova  fu  condannato  a  pagare  un'  ignota  somma 
in  libre  di  piccoli  veneti  a  quello  di  Parenzo  ;  questo  a  sua  volta 
fu  condannato  a  pagare  1500  libre  della  stessa  moneta  a  quello 
di  Montona  per  i  danni  recati  al  tempo  in  cui  Warnerio  de  Gil- 
laco  era  podestà  a  Montona;  i  due  comuni  dovevano  por  fine 
ad  ogni  offesa  e  rimettersi  a  vicenda  i  danni  e  le  ingiurie  *. 

Nel  1263  il  patriarca  incaricò  il  suo  milite  Genisio  di  eleg- 
gere un  podestà  a  Montona  e  di  dargli  la  conferma;  sappiamo 
però  che  Stefano  Azario  a  nome  di  quel  comune  chiese  licenza 
di  eleggere  egli  stesso  il  podestà  per  l'anno  seguente  ed  a  Ci- 
vidale il  9  maggio  1263  Biaquino  da  Momiano,  che  fu  scelto, 
ebbe  la  conferma  del  patriarca  ^.  Secondo  il  Thesaurus  il  co- 
mune di  Montona  in  quella  circostanza  fu  pure  obbligato  a  dare 
sicurtà  a  Genisio,  che  avrebbe  sempre  difeso  il  patriarca  e  la 
chiesa  dì  Aquileia  contro  chiunque  tentasse  qualcosa  contro 
l'onore   e   l' integrità   della   chiesa   stessa  *'.    Ma   tale  sicurtà  non 


i  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  235;  Doc.  mss.,  n.'  255-256.  Presenti:  Al- 
berto, vescovo  eletto  di  Ceneda  vicedomino,  Giovanni  Rubeo  camerario  di 
Aquileia,  Janeso  gastaldo  di  Cividale,  ecc. 

~  Si  comprende  che  meriga  e  podestà  non  erano  che  due  nomi  diversi  di 
un  medesimo  ufficio.  Il  primo   termine  si  usava   di  solito   nei  centri  minori. 

3  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  236;  Doc.  mss.,  n.  257.  Presenti:  Asquino 
decano  d'Aquileia,  Odolrico  arciprete  di  Cadore. 

*  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n,  241;  Doc.  mss.,  n.  262.  Presenti:  Alberto 
eletto  di  Ceneda  e  vicedomino,  Wecello  abbate  dì  Beligna,  Walberto  [ab- 
bate] di  S.  Maria  di  Canneto  a  Pola,  Berengario  preposito  di  S.  Odorico, 
maestro  Nicolò  de  Lupico,  maestro  Peregrino  pievano  di  Mannsburg  cap- 
pellano patriarcale,  Ghizoio  di  Mels,  Bernardo  di  Zuccola,  ecc.  Thesaurus, 
p.  229,  n.  549. 

^  Presenti  :  Nicolò  de  Lupico,  Senisio  rithario  patriarcale  in  Istria,  Ro- 
gerino  di  Milano  ostiario  e  Perrino  di  Ferentino.  Minotto,  Doc.  ad  Fo- 
rumjul.,  p.  27. 

6   Thesaurus,  p.  233,  n.'  582-583. 


02  Pio  Paschini 


valse  ad  impedire  che  nel   1265-66  Montona  partecipasse  aduna 
ribellione  contro  il  patriarca. 

Anche  a  Parenzo  il  podestà  veniva  nominato  dal  patriarca. 
Nel  1258  gli  uomini  ed  il  comune  del  luogo  chiesero  licenza  di 
eleggersi  un  podestà  ed  ottenero  poi  la  conferma  alla  nomina 
da  loro  fatta  ^  Altrettanto  chiesero  l'anno  dopo.  Infatti  il  15 
gennaio  1259  a  Cividale  il  podestà,  consiglio  e  popolo  di  Pa- 
renzo per  mezzo  di  Tergesto  di  Raffaele  chiesero  di  potersi 
eleggere  il  podestà  per  quell'  anno,  a  partire  dall'  1 1  marzo.  Ed 
il  patriarca,  assentendo,  confermò  la  nomina  del  podestà  uscente 
che  fu  il  prescelto  ^.  Eguale  istanza  fu  ripetuta  ad  Udine  il 
1°  aprile  1261  per  bocca  di  Bonifacio  gastaldo  patriarcale  a  Pa- 
renzo; ed  Alberto  de  Collice,  vescovo  eletto  di  Concordia  e  vi- 
cedomino patriarcale,  che  teneva  le  veci  del  patriarca  infermo, 
accogliendola,  confermò  Biaquino  da  Momiano  che  risultò  eletto  '. 
Istanze  di  tal  genere  furono  pure  presentate  al  patriarca  nel 
1262-63-64  *,  nella  seconda  metà  d'aprile  1265,  chiesta  ed  otte- 
nuta la  licenza  di  eleggersi  il  podestà  per  l'anno  seguente,  gli 
inviati  di  Parenzo  scelsero  Marco  Corner  di  Venezia  a  sostituire 
r  uscente  podestà  Filippo  Gradenigo,  e  ne  ebbero  la  conferma  del 
patriarca  ^.  Ma  durante  quella  podesteria  si  ebbero  disordini  in 
Parenzo;  perché  il  7  aprile  1266  nel  duomo  di  quella  città  Senisio 
de  Bernardis,  milite  padovano  ritario  patriarcale  in  Istria,  chiese  in 
pieno  consiglio  ai  consoli,  che  si  professassero  disposti  ad  ubbidire 
al  patriarca,  del  quale  il  popolo  parentino  aveva  perduta  la  grazia 
per  alcune  offese  fatte  durante  la  podesteria  di  Giovanni  (?)  Corner; 
ed  i  consoli  giurarono  di  ubbidire  ai  voleri  del  patriarca  ^. 

i   Thesaurus,  p.  232,  n.  573, 

~  Presenti  :  Otto  vescovo  di  Pedana,  Wecello  abbate  di  Beligna,  Beren- 
gario praposito  di  S.  Odorico,  Gerardo  frate  minore,  Landò  di  Montelongo 
e  Luca  nipoti  del  patriarca,  Bernardo  di  Zuccola,  Conetto  di  Osoppo  ga- 
staldo della  Carnia.  Minotto,  Doc.  ad  Forumjul.  cit.,  p.  26. 

3  Minotto,  Doc.  ad  Forumjul.,  p.  27. 

4  Thesaurus,  p.  232,  n.'  578  e  581  ;  p.  234,  n.  585. 

^  Presenti  :  Nicolò  de  Lupico,  Nicolò  Dalfino  arcidiacono  di  Pola,  Gio- 
vanni di  Cucagna.  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  292;  Doc.  mss.,  n.  310;  The- 
saurus, p.  234,  n.  586.  È  notevole  la  presenza  di  questi  due  podestà  vene- 
ziani. Anche  a  Parenzo,  come  a  Capodistria,  era  necessario  ricorrere  a 
veneziani  per  governare  la  città,  ed  è  pure  degno  di  nota  che  il  patriarca 
non  vi  facesse  difficoltà. 

^  Minotto,  Doc.  ad  Forumjul.,  p.  29.  Queste  contese  formarono  og- 
getto di  uno  speciale  trattato  fra  il  patriarca  ed  il  conte  di  Gorizia  il  14  feb- 
braio 1266,  come  vedremo. 


Gregorio  di  Monteloiigo  patriarca  cC Aquileia         63 


Questi  tumulti  non  si  ebbero  soltanto  a  Montona  ed  a  Pa- 
renzo.  Infatti  nel  1265  anche  il  comune  di  Valle  deputò  alcuni 
suoi  rappresentanti  presso  il  patriarca  per  sentire  i  suoi  comandi 
e  per  promettere  di  osservarli,  prestandone  anche  giuramento, 
s'egli  lo  avesse  richiesto*.  Analoga  ambasciata  fecero  in  quel- 
l'anno anche  gli  homines  di  Ruyno  (Rovigno)  ^. 

4.  Nessuna  memoria  abbiamo  riguardo  a  Cittanova,  ma 
tutto  e'  induce  a  credere  eh'  essa  si  trovasse  nelle  medesime  con- 
dizioni delle  sue  città  contermini  Isola  ed  Umago.  Per  la  loro 
scarsa  influenza  sullo  svolgersi  degli  avvenimenti  non  rimasero 
negli  archivi  patriarcali  gli  atti  che  riguardavano  particolarmente 
i  suoi  interessi. 

Abbastanza  curioso  è  quanto  si  fece  a  Cittanova  il  2  ago- 
sto 1259.  L' arengo  del  luogo,  radunato  nella  chiesa  di  S.  Gio- 
vanni Battista,  nominò  Biachino  di  Momiano  ed  i  suoi  eredi  in 
perpetuo  a  podestà  e  rettori  della  terra.  Ma  questa  strana  no- 
mina, che  avrebbe  fatto  del  feudatario  istriano  il  signore  di  Cit- 
tanova, non  piacque  e  non  impedì  disordini.  Tanto  che  il  30 
gennaio  1261  il  vescovo  Bonacorso,  il  clero  ed  il  popolo  chie- 
sero scusa  a  Biachino  delle  ingiurie  fattegli  dai  cittadini  dopo 
la  sua  elezione  a  podestà;  e  Biachino  a  sua  volta  rinunciò  per 
sé  ed  i  suoi  eredi  alla  podesteria  ^. 

Per  Isola  è  rimasto  invece  un  atto  del  1°  maggio  1253  col 
quale  i  suoi  consoli,  de  voluntate  et  consensu  majoris  et  minoris 
consilii,  designarono  certi  loro  procuratori  a  proseguire  dinanzi 
al  patriarca  eletto  e  marchese  d'Istria  la  lite  che  il  loro  comune 
aveva  colla  badessa  di  S.  Maria  d'Aquileia  *.  Questo  monastero 
aveva  grandi  possessi  in  Isola  e  vi  metteva  anche  un  gastaldo. 
Ritroveremo  poi  Isola  fra  i  ribelli  nella  sollevazione  del  1267, 
collegata  con  Capodistria  e  Pirano. 

Per  Muggia  nel  1257  è  ricordata  la  prima  volta  l'elezione 
del  podestà  ^.  Poi  il  13  luglio  1258  Pellegrino  gastaldo  patriar- 
cale a  Muggia  e  Tommaso  Dobbene  chiesero  a  nome  del  co- 
mune di  Muggia  al  patriarca,  ch'era  a  Cividale,  il  permesso   di 

*  Thesaurus ,  p.  226,  n.  533.  Nel  1274  il  comune  di  Valle  chiese  al  pa- 
triarca licenza  di  eleggersi  un  podestà  (Thesaurus,  p.  234,  n.  589);  non  sap- 
piamo se  allora  per  la  prima  volta  facesse  una  tale  richiesta. 

~   Thesaurus,  p.  229,  n.  556. 

3  Predelli,  Libri  comrnemoriali,  tomo  I,  p.  170. 

^  Cod.  Dipi.  Istriano. 

^  Thesaurus,  p,  234,  n.  587. 


64  Pio  Paschini 


eleggersi  il  podestà  per  l'anno  seguente  a  cominciare  da  S.  Mar- 
tino ;  il  permesso  fu  concesso  e  l' eletto  fu  il  solito  Genisio  ^. 
Tale  permesso  troviamo  pure  ripetuto  anche  nel   1266  ^. 

Un  comando  di  Alberto,  vescovo  eletto  di  Ceneda  e  vice- 
domino patriarcale,  promulgato  a  Cividale  il  31  luglio  1259,  ci 
conserva  memoria  di  un  delitto  commesso  a  Muggia  poco  prima. 
Il  vicedomino  comandò  agli  inviati  degli  uomini  del  comune  di 
Muggia,  sotto  pena  di  mille  libre  di  piccoli  veneziani,  di  inviare 
al  patriarca  entro  il  prossimo  martedì  i  dodici  uomini  migliori 
che  avevano  partecipato  alla  cattura  ed  alla  morte  del  medico 
Simone,  e  specialmente  quelli  ch'erano  responsabili  in  questo 
delitto  ^.  Siccome  è  assai  probabile,  che  questo  Simone  fosse  al 
servizio  del  patriarca,  può  essere  che  la  sua  uccisione  fosse  un 
dispetto  contro  il  patriarca  stesso. 

Nel  1262  il  patriarca  dovette  proibire  al  comune  ed  agli 
uomini  di  Muggia  di  inviare  armati  in  sussidio  dei  Veneziani  *. 
Questo  fatto  si  spiega  tanto  più  facilmente,  quando  si  pensi  che 
dei  Veneziani  s'erano  ormai  stabiliti  anche  a  Muggia.  Ne  ab- 
biamo infatti  una  prova  nel  fatto,  che  nel  1266  per  300  lire  di 
piccoli  veronesi  il  patriarca  comprò  da  Pietro  Cavaci  di  Venezia 
due  sue  torri  nel  borgo  del  Lauro  a  Muggia,  presso  la  porta 
del  borgo  verso  la  terra  ^. 

Delle  altre  località  dell'Istria  sappiamo  che  nel  1257  anche 
Buie  ebbe  il  suo  podestà  ^.  Ed  il  1°  maggio  1261  in  domo  co- 
munis  ad  Udine  Leazario  a  nome  del  gastaldo  e  del  consiglio 
di  S.   Lorenzo  ottenne   la   conferma    del   podestà   eletto  dal  suo 


1  Thesaurus,  p.  232,  n.  574;  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  246;  Doc.  mss., 
n.  266.  Presenti:  Giovanni  Rubeo  tesoriere  di  Aquileia,  maestro  Gerardo 
pievano  di  Muggia,  Zonsilino  famigliare  di  Stefano,  figlio  del  defunto  re 
d'  Ungheria. 

2  Thesaurus,  p.  234,  n.  584. 

3  Presenti  :  maestro  Cardamomo  canonico  di  Cividale,  maestro  Goffrido 
schermitore  famigliare  del  patriarca.  Zampa  di  Fagagna  ecc.  Joppi,  Aggiunte 
al  Cod.  Diplom.  Istr.,  n.  XV;  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  253  ;  Doc.  mss.,  n.  275. 

4  Thesaurus,  p.  233,  n.  579. 

^  Thesaurus,  p.  219,  n.  499.  Che  il  patriarca  tendesse  ad  allargare  la 
sua  diretta  padronanza,  ci  è  attestato  da  un  atto  del  1256,  per  il  quale  Gio- 
vanni Sagomarlo  di  Muggia  diede  in  dono  alla  chiesa  di  Aquileia  la  quarta 
parte  di  una  casa  e  corte  poste  nel  castello  di  Muggia,  ch'erano  state  pos- 
sedute da  Folcherio  di  Dornberg.    Thesaurus,  p.  212,  n.  473. 

6   Thesaurus,  p.  234,  n.  587. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  ci' Aquileia         65 

comune,  ch'era  lo  stesso  ritario  patriarcale  Senisio  de  Bernardis 
padovano  ^, 

5.  Nel  principio  del  suo  governo  il  patriarca  trovò  Pola 
gravemente  sconvolta  da  questioni  civili  e  religiose.  Durante  il 
1251  Guglielmo,  vescovo  di  Pola,  scomunicò  Galvagno  podestà 
ed  il  consiglio  di  Pola,  perché  avevano  imprigionato  Pietro  de 
Elica  serviens  e  Rainaldo  notaio  suo,  togliendo  a  questo  anche 
certi  scritti,  ed  avevano  rifiutato  di  liberarli  ;  inoltre  lanciò  l' in- 
terdetto su  tutta  la  città  di  Pola.  Alcuni  chierici  che,  disprez- 
zando le  minacce  del  vescovo,  osarono  celebrare  gli  uffici  divini, 
furono  privati  dei  loro  benefici  ^. 

Il  Thesaurus  ci  dà  il  regesto  di  una  risposta  scritta  dal  po- 
destà e  dal  comune  di  Pola,  nel  1252,  colla  quale  professavano 
dì  essere  pronti  a  ricevere  con  rispetto  e  con  piacere  il  patriarca 
Gregorio,  se  venisse.  Un  altro  regesto  ci  informa  pure  che  il 
patriarca  «  habet  ius  in  Turri  et  Castro  Pole  pretextu  cuius- 
«  dam  permutationis  »  fatta  in  quell'  anno  col  vescovo  di  Pola  ^. 
Questo  ci  fa  arguire  che  il  patriarca  si  recò  sino  a  Pola  nel  1252. 
Ch'  egli  ci  sia  andato  per  pacificare  il  vescovo  colla  città,  si  può 
ritenere  come  cosa  assai  probabile.  Ma  non  soltanto  per  questo. 
Giacché  in  quell'anno  stesso  egli  vi  fu  chiamato  a  decidere  una 
questione  che  il  vescovo  Guglielmo  aveva  col  suo  capitolo,  il  quale 
l'aveva  spogliato  ingiustamente  dei  beni  vescovili  e  dei  frutti  di 
due  anni  dati  dalle  prebende  della  chiesa.  Dall'  altro  lato  il  ca- 
pitolo chiedeva  fosse  data  esecuzione  ad  una  sentenza  pronun- 
ciata già  dal  patriarca  Bertoldo,  perché  gli  fossero  consegnati  gli 
oggetti  lasciatigli  in  eredità  dal  defunto  vescovo  Enrico,  e  gli 
fossero  pagate  le  spese  delle  liti  incontrate.  Il  patriarca  senten- 
ziò obbligando  il  capitolo  a  dare  al  vescovo  quanto  aveva  tolto 
dei  proventi  della  mensa  vescovile,  ed  il  vescovo  a  fare  le  ono- 
ranze e  le  elargizioni  com'era  di  costume;  capitolo  e  vescovo 
dovevano  d'allora  in  poi  vivere  di  buon  accordo  ed  osservare 
la  sentenza  da  lui  pronunciata  *. 

*  MiNOTTO,  Doc.  ad  ForumjtiL,  p.  27. 

~  Da  una  lettera  di  Innocenzo  IV  spedita  da  Milano  il  18  luglio  1251, 
colla  quale  concede  al  vescovo  che  possa  conferire  i  benefici  rimasti  vacanti 
a  persone  idonee.  Registi',  d' Innocent  IV,  n.  5474. 

3  Thesaurus,  p.  228,  n.  545  e  p.  230,  n.  565.    Cfr.  anche  p.  18,  n.  14. 

*  S.  MiTis,  Dociimenti  per  la  storia  di  Pola,  in  Atti  e  memorie  della 
Società  istriana  di  archeologia  e  storia  patria,  voi.  XXVII,  191 1,  p.  4.  Di- 
sgraziatamente non  v'è  riportato  il  testo  del  documento. 


66  Pio  Paschini 


L' 8  marzo  1257  nel  campo  sotto  Duino,  il  patriarca  ebbe 
dai  cittadini  di  Pola  400  libre  di  piccoli  veneziani  quale  acconto 
per  le  2000  libre  che  il  comune  di  Pola  doveva  pagargli  entro 
un  anno  dal  prossimo  S.  Michele  ^ 

Poi  l'ii  settembre  1258  stando  a  Cividale,  il  patriarca  de- 
putò Genisio,  suo  richario  in  Istria,  e  Gerardo,  pievano  di  Mug- 
gia,  quali  suoi  procuratori,  ad  esigere  a  nome  della  chiesa  di 
Aquileia  dal  comune  di  Pola  200  libre  venete,  che  quel  comune 
era  tenuto  a  pagare  ^. 

Ad  Udine  il  5  agosto  1260  Matteo  di  Girena  di  Pola  ed 
Orlanduccio  de  Campo  Bernardi  vendettero,  per  50  libre  di  ve- 
neti piccoli,  al  patriarca  ed  alla  sua  chiesa  una  loro  casa  a  Pola 
nel  luogo  detto  Naufora,  «  prò  libero  et  perpetuo  alodio  »  ^. 
Anche  Pola  era  retta  da  un  podestà,  ma  solo  nel  1262  e  poi 
nel  1266.  si  ha  memoria  di  un'  istanza  che  il  comune  e  gli 
uomini  di  Pola  fecero  al  patriarca  per  eleggersi  il  podestà, 
ed  ottennero  la  conferma  per  il  personaggio  che  s' erano  desi- 
gnato *. 

Pola  infatti  in  queste  e  nelle  posteriori  vicende  ci  appare 
quasi  in  seconda  linea.  Dopo  le  lotte  col  patriarca  Bertoldo  e  le 
sciagure  toccatele  per  l' inimicizia  con  Venezia,  rimase  quasi  in 
disparte,  estranea  al  movimento  che  andava  allargandosi  in  tutta 
la  penisola. 


^  Bianchi,  Doc.  mss.,  n.  243.  Presenti  :  Giannino  di  Capodistria,  Gre- 
gorio di  Anagni  consanguineo  del  patriarca,  Senisio  di  Padova  ricario  in 
Istria. 

'  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  249;  Doc.  mss.,  n.  270.  Presenti  :  Wecellone 
abbate  di  Belligna,  maestro  Pietro  di  Scarleto  e  Scanno  fisici,  Lorenzo  ca- 
merario del  patriarca,  ecc. 

3  Presenti  :  Alberto,  vescovo  eletto  di  Concordia  e  vicedomino  patriar- 
cale, Gualimberto,  abbate  di  S.  Maria  di  Canneto  a  Pola,  Nicolò  Dalfino  ar- 
cidiacono di  Pola,  Pellegrino  pievano  di  Mannsburg,  cappellani  patriarcali. 
Federico  gastaldo  di  Udine.  —  Pergamena  di  Giov.  de  Lupico,  in  Archiv. 
Capitol.  di  Udine.  Reg.  in  Cod.  De  Rubeis,  in  queste  Memorie,  X,  1914» 
p.  82.  Il  Thesaurus  ricorda  una  compera  di  una  casa  a  Pola  fatta  dal  patriarca 
nel  1258,  indiz.  Ili  (p.  229,  n.  552). 

4  Thesaurus,  p.  233,  n.  580;  p.  234,  n.  584. 


Gregorio  di  Mo7itelongo  patriarca  d' Aquileia         6j 


I.  Attività  del  patriarca  in  Friuli  durante  il  1252.  —  2.  L'impresa  di 
Parma.  —  3.  Preoccupazioni  e  provvedimenti  finanziari.  —  4.  Trattato  del 
patriarca  con  Venezia  (24  aprile  1254).  —  5.  Il  patriarca  contro  i  ghibellini  ; 
sua  azione  nel  patriarcato  dal  ntaggio  al  settembre  1254. 

