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SOCIETÀ STORICA
FRIULANA
MEMORIE STORICHE
FOROGIULIESI
GIORNALE
DELLA
SOCIETÀ STORICA FRIULANA
ANNOXL ^,^^ ^^
UDINE
SEDE DELLA SOCIETÀ
PALAZZO BARTOLINI
I915
La proprietà letteraria è riservata
agli autori dei singoli scritti.
F^sM^ 1121115
V. iì-iJf
Le elezioni dei patriarchi aquileiesi.
L'argomento della provvisione delle sedi vescovili trattato,
fuori d'Italia, in molti lavori generali e speciali, è stato alquanto
trascurato dai nostri studiosi ; la ragione di questo fatto è facile
a scoprirsi quando si pensi che, mentre nei vescovadi d'oltralpe
è rimasto ancora in vigore, in molti casi, il diritto d'elezione ca-
pitolare (o canonica), invece nelle sedi italiane vale, come regola
generale, la provvisione per parte della sede pontificia. Ciò toglie,
naturalmente, all'argomento un valore diretto per la pratica: tut-
tavia esso non deve, per questo, essere trascurato, perchè offre
grande interesse storico e nel tempo stesso non manca d'importanti
riferimenti ad opinioni e a dibattiti del mondo moderno. ^ Mi li-
miterò a disegnare, in queste brevi pagine, a grandi linee, le vi-
cende del sistema elettivo nella sede aquileiese, una delle più
importanti, senza dubbio, della penisola,
L'argomento è reso difficile dalla scarsezza delle fonti, in
special modo per il periodo più antico, e questa scarsezza si
estende a tutta la storia primitiva della chiesa aquileiese che si
1 Ved. per dò le istruzioni del conte di Cavour dirette ad ottenere il ristabili-
mento dell'elezione canonica, nelle trattative per un accordo colla santa Sede avvenute
nel 1861, in Artom, L'opera politica del senatore I. Artom nel risorgimento italiano,
Bologna, 1906, I, 181, e la nota di F. Ruffini, nel Diritto ecclesiastico di Emilio
Friedbero, p. 494 e Scaduto, Guarentigie ecclesiastiche, Torino, 1889, p. 415 sg.
nonché le discussioni avvenute sulla legge delle guarentigie nel Parlamento italiano ;
ved. ora Falco, La politica ecclesiastica della Destra, Torino, 1914, p. 27 sg.
2 PIETRO SILVER \0 LEICHT
deve ricostruire in gran parte con ipotesi. ' Di certo sappiamo
soltanto che nel VI secolo i vescovi di Milano e di Aquileia, i
due metropoliti dell'Italia superiore, si consacravano a vicenda
per antica consuetudine. - Quanto alla elezione, dobbiamo ricor-
rere alle fonti generali e ritenere che essa avvenisse, come nelle
altri sedi, per opera del clero e del popolo: trattandosi di un
metropolita, bisogna aggiungervi i vescovi suffraganei.^ Dal con-
testo della lettera di papa Pelagio relativa alla mutua consacra-
zione dei metropoliti di Milano e d'Aquileia si può dedurre che
ognun di questi presiedesse a vicenda l'elezione dell'altro, con-
trollando, in pari tempo, la promovibilità dell'eletto, funzioni
queste che, nel caso d'elezione d' un semplice vescovo, spettano
agli altri vescovi limitrofi che presiedono all'elezione e poi com-
piono la consacrazione.^ È però questa una consuetudine singo-
lare delle due sedi d'Aquileia e di Milano; per gli ahri metro-
politi provvedono alla consacrazione i vescovi suffraganeil
L'elezione di tutti i vescovi dell'Impero era pur soggetta
all'approvazione imperiale. ^
La venuta dei Langobardi non portò alcun mutamento a
questo stato di cose, eccezion fatta per la mutua consacrazione
dei due metropoliti, di Milano e d'Aquileia, che cadde in disuso
probabilmente collo scisma che distaccò quest'ultima sede dalle
altre dell'Italia superiore.'' Quanto al modo d'elezione del pa-
triarca possiamo desumere alcune notizie positive dagli atti del
concilio di Mantova,* il quale avviene bensì, nell'età franca,
ma si richiama continuamente ai precedenti dell'epoca langobarda.
Così il patriarca Massenzio attacca l'elezione del patriarca gradese
Candidiano perchè questi non fu eletto col consenso dei vescovi
» Su questo periodo ved., oltre agli scrittori antichi, Raschini, La chiesa d'Aqui-
leia ed il periodo delle origini, Udine, 1909.
« Su questo punto ved. l'importante opera del Palladini, Della elezione degli
arcivescovi di Milano, Milano, 1834, p. 28, ed anche Raschini, Le vicende politiche e
religiose del territorio friulano da Costantino a Carlo Magno, estr. dalle Memorie
Storiche Forogiuliesi, voli. VII, Vili, IX, 1911-1913, p. 73, e Savio, Gli antichi ve-
scovi d'Italia : La Lombardia, Firenze, 1913, p. 186.
' LOENiNG, Geschichte des deutschen Kirchenrechts , Strassburg, 1898, I, 110.
* LOENINO, Op. Cit., I, 110.
^' Così, ad esempio, ved. il privilegio dell'imperatore Costante II (a. 666) alla
Chiesa ravennate, in M. G. H.: SS. Rerum Langob., p. 350, n. 7: « . . . sicuti reliqui
« metropolitae per diversas reipublicae manentes provincias qui et a propriis conse-
« cratus episcopis, utens videlicet et decore palli, sicut nostre divinitatis sanctione . . .
« praelargitum est... ».
• HiNSCHius, System des katholiscften Kirchenrechts, Berlin, 1878, lì, 513.
' Palladini, op. cit., p. 36 e Savio, op. cit., p. 252.
« M. G. H.: Coiuilii aevi Karolini, to. I, par. II, pp, 583-589.
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESl 3
comprovinciali,' e l'elezione non avvenne in Aquileia, ma in una
pieve della diocesi. 11 consenso dei suffraganei doveva dunque
confortare la scelta fatta dal clero e dal popolo, che rimane sem-
pre l'elemento fondamentale 2. Le parole di Massenzio ci fanno
comprendere come, malgrado lo stato d'abbandono in cui si trovava
l'antica metropoli Aquileia, le elezioni dovessero seguire però,
sempre, nelle sue mura, anche se poi il patriarca risiedeva altrove.
Nell'ordinazione interviene, come nell'età romana, il potere pub-
blico.
Nei primi tempi, quando i duchi conservano ancora un no-
tevole grado d'autonomia di fronte al re, l'elezione è soggetta
alla conferma d'ambedue, più tardi, invece, si parla soltanto del
consenso del re. ^
Il cronaco gradese afferma addirittura che il duca Gisulfo,
ai tempi di Agilulfo « ordinavit lohannem abbatem in quo tres
« episcopi consenserunt » ; ordinare è lo stesso termine adoperato
da Gregorio Magno a proposito del patriarca costantinopolitano,
il quale veniva senz'altro nominato dall' imperatore d'Oriente. ^
A questa narrazione non corrisponde, veramente, il testo di Paolo
Diacono, il quale parla soltanto del consenso del re e del duca;
nondimeno è facile supporre che, come accadde a Milano susci-
tando le vivaci proteste del pontefice e seguendo l'esempio bi-
zantino,^ il potere pubblico non si limitasse a sanzionare l'elezione
liberamente avvenuta, ma influisse invece sull'elezione stessa
suggerendo o meglio imponendo il candidato.® Vordinare va
inteso dunque qui come l'assenso dell'autorità superiore all'ele-
zione che dà valore definitivo alla nomina del vescovo. La con-
secratio dovette seguire nei tempi langobardi per opera dei ve-
1 Fonti deWIstituta Storico Italiano: Cronache Veneziane antichissime, Roma
^
1890, p. 50: « sub cuius tempore per consensum Agilulfi reg^s Langobardorum, Gisul-
« fus dux per forciam episcopum in Foroiulio ordinavit lohannem abbatem, in quo
«tres episcopi consenserunt, Deo sibi contrario, et eum consacraverunt ».
« Palladini, op. cit., p. 39. Ved. a questo proposito la dichiarazione del pa-
triarca Massenzio nel concilio di Mantova relativa alla elezione del vescovo di Pola.
3 Giovanni è ordinato « consensu Regis (Agilulfi) et Gisulfi Ducis » ; al tempo
del re Liutprando, « Calisto adnitente Liutprando principe Aquileiensem ecclesiam su-
«scepit regendam»: Pauli Diaconi///*^. Langobardorum, IV, 32 e VI, 45; ved. sul
proposito Tamassia, Langobardi, Franchi e Chiesa Romana, Bologna, 1888, p. 97.
■* HiNSCHius, op. cit., II, 513 e specialmente Greoori Magni Ep., VII, 6 ; il
pontefice parla délVordinatio di Ciriaco patriarca costantinopolitano fatta dall'impe-
ratore Maurizio : « non enim parvae potuit esse mercedis quod, lohannes sanctae me-
« morie de hac luce subtracto, ad ordinandum sacerdotem pietas vestra diu hesìtavit ».
5 Ved. in special modo il passo di Agnello Ravennate relativo alla nomina dì
Massimiano.
6 Palladini, op. cit., p. 39.
4 PfETRO SILVERIO LEICHT
scovi suffragane!.* Quanto al pontefice, qualunque sia la sua
azione nella nomina dei vescovi italiani,' è certo che fino ai
tempi del re Cuniberto, cioè sino alla cessazione dello scisma
aquileiese, sul finire del secolo VII, la sedia romana non potè
aver modo d'intervenire nelle elezioni dei patriarchi. Nell'età
successiva s'aprì la via ad una tale ingerenza con la concessione
del pallio metropolitico che Sereno ricevette, per il primo, dal
pontefice Gregorio II, dietro preghiera di re Liutprando.' Ma di
ciò si vedrà in seguito.
11 periodo franco si apre con un documento del più alto
interesse per il nostro argomento: il diploma rilasciato da Carlo
Magno al patriarca Paolino nel 792, nel quale il patriarca gli
chiede « ut quando quidem divina vocatione ipse de hac luce ad
« Dominum migraverit, qualem meliorem et digniorem ipsa sancta
« congregatio, quae ibidem sub sancto ordine degere videbitur,
« infra se nobis filioque nostro Pippino regi et omni genti nostre
« per omnia fidelem aptumque et congruum voluerit ex permissa
« indulgentia nostra, salva principali potestate nostra, sicut et in
« ceteris ecclesiis secundum canonicam auctoritatem licentiam ha-
« beant super se eligendi pastorem ».*
Come il Weise ha giustamente osservato, la frase : sicat in
ceteris ecclesiis dimostra che qui non ci troviamo di fronte ad un
privilegio eccezionale, ma soltanto ad una conferma del diritto
comune alle chiese del regno langobardo, conservato dagli im-
peratori franchi ; ■' del resto, il successore di Carlo, Ludovico il
Pio, nel capitulare eccleslasticum deir818-9, riconobbe a tutte le
chiese dell'impero il diritto della elezione canonica.^
1 Palladini, op. cit.» p. 48.
« Per questa ingerenza vedasi Palladini, op. cit., p. 49, n. 3.
3 Paschini, op. cit., p. 137.
* M. a. //..- Diploin. Karol., I, n. 714, a. 792.
5 Weise, Kónigthuni und Bisclwfswahl iin frdnkischen und deutsdien Reich vor
dent Investii utstreity Berlin, 1912, p. 13; non mi par esatta, quindi, l'asserzione di
G. SCHWARTZ, Die BesetzuHg der Bistiimer Reichsitaliens iinter dea sàc/isischen und
salischen Kaisern ecc., Leipzig, 1913, p. 14, il quale ritiene che l'elezione canonica
sia stata concessa da Carlo ad Aquileia (la stessa asserzione già in 1 9.kyB.nst^Corrado
duca di Slesia fu veramente patriarca d' Aquileia ?, nel Bullettino della aalioteca e
del Museo Civico di Udine, ivi, 1910, IV, 3, p. 134). 11 diploma carolingio proviene
certamente dal fatto che Carlo s'ingerì fortemente nell'elezione di Paolino e questi
volle salvaguardata la libertà della sua chiesa dall'influenza di questo precedente giu-
stificato, del resto, dallo stato eccezionale in cui si trovava allora il Friuli, dove la
ribellione del duca Rotgaudo contro i Franchi era stata appena domata.
• Non so perchè il Weise voglia fare un'eccezione per l'Italia, mentre egli stesso
(p. 13, n. 1) osserva che anche in questo regno l'elezione canonica dovette costituire
la regola, come si ritrae dal capitolare di Pipino. Come ammettere che un peggiora-
mento sia avvenuto sotto la dominazione di Ludovico, autore del Cap. EccL?
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI 5
Il diploma del 792 ci parla soltanto della « sacra congregati©
« quae ibidem (cioè in Aquileia) sub sancto ordine degere vi-
« debitur » : che si deve intendere indicato con tali parole ? La
s^ncta vita non è altro, evidentemente, che la vita in comune,
la canonica vita, che il clero cittadino conduceva, in molti luoghi,
ad imitazione delle corporazioni monastiche.* Dobbiamo ritenere
perciò che, ai tempi del patriarca Paolino, il diritto d'elezione
fosse già ristretto al solo clero aquileiese ? ^ La questione, come
si vede, è duplice: che, ad intendere in stretto senso le parole
della petitio del santo patriarca, bisognerebbe ammettere l'esclu-
sione dall'elezione non soltanto dei laici, ma anche dei suffra-
ganeì. Ora tutto ciò offre gravissime difficoltà. Abbiamo già ac-
cennato, infatti, come il sinodo di Mantova tenuto da Massenzio,
uno dei più prossimi successori di Paolino, ci sveli ampia-
mente il sistema d'elezione in uso nel territorio ecclesiastico aqui-
leiese. Ivi si parla del consenso dei suffraganei, a proposito
dell'elezione patriarcale, ed a proposito di quella di un vescovo
sì ricorda 1' « universo clero et cuncto populo » dal quale eran
stati spediti messi al metropolita per ottenere l'ordinazione del-
l'eletto. D'altronde il sistema corrisponde appieno a quello in
uso in tutto l'impero carolingio; il capitolare deir818-819 ordina
infatti, « ut episcopi per electionem cleri et populi, secundum
« statuta canonum de propria diocesi, remota personarum et
« munerum acceptione, ob vitae meritum et sapientiae donum
« eligantur », e le testimonianze contemporanee sono interamente
concordi. ^
D'ahra parte l'imperatore Carlo il Grosso confermando nel-
l'anno 879 il diploma di Carlo Magno, ci attesta egli stesso che
l'intervento del popolo continuava regolarmente, giacché concede
che « memoratae civitatis clerus ac populi licentiam habeant se-
« cundum canonicam institutionem eligendi pastorem » .
Dobbiamo perciò ritenere che la frase del diploma del 792,
indicando la parte più cospicua degli elettori, cioè il clero, non
escluda il popolo; tutt'al più sì può pensare che Paolino nella
petitio segua le orme di tanti padri della Chiesa, suoi predecessori,
i quali nei loro scritti cercarono di mostrare che la posizione dei
1 HiNSCHJUS, op. cit., p. 49. Si noti che un tale uso s'era diffuso largamente in
Francia nel secolo Vili : lo avrà portato di là il patriarca Paolino ?
2 II Tassini, Questione storico-giuridica del patriarcato di Venezia, Genova,
1906, p. 56, crede, al contrario, che il diritto d'intervento all'elezione patriarcale sia stato
esteso al popolo dal diploma di Carlo il Grosso dell'879.
8 Palladini, op. cit., p. 63.
6 PIETRO SILVERIO LEICHT
laici nella elezione canonica doveva essere affatto secondaria dì
fronte a quella de! clero.*
Rimane però ancora un problema; i due diplomi parlano
sempre della civitas Aqulleia: dobbiamo ritenere che il diritto
d'elezione sìa ristretto, in questo tempo, al clero e al popolo
aquileìese, oppure che ad esso partecipi ancora tutta la diocesi ?
Quest'ultima ipotesi mi sembra più probabile per motivi d'indole
generale e particolare. Anzitutto Aquileia non è, ormai, una città ma
un povero villaggio, ed il patriarca non vi tiene da gran tempo
la sua residenza che da Calisto è passata a Cividale. Quest'ul-
tima fu anche scelta dal patriarca Paolino come sede del concilio
del 796 malgrado che i canoni indicassero, come tale, Aquileia.*
Dato tutto ciò, mi pare poco probabile che a favore dì quest'ul-
tima potesse manifestarsi quel processo per il quale il clero ed
il popolo della capitale diocesana vengono un po' per volta ad
escludere il territorio dai diritti d'elezione. Oltre a ciò bisogna
ricordare che la diocesi aquileìese fu, tra le italiane, una dì quelle
che per la lunga separazione dovuta allo scisma e per la lonta-
nanza da Roma più a lungo conservarono le antiche forme: lo
dimostra il prolungato uso del proprio rito. Ora mi pare molto
probabile, anche per questo, che essa dovesse conservare meglio
d'ogni altra quell'antico procedimento d'elezione, di cui pure in
varie diocesi si notano tracce ancora nei secoli XH e Xlll.^ Quanto
al popolo, una prova assoluta del fatto che mai il diritto d'in-
tervento fu ristretto ai soli cittadini aquileiesi sì può vedere in
ciò che più tardi tale diritto spetta ai nobili e ministeriali della
chiesa aquileìese, cioè ai malores terrae di tutto il territorio friu-
lano. ^
I rinnovati privilegi dei Carolingi alla sede aquileìese ci di-
mostrano che in questo periodo rimase inalterato il principio del-
1 Imbart Dh LA Tour, Les élecHons épiscopales dans l'église de Fratice da IX'
<iH XII* siede, Paris, 1891, p. 11 sg.
* M. G. ti.: Concilia aevi Karol., I, par. I, p. 177.
» Cappelletti, Chiese d'Italia, Venezia, 1844, H, 497, riporta la petitio diretta
nel 1163 dal clero e dal popolo di Sarsina all'arcivescovo di Ravenna per chiedere l'or-
dinazione del vescovo : la firmano l'arcidiacono, sedici fra preti e suddiaconi , un abate
e sei arcipreti ; a Como nel sec. XI il diritto di elezione spettava al capitolo, a tre
abati ed ai dodici cappellani curati della città: ved. Tatti, Annali della città di Como,
Milano, 1863, p. 201 ; per la Francia ved. Palladini, op. cit., p. 225, il passo di
Incmaro relativo ad un'elezione nella diocesi di Cambrai : « quae electio non tantum
«a civitatis clericis erit agenda: et de omnibus monasteriis ipsius parochiae, et de ru-
« sticarum parochiarum arbitriis occurrant vicarii commorantlum secum concordia vota
« ferentes >. Ved. anche Tomassini, Nov. et Vet. Eccl. DiscipL, par. Il, 1. 2, e. 22, n. 3.
•♦ Ved. su ciò la «. 1 a p. 16.
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI 7
l'elezione canonica. * Un solo caso sembra doversi eccettuare, cioè
l'elezione di Paolino che dalle parole del monaco di S. Gallo ap-
pare nominato direttamente da Carlo Magno. 11 cronista racconta
infatti che l'imperatore, saputo che al patriarca Sigualdo rimaneva
ormai poco spazio di vita, rimase in Friuli « donec, episcopo
«[Sigualdo] decedente, dignum ei successorem substitueret ».* Le
parole sono troppo chiare perchè si debba discuterne il significato:
davanti a questa attestazione, il diploma del 792 che garantisce
alla chiesa aquileiese la libera elezione appare come una assicu-
razione che l'indebita ingerenza imperiale non si sarebbe più ve-
rificata; d'altronde essa fu giustificata probabilmente dalla ribel-
lione del Friuli contro il governo franco appena sedata.
Se dopo quel tempo i Carolingi non esercitarono un diritto
di nomina della sedia aquileiese, dovettero però mantenere sal-
damente le altre loro prerogative come risulta dalle stesse pa-
role del diploma di Carlo Magno : « salva principali nostra po-
« testate » . Questa « principalis potestas » si esplicava nell'appro-
vazione che l'imperatore doveva dare all'elezione del nuovo
patriarca, senza di che esso non poteva essere consacrato dai
vescovi suffraganei.^ Naturalmente oltre a questa ingerenza le-
gale nella provvisione della sede, era facile all'autorità imperiale
di esercitare la sua influenza sull'elezione stessa, proponendo il
candidato: non abbiamo, però, memorie positive di un tale pro-
cedimento, quanto ad Aquileia.
A questa prestazione dell'assenso regio segue il giuramento
di fedeltà del nuovo eletto al sovrano.*
Il periodo tempestoso che segue lo spegnersi della dinastia
carolingia, porta con sé i più gravi arbitri dei sovrani che a volta
a volta riuscivano con la violenza a impossessarsi del trono ita-
V^o. Divenuti i vescovi nel contempo potenti signori temporali
p^èr le ricche concessioni di terre e diritti giurisdizionali ricevute
1 GallandI, BibL Veterani Putrum, VenetiJs, 1779, to. XIII, p. 591, riporta il
« liber de electionibus episcoporum » di Floro del sec. IX, dove questi protesta contro
4'uso invalso in molti regni: « ut consultu principis ordinatio fieret episcopalis >. Quanto
alle vicende di questa elezione regia ved. Imbart, op. cit., p. 78 sg.
* De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, Argentinae, 1740, col. 537.
3 PivANO, Stato e chiesa da Berengario ad Arduino, Torino, 1908, p. 34 e Waitz,
Deutsche Verfassungsgeschichte, Kiel, 1876, VII, 273. Quanto alla consacrazione dei
suffragane!, ved. ciò che accade a Milano, in Palladini, op. cit., p. 180.
■* Per questo giuramento, ved. in generale Waitz, op. cit., VI, 389, n. 5, e per
il territorio aquileiese in particolare, ved. il concilio di Mantova già cit., nel qaaltf
il patriarca Massenzio parla dei vescovi istriani che si lagnavano di dovere, a causa
della guerra tra i Franchi e Bisanzio, prestar giuramento ora at Carolingi ed ora agli
imperatori greci.
8 PIETRO SILVERIO LEICHT
da sovrani e da privati, si comprende come fosse necessario ai
vari re far sì che le sedi vescovili più importanti venissero in
possesso di lor partigiani. Non abbiamo notizie particolari rela-
tive ad Aquileia, ma sappiamo che, per esempio, Ugo provvide
di proprio arbitrio alla sede di Verona concedendo quel vesco-
vado al suo congiunto lldoino « ad stipendi usum » , dice il con-
temporaneo Liutprando.' Quest'ingerenza del potere regio nel-
l'elezione fa sì che l'elemento canonico, se pure non perisce,
perda immensamente d' importanza dinanzi all'azione del re. Non
si parla più di un consentimento regio od imperiale all'elezione
canonica, ma si dice addirittura che l'elevazione del nuovo ve-
scovo avviene «dono imperatoriae potestatis » .^ 11 regio consen-
timento alla nomina che prima aveva luogo mediante un* epi-
stola absoliitioniSy ^ si trasforma ora in un atto formale, col
quale l'imperatore, servendosi di simboli, un bastone ed un
anello,^ trasmette al nuovo vescovo, sia esso eletto canonicamente
oppure direttamente nominato dal potere sovrano, il possesso
del vescovado. Poiché a questa trasmissione di possesso, cioè
vestitura, segue, come s'è detto, il giuramento di fedeltà, ^ sì
comprende come l'atto, nel suo insieme, prendesse l'aspetto della
investitura feudale. D'aUra parte, in molti casi, in special modo
con gli Ottoni, alla sedia vescovile andava congiunto l'esercizio
di diritti comitali e di altre temporalità largite dalla corona che
avvicinavano grandemente i vescovi ai maggiori feudatari della
corona, ed è certo che tali concessioni di regalie rendon più fa-
cile e più giustificata, l'ingerenza imperiale nell'elezione vesco-
vile, specialmente nelle sedi che per la loro posizione geografica
* PiVANO, op. cìt., p. 86, n. 1 e 2; d'altronde Ugo veniva dalla Provenza, dove,
come nel rimanente della Francia, il re aveva la più ampia ingerenza nelle elezioni
vescovili : quindi non faceva che applicare all'Italia il suo diritto nativo.
• PiVANO, op, cit., pp. 280-81 : le frasi « regio dono, munere regali » sono da
confrontarsi con quelle consimili adoperate in Germania ed in Francia dove l'elezione
è regia: Waitz, op. cit., VII, 283; non dobbiamo però inferirne che l'elezione cano-
nica sia scomparsa, altrimenti non si comprenderebbe come mai il primo documento
che si riferisca con precisione di dati, dopo due secoli di silenzio (880-1070), alla no-
mina di un patriarca ci parli proprio di elezione fatta da clero e da popolo. D'altronde
il regis donum può accompagnarsi all'elezione: così a Milano. Savio, op. cit., 387,
« consultu maiorum ac dono imperatorie maiestatis » può significare dunque investitura.
3 PiVANO, op. cit., p. 34, ricorda il reg. di Jaffé, Reg. Pont., n. 3446, nel quale
il papa scrive all'imperatore Guido di non aver consacrato un vescovo perchè non era
giunta ancora Vabsolutionis epistola dell'imperatore stesso.
4 Per l'Italia, vedi gli esempi cit. dal Mayer, Italienische Verfassungsgeschùhte,
Leipzig, 1909, II, 518.
5 Per il giuramento ved. Pivano, op. cit., p. 105, n. 8.
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI 9
era più importante assicurare in mani fedeli.^ Fra queste viene
in prima linea la sede patriarcale aquileiese che era venuta in
possesso nei secoli X e XI di ampie giurisdizioni e importanti
castelli nel Friuli; e si comprende come gl'imperatori doves-
sero tenere il patriarcato in particolare considerazione. Certa-
mente non si può affermare che, ai tempi della casa di Sassonia
e sotto i primi Franconi, il principio dell'elezione canonica sia
perito del tutto, però l'ingerenza regia è così forte che que-
st'elezione si riduce il più delle volte ad una semplice formalità : *
l'eletto è previamente designato dalla corona.
Quanto ad Aquileia, non abbiamo, è vero, notizie dirette delle
elezioni patriarcali pel secolo X e per il principio dell'XI, ma, come
ha osservato giustamente un recente scrittore, questa ingerenza
imperiale è ampiamente dimostrata dal fatto che dal mille in poi
i patriarchi aquileiesi, come buona parte dei loro suffraganei,
appartengono sempre alla nobiltà germanica.^
Fino ad Enrico IV, non abbiamo prove assolute di nomine impe-
riali riguardanti la sede aquileiese:* gli Annales Altahenses maio-
res tramandarono, soltanto, il ricordo dell' investitura del patriarca
Gotepoldo.^ È molto probabile però che anche il patriarcato abbia
avuta, già prima di Enrico IV, qualche nomina diretta da parte
dell'imperatore, visto che il cronista milanese Arnolfo parla, nella
seconda metà del secolo XI, d' una consuetudine antica del regno
italico per la quale il re provvedeva alle cattedre vescovili, dietro
preghiera fattagli, in proposito, dal clero e dal popolo.®
Tali nomine imperiali avvennero poi, con grande frequenza,
in tutto l'impero, sotto il reggimento di Enrico IV. La fiera lotta
che questi dovette sostenere contro i propri vassalli ribelli da
1 È qui che troviamo più di frequente vescovi di nazionalità tedesca: ved.
SCHWARTZ, op. cit., p. 12.
* Ved. su questo punto le giuste osservazioni dello Scharnaol, nella sua recen-
sione al libro già cit. del Weise nella Zeitschrift der Savigny Stiftang, kanon, Abth.y
III, 1914, 505 sg.
3 SCHWARTZ, op. cit., p. 12 Sg.
■* Invece a Milano già nel 1045 Guido da Velate è nominato da Enrico IH contro
i voti del clero e del popolo: ved. Palladini, op. cit., p. 99.
Ciò sta contro l'opinione del Weise, op. cit., p. 120, il quale crede che Enrico III
abbia rispettato l'elezione canonica.
5 M. G. //..- SS., XX, p. 804, a. 1049. Quanto alla sua nomina si sa soltanto
che egli fu eletto per il favore di Arno arcivescovo di Colonia : SS., VII, p. 348.
6 Sul proposito ved. Waitz, op. cit., VII, 214. Quanto alla elezione di Eberardo
nel 1042, di cui il cronista Ermanno {SS., V, 124 e Raschini, op. cit., p. 38) dice:
« ab imperatore promovetur », ved. Weise, op. cit., p. 62 sg., il quale dimostra come
tali frasi non sì possano intendere come prove assolute di nomina imperiale diretta,
ma soltanto dell'intervenuta investitura.
10 PIETRO SILVERIO LEICHT
un laio, e contro il pontefice dall'altro rendono comprensibile,
se non scusabile, il procedimento arbitrario dell'imperatore. Du-
rante il lungo regno di Enrico, avvennero sei vacanze della sede
patriarcale: fra queste abbiamo sicura notizia che la nomina
dei patriarchi Enrico e Vodalrico fu fatta direttamente dall'im-
peratore, quanto a Gotepoldo, Ravangero, Sigeardo e Federico
ci mancano prove di questa provvisione imperiale, per quanto
essa si possa considerare molto probabile.'
Questa ingerenza imperiale non fece perire, tuttavia, il prin-
cipio dell'elezione canonica, anzi è proprio in questo periodo, e
precisamente nella successione di Sigeardo che ci si presentano i
primi documenti relativi a tale elezione in Friuli dopo il periodo
carolingio. Si tratta di due lettere di Gregorio VII che ci atte-
stano come, dopo la morte di Sigeardo, il clero ed il popolo
avessero eletto patriarca l'arcidiacono aquileiese; il pontefice
diresse due legati in Friuli al fine di controllare la legittimità del-
l'elezione e le qualità della persona: ne avverte, nella prima let-
tera, il clero e il popolo d'Aquileia, nella seconda scrive ai suf-
fraganei perchè coadiuvino i legati stessi. Il papa si dichiara
disposto a riconoscere l'eletto se si tratti di persona idonea e
se l'elezione ebbe luogo col consenso dei vescovi suffragane!,"
in caso differente ordina che si proceda ad una nuova elezione.*
Eccoci qui, dunque, di nuovo dinanzi ai consueti elementi del-
l'elezione canonica, alla quale intervengono clero e popolo e
danno il loro assenso i suffragane^ 11 cronista Bertoldo ci av-
verte che questa elezione non sortì alcun effetto, perchè l' impe-
ratore nominò patriarca il proprio cappellano Enrico, « repro-
« bato eo qui canonice a clero et populo electus est » .
Siamo così giunti all'apogeo dell'ingerenza imperiale nella
elezione dei vescovi; tale ingerenza fu, come a tutti è noto, ilf
motivo fondamentale della grande lotta fra il papato e l' impero
sul finire del secolo XI. Il sinodo di Reims diede, nel 1049, san-
zione ufficiale alle proteste che erano già state formulate in pre-
cedenza da molti scrittori ecclesiastici:-^ esso si limita, però, a
1 Quanto al patriarca Enrico, ved. BeRTHOLor AnnaUs, in SS., V, 301 e 317 e
Paschini, op. cit., p. 198; qnanto a Volrico I, ved. Casus Monasterii Petrishusensis,
in S5., XX, 656 e Raschini, op. cit., p. 278. Per Gotepoldo invece il cronista Er-
manno esce nelle solite parole : « ab imperatore promovetur », per le quali ved. U
nota precedente.
« Jaffé, Monumenta Gregoriana, in Biblìotheca rerum ger manicar um, Berlino,
1865, to. II, pp. 291-94.
3 Solmi, Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlo Magno fino al con-
cordato di Worms, Modena, 1901, pp. 43-46.
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI 11
sostenere la necessità dell'elezione canonica, senza condannare
l'investitura imperiale per le temporalità. Più tardi, nel corso
della lotta, l'atteggiamento del pontefice divenne sempre più
risoluto sino a proibire che gli ecclesiastici ricevessero l'inve-
stitura dai principi laici. Caratteristico è a tal proposito il rac-
conto fatto dai cronista Bertoldo della conferma data dal pon-
tefice all'elezione del patriarca Enrico. Questi, come s'è già
detto, era stato nominato dall' imperatore in opposizione ai voti
del clero e del popolo ; recatosi a Roma, due anni dopo, riuscì
a persuadere il pontefice della legittimità della sua elezione,^
ma venne da questo riprovato « prò investitura contra canoni-
* cam et apostolicam functionem a laica persona sibi usurpata >.
Il patriarca riuscì a sfuggire alla censura giurando: « diffinitio-
« nis eiusdem statutum se ignorasse», ciò che è comprensibile
quando si avverta che lo stesso Gregorio VII, nei suoi primi
^nnì di pontificato, non sostenne la teoria più rigorosa nei ri-
guardi dell'investitura. Il racconto si chiude con la menzione
della investitura «perannullum et virgam>, che il patriarca rice-
vette dal pontefice.
Qui, dunque, il papa avoca a sé l'investitura del metropo-
lita aquileiese, malgrado che questa chiesa fosse in possesso di
intere contee largite dall'imperatore al suo fedele Sigeardo.*
La questione, come si vede, era assai involuta perchè si
trattava di tutelare in pari tempo l'ecclesiastica libertà e il di-
ritto imperiale su intere province concesse alle varie chiese. Non
è il caso di seguire qui le vicende della lotta: basterà accen-
«are come; il concordato di Worms del 1122 stabilisse quanto
ai vescovi italiani e borgognoni, che essi dovevano, entro sei
mesi dalla consacrazione, farsi investire dall' imperatore dei beni
-e diritti provenienti dall'Impero (regalie),^ quanto alla Germania
l'investitura doveva precedere la consacrazione.
1 Non bisogna dimenticare che l'elezione dell'arcidiacono aquileiese a patriarca
per opera del clero e del popolo non era apparsa regolare, a primo aspetto, neppure
al pontefice.
« Questo valga a confutare l'opinione di Scharnagl, Der Begriff der Investi-
tur in den Qtiellen und der Literatur des Investiturstreits, nelle Kirchenrechtliche
AbhandluHgen dello Stutz, n. 56, Stuttgart, 1908, p. 35 sg., secondo il quale, nel
sinodo romano del 1078, sarebbe stata proibita soltanto l'investitura di chiese, dignità
e decime ecclesiastiche. Le parole di Pietro Cassinese sul proposito sono : « in synodo
« papa Gregorius constituit ut si quis a laico ecclesiae investitura acciperet dans et
«accìpiens anathemate plecterentur » : 55,, Vili, 733. Nel senso del testo ved. Solmi,
«p. cit., p. 65.
3 Mayer, op. cit., II, 520 ; M. G. fi.: Const., I, 161 ; Scharnagl, op. cit., p. 130.
12 PIETRO SILVERIO LEICHT
L'esito della lotta, combattuta con tanto accanimento per
quasi mezzo secolo, fu apparentemente favorevole alla parte im-
periale; tuttavia, proprio in questo periodo si pongono le ferme
basi d'una preponderante influenza pontificia nelle elezioni ve-
scovili, mentre quella imperiale, specialmente in Italia, va gran-
demente scemando. Non si può dire però che questa influenza
sia del tutto scomparsa, in Friuli, fino alla estinzione della casa
di Svevia e ne vediamo la prova in ciò che gli eletti apparten-
gono sempre alla nobiltà tedesca. Si tratta però sempre di un
intervento indiretto, giacché l'elezione ha luogo d'ora in poi,
regolarmente, nelle forme canoniche. Il patriarca è, poi, in ob-
bligo di richiedere all' imperatore l' investitura delle regalie, non
appena questi ponga piede sul suolo italiano, essendo i presuli
aquileiesi principes Itallae}
Come si affermò, nell'elezione dei patriarchi, l' ingerenza pon-
tificia? Dobbiamo distinguere qui due periodi, uno che va dalla
fine della lotta delie investiture, sino agli ultimi decenni del se-
colo XIII, e l'altro che s'inizia con questo periodo. Nel primo
l'ingerenza pontificia si manifesta anzitutto attraverso alla con-
cessione del pallio. È ormai teoria assolutamente stabilita che il
metropolitano non possa esercitare, prima d'aver ricevuto il pallio,
i suoi poteri essenziali, l'ordinazione dei vescovi e la consacra-
zione delle chiese:^ d'altra parte il papa Alessandro li in una
sua lettera a Ravangero allora eletto, gli annunzia che i suoi an-
tecessori decisero che, d'ora innanzi, la concessione del pallio
si sarebbe fatta soltanto a coloro che si fossero recati perso-
nalmente a riceverlo dal Pontefice.^ A quest'ultimo principio fu
fatta poi qualche eccezione,* però la concessione del pallio fu
la via che servì alla sedia romana per aumentare la sua inge-
renza nell'elezione dei metropoliti e per assicurarsi la loro ob-
bedienza, giacché quella concessione era legata alla prestazione
1 Vedi su questo proposito i miei Studi e Frammenti, Udine, 1903, p. 49. Si ri-
corda l'investitura di Pellegrino 1 da parte di Lotario li (De Rubeis, op. cit., app. 11),
di Bertoldo da parte di Federico II (Winckelmann, Acta imperii inedita, 446); per
Volchero ved. Bòhmer, Acta imperii selecta, 222. Il Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis,
un manuale dei diritti e oneri del patriarcato composto dalla cancelleria patriarcale
nel sec. XIV, ricorda l'obbligo che aveva il patriarca di ottenere l'investitura appena
il re venisse in Italia.
8 IMBART, op. cit., p. 490.
8 LÒWENFHLD, Epistoloe pontificum ineditae, Lipsiae, 1885, p. 41, n. 76.
< Così il pontefice manda il pallio a Volchero, ordinandogli d'inviare il giura-
mento per via epistolare ; però per l'importanza della regola ved. Imbart, op. cit.»
p. 405, n. 5.
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILE IESI 13
del giuramento di fedeltà al pontefice ed ai suoi successori.'
Ormai era fissato il principio che senza l' intervento dell'autorità
pontificia l'eletto non potesse entrare in possesso della sua ca-
rica; dapprima questo intervento avviene soltanto colla forma
larvata della concessione del pallio,' ma nel secolo XII si for-
mulerà la teoria per la quale al papa spettava per diritto la con-
firmatio del metropolitano eletto,' ed è questa teoria che reg-
gerà da Celestino III in poi il mondo cattolico.*
Né ciò bastava a soddisfare la politica pontificia ; con altri
mezzi si cercò di metter da parte la stessa elezione canonica che
pure era stata l'arma principale del papato contro l'impero nella
lotta delle investiture, e di avocare addirittura alla sede apostolica
la nomina di vescovi e metropoliti. Giovarono a tale scopo le
riserve pontificie. Il pontefice cominciò a riservarsi, cioè, di prov-
vedere alla sede vacante qualora l'elezione fosse macchiata di
qualche vizio o nella procedura o quanto alla persona dell'eletto.
Più tardi la sede pontificia si riserverà la nomina di vescovi e
metropoliti in casi singoli o per regola generale, con semplice atto
d'autorità; ma di ciò vedremo più tardi.
Dalla riserva dipendente da interne differenze nel capitolo,
deriva la prima nomina diretta d'un patriarca, fatta dalla sede
pontificia, cioè quella di Bertoldo di Merania, che era stato eletto
bensì, da una parte dei canonici, ma dichiarata nulla per vizio di
forma, tale elezione dal pontefice, fu poi da questi nominato di-
rettamente.^ Così più tardi, nel 1315, per difetto di natali, sarà
respinta l'elezione di Gilone di Villalta, e nominato direttamente
dal pontefice, Gastone della Torre.''
Quanto alla consacrazione è da ritenersi che fino a Bertoldo
di Merania essa sia stata compiuta ancora dai vescovi suffragane!
mentre più tardi essa dovette aver luogo a Roma. '^
1 Ved. il giuramento di Enrico nel 1079 riportato in Baronio, Ann. Eccl. ad
ann. e in Palladini, op. cit., p. 169; per quello di Volchero ved. Rubeis, op. cit.,
p. 654 sg. Ved. anche la questione insorta a Milano nel sec. XII per il pallio in Sa-
vio, op. cit., p. 490.
2 Questa concessione è considerata come protnotio dell'eletto già nel sec. X ; ved.
HiNSCHius, op. dt., II, 535, n. 1.
3 Friedberq-Ruffini, op. cit., p. 491, n. 15, ove si cita l'importantissima lettera
di Alessandro III all'arcivescovo Adalberto di Salisburgo.
< Ved. delineate le conseguenze diverse della confirmatio e della consecratio
nella decretale di Celestino in e. 40, X, 1, 6.
5 De Rubeis, op. cit., col. 677.
« De Rubeis, op. cit, col. 835.
7 Questo risulta anzitutto dall'esempio offertoci dagli arcivescovi di Milano fin
da quando s'abbandonò la mutua consacrazione coi patriarchi Aquileiesi ; ved. Savio,
14 PIETRO SILVERIO LEICHT
Dal concordato di Worms fino al cadere del secolo XIII, rele-
zione canonica fu saldamente mantenuta nella sede aquileiese,
se si prescinda dalPeccezione sopra ricordata che si giustifica
colle dissensioni interne del capitolo.
Gravi mutamenti avvengono però, nel contempo, nel corpo
elettorale. Una prima osservazione si deve fare quanto agli elet-
tori ecclesiastici : come avviene in tutto il mondo cattolico, anche
nella chiesa nostra il diritto d'elezione si restringe al solo capi-
tolo aquileiese. Il primo documento che ci parli esplicitamente
d'una tale restrizione è la lettera di papa Innocenzo 111 relativa
all'elezione di Volchero: essa ricorda come elettori soltanto i laici
ed il capitolo. La elezione di Volchero avviene nel 1204, undici
anni prima, dunque, del IV concilio Lateranense che regolò le
elezioni canoniche con nuove norme, escludendo i laici e riserban-
done il diritto al solo capitolo (e. 24 e 25). Dobbiamo ritenere
pertanto che, ad Aquileìa, l'esclusione del rimanente clero sia
avvenuta per un'interna evoluzione, corrispondente a quella che
avviene altrove, in conformità alle teorie espresse in proposito
dai canonisti e sostenute dai papi.'
La stessa lettera di Innocenzo 111 ci dà poi notizia d' un al-
tro mutamento avvenuto nel corpo dei laici. Il Papa avverte il
nuovo eletto Volchero: «canonici Aquileiensis Ecclesiae... adsen-
« tientibus nobilibus et ministerialibus in te convenerunt » . Le for-
mule precedenti parlano, invece, di clero e di popolo.^ 1 vassalli
aquileiesi ci ricompaiono dinanzi anche nella elezione di Bertoldo
come lo dimostra la lettera di Onorio III, nella quale annunzia di
aver cassata tale elezione, lettera che è indirizzata all'avvocato
ed ai ministeriali della chiesa d'Aquileia. Evidentemente, adunque,
i vassalli della Chiesa hanno sostituito nella formula d'elezione
il termine indeterminato, populus. È quanto accade, del resto, in
tutta l'Europa, non solo in questo caso, ma anche in altri: un
op, cit,, p. 252 ; per il sec. VII e per i tempi successivi Palladini, op. cit., 180, n. 1 ;
poi dal fatto che la lettera del pontefice che concede a Volchero l'uso del pallio esi-
mendolo dal venire a Roma per riceverlo e prestare giuramento tace affatto della
consacrazione. Quanto ai tempi più tardi sappiamo che il patriarca Pietro fu consa-
crato a Roma: De Rubeis, op. cit., col. 804. L'arcivescovo di Ferrara è consacrato
dal papa già nella prima metà del sec. XII : ved. Hinschius, op. cit., Il, 594.
1 Ved. in proposito V. Below, Die Entstehung des ausschliess lichen Wahlrechtes
des Domkapitels, in Historische Studien, XI, Leipzig, 1883, p. 12 sg. Da una lettera
di Alessandro III al clero di Alessandria (Jaffé, op. cit., p. 8436) appare che nel 1176
canonici delle cattedrali dell'archidiocesi milanese fossero già in possesso esclusivo
del diritto di elezione.
« Ved. Raschini, / Ministeriali del medioevo, in queste Memorie, X, 1914,
p. 53, n. 1.
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI IS
po' alla volta i nobili sostituiscono il popolo nell'esercizio delle
pubbliche funzioni ' ed è certo che questa trasformazione delle
antiche assemblee popolari doveva essere accaduta da gran tempo,
se anche nel diritto le formule rimanevano immutate. D'altra parte,
quanto alla riunione dei laici per l'elezione del vescovo, già le
leggi giustinianee danno agli honomtlores un posto affatto premi-
nente,^ e si può ritenere, pertanto, che la prevalenza dei malo-
res terrae fosse, in questa materia, affatto tradizionale. È da os-
servare piuttosto che dalla lettera indirizzata da Onorio IH al-
l'avvocato ed ai ministeriali aquileiesi si può dedurre che costoro
abbiano avuto qualche parte anche nella elezione di Bertoldo di
Merania, e ciò contro il disposto del concìlio Lateranense avve-
nuto tre anni prima : il che del resto dovette accadere anche in
altri luoghi, come si deduce dalla decretale di Onorio IH, che rin-
nova tale proibizione.^
Dagli ultimi decenni del secolo XllI si manifesta apertamente
la tendenza della sedia pontificia a provvedere direttamente alla
nomina dei patriarchi aquileiesi, mettendo da parte il capitolo.
Della elezione del patriarca Gregorio di Montelongo, il primo
della lunga serie dei patriarchi di parte guelfa, non sappiamo
nulla di preciso;^ è probabile però che egli sia stato eletto dal
capitolo e che il pallio gli sia stato inviato dal pontefice perchè
sappiamo che egli morì senza esser stato consacrato: ora se il
pallio gli fosse stato conferito personalmente, in tale occasione,
avrebbe avuto luogo anche la consacrazione.^
1 Per questo fatto ved. in generale il mio Parlamento della Patria del Friuli,
Udine, 1903, negli Atti dell' Accad. di Udine, estr., p. 131. Da questo punto di vista
è caratteristica la elezione avvenuta dopo la morte di Ariberto arcivescovo di Milano
(UOHELLi-CoLETi, Italia Sacra, IV, 107), nella quale i valvassori esercitarono una
parte del tutto preponderante. Per la Germania ved. gli esempi addotti dal Hinschius,
op. cit., II, 534, n. 8 e da V. Below, op. cit., pp. 4-5.
* Nov. liist., CXXIII, e. 1 : « sancimus igitur quotiens opus fuerit episcopum or-
« dinare, clericos et primates Civitatis. . . mox in tribus personis decreta facere».
Così ved. Conc. Calcedon., actio secunda.
3 C. 56, X, 1 , 6 (degli anni 1227-1234) ; la decretale è particolarmente interessante
perchè accenna alla «contraria consuetudo quae dici debet potiiis corruptela ».
* E. Traversa, op. cit., asserisce che Gregorio fu eletto dal pontefice il 13 gen-
naio 1252; credo, però, che la sua asserzione non sia fondata: la data è quella dataci
da Giuliano per l'ingresso del patriarca in Aquileia.
5 II PoTTHAST diede nel reg. 14425, 29 novembre 1251, la notizia che, in quella
data, papa Innocenzo IV avrebbe confermata l'elezione di Gregorio a patriarca. La
lettera esiste nel registro dd pontefice ed è indirizzata a Gregorio eletto, ma contiene
una concessione al Capitolo aquileiese: ved. Beroer, Les registres d'innocent IV,
n. 5509. Consultati anche i registri originali, non si trovò la lettera di conferma indicata
dal Potthast. Dì questa ricerca devo ringraziare il P, M. Martini O. S. B.
16 PIETRO SILVERIO LEICHT
L'elezione di Filippo di Carinzia fatta dal capitolo aquileiese,
coli' intervento dei suffragane!, alla morte di Gregorio, fu cassata
dal pontefice Gregorio X, perchè avvenuta durante la vacanza
della sedia Romana; tale, almeno, è la notizia che ne dà il cro-
nista cividalese Giuliano. Escluso Filippo, fu nominato diretta-
mente dal pontefice Raimondo della Torre, il 21 dicembre 1273/
Un'altra elezione del capitolo avvenne il 5 marzo 1299 alla
morte di Raimondo, come ci riferisce il cronista Giuliano; l'eletto
era Corrado duca di Slesia. L'elezione non fu confermata dal
papa neppur questa volta, anzi, come risulta da un successivo
diploma di Giovanni XXll, il pontefice Bonifazio VII riservò alla
sedia apostolica « provisionem Ecclesiae Aquileiensis si tunc
« vacaret vel cum ea quocumque modo vacare contingeret » .* Ne
seguì la nomina diretta del patriarca Pietro.
Bonifazio Vili, coerente alla sua riserva ed alla vigorosa
azione da lui spiegata in tutta Italia per restringere nelle mani
del pontefice la nomina dei vescovi, respinse di nuovo, nel 1302,
alla morte di Pietro, l'elezione di Pagano della Torre e trasferì
invece alla sedia aquileiese il vescovo di Padova Ottobono, dando
a questo per successore lo stesso Pagano. La politica di Boni-
fazio, in questa materia, fu continuata da Giovanni XXII, il quale,
ricordando la riserva del suo predecessore, dichiarò nulla l'ele-
zione fatta in forma di compromesso, nel 1315, dell'arcidiacono
aquileiese Gilone di Villalta, elezione che era illegale, del restOr
anche per difetto di natali. Fu nominato in suo luogo dal papa,
l'arcivescovo di Milano Gastone della Torre. Quanto a Pagano,
anch'egli fu nominato patriarca dal pontefice che con una bolla
del 4 settembre 1318, si riservò la provvisione della sede aqui-
leiese vacante.^ Tuttavia noi abbiamo la prova che il capitolo
aquileiese si riunì per procedere all'elezione,* e dati i buoni
rapporti che legavano i canonici a Pagano, non è improbabile
che su di lui cadessero i loro voti. Naturalmente, se anche tale
elezione ebbe luogo, i suoi effetti legali furono nulli e la nomina
1 Questo risulta chiaramente dal Cronicon dì Giuliano: ved. De Rubeis, op. cit.,
col. 763; è dunque da escludere la notizia data dal Cappelletti, op. cit., Vili, 385,
che in tale data Raimondo sia stato eletto dal capitolo aquileiese.
« De Rubeis, op. cit., col. 835.
3 Bianchi, Documenti per la Storia del Friuli, Udine, 1844, n. 90.
■* Bianchi, op. cit., n, 88 : è una procura data da Gaarnero di Cucagna canonico
aquileiese all'arcidiacono Qilone perchè intervenisse a suo nome alla riunione asse-
gnata dal decano e dal capitolo aquileiese : " ad electionem futuri patriarche celebran-
« dam ». Nella cronaca di Odorico c'è la menzione : « X latrante Septembri canonici
Aquìleienses elegerunt patriarcham currente anno MCCCXVIII ».
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI 17
di Pagano si deve ritener dovuta ad un atto del tutto indipen-
dente della Santa Sede. Il pontefice Gregorio XXII credette oppor-
tuno in ogni modo di rinnovare nel 1322 le riserve sull'elezione
patriarcale, comprendendole in un breve di riserva generale che
riguardava tutte le chiese patriarcali, vescovili, collegiate, abba-
ziali, prìorali, ecc., che si fossero rese vacanti nel patriarcato
d'Aquileia e nelle provincie di Milano, Ravenna, Genova e Pisa
e questo « usque ad sedis Apostolicae beneplacitum».*
La fermezza del pontificato nel reprimere il principio dell'ele-
zione canonica^ che pure, in altri tempi, aveva così fieramente
difesa, fiaccò per un lungo periodo le velleità di resistenza del
clero aquileiese. Ci è nota infatti l'umile supplica diretta nel 1334,
morto Pagano, al pontefice perchè provvedesse alla nomina di
un successore che fu, com'è noto, il grande Bertrando. Così an-
che Nicolò di Lussemburgo fu nominato, come pare, direttamente
dal pontefice.
Una ripresa del principio elettivo si ebbe colla elezione del
decano Guglielmo che fu eletto dal capitolo il 6 agosto 1365.'
Il pontefice nominò invece il cancelliere imperiale Marquardo. A
questo fatto dobbiamo attribuire, certamente, la nuova riserva
fatta, ancor vivente Marquardo, dal pontefice Urbano VI della
nomina del suo successore e d'allora in poi sino all'elezione di
Ludovico di Teck, i vari patriarchi che si succedettero sulla sedia
aquileiese furono tutti nominati direttamente da Roma. Tuttavia
il capitolo non aveva fatto tacere intieramente il desiderio di ri-
stabilire i suoi antichi diritti. Nel 13Q5, dopo l'uccisione del pa-
triarca Giovanni di Moravia il capitolo elesse, all'unanimità, Ludo-
vico duca di Teck a patriarca, e furon fatte istanze a cardinali
per ottenere la conferma pontificia, ma il papa nominò invece
Antonio Caetani;* nel 1412, reso vacante il patriarcato, i cano-
nici aquileiesì si affrettarono a nominare di nuovo « per viam
« compromissi » il duca Ludovico di Teck ed a chiederne la con-
1 Raynaldi, Annal. Eccles., ad annam.
* Le vicende di queste successive nomine furon già descritte dal Tassini, op. cit.,
p. 154 sg.
3 Nella raccolta Bianchi, ras. nella Biblioteca Comunale di Udine al n. 4486, vi
è questa notizia tolta dalle note di Antonio Nicoletti (sec. XVI): « MCCCLXV, die
« XXI julii, obiit d. Lodovicus de la Turre patriarcha et die VI Augusti electio d. pa-
« triarchae facta fuit per capitulum Aquileiense ». Nel successivo n. 4491 troviamo che
il Comune di Udine tratta di pregare il pontefice affinchè confermi l'elezione a pa-
triarca del decano Guglielmo fatta dal capitolo aquileiese.
■* Nella raccolta Bianchi cit., al n. 5786, 1395, 17 gennaio havvi una supplica della
comunità di Cividale al cardinale d'Alengon affinchè sostenesse presso il pontefice
l'elezione intervenuta.
18 PIETRO SILVERIO LEICHT
ferma al pontefice. È singolare che l'ultima elezione coincida
coir innalzamento alla sede aquileiese dell'ultimo patriarca che
abbia tenuto il governo temporale del Friuli ; è innegabile, d'altra
parte, che la scelta era stata fatta molto più con criteri politici,
per ottenere un principe che potesse opporsi alla caduta della
signoria patriarcale in mano dei Veneziani, che per avere un pio
rettore delle anime, il pontificato resistè molto a riconoscere la
legittimità di questa elezione, ma alla fine, dopo molte istanze
fatte a papi ed a concili, sei anni dopo, il pontefice Martino V
confermò il patriarca Ludovico nella sede aquileiese.*
La Repubblica veneta, venuta in possesso del Friuli, nel 1420,
tenne di fronte al patriarcato la stessa linea di condotta che aveva
serbata nelle rimanenti sue relazioni colla Chiesa.' Affermò cioè,
gagliardamente, il suo diritto alla nomina diretta dei patriarchi,
come di tutti i suffraganei della chiesa aquileiese. 1 primi tre
successori di Ludovico di Teck, morto in esilio a Basilea nel
1437, furono ancora nominati dal papa senza sentire affatto il
voto del capitolo d'Aquileia, ma il terzo, benché nominato, non
potè mai prender possesso della sua sede per l'opposizione ener-
gica mossa dalla signoria Veneziana : le vicende della lotta com-
battuta in quell'occasione fra Venezia ed il Papato sono troppo
note perchè convenga ritornarci sopra.^ Più tardi, dopo la guerra
di Cambray, il pontefice Giulio IH riconobbe alla Signoria di
Venezia un diritto di presentazione del patriarca * che, mediante
1 De Rubeis, op. cit., col. 1037. Anche il capitolo di Trieste cercò di riprendere
possesso del diritto d'elezione, ed anzi i suoi tentativi durarono anche più a lungo di
quelli del capitolo aquileiese. Infatti alla morte del vescovo Nicolò de Aldegardi nel
1447, il capitolo elesse Antonio Goppi al quale, però, al solito, il papa negò la con-
ferma. Pio li conferì poi ai duchi d'Austrìa la facoltà di nominare i vescovi Triestini ;
ved. Rossetti, Meditazioni sulle franchigie di Trieste, Venezia, 1815, p. 63.
« Incisive sono le parole dèi Kasdlek, Storia del consiglio dei patrizi di Trieste,
Trieste, 1858, a proposito della politica ecclesiastica veneta: «né di prelati né di
« interdetti, né di scomuniche aveva timore il Leone alato, pratico com'era nel maneg-
« giare di Bolle e di Brevi a suo modo. . . ».
3 Per tali vicende ved. Cappelletti, op. cit., VIII, 508; l'eletto era, com'è noto,
il grande umanista Ermolao Barbaro.
•* VON CzòRNiQ, Dos Land Gorz und Gradisca, Wien, 1873, p. 354, n. 2. In un
ms. della race. Càmpori del sec. XVIII (nella biblioteca Estense di Modena), n. 2831
si trova uno sguardo storico sulle vicende del patriarcato che così termina : « Nomi-
« nandosi il patriarca ne' suoi titoli per tratto di fine politica patriarca per la mise-
« ricordia di Dio, senza aggiungervi : per grazia della S. Sede, permettendogli la re-
« pubblica d'eleggersi il suo coadiutore per evitare con l'astuto ritrovato i dispareri
« coll'imperatore, il quale, come arciduca d'Austria, pretende di avervi diritto di nomi-
« nare a questo benefizio e perchè in tale guisa non trovasi mai vacante la sede pa-
« triarcale, origine di tante acerrime contese e nuovi disturbi per la repubblica e di
« ragioni molto disputabili per il casato d'Austria ».
LE ELEZIONI DEI PATRIARCHI AQUILEIESI 19
i sottili accorgimenti della politica veneziana si risolse, nella pra
tica, in un vero diritto di nomina; le cose rimasero in questi
termini sino alla soppressione del patriarcato che avvenne il 6 lu-
glio 1751. Com'era accaduto altrove,* anche qui la sedia romana
preferì di transigere coi principi, deferendo loro in tutto o in
parte la nomina dei vescovi, piuttosto che riconoscere la legit-
timità dell'elezione canonica che era pur parte fondamentale del-
l'antica costituzione ecclesiastica.* Ciò corrisponde al regime
d'accentramento che i pontefici inaugurarono nel governo della
Chiesa durante il secolo XIII e condussero a termine nei secoli
seguenti.
Pietro Silverio Leicht.
1 Imbart, op. cit., p, IX sg.
« Sono da ved. le severe parole del co, Gian Rinaldo Carli, in Opere, to. XV,
Milano, 1876, p. 279, a proposito delle regole di cancelleria di Benedetto XII : « tali
« regole sono per verità opposte ai sentimenti degli antichi santi pontefici, i quali
« tanto gelosi erano nel tutelare i diritti di tutte le chiese, quanto attenti nel conser-
« vare quelli che loro appartenevano: Greg. I, p. 1, II, n. 39: * sicut nostra defendi-
«nius, ita singulis quibuscumque ecclesiis iura servamus'. In Italia le regole distrus-
« sero ogni diritto ».
Il patriarcato
di Wolfger di Ellenbrechtskirchen
(1204-1218).
{Continuaz. e fine; ved. Mem., X, p. 361 sgg.)
VI.
1. Wolfger si accosta a Federico II nella dieta di Augusta (febbraio 1214); sua
attività per il patriarcato nel 1214-15. — 2. Il patriarca ed il concilio ecumenico Late-
ranese IV (novembre 1215). — 3. Documenti e contese riguardanti il diritto d'avvocazia
del conte di Gorizia. — 4. La guerra per il fatto del castello d'amore e l'intervento pa-
cificatore del patriarca. — 5. Ultimi atti del patriarca e sua morte il 23 gennaio 1218.
1. Finalmente il patriarca Wolfger uscì dal suo riserbo, ri-
guardo agli avvenimenti che si maturavano in Germania, e si
recò alla corte di Federico 11; infatti il 14 febbraio 1214 egli fu
presente ad un atto del re in favore del monastero di S. Lucio
di Coirà.* S'era messo in viaggio, io credo, per partecipare in
quei giorni in Augusta, alla curia solemnis, che riuscì un vero
plebiscito della Germania in favore dello svevo. Poi Wolfger fu
testimonio insieme con parecchi vescovi, fra i quali era anche
Federico di Trento, e con parecchi laici, il IQ febbraio, pure in
Augusta, ad un documento di Federico II in favore di Eberardo II,
arcivescovo di Salisburgo.* Poi fu la volta di Wolfger stesso:
il 22 febbraio Federico II gli confermò i possessi della sua chiesa,
cioè: ducato e contea del Friuli; regalie dei vescovadi d'Istria:
Trieste, Capodistria, Parenzo, Emona, Pola e dei due vescovadi
di Concordia e Belluno ; le tre abbazie di Sesto, Pero e S. Maria
in Organo; gli altri possessi e diritti, specialmente la marca di
Carniola e d'Istria col comitato secondo quanto avevano con-
» BÒHMER, Reg. Imp., n. 715.
8 BÒHMER, op. cit., n. 717; VON JAKSCH, Die Gìirket ecc. cit., n. 445.
IL PATRIARCATO DI WOLF GER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 21
cesso i suoi predecessori e specialmente Ottone IV.* Ed il giorno
seguente Federico confermò poi a Wolfger ed alla chiesa di Aqui-
leìa Monselice, secondo le condizioni apposte nella sua donazione
dallo zio Filippo.^
Non si sa, che dopo questa dieta d'Augusta Wolfger si sia
abboccato più con Federico II. Questi rimase in Germania a rin-
saldare la sua posizione politica, e fu coronato di nuovo in Aqui-
sgrana il 25 luglio 1215; il patriarca se ne tornò in Italia.
Il 25 aprile 1214 Wolfger era già nel patriarcato, poiché, pro-
babilmente in Rosazzo stesso o nei dintorni, concesse a quel
monastero una piccola selva, per allargarne il territorio dalla
parte di Oleis e por fine a contese che si ripetevano colle ville
circostanti, e ne fece la consegna per mezzo di Giovanni di Or-
saria suo ministeriale.^
Connesso con questo documento è un altro del 13 marzo 1215
redatto dinanzi al patriarca prò tribunali sedente a Cividale. I
cittadini laici e chierici di quella città, insieme coi contadini abi-
tanti air intorno, chiesero che le terre intorno alla città, occupate
da loro a da altri, rimanessero sempre a loro comodo ed utilità.
Ed il patriarca, d'accordo con loro e coi milites del territorio,
acconsentì, eccettuando però una parte dei territori di quel co-
mune posti presso Rosazzo, che diede a quel monastero, il quale
li aveva occupati. ^ Si trattava di beni pubblici che dovevano
rimanere a libero godimento dei cittadini di Cividale.
Il 3 maggio 1214, come risulta da un regesto, Wolfger, il
quale era anche Civitatensis eccLesiae prepositiis, concesse ad Ot-
tone decano ed al capitolo di Cividale una casa in Cividale. ^
1 BÒHMER, op. cit., 11. 721 ; De Rubeis, M. E. A., col. 665 B. Fra i vescovi pre-
senti compare anche Corrado eletto di Trieste; come testi sono degni di nota Al-
berto conte del Tirolo, Federico de Comaco (Caporiacco), Rud de Cariano (eh' io
ritengo sia Rudolfo de Cipriano), Giovanni di Zuccola, Walterpertoldo di Spilim"
bergo, Voltaco (Ottaco) di Partistagno, Enrico di Fontanabona, Corrado de Porto
(Portis); c'erano pure Stefanq decano di Aquileìa, Unigardo (Wigando) preposito
di Sant'Odorico, Detalmo canonico di Aquileia, Ognibene giudice e notaio. Questi for-
mavano parte del seguito del patriarca. Cfr. anche Thesaurus, n. 1158.
2 BòHMER, op. cit., n. 722.
3 Bianchi, Doc. Mss., n. 38; Doc. Reg. , n. 40. Il patriarca definisce accurata-
mente il confine della selva donata. Presenti : l'abbate Leonardo, Leonardo abbate di
Beligna, alcuni monaci di Rosazzo, Leopoldo, conte di Bogen, Tremone di Feldkirchen,
Hartmann di Raduvich, cappellani, ministeriali del patriarca e famuli del monastero.
* Bianchi, Doc. Mss., n. 43; Doc. Reg., n. 42. Presenti e testi furono: Otto
decano, Corrado de Pertica e suo fratello Wecilone, Wolrico, Purcardo e Giovanni
di Zuccola, Enrico Cervo, Giovanni di Orsaria, Ermanno de Portis ecc. Cfr. Statata
Civitatis Austriae, ed. Volpe, Udine, 1891, p. 20 H.
5 De Rubeis, M. E. A., col. 671. Col titolo di preposito di Cividale il patriarca
ci si presenta già il 20 giugno 1213; v. sopra.
22 PIO PASCHINI
Convien credere ch'egli, come aveva fatto Pellegrino II, abbia
ottenuto di unire alla mensa patriarcale anche la prepositura di
Cividale. E poiché nel documento dell' 8 febbraio 1208 troviamo
un Enrico preposito di Cividale, dobbiamo pur supporre che il pa-
triarca ottenesse la prepositura solo alla sua morte, che dovette
avvenire in questo intervallo/
Poi il 24 ottobre a Manzano Wolfger confermò la sentenza
arbitrale che in suo nome avevano pronunciata Leonardo prepo-
sito di Juna e L. pievano di Liefiing nella contesa fra l'abbate
di S. Paolo di Lavant ed il pievano di Kòtsch (a sud di Marburg)
a proposito della chiesa di S. Lorenzo in der Wiiste (sud-ovest
di Marburg). Essi, seguendo il consiglio del priore di Seitz e di
altri, assegnarono all'abbate la chiesa in lite con tutti i suoi pos-
sessi fra i torrenti Lobniz e Welka, ed al pievano il reddito di
una marca sulla villa di Hollern (ovest di Marburg).^
Il 4 dicembre Wolfger era a Parenzo dove, quale « patriarca
« nec non diocesis Forojuliane Istrie et Carniole marchio», decise
una lite su decime e tributi tra Fulcherio vescovo di quella chiesa
e l'abbate di S. Michele di Leme.^
Invece il dì primo di marzo del 1215 il patriarca Wolfger
era a Treviso insieme con Corrado, vescovo di Trieste, Gabriele
di Prata, Giovanni di Zuccola, Artuico di Valle, Odorico di Cu-
cagna, Ottolino di [Gemona?], Bertoldino di Polcenigo nella stanza
di Tiso, vescovo di Treviso, dov'erano raccolti altri personaggi;
colà Loderengo di Martinengo podestà, a nome del comune, gli
domandò «tamquam a patre et domino», che volesse confer-
mare la carta di vendita, per cui il vescovo di Fettre e Belluno
aveva ceduto il castello di Soligo al comune di Treviso ; ciò che
il patriarca fece ben volenrieri.*
Ed in quella circostanza, il 7 marzo, si presentò dinanzi al
patriarca e ad alcuni testimoni Uberto, abbate di Pero, e dichiarò
il suo monastero « non teneri ad aliquam prestationem, collectam,
1 Invece il Kalkoff, op. cit., p. 143, suppone che questo Enrico fosse vicario
del patriarca nella prepositura, ma mi pare un'asserzione gratuita.
« VON JAKSCH, Die Kàrntner ecc. cit., n. 1709 e 1710; Zahn, VB. Steiermark,
li, p. 203, n. 132. Cfr. Kalkoff, op. cit., p. 146. Testi furono: i preti Ermanno e
maestro Tieraone e il suddiacono Wolvingo cappellani, G/a/iarto to6«///ort^rf/ flo/o^«a,
Giovanni di Zuccola, Giacomo di Buttrio, Luvisino, Enrico di Fontanabona, Weci-
lone, Enrico di Maniago, Corrado di Abrosa (?) ministeriale della chiesa di Aquileia,
Purcardo, Wollino ed Alberto servitori del patriarca, Erbordo cameriere del letto del
patriarca.
3 Cod. dipi. Istriano. Testi : Corrado, vescovo eletto di Trieste, Otto, decano di
Cividale, Filippo, canonico di Aquileia, Engelberto, conte di Gorizia, ecc.
*■ Nuova raccolta d'opuscoli, to. 34, p. 83, Mandelli, Venezia. Egli agì come alto
signore del vescovado di Belluno.
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 23
« provisionem imponendam generaliter vel particuiariter nec spe-
«cialiter per dictum D. Patriarcham... exceptis quod In confirma-
« tionibus, visitationibus et omnibus benedictionibus » ; — in altre
parole ii monastero non era soggetto a prestazioni di qualunque
sorte verso il patriarcato; eccetto quegli onorari che erano soliti
a darsi in occasione di visite o della conferma dell'abbate/
Il soggiorno a Treviso dovette durar poco, né possiamo sa-
pere la vera ragione per cui il patriarca si recò colà; in ogni
modo, come abbiamo accennato, il 12 marzo Wolfger era già
tornato a Cividale.
Poi il 4 ottobre 1215 in Aquileia Wolfger, col consenso del
suo capitolo, concesse a Giovanni, abbate di S. Michele in monte
a Pola, «fontanam de Vado Pirin cum portu» coll'obbligo del-
l'annua prestazione di un bisanzio il dì d'Ognissanti al patriarca*.
2. Fin dal 19 aprile 1213 papa Innocenzo 111 aveva indetto
un concilio ecumenico a Roma per provvedere alla Terra Santa
ed alla riforma della chiesa universale, ed aveva ingiunto ai ve-
scovi di fare perciò i necessari preparativi. Il patriarca Wolfger
tentò presso il papa di sottrarsi all'obbligo di intervenirvi, al-
legando la sua grave età ed i debiti di cui era gravata la chiesa
d'Aquileia, i quali non gli avrebbero consentito di prendervi
parte collo sfarzo e coll'accompagnamento convenienti al suo
grado. Ma il papa gli rispose il 9 settembre 1215:^ « Poiché si
farebbe danno alla pubblica utilità, e si derogherebbe all'onor
tuo, se una tale e tanto eccelsa persona come la tua non in-
tervenisse al concilio, non abbiamo creduto opportuno di acco-
gliere in questo la tua domanda. Noi dunque, volendo prov-
vedere al tuo decoro ed anche all'indennità della chiesa a te
affidata, comandiano con queste nostre lettere apostoliche alla tua
fraternità ed ingiungiamo che tu procuri di venire al concilio
con umiltà e mansuetudine, senza badare a difficoltà, evitando
ogni pomposo, oneroso ed inutile accompagnamento dì chierici,
militi (ministeriali) e servitori, osservando nel numero dei trasporti
e delle persone, quanto fu stabilito nelle lettere di convocazione
del concilio». Il concilio si aprì 1' 11 novembre 1215 e si tenne
1 Carte De Rubeis, ms. in Bibl. Marciana, Venezia.
« Valentinelli, Catalogus Codicum mss. de rebus Foroiuliensibus ex Bibliotheca
D. Marci, n. 181; Joppi, Aggiunte ecc. cit., p. 17, n.IV. Compaiono presenti: Ste-
fano, abbate di Sesto, Enrico arcidiacono, Wigando, preposito di S. Odorico, Gio-
vanni, preposito di S. Felice, Filippo, arcidiacono di Trieste, Otto, decano di Civi-
dale, Leonardo di Tricano, Wolrico de Petris, Zoppo de Nidech ed altri.
3 Seguo la data del Bòhmer, op. cit., n. 6177, che è quella anche del De Rubeis,
Diss. Mss., p. 223. Il Buttazzoni, op. ciL, p. 211, ci dà erroneamente il Q dicembre.
24 PIO PASCHINI
nel Laterano coH'iniervento di 412 vescovi, di 800 abbati ; molti
erano rappresentati da procuratori. Oltre i decreti che vi furono
sanzionati per la chiesa universale, troviamo che fu confermata
l'erezione del vescovado di Chiemsee, già fatta dall'arcivescovo
Everardo II di Salisburgo, e che fu decisa la questione dell'im-
pero.* Forse era questa che Wolfger voleva evitare, temendo
non fosse risolta e discussa secondo le sue mire. Per Ottone IV
perorarono i delegati di Milano; per Federico li parlò il mar-
chese del Monferrato, li papa accettò come vero e legittimo re
di Germania Federico 11. Qual parte avrà avuto Wolfger in questa
decisione? non lo possiamo sapere. 11 concilio non si protrasse
oltre il novembre; Wolfger vi intervenne accompagnato dai ve-
scovi di Trento, Mantova, Verona, Treviso, Padova, Ceneda,
Pedena, Pola e dall'eletto di Trieste, suoi suffragane^*
3. Il 12 dicembre 1215 Wolfger era nel suo palazzo patriarcale
di Cividale. In quel giorno infatti Mainardo di Gorizia per trenta
marche, che Otto decano di Cividale diede sicurtà di pagare,
resignò in mano del patriarca l'avvocazia che esercitava su al-
cuni mansi siti in Fagagna, che quel capitolo aveva comperati
da Wolchero, milite di Cividale. Wolfger allora investì il capi-
tolo stesso di quel diritto d'avvocazia; poi Mainardo diede si-
curtà ad Otto che avrebbe ottenuta la rinuncia dell'avvocazia
anche da suo fratello Engelberto e dal figlio di lui, affinchè pel
tramite del patriarca passasse poi nel capitolo.^
Più gravi invece furono le contese per il diritto di avvocazia
col capitolo di Aquileia. L'8 gennaio 1215 Innocenzo 111 delegò
il patriarca di Grado a giudicare e decidere la causa che ver-
geva fra questo capitolo e Mainardo, conte di Gorizia, a pro-
posito dell'avvocazia su Marano. La causa era stata decisa in
prima istanza a favore del conte, ma i canonici avevano inter-
posto appello presso il papa.^ Come fosse andata la cosa io
sappiamo dal giudizio che Angelo Barozzi, patriarca di Grado,
tenne a Grado il 14 luglio di quell'anno per giudicare della con-
troversia. Sindaco del capitolo era l'arcidiacono di Aquileia; Mai-
nardo si presentò pronto a provare, « secundum quod iudicari
J Hefele, op. cit., p. 1231.
» Hefele, op. cit., p. 1728, p. XIII.
3 De Rubeis, M. e. a., col. 672. Presenti i soliti : Enrico arcidiacono e Stefano
decano con alcuni canonici d'Aquileia, Giovanni di Zticcola, Artuico di Varmo, Ro-
dolfo di Ariis.
* Joppi, Docum. Goriz. cit., n. XIII ; ne! Bianchi, Doc. Reg., n. 37, quest'atto
porta la data 10 gennaio 1214.
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 25
« solet in curia patriarchali », d'avere avuto in feudo dal patriar-
cato l'avvocazia su Marano. Furono uditi Dietrico di Fontanabona,
Corrado di Strassoldo e Gabriele di Prata. Questi disse che la
sentenza della prima istanza era stata approvata « a maiori parte
« laicorum » , e che il patriarca « dovette ratificarla secondo la co-
stumanza della sua curia; però soggiunse d'aver sentito dalla
sua bocca che gli dispiaceva». Il giudizio era dunque stato prò
nunciato, secondo il diritto feudale, poiché si trattava di feudo,
dalla corte dei vassalli e dei ministeriali. Però soggiunge il do-
cumento : « Interrogato Gabriele, se si fosse fatta questa mozione
al patriarca come duca o come vescovo, rispose che allora non
si fece questa distinzione ». Infatti l'accentramento della giurisdi-
zione feudale e della ecclesiastica in una medesima persona e
la difficoltà che ne derivava di distinguere in virtù di qual po-
tere essa operasse, impediva spesso la chiara conoscenza delle
cose. Il patriarca di Grado, che viveva sotto il dominio di Ve-
nezia, non si trovava invece in queste condizioni, e la sua
interrogazione ci pare alquanto ingenua. Furono poi interrogati
i testi del capitolo; e fra essi Olrico canonico e maestro Lorenzo
sostennero che Marano era un allodio della canonica di Aquileia
e che l'avvocazia di esso spettava ai canonici in virtù della ri-
nuncia fattane da Enrico, duca di Carintia; che la sentenza già
pronunciata era dispiaciuta al patriarca, sebbene non lo avesse
manifestato, e che i canonici s'erano presentati al tribunale di
lui come patriarca.*
Mentre si disputava sull'avvocazia di Marano, un'altra que-
stione s'era presentata e riguardava l'avvocazia sulla villa di Farra,
posta sull'Isonzo a mezzodì di Gorizia. Infatti con lettera del-
l'I 1 febbraio 1216* Innocenzo III deputò Giordano, vescovo di
Padova, quale giudice in questa nuova questione. 11 patriarca
di Grado aveva citato dinanzi a sé, perchè dimostrasse i suoi
diritti, il conte Mainardo; ma egli non aveva voluto comparire
e perciò era stato scomunicato in contumacia. Mentre il patriarca
era a Roma per il concilio, il conte era entrato in Farra e aveva
danneggiato il capitolo. Il vescovo di Padova doveva ora dare
esecuzione alla sentenza già pronunciata e costringere colle cen-
sure il conte a risarcire il capitolo. A questo scopo il vescovo
Giordano inviò al conte copia della lettera papale e lo citò a
1 Joppi, Docum. Goriz. cit., n. XIV.
2 La data è: ponti/, anno XVIII. Il papa computa gli anni non dal dì dell'ele-
zione (8 gennaio), ma da quello della consecrazione (22 febbraio).
26 PIO PASCHINI
comparire a Padova entro quindici giorni per dare soddisfazione
al capitolo d'Aquileia, od almeno ad inviare un suo rappresen-
tante, munito di procura. Urso e Mingolino, suddiaconi d'Aquileia,
testificarono a Padova il 3 giugno 1216, che Mainardo aveva
realmente ricevuta l'intimazione inviatagli. Ma già il lunedì 2 mag-
gio, presenti Gabriele di Prata, Matteo di Rivarotta, Federico di
Belgrado, Ripoldo figlio di Guarnero de Arrio ed altri, Mainardo
aveva nominato Guarnerio de Garro suo rappresentante presso
il vescovo di Padova.^ Secondo il Nicoletti ed il Palladio, Wolfger
tenne nella quaresima del 1216 un sinodo provinciale, al quale
sarebbero intervenuti anche Giordano, vescovo di Padova, e
Mainardo, conte di Gorizia. Tocco dalle esortazioni del patriarca,
il conte si sarebbe sottomesso, avrebbe dato soddisfazione al
capitolo ed avrebbe ottenuto l'assoluzione della scomunica.' Ma
lasciando pure l'osservazione che un tale concilio non sarebbe
stato possibile nella quaresima del 1216, l'autorità dei due sto-
rici è troppo debole per farci accettare la loro notizia. Mancava
nei documenti la soluzione della vertenza, essi inventarono quella
che parve loro più verisimile.
4. Uno dei fatti più conosciuti e più singolari nella storia
della regione veneta è quello noto sotto il nome del castello
d'amore. Avvenne nella Pasqua di maggio del 1214 (Pentecoste)
a Treviso; ed è così narrato dal Carducci,^ secondo il racconto
lasciatoci da Rolandino: «La città di Treviso essendo dentro e-
di fuori senza guerra e in buono stato e con aumento di ric-
chezza, pensò di bandire gran corte per otto giorni alla qual
corte e festa invitò con gran cuore per lettere e per grida tutti
i cavalieri e baroni e gentili uomini delle parti d'intorno, per
tutta la Marca e la Lombardia e le Venezie, con le loro donne
e donzelle... Lo spettacolo non più veduto fu il castello d'amore,
costrutto all' uopo, fuori di porta San Tommaso, in luogo detto
la Spineta, oggi Selvana bassa. Era di legno: fingevano le mu-
1 Poiché è monca ed incompleta la trascrizione fatta dal De Rubeis, M. E. A.,
col. 673, cfr. Bòhmer, op. cit., n. 6181 ; Bini, Varia Doc. Antiqua, ms. in Archiv.
Capit. di Udine, I, 64, p. 62 ; Bianchi, Doc. Mss., n. 46. Il Nicoletti chiama Guar-
nero di Gruaro il rappresentante del conte di Gorizia e, credo, giustamente.
2 Cfr. G. Marcuzzi, Sinodi Aquileiesi, Udine, 1910, p. 104. I dati del Palladio
furono accolti anche dal Labbé, Condì., voi. XIII, p. 1061, e di là passarono anche
nell'HEFELE, op. cit., p. 1399.
3 Galanterie cavalleresche del secolo XII e XIII, in Opere, Bologna, 1909, voi. XX,
p. 70 sgg. Sulla guerra che ne derivò seguo : R. Predelh, Documenti relativi alla
guerra pel fatto del castello d'amore, in Nuovo Archivio Veneto, XV, 1885, p. 421
sgg., dove si trova il testo dei trattati e dei giuramenti che li confermarono. Cfr. an-
che: Enr. Ant. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, Venezia, 1834, voi. IV, pp. 530 e 541.
IL PATRIARCATO DI WOLFGER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 27
faglie le pellicce di grigi e vai ed erminì, e sciamiti chermisi e
drappi di porpora e scarlatto e baldacchini e armesini e broc-
cati ricci pendevano e gonfiavano intorno. Stavano alla difesa
duecento donne e donzelle di Treviso e di Padova... Gli assali-
ori, tutti giovani di soave età e di nobil lignaggio. E il trarre
e il gittare e lo scagliare dall'una parte e dell'altra doveva es-
sere di fiori, d'odori e di simili gentilezze >.
« Ma a poco a poco l'esercito assalitore si spartì, secondo
i geni e i paesi, in tre bande. I leggiadri trevigiani miravano
ai cuori e volevano persuadere le dame a rendersi a loro, con
gentilezza di parole e di preghiere chiamandole a nome, e di-
cevano — Madonna Beatrice, madonna Fiordiligi, ora prò nobis —
e gittavano fiori. 1 pacchioni padovani tendevano a espugnar
la bellezza per la via della gola, e buttavano ravioli, crostate,
torte e tortellini, e anche pollastri e galline cotte. Gli accorti
veneziani si fecero avanti collo stendardo di San Marco ; e dopo
le noci moscate e le cannelle e le altre spezierie orientali, co-
minciarono a trarre ducati d'oro. Di che, le belle donne, am-
mirando la gentilezza veneziana, resero il castello a San Marco.
E i veneziani stavano per entrare e inalberare su la bastita lo
stendardo rosso del santo; se non che i padovani anch'essi
facevano pressa in su l'entrata, mal comportando la facile e
preziosa vittoria degli avversari. Un dei quali, men savio, che
portava lo stendardo, si volse con torvi sembianti e parole in-
giuriose ai padovani. Non '1 sopportarono ; e, fatto impeto su
'1 male avvisato alfiere, gli strapparono dalle mani il gonfalone
ella patria, e tutto lo stracciarono. Scesero dalla lor loggia di
rettori e messer Paolo di Sermedole, maestro della milizia di
Padova, a spartire i giovani. Ma la festa fu turbata e rotto il
sollazzo > .
Questo fatto fu causa di guerra fra Veneziani e Padovani,
la quale però scoppiò propriamente solo nell'autunno del 1215;
dall'estate precedente dev'essere corso un periodo di relazioni,
come sì direbbe oggi, assai tese fra i due comuni, di piccole
scorrerie, di sequestri di merci e di mercanti, quali sarebbero
quelli dei francesi e dei veronesi accennati poi nei trattati. Il fatto
è, che non furono gli offesi veneziani a scendere in campo per
primi, bensì i padovani, coll'invadere il territorio veneto verso le
foci dell'Adige intorno alla Torre delle Bebbe ' che assediarono
il 27 ottobre. Le pioggie straordinarie che gonfiarono i fiumi co-
1 Località situata fra Chioggia e Cavarzere
28 PIO PASCHINI
strinsero l'esercito padovano a ritirarsi ; né i Trivigiani, chiamati
in aiuto da quei di Padova il 4 ottobre, giunsero a tempo per
impedire la disfatta, trattenuti dalle pioggie.
Non so se il sopravvenire dell'inverno impedisse altri fatti
d'arme ; certo è che noi vediamo al jDrincipio di primavera del
1216 intervenire come paciere il patriarca Wolfger « ex delega-
«tione domini pape». È probabile, dice il Predelli, che la com-
missione sia stata data a Wolfger in Roma stessa, e dietro i suoi
uffizi, quand'egli vi fu nel novembre 1215 per il concilio. Il con-
cilio infatti, per agevolare la buona riuscita della crociata, che
doveva predicarsi, aveva ordinata pace generale fra i principi
cristiani od almeno voleva che si facesse tregua per quattro anni;
il patriarca quindi, nella cui provincia ecclesiastica si trovavano
Padova e Treviso, era in dovere d' intromettersi per la pace e ne
ebbe inoltre dal papa speciale delegazione.*
Il 9 aprile 1216 a S. Giorgio in Alga, riuscì al patriarca dì
stringere due trattati, il primo fra Venezia e Padova, il secondo
fra Venezia e Treviso. Doveva esservi pace fra le tre città, le
offese reciproche dovevano perdonarsi, i danni essere riparati,
restituite le cose prese dal giorno della festa di Treviso in poi ;
dovea sciogliersi ogni lega fatta dopo quel tempo, qualora fosse
dannosa alle altre città; Trivigiani e Padovani dovevano essere
sicuri a Venezia, e così pure i Veneziani a Padova e a Treviso ;
sicuri dovevano pure essere i mercanti che si recavano a Vene-
zia e conservati i diritti di dogana che le si pagavano. I pode-
stà ed i comuni di Treviso e di Padova dovevano giurare questa
pace e lo stesso dovevano fare il doge ed i suoi successori. I
padovani in particolare dovevano poi restituire quanto avevano
tolto ai Veronesi, e quanto avevano rubato ad alcuni mercanti
francesi. II patriarca ed il vescovo di Mantova* dovevano risolvere
le questioni per il borgo di S. Ilario, S. Cipriano e Chioggia . ^
Sul finire d'aprile la pace fu infatti giurata dai cittadini di Pa-
1 Predelli, loc. dt., p. 428. Si può però supporre che il papa stesso conoscendo
per prova l'abilità di Wolfger, e sapendo le buone relazioni ch'egli aveva coi Vene-
ziani, di sua spontanea iniziativa gli desse l'incombenza di negoziare la pace. Che
Innocenzo III s'intromettesse nella questione ad istanza delle parti contendenti, come
suppone il Nicoletti, non mi pare probabile. Disgraziatamente manca la lettera, che
pure fu scrìtta, colla quale il papa commise l'affare a Wolfger.
2 Enrico, vescovo di Mantova, firmò i due trattati come testis; egli dovette es-
sere stato aggiunto dal papa al patriarca nell'ufficio di mediatore ; ma i maneggi fu-
rono condotti da Wolfger, come dice espressamente il testo dei documenti.
3 Fra i testes che sottoscrissero i due trattati trovo firmato un friulano soltanto :
« dominus Henricus archidiaconus Aquilegie ».
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 29
dova, dal podestà di Padova, da! doge di Venezia; e si deve
credere che abbiano fatto altrettanto anche il podestà ed il comune
di Treviso, quantunque non ci sia rimasto il relativo documento.*
5. Negli ultimi mesi del 1216 il nuovo papa Onorio III ebbe
a dare al patriarca, un altro incarico riguardante Treviso ; questo
di natura puramente ecclesiastica. Con sua lettera del 30 settembre
ordinò a lui, al vescovo di Padova ed a Giordano, priore di
S. Benedetto, di presentarsi personalmente a Treviso per vedere
e computare i debiti contratti da quel vescovado. Essi dove-
vano poi designare i beni che fosse necessario di alienare per
pagarli e costringere il vescovo stesso ad usare maggiore eco-
nomia per l'avvenire. Questa missione dovette essere subito
stata eseguita, perchè con un'altra lettera del 14 novembre egli
deputò gli stessi prelati ad esaminare se fossero convenienti, utili
ed opportune certe permute di beni che il vescovo di Treviso
aveva proposte a vantaggio della sua chiesa.^
Il patriarca però si trovava a Treviso sin dal mercoledì 14 set-
tembre 1216, ed erano con lui Enrico arcidiacono, Stefano de-
cano e Tommasino preposito d'Aquileia, Vigan[d]o preposito di
S. Odorico, Dietrico di Fontanabona, Leonardo di Tricano, Gio-
vanni di Zuccola, Solico de Cambinardo (?). In quel dì a nome
del patriarcato diede in feudo ad Eppo di Treviso, giudice di
Pero, un manso in territorio di Stabluzzo e di S. Paolo colla
decima.^
Da un'altra lettera di papa Onorio 111 del 22 settembre 1217,
diretta questa solo al vescovo di Padova ed a Giordano, priore di
S. Benedetto, sappiamo che Wolfger non aveva voluto confermare
l'elezione di G[erardoJ, figlio di W[ecelloJ da Camino, a vescovo
di Ceneda, perchè V. canonico di quel capitolo aveva protestato
essere stata « minus canonice factam et in eìus praeiudicium
1 Cfr. anche: Fr. Stieve, Ezzelino voti Romano, Leipzig, 1009, p. 13. Un regesto
nel PoTTHAST, n. 5279 (anni 1215-1216), ci diceche Innocenzo IH: « Pacem inter po-
« testatem populumque Mediolanenses et Venetos ac Tervisinos cives per (Wolfgeruni)
« patriarcham Aquiiegensera et (Henricum) episcopum Mantuanum reformatani, confir-
« niat »; credo che invece di Mediolanenses, si debba leggere Paduanenses, ed attribuire
l'errore al regestatore.
« Regesta tìonorii IH, Romae, 1895, voi. I, p. 8, n. 43 e p. 18, n. 105.
3 Collez. Fontanini, ms. in R. Archivio di Stato di Venezia, voi. 652, p. 213.
L'opera di quest'Eppo fu molto apprezzata dal patriarca. Infatti l'S novembre 1217 a
Cividale, per premiarlo delle sue prestazioni a vantaggio del patriarcato, gli diede in
feudo « universam terram que dicitur banum et iacet in territorio S. Pauli, sive S. Oeorgii
« cum decima et omni iure », coU'obbligo di pagargli ogni anno a Treviso il censo di
sei sestarii di avena. Quest'atto nel Bianchi, Doc. mss., n. 48, porta la data erronea
del 13 novembre ed il nome di Cipo invece che Epo.
30 PIO PASCHINI
«celebratam >, perciò il papa commise ai due destinatari che
« decernant quod canonicum fuerit>.*
II 6 giugno 1217 a Sacile nella chiesa di S. Nicolò si svolse
un atto importante, che ci dimostra assai bene il modo di pro-
cedere nella Patria a quel tempo. Erano presenti Almerico, ve-
scovo di Concordia, Stefano, abbate di Sesto, Ropretto, canonico
di Concordia, Giordano frate maestro dell'ospedale di S. Leo-
nardo, Furiano e Guido preti, Walterbertoldo di Spilimbergo,
Maio di Sacile, Ardrico di Polcenigo, Almerico di Topolieo, Siu-
redo di Ragogna ed altri. Wolfger patriarca stabilì che ogni uomo
di Vigonovo e suo distretto, uno per fuoco, dovesse una volta
per settimana venire a lavoro e pluvico a Sacile, nel luogo che
gli verrebbe stabilito dal meriga di Sacile; sotto pena di cinque
soldi di denari veneti di multa in caso di mancanza, a meno che
un qualche giusto impedimento non lo scusasse. Poi il patriarca
si volse ad Ardrico di Polcenigo e lo invitò a pronunciare il suo
lodo e dire se quei di Polcenigo dovevano fare il lavoro ed il plu-
vico a Sacile; ed Ardrico rispose che lo dovevano < come gli altri
uomini della terra, perchè là raccolgono, pascolano e dimorano,
e non potevano sottrarvisi se non i militi, che vi si trovassero ».
Poi il patriarca interrogò gli altri presenti se seguissero questo
lodo, e tutti furono d'accordo e quindi divenne giusto lodo.*
Forse durante il viaggio di questa comitiva da Sacile per
recarsi a Gemona, avvenne a Turrida sul Tagliamento la rinun-
cia che il conte Alberto del Tirolo, per sé ed i suoi, fece nelle
mani del patriarca della masnada che aveva in Friuli.^
Il patriarca era a Gemona il 9 luglio 1217, e là s'incontrò
con Leopoldo, duca d'Austria, che era in viaggio per recarsi alla
crociata. In quel giorno nella chiesa maggiore erano con loro
anche [Bertoldo], arcivescovo di Calocza in Ungheria, Cforrado],
vescovo eletto di Trieste, AflmericoJ, vescovo eletto di Concor-
dia, Mainardo ed Engelberto conti di Gorizia, Artuico di Varmo,
L. di Tarcento, Enrico, già marchese di Andechs, Almerico di
J Reg. Honorii III, voi. I, p. 137, n. 799.
« Bianchi, Docum. mss., n. 47. Pluvico o piovego era la prestazione corporale,
ossia mano d'opera, a cui erano tenuti i contadini per i lavori di pubblico e comune
vantaggio sulle strade, canali di navigazione, mercati e simili.
3 Bianchi, Docum. niss., n. 48 (dal Memoriale Belloni). Il testo chiama il pa-
triarca col nome di Wolrico, facile errore invece di Wolfger. Compaiono presenti:
Amelrìco, vescovo eletto di Concordia, Stefano, abbate di Sesto, Artuico di Cusano,
Artuico di Strasso, Marquardo di S. Daniele, Ottolino di Gemona, Bertoldo di Ar-
cano, Aidrico di Polcenigo, Volrico di Cuccagna. Manca l'indicazione del giorno e
del mese.
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 31
Osoppo, Suiredo di Peuma, Corrado di Condrumberch ; e si
venne ad una ripartizione ed assegnazione di famiglie di mini-
steriali. Suiredo di Ragogna e suoi eredi erano ministeriali di
Aquileia; la prole di Abramo di Weissenstein era ministeriale
del duca. A petizione di Suiredo stesso il patriarca cedette al
duca Rodolfo, Warnero e Berta figli di costui, i quali potevano
così ereditare tutto l'allodio ed il feudo che Suiredo possedeva
a Ragogna e fuori, tanto nei territori del duca quanto in quelli
del patriarca ed anche acquistare in Ragogna case e terreni da
quegli abitanti senza bisogno di richiedere il permesso del duca.
Il duca diede in cambio al patriarca la metà della prole di Abramo
e Pellegrino figlio di Enrico di Cols, perchè potessero ereditare
tanto nel territorio del duca quanto in quello del patriarca.^
Poi troviamo Wolfger il 7 settembre a Cividale in pomerio
prepositure; ed Enrico q.""* Corradino di Orzone gli restituì un
manso presso Buttrio che aveva in feudo ; il patriarca diede quel
manso alla fabbrica della chiesa di Cividale, e questa in com-
penso diede un manso presso Buia che le era stato dato da Mattia
di Soffumbergo.*
L'8 novembre Wolfger era ancora a Cividale come sap-
piamo dalla donazione che fece ad Eppo di Treviso.
Può appartenere al 13 dicembre 1217 l'atto di conferma che
Wolfger dal suo palazzo di Aquileia rilasciò a Dietmaro, prepo-
sito di S. Stefano, in favore del suo capitolo.^ Esso sarebbe l'ul-
timo atto di Wolfger di cui ci rimanga memoria.
Il patriarca Wolfger morì il 23 gennaio 1218. 11 Necrotogium
Aquil. ha infatti di lui: « Xkal. febr. Anno Dni 1218 sancte
« memorie Dnus Wolfkirus patriarcha obiit in Dno qui dedit fra-
«tribus villam de Merlana ». 11 Necrol. di S. Maria di Aq. : « Val-
« querus patha » ; quello di S. Maria in Valle : « Valterus patriarca »
(di mano posteriore). Fama di santità lo accompagnò al sepol-
cro, o meglio si formò intorno al sepolcro, circonfusa di leg-
1 De Rubeis, M. e. a., col. 675; Bòhmer, op. cit., n. 10811. Ragogna era pro-
prietà del duca d'Austria : un testimonio in un documento del 1277 dice : in « Rago-
« nea erant proprietates domini ducis, excepto garicto quod erat domus Aquileiensis ».
Nel 1219 Ottofredo di Ragogna era gastaldo di Pordenone in rappresentanza del duca
Leopoldo. Cfr. Zahn, Studi cit., pp. 44 e 47 ; Valentinelli, Diplomatarium Portus-
naonense, n. IV.
* Presenti l'arcidiacono Enrico, Otto, decano di Cividale, Corrado di Pertica ed
altri. Pergam. Capit., ms. nel R. Museo di Cividale, to. Ili, 40.
3 De Rubeis, Dissert. mss., p. 116, dove porta l'anno 1218; disgraziatamente
manca nella copia l'indizione. Presenti furono Enrico arcidiacono e Giovanni, prepo-
sito di S. Felice.
32 PIO RASCHINI
gende che non è il caso di ripetere qui*. Certo l'opera sua nel
patriarcato fu opera di pace, che dopo i burrascosi patriarcati
dei due ultimi antecessori, diede agio al Friuli di sviluppare me-
glio le sue energie ed al patriarcato di adattarsi con maggiore
profitto alle condizioni politiche e sociali, che l'evoluzione del
feudalesimo andava preparando. Come ben nota il Lenel*, l'opera
di Wolfger fu anche opera di organizzatore, e le sparse vestigia
che ne rimangono nei documenti, ci fanno capire quel tanto di
più, di cui non ci giunse notizia.
VII.
1. Le strade di comunicazione fra la Germania e il Frinii. — 2. Le vie interne
del Friuli — 3. Ospedali dei cavalieri di S. Giovanni, degli ospitalieri di S. Spirito,
dei Templari. — 4. Ospedali dei cavalieri Teutonici.
1. Una delle più importanti questioni, che prospettano la loro
luce sullo svolgimento della storia del Friuli, è quella delle strade.
Diciamolo però subito: le grandi arterie stradali, sulle quali si
svolse il movimento ed il traffico commerciale nell'alto medioevo,
furono sempre le antiche vie romane e le vie fluviali. Esse
mettevano in relazione il mare Adriatico, sul quale si concen-
trava il commercio di Venezia, colle valli della Drava e della Sava
superiore, della Stiria, del Salisburghese e dell'Austria superiore.
Aquileia era il posto marittimo dove avveniva il contatto fra l'ele-
mento marinaro e l'elemento teutonico; ed il continuo passag-
gio delle truppe crociate, che durante il secolo XII e la prima
metà del XIII dalla Germania facevano scalo colà per recarsi in
Oriente, ne accrebbe sempre più l'importanza. Da Aquileia si
dirigevano verso il settentrione due strade: l'una, seguendo sem-
pre l'Isonzo, per Gorizia, Canale, Tolmino, Caporetto, Plezzo
superava la Chiusa ed il Predil, e di là per Raibl e Tarvis giun-
geva a Villaco. Su questo canale si esigeva la muta del patriarca.
> Si possono leggere in: Coronini, Sepolcri cit., p. 58 e più lungamente nella
Vi^a del patriarca Volchero del Nicoletti {Arclieogr. Triestino, N. S., II, p. 35 sgg.)
Cfr. pure Chronieon tertiam, in De Rubeis, M. E. A., app. col. 11. Del culto verso
lui, locale |>erò e di carattere temporaneo e popolare, si ha memoria anche in una
escussione di testimoni fattasi ad Udine il 18 marzo 1278, dove si parla di un tale
che stava « in ecclesia aquilegensi ante archam Sancti Wolkeri patriarche » . (Atti del
notaio Giov. de Lupico).
* Op. cit., p. 130. I fac-simili dei denari e del sigillo di Wolfger son riprodotti
neir Archeogr. Triestino, N. S., voi. II, p. 220, dove ne parla Carlo Kunz. Cfr. pure
Fed. ScHEtWTZER, Serie delle monete e medaglie di Aquileia e di Venezia, Trieste,
1848 p. 14.
IL PATRIARCATO DI WOLFGER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 33
Un altro ramo dì strada si divideva presso Gorizia e, seguendo
il corso del Vippaco, conduceva nella Carniola inferiore.
La seconda strada, che da Aquileia andava verso il setten-
trione, passava per il territorio friulano. Essa veniva ad Udine,
Tricesimo, Gemona, dove, come l'antica strada romana, si divi-
deva. La strada più importante e più frequentemente battuta se-
guiva la valle del Fella ; e per Pontebba, Tarvis, ed Arnoldstein
giungeva a Villaco, che fu uno dei più importanti centri com-
merciali. Mentre il patriarca percepiva la muta della chiusa del
Fella,* il vescovo di Bamberga percepiva a Villaco la muta del
sale. Infatti da un documento del 117Q dì Otto II, vescovo di
Bamberga, in favore del monastero dì Arnoldstein, sappiamo che
« cum temporibus felicis memorìae domini Eberhardi episcopi
« (1146-1172) temporis inequalitas (cioè la lotta fra Alessandro III
« ed il Barbarossa) viam Canalis quae ducit Villacum preclusisset
« negotiatoribus et muta salis propter raritatem de Foro Julii ve-
« nientium adeo viluisset ut debitum consuetae pensionìs minime
« solvi potuisset » , si mormorava assai contro la chiesa di Bam-
berga.* Prima del 1233 il vescovo Eckardo fece costruire a Vil-
lach l'ospedale di S. Caterina per ì viaggiatori poveri ed infermi,
come vedremo.
Da Villaco si poteva risalire la Orava sino al Tirolo, oppure
per S. Veit, Friesach, Neumarkt e Scheifling passare nella valle
della Mur per spingersi poi, o per Bruck verso l'Austria, o per
Radstadt verso Salisburgo.^
L'ahro ramo della strada che divìdeva a Gemona, batteva
pure l'antica via romana. Per Tolmezzo e Zuglio giungeva al
passo di Monte Croce o Pleckenpass, e per Mauthen metteva
ad Oberdrauburg nella valle della Orava. Sebbene meno frequen-
tata era questa per sempre una via importante per il commercio
1 L'abbazia di Moggio fu dal patriarca Pellegrino liberata dell'onere di pagare la
muta della Chiusa nel 1136, privilegio riconfermato poi nel 1150; quella di Ossiach
fu liberata nel 1159, il capitolo di Salisburgo nel 1151. Il capitolo di Gurk era stato
liberato dalla muta patriacale nel 1136, e l'abbazia di S. Paolo di Lavant nel 1162 da
Vodolrico II.
« VON JAKSCH, Die Kàrntner, ecc. cit., n. 1248 e 1298. L'8 febbraio 1060 Enrico IV
a petizione di Gunther, vescovo di Bamberga, aveva concesso i diritti di mercato
alla villa di Villaco ad uso e sotto la giurisdizione del vescovado di Bamberga, che
aveva i suoi possessi in quel luogo, concessigli evidentemente da Enrico II imperatore.
VoN jAKSCH, ibid., n. 338. Più tardi, cioè nel giugno 1242, Federico II, da Avezzano
presso Taranto, concesse al vescovo di Bamberga facoltà di coniare a Villaco moneta
del peso e del valore della moneta Frisacense. VoN Jaksch, ibid., n. 2242.
3 Fr, Mart. Mayer, Die òstliciten Alpentdnder ini Investtturstreite, Innsbruck,
1883, p. 224.
34 PIO RASCHINI
ed il transito tra il Friuli, il Tirolo, la Baviera e il Salisburghese.
Ci fu persino un momento in cui quelli della Stiria, della Carintia
e dell'Austria, per sfuggire alla muta patriarcale della Chiusa,
si diressero in Italia per questa via; tanto che questo negozio
formò obbietto di una speciale convenzione fra il patriarca Ber-
toldo e Mainardo conte di Gorizia nel 1234.'
Noi sappiamo che una via romana metteva in diretta co-
municazione Aquileia per Cormons con Cividale : e poi per Ca-
poretto e Plezzo risaliva l' Isonzo e per il PrediI giungeva a Tarvis.
Certo il tronco Aquileia-Cividale era frequentato nel medio evo.
Invece, secondo lo Zahn,^ la strada Cividale-Tarvis « serviva solo
di collegamento da luogo a luogo. Per gli scopi principali non
serviva se non all'occasione, come ausiliare in caso di neces-
sità». E così pure il Ficker:' «Quando si trovano dati ge-
nuini, la via per il canale del Fella e Pontafel compare sempre
come il collegamento usuale fra la Carintia ed il Friuli, sicché
non si deve pensare al PrediI, se non quando speciali circo-
stanze ce lo suggeriscono » . Questo giudizio mi sembra però
troppo reciso. Sino dai tempi di Pellegrino I Cividale era mercato,
e dal complesso delle circostanze si arguisce che dovea essere
assai ragguardevole ; di più si pagava colà la muta al patriarca
e questo attesta che v'era un passaggio importante. Inoltre Cividale
era in strette relazioni con Tolmino : ciò indica facilità di comu-
nicazioni. Crederei che la via Cividale-Tarvis si trovasse con la
Gemona-Pontafel nei medesimi rapporti nei quali si trovava con
questa la Gemona-Tolmezzo-Monte Croce.
2. Da Gemona s'irradiavano le vie che solcavano il Friuli
e lo mettevano in relazione coi territori circostanti. Ho già ac-
cennato a quella che per Udine metteva ad Aquileia. Un'altra
scendeva verso sud-ovest, passava fra Osoppo e le colline di
Buia, toccava S. Tomaso dove, come vedremo tosto, c'era uno
spedale dei cavalieri Gerosolimitani, e poco più oltre doveva di-
vidersi. Un braccio toccava Ragogna, dove passava il Taglia-
mento, e per Pinzano giungeva a Spilimbergo, poi di là si dirigeva
per Aviano a Sacile ; un ahro braccio toccava S. Daniele, dove
1 Lo Zahn, Studi ecc. cit., p. 117, suppone che la strada, per la quale si fece l'ac-
cordo nel 1234, passasse per Tolmezzo, canal di Corto, Sappada, Comelico, Monte
Croce, Innichen ed avesse Augsburg come punto finale. Ma fu giustamente confutato
dal Mayer, op. cit., p. 224 e specialmente da J. Ficker, Die Alpenstrassen per Ca-
nales und per Montem Crucis, in Mittkeilungen des Instituts fììr oesterreichische Ges-
chichtsforschung, I, 1880, p. 301.
8 Studi, cit., p. 119. Così pure il Mayer, op. cit., p. 224.
s Loc. cit., p. 299.
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 35
già nel secolo XI c'era un mercato, e poi lungo la sinistra del
Tagliamento si dirigeva per Codroipo a Latisana. Latisana crebbe
man mano col deperire d'Aquileia durante il secolo XIII, in gra-
zia della sua posizione favorevole sul Tagliamento e della sua
maggiore vicinanza con Venezia. L'antica vìa romana littoranea
la metteva in comunicazione con Aquileia e con Concordia, presso
la quale venne sorgendo il nuovo scalo di Portogruaro, sul Le-
mene, che andava acquistando pure man mano importanza, fa-
vorito dai vescovi di Concordia.
Finalmente da Aquileia, per l'antica via Postumia, si giun-
geva, lungo l'odierna Stradalta, a Codroipo e si proseguiva per
Casarsa, dove si staccava un tronco che conduceva a Porto-
gruaro, si proseguiva per Pordenone e Sacìle; e di là, conti-
nuando verso occidente, si giungeva a Treviso, o, movendo verso
settentrione, per Ceneda si giungeva a Belluno.*
« I numerosi ospizi di pellegrini fondati in questo tempo
lungo le due vie che dal Canale del Ferro si dirigevano al
mare, attraverso la pianura friulana, il frequente passaggio de-
gli imperatori della casa di Svevia per queste vie, i trattati con
Venezia che le sorvegliava con gelosa cura, son tutte prove
dell'importanza dei traffici che si svolgevano nel domìnio aqui-
leiese».- Degli ospizi adunque noi faremo ora qui anzitutto
parola, poiché gli altri fatti abbiamo già potuto a suo tempo no-
tare e noteremo in seguito trattando del patriarca Bertoldo dì
Merania.
3. La sollecitudine dei patriarchi nel provvedere al bene dei
viaggiatori e quella dei pii donatori per soccorrere i poveri vian-
danti, s'era dimostrata durante tutto il secolo XII. Altre provvide
istituzioni sorsero sul volgere dì quel secolo e sul principio
del susseguente.
Nel luglio 119Q nel territorio di S. Tomaso presso Maiano^
erano insieme raccolti alcuni confratelli ospitalieri di S. Giovanni,
appartenenti cioè a quell'ordine cavalleresco che più tardi sarà
chiamato di Malta; ci sono conservati i nomi di Enrico, maestro
dell'ospedale di Sacìle, del prete Pietro, maestro [dell'ospedale]
di Volta (presso Latisana),* dì Contolìno, maestro dell'ospedale
I Zahn, Studi cit., p. 115. Cfr. su questa materia anche un cenno del Leicht»
in queste Memorie, IV, 1908, p. 125.
« P. S. Leicht, in queste Memorie, V, 1909, p. 87.
s Bini, Varia Docam. antiqua cit.. Ili, 66, p. 79.
■* È l'ospedale di S. Giovanni del Tempio a Ronchis. Un « Matheus magister lio-
«spitalis de la Volta > compare poi nel 1229 nel documento per i cavalieri Teutonici
36 PIO RASCHINI
di Collalto e parecchi preti e laici. Artuico di Varmo diede a
Giovanni, frate gerosolimitano e priore dei priorato, perchè edifi-
casse in quel luogo un ospedale soggetto al suo ordine, tutto
ciò che possedeva a Susans e S. Tomaso, ville di sua proprietà,
con tutti i diritti e pertinenze, ad eccezione di un manso che
costituiva la dote della chiesa di S. Giacomo di Varmo e di un
altro posseduto da Raimondo di Saccodello; e riservò per sé e
per i suoi figli maschi il diritto d'avvocazia sull'ospedale. Questa
è l'origine della commenda gerosolimitana di S. Tomaso o di
Susans.
Il patriarca Bertoldo assegnò pure ai cavalieri di S. Giovanni
anche l'ospedale di S. Nicolò de Levata, fondato dal suo ante-
cessore Wolfger, quando nel 1249 ne accrebbe i redditi.^
Poiché non doveva essere sufficiente l'ospedale che l'abbazia
di Moggio aveva alla Chiusa del Fella, specialmente quando Ge-
mona crebbe d'importanza e divenne centro di grande movimento,
sorse nelle vicinanze di questa terra una nuova fondazione. « Le
memorie dell'ospedale di Ospedaletto non risalgono oltre al 1213
(1 agosto), né la fondazione può ritenersi anteriore che di pochi
anni. Difatti certe deposizioni in carta del 6 marzo 1275 sembrano
stabilire che i testimoni che le facevano avessero conosciuto di
persona il vescovo Marzutto della famiglia dei signori di Gemona,
(d'onde poi i Prampero) che avea edificato detto ospedale; del
qual Prelato mi spiace non aver potuto sapere né il titolo epi-
scopale, né il giorno della morte » . Però da quanto diremo su-
bito, le tradizioni s'erano alquanto alterate col passare di bocca
in bocca.
