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Full text of "Nemesi carducciana : i Napoleonidi e gli Asburgo nell'opera di Giosuè Carducci"

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UNIVERSITY  OF  TORONTO  LIBRARY 

FROM    THE 

HUMANITIES  RESEARCH  COUNCIL 
SPECIAL  GRANT 


FOR 

Italian  Literature 
from  Romanticism 
to  Postino  derni  siti 


AMEDEO  TOSTI 


Nemesi  Carducciana 


I  Napoleonici!  e  gli  Asburgo 
nell'opera  di  Giosuè  Car- 
ducci   &    Con  lettera-prefazione  di 

Vincenzo  Morello  (Rastìgnac) 

(Quattro  illustrazioni  fuori  testo)    & 


■ftIMJIWIGtiro 


ROMA 

SOCIETÀ  LIBRARIA  EDITRICE  NAZIONALE 

mi 


AMEDEO  TOSTI 


Nemesi  Carducciana 

I  Napoleonici!  e  gli  Asburgo 
nelF  opera   di   Giosuè   Carducci 

con  lettera-prefazione  di  V*  Morello  (Rastignac) 
(Quattro  illustrazioni  fuori  testo) 


«fntWTWWTO. 


ROMA 

SOCIETÀ  LIBRARIA  EDITRICE  NAZIONALE 

J9U 


PROPRIETÀ  LETTERARIA  X  RI- 
SERVATI  I  DIRITTI  PER  TUTTI  I 
PAESI  COMPRESO  IL  REGNO  DI 
SVEZIA  E  NORVEGIA    X   X  X  X 


Società  Lito-Tipografica  Pratese  T.  Grassi  e  C.  -  Prato 


Carissimo  Tosti, 

Non  scrivo  una  prefazione  al  suo  libro,  perchè 
non  ho  V  abitudine  di  fare  il  cerimoniere  dinnanzi 
al  pubblico.  Le  ricordo,  invece,  un  passo  del  di- 
scorso del  Carducci  in  onore  di  Vergilio,  che  po- 
trà mettere,  come  la  più  vera  e  maggiore  prefa- 
zione, in  testa  al  suo  libro,  a  significare  il  valore 
storico  di  tutta  t  opera  del  nostro  grande  poeta 
nazionale  :  «  Niun  epico  e  forse  nessun  storico 
antico  fu  più  archeologo  di  Vergilio  :  nella  poesia 
di  lui  risorgono  su  i  monti,  su  i  colli,  dai  fiumi, 
gli  antichi  dei  della  patria  ;  risorgono  su  le  mine 
delle  città  disparite  i  popoli  spenti  a  cantare  le 
origini  divine  e  gli  instituti  civili  e  i  culti  dei 
padri  e  la  forza  delle   armi  :  Arcadi,    Etruschi, 


—   IV 


Latini,  Sabelli,  si  mescolano  nel  miluogo  più  glo- 
rioso del  mondo,  su'  colli  e  ne'  campi  ove  poi  crebbe 
Roma  » .  Parole,  come  vede,  che  possono  anche 
sintetizzare  tutto  il  contenuto  della  poesia  Italica 
del  Carducci,  di  quel  Carducci  che  i  malinconici 
deliquescenti  mandano,  oggi,  con  grazia  infantile, 
alt  inferno,  come  archeologo.  Era  archeologo,  a  quel 
che  pare,  anche  Vergilio. 

Io  auguro  la  fortuna,  che  merita,  a  questo  suo 
saggio  di  critica,  che  dimostra  perfetta  conoscenza 
della  poesia  del  Carducci  e  delle  fonti  storiche, 
dalle  quali  deriva,  e  anche  molta  finezza  e  molto 
acume  nello  scernere  e  fissare  le  relazioni  tra  lo 
spirito  del  poeta  e  i  fatti,  che  lo  muovono  all'odio 
e  all'amore. 

E  mi  creda 

Roma,  22  Dicembre  igio. 

SUO 

V.  Morello 


La  mattina  dell'  n  luglio  1859,  ad  ore  nove  e  mezza, 
in  pieno  sole,  sulla  strada  che  esce  da  Verona,  ad  un  chi- 
lometro di  distanza  da  Villafranca,  s' incontrarono  Fran- 
cesco Giuseppe,  Imperatore  d'  Austria  e  Re  d'Ungheria 
e  Napoleone  III,  Imperatore  dei  francesi. 

Vestivano  ambedue  l'uniforme  di  campagna;  lo  Stato 
Maggiore  al  seguito  portava  Y  uniforme  di  gala,  la  scorta 
1'  alta  tenuta.  Accompagnavano  Napoleone  III  il  mare- 
sciallo Vaillant,  i  generali  Montebello,  Ney  e  Fleury 
ed  un  imponente  corteo  delle  varie  armi  ;  cavalcavano  a 
fianco  di  Francesco  Giuseppe  il  settuagenario  feld-mare- 
sciallo  barone  di  Hess,  suo  capo  di  Stato  Maggiore,  il 
generale  Mensdorff,  1'  aiutante  generale  Grùnne  e  li  se- 
guiva una  brillante  scorta  di  ulani,  usseri  e  gendarmi. 
Alla  presenza  dei  rispettivi  Stati  Maggiori  i  due  sovrani 
si  strinsero  la  mano  commossi  :  scambiati  i  primi  com- 
plimenti, Francesco  Giuseppe  si  pose  cortesemente  alla 
sinistra  di  Napoleone,  e  il  corteggio  mosse  verso  Villa- 
franca.  Qui  furono  accolti  dallo  sparo  delle  artiglierie  e 
dal  suono  delle  campane  a  distesa.  I  sovrani  scesero  di 
cavallo    all'  entrata    della  casa  Gandini-Morelli.    Salirono 


immediatamente  alla  gran  sala  del  primo  piano,  dove  si 
rinchiusero,  dopo  aver  congedato  il  loro  seguito.  Due 
sentinelle  nell'  anticamera,  due  sul  pianerottolo,  per  im- 
pedire V  accesso  a  chicchessia.  I  due  sovrani  sedettero  di 
fronte,  presso  una  tavola,  sulla  quale,  accosto  ad  un  vaso 
di  fiori  di  fresco  recisi,  si  trovavano  la  carta  del  Regno 
Lombardo  Veneto,  un  calamaio,  delle  penne  e  alcuni  fogli 
di  carta  bianca  (i). 

Così  s' incontravano  per  la  prima  volta  Francesco  Giu- 
seppe e  Napoleone  III,  i  rappresentanti  delle  due  più  po- 
tenti nazioni,  che  allora  fossero  in  Europa  :  s'  incontra- 
vano T  uno  da  vinto,  Y  altro  da  vincitore.  Ma  Y  Imperatore 
dei  francesi  era  discendente  di  quel  Napoleone,  che  più 
volte  aveva  fiaccato  1'  orgoglio  degli  Asburgo.  Cinquan- 
taquattro anni  prima,  il  2  dicembre  1805,  ad  Austerlitz, 
il  sole  invernale  aveva  illuminato  la  più  splendida  vittoria 
di  Napoleone  I,  e  l' Imperatore  Francesco  si  era  umiliato 
sino  a  visitare  il  vincitore  nel  suo  accampamento,  per 
ottenere  un  armistizio. 

Nel  1859,  ancora  dopo  una  battaglia,  il  destino  pose 
a  fronte,  in  quella  sala  di  Villafranca.  un  Bonaparte  e  un 
Asburgo,  Napoleone  III  e  Francesco  Giuseppe,  i  quali 
possono  dirsi  due  uomini  egualmente  fatali  :  il  loro  regno 
è  senza  dubbio  dei  più  fortunosi,  che  ricordi  la  storia. 

Per  un  non  breve  periodo  essi  tennero  nelle  mani  i 
destini  d'  Europa,  ebbero  le  corti  più  sfolgoranti,  i  seguiti 

(1)  Notizie  avute  dalla  cortesia  del  Prof.  Lodovico  Corio,  vice-Presi- 
dente del  Museo  del  Risorgimento  di  Milano. 


—  3    — 

più  brillanti  e  numerosi,  ma  poi  quale  incalzarsi  terribile 
di  vicende  nella  Hofburg  ed  alle  Tuileries  ! 

Francesco  Giuseppe  siede  sul  trono  austro-ungarico 
da  più  di  sessant'  anni  ;  egli  dal  2  dicembre  1 848  è  una 
volta  imperatore  e  dieci  volte  re  (per  araldica  finzione 
pur  di  Gerusalemme  e  di  Cipro),  più  è  più  volte  gran- 
duca, arciduca,  duca,  principe,  margravio  e  conte,  già  in- 
signito della  corona  Longobardica  di  ferro,  nonché  di  quella 
Ungarica  di  S.  Stefano  e  di  quelle  di  S.  Venceslao  e 
S.  Casimiro.  Il  suo  regno  quindi  è  stato  forse  il  più  lungo, 
che  si  sia  avuto  in  Europa. 

Ma  che  regno  !....  Mirabile  sintesi  ne  fece  Arturo  Co- 
lautti  :  «  Regno  lungo  e  disforme,  vario  e  difficile,  agi- 
tato e  insoluto,  sperimentale  e  caotico,  regno  di  resistenza 
e  di  stanchezza,  di  coazione  e  di  astuzia,  d'  evolvimento 
e  d' illusionismo,  di  transizione  e  di  transazione  :  regno 
colmo  di  eventi,  largo  di  contrasti,  saturo  di  problemi, 
pervaso  d'  ironie  ;  regno,  che  vide  il  vespero  vermiglio 
dell'  aristocrazia  e  il  troppo  roseo  albore  del  socialismo  ; 
regno  delle  rivolte  e  delle  rinunzie,  dei  martiri  e  dei  ri- 
scatti, delle  agonie  e  delle  risurrezioni,  che  confermò  le 
parabole  degli  apostoli  e  le  apocalissi  dei  veggenti  ;  regno 
dischiuso  alla  contraddizione  logica  e  alla  gestante  utopia, 
nel  cui  corso  apparvero  i  più  strani  prodigi  della  storia, 
e  nel  cui  seno  fiorirono  i  più  stupendi  paradossi  del  sogno, 
si  che  le  «  espressioni  geografiche  »  si  mutarono  in  patrie 
viventi  e  coscienti  ;  regno  sacro  all'  ignoto  e  all'  impre- 
visto, in  cui  il  provvisorio  divenne  permanente,  e  pos- 
sibile si  rese  Y  inverosimile  stesso,  e  cioè  il  ritorno  me- 


—  4  — 

teorico  di  un  impero  Bonapartista,  il  fallimento  definitivo 
delle  vecchie  case  tiranniche  dei  Borboni  e  degli  Estensi, 
la  reviviscenza  del  popolo  italiano,  lazzaro  delle  genti, 
la  riscossa  trionfale  della  Prussia,  umiliata  da  Metternich 
e  derisa  da  Heine,  la  rinascita  delle  stirpi  balcaniche, 
credute  estinte  da  secoli,  la  metastasi  dei  Magiari  ribelli 
in  complici  necessari,  dei  birri  boemi  e  croati  in  malcon- 
tenti faziosi,  dei  tedeschi  fedelissimi  in  irredentisti  accaniti, 
T  accomandita  naturale  della  Repubblica  francese  con  l'au- 
tocrazia moscovita,  ossia  dell'  albero  di  libertà  con  lo 
Knut,  il  minuscolo  Giappone  vincitore  del  biblico  colosso 
russo,  lo  Czar  in  maschera  di  principe  costituzionale,  in- 
somma V  Italia  libera,  la  Germania  unificata,  l'Ungheria 
autonoma,  1'  Oriente  redivivo,  V  Austria  statutaria  dopo 
V  Austria  stataria,  la  Russia  rappresentativa  e  la  Triplice 
Alleanza,  equivoco  e  beffa  della  storia  !  »  (  i  ) 

Né  meno  vari  e  meno  fortunosi  i  rivolgimenti  interni, 
in  quell'  impero,  che  giustamente  il  Carducci  chiamò  : 
«  creato  d' imbrogli  fiamminghi,  di  avventure  spagnuole, 
di  oppressione  cattolica,  di  transazioni  luterane,  di  follia 
ingenita  »  (2),  in  quella  «  caldaia  di  popoli  »,  in  quel 
«  mosaico  di  nazionalità  ». 

La  storia  ricorda  con  orrore  un  intero  decennio  di 
reazione  sanguinosa  in  Ungheria,  dal  1849  al  1859,  dal- 
l' ingloriosa  vittoria  di  Novara  alla  impreveduta  rotta  di 

(1)  A.  Colautti.  Nella   «  Lettura  »   del  dicembre   1907. 

(2)  G.  Carducci.  Discorso  commemorativo  per  G.  Oberdan.  Opere. 
Voi.  XII. 


—  5  — 

Magenta.  Nelle  fosse  di  Arad  ventidue  generali  unghe- 
resi furono  fucilati  contro  ogni  legge  di  guerra,  V  Ungheria 
coperta  di  stragi  paurose. 

E  in  Italia  Haynau,  la  Jena  assetata  di  omicidio,  irri- 
gava di  sangue  le  vie  di  Brescia  ;  nessuno  risparmiando, 
soffocava  nel  sangue  il  ruggito  generoso  della  «  leonessa 
d'  Italia  »  anelante  a  libertà.  E  sugli  spaldi  di  Mantova 
facevano  orribile  mostra  di  sé  i  martiri  nostri  e  nelle 
carceri  dello  Spielberg  e  nei  Piombi  di  Venezia  echeg- 
giavano lugubremente  i  gridi  di  dolore  dei  nostri  fratelli, 
di  nuli'  altro  colpevoli  che  di  volere  una  patria. 

Napoleone  III  era  salito  al  trono  pure  il  2  dicembre, 
tre  anni  dopo  Francesco  Giuseppe.  Ma  questi  vi  era  sa- 
lito per  l'abdicazione  dello  zio  Ferdinando  I  e  per  la  si- 
multanea rinunzia  del  padre  Francesco  Carlo  :  Napoleone  III 
invece  vi  salì  con  un  delitto.  Per  quanto  la  storia  abbia 
in  parte  attenuato  le  esagerazioni  di  Victor  Hugo  e  dei 
repubblicani  intransigenti,  il  colpo  di  stato  del  2  di- 
cembre 1851  resta  sempre  una  grave  violazione  del  diritto 
delle  genti.  v 

Il  principe  Luigi  Napoleone  Bonaparte,  che,  prima 
esiliato,  aveva  sorpreso  la  buona  fede  del  popolo  francese, 
facendosi  eleggere  alla  più  alta  carica  della  repubblica, 
di  nuli'  altro  curante  che  della  sua  ambizione  e  mentendo 
di  mirare  solo  al  bene  del  popolo  francese,  meditò  l' im- 
pero e  tradì  la  Francia.  Erano  appena  scoccate  le  undici 
di  sera  del  2  dicembre  1851,  allorché  una  compagnia  di 
gendarmeria  ricevette  1'  ordine  di  occupare,  sotto  un  pre- 
testo qualsiasi,  la  Tipografia  Nazionale.  Fu  questo  il  primo 


atto  materiale  del  colpo  di  stato  (i).  Quella  notte  istessa 
i  più  noti  deputati  repubblicani  venivano  tratti  in  arresto. 

Il  1 8  brumaio  dell'  anno  VII  della  rivoluzione  (9  no- 
vembre 1799)  i  granatieri,  invitati  da  Luciano  Bonaparte, 
fratello  del  «  fatale  dagli  occhi  d'  aquila  »,  avevano  in- 
vasa la  sala  del  Parlamento  francese,  cacciandone  i  depu- 
tati e  coprendone  le  proteste  col  rullo  dei  tamburi.  Così 
si  era  preparato  il  trono  Napoleone  I  ;  cinquantadue  anni 
dopo  il  colpo  di  Stato  veniva  rinnovato  da  suo  nipote.  E 
il  grande  sogno  di  Luigi  Napoleone  fu  appunto  quello 
di  formare  un  nuovo  Impero  napoleonico,  più  potente  e 
più  vasto  del  primo.  E  infatti  che  cosa  pareva  mancargli  ? 
Gli  mancava  soltanto  il  genio  di  Napoleone,  ma,  nel  suo 
sogno  megalomane,  egli  ardì  porsi  a  paro  del  vincitore 
di  Austerlitz  e  di  Marenco. 

«  Imperatore  ?  E  perchè  no  ?,  si  domanda  ironicamente 
Victor  Hugo.  La  sua  uniforme  verde  si  è  veduta  a  Stra- 
sburgo, la  sua  aquila  si  è  veduta  a  Boulogne,  il  suo 
Pio  VII  sta  a  Roma  nella  sottana  di  Pio  IX,  e  il  suo 
soprabito  grigio  non  lo  portava  ad  Ham  ?  Casacca  o  so- 
prabito è  tutt'  uno Se  volete  un'  arciduchessa,  aspettate 

un  poco  e  ne  avrà  una.  Tu  felix,  Austria,  nube.  Il  suo 
Murat  si  chiama  Saint- Arnaud,  il  suo  Talleyrand  si  chiama 
Morny,  il  suo  duca  di  Enghien  si  chiama  il  diritto  !   »  (2) 

E  per  compire  il  suo  sogno  il  figlio  di  Ortensia  scelse 


(1)  L.  Cappelletti.  Dal  2  dicembre  a  Sédan.  Pag.  83. 

(2)  Victor  Hugo.  Naf>oléon  le  Petit. 


proprio  il  giorno  anniversario  della  battaglia  di  Auster- 
litz  e  dell'  incoronazione  del  grande  Napoleone. 

Il  2  dicembre  1804,  nella  chiesa  di  Nòtre-Dame,  Na- 
poleone I  fu  incoronato  da  papa  Pio  VII.  Egli  stesso  prese 
la  corona  e  se  la  pose  in  capo,  poi  incoronò  l' Impera- 
trice Giuseppina,  che  gli  stava  inginocchiata  innanzi.  Il 
2  dicembre  1851  Luigi  Napoleone,  come  dice  Victor  Hugo, 
fece  uscire  dalla  notte  invernale  non  so  quale  uccello  not- 
turno, lo  fece  ricamare  sulla  bandiera  di  Francia  e  disse  : 
soldati,  ecco  l'aquila  imperiale  ! 

Ma  V  aquila  questa  volta  fu  veramente  un'  upupa  di 
sinistro  augurio,  e  il  nuovo  impero  doveva  finire  a  Sédan, 
come  1'  altro  era  finito  a  Waterloo. 

L' impero  Francese  era  più  omogeneo  dell'  Austro- 
Ungarico,  e  la  Francia  aveva  tradizioni  di  regalità.  Mentre 
si  diceva  che  nello  stemma  austriaco  le  due  teste  del- 
l' aquila  bicipite  sdegnassero  di  guardarsi,  a  simboleg- 
giare appunto  le  discordie  intestine  del  confusionario  im- 
pero, 1'  aquila  Napoleonica,  risorta  alle  Tuileries,  sembrava 
veramente  che  dovesse  rinnovare  i  fasti  dell'aquila  Romana. 
E  Sebastopoli,  S.  Martino,  Puebla  parvero  rinverdire  i 
lauri  di  Wagram,  di  Austerlitz  e  di  Marenco. 

Ma  terribile,  rapida,  inesorabile  doveva  essere  la  de- 
cadenza ;  il  gran  sogno  Napoleonico  doveva  naufragare 
innanzi  alla  fatalità,  irrompente  con  la  furia  del  Fato 
Greco.  La  delusione  si  abbattè  sul  novello  imperatore,  ed 
egli  dovette  assistere  alla  rovina  nel  fango  di  tutti  i  suoi 
progetti  di  gloria  e  di  grandezza. 

Giustamente  il  Carducci,  dopo  aver  ricordato,  a  prò- 


—  8  — 

posito  della  sua  morte,  la  descrizione,  che  Caio  Svetonio 
fa  della  morte  di  Cesare  Augusto,  scrisse  :  «  Egli  volle 
incominciare  dove  Cesare  (i)  finì  e  ferire  al  cuore  la  Russia, 
e  dovè  contentarsi  di  averne  scalfito  1'  epidermide  a  Se- 
bastopoli. Egli  volle  riprendere  la  gran  campagna  del 
1796  e  spingere  le  novelle  aquile  sino  agli  ultimi  seni 
dell'  Adriatico,  e  dovè  sostare  innanzi  al  Quadrilatero,  e 
dovè  dispettoso  vedersi  sorgere  al  lato  una  nazione  nuova, 
com'  ei  avrebbe  voluto  che  non  fosse.  Egli,  arbitro  del- 
l' Europa,  non  potè  muovere  una  guerra  di  Polonia,  non 
potè  riassettare  i  confini  della  Francia,  com'  egli  avrebbe 
voluto  e  come  avrebbe  voluto  la  maggior  parte  del  po- 
polo francese,  che  perciò  realmente  lo  aveva  levato  sugli 
scudi.  Egli  per  rifarsi,  volle  rialzare,  com'  egli  diceva, 
1'  elemento  latino,  e  il  Messico  provocato,  assillato,  ingiu- 
riato, il  Messico  debole,  deriso,  anarchico  fu  la  sua  Spagna. 
Egli  voleva  creare  a  tutto  suo  prò  una  questione  ger- 
manica e  non  potè  o  non  seppe  o  non  ebbe  il  coraggio 
di  farlo  nel  1866  e  lo  fece  tardi  e  male  e  paurosamente 
nel  1869  col  Lussemburgo  e  dovè  eccitarla  a  sua  salva- 
zione, per  iscampo  del  momento,  dovè  eccitarla  legger- 
mente, insipientemente,  e  vedersela  sorgere  innanzi  gigante, 
formidabile,  schiacciante  e  soccombere  non  degnamente. 
Egli  infine  proclamò  alto  il  principio  della  nazionalità,  e 
ferì  da  per  tutto  le  nazioni.  Egli  proclamò  il  non  inter- 
di) Di  G.  Cesare  Napoleone  III  fu  grande  ammiratore,  e  scrisse  una 
Vita  di  lui.  Il  Carducci,  dopo  averne  letto  la  prefazione,  scrisse  due  sonetti, 
intitolati  :  II  Cesarismo  —  V.    Giambi  ed  Epodi. 


—  9  — 

vento,  e  con  V  intervenire  da  per  tutto  isolò  sé  e  il  suo 
impero,  tra  i  rancori  e  le  freddezze  vendicatrici.  Egli 
volle  riaccozzare  le  forze  delle  genti  Latine,  e  accoppiarle 
alla  quadriga  imperiale  e  spingerle  e  frenare  a  sua  posta, 
e  non  mai  gli  interessi  e  le  voglie,  gli  affetti  e  le  idee 
delle  genti  Latine  furono  così  separati  e  avversi  tra  loro 
e  cozzanti,  come  sotto  lui  :  egli  cadde,  e  lasciò,  eredità 
sua,  V  odio  tra  Y  Italia  e  la  Francia.  Egli  volle  mettersi 
a  capo  del  movimento  sociale  e  frenarlo  nelle  dighe  uf- 
ficiali, e  ingrassare  cesareamente  la  plebe,  e  non  mai  la 
questione  sociale  ruggì  così  feroce,  così  implacabile,  come 
negli  ultimi  anni  suoi,  come  intorno  ai  ruderi  del  suo 
trono.  Egli  cadde  e  lasciò  retaggio  alla  Parigi  del  colpo 
di  Stato  la  Comune,  al  palagio  degli  splendori  Cesarei  la 
truce  vampa  del  petrolio  »  (i). 

Napoleone  III,  come  Francesco  Giuseppe,  fu  e  sarà 
variamente  giudicato.  Noi  italiani  non  possiamo  dimenti- 
care 1'  aiuto,  che  egli,  mettendosi  contro  la  diplomazia  di 
tutta  Europa,  portò  ai  Piemontesi  nel  1859,  ma  è  vivo 
ancora  nella  nostra  memoria  il  ricordo  delle  vergognose 
spedizioni  del  1849  e  del  1867,  con  cui  egli  si  fece  pa- 
ladino di  un  imbelle  pontefice:  il  glorioso  Vascello  Ro- 
mano porta  ancora  le  tracce  delle  cannonate  Francesi  e  i 
morti  di  Mentana  ancora  gridano  vendetta. 

Alcuni  storici  hanno  tentato  di  giustificare  l'opera 
.di  Napoleone  III  nei  riguardi  dell'Italia,  dando  gran  parte 


(1)  G.  Carducci.  Nella  Voce  del  Popolo  di  Bologna.  Opere.  Voi.  VII. 