I.  Il  patriarca  Gregorio  sin  dal  suo  primo  venire  in  Friuli 
cominciò  quell'opera  di  riordinamento,  che  non  doveva  cessare 
che  colla  sua  morte.  Come  abbiamo  veduto,  durante  il  1252  egli 
fu  certamente  nell'Istria,  che  aveva  maggior  bisogno  della  sua 
ispezione  personale  ;  ma  è  ben  curioso  il  dover  notare  che  il 
primo  documento  datato  che  ricordi  il  patriarca  nel  suo  viaggio 
di  esplorazione  (ed  esplorazione  veramente  doveva  essere  per  lui 
il  visitare  un  paese  che  gli  era  certo  ignoto),  fu  redatto  a  Tolmino. 
Questo  luogo  era  allora  una  fortezza  di  prim' ordine,  fabbricata 
presso  r  Isonzo  per  munire  la  strada  che  correva  lungo  la  valle, 
ed  era  in  comunicazione  con  Cividale  per  mezzo  della  strada 
che  toccava  Caporetto  ed  il  Pulfero.  Dunque  a  Tolmino  il  6  feb- 
braio 1252  il  patriarca  eletto  confermò  un  cambio  fatto  dall'ab- 
bazia di  Obernburg  con  Ermanno  di  Katzenstein  ^ 

Il  24  aprile  1252  in  Aquileia  il  patriarca  con  l'anello  che 
aveva  in  mano  investì  Corrado  del  fu  Guariento  di  Zegliacco  del 
suo  feudo,  cioè  del  luogo  e  castello  di  Zegliacco  «  cum  omni  ho- 
nore,  dominio,  comifatu  et  iurisdictione  »  ^.  Sarebbe  certo  assai 
notevole  la  concessione  dei  diritti  comitali  a  questo  signore;  ma 
il  documento  non  si  può  accettare  come  genuino.  La  datazione 
infatti  e  le  sottoscrizioni  fanno  senz'altro  pensare  ad  un  poste- 
riore rimaneggiamento  dell'atto,  allo  scopo  di  provare  diritti  di- 
ventati ormai  comuni  a  tutti,  o  quasi  tutti,  i  signori    del   Friuli. 


^  Zahn,   U.  B.  Stcierm.,  Ili,  p.  170,  n.  103. 

-  Da  copia  del  sec.  XVI,  Bini,  Doc.  varia,  I,  p.  429,  ms.  in  Archiv. 
Capit.  di  Udine;  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  183;  Doc.  mss.,  n.  202.  Furono  pre- 
senti :  Pietro  di  Mels,  Giovanni  di  Colloredo  di  Montalbano,  Damiano  di 
Pers,  Nicolò  de  Brandis  di  Cividale,  Sono  personaggi  perfettamente  scono- 
sciuti a  quest'  epoca.  La  data  è  espressa  :  «  Indict.  X.  Anno  ingressus  sexto 
«  Rev.mi  D.ni  Patriarce.  Ego  ugoiinus  baldutanus  et  sacri  palatii  notarius 
«  et  cancellarius  D.ni  Patriarche  ».  Quest'indicazione  non  ha  senso  e  con- 
trasta con  quelle  genuine  del  patriarca.  I  signori  di  Zegliacco  non  ebbero 
mai  una  speciale  importanza  nella  storia  del  patriarcato.  Trattandosi  di  co- 
mitatus  il  patriarca  ne  avrebbe  data  investitura  colla  bandiera. 


68  Pio  Pas chini 


Può  essere  però  che  in  quel  dì  il  nuovo  patriarca  abbia  con- 
cesso qualche  feudo  a  Corrado  ;  ma  può  anche  essere,  e  forse  è 
più  probabile,  che  sia  stata  anticipata  la  data  ad  un  documento 
posteriore.  Infatti  un  Guariento  di  Zegliacco  compare  come  ancora 
vivente  il  io  febbraio  1258,  quando  papa  Alessandro  IV  fece 
aprire  contro  di  lui  ed  alcuni  altri  processo  canonico  per  danni 
fatti  al  capitolo  di  Aquileia.  Un  Guarnerio  de  Gillaco  cittadino 
dì  Capodistria  fu  podestà  di  Pirano  nel  1252  e  nel  1253  e  di 
Montona  prima  del  1258,  fu  presente  a  Capodistria  il  9  ottobre  1254 
ad  un  atto  di  Landò  dì  Montelongo  ;  un  Lazario  de  Qillaco 
pur  di  Capodistria  fu  inviato  come  legato  al  patriarca  il  3  feb- 
braio 1264  ';  un  Enrico  de  Zillaco,  che  verso  il  1252  abitava  un 
castello  patriarcale  e  molestava  il  capitolo  cividalese,  è  lo  stesso 
che  nel  1260  insieme  con  BrusaviJla  suo  fratello  consegnò  al 
patriarca  una  figlia  dì  Bertolotto  di  Coymes,  loro  serva,  che  aveva 
in  feudo,  come  asseriva,  dallo  stesso  patriarca  ^.  Un  Corrado  Faba 
de  Celaco  era  invece  vescovo  di  Capodistria  ^  per  lo  meno  sino 
dall'  II  maggio  1249  e  fu  presente  ad  un  atto  del  patriarca  del 
18  gennaio  1256.  Sono  questi  i  membri  di  quella  famiglia  noti  a 
questo  tempo  ;  e  queste  notizie  non  sono  tali  che  aggiungano 
valore  all'atto  sopra  ricordato. 

Sarebbe  assai  interessante  che  ci  fosse  stata  conservata  com- 
pleta la  data  di  un  atto  riguardante  la  famiglia  degli  Zuccola. 
L' atto  non  ha  grande  importanza,  se  si  guarda  ai  beni  che  ne 
sono  l'oggetto,  ma  è  l'unico  del  genere  redatto  in  questo  tempo. 
Nel  1252  dunque  Bernardo  di  Zuccola  rinunciò  nelle  mani  del 
patriarca  ad  ogni  diritto  che  aveva  sa  tre  mansi  a  Grions,  tenuti 
da  lui  in  feudo  dalla  Chiesa;  ed  il  patriarca  diede  in  feudo  quei 
mansi  a  Girardino  di  Cìvidale  ed  ai  suoi  fratelli  Guglielmo, 
Egidio  e  Guarceto  *. 

Tutti  i  vassalli  all'ingresso  del  nuovo  patriarca  erano  tenuti 
a  fare  1'  omaggio  del  loro  feudo  e  ad  ottenerne  di  nuovo  da  lui 
l'investitura.  Forse  essi  sì  mostrarono  riluttanti  a  riconoscere  il 
loro  signore?    Certo  è  che  il  Thesaurus    non  ha    conservato  in- 

1  MiNOTTO,  Doc.  ad  ForumjuL,  p.  28.   Cod.  Dipi.  Istr. 

2  Thesaurus,  n.'  385  e  484. 

3  II  nome  della  sua  famiglia  risulta  dall'atto  della  consacrazione  della 
chiesa  di  S.  Francesco  ad  Udine,  luglio  1266  (Bini,  Doc.  Histor.,  tomo  V,  72). 
Cfr.  pure:  Fr.  Babudri,  Cronologia  dei  vescovi  di  Capodistria,  Trieste,  1909, 
p.  23. 

^  Reg.  in  Cod.  De  Rubeis,   loc.  cit.,   p.  24;    Thesaurus,  n.'  304  e  465. 


Gregorio  di  Monteloiigo  patriarca  cC  Aquileia         69 


dizio  alcuno  di  riconoscimento  di  feudi  prima  del  1254.  Ma  v'ha 
di  più.  Ci  è  conservato  il  testo  di  una  deliberazione,  la  quale  se 
favoriva  i  signori  feudali  che  avevano  vassalli  alle  loro  dipendenze, 
favoriva  di  più  il  patriarca  che  di  tutti  era  l' alto  signore. 

Il  30  aprile  1252  si  tenne  in  Cividale  una  magna  curia  fraìi- 
corum  et  delesman?iorum  (cioè  di  liberi  e  ministeriali)  alla  presenza 
del  patriarca  eletto,  e  fu  decretato  che  se  i  feudatari  non  aves- 
sero chiesto  r  investitura  dei  loro  feudi  entro  un  anno  ed  un 
giorno  a  partire  dal  momento  in  cui  avevano  il  dovere  di  chie- 
derla, il  signore  a  cui  spettava  dare  l' investitura  doveva  pren- 
dere il  possesso  della  tenuta  fetidi  sine  fructu  illius  e  ritenerselo. 
In  questo  frattempo  si  doveva  ascoltare  il  diritto  di  colui  che 
doveva  ricevere  l' investitura,  e  se  questi  entro  quell'  anno  non 
avesse  fatto  valere  il  suo  diritto,  il  signore  poteva  ritenersi  il 
feudo  con  tutto  l'usufrutto  ^ 

Di  due  altre  sentenze  in  materia  feudale  emanate  in  tempi 
diversi,  ci  ha  conservato  memoria  il  Thesaurtvs.  L' una  riguarda 
un  allargamento  del  diritto  di  succedere  nei  feudi,  in  favore  di 
ministeriali  di  nuova  creazione.  Enrico  di  Villalta  chiese  che  ve- 
nisse deciso  :  se  qualcuno  «  qui  non  esset  de  natura  militum  » 
(per  schiatta,  e  perciò  non  appartenesse  ai  liberi  od  alle  antiche 
famiglie  ministeriali)  ma  giungesse  all'onore  della  milizia  in 
causa  delle  sue  ricchezze  od  in  altro  modo,  «  posset  habere  ma- 
«  num  feudi  et  heredes  ipsius  possent  hereditare  feudum  ».  A 
richiesta  del  patriarca,  Enrico  (libero)  giudicò,  che  se  uno  aveva 
ottenuta  la  milizia  senza  opposizione  alcuna,  poteva  godere  la 
sua  milizia  ed  ottenere  e  trasmettere  feudi  in  eredità.  Dall'altra 
parte  Cono  di  Moruzzo  (ministeriale)  giudicò,  che  solo  colui  il 
quale  aveva  avuta  la  milizia  per  volere  del  signore  del  luogo, 
doveva  avere  maìium  feudi  egli  ed  i  suoi  eredi,  et  uti  honore 
militari;  in  caso  contrario,  né  egli  né  i  suoi  eredi  potevano 
godere  tali  diritti  ;  e  poteva  avere  manum  feudi  solo  durante  la 
vita  di  colui  che  gli  avea  dato  il  feudo.  E  la  sentenza  di  Cono 
fu  approvata  dalla  maggioranza  della  curia  ^.  L' altra  sentenza  in 

1  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  184;  Doc.  mss.,  n.  203.  La  sentenza  fu  pro- 
posta da  Bertoldo  di  Tricano  ;  testi  :  Enrico  di  Villalta,  Cono  di  Moruzzo, 
Corrado  di  Savorgnano  ed  altri. 

-  Thesaurus,  p.  176,  n.  363;  che  l'assegna  all'anno  1267,  ma  certo  con 
errore  perché  vi  si  dà  al  patriarca  l'appellativo  di  electus;  come  vedremo, 
egli  fu  consecrato  nell'agosto  1256;  la  sentenza  è  dunque  anteriore.  Cfr.  De  Ru- 
BEis,  M.  E.  A.,  p.  755. 


70  Pio  Paschiìii 


simile  materia  fu  pronunciata  nel  1255.  Giovanni  di  Cuccagna 
(ministeriale)  chiese  che  il  patriarca  facesse  giudicare  dalla  sua 
Curia,  se  potesse  un  ministeriale  dare  la  sua  proprietà  m 
manti,  lìbera.  Enrico  di  Villalta  giudicò  che  nessun  ministe- 
riale poteva  neque  feuduin  neque  froprhim  dare  in  inanu  li- 
bera; e  questa  sentenza  fu  approvata  dalla  curia  patriarcale  ^ 
Queste  due  sentenze  furono  riassunte  così:  «  Et  de  sententia 
«  lata  coram  D,  Gregorio  Patriarcha,  quod  miles,  qui  non  fuerìt 
«  de  genere  militum,  non  habeat  manum  feudi.  Et  de  sententia 
«  lata  ut  nullus  Ministerialis  possit  bona  sua  in  manum  liberam 
«  dare  »  ^. 

Subito  dopo  la  grande  adunanza  il  patriarca  prese  a  trat- 
tare gli  affari  più  importanti  del  suo  principato. 

Erano  rimaste  ancora  pendenti  le  pratiche  per  dare  esecu- 
zione al  trattato  stretto  dal  patriarca  Bertoldo  col  conte  Mai- 
nardo  di  Gorizia  1' 8  gennaio  1251.  Gregorio,  senza  legarsi  in 
modo  definitivo  ed  irrevocabile  a  quei  patti,  volle  che  l' affare 
continuasse  il  suo  corso.  Infatti  il  12  maggio  1252  nelle  sue  case 
di  Cividale  egli  prometteva  al  conte  Mainardo  di  stare  alla  sen- 
tenza arbitrale  che  sulle  passate  contese  fra  il  conte  ed  il  pa- 
triarca Bertoldo  avevano  pronunciato  i  due  arbitri  eletti  dal  pa- 
triarca Bertoldo:  Bernardo  di  Straso  e  Glizoio  di  Mels;  ma 
non  prometteva  in  modo  assoluto  di  poterne  ottenere  la  con- 
ferma della  Curia  Romana,  ma  solo   di    procurare  di  ottenerla  ^. 

Il  conte  Mainardo  continuò  la  sua  dimora  ed  i  suoi  collo- 
qui col  patriarca  per  tutto  il  resto  di  quel  mese. 

La  chiesa  di  Frisinga  aveva  grandi  possessi  nella  Carniola 
superiore  ed  anche  nell'alta  valle  dell'Isonzo.  Ed  ecco  che  il  29 
maggio   1252    Gregorio    patriarca   e    Corrado  I,  vescovo    di   Fri- 

^  Thesaurus,  p.  202,  n.  440.  Le  due  sentenze  erano  dirette  evidente- 
mente: r  una  a  tutelare  i  diritti  dei  più  antichi  ministeriali,  l'altra  a  tenere 
distinti  i  liberi  dai  ministeriali. 

~  Ibid.,  p.  13,  n.  IO.  Cfr.  queste  Memorie,  X,  1914.  P-  56  sg. 

3  Presenti  :  Delatorra  arciprete  di  Padova,  Bartolomeo  Saraceno  vicario 
patriarcale,  Berengero  vicedomino,  i  nobili  :  Biaquino  da  Camino,  Enrico  e 
Rantolfo  fratelli  di  Villalta,  Otto  detto  Bergogna  di  Spilimbergo,  Giovanni 
e  Alpreto  di  Cucagna,  Ropreto  di  Buttrio,  Ulrico  e  Ugo  di  Reifenberg,  Ste- 
fano di  Duino.  Fotites  RR.  Ausiriac,  Diplont.,  I,  p.  30;  Bianchi,  Dee.  mss., 
n.  204, 

L'arciprete  Delatorra  qui  ricordato  fra  i  presenti  è  quel  Della  Corta  che 
fu  nel  numero  di  coloro  che  aiutavano  il  Montelongo  nel  suo  ufficio  di  de- 
legato sino  dal  1243.  Cfr.  Marchetti-Longhi,  op,  cit.,  voi.  XXXVI,  p.  679. 


Gregorio  di  Mo7itelongo  patriarca  cC  Aquileia         ji 


sing^a,  di  mutuo  accordo  fecero  uno  statuto  per  cui  chi  vendeva 
o  dava  a  mutuo  doveva  considerare  la  solvibilità  e  prendere  fi- 
deiussione piena  dal  suo  debitore  per  non  gravare  altri  ;  e  nes- 
suno poteva  procedere  a  pignorazioni  contro  un  debitore  mo- 
roso senza  una  previa  sentenza  giudiziaria  ^ 

In  quest'  occasione  il  vescovo  di  Frisinga,  certo  coli'  aiuto 
del  patriarca,  intavolò  trattative  col  conte  di  Gorizia,  i  cui  pos- 
sessi toccavano  in  più  luoghi  quelli  del  vescovado  di  Frisinga. 
Il  31  maggio  1252  a  Gorizia  il  conte  Mainardo  promise  che 
non  avrebbe  molestato  in  alcun  modo  Corrado,  vescovo  di  Fri- 
singa, il  quale  aveva  imprigionato  Corrado  di  Pittsberg  (presso 
Kòtschach)  suo  ministeriale  ". 

Nel  giugno  il  patriarca  si  spinse  sino  al  punto  più  setten- 
trionale del  patriarcato.  Lo  troviamo  infatti  a  Villaco  il  ig  e 
colà  confermò  a  Liutoldo,  abbate  di  S.  Paolo,  i  privilegi  conces- 
sigli dal  suo  antecessore  Bertoldo  e  particolarmente  la  cappella 
di  Mòchling.  Il  2 1  gli  confermò  anche  la  cappella  di  S.  Lorenzo 
in  der  Wùste,  eh'  era   stata    concessa  dal  patriarca   Godofredo  ^. 

Il  20  luglio  1252  a  Cividale  Gregorio  confermò  al  Mona- 
stero di  Studeniz  il  documento  rilasciatogli  dal  patriarca  Ber- 
toldo *.  Tali  conferme  ormai  erano  diventate  di  prammatica. 

2.  Poiché  sino  a  quest'epoca  troviamo  il  patriarca  impegnato 
nel  governo  del  suo  patriarcato  e  dell'Istria,  dobbiamo  rimandare 
agli  ultimi  mesi  del  1252  un'impresa  a  cui  partecipò.  «  Nel  1252 
fu  podestà  di  Parma  Rainieri  di  Corbulo  faentino  ^.  In  quest'anno 
fu  fatto  esercito  generale  dal  comune  di  Parma  presso  Mede- 
sano,  ed  in  quell'esercito  ci  furono  Gregorio  di  Montelongo, 
legalo  della  chiesa  e  vicario  del  re  Guglielmo  (di  Germania)  e 
le  milizie  di  Piacenza.  Ed  Uberto  Pelavicino  coi  cremonesi  e  coi 
fuorusciti  di  Parma  venne  in  aiuto  del  castello  di  Medesano. 
Essendo  il  fiume  Taro  cresciuto  per  le  pioggie  in  modo  tale  che 
non  si  poteva  guadare,  i  parmigiani  si  misero  in  timore,  perché 
non  eranvi  che  due  porte.  E  stando  là,  gli  avvversari  fuggirono 
confusi    ed    in    conseguenza    i    parmigiani    ebbero    il    castello   a 

1  J.  Zahn,  Codex  Diplotn.  Austriaco- Fr-isingensis,  Wien,  1870,  voi.  I, 
p.  157,  n.  160. 

~  VoN  Jaksch,  Die  Kàrntner  cit.,  n.  2486. 

3  VoN  Jaksch,  Die  Kàrfitner  cit.,  n.'  2487,  2489. 

■*  Zahn,  U.  B.  Steierm.,  Ili,  p.  180,  n.  113.  Il  documento  di  Bertoldo 
era  quello  del  24  aprile  1251. 

"•>  È  quel  Rainieri  di  Calboli  di  cui  parla  Dante,  Infer.,  XIV,  88. 


72  Pio  Paschini 


patti  »,  poi  riuscirono  a  prendere  anche  Berceto  ^  Sul  princìpio 
del  1253  parmigiani  e  cremonesi  fecero  tra  loro  pace,  alla  quale 
non  potè  certo  essere  estraneo  il  patriarca,  ma  i  cronisti  non  ci 
dicono  nulla  di  particolare  ^. 

Si  può  dubitare  se  l' ufficio  di  legato,  che  in  questa  circo- 
stanza esercitò  il  Montelongo,  fosse  la  continuazione  dell'ufficio 
sostenuto  a  vantaggio  della  chiesa  sino  al  termine  del  1251,  od 
un  incarico  nuovo  e  straordinario  per  quella  circostanza.  Ma  certo 
nuovo  era  l' ufficio  di  vicario  del  re  di  cui  fu  rivestito  ;  e  ciò  non 
deve  far  meraviglia.  Corrado  IV  aveva  pur  egli  i  suoi  vicari  in 
Italia.  Ezzelino  da  Romano  era  uno  di  questi,  ed  Uberto  Pela- 
vicino  il  25  ottobre  1252  portava  il  titolo  di  «  sacri  imperii  a 
«  Lambro  inferius  capitaneus  generalis  »  ^;  e  da  Canosa  il  22  feb- 
braio 1253  Corrado  IV  lo  costituiva  «  per  totam  Lombardiam, 
«  tam  a  Lambro  superius  quam  inferius  vicarium  imperii  »  *. 

Certo  il  Montelongo  in  aiuto  di  Parma,  dove  tanto  valente 
s'era  dimostrato  nel  1247-48  e  dove  c'erano  ancora  i  trofei  delle 
sue  prodezze,  stava  al  suo  posto  ;  ma  dopo  questa  breve  im- 
presa egli  non  compare  più  mai  né  come  legato  papale  né  come 
vicario;  ed  io  credo  senz'altro  che  il  motivo  fosse,  perché  si  vide 
benissimo  che  l'opera  sua  era  necessaria  nel  patriarcato,  e  l'atti- 
vità sua  poteva  più  utilmente  esercitarsi  là  che  altrove  ^. 

Dell'assenza  del  patriarca  dal  Friuli  in  quel  torno  ci  resta 
testimonianza  nel  fatto  ch'egli  non  fu  presente  ad  una  piena 
curia,    dove  fu  pronunciata    una    sentenza    in    materia  di  diritto 

^  R.  I.  S.~,  tomo  IX,  parte  IX,  p.  20:  Annales  Parnietises  inaiores. 

~  Un  altro  cronista  parmigiano  dice  :  «  Hubertus  recessit  et  castrum 
«  (Medesano)  curn  legato  concordavit  ».  Chron.  Parrnensis,  Parmae,  1858, 
P-  332. 

^  Codex  diplomai.  Crcmotiac,  Augustae  Taurin,,  1895,  p.  285,  n.  612; 
in  un  altro  documento  del  t8  gennaio  1253  lo  stesso  Uberto  si  proclama: 
«  generalis  capitaneus  sive  vicarius  ...  per  d.  Conradum  Romanorum  regem 
«  confirmatus  ».  Ibid.,  p.  287,  n.  614. 

•*  Ibid.,  p.  287,  n.  615.  Perciò  nel  1254  Uberto  si  proclamava  «  Mar- 
«  chio  Pellavicinus,  imperii  vicarius  generalis  et  Cremonae,  Placentiae,  Pa- 
«  piae  et  tocius  partis  imperii  per  Lombardiam  dominus  et  potestas  ».  Ibid., 
p.  291,  n.  643. 