« E non solo edificato, ma generosamente dotato, come ap-
prendiamo dagli stessi testimoni, i quali asseriscono sapere che
non altri che i signori di Gemona, cioè D. Enrico, D. Busoto
o Vassoto, D. Mattia e D. Marzutto, vescovo sullodato, aveano
* integram dominationem in Villa de Diepolschirchen ' (Leopolds-
kirchen sopra Pontafel), e che dopo il loro decesso detti beni
con tutti i diritti annessi rimasero all'Ospedale stesso per dispo-
sizione espressa di que' signori ».
«Da quel primo documento del 1213 impariamo il titolo
primitivo del Pio Istituto, ch'era di S. Maria...: Hospitale B. S.
Marie Vie stricte de Canale de Carentana ... e finalmente : ' Hospi-
tale S. Marie de Collibus Glemone' (12 nov. 1246)».^
1 De Rubeis, M. a. e., col. 670.
« Si noti che nel Thesaurus, n. 2, p. 5, è detto « licentia coilationis Ho$pitalis
« Glemone, que ad D. Patriarcham primitus pertinebat ».
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN 37
« Troviamo che alla donazione che fa sopra l'altare di S. Ma-
ria dell'Ospedale certo Natale Tamaruccio d'un suo terreno (1213),
è presente Corrado eletto vescovo di Trieste, al quale si danno
i titoli di avvocato, signore e amministratore del luogo. Questo
prelato della famiglia Bojani ' lo troviamo ancora a Oemona
nel 1217 e ancora col predicato di eletto; ma non saprei immagi-
nare d'onde gli fosse venuta quell'autorità sull'ospedale,* e come
conferitogli quel mandato. Invece nel secondo documento (8 di-
cembre 1233) troviamo un maestro Cristanno col titolo di custode,
che poi nel terzo (9 giugno 1236) è mutato in quello di ospita-
liere; e insieme con lui altri suoi confratelli che son detti frati
dell'ospedale, fra' quali un sacerdote, altro cellario o dispen-
siere; ma se fossero propriamente regolari noi saprei dire».
€ Nel 1274 il Priore, ch'era un D. Matteo da Roma, essendo
qualificato come frate dell' Ordine di S. Spirito, veniamo a com-
prendere che l'Ospedale dì S. Maria era stato intanto aggre-
gato a quello di S. Spirito in Sassia (eretto o meglio ristabilito
in Roma nel 119Q da papa Innocenzo 111) e assoggettato all'or-
dine dello stesso nome sotto la regola di Sant'Agostino dallo
stesso Pontefice approvato » .*
Alla chiesuola di S. Maria la Bella, posta al piede della
Olemina a mezzo chilometro da Gemona, « asserisce il Bini
constare che fosse annesso un ospizio di Templari, e gli si può
credere volentieri, perchè non soleva dir cose che non avesse
attinte a qualche documento: è solo a dolersi che non ne ab-
bia indicata la fonte, e che non se ne trovi detto altrove di
più».^ Del resto detto ospizio dovette ben presto scomparire,
tanto più che nel 1312 l'ordine dei Templari fu soppresso da
Clemente V.
I templari ebbero, in tempo che non possiamo precisare, da
Ottocaro VI di Traungau il paese di S. Quirino presso Corde-
1 Qui il Baldissera sbaglia ; Corrado, vescovo di Trieste, era fratello di Enrico Ta-
sot figlio di Enrico, come si rileva da un documento rogato ad Udine il 2 febbraio
1223 (Collezione Fontanini cit., voi. 652, p. 264). A sua volta Enrico Tasot padre
aveva sposata Qisla figlia di Corrado di Manzano ed era gemonese, come risulta da
nn documento del 1212, 12 aprile, pubblicato dal Joppi, per Nozze Strassoldo-OalHci,
Udine, 1879. Quindi io credo che il vescovo Marzutto ignorato, di cui fa cenno il
Baldissera, non sia altri che Corrado, vescovo di Trieste; egli era amministratore
dell'ospedale, perchè questo era stato fondato coi beni della sua famiglia.
« Val. Baldissera, L'ospedale di S. Maria dei colli di Gemona ossia S. Spirito
d'Ospedaletto, in Archivio Veneto, ser. II, to. XXXIII, par. II, 1881. L'ospedale fu sop-
presso il 30 settembre 1780.
3 Ib. La chiesuola è posta al di sopra della strada, che ora da Gemona conduce
ad Artegna.
38 PIO PASCHINI
nons. Ed è possibile che il vicino luogo di S. Giovanni del Tem-
pio si colleghi con questa donazione.*
4. Anche la casa dell' ordine teutonico di Friesach ^ posse-
deva terre in Friuli, e precisamente lungo il corso inferiore del
Tagliamento, sebbene non si sappia donde le fossero pervenute.
Infatti il 7 aprile 1229 «in ospitale de Vendoy ante Ecclesiam,
« Chuniemunt magister summus omnium hospitalium theutonico-
« rum ex ista parte maris » vendeva ad Asquino di Varmo « rem
« quandam proprietatis pertinentem hospitali de Vrisaco, idest
« domum unam positam iuxta Vendoy, et dedit ei cum ecclesia
« et domibus, campis, pratis, silva cum tribus mansibus positis
« in Vendoio prope Madrisium » (Madrisio di Varmo) per qua-
ranta marche di denari aquileiesi « excepta villa de Blasiz » .
Vendoio e Blasiz non sono ora che prati sulla strada da Co
droipo a S. Martino.^
Di maggiore importanza per 1' ordine dei cavalieri teutonici
fu la donazione che gli fece Mainardo, conte di Gorizia, in una
epoca che non possiamo precisare, ma certo in sul principio
del secolo XIII. Ne abbiamo notizia da un documento di suo
nipote Mainardo, redatto in Aquileia nel marzo 1232 alla presenza
di Federico II imperatore, di Bertoldo patriarca, dei vescovi
Egberto di Bamberga (fratello del patriarca) ed Enrico di Worms,
di B. preposito e C. arcidiacono d'Aquileia, di Ottone di Merania,
Alberto co. del Tirolo, Enrico co. d'Ortenburg, Ulrico co. di
Eppan, Albero di Wangen, Otto Bergongia, Volkero di Reifen-
berg ed Ulrico suo fratello, Cholo di Absberg, Rodolfo di Arces,
Volkero di Dornberg.* In esso Mainardo « qui paternis (Engel-
1 Zahn, Studt Friulani cit., p. 40. Ciò apparisce anzi tutto da un atto del 10 no-
vembre 1219: Valentinelh, Diploniatarium Portusnaonense ; Fontes RR. Austriac,
II, voi. 24, Wien, 1865, p. 4, n. 4.
« L'ordine teutonico era stato fondato da alcuni tedeschi nel 1190, ed il 19 feb-
braio 1198 Innocenzo III l'aveva riconosciuto come ordine cavalleresco ; i possessi nel
Friuli gli pervennero quindi sin dai primi tempi del suo sviluppo.
8 Zahn, Studi cit., p. 88. La villa di Blasiz era stata assegnata dal patriarca
Wolfger all'ospedale, da lui fondato, di S. Nicolò de Levata. Seguo la data trascritta
da V. Joppi dal voi. II processi del not. Giovanni a Varis di Udine (Arch. not. Udine) ;
mentre lo Zahn ci dà il 1219. In quello stesso volume di processi, ci è conservato un
altro atto redatto il 16 marzo 1265 nell'ospedale di Vendoi ; con esso Asquino, Bre-
gonia, Federico e Duringo fratelli di Varmo donano a Pazienza, monaca del mona-
stero di Costanzago: « hospitale de Vendoj positum infra Varmum et Madrisum », un
mulino e tre mansi li vicini.
* Il documento fu pubblicato dal Huillard-Bréholles, Histoire Diploni. de
Frédéric II, to. IV, par. I, p. 318, dall'originale esistente nell'Archivio di Stuttgart.
Copia in Bianchi, docc. mss. fuori numero (manca nell'indice stampato). Il Db Ru-
BEis, Diss. mss., p. 264, ne ebbe copia dal co. Sigismondo di Atteras.
IL PATRIARCATO DI WOLFOER DI ELLENBRECHTSKIRCHEN
« berto III) et patruelibus (Maìnardo) bonis successimus, attendentes
« et recognoscentes qualiter dare memorie comes Meinhardus
« senior patruus noster proprietatem iti Brissenich (Precenicco ad
« oriente di Latisana) hospitali sancte Marie Theutonicorum in
« Hierusalem prò remedio anime sue contulerit », concede di
nuovo, e rinuncia a qualunque suo diritto o pretesa in favore di
« Hermann© (di Salza, il celebre gran maestro) venerabili magistro
« eiusdem hospitalis » riguardo ai beni seguenti: « Brissenich cum
« omnibus sibi attinentibus in sylvis, in aquis, in pratis, in pascuis,
« in piscariis; in Carpenal quicquid dictus comes patruus noster
« ibidem habuìt, et in Blankar tres mansos, aput sanctum Pelegri-
« num unum mansum qui pertinet ad piscariam ; ...ita quod nec ad-
« vocatias, neque iudicia, neque aliquid iuris in predictis bonis vel
« nostris heredibus reservamus ».* Certo quest'istituzione doveva
servire di preferenza ai pellegrini di lingua tedesca ; mentre l'altra
di Ronchis doveva servire per i pellegrini italiani che venivano
a sbarcare nel porto di Latisana.
Mentre nella Taxatio beneficio rum, fatta nel 1247 per volontà
fxiel patriarca Bertoldo, ritroviamo menzionati solo « Hospitale
« Glemonae, Hospitale S. Aegidii,'^ Hospitale de Levata » ^ e come
dipendenti dal patriarcato; nel 1330 essi appariscono invece
fra gli exempti insieme cogli ospedali : « de Susans, de Volta,
«de Prisinico», nell' occasione della estimazione fatta da Pagano
della Torre, allo scopo di stabilire i diritti del patriarca e quelli
dei cardinali legati."'
Furono questi gli ultimi istituti di tal genere; il sorgere dei
tempi nuovi e l'influenza degli ordini mendicanti creeranno ben
tosto un nuovo ideale di beneficenza, un nuovo gruppo di fon-
dazioni.
Pio Paschini.
>^
1 Questa donazione ed istituzione fu poi confermata ed aumentata da Alberto co.
di Gorizia, l'S aprile 1302. Cfr. De Rubeis, Diss. /nss., p. 265. Il priorato tentonico
di Precenicco, per diploma di Ferdinando II del 12 agosto 1623, fu concesso ai Ge-
suiti per loro il collegio di Gorizia ; i cavalieri ebbero in cambio la signoria di Ober-
sdorf nella Slesia. Cfr. l'opuscolo di G. Vale, Precenicco, Udine, 1910.
* Su quest'ospedale, destinato per i poveri ed i lebbrosi, cfr. queste Memorie, X,
1914, p. 11.
3 Marcuzzi, Sinodi cit., p. 328.
* Marcuzzi, Sinodi cit., p. 338; se ne ha un'altra nel Necrologiunt Ecclesiae
Aquileiensis A, fol. 63 A e B., che è certo anteriore a quella di Pagano; anche" ìm
questo i sei ospedali sono excepti, quantunque siano quotati.
ANEDDOTI
Primordi dell'ordine Francescano nel Friuli.
1. Gemona. — 2. Cividale. — 3. Udine. — 4. Portogruaro e Sacile. — 5. Villaco,
Gorizia ed Istria.
La diffusione della regola francescana è tale un fatto storico, che ^
sorpassa gli interessi e le vicende di un singolo ordine religioso, ed
entra tra i fattori di tutt'intera la civiltà medievale. Sorta dall'ideale pu-
rissimo di una più intima imitazione della vita del Redentore, diffusasi
con rapidità prodigiosa nelle città e nelle borgate, che anelavano ad
una nuova vita civile, favorita da tutto un rinnovellarsi di forme eco-
nomiche e di pratiche religiose, essa ebbe subito il plauso fervente di
tutte le classi; e di questo fervore e del credito che ne fu la conse-
guenza si valse per influire grandemente, per penetrare sempre piìi
addentro nel sentimento dei popoli, per dirigerne gli impulsi e per
correggerne i traviamenti. Né il Friuli si sottrasse a questa pacifica
conquista. Troppo lungo ed intempestivo sarebbe ora studiarne tutti i
passi; né è mio compito dire quanto i seguaci di S. Francesco ope-
rassero nel secolo XIII in mezzo alle tempestose vicende che sconvol-
sero il patriarcato. Questo risulterà meglio dallo studio diligente di
quei fatti ; mi limiterò per ora solo a notare il sorgere dei singoli
istituti che si governarono secondo le regole francescane.
1. Dell'erezione di un convento di frati minori in Gemona, per
opera di S. Antonio di Padova nel 1227, fa cenno il Wadding, il quale
aggiunge pure la relazione del miracolo del morto risuscitato in oc-
casione della fabbrica del convento.* È impossìbile per ora, allo stato
» L. Wadding, Annales Minomm, Romae, 1732, t. Il, p. 172, n. 19; egli si fonda sulla
testimonianza della Historia Seraphicae Religionis, lib. I, scritta dal frate Pietro Rodolfi da Tossi-
gnano, morto vescovo di Sinigallia, nel 1601. — Cfr. Bollandisti, Acta Sanctorum Junii, t. Il,
p. 710, n. 20. — La Legenda prima, scritta anteriormente al 1245, probabilmente a Padova, e pub-
blicata da L. DE Kerval, S. Antonii de Padua vitae duae, Paris, 1904, non fa cenno alcuno di
questa e di altre simili fondazioni dì conventi ; e neppure la Legenda Benignitas, edita dallo stesso
Kerval, la leggenda di Giovanni Rigault {ib., p. 241) e le altre legendae del secolo XIII.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 41
in cui si trovano gli studi critici sulla vita del santo, dare un giudizio
sicuro sulla storicità di questo avvenimento.
Don Valentino Baldissera, riprendendo una congettura del Bini,
suppone che sul luogo scelto dal santo vi fosse già un ospizio di Be-
nedettini, e convalida questa supposizione col fatto che il sito del
convento è « discosto dall'abitato anche oggi, e molto più nel se-
colo XIII, e, come si dice, fuori di strada ; ciò che non era poco dopo
il mille, allorché vicina al luogo passava l'antica strada romana, ab-
bandonata quando i privilegi imperiali e patriarcali per incremento di
Oemona vi obbligarono il transito delle merci Se il Santo avesse
dovuto fondare di pianta il luogo, certamente non lo avrebbe fatto in
quel sito discosto che ho detto ; né si potrebbe mostrare la cella da
Lui abitata, se non ammettendo ch'Ei qui dimorasse tanto tempo
quanto ce ne sarebbe voluto per fabbricare il Convento e per abitarlo :
é adunque verosimile che vi avesse trovato l'ospizio su ricordato, forse
già abbandonato dai Monaci ; e quello Esso acconciò pe' suoi frati,
aggiungendovi la Cappella dedicata alla B. Vergine . . .; e ch'esso stesso
desse al Luogo il titolo, se pur non lo aveva già, di S. Antonio Abate,
non è improbabile ».i
Dirò subito : l'ipotesi di un antico ospizio benedettino sul luogo
ove sorse la chiesa minoritica non ha alcun indizio che la suffraghi.
Nessuna memoria può essere chiamata a prestarle favore. Di più era
proprio conforme alle primitive tradizioni francescane erigere i con-
venti alcun poco discosto dall'abitato, e persino in luoghi rimoti e
solitari. D'altronde il modo col quale erano costruiti i borghi ed i ca-
stelli, impediva a nuove fondazioni religiose di stabilirsi entro le loro
mura. Si trattava infatti di piccoli centri nei quali la popolazione era
ammassata in case per lo più piccole ed oscure, le une a ridosso
delle altre, in vie, chiassuoli, piazzette strette e tortuose. La vita la si
passava, quando la stagione lo permetteva, più all'aria aperta che en-
tro le case. Era impossibile quasi poter condurre in tale ambiente una
vita ritirata da religiosi ; quindi i monasteri muliebri e maschili si eri-
gevano, eccetto che nelle vere città, per lo più o presso le mura od
anche a distanza dalla cinta fortificata, munendoli con speciali difese,
quando se ne presentasse il bisogno o l'opportunità.
Se S. Antonio fu veramente il fondatore del convento gemo-
nese, né la tradizione ha alcunché di ripugnante ai dati storici, ciò
non vuol dire che egli sia stato realmente il costruttore della chiesa.
La primitiva e povera comunità francescana potè accontentarsi da prin-
cipio di un oratorio provvisorio ed intanto attendere a consolidare la
' V. Baldissera, Cronachetta della Chiesa e Convento diS. Antonio in Gemono, Oemona, 1895,
p. 5 sg. L'A. infatti ci riferisce che la chiesa era s detta in passato di S. Francesco, e in origine di
« S. Antonio abate, in memoria di che nella tavola dell'Aitar maggiore ... il Santo anacoreta è raffigu-
« rato col Santo di Padova in devota adorazione del SS. Crocefisso » ; ma si tratta di pittura rela-
tivamente recente. Io credo che fosse un principio riflesso, quello che indusse a supporre la chiesa
dedicata in onore di s. Antonio abbate : se s. Antonio era fondatore della chiesa e del convento
non poteva aver fatto che la fondazione portasse il suo nome.
42 PIO RASCHINI
propria fondazione. Frattanto s. Antonio morì (1231) e fu santificato
(1232). Trattandosi di un santo tanto popolare e venerato nella regione
veneta, quando si trattò di consecrare la novella chiesa, fu consecrata
in onor suo senz'altro.
Fortunatamente infatti ci è conservata la data esatta della conse-
crazione della chiesa minoritica gemonese; ed è una data alquanto
piti tarda. Nel calendario di un codice della Bodleiana di Oxford, ap-
partenuto un tempo all'abbazia di Moggio, troviamo l'annotazione se-
guente:
« Idus Mar. Anno Domini 1248 dedicata est ecclesia fratrum mi-
« norum in Glemfona] ».i
Con essa concorda perfettamente anche quest'altra memoria:
« 1248. Dedicata est Ecclesia Fratrum Minorum de Glemona », che
il Liruti dice di aver trovata nell'Archivio della Badia di Moggio in
una piccola cronaca in pergamena e che riportò infatti nei suoi Apo-
grapha.
Il primo dei documenti che riguardano il convento è un atto
deirs aprile 1259, con cui Gabriello di Pinzano manomise alcuni servi,
essendovi presente Fr. Bernardas Custos fratrum Minorum de Ole-
mona. Un altro, del 6 maggio, contiene il testamento di Elisa, figlia di
Giuliano Veneto, abitante in Gemona, nel quale ordina di essere se-
polta « apud Sanctum Antonium Fratrum Minorum de Glemona, iuxta
« patrem suum D. Julianum » ; e fra le altre disposizioni lascia una
somma « prò edificio Ecclesie et loci S. Antonii de Glemona ».
Del 1260 è una bolla di Alessandro IV, con cui concesse indul-
genze a coloro che visitassero la Chiesa dei Minori in Gemona nelle
feste di S. Francesco, S. Antonio e S. Chiara.^
In relazione col convento francescano di Gemona è pure l'origine
del convento di Venzone. Il 18 marzo 1298 Rodolfo gastaldo, il con-
siglio e comune di Venzone diedero al guardiano dei minori di Ge-
mona un terreno presso il ponte della Venzonassa, perchè qualcuno
dei frati prendesse dimora colà.^
Un convento di frati minori non poteva non coltivare l'idea di
far sorgere pure un monastero, dove fosse seguita la regola di S. Chiara.
Ma se un convento per frati era per natura sua di facile erezione, un
monastero per suore presentava ben maggiori difficoltà. Le suore non
potevano andare mendicando di porta in porta, dovevano vivere dì
rendita e di lavoro, e l'una e l'altro non era molto facile trovare. Si
cominciò invece in forma molto più umile.
Il 10 novembre 1249 i rettori del comune di Gemona, « conside-
rando l'onesta fama delle sorelle converse che dimoravano presso
1 Cfr. Memorie Storiche Forogiuliesi, IX, 1913, p. 299.
a Baldissera, op. cit., p. 7 sg. — Quest'è pure un'altra prova che la chiesa sin dalle
sue origini era stata eretta in onore di S. Antonio di Padova, non di S. Antonio abbate.
• Bianchi, Documenta summ. regesta, n. 797.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 43
S. Agnese nelle pertinenze di Oemona e memori della loro onesta vita, »
concessero loro un pezzo di terra a loro scelta presso la chiesa di
S. Agnese; e Milia conversa l'accettò a nome delle sue consorelie.1
Era proprio il tempo in cui anche ad Udine s'era stabilita presso
alla chiesa di S. Quirino una casa di conversae, la quale aveva otte-
nuto speciali privilegi dal patriarca Bertoldo il 24 luglio 1242.2
La modesta casa delle converse gemonesi ricevette nuovi benefici
per mezzo del testamento di Giacomo Basadonna, scritto il 6 dicem-
bre 1265. Ognuna delle sorelle ebbe venti soldi, suora Margherita
cinque libre, suor Maria quaranta soldi, suor Anghizia quaranta soldi,
suor Giacomina venti soldi. Il testatore lasciò pure un'offerta d'olio
per l'illuminazione della chiesa di S. Agnese, e le monache ebbero tre
libre veronesi.^
Accanto dunque alla chiesa di S. Agnese fiorivano due istituzioni :
quella delle monache propriamente dette e quella delle conversae o so-
rores. La cosa non rimase e lungo così. Il 17 novembre 1277 fra Ge-
rardino di Gavazzo, guardiano dei frati minori di Gemona, comprò dai
fratelli Covatto e Biaquino del defunto Pietro Ciriali di Gemona, per
150 libre di piccoli veronesi, una vigna posta in Villa di Gemona con-
finante col possesso dei detti venditori e con quello di Giacomo Ba-
sadonna. Il Guardiano agiva per conto « di suora Gertrude priora di
S. Agnese di Gemona e del suo convento, che volevano venire ed abi-
tare nel luogo e cella che si sarebbe costituita nelle case di Giacomo
Basadonna ».*
Così dunque avvenne la separazione. Le monache di S. Agnese
rimasero al loro posto,^ le suore vennero ad occupare la casa del Ba-
sadonna congiunta colla vigna Ciriali, posta nell'amena posizione che
ancor oggi si chiama Villa e rimaneva fuori delle antiche mura ge-
monesi. Questa condizione di cose ci si appalesa chiaramente nel te-
stamento che Federico, quondam Enrico di Prampero, fece a Gemona
il 31 agosto 1281, dove fra gli altri legati lascia « mediam marcham
« Celle de Glemona. Item monachabus sante Agnetis de Glemona media
« marcha detur. Item monachabus S. Blasii de Glemona XL. denarii ».6
1 Giampietro Della Stua, Monumenti per la storia dell'antico Monistero di S. Chiara di
Oemona, Nuova Raccolta opuscoli, t. XXXVM, p. 3. II monastero di S. Agnese dovette essere un
centro di vita religiosa. Infatti il 30 novembre 1259 Enrico di Pernardis di Oemona lasciava 20 soldi
al monastero di S. Agnese e soldi 10 alla eremita di S. Agnese, la quale si chiamava Giacomina,
come sappiamo da un documento del 1267. [Ant. Marchetti], Accenni e documenti sopra l'an-
tico monastero di S. Agnese di Oemona, Udine, 1887, p. 21.
' In appendice alle opere di S. Paolino patriarca, ediz. del Madrisio, in Mione, P. L., t. 99,
col. 647.
* Della Stua, Monumenti cit., p. 5.
* Della Stua, Monumenti cit., p. 9 ; Bianchi, n. 422.
' II 10 luglio 1290 è ricordata ancora una suora Maria eremita di S. Agnese la quale lasciò
un censo a quel monastero. Marchetti, op. cit., p. 22.
* Della Stua, Monumenti cit., p. 12. Il 2 marzo 1287 Pochena del fu Andrea Tuta di Oe-
mona si offrì (cioè si fece suora) « in manibus honeste et religiose mulieris sororis Oertrudis prio-
« risse sororum Ecclesie et Monasteri! Beate Agnetis Virginis de Glemona •» consegnando nelle sue
mani una vigna che doveva servire per il suo mantenimento, e poi alla sua morte doveva rima-
nere al monastero. Marchetti, op. cit., p. 29. Il Della Stua, ib., p. 18, assegna a questo do-
cumento la data del 1281, che contrasta coU'indiz. XV, che vi è segnata.
44 PIO PASCHINI
Quale regola seguivano le buone sorores della cella di Qemona ?
Il vederle assistite nel loro trasloco da S. Agnese in Villa dal guardiano
dei Minori ci fa già supporre che seguissero la regola francescana ;
questa supposizione ci è confermata da un documento gemonese del
25 novembre 1283. In quel dì Nicolò di Altaneto per 68 libre di piccoli
veronesi ebbe un manso posto a Susans sopra S. Tommaso, presso
la villa di Maiano; e ricevuta quella somma da Giacomo Basadonna,
cedette quel manso in perpetuo a donna Alzubetta del fu Ermanno
di Nonta ed a Francesca, figlia di Cozanello di S. Daniele, « sororibus
« celle sancte Giare de Glemona recipientibus prò se et sororibus diete
«Celle et earum successoribus ».i
Come si vede Giacomo Basadonna non solo dava le sue case,
ma contribuiva anche alla dotazione della Cella. Infatti dal santo di
cui egli portava il nome fu chiamata la chiesa della Cella ; ce lo pa-
lesa chiaramente un atto del 12 luglio 1297 con cui « domina Jaco-
« mina loci sancti Jacobi ordinis sancte Giare de Glemona » e le suore del
convento costituirono loro procuratore, per la vendita di un manso a
Treppo, Andalò Bugni ; vendita che Andalò fece il giorno seguente,
alia presenza del patriarca Raimondo a Cividale, nelle mani di Bernardo
di Ragogna decano di Cividale. Il decano comprava a vantaggio
di Bernardo e Matteo detto Pezmanno, figli di suo fratello Matteo.
Andalò asseriva che la vendita era fatta « per evidente utilità ed ur-
« gente necessità del monastero e specialmente per pagare le doti ed i
« diritti che donna Nida, moglie del defunto Giacomo Basadonna di Ge-
« mona, doveva ricevere dalle suore e dal monastero, quali eredi dello
« stesso Giacomo ». Il prezzo pattuito fu di 26 marche.^
Le due fondazioni continuarono a sussistere contemporaneamente :
il monastero di S. Agnese sotto il governo di una priora è ricordato
sino al 1389, e non si sa quale regola seguisse; ^ il convento di S. Chiara,
sotto il governo di una badessa,^ tenne la regola francescana sino al
1776, quando fu soppresso.
Da Gemona passiamo ora a Cividale.
2. Se dovessimo credere al Ni coletti, i Francescani si sarebbero
stabiliti a Cividale ancor verso il 1206 in certi eremitaggi ch'erano là,
dove sorse poi l'antico monastero di S. Chiara annesso al nuovo.
S. Francesco in persona avrebbe visitato il convento che si fabbricava.^
Rifiutando naturalmente tale notizia, possiamo però asserire, che
presto si piantò nel suburbio cividalese un convento dì frati minori.
Infatti nell'anno 1244 si parla di una terra che Adeleita conversa con-
' Della Stua, Monumenti cit., p. 16.
* Della Stua, Monumenti cit., pp. 20 e 22.
* Marchetti, op. cit., p. 20, da quel tempo in poi non restò che la chiesa, che ancora
sussiste.
* L'abbatissa è già menzionata in un documento del 1300, 5 ottobre. Della Stua, Manu-
mtnti cit., p. 26.
» Vita del patriarca Volfero. Notizia passata poi anche negli Annali del Friuli del Manzano,
Annali, voi. lì, p. 214.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 45
cesse al capitolo di Cividale, terra situata « super Natissam, iuxta ter-
ram fratrum minorum » ; e poi nel 1246 «fit mentio fratrum s. Franci-
sci » ed anche di una « ecclesia fratrum minorum ad portas pontis »A
In un documento del 1'' novembre 1249 si fa memoria del « War-
dianus fratrum sancti Frangisi de Civitate ».2
In un altro del 1254 si parla di una terra situata « ultra dictum
« pontem apud ecclesiam S. Francisci », venduta da uno dei Manzano.^
L'il luglio 1256 veniva promulgata in Aquileia l'indulgenza di
100 giorni, concessa da papa Alessandro IV, in favore di coloro che
visitassero la chiesa dei frati minori di Cividale.* In quest'anno dunque
il convento e la chiesa dei frati minori erano già saldamente costituiti
in quel luogo, lungo la sinistra del Natisone, che passò poi, come
vedremo subito, in proprietà delle Clarisse, le quali Io tennero sino
al momento della loro soppressione.
Non mancarono gli ingrandimenti. Il 17 luglio 1258, a Cividale,
Nicolussio di Cividale e sua sorella Petra vendettero per venti marche
di denari aquileiesi ad Alberto de Colle, vicedomino patriarcale, un fondo
posto oltre ponte, ch'era stato proprietà di Federico di Chiusa, marito
di detta Petra. Confini di quel fondo erano : « ab uno latere firmat in
« possessionem fratrum minorum, ab uno capite in Ripam fluminis Na-
« tissae, ab alio in quandam viam per quam itur ad eandem possessio-
« nem ». In quel dì stesso Alberto donò quel fondo, certo assai spazioso
a giudicare dalla somma sborsata, « prò animae suae remedio » al
convento dei frati minori.^ Il nuovo possesso era dunque contiguo al-
l'antico ed accrebbe perciò il modesto orto dei frati.
Coll'opera del vicedomino Alberto è certo da collegare anche
quella del patriarca. Il documento che riferisce la consecrazione della
chiesa di S. Francesco ad Udine, riferisce pure che Gregorio di Mon-
telongo « edificavit, . . et conventum in Civitate Austrie. XVIII Mar. ».
Ma questa frase dev'essere intesa con limitazione, perchè chiesa e con-
vento esistevano a Cividale ben prima che il Montelongo entrasse in
Friuli (1252); l'opera sua dunque dovette consistere nel ricostruire,
amplificandola, la piccola e povera casa dei frati minori.
Il 21 gennaio 1265 sappiamo presente a Cividale Giovanni guar-
diano dei frati minori di, Cividale ;6
» Primordi francescani in Cividale, Cividale del Friuli, 1913, p. 11 ; O. Grion, Guida
Storica di Cividale, Cividale, 1898, p. 393, afferma trovarsi menzionati i frati minori in Cividale
in un documento capitolare fin dal 1241 ; ma non cita il documento, e potrebbe trattarsi d' una
sua svista.
* Me/norie Storiche Cividalesi, II, 1906, p. IH.
» Primordi cit, p. 11.
* Bianchi, Doc. Reg., n. 213; Primordi cit., p. 7.
'^ Presenti all'atto: fra Enrico da Padova, fra Gerardo, fra Antonio, fra Vosalco, fra Ber-
toldo e fra Alberto, tutti francescani (v'erano dunque per lo meno sei frati nel convento di Ci-
vidale), poi Federico gastaldo d' Udine e Giovanni gastaldo di Cividale, con altri ancora. — Do-
cum. orig. nel Museo Civico Udinese. — Primordi cit., p. 7.
* Dal protocollo di Giovanni de Lupico.
46 PIO PASCHINI
ril agosto 1267 la chiesa di S. Francesco è ricordata in un
documento di Landò di Montelongo, nipote del patriarca ; i
nel 1275 è ricordata anche la « centrata S. Francisci » ; 2
nell'anno 1277 Ermanno, canonico custode di Cividale, fra altri
legati in favore di pii istituti, lasciò otto denari ai frati minori, ed il
suo letto « cum uno plumacio infirmarle fratrum mìnorum » ; ^
il 26 marzo 1285 « in domo fratrum minorum » a Cividale Ugo
di Duino costituì un procuratore presso il patriarca ; *
il 18-19 dicembre 1282 Prosperino, custode dei frati minori di
Cividale, fu presente al concilio provinciale di Aquileia presieduto dal
patriarca Raimondo.
Con questo noi vediamo ormai completamente costituiti i frati
minori a Cividale, nel loro convento e chiesa di S. Francesco oltre
Ponte, dietro la chiesa di S. Martino. Ma questo luogo non doveva
essere la loro dimora definitiva; ed il loro trasferimento è in relazione
colla fondazione del monastero delle Clarisse.
Anche a Cividale l'origine di queste suore ci si dimostra assai mo-
desta ed oscura. Cominciamo infatti col trovare qui ricordata, il 30 giu-
gno 1238, una Adeleyta conversa; pur troppo non sappiamo di piiì;
ma è un indice questo che, come ad Udine ed a Oemona, anche a Ci-
vidale c'erano sin da quel tempo delle bonae tnalieres le quali, o so-
litarie "'' od in piccole comunità, attendevano alla vita spirituale, senz'es-
sere propriamente legate ad una regola ben determinata; la povertà
e la semplicità della loro vita le ponevano fuori degli ordinamenti dei
grandi monasteri feudali, che, come quello di S. Maria in Valle, ave-
vano larghi interessi, complicata amministrazione, diritti signorili. Era
una nuova espressione di quella vita democratica veramente, che sca-
turiva dalla vita comunale man mano che questa si svolgeva sotto
l'influenza dell'idea guelfa.
Un gruppo di queste buone donne si stabilì a S. Pietro di Poloneto,
luogo che non sappiamo ora bene determinare. Non sappiamo neppur
quando ciò avvenisse. Man mano l'istituzione trovò sviluppo. Nel 1283
Isabella, figlia del milite cividalese Swichero, donò alle pie donne di
S. Pietro casa ed orto presso il colle di S. Pantaleone, in vicinanza di
Rualis, perchè si costruissero un monastero.^ Ma questo crescere com-
plicava necessariamente le cose, e le buone donne di S. Pietro cer-
carono un luogo per costruirsi un convento, che non fu più né a
^ R. Archivio di Stato, Venezia, voi. I, Pergamene dell'Abbazia di Sesto.
* Primordi cit., p. 12.
» Ib., p. 6.
* V. Joppi, Appendice ai Docum. Goriziani, n. IV.
5 Nel 1292 troviamo anche a Cividale, menzionata da Giuliano, « una Alzubetta, nipote di
d onna Luicarde, la quale fu rinchiusa come eremita presso S. Stefano ».
* Primordi cit., p. 11. Siccome Swichero già il !•> agosto 1213 faceva testamento prima di
recarsi in Terra santa; sua figlia nel 1283 doveva essere ben vecchia. Le loro parentele quali,
sono esposte dal Torriani (ib.) sono una pura sua fantasia.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 47
S. Pietro, né a S. Pantaleone, e adottarono una regola propriamente
detta, che fu quella di S. Chiara.
Questi mutamenti sono narrati dal cronista cividalese Giuliano :
« Il giovedì (era veramente venerdì) 13 gennaio 1284, ottava del-
l'epifania, alcuni frati minori, circa sei o più, del convento di Cividale,
che stavano fuori di Cividale presso la chiesa di S. Francesco, ven-
nero la prima volta... ad abitare in Cividale in domo et curia di Vo-
dolrico da Cadore, preposito di S. Pietro in Carnia. Quella casa
coll'adiacenza l'avevano comperata da Vodolrico Sandrina e le sorelle
di S. Pietro quondam di Poloneto, che abitavano presso S. Pantaleone ; i
e la cedettero,' aggiungendovi non poco denaro, ai detti frati ; ed esse
alla loro volta comperarono per loro abitazione il luogo dove stavano
i frati a S. Francesco presso Cividale colla chiesa, chiostro, edifici,
orto e pertinenze tutte in quel luogo. E ciò fu fatto col consenso ed
autorità del venerabile padre Raimondo, patriarca di Aquileia ».2
Per questo scambio di possessi i frati minori passarono dunque
nell'interno della città e si diedero le mani attorno per fabbricarsi
chiesa e convento. Ma sorsero contro di loro i frati domenicani di
Cividale, che facendosi forti di una costituzione pontificia, la quale
vietava che si costruissero nuovi conventi di frati mendicanti entro una
determinata distanza da quelli già esistenti, pretesero di impedire l'opera
loro. Ma Bernardo, vescovo di Porto e legato apostolico, dichiarò che
la costituzione, della quale intendevano profittare i Domenicani, era
stata abolita da papa Clemente IV. Perciò il 23 dicembre 1284, da
Udine, il patriarca Raimondo concesse licenza ai frati minori di Cividale
di costruirsi la loro chiesa.^ In base a questo documento il p. Wad-
ding trattando dei conventi donati ai frati Minori nel 1284 scrive:
« Locus Austriae in provincia S. Antonii et custodia Fori-Julii, quem
« Raymundus Turrianus Episcopus Comensis die IX decembris* inchoa-
« vit, Marco de Malatravensi Patavino Praefecto custodiae Paduanae co-
« ram dicto domino Raimundo comparente et petente locum hunc aedi-
« f icari, rogato Joanne de Lupico Notarlo pubblico ».5
La costruzione della chiesa dei frati fu infatti cominciata subito;
ed una concessione d' indulgenza emanata da Marcio, vescovo di Ce-
neda, il 26 gennaio 1285, ci fa sapere che il patriarca aveva stabilito
* Si deduce da questo evidentemente che Sandrina e le sue consorelle si erano trasportate
da S. Pietro a S. Pantaleone; ma quest'ultima località non doveva essere luogo adatto al loro
scopo e quindi cercarono una combinazione coi frati minori, nel modo ch'è espresso.
« luLiAN., § XXXV, p. 16, in R. I. S.^, t. XXIV, p. XIV.
» Bianchi, Doc. Reg., n. 498.
* Qui c'è errore nella data, perchè non si badò che nel documento stava scritto : « die IX
« exeunte Dee. ».
» Op. cit., t. IV, p. 137, § XX. E soggiunge: » Maestro Bonaventura Vivaruccio uomo pratico
negli affari restaurò la parte del convento che crollava presso il fiume Marsione ; il quale scorre
con tanta abbondanza d'acqua da poter muovere contemporaneamente dieci ruote da mulino ; il
fiume salendo non senza soave mormorio con acqua cristallina e trasparente sino al fondo pro-
duce trote e marsioni, chiamati così dal nome del fiume. Morì egli a Venezia, segretario della
provincia nel 1584 ».
48 PIO PASCHINI
la prima domenica di febbraio per porne solennemente la prima pietra.
Poi il 14 marzo il cardinale legato Bernardo, vescovo di Porto, con-
cesse quaranta giorni d'indulgenza a coloro che facessero un elemo-
sina «in opere plurimum sumptuoso » che i frati minori avevano
principiato sul luogo, dove da poco avevano cominciato ad abitare.^
La chiesa dovette essere stata condotta a termine assai presto,
perchè il 15 aprile 1286 da Aquileia il patriarca Raimondo confermò
l'indulgenza concessa dai vescovi di Padova, Ceneda ed Emona in
favore di coloro che intervenissero alla predica nella chiesa dei frati
minori di Cividale."^ Ed è pur degno di nota, che con suo testamento
del 15 ottobre 1293 Francesco di Fontanabona volle alla sua morte
essere sepellito nella chiesa di S. Francesco a Cividale « apud portam
« perguli predicatorum in claustro ».3
Il convento dei minori a Cividale, doveva essere, almeno nella
comune estimazione, il più importante fra quelli esistenti in Friuli.
Eccone una prova.
Era impossibile che un convento potesse prosperare in Aquileia.
Le circostanze di luogo e di clima non avrebbero potuto che impe-
dire o renderne inutile la fondazione, perciò si provvide in altro modo.
Il regesto di un documento del 10 gennaio 1292 ci dice cosi:
« I frati minori di Cividale hanno una casa in Aquileia, concessa a
« loro ed ai loro successori ; dall'una parte di essa sta la chiesa di
« S. Andrea, dall'altra un'altra casa dei detti frati, dalla terza sta il
<' cimitero, dalla quarta corre la via pubblica che conduce al fiume;
« ed essi hanno facoltà di celebrare nella detta chiesa di S. Andrea ».*
L'avere una chiesa nella capitale stessa del patriarcato non era certo
per i frati di Cividale pìccolo segno del riguardo in che erano tenuti.
Anche l'antico convento dei frati fu tosto adattato alla sua nuova
destinazione. Infatti « il 4 giugno 1284, ottava delle Pentecoste, alla
presenza di Fulchero di Zuccola, vescovo di Concordia, di Ulvino da
Cividale, vescovo di Trieste, di Bernardo, vescovo di Pedena e di altri
assai, il patriarca Raimondo diede l'abito della regola di S. Chiara alla
priora Sandrina ed altre sorelle (undici), olim di Poloneto, e le con-
secrò e le rinchiuse colà », cioè nel convento di S. Francesco.''
Da Cividale il 15 ottobre il patriarca concesse alla badessa ed
alle suore di S. Francesco di Cividale, di passare all'ordine di S. Chiara
e le esentò dalla giurisdizione temporale e spirituale del patriarca, perchè
potessero godere tutti i diritti e privilegi concessi alle Clarisse.*'
« Il 19 ottobre 1287, giorno di domenica, per autorità del cardi-
nale che presiedeva all'ordine di S. Chiara, furono confermate le suore
1 Bianchi, Doc. Reg., n'. 44Q e 501.
' Primordi cit., p. 8, dai Doc. Bianchi.
* Regesto in cod. De Rubeis, pubblicato dal Bracato, in queste Meni., IX, 1913, p. 107.
*• Reg. del cod. De Rubeis pubblicato dal Bracato, in queste Mem., 1909.
* Iulian., Ioc. cit.
Bianchi, Doc. Reg., n. 535.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 49
di S. Chiara presso Cividale da frate Pietro, visitatore delle suore del-
l'ordine di S. Chiara; e fu dato loro l'abito e la regola di S. Chiara ».i
Si comprende da questo, che quanto aveva fatto tre anni prima il
patriarca Raimondo, non era stato che un primo passo per ridurre a
vera vita claustrale le suore di S. Pietro di Poloneto. Tre anni di una
specie di noviziato furono reputati sufficienti per costituire secondo
tutte le regole canoniche il nuovo monastero.
Finalmente « il 5 febbraio 1288 venne al monastero di S. Chiara
di Cividale come badessa la venerabile signora. . . di Milano, nipote
di Raimondo patriarca di Aquileia».^
Anche la chiesa, che prima era dedicata in onore di S. Francesco,
mutò nome, e fu chiamata chiesa di S. Chiara.^ Il 28 novembre 1295 il
monastero di S. Chiara fu posto sotto la protezione della Santa Sede.*
3. Parrebbe doversi dire che la regola francescana penetrasse ad
Udine un po' piti tardi.
Da una deliberazione del consiglio di Udine, del 21 febbraio 1343,
si sa che l'imperatore Federico II aveva concesso ai borghigiani di
Udine, che i frati minori ed i frati predicatori non potessero mai avere
casa o comperare terreno, orto, bearzo od altro qualunque possesso
entro le mura vecchie, che erano costruite sui Gorghi ed intorno al
borgo di Qemona.
Il Joppi suppone che questo privilegio dell'imperatore sia stato
emanato intorno al 1232.5 Non c'è però alcun dato sicuro per asse-
gnargli un anno piuttosto che un altro ; ma forse l'atto fu compilato
qualche anno più tardi, quando Federico II prese a perseguitare acer-
bamente gli ordini mendicanti, risolutamente avversi alla sua politica
ghibellina ed antipapale.
Però i minori poterono stabilirsi ad Udine, dopo tramontata la
ortuna dell' imperatore ; e fondarono il loro convento poco fuori l'an-
tico recinto delle mura, sul luogo dove ora sorgono la chiesa e gli
edifici dell'ospedale civile.
Giambattista Raimondi narrando delle origini delle chiese di Udine
scrive : « Gregorio di Montelongo gli (i frati minori) introdusse in
« questa città, dove s' ingrandì la Chiesa et Convento. Fu parimente am-
« plificata sotto Raimondo Turriano patriarca, et consecrata la prima
« domenica di Luglio Tanno 1266 con l' intervento di sette vescovi suf-
« fraganei al patriarcato d'Aquileia ».6
La notizia sebben confusa è esatta. Consta infatti da un docu-
mento che la prima domenica di luglio del 1266, anno decimosesto
del pontificato di Gregorio di Montelongo, la chiesa di S. Francesco
' JuLUN., p. 20, § XLVII.
2 JULIAN., p. 20, § L.
* Primordi cit., p. 14.
* Fr. di Manzano, Annali, t. Ili, p. 256, dal Bianchi.
» Statuti e Ordinamenti del Comune di Udine, ediz. Joppi, Udine, 1898, p. 140, n. II.
« Preciosa gioia dell' Ill.ma Città di Udine, ms. nel Seminario di Udine, e. 17; operetta
compilata nel maggio 1660.
50 PIO PASCHINI
e l'altare maggiore furono consecrati da Alberto de Collis, vescovo d;
Concordia, da Corrado Faba di Zellaco, vescovo di Capodistria, e da
Bonaccorso, vescovo di Emona (Cittanova), presente lo stesso patriarca
insieme con i vescovi di Treviso, di Ceneda, di Trieste e di Parenzo.
L'anno seguente fu consecrato l'altare di S. Andrea, presenti il pa-
triarca, i vescovi di Concordia, di Emona, di Capodistria. Il documento
asserisce inoltre esplicitamente che fu il patriarca a costruire il con-
vento.i
La ecclesia fratrum minorutn de Utino è ricordata poi il 6 settem-
bre 1269 in un atto del patriarca moribondo.^
Si comprende quindi quanto erri il p. Wadding nella brevissima
notizia che consacra all'erezione del convento Udinese. All'anno 1279
egli scrive: « Utinae, nobilis in Foro-Julii urbis, extruxit monaste-
« rium Raymundus Turrianus Episcopus Comensis; qui et aliud in
« eadem regione in urbe Austriae extruxit quinto ab hoc anno ». ^
Può darsi che anche il patriarca Raimondo abbia fatto qualcosa
per il convento di Udine ; ma non spettano a lui le prime parti nel-
l'opera. Né il convento andò poi soggetto a tramutamenti sostanziali
sino alla sua soppressione verso la metà del secolo XVIIl.
Solo alcuni decenni più tardi cominciarono umilmente in Udine
le Clarisse. Scrive il Raimondi: «Di quest'ordine di monache fu già
< principiata una chiesa et monasterio in questa città l'anno 1294, come
«consta per scrittura di Valtero Nodaro 1294, 14 settembre, che il pa-
« triarca Raimondo della Torre fece una permuta con Bianco da Udine
« d'una pezza di terra per edificare il Monasterio di S. Chiara et della
« Cella, et poi Uccello degli Uccelli nobile di Udine lasciò tutte le sue
« facoltà acciò fosse accresciuto et compiuto il novo Monasterio sotto
« il titolo di S. Chiara».* Esiste inoltre un altro documento dell'undici
dicembre 1294, redatto ad Udine nella camera del patriarca, col quale
Uccellutto, cittadino di Udine, volendo stabilire una cella per religiose
dell'ordine di S. Chiara nella villa di Udine in un luogo detto Somriva
presso la porta Gemona, chiese al patriarca Raimondo che volesse
concedere a tale scopo la terra sulla quale aveva cominciato già quella
cella. Ed il patriarca annuì .^
L'iniziativa della fondazione apparteneva dunque ad Uccello, o
Uccellutto ; ma siccome a quest'atto erano presenti anche fra Oalvaneo,
lettore nel convento dei frati minori di Cividale, e fra Giacomo, lettore
» Bini, Doc. Hist., V, 72, ms. nell'Archivio capitolare di Udine ; Bianchi, Doc. ms., n. 319
2 Vicino ad essa era posta la casa di Alberto, vescovo di Concordia, vicedomino del pa-
triarca, ucciso nel 1268. R. Archivio di Stato, Venezia, Collez. Fontanini, voi. 647, p. 739.
» L. Wadding, op.'cit., tomo IV, p. 87, XXIX. In questo paragrafo l'autore parla «quorum-
« dam Conventuum ad Patres Conventuales spectantium », di incerta origine. II patriarca Raimondo
della Torre era stato vescovo di Como, prima d'essere designato da papa Gregorio X patriarca
d'Aquileia.
* Op. cit., e. 33.
» Bini, Varia Patriarc. Aqiiil., I, 148. Cfr. Bianchi, Doc. Reg., n. 726, dove l'atto ha la data
del 21 dicembre. Ad Uccellutto si deve pure la fondazione della chiesa di S. Lazzaro, presso la
casa dei lebbrosi nelle vicinanze di Udine, IS novembre 1285. Bianchi, Doc. Reg., n. 510.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 51
in quello di Udine, dobbiamo credere che ad essi ed ai loro confra-
telli appartenga l'iniziativa morale. I loro suggerimenti ed il loro ap-
poggio spirituale devono avere suscitate fra le donzelle udinesi le prime
vocazioni ed in Uccellutto e nel patriarca stesso i primi benefattori e
sostenitori del monastero nascente.
Alla morte del patriarca Raimondo, Uccellutto chiese alla S. Sede
la conferma dell'istituzione del monastero. Benedetto XI infatti la con-
cesse, ma essendo egli morto prima che alle bolle fossero apposti i
consueti suggelli, il patriarca Ottobono de' Razzi non le volle accettare;
perciò Uccellutto, coll'appoggio anche della cittadinanza Udinese, fece
appello a Napoleone, cardinale diacono di S. Adriano, il quale coU'auto-
rità di legato apostolico il 4 settembre 1305 confermò la donazione di
Raimondo. Ottobono allora accettò le lettere del legato ed intervenne
anche all'atto di donazione fatto da Uccellutto l'il dicembre 1306, per
il quale il monastero ebbe possessi a Rizzolo, Sclaunicco, Buia, Biancada,
Zugliano, Morsano, Paderno, Bergonzani, Collegrigioni ed il molino
sulla roggia che scorre per Grazzano.
La chiesa del monastero era stata già consacrata nel febbraio 1303
dal patriarca coll'assistenza di sette vescovi comprovinciali." Le Clarisse
tennero ininterrottamente il loro monastero, finché nel 1806 fu sop-
presso dal governo italico.
4. Di due altre fondazioni francescane in Friuli si ha notizia nel
secolo XIH.
Il 10 maggio 1281 a Portogruaro frate Fulcherio, vescovo di Con-
cordia, considerando il bisogno che aveva la terra di Portogruaro del-
l'assistenza dei religiosi e specialmente di quelli dell'ordine di S. Fran-
cesco, concesse a fra Guglielmo, ministro della provincia di S. Antonio
nella Marca Trivigiana, un possesso che apparteneva alla chiesa di
Concordia, « per edificare la chiesa, il chiostro, il dormitorio, le altre
officine e l'orto ed il giardino e la casa che aveva cominciata a costruire
e che intendeva condurre a compimento » ; e gliene diede l'investitura
coll'anello. Il luogo era a Portogruaro stesso ■-< presso la porta supe-
riore che conduceva al porto vecchio » ed il muro del comune.* Però
i frati minori s'erano già da qualche tempo stabiliti a Portogruaro,
perchè l'atto del vescovo fu rogato « in capitulo loci fratrum Minorum ».
Incerta sinora è l'origine del convento dei frati minori a Sacile;
non si può però errare dal vero, qualora si supponga che v'interve-
nissero le premure ed il favore del patriarca Gregorio e del patriarca
Raimondo suo successore. In ogni modo si ha memoria che nel 1295
» F. Blasic, La parrocchia di S. Quirino in Udine, memorie storiche, Udine, 1885, p. 49 sgg.
* Erano presenti Uguccione gastaldo del vescovado, Genorio di Cadore, Ouarnerio camer-
lengo del vescovo, ecc. La donazione fu confermata dal capitolo di Concordia in quello stesso
giorno. UoHELLi, Italia sacra', V, p. 342. Fulcherio di Zuccola, frate minore, morì il 17 aprile
1292 e fu sepolto nella chiesa del convento; ib., p. 344. Il p. Wadding all'anno 1281 : « In pro-
' vincia S. Antonii et custodia Foro-Julii extructus hoc anno Conventus Portusgruarii per Fulche-
« rium Inculthum e Spilimberga familia episcopum Concordiensem, quem amplissimis praediis hone-
« stavit. Ibidem conditus est ad laevani maioris arae > (op. cit., p. 104, § XII).
52 PIO PASCHINI
donna Hengerada, moglie di Gerardo, lasciava cento lire all'uopo dì
restaurare il convento e la chiesa dei frati minori di Sacile.i Ciò fa-
rebbe credere che la sua fondazione risalisse ad alcuni anni prima.
5. Per meglio comprendere e valutare il movimento francescano
nella regione friulana, è utile assai gettare uno sguardo anche al-
l'intorno di essa. E prima di tutto fermiamoci ad un territorio che
stava in strette continue relazioni col Friuli.
Il p. Wadding ci riferisce che Enrico, vescovo di Bamberga, « costruì
sotto il titolo di S. Maria il monastero dei frati minori a Villaco * in
Walfperch in provincia Austriae et custodia Styriae'».^ La cosa non
deve far meraviglia, se si pensi che Villaco ed i territori circostanti
dipendevano allora feudalmente dal vescovado di Bamberga. Poiché
il vescovo Enrico morì il 17 settembre 1257, la fondazione risale ad
un tempo anteriore; ed infatti il 12 novembre 1252 è già ricordato
un fra Michele, guardiano dei frati di Villaco.^
La fondazione del convento di Villaco non è dovuta dunque in
alcun modo all'influenza del patriarca d'Aquileia. Ben altrimenti invece
debbono essere andate le cose nel Goriziano e nell'Istria. Ma anche
qui le notizie sicure sono poche ed oscure, quantunque le tradizioni
parlino abbastanza esplicitamente ; ma si tratta di tradizioni tanto tardive
e di origine tanto sospetta, che difficilmente possono accettarsi senza
grande cautela.
Riferendosi alla vita volgare di S. Antonio scritta da frate Angelico
di Vicenza, il Coronini afferma che intorno il 1225 S. Antonio fondò
il convento di S. Francesco in Gorizia e che ne fu il primo guardiano.*
Lo Czoernig vi aggiunse che S. Antonio vi fu invitato dallo stesso
conte Mainardo e condusse seco a Gorizia come compagno il beato
frate Luca.^ La cella di S. Antonio fu tramutata in oratorio, in cui
si collocò la statua di S. Caterina vergine e martire, singolarmente
venerata dal taumaturgo. « Forse non si andrebbe lungi dal vero
dicendo, che i figliuoli del serafico patriarca da principio aveano
una chiesetta, la quale, crescendo la popolazione della città, in tempi
posteriori venne ingrandita. Due religiosi di questo convento ogni
settimana dovevano recarsi al castello dei conti di Gorizia, onde nella
cappella domestica sacra a S. Bartolomeo celebrare la santa messa pel
conte e sua famiglia. Il conte in ricompensa erasi obbligato di dare
ogni anno al convento sei botti di vino e sei carra di formento ». Nel
1433 fu al convento confermato questo reddito dal conte Enrico.^
1 Sacile e suo distretto, Udine, 1868, p. 44.
» Op. cit., ad ann. 1257, § XXV.
' voN Jaksch, Die Kàrntner Oeschichtsquellen, n. 250S.
* Tentamen genealogico-chronologicum Comitum Ooritiae, Viennae, 1759, p. 1. La notizia
passò di là nella Strenna cronologica per l'antica storia del Friuli di G. D. Della Bona, Gori-
zia, 1856, p. 63.
» Das Land Gòrz und Gradisca, Wien, 1873, p. 715.
• Periodico L'Istria, anno V, 1850, p. 249.
PRIMORDI dell'ordine FRANCESCANO NEL FRIULI 53
« È tradizione, e tradizione costante, che il convento patentino
fosse stato fondato da S. Antonio di Padova fra il 1226 e il 1228, la
qual tradizione è ricordata ed accettata da autori seri e dotti. Vuoisi
che S. Antonio di Padova venuto a visitare il Friuli e l'Istria fondasse
i conventi di Gorizia, di Muggia, di Trieste e di Pola ».i II Babudri tenta
appunto di salvare questa tradizione per quanto riguarda Parenzo. « La-
sciando Trieste e prendendo i soli conventi prettamente istriani, diremo
che del convento di Pola si ha notizia appena nel 1314, sebbene alcune
parti di finestre trovatesi sotto il portico si dimostrino opera della se-
conda metà del sec. XIII ; e del convento di Muggia si sa che fu fabbricato
nel febbraio 1388, mentre del convento di Parenzo si hanno notizie
scritte già nel 1270». Infatti nel catastico capitolare del 1270 si legge:
« et usque ad rotam fratrum minorum » quale indicazione della palude
di S. Giovanni di Prato; ed il 17 giugno 1280 sono ricordati Francesco
guardiano e Venturino frate del convento dei minori di Parenzo.^
Una lettera di Bonifacio VIII del 31 gennaio 1^02 ci fa conoscere
come stessero le cose a Trieste. Il vescovo Enrico aveva tentato colla
violenza di togliere ai frati minori la direzione del convento delle
Clarisse di quella città ; ed il papa comandò al vescovo, sotto gravi
pene, di rimettere il tutto nello stato di prima e di portarsi a Roma
entro due mesi per rendere conto del suo operato.^
Il monastero delle Clarisse qui ricordato è certo quello di S. Maria
della Cella, eretto poco dopo il 1265 nel sito dov'era la chiesa di S. Cri-
stoforo ; monastero che, fondato col consenso del vescovo Arlongo, fu
da lui il 10 luglio 1278 reso esente dalla giurisdizione vescovile. Esso
nel 1282 professava la regola di S. Chiara; ed il 26 febbraio veniva
affidato da papa Martino IV alla difesa e protezione del decano di
Concordia per tre anni.*
A Capodistria sarebbero stati introdotti i Francescani dal vescovo
Corrado nel 1260; nel 1263 Aurelia Falier, badessa di S. Giacomo a
Murano, concesse loro un orto spazioso.^
II 18 marzo 1264 in Capodistria stessa Senesio, ricario patriarcale
in Istria, concesse ai frati minori una piazza {platea) in Caprillo, in
cambio di un'altra che già avevano, situata nel medesimo luogo presso
la chiesa del patriarca.^
Come abbiamo già accennato sopra, esisteva pure nel secolo XIII
un convento di Francescani anche entro le mura di Pola. Uno dei
frati nella sommossa del 1270 pose in salvo un fanciullo dei Castropola,
sottraendolo in tal modo alla rovina di tutta la sua famiglia."^
1 Fr. Babudr ijLe antiche chiese di Parenzo, Parenzo, 1912, p. 52.
2 Ibid., p. 54 e p. 52.
» Registres de Boniface Vili, n. 4495.
* Periodico L'Istria, III, 1848, p. 27. I documenti sono nel Codice Diplom. Istr.
» Periodico L'Istria, III, 184S, p. 28.
« Codice Diplom. Istriano. Era guardiano frate Umile. Gian Rinaldo Carli, Appendici di
documenti alla parte quarta delle Antichità Italiche, Milano, 1791, p. 107, n. 34.
' L'Istria cit., p. 28.
54 rio PASCHiNi
A Pirano i minori si sarebbero stabiliti sul principio del secolo XIV.
La loro chiesa cominciata nel 1301 dal podestà Matteo Manolesso, fu
compiuta nel 1319.^
Come si vede da questa rapida rassegna, i primordi francescani
furono nelle nostre regioni umili e modesti; nessuna ripercussione
in essi delle divisioni che straziavano l'ordine ; nessun nome illustre,
eccetto Fulcherio che fu vescovo di Concordia, diede lustro speciale
a queste fondazioni ; ma ben presto un personaggio ne uscì, che rag-
giunse una fama mondiale e mostrò quali caratteri vi si andassero
temprando: il beato Odorico da Pordenone.
Pio Paschini
Un documento inedito del patriarca
Vodolrico II (28 ottobre 1171).
Dal necrologio del capitolo di Aquileia si sapeva, che il patriarca
Vodolrico II aveva concesso al capitolo stesso la villa di Muzzana,
posta fra S. Giorgio di Nogaro e Palazzolo dello Stella ; ^ ma l'atto di
donazione era sfuggito alle ricerche dei raccoglitori dei nostri docu-
menti. Il professor don Giuseppe Vale me lo indicò conservato in un
fascicoUi di scritture radunate insieme per tutelare i diritti del capitolo;
per questo certamente esso non fu posto insieme colle altre pergamene
nella raccolta dei documenti conservata nell'Archivio Capitolare di
Udine. Fu redatto nella sacrestia della basilica di Aquileia il 28 ot-
tobre 1171. Il patriarca espone anzitutto che la villa di Muzzana era
posta entro il territorio che ai canonici di Aquileia aveva conceduto
il patriarca Poppo sin dal 13 luglio 1032.^ Veramente in quel docu-
mento ed in quello di papa Alessandro III del 20 luglio 1177, che lo
ricopia,* Muzzana non è nominata espressamente, ma solo in modo
implicito là dov'è detto « villam etiam de Mariano (Marano) et villam
« de Carlinis (Carlino) et villas S. Georgii a mari et a flamine quod
« dicitur Cornium usqae ad aquam quae dicitiir Arvuncus » (roggia Ra-
vonchia e Turgnano). Muzzana è invece apertamente indicata sin dal
1 U Istria cit., p. 33.
' CItr. queste Memorie, X, 1914, p. 181.
' Cfr. queste Memorie, IX, 1913, p. 29.
* Cfr. queste Memorie, X, 1914, p, 178.
UN DOCUMENTO INEDITO ECC. 55
21 gennaio 824 in una donazione di Lodovico il pio in favore del
patriarca Massenzio.^ Nell'atto del 13 dicembre 1202 col quale furono
regolati i diritti d'avvocazia che spettavano al conte di Gorizia, Muz-
zana è designata come l'unica villa dipendente dal capitolo aquileiese
sulla quale il conte poteva esercitare i suoi diritti d'avvocato 2. Questo
fatto trova la sua spiegazione in quanto viene esposto nel documento
stesso.
Muzzana, ci dice il patriarca, era stata contro ogni buon diritto
invasa e posseduta da un incognito usurpatore, al quale egli con grande
fatica era riuscito a riprenderla e l'aveva poi concessa a Udalrico,
marchese di Attems suo consanguineo, finché fosse vissuto. Di questo
marchese Udalrico ho già parlato ; ^ ma quello che riesce nuovo è
la sua parentela col patriarca cioè colla casa dei conti di Treffen. È
impossibile determinare il grado di questa parentela, ma essa, in ogni
modo, ci spiega meglio la donazione che Udalrico fece il 2 febbraio 1 170
in favore della chiesa d'Aquileia.
La villa fu posta dal patriarca sotto la giurisdizione del preposito
coll'obbligo di prestare ai canonici un determinato servitlum, ossia
distribuzione di vino e denaro, come si trova di frequente nelle do-
nazioni che si facevano ai capitoli, e coll'obbligo di far pure un'ele.
mosina ai poveri. Ma quando colla sua costituzione del 23 febbraio 1 181
il patriarca riformò il suo capitolo, anche Muzzana passò certo sotto
l'amministrazione diretta del collegio capitolare, come le altre ville.
Quanto ad Erbordo di Faedis, destinato dal patriarca a dare il
possesso al capitolo della villa donata, esso compare più volte presente
insieme con altri ministeriali agli atti del patriarca. Così, per esempio,
a Villacco il 24 marzo 1169; il 2 febbraio 1170 in Aquileia alla dona-
zione del marchese Udalrico; il 26 maggio 1172 ad una donazione
di decime in favore del capitolo, ecc. Nel privilegio del 12 febbraio 1176
in favore del mercato di Cividale il patriarca fece a lui e ad Enrico
di Gemona faYori particolari, per premiare la speciale devozione e fe-
deltà da loro dimostrata nel servire la chiesa di Aquileia. Era insomma
un uomo di fiducia.
Ecco il testo del
Documento
[Archivio Capitolare di Udine, Jurisdict. temp., Sez. IV, busta III].*
In nomine sancte et individue trinitatis, amen.
Nos quidem Volricus dei grafia sancte Aquilegensis ecclesie pa-
triarcha et apostolice sedis legatus cunctis christifidelibus tam futuris
quam presentibus notum esse volumus qualiter villam que Muzana
1 Cfr. il mio Le vicende politiche e religiose del Friuli nei secoli IX e X, Venezia, 1911, p. 14.
a Cfr. queste Memorie, X, 1914, p. 29.
» Ibid., p. 137.
^ Pergamena originale oblunga mis. mm. 410 X 120, da un lato alquanto guasta, senza sigillo,
con tracce di cordicella.
56 PIO PASCHINI
vocatur secundum privilegium domini Popponis pie recordationis pa-
triarche in predio canonicorum Aquileiensis ecclesie constitutam, ab
his qui eam invaserant et violenter per multa tempora tenuerant, cum
magno labore expedivimus et eam cum massariciis, famulis, vineis, mo-
lendinis, campis, pratis, silvis, venatione, piscatione, aquis et aquarum
ductibus, paludibus, introitibus et exitibus, cultis et incultis et cum
omnibus pertinentiis eius in remedium anime nostre et antecessorum
nostrorum, dilectis fratribus nostris prefatis canonicis in perpetuum
proprietario iure habendam et possidendam super altariolum aureum
tradidimus, eisque iusticiam eorum recognovimus et [privilegium] pre-
fati Popponis per hoc corroboravimus et sta[tuimus ut preposit]us i
eorumdem causuicorum qui prò tempore fuerit
iurisdictionem in eadem villa habeat in die
consecrationis nostre, prò* anniversario nostro cuicumque
fratrum urnam vini et Vili denarios
bonum servicium et. e. pauperibus .... de redditibus eiusdem
ville omni occasione remota ministret. Quod si non fecerit, nihil iuris
in eadem villa habeat. sic canonici eam quiete possideant. Ministerialem
quoque nostrum Herbordum de Faedis eisdem canonicis nuncium
intromittende possessionis assignavimus ita ut post obitum consangui-
nei nostri Volrici marchionis de Attens, cui usum fructum eiusdem
ville tantum in vita sua concesseramus, canonicos in possessionem ipsius
ville inducat. Quod quidem ut verius concessum et inconvulsum in
evum permaneat, presentem paginam inde conscribi et sigillo nostro cor-
roborari fecimus. Actum est Aquileie in sacrario anno domini M.C.LXXI.
indict. V. festo sanctorum Symonis et Jude. presidente domino Alexan-
dro papa et regnante domino friderico imperatore. Interfuerunt vero
Volricus Aquileiensis archidiaconus. Luiprandus decanus, Romulus ma-
gister scolarum, Hermannus thesaurarius, Henricus de Glemona et
predictus Herbordus.
Pio Paschini
< Che si tratti qui del preposito si desume dalle annotazioni fatte in diversi tempi sul dorso
della pergamena, e scritte da chi le lesse ancora intera.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 57
Rassegna bibliografica
Gellio Cassi. — // mare Adriatico, sua funzione attraverso i
tempi, con sei carte geografiche fuori testo. Collezione Storica
Villari. Milano, Hoepli, 1Q15; -16", pp. xix-532.
L'Adriatico fu, sino dai più antichi tempi, una delle principali ar-
terie del commercio e della civiltà europea. La sua posizione nel
centro del continente, il suo protendersi sino al piede delle Alpi lo
renderà sempre sommamente atto a servir di passaggio tra l'Oriente
e le regioni settentrionali; basta pensare, quanto a ciò, al centro di
civiltà Micenea che fu a Nesazio nell'Istria, e, per converso, alle ambre
provenienti dal Baltico che si commerciavano ad Aquileia. Questa via
così preziosa doveva, naturalmente, sino dai tempi più antichi esser
oggetto di cupidigie e di lotte fra le popolazioni litoranee, e l'esito
di questi contrasti non poteva aver poco peso nella storia della civiltà.
Queste lotte secolari che s'iniziano con l'azione di Roma contro i
popoli Illirici, e contro i Macedoni, continuano nel Medio Evo con la
politica risoluta di Venezia, e conducono, finalmente, alla rivalità italo-
austriaca dei nostri giorni, hanno precipuo interesse per la storia friu-
lana che alle vicende dell'Adriatico è intimamente legata.
Nel libro del Cassi, lo studioso delle vicende friulane troverà
esposte interessanti osservazioni sulla primitiva storia delle regioni
adriatiche e suU' importanza delle correnti migratorie che dall'Oriente
vi portarono nuovi abitatori ed una più intensa civiltà. Poco poterono,
invece, a quanto sembra, in questo più intimo seno dell'Adriatico, i
Greci, benché sull'Isonzo siansi trovate necropoli che risalirebbero al
VI secolo a. C. e tracce del loro commercio.
Alla lotta di Roma per la conquista dell'Adriatico si collega più
tardi la fondazione d' Aquileia, la grande colonia Romana, destinata
non solo a fronteggiare le incursioni dei Galli, ma anche il pericolo
d' un' invasione dell'Italia dall'Illirico. Ad Aquileia fa capo la flotta
Romana, nei tempi successivi, per la lotta contro i pirati della Japidia.
La conquista completa dell'Adriatico, divenuto un lago Romano
dà alimento alla navigazione ed ai commerci che da Aquileia si svol-
gono per le vie di terra e di mare e, per mantener sicuro quest' ultimo»
due squadre risiedono ad Aitino e ad Aquileia. L'A. seguendo le tracce
del Mommsen dimostra come la prosperità del litorale italico sia in-
58 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
teramente legata alla sicurezza delle vie marittime; soltanto quando
questa fu completa, Roma potè stendere attraverso le Alpi la rete me-
ravigliosa delle sue strade e far penetrare sino al Danubio la sua pos-
sente civiltà.
Dalla caduta dell'impero, la storia dell'Adriatico s'accentra a Ve-
nezia e per lungo tempo il Friuli vi ha parte solo in quanto esso è
attraversato dalle vie che portano dalle regioni transalpine alla città
delle lagune le merci che servono agli scambi coll'Oriente. L'A. disegna
le lotte sostenute dai Veneziani contro gli Arabi, contro i Croati e gli
Ungheresi per il possesso del mare, e dimostra come si formassero
un po' per volta, in parte per sottili maneggi diplomatici, in parte per
fortunate circostanze, i legami che avvincono a Venezia tanti porti
dell'Adriatico. Qui la storia della Dominante s'intreccia di nuovo con
quella del Friuli perchè, come bene osserva l'A., la politica veneziana
fu mossa dal duplice intento di combattere gli Stati che minacciassero
la sua egemonia sul mare, o che contrastassero lo svolgersi dei suoi
commerci per le vie di terra. Di qui proviene la lotta fra Venezia ed
il patriarcato d'Aquileia padrone, dal secolo XI, del Friuli e dell' Istria,
lotta per il possesso delle città costiere dell'Istria e di Trieste nella
quale Venezia vedeva una pericolosa rivale, mentre il patriarcato vi
scorgeva il porto naturale della regione Friulana, lotta per la conquista
del Friuli, al possesso del quale Venezia mira, per assicurarsi l'uso
monopolistico delle strade che attraverso ad esso scendono dalla Ger-
mania. Naturalmente le vicende di questa lotta entrano soltanto in
piccola parte nel quadro tracciato dal Cassi che ha di mira il problema
generale dell'Adriatico e non può soffermarsi nei particolari. Spetta
alla storia friulana mettere in luce (ed in parte fu già fatto) le gelose
cure di Venezia per impedire lo svolgersi d'una marineria patriarcale,
gU sforzi dei patriarchi per sostenere Trieste nella sua lotta contro
Venezia, e finalmente la parte avuta dalla sede Aquileiese nei fatti
storici che conducono alla guerra di Chioggia. Il patriarcato è uno
dei potentati antagonistici più interessanti della storia Veneziana dei
secoli VII-XV, se anche la particolare fisionomia di questa lotta non
è stata finora perfettamente chiarita.
L'opera del Cassi tocca, poi, più tardi, di nuovo la storia friulana
colle incursioni turchesche e poi colle lotte fra casa d'Austria e Ve-
nezia per il dominio dell'Adriatico. Non si dimentichi che la repres-
sione degli Uscocchi fu il pretesto che condusse alla famosa guerra
di Gradisca.
Arriviamo così alla decadenza e poi alla caduta della repubblica
di San Marco della quale il Cassi pone in luce le varie cause. Natu-
ralmente lo sfacelo dello Stato veneto e con esso la caduta del Friuli
sotto la dominazione austriaca non sta in relazione soltanto con le
antiche mire degli Absburgo sull'Adriatico. Il possesso del mare è un
complemento del predominio sul continente e la dinastia austriaca
RASSEGNA BIBI.IOORAFICA 59
vedeva, di certo, già nel 1797 la possibilità dì congiungere attraverso
le Provincie Venete, i suoi antichi possessi del Trentino e del Gori-
ziano colla Lombardia, per il momento, perduta.
Non mi soffermerò sull'ultima parte del libro del Cassi che ri-
guarda la prevalenza austriaca nell'Adriatico fino al 1866, e poi il
comune predominio italo-austriaco su quel mare; negli ultimi capitoli
il Cassi si trattiene lungamente sui conflitti contemporanei con una cita-
zione assai abbondante di lavori speciali ed articoli sulle varie questioni
che vi si riferiscono. Questa parte esce, naturalmente, dai limiti di
questa recensione ; basterà dire che l'opera del Cassi è interessante e
ricca di materiali e sarà sempre consultata con profitto da chi voglia
rendersi ragione degli ardui problemi che si rannodano alla storia
dell'Adriatico.
P. S. Leicht
60 APPUNTI E NOTIZIE
Appunti e notizie
?%f Un friulano giustiziato a Roma nel 1504. — Nella raccolta di
studi critici che il dottor Francesco Saverio Seppelt riunì insieme per
festeggiare il giubileo sacerdotale di mons. Antonio de Waal/ ce n'è
uno, dovuto a Joseph Schlecht col titolo Deutsche Berichte aus Rom 1492
und 1504 (pp. 251-269), che riguarda fra altri anche un tristo e disgra-
ziato friulano.
Un certo Leonardo Cantzler, tedesco, che aveva anche delle vel-
leità poetiche, spedì da Roma, dove s'era recato per i suoi studi, in
Germania il testo della sentenza pronunciata da Pietro Menzi di Vi-
cenza, vescovo di Cesena ed uditore generale della camera apostolica, il
6 marzo 1504, contro Asquino di Colloredo, suddiacono della chiesa di
Aquileia, che aveva propinato il veleno al veneziano Giovanni Michie
cardinale vescovo di Porto e patriarca di Costantinopoli, detto anche
il cardinale di S. Angelo.
Ecco come la sentenza narra il fatto: Nel marzo dell'anno ante-
cedente Asquino di Colloredo si trovava presso il cardinale Michiel
quale magister domus ed era « eidem, cardinali inter ceteros familia-
« res valde acceptus». Mentr'egli si tratteneva nel palazzo vaticano, un
notevole personaggio insieme con altri suoi compagni gli fece la pro-
posta di propinare o far propinare un veleno mortale al cardinale suo
padrone. Il disgraziato maggiordomo non seppe rifiutarsi alla iniqua
trama e nel mese d'aprile, nello stesso palazzo apostolico e dalla stessa
persona, « cuius nomen propter honestatem tacetur », dice espressa-
mente il giudice, egli ricevette un veleno mortale di color bianco e dolce
riposto in cartocci, che doveva essere mescolato nel cibo o nelle
bevande del cardinale. Il maggiordomo consegnò il veleno ad un certo
Desiderio francese, cuoco di casa ; e fu propinato al cardinale la prima
volta il venerdì sette aprile provocandogli vomito, dolori ed altri gravi
malanni, che si ripeterono tutte le volte che al cardinale fu propinato
quel veleno. Alla sera dell'indomani, 10 marzo, quando il cardinale già
si sentiva meglio, alla cena Asquino per mezzo del cuoco gli propinò
un pessimo veleno, che provocò di nuovo vomito e sincope, per cui
morì.
Il giudice conferma poi, che Asquino aveva fatto ciò per compia-
cere « nonnuUis notabilibus personis » che lo avevano esortato e per
' Kirchengeschichtliche Festgabe Anton, de Waal, ecc. herausgegeben von Dr. theol. Franz
Xavfr SEPPfXT, Freiburg, 1913.
APPUNTI E NOTIZIE 61
comando « eiusdem notabilis personae » ; ed insieme ad un dotninus
Antonius suo complice aveva ricevuto da costui, nella propria stanza e
nello stesso palazzo del cardinale, mille ducati d'oro quale prezzo del
delitto.
Questa l'esposizione del fatto quale risultava dagli interrogatori
e dalle testimonianze. Finché fu vivo papa Alessandro VI, Asquino potè
ritenersi sicuro, ma morto lui i le cose cambiarono. In un dispaccio
del 17 dicembre 1503 l'ambasciatore veneziano Antonio Oiustinian ri-
feriva che Asquino, già prima sospettato reo di quel veneficio, era stato
arrestato dall'uditore della camera; due suoi compagni, il mozzo ed
il cameriere, erano fuggiti, ma si teneva come certo di averli nelle
mani; si sperava di far finalmente buona giustizia, benché i cardi-
nali spagnoli si opponessero col pretesto dell'onore di papa Alessan-
dro e del rispetto verso il Valentino che non era ancora libero. In un
altro dispaccio del 20 dicembre il Oiustinian riferiva che erano fuggiti
la notte antecedente i cardinali di Sorrento ^ e Borgia ^ spaventati,
perché Asquino aveva confessato, che mandanti del suo delitto erano
stati anche dei cardinali, benché non avesse detto quali. Il 10 gennaio
1504 lo stesso scriveva, che quel tristo de Asquino aveva confessato e
ratificato il suo delitto, ma si temeva non si volesse fare giustizia
« con mormorazione di buoni, che non stanno senza sospetto di ve-
« derlo ancor liberato, con mezzo de favori che suol tegnire in questa
« Corte ». Ma il sospetto questa volta era ingiusto : l' uditore era uomo
dotto ed integerrimo, ch'era stato incarcerato a caste! S. Angelo dai
Borgia e n'era stato liberato solo alla morte di Alessandro VI ; il nuovo
papa Giulio II non era uomo che avesse riguardi di punire una tale
colpa.
La sentenza infatti fu pronunciata e condannò Asquino, come
omicida venefico del cardinale suo signore, alla deposizione e degra-
dazione da ogni ufficio ed ordine clericale, e lo consegnò alla curia
secolare, dichiarandolo incorso nella scomunica maggiore. Mariano
de Cuccinis, procuratore del fisco e della camera apostolica, aveva
già fatto richiesta al papa che, qualora fosse stata pronunciata sentenza
di degradazione, la cerimonia della degradazione stessa fosse affidata a
Pietro Stornello dei predicatori, vescovo di Tempio in Sardegna, il quale
per delegazione del cardinale camerlengo amministrava in Roma gli
ordini sacri.
La degradazione si fece quella stessa mattina del sei marzo in
piazza san Pietro, davanti la gradinata su di un palco, dal detto ve-
scovo, senza intervento d'altri prelati, come aveva imposto il papa,
secondo quanto ci narra il cerimoniere Burcardo che vi assistette; pre-
* Alessandro VI morì il 18 agosto 1503.
^ Francesco Remolino, vescovo di Sorrento, cardinale dei Ss. Giovanni e Paolo promosso il
31 maggio 1503; era governatore di Roma quando successe l'avvelenamento.
» S. Pietro Lodovico Borgia, cardinale diacono di S. Maria in via Lata, poi cardinale prete
di S. Marcello.
62 APPUNTI E NOTIZIE
senti pure V uditore della camera ed Angelo de Cesis suo luogotenente,
che stavano in un banco di fronte al palco; presente il senatore di
Roma coi suoi. Asquino, ch'era suddiacono, fu apparato coi paramenti
soliti; fu letta l'inquisizione sua e la commissione papale per la de-
gradazione da Agapito de* Cerretani notano camerale; dopo ciò il
reo fu degradato secondo il solito e consegnato al senatore che lo
fece condurre al carcere del Campidoglio, a cavallo, perchè non po-
teva camminare, certo in causa della tortura alla quale era stato sotto-
posto nei giorni antecedenti. Soggiunge ancora Burcardo che « mentre
si leggeva l' inquisizione Asquino ripetutamente interloquì, dicendo che
quel delitto gli era stato commesso da papa Alessandro e dal duca Va-
lentino ; ma ch'egli non aveva voluto, e che non aveva ricevuto denaro ».^
Il disgraziato andò al supplizio il 16 marzo; Luca de Rainaldis,
ambasciatore dell' impero, aveva ottenuto per grazia da Giulio II che
fosse decapitato, come realmente avvenne in piazza del Campidoglio.
L'uditore della camera apostolica nella sua sentenza non aveva
voluto dire esplicitamente i nomi di coloro ch'erano i' diretti respon-
sabili del veneficio ; Asquino dal palco della sua degradazione li aveva
pubblicamente manifestati ; del resto non erano un mistero per nessuno
a Roma. Fra gli orrori e delitti che dai romanzieri furono attribuiti
ai Borgia, e sui quali tanto si sbizzarrì la fantasia popolare, questo è
purtroppo uno di quelli che sono più chiaramente provati, sì che si
deve considerare inutile ormai qualunque riserva in proposito.-
Pio Raschini
?W Alessandro di Masovia, patriarca di Aquileia. — Il 21 mag-
gio 1437 Ludovico di Teck, patriarca di Aquileia, era presente in Ba-
silea al concilio e partecipava alle discussioni, quantunque vecchissimo :
« extremo senio confectus», come dice di lui Enea Silvio Piccolomini,
lo squisito e dottissimo umanista, che era presente.'^ Egli morì durante
il luglio 1439; ed il 18 dicembre 1439 Eugenio IV gli diede per succes-
sore nel patriarcato l'arcivescovo di Firenze Lodovico Scarampo-Mez-
zarota padovano.
Ma il Teck era morto al concilio; e questi, già apertamente sci-
smatico, volle anch'esso fosse nominato un patriarca aquileiese suo
' Jo. BuRKARDi Liber notarum, in R. I. S.", to. XXXII, p. I, voi. II, p. 438. II Oiustinian
nel suo dispaccio del 16 marzo dice semplicemente che Asquino aveva confessato d'avere commesso
il delitto « costretto da papa Alessandro e dal Valentino ».
» Cfr. LuD. Pastor, Storia dei Papi ecc., ediz. ital., Roma, 1912, voi. Ili, p. 470. Egli
ebbe dal Seppelt comunicazione privata della sentenza contro Asquino.
* Le sue lettere furono j ecenteuiente ristampate, dopo le edizioni difettose del secolo XV,
nelle Fontes Rerum Austriacaruni, II: R. Wolkan, Der Briefwechsel des Eneas Silvius Picco-
lomini, Wien, 1909, in due tomi. Il brano citato or ora ib., I, pp. 63 e 66. Il Teck potè però re-
carsi al convegno dei principi tedeschi a Magonza, quale legato del concilio il 26 marzo 1439
(Raynald., ad an., § XIX), e partecipare attivamente alle discussioni per la nomina di un nuovo
papa (ib., § XX). Era reputato una delle colonne del concilio di Basilea; ferocissimo nemico di
Eugenio IV, aveva proposto lo si condannasse a morte (ib., % XXVII).
APPUNTI E NOTIZIE 63
partigiano. E per averne lustro e sostegno, si scelse Alessandro dei
duchi di Masovia, polacco, zio dell'imperatore Federico HI.^ Costui,
che era vescovo di Trento sino dal 20 ottobre 1423, accettando il pa-
triarcato, non dimise quel vescovado che conservò sempre in ammi-
nistrazione nelle sue mani. Il 12 ottobre 1440 l'antipapa Felice V no-
minò Alessandro cardinale, assegnandogli il titolo di s. Lorenzo in
Damaso; titolo che il 1° luglio 1440 Eugenio IV aveva assegnato allo
Scarampo, suo emulo, nell'elevarlo alla dignità cardinalizia.
Ed Alessandro portò solennemente il titolo di cardinalis Aqui-
leiensis, col quale fu anche chiamato da Federico III ~ suo nipote e dal
Piccolomini. Ma la Repubblica di Venezia, che teneva la parte italiana
del patriarcato, non gli permise di porre mai il piede in Friuli, né di
esercitarvi giurisdizione.
Enea Silvio era commensale e segretario del cardinalis Aquileiensis
a Basilea nell'aprile 1443,^ quando questi fu designato legato a latere
nell'Austria, Polonia ed Ungheria, e divisava di condurlo seco o di in-
viarlo a Milano. Ma Enea Silvio divenne invece allora segretario im-
periale. La legazione affidata al duca di Masovia* non era che un
controaltare a quella che Eugenio IV aveva affidato al grande cardi-
nale Giuliano Cesarini, allo scopo di opporsi all'avanzata dei Turchi
e di salvare l'Ungheria.
Enea Silvio, ch'era amico del Cesarini, in una lettera che scrisse
da Vienna nell'ottobre 1443, descrive con quel suo fine umorismo le
mosse goffe e violente di Alessandro per paralizzare l'opera del grande
suo amico. « L'Aquileiese minacciava molto e voleva combattere colle
croci e difendere le cose della fede colle mani e coi pugni, poiché
confidava più in questo che nelle parole. Ora non è atto a nessuna
delle due cose, poiché né molto può parlare, né alzarsi sui piedi ».^
Era allora infatti ammalato ed incapace di gareggiare col Cesarini
sia in energia, sia in ingegno, sia in avvedutezza diplomatica, benché
avesse dalla sua le parentele imperiali.
Come annunciava Enea Silvio da Vienna a Giovanni Peregallo,
che stava in Basilea, il 1° giugno 1444 il cardinale di Aquileia era mo-
ribondo e non voleva saperne di morire, tanto che nemmeno volle
fare testamento. Morì infatti l' indomani e fu sepolto il 4 a S. Stefano
di Vienna, come Enea stesso annunciò il 4 allo stesso Peregallo ed
il 6 al cardinale Giovanni di Segovia aggiungendo: «non credo che
la sua morte sia di grande nocumento al concilio (di Basilea, che non
s'era ancora formalmente sciolto), perché nemmeno la vita fu molto
utile. I suoi poi abusavano della sua legazione ; nemmeno il papa fa,
1 Federico era figlio di una sorella di Alessandro. La nomina deve essere stata fatta dopo
l'elezione dell'antipapa Felice V, che avvenne il 5 novembre 1439; la notizia giunse a Venezia il
31 dicembre, come riferisce il Sanudo. Cfr. De Rubeis, M. E. A., col. 1051.
2 Op. cit., to. Il, p. 182.
' Ib., I, p. 149.
* Il duca di Masovia partì da Basilea verso Vienna il 19 maggio, come ci narra un corri-
spondente del Piccolomini.
"■ « Multa minabatur Aquileiensis, pugnareque crucibus et rem fidei raanibus et pugfnis tueri
« volebat, in quibus magis confidebat quam in verbis. nane neutri rei est idoneus, quoniam nec
* loqui multum potest, nec in pedes se tollere » ib., I, p. 203.
64 APPUNTI E NOTIZIE
ciò che faceva costui. Tutto era piano per lui. Talché si sollevarono
mormorazioni contro il concilio, tali che non saprei esprimere ».^ Ed
Enea ci dà degli esempì degli abusi di lui, e riferisce persino abbastanza
causticamente il sunto del discorso funebre tenuto sul suo feretro. Ciò
non ostante egli compose un epigramma obituario per quel prelato,
ma non è certo esso l'opera migliore del grande letterato.^ Non gli fu
concesso, aggiunge egli, il cappello rosso sulla bara, mentre si tolle-
rava che lo portasse quando era vivo ; e ciò in omaggio a quella neu-
tralità che gli stati germanici avevano proclamato fra Eugenio IV e Fe-
lice V. Neutralità del resto, che, come molte altre in questo mondo,
era rigorosa nelle forme esteriori, interessata invece nella sua sostanza.
Così scompare anche questa figura, piuttosto buffa, ma che pre-
tendeva di essere presa sul serio. Non ci consta che dai Basileesi e
dal loro antipapa si pensasse di eleggere un successore.
Pio Raschini
?i^ Il più antico storico degli Slavi. — Ai lettori nostri segnaliamo
una importante monografia uscita dalla penna di quell'eminente, ope-
roso e dotto uomo, che risponde al nome di Luigi Rava, intorno ad
un oscuro e fin qui presso che dimenticato storiografo degli Slavi,
Mauro Orbini, edita a Bologna nel 1913.
L'Orbini, originario di Ragusa, abate melitense, sembra essere il
più antico storico degli Slavi, avendo esso pubblicato in Pesaro nel 1601,
in lingua italiana, l'opera intitolata // regno degli Slavi hoggi corrot-
tamente detti Schiavoni etc, la quale narra le imprese di questa gente
dalle lontane origini sue fino al tempo della sua conversione al cristia-
nesimo, le vicende dei re di Dalmazia e, da ultimo, quelle della Bosnia,
Croazia e Bulgaria fino al 1370.
L'opera dell'ab. Mauro, sebben confusa e soggettiva, è ricca di
dati e di notizie interessanti, e bene ha fatto S. E. Rava a darcene un
accurato riassunto, al quale vanno uniti opportuni ragguagli biografici
e giudiziose osservazioni critiche.
?y I reliquiari del San Marco di Pordenone. — L'egregio nostro
consigliere di Presidenza mons. Ernesto Degani ha testé inserito nel-
VArte Cristiana (III, p. 50 sgg.) un erudito ed interessante scritto in-
torno ai Reliquiari del San Marco di Pordenone, nel quale raccoglie,
con diligente cura, tutte le notizie relative alla preziosa collezione dì
oggetti sacri, che gli venne fatto di attingere, nelle sue pazienti e frut-
tuose ricerche, agli archivi ed alla tradizione.
Degno di speciale nota é fra le memorie, che l'erudito nostro con
socio riunisce intorno ai cimeli pordenonesi, un documento sicuro che
' * Non puto magno detrimento esse concilio mortem eius, quia non multum utilis vita fuit.
« Sui namque legatione abutebantur, nec papa id agit, quod hic faciebat. omnia ei plana erant.
«itaque morraur fuit adversus concilium, quale vix queam dicere» ib., I, p. 336.
* Ibid., p. 335. Il De Rubeis, non potè usare di queste notizie per i suoi Monumenta Ec-
clesiae Aquil., perchè nelle antiche edizioni le lettere del Piccolomini sono senza data.
APPUNTI E NOTIZIE 65
ne tratta, e cioè l'inventario degli arredi sacri e delle cose preziose
esistenti nel tempio maggiore e nelle minori chiese del luogo, che tro-
vasi allegato agli atti della visita pastorale, compiuta, nel gennaio 1536,
per incarico del patriarca Marino Grimani, dal suo vicario generale,
mons. Sebastiano de Rubeis ; atti adesso conservati nella vescovile curia
di Concordia.
Dopo di avere offerto altri ragguagli sul tesoro pordenonese, che
ammiriamo nitidamente riprodotto, mons. Degani si fa a considerare
l'articolo illustrativo, che su di esso divulgò V. Ceresole nel tomo VII,
1878, deìVArts de Paris, facendo delle giuste riserve sul valore delle
conclusioni di lui circa l'origine de' reliquiari, ed infine esprime il
ragionevole avviso, nel quale pur l'autorevole redazione della rivista
consente, che tali oggetti possano essere usciti dalle botteghe d'orefici
del nostro paese.
^ Il copialettere Marciano della Cancelleria Carrarese. — Al-
l'erudita diligenza della doti Ester Pastorello, la valente sottobiblio-
tecaria della Nazionale di S. Marco ed autrice di un pregiato volume
di ricerche sulla storia di Padova e dei principi da Carrara al tempo
di G. G. Visconti (Padova, 1908), dobbiamo una pubblicazione pode-
rosa e rilevantissima, che interessa davvicino gli studiosi delle vicende
storiche e politiche del Friuli nel primo Quattrocento, e che siamo lieti
di qui registrare con sincero plauso e viva lode : // copialettere Marciano
della Cancelleria Carrarese (genn. 1402-genn. 1403), edito nei Documenti
della benemerita Deputazione Veneta di storia patria (Venezia, 1915).
La signorina Pastorello, nella sobria introduzione, descrive il pre-
zioso ms., alla libreria di S. Marco nel 1787 pervenuto dall'archivio
della Serenissima, quale unico superstite di quella parte dell'archivio
Carrarese, che passò a Venezia dopo la cattura di Francesco II, avve-
nuta nel novembre del 1405, e ragiona poscia della sua importanza per
il valore paleografico, diplomatico, linguistico e particolarmente storico,
facendo opportunamente notare che il codice stesso costituisce la più
ragguardevole raccolta originale di documenti fra le pochissime, che
ci rimangono, della signoria dei da Carrara.
Questo, che sembra essere l'unico copialettere della cancelleria
Carrarese, si compone di altre ottocento lettere variamente interessanti,
delle quali circa 400 sono dettate in volgare, le altre in latino, ed è
una delle più autorevoli e ricche fonti per la storia dell'anno 1402.
La edizione del ms., che ora reca la segnatura Marc. App. Lat. XIV,
93, è condotta con accuratezza e buon metodo, ed è corredata da un
commento storico e dichiarativo sempre molto bene informato.
Al volume sono uniti, in fine, un glossario delle voci volgari ed
un indice dei nomi propri e delle cose notevoli.
66 NECROLOGIO
*}■ Non manchi in queste pagine una parola commossa e reverente dedicata alla me-
moria compianta e indimenticabile di Alessandro D'Ancona, il più insigne maestro
del metodo storico che l'Italia vantasse, spentosi a Firenze, quasi ottantenne, addì
8 novembre 1914.
Dell'uomo eminente ed integerrimo, delle incomparabili benemerenze di lui nel
campo della letteratura, della nobile ed efficace azione patriottica altresì, ch'egli svolse,
altamente stimato, in particolar modo ne' tempi fortunosi del nostro riscatto, ampia-
mente e degnamente si ragionò su pe' giornali, nelle riviste, negli atti accademici ;
qui, deponendo, in segno di viva ammirazione, un fiore lagrimato sul tumulo di quel
valentuomo, staremo paghi a rammentarne, con devota gratitudine, le scritture che
s'attengono al Friuli, come la magistrale monografia su La leggenda d^ Attila «■ fla-
gelluin Dei» in Italia, apparsa primamente negli Studi di critica e storia letteraria,
Bologna, 1880, e riprodotta nei Poemetti popolari italiani, ivi, 1889, ed i preziosi rag-
guagli sulle rappresentazioni sacre a Cividale ed Aquileia nei secoli XIII e XIV, rinchiusi
nel primo volume della monumentale opera Origini del Teatro italiano, Tonno, \if)\.
Intorno al venerato Maestro, si vegga il volume In niemoriam: A. D'Ancona,
Firenze, 1915, amorosamente messo insieme dai figli, ed il bellissimo elogio, che di
lui tessè alla R. Accademia dei Lincei un suo fido ed illustre discepolo, F. Novati,
ed ora si legge stampato nei Rendiconti, ser. V, voi. XXIV, 1915, p. 34 sgg. La co-
spicua bibliografia D'Anconiana, condotta fino al 1914, uscirà prossimamente a Fi-
renze, presso G. Barbèra.
t Addì 20 gennaio 1915 spirava in ancor verde età il consocio cav. Italico Piuzzi
Taboga. Dopo essersi consacrato, ne' suoi giovani anni, al commercio, in Trieste,
prese più tardi dimora a San Daniele, di cui fu apprezzato e benvoluto sindaco, e
quindi rappresentante in seno al Consiglio provinciale, che lo chiamò a far parte della
Deputazione. Era d'animo mite, di modi sempre amabili e cortesi e raccolse fiduciose
simpatie.
t In seguito a breve ma violenta malattia, moriva addì 19 febbraio 1915 don Luiot
Rosso, arciprete di Sesto al Reghena per ben trentadue anni. L'eletto sacerdote, amato
e stimato da quanti lo conobbero, era dotato di squisite virtù, ed era inoltre un
sincero e caldo innamorato dell'arte. La importante chiesa abbaziale di Sesto, ben
nota agli studiosi di antichità medievali, venne restituita al suo primitivo splendore
specialmente grazie all'entusiastico amore che ad essa recava l'ottimo arciprete, il
quale, per raggiungere l'agognato intento, seppe superare difficoltà che altri non
avrebbe certo potuto. L'opera di restauro coscienziosa e intelligente, ch'egli con-
dusse largamente e validamente appoggiato dalla Sopraintendenza dei monumenti del
Veneto, era appena ultimata quando il fato venne a troncargli la nobile esistenza,
impedendogli così di godere i meritati frutti del suo sudato lavoro. Fu tra i fedeli
della Società nostra, che ne piange vivamente la perdita.
L. S.
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA FRIULANA
Adunanza del Consiglio direttivo del giorno 16 gennaio 1915.
Presidenza del Vicepresidente prof. A. Battistella.
La seduta, che ha hiogo nella sede sociale (Palazzo Bartolini, sala
dell'Accademia di Udine), è aperta alle ore 14.15, presenti Battistella,
Fracassettì, Frangipane, Morpurgo, Panciera di Zoppola, Suttina, ed
il vicesegretario dott. E. Morpurgo.
Il Consiglio delibera di convocare l'assemblea generale dei soci
il 10 febbraio p. v.
Stabilisce poscia di proporre al voto dell'assemblea le località di
Cividale, Spilimbergo e Tolmezzo per la scelta della sede del V Con-
gresso.
Approva quindi, su proposta del Segretario e del Tesoriere, il
bilancio preventivo per il 1915 nella cifra di L. 6845.00 nell'entrata
e di altrettante nell'uscita.
Da ultimo ammette a far parte della Società in qualità di soci
ordinari i signori: Deciani co. comm. dott. Vittorio, in Roma ; Giaco-
muzzi sac. prof. Lodovico, in Portogruaro ; Nievo cav. dott. magg. Ip-
polito, in Colloredo di Montalbano ; Spessot sac. Francesco, in Aquileia.
Dopo di che, la seduta è levata alle ore 15.
// Presidente
A. Battistella.
// Vicesegretario
En. Morpuroo.
Adunanza generale ordinaria del giorno 10 febbraio 1915,
Presidenza del Presidente prof. P. S. Leicht.
La seduta, che ha luogo nella sede sociale (Palazzo Bartolini, sala
dell'Accademia di Udine), è aperta alle ore 14.45, presenti i soci Bat-
tistella, Bellavitis, di Caporiacco Giuliano, Capsoni, Fracassetti, Fran-
68 ATTI DELLA SOCIETÀ
gipane, Leìcht, Malattia, Mistruzzi, Morpurgo Elio ed Enrico, Musoni
Pecile D., de Pollis, di Prampero A., Ronchi, Suttina L., della Torre
del Torso.
Si sono fatti rappresentare per delegazione i soci : Accordini, d'At
tems, Biasutti, Butti, Braida F., Candussio A., Cabrici di Craigher, di
Maniago, de Marchi, Marcotti, Measso, Misani, Molmenti, Morossi C.
Municipi di Cividale e di Udine, Nussi, Poletti, Provincia di Udine
Rubini, Schiavi, Villari.
Hanno scusato la loro assenza i soci: Bertolini G. L., Brosa
dola, Cassi, Chiaradia, Costantini, Cucavaz A., Donadon, Isola, Lu
chini, Panciera di Zoppola, Piccoli, Rosso, Tassini.
Si legge ed approva il verbale della precedente assemblea.
Il Presidente commemora, con elevate parole, i soci defunti comm.
prof. Crivellucci, marchese Corrado de Concina, il conte Niccolò d'At-
timis Maniago, ed il venerato patriotta triestino comm. dott. Ferdi-
nando Pitteri, padre del consigliere di Presidenza cav. Riccardo, al
quale l'assemblea delibera unanime d'inviare un telegramma di con-
doglianza.
Il Presidente invita il Tesoriere a dar lettura del Consuntivo 1Q14
(ved. Allegato A), il quale, previa relazione favorevole dei Revisori
dei Conti (ved. Allegato B), viene approvato nei seguenti estremi:
Entrata L. 6446.11
Uscita » 2924.33
Avanzo L. 3521.78
Il Tesoriere presenta quindi, ad invito del Presidente, il preven-
tivo 1915 (ved. Allegato C), il quale, dopo qualche osservazione del
socio di Caporiacco Giuliano, cui risponde il Presidente, ed una breve
discussione, alla quale partecipano di Prampero A., Battistella, Suttina
ed il Presidente stesso, viene approvato nei seguenti estremi :
Entrata L. 6845.00
Uscita » 5008.35
Avanzo . . L. 1836.65
11 Presidente espone che il Consiglio direttivo nella tornata del
16 gennaio a. e. ha deliberato, in conformità dell'art. XIV dello Sta-
tuto, di proporre all'Assemblea i nomi delle località di Cividale, Spi-
limbergo e Tolmezzo per la scelta della sede del V Congresso sociale
e chiede all'Assemblea stessa di esprimere il suo avviso. Su proposta
del cons. Fracasetti, il quale, ricordando ricorrere verso il 1915 il cen-
tenario della fondazione del R. Museo Archeologico di Cividale, rileva
l'opportunità che il Sodalizio, a conferire maggior solennità all'impor-
ATTI DELLA SOCIETÀ 69
tante avvenimento, abbia a tener colà la propria riunione, viene una-
nimemente designata Cividale.
De Pollis, sindaco di Cividale, ringrazia e dice che la sua città
sarà lieta e superba di ospitare i congressisti.
Il Presidente dichiara aperta la votazione per la nomina di due
membri del Consiglio direttivo, irr sostituzione dei membri sorteggiati,
giusta il disposto dell'art. XII dello Statuto, Chiurlo prof. dott. Bindo
e Frangipane march. Luigi, e nomina scrutatori i soci de Pollis e Mi-
struzzi Freisinger. Vengono proclamati eletti Consiglieri i signori Fran-
gipane march. Luigi e del Torso nob. dott. Enrico. Vengono poi
rieletti Revisori dei Conti per l'anno 1915 gli uscenti signori Bellavitis
co. avv. Mario, Capsoni avv. Urbano e Malattia Giuseppe.
Dopo di che la seduta è tolta alle ore 15.20.
// Presidente
P. S. Leicht.
// Vicesegretario
En. Mg r purgo.
Allegato A.
Bilancio consuntivo 1914.
Entrata.
Avanzo dell'esercizio 1913 L. 1500.26
Quote di N. 248 soci ordinari 2480.00
Quote di N. 3 soci benemeriti » 1500.00
Quote degli associati 2ì\\q^ Memorie » 291.50
Assegno del Ministero della P. I » 500.00
Interessi sulle somme depositate » 67.35
Proventi diversi » 107.00
L. 6446.11
Uscita.
Importo della stampa delle Memorie Storiche Forogialiesi . L. 2000.00
Importo della stampa delle copertine e della esecuzione
e stampa dei clichés delle Memorie. » 284.00
Ricchezza mobile sull'assegno del Ministero della P. I. . » 38.35
Assegno al personale » 120.00
Spese di posta, telegrafo, stampati, cancelleria, ecc. . . » 301.98
Spese impreviste » 180.00
L. 2924.33
Avanzo in cassa » 3521.78
L. 6446.11
70 atti della società
Riassunto.
Entrata . . . L. 6446.11
Uscita » 2924.33
Avanzo in cassa L. 3521.78
Allegato B.
Relazione dei Revisori dei Conti.
Udine, 9 febbraio 1915.
Onorevoli Consoci,
Chiamati dalla vostra fiducia a rivedere il bilancio annuale della
nostra Società, e presi in esame i registri, le pezze giustificative e gli
altri documenti che il tesoriere ed il segretario ci hanno esibito, e
avuti tutti gli schiarimenti necessari, dobbiamo esprimere la nostra
intera fiducia e l'approvazione piena per l'esatta ed avveduta ammini-
nistrazione dei fondi sociali.
Notevoli economie si fecero quest'anno specialmente nelle spese
per le copertine e per le pubblicazioni sociali : così si potè realizzare un
avanzo netto di L. 3521.78, laddove erano preventivate solo L. 811.91.
È da notarsi però che questo avanzo è formato per circa un terzo
di quote di associazioni e di abbonamenti alle Memorie non ancora
versati : ritardo di pagamenti dovuto al fatto che molti soci risiedono
air Estero, dove le condizioni anormali del paese hanno prodotto una
certa stasi nelle comunicazioni. Si raccomanda però alla Presidenza
di sollecitare gli incassi.
Concludendo: noi vi invitiamo a votare ad unanimità il bilancio
propostovi dagli egregi amministratori nelle cifre di L. 6446.11 nel-
r entrata, di L. 2925 nell'uscita, di L. 3521.78 quale avanzo.
Mario Bellavitis, Urbano Capsoni, Giuseppe Malattia.
Allegato C.
Bilancio preventivo 1915.
Entrata.
Fondo presunto di avanzo dell'esercizio 1914 L. 3300.00
Contributi sociali :
Quote dei soci ordinari * 2450.00
Quote di nuovi soci ordinari » 100.00
Quote di N. 1 soci perpetui » 200.00
Associazioni al periodico <t Memorie y>, ecc.:
Quote degli associati alle Memorie » 270.00
Sussidi dello Stato-,
Sussidio del Ministero della P. I. per l'anno 1915. . > 500.00
Introiti eventuali:
Provento dalla vendita delle pubblicazioni sociali . » 25.00^
L. 6845ÌÓ0
ATTI DELLA SOCIETÀ 71
Uscita.
Pubblicazioni:
Fondo per la stampa delle Memorie, ecc L. 2500.00
Fondo per la copertina, ì clichés e le tavole fuori
testo delle Memorie, ecc » 700.00
Fondo per le altre pubblicazioni sociali » 1000.00
Biblioteca :
Fondo per l'acquisto di libri e riviste ad uso della
Biblioteca » 100.00
Fondo per la manutenzione della Biblioteca ...» 100.00
Ritenute:
Ricchezza mobile sul sussidio del Ministero della P. I. » 38.35
Spese d'amministrazione:
Assegno al personale » 120.00
Spese di posta, telegrafo, cancelleria, stampati, ecc. » 400.00
Spese diverse » 50.00
Spese straordinarie:
Spese impreviste a pareggio » 1836.65
L. 6845!^
Adunanza del Consiglio direttivo del giorno 9 marzo 1915.
Presidenza del vicepresidente prof. A. Battistella.
La seduta, che ha luogo nella sede sociale (Palazzo Bartolini,
sala dell'Accademia di Udine), è aperta alle ore 14.10, presenti Batti-
stella, Fracassetti, Frangipane, Morpurgo, Suttina, del Torso, e il vi-
cesegretario dott. E. Morpurgo.
Si legge ed approva il verbale della precedente seduta.
Il Presidente legge una lettera con la quale il Comune di Cividale
si dice lieto che la città sia stata scelta a sede del congresso sociale.
Suttina, ricordando aver luogo verso il 1915 il centenario della
fondazione del R. Museo Archeologico di Cividale, esprime il voto che
il Consiglio direttivo, a degnamente solennizzare tale ricorrenza e in
considerazione della importanza storica ed artistica di detta città e dei
cospicui monumenti che ne fanno fede, dia incarico alla Presidenza di
studiare le modalità, ove le condizioni politiche abbiano a consentirlo,
per organizzare in occasione del congresso sociale, un convegno delle
Deputazioni e delle Società storiche italiane, non escluse quelle riguar-
danti la storia del patrio Risorgimento; convegno nel quale abbiansì
a trattare, con opportune disposizioni, tanto argomenti storici generali
72 ATTI DELLA SOCIETÀ
e regionali, quanto questioni concernenti l'esistenza, l'attività e gl'inte-
ressi delle singole Società e Deputazioni ; e di presentare al più presto
un programma per dare, nel caso, pratica attuazione alla idea.
Dopo breve discussione, alla quale partecipano Battistella, Fra-
cassetti, Frangipane e Morpurgo, il Consiglio stabilisce di affidare alla
Presidenza lo studio della proposta.
Il Consiglio delibera di concorrere con la quota di L. 20.00 all'ere-
zione di un ricordo marmoreo a don Luigi Rosso, in Sesto al Reghena.
II Presidente comunica una proposta del prof. Leicht, circa l'acqui-
sto di una carta del Friuli del '700 tirata su seta. Il Consiglio, in
considerazione del costo elevato, non accoglie la proposta stessa per
ragioni di bilancio.
Si procede alla nomina del Tesoriere: viene confermato per ac-
clamazione in tale carica il march. Luigi Frangipane.
Da ultimo il Consiglio ammette a far parte della Società in qua-
lità di socio ordinario la R."" Sopraintendenza dei Musei e Gallerie del
Veneto, in Venezia.
Dopo di che la seduta è tolta alle ore 14.45.
// Presidente
A. Battistella.
// Vicesegretario
En. Morpuroo.
15 maggio 1915.
Stampato in Città di Castello, nella Officina della Casa editrice S. Lapi.
Marchese Luigi Frangipane responsabile
Le nozze in Friuli nei secoli XVI e XVII.
Le ricordanze familiari interessanti e frequenti nel secolo XVI
in tutta l'Halia, mancano in Friuli, \ friulani laconici per natura,
laboriosi e guerrieri per necessità, trascurarono nelle loro cro-
nache i ricordi della vita familiare, preferendo annotare un'in-
cursione dei turchi, una devastazione degl'imperiali, un triste
episodio d'assedio e di carestia. Ridussero le descrizioni dei fatti
più importanti della loro vita privata, primo fra tutti il matrimonio,
al ricordo di un contratto avvenuto.
Fonti al presente lavoro furono i rogiti notarili, gli statuti,
le deliberazioni del maggiore e del minore Consiglio, i libri di
conti più degli epistolari, delle cronache, delle memorie private.
Da questi documenti non traspare l'essenza della vita domestica,
la sua parte più intima e più cara.
Per questa aridità e laconicità delle fonti sia scusabile, in
parte, l'aridità del lavoro.
I.
COME SI PREPARA IL MATRIMONIO.
Nel secolo XVI si facevano due simpatiche feste friulane, che
modificate e trasformate a traverso i tempi vivono ancora in tutta
la loro bellezza fra t contadini del Friuli. Sono la festa delle
74 ALICE SACHS
cldulis e quella del majos. La festa delle cidulis ^ era più usata
nelle campagne e specialmente in Carnia. Alla festa del majos
accorrevano i nobili castellani e quelli di Udine non la sdegna-
vano. La sera precedente a un giorno di festa i giovani del paese
salivano sopra un poggio vicino, a gettare lis cldulis.
Le cldulis erano rotelle stellate di legno resinoso forate nel
centro, si mettevano sopra un gran fuoco e, quando erano in-
candescenti, s' infilavano a un ferro. Allora si batteva il ferro a
terra, facendole scivolare dalla collina. Ogni giovanotto poteva
mandarne una, consacrandola alla ragazza del paese che prefe-
riva e che intendeva fare sua.
Cavallerescamente tutti i giovanotti inneggiavano alle ragazze
scelte dagli amici, la cldule era accompagnata nella sua corsa giù
pel poggio dalle acclamazioni, dalle grida festose dei giovani, dal
canto delle villotte, dal suono dei pifferi, strumento comunissimo
in Friuli. Nel '500, quando si rese comune la polvere, il volo delle
cldulis si accompagnava agli spari degli archibugi e dei mortaretti.
Al piano, affacciate a tutti i balconi di legno, stavano le ra-
gazze, trepide di sentire il loro nome. Quando i giovanotti scen-
dendo dal poggio passavano sotto le loro finestre, esse, se non
sdegnavano l'omaggio, gettavano al cavaliere un fiore. Era quello,
allora come ora presso i contadini, la manifestazione dell'amore
ricambiato, il tacito consenso al fidanzamento ufficiale, il quale
portava quasi sempre al matrimonio.