—    IO    — 

della  responsabilità  all'  imperatrice  Eugenia  ed  affermando 
che  non  poteva  mantenersi  il  prestigio  dell'  impero  senza 
V  appoggio  morale  del  Papa.  Tuttavia,  allorché  il  Rouher 
pronunziò  il  famoso  :  jamais,  vuoisi  che  Napoleone  gli 
abbia  detto  con  dolce  accento  di  rimprovero  :  «  En  poli- 
tique,  mon  cher  Rouher,  il  ne  faut  point  dire  jamais  !  »  (i) 
Altri  invece  hanno  tutto  attribuito  alla  sua  sfrenata  ambi- 
zione. Napoleone  III,  scrive  il  Proudhon,  era,  nei  rapporti 
della  Santa  Sede,  il  continuatore  della  politica  del  primo 
Napoleone.  Come  questi  si  vantava  di  essere  il  continua- 
tore dell'  opera  di  Carlomagno,  così  V  altro  aspirava  al 
titolo  di  imperatore  apostolico  e  romano,  a  cui  V  impe- 
ratore d'Austria  aveva  dovuto,  dopo  Wagram,  rinunziare. 
Quindi  il  suo  intervento  nella  politica  italiana  sarebbe 
stato  sempre  interessato.  Mentre  1'  imperatrice  Eugenia 
non  voleva  la  spedizione  del  1859,  perchè  desiderava  che 
il  Papa  facesse  da  padrino  al  neonato  Principe  Imperiale, 
Napoleone  la  volle,  per  lo  scopo  principale  d' impedire 
che  V  Austria,  fortificandosi  nella  Lombardia,  minacciasse 
da  un  altro  lato  i  confini  della  Francia,  e  poi  per  affer- 
mare la  propria  forza  militare,  come  prima  aveva  affer- 
mato la  propria  autorità  diplomatica,  eleggendosi  a  pro- 
tettore del  sommo  Pontefice. 

Perciò,  nelle  recenti  feste  per  il  cinquantenario  dell'  anno 
di  S.  Martino,  abbiamo  veduto  che  alcuni  in  Italia  lo 
salutavano  come  colui,  che  aveva  posto   la  prima  pietra 


(1)  P.  De  la  Gorce.  Hìstoire  du  Second  Empire.  Voi.  V,  Pag.  314  e 
Cappelletti.  Dal  2  dicembre  a  Sédan. 


—  II   — 

del  grande  edilìzio  dell'  indipendenza  nazionale,  altri  in- 
vece, pur  essendo  quei  cittadini  italiani,  che  nel  1859  lo 
avevano  acclamato  a  fianco  di  Vittorio  Emanuele,  non 
tollerarono  che  un  suo  monumento  uscisse  alla  luce  del 
sole  da  un  cortile,  dove  era  stato  relegato. 

Né  meno  disparati  i  giudizi  degli  storici  francesi.  Al- 
cuni storici  del  secondo  impero  lo  levarono  alle  stelle.  Il 
Thirria  dice  di  lui  che  era  di  «  un  intelligence  supé- 
rieure  »  (1).  Pier  de  la  Gorce,  il  quale  ha  scritto  la  storia 
forse  più  completa  e  più  imparziale  del  secondo  impero  (2), 
lo  chiama  :  il  regnante  più  geniale  del  secolo  scorso. 

Victor  Hugo  invece  non  disdegna  di  paragonarlo  ad 
Hudson  Lowe,  perchè,  secondo  lui,  Napoleone  III  fu 
«  il  vero  uccisore  della  gloria  di  Napoleone  I  »  (3)  e  apo- 
strofa la  Verità  con  queste  parole  roventi  :  «  Non  ti  si 
applaudirebbe,  o  Verità,  quando  agli  occhi  del  mondo, 
innanzi  al  popolo,  innanzi  a  Dio,  attestando  1'  onore,  il 
giuramento,  la  fede,  la  religione,  la  santità  della  vita  umana, 
il  diritto,  la  generosità  di  tutte  le  anime,  innanzi  alle 
mogli,  le  sorelle,  le  madri,  innanzi  ai  suoi  lacchè,  il  suo 
Senato,  il  suo  Consiglio  di  Stato,  innanzi  ai  suoi  generali, 
i  suoi  preti  ed  i  suoi  agenti  di  polizia,  in  nome  del  po- 
polo incatenato,  in  nome  dell'  intelligenza  proscritta,  in 
nome    dell'  umanità    violata,    innanzi    a  quel   mucchio  di 


(1)  Thirria.  Napoléon  III  avant  l'Empire.  Voi.  I.  Pag.  V  e  VI. 

(2)  P.  De  la  Gorce.  Opera  citata.  Prefazione. 

(3)  Victor  Hugo.  Napoléon  le  Petit. 


—    12    — 

schiavi,  che  non  può  e  che  non  osa  dire   una  parola,  tu 
non  schiaffeggiassi  quell'uomo!  »  (i). 

Pure  riconoscendo  esagerati  gli  sdegni  del  grande 
Poeta  repubblicano,  certo  Napoleone  III  ebbe  le  sue  colpe, 
e  forse  più  gravi  di  quelle  di  Francesco  Giuseppe  d'  A- 
sburgo.  Il  suo  avvento  al  trono  non  solo  fu  un  grande 
delitto  politico,  ma  costò  anche  spargimento  di  sangue  al 
popolo  Francese.  Il  Thiers  e  gli  altri  storici  repubblicani 
parlano  di  centinaia  e  centinaia  di  vittime.  Gli  stessi 
storici,  ligi  all'  impero,  non  possono  negare  che  la  gior- 
nata del  4  dicembre  1851  fu  sanguinosissima  a  Parigi  e 
nei  dintorni.  Victor  Hugo  dice  che  fu  uccisa  persino  una 
donna  che  fuggiva,  col  suo  bambino  stretto  al  petto  ; 
furono  perfino  fucilati  vecchi  e  fanciulli.  E  Giosuè  Car- 
ducci rimprovera  all'  imperatore  di  aver  fatto  fucilare 
davanti  al  caffè  Tortoni  alcuni  poveri  bambini,  con  in 
mano  un  giocattolo  (2). 

Né  meno  spietata  fu  la  reazione  politica  contro  i  re- 
pubblicani :  esili,  proscrizioni  ed  arresti  portarono  il  pianto 
e  F  angoscia  in  molte  case  di  Francia,  e  la  Caienna  in 
pochi  mesi  rigurgitò  di  prigionieri.  E  poi  le  feroci  re- 
pressioni di  Cina  e  di  Siria  nel  1859  e  nel  1860,  la  de- 
lusione di  Villafranca  inflitta  all'  Italia,  1'  abbandono  di 
Massimiliano  d'  Austria  alla  furia  reazionaria  dei  Messi- 
cani, la  spedizione  ingloriosa,  che  finì  a  Mentana,  sono 
errori,  che  gettano  un'  ombra  sinistra  sul  secondo  Impero. 

(1)  Victor  Hugo.  Napoléon  le  Petit. 

(2)  G.  Carducci.  Moderatucoli.  Opere.  Voi.  XII. 


—   13  — 

E  la  storia  registrò  e  giudicò,  segnando  il  dì  della  Giu- 
stizia. E  la  Giustizia  fu  invocata  ed  esaltata  anche  dall'arte. 

Primo  fra  tutti,  Giosuè  Carducci  eternò  nella  sua  opera 
immortale  di  poesia  le  colpe  dei  Napoleonidi  e  degli 
Asburgo,  e  predisse  i  fati  alle  due  case  regnanti. 


Giosuè  Carducci  volle  essere  sopra  tutto  il  poeta  della 
storia  (i),  perchè  egli  intese  con  la  sua  poesia  ad  elevare  la 
dignità  e  la  coscienza  della  nazione,  e  soltanto  nei  grandi  e- 
sempi  del  passato  trovò  un  conforto  alla  miseria  del  presente. 

Egli,  dopo  aver  proclamato  in  un  supremo  momento 
di  sconforto  e  d' ira  la  viltà  della  patria  contemporanea, 
saliva  sereno  il  monte  dei  secoli  a  contemplare,  lungi 
dalle  malinconiche  vanità  del  presente,  le  glorie  del  pas- 
sato, ad  evocare  dalle  mute  case  degli  eroi  il  bello  e  dalla 
morte  il  vero,  a  trarre  dalle  profondità  di  una  sintesi 
storica  le  fonti  perenni  della  vita. 

L'  arte,  che  trae  il  suo  alimento  dalla  storia  è  quella, 
che,  prima  fra  tutte  «  ad  egrege  cose  il  forte  animo  ac- 
cende »  e  l'arte  del  Carducci  fu  proprio  quella,  a  cui 
Max  Nordau  attribuisce  un'  altissima  funzione  sociale, 
perchè  egli  cantò  veramente  :  «  il  sudore  faticato  dello 
sforzo  profondo,  la  lacrima  della  pietà  per  la  sofferenza 
altrui,  il  sangue  sacro  dei  martiri  per  le  idee,  tutto  ciò 
che  è  la  santa  cresima  del  progresso  »  (2). 

(1)  Benedetto  Croce  lo  chiamò  :    «  il  commosso  poeta  della  storia  ». 

(2)  Max  Nordau.  La  funzione  sociale  dell'arte.  Pag.  45. 


—   14  — 

Alla  storia  poi  il  Carducci  si  volse  anche  per  sua  in- 
dole, perchè  egli  fu  sempre  fiero  di  essere  italiano  e  della 
gloria  d' Italia,  che  canta  il  suo  inno  eterno  dalle  pagine 
della  storia,  egli  fu  religiosamente  geloso  come  di  gloria 
sua.  Egli  ebbe  veramente  quel!'  anima  italiana,  che  il  Taine 
chiamò  :  «  figlia  primogenita  della  civiltà  moderna,  im- 
bevuta del  suo  diritto  di  primogenitura,  e  sede  dell'or- 
goglio romano  e  del  r3atriottismo  antico  »  (i). 

Forte  della  sua  cultura  storica  e  del  suo  altissimo 
spirito  critico,  egli  passa  dalle  più  pure  rievocazioni  di 
classicismo  alla  considerazione  degli  avvenimenti  più  vi- 
cini a  noi,  e  davanti  alla  sua  forza  di  artista  gigantesco 
tutte  le  difficoltà  svaniscono.  Qualche  volta  egli  può  sem- 
brare poco  giusto  e  sereno,  ma  non  bisogna  dimenticare  che 
egli  fu  un  poeta  di  rivoluzione,  ed  alle  rivoluzioni,  diceva 
il  Settembrini,  giovano  le  esagerazioni  e  le  intemperanze. 

E  dal  suo  lungo  studio  e  grande  amore  per  la  storia, 
il  Carducci  trasse  la  convinzione  che  «  non  s' inganna  ne 
si  oltraggia  impunemente  il  genere  umano  né  coi  plebi- 
sciti, né  con  le  vessazioni  »  (2),  e  quindi  la  concezione 
di  una  Nemesi  storica,  che  si  trova  la  prima  volta  adom- 
brata in  un'  ode  di  Levia  Gravia  (nei  primi  giorni  del 
MDCCCLXI),  dove  la  Nemesi  è  raffigurata  come  una  Dea, 
che  cammina  alta  sugli  uomini  : 

Bella  ed  austera  vindice 

Sui  larghi  mar  cammina  alta  una  Dea 

(1)  Ippolito  Taine.  Discorsi. 

(2)  G.  Carducci.  Nella  Voce  del  popolo  di  Bologna.  1873.  Opere.  Voi.  7. 


—  i5  — 

e  dove  la  fatalità  con  triste  presagio  è  predetta  alla  Casa 
d'  Asburgo  : 

E  tu  ne  la  man  parvola, 

Siccome  verghe  in  tenue  fascio  unite, 

Tu  vuoi  di  sette  popoli 

Stringere,  Asburgo,  le  discordi  vite  ? 

La  colpa  antica  ingenera 

Error  novi  e  la  pena  :  informe  attende 

Ella,  e  il  giusto  giudìcio 

Provocato  da  gli  avi  in  te  distende. 

E  d'  Arad  e  di  Mantova 

Si  scoverchiano  orribili  le  tombe  : 

S'  affaccia  a  1'  Alpi  retiche 

Lo  spettro  di  Capeto  e  al  soglio  incombe. 

E  nella  stessa  ode  Napoleone  III  e  Francesco  Giu- 
seppe sono  uniti  nella  terribile  predizione  di  un  fato  ven- 
dicatore : 

E  la  dea  che  de'  vigili 

Occhi  circonda  il  sir  de'  Franchi,  e  aspetta  ; 

E  a  noi  mostra  i  romulei 

Colli  e  il  mar  d'  Adria  e  1'  ultima  vendetta. 

E  nello  stesso  articolo,  scritto  il  giorno  dopo  la  morte 
di  Napoleone  III,  dice  :  «  la  giustizia  non  è  altro  che 
V  armonia  dei  fatti  umani  e  nei  fatti  umani  svolgendosi 
annulla  e  vendica  prima  o  poi  le  offese  recate  al  diritto. 
Noi,  che  crediamo  al  diritto,  alla  giustizia,  alla  libertà, 
amiamo  credere  ancora  che  Lipsia  e  Waterloo  facessero 
la  vendetta  del  1 8  brumaio,  e  che  il  regno  e.  la  caduta 


—   16  — 

ingloriosa  del  nipote  fossero  debita  espiazione  non  pure 
al  2  dicembre,  ma  alla  usurpazione,  al  despotismo,  alla 
gloria  incivile  del  grande  zio  ». 

E  già  prima,  dopo  la  disfatta  dell'  esercito  francese, 
aveva  scritto  «  la  Francia  non  cade  ella  ora  sotto  il  peso 
delle  sue  colpe,  del  suo  ingeneroso  orgoglio,  della  sua 
imprevidente  insolenza,  della  sua  corruttela  ?....  Vada 
Sédan  per  Mentana  e  1'  obbrobrio  delle  capitolazioni  per 
il  «  jamais  »  di  Rouher  1  » 

Nel  1872  poi,  sull'  Alleanza  Repubblicana,  domandava; 
«  Dove  lo  mettereste  il  vostro  trono?  a  Versailles,  donde 
portaron  via  1'  antico  monarca  le  pesciaiole  di  Parigi,  o 
sulle  nere  macerie  delle  Tuileries,  dove  s'  aggirano  senza 
testa  gli  spettri  di  Luigi  e  d'  Antonietta  ?  » 

Il  concetto  del  Carducci,  non  è  nuovo  del  resto,  perchè 
è  un  concetto  classico.  La  fatale  decadenza  di  Roma  parve 
anch'  essa  opera  di  una  nemesi  vendicatrice  a  Giovenale 
ed  Orazio  (1),  e  ad  essi  inspirandosi  il  Carducci  aveva  già 
scritto  : 

Un  selvatico  odore  su  da  le  fosse 

Vaporava  maligno. 

Era  il  sangue  del  mondo  che  fervea 

Con  lievito  mortale, 

Su  cui  poggiava  già  nemesi  dea, 

Al  vel  prossimo  1'  ale   (2). 

Tra  i  moderni  ripresero   questo   concetto  il  Cattaneo 


(1)  Giovenale.  Satira   VI.  -  Orazio.  Epodo   VII. 

(2)  Giambi  ed  Epodi.  A  proposito  del  processo  Fadda. 


Sveglisi  ne'  freschi  anni  la  pura,  vindelica  rosa 


—  i7  — 

e  il  Michelet  :  ultimo  il  Carducci,  che  sollevò  aspre  cen- 
sure. Benedetto  Croce  parlò  di  «  un  impegno  d' idee  » 
ed  aggiunse  :  «  per  esempio,  nella  deliziosa  elegia  per  i 
funerali  di  Elisabetta  imperatrice  regina,  dopo  il  magni- 
fico invocare  delle  bionde  Valchirie,  perchè  trasportino 
a  riva  più  cortese,  sotto  il  cielo  Ellenico,  la  donna  di 
Wittelsbach,  si  inseriscono  freddamente  i  distici  terzo  e 
quarto,  nei  quali  il  poeta  si  sovviene  di  dover  pagare 
una  cambiale  politica,  tratta  a  favore  dei  martiri  di 
Mantova  e  di  Arad  contro  V  imperatore  degli  impic- 
cati »  (3), 

Ma  il  poeta,  quando  alcuni,  che  egli  chiama  «  Mode- 
ratucoli  »  insorsero  contro  il  suo  concetto  storico,  enun- 
ziato  ancora  una  volta  nell'  ode  «  In  morte  di  Napoleone 
Eugenio  »  rispose  e  spiegò  :  «  non  ho  fatto  altro  che 
adombrare  una  grande  legge  storica,  la  quale  è  sanzione 
di  giustizia  e  di  moralità.  Chi  interrompe  il  diritto,  chi 
mette  la  volontà  sua  in  luogo  della  volontà  nazionale, 
espressa  con  le  norme  e  con  le  forme  del  diritto,  chi 
mette  in  luogo  della  legge  la  forza,  quegli  con  la  sua 
rivoluzione  personale  rende  perenne  la  rivoluzione  sociale, 
gitta  anzi  i  semi  di  rivoluzioni  e  reazioni  che  scoppie- 
ranno  contro  di  lui,  avvolgendo  nella  sua  rovina  i  rap- 
presentanti dinastici  della  usurpazione  e  della  violazione. 
La  libertà  si  vendica  dei  colpi  di  Stato  con  catastrofi, 
che  paiono    fatali,  e  la  cui  traccia  pirica    muove   invece 

(3)  B.  Croce.  Nella  «  Critica  »   del  gennaio  1903. 


—   18  — 

con  meravigliosa  procedenza  logica  dal  punto  stesso  del 
delitto  politico  »  (i). 

E  quindi  richiama  alcuni  suoi  versi,  scritti  «  con  ferma 
fede  nella  legge  storica  della  giustizia  »  sin  dal  1862, 
proprio  quando  1'  impero  era  all'  apogeo  della  fortuna  e 
della  gloria  : 

Ferma,  o  pugnai,  che  in  Cesare 
Festi  al  regnar  divieto, 
O  scure  a  cui  mal  docile 
S'  inginocchiò  Capeto  ! 

Sacro  è  costui  :   segnavalo 
Co  '1  dito  suo  divino 
La  libertà  :   risparmisi 
L'  imperiai  Caino. 

Levia  Gravia.  —  Dopo  Aspromonte. 

Allora  si  gridò  :  Il  Carducci  odia  !  Eppure  odio  non  è  ! 
È  intima  e  sacra  convinzione  umana,  perchè  il  Carducci, 
anche  quando  monta  sul  sauro  destrier  della  canzone  è 
sempre  il  filosofo  ironico,  il  critico  vigoroso,  lo  storico 
della  giustizia: 

Quando  io  salgo  de'  secoli  sul  monte 
Triste  in  sembiante  e  solo, 
Levan  le  strofe  intorno  alla  mia  fronte 
Siccome  falchi,  il  volo, 

Ed  ogni  strofa  ha  un'anima!.... 

ha  la  sua  grande  anima  generosa! 

(1)  G.  Carducci.  Moderaticcolì.  Opere.  Voi.  XII. 


—   ig  — 
Ed  al  passar  delle  sue  strofe, 

dolci  aeree  fanciulle, 

Fremon  per  tutti  i  campi 

L'ossa  de'  morti,  e  i  tumuli  a  le  culle 

Mandan  saluti  e  lampi. 

Sublime  incarico  egli  dà  alle  sue  strofe: 

A  voi  la  vita  mia;  me  ignota  fossa 
Accolga  innanzi  gli  anni: 
Pugnate  voi  contro  ogni  iniqua  fossa, 
Contro  tutti  i  tiranni  ! 

Giambi  ed  Epodi  -  A  certi  censori 

Ed  egli  si  levò  col  suo  verso  impetuoso  contro  tutti 
i  tiranni  di  fuori,  per  tutto  il  male  che  avean  fatto  alla 
Italia  sua,  a  quell'Italia  che  era  in  cima  ai  suoi  pensieri. 

No,  egli  non  odiava  la  Francia  :  ne  aveva  cantati  i  su- 
blimi ardimenti  repubblicani  in  Ca  Ira,  l'aveva  invocata 
in  un  giorno  di  bacchica  letizia: 

O  di  vini  e  d'eroi  Francia  cortese, 

Levia   Gravia  -  Carnevale 

1'  aveva  salutata  ; 

O  Repubblica  altera, 

e  pur  dopo  Sédan,  il  21   settembre  1870,  cantò  con  rim- 
pianto : 

O  repubblica  antica,  ov'è  il  tuo  tuon  ? 
Il  cavallo  del  re,  senti,  ti  pesta, 
E  dormi  ne  la  tua  polve,  o  Danton  ? 
Giambi  ed  Epodi  -  Nel  LXXVII  ann.  della  proci,  della  Republ.  francese 


20    

E,  pur  piangendo  e  maledicendo  per  la  morte  di  E- 
duardo  Corazzini,  esclama  accorato: 

Noi  cresciuti  al  tuo  libero  splendore, 
Noi  che  t'amammo,  o  Francia  ? 

Persino,  allorché  in  Italia  si  protestò  contro  l'intervento 
di  Garibaldi  nei  Vosgi,  egli  levò  fieramente  la  sua  voce 
contro  i  «  nepotuncoli  del  Machiavelli,  rinforzati  nell'aceto 
dei  Gesuiti  e  conservati  nella  salamoia  delle  polizie  dei 
cessati  governi,  capaci  a  dimostrare  in  forma  che  la  in- 
gratitudine e  la  vigliaccheria  sono  magnanimità  Romana 
di  quella  vecchia  »  (i). 

Ma,  quando  Giuseppe  Garibaldi  era  caduto  ferito  ad 
Aspromonte,  per  una  fatale  spedizione  mandatagli  contro, 
a  cui  la  Francia,  paladina  del  Papa  (2),  non  era  stata  del 
tutto  estranea,  egli  aveva  bevuto 

al  di  che  tingere 

Al  masnadier  di  Francia 
Dee  di  tremante  e  luteo 
Pallor  l'oscena  guancia, 


(1)  G.  Carducci.  Garibaldi  in  Francia.  E  tutti  ricorderanno  le  com- 
mosse parole  del  carducci  in  memoria  del  povero  Giorgio  Imbriani,  caduto 
da  eroe  a  Digione  e  della  «  primavera  sacra  d'Italia  che  vendicò  Roma  e 
Mentana,  cadendo  vittoriosi  sulla  gloriosa  terra  di  Francia.  Latin  sangue 
gentile  !  » . 

(2)  E  tale  era  sempre  stata  : 

Fan  da  Svizzeri  a  San  Piero 
I  nepoti  di  Volterò. 

Iuvenilia.  Al  beato  Giovanni  della  Pace. 


21 

ed  imprecato  così  all'imperiai  Caino: 

un  urlar  di  vittime 

Da  i  gorghi  della  Senna 
E  da  le  fosse  putride 
De  la  feral  Caienna 

Lo  insegua  :  e,  spettri  lividi 
Con  gli  spioventi  crini, 
—  Sii  maledetto  —  gridingli 
Mameli  e  Morosini. 

Levia   Gravia  -  Dopo  Aspromonte 

Ma  quando  il  Carducci  ricorda  la  cannonata  dei  fran- 
cesi contro  le  mura  di  Roma  nel  1849,  e  la  strage  del 
2  dicembre  sulla  collina  di  Montmartre,  allora,  rivolto  a  la 
giovine  vittima  della  fucileria  degli  «  chassepots  »,  pro- 
rompe : 

Or  co'  caduti  là  nel  giugno  ardente 
De  l'alta  Roma  a  fronte 
E  co  i  caduti  nel  decembre  algente 
De'  martiri  su  '1  monte 

Parla,  e  Nemesi  al  suo  ferreo  registro 
Guarda  con  muto  orrore, 
Parla  di  lui,  del  Cesare  sinistro, 
Del  bieco  imperatore  ! 

Giambi  ed  Epodi  -  In  morte  di  E.  Corazzini 

Il  poeta  maledice  ai  tiranni  di  fuori  ed  ai  vigliacchi 
di  dentro,  in  nome  di  tutte  le  madri  che  piansero  i  figli,  di 
tutte  le  spose  che  piansero  l'amore  perduto,  in  nome  della 
Sacra  Primavera  Italica,  cui  fu  rapito  dallo  straniero  il  pa- 
dre, in  nome  delle  mille  vittime  sconosciute  del  carcere 


22 


e  dell'esilio,  in  nome  dei  giustiziati,  dei  proscritti,  degli 
uccisi  in  faccia  al  sole  della  patria! 

Le  madri  intanto  accusano  ne'  pianti 
Del  viver  tardo  i  fati 
E  con  la  man  che  gli  addormian  lattanti 
Compongon  gli  occhi  a'  nati, 

In  vece  di  ghirlande  le  fanciulle 

Vestonsi  i  neri  panni, 

Mancan  le  vite  e  le  aspettanti  culle 

Maledetti  i  tiranni  ! 

Idem. 