^  11  Marchetti-Longhi,  op.  cit.,  tomo  XXXVIII,  1915,  p.  344,  trasporta 
l'impresa  di  Medesano  all'aprile  1251,  perché  «  nel  1252  il  Monte  Longo  non 
«  era  più  legato  in  Lombardia  ».  Ma  gli  sta  contro  l'attestazione  esplicita 
degli  Annales.  Nei  documenti  friulani  non  troviamo  cenno  dell'ufficio  di 
vicario  affidato  al  Montelongo  ;  ufficio  che  certamente  non  potè  protrarsi  ol- 
tre il  28  gennaio  1256,  in  cui  morì  Guglielmo   di  Olanda   imperatore  eletto 


Gregorio  di  Mo7itelongo  patriarca  cP  Aquileia         73 

feudale.  Un  suo  vicario  fece  le  sue  veci.  Il  venerdì  30  luglio  1252 
nel  palazzo  patriarcale  di  Cividale,  presenti  quali  testimoni  Ru- 
gerio,  vescovo  eletto  di  Ceneda  \  Bartolomeo  Saraceno  "vicario 
del  patriarca  eletto  ^,  Alduce  arciprete  di  Lagissio,  il  signore 
De  La  Torre  ^  arciprete  di  Padova,  si  tenne  piena  curia,  e  per 
mandato  del  patriarca  eletto  V.  di  Villalta  chiese  che  venisse 
definito,  se  un  abbate  od  un'  abbadessa  dei  monasteri  posti  nel 
patriarcato  potesse  donare,  vendere  o  dare  in  feudo  beni  che  non 
erano  mai  stati  infeudati,  senza  la  licenza  del  patriarca.  Senten- 
ziarono Leonardo,  abbate  di  Rosazzo,  Wecelo,  abbate  di  Moggio, 
Giovanni,  preposito  di  S.  Stefano,  e  i  nobili  Ermanno  di  Portis, 
Enrico  di  Villalta,  Giovanni  di  Cucagna,  Asquino  di  Varmo  e 
Duringo  di  Villalta,  che  ciò  non  era  permesso.  E  la  curia  approvò 
questa  sentenza  *.  Il  vicario  Saraceno  cessò  presto  dal  suo  ufficio, 
poiché  in  questo  stesso  anno  1252  Rogero,  vescovo  eletto  di 
Ceneda  quale  delegato  del  patriarca,  imponeva  al  capitolo  di 
Cividale  di  far  proclamare  nella  sua  chiesa  pubblicamente  scomu- 
nicato Bertoldo,  pievano  di  Kammering,  il  quale  aveva  adope- 
rato un  falso  suggello  del  capitolo  di  Gurk  ed  aveva  con  quello 
contratto  debiti  in  Curia  Romana  ^. 

Che  tumulti  ed  incursioni  guerresche  abbiano  tormentato  il 
Friuli  durante  il  1253,  abbiamo  un  indizio  in  un  atto  del  5  set- 
tembre di  quell'anno  stipulato  nella  villa  di  S.  Candido  (Candide 
in  Cadore)  prope  Aguardum  (Agordo).  Conetto  di  Osoppo,  villico 
(cioè  gastaldo)  del  patriarca  in  Carnia,  insieme  con  suo  fratello 
Corrado,  con  alcuni  amici  e  dipendenti,  rappresentati  da  Ales- 
sandro Balduino  di  Pozzale  in  Cadore,  aveva  preso  prigione 
Varnerio  di  Lavant  ed  aveva  tolto  a  lui  e  ai  suoi  sodi  e  scuti- 
feri,  armi,  cavalli  e  quanto  avevano.  Con  Varnerio  stavano  pure 
i  suoi  due  fratelli  Ainzo  ed  Ugo,  ed  inoltre  Odolrico  di  Reifen- 
berg,  Rodolfo   di  Duino,   Fulcherio   di  Flaschberg;   ciò  significa 


*  Rogero  o  Rogerino  era  stato  nominato  vescovo  di  Ceneda  dal  pa- 
triarca Gregorio  per  compromesso  del  capitolo  di  Ceneda,  cui  spettava  la 
nomina;  ed  era  stato  confermato  dal  papa  il  12  giugno  1252.  Registi-.  In- 
noc.  IV,  n.'  5750,  5751. 

-  Costui  compare  con  questo  titolo  sino  dal  12  maggio. 

3  Cioè  Della  Corta,  cfr.  l'atto  del  12  maggio  1252. 

•*  Guerra,  Otium  Foroiul.,  voi.  XIII,  p.  453,  da  pergamena  di  S.  Maria 
in  Valle. 

^  VoN  Jaksch,  Die  Kànitner,  n.  2474,  che  assegna  l'atto  generica- 
mente al  1252. 


74  Pio  PascJmii 


che  si  trattava  di  incursione  organizzata  oltr'Alpe  contro  i  ter- 
ritori patriarcali  del  settentrione.  In  quel  dì  i  tre  fratelli  giura- 
rono pace  e  concordia  coi  due  di  Osoppo,  segno  evidente  che  si 
considerarono  vinti  ^ 

Il  patriarca  però  lasciò  ben  presto  l'impresa  di  I^ombardia 
per  tornarsene  a  dirigere  le  cose  del  Friuli.  Durante  il  1253  noi 
l'abbiamo  veduto  regolare  le  faccende  dell'Istria,  e  specialmente 
quelle  di  Capodistria.  Ma,  oltre  alle  difficoltà  d'ordine  politico, 
s' aggiungevano  al  patriarca  anche  quelle  d' ordine  finanziario. 
Causa  le  guerre  che  aveva  dovuto  sostenere,  il  patriarca  Ber- 
toldo aveva  lasciato  il  patriarcato  carico  di  debiti,  e  ad  estin- 
guerli non  erano  bastati  i  provvedimenti  presi. 

3.  Della  critica  posizione  finanziaria  in  cui  ebbe  a  trovarsi 
il  patriarca  Gregorio,  ci  danno  notizia  due  lettere  del  cardinale 
Ottaviano  Ubaldini  indirizzategli  in  risposta  ad  altre  che  ne  aveva 
ricevute.  Il  celebre  cardinale  sin  dal  io  novembre  1251  aveva 
da  Innocenzo  IV  ricevuto  l'incarico  di  una  seconda  legazione 
nell'Italia  settentrionale^,  e  l'otto  marzo  1252  era  riuscito  a  rin- 
novare la  lega  lombarda  ^. 

Durante  la  prima  metà  del  1252  il  cardinale  rispondeva  ap- 
punto al  patriarca  per  compassionarlo  delle  angustie  e  delle  mo- 
lestie che  lo  opprimevano.  «  Vi  consigliamo,  soggiungeva,  di 
inviare  alla  presenza  del  sommo  pontefice  nunzi  più  solenni,  mu- 
niti di  vostre  lettere,  ed  avvertiteli  che  passino  da  noi.  Poiché 
abbiamo  in  mente  di  dare  loro  per  voi  lettere  nostre,  le  quali 
vi  presteranno  quel  consiglio  e  quell'aiuto  che  meglio  serva 
al  vostro  onore  ed  al  commodo  ed  utilità  che  vi  desideriamo. 
Ci  presenteremo  appunto,  come  avete  supposto,  alla  Curia,  e  là 
potremo  colla  nostra  presenza,  più  e  meglio  che  non  da  lontano, 
colla  parola  e  coli'  opera,  aiutati  dal  Signore,  favorire  i  vostri 
negozi  secondo  i  vostri  desideri.  Su  quello  che  ci  avete  riferito 
riguardo  al  fatto  di  Ezzelino,  abbiamo  già  capito  quello  che  con- 
venga fare  ».  Termina  poi  col  mettersi  a  disposizione  del  pa- 
triarca ^.    Insomma  il  cardinale    si    professava    pronto  a  rendere 

^  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  192;  Doc.  mss.,  n.  213. 

-  Reg.  Innoc.  IV,  n.  5787. 

3  A.  Hauss,  Kardinal  Ottavian  Ubaldini,  ein  Staatsmann  des  XIII.  Jahr- 
hunderts,  Heidelberg,   1913,  p.  42. 

•*  G.  Lievi,  Registri  dei  cardinali  Ugolino  d'  Ostia  e  Ottaviano  degli 
Ubaldini,  Roma,  1890,  p.  175.  Purtroppo  le  lettere  del  patriarca  al  cardinale 
non  ci  furono  conservate. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  cC Aquileia         75 


servig-i  e  dare  consigli,  ma  non  a  sborsare  denaro.  Lo  si  com- 
prende meglio  dalla  sua  seconda  lettera  dell'agosto  1252,  nella 
quale  fa  la  più  ampia  professione  di  amicizia  verso  il  pa- 
triarca, ma  dichiara  essergli  impossibile  d'aiutarlo,  «  Aggravati 
di  debiti,  non  bastando  a  provvedere  a  noi  stessi,  non  dovete 
meravigliarvi  se  non  possiamo  sobbarcarci,  secondo  il  vostro  de- 
siderio, ai  vostri  ed  ai  nostri  pesi.  Abbiamo  appunto  presentate 
ai  molesti  creditori  le  vostre  ripetute  lettere,  che  promettevano, 
come  di  dovere,  il  pagamento  ;  ma  essi,  pensando  alle  ripetute 
promesse  di  pagamento  rimaste  senza  effetto,  ci  provocano  sem- 
pre più,  perché  vedono  tirarsi  in  lungo  ciò,  che  secondo  le  pro- 
messe, doveva  farsi  presto  ».  Lo  esorta  quindi  a  pagare  quei 
debiti,  perché  il  pagamento  renderà  e  l' uno  e  1'  altro  più  liberi 
dalle  m.olestie  dei  creditori,  e  farà  sì  che  altri  si  sentiranno  più 
disposti  a  fare  prestiti,  quando  ne  venisse  il  bisogno.  Soggiunge 
che  gli  manderà  un  messo  che  si  fermerà  nel  patriarcato  sino 
a  S.  Michele,  al  quale  dovrà  fare  il  saldo  ^ 

Il  patriarca  dovette  pensare  subito  a  mezzi  più  efficaci  per 
avere  denari.  I  mercanti  senesi  che  avevano  servito  il  suo  pre- 
decessore si  mostravano  disposti  a  venire  in  suo  aiuto,  natural- 
mente con  loro  guadagno.  Perciò  con  un  primo  contratto  del  17 
aprile  1253,  fatto  a  Cividale,  il  patriarca  concesse  in  affitto  a 
Rainieri  Rustichini  ed  a  Rainaldo  Rainaldini  1'  antica  muta  della 
chiusa  -.  Questo  provvedimento  finanziario  non  poteva  bastare  ; 
quindi  poco  dopo,  il  24  giugno  1253,  nella  sua  casa  di  Cividale 
il  patriarca  Gregorio,  per  dieci  marche  di  moneta  aquileiese, 
concesse  a  Rainerio  Rusticino  e  Rainaldo  Rainaldi  mercanti  di 
Siena,  che  agivano  anche  per  i  loro  soci,  «  veterem  mutam  de 
«  Tumec  cum  omnibus  iuribus  et  rationibus  ad  ipsam  mutam 
«  spectantibus  »,  per  un  anno,  a  cominciare  dalla  prossima  festa 
di  S.  r^Iargherita  ^. 

^  Levi,  op.  cit.,  p.  176.  Il  cardinale  nominò  (1252?)  B.  canonico  di 
Soissons  collettore  delle  procurazioni  in  Friuli,  e  gli  impose  di  non  partir- 
sene sino  a  nuovo  ordine.  Ibid.,  p.  179. 

~  La  pergamena  rogata  da  Giovanni  de  Lupico,  conservata  nell'Archivio 
di  Stato  di  Firenze,  R.  Acquisto  Ricci,  è  molto  consunta  ed  evanida,  non 
permette  di  decifrare  i  patti  della  locazione,  né  l'anno  né  l'indizione; 
confrontata  però  coi  due  atti  seguenti,  ci  fa  capire  indubbiamente  trattarsi 
del  1253. 

'■''  Presenti:  Rogerino,  vescovo  eletto  di  Ceneda,  Alberto  de  Collice  vi- 
cedomino, Bartolomeo  di  Padova  siniscalco  patriarcale.  Atto  rogato  da  Gio- 
vanni di  Lupico.  R.  Archivio  di  Stato  di  Firenze,  R.  Acquisto  Ricci. 


"jò  Pio  Paschini 


Il  parlarsi  qui  di  una  muta  vecchia  lascia  già  sottintendere 
che  fu  introdotta  una  muta  nuova,  assai  probabilmente  dallo  stesso 
patriarca  Gregorio.  Si  trattava  di  un  inasprimento  doganale  per 
far  fronte  alle  necessità  sempre  crescenti.  In  che  cosa  consistesse 
lo  sappiamo  dall'atto  seguente. 

L'otto  luglio  1253  nella  casa  del  vescovo  di  Castello  a  Ve- 
nezia il  patriarca  Gregorio  per  150  marche  di  moneta  Aquile- 
iese  concesse  a  Rainaldo  Rainaldini  e  Gabriele  Rusticini  mer- 
canti di  Siena,  che  agivano  anche  a  nome  dei  loro  soci,  «  novas 
«  mutas  de  Clusa  et  de  Tume9,  scilicet  mutas  vmì,  salis  et 
«  ferri  »  per  nove  mesi  dalla  metà  del  maggio  passato  alla  metà 
del  febbraio  prossimo,  sotto  pena  di  25  marche  se  mancasse  ai 
patti  ;  se  poi  per  guerre  o  discordie  od  altri  motivi  le  strade 
non  fossero  libere,  oppure  quelle  mute  fossero  tolte  o  diminuite, 
sicché  quei  mercanti  non  potessero  percepire  tale  somma,  il  pa- 
triarca si  obbligava  a  risarcire  il  danno,  fidandosi  sulla  sola  loro 
parola  nel  computarlo  ^ 

Né  questo  bastò.  Ritornato  da  Venezia  a  Cividale,  pensò 
di  arricchire  in  altro  modo  la  sua  sede.  Di  pieno  accordo  col 
decano  e  col  capitolo  di  Cividale  il  14  agosto  1253  egli  sop- 
presse la  prepositura  Cividalese,  cagione  di  discordie  e  obbietto 
di  cupidigie,  la  quale  non  aveva  altro  vantaggio  che  di  rendere 
ricchi  e  prepotenti  coloro  che  l'ottenevano,  e  divise  i  beni  della 
sua  dotazione  insieme  col  capitolo.  Al  patriarcato  egli  attribuì 
la  pieve  di  Tolmino,  la  villa  de  Osellano,  i  mansi  di  Gemona  e 
d'Artegna,  il  diritto  di  conferire  la  custodia  e  lo  scolasticato  e 
di  confermare  i  canonici  ed  altri  beni  e  diritti  ;  tutto  il  resto  con- 
cesse al  capitolo  ^.  Oltre  i  proventi  che  miglioravano  assai  le  fi- 
nanze della  sede  patriarcale,  il  patriarca  teneva  così  non  solo 
feudalmente    ma  anche  ecclesiasticamente    in    modo    più    diretto 


^  Presenti  :  Giovanni  di  Cuccagna,  suo  fratello  Warnerio  canonico  di 
Aquileia,  Enrico  di  Quals  suo  compagno  canonico  di  Cividale,  Genisio  di 
Padova,  podestà  di  I^ola,  Rogerino  di  Milano  ostiario.  Atto  di  Giov.  de  Lu- 
pico.  R.  Archivio  di  Stato  di  Firenze,  R.  Acquisto  Ricci.  Cfr.  regesti  in 
Pagine  Friulane,  XV,  p.  36,  n.'  3-5. 

Rainieri  Turchi  e  suo  fratello  Giovanni  e  Gabriele  Rusticini  erano  in 
relazione  d'affari  con  Matteo  Trivisano,  Marino  Zorzani  e  Pietro  Zorzani  di 
Venezia.  Fra  loro  avvenne  una  liquidazione  d'interessi  a  Trieste  il  18  gen- 
naio 1254.  Pergam.  in  R.  Archivio  di  Stato  di  Firenze,  R.  Acquisto  Ricci. 

-  De  Rubeis,  M.  E.  A.,  col.  739.  Cfr.  queste  Memorie,  XI,  1915, 
p.   158  sg. 


Gregorio  di  Mo7ttelongo  patriarca  d' Aquileia         yj 

V  importante  posizione  di  Tolmino,  la  chiave  di  volta  dei  possessi 
feudali  del  patriarcato  nella  valle  superiore  dell'Isonzo. 

Al  bisogno  urgente  di  trovar  denaro  attribuisco  pure  il  ten- 
tativo del  patriarca  Gregorio  di  riscuotere  le  procurazioni  che 
gli  erano  ancora  dovute  per  la  sua  legazione  in  Lombardia  e 
non  gli  erano  ancora  state  pagate.  A  questo  tentativo  si  oppose 
papa  Innocenzo  IV.  Con  lettera  dell' 8  novembre  1253  il  papa 
impose  ad  alcuni  giudici  ecclesiastici  di  ridurre  al  silenzio  Da- 
nisio  di  Osenago,  cittadino  di  Milano,  a  cui  il  patriarca  aveva 
ceduti  i  suoi  diritti  ed  azioni  per  esigere  dal  preposito  e  dal 
clero  di  Lodi  otto  anni  di  procurazioni,  e  con  un'altra  del  25 
maggio  1254  liberò  il  capitolo  ed  il  clero  di  Asti  da  ogni  mo- 
lestia da  parte  degli  agenti  del  patriarca  stesso  per  il  paga- 
mento di  tali  procurazioni,  eccetto  il  caso  di  una  lettera  aposto- 
lica che  revocasse  esplicitamente  quest'esenzione  ^ 

Queste  misure  del  papa  non  ritengo  si  debbano  attribuire  a 
malanimo  contro  il  Montelongo,  ma  al  desiderio  di  ridurre  in 
pace  r  Italia  settentrionale  e  di  cancellare  gli  antichi  odi  e  ge- 
losie. Infatti  Lodi  era  ritornata  in  seno  al  partito  guelfo  solo  nel 
1251,  ed  era  duro  obbligare  il  clero  a  pagare  le  procurazioni 
anche  per  il  periodo  nel  quale  la  città  era  stata  in  mano  dei 
ghibellini  ;  ed  altrettanto  si  dica  di  Asti. 

Invece  altri  provvedimenti  si  presero  per  pagare  i  debiti 
contratti  dalla  chiesa  di  Aquileia  ;  e  papa  Innocenzo  IV  li  san- 
zionò con  due  lettere  date  da  Assisi  il  23  maggio   1254. 

Coir  una  il  papa  comandò  al  vescovo  eletto  di  Ceneda  di 
raccogliere  la  decima  di  tutti  i  proventi  ecclesiastici,  sia  delle 
chiese  cattedrali  sia  delle  altre  nelle  città,  diocesi  e  provincia  di 
Aquileia,  e  di  assegnarla  a  Gregorio  di  Montelongo  eletto  di 
Aquileia,  a  cui  egli  l'aveva  concessa  per  tre  anni  quale  sussidio 
per  pagare  i  debiti. 

Coir  altra  il  papa  incaricò  il  vescovo  di  Castello  di  conce- 
dere per  la  durata  di  un  triennio  allo  stesso  eletto  di  Aquileia 
tutti  i  redditi  e  proventi  di  un  anno  delle  prebende  e  benefici 
che  rimanessero  vacanti  nella  città,  diocesi  e  provincia  di  Aqui- 
leia. E  poiché  la  città  di  Aquileia  aveva  il  diritto  di  godere  per 
tutto  un  anno  i  redditi  dei  benefici  che  rimanevano  vacanti  nella 
città  e   diocesi   allo   scopo    di    provvedere  ai  bisogni  della  città 


i  Reg.  Innocent.  IV,  n.'  7073,  7547. 