La festa del majos^ si faceva nel primo giovedì di maggio,
detto jovls crlspellarum. I nobili udinesi uscivano alla mattina
dalla città con i cavalli riccamente bardati. Erano preceduti dai
suonatori, percorrevano le vie con tutto il chiasso e il lusso pos-
sibile e andavano in campagna. Passavano all'aperto, correndo per
i prati quel primo giovedì di maggio e ritornavano verso sera
in città con i cavalli ricoperti di fiori e di fronde. Ogni cava-
liere portava in mano un ramo fiorito.
L'allegra brigata percorreva di nuovo al suono delle trombe
la città, spargendo per le vie i fiori raccolti. Il ramo fiorito, che
ogni cavaliere portava sulla porta di una ragazza, era come la
cidule del popolo, la manifestazione d'amore e diceva che la
ragazza a cui il ramo spettava era la preferita e quella che il
cavaliere desiderava sposare.
1 V. Joppi, Testi inediti friulani dal sec. XIV al XIX, Torino, 1878, p. 199.
8 F. DI Manzano, Annali del Friuli, Udine, 1868, voi. VI, p. 64.
Le nozze in FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 75
Questa festa rimane ancora trasformata presso i contadini
friulani e si chiama schiarnete. Ora i contadini nel maggio spar-
gono di fiori la soglia delle case delle ragazze, alle quali poi
molto probabilmente si fidanzano. Ogni fiore ha un suo simbolo
e la schiarnete con la sua varietà di fiori costituisce una vera
dichiarazione d'amore.
Queste spontanee manifestazioni d'amore, che precedono il
matrimonio, potrebbero far credere che nel secolo XVI e XVII
il matrimonio fosse concluso con tutte le considerazioni di inte-
resse e di buon senso necessarie, ma che il suo movente primo
ed unico fosse la simpatia reciproca, fosse il desiderio, che un
uomo o una donna giovane avevano, una volta incontrati, di con-
tinuare insieme la via, di unirsi per formare una nuova famiglia,
per raccogliersi insieme intorno a un nuovo focolare.
Ma, consultando quanto resta intorno ai matrimoni nel '500
e nel '600, si vede che le feste di maggio erano soltanto feste,
giuochi cavallereschi, le fronde fiorite erano poste forse come
semplice omaggio, oppure come domanda di matrimonio se que-
sto era già stato concluso da parenti, amici o sensali.
Nel Friuli del rinascimento, il matrimonio avviene per amore:
nel popolo, il gran numero di matrimoni clandestini lo prova.
Ma la borghesia cercava che un matrimonio non turbasse le con-
dizioni economiche della famiglia, cercava che la sposa del
figlio avesse una buona dote, che lo sposo della figlia avesse
una posizione onorata o fosse un buon lavoratore.
La nobiltà voleva che non entrassero nella famiglia elementi
nuovi e borghesi, e, più che alle doti della sposa, guardava alla
sua origine.
Nelle trattative di matrimonio la sposa non è mai consultata,
poco si parla di lei, del suo valore, delle sue qualità. In qualche
contratto è ricordata la sua bellezza, la sua robustezza, qualità
buonissima quest'ultima per fare apprezzare, specialmente in Friuli,
una sposa, lavoratrice e madre futura. Così non solo dai rogiti
dei notari, ma dalle lettere, dalle cronache, le trattative per fare
un matrimonio appaiono a noi spogliate da qualsiasi considera-
zione d'indole sentimentale. Vediamo la donna contrattata come
una merce, come un essere senz'anima e senza volontà. La fa-
miglia si costituisce invece che su una base d'amore su una di
denaro, e il matrimonio friulano giunge a noi accompagnato
quasi unicamente da un prepotente e necessario tintinnio di ve-
neti ducati.
Ì6 Alice sachs
L' Misieme delle pratiche facili o laboriose per concludete un
matrimonio, chiamate trattative, erano fatte o per ordin* del Con-
siglio di Udine, o da amici degli sposi, o dai genitori stessi.
Prima di tutto era necessario che le due famiglie fossero con-
tente di imparentarsi, poi che il giovane fosse contento di pren-
dere moglie. Quando ciò era stabilito il matrimonio era, si può
dire, concluso. I friulani erano onesti mantenitori della parola
data, la sposa, come s'è visto, per la sua condizione poteva met-
tere pochi impedimenti. Restavano, quindi, da fissare nelle trat-
tative le questioni dotali; e con queste si giungeva sempre ad
accontentare le due famiglie.
U Consiglio della maggior città della Patria del Friuli sentiva
tutta l'importanza del costituirsi di nuove famiglie. Questa pro-
vincia era posta in una posizione aperta a qualunque incursione
straniera. La stessa continua preoccupazione che dimostrano gli
udinesi per l'erezione delle mura di Udine, lo stesso desiderio
intenso più volte manifestato in Consiglio, perchè queste mura
sorgano, la si dimostra pure contemporaneamente perchè si fac-
ciano i matrimoni « per ampliare il numero de li cittadini », neces-
sari alla difesa della terra. Fino dal tempo del potere temporale
dei patriarchi ^ il maggior Consiglio destinava tre persone per
ogni quartiere della città, perchè trattassero i matrimoni.
Sotto il governo della Serenissima questo bisogno di accre-
scere il numero dei cittadini è sentito e ogni anno sono eletti i
procuratori a trattare lo stesso soggetto.
Il luogotenente mandato dalla Repubblica di Venezia a reg-
gere la Patria propose il 18 febbraio 1518* che dal Consiglio
della città, mediante votazione, fossero nominati tre cittadini, uno
dell'ordine dei nobili, un secondo dell'ordine dei borghesi, e il
terzo dell'ordine dei popolani, per restare in carica quanto pia-
cesse alla comunità, coll'obbligo di adoperarsi tutti insieme o
separatamente per concludere i matrimoni come ad essi piacesse
o sembrasse più opportuno.^ Affinchè i sensali si sforzassero
in quella « pia e lodevole opera » , il Consiglio decretò che quello
fra essi il quale fosse riuscito a concludere qualche matrimonio
i Archivio Comunale dì Udine, Annalium to. I, f. 172, an, 1365; to. XVl, f. 124,
aii. 1405; to. XX, f. 91, an. 1415. Ad indicare l'Archivio Comunale di Udine, adot-
tiamo, per brevità, la sigla ACU.
« ACU., Annalium to. XLII, f. 163-164.
3 La decisione fu presa quando da poco era finita in Friuli la guerriglia, che fece
seguito alla lega di Cambra! : quando cioè la Patria aveva maggior bisogno di forti sol-
dati che la difendessero.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVÌ E XVII 77
ricevesse un compensa dagli sposi. La somma era proporzio-
nale alla quantità della dote. 11 Consiglio fissava che lo sposo
e la sposa dovevano pagare a metà un ducato d'oro per cento
ducati di dote e corredo, dati o promessi. Il compenso cresceva
di un ducato per ogni cento ducati di dote, ma su qualsiasi
somma i sensali non potevano ottenere un compenso superiore
ai dieci ducati.
Dalle cronache nan è dato capire quanto utile fosse l'opera
dei pubblici sensali.
Sembra che il Consiglio della Patria se ne trovasse contento
poiché li elesse ininterrottamente durante il XVI e il XVll secolo.
La loro opera di unione deve essersi manifestata, e questo spe-
cialmente per il popolo, durante gli annui convegni in occasione
di mercati e feste religiose, accompagnate da giostre, danze e
altri spettacoli istituiti fin dal tempo del patriarca Bertrando per
promuovere i matrimoni.^ Ma l' ufficio di sensale, benché ricom-
pensato, doveva essere ingrato, poiché nel 1543 in Consiglio si
dovette ricordare la santità della missione, e per di piiì stabilire
una multa per indurre i cittadini ad accettarne l'incarico: «Li
« nostri adunque antiqui e boni vecchi conoscendo questo esser
« perfetto bene e verità che falir non po' però ordinarono lo
« offitio sopra la pace et matrimonii et acciò tal opera santa si
« conservi e si mantegni et revivisca a laude del omnipotente Dio
« et del excellentissimo Dominio nostro, noi vostri Deputati in-
« sieme cum lo ci.""" signor nostro Luogotenente mettemo parte
« che ogni anno alla creazione di detti signori ellegger si deb-
« biano cittadini di buona fama et bon exemplo quali non pos-
« sino refudar sotto pene de ducati XXV per uno da esser ir-
« remissibilmente tolti et sanza alcun intervallo di tempo siano
« exsborsati et poi divisi parte ai poveri mendicanti et parte a
« mandare orfane » .^
Il Consiglio cercava in ogni modo di favorire i matrimoni
e se l'ufficio dei sensali accennava a venir meno, cercava che
per le orfane qualche cosa si facesse e, per rendere più facile a
queste d'accasarsi, costituiva la dote.
La legislazione statutaria condannava i rapitori di fanciulle
e la condanna era gravissima; l'unica scappatoia era il matri-
monio : con ciò lo statuto lo favoriva e lo incitava. Lo statuto di
i O. Ma«COTT!, Donne e Monache, Firenze, 1884, p. 382.
« ACU., Annalium to. LI, f. 82-83.
78 alìce SACHS
Concordia * puniva il rapitore con la condanna a morte. Ma se
col consenso dei genitori esso poteva sposare la rapita, non
aveva che una multa di 50 lire. Lo statuto di Cordovado ^ con-
dannava il rapitore a tre libbre grosse e a scontare la sua colpa
con la morte ed opponeva il sequestro in caso di fuga. Permet-
teva però, se i genitori acconsentivano, il matrimonio entro i
quindici giorni. Questa comunità non dimenticava ì suoi interessi,
perchè imponeva, anche in caso di matrimonio, una multa a be-
neficio della sua cassa.
Anche i patriarchi cercavano di mettere meno impedimenti
che fosse stato possibile alla celebrazione dei matrimoni. A tal
fine proibivano ^ che più di un uomo e di una donna tenessero
un fanciullo a battesimo o alla cresima e minacciavano una multa
a quel sacerdote che aveva battezzato e cresimato un ragazzo
con più matrine e più padrini. La ragione di ciò si deve ricer-
care nel fatto che tra madrine e padrini si costituiva una paren-
tela spirituale che restringeva la libertà e la possibilità di con
trarre matrimonio.
Molte volte i parenti non aspettavano che i sensali si occu-
passero per maritare le ragazze della loro famiglia e s' interessa-
vano direttamente al matrimonio.
I matrimoni si facevano quando la sposa era giovanissima
ed anche lo sposo spesso era molto giovane. Nelle trattative si
ricorda l'età della sposa, e si può osservare che essa raramente
raggiunge i venti anni. Gli statuti stessi permettevano i matri-
moni alle ragazze giovani. Lo statuto di Venzone * permette alla
ragazza orfana di 16 anni «od in circa» di maritarsi a «chi
vuole». Lo statuto di Udine impone il consenso dei parenti alle
ragazze che si maritano prima dei venti anni."* Giulia Savorgnana
nel 1520 ricordava dì aver maritata la figlia Vittoria « de ani 16
mesi 4 et giorni 5 » ^ e si mostrava soddisfatta che quel matrimo-
nio fosse avvenuto così presto. Una ragazza di 26 anni che si
maritava era ritenuta già matura e, considerata la necessità d'ac-
casarsi e la sua età, non si poteva disapprovare se si maritava
senza il consenso dei parenti.
i statuti civili e criminali della diocesi di Concordia {1450), Venezia, 1882, n. 208.
« Statuti di Cordovado (1337), Udine, 1875, n. 11.
3 Q. Marcuzzi, Sinodi Aquileiesi, Udine, 1910, pp. 148 e 218.
* Statati municipali della terra di Venzone {1425), Udine, 1871, cap. 189.
5 Statati de la Patria del Friuoli, Utini, 1484, e. 96.
• Copia di memoria fatta dalla sig. Giulia Savorgnana, ms. in Archivio de Con-
cina, in S. Daniele del Friuli, te. XIV.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 79
Lo sposo raramente aveva sorpassati i 25 anni e molte volte
non raggiungeva i 20. Nel 1584, Federigo di Strassoldo di 18 anni
col consenso dei genitori tolse per moglie Rutiglia Brazzà più
giovane del marito.^ La giovane età degli sposi era ricercata dai
genitori : e ciò può spiegarsi col desiderio, a cui si è già accen-
nato, di veder crescere numerose le famiglie, e anche colla brama
dei genitori di stabilire i parentadi come meglio credevano, va-
lendosi della remissività propria dei giovani.
I matrimoni si facevano sempre tra friulani, spesso fra com-
paesani, specialmente in Carnia, dove la forma stessa del terreno
rendeva difficili le comunicazioni e perciò il mezzo di allargare
il numero dei conoscenti. I cittadini sposavano le castellane e,
al più, qualche veneziana viene sposa ai nobili della Patria;
nel 1527 una bresciana sposa un Porcia. La comunità di Udine
stabiliva * che di « sua ragione » le fanciulle non potessero ma-
ritarsi fuori della terra. Anche col permesso dei genitori, il Con-
siglio proibiva il matrimonio coi forestieri ed in alcuni casi non
lo permetteva che fra gli abitanti della città. Queste restrizioni
servivano a mantenere il carattere antico nelle famiglie, e la man-
canza di elementi nuovi non toglieva la rozzezza e alcune abi-
tudini selvaggie, ma forti. La vita all'aperto, il lavoro, la caccia,
la guerra fortificavano i friulani, togliendo il pericolo dell'inde-
bolimento della razza troppo rinchiusa in se stessa.
Abbiamo già visto che la nobiltà mal volentieri tollerava che
elementi nuovi entrassero nella sua stretta cerchia. I padri stessi
in molti testamenti mettevano come condizione per poter usu-
fruire dell'eredità che i figli non sposassero borghesi o popolane.'
Buonissimo argomento per ottenere presso la Curia patriarcale
l'annullamento di un matrimonio era la differenza di condizione
tra i coniugi. Qualche elemento nuovo entrava nella classe dei
nobili. Più spesso era qualche ragazza nobile che degnavasi di
accasarsi con i popolani, e la sposa, entrata nella nuova fami-
glia, era considerata come un onore per il parentado borghese.
Antonio Belloni notaro, erudito, poeta, dell'alta borghesia, sen-
tiva il dovere di scusarsi per aver permesso il matrimonio di
una sua figlia con il nobile Strassoldo. Come tutti a quei tempi.
1 S. DI Strassoldo, Cronaca (1509-1603), Udine, 1895, p. 55.
2 ACU., Annalium to. XXXI, f. 355, an. 1460.
3 Già nel secolo XI si trovano di tali proibizioni: vedi Leicht, Ricerche pel di-
ritto privato nei documenti preirneriani, Roma, 1914, I, p. 46: a. 1083 (Camaldoli)
« idest non accipiant uxores ex ancillis vel malis vilanis ».
80 ALICE SACHS
anche quest' uomo intelligente subiva l'attrazione per quella classe
privilegiata ed era lieto ed orgoglioso che una figlia di Ermes
di Salvarolo avesse sposato Martino Kinskì, suo parente. La de-
gnazione della giovane contessa Salvarolo dimostrava, secondo
il Belloni, che tutta la famiglia dello sposo non era ritenuta né
vile né da poco.^
Awche ad Elisabetta Savorgnana, soggiunge il notaro, per
opera della quale quel matrimonio fu concluso, non erano de-
rivate noie e disonori.*
Nella prima metà del 'SOO le tre classi erano ben divise, e
le gentili dame, che del concludere un matrimonio si facevano
un dovere e una festa, dovevano essere guardinghe, non tanto
per unire due persone che non potessero star bene insieme,
quando due famiglie di non uguale nobiltà.
In molti patti dotali, si accenna a chi conclude il matrimonio.
Molto spesso sono le donne, zie, cognate, vecchie parenti, ami-
che degli sposi ; mancando queste, intervengono zii, nonni, ge-
nitori. Alle volte vecchi zii s'interessano a maritare le nipoti,
trascurando anche le loro abituali occupazioni.
Gregorio Amaseo nel 1 533 scriveva : « Restai per qualche
« giorno de notar qui alcune novelle, per essermi tutto in pra-
«tiche per maridar mia nezza Dorothea figliola che fu de mio
« fradello miser Hieronjmo » .^ Il matrimonio di una fanciulla sem-
brava un buon peso levato alla famiglia, se lo stesso Amaseo
aggiunge poco dopo: «et bona sorte nostra nel medesimo dì
« fo maridada Eugenia filiola de Romulo mio figlio a Bologna
« cum dote equivalente in miser Vincenzo Aldovrando, genti-
«Ihuomo bolognese. Dio li conceda ogni bona gratia».
Lo sposo trattava quasi sempre direttamente con il padre
della sposa, seguiva i desideri dei suoi genitori, ma era libero
di scegliere la sua donna. Tuttavia faceva il possibile per ren-
dere favorevole il padre alle sue nozze.* Se lo sposo era orfano
cercava il consenso della madre che in segno di assentimento
interveniva agli sponsali. Se lo sposo era accettato dal padre e
la figlia promessa, il matrimonio era concluso. Era un fatto in-
solito che la sposa fosse conosciuta prima del giorno del ma-
1 11 passo fu già ricordato dal Marcotti, op. cit., p. 262.
2 A. Belloni, Epistolae, ms. in Bibl. Comnn. di Udine, scgn. 565, lib. II, p. 30,
lett. 59.
3 L, O. Amaseo, Diarii udinesi dall'anno 1508 al 1541, Venezia, 1884, p. 342.
* Amaseo, op. cit., p. LXI.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII Bl
trimonio. Se il marito futuro desiderava assolutamente di vederla
poteva ricorrere ai travestimenti.' Abbiamo pochi esempì di pa-
dri che si occupano direttamente delle trattative di matrimonio;
uno fra questi è il notaro Belloni. Nel suo epistolario già citato,
resta una serie di lettere tra il notaro e un futuro probabile ge-
nero. Sono interessantissime perchè ci mostrano come si svol-
gevano le trattative, assai tristi perchè ci rivelano il vero e puro
mercato.
Antonio Belloni desiderava sposare sua figlia Camilla. Un no-
taro, il Robortello, incaricò un parente di presentarsi al padre
della ragazza, perchè gliela promettesse con dote conveniente. Il
padre la promise senza consultarla. II Robortello era allora in
Toscana e non pensò neppure alla possibilità di un lungo e di-
sastroso viaggio per vedere la sposa. Sembra che i promessi si
vedessero la prima volta il giorno delle nozze. 11 Belloni, adun-
que, scriveva al giovane * promettendo la figlia in isposa con
una dote di seicento ducati. Aggiungeva il corredo del valore
di altri cento ducati. Il Belloni temeva però che al genero fu-
turo la dote non sembrasse conveniente poiché gli faceva no-
tare che una dote grande rappresenta sempre un pericolo: la
moglie non fa che parlare delle sue ricchezze e la vita di-
venta insopportabile. Lo consigliava a scegliere con prudenza
la compagna di tutte le vicende, dalla quale sarebbe stato pre-
scelto per giudizio d'amore.
Ma benché il Belloni parlasse delle doti di mente e di cuore
della figlia, gli sposi, s'è detto, non s'erano mai visti; la simpatia
quindi per la ragazza, futura compagna di tutta la vita, doveva
ridursi a una simpatia per la dote. Nonostante le tante parole
del suocero futuro, il Robortello voleva più denaro e non accen-
nava a venire a più miti pretese. In un'altra lettera^ il Belloni
lo rimprovera di pretendere settecento ducati di dote, preferendo
a una donna di buoni costumi una bene dotata. Dimostra poi
che la dote promessa è sufficiente; che non avrebbe potuto
sopportare un onere maggiore e resta deciso a non concedere
più di seicento ducati. Si pente subito di questa ferma decisione
e promette un aumento di cinquanta ducati. Il Robortello era, o
si mostrava, sdegnato e non intendeva di rinunciare alla somma
che voleva. Al Belloni premeva, invece, che la figlia, nonostante
i A. PuRLlLiESE, Cronaca, in Archivio veneto, to. XXXVI, fase. 71-72, p. 318.
« A. Belloni, op. cit., lib. IX, p. 206, lett. 303.
3 A. Belloni, op. cìt., lib. IX p. 209, lett. 307.
82 ALICE SACHS
i suoi molti e ricchi pretendenti, sposasse il Robortello e in un'altra
lettera/ benché protesti ch'è impossibile venire ad una concilia-
zione, rinnova l'offerta di seicento e cinquanta ducati e consiglia
di nominare un procuratore per celebrare il matrimonio. Sog-
giunge, quasi timidamente, che per un affare così serio sarebbe
opportuno ch'egli si liberasse da ogni impegno e venisse in
Friuli direttamente.
Finalmente il Robortello cedette, accontentandosi di seicento
e cinquanta ducati di dote. In molti altri casi le discussioni per
la dote sono lunghe prima di giungere a una conclusione. Le
ragazze impazienti di conoscere il marito futuro ricorrevano alle
pratiche superstiziose. Alcune perfino raccolgono di notte nei
cimiteri le ossa dei morti per farle servire ai sortilegi.* I processi
per questi reati sono frequentissimi, gli statuti stessi hanno multe
per i sortilegi d'amore. Le contadine, per conoscere la loro sorte,
nella notte di S. Giovanni tentano tanti mezzi comuni ad altre
città venete.' In Friuli legavano, la sera di S. Giovanni, con nastri
rossi alcuni arbusti di nocciuola. La mattina seguente slegavano
le piante, e uscivano dal campo ornate del nastro umido di rugiada.
Il primo uomo incontrato era lo sposo destinato da Dio. Noi
sentiamo pietà per queste giovanette vendute, mandate lontane
con un uomo che non amano e nemmeno conoscono, ma questa
pietà si cambia in un alto omaggio di reverenza e ammirazione,
quando vediamo che esse riescono a poco a poco a conquistare
un posto ben alto vicino al marito, a diventare non solo le educa-
trici dei figli, ma le consigliere e le amiche. Con commozione
osserviamo con quanta stima i mariti parlano, dopo molti anni
di matrimonio, delle loro mogli. Niccolò Maria Strassoldo * ricorda
la «tanto cara e dilecta consorte» e Gregorio Amaseo la^ «optima
«et dilecta consorte, unanime rifugio et consolation de tutti li
« miei pensieri » e quando perde la moglie la ricorda e piange
« ogno '1 zorno più volte da poi in qua, perchè l'era persona
« dignissima et Io mazor amigo ch'io avessi al mondo». Tom-
maso di CoUoredo rinuncia alla carica lungamente sperata di
capitano di Venzone per la morte della moglie diletta."
1 A. Belloni, op. cit., lib. IX, p. 210, lett. 308.
» V. OSTERMANN, La Vita in Friuli, Udine, 1894, p, 313.
3 G. Bernoni, Credenze popolari veneziane, Venezia, Antonelli, p. 9.
* Cronaca {1459-1509), Udine, 1878, p. 22.
5 Amaseo, Diarii {1540) cit., p. 478.
• F, DJ Manzano, Annali cit., voi. VII, p. 172,
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 83
* Di
Quando le condizioni di dote erano fissate privatamente, si
facevano gli sponsali e si dichiaravano con atto pubblico davanti
al notaro. Si riunivano il padre e la madre della sposa, il padre
dello sposo, lo sposo, due o più amici che fungevano da testi-
moni. La sposa era promessa dal padre, lo sposo giurava di
prendere per sua legittima consorte la figlia del signore presente,
che nominava. Si fissava nello stesso contratto il giorno dello
sposalizio, la quantità e qualità della dote, in qual tempo sarebbe
stata pagata. Il notaro redigeva il contratto, che era firmato dal
padre, spesso dalla madre della sposa, poi dallo sposo, da suo
padre, dai testimoni, dal notaro. Il documento autentico era con-
segnato dai castellani al parroco del castello. Erano fatte poi
due copie : una per la famiglia dello sposo e una per quella della
sposa.
La madre della sposa invitava il giovane a casa sua a vedere
finalmente la moglie futura. Con questo invito il fidanzamento
era ritenuto ufficiale, lo sposo faceva le visite ai parenti suoi per
annunciarCjil prossimo matrimonio, e scriveva a quelli della sposa,
presentandosi come il nuovo entrato nella famiglia. La sera del
fidanzamento la fidanzata entrava nella stanza ov'erano riuniti i
parenti e gli amici. Era condotta per mano dalla mamma o da
un vecchio amico di casa; quest'uso, che si ritrova spesso verso
la metà del '500, era forse derivato dall'uso veneziano: che la
sposa fosse condotta alla presenza del fidanzato da un uomo
maturo, chiamato il ballerino. A Venezia la sposa usciva subito
in gondola per recarsi a visitare i conventi di monache dove si
trovavano i suoi parenti, e si metteva a sedere fuori del felze *
per poter essere ammirata dai concittadini. La sposa friulana nei
primi giorni di fidanzamento non si faceva vedere che da quelli
di casa.* L'avesse fatto o per sfuggire alla curiosità, o per dedi-
carsi in quei giorni di clausura alla preghiera e alla meditazione,
non sappiamo disapprovare questa abitudine friulana.
Le giovanette della Serenissima si tenevano appartate, e nel
giorno degli sponsali entravano nella vita gaia e festosa della
Venezia del '500. Le giovanette friulane frequentavano invece con
1 P. MoLMENTi, La storia di Venezia nella vita privata, Bergamo, 1906, par. II,
p. 541.
» C. DI Pers, Lettere, ms. in Bit)!. Com, di S, Daniele del Friuli, io. XIX (LXXI).
84 ALICE SACHS
la mamma le conversadoni e le feste; la reclusione nei primi
giorni del loro fidanzamento, fatta come la. preghiera prima di
ricevere un sacramento, dimostra che le fanciulle si prepara-
vano con piena coscienza dei loro doveri alla vita nuova, e
che sentivano la nobiltà e la difficoltà della missione che inco-
minciavano.
Passati due o tre giorni così, la sposa riceveva le visite degli
amici e dei parenti. I nobili castellani in queste occasioni si scam-
biavano le visite da un castello all'altro; portavano un piccolo
dono alla sposa.^ Sulla gradinata o sul ponte del castello, la fidan-
zata aspettava gli ospiti e li conduceva nella sala maggiore dov'era
riunita la famiglia. Presso i nobili udinesi c'era pure l'uso delle
visite di fidanzamento.
In un giorno stabilito si riunivano nella casa della sposa le
nobili udinesi. Vi andavano in carrozza accompagnate da alcuni
servi, ed era una buona occasione per sfoggiare vesti e livree.
Quando la sposa era di famiglia nobile, alla visita di fidanza-
mento interveniva anche la moglie del luogotenente mandato
da Venezia a reggere la Patria del Friuli. Il 3 novembre 1561 *
Adriana Morosini, moglie del luogotenente, andò a rallegrarsi
con Anna Candido fatta sposa a G. B. Melso. A lei si unirono
ventiquattro fra le più belle dame della città. Madonna Adriana
scese col suo cocchio dal castello, e la seguivano le carrozze
delle gentildonne udinesi. Il fratello della sposa le accolse con
gran festa nella sala più grande della sua casa. In un'altra stanza,
« nella camera sopra l'orto », furono intanto preparate le tavole
con un suntuosissimo rinfresco. In questo ricevimento, come in
ahri, si dimenticò che la sposa era la festeggiata e le attenzioni
maggiori si usarono alla luogotenentessa. Nelle famiglie nobili
udinesi si faceva a gara per rendere gradita alla donna illustre
l'ospitalità. Con orgoglio il cronista nota: «la detta dar.""" Ma-
« donna Adriana disse al marito che l'era stata fatta più cortesia
« in casa nostra che in alcun altro luogo di questa città » . Anche
in altre famiglie nobili il lusso di questi ricevimenti non era mi-
nore; sono frequenti le spese piuttosto alte per dolci e confetti, per
aver preso alcuni servi ad aiutare quelli di casa. Non manca la
spesa di tre tappeti, comperati per far più bella la casa, più degna
di accogliere gli ospiti che venivano a salutare la giovane sposa.
^Calcoli delle entrate e spese (1500-46), in Arch. d'Arcano, in Rive d'Arcano.
» E. Candido, Cronaca udinese (1554-64), Udine, 1886, p. 26.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 65
Udine voleva mostrare alla dama veneziana la sua ricchezza,
perchè ne parlasse ammirata alle nobili della Serenissima, e il
marito la ricordasse nelle sue relazioni al Senato.
Il tempo che corre tra gli sponsali e lo sposalizio è gene-
ralmente di pochi mesi. Alle volte è più lungo, quando nei patti
dotali la dote è promessa in contanti per il giorno della tradu-
zione. È spiegabile quindi il lungo periodo di fidanzamento. I
friulani erano e sono bene equilibrati ed economi e per prepa-
rare la somma dotale impiegavano molto tempo. La dote si gua-
dagnava parte col lavoro, parte si prendeva dal capitale già for-
mato, in modo che tutti gli interessi della famiglia non risentissero
danno per una somma levata al patrimonio comune.
Nel fissare il mese e il giorno del matrimonio, si seguivano
usi e superstizioni speciali. Il mese di maggio era ritenuto infausto
alle nozze. 11 6 marzo 1600 il santo Officio ' incaricava il rev. Do-
nato Casella pievano di S. Quirino di ìfmmonire alcuni indi-
vidui del paese che rifiutavano di sposarsi di maggio. Questa
superstizione era diffusissima. Consultando i registri parrocchiali,
nei quali dopo il Concilio di Trento si registravano i matrimoni,
si osserva che il mese di maggio è quasi privo di sposalizi.
Invece erano ritenuti fausti i mesi di luglio e di febbraio. Il mag-
gior numero di matrimoni, sempre secondo le registrazioni par-
rocchiali, avvengono nel settembre, ottobre, nella stagione del
raccolto delle messi quando la famiglia che si costituisce trova
pronto qualche cosa per iì suo mantenimento. 11 numero dei ma-
trimoni continua ad essere abbastanza alto durante tutti i mesi
d'inverno, fino a marzo. Da marzo si passa all'agosto: i matri-
moni non avvengono durante i mesi di gran lavoro nella cam-
pagna. Senza scendere a particolari di statistica, possibili soltanto
dopo il Concilio di Trento, essendo prima, come vedremo, fre-
quenti i matrimoni non registrati, si osserva che il numero di
questi è in relazione strettissima alle condizioni economiche del
paese. Quando c'è un anno di carestia, si ha pure una note-
vole diminuzione nel numero dei matrimoni; viceversa, negli
anni di abbondanza, il numero dei matrimoni cresce considere-
volmente.
Secondo la superstizione anche fra i diversi giorni della setti-
mana c'erano quelli fausti e quelli infausti per il matrimonio. Il
giorno preferito in Friuli è quello che in molte regioni d'Italia
1 V. OSTERMANN, Op Cit., p, 330.
éó ALICE SACHS
era creduto nefasto:* il mercoledì era ritenuto in Friuli comedi
buon augurio, mentre il venerdì e il giovedì erano giornate di
streghe, il lunedì la sposa sarebbe stata lunatica, il martedì mar-
tire, il sabato « Sabide sabidine, di cent une buine » .
Anche la domenica, il giorno, secondo la credenza popolare
veneziana, tanto fausto per i matrimoni, era creduta di cattivo
augurio in Friuli.
II.
DOTE, PRESTAMENTI, DONI.
La dote, la parte cioè di patrimonio che la sposa reca al
marito, è istituzione tutta romana. Presso i longobardi la donna
non portava una somma, ma lo sposo, per acquistare il mundio
dal padre o dai parenti, doveva pagare una somma detta meta
che andava a beneficio del mundoaldo. Questa compera subì
trasformazioni: si finse la vendita della donna dando al mun-
doaldo un prezzo simbolico, mentre il prezzo reale fu dallo sposo
pagato alla donna. A poco a poco perdette il suo carattere di
prezzo del mundio, per divenire un assegno in caso di vedovanza.
La dote, dunque, presso i Germani era il prezzo che per
l'indebolimento della patria potestà e per il formarsi ed affer-
marsi della personalità della donna, era dato ad essa anziché ai
suoi parenti. Il pagamento della dote era necessario per avere
un matrimonio col mundio. A questa dote data dal marito si
aggiunge poi il morgengab di cui parleremo in appresso.*
Anche presso i longobardi le fanciulle portavano una dote
il faderfio; questo però era assai limitato. Nei primi secoli del
medio evo, secondo le consuetudini longobarde sopravvissute in
Friuli, sembra che gli apporti matrimoniali fossero di valore limi-
tato, ma poi, coll'aumentare del lusso, i matrimoni si fecero piti
difficili, e le consuetudini romane, che non si erano mai spente
in Italia, presero di nuovo grande espansione, restituendo in onore
il sistema dotale colla controdote o donatio propter nuptias data
dal marito alla moglie. Però in Friuli gli avanzi del sistema ger-
manico si trovano ancora nel secolo XIV e XV.
1 E. RoDOCANACHi, Lm. ftmme italUnne à Vépoqut de la Renaissance, Paris, 1907,
p. 71.
« Q. Salvigli, Trattato di storia del diritto italiano ecc., Torino, 1908, p. 449 sgg.;
Leicht, op. cit., p. 102 sgg.
Le nozze in FRIULI I4EI secoli XVI E xvii St
La personalità della donna ebbe uno sviluppo e una consi-
derazione maggiore: ella non fu più un soggetto di compra e
vendita ma un ente che poteva godere alcuni diritti come i ma-
schi. Possedette una parte del patrimonio di famiglia, e lo recò
al marito: la dote nella sua essenza romana era costituita. La
Chiesa favorì la istituzione della dote, perchè rappresentava un
elemento di stabilità ; dava luogo a un atto pubblico, evitando la
confusione tanto frequente tra i matrimoni d'allora. Per questo
il patriarca riconosceva opera di carità dotare orfane.^
In Carnia e nelle parti più montuose, alle ragazze era asse-
gnata una dote molto minore di quella che donne di egual con-
dizione avevano in Friuli. Invece era lasciata loro una parte del
patrimonio alla morte del capo di famiglia. Queste disposizioni
potrebbero dimostrare la considerazione maggiore in cui era te-
nuta la donna nel Friuli settentrionale. Poteva come l' uomo ere-
ditare per testamento, la piccola dote assegnata al tempo del
matrimonio rappresentava un regalo dei parenti come i doni
nuziali e il corredo. La donna ritenuta eguale ai fratelli era vera-
mente eguale come lavoratrice. Essa attendeva al lavoro dei campi,
all'allevamento del bestiame; era un valore, una macchina da
lavoro che si sfruttava. Di conseguenza il padre non aveva biso-
gno di dotarla riccamente perchè potesse sposarsi. La dote, infatti,
si riduce tra le fanciulle della Carnia al solo corredo, anche per
le più agiate, che alla morte del padre ereditano una somma di-
screta. Oltre a questo, è proprio dei camici l'amore al denaro
prodotto con il proprio lavoro ; è quindi naturale il desiderio di
conservare il patrimonio intatto fino alla morte, dividendolo poi
tra gli eredi. Nella pianura, invece, si formano le grandi famiglie,
le donne attendono unicamente ai lavori domestici. Sono econo-
micamente un peso più che un aiuto e quest'onere dev'essere pa-
gato con una somma dotale. Dai rogiti dei notari delle diverse
parti del Friuli appare questo crescere o diminuire delle doti
secondo Paltimetria, la ricchezza dotale varia da isoipsa ad
isoipsa, in modo che si potrebbe quasi concludere che, dove
l'animale da soma non può giungere, per aiuto all' uomo è presa
la donna, che il lavoro da lei prodotto sostituisce la parte del
patrimonio di famiglia, di cui ha bisogno la donna non lavoratrice.
Manca in Friuli un'istituzione come quella fiorentina del Monte
delle Doti. Quest'istituzione era stata creata a Firenze nel 1425;
i M. A. NicoLETTi, Leggi antiche e costumi dei forlani, ms. n. 629 della Bibl.
Com. di Udine.
88 ALICE SACHS
per un deposito dì cento fiorini la cassa ne dava cinquecento,
dopo quindici anni, alla ragazza che si maritava.' Rappresentava
quindi una misura di preveggenza, un risparmio. Al tempo del
matrimonio la dote si trovava formata senza che la famiglia do-
vesse pensarci. I Friulani non avevano un istituto simile, ma
arrivavano ad ottenere gli stessi vantaggi. Spesso depositavano,
quando la fanciulla nasceva od era molto giovane, una somma
al Monte di Pietà, e la lasciavano finché la ragazza doveva acca-
sarsi. La somma cogl'interessi accumulati in tanti anni di deposito,
uniti a qualche diecina di ducati, serviva a dotare la sposa.
Gli statuti della Patria non tentarono nemmeno, come fu fatto
a Venezia,* di regolare e fissare il massimo della dote, ma pau-
rosi che i beni d'un paese passassero ad un altro, non permisero
alle ragazze ricche che matrimoni fra concittadini. Il consiglio
di Udine, decretava che ^ nessuna donna di Udine o del suo
distretto, che avesse, oltre al corredo, una dote di mille lire di
soldi, in nessun modo e con nessun consenso potesse maritarsi
fuori della comunità. La previdenza si spingeva fino a preten-
dere che il marito dovesse avere ottenuta la cittadinanza da almeno
cinque anni prima della celebrazione del matrimonio, che non
potesse rinunciarvi o assentarsi lungamente sotto pena di mille
ducati d'oro. Se avesse osato lagnarsi sarebbe incorso nella pena
di duecento ducati. In una successiva deliberazione l'arrengo de-
cretava necessario che lo sposo depositasse in Consiglio una
cauzione di mille ducati e che abitasse nella terra di Udine egli
co* suoi discendenti fino al quarto grado.^ Lo statuto di Venzone
proibiva ^ pure il matrimonio con forestieri alle ragazze che aves-
sero in dote 500 ducati o più. Le disposizioni degli statuti friu-
lani sono più spiegabili di quelle di Venezia. Si capisce benis-
simo il timore delle comunità di vedere i loro beni passare in
altre terre. Non è spiegabile l'assoluta norma veneziana di non
dare che una data somma in dote, mentre qualunque somma
avrebbe dovuto essere permessa specialmente all'orfana che non
avesse fratelli o sorelle.
Fissare un valore medio, anche approssimativo, alla dote friu-
lana non è possibile. Varia non soltanto da classe a classe, da
famiglia a famiglia, ma anche da una sorella all'altra. Una figlia del
1 RODOCANACHI, Op. Cit., p. 63.
« MOLMENTI, op. cit., p. 539.
3 ACU., Annalium cit. t. XX, f. 180 (an. 1415).
* ACU., Annalium cit. t. XXVI, f. 273 (an. 1438).
s Statuti municipali della terra di Venzone cit., cap. 190.
LE ^fOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 80
Bellonì ha una dote doppia delle sorelle, le figlie del pittore Pom-
ponio Amaiteo hanno una dote differente una dall'altra. La somma
è maggiore o minore secondo la nobiltà, la posizione dello sposo :
si cerca con la dote di ricompensare la nobiltà dei natali, la fama,
la ricchezza.
C'erano doti piccolissime : una Maria da Udine portava nel 1505
in dote dieci ducati ; Anna, fante di casa Polcenigo, portava quin-
dici ducati.' Esempì di doti piccolissime come queste ce ne sono
molti : alcune di donne di servizio, contadine, dotate dai padroni ;
altre di giovanette dotate da persone pie e dalle suore. Le doti
delle borghesi e delle popolane non sono sempre minori di quelle
delle nobili ; nel secolo XVII c'è un notevole aumento nella ric-
chezza : l'industria, il commercio arricchiscono le classi lavoratrici,
e il loro benessere economico si rispecchia nei patti dotali, che
promettono grosse somme. Nel 1634 una contadina di Cercivento
porta in dote trentaquattro ducati. Nella, moglie di Domenico
Monticoli, ha una dote di cento ducati, che si trovavano « essere
« in man di detta sposa al tempo del sponsalitio » .' In questa
stessa classe al principio del '500 si trovavano invece doti di
venti ducati al massimo. La ricchezza delle nobili cresceva pure:
nel 1520 Vittoria Savorgnana aveva ottocento ducati, nel 1632
Oiovannina di Prampero' ne portava tremila. Ci sono doti di
quattrocento, ottocento, duemila e cinquemila ducati, la maggiore
è quella di Sulpicia Florio, moglie in secondi voti a Turrismondo
della Torre. La somma senza rinuncia ai beni materni, aviti, col
laterali era di ventimila e seicento ducati. È una buona somma
anche ora : a quel tempo doveva sembrare grandissima. La madre
dello sposo « a contemplatione per tanto di detto matrimonio e
« per dimostranza d'affetto » regalava agli sposi tremila ducati.
11 fratello dello sposo « per dimostrar l'amore, che porta al fra-
« fello, et a contemplazione pure del predetto matrimonio, dà et
« dona ducati settemille » .* Eleonora di Colloredo ^ ha sedicimila
fiorini.
Questa dote era chiamata paterna, ma era sempre notato che
era formata in massima parte con i beni materni. Il capitale pa-
1 Varia ms., to. XX, dell'Arch. de Concina di S. Daniele del Friuli.
" Patti dotali di Nella sposa a Nicolò Monticoli, in Protocolli, instr omenti testa-
menti (1624-1638) Corveno, in Arch. Not. di Udine.
3 Varia ms., to. XIX, Patti dotali Prampero Cosso (1632), in Arch. Concina di S. Da-
niele del Friuli.
< Copia patti dotali Florio-delia Torre (1669).
5 Patti dotali Colloredo-della Torre Valsassina, in Arch. d'Arcano.
00 ALICE SACHS
terno restava intatto per essere diviso tra i maschi. La dote pas-
sava da madre in figlia, si accresceva prima, si suddivideva poi
tra le eredi. Per questo i friulani davano con tanta facilità beni
immobili alle figlie. Infatti, per raggiungere le somme stabilite, si
mettevano in conto orti, campi, case. Eleonora di Colloredo aveva
tanti campi stimati diecimila fiorini. Todeschina di Prampero su
tremila aveva duemila ducati in beni immobili, Elena Sana,^ oltre
al corredo, portava 580 ducati tutti in beni immobili, cioè «in
«terreni arati e piantati». Oltre al denaro in beni immobili, tutto
era accettato purché rappresentasse un'utilità. Così Maria di
Tolmezzo porta in dote un carro di fieno e uno di legna. Anna
Rossi di Pordenone porta una gallina con i pulcini, che fanno
crescere la somma dotale di cinque ducati. I beni di questo ge-
nere erano prima stimati; gli estimatori erano molto generosi
perchè davano alle derrate un valore superiore a quello che le
stesse merci avevano sul mercato. A Giulia Pittiano, moglie del
conte Orazio d'Arcano, erano dati, per raggiungere la somma
promessa di duemila e settecento ducati, tre stala di frumento,
tre di miglio, due di grano e un paio di galline con due uova.
Soltanto per dar un'idea dell'inganno nell'estimazione dirò che
le galline erano valutate sette ducati,* mentre il prezzo d'allora
era di circa quattro lire venete cioè poco più di mezzo ducato.
Alcune doti servivano a pagare i debiti dello sposo, come
quella di Lodovica Arcana, il cui padre' si obbliga a pagare i
debiti dello sposo.
Alla dote paterna i parenti facevano spesso una aggiunta,
promettendola negli stessi patti dotali oppure in un contratto a
parte. Se il padre moriva prima di avere dotate le figlie, lasciando
eredi soltanto i maschi, questi avevano l'obbligo di dotarle: «non
« prolongi et tegna in longo gli matrimonii et per malicia o ne-
« gligentia no faza stima de apparecchiar la dote et prestamenti
«o fornimenti: ordenemo che se la dona sarà de marìdo: a sua
« istantia o requisitione de alcun suo parente per el giudice del
« logo dove sta l'herede o dove sta il suo domicilio sia fatto a
« tal herede un comandamento il quale sia scritto che fino a un
« ano dal zorno de quel comandamento : debbia ver maridada e
« dotada tal dona per haverla fornida co li prestamenti e forni-
1 Patti dotali Cecchetti-Sana (1658), not. Foenis, in Arch. Not. di Udine,
« Patti dotali Pittiana-Arcano (1697), in Arch. de Concina, to. X,
3 Patti dotali Arcoloniauo-Arcano (1518), in Arch. d'Arcano.
Le Mozze ìn friuli nei secoli xvi e xvii 9i
€ menti » .^ A Chiara Caimo la madre prometteva oltre la dote un
regalo di duecento ducati.* Uno zio in aumento di dote a Gero-
loma Bandiera prometteva mille ducati. Era fatta solenne consegna
dei beni immobili il giorno dello sposalizio. Nel maggior numero
dei casi, il denaro era dato a più riprese. La Caimo ricevette
ottocento dei milleseicento ducati al tempo della traduttione,
quattrocento in un terreno e gli altri entro il termine di un anno.
Il tempo è molte volte più lungo. Anna Strassoldo non fu pa-
gata dell' intera dote che nel termine di sette anni. Questi paga-
menti promessi a lontana data erano alle volte dimenticati e
negati: si hanno così lunghi e noiosi processi e anche ricorsi
presso la curia patriarcale. Ettore Alferano di Udine contrasse
matrimonio con la nipote di un prete Scaruffo, che promise cin-
quanta ducati per dote. Non essendo stato soddisfatto, ricorse
ai superiori perchè obbligassero il prete a pagare il suo debito.^
Le sentenze favorivano sempre quello che domanda la dote.
Oli statuti stessi permettevano, qualora il dotante non pagasse la
dote promessa, di pegnorare i suoi beni, e se nell' istromento
dotale era stabilito il tempo del pagamento, decorresse da quello
r interesse del sette per cento.* In una causa fatta dal genero a
Gerolamo di Polcenigo per pagamento di dote, si scelsero due
arbitri, l'uno condannò, l'altro diede ragione alla parte recla-
mante. Dall'albero genealogico del giudice condannante appare
che era carico di discendenza specialmente femminile, quindi
questo unico esempio di condanna a chi chiedeva la dote, è
umano. La dote era pagata direttamente allo sposo ; se questo
era giovanissimo la riceveva il padre;' allora si rilasciava rice-
vuta al suocero. Nei rari casi nei quali tutta la dote fosse con-
segnata al tempo del matrimonio, lo sposo faceva l' intera ricevuta
chiamata renoncia o istromento: istromento perchè era ricevuta
fatta davanti a notaro.
Ci sono però pochi esempì di istromento, quando cioè lo
sposo dichiarava di aver ricevuta la dote della moglie, che avrebbe
poi ereditato per testamento dalla madre, dal padre o dai parenti.
Più spesso faceva la rinuncia, cioè dichiarava di avere ricevuta
1 Costituzione de la Patria cit., p. 75.
-' Per matrimonio Caimo Rinaldo (1593), Raccolta Cairao, carte ras. IX, in Bibl.
Com. di Udine.
3 Supplica di Ettore Alferano (1554). Busta 1553 dell'Ardi. Patriarcale di Udine.
* Statuti della Patria del Friuli rinnovati con le aggiunte (1658), Udine, Gal-
lici, 1785, p. 108.
> Di Strassoldo, op. cit., p. 56.
92 ALICE SACHS
la somma dotale e si obbligava a « renonciare a qualsiasi altra
« pretesa nell'eredità, sia paterna che materna avita o collaterale » .
Nei patti dotali si stabiliva spesso che i beni della moglie fos-
sero divisi da quelli del marito. La comunione universale usata
in tanti paesi * non esisteva in Friuli. Gli statuti cercavano in
tutte le maniere di assicurare il patrimonio della donna e di ga-
rantirne gli interessi. La divisione dei beni era possibile nelle
condizioni del Friuli del XVI e XVII secolo. Erano condizioni di
paese non povero e non dedito al grande commercio; senza
questo la comunione dei beni sarebbe stata necessaria, per avere
il capitale necessario agli acquisti, nel primo caso, per averlo
nella maggior quantità possibile e farlo fruttare col commercio,
nel secondo.
Nei patti dotali si prometteva al marito, nel caso che la mo-
glie premorisse, un lucro sulla dote, l'altra parte sarebbe ritornata
al dotante. Eccezione : Leonardo Nusso di S. Daniele confessa
di aver ricevuto parte della dote e fa formale rinuncia del bene-
fizio del terzo.^ Il marito sul suo capitale prometteva e fissava alla
moglie la controdote del valore di un terzo della dote. La contro-
dote serviva come assegno vedovile, era fissata nei patti dotali.
Per legge, alla vedova spettavano soltanto i mobili, la controdote
solo nel caso che fosse stata promessa nei patti dotali. Gli sta-
tuti della Patria, per « provvedere a la debilitate et fragilità de le
done », proibivano di alienare la dote anche con il permesso della
moglie e in caso di bisogno. L'alienazione era permessa soltanto
quando i genitori e i prossimi parenti della donna giuravano che
essa era necessaria. Il giudice doveva dare il permesso dopo
aver segretamente parlato con la moglie e ascoltati i suoi voleri.
Si favoriva anche in questo la donna e si riduceva la dote a una
sua proprietà assoluta. Lo statuto poi aggiungeva che qualsiasi
alienazione fatta senza tutte le solennità era ritenuta nulla anche
se la donna avesse prestato giuramento perchè « el tal sagra-
« mento se presume esser sta cavado de la dona per inganno et
« fraude o per paura, et esser contra li boni costumi et esser in-
« tervegnudo per respetto de la reverentia o ver paura del ma-
« rido » .^ Premorendo il marito, la dote era restituita alla donna
non più tardi di un anno e un giorno da quando il matrimonio
1 A. Fertile, Storia del diritto italiano, Padova, 1875, voi. Ili, p. 307.
« Renoncia formale di L. Nusso, pergamena del 1629, in Bibl. Com. di S. Daniele
del Friuli.
3 Costituzione de la Patria del Friuli cit., p. 71.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 93
era stato disfatto. Durante quell'anno si passavano i viveri o il
quindici per cento sul capitale, secondo il volere della donna. Se
la dote non si poteva restituir subito, nel secondo anno si pas-
sava il dieci per cento d'interesse. La dote era restituita nella stessa
forma in cui era data: beni immobili e denaro. La dote paterna
ritornava al dotante, ma se c'erano figli e questi morivano dopo
i quattordici anni, la dote passava ai loro eredi, cioè al padre e
alla sua famiglia. I beni della donna erano talmente divisi da
quelli del marito che essa poteva darli in nota al giudice per
salvarli dai creditori.^ Se il marito incominciava a fare mal uso
delle sue sostanze, la moglie poteva ricorrere e far stimare una
somma corrispondente alla sua dote contro la quale nulla pote-
vano parenti e creditori. Molti altri statuti friulani imponevano
che i beni dotali non fossero venduti." Tutti cercavano di dare
alla donna una posizione economica indipendente.
Fino dai tempi romani e longobardi la sposa riceveva vesti e
oggetti dalla famiglia. In Friuli nel secolo XV le vesti erano tre :
una di lana, una di velluto, l'altra di seta; i mobili: un letto ed
un cassettone. L'insieme dei mobili, della biancheria, delle vesti
era chiamato prestamento. Il notaro faceva inventario dei presta-
menti e il giorno della traduzione erano portati alla casa dello
sposo. I notari suddividevano i prestamenti in vestimenti, bellissie,
mobili. Questa divisione seguiremo anche noi aggirandoci fra
questi inventari, fredde ed aride note, che pure danno uno scin-
tillio d'oro e d'argento, una visione di bellezza, una festa di co-
lori, tradiscono una ricerca d'eleganza, indice sicuro della raffina-
tezza estetica di chi la voleva. La sera avanti alle nozze a Udine
si esponevano le.vesti della sposa, ed accorrevano ad ammirare
i vicini e le donne.' Si rinchiudevano le vesti nelle casse e con
i carri si trasportavano alla casa della nuova sposa. Ogni presta-
mento aveva tre, alle volte quattro, casse, una per i vestiti, una
per la biancheria personale, la terza per la biancheria da casa
Un forzierino elegante, molto spesso in argento lavorato a filo
conteneva i gioielli. Le casse di legno scolpite rappresentavano
quali restano nei castelli friulani, scene di battaglia o miti scene
della vita familiare. Ahre tra i fregi d'ornato avevano due circoli
dipinti a figure mitologiche o sacre. Le borghesi le portavano di
noce intagliata, le popolane di legno dipinte dei fatti della ceri
1 statuti civili e criminali della diocesi di Concordia cit., n. 91.
« Statati della terra di Monfalcone {1456), Udine, 1881, n. 19-20.
3 V. Joppi, Notariorum to. XIII, ms. in Bibl, Com. di Udine.
94 ALICE SACHS
monia nuziale. Sempre belle, i castellani cercavano a gara che i
maggiori artisti friulani le dipìngessero. Una sposa di casa Spìlim-
bergo ottenne di avere le sue casse nuziali dipinte dal Tiziano.^
I forzieri delle gioie richiedevano pure un lavoro lungo ed arti-
stico, sia che fossero fatti in argento, sia in legno e cuoio lavo-
rato, con molte e ricche borchie d'argento e d'oro.
La parte più importante delle vestimenta era formata dalla bian-
cheria. Dal principio del '500 la biancheria da casa è abbondante,
quella personale cresce da una generazione all'altra, il numero
delle camicie, dei fazzoletti raddoppia. In quei secoli, in cui il lusso
maggiore era generalmente nelle vesti, trovare, in questa piccola
e rozza provincia, la biancheria tenuta nel suo giusto conto fa
meraviglia e piacere. Si cerca la pulizia per un inconscio deside-
rio d'igiene. Nei primi anni del secolo XVI qualche borghese van-
tava quindici camicie, le nobili ne avevano anche venti di forme
e tessuti vari. Il numero in questo capo di biancherìa va sempre
crescendo, quello delle spose del '600 è tale che non disdirebbe
in qualsiasi buon corredo moderno. Sulpicia della Torre aveva
cinquanta camicie,* Felicita Rabatta ' ne portava trentaquattro. Le
popolane avevano pure la loro biancheria, nel 1515 un'ostessa
portava sedici camicie, la figlia di un carrettiere nel 1520 ne aveva
quindici. Le camicie erano lavorate, ricamate, fatte a fogge di-
verse « con cordelle, con merletti alla moneghina, alla moderna
con berta». Quelle alla moneghina avevano delle ampie mani-
che, erano chiuse al collo: data l'ampiezza e la forma dovevano
tenere il posto delle nostre camicie da notte. Quelle alla moderna
con berta avevano un'ampia scollatura, un colletto rivoltato piut-
tosto grande, che poteva uscire dal vestito. Il colletto si ricamava
con quei meravigliosi punti furiarti, si ornava con pizzi fatti ad
ago, per il lavoro dei quali Venezia era maestra, ma dei quali
erano non peggiori esecutrici le castellane friulane e le suore di
S. Chiara e S. Benedetto. Le camicie si ricamavano anche in
seta colorata, in argento e oro. Quelle di Aurelia d'Arcano dove-
vano essere bellissime con piccoli uccelli tutti d'oro e rami di
fiori di seta verde e rosa. Quasi ogni prestamento nobile ha una
o più camicie di seta; non mancano quelle con lo strascico. Le
1 A. DI Maniaco, Saggio di lettere famiUari (1761-70), Portogruaro, 1884, p. 54.
' « Inventario de lì habiti cioè vesti che si trova avere Sulpitia delia Torre » (1669),
ms. in Arch. d'Arcano.
3 Inventario de li prestamenti di F. Rabatta (1668), ms. in Arch. march, di Collo-
redo, in Colloredo di Montalbano.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 95
mutande fecero la loro apparizione in Friuli nel 1517 * nel presta-
mento di Giulia da Ponte Spilimbergo: calzoni di tabi bianco con
cordoncini foderati di ermesino bianco. Giulia da Ponte veniva
da Venezia; dalle figlie della Serenissima le friulane impararono
l'uso di questo indumento. Andarono un po' adagio nell'adottarlo:
in pochi prestamenti lo troviamo e in scarso numero. Anche nel
600 molte nobili non le portano. Erano ornate con merletti, con
ricami in oro e argento, avevano un prezzo alto, rappresentavano
quindi un oggetto di lusso e d'eleganza più che di utilità.
In ogni prestamento si ritrova un gran numero di blanchette,
cioè vesti di lana bianca ; dovevano essere delle maglie : si tro-
vano da dieci a quindici: oggetto necessario alle castellane e
alle cittadine nei lunghi inverni, per poter sfidare il freddo di una
giornata nevosa. Nei prestamenti nobili si trovano spesso e nu-
merosi i mantelletti da pettiniera. Non si può rendere conto esatto
di che cosa fosse questo oggetto, fatto in tela finissima, alle volte
in seta ornato con pizzi. Probabilmente si metteva per pettinarsi,
questo potrebbe far credere anche la forma : mantelletti, cioè senza
maniche, per lasciar libere le braccia ad acconciare nel miglior
modo possibile i capelli. Fra la biancheria trovano posto anche
i manegotti di tela bianca, di tela fina, di tela più grossa, ai quali
non sappiamo assegnare altro ufficio di quello di metterli sopra
le maniche del vestito per non insudiciarlo. Anche i prestamenti
delle nobili ricordano questi manegotti. Male immaginiamo le
dame dalle ricche e sontuose vesti riparate dai manegotti come
qualunque bottegaia dei tempi nostri. Il numero dei fazzoletti è
straordinario. Aurora d'Arcano* ne ha sessantotto, ricamati in seta
e oro, in tela, in seta. Riccarda d'Arcano ' ne porta sei di tela
tessuta d'oro, Felicita Rabatta ne porta sessanta, di cui venti con
pomoli, cioè con nappine in giro. Le friulane usavano portare
i fazzoletti di seta intorno al collo. Nei prestamenti delle po-
polane, i fazzoletti da collo si ritrovano tessuti a vivacissimi co-
lori, stampati a grandi figure, ornati da frange di seta. Facevano
parte del loro abbigliamento, li portavano continuamente allora,
come ora, in testa. La contadina friulana anche adesso di rado
e mal volentieri esce a capo scoperto. Nei castelli sparsi per le
colline, per le prealpi carniche, mancava il riscaldamento e le ca-
stellane si raccoglievano con i familiari intorno ai caminetti pro-
1 G. Margotti, op. cit., p. 370.
2 Inventario de li prestamenti di Aurora d'Arcano (1567), in Arch. co. d'Arcano.
3 Inventario de li prestamenti di Riccarda d'Arcano (1571)^ in Arch. co. d'Arcano.
96 ALICE SACHS
lettori, ravvolte nei fazzoletti da spalla, foderati di pelle di lepre,
di agnello, di vaio. Orsina Venier aveva sei fazzoletti da gpalla,
larghi due metri: erano dei veri e propri scialli. Quelli delle bor-
ghesi e delle popolane erano più piccoli e meno ricchi, li fode-
ravano alle volte di pelliccia. Fra la biancheria erano messe anche
le calze di lana, di cotone e di seta. 11 primo paio appartenne
nel 1521 a una contessa di Polcenigo.' Furono pochissime usate
in tutto il '500, anche nel '600 il loro numero è limitato. Il presta-
mento della ricchissima Sulpicia della Torre non ha che quattro
paia di calze di seta e sei di cotone. L'uso di andare a piedi nudi
si mantiene fra le contadine anche ai giorni nostri; nel '600 i
piccoli piedi bianchi delle donne friulane erano cantati dai poeti :
Ciro da Pers ha un sonetto * per bella donna che passeggia scalza
in un giardino. Alla mancanza di riparo e di calze esse suppli-
vano, nelle fredde giornate, con i sacconi foderati di pelo e fatti
di lana: sono specie di federe, si ritrovano spesso nei presta-
menti e in esse le castellane mettevano i piedi. Le donne ricche
potevano condannarsi all'immobilità. Non sappiamo come le po-
polane provvedessero al freddo e alla mancanza di calze. Con i
sueciafs, asciugatoi da capo, l'enumerazione della biancheria per-
sonale è finita. 11 numero di questi asciugatoi è abbastanza alto.
Le friulane, come le veneziane, usavano lavarsi spesso i capelli
per applicarvi poi quelle tinture, delle quali ampiamente si parla
nt\Y Opera nuova piacevole la quale insegna a far varie campo-
sltioni odorifere per far bella ciascuna donna? I sueciafs servi-
vano per asciugare i capelli : per fare il massaggio le signore li
mettevano sulle spalle quando i capelli erano sciolti e passeggia-
vano al sole per imbiondirli. Dunque la biancheria della friu-
lana del '500 e del '600 era della stessa quantità di quella delle
donne moderne, ma più ricca e più vivace per lo scintillio dei
colorì, per l'amore dell'oro e dell'argento. La stoffa usata per la
biancheria era la tela, trasparente come il renso, forte come la
tela lucida che usciva dagli opifici di Udine e di Gemona. Per la
biancheria da casa era pure usata la tela; poco è nella biancheria
di cucina il cotone. In tutti i prestamenti, anche in quelli delle
popolane, sì nota una grande ricchezza della bella tela che le
donne si tessevano, che ogni contadina creava quasi da sé. Era
infatti usanza friulana di dare un pezzo di terreno alla ragazza
» O. Margotti, op. cit., p. 370.
* C. DI Pers, op. cit.
> Eustachius Celebritms Utinensis, 1532.
lE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 97
promessa perchè vi coltivasse il lino, che doveva servire al suo
prestamento.
La biancheria da casa comprendeva asciugamani, federe,
lenzuola, tovaglie. In questi vestimenti avviene l'inverso di quello
che avviene nella biancheria personale che è molto più abbon-
dante nei prestamenti nobili. La biancheria da casa si trova sempre
nei prestamenti delle borghesi e delle contadine, non sempre
negli altri. Nelle ricche casate la famiglia dello sposo aveva la
biancheria da casa ornata con lo stemma di famiglia, la sposa
portava pochi oggetti: un paio di tovaglie ricchissime ricamate
a punto in aria, e alcune paia di lenzuola. La maggior quantità
di biancheria da casa portata da Claudia di Colloredo ^ ha sei
tovaglie damascate con l'arma, altre con un segno di croce, alcune
damascate a fiorami e con segni diversi ; alle tovaglie corrispon-
devano tovagliuoli uguali. Portava inoltre sette paia di lenzuola
fini, sette per la servitù, venticinque ordinari e molte federe.
Molti prestamenti avevano « mantili lavorati per cassa o altro » :
si mettevano sui cassettoni, sulle casse nuziali, sulle credenze. In
tutti i prestamenti indistintamente, anche nei più poveri, ci sono
almeno due paia di lenzuola di tela, quattro federe, una tovaglia,
alcuni tovagliuoli e asciugamani. Anche la biancheria delle bor-
ghesi era ricamata; tutti gli inventari distinguon tra biancheria
schietta e lavorata. Non solo nelle biancherie, ma nelle calze,
nei guanti, nelle vesti specialmente, c'era abbondanza di ricami.
Nel '500 sulle vesti si faceva tutto con Vago e la seta: il ricamo
rivaleggiava, nei limiti del ragionevole, con la pittura.* I magnifici
lavori si facevano sulle stoffe di seta e l'Italia era il paese più
progredito nell' industria dei tessuti. Venezia aveva non soltanto
manifatture proprie, ma era anche il principale centro d'impor-
tazione di sete dall'Oriente. Le ricche stoffe erano dappertutto
nelle case e negli abiti, il lusso non era ancora, come forse di-
venne in seguito, sfoggio volgare di ricchezza, ma era accom-
pagnato sempre dalle più alte ragioni dell'arte. Dagli inventari
che elencano, dalle leggi suntuarie che proibiscono, possiamo
farci soltanto una meschina idea di quali fossero gli abiti ricor-
dati alle volte con nomi a noi nuovi e inspiegabili. Udine aveva
una buona fabbrica di stoffe : un mercante di panni, un tessitore
e due nobili erano deputati ogni anno a giudicare se il lavoro
1 Inventario deUa biancheria di Claudia di Coloredo {1633), ras. in Archivio march.
di Colloredo, in Colloredo di Montalbano.
» A, Melani, Svaghi artistici femminili, Milano, 1892, p. 34.
98 ALICE SACHS
era fatto con tutte le regole.* Dalle fabbriche friulane uscivano
molte stoffe, di cui si vestivano le spose, il lusso c'era, ma non
era, come in altri paesi, procurato con denari accumulati dai padri,
che i figli sperperavano; derivava dall'agiatezza, dall'economia,
dal lavoro. Operai friulani lavoravano le stoffe, giovani pure
friulani al servizio della Serenissima o dai porti di Ugnano e di
Marano partivano per l'Oriente, dove prendevano le spezie e le
sete che li arricchivano e le perle di cui incoronavano le loro
donne. I padri, i fratelli stessi delle spose, di ritorno dalla caccia,
passatempo e occupazione preferita quando la guerra o le incur-
sioni dei turchi non richiedevano la loro presenza, portavano
alle donne le pelli di martora, di volpe e di lupo perchè faces-
sero le pellicce di cui è ricco ogni prestamento. Anche le popo-
lane hanno almeno una pelliccia di agnello ricoperta di panno,
le borghesi e le nobili ne portano due o tre di vaio, di martora,
di volpe, ricoperte di damaschi o di velluto. Non usavano le
pellicce, come usano ora, col pelo esterno; più pratiche e forse
più eleganti, col pelo foderavano le loro cappe. Le vesti erano
pure foderate di pelo, alle volte col collare di martora o di
volpe. Le vesti nuziali si facevano sulla moda veneziana cambiata
e deformata un po'. Mentre a Venezia l'instabilità della moda
era insuperabile, paragonabile solamente a quella della Francia
del XVII e XVIII secolo,^ la moda friulana non variava. Meno
alcune poco fortunate innovazioni nei due secoli che studiamo,
la moda si mantiene nelle vesti quasi costante. Contribuì a man-
tenere questa stabilità, oltre al desiderio di economia, la ricchezza
delle vesti che passavano come le gioie da una generazione ad
un altra. Possiamo farci idea delle peregrinazioni di un vestito:
« D' una sua veste Madonna Agnesina madre de Monsignor Hiero-
« nimo fece una vestitura paonazza a Madona Cicilia madre del
« conte Federico, da poi la fo datta, a mia madre in dotta ; mia
« Madre la dite a Marcia mia sorella in dotta; anchuo lo di è
« bona » .' Una veste che serve a quattro persone, che non è sde-
gnata da due spose, rappresenta quanto si può desiderare d'eco-
nomia e di solidità. Ogni prestamento ricorda alcune vesti già
usate e quasi nuove. Gli abiti migliori del corredo materno riposti,
dopo i primi giorni di matrimonio, passavano alla figlia sposa.
1 M. A. FiDUCio, Del modo di governo della comunità di Udine nel secolo XVI,
Venezia, 1862, p. 18.
» MOLMENTI, op. cit., p. 408.
3 A. PURLILIBSE, op. dt., p. 207.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 99
Anche ora fra i contadini passano da madre in figlia non sol-
tanto i coralli e gli scialli, ma le vesti migliori e le scarpe che
le nostre contadine mettono soltanto nelle grandi ricorrenze. 11
vestito era formato da tre parti : la veste che comprendeva la sot-
tana e il corpetto, il busto, le maniche. Il busto era della stessa
stoffa della sottana, le maniche, differenti, si cambiavano spesso
anche con lo stesso vestito per ottenere una varietà maggiore.
Le vesti di prammatica in ogni prestamento erano quelle di raso
bianco, di velluto cremisino ; ma, oltre a queste, quale varietà di
abiti di velluto nero, verde, azzurro, paonazzo o rosso, di seta
a fiori d'oro e d'argento, di ormesino bianco tessuto a perline,
tramato d'oro. 11 corpetto era ornato da un collare di pizzo
sostenuto da vergole, ricopriva parte della capigliatura, era attac-
cato alla fodera del vestito e sopra si metteva il busto ricamato
in oro ed argento. Scendeva a punta davanti per allungare la
vita, la breve scollatura ovale dava grazia alla persona. Alla fodera
del vestito s'attaccavano le ampie maniche ricadenti fino a terra,
aperte sopra l'avambraccio in modo da far vedere le maniche
differenti che si mettevano sotto. Erano ricamate in oro, ornate
nella loro lunghezza da pelli, finivano con un pizzo bianco uguale
al colletto che ricadeva sulla mano, nascondendone quasi metà.
Dal capo, per tutta la lunghezza del vestito e dello strascico, scen-
deva un velo nero trapunto d'oro. 11 velo era fermato con il
frinellum, una ghirlanda di seta ' lavorata d'oro a perline e a bot-
toni e posava molto avanti quasi a metà della fronte. Spesso il
frinellum portava a metà una grossa perla pendente, che scendeva
sulla fronte tra i piccoli riccioli biondi. La cura per l'acconciatura
del capo era minuziosa: le donne cercavano tutti gli ornamenti
che potevano accrescere lo splendore delle magnifiche chiome
biondo-dorate. Portavano ricche cuffie ricamate o fatte interamente
d'oro. L'uso ne era molto diffuso; le nobili avevano da venti
a venticinque cuffie d'oro; l'uso passò alle popolane. Nel 1548
Beatrice, nipote di un parroco, portava una cuffia d'oro con gli
ornamenti d'argento che scendevano fino a mezza vita.* Nel 1548
la figlia di un barbiere oltre a una cuffia d'oro ne aveva una
di lino per la notte. Ai capelli appuntavano delle trecce, che
chiamavano code, di seta ornate di perle d'argento. Erano soste-
nute internamente da un filo di ferro che le rendeva mobilissime,
> V. Joppi, Dei corredi nuziali delle gentildonne friulane nel secolo XIV, Udine
1887 ; ved. voci latine dei bassi tempi, p. 23.
* V. Joppi, Notar iorum cit., voi. I.
100 ALICE SACHS
e i capelli ricevevano un riflesso di perie e d'oro. Lo stesso
effetto raggiungevano con gli strezzadori: nastri e fili d'oro e
d'argento che intrecciavano ai capelli. Gli strezzadori s'appunta-
vano agli stropuli che non differivano dal frinellum ; erano fascie
di velluto scuro che giravano intorno al capo e sorreggevano
la massa dei capelli. Nella prima metà del '500 s' usavano anche
i cappelli e incominciarono i berretti alla francese di velluto nero
con una piuma bianca.
Non per riparo ai vestiti, come ora, ma ricchi in ogni pre-
stamento si trovano i grembiuli di seta lavorati d'oro, di tela di
renso o di forte tela greggia, che male non si addiceva con i
manegotti. I ricami di cui erano ornati si spargevano dappertutto,
sui guanti, sulle scarpette, sulle scarpe, sui ventagli. I guanti,
dopo la metà del '500, divennero di uso comune, erano di seta,
di tela, di trina. Molte volte si profumavano. La vera mania dei
profumi, che nel '500 invase tutta l' Italia, si sparse anche nel Friuli :
i prestamenti ricordano i guanti e le pettorine profumate, le spille,
gli orecchini d'ambra. Ma il profumo preferito era la maggio-
rana, e lo statuto della Patria infliggeva forti multe a chi osava
rubarlo dalle finestre, dai giardini. Le friulane usavano gli alti
zoccoli, che non raggiungevano però le altezze esagerate dei cal-
cagnetti veneziani.* Erano di uso frequente: una popolana nel 1542
ne aveva quattro paia, tre di cuoio, uno di velluto. Più spesso
però usavano le scarpette, scarpe di velluto dalla suola di panno.
Le nobili avevano le scarpe e le scarpette che adoperavano per
casa. Sarebbe troppo lungo fermarci su tutti gli altri indumenti
che ogni sposa portava nelle sue casse : sulle collarine, pettorine,
baveri, su tutti i piccoli oggetti di eleganza, che servivano a dare
a un vestito mille aspetti diversi. La seconda parte dei presta-
menti era formata dalle gioie. Nel XVI e XVII secolo si fece un
grand' uso di gioielli, si tenevano come un patrimonio di riserva,
che le friulane spesso e senza rammarico davano alle casse pub-
bliche, perchè servisse ai poveri nei momenti di carestia o pro-
vedesse dì soldati la Patria e la Serenissima, combattenti con
fede e con entusiasmo per salvare S. Marco dall' insidie dei col-
legati a Cambrai. I braccialetti, gli orecchini, le corone, le gar-
gantiglie si fondevano e si trasformavano nelle monete d'oro
della Serenissima. Alla fine del '500 ai gioielli d'oro cesellati si
sostituirono in parte le pietre preziose, che si ritrovano più fre-
i MOLMENTI, Op. Cit., p. 418.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVit lOl
quenti nei prestamenti insieme alle perle preferite e usate anche
nei secoli precedenti. Le popolane avevano sempre le stesse gioie :
un anello, il cordone (una grossa catena d'oro), gli spadini con
i quali si ornavano il capo come ora le contadine del Milanese.
Fra le gioie trovavano posto le cinture, gli agorai, gli specchi
con le cornici d'argento, le corone da rosario fatte in pietre dure
con i segni in oro. Erano tutti oggetti d'arte e di valore, come
i paternostri, che si tenevano appesi alla cintura per ornamento
più che per devozione. L'oreficeria era nel secolo XVI in Friuli
un'arte ; si discuteva il lavoro nei manitti e nelle gargantiglie delle
donne, come ora si discuterebbe un quadro e non si ammirano
e osservano i gioielli, nei quali la ricchezza delle pietre preziose
toglie quasi interamente il pregio del cesello e della legatura.
Dopo i gioielli trovava posto l'argenteria: piatti grandi e piccoli,
i torreggianti candelabri, che ogni sposa doveva portare, con i
relativi smocaorl, nel suo prestamento. L'uso delle forchette e
dei coltelli andò diffondendosi durante il XVI secolo. Nella prima
metà del '500 una Veronica ostessa * aveva forchette d'argento
in buon numero. Era uso antico di porre in ogni prestamento due
bacini d'argento e due di bronzo come ricordo dei lavori fami-
liari, ai quali le spose dovevano attendere.
Alla fine del '500 il lusso nelle case e nei castelli friulani diventa
grandissimo. I castellani che visitavano Venezia ritornavano entu-
siasti della magnificenza dei suoi palazzi, su quelli cercavano di
modellare l'arredamento dei loro massicci palazzi o dei turriti
castelli. Dai prestamenti delle spose traspare la ricerca della bel-
lezza nella casa e nei mobili, che dovevano figurare nelle sale
dai soffitti di legno meravigliosamente intagliati o sotto le volte
affrescate dall'Amalteo o da Giovanni da Udine. In Friuli, come
a Venezia,* si cercava il bello nei più utili e umili oggetti, un
gusto signorile e vario avvolgeva tutta la vita domestica. Le stanze
da letto ricoperte da ricchi damaschi accoglievano i cassettoni
dai cento piccoli cassetti visibili e segreti, dal ripiano intagliato
a scene della storia dell'antico e nuovo testamento. I letti di legno
di noce, con le colonnette che salivano snelle e lavorate a sor-
reggere il baldacchino di seta, di damasco e di velluto, che le
leggi suntuarie invano proibivano, le casse lavorate, le alte pol-
trone ricoperte di velluto, i tavolini, le sedie più piccole, i grandi
> V. Joppi, Notariorum cit., voi. I.
* MoLMENTi, op. cit., p. 369.
Ì02
ALICE SACHS
specchi delle fabbriche veneziane si ritrovano in ogni ricco pre-
stamento. Al letto, che tutte le spose anche le più povere con-
tadine portavano, erano uniti i materassi, i cuscini, le coperte.
Fra i mobili si ricordavano gli oggetti da cucina, pentole, mar-
mitte, padelle. 11 rame, come lo chiamavano, si trova spesso nei
prestamente Si trovano anche le tende di seta, le acquesantiere,
i quadri a soggetti sacri e profani. Isabella Borato * portò, oltre
alle solite vestimenta, mobili e bellissie, tre quadri, uno rappresen-
tante il presepio con l'adorazione dei pastori, un altro con i santi,
un terzo di pietra a soggetto pure sacro. Portò anche tre libri,
un breviario e tre libretti. Il piccolo libro da messa, l'astuccio
per il cucito, gli oggetti per ornamento, il libro dei conti si ritro-
vano in ogni prestamento. Così noi lontani possiamo seguire la
vita della sposa friulana, nelle feste splendente di gioia e di vesti
sontuose ed eleganti, la seguiamo nel lavoro, nel governo della
famiglia, nella preghiera, nella casa, sempre attraverso a oggetti
d'arte e di lusso che intravediamo appena, ai quali la frettolosa
e borghese vita moderna ci ha appena abituati.
In Friuli si facevano alle spose molti doni, ricordati anche
dagli statuti. Nei secoli precedenti i doni erano un'assicurazione
in caso di vedovanza e nel caso che il marito non pensasse più
alla famiglia. Nel rinascimento la forma giuridica resta ancora
come cristalizzazione di un periodo di civiltà anteriore; si man-
tiene in condizioni cambiate come consuetudine. Uno dei doni era
quello delle dismontaduris, che il marito faceva alla sposa quand'ella
giungeva a cavallo dalla casa del padre a quella nuziale. Glielo
presentava solennemente quando la sposa scendeva da cavallo ;
e da ciò sembra derivare il suo nome. Nelle consuetudini di
Concordia e di Gradisca * insieme al vocabolo lis dismontaduris
si trova quello di descensuris e in qualche documento hono-
randis regalia palafrenatus cavalcata} Durante il medio evo i
» Istromenti del not. N. Foenis (1663-72), in Arch. Not. di Udine.
* C. FoRNERA, Lis dismontaduris, uso nuziale friulano, Udine, 1885, p. 18.
' La traduzione di dismontaduris in descensuris appare ovvia : però è da chie-
dersi se la forma dismontadura sia molto antica, o non si tratti di una modifica-
zione volgare di un'originaria dismundiatura ; questa ipotesi fu fatta già nel 1884
da Michele Leic it, Lis dismontaduris, Venezia, per nozze. P. S. Leicht poi,
nel Parlamento della Patria del Friàli, Udine, 1903, p. 171, avvicinò queste dismon-
Le nozze in FRIULI NEI SECOLI XVI E XVIl 103
doni per dismontaduris avevano un valore rilevante, erano fatti
da tutte le classi per solennizzare la traduzione della sposa. Era
uso gentilissimo che la sposa, appena arrivata alla casa nuova,
ricevesse una manifestazione della benevolenza con la quale era
accolta, della gioia che portava nella famiglia. Nel secolo XV e
al principio del XVI, come dono d'arrivo la sposa riceveva un
servo di masnata, oppure un cavallo bianco riccamente bardato
con appesa alla briglia una borsa contenente denaro. Durante
il '500, e molto piìi in seguito, i doni di dismontaduris diminui-
rono di valore. L'assegno vedovile era rappresentato dalla con-
trodote e, pur sussistendo, aveva un valore più simbolico che
reale. Si regalavano bronzini (vasi di bronzo), anelli, cinture. An-
cora nel 1571 Riccarda d'Arcano * riceve per dismontaduris un
cavallo bianco con la sella lavorata e Filippo d'Arcano regala,
nella stessa occasione, a Chiara di Valvasone Maniago una cassa
con molte monete. L'uso meno poetico, ma più pratico, di rega-
lare monete, invece che oggetti, divenne frequente. Già nel 1504 il
pittore O. A. Pordenone * dà alla moglie in dono cinquanta lire
e la libertà di usarne. Resta un solo esempio ' di un dono fatto
dallo sposo alla sposa, mentre partiva dalla casa paterna: il dono
d'assenturis. Non sappiamo il suo valore, perchè era promesso
insieme alla controdote, dismontaduris e altri doni: la somma
complessiva era fissata a cinquecento ducati. Un altro dono era
il morgengabio. In antico consisteva in oggetti o in denaro; in
quest'ultimo caso aveva lo scopo d'assegno vedovile, poiché la
meta era pagata al padre, il morgengabio ; era una largizione alla
moglie per provvedere al suo avvenire. Questo dono scomparve
nel secolo XII e XIII in molte città.* Nel secolo XV finì quasi
interamente. Si ritrova invece in Friuli per tutto il secolo XVI,
alle volte anche nel XVII, forse per quel carattere conservatore
proprio dei popoli abitanti i monti. In quasi tutte le città era
dato alla mattina dopo il matrimonio e rappresentava il regalo
del marito alla moglie che era pura. Il Fontanini pubblicò nelle
taduris alle dismundiaciones toscane. Si tratterebbe di un tardo ricordo del prezzo del
mundio. Questa opinione fu accolta anche dal Solmi, Manuale di storia del Di-
ritto Italiano, Milano, 1908, p. 834 e dall'ERCOLE, Vicende storiche della dote ro-
mana, Roma, 1908, p. 210. Per l'opinione opposta ved. di Prampero, Dismontaduris
e Morgengabium, Udine, 1884, per nozze Schiavi-Bressanutti.
1 Patti dotali R. d'Arcano-F. di Cordovado, in Arch. co. d'Arcano.
* JOPPI, // primo matrimonio del pittore G. A. detto il Pordenone, Udine, 1886.
3 Patti dotali A. Strassoldo - F. Arcano (1574), in Arch. co. d'Arcano,
* Fertile, op. cit., p. 276.
104 ALICE SACHS
sue Vtndiciae^ un documento cividalese del 1163, nel quale
Folco dà a Gerlint sua sposa, omnia sua propter pretium in mane
quando surrexit de ledo. Non si potrebbe accennare più chia-
ramente al pretium virginitatis, che, per Tappunto, è il signifi-
cato originario del morgengabio. Questo però in Friuli, più tardi,
si confuse talvolta con un altro dono, che veniva invece offerto
alla sera e perciò portava il nome caratteristico di antelectum.*
In ogni modo il morgengabio perde un po' alla volta 1* importanza
grandissima che aveva avuta in antico ; nei tempi di cui parliamo
i rapporti patrimoniali fra i coniugi erano sostanzialmente re-
golati dal sistema dotale. Il morgengabio era promesso insieme
alle dismontaduris nei patti dotali. Alle volte in uno strumento a
parte, quand'era indicata la controdote. Il suo valore oscillava
tra i venticinque e i cinquanta ducati. Gli statuti della Patria or-
dinavano ^ che la donna fosse assoluta padrona, anche contro la
volontà del marito, di questi doni, come e di tutti gli altri che
il marito le faceva, e di quelli che riceveva per le nozze. I doni di
morgengabio e di dismontaduris erano assolutamente suoi in vita
e in morte. Questa concessione era fatta per escludere l'analogia
con la dote, che non poteva essere alienata che in casi speciali.
Serviva alla donna per provvedere le vesti, teneva il posto in-
somma del moderno spillatico. Le consuetudini gradiscane* af-
fermano quello che stabiliscono le leggi della Patria, distinguono
invece nei doni per nozze: spettavano alla moglie soltanto se
erano personali. Ma tutti i doni che la sposa riceveva dal ma-
rito o da altri erano oggetti personali : anelli e cinture. L'anello
nuziale, semplice, d'oro, chiamato la vera, poi altri anelli più o
meno ricchi. Alcuni raggiungevano la somma di due o trecento
ducati come quello di Aurora d'Arcano che aveva bellissime perle.
Il Pordenone prometteva alla sposa per dono nuziale anelli e
cinture. Altri anelli erano regalati dal compare.^ I doni, che face-
vano i parenti, raggiungevano pure una somma considerevole. I
nobili regalavano alle sorelle, alle nipoti spose, dei veri valori : i
regali di Aurora d'Arcano ^ raggiungono la somma di duemila
i FoNTANiNi, Vindiciae antiquorunt Diplomatum, Roma, 1705, p. 253 ; ved. Leicht,
// parlamento della patria del Friuli cit., p. 174.
* Prampero, Dismontaduris e morgengabium cit., p. 12, a. 1295: donazione di
7 marche iure antelecti et morgengabil; così p. 11, a. 1291.
■^ Costitutioni de la Patria cit., p. 71.
* Consuetudines Gradiscane (1575), Udine, 1878, cap. XXXIV.
5 O. DI Strassoldo, op. cit., p. 56.
« Regali di Aurora d'Arcano {1567), in Arch. co, d'Arcano.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVIl l05
ducati cioè quanto una dote. Fra i doni nuziali si trovano anelli,
braccialetti, orecchini, cinture, le quali erano un dono preferito,
di tutti i generi, ricamate, lavorate, ornate di perle, fatte d'oro con
la fibbia di pietre preziose. Non mancano fra i doni nuziali
quelli di stoffe : una pezza di « ormesin » , alcune braccia di velluto
cremisino, molti metri di tela, ^ dono frequente e utile, che ser-
viva alla sposa per preparare la biancheria, che le mancava o i
nuovi corredini ai quali avrebbe dovuto pensare.
A Udine si seguiva l'uso che i conoscenti mandassero alla
sposa in regalo, nel giorno delle nozze, confetti, marzapani, polli,
carne e perfino uova. Regali utili anche questi, che permettevano
alle famiglie, senza sostenere una spesa troppo forte, di prepa-
rare quei ricchi e interminabili banchetti nuziali, dei quali par-
leremo in seguito. Manca negli inventari dei doni il ricordo di
quei tanti piccoli oggetti graziosi ed inutili con i quali si rega-
lano ora le spose. Se si dovessero in qualche modo classificare
i doni nuziali ora, ci sarebbe una minuta divisione di gioielli,
oggetti per casa, gingilli. 1 doni d'allora si possono dividere nei
tre gruppi : gioie, stoffe, cibi, doni tutti fatti a seconda della pa-
rentela con gli sposi e della somma che si voleva spendere. Dei
doni non destinati ad uso speciale delle spose, di cui parlano
le consuetudini gradiscane, non resta notizia alcuna. I castellani
obbligavano i vassalli a fare alcuni doni in tempo di nozze. Rap-
presentano quasi un livello dei vassalli: essi dovevano con spa-
vento vedere le nozze dei padroni, perchè la spesa diventava
ingente quando il signore aveva un discreto numero di figlie.
11 livello, in caso di nozze, era generalmente di cinque stala di
frumento, tre di avena, sette paia di galline.* A questi doni ob-
bligatori la sposa ricambiava con vesti e fazzoletti dati alle donne,
borse agli uomini. Erano tutti oggetti vecchi, che avevano già
servito alla sposa. Non c'era davvero pericolo che la sposa friu-
lana regalasse ai servi e alle donne di casa le vesti di seta e
di scarlatto, le calze ricamate, che le leggi suntuarie bresciane '
proibivano che si donassero in simili occasioni. Restano da ve-
dere i regali che le comunità facevano agli sposi. Ognuna di
esse incaricava il massaro di fare i regali ai principi in occa-
sione di nozze. I Consigli tenevano pronto il capitale che do-
veva servire a comperare i regali ai signori del luogo, che si
1 Regali di Riccarda d^ Arcano {1571), in Arch. co. d'Arcano.
' Calcoli delle entrate e spese cit.
3 A. Cassa, Funerali, pompe e conviti, Brescia, 1887, p. 124.
Ì06 ALICE SACHS
maritavano.* Il Comune dì Udine aiutava con un dono in de-
naro a sostenere le spese di nozze della famiglia Savorgnan
amica del governo e protetta da esso. Il 24 ottobre 1580 Ni-
colò Deciani scriveva al Comune di Udine una lettera che fu
Ietta in Consiglio e diceva : « V 111. signor Ascanio Savorgnano è
« fatto sposo in una figliuola del q.™ Ecc.""* m. Giovanbattista lusti-
« niano parente dell'Ecc. nostro luogotenente al quale W. M. M.
« si degneranno dar tal nuova. Sua Sig. invita la Mag.* Comunità
« ad esser compadre de l'anello insieme con il Ecc. mess. Zorzi
« Oradenigo nel suo sponsalitio et la prega con instantia grande
« ad accettar tal invito a nome di essa, che così a noi ha dato
« commissione che le invitiamo et preghiamo. Accettando elle
« r invito, come crediamo, manderanno alcuno o daranno com-
« missione a chi li piacerà, che faccia tal effetto a nome di essa.
« Et di ciò aspetteremo in breve risposta per risolverlo » .* 11
Consiglio nella stessa seduta deliberava di accettare l'invito e
nominava il sig. Francesco Maseri a rappresentare il Comune.
Il Maseri doveva recarsi a Venezia per assistere allo sposalizio,
« come tocca a un vero compare e lo stesso compare deve tro-
« vare e far formare un bel diamante in forma d'anello spen-
« dendo del denaro della comunità fino a ducati 150, per re-
«galarlo alla sposa». Un uso che si mantenne fino al cadere
della repubblica era: le figlie dei luogotenenti, che nascevano a
Udine, mentre il padre era reggente della Patria, erano tenute a
battesimo dalla Comunità. Una di queste figlioccie di Udine era
Maria Duodo, e il 24 gennaio 1584 il Comune ricevette un'altra
lettera che si lesse pure in Consiglio : « A me parerla de mancar
« de quel amore che porto a quella magnifica città se non li
« dessi nova che agli cinque del presente io ho maritato l' ul-
« tima mia fiola, furlana et nata i quella magnifica città et sua
« fiozza; e ne son certissimo che ne ha però quel contento che
« ne sento mi medesimo. Il sposo si è magn.° M. Francesco Diedo,
« nipote del vescovo di Crema, giovane virtudioso et di bon
« nome, che il signor Iddio li dia quella consolatione che a tutti
« doi li sposi lei medema desidera. La sposa si ha nome Maria,
« e spero ancor le forse non passerà molto tempo che le veni-
« ranno con qualche occasione a veder quella magnifica città
« dove mi allegro con le Mag."' V." alli suoi cavallieri, che il
> NlCOLETTI, op. Cit.
« ACU., Annaìium cit, lo. LX, f. 218.
Le nozze in FRtULl NEI SECOU XVl E XVIt Ì01
€ n.'" S.' Iddio ne doni vita di poter veder maritare anche de le
« prole di essi : e con questo venirò a far fine offrendomi di
« continuo alli suoi piaceri. » * Anche questa volta il consiglio de-
libera di non lasciare passare le nozze senza un segno della
propria benevolenza e ordinava di regalare alla sposa; ma non
è detto quale fosse il regalo. Nel 1587 la Comunità dovette so-
stenere un'altra spesa per un regalo di nozze. Una figlia di Giu-
stiniano Giustiniani, che era stato luogotenente di Udine, era
fatta sposa. Il consiglio deputò un nobile a fare un piccolo re-
galo alla sposa, spendendo quanto abbisognava del pubblico
denaro.*
III.
LA CELEBRAZIONE DEL MATRIMONIO.
Presso le popolazioni romane il legittimo matrimonio aveva
origine dal consenso. Anche la coabitazione, purché fatta colla
volontà di vivere coniugalmente, costituiva vero e proprio ma-
trimonio. Nella società germanica i matrimoni avvenivano per ratto
o per compera.' Il ratto era divenuto raro, perchè il mundio non
si poteva ottenere che con la compera, poiché nel diritto germa-
nico il consenso della donna non aveva alcun valore, ma valeva
soltanto il consenso del padre o del mundoaldo. Con semplici
forme di consenso e col portare la sposa alla casa nuziale il
matrimonio si aveva per concluso. Nemmeno il cristianesimo
impose qualche cerimonia speciale al costituirsi del matrimonio.
È soltanto con l'età carolingia che questo consenso deve esser
manifestato dagli sposi in forma solenne, ciò che dimostra come
la personalità della donna avesse acquistata ormai un'importanza
tutta nuova.* La manifestazione del consenso e la consegna po-
tevano avvenire nello stesso tempo o in due momenti diversi,
allora il primo si chiamò degli sponsali, il secondo della traditlo.
Oli sponsali nel diritto romano producevano una spes matrimonii,
ma nessuna speciale obbligazione e non formavano parte essen-
ziale del contratto, si poteva avere la traditlo non preceduta da-
gli sponsali.^ Nel diritto germanico gli sponsali costituivano l'ob-
i ACU., Annalium cit. to. LXI, f. 145.
« ACU., Annalium cit. to. LXII, f. 167.
» G. Salvigli, op. cit., p. 307.
* P. S. Leicht, Ricerche sul diritto privato cit., p. 91.
3 F. CicCAOLiONE, Gli Sponsali e la promessa di matrimonio nello storia e nel
diritto italiano, Milano, 1888, p. 15.
108 ALICE SACHS
bligo per lo sposo di prendere la sposa, e per questa di seguire
lo sposo, la traditio non era che il mantenimento necessario
della promessa precedente. Gli sposi avevano già degli obblighi
reciproci, erano già uniti prima della traditio. La consegna si
faceva solennemente e con questa era concluso il matrimonio.
Per le popolazioni viventi a legge romana e per quelle viventi
a legge longobarda la storia della celebrazione del matrimonio
si divide in due periodi, il primo anteriore al concilio di Trento,
il secondo che s'inizia con quello nel 1563. Fino al concilio di
Trento i matrimoni erano riguardati come contratti. Nessun in-
tervento della Chiesa era necessario, nemmeno la presenza del
sacerdote e la benedizione data in chiesa o fuori. Nessun rito ec-
clesiastico influiva sul compimento del contratto. Le popolazioni
romane o quelle viventi a legge romana si maritavano senza
l'intervento dello Stato. Quelle viventi a legge longobarda con-
cludevano i loro matrimoni in presenza della pubblica autorità. '
Lo Stato riconosceva valida una forma di celebrazione o l'altra,
obbligava alle volte a celebrare il matrimonio in presenza della
pubblica autorità, ma non riteneva nulli i matrimoni celebrati pri-
vatamente. Al tempo dei longobardi e dei franchi i matrimoni
si celebravano alla presenza dei giudici. Ma siccome all'ufficio
di giudice andava unito quasi sempre quello di notaio, essendosi
nella stessa persona uniti due uffici, non si tenevano distinte le
due attribuzioni. Il potere dei giudici di rappresentanti della pub-
blica autorità, innanzi ai quali i matrimoni erano legalmente ce-
lebrati, passò ai notari. La pratica romana e quella longobarda
coesistevano in Friuli. Si avevano i matrimoni celebrati privata-
mente e alcuni, come in tutta l'Italia centrale e settentrionale
dal XII secolo, conclusi davanti ai notari, che esercitavano atti di
giurisdizione volontaria, rogavano attestazioni di atti compiuti alla
loro presenza. La pratica romana e quella longobarda coesistenti
fino dal IX secolo, poiché la lex romana utinensis permetteva di
celebrare i matrimoni « inter parentes aut iudices, vel bonos vi-
« cìnos», durava ancora nel XVI secolo in Friuli e durò fino al
concilio di Trento. Alcuni sposalizi si celebravano davanti al no-
taro altri, e questi erano in numero maggiore, davanti a testimoni
non rivestiti di alcuna pubblica autorità. Il matrimonio si cele-
brava in una stanza, sotto una tettoia, sull'aia, sotto un albero.
» F. Brandileone, V intervento dello Stato nella celebrazione del matrimonio in
Italia prima del concilio di Trento, in Atti della R. Accademia di scienze morali e
politiche, voi. XXVU, p. 271.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 109
Uno dei testimoni domandava alla sposa: laudas tu, N. come
marito a letto e a mensa secondo le lodevoli consuetudini della
Patria? La sposa rispondeva tre volte: laudo. La stessa domanda
si rivolgeva allo sposo, ottenendo la stessa risposta. Dopo questa
affermazione della volontà dei contraenti, il matrimonio si riteneva
concluso. Gli sposi si davano la mano, si scambiavano l'anello,
si abbracciavano davanti ai testimoni, per dimostrare che il ma-
trimonio era concluso e che essi erano uniti ormai per l'eternità.
Fra i testimoni non rivestiti di nessuna autorità dallo Stato o
dalla Chiesa erano i chierici.' Per quella speciale attrattiva, che
esercitano sul volgo le persone più colte che sanno di latino,
i preti nelle celebrazioni erano ricercati come testimoni. Un po'
per volta fecero prevalere la loro ingerenza nella celebrazione
del matrimonio, il quale, benché restasse un atto puramente ci-
vile e privato, poiché la chiesa era luogo naturale di riunione,
si celebrava in facle ecclesiae. I matrimoni non celebrati in faccia
alla chiesa erano riprovati come clandestini, ma ritenuti validi.
La domanda di assenso, che poteva esser fatta dal chierico o da
qualunque testimonio, poteva anche esser fatta direttamente dagli
sposi. Invece della domanda si faceva qualche volta già l'affer-
mazione: «Io accetto te per mio legittimo marito secondo le lo-
devoli consuetudini della terra. — Io accetto te per mia legittima
moglie secondo le lodevoli consuetudini della terra».* Così
la celebrazione del matrimonio ci si presenta in Friuli, dopo la
promessa fatta nei patti dotali, sotto forma di semplice consenso,
espresso dalle parti contraenti alla presenza di due o più testi-
moni. Questi erano alle volte parte attiva, perché rivolgevano
le domande, alle volte erano semplici spettatori che udivano so-
lamente le domande e le risposte, che si rivolgevano gli sposi.
Nel secolo XVI la domanda di assenso era seguita dalla dichia-
razione: secondo i riti della santa romana chiesa, della chiesa
aquileiese e delle antiche consuetudini della Patria del Friuli
Nessun statuto prescriveva l'intervento di un rappresentante del-
l'autorità pubblica nella celebrazione del matrimonio : questa in-
gerenza, benché ci fosse, poiché resta qualche dichiarazione di
sposalizio rogata da notaro, doveva ridursi a pochi casi speciali.
Gli statuti sempre pronti a dettare qualche norma affinché in
nessun modo avvenissero abusi, mentre fissavano particolareg-
> FORNERA, Op. Cit., p. 15.
* A. Battistella, Un curioso processo matrimoniale, in Memorie storielle Foro-
giuliesi, Vili, 1912, p. 73.
110 ALICE SACHS
giatamente la mercede ai notari che redigevano Tatto dei patti
dotali, non fissavano e non nominavano nemmeno la mercede
per atto di sposalizio. Lo statuto della Patria così preciso e si-
curo nelle sue misure, non avrebbe dimenticato di farlo se gli
sposalizi davanti a notaro fossero stati frequenti. L'azione dello
Stato prescriveva alcune condizioni e i limiti dell'attività dei pri-
vati. Lo statuto interveniva a provare la giuridica consistenza degli
atti, ma era lasciata all'opera privata la cura di compierli. Il ma-
trimonio non cessò d'essere privato, l'intervento di un pubblico
ufficiale fu una forma accresciuta e intensificata dell'intervento
di una terza persona qualunque.' Lo Stato forse fu costretto a
lasciare questa libertà per un rispetto all'autorità ecclesiastica.
Questa era stata anche temporale fino al 1420 e in sua mano
era rimasto esclusivamente, anche durante la dominazione veneta,
il potere civile e giudiziario in materia matrimoniale.
La curia patriarcale, nonostante i decreti dei sinodi e le di-
sposizioni dei patriarchi, lasciava che la celebrazione del matri-
monio avvenisse privatamente senza imporre la presenza di un
suo rappresentante e dichiarava insolubili e legittimi i matrimoni
risultanti dal consenso, dal semplice desiderio di vivere coniu-
galmente manifestato e provato dalla coabitazione. * La chiesa era
molto potente, essa era sicura della sua forza, ed appunto per
questo non dettava alcuna prescrizione assoluta, poiché aveva
coscienza che, qualora questa fosse stata necessaria, l'avrebbe im-
posta senza difficoltà e lotta alcuna. Data questa intera indipen-
denza da parte della chiesa e da quella dello Stato, il matrimonio
si celebrava indifferentemente davanti a testimoni, fossero questi
notari o sacerdoti poco importava, la cerimonia voleva soltanto
e otteneva solennità e pubblicità. La benedizione data agli sposi
dal sacerdote quand'era esso l'interrogante, benché non fosse,
come non era in nessuna regione d'Italia,^ ritenuta sacramento
e causa efficiente alla validità nel matrimonio, era desiderata. In-
fatti, poteva dare la voluta pubblicità e conferire al matrimonio
un che di sacro che non spiaceva ai friulani profondamente e
costantemente religiosi. Qualche cosa nel medio evo i patriarchi
avevano tentato. Nel 1335 un capitolo del concilio provinciale,
» N. Tam ASSIA, La famiglia italiana nei secoli XV e XVI, Palermo, 1910, p. 187.
* Opposizione al matrimonio di 0. Rupil (1514), ms. in Arch. Patriarcale di
Udine, busta 1553.
» O. Salvigli, La benedizione nuziale fino al Concilio di Trento, in Archivio giu-
ridico, voi. LUI, fase. 1-2, p. 173 sgg.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 111
tolto soltanto nel 1565, quando già vigevano le disposizioni date
a Trento, proibiva di contrarre matrimoni senza premettere nella
chiesa le pubblicazioni, infliggeva una multa al sacerdote che
senza obbedire a questo ordine impartiva la benedizione.' Tre
anni dopo un altro concilio comandava che i matrimoni si fa-
cessero in facie Ecclesiae, riprovava i matrimoni fatti fuori senza
l'intervento del sacerdote, ma non li dichiarava nulli. 11 concilio
del 1448 ordinava che i matrimoni fossero annunziati al sacer-
dote che doveva investigare per conoscere i possibili canonici
impedimenti. Ordinava che la benedizione nuziale fosse data so-
lennemente in chiesa, ma poteva esser data senza solennità anche
fuori. Nonostante queste disposizioni, la Chiesa stessa tollerava
e difendeva i matrimoni fatti privatamente, perchè ripetiamo Stato
e Chiesa seguivano il vecchio principio romano che il consenso
fa le nozze. 1 frequenti abusi derivanti da questa libertà non erano
sentiti, né previsti dall'autorità, che continuava imperturbabile
nelle sue vecchie patriarcali consuetudini, senza pensare che ogni
disordine nella costituzione della famiglia si rifletteva necessa-
riamente in un disordine dello Stato. Tanta era la libertà e tanti
gli abusi fra i matrimoni celebrati tra gli sposi senza l'intervento
di alcun testimonio, che per farne valere poi la legittimità si ri-
correva anche ai giudizi di Dio.* Vicino a questi matrimoni ri-
conosciuti e legittimi, si hanno gli altri più regolari di cui cro-
nologicamente gli atti costitutivi erano i patti dotali, la desponsatio
per verta de presenti avanti a notaro, la benedizione sponsalizia.
I patti dotali registravano, oltre alla promessa della dote e dei
doni, quella che lo sposo faceva al padre della sposa di far se-
guire legittimo matrimonio secondo le lodevoli consuetudini della
Patria, secondo i comandamenti della Chiesa aquileiese e della
santa romana Chiesa. Questa promessa in un atto civile, fatto da-
vanti a notaro, benché non alteri il carattere laico della cerimonia,
dimostra che a questa promessa, come a quella seconda fatta il
giorno degli sponsali per verta de presenti, si riconosceva un ca-
rattere sacro. Gli sponsali non portavano un obbligo giuridico
alla celebrazione del matrimonio. Anzi, in ogni patto è contem-
plato il caso nel quale il matrimonio non fosse celebrato. Ma la
promessa però portava un obbligo morale. La parola stessa, con
cui gli sponsali sono chiamati nel linguaggio friulano, indica
il dovere riconosciuto di mantenere la parola data; si chiama
1 O. Marcuzzi, op. cit., p. 14Q.
» S. Mantica, Cronaca di Pordenone (1432-1544), Pordenone, 1881, p. U.
112 ALICE SACHS
Vimpegn (l'impegno); per impegno si dava anche un segno evi-
dente, un anello, una moneta o una medaglia d'oro. La costu-
manza dell'impegno friulano dava certi tenui diritti all'impegnato,
come quello, fra i contadini, di ballare con la sposa e di accompa-
gnarla alla messa, ma non arrivava mai alla grande libertà che le
costumanze longobarde permettevano dopo gli sponsali.* I patti
dotali erano fatti in casa dello sposo o della sposa, o in quella
del notaro. Incominciavano sempre con la data e l'indicazione
del luogo dove si redigevano. Cito per tutti un esempio qualun-
que: «In Christi nomine amen. Anno nativitatis ejusdem 1522,
« ind. X, die vero Mercurìi IQ mensis novembris. Actum Utini
« in contrata Sancti Christofori in studio infrascritti domini Ve-
« gentii, presentibus nobilibus ser Petro de Atempto, ser Paulo
« Tursio, ser Hieronymo Colleto civibus utinensibus et ser Ber-
« nardo de Susan aromatario testibus vocatis et rogatis. Ibique
« ad laudem dei omnipotensis convenientibus in unum causa ma-
« trimonii contraendi spectabili domino Vegentio Emiliani doctore
« et nobili ser Lapo eius fratre prò nobili domina Deiopea eorum
« sorore ex una, et nobili ser Francisco Tursio quondam domini
« Nicolai cive utinensi prò se ipso ex altera. Ubi quidem praefati
« domini fratres eidem ser Francisco promiserunt facere et cum
« effectu curare quod prefata domina Deiopea eumdem ser Fran-
« ciscum accipiet in suum verum sponsum et maritum secundum
« precepta sacrosancte Romane Ecclesie, Ecclesie Aquilejensis et
« laudabilis patrie foriiulii consuetudines semel bis et tertio ; et
« versa vice prefatus stipulantibus nomine diete eorum sororìs,
« eamdem dominam Deiopeam acceptare in suam veram sponsam
<^ et uxorem secundum dieta precepta et consuetudines antedictas
« semel bis et tertio » .' In molti casi, dopo la data e dopo aver
nominati i presenti, c'è l'invocazione della divinità :
« Ibique ad laudem et gloriam omnipotentis Dei, eius Gloriose
« Virginis Matris Mariae simul convenerunt causa matrimonii con-
« trahendi, etc. » .
La cerimonia degli sponsali alla quale, come si è già detto,
non assisteva la sposa, si faceva senza alcuna solennità e senza
speciali inviti e preparativi. Nei castelli soltanto, per darle qualche
imponenza, si faceva nella sala maggiore, nella sala d'armi ; anche
fra i borghesi si trovano i patti dotali fatti nella stanza maggiore.
1 A. Fertile, op. cìt., p. 254.
2 Patti dotali stipulati tra F. Del Torso e V. D. Emiliani {1522), ed. Biasutti,
Udine, 1903.
LE NOZZE IN FRtULl NEI SECOLI XVI E XVIl 113
Gii sponsali per verba de presenti, anche se fatti davanti ài no-
taro, si facevano in qualsiasi luogo tra il popolo sempre alFaperto
sotto il sole, o sotto una tettoia, dove conveniva gente. Nel 1503
sì ebbe un matrimonio di contadini e la formula di consenso
fu pronunciata vicino al cimitero della chiesa di S. Maria d'Ar-
tegna.* La rogazione del notaro per sposalitio per verba de pre-
senti non differiva nella forma da quella per gli sponsali. Si ri-
cordavano t patti dotali e si dichiarava avvenuto il matrimonio
per verba de presenti.^ Per ottenere maggior solennità, il contratto
davanti a notaro poteva essere fatto anche in chiesa, alla presenza
dei testimoni e del sacerdote. Il contratto era sempre puramente
civite, la benedizione sponsalizia si dava dopo.^ Il notaro che
interrogava gli sposi pronunciava alcune parole sulla santità del
matrimonio e finiva con gli auguri. Gli sposi si scambiavano
ranello, ma più spesso, celebrato il laudo davanti al notaro, gli
anelli erano dati in chiesa dal sacerdote o davanti a lui. Se era
Io sposo che metteva l'anello, era aiutato dal compare delVanetto,
che teneva fermo l'anulare della sposa, mentre essa porgeva la
mano al marito perchè l'inanellasse. In queste cerimonie un po'
oscure anche nel loro svolgersi, non sappiamo quasi nulla del
come si comportassero la sposa, lo sposo, le famiglie, gl'invitati.
Intravvediamo appena la sposa biancovestita, timida, che risponde
tre volte: laudo, porgendo la mano per ricevere la vera.
Possiamo figurarci il suo vestito: « Le spose del Friuli ornano
« le tempie, et la fronte di molti ricci, e gli altri capelli accolgono
« sotto una reticella d'oro carica di gioie, e perle con le quali
« ornano anco le orecchie, e il collo, usano lattughe di renso molto
« ben fatte, le vesti sono di raso bianco con busti bottonati d'oro
« e altro, le maniche sono listate di broccato, e aperte, per dove
A escono le braccia vestite pure di raso bianco, o di teletta d'ar-
« gento o d'oro ».* Nel 600 le spose portavano, invece, il vestito
di velltito cremisi con il busto di colore diverso, ricamato d'oro,
le maniche erano ornate di pizzi d'oro e d'argento. Dalle villotte
e dalle poesie popolari nate dal popolo e tramandate con lui,
possiamo trarre qualche altra incerta notizia della sposa nel mo-
mento delle nozze. La vediamo incerta o piangente, mentre stende
» V. JOPPi, Notarieram cit. voi. VII,
> Contratto nuziale tra P. Amalteo e G. Pordenone. Stromenti, not. S. Decio, in
Arili. Nòt. di Udine.
5 O. Savorgnan, Memoria cit.
< C. Vecellio, Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, Venetia, Sessa ; Degli
■e'nti d'Italia, voi. I, p. 150.
114 ALICE SACHS
la mano che dovrà essere inanellata. Sappiamo che si rivolge itet
momento in cui dice laudo al padre, ai parenti, chiedendo d'esser
protetta da loro sempre, anche quando, uscita dalla casa, avrà
preso un altro nome.
La terza cerimonia è sempre fatta in chiesa ed è chiamata la
benedizione sponsalizia. La solennità maggiore era data a questa
cerimonia ed era seguita spesso da tutti, e specialmente dai no-
bili,* anche quando era tralasciata la manifestazione del consenso
davanti a notaro. Presso i castellani, che avevano sempre unita
al castello la chiesa e che tra i familiari tenevano il sacerdote,
la benedizione sponsalizia non mancava mai. Come tutti in Friuli,
castellani erano religiosi e non trascuravano questa solennità.
Per di più non sempre i castellani erano amici di Venezia, pa-
drona e rappresentante del potere temporale tolto ai patriarchi,
e quindi tale manifestazione di fede, anche in caso di matrimonio,
si può forse considerare, in Friuli, come una manifestazione di
simpatia alla causa dei patriarchi spodestati. Così, benché la
Chiesa con il suo intervento non fosse parte necessaria nella
celebrazione, si era spinta più avanti in Friuli che in altre regioni
d'Italia, e il consenso s'esprimeva spesso davanti al sacerdote.
Essendo possibile seguire nella celebrazione così la consuetu-
dine approvata dalla Chiesa di richiedere la benedizione, come
l'altra, che del resto aveva per sé le maggiori autorità anche fra
i padri della Chiesa stessa, che non riteneva necessaria tale
benedizione, lo Stato non poteva imporsi in nessun modo né
mettere impedimento alcuno e così si andavano preparando len-
tamente gli animi per accogliere le disposizioni del Concilio
tridentino. Per ricevere la benedizione sponsalizia, la sposa era
accompagnata alla chiesa da un numeroso corteo di parenti e
invitati.