Perciò  egli  prende  per  mano  la  madre  e  la  sposa  di 
Eduardo  Corazzini,  penetra  con  le  ali  incoercibili  de  la  sua 
poesia  là, 

dove  tra  sue  turbe  ladre 

Quel  prete  empio  riposa, 

e 

Per  le  grige  chiome  de  la  madre, 
E  per  le  chiome  bionde 
De  la  sposa,  che  sciolte  or  sotto  l'adre 
Pieghe  un  sol  vel  confonde, 

scomunica  l'infame  vecchio  omicida 

da  la  pietà  che  piange  e  prega 

e 

Da  l'amor  che  liete 

Le  creature  lega 

egli, 

Sacerdote  de  l'augusto  vero, 
Vate  de  l'avvenire  ! 


23 


Perciò,  quando  Giuseppe  Monti  e  Gaetano  Tognetti 
reclinarono  il  capo  sotto  la  scure,  che  «  aprì  il  cielo  al 
Locatelli  »  il  poeta,  in  nome  dei  «  miseri  parenti  »,  dei 
«  tremuli  vegli  »,  maledisse  al 


Ma 


Si, 


Chierico  sanguinoso  e  imbelle  re 


Meglio  così  !  Sangue  de  i  morti  affretta 
I  rivi  tuoi  vermigli 

E  i  fati  ;  al  ciel  vapora,  e  di  vendetta 
Inebria  i  nostri  figli. 

Giambi  ed  Epodi  -  Per  G.  Monti  e  G.  Tognetti 


Sparsa  è  la  via  di  tombe,  ma  com'ara 
Ogni  tomba  si  mostra  : 
La  memoria  de  i  morti  arde  e  rischiara 
La  grande  opera  nostra, 


e  avanza,  avanza,  avanza 


la  sacra  legion  tebana, 

Veglio,  che  mai  non  muore  ! 

Giambi  ed  Epodi  -  Per  G.  Monti  e  G.  Tognetti 

E  di  questa  sacra  legion  tebana,  che  muove  alla  ri- 
scossa, il  poeta  si  fa  condottiero  in  nome  degli  ideali  più 
puri  e  più  santi  della  patria,  egli  che  «  avrebbe  preferito  a 
qualunque  fama  letteraria  aver  sparso  il  suo  sangue  sotto 
Monterotondo  e  Mentana  »  (i). 

(i)  Ai  superstiti  di  Mentana.    Confessioni  e  Battaglie.  Serie  IL 


—   24  — 

E  venne  per  tutti  il  giorno  segnato  dal  Fato  ;  Sadowa, 
Sèdan,  Porta  Pia  scossero  il  trono  Asburghese,  manda- 
rono in  esilio  il  Piccolo  Napoleone,  fecero  di  sé  stesso 
prigioniero  il  gran  Pontefice.  Venne  per  tutti  il  giorno 
sacro  alla  Giustizia,  alla  Libertà,  all'Idea  bella  e  fulgente, 
cui  il  poeta  credeva,  venne  per  «  l' Asburghese  predone  », 
venne  per  «  l'Austria  dalla  gialla  insegna,  avversaria  del 
bene  »  e  non  più  regna 

sul  popol  di  Ferruccio 

Un  d'Asburgo.... 

Juvenilìa  -  Croce  di  Savoia 

non  più 

d'Austria  e  Boemia  la  plebe 

Si  disseta  di  Mincio  e  di  Brenta, 

Jtivenilia  -  Sicilia  e  la  Rivoluzione 

e  risplende  come  un  astro  ne  i  secoli 

Belfiore,  oscura  fossa  d'austriache  forche  fulgente, 
Belfiore,  ara  de  i  martiri! 

e  la  gloria  di  Pietro  Calvi,  che 

Quale  già  d'Austria  l'armi,  tal  d'Austria  la  forca....  guarda 
Sereno  ed  impassibile  ! 

Rime  e  Ritmi  -  Cadore 

Ma  quale  dolorosa  alternativa  ed  incertezza  di  eventi! 
Nel  1848 

Languido  il  tuon  de  l'ultimo  cannone 
Dietro  la  fuga  austriaca  morìa  : 


—  25  — 

Il  re  a  cavallo  discendeva  contra 
Il  sol  cadente  ! 

Rime  e  Ritmi  -  Piemonte 

Poi,  F  anno  dopo,  venne  ad  oscurare  V  astro  d' Italia 


la  brumai  Novara 

E  a'  tristi  errori  meta  ultima  Oporto 

Idem 

Ma  ecco  il  1859,  e,  commista  al  rullo  dei  sardi  tam- 
buri, 

Di  balza  in  balza,  angel  di  guerra,  vola 
La  Marsigliese 

ecco  il  1866,  che  fiacca  ancora  una  volta  l'orgoglio  au- 
striaco sui  piani  di  Sadowa  !  «  E  il  3  luglio  1866  e  1'  or- 
goglioso Benedek,  travolto  ne  la  fuga  incomposta  e  folle 
di  Sadowa,  passa  vicino  alla  fortezza  di  Iosephstadt,  dove 
tanti  cospiratori  italiani  dei  processi  di  Mantova  avevano 
fremuto  e  sofferto  per  sua  sentenza  »  (1). 

Pure  ancora  un'onta  terribile  era  riservata  all'Italia: 
l'onta  insanabile  di  Lissa,  che  il  poeta  sentì  per  lunghi 
anni  come  un  schiaffo  sul  suo  volto,  come  un  colpo  al 
suo  nobile  cuore.  Per  «  Lo  sposalizio  del  mare  »,  rinno- 
vantesi  a  Venezia,  egli  ammonì: 

Qualcheduno  a  Lissa  infracida, 
Che  potrebbesi  svegliar!.... 

E  dopo  la  infausta  campagna  del  1866,  quando  parve 

(1)  A.  Luzio.  /  martiri  di  Belfiore. 


—    20    — 

che  l' Italia  si  adagiasse  in  una  vile  inerzia,  timorosa  di 
Roma  e  di  Parigi,  il  poeta  si  ritrasse  sdegnoso  tra  le  me- 
morie dei  grandi  de  la  patria  e  fulminò  irosamente  i  suoi 
giambi  sui  Fucci  e  sui  Bonturi  della  Terza  Italia. 

Un  «  giovincello  scrittore  di  versi  sulla  Germania  », 
in  quegli  anni  osò  insultare  le  donne  d' Italia  :  il  poeta 
fieramente  rispose  :  «  Non  ricordate  voi  le  donne  milanesi 
fatte  bastonare  dal  vostro  Kaiser  cavalleresco,  e  la  Co- 
lomba Antonietti,  sposa  ventenne,  travolta  dalle  palle  fran- 
cesi a  pie  delle  mura  di  S.  Pancrazio,  mentre  porgeva 
F  arme  carica  al  marito  e  la  Giuditta  Tavani  e  l'Adelaide 
Cairoli?  Non  ricordate  l' infelice  Teresa  Confalonieri?  Noi 
fanciulli  salutammo  lo  scrosciare  delle  cinque  giornate  mi- 
lanesi sui  terghi  tedeschi,  noi  stupimmo,  pallidi  di  reli- 
gioso terrore,  alla  danza  della  morte,  ballata  per  dieci 
giorni  da  Brescia  nell'  ebrietà  del  sangue  tedesco  (Haynau 
ammirava),  noi  ricordiamo  Pasquale  Sottocorno,  lo  scian- 
cato, che  tra  le  scariche  va  ad  incendiare  i  ridotti  tede- 
schi, noi  ricordiamo  Carlo  Zima,  che,  incendiato  dai  Croati, 
si  avvinghia  alle  bestie  nemiche  e  le  incatena  con  sé  ad 
una  morte:  noi  ricordiamo  il  «  Tiremm  Innanz  »  dello 
Sciesa.  E  tirammo  innanzi  col  re  che  fulminò  a  S.  Mar- 
tino, con  Giuseppe  Garibaldi  monarchico,  che  ricacciò  coi 
calci  dei  fucili  alle  spalle  gli  imperiali  Austriaci  da  Va- 
rese e  da  Como,  con  Giuseppe  Garibaldi  repubblicano, 
che  raccolse  una  tedesca  bandiera  lasciata  sur  un  mucchio 
di  morti  tedeschi  dagli  imperiali  prussiani.  Io,  quando  il 
passato  m' incresca,  mi    rifugio  tra  i  morti   della  Patria, 


—  27  — 

e  dalle  loro  memorie   traggo  gli  auspici  della  gloria  fu- 
tura »  (i). 

Tale  fu  il  poeta  della  terza  Italia,  il  poeta  dell'  Italia 
nova!  Maledisse  i  tiranni  e  predisse  loro  la  vendetta  dei 
Fati  che  non  perdonano,  ebbe  un  fremito  d'indignazione 
per  tutte  le  ingiustizie,  ed  inneggiò  al  Giusto  ed  al  Vero, 
ma,  quando  il  popolo  d' Italia,  vecchio  titano  ignavo,  sem- 
brò svegliarsi  sotto  lo  scalpitare  dell'  indomito  destrier  de 
la  canzone  e  l' Italia  fu  libera  tutta  ed  una,  allora  un'onda 
novella  di  memorie  pie  rifluì  al  cuore  del  poeta  dalle  flo- 
ride piaggie  del  cerulo  Tirreno,  ed  un  desiderio  gli  tornò 
di  cantare  la  novella  Primavera  Italica,  ricca  di  messi  e 
di  fiori  ;  allora  egli  abbracciò  nel  suo  lirico  amplesso  gli 
estremi  lembi  dell'  Italia,  dalle  Alpi  al  mare,  sognò  in  una 
radiosa  visione  le  miti  e  soavi  madonne  del  Perugino  e, 
dopo  aver  inneggiato  all'  altra  Madonna,  all'  idea  fulgente 
di  giustizia  e  di  pietà,  proruppe  nel  divino  saluto: 

Salute,   o  genti  umane  affaticate. 

Tutto  trapassa  e  nulla  può  morir  : 

Noi  troppo  odiammo  e  sofferimmo.  Amate  ! 

Il  mondo  è  bello  e  santo  è  l'avvenir  ! 

Gia?nbi  ed  Epodi  -  Canto  dell'amore 

E  «  risplenda  sulla  vita  che  passa  l' eternità  d'amore  » 
cantata  dal  poeta,  la  cui  parola  è  sacra.  Quando  egli  morì, 
il  compianto  Alfredo  Oriani  affidò  ai  vibranti  fili  del  te- 
legrafo queste  alate  parole,  che   ogni  italiano  aveva  nel 

(i)  Protesta.    Confessioni  e  battaglie.  Serie  seconda. 


—    28    — 

cuore  :  «  coprite  di  bandiere  la  strada,  per  la  quale  il  poeta 
uscirà  per  sempre  dalla  vostra  città,  e  le  ultime  trombe 
Garibaldine  suonino  davanti  al  suo  carro  la  fanfara  della 
nostra  rivoluzione  nazionale  !  Tutti  i  grandi  morti  si  le- 
veranno per  venirgli  incontro,  perchè,  dopo  Garibaldi,  egli 
fu  l' ideale  condottiero  d' Italia,  che  ne  gittò  la  nuova 
classica  parola  all'  avvenire.  La  sua  morte  deve  quindi  es- 
sere non  tramonto,  ma  aurora,  per  un  popolo  che  risale 
T  erta  de  la  storia  a  riconquistarvi  il  primato  del  proprio 
genio  antico!  ». 


Ma  restava  ancora  qualche  gradino  dell'  erta  da  salire. 
11  sogno  del  poeta  si  era  rivolto  con  tensione  appassio- 
nata anche  al  di  là  delle  mal  vietate  Alpi,  verso  le  prode 
del  glauco  mare  nostro,  eh'  egli  amava.  Era  vecchio,  quando 
il  nostro  re  elesse  a  sua  sposa  Elena  del  Montenegro,  e 
-scrisse:  «  Come  italiano,  son  felice  che  questo  principe 
di  Savoia  stenda  la  mano  ad  una  fanciulla  del  Montene- 
gro, perchè....  perchè  oh!  quanto  mareggia  fulgido  l'A- 
driatico laggiù  in  fondo,  tra  l'Illiria  e  la  Grecia!  »  Egli 
aveva  già  inviato  oltre  San  Giusto  ed  il  Quarnero,  là  dove 

di  baleni 

Trieste  in  fondo  coronata  il  capo 
Leva  tra  i  nembi, 

Odi  Barbare  -  Miramar 


—    2Q    — 

già  aveva  inviato  i  suoi  antichi  versi  italici,  perchè  can- 
tassero 

In  faccia  allo  stranier,  che  armato  accampasi 
Sul  nostro  suol, 

Odi  Barbare  -  Saluto  italico 

la  fatidica  parola:  Italia,  Italia,  Italia!....  quando  l'Asburgo 
aggiunse  ancora  una  colpa  a  quelle,  che  già  lo  avevano 
reso  inviso  a  chiunque  avesse  sangue  italiano  nelle  vene. 

Victor  Hugo  aveva  telegrafato  all'  Imperatore:  J'ai  recu 
en  deux  jours  des  Universités  et  Academies  d' Italie  onze 
depèches.  Tous  demandent  la  vie  d'un  condamné.  L'em- 
pereur  d' Autriche  a  en  ce  moment  une  gràce  a  faire.  Qu'  il 
signe  cette  gràce  et  ce  sera  grand!  ». 

Giosuè  Carducci  levò  alta  la  sua  voce:  «  No,  perdoni 
il  grande  poeta:  non  si  tratta  di  un  condannato,  ma  di 
un  confessore,  di  un  martire  della  religione  e  della  patria!  ». 

E  quando  il  misfatto  fu  compiuto,  tutti  ricordano  i 
suoi  disperati  appelli  alla  gioventù  italiana  per  un  monu- 
mento sulle  Alpi  nostre  a  Caio  Mario  e  a  Giuseppe  Ga- 
ribaldi col  motto:  Stranieri  addietro!,  per  un  monumento, 
no,  per  una  sola  pietra,  che  segnasse  la  nostra  obbliga- 
zione col  martire  (i). 


(i)  Un  magistrato,  per  i  nobili  articoli  su  Guglielmo  Oberdan,  osò  ac- 
cusare in  un  pubblico  dibattimento  il  Carducci  di  imbestialire  la  gioventù. 
Egli  rispose  neramente  :  «  Oh  !  è  prossimo  il  fango,  che  sale,  sale,  sale  1 
Oggi  è  divenuto  accusatore  sulla  bocca  di  un  magistrato.  Domani  diventerà 
boia  e  ci  vorrà  affogare,  perchè  gli  diciamo  che  è  fango....  E  fango  è  ». 


—  3o  — 

Un  anno  prima,  nel  1882,  era  stato  conchiuso  il  patto, 
con  cui  «  la  scienza  di  stato  si  era  illusa  di  stracciare 
cento  pagine  di  storia,  ma,  quando  una  sera  il  Carducci 
a  Roma  sentì  suonare  in  piazza  Colonna  Y  inno  austriaco, 
senti  un'onda  di  ribellione  nel  suo  petto:  «  Io  udii  con 
queste  orecchie,  e  anche  da  certe  foscaggini  passanti  per 
l'aria  del  grave  crepuscolo  estivo,  parvemi  udire:  Vili, 
vili!  Onta  a  voi  ed  ai  vostri  figliuoli!  Credei  fossero  le 
ombre  degli  italiani  impiccati,  sgozzati,  bruciati,  fucilati, 
delle  italiane  bastonate  al  suono  di  quell'  inno.  Ma  forse 
erano  le  nuvole  portate  dallo  scirocco.  E  scappai  singhioz- 
zando ferocemente  e  ringhiottendo  nell'  ira  un  mio  verso  ». 

Non  vi  par  di  vederlo  il  Carducci? 

—  No,  l'imperatore  non  grazierà,  egli  previde,  no, 
perdoni  Victor  Hugo,  non  grazierà,  ed  allora....  anche  una 
volta....  sia  maledetto  l'imperatore! 

E  non  graziò,  ed  ancora,  come  cantò  Gabriele  d'An- 
nunzio, un'ombra 

S'allunga  da  Lissa  remota  a  la  riva  materna, 

e  Faà  di  Bruno  chiede: 

Sarà  dunque  eterna  la  vergogna  ? 

E  la  sua  voce  risuona  lugubremente,  là  dove 

l'occhio  dell'anima  scorge 

Oltre  mare  in  lontananza 

La  città  che  sorge, 

Alta  sul  suo  golfo  splendendo  a  la  nostra  speranza, 


—  3i   — 

Da  tutte  le  torri  splendendo  ne  l'unica  fede  : 
Sempre  a  te,   sempre  la  stessa  !    (i) 

Ed  ancora 

—  Quando  —  i  vecchi  fra  sé  mesti  ripetono, 

Che  un  dì,   con  nere  chiome,  l'addio,  Trento,  ti  dissero. 

—  Quando  —  fremono  i  giovani,  che  videro 
Pur  ieri  da  S.   Giusto  ridere  glauco  l'Adria 

Odi  Barbare  -  Saluto  Italico 

Il  generale  Schenfeld,  ex-capo  di  Stato  Maggiore,  co- 
mandante militare  supremo  di  Trieste,  esaminati  gli  atti 
del  processo,  si  era  rifiutato  di  firmare  la  sentenza.  Allora 
fu  chiamato,  per  udirne  il  parere,  un  vecchio  uditore  ge- 
nerale da  Innsbruch,  che  si  uniformò  all'  opinione  del  co- 
mandante: non  essere  cioè  il  caso  di  applicare  la  pena  di 
morte.  Ma  il  governo  austriaco  la  volle  ad  ogni  costo,  e 
passò  gli  atti  del  processo  al  signor  Shrott,  procuratore 
di  Stato,  che  a  sua  volta  in  una  minuta  relazione  con- 
cluse non  potersi  parlare  di  pena  capitale  ;  ammesso  tutto, 
il  massimo  della  pena  applicabile  essere  quello  di  venti 
anni  di  fortezza. 

Questi  tre  galantuomini  caddero  in  disgrazia:  Schen- 
feld traslocato  al  comando  della  fortezza  di  Hermanstadt 
in  Transilvania,  il  vecchio  uditore  pensionato,  il  procu- 
ratore di  Stato  richiamato  a  Vienna.  Fu  nominato  coman- 
dante di  Trieste  il  generale  Corsk,  ferocissimo,  il  quale, 
da  buon  carnefice,  appose  la  sua  firma  alla  sentenza  di 
morte. 

(2)  G.  D'Annunzio.   Odi  navali.  Ad  una  torpediniera  nell'Adriatico. 


—  32  — 

Dopo  V  esecuzione,  il  governo  imperiale  fece  recapi- 
tare a  la  madre  del  condannato  la  nota  delle  spese  del 
processo  e  dell'  esecuzione,  in  cui  figuravano  anche  i  po- 
chi soldi  spesi  per  il  capestro. 

Ma  la  povera  madre  fu  vendicata  da  te,  o  Maria  Wec- 
zera,  da  te, 

che  rapisti  con  sottile  incanto 

Il  fulvo  duce  a  le  falangi  ladre, 
E  vendicasti  d'  Oberdan  la  madre, 
Pianto  rendendo  a  Cesare  per  pianto  (i). 

E  chissà  che  in  una  livida  alba  di  dicembre,  non  s'af- 
facci alle  invetriate  della  Hofburg  il  volto  pallido  e  triste 
di  Guglielmo  Oberdan,  morto,  come  scrisse  Felice  Ca- 
vallotti, «  là,  ai  piedi  delle  sue  Alpi,  là  in  faccia  al  suo 
mare,  là  sotto  il  suo  cielo,  eh'  egli,  pur  ne  l'ultima  alba 
grigia  e  piovosa,  aveva  salutato,  perchè  sotto  quel  cielo 
la  sua  Italia  continuava  !  »  (2). 


Maledisse  il  poeta,  e  raccolsero  la  maledizione  i  Fati. 
Colpevoli  di  debolezza  o  di  despotismo,  di  crudeltà  o  di 
ambizione,  di  insania  o  di  mal  governo,  i  Napoleonidi  e 
gli  Asburgo  furono  travolti  da  un  impetuoso  incalzarsi 
di  sciagure,  di  disfatte,  di  rivolgimenti  interni  ed  esterni, 


(1)  A.  Colautti.  Maria   Weczera.  Nei   «Canti  virili». 

(2)  F.  Cavallotti.   Tra  tombe  e  monumenti.  Per  G.  Oberdan. 


e  .5 

°    e 


—  33  — 

che  ai  più  sembrarono  la  giusta  rivendicazione  dei  vari 
errori. 

Spuntò  «  brumoso,  accidioso  e  lutulento  »  il  mattino 
del  i  settembre  1870:  Napoleone  III  montò  a  cavallo 
con  il  suo  Stato  Maggiore,  e  si  diresse  verso  il  campo 
di  battaglia,  verso  il  suo  destino,  che  doveva  compiersi 
tutto,  ineluttabilmente.  «  Di  mano  in  mano  che  essi  avanza- 
vano, il  rumore  dei  cannoni  e  delle  fucilate  si  faceva 
ognor  più  intenso  ;  e  ciò  contribuiva  a  far  nascere  nel- 
V  animo  del  sovrano  presentimenti  tristi  e  funebri.  Dopo 
un'  ora  il  sole  cominciò  a  dissipare  quella  nebbia,  ed  allora 
Napoleone  III  e  la  sua  scorta  poterono  rendersi  conto  di 
ciò  che  accadeva  a  Bézeilles.  La  battaglia,  quivi  impe- 
gnatasi, risaliva  lentamente  verso  il  Nord,  circondando 
Sédan  e  raggiungendo  Y  altipiano  della  Mocelle  come 
anche  il  Fond  de  Givonne  »  (1). 

Era  così  impegnata  la  battaglia,  che  doveva  far  crol- 
lare del  tutto  F  impero  già  vacillante.  L' imperatore,  benché 
sofferente,  fu  come  sempre  coraggioso  ed  impassibile  di- 
nanzi al  pericolo,  sprezzante  dinanzi  alla  morte.  La  Francia 
non  era  più  con  lui,  ed  egli  volle  mostrare  sino  all'  ultimo 
il  suo  prestigio  d' imperatore. 

«  Egli,  scrive  il  repubblicano  Emilio  Zola,  si  avanzò 
solo  in  mezzo  alle  palle  ed  agli  obici,  senza  fretta,  col 
suo  incedere  cupo  ed  indifferente,  come  s' incamminasse 
al  suo  destino.  Forse  egli  udiva  dietro  di  sé  la  voce,  che 
da  Parigi  gli  gridava  :  «  Cammina  !  cammina  !  Muori  da 

(1)  L.  Cappelletti.  Dal  2  decembre  a  Sédan.  Pag.  478. 


—  34  — 

eroe  sui  cadaveri  ammucchiati  del  tuo  popolo  :  colpisci 
il  mondo  intero  di  un'  ammirazione  commovente,  affinchè 
tuo  figlio  possa  regnare  »  ed  egli  procedette,  spingendo 
il  suo  cavallo  al  passo....  Tutto  ad  un  tratto  si  fermò, 
aspettando  la  morte,  che  era  venuto  a  cercare.  Le  palle 
soffiavano  intorno  a  lui  come  un  vento  furioso  ;  un  obice 
era  scoppiato  ai  piedi  della  sua  cavalcatura,  coprendolo 
tutto  quanto  di  terra.  Egli  continuò  ad  aspettare.  Irti  per 
lo  spavento  erano  i  crini  del  suo  cavallo,  tutte  le  sue 
membra  tremavano  in  una  repulsione  istintiva,  dinanzi 
alla  morte  che  passava,  ad  ogni  secondo,  senza  atterrare 
né  V  uomo  né  il  cavallo.  Allora,  dopo  aver  lungamente 
atteso,  1'  imperatore,  col  suo  fatalismo  rassegnato,  com- 
prendendo che  ivi  non  era  il  suo  destino,  tornò  indietro 
tranquillamente,  come  se  egli  si  fosse  colà  recato  per 
riconoscere  1'  esatta  posizione  delle  batterie  nemiche  »  (i). 

E  Pier  de  la  Gorce  scrive  «  Pendant  quatre  heures,  le 
monarque  avait  erre  sur  le  champ  de  bataille,  se  mon- 
trant  avec  un  simple  et  modeste  courage  aux  endroits 
le  plus  périlleux....  on  a  repété  que  le  prince  avait  cher- 
ché  la  mort  ;  qu'il  suffise  de  dire  qu'il  ne  fit  rien  pour 
l'éviter  »  (2). 

Così  aveva  cercato  la  morte  Carlo  Alberto  sugli  spaldi 
di  Novara,  ma  la  morte  aveva  voluto  risparmiarlo  all'  ul- 
tima amarezza  dell'  abdicazione  :  e  così  Napoleone  III  fu 


(1)  E.  Zola.  La  Debacle.  Voi.  II. 