78  Pio  Paschini 


stessa,  volle  che  la  città  godesse  del  suo  privilegio  per  il  secondo 
anno,  ma,  passato  il  triennio,  tutto  dovea  ritornare  com'era  prima  ^ 
4.  Oggetto  di  speciali  trattative  fu  il  rinnovamento  del  trat- 
tato tra  il  Friuli  e  la  republica  di  Venezia.  Il  patriarca  ed  il 
doge  Rainieri  Zeno  ne  fecero  oggetto  di  un  prolungato  dibat- 
tito, che  iniziatosi  in  Friuli  si  chiuse  a  Venezia  il  24  aprile 
1254  ^.  Come  fondamento  fu  preso  il  patto  stretto  fra  la  repu- 
blica ed  il  patriarca  Bertoldo  l'S  giugno  1222  e  l'altro  patto  del 
14  settembre  1248,  introducendovi  quei  mutamenti  che  le  circo- 
stanze storiche  rendevano  necessari.  Eccone  il  tenore: 

i."  I  veneziani  nel  ducato  del  patriarcato  di  Aquileia  do- 
vevano essere  sicuri  nelle  persone  e  nelle  robe  ;  se  qualcuno  del 
patriarcato  facesse  danno  in  mare  fra  i  posti  di  Baseleghe  e  di 
Primero  ad  un  veneziano,  il  patriarca  era  tenuto  a  risarcirlo 
entro  30  giorni  a  sue  spese  ; 

2.°  Il  doge  doveva  avere  il  suo  vicedomino  ad  Aquileia 
per  rendere  ragione  e  giustizia;  ed  i  non  veneziani  dovevano 
appellare  al  doge;  i  veneziani  che  stessero  in  giudizio  davanti 
l'avvocato  aquileiese  od  il  conte  di  Gorizia  potevano  appellare 
al  patriarca  ; 

3.'*  Solo  i  veneziani  potevano  far  testimonianza  contro  i 
veneziani  secondo  l'uso  e  la  consuetudine  della  curia  ducale; 

4.°  I  portolani  potevano  portare  a  Venezia  da  Aquileia 
tanta  biava  quanta  fosse  sufficiente  alla  loro  famiglia,  e  non  po- 
tranno essere  oppignorati  da  friulani  ; 

5.°  I  veneziani  che  scambiavano  sale,  cipolle  e  aglio  con 
biava  potevano  trasportare  questa  dove  volessero  ; 

6,°  Se  i  veneziani  fossero  espulsi  dal  patriarcato  o  richia- 
mati dal  doge,  il  patriarca  doveva  dare  loro  sicurtà  fra  i  porti 
di  Baseleghe  e  Primero  ; 

7.°  Il  vicedomino  del  doge  aveva  diritto  del  quarantesimo 
di  due  stazioni,  di  usare  proprie  stadere,  pesi  e  bilance  per  esi- 
gere quanto  gli  spettava,  non  era  tenuto  a  pagare  imposta  sui 
suoi  beni,  ma  non  doveva  commettere  frodi  ; 

8.°  Egli  era  tenuto  a  punire  le  offese  fatte  dai  veneti  nel 
patriarcato  ;  al  solo  doge  però  era  riservata  la  pena  del  sangue  ; 


1  Reg.  Innocent.  IV,  n.'  7505-06. 

~  Nel  MiNOTTO,  Doc.  ad  Forumjul.  cit.-;  p.  23,  per  errore  il  trattato  porta 
la  data  del  7  aprile;  ci  sta  infatti:  VII  aprii,  invece  che:  die  veneris  VII 
exctint.  aprii. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  c{  Aquileia         79 


9.°  Il  patriarca  doveva  far  ragione  e  giustizia  delle  offese 
fatte  ai  veneziani  nel  patriarcato  da  parte  dei  friulani  o  di  qua- 
lunque altro  ; 

io.°  I  veneziani  non  erano  soggetti  nel  patriarcato  a  nes- 
suna gabella,  eccetto  la  muta  ;  dovevano  pagare  però  :  casaticiim, 
hospitium  et  fictum  secondo  1'  uso  d' Aquileia  ; 

ii.°  Il  patriarca  doveva  continuar  ad  inviare  ogni  anno  i 
12  pani  ed  i   12  porci  al  palazzo  del  doge  *; 

12.°  Il  patriarca  non  era  tenuto  a  dar  soddisfazione  dei 
danni  fatti  ai  veneziani  da  quei  di  Prata  e  Porcia  cttin  sint  itti 
extra  suain  gratiani  ^,  ma  doveva  dar  aiuto,  come  poteva,  perché 
i  veneziani  avessero  il  loro.  Dei  danni  che  costoro  facessero  dopo 
tornati  in  grazia,  il  patriarca  era  responsabile  nel  modo  degli 
altri  nel  patriarcato  ; 

13."  Il  patriarca  si  obbligava  a  far  giurare  al  conte  di  Go- 
rizia di  osservare  quanto  avevano  osservato  i  suoi  predecessori  ^  ; 

14."  Il  patriarca  permetteva  che  si  trasportassero  dal  Friuli 
a  Venezia  frumento,  legnami,  biava  ecc.  ;  toglieva  i  dazi  insoliti 
imposti  sul  sale,  ferro,  pegola  ed  altre  mercanzie  *,  e  ritornava  in 
tutto  all'antica  consuetudine; 

15.°  Il  patriarca  doveva  dar  ragione  e  fare  giustizia  per 
le  ruberie  fatte  ai  veneziani  al  tempo  dei  suoi  predecessori  ;  e 
definire  su  quelle  fatte  dopo  che  il  doge  aveva  comandato  ai  ve- 
neziani di  uscire  dal  Friuli,  salvi  i  pegni  concessi  dal  doge  sui 
beni  del  patriarcato  ; 

i6.°  UniLS  de  melioribzis  viris  del  PViuli  residente  in  Aqui- 
leia, dopo  giurato  nelle  mani  del  patriarca,  doveva  far  ragione 
dei  debiti  e  delle  altre  petizioni  che  facessero  i  veneziani  contro 
gli  uomini  del  patriarcato  ; 

17.°  Gli  uomini  di  Grado  dovevano  essere  trattati  nel  ter- 
ritorio del  patriarcato  secondo  le  antiche  consuetudini  ; 

18.°  Il  doge  concedeva  per  grazia  che  il  patriarca  potesse 
condurre  ad  Aquileia  dalla  canipa  sua  del  monastero  di  S.  Maria 
in  Istria  1500  anfore  di  vino  e  500  moggi  di  biava; 

ig."  E  concedeva  inoltre  che  il  sale  si  portasse  in  Friuli 
come  per  il  passato,  pagando  cioè  alla  republica  io  libre  di  de- 


^  Questi  primi  articoli  sono  eguali  a  quelli  del  patto  del  1222. 
~  I  Prata  e  Porcia  erano  sempre  legati  al  partito  di  Ezzelino  da  Romano. 
3  II  conte  di  Gorizia  giurò  l'osservanza  del  trattato  l'anno  seguente. 
•*  Si  allude  qui  alla  novae  mutae  di  cui  abbiamo  fatto  cenno  sopra. 


8o  Pio  Paschini 


nari  veneti  per  cento  de  datio  et  quintuìn.  Se  il  sale  che  si  tra- 
sportava a  Portogruaro  ed  a  Porto  Latisana  si  trasportasse  poi 
a  Padova,  avrebbe  stabilito  il  doge  il  dazio  da  esigersi; 

20.°  Concedeva  pure  ai  militi,  chierici  e  dame  del  Friuli 
lo  sgravio  del  dazio  sui  panni  che  comperassero  a  Venezia  per 
gli  abiti  loro; 

2  1.'*  Rimetteva  pure  i  dazi  insoliti,  che  fossero  stati  im- 
posti in  pregiudizio  degli  uomini  del  patriarcato. 

Tutti  questi  articoli  furono  pubblicati  dinanzi  al  doge  ed  al 
maggior  consiglio  congregato.  Testi  per  il  patriarca  furono  :  Gual- 
terio,  vescovo  di  Treviso,  Rugerio  eletto  di  Ceneda,  Berengerio 
prepositus  s.  Odorici  de  Utino,  Nicolò  de  Lupico  scriptor,  Pere- 
grino e  Pauluzzo  cappellani  patriarcali  ed  i  nohiles  viri  Enrico 
di  Castellerio,  Ermanno  di  Portis,  Giovanni  di  Cuccagna  ^ 

L'atto  ebbe  l'ultima  sanzione  solenne  a  Udine  il  6  giugno 
quando  Gregorio,  rispondendo  alle  richieste  di  Enrico  Foscarini 
e  di  Marco  Quirini,  ambasciatori  di  Venezia,  disse  di  essere 
pronto  a  giurare  il  patto  concluso  ;  ed  infatti  Guarnerio  de  Porto, 
per  sua  commissione,  giurò  in  animam  ipsius  d.  patriarche  V  os- 
servanza del  trattato  ".  Da  questo  momento  il  patriarcato  rimase 
in  piena  pace  colla  republica;  e  s'aiutarono  a  vicenda  nel  debel- 
lare il  partito  ghibellino  ancora  forte  nella  Marca  Trivigiana  in 
grazia  della  tirannide  di  Ezzelino  da  Romano. 

5.  Contro  il  partito  ghibellino  il  patriarca  pensò  a  munirsi 
seriamente  sin  da  principio,  specialmente  nelle  parti  più  esposte 
alle  incursioni  nemiche  ;  seguendo  in  ciò  1'  esempio  lasciatogli  dal 
predecessore. 

Certo  a  questa  sua  premura  si  deve  la  costruzione  del  gìronum 
di  Portogruaro  a  difesa  del  Friuli  e  della  chiesa  di  Concordia, 
ridotta  in  malo  stato,  in  causa  della  guerra,  per  opera  di  Ezze- 
lino da  Romano  e  dei  signori  di  Prata.  Ce  lo  riferisce  lo  stesso 


^  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.'  193-194;  Doc.  jhss.,  n.  215.  Lorenzo  de 
Monacis  nel  suo  Cronicon  de  rebus  Venetis  (scritto  sul  principio  del  secolo  XV 
e  pubblicato  a  Venezia  nel  1758)  fondandosi  su  questo  trattato  scrisse:  «  Post 
«  multas  discordias  subortas  inter  Venetos  et  Foro-Julianos,  Gregorius  de 
«  Montelongo  Patriarcha  electus  veniens  Venetias  novis  contractis  pactioni- 
«  bus  partes  pacificavit  »  (p.  252). 

-  Testi:  Rugerio  vescovo  di  Ceneda,  il  preposito  di  S.  Odorico  di 
Udine,  Giovanni  di  Cucagna,  Asquino  di  Varmo.  Di  questo  trattato  fa  ap- 
pena un  cenno  brevissimo  il  Dandolo  nella  sua  cronaca.  Cfr.  R.  I.  S.,  tomo 
XII,  p.  363. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  cC  Aquileia         8i 

patriarca  in  un  documento  del  27  marzo  1265  S  e  ci  aggiunge 
che  la  chiesa  di  Concordia  era  vacante,  quando  si  costruì  quella 
difesa.  Quando  il  patriarca  facesse  questo  non  si  può  dire  con 
precisione;  ad  ogni  modo  entro  i  primi  due  anni  del  suo  go- 
verno, poiché  nel  1254  egli  affidò  ad  Enrico  Squarra  di  Porto- 
gruaro  custodìain  dolonìs  (torre  o  maschio  di  fortezza)  ciusdem 
loci',  ed  Enrico  giurò  di  custodirlo  a  nome  del  patriarca  cantra 
omneni  personam  de  mundo,  di  tenerlo  aperto  al  patriarca  stesso 
e  di  restituirlo  quando  ne  fosse  richiesto  ". 

In  quest'anno  egli  diede  pure  a  Rogerino  di  Milano  suo 
ostiario  sette  mansi  a  Forni,  eh'  erano  stati  già  di  Varnerio  d' Ar- 
tegna  traditore  della  chiesa  d' Aquileia  ed  in  causa  del  suo  tra- 
dimento erano  ritornati  in  libera  proprietà  della  chiesa  ^. 

Pur  troppo  pochi  documenti  e  regesti  sono  rimasti  di  que- 
st'anno,  i  quali  potrebbero  indicarci  i  movimenti  nelle  proprietà 
e  nei  feudi  introdotti  dal  patriarca  per  la  sua  opera  di  assesta- 
mento del  patriarcato. 

Con  Ugolino  fratello  di  maestro  Ada  canonico  di  Modena 
e  coi  suoi  fratelli  egli  fece  un  cambio,  togliendogli  certi  beni  che 
erano  in  antecedenza  feudo  di  Enzo  di  Belgrado  e  che  per  la 
sua  morte  erano  ritornati  alla  chiesa,  e  dandogliene  altri  altrove  *. 

A  Giovanni  di  Cucagna  diede  in  feudo  due  mansi  presso 
Cuccagna  in  cambio  di  due  mansi  che  gli  tolse  nella  gastaldia 
di  Tolmino  ^.  Forse  premeva  al  patriarca  di  ordinare  meglio  i 
feudi  in  questa  importante  regione. 

A  Trifolino  di  Udine  rinnovò  l' investitura  di  un  manso 
presso  il  castello  di  Buttrio,  quale  feudo  d' abitanza  ^. 

Un  tale  Monaco  di  Udine  rinunciò  un  feudo  di  abitanza  che 
aveva  ad  Udine  ed  a  Nimis  e  ad  un  feudo  legale  che  aveva  a 
Caporiacco  ;  ed  il  patriarca  ne  investì  sua  moglie  Suritta  e  le 
sue  figlie  Margarita  e  Benvenuta  per  grazia  speciale,  colla  clau- 


*■  Bianchi,    Doc.    Reg.,   n.  289;    Doc.  mss.,    n.  308.    Cfr.   E.  Decani, 
Guecello  II  di  Praia  ecc.,  p.  36;  Id.,  Il  comune  di  Portogruaro,  p.  86. 

2  Reg.  nel  Cod.  De  Rubeis    cit.,  p.  33    (in  queste    Memorie,   X,  1914, 
p.  82)  da  un  atto  di  Giov.  de  Lupico. 

3  Thesaurus,  p.  155,    n.  300;   p.  200,   n.  431;    p.  213,    n.  475.  Reg.  in 
Cod.  De  Rubeis,  loc.  cit.,  p.  19  (in  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  108). 

^  Thesaurus,  p.  154,    n.  299;    p.  199,  n.  430;    p.  212,    n.  474.   Reg.  in 
Cod.  De  Rubeis,  loc.  cit.,  p.  19  (in  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  108). 
^  Thesaurus,  p.  156,  n.  303;  p.  211,  n.  469. 
6   Thesatirus,  p.   155,  n.  301;  p.  213,  n.  477. 

6 


Pio  Paschini 


sola  che  se  queste  sposassero  uomini  non  sudditi  della  chiesa 
d' Aquileia,  quei  feudi  sarebbero  ritornati  alla  chiesa  stessa  ^  Era 
un  mezzo  per  impedire  l' ingerenza  di  estranei  nei  beni  della  sede 
aquileiese,  e  la  dispersione  delle  sue  proprietà.  Insieme  colle 
infeudazioni  fatte  a  Capodistria  questo  è  quanto  abbiamo  per 
l'anno   1254. 

Dal  maggio  in  poi  il  patriarca  rimase  in  Friuli.  Si  trovava 
ad  Udine  sino  dal  18  maggio  1254.  In  quel  giorno  infatti  egli 
di  là  scriveva  una  lettera  a  Corrado  di  Buia  suo  gastaldo  in 
Maniago,  imponendogli  di  cessare  dal  rendere  giustizia  a  Claut 
e  Cimolais,  perché  in  quei  luoghi  aveva  «  plenum  et  merum  do- 
«  minium  »  1'  abbate  di  Sesto  '. 

Il  26  giugno  il  patriarca  era  presente  a  Cividale  alla  pro- 
messa che  per  suo  volere  Giovanni  de  Braida,  gastaldo  di  Civi- 
dale, fece  ad  Enrico  di  Villalta  di  dargli  soddisfazione  delle  vio- 
lenze usategli  nei  suoi  possessi  di  S.  Quirino  sul  Natisone  ^. 

Il  12  agosto  1254  ad  Udine  il  patriarca  Gregorio  consegnò 
all'  abbazia  di  Obernburg  la  pieve  di  Peilstein  coli'  ius  archidia- 
conatus,  alla  quale  aveva  rinunciato  il  pievano  Roberto  *. 

L' 1 1  settembre  1254  pure  a  Udine  nel  palazzo  patriarcale, 
alla  presenza  del  patriarca  Gregorio,  di  Rugerino  vescovo  eletto 
di  Ceneda,  di  Alberto  vicedomino  patriarcale,  il  conte  Mainardo 
di  Gorizia  investì  Ainzo  di  Ragogna  in  feudo  retto  e  legale 
della  villa  di  Villanova  a  mezzodì  di  Pordenone  con  tutte  le  sue 
dipendenze,  obbligandosi  a  difenderlo  e  proteggerlo  sotto  pena 
di  2000  lire  di  denari  '". 

Il  16  settembre  ad  Udine  il  patriarca  diede  in  retto  e  le- 
gale feudo  ai  fratelli  Enrico  e  Rantolfo  di  Villalta  i  beni  de 
feudo  mtnisteru  et  de  tato  proprio  che  erano  appartenuti  a  Ver- 
gelone  di  Fagagna  ed  a  Corrado  suo  genero    per    premiarli    dei 

^   Thesaurus,  p.  177,  n.  366. 

-  Bibliot.  di  S.  Daniele,  voi.  LXXIII,  Varia  Fontanini,  p.  155. 

3  Presenti  :  Enrico  di  Castellerio,  Petrusso  notaio  di  Cividale,  Rugerino 
di  Milano  ostiario  del  patriarca.  Cfr.  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  311.  Simile 
promessa  fu  ripetuta  poi  il  4  giugno  1262  da  Enrico  di  Tricesimo  gastaldo 
di  Cividale  per  ordine  di  Giovanni  arcidiacono  rappresentante  del  patriarca. 
Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  271  ;  Doc.  mss.,  n.  293. 

^  Zahn,    17.  B.  Steierm.,  Ili,  p.  222,  n.  147. 

^  Archiv.  di  Stato  di  Vienna,  cod.  447,  f.  29.  Furono  inoltre  presenti: 
Berengero  preposito  di  S.  Odorico,  Rantolfo  di  Villalta,  Asquino  di  Varmo, 
Cono  di  Moruzzo,  Giovanni  di  Cucagna,  Varnerio  di  Ragogna,  Ivo  di  Por- 
denone. 


Gregorio  di  Montelongo  patriarca  cC  Aquileia         83 

servizi  prestatigli,  imponendo  però  loro  l' obbligo  di  prestare 
quel  servizio  a  cui  erano  tenuti  coloro  che  possedevano  anterior- 
mente quel  feudum  ministerii  ^.  Così  questa  schiatta  di  liberi 
divenne  ministeriale  per  avere  il  godimento  di  quei  beni  che 
diede  loro  il  patriarca. 

Frattanto  la  morte  di  Corrado  IV  avvenuta  il  20  maggio 
potè  fare  sperare  che  le  vicende  italiche  si  volgessero  ad  una 
soluzione  e  che  si  potesse  facilmente  ottenere  un  po'  di  pace  du- 
ratura. Lo  sperò  infatti  anche  papa  Innocenzo  IV  che  il  22  giu- 
gno 1254  scrisse  da  Anagni  lettere  al  vescovo  di  Mantova,  agli 
arcivescovi  di  Ravenna,  di  Milano,  di  Genova,  al  patriarca  eletto 
di  Aquileia  e  ad  altri  vescovi  esortandoli,  morti  ormai  Federico  II 
e  Corrado  IV,  ad  offrire  la  grazia  e  la  benevolenza  della  sede 
apostolica  a  tutti  coloro  che  erano  stati  in  lotta  colla  chiesa  e 
che  avevano  aderito  ai  due  defunti  sovrani  ^. 

Come  accogliesse  quest'  esortazione  il  patriarca  Gregorio,  non 
si  può  dire.  Certo  è  ad  ogni  modo  ch'egli  aveva  a  che  fare  con 
ghibellini  eh'  erano  risoluti  a  non  piegarsi  e  che  speravano  assai 
nella  solidità  della  loro  condizione  ed  in  un  futuro  mutamento  in 
loro  favore  delle  cose  di  Germania. 

Un  altro  fatto,  che  non  può  non  apparire  strano  e  del  quale 
non  so  davvero  dare  una  adeguata  spiegazione,  è  questo,  che 
durante  il  1254  il  patriarca  fu  colpito  dalla  scomunica.  Infatti 
papa  Innocenzo  IV  delegò  i  vescovi  di  Fola,  Pedena  e  Capo- 
distria  a  confermare  l'elezione  di  Arlungo  di  Voitsberg,  eletto 
vescovo  di  Trieste,  perché  il  patriarca,  a  cui  spettava  quella 
conferma  era  legato  dalla  scomunica  (27  nov.  1254);  e  con  un'altra 
lettera  del  24  novembre  diede  partecipazione  allo  stesso  patriarca 
di  questa  delegazione  ^.  Forse  non  è  troppo    arrischiato    il    sup- 

^  Fra  i  testi  v'erano:  Rogerino,  vescovo  eletto  di  Ceneda,  Federico  di 
Colmalisio  gastaldo  di  Udine,  Geroldo  de  Legio,  Alberto  vicedomino,  arci- 
diacono di  Ceneda.  Bianchi,  Doc.  Reg.,  n.  198;  Doc,  mss.,  n.  220.. 

-  /veg.  binocent.  IV,  n.  7789.  Questo  desiderio  di  ricondurre  la  pace 
nella  cristianità  aveva  dimostrato  il  papa  sin  dal  13  gennaio  1254  col  coman- 
dare al  sottopriore  dei  domenicani  di  Parigi  di  liberare  Giovanni,  conte  di 
Fiandra,  dalla  scomunica,  della  quale  era  stato  colpito  dal  legato  Gregorio 
di  Montelongo,  giacché  si  scusava  di  avere  combattuto  insieme  col  re  Enzo 
contro  i  fedeli  della  Chiesa,  soltanto  per  vendicarsi  di  offese  patite.  Bòhmer, 
R.  /.,  V,  n.  8673. 

3  Reg.  Innocent.  IV,  n.'  8223  e  8243;  Bòhmer,  R.  /.,  n.  8877.  Però 
Arlungo  non  ebbe  l'episcopato,  che  il  13  marzo  1255  papa  Alessandro  IV 
assegnò  invece  al  suo  emulo  Warnero  di  Cucagna. 


84  Pio  Paschini 


porre  che  questa  scomunica  piombasse  sul  patriarca  per  essersi 
egli  opposto  alla  concessione  della  prepositura  di  Cividale,  che 
il  papa  stesso  aveva  data  a  Manfredo  di  Saviola  ^ 

Questa  rottura  però  non  poteva  durare  a  lungo;  e  siccome 
sappiamo  che  il  Montelongo  figura  come  investito  della  prepo- 
situra stessa,  dobbiamo  credere  che  colla  morte  del  papa  (7  di- 
cembre 1254)  si  trovasse  un  modo  di  comporre  il  dissidio.  Il 
nuovo  papa  Alessandro  IV,  senza  perdere  nulla  della  sua  di- 
gnità, poteva  infatti,  per  amore  di  pace  e  di  concordia,  tempe- 
rare le  misure  troppo  aspre  prese  dal  suo  antecessore. 

Pio  Paschini. 

(Continua) 


*  Cfr.  queste  Memorie,  XI,  1915,  p.   159. 


ANEDDOTI 


Confini   friulani. 

Note. 

I.  Non  intendo  parlare  del  confine  stabilito  fra  la  republica 
di  Venezia  e  l'arciduca  d'Austria  e  Stiria  in  seguito  alle  guerre 
del  1508-15 14  ed  alla  guerra  dì  Gradisca  nel  secolo  seguente, 
perché  esso,  specialmente  dalla  testata  di  Valle  del  Natisone 
all'Adriatico,  era  quanto  più  di  capriccioso  e  d'innaturale  si  possa 
immaginare  ;  intendo  invece  parlare  dei  confini  su  due  punti  per 
il  tempo  antecedente  a  quell'epoca. 

Cominciamo  dal  settentrione.  Sin  a  prima  della  guerra  odierna 
il  confine  da  monte  Croce  di  Comelico  al  monte  Lodin  seguiva, 
o  bene  o  male,  la  linea  di  spartiacque;  poi  dal  monte  Lodin  a 
Pontebba  il  confine  era  tracciato  sul  fondo  della  valle  ;  quindi 
risaliva  allo  spartiacque  sino  alla  testata  di  vai  di  Resia.  Viene 
spontanea  la  domanda,  com'  è  che  il  confine  non  sale  dal  Lodin 
sino  alla  testata  di  vai  di  Fella,  cioè  sino  al  passo  di  Saifìiiz, 
per  discendere  di  là  alla  testata  di  vai  Dogna?,  tanto  più  che  la 
popolazione  compresa  fira  Pontebba  e  Saifniz,  non  si  può  dire 
fosse  originariamente  tedesca,  ma  invece  slovena.  È  evidente 
che  a  Saifniz  era  il  confine  romano  fra  la  provincia  della  Venetia 
et  Histria  ed  il  Noricum  Mediterraneum. 