Per le nozze dei nobili gli udinesi addobbavano le finestre con
tappeti ed arazzi, il corteo andava alla chiesa fra il popolo ac-
corso. Se le nozze avvenivano in un castello, nel giorno della
celebrazione del matrimonio le campane della chiesa suonavano
a festa. Le torri e le mura erano tappezzate di arazzi, dai balconi
pendevano ghirlande di sempreverde e di fiori. Gli invitati si ra-
dunavano e si ordinavano al castello e poi si avviavano alla
chiesa. I vassalli stavano schierati lungo la via e gridavano gli
auguri e gli evviva. Dai gradini dell'altare il sacerdote scendeva
» S. Strassoldo, op. cit., p. 29.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 115
ad incontrare gli sposi, indossava i paramenti sacri migliori, la
stola ricamata. Spesso era lavoro della sposa che la regalava alla
chiesa il giorno prima delle nozze.* Gli sposi s'inginocchiavano
su inginocchiatoi coperti da un ricco tappeto sul quale stavano
i cuscini. Gli invitati si mettevano sui banchi, in fondo alla chiesa
stavano i vassalli. Il sacerdote rivolgeva tre volte la domanda
prima alla sposa, poi allo sposo, ed avuta la risposta affermativa,
pronunciava forte solennemente le parole: Ego conjungo vos in
matritnonium} Impartiva solennemente la benedizione alla coppia,
faceva gli auguri a questa e ai discendenti, ricordava la nobiltà
delle due case che si imparentavano; la cerimonia nuziale era
finita. Quando il sacerdote benediceva coppie contadine, riceveva
in regalo dalla sposa un fazzoletto. Riceveva il prete una mer-
cede in denaro? Fra i contadini in molte località friulane, si usa
ancora dare al sacerdote celebrante la messa nuziale lire tre e
dieci. Questa somma corrisponde in valore a un ducato veneto,
questo potrebbe far dedurre che l'usanza fosse tradizionale e che,
al tempo della Serenissima, il sacerdote ricevesse per nozze il
regalo d'un ducato.
Gli statuti e la chiesa si trovavano d'accordo nel disappro-
vare i matrimoni clandestini, cioè quelli contratti dalle donne e
dai minorenni senza il consenso dei genitori o dei tutori. La
chiesa nei suoi sinodi li proibiva come atti contrari alla salva-
zione delle anime, gli statuti della Patria li proibivano e li puni-
vano con delle multe agli uomini, col non concedere la dote
alle donne. Ma i matrimoni clandestini erano frequenti, i sacer-
doti continuavano inascoltati a condannare dal pergamo, gli sta-
tuti si moltiplicavano, accrescendo le multe e le pene. I matrimoni
dei vedovi si celebravano con le stesse cerimonie usate per gli
altri, il caso di vedove e vedovi che si rimaritavano non era raro.
Nessuno statuto proibiva le seconde nozze, ma lo sfavore verso
i vedovi che si rimaritavano era evidente nel 500, continuò in
seguito e dura anche ora. I nobili reputavano disonore che una
donna entrata nella loro casata, ne uscisse per sposare un altro.^
II popolo disapprovava le seconde nozze e segno di questa di-
sapprovazione erano le sdrondenadis. Si facevano quando gli
sposi si recavano alla chiesa ; consistevano in un chiasso assor-
1 Calcoli delle entrate e spese, cit.
• F. DI Manzano, op, cit., voi. Ili, p. 156.
s Lettera del march. Colloredo a G. Rabatta, in Arch. March. Colloredo ÌB C«l-
loredo di Montalbano (Busta lettere).
116 ALICE SACHS
dante prodotto percuotendo in terra casseruole, secchi e qualsiasi
oggetto di rame. Questo strepito volgare fatto dal popolo nelle
campagne e a Udine, era implicitamente approvato dal Consiglio,
che lo proibiva soltanto quando gli sposi pagavano una somma
destinata ai restauri della città.^ La servitù di masnata, durata in
Friuli fino alla seconda metà del secolo XV, si era trasformata
nel secolo XVI nel libero colono, che restava vincolato al padrone
con obblighi che risentivano della sua condizione anteriore.
il legittimo matrimonio fra i servi avveniva per un regolare
contratto fra i padroni. Questo contratto costituiva l'affermazione
di legittimo matrimonio, che si riteneva com^ avvenuto. Gene-
ralmente si faceva anche un secondo atto notarile, il quale com-
prendeva i patti dotali. Era fatto direttamente tra i contraenti,
costituiva il matrimonio civile simile a quello che si rogava per
il matrimonio dei liberi. Per i servi era il consenso manifestato
dai padroni prima che dai contraenti, che costituiva legittimo ma-
trimonio, nella stessa maniera che tra i liberi il solo consenso
era necessario.
Abbiamo visto come la Chiesa aspirasse a sottoporre a sé
anche la celebrazione del matrimonio. In Friuli era riusciuta a
trovar posto in molte celebrazioni e a rivolgere direttamente le
domande ai contraenti. Ma la Chiesa aquileiese, come quella ro-
mana, non aveva dettata ancora nessuna norma assoluta per re-
golare e rendere obbligatorio il suo intervento. La cerimonia re-
ligiosa, che non aveva importanza giuridica, divenne col concilio
di Trento la sola e necessaria causa efficiente alla celebrazione
del matrimonio. Col concilio si comandò^ che soltanto i riti
ecclesiastici producessero celebrazione, e si vietò il matrimonio
davanti ai soli testimoni. Il punto essenziale e necessario divenne
W consenso manifestato davanti al parroco, anche se nolente. Il
sinodo comandò che prima di celebrare il matrimonio, esso fosse
deminciato in chiesa in tre giorni di festa fra le solennità della
messa. Se non risultava impedimento alcuno, il matrimonio si
poteva celebrare. 11 parroco, interrogati l'uomo e la donna e ot-
tenuto il loro consenso, doveva dire: * lo vi congiungo in ma-
« Ek actis {161 1), t. XXXI V. f. II, in Arch. Com. di Udine.
* A. Battistella, La servitù dì Masnada in Friuli, Venezia, 1908.
8 P. SARPr, Istoria del concilio Tridentino, Londra, De Tournes, 1757, p. 701 sgfg.;
S. Pallavicino, Istoria del concilio di Trento. Venezia, Zanardi, 1803, t. XIII,
P'. 142 sgg., ove insieme rifiutasi con autorevoli testimonianze una falsa stoffa divul-
gata sullo stesso argomento da Pietro Soave Polano.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 117
trimonio in nome del Padre, Figlio e dello Spirito Santo '. Era in
potere del vescovo di tralasciare una o due denuncie ; ma erano
nulli i matrimoni non fatti alla presenza del parroco e di due o
tre testimoni. 11 parroco doveva tenere un libro, per registrare i
matrimoni. Il decreto doveva avere vigore in tutte le parrocchie
trenta giorni dopo la sua pubblicazione, doveva essere spiegato
al popolo allo scopo di mostrare la sua forza e importanza.
I matrimoni clandestini tanto riprovati dalla Chiesa nei prece-
denti sinodi aquileiesi, biasimati e puniti dagli statuti friulani,
furono dichiarati degni di sacramento e ritenuti validi. Paolo Sarpi
fece primo la critica di queste disposizioni, che s'imponevano a
tutto il mondo cattolico, rappresentando un'usurpazione, alla quale
la chiesa non era autorizzata : « Cosa di somma esaltazione del-
« l'ordine ecclesiastico, poiché un'azione tanto principale nell'am-
« ministrazione politica e economica, che fino a quel tempo era
« stata in sola mano di chi toccava, veniva tutta sottoposta, al
« clero, non rimanendo via, né modo come far matrimonio,^ se
« dei preti, cioè il parroco e il vescovo, per qualche rispetto
« interessati, ricusavano di prestar la presenza ».*
Ma questa, che può veramente chiamarsi usurpazione dei po-
teri dello Stato, in quelli stati che sentivano il loro dovere di
fronte all'istituto del matrimonio, che imponevano il loro rappre-
sentante, e che avevano ordinato i registri dello stato civile, può
riprovarsi e chiamarsi usurpazione esaminata soltanto per quanto
riguarda il Friuli? In Friuli, abbiamo detto, c'era la più completa
e la più disordinata libertà che dava luogo a frequenti equivoci,
un decreto che stabilisse una norma assoluta e inviolabile in virtù
della quale fossero tolti gli abusi, i frequenti divorzi, i casi di
bigamia, non poteva che essere accettata come utile e adottata
come misura d'ordine. La pubblica coscienza sentiva la necessità
di una riforma, da qualsiasi parte essa venisse; in mancanza d
quella dello Stato, si accettò senza resistenza quella della Chiesa.
Si ebbe un solo caso di ribellione isolato e senza conseguenze.
Nel 1580, mentre il parroco spiegava al popolo la necessità di
non contrarre matrimonio senza l'intervento del sacerdote, un
parrocchiano affermò pubblicamente di non voler obbedire e
disse che mai nessun prete avrebbe congiunto in matrimonio al-
cuna delle sue figlie.* Il sinodo aquileiese nel 1595 prescriveva^
i P. Sarpi, op. cit., p. 653.
9 O. Margotti, op. cit., p. 70.
5 O. Marcuzzi, op. cit., p. 246.
ut ALICE SACHS
che per togliere i troppi abusi fosse pubblicato il decreto triden-
tino de reformatlone matrìmonii e spiegato al popolo durante la
messa ogni prima domenica del mese in tutte le chiese, che fosse
tradotto nelle lingue e nei dialetti perchè tutti lo capissero. Nei
sinodi successivi la questione del matrimonio non fu più trattata,
si era venuti ad un assetto definhivo, alla celebrazione religiosa
accettata unita ad alcune cerimonie speciali al Friuli, che erano
usate anche prima delle disposizioni tridentine. Nella diocesi di
Aquileia, secondo le prescrizioni del vicario patriarcale O. Ma-
racco del 1574, le pubblicazioni si facevano un momento prima
di celebrare il matrimonio. Era possibile sapere se alla celebra-
zione si opponeva qualche impedimento, avvenendo ancora i
matrimoni sempre tra friulani, spesso tra compaesani. Il sacer-
dote vestiva la stola e diceva rivolto al popolo: ' Queste due per-
sone N. N. vogliono contrarre matrimonio, se qualcuno conosce
qualche impedimento tra queste due persone, che renda impos-
sibile il matrimonio, lo denunci per primo, secondo e terzo'.
Quando nessuno affacciava impedimento, il sacerdote interrogava
lo sposo: *N. t'interrogo in coscienza come vorresti essere innanzi
a Dio nel punto di morte, se sei libero da ogni legame di ma-
trimonio con altra donna all'infuori di questa N. E se vuoi con-
durla in sposa avanti a Dio'. Lo sposo rispondeva: * sì *. Poi il sa-
cerdote faceva la stessa domanda alla sposa che rispondeva: *sì '.
n sacerdote prendeva l'anello dello sposo per metterio nell'anulare
sinistro della sposa « dove c'è una vena che porta direttamente
al cuore», pronunciando: 'ricevi l'anello segno dell'unione co-
niugale '. Prendeva l'anello della sposa per darlo allo sposo con
queste parole: ' ricevi anche tu l'anello segno della fedeltà coniu-
gale e l'onnipotente e pio Padre e misericordioso Iddio vi con-
gìunga nel perpetuo amore '. Poi il sacerdote univa le destre degli
sposi e l'uomo diceva: ' lo N. prendo te N. in mia legittima
moglie '. La donna diceva: * Io N. prendo te N. in mio legit-
timo marito '. Il sacerdote poneva la stola in forma di croce
sulle destre strette e diceva: * Ed io per l'autorità di cui sono
investito vi congiungo in matrimonio nel nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo '. Faceva il segno della croce e
aspergeva gli sposi con l'acqua benedetta dicendo : ' Per l'asper-
sione di questa acqua benedetta, Iddio onnipotente vi conceda
la sua grazia e la sua benedizione '. La cerimonia nuziale era
finita; si celebrava la messa, alla fine della quale gli sposi do-
vevano baciare il vangelo.* In alcune località restava l'uso antico
* Agenda Sanetae Aqailegensis Ecclesiae, Venetiis, Regazola, 1575.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 119
éì aspergere gli sposi d'acqua benedetta quand'erano ancora
sulla soglia della chiesa. In altri paesi, erano ricevuti alla porta
della chiesa; usanza questa che resta ancora nei matrimoni dei
conti dì Spilimbergo; si accompagnavano all'altare cantando in
salmo.
Le disposizioni di Trento erano dunque interamente accettate
dalla diocesi d'Aquileia, che vi aggiungeva anche alcune ceri-
monie speciali. I sinodi aquileiesi * prescrivevano in quale modo
ì matrimoni dovevano essere registrati e imponevano al curato
della sposa, dopo la celebrazione del matrimonio, di mandarne
avviso al parroco dello sposo. La formula di notificazione era
semplicissima con poche variazioni da paese a paese, con lievis-
sime da curato a curato.
Le notificazioni indicavano per prima cosa dove il matri-
monio era stato fatto, essendo possibile celebrarlo fuori della
chiesa, alla presenza dei testimoni e del sacerdote.^ Le disposi-
zioni date a Trento, riguardanti la registrazione dei matrimoni,
non furono subito seguite: i primi Matrimonia delle chiese di
Udine e della provincia datano dal 1566, mentre le disposizioni
sono del 1563; ma i matrimoni contratti senza l'intervento del
sacerdote, contro i quali tanti sinodi provinciali ^ lanciavano sco-
muniche scomparvero del tutto in Friuli come pure scomparvero
f disordini dell'età precedente, che ancora duravano a Venezia.*
Ai matrimoni per verta de presenti si premisero ancora i patti
dotali, uguali nella forma e nei capitoli a quelli della prima metà
dei secolo XVI, soltanto la promessa di contrarre matrimonio
secondo le lodevoli consuetudini della Patria, della Chiesa Aqui-
teiese e delia santa Romana Chiesa era sostituita da quella di
contrarre matrimonio secondo i riti del concilio di Trento.
Era comune tra i nobili l'uso di partecipare agli amici e ai
jwrenti lontani l'avvenuta celebrazione dei matrimoni dei figli.
La letteratura del 600 in Friuli è ricca di questo genere episto-
lare, fiorito di frasi ridondanti, di manifestazioni di stima e d'af-
fetto, in fondo alle quali trovava posto la voluta partecipazione
de! matrimonio concluso. Ci sono pure esempi di orazioni nu-
•J Detreti dei sinodi (1605), in Opuscoli storici, voi. IV, ms. in Bibliot. ArdTesco-
vile di Udine.
* Matrimonio C. Sbroiavacca e F. Fratina {1566), Matrimonia 1566-2598, libro l,
ia Ardi, del Duomo di Udine.
* F. Brandileone, Saggi sulla storia del matrimonio in Italia, Milano, 1906, p. 95.
* O. Oallicciolli, Delle memorie antiche profane ed ecclesiastiche, Venezia, Fra-
casso, 1795, lib. II, cap. XII.
120 ALICI: SACHS
ziali pronunciate dai testimoni prima che fosse chiesto agli sposi
il consenso. L'uso di queste orazioni durava dal 400 in FriuU.
Erano brevi discorsi, che ricordavano la solennità del matrimo-
nio. Questa forma di eloquenza usata dai Greci e dai JRomani
continuò in Italia nel medio evo e nel rinascimento.' L'orazione
nuziale era sempre quella classica, incominciava con l'invocazione
a Dio, esprimeva la gioia e gli auguri. Come derivazione forse
dell'orazione nuziale, nella seconda parte, in quella cioè che ri-
cordava la nobiltà della sposa e la valentia dello sposo, si hanno
alla fine del secolo XVI le pubblicazioni per nozze.
È impossibile ricordarle tutte: è una fioritura continua e noiosa:
ogni nobile che va sposa trova amici conoscenti e preti, che
cantano la sua bellezza, che augurano felicità. Ogni gentiluomo
che prende donna trova parecchi amici che gli augurano eredi
forti e valorosi quanto lui. Dame e monache, guerrieri e poeti
si provano in questo genere di letteratura : gli epitalami, gli ir»ni,
i sonetti, le canzoni nascono e si riuniscono in raccolte, si mol-
tiplicano in edizioni di lusso offerte agli sposi e alle famiglie
amiche, sopportabili appena fra tanto sfoggio retorico, perchè
danno qualche notizia sulle feste nuziali.
IV.
Le feste e gli usi nuziali.
Le feste che accompagnano le nozze dei nobili sono splen-
dide e direi quasi solenni. Non raggiungono la magnificenza
delle feste veneziane,* né i castelli della Patria potevano offrire
le bellezze naturali di Venezia, le regate sui canali, le fantastiche
illuminazioni dei palazzi.
I castellani altro cercavano per le loro figlie spose. Anche nel
giorno lieto e pacifico delle nozze, i friulani si mostrano guer-
rieri, quali non invano desiderava e incitava dal seggio del Mag-
gior Consiglio il reggente. Ogni castellano, all'arrivo o alla par-
tenza delle spose, radunava i nobili della provincia per gare
d'armi, giostre, tornei, finti combattimenti e assedi ai castelli.
Ogni rocca abbandonata ha una storia di guerra e d'assedio,
1 F. BRANDtLEONE, Nuove ricerche sugli oratori matrimoniali in Italia, in. Rivistn
storica Italiana, voi. XII, p. 619.
' J. Morelli, Delle solennità e pompe nuziali già usate presso li veneziani, Ve-
nezia, Lassa, 1793.
LE NOZZE IN FRIULJ NEI SECOLI XVI E XVII J21
finiti i quali sorridente e gemmata usciva la sposa ad accogliere
lo sposo, che la doveva portare ad un altro castello, che con
altre feste l'avrebbe accolta. Ma questi castelli, di cui ancora
giunge l'eco della ricchezza e della bellezza antica, sono finiti.
Villalta, Flambro, Prodolone, Solimbergo, Pinzano, Ragogna,
famose e magnifiche sedi, dov'era raccolto quanto di più forte
e di più bello poteva vantare il 500 friulano, dove ai rac-
conti e alle gesta d'arme s'alternavano i giuochi e le canzoni
d'amore, dove si ricercavano in ogni maniera e per ogni occa-
sione feste magnifiche, sono in rovina. Sulle loro mura s'arram-
picano le piante per nascondere e corrodere gli ultimi affreschi
visibili, le ultime madonne che ancora sorridono e impallidiscono
fra tanta miseria e rovina. Per ricordare e immaginare tutte quelle
feste splendide, tutte quelle spose giovani, che scendono nelle
mattinate radiose dal castello avito, ricordiamo poche feste di
cui ancora resta notizia, povere descrizioni che danno soltanto
una misera immagine e un desiderio vano della bellezza antica.
Venceslao di Porcia è uno dei pochi nobili che abbiano spo-
sate ragazze forestiere. Nel settembre del 1527,' il conte partì
dal suo castello per recarsi a Brescia a prendere la sposa. Partì
con una scorta di parenti e di gentiluomini per rendere più so-
lenne la traduzione della castellana novella. Al suo seguito c'erano
un cappellano e un cancelliere per benedire e celebrare le nozze.
Ci meraviglia che il conte di Porcia portasse con sé un sarto,
un barbiere e parecchi servi. Il viaggio da Udine a Brescia fu
compiuto lentamente; a cinque miglia da Brescia il fratello della
sposa con molti gentiluomini bresciani andò ad incontrare la
compagnia, che giungeva dalla Patria. A un miglio dalla città
aspettava il padre della sposa con alcune persone notabili. Si
formò un regolare corteo e lo sposo entrò in città accanto al
suocero. I bresciani erano saliti sulle mura della città, le finestre
e ì balconi erano gremiti di gente che volevano vedere lo sposo.
Alla finestra della sua casa aspettava la sposa « ornata che dir
«non lo potria», alle aUre finestre stavano signore e donzelle.
Lucrezia Martinengo « guardò el so sposo cum la so barba
« rossa, rubicondo, et lu guardò lei cum quel viso adorno ed
« bocca che par sempre la rida». Con questo breve sguardo gli
sposi si erano visti e piaciuti, il matrimonio era ormai preparato.
Incominciarono in casa della sposa i festeggiamenti: balli, ban-
» A. PURLILIESE, Op. Cit., p. 316.
122 ALICE SACHS
Ghetti, concerti, che si seguirono senza posa. Più importanti per
noi sono i festeggiamenti che si fecero alla sposa, al suo arrivo
in Friuli. Essa era accompagnata, oltre che dal corteo del ma-
rito, dal fratello e da molti bresciani. Dal castello, dove la sposa
fu accolta con « festa assai de sonare e ballare », il conte condusse
tutti gli invitati a Valvasone con una magnificenza maggiore
della solita, appunto per mostrare ai forestieri la ricchezza e
l'ospitalità della Patria. A Valvasone tutti gli abitanti accolsero
la sposa con feste, con acclamazioni, con gioia, usarono genti-
lezze a tutti i Bresciani per far piacere alla nuova e gentile si-
gnora. A Valvasone incominciarono le cacce, intramezzate da
canti e suoni, «ed sollazzi per rallegrare la sposa». Le feste
durarono vari giorni, furono tali che non « erano stati li simili
in Friuli » e i bresciani ritornarono entusiasti della ricchezza della
Patria, dell'ospitalità del Porcia.
Riccarda d'Arcano era stata promessa a Francesco di Cordo-
vado, che veniva a prenderla.* II castello si era tutto rivestito di
fiori e di fronde, i servi erano saliti sulle torri più alte per pian-
tarvi ì rami fioriti e i vessilli con l'arma dei signori d'Arcano.
Su ogni merlo della triplice cerchia di mura un fiore indicava
Popera vigile dei coloni, che tutta la casa avevano ornata. Per
tre giorni le campane della chiesa avevano suonato e i familiari
si erano raccolti a pregare per la felicità della sposa. AI quarto
giorno, dall'alto della torre, la vedetta diede il segnale : lontano
tra i boschi si vedeva luccicare qualche cosa, erano le armi e
gli elmi dei cavalieri nemici che si avvicinavano a gran corsa.
Il signore del castello diede subito gli ordini. I corni di guerra
suonarono, i guerrieri erano pronti, nascosti dietro ai merli,
guardinghi alle feritoie. Il gran portone ferrato fu chiuso, il ca-
stello era in assetto di guerra. Più vicine, più vicine sotto il
poggio squillavano a festa le trombe nemiche. Le donne di casa
andavano e venivano per preparare la sposa. Vestita dei suoi
abiti migliori, Riccarda d'Arcano apparve finalmente al balcone.
Portava una lunga veste verde ricamata d'oro, un velo d'oro le
ricopriva i capelli che cadevano inanellati sulle spalle, le perle
le ornavano il collo e la testa. Il balcone era coperto d'arazzi,
festoni di fiori cadevano dai merli giù fino a lei quasi a recin-
gerla. Così essa apparve al suo signore e padrone che forse
non aveva mai visto e che veniva a reclamarla. Gli uomini gri-
t Delle nozze Riccarda d'Arcano e Francesco di Cordovado (1571), in Arch. co.
d'Arcano, in Rive d'Arcano.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XV! E XVII !23
darono evviva, lo sposo si levò il cappello piumato e guardò
ta donna. Allora essa mandò il primo saluto giù allo sposo, poi
si ritrasse. 11 castello era ancora chiuso per lui, con la forza e
con l'armi doveva rendersi degno d'entrare per prenderne la
gemma più beila. La lotta fu lunga, ben tre volte tentarono l'as-
salto, i guerrieri d'Arcano dall'alto dei merli dominavano la si-
tuazione. Per tre ore la pugna continuò, i parenti della famiglia
d'Arcano difendevano il castello, gli amici dello sposo aiutavano
all'assalto; alla fine per necessità o per generosità il castello si
arrese, il castellano diede il segnale. Due valletti vestiti di velluto
cremisi scesero correndo, il portone ferrato fu aperto, il padrone
offriva pace, gli assalitori potevano entrare. I cavalieri percorsero
il tratto fra la prima e la seconda cerchia di mura. Il corteo ma-
gnifico di armi, di vesti, di cavalli sfilò davanti ai familiari rac-
colti: i guerrieri nemici di prima, che salutarono e s'inchinarono
allo sposo. Sulla seconda porta ad aspettare lo sposo stavano
ì castellani. Francesco di Cordovado scese da cavallo e salutò
i suoceri, essi l'accolsero, lo baciarono e lo benedissero come
figlio. 11 corteo si mosse ancora, arrivò alla terza cerchia, le don-
zelle del castello lo salutarono cantando le più cordiali parole
d'augurio, le più dolci parole d'amore. Mai si era sentito canto
più bello, diretto a corteo più splendido di cui sì lungamente
si parlò «et che pareva a tutti meraviglia grande». Sulla terza
e ultima porta finalmente apparve la sposa. Come aveva essa
passato il tempo, mentre sotto il castello si combatteva per lei ?
Aveva spiato lo svolgersi del combattimento? Aveva seguito le
mosse del suo sposo, o aveva passato il tempo ad adornarsi ?
È probabile questo, poiché essa indossava un altro vestito di
panno paonazzo, aveva tutte le sue gioie, le perle magnifiche,
che avevano appartenuto a tante donne d'Arcano. Lo sposo la
guardò « in quella sua bocca piccoletta et ne li occhi chiari » e
sorrise: la piccola sposa, la nuova castellana del suo castello
gli era piaciuta. Non sappiamo invece come la sposa trovasse
lo sposo, con quale animo gli desse la mano per condurlo nella
sala maggiore destinata a riceverlo. La sala, ornata di specchi,
con la grande tavola apparecchiata, doveva veramente sembrare
tm giardino incantato, tanto era piena di fiori, di doppieri, di
luce. Allora incominciò il primo banchetto, mentre una musica
invisibile allietava i commensali.
Non credo opportuno ricordare qui tutto il lungo pranzo,
anche perchè non sappiamo come fossero preparati e serviti i
124 ALICE SACHS
cibi. Un libro di conti ricorda soltanto la quantità della roba,
sufficiente e proporzionata all'appetito dei guerrieri, dopo una
lunga cavalcatura e tre ore di combattimento. Finito il banchetto,
i castellani condussero lo sposo sulle torri. Nella notte stellata
ammirarono lo spettacolo: avanti a ogni casa vicina dei conta-
dini, brillava un fuoco di gioia. Più lontana e più lontana, su
ogni collina una nuova fiamma appariva e cresceva. Oltre il
bosco apparvero altri fuochi, altri fuochi ancora, la campagna
sembrava ardente e viva, mentre mandava agli sposi il suo cantico
di fuoco. 1 castellani vicini videro tutti quei fuochi e allora da
S. Daniele s'inalzò magnifica e possente una fiamma, da Ragogna
un'ahra rispose, lontano oltre il Tagliamento, Pinzano accese la
sua e i fuochi si unirono a festa, mentre imponente dal cortile
del castello d'Arcano un altro fuoco s'alzava per rispondere a
tutti quelli auguranti, e attorno al fuoco, come attorno ai roghi
della Grecia antica, le fanciulle danzavano gettando legna e fiori,
danzavano mai stanche di inni e di canti. A poco a poco i fuochi
si spensero, tutti avevano finita la loro laboriosa prima giornata
di festeggiamenti. Al secondo giorno di feste arrivarono gli altri
invitati e le dame. Allora il lusso divenne maggiore e più vario.
Ogni donna brillava nella sua veste dorata, ogni fanciulla era
un fiore, un sorriso, un canto che s'univa a quello delle altre
fanciulle. .41 pranzo del secondo giorno c'erano tutti gl'invitati,
le dame e i cavalieri giunti da Udine e dai più lontani castelli
della Patria, per prender parte alla giostra che si sarebbe tenuta
nel pomeriggio. I giostranti erano divisi in due schiere, secondo
il colore della sopravveste. Il combattimento fatto nel cortile durò
fino al tramonto. Dalle finestre la sposa e le donne guardavano,
incitavano e tremavano per i cavalieri vincitori o vinti. Finita la
giostra, i servi girarono con i rinfreschi, la sposa aiutata dalle
donne dispensò a tutti confetti e marzapani, con pensiero gen-
tilissimo « più ne dette a chi perde ». Le fanciulle ripresero i canti,
la musica ricominciò, la brigata si sparse nel giardino, nel
cortile, tra le mura a conversare e a passeggiare fino all'ora del
nuovo pranzo. Dopo quello, le signore cambiarono veste e, < odo-
rate e a nuovo », scesero nella sala preparata per il ballo. Gli sposi
ballarono primi, poi, a poco a poco, ogni cavaliere si scelse la
dama, la festa divenne animata e durò fino alle più tarde ore.
Quando gli invitati uscirono di nuovo nel cortile, nei campi sot-
tostanti morivano gli ultimi fuochi, che i contadini avevano acceso
anche quella notte. Il terzo giorno passò senza speciali festeg-
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVH 125
giamenti^ le giovanettte cantarono ancora, la musica ancora suonò,
ma sui merli e nelle sale i fiori appassivano e tutti sentivano
vicino il momento della partenza ed erano tristi. Valse un po' a
richiamare la brigata il pranzo ricco più dei precedenti, che durò
quasi fino al momento della partenza. Riccarda d'Arcano nel
cortile de! castello salutò i familiari e gli invitati. Lo sposo l'aiutò
a salire sul cavallo bianco ricoperto di velluto, salì egli pure vi-
cino, dietro venivano a scorta i cavalieri. Il corteo si mosse lenta-
mente per la via più lunga, gli sposi avanti inchinandosi e ri-
spondendo ai saluti della folla. Sul portone i genitori, i parenti
scesi prima, salutarono gli sposi. Essi uscirono, il portone si
chiuse, Riccarda d'Arcano ne era uscita ormai per avviarsi ad
un altro castello.
Non sappiamo nulla delle feste nuziali dei castellani camici,
per farcene una povera idea dobbiamo ricorrere alla leggenda.^
Ogni sera sotto la finestra più bella di una bella casa di Siajo
una dolce e profonda voce d'uomo cantava:
O Ritute, biele frute,
Fati fur su chel balcon:
Une sole peraulute
Tant co spieghi la passion.
La bella invocata s'affaccia alla finestra, ascoltava la parola
di passione, sorrideva al dolce cantore e si ritirava in fretta. La
voce dell'uomo risuonava ancora per un pezzo fra le valli pro-
fonde, si accompagnava alla voce del torrente, gettava lunga e
appassionata l'ultima nota d'addio. Le altre belle udivano il saluto
ividiando, i giovanetti invidiavano anch'essi. Perchè Paolo e Rita
erano entrambi belli e forti. Rita aveva riflessi d'oro nella chioma
nera, e un indicibile fascino nel volgere lento del capo. Paolo aveva
occhi d'aquila e voce di flauto. Quand'egli partì, chiamato lontano,
rinchiuse nella nota d'addio il sogno dì una casetta sua, sorta
dai guadagni che egli si proponeva, dall'amore che lo entusias-
mava.
Nei giorni successivi chi ascoltava attentamente sotto la casa
di Rita sentiva una voce mesta cantare:
Se io fos une sisille
Ben lontan o vores là,
Vores là suU'armadure
La ca le a lavora.
* Questa leggenda è stata anche raccolta da A. Arboit, Memorie della Carnia,
Odiae, 1871, r. 82.
126 ALICE SACHS
Sulla strada rìpida di Siajo che c'è oggi d'insolito, perchè
tante facce nuove e tanti nuovi colori? Qualche cavallo porta
faticosamente il cavaliere verso il castello del signore e le trombe
squillano, invitando e acclamando. Che festa di luci, che gioia
di spari, com'è azzurro il cielo sopra il candore del Pizzo TimauJ
il Bùt ha qualche fremito nello scroscio e sembra desideroso
di volgere il corso per lambire un po' di quel terreno festante.
Solo la torre del Moscardo non ha cambiata la sua aria di mesta
castellana. Il vento, che le corre sempre vicino, ascolta qualche
cosa da lei e fugge gemendo. Sul poggio di Siajo salgono intanto
le cavalcature. I valligiani guardano attoniti le belle dame, che
dai più lontani castelli sono giunte per le nozze del potente signore
• di Siajo e di Rita la bella. Paolo è ancora lontano e lo credono
morto. Rita, nel suo abito bianco da sposa, con tutte le perle delle
antiche castellane di Siajo, sembra ornata e rifulgente di lacrime
brillanti. Nei suoi occhi c'è tanta nostalgia per qualche cosa che
è lontano e perduto. Ella, distratta, s'inchina alle dame, che augu-
rano, sente appena la musica, vede appena le fanciulle, che cantano
per lei. Ma, quando giungono dalla Carnia e dal Friuli i pellegrini,
i vecchi e stanchi pellegrini, richiamati dall'annunzio di quelle
nozze, dalla speranza dei doni, Rita si rianima. Passa tra le donne
e i vecchi benedicenti, carica d'involti, prodiga di sorrisi. Non
mai contessa di Siajo fu tanto benefica nelle sue nozze. I pel-
legrini guardano meravigliati, il conte sorride, le gentildonne bi-
sbigliano. In lode della sposa s'alza allora un canto, dai cortili i
servi rispondono, dalla valle le fanciulle cantano anch'esse. Ma che
avviene? Il canto cessa, e quasi si fosse cambiato in una sola voce
d'angelo, un suono di liuto dolce e doloroso giunge al castello.
Che è, chiedono tutti? Un pellegrino viene da paesi lontani e
vuole entrare. Il conte di Siajo, nel giorno delle sue nozze, non
rifiuta ospitalità né ad amici né a nemici, per tutti c'è il rosso
vino delle sue cantine, il bianco pane, che i suoi uomini lavorano.
Il suonatore di liuto entra, è bello e suona come un angelo.
I suoi occhi fissano sempre la sposa, sembra che il liuto suoni
da sé, raccogliendo le melodie dall'anima del suonatore. Dio che
note di spasimo! Il signore ne è turbato, perchè il pellegrino
guarda sempre Rita e Rita è pallida come la morte. La mestizia
si propaga, nessuno parla più, ma il liuto racconta una storia
di disperata passione, ma il viandante ha negli occhi il suo se-
greto. Egli è preso dai servi ed è gettato nel fosso del castello.
Altri canti s'intonano, altre musiche cominciano, ma dal burrone
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 127
il liuto continua la sua storia di disperata passione, ma Rita è
sempre più pallida e più intenta. Ascoltate, una voce canta:
O Ritute, biele frute,
Fati fur su chel balcon:
Une sole peraulute
Tant co spieghi la passion.
I paesani riconoscono il saluto della sera, Rita si protende al
richiamo, gli invitati impallidiscono. Il signore con un ultimo atto
di prepotenza trae la sposa nella stanza nuziale. Ma chi volle
al mattino vedere la sposa, trovò il letto vuoto e il balcone
aperto. Se si protese sul fossato e ne ascoltò la voce, riconobbe
il suono del liuto che accompagnava un bacio d'amore.
Le feste nuziali dei nobili udinesi erano simili a quelle dei
castellani, nello svolgersi dei divertimenti tradizionali: gioslre,
balli, mascherate, banchetti.' La città e il Consiglio favorivano
grandemente i divertimenti guerreschi, proponevano più volte
all'anno giostre e palii, invitando a prendervi parte i nobili della
Serenissima non solo, ma quelli di Ferrara e di Bologna. Du-
rante il secolo XVI,* le giostre proposte dal Comune furono fre-
quenti, poi diminuirono per sollevare le spese dell'erario, in loro
vece furono favorite le giostre private. Anche la comunità di
S. Daniele le aiutava con regali, con denaro, con permessi e
facilitazioni di ogni genere.^
Occasione buonissima per queste giostre erano le nozze. Si
facevano nei cortili dei palazzi, quand'era possibile, oppure nella
piazza di Mercatovecchio. Vi prendevano parte molti invitati ed
era possibile che anche qualche dama gentile combattesse gio-
stratrice ammirata.^ Le finestre si ornavano di tappezzerie a vari
colori,^ nella bella piazza tra l'arco del Palladio e il palazzo di
Giovanni il Ricamatore, i cavalieri lottavano in onore della sposa.
Era grandissimo il concorso del popolo, le feste nuziali non ral-
legravano soltanto la famiglia degli sposi, ma chiamavano par-
tecipi i rappresentanti del Comune, offrivano a tutta la città uno
spettacolo che la rallegrava e del quale era vaga. Per i bambini
J G. M. Panizzolo, Panegirico nelle nozze dei magnifici e generosi sig. G. Co-
bentio e L. di Dorinbergo, Gradisca, 1575.
• M. A. FiDUCio, op. cit., p. 49.
3 Libri di tirar al Palio, sec. XVI, Arch. Com. di S. Daniele del Friuli, n. 72,
A. III.
* A. Antonini, Rime, ras. in Bibl. Coni, di Udine.
6 Giostra di cavalieri fatta in Udine il giorno 17 dell'aprile 1590 raccontata da
nn anonimo contemporaneo, Udine, 1890.
128 ALICE SACHS
del popolo, la sposa udinese aveva pronti dolci e vivande che
dispensava con generosità. 11 giorno delle nozze era giorno di
abbondanza e di gioia. La partecipazione della città intera alle
nozze durò a lungo, anche durante il 600, la sposa nobile pas-
sava, dispensando doni alle popolane, che auguravano e bene-
dicevano. Le feste di Udine, benché non differiscano da quelle
nei castelli, perdono un po' della caratteristica rozzezza. Cessano
gli spari, gli urli, i fuochi di gioia. Il divertimento unico e ne-
cessario resta la giostra. Le rappresentazioni di drammi e di fa-
vole, che tanto piacevano a Venezia, non erano incominciate an-
cora in Friuli. Incominciarono alla fine del 500, ma il pubblico
non le amava e non le cercava. Soltanto nell'inverno del 1595,
per le nozze di Giovanni Martino Marchesi e di Lucina Savor-
gnano, fu rappresentata YElpina, favola pastorale di cinque atti
in versi dell'udinese Vincenzo Giusti.' VElplna è andata per-
duta: non abbiamo quindi idea di quest'unico trattenimento dram-
matico, in occasione di nozze. Dagli altri lavori del Giusti, poeta
mediocrissimo, si arguisce che anche VElplna non era un capo-
lavoro letterario. Oltre aWElpina, si fecero molte feste nel pa-
lazzo Marchesi. Le sale magnifiche ricoperte di cuoio rosso, di
damasco, di velluti e rasi di diversi colori, « per la grandezza
« del sito, per la bellezza delle fabbriche, per l'ordine dell'archi-
« tettura, per l'artificio delle pitture e sculture di mano di mae-
« stri eccellentissimi et per la magnificenza di molti altri nobilis-
« simi et preziosissimi ornamenti, rendeva gran meraviglia e stu-
« pore agli occhi dei riguardanti ».* In queste sale per vari giorni
furono dati concerti, ai quali fu invitato il fiore delle lettere e
della nobiltà udinese. Vi convennero le più belle ed eleganti
dame di Venezia, che portarono il lusso delle vesti, la raffina-
tezza dei gusti, che le nobili della Patria non avevano raggiunto.
Nell'ampio cortile del palazzo si fecero i tornei, ai quali presero
parte tutti i cavalieri invitati, soltanto come intermezzo alle gio-
stre si rappresentarono, in vari giorni, i cinque atti deWElpina.
Le descrizioni delle feste nuziali udinesi sono tanto sommarie
che possiamo immaginarle più che seguirle nel loro svolgersi. La
famiglia Marchesi entrata di fatto, se non di nome, nella vera
nobiltà udinese, per la sua condizione e per la sempre crescente
1 D. Ongaro, Dei giochi militari che hanno avuto corso in Friuli, Udine, del
Fedro, 1663, p. XXVHI.
2 J. Bratteolo, Rime di diversi elevati ingegni della città di Udine, Udine, 1597,
dedica.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 129
ricchezza, dava i festeggiamenti più ricchi e più vari. Nfelle nozze
di Caterina Marchesi e di Giulio delia Torre nel 1601, si abbellì
il palazzo, che doveva accogliere i più illustri cavalieri vene-
ziani e friulani. Si prepararono giostre e concerti, i quali dove-
vano durare varie settimane. Il secolo XVII è più mite perchè
più debole. La smania guerresca dei secoli precedenti, dei di-
vertimenti a base di colpi di lancia, restava ancora, ma soltanto
nei castelli che continuano a solennizzare le nozze con giostre
e tornei.
I nobili udinesi e quei castellani che si erano stabiliti in
città, cercano divertimenti meno faticosi e forse anche meno co-
stosi, riducendoli a balli, a banchetti. Le giostre durano ancora,
ma non erano più di prammatica come nel 500 in ogni matri-
monio nobile. Si ricercava di più il lusso delle vesti e della casa
e prendono maggior sviluppo i divertimenti musicali, che nel se-
colo precedente si riducevano al solo canto. Le nozze di Sulpizia
Florio e Torrismondo della Torre del 166Q, sembrano riunire il
vecchio e il nuovo, la raffinatezza degli ultimi anni del 600 e la
forza cara ai tempi passati. Ai concerti eseguiti nelle superbe
sale di casa Florio,^ seguirono banchetti dati con lusso di vi-
vande, di dolci e di vini, e anche con ricchezza di stoviglie, di
maioliche, d'argenti e di cristalli.
Ci fu una giostra, e vi presero parte tutti i nobili invitati.
Questi in truppe guerriere
Tripartiti in drappelli,
Hor raccolti in difesa,
Hor sortiti in offesa
E seguendo chi fugge,
E fuggendo chi insegue
Vedi rappresentar d'un finto Marte
A pieno e gli usi e l'arte.
A questa giostra prese parte anche lo sposo riuscendo vinci-
-tore, e la vittoria fu ritenuta da tutti un segno auspicatissimo per
la felicità della nuova famiglia. Dopo la giostra, gli sposi par-
tirono per Sagrado, loro nuova residenza. I Torriani passarono
per le vie di Udine seguiti da un lungo corteggio di dame e
cavalieri. Alcuni accompagnarono gli sposi fino alle mura della
città, altri li seguirono fino a Sagrado, dove i parenti accolsero
» Serto pomposo et immortale tessuto di fiori odoriferi colti dalle muse negli
amcnissimi giardini di Parnaso per coronare i felicissimi imenei dell'Ili, sig. T.
Della Torre e S. Contessa Torrìana nata Floria, Udine, Schiratti, 1669.
130 ALICE SACHS
tutti con l'ospitalità usuale. I festeggiamenti fatti agli sposi non
si possono « solennizzar con rime » . Ma questi grandi festeggia-
menti si ridussero a interminabili banchetti.
Le nozze dei borghesi erano solennizzate semplicemente con
balli e banchetti, ai quali interveniva il maggior numero possi-
bile di invitati. I banchetti nuziali erano fatti con lusso e ab-
bondanza. Come per tutti gli italiani del rinascimento * erano
il lusso preferito, per il quale si sostenevano volentieri spese
considerevoli. La cura per i banchetti nuziali incomincia nella
ricerca di un abile cuoco e di un valente scalco, c'erano cuochi
e scalchi che si prestavano in simili occasioni, altri erano ceduti
dalle famiglie nobili, anche il cuoco del vescovo si prestava a
preparare il banchetto nuziale.* Le stanze da pranzo si ornavano
con un lusso che diventava sempre maggiore. Si ricerca l'armo-
nia dei colori, la profusione di fiori e di piante, di argenti, di
profumi, di acque odorose per le mani. I candelabri, di cui sono
ricchi i prestamenti, rallegravano ogni tavola; i piatti, che ogni
famiglia possedeva, erano sufficienti al numero degli invitati, le
coppe di Murano, le maioliche lavorate comparivano e allieta-
vano ogni banchetto. L'uso della forchetta, che in Italia divenne
comune soltanto verso la fine del 500,' era abbastanza diffuso
in Friuli non soltanto tra le classi più elevate, ma anche tra i
popolani. Questa raffinatezza era passata al Friuli da Venezia,
che conosceva e usava la forchetta fino dal XV secolo. La ma-
niera di preparare i cibi formava un'arte speciale, per la quale
non mancavano i trattati. Il numero delle vivande era sempre
abbondante e molti erano i pesci e le ostriche. Su tutto si met-
tevano le droghe: Venezia aveva il monopolio delle spezie, e
nella Patria si faceva spreco della ricchezza della Serenissima.
Le spese per ginepro, pepe, garofani, noce moscata, sono
rilevanti in ogni pranzo: dalla loro maggiore o minore profu-
sione si deduceva la diversa ricchezza degli ospiti. Nel 600 si
abusò dei dolciumi: confetti, marzapani, pignocadi, pasticci e
dolci di ogni genere entrano in numero considerevole in ogni
pranzo nuziale. I vini, di cui era ricco il Friuli, erano abbon-
danti e i brognoli famosi anche a Venezia, erano i preferiti.
Il ballo era il divertimento più cercato, una vera passione del
ballo sembrava aver invaso il Friuli: ballavano tutti, nobili bor-
1 E. RODOCANACHI, Op. Cit., p. 76.
« S. DI Strassoldo, op. cit., p. 57.
3 L. Stecchetti, La tavola e la cucina nei sec. XIV e XV, Firenze, 1884, p. 8.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 131
ghesi e popolani. Invano i sinodi aquileiesi* gridavano contro
lo scandalo, invano gli statuti cercavano di evitarlo. I balli con-
tinuavano, dati dalla stessa comunità di Udine. Si seguivano
senza posa nelle stanze, nelle sale, sulle piazze, nelle vie e nei
cortili, ogni paese aveva i suoi balli speciali: ìsl furlana, la staira,
la monferrina, la ziguzaine, la schiava, il ballo resiano. A questi
balli friulani si univano quelli venuti da fuori, che trovavano
larga accoglienza fra i nobili.
Mentre per i nobili e per i borghesi la festa nuziale aveva
l'unico scopo di salutare gaiamente e con lusso la giovane che
se ne andava, la festa nuziale dei contadini voleva ricordare sem-
pre i nuovi doveri ai quali la sposa si preparava, mostrandole
in quel primo giorno di vita nuova la missione sua, mite e grande
missione di lavoro e di pace. Descriviamo queste feste nuziali
del popolo, come restano ora in pochi paesi conservatori ; da
qualche accenno trovato nelle poesie friulane del secolo XVII
possiamo dedurre, che le feste del 600 non differiscono molto
da quelle dei contadini d'oggi.
1 preparativi per la festa nuziale incominciavano alcuni giorni
prima del matrimonio, col lavoro di riordinare e pulire la casa,
per renderla degna di ospitare gli invitati e la futura suocera
che dall'ordine che regna nella casa paterna può immaginare
quello che regnerà nella benedetta casa comune. Nelle parti me-
ridionali del Friuli la vera festa nuziale incomincia alla vigilia del
matrimonio, quando lo sposo con alcuni amici, con un carro ti-
rato da due forti giovenchi, ornati di fiori e di nastri va a pren-
dere l'arca (la cassa contenente il corredo). L'arca fra canti e
grida di giubilo è recata alla casa dello sposo, sopra ad essa
sono messi gli oggetti più belli, perchè siano ammirati da tutto
il paese.
L'esposizione, che i nobili facevano in una stanza la sera prima
del matrimonio, è imitata dai contadini, che mettono la rossa
coperta del letto sul carro infiorato, appesa su in alto, perchè
fiammeggi nella grande luce del sole o sventoli nella gloria di
un tramonto fra la campagna e i monti friulani. La sfilata def
cittadini davanti alle gioie e alle vesti della sposa ricca, si con-
verte nella campagna in una passeggiata dell'arca che passa fra
il popolo che grida, ammira, augura. L'arca è accolta dal suocero,
lo sposo intanto offre agli amici il suo vino migliore si rifanno
1 G. Marcuzzi, op. cit., p. 253.
132 ALICE SACHS
gli auguri e per quella sera il corteo si scioglie per ritrovarsi
il giorno dopo.
il giorno delle nozze la sposa del 600 vestiva un'ampia
gonna a fondo scuro sparso di fiorellini, un corpetto dello
stesso colore molto scollato e senza maniche, dal quale usci-
vano le maniche e un pezzo della camicia bianca. Portava
in testa un fazzoletto di seta bianca, indossava un giubbino
di panno o di velluto a colori vivaci, rosso o turchino, un
grembiule ornato di fettucce a diversi colori. La gonna un
po' corta lasciava vedere le calze rosse, verdi o gialle. Le belle
trecce nere giravano attorno al capo, in un largo giro, in
modo che i capelli si vedevano in parte uscenti dal fazzoletto
annodato.* Lo sposo portava calzoni corti fino al ginocchio, una
giubba corta davanti e più lunga dietro, una grande cravatta,
un ampio cappello di feltro nero. La celebrazione del matrimo-
nio avviene alla mattina, il corteo nuziale ritornava dalla chiesa
alla casa della sposa, passando tra una schlamete sparsa dalle
fanciulle del paese, sotto archi di sempreverde e di bosso. Ap-
pena ritornati a casa, incomincia il pranzo nuziale.
Tra i contadini generalmente benestanti, i quali per le feste
di nozze non devono sostenere altre forti spese e che hanno
molti prodotti, il pranzo nuziale è abbondante. Nel 600 consi-
steva in un arrosto di vitello e di pollo condito con pinoli e
mandorle, in molta carne in umido. Erano tradizionali i gamberi,
di cui sono ricchi i ruscelli del Friuli e le trote abbondanti nel
Tagliamento e nei suoi affluenti. Si tralasciava mal volentieri la
frittura di glavedon, un piccolo pesce abbondante negli stagni.
Era in uso pure la confezione : una conserva di frutta e miele
condita con anici e coriandoli. I dolci e i vini erano pure ab-
bondanti.* Molti cibi del pranzo nuziale erano e sono portati da
parenti ed amici come regalo di nozze. Il regalo preferito era il
croccante, un dolce piramidale raffigurante castelli e case, vuoto
internamente, sotto al quale s'imprigionavano uccelli che poi
prendevano il volo, e dal quale i presenti traevano gli auguri
per la nuova famiglia. Dopo il pranzo, la sposa usciva sull'aia,
e ai suono dei pifferi incominciava il ballo. Quello preferito era
la farlatuLy ma nel 600 era nuovissimo e si ballava volentieri il
mattazin? La danza durava varie ore, poi tutti gli invitati accom-
pagnavano gli sposi alla casa nuziale. Il modo con cui la sposa
1 e. Veceluo, op. cit. p. 144.
* E. DI CoLLOREDO, Catizotie in occasione di nozze, in Poesie scelte edite ed inedite,
Udine, 1828, p. 179.
3 Canzone friulana del secolo XVll di anonimo udinese, in Pagine friulane, II, n. 1.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVll 133
era accolta variava da paese a paese. Quasi dappertutto la suo-
cera aspettava il corteo sulla porta di casa. Oli oggetti che te-
neva simbolicamente in mano variavano. Nella valle d'Arzino la
suocera si presentava con un fuso in mano. La sposa lo pren-
deva subito e filava per mostrare la sua capacità; la suocera le
prendeva le mani, dimostrando così di accoglierla come figlia,
e la faceva entrare nella casa ormai sua.
In altri paesi la cerimonia era un po' cambiata, la suocera si
presentava con la scopa in mano e incominciava a scopare la cu-
cina, la sposa si opponeva. Avveniva una piccola lotta t^a suo-
cera e nuora, la quale riusciva vincitrice. Altre volte la suocera
si presentava con un mazzo di chiavi per offrirle alla sposa.
Essa si guardava bene dall'accettarle, perchè quest'atto avrebbe
dimostrato che desiderava far da padrona in quella casa, levando
il primato che spettava alla madre del marito.
Nel Friuli occidentale si regalava alla sposa una gallina, lo
sposo la prendeva, le tagliava la testa, schiacciandola contro il
muro e gridando: ' Morte alla gallina, viva la sposa! ' La gallina
simboleggiava l'abbondanza che regnava nella famiglia. Le co-
gnate, le donne, aiutavano la sposa a levare la coperta dal letto,
quella stessa coperta che era stata esposta sul carro infiorato.
Nel Friuli orientale la sposa, appena uscita di chiesa, fuggiva
per correre a rinchiudersi nella sua casa, dove l'aspettava il
padre. Giungeva lo sposo chiedendo se in quella casa si era
rifugiata una colomba. Il padre rispondeva di non aver visto
nessuno. Il dialogo continuava, finalmente la sposa usciva e dal
padre era presentata al marito. Dopo questa specie di consegna,
che può ricordare le antiche costumanze longobardiche, la sposa
entrava senza altri finti impedimenti nella casa del marito. Nella
valle del Meduna si facevano quasi due feste nuziali. Una il
giorno degli sponsali, quando i genitori della ragazza davano
il consenso al matrimonio futuro, e questa si chiamava le prime
nozze. Questa festa consisteva in una cena, alla fine della quale
il fidanzato faceva la formale domanda ai genitori della ragazza.
Il giorno delle vere nozze, lo sposo e gli amici andavano a pren-
dere la sposa. Dopo la celebrazione del matrimonio si formava
il corteo che andava alla casa della sposa. Durante il tragitto il
compare offriva confetti agli amici e ai compaesani. Il corteo,
come in tutti gli altri paesi, procedeva tra il rumore più vario e
festoso, lo scampanio delle campane, lo sparo degli archibugi,
i canti, gli evviva. La sposa restava con i genitori, il primo
134 ALICE SACHS
giorno di matrimonio alla sera i parenti venivano a prenderla
per accompagnarla alla sua nuova casa.' L'aspettava il suocero,
che s'induceva ad aprire la porta soltanto dopo esser stato assi-
curato che facendolo compiva un'opera buona; dava cioè rifu-
gio a poveri pellegrini stanchi che temevano di passare la notte
all'aperto. Allora la porta si apriva e si presentava alla sposa,
simbolo forse della futura maternità, un bambino. La sposa lo
prendeva, lo baciava e riceveva poi la benedizione dai genitori
del marito. Dopo il pranzo e il ballo, la festa era finita. In Car-
nia, quando il corteo nuziale usciva dalla chiesa, si trovava sbar-
rato il passo. Un compaesano mascherato affermava che gli
sposi non potevano passare se non avevano le carte in regola.
E osservava se la donna portava in dito la vera. Allora permet-
teva il passaggio al corteo a condizione però che lo sposo la-
sciasse una piccola somma chiamata paia il traghet (pagare il
passaggio). Anche questa usanza risente della sua lontana origine
longobarda: quella per cui i forestieri dovevano pagare una
somma maggiore era una corruzione degli ordinamenti statutari
che, come abbiamo visto, proibivano alle ragazze ricche il ma-
trimonio con forestieri. Anche in Carnia nelle feste nuziali si
faceva il ballo, mentre continuavano i suoni e l'allegria la sposa
era accompagnata nella stanza nuziale.
Il giorno dopo le nozze, in Carnia e in Friuli, essa prendeva
non soltanto il fuso e la scopa, ma l'aratro e la vanga, essa
diventava il docile animale da soma, si dedicava tutta alla sua
vita di sacrifizio.
V.
Le leggi suntuarie che si riferiscono al matrimonio.
In nessun paese d'Europa^ il lusso era tanto raffinato e ricer-
cato come in Italia. Si cercava non solo la ricchezza e lo sfarzo,
ma il buon gusto e si raggiunse una perfetta eleganza. L'arte
era in tutto : nelle vesti, nelle case, nelle carrozze, nelle livree,
nei più piccoli e utili oggetti. Ma, se il lusso nella giusta misura
rappresenta un felice grado di ricchezza e di civiltà, portato al
1 G. L. BiDOLi, Costumi nuziali nella valle di Tramonti, in Pagine friulane,
anno XI, n. 1.
8 J. BuRCKARDT, La civiltà del secolo del rinascimento in Italia, Firenze, 1876,
p. 130.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVii 135
grado massimo, qual'era nel 500, tradisce uno stato di corruzione,
un desiderio del piacere e di godere la vita in tutti i modi possi-
bili, trascurando doveri e lavori più seri. Lo spreco che si faceva
di tempo distoglieva da altre e più gravi cure, si consumava il
denaro accumulato e non prodotto. Contro questo stato di cose
sorsero, a frenare le spese soverchie, i legislatori. In ogni città
d'Italia si trovano alcune leggi suntuarie, destinate a reprimere
V invadente smania di godimento la ricerca esagerata della bellezza
e dell'eleganza. Le nozze offrivano la migliore occasione per
mostrare le vesti più ricche, per mostrare la magnificenza della
casa.
A frenare le spese soverchie in occasione di nozze, ogni
città d'Italia aveva dal secolo XV le sue leggi suntuarie. E inu-
tile ricordare Firenze e Venezia, centri magnifici d'arte e di bel-
lezza, che nelle feste, nei doni, nei corredi raggiungevano quel
grado di raffinatezza per il quale la festa diventa un godimento
puramente artistico. E Firenze e Venezia erano ricche di leggi
suntuarie. Anche molte città minori avevano, dai primi anni del
500, le loro leggi suntuarie, che regolavano minutamente le feste
nuziali, il numero degli invitati, quello dei regali, il lusso delle
vesti della sposa e delle dame che l'accompagnavano.* I friu-
lani non dedicavano tanto tempo a leggi così particolareggiate.*
Il popolo, finito il triste e sanguinoso periodo della dominazione
dei patriarchi, si era risvegliato a una vita laboriosa e tranquilla.
Alla povertà di alcune province del dominio veneto, faceva con-
trasto l'opulenza della Patria ricca di grani, di vino, fiorente di
industria, la più ragguardevole del dominio e quindi « più delle
altre cara».' La vita dei friulani non aveva raggiunto ancora
una raffinatezza e un lusso eccessivo, il denaro era considerato
nel suo giusto valore e non si sprecava. Mentre da tutte le parti
si seguivano senza tregua le leggi suntuarie, la Patria non aveva
e non sentiva bisogno delle sue. Le prime furono proposte nella
seconda metà del 500 e si riferivano al lusso delle donne. Le
leggi suntuarie del 1567'' proibivano le vesti d'oro o d'argento,
di velluto, di panno, di seta, « stoccati, saldati, pontisati né di
1 A. Cassa, op. cit., p. 139.
* Di questo periodo conosciamo soltanto le leggi parlamentari del 1342 contro
il lusso nei vestiti : Constitutiones Patrìae Foruulii, ed. Joppì, Udine, 1900, p. 100,
doc. XVII.
3 P. MOLMENTi, // dominio veneto in Friuli, in Nuovo Archivio veneto, t. VI,
p. 1, p. 93.
* Annalium cit., t. LVII, f. 47 sgg.
136 ALICE SACHS
più colori tessuti né vesti con ricami, frastagli o disegni di sorte
alcuna». Erano proibiti nei prestamenti più di quattro vestiti
di seta, dei quali uno poteva esser di velluto ; oltre a questi
quattro, era permessa una pelliccia. Si proibivano le fodere di
martora, di lupo, di zibellino, gli ermellini, le volpi bianche sia
sulle spalle « né anco in mano». Come semplice riparo al freddo,
erano permessi gli zibellini che non valessero più di dieci du-
cati. Non si potevano portare vezzi di perle che costassero più
di cento ducati, e catene d'oro superiori ai venticinque. Due
anelli soltanto oltre la vera. Erano proibiti i braccialetti troppo
ricchi, gli anelli e le catene dovevano essere d'oro senza smalto,
muschio o ambracane.
Non si potevano portare gli orecchini con pietre preziose,
le perle vere o false che fossero, sui veli sulle cuffie e in testa.
Alle spose era fatta qualche concessione poiché era lecito * portare
il giorno dello sposalizio, e per due anni dopo, un vezzo di perle,
gli orecchini, la catena d'oro senza smalto. Si permettevano le ca-
micie ricamate soltanto allo scollo e alle maniche, ma si vietavano
gli scialli e gli altri ornamenti da collo superiori ai quattro du-
cati, le calze e i guanti ricamati in seta e profumati. Le proibi-
zioni severe erano fatte a tutte le donne, nessuna eccettuata:
« non solamente le donne che hanno abitazione in Udine sian
« tenute osservar le cose capitolate e terminate di sopra, ma anco
« altre donne che venissero in questa città non possono portar
«alle feste pubbliche e private cose proibite». Le leggi della
Patria erano più imparziali di quelle della Serenissima, che di-
spensavano dall'osservanza delle leggi contro il lusso il Doge
la Dogaressa, i loro parenti che abitassero in palazzo e le
mogli degli ambasciatori.^ Ma benché le leggi friulane fos-
sero imposte ugualmente a tutti, erano da tutti ugualmente messe
in dimenticanza. I censori sulle pompe risiedevano a Udine,
nei castelli lontani le spose potevano sfoggiare, nei presta-
menti, la seta e il velluto, l'argento e l'oro, il lupo e la volpe
bianca. Le cittadine avevano sempre buone scuse quand'erano
trovate in flagrante disobbedienza alla legge suntuaria. I censori
sulle pompe, eletti nell'ordine- dei nobili, transigevano spesso e
volentieri sulle palesi disobbedienze delle belle concittadine. Se
non erano nobili trovavano lo stesso la maniera di deludere le
leggi. « Essendo mandato un figlio di M. Claudio Sasso stato
» AnnaUtttn cit., t. XVIII.
* P. MOLMENTi, La vita prlvatr. dei veneziani cit., p. 454.
LE NOZZE IN FRIULI NEI SECOLI XVI E XVII 137
« grigìoni, ed ora cittadin da Udine in una nezza di M. Francesco
« Lesso anch'esso grigìone tacconalo la moglie andava per la città
« ben attillata e pomposa, ma senza oro attorno, e in loco di lei
« portava una sua massera drio una collana di valuta di ducati
«trecento, che faceva una vista ridicolosa».'
Le ricche vesti nei prestamente, le gioie si portavano ancora,
le leggi suntuarie si succedevano, date però, più che per timore
di un reale pericolo, per obbedienza alla Serenissima o per se-
guire l'esempio che essa dava.*
La seconda disposizione suntuaria trattava dei banchetti: si
proibivano i fagiani, gli uccelli, i galli selvatici e nostrani, i tac-
chini e le pernici insieme. Queste disposizioni, più che per di-
minuire le spese, erano date come una norma di previdenza per
gli uccelli e quindi per l'agricoltura. La stessa legge proibiva i
pasticci, permettendo soltanto due piatti di allesso e due di arrosto,
oltre ai salati. Erano proibiti i pesci, si permettevano soltanto le
ostriche. Non si potevano offrire canditi e dolci, ma era permesso
spargere la tavola di confetti.^
I regali in dolci che la famiglia della sposa faceva quand'ella
era promessa ai compari e agli amici, erano pure proibiti e si
ordinava che la « mala usanza sia del tutto levata » , si permet-
teva soltanto di regalare « confetti e confezioni il giorno del dar
la mano e in quello dello sposalizio». Anche queste leggi non
furono osservate e i banchetti continuarono ricchi di pesci, di
uccelli, di dolci, di carni di ben più di due sorta. I consiglieri
stessi quando l'argomento si discuteva in Consiglio si dividevano
in due parti, una sfavorevole ai nuovi ordinamenti, così che il
luogotenente era costretto a rimandarne sempre la discussione.*
La proposta della legge che proibiva a tutti i cittadini di portare,
per conto proprio o per ordine ricevuto, in giro per la città dolci
o altri regali ricevuti in dono dalla sposa e da questa fatti dispen-
sare al popolo, non ebbe vigore per la ferma opposizione del
contraddicente.^ 11 contraddicente era l'eletto dal popolo, il ma-
gistrato che rappresentava i suoi diritti e che cercava di farli
valere. In questo caso si oppose validamente affinchè il bene-
ficio, che i popolani potevano trarre dalle nozze dei ricchi, non
venisse meno.
» M. L. Emiliani, Cronaca udinese dal 1532 al 1616, Udine, 1881, p. 10 (1653),
« Annalium cit., t. XVIII, f. 337.
3 Annaliam cit., t. LVII, f. 49 (anno 1567).
* Annalium cit., t. IJ(V, f. 144-145, (anno 15%).
5 Annalium cit., t. L, f. 93 (anno 1541).
138 ALICF. SACHS
Come si vede, le leggi suntuarie che regolano il matrimonio
sono pochissime, date per ordine o imitazione di Venezia più
che per sentita necessità.
A far rispettare queste leggi erano scelti ogni anno tre censori
e tre sopra censori. L'ufficio non era agevole, ma non si poteva
rifiutarlo senza sopportare una multa di venticinque ducati. Un
notaro era eletto, perchè istituisse i processi contro i trasgressori
delle leggi suntuarie. Riceveva un compenso proporzionale alle
multe che riscuoteva. Le denuncie potevano esser fatte da qua-
lunque cittadino, il quale, se non voleva essere conosciuto, po-
teva deporre le accuse in una cassetta esposta al pubblico, di
cui il censore e il sopra censore, più vecchi, tenevano le chiavi.
Le multe andavano per un terzo all'accusatore, quand'era noto,
un altro terzo era per i censori, l'uHimo doveva essere impiegato
per le mura di Udine. ^ L'antico desiderio, la preoccupazione
antica per la difesa del piccolo cuore del Friuli era vivo ancora
nell'assegnare le pene, nel riordinare le pompe. A noi non spiace
pensare le spose inosservanti delle non necessarie leggi suntuarie,
bellissime nei loro abiti di velluto, di seta « stoccata saldata ponti-
sata », adorne dei più bei manitti, delle più rilucenti cuffie d'oro
dei loro prestamenti, mentre con le multe fioccate alle ribelli
vorremmo sorte possenti e turrite le mura di Udine.
Alice Sachs
1 Annalium. ciL, t. LVII, f. 49 (anno 1567) ; Capitoli della città di Udine in ma-
teria di pompe, Udine, Schlratti, 1683.
ANTICHI EPISCOPATI ISTRIANI 13Q
ANEDDOTI
Antichi episcopati istriani.
Note critiche.
1. In queste Memorie^ il Leicht, facendo una recensione dello studio
dello Schiaparelli sui diplomi dei re Ugo e Lotario,- si fermava a no-
tare una correzione che lo Schiaparelli stesso proponeva di introdurre
nel diploma concesso da re Ugo il 7 agosto 929 in favore della chiesa
di Trieste. Il re concedeva allora Veplscopatus Separiensis sive Hamago
plebs ipsias episcopii^ e rendeva immune ecclesiam Tergestinam cam
ipsa ecclesia Separierise sibi concessa et catti iatn dicto Huttiago . . . sub
tiostrae taiciotiis itiuiidburdo. La correzione proposta consiste nel mutare
Veplscopatus Separletisls in ecclesia Separletisls e nel togliere un inciso,
supponendo un rimaneggiamento dovuto probabilmente allo stesso
trascrittore del documento originale del re Ugo, che purtroppo non
ci è stato conservato.
Il Leicht invece suppone clie Sipar sia stato davvero un vescovado,
e, mi pare, assai ragionevolmente. Si noti infatti che nel testo del do-
cumento V ecclesia Separletisls è posta a paro coW ecclesia Tergestltia;
ambedue erano episcopati prima dell'incorporazione della prima nella
seconda.
Di più abbiamo un fatto analogo a questo. 11 7 giugno 983
Ottone II donava ad Adamo, vescovo di Parenzo, Ruulgnutn quantum
ad eplscopatum, confermando e rinnovando una donazione già fatta dal
re Ugo, della quale non ci fu conservato il documento originale.
» Voi. X, 1914, p. 351.
* L. Schiaparelli, / diplomi di Ugo e Lotario, in Ballettino dell'Istituto Storico Italiano,
n. 34, 1914, p. 202 sgg. L'autore ammette che la pergamena sia stata interpolata, ma sul docu-
mento primitivo, già sulla fine del secolo X od al principio del seguente.
' Sipar è luogo vicinissimo ad Umago, dal testo del documento risulta che un tempo ? epi-
« scopatus Separiensis sive Humago plebs ipsius episcopi! fuit ». Come già suppose il Kandler,
Sipar con Umago formò un'unica lilebs e poi un unico episcopatus.
140 PIO RASCHINI
Ho supposto altrove che questo episcopato di Rovigno non sia altro
che l'antico episcopato di Cissa, ricordato nel secolo VI, che sorgeva lì
presso e del quale non s'era perduto il ricordo.* È infatti ben noto
quanto difficilmente si cancellino queste memorie di una passata gran-
dezza ecclesiastica dalle menti dei popoli.
Episcopato effimero quello di Sipar Umago, la cui origine si po-
trebbe riportare ai tempi in cui i vescovi dell'interno della Pannonia,
cacciati verso le coste dalle invasioni avare e slave, si piantarono colle
loro popolazioni fuggiasche su lidi più sicuri sotto la protezione dei
bizantini. A questo fatto si attribuiscono le origini dei piccoli episco-
pati della Dalmazia e fors'anche dell'Istria stessa.
Ma anche alla distruzione di Sipar si può assegnare con buona
probabilità un'epoca precisa. Il cronista veneziano Giovanni diacono,
narrando di un'invasione barbarica avvenuta intorno all'STQ, dice: « Scla-
« vorum pessime gentes et Dalmacianorum Ystriensem provinciam de-
« predare ceperunt; quattuor videlicet urbes ibidem devastaverunt ìd est
« Umacus, Civitas nova, Sipiares atque Ruinius »." Queste località sono
chiamate urbes, avevano dunque diritti uguali fro loro ; Cittanova era
episcopato : chi ci impedisce di credere che lo fossero anche le altre ?
Ma causa l' invasione slava Sipar ed Umago dovettero rimanere in con-
dizione inferiore a Cittanova e Rovigno, e questo fatto suggerì come
opportuna la loro unione con Trieste, ch'era rimasto ancora forte e
potente.
C'è rimasta anche qualche traccia che farebbe testimonianza come
Sipar avesse raggiunto un'importanza non trascurabile in Istria.
L'abbate Laugier, nella sua storia di Venezia, al terminare del-
l'anno 1770 narra: «Venezia andò soggetta a due innondazioni ma-
« rine: nella seconda di queste allagazioni, spirando un impetuoso vento
« lungo le spiagge dell'Istria, il mare agitato e commosso soverchiò gran
« tratto di quel litorale, e ne sollevò per alquante miglia la superficie
« trasportando altrove sabbia, cespugli, sassi, e disseppellendo tortuita-
« mente una antica città, che conserva tuttavia la disposizione delle strade
« interne, quella delle muraglie, de' pòrtici, delle colonne, dei pavimenti
« di mosaico, e di tutti gli altri vestigi di un'ampia e ricca popolazione,
« la quale estendesi per due miglia incirca tra Umago e il vecchio ca-
« stello di Sipar.
« Persone degne di fede, portatesi in persona a vedere in allora
« la cosa, attestavano essere vero quanto lo storico narrava.
• Cfr. il mio: Le vicende politiche e religiose del Friuli nei secoli IX e X, Venezia, 1911,
pp. 75, e 82 sg. Da Verona il 12 febbraio §28 il re Ugo concesse ad Orso, patriarca d'Aquileia»
l'unione del vescovado di Concordia con tutti i suoi annessi alla sede patriarcale, ib., p. 56. Schu-
PARELLi, loc. cit., p. 16. Però con quest'unione il vescovado di Concordia non perdette la sua
esistenza, ma fu unito solo quanto agli effetti feudali.
a Q. MoNTicoLO, Cronache veneziane anìichissime, Fonti dell'Istituto storico italiano, Roma,
1890, p. 75. Il Dandolo nella sua cronaca ripete il medesimo racconto, muta il nome di Civitas
nova in quello di Aemonia, che è di uso posteriore.
ANTICHI EPISCOPATI ISTRIANI 141
« Delle quali rovine comunque ricoperte da terra e cespugli sovram-
« mucchiati si mostrano tutto giorno visibili le traccie lungo la costa
« tutta che si distende da S. Stefano di Umago, fino al castello Sipar,
« le cui muraglie sorgono ancora sopra piccola isoletta o penisola. Alla
« punta Catòro specialmente veggonsi assai rovinacci, e mosaici, e cotti
« e frammenti di marmo che attraggono i cercatesori, indizio quest'ul-
« timo assai certo di antiche cose sepolte »/
[n una lettera scritta da Pirano in data 11 aprile 1771 si ha pure:
«Nel dicembre 1770 una fiera marea tra Umago e il castello dì Sipar
« scoprì per lungo tratto di terreno un sotterraneo con fabbriche anti-
« che, quasi per due miglia principiando dalla punta di Catòro inter-
« rottamente. Consistevano in muraglie fatte di sasso di monte, tratto
« tratto divise da due piccoli muri questi formanti una camera. In taluna
« vedeansi scalinate e finestre. Tutto il pavimento era a mosaico. Vi si
« trovò gran quantità di crostacei, forse perchè conservassero meglio le
« urne. Un'urna si trovò con alcune ossa. Fu creduto da alcuni, che fos-
« sere ruine dell'antica città Sipària. Testificano eziandio i pescatori di
« quelle acque, che in bonaccia e mare chiaro veggonsi dal fondo della
« punta di Catòro certe muraglie, e le vestigie di un molo, riputato
« quello di Siparia, città posta un tempo non lungi dal mare. Vedevansi
« pure non ha molto le reliquie di un molo coperto dall'acqua vicino
« alla chiesa di S. Basso, riputate il porto del castello di Alieto del fondo
« di 1000 passi, come trovasi in alcuni antichi scrittori ».-
Piuttosto un'altra questione ci si presenta. In quali relazioni era
questo vescovado di Sipar-Umago con quello di Capodistria posto fra
esso e Trieste? È noto che il vescovado di Capodistria fu ristabilito
per consenso di Alessandro III al tempo della pace di Venezia (1177),
togliendolo dalla dipendenza di Trieste, e che il primo vescovo fu eletto
nel 1184 circa.' Ma il cronista veneziano Andrea Dandolo ci fa sapere,
che « col favore del patriarca di Grado Vitaliano (eletto nel 755), papa
Stefano, placato dalle suppliche del clero e del popolo Giustinopoli-
tano, concesse, che la chiesa Giustinopolitana (Capodistria) amodo
cathedralis existeret; perciò essendo stato eletto dal clero e dal popolo
di quel luogo Giovanni, il patriarca diede a costui la conferma e la
consacrazione, e morto lui fece poi altrettanto con Senatore successore
di lui ».^ Questo vescovado di Capodistria, che sembrerebbe istituito e
creato alla metà del secolo Vili, non ricompare più nominato sino alla
fine del secolo XII; dal documento di Alessandro III si sa, che non
> Periodico L'Istria, anno I, 1846, p. 36.
* Tratta dal ms. Svaier, n. 12, registrata nel primo volume Delle memorie Venete Antiche
Profane ed Ecclesiastiche Raccolte da Giambattista Galliclolli, Venezia, Fracasso, 1795, riportata
ne L'Istria, anno I, 1846, p. 294.
» Cfr. il mio : / patriarchi d'Aqnllela nel secolo XII, in queste Memorie, X, 1914,
pp. 171 e 257.
* Dandol. Cìiron. Venet., Libr. VII, 10, 2, in Muratori, R. I. S., to. JCU. Cfr. Fr. Babu-
DRi, Cronologia dei vescovi di Capodistria, Trieste, 1909, p. 14.
142 PIO RASCHINI
esisteva più da parecchio tempo, tanto che si decise di farlo rivivere.
Esso infatti s'era fuso col vescovado di Trieste, dal quale venne di
nuovo staccato ; ma prima di erigerlo canonicamente sì aspettò la
morte di Benardo, vescovo di Trieste, per non fare a lui un torto di-
mezzandogli il vescovado. Viene ora spontanea la domanda: il vesco-
vado Sipar, che nel 929 venne dal re Ugo incorporato a quello di
Trieste, non potrebb'essere tutt'una cosa col vescovado Capodistria
di cui si parla nel secolo Vili ? La risposta affermativa appare tanto
più verisimile quando si pensi, che il Dandolo sostituisce corrente-
mente ai nomi più antichi quelli ch'erano in uso al tempo in cui scri-
veva.^ Per esempio egli attribuisce ai metropoliti di Grado e di Aquileia
il titolo di patriarca anche in un tempo in cui questo non era il loro
titolo ufficiale, e chiama Emoniense il vescovado di Cittanova in Istria,
che prende quella denominazione, come già osservò il De Rubeis, solo
a partire dal secolo XI. Egli avrebbe in tale ipotesi chiamato vesco-
vado di Capodistria nel secolo Vili, quello che realmente era il vesco-
vado di Sipar. Ovvero il vescovado di Capodistria, che aveva la sua
sede su di un' isola, diventato troppo esposto alle incursioni marittime,
fu trasportato in luogo che sembrò più forte e sicuro, cioè a Sipar-
Umago? rovinati anche quei luoghi, re Ugo l'avrebbe unito poi con
Trieste? Questa seconda ipotesi parrebbe pure attendibile, ma anch'essa
si fonda sul presupposto che il vescovado di Capodistria sia stato
realmente tutt'uno con quello di Sipar-Umago ; ma anche quest' ipotesi,
per quanto possa sembrare verisimile, non esce dal campo delle pro-
babilità, perchè Sipar-Umago è realmente più vicino a Cittanova che
a Trieste. Più probabile mi sembra invece una terza ipotesi: tanto
Capodistria che Sipar-Umago furono realmente episcopati; il primo
sparì in tempo anteriore al secondo ; volendo poi il re Ugo rendere più
forte e più ben provvisto il vescovado di Trieste, la cui estensione
entro il continente era ristretta, gli unì Sipar-Umago, dandogli così
una lunga estensione di lido istriano : in tal modo esso confinava con
Pedena nell'interno e con Cittanova sulla costa e signoreggiava sul-
r intero golfo.
2. Riguardo alle divisioni amministrative dell'Italia settentrionale e
del vicino Illirico al declinare dell'impero occidentale, nella lista delle
Provincie romane, nota sotto il nome di Polemio Silvio, troviamo
queste indicazioni:
In Italia:
VI. Liguria in qua est Mediolano;
VII. Venetia cum Histris in qua est Aquileia, ecc.
> Sembrerebbe che, se al principio del secolo X fosse esistito ancora il vescovado di Capo-
distria, Uraago e Sipar sarebbero stati dipendenti da Capodistria, piuttosto da Trieste che sta pia
lontano ; invece, come abbiamo veduto, dal testo del documento del re Ugo risulta che Sipar-Umago
era originariamente una plebs del vescovado Triestino, non di quello di Capodistria.
ANTICHI EPISCOPATI ISTRIANI
143
In Illyrico:
I. Dalmatia super mare ;
II. Pannonia prima, in qua est Sirmium ;
III. Pannonia secunda ;
IV. Valeria, ecc.^
Queste indicazioni sono pure esattamente ripetute nell'elenco delle
Provincie conservato dal cardinale Albino alla fine del secolo XII.^
Esso infatti ripubblicava esattamente la divisione in Provincie dell' im-
pero romano quale era al momento della sua caduta.
Passiamo ora al Liber censaum di Cencio Camerario, redatto ad
uso della cancelleria papale verso il 1192, allo scopo di dare un elenco
di tutti i censi, che dalle diverse parti della cristianità si pagavano
alla Santa Sede. 1 censi sono disposti secondo le metropoli e gli epi-
scopati nei quali erano posti i luoghi tributari ; di modo che abbiamo
nel Liber non solo un elenco di censi, ma anche un elenco ordinato di
sedi e metropoli episcopali : un provinciale ecclesiastico.^
Ecco ora il brano di Cencio che c'interessa:
Dalmatia supra mare :
In patriarchatu Aquileiensi
In episcopatu Mantuano
Cumano
Tridentino
Veronensi
Paduano
Vicentino
Tervisino
Concordiensi
Senecensi (Ceneda)
Filtrensi
Belunensi
Polanensi
Parentino
Triestino
Commaclensi
de Capite Istrie
Maranensi
Civitatis Novae
Istria supra mare:
In patriarcato Gradensi
In episcopatu Castellano
Torsellano (Torcello)
Aquilensi (lesolo)
Caprulensi (Caorle)
Cosensi (Chioggia)
Civitatis novae (l'antica
Eraclea)
In archiepiscopatu ladrensi (Zara)
In episcopatu Signensi (Segna)
Ausarensi (Oserò)
Veglensi (Veglia)
Arbensi (Arbe)
Nonensi (Nona presso
Zara)
In archiepìscopatn Spala^nsi
In episcopatu Traguriensi (Traù)
Signensi
Scardonensi ecc.
SCLAVONIA
In archiepiscopatu Ragusiae
In episcopatu Stagnensi ecc.
Ungaria ecc.*
Poiché il cardinale Albino, sebbene quasi contemporaneo, fece un
elenco di censi indipendentemente da quello di Cencio, giova riportare
« M. O. H. : Auctt. Antiquissimi, IX, p. 536 sgg.
» P. Fabre, Le "■ liber censuum » de l'église Romaine, Paris, 1905, to. II, p. 96 sg., n. 68.
» Quegli episcopati, nel territorio dei quali la Sede Apostolica non percepiva alcun censo,
sono pure elencate in ordine, ma senz'alcuna indicazione ed aggiunta.
* Fabre, op. cit., I, p. 123 sgg. Anche nel Registro di papa Gregorio X le bolle colle quali
fu indetto il concilio generale (13 aprile 1273) furono inviate «in Istria supra mare: ladriensi et
< Spalantesi archìepiscopis > {Registr., n. 307).
144 PIO RASCHINI
anche quanto trascrive egli. Anzitutto ecco la divisione provinciale
ecclesiastica da luì trascritta.
In Dalmatia saprà mare: Metropolis Aquileia XI habet suffraga-
neos : epìscopum Veronensem, Paduanum, Vìcentinum, Cumanum,
Mantuanum, Tervisinum, Trìdentinum, Concordensem, Senecensem, Fil-
trensem et Belunensem.
In Ystria saprà mare: Metropolis Gradus habet suffraganeos : Pola-
num, Parentinum, Triestinum, Comaclensem, episcopuni de Capite
Istrie, Maranensem, episcopum Civitatis Nove, Castellanum, Torsella-
num, Aquilensem, Caprulensem et Closensem.
Metropolis ladera
Metropolis Spalatus
In Sclavonia: metropolis civitas Ragusia ecc.
In provincia Flaminea: metropolis Ravenna ecc.
In Liguria: Metropolis Mediolanum ecc.
In alpibus Gotiae: Metropolis lanua (Genova) ecc.*
Nell'elenco dei censi i vescovadi sono disposti così :
In Patriarchatu Aquileiensi: In episcopatu Vicentino... Feltrensi...
Tridentino... Senecensi... Paduano... Mantuano... Veronensi... Tarvisino...
Cenetensi..." Polae... Comaclensi.
In patriarchata Venetie Qradensi... In episcopatu Torsellano.^
La prima cosa che colpisce in queste liste è la collocazione del
patriarcato Aquileiese sotto la rubrica : Dalmatia sapra mare. All'epoca
imperiale infatti con questo nome era designata la Dalmazia marittima
con capitale Salona, a confronto della Dalmazia interna o Prevalitana
con capitale Scodra (Scutari d'Albania).
« Io credo che ci troviamo qui pure dinanzi ad un tentavivo
d'adattamento del provinciale ecclesiastico col Liber provinciaram del-
l'impero romano. Come nel secolo IX i personaggi illustri della rina-
scita carolingia sembra abbiano considerato la Notitia provinciaram
et civitatam Galliae come la base fondamentale dell'organizzazione
della chiesa gallicana ; così i chierici romani della rinascita gregoriana
ebbero una tendenza speciale di far combaciare le grandi divisioni
àoìV Orbischris tianas con le antiche divisioni dell'Or^/s romanus. Ciò
era conforme allo sviluppo storico ed anche alle antiche decisioni con-
ciliari, ma l'esecuzione fu tutt'altro che perfetta. Causa ne fu sì la falsa
interpretazione data degli antichi cataloghi provinciali, ma in parte
anche lo stato di alterazione nel quale questi antichi cataloghi sono
giunti nelle mani dei redattori del provinciale ecclesiastico ».*
1 Fabre, op. cit., II, p. 102, n. 6Q.
2 È curioso che il vescovado di Ceneda sia elencato due volte, cioè come Senecensi e Ce-
nettnsi. È questa una correzione, uno scrupolo, per così dire, di Albino stesso, oppure si tro-
vava nella fonte da cui trascriveva ? È probabile la prima ipotesi, perchè nell'altro elenco si trova
solo Senecensem.
» Fabre, op. cit., II, p. 115.
* Fabre, op. cit., I, p. 123 sg., nota.
ANTICHI EPISCOPATI ISTRIANI 145
Aquileia non cessò mai di appartenere alla provincia della Venezia
e dell'Istria, e d'altra parte il termine Dalmazia rimase sempre localiz-
zato dal secolo primo all'undecimo sulle medesime regioni, anzi in-
vece di estendersi a comprendere anche nuovi paesi, andò piuttosto
limitandosi. Per conseguenza l'attribuzione del termine Dalmatia sapra
mare alla provincia ecclesiastica di Aquileia non può spiegarsi che
come un'interpolazione, un rimaneggiamento parziale delle antiche
liste provinciali dell' impero. Infatti, mentre non se ne trova traccia
prima del secolo XII, cioè prima di Cencio e di Albino, si trova in
seguito in tutti i provinciali della chiesa romana dal secolo XII al XIV
ed anche nel Liber Cancellariae del 1380.
Come si spiega quest'anomalia? Il Fabre nota giustamente che
nel secolo sesto i vescovi dell'Illirico occidentale, quando Sirmio andò
distrutto (ma la tendenza per una parte di loro c'era già prima di
questa distruzione), piegarono verso Aquileia, ch'era loro abbastanza
vicina. Siccome nell'elenco delle provincie s'aveva originariamente :
In Illirico XVIII {proviticlae): Dalmatia saprà mare. Pannonia prima
in qua est Sirmiiim ecc., dopoché Sirmio mancò e non rappresentava
per conseguenza più niente, ci dovette essere un correttore che can-
cellò Sirmiiim e sostituì Aquileia, dimodoché si ebbe : Dalmatia saprà
mare in qua est Aquileia. Indicazione che passò poi tale e quale
nelle liste ecclesiastiche. Il Fabre corrobora questa sua ipotesi colle
sottoscrizioni al concilio di Arles, le quali pare sieno state rimaneg-
giate nel secolo VI, nelle quali c'è la firma : « Theodorus episcopus...
de civitate Aquileiensi, Provincia Dalmatiae». Valeriano suo mediato
successore fu chiamato da s. Basilio vescovo degli Illirici.
Ma mi pare questa una spiegazione troppo tirata, con un punto
di partenza troppo remoto. Colui il quale ebbe fra mano a Roma
l'antico elenco delle provincie dell'impero, ch.e gli doveva servire di
base per compilare l'elenco delle provincie ecclesiastiche, dovette tro-
varsi in un impiccio non lieve. Col nome di Venezia si chiamava ormai
al tempo suo in senso stretto la città delle lagune, in senso più largo
anche i luoghi circonvicini dell'estuario, in altre parole il patriarcato
Gradese ; il resto del paese, che noi chiamiamo ora Veneto, si chiamava
allora invece marca Trivigiana o Veronese e Friuli ; ecclesiasticamente
formava il patriarcato d'Aquileia e comprendeva oltre l'Istria una gran
parte dell'antica Pannonia superiore, cioè dell'Illirico Occidentale, ed
una parte dell'antico Norico Mediterraneo. Di più: tutte le provincie
dell'antico Illirico e specialmente la Dalmazia, in seguito alle invasioni
barbariche, specialmente slave ed unghere, avevano completamente
mutato nome, circoscrizioni ecclesiastiche, governo civile: l'adattamento
per quei luoghi si presentava difficile assai. Come fare? il redattore
cancellò la parola Venetia e creò la frase Istria supra mare^ e vi adattò
» Forse Albino o la sua fonte creò questa frase sul modello dell'altra: Dalmatia saprà mare
10
146 PIO PASCHINI
il patriarcato di Grado, aggiungendovi i due arcivescovadi, di Zara e
di Spalato, ch'erano in stretta relazione con esso. Conservò la dicitura:
Dalmafia saprà mare, interpretandola nel senso di Dalmazia superiore
ed in essa comprese il patriarcato di Aquileia. Aggiunse in ultimo
anche, col nome di Sclavonia, l'arcivescovado di Ragusa, che faceva
parte dell'antica Dalmazia/ Così vennero eliminate tutte le altre Pro-
vincie dell'antico Illirico romano (Pannonia, Valeria ecc.) ch'era impos-
sibile inquadrare nelle circoscrizioni ecclesiastiche. Fu un adattamento
compilato molto malaccortamente: ma ci può fare meraviglia? È sem-
pre cosa pericolosa mettere vino nuovo in otri vecchi.
Notiamo un'altra cosa. Il cardinale Albino conobbe come già esi-
stente il vescovado di Capodistria, ristabilito da Alessandro IH verso
il 1177, come abbiamo veduto; viceversa poi assegnò ancora ì vesco-
vadi istriani al patriarcato di Grado, che in quell'epoca furono aper-
tamente riconosciuti come dipendenti dal patriarcato d' Aquileia. È una
cosa abbastanza strana ; ma che si può, credo, spiegare così : il pa-
triarcato Gradese da secoli vantava diritti metropolitici su quei vesco-
vadi e non mancava di reclamarli ad ogni occasione. Erano reclami
ormai teorici, ma in ogni modo erano sempre pretese che si accam-
pavano. Esso non vi rinunciò definitivamente che nel 1180, quando a
Roma il 30 luglio si venne al famoso accordo fra Aquileia e Grado,
che pose fine alle secolari contese. I vescovadi istriani furono allora
definitivamente aggiudicati ad Aquileia. Il cardinale Albino non conobbe
questa decisione e perciò elencò ancora quei vescovadi nel patriarcato
di Grado. Cencio invece, che scrisse alquanto dopo, la conobbe e li
trasportò, com'era giusto, nel patriarcato di Aquileia.
3. Non può non fare meraviglia il vedere recensito fra i vescovadi
istriani Vepiscopatus Cotnmaclensis (Comacchio), tanto presso Albino,
quanto presso Cencio; mentre è omesso Vepiscopatus Petenensis (Pe-
dena) che pure certamente esisteva. Siccome i due autori scrissero indi-
pendentemente l'uno dall'altro, questo fatto accresce la meraviglia. E si
noti che facendo l'elenco dei censi Cencio scrive così nell'elenco dei
vescovadi istriani : In episcopatu Comtnaclensi : monasterium de Pomposa
III solidos denarios argenti ; e trascrive poi questa stessa dicitura nel-
l'elenco dei vescovadi soggetti alla metropoli di Ravenna.- Sicché que-
sta medesima indicazione viene ripetuta in due luoghi diversi. II mo-
nastero di Pomposa infatti non è in Istria, bensì nel territorio di
Comacchio. Dice a questo proposito il Fabre, che il vescovado di Pedena
fu chiamato anche col nome di Comacchio. « I provinciali manoscritti
n. 4998 di Parigi e P. II. 17 di Bamberga portano: Commaclensem vel
Petenensem, e questo non lascia alcun dubbio sull'identità delle due
• Per completare l'opera d'adattamento Cencio v'aggiunse immediatamente dopo anche
V litigar ia.
» Fabre, op. cit., I, p. 133 e p. 97.
ANTICHI EPISCOPATI ISTRIANI 147
designazioni. Forse questo nuovo nome iia qualche rapporto con quello
della città di Umago sulla costa istriana, nella quale riposava il corpo
del patrono della diocesi/ Assai tardi e per pura negligenza fu iscritto
qui il monastero di Pomposa ; si credette infatti che la parola Co/nma-
clensis indicasse il vescovado di Comacchio nella provincia di Ravenna».
Ma Vepiscopatus Petenensis non si trova mai una volta colla de-
nominazione Cominaclensis nei documenti ; e questo fatto merita d'es-
sere ben preso m considerazione ; solo Albino e Cencio gli sostituiscono
concordi questa denominazione. Mi pare evidente la conclusione che
ambedue copiarono un codice dell'archivio papale, dove c'era un errore,
errore probabilmente dovuto all'interpolazione di qualche annotazione
marginale fatta malaccortamente. I redattori dei mss. di Parigi e di
Baraberga s'accorsero bene dell'errore e cercarono di rimediarvi senza
danneggiare sostanzialmente il testo. In altre parole l'errore di Albino
e di Cencio o, per parlare piìi esattamente, della loro fonte, non con-
sistette nel porre il monastero di Pomposa neWepiscopatus Comma-
clensis (a Pedena), come suppone il Fabre; ma invece nel porre Vepi-
scopatus Commaclensis nell'Istria, cancellando Vepiscopatas Petenensis;
errore che si può spiegare colla creazione del vescovado di Comac-
chio posteriore agli altri della regione, che dovette essere inserito in
margine nella lista dei vescovadi soggetti alla metropoli di Ravenna.^
Passando poi nel testo, fu inserito erroneamente in due luoghi diversi,
in uno dei quali come correzione di Petenensis^ che, forse per qualche
tempo rimase senza vescovi.
4. Tanto Albino che Cencio registrano un episcopatas Maranensis,
che non si trova affatto ricordato in altri documenti. « Si ha il diritto
di domandare se c'era veramente alla fine del secolo XII vescovo a
Marano, e se la menzione di questo vescovado sia dovuta soltanto
ad un ricordo dell'importanza che aveva avuto Marano al secolo VI ».^
Però nemmeno nel secolo VI Marano è ricordato come vescovado. E
si noti che Albino pone Marano fra i vescovadi soggetti a Grado,
Cencio fra quelli soggetti ad Aquileia; ambedue in modo che sembra
lo annoverassero fra i vescovadi dell'Istria. Siamo qui dinanzi ad un
problema analogo a quello deW episcopatas Utinensis ricordato nel di-
ploma Ottoniano del 996, ma più difficile a spiegarsi perchè documenti
non mancano per il secolo XII, come per il secolo X. Si ricordi infatti
che Marano apparteneva al capitolo d' Aquileia sin dal 1031 in grazia
della donazione Popponiana,* che il conte di Gorizia vi esercitava di-
» Il patrono della diocesi di Pedena era s. Niceforo, martire orientale, che si festeggia il
30 dicembre ; il suo corpo si diceva trasportato a Pedena. Umago apparteneva alla diocesi di Trie-
ste, come abbiamo veduto sopra, non a quello di Pedena.
3 Si riteneva che Comacchio fosse già vescovado nel 502 ; ma quel Pacaziano che sottoscrisse
al concilio di papa Simmaco era vescovo Corneliense (Imola), non di Comacchio.
• Fabre, op. cit., I, p. 134 nota.
* E ciò vuol dire che prima di quell'anno faceva parte dei beni donati alla chiesa di Aqui-
leia. E si può supporre con grandissima verisimiglìanza che venisse in possesso di questa g^razie
148 PIO RASCHINI
ritti d'avvocazia, quantunque fossero contrastati dal capitolo, come
risulta dal documento del dicembre 1202.' Che il patriarca di Grado,
trattandosi di una località situata proprio sulle lagune, vi abbia, in
tempo non determinabile, istituita una sede episcopale per eliminare
così, coll'aiuto delle navi veneziane, la signoria spirituale e temporale
che vi esercitavano il patriarca di Aquileia ed il suo capitolo? Sarebbe
stato questo un tentativo del Gradese, quando pretendeva essere an-
cora metropolita dell'Istria, per affermare il suo dominio su un terri-
torio al quale lo legava la storia delle origini della sua sede. Se ciò
fu, il vescovado ebbe vita effimera assai, tanto da non lasciar traccia
nei documenti, e dovette in ogni modo sparire, perchè il vescovo non
poteva tenere residenza in un paese compreso entro i possessi del
patriarcato d'Aquileia.
Come si vede le vicende ecclesiastiche dell'Istria nell'alto medio
evo sono quanto mai fortunose ed oscure. Altrettanto avveniva delle
condizioni politiche. La penisola ed i suoi territori contermini verso
oriente, posti fra le nuove dominazioni barbariche e le influenze ve-
neto-bizantine in conflitto fra loro, si trovarono in una situazione assai
complessa, che a mala pena i documenti e le memorie ci fanno intra-
vedere. Fra questi scarsi ricordi storici mettere un po' d'accordo e
d'ordine è opera ancora oggi né facile, né definitiva; i tentativi però,
per quanto umili come questo, possono sempre guidare altri a vederci
più chiaro ed incitare a ricerche più larghe e profittevoli.
Pio Raschini
^^0
i<^
L'identificazione di Anselino.
C'è un feiiilleton di J. von Zahn che minaccia di diventare celebre
e di assumere un'autorità inconcussa. Si tratta di un breve studio dal
suggestivo titolo Aingili pubblicato nella Literarìsche Beilage del Mon-
tags Revue al n. 46 del 1881, il quale prende in esame certe relazioni
che sarebbero intei'venute, verso il 1245, fra Bertoldo di Merania,
alle donazioni di Ottone I del 29 aprile 067, di Ottone III del 28 aprile 1001 e di Corrado 11 del
9 ottobre 1028. Cfr. il mio: Le vicende del Friuli nei secoli IX e Xcit., pp. 68 e 85, e Vicende
del Friuli durante il dominio della casa imperiale di Franconia, Cividale del Friuli, 1913, p. 12.
» Queste Memorie, X, 1914, p. 294, § 11.
l'identificazione di anselino 149
patriarca di Aquileia, Federico II di Babenberg, duca d'Austria e di
Stiria, e Federico II d'Hohenstaufen, imperatore di Germania. Veramente
questo studio non riguarda il Friuli che in modo indiretto, ma sic-
come lumeggerebbe un disegno politico del patriarca ed avrebbe per
oggetto un personaggio, per parte di madre e per nascita, cividalese,
merita che vi poniamo, per un momento, un po' d'attenzione.
Le guerre fra l'imperatore ed il duca d'Austria e di Stiria sono
note. Indarno il primo aveva tentato di fiaccare il vassallo ribelle;
s'era dovuto adattare ad una pace con lui, la quale condusse ad un
ravvicinamento, preludio di un più stretto accordo fra loro.
Già Enrico, il primogenito dell' imperatore, aveva sposata Mar-
gherita, sorella maggiore del duca Federico ; ma quel vincolo fami-
gliare s'era rotto per la morte di Enrico. Ora il già maturo imperatore
pensò di sposare Gertrude, la quasi ventenne figlia di Enrico di
Mòdling, fratello del duca.
In questo matrimonio l' imperatore prevedeva vantaggi speciali per
la sua casa. Il duca Federico, benché avesse appena trentasei anni,
ed avesse sposata in terzi voti Agnese di Merania, nipote del patriarca
Bertoldo, non aveva eredi legittimi, a cui potesse tramandare la for-
tuna ed i feudi della sua schiatta dei Babenberg. Se la linea maschile
si estingueva con lui, l'eredità avrebbe dovuto passare alle sue sorelle
e nipoti ed eventualmente ai loro mariti e figliuoli. Se il matrimonio
di Gertrude coli' imperatore fosse avvenuto, questi, a cui per diritto
feudale toccavano i feudi, li avrebbe concentrati con quelli che già
possedeva casa Hohenstaufen, ed avrebbe inoltre aggiudicata a sé parte
almeno della fortuna dei Babenberg.^
D'altra parte il duca d'Austria anelava a procurarsi la corona
reale, e l' imperatore dovette cullarlo nell' illusione di poterla ottenere.
Infatti per mezzo del véscovo di Bamberga egli inviò in dono al duca
an anello reale, probabilmente nel s. Giorgio del 1245, quando il duca
ricco d'oro e d'argento, a Vienna, armò cavalieri 140 nobili. Da parte
sua r imperatore aveva già la parola impegnativa del duca riguardo
al matrimonio con Gertrude. Altrimenti come avrebbe egli potuto
scrivere nella lettera, colla quale lo chiamava in Italia per partecipare
alla c'ieta di Verona, di condurre seco sua m^oìt nostra futura sposa?
ed indicare i nomi di quei principi, che dovevano essere invitati quali
testimoni di tale festiva venuta?
• Per maggiore chiarezza ecco lo schema di queste discendenze e di queste parentele:
LEOPOLDO VI t 1230, duca d'Austria e di Stiria.
Enrico f 1228 Margherita Federico f 1246
I sposa Enrico VII duca d' Austria
Gertrude sposa di Hohenstaufen, e Stiria
Ermanno VI poi Ottocaro II
del Baden di Boemia
l- I
Federico f 1268 Agnese
decapitato a Napoli sposa Ulrico III duca
con Corradino di Carintia
150 PIO PASCHINI
Nei paesi austrìaci c'era la convinzione che il duca Federìco si
recava nel maggio 1245 a Verona alia dieta per ricevere la corona
reale ; ne sono testimoni gli annali di più di un monastero. Ma egli
non condusse seco Gertrude e non ritornò in Austria colla corona
reale. Esiste invece un abbozzo di documento, che non uscì dagli
archivi della cancelleria imperiale prima del 1566, quando fu reso di
pubblica ragione ; si spiega perciò come i cronisti dell'Austria non ne
abbiano affatto conosciuto né il tenore né l'esistenza. Esso contem-
pla appunto l'erezione del nuovo regno col beneplacito imperiale e
regola i rapporti e la costituzione interna.
Gli storici hanno ripetutamente dubitato dell'autenticità di tale
atto, ma non poterono prescindere dalla sua esistenza. Benché gli
manchi la sanzione definitiva, esso sarebbe sempre un atto impor-
tante, un testimonio degno di attenzione di un complicato maneggio
politico. Compare infatti nelle raccolte di lettere dell' infelice Pier della
Vigna, il fido consigliere di Federico li ; e queste lettere, simili a for-
mulari, servirono a redigere più documenti. Ma la critica guardò tale
atto con molta diffidenza, specialmente per il luogo e le circostanze
nelle quali venne alla luce. Però storici di valore, senza pronunciarsi
ed impegnarsi riguardo a tutte le sue parti, ne accettano i punti essen-
ziali. Che un tal passo sia stato ritenuto soltanto come cosa possibile,
è già una cosa strana e spiega le riserve degli storici.
Il documento in sostanza si divide in tre parti.
1° Anzitutto l'imperatore espone al duca (a cui lo scrittore della
cancelleria, con formula strana, ma forse non del tutto erronea, dà il
titolo anche di comes Carnìolae, conte di Carniola), che in seguito a
sua domanda e col consiglio dei principi imperiali, che nomina, aveva
inalzato i ducati d'Austria e di Stiria coi territori annessi ai grado
di regno ereditario. Siccome si sa che i principi nominati erano vera-
mente nel 1245 a Verona e consta d'altre fonti del disegno di creare
il nuovo regno, non vi sarebbero obbiezioni serie contro questa parte
del testo.
2' La seconda parte tratta dell'ordine nella successione e delle con
dizioni politico-amministrative del nuovo re nelle sue relazioni col capo
dell' impero. Questi punti corrispondono al diritto dell' impero ger-
manico ed alla sua storia, e non pare sia stata sollevata contro di essi
obbiezione alcuna.
3^ Segue la parte più sospetta ed oscura, la quale suona press'a
poco così : « per accrescere la dignità del tuo regno, ti concediamo di
costituire nel territorio della Carniola un ducato, il quale sarà sog-
getto immediatamente a te e per mezzo tuo ai nostri successori ed
air impero e di costituire in esso quale duca il nostro diletto e fedele
Anselino tuo cognatus>^.^
» ' ut de provincia Carniole ducfitum facias, immediate tibi et per te nobis et successoribus
t iiostris et imperio responsiirura, et ut in ducatu ipso Anselinum cognatum tuum fidelem nostrum
« in ducera valeas promovere plenam tibi concedimus potestatem - Huillard-Bréholles, Hist. Di-
olom. Friderici II, to. VI, p. 300; Zahn, Urktindenbuch Steiermark, to. U, p. 568.
l'identificazione di anselino 151
Ora per quanto si conoscono le relazioni del Babenberg in Car-
niola e le parentele del duca Federico in causa del suo terzo matri-
monio, questo brano presenta tante difficoltà quasi quante sono le
frasi, e rovina la buona impressione lasciata dai due brani antecedenti.
Infatti quali diritti di sovranità territoriale possedeva Federico d'Austria
in Carniola ? Nessuno, per quanto si sappia. Poiché il duca Leopoldo
suo padre acquistò nel 1229 pubblicamente feudi in Carniola dalla
chiesa di Frisinga, portò d'allora in poi il titolo di dominas Carniole
ed accrebbe la sua importanza; non ebbe però diritti signorili sul
paese, ma soltanto il solito dominio territoriale. E chi sarebbe mai
questo Anselinas, cognatas dei duca Federico, questo parente per causa
di matrimonio? L'albero genealogico della casa di Melania ci è
sufficientemente noto e non ci presenta a questo tempo nessun indi-
viduo con tal nome. E d'altra parte sarebbe assai strano che venisse
presentato in un modo tanto generico un membro legittimo dell'il-
lustre casa dei conti, marchesi, duchi di Merania, Istria, Dalmazia, il
quale per soprappiù veniva creato duca di Carniola. La cosa ha quindi
del misterioso.
Perciò su questo brano si presentano due questioni : una poli-
tica riguardante la Carniola, un'altra genealogica riguardante Anse-
lino. Quanto alla prima è necessario ricordare che a quel tempo
col nome di Carniola s' intendeva quella parte del paese che fu poi
chiamata marca Venda, e comprendeva press'a poco l'odierna Carniola
centrale e meridionale colla denominazione di marca di Carniola. Sin
dai tempi di Enrico IV era stata concessa al patriarcato di Aquileia;
ma durante il secolo XII vi dominarono soltanto principi secolari e
sulla fine di quel secolo vi primeggiavano sopratutto i duchi di Mera-
nia. Costoro continuarono a godere della loro preponderanza anche
quando Federico II restituì la marca al patriarcato ; per cui nel tempo
a cui si riferisce il nostro documento la casa di Merania dominava
realmente sul paese : signore legittimo di fronte all' impero ed all' im-
peratore era il patriarca di Aquileia, cioè appunto Bertoldo di Merania;
signore sui territori anteriormente posseduti ed erede dei diritti e
possessi della sua casa era Ottone, duca di Merania, nipote del pa-
triarca. Tutta r influenza si divideva dunque fra questi due personaggi ;
e si può ben supporre che essi avessero nelle loro mani il mezzo di
regolare, col consenso dell' impero, in modo definitivo il destino poli-
tico della Carniola. E modificare i rapporti interni del paese secondo
l'interesse della famiglia o secondo le circostanze del momento, non
era alieno dalle mire dei meranesi. Infatti la schiatta era proprio allora
tocca, per così dire, da quel marasma, che era diventato quasi epide-
mico dopo la fine del secolo XII nelle principali famiglie bavaresi e
che le condusse all'estinzione. Dal 1231 non la rappresentavano più
che il patriarca e suo nipote. L'espressione cognatas del diploma non
può designare che un personaggio della stirpe della moglie del duca
152 PIO PASCHINI
Federico. Il fatto che quel cognatus abbisognava d'essere protetto dal
duca e futuro re, indica ch'egli non era di origine legittima; un mem-
bro legittimo della famiglia meranese sapeva patrocinarsi da solo e
difficilmente si sarebbe rassegnato a perdere la diretta dipendenza dal-
l'impero. Ed eccoci così alla questione della personalità diAnselino;
ed essa ci conduce alla corte del patriarca a Cividale.
La vita del patriarca Bertoldo in Friuli, se non fu così scapigliata
come quella che aveva condotto in Ungheria, dove aveva dimorato,
non fu però molto morigerata. Documenti non ancora stampati ci
provano che il patriarca ebbe a Cividale relazioni con una certa signora
Bettina dalla quale ebbe un figlio, di nome Enrico o, come fu detto
con forma piìi raddolcita, Ayncio, Aincil, Ainzilin. Si può provare che
il padre dotò assai riccamente con beni in Friuli questo suo rampollo
per elevarlo ad una condizione sociale conveniente; e finalmente tentò
di procurargli più cospicui favori. Intendo dire, conclude lo Zahn,
« che io riconosco in Aincili, figlio del patriarca, l'Anselin sinora favo-
loso del ricordato diploma imperiale, arricchito già dal padre e dallo zio
con beni e diritti in Carniola e che doveva ora essere sottoposto alla
difesa del marito della cugina sua Agnese, cioè a Federico II duca
d'Austria e di Stiria ».^
Questa sua conclusior.e la Zahn rincalza con altri argomenti, che
chiameremo complementari, perchè diretti a prevenire obbiezioni, l
rapporti fra il patriarca Bertoldo ed Anselino spiegano perchè il primo
non fu presente alla dieta di Verona, benché la sua signoria sulla Car-
niola quale patriarca e le nuove condizioni che si creavano a quel
paese avrebbero richiesto il suo personale intervenuto. Della protezione
di Anselino egli incaricò suo nipote Ottone, il quale si sa che fu pre-
sente alle trattative.
Il titolo di cognatus de! duca Federico dato ad Anselino doveva
nel medesimo tempo salvaguardare diritti provenienti da parentela natu-
rale, senza palesarne al gran pubblico la vera origine. Certo, gli alti
circoli feudali non avevano rossore di ostentare i loro bastardi, i docu-
menti dei Traungau e dei Babenberg ne offrono le più chiare prove.
Lo stesso Aincili non nasconde nei suoi documenti la sua origine, né
altri ha riguardo di dire il nome del padre suo. L'imperatore Fede-
rico II a sua volta non mancava quasi mai, nei suoi atti ufficiali, di
riconoscere come suoi figli naturali i prediletti Manfredi di Taranto,
Federico d'Antiochia, Enzo di Sardegna; quindi egli e la sua corte non
dovevano avere scrupolo di creare una posizione ad un bastardo di
una stirpe tanto illustre quale era quella dei Meranesi. Solo trattan-
dosi del figlio naturale di un principe ecclesiastico tanto eminente, era
' « Che colui il quale fu proposto quale duca di Carniola, cioè l'Anselinus cognatus tuus
fidelis noster fosse un figlio naturale di Bertoldo, patriarca d'Aquileia, ha dimostrato verisimil*
lo Zahn » dice, riferendosi a questo studio, anche il Luschin, Oestericichische Rechisgeschichte,
Batnberg, 1914, p. 109, n. 6.
l'identificazione di anselino 153
necessaria e conveniente una certa riserva ed una circonlocuzione nel
designarlo.
Come il duca Federico non raggiunse il suo ambizioso intento,
così nemmeno Anselino ebbe il ducato di Carniola; ed il documento
rimase lettera morta. Fin qui lo Zahn.
Ed ora alcune brevi ossservazioni. Aynz od Agnius « olim domine
« Betine (7 febbraio 1251), domini Bertoldi Patriarche Aquil. >> (16 no-
vembre 1256),^ sposò una figlia Wilelmini q."" Jacomini e ne ebbe tre
figli Enrico, Rainaldo, Bertoldo, ricordati rispettivamente nel 1277, nel
1281, e nel 1288. Il primo dunque portò il nome del padre e del
prozio marchese d'Istria, l'ultimo il nome del nonno. Non v'ha dubbio
infatti che Aynz od Aincius, che compare più volte nei documenti friulani
della seconda metà del secolo XIII, sia un addolcimento ed un vez-
zeggiativo del nome di Enrico. Ma chi dice che Ainz od Aincili, come
piace di scrivere allo Zahn, sia un tutt'uno con Anselino? È curioso
il modo spicciativo con cui lo Zahn se la sbriga in una nota : « Si
noti qui, che il nome di Anselin non sta assolutamante in relazione
coll'altro assai posteriore di Haensel, Haenselin. Invece esso palesa
soltanto una forma allungata ed addolcita, dovuta a pronuncia ed a
penna italiana, del nome Heinrich, cioè Hinzo. Forme posteriori e
derivate da essa, o dalla sua corrispondente latinizzata (Hinzelinus),
sono in territorio italiano quelle di Enzius, Ayncius, Ainzil, Aincili-
nus ecc, ». Ora VAnselinus del documento fa evidentemente pensare
ad un Haensel piuttosto che ad un Henricus. Di pili quando una
persona è chiamata correntemente con vezzeggiativo, questo diviene
il suo nome proprio e specifico ; ora il figlio di Bertoldo è chiamato
bensì Aynz od Agnius, ma non Anselinus. Mancherebbe con ciò il
fondamento per questa identificazione. Ma passiamo pur sopra a que-
st'argomento.