(2)  P.  de  la  Gorce.  Op.  cit.  Voi.  VII.  Pag.  345. 


—  35  — 

risparmiato  dalle  palle   tedesche,   perchè   dovesse   offrire 
la  sua  spada  al  «  Signore,  suo  fratello  ». 

A  mezzogiorno  di  quel  dì  non  più  V  inno  di  Francia 
sorvola  vittorioso  fra  la  cannonata,  ma  le  ultime  fanfare 
si  spengono  sinistramente  lontano,  come  perdentisi  dietro 
ad  un  corteo  funebre  ;  non  più  «  le  diane  e  il  rullo 
pugnace,  »  ma  la  ritirata,  suonata  da  le  poche  trombe 
superstiti. 

Il  giorno  seguente,  alle  sei  del  mattino,  Napoleone  III 
si  rendeva  prigioniero.  Qualche  giorno  dopo,  mentre  egli 
prendeva  la  via  dell'  esilio,  i  tedeschi  si  avviavano  con 
V  oltracotanza  dei  vincitori  a  Parigi.  Come  i  francesi  ave- 
vano follemente  gridato  :  À  Berlin,  à  Berlin,  ora  i  prus- 
siani gridavano  baldanzosi:  Nach  Paris! 

E  F  imperatore  dovette  mendicare  1'  ultimo  omaggio  ad 
un  popolo  straniero.  A  Verviers,  nel  Belgio,  la  popola- 
zione era  mal  disposta  verso  di  lui  :  sotto  all'  albergo 
della  Strada  Ferrata,  all'  ora  fissata  per  la  partenza  del- 
l' imperatore,  si  radunò  una  gran  folla.  «  Grida,  oltraggi, 
apostrofi  ingiuriose  uscivano  da  quella  moltitudine  all'  in- 
dirizzo dell'  imperatore.  Il  Generale  Chazal  ordinò  al  capo 
stazione  di  tener  pronta  un'  entrata  nascosta,  per  la  quale 
l' imperatore  potesse  rifugiarsi  liberamente  nella  sua  vet- 
tura. Quindi  risolvette  di  parlare  a  quei  forsennati,  in 
attesa  che  i  suoi  ordini  venissero  eseguiti.  Accompagnato 
dal  capitano  Sterckx,  il  vecchio  generale  apparve  sulla  so- 
glia dell'albergo,  e,  guardando  in  faccia  la  moltitudine,  fece 
segno  di  voler  parlare.  Tutti  immediatamente  tacquero, 
e  il   generale,   profittando   di   questo   silenzio,  pronunziò 


-  36  - 

ad  alta  voce  queste  parole  :  «  Signori,  Sua  Maestà  F  im- 
peratore dei  francesi  sta  per  comparire  innanzi  a  voi.  Egli 
si  reca  in  Germania  come  prigioniero  di  guerra.  Ma  in 
questo  momento  é  ospite  nostro  :  io  vi  domando  adunque, 
in  nome  della  ospitalità  belga,  in  nome  della  vostra  città 
ospitale,  di  accoglierlo  con  quel  rispetto  e  con  quella  com- 
mozione, che  inspirano  il  suo  alto  infortunio.  Io  ben  vi 
conosco,  o  signori,  e  son  più  che  certo  che  voi  non  verrete 
meno  a  quei  doveri,  che  s' impongono  in  circostanze  tanto 
penose.  »  Appena  pronunziato  queste  parole,  un  gran  mo- 
vimento si  fece  nella  folla,  e  quegli  stessi,  che  poco  prima 
insultavano  alla  sventura,  proruppero  in  applausi,  in  ac- 
clamazioni, gridando:  «  Viva  il  generale  Chazal!  »  Allora 
si  fece  avanti  F  imperatore  e,  appoggiandosi  sul  braccio 
del  vecchio  soldato,  discese  con  lui  lo  scalino  dell'albergo, 
seguito  dal  generale  prussiano  de  Boyen  e  dal  capitano 
Sterckx. 

La  folla,  fattasi  in  un  momento  calma  e  rispettosa, 
altamente  impressionata,  si  scoprì,  e  in  mezzo  ad  un  pro- 
fondo silenzio  vide  passare  quel  sovrano,  che  oggi  vinto, 
procedeva  ieri  circondato  dai  raggi  della  potenza  e  della 
gloria  »  (i). 

Così  come  pochi  giorni  prima  F  imperatore  si  era  tra- 
scinato umiliato,  stanco  e  senza  comando  dietro  il  suo 
esercito  disfatto,  si  avviava  adesso  verso  Wilhelmshòhe 
e  Chiselhurst,  accompagnato  dalla  scorta  del  prussiano 
vincitore.    Ora    egli   dorme    F  ultimo   sonno,   proprio   in 

(i)  L.  Cappelletti.  Dal  2  decembre  a  Sedano. .  Pag.  501. 


—  37  — 

quella  terra,  che  fu  tanto  fatale  alla  sua  dinastia,  e  1'  im- 
peratrice Eugenia,  quella  che  fu  la  bella,  la  radiosa,  1'  or- 
gogliosa Eugenia  di  Montijo,  trascina  la  sua  cadente 
persona  per  le  città  d'  Europa.  Una  volta,  richiesta  di  ac- 
cordare un'  udienza  ad  un  alto  personaggio  straniero,  ella 
rispose  amaramente  :  «  Oui,  je  sais,  on  vient  me  voir 
comme  un  cinquième  acte  ». 

Ma  la  fine  della  gran  tragedia  doveva  compiersi  in 
un  estremo  lembo  della  «  fascinosa  Africa  impura  »  ;  una 
zagaglia  barbara  doveva  chiudere  1'  opera  del  Fato,  cui 
Napoleone  III  credeva,  anche  quando  egli  era  chiamato 
«  Y  oracolo  delle  Tuileries  »  :  «  Il  croyait  d'  une  invin- 
cible  foi  à  V  étoile  Napoléonienne,  à  sa  propre  étoile  ;  il 
était  fataliste  »  (i). 

Tuttavia,  quando,  nel  massimo  lustro  dell'  impero,  nac- 
que il  Principe  Imperiale,  quando,  tra  l' entusiasmo  di  tutta 
Parigi,  si  festeggiò  alle  Tuileries  il  primo  battesimo  (on- 
doiement)  del  Figlio  di  Francia,  quando  nella  cattedrale 
di  Nótre  Dame,  per  il  battesimo  ufficiale,  si  rinnovarono 
in  lusso  e  magnificenza  i  fasti  dell'  incoronazione  del  Primo 
Napoleone,  egli  non  potè  mai  pensare  che  l' impero  sa- 
rebbe rovinato  nel  fango  di  Sédan,  che  il  Principe  Im- 
periale sarebbe  andato  a  farsi  uccidere  dagli  Zulù,  che 
nelle  stesse  sale  delle  Tuileries  il  18  gennaio  1871  si 
sarebbe  incoronato  imperatore  di  Germania  Guglielmo  I, 
e  che  poco  dopo  si  sarebbe  abbattuta  su  di  esse  la  furia 
distruttrice  della  Comune  ! 

(1)  H.  Thirria.  Op.  cit.  Pag.  V.  —  VI. 


-  38  - 

Il  Principe  Imperiale  Napoleone  Luigi  Eugenio  nacque 
il  16  di  Marzo  del  1856,  Domenica  delle  Palme.  Teofilo 
Gauthier  consacrò  al  neonato  principe  questi  versi  : 

Qu'  un  bonheur  fidèle  accompagne 
L'enfant  Imperiai,  qui  dort, 
Blanc  comme  les  jasmins  d'Espagne, 
Blond  comme  les  abeilles  d'  or  ! 

e  il  Barthélemy  cantò  : 

Que  nous  annonce  —  t  —  il  ce  canon  trionphant  ? 
Quel  faveur  du  sort  nous  visite? Un  enfant! 

C'est  celui,  que  la  France  appellait  à  genoux  ; 
Un  nls  de  1'  Empereur,  un  Empereur  pour  nous. 

Cresciuto  tra  gli  splendori  della  Corte  Imperiale,  gio- 
vinetto ancora  dovette  seguire  il  Fato  dei  suoi.  Con  suo 
padre  egli  si  recò  sul  teatro  della  guerra  Franco-Prus- 
siana :  la  stampa  avversa  all'  impero  lo  pose  in  ridicolo  : 
«  a  Sarrebruck,  scrissero,  egli  raccoglieva  le  palle  morte 
dei  prussiani  »\ 

Separato  violentemente  da  suo  padre  dal  disastro  di 
Sédan  e  dalla  prigionia,  lo  riabbracciò  in  terra  di  esilio. 
Studente  nelT  Accademia  Reale  di  Woodwich,  ne  fu  ri- 
chiamato all'  improvviso,  per  assistere  agli  ultimi  istanti 
di  suo  padre:  giunse  in  tempo  solamente  per  baciarne 
il  cadavere. 

Divenuto  maggiorenne  nel  1874,  mosse  a  lui  un  pel- 
legrinaggio ossequente  di  ottomila  francesi,  che  forse 
nella  sua  giovane  anima  Napoleonica  fece  rigermogliare 


—  39  — 

la  speranza  dell'  Impero.  Ricevuto  famigliarmente  alla 
Corte  della  Regina  Vittoria,  divenne  1'  amico  migliore 
del  Principe  di  Galles,  e  s'  invaghì  della  principessa  Bea- 
trice, che  sarebbe  stata  certamente  sua  sposa. 

Viaggiò  lungo  tempo  in  Europa,  accolto  con  grande 
simpatia  da  tutti  i  regnanti  :  forse  fu  appunto  questo, 
che  lo  indusse  a  guadagnarsi  un  qualsiasi  lauro  di  gloria 
militare.  Da  prima  pensò  di  recarsi  nei  Balcani,  che  in 
quel  tempo,  come  sempre,  erano  in  convulsioni  guerre- 
sche, ma  ne  fu  dissuaso  per  ragioni  politiche  ;  allora  ri- 
solse di  andare  a  combattere  nel  Zululand,  sotto  la  Ban- 
diera Inglese.  Fu  un  sogno  folle  di  gloria,  che  doveva 
costargli  la  vita. 

Alla  sua  partenza  tutti,  e  sua  madre  per  prima,  ebbero 
tristi  presagi  :  il  principe  stesso,  la  vigilia  della  sua  par- 
tenza, fece  testamento.  Il  27  febbraio  1879  s' imbarcò  per 
il  Natal  sul  «  Danubio  »,  che  issò  la  bandiera  Francese  ; 
sbarcò  ai  primi  di  aprile  al  Capo,  e  fu  subito  addetto  allo 
Stato  Maggiore  di  Lord  Chelmsford.  Assalito  da  febbre 
violenta,  dopo  qualche  giorno  si  ristabilì  e  prese  parte 
ad  una  prima  scaramuccia,  sotto  gli  ordini  del  colonnello 
Bulter.  La  sera  del  3 1  maggio  ricevette  V  ordine  dal  co- 
lonnello Harrison  di  effettuare  per  l' indomani  una  per- 
lustrazione in  avanti  :  la  mattina  dopo  infatti  egli  lasciò 
V  attendamento  del  generale  Wood  con  un  tenente,  un 
sergente,  un  caporale,  quattro  soldati  ed  un  negro,  pra- 
tico del  luogo. 

Si  avanzarono  con  circospezione  lungo  la  riva  del 
fiume  Blood-River  (fiume  di  sangue),  e  dopo  una   lunga 


—  4Q  — 

marcia  si  fermarono  in  un  campo  di  frumento,  a  trecento 
metri  circa  dal  villaggio  di  Donga,  per  far  pascere  i  ca- 
valli. Alle  quattro  del  pomeriggio  vennero  sorpresi  da 
una  turba  di  Zulù.  Il  tenente  Carey  vilmente  saltò  a 
cavallo  e  prese  la  fuga,  seguito  da  alcuni  soldati  :  il  prin- 
cipe, vistosi  perduto,  fece  anch'  egli  per  saltare  a  cavallo, 
aggrappandosi  alla  sella,  ma,  spezzatasi  la  cinghia,  cadde 
rovescio.  Gli  Zulù  si  avventarono  su  di  lui,  urlando  sel- 
vaggiamente, con  le  lance  e  le  zagaglie.  Egli  si  alzò  e 
scaricò  tutti  i  colpi  del  suo  revolver,  poi  impugnò  la  spada 
e  si  difese  eroicamente.  Estenuato,  grondante  sangue  dalle 
molteplici  ferite,  una  delle  quali  aveva  trapassato  V  occhio 
destro,  cadde  per  non  rialzarsi  mai  più  !  (i). 

La  sua  misera  salma  fu  raccolta  poco  dopo  da  una 
pattuglia  inglese,  e  trasportata  in  Europa  a  bordo  del- 
l' «  Oriente  »  :  grande   fu  il   compianto  di  tutta   Europa. 

La  morte  del  principe  Eugenio  valse  a  spegnere  anche 
gli  ultimi  bagliori,  che  ancora  restavano  dell'  impero, 
perchè  agli  occhi  del  popolo  francese  qualunque  altro 
pretendente  Napoleonico  sembrava  un  pallido  rappresen- 
tante dell'  idea  imperiale,  quand'  era  scomparso  il  figlio 
di  Napoleone  III,  eh'  esso  aveva  visto  bambino  per  Pa- 
rigi, nei  giorni  del  suo  maggior  splendore. 

«  Chiunque  ripensi  alla  grandezza   di    Napoleone  III 


(i)  Varie  ed  incerte  sono  le  versioni  sulla  fine  del  povero  principe  im- 
periale. V.  sull'argomento  il  bel  libro  di  Martinet  André  -  Le  prince 
Imperiai  -  Paris,   1895. 


—  41   — 

da!7i854  al  1866,  all' Europa  che  pendeva  dal  suo  labbro, 
che  ne  spiava  e  scrutava  con  timorosa  curiosità  i  gesti 
ed  i  pensieri,  cercando  di  leggere  la  sua  sorte,  non  può 
vedere  senza  compianto,  come  la  mano  della  fortuna  si 
sia  aggravata  sulla  sua  casa.  La  potenza  è  perduta,  la 
gloria  svanita,  e  la  scena  del  secondo  gran  dramma  napo- 
leonico termina  con  un  cadavere  all'  estremità  dell'  Africa, 
come  il  primo  si  era  chiuso  con  una  tomba  a  S.  Elena  »  (1). 

All'  annunzio  de  la  morte  di  Napoleone  Eugenio,  Gio- 
suè Carducci  scrisse  un'  ode,  al  cui  altissimo  volo,  dice  il 
Mazzoni,  sembra  che  la  stessa  aquila  napoleonica  abbia 
prestato  le  penne  immortali. 

Il  poeta  incomincia,  paragonando  la  fine  miseranda 
del  figlio  di  Napoleone  III,  a  quella  del  figlio  di  Napo- 
leone I,  dell'infelice  Aiglon,  che  era  stato  proclamato  Re 
di  Roma,  anche  lui  fra  la  trepida  riverenza  dell'Europa 
e  gl'inni  de'  poeti: 

Questo  la  incoscia  zagaglia  barbara 
Prostrò,  spegnendo  li  occhi  di  fulgida 
Vita  sorrisi  da  i  fantasmi 
Fluttuanti  ne  l'azzurro  immenso. 

L'altro,  di  baci  sazio  in  austriache 
Piume  e  sognante  su  l'albe  gelide 
Le  diane  e  il  rullo  pugnace, 
Piegò  come  pallido  giacinto. 

Odi  Barbare  -  In  morte  di  Nap.  Eugenio 

Il  Re  di  Roma,  non  so  se  più  o  meno   fortunato  di 

;(i)  V.  Nttova  Antologia  del  luglio   1879. 


—  42  — 

Napoleone  Eugenio,  mori  alla  corte  di  Vienna,  presso 
l'imperiai  suo  nonno,  affidato  alle  cure  del  principe  di 
Metternich,  che  gli  camuffò  perfino  il  bel  titolo,  datogli 
dall'  orgoglio  del  suo  gran  padre,  in  quello  austriacamente 
odioso  di  duca  di  Reichstadt. 

Però  sulla  condotta  seguita  dal  Metternich  verso  il 
figlio  di  Napoleone  molte  esagerazioni  si  son  dette;  al- 
cune anzi  furono  raccolte  anche  nell'Aiglon  di  Rostand, 
bellissimo  lavoro  artistico,  ma  storicamente  inesatto,  e  forse 
anche  il  Carducci  vi  cadde  in  quest'  ode,  con  le  parole 
«  di  baci  sazio  in  austriache  piume  ».  Si  disse  che  il  prin- 
cipe di  Metternich  avesse  voluto  avvelenare  moralmente 
e  fisicamente  il  principe,  facendolo  tuffare  in  ogni  sorta 
di  facili  amori,  ed  avesse  perfino  ingiunto  ai  suoi  pre- 
cettori di  istupidirlo. 

Ora  tutto  ciò  dai  migliori  storici  napoleonici  è  stato 
dimostrato  essere  non  altro  che  una  leggenda,  e  special- 
mente dal  tedesco  Edoardo  Wertheimer,  che  scrisse  una 
splendida  monografia  sul  re  di  Roma,  dimostrando,  per 
esempio,  che  la  Fanny  Essler,  la  pretesa  complice  di  Met- 
ternich, non  ebbe  alcun  rapporto  col  duca,  come  vorrebbe 
il  Rostand,  e  rilevando  dai  diari  dell'  Obenaus,  maestro 
di  storia  al  giovane,  che  anche  questo  personaggio  fu  in- 
giustamente calunniato  dal  poeta  francese  (i). 

Scrive  Alessandro  Luzio  :  «  la  sola  violenza  contro  na- 
tura, commessa  a  danno  del  duca  di  Reichstadt,  sta  tutta 

(i)  E.  Wertheimer.  Die  Herzog  von  Reichstadt,  ein  Lebensbild  nach 
neuen   Quellen.  Stuttgart,   1902. 


—  43  — 

qui,  neh"  aver  cercato  di  soffocare  in  quel  giovane  pieno 
d'avvenire  tutto  quanto  di  originale  gli  derivava  dagli 
istinti  irreducibili  del  suo  carattere  di  Francese  e  di  Na- 
poleonide.  Gli  si  tolsero  le  bonnes  parigine  a  cinque  anni: 
lo  si  obbligò  a  parlar  tedesco,  per  quanto  strepitasse  che 
•voleva  esser  francese  («  ich  will  kein  Deutcher  sein,  ich 
Will  Franzose  sein  »)*,  si  ricorse  perfino,  per  ordine  del 
nonno,  alla  sferza!....  Dall'animo  di  lui  si  volle  sradi- 
care ogni  aspirazione  al  trono  di  Francia  e  il  ricordo  del 
padre  ;  sostituirvi  la  convinzione,  suo  unico  dovere  fosse 
quello  di  obbedire  al  nonno  a  accrescerne  un  giorno  con 
la  spada  gli  allori,  servendo  la  monarchia  austriaca.  I  sol- 
dati della  I.  R.  truppe  ebbero  l"  ordine  di  agevolare  que- 
sta metamorfosi  del  Re  di  Roma,  creandogli  una  popo- 
larità anticipata,  e  si  permetteva  l'infrazione  regolamen- 
tare, che  durante  le  manovre,  al  solo  apparire  del  Duca 
di  Reichstadt,  quelle  milizie,  avvezze  alla  più  ferrea  e  si- 
lenziosa disciplina,  prorompessero  in  urrà  al  futuro  capi- 
tano, da  cui  speravano  risarcimento  per  le  batoste,  loro 
inflitte  dal  padre  (i). 

Ad  ogni  modo  stranissima  e  dolorosa  coincidenza  sto- 
rica questa  della  morte  di  due  principi  della  stessa  dina- 
stia, che  sembrava  fossero  nati  imperatori.  Ambedue  eb- 
bero per  condanna  di  essistere  alla  rovina  di  quello  che 
doveva  essere  il  loro  trono,  e  morirono  entrambi  in  terra 
straniera,  lontano  dalla  madre. 


(i)  A.  Luzio.  Profili  biografici  e  bozzetti  storici.  Il  Re  di  Roma. 


—  44  — 

Ambo  a  le  madri  lungi;  e  le  morbide 
Chiome  fiorenti  di  puerizia 
Pareano  aspettare  anche  il  solco 
De  la  materna  carezza 

Ma  quale  diversità  tra  le  madri  !  Eugenia  di  Montijo 
si  aggravò  di  molte  colpe  dinanzi  alla  storia,  ma  mostrò 
un  animo  forte  e  rassegnato  nella  sventura,  ed  ebbe  per 
V  unico  suo  figlio  una  vera  adorazione  :  quando  egli  morì, 
rimase  annientata. 

Maria  Luisa  invece,  la  madre  dell' Aiglon,  la  duchessa 
di  Parma,  che  non  sdegnò  di  cambiare  gli  amplessi  di 
Napoleone  con  quelli  del  generale  Neipperg,  Maria  Luisa, 

d'Asburgo  frutto, 

Bambola  augusta,  cortigiana  pia, 
Scordava  in  braccio  a  maggiordomi  irrisi, 
D'  Italia  il  vanto  e  de  la  storia  il  lutto 
E  del  Fatale  la  lenta  agonia, 
E  il  Re  di  Roma  sacro  alla  tisi  (i). 

Ella  non  si  curò  mai  soverchiamente  del  figlio  affi- 
dato ai  suoi  imperiali  parenti  di  Vienna  :  soltanto,  quando 
fu  chiamata  al  suo  letto  di  morte,  accorse  in  tempo  per 
vederlo  spirare. 

Quindi  all'  infelice  Re  di  Roma  non  mancò  del  tutto 
1'  ultimo  solco  de  la  materna  carezza  ;  anzi  si  vuole  che 
le  sue  ultime  parole  siano  state  :  «  Ich  gehe  unter!  Mutter  ! 
Mutter  !  (Mamma,  mamma,  io  muoio  !) 


(i)  A.  Colautti.  Maria  Luisa.  Nei   «  Canti  Virili  ». 


—  45  — 

Più  infelice  di  lui  il  principe  imperiale  balzò  nel  buio; 
veramente  «  giovinetta  anima  senza  conforto  »,  e  gli  fu 
negato  anche  Y  ultimo  omaggio  della  terra,  dove  egli  era 
nato  :  il  governo  della  Repubblica  Francese  infatti  ricusò 
il  permesso  di  assistere  alle  sue  esequie  ai  generali 
Fleury,  Canrobert,  Leboeuf  e  perfino  a  Mac  Mahon,  che 
erano  stati  i  più  fedeli  al  padre  suo  : 

né  de  la  patria 

U  eloquio  seguivali  al  passo 

Co'  suon  de  1'  amore  e  de  la  gloria  ! 

Eppure  i  fati  del  Re  di  Roma  erano  stati  deprecati 
dal  capo  del  piccolo  principe  del  secondo  Impero  !  Eppure 
egli  era  nato  quando  sembrava  che  da  1'  alto  della  colonna 
Vendòme  un  fulgido  astro  preludesse  ad  un'  era  di  splen- 
dore e  di  gloria  per  la  Francia  e  per  il  suo  imperatore  I 

Vittoria  e  pace  da  Sebastopoli 
Sopian  col  rombo  de  1'  ali  candide 
Il  piccolo  :  Europa  ammirava  : 
La  colonna  splendea  come  un  faro. 

Ma  il  Fato,  memore  delle  colpe  napoleoniche  e  dei' 
delitti  del  1 8  brumaio  e  del  2  dicembre,  stese  anch'  egli 
le  sue  ali  nefaste  su  la  culla  de  V  infante,  e  non  perdonò  t 

Ma  di  decembre,  ma  di  Brumaio 
Cruento  è  il  fango,  la  nebbia  è  perfida  : 
Non  crescono  arbusti  a  quell'  aure, 
O  dan  frutti  di  cenere  e  tòsco 

E  frutti  di  Asfaltide  furono  il  Re  di  Roma  e  il  Figlio 


-  46  - 

da  Francia,  per  la  fatale  legge  storica,  che  il  Carducci  am- 
metteva. 

Il  poeta  poi,  con  superbo  movimento  lirico,  passa  ad 
evocare  le  origini  della  famiglia  Bonaparte  e  la  solitaria 
casa  d'  Aiaccio, 

Cui  verdi  e  grandi  le  querce  ombreggiano 

E  i  poggi  coronan  sereni 

E  davanti  le  risuona  il  mare  !  (i) 
Ivi  Letizia,  bel  nome  Italico, 

Che  ornai  sventura  suona  ne  i  secoli, 

Fu  sposa,  fu  madre  felice, 

Ahi  troppo  breve  stagione  !  ed  ivi, 
Lanciata  ai  troni  1'  ultima  folgore, 

Date  concordi  leggi  tra  i  popoli, 

Dovevi,  o  consol,  ritrarti 

Fra  il  mare  e  Dio,  cui  tu  credevi. 