L' anomalia  si  spiega,  a  mio  modo  di  vedere,  nella  guisa 
seguente.  E  noto  come  tutto  questo  territorio  delle  Alpi  Carniche 
orientali  e  Giulie  fosse  profondamente  sconvolto  dalle  invasioni 
barbariche.  Verso  il  mille  era  là  tutto  da  rifare,  si  può  dire; 
boschi  e  fiumi  occupavano  soli  quei  territori  poco  o  punto  abi- 
tati. Nella  seconda  metà  del  secolo  decimo  gli  imperatori  di  casa 
Sassone  tennero  sempre  uniti  sotto  un  unico  duca  il  P>iuli  e  la 
Carintia  e  ad  essi  fu  pure  saltuariamente   unita   perfino   la   Ba- 


86  Pio  Paschini 


viera  *  ;  i  confini,  dunque,  fra  la  Carintia  ed  il  Friuli  non  rimasero 
allora  ben  precisi.  Enrico  II  imperatore,  ultimo  di  casa  Sassone, 
era  stato  duca  di  Baviera  sino  dal  995  ;  e  volle  erigere  colà  la 
nuova  sede  vescovile  di  Bamberga,  togliendo  una  parte  di  ter- 
ritorio alla  diocesi  di  Wùrzburg.  Bisognava  dotare  quella  nuova 
sede,  e  perciò  le  diede  fra  l'altro  nel  1014  tutto  il  territorio  di 
Arnoldstein,  Tarvis,  Pontafel  insieme  con  Predil;  territorio  che 
senza  soluzione  di  continuità  andava  dalle  sponde  della  Drava 
per  il  passo  di  Saifniz  sino  alla  Pontebbana  ed  al  Predil.  In 
questa  regione  più  tardi,  nel  1 106,  Ottone  I,  vescovo  di  Bamberga, 
sul  luogo  del  rovinoso  castello  di  Arnoldstein  eresse  il  mona- 
stero dello  stesso  nome  ^.  Più  tardi  ancora,  in  sui  primi  del  se- 
colo XIII  vediamo  che  Corrado,  vescovo  di  Trieste,  assegnò  la 
villa  di  Leopoldskirchen  all'ospedale  di  S.  Spirito  presso  Ge- 
mona  ^.  Aveva  avuta  la  famiglia  di  quel  vescovo  in  allodio  od 
in  feudo  dalla  chiesa  di  Bamberga  tale  possesso?  non  lo  sappiamo, 
ma  può  essere  probabile.  Non  si  ha  memoria  di  contese  fra  la 
chiesa  di  Bamberga  ed  il  patriarcato  per  i  confini  verso  Pontebba, 
perché  essi  erano  abbastanza  determinati  ;  frequenti  e  tempestose 
furono  invece  le  contese  fra  l' abbazia  di  Moggio  e  la  chiesa  di 
Bamberga  per  i  confini  verso  Raibl,  che  non  poterono  essere 
definite  che  ai  tempi  dì  Maria  Teresa,  come  si  può  vedere  nei 
documenti  riprodotti  dall'Antonini  nel  suo  Friuli. 

Inoltre  nel  1060  Enrico  IV  donò  alla  chiesa  di  Bamberga 
anche  Villacco,  che  divenne  un  importante  mercato.  Non  basta 
ancora:  la  chiesa  di  Bamberga  comprò,  prima  del  11 74,  da  Co- 
rado  conte  di  Raabs,  burgravio  di  Norimberga  (un  Hohenzollern), 
Feldkirchen  con  Dietrichstein  e  Pràgrad  dall'altra  parte  della 
Drava;  e  cosi  formò  nel  paese  un  vero  principato  puramente 
temporale  *  ;  la  cura  spirituale  apparteneva,  per  i  territori  sulla 
destra  della  Drava,  al  patriarca  di  Aquileia,  che  teneva  per  questo 
un  suo  arcidiacono  a  Villacco. 


^  Cfr.  il  mio  :  Le  vicende  politiche  e  religiose  del  Friuli  nei  secoli  IX 
e  X,  Venezia,  191 1,  p.  104. 

-  Cfr.  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  334. 

3  Queste  Memorie,  XI,  1915,  p.  36. 

"*  A.  VON  Jaksch,  Die  àlteren  Hohenzollern  und  Kàrnten,  in  Mittei- 
lungen  des  Instituts  fùr  oesterreichische  Geschichtsforschungen,  1912,  p.  351. 
Quest'autore  ricorda  anche  gli  altri  possessi  che  la  chiesa  di  Bamberga  aveva 
in  Carintia,  ma  essi  non  fanno  al  caso  nostro. 


ConJl7ii  friulani  87 


Per  non  turbare  dunque  l' unità  dei  possessi  di  questo  prin- 
cipe dell'  impero,  eh'  era  il  vescovo  di  Bamberga,  i  confini  nella 
parte  superiore  del  corso  del  Fella  subirono  quella  curiosa  ano- 
malia, che  fino  a  ieri  s'è  osservata. 

2.  Com'è  noto,  il  conte  di  Gorizia  era  vassallo  diretto  del 
patriarcato  per  Gorizia  e  luoghi  circostanti.  Ma  il  patriarca  di- 
venne anche  signore  della  Marca  Venda,  ora  Carniola  centrale 
e  meridionale.  Quale  era  precisamente  il  confine  fi-a  la  Contea 
Friulana  e  la  Marca  Venda?  Per  la  valle  superiore  dell'Isonzo 
non  e'  è  questione  ;  essa  era  annessa  certamente  al  Friuli  e  for- 
mava parte  di  esso  sino  al  secolo  XVI;  la  valle  inferiore  del- 
l'Isonzo era  pure  territorio  friulano;  la  republica  veneta  tenne 
Monfalcone  e  il  suo  territorio  sotto  il  suo  dominio  sino  alla  sua 
caduta.  Ma  mentre  nella  valle  superiore  il  confine  era  segnato 
dalle  montagne  della  riva  sinistra  dell'Isonzo  e  dei  suoi  affluenti; 
quale  era  il  confine  sul  Carso? 

E  ben  noto  come  nel  regime  feudale,  per  circostanze  specia- 
lissime, sia  talvolta  ben  difficile  determinare  i  confini  precisi. 
Troppe  volte  i  confini  naturali  sono  violati  da  interessi  partico- 
lari, che  nulla  hanno  a  che  fare  col  benessere  e  colla  difesa  delle 
nazioni.  Molte  volte  però  ci  aiutano,  come  in  questo  caso,  i  con- 
fini ecclesiastici;  perché  quand'essi  sono  antichi  e  non  modificati 
sotto  l'influenza  di  interessi  temporali,  coincidono  col  vantaggio 
delle  popolazioni  e  colle  primitive  grandi  circoscrizioni  civili. 

La  parte  meridionale  del  Friuli  stava  sotto  il  governo  imme- 
diato dell'arcidiacono  di  Aquileia,  il  cui  potere  verso  oriente  si 
estendeva  quanto  il  territorio  friulano.  Ma  facciamo  anzi  tutto 
una  constatazione. 

Mentre  il  grosso  dei  possessi  del  capitolo  patriarcale  di 
Aquileia  si  estendevano  «  a  monte  qui  dicitur  Grast  (o  Cars) 
«  usque  ad  stratam  Ungarorum  et  usque  ad  villam  quae  dicitur 
«  Hage  »,  cioè  dalle  ultime  pendici  occidentali  del  Carso  verso 
la  bassa  pianura  friulana  *  ;  quelli  invece  dell'  abbazia  della  Be- 
ligna,  instaurata  dal  patriarca  Wodolrico  I,  penetravano  proprio 
nel  Carso. 

Il  patriarca  dice  infatti  che  S.  Giovanni  sul  Timavo,  cioè 
S.  Giovanni  di  Duino,  «  era  stato  una  volta  monastero  assai  cele- 
brato,  ma   che   poi   era  stato  distrutto  e  ridotto  a  poveri  ruderi 

^  Cfr.  queste  Memorie,  X,  1914,  p.  178. 


88  *  Pio  Paschini 


ed  era  andato  soggetto  a  servitù  laicale  »,  cioè  il  territorio  era 
stato  usurpato  da  signori  ;  perciò  egli  volle  rialzare  quella  chiesa, 
come  realmente  fece,  e  l' affidò  all'  abbazia  della  Beligna  con  tutti 
i  possessi  che  si  estendevano  dal  fiume  Ponteda  alla  valle  de 
Catyno,  e  col  mulino  di  Malchinasella  *  ;  naturalmente  i  monaci 
dovevano  provvedere  al  servizio  divino  di  tutta  la  pieve. 

Quando  l'abbazia  della  Beligna  fu  soppressa,  la  pieve  di 
Duino,  passò  sotto  la  diretta  dipendenza  del  patriarca  e  del  suo 
arcidiacono. 

In  un  elenco  di  Pievi  che  erano  soggette  alla  visita  dell'ar- 
cidiacono d'Aquileia  e  che  ci  fu  conservato  in  un  documento 
della  curia  patriarcale  del  principio  del  secolo  XVI,  troviamo 
registrate  appunto  le  pievi  di  Dornberg,  Reifenberg,  Pervacina, 
Komen,  oltre,  naturalmente  quelle  poste  più  ad  occidente,  e  la 
pieve  di  S.  Giovanni  di  Duino  («  S.  Joannis  de  Charsis  »)  colle 
sue  filiali  che  sono  così  elencate  :  Anesizza,  Aloquiza  (Lokavec), 
Asutta  (Sutta),  Abra  (Gabrje),  Avovasech  (Voisciza),  Amaldrj, 
Plovischoviza  (Pliskovica  presso  Komen),  Agarnagacz,  Astopoz, 
Concaviza,  Samatorice  (Samatorca),  Sanpalaij  (Sempolaj  presso 
Nabresina),  Ezcnoben  (Zgonik),  Machonasella  ^. 

Ma  oltre  che  la  pieve  di  S.  Giovanni,  troviamo  sul  Carso 
altre  giurisdizioni  ecclesiastiche  : 

Dai  tempi  dei  patriarchi  Wodobrico  II  e  Godofredo  il  mona- 
stero di  S.  Maria  d' Aquileia  aveva  «  capellam  etiam  Sancti 
«  Passi  »  ^  cioè  Schònpass  o  Sempas.  E  non  era  questa  una 
giurisdizione  puramente  ecclesiastica. 

L' abbazia  di  Rosazzo  ebbe  in  dono  numerosi  possessi  nel 
Carso  durante  il  secolo  XIII.  Da  Enrico  III,  duca  di  Carintia, 
ebbe  le  ville  di  Betanja,  Merce  e  Skopo  in  quel  di  Sesana 
presso  Trieste;  dal  duca  Enrico  IV  ebbe  la  villa  di  Veckoti 
presso  Komen;  dal  duca  Bernardo  ebbe  Selo  presso  Komen, 
Utovlje  e  Sepulje  presso  Sesana;  da  Engelberto,  marchese  d'Istria, 
ebbe  Sesana,  dal  duca  Ermanno  ebbe  le  ville  di  Berdo,  Kriz, 
«  Sella  »,  Dobravlje  (presso  Sesana);  dal  duca  Ermanno  ebbe 
Cernice  (ad  oriente  di  Gorizia)  ;  da  un  conte  Mainardo  di  Gorizia 
ebbe  la  villa  di  Dane  presso  Sesana,  oltre  parecchi  altri  possessi 

1  Cfr.  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  341. 

2  La  «  plebs  S.  Joannis  de  Duino  »,  che  troviamo  nel  1595  compresa 
neir  arcidiaconato  di  Gorizia,  ai  tempi  del  patriarca  Giovanni  Delfino,  for- 
mava invece  un  arcidiaconato  a  sé  (1657-1699). 

3  Cfr.  queste  Memorie,  IX,  1913,  p.  32. 


Confini  friulani  89 


minori  ^  I  possessi  dell'abbazia  erano  dunque  assai  estesi  sul 
Carso. 

Si  sa  pure  che  nel  1341  il  vicario  della  pieve  di  Reifenberg 
era  tenuto  a  pagare  l'annuo  censo  di  una  marca  di  soldi  all'ab- 
bazia di  Moggio  ^.  Prestazione  che  evidentemente  era  il  risultato 
di  precedenti  composizioni  fra  l' abbazia  e  quella  pieve,  che  in 
origine  dovette  esserle  annessa.  Altro  censo  l' abbazia  percepiva 
e  Bernizza  ^,  ed  è  notevole  che  tanto  Reifenberg  quanto  Ber- 
nizza  sono  elencati  fra  i  censuari  friulani  nei  documenti. 

D'altra  parte  se  noi  badiamo  ai  confini  dell' arcidiaconato 
Carniolae  et  Marchiae,  che  s'era  andato  costituendo  durante  il 
secolo  XII,  per  quanto  si  sa,  nel  territorio  dell'  antico  marche- 
sato della  Carniola  meridionale  o  Marca  Venda,  e  che  formava 
un'estesa  organizzazione  ecclesiastica  sotto  l'alto  governo  del 
patriarca,  noi  troviamo  chiaramente  fin  dove  esso  si  estendeva 
verso  sud-est.  In  un  elenco  di  pievi  di  qu.e\V Archidiaconatus 
Carniolae  et  Marchiae,  compilato  il  23  novembre  1323  per  rego- 
lare le  prestazioni  dovute  a  Bernardo,  cardinale  di  S.  Marcello  *, 
troviamo  appunto  comprese  le  pievi  di  Lueg,  Wippach,  Zirknitz, 
Laas.  Sono  queste  le  parrocchie  di  confine  di  quell'  arcidiaconato 
lungo  il  Carso. 

Quando  finalmente  fu  costituito  il  21  dicembre  1574  quel- 
r  arcidiaconato  di  Gorizia,  che  doveva  comprendere  sotto  di  sé 
tutte  le  terre  dell' arcidiaconato  Aquileiese  soggette  a  casa  d'Au- 
stria, noi  vediamo  ch'esso  comprendeva  verso  il  Carso  appunto: 
Bigliana,  Comen,  Caminje,  Croce  di  Vipacco,  Dornberg,  S.  Gio- 
vanni di  Duino,  San  Basso,  Prebacina,  Reifenberg,  Vipacco, 
S.  Vito  ecc.  ;  uno  spostamento  era  dunque  avvenuto  verso  Oriente 
nei  confini  orientali  in  favore  dell' arcidiaconato  di  Gorizia,  e  non 
fa  meraviglia,  quando  si  pensi  che  tutto  il  paese  era  ormai  sog- 
getto al  duca  di  Stiria,  che  ne  poteva  disporre  a  piacere. 

Del  resto  questa  mutazione  ecclesiastica  che  potrebbe  pa- 
rere insignificante,  aveva  un  suo  precedente  storico  assai  degno 
d'esser  notato.   Per  non  perdermi  in  lunghe  ricerche  presenterò 

*■  P.  Paschini,  Sulla  fondazione  dell'abbazia  di  Rosazzo,  Udine,  1912, 
p.   IO  sgg. 

-  A.  Battistella,  L'abbazia  di  Moggio,  Udine,  1903,  p.  123. 

3  Ibid.,  p.  135. 

*  Documento  pubblicato  dall' ab.  G.  Bianchi,  in  Notizetiblatt  herausg. 
von  der  Histor.  Conimission  der  k,  Akademie  der  Wissenschaften  in  Wien, 
1S58,  p.  405. 


90  Pio  Pas chini 


qui  quanto  riferisce  il  Lucifer  Aquileiensts,  scritto,  com'è  noto, 
nel   1386  da  Odorico  d'Andrea  di  Udine  cancelliere  patriarcale: 

«  Nelle  parti  della  Carniola  e  della  Marchia  vi  sono  molti 
castelli  e  beni  spettanti  alla  mensa  patriarcale,  cioè  i  castelli  di 
Los,  Vipacco  e  Disperdi  colle  loro  pertinenze,  che  ora  sono  oc- 
cupati dai  conti  di  Cilli  e  di  Ortemburg  ;  credo  però  che  quei 
conti  abbiano  certe  investiture,  ottenute  con  tacita  verità  »  *. 

Perciò  il  22  settembre  1377  il  patriarca  Marquardo  aveva 
bensì  data  l'investitura  dei  feudi  al  conte  Federico  di  Ortemburg, 
ma  «  noluit  includi  Castrum  de  Los,  tanquam  ad  ipsum  pieno 
«  iure  spectans  »  ^. 

Laas  e  Vipacco  dunque,  quantunque  appartenessero  alla 
Marchia,  erano  però  legate  in  modo  del  tutto  particolare  al  pa- 
triarca per  la  difesa  dei  confini  d'Italia,  dove  stava  il  nerbo 
dello  stato  patriarcale.  Ma  la  debolezza  di  questo  stato  feudale  e 
la  prepotenza  dei  vassalli  avevano  resa,  col  decorrere  degli  anni, 
frustranea  la  previdenza  dei  patriarchi  del  secolo  XIII. 

E  fra  questi  potenti  signori  non  erano  soltanto  i  conti  di  Cilli 
e  di  Ortemburg,  ma  anche  i  signori  di  Duino.  Da  quando  com- 
paiono chiari  al  lume  della  storia,  costoro  sono  sempre  il  martello, 
il  tormento  del  patriarcato  e  degli  istituti  da  esso  dipendenti.  Pian- 
tati sugli  scogli  che  strapiombano  sul  mare,  lungo  la  via  di  Trieste, 
essi  dominavano  anche  sul  Carso  ;  né  la  rocca  e  la  muta  di  Mon- 
falcone  create  sulla  metà  del  secolo  XIII  riuscirono  a  frangere  la 
loro  potenza.  Essi  erano  spalleggiati  dal  conte  di  Gorizia  e  riusci- 
rono ad  accaparrarsi  molti  feudi,  sia  da  lui,  sia  dal  patriarca. 

Perciò  il  Thesaurus  ricorda  una  «  Investitura  fatta  per  un 
determinato  tempo  ad  Ugo  di  Duino  dei  redditi,  mute,  diritti  e 
garrito  in  Arisperch  (Adelsberg),  Los,  Coefi,  Chirchnitz  e  Wipaco 
colle  Decime  »  ^.  Proprio  i  territori  che  il  patriarca  aveva  inteso 
tenere  sotto  la  sua  dipendenza. 

Ma  quale  prepotente  vassallo  fosse  divenuto  il  Duinate  ce 
lo  palesa  alla  fine  del  secolo  XIV  il  Lucifer: 

«  Quello  di  Duino  dovrebbe  e  deve  riconoscere,  conforme 
all'uso  dei  suoi  maggiori,  i  castelli  di  Duino,  Prem  e  Solosench 
(Senosenchia)  colle  loro  pertinenze,  secondo  il  tenore  delle  antiche 


*   Thesaurus  Eccl.  AquiL,  p.  4,11  ;  cfr.  anche  p.  413.  Si  tratta  di  Laas, 
Wippach  ed  Adelsberg. 

~   Thesaurus,  n.   1357. 
"   Thesaurus,  n.  795. 


Confini  friulani  9 1 


scritture,  che  io  vidi  e  lessi,  quali  feudi  della  chiesa  d' Aquileia  ; 
ma  quel  di  Duino,  richiestone  da  Marquardo  patriarca  d' Aquileia 
di  buona  memoria,  non  si  curò  di  farlo  »  ^ 

Ed  infatti  il  io  giugno  1366  si  presentarono  dinanzi  al  no- 
bile milite  Ugo  di  Duino  gli  ambasciatori  del  patriarca  Marquardo, 
«  chiedendo  che,  come  i  suoi  maggiori,  dovesse  ricevere  in  feudo 
dalla  chiesa  d' Aquileia  il  castello  di  Duino  ed  il  castello  di  Prem 
colle  loro  appendici,  e  tutto  quanto  aveva  in  Meran  od  in  Croazia, 
secondo  un  documento  del  1256...  Ma  il  signore  di  Duino  rispose 
che  al  presente  era  suddito  dei  duchi  d'Austria,  i  quali  erano  in 
tali  relazioni  con  il  patriarca,  che  egli  non  voleva  riceverli  in 
feudo,  perché  avrebbe  fatto  contro  le  promesse  date  ai  Duchi  ». 

Ma  c'è  di  peggio:  il  io  gennaio  del  1.367  altri  ambasciatori 
patriarcali  si  presentarono  dinanzi  ad  Ugo  di  Duino,  «  esponendo 
che  il  patriarca  aveva  ricevute  molte  ed  intollerabili  querele  dai 
mercanti  che  passavano  con  vino  e  colle  loro  merci  per  la  strada 
patriarcale  che  da  Monfalcone  va  a  Trieste,  i  quali  asserivano 
che  Ugo  aveva  chiusa  la  strada  diretta,  sicché  contro  l'uso  sempre 
osservato  venivano  costretti  a  passare  davanti  la  porta  del  borgo 
di  Duino...  e  poi  venivano  costretti  ad  entrare  nel  luogo  di 
Duino  per  fare  una  composizione  in  denaro  per  la  loro  sicurezza 
ed  il  Galaito  con  lui  o  coi  suoi  ufficiali  di  Duino  ;  composizione 
che  era  doppia  o  tripla  della  solita  muta  di  Monfalcone  ».  Ri- 
chiesero quindi  «  che  non  dovesse  molestare  in  tal  modo  quei 
mercanti  »  conforme  ad  una  sentenza  arbitrale  del  25  marzo  1281, 
in  forza  della  quale  «  il  signore  di  Duino  non  doveva  fare  nes- 
suna novità  su  quella  strada,  né  molestare  quelli  che  vi  passavano 
sia  davanti  il  borgo  sia  davanti  la  villa  di  Duino  »  ^. 

Il  Duinate  perciò  precludeva  sul  Carso  la  comunicazione  di 
terraferma  tra  il  Friuli,  Trieste  e  l' Istria  ;  complice  naturalmente 
l'Austriaco,  che  piantò  il  suo  dominio  su  Trieste.  E  noto  quello 
che  l'Austria  facesse  poi  di  Duino. 

Così  dunque  le  vicende  politiche,  come  le  religiose,  segna- 
rono i  confini  sul  Carso  fra  l' Italia  e  la  Carniola.  Il  territorio 
che  rimase  incerto  fra  l'uno  e  l'altro  paese  fu  particolarmente 
quello  di  Vipacco  e  luoghi  circostanti  ;  ma  non  sarebbe  difficile 
stabilire  sui  luoghi  in  modo  più  preciso  quali  furono  i  punti  che 

segnavano  la  divisione. 

Pio  Paschini. 


*    yiiesaurus,  p.  413. 

-   Thesaurus,  n.'  1246,   1247. 


92  P.  S.  Leicht 


Aquileia  e  Trieste  alla  pace  di  Torino. 


Fra  i  molti  scritti  d' occasione  diretti  a  diffondere  nel  po- 
polo nostro  la  conoscenza  degli  strettissimi  legami  che  avvincono 
la  storia  delle  terre  irredente  a  quella  generale  d' Italia  è  degno 
di  particolar  nota  un  breve  lavoro  del  professore  Alessandro 
Lattes  intorno  a   Genova  liberatrice  di  Trieste  *. 