Nel ragionamento delio Zahn è evidente, mi pare, quel garbuglio
che i logici chiamano petitio principii o circolo vizioso. Per dimostrare
che il documento è attendibile ricorre alla ipotesi che Anselino deve
essere tutt'uno coli' Aynz di Bertoldo, che a costui bisognava formare
una posizione, che questa posizione gliela doveva creare il marito di
sua cugina Agnese. Ma tutto questo, o parte almeno, dovrebbe risul-
tare da altri documenti, avere una qualche base storica; allora potrebbe
servire di sostegno al documento ; invece tutto ciò non risulta, oppure
non lo si fa risultare che dal documento stesso. Ma passi anche questo.
Chi avrebbe potuto credere nel giugno del 1245, che l'anno dopo,
a trenta sei anni sarebbe morto in battaglia il duca Federico? chi
• Questo « Ayncius olim Domine Betyne de Civitate Austrie » compare pure nel Thesaurus
Ecclesiae Aquilejensis, p. 81, n. 127. Nel 1275 egli, infatti, dichiarò al patriarca Raimondo di
avere in feudo dalla chiesa di Aquileia tre mansi ed una braida ad Udine, altri mansi a Buttrio,
Bergona, Predigoi, Romans, Versa Schiavona, Campomarzio (Villa Vicentina) e Fiumicello. Non
era certo mal provveduto, ma non pare godesse veri diritti signorili.
154 PIO PASCHINI
avrebbe potuto sospettare nel 1248 sarebbe morto immaturamente
Ottone Vili duca di Merania ? ed ambedue senza lasciare eredi legit-
timi? Era tolta già ogni speranza nel 1245, che essi potessero averne?^
ed è presumibile che si disponesse allora definitivamente dell' istituendo
ducato di Carniola a favore del bastardo di un loro comune parente?
D'altronde Ottone di Merania aveva già la dignità ducale, aveva il
dominio delle terre della Carniola; non è supponibile affatto ch'egli
permettesse che, con suo danno, queste passassero sotto l'alto dominio
del duca, futuro re, d'Austria. D'altra parte la sede d'Aquileia aveva
di recente ottenuto dallo stesso Federico II imperatore il riconosci-
mento dei suoi diritti marchionali sulla marca di Carniola; diritti
poco meno che teorici, è vero, ma diritti non facilmente alienabili;
non è affatto probabile quindi che se ne facesse alienazione a favore
del duca d'Austria, senza nemmeno farne un cenno. Da parte sua il
patriarca Bertoldo, per quanto lo si voglia credere preoccupato di
provvedere ad Aynz, non avrebbe certo né voluto né potuto consen-
tire ad una diminuzione dei diritti della sua chiesa, senza almeno salvare
le apparenze. E d'altronde la storia ci dice di lui quanto pertinace-
mente lottasse per rivendicare i diritti della sua chiesa in Istria: di
più egli ereditò buona parte dei diritti che in Carniola aveva avuto
suo fratello Enrico, ereditò poi quelli che ci aveva avuto il nipote
Ottone; erano roba sua famigliare quei possessi, avrebbe potuto di-
sporre a modo suo e farne larga parte ad Aynz; non consta che
l'abbia mai fatto, ne beneficò invece alla sua morte la sua chiesa ; è
credibile quindi che nel 1245 avesse tanto a cuore di fare di lui un
duca? è presumibile, che, per amor suo, il duca Ottone avesse tanta
premura di procurare a suo cugino quella dignità con evidente danno
proprio ? Inoltre nel 1245 Ottone doveva supporre che, secondo ogni
possibilità, sarebbe stato egli l'erede di suo zio, non viceversa; per
conseguenza era nel suo interesse che le dignità ed i possessi della
famiglia non fossero distratti a vantaggio d'un bastardo, tanto più
ch'egli poteva ancora sperare di tramandarli ai suoi figli ed alla sua
discendenza.
Ed ora che si deve concludere su questo famoso documento del
1245? Poiché è certo ch'esso non ebbe mai esecuzione, anzi non fu
nemmanco redatto in forma pubblica, si possono dare due risoluzioni :
la prima ch'esso sia stato manipolato più tardi, verso la metà del
secolo XVI, a vantaggio delle preoccupazioni che allora dirigevano la
politica interna ed estera degli Absburghesi; la seconda, che nel 1245
veramente si agitasse alla corte imperiale il nuovo ordinamento, quale
si ritrova nel documento stesso, e lo si agitasse come uno spaurac-
chio contro i Meranesi, sulla cui fedeltà e costanza si cominciava a
> La stessa ambizione del duca Federico di ottenere le corona reale, indica in lui la spe-
ranza di poterla tramandare ai suoi figli.
MUTAMENTI NELLA PREPOSITURA DI CIVIDALE, ECC. 155
dubitare.^ Per umiliare i Meranesi Federico II imperatore avrebbe
accarezzato il duca d'Austria, facendogli balenare dinanzi agli occhi
un'ingrandimento di territori e di titoli a danno de' Meranesi stessi.
Se si accetta questa seconda ipotesi, che non mi pare improbabile,
il misterioso Anselino non può essere affatto il figlio di Bertoldo;
ma un nome qualunque che sarebbe poi meglio stato determinato,
quando il documento sarebbe stato steso in forma solenne. Né al
duca Federico mancavano parenti più o meno stretti, che, quali cognati
in genere, avrebbero potuto partecipare alla sua nuova grandezza ed
eventualmente alla sua eredità.
Ma non era Agnese di Merania moglie del duca Federico ? non
è presumibile che anch'essa lavorasse in favore del figlio di Bertoldo,
suo cugino ? Notiamo però che ci furono momenti in cui le relazioni
fra il Babenberg ed i Meranesi erano assai tese ; che non sembra che
il matrimonio di Agnese con Federico fosse molto fortunato; anzi
Agnese visse volentieri presso lo zio a Cividale piuttosto che presso
il marito. Non risulta quindi affatto che il duca Federico dovesse
sentire tenerezze speciali verso i parenti, legittimi o no, della moglie.
Lasciamo dunque il povero Anselino nell'oscurità degli enimmi storici,
e risparmiamogli delle parentele che non onorerebbero la sua origine ;
diciamo piuttosto che non sappiamo nulla di preciso a questo riguardo,
perchè nulla di preciso e di definitivo fu determinato a Verona nel
1245 riguardo al regno d'Austria ed al re Federico di Babenberg.
Pio Paschini
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Mutamenti nella prepositura di Cividale
nella seconda metà del secolo XIIl.
Farebbe opera veramente proficua chi si adoperasse a darci notizie
esaurienti ed ordinate sulla storia dei nostri maggiori istituti ecclesia-
stici. Influirono essi infatti enormemente sia nello sviluppo agricolo
delle nostre campagne, sia nel sorgere dei comuni rurali e nel creare
la classe compagnuola, sia nelle vicende politiche interne ed esterne.
' Si noti che in questo momento il patriarca Bertoldo si recava a! concilio di Lione, e che
non consta affatto che egli si recasse allora colà, presso Innocenzo IV, col compito di difendere
gli interessi dell' imperatore.
156 PIO RASCHINI
Sin dall'alto medio evo, anzi specialmente nell'alto medio evo, la loro
azione, correttrice di quella del feudalesimo nobiliare, si estendeva in-
termediaria e moderatrice fra quella del patriarca e quella delle classi
inferiori, cooperando così efficacemente a creare il benessere econo-
mico, la libertà individuale e sociale, l'equilibrio nel potere supremo e
nei feudi della nobiltà. Perciò questa tentò ripetutamente di impadronirsi
e di sfruttare a proprio vantaggio questi istituti ; ed una lotta tenace si
perpetuò per conservarne il carattere, per impedirne quelle trasforma-
zioni che, pur conservandone in apparenza lo stato ecclesiastico, ne
mutassero in realtà il carattere a vantaggio della classe dominante.
Non posso fare qui una storia della prepositura del capitolo di
Cìvidale ; non ne illustrerò che un momento storico, che ha, mi pare,
una grande importanza locale.
1 . La prepositura era stata creata, o meglio riordinata, dal patriarca
Giovanni colla celebre costituzione del 1015 che regolò i diritti del
capitolo di Cividale.* La sua storia continuò, senza mutazioni degne
di speciale rilievo, per quasi due secoli, sinché il preposito Pellegrino
non fu fatto patriarca di Aquileia verso la fine del 1194.^
Il 30 marzo 1196 papa Celestino III concesse al novello patriarca
di conservare la prepositura di Cividale, che aveva ottenuto ancor prima
del 1173, perchè coi redditi essa potesse pagare i debiti della chiesa
d'Aquileia. E Pellegrino II conservò di fatti quel beneficio. Anche il
suo successore, il patriarca Wolfger, ci si presenta quale preposito di
Cividale il 20 giugno 1213 ed il 3 maggio 1214; ma nei primi anni
del suo governo ci si presenta come preposito un Enrico, il quale il
29 agosto 1206 compilò un elenco dei redditti della prepositura.^
II patriarca Bertoldo ottenne la prepositura Cividalese da papa
Onorio III il 7 dicembre 1224. Avevano fatto istanza al papa per tale
concessione il decano ed il capitolo di Cividale, mossi dal fatto che
la prepositura « circa temporalia tantum consistit » e che « in medio
« quasi catulorum leonum exposita » correva pericolo di venire impove-
rita e rovinata dalle ambizioni e dall' ingordigia di coloro che vi aspi-
ravano. È probabile però che il motivo vero di una tale petizione, fosse
quello di rendersi sempre più favorevole il potente patriarca.
Durante il pontificato di Gregorio IX non avvenne nulla che mu-
tasse Io stato di fatto della prepositura. Diventato papa Innocenzo IV,
ecco un improvviso cambiamento, che si spiega solo col proposito del
papa di piegare l'animo del potente patriarca, aperto difensore di Fe-
derico II. Innocenzo IV concesse la prepositura di Cividale a Filippo
• De Rubeis, Moti. Eccl. Aquil., col. 493. Cfr. il mìo.Le vicende politiche e religiose del Friuli
nei secoli IX e X. Venezia, 1911, p. 89.
2 Cfr. queste Memorie, X, 1914, p. 276 sgg.
* R. Museo di Cividale, Pergamene Capitolari, to. Ili, n. 12. Il Kalkoff, nella sua opera
sul patriarca Wolfger, p. 143, suppone che questi avesse la prepositura sin dal momento del suo
ingresso nel patriarcato e che Enrico non fosse che un suo vicario, ma mi pare un' ipotesi senza
fondamento.
MUTAMENTI NELLA PREPOSITURA DI CIVIDALE, ECC. 157
di Saviola, canonico di Mantova ; ' ed allora il patriarca, leso nel suo
possesso, intentò lite al suo avversario. Il papa delegò giudice fra i due
0[ttaviano degli Ubaldini] cardinale diacono di S. Maria in via Lata;
e dinanzi a lui si presentarono Bonacorso, quale procuratore di suo
zio Filippo, e Guglielmo decano di Aquileia, quale procuratore del
patriarca. La sentenza, pronunciata il 6 febbraio 1246, fu che Filippo
rinunciasse alla prepositura, e che il patriarca in compenso gli asse-
gnasse de camera sua ottanta lire di imperiali, pagabili annualmente nel
monastero dei Crociferi a Venezia, finché non fosse provvisto di bene-
ficio; Filippo inoltre era liberato da ogni obbligo di residenza a Civi-
dale. Papa Innocenzo a Lione confermò questa sentenza il 7 febbraio.-
II 10 febbraio 1246, di nuovo ad istanza del capitolo di Cividale,
Innocenzo IV confermò al poi patriarca Bertoldo il possesso della
prepositura.'* Ed infatti il 31 gennaio 1248 a Soffumbergo, quale pa-
triarca e preposito di Cividale, Bertoldo diede a Bernardo di Zuccola
l'investitura feudale di certe decime."
Strano riesce quindi il comando per cui, con lettera del 4 giu-
gno 1248, papa Innocenzo IV impose al patriarca Bertoldo di conferire
a Manfredo di Saviola, canonico di Mantova, la prepositura di Cividale
ch'era stata posseduta per il passato da Filippo di Saviola.-'
Filippo cercò dunque di far passare a Manfredo i diritti che s'era
acquistati sulla prepositura. Ma quello eh' è curioso si è che, come se
nulla fosse, il 7 aprile 1249 da Soffumbergo il patriarca Bertoldo diede
incarico a Leonardo, abbate di Rosazzo, di recarsi a Cividale, di con-
vocare Peregrino di Cornoleto, alcuni canonici ed altri personaggi di-
nanzi agli ufficiali ed agli altri uomini della prepositura, e di interrogar-
gli sui diritti che avevano i canonici di Cividale sulla prepositura stessa.
L'abbate fece le interrogazioni a Cividale il 21 aprile; ed il 13 feb-
braio 1250 colà, nella casa di Beringerio vicedomino, in presenza del
vicedomino stesso e di altri. Bertoldo confermò quanto l'abbate aveva
assunto.^'
Quest'atto del patriarca può interpretarsi come una precauzione :
poiché un forestiero avrebbe potuto riuscire a prendersi la preposi-
tura, conveniva salvaguardare i diritti dei canonici che risiedevano
sul posto. Finché visse Bertoldo le cose, a quanto pare, rimasero a
questo punto.
> Un Giacomo della Saviola di Riva di Trento è ricordato con sua moglie Letizia il 10 aprile
1208 a Stenego, come venditore di certi beni. Codex Wangianus, p. 770, in Fontes RR. Aastriac,
lì, to. V. Il canonico fu forse suo figliolo.
2 Questo risulta da una pergamena originale, guasta, senza sigillo, conservata nell'Archivio
Capit. di Udine, fra i documenti patriarcali.
» De Rubeis, Disseri, mss., p. 235. Nel Bianchi, Doc. mss., n. 151, il documento è dato coi-
ranno 1245; ma la datazione originale è « pontific. anno III i, che ci porta indubbiamente al 1246.
Manca questa lettera nel Registr. Innocent. IV.
' Carreri, Spilimbergensia Documenta, Venezia, 1895, p. 3. v,
» Registr. Innocent. IV, n. 3920.
« Archivio Capit., pergam. in folio.
158 PIO PASCHINI
2. Pietro Capocci, cardinale di S. Giorgio al Velabro, concesse
infatti a Manfredo di Saviola la prepositura; ma Gregorio di Monte-
longo, patriarca eletto di Aquileia, si oppose a questa collazione ; perciò
il papa affidò allo stesso cardinale la decisione della causa; ed il car-
dinale il 23 dicembre 1252 a Perugia pronunciò sentenza pienamente
favorevole a Manfredo ; sentenza che fu anche confermata dal papa
il 17 gennaio 1253 a Perugia, dove si trovava/
Contro questa decisione si fecero allora innanzi il capitolo di Civi-
dale ed il podestà di quel comune, per mezzo di un loro procuratore,
ed accusarono Manfredo di certe colpe, che non ci sono di meglio
specificate. Quindi nuovo esame della vertenza, esame che fu affidato
a Rodolfo di Mirabello. E Rodolfo decise che non si poteva ammet-
tere il procuratore di Cividale a provare le sue accuse contro Man-
fredo ; perciò il papa, confermando questa decisione, delegò il priore
di Figarolo (Ferrara) a dare a Manfredo il possesso della prepositura
con decreto emanato in Assisi 1' 11 maggio 1253.^
Sembrava oramai chiusa ogni via, per impedire che la prepositura
di Cividale avesse a cadere in mano di un chierico forestiero per suo
privato vantaggio, con danno evidente del capitolo, della città ed anche
del territorio Cividalese. Ma né il patriarca, né il capitolo si diedero
ancora per vinti; ed il 14 agosto di quello stesso anno 1253, raduna-
tisi insieme nel palazzo patriarcale di Cividale, addivennero alla sop-
pressione della prepositura stessa ed alla ripartizione delle rendite sue
a loro proprio vantaggio. Le ragioni di questa misura sono esposte
nell'introduzione dell'atto che fu allora compilato: «nei tempi pas-
sati fra i prepositi della chiesa di Cividale ed il suo capitolo avven-
nero spesso liti, o discordie e scandali, con grave danno della chiesa
stessa, in causa della durezza e dell'avidità dei prepositi, i quali, ba-
dando più ai propri interessi che a quelli di Cristo, non si curavano
di soddisfare ai propri obblighi, ed anche per causa della malizia e
della negligenza dei loro ufficiali, i quali sottraevano in alcune cose
maliziosamente ed indebitamente al capitolo i proventi e gli altri diritti
consueti e dovuti... Perchè cessasse per l'avvenire qualunque discor-
dia e si potesse invece godere pace e tranquillità », il patriarca Gregorio
da una parte e maestro Rainaldo decano insieme col suo capitolo
dall'altra, decisero anzitutto che la prepositura fosse completamente
soppressa. Il patriarca, quale loci diocesanus, tenne per sé la pieve di
Tolmino coi mansi, decime, diritti ad essa pertinenti, la villa de Osel-
lano, i mansi di Gemona e di Artegna, la casa che la prepositura pos-
sedeva a Cividale colla torre corte ed orto. A lui fu riservato il diritto
di conferire la custodia e lo scolasticato (che dovevano essere dati solo
a canonici) e di confermare i canonici, che prima spettava al preposito.
» Registr. Innocent. IV, n. 6221,
» Ibid., n. 6547.
MUTAMENTI NELLA PREPOSITURA DI CIVIDALE, ECC. 159
Il capitolo a sua volta ebbe quanto si esigeva di lino e di for-
maggio nel pievanato di Tolmino e parte del beneficio e dei proventi
S. Maria del Monte, per riparare il chiostro, i luoghi e le officine dei
canonici ; ad esso fu riservata pure la collazione, istituzione e destitu-
zione nelle cappelle dentro e fuori la città; ebbe pure le decime delle
porte della città, i beni ed i possessi nelle ville circonvicine, i mulini
del Natisone, i campi di S. Daniele, Tarcento e Segnacco, i possessi
della Carnia.
Al capitolo dovevano pure ricadere i feudi concessi dal preposito
a Risano e a Premariacco, quando i feudatari morissero senza eredi ;
ed i famuli della prepositura dovevano prestare al capitolo i loro
ministeria et officia consueta e pagargli i censi rimasti sulle terre e
sui mansi.
Il patriarca diede come sicurtà dell'osservanza del patto i possessi
ed i diritti che aveva a Premariacco e promise di ottenere l'assenso
del capitolo di Aquileia su quanto s'era deciso. Da parte sua il capi-
tolo giurò osservanza per bocca di Gardemomo scolastico, suo procu-
ratore, e di maestro Berengerio, preposito di s. Odorico.^
Come avrebbe accettata questa disposizione la Curia Romana, inte-
ressata nel mantenimento della prepositura?
Esiste nel registro di Innocenzo IV una lettera che poi è stata
cancellata. In essa il papa incaricava Alberto canonico di Spira di
concedere al patriarca Gregorio ed ai due suoi prossimi futuri suc-
cessori la detta prepositura « ad opus mense patriarchalis », perchè essi
ne applicassero a proprio vantaggio i proventi, non ostante la divisione
fatta tra il patriarca ed il capitolo e la collazione già fatta a Manfredo
[di Saviola] canonico di Mantova per mandato apostolico (23 mag-
gio 1254).* Si trattava evidentemente di una mezza misura per conser-
vare la prepositura e porre le cose com'erano ai tempi di Pellegrino II.
Certo però se questa decisione non fu applicata, il patriarca mantenne
il suo possesso sulla prepositura. Infatti, in un documento del 30 ot-
tobre 1267, il patriarca Gregorio agiva « tamquam praepositus et rector
prepositurae » di Cividale.^
3. Non sappiamo come procedessero poi le cose sin verso la fine
del secolo XIII. È probabile però che realmente avesse esecuzione
il patto concluso fra il capitolo ed il patriarca Gregorio, quantunque
in diritto la prepositura avesse ancora la sua esistenza canonica.
• Presenti : Rogerio, vescovo eletto di Ceneda; Asquino, decano di Aquileia, gli abbati : Al-
berto di Sesto, Wecellone di Moggio, Pietro di Summaga, Wecellone di Beligna; Erchemperto
priore di Sittich, Adamo camerario di Aquileia, maestro Nicolò di Lupico, Giovanni di Cucagna.
De Rubeis, M. E. A., col. 73Q; Cappelletti, Chiese d'Italia, to. Vili, p. 307; Bianchi, Doc.
Reg., n. 191. Nel voi. V, pergam. 6, dell' Archiv. Capit. di Cividale (R. Museo), c'è una specie
d'inventario preciso dei redditi della prepositura, che dev'essere stato redatto in questa circo-
stanza per servire di norma nelle modalità della soppressione.
* Reg. Innoc. IV, n. 7507.
» Bianchi, Doc. Reg., n. 314 ; Doc. niss., n. 332.
160 PIO RASCHINI
Un tentativo di mutare questa condizione di cose si ebbe verso la
fine del patriarcato di Raimondo della Torre.
II 20 aprile 1296 papa Bonifacio Vili costituì Pietro, cardinale
diacono di S. Maria nova, legato apostolico a Bologna e Romagna
nella Tuscia e marca Trivigiana, nel patriarcato di Aquileia, nelle Pro-
vincie di Ravenna e Ferrara, nelle città e diocesi della Venezia e della
marca d'Ancona/ Tra le altre facoltà concessegli c'era quella di con-
ferire le prebende vacanti e di toglierle a coloro che se ne fossero
mostrati indegni.
Un atto della sua legazione ce lo fa vedere a contatto colla pre-
positura di Cividale. Qualcuno deve avere scovato fuori che la prepo-
situra, non essendo stata giuridicamente soppressa, era di fatto vacante e
poteva essere conferita dal cardinale legato. Ne fu tosto investito, in
un tempo che non possiamo precisare. Sciatta, vescovo di Bologna/
ch'era stato chierico di Pietro cardinale legato. Costui a sua volta
rinunciò nelle mani di maestro Giacomo detto Pagano, cappellano del
medesimo legato, alla prepositura ed al canonicato nella collegiata
di Cividale. Il detto cardinale Pietro, durante la sua legazione conferì
allora quei due benefici a suo nipote Pietro, figlio di Duraguerra Va-
leriane di Piperno, e papa Bonifacio VIII 1' undici marzo 1299 confermò
quella collazione e concesse a Pietro che, non ostante il difetto del-
l'ordine e dell'età, potesse, insieme con quei due benefici, conservare
anche i canonicati e le prebende che possedeva nelle diocesi di Reims,
Chartres, Bologna, Langres, Terracina ed a Piperno in diocesi di
Terracina.^ Come si vede, costui era stato largamente provveduto !
Non sappiamo quando Pietro da Piperno abbia ottenuto la pre-
positura di Cividale, ma probabilmente verso la fine del 1296. Poiché
durante il 1297 egli aveva già, per mezzo di un suo procuratore, in-
tentata lite per riottenere alla sua prepositura le rendite ed i diritti
originari; o, meglio, per accrescerne a proprio vantaggio le rendite.
L'andamento di questa lite ci è noto da un documento del 24 lu-
glio 1297, col quale le parti litiganti designarono a loro arbitro comune
Tolberto, vescovo di Treviso, perchè risolvesse la controversia; e da
un altro del 31 luglio quando, a Treviso stesso, il vescovo udì le parti
e proferì la sentenza alia presenza di alcuni chierici Trivigiani.
Pietro de Felectinis, procuratore di Pietro da Piperno preposito
di Cividale, chiese che // patriarca Raimondo restituisse alla prepositura
di Cividale 18 mansi nella contrada di Tolmino, e la decima del vivo
e del morto in quel luogo, un 50 mansi nella villa di Ossellan, altri
* Registr. BonifdC. Vili, n. 1599, 1604 ; 1605. Pietro Valeriane Duraguerra, promosso cardi-
nale il 17 dicembre 1295, morì il 17 dicembre 1302.
2 Schiatta Ubaldini compare come vescovo di Bologna dopo il 14 settembre 1295, morì-
nel 1298. Egli era fratello di Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna dal 1263; ambedue
erano nipoti del celebre cardinale Ottaviano. Cfr. A. Hauss, Kardinal Ottavian Ubaldini, Hei-
delberg, 1913, p. 80 n. 2.
» Registr. Boniface Vili, Paris, 1903, p. 2953.
MUTAMENTI NELLA PREPOSITURA DI CIVIDALE, ECC. 161
mansi a Oeniona ed Artegna con altri possessi, la torre della prepo-
situra a Cividale colle case e le pertinenze, parecchi vassalli, servì di
diversa condizione e sesso, beni, diritti e possessi diversi della prepo-
situra stessa, la pieve di Volzana colle sue cappelle di Tolmino, S. Vito,
Caporetto e Plez coi loro diritti, il diritto di conferire lo scolasticato e
la custodia della collegiata di Cividale e di confermare i canonici, che
spettava alla prepositura; chiese inoltre dal patriarca la restituzione
dei frutti precepiti e la rifusione delle spese processuali ; chiese pure
che // decano ed i canonici di Cividale restituissero la villa di Risano
con quanto ad essa spettava di giurisdizione e di pertinenze, i mansi di
di Premariacco colla giursidizione su quella villa, la decima delle porte
Brossana, S. Pietro, S. Silvestro, Ponte a Cividale coU'orto e la braida
di S. Stefano a Gagliano, le decime di Lauco, e Vinaio in Carnia
coi mansi, diritti e pertinenze, i formaggi delle pecore, il lino della
pieve di Volzana e di Tolmino, la chiesa di S. Maria di Monte (eccetto
la parte che spettava alla sagrestia della collegiata), i mansi della
pieve di Cividale, un manso in Accorea, il mulino Pustervale sul Na-
tisone, due mole nel mulino de Vato, servi, serve, possessi, beni, diritti
di spettanza della prepositura, il diritto di conferire le cappelle poste
nel pievanato Cividalese, e la rifusione dei danni e delle spese giu-
diziarie. In altre parole si domandavano tutti i beni che costituivano
la prepositura e che erano stati divisi tra patriarca e capitolo.
Valtero, canonico di Cividale procuratore del patriarca, di Bernardo
decano e del capitolo di Cividale, a sua volta richiese che il preposito
desse alla sua collegiata, com'era suo dovere : 666 stala ed un pe-
sinale di frumento; 46 stala e due pesinali di miglio; 15 stala e due
pesinali pisti{?); 23 stala di fave; 1116 conzi e due boccali di vino;
25 stala di noci; 209 agnelH; 181 pecore; 11 montoni; 14 porci; 420 gal-
line; 10 oche; 66 polli; 3000 uova; 72 zonclate; 7 marche, 3 fortoni
e 5 denari aquileiesi; 1610 libre di cacio; due urne d'olio; tutta la
lana delle pecore della contrada di Tolmino ; — ogni anno ; — chiese
pure la rifusione delle spese processuali. Queste evidentemente erano
le contribuzioni di cui il preposito per il passato era tenuto verso
il capitolo.
Il vescovo pronunciò la sua sentenza ed aggiudicò al preposito
Pietro la metà della decima di vivo e morto della pieve di Volzana, le
decime di Lauco e Vinaio in Carnia coi loro mansi diritti e pertinenze ;
il mulino Pusternote e le due mole del mulino di Vado ; tre mansi a
Purgesimo; 5 mansi a porta S. Pietro di Cividale; un manso in
Oborza; un manso in Lesa; 5 mansi a Porta Brossana; sentenziando
che questi beni costituivano la dote della prepositura ; ed obbligò
Valtero, quale procuratore del patriarca e del capitolo, a fare la de-
bita consegna;
sentenziò poi che: la villa di Risano colle giurisdizioni, diritti e
pertinenze, i mansi di Premariacco colla giurisdizione su quella villa,
162 PIO PASCHINI
le decime delle porte : Brossana, S. Pietro, S. Silvestro, Ponte, coll'orto
e la braida di S. Stefano di Gagliano, i formaggi delle pecore ed il
lino della pieve di Volzana e di Tolmino, la chiesa di S. Maria di Monte
(eccettuata la parte che spettava e la sagrestia di Cividale) i servi e le
serve, la collazione delle cappelle poste nella pieve di Cividale dove-
vano appartenere al capitolo;
decise inoltre che : i mansi posti in Osela, Gemona ed Artegna, la
torre della prepositura colle case e pertinenze ; la collazione dello sco-
lasticato e della custodia di Cividale, la conferma dei canonici, i vas-
salli ed i servi dovevano appartenere al patriarca; in comune a! pa-
triarca ed al capitolo furono assegnati la pieve di Volzana con metà
della decima; 18 mansi nella contrada di Tolmino colle cappelle di
S. Vito, Tolmino, Caporetto e Plezzo e diritti annessi;
condannò poi il preposito Pietro a pagare le prestazioni annue
in natura richieste dal procuratore del capitolo ; ma decise che per
liberarsi da quest'onere egli assegnasse al capitolo i mansi posti a
porta Brossana, Lesa ed Oborza con tutti i loro redditi;
stabilì inoltre che l'esazione dei frutti della prebenda prepositu-
rale toccasse al capitolo di Cividale ; questi doveva dare annualmente,
quale reddito fisso per questa riscossione, 300 fiorini d'oro pagabili a
Natale a Padova ed a Venezia ; per amore di pace e concordia stabilì
pure che il capitolo desse al preposito Pietro, vita sua durante, altri
300 fiorini d'oro all'anno.
I procuratori delle due parti accettarono e ratificarono subito la
sentenza pronunciata. Poi ad Orvieto nella casa dello zio cardinale il
17 settembre, Pietro da Piperno approvò a sua volta la sentenza e si
mostrò contento che fosse eseguita.*
Pietro di Piperno doveva davvero essere giovane assai se 1' undici
dicembre 1302 papa Bonifacio nel concedergli un canonicato aCambrai
e l'arcidiaconato di Brabante in questa stessa diocesi, oltre la prepo-
situra di Cividale che già aveva, dovette aggiungere che questa conces-
sione dovesse avere valore, benché egli non avesse ancora raggiunta
l'età canonica e ricevuti gli ordini sacri.^ In quest'anno adunque egli
non aveva ancora i ventìquattr'anni richiesti dal diritto per le dignità
capitolari. Aveva perciò dinanzi a sé una carriera splendida ; ma la
morte gliela troncò.
II canonico Giuliano nella sua cronica ci riferisce che « il 4 marzo
1314 morì il venerabile uomo Pietro di Piperno, preposito della chiesa
di Cividale ; da lui il capitolo aveva ad jermam la prepositura e al
prebenda di Cividale, coll'obbligo di pagargli ogni anno a Venezia od
> O. B. Verci, Storia della Marca Trivigiana, doc. n. 400 ; tutto il documento vi è stampato
con molti errori, specialmente nei nomi. Un' edizione di tutti i documenti che contengono l'elenco
dei beni della prepositura e del capitolo di Cividale sarebbe cosa non difficile e molto utile ed
opportuna.
» Regìstr. Boniface VIU, n. 4891 ; quei due benefici erano stati tolti a Guglielmo, figlio
di Pietro de la Flotte, il celebre giurista di Filippo il Bello, re di Francia.
DELLA TORRE E GRIMANl, ECC. 163
a Padova per Natale 300 fiorini »/ In seguito a quella morte il de-
cano ed il capitolo procedettero all'elezione del successore. E con
questo ci avviciniamo al tempo dell'ultima e definitiva soppressione
della prepositura compiuta dal patriarca Bertrando il 2 febbraio 1338.-
Pio Raschini
m
Della Torre e Grimani
nei versi latini di un cinquecentista.
I. — Nel 1563 coi tipi di Giordano Zileto usciva a Venezia un
volume di versi latini che pubblicava Publio Francesco Sp inola di Mi-
lano. ^ La prima parte di quel volume col titolo Poematon libri III
porta una dedica colla data del 15 dicembre 1562, indirizzata a Massi-
miliano li di Germania, ch'era stato eletto re dei Romani. In essa, dopo
le lodi di prammatica, egli narra : « Del resto, essendo io intervenuto,
« come avviene, al convito del Torriano, barone ornatissimo, legato
« dell'imperatore tuo padre presso i Veneziani, al quale parteciparono
« tutti i legati e questa nobiltà, non potei far a meno di cantare con
« metri eroici al suono degli strumenti presso di loro un canto per la
« nuova dignità regale a te concessa ». E questi canti insieme con altri
suoi egli appunto dedicava a Massimiliano.
Ed infatti il primo dei componimenti è il carme in esametri detto
in quell'occasione, e termina con un'apostrofe all'ambasciatore cesareo
Francesco della Torre per esortarlo a celebrare ogni anno con solenne
convito l'anniversario della fausta data:
At Francisce, Deis est quae gratissima cunctia,
Quam Pater omnipotens vultu radiante serenai,
Hanc epulae Incera celebrent, et vina quotannis :
Hac dtharae re(feant, et suavi tibia cantu,
Atque ferant Superis tibi debita dona beatis,
Raimundusque puer, Laura et dulcissima coniux.
Francesco della Torre, del ramo di Gorizia, era figlio di Giovanni
Febo e nipote di Febo, ch'erano stati al servizio degli ultimi conti di
» Muratori, R. /. S.,«to. XXIV, p. xiv, p. 49, § 134. L'espressione ad fermam significa
appunto la cessione dei redditi in natura verso un annuo assegno fisso in denaro. »
» De Rubeis, Mon. Eccl. Aquil., coL 897 sgg.
» P. Francisci Spinulae Mediolanensis Opera, Venetiis, ex off. Jordani Zileti, MDLXIII,
in-16°, non in-so, come fu talvolta affermato.
164 PIO TASCHINI
Gorizia e degli Absburghesi. Fu dapprima consigliere alla corte di Fer-
dinando I d'Austria; ne! 1555 fu proclamato barone dell'impero e
nel 1558 ambasciatore di Germania a Venezia. Quando morì Paolo IV,
il quale non aveva voluto mai tener per valida la rinunzia di Carlo V
all'impero, perchè fatta senza le debite forme, e per conseguenza non
aveva riconosciuto come imperatore eletto suo fratello Ferdinando, il
della Torre fu inviato ambasciatore cesareo presso il conclave (anno
1559). Egli giunse a Roma il 27 agosto e fu dai cardinali riconosciuto
nel suo ufficio. Partì presto da Roma, per ritornare all'ambasceria di
Venezia, dove morì di 47 anni nel 1566. Aveva sposata Laura, figlia di
Paolo conte d'Arco, e ne ebbe il figlio Raimondo che morì nel 1623.^
Lo Spinola fu, almeno per qualche tempo, di casa presso il Tor-
riano; infatti un altro breve componimento in tre distici è a lui diretto
per chiedergli i testamenti di Mosca e di suo padre Napo della Torre,
che il Torriano gli aveva letto e che anche il legato del re di Francia
desiderava leggere:
Quae mihi legisti magni antiquissima Muscae
Testamenta, Napi Turrigerique patris,
Fortibus Insubrìum, quos edomuere feroces
Anguigeri, te ortum Regibus esse docent.
Nuncius Huraltus Regis cupit illa videre:
Mitte utramque mihi protinus ergo notam.*
Certo nessun bagliore di poesia sprizza da questi distici e nem-
raanco dalla seguente elegia, che riproduco integralmente, la quale
doveva essere, nell'intenzione dell'autore, una glorificazione della casa
Torriana.
Ad Franciscum Turrianum Baronem illustriss.
Ferdinandi Imperatoris
et Consiliaram et ad Venetos oratorem.
Quam variaeque vices sint rerum, et quanta potentis
Fortunae sit vis, Turriger ipse vides.
Namque tuis sceptrum nostrae maioribus urbis
Eripuit, magnìs et dedit Anguigeris:
Inde suo constans dedit illud Sfortiae alunino,
Egregius Princeps nunc quod Iberus habet.'
Non tamen eripuit virtutem bruta, nec ingens
Cum prisca generis nobilitate decus.
Ipse refers animos patrum vultusque: creatur
Nam bonus et fortìs fortibus atque bonis.
» LiTTA, Famiglie celebri italiane: Torriani di Valsnsxina, tavole Vili, e IX.
* «Ad Joannetn Huraltum Boistallerium, Caroli IX Galliarum regis... ad Venetorum Rem-
« pubticam oratorem > Io Spinola dedicò il libretto dei suoi Epoclon il 5 giugno 1562.
» In questi versi lo Spinola ricorda il trionfo definitivo dei Visconti (chiamati anguigeri
dal serpente che campeggiava sul loro stemma) dopo lunghe e feroci lotte; il succedere degli
Sforza ai Visconti, e finalmente l'occupazione spagnuola del ducato di l\<ilano.
DELLA TORRE E ORIAtANI, ECC. 165
Ut Pater ille Patruni sapiens Raimundus avorntn
Laudas et sequeris splendida gesta Ducam :
Non minus es prudens Castone Antistite, inani
Cuius laetitiae sors inimica fnit:
Ut profugam Dantem Patriarcha Paganus amanter
Excepit, sanctis vatibus ipse faves:
Ludovicus uti dilexit episcopus aequum,
Tu veri leges iustitiaeque colis.
Munificus tanquam Michael Praesnl, houoras
Dicere magna quibus Cynthius ore dedit:
Est quae miratus Rex olim saepe Quiritnm,
Cum Komae orator Caesaris ipse fores,
Quae pulchra in coelura feri Thuscia laudibus omnis,
Quae Veneti celebrante et mea Musa canit.
Ergo, quae dederat patribus sors, despice cuncta,
Laetare et quae sunt haec bona vera tibi.
Ed ora fermiamoci a vedere quali sieno i personaggi ricordati in
questi due componimenti.
II primo è Napo della Torre, fratello del patriarca Raimondo e figlio
di Pagano. Dopo perduto Como fu sconfitto coi suoi a Desio da Ottone
Visconti, l'undici gennaio 1277, e morì prigione a Como il 16 agosto 1278.
Corrado, detto Mosca, figliuolo di lui, fu pure in prigione a Como
insieme col padre; dalla quale uscì liberato nel 1284. Il quattro lu-
glio 1293 accettò la podesteria di Trieste, con speciali patti. Ci resta
il suo testamento del 20 aprile 1298 in favore dei figli Pagano, Adoardo,
Rainaldo, Floramonte detto Moschino e Napoleone.* Non conosco invece
memoria del testamento di suo padre Napo. Mosca ritornò a Milano nel
1302, quando prevalse il partito dei suoi, e vi morì il 24 ottobre 1307.
Raimondo fu figlio di Pagano e fratello di Napo; arciprete di
Monza dapprima, poi vescovo di Como intorno al 1262, fu eletto pa-
triarca di Aquileia il 21 dicembre 1273, morì ad Udine il 23 febbraio
1299 e fu sepolto in Aquileia. Grande principe, e forse più principe
che prelato, portò nel suo governo in Friuli tutto l'ardore impetuoso
della sua schiatta e le forme ed i modi dei tempi nuovi.
Gastone fu dapprima arcivescovo di Milano ed ebbe il pallio per
quella sede il 15 luglio 1308. Coronò imperatore Enrico VII di Lus-
semburgo a S. Ambrogio di Milano il 6 gennaio 1311. Costretto a
starsi lontano dalla sua sede per il prevalere di Matteo Visconti, fu eletto
patriarca di Aquileia il 10 gennaio 1317 ; non potè prendere possesso
della nuova sede, perchè morì a Firenze per una caduta di cavallo il
20 agosto 1318 e colà fu sepolto. Era figlio di Corrado Mosca e di Al-
legranza di Rho.
Pagano, figlio di Caverna, altro fratello del patriarca Raimondo
che morì prigione a Como,"^ rimase in Friuli collo zio e divenne de-
» Bianchi, Docum. summatim regesta, n. 691 e 798. Rimarrebbe però a vedere se alluda
proprio a questo testamento Io Spinola.
* LiTTA, op. cit., tav. X.
166 PIO PASCHINI
cano di Aquileia. Alla morte di Pietro Gerra (19 febbraio 1301), che fu
patriarca un anno, sperò di diventar egli patriarca; ma gli fu invece
preferito Ottobono de' Razzi, vescovo di Padova; ed egli fu fatto ve-
scovo di Padova in vece sua, il 9 aprile 1302. Successe poi al cugino
Gastone nel patriarcato il 23 marzo 1319, morì il 19 dicembre 1331
e fu sepolto in Aquileia. Della benevola accoglienza ch'egli avrebbe
fatta a Dante Alighieri, come accenna lo Spinola, tratteremo a parte.
Quarto dei patriarchi fu Lodovico, che eletto vescovo di Corone
in Grecia il 15 maggio 1357, fu chiamato a succedere a Nicolò di
Lussemburgo nel patriarcato il 10 maggio 1559;
e sulla fronte
italica gli sta, traccia cruenta,
il tradimento dì Rodolfo d'Austria. '
Ma di questo lo Spinola non poteva parlare all'ambasciatore di un
altro Absburghese, e si contenta di proclamarlo amico della giustizia.
Morì il 30 luglio 1365.
L'ultimo dei celebri Torriani qui ricordati è un personaggio assai
meno noto e del quale lo Spinola non potè celebrare il termine della
carriera.
Il vescovo Michele, che egli presenta come munifico protettore
dei letterati, è Michele della Torre, che da chierico Aquileiese fu no-
minato vescovo di Ceneda il 7 febbraio 1547, dopoché il patriarca Gio-
vanni Grimani ebbe rinunciato a quella sede. Il 20 agosto fu mandato
da Paolo IH nunzio in Francia, poco o nulla potè quindi occuparsi
del vescovado. Dall'undici ottobre 1551 al 28 aprile 1552 fu presente
al concilio di Trento. Il 15 settembre 1553 fu destinato quale vice-
legato a Perugia, donde il 31 maggio 1555 fu chiamato presso il papa.
Il 10 ottobre 1561 fu di nuovo presente a Trento. Piti tardi, dal 1566
al 1568 fu di nuovo nunzio in Francia. Finalmente il 12 dicembre 1583
fu da Gregorio XIII nominato cardinale ; ma, non avendo potuto venire
a Roma a prendere le insegne della sua dignità, non gli fu assegnata
la chiesa titolare. Morì il 21 febbraio 1586. ^
Un altro componimento dello stesso Spinola in onore di France-
sco della Torre si trova nel libretto degli Epodon ^ Ne riferirò solo la
parte che interessa. Febo fa osservare al poeta essere cosa inutile ch'egli
canti le Iodi del Torriano.
V. 9. Ista urbs (Milano), ad immortalitatem in qua patris
Avique virtutes sui,
Napique, Cassoni atque robur incliti et
Tot fama maiorum Ducum
' O. Ellero, Canti della patria, Udine, 1913, p. 26.
» EuBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevi, to. Ili, p. 177, dagli Ada Consistorialìa.
» Nello stesso volume delle opere a p. 33 degli Epodon. Le diverse sezioni sono paginate
a parte.
DELLA TORRE E ORIMANI, ECC. 167
Est consecrata, praedicabit iugiter
Trophaea Francisci fidem,
Recturaque, mentis et suae altitudinem :
Quartus Pius quae Pontifex
Miratus hoc Insubrium in legato ait
Domesticis quotidie ;
Quid? Turrianus ille avorum Principum
Regumque patriae meae
Suùra comasque, et ora, vultum, et pectora, et
Aequum, sonosque non refert?
Ma, conclude il poeta, se non c'è una musa, che celebri degna-
mente le lodi del Tornano, s'accontenti questi del fatto che non 'è
città o casa della patria che ne taccia. Pio IV, come è noto, era d
nascita milanese ; e lo Spinola non era affatto alieno dal dare origine
regale ai personaggi che celebrava. Come chiama qui i Torriani pro-
genie di principi e di re, così faceva derivare gli Ugonii di Brescia,
da Ugo Capeto re di Francia. *
E ritorniamo ora al patriarca Pagano della Torre. Piace immagi-
narlo quale Io scolpì il poeta:
Ecco, tra loro, in regio atteggiamento
rifulgere Pagano della Torre,
e gettare, tra colpi aspri di spade,
fiorite d'arte e frutti di scienza !
AUor passò nell'ombra del castello
turrito il fiero spirito di Dante,
colse l'acre ges fasta, ultimo suono
latino a pie dell'Alpe, e sul tuo viso
lo scosse a segno di tua stirpe, o Italia ! '
Ma che dire dell'incontro di Dante con Pagano e del soggiorno
di lui in Friuli?
Una bella pagina dello Zingarelli riassume quanto finora s'è
detto sull'argomento : « Molto incerta, e quasi condannata, è la
tradizione che Dante abbia visitati gli estremi confini orientali della
penisola ; sebbene egli ricordi il Ces fasta degl'Istriani in De Vulg.
Eloqu., I, XI, 5, e noti come questo dialetto differisca dal veneto
e da quel d'Aquileia (I, x, 7) ; ^ v'è anche chi vuole che li abbia var-
cati, e visitata la grotta di Adelsberg. Lo storico friulano Giovanni
Candido, della seconda metà del secolo XV, scrisse che Dante era stato
un anno in Udine presso il patriarca Pagano della Torre, venutovi
nel 1319; ma poiché egli dà prova di copiare spesso il Platina,* e
* Prefazione agli epigrammi.
* Ellero, Ioc. cit.
» Veramente non mi pare che questo risulti dal testo di Dante.
* Ed infatti il Candido prese dal Platina quasi alla lettera il passo che riguarda le vicende
politiche del principio del secolo XIV. Cfr, Gius. Bianchi, Del preteso soggiorno di Dante in
Udine ed in Tolmino, Udine, 1844, p. 14.
168 PIO RASCHINI
anche dove parla eli Dante ripete parecchie sue parole, è probabile che
scambiasse nel Platina Foramliuiij Forlì con Forum] iilii, Friuli, indot-
tovi dai famosi anfra Julia dell'epistola metrica di Boccaccio. ' È vero
che una leggenda popolare narra come nella grotta di Tolmino, sulle
rive dell'Isonzo, si ricoverasse Dante per sfuggire ai nemici, e avesse
abitato nel castello sulla collina soprastante; ma la sua origine lette-
raria si accusa col riferirsi al racconto di uno storico della fine del
secolo XVI, Giacomo Valvasone di Maniago, e questi attinse principal-
mente al Candido. A ciò si aggiunge che Pagano della Torre era ne-
mico di Cangrande, ed amicissimo dei suoi peggiori nemici ! A queste
conclusioni dell'abate Bianchì, generalmente accettate, il Bassermann
ha contrapposto alcune sue belle osservazioni ispirategli dalla visita
dell'angusta e strana grotta di Tolmino... D'altra parte, è riconosciuto
che anche l'accenno al sepolcreto di Pola, presso la foce del Quar-
nero {Inf., ix, 133 sg.):
Che Italia chiude e suoi termini bagna,
non prova la presenza di Dante in quel luogo, siccome già ad Arli presso
le foci del Rodano: erano curiosità locali molto note allora, per racconti
scritti e orali, nella frequenza delle relazioni con quei paesi». E con-
tinua lo Zingarelli notando, che fu il Bassermann a supporre che Dante
entrasse nella grotta di Adelsberg e che il Tambernic si dovesse identifi-
care col monte di Javornik presso Zirknitz. « Pure un argomento storico
egli addita felicemente nell'amicizia di Cangrande col conte Enrico
di Gorizia, sino all'ottobre 1319; nell'ottobre 1316 anzi questi venne
con magnifico seguito di cavalieri ad un torneo bandito in Vicenza ». ^
È un indizio però troppo tenue questo; un altro fatto merita invece
messo in rilievo a questo riguardo.
Nota giustamente lo Zingarelli che un avvenimento della vita di
Albertino Mussato ebbe su Dante maggiori effetti che non paia ; « che
il Mussato il 3 dicembre 1314, dopo aver composta la patriottica tra-
gedia Eccerinis, otteneva con grande pompa, tra il giubilo di tutta Pa-
dova, l'alloro poetico... Nobili ed ecclesiastici, il vescovo e il rettore
dello Studio, dottori e mercatanti, avversarli ed amici gli s'inchinavano,
e decretavano per di più una festa annuale in suo onore ». La corona
di lauro gli fu conferita come una laurea dottorale, ma con cerimo-
nia nuova e solenne. « E Dante non sarebbe stato egli meritevole di
" Anche quest'ipotesi e del Bianchi, ib., p. 17. Il Platina dice così: «Albi (i Bianchi)
« Florentia pulsi Forumlivii populariter comraigrarunt : quorum de numero habitus est Dantes Al-
« degerius ecc. -. Invece il Candido ha: « Apud quem (Pagano, vescovo di Padova) Dantes Alige-
« rius... urbe pulsus per annum Utinae summo favore commoratus est». Il passo è ben diverso
nei due autori.
• N. ZiNOARELLi, Dante, Milano, Vallardi, p. 321 sg.
DELLA TORRE E ORIMANI, ECC. 169
altrettanto? Non era anch'egli poeta e non amava di pari amore la
sua Firenze, e non aveva corso pericoli per lei ? Se non sentì invidia
per il Mussato, cominciò di certo a nutrire più gagliardamente che
mai una speranza, l'alloro poetico ». ^
Ma come il Mussato ebbe il lauro nella sua Padova, che cele-
brava coll'opera e coi versi, così Dante voleva averlo nella sua Firenze,
com'egli dice in quel sospiroso ricordo della patria, col quale inco-
mincia il canto XXV del Paradiso.
Con altra voce ornai, con altro vello
Ritornerò poeta, ed in sul fonte
Del mio battesmo prenderò il cappello (vv. 7-9).
Si noti ora che il vescovo, il quale insieme coi dottori dell'uni-
versità e coi cittadini di Padova, diede la corona al Mussato era pro-
prio Pagano della Torre; e che a Pagano il Mussato dedicò la sua
De Qestis Italicorum post mortem Menrici VII Caesaris historia; per-
chè Pagano stesso aveva pregato il Mussato di non lasciare andare in
dimenticanza le vicende accadute dopo il 1313, ma di tramandarne
col suo scritto memoria ai posteri. ~ Quest'amicizia col Mussato ci fa
intendere che Pagano doveva essere un fautore dei buoni studi, una
mente aperta alle manifestazioni della vita dello spirito, che era allora
in sul più be! fiore in Italia.
Qual meraviglia dunque che Dante si portasse presso di lui per
averne protezione e soccorso nelle amarezze dell'esilio ! Del resto tanti
erano i fiorentini che commerciavano in Friuli e che vi avevano piantata
salda dimora, tanti erano pure quelli che dai della Torre avevano uf-
fici ed incombenze, che Dante poteva credersi come in famiglia. E poiché
un soggiorno di Dante a Verona in più riprese è certissimo ; un sog-
giorno a Padova ed a Treviso ed in altri luoghi della Marca è quasi
sicuro, quale meraviglia che Dante si sia incontrato con Pagano ? quale
meraviglia che si sia recato anche in Friuli, ch'era allora in dirette rela-
zioni politiche col comune di Padova e coi Caminesi di Treviso? E
qui ora ci soccorrono le testimonianze degli scrittori.
Ecco le parole del Candido: « Pontifex (Giovanni XXII) autem
« audita morte Castoni ne quid amisisse Guelphi viderentur, Paganum
« Turrianum Episcopum Patavinum Patriarcham surrogavit, apud quem
' Op. cJt., p, 292. Avevo scritto da parecchi mesi queste righe, quando lessi nel Giornale
Statico della Lettenitura italiana, voi. 68, 1916, fase. 1, p. 209 sgg., uno studio: Dante e Al-
bertino Mussato di Antonio Belloni. Il Belloni vede una chiara ostilità in Dante contro Padova,
ed una specie di gelosia contro il Mussato, e la cosa è assai probabile quando $i pensi all'amicizia
del poeta verso Cangrande della Scala; ma egli ammette pure un soggiorno di Dante a Padova
nel 1306; come non avrebbe egli allora conosciuto Pagano che ne era il vescovo? Ed è tutt* altro
che improbabile che Dante avesse parte nei negoziati che corsero poi in seguito fra Padova, Ve-
rona, il conte di Gorizia ed il Friuli.
* MijRATORi, R. I. S., to. X, p. 571.
170 PIO PASCHINI
« Dantes Aligerius, poeta insìgnis Oibelinos secutus a Florentlnis Ouel-
« phis urbe pulsus, per annum Utinae summo favore commoratus est :
« inde ad Canem Orandem Veronensium regulum digressus, cuius ope,
« quamvis frustra, persepe in patriam redire conatus est ». ^
L'opera del Candido, già completata nel 1519, fu pubblicata per le
stampe il 15 luglio 1521 a Venezia coi tipi di Alessandro dei Bindoni,* e
fu subito esaltata da un coro di lodi da parte di coloro che ebbero la
ventura di leggerla. Certo non vi mancano errori e dimenticanze ; ma
era quanto di meglio si poteva allora pretendere da un umanista eru-
dito, il quale aveva fatto il possibile per illuminare il passato di un
paese, ignorato dai più. Il supporre poi col Bianchi, ch'egli avesse
potuto confondere il Foramlivii del Platina con il Forumialii è un torto
che gli si fa gratuitamente; non era tanto ignorante il Candido da
prendere un equivoco così grossolano.
Merita qualche attenzione un'altra testimonianza.
Il cividalese Marcantonio Nicoletti nelle sue Vite degli scrittori
volgari illustri, scrivendo di Dante, dopo avere narrato il soggiorno
di lui in Lunigiana e l'andata a Parigi, soggiunge: «Girò anco gran
parte della Germania . . . ripassando in Italia si fermò in Friuli. Al go-
verno della provincia sedeva allora Pagano della Torre di Milano,
patriarca d'Aquileia, che con sincerità d'animo e larghezza d'effetti in
Udene, città nobile, per un anno, appresso molti altri forusciti, lo tenne
ed onorò, facendolo anche in un luogo celebre da mano eccellente
ritrarre al naturale. Quindi partito, appresso diversi signori assai agia-
tamente visse, ecc. ».^
Può darsi che il Nicoletti, posteriore al Candido, abbia presa
da lui la notizia della venuta di Dante in Friuli, e che abbia avuto
la pretesa di completarlo con una supposizione sua, che cioè Dante
venisse in Friuli nel ritorno dal viaggio della Germania. Viaggio questo
che non trova certo grazia al cospetto dei moderni scrittori della
biografia del grande poeta.
Ma è proprio necessario supporre che il Nicoletti copiasse il Can-
dido? Ecco che qui ci soccorre la testimonianza dello Spinola, anteriore
a quella del Nicoletti. Quando costui scriveva i suoi distici, era da
poco tempo giunto a Venezia da Milano e da Brescia. Da alcune no-
tizie che egli ci dà di sé nei suoi versi, sappiamo che venne a Venezia
verso la fine di settembre del 1561, dove si pose subito in relazione
colla casa Mocenigo e coU'ambasciatore francese. Il 15 dicembre 1562
dedicava poi i suoi versi a Massimiliano II. Donde tolse egli le notizie
» Jo. Candidi Commentariorum Aqnileiensium, Lib. VI ; riprodotto nel Thesaurus Antiqui-
taUtm et Historiarum Italiae Jo. Georg. Graevii, Lugduni Batav., 1722, to. VI, p. IV, p. 49.
* O. G. LiRUTi, Notizie delle vite ed opere scritte da^ letterati del Friuli, Venezia, 1762,
to. II, p. 220. Cfr. pure nel Graevio, op. cit., la prefazione.
» Le vie di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, raccolte dal prof. A. So-
lerti, Milano, Vallardi, p. 229.
DELLA TORRE E ORIMANI, ECC. 171
riguardanti i della Torre? Dal Candido? può darsi. Ma allora facciamo
un'altra domanda: ed il Candido donde tolse la sua notizia, che trovò
tanto credito a Venezia (Spinola) ed a Cividale (dove scriveva il Ni-
coletti) ? Io credo si tratti di una tradizione famigliare rimasta viva nella
famiglia dei della Torre ; e mi conferma in questa ipotesi il fatto che
lo Spinola ebbe in mano documenti, veri o falsi non so, riguardanti
i Torriani stessi e li lesse e li ammirò.
C'è però una difficoltà abbastanza grave. Le tre testimonianze par-
lano di un ricetto offerto da Dante dal patriarca Pagano ; ma Pagano
non divenne patriarca che nel 1319;^ è proprio il momento in cui
Dante si raccoglieva a Ravenna presso i signori di Polenta ; ed è quindi
impossibile che potesse fare un soggiorno di un anno in Friuli presso
il nuovo patriarca.
Ma distinguiamo a questo proposito due cose: il soggiorno di Dante
presso Pagano, e la dimora in Friuli per un anno. Non è affatto im-
probabile che Dante soggiornasse per qualche tempo presso Pagano a
Padova. Con lui forse, oppure per suo incarico, venne anche in Friuli,
dove i Torriani erano potenti e ricchi e godevano grande credito. Oli
scrittori citati, che poco conoscevano la cronologia dantesca, attingendo
ad una tradizione famigliare, pensarono senz'altro e completarono la
tradizione collo scrivere, che Dante stette un anno presso Pagano pa-
triarca in Friuli. Chi abbia un po' di pratica di tradizioni e del loro
successivo trasformarsi, non si può meravigliare di questa evoluzione.
Ma quale valore dare a quella primitiva tradizione? Non è del tutto
inverisimile e non trova un aperto contrasto coi fatti accertati; ecco
tutto. Sono tali e tante le incertezze sulla vita di Dante a cominciare
dal suo esilio da Firenze, che per un soggiorno di lui a Padova ed
anche in Friuli c'è ben posto ; ma di una sua relazione e famigliarità
con Pipano non c'è alcun documento prima dei tre scrittori cinque-
centisti ; ciò non vuol dire che non se ne possa ancora trovare qualcuno.
Contro quest'ipotesi si potrebbe però sollevare una difficoltà di
carattere politico.
« Si converrà facilmente che il partito Ghibellino non aveva in
Italia di lui [Dante] né più coscienzoso seguace, né banditore più fe-
condo, né più acerrimo difensore ».
« Quando non bastasse saper soltanto chi fosse, per esser convinti
che Pagano esser non potea che uno dei più fanatici tra i Guelfi, noi
diremo col Rubeis che prima ancora della sua venuta in Friuli ' in
Longobardiae, Italiaeque motibus R. Ecclesiae obsequebatur, validumque
factioni Ouelfae patrocinium impendebat ' e concluderemo . . . che anche
dopo la sua venuta ' maximum Guelfarum partium columen illustre
caput erat Paganus patriarcha ' » .
• Egli fu anche, per un quattro mesi, amministratore del patriarcato, prima d'essere nomi-
nato patriarca.
172 PIO PASCHINI
€ Ora due uomini, che professando principi! contrari!, potuto non
avrebbero in alcun modo accordarsi, che legati da obblighi e doveri
diversi, potuto non avrebbero in alcuna cosa giovarsi, e che diretti
per altra via ad un'opposta meta, non si sarebbero in alcun modo
incontrati, è egli probabile che malgrado l'antica avversione, le sinistre
prevenzioni, l'universal biasimo, in pegno di amistà porgessersi la de-
stra, e dessersi pubblicamente in Friuli scambievoli prove di benevo-
enza e di stima? » *
Questo è il perno dell'argomentazione che il Bianchi svolge per
dimostrare l'impossibilità morale di un'amicizia fra Dante e Pagano.
Egli dimostra l'intransigenza guelfa di Pagano a cominciare special-
mente dal 1320; e d'altra parte aggiunge : «Tra i Ghibellini stessi poi
quello che con maggior audacia e fierezza, impugnò tali (dei guelfi e
di Giovanni XXII) dottrine, certamente fu Dante ; e ne fan ampia fede
le di lui opere. Esso non solamente professò principi e massime to-
talmente opposte, ma cercò di trasfondere anche negli altri i suoi er-
rori, e tanto crebbe in superbia ed in temerità, che non si tenne dallo
scagliare contro i Pontefici stessi, e contro i Padri augusti dell'Apo-
stolico Senato i più amari rimbrotti e le più villane invettive >.
« Condannato replicatamente in Firenze come barattiere e falsario ;
condannato dalla Chiesa come banditore di dottrine da essa riprovate:
senza patria, senza tetto, ramingo e mendico ; e con tutto ciò maledico
sempre superbissimo, incorreggibile, eran questi i titoli che ostentar
potea Dante per aspirare ai favori di un giudice del Santo Uffizio? > ^
Queste parole, le quali al tempo del Bianchi avrebbero fatto im-
pressione sul lettore e sugli studiosi, fanno sorridere oggi, che meglio
conosciamo le relazioni fra i partiti italiani al principiare de! Trecento,
e le idee di Dante e dei suoi contemporanei nei rapporti coU'impero.
Per citare un solo esempio basti ricordare il guelfissimo « giudice Nin
gentil » del canto ottavo del Purgatorio, amico di Dante, il quale fa
una così acerba invettiva contro Beatrice d'Este sua moglie andata
sposa in seconde nozze con Galeazzo Visconti, capo de' ghibellini
lombardi nel 1300, e la profezia
Non le farà sì bella sepoltura
La vipera che i Milanesi accampa
Com'avrìa fatto il gallo di Gallura, (vv. 79-81).
Ed il « dritto zelo » di Nino, osserva giustamente il Del Lungo,
non è solamente maritale, ma politico, per avere essa lasciata la fa-
miglia del padre e del marito, guelfe, per entrare in una casa ghi-
bellina.
Si ricordi poi che, quando sembrava giunta finalmente la pace per
l'Italia, colla discesa di Enrico VII di Lussemburgo, fu l'arcivescovo
" Bianchi, op. cit., p. 32.
• Bianchi, op. cit., pp. 97 e 99.
DELLA TORRE F. ORIMANI, ECC. 173
Gastone della Torre che coronò re d'Italia a Milano il sovrano che
tante speranze e tante illusioni creò nel cuore di Dante; e che furono
i Visconti, ghibellini, quelli che profittarono delle circostanze per rom-
pere j patti giurati dinanzi ad Enrico e cacciare i Torriani da Milano,
rendendo così vana la missione pacifica che Enrico VII voleva eserci-
tare. Quale giudizio Dante si facesse delle lotte fra Torriani e Visconti in
sull'inizio del 1311 non sappiamo; esse non ebbero eco nella sua Come-
dia. Nemmeno quelle che le precedettero vengono menomamente accen-
nate ne! poema sacro, che pure ricorda tante simili contese e tanti
personaggi di que'tempi e della Marca Trivigiana.
n. — Lo Spinola ebbe qualche relazione anche con Giovanni Gri-
mani, patriarca di Aquileia. Questo prelato, di cui sono note le disgraziate
vicende, era stretto parente di due illustri cardinali. Il primo era Do-
menico Grimani fratello di Gerolamo e figlio di Antonio che fu doge
di Venezia dal 1521 al 1523. Domenico, da protonotario apostolico
grazie alle istanze della republica di Venezia, era stato nominato
da Alessandro VI cardinale di S. Nicolò inter imagines il 25 settem-
bre 1493. Teologo insigne, come viene chiamato dal Pastor, ^ aveva
raccolto una preziosa biblioteca, che rese celebre il suo nome; il
20 dicembre 1503 assunse il titolo di S. Marco, che tenne sino al
22 settembre 1508, in cui divenne vescovo di Albano, sede che resse
sino al 3 giugno 1509, quando optò per quella di Frascati, che tenne
sino al 20 gennaio 1511, quando passò a quella di Porto. Nel conclave
del 1513 era quotato come papabile,^ e non mostrò certo poi arrende-
volezza con Leone X. Egli era anche vescovo di Urbino ^ e solo fra
i suoi colleghi rifiutò di sottoscrivere all'atto con cui Leone X concesse
a Lorenzo de' Medici, suo nipote, il ducato d'Urbino nel 18 agosto 1516.*
Al concistoro del 22 giugno 1517 non volle riconoscere tradimento
nella condotta dei cardinali Petrucci, Sauli e Riario ed ebbe perciò
vivo cotrasto col papa, ^ il 1 febbraio 1517 si oppose in concistoro
alla chiusura del concilio Lateranese aperto da Giulio IL**
Forse in grazia della sua cultura fu da Leone X scelto come giu-
dice nella clamorosa contesa fra il domenicano Hochstraten e l'uma-
nista tedesco Reuclin, e citò le due parti a Roma l'S giugno 1514;
ma l'affare non ebbe seguito. ^
' storia dei Papi, Roma, 1912, to. IH, p. 306 e p. 720. Da Lovanio il 13 novembre 1517
Erasmo di Rotterdam dedicò al Grimani la sua Paraphrasis alla lettera di s. Paolo ai Romani.
DESIDERI! Erasmi Opera omnia, Lugduni Batav., P. Vander, 1706, to. VII, p. 773. L'elenco delle
sue opere sta nel Ciaconio, to. Ili, p. ISl.
» Pastor, ib. IV, i, p. 11.
» 11 cardinale divenne vescovo commendatario di Urbino il 29 maggio 1514; egli ebbe come
coadiutore con diritto di successione Giacomo de Nordis, chierico d' Aquileia che ebbe la conferma
in concistoro iJ 17 luglio 1523 e morì il 14 gennaio 1540. Van Gulik-Eubf.l, Hier. Caih. M. Aevi,
III, p. 344.
* Pastor, op. cit., IV, I, p. 101.
» Ib., p. 116.
« Ib., p. 512.
' /*., p. 207.
174 PIO FASCHINI
Quando morì nel 1521 Leone X, il Grimani era fra i cardinali che
parevano sospetti al partito dell'imperatore, ma non ebbe la tiara alla
quale aspirava. Il 31 dicembre 1521 ottenne d'uscire dal conclave, prima
che il papa fosse nominato, portando come ragione la malattia che lo
tormentava.^ S'ammalò gravemente a Roma il 5 agosto 1523, e morì
nella notte sul 27 di quel mese.
Il cardinale Grimani era patriarca di Aquileia sino dal 13 settembre
1497 ^ ed il 19 gennaio 1517 resignò in favore di Marino Grimani, figlio di
suo fratello Gerolamo. Marino, ch'era vescovo di Ceneda sin dal 16 ago-
sto 1508, rilasciò allo zio il vescovado di Ceneda per assumere il pa-
triarcato. Ma non è mio compito qui seguire i Grimani nelle mutue
loro resignazioni. Marino divenne il cardinale, diremo così di famiglia,
dopo la morte di suo zio Domenico. Egli fu, infatti, creato da Cle-
mente VII nel concistoro del 3 maggio 1527 e fu riservato in petto;
sopraggìunsero le tristi vicende del sacco di Roma, ed il Grimani non
fu pubblicato cardinale che nel febbraio del 1528 ed il 7 di quel mese
ebbe il titolo di s. Vitale, che mutò con quello di s. Marcello il 12 no-
vembre 1532 e poi con quello di s. Maria in Trastevere il 4 agosto
1539. Il 13 marzo 1541 passò al vescovado di Tuscolo, il 24 settembre
1543 a quello di Porto.
Marino fu inoltre amministratore del vescovado di Concordia dal
1533 al 1537 in cui rinunciò in favore di un nipote; il 13 novembre
1534 diventò amministratore della diocesi di S. Pons de Tomières,
(nella Francia meridionale), alla quale rinunciò presto riservandosi una
pensione; il 19 aprile 1534 prese pure ad amministrare la diocesi di
Città di Castello e vi rinunciò il 5 marzo 1539 riservandosi un'altra
pensione. Tutto questo dimostra che Marino fu in auge durante il pon-
tificato di Paolo III. Ma v'è di più: alla morte del cardinale Ippolito
de' Medici, l'eccellente cardinale Grimani, come lo chiama il Pastor,^
divenne legato di Perugia e dell'Umbria il 17 settembre 1537. Nel set-
tembre di quello stesso anno si adoperò, perchè la repubblica di Ve-
nezia concedesse la città di Vicenza come sede del concilio.*
Poi il 24 giugno 1543 nel convegno avvenuto a Busseto presso
Parma fra Paolo III e Carlo V, il cardinale tenne un magnifico discorso
in favore della pace colla Francia.^ Ed in grazia forse di questo
il 5 marzo 1544 fu nominato legato della Gallia cispadana, Parma e
Piacenza in luogo del cardinale Gambara che fu richiamato.
» Pastor, op. cit., IV, 11, p. 5, 7 sg., 14.
» EuBKL, Hierarch, Cath. M. Aevi, W, p. 103.
» Storia dei Papi, to. V, p. 197. È curioso che P. Tacchi-Venturi, Storia della compagnia
di Gesii in Italia, Roma-Milano, 1910, p. 9, n. 3, parlando del conclave del 1534 dica: « i biografi
riprendono nel Grimani [Marino] il soverchio spirito secolaresco >, e cita il Cardella, Memorie
storiche dei cardinali della S. R. Chiesa, to. IV, p. 89 sg., 103-105. Il cardinale era allora nei
quarant'anni. L'accusa deriva dal Ciaconio, che a sua volta la tolse dallo storico veneziano Pie-
tro Giustiniani (Alph. Ciaconii Vitae et Res gestae Pontificum Rom. ti S. R. E. Cardinalium,
Romae, 1677, to. IV, p. 487).
♦ Pastor, op. cit., p. 70.
* Ibid., p. 466. Lo riporta il Ciaconio, ib., p. 486, desumendolo dal Oiovio.
DELLA TORRE E ORIMANI, ECC. 175
Marino morì in Orvieto il 28 settembre 1546 e colà fu sepolto. Il
suo corpo fu poi trasferito a Venezia.^
Suo fratello Qiovanni iniziò la sua carriera prelatizia col diventare
vescovo di Ceneda il 20 febbraio 1540, e cedette quell'episcopato al
fratello Marino, quando questi il 23 gennaio 1545 gli cedette il patriar-
cato di Aquileia.
Durante il 1546-47 fu il Grimani delegato a fungere, insieme col
nunzio Della Casa, da giudice ed esecutore apostolico nella causa di
eresia intentata contro il Vergerio, vescovo di Capodistria. Il processo
per l'astuzia dell'accusato andò a lungo, ed il Grimani cadde in so-
spetto di avere tenute le parti di lui. Fu questa forse l'origine delle
sue disgrazie e delle prevenzioni contro di lui in materia di fede.
Il Grechetto, cioè Dionisio de Zannettinis, vescovo di Milopotamo e
Chironissa, scriveva da Trento, il 13 settembre 1546, dove s'era recato al
concilio, al cardinal camerlengo Guido Ascanio Sforza, che fra i princi-
pali confederati « con certi fautori de la secta lutherana... è il patriar-
cha Aquilegiense, fratel del R.'"" Grimano; ancora che '1 cardinal sia
catholico, il suo fratelo, predicto patriarcha, è assai perversso, del
qual più fiate ho scripto a S. S*^^ che favoriva etiam l'episcopo di
Capo d'Istria, decto Vergerlo...; non fa altro che favorir Lutherani».
Ed il 26 aprile 1547 da Bologna, dove s'era trasferito il concilio, scri-
veva al cardinale Alessandro Farnese : « Ho inteso per più vie che il
patriarcha Aquilegiense noviter facto se iacta et pensa di esser cardinal.
Se questo sarà, quod non credo, sarano molti, che si farano Lutherani
pensando per questa via di esser cardinali, perchè lui è Lutheranissimo.
Et facto sempre questa mala et pessima professione et favorito sem-
pre li Lutherani ».-
Le accuse del Grechetto non ebbero allora seguito, quantunque
rappresentassero probabilmente le voci che correvano fra i prelati più
intransigenti del concilio. Ma nel 1549 Leonardo Locatelli iuniore, do-
menicano, predicando la quaresima in Udine, conchiuse come cosa
certa che i predestinati da Dio alla gloria, secondo la dottrina di
S. Tomaso (p. I, quest. 23, art. VI), non possono dannarsi, né i pre-
sciti salvarsi. Riferita questa conclusione al Grimani, rispose il 17 aprile
da Venezia al suo vicario in Udine, approvandola e corroborandola
di nuove prove.
Fu allora questa lettera deferita al Santo Ufficio a Roma, il quale
prese tosto ad inquisire contro il Grimani, e fu cagione che né Giu-
lio III, né Paolo IV acconsentissero ad elevare al cardinalato il disgra-
ziato patriarca, nonostante tutte le sollecitazioni della Repubblica. Egli
• CiACONius, op. cit., p. 487.
» GoTT. BuscHBELL, Refortnatìon und Inquisition in Italien um die Mitte des 16.
Jahrhunderts, Paderborn, 19T0, pp. 259 e 266. Queste parole del Grechetto rimasero sconosciute
a L. Carcereri, Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia ecc., Roma, 1907, il quale comincia a
narrare delle accuse contro il patriarca dal 1549 (ib., p. 5).
176 PIO PASCHINI
era un inquisito, e perciò bollato come da una nota d'infamia indele-
bile.^ Evidentemente a Roma non si voleva ch'egli diventasse cardinale,
oltre che per l'accusa che gravava sopra di lui, anche per non perpe-
tuare il cardinalato in una medesima famiglia.
Quando fu eletto papa Pio IV, la Repubblica rinnovò le istanze a
favore del Grimani; e questi corse senz'altro a Roma colla speranza di
indurre il papa a concedergli la tanto bramata porpora (marzo 1560).
Fu allora di nuovo tratta fuori la faccenda della famosa lettera del 1549.
Il Grimani avrebbe voluto che fossero accolte le sue spiegazioni e le
sue scuse al proposito; il papa invece avrebbe voluto che ne rispon-
desse personalmente all'Inquisizione. A" questo il Grimani non voleva
acconciarsi per timore che poi non gli si volesse concedere la porpora,
col pretesto ch'egli era un inquisito sospetto nella fede.
Il 26 febbraio 1561 Pio IV fece la sua seconda creazione di car-
dinali e fra i diciotto promossi furono i due veneziani Bernardo Na-
vagero e Marcantonio Da Mula. Secondo l'Eubel,* Daniele Barbaro, in
favore del quale il Grimani aveva rinunciato cum regressa al patriar-
cato di Aquileia, fu riservato in petto e non consta che sia mai stato
pubblicato. Ma gli Ada consistorìalia dicono soltanto : « patriarcha Aqui-
« legien[is] reserv[atur] in pect[ore]»; e con questo titolo era chiamato
correntemente dal papa e da tutti il Grimani, non il Barbaro. Ed infatti
i cardinali Madruzzo, Simonetta e Cornaro affermarono poi, che il
Grimani non aveva bisogno di altra promozione, essendo già cardi-
nale; entro pochi giorni si aspettava la sua proclamazione, purché, be-
ninteso, il patriarca si purgasse dinanzi all'inquisizione al piti presto.^
Ma Pio IV, io credo, aveva consentito alla condizionata nomina
del patriarca, più per sottrarsi alle insistenze della repubblica, che per
vera voglia che avesse di concedere al Grimani il cardinalato. Questi in-
sistette ancora, acconsentì a rispondere in iscritto ad un questionario
propostogli sulla dottrina della grazia ; le cose andarono in lungo, sin
che la repubblica diede ordine al suo ambasciatore di non insistere
più sull'affare ; ed il Grimani si allontanò da Roma alla fine di set-
tembre del 1561 e tornò a Venezia.*
Il più grave suo torto era stato quello di avere troppo insistito
e con poca discrezione; un po' di pazienza avrebbe trovato il papa più
ben disposto.
' Carcereri, op. cit., p. 6 sgjj. Realmente il contegno dei Grimani fu troppo compromet-
tente; il Carnesecchi lo chiamava nelle sue lettere, che poi passarono nell'incarto dell'Inquisizione
Romana, il nostro patriarca (cfr. Miscellanea di Storia d'Italia, to. X, p. 480). Francesco Negri,
frate eretico fuggito in Svizzera, parlava di lui con ammirazione, nei riguardi dei propri errori,
si capisce. Cfr. Qiornale Storico della Letteratura Italiana, to. 68, 1916, II, p. 130.
« Hierarch. Catti. M. Aevi, IH, p. 43, n. 22. Cfr. ib., p. 41, nota U.
» CAacp.RERi, op. cit., p. 20.
* ibid., p. 45. Dopo lunghi negoziati col papa, il Oritnani ottenne, nel marzo 15a3, di essere
giudicato dal concilio di Trento ; colà si recò O'jli stesso in persona il 13 giud^no, ed il 17 settembre
fu prosciolto da ogni sospetto ed accusa di eresia. Ricevette per questo fatto le congratulazioni
universali, ma non il tanto bramato cappello, non ostante le rinnovate istanze delia repubblica in
suo favore. Peggio ancora, non potè nemmeno ottenere il pallio che gli toccava come metropolita.
DELLA TORRE E ORIMANI, ECC. 177
Di questo scacco amaro tentò di consolarlo il nostro Spinola coi
suoi versi, composti poco dopo questi ultimi avvenimenti, ricordando
anche per incidenza i due cardinali Domenico e Marino.
Ad illustriss. et reverendiss. D. D. Joannem Grimanurn,
Patriarcham Aquileiae.
Quatti turpe Consulatui fuit, Cato
De se solebat ille magnus dicere,
Catonem in urbe non fuisse Consulem.
Quam turpe sanctis Patribus Quiritium est
In purpura Grimanum eos inter minus
Fulgere adhuc, de te inquit Adria furens :
Praesentia eius atque maiestas gravis,
Eius nitor virtutis et sapientiae
Quantum sacro splendoris afferret loco.
Sed nobilem fatalis invidia domum
Ad tempus istam deprimit. non' ne inclytus
Antonius dux urbis huius, qui fuit
Avus tibi, Hieronymusque postea
Clarus parens, duo et Patres in purpura
Digna raicantes, frater eius et tuus,
Permulta passi sunt ab invidiae impetu.
At invidi quicunque mortales bonos
Soletis impedire, vos odit Deus
Vos et Quirini Martia odit civitas.
Si quod paravit Urbis electissimo
Princeps viro, illud non teneret conditum
Per vos, videt Roma alta, quam suus foret
Felix senatus, quam beata concio.
Per hunc enim se sperat antiquum decus
Et religionis posse fideique assequi.
Quae vos amatis, ipse nil curat Pater:
Quae vos amatis negligit: nihil crepat
Mortale, nil desiderat vanura et fugax.
Fallacium contemptor unus omnium,
Est in hoc uno, pervenire qua ad Deùm
Beata tempia possit iramortalium.i
Curioso davvero il parallelo fra Catone, bocciato al consolato, che
dice essere una vergogna per l'ufficio consolare che Catone non fosse
console, e Venezia che proclama essere una vergogna per il collegio
cardinalizio che il Grimani non abbia ricevuto il cappello, mentre tanto
se lo meritava per virtìi e sapienza. Colpa l'invidia che da tempo per-
seguita la casa Grimana ! Ma gli invidiosi sono odiati da Dio e da
Roma. Che se per causa loro il papa non tenesse nascosto ciò che
preparava al prelato, vedrebbe Roma quanto felice ne sarebbe il Sacro
Collegio. Ma il Grimani non cura gli invidiosi ; intento solo a guada-
» Spinula, op. cit., Poematon lib. II, p. 18 sg.
12
178 PIO PASCHINI
gnarsi i gaudii celesti, disprezza le cose vane e passeggere. Così con-
clude lo Spinola.
Veramente quest'ultima era una smaccata bugia; ma che non è
lecito osare ai poeti?
Lo Spinola indirizzò pure al patriarca Grìmani un breve compo-
nimento di cinque distici, col quale gli dedicava la traduzione da sé
fatta della profezia della Sibilla riguardante Cristo, profezia che era
stata da altri tradotta ma con barbarico stile. Ed infatti ai distici tien
dietro la traduzione in esametri acrostici che danno la frase: « Jesus Cri-
stus Dei Filius servator cruce ».* Ma non riporto né l'uno né l'altro
componimento, che non hanno per noi importanza.
Maggiore importanza avrebbero altri componimenti dello Spinola
per la vita cinquecentesca, ma poiché non riguardano direttamente né
persone, né avvenimenti del Friuli, faccio punto sperando che almeno
queste poche note non siano riuscite discare a chi si sofferma con
piacere sulle figure più significative della storia nostra.
Pio Raschini
» Spinula, op. dt. Poematon lib. II, p. 15 sgg.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 179
Rassegna biliografica
Francesco Musoni. — Udine dalle origini al principio del se-
colo XIX. Note di geografia urbana. Udine, tip. del Bianco,
1915; 8", pp. 30 con 8 figure ed una tavola fuori testo.
La storia del nucleo urbano di Udine offre un particolare interesse
per i cultori delle discipline storiche geografiche e giuridiche, perchè
si tratta d'una delle poche città italiane di formazione medievale. La
grandissima maggioranza dei nostri aggregati urbani deriva, infatti,
dall'età romana e di questa lontana origine porta evidenti impronte
nella pianta stessa della città, nella distribuzione dei rioni e nello svol-
gimento della cerchia murata; anche la costituzione comunale, per quanto
non si possa sostenere l'esistenza di rapporti diretti fra il municipio
romano ed il comune medievale, ne subisce gli influssi. Nel caso di
Udine, invece, le condizioni sono diverse.
Il colle fu certamente abitato non solo a tempo romano, ma pure
nel periodo protostorico, come fu dimostrato ampiamente ed anche
di recente nei lavori di Raffaele Sbuelz sul castello, ma tale primitivo
aggregato non ebbe un'influenza immediata sul sorgere della città ed
anche quando questa fu formata, vi rimase lungamente estraneo.
L'aggregato, che sorgeva sul colle era infatti un'abitanza feudale, cioè
un feudo collettivo, concesso dal patriarca ad un certo numero di fa-
miglie, che avevano l'obbligo di difendere e di tenere in assetto il ca-
stello e ricevevano in cambio determinati beni e diritti; tale abitanza
continua a sussistere per tutto il secolo XIII, ed ancora al principio
del XIV ha, nel parlamento friulano, una rappresentanza separata che
figura nel corpo della nobiltà, mentre la città manda i suoi deputati
nel corpo dei comuni. A piedi del colle s'era formato, infatti, dal se-
colo XII (e forse anche prima) un nuovo abitato. Accennai in un
breve studio edito in queste stesse Memorie ad una delle cause che
determinarono l'annodarsi di relazioni commerciali considerevoli intorno
a questo secondo aggregato : in esso si contenevano, infatti, i depositi
di derrate dell'amministrazione patriarcale, dove convenivano i tributi
provenienti al principe da censi, livelli, contribuzioni straordinarie di
natura laica od ecclesiastica provenienti dalla parte centrale dello Stato
Friulano. Ciò può aver dato luogo a scambi importanti resi più facili
dal convergere di varie strade provenienti dalla pianura e dirette ai
valichi alpini.
180 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
il patriarca Bertoldo, che fu il vero fondatore del comune di Udine,
costituì in questo nuovo aggregato un foro permanente, cioè gli diede
la importantissima concessione che vi potessero sorgere fondaci e bot-
teghe di mercanti. Infatti, ogni commercio che non fosse quello delle
cibarie necessarie per la vita quotidiana era, in quei tempi, assogget-
tato a privilegi sovrani. Il principe poteva concedere una fiera annua,
mensile o settimanale secondo i casi, ma assai di rado dava Io stabile
privilegio del foro cioè di un mercato permanente. Al principio del
secolo XIII sembra che in Friuli l'avessero soltanto Aquileia, Cividale,
Gemona, Sacile, a cui poi si aggiunse Udine. Alla concessione del
foro, Bertoldo fece seguire un privilegio di borghesia, concesse, cioè,
la costituzione del comune, equiparando i privilegi dei nuovi bargenses
a quelli degli abitanti di Cividale e delle altre terre patriarcali. Di tali
privilegi doveva godere chiunque venisse ad abitare nell'ambito cittadino
assegnato al comune nascente, se anche fosse servo della Chiesa; il
dimorare sul suolo libero del comune, affrancava dunque anche costoro
dalla macula servile: è il consueto effetto delle franchigie comunali.
Il Musoni studia con acume e con ricca documentazione grafica,
in questo suo elegante opuscolo, lo svolgersi dell'aggregato urbano
che si costituì, come libero comune, coi diplomi Bertoldiani, e ci fa
seguire il progressivo suo crescere. In origine, accanto al comune che
aveva territorio assai pìccolo, si trovano degli aggregati estranei : anzi-
tutto la ricordata abitanza del colle, e poi le ville cioè le vicinìe ru-
stiche immediatamente attigue che hanno il loro minuscolo comune
governato dal decano, come qualunque altro villaggio del Friuli. Poi
un po' alla volta questi aggregati minori sono assorbiti dal maggiore
ed il comune si fa più ampio, fino a divenire già nel secolo XV il
centro urbano pili popoloso dell'intera regione. La fusione dtìVabitanza
col comune dovette avvenire all'incirca nel secondo decennio del tre-
cento ; da allora, infatti, essa perde la sua rappresentanza separata in
parlamento; quanto alle ville l'unione avviene poco dopo. Dagli studi
del Musoni appare che « il periodo culminante nella storia della evo-
« luzione urbana della metropoli del Friuli » avviene fra il 1330 ed il
1440 circa; nella sua parte centrale, la città non ha da quel tempo
cambiato molto nella sua topografia. Molti rilievi importanti fa il Mu-
soni nel suo studio, sia per la serie delle piante della città, che dà in
ottime riproduzioni, sia per il variare della popolazione.
L'autore si arresta al 1811, ma ci promette di prendere in esame,
in seguito, anche l'evoluzione urbana più recente.
Ci auguriamo di veder presto tali nuovi studi, che saranno senza
dubbio, come questi, un importante contributo alla storia civile del
Friuli.
P. S. Leicht
APPUNTI E NOTIZIE 181
Appunti e notizie
?i^ Un'alfabetica compartimentale della Patria del Friuli nei ma-
noscritti DEL Macini. — Nei manoscritti di G. A. Magini, che si con-
servano nell'Archivio di Stato di Bologna, e che presentano il materiale,
che quell'illustre cosmografo e geografo aveva raccolto per la sua
grande opera illustrativa d'Italia, vi hanno alcune carte che riguardano la
Patria del Friuli. Di queste particolarmente dette notizia il prof. Roberto
Almagià, che ne riprodusse anche un disegno cartografico che, secondo
l'A., aveva Io scopo di rappresentare la posizione della fortezza di Palma,
costruita nel 1593, e che compare per la prima volta nell'Atlante del
Magini. Dalle pagine manoscritte del Magini appare che il disegno
dell'opera sua comprendeva anche una positiva notizia delle condizioni
politico-amministrative delle singole regioni. Su questo carattere del-
l'opera del Magini ha discorso appunto l' Almagià ed io stesso in una
nota apparsa nella Rivista Geografica Italiana}
Dal manoscritto del Magini io avevo già da parecchio tempo ri-
copiato un'Alfabetica o elenco alfabetico di tutti i luoghi del Friuli
(82 fra città, come dice il Magini, terre e castelli, e sino ad 881 vil-
laggi) ripartiti in sei quartieri al di qua e sei al di là del Tagliamento.
II documento, come si comprende, è di quelli sui quali abbiamo
basato la nostra Carta politico-amministrativa della Patria del Friuli.
Come Alfabetica crediamo sia la più antica che esista : deve essere fra
la fine del 500 e i primi anni del 600 (Magini f 1618).^
Credo perciò interessante pubblicarla, avvertendo che nel mano-
scritto l'ordine della località è assolutamente alfabetico, io invece le
ho raccolte alfabeticamente nei singoli quartieri. I quali, come ho detto,
erano 6 a destra eòa sinistra del Tagliamento. A quale divisione
amministrativa essi corrispondessero non saprei dire, forse ce lo potrà
suggerire il nostro illustre Presidente; certo si tratta di una compar-
tizione a base demografica, data l'unità territoriale dei singoli compar-
* R. Almaqià, La Carta e la Descrizione del Friuli di O. A. Magini Padovano, in Boll,
del Museo divico di Padova, anno XI V, 1911, p. 93. sgg. con tav. Dì questo scritto dell' Almagià
ho dato notizie in queste Memorie, IX, 1913, p. 314. O. Lod. Bertolini, Su l'opera di Q. A. Ma-
gini nella delineazione dei confini territoriali, in Riv. Oeogr. Ital., aprile 1913. Nelle carte del
Magini si trova anche una Alfabetica compartimentale del Trevigiano. La pubblicherò in altra
sede, e potrà servire di base a una Carta storica di quella regione.
« Ctt, G. LoD. Bertolini, Per la Carta storica della Patria del Friuli al cadere della Repub-
blica Veneta. Nota dichiarativa dei documenti, in Boll, della Soc. Oeogr. Ital., 1910, n. 5.
182 Al>PUNTI E NOTIZIE
timenti, mentre le giurisdizioni feudali hanno carattere topografico
frammentario.
Si avverta che nell'elenco delle Ville sono compresi anche i Ca-
stelli contrassegnati nel manoscritlo da un C.
G. LoD. Bertolini
/o di qua.
Alture, Bagnarla, Chjarenzan, Campolongo di Bagnaria, Cussignà, Cargnà,
Chiasottis, Claujano, Campolongo di Chiarenzan, Cisis di Strasoldo, Lutnignà, Lau-
zacco, Lovaria, Meredo di Capitolo, Muscli, Moruzzis, Mortesins, Melarolo, Merlana,
Privan, Perteole, Perserean di Lauzzacc, Ronchiettis, S. Maria la longa, Sevean, Stra-
soldo C, Scodavacca, Saciletto C, Sotfoselva, Tissan.
2» di qua.
Ariis C, Basaldella, Corgnol, Castions di Strada, Cucana C, Carpeneto, Chiarmacis,
Cornazzai, Felettis, Flumigna, Glaunicco, Oris, Oalerian, Lauarian, Musons, Morsan
di Strada, Muzzana, Mortean, Madrisio di Varmo, Musclet, Orgnan, Puzzuol, Pam-
paluna, Pozzicco, Puzzinia, Palazzuol, Plancada, Petrons, Romans di Varmo, Rivi-
gnan, Rividischia, Sammardenchia, Strazzis, Santo Andrat, S. Martin, S. Marizza, Ter-
renzan, Villa di Varmo, Zugliano C.
3^ di qua.
Bean, Bugognins, Basagliapenta, Biauzzo, Blessan, Bressa, Colorado di Prato,
Campoformio, Codroipo Terra, Camin di Codroipo, Coderno, Flalban, Gradisca di
Sedean, Jutiz, Lonca, Malazumpica, Mereto di Tomba, Orgnan, Pasian di Prato,
Perserean di Lonca, Pozzo, Pantianins, Plasenzis, Pasian Schiavonesco, Passons, Ra-
volto, Rosa, S. Steffano, S. Vidotto, S. Odorico C, S. Lorenzo di Sedean, Sedean,
San Marco, Savalons, Turrida, Tomba, Vuirch, Vicendon.
4* di qua.
Attimis, Belveder, Bellagioja-, Bolzan, Bergamo, Bergon, Baivars, Camin, Como,
Campeio, Canal di Qrivò, Cergneo C, Cortal, Dolognan, Faedis, Qrions di Torre,
Oramoglian, Codia, Leuros, Laipa, Lamonte di Rosazzo, Manzinello, Midìuzza, Mir-
nich, Magredis, Monte di Buri, Noax, Nimis, Ozzan, Predaman, Povolen, Quals,
Ravose, Rutars C, Raclus, Ronche di Faedis, Rizzol, Suffimbergo, Salt, Sia, Subit, Sa-
vorgnan, Trus, Taipana, Tarcento C, Ueliis, Varran, Viscon di Torre, Zirà.
50 di qua.
Ara, Adorgnan, Adoglià, Artegna, Biveriis, Buia, Chiauris, Chiarvà, Chianali,
Chiassa, Conoglan, Colugna, Frielaco, Felettan, Feletto, Giemona, Luserià, Lonerià,
Laipa, Luinà, Magnan, Montenars, Martinaz, Montegnaco C, Monastet, Paderno,
Prarapero C, Rumignan, Ribis, Reana, Raspan, Segna, Tricesimo C, Treppo grande,
Tavagnà, Val, Vendoi, Vergna, Villafredda, Zeglia, Zumpitta.
6" di qua.
Alnico, Arca di sopra. Arca di sotto, Brazza, Battala, Bonzicco, Barazzetto, Ca-
stelliero, Cereset, Cicunins, Cosean, Coseanet, Chiarpà, Cisterna, Coloredo di M. Al-
bano, Cudugnella, Dignan, Fontanabona C, Farla, Fagagna C, Faugna, Qiavons,
Lauzana, Lazza, Marzanins, Martigna, Moruzzo C, Moruzzo, Modot, Mels C, Melsio,
Maian, Madrisio di Fagagna, Maseriis, Pissignan, Pagna, Pozzallis, Plain, Pers C,
Ragogna C, Rivis di Arca, Rausclet, Rodean, Rivolta, S. Margarita, S. Tomat, S. Vido
di Fagagna, Silvella, Torrean, Vidulis, Villata, Zampis.
/o di là. '
Bagnarola, Bando, Bagnara, Boldara, Bolpare, Cordovado C, Concordia, Casal
del Taù, Fratta C, Fossalta, Fratuzza, Gleriis, Oruaro, Gaio, Gorgo, Jussago, Ligfu-
gnana, Marignana, Nojare, Ponte Casal, Portovecchio, Ramussiel, Rivago, Saleto,
Stalis, Sesto, Sacudiel, Savorgnan, S. Giusto, Sumaga, Telo, Venchiareto, Versola ,
Villanuova, Vado, Villanova di Concordia, Zuzulins.
APPUNTI E NOTIZIE 183
20 di là.
Arba, Azzanello, Bosco di S. Biasio, Bosco del Forestier, Blisiola, Boschetto, Ba-
racetto, Bìveron, Blessaia, Barco, Belvedere, Brischie, Cinto, Cidrugno, Corbolon, Ca-
sali diversi, Chions, Corte dell'Abbà, Danon, Frattiaa C, Giai di Spadacenta, Lison,
Melon, Musil, Mura della Meduna, Meduna, Oltrafossa, Pravisdomini, Paaigai C, Pa-
nigai, Pra di Pozzo, Prodolon C, Pramaggior, Rabedoi, Stagninbecco, Spadacenti,
S. Stin di sopra, S. Stin di sotto, Sbrojavacca C, Salvarolo C, Squarzareto, Villuta di
sopra, Villuta di sotto, Villotta di Sbrojavacca, Villuta di Chions, Villa blesa.
30 di là.
Avian C, Baseglia, Barcis, Budoia, Cavasso, Colle, Cimulais, Claut, Cultura, Dar-
dago, Ert, Fana C, Frisan, Griz, Gai d' Avian, Istra, Midum, Maniago C, Manialivro,
Montereal C, Malnins, Navarone, Pofabro, Polcenigo C^ Spilimbergo C, Sequalsi So-
lumbergo C; S. Lucia, S. Giovanni di Polcenigo, S. Lunardo, Sidran, S. Avocat,
Topo, Tranionz, Urgnes.
4" di là.
Atnanins, Arzene, Arzenut, Aurava, Basaldella, Barbean, Baseglia, Cosa, Cevraia,
Casarsa, Castions, Cusan C, Gradisca di Spilimbergo, Gai di Spilimbergo, Marzinis,
Ovoledo, Pustincicco, Pissincana, Pozzo, Raussedo, Roveran, S. Martin di Valvason,
S. Zorzi, S. Giovanni di Casarsa, Taureana, Tesis, Torre C, Vivaro, Valvason C,
Urcenis di sopra, Urcenis di sotto. Villa Sii, Villa franca, Versutta, Zoppoia.
5» di là.
Campagnola, Cornazzai, Corva, Cimpello, Codopet di Tiez, Codopet Rudioso,
Fiume, Fiume di là, Fiumisins, Gradisca, La Mantova, Morsan di Pratta, Pozzo, Pratta,
Pratta vecchia, Pratta di là, Pratta di qua, Perisine, Pasian di sopra, Pradolìn, Piagno,
Praturlon, Rivarotta, S. Martin, S. Andrea, Tiez, Villanova di Pratta, Villotta di Pratta,
Visinal, Villaricolt.
60 di là.
Brugnera C, Civolin, Canderan, Cigana, Campo Molin, Fontanafredda, France-
nigo, Gaiarine, Maron, Nogareto di Corno, Nogareto di Prato, Porcia C, Paisà, Ronche,
Roveredo, Rovebasso, Ristuizza, Rorai piccolo, S. Cassan, Sidran, S. Gio. del Tem-
pio, S. Odorico.
Altri luoghi.
Gemona, Venzone, Tolraezzo, Sacile - rettor veneto, Portogruar - rettor veneto,
M. Falcone - rettor veneto, Fagagna, Aviano, Caneva - rettor veneto. Mossa è sotto
gli Arciduchi, Meduna, S. Vito sotto il Patriarca, S. Daniele sotto il Patriarca, Bel-
grado C, Castelnuovo C dei SS. Savorgnani, separati dalla Patria, Tissana C separ.
dalla Patria, Budrio, Pordenone Terra - rettor veneto, Cividale Città - rettor veneto.
■?V Le monete friulane in un recentissimo dizionario di numisma-
tica. — Ripetere la frase del Sella, se non isbaglio, che le cose friu-
lane non hanno eco oltre il Tagliamento, potrebbe parere una cosa
banale, troppo suffragata da una quotidiana esperienza; eppure il
comprovarne la verità non manca mai di produrre in noi un senso
di disgusto e di avvilimento. E non mancano pur troppo le occasioni !
Si dice che la guerra farà conoscere un po' più e meglio questo
estremo lembo d'Italia; speriamo che ciò abbia ad essere vero. Ecco
frattanto un motivo di doglianza. Sono ben noti fra noi gli studi ri-
guardanti la numismatica locale a cominciare dal Fabricio, dal De Ru-
beis e dal Liruti, passando per lo Schweitzer sino al Leicht ed al
184 APPUNTI E NOTIZIE
Puschi. È un contributo non indifferente alla scienza, che si dovrebbe
ritenere ormai per acquisito anche per i manuali generici. Invece,
sfogliando il recentissimo lavoro: La moneta, vocabolario generale com-
pilato dall'ingegnere Edoardo Martinori, vice presidente dell'Istituto
Italiano di Numismatica, Roma, 1915,^ fornito di numerose illustrazioni,
si prova una dolorosa delusione per quanto riguarda il Friuli ed il Pa-
triarcato. Ecco, infatti, quanto vi troviamo:
« Aquileiese, Aquileiensis. Moneta coniata in Aquileia dai Patriar-
« chi, ai quali fu concesso il diritto di zecca da Ludovico II di Oer-
« mania nell'anno 856. Sotto il patriarca Volkero (1204-1218) V Aquila
« rimpiazza nella moneta il Tempio. Le monete aquilegiesi sono : De-
« nari. Oboli, Piccoli e Bagattini e raramente dei Doppi denari. Nel
« 1305 troviamo che un Grosso matapane di Venezia valeva 2 Denari
«e 4 Piccoli Aquileiesi».
Curioso, non è vero?, quel diritto di zecca concesso neir856
dopoché il Leicht, con altri molti, dovette sudare assai per difendere
la genuinità del diploma di Corrado II, che lo concedeva nel 1028 al
patriarca Poppo ! Tacciamo pure sul resto, e proseguiamo :
« Fresacensis, Fresiacensis, Friacensls, Fresachensis moneta ed anche
« Frisalicus, Frixerius. Era detta la moneta coniata in Friesach (Carin-
« zia) dai patriarchi d' Aquileia. Carta di Volrico patr. 1176: qaisqae prò
« ano passa de terra quam occupavit duo denarios Frisancensis monetae
< singulis annis nobis perso Ivant. Nel computo delle decime del 1278:
« Librae 7 e. 2. e sol. 9 veronensium parvoram et due marchae frisa-
« censium novorum argenti de Aquileia computato mihi per collectores
« qualibet Friziacensi prò XIII veronensibus parvis. (E si cita 11 Qlos-
« sarium del Du Cange). Perciò ogni Frisiacense valeva 14 Piccoli ve-
€ ronesi. Oli arcivescovi di Salzburg coniarono di queste monete a
somiglianza di quelle di Aquileia. Vedi Frisacco » .
E vediamo pure Frisacco:
« Frisacco, Frignacco, Frisacense e Frisaco. Presero questo nome
« i Denari dei patriarchi di Aquileia in comune con quelli di Friesach,
« dì Gorizia, e dei vescovi di Salzburgo, che li avevano imitati. Una
« carta del Senato veneto del 1420 lamenta che in Zara e nel suo ter-
« ritorio si spendono per 1 Sol. i Frignacchi che non tengono 3 onc.
«di argento per marca».
« Frisseri. Lo Zanetti le dice monete ideali di Aquileia, ma con
«molta probabilità si tratta dei cosidetti Frisacchi». Non c'era biso-
gno di dire « con molta probabilità », dal momento che sopra s'era
detto Frixerius ^ Frisacensis, Ma l'autore non seppe che i Frisacensi
> tielVArchivio deUa R. Società Romana di Storia Patria, voi. XXXVIII, 1915, p. 733 sg.,
il numismatico Camillo Serafini loda l'opera del Martinori «come sobriamente redatta, ma in
< forma chiara e metodica >, e la dice < ricca di tutti quei dati che possono contribuire alla esatta
< conoscenza della moneta *. Ciò vorrà dire che tutti i difetti sono concentrati nelle poche righe
che riguardano le monete patriarcali, il che non è certo lusinghiero per noi.
APPUNTI E NOTIZIE 185
erano appunto i denari dell'arcivescovo di Salisburgo, il quale non
ebbe affatto bisogno di imitare i denari patriarchini.
« Marca Aqaileiese valeva 160 Den. cioè Sol. 6 e Den. 16 ».
«In Aquileia si diceva Portone la 4^ parte del inarco^.
Ed è tutto: fra tanto lusso di illustrazioni, non una che riproduca
un tipo di monete friulane, che pure sono tutt'altro che trascurabili
dal lato numismatico. Tutta l'opera paziente dei nostri studiosi è com-
pletamente trascurata. Ma speriamo che il Corpus nummorum italicoram,
che si stampa per la illuminata dottrina e la munificenza di Sua Maestà
il Re, abbia a darci soddisfazione, e che così in seguito abbiano ad
essere un po' meglio conosciute le cose nostre a questo riguardo.
P.
'?V Una Società forestale a Gemona sul principio del Milleotto-
cento. — Nel fase. 5-12, anno IV, 1915, p. 84 sg., con cui VAlbero,
l'utile bullettino della Società friulana Pro Montibus et Sylvis, ha so-
spese, causa le attuali circostanze, le sue pubblicazioni, rinveniamo
l'accenno ad un programma dell' istituzione in Gemona di una Società
di georgofili per la semina ed educazione di un bosco nelle montagne
dette Ambruseit e monte della Guardia, pubblicato dalla deputazione
comunale di Gemona, con la superiore approvazione, il 12 aprile 1812.
Il documento, del quale qui sono offerti, a titolo di saggio, alcuni dei
39 articoli, onde si compone il Regolamento sociale, è « veramente
« interessante per il calore con cui si propugna la causa del rimbo-
« schimento, essendo indicati con commossa parola i danni recati a
«Gemona da un'improvvida distruzione dei boschi dell' Ambruseit ».
Auguriamo che, al riprendere delle sue pubblicazioni, il citato periodico
abbia a mettere in luce il notevole documento, la cui esumazione
dall'importante Archivio municipale è dovuta al segretario del Comune
gemonese, cav. Carlo Rossini.
?t^ La nostra guerra. — lì 24 maggio 1915, con la dichiarazione di
guerra all'eterno implacabile nemico, l' Italia ha preso il posto, che il
destino suo grande le additava, per la tutela del diritto e della civiltà
atrocemente offesi e pel conseguimento delle nazionali aspirazioni, cui
la Società Storica Friulana è orgogliosa di avere essa pure recato il
suo contributo di lavoro modesto sì, ma avvivato dalla fede incon-
cussa nel riconoscimento della incontrovertibile verità della storia ; ed
oggi essa, da questa forte ed invitta regione, ha il vanto di assistere
da vicino alle mirabili gesta dei prodi figli d'Italia, ai quali manda
un grato, entusiastico saluto. Sotto la guida sapiente e magnanima di
Sua Maestà il Re beneamato, i valorosi nostri soldati compiranno
trionfanti l'opera piena di nobile ardimento, che i padri eroici gene-
rosamente iniziarono.
186 APPUNTI E NOTIZIE
?W Per la storia della nostra guerra. — Il Comitato Nazionale per
la Storia del Risorgimento, presieduto da S. E. il cav. Paolo Boselli, fin
dall' inizio della nostra impresa redentrice avvisò l'opportunità di racco-
gliere testimonianze e documenti sull'attuale guerra, la quale si presen-
tava come un corollario storico delle guerre per la nostra indipendenza
ed unità politica. Tale raccolta il Comitato ha deciso di condurre con
un disegno sistematico ed organico e con un programma adeguato
all'altezza della grande impresa e al fine da conseguire a profitto degli
studiosi. II programma fu sottoposto all'approvazione del Governo,
attesa l'indole delicata e talora riservata delle indagini, che si dove-
vano compiere.
Ottenute dal Governo non pure l'approvazione ma eziandio la col-
laborazione, e conseguite altresì quelle degli Stati Maggiori della Guerra
e della Marina, il Comitato diramò largamente addì 1 agosto 1915 una
circolare contenente i capisaldi del programma.
Ad attuare tale programma, fu subito data opera intensa ed as-
sidua e fu chiesto ed ottenuto il consenso e il concorso dei Corpi
scientifici (Accademie, Deputazioni di Storia patria. Università), cercan-
dosi nello stesso tempo di far giungere l'eco dei propositi fino al
popolo e fino ai combattenti tutti, interessandoli allo scopo prefisso.
Per mezzo dei membri delle due Camere e dei sindaci di tutti i Co-
muni, il Comitato mandò il suo appello in ogni angolo di provincia;
per mezzo dei provveditori agli studi, giunse alle scuole; per mezzo
dei rispettivi Stati Maggiori e delia stampa quotidiana, ai combattenti
di terra e di mare.
Il Comitato, con avveduta e felice scelta ed il consenso del R. Go-
verno e del Comando supremo del R. Esercito, ha nominato suo
Delegato generale per la zona di guerra il comm. prof. Libero Fracas-
setti, nostro consigliere di Presidenza, conferendogli un ampio e spe-
ciale mandato per le ricerche in servigio del programma prestabilito.
Il solerte comm. Fracassetti, pur procurando per ogni parte del
programma stesso largo e pregevole materiale, si dedica specialmente
alla faticosa ricerca metodica e alla paziente raccolta delle pubblica-
zioni effimere nelle rispettive edizioni originali, pubblicazioni fatte di
solito in piccolo numero di esemplari e difficilmente rintracciabili.
?V La tutela dei monumenti e degli oggetti d'antichità e d'arte
NEI territori occupati. — Con ordinanza in data 31 agosto 1915,
S. E. il generale conte Luigi Cadorna, capo supremo del R. Eser-
cito, ha emanato opportune disposizioni per la tutela dei monumenti
nei territori occupati (ved. Comando supremo. La gestione dei ser-
vizi civili, documenti, fase. 1", 1915, p. 106 sg.).
Il Comando supremo poi ha dato incarico al comm. Ugo Ojetti,
membro del Consiglio superiore delle belle arti, di sopraintendere alla
tutela degli edifici, oggetti, archivi, che nelle terre conquistate hanno
importanza di storia e d'arte.
APPUNTI E NOTIZIE 187
Del lavoro con sagace diligenza compiuto in esecuzione al man-
dato conferitogli, Ugo Ojetti, nella tornata 29 novembre 1915 del
Consiglio superiore, ha presentato una lunga relazione, descrivendo
minutamente, da Monfalcone e da Aquileia, fino a Storo e a Condino,
le condizioni dei monumenti e delle cose a lui affidate ed i provvedi-
menti presi dal Comando supremo.
Dopo la relazione dell' Ojetti, cui fecero vivo plauso i colleghi,
S. E. il Ministro della P. I., on. Grippo, anche per incarico unanime
del Consiglio, ha indirizzato al generale Cadorna il seguente telegramma:
« Il Consiglio Superiore delle antichità e belle arti, radunatosi sotto
la mia presidenza per la prima volta dopo l'inizio di questa guerra
di redenzione, udita e approvata la relazione di Ugo Ojetti su quanto
il Comando supremo ha fatto e fa per la tutela dei monumenti e
e degli oggetti pregevoli per l'arte e per la storia nelle terre ricon-
quistate da Condino ad Aquileia, che non sono stati rapiti o distrutti
dalla rabbia del nemico, invia a S. E. il capo di Stato Maggiore l'espres-
sione della sua unanime fede e riconoscenza per l'Esercito italiano,
il quale, nei gloriosi monumenti della civiltà romana e veneta, ritrova
ad ogni passo i segni incancellabili della nostra forza vittoriosa e del
nostro diritto ».
?W Aquileia e Grado redente. — Addì 24 maggio 1915 le nostre
gloriose milizie entrarono in Aquileia, restituendo così alla madre pa-
tria una terra ricchissima di memorie cospicue della civiltà latina: la
vetusta e rinomata colonia dedotta da Roma, divenuta poi 1' « emporio
d'Italia» e quindi ragguardevole centro ne' primi tempi cristiani e
patriarcali.
Il Museo archeologico ben noto agli studiosi, dal quale il 28 aprile
un funzionario dell' imperiale governo aveva di nascosto asportato oltre
un migliaio e mezzo degli oggetti più preziosi come monete, ambre,
vetri, gioie nonché la bella testa di donna detta il ritratto di Livia, è
rimasto aperto, per disposizione del Comando supremo, che vi dedica
le più diligenti cure, ed ha provveduto per la pronta compilazione di
un esatto inventario.
Al primo parroco italiano d'Aquileia, il valente nostro consocio
sac. prof. Celso Costantini, è stata opportunamente affidata la custodia
della insigne basilica, cui egli consacra, con singolare sollecitudine,
la parte migliore della sua dotta ed apprezzata attività.
Anche Grado è stata da' nostri soldati ridata air Italia, ed il pre-
gevolissimo tesoro di quell'antica basilica, rinvenuto intatto nel suo
nascondiglio, venne tosto collocato al sicuro.
I magnifici pavimenti della basilica aquileiese, messi in luce dagli
scavi recenti e dal luglio in poi rimasti scoperti, richiamano giusta-
mente la viva ammirazione di quanti, alti personaggi, valorosi soldati,
ospiti eminenti, hanno occasione di recarsi ad Aquileia, che fino al
188 APPUNTI E NOTIZIE
momento della sua liberazione dal giogo straniero era familiare pres-
soché solo a coloro, che amorosamente indagavano le passate vicende
della terra friulana.