Su  quest'  ultimo  verso  principalmente  si  accanirono 
i  critici  del  poeta,  i  quali  mal  compresero  o  vollero  ve- 
derci quello  che  non  e'  era,  e  il  poeta  spiegò  :  «  Ho  in- 
teso con  quei  versi  di  rilevare  come  sfondo  al  gruppo 
dei  Bonaparte  abbattuti,  il  grande  ignoto  Dio,  in  cui  il 
Corso  credeva,  mentre  tutta,  si  può  dire,  la  Fancia  e  gran 
parte  dell'  Europa  comme  il  faut,  lo  abbandonava  al  con- 
sumo della  gente  bassa,  e  lo  serbava  per  le  decorazioni 

(i)  Si  noti  il  costrutto  di  questa  strofa,  che  potrebbe  sembrare  perfino 
strano  ed  asintattico  :  invece  è  efficacissimo  quel  brusco  :  «  e  davanti  le  risuona 
il  mare  » .  Così  altrove,  nell'  Idìllio  Maremmano  : 

onde  bruno  si  mira  il  piano  arato 

E  verdi  quindi  i  colli  e  quindi  il  mare 

Sparso  di  vele  e  il  camposanto  è  a  lato  ! 


—  47  — 

teatrali,  in  certi  casi,  mentre  la  scienza,  per  bocca  del 
Laplace  e  proprio  in  faccia  al  Primo  Console  lo  rigettava, 
come  un'  ipotesi,  di  cui  non  aveva  bisogno  ».  E  poiché 
osarono  di  dirgli  che  quel  verso  era  anche  «  una  repen- 
tina caduta  »,  egli  replicò  tra  il  serio  e  Y  ironico  :  «  il 
cui  tu  credevi  V  ho  messo  apposta  per  sciupare  il  verso, 
per  fare  una  caduta.  Tutti  i  gusti  son  gusti.  Io  amo  di 
sciupare  i  versi  così  e  di  far  le  cadute  repentine,  massime 
quando  ho  dinanzi  un  concetto  di  sublimità  oggettiva  ; 
ho  imparato  da  Eschilo,  da  Pindaro,  da  Orazio  »  (i). 

Le  tre  strofe,  in  cui  il  Carducci  trae  dall'  ombra  la 
dolente  madre  di  Napoleone,  son  senza  dubbio  le  più  belle 
dell'  ode,  e  la  infelice  Letizia  Ramolino  meritava  questo 
postumo  omaggio  di  un  grande  poeta  : 

non  lei  di  Cesare 

Il  raggio  precinse  ;  la  corsa 
Madre  visse  fra  le  tombe  e  1'  are. 

Infatti  ella  non  seguì  il  figlio  nel  suo  vertiginoso  cam- 
mino :  rimase,  umile  e  trepida  madre,  sotto  la  cappa  del 
vecchio  focolare,  mentre 

su  '1  dubbio  ponte  tra  i  folgori 

Passava  il  pallido  còrso,  recandosi 

Di  due  secoli  il  fato 

Ne  l'esile  man  giovine  (2). 

Ritiratasi  dopo  il  1 8 1 4  a  Roma,  vi  condusse  vita  au- 

(1)  G.  Carducci.  Moderatucoli. 

(2)  G.  Carducci.  Su  l'Adda  «  Odi  Barbare  ». 


-  48  - 

stera,  solitaria  nel  suo  immenso  dolore.  Invano  ella  aveva 
atteso  che  «  il  duce  del  concitato  impero  »  cui  «  neri  gli 
occhi  scintillando  immoti,  fòran  dal  fondo  del  pensier  le 
cose  »  (i)  tornasse  a  lei,  alla  piccola  casa  paterna,  come 
Washington  era  tornato  alla  sua  «  casa  bianca  ». 

Ora  la  cara  e  dolce  imagine  materna  pare  ancora  aggi- 
rarsi ne  la  solitaria  casa  di  Aiaccio  :  laggiù  ai  visitatori 
ancora  si  mostra  quella  che  fu  la  sua  camera.  «  È  sem- 
plicissima, un  letto,  un  grande  specchio,  poggiante  su  di 
un  camino  di  marmo,  lavoro  italiano  del  settecento,  un 
busto  del  povero  principe  Imperiale,  alle  pareti  ritratti  di 
Letizia  e  di  Luigi  Bonaparte,  Re  d'Olanda,  un  presepio 
assai  grazioso,  portato  in  dono  da  Napoleone  alla  madre, 
al  suo  ritorno  da  V  Egitto.  Dalle  finestre  si  vede  cam- 
peggiare ne  1'  azzurro  del  cielo  un  ulivo,  piantato  innanzi 
alla  casa  nel  1856,  a  ricordo  della  nascita  di  Luigi  Napo- 
leone »  (2). 

La  casa  è  vuota  e  deserta,  le  tombe  disperse  lontane  : 

Il  suo  fatale  da  gli  occhi  d'  aquila, 

Le  figlie  come  1'  aurora  splendide, 

Frementi  speranza  i  nepoti, 

Tutti  giacquer,  tutti  a  lei  lontano. 
Sta  ne  la  notte  la  còrsa  Niobe, 

Sta  su  la  porta  donde  al  battesimo 

Le  us ciano  i  figli,  e  le  braccia 

Fiera  tende  su  '1  selvaggio  mare  : 

(i)  G.  Carducci.  Bicocca  di  S.    Giacomo. 

(2)  Da  un  articolo  di  O.  F.  Tencajolt,  nel  Secolo  XX  del  decem- 
bre  1 908 .   «  La  solitaria  casa  d'  Aiaccio  » . 


Questo  la  inconscia  zagaglia  barbara 
Prostrò...   » 


—  49  — 

E  chiama,  chiama,  se  da  1'  Americhe 
Se  di  Britannia,  se  da  V  arsa  Africa 
Alcun  di  sua  tragica  prole 
Spinto  da  morte  le  approdi  in  seno. 

E  così  si  chiude  la  bellissima  alcaica,  con  il  ricordo 
funebre  di  Girolamo  Bonaparte  Paterson,  figlio  di  Giro- 
lamo, re  di  Westfalia,  morto  nel  1870  a  Baltimora,  di 
Napoleone  III  morto  nella  Britannica  Chiselhurst,  di  Na- 
poleone Eugenio,  barbaramente  trucidato  nell'  Africa  tene- 
brosa, evocati  da  Letizia  Bonaparte,  che,  simile  alla  Niobe 
antica,  chiama  a  gran  voce  i  figli  di  sua  gente,  in  faccia 
all'  eterna  impassibilità  del  mare  ! 


Alcuni  moderni  cultori  di  biologia,  per  spiegare  i  feno- 
meni dell'  ereditarietà  fisiologica  e  psichica,  hanno  fatto 
profonde  indagini  nella  storia  di  tutti  i  tempi  e  di  tutti  i 
paesi,  trovando  largo  campo  a  ricerche  nello  studio  delle 
case  regnanti. 

E  son  riusciti  a  formulare  una  legge,  per  cui  tutte 
le  dinastie,  quando  fausti  incroci  non  funzionino  da  ele- 
menti rigeneratori,  sono  condannate  o  ad  una  fatale  estin- 
zione o  ad  un  processo,  più  o  meno  rapido,  di  degene- 
razione. Una  bella  e  compiuta  sintesi  di  questi  studi  fu 
fatta  dal  valoroso  professore  Antonio  Renda  nel  suo  libro: 
«  Il  destino  delle  dinastie  o  L' eredità  morbosa  nella 
storia  ».  E   nel    primo   capitolo   di   questo   volume,   che 


—  5o  — 

tratta  in  generale  dei  fenomeni  ereditari  e  de  le  forme 
degenerative,  e'  è  una  pagina,  che  pare  inspirata  in  par- 
ticolar  modo  dalle  vicende  drammatiche  della  famiglia 
d'  Asburgo  :  «  sono  amori  peccaminosi,  che  hanno  il  pro- 
fumo dell'  idillio  e  cercano  lungi  dalle  aule  fredde  delle 
Corti  la  pace  serena  di  un  affetto  indisturbato,  impeti 
vittoriosi  di  passione,  che  lanciano  una  principessa  dal 
seggio  aureo  sulle  tavole  di  un  palcoscenico  o  infrangono 
con  la  drammaticità  d'  una  leggenda  una  vita  e  uniscono 
neir  eterno  bacio  de  la  morte  amanti  sventurati  :  sono 
bisogni  morbosi,  che  con  la  tinta  impudica  delle  turpi- 
tudini degli  Eliogabali,  ricercano  fuori  le  auguste  pareti 
i  suburbi  e  i  misteri  e  i  ritrovi  notturni  delle  grandi 
città  ;  sono  malinconie  e  rimpianti  profondi,  che  hanno 
bisogno  della  solitudine  della  tolda  d'  una  nave  errante 
per  anni  lunghi,  pensosi,  tristi,  di  lido  in  lido,  tra  le 
suggestioni  del  mare  infinito  e  del  cielo  infinito  ;  sono  ri- 
nunzie, abbandoni,  sparizioni  romanzesche  e  silenzi  foschi, 
che  avvolgono  alcune  regge  come  di  un*  aura  di  fatalità 
tragica. 

Di  quando  in  quando  il  grido  di  un'  anima  dolo- 
rante, un  atto  disperato,  le  angoscie  di  un  folle,  le  stra- 
nezze   di    un   principe,  la    lenta  estinzione   di    un  etico, 

V  empietà  d'  un  padre,  le  follie  d'un  marito Il  pensiero 

dello  studioso,  che  segue  in  epoche  diverse,  tra  circostanze 
varie,  sotto  le  forme  più  disparate  di  potere,  le  vicende 
delle  famiglie  reali,  ha  viva  Y  impressione  della  comunità 
tragica  del  loro  destino,  e  V  animo  prova  la  commozione 


—  5i  — 

medesima,  che  desta  ancora  in  noi  la  cieca  azione  del 
Fato,  cantata  dai  poeti  greci  »  (i). 

Ora  tutte  le  varie  forme  di  dissolvimento  patogeno, 
fisico,  fisiologico  e  psicologico,  enumerate  dal  Renda,  si 
riscontrano  nella  dinastia  Asburghese,  e  davanti  all'  ine- 
sorabile destino  biologico,  che  ha  colpito  questa  Casa, 
ritorna  imperioso  il  ricordo  del  Fato  Greco.  Maurizio 
Barrès,  parlando  di  Elisabetta  d'  Austria,  scrive  :  «  Dans 
sa  maison  le  Meurtre,  le  Suicide,  la  Démence,  et  le  Crime 
semblent  errer,  comme  les  Furies  d'  Hellas  sous  les  por- 
tiques  du  palais  de  Mycènes  »  (2).  Ed  Arturo  Colautti, 
parlando  dei  drammi  ed  infortuni  della  disgraziata  fami- 
glia, dice  che  essi  «  nelle  leggende  avvenire,  accomu- 
neranno Vienna  a  Tebe,  a  Micene,  a  Pella,  città  del  pianto, 
sacre  ad  Atropo,  ultima  dea  !  »  (3). 

Infatti  quale  quadro  pauroso  di  sangue,  di  lacrime  e 
di  follia  nel  giro  di  pochi  anni  !...  L'  arciduchessa  Sofia, 
figlia  primogenita  dell'  imperatore  Francesco  Giuseppe, 
muore  a  quaranta  mesi  nel  1858  d'infezione  difterica  (e 
questa  fu  forse  la  prima  causa  del  distacco  di  anime,  ac- 
centuatosi poi  sempre  più  tra  l' imperatore  e  l' imperatrice)  ; 
nel  1864  l'arciduchessa  Margherita  (destinata  forse  in 
isposa  al  Principe  ereditario  d'Italia,  che  fu  poi  Re  Um- 
berto), acconciandosi  innanzi  allo  specchio  per  un  ballo 
di  corte,  perisce  miseramente  fra  le  fiamme,  appiccatesi  ai 

(1)  Antonio  Renda.  //  destino  delle  dinastie.  Ed.  Bocca,  Pag.  24. 

(2)  Maurice  Barrés.  Amori  et  dolori  sacrum.  Pag.   164. 

{3)  A.  Colautti.  Franz  Joseph,  Nella   «Lettura».  Dicembre  1907. 


—  52  — 

suoi  veli;  nel  1867  Massimiliano  d'Austria,  tratto  alle  lu- 
singhe di  un  impero,  cade  a  Querétaro  sotto  i  colpi  della 
reazione,  e  sua  moglie  Carlotta  impazzisce.  Non  tardano 
a  seguirla  nei  regni  bui  della  follia  i  reali  cugini  Ludo- 
vico II  e  Ottone  III  di  Baviera  (1886). 

Nell'anno  1889  poi  V  Ananke  misteriosa  addensa  la 
più  fiera  tempesta  sul  capo  dell'  Augusta  coppia  impe- 
riale. La  mattina  del  3 1  gennaio  l' arciduca  Rodolfo,  1'  Unser 
Rudi  del  popolino  viennese,  1'  erede  idolatrato  del  trono, 
in  un  padiglione  di  caccia  di  Mayerling,  alle  porte  della 
metropoli,  è  trovato  immerso  nel  suo  sangue,  vittima  o 
suicida,  per  amore  o  per  vendetta,  in  un'  orgia  o  in  un 
agguato,  presso  la  sua  bellissima  amante,  la  baronessina 
Maria  Weczera. 

Nel  1897  Sofia,  duchessa  d' Alencon  e  sorella  dell'impe- 
ratrice, perisce  a  Parigi  nell'  incendio  del  Bazar  della  Cha- 
rité,  e  nel  settembre  1898  infine  la  stessa  imperatrice  Eli- 
sabetta cade  sotto  l' infame  colpo  di  una  belva,  che  pur 
aveva  un  nome  umano.  Né  basta  :  il  cugino  preferito  del- 
l' imperatrice,  Luigi  di  Baviera,  il  re  del  sogno,  annega 
nel  lago  di  Starnberg,  1'  arciduca  Guglielmo  è  ucciso  dal 
suo  cavallo,  1'  arciduca  Lazio  perisce  in  un  accidente  di 
caccia,  il  cognato,  conte  Luigi  di  Trani,  si  suicida  a  Zurigo, 
1'  arciduca  Giovanni  Nepomuceno,  fratello  dell'  imperatore 
scompare  tra  le  braccia  dell'  amante  Melly  Shebel  a  bordo 
della  «  Santa  Margherita  »,  che,  qual  nuovo  vascello  fan- 
tasma, si  invola  tra  i  gorghi  Magellanici  (1).  Degli  altri 

(1)  È  ancora  viva  l'eco  delle  recenti  notizie  più  o  meno  fantastiche  su 
Giovanni  Orth,  che  sarebbe  ancora  vivo  in  altro  continente. 


—  53  — 

fratelli  dell'  imperatore,  Carlo  Luigi  muore  di  mal  sottile, 
seguito  l'anno  appresso  dal  figlio  Ottone  Francesco,  con- 
sunto da  lue  segreta  (1897),  e  l'arciduca  Luigi  Vittorio 
vive  relegato  e  custodito  per  degenerazione  psicopatica  nel 
castello  Salisburghese  di  Klessheim. 

Quindi  ben  può  ripetersi  della  famiglia  d' Asburgo 
quello  che  Voltaire  disse  della  famiglia  degli  Atridi  :  «  J'  ai 
toujours  regardé  la  famille  d' Atrée,  depuis  Pélops  jusqu'  à 
Iphigénie,  comme  1'  attelier,  où  1'  on  a  du  forger  les  poi- 
gnards  de  Melpomene  ».  Ma  in  questa  moderna  casa  d' Impe- 
riali Melpomene  può  dar  la  mano  a  Talia,  perchè  alle 
angosce  supreme  della  tragedia  mesconsi  scandalosi  amori 
da  commedia  ed  intrighi  da  pochade.  «  Nella  più  bigotta 
delle  corti  cattoliche,  scrive  il  Colautti,  gli  scandali  erotico- 
giudiziari  si  succedono  con  inverecondia  allarmante;  nella 
più  rigida  delle  dinastie  Europee,  i  matrimoni  «  con  la 
mano  sinistra  »,  le  «  mésalliances  »  sentimentali,  le  unioni 
nicht  ehebilrtige,  ossia  non  conformi  alla  nascita,  crebbero 
a  vista.  I  notai  della  corona  non  erano  occupati  ad  altro 
che  a  riempir  moduli  di  rinunzia,  a  stendere  atti  di  dimis- 
sione ».  E  tutto  questo  accadeva  in  una  corte,  che  aveva 
preferito  la  lenta  degenerazione  dei  matrimoni  consanguinei, 
anziché  tralignare.  Dopo  la  scomparsa  di  Giovanni  Nepo- 
muceno,  (ultimo  figlio  del  Granduca  Leopoldo  II  di  To- 
scana e  grande  amico  dell'  arciduca  Rodolfo),  il  quale  ri- 
nunziò al  suo  nome,  assumendo  quello  di  Giovanni  Orth, 
per  navigare  il  mondo  insieme  con  la  sua  bellissima  amica, 
la  principessa  Elisabetta  di  Baviera,  nipote  prediletta 
dell'  imperatore,  perchè  figlia  di  sua  figlia  Gisella,  inva- 


—  54  — 

ghitasi  del  tenente  barone  Ottone  Von  Seifried,  nel  1893 
scappò  con  lui  fino  a  Genova,  dove  si  celebrarono  se- 
grete nozze.  Nel  1 904  Y  Arciduchessa  Stefania,  figlia  del 
re  dei  Belgi  e  vedova  dell'  Arciduca  Rodolfo,  gettò  le 
bende  vedovili  e  passò  a  seconde  nozze  con  l'unghe- 
rese conte  Elemero  Lyonay,  attirandosi  la  maledizione 
del  padre  e  la  scomunica  dell'  imperatore,  il  quale  nello 
stesso  anno  dovette  soffrire  che  il  presunto  erede  del  trono, 
il  nipote  Francesco  Ferdinando  d'  Asburgo-Este  per  gra- 
titudine di  convalescente,  impalmasse  la  contessina  boema 
Sofia  Chotek,  promossa  poi  a  principessa  di  Hohemberg. 
Due  anni  appresso,  quasi  per  confermare  l' ineluttabilità 
della  legge  ereditaria,  1'  unigenita  figlia  di  Rodolfo  e  Ste- 
fania si  faceva  pur  essa  romanticamente  rapire  dal  principe 
Ottone  di  Windischgraetz-Buttersheim,  e  l'augusto  avo  do- 
vette  rassegnarsi  anche  a  quest'ultimo  colpo  dolorosissimo. 
Specialmente  il  ramo  collaterale  di  Toscana  doveva 
dare  le  maggiori  amarezze  all'  imperatore.  Per  parlare  sol- 
tanto degli  ultimi,  tutti  ricordano  le  avventure  della  princi- 
pessa Luisa  di  Sassonia,  prima  contessa  di  Montignoso 
e  poi  signora  Toselli,  e  di  suo  fratello,  che,  col  nome  di 
Leopoldo  "Wolfìng,  andò  a  sposare  nello  stesso  anno  1903 
in  Svizzera  la  signorina  Sofia  Adamovich,  già  cassiera 
in  un  caffè  di  Budapest;  idillio  vegetariano  e  naturista, 
finito  con  una  sentenza  di  divorzio  per  incompatibilità  di 
carattere  e  con  un  nuovo  matrimonio,  ancor  peggiore,  con 
una  Maria  Maddalena  Ritter,  figlia  di  un  minatore  Slesiano, 
e  donna  mal  nota  alla  polizia  dei  costumi  di  Monaco  e 
Berlino  (1907). 


—  55  — 

Ma  anche  in  questo  può  scorgersi  una  vendetta  del 
destino.  Un  anonimo  epigrammista  latino  (forse  lo  Scali- 
gero) disse  che  casa  d'  Asburgo,  più  che  al  lauro  di  guerra, 
doveva  la  sua  prosperità  all'  arancio  simbolico:  «  Tufelix, 
Austria,  nube  »...  e  V  Austria  per  cinque  secoli  usò  una 
politica  nuziale,  e  mandò  le  sue  Arciduchesse  su  tutti  i 
troni,  su  quello  di  Spagna,  di  Baviera,  di  Toscana,  di 
Parma,  di  Lorena,  delle  due  Sicilie,  di  Francia  ;  ambì  di 
veder  unita  una  sua  figlia  imperiale  sopra  un  trono  ai 
più  potenti  sovrani,  e  dette  in  isposa  Maria  Antonietta 
a  Luigi  XVI  e  Maria  Luisa  a  Napoleone  I.  Ma,  come 
ben  dice  il  Colautti,  nel  secolo  rivoluzionario,  secolo  dei 
lumi  e  delle  fiamme,  Eros  diede  lo  sgambetto  ad  Imene, 
paraninfo,  sensuale,  faccendiere  di  casa  d'  Austria.  Non 
più  il  fidanzamento  diplomatico,  1'  unione  prefissa  sin  da 
la  culla,  il  contratto  pattuito  di  lunga  mano,  non  più  nozze 
politiche,  coniugi  territoriali,  matrimoni  di  stato.  Nasce 
invece,  ed  esplode  e  trionfa  t  Amore  :  1'  Amore  contro  la 
tradizione  e  contro  la  diplomazia,  contro  la  prudenza  e 
contro  1'  etichetta,  Y  Amore  che  si  beffa  delle  convenienze 
e  delle  parentele,  che  ignora  la  ragione  statale  e  l' inte- 
resse dinastico,  1'  Amore  che  abolisce  le  sante  alleanze  e 
sopprime  Y  equilibrio  europeo,  1*  Amore  senza  dote,  senza 
corona  e  senza  vergogna,  che  rinunzia  a  tutto  fuorché  a 
sé  stesso,  che  comincia  come  un  romanzo  e  può  finire 
come  un  dramma,  1'  Amore  illegittimo  e  schietto,  libero 
e  liberale,  che,  se  consente  alla  consacrazione,  lo  fa  di 
nascosto,  senza  pompa  e  senza  rammarico  ;  Y  Amore  infine, 
con  l' iniziale  maiuscola. 


-  56  - 

Amore  dunque  si  vendica,  perchè  Asburgo  troppo  aveva 
abusato  del  matrimonio,  e  ne  aveva  fatto  strumento  di 
regno,  arma  di  conquista,  fonte  di  potenza  ! 


Delle  tragedie,  che  funestarono  la  casa  d'  Asburgo,  due 
furono  cantate  dal  Carducci,  quella  dell'  arciduca  Massi- 
miliano e  quella  di  Elisabetta  imperatrice  regina  ;  1'  una 
nell'  ode  «  Miramare  »  e  1'  altra  nell'  elegia  «  Alle  Val- 
chirie »,  che  fu  una  delle  sue  ultime. 

Già  fin  da  quando  la  Spagna,  l' Inghilterra  e  la  Francia 
avevano  condotto  la  prima  spedizione  contro  il  nuovo  go- 
verno repubblicano,  instaurato  nel  Messico  da  Benito  Juarez, 
il  Carducci  aveva  biasimato  in  due  sonetti  :  (  i  ) 

Ancella  Francia  ad  ogni  rio  potere, 
Spagna  feroce  ed  Anglia  mercantesca. 

Levia   Gra-via  -  Per  la  spedizione  del  Messico. 

La  spedizione  partì  e  giunse  nel  1861  al  Messico,  gui- 
data dai  tre  comandanti  Prim,  Wike,  e  Jurien  de  la  Gra- 
vière,  ma  ben  presto,  paghi  delle  soddisfazioni  avute  da 
Juarez  e  offesi  dall'  insolente  contegno  del  comandante 
Francese,  gli  Spagnuoli  e  gli  Inglesi  tornarono  in  Europa. 
Restarono  soli  i  Francesi,    benché  decimati  dalla  febbre 


(i)  Mai   il  Carducci   fu  così  violento    contro  Napoleone  III,  il   «  Caco 
Imperiale  »   come  in  questi  due  sonetti  : 

Ei,  che  guatò  ladro  notturno  al  soglio  ecc. 


—  57  — 

gialla  e  gravemente  minacciati  da  Juarez.  Ma  giunse  in 
loro  aiuto  nel  1863  il  generale  Forey  con  un  forte  corpo 
d'  esercito,  pose  P  assedio  a  Puebla,  eroicamente  difesa 
dagli  abitanti  e,  dopo  tre  mesi  di  assedio,  P  espugnò. 

Divenuti  così  arbitri  della  situazione  i  Francesi,  i  Mes- 
sicani, e  specialmente  i  numerosi  emigrati,  residenti  a 
Parigi,  furono  indotti  dalla  politica  di  Napoleone  III  a 
mutare  il  governo  da  repubblicano  in  monarchico,  e  ad 
offrire  la  corona  d'  imperatore  all'  arciduca  Ferdinando 
Massimiliano  d'  Austria,  fratello  di  Francesco  Giuseppe. 