Sono  poche  pagine,  ma  riassumono  con  precisione  e  con 
chiarezza  i  rapporti  fra  le  due  città  durante  la  guerra  di  Chioggia. 
Com'è  noto,  quando  la  flotta  genovese  si  convinse,  nel  giugno 
del  1380,  dell'impossibilità  di  liberare  i  propri  concittadini  asse- 
diati strettamente  dai  veneziani  a  Chioggia,  si  volse  ad  aiutare 
le  truppe  friulane  del  patriarca  Marquardo  che  cercavano  di  li- 
berare Trieste  dalla  soggezione  di  Venezia.  Il  doppio  assalto 
sortì  esito  fortunato  ed  «  il  26  giugno  Trieste  fu  così  liberata 
«  ancora  una  volta  dalla  signoria  veneta  e  potè  disporre  nuova- 
«  mente  di  sé,  ma  i  cittadini  consegnarono  subito  la  città,  le 
«  chiavi  ed  il  vessillo  di  San  Giusto  al  maresciallo  del  patriarca  ; 
«  più  tardi,  il  13  luglio,  i  capi  della  città,  con  tutto  il  consiglio 
«  deliberarono  solennemente  di  eleggere  il  patriarca  signore  di 
«  Trieste,  trasmettergli  ogni  autorità  e  giurisdizione  su  di  quella 
«  e  sul  distretto,  insieme  con  tutti  i  beni  e  palazzi  d' uso  pub- 
«  blico.  La  consegna  o  investitura  ufficiale  fu  fatta  immediata- 
«  mente,  poiché  il  patriarca  era  già  in  città  e  trovavasi  nell'epi- 
«  scopio  insieme  col  vescovo  di  Trieste  suo  suffraganeo  e  il 
«  popolo  fu  poi  convocato  in  piena  assemblea  o  arengo  nella 
«  chiesa  di  S.  Giusto,  affinchè  confermasse  per  acclamazione  il 
«  fatto  compiuto  ». 

L'autore,  dopo  aver  così  descritti  esattamente,  colla  scorta 
dei  documenti  pubblicati  dallo  Joppi,  dal  Kandler  e  dal  Buttaz- 
zoni,  questa  ripresa  della  signoria  patriarcale  su  Trieste,  si  sof- 
ferma ad  avvertire  come  «  nei  primi  passaggi  dal  comune  alla 
«  signoria  fosse  costume  consueto  di  tutte  le  città  nostre,  che  i 
«  consìgli  e  le  assemblee  si  riunissero  sempre  a  deliberare  e  vo- 
«  tare  formalmente  anche  se  il  signore  si  fosse  già  impadronito 

^  Genova,  1915. 


Aquileia  e   Trieste  alla  pace  di  Torino  93 


«  della  città  colla  forza  »  ;  nota  poi  l' A.  che  lo  stato  friulano 
aveva  ordinamenti  liberi  ed  in  particolar  modo  si  reggeva  col 
parlamento  che,  se  pure  non  conosceva  elezione  popolare,  «  rap- 
presentava, in  ogni  modo,  l' intervento  della  popolazione  nel 
reggimento  »,  e  ricorda  infine  i  patti  intervenuti  fra  il  patriarca 
ed  il  comune  tergestino,  secondo  i  quali  la  città  doveva  esser 
difesa  contro  ogni  nemico,  conservare  le  proprie  leggi  e  statuti, 
pagare  tasse  e  dazi  entro  certa  misura,  avere  un  podestà  o  ca- 
pitano inviato  dal  patriarca,  ma  pagato  dal  comune  e  soggetto 
a  sindacato.  Da  questi  patti  e,  in  particolar  modo,  dall'  aver  ac- 
cettato un  podestà  patriarcale,  esce  la  certezza  della  piena  sog- 
gezione della  città  al  patriarca,  salva  ben  inteso  quell'  autonomia 
che  conservavano  anche  i  comuni  friulani  da  tanti  secoli  sudditi 
del  prelato  aquileiese.  AH'  A.  sembra  che  a  questa  soggezione 
facciano  un  certo  contrasto  i  patti  fissati  dalla  pace  di  Torino 
relativamente  a  Trieste  ;  a  lui  sembra  che  in  questa  pace,  ben- 
ché le  sorti  della  città  fossero  decise  dai  patti  stabiliti  fra  gli 
ambasciatori  del  patriarcato  e  quelli  di  Venezia,  «  non  si  faccia 
«  parola  dell'autorità  e  sovranità  del  patriarca  »,  che  ne  esca 
dimostrato  che  in  quel  momento  il  comune  era  indipendente,  al- 
meno di  fatto,  dal  patriarcato.  Si  tratta  d'un' opinione  non  nuova; 
anzi  fu  espressa  da  altri  scrittori  con  parole  d'un  valore  molto 
più  assoluto  che  non  adoperi  il  prudente  e  preciso  storico  del 
diritto  dell'ateneo  genovese.  Scrive  il  Cavalli^:  «  Trieste,  dichia- 
«  rata  indipendente  nella  pace  di  Torino,  s' è  mantenuta  tale 
«  sino  all'agosto  dell'anno  seguente  1382.  Durante  quest'anno 
«  di  assoluta  libertà,  i  triestini  si  fecero  a  pensare  seriamente 
«  all'avvenire  della  loro  patria  ...  »;  ed  il  Senizza^:  «  in  data 
«  8  agosto  1381  fu  sottoscritta  quella  pace  di  Torino  per  effetto 
«  d' uno  dei  cui  articoli,  tanto  i  veneziani  che  il  patriarca  rinun- 
«  ziavano  ai  loro  eventuali  diritti  su  Trieste,  la  quale  ritornò  li- 
«  bera,  indipendente  ed  assoluta  padrona  di  se  stessa  ». 

E  le  citazioni  potrebbero  continuare. 

La  questione,  come  il  lettore  vede,  è  assai  interessante  e  me- 
rita d'esser  vagliata.  Esaminiamo,  pertanto,  da  questo  punto  di 
vista,  gli  atti  della  pace  celebrata  a  Torino,  per  la  mediazione 
del  glorioso  Amedeo  di  Savoia,  che  chiuse,  dopo  tante  ruine,  la 
guerra  di  Chioggia. 

1  Storia  di  Trieste,  Milano,  1915,  p.  66. 
-  Storia  di  Trieste,  Firenze,  1916,  p.  58. 


94  P.  S.  Leicht 

Fra  i  contraenti  del  celebre  trattato,  compaiono  i  procura- 
tori del  vicedomino  della  chiesa  aquileiese  F.  di  Porcia,  del  Ca- 
pitolo d'Aquìleia  e  del  parlamento  friulano,  nei  quali  si  accen- 
travano i  supremi  poteri  dello  Stato  in  quel  momento,  giacché 
la  sedia  patriarcale  era  ancora  vacante,  dopo  la  morte  di  Mar- 
quardo,  non  avendo  il  nuovo  patriarca  Filippo  preso  possesso 
del  suo  ufficio. 

Le  pattuizioni  intercorse  fra  i  rappresentanti  della  signoria 
di  Venezia  e  gli  ambasciatori  friulani  ^  sono  molto  spiccie  ;  tutto 
ritornerà  allo  stato  pristino  eccettuata,  però,  la  città  di  Trieste 
ed  i  castelli  di  Mochò  e  di  Mochulano  ed  i  relativi  territori  che 
i  procuratori  della  Signoria  «  liberant  perpetuo  ab  omni  iure 
«  possessionis  et  domimi  ...  qua  dictae  Civitas  et  domimi  forent 
«  quocumque  modo  ...  dicto  d.  Duci  et  communi  Venecìarum 
«  obligati  ...  liberantes  et  absolventes  nos  notarios  infrascriptos 
«  (cioè  i  notai  che  stesero  lo  strumento  della  pace),  tanquam 
«  personas  publicas,  stipulantes  et  recipientes  nomine  et  vice 
«  predictarum  Civitatis,  Castrorum,  Communium  ...  facientes  no- 
«  bis  dictis  notariis  recipientibus  de  predictis  omnibus  ...  finem 
«  et  pactum  de  non  petendo.  Promittentes  nobis  dictis  notariis 
«  ut  supra  stipulantibus  et  recipientibus  nec  non  predictis  ve- 
«  nerabilibus  et  egregiis  sindicis  ...  dicti  vicedomini  ecclesie  et 
«  capituli  Aquilegensis  et  patrie  Foriiuhi  nomine  et  vice  dicti 
«  patriarchatus  et  ecclesie  Aquilegensis  recipientibus  quod  nulla 
«  in  perpetuum  lis,  causa,  molestia  ...  fiet  ».  A  queste  promesse 
seguono  i  patti  relativi  al  mantenimento  del  tributo  di  vino  e 
d'olio  che  la  città  di  Trieste  mandava  ogni  anno  al  Doge,  e 
della  restituzione  dei  beni  ai  privati,  e  finalmente  gli  ambascia- 
tori aquileiesi  promettono  ai  sindaci  della  signoria  di  Venezia 
che  faranno  ratificare  dal  comune  di  Trieste  ì  detti  patti,  con 
pubblico  istrumento,  dentro  due  mesi  sotto  una  penalità  stabilita. 

Questa  ratifica  sopratutto  ha  colpito  il  Lattes  giacché  gli 
sembra  che  da  essa  sia  comprovata  l'indipendenza  di  Trieste  e 
la  spiegazione  di  tale  fatto,  in  contrasto  coi  patti  del  1380,  egli 
pensa  di  trovarla  nelle  condizioni  politiche  del  Friuli.  «  Nel 
«  gennaio  del  1381,  egli  dice,  il  patriarca  Marquardo  era  morto, 
«  il  successore  nominato  dal  pontefice  non  potè  acquistare  tutta 
«  l'autorità  che  aveva  il  morto  e  si  ebbero  lotte  di  partiti,  per 
«  cui  probabilmente  Trieste  nel  1381,  riunitasi  al  partito  friulano, 

^  Vergi,  Storia  della  Marca  Trivigiana,  to.  XV,  doc.   1759. 


Aquileia  e   Trieste  alla  pace  di  Toi'ino  95 


<i  aveva  ricuperata  la  sua  indipendenza  di  fatto  e  ricadde  poi 
«  neir  anno  successivo  (quando  prevalse  di  nuovo  la  fazione  pa- 
«  triarcale)  sotto  il  governo  effettivo  del  patriarca,  come  provano 
«  altri  documenti  ».  Come  già  osservammo,  1'  opinione  del  Lattes 
è  moderata,  in  confronto  di  quella  degli  altri  scrittori  già  citati, 
e  questa  prudenza  è  ben  giustificata  dai  documenti.  Sappiamo 
infatti  che  ancora  al  23  maggio  1382,  poco  prima  della  caduta 
di  Trieste  in  mano  del  duca  d' Austria,  si  rendeva  giustizia  colà 
a  nome  del  patriarca  d' Aquileia  ^  e  d' altra  parte  in  documenti 
patriarcali  posteriori  alla  pace  di  Torino  si  parla  chiaramente 
del  diritto  che  i  patriarchi  esercitavano  effettivamente  di  mettere 
nella  città  un  loro  capitano  ^. 

Oltre  a  ciò  si  deve  avvertire  che  nelle  pattuizioni  da  noi 
esaminate  non  appare  affatto  la  rinunzia  ai  propri  diritti  che  il 
Senizza  vorrebbe  fatta  dal  patriarca  nella  pace  di  Torino  :  si 
nota  soltanto  che  la  dichiarazione  colla  quale  gli  ambasciatori  di 
Venezia  liberano  Trieste  da  ogni  soggezione  verso  la  Signoria  è 
fatta  ai  notari  che  si  erigono  a  rappresentanti  della  città,  e  che 
a  costoro  ed  insieme  agli  ambasciatori  friulani  è  fatta  la  promessa 
di  non  molestare  Trieste  nell'  avvenire,  e  che  finalmente  gli  am- 
basciatori friulani  promettono  ai  veneti  di  far  ratificare  dal  co- 
mune tergestino  il  «  capitulum  »  della  pace  che  lo  riguarda: 
dov'è  qui  l'asserita  rinunzia? 

Certamente,  si  deve  riconoscere  che  la  personalità  del  co- 
mune appare  ancora  assai  distinta  nelle  pattuizioni,  che  essa  si 
pone  a  fianco  di  quella  dello  stato  aquileiese,  in  posizione  subor- 
dinata, ma  sempre  molto  vigorosa.  Il  Lattes  ha  ragione  di  fissare 
la  nostra  attenzione  su  questa  singolarità  del  trattato  ;  se  non 
che  non  mi  sembra  che  la  spiegazione  se  ne  possa  cercare,  come 
egli  fa,  in  una  situazione  di  fatto,  mentre  il  lato  caratteristico 
del  procedimento  usato  dai  contraenti  è  proprio  il  lato  giuridico. 

Noto,  intanto,  che,  nel  momento  in  cui  la  pace  di  Torino 
viene  conclusa,  le  lotte  contro  il  patriarca  d'  Alen9on  s'  erano  ap- 
pena disegnate,  e  non  v'ha  ragione  di  credere  che  il  potere  pa- 
triarcale a  Trieste  fosse  scosso  ;  ma  prescindendo  da  ciò  non  mi 
sembra  che  un  tale  indebolimento,  se  anche  ci  fosse  stato,  possa 
bastare  a  spiegarci  il  complicato  formalismo  del  documento. 
Tutt'al  più  esso  si  potrebbe  riconnettere  all'impegno  preso  dagli 

*  Archeografo   Triestino^  I,  272. 

-   Thesaurus  Ecclesiae  Aquileiensis,  ed.  Bianchi,  p.  419. 


96  P.  S.  Leicht 


ambasciatori  friulani  d'ottenere  che  il  comune  dì  Trieste  ratificasse 
i  patti  che  lo  riguardavano  ;  si  potrebbe  ritenere  che  gli  amba- 
sciatori veneti  pretendessero  una  tale  promessa,  perché  l' autorità 
patriarcale  a  Trieste  non  appariva  abbastanza  stabile;  ma  come 
spiegare,  con  ciò,  le  formalità  relative  alla  rinunzia  fatta  dai  vene- 
ziani d'ogni  diritto  loro  spettante  su  Trieste,  rinunzia  che,  come 
abbiamo  detto,  è  fatta  non  già  agli  ambasciatori  friulani,  ma  ai 
notai  che  si  costituiscono  rappresentanti  del  comune  tergestino? 

Tale  procedimento  non  dovette  di  certo  esser  richiesto  dai 
veneti,  visto  che  a  loro  non  portava  alcun  vantaggio,  mentre 
d'altra  parte  riesce  difficile  comprendere,  come  esso  potesse 
compiersi  nell'  interesse  dello  stato  aquileiese. 

La  soluzione  probabile  della  difficoltà  va  ricercata,  a  mio 
parere,  nella  condizione  particolare  in  cui  Trieste  fu  posta  dalle 
deliberazioni  del  13  luglio  1380  colle  quali  ì  capi  della  città  ed 
il  consiglio  stabilirono  di  eleggere  Marquardo  signore  di  Trie- 
ste. Come  il  Lattes  ha  giustamente  osservato,  nei  passaggi  di 
signoria,  il  comune  deliberava  l' assoggettamento  al  nuovo  si- 
gnore, come  se  fosse  pienamente  libero,  benché  di  fatto  quello 
tenesse  ormai  la  città  in  suo  potere  ;  la  forza  del  patto  d' assog- 
gettamento sta  appunto  in  questa  finzione  di  libertà.  Perché  i 
patti  stabiliti  fra  il  patriarca  e  Trieste  avessero  il  loro  pieno 
vigore,  doveva  il  comune  tergestino  essere  teoricamente  libero 
di  disporre  di  sé,  il  13  luglio  1380,  ed  è  questo  il  motivo  per 
il  quale  dovevano  i  veneziani  rinunziare  al  comune  stesso  e  non 
al  patriarcato  direttamente,  le  proprie  ragioni  di  sig-noria;  così, 
secondo  il  diritto  del  tempo,  rimaneva  poi  fondata  la  nuova  au- 
torità che  Trieste  aveva  conferita  al  patriarca,  eleggendolo  a  pro- 
prio signore.  Per  tal  motivo,  interessava  agli  ambasciatori  aquì- 
leìesì  che  fosse  compiuta  questa  formalità,  e  perciò  fu  escogitato 
r  artifizio  di  costituire  ì  notai  come  rappresentanti  della  città  che 
al  congresso  dì  pace  non  era  intervenuta,  perché  ormai  era  in 
potere  del  patriarcato.  Con  ciò  venivano  anche  tutelati  gì'  inte- 
ressi tergestini  in  conformità  alla  dedizione,  perchè  se  Venezia 
avesse  senz'  altro  ceduti  i  propri  diritti  al  patriarcato  non  sareb- 
bero più  valsi  i  patti  sanciti  dal  volontario  assoggettamento,  ma 
quelli  assai  più  duri  imposti  in  precedenza  da  Venezia.  Dal  ca- 
pitolo della  pace,  pertanto,  Trieste  ci  appare,  è  vero,  come  in- 
dipendente per  un  istante,  ma  tale  indipendenza  formale  ha  ri- 
guardo non  già  al  periodo  nel  quale  la  pace  stessa  è  conclusa, 
ma  piuttosto  a  quello  precedente  alla  dedizione  del  13  luglio  1380. 


Aquileia  e   Trieste  alla  pace  di  Torino  97 


Del  resto,  la  cancelleria  patriarcale  non  dubitava  che  dallo 
strumento  di  pace  uscissero  chiari  i  diritti  di  sovranità  del 
suo  principe  sulla  città;  infatti  quando  il  cancelliere  patriarcale 
Odorico  ci  parla  nel  Lucifer  Ecclesiae  Aquileiensis  dei  diritti 
del  patriarca  su  Trieste,  dice  che  essi  son  dichiarati  dalle  con- 
venzioni (cioè  dalla  dedizione  del  luglio  1380)  celebrate  permane 
di  Jacopo  di  Faedis,  allora  notaro  patriarcale  «  et  quatenus  fit 
«  mentio  in  sententia  d.  comitis  Sabaudiae  supradicti  ». 

Rimane  da  ultimo  la  promessa  degh  ambasciatori  veneziani 
di  far  ratificare  dal  comune  di  Trieste  il  capitolo  della  pace. 
Come  abbiamo  accennato,  qui  si  potrebbe  anche  pensare,  col 
Lattes,  che  si  tratti  d'una  precauzione  presa  dai  veneziani  che 
ritenevano  mal  fermo  il  dominio  patriarcale  nella  città.  Tuttavia 
altri  fatti  ci  suggeriscono  una  diversa  spiegazione  della  clausola. 
La  vacanza  della  sede  rendeva,  nello  stato  patriarcale,  molto  più 
rilassati  dell'  ordinario  i  legami  che  univano  feudatari  e  comunità 
al  potere  centrale. 

Per  l'Istria  in  particolar  modo,  si  può  ricordare  la  conven- 
zione fatta  fra  il  comune  di  Muggia  ed  il  patriarca  Pagano  il 
31  marzo  13 19,  nella  quale  si  stabilisce  che,  quando  la  sede  pa- 
triarcale fosse  vacante,  un  podestà  eletto  dovesse  esercitare  i  po- 
teri del  gastaldo  o  capitano  nominato  dal  patriarca;  la  città  ve- 
deva così,  in  quel  periodo,  molto  allargata  la  sua  autonomia. 
È  una  consuetudine  che  trova  rispondenza  anche  in  Friuli,  dove 
vediamo  qualche  comune  nominare  un  podestà  durante  la  va- 
canza della  sede  *.  Una  tale  condizione  di  cose  poteva  rendere 
necessario  non  solo  per  i  veneziani,  ma  anche  per  gli  stessi 
ambasciatori  friulani,  l'assenso  del  comune  di  Trieste  al  patto 
concluso  dal  vicedomino,  durante  la  vacanza.  Si  noti  poi  che  il 
capitolo  in  questione  non  riguardava  soltanto  le  condizioni  poli- 
tiche della  città,  ma  aveva  un'importante  ripercussione  anche 
nelle  relazioni  economiche  dei  privati,  quando  stabiliva  la  resti- 
tuzione in  pristino  dei  possessori  veneziani  ;  i  beni  di  questi  ul- 
timi erano  stati,  infatti,  come  il  Lattes  stesso  ci  ricorda,  distri- 
buiti dal  patriarca  alle  persone  che  avevano  contribuito  nel  1380 
al  ricupero  della  città.  A  questo  scopo  Marquardo  aveva  inviato 
a  Trieste  il  suo  cancelliere  già  ricordato  Jacopo  di  Faedis  con 
ampio  mandato.  Bisognava  dunque  che  questi  beni  fossero  resti- 

^  Ved.  i  miei  Statuta  velerà  Civitatis  Austriae,  Udine,  1899,  p.  xxni, 
n.  5. 

7 


98  P.  S.  Leicht 

tuiti,  e  per  tal  motivo  l'esplicito  assenso  del  comune  al  capitolo 
di  pace,  doveva  sembrare  veramente  necessario. 

Queste  varie  ragioni  mi  paiono  giustificare  le  singolarità 
del  procedimento  usato  nella  pace  di  Torino,  in  modo  un  po' 
diverso  da  quello  indicato  dall'  amico  Lattes,  al  quale  però  spetta 
il  merito  di  aver  ripreso  il  problema  e  d'averne  messi  in  luce  i 
termini  esatti. 

Dalla  pace  di  Torino,  Trieste  uscì  strettamente  congiunta 
agli  stati  aquileiesi  ;  abbiamo  visto  sul  proposito  le  dichiarazioni 
della  cancelleria  patriarcale,  e  gli  stessi  triestini  non  erano  di 
diversa  opinione.  Infatti  i  messi  della  città  inviati  nell'anno 
stesso  ai  consigli  di  Udine  e  di  Cividale  per  chieder  soccorso 
contro  le  minacce  che  si  addensavano  d'intorno,  domandano  ra- 
pidi provvedimenti  affinché  una  «  tanta  civitas,  tantum  membrum 
«  Ecclesiae  Aquileiensis  »  non  vada  perduta  per  il  patriarcato; 
il  vincolo  che  univa  Trieste  al  Friuli  non  potrebbe  esser  meglio 
designato!  Purtroppo  la  malaugurata  nomina  del  cardinale  Fi- 
lippo d'AlenQon  a  capo  della  chiesa  d'Aquileia  gettava  invece 
il  Friuli,  proprio  in  quel  periodo,  in  preda  alle  più  feroci  discordie 
ed  impediva  così  ogni  efficace  intervento,  rendendo  possibile  la 
«  proditio  »  che  pose,  nell'agosto  del  1382,  la  città  in  potere 
dei  signori  di  Duino  e  dei  duchi  d' Austria. 

P.  S.  Leicht. 


Rassegna  bibliografica  99 


Rassegna  bibliografica. 