In essa, come in tutti gli altri luoghi occupati, le insegne dei prodi
legionari romani, ritornatevi, dopo secolare lontananza, hanno rievo-
cato le più eloquenti prove della prisca civiltà, del pieno ed incrolla-
bile diritto italico.
La Società Storica Friulana intimamente lieta che Aquileia sia stata
ricongiunta a Roma, a dimostrare questi suoi sentimenti, come eziandio
ad esprimere la ferma intenzione di potervi tenere, dopo la pace vit-
toriosa, una sua riunione solenne, ha diretto a quel Municipio la se-
guente lettera augurale:
Udine, li 29 inaggio 1915.
Ad Aquileia veneranda per quindici secoli di glorie romane e patriarcali, la So-
cietà Storica Friulana invia il suo augurale saluto, e sì ripromette di rinnovare fra
breve, appena l'aquila sabauda, degna erede della romana, avrà coperto colle sue
grandi ali tutta la Regione Giulia, il pellegrinaggio compiuto tre anni or sono alle
sue mirabili antichità, argomento allora per noi d'immenso desiderio e d'inesauste
speranze, oggi di parentale gioia infinita.
// Presidente
P. S. Leicht
// Segretario
L. SUTTINA.
?V II Friuli illustrato. * — 11 libraio G. Malattia di Udine, già
benemerito degli studi friulani per le sue diligenti ricerche biblio-
grafiche, ha formato una bella raccolta di 24 cartoline intitolata il
Friuli illastrato, nella quale ha riprodotto vedute antiche delle terre
friulane, costumi caratteristici e paesaggi notevoli. Ricordiamo, fra le
altre, la riproduzione della bella incisione settecentesca della piazza
Contarena di Udine, e quella, della metà dello scorso secolo, del ponte
di Cividale. Vi si aggiungono poi cartoline dedicate ai migliori poeti
dialettali friulani. L* iniziativa merita sincero plauso ed incoraggiamento.
?i* Segnaliamo ai lettori nostri due belle pubblicazioni di vera at-
tualità : / lembi di patria di Tommaso Sillani (Milano, Alfieri e Lacroix,
1915) ed / mosaici d'Aqaileia di Onorio Fasiolo (Roma, « Tiber » Arti
Grafiche, 1915).
Il volume del Sillani, adorno di una elegante veste tipografica e
di numerose illustrazioni, offre una sommaria ma garbata descrizione
delle terre, che debbono essere restituite all'Italia, e qui notiamo
con lode i capitoli su Aquileia, Grado e i valli romani delle Alpi
Orientali.
L'opera del Fasiolo, riccamente provveduta di tavole fuori testo
anche a colori, dopo avere brevemente trattato di Aquileia colonia ro-
APPUNTI E NOTIZIE 189
mana e delle condizioni sue nei primi tempi cristiani, passa in ras-
segna i mosaici romani, pre e postcostantiniani della veneranda città,
non senza considerare l'origine del mosaico antico ed aggiungere, in
fine, una copiosa bibliografia sulla storia aquileiese e l'archeologia del
mosaico.
?W Nel volumetto La nostra guerra, edito a cura dell'Associazione
nazionale fra i professori universitari (Firenze, tip. Domenicana, 1915)
rinveniamo due succosi scritti, che ci piace segnalare ai nostri lettori
e cioè / diritti d' Italia sulle Alpi e sull'Adriatico e Le terre irredente
nella storia d' Italia, dovuti rispettivamente ai professori Carlo Errerà
e P. S. Leicht.
^yn
190 NECROLOGIO
^ RICCARDO PITTERI
La Società nostra è stata duramente provata dalla sventura: il 24 ottobre 1915,
poco dopo subita un'operazione chirurgica, soccombeva al crudele destino l'emi-
nente letterato e poeta Riccardo Pitteri, amatissimo nostro consigliere di Pre-
sidenza.
Il Pitteri nel gennaio 1915, essendo stato inchiuso dall'Austria nella nota
dei cittadini d4 prendere in ostaggio nel caso di guerra con l'Italia, abbandonò
insieme alla consorte diletta ed al venerando genitore la Trieste nativa e riparò a
Venezia, ad attendere giorni migliori. Quivi, mortogli il padre, cui profondamente
dolse non aver potuto vedere liberata la patria, la sua malferma salute fu anche
maggiormente scossa e piii essa ebbe a risentirsi dell'acerba ferita e del prolun-
gato esilio allorché, dopo lo scoppio della guerra con l'odiato nemico, ei si recò a
Roma. Trascorsa l'estate a Frascati, tutto intento all' idea e agli studi prediletti,
si ricondusse a Roma, con grande fervore coadiuvando il benemerito Comitato
dei fuorusciti adriatici e trentini, e, nella eterna città, dove egli s'era trovato in
compagnia di molti amici profughi della fedele Trieste, abbattuto da un male,
che quasi all'improvviso aveva assalito la delicata sua fibra, chiuse gli occhi per
sempre con l'indicibile straziante pena di non veder compiuto il sogno della
redenzione della sua città, per la quale egli aveva strenuamente lottato senza
tregua con l'azione politica e letteraria.
Sortiti i natali il 29 maggio 1853 da una cospicua famiglia di ardenti pa-
triotti e di giureconsulti, il Pitteri, seguiti i corsi di diritto a Graz e a Padova,
si diede tutto agli studi ed alla poesia, nella quale divenne maestro. L'indefesso
studio de' classici latini e de' migliori nostri scrittori e poeti unitamente a quello
della storia del passato nostro glorioso conferì all'arte sua, con la eleganza della
forma, la finezza della concezione e del sentimento ed il classico sapore, una
gagliarda impronta di bella italianità si da renderla la più perfetta espressione
dell'anima nazionale, forte sempre ne' suoi palpiti generosi, sebbene barbara-
mente oppressa. Ogni suo verso, infatti, è pervaso dall'indomita coscienza del
diritto conculcato, da un costante anelito al radioso giorno del riscatto.
Per le medesime caratteristiche si distinguono cosi la sua prosa dotta, lim-
pida, incisiva, come i discorsi franchi, robusti, efficaci, che spesso tenne, anche
come presidente di quella Lega Nazionale, cui egli da ben tre lustri aveva dato
tutte le sue migliori energie, riuscendo, com'è ben noto, a contrapporre una
mirabile azione di feconda propaganda italiana alle sacrileghe mene del Governo
austriaco.
Il Friuli fu particolarmente caro al Pitteri. A Farra d'Isonzo, nella splendida
villa dell'avo, egli piacevasi soggiornare, in mezzo alla verde quiete dei campi, molta
parte dell'anno. Dotato di uno squisito sentimento della natura, egli cantò in
molti componimenti bellissimi la pianura friulana; ed al Friuli, al suo Friuli, aveva
di recente intitolato una collana di freschi sonetti, recitati a Gorizia e messi in
luce poco prima divampasse il tragico incendio, che portò l'Italia a compiere la
NECROLOGIO 191
sua unità; ed in quei versi, gli ultimi da lui pubblicati, egli precorse la santa
nostra impresa redentrice, che fatalmente doveva effettuarsi.
In Roma, quando seppe che la ricchissima biblioteca d'oltre 5.000 volumi,
gelosamente da lui conservata nella sua villa, era stata dispersa e la villa stessa
danneggiata e profanata, con cieco astio contro l'esecrato abitatore, dalle ma-
snade imperiali prima di abbandonare il paese, premute dall'incalzante procedere
dei nostri, si confortava al pensiero che su quei vecchi muri ignudi stava final-
mente la croce di Savoia e che presto il fatidico tricolore italiano avrebbe sven-
tolato, libero al sole, sul colle del suo anelato San Giusto.
A noi piace ricordare il Pitteri, che, pur non essendo uno storico di pro-
fessione, della patria storia era tuttavia cultore zelantissimo (di lui abbiamo una
lodata conferenza su di Una pagina della storia di Aquileia), sempre sollecito
della nostra opera, che con noi, nell'ansiosa vigilia, aveva iniziato, delle nostre
intraprese, che egli a ragione considerava come sue proprie, e non senza com-
mozione profonda ripensiamo a quando, dopo le sedute, cui spesso partecipava,
del nostro Consiglio di presidenza, si allontanava da noi con le lagrime agli
occhi per il dolore che la sua dolce Parrà, la sua diletta Trieste erano ancora
lacerate dagli artigli del grifagno uccello bicipite.
La sua salma riposa a Venezia accanto a quella del padre, e sarà per volere
di lui trasportata, dopo la guerra, a Parrà, ove è sepolta la madre sua, che
egli amò di affetto intensissimo.
O anima buona, nobilissima, o amico indimenticabile, siaci tu genio tutelare,
sia la tua fede incrollabile di buon auspicio per la vittoria I
L. S.
FRANCESCO NOVATI
Con profondo inconsolabile dolore ricordiamo la scomparsa di Francesco
Nevati, spentosi nella notte fra il 26 e il 27 decembre 1915 a San Remo, dove,
per consiglio dei medici, era andato a cercare ristoro al suo corpo indebolito
dalle terribili conseguenze di un vespaio alla nuca, che nell'estate l'aveva colto
a Milano, mentre, nel pieno vigore delle forze e dell'ingegno, era intento al suo
costante, fruttuoso lavoro.
La perdita dell'insigne uomo, ch'era uno de' piti versati conoscitori del
medio evo, è lutto gravissimo per l'Italia, il cui nome egli aveva mirabilmente
contribuito a tenere alto e rispettato nel campo degli studi.
Non è questo il luogo a discorrere delle rare doti della mente lucida e sa-
gace del Novati, del suo non comune valore d'insegnante e delle preclare virtù
di cittadino, della sua vasta sconfinata erudizione, del rigoroso metodo da lui
seguito nella ricerca, della versatilità della sua feconda vena, onde scaturivano
le trattazioni, tutte importanti e bene informate, sui più svariati argomenti vuoi
nel dominio della letteratura vuoi in quello della storia, della sua singolare pe-
rizia nell'avviare e guidare imprese e sodalizi scientifici; in queste pagine, che
egli sempre accolse con benevola simpatia, vuol solo essere rammentata l'opera
sua in quanto s'attenga specialmente al Priuli.
Delle indagini relative alla regione nostra, egli si rese in peculiar modo
benemerito con la sontuosa e dotta pubblicazione del Fior di battaglia di Fiore
1Q2 NECROLOGIO
dei Liberi da Premariacco (Bergamo, 1902), in cui rivendicò ad un italiano, anzi
ad un friulano, il merito di avere scritto il primo trattato sull'arte di armeggiare;
con l'avere discorso così nel suo lodato Influsso del pensiero latino sulla ci-
viltà italiana del medio evo (Milano, 1899) come nella magistrale opera, pur-
troppo incompiuta, Le origini, del nostro Paolo Diacono e degli altri poeti che
fiorirono nell'età carolingia; con l'aver consacrato un'acuta comunicazione, in-
serita nella Miscellanea di studi storici e ricerche critiche sul patriarca Paolino
(Milano, 1905), a rilevare lo strano abbaglio dell'Ebert che riteneva Paolino
un facile trasgressore della prosodia latina, e la coscienza che il culto patriarca
ebbe piena della propria dottrina, sebbene, secondo il costume de* suoi compagni
d'arte, non se ne mostrasse troppo sicuro; e ancora con altre più modeste scrit-
ture. Né va qui sottaciuta l'opera maggiore del Novati, la edizione A^W'Episto-
lario di Coluccio Salutati, pubblicato dall'Istituto Storico Italiano fra il 1891 e il
1911, la quale, nelle sue note preziose, illustra, con lunghe e compiute ricerche,
tutta la vita politica, sociale e letteraria italiana della seconda metà del sec. XIV
e dei primi anni del successivo.
Alla Società nostra, cui appartenne come socio onorario, il Novati molto
s'interessava, seguendone con compiacimento lo sviluppo, e fu lieto di prender
parte al congresso tenutosi nel 1912 a Latisana.
Alle Memorie egli si proponeva di dare in breve la illustrazione del codice
già Soranzo, poi Sneyd indi Murray ed infine De Marinis, contenente l'autografo
del Flos duellatorum di Fiore da Premariacco, ed una nota intesa a chiarire i
rapporti tra Filippo d'Alen^on, patriarca d'Aquileia e Filippo Villani; ma la morte,
che lo abbattè sì immaturamente (non aveva che 57 anni, essendo nato a Cre-
mona il 10 gennaio 1859), distruggeva inesorabilmente anche questi con i disegni
de' molti lavori e delle iniziative che egli vagheggiava di compiere.
A noi è caro l'augurio che fra le sue carte, dal desolato fratello nobilmente
donate alla Biblioteca Braidense, si possa rintracciare quel materiale, che all'uopo
egli aveva radunato con tanto amorosa sollecitudine, e sia dato trarne profitto per
gli studi, che egli sì ardentemente amava.
Alla memoria deU'intemerato maestro, del lagrimato amico, scomparso men-
tre con gioia vedeva la patria, affratellata con le nazioni vindici del diritto e
della civiltà, compiere i suoi alti gloriosi destini, porgiamo commossi un reve-
rente e riconoscente saluto.
L. S.
■j- L'8 agosto 1915, in seguito ad un male, che da tempo l'angustiava, si
spense in Udine il conte Giuseppe Savorgnan di Brazzà Ceroneu. Nato a
Roma nel 1849, egli aveva colà trascorsa gran parte della sua esistenza e solo
da un ventennio circa erasi stabilito in Friuli, donde è oriundo il suo cospicuo
illustre casato. Nobile d'animo e di modi, assai colto, gentile ed affabile, il conte
Brazzà aveva saputo destare molte e cordiali simpatie. Fu anche scrittore e pub-
blicò memorie di cose idrauliche, come un progetto per l'acquedotto di Marti-
gnacco e dei paesi vicini. S'interessò altresì di cose archeologiche e storiche,
mettendo in luce alcuni opuscoli sul Friuli nell'alto medio evo.
t Pochi giorni appresso, il 16 dello stesso mese, scendeva nel sepolcro
l'avy. Romano Zuliani di Cividale. Un morbo implacabile venne a troncargli,
non ancora quarantenne, la vita e a togliergli la soddisfazione, da lui tanto
agognata, di partecipare con le armi alla nostra impresa di redenzione. Pro-
NECROLOGIO 19S
i'essionista intelligente, volenteroso nel disimpegno dei pubblici uffici, egli aveva
coltivato gli studi del diritto specie in relazione al passato della sua terra, e
parecchi anni addietro aveva pubblicato una memoria sui vecchi usi nuziali
friulani.
t Compiuti appena i quarant'anni, venne a morte, dopo brevi sofferenze
addì 7 settembre 1915, in Udine, il sig. Giuseppe Bracato, ufficiale della ci-
vica Biblioteca ed apprezzato indagatore della storia artistica friulana. Il Bra-
gato, con grande buon volere e tenacia, pur in mezzo a difficoltà e ad onta
della cagionevole salute, era giunto a formarsi una buona cultura storica ed ar-
tistica, che egli accrebbe anche nel cosciente disimpegno delle sue funzioni di
addetto alla libreria udinese. In ciò sta il suo maggior merito, che giustizia vuole
siagli appieno riconosciuto. Assimilatore facile ed espositore garbato, egli scrisse
sovente di storia e d'arte su pe' giornali della provincia ed ultimamente mise in
luce una Guida artistica di Udine (Udine, 1913) ed una monografia illustrata su
Qemona e Venzone facente parte ùtW Italia artistica di C. Ricci. Diede inoltre
una larga e proficua collaborazione alla Quida delle Prealpi Giulie, edita dalla
benemerita Società Alpina Friulana nel 1912. Nel Bollettino della Biblioteca di
Udine, dove inserì vari interessanti scritti di erudizione e di bibliografia, aveva
iniziato la utile pubblicazione, poi rimasta sospesa, del catalogo dei manoscritti
della Raccolta Joppi, conservata presso la Biblioteca Comunale. In queste Me-
morie egli pubblicò un importante regesto di documenti friulani del sec. XIII,
tratto da un codice de Rubeis, ora esistente presso l'Archivio di Vienna. Il Dra-
gato tenne pure l'ufficio di bibliotecario della nostra Società.
t Nel successivo novembre, il giorno 16, in Udine, cessava di vivere, dopo
di avere subita una operazione chirurgica, il cav. dott. QiACO.wo Perusini, che
non contava ancora otto lustri. Conseguita all'Ateneo pisano la laurea in scienze
agrarie, il compianto nostro consocio s'era dedicato con particolare amore al
progresso agricolo della Provincia, occupandosi anche di zootecnia e specialmente
d'ippica. Fondò a Udine la Società ippica friulana, divenendone presidente attivo
e benemerito, e fu apprezzato consigliere dell'Associazione agraria friulana. Pur
non essendosi di proposito dedicato agli studi, tuttavia, dotato, com'era, di in-
teiligenza e di cultura, non poteva non essere fautore di quanto tornar si pre-
figgesse di lustro e decoro alla terra nativa, e, quindi, la Società nostra lo ebbe
tra i fondatori. Di maniere cortesi e distinte, il dott. Perusini era benvoluto e
stimato da quanti lo conoscevano, e la sua dipartita ha destato sincero rim-
'j'anto.
ij
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA FRIULANA
Adunanza del Consiglio direttivo del giorno 16 ottobre 1915.
Presidenza del Presidente prof. P. S. Leicht.
La seduta, che ha luogo nella sede sociale (Palazzo Bartolini, sala
dell'Accademia di Udine), è aperta alle ore 14.15, presenti Fracassetti,
Frangipane, Leicht, di Pranipero.
II Presidente commemora il bibliotecario sociale sig. G. Bragato,
ed il Consiglio, su proposta del presidente stesso, delibera di espri-
mere le condoglianze della Società alla famiglia.
Il Presidente espone al Consiglio le difficoltà che, nell'ora pre-
sente, si oppongono alla sollecita pubblicazione delle Memorie, e legge
una lettera della tipografia Stagni di Cividale, da cui risulta che, per
la difficoltà di procurarsi la carta e per difetto di personale, essa non
può continuarne la stampa. La Presidenza ha, quindi, iniziate trattative
con altre tipografie della provincia e di fuori per il proseguimento
della pubblicazione.
Fracassetti e di Prampero osservano che probabilmente anche le
altre tipografie si troveranno, date le circostanze attuali, nelle mede-
sime condizioni, e ritengono che non sarà facile continuare regolar-
mente la pubblicazione.
Dopo ampia discussione, il Consiglio stabilisce che si abbia a sol-
lecitare la pubblicazione del fase. 4 del voi. X, tuttavia in corso presso
la tipografia Stagni ; e di dar mandato alla Presidenza di provvedere,
mediante altra tipografia, alla stampa del seguito.
Il Consiglio, constatata la impossibilità, nelle presenti circostanze,
di convocare il Congresso, delibera di parteciparne ai soci il rinvio,
e di rendere nota tale decisione anche alle Deputazioni e Società sto-
ATTI DELLA SOCITiTA
193
riche, che erano state invitate al convegno ' progettato per quest'anno
a Cividale, nell'occasione del Congresso.
Il Presidente avverte, in fine, che con il corrente anno decadono,
per anzianità, i consiglieri Degani e Fracassetti ed il presidente Leicht.
Dopo di che, la seduta è levata alle ore 14.45.
// Presidente
P. S. Leicht.
// Segretario ff.
L. Frangipane.
' Questo convegno la Società ha fermamente in ariiitio di tenere non appena le circostanze
lo consentiranno, ed essa si propone di trovarsi allora insieme coi; le Società consorelle in una
delie località della terra friulana ricongiunta alla Patria.
31 decembre 1915.
stampato in Città di Castello, nella Officina della Casa editrice S. Lapi.
Marchese Luigi Frangipane res;jjnsabile.
INDICE 197
Indice delle materie dell'XI volume.
Memorie
Leicht Pietro Silverio, Le elezioni dei patriarchi aquileiesi . . . Pag. 1
Paschini Pio, Il patriarcato di Wolfger dì Ellenbrechtskirchen
(1204-1218) (seguito e fine). > 20
Sachs Alice, Le nozze in Friuli nei secoli XVI e XVII. .... » 73
Aneddoti
Paschini Pio, Primordi dell'ordine francescano nei Friuli .... » 40
Raschini Pio, Un documento inedito del patriarca Vodolrico II
(28 ottobre 1171) > 54
Raschini Pio, Antichi episcopati istriani » 1 39
Raschini Rio, L'identificazione di Anselino » 148
Raschini Rio, Mutamenti nella prepositura di Cividale nella se-
conda metà del sec. XIII > 155
Raschini Pio, Della Torre e Grimani nei versi latini di un cinque-
centista -> 163
Rassegna bibliografica
Leicht Pietro Silverio: Q. Cassi, Il mare Adriatico » 57
Leicht Pietro Silverio: F. Musoni, Udine dalle origini al prin-
cipio del secolo XIX. > 179
Appunti e Notizie
Appunti: Un friulano giustiziato a Roma nel 1504 (Pio RA-
SCHINI). — Alessandro di Masovia, patriarca d'Aquileia (Pio
Raschini). — Un'Alfabetica compartimentale della patria del
1Q8 INDICE
Friuli nei manoscritti del Magini (G. L. BERTOLINO. — ■
Le monete friulane in un recentissimo dizionario di numi-
smatica (P.). — Una Società forestale a Gemona sul princi-
pio del Milleottocento Pag. 60,181
Notizie: Il più antico storico degli Slavi. — I reliquiari del
S. Marco di Pordenone. — Il copialettere Marciano della
Cancelleria Carrarese. — La nostra guerra. — Per la storia
della nostra guerra. — La tutela dei monumenti e degli og-
getti d'antichità e d'arte nei territori occupati. — Aquileia e
Grado redente. — Il Friuli illustrato. — Annunzi di nuove
pubblicazioni » 64,185
Necrologio: f A. D'Ancona; f '• Piuzzi Taboga; f L. Rosso
(L. S.) ; t R- Pitteri (L. S.) ; f F- Novati (L. S.) ; f G- Sa-
vorgnan di Brazzà ; f R- Zuliani ; f G. Bragato ; f G- Pe-
rusini » 66,190
Atti della Società Storica Friulana
Adunanza del Consiglio direttivo del 16 gennaio 1915. — Adu-
nanza generale ordinaria del 10 febbraio 1915. — Adunanza
del Consiglio direttivo del 9 marzo 1915 » 67
Adunanza del Consiglio direttivo del 16 ottobre 1915 .. . » 194
(Ilio correnla colla "Posta
TpubbllcastòRe trlmaslral
^Jllemorie Storielle JForogìuUesi
anni \2\^
In radice arborts nulla frorsus af-
farti f ulcbrltu&lnlx tptcXts. et tamen
quU<)uiò est In arbore |>ulcbrituòlnts
vel òecorU ex Ma proceòlt.
A. AUGUSTINI Sup. Johann.
3n Homa
presso la Società Storica TF^rlulana
SOMMARIO.
MEMORIE
Carlo Cecchelli — Arte barbarica cividalese .... Pag. i
Pio Paschini — Gregorio di Montelongo patriarca d'Aquileia
(1251-1269) » 25
ANEDDOTI
Pio Paschini — Confini friulani. Note » 85
Pietro Silverio Leicht — Aquileia e Trieste alla pace di Torino » 92
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA » 99
Si parla di : C. Costantini.
APPUNTI E NOTIZIE » loi
Appunti'. Dopo l'angoscia, la vittoria e la liberazione. —
La difesa del confine Veneto-Istriano sotto l' Impero
Romano. — Documenti dei Torriani a Modena (P. S.
Leicht).
Notizie : Il Parlamento friulano.
ATTI DELLA SOCIETÀ » 109
Adunanza del Consiglio direttivo del 20 decembre 191 7.
INDICE DEL VOLUME XII -XIV » iii
Le Memorie storiche ForogiuUesi, giornale della Società Sto-
rica Friulana, si pubblicano in fascicoli trimestrali di oltre 80 pa-
gine ciascuno, con copertina illustrata, e talora con tavole illu-
strative dentro o fuori del testo.
L'abbonamento anticipato è annuale e costa per l'Italia L. 7,
per r Estero (Unione postale) L. 8. Un fascicolo separato si vende
a L. 2,50.
Indirizzare tutto quanto concerne l'amministrazione e la di-
rezione del periodico alla Società Storica Friulana, Piazza Ve-
nezia, II, Belle Arti, Roma.
SOCIETÀ STORICA
FRIULANA
MEMORIE STORICHE
FOROGIULIESI
GIORNALE
DELLA
SOCIETÀ STORICA FRIULANA
ANNI XII-XIV
ROMA
SEDE PROVVISORIA DELLA SOCIETÀ
PIAZZA VENEZIA, ii
BELLE ARTI
I9I8
La proprietà letteraria è riservata
agli autori dei singoli scritti
Arte barbarica cividalese.
Molt'anni fa un opuscolo di Michele Leicht portava per la
prima volta un po' di logica nello studio dei monumenti civida-
lesi e nello stesso tempo sferzava certa critica che, seguendo
falsi metodi, giunge a non meno false conclusioni *.
Tuttavia, dopo lo studio del Leicht si è continuato a fanta-
sticare; ne sia prova la Guida storica di Cividale del Grion ^,
che accatasta materiali senza esattezza e senza discernimento. Solo
negli ultimi tempi è apparso uno scritto del dott. Pio Paschini
che rivela da parte dell'autore un'indagine scrupolosa, un me-
todo sicuro ed il desiderio di portare un vero contributo ai vari
problemi ^. Il presente scritto è un nuovo tentativo d' impiantar
su basi positive lo studio di monumenti che di tanta luce ravvi-
vano un periodo poco documentato della civiltà nostra.
I. — L'altare di Ratchis.
Prendiamo le mosse da questo poiché l'iscrizione che gli è
indivisibile non fa nascere alcun sospetto sulla sua appartenenza
ad altro monumento. Inoltre tutta l'iscrizione ha tali contrassegni
di autenticità, tali particolarità che possono servire di sicuro ter-
mine di confronto. I rozzi caratteri, le abbreviazioni hanno poca
i M. Leicht, Monumenti cividalesi (studi critici di classificazione),
Udine, 1895.
~ Cividale, 1899.
3 P. Paschini, Brevi note archeologiche sopra un gruppo di monumenti
longobardi a Cividale (Estr. dal Bollettino della Civica Biblioteca e del Mu-
seo di Udine, 1910, n. 2).
Carlo Cecchelli
affinità con gli altri molto più regolari del battistero Callistiano,
ma tutti e due appartengono ad un tipo di capitale rustica. Sin-
golare è qui la forma della D che è quasi un A ; il x sposato alla
V e all'È; la coloritura con minio di tutte le lettere, ciò che le
riannoda alle più antiche iscrizioni cristiane.
Avverto che porrò in nota tutte le osservazioni relative alla
mia lettura.
I* (fronte anteriore):
XIMA DONA XPI AD CLARIT . SVBEIMI CONCESSA PEMMONI
VBIQUE DIR....O ^
1 Segnalo anche la lettura dell' Eitelberger, in op. Cividal in Friaul
und scine Monumente, Wien, 1857, la quale però, per quanto ostenti una
precisione nella trascrizione delle parti ben chiare, segue vecchie e fantasti-
che interpretazioni nelle dubbie. Poco mi curo del Leclercq, il quale nel
recente Dictionnaire d' archeologie chréticnne et de liturgie di F. Cabrou
(II, p. 423) fa opera di compilatore e non d'indagatore originale.
XIMA. Un punto ed un segnetto obliquo prima dell' x fanno sup-
porre la presenza dell' a di waxima. Questo è supplemento sicuro anche per
il Paschini, op. cit., p. II. Suppone anche la presenza di una croce ini-
ziale come nella lapide di Orso patriarca (f 811) nel duomo; non ammette
però un de avanti al maxima perché gli pare che, ammessa la presenza della
croce, non vi sarebbe spazio per contenerlo. Osservo però che il lapicida dà
prova nel resto dell'epigrafe di saper ben sfruttare il poco spazio unendo
lettere o facendone di più piccole sotto la linea. Del resto il De maxim,a
dona è frase comune a molte altre iscrizioni dell' Italia nord-orientale, come
mi assicurò anche il prof. R. della Torre. Di Roma mi sovviene l' iscrizione
sul puteale di S. Marco in Fallacine, che comincia : de dono di et sci m.arci
iohannes prb fieri rogabit. Il ciborio di S. Giorgio di Valpolicella ha :
De donis Sanati luvannes Bapteste (anno 712) ; il ciborio di Bagnacavallo
(Vili secolo) ha : De donis Di etc. È curioso ricordare che il maxima fece
credere un tempo ad alcuni esser questo il sepolcro di Santa Massima (CoUett.
Liruti Biasutti, e. 8, in Grion, op. cit., p. 397).
XPI. È il monogramma scomposto nelle sue parti.
SVBEIMI. Dice il Paschini : « Il primo i (mozzo in cima come le due
« lettere seguenti per una scheggiatura della pietra) porta le due trasversali
« inferiori di un' E dovute forse ad uno svarione di uno scalpellino ». In-
terpreta perciò SVBLIMI. Ma è nient' altro che una felice interpretazione. Su-
blimis sublimitas, titulus honorarius Regum, apud Nicolaum I PP. Ep. 36-50,
in Charta Caroli Simpl. Regis, etc. Du Gange, Gloss., s. v.
DI....0. Nel mezzo della parola manca il marmo ed è supplito da malta.
Il Paschini vorrebbe integrare: Dir, yb | rmarentvr perché crede che il fo
non avesse esistito nel principio della faccia seguente, quantunque il consi-
derevole spazio vuoto lascierebbe supporvelo. A sostegno di ciò nota che i
fregi verticali degli altri angoli non lasciano sopra di sé spazio per le lettere.
Ciò è contradetto dall'esame delle altre righe dove il fregio termina al disotto
Arte barbarica cividalese
2* (lato destro):
....RMARENTVR VT TEMPLA NAM El INTER RELIQVA S *
3" (fronte posteriore) :
DOMVM BEATI lOHANNIS ORNABIT PENDOLA >ì< TECVRO PVLCHRO
ALT ^
4* (lato sinistro): ' *
ARE DITABIT MARMORIS COLORE RATECHIS HIDEBOHOH
RIT '
dell'epigrafe e le lettere occupano buona parte dello spazio ove sarebbe
entrata la continuazione in alto del fregio stesso. Il preteso resto di treccia
della seconda riga non è altro che una nota di separazione, tanto più che
una modanatura la divide dal fregio.
Detto ciò, se il DIR....0 debba interpretarsi diruto (Bertoli) o direpto
(Grion) o pure il diruto debba considerarsi un errore ed interpretarsi diruta
(Paschini), ciò che avrebbe il pregio di concordare con tempia^ non saprei
dire con sicurezza. Ad ogni modo il senso delle varie locuzioni è pressoché
il medesimo.
* ...RMARENTVR (v. nota preccd.).
VT TEMPLA. L' VT ed il TE sono uniti ognuno in una sola lettera. Io li
ho sciolti per esigenze tipografiche. Quest' unione ha dato luogo ad omis-
sioni e letture assurde che il Paschini registra. Tralascio di riportarle, perché
son frutto di una poco accurata osservazione.
NAM Ei. Sopra l'i c'è una scheggiatura che ha dovuto abrasare la corta
traversa della t. Perché è logico, anche grammaticalmente, che si legga et
e non ei. Il Paschini costruisce : hiter reliqua maxima dona concessa sublimi
Pemmoni ad claritatem, Christi ut forìnarentur tempia ubique diruta nam ei
{Cristo opp. lohanni); Ratchis domum etc. Va bene che ci siano nell'iscri-
zione delle strane forme; ma questa è un po' troppo strana.
s. Non è una lettera. È la nota di separazione tra un periodo ed un
altro o fra un verso ed un altro se, come crede il Paschini e come sospetto
anch'io, l'iscrizione segue lontanamente le regole di una specie di cursus.
Notisi poi che questo segno è rilevato mentre le altre lettere sono ad in-
cavo ; che non è uguale alle altre s ; che non è una prosecuzione dell' ornato
verticale a treccia come crede il Paschini (vedi in altra nota prec), dato
pure che è molto più piccolo di questo.
~ DOMVM. La lettura è evidentissima per chi ci ponga un po' d'atten-
zione e sia sgombro da preconcetti. Eppure 1' Eitelberger ha letto solarium
e tanti altri con lui. Il Paschini ha il merito di aver letto per primo domum.
^ Notisi questa parola figurata. Non v' è dubbio che debba leggersi
così. Sulla crux penduta parlerò nell'illustrazione dell'epigrafe.
TECVRO. Il T e I'e sposati han dato luogo a false interpretazioni. Cor-
risponde, come bene osserva il Paschini, al tegvrivm dell' iscrizione calli-
stiana sul battistero del duomo.
3 HiDEBO HOHRiT. La I finale è appena appena accennata da un se-
gnetto in alto. È un appellativo intraducibile. Il Grion di sua testa spiegò:
Carlo Cecchelli
Anche essendovi parti di dubbia lettura, mi pare che questa
dedica sia da interpretare a senso in tal modo :
« Ratchis hidehohohrit con le grandissime donazioni lasciate
a gloria di Cristo dal ^ sublime (?) Pemmone allo scopo di rifor-
mare i tempi ovunque fossero devastati, avendo ornato fra gli
altri anche il sacrario di S. Giovanni ; arricchì (questo) altare di
croce pendula sotto il tegurio bello ^ per coloritura di marmo » ^.
Il nome di Ratchis ci riconduce ad un'era di grandezza per
il Forogiulio e per il regno longobardico. L'amico di Paolo Dia-
cono, che nella reggia pavese novellava di Cunimondo mostran-
done la coppa del cranio, il pio re che alla pompa mondana pre-
ferì l'umile saio benedettino, magnifica qui la memoria di suo
padre Pemmone, il marito di Ratperga.
La chiesa di S. Giovanni cui si accenna nell'iscrizione, stava
dappresso al duomo. In essa era collocato questo altare col te-
gurio, con la pendula croce * ; ma rovesciata la chiesetta da un
lancia-prudente, irruente in battaglia. Ma potrebbe anche corrispondere a
devotus.
Il prof. Wunch, distinto studioso di lingue germaniche, il quale fu da
me consultato in proposito, non ha potuto darmi neanche lui una spiegazione
esauriente della misteriosa parola, visto che la lingua longobarda non fu
scritta, ma tramandata. Egli crede tuttavia che nell'appellativo si possono
ravvisare due radicali : hoh = alto e rit = cavaliere. Nel nome proprio egli
vede poi 'un nome originario denotante una qualità: Rate = consigliere.
I nomi propri in tutte le lingue hanno un significato ed è naturale che lo
abbiano anche in quella longobarda.
^ Dal o a/ ? Mi sembra più logico dal, come farebbe supporre del resto
tutta la rimanente iscrizione.
2 II bello si riferiva forse a tegurio e mensa.
3 Si allude alla coloritura e agli smalti incastrati poiché 1' uso di più
marmi colorati è cosa moderna, ma d' imitazione classica,
4 Per queste croci pendule io intendo quelle molto in uso nel VII-VIII
secolo donate dai re barbari; per esempio, quelle di Swentila (621-631) e
Recesvinto (649-672), visigotiche, al museo di Cluny che hanno una corona
ed in mezzo la gran croce pendente. Così quella di Teodolinda con la croce
di Agilulfo, esistente nel tesoro di Monza. Dovevano stare presso o dentro
l'aitar grande, poiché sono preziose.
L' uso della croce sull'altare venne in Occidente molto tardi. In Oriente
appare già nel VI secolo. In una biografia in versi del monaco nestoriano
Bar = Utà della croce che appoggiava contro l'altare e a cui rivolto il
prete celebrava si narra: « mentre una domenica stavamo a vegliare e alla
preghiera comune la croce cadde dal xaxdaxpwiia per terra e si ruppe »
(Baumstark, Croci d' altare nei chiostri nestoriani del sec. VI, in Roemische
Quartalschrift, 1900, 70 sgg.).
Arte barbarica cividalese
terremoto nel 1463, « la mensa di marmo tutta lavorata alla go-
tica (sic), dopo qualche tempo fu trasportata nella chiesa di San
Martino di là del ponte ». Così riferisce da più antiche memorie
il canonico Belgrado in un suo manoscritto ^
Apparteneva forse al tegurio l'archetto coi nomi di Ratchis
e Pemmone visto nel 1594 da Pietro Paolo Locatelli nel pavi-
mento del duomo *? Non sappiamo. Limitiamoci quindi ad illu-
strare questa mensa che è forse di tutto il gruppo la parte più
importante. Essa appartiene all' angusto tipo ravennate e consta
di un parallelepipedo di pietra del Carso di m. 1.80 di lunghezza
e m. 0.90 di altezza ^. La compongono quattro lastre tutte deco-
rate e disposte così:
fronte posteriore
(croci e fenestella)
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faccia anteriore
(Majesias Domini)
Descriviamole singolarmente:
Fronte anteriore-. Quattro angeli nimbati sorreggono la mi-
stica mandorla centrale formata da una corona di palme. Nel
mezzo di essa il uavxoxpa-cop, assistito da due cherubini con le
ali occhiute, siede su di un trono invisibile e benedice con la
destra alla maniera greca mentre con la sinistra stringe il rotolo
degli Evangeli. La mano di Dio padre, attraversando dall'alto la
mandorla, gli tocca il nimbo solcato dalla crux immissa.
* Cfr. R, DELLA Torre, // battistero di Callisto in Cividale del Friuli^
Cividale, 1899, p. 25.
2 Da un ms. del Locatelli, Commentario delle cose di Cividal di Frioli,
p. 50. Copio dal Paschini che lo riporta (op. cit., p. 15): « Di Pemone et
« parimente de Rachi suo figliolo, et Duca successore si vede memoria in
« un arco di pietra vagamente lavorato alla Longobarda, il qual arco di
« pietra si ritrova in terra nel Duomo di Cividale dirimpetto alla porta del
« Cimiterio eh' è presso la Sacrestia; quivi tuttoché sia guasto e gli manchi
« '1 principio et il fine leggonsi in caratteri Longobardi queste parole :
« TERE FLOROLENTOS PEMONEM RATC(Az) SVM ATQ. PROGRES... ».
3 Cf. M. Leicht, op. cit., p. 15.
Carlo Cecchèlli
É la scena della Majestas Domini, comunissima nell'antica
arte cristiana. La parte di centro è assai interessante anche per
una questione d'arte locale: nel cosiddetto tempietto longobardo
la lunetta della parete d'ingresso conserva traccie di un affre-
sco nel quale scorgesi un Cristo di tipo identico fiancheggiato
dagli arcangeli s. Michele e s. Gabriele (leggende verticali sul
fondo verde agli estremi: scs mihael — scs Gabriel). Quale
delle due sarà la rappresentazione più antica? Per ora, non ose-
rei pronunciarmi in proposito.
La concezione di questa scena è tutta orientale : non ce ne
stupiremo pensando al tempo cui appartiene e paragonandola
con analoghe scene su monumenti di altre città italiane.
Alle tradizioni del primitivo cristianesimo innestate sul ceppo
della romanità, si sovrappongono e preponderano, nei secc. VIILIX,
le idealità di tutte le parti d'Oriente fusesi nel centro più lumi-
noso : Bisanzio. Talché io penso che l'immobilità delle figure, la
uniformità delle rappresentazioni, siano volute dagli artisti di
quest'epoca, i quali seguono determinate regole, riunite in parte
dal tardo « Manuale di pittura » del Monte Athos.
Qui, per esempio, si ha un saggio delle idee che il topografo
Cosma Indicopleuste aveva espresso sulla conformazione dell'Uni-
verso ^ I quattro angeli nimbati che qui, come nella cappella di
San Zenone in S. Prassede (Roma) sorreggono la reggia del
cielo (paaiXsJa toO oùpavoù) in cui domina Cristo come Ttavxoxpdxop ;
sono le colonne del cielo (ol oxuXoi toù oùpavoO), simili per funzione
ai pilastri o colonne della cosmografia egizia e personificate nei
Toth del noto affresco di Denderah ^. Disporre questi angeli in
una zona intermedia fra cielo e terra, come nella tavola del codice
di Smirne riprodotta dallo Strzygowski ', era cosa ardua per l'ar-
* V. l' edizione della Topografia di Cosma Indicopleuste fatta da mgr.
C. Stornajolo, Milano, Hoepli, 1911. V. anche De GrCneisen, // Cielo
nella concezione religiosa e artistica dell' alto ni. evo, in Arch. d. Soc. Rem.
d. st. patria, voi. XXIX, 1907 (riportato nel libro dello stesso autore su
Santa Maria Antiqua, Roma, 1910), e il bell'articolo di G. L. Bertolini
nel Bollettino della Soc. Geograf. Ital., 1908.
~ Cf. Maspero, Archéol. égyptienne, Paris, 1887, cap, II. Nella cosmo-
grafia di Cosma e nell'egizia, la forma della terra è quadrangolare, più
lunga che larga: qui infatti gli angeli sostenitori puntano i piedi verso gli
angoli dell'orlo rettangolare.
^ Der Bilderkreis des Griechischen Phisiologus, des Cosmas Indicopleu-
stes und Ottateuch nach Handschriften der Bibliothek zu Smirna, in Byzant.
Arch., 2, Leipzig, 1899, tav. XXX, p. 60, n. 180. Vi si vede Cristo con mo-
Arte barbarica cividalese
tista data l'orizzontalità di questa fronte rettangolare, e dato il
proposito di far convergere l'attenzione dei fedeli sulla figura del
Redentore. Soppresse quindi lo atepétoiia, la volta solida del fir-
mamento che intercetta la vista dell' Empireo ^ ; e chi sa quanto
il suo cervello si sarà sforzato per produrre in iscorcio questi
angeli che devono partire dalla terra (orlo rettangolare della
mensa), attraversare il firmamento di cui si vedono le stelle,
giungere alla mistica mandorla ed innalzarla, innalzarla sempre
più negli spazi siderei. « ... All'alta fantasia qui mancò possa »,
ed il tentativo fallito ci si dimostra per alcuni particolari veri-
stici alquanto singolari. Tali sono : il vario obliquare dei corpi in
direzione della cornice, il fluttuare delle stole, delle chiome, il
movimento di pieghe delle vestaglie, dovuti all'impeto del volo.
Lo scultore, non avendo calcolato la distanza occorrente alle
braccia di questi angeli per giungere alla curva della mandorla,
ha dovuto allungarle eccessivamente (in uno son più lunghe del
corpo !) e quindi farle anche grosse (per sfigurare di meno) ingi-
gantendo le mani in proporzione. Del resto il criterio delle pro-
porzioni esula, come vedremo, da molti prodotti di quest'arte.
Passando ad altri particolari, osserviamo che le vestaglie
sono strette da una fascia ornata sotto il ginocchio, hanno sul
davanti delle fascie traverse e galloni alle maniche ed al bordo
inferiore. Le ali, trattate con minuzia tale da farne distinguere
tutte le specie di piume, si piegano in varie direzioni a seconda
dello spazio libero. Occhi e gemme splendono sul centro delle
capigliature in tutti e quattro, però ai due del basso soltanto
splende sul nimbo una croce.
Entriamo ora nella celeste mandorla -, ove, per distinzione
sottilizzata dai padri orientali e ripetuta da Cosma, vivono le es-
nogramma, dominante nel Cielo. Sotto la volta del firmamento sono sospesi,
due per parte, gli angeli. Poi la montagna della terra e, sul piano della
terra, gli uomini.
* Nei mosaici ed altrove è segnato da una striscia retta o curva, tal-
volta colorita in turchino, tal' altra (come nel cod. Vat. dell' Indicopleuste)
in rosso di fuoco.
~ La mandorla composta dai simbolici rami di palmizio prende le mosse
dalla più antica e classica corona d'alloro. Anche sulla bizantinissima capsella
rotonda del tesoro di Grado, riportata dal Kandler {Bull, d'arch. crisi.,
n.o IV, ser. II) al V secolo, una ghirlanda di palme circonda la regale figura
della Panaghia che innalza la croce astile e tiene sulle ginocchia il Cristo.
Nella capsella elittica (che a torto è stata ritenuta posteriore alla rotonda dal
Carlo Cecchelli
senze più pure, ì cherubini dalle sei ali occhiute, a fianco del
trono di Cristo.
L'artista, ligio al tipo iconografico dei cherubini S ha dispo-
sto le ali in maniera che due ne fascino ed occultino interamente
il tronco, due altre si librino ai lati delle spalle, le ultime due
uniscano le loro punte al di sopra della testa. Ed ha fatto pro-
tendere le mani (attaccate a braccia troppo corte) verso il Si-
gnore, quasi per mostrarlo al mondo. Si noti il particolare veri-
stico della curvatura di alcune ali, che ne fa scorgere un lembo
del dorso.
Dall'alto della mandorla, attraversando la cornice che s'apre
ai lati a mo' di raggi, scende la mano di Dio padre (simbolo bi-
blico della potenza) e tocca il nimbo crucigero del Figliuolo per
confermare la divinità di Lui. Questo mistero trova in tal motivo
icpnografico (derivato in specie dai mosaici absidali) l'espressione
artistica più pura; noi, con tutta la nostra perfezione spirituale,
non sapremmo forse concepirlo meglio.
Kandler e che invece deve considerarsi anteriore, come opinò il De Rossi)
si rimarcano bei giri di fogliami classici e medaglioni di tipo prettamente
romano.
L' autore del passante cividalese con l' augurio molto gotico sabastane .
VTERE FELis, ha posto il nome in una coroncina che vuol essere ancora di
fogliame d'alloro. E così nei lavori più antichi e più saturi di latinità. Man
mano i fogliami d'alloro o di palma sì confondono in ima gran fascia a spina
dì pesce, motivo tanto comune nei tempi longobardici. Noi ne riscontriamo
un largo uso nelle sculture barbariche dì Civìdale, e nell'arte preromanica
spagnuola del IX sec. in S. Miguel de Lino e S. Maria de Naranco, presso
Oviedo, dove servono a bordare capitelli, cornici, archivolti, medaglioni fra
le arcate delle pareti (cfr. Dieulafoy, Spagna e Portogallo, Bergamo, 1903,
pp. 61-66).
* Sarebbero per il Fogolari {Civìdale del Friuli, Bergamo, 1905, p. 42)
più specialmente ì tetramorfì. Il tipo del tetramorfo, secondo il Berteaux
{L'art dans l' Italie meridionale, pp. 217-218), risalirebbe a Cosma Indico-
pleuste ed è l'angelo sul cui corpo sono attaccate le teste del bue e del
leone, che io qui non vedo. Il tetramorfo inventato in Egitto o in Siria,
vien dipinto ai lati del Salvatore e presso il ritratto di papa Paolo I (757-767)
nell'abside di S. Maria Antiqua. In un rotulo dì exultet anteriore al 1028
della cattedrale dì Bari lo si vede in figura giovanile con le due teste ani-
malesche ai lati del capo e con un' aquila nimbata sulle alette incrociate
superiormente al nimbo (v. Tavola con iconografia comparata degli exultet,
annessa all'opera del Berteaux, I, i). Nel IX secolo passa nell'iconografia
carolingia.
Arte barbarica cividalese
Il tipo di Gesù è giovanile ed imberbe ^ Il volto a pera ro-
vescia, come bene osserva il Venturi ^, è simile a quello di tutte
le altre figure di questa mensa. Simile pure è il collo a tronco
di cono che serve per incastrarlo al busto. I capelli, discriminati
nel mezzo del capo, scendono ad incorniciare il volto in riccioli
lunghi che si risollevano in basso, forse per lo stesso effetto di
vento che notammo negli angeli.
Il naso è un perfetto triangolo acuto ; gli occhi sono piccoli e
vacui d'espressione poiché nel loro incastro dovettero ricevere gli
smalti; la bocca piccola s'incurva duramente sopra il mento lun-
ghissimo. Sotto a questo faccione c'è una corporatura tozza rive-
stita di tunica discinta, manicata, i cui davi con ornati quadran-
golari ed ovali giungono sino a metà, secondo la foggia invalsa
dopo il IV secolo. Un timido studio di panneggio rende più
naturale la caduta delle fitte pieghe e le incurva al disopra dei
troppo bassi ginocchi, unico segno dello star seduto. Le due
corte braccia infelicemente girate sul petto terminano in mani
troppo grosse e singolare è la mossa della mano benedicente,
poiché fa vedere la palma con il pollice e l' anulare ripiegati,
mentre le altre dita son distese. Ci si vede l'intento dell'artista
di far sì che il Cristo benedica proprio i devoti che stanno di
prospetto all'altare.
Tutta piena di smalti policromi doveva essere questa fronte
d'altare, pari ad un'oreficeria barbarica: smalti nei cavi degli
occhi di tutti i personaggi, smalti nelle catene degli occhi sulle
ali cherubiche, smalti nelle gemme delle capigliature angeliche,
nelle branche delle croci, nei centri delle stelle a nove punte
(come le due ai lati del nimbo di N. S. G. Cristo), smalti nelle
due rosette del basso e fors'anco negli ornati della cornice, di
cui tratteremo assai più avanti.
Oltreché per le paste vitree, il marmoris colore dell'epigrafe
di Ratchis era giustificato da una vera e propria coloritura del
marmo, di cui restano buone traccie perché il tipo alquanto po-
^ È uno dei tipi più antichi, d'origine gnostico-letteraria. Prima lo si
vede di media grandezza e qualche volta con fattezze infantili : capo tondo,
capigliatura corta e sembiante sereno. Dal sec. Ili in poi la capigliatura si
fa più arricciata. A Roma lo si trova però anche nella prima metà del se-
colo III con barba intera e lunga capigliatura (cubie. Ili catac. di Domitilla),
poi nel IV sec. (catac. ss. Pietro e Marcellino) con la capigliatura discri-
minata (Dagli studi del Wilpert, Malereien, io6 e sgg.).
2 Storia dell' Arte, voi. II, p. i8o.
I o Carlo Cecchelli
roso della pietra ha contribuito alla sua conservazione, fatto
rarissimo.
L'uso di policromare le sculture fu tramandato dal pagane-
simo *. Lo Swoboda distinse nelle cristiane tre gruppi di tratta-
menti : primo : preponderanza del giallo, bruno e verde o por-
pora dati scarsamente in linee o strisele quasi in aiuto dello
scalpello insufficiente; lettere marcate in minio; secondo: intera
pittura ed eventuale indoratura dei capelli; terzo: preponderanza
dell' indoratura ^. Qui ci avviciniamo al secondo trattamento :
giallo dorato ricopre le capigliature di Cristo e degli angeli;
l'angelo di sinistra in basso ha un bell'azzurro di cielo sulle ali,
quello di destra un violaceo intenso sul vestito; la veste del
Cristo reca traccie di rosso infuocato.
Si pensi quindi che impressione doveva produrre questa scena
simbolica alla luce multipla dei candelabri a corona; quale bar-
baglio dovevano produrre gli smalti, se pure (datane la man-
canza assoluta negli incastri a ciò eseguiti) non si credette più
munifico mettervi, specie negli occhi, delle pietre preziose.
Faccia laterale destra. — Adorazione dei Magi : La Vergine
sedente su trono, tiene sulle ginocchia il Divino Infante che, con
mossa piena di naturalezza, piega il corpo ed allunga le manine
bramose verso i doni che il primo re, nell'atto d' inginocchiarsi,
gli offre. Il secondo re segue sollevando con tutt' e due le mani
uno scrigno ovale in cui si scorgono i grani d' incenso ; l' ultimo
re solleva anch' egli il suo cofanetto. Un angelo nimbato, V exultet,
fila orizzontalmente nell'aria ed indica con il braccio destro semi-
disteso, il nato di Dio. Splende la stella fatidica. Sfondo della
scena è un colonnato ad archivolti di tutto sesto e di doppia
ghiera impostanti su capitelli cubici scantonati, come ve ne sono
in edifici coevi; il pavimento reca fiori e fogliami stilizzati.
In un canto dietro il trono sta un personaggio ritto, uno
strano individuo cui più in là chiederemo di svelarsi.
L'esame minuto delle varie parti, potrà fornirci (anche più
della fronte anteriore) importanti dati positivi.
^ Cf. Le Blant, Les ateliers de sculpttire chez les prémiers chrétiens,
in Mélanges d' archeologie et d' histoire pubi, par l' Ecole francaise de Rome,
Roma, 1884.
^ Cf. H. Swoboda, Zur altchristlichen Marmorpolychromie, in Roem.
Quartalschri/t, 1889, 134-157; ibidem, 1887, 100-105. Cf. anche Kauffmann,
Man. arch. crisi., Roma, 1908, p. 435.
Arte barbarica cividalese 1 1
Il tipo dei magi (che son ora in numero di tre ^ proviene
da quello comune all' arte più antica, ispirato dagli Evangeli apo-
crifi e raffigurato su mosaici (S. Maria Magg. in Roma), pitture
(specie cemeteriali), sarcofagi (romani e ravennati), arte minuta.
Non v' è ancora distinzione di età e di razze fra i tre, come
l'evoluzione più tarda della tradizione ha voluto far credere, ma
sono ancora tutti giovani, come nell' arco trionfale della basilica
liberiana, tutti d' un viso, tutti con lo stesso vestito caratteristico,
che ne designa la comune origine asiatica. Sono in tutta la mensa
le uniche figure col volto di profilo ^ (poiché le altre seguono la
legge di frontalità, anche quando gambe e piedi sono di fianco)
ed è un volto allungato col mento puntuto che parrebbe un pizzo
di barba, mentre è il naturale profilo di quel mento lunghissimo
che vedemmo al Pantocrator di fronte.
Hanno in capo il pileo frigio, ma di tal forma che, nella
parte larga, parrebbe un turbante, ed osservando insieme il cono
superiore, si crederebbe ad una mitra. Indossano una tunichetta
corta, stretta alla vita da una fascia o cordone, e, dal re che
più si china, può scorgersi anche il lembo di un mantello. Alle
gambe hanno stretti calzoni o anassiridi (distintivo barbarico sin
dai tempi traianei) ^, cui più in basso s' avvolgono le fascie
scendenti fino al piede.
Ridicolissimo a vedersi è 1' angelo il quale vola in un piano
perfettamente orizzontale ed è rivolto con la faccia e col tronco
di prospetto, viceversa poi ha i piedi di profilo ed il braccio in-
1 Così dico perché nelle varie scene anteriori c'è stata un'oscillazione
fra due, tre, quattro; la simmetria e lo spazio hanno spesso soverchiato la
verità tradizionale.
2 Le avrà fatte così probabilmente perché in tutte le rappresentazioni che
potevano servirgli di modello, sono di profilo. Sull'iconografia dei Re Magi
non faccio citazioni, perché ogni manuale di archeologia cristiana potrà
fornirne. Segnalo solamente il pregevole studio di mgr. G. Biasiotti sui
Mosaici dell'arco trionfale di S. Maria Maggiore, nel Bollett. d'arte del Mini-
stero della P. I., anno 1914. V. anche: U. Kehrer, Die heilige drei Kd-
nige in der Legende und in der Kunst, Strassburg, 1904.
3 Ved. i bassorilievi della Colonna Traiana in Roma. Rappresentazioni
di barbari se ne hanno moltissime. Ricordo la statua non finita del barbaro
prigioniero nel Museo Lateranense. I magi però si avvicinano di più alla
iconografia del dio Mitra. Il Paschini {Brevi note ..., p. io) ben riconfronta
la nostra rappresentazione con altra del codice di Sedulio nel Museo Plantin
di Anversa (riprod. in St. Beissel, Geschichte der Verehrung Marias in
Deutschland, Freiburg, 1909, p. 11). V. anche una moneta bizantina in
Kauffmann, Man. cit., p. 330.
1 2 Carlo Cecchelli
dicante pende come slegato dalla spalla; se si aggiunge il paio
d'ali appiccicate, la testa del solito tipo a pera infilata al busto,
il vestito rigido, lungo, gallonato, fasciato in basso ; si avrà la
sagoma burattinesca di questo messo celeste.
Una figura elegantissima è invece quella del bambino Gesù,
unica in cui l' artista abbia infuso un vero palpito di vita : sul
nimbo crucigero spicca il bell'ovale del volto incorniciato dì
riccioli capricciosamente arruffati in basso così da aggraziare un
pochino la serietà dei corretti lineamenti. La veste infantile si
drappeggia bene sullo snello corpicciuolo, che si protende verso
i magi quasi sfuggendo dalle mani della Vergine Madre ; e due
piedini uscenti dall'orlo della tunichetta par che s'agitino per la
brama di possedere. Il braccio sinistro (il cui attacco alla spalla
è provvidamente coperto dalla mano di Maria) si ripiega sul
petto e la mano stringe il rotulo, particolare che l'artista non
ha osato togliere ; l' altra mano, come abbiam detto, si dirige
sulla prima offerta.
In un'arcata campeggia la figura della Vergine col nimbo
che avvolge la gran testa a pera rovescia (un po' più illeggia-
drita delle altre) ricoperta da un velo, con il corpo che s'allunga
rigido e si piega ad angolo retto sul cuscino del trono. Se non
vi fosse un tentativo di studio nel panneggiare la veste, stretta
da un cordone ai fianchi, questo corpo avrebbe qualcosa di le-
gnoso e non andrebbe errato il paragone con un idolo maoro o
con altro qualsiasi feticcio selvaggio. Ma i grandi occhi, pro-
fondamente cerchiati, son là per penetrarci nell' anima e più ci
avrebbero impressionato se avessero conservati gli smalti. Sono
questi occhi, sormontati da una crocetta greca incisa sulla fronte,
che ci fanno dimenticare l' infelicità del braccio corto, grossolano e
slogato dalla spalla, la durezza del naso allungantesi a triangolo
acuto, la smorfia severa della bocca.
Non è certamente questa la Vergine sognata dai primitivi
umbri e toscani dei secoli XIII e XIV, la mater amabilis che
Jacopone da Todi e Francesco d'Assisi riconducevano dal cielo
in terra per rendere più umana, più atta a comprendere i nostri
bisogni spirituali e materiali nel suo immenso amore. Invece
questo tipo di Madonna s'avvicina molto alle altre dell'arte
bizantina; ed ha inoltre nei lineamenti delle caratteristiche bar-
bare che diminuiscono il fascino insito nei prodotti orientali.
L'ultimo personaggio è vestito in modo simile alla Vergine:
velo (che si rileva debolmente dal fondo), scollatura arricciata,
Arte barbarica cividalese 13
fregio al lembo della veste, cordone ai fianchi, maniche strette
ricoperte sino a mezzo braccio dalle maniche più larghe della
sopravveste, tutto insomma corrisponde con esattezza. Il volto è
più rotondo ed ha il naso di giuste proporzioni, la bocca meno
dura, gli occhi (con il cavo per gli smalti) saviamente delineati.
Alcune graffiature sulla sommità della testa indicano i capelli.
La mano sinistra preme sul petto in atto forse di preghiera, la
destra scende al ventre e stringe la veste poiché se ne vedono
al fianco le pieghe oblique, incavate rozzamente. I piedi che son
di profilo, si avviano verso la Vergine.
Da tutto ciò può arguirsi che si tratti di una donna e non
di un uomo, come molti hanno creduto. Chi potrà essere? Nes-
sun confronto ci fornisce un dato qualsiasi per identificarla; bi-
sognerà dunque ricorrere ad induzioni.
Nei monumenti contemporanei a questo od anteriori si è quasi
sempre usato riprodurre la figura del donatore e talvolta lo si è
accompagnato con quelle dei suoi congiunti, tal' altra con quelle
del suo seguito. Certe volte si sono poste le figure del donatore
e dei congiunti, ognuna in un quadro a sé come le figure di
Giustiniano e di Teodora nei mosaici ravennati di S. Apolli-
nare. Queste iconi messe vicino alle imagini dei santi, oppure in
prossimità del sacrario erano intenzionalmente poste sotto lo
sguardo protettivo dei celesti e gli offertori vivi o defunti dove-
vano risentirne gli effetti. Noi vediamo qui che la figura de-
scritta è vicina alla Vergine, dietro il suo trono : anche questa
collocazione dev' essere intenzionale ; si ricordi infatti 1' episodio
del patriarca Callisto, riportato da Paolo Diacono * ove si narra
^ « Gravis sane per idem tempus ìnter Pemmonem ducem et Calistum
« patriarcham discordiae rixa surrexit. Causa autem huius discordiae ista
« fuit. Adveniens anteriore tempore Fidentius episcopus de castro Juliensi
« cum voluntate superiorum ducum intra Forojuliani castri muros habitavit
« ibique sui episcopatus sedem statuit. Quo vita decidente, Amator in eius
« loco episcopus ordinatus est. Usque ad eundem enim diem superiores pa-
« triarchae, quia in Aquileia propter Romanorum incursionem habitare minime
« poterant, sedem non in Forojuli, sed in Cormones habebant. Quod Calisto,
« qui erat nobilitate conspicuus, satis displicuit ut in eius diocesi cum duce
« et Langobardis episcopus habitaret et ipse tantum vulgo sociatus vitam
« duceret. Quid plura? Contra eundem Amatorem episcopum egit eumque
« de Forojuli expulit atque in illius domo sibi habitationem statuit. Hac de
« causa Pemmo dux contra eundem patriarcham cum multis nobilibus Lan-
« gobardis consilium iniit adprehensumque eum ad Castellum Potium (;uar.
« Pocium, Pucium, Putium) quod supra mare situm est, duxit indeque eum
14 ' Carlo Cecchelli
che re Liutprando, dopo aver graziato per intercessione di
Ratchis il duca Pemmone e gli altri due suoi figli, Ratchait ed
Aristulfo, ordinò che si fermassero dietro il suo seggio, rimet-
tendoli così nella sua intimità. Chi è dunque questo personaggio
onorato in effigie dalla protezione della Regina coeli e del suo
divin Figliuolo? Non Ratchis o Pemmone, poiché abbiam visto
trattarsi di una donna. La mente corre invece a Ratberga cui,
senza addur prove, pensò anche il Grion.
Il ritratto fisico e morale che di lei fa il Diacono, ha molte
rassomiglianze con quello della Griselda boccaccesca: Ratberga
avendo rustico aspetto, forse corrispondente agli umili natali,
« ... seguitava a pregare il marito di ripudiarla e di sposare altra
donna più appariscente Egli però, essendo di rette vedute, affer-
mava che a lui piacevano i suoi buoni costumi, l' umiltà, la vere-
condia, più che la bellezza del corpo. Essa gli dette tre figli,
Ratchis, Ratchait ed Aristulfo, uomini di gran merito, la cui
nascita mutò in tanta gloria l'umiltà della madre » *. Nessuna
creatura più degna della soave Ratberga, madre dello stesso
offertore, poteva aspirare al posto onorifico dietro il trono della
Vergine, nessuna meglio di lei poteva impetrare venia per lo
sposo e per i figliuoli.
Credono alcuni che questa sia una figuretta simbolica ; che
sì debba invece riconoscervi un ritratto, lo provano, oltre il già
esposto, due altre considerazioni : i .^ la maggior cura usata dal-
in mare praecipitare voluit, sed tamen Deo inhibente minime fecit ; intra
carcerem tamen eum retentum pane tribulationis sustentavit. Quod rex
Liutprand audiens, in magnam iram exharsit ducatumque Pemmoni aufe-
rens, Ratchis, eius filium, in eius loco ordinavit. Tunc Pemmo cum suis
disposuit, ut in Sclavorum patriam fugeret ; sed Ratchis eius filius a rege
supplicavit patremque in regis gratiam reduxit. Accepta itaque Pemmo
fiducia, quod nihil mali pateretur, ad regem cum omnibus Langobardis,
quibus consilium habuerat, perrexit. Tunc rex in iudicio residens, Pem-
monem et eius duos filios Ratchait et Aìstulfum Ratchis concedens, eos
post suam sedem consistere praecepit. Rex vero elevata voce omnes illos
qui Pemmoni adhaeserant nominative comprehendere iussit. Tunc Ajstulfum
dolorem non ferens, evaginato pene gladio rege {yar. regem) percutere
voluit, nisi eum Ratchis, suus germanus, cohibuisset. Hoc modo, his Lan-
gobardis comprehensis, Herfemar, qui unus ex eis fuerat evaginato gladio,
multis se insequentibus, ipse se viriliter defensans, in basilica beati Michaelis
confugit ac deinde regis indulgentia solus impunitatem promeruit, ceteris
longo tempore in vinculis excruciatis » (P. DiAC. Hist. Lang., lib. VI,^
cap. LI, ed. Waitz, in M, G. H.).
1 P. DiAC. Hist. Lang., lib. VI, cap. XXVI.
Arte barbarica cividalese 15
l'artista nello scolpire i lineamenti del volto, sì che ha un po'
tralasciato le sue teste di tipo unico; 2.^ la corrispondenza di
questa figura con altre sbalzate sulle braccia delle croci auree
barbariche contemporanee. A proposito di ciò fa d'uopo una
digressione.
Negli scavi di necropoli barbariche specialmente italiane^
poiché in Italia i barbari si professavano maggiormente devoti
del cristianesimo, si son rinvenute numerose crocette di lamina
d'oro puro aventi fori (in numero disuguale) che servivano per
fissarle sui vestiti a salvaguardia della persona, come dimostrano
i busti efiigiati su talune monete longobarde di Cuniberto e di
Ariperto, ora nel Gabinetto Numismatico di Berlino ^ Se ne
son trovate in tombe ricche ed in loculi poveri, semplici ed or-
nate, più grandi e più piccole, in mezzo a suppellettili più an-
tiche ed in mezzo ad altre più recenti, in sepolcreti all' aperto ed
in sarcofagi dentro o presso basiliche ^. vSon quasi tutte croci
equilaterali spesso ad estremità un po' espanse ; di frequente
constano di due pezzi sovrapposti e l' ornato fu eseguito a stampa
anteriormente. L'ornato più comune è un'intrecciatura di nastri
periati terminanti con teste di fantastici rettili, motivo che si
ritrova nell'arte germanico-primitiva, dato pure che il serpente
era da essi adorato. Una di esse croci, rinvenuta a Civezzana
nella sepoltura di un guerriero e conservata nel museo di
Innsbruck, ha nel centro un'aquila circondata da un cerchio di
perline simile ad altra che sta in una croce del museo di Bre-
scia ^. Si tratterà di aquile araldiche o simboliche? È difficile
^ Vedile riprodotte in F. Dahn, Popoli germanici, trad. it., te. V,
PP- 315-335-
2 Ricordo le croci di: Cividale (ne parleremo più avanti), Brescia, Bene-
vento, Civezzano, Cellore d'illasi, Chiusi, Castel Trosino, Cantacucco, Lavis,
Lezzago di Novara, Piedicastello, Testona, Zanica, Wittisligen (Baviera), Eber-
mergen (Baviera), Schwabmùnchen, Riedlingen (Wiirttemberg). Cf. le opere
di I. De Bave, Croìx lombardes trouvées en Italie, in Gazette archéoL,
t. XIII, 1888; FoGOLARi, op. cit. ; Fr. Wieser, Das langobardische Fùrsten-
grab und Reihengràberfeld von Civezzano bei Trient, Innsbruck, 1887, p. 300;
L. Campi, Le tombe barb. di Civezzano, Trento, 1886; Necropoli trovate a
Castel Trosino, nei Mon. Accad. Lincei, t. XII, p. 145 ; E. Calandra, Di
una necr. barb. scoperta a Testona, Torino, 1880 ; Ohlenschlaeger, Die
Inschrift des Wittislinger Fundes, 1884, in Gazette archéoL, 1888, t. XIII;
L1NDENSCHMIDT, Die Alteri., t. IV, p. io. Un buon riassunto in Cabrol,.
Dictionn., col. 3079, voc. Croix.
3 Fu trovata a Fiero in prov. di Brescia. Si trova riprodotta nella Illu-
strazione dei civici Musei di Brescia di P. RizziNi, Brescia, 1914, tav. I.
i6 Carlo Cecchelli
determinare quando il simbolo cristiano dell'aquila (derivato dal-
l' insegna legionaria) si sia fuso o trasformato nella corrispondente
figurazione araldica prediletta dalle stirpi nordiche ^
C'è tutto un gruppo di croci che portano teste e figure in-
tere di persone sbalzate sulle branche. Tal' è la croce di Lavis
che reca una testa (così rozza che par demoniaca) e l'iscrizione
CNC-IFFO o TNC IFFO ^ Ma la più bella fu rinvenuta in Civi-
dale, nella tomba cosiddetta di Gisulfo e sul luogo del petto
dello scheletro, come testimonia il Grìon ' ed altri. Vuol dire
che doveva esser cucita sulla tunica ; poi questa fu mangiata dal
tempo. E arricchita da pietre preziose rotonde, triangolari, qua-
drate, che, strette da cerchi di filigrana, intramezzano le teste
tutte eseguite con uno stampo unico. Riproducono queste un
tipo d'uomo barbaro, con i capelli lunghi e discriminati, il mento
allungato, la bocca con gli estremi ricurvi in basso, il naso pic-
colo e grossolano, gli occhi incavati e con la pupilla ben marcata,
il collo a tronco di cono. Il tipo è assai prossimo a quello di
tutti i personaggi dell'altare di Ratchis *.
* Nell'arte mesopotamica l'aquila è antichissimo motivo. La ritroviamo
sui sepolcri della Gallia meridionale (sec. IV), con corona e monogramma.
Il Kauffmann, El. di arch. crisi., p. 284, la spiega come simbolo della
resurrezione e propriamente dei morti in Cristo. In molte manifestazioni
dell'arte nordica si trova magnificamente stilizzata. Forse l'idea del dominio
di Cristo, corrispondente all'aquila delle legioni, suggerì questa figurazione.
Molti cippi sepolcrali, anche copti (El Kargeh) 1' offrono, talvolta in forma
araldica. Quasi sempre vi si scorge sul capo la croce in una corona ; questa
bolla crociata è raramente posta sul petto.
2 L' ultimo nome fu letto su di una moneta di Ariberto.
3 Op. cit., I, p. 419-
4 Ha pure molta parentela con le teste di varie croci auree bresciane,
poco conosciute perché semplicemente descritte e passabilmente riprodotte
neir opuscolo : Gli oggetti barbarici raccolti nei civici Musei di Brescia.
P. RizziNi, Notizie e Catalogo (estr. dai Commentari dell' Ateneo, 1894).
Nella tav. I di quest'opuscolo sono croci-figura i nn. i, 2, 4, 5. Nella tav. II
il n.o 9. Il n.o I è interessante per la figura centrale con capigliatura lunga,
viso allungato con occhi a mandorla e baffi spioventi, collana (somigliante
a quelle di paste vitree policrome) e, pare, orecchini. Vi sono altre testine
laterali sulle branche le quali evidentemente denotano lo stesso individuo,
ma sono più allungate a causa del maggior spazio. Il n." 2 ha quattro teste
uguali alle anse con baffi e barba a pizzo (cosi sembra) ; hanno una specie
di aureola a perlature, che può essere anche un ornato della croce, tanto
più che le perlature ricompaiono tra gl'innumeri viluppi di nastri della croce
stessa. Consimili sono le altre croci; ricordo solo la n.° 5, che ha cinque
Arte barbarica cividalese 17
Un'altra croce cividalese che fu rinvenuta l'anno 1750 nel
coro della chiesa grande di S. Maria in Valle (S. Giovan Bat-
tista), ha sulle branche una figura intera che par fatta dalle
mani di un bimbo, tanto è primitiva ^. Non se ne distingue bene
il sesso, ma, a giudicare dal tronco molto ingrossato al petto e
ristrettissimo ai fianchi, dagli orecchini che s' intra vvedono sotto
la corona di riccioli o di perle che sovrasta il cranio, dagli stessi
tratti del volto addirittura schematici; si direbbe che è fem-
minile. Questa pupattola ha, come la presunta Ratberga, volto
tondeggiante, capelli non ricadenti sugli omeri ma raccolti e pet-
tinati secondo la moda del tempo, veste ristretta ai fianchi. Il
teste barbate con una specie dì berretta rotonda (diadema?) e nastri periati.
Mi sovviene a proposito di questi, che io considero ritratti barbarici, dei busti
marmorei molto rilevati (ad imitazione dei classici) di due coniugi, che spor-
gono da due nicchiette ad arcate e si trovano incastrati presso il duomo di
Gemona (l'antica Glemona fortificata dai Longobardi nel 6ii per timore
degli Unni-Avari: P. Diac. Hist. Lang., IV, 38). L' uomo è chiomato come
la donna ed il lembo dei suoi riccioli si risolleva come negli angeli della
mensa di Ratchis. Gli occhi sono allungati, il naso è grossolano.
i Notevoli furono i ritrovamenti di sepolcri dell'epoca longobarda in
quel luogo, e si spiegano poiché il titolare della chiesa era il santo più
venerato dai Longobardi. La stranezza dell'esistenza di sepolcri in un coro
può appianarsi immaginando in quel punto il nartece primitivo, cioè pen-
sando ad altra orientazione dell'antica chiesa, come credo possa provare con
documenti il prof, della Torre, che ne studia la topografia. Notizia del rin-
venimento ci è stata tramandata dal can. Mich. della Torre. In alcune stanze
sotterranee si videro tre sarcofagi di pietra e in ognuno una cassa ben ar-
mata di lame di ferro. La prima poteva contenere un ragazzo di 15 anni,
le altre un uomo di giusta statura. Nella piccola fu veduta, quasi una luce
risplendente, dell'oro in polvere, avanzi di una ricca veste che in buona
parte venne raccolta (saran stati pezzetti di canutiglia come ve ne sono an-
cora tra le ceneri delle vesti di Gisulfo) e vi furono trovate quattro o cinque
crocette simili, dice M. della Torre, « a quella del disegno che unisco a tav. I »
(si tratta di quella con la pupattola da me studiata). Forse, argomenta il
Fogolari, una delle crocette del Museo di Bologna studiate da P. Orsi {Di
due crocette auree, Bologna, 1887) appartenne a S. Maria in Valle. Si noti
che la figura bambinesca della croce cividalese si accorda con l'età del pro-
prietario o proprietaria della croce. Nella seconda cassa si trovarono altre
cinque crocette in oro, una maggiore delle altre senza figure con intrecciature
di nastri a sbalzo e lo scudetto d'oro col cervo. Cfr. Zorzi, Notizie, guida
e bibliografia dei RR. Museo Archeologico, Archivio e Biblioteca di Cividale
del Friuli, ivi, 1899, p. 141, n.* 182; Fogolari, Storia degli scavi a Civi-
dale per la ricerca delle antichità medioevali, in Memorie storiche civid., I,
1905, PP- 28-29.
i8 Carlo Cecchelli
museo di Torino possiede una croce con figura intera (ripetuta
quattro volte), che ha in testa una corona e deve perciò riferirsi
ad un personaggio esistente o esistito.
Basandoci sulle differenze notevoli fra le immagini delle
varie croci auree, dovremo concluderne che ognuna di queste
figure senza attributi di divinità si riferisce ad un personaggio
reale e non simbolico, forse lo stesso che le portava sul petto \
Caratteristiche ad esse comuni possiede la figuretta della mensa,,
posta presso la Vergine con lo stesso scopo devoto che collocava
le altre sulle branche delle croci. Assolutamente però non creda
che gli altri personaggi di questa scena e quelli della Visita-
zione (che descriveremo) raffigurino personaggi storici *. Essi
non alterano affatto i tipi iconografici corrispondenti e noti nel-
l'arte coeva od anteriore.
Prima di terminare la descrizione di questa faccia dell'altare
di Ratchis, accenneremo ad altre particolarità: Il portico di
sfondo (i cui spazi fra l'estradosso degli archi sono occupati da
stelle a fiori) serve a porre meglio in rilievo i personaggi, se-
condo i dettami dell' arte bizantino-ravennate ^. Analogamente le
figure della Vergine e di s. Elisabetta, nella scena della Visita-
zione che appresso descriveremo, son poste sotto due arcate. Il
trono della Theotókos è di alta spalliera. Il suo sedile da cui
sporge un suppedaneo è diviso in due ripiani da fori rettango-
lari e dai pinoli che sporgono sulle fascie traverse come le gambe
dagli angoli; sopra di sé ha un alto cuscino, di cui l'artista ha
voluto far vedere la morbidezza segnandovi delle pieghe. Una
curiosità sono le scanalature (come di colonnine cosmatesche)
percorrenti le gambe anteriori del sedile, i pinoli traversi e sa-
lienti a spiga su per il fianco della spalliera culminato da un
pomo. I fogliami ed i fiori stilizzati del basso completano questo
quadro, avvicinandolo stranamente a quelle ingenue pitture um-
bre in cui pochi fiori e foglie sopra un cielo intensamente azzurro
materializzano lo spirituale profumo della verginità di Maria.
^ Allo stesso modo che l'aquila simbolica (di cui dicemmo) porta la
bolla crociata.
- Cfr. P. S. Leicht, in Guida d. Prealpi Giulie, Udine, 1912, p. 600.
3 Sono notissimi i sarcofagi ravennati con figure in arcate. Un gruppo
importantissimo di tali sarcofagi è a Roma ove alcuni hanno perfino due
ordini di arcate ed in ogni arcata v'è tutta intera una scena appartenente
al ciclo del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Arte barbarica cividalese 19
Fronte posteriore. — Due croci equilaterali con rosa al centro,
quadrati e rombi sulle branche, anse alle estremità un po' allar-
gate, fiancheggiano il foro quadro della custodia di reliquie *.
Altre due rose stanno in basso, ai lati ; una stella a raggi trian-
golari è inscritta in un circolo da cui sporgono quattro gigli.
Più avanti parlerò degli ornati a treccia, delle fuseruole, delle
volute che incorniciano tutte le scene.
Faccia laterale sinistra. — La Visitazione. Sotto tre archi-
volti a doppia ghiera impostanti ai lati della scena sul capitello
trapezoidale di due colonne vitinee molto esili, si abbracciano le
figure grossolane della Vergine e di s. Elisabetta ambedue
coperte da velo e da manto. Contrassegno della Vergine è la
solita croce incavata sulla fronte ; il suo volto, manco a dirlo, è
a pera rovescia e gli occhi sono come volute laterali del naso
piuttosto corto cosicché rassomigliano a quelli rilevati sulle
testine in basso alle fibule germaniche od incisi sui rozzi capi-
telli cubici zoomorfici, prodotti anch'essi d'arte barbarica. La
bocca del solito tipo è spostata lateralmente per indicare, come
notò anche il Venturi ^, che il volto è di tre quarti. E poiché
le due bocche delle sante donne tendono ad avvicinarsi, noi
possiamo comprendere lo sforzo dell' artista per far sì che si
baciassero. La poca abilità, la mancanza di esemplari, non gli
permise di riprodurre i volti in profilo ; solo a fatica ha potuto
ottenere che il braccio di ogni figura, prolungato ed ingrossato
innaturalmente, ricercasse la spalla dell'altra appoggiandovi una
mano con dita terribilmente lunghe. Nelle pieghe dei vestiti c'è
lo stesso studio veristico notato nelle altre scene ; sono però un
po' più trite ed uniformi. In basso, fiori e, sotto un archivolto
dietro la Vergine, un alberello stilizzato che, nell'intenzione del-
l'artista, doveva raffigurare un palmizio. Lucidi smalti dovettero
scintillare negli occhi di ogni testa. La scena della Visitazione è
estremamente rara nell'antica arte cristiana. Io non ne ricordo che
una dubbia delle Catacombe di S. Valentino, forse del VII secolo ^.
Abbiamo così finito di spiegare e descrivere minutamente
tutte le scene della mensa ; ci rimane lo studio degli
1 Alquanto errato sarebbe paragonarlo con la fenestella confessionis, la
quale si trovava sul davanti e permetteva di calare i brandea nel chiuso ora-
torio della cripta. Certamente nel battistero, ove era collocato quest'altare,
non esisteva cripta.
2 Op. cit., II, p. 180.
3 Garrucci, tav. 84, i.
20 Carlo Cecchelli
Ornati e tecnica. — Ogni scena della mensa s' inquadra in
una cornice di bande variamente ornamentate e comprese tra
linee di fuseruole mediocremente riprodotte dalle classiche, cor-
doni, rozzi listelli.
L'artista medievale, non ossessionato da ideali di simme-
tria, traccia la decorazione come il cuore gli detta e, pur imi-
tando, varia a suo talento preferendo le più bizzarre e compli-
cate forme : così nella fronte della Majestas ha sviluppato lungo
il bordo una sobria catena di S contrapposte, legate da minu-
scole palmette ; intorno all' « Adorazione dei Magi » ha fatto cor-
rere una treccia di quattro capi, intorno alla « Visitazione »,
un'altra di sei, intorno alle croci equilatere ansate della fronte
postica, una grossa di otto fiancheggiata e centrata da fusetti
simili a gusci di noce; ha inoltre addoppiato le bande verticali
a treccia che sono al fianco destro della « Visitazione » e sinistro
della « Adorazione » con altre contenenti la catena ad S.
Rimarchevoli pure come elemento decorativo sono i pal-
mizi stilizzati, le rose canine dai petali bordati e racchiuse in un
cerchio di cordone come se ne vedono sulla croce argentea di
S. Maria in Valle S i quadrati ed i rombi (puerilmente ripetuti
nel loro interno) che riempiono le braccia delle croci figurando
forse delle gemme. Tutti i motivi descritti hanno gran voga
nelle sculture cividalesi ed in talune altre rinvenute in varie parti
d'Italia; non parlo delle produzioni barbariche in avorio e me-
tallo, tanto accette ai contemporanei di Pemmone e di Ratchis,
^ Questa croce processionale in lamine d'argento rudemente chiodate
sull'anima di legno ed indorate ha, come ben osserva il Fogolari, op. cit.,
p. 52, la forma esatta di quella del museo di Brescia. Rosette cordonate e
centrate da circoli, foglie di palma raggruppate ai lati d'un fiore, bastoni
gigliati simili a scettri; riempiono le braccia, dando l'idea di cosa tutta
primitiva. Una spina di pesce borda il disco centrale ove s'inscrive una croce
dai lembi filigranati, ed in essa la figura molto appiattita del Cristo ostenta
un corpo allungatissimo, sproporzionato con le braccia e ai lati del quale
stanno i busti di s. Giovanni e di Maria in piccole proporzioni, come nella
più fine croce dell' arcivescovo milanese Ariberto.
Non credo, come vorrebbe il Fogolari, che questa croce debba ripor-
tarsi all' XI o XII secolo, perché la specie dei motivi e del rilievo ha troppe
attinenze con il nostro altare; né può entrarvi dell'imitazione poiché in tempi
assai più evoluti non si accettano tali ornati insignificanti, specie quando si
tratti di un lavoro prezioso, certo non maneggiato da un artista qualunque.
Confrontandole con altri lavori d'oreficeria io porrei la croce di S. Maria
in Valle alla metà del IX secolo.
Arte barbarica cividalese 21
ove le treccie, i fiori, le palme, le spine, i cordoni ^ la catena
di S contrapposte ^, le perlature, gli archettini ^, le croci ansate *,
formano F abituale tema ornatistico.
Immaginatevi ora Io scultore della nostra mensa che si ac-
cinge ad incavare il lastrone liscio sul quale già delineò il sog-
getto inspirato da chi sa quali rilievi romani e bizantini o codici
miniati d'Oriente. Lo scalpello incomincia con l'approfondire i
contorni, ma non troppo perché la mano inesperta non arriva
alle audacie dei sottosquadra; indi appiattisce gli spigoli troppo
vivi ed inizia la fattura dei particolari ^. Per la rifinitura di que-
sti ci vuole uno scalpello molto più fine che persegua, leggero
come una carezza, le rigature delle piume e le pieghe delle vesti
e senza confondersi metta in evidenza le complicate annodature
delle treccie; ci vuole anche il trapano mosso dal violino che
dia l'effetto degli scuri bucando i centri delle rose, delle stelle,
degli occhi '. In ultimo la pomice che lisci tutte le scabrosità ed
^ Un singolare sviluppo ha preso nell'alto medioevo l'ornato di cordoni.
Essi cerchiano lo scudetto aureo con il cervo trovato in S. Maria in Valle e tanti
altri pezzi d'oreficeria, corrono su molte sculture coeve dell' Italia e dell'estero,
visigotiche, galliche, anglo-sassoni, germaniche e talvolta su bizantine.
2 La catena di S con lievi modifiche figura in molti oggetti di prove-
nienza barbarica. Delle treccie che, involte nelle forme più strane, tengono
il campo di tutti i lavori barbarici, avrò occasione di parlare più ampia-
mente in appresso.
3 Gli archetti tipici di molte sculture ravennati e romane compaiono a
Grado, a Brescia (S. Salvatore) ed altrove in molte sculture. Un uso vario
se n' è fatto anche nell'arte preromanica della Spagna. La cassa di Terracina,
di evidente fattura nordica secondo il Venturi, ha figurazioni sotto archetti.
•* Croci con risvolti di questo tipo sono state molto in uso nella scultura
dell' VIII-IX secolo. Vedine altri esempi in Cividale e in Roma.
° È un procedimento che è uguale in tutte le arti primitive. Così oprava
lo scultore della Grecia arcaica e l' egiziano, riuscendo ad ottenere effetti non
comuni. Aumentando il rilievo si venne fin quasi alla statua, la quale però ha
le sporgenze estreme ed esterne in uno stesso piano. Si ebbe così la statuaria
che ora chiamiamo disegnativa in contrapposizione alla frontale e libera eseguita
prendendo per punto di partenza il rilievo che la figura esige. La nostra
mensa ha un rilievo molto timido e addolcito agli spigoli sì che mi venne
l' idea di rassomigliarlo a quello dei lavori in isbalzo. Vedremo nei plutei del
battistero di Callisto un rilievo assai più accentuato e a spigoli di taglio vivo.
6 La pietra alquanto tenera si prestava certamente ai lavori di rifinitura ;
ma osservo che in molti lavori di questi due secoli (il VII e l'VIII) si nota
in contrasto stridente con la grossolanità di contorno delle figure una finezza
straordinaria nel cesellare alcuni particolari. La sviolinatura, usata con abi-
lità, fornisce begli effetti all'arte dell'ultimo periodo imperiale romano e bi-
zantino del medioevo. Qui però ha un impiego puerile.
2 2 Carlo Cecchelli
il pennello tinto di minio, di giallo o di ceruleo che ravvivi
ogni figurazione. Altri forse avrà incastrato gli smalti e le pietre.
In Friuli, un lavoro che può lontanissimamente paragonarsi
al nostro altare è un sarcofago ridotto a conca battesimale, che
trovasi presso il duomo di Gemona. Vi si vede a sinistra un
uomo barbato seduto di profilo (senza dubbio il vescovo seduto
sulla cathedra episcopalis) il quale tocca un putto nudo sollevato
dalle braccia distese di un uomo sopra l' incavo dì una piscina
somigliante al sarcofago stesso. L'artista tentò di far la testa
dell' uomo di tre quarti ed a tal fine fece sporgere l' ovale del
volto piiÀ da un lato che dall' altro deformandolo in prospettiva,
come pure spostò occhi, naso e bocca più verso il fondo. E riu-
scito fino ad un certo punto, ma non si può negare che ci sia uno
studio veristico. La nuca è ricoperta da un cappuccio {cucullus)
il quale è attaccato ad una tunica manicata stretta ai fianchi da un
cìngulum. Osservare gli occhi ellissoidali, il naso corto e schiac-
ciato, la bocca aperta in atto di parlare ; osservare anche le lunghe
e grosse braccia delle tre figure, sproporzionate ai corpi (come se
ne vedono nella nostra mensa) e le teste con il medesimo difetto
che curiosamente le ravvicina ad alcune caricature moderne *.
In un altro lato del sarcofago due rozzi angeli sollevano un
putto, il che mi fa credere che questa vasca abbia servito spe-
cialmente per r immersione degli infanti. Due amorini che s' ab-
bandonano alla gioia di cavalcare sul dorso di un delfino, molto
ben riprodotto, formano ]' ornato dei due lati lunghi : son giudi-
cati lavoro pagano. Dice il Bragato ^ che un' altra vasca identica
con la figura del delfino trovasi nel duomo di Pirano (Istria) e
che, con ogni probabilità i due sarcofagi provengono dalla di-
strutta Aquileia, le cui rovine emigrarono un po' dappertutto.
Il Bragato crede anche più antica dell' Vili sec. la vasca di
Gemona ; io, confrontandola con l' altare di Ratchis e trovandovi
una maggiore emancipazione dalle forme bizantine, la stimerei
della fine del IX secolo. C è in essa qualcosa che nella sua roz-
zezza prelude alle statue delle cattedrali dette romaniche.
* I piedi di colui che porta il bimbo a battezzare sono di profilo e
stanno ad un livello più alto, quasi fossero su di un gradino della piscina.
II bimbo è di fronte, ha una testa rotonda con occhi rotondi e bocca chiusa
in un segmento ; le sue braccia si agitano quasi presentendo la vicinanza
dell'acqua fredda. Il vescovo ha un naso aquilino rimarchevole e l'occhio
a mandorla senza pupilla.
2 Da Gemona a Venzone, Bergamo, 1913, p. 65.
Arte barbarica cividalese 23
Tornando alla nostra mensa, stabiliamo i limiti di tempo
nei quali potè essere eretta. Dopo la caduta di Pemmone abbiam
visto che Ratchis fu scelto dal re per la successione nel ducato
forogiuliano : questi fatti accadevano intorno al 737 ^ Nell'otto-
bre del 744 Ratchis fu eletto re e si recò alla sede del reame
lasciando nel ducato il fratello Aistolfo ^. Poiché nell'iscrizione
non si fa cenno di Pemmone come dedicante, ma come di uomo
trapassato od in ogni modo non più presente noi dovremo ri-
tenere che questa mensa fu eretta nei sette anni circa del du-
cato di Ratchis, il quale, unico signore, vi fa porre il suo ap-
pellativo barbarico.
Perché nella mensa sono state scelte dal ciclo cristologie©
le rappresentazioni descritte? Il Fogolari ha su ciò una bella
pagina che mi par geniale nelle conclusioni e mi piace trascri-
vere ^ : « Neil' esaltazione del Cristo uomo e Dio che occupa la
« faccia anteriore dell'altare, c'è significata, io credo, la esalta-
« zione della fede cattolica anastasiana nel punto in cui più cru-
« delmente la aveva ferita l'errore di Ario. L'eretico negava la
« divinità di Cristo uomo, e qui il Cristo è rappresentato sedente
« in trono con gli attributi della potestà terrena, ma in diretto
« contatto con la mano di Dio è dentro la mistica mandorla, è
« venerato dalle essenze più pure, dai tetramorfi (?), e con tutto
« l'orifiamma è levato in alto dagli angeli. Il Cristo imberbe e
« dai capelli lunghi e fluenti, come le facce della croce di Gi-
« sulfo, ha il nimbo crociato, ha vesti regali e sacerdotali, tiene
« in mano il bastone del comando (?) e con l' altra benedice alla
« greca come forse il patriarca d'Aquileia. Nella lite tremenda
« fra il duca Pemmone e il patriarca Callisto forse fu lanciata
« contro i longobardi friulani l' accusa di ritornare alle passate
« violenze degli ariani contro il clero, d' essere ritornati ariani.
« Perciò nel monumento espiatorio qui si esalta il potere della
« Chiesa che deriva direttamente dal Dio fatto uomo. Ma in alto,
« in alto deve elevarsi tale potere ; e perciò gli angeli non hanno
« braccia lunghe né mani tanto grandi a sufficienza per elevare
« la celeste mandorla ».
* De Rubeis, Dissertai., p. 277; Muratori, Annali, ad an.
2 Cfr. Paschini, Le vicende politiche e religiose del territorio friulano
da Costantino a Carlo Magno (sec. IV-VIII), in queste Mem., Vili, 1912,
pp. 272, 275. Ratchis si fece monaco nel 749.
3 Op. cit., p, 42.
24 Carlo Cecchelli
Poesia, dirà taluno, ma intanto chi dalle vite dei santi, dai
monchi Cronicon, dagli atti pontificali ed imperatorii, abbia in-
travisto quali lotte si combattessero allora fra la Chiesa romana
ed i longobardi, quegli esseri estrani dai capelli lunghi e dal
profilo duro che abbiamo conosciuto sulla nostra mensa e sulle
croci auree, troverà tanto più significativa l' erezione di questo
altare che ha figurazioni così contrastanti con le tendenze ariane.
Vero è che al tempo di Ratchis i longobardi erano quasi tutti
cattolici ed anzi in grazia di ciò pare che da tutta l'opera di
Paolo Diacono salga alla Chiesa madre una invocazione di per-
dono per le loro passate, orribili colpe. Ma il sangue non men-
tiva: l'istinto selvaggio balzava fuori in ogni controversia ed
animato dalle relazioni tese fra essi e la Chiesa, tramutava 1' ar-
dore superstizioso dei neofiti nell'apostasia più nera: è negli ul-
timi tempi che vediamo il patriarca Paolino scagliarsi in questa
stessa Cividale contro le mene degli eretici.
*
* *
La mensa di Ratchis, monumento che può dirsi unico nel
suo genere, oltre ad essere cospicuo ricordo di un' era turbolenta
ed oscura, attende chi la liberi dal lustro sovraltare di marmo
di cui forse un pio quanto ignorante mecenate volle ricoprirla.
Son sicuro che il clero cividalese o lo Stato non tarderanno *.
Carlo Ceccrelli.
(Continua)
* Per tale ostacolo non si possono eseguire fotografie decenti dell' al-
tare. Un mio amico, il ten. Attilio Mereu, si provò a riprendere le faccie
laterali di scorcio e qui presento le sue prove insieme alle fotografie note
delle parti più libere. Così per la prima volta si potrà avere un' idea com-
pleta di tutto l'altare. La chiesa di S. Martino, in cui trovasi la mensa, ha
qualche memoria rimarchevole. Scavi eseguiti l'anno i66i nel suo viridario
misero in luce due tombe con un elmo, un'asta, un pettine d'avorio, un
coltello, una crocetta di lamina d'oro con cinque teste sbalzate, una moneta
d'argento, filigrane, un cranio poggiante su scalino di pietra. Il i° novem-
bre 1249 si ricorda in un lascito l'ospedale di S. Martino; nel 1263 è ricor-
dato il suo cimitero; nel 1308 e 1314 le sue cappelle di S. Croce e S. Eli-
sabetta. Una Cella S. Martini è ricordata nell'805 (Grion, Guida cit., p. 397).
Gregorio di Montelongo
patriarca d'Aquileia
(1251-1269).
I.
I. Nascita e primi uffici di Gregorio. — 2. È designato da Gregorio IX
legato in Lombardia. — 3. La lotta contro Federico II dal 1239 al 1241. —
4. Gregorio e papa Innocenzo IV. — 5. La legazione del cardinale Otta-
viano degli Ubaldini e la vittoria di Parma (1248). — 6. Il Montelongo a
Novara ed a Milano nel 1248; viene eletto vescovo di Tripoli. — 7. Sua at-
tività nel 1249. — 8. Morte di Federico II; ritorno di Innocenzo IV in Ita-
lia; termine della legazione del Montelongo. — 9. Il Montelongo secondo
frate Salimbene.
I. La prima notizia sicura su Gregorio di Montelongo si ha
in una lettera colla quale papa Innocenzo III, il 14 giugno 12 14,
imponeva a Lotario, vescovo di Vercelli, ed al capitolo di quella
cattedrale, di conferire a Gregorio, figlio del nobile Landò di
Montelongo, cugino dello stesso papa, una prebenda canonicale
rimasta vacante per la morte di Giovanni, cardinale diacono di
5. Maria in Cosmedin e cancelliere della chiesa *. A quel tempo
Gregorio doveva avere per lo meno una quindicina d' anni, ma
probabilmente ne aveva di più. La sua famiglia traeva il nome
dal castello di Montelongo, ben presto distrutto, situato presso
Villa Magna tra Gorga e Montelanico in quel di Ferentino nella
Campania ; si chiamò anche Longo ; ebbe la custodia del castello
di Fumone, la rocca più forte della Campania, dove più tardi fu
rinchiuso da Bonifacio Vili papa Celestino dimissionario, ed era
i G. Marchetti-Longhi, La legazione in Lombardia di Gregorio di
Montelongo negli anni 1238-1251, in Archivio della R. Società Romana di
storia patria, voi. XXXVI, 1913, p. 231 sgg.
2 0 Pio Paschini
imparentata colle nobili schiatte di Anagni, Fresinone e Feren-
tino. Landò, il padre di Gregorio, fu conestabile di Tancredi, re
delle Due Sicilie, e poi rettore di Campania e Marittima per il
cugino Innocenzo III ^
Dopo il 1213 per lunghi anni non si hanno più notizie di
Gregorio, Il 6 maggio 1231 egli ricompare finalmente a Siniga-
glia, il 13 maggio a Pesaro, il 3 ed il 4 settembre a Cingoli a
fianco di Milone, vescovo di Beauvais, rettore del Patrimonio e
della Marca d'Ancona; e questo fa supporre che facesse parte
del suo seguito; nell'ultimo di quei documenti egli porta il ti-
tolo di suddiacono papale, che continuerà a portare in seguito in-
sieme coir altro di notaro.
Nel luglio del 1236 egli ebbe da papa Gregorio IX una
missione presso Tebaldo IV, conte di Sciampagna e re di Na-
varra, per indurlo al pagamento di un debito che aveva con-
tratto con un mercante romano ^.
2. Finalmente il 17 marzo 1238 cominciò Gregorio quell'a-
zione energica, anzi quasi accanita, contro Federico II, per cui
egli divenne il più abile e fortunato campione della causa guelfa.
Il papa gli affidò l'incarico di spingere l'imperatore a muovere
guerra a Vatace imperatore greco che metteva in serio pericolo l'im-
pero latino di Costantinopoli. Ma a Federico II sembra non pia-
cesse troppo tale inviato, per cui il papa dovette raccomandar-
glielo una seconda volta il 17 marzo ^. Agli ultimi di luglio 1238
gli ambasciatori di Federico II lasciavano Roma colla speranza
di avere indotto il papa alla pace col loro signore; invece il
6 agosto improvvisamente Gregorio IX creò legato in Lombar-
dia con pieni poteri Gregorio di Montelongo colla missione di
ristabilirvi la pace, di evitare rovine e stragi di anime e di corpi
e di resistere anche ai progressi che andava colà facendo l'im-
peratore dopo la sua vittoria di Cortenuova (1237) sopra i Mi-
lanesi. Federico II ben conobbe che la designazione di un tale
* Altro è il parere del Marchetti-Longhi, op. cit., p. 239 sg. Cfr. il
mio : Ciociari ed altri italiani alla corte di Gregorio di Montelongo in queste
Memorie, voi. X, 1914, p. 483 sgg. Cfr. pure Rivista Araldica, voi. XIV,
1916, p. 314.
2 Altre notizie meno sicure cfr. in Marchetti-Longhi, op. cit.,
p. 245 sgg.
3 Regìstr. Gregoire IX, n.' 4154 e 4110: « magistrum Gregorium subdia-
« conum et notarium nostrum, virum utique providum et expertum ». Mar-
CHETTI-LONCm, op. Cit., p. 25O Sgg.
Gregorio di Montelo7igo patriarca d' Aquileia 27
personaggio era un colpo diretto contro di lui e senz' altro la
ritenne una dichiarazione aperta di guerra ^
Rivestito di quest' ufficio commessogli dalla fiducia del papa,
il Montelongo riuscì tosto a diventare il perno della resistenza
guelfa nell'Italia settentrionale. L'amicizia stretta con pubblico
trattato fra Venezia e Genova il 30 novembre 1238, poi la ri-
bellione di Alberico da Romano fratello di Ezzelino che il 14 mag-
gio 1239 occupò Treviso d'accordo coi signori di Camino e di
S. Bonifacio, finalmente il distacco di Azzo d'Este dal partito
imperiale (io giugno), furono fatti importantissimi, dovuti certo
alla cooperazione del nuovo legato, che ai primi di marzo si tro-
vava certamente a Milano.
3. Il 28 giugno 1239 Federico II iniziò una nuova campa-
gna contro la lega lombarda; ma trovò il legato pronto alla re-
sistenza. L'invasore fu respinto in tutti gli scontri e, ricacciato
dal territorio milanese, si ritirò a Lodi il 7 novembre e poi a
Pisa il 2 1 dicembre. Il legato si recò quindi all' assedio di Fer-
rara, cominciato il 2 febbraio 1240, dove fu proclamato ducem
exercitus et rectorem e combatté a fianco di Alberico da Ro-
mano, del marchese d' Este, del doge di Venezia ; ma non riuscì
ad espugnare Ferrara se non col tradimento (2 giugno), del
quale i cronisti attribuirono a lui la preparazione *. Concluso un
trattato fra Ferrara e Venezia ed un altro fra Ferrara e Bolo-
gna a tutto vantaggio della lega guelfa, il Montelongo venne a
Venezia nel luglio ^ e rivolse le sue cure agli affari della marca
Trivigiana. In questo momento infatti sappiamo ch'egli era in
relazione con Bertoldo, patriarca di Aquileia; ma non pare che
per allora questi accogliesse con molto entusiasmo le premure
che r astuto legato si dava per attirarlo nella lega guelfa da lui
diretta.
La presenza del Montelongo nel Bolognese dal settembre al
dicembre 1240 è accertata da diversi documenti ; ed oltre alcune
trattative col patriarca Bertoldo, ebbe probabilmente per scopo
^ Marchetti-Longhi, op. cit., p. 255 sgg.
3 Marchetti-Longhi, op. cit., p, 585.
3 II 9 luglio il Montelongo concesse in Venezia indulgenze a chi visi-
tasse la chiesa di S. Mattia di Murano. Cfr. Fl. Cornelii Ecclesiae Tor-
cellanae, Venetiis, 1749, parte III, p. 129, dove al privilegio è assegnato
l'anno 1249 (che manca nel documento); ma erroneamente, perché il legato
non porta il titolo dì vescovo eletto di Tripoli, che già aveva nel luglio 1249;
credo perciò che quella concessione possa assegnarsi al 1240.
Pio Paschini
anche di soccorrere Faenza e di impedire ad Ezzelino da Ro-
mano di portare aiuto all'imperatore che l'assediava.
Il 19 marzo 1241 Gregorio fu chiamato a Roma per rife-
rire al concilio indetto dal papa sugli affari di Lombardia. Non
sappiamo se Gregorio vi andasse; ma sta il fatto che Faenza
dopo una resistenza eroica cadde il 14 aprile; i prelati che si
recavano al concilio sulle navi genovesi furono imprigionati nella
disgraziata battaglia della Meloria del 3 maggio ; l' 1 1 maggio i
Milanesi e le truppe di Gregorio furono sconfitti dalle milizie di
Pavia, e lo stesso legato potè sfuggire a stento. Tutto sembrava
perduto per i Guelfi. Ma il Montelongo non si perdette d' animo ;
egli riusci a sostenere il coraggio dei Milanesi e fece eleggere
a loro arcivescovo Leone da Perego, provinciale dei minori
(15 giugno) ^
4. La morte di Gregorio IX (21 agosto 1241) non inter-
ruppe il corso degli avvenimenti. Però del Montelongo e dell'o-
pera sua poco si sa per l'anno 1242; ma nel gennaio 1243 i rap-
presentanti di Milano e Piacenza ed i marchesi Bonifacio di Mon-
ferrato, Manfredo del Carretto, Giorgio ed Emanuele di Ceva
convennero a Genova ed insieme coi rappresentanti di questa
città, giurarono nelle mani di Astachio, delegato del Montelongo,
una lega di mutuo aiuto contro qualsifosse nemico. Poi ai primi
d'aprile il Montelongo entrava in Vercelli, che d'allora in poi
passò a far parte, sino al 1248, della lega guelfa; a questa ade-
rirono pure i conti di Biandrate ed il comune di Novara ^.
Papa Innocenzo IV ^ conservò nell' ufficio di legato in Lom-
bardia il Montelongo, non ostante le istanze di Federico II, che
lo avrebbe voluto lontano. Fu invece il Montelongo stesso che
al principio di novembre del 1243 chiese di essere esonerato dal-
l'ufficio; ma il papa con lettera del 20 novembre ne lo con-
fermò ed ingiunse inoltre al vescovo di Mantova di far sì, che
al legato fossero pure pagate le procurazioni che gli erano do-
vute per l'ufficio suo. Ed infatti il Montelongo rimase saldo in
Lombardia a capo della lega guelfa, anche dopo la fuga del papa
dall'Italia e durante il concilio di Lione. Nel novembre 1245 egli
coi Milanesi constrinse Federico II, che anelava ad occupare Mi-
^ Marchetti-Longhi, op. cit., p. 613 sgg.
2 Ibid., p. 625 sgg.
3 Egli fu eletto papa il 25 giugno 1243. La lunga vacanza della Sede
Apostolica sarebbe stata certo disastrosa per la lega guelfa, che da essa ri-
ceveva coesione e soccorsi, senza il coraggio e l'energia del Montelongo.
Gregorio di Montelongo patriarca <£ Aquileia 29
lano, a rifugiarsi a Pavia ed a Lodi, dove si ricongiunse col figlio
Enzo, le cui scorrerie guerresche non avevano avuto esito mi-
gliore di quelle del padre ^
5. Nel marzo 1247 fu designato legato in Lombardia il car-
dinale Ottaviano degli Ubaldini; ma non per questo il Monte-
longo abbandonò l' impresa a cui aveva consecrate tutte le sue
forze. Anzi il 16 giugno 1247 con abile stratagemma i Guelfi,
spinti da lui, s' impadronirono di Parma, e la tolsero all' impera-
tore; egli tosto vi accorse, la fortificò e si difese strenuamente
contro Federico II ed il re Enzo, che nel luglio si gettarono con-
tro la città per riconquistarsela. Fu allora che l'imperatore eresse
contro Parma la sua nuova città di Vittoria, sicuro, come si te-
neva, di riuscire a fiaccare la costanza degli assediati. Ma il 18 feb-
braio 1248 i Parmigiani, condotti dal loro podestà e dal Mon-
telongo, conquistarono di sorpresa Vittoria, la distrussero, mi-
sero in rotta precipitosa T imperatore e le sue genti e tornarono
nella città liberata carichi di preda.
Grati i Parmigiani al Montelongo, gli diedero come parte sua
della preda « gli oggetti particolari che l'imperatore usava in
guerra, come le tende e cose simili »; tende che poi, come ci
riferisce il Belloni, egli trasportò a Cividale e ripose in quel
duomo come trofeo delle sue gesta ^.
Questa impresa, dovuta in gran parte alla tenacia ed al co-
raggio del Montelongo, segnò il declinare definitivo della po-
tenza di P'ederico II ed assicurò il trionfo dalla lega guelfa ^.
6. Tentato invano di prendere Brescello, il Montelongo ri-
mase assai probabilmente a Parma, dove certo si trovava 11
15 agosto. Poi, entrato in quella città il cardinale Ottaviano, egli
si volse verso Milano ed il Piemonte, dove l'imperatore aveva
assalito il marchese di Monferrato. Per impedire che Federico II,
il quale aveva occupato Vercelli il 1° ottobre, entrasse anche a
Novara, il Montelongo entrò in questa città insieme colle truppe
milanesi e piacentine, frustrando così con una mossa improvvisa
le speranze del suo nemico. Infatti nel gennaio 1249 l'impera-
tore abbandonò il Piemonte per ritirarsi a Pavia e poi a Cre-
mona ed accusò in una pubblica lettera il papa, e più precisa-
* Marchetti-Longhi, loc. cit., voi. XXXVII, 1914, p. 139 sgg.
2 R. I. S., tomo XVI, col. 46. Cfr. pure De Rubeis, M. E. A.,
app., p. 12,
3 Marchetti-Longhi, op. cit., p. 225 sgg.
30 Pio Paschini
mente il Montelongo, di avere voluto avvelenarlo colla compli-
cità di un medico, eh' era stato suo prigioniero di guerra a Parma.
E questo l'oscuro dramma in cui perdette la grazia imperiale
Pier della Vigna. L'accusa non riposa che sulla testimonianza
dello stesso Federico, pubblicata in un momento in cui vedeva
andare a vuoto ogni suo sforzo per riacquistare la potenza per-
duta; vi possiamo benissimo scorgere un brutale sfogo di pas-
sione. Vi sarà stata una congiura contro Federico; ma il papa
ed il legato sarebbero stati ben sciocchi a pensare d' avvelenarlo
proprio quando la sua potenza già declinava.
Da Novara il Montelongo era venuto a Milano e consta
eh' egli chiedesse un' altra volta al papa d' essere esonerato dal
suo ufficio di legato. Vi diedero motivo probabilmente certe discor-
die col cardinale Ottaviano suo collega di legazione ; ma non ab-
biamo notizie particolari a questo riguardo *.
Il papa non accettò queste dimissioni; anzi volle dare al
Montelongo un pubblico segno di approvazione per l' opera sua,
perché servisse a dargli maggior lustro non solo, ma anche mag-
giore autorità nella sua legazione. Infatti in una lettera di In-
nocenzo IV del 19 febbraio 1249 Gregorio compare col titolo di
vescovo eletto di Tripoli e di legato della Sede Apostolica. Que-
sta chiesa gli fu concessa certamente poco prima, poiché un' altra
lettera dello stesso papa del 18 febbraio tratta dell'assegnazione
dei beni lasciati dal defunto vescovo di quella sede ^. Natural-
mente per il Montelongo, che sino allora era stato semplice sud-
diacono e notaio della Chiesa, la nuova dignità era semplice-
mente onoraria; egli non ricevette nemmeno la consecrazione
episcopale, ma gli dava maggiore autorità in faccia all' Ubaldini.
Mentre Innocenzo IV affidò a questo la cura delle milizie che
operavano nel Mantovano e nella Romagna, al Montelongo in-
vece commise tutto il resto della legazione, che comprendeva
l'Italia subalpina sino al Friuli ed alla luguna veneta: ufficio di
maggiori difficoltà e responsabihtà.
7. Partito definitivamente di Lombardia Federico II nel
marzo, ambedue i legati pensarono di raccogliere nel maggio a
Parma un parlamento generale di tutti i rappresentanti della lega
i MARCHETTi-LoNGm, loc. clt., vol. XXXVIII, 1915, p. 283 sgg.
- Les Registres d' Imiocent IV publiés par É. Berger, Paris, 1897,
n.' 4367 e 4364. Alberto de' Roberti di Reggio, predecessore del Montelongo,
dev'essere morto verso la fine del 1248. Cfr. Salimbene, in M. G. H. : Scriptt.,
to. 32, p. 319.
Gregorio di Montelo7igo patriarca ci' Aquileia 31
guelfa *. Nel frattempo Enzo, figlio di Federico II, veniva fatto
prigioniero dai Bolognesi a Fossalta il 25 maggio 1249; ed il
Montelongo avrebbe potuto ormai con maggior energia condurre
innanzi la lotta contro il partito imperiale, ma non si hanno no-
tizie per determinare con precisione la sua personale attività ed
i luoghi di sua residenza nella fine del 1249 e durante il 1250.
Ciò ci fa sospettare che si avesse una sosta nel proseguimento
delle operazioni militari e diplomatiche.