Fu  costituita  una  reggenza  provvisoria,  presieduta  dal 
generale  Almonte,  mentre  una  missione  partiva  per  P  Eu- 
ropa, incaricata  di  portare  il  voto  della  nazione  messicana 
al  castello  di  Miramare,  dove  Massimiliano  risiedeva. 

Dapprima  egli  energicamente  rifiutò  ;  ma  nel  1864,  ac- 
cettando P  invito  dell'  imperatore  dei  francesi,  si  recò  a 
Parigi  e  colà  furono  vinte  le  sue  riluttanze.  Recatosi  di 
poi  a  Vienna,  ebbe  un  violento  contrasto  con  P  impera- 
tore d'  Austria  e  con  gli  altri  fratelli,  circa  la  rinunzia  ai 
suoi  diritti,  ed  ancora  una  volta  volle  rifiutare.  Napoleone  III 
telegrafò  :  «  Vostra  Altezza  è  impegnata,  e  pensi  alla  sua 
gloria:  un  rifiuto  oggi  mi  sembra  impossibile  »,  pregò  il 
re  dei  belgi,  cognato  dell'  arciduca,  di  volersi  intromettere 
e  inviò  il  generale  Froissard  a  Miramare.  Benché  questo 
generale  scrivesse  :  «  P  arciduc  n'  a  pas  de  confiance  dans 
la  grande  entreprise,  qu'  il  va  tenter  »,  il  io  aprile  1864 
a  Miramare  veniva  firmato  un  atto  con  cui  Massimiliano 
rinunziava  ai  suoi  diritti  di  agnato  al  trono  austriaco  e 
•dava  finalmente,  e  in  forma  solenne,  la  sua  accettazione 


-  58  - 

alla  deputazione  messicana  :  la  Francia,  con  un  trattato, 
che  fu  detto  di  Miramare,  si  era  obbligata  di  fornire  aiuto 
di  armi  e  di  denaro  al  nuovo  imperatore,  sino  a  quando 
questi  non  fosse  riuscito  a  dar  completo  assetto  al  novello 
impero. 

Quattro  giorni  dopo  la  convenzione  di  Miramare,  sulla 
fregata  austriaca  «  La  Novara  »,  Massimiliano  prendeva 
il  mare  con  la  sua  bellissima  consorte  Carlotta  e  il  28  maggio 
sbarcava  a  Vera-Cruz,  accolto  piuttosto  freddamente  dalla 
popolazione.  L'  ingresso  al  Messico  invece  fu  trionfale, 
ma  gì'  inizi  del  nuovo  regno  furono  burrascosi:  la  Chiesa, 
per  alcune  questioni,  risolte  personalmente  dall'  imperatore, 
protestò  il  e  maresciallo  Bazaine,  nuovo  comandante  delle 
forze  francesi,  ebbe  tosto  dei  dissapori  con  lui,  acuiti  dal 
fatto  che  l'imperatore  chiamò  a  presiedere  il  primo  mini- 
stero Velasquez  de  Leon,  un  avversario  di  Napoleone  III. 

Intanto  gli  Stati  Uniti  d'America,  non  avendo  voluto 
riconoscere  il  nuovo  impero,  favorivano  nascostamente  le 
mire  dei  fuorusciti  repubblicani,  e  in  Francia  lo  spirito 
nazionale  e  il  Corpo  Legislativo  facevano  sempre  più  aspre 
le  loro  censure  verso  l' imperatore  per  la  disgraziata  spe- 
dizione. Quindi  Napoleone  III,  accettando  le  rimostranze 
del  gabinetto  di  Washington,  ordinava  il  ritiro  delle  truppe 
francesi,  proprio  quando  più  vi  era  bisogno  di  esse,  per 
un  inasprimento  causato  nelle  file  repubblicane,  non  del 
tutto  disperse,  dalla  cattura  in  uno  scontro  di  due  loro 
generali  e  di  alcuni  colonnelli,  i  quali  poi  furono  fucilati 
per  ordine  di  Massimiliano. 

Per  tentare  di  far  recedere  Napoleone  dal  suo  ordine 


—  59  — 

di  ritiro  delle  truppe,  che  poteva  essere  fatale,  partì  in 
persona  per  l'Europa  Y  imperatrice  Carlotta,  e  trovò  l'impe- 
ratore malato  a  Saint-Cloud  e  infastidito  del  cattivo  esito 
della  sua  politica  germanica.  Ella  descrisse  a  foschi  co- 
lori la  situazione  di  suo  marito  e  diede  a  leggere  all'impe- 
ratore due  lettere,  scritte  da  lui  stesso  a  Massimiliano, 
con  cui  gli  prometteva  appoggio  ed  aiuto  sino  a  quando 
ve  ne  fosse  bisogno.  U  imperatore  dette  alle  lettere  una 
scorsa  distratta  e  le  restituì,  dicendo  di  aver  fatto  quanto 
poteva  e  di  non  poter  dare  ne  un  uomo  né  uno  scudo  più. 
Pallida  d' indignazione,  Y  infelice  donna  vuoisi  che  abbia 
risposto  :  «  Lo  sapevo  ;  una  nipote  di  Luigi  Filippo  d' Or- 
léans non  avrebbe  dovuto  affidare  il  suo  destino  ad  un 
Bonaparte  !  »  Fu  1'  ultimo  scatto  del  suo  sangue  regale  : 
recatasi  a  Roma  dal  Papa,  avute  nuove  e  più  recise  ri- 
pulse, la  sua  mente  non  resse  a  tanta  dolorosa  delusione, 
e  d'  allora  ella  vive  nell'  abisso  della  Follia. 

Intanto  nel  Messico  gli  eventi  precipitavano  :  il  mare- 
sciallo Bazaine,  ambiziosissimo,  forse  avrebbe  voluto  fa- 
vorire la  caduta  dell'  imperatore,  per  mettersi  al  suo  posto, 
anche  perchè  aveva  sposato  una  ricca  messicana.  Con  ci- 
nica vigliaccheria,  diventò  traditore  ;  venne  a  segreti 
accordi  coi  ribelli,  e  fece  sì  che  Napoleone  III  telegrafasse 
all'  imperatore  di  abdicare. 

E  Massimiliano,  il  18  ottobre    1866,  avuto  la  notizia, 
dell'  impazzimento  di  Carlotta,  risolvette  subito  di  lasciare 
il  Messico.  Nelle   prime  ore  del  mattino  del  21   ottobre, 
si  mise  in  viaggio  per  Oribaza,  dove  giunse  la  sera  del  27. 
I  francesi  ricevettero  l' imperatore  con  una  salva  di  arti- 


—  6o  — 

glieria  e  fecero  suonare  le  campane  a  festa....  e  il  loro 
capo  lo  tradiva  ! 

Ad  Oribaza  il  colonnello  austriaco  Kodolies  e  il  ca- 
pitano Kevenhuller,  si  presero  l' incarico  di  distogliere 
1'  imperatore  dai  propositi  di  abdicazione,  e  lo  fecero  in 
ginocchio  ;  il  ministro  Lacunza  gli  ricordò  in  nome  del 
paese  la  sua  promessa  :  Un  d'  Asburgo  non  lascierà  mai 
il  suo  posto  nel  momento  del  pericolo  ! 

E  Y  imperatore  debole,  contrariato,  avvilito  rimase, 
mentre  sorgevano  i  primi  bagliori  della  guerra  civile.  Il  5 
di  febbraio  1'  esercito  francese  abbandonò  la  capitale,  e 
il  1 2  lo  seguirono  i  Belgi  e  gli  Austriaci  ;  Massimiliano, 
per  difendersi  dalla  rivoluzione  imminente,  dovette  disporsi 
subito  a  raccogliere  un  esercito  indigeno  e  inesperto. 

E  la  lotta  incominciò.  Juarez,  tornato  alla  riscossa, 
occupò  in  pochi  giorni  molte  città  e  borgate,  mentre  Por- 
firio Diaz  poneva  1'  assedio  a  Puebla  ed  Escobedo  si  di- 
rigeva su  Querétaro  con  16  mila  uomini.  L'  esercito  impe- 
riale, guidato  dal  generale  Miramon,  riportò  una  bella 
vittoria  a  Zacatas,  ma  dopo  poco  fu  sconfitto  a  San  Gia- 
cinto: lo  stesso  Miramon  ferito,  suo  fratello  fatto  prigioniero 
e  fucilato  al  lume  di  una  candela. 

Allora  Massimiliano  tornò  al  suo  proposito  di  abdicare, 
ma  il  presidente  dei  ministri  gli  consigliò  di  recarsi  a  Queré- 
taro, città  devota  all'impero,  fortificandosi  e  di  là  trattare  con 
Juarez,  ottenendo  tutte  le  garanzie  possibili  e  poi  abdicare. 

E  Massimiliano  il  13  febbraio  1867,  alle  due  del  mat- 
tino, con  1500  uomini,  seguito  dai  generali  messicani 
Lopez  e  Marquez,  partì  per  Querétaro. 


—  6i   — 

«  Mentre  passava  galoppando  sotto  gli  antichi  alberi 
della  bella  Hacienda  de  los  Ahuehentes,  traverso  la  su- 
perba vallata  del  Messico  verso  il  Nord,  si  trasportava 
con  la  fantasia  ai  tempi  in  cui  quegli  stessi  alberi  ave- 
vano formato  come  colonne  maestose  le  gigantesche  cat- 
tedrali all'  antica  religione  idolatra  degli  indiani,  sotto  le 
cui  ombre  Montezuma,  il  primo  difensore  dell'  indipen- 
denza messicana,  aveva  celebrato  i  suoi  misteriosi  sacrifici. 
Uno  di  questi  alberi  prediletti  da  Montezuma  era  stato 
battezzato  «  albero  della  notte  del  dolore  »,  perchè,  seduto 
sotto  le  sue  foglie,  lo  spagnuolo  avventuriero  Fernando 
Cortez  aveva  pianto  dopo  un  combattimento  notturno, 
per  cui  era  stato  espulso  dal  Messico.  Fu  questo  il  ri- 
cordo, che  si  affacciò  alla  mente  dell'  imperatore.  Egli 
scrisse  a  questo  proposito  nel  suo  diario  :  «  questo  mo- 
mento nella  storia  del  gran  conquistatore  mi  ha  sempre 
commosso  nel  fondo  de  Y  anima,  perchè  e'  insegna  che 
anche  gli  spiriti  più  forti  e  dominatori,  per  solito  sì  saldi 
e  tenaci,  hanno  momenti,  in  cui  si  credono  abbandonati 
dalla  loro  stella  e  cadono  nella  più  grande  prostrazione. 
Se  in  tali  istanti  non  giunge  una  salutare  reazione,  quel- 
Y  uomo  è  finito  e  la  sua  stella  tramontata  per  sempre. 
La  stella  di  Cortez  non  fu  offuscata  che  per  un  breve 
intervallo  da  una  nube  passeggera  ;  egli  si  risollevò  più' 
forte  che  mai  dal  suo  dolore  e  riconquistò  il  perduto  cre- 
dito nel  Messico  e  compì  felicemente  Y  opera  sua  »  (i). 

(i)  Prof.  Alberto  Allan.  Studi  Carducciani.  Commento  all'ode  «Mi- 
ramare  » . 


—    62    — 

L' opera  invece  del  giovane  imperatore  d' Asburgo 
doveva  miseramente  naufragare.  A  Querétaro  egli  fu 
accolto  con  entusiasmo,  ma  subito  bisognò  pensare  alla 
difesa,  perchè  il  nemico  cingeva  da  ogni  parte  la  città. 
Massimiliano  inviò  i  generali  Marquez  e  Vidaurri  a  Mes- 
sico, perchè  portassero  quei  soccorsi  di  uomini  e  denaro, 
che  il  Ministero  si  era  rifiutato  d' inviare.  Ma  il  Marquez, 
giunto  al  Messico  trovò  la  città  assediata  da  Porfidio 
Diaz  e  quasi  sguarnita  di  milizie  ;  quindi  egli  concepì 
T  ardito  disegno  di  recarsi  a  Puebla,  liberarla  dall'assedio, 
di  cui  pur  essa  era  cinta,  e  con  quella  guarnigione  cor- 
rere a  Querétaro.  Ma  per  la  lentissima  marcia  la  fortezza 
cadde,  prima  che  gli  aiuti  giungessero,  ed  ormai  era 
troppo  tardi  per  avviarsi  a  Querétaro,  non  essendo  più 
possibile  di  farsi  strada. 

Allora  Marquez  ritornò  verso  Messico,  ove  riuscì  a 
penetrare  ed  assunse  il  comando  della  piazza,  ma  non 
fece  più  a  tempo  ad  uscirne,  perchè  il  Diaz  vi  pose  un 
rigoroso  blocco. 

L' imperatore  quando  seppe  che  nessun  soccorso  po- 
teva attendersi  da  Marquez,  per  portare  la  guerra  in  campo 
aperto,  tentò  una  sortita,  che  diresse  in  persona  e  da  vero 
valoroso,  insieme  col  generale  Miramon.  L' esito  della 
sortita  fu  vittorioso,  ma  gli  imperiali  non  seppero  appro- 
fittare del  varco  aperto  fra  i  nemici  ;  ne  approfittò  invece 
Escobedo,  il  quale,  chiamati  a  raccolta  fulmineamente  i 
suoi  e  favorito  da  un  aiuto  giuntogli  in  queir  istante, 
assalì  l' imperatore,  obbligandolo  a  rientrare  precipitosa- 
mente in  Querétaro. 


-  63  - 

Si  pensò  allora  di  venire  a  patti  e  il  colonnello  Lopez 
fu  inviato  al  campo  di  Escobedo  :  si  lasciasse  partire  il 
sovrano  per  Tuxpan,  donde  s' imbarcherebbe  per  l'Europa, 
rinunziando  ad  ogni  intromissione  nelle  questioni  del 
Messico.  Si  disse  che  il  Lopez  avesse  vilmente  tradito 
la  causa  imperiale,  rivelando  al  nemico  che  nella  notte 
dal  14  al  15  maggio  si  sarebbe  tentata  un'  ultima  dispe- 
rata sortita,  e  mostrando  le  posizioni  dei  reggimenti  e 
la  dimora  del  sovrano  :  il  prezzo  del  suo  infame  tradi- 
mento, che  non  avrebbe  riscontro  nella  storia,  gli  sarebbe 
stato  pagato  con  200000  piastre.  Ma  il  Lopez,  più  tardi, 
si  scolpò  dell'  infame  accusa,  pubblicando  uno  scritto, 
intitolato:  «  Michele  Lopez  ai  suoi  concittadini  e  al  mondo  ». 
Lo  stesso  Escobedo,  interrogato,  quando  nel  1887  egli, 
già  vecchio,  si  era  ritirato  a  vita  privata,  in  una  minuta 
esposizione  dei  fatti  al  suo  governo  disse  :  «  Miguel  Lopez 
non  ha  tradito  Massimiliano  d'  Austria,  e  non  ha  nem- 
meno abbandonato  il  suo  posto  di  combattimento  ».  (V. 
Iglesias.  Rectificacionas  historicas.  Pag.  96). 

E  il  Cappelletti  riporta  queste  parole  del  Cav.  Tavera, 
segretario  della  legazione  austriaca  al  Messico  :  «  l'impe- 
ratore parlava  con  animo  tranquillo  di  Lopez  ;  solo  allor- 
ché veniva  a  parlare  di  Bazaine  e  di  Marquez  si  mostrava 
indignato  ».  Certo  molti  ancora  credono  al  tradimento, 
fra  cui  il  Tencaioli,  in  un  suo  scritto  recentissimo. 

Comunque  siano  andate  le  cose,  alla  mezzanotte  del  14, 
i  nemici  forzavano  in  serrati  battaglioni  le  porte  della 
città  :  al  Cerro  de  las  Campanas  venivano  affrontati  dal- 
l' imperatore.  La  mischia  si  svolse  sanguinosissima,   tra 


-  64  - 

le  grida,  i  clamori,  le  imprecazioni  contro  il  Lopez,  il 
rombo  delle  fucilate  e  delle  artiglierie,  il  suono  delle  cam- 
pane. Il  prode  generale  Miramon  cadde  ferito,  e,  recatosi 
in  casa  del  Dottor  Liceo,  suo  amico,  per  farsi  medicare, 
fu  da  costui  vigliaccamente  consegnato  al  nemico. 

Quando  le  vie  della  città  ebbero  avuto  tutte  il  loro  bat- 
tesimo di  sangue,  i  dragoni  dell'  Imperatrice  furono  quasi 
tutti  sterminati  dal  fuoco  nemico  e  i  difensori  di  Massi- 
miliano interamente  sgominati,  1'  imperatore  inviò  ad 
Escobedo  il  suo  aiutante  di  campo  Pradillo,  con  bandiera 
bianca,  per  trattare  la  resa. 

Escobedo  riceveva  poco  dopo  nelle  sue  mani  la  spada 
di  Massimiliano  d'  Austria,  e  lo  menava  prigioniero  nel 
convento  della  Croce.  Il  giorno  17  1'  ex  imperatore  pas- 
sava nel  convento  della  Corona,  e  poi,  quasi  subito,  in 
una  cella  del  convento  dei  Cappuccini  ;  in  altre  due  celle 
si  trovavano  già  i  generali  Miramon  e  Meija. 

Ai  prigionieri  fu  accordato  quel  simulacro  di  pro- 
cesso, che  Napoleone  I  accordò  al  duca  di  Enghien  e  il 
Borbone  a  Gioacchino  Murat.  La  condanna  a  morte  era 
decretata  già  prima  che  si  riunisse  il  così  detto  consiglio 
di  guerra. 

Victor  Hugo  e  Giuseppe  Garibaldi  telegrafarono  a 
Juarez,  chiedendo  la  vita  dei  condannati  ;  gli  Stati  Uniti 
stessi  raccomandarono  la  clemenza  ed  i  governi  francese 
ed  austriaco,  per  mezzo  dei  loro  ambasciatori  a  Washin- 
gton, fecero  vive  istanze  per  salvare  l' imperatore  e  i  due 
generali. 

Ma  tutto  fu  inutile  e  V  esecuzione  venne  fissata  per  il 


-  65  - 

mercoledì  1 9  giugno,  alle  ore  sette  :  i  due  generali  pas- 
sarono 1'  ultimo  giorno  con  le  loro  famiglie  e  l'imperatore 
lo  passò  a  scriver  lettere  :  raccomandò  al  fratello  Fran- 
cesco Giuseppe  la  vedova  di  Miramon  e  inviò  il  suo  ri- 
tratto con  dedica  ad  Escobedo,  pregandolo  di  scegliere 
dei  buoni  tiratori  per  V  esecuzione.  La  notte  dormì  ;  si 
destò  all'  alba,  fece  colazione  e  si  abbigliò  con  cura.  In 
carrozza  fu  condotto  al  luogo  fissato  per  V  esecuzione, 
quello  stesso  Cerro  de  las  Campanas,  che  era  stato  teatro 
de  T  ultima  battaglia. 

Abbracciò  e  baciò  i  generali  Meija  e  Miramon,  con- 
dannati a  morire  con  lui  ;  all' ufficiale,  incaricato  di  co- 
mandare il  fuoco,  che  lo  pregò  di  volerlo  perdonare, 
rispose  :  «  voi  siete  soldato  e  dovete  obbedire  :  vi  sono 
grato  della  vostra  simpatia  ». 

Quindi  pronunziò  poche  parole,  inneggiando  al  Mes- 
sico ed  alla  sua  grandezza,  e,  quando  echeggiò  la  sca- 
rica fatale,  cadde  sul  fianco  destro  pronunziando  la  pa- 
rola :  e  hombre  »  (uomo)  :  siccome  parve  che  non  fosse 
morto,  un  soldato  gli  sparò  a  bruciapelo  una  revolve- 
rata nel  cuore  (1). 

Tale  fu  la  conclusione  raccapricciante  del  gran  dramma, 
che  empì  di  commozione  e  di  sgomento  tutta  Europa  ; 
da  ogni  parte  si  rivolsero  sguardi  di  rancore  e  di  rim- 
provero verso  quelli  che  erano  stati  i  primi  responsabili 
della  catastrofe,  sopra  tutto  verso  Napoleone  III,  il  quale 


(1)  V.  E.  Masseral.    Un  essai  d'empire  au  Mexique. 


—  66  — 

sentì  che  la  spedizione    messicana    aveva    dato  il  primo 
crollo  violento  al  secondo  impero. 

Il  Colautti,  ventisette  anni  dopo,  indirizzando  un  so- 
netto all'  infelice  Carlotta,  che,  tutto  ignorando  il  pauroso 
dramma  di  Querétaro,  ancora  attende  il  ritorno  del  biondo 
imperatore,  scrisse  : 

Scuoti,  o  fedele,  il  torpido  pensiero 

A  misurar  per  un  istante  solo 

L'alta  ruina  del  secondo  impero  ! 
Scuoti,  e  mirando  de  la  corsa  gente 

La  vergogna  e  d'Eugenia  umile  il  duolo, 

Per  allegrezza  avrai  salva  la  mente  !  (i) 

Il  trionfatore  Juarez,  trincerandosi  nella  legalità,  nella 
fredda  ragion  di  Stato,  volle  dapprima  contendere  la  re- 
stituzione del  cadavere  dell'usurpatore  giustiziato,  e  si 
piegò  a  concessioni,  solamente  quando  il  ministro  Beust, 
con  una  mortificante  richiesta  ufficiale,  ebbe  fatto  impli- 
cito omaggio  alla  legittimità  del  nuovo  governo  messi- 
cano ed  alla  legalità  dell'  esecuzione. 

Come  Francesco  Giuseppe  aveva  negato  questo  ultimo 
conforto  alla  madre  di  Carlo  Poma,  giustiziato  a  Man- 
tova (2),  così  per  lungo  tempo  il  feroce  messicano  lo 
negò  all'angosciata  arciduchessa  Sofia,  esclamante  col 
Foscolo  : 

Straniere  genti,  almen  l'ossa   rendete 
al  petto  de  la  madre  mesta  ! 

(1)  A.  Colautti.   Carlotta.  Nei  «  Canti  Virili  ». 

(2)  V.  A.  Luzio.  /  martiri  di  Belfiore. 


-  67  - 

La  misera  salma  di  Massimiliano  fu  riportata  in  Eu- 
ropa dall'ammiraglio  Tegethoff,  sulla  stessa  fregata  au- 
striaca la  «  Novara  »,  sulla  quale,  tre  anni  prima,  egli 
si  era  imbarcato,  fiorente  di  gioventù  e  di  speranze.  Il 
funebre  approdo  avvenne  il  28  gennaio  1868  a  Trieste, 
poco  lontano  dal  Castello  di  Miramare,  dallo  splendido 
nido  di  gioia  e  d'amore,  ch'egli  aveva  ideato  nei  giorni 
felici. 

Sorge  il  castello  bianco  e  turrito  sopra  una  collinetta, 
che  sporge  nel  mare  ;  il  Carducci  lo  vide  nel  luglio  del 
1878,  in  una  oscura  giornata  di  temporale,  e  ne  riportò 
un'  impressione  profonda  : 

O  Miramare,  a  le  tue  bianche  torri 
Attediate  per  lo  ciel  piovorno 
Fosche  con  volo  di  sinistri  augelli 
Vengon  le  nubi. 

O  Miramare,  contro  i  tuoi  graniti 
Grige  dal  torvo  pelago  salendo 
Con  un  rimbrotto  d'anime  crucciose 
Battono  l'onde. 

Meste  ne  l'ombra  de  le  nubi  a'  golfi 
Stanno  guardando  le  città  turrite, 
Muggia  e  Pirano  ed  Egida  e  Parenzo, 
Gemme  del  mare  ; 

E  tutte  il  mare  spinge  le  mugghianti 
Collere  a  questo  basti'on  di  scogli, 
Onde  t'affacci  a  le  due  viste  d'Adria, 
Rocca  d'Asburgo  ; 


—  68  — 

E  tona  il  cielo  a  Nabresina  lungo 
La  ferrugigna  costa,  e  di  baleni 
Trieste  in  fondo  coronata  il  capo 
Leva  tra'  nembi. 

Da  queste  cinque  strofe  emerge  nitida  nel  cielo  la 
mole  candida  del  castello,  tra  la  calma  sospetta  del  mare 
e  la  minaccia  immanente  delle  nuvole  basse  e  trasvo- 
lanti. 

E  per  contrasto  il  poeta  ripensa  alla  bella  serenità 
del  dì,  che  il  biondo  arciduca  lasciò  il  suo  castello  e  la 
sua  tranquilla  stanza  da  studio,  (costruita  in  guisa  da 
rassomigliare  alla  cabina  della  nave  contrammiraglia  la 
«  Novara  »)  per  correre  con  la  sua  sposa  alla  conquista 
di  una  corona: 

Deh  come  tutto  sorridea  quel  dolce 

Mattin  d'aprile,  quando  usciva  il  biondo 
Imperatore,  con  la  bella  donna, 
A  navigare  ! 