Celso  Costantini.  —  Aquileia  e  Grado,  con  prefazione  di 
Ugo  Ojetti.  Milano,  Alfieri  e  Lacroix,  1916;-  16",  pp.  157 
con  151  fig.  e  una  tavola  fuori  testo. 

Aquileia,  Cartagine,  Corinto,  nomi  quant' altri  mai  suggestivi  per  il 
filosofo  e  per  lo  storico!  Chi  pensi  ai  campi  silenziosi,  dove  fra  gli  umili 
prodotti  dell'incessante  vita  dei  campi,  si  scorgono  i  ruderi  sparsi,  te- 
stimoni solitari  d'una  grandezza  scomparsa,  non  può  a  meno  di  ricordare 
la  celebre  lettera  che  Sulpicio  scrìveva  a  Cicerone  per  dare  al  grande  ora- 
tore i  conforti  della  filosofia  a  sollevarne  l' animo  abbattuto  per  la  morte 
della  dilettissima  Tullia.  Rasentando  colla  nave,  dice  il  celebre  giurecon- 
sulto, le  coste  dell'Asia  e  della  Grecia,  il  mio  sguardo  si  posava  sulle  ro- 
vine di  Troia,  di  Megara  e  d'altre  città  distrutte  e  pensava:  come  ci  pos- 
siamo noi  indugiare  nei  lamenti  per  le  sventure  che  ci  colpiscono,  per  la 
perdita  dei  nostri  cari,  quando  intere  città  già  celebri  per  la  grandezza  e  per 
l'opulenza,  cadono  nel  nulla? 

La  riflessione  nella  quale  si  sente  alitare  uno  spirito  filosofico  diverso 
dal  rude  positivismo  romano,  a  nessun  altro  momento  storico  è  più  conve- 
niente che  al  nostro,  a  nessun  altro  luogo  più  acconcio  che  ad  Aquileia. 
Mentre  il  cannone  tuona  incessante  e  le  giovani  vite  si  sacrificano  con  sublime 
eroismo  per  la  patria,  mentre  coli' urto  della  battaglia  si  confonde,  ahimé, 
il  pianto  delle  madri  e  delle  spose,  ecco  dalle  reliquie  preziose  d'Aquileia 
sepolta,  venirci  l'ammonimento  che  queste  lotte,  questi  dolori  sono  nei  secoli, 
non  nell'ora,  e  che  per  questa  stessa  causa  una  grandissima  città  un  giorno 
scomparve,  nel  fulgore  della  sua  gloria,  della  sua  possanza,  dopo  aver  so- 
stenuto per  secoli  l'urto  dei  nemici  di  Roma,  che  l'avea  posta  a  guardia 
del  limite  orientale  d' Italia. 

Opportuno,  quanto  mai,  riesce,  dunque,  questo  volumetto  che  il  dotto 
sac.  Costantini  ha  dedicato  alle  antichità  d'Aquileia  romana  e  medievale, 
guidando  il  visitatore  attraverso  alle  sale  del  museo,  per  le  case  agresti  co- 
perte di  lapidi,  nel  magnifico  tempio,  al  quale  dedicarono  le  loro  cure  due 
grandissimi  patriarchi  Popone  e  Marquardo.  E  poiché  dalla  vecchia  madre 
non  poteva  esser  disgiunta  la  figlia,  ormai  veneranda  anch'essa  per  mille- 
narie reliquie,  eccoci  anche  a  Grado,  rifugio  degli  esuli  dall'  incendio  un- 
nico e  poi  sede  del  patriarcato  emulo  all'aquileiese. 

La  guida  era  quanto  mai  opportuna,  dicemmo,  perché  mancava  un'  o- 
pera  italiana  che  illustrasse,  in  forma  piana  e  concisa,  questi  preziosi  monu- 
menti e  traesse  partito  di  quanto  dal  Majonica  al  Reisch,  dallo  Swoboda  al 
Planiscig  ed  a  tanti   altri    valenti   archeologi   nostrali  e  stranieri,    fu  scritto 


loo  Rassegna  bibliografica 


negli  ultimi  anni  intorno  ad  Aquileia  romana  e  cristiana.  Il  Costantini,  che 
da  molti  anni  si  occupa  con  plauso  dell'  archeologia  cristiana,  rievoca  con 
rapidi  cenni  la  storia  politica  e  l'ecclesiastica,  sceglie  fra  monumenti  e  sup- 
pellettili quelli  che  son  più  adatti  ad  illustrarle,  e  riesce  così  a  darci  un'am- 
pia visione  della  grandezza  aquileiese,  resa  anche  più  evidente  dalle  riusci- 
tissime illustrazioni  curate  colla  consueta  eleganza  dalla  casa  Alfieri  e 
Lacroix. 

Naturalmente  la  mole  del  libro  vieta  che  possano  esservi  rievocate  le 
dispute  accese  fra  i  dotti  per  l'interpretazione  di  molte  antichità  aquileiesi 
cosi  pagane  come  cristiane.  L' autore  potè  soltanto  scegliere  fra  le  varie 
teorie  quelle  che  a  lui  sembravano  le  più  fondate  e  lo  fece  con  prudenza  e 
con  acume. 

Ad  ogni  tratto,  fra  le  note  strettamente  attinenti  agli  argomenti  storici 
od  archeologici,  sbucano  appunti  polemici  dove  si  palesano  i  criteri  artistici 
dell'autore,  e  non  mancano,  né  lo  potevano,  riferimenti  alle  ore  di  sacro 
entusiasmo  che  egli  visse,  e,  speriamo,  presto  rivivrà  fra  le  mura  della  glo- 
riosa basilica,  risuonanti  per  ora  di  preghiere  e  cantici  invocanti  vittoria  alla 
comune  patria  italiana,  o  pace  all'anima  di  coloro  che  le  sacrificarono  la 
vita,  combattendo  per  essa  contro  le  genti  d'oltralpe,  come  nell'età  teodo- 
riana,  quando  dai  valichi  del  Frigido  minacciavano  i  Goti  e  gli  Unni  o  quando, 
più  tardi,  i  patriarchi  cinti  di  ferro  celebravano  le  sacre  funzioni,  pronti  ad 
irrompere  contro  le  insidie  dei  conti  goriziani  o  del  duca  d'Austria. 

P.  S.  Leicht. 


Appunti  e  notizie  loi 


Appunti  e  notizie. 


*  La  difesa  del  confine  Veneto  Istriano  sotto  l'  Impero  Romano.  — 
Nel  rendiconto  dell'adunanza  solenne  del  6  gennaio  1916  della  R.  Acca- 
demia dei  Lincei  {Atti,  anno  CCCXIII,  1916,  p.  9  sgg.),  rinveniamo  il  testo 
del  discorso  ufficiale  tenuto  dall'  illustre  senatore  prof.  Rodolfo  Lanciani, 
dal  titolo  La  difesa  del  confine  veneto-istriano  sotto  l' hnpero  Romano, 
del  quale,  in  considerazione  della  sua  grande  importanza  per  la  nostra  re- 
gione, offriamo  ai  lettori  un  largo  riassunto. 

L'insigne  maestro  di  topografia  romana  all' Università  di  Roma  ha  trat- 
tato un  argomento  di  particolare  importanza.  Come  Roma  conquistò  all'  I- 
talia  le  sue  naturali  porte  sull'Alpi  Giulie?  Come  le  conservò  e  difese  con- 
tro gì' incessanti  tentativi  delle  popolazioni  barbariche,  provenienti  dall'O- 
riente e  dal  Settentrione?  Roma  di  diciotto  secoli  or  sono  si  trovò  dinanzi 
agli  stessi  problemi  della  Roma  di  oggi  e  con  non  poca  meraviglia  gli  ascol- 
tatori udivano  la  descrizione  di  operazioni  e  provvedimenti  militari  che  pa- 
reva riguardassero  la  guerra  nostra  ed  era  invece  storia  del  grande  Impero. 

Ricordati  i  primi  monumenti  delle  minaccia  contro  l'integrità  e  la  sicu- 
rezza dell'Impero  d'Italia,  la  colonna  Trajana,  quella  di  Marco  Aurelio  e  il 
trofeo  di  Trajano  innalzato  nel  109  presso  la  foce  romena  del  Danubio,  ad 
Adamclisi,  con  il  saluto  commovente,  che  l' opthnus  princeps  rivolge  ai  com- 
militoni caduti  {Io,  dice  l'epigrafe,  Imperatore  Traiano,  figliuolo  del  Divo 
Nerva,  ho  innalzato  questo  cenotafio  in  memoria  e  in  onore  dei  valorosi  com- 
pagni d' arme,  i  quali  hanno  perduto  la  vita  combattendo  per  la  patria  nelle 
campagne  di  Dacia),  il  senatore  Lanciani  ha  descritto  le  difese  orientali  del- 
l'Italia  romana.  E  le  ha  esposte  colle  seguenti  parole: 

«  Nel  saggio  ordinamento  delle  difese  di  prima  e  seconda  linea  del- 
l'impero occidentale  e  dell'Italia  figurano  in  primo  grado  le  fabbriche  di 
armi,  delle  quali  ve  ne  erano  cinque  nell'Illirico,  sei  in  Italia,  e  otto  nelle 
Gallie.  Prima  tra  le  italiane  è  quella  di  Concordia  sagittaria  (Portogruaro) 
destinata,  come  il  nome  stesso  rivela,  alla  produzione  delle  saette.  Segue  la 
Veronese  scutaria  et  armorum  (scudi  e  macchine  da  guerra),  la  Mantovana 
loricaria  (corazze),  la  Cremonese  scutaria,  la  Ticinese  armario  e  la  Lucchese 


I02  Appunti  e  notizie 


spatharia.  Si  deduce  da  questa  lista  come,  fino  dalla  più  remota  istituzione 
delle  fabbriche  d'armi,  si  credesse  essere  i  valichi  Norico-Illirico-Istriani  il 
più  debole  punto  delle  frontiere  italiche,  ed  è  perciò  che  da  questa  sola 
parte  orientale  si  era  costituito  il  quadrilatero  difensivo  Verona,  Man- 
tova, Cremona  e  Concordia,  con  basi  di  rifornimento  sul  Ticino  e  sul  Serchio. 
E  non  bisogna  dimenticare  che  ciascuno  dei  luoghi  indicati  aveva  numerosa 
guarnigione  composta,  in  primo  luogo,  dagli  operai  militarizzati  e  in  secondo 
luogo  di  milizia  ausiliaria.  Per  ciò  che  concerne  Concordia  è  notevole  come 
in  tutta  l'estensione  dell'impero  vi  fossero  due  sole  fabbriche  di  sagittae, 
quella  di  Concordia  e  quella  di  Macon  (Matisco),  singolarità  che  si  è  voluta 
attribuire  alla  qualità  e  natura  delle  acque  locali,  specialmente  proprie  a 
dare  alle  frecce  la  tempera  regolamentare.  E  che  nella  deduzione  della  co- 
lonia Julia  Concordia  si  abbia  avuto  di  mira  soltanto  la  ragione  militare,  è 
provato  dal  fatto  della  sua  stessa  posizione  sul  margine  della  laguna,  presso 
malsane  paludi,  in  un  lembo  di  terra  nec  laetus  nec  pulcher ,  come  quelli  che 
solevansi  distribuire  ai  veterani.  Egli  fu  soltanto  col  volger  degli  anni,  e  per 
l'aumentato  pericolo  di  ostili  incursioni  da  quella  parte,  e  per  l'aumentata 
potenza  dei  barbari  oltre  frontiera,  che  Concordia  e  Aquileia  divennero  nodi 
e  centri  di  una  rete  stradale-militare  affatto  meravigliosa. 

Noi,  che  ricordiamo  le  controversie  dibattute  in  Parlamento  in  questi 
ultimi  anni  intorno  ad  identica  questione,  non  possiamo  non  essere  colpiti 
da  meraviglia  al  ricordo  di  quanto  fu  fatto  dai  Romani  per  facilitare  sotto 
questo  punto  di  vista  le  difese  dei  valichi  alpini,  non  solo  di  primo  ordine 
(come  quelli  della  Pontebba,  di  Monte  Croce  e  del  Predil),  ma  di  secondo 
e  di  terzo  grado.  Prima  di  ricordare  brevissimamente  ciò  che  conosciamo 
delle  vie  alpestri  retico-illiriche,  potrà  forse  interessarvi  conoscere  alcuni  par- 
ticolari di  questi  arsenali  di  guerra,  di  queste  fortezze  di  frontiera,  quali  ci 
sono  stati  rivelati  dalle  epigrafi  concordiesi. 

Il  sepolcreto  militare  concordiese  fu  scoperto  l'anno  1873  dal  Perulli  e 
dall'  avv.  Dario  Bertolini  a  breve  distanza  da  Portogruaro,  a  livello  più  basso 
di  quello  del  prossimo  fiume  Lemene.  Io  sono,  o  signori,  fra  i  pochi  privi- 
legiati che  abbiano  visto  il  sublime  spettacolo  di  questo  campo  biancheg- 
giante di  cento  e  cento  candidi  avelli,  simili  nella  forma  al  sarcofago  del 
Petrarca  in  Arquà  o  a  quello  di  Antenore  a  Padova;  ma  la  visione  durò  ben 
poco  poiché  non  fu  possibile  mantenere  il  sepolcreto  asciutto,  a  così  grande 
profondità  sotto  il  pelo  magro  del  fiume. 

Uno  spettacolo  simile  a  quello  offerto  dal  cimitero  militare  di  Con- 
cordia ha  suggerito  a  Dante  gli  unici  versi  di  sapore  archeologico  che  si  ri- 
scontrino nel  divino  poema  : 

Si  come  ad  Adi  ove  '1  Rodano  stagna 

Si  com'  a  Pela  presso  del  Quarnaro 

Che  Italia  chiude  e  i  suoi  termini  bagna 
Fanno  i  sepolcri  tutto  '1  loco  varo. 

Inferno,  IX,  112-115. 

Le  numerose  iscrizioni  lette  sulle  arche  hanno  arrecato  così  gran  luce 
su  problemi  d'indole  militare-archeologica,  che  io  potrei  toglierle  ad  argo- 
mento non  di  una  ma  di  dieci  dissertazioni.  Scelgo  uno  o  due  punti  di  spe- 
ciale interesse. 


Appunti  e  notizie  io; 


Tra  gli  uomini  di  bassa  forza  della  guarnigione  di  Portogruaro  tro- 
viamo un  Flavms  Launionis  semaforus,  cioè  addetto  al  servizio    semaforico. 

Non  è  chiaro  se,  volgente  il  quarto  secolo  dell'impero,  fosse  ancora  in 
uso  la  telegrafia  militare  secondo  il  sistema  di  Cleoxene  e  Democlito,  perfe- 
zionato da  Polibio  l' istorico,  il  quale  permetteva  di  inviare  dispacci  alfabe- 
tici che  si  traducevano  in  parole  e  sentenze,  purché  le  stazioni  trasmittenti 
e  riceventi  sì  trovassero  a  distanza  non  maggiore  di  dieci  miglia.  Credo  più 
probabile  trattarsi  di  quelle  segnalazioni  elementari,  a  base  di  fumo  e  di 
fiammate,  che  si  trasmettevano  di  torre  in  torre  giù  per  le  valli  di  frontiera. 

E  qui  ricordo  le  parole  con  le  quali  Valentino  Ostermann,  già  ispet- 
tore delle  antichità  di  Cividale,  annunciava  la  scoperta  fatta  nel  1888  in  ter- 
ritorio di  Nimis  (Castrum  Nemus),  di  una  strada  romana  che  dal  '  Canale  ' 
del  Natisone  andava  ad  incontrare  la  strada  del  Predìl  per  il  valico  del  Pul- 
fero:  '  Castrum  Nemus,  egli  dice,  era  un  luogo  fortificato  per  impedire  una 
scorreria  improvvisa  per  la  valle  del  Cornappo,  ed  è  un  anello  di  congiun- 
zione di  quella  linea  di  castelli  che  trasmettevano  con  segnali  le  notizie  da 
lulium  Carnicum  (Zuglio)  ad  Aquileia  da  un  lato,  e  a  Forum  lulium  (Civi- 
dale) dall'altro'.  Ecco  dunque  spiegate  le  incombenze  dell'ufficiale  sema- 
forus. 

Aggiungerò,  per  diletto  di  quanti  non  sieno  famigliari  con  questa  parti- 
colarità delle  difese  alpine,  che  non  vi  era  valle  principale  o  laterale  la  quale 
non  fosse  munita  di  uno  o  più  forti  di  sbarramento.  Nella  pianta  delle  Vie 
Consolari  Venete  pubblicata  dal  Bertolini  l'a,  1879  "^  sono  indicati  dodici 
nelle  valli  dell'  Isonzo  e  del  Tagliamento. 

Per  quanto  concerne  il  servizio  postale,  non  nel  senso  ovvio  di  corri- 
spondenza epistolare,  ma  in  quello,  per  così  dire,  di  locomozione,  infinite 
erano  le  vie  alpine  e  prealpine  aperte  dai  Romani  sulla  frontiera  Veneto- 
Istriana  attraverso  i  valichi  delle  Alpi  Carniche  e  Giulie,  strade  che  malau- 
guratamente facilitarono  ai  barbari  del  IV  e  V  secolo  ed  ai  loro  discendenti 
sino  alla  centesima  generazione  la  calata  nelle  agognate  feraci  pianure  ita- 
liche. I  commercianti  triestini  diretti  al  Danubio  traversavano  le  Giulie  al 
passo  dell'Ocra  (Birnbaumer  Wald,  che  il  Mommsen  chiama  pars  alpium 
maxime  depressa)  e  quindi  per  Nauportus  (Ober-Laibach)  scendevano  alle 
malsane  paludes  Lugeae  (Laibacher  Moos).  Vi  erano  poi  le  vie  littoranee  per 
Pola  e  per  Aquileia,  quella  che  risaliva  la  valle  dell'  Isonzo  per  cadere  in 
quella  del  Predil,  e  così  di  seguito.  Queste  erano  vie  prevalentemente  com- 
merciali; quelle  militari  per  le  porte  nord-orientali  della  penisola  irradia- 
vano dal  campo  trincerato  Concordia- Aquileia,  dove  risiedeva  il  maestro 
delle  poste  imperiali  venete,  con  un  immane  catabulum,  e  scuderie  e  rimesse 
pei  veicoli,  e  officine  di  riparazione,  e  magazzini  per  le  proviande.  Ricordo, 
fra  le  cento,  la  via  che  per  Concordia  Sagittaria,  Opitergium  (Oderzo),  Feltria, 
(Feltre)  e  Bellunum  saliva  alla  conca  d'Ampezzo  per  discendere  a  Littamum 
(Toblach):  il  ramo  diretto  a  Trento  per  la  Valsugana  {Ausugo)  la  via  per 
Utina  (Udine)  a  lulium  Carnicum  (Zuglio)  e  per  il  passo  della  Croce  a  Lon- 
gium  sul  Gail  ;  il  ramo  che  se  ne  distaccava  per  il  passo  di  Larix  (Pon- 
tebba)  ;  l'altro  che  risaliva  la  valle  dell'Isonzo  per  il  Predil,  e  cento  altre 
vie  minori  ...  ». 

«  Reca  stupore  che  gli  ingegneri  militari  di  quei  tempi  non  conosces- 
sero curve,  ma  sviluppassero  le  salite  e  discese  in  piccoli    tratti  rettilinei,  a 


I04  Appunti  e  ìiotizie 


zig-zag  di  un  centinaio  di  metri  ciascuno.  I  loro  ospizi  erano  mirabilmente 
riscaldati  con  ipocausti  e  tubature  parietarie,  e  con  tetti  e  grondaie  spor- 
genti eccessivamente  come  quelle  di  un  moderno  chalet  elvetico.  Né  manca- 
vano le  cappelle  e  le  are  sacre  ai  numi  allontanatori  delle  tormente;  né  i 
truogoli  per  abbeverare  i  giumenti,  né  le  cantine  per  i  viaggiatori. 

Una  iscrizione  racconta  come  nell'anno  362,  essendo  prefetto  del  pre- 
torio illirico  Claudio  Mamertino,  e  correttore  della  Venezia  Vetulonio  Prae- 
nestion,  l'imperatore  Giuliano  V a.posia.X.a.,  remota  provincialibus  cura,  cursum 
fiscalem  breviatis  mutatiotmm  spatiis  fieri  iussit.  I  benefici  arrecati  con  que- 
ste provvidenze  furono  duplici  :  il  primo  concerne  1'  esenzione  dalla  presta- 
zione forzosa  dei  giumenti,  concessa  agli  alpigiani  delle  valli  Giulio-Carniche; 
la  seconda  concerne  l'abbreviazione  degli  intervalli  tra  una  m«^a//<3  e  l'altra, 
con  enorme  sollievo  dei  giumenti  e  dei  loro  proprietari. 