Da alcune lettere del Montelongo, che disgraziatamente sono
senza data ^, ma sono certo posteriori alla sua nomina a vescovo
di Tripoli, sappiamo che in questo tempo egli fu tormentato assai
da una malattia che gli impediva di condurre a termine, com' egli
avrebbe voluto, i suoi maneggi politici. Egli esortava Mantova e
Verona a continuare gli accordi con Brescia e con Bergamo a
vantaggio di tutti i partigiani della Chiesa in Lombardia . An-
nunciava pure ai Mantovani d'essersi recato a Fornovo insieme
colla milizia e col popolo di Parma, dove aveva ricevute le loro
lettere; comunicate queste al podestà ed al popolo di Piacenza,
era subito ritornato a Parma. E colà s' era subito deciso dal Con-
silium generale * di comune accordo di accogliere le proposte dei
Mantovani stessi e di muovere coi loro aiuti e coli' esercito gene-
rale sopra Guastalla. Il Montelongo aveva perciò subito mandato
ambasciatori ai fuorusciti di Reggio, ai Modenesi ed ai Bolognesi ;
e sollecitava i Mantovani stessi ad esporre quello che fosse da
fare. I preparativi per l'impresa si fecero tosto. Il Montelongo
prese nuovi accordi coi Mantovani per stabilire l' ora ed il giorno
nel quale dovessero piantare il loro ponte sopra Tagliata. Egli
si sarebbe al tempo stabilito recato presso Brescello per unirsi
poi con loro presso Guastalla. Per affrettare l' impresa aveva spe-
dito Gerardo di Correggio e Alberto Galiotti nunzi al cardinale
Ottaviano, ai comuni di Bologna e Modena ed ai fuorusciti di
1 Marchetti-Longhi, op. cit., p. 318.
' Muratori, Antiq. Hai. M. Aevi, tomo IV, pp. 511-512. Senza ra-
gione sufficiente, mi pare, il Marchetti-Longhi assegna due di quelle let-
-tere al 1251 (op. cit., p. 343).
3 La pace fra Bergamo e Brescia fu conchiusa poi il 21 maggio 1251 ;
queste lettere che riguardano tale affare sono dunque certo anteriori, ma di
quanto? Cfr. Marchetti-Longhi, ibid., p. 351. Le credo contemporanee
alle altre.
* Credo che sia senz'altro il parlamento del maggio 1249. La sconfitta
dì Enzo doveva spronare tutti a ben usare della vittoria ottenuta.
32 Pio Paschini
Reggio. Queste trattative si facevano in Parma. Infatti, secondo
quanto narra l' annalista ghibellino di Piacenza, poco dopo l' a-
gosto 1249 « Gregorio di Montelongo legato, congregati i Par-
migiani, i soldati di Bologna e Piacenza, il conte di S. Bonifacio,
il marchese d'Este ed altri, irruppe contro il ponte di Brescello
tenuto dai Cremonesi. Alla difesa del ponte stavano 800 fuoru-
sciti ferraresi ed altri pedoni di Cremona. Parte del ponte po-
sava su pile, parte su barche. I Parmigiani si lanciarono su di
esso con grandissimo furore, e per abilità di certi Ferraresi,
quelli di loro che si trovavano sul ponte furono presi nelle bar-
che che furono sommerse »^ Il cronista non dice dell'esito del-
l'impresa, ma il suo silenzio fa credere che il tentativo avesse
buon successo, come si arguisce da altre fonti.
Il 3 dicembre 1249 il Montelongo si trovava a S. Benedetto
Po, dove impartiva ordini per risolvere una controversia sorta
fra due monasteri. La sua presenza colà forse fu motivata dalla
necessità di consolidare la recente conquista del ponte di Bre-
scello ^.
8. La morte di Federico II, avvenuta il 13 dicembre 1250,
riempì di gioia il Montelongo, che vedeva così tolto di mezzo il
suo nemico e rovinata tutta l'opera sua. Ne scrisse giubilando a
Giovanni da Riva podestà ed al comune di Milano ^. La lega-
zione doveva parere ormai un ufficio facile anzi quasi superfluo
al tenace lottatore, che era riuscito a tener alto il vigore del
partito guelfo in momenti quasi disperati. Ma non tutti i nemici
erano scomparsi; perché i Ghibellini avevano capi potenti e ri-
soluti : più terribile fra tutti Ezzelino da Romano che per lunghi
anni ancora tenne in iscacco i suoi avversari.
Non possiamo seguire il Montelongo nella sua attività dei
mesi seguenti : ci mancano le testimonianze. Da Ferrara il 4 mar-
zo 1251 egli delegò l'abbate di S. Ilario e Benedetto di Venezia
a giudicare una causa vertente fra il pievano di S. Silvestro ed
il patriarca di Grado *. Ma il motivo per cui egli venne allora a
Ferrara non si sa. Forse si trattava di negoziati colla repubblica
di Venezia.
* M. G. H.\ Scriptt., tomo 18, p. 499; Marchetti-Longhi, op. cit.,
P. 325-
* Marchetti-Longhi, ibid., p. 326.
3 Marchetti-Longhi, ibid., p, 337.
* Fl. Cornelii Ecclesiae Venetae cit., tomo IV, p. 106.
Gregorio di Montelongo patriarca d Aquileia 33
Il 17 maggio 1251 il Montelongo si trovava a Brescia, forse
per stringere gli accordi fra questa città e Bergamo che si sta-
vano trattando sin dal principio di quel mese e che furono final-
mente conclusi il 21 ^
Il Montelongo non fu dunque presente il 18 maggio 125 1
all'arrivo in Genova di papa Innocenzo IV, che tornava final-
mente in Italia, dopo il lungo soggiorno di Lione. Era proposito
del papa di andare direttamente a Roma, ma il cardinale Otta-
viano ed il Montelongo lo persuasero a passare anzitutto attra-
verso la Lombardia. Partito di Genova il 21 giugno, il 1° luglio il
papa era a Milano ; il 2 settembre era a Brescia, poi per Man-
tova e Ferrara venne a Bologna (11 ottobre) e di là a Cesena e
Perugia (5 novembre) dove si fermò qualche tempo. Il Monte-
longo lo accompagnò certo attraverso i territori della sua lega-
zione cominciando da Genova, dove dev'essersi recato subito
dopo conclusi i patti fra Bergamo e Brescia: ma fin dove? Pro-
babilmente sino a Bologna, dove ricevette la sua nomina a pa-
triarca di Aquileia. Siccome nella voluminosa corrispondenza di
Innocenzo IV non si trova nessuna lettera che riguardi diretta-
mente questa nomina, possiamo credere che il papa la facesse a
voce al suo fedele legato.
La legazione di Lombardia era terminata, ormai il Monte-
longo poteva essere adibito ad altri negozi ; quale più impor-
tante di quello di consolidare la parte guelfa all'estremo limite
orientale d'Italia?
9. Nessuno era in grado di schizzare un ritratto di Gregorio
di Montelongo meglio di frate Salimbene che lo conobbe da vi-
cino. Ed infatti egli racconta alcuni aneddoti che riguardano la
sua carriera di legato papale e ci riferisce alcuni tratti del suo
carattere. Nulla dice invece dell' opera sua come patriarca, tut-
tavia quanto egli scrive, serve assai per lumeggiare la sua figura.
« Gregorio di Montelongo era uomo di cuor grande ed esperto
in guerra; poiché aveva un libro sull'astuzia e sull'arte del pu-
gnare , sapeva ordinare le schiere e le battaglie, simulare e dis-
simulare molto bene ; sapeva quando conveniva posare e quando
assalire i nemici... e sperava ed aspettava la vittoria da Dio...
L'imperatore [Federico II] più volte tentò l'animo di lui con
molte preghiere per tirarlo dalla sua parte e renderselo amico,
promettendogli di farlo il primo fra i suoi cortigiani, in modo
* Marchetti-Longhi, op. cit., p. 354.
34 Pio Paschini
che sarebbe diventato il secondo dopo di lui. Ma invano Fede-
derico tentatore ed ingannatore si faticava presso Gregorio e gli
faceva tali proposte... perché Gregorio di Montelongo da nes-
suno potè essere mai indotto a mancare di fede... Trattò e
condusse fedelmente i negozi della Chiesa e perciò meritò il pa-
triarcato di Aquileia e lo tenne molti anni, finché morì... Però
su Gregorio di Montelongo si deve notare che fu podagroso e
non del tutto casto. Infatti ho avuto notizia di una sua amante.
Ma molti chierici secolari, che sono nel governo e nelle prela-
ture e vivono comodamente, sembra che poco badino alla ca-
stità » ^ Quando si legga quello che invece frate Salimbene dice
del cardinale Ottaviano, l'elogio ch'egli fa del Montelongo, non
ostante le riserve riguardo il costume, assume un'importanza an-
che più singolare. Il disinteresse e la fierezza del suddiacono pa-
pale, diventato vescovo di Tripoli, sono in perfetto contrasto col
carattere fastoso, versipelle ed infido del cardinale diacono di
S. Maria in Via Lata.
II.
I. Ottocaro II di Boemia, duca d'Austria e di Stiria. — 2. Ulrico III,
duca di Carintia, e suo fratello Filippo, arcivescovo eletto di Salisburgo. —
3. Mainardo IV conte di Gorizia ed i suoi interessi germanici. — 4, Mai-
nardo IV ed i Veneziani. — 5. Mainardo IV ed i suoi affari nel Tirolo e
nel Friuli dopo il 1253. — 6. Morte di Mainardo (1258): i suoi figli Mai-
nardo V ed Alberto I.
I . La morte di Federico II condusse ad un mutamento assai
importante nei ducati transalpini. Del ducato d' Austria-Stiria non
era stato ancora investito nessuno: eredi ne erano Gertrude, fi-
glia di Enrico, fratello di Federico ultimo duca d'Austria, la
quale aveva sposato Ermanno del Baden e ne era rimasta ve-
dova nel 1250 con un figlio ed una figlia; e Margherita, sorella
dello stesso duca e vedova del re Enrico VII, il defunto figlio
dell'imperatore. Benché Margherita fosse più vecchia di lui, non
parve troppo caro l'acquisto del ducato a Ottocaro II, figlio di
Wenceslao di Boemia, collo sposarla. Dopoché egli e suo padre
ebbero preparato l' impresa nella Boemia meridionale, Ottocaro II,
invitato da una parte dei signori austriaci, s'impossessò sulla
fine del 1251 del territorio dell'Austria superiore. Conti, signori
1 M. G. H. : Scriptt., tomo 32, p. 388 sgg.
Gregorio di Montelongo patriarca d! Aq^iileia 35
e monasteri ebbero pronta conferma dei loro diritti e delle loro
libertà. A metà inverno egli passò il Danubio, e città e castelli
aprirono volentieri le porte al nuovo signore ; solo Wiener-Neu-
stadt fece qualche difficoltà. Fedele alla parola data Ottocaro
sposò Margherita in Hainburg l'ii febbraio 1252; e questa de-
pose nelle sue mani un documento con bolla d'oro, col quale
Guglielmo, nuovo re di Germania, la riconosceva legittima erede
del ducato dopo la morte di suo fratello, e le riconfermava tutti
i diritti. Così senza violenza e senza spargimento di sangue tutto
il paese riacquistò pace e prosperità.
Causa però una guerra mossagli da Bela IV, re d' Ungheria,
geloso della potenza che s'erano acquistata i Przemislidì, Otto-
caro, il 3 aprile 1254, dovette cedere a costui una parte della Sti-
ria. Nel frattempo, mortogli il padre Wenceslao, egli riunì nelle
sue mani anche la Boemia; e finalmente nel 1260, dopo sconfitto
Bela IV col quale di nuovo era sceso in lotta, riebbe tutto il ter-
ritorio che aveva dovuto cedere sei anni prima; e, colla media-
zione di Otto, vescovo di Passau, fece pace definitiva con lui *.
Questa prospera fortuna fece sì che ad Ottocaro fossero ri-
conosciuti anche i diritti che il ducato d' Austria-Stiria possedeva
in Friuli. Noi sappiamo infatti che il patriarca Gregorio gli diede
nel 1257 l'investitura del girone di Pordenone, poi nel 1263 l'in-
vestitura dell' o^cium pìncernatus, ch'era stato tenuto dal duca
Federico II nella sua qualità di signore di Stiria ^. Ed il 14 di-
cembre 1264 a Brùnn in Moravia lo stesso Ottocaro, quale erede
dei marchesi di Stiria, confermò a Giacomo di Ragogna ed ai
suoi fratelli « feuda et possessiones quas actenus a nostris ante-
« cessoribus principibus Austrie tenuistis proprietario vel feudali
« iure » ^.
Così se durante tutto il suo pontificato Gregorio Montelongo
non ebbe a temere dall'impero, che rimase di fatto vacante, però
i A. Bachmann, Geschichte Bòhmens, Gotha, 1899, tomo I, pp. 547 sgg.
e 571 sgg.
2 Fontes Rerum Austriac, Diplont., I, p. 58; cfr. Thesaurus Eccles.
Aquileien., p. 171, n. 343; Bianchi, Doc. mss. (Bibliot. Com. Udine), n. 301.
Ottocaro delegò Bruno, vescovo di Olmùtz, a ricevere l' investitura. Le de-
cime annesse all'ufficio egli concesse ad Enrico di Scharfenberg (Carniola inf.
presso Ratschach) il 25 gennaio 1264 da Praga.
3 Font. RR. Austr., Dipi., I, p. 62; Bianchi, Doc. mss., n. 305. In-
fatti in un'escussione di testimoni del 7 gennaio 1277, si attesta espres-
samente che Ragogna era proprietà del duca d'Austria, eccetto il garrito.
MiNOTTO, Doc. ad Forumjul. etc, Venetiis, 1871, p. 32.
36
Pio Paschini
dovette tenere gli occhi aperti sull'ambizioso Przemislide che
tendeva ad allargare sempre più i suoi domini ^ Infatti, sulla fine
della vita del patriarca, Ottocaro trovò modo di rendersi neces-
sario nel patriarcato e di presentarsi come salvatore dello stesso
patriarca. C'era però di mezzo anche un altro personaggio che
aveva le sue mire e i suoi disegni sul patriarcato: il duca di
Carintia.
2. Il patriarca Bertoldo aveva, il 3 settembre 1250, stretto
patti d'alleanza con Ulrico, figlio di Bernardo, duca di Carintia.
Quando Bernardo dopo un lungo governo morì il 4 gennaio 1256 ^,
Ulrico III suo figlio gli successe nel ducato. Egli s' era ammo-
gliato con Agnese di Merania, eh' era rimasta vedova di Fede-
rico II, duca d'Austria, ed era diventato così nipote del pa-
* L'energia di Ottocaro destò l'ammirazione anche di Dante, che po-
nendolo a fianco del suo avversario, Rodolfo d'Asburgo, nella valletta amena
del monte del Purgatorio, dice di lui:
L'altro, che nella vista lui (Rodolfo) conforta,
Resse la terra dove l'acqua nasce.
Che Molta in Albia, ed Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e nelle fasce
Fu meglio assai che Vincislao suo figlio
Barbuto, cui lussuria ed ozio pasce.
Purg., VII, 97 sgg.
Perché più chiaro appaia quanto si dirà anche in seguito, aggiungo qui
la parte che ci riguarda dell'albero genealogico dei Przemyslidi di Boemia:
Wladislao
re di Boemia, f ii74
I
Ottocaro I
t 1230
I
Adalberto
arcivescovo di Salisburgo
t 1200
I
Wenceslao I
t 1253
sposa Cunegonda
figlia del re Filippo
di Germania
I
Ottocaro II
t 1278
duca d'Austria e di Stiria
nel 1251
re di Boemia nel 1253
I
Wenceslao II
Anna
moglie di Enrico
duca di Breslavia
I
Wladislao
arcivesc. di Salisburgo
1267-1270
JUTTA
moglie di Bernardo
duca di Carintia
t 1256
Ulrico III
duca di Carintia
t 1269
Filippo
arcivescovo eletto di Salisburgo
poi patriarca eletto di Aquileia
2 A. VON Jaksch, Die Kdrntner Geschichtsguellen, Klagenfurt, 1904,
n. 2614.
Gregorio di Monielongo patriarca et Aquileia 2)7
triarca Bertoldo. Morta costei, sebbene ormai avanzato in età,
sposò nel 1263 Agnese, figlia di Gertrude d'Austria e di Er-
manno del Baden ^ Per sua disgrazia egli non ebbe eredi legit-
timi ; sorgeva perciò preoccupante la questione, a chi sarebbero
alla sua morte toccati il ducato ed i feudi annessi al ducato.
Egli aveva un fratello Filippo, il quale era stato sin dal
1247 eletto arcivescovo di Salisburgo, benché non avesse né co-
stumi, né attitudini, né inclinazione alcuna per la vita ecclesia-
stica. I giudizi che sul suo conto diedero i contemporanei sono
tutt' altro che lusinghieri. Egli non si curò di farsi consacrare,
nemmeno quando Alessandro IV, il 5 aprile 1255, emanò la bolla
colla quale obbligava tutti i vescovi eletti a farsi consacrare en-
tro sei mesi. Perciò il papa, accogliendo le rimostranze che si fa-
cevano contro di lui, lo privò definitivamente della sede il 5 settem-
bre 1257 ed accettò la postulazione che il capitolo di Salisburgo
gli aveva presentato per avere ad arcivescovo Ulrico, vescovo di
Seckau *. Però Filippo non abbandonò la pretesa di tenersi ancora
quella sede, che governò tirannicamente; tanto più che Ulrico non
era tempra d' uomo capace di tenergli fronte con energia.
Il 4 aprile 1256 i due fratelli divisero fra loro i beni paterni
e materni, anzi Ulrico stabilì che tutta la sua parte dovesse pas-
sare al fratello Filippo, qualora egli ed i suoi eredi gli premo-
rissero, e si promisero vicendevole aiuto e difesa^. Questa divisione
non riguardava certo i beni ecclesiastici che la casa ducale aveva
sotto la sua dipendenza, né i feudi imperiali ; i primi infatti man-
cando la discendenza ritornavano alla Chiesa ; i secondi, in grazia
di un decreto di re Guglielmo del 21 marzo 1249, dovevano es-
sere amministrati insieme dai due fratelli e passare a Filippo sen-
z' altro, qualora Ulrico fosse morto senza figli *.
Infatti Filippo fu contemplato nel patto che Ulrico fece col
patriarca di Aquileia nel 1261 ; portò il titolo di heres Karinthie
et Carniole ^ e quello di dominus Karinthie et Carniole ^ ancora
vivente il fratello.
1 Gertrude era figlia di Enrico, fratello di Federico II d'Austria. VoN
Jaksch, Die Kàrntner cit., n. 2812.
- PoTTHAST, Reg. Pontiff., n. 16998; voN Jaksch, op. cit., n. 2658. Fi-
lippo era stato ordinato diacono a Praga il 1° aprile 1251. Ibid., n. 2458.
3 VoN Jaksch, Die Kàrntner cit., n. 2627.
4 Ibid., n. 2406.
5 Ibid., n. 2797, sul sigillo: 18 genn. 1263.
6 Ibid., n. 2937 e 2942; 18 e 28 luglio 1267.
38 Pio Paschini
È evidente però che con queste misure la questione della
successione nel ducato non era che spostata di tempo. Infatti Fi-
lippo non era in grado di avere discendenti legittimi. Non po-
teva quindi mancare chi sì facesse avanti ad ottenere in qua-
lunque modo i beni che dovevano rimanere vacanti o ad acca-
parrarseli per il momento opportuno. Di questa caccia all'eredità
anche il Friuli ebbe a risentire le conseguenze; ma chi ci per-
dette fu il disgraziato Filippo.
Per ben comprendere le vicende storiche del Friuli nelle sue
relazioni con questi paesi transalpini durante il governo del Mon-
telongo e del suo successore, è necessario ricordare quanto os-
serva il Dopsch. La condizione del duca in Carintia non era in
alcun modo tale, che potesse competere con quella del duca
d'Austria e di Stiria. Colà una concentrazione voluta da un po-
tere efficace ; in Carintia invece il potere ducale era più scom-
paginato, ed in causa di uno speciale svolgimento storico era li-
mitato e ristretto ancor più in diversi modi. In modo simile alla
Carintia anche la Carniola nel secolo XIII subì una dissoluzione
riguardo i suoi possessi e la sua signoria; anzi si può dire che
ormai non formava più una vera circoscrizione territoriale. Ac-
canto ai grandi possessi immuni delle chiese di Aquileia, Brixen
e Frisinga, v' erano numerose signorie secolari ; ma con questo
di particolare, che i beni ecclesiastici ci si presentano qui più
chiusi e raccolti insieme, giacché quelli di Brixen e Frisinga
erano concentrati specialmente nella parte settentrionale del paese;
mentre Aquileia dominava nella Carniola inferiore e nella Marca
(Venda). Dunque nessuna unità di signoria territoriale, in tutta
la Carniola, benché alla fine del secolo XI Aquileia avesse ot-
tenuto il marchesato di Carniola ed il patriarca nel secolo XIII
ne portasse il titolo ^
3. Per quanto riguarda i conti di Gorizia, sembrò da princi-
pio, che le cose volgessero piuttosto male e che fosse uno svan-
taggio per loro l'essere rimasti fedeli alla politica imperiale.
Colla morte di Federico II imperatore cessò il capitaneato di
Mainardo in Stiria ed egli dovette ritirarsi dal paese.
Il 7 luglio 1251 il conte Mainardo IV di Gorizia a Latisana
rinnovò la concessione di certe decime in favore di Pietro Dan-
^ A. DoPSCH, Die Kàrntner - Krainer Frage ecc., in Archiv fùr oester-
reichische Geschichte, voi. 87, 1899.
Gregorio di Montelongo patriarca (£ Aquileia 39
dolo, che fino dal 17 marzo 12 io avevano ricevuto dai conti
Mainardo III ed Engelberto III Andrea, avo di Pietro, suo fra-
tello Enrico e Marino loro nipote ^
A Latisana egli accolse l' imperatore Corrado IV nel no-
vembre 1251, quando scese colà per imbarcarsi e recarsi in Pu-
glia. Ciò non gli impedì però d'incontrarsi a Cividale col pa-
triarca nel maggio 1252 per regolare le loro mutue obbligazioni
derivanti dal trattato dell' 8 gennaio 1251.
Per allora il Goriziano non s' immischiò di più nelle faccende
del patriarcato, sia che avesse voglia di scandagliare meglio l' a-
nimo e le intenzioni del nuovo patriarca, sia che altre imprese
tenessero occupata la sua mente.
Sovraggiunse poi anche una violenta ostilità dei Goriziani e
del conte del Tirolo loro alleato contro Filippo di Carintia; non
sappiamo bene quali ne sieno stati i motivi, ma la ragione ul-
tima doveva essere la sete di dominio e di preminenza.
Nell'autunno del 1252 i conti Alberto III del Tirolo e Mai-
nardo IV di Gorizia ^ con forte esercito posero l' assedio al castello
di Greifenburg; « ma sì fece loro incontro Filippo, arcivescovo
eletto di Salisburgo, li vinse in battaglia campale 1' 8 settembre
e condusse seco prigioni i conti del Tirolo e di Eschenlohe con
molti loro ministeriali ed ausiliari » ^. Ed aggiunge il cronista
Giovanni di Viktring, che « in quella battaglia, come si diceva,
Filippo s'era macchiate di sangue le mani, per rendersi inabile
agli ordini sacri » *.
Il conte del Tirolo fu condotto prigione a Friesach, e fu li-
berato solo il 21 dicembre per intervento di Bruno, vescovo di
Brixen suo nipote ^. In quello stesso dì 2 1 dicembre i signori
friulani, eh' erano stati fatti prigioni, poterono pure ottenere la li-
bertà a Gmiind, ma obbligandosi a pagare forti somme all' eletto
di Salisburgo prima dell'otto giugno 1253 e posero dei fideius-
^ Si trattava di metà delle decime di Castillono e PidrÌ9ago e di otto
decime a Pirano. Presenti furono Marco Zeno e Marino Soranzo veneziani,
Ottobergogna di Spilimbergo, Volrico di Reifenberg, Filippo di Weissenstein,
Bonomo di Varmo. Dee, nell'Archivio di Stato a Vienna. Per l'albero genea-
logico dei Goriziani cfr. il mio : Vicende del Friuli durante il dominio della
casa imperiale di Franconia, Cividale, 1913, p. 93.
2 Si noti che Mainardo di Gorizia aveva sposata Adelaide, una delle
due figlie di Alberto II conte del Tirolo; questi non aveva prole maschia.
3 Annal. s. Rudberti, in M. G. H.\ Scriptt., IX, p. 792.
* VoN Jaksch, Die Kàrntner cit., n, 2500.
^ Ibid., n.' 2507 e 2509.
40 Pio Paschini
sori per il pagamento: Enrico di Mels fece suo garante Ditmar
di Weisseneck per 40 marche d' argento ; Biaquino q.^'" Uda-
scalco di Duino fece garante il co. Ermanno di Ortenburg per
20 marche ; Rodolfo di Duino fece garante Rudolf o e Colo di
Ras per 100 marche*.
Ma anche il conte Mainardo dovette sottostare a gravi sa-
crifici per liberare il conte del Tirolo. Il conte Ermanno di Or-
tenburg aveva dato in pegno per la somma di 400 marche d' ar-
gento, da pagarsi per il San Martino, i suoi beni a Kals in Ti-
tolo. La somma doveva servire allo scopo sopradetto ; ed a sua
volta, con atto rogato a Millstatt il 22 dicembre, Mainardo diede
a lui in pegno dei beni a Naklas in Carniola ed i proventi del-
l' avvocazia sul castello di Sommereck ^.
Poi il 23 dicembre a Gmùnd lo stesso Mainardo diede fi-
deiussori alla chiesa di Bamberga per il pagamento che avrebbe
fatto a Villach di cento marche d' argento ^.
Finalmente il 27 dicembre 1252 fu fatta a Lieserhofen a nord
di Spittai la pace tra Filippo di Salisburgo da una parte ed i
conti del Tirolo e di Gorizia dall' altra *, e finirono queste inimi-
cizie per allora; ma dovevano ripullulare un quindici anni più
tardi, per terminare con una completa rivincita dei Goriziani sopra
r odiato avversario.
4. Dal trattato d' alleanza che il patriarca Bertoldo aveva
stretto con Venezia il 14 settembre 1248 era stato positivamente
escluso il conte di Gorizia, i cui interessi nei trattati antecedenti
erano sempre legati con quelli del patriarca. Una tale condi-
zione di cose era insostenibile ; ed il conte Mainardo si trovò
ben presto costretto a regolarla. Nell'aprile 1253 noi lo troviamo
a Venezia, intento appunto a regolare i suoi affari colla repub-
blica e coi mercanti veneziani. Nel palazzo ducale il 12 di quel
mese, accompagnato da Ugo di Reifenberg, Corrado di Lienz,
Pezemanno e Leopoldo di Ragogna, Aincio di Ragogna, alla
presenza di Guglielmo de Stasio di Treviso e di alcuni Vene-
ziani, il conte costituì Rinieri Zeno, doge di Venezia, suo arbitro
nelle discordie che aveva colla repubblica, promettendo di adem-
piere a quanto il doge avrebbe sentenziato, sotto pena di 200
^ VoN Jaksch, Die Kàrntner cit., n.' 2512-13-15.
2 Ibid., n.' 2516 e 2522, 2526 (26 dicembre).
3 Ibid., n.' 2517 e 2523, 2525, 2528 (26 dicembre).
4 Ibid., n. 2529 ed anche 2530-31 ; furono compresi nella pace anche
i Mels.
Gregorio di Montelongo patriarca d' Aquileia 41
marche d' argento ; diede come sicurtà Porto Latisana colla muta
e con tutto ciò che vi possedeva, e pose come suoi fideiussori:
Detalmo di Caporiacco, Guglielmo di Fontanabona, Glizoio di
Mels, Wicardo di Grisignana, Bernardo di Zuccola, Carello di
Flagogna ^. Era questa una completa dedizione alla repubblica,
la quale, come si può ben comprendere, anelava ad avere in sua
mano, in un modo o nell'altro, gli sbocchi fluviali per il com-
mercio coir interno.
Questo per la parte politica; veniamo ora alla parte finan-
ziaria. Se le finanze del patriarcato erano spesso gravate di pre-
stiti rovinosi e depauperanti, quelle dei conti di Gorizia non
erano certo più floride. Ne vediamo subito le prove.
Il 13 aprile di quell'anno 1253 in Venezia si sciolse la so-
cietà che Marco e Jacopo Ferioli avevano stretta con Gerardino,
Guglielmino, Guerretta e Zilio di Cividale, e si divise fra le due
parti il credito di 326 marche che la società aveva verso Mai-
nardo, conte di Gorizia. I Ferioli rinunciarono alle 140 marche
eh' erano toccate loro in quella divisione, e ad altre 40 marche
dovute loro dal conte per panni e merci somministratigli. Ma
non si deve credere che quei banchieri facessero un atto di ge-
nerosità; non si fece che mutare il titolo esterno dell'obbliga-
zione, rinnovare il mutuo, liquidare il vecchio credito ; perché in
quel dì stesso il conte si professò debitore verso i Ferioli di
180 marche e promise di pagarle in rate prima del 24 dicem-
bre 1254 sotto pena di pagare altrimenti il doppio, meno cin-
que soldi, coi danni e le spese ed obbligò per questo tutti i suoi
beni ^.
Un nuovo patto fece a Venezia in quest'occasione il conte
Mainardo per avere denaro, che doveva servirgli, io credo, per
pagare i debiti contratti nella sfortunata impresa contro Filippo
di Salisburgo. Il 25 aprile, per mille lire veronesi ricevute da
Marco Zorzano, per tremila avute da Marino Soranzo, Marco
(Matteo, è chiamato anche nel documento) Polo, e dallo stesso
Marco Zorzano, il conte vendette al Polo, al Soranzo ed al
Zorzano gli introiti delle case di Porto Latisana, la muta del
i V. Joppi, Documenti goriziani del secolo XII e XIII, Trieste, 1892,
n. 27. Come vedremo a suo luogo, il conte accettò più tardi anche per parte
sua i patti del trattato che il patriarca Gregorio rinnovò colla repubblica.
2 R. Predelli, // « liber communis » detto anche « plegiorum », Ve-
nezia, 1872, p. 170, n. 721. Giurarono per il conte Ugo di Reifenberg e
Wicardo di Grisignana.
42 Pio Pas chini
Porto col provento del macello, e tutto ciò che colà aveva « iu-
« dicio dumtaxat seu wadiis sive bannis et penìs memorato do-
« mino corniti reservatis », per quattro anni da S. Ermacora in
poi ; colla clausola che se prima dei quattro anni i tre soci aves-
sero realizzato le 4000 libre, il sovrappiù che fosse percepito
spettasse per un terzo al conte e per i due terzi a loro ^
Nel luglio del 1553 vedremo anche il patriarca Gregorio ri-
correre a Venezia per trovare denaro: in questo almeno erano
ambedue alla pari, e Venezia era in grado di provvedere ad
ambedue.
5. Ma il conte Mainardo volgeva le sue speranze verso il
Tirolo, dove la sua ambizione aspettava un grande incremento
per sé e la sua casa. Il 5 luglio 1253 presso Napoli Corrado IV
di Germania diede in feudo al conte Alberto del Tirolo ed ai
figli di Mainardo, conte di Gorizia, il castello di Ulten ed i luo-
ghi tra Fern e Scharnitz, che erano ricaduti all' impero dopo la
morte di Ulrico, conte di Ulten ^.
Questo fatto ci induce a credere che tanto il conte Alberto,
quanto Mainardo V ed Alberto I, figli del conte Mainardo, ave-
vano seguito Corrado nella sua spedizione verso il regno della
Sicilia, e quest'investitura doveva essere il premio per i loro
servigi.
Il conte Alberto del Tirolo morì nel 1253 ^, lasciando suoi
eredi i due generi Gebardo, conte di Hirschberg (località bava-
rese presso Eichstàdt) e Mainardo conte di Gorizia. L'eredità
rimase per allora indivisa, forse in causa dei torbidi causati dal-
l' ambiziosa condotta di Ottocaro II, re di Boemia, fors' anche
per r assenza di Corrado IV, che doveva concederne l' investitura.
Scoppiata la guerra fra Bela IV, re d' Ungheria, ed Otto-
caro, re di Boemia, Mainardo non vi prese parte diretta. Ma ci
narra un cronista tedesco che nel 1253 « Ottone, duca di Ba-
viera, divisò di andare incontro, insieme con suo figlio Enrico,
a Bela, re d' Ungheria, che in quell' anno, come nell' antecedente,
^ Archivio Imper, di Vienna; Joppi, Doc. goriz. cit., n. 26. Presenti, oltre
alcuni veneziani, Detalmo di Caporiacco, Glizoio di Mels, Carlo di Flago-
gna, Ugo di Reifenberg, Ainzo di Ragogna. Come risulta dal documento, il
conte aveva contratto un debito di 3000 libre con Giovanni Barozzi, Leo-
nardo Babilonio e soci; per pagare questo debito egli fece il nuovo prestito
col Soranzo, il Polo e lo Zorzano.
2 BóHMER-FiCKER-WiNKELMANN, Regcsta Imperii, tomo V, n. 4599*
3 Annal. S. Rudberti cit., in M. G. H.: Scripti., IX, p. 792.
Gì' eg or io di Montelongo patriarca d' Aquileia 43
era entrato con forte esercito nell' Austria e nella Moravia, ma
ne era stato impedito dalle fortificazioni e dalle soldatesche del-
l' Austria superiore (postevi da Ottocaro)... Allora coli' aiuto di
Mainardo, conte di Gorizia, e di Ezzelino, nobile di Treviso,
Enrico, figlio di Ottone duca, per la valle di Trento, passò in
Ungheria presso il suo suocero, il re Bela ». Sicché il conte
Mainardo concesse il transito per i suoi stati alle soldatesche ba-
varesi scese dalla valle dell' Adige. Non sappiamo quale via tenes-
sero per attraversare il Friuli ; certo è che ritornarono l' anno se-
guente coir aiuto di Filippo, arcivescovo di Salisburgo ; il che
vuol dire che attraversarono la Carintia od il Salisburghese ^
Noi troviamo invece il conte Mainardo il sabato 13 giu-
gno 1254 a Pordenone nell'oratorio di S. Antonio, dove ven-
dette a Guido di Porcia per 2000 libre di piccoli e poi lo investì
a retto e legale feudo « de tota dominatione que pertinet Por-
« tunaoni ac predio scilicet de villa Portunaonis et de Ruralia » ;
col patto che se Guido avesse a catturare qualche ladrone, per
corrigiam lo dovesse consegnare al conte ^. Il conte Mainardo
era venuto dunque in possesso della villa di Pordenone ed adia-
cenze, forse quale erede od in forza di qualche contratto coi
Prata o coi signori di Castello.
Più tardi, 1' 1 1 settembre 1254, dinanzi al patriarca Gregorio
nel palazzo patriarcale di Udine, Mainardo diede in feudo ad
Ainzo di Ragogna, Villanova, località posta a mezzodì di Por-
1 M. G. H. : ScrtptL, XVII, p. 395 sg. Si ricordi che Otto, duca di
Baviera, era stato scelto nel 1248 a capitano dell'Austria da Federico II,
quando Mainardo di Gorizia era stato designato capitano della Stiria. M. G.
H.: Scriptt., IX, p. 598 e p. 790.
- Presenti: Detalmo di Caporiacco, Glizoio di Mels, Federico di Pin-
zano, Vielmo di Fontanabona, Leonardo di Versola, Odorico di Reifenberg,
Rodolfo di Udine, Svarzmano di Cormons, Odorico di Portogruaro, Arpidino
cerdo di Pordenone. Joppi, Doc. goriziani cit., n. 28; Bianchi, Doc. Reg.,
n. 195; Doc. mss., n. 217. Nel Bianchi, ibid., n. 214, si ha un regesto Ni-
coletti colla data 13 gennaio; ma credo si tratti di errore, cioè di un Jan
invece di Jim : altri se ne trovano in quei regesti. Questo regesto specifica
però meglio i Ruralia cioè: dominio e giurisdizione nella curia di Corde-
nons, villa di Zoppola, villa di Pordenone exlra terrani, villa di Rorai, villa
di Villotta, terra e mulini di Pordenone. Cfr. E. S. di Porcia, / primi da
Praia e Porcia, p. 51. Guido di Porcia s'era trovato con Ezzelino a Verona
il 28 marzo 1253 (ibid., p. 50 e p. 118 sg.); egli quindi insieme con Guecello
di Prata e con Mainardo di Gorizia formava il gruppo di coloro che, par-
teggiando per Ezzelino, sostenevano il più forte e fortunato rappresentante
del partito imperiale in Italia.
44 Pi(^ Paschini
denone ^ Altro non sì sa che Mainardo facesse in questo mo-
mento in Friuli. Il 26 settembre 1254 era già a Lienz, dove donò
all' abbazìa di Admont un prato a Stali presso Grosskircheim ^.
Affari ben più importanti lo avevano chiamato oltr' Alpe.
Morto l'imperatore Corrado IV il 20 maggio 1254 a Lavello
presso Melfi, doveva ben regolarsi anche la faccenda dell' eredità
del conte Alberto del Tirolo, ch'era rimasta indivisa e della
quale non s'era ancora avuta l'investitura imperiale. Finalmente
il IO novembre 1254 a Merano Mainardo di Gorizia ed il conte
Gebhard di Hirschberg divisero fra loro i beni dì quell'eredità:
al goriziano toccarono tutti i beni posti nel vescovado di Brixen
sino a Peisser Brùcke presso Mittewald (a nord di Franzenfeste
in Tirolo), nella Carintìa e nel Friuli. E dei feudi situati in que-
ste due ultime regioni Mainardo ed i suoi eredi ebbero il diritto
di disporre a loro piacimento ^. Da questo momento Mainardo
portò i titoli dì: comes Goritiae et Tirolis, et Aquileiensìs . Tri-
dentinae, Brixinensis ecclesiarum advocatus.
Terminata anche questa faccenda, Mainardo tornò in Friuli.
Noi lo troviamo il 17 aprile 1255 col patriarca Gregorio a Pre-
mariacco, dove accettò anche per conto proprio i patti che questi
aveva stretti colla repubblica di Venezia.
Il 24 maggio 1255 Mainardo era a Cormons, dove per 500
marche di denari aquileìesi vendette e diede in feudo ad Otto
detto Bergogna dì Spilimbergo l' avvocazia di Villacaccìa, l' ari-
mannia di Gagliano, i suoi possessi di S. Maria di Sclaunicco,
di Sclaunicco, di Pozzuolo e dintorni, tre mansi a Manzano, ri-
servandosi il diritto di ricomprare tutti questi beni verso il pa-
gamento della stessa somma ricevuta *.
i Archivio di Stato di Vienna, cod. 447, f. 29. Il castello di Pordenone
ed altre adiacenze, che non appartenevano a Mainardo, ebbero nel 1262 altra
destinazione.
- VoN Jaksch, Die Kàrntner cit,, n. 2576.
3 Ibid., n. 2578.
•1 Archivio di Stato di Vienna, Presenti : Odolrico di Reifenberg, Odol-
rico di Treffen, Ainzo di Wolporgo, Olvino di Ragogna, Wicardo di Gri-
signana, Warzmanno di Cormons, Wariento di Cerò, Ernesto di Wisnivich,
Fulchero di Flassberg, Fulcheruzzo di Floiana, Almerico di Osoppo, Gio-
vanni Spancio ed altri. Cfr. con F. K. Carreri, Spilimbergensia Documenta
Regesta, in Misceli, di Storia Veneta, ser. Ili, voi. Ili, p. 3, che lo dedusse
da una copia del sec. XVIII dove invece di Villacaccia ci sta s. Zeno; certo
per errore. Villacaccia era proprietà dell'abbazia di S. Paolo di Lavant. Sino
dal 2 giugno 1242 il conte Mainardo aveva venduti per 300 libbre di piccoli
Gregorio di Montelongo patriarca d' Aquileia 45
Come s'è visto parlando degli atti del patriarca Bertoldo, i
conti di Gorizia avevano possessi e diritti in Istria che s'erano
notevolmente accresciuti coli' eredità di Matilde di Andechs,
moglie di Engelberto III. Nessuna meraviglia quindi che il
conte Mainardo, figlio di Engelberto, ed i suoi vassalli cercassero
di accrescere quei possessi e quei diritti.
Ne abbiamo ricordo in un atto solenne avvenuto il 15 gen-
naio 1256 a Pola nella chiesa di S. Maria di Canneto. Otto, ve-
scovo di Pedena, chiese al conte Mainardo, se Vodolrico di
Reifenberg ed Artuico di Parenzo avessero operato a nome suo
neir usurpare il diritto di avvocazia sul castello di Orsera; ed il
conte riconobbe non avere alcun diritto in quel luogo e luoghi
vicini ^ Siccome troviamo presenti a questo fatto, oltre Guglielmo
vescovo di Pola, anche Rugerino, vescovo eletto di Ceneda, Be-
rengero, preposito di S. Odorico, e Nicolò de Lupico, dobbiamo
credere che quest'interrogazione del vescovo di Pedena sia stata
provocata per volere od ispirazione del patriarca d' Aquileia, cui
premeva impedire che il conte di Gorizia avesse a complicare
colle sue pretese le abbastanza difficili condizioni dell'Istria.
Dopo un soggiorno oltr' Alpe, che ci è attestato da un do-
cumento redatto a Lienz il 20 ottobre, col quale confermò una
donazione fatta in favore dell' abbazia di Admont ^, noi troviamo
il conte Mainardo di nuovo a Pola il 14 gennaio 1257, dove
Pietro quond. Facino di Capodistria gli promise di far sì che
Monfiorito e Glizoio fratelli di Pola gli consegnassero per un anno,
a cominciare da vS. Michele (29 settembre), la villa di Piagna,
dietro il compenso di 1444 lire di piccoli veneziani ^.
6. E questo l'ultimo atto compiuto dal conte Mainardo, di
cui ci rimanga memoria. Egli morì durante il 1258 *, lasciando
veronesi i suoi diritti dì avvocazia su Villacaccia alla stessa abbazia di
S. Paolo con diritto di recuperarli sborsando la stessa somma (Von Jaksch,
Die Kàrntncr cit., n. 2243). Si capisce che prima del 1255 era riuscito a
riaverli ; bisogno di denaro lo costrinse di nuovo ad alienarli.
^ JoPPi, Aggiunte al Cod. Diplom. Istr., 1878, p. 38, n. XIV.
- Von Jaksch, Die Kàrntner cit., n. 2638.
3 Archivio di Stato di Vienna. Presenti : Giovanni di Cucagna, Ainzo di
Mels, Ainzo di Pisino, Mainardo di Cero, Cono di Momiano, Ainzo di
Procolpurg, Ratolfo di Trieste.
4 Gli An?iales S. Rudberti cit. ci riferiscono all'anno 1255: « Meinhardus
« Comes Goricie, filiis suis prò Alberto quondam comite Tyrolense in capti-
« vitate constitutis, obiit ». Questa morte dovrebbe assegnarsi al 28 gen-
naio 1256, secondo l' editore di quella cronaca. M. G. H. : Scriptt., IX,
4-6 Pio Paschini
eredi dei suoi titoli e della sua fortuna i suoi due figli Mainardo
ed Alberto \ che continuarono per lungo tempo ancora, a tenere
indivisa l'eredità paterna.
Egno, vescovo di Trento, che sino dal 28 luglio 1254 aveva
concesso a Mainardo stesso l'investitura dei feudi che il conte
del Tirolo aveva dalla chiesa di Trento, morto lui, tentò di ri-
vendicarli alla sua chiesa; ed infatti il 23 ottobre 1258 fece i
suoi reclami contro l' infeudazione del 1254, asserendo dì averla
allora concessa unicamente per paura di Ezzelino da Romano,
nemico della chiesa di Trento ^. Ma i due figli di Mainardo, non
si lasciarono impaurire da queste proteste, ed il vescovo dovette
di nuovo capitolare. Infatti il 19 febbraio 1259 egli si trovò
costretto a dare a Mainardo ed Alberto di Gorizia ed ai loro
eredi d' ambo i sessi, non solo l' investitura dei feudi che il conte
Alberto del Tirolo aveva ricevuto dalla chiesa di Trento, ma
anche quella dei feudi che essi avevano ereditato dai conti di
Ulten e di Eppan ^.
Rassodata in tal modo e definitivamente la situazione feudale,
poteva ormai Mainardo V, come primogenito, attendere a cercarsi
una sposa, quale bramavano le sue ambizioni. Il 6 ottobre 1259
infatti egli sposò a Monaco in Baviera Elisabetta, figlia di Ottone II
di Baviera, vedova, sin dal 1254, del re Corrado IV *. Mainardo di-
venne così patrigno del giovane Corradino, ultimo germoglio della
casa degli Hohenstaufen, ultima speranza del partito ghibellino.
p. 793. Ma questa notizia è errata, come sì rileva chiaramente da quanto
abbiamo già esposto. Secondo una cronaca del monastero di Stanis citata
da R. CoRONiNi, Tentamen genealogico- chronologicutn comituni et rerum Go-
ritiae, Vienna, 1753, Mainardo morì il 22 luglio 1258. Il monastero cistcr-
ciense di Stams, nella valle dell' Inn, era una fondazione dei Goriziani conti
del Tirolo, quindi la notizia è attendibilissima.
1 II nome di Engelberto, che era un nome famigliare nella schiatta go-
riziana, fu abbandonato e sostituito con quello di Alberto, certo in grazia
della parentela col conte del Tirolo, la quale risaliva ancora a Mainardo III.
• Cfr. Fontes RR. Austr., II, tomo V (Cod. Wangianus), p. 387 n.
3 Fontes RR. Austr., II, tomo V, p. 387 n. ; Bòhmer, Reg. Imp., V,
n. 15091.
* VoN Jaksch, Die Kàmtner cit., n. 2711. Come morgengabe il conte
Mainardo diede alla moglie i castelli di S. Michelsburg e di Rasen (il giorno
9 ottobre a Monaco). Fontes RR. Austr., Diplom., I, p. 48. In questa cir-
costanza del suo matrimonio egli si fece pure armare cavaliere per volere
della sposa; che intese in tal modo riparare alla distanza, nella scala feudale,
che v'era fra lei, regina, e lui semplice conte. Jo. Victorien., edit. Schnei-
DER, 1909, p. 194.
Gregorio di Montelongo patriarca d! Aquileia 47
Questo matrimonio è un indice della grandezza e dell'im-
portanza che aveva saputo acquistarsi la casa dei conti di Go-
rizia nella Germania sud -orientale. La caduta di Ezzelino da
Romano, che tanti interessi aveva anche nel Tirolo meridionale
e nel Trentino, e di suo fratello Alberico, avvenuta negli ultimi
mesi di quest'anno 1259 non potè compromettere le sue sorti,
ed essa potè con rinnovata energia far valere le sue pretese ed
i suoi diritti anche negli affari interni del patriarcato.
ni.
I. Gregorio di Montelongo eletto patriarca di Aquileia. — 2. Modifica-
zioni nel capitolo patriarcale. — 3. Lamentele del capitolo di Cividale. —
4, Il Montelongo, Corrado IV e l' impero germanico.
I. Quale fosse il motivo per cui il capitolo patriarcale di
Aquileia non potè procedere alla nomina del patriarca, non ci
è dato di sapere. Possiamo supporre che in seguito alla politica
tenuta negli ultimi suoi anni dal patriarca Bertoldo due correnti
si siano create in tutto il Friuli: l'una più feudale e più tedesca,
condotta dal conte di Gorizia, l' altra più comunale ed italica che
raccoglieva con sé buona parte dei ministeriali. In queste circo-
stanze una nomina regolare era difficilissima. Certo è ad ogni
modo, che Gregorio di Montelongo fu eletto patriarca di Aqui-
leia da papa Innocenzo IV ^ il 24 ottobre 1251 ^:
L'ingresso in Friuli del nuovo patriarca fu però ritardato
per più di due mesi e mezzo. Il Montelongo fece il suo ingresso
solenne in Aquileia il 13 gennaio 1252 ^, ma non ricevette la
i II Chron. Patriarch. Aquil. dice apertamente : « factus fuit Patriarcha
« per papam Innocentium quartum » ; De Rubeis, M. E. A., Append., p. 12 ;
così pure gli Annales S. Rudperti Salisburg., in M. G. H.\ Scriptt., IX, 972.
Il Lib. Regimin. Padue (anno 1252): « Gregorius de Montelongo ordinatus
« patriarcha Aquilegiensis ». R. I. S.~, tomo Vili, parte I, p. 321.
2 Questa data la si desume dalla cronaca di Giuliano che dà a Gregorio
un patriarcato di 17 anni, io mesi e i6 giorni, e concorda a meraviglia con
tutti i dati storici. Per abbaglio I'Ughelli, Batia Sacra-, V, col. 92 pone
la nomina del Montelongo al 21 novembre.
3 La data precisa ci fu conservata dal cronista Giuliano. R. I. S.^y
tomo XXIV, parte XIV, p. 3. Il Lib. Regitn. Padue, loc. cit. ; il Chronic.
Estense, ibid., tomo XV, parte III, p. 22 e gli Annales S. Justinae, in M^
G. H. : Scriptt., XIX, p. 162, dicono genericamente che il patriarca fece il
suo ingresso nel gennaio 1252.
48 Pio Paschini
consecrazione episcopale che più tardi, nell'agosto 1256, come
vedremo a suo luogo.
Sino dal 13 novembre 1251 papa Innocenzo IV indirizzò al
Montelongo, patriarca eletto di Aquileia, due lettere colle quali
liberava il monastero di S. Abbondio a Como da ogni esazione
ed incaricava lo stesso Montelongo di provvedere alle esauste
finanze di quello \ Questo ci dimostra che la legazione di Gre-
gorio in Lombardia non era ancora terminata.
2. Prima ancora di entrare nel patriarcato il Montelongo
ebbe ad occuparsi del capitolo aquileiese. Questo aveva riferito
al papa, « che la prepositura della sua chiesa, per l' incuria di
certi prepositi i quali l' avevano tenuta temporaneamente, era di-
ventata inutile e dannosa per la chiesa stessa », ed avevano
chiesto che fosse trasformata in cantorato ; il papa con lettera
del 29 novembre 1251 commise al nuovo patriarca eletto di dare
esecuzione con autorità apostolica al mutamento domandato, qua-
lora lo avesse ritenuto opportuno ^.
Infatti dopo la riforma introdotta nel capitolo dal patriarca
Vodolrico II nel 1181 e dopo sopite le ultime pretese accam-
pate dai prepositi Gabriele e Poppo, la prepositura aveva per-
duta ogni importanza. Altre riforme erano state poi introdotte.
11 patriarca Bertoldo vi aveva introdotto la recita dell'ufficio della
Madonna, affidandolo a sei cappellani che provvide di rendite
speciali (anno 1224)^. Da Lione il 20 dicembre 1244 papa Inno-
cenzo IV colla sua autorità apostolica aveva approvato uno sta-
tuto emanato dal decano e dal capitolo, col quale si erano istituiti
dodici mansionari, cioè quattro preti, quattro diaconi, quattro
suddiaconi, per il servizio divino e si erano assegnati per il loro
mantenimento ì redditi di sei prebende canonicali * ; di modo
1 BóHMER, R. /., n. 8425; Registr. Innocent. IV, n.' 5511-12. Per er-
rore il Bianchi, Doc. Reg., n. 187; Doc. mss., n. 210, rimanda questi do-
cumenti al 1252.
2 BòHMER, R. /., n. 8429; Registr. Innocent. IV, n. 5509. Il Bianchi,
Doc. Reg., n. 188, assegnò questa lettera al 1252, ma nei Doc. mss. corresse
l'errore. Risulta dalla lettera che il reddito della prepositura non superava le
12 marche, però numerosi erano i feudi che da essa dipendevano e che furono
assegnati al capitolo. Già Onorio III aveva detto della prepositura che « circa
« temporalia tantum consistit ». Reg. Honor. Ili, tomo II, p. 287, n. 5207.
3 Istituzione confermata poi da Gregorio IX il 9 giugno 1230. G. Cap-
pelletti, Le Chiese d'Italia, Venezia, 1851, tomo Vili, p, 293.
^ Registr. Innocent. IV, n. 783. Cfr. De Rubeis, Diss. variae eruditionis
mss., p. 250.
Gregorio di Mo7itelongo patriarca d Aquileia 49
che ogni mansionario percepiva la metà di quanto percepiva ogni
canonico.
Né le riforme s' erano limitate a questo. Soppressa la pre-
positura, il decano era rimasto il vero capo del capitolo, ma le
sue rendite, fissate nella costituzione di Vodolrico II, parvero in-
sufficienti a coloro eh' erano rivestiti dell' alta carica.
Il 5 dicembre 1251 da Perugia, papa Innocenzo IV scriveva
a Gregorio, patriarca eletto, per informarlo come il vescovo di
Camerino gli avesse riferito, che sin da quand' egli era decano
d' Aquileia, i redditi di quel beneficio appena superavano sei mar-
che d' argento e perciò aveva chiesto che fossero aggiunte al be-
neficio le distribuzioni quotidiane che toccavano ad un canonico ;
ed il papa (il 5 novembre 1246 ^) le aveva concesse, purché il
decano osservasse la residenza. Ma ora il capitolo, per non di-
minuire le distribuzioni stesse già esigue, aveva chiesto che si
unisse invece al decanato una delle quaranta prebende che com-
ponevano il capitolo ; il papa perciò delegò il patriarca eletto a
fare la chiesta unione, qualora la credesse utile ^. Ed è ben pro-
babile che la volontà del papa avesse la sua esecuzione.
Poco dopo anche i canonici, visto che col lamentarsi si ot-
teneva qualcosa, si mostrarono malcontenti della tenuità delle
loro prebende. Infatti una lettera di Alessandro IV del 3 marzo
1255 al patriarca eletto ci fa sapere, che i canonici d' Aquileia si
lamentavano di non poter vivere decorosamente con tre marche
e colle distribuzioni quotidiane, che costituivano tutti i loro red-
diti ; perciò il papa comandò che, coli' assenso del capitolo stesso,
man mano che le prebende rimanevano vacanti, si riducesse il
numero dei canonici ^. Ed infatti il 6 marzo 1260 il patriarca sta-
* Bolla in Archivio Capit. di Udine.
~ Registr. Innocent. IV, n. 2210. Questi è il decano Guglielmo, diven-
tato vescovo di Concordia il 5 gennaio 1251 e poi vescovo di Camerino.
Poi il 25 maggio 1254 a Cividale Vernerio di Cuccagna, Volrico Cadorino
e Corrado di Brazzacco, incaricati di risolvere alcuni dubbi su una sentenza
arbitrale da loro pronunciata fra Asquino decano di Aquileia ed il suo ca-
pitolo il giorno 14 maggio, stabilirono che il vicedecano dovesse essere sa-
lariato coi beni del decanato, se il decano dimorava più di due mesi fuori di
Aquileia senza che avesse commissione di trattare gli affari del capitolo. Quando
il decano era assente per trattare gli affari capitolari doveva ricevere doppia
prebenda. Il decano doveva ricevere quanto i canonici negli anniversari, ben-
ché nel resto avesse il doppio. La sentenza eh' era stata pronunciata dai tre
arbitri non ci fu conservata. Cappelletti, op. cit., p. 309.
3 Ughelli, Italia Sacra^, V, p. 93.
50 Pio Paschini
bili che le prebende canonicali fossero per l' avvenire ventiquattro ;
ed Asquino decano ed i suoi canonici promisero di non violare
questa decisione ^
Il patriarca Gregorio avrebbe esteso più oltre ancora la sua
influenza riformatrice sul capitolo d'Aquileia. A lui infatti si at-
tribuisce un primo abbozzo di statuto capitolare, il quale poi si
sarebbe accresciuto col volgere degli anni, finché fu redatto in
iscritto in forma pubblica nel 1492. Ma dal testo degli statuti
stessi nulla risulta che attesti un intervento diretto del Monte-
longo in questo campo. Al tempo suo, oltre i documenti ora ri-
cordati appartiene solo forse un decreto, senza data, di A[squino]
decano e vicedecano e del capitolo^, col quale « si divisero propor-
zionalmente certe possessioni que ohedientie nuncupantur », per-
ché l'industria dei singoli avrebbe provveduto all'amministra-
zione di quei beni meglio che la comunità ; e si obbligò ciascun
canonico a giurare di conservare i diritti del capitolo, della pre-
benda propria e degli altri, « senza gravare i massari ed i co-
loni del capitolo, che si amministravano in comune od in diviso,
con ospizi, angherie, e servizi per sé o per loro inviati. Nessuno
venda, infeudi, doni od alieni in qualunque modo una parte, par-
ticella, o l'intera possessione della prebenda che gli appartiene
senza il consenso del capitolo. E nemmeno potrà dare in pegno
o vendere i proventi di quella a qualche potente milite o ad un
servo non suo ; né per alcuna ragione potrà affittare mai i pos-
sessi della prebenda in parte od in tutto a qualche milite potente,
o qualche hurgense potente o servo. Giurerà pure di non dete-
riorare la sua prebenda, ma di conservarla e di migliorarla ecc. ».
Il decreto termina col regolare l' opzione e la permuta delle pre-
bende e coir imporre pene ai trasgressori.
Queste regole e questi mutamenti dimostrano all' evidenza
che la vita comune, introdotta nel capitolo d'Aquileia nel 1181,
andò man mano sfasciandosi sino a ritornare alla divisione delle
prebende ed all'amministrazione separata di ciascuna di esse. Il
cumularsi di più benefici su di una stessa persona, malanno che
andò crescendo sempre più a cominciare dalla seconda metà del
secolo XIII, rese necessaria una tale modificazione ; i canonici in-
i Bianchi, Doc. Reg., n. 259; Doc. mss., n. 282; Cappelletti, op.
cit., p. 310.
2 Cappelletti, op. cit,, p. 312 sg., dove il decreto è distinto in tre
paragrafi, e tien dietro agli altri sopra ricordati. Lo statuto occupa poi le
pp. 313-372 e termina colle bolle che lo confermarono a p. 377.
Gregorio di Mo7itelo7igo patriarca cC Aquileia 5 i
fatti, ed i decani specialmente, non risiedendo più presso la loro
chiesa, volevano avere in denaro le loro rendite per potersele
spendere a piacere, altrimenti sarebbe stato loro inutile avere il
beneficio ; crebbe per conseguenza la trascuranza del culto divino
ed il numero di quei canonici, che liberati o sottrattisi all'ob-
bligo dell' ufficiatura tenevano vita secolaresca od attendevano ad
altre incombenze, talvolta ben poco convenienti al loro grado.
3. In analoghe condizioni dovette pure ritrovarsi il capitolo
di Cividale. Troviamo spesso persone che avevano contempora-
neamente prebenda là ed in Aquileia, talora anche un vescovado
nell'Istria. Ma non possiamo dilungarci in queste particolarità.
Merita piuttosto che ci fermiamo su di un' altra carta, che ci di-
mostra le violenze che si commettevano contro gli ecclesiastici.
Verso il 1252, probabilmente durante i primi mesi del suo
governo, il capitolo di Cividale indirizzò al nuovo patriarca un
memoriale per chiedere giustizia contro le usurpazioni di cui era
oggetto. Rizzardo, ch'era stato privato della pieve di Fagagna,
continuava a molestare il capitolo nel possesso di quella chiesa.
Un certo Otto, che aveva alcune terre a censo, non pagava i
censi, e benché una clausola del contratto lo privasse per ciò
stesso del possesso di quei beni, egli continuava sempre a te-
nerli. Bregogna [di Spilimbergo], ministeriale d' Aquileia, colla
violenza aveva usurpato un manso a Camino, lasciato al capìtolo
da una certa Cesara colla clausola che i redditi si dessero in
elemosina il dì del suo anniversario. Non venivano quasi af-
fatto pagati i legati in denaro lasciati per testamento al capi-
tolo. Enrico di Strassoldo teneva colla violenza un mulino, che
doveva fruttare ogni anno più di venti misure. Un certo Mizolo,
milite del conte [di Gorizia], pretendeva esercitare l' avvocazìa su
certi possessi, mentre il solo patriarca era il verus advocaius del
capitolo ^ Spanello, servitore del conte, aveva preso le armento
^ Le prepotenze di costui sono esposte a parte : egli esercitava l' av-
vocazìa sulla villa de Biarcio, dove aveva il solo diritto di decima; aveva
dato in affitto un manso nella villa di Candallis, che apparteneva alla custo-
dia e per questo quella villa perdeva i pascoli e gli altri suoi diritti ; aveva
tagliato un piede ad un contadino di quel luogo e non aveva dato risarci-
mento ; imponeva oneri ai contadini di Biarcio ed aveva costituito colà ga-
staldo un certo Enrico di Antro, servo del patriarcato, il quale più volte
all'anno si faceva dare agnelli, galline e tutto ciò che gli piaceva ; aveva
tagliato un bosco a Pradielis ; aveva resi soggetti a sé i contadini di Ga-
gliano, à danno della collegiata.
52 Pio Pas chini
del capitolo e fatte prepotenze in alcuni possessi; un altro servi-
tore del conte a Bertiolo aveva fatte altre prepotenze ed il capi-
tolo non aveva potuto ottenere soddisfazione dal conte in alcun
modo.
Essendo la carta male conservata, non possiamo bene com-
prendere la natura di altre proteste ; si arguisce però che il ca-
pitolo chiedeva di essere liberato dal peso delle provvisioni mo-
leste, che fossero redintegrati certi diritti della prepositura, che
fosse punito Enrico di Zegliacco, che abitava un castello patriar-
cale, che fosse resa giustizia di una rapina subita a Cornozano.
Cono di Moruzzo aveva tolto al massaro del capitolo in Orsaria
tutti gli animali che aveva, e Radio di Gagliano aveva usurpato
un censo.
Finalmente il capitolo chiedeva, che il patriarca comandasse
al podestà ed al gastaldo di Cividale che facessero eseguire le
pene temporali che il capitolo, in forza della sua podestà arcidia-
conale, lanciava contro gli usurai, gli adulteri e gli altri colpe-
voli, delle quali condanne essi invece s' infischiavano.
In un altro elenco, annesso a questo ma forse alcun poco
posteriore, perché vi si parla di ripetute lagnanze presentate al
patriarca, troviamo memoria di altre usurpazioni compiute nei
dintorni immediati di Cividale. Pabilino aveva tolto al capitolo
un manso rilasciato da suo fratello Dietmaro ; — Enrico di Vil-
lalta occupava una terra a Zuccola presso la chiesa di S. Mauro ;
ed Ermanno di Portis un'altra terra in quello stesso luogo — ,
Bunino di Togliano con suo figlio Giovanni aveva usurpato mezzo
manso a Togliano ed altre terre e prati ; — donna Cosa occupava
una casa a Cividale, e perciò il capitolo aveva perduto un censo.
Il capitolo si lamentò pure che il suo decano intendesse
alienare un manso a Botenicco, che gli era stato dato dal
capitolo stesso quale feudo personale per concederlo ad un suo ni-
pote, e che inoltre, sebbene ammonito dal vicedomino patriarcale
e dal capitolo, non aveva ancora voluto riconoscersi obbligato
verso la chiesa per alcuni libri, privilegi e possessi che gli erano
stati dati ad personam ; — e si lamentò pure contro il patriarca
perché aveva occupate le prebende « que in coquina dantur de
« pasca usque ad aliud pasca » ^
Non sappiamo come e quando il patriarca rendesse giustizia ;
ma se, come è assai verisimile, non il solo capitolo di Cividale
* R. Museo di Cividale, Archivio Capitolare, voi. IV, 98.
Gregorio di Montelongo patriarca cC Aquileia 53
si trovava in tali critiche circostanze, possiamo valutare quale
difficile compito gravava sul Montelongo ; ma egli seppe assol-
verlo da uomo valente quale egli era.
4. Le guerre che avevano sconvolto il patriarcato negli ul-
timi anni avevano dato libero campo a tutte le cupidigie ed a
tutte le prepotenze; le necessità in cui s'era trovato il patriarca
avevano fatto sì ch'egli non le potesse punire, specialmente in
coloro dei quali più aveva bisogno ; i mutamenti prodotti dal-
l'evolversi delle forme politiche e sociali avevano creati dissensi
colle antiche costumanze — a tutto bisognava provvedere. E non
v' era più un' autorità imperiale che colle sue leggi, colle sue de-
cisioni, colle sue condanne rincalzasse, come per il passato, il
potere del patriarca. Questi doveva fare da sé e reggersi colle
sue forze di fronte ai nuovi interessi che i signori confinanti ten-
tavano creare a loro vantaggio.
È evidente che il Montelongo avrebbe continuato in quella
politica guelfa, ch'egli aveva fatto trionfare in Lombardia. Una
nuova difficoltà che avrebbe potuto diventare molto grave sorse
prima ancora eh' egli ponesse piede nel patriarcato.
Neil' ottobre - novembre 1251 Corrado IV, re di Germania,
figlio di Federico II, partì dalla Germania, per venire a pren-
dere possesso del regno di Sicilia. A Verona fu accolto con
grande festa da Ezzelino da Romano, capo del partito imperiale
nella Marca ; venne a Vicenza, a Pordenone e di là a Latisana *,
dove nel dicembre s'imbarcò per recarsi in Puglia. I documenti
non lo dicono espressamente, ma si può agevolmente supporre,
che fosse il conte di Gorizia, fedele aderente di casa Hohenstaufen,
a proporre l'imbarco in quel luogo, che era sotto la sua imme-
diata giurisdizione, e dove avevano potuto approdare le navi del
regno. I venti contrari, com' io suppongo, impedirono poi al
giovane principe la navigazione diretta. Il 14 dicembre mentre era
a Pirano, egli ingiunse al podestà ed ai nobili di Capodistria di non
fare atto di obbedienza e fedeltà a Gregorio, patriarca eletto,
perché l' Istria era stata data in feudo dal padre suo al patriarca
Bertoldo, e dopo la morte di lui era ritornata all'impero, e pro-
mise di aiutarli e difenderli contro chiunque li avesse a molestare.
1 Jo. ViCTORiENsis, ed. ScHNEiDER, 1909, pp. 131 e 194; LibcT Re-
gim. Paduc, in R. I. S.-, tomo Vili, parte I, p. 320. Non è arrischiato supporre
che il viaggio di Corrado ritardò l'ingresso del Montelongo in Friuli, ed è
degno di nota che appena partito Corrado egli si affrettò a recarsi in sede.
54 Pio Paschini
Inoltre con un altro documento, ad istanza di Andrea Zeno
podestà e della comunità, egli concesse per grazia speciale a Ca-
podistria di potersi eleggere a piacimento un podestà fra i fe-
deli dell' impero e sopratutto di godere completa libertà *. Ana-
loghi favori concesse Corrado alla città di Parenzo da Pola dove
si fermò, cioè : la libera scelta del podestà, tutte le regalie della
città stessa, ai notai imperiali il libero esercizio del loro ufficio,
r esenzione dal pedaggio o muta per tutto ciò che si vendesse
in città e fosse importato per via di terra, libero permesso ai
mercanti parentini di negoziare nel regno di Sicilia ^.
Dopo una breve fermata a Spalato, l'S gennaio 1252 Cor-
rado IV sbarcava nel regno a Siponto.
E evidente che la concessione dei tre ricordati diplomi fu
fatta in odio al patriarca eletto, ch'era stato il più attivo e va-
lente nemico di Federico II nell' Italia settentrionale. La sua ele-
vazione a patriarca, e quindi la sua signoria su un territorio di
confine così importante per le relazioni fra l'Italia e la Germania,
non era certo tale che potesse piacere al partito ghibellino. Che
Corrado non compisse allora che una vendetta, risulta dal fatto
che le franchigie, ch'egli concedeva alle città istriane, se inde-
bolivano il potere del patriarca, non accrescevano il potere del-
l' impero.
D' altra parte l' opera di Corrado IV non era certo tale che
potesse spaventare il Montelongo. Egli continuò tenacemente nella
sua aperta inimicizia contro gli Hohenstaufen ed i loro partigiani,
finché non rimasero sterminati. Per lui il vero imperatore era
Guglielmo d' Olanda, che era stato eletto contro Federico II ; ma
costui non aveva né i mezzi né la forza di far sentire la sua
autorità.
Quando il 26 gennaio 1256 morì anche Guglielmo, l'impero
di Germania piombò nella confusione. Un anno dopo, il 13 gen-
naio 1257, fu eletto Riccardo di Cornovaglia, che fu riconosciuto
anche dall'inviato di Ottocaro, re di Boemia. Ma il 1° aprile Ar-
noldo, arcivescovo di Treviri, fece proclamare imperatore Alfonso
di Castiglia, ed Ottocaro si buttò dalla parte di lui, per ritornare
il 9 agosto fra i fedeli a Riccardo ^. Fu forse per suggerimento
di Ottocaro che questi si pose in relazione col patriarca Gre-
*■ BòHMER, R. /., n.' 4566b, 4568.
2 BòHMER, R. /., n. 4569.
3 Ch. J. Hkfele, Histoire des Conciles, Paris, 1914, voi. VI, p. 25.
Gregorio di Montelongo patriarca cT Aquileia 55
gorio. Questi a sua volta, verso il 1258, con un'enfatica lettera
ringraziò Riccardo delle lodi e degli auguri da lui ricevuti, pro-
mise di fare in modo che tutto in Italia riuscisse a sua maggiore
gloria e grandezza, e riferì di avere già mandati nunzi al papa,
perché il papa stesso si movesse a chiamarlo in Italia, Anche la
lettera di Gregorio al papa ci fu conservata : egli mostrava, come
mancando il capo dell'impero tutto in Italia andasse in rovina
per le guerre e le discordie, e come la stessa autorità papale
fosse conculcata; giacché era stato eletto re Riccardo, pregava
il papa a chiamarlo in Italia ed a coronarlo imperatore \
Ma non pare che in realtà il patriarca desse troppa impor-
tanza a questo ricco inglese, che pretendeva di aver le forze per
guidare il rovinoso e discorde impero germanico. La sua accor-
tezza politica deve avergli ben fatto capire, che dopo i rovesci
subiti, l'impero non aveva più né autorità, né mezzi per diri-
gere le sorti dell' Italia e non si preoccupò affatto di lui. Le sue
lettere del 1258 colla loro retorica esuberante sembrano scritte
senz' alcuna fiducia di riuscita, e soltanto per salvare le appa-
renze di suddito feudale, quale egli era, dell'impero.
IV.
I. Interessi del patriarcato nell'Istria. — 2. Capodistria e Pirano. —
3, Parenzo e Montona, Valle e Rovigno. — 4. Cittanova, Isola, Miiggia,
Buie, S. Lorenzo. — 5. Pola.
I. Oggetto di speciali premure del Montelongo durante tutto
il suo governo furono gli affari dell' Istria. E si comprende. Era
di là che venivano redditi cospicui; era là una base di approv-
vigionamento per il Friuli. Anche Gregorio, come il suo ante-
cessore, portò costantemente il titolo di ?narchese d' Istria in
tutti gli atti che riguardavano il governo e l'amministrazione di
quel paese. Egli nominava i gastaldi che nei diversi luoghi tu-
telavano i diritti patriarcali ; egli confermava i podestà che le
singole comunità si sceglievano ; od anche nominava e confer-
mava a suo piacimento, tra i due o tre che le comunità stesse
gli presentavano, quello che stimava più idoneo ^.
1 E. WiNKELMANN, Ada imperii inedita saec. XIII, Innsbruck, 1880,
p. 586 sg.
' Cfr. Lenel, Venetian.-Istr. Studien, Strassburg, 1911, p. 149.
56 Pio Paschini
È evidente però che la distanza dei luoghi, la cresciuta im-
portanza dei negozi e la necessità di sorvegliare da vicino la
costante infiltrazione veneziana, richiedevano la presenza sul
luogo di un incaricato che tutelasse i diritti del patriarca.
Infatti durante il suo pontificato Gregorio tenne in Istria,
come suo rappresentante un rictarius o ritharius; che probabil-
mente sostituì il generalis gastaldio del patriarcato precedente.
Il Lenel argomenta che essendo il titolo di richtarius una pa-
rola tedesca, è poco probabile sia stato introdotto la prima volta
da un patriarca italiano ; e quindi suppone che fosse già in uso
sotto il tedesco patriarca Bertoldo, quantunque i documenti non
ce ne parlino. Ma la ragione non tiene, perché poteva benis-
simo anche Gregorio usare un tìtolo che, per quanto tedesco,
poteva essere ben compreso nel paese. Solo di tre ritari co-
nosciamo i nomi ; forse furono gli unici : Landò di Montelongo
suo nipote, Senisio de Bernardis milite di Padova ^ e Siurido
di Toppo ministeriale della chiesa aquileiese ^.
Se poi ci volgiamo alle singole città istriane, possiamo os-
servare, che durante il pontificato del Montelongo cessa di com-
parire al seguito patriarcale il vescovo di Trieste, che vi era
stato assiduo sotto i due precedenti patriarchi, L' importanza di
questo vescovado che chiudeva a mezzodì il centro dei possessi
del conte di Gorizia, serviva assai a rinfiancare il potere del pa-
triarcato. Ma le vicende avevano troppo sconcertato le sue rela-
zioni interne. In un atto del 6 maggio 1253 il vescovo Odorico
confessava, che la sua chiesa si era ridotta nella massima distru-
^ Landò di Montelongo era infatti podestà di Capodistria e Pirano e
ritario d' Istria il 9 ottobre 1254. Cod. Diplom. Istr. Il Lenel, op. cit., p. 148,
non conobbe che questo richtarius.
Senisio era il 7 marzo 1255 senescalco patriarcale (Bianchi, Doc. Reg.,
n. 207; Doc. mss., n. 228); poi fu podestà di Muggia nel 1257 e di Montona
nel 1258 (MiNOTTO, Doc. ad Forumjul., p. 26), nel 1261 di S. Lorenzo (ibid.,
p. 27) ed in quest'anno era già rittarius e tenne quest' ufficio per Io meno
sino al 7 aprile 1266 (ibid., p. 29). II io gennaio 1278 a Due Castelli il pa-
triarca Raimondo diede a Monfiorito di Pola, quale suo ricario in Istria, la
custodia di Due Castelli stesso. Monfiorito tenne quell'ufficio un anno; il
i» giugno 1278 il patriarca lo concesse per un anno a Genisio de Bernardis
(Bianchi, Doc. mss., n.' 422 e 436). Quell'ufficio dunque non cessò col pa-
triarcato del Montelongo. Cfr. il mio Ciociari ed altri italiani alla corte di
Gregorio di Montelongo cit., in queste Memorie, to. X, 1914, pp. 484 sg., 491 sg.
3 Nel doc. del 27 ott. 1269 {Cod. Dipi. Istr.) è chiamato Silbrido de
Foff; ma mi pare sicura la correzione che propongo.
Gregorio di Montelongo patriarca d' Aquileia 57
zione e rovina e s' era gravata di un' enorme quantità di debiti,
per le grandi spese fatte all'assedio di Brescia (1238) a petizione
e per comando del patriarca Bertoldo, nell'andare e tornare dal
concilio di Lione (1245), nei viaggi in Austria, Stiria ed Unghe-
ria; inoltre per le gravi collette e provvisioni imposte a lui ed
alla chiesa da Ottaviano cardinale e da Gregorio di Montelongo,
legati della Sede Apostolica, per provvedere al regno d'Unghe-
ria, ai vescovi Arezeno (?) Trivigiano e Cenedese, per i gravi
danni e spese sostenuti nella guerra fra il patriarca ed il conte
di Gorizia. Perciò il vescovo dovette per 800 marche di denari
vendere al comune ed ai consoli di Trieste « ius collectae vini
« et olei (dazio sulla produzione), ius calcifìcum et pellipariorum
« (tassa personale sui redditi del mestiere), ius appellationum,
« ius consulatus, ius condemnationum », e concedere piena fa-
coltà di fare statuti e di giudicare ^ Era insomma una quasi
completa alienazione dei diritti signorili sulla città. Ed il 2 aprile
1257 anche il vescovo Arlongo dovette dare al comune ed ai
consoli r investitura di questi diritti, nello stato in cui ormai li
possedevano ^.
Se, durante il pontificato di Gregorio, nelle numerose carte
che riguardano l'elezione del podestà nelle città istriane non si
fa mai cenno di Trieste, si deve al fatto che il comune dipen-
deva direttamente dal vescovo, quantunque questa dipendenza
fosse ormai molto larga.
A differenza di quanto avveniva sotto gli antecedenti pa-
triarchi, anche i vescovi delle altre città istriane si vedono as-
sai poco presenti agli atti ed alle imprese del Montelongo. Gre-
gorio tenne seco Rogerino vescovo di Ceneda ed Alberto ve-
scovo pure di Ceneda e poi di Concordia. Egli preferì, io credo,
questi due personaggi, in grazia delle loro qualità di governo;
il primo egli conobbe certo prima di venire in Friuli ; il secondo
sperimentò negli anni in cui tenne 1' ufficio di vicedomino, ca-
rica che non dimise neppure quando fu nominato vescovo.
Molto ebbe invece a che fare il patriarca Gregorio colle
città istriane. Queste, come del resto in tutto il mondo feudale,
non erano tutte governate ad un modo, né godevano dei mede-
simi diritti e privilegi. La differenza maggiore stava fra le città
costiere, che avevano speciali contatti e trattati coi Veneziani, e
^ Bianchi, Doc. Reg., n. 190; Doc. mss., n. 211.
~ Bianchi, £>oc. Reg., n. 226; Doc. mss., n. 245.
58 Pio Paschini
le terre ed i castelli dell' interno dove maggiore era la forza
della feudalità.
2. Come nel pontificato antecedente, Capodistria era la città
che godeva maggior libertà, e sulla quale i Veneziani facevano
maggior assegnamento per isfruttare i mercati e le risorse dell' I-
stria. Corrado IV, come abbiamo veduto, ne accrebbe i privilegi ;
ma il patriarca Gregorio potè, da principio almeno, far valere
i propri diritti, senza però poterli allargare. Nel 1253 egli se-
dette prò tribunali a Capodistria e d'accordo coi cittadini decretò,
che a lui spettava la nomina del gastaldo patriarcale; ma il pa-
triarca doveva sempre designare a quell'ufficio un capodistriano
« sedendo in sede sua in eadem civitate prò tribunali » ^
Nel 1254 concesse alcuni feudi in Capodistria a certi citta-
dini del luogo, ma solo vita loro durante ^ ; ed a Vercio di Ca-
podistria, suo gastaldo colà, diede in feudo tutti i beni tenuti in
Capodistria ed in Isola da Domenico Fabro di Capodistria, col-
r onere di un annuo censo in frumento da pagarsi alla canipa
patriarcale di Castel venere ^.
Anche nella nomina del podestà l'autorità del patriarca fu
assai limitata. Il 7 maggio 1255 da Cividale il patriarca per
grazia speciale concesse ai cittadini di Capodistria di eleggersi
per queir anno a podestà chiunque volessero * ; e l'anno dopo
concesse loro persino il permesso di scegliersi a podestà un ve-
neziano '". E questa concessione continuò poi.
Il 3 febbraio 1264 in Aquileia il patriarca al comune di
Capodistria, che gli aveva chiesto un podestà veneziano, presentò
diverse persone; ed allora Leazario de Qillaco e Bernardo di
Belgramone, inviati del comune, scelsero Giovanni Badoer che
i Thesaurus, p. 231, n.' 567 e 569. Poiché i regesti ci hanno conser-
vata r indiz. XI, possiamo concludere che il patriarca fu a Capodistria prima
del settembre di quell'anno.
• Thesaurus, p. 232, n. 571, indiz. XII.
3 Thesaurus, p. 156, n. 302 ; G. Bracato, Regesti di Documenti Friu-
lani del sec. XIII da un Cod. De Rubeis, Cividale del Friuli, 1914, p. 25.
4 Presenti: Ropretto di Buttrio, Enrico di Capodistria, Rainaldo Rai-
naldini e Giov. Turolo senesi, Genisio di Padova senescalco patriarcale.
Bianchi, Doc. Reg., n. 207; Doc. mss., n. 228. Come si è veduto sopra,
podestà di Capodistria e Pirano era il 9 ottobre 1254 Landò di Montelongo.
Cod. Dipi. Istriano.
^ Thesaurus, p. 232, n. 572; a meno che quest'atto non sia un tutt'uno
con quello seguente, e ci sia qui errore di data.
Gregorio di Montelongo patriarca (£ Aquileia 59
il patriarca confermò ^ Anche questa volta dunque si trattava
di un podestà veneziano.
Curioso poi è un privilegio, di cui si trova notizia in un
regesto del 1292, ma che certo deve essere già esistito anche a
questo tempo. Gualengino di Capodistria ebbe allora l'investitura
di questo suo privilegio : « ogni qualvolta il patriarca tiene il suo
placito di regalia nella città di Capodistria, egli e quelli del suo
casato debbono avere uno dei hànna di regalia che toccano al pa-
triarca (cioè i redditi di uno di quei hanno), cioè se i banna sono
tre, uno spetta a loro, ma se sono due, niente tocca più a loro » ^.
Vedremo però che la politica longanime del patriarca verso
Capodistria portò frutti ben diversi da quelli che egli si aspet-
tava. Negli ultimi anni del suo governo la città si schierò aper-
tamente coi suoi nemici.
Terra vicina a Capodistria e che andava acquistando im-
portanza era Pirano.
Fin dal 1252 i cittadini di Pirano chiesero un podestà al
novello patriarca, e questi concesse loro Guarnero de Gillaco di
Capodistria^. Secondo il Thesaurus nel 1253 egli cassò la no-
mina dello stesso Varnero a podestà di Pirano, perché fatta da
quei cittadini senza suo permesso ; ma poi a preghiera del con-
siglio e del comune, di propria autorità, lo concesse loro come
podestà per un anno *. Ci resta testimonianza che anche nel 1258
i Piranesi chiesero ed ottennero licenza di eleggersi un podestà ^.
Ma nel 1261 il patriarca dovette imporre a quei di Pirano di
non eleggersi altro rettore all' infuori del podestà ^. Il podestà
^ Presenti : Alberto, vescovo di Concordia vicedomino, Mainardo di
Prata, Giovanni di Cuccagna, Enrico di Mels, Ropreto di Buttrio. Minotto,
Doc. ad Forumjul., p. 28. In questo momento, il 9 febbraio, Capodistria
fece pace colla città di Aquileia e col preposito di S. Stefano coi quali era
in lotta d'interessi (ibid.).
- Reg. in Cod. De Rubeis, loc. cit., p. 25. Riguardo i diritti del nota-
riato a Rovigno ed a Pola cfr. Thesmirus, n.' 190 e 259.
3 Thesaurus, p. 230, n. 562; p. 231, n. 56S.
•* Thesaurus, p. 226, n. 529; p. 231, n. 570, la variante de Villacho è
certamente erronea. Fu al termine di quest'anno che il patriarca nominò
podestà di Pirano e Capodistria per il 1254 suo nipote Landò di Montelongo.
Cod. Diplom. Istriano.
'" Thesaurus, p. 232, n. 575. Concorda con questo anche un regesto
mutilo di Giov. de Lupico, dal quale risulta che Marquardo fece la peti-
zione a nome del comune di Pirano. L' eletto fu uno di Momiano.
^ Thesaurus, p. 232, n. 577.
6o Pio Paschini
governava a nome del patriarca, e probabilmente i Piranesi
avrebbero voluto costituire un altro rettore per liberarsi così
sempre meglio dalla diretta dipendenza di lui. Il Thesaurus ci
fa cenno anche di una pace fatta dal patriarca Gregorio cogli
uomini di Pirano ^ ; ma non sappiamo affatto in quali circostanze
ciò avvenisse.
3. Come Capodistria così anche Parenzo era stato gratifi-
cato da Corrado IV di uno speciale diploma di esenzioni e pri-
vilegi a danno del vescovo e del patriarca. Tali concessioni sem-
bra desiderassero i Parentini dì rendere esecutive, poiché il primo
maggio 1252 nella chiesa di S. Mauro, durante la messa solenne,
Giovanni, vescovo di Parenzo, intimò in nome di Dio, del papa
e del patriarca al podestà consiglio e comune di Parenzo di non
alienare od impegnare la terra che gli uomini di Parenzo ave-
vano avuto dalla chiesa sia in comune sia in parti, conforme al
privilegio del vescovo Eufrasio e di Bertoldo marchese d' Istria
e duca di Merania ; e annullò preventivamente ogni atto che
tentassero di compiere in contrario ^.
Non saprei qual esito avesse questo solenne bando, che ci
dimostra come i comuni istriani tendessero ad emanciparsi dalle
strettoie di vincoli contrattuali d'altri tempi che limitavano evi-
dentemente il loro sviluppo commerciale e politico. Troviamo
invece pochi anni dopo il comune di Parenzo in lotta con quello
di Montona.
Il 5 luglio 1257 nel palazzo patriarcale di Cividale Men-
gosso e Nicolò gastaldo di Montona ottennero il permesso di
eleggersi il podestà per un anno a cominciare dal i*' agosto, e
nominarono Senisio podestà di Muggia, che il patriarca con-
fermò ^.11 19 marzo 1258 da Cividale Senisio fu confermato per
un altro anno podestà di Montona, perchè v'era stato nominato
di nuovo dagli uomini di quel comune, col permesso patriarcale *.
1 Thesaurus, p. 229, n. 550. Pirano fu nel 1267 fra le terre ribelli al
patriarca.
2 Joppi, Aggiunte al Cod. Diplom. Istriano, 1878.
3 Presenti : Giovanni Verracclo arcidiacono d'Aquileia, Giovanni Rubeo
canonico di Ferentino, Peregrino gastaldo, Valesio e Giovanni Sagomario di
Muggia. MiNOTTO, Doc. ad ForumjuL, p. 26.
^ Bianchi, Doc. Reg., n. 234; Doc. mss., n. 253. Atti di Giov. di Lu-
pico. Il patriarca aveva imposto a Pilotto e ad Azano di Montona, procura-
tori del loro comune, di scegliere a podestà un uomo a lui fedele. Furono
presenti all'atto: Everardo pievano di Mnggia, Giovanni prete ed Andrea
scolastico in Montona.
Gregorio di Montelongo patriarca cT Aquileia 6i
11 24 aprile 1258 ì procuratori di Montona e di Parenzo fe-
cero a Cividale un compromesso nelle mani del patriarca e lo
elessero arbitro delle contese che avevano fra loro K Perciò il
1° maggio a Cividale, Alberto, vescovo eletto di Ceneda e vi-
cedomino patriarcale, comandò a nome del patriarca al podestà
di Parenzo ed al meriga ^ di Montona di osservare la tregua
fra le loro città sino alla prossima festa di S. Pietro sotto pena
di 1000 marche d'argento ^ Nel frattempo il patriarca potè pre-
parare la sentenza, che pronunciò a Cividale il 13 giugno. Il
comune di Mantova fu condannato a pagare un' ignota somma
in libre di piccoli veneti a quello di Parenzo ; questo a sua volta
fu condannato a pagare 1500 libre della stessa moneta a quello
di Montona per i danni recati al tempo in cui Warnerio de Gil-
laco era podestà a Montona; i due comuni dovevano por fine
ad ogni offesa e rimettersi a vicenda i danni e le ingiurie *.
Nel 1263 il patriarca incaricò il suo milite Genisio di eleg-
gere un podestà a Montona e di dargli la conferma; sappiamo
però che Stefano Azario a nome di quel comune chiese licenza
di eleggere egli stesso il podestà per l'anno seguente ed a Ci-
vidale il 9 maggio 1263 Biaquino da Momiano, che fu scelto,
ebbe la conferma del patriarca ^. Secondo il Thesaurus il co-
mune di Montona in quella circostanza fu pure obbligato a dare
sicurtà a Genisio, che avrebbe sempre difeso il patriarca e la
chiesa dì Aquileia contro chiunque tentasse qualcosa contro
l'onore e l' integrità della chiesa stessa *'. Ma tale sicurtà non
i Bianchi, Doc. Reg., n. 235; Doc. mss., n.' 255-256. Presenti: Al-
berto, vescovo eletto di Ceneda vicedomino, Giovanni Rubeo camerario di
Aquileia, Janeso gastaldo di Cividale, ecc.
~ Si comprende che meriga e podestà non erano che due nomi diversi di
un medesimo ufficio. Il primo termine si usava di solito nei centri minori.
3 Bianchi, Doc. Reg., n. 236; Doc. mss., n. 257. Presenti: Asquino
decano d'Aquileia, Odolrico arciprete di Cadore.
* Bianchi, Doc. Reg., n, 241; Doc. mss., n. 262. Presenti: Alberto
eletto di Ceneda e vicedomino, Wecello abbate dì Beligna, Walberto [ab-
bate] di S. Maria di Canneto a Pola, Berengario preposito di S. Odorico,
maestro Nicolò de Lupico, maestro Peregrino pievano di Mannsburg cap-
pellano patriarcale, Ghizoio di Mels, Bernardo di Zuccola, ecc. Thesaurus,
p. 229, n. 549.
^ Presenti : Nicolò de Lupico, Senisio rithario patriarcale in Istria, Ro-
gerino di Milano ostiario e Perrino di Ferentino. Minotto, Doc. ad Fo-
rumjul., p. 27.
6 Thesaurus, p. 233, n.' 582-583.
02 Pio Paschini
valse ad impedire che nel 1265-66 Montona partecipasse aduna
ribellione contro il patriarca.
Anche a Parenzo il podestà veniva nominato dal patriarca.
Nel 1258 gli uomini ed il comune del luogo chiesero licenza di
eleggersi un podestà ed ottenero poi la conferma alla nomina
da loro fatta ^ Altrettanto chiesero l'anno dopo. Infatti il 15
gennaio 1259 a Cividale il podestà, consiglio e popolo di Pa-
renzo per mezzo di Tergesto di Raffaele chiesero di potersi
eleggere il podestà per quell' anno, a partire dall' 1 1 marzo. Ed
il patriarca, assentendo, confermò la nomina del podestà uscente
che fu il prescelto ^. Eguale istanza fu ripetuta ad Udine il
1° aprile 1261 per bocca di Bonifacio gastaldo patriarcale a Pa-
renzo; ed Alberto de Collice, vescovo eletto di Concordia e vi-
cedomino patriarcale, che teneva le veci del patriarca infermo,
accogliendola, confermò Biaquino da Momiano che risultò eletto '.
Istanze di tal genere furono pure presentate al patriarca nel
1262-63-64 *, nella seconda metà d'aprile 1265, chiesta ed otte-
nuta la licenza di eleggersi il podestà per l'anno seguente, gli
inviati di Parenzo scelsero Marco Corner di Venezia a sostituire
r uscente podestà Filippo Gradenigo, e ne ebbero la conferma del
patriarca ^. Ma durante quella podesteria si ebbero disordini in
Parenzo; perché il 7 aprile 1266 nel duomo di quella città Senisio
de Bernardis, milite padovano ritario patriarcale in Istria, chiese in
pieno consiglio ai consoli, che si professassero disposti ad ubbidire
al patriarca, del quale il popolo parentino aveva perduta la grazia
per alcune offese fatte durante la podesteria di Giovanni (?) Corner;
ed i consoli giurarono di ubbidire ai voleri del patriarca ^.
i Thesaurus, p. 232, n. 573,
~ Presenti : Otto vescovo di Pedana, Wecello abbate di Beligna, Beren-
gario praposito di S. Odorico, Gerardo frate minore, Landò di Montelongo
e Luca nipoti del patriarca, Bernardo di Zuccola, Conetto di Osoppo ga-
staldo della Carnia. Minotto, Doc. ad Forumjul. cit., p. 26.
3 Minotto, Doc. ad Forumjul., p. 27.
4 Thesaurus, p. 232, n.' 578 e 581 ; p. 234, n. 585.
^ Presenti : Nicolò de Lupico, Nicolò Dalfino arcidiacono di Pola, Gio-
vanni di Cucagna. Bianchi, Doc. Reg., n. 292; Doc. mss., n. 310; The-
saurus, p. 234, n. 586. È notevole la presenza di questi due podestà vene-
ziani. Anche a Parenzo, come a Capodistria, era necessario ricorrere a
veneziani per governare la città, ed è pure degno di nota che il patriarca
non vi facesse difficoltà.
^ Minotto, Doc. ad Forumjul., p. 29. Queste contese formarono og-
getto di uno speciale trattato fra il patriarca ed il conte di Gorizia il 14 feb-
braio 1266, come vedremo.
Gregorio di Monteloiigo patriarca cC Aquileia 63
Questi tumulti non si ebbero soltanto a Montona ed a Pa-
renzo. Infatti nel 1265 anche il comune di Valle deputò alcuni
suoi rappresentanti presso il patriarca per sentire i suoi comandi
e per promettere di osservarli, prestandone anche giuramento,
s'egli lo avesse richiesto*. Analoga ambasciata fecero in quel-
l'anno anche gli homines di Ruyno (Rovigno) ^.
4. Nessuna memoria abbiamo riguardo a Cittanova, ma
tutto e' induce a credere eh' essa si trovasse nelle medesime con-
dizioni delle sue città contermini Isola ed Umago. Per la loro
scarsa influenza sullo svolgersi degli avvenimenti non rimasero
negli archivi patriarcali gli atti che riguardavano particolarmente
i suoi interessi.
Abbastanza curioso è quanto si fece a Cittanova il 2 ago-
sto 1259. L' arengo del luogo, radunato nella chiesa di S. Gio-
vanni Battista, nominò Biachino di Momiano ed i suoi eredi in
perpetuo a podestà e rettori della terra. Ma questa strana no-
mina, che avrebbe fatto del feudatario istriano il signore di Cit-
tanova, non piacque e non impedì disordini. Tanto che il 30
gennaio 1261 il vescovo Bonacorso, il clero ed il popolo chie-
sero scusa a Biachino delle ingiurie fattegli dai cittadini dopo
la sua elezione a podestà; e Biachino a sua volta rinunciò per
sé ed i suoi eredi alla podesteria ^.
Per Isola è rimasto invece un atto del 1° maggio 1253 col
quale i suoi consoli, de voluntate et consensu majoris et minoris
consilii, designarono certi loro procuratori a proseguire dinanzi
al patriarca eletto e marchese d'Istria la lite che il loro comune
aveva colla badessa di S. Maria d'Aquileia *. Questo monastero
aveva grandi possessi in Isola e vi metteva anche un gastaldo.
Ritroveremo poi Isola fra i ribelli nella sollevazione del 1267,
collegata con Capodistria e Pirano.
Per Muggia nel 1257 è ricordata la prima volta l'elezione
del podestà ^. Poi il 13 luglio 1258 Pellegrino gastaldo patriar-
cale a Muggia e Tommaso Dobbene chiesero a nome del co-
mune di Muggia al patriarca, ch'era a Cividale, il permesso di
* Thesaurus , p. 226, n. 533. Nel 1274 il comune di Valle chiese al pa-
triarca licenza di eleggersi un podestà (Thesaurus, p. 234, n. 589); non sap-
piamo se allora per la prima volta facesse una tale richiesta.
~ Thesaurus, p. 229, n. 556.
3 Predelli, Libri comrnemoriali, tomo I, p. 170.
^ Cod. Dipi. Istriano.
^ Thesaurus, p, 234, n. 587.
64 Pio Paschini
eleggersi il podestà per l'anno seguente a cominciare da S. Mar-
tino ; il permesso fu concesso e l' eletto fu il solito Genisio ^.
Tale permesso troviamo pure ripetuto anche nel 1266 ^.
Un comando di Alberto, vescovo eletto di Ceneda e vice-
domino patriarcale, promulgato a Cividale il 31 luglio 1259, ci
conserva memoria di un delitto commesso a Muggia poco prima.
Il vicedomino comandò agli inviati degli uomini del comune di
Muggia, sotto pena di mille libre di piccoli veneziani, di inviare
al patriarca entro il prossimo martedì i dodici uomini migliori
che avevano partecipato alla cattura ed alla morte del medico
Simone, e specialmente quelli ch'erano responsabili in questo
delitto ^. Siccome è assai probabile, che questo Simone fosse al
servizio del patriarca, può essere che la sua uccisione fosse un
dispetto contro il patriarca stesso.
Nel 1262 il patriarca dovette proibire al comune ed agli
uomini di Muggia di inviare armati in sussidio dei Veneziani *.
Questo fatto si spiega tanto più facilmente, quando si pensi che
dei Veneziani s'erano ormai stabiliti anche a Muggia. Ne ab-
biamo infatti una prova nel fatto, che nel 1266 per 300 lire di
piccoli veronesi il patriarca comprò da Pietro Cavaci di Venezia
due sue torri nel borgo del Lauro a Muggia, presso la porta
del borgo verso la terra ^.
Delle altre località dell'Istria sappiamo che nel 1257 anche
Buie ebbe il suo podestà ^. Ed il 1° maggio 1261 in domo co-
munis ad Udine Leazario a nome del gastaldo e del consiglio
di S. Lorenzo ottenne la conferma del podestà eletto dal suo
1 Thesaurus, p. 232, n. 574; Bianchi, Doc. Reg., n. 246; Doc. mss.,
n. 266. Presenti: Giovanni Rubeo tesoriere di Aquileia, maestro Gerardo
pievano di Muggia, Zonsilino famigliare di Stefano, figlio del defunto re
d' Ungheria.
2 Thesaurus, p. 234, n. 584.
3 Presenti : maestro Cardamomo canonico di Cividale, maestro Goffrido
schermitore famigliare del patriarca. Zampa di Fagagna ecc. Joppi, Aggiunte
al Cod. Diplom. Istr., n. XV; Bianchi, Doc. Reg., n. 253 ; Doc. mss., n. 275.
4 Thesaurus, p. 233, n. 579.
^ Thesaurus, p. 219, n. 499. Che il patriarca tendesse ad allargare la
sua diretta padronanza, ci è attestato da un atto del 1256, per il quale Gio-
vanni Sagomarlo di Muggia diede in dono alla chiesa di Aquileia la quarta
parte di una casa e corte poste nel castello di Muggia, ch'erano state pos-
sedute da Folcherio di Dornberg. Thesaurus, p. 212, n. 473.
6 Thesaurus, p. 234, n. 587.
Gregorio di Montelongo patriarca ci' Aquileia 65
comune, ch'era lo stesso ritario patriarcale Senisio de Bernardis
padovano ^,
5. Nel principio del suo governo il patriarca trovò Pola
gravemente sconvolta da questioni civili e religiose. Durante il
1251 Guglielmo, vescovo di Pola, scomunicò Galvagno podestà
ed il consiglio di Pola, perché avevano imprigionato Pietro de
Elica serviens e Rainaldo notaio suo, togliendo a questo anche
certi scritti, ed avevano rifiutato di liberarli ; inoltre lanciò l' in-
terdetto su tutta la città di Pola. Alcuni chierici che, disprez-
zando le minacce del vescovo, osarono celebrare gli uffici divini,
furono privati dei loro benefici ^.
Il Thesaurus ci dà il regesto di una risposta scritta dal po-
destà e dal comune di Pola, nel 1252, colla quale professavano
dì essere pronti a ricevere con rispetto e con piacere il patriarca
Gregorio, se venisse. Un altro regesto ci informa pure che il
patriarca « habet ius in Turri et Castro Pole pretextu cuius-
« dam permutationis » fatta in quell' anno col vescovo di Pola ^.
Questo ci fa arguire che il patriarca si recò sino a Pola nel 1252.
Ch' egli ci sia andato per pacificare il vescovo colla città, si può
ritenere come cosa assai probabile. Ma non soltanto per questo.
Giacché in quell'anno stesso egli vi fu chiamato a decidere una
questione che il vescovo Guglielmo aveva col suo capitolo, il quale
l'aveva spogliato ingiustamente dei beni vescovili e dei frutti di
due anni dati dalle prebende della chiesa. Dall' altro lato il ca-
pitolo chiedeva fosse data esecuzione ad una sentenza pronun-
ciata già dal patriarca Bertoldo, perché gli fossero consegnati gli
oggetti lasciatigli in eredità dal defunto vescovo Enrico, e gli
fossero pagate le spese delle liti incontrate. Il patriarca senten-
ziò obbligando il capitolo a dare al vescovo quanto aveva tolto
dei proventi della mensa vescovile, ed il vescovo a fare le ono-
ranze e le elargizioni com'era di costume; capitolo e vescovo
dovevano d'allora in poi vivere di buon accordo ed osservare
la sentenza da lui pronunciata *.
* MiNOTTO, Doc. ad ForumjtiL, p. 27.
~ Da una lettera di Innocenzo IV spedita da Milano il 18 luglio 1251,
colla quale concede al vescovo che possa conferire i benefici rimasti vacanti
a persone idonee. Registi', d' Innocent IV, n. 5474.
3 Thesaurus, p. 228, n. 545 e p. 230, n. 565. Cfr. anche p. 18, n. 14.
* S. MiTis, Dociimenti per la storia di Pola, in Atti e memorie della
Società istriana di archeologia e storia patria, voi. XXVII, 191 1, p. 4. Di-
sgraziatamente non v'è riportato il testo del documento.
66 Pio Paschini
L' 8 marzo 1257 nel campo sotto Duino, il patriarca ebbe
dai cittadini di Pola 400 libre di piccoli veneziani quale acconto
per le 2000 libre che il comune di Pola doveva pagargli entro
un anno dal prossimo S. Michele ^
Poi l'ii settembre 1258 stando a Cividale, il patriarca de-
putò Genisio, suo richario in Istria, e Gerardo, pievano di Mug-
gia, quali suoi procuratori, ad esigere a nome della chiesa di
Aquileia dal comune di Pola 200 libre venete, che quel comune
era tenuto a pagare ^.
Ad Udine il 5 agosto 1260 Matteo di Girena di Pola ed
Orlanduccio de Campo Bernardi vendettero, per 50 libre di ve-
neti piccoli, al patriarca ed alla sua chiesa una loro casa a Pola
nel luogo detto Naufora, « prò libero et perpetuo alodio » ^.
Anche Pola era retta da un podestà, ma solo nel 1262 e poi
nel 1266. si ha memoria di un' istanza che il comune e gli
uomini di Pola fecero al patriarca per eleggersi il podestà,
ed ottennero la conferma per il personaggio che s' erano desi-
gnato *.
Pola infatti in queste e nelle posteriori vicende ci appare
quasi in seconda linea. Dopo le lotte col patriarca Bertoldo e le
sciagure toccatele per l' inimicizia con Venezia, rimase quasi in
disparte, estranea al movimento che andava allargandosi in tutta
la penisola.
^ Bianchi, Doc. mss., n. 243. Presenti : Giannino di Capodistria, Gre-
gorio di Anagni consanguineo del patriarca, Senisio di Padova ricario in
Istria.
' Bianchi, Doc. Reg., n. 249; Doc. mss., n. 270. Presenti : Wecellone
abbate di Belligna, maestro Pietro di Scarleto e Scanno fisici, Lorenzo ca-
merario del patriarca, ecc.
3 Presenti : Alberto, vescovo eletto di Concordia e vicedomino patriar-
cale, Gualimberto, abbate di S. Maria di Canneto a Pola, Nicolò Dalfino ar-
cidiacono di Pola, Pellegrino pievano di Mannsburg, cappellani patriarcali.
Federico gastaldo di Udine. — Pergamena di Giov. de Lupico, in Archiv.
Capitol. di Udine. Reg. in Cod. De Rubeis, in queste Memorie, X, 1914»
p. 82. Il Thesaurus ricorda una compera di una casa a Pola fatta dal patriarca
nel 1258, indiz. Ili (p. 229, n. 552).
4 Thesaurus, p. 233, n. 580; p. 234, n. 584.
Gregorio di Mo7itelongo patriarca d' Aquileia 6j
I. Attività del patriarca in Friuli durante il 1252. — 2. L'impresa di
Parma. — 3. Preoccupazioni e provvedimenti finanziari. — 4. Trattato del
patriarca con Venezia (24 aprile 1254). — 5. Il patriarca contro i ghibellini ;
sua azione nel patriarcato dal ntaggio al settembre 1254.
I. Il patriarca Gregorio sin dal suo primo venire in Friuli
cominciò quell'opera di riordinamento, che non doveva cessare
che colla sua morte. Come abbiamo veduto, durante il 1252 egli
fu certamente nell'Istria, che aveva maggior bisogno della sua
ispezione personale ; ma è ben curioso il dover notare che il
primo documento datato che ricordi il patriarca nel suo viaggio
di esplorazione (ed esplorazione veramente doveva essere per lui
il visitare un paese che gli era certo ignoto), fu redatto a Tolmino.
Questo luogo era allora una fortezza di prim' ordine, fabbricata
presso r Isonzo per munire la strada che correva lungo la valle,
ed era in comunicazione con Cividale per mezzo della strada
che toccava Caporetto ed il Pulfero. Dunque a Tolmino il 6 feb-
braio 1252 il patriarca eletto confermò un cambio fatto dall'ab-
bazia di Obernburg con Ermanno di Katzenstein ^
Il 24 aprile 1252 in Aquileia il patriarca con l'anello che
aveva in mano investì Corrado del fu Guariento di Zegliacco del
suo feudo, cioè del luogo e castello di Zegliacco « cum omni ho-
nore, dominio, comifatu et iurisdictione » ^. Sarebbe certo assai
notevole la concessione dei diritti comitali a questo signore; ma
il documento non si può accettare come genuino. La datazione
infatti e le sottoscrizioni fanno senz'altro pensare ad un poste-
riore rimaneggiamento dell'atto, allo scopo di provare diritti di-
ventati ormai comuni a tutti, o quasi tutti, i signori del Friuli.
^ Zahn, U. B. Stcierm., Ili, p. 170, n. 103.
- Da copia del sec. XVI, Bini, Doc. varia, I, p. 429, ms. in Archiv.
Capit. di Udine; Bianchi, Doc. Reg., n. 183; Doc. mss., n. 202. Furono pre-
senti : Pietro di Mels, Giovanni di Colloredo di Montalbano, Damiano di
Pers, Nicolò de Brandis di Cividale, Sono personaggi perfettamente scono-
sciuti a quest' epoca. La data è espressa : « Indict. X. Anno ingressus sexto
« Rev.mi D.ni Patriarce. Ego ugoiinus baldutanus et sacri palatii notarius
« et cancellarius D.ni Patriarche ». Quest'indicazione non ha senso e con-
trasta con quelle genuine del patriarca. I signori di Zegliacco non ebbero
mai una speciale importanza nella storia del patriarcato. Trattandosi di co-
mitatus il patriarca ne avrebbe data investitura colla bandiera.
68 Pio Pas chini
Può essere però che in quel dì il nuovo patriarca abbia con-
cesso qualche feudo a Corrado ; ma può anche essere, e forse è
più probabile, che sia stata anticipata la data ad un documento
posteriore. Infatti un Guariento di Zegliacco compare come ancora
vivente il io febbraio 1258, quando papa Alessandro IV fece
aprire contro di lui ed alcuni altri processo canonico per danni
fatti al capitolo di Aquileia. Un Guarnerio de Gillaco cittadino
dì Capodistria fu podestà di Pirano nel 1252 e nel 1253 e di
Montona prima del 1258, fu presente a Capodistria il 9 ottobre 1254
ad un atto di Landò dì Montelongo ; un Lazario de Qillaco
pur di Capodistria fu inviato come legato al patriarca il 3 feb-
braio 1264 '; un Enrico de Zillaco, che verso il 1252 abitava un
castello patriarcale e molestava il capitolo cividalese, è lo stesso
che nel 1260 insieme con BrusaviJla suo fratello consegnò al
patriarca una figlia dì Bertolotto di Coymes, loro serva, che aveva
in feudo, come asseriva, dallo stesso patriarca ^. Un Corrado Faba
de Celaco era invece vescovo di Capodistria ^ per lo meno sino
dall' II maggio 1249 e fu presente ad un atto del patriarca del
18 gennaio 1256. Sono questi i membri di quella famiglia noti a
questo tempo ; e queste notizie non sono tali che aggiungano
valore all'atto sopra ricordato.
Sarebbe assai interessante che ci fosse stata conservata com-
pleta la data di un atto riguardante la famiglia degli Zuccola.
L' atto non ha grande importanza, se si guarda ai beni che ne
sono l'oggetto, ma è l'unico del genere redatto in questo tempo.
Nel 1252 dunque Bernardo di Zuccola rinunciò nelle mani del
patriarca ad ogni diritto che aveva sa tre mansi a Grions, tenuti
da lui in feudo dalla Chiesa; ed il patriarca diede in feudo quei
mansi a Girardino di Cìvidale ed ai suoi fratelli Guglielmo,
Egidio e Guarceto *.
Tutti i vassalli all'ingresso del nuovo patriarca erano tenuti
a fare 1' omaggio del loro feudo e ad ottenerne di nuovo da lui
l'investitura. Forse essi sì mostrarono riluttanti a riconoscere il
loro signore? Certo è che il Thesaurus non ha conservato in-
1 MiNOTTO, Doc. ad ForumjuL, p. 28. Cod. Dipi. Istr.
2 Thesaurus, n.' 385 e 484.
3 II nome della sua famiglia risulta dall'atto della consacrazione della
chiesa di S. Francesco ad Udine, luglio 1266 (Bini, Doc. Histor., tomo V, 72).
Cfr. pure: Fr. Babudri, Cronologia dei vescovi di Capodistria, Trieste, 1909,
p. 23.
^ Reg. in Cod. De Rubeis, loc. cit., p. 24; Thesaurus, n.' 304 e 465.
Gregorio di Monteloiigo patriarca cC Aquileia 69
dizio alcuno di riconoscimento di feudi prima del 1254. Ma v'ha
di più. Ci è conservato il testo di una deliberazione, la quale se
favoriva i signori feudali che avevano vassalli alle loro dipendenze,
favoriva di più il patriarca che di tutti era l' alto signore.
Il 30 aprile 1252 si tenne in Cividale una magna curia fraìi-
corum et delesman?iorum (cioè di liberi e ministeriali) alla presenza
del patriarca eletto, e fu decretato che se i feudatari non aves-
sero chiesto r investitura dei loro feudi entro un anno ed un
giorno a partire dal momento in cui avevano il dovere di chie-
derla, il signore a cui spettava dare l' investitura doveva pren-
dere il possesso della tenuta fetidi sine fructu illius e ritenerselo.