A  lui  dal  volto  placido  raggiava 

La  maschia  possa  de  l'impero  :  l'occhio 
De  la  sua  donna  cerulo  e  superbo 
Iva  su  '1  mare. 

Addio,  castello  pe'  felici  giorni 
Nido  d'amore  costruito  in  vano  ! 
Altra  su  gli  ermi  oceani  rapisce 
Aura  gli  sposi. 

Nota  bene  il  Mazzoni  che  le  parole  :  «  Nido  d'amore 
costruito  in  vano  »  potrebbero    scriversi    sulla    fronte    del 


-  6g  - 

castello.  Sulle  pareti  delle  sale  fastose  esiste  ancora  un 
affresco,  rappresentante  il  trionfo  di  Massimiliano  ed  in- 
torno intorno  corrono  delle  sentenze  latine,  dettate  da 
lui  stesso  (  i  )  ;  presso  ai  quattro  usci  della  grande  biblio- 
teca son  collocati  i  busti  marmorei  (non  tavole)  di  Omero, 
di  Dante,  di  Goethe,  di  Shakespeare,  e  sul  tavolo  sta 
ancora  aperto  un  libro  di  antiche  Romanze  Castigliane. 
Tutto  sembra  voglia  parlare  in  quelle  sale  di  calma  e  di 
serenità,  perchè  il  visitatore  dimentichi  la  fiera  tempesta, 
cui  il  biondo  arciduca  andò  incontro,  seguendo  l'invito 
di  una  Sfinge  allevatrice,  di  cui  l'immagine  si  presentò 
al  poeta,  mirando  una  piccola  Sfinge  Egiziana,  che,  da  la 
punta  del  moletto  d'approdo,  guarda  l'Adriatico. 

Essa  porta  la  scritta:  «  //  destino  dei  marinai  »....  Ed 
è  la  Sfinge  di  chiunque  reca  nell'animo  qualche  traccia 
dell'insaziabile  desiderio  di  Ulisse  e  di  Cortez  ;  è  il  sim- 
bolo del  destino  di  Massimiliano,  nel  cui  animo  si  fonde- 
vano il  desiderio  di  dominio  e  l'istinto  errabondo  del 
navigatore. 

Ma  triste  presagio  segue  la  nave  d'Asburgo,  veleg- 
giale verso  la  terra  degli  Atzechi  :  dalla  punta  di  Sal- 
vore,  memore  di  tedesche  sciagure  (2),  i  morti   veneti    e 

(1)  Si  fortuna  iuvat,  caveto  tolli.  Saepe  sub  dulci  melle  venena  latent. 
Non  ad  astra  mollis  e  terris  via.  Vivitur  ingenio,  caetera  mortis  erunt. 

(2)  È  fama  che  quivi  Ottone,  figlio  di  Federico  Barbarossa,  fosse 
sconfitto  in  battaglia  navale  dalle  armate  veneziana  e  istriana  congiunte  nel 
1178,  due  anni  dopo  Legnano.  La  moderna  scienza  storica  ha  negato  il 
fatto,  ma  esso  fu  anche  eternato  dal  Tintoretto  in  un  gran  quadro  del  Pa- 
lazzo Ducale. 


—  70  — 

le  vecchie  fate  Istriane  cantano  lugubre  nenia,  tra  il  roco 
piangere  dei  flutti  : 

—  Ahi  !  mal  tu  sali  sopra  il  mare  nostro, 
Figlio  d'Asburgo,  la  fatai   «  Novara  » . 
Teco  l'Erinni  sale  oscura  e  al  vento 
Apre  la  vela. 

Il  nome  della  «  brumai  Novara  »,  che  fu  fatale  la 
prima  volta  per  l'italo  Amleto,  lo  sarà  pure  per  il  figlio 
d'Asburgo.  L'amarissimo  Adriatico  mal  tollera  una  nave 

austriaca,   che    porta  il  nome  di  un'italica    sconfitta! 

E  l'Erinni  vendicatrice  sale  sulla  nave,  spiega  essa  la 
vela  e  ne  volge  la  prora,  non  verso  la  gloria,  ma  verso 
la  morte  ! 

È  evidente  poi  la  somiglianza  di  questa  strofe  con  la 
famosa  ode  oraziana  (XV  del  libro  I),  in  cui  Nereo,  alto 
sulle  onde,  invia  il  suo  sinistro  auspicio  dietro  alla  nave, 
che  porta  Paride  con  Elena,  rapita  al  talamo  maritale. 

«  All'efficacia  della  lirica  oraziana,  nota  il  prof.  Allan, 
giova  molto  la  brevità  della  pròtasi  e  quel  subito  ir- 
rompere del  tragico  vaticinio  nel  gran  silenzio  dei  venti 
e  dei  flutti  :  «  Mala  ducis  avi  domum  !  »  Il  Carducci  in- 
vece, secondando  il  suo  genio  descrittivo,  s' indugia  al- 
quanto a  descrivere  la  marina  intorno  e  l'interno  del 
castello  »  (i). 

Ma  si  potrebbe  notare  che  in  quest'ode  carducciana  le 
poche  battute  di  descrizione    accrescono  la  triste    solen- 

(i)  Prof.  A.  Allan.  Studi  Cardticciani.  Comm.  all'Ode   «  Miramare  ». 


—  7i   — 

nità  del  presagio,  che  vola  sul  mare  ;  le  nubi  «  attediate 
per  lo  ciel  piovorno  »  sostituiscono  quasi  il  gran  silenzio 
dei  venti  e  dei  flutti,  che  preparano  il  vaticinio  ora- 
ziano (i). 

Nella  Ninna  Nanna  di  Carlo  V  «  il  Carducci  aveva 
immaginato  che  tre  fate  cantassero  presso  la  culla  del 
futuro  re  e  imperatore,  avvolgendolo  in  una  cupa  malia 
d'ombra,  di  sciagura  e  di  maledizione: 

Salve,  o  fanciul  da  la  faccia  cagnazza, 

Salve,  o  figliuol  di  Giovanna  la  pazza, 

Salve,  o  pollon  de  la  mista  razza, 

Che  dee  la  terra  cristiana  aduggiare. 

La  discordia  dei  sangui  per  tre  rivi, 
E  il  bulicame  dei  pensier  cattivi, 
E  1'  accidie  degl'  impeti  mal  vivi, 
Sale  nel  tuo  cervello  a  fermentare. 

Rime  Nuove.  Ninna  Nanna  di  Carlo  V. 

E  qui  la  voce,  che  sale  da  le  onde,  accenna  a  Massi- 
miliano la  Sfinge  del  mare,  che,  con  strane  metamorfosi, 
assume  via  via  sembianti  nuovi  e  paurosi  :  or  è  il  viso 
pallido  e  stravolto  di  Giovanna  la  Pazza,  madre  di  Carlo  V, 
immagine  della  pazzia,  di  cui  sarà  colpita  V  infelice  Car- 
lotta, or  è    il    teschio   orribilmente    ghignante   di    Maria 

(i)  L'ode  oraziana  era  già  stata  imitata  dal  Carducci  nell'ode  giovanile 
«  Il  vaticinio  »,  ed  un  verso  di  essa  trovasi    pure  nell'ode  :    «  In  morte  di 

Napoleone  Eugenio»  :    «Non   hoc    pollicitus    tuae  » «Non    questo.... 

avevi  promesso  ecc.  » 


—  72  — 

Antonietta,  che  ammonisce  la  continuazione  del  fato  ine- 
sorabile degli  Asburgo,  or  è  la  ripugnante  faccia  gialla 
di  Montezuma,  del  prigioniero  di  Fernando  Cortez,  che 
già  assapora  la  tarda   vendetta  : 

Tra  boschi  immani  d'  agavi  non  mai 

Mobili  ad  aura  di  benigno  vento, 

Sta  ne  la  sua  piramide,  vampante 

Livide  fiamme 
Per  la  tenebra  tropicale,  il  dio 

Huitzilopotli,  che  il  tuo  sangue  fiuta, 

E  navigando  il  pelago  co  '1  guardo 

Ulula  —  Vieni. 
Quant'  è  che  aspetto  !  La  ferocia  bianca 

Strussemi  il  regno  ed  i  miei  tempi  infranse  : 

Vieni,  devota  vittima,  o  nepote 

Di  Carlo  quinto. 
Non  io  gì'  infami  avoli  tuoi  di  tabe 

Marcenti  o  arsi  di  regal  furore  ; 

Te  io  voleva,  io  colgo  te,  rinato 

Fiore  d'  Asburgo  ; 
E  a  la  grand' alma  di  Guatimozino 

Regnante  sotto  il  padiglion  del  sole 

Ti  mando  inferia,  o  puro,  o  forte,  o  bello 

Massimiliano. 

Così  sempre  ritorna  sovrana  la  inflessibile  legge  sto- 
rica, per  cui  i  tardi  nepoti  scontano  le  colpe  dei  padri 
remoti  e 

....il  grande 
Vitzliputzli,  il  sanguinario 


—  73  — 

Dio  guerrier  dei  Messicani, 
Il  feroce,  orribil  mostro,    (i) 

per  vendicare  le  stragi  e  le  torture,  a  cui  i  condottieri 
spagnuoli  sottoposero  gli  abitanti  d'  oltre  mare  al  tempo 
di  lor  fortuna,  alla  grand'  anima  di  Guatimozino,  ultimo 
re  degli  Atzechi,  che,  prima  d'  essere  impeso,  fu  adagiato 
sui  carboni  ardenti,  perchè  rivelasse  all'  ingordigia  degli 
stranieri,  dove  potessero  saziare  la  loro  sete  di  oro,  manda 
privilegiata  inferia,  il  puro,  il  forte,  il  bello  Massimiliano  ! 
In  tal  modo  il  rinato  fiore  d'  Asburgo  scontava  le 
colpe  di  sua  gente,  perchè  il  destino  della  sua  casa,  a  tra- 
verso lui,  doveva  compiersi  tutto,  da  Maria  Antonietta, 
che  il  popol  di  Parigi  mandò  sul  palco  fatale,  sino  ad 
Elisabetta  imperatrice  regina,  «  che  il  pugnai  di  Lucheni 
aspettava  »  ! 


Una  mattina  l'imperatrice  Elisabetta  percorreva  l'Adria- 
tico sul  suo  Yact  «  Miramare  »,  insieme  con  il  suo  mae- 
stro di  greco  Costantino  Christomanos.  «  Il  mare  era 
vuoto  e  sconvolto,  di  un  cupo  turchino  di  piombo,  che 
rendeva  quasi  sensibile  la  pesantezza  delle  liquide  masse, 
e  bianchi  nastri  di  schiuma  attraversavano  quel  triste 
turchino  infinito.  Gabbiani  svolazzavano  con  ali  silenziose 
dietro  al  legno  ;  a  volta  a  volta  cacciavano  stridule  grida. 

—  Ad  ogni  mio   viaggio,  disse  V  imperatrice,  i  gab- 

(i)  A.  Heine.  Dal  «  Romanzerò  ».  Trad.,  di  G.  Chiarini. 


—  74  — 

biani  seguono  il  mio  vascello,  ma  ve  n'  è  sempre  uno  di 
colore  fosco,  quasi  nero,  come  quello  lì. 

Ed  ella  additò  un  gabbiano  nerastro,  che  volava  alla 
testa  di  tutti  gli  altri.  E  soggiunse: 

—  Quello  lì  solo  verrà  quasi  sino  a  Corfù.  A  volte 
il  nero  gabbiano  m'  ha  accompagnata  per  un'  intera  set- 
timana, da  un  continente  all'  altro.  Io  credo  che  esso  sia 
il  mio  destino  »  (i). 

E  si  parlò  pure  di  un  «  corvo  degli  Asburgo  »,  che 
si  voleva  fosse  apparso  sul  palazzo  Imperiale,  quando 
Francesco  Giuseppe  fu  coronato  imperatore  ad  Olmutz, 
quando  Massimiliano  d'  Austria,  votato  alle  scariche  del 
plotone  di  giustizia,  fece  1'  ultima  passeggiata  nel  giar- 
dino di  Miramare,  e  quando  Y  arciduchessa  Maria  Cri- 
stina, fidanzata  al  re  Alfonso  XII  di  Spagna,  si  avviava 
in  vettura  alla  stazione,  per  andare  a  cingere  la  dolorosa 
corona.  Ed  un'  altra  leggenda  ancora  si  narrò  di  una 
«  dama  bianca  »,  che  più  volte  era  stata  vista  aggirarsi 
nelle  sale  più  recondite  della  Hofburg. 

Così  le  tragiche  vicende  della  famiglia  d' Asburgo 
inspirarono  la  fantasia  popolare  e  la  fantasia  dei  poeti.  Ma 
è  strano  come  Elisabetta  credesse  fermamente  di  dover 
seguire  il  destino  della  sua  dinastia. 

Nel  castello  reale  di  Versailles,  esisteva  uno  specchio 
tragicamente  profetico.  Nello  spogliatoio  di  Maria  Anto- 
nietta questo  largo  specchio  era  incastrato  nel  muro  con 
altri  due  laterali  più  stretti  della  medesima  altezza,   che 

(i)   CfflUSTOMANOS.  Regina  di  dolore. 


—  75  — 

facevano  da  una  parte  e  dall'  altra  un  angolo  retto,  come 
gli  stipiti  di  una  porta.  Lo  specchio  di  mezzo  rifletteva 
la  persona  integralmente,  se  uno  si  collocava  di  fronte, 
ma  negli  angoli  laterali  la  persona  appariva  decapitata, 
se  la  persona  si  collocava  diagonalmente.  Ciascuno  degli 
specchi  ad  angolo  rifletteva  una  spalla,  un  braccio,  metà 
della  persona  ;  ma  il  capo,  per  una  curiosa  combinazione 
spariva,  mentre,  inclinandolo  un  poco  di  qua  o  di  là  dalla 
linea  diagonale,  tornava  o  neh"  uno  o  nell'  altro  specchio 
ad  apparire.  Il  fenomeno  non  era  difficile  a  spiegarsi  otti- 
camente, ma  è  strano  che  Maria  Antonietta  inconsape- 
vole leggesse  ogni  mattina  nello  specchio  la  sua  sorte  (i). 

Elisabetta  d'  Austria  invece  credeva  di  leggere  il  suo 
destino  nelle  onde  del  mare  :  «  io  e  le  mie  sorelle,  diceva, 
crediamo  fermamente  di  dover  morire  annegate  nel  mare  ». 

E  non  se  ne  sarebbe  tanto  rammaricata,  perchè  ella 
lo  adorava  il  mare  :  quando  ne  parlava,  trovava  delle 
espressioni  originali  e  frementi  di  passione  : 

«  Il  mare  è  come  una  gran  madre,  sul  cui  petto  si 
dimentica  tutto  ». 

«  Il  mare  mi  vuole  avere  ;  esso  sa  eh'  io  gli  appar- 
tengo ». 

«  Il  mare  è  il  mio  confessore,  che  io  debbo  giornal- 
mente consultare.  Esso  mi  ringiovanisce,  togliendo  da 
me  tutto  ciò  che  è  estraneo  e  dandomi  i  suoi  pensieri, 
che  sono  V  unica  giovinezza  immortale.  Da  lui  viene  tutta 
la  mia  saggezza  ». 

(i)  Luigi  d'  Insengard.  Memorie  di  ttn  vagabondo. 


-  76  - 

«  Il  mare  ci  disumana;  esso  non  tollera  in  noi  nes- 
suna delle  animalità  della  terra....  Quando  il  mare  è  in 
tempesta,  credo  io  stessa  di  essere  diventata  un'  onda 
schiumante  ». 

«  Io  sono  come  un  uccello  de  la  tempesta,  e,  quando 
le  onde  infuriano,  mi  faccio  legare  ad  una  sedia,  sulla 
tolda  del  mio  Yact,  per  pascermi  della  vista  superba  dei 
flutti  irritati   ». 

Così  ella  era  sempre  stata,  amante  del  mare  e  della 
natura  tutta,  adorante  della  libertà,  che  favoriva  la  sua 
indole  fantasiosa  e  strana,  sin  da  fanciulla.  Madame  Arvède 
Barine  così  parla  della  prima  giovinezza  di  lei  :  «  Suo 
padre,  Massimiliano  —  Giuseppe  Birkenfeld,  duca  di 
Baviera,  era  un  parente  povero  della  famiglia  imperiale 
d'  Austria.  Carico  di  figli,  assorbito  dalle  cure,  per  stabilire 
i  maggiori,  egli  si  adoperava  con  sua  moglie,  la  duchessa 
Ludovica,  per  trovar  marito  alle  figliuole  primogenite.  Si 
contava  di  pensare  alla  piccola  Elisabetta  più  tardi,  quando 
le  maggiori  sarebbero  già  a  posto.  Elisabetta  si  trovava 
molto  contenta  della  sua  parte  di  Cendrillon  (ella  stessa 
si  era  battezzata  così),  e  profittava  di  non  essere  sor- 
vegliata da  alcuno  per  scorazzare  il  paese  e  rendersi 
familiare  a  tutti  gli  abitanti  dei  dintorni.  Questa  fu  Y  ori- 
gine dei  suoi  mali.  La  fanciulla  crebbe  in  appresso  estra- 
nea all'idea  monarchica,  nell'ignoranza  dei  sacrifizi,  ch'essa 
esige  dalle  sue  vittime,  le  teste  coronate.  I  casolari,  dove 
ella  si  riparava  familiarmente  durante  gli  acquazzoni,  dove 
ella  andava  a  chiedere  un  bicchiere   di   latte,  le  insegna- 


—  77  — 

vano  una  ben  altra  lezione,  molto  pericolosa  per  una 
futura  imperatrice.  Ella  vi  imparava  a  conoscere  le  gioie 
semplici  degli  umili,  la  loro  mancanza  di  ogni  ritegno, 
e  si  avvezzava  all'  idea  folle  che  ella  pure  potesse  pre- 
tendervi. E  non  era  sua  colpa  ;  nessuno  infatti  le  aveva 
insegnato  come  dovesse  comportarsi  una  principessa.  I 
suoi  genitori  credevano  di  aver  del  tempo  davanti  a  loro, 
perchè  Elisabetta  portava  ancora  le  vesti  corte  e  non  pran- 
zava neppure  alla  tavola  di  famiglia  ;  si  poteva  passare 
delle  settimane  intere  al  castello  di  Possenhoffen,  senza 
vedere  la  loro  Cendrillon. 

Aveva  ella  sedici  anni,  quando  un  grande  avvenimento 
accadde  nella  famiglia.  La  degna  coppia  di  Possenhoffen 
veniva  finalmente  ricompensata  delle  sue  pene  :  la  figlia 
maggiore  era  chiesta  in  matrimonio  dall'  imperatore  d'  Au- 
stria. Si  attendeva  il  giovane  monarca  al  castello,  per 
celebrare  il  fidanzamento.  Si  era  alla  fine  dell'  inverno 
del  1854,  al  principio  di  primavera.  Francesco  Giuseppe 
giunse.  Egli  aveva  ventiquattro  anni.  Poco  dopo  sbar- 
cato, gli  venne  V  idea  di  andare  a  passeggiare  solo  nei 
boschi....  L' imperatore  vide  venire  a  lui,  sotto  i  grandi 
alberi,  una  piccola  fata  vestita  di  bianco,  di  una  bellezza 
meravigliosa.  I  suoi  occhi  turchini  erano  pieni  di  luce, 
la  sua  chioma  fluttuante  le  cadeva  sino  ai  ginocchi.  Due 
grandi  cani  bianchi  le  galoppavano  a  lato.  Mentre  il  gio- 
vane principe  contemplava  questa  apparizione,  la  piccola 
fata  si  avvicinò  e  gli  gettò  con  entusiasmo  le  braccia  al 
collo.   Era  la    cugina   Elisabetta,  che  non   gli  era  stata 


-  78  - 

mai  presentata  e  che  aveva  riconosciuto  il  suo  futuro 
cognato  dai  ritratti  di  lui,  che  aveva  visti.  «  (Arvède 
Barine,  Les  Débats,  8  novembre  1899.) 

La  Barine  aggiunge  che  quella  stessa  sera  il  giovane 
imperatore  dichiarò  al  duca  di  Baviera  la  sua  intenzione 
di  sposare  la  piccola  Elisabetta.  Ma  più  esatti  particolari 
dette  ultimamente  il  giornalista  francese  Enrico  Nicolle  (1). 
L' imperatore  più  tardi  fece  dare  un  gran  ballo  ad  Ischi, 
a  cui  furono  invitate  le  cugine  di  Baviera.  La  duchessa 
si  affrettò  ad  accettare  ed  a  condurre  le  figlie  maggiori 
Elena  e  Sofia,  scusando  l'assenza  di  Elisabetta,  la  quale, 
nella  villeggiatura  di  Ischi,  non  aveva  portato  seco  una 
«  toelette  »  degna  di  figurare  in  una  festa  così  sfarzosa. 
Ma  1'  imperatore  si  ostinò.  Un  secondo  invito  fu  mandato 
direttamente  alla  piccola  principessa  con  queste  parole  : 
«  con  la  più  semplice  veste  ed  un  fiore  nei  capelli,  la 
cuginetta  saprà  anche  meglio  di  ogni  altra  figurare  a 
corte  ». 

E  la  principessa  Elisabetta  venne  al  ballo,  e  fu,  nella 
modestia  dei  suoi  abiti,  la  vera  regina  della  festa.  Sul 
tardi  l'imperatore  e  la  principessa  erano  insieme  in  un 
calottino  appartato  :  sopra  un  tavolo  si  trovava  un  ma- 
gnifico album,  nel  quale  erano  mirabilmente  riprodotti  i 
costumi  delle  popolazioni  dei  diciotto  stati  dell'Austria. 
Francesco  Giuseppe  sfogliava  l'album,  descrivendo  ad 
Elisabetta  i  diversi  tipi  e  le  particolarità  di  ogni  paese. 

(1)  H.  Nicolle,  Les  rois  en  pantoufles. 


—  79  — 

Quando  fu  all'ultimo  foglio,  disse  :  «  questi  sono  i  miei 
sudditi.  Se  lo  volete,  mia  bella  cugina,  essi  saranno  anche 
i  vostri  ». 

Per  sola  risposta  la  giovane  principessa  mise  la  sua 
manina  nella  mano  dell'  imperatore....  Non  sembra  una 
storia  d'amore  come  quella  di  Cendrillon  e  del  Prince 
Charmant  ? 

Le  nozze  avvennero  il  24  aprile  1854;  il  viaggio  sul 
Danubio  fu  trionfale,  quasi  fantastico.  Elisabetta  discese 
il  gran  fiume  sino  a  Vienna,  in  un  battello,  tutto  inghir- 
landato di  fiori,  dalle  vele  rosse  di  seta,  dal  velabro  di 
velluto  porpora,  ricamato  di  api  d'oro,  accompagnata  dalle 
semplici  canzoni,  già  intonate  a  lei  dalla  musa  popolare, 
mentre  fanciulle  bianco  vestite  spargevano  viole  sul  suo 
cammino.  Così  viaggiaron  l'eroine  dei  racconti  delle  fate, 
accompagnate  da  mille  guerrieri  e  cento  vergini.  Il  po- 
polo viennese  credette  che  meglio  del  nome  di  «  Cen- 
drillon »  le  convenisse  quello  di  «  Princesse  Printemps  ». 
Ma  la  sua  educazione  doveva  subito  urtare  contro  il 
cerimoniale  minuzioso  e  complicato  della  corte  di  Vienna  ; 
la  sua  natura,  fatta  di  vive  sensazioni,  di  mobili  capric- 
ciosità, di  subite  ribellioni,  di  stranezze  infantili,  doveva 
assolutamente  soffrire  nell'aura  severa  della  corte  austriaca. 
Ed  era  forse  troppo  tardi  per  correggersi  ;  in  vano  sua 
madre  le  scriveva:  «  più  noi  siamo  alti  sulla  scala  so- 
ciale, meno  noi  abbiamo  il  diritto  di  sottrarci  a  quegli 
obblighi,  che  poco  ci  costa  di  sopportare  ».  In  lei  si  venne 
sempre  più  accentuando  il  disdegno  per  tutto  quanto  ap- 


—  8o  — 

partenesse  al  cerimoniale  di  corte,  alla  grande  finzione 
delle  persone  regali. 