Il  punto  più  essenzialmente  strategico  presso  del  quale  si  sono  contese 
così  spesso  e  con  diversa  vicenda  le  sorti  della  penisola,  era  il  Pons  Sontii, 
il  ponte  dell'  Isonzo,  a  14  miglia  d'Aquileia  sulla  strada  della  Pannonia,  tra 
Gradisca  e  Gorizia.  Qui  aveva  già  poste  le  tende  l'esercito  di  Massimino,  il 
quale  lo  ricostruì  ex  novo,  e  riattò  la  via  Gemina  nel  235  :  quivi,  al  con- 
fluente del  Frigido  (Vippaco),  Teodosio  disfece  Eugenio  nel  394.  Questo  ma- 
laugurato ponte  servì  di  valico  ai  barbari  di  Alarico  e  di  Vitige,  ai  ferocis- 
simi Longobardi  e  persino  ai  Turchi  del  secolo  XV.  Onde  ben  a  ragione  il 
poeta  Claudiano  cantava  sino  dal  tempo  di  Onorio:  Alpinae  rubueie  nives  et 
Sontius  amnts  mutatis  fumavit  aquis  !  '' 

Aquileia  deve  la  sua  esistenza  alla  invasione  gallica  del  183  a.  C,  e  si 
dice  costruita  «  ad  huius  modi  invasiones  in  perpetuum  arcendas  !  ».  Ma 
quanti  disastri,  quanti  estermini  le  valse  questa  posizione  privilegiata  ù* 
sentinella  d'Italia,  dal  183  a.  C,  data  della  sua  fondazione,  sino  al  452  d.  C, 
data  del  suo  esterminio  per  opera  di  Attila  flagellum  Dei  !  Si  sa  da  Livio 
che  i  primi  coloni  furono  tremila  legionari,  circa  30  centurioni  e  un  rag- 
guardevole numero  di  cavalieri.  Ebbene,  pochi  anni  dopo,  nel  169,  così  mo- 
lesti erano  divenuti  i  vicini  d'oltre  Isonzo,  che  il  Senato  si  vide  costretto  a 
rafforzare  la  colonia  con  altre  1500  famiglie.  Ciò  non  ostante,  fino  dai  tempi 
di  Augusto,  gli  Japidi  della  odierna  Croazia,  tentarono  su  di  essa  un  colpo 
di  mano:  i  Marcomanni  e  i  Quadi  l'assediarono  ferocemente  sotto  Marco 
Aurelio  ;  altri  barbari  sotto  Gallieno.  Da  tale  epoca,  sino  alla  sua  rovina  fi- 
nale per  mano  degli  Unni,  si  può  dire  che  non  abbia  avuto  un  momento  di 
tranquillità.  Eppure  il  sito  di  Aquileia  come  fortezza  di  prim' ordine  sul  con- 
fine veneto-istriano,  lungo  il  quale,  da  Vippaco  per  S.  Pietro  sino  a  Fiume, 
correva  una  muraglia  continua,  lunga  circa  70  miglia,  simile  al  Valium  Ha- 
driani  della  Brittania  e  al  Limes  della  Svevia,  con  Concordia  a  guardia  delle 
retrovie  di  rifornimento,  non  poteva  essere  stato  meglio  prescelto.  Distante 
15  miglia  1  dal  mare,  ma  collegata  col  porto  di  Grado  mediante  vie  arginate, 
cinta  di  fortissimo  giro  di  mura  merlate  e  turrite,  con  fossati  inondabili,  con 
quartieri  d'inverno  per  le  truppe  alpine,  le  quali,  chiusi  i  passi  dal  primo 
imperversare  delle  tormente  autunnali,  scendevano  a  svernare  in  pianura, 
con  un  pretorio  o  palazzo  imperiale,  con  la  sede  della    Correctura    Venetiae 


1  Veramente  questa  distanza  data  da  qualche  antico  autore  non  è  esatta. 


Appiglii  e  notizie  105 


et  Histriae,  con  la  dogana  principale  di  frontiera  e  con  una  Zecca  inferiore 
nella  produzione  soltanto  a  quella  di  Roma  !  I  difensori  di  Aquileia  pote- 
vano inoltre  contare  sull'appoggio  della  flotta,  di  quella  classis  Praetoria 
Ravennas  o  di  quella  classis  Vetieium,  che  un  dispaccio  semaforico  poteva 
raggiungere  in  pochi  minuti. 

È  vero  che  il  porto  di  Ravenna,  capace  in  origine  di  accogliere  240 
navi  da  guerra,  si  era  venuto  man  mano  interrando,  cosicché  circa  il  prin- 
cipio del  secolo  IV  non  vi  penetravano  se  non  burchielli  pescherecci,  ma 
è  presumibile  che  la  flotta  adriatica  abbia  trovato  asilo  o  a  Fola,  o  Terge- 
ste, o  a  Grado  stessa  tanto  più  che  i  suoi  equipaggi  si  reclutavano  precisa- 
mente dalla  costa  illirico-dalmata. 

Concordia  e  Aquileia  erano  inoltre  protette  da  una  zona  selvosa.  In- 
fatti, ricerche  etimologiche  hanno  dimostrato  che  la  radice  del  nome  Gruaro 
deve  ricercarsi  nel  barbarico  gruen  o  groen  (verde)  ;  e  che  il  C.  Petronius 
Gruarius,  il  quale  dedicò  al  nume  dei  boschi  camici  un'ara  votiva,  non  è 
un  individuo  fornito  di  due  gentilizi  (Petronius  e  Gruarius),  ma  un  Petronius 
di  professione  Gruarius,  cioè  custode  delle  selve  del  suo  padrone,  le  quali,  a 
giudicare  dal  luogo  della  scoperta  dell'ara  presso  Soffumbergo,  dovevano 
trovarsi  sul  confine  di  Aquileia. 

Sfondate  definitivamente  le  porte  orientali,  abbattuto  il  valium  del 
Carso  e  del  Catalanenberg,  l' Italia  non  ha  più  avuto  sicurezza  e  tranquillità 
sino  al  presente.  Di  là  sono  entrati  tutti  gli  orrori,  comprese  le  pestilenze, 
e  le  stragi  di  uomini  e  di  animali.  Non  si  può  leggere  la  vita  di  Gregorio 
il  grande  senza  provare  un  fremito  di  orrore,  allo  stato  della  cosa  pubblica 
nell'anno  590,  nel  quale  egli  vecchio,  infermo,  esausto  aveva  accettato  il 
compito  di  salvare  Roma  e  l'Italia  da  cento  inaudite  calamità:  incendi,  ter- 
remoti, strani  fenomeni  celesti,  inondazioni  che  avevano  distrutto  i  raccolti 
e  i  grani  di  riserva  ;  peste  bubonica  o  inguinaria  che  mieteva  vittime  a  die- 
cine di  migliaia  ;  e,  sopra  ogni  altra  miseria,  la  discesa  dei  Longobardi  per 
l'infausto  passo  del  Predil  e  per  la  valle  dell'Isonzo;  barbari  di  feroce  e 
brutale  aspetto,  massacratori  di  inermi  popolazioni,  seminatori  di  stragi  e 
rovine  in  nome  di  Odin,  loro  Iddio  prediletto. 

Ma  egli  è  tempo,  o  signori,  di  rivolgere  il  pensiero  a  più  liete  consi- 
derazioni. Che  cosa  avete  guadagnato  voi,  eterni  nemici  d'Italia,  dal  giorno 
in  cui  sfondaste  per  la  prima  volta  la  barriera  delle  Alpi  sino  al  presente  ? 
Quale  risultato  avete  ottenuto  con  gli  incendi,  le  rapine,  le  invasioni,  le 
stragi  di  sedici  secoli?  Il  risultato  è  questo:  che  mai  l'Italia  nostra  è  stata 
più  forte,  più  prospera,  più  temuta,  più  libera,  più  concorde,  più  ammirata 
dall'intero  coro  delle  nazioni,  quanto  lo  sia  al  giorno  d'oggi.  Se  le  vostre 
vittime  perite  a  milioni  di  ferro  e  di  fuoco,  di  fame  e  di  peste  potessero  ri- 
destarsi dai  campi  della  morte,  sui  quali  le  abbandonaste  insepolte,  quale 
infinita  divina  gioia  proverebbero  nel  riconoscere  le  sorti  della  terra  natia 
così  meravigliosamente  risorte  a  nuovi  sfolgoranti  destini? 

Noi  veterani  che  abbiamo  cercato  di  servire  del  nostro  meglio  la  dolce 
patria  in  altri  campi  di  attività;  noi,  durante  la  cui  vita  si  è  svolta  l'epopea 
del  Risorgimento,  dai  moti  del  48-49  all'anno  che  corre,  nel  quale  se  ne  sta 
scrivendo  l'ultima  gloriosissima  pagina;  noi  affrettiamo  col  desiderio  il 
giorno  nel  quale,  col  consenso  di  tutti  gì'  Italiani,  sorgerà  un  nuovo  Tro- 
phaeum    Traiani,   non    sulle    rive    del    malfido   Danubio,  ma  su   quelle  del- 


io6  Appunti  e  7iotizie 


V  Isonzo,  sulla  cui  bianca  parete  sia  nuovamente  incisa,  con  le  stesse  parole 
dell'imperatore  Traiano  l'iscrizione:  Victor  Emanuel  III —  Umberti  filius 
—  Rex  —  Monumentutn  fecit  —  In  honorem  et  memoriam  fortissimorum, 
Virorum  —  Qui  prò  Rege  et  Republica  —  Avctis  Italiae  finibus  —  Gloriosa 
morte  occubverunt  ». 

*  Documenti  dei  Torriani  a  Modena.  —  Nella  preziosa  raccolta  Cam- 
pori  conservata  nella  ricchissima  biblioteca  Estense  di  Modena,  v'è  un  co- 
dicetto  segnato  Y.  O.  3.  24  che  porta  il  titolo  «  Instrumenta  »  e  contiene 
20  pergamene,  per  lo  più  testamenti,  appartenenti  a  vari  personaggi  della 
famiglia  della  Torre  vissuti  dal  1312  al  1417.  I  documenti  sono  quasi  tutti 
originali;  la  serie  si  apre  con  le  copie  autentiche  membranacee  del  testa- 
mento di  Guido  della  Torre  fatto  a  Cremona  il  7  agosto  131 2  e  coli' inven- 
tario dei  beni  di  lui,  eretto  in  Pavia  il  16  ottobre  1314  per  richiesta  della 
vedova  contessa  di  Lomello  ;  col  1329  cominciano  gli  atti  che  hanno  inte- 
resse per  il  Friuli,  cioè  col  testamento  di  Napino  q.  Mosca  della  Torre  de 
Mediolano  fatto  in  Aquileia  il  23  febbraio  di  queir  anno. 

È  interessante  notare  come  vi  sia  disposto  un  legato  di  40  libbre  da 
erogarsi  in  beneficenza  «  appena  i  della  Torre  saranno  rientrati  a  Milano  ». 
Eran  passati  cinque  anni  dalla  rotta  di  Vaprio,  ma  la  bellicosa  consor- 
teria non  aveva  deposto  il  pensiero  di  superare  gli  odiati  rivali  Visconti  e 
di  strappar  loro  il  governo  di  Milano.  Il  pensiero  perdura  nella  famiglia  an- 
cora per  dei  decenni  ;  anche  in  un  codicillo  di  Adoardo  della  Torre  q.  Mosca 
rogato  a  Udine  nel  1345,  vi  è  una  disposizione  che  avrà  effetto  «  quando  i 
Torriani  saranno  rientrati  a  Milano  ».  Il  ricordo,  nutrito  di  bramosi  rim- 
pianti dell'  antica  signoria,  rimaneva  sempre  vivo  nella  grande  famiglia,  e 
non  impallidiva  neppure  al  confronto  della  singolare  potenza  da  essa  rag- 
giunta in  Friuli.  Nel  1471,  oltre  un  secolo  e  mezzo  dopo  la  cacciata  di 
Guido,  un  suo  lontano  discendente  Nicolò  q.  Nicolino  della  Torre  si  chia- 
mava orgogliosamente  de  Mediolano,  aggiungendovi  però  :  civis  Utini. 

Fra  i  vari  atti  di  ultima  volontà  si  trovano  anche  due  documenti  nu- 
ziali relativi  alle  nozze  celebrate  nel  1337  a  Udine,  fra  Federico  di  Savorgnan 
e  Catterina  figlia  di  Carlovario  della  Torre.  Nei  due  documenti  vediamo  il 
milite  Federico  assegnare  alla  sposa  la  morgengabe  e  le  dismontaduris  se- 
condo r  uso  della  nobiltà  friulana.  I  documenti  segnano  un  momento  di 
stretta  colleganza  fra  i  due  grandi  casati,  che  più  tardi  dovevan  esser  divisi 
da  tanta  guerra. 

Del  resto,  queste  carte  non  contengono  cenni  importanti  né  per  la 
storia  del  costume  né  per  quella  della  cultura  ;  non  vi  troviamo  ricordati  co- 
dici, né  gioielli,  né  vestiti,  né  alcun' altra  cosa  d'uso  personale.  Ho  creduto 
pertanto  sufficiente  di  offrirne  ai  nostri  lettori  i  regesti,  dando  un  riassunto 
più  copioso  di  quelli  che  offrono  uno  speciale  interesse  storico. 

P.  S.  Lkicht. 

Regesti. 

1312,  7  agosto,  Cremona.  Guido  della  Torre  fa  testamento. 
1314,  16  ottobre,  Pavia.  Inventario  dei  beni  del  q.  Guido  della  Torre. 
1329,  23  febbraio,  Aquileia.  Testamento  di  Napino  q.  Mosca  della  Torre  di 
Milano.  Vuol  essere  sepolto    nella   chiesa    maggiore   d' Aquileia,    nella 


Appunti  e  notizie  107 


cappella  di  S.  Ambrogio,  nel  sepolcro  della  madre  sua  Allegranza.  Fra 
le  varie  disposizioni  è  degna  di  nota  questa:  «  et  cum  sui  de  domo 
sua  intrabunt  Mediolanum,  vult  etiam  et  ordinat  prò  male  ablatis  in- 
certis,  infra  annos  duos  postquam  intraverint  Mediolanum,  quod  de 
suis  bonis  dentur  et  dispensentur  libr.  XL  ». 

1337 >  13  febbraio,  Udine.  Federico  miles  de  Utino  dona  a  Catterina  sua 
moglie  figlia  di  Carlovario  della  Torre  di  Milano  dimorante  a  Udine 
500  libbre  di  parvoli  «  nomine  Morgengati  ad  usum  terre  Foriiulii  »  e 
ne  possa  fare  ciò  che  vuole  «  sicut  est  mos  et  consuetudo  terre  Fori- 
iulii »  con  obbligazione  di  tutti  i  suoi  beni.  Testimoni  :  Ettore  di 
Udine,  Gerardo  di  Cucagna,  Filippo  de  Portis,  Antoniolo  della  Torre, 
Francesco  di  Manzano,  Fulcherio  di  Savorgnan,  Castrone  figlio  di  Fe- 
derico anzidetto. 

1337»  28  aprile,  Udine.  Ermanno  de  Utino  a  nome  di  Federico  dona  a  Cat- 
terina moglie  di  quest'  ultimo  Cuculino  f.  di  Regazzo  di  Savorgnano 
uomo  di  masnada  «  nomine  dessensurarum  ad  usum  terre  Foriiulii  » 
in  piena  proprietà. 

1345»  9  giugno,  Udine.  Codicillo  d'Adoardo  della  Torre  q.  Mosca.  Fra  le 
varie  disposizioni  ve  n'ha  una  che  dovrà  aver  effetto  un  anno  dopo 
rientrati  i  suoi  a  Milano. 

1367,  7  marzo,  Udine.  Maria  vedova  di  Panciera  della  Torre  fa  testamento. 

1382,  23  maggio,  Udine.  Nicolino  q.  Moschino  della  Torre  conferma  il  suo 
precedente  testamento  e  vi  aggiunge  dei  legati. 

1382,  15  giugno,  Udine.  Legato  di  Nicolino  q.  Moschino  della  Torre  a  sua 
moglie  Furlana. 

1382,  15  giugno,  Udine.  Margherita  q.  Napino  della  Torre  vedova  di  Gue- 
cello  da  Prata  fa  testamento. 

1390.  7  luglio,  Udine.  Furlana  q.  Francesco  Machalusio  di  Padova  vedova 
del  nob.  Nicolino  della  Torre  fa  testamento. 

1391»  3  dicembre,  Udine.  Furlana  predetta  dona  a  sua  figlia  Sofia,  moglie 
di  Gregorio  Arcoloniani  di  Udine  per  atto  fra  vivi  mille  libbre  di  pic- 
coli veronesi  con  alcune  condizioni. 

1396,  IO  maggio,  Udine.  Gregorio  Arcoloniani  rilascia  ricevuta  delle  predette 
mille  libbre  a  Moschino  q.  Nicolino  della  Torre. 

1416,  24  novembre,  Udine.  Moschino  q.  Nicolino  della  Torre  fa  testamento. 

1420,  30  novembre,  Udine.  Ser  Jacopo  q.  Odorico  di  Glizoio  de  Coloreto 
fa  testamento. 

1433.  5  maggio,  Venezia.  Nicolò  Girolamo  q.  Ottolino  detto  Capo  della 
Torre  fa  testamento. 

1444,  30  maggio,  Venzone,  in  casa  di  ser  Bartolomeo  q.  Jop  Misitini  de 
Venzono.  Alovisio  q.  Carlo  della  Torre  fa  testamento. 

(In  calce  il  sigillo  «  segretum  comunis  Venzoni  »). 

1454»  30  maggio,  Udine,  in  Castello  super  sala  magna  superiori.  Dichiara- 
zione di  Elena  figlia  di  Taddeo  marchese  d'Este  vedova  d' Alovisio 
della  Torre  di  Udine  d'aver  ricevuto  da  Nicolò  e  Raimondo  della 
Torre  q.  Nicolino,  eredi  del  detto  Alovisio,  2000  ducati,  che  questi  le 
aveva  legati. 

147 1,  2  ottobre,  Udine.  Nicolò  q.  Nicolino  della  Torre  «  de  Mediolano, 
civis  Utini  »  fa  testamento. 


io8  Appunti  e  notizie 


*  Dopo  l'angoscia,  la  vittoria  e  la  liberazione.  —  La  Società  Sto- 
rica Friulana  che  con  il  più  acerbo  strazio  dovette  abbandonare,  causa 
i  dolorosi  eventi  dell'autunno  1917,  la  propria  sede  e,  con  essa,  tutte  le  sue 
carte  e  pubblicazioni,  nel  trasferirla,  provvisoriamente  a  Roma,  recò  seco 
la  più  salda  fede  nei  destini  della  Patria,  certa  che  in  un  tempo  non  lon- 
tano le  aquile  romane  avrebbero  ristesi  i  loro  ampi  vanni  sulle  nobili  terre, 
cui  la  civiltà  latina  diede  un  sì  mirabile  sviluppo,  imprimendo,  fin  nei  più 
remoti  angoli  di  esse,  i  suoi  incancellabili  vestigi  ;  e  vede  ora  con  inespri- 
mibile gioia  compiuti  i  suoi  voti. 

Il  Friuli,  che  visse  per  oltre  tre  anni  la  guerra  con  i  soldati  d'  Italia 
e  palpitò  così  da  presso  con  loro,  ammirando,  per  le  semplici  ed  austere 
virtù,  la  Maestà  del  Sovrano,  che  ne  era  ospite  beneamato,  ed  esultando, 
pel  primo,  delle  gloriose  epiche  giornate,  tornerà  a  fiorire  di  novella  vita, 
scacciato  l' obbrobrioso  ricordo  delle  odiate  masnade  imperiali  ;  e  la  sua 
gente  a  mostrare  che  la  propria  coscienza  d' italianità  indomita  e  pura  non 
languiva  neppur  nell'esilio,  volle  che  il  suo  centro  di  cultura  non  avesse  ad 
interrompere  l'attività,  e  però  la  Società  decise  di  continuare,  pure  nelle 
difficili  circostanze  in  cui  versava,  la  pubblicazione  delle  Memorie,  che  ora 
veggono  la  luce,  essendo  libera,  più  grande  e  più  gloriosa  la  Patria  final- 
mente compiuta.  ., 

*  È  d' imminente  pubblicazione,  a  cura  della  Commissione  per  la  pub- 
blicazione degli  atti  delle  Assemblee  costituzionali  italiane  dal  medioevo  al 
1831,  il  primo  volume  del  Parlamento  friulano  per  il  quale  il  suo  editore 
prof.  P.  S.  Leicht,  ha  eseguita  la  collazione  di  un  codice  delle  costituzioni 
parlamentari  del  1366,  assai  importante  perché  più  antico  di  tutti  e  perché 
dà  le  costituzioni  in  ordine  cronologico.  Tale  codice  non  fu  adoperato  dallo 
Joppi  nella  sua  edizione.  Il  Leicht  ha  di  già  messa  in  luce  (Bologna,  Zani- 
chelli, 1917),  in  limitato  numero  di  esemplari,  quale  estratto  dal  primo  vo- 
lume, la  introduzione  all'opera,  nella  quale  esamina  gli  istituti  parlamentari 
nell'età  patriarcale.  Ne  riparleremo. 


Atti  della  Società  109 


ATTI  DELLA  SOCIETÀ  STORICA  FRIULANA 

Adunanza  del  Consiglio  direttivo  del  giorno  20  decembre  igiy. 

Presidenza  del  Presidente  prof.  P.  S.  Leicht. 

La  seduta,  che  ha  luogo  in  Roma,  Piazza  Venezia,  ii  (Belle  Arti),  è 
aperta  alle  ore  10,45,  presenti  Fracassetti,  Leicht,  di  Prampero,  Suttina, 
della  Torre. 

Si  è  scusato  il  consigliere  S.  E.  Morpurgo. 

Il  Consiglio,  dopo  avere  rivolto  un  caldo  saluto  alla  terra  friulana  do- 
vuta abbandonare  per  tristi  motivi  ben  noti  ed  avere  riaffermato  la  sua  fede 
incrollabile  nell'  avvenire  d' Italia,  stabilisce  di  fissare  provvisoriamente  in 
Roma,  Piazza  Venezia,  11  (Belle  Arti),  la  sede  del  Sodalizio  e  in  conside- 
razione di  alte  ragioni  morali,  unanime  delibera  di  continuare,  nei  limiti 
consentiti  dalle  presenti  difficoltà,  la  pubblicazione  delle  Memorie  storiche 
forogiuliesi  e  di  dare  comunicazione  di  tale  decisione  a  tutti  gli  Istituti  e 
Corpi  scientifici  e  letterari  in  rapporti  con  la  Società. 

Il  Consiglio  si  occupa  poi  di  affari  amministrativi  anche  in  relazione 
con  1'  attuale  momento. 

Dopo  di  che  la  seduta  è  levata  alle  ore  11,20. 

//  Presidente 
P.S.    Leicht. 

//  Segretario 
L. Suttina. 


31  decembre  igiS. 


Stampato  in  Perugia,  nella  Officina  della  Unione  Tipografica  Cooperativa 
Dottor  Luigi  Suttina  responsabile 


INDICE  DELLE  MATERIE  DEL  XII -XIV  VOLUME 


MEMORIE 


Cecchelli  Carlo,  Arte  barbarica  cividalese Pag.     i 

Paschini    Pio,     Gregorio    di     Montelongo    patriarca    d'  Aquileia 

(1251-1269) »      25 

ANEDDOTI 

Paschini  Pio,  Confini  friulani.  Nota »     85 

Leicht  Pietro  Silverio,  Aquileia  e  Trieste  alla  pace  di  Torino.        »     92 

RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 
Leicht  Pietro  Silverio:  C.    Costantini,   Aquileia  e  Grado    .        »     99 

APPUNTI  E  NOTIZIE 

Appunti'.  La  difesa  del  confine  Veneto- Istriano  sotto  l'Impero  Ro- 
mano. —  Documenti  dei  Torriani  a  Modena  (P.  S.  Leicht).       »    loi 

Notizie:  Dopo  l'angoscia,  la  vittoria  e  la  liberazione.  —  Il  Parla- 
mento friulano »    108 

ATTI  DELLA  SOCIETÀ  STORICA  FRIULANA 
Adunanza  del  Consiglio  direttivo  del  20  decembre  1917.        .        .       »   109 


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975 
F85M4. 
V.  11-14. 


Memorie  storiche  forogiia 


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