In questo frattempo si doveva ascoltare il diritto di colui che
doveva ricevere l' investitura, e se questi entro quell' anno non
avesse fatto valere il suo diritto, il signore poteva ritenersi il
feudo con tutto l'usufrutto ^
Di due altre sentenze in materia feudale emanate in tempi
diversi, ci ha conservato memoria il Thesaurtvs. L' una riguarda
un allargamento del diritto di succedere nei feudi, in favore di
ministeriali di nuova creazione. Enrico di Villalta chiese che ve-
nisse deciso : se qualcuno « qui non esset de natura militum »
(per schiatta, e perciò non appartenesse ai liberi od alle antiche
famiglie ministeriali) ma giungesse all'onore della milizia in
causa delle sue ricchezze od in altro modo, « posset habere ma-
« num feudi et heredes ipsius possent hereditare feudum ». A
richiesta del patriarca, Enrico (libero) giudicò, che se uno aveva
ottenuta la milizia senza opposizione alcuna, poteva godere la
sua milizia ed ottenere e trasmettere feudi in eredità. Dall'altra
parte Cono di Moruzzo (ministeriale) giudicò, che solo colui il
quale aveva avuta la milizia per volere del signore del luogo,
doveva avere maìium feudi egli ed i suoi eredi, et uti honore
militari; in caso contrario, né egli né i suoi eredi potevano
godere tali diritti ; e poteva avere manum feudi solo durante la
vita di colui che gli avea dato il feudo. E la sentenza di Cono
fu approvata dalla maggioranza della curia ^. L' altra sentenza in
1 Bianchi, Doc. Reg., n. 184; Doc. mss., n. 203. La sentenza fu pro-
posta da Bertoldo di Tricano ; testi : Enrico di Villalta, Cono di Moruzzo,
Corrado di Savorgnano ed altri.
- Thesaurus, p. 176, n. 363; che l'assegna all'anno 1267, ma certo con
errore perché vi si dà al patriarca l'appellativo di electus; come vedremo,
egli fu consecrato nell'agosto 1256; la sentenza è dunque anteriore. Cfr. De Ru-
BEis, M. E. A., p. 755.
70 Pio Paschiìii
simile materia fu pronunciata nel 1255. Giovanni di Cuccagna
(ministeriale) chiese che il patriarca facesse giudicare dalla sua
Curia, se potesse un ministeriale dare la sua proprietà m
manti, lìbera. Enrico di Villalta giudicò che nessun ministe-
riale poteva neque feuduin neque froprhim dare in inanu li-
bera; e questa sentenza fu approvata dalla curia patriarcale ^
Queste due sentenze furono riassunte così: « Et de sententia
« lata coram D, Gregorio Patriarcha, quod miles, qui non fuerìt
« de genere militum, non habeat manum feudi. Et de sententia
« lata ut nullus Ministerialis possit bona sua in manum liberam
« dare » ^.
Subito dopo la grande adunanza il patriarca prese a trat-
tare gli affari più importanti del suo principato.
Erano rimaste ancora pendenti le pratiche per dare esecu-
zione al trattato stretto dal patriarca Bertoldo col conte Mai-
nardo di Gorizia 1' 8 gennaio 1251. Gregorio, senza legarsi in
modo definitivo ed irrevocabile a quei patti, volle che l' affare
continuasse il suo corso. Infatti il 12 maggio 1252 nelle sue case
di Cividale egli prometteva al conte Mainardo di stare alla sen-
tenza arbitrale che sulle passate contese fra il conte ed il pa-
triarca Bertoldo avevano pronunciato i due arbitri eletti dal pa-
triarca Bertoldo: Bernardo di Straso e Glizoio di Mels; ma
non prometteva in modo assoluto di poterne ottenere la con-
ferma della Curia Romana, ma solo di procurare di ottenerla ^.
Il conte Mainardo continuò la sua dimora ed i suoi collo-
qui col patriarca per tutto il resto di quel mese.
La chiesa di Frisinga aveva grandi possessi nella Carniola
superiore ed anche nell'alta valle dell'Isonzo. Ed ecco che il 29
maggio 1252 Gregorio patriarca e Corrado I, vescovo di Fri-
^ Thesaurus, p. 202, n. 440. Le due sentenze erano dirette evidente-
mente: r una a tutelare i diritti dei più antichi ministeriali, l'altra a tenere
distinti i liberi dai ministeriali.
~ Ibid., p. 13, n. IO. Cfr. queste Memorie, X, 1914. P- 56 sg.
3 Presenti : Delatorra arciprete di Padova, Bartolomeo Saraceno vicario
patriarcale, Berengero vicedomino, i nobili : Biaquino da Camino, Enrico e
Rantolfo fratelli di Villalta, Otto detto Bergogna di Spilimbergo, Giovanni
e Alpreto di Cucagna, Ropreto di Buttrio, Ulrico e Ugo di Reifenberg, Ste-
fano di Duino. Fotites RR. Ausiriac, Diplont., I, p. 30; Bianchi, Dee. mss.,
n. 204,
L'arciprete Delatorra qui ricordato fra i presenti è quel Della Corta che
fu nel numero di coloro che aiutavano il Montelongo nel suo ufficio di de-
legato sino dal 1243. Cfr. Marchetti-Longhi, op, cit., voi. XXXVI, p. 679.
Gregorio di Mo7itelongo patriarca cC Aquileia ji
sing^a, di mutuo accordo fecero uno statuto per cui chi vendeva
o dava a mutuo doveva considerare la solvibilità e prendere fi-
deiussione piena dal suo debitore per non gravare altri ; e nes-
suno poteva procedere a pignorazioni contro un debitore mo-
roso senza una previa sentenza giudiziaria ^
In quest' occasione il vescovo di Frisinga, certo coli' aiuto
del patriarca, intavolò trattative col conte di Gorizia, i cui pos-
sessi toccavano in più luoghi quelli del vescovado di Frisinga.
Il 31 maggio 1252 a Gorizia il conte Mainardo promise che
non avrebbe molestato in alcun modo Corrado, vescovo di Fri-
singa, il quale aveva imprigionato Corrado di Pittsberg (presso
Kòtschach) suo ministeriale ".
Nel giugno il patriarca si spinse sino al punto più setten-
trionale del patriarcato. Lo troviamo infatti a Villaco il ig e
colà confermò a Liutoldo, abbate di S. Paolo, i privilegi conces-
sigli dal suo antecessore Bertoldo e particolarmente la cappella
di Mòchling. Il 2 1 gli confermò anche la cappella di S. Lorenzo
in der Wùste, eh' era stata concessa dal patriarca Godofredo ^.
Il 20 luglio 1252 a Cividale Gregorio confermò al Mona-
stero di Studeniz il documento rilasciatogli dal patriarca Ber-
toldo *. Tali conferme ormai erano diventate di prammatica.
2. Poiché sino a quest'epoca troviamo il patriarca impegnato
nel governo del suo patriarcato e dell'Istria, dobbiamo rimandare
agli ultimi mesi del 1252 un'impresa a cui partecipò. « Nel 1252
fu podestà di Parma Rainieri di Corbulo faentino ^. In quest'anno
fu fatto esercito generale dal comune di Parma presso Mede-
sano, ed in quell'esercito ci furono Gregorio di Montelongo,
legalo della chiesa e vicario del re Guglielmo (di Germania) e
le milizie di Piacenza. Ed Uberto Pelavicino coi cremonesi e coi
fuorusciti di Parma venne in aiuto del castello di Medesano.
Essendo il fiume Taro cresciuto per le pioggie in modo tale che
non si poteva guadare, i parmigiani si misero in timore, perché
non eranvi che due porte. E stando là, gli avvversari fuggirono
confusi ed in conseguenza i parmigiani ebbero il castello a
1 J. Zahn, Codex Diplotn. Austriaco- Fr-isingensis, Wien, 1870, voi. I,
p. 157, n. 160.
~ VoN Jaksch, Die Kàrntner cit., n. 2486.
3 VoN Jaksch, Die Kàrfitner cit., n.' 2487, 2489.
■* Zahn, U. B. Steierm., Ili, p. 180, n. 113. Il documento di Bertoldo
era quello del 24 aprile 1251.
"•> È quel Rainieri di Calboli di cui parla Dante, Infer., XIV, 88.
72 Pio Paschini
patti », poi riuscirono a prendere anche Berceto ^ Sul princìpio
del 1253 parmigiani e cremonesi fecero tra loro pace, alla quale
non potè certo essere estraneo il patriarca, ma i cronisti non ci
dicono nulla di particolare ^.
Si può dubitare se l' ufficio di legato, che in questa circo-
stanza esercitò il Montelongo, fosse la continuazione dell'ufficio
sostenuto a vantaggio della chiesa sino al termine del 1251, od
un incarico nuovo e straordinario per quella circostanza. Ma certo
nuovo era l' ufficio di vicario del re di cui fu rivestito ; e ciò non
deve far meraviglia. Corrado IV aveva pur egli i suoi vicari in
Italia. Ezzelino da Romano era uno di questi, ed Uberto Pela-
vicino il 25 ottobre 1252 portava il titolo di « sacri imperii a
« Lambro inferius capitaneus generalis » ^; e da Canosa il 22 feb-
braio 1253 Corrado IV lo costituiva « per totam Lombardiam,
« tam a Lambro superius quam inferius vicarium imperii » *.
Certo il Montelongo in aiuto di Parma, dove tanto valente
s'era dimostrato nel 1247-48 e dove c'erano ancora i trofei delle
sue prodezze, stava al suo posto ; ma dopo questa breve im-
presa egli non compare più mai né come legato papale né come
vicario; ed io credo senz'altro che il motivo fosse, perché si vide
benissimo che l'opera sua era necessaria nel patriarcato, e l'atti-
vità sua poteva più utilmente esercitarsi là che altrove ^.
Dell'assenza del patriarca dal Friuli in quel torno ci resta
testimonianza nel fatto ch'egli non fu presente ad una piena
curia, dove fu pronunciata una sentenza in materia di diritto
^ R. I. S.~, tomo IX, parte IX, p. 20: Annales Parnietises inaiores.
~ Un altro cronista parmigiano dice : « Hubertus recessit et castrum
« (Medesano) curn legato concordavit ». Chron. Parrnensis, Parmae, 1858,
P- 332.
^ Codex diplomai. Crcmotiac, Augustae Taurin,, 1895, p. 285, n. 612;
in un altro documento del t8 gennaio 1253 lo stesso Uberto si proclama:
« generalis capitaneus sive vicarius ... per d. Conradum Romanorum regem
« confirmatus ». Ibid., p. 287, n. 614.
•* Ibid., p. 287, n. 615. Perciò nel 1254 Uberto si proclamava « Mar-
« chio Pellavicinus, imperii vicarius generalis et Cremonae, Placentiae, Pa-
« piae et tocius partis imperii per Lombardiam dominus et potestas ». Ibid.,
p. 291, n. 643.
^ 11 Marchetti-Longhi, op. cit., tomo XXXVIII, 1915, p. 344, trasporta
l'impresa di Medesano all'aprile 1251, perché « nel 1252 il Monte Longo non
« era più legato in Lombardia ». Ma gli sta contro l'attestazione esplicita
degli Annales. Nei documenti friulani non troviamo cenno dell'ufficio di
vicario affidato al Montelongo ; ufficio che certamente non potè protrarsi ol-
tre il 28 gennaio 1256, in cui morì Guglielmo di Olanda imperatore eletto
Gregorio di Mo7itelongo patriarca cP Aquileia 73
feudale. Un suo vicario fece le sue veci. Il venerdì 30 luglio 1252
nel palazzo patriarcale di Cividale, presenti quali testimoni Ru-
gerio, vescovo eletto di Ceneda \ Bartolomeo Saraceno "vicario
del patriarca eletto ^, Alduce arciprete di Lagissio, il signore
De La Torre ^ arciprete di Padova, si tenne piena curia, e per
mandato del patriarca eletto V. di Villalta chiese che venisse
definito, se un abbate od un' abbadessa dei monasteri posti nel
patriarcato potesse donare, vendere o dare in feudo beni che non
erano mai stati infeudati, senza la licenza del patriarca. Senten-
ziarono Leonardo, abbate di Rosazzo, Wecelo, abbate di Moggio,
Giovanni, preposito di S. Stefano, e i nobili Ermanno di Portis,
Enrico di Villalta, Giovanni di Cucagna, Asquino di Varmo e
Duringo di Villalta, che ciò non era permesso. E la curia approvò
questa sentenza *. Il vicario Saraceno cessò presto dal suo ufficio,
poiché in questo stesso anno 1252 Rogero, vescovo eletto di
Ceneda quale delegato del patriarca, imponeva al capitolo di
Cividale di far proclamare nella sua chiesa pubblicamente scomu-
nicato Bertoldo, pievano di Kammering, il quale aveva adope-
rato un falso suggello del capitolo di Gurk ed aveva con quello
contratto debiti in Curia Romana ^.
Che tumulti ed incursioni guerresche abbiano tormentato il
Friuli durante il 1253, abbiamo un indizio in un atto del 5 set-
tembre di quell'anno stipulato nella villa di S. Candido (Candide
in Cadore) prope Aguardum (Agordo). Conetto di Osoppo, villico
(cioè gastaldo) del patriarca in Carnia, insieme con suo fratello
Corrado, con alcuni amici e dipendenti, rappresentati da Ales-
sandro Balduino di Pozzale in Cadore, aveva preso prigione
Varnerio di Lavant ed aveva tolto a lui e ai suoi sodi e scuti-
feri, armi, cavalli e quanto avevano. Con Varnerio stavano pure
i suoi due fratelli Ainzo ed Ugo, ed inoltre Odolrico di Reifen-
berg, Rodolfo di Duino, Fulcherio di Flaschberg; ciò significa
* Rogero o Rogerino era stato nominato vescovo di Ceneda dal pa-
triarca Gregorio per compromesso del capitolo di Ceneda, cui spettava la
nomina; ed era stato confermato dal papa il 12 giugno 1252. Registi-. In-
noc. IV, n.' 5750, 5751.
- Costui compare con questo titolo sino dal 12 maggio.
3 Cioè Della Corta, cfr. l'atto del 12 maggio 1252.
•* Guerra, Otium Foroiul., voi. XIII, p. 453, da pergamena di S. Maria
in Valle.
^ VoN Jaksch, Die Kànitner, n. 2474, che assegna l'atto generica-
mente al 1252.
74 Pio PascJmii
che si trattava di incursione organizzata oltr'Alpe contro i ter-
ritori patriarcali del settentrione. In quel dì i tre fratelli giura-
rono pace e concordia coi due di Osoppo, segno evidente che si
considerarono vinti ^
Il patriarca però lasciò ben presto l'impresa di I^ombardia
per tornarsene a dirigere le cose del Friuli. Durante il 1253 noi
l'abbiamo veduto regolare le faccende dell'Istria, e specialmente
quelle di Capodistria. Ma, oltre alle difficoltà d'ordine politico,
s' aggiungevano al patriarca anche quelle d' ordine finanziario.
Causa le guerre che aveva dovuto sostenere, il patriarca Ber-
toldo aveva lasciato il patriarcato carico di debiti, e ad estin-
guerli non erano bastati i provvedimenti presi.
3. Della critica posizione finanziaria in cui ebbe a trovarsi
il patriarca Gregorio, ci danno notizia due lettere del cardinale
Ottaviano Ubaldini indirizzategli in risposta ad altre che ne aveva
ricevute. Il celebre cardinale sin dal io novembre 1251 aveva
da Innocenzo IV ricevuto l'incarico di una seconda legazione
nell'Italia settentrionale^, e l'otto marzo 1252 era riuscito a rin-
novare la lega lombarda ^.
Durante la prima metà del 1252 il cardinale rispondeva ap-
punto al patriarca per compassionarlo delle angustie e delle mo-
lestie che lo opprimevano. « Vi consigliamo, soggiungeva, di
inviare alla presenza del sommo pontefice nunzi più solenni, mu-
niti di vostre lettere, ed avvertiteli che passino da noi. Poiché
abbiamo in mente di dare loro per voi lettere nostre, le quali
vi presteranno quel consiglio e quell'aiuto che meglio serva
al vostro onore ed al commodo ed utilità che vi desideriamo.
Ci presenteremo appunto, come avete supposto, alla Curia, e là
potremo colla nostra presenza, più e meglio che non da lontano,
colla parola e coli' opera, aiutati dal Signore, favorire i vostri
negozi secondo i vostri desideri. Su quello che ci avete riferito
riguardo al fatto di Ezzelino, abbiamo già capito quello che con-
venga fare ». Termina poi col mettersi a disposizione del pa-
triarca ^. Insomma il cardinale si professava pronto a rendere
^ Bianchi, Doc. Reg., n. 192; Doc. mss., n. 213.
- Reg. Innoc. IV, n. 5787.
3 A. Hauss, Kardinal Ottavian Ubaldini, ein Staatsmann des XIII. Jahr-
hunderts, Heidelberg, 1913, p. 42.
•* G. Lievi, Registri dei cardinali Ugolino d' Ostia e Ottaviano degli
Ubaldini, Roma, 1890, p. 175. Purtroppo le lettere del patriarca al cardinale
non ci furono conservate.
Gregorio di Montelongo patriarca cC Aquileia 75
servig-i e dare consigli, ma non a sborsare denaro. Lo si com-
prende meglio dalla sua seconda lettera dell'agosto 1252, nella
quale fa la più ampia professione di amicizia verso il pa-
triarca, ma dichiara essergli impossibile d'aiutarlo, « Aggravati
di debiti, non bastando a provvedere a noi stessi, non dovete
meravigliarvi se non possiamo sobbarcarci, secondo il vostro de-
siderio, ai vostri ed ai nostri pesi. Abbiamo appunto presentate
ai molesti creditori le vostre ripetute lettere, che promettevano,
come di dovere, il pagamento ; ma essi, pensando alle ripetute
promesse di pagamento rimaste senza effetto, ci provocano sem-
pre più, perché vedono tirarsi in lungo ciò, che secondo le pro-
messe, doveva farsi presto ». Lo esorta quindi a pagare quei
debiti, perché il pagamento renderà e l' uno e 1' altro più liberi
dalle m.olestie dei creditori, e farà sì che altri si sentiranno più
disposti a fare prestiti, quando ne venisse il bisogno. Soggiunge
che gli manderà un messo che si fermerà nel patriarcato sino
a S. Michele, al quale dovrà fare il saldo ^
Il patriarca dovette pensare subito a mezzi più efficaci per
avere denari. I mercanti senesi che avevano servito il suo pre-
decessore si mostravano disposti a venire in suo aiuto, natural-
mente con loro guadagno. Perciò con un primo contratto del 17
aprile 1253, fatto a Cividale, il patriarca concesse in affitto a
Rainieri Rustichini ed a Rainaldo Rainaldini 1' antica muta della
chiusa -. Questo provvedimento finanziario non poteva bastare ;
quindi poco dopo, il 24 giugno 1253, nella sua casa di Cividale
il patriarca Gregorio, per dieci marche di moneta aquileiese,
concesse a Rainerio Rusticino e Rainaldo Rainaldi mercanti di
Siena, che agivano anche per i loro soci, « veterem mutam de
« Tumec cum omnibus iuribus et rationibus ad ipsam mutam
« spectantibus », per un anno, a cominciare dalla prossima festa
di S. r^Iargherita ^.
^ Levi, op. cit., p. 176. Il cardinale nominò (1252?) B. canonico di
Soissons collettore delle procurazioni in Friuli, e gli impose di non partir-
sene sino a nuovo ordine. Ibid., p. 179.
~ La pergamena rogata da Giovanni de Lupico, conservata nell'Archivio
di Stato di Firenze, R. Acquisto Ricci, è molto consunta ed evanida, non
permette di decifrare i patti della locazione, né l'anno né l'indizione;
confrontata però coi due atti seguenti, ci fa capire indubbiamente trattarsi
del 1253.
'■'' Presenti: Rogerino, vescovo eletto di Ceneda, Alberto de Collice vi-
cedomino, Bartolomeo di Padova siniscalco patriarcale. Atto rogato da Gio-
vanni di Lupico. R. Archivio di Stato di Firenze, R. Acquisto Ricci.
"jò Pio Paschini
Il parlarsi qui di una muta vecchia lascia già sottintendere
che fu introdotta una muta nuova, assai probabilmente dallo stesso
patriarca Gregorio. Si trattava di un inasprimento doganale per
far fronte alle necessità sempre crescenti. In che cosa consistesse
lo sappiamo dall'atto seguente.
L'otto luglio 1253 nella casa del vescovo di Castello a Ve-
nezia il patriarca Gregorio per 150 marche di moneta Aquile-
iese concesse a Rainaldo Rainaldini e Gabriele Rusticini mer-
canti di Siena, che agivano anche a nome dei loro soci, « novas
« mutas de Clusa et de Tume9, scilicet mutas vmì, salis et
« ferri » per nove mesi dalla metà del maggio passato alla metà
del febbraio prossimo, sotto pena di 25 marche se mancasse ai
patti ; se poi per guerre o discordie od altri motivi le strade
non fossero libere, oppure quelle mute fossero tolte o diminuite,
sicché quei mercanti non potessero percepire tale somma, il pa-
triarca si obbligava a risarcire il danno, fidandosi sulla sola loro
parola nel computarlo ^
Né questo bastò. Ritornato da Venezia a Cividale, pensò
di arricchire in altro modo la sua sede. Di pieno accordo col
decano e col capitolo di Cividale il 14 agosto 1253 egli sop-
presse la prepositura Cividalese, cagione di discordie e obbietto
di cupidigie, la quale non aveva altro vantaggio che di rendere
ricchi e prepotenti coloro che l'ottenevano, e divise i beni della
sua dotazione insieme col capitolo. Al patriarcato egli attribuì
la pieve di Tolmino, la villa de Osellano, i mansi di Gemona e
d'Artegna, il diritto di conferire la custodia e lo scolasticato e
di confermare i canonici ed altri beni e diritti ; tutto il resto con-
cesse al capitolo ^. Oltre i proventi che miglioravano assai le fi-
nanze della sede patriarcale, il patriarca teneva così non solo
feudalmente ma anche ecclesiasticamente in modo più diretto
^ Presenti : Giovanni di Cuccagna, suo fratello Warnerio canonico di
Aquileia, Enrico di Quals suo compagno canonico di Cividale, Genisio di
Padova, podestà di I^ola, Rogerino di Milano ostiario. Atto di Giov. de Lu-
pico. R. Archivio di Stato di Firenze, R. Acquisto Ricci. Cfr. regesti in
Pagine Friulane, XV, p. 36, n.' 3-5.
Rainieri Turchi e suo fratello Giovanni e Gabriele Rusticini erano in
relazione d'affari con Matteo Trivisano, Marino Zorzani e Pietro Zorzani di
Venezia. Fra loro avvenne una liquidazione d'interessi a Trieste il 18 gen-
naio 1254. Pergam. in R. Archivio di Stato di Firenze, R. Acquisto Ricci.
- De Rubeis, M. E. A., col. 739. Cfr. queste Memorie, XI, 1915,
p. 158 sg.
Gregorio di Mo7ttelongo patriarca d' Aquileia yj
V importante posizione di Tolmino, la chiave di volta dei possessi
feudali del patriarcato nella valle superiore dell'Isonzo.
Al bisogno urgente di trovar denaro attribuisco pure il ten-
tativo del patriarca Gregorio di riscuotere le procurazioni che
gli erano ancora dovute per la sua legazione in Lombardia e
non gli erano ancora state pagate. A questo tentativo si oppose
papa Innocenzo IV. Con lettera dell' 8 novembre 1253 il papa
impose ad alcuni giudici ecclesiastici di ridurre al silenzio Da-
nisio di Osenago, cittadino di Milano, a cui il patriarca aveva
ceduti i suoi diritti ed azioni per esigere dal preposito e dal
clero di Lodi otto anni di procurazioni, e con un'altra del 25
maggio 1254 liberò il capitolo ed il clero di Asti da ogni mo-
lestia da parte degli agenti del patriarca stesso per il paga-
mento di tali procurazioni, eccetto il caso di una lettera aposto-
lica che revocasse esplicitamente quest'esenzione ^
Queste misure del papa non ritengo si debbano attribuire a
malanimo contro il Montelongo, ma al desiderio di ridurre in
pace r Italia settentrionale e di cancellare gli antichi odi e ge-
losie. Infatti Lodi era ritornata in seno al partito guelfo solo nel
1251, ed era duro obbligare il clero a pagare le procurazioni
anche per il periodo nel quale la città era stata in mano dei
ghibellini ; ed altrettanto si dica di Asti.
Invece altri provvedimenti si presero per pagare i debiti
contratti dalla chiesa di Aquileia ; e papa Innocenzo IV li san-
zionò con due lettere date da Assisi il 23 maggio 1254.
Coir una il papa comandò al vescovo eletto di Ceneda di
raccogliere la decima di tutti i proventi ecclesiastici, sia delle
chiese cattedrali sia delle altre nelle città, diocesi e provincia di
Aquileia, e di assegnarla a Gregorio di Montelongo eletto di
Aquileia, a cui egli l'aveva concessa per tre anni quale sussidio
per pagare i debiti.
Coir altra il papa incaricò il vescovo di Castello di conce-
dere per la durata di un triennio allo stesso eletto di Aquileia
tutti i redditi e proventi di un anno delle prebende e benefici
che rimanessero vacanti nella città, diocesi e provincia di Aqui-
leia. E poiché la città di Aquileia aveva il diritto di godere per
tutto un anno i redditi dei benefici che rimanevano vacanti nella
città e diocesi allo scopo di provvedere ai bisogni della città
i Reg. Innocent. IV, n.' 7073, 7547.
78 Pio Paschini
stessa, volle che la città godesse del suo privilegio per il secondo
anno, ma, passato il triennio, tutto dovea ritornare com'era prima ^
4. Oggetto di speciali trattative fu il rinnovamento del trat-
tato tra il Friuli e la republica di Venezia. Il patriarca ed il
doge Rainieri Zeno ne fecero oggetto di un prolungato dibat-
tito, che iniziatosi in Friuli si chiuse a Venezia il 24 aprile
1254 ^. Come fondamento fu preso il patto stretto fra la repu-
blica ed il patriarca Bertoldo l'S giugno 1222 e l'altro patto del
14 settembre 1248, introducendovi quei mutamenti che le circo-
stanze storiche rendevano necessari. Eccone il tenore:
i." I veneziani nel ducato del patriarcato di Aquileia do-
vevano essere sicuri nelle persone e nelle robe ; se qualcuno del
patriarcato facesse danno in mare fra i posti di Baseleghe e di
Primero ad un veneziano, il patriarca era tenuto a risarcirlo
entro 30 giorni a sue spese ;
2.° Il doge doveva avere il suo vicedomino ad Aquileia
per rendere ragione e giustizia; ed i non veneziani dovevano
appellare al doge; i veneziani che stessero in giudizio davanti
l'avvocato aquileiese od il conte di Gorizia potevano appellare
al patriarca ;
3.'* Solo i veneziani potevano far testimonianza contro i
veneziani secondo l'uso e la consuetudine della curia ducale;
4.° I portolani potevano portare a Venezia da Aquileia
tanta biava quanta fosse sufficiente alla loro famiglia, e non po-
tranno essere oppignorati da friulani ;
5.° I veneziani che scambiavano sale, cipolle e aglio con
biava potevano trasportare questa dove volessero ;
6,° Se i veneziani fossero espulsi dal patriarcato o richia-
mati dal doge, il patriarca doveva dare loro sicurtà fra i porti
di Baseleghe e Primero ;
7.° Il vicedomino del doge aveva diritto del quarantesimo
di due stazioni, di usare proprie stadere, pesi e bilance per esi-
gere quanto gli spettava, non era tenuto a pagare imposta sui
suoi beni, ma non doveva commettere frodi ;
8.° Egli era tenuto a punire le offese fatte dai veneti nel
patriarcato ; al solo doge però era riservata la pena del sangue ;
1 Reg. Innocent. IV, n.' 7505-06.
~ Nel MiNOTTO, Doc. ad Forumjul. cit.-; p. 23, per errore il trattato porta
la data del 7 aprile; ci sta infatti: VII aprii, invece che: die veneris VII
exctint. aprii.
Gregorio di Montelongo patriarca c{ Aquileia 79
9.° Il patriarca doveva far ragione e giustizia delle offese
fatte ai veneziani nel patriarcato da parte dei friulani o di qua-
lunque altro ;
io.° I veneziani non erano soggetti nel patriarcato a nes-
suna gabella, eccetto la muta ; dovevano pagare però : casaticiim,
hospitium et fictum secondo 1' uso d' Aquileia ;
ii.° Il patriarca doveva continuar ad inviare ogni anno i
12 pani ed i 12 porci al palazzo del doge *;
12.° Il patriarca non era tenuto a dar soddisfazione dei
danni fatti ai veneziani da quei di Prata e Porcia cttin sint itti
extra suain gratiani ^, ma doveva dar aiuto, come poteva, perché
i veneziani avessero il loro. Dei danni che costoro facessero dopo
tornati in grazia, il patriarca era responsabile nel modo degli
altri nel patriarcato ;
13." Il patriarca si obbligava a far giurare al conte di Go-
rizia di osservare quanto avevano osservato i suoi predecessori ^ ;
14." Il patriarca permetteva che si trasportassero dal Friuli
a Venezia frumento, legnami, biava ecc. ; toglieva i dazi insoliti
imposti sul sale, ferro, pegola ed altre mercanzie *, e ritornava in
tutto all'antica consuetudine;
15.° Il patriarca doveva dar ragione e fare giustizia per
le ruberie fatte ai veneziani al tempo dei suoi predecessori ; e
definire su quelle fatte dopo che il doge aveva comandato ai ve-
neziani di uscire dal Friuli, salvi i pegni concessi dal doge sui
beni del patriarcato ;
i6.° UniLS de melioribzis viris del PViuli residente in Aqui-
leia, dopo giurato nelle mani del patriarca, doveva far ragione
dei debiti e delle altre petizioni che facessero i veneziani contro
gli uomini del patriarcato ;
17.° Gli uomini di Grado dovevano essere trattati nel ter-
ritorio del patriarcato secondo le antiche consuetudini ;
18.° Il doge concedeva per grazia che il patriarca potesse
condurre ad Aquileia dalla canipa sua del monastero di S. Maria
in Istria 1500 anfore di vino e 500 moggi di biava;
ig." E concedeva inoltre che il sale si portasse in Friuli
come per il passato, pagando cioè alla republica io libre di de-
^ Questi primi articoli sono eguali a quelli del patto del 1222.
~ I Prata e Porcia erano sempre legati al partito di Ezzelino da Romano.
3 II conte di Gorizia giurò l'osservanza del trattato l'anno seguente.
•* Si allude qui alla novae mutae di cui abbiamo fatto cenno sopra.
8o Pio Paschini
nari veneti per cento de datio et quintuìn. Se il sale che si tra-
sportava a Portogruaro ed a Porto Latisana si trasportasse poi
a Padova, avrebbe stabilito il doge il dazio da esigersi;
20.° Concedeva pure ai militi, chierici e dame del Friuli
lo sgravio del dazio sui panni che comperassero a Venezia per
gli abiti loro;
2 1.'* Rimetteva pure i dazi insoliti, che fossero stati im-
posti in pregiudizio degli uomini del patriarcato.
Tutti questi articoli furono pubblicati dinanzi al doge ed al
maggior consiglio congregato. Testi per il patriarca furono : Gual-
terio, vescovo di Treviso, Rugerio eletto di Ceneda, Berengerio
prepositus s. Odorici de Utino, Nicolò de Lupico scriptor, Pere-
grino e Pauluzzo cappellani patriarcali ed i nohiles viri Enrico
di Castellerio, Ermanno di Portis, Giovanni di Cuccagna ^
L'atto ebbe l'ultima sanzione solenne a Udine il 6 giugno
quando Gregorio, rispondendo alle richieste di Enrico Foscarini
e di Marco Quirini, ambasciatori di Venezia, disse di essere
pronto a giurare il patto concluso ; ed infatti Guarnerio de Porto,
per sua commissione, giurò in animam ipsius d. patriarche V os-
servanza del trattato ". Da questo momento il patriarcato rimase
in piena pace colla republica; e s'aiutarono a vicenda nel debel-
lare il partito ghibellino ancora forte nella Marca Trivigiana in
grazia della tirannide di Ezzelino da Romano.
5. Contro il partito ghibellino il patriarca pensò a munirsi
seriamente sin da principio, specialmente nelle parti più esposte
alle incursioni nemiche ; seguendo in ciò 1' esempio lasciatogli dal
predecessore.
Certo a questa sua premura si deve la costruzione del gìronum
di Portogruaro a difesa del Friuli e della chiesa di Concordia,
ridotta in malo stato, in causa della guerra, per opera di Ezze-
lino da Romano e dei signori di Prata. Ce lo riferisce lo stesso
^ Bianchi, Doc. Reg., n.' 193-194; Doc. jhss., n. 215. Lorenzo de
Monacis nel suo Cronicon de rebus Venetis (scritto sul principio del secolo XV
e pubblicato a Venezia nel 1758) fondandosi su questo trattato scrisse: « Post
« multas discordias subortas inter Venetos et Foro-Julianos, Gregorius de
« Montelongo Patriarcha electus veniens Venetias novis contractis pactioni-
« bus partes pacificavit » (p. 252).
- Testi: Rugerio vescovo di Ceneda, il preposito di S. Odorico di
Udine, Giovanni di Cucagna, Asquino di Varmo. Di questo trattato fa ap-
pena un cenno brevissimo il Dandolo nella sua cronaca. Cfr. R. I. S., tomo
XII, p. 363.
Gregorio di Montelongo patriarca cC Aquileia 8i
patriarca in un documento del 27 marzo 1265 S e ci aggiunge
che la chiesa di Concordia era vacante, quando si costruì quella
difesa. Quando il patriarca facesse questo non si può dire con
precisione; ad ogni modo entro i primi due anni del suo go-
verno, poiché nel 1254 egli affidò ad Enrico Squarra di Porto-
gruaro custodìain dolonìs (torre o maschio di fortezza) ciusdem
loci', ed Enrico giurò di custodirlo a nome del patriarca cantra
omneni personam de mundo, di tenerlo aperto al patriarca stesso
e di restituirlo quando ne fosse richiesto ".
In quest'anno egli diede pure a Rogerino di Milano suo
ostiario sette mansi a Forni, eh' erano stati già di Varnerio d' Ar-
tegna traditore della chiesa d' Aquileia ed in causa del suo tra-
dimento erano ritornati in libera proprietà della chiesa ^.
Pur troppo pochi documenti e regesti sono rimasti di que-
st'anno, i quali potrebbero indicarci i movimenti nelle proprietà
e nei feudi introdotti dal patriarca per la sua opera di assesta-
mento del patriarcato.
Con Ugolino fratello di maestro Ada canonico di Modena
e coi suoi fratelli egli fece un cambio, togliendogli certi beni che
erano in antecedenza feudo di Enzo di Belgrado e che per la
sua morte erano ritornati alla chiesa, e dandogliene altri altrove *.
A Giovanni di Cucagna diede in feudo due mansi presso
Cuccagna in cambio di due mansi che gli tolse nella gastaldia
di Tolmino ^. Forse premeva al patriarca di ordinare meglio i
feudi in questa importante regione.
A Trifolino di Udine rinnovò l' investitura di un manso
presso il castello di Buttrio, quale feudo d' abitanza ^.
Un tale Monaco di Udine rinunciò un feudo di abitanza che
aveva ad Udine ed a Nimis e ad un feudo legale che aveva a
Caporiacco ; ed il patriarca ne investì sua moglie Suritta e le
sue figlie Margarita e Benvenuta per grazia speciale, colla clau-
*■ Bianchi, Doc. Reg., n. 289; Doc. mss., n. 308. Cfr. E. Decani,
Guecello II di Praia ecc., p. 36; Id., Il comune di Portogruaro, p. 86.
2 Reg. nel Cod. De Rubeis cit., p. 33 (in queste Memorie, X, 1914,
p. 82) da un atto di Giov. de Lupico.
3 Thesaurus, p. 155, n. 300; p. 200, n. 431; p. 213, n. 475. Reg. in
Cod. De Rubeis, loc. cit., p. 19 (in queste Memorie, IX, 1913, p. 108).
^ Thesaurus, p. 154, n. 299; p. 199, n. 430; p. 212, n. 474. Reg. in
Cod. De Rubeis, loc. cit., p. 19 (in queste Memorie, IX, 1913, p. 108).
^ Thesaurus, p. 156, n. 303; p. 211, n. 469.
6 Thesatirus, p. 155, n. 301; p. 213, n. 477.
6
Pio Paschini
sola che se queste sposassero uomini non sudditi della chiesa
d' Aquileia, quei feudi sarebbero ritornati alla chiesa stessa ^ Era
un mezzo per impedire l' ingerenza di estranei nei beni della sede
aquileiese, e la dispersione delle sue proprietà. Insieme colle
infeudazioni fatte a Capodistria questo è quanto abbiamo per
l'anno 1254.
Dal maggio in poi il patriarca rimase in Friuli. Si trovava
ad Udine sino dal 18 maggio 1254. In quel giorno infatti egli
di là scriveva una lettera a Corrado di Buia suo gastaldo in
Maniago, imponendogli di cessare dal rendere giustizia a Claut
e Cimolais, perché in quei luoghi aveva « plenum et merum do-
« minium » 1' abbate di Sesto '.
Il 26 giugno il patriarca era presente a Cividale alla pro-
messa che per suo volere Giovanni de Braida, gastaldo di Civi-
dale, fece ad Enrico di Villalta di dargli soddisfazione delle vio-
lenze usategli nei suoi possessi di S. Quirino sul Natisone ^.
Il 12 agosto 1254 ad Udine il patriarca Gregorio consegnò
all' abbazia di Obernburg la pieve di Peilstein coli' ius archidia-
conatus, alla quale aveva rinunciato il pievano Roberto *.
L' 1 1 settembre 1254 pure a Udine nel palazzo patriarcale,
alla presenza del patriarca Gregorio, di Rugerino vescovo eletto
di Ceneda, di Alberto vicedomino patriarcale, il conte Mainardo
di Gorizia investì Ainzo di Ragogna in feudo retto e legale
della villa di Villanova a mezzodì di Pordenone con tutte le sue
dipendenze, obbligandosi a difenderlo e proteggerlo sotto pena
di 2000 lire di denari '".
Il 16 settembre ad Udine il patriarca diede in retto e le-
gale feudo ai fratelli Enrico e Rantolfo di Villalta i beni de
feudo mtnisteru et de tato proprio che erano appartenuti a Ver-
gelone di Fagagna ed a Corrado suo genero per premiarli dei
^ Thesaurus, p. 177, n. 366.
- Bibliot. di S. Daniele, voi. LXXIII, Varia Fontanini, p. 155.
3 Presenti : Enrico di Castellerio, Petrusso notaio di Cividale, Rugerino
di Milano ostiario del patriarca. Cfr. queste Memorie, IX, 1913, p. 311. Simile
promessa fu ripetuta poi il 4 giugno 1262 da Enrico di Tricesimo gastaldo
di Cividale per ordine di Giovanni arcidiacono rappresentante del patriarca.
Bianchi, Doc. Reg., n. 271 ; Doc. mss., n. 293.
^ Zahn, 17. B. Steierm., Ili, p. 222, n. 147.
^ Archiv. di Stato di Vienna, cod. 447, f. 29. Furono inoltre presenti:
Berengero preposito di S. Odorico, Rantolfo di Villalta, Asquino di Varmo,
Cono di Moruzzo, Giovanni di Cucagna, Varnerio di Ragogna, Ivo di Por-
denone.
Gregorio di Montelongo patriarca cC Aquileia 83
servizi prestatigli, imponendo però loro l' obbligo di prestare
quel servizio a cui erano tenuti coloro che possedevano anterior-
mente quel feudum ministerii ^. Così questa schiatta di liberi
divenne ministeriale per avere il godimento di quei beni che
diede loro il patriarca.
Frattanto la morte di Corrado IV avvenuta il 20 maggio
potè fare sperare che le vicende italiche si volgessero ad una
soluzione e che si potesse facilmente ottenere un po' di pace du-
ratura. Lo sperò infatti anche papa Innocenzo IV che il 22 giu-
gno 1254 scrisse da Anagni lettere al vescovo di Mantova, agli
arcivescovi di Ravenna, di Milano, di Genova, al patriarca eletto
di Aquileia e ad altri vescovi esortandoli, morti ormai Federico II
e Corrado IV, ad offrire la grazia e la benevolenza della sede
apostolica a tutti coloro che erano stati in lotta colla chiesa e
che avevano aderito ai due defunti sovrani ^.
Come accogliesse quest' esortazione il patriarca Gregorio, non
si può dire. Certo è ad ogni modo ch'egli aveva a che fare con
ghibellini eh' erano risoluti a non piegarsi e che speravano assai
nella solidità della loro condizione ed in un futuro mutamento in
loro favore delle cose di Germania.
Un altro fatto, che non può non apparire strano e del quale
non so davvero dare una adeguata spiegazione, è questo, che
durante il 1254 il patriarca fu colpito dalla scomunica. Infatti
papa Innocenzo IV delegò i vescovi di Fola, Pedena e Capo-
distria a confermare l'elezione di Arlungo di Voitsberg, eletto
vescovo di Trieste, perché il patriarca, a cui spettava quella
conferma era legato dalla scomunica (27 nov. 1254); e con un'altra
lettera del 24 novembre diede partecipazione allo stesso patriarca
di questa delegazione ^. Forse non è troppo arrischiato il sup-
^ Fra i testi v'erano: Rogerino, vescovo eletto di Ceneda, Federico di
Colmalisio gastaldo di Udine, Geroldo de Legio, Alberto vicedomino, arci-
diacono di Ceneda. Bianchi, Doc. Reg., n. 198; Doc, mss., n. 220..
- /veg. binocent. IV, n. 7789. Questo desiderio di ricondurre la pace
nella cristianità aveva dimostrato il papa sin dal 13 gennaio 1254 col coman-
dare al sottopriore dei domenicani di Parigi di liberare Giovanni, conte di
Fiandra, dalla scomunica, della quale era stato colpito dal legato Gregorio
di Montelongo, giacché si scusava di avere combattuto insieme col re Enzo
contro i fedeli della Chiesa, soltanto per vendicarsi di offese patite. Bòhmer,
R. /., V, n. 8673.
3 Reg. Innocent. IV, n.' 8223 e 8243; Bòhmer, R. /., n. 8877. Però
Arlungo non ebbe l'episcopato, che il 13 marzo 1255 papa Alessandro IV
assegnò invece al suo emulo Warnero di Cucagna.
84 Pio Paschini
porre che questa scomunica piombasse sul patriarca per essersi
egli opposto alla concessione della prepositura di Cividale, che
il papa stesso aveva data a Manfredo di Saviola ^
Questa rottura però non poteva durare a lungo; e siccome
sappiamo che il Montelongo figura come investito della prepo-
situra stessa, dobbiamo credere che colla morte del papa (7 di-
cembre 1254) si trovasse un modo di comporre il dissidio. Il
nuovo papa Alessandro IV, senza perdere nulla della sua di-
gnità, poteva infatti, per amore di pace e di concordia, tempe-
rare le misure troppo aspre prese dal suo antecessore.
Pio Paschini.
(Continua)
* Cfr. queste Memorie, XI, 1915, p. 159.
ANEDDOTI
Confini friulani.
Note.
I. Non intendo parlare del confine stabilito fra la republica
di Venezia e l'arciduca d'Austria e Stiria in seguito alle guerre
del 1508-15 14 ed alla guerra dì Gradisca nel secolo seguente,
perché esso, specialmente dalla testata di Valle del Natisone
all'Adriatico, era quanto più di capriccioso e d'innaturale si possa
immaginare ; intendo invece parlare dei confini su due punti per
il tempo antecedente a quell'epoca.
Cominciamo dal settentrione. Sin a prima della guerra odierna
il confine da monte Croce di Comelico al monte Lodin seguiva,
o bene o male, la linea di spartiacque; poi dal monte Lodin a
Pontebba il confine era tracciato sul fondo della valle ; quindi
risaliva allo spartiacque sino alla testata di vai di Resia. Viene
spontanea la domanda, com' è che il confine non sale dal Lodin
sino alla testata di vai di Fella, cioè sino al passo di Saifìiiz,
per discendere di là alla testata di vai Dogna?, tanto più che la
popolazione compresa fira Pontebba e Saifniz, non si può dire
fosse originariamente tedesca, ma invece slovena. È evidente
che a Saifniz era il confine romano fra la provincia della Venetia
et Histria ed il Noricum Mediterraneum.
L' anomalia si spiega, a mio modo di vedere, nella guisa
seguente. E noto come tutto questo territorio delle Alpi Carniche
orientali e Giulie fosse profondamente sconvolto dalle invasioni
barbariche. Verso il mille era là tutto da rifare, si può dire;
boschi e fiumi occupavano soli quei territori poco o punto abi-
tati. Nella seconda metà del secolo decimo gli imperatori di casa
Sassone tennero sempre uniti sotto un unico duca il P>iuli e la
Carintia e ad essi fu pure saltuariamente unita perfino la Ba-
86 Pio Paschini
viera * ; i confini, dunque, fra la Carintia ed il Friuli non rimasero
allora ben precisi. Enrico II imperatore, ultimo di casa Sassone,
era stato duca di Baviera sino dal 995 ; e volle erigere colà la
nuova sede vescovile di Bamberga, togliendo una parte di ter-
ritorio alla diocesi di Wùrzburg. Bisognava dotare quella nuova
sede, e perciò le diede fra l'altro nel 1014 tutto il territorio di
Arnoldstein, Tarvis, Pontafel insieme con Predil; territorio che
senza soluzione di continuità andava dalle sponde della Drava
per il passo di Saifniz sino alla Pontebbana ed al Predil. In
questa regione più tardi, nel 1 106, Ottone I, vescovo di Bamberga,
sul luogo del rovinoso castello di Arnoldstein eresse il mona-
stero dello stesso nome ^. Più tardi ancora, in sui primi del se-
colo XIII vediamo che Corrado, vescovo di Trieste, assegnò la
villa di Leopoldskirchen all'ospedale di S. Spirito presso Ge-
mona ^. Aveva avuta la famiglia di quel vescovo in allodio od
in feudo dalla chiesa di Bamberga tale possesso? non lo sappiamo,
ma può essere probabile. Non si ha memoria di contese fra la
chiesa di Bamberga ed il patriarcato per i confini verso Pontebba,
perché essi erano abbastanza determinati ; frequenti e tempestose
furono invece le contese fra l' abbazia di Moggio e la chiesa di
Bamberga per i confini verso Raibl, che non poterono essere
definite che ai tempi dì Maria Teresa, come si può vedere nei
documenti riprodotti dall'Antonini nel suo Friuli.
Inoltre nel 1060 Enrico IV donò alla chiesa di Bamberga
anche Villacco, che divenne un importante mercato. Non basta
ancora: la chiesa di Bamberga comprò, prima del 11 74, da Co-
rado conte di Raabs, burgravio di Norimberga (un Hohenzollern),
Feldkirchen con Dietrichstein e Pràgrad dall'altra parte della
Drava; e cosi formò nel paese un vero principato puramente
temporale * ; la cura spirituale apparteneva, per i territori sulla
destra della Drava, al patriarca di Aquileia, che teneva per questo
un suo arcidiacono a Villacco.
^ Cfr. il mio : Le vicende politiche e religiose del Friuli nei secoli IX
e X, Venezia, 191 1, p. 104.
- Cfr. queste Memorie, IX, 1913, p. 334.
3 Queste Memorie, XI, 1915, p. 36.
"* A. VON Jaksch, Die àlteren Hohenzollern und Kàrnten, in Mittei-
lungen des Instituts fùr oesterreichische Geschichtsforschungen, 1912, p. 351.
Quest'autore ricorda anche gli altri possessi che la chiesa di Bamberga aveva
in Carintia, ma essi non fanno al caso nostro.
ConJl7ii friulani 87
Per non turbare dunque l' unità dei possessi di questo prin-
cipe dell' impero, eh' era il vescovo di Bamberga, i confini nella
parte superiore del corso del Fella subirono quella curiosa ano-
malia, che fino a ieri s'è osservata.
2. Com'è noto, il conte di Gorizia era vassallo diretto del
patriarcato per Gorizia e luoghi circostanti. Ma il patriarca di-
venne anche signore della Marca Venda, ora Carniola centrale
e meridionale. Quale era precisamente il confine fi-a la Contea
Friulana e la Marca Venda? Per la valle superiore dell'Isonzo
non e' è questione ; essa era annessa certamente al Friuli e for-
mava parte di esso sino al secolo XVI; la valle inferiore del-
l'Isonzo era pure territorio friulano; la republica veneta tenne
Monfalcone e il suo territorio sotto il suo dominio sino alla sua
caduta. Ma mentre nella valle superiore il confine era segnato
dalle montagne della riva sinistra dell'Isonzo e dei suoi affluenti;
quale era il confine sul Carso?
E ben noto come nel regime feudale, per circostanze specia-
lissime, sia talvolta ben difficile determinare i confini precisi.
Troppe volte i confini naturali sono violati da interessi partico-
lari, che nulla hanno a che fare col benessere e colla difesa delle
nazioni. Molte volte però ci aiutano, come in questo caso, i con-
fini ecclesiastici; perché quand'essi sono antichi e non modificati
sotto l'influenza di interessi temporali, coincidono col vantaggio
delle popolazioni e colle primitive grandi circoscrizioni civili.
La parte meridionale del Friuli stava sotto il governo imme-
diato dell'arcidiacono di Aquileia, il cui potere verso oriente si
estendeva quanto il territorio friulano. Ma facciamo anzi tutto
una constatazione.
Mentre il grosso dei possessi del capitolo patriarcale di
Aquileia si estendevano « a monte qui dicitur Grast (o Cars)
« usque ad stratam Ungarorum et usque ad villam quae dicitur
« Hage », cioè dalle ultime pendici occidentali del Carso verso
la bassa pianura friulana * ; quelli invece dell' abbazia della Be-
ligna, instaurata dal patriarca Wodolrico I, penetravano proprio
nel Carso.
Il patriarca dice infatti che S. Giovanni sul Timavo, cioè
S. Giovanni di Duino, « era stato una volta monastero assai cele-
brato, ma che poi era stato distrutto e ridotto a poveri ruderi
^ Cfr. queste Memorie, X, 1914, p. 178.
88 * Pio Paschini
ed era andato soggetto a servitù laicale », cioè il territorio era
stato usurpato da signori ; perciò egli volle rialzare quella chiesa,
come realmente fece, e l' affidò all' abbazia della Beligna con tutti
i possessi che si estendevano dal fiume Ponteda alla valle de
Catyno, e col mulino di Malchinasella * ; naturalmente i monaci
dovevano provvedere al servizio divino di tutta la pieve.
Quando l'abbazia della Beligna fu soppressa, la pieve di
Duino, passò sotto la diretta dipendenza del patriarca e del suo
arcidiacono.
In un elenco di Pievi che erano soggette alla visita dell'ar-
cidiacono d'Aquileia e che ci fu conservato in un documento
della curia patriarcale del principio del secolo XVI, troviamo
registrate appunto le pievi di Dornberg, Reifenberg, Pervacina,
Komen, oltre, naturalmente quelle poste più ad occidente, e la
pieve di S. Giovanni di Duino (« S. Joannis de Charsis ») colle
sue filiali che sono così elencate : Anesizza, Aloquiza (Lokavec),
Asutta (Sutta), Abra (Gabrje), Avovasech (Voisciza), Amaldrj,
Plovischoviza (Pliskovica presso Komen), Agarnagacz, Astopoz,
Concaviza, Samatorice (Samatorca), Sanpalaij (Sempolaj presso
Nabresina), Ezcnoben (Zgonik), Machonasella ^.
Ma oltre che la pieve di S. Giovanni, troviamo sul Carso
altre giurisdizioni ecclesiastiche :
Dai tempi dei patriarchi Wodobrico II e Godofredo il mona-
stero di S. Maria d' Aquileia aveva « capellam etiam Sancti
« Passi » ^ cioè Schònpass o Sempas. E non era questa una
giurisdizione puramente ecclesiastica.
L' abbazia di Rosazzo ebbe in dono numerosi possessi nel
Carso durante il secolo XIII. Da Enrico III, duca di Carintia,
ebbe le ville di Betanja, Merce e Skopo in quel di Sesana
presso Trieste; dal duca Enrico IV ebbe la villa di Veckoti
presso Komen; dal duca Bernardo ebbe Selo presso Komen,
Utovlje e Sepulje presso Sesana; da Engelberto, marchese d'Istria,
ebbe Sesana, dal duca Ermanno ebbe le ville di Berdo, Kriz,
« Sella », Dobravlje (presso Sesana); dal duca Ermanno ebbe
Cernice (ad oriente di Gorizia) ; da un conte Mainardo di Gorizia
ebbe la villa di Dane presso Sesana, oltre parecchi altri possessi
1 Cfr. queste Memorie, IX, 1913, p. 341.
2 La « plebs S. Joannis de Duino », che troviamo nel 1595 compresa
neir arcidiaconato di Gorizia, ai tempi del patriarca Giovanni Delfino, for-
mava invece un arcidiaconato a sé (1657-1699).
3 Cfr. queste Memorie, IX, 1913, p. 32.
Confini friulani 89
minori ^ I possessi dell'abbazia erano dunque assai estesi sul
Carso.
Si sa pure che nel 1341 il vicario della pieve di Reifenberg
era tenuto a pagare l'annuo censo di una marca di soldi all'ab-
bazia di Moggio ^. Prestazione che evidentemente era il risultato
di precedenti composizioni fra l' abbazia e quella pieve, che in
origine dovette esserle annessa. Altro censo l' abbazia percepiva
e Bernizza ^, ed è notevole che tanto Reifenberg quanto Ber-
nizza sono elencati fra i censuari friulani nei documenti.
D'altra parte se noi badiamo ai confini dell' arcidiaconato
Carniolae et Marchiae, che s'era andato costituendo durante il
secolo XII, per quanto si sa, nel territorio dell' antico marche-
sato della Carniola meridionale o Marca Venda, e che formava
un'estesa organizzazione ecclesiastica sotto l'alto governo del
patriarca, noi troviamo chiaramente fin dove esso si estendeva
verso sud-est. In un elenco di pievi di qu.e\V Archidiaconatus
Carniolae et Marchiae, compilato il 23 novembre 1323 per rego-
lare le prestazioni dovute a Bernardo, cardinale di S. Marcello *,
troviamo appunto comprese le pievi di Lueg, Wippach, Zirknitz,
Laas. Sono queste le parrocchie di confine di quell' arcidiaconato
lungo il Carso.
Quando finalmente fu costituito il 21 dicembre 1574 quel-
r arcidiaconato di Gorizia, che doveva comprendere sotto di sé
tutte le terre dell' arcidiaconato Aquileiese soggette a casa d'Au-
stria, noi vediamo ch'esso comprendeva verso il Carso appunto:
Bigliana, Comen, Caminje, Croce di Vipacco, Dornberg, S. Gio-
vanni di Duino, San Basso, Prebacina, Reifenberg, Vipacco,
S. Vito ecc. ; uno spostamento era dunque avvenuto verso Oriente
nei confini orientali in favore dell' arcidiaconato di Gorizia, e non
fa meraviglia, quando si pensi che tutto il paese era ormai sog-
getto al duca di Stiria, che ne poteva disporre a piacere.
Del resto questa mutazione ecclesiastica che potrebbe pa-
rere insignificante, aveva un suo precedente storico assai degno
d'esser notato. Per non perdermi in lunghe ricerche presenterò
*■ P. Paschini, Sulla fondazione dell'abbazia di Rosazzo, Udine, 1912,
p. IO sgg.
- A. Battistella, L'abbazia di Moggio, Udine, 1903, p. 123.
3 Ibid., p. 135.
* Documento pubblicato dall' ab. G. Bianchi, in Notizetiblatt herausg.
von der Histor. Conimission der k, Akademie der Wissenschaften in Wien,
1S58, p. 405.
90 Pio Pas chini
qui quanto riferisce il Lucifer Aquileiensts, scritto, com'è noto,
nel 1386 da Odorico d'Andrea di Udine cancelliere patriarcale:
« Nelle parti della Carniola e della Marchia vi sono molti
castelli e beni spettanti alla mensa patriarcale, cioè i castelli di
Los, Vipacco e Disperdi colle loro pertinenze, che ora sono oc-
cupati dai conti di Cilli e di Ortemburg ; credo però che quei
conti abbiano certe investiture, ottenute con tacita verità » *.
Perciò il 22 settembre 1377 il patriarca Marquardo aveva
bensì data l'investitura dei feudi al conte Federico di Ortemburg,
ma « noluit includi Castrum de Los, tanquam ad ipsum pieno
« iure spectans » ^.
Laas e Vipacco dunque, quantunque appartenessero alla
Marchia, erano però legate in modo del tutto particolare al pa-
triarca per la difesa dei confini d'Italia, dove stava il nerbo
dello stato patriarcale. Ma la debolezza di questo stato feudale e
la prepotenza dei vassalli avevano resa, col decorrere degli anni,
frustranea la previdenza dei patriarchi del secolo XIII.
E fra questi potenti signori non erano soltanto i conti di Cilli
e di Ortemburg, ma anche i signori di Duino. Da quando com-
paiono chiari al lume della storia, costoro sono sempre il martello,
il tormento del patriarcato e degli istituti da esso dipendenti. Pian-
tati sugli scogli che strapiombano sul mare, lungo la via di Trieste,
essi dominavano anche sul Carso ; né la rocca e la muta di Mon-
falcone create sulla metà del secolo XIII riuscirono a frangere la
loro potenza. Essi erano spalleggiati dal conte di Gorizia e riusci-
rono ad accaparrarsi molti feudi, sia da lui, sia dal patriarca.
Perciò il Thesaurus ricorda una « Investitura fatta per un
determinato tempo ad Ugo di Duino dei redditi, mute, diritti e
garrito in Arisperch (Adelsberg), Los, Coefi, Chirchnitz e Wipaco
colle Decime » ^. Proprio i territori che il patriarca aveva inteso
tenere sotto la sua dipendenza.
Ma quale prepotente vassallo fosse divenuto il Duinate ce
lo palesa alla fine del secolo XIV il Lucifer:
« Quello di Duino dovrebbe e deve riconoscere, conforme
all'uso dei suoi maggiori, i castelli di Duino, Prem e Solosench
(Senosenchia) colle loro pertinenze, secondo il tenore delle antiche
* Thesaurus Eccl. AquiL, p. 4,11 ; cfr. anche p. 413. Si tratta di Laas,
Wippach ed Adelsberg.
~ Thesaurus, n. 1357.
" Thesaurus, n. 795.
Confini friulani 9 1
scritture, che io vidi e lessi, quali feudi della chiesa d' Aquileia ;
ma quel di Duino, richiestone da Marquardo patriarca d' Aquileia
di buona memoria, non si curò di farlo » ^
Ed infatti il io giugno 1366 si presentarono dinanzi al no-
bile milite Ugo di Duino gli ambasciatori del patriarca Marquardo,
« chiedendo che, come i suoi maggiori, dovesse ricevere in feudo
dalla chiesa d' Aquileia il castello di Duino ed il castello di Prem
colle loro appendici, e tutto quanto aveva in Meran od in Croazia,
secondo un documento del 1256... Ma il signore di Duino rispose
che al presente era suddito dei duchi d'Austria, i quali erano in
tali relazioni con il patriarca, che egli non voleva riceverli in
feudo, perché avrebbe fatto contro le promesse date ai Duchi ».
Ma c'è di peggio: il io gennaio del 1.367 altri ambasciatori
patriarcali si presentarono dinanzi ad Ugo di Duino, « esponendo
che il patriarca aveva ricevute molte ed intollerabili querele dai
mercanti che passavano con vino e colle loro merci per la strada
patriarcale che da Monfalcone va a Trieste, i quali asserivano
che Ugo aveva chiusa la strada diretta, sicché contro l'uso sempre
osservato venivano costretti a passare davanti la porta del borgo
di Duino... e poi venivano costretti ad entrare nel luogo di
Duino per fare una composizione in denaro per la loro sicurezza
ed il Galaito con lui o coi suoi ufficiali di Duino ; composizione
che era doppia o tripla della solita muta di Monfalcone ». Ri-
chiesero quindi « che non dovesse molestare in tal modo quei
mercanti » conforme ad una sentenza arbitrale del 25 marzo 1281,
in forza della quale « il signore di Duino non doveva fare nes-
suna novità su quella strada, né molestare quelli che vi passavano
sia davanti il borgo sia davanti la villa di Duino » ^.
Il Duinate perciò precludeva sul Carso la comunicazione di
terraferma tra il Friuli, Trieste e l' Istria ; complice naturalmente
l'Austriaco, che piantò il suo dominio su Trieste. E noto quello
che l'Austria facesse poi di Duino.
Così dunque le vicende politiche, come le religiose, segna-
rono i confini sul Carso fra l' Italia e la Carniola. Il territorio
che rimase incerto fra l'uno e l'altro paese fu particolarmente
quello di Vipacco e luoghi circostanti ; ma non sarebbe difficile
stabilire sui luoghi in modo più preciso quali furono i punti che
segnavano la divisione.
Pio Paschini.
* yiiesaurus, p. 413.
- Thesaurus, n.' 1246, 1247.
92 P. S. Leicht
Aquileia e Trieste alla pace di Torino.
Fra i molti scritti d' occasione diretti a diffondere nel po-
polo nostro la conoscenza degli strettissimi legami che avvincono
la storia delle terre irredente a quella generale d' Italia è degno
di particolar nota un breve lavoro del professore Alessandro
Lattes intorno a Genova liberatrice di Trieste *.
Sono poche pagine, ma riassumono con precisione e con
chiarezza i rapporti fra le due città durante la guerra di Chioggia.
Com'è noto, quando la flotta genovese si convinse, nel giugno
del 1380, dell'impossibilità di liberare i propri concittadini asse-
diati strettamente dai veneziani a Chioggia, si volse ad aiutare
le truppe friulane del patriarca Marquardo che cercavano di li-
berare Trieste dalla soggezione di Venezia. Il doppio assalto
sortì esito fortunato ed « il 26 giugno Trieste fu così liberata
« ancora una volta dalla signoria veneta e potè disporre nuova-
« mente di sé, ma i cittadini consegnarono subito la città, le
« chiavi ed il vessillo di San Giusto al maresciallo del patriarca ;
« più tardi, il 13 luglio, i capi della città, con tutto il consiglio
« deliberarono solennemente di eleggere il patriarca signore di
« Trieste, trasmettergli ogni autorità e giurisdizione su di quella
« e sul distretto, insieme con tutti i beni e palazzi d' uso pub-
« blico. La consegna o investitura ufficiale fu fatta immediata-
« mente, poiché il patriarca era già in città e trovavasi nell'epi-
« scopio insieme col vescovo di Trieste suo suffraganeo e il
« popolo fu poi convocato in piena assemblea o arengo nella
« chiesa di S. Giusto, affinchè confermasse per acclamazione il
« fatto compiuto ».
L'autore, dopo aver così descritti esattamente, colla scorta
dei documenti pubblicati dallo Joppi, dal Kandler e dal Buttaz-
zoni, questa ripresa della signoria patriarcale su Trieste, si sof-
ferma ad avvertire come « nei primi passaggi dal comune alla
« signoria fosse costume consueto di tutte le città nostre, che i
« consìgli e le assemblee si riunissero sempre a deliberare e vo-
« tare formalmente anche se il signore si fosse già impadronito
^ Genova, 1915.
Aquileia e Trieste alla pace di Torino 93
« della città colla forza » ; nota poi l' A. che lo stato friulano
aveva ordinamenti liberi ed in particolar modo si reggeva col
parlamento che, se pure non conosceva elezione popolare, « rap-
presentava, in ogni modo, l' intervento della popolazione nel
reggimento », e ricorda infine i patti intervenuti fra il patriarca
ed il comune tergestino, secondo i quali la città doveva esser
difesa contro ogni nemico, conservare le proprie leggi e statuti,
pagare tasse e dazi entro certa misura, avere un podestà o ca-
pitano inviato dal patriarca, ma pagato dal comune e soggetto
a sindacato. Da questi patti e, in particolar modo, dall' aver ac-
cettato un podestà patriarcale, esce la certezza della piena sog-
gezione della città al patriarca, salva ben inteso quell' autonomia
che conservavano anche i comuni friulani da tanti secoli sudditi
del prelato aquileiese. AH' A. sembra che a questa soggezione
facciano un certo contrasto i patti fissati dalla pace di Torino
relativamente a Trieste ; a lui sembra che in questa pace, ben-
ché le sorti della città fossero decise dai patti stabiliti fra gli
ambasciatori del patriarcato e quelli di Venezia, « non si faccia
« parola dell'autorità e sovranità del patriarca », che ne esca
dimostrato che in quel momento il comune era indipendente, al-
meno di fatto, dal patriarcato. Si tratta d'un' opinione non nuova;
anzi fu espressa da altri scrittori con parole d'un valore molto
più assoluto che non adoperi il prudente e preciso storico del
diritto dell'ateneo genovese. Scrive il Cavalli^: « Trieste, dichia-
« rata indipendente nella pace di Torino, s' è mantenuta tale
« sino all'agosto dell'anno seguente 1382. Durante quest'anno
« di assoluta libertà, i triestini si fecero a pensare seriamente
« all'avvenire della loro patria ... »; ed il Senizza^: « in data
« 8 agosto 1381 fu sottoscritta quella pace di Torino per effetto
« d' uno dei cui articoli, tanto i veneziani che il patriarca rinun-
« ziavano ai loro eventuali diritti su Trieste, la quale ritornò li-
« bera, indipendente ed assoluta padrona di se stessa ».
E le citazioni potrebbero continuare.
La questione, come il lettore vede, è assai interessante e me-
rita d'esser vagliata. Esaminiamo, pertanto, da questo punto di
vista, gli atti della pace celebrata a Torino, per la mediazione
del glorioso Amedeo di Savoia, che chiuse, dopo tante ruine, la
guerra di Chioggia.
1 Storia di Trieste, Milano, 1915, p. 66.
- Storia di Trieste, Firenze, 1916, p. 58.
94 P. S. Leicht
Fra i contraenti del celebre trattato, compaiono i procura-
tori del vicedomino della chiesa aquileiese F. di Porcia, del Ca-
pitolo d'Aquìleia e del parlamento friulano, nei quali si accen-
travano i supremi poteri dello Stato in quel momento, giacché
la sedia patriarcale era ancora vacante, dopo la morte di Mar-
quardo, non avendo il nuovo patriarca Filippo preso possesso
del suo ufficio.
Le pattuizioni intercorse fra i rappresentanti della signoria
di Venezia e gli ambasciatori friulani ^ sono molto spiccie ; tutto
ritornerà allo stato pristino eccettuata, però, la città di Trieste
ed i castelli di Mochò e di Mochulano ed i relativi territori che
i procuratori della Signoria « liberant perpetuo ab omni iure
« possessionis et domimi ... qua dictae Civitas et domimi forent
« quocumque modo ... dicto d. Duci et communi Venecìarum
« obligati ... liberantes et absolventes nos notarios infrascriptos
« (cioè i notai che stesero lo strumento della pace), tanquam
« personas publicas, stipulantes et recipientes nomine et vice
« predictarum Civitatis, Castrorum, Communium ... facientes no-
« bis dictis notariis recipientibus de predictis omnibus ... finem
« et pactum de non petendo. Promittentes nobis dictis notariis
« ut supra stipulantibus et recipientibus nec non predictis ve-
« nerabilibus et egregiis sindicis ... dicti vicedomini ecclesie et
« capituli Aquilegensis et patrie Foriiuhi nomine et vice dicti
« patriarchatus et ecclesie Aquilegensis recipientibus quod nulla
« in perpetuum lis, causa, molestia ... fiet ». A queste promesse
seguono i patti relativi al mantenimento del tributo di vino e
d'olio che la città di Trieste mandava ogni anno al Doge, e
della restituzione dei beni ai privati, e finalmente gli ambascia-
tori aquileiesi promettono ai sindaci della signoria di Venezia
che faranno ratificare dal comune di Trieste ì detti patti, con
pubblico istrumento, dentro due mesi sotto una penalità stabilita.
Questa ratifica sopratutto ha colpito il Lattes giacché gli
sembra che da essa sia comprovata l'indipendenza di Trieste e
la spiegazione di tale fatto, in contrasto coi patti del 1380, egli
pensa di trovarla nelle condizioni politiche del Friuli. « Nel
« gennaio del 1381, egli dice, il patriarca Marquardo era morto,
« il successore nominato dal pontefice non potè acquistare tutta
« l'autorità che aveva il morto e si ebbero lotte di partiti, per
« cui probabilmente Trieste nel 1381, riunitasi al partito friulano,
^ Vergi, Storia della Marca Trivigiana, to. XV, doc. 1759.
Aquileia e Trieste alla pace di Toi'ino 95
<i aveva ricuperata la sua indipendenza di fatto e ricadde poi
« neir anno successivo (quando prevalse di nuovo la fazione pa-
« triarcale) sotto il governo effettivo del patriarca, come provano
« altri documenti ». Come già osservammo, 1' opinione del Lattes
è moderata, in confronto di quella degli altri scrittori già citati,
e questa prudenza è ben giustificata dai documenti. Sappiamo
infatti che ancora al 23 maggio 1382, poco prima della caduta
di Trieste in mano del duca d' Austria, si rendeva giustizia colà
a nome del patriarca d' Aquileia ^ e d' altra parte in documenti
patriarcali posteriori alla pace di Torino si parla chiaramente
del diritto che i patriarchi esercitavano effettivamente di mettere
nella città un loro capitano ^.
Oltre a ciò si deve avvertire che nelle pattuizioni da noi
esaminate non appare affatto la rinunzia ai propri diritti che il
Senizza vorrebbe fatta dal patriarca nella pace di Torino : si
nota soltanto che la dichiarazione colla quale gli ambasciatori di
Venezia liberano Trieste da ogni soggezione verso la Signoria è
fatta ai notari che si erigono a rappresentanti della città, e che
a costoro ed insieme agli ambasciatori friulani è fatta la promessa
di non molestare Trieste nell' avvenire, e che finalmente gli am-
basciatori friulani promettono ai veneti di far ratificare dal co-
mune tergestino il « capitulum » della pace che lo riguarda:
dov'è qui l'asserita rinunzia?
Certamente, si deve riconoscere che la personalità del co-
mune appare ancora assai distinta nelle pattuizioni, che essa si
pone a fianco di quella dello stato aquileiese, in posizione subor-
dinata, ma sempre molto vigorosa. Il Lattes ha ragione di fissare
la nostra attenzione su questa singolarità del trattato ; se non
che non mi sembra che la spiegazione se ne possa cercare, come
egli fa, in una situazione di fatto, mentre il lato caratteristico
del procedimento usato dai contraenti è proprio il lato giuridico.
Noto, intanto, che, nel momento in cui la pace di Torino
viene conclusa, le lotte contro il patriarca d' Alen9on s' erano ap-
pena disegnate, e non v'ha ragione di credere che il potere pa-
triarcale a Trieste fosse scosso ; ma prescindendo da ciò non mi
sembra che un tale indebolimento, se anche ci fosse stato, possa
bastare a spiegarci il complicato formalismo del documento.
Tutt'al più esso si potrebbe riconnettere all'impegno preso dagli
* Archeografo Triestino^ I, 272.
- Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis, ed. Bianchi, p. 419.
96 P. S. Leicht
ambasciatori friulani d'ottenere che il comune dì Trieste ratificasse
i patti che lo riguardavano ; si potrebbe ritenere che gli amba-
sciatori veneti pretendessero una tale promessa, perché l' autorità
patriarcale a Trieste non appariva abbastanza stabile; ma come
spiegare, con ciò, le formalità relative alla rinunzia fatta dai vene-
ziani d'ogni diritto loro spettante su Trieste, rinunzia che, come
abbiamo detto, è fatta non già agli ambasciatori friulani, ma ai
notai che si costituiscono rappresentanti del comune tergestino?
Tale procedimento non dovette di certo esser richiesto dai
veneti, visto che a loro non portava alcun vantaggio, mentre
d'altra parte riesce difficile comprendere, come esso potesse
compiersi nell' interesse dello stato aquileiese.
La soluzione probabile della difficoltà va ricercata, a mio
parere, nella condizione particolare in cui Trieste fu posta dalle
deliberazioni del 13 luglio 1380 colle quali ì capi della città ed
il consiglio stabilirono di eleggere Marquardo signore di Trie-
ste. Come il Lattes ha giustamente osservato, nei passaggi di
signoria, il comune deliberava l' assoggettamento al nuovo si-
gnore, come se fosse pienamente libero, benché di fatto quello
tenesse ormai la città in suo potere ; la forza del patto d' assog-
gettamento sta appunto in questa finzione di libertà. Perché i
patti stabiliti fra il patriarca e Trieste avessero il loro pieno
vigore, doveva il comune tergestino essere teoricamente libero
di disporre di sé, il 13 luglio 1380, ed è questo il motivo per
il quale dovevano i veneziani rinunziare al comune stesso e non
al patriarcato direttamente, le proprie ragioni di sig-noria; così,
secondo il diritto del tempo, rimaneva poi fondata la nuova au-
torità che Trieste aveva conferita al patriarca, eleggendolo a pro-
prio signore. Per tal motivo, interessava agli ambasciatori aquì-
leìesì che fosse compiuta questa formalità, e perciò fu escogitato
r artifizio di costituire ì notai come rappresentanti della città che
al congresso dì pace non era intervenuta, perché ormai era in
potere del patriarcato. Con ciò venivano anche tutelati gì' inte-
ressi tergestini in conformità alla dedizione, perchè se Venezia
avesse senz' altro ceduti i propri diritti al patriarcato non sareb-
bero più valsi i patti sanciti dal volontario assoggettamento, ma
quelli assai più duri imposti in precedenza da Venezia. Dal ca-
pitolo della pace, pertanto, Trieste ci appare, è vero, come in-
dipendente per un istante, ma tale indipendenza formale ha ri-
guardo non già al periodo nel quale la pace stessa è conclusa,
ma piuttosto a quello precedente alla dedizione del 13 luglio 1380.
Aquileia e Trieste alla pace di Torino 97
Del resto, la cancelleria patriarcale non dubitava che dallo
strumento di pace uscissero chiari i diritti di sovranità del
suo principe sulla città; infatti quando il cancelliere patriarcale
Odorico ci parla nel Lucifer Ecclesiae Aquileiensis dei diritti
del patriarca su Trieste, dice che essi son dichiarati dalle con-
venzioni (cioè dalla dedizione del luglio 1380) celebrate permane
di Jacopo di Faedis, allora notaro patriarcale « et quatenus fit
« mentio in sententia d. comitis Sabaudiae supradicti ».
Rimane da ultimo la promessa degh ambasciatori veneziani
di far ratificare dal comune di Trieste il capitolo della pace.
Come abbiamo accennato, qui si potrebbe anche pensare, col
Lattes, che si tratti d'una precauzione presa dai veneziani che
ritenevano mal fermo il dominio patriarcale nella città. Tuttavia
altri fatti ci suggeriscono una diversa spiegazione della clausola.
La vacanza della sede rendeva, nello stato patriarcale, molto più
rilassati dell' ordinario i legami che univano feudatari e comunità
al potere centrale.
Per l'Istria in particolar modo, si può ricordare la conven-
zione fatta fra il comune di Muggia ed il patriarca Pagano il
31 marzo 13 19, nella quale si stabilisce che, quando la sede pa-
triarcale fosse vacante, un podestà eletto dovesse esercitare i po-
teri del gastaldo o capitano nominato dal patriarca; la città ve-
deva così, in quel periodo, molto allargata la sua autonomia.
È una consuetudine che trova rispondenza anche in Friuli, dove
vediamo qualche comune nominare un podestà durante la va-
canza della sede *. Una tale condizione di cose poteva rendere
necessario non solo per i veneziani, ma anche per gli stessi
ambasciatori friulani, l'assenso del comune di Trieste al patto
concluso dal vicedomino, durante la vacanza. Si noti poi che il
capitolo in questione non riguardava soltanto le condizioni poli-
tiche della città, ma aveva un'importante ripercussione anche
nelle relazioni economiche dei privati, quando stabiliva la resti-
tuzione in pristino dei possessori veneziani ; i beni di questi ul-
timi erano stati, infatti, come il Lattes stesso ci ricorda, distri-
buiti dal patriarca alle persone che avevano contribuito nel 1380
al ricupero della città. A questo scopo Marquardo aveva inviato
a Trieste il suo cancelliere già ricordato Jacopo di Faedis con
ampio mandato. Bisognava dunque che questi beni fossero resti-
^ Ved. i miei Statuta velerà Civitatis Austriae, Udine, 1899, p. xxni,
n. 5.
7
98 P. S. Leicht
tuiti, e per tal motivo l'esplicito assenso del comune al capitolo
di pace, doveva sembrare veramente necessario.
Queste varie ragioni mi paiono giustificare le singolarità
del procedimento usato nella pace di Torino, in modo un po'
diverso da quello indicato dall' amico Lattes, al quale però spetta
il merito di aver ripreso il problema e d'averne messi in luce i
termini esatti.
Dalla pace di Torino, Trieste uscì strettamente congiunta
agli stati aquileiesi ; abbiamo visto sul proposito le dichiarazioni
della cancelleria patriarcale, e gli stessi triestini non erano di
diversa opinione. Infatti i messi della città inviati nell'anno
stesso ai consigli di Udine e di Cividale per chieder soccorso
contro le minacce che si addensavano d'intorno, domandano ra-
pidi provvedimenti affinché una « tanta civitas, tantum membrum
« Ecclesiae Aquileiensis » non vada perduta per il patriarcato;
il vincolo che univa Trieste al Friuli non potrebbe esser meglio
designato! Purtroppo la malaugurata nomina del cardinale Fi-
lippo d'AlenQon a capo della chiesa d'Aquileia gettava invece
il Friuli, proprio in quel periodo, in preda alle più feroci discordie
ed impediva così ogni efficace intervento, rendendo possibile la
« proditio » che pose, nell'agosto del 1382, la città in potere
dei signori di Duino e dei duchi d' Austria.
P. S. Leicht.
Rassegna bibliografica 99
Rassegna bibliografica.
Celso Costantini. — Aquileia e Grado, con prefazione di
Ugo Ojetti. Milano, Alfieri e Lacroix, 1916;- 16", pp. 157
con 151 fig. e una tavola fuori testo.
Aquileia, Cartagine, Corinto, nomi quant' altri mai suggestivi per il
filosofo e per lo storico! Chi pensi ai campi silenziosi, dove fra gli umili
prodotti dell'incessante vita dei campi, si scorgono i ruderi sparsi, te-
stimoni solitari d'una grandezza scomparsa, non può a meno di ricordare
la celebre lettera che Sulpicio scrìveva a Cicerone per dare al grande ora-
tore i conforti della filosofia a sollevarne l' animo abbattuto per la morte
della dilettissima Tullia. Rasentando colla nave, dice il celebre giurecon-
sulto, le coste dell'Asia e della Grecia, il mio sguardo si posava sulle ro-
vine di Troia, di Megara e d'altre città distrutte e pensava: come ci pos-
siamo noi indugiare nei lamenti per le sventure che ci colpiscono, per la
perdita dei nostri cari, quando intere città già celebri per la grandezza e per
l'opulenza, cadono nel nulla?
La riflessione nella quale si sente alitare uno spirito filosofico diverso
dal rude positivismo romano, a nessun altro momento storico è più conve-
niente che al nostro, a nessun altro luogo più acconcio che ad Aquileia.
Mentre il cannone tuona incessante e le giovani vite si sacrificano con sublime
eroismo per la patria, mentre coli' urto della battaglia si confonde, ahimé,
il pianto delle madri e delle spose, ecco dalle reliquie preziose d'Aquileia
sepolta, venirci l'ammonimento che queste lotte, questi dolori sono nei secoli,
non nell'ora, e che per questa stessa causa una grandissima città un giorno
scomparve, nel fulgore della sua gloria, della sua possanza, dopo aver so-
stenuto per secoli l'urto dei nemici di Roma, che l'avea posta a guardia
del limite orientale d' Italia.
Opportuno, quanto mai, riesce, dunque, questo volumetto che il dotto
sac. Costantini ha dedicato alle antichità d'Aquileia romana e medievale,
guidando il visitatore attraverso alle sale del museo, per le case agresti co-
perte di lapidi, nel magnifico tempio, al quale dedicarono le loro cure due
grandissimi patriarchi Popone e Marquardo. E poiché dalla vecchia madre
non poteva esser disgiunta la figlia, ormai veneranda anch'essa per mille-
narie reliquie, eccoci anche a Grado, rifugio degli esuli dall' incendio un-
nico e poi sede del patriarcato emulo all'aquileiese.
La guida era quanto mai opportuna, dicemmo, perché mancava un' o-
pera italiana che illustrasse, in forma piana e concisa, questi preziosi monu-
menti e traesse partito di quanto dal Majonica al Reisch, dallo Swoboda al
Planiscig ed a tanti altri valenti archeologi nostrali e stranieri, fu scritto
loo Rassegna bibliografica
negli ultimi anni intorno ad Aquileia romana e cristiana. Il Costantini, che
da molti anni si occupa con plauso dell' archeologia cristiana, rievoca con
rapidi cenni la storia politica e l'ecclesiastica, sceglie fra monumenti e sup-
pellettili quelli che son più adatti ad illustrarle, e riesce così a darci un'am-
pia visione della grandezza aquileiese, resa anche più evidente dalle riusci-
tissime illustrazioni curate colla consueta eleganza dalla casa Alfieri e
Lacroix.
Naturalmente la mole del libro vieta che possano esservi rievocate le
dispute accese fra i dotti per l'interpretazione di molte antichità aquileiesi
cosi pagane come cristiane. L' autore potè soltanto scegliere fra le varie
teorie quelle che a lui sembravano le più fondate e lo fece con prudenza e
con acume.
Ad ogni tratto, fra le note strettamente attinenti agli argomenti storici
od archeologici, sbucano appunti polemici dove si palesano i criteri artistici
dell'autore, e non mancano, né lo potevano, riferimenti alle ore di sacro
entusiasmo che egli visse, e, speriamo, presto rivivrà fra le mura della glo-
riosa basilica, risuonanti per ora di preghiere e cantici invocanti vittoria alla
comune patria italiana, o pace all'anima di coloro che le sacrificarono la
vita, combattendo per essa contro le genti d'oltralpe, come nell'età teodo-
riana, quando dai valichi del Frigido minacciavano i Goti e gli Unni o quando,
più tardi, i patriarchi cinti di ferro celebravano le sacre funzioni, pronti ad
irrompere contro le insidie dei conti goriziani o del duca d'Austria.
P. S. Leicht.
Appunti e notizie loi
Appunti e notizie.
* La difesa del confine Veneto Istriano sotto l' Impero Romano. —
Nel rendiconto dell'adunanza solenne del 6 gennaio 1916 della R. Acca-
demia dei Lincei {Atti, anno CCCXIII, 1916, p. 9 sgg.), rinveniamo il testo
del discorso ufficiale tenuto dall' illustre senatore prof. Rodolfo Lanciani,
dal titolo La difesa del confine veneto-istriano sotto l' hnpero Romano,
del quale, in considerazione della sua grande importanza per la nostra re-
gione, offriamo ai lettori un largo riassunto.
L'insigne maestro di topografia romana all' Università di Roma ha trat-
tato un argomento di particolare importanza. Come Roma conquistò all' I-
talia le sue naturali porte sull'Alpi Giulie? Come le conservò e difese con-
tro gì' incessanti tentativi delle popolazioni barbariche, provenienti dall'O-
riente e dal Settentrione? Roma di diciotto secoli or sono si trovò dinanzi
agli stessi problemi della Roma di oggi e con non poca meraviglia gli ascol-
tatori udivano la descrizione di operazioni e provvedimenti militari che pa-
reva riguardassero la guerra nostra ed era invece storia del grande Impero.
Ricordati i primi monumenti delle minaccia contro l'integrità e la sicu-
rezza dell'Impero d'Italia, la colonna Trajana, quella di Marco Aurelio e il
trofeo di Trajano innalzato nel 109 presso la foce romena del Danubio, ad
Adamclisi, con il saluto commovente, che l' opthnus princeps rivolge ai com-
militoni caduti {Io, dice l'epigrafe, Imperatore Traiano, figliuolo del Divo
Nerva, ho innalzato questo cenotafio in memoria e in onore dei valorosi com-
pagni d' arme, i quali hanno perduto la vita combattendo per la patria nelle
campagne di Dacia), il senatore Lanciani ha descritto le difese orientali del-
l'Italia romana. E le ha esposte colle seguenti parole:
« Nel saggio ordinamento delle difese di prima e seconda linea del-
l'impero occidentale e dell'Italia figurano in primo grado le fabbriche di
armi, delle quali ve ne erano cinque nell'Illirico, sei in Italia, e otto nelle
Gallie. Prima tra le italiane è quella di Concordia sagittaria (Portogruaro)
destinata, come il nome stesso rivela, alla produzione delle saette. Segue la
Veronese scutaria et armorum (scudi e macchine da guerra), la Mantovana
loricaria (corazze), la Cremonese scutaria, la Ticinese armario e la Lucchese
I02 Appunti e notizie
spatharia. Si deduce da questa lista come, fino dalla più remota istituzione
delle fabbriche d'armi, si credesse essere i valichi Norico-Illirico-Istriani il
più debole punto delle frontiere italiche, ed è perciò che da questa sola
parte orientale si era costituito il quadrilatero difensivo Verona, Man-
tova, Cremona e Concordia, con basi di rifornimento sul Ticino e sul Serchio.
E non bisogna dimenticare che ciascuno dei luoghi indicati aveva numerosa
guarnigione composta, in primo luogo, dagli operai militarizzati e in secondo
luogo di milizia ausiliaria. Per ciò che concerne Concordia è notevole come
in tutta l'estensione dell'impero vi fossero due sole fabbriche di sagittae,
quella di Concordia e quella di Macon (Matisco), singolarità che si è voluta
attribuire alla qualità e natura delle acque locali, specialmente proprie a
dare alle frecce la tempera regolamentare. E che nella deduzione della co-
lonia Julia Concordia si abbia avuto di mira soltanto la ragione militare, è
provato dal fatto della sua stessa posizione sul margine della laguna, presso
malsane paludi, in un lembo di terra nec laetus nec pulcher , come quelli che
solevansi distribuire ai veterani. Egli fu soltanto col volger degli anni, e per
l'aumentato pericolo di ostili incursioni da quella parte, e per l'aumentata
potenza dei barbari oltre frontiera, che Concordia e Aquileia divennero nodi
e centri di una rete stradale-militare affatto meravigliosa.
Noi, che ricordiamo le controversie dibattute in Parlamento in questi
ultimi anni intorno ad identica questione, non possiamo non essere colpiti
da meraviglia al ricordo di quanto fu fatto dai Romani per facilitare sotto
questo punto di vista le difese dei valichi alpini, non solo di primo ordine
(come quelli della Pontebba, di Monte Croce e del Predil), ma di secondo
e di terzo grado. Prima di ricordare brevissimamente ciò che conosciamo
delle vie alpestri retico-illiriche, potrà forse interessarvi conoscere alcuni par-
ticolari di questi arsenali di guerra, di queste fortezze di frontiera, quali ci
sono stati rivelati dalle epigrafi concordiesi.
Il sepolcreto militare concordiese fu scoperto l'anno 1873 dal Perulli e
dall' avv. Dario Bertolini a breve distanza da Portogruaro, a livello più basso
di quello del prossimo fiume Lemene. Io sono, o signori, fra i pochi privi-
legiati che abbiano visto il sublime spettacolo di questo campo biancheg-
giante di cento e cento candidi avelli, simili nella forma al sarcofago del
Petrarca in Arquà o a quello di Antenore a Padova; ma la visione durò ben
poco poiché non fu possibile mantenere il sepolcreto asciutto, a così grande
profondità sotto il pelo magro del fiume.
Uno spettacolo simile a quello offerto dal cimitero militare di Con-
cordia ha suggerito a Dante gli unici versi di sapore archeologico che si ri-
scontrino nel divino poema :
Si come ad Adi ove '1 Rodano stagna
Si com' a Pela presso del Quarnaro
Che Italia chiude e i suoi termini bagna
Fanno i sepolcri tutto '1 loco varo.
Inferno, IX, 112-115.
Le numerose iscrizioni lette sulle arche hanno arrecato così gran luce
su problemi d'indole militare-archeologica, che io potrei toglierle ad argo-
mento non di una ma di dieci dissertazioni. Scelgo uno o due punti di spe-
ciale interesse.
Appunti e notizie io;
Tra gli uomini di bassa forza della guarnigione di Portogruaro tro-
viamo un Flavms Launionis semaforus, cioè addetto al servizio semaforico.
Non è chiaro se, volgente il quarto secolo dell'impero, fosse ancora in
uso la telegrafia militare secondo il sistema di Cleoxene e Democlito, perfe-
zionato da Polibio l' istorico, il quale permetteva di inviare dispacci alfabe-
tici che si traducevano in parole e sentenze, purché le stazioni trasmittenti
e riceventi sì trovassero a distanza non maggiore di dieci miglia. Credo più
probabile trattarsi di quelle segnalazioni elementari, a base di fumo e di
fiammate, che si trasmettevano di torre in torre giù per le valli di frontiera.
E qui ricordo le parole con le quali Valentino Ostermann, già ispet-
tore delle antichità di Cividale, annunciava la scoperta fatta nel 1888 in ter-
ritorio di Nimis (Castrum Nemus), di una strada romana che dal ' Canale '
del Natisone andava ad incontrare la strada del Predìl per il valico del Pul-
fero: ' Castrum Nemus, egli dice, era un luogo fortificato per impedire una
scorreria improvvisa per la valle del Cornappo, ed è un anello di congiun-
zione di quella linea di castelli che trasmettevano con segnali le notizie da
lulium Carnicum (Zuglio) ad Aquileia da un lato, e a Forum lulium (Civi-
dale) dall'altro'. Ecco dunque spiegate le incombenze dell'ufficiale sema-
forus.
Aggiungerò, per diletto di quanti non sieno famigliari con questa parti-
colarità delle difese alpine, che non vi era valle principale o laterale la quale
non fosse munita di uno o più forti di sbarramento. Nella pianta delle Vie
Consolari Venete pubblicata dal Bertolini l'a, 1879 "^ sono indicati dodici
nelle valli dell' Isonzo e del Tagliamento.
Per quanto concerne il servizio postale, non nel senso ovvio di corri-
spondenza epistolare, ma in quello, per così dire, di locomozione, infinite
erano le vie alpine e prealpine aperte dai Romani sulla frontiera Veneto-
Istriana attraverso i valichi delle Alpi Carniche e Giulie, strade che malau-
guratamente facilitarono ai barbari del IV e V secolo ed ai loro discendenti
sino alla centesima generazione la calata nelle agognate feraci pianure ita-
liche. I commercianti triestini diretti al Danubio traversavano le Giulie al
passo dell'Ocra (Birnbaumer Wald, che il Mommsen chiama pars alpium
maxime depressa) e quindi per Nauportus (Ober-Laibach) scendevano alle
malsane paludes Lugeae (Laibacher Moos). Vi erano poi le vie littoranee per
Pola e per Aquileia, quella che risaliva la valle dell' Isonzo per cadere in
quella del Predil, e così di seguito. Queste erano vie prevalentemente com-
merciali; quelle militari per le porte nord-orientali della penisola irradia-
vano dal campo trincerato Concordia- Aquileia, dove risiedeva il maestro
delle poste imperiali venete, con un immane catabulum, e scuderie e rimesse
pei veicoli, e officine di riparazione, e magazzini per le proviande. Ricordo,
fra le cento, la via che per Concordia Sagittaria, Opitergium (Oderzo), Feltria,
(Feltre) e Bellunum saliva alla conca d'Ampezzo per discendere a Littamum
(Toblach): il ramo diretto a Trento per la Valsugana {Ausugo) la via per
Utina (Udine) a lulium Carnicum (Zuglio) e per il passo della Croce a Lon-
gium sul Gail ; il ramo che se ne distaccava per il passo di Larix (Pon-
tebba) ; l'altro che risaliva la valle dell'Isonzo per il Predil, e cento altre
vie minori ... ».
« Reca stupore che gli ingegneri militari di quei tempi non conosces-
sero curve, ma sviluppassero le salite e discese in piccoli tratti rettilinei, a
I04 Appunti e ìiotizie
zig-zag di un centinaio di metri ciascuno. I loro ospizi erano mirabilmente
riscaldati con ipocausti e tubature parietarie, e con tetti e grondaie spor-
genti eccessivamente come quelle di un moderno chalet elvetico. Né manca-
vano le cappelle e le are sacre ai numi allontanatori delle tormente; né i
truogoli per abbeverare i giumenti, né le cantine per i viaggiatori.
Una iscrizione racconta come nell'anno 362, essendo prefetto del pre-
torio illirico Claudio Mamertino, e correttore della Venezia Vetulonio Prae-
nestion, l'imperatore Giuliano V a.posia.X.a., remota provincialibus cura, cursum
fiscalem breviatis mutatiotmm spatiis fieri iussit. I benefici arrecati con que-
ste provvidenze furono duplici : il primo concerne 1' esenzione dalla presta-
zione forzosa dei giumenti, concessa agli alpigiani delle valli Giulio-Carniche;
la seconda concerne l'abbreviazione degli intervalli tra una m«^a//<3 e l'altra,
con enorme sollievo dei giumenti e dei loro proprietari.
Il punto più essenzialmente strategico presso del quale si sono contese
così spesso e con diversa vicenda le sorti della penisola, era il Pons Sontii,
il ponte dell' Isonzo, a 14 miglia d'Aquileia sulla strada della Pannonia, tra
Gradisca e Gorizia. Qui aveva già poste le tende l'esercito di Massimino, il
quale lo ricostruì ex novo, e riattò la via Gemina nel 235 : quivi, al con-
fluente del Frigido (Vippaco), Teodosio disfece Eugenio nel 394. Questo ma-
laugurato ponte servì di valico ai barbari di Alarico e di Vitige, ai ferocis-
simi Longobardi e persino ai Turchi del secolo XV. Onde ben a ragione il
poeta Claudiano cantava sino dal tempo di Onorio: Alpinae rubueie nives et
Sontius amnts mutatis fumavit aquis ! ''
Aquileia deve la sua esistenza alla invasione gallica del 183 a. C, e si
dice costruita « ad huius modi invasiones in perpetuum arcendas ! ». Ma
quanti disastri, quanti estermini le valse questa posizione privilegiata ù*
sentinella d'Italia, dal 183 a. C, data della sua fondazione, sino al 452 d. C,
data del suo esterminio per opera di Attila flagellum Dei ! Si sa da Livio
che i primi coloni furono tremila legionari, circa 30 centurioni e un rag-
guardevole numero di cavalieri. Ebbene, pochi anni dopo, nel 169, così mo-
lesti erano divenuti i vicini d'oltre Isonzo, che il Senato si vide costretto a
rafforzare la colonia con altre 1500 famiglie. Ciò non ostante, fino dai tempi
di Augusto, gli Japidi della odierna Croazia, tentarono su di essa un colpo
di mano: i Marcomanni e i Quadi l'assediarono ferocemente sotto Marco
Aurelio ; altri barbari sotto Gallieno. Da tale epoca, sino alla sua rovina fi-
nale per mano degli Unni, si può dire che non abbia avuto un momento di
tranquillità. Eppure il sito di Aquileia come fortezza di prim' ordine sul con-
fine veneto-istriano, lungo il quale, da Vippaco per S. Pietro sino a Fiume,
correva una muraglia continua, lunga circa 70 miglia, simile al Valium Ha-
driani della Brittania e al Limes della Svevia, con Concordia a guardia delle
retrovie di rifornimento, non poteva essere stato meglio prescelto. Distante
15 miglia 1 dal mare, ma collegata col porto di Grado mediante vie arginate,
cinta di fortissimo giro di mura merlate e turrite, con fossati inondabili, con
quartieri d'inverno per le truppe alpine, le quali, chiusi i passi dal primo
imperversare delle tormente autunnali, scendevano a svernare in pianura,
con un pretorio o palazzo imperiale, con la sede della Correctura Venetiae
1 Veramente questa distanza data da qualche antico autore non è esatta.
Appiglii e notizie 105
et Histriae, con la dogana principale di frontiera e con una Zecca inferiore
nella produzione soltanto a quella di Roma ! I difensori di Aquileia pote-
vano inoltre contare sull'appoggio della flotta, di quella classis Praetoria
Ravennas o di quella classis Vetieium, che un dispaccio semaforico poteva
raggiungere in pochi minuti.
È vero che il porto di Ravenna, capace in origine di accogliere 240
navi da guerra, si era venuto man mano interrando, cosicché circa il prin-
cipio del secolo IV non vi penetravano se non burchielli pescherecci, ma
è presumibile che la flotta adriatica abbia trovato asilo o a Fola, o Terge-
ste, o a Grado stessa tanto più che i suoi equipaggi si reclutavano precisa-
mente dalla costa illirico-dalmata.
Concordia e Aquileia erano inoltre protette da una zona selvosa. In-
fatti, ricerche etimologiche hanno dimostrato che la radice del nome Gruaro
deve ricercarsi nel barbarico gruen o groen (verde) ; e che il C. Petronius
Gruarius, il quale dedicò al nume dei boschi camici un'ara votiva, non è
un individuo fornito di due gentilizi (Petronius e Gruarius), ma un Petronius
di professione Gruarius, cioè custode delle selve del suo padrone, le quali, a
giudicare dal luogo della scoperta dell'ara presso Soffumbergo, dovevano
trovarsi sul confine di Aquileia.
Sfondate definitivamente le porte orientali, abbattuto il valium del
Carso e del Catalanenberg, l' Italia non ha più avuto sicurezza e tranquillità
sino al presente. Di là sono entrati tutti gli orrori, comprese le pestilenze,
e le stragi di uomini e di animali. Non si può leggere la vita di Gregorio
il grande senza provare un fremito di orrore, allo stato della cosa pubblica
nell'anno 590, nel quale egli vecchio, infermo, esausto aveva accettato il
compito di salvare Roma e l'Italia da cento inaudite calamità: incendi, ter-
remoti, strani fenomeni celesti, inondazioni che avevano distrutto i raccolti
e i grani di riserva ; peste bubonica o inguinaria che mieteva vittime a die-
cine di migliaia ; e, sopra ogni altra miseria, la discesa dei Longobardi per
l'infausto passo del Predil e per la valle dell'Isonzo; barbari di feroce e
brutale aspetto, massacratori di inermi popolazioni, seminatori di stragi e
rovine in nome di Odin, loro Iddio prediletto.
Ma egli è tempo, o signori, di rivolgere il pensiero a più liete consi-
derazioni. Che cosa avete guadagnato voi, eterni nemici d'Italia, dal giorno
in cui sfondaste per la prima volta la barriera delle Alpi sino al presente ?
Quale risultato avete ottenuto con gli incendi, le rapine, le invasioni, le
stragi di sedici secoli? Il risultato è questo: che mai l'Italia nostra è stata
più forte, più prospera, più temuta, più libera, più concorde, più ammirata
dall'intero coro delle nazioni, quanto lo sia al giorno d'oggi. Se le vostre
vittime perite a milioni di ferro e di fuoco, di fame e di peste potessero ri-
destarsi dai campi della morte, sui quali le abbandonaste insepolte, quale
infinita divina gioia proverebbero nel riconoscere le sorti della terra natia
così meravigliosamente risorte a nuovi sfolgoranti destini?
Noi veterani che abbiamo cercato di servire del nostro meglio la dolce
patria in altri campi di attività; noi, durante la cui vita si è svolta l'epopea
del Risorgimento, dai moti del 48-49 all'anno che corre, nel quale se ne sta
scrivendo l'ultima gloriosissima pagina; noi affrettiamo col desiderio il
giorno nel quale, col consenso di tutti gì' Italiani, sorgerà un nuovo Tro-
phaeum Traiani, non sulle rive del malfido Danubio, ma su quelle del-
io6 Appunti e 7iotizie
V Isonzo, sulla cui bianca parete sia nuovamente incisa, con le stesse parole
dell'imperatore Traiano l'iscrizione: Victor Emanuel III — Umberti filius
— Rex — Monumentutn fecit — In honorem et memoriam fortissimorum,
Virorum — Qui prò Rege et Republica — Avctis Italiae finibus — Gloriosa
morte occubverunt ».
* Documenti dei Torriani a Modena. — Nella preziosa raccolta Cam-
pori conservata nella ricchissima biblioteca Estense di Modena, v'è un co-
dicetto segnato Y. O. 3. 24 che porta il titolo « Instrumenta » e contiene
20 pergamene, per lo più testamenti, appartenenti a vari personaggi della
famiglia della Torre vissuti dal 1312 al 1417. I documenti sono quasi tutti
originali; la serie si apre con le copie autentiche membranacee del testa-
mento di Guido della Torre fatto a Cremona il 7 agosto 131 2 e coli' inven-
tario dei beni di lui, eretto in Pavia il 16 ottobre 1314 per richiesta della
vedova contessa di Lomello ; col 1329 cominciano gli atti che hanno inte-
resse per il Friuli, cioè col testamento di Napino q. Mosca della Torre de
Mediolano fatto in Aquileia il 23 febbraio di queir anno.
È interessante notare come vi sia disposto un legato di 40 libbre da
erogarsi in beneficenza « appena i della Torre saranno rientrati a Milano ».
Eran passati cinque anni dalla rotta di Vaprio, ma la bellicosa consor-
teria non aveva deposto il pensiero di superare gli odiati rivali Visconti e
di strappar loro il governo di Milano. Il pensiero perdura nella famiglia an-
cora per dei decenni ; anche in un codicillo di Adoardo della Torre q. Mosca
rogato a Udine nel 1345, vi è una disposizione che avrà effetto « quando i
Torriani saranno rientrati a Milano ». Il ricordo, nutrito di bramosi rim-
pianti dell' antica signoria, rimaneva sempre vivo nella grande famiglia, e
non impallidiva neppure al confronto della singolare potenza da essa rag-
giunta in Friuli. Nel 1471, oltre un secolo e mezzo dopo la cacciata di
Guido, un suo lontano discendente Nicolò q. Nicolino della Torre si chia-
mava orgogliosamente de Mediolano, aggiungendovi però : civis Utini.
Fra i vari atti di ultima volontà si trovano anche due documenti nu-
ziali relativi alle nozze celebrate nel 1337 a Udine, fra Federico di Savorgnan
e Catterina figlia di Carlovario della Torre. Nei due documenti vediamo il
milite Federico assegnare alla sposa la morgengabe e le dismontaduris se-
condo r uso della nobiltà friulana. I documenti segnano un momento di
stretta colleganza fra i due grandi casati, che più tardi dovevan esser divisi
da tanta guerra.
Del resto, queste carte non contengono cenni importanti né per la
storia del costume né per quella della cultura ; non vi troviamo ricordati co-
dici, né gioielli, né vestiti, né alcun' altra cosa d'uso personale. Ho creduto
pertanto sufficiente di offrirne ai nostri lettori i regesti, dando un riassunto
più copioso di quelli che offrono uno speciale interesse storico.
P. S. Lkicht.
Regesti.
1312, 7 agosto, Cremona. Guido della Torre fa testamento.
1314, 16 ottobre, Pavia. Inventario dei beni del q. Guido della Torre.
1329, 23 febbraio, Aquileia. Testamento di Napino q. Mosca della Torre di
Milano. Vuol essere sepolto nella chiesa maggiore d' Aquileia, nella
Appunti e notizie 107
cappella di S. Ambrogio, nel sepolcro della madre sua Allegranza. Fra
le varie disposizioni è degna di nota questa: « et cum sui de domo
sua intrabunt Mediolanum, vult etiam et ordinat prò male ablatis in-
certis, infra annos duos postquam intraverint Mediolanum, quod de
suis bonis dentur et dispensentur libr. XL ».
1337 > 13 febbraio, Udine. Federico miles de Utino dona a Catterina sua
moglie figlia di Carlovario della Torre di Milano dimorante a Udine
500 libbre di parvoli « nomine Morgengati ad usum terre Foriiulii » e
ne possa fare ciò che vuole « sicut est mos et consuetudo terre Fori-
iulii » con obbligazione di tutti i suoi beni. Testimoni : Ettore di
Udine, Gerardo di Cucagna, Filippo de Portis, Antoniolo della Torre,
Francesco di Manzano, Fulcherio di Savorgnan, Castrone figlio di Fe-
derico anzidetto.
1337» 28 aprile, Udine. Ermanno de Utino a nome di Federico dona a Cat-
terina moglie di quest' ultimo Cuculino f. di Regazzo di Savorgnano
uomo di masnada « nomine dessensurarum ad usum terre Foriiulii »
in piena proprietà.
1345» 9 giugno, Udine. Codicillo d'Adoardo della Torre q. Mosca. Fra le
varie disposizioni ve n'ha una che dovrà aver effetto un anno dopo
rientrati i suoi a Milano.
1367, 7 marzo, Udine. Maria vedova di Panciera della Torre fa testamento.
1382, 23 maggio, Udine. Nicolino q. Moschino della Torre conferma il suo
precedente testamento e vi aggiunge dei legati.
1382, 15 giugno, Udine. Legato di Nicolino q. Moschino della Torre a sua
moglie Furlana.
1382, 15 giugno, Udine. Margherita q. Napino della Torre vedova di Gue-
cello da Prata fa testamento.
1390. 7 luglio, Udine. Furlana q. Francesco Machalusio di Padova vedova
del nob. Nicolino della Torre fa testamento.
1391» 3 dicembre, Udine. Furlana predetta dona a sua figlia Sofia, moglie
di Gregorio Arcoloniani di Udine per atto fra vivi mille libbre di pic-
coli veronesi con alcune condizioni.
1396, IO maggio, Udine. Gregorio Arcoloniani rilascia ricevuta delle predette
mille libbre a Moschino q. Nicolino della Torre.
1416, 24 novembre, Udine. Moschino q. Nicolino della Torre fa testamento.
1420, 30 novembre, Udine. Ser Jacopo q. Odorico di Glizoio de Coloreto
fa testamento.
1433. 5 maggio, Venezia. Nicolò Girolamo q. Ottolino detto Capo della
Torre fa testamento.
1444, 30 maggio, Venzone, in casa di ser Bartolomeo q. Jop Misitini de
Venzono. Alovisio q. Carlo della Torre fa testamento.
(In calce il sigillo « segretum comunis Venzoni »).
1454» 30 maggio, Udine, in Castello super sala magna superiori. Dichiara-
zione di Elena figlia di Taddeo marchese d'Este vedova d' Alovisio
della Torre di Udine d'aver ricevuto da Nicolò e Raimondo della
Torre q. Nicolino, eredi del detto Alovisio, 2000 ducati, che questi le
aveva legati.
147 1, 2 ottobre, Udine. Nicolò q. Nicolino della Torre « de Mediolano,
civis Utini » fa testamento.
io8 Appunti e notizie
* Dopo l'angoscia, la vittoria e la liberazione. — La Società Sto-
rica Friulana che con il più acerbo strazio dovette abbandonare, causa
i dolorosi eventi dell'autunno 1917, la propria sede e, con essa, tutte le sue
carte e pubblicazioni, nel trasferirla, provvisoriamente a Roma, recò seco
la più salda fede nei destini della Patria, certa che in un tempo non lon-
tano le aquile romane avrebbero ristesi i loro ampi vanni sulle nobili terre,
cui la civiltà latina diede un sì mirabile sviluppo, imprimendo, fin nei più
remoti angoli di esse, i suoi incancellabili vestigi ; e vede ora con inespri-
mibile gioia compiuti i suoi voti.
Il Friuli, che visse per oltre tre anni la guerra con i soldati d' Italia
e palpitò così da presso con loro, ammirando, per le semplici ed austere
virtù, la Maestà del Sovrano, che ne era ospite beneamato, ed esultando,
pel primo, delle gloriose epiche giornate, tornerà a fiorire di novella vita,
scacciato l' obbrobrioso ricordo delle odiate masnade imperiali ; e la sua
gente a mostrare che la propria coscienza d' italianità indomita e pura non
languiva neppur nell'esilio, volle che il suo centro di cultura non avesse ad
interrompere l'attività, e però la Società decise di continuare, pure nelle
difficili circostanze in cui versava, la pubblicazione delle Memorie, che ora
veggono la luce, essendo libera, più grande e più gloriosa la Patria final-
mente compiuta. .,
* È d' imminente pubblicazione, a cura della Commissione per la pub-
blicazione degli atti delle Assemblee costituzionali italiane dal medioevo al
1831, il primo volume del Parlamento friulano per il quale il suo editore
prof. P. S. Leicht, ha eseguita la collazione di un codice delle costituzioni
parlamentari del 1366, assai importante perché più antico di tutti e perché
dà le costituzioni in ordine cronologico. Tale codice non fu adoperato dallo
Joppi nella sua edizione. Il Leicht ha di già messa in luce (Bologna, Zani-
chelli, 1917), in limitato numero di esemplari, quale estratto dal primo vo-
lume, la introduzione all'opera, nella quale esamina gli istituti parlamentari
nell'età patriarcale. Ne riparleremo.
Atti della Società 109
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA FRIULANA
Adunanza del Consiglio direttivo del giorno 20 decembre igiy.
Presidenza del Presidente prof. P. S. Leicht.
La seduta, che ha luogo in Roma, Piazza Venezia, ii (Belle Arti), è
aperta alle ore 10,45, presenti Fracassetti, Leicht, di Prampero, Suttina,
della Torre.
Si è scusato il consigliere S. E. Morpurgo.
Il Consiglio, dopo avere rivolto un caldo saluto alla terra friulana do-
vuta abbandonare per tristi motivi ben noti ed avere riaffermato la sua fede
incrollabile nell' avvenire d' Italia, stabilisce di fissare provvisoriamente in
Roma, Piazza Venezia, 11 (Belle Arti), la sede del Sodalizio e in conside-
razione di alte ragioni morali, unanime delibera di continuare, nei limiti
consentiti dalle presenti difficoltà, la pubblicazione delle Memorie storiche
forogiuliesi e di dare comunicazione di tale decisione a tutti gli Istituti e
Corpi scientifici e letterari in rapporti con la Società.
Il Consiglio si occupa poi di affari amministrativi anche in relazione
con 1' attuale momento.
Dopo di che la seduta è levata alle ore 11,20.
// Presidente
P.S. Leicht.
// Segretario
L. Suttina.
31 decembre igiS.
Stampato in Perugia, nella Officina della Unione Tipografica Cooperativa
Dottor Luigi Suttina responsabile
INDICE DELLE MATERIE DEL XII -XIV VOLUME
MEMORIE
Cecchelli Carlo, Arte barbarica cividalese Pag. i
Paschini Pio, Gregorio di Montelongo patriarca d' Aquileia
(1251-1269) » 25
ANEDDOTI
Paschini Pio, Confini friulani. Nota » 85
Leicht Pietro Silverio, Aquileia e Trieste alla pace di Torino. » 92
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Leicht Pietro Silverio: C. Costantini, Aquileia e Grado . » 99
APPUNTI E NOTIZIE
Appunti'. La difesa del confine Veneto- Istriano sotto l'Impero Ro-
mano. — Documenti dei Torriani a Modena (P. S. Leicht). » loi
Notizie: Dopo l'angoscia, la vittoria e la liberazione. — Il Parla-
mento friulano » 108
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA FRIULANA
Adunanza del Consiglio direttivo del 20 decembre 1917. . . » 109
DG
975
F85M4.
V. 11-14.
Memorie storiche forogiia
lesi
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