—  •  A  me,  diceva,  sembra  talvolta  di  far  parte  di  una 
grande  mascherata  in  costume  da  imperatrice....  Fra  cento 
anni  forse  non  vi  saran  più  troni.  Il  nostro  IO  vale  più 
di  tutti  i  titoli,  di  tutte  le  dignità,  cenci  variopinti,  con 
cui  cerchiamo  di  coprire  le  nostre  nudità,  ma  che  non 
cambiano  nulla  al  nostro  intimo  essere  ».  Ella  osava  per- 
fino dire  :  «  noi  non  abbiamo  neppure  il  portamento,  che 
si  addice  a  Regine.  Le  Borboni  sì,  hanno  il  vero  incesso 
regale  e  vanno  come  oche  orgogliose  ». 

Per  la  politica  poi  aveva  un  invincibile  disprezzo  : 
«  io  reputo  la  politica  immeritevole  d' interesse  ;  essa  non 
è  che  commedia  ed  inganno  ». 

Il  conflitto,  sorto  tra  lei  e  la  corte,  si  aggravò  quando 
Y  imperatore  Y  offese  nel  suo  orgoglio  coniugale.  Ella,  senza 
voler  più  intendere  alcuno,  si  allontanò  da  Vienna  e  si  dette 
a  viaggiare  sul  suo  Yact  attraverso  il  Mediterraneo. 

Ritornò  poi  a  corte,  ma  tra  lei  e  l'imperatore  ci  fu 
sempre  come  una  nube  di  freddezza,  favorita  dall'astio 
mal  dissimulato  dall'arciduchessa  Sofia,  che  la  chiamava 
«  ochina  romantica  ».  L'imperatrice  sapeva  di  non  essere 
compresa  e  di  non  potere  essere  apprezzata  dai  volgari 
cortigiani,  i  quali  mal  tolleravano  che  la  nobile  e  bella 
creatura  facesse  pesar  troppo  sulla  loro  aulica  miseria  mo- 
rale la  sua  indissimulata  e  luminosa  superiorità. 

A  venti  anni  già  ella  era  stata  tradita  dal  marito,  col- 
pita dalla  morte   nella  sua  prima  gioia  materna,   odiata, 


—  81   — 

perseguitata,  dileggiata.  Ma  ben  altro  le  riserbava  il  de- 
stino ;  il  1889  fu  il  suo  anno  fatale!  L'unico  figlio  Ro- 
dolfo, quegli  che  era  tutto  per  lei,  trovava  la  morte  nelle 
braccia  della  baronessina  Maria  Veczera,  la  bella  Levan- 
tina ambiziosa  ed  intrigante.  Dopo  venti  anni  non  è  stato 
ancora  svelato  il  mistero,  che  copre  quella  tragedia.  Si 
sa  soltanto  che  l'arciduca  Rodolfo,  costretto  a  giurare  al 
padre  di  abbandonare  la  sua  amante,  dette  convegno  nel 
castello  di  Mayerling  ad  alcuni  amici,  tra  cui  il  principe 
Filippo  di  Coburgo  e  il  conte  Hoyos.  La  sera  il  cocchiere 
Brabfish,  inseparabile  compagno  dell'arciduca,  lo  condu- 
ceva a  Mayerling  con  la  Weczera.  Si  cenò  allegramente  ; 
la  mattina  dopo  furono  trovati  cadaveri,  lei  strozzata,  lui 
sfregiato  e  con  la  tempia  fracassata  da  una  palla.  Si 
crede  che  lei,  edotta  del  prossimo  abbandono,  l'abbia  evi- 
rato, e  che  egli,  nell'  impeto  del  dolore,  dopo  averla  stroz- 
zata, si  sia  fatto  saltar  le  cervella.  Ed  ultimamente  hanno 
fatto  il  giro  dei  giornali  diverse  altre  versioni,  più  o 
meno  attendibili. 

D'allora  V  imperatrice  non  conobbe  più  pace:  un  anno 
dopo  tornò  a  Mayerling,  per  assistere  alla  messa  di  Re- 
quiem, celebrata  per  il  figlio  in  una  cappella  da  lei  de- 
dicatagli, poi  si  dette  a  quel  suo  triste  vagabondaggio, 
che  non  doveva  cessar  mai  più.  La  corona  imperiale  non 
ebbe  più  alcun  fascino  per  lei,  e  forse  non  ne  aveva  mai 
avuto.  Una  volta,  mentre  stava  pettinandosi  la  sua  chioma 
superba,  il  Christomanos  le  disse  :  «  Vostra  Maestà  porta 
i  suoi  capelli  come  una  corona  invece  di  quella  d'impe- 


—    82    — 

ratrice  ».  «  Soltanto  che  più  facilmente  si  può  liberarsi 
di  questa  corona  »,  rispose  ella  col  suo  indicibile  sorriso 
di  pena  (i). 

Volle  liberarsi  anche  de  l'altra,  troppo  pesante  per  la 
sua  fragile  persona  stanca,  e  lo  fece,  senza  che  questa 
volta  nessuno  osasse  insultare  al  suo  grande  dolore.  Ella 
potè  dire  col  Carducci  : 

Non  cerco  un  regno,  io  solo  chieggo  al  mondo  l'oblio  ! 

Odi  Barbare 
—  Per  il  Chiarone  di  Civitavecchia. 

Nel  suo  disordinato  pellegrinaggio  fu  vista  a  Schoen- 
brunn,  a  Corfù,  a  San  Remo,  a  Parigi,  a  Villafranca,  a 
Nautheim,  tutta  chiusa,  tutta  sola,  tutta  dolorosa,  povera 
foglia  travolta  dal  destino  ;  pallida,  diritta,  muta,  sempre 
vestita  di  bruno,  immagine  del  dolore  che  mai  non  posa, 
de  l'angoscia  che  non  si  quieta,  de  la  sventura  che  mai 
si  dimentica,  che  non  ha  più  canzoni  sulle  labbra,  e  non 
ha  più  lacrime  negli  occhi.  ' 

Passò  così,  circonfusa  di  un  mistero,  che  nessuno  mai 
riuscì  a  disvelare  ;  la  sua  fu  l' intima  vita  ideale  di  una 
creatura  d' eccezione,  che  seppe  sottrarre  alla  curiosità 
morbosa  della  folla  tanta  parte  della  sua  tragica  esistenza, 
che  seppe  contendere  con  superbi  fastidi  alla  volgarità  il 
segreto  dei  suoi  sentimenti  e  dei  suoi  pensieri.  Fuggì 
«  la  nebbia  d'ombra  e  di  sangue,  gravida  di  destini,  che 


(i)  C.  Christomanos.  Regina  di  dolore,  pag.   63. 


-  83  - 

cova  su  Vienna  »  (i),  ed  andò  a  posare  le  fervide  ali  dei 
suoi  sogni,  dovunque  avessero  il  loro  regno  la  bellezza 
e  la  poesia  :  sulle  spiagge  fiorite  eternamente  dalla  pri- 
mavera, sul  mare  che  fu  forse  la  sua  sola  passione,  nelle 
chiese  in  cui  «  re  e  regine  ferree  eransi  dato  convegno 
a  traverso  i  secoli  »,  nella  Hoffgarten,  il  giardino  della 
Reggia  Tirolese,  «  così  raccolto  nella  sua  porpora  autun- 
nale, »  presso  la  cascata  di  Gastein,  «  che  ne  la  notte  geme 
come  un'anima  in  pena  ».  La  sua  tristezza  le  fu  più  cara 
della  vita,  perchè  a  lei  non  restava  che  amare  il  suo  do- 
lore, ed  il  suo  dolore  ella  lo  portò  pei  clivi  fioriti  d'ane- 
moni ed  asfodeli,  nei  giardini  olezzanti  di  giacinti  e  di 
rose,  nelle  selve  di  ulivi  argentei  e  nelle  cipressaie  tene- 
brose, nei  boschetti  di  aranci  ricchi  di  oro  pendulo,  nelle 
piccole  insenature  azzurre  di  Garitza  e  di  Chalikiopoulos, 
sulle  cime  aride  e  brulle  dei  monti  Akrocerauni,  dove 
abitano  le  Eumeneidi,  sulle  eccelse  corna  gemelle  del  Pan- 
tòkrator,  baciate  dai  primi  raggi  del  sole,  e  tutti  i  suoi 
sogni  raccolse  in  un  solo  grande  sogno  di  solitudine.... 
l' Achillejon  ! 

I  Wittelsbach  e  gli  Asburgo  hanno  popolato  i  loro 
possedimenti  dei  più  superbi  castelli  e  delle  ville  più 
splendide,  che  siano  in  Europa,  col  più  fine  intuito  arti- 
stico e  la  più  signorile  magnificenza.  Le  loro  costruzioni 
possono  ben  dirsi  col  Gauthier:  «  Vrais  comtes  de  fées 
réalisées  ». 

Luigi  di  Baviera,  cugino  dell'  imperatrice  Elisabetta, 

(i)  Christomanos. 


-  84  - 

il  regale  sognatore  di  bellezze,  che  perì  così  miseramente, 
costruì  dei  castelli,   che  furon  detti   «  sogni  di  marmo  ». 

Egli,  che  già  possedeva  il  castello  di  Hohenschwangau, 
infiorato  dalla  leggenda  di  Lohengrin,  concepì  il  disegno 
di  un  nuovo  castello,  che,  traendo  gli  auspici  dal  nome 
di  un  cigno,  sorgesse  tra  il  cielo  e  la  terra,  più  vicino 
al  cielo  e  più  lontano  dalla  terra.  Tale  fu  il  castello  di 
Neuschwanstein,  che  sorse  sulla  nuda  roccia  della  Torbau, 
sogno  ribelle  d'arte  e  d'audacia.  «  V'è  davvero  qualche 
cosa  di  audace  e  di  gigantesco,  di  ciclopico  e  di  sovru- 
mano, scrive  il  Tencajoli,  in  quel  castello  terribile  che 
troneggia  con  le  sue  torri  alte  duecento  metri:  coi  suoi 
pinnacoli  aguzzi  come  punte  di  spade  taglienti,  con  le  sue 
scarpate  rudi  come  tagli  di  asce  giganti  ;  v'è  qualche  cosa 
di  terribilmente  maestoso  in  tutta  quella  costruzione  gra- 
nitica, che  all'altezza  di  mille  metri  posa  sulla  roccia  nuda 
e  grigia,  quasi  spinta  verso  F  infinito  dalle  vette  palpi- 
tanti dei  pini.  È  un  sogno,  che  pare  si  debba  infrangere 
da  un  momento  all'  altro  con  una  raffica  impetuosa  di 
vento  »  (i). 

E  dopo  Neuschwanstein,  il  re  dalla  fantasia  morbosa 
costruì  il  castello  di  Linderhof,  vero  palazzo  incantato, 
che  «  sboccia  da  una  foresta  selvaggia  come  un  fiore  di 
trine  marmoree  »  e  ancora  il  castello  di  Herrenchiemsee, 
che  è  una  riproduzione  del  palazzo  di  Versailles,  elevan- 


(i)  O.  F.  Tencajoli.  Il  re  solitario  e  i  suoi  castelli.  Nel    Secolo  XX 
dell'Ottobre  1908. 


-  85  - 

tesi  in  mezzo  ad  un  lago,  rinserrato  tra  gli  abbracci  della 
montagna  bavarese. 

Così,  in  cima  ad  una  roccia  selvaggia,  nella  radura 
di  una  foresta  sconfinata,  fra  le  onde  tranquille  di  un 
lago,  1'  infelice  amico  di  Wagner  cercava  di  appagare  il 
desiderio  vago  e  indefinito  di  bellezza,  che  gli  torturava 
la  mente  malata. 

Massimiliano  d'Austria  aveva  elevato  il  castello  di 
Miramare,  bianca  e  radiosa  visione  di  pace  e  d'amore  ed 
Elisabetta  stessa  aveva  già  fatto  costruire  il  castello  di 
Lainz,  dando  all'opera  maestosa  tesori  di  denaro,  di  ener- 
gia, di  arte,  di  fantasia,    quand'ella  pensò  all'Achille]' on. 

Oltre  il  porto  di  Corfù,  oltre  i  giardini  di  Nausicaa, 
protesi  al  mare  come  in  uno  slancio  appassionato,  oltre 
il  porto  dei  Feaci,  donde  Ulisse  s' imbarcò  per  Y  Itaca 
petrosa,  oltre  l' isoletta  dei  cipressi  alti  e  cupi,  che  ispirò 
il  celebre  quadro  del  Boeklin,  «  l'Isola  della  Morte  »,  sotto 
una  costiera  rivestita  di  uliveti,  che  scende  al  mare,  è  la 
piccola  baia  di  Benizze. 

«  Dalla  spiaggia,  dice  il  Christomanos,  comincia  a  sa- 
lire assai  in  alto  un  dolce  clivo,  mollemente  ricoperto 
di  una  lanugine  di  argentei  olivi,  e  in  mezzo  a  questa 
luminosa  mollezza,  neri  cipressi  drizzansi  solitari,  e,  come 
alberi  di  navi  sommesse,  contemplano  il  vuoto  mare  ai 
loro  piedi,  desolatamente.  Ma  sulla  vetta,  di  tra  le  ultime 
onde  di  fogliame,  il  bianco  Palagio  di  Achille  abbagliante 
sorge  »  (i).  L'Achillejon  è  meno  splendido  del  castello  di 

(i)  Christomanos,  Regina  di  dolore.  Pag.    146. 


—  86  — 

Lainz,  ma  ha  il  gran  fascino  segreto,  che  hanno  sempre 
e  soltanto  le  cose  raccolte  intorno  ad  un  grande  amore 
e  ad  un  grande  dolore,  da  chi  sa  goderlo  e  soffrirlo  con 
tutta  l'anima  e  con  tutti  i  sensi. 

Infatti  tuttala  villa  meravigliosa  (i)  è  come  un  Pantheon 
della  Poesia  e  della  Bellezza  :  Omero  rapsodo,  Esopo  fa- 
voleggiatore, Apollo  con  le  vergini  Pieri  di,  la  Peri  della 
luce  sulle  ali  del  cigno,  Venere,  Diana,  Nótre  Dame 
de  la  Garde,  patrona  della  gente  di  mare,  Antinoo,  Bacco 
fanciullo,  Achille  morente,  tutti  i  simulacri  di  una  forma 
di  bellezza,  tutti  i  simboli  di  un  pensiero,  vi  sono  vene- 
rati con  un  eclettismo  di  adorazione,  che  sbalordirebbe 
anziché  commuovere,  se  non  se  ne  indovinasse  il  fervore, 
la  sincerità  profonda  in  tutte  le  altre  superstiti  manifesta- 
zioni e  rivelazioni  della  molteplice  anima  di  Elisabetta 
imperatrice. 

Domina  dovunque  però  una  predilezione  classica,  quan- 
d'  anche  alcune  forme  di  essa  abbiano  piuttosto  un  valore 
sentimentale  che  estetico  (2). 

Neil*  Achillejon  ella  si  ritirava,  quando  più  profondo 
sentiva  il  disgusto  del  mondo  e  degli  uomini,  di  questa 


(1)  L'  Achillejon  è  gloria  italiana  :  1'  architetto  Raffaele  Carito  di  Napoli 
lo  costruì  e  lo  decorò,  riproducendo  i  più  classici  motivi  pompeiani  e  il 
prof.  Capponetti,  pure  di  Napoli,  ne  disegnò  i  mobili.  Casa  Borghese  provvide 
ad  adornarla  di  statue  antiche.  La  stessa  imperatrice  diceva  di  aver  comperato 
dai  Borghese  ed  aggiungeva  :  «  vede  in  che  brutto  mondo  siamo  :  fin  gli  Dei 
diventano  schiavi  abbandonati  alla  mercè  del  vile  denaro  » .  (dal  Christomanos) . 

(2)  V.  Olga  Ossani-Lodi.  Nella   Vita. 


-  87  - 

nostra  gran  vita,  fatta  di  piccole  miserie  ironiche  e  di 
piccole  giocondità  amare,  quando  più  imperioso  sentiva 
il  bisogno  delle  sue  ebbrezze  di  solitudine  e  di  silenzio. 
—  Grazie  alle  mie  lunghe  solitudini,  ella  diceva,  ho  po- 
tuto vedere  che  la  miseria  dell'  esistenza  la  si  sente  sopra 
tutto  per  il  contatto  con  gli  uomini. 

Ella  andava  all'  Achillejon,  per  vivere  in  quelF  arcana 
armonia  tra  i  propri  sentimenti  e  le  cose  circostanti,  la 
quale  determina  uno  stato  d'  animo  di  appagamento  e  di 
acquiescenza,  che  si  ricerca  per  essere  più  felici  :  ella  in- 
vece lo  ricercava  per  soffrire  forse  più  intensamente,  ma 
lungi  dagli  uomini,  di  cui  odiava  non  solo  la  curiosità, 
ma  anche  il  compianto.  «  Gli  inglesi,  ella  diceva,  sono 
disperati  di  stare  appostati  per  ore  intere  sulla  collina, 
senza  riuscire  a  veder  nulla  »,  e  rideva  come  una  bam- 
bina, lei  che  ha  lasciato  scritto  :  «  il  riso  e  il  pianto  sono 
la  cenere,  sotto  la  quale  arde  la  brace  della  nostra  anima  ». 

E  nel  mistero  di  quell'  anima  nessuno  mai  seppe  pene- 
trare, neppure  quelli  che  vissero  a  lungo  con  lei  e  che  ci 
hanno  tramandato  le  sue  memorie,  il  Christomanos  cioè  e 
recentemente  la  contessa  Szataray  ;  forse  perchè  la  sua 
vita  si  svolse  in  condizioni  assolutamente  uniche  nella 
storia  umana.  «  L'  atmosfera  in  cui  vive  P  imperatrice, 
scrisse  il  Christomanos,  è  ben  altra  che  quella,  in  cui  noi 
respiriamo.  Dal  nostro  punto  di  vista,  la  sua  vita  è  piut- 
tosto un  non  vivere  ;  si  potrebbe  dire  che  ella  si  trova, 
pur  essendo  una  creatura  vivente,  in  uno  stato,  che  esclude 
la  vita  ». 


—  88  — 

Perciò,  allorché  ella  fu  uccisa,  Lucheni  fu  paragonato 
a  Maramaldo,  perchè  aveva  ucciso  una  creatura  già  morta. 
Il  Barrés,  là  dove  parla  del  trapasso  dell'  imperatrice,  inti- 
tola :  «  LES  VIOLONS  CHANTENT.-JAM  TRANSIIT  »,  perchè 
«  déja  elle  avait  passe  »  (i).  E  il  Barrés  stesso  aveva 
scritto  :  «  gli  antenati  di  cui  ella  era  la  continuazione  mo- 
rale, quasi  il  prolungamento,  non  potevano  più  parlare 
con  efficacia  a  lei.  La  loro  concezione  fondamentale  della 
vita  non  sapeva  più  cantare  nella  sua  coscienza.  Ella  non 
si  conosceva  più  che  come  un  individuo  »  (2).  Un  individuo 
strano,  complesso,  fantasioso,  malato,  che  visse  in  un  mi- 
stero, di  cui  nessuno  saprà  dirci  l'intima  verità  e  la  parola 
profonda  ;  fu  un  fantasma  regale,  che  per  la  sua  vita  e 
per  la  sua  morte,  per  la  tragica  singolarità  della  sua  anima, 
per  il  velo,  onde  la  bella  persona  si  circonfuse  e  lieve 
trasvolò  tra  gli  umani,  come  1'  immagine  del  dolore  portato 
in  silenzio  per  il  vasto  mondo,  oscilla  indecisa  tra  i  do- 
mini fluttuanti  della  leggenda  e  i  confini  sicuri  della  storia. 

La  credettero  una  donna  intellettuale  nel  senso  ironico 
della  parola,  una  femminista,  ed  ella  diceva  :  «  meno  le 
donne  apprendono,  maggior  pregio  esse  hanno  ».  Dissero 
che  nelle  sue  stranezze  ella  cercava  quel  conforto,  che  le 
veniva  negato  dalla  fede  perduta,  ed  ella  aveva  posto  la 
sua  dimora  preferita  sotto  un  ausilio  divino,  ^scrivendo 
questi  versi  appiè  di  un'  immagine  sacra  : 

Deh  !  schiudi  le  tue  braccia 
Maria,  che  noi  salutiamo  ! 

(1)  M.  Barrés .  Amori  et  Dolori  sacrum  ;  Une  imperatrice  de  la  solitude . 

(2)  Idem. 


Stendile  a  protezione  di  questa  casa 

Nella  valle,  ai  piedi  tuoi, 

Benedici  questo  piccolo  nido  ! 

Imperversi  intorno  la  bufera, 

Esso  rimanga  saldo  nella  tua  custodia... 

Tu,  piena  di  grazia,  lo  difenderai. 

Alcuni  moderni  psichiatri,  smaniosi  di  includere  nelle 
loro  categorie  anche  quelle  anime,  che  sfuggono  ad  ogni 
pretensiosa  nomenclatura  scientifica,  dissero  che  si  trattava 
di  una  nevrotica,  di  un'  isterica,  e,  più  tardi,  di  una  pazza. 
Pazzia  non  fu  mai  !  tutto  al  più  si  può  riconoscere  che  il 
turbine  di  sventura,  che  travolse  quella  debole  anima  fem- 
minile abbia  prodotto  in  lei  quella  naturale  depressione 
delle  facoltà  psichiche,  cui  mai  nessun  umano  potè  resistere. 

La  divina  Antigone  di  Sofocle  dice  a  sua  sorella  Is- 
mene: «  da  lungo  tempo  io  son  morta  alla  vita,  io  non  posso 
più  servire  che  i  morti  ».  —  «  E  un'  insensata  »,  pensa 
Creonte.  —  «  Principe,  gli  risponde  Ismene,  giammai  la 
ragione,  che  natura  ci  ha  donato,  ha  potuto  resistere  al- 
l' eccesso  del  male  ». 

Ed  Elisabetta  imperatrice  regina  ben  fu  chiamata  : 
«  nordica  figura  di  tragedia  greca  ».  La  sua  vita  fu  detta 
dal  Barrès  il  più  possente  poema  di  nichilismo,  per  la  sua 
audacia  e  la  sua  ironia  amara,  per  il  suo  accento  scettico 
e  fatalista,  per  il  suo  invincibile  disgusto  di  tutto  e  di 
tutti,  per  la  presenza,  a  lei  perpetua,  dell'  ideale  e  della 
morte,  ed  anche  per  certe  sue  fanciullaggini  estetiche  di 
una  malinconia  suprema. 

Il  Christomanos,  nell'entusiasmo  delle  sue  «  laudes  », 


_    QO    —        . 

dopo  aver  magnificato  il  suo  spirito  «  fluido  e  profondo 
come  il  mare  »,  la  proclamò:  «  una  delle  più  sublimi  e 
tragiche  parvenze  dell'  umanità  !   » 

E  noi  cosi  pensiamo  con  lui  ;  perchè  questa  donna, 
madre,  sorella,  sposa,  fu  tre  volte  purificata  dal  dolore, 
perchè  il  suo  martirio  la  levò  in  alto  nella  pietà  delle 
genti,  perchè  di  questa  regina 

la  reggia  niuna 

Invidiò,  che  presso  il  foco  spento 

Pure  ci  avesse  un  tremolio  di  cuna  ! 
Niuna  il  suo  trono  invidiò,  che  il  lento 

Figlio  aspettasse,  tuttavia  lunghe  ore 

Neil'  abituro  battuto  dal  vento  !  (i) 


Ella  aveva  detto  :  «  io  vado  così,  sola,  alla  ricerca  del 
mio  destino,  so  che  nulla  al  mondo  può  rattenermi  dal- 
l'incontrarlo  nel  giorno  prefisso:  il  destino  chiude  gli  occhi 
per  lungo  tempo,  ma  ci  vede  pur  sempre,  e  dà  degli  schiaffi 
a  tutte  le  nostre  vanitose  pretensioni  di  saggezza  ».  E  con 
queste  parole  rifiutò  ancora  una  volta  a  Ginevra  la  scorta, 
messa  a  sua  disposizione  dal  governo  elvetico. 

Il  io  settembre  1898,  nel  pomeriggio,  volle  traversare 
il  lago,  per  recarsi  a  Montreux-Territet.  Passava  sullo 
scalo,  per  salire  sul  battello,  quando  un  giovane,  vestito 
da  operaio,  si  alzò  da  una  banchina,  le  andò  incontro,  e 

(1)  Giovanni  Pascoli.    Odi  ed  inni.  Nel  carcere  di  Ginevra. 


—  gi- 
lè dette  un  colpo  tremendo  al  petto.  Ella  cadde  subito 
per  la  violenza  dell'urto,  ma  poi  si  rialzò,  afferrò  il  braccio 
della  sua  dama  e  rapidamente  s'  imbarcò.  Ma,  giunta  sul 
ponte  del  battello,  cadde  improvvisamente  svenuta,  e  sol- 
tanto allora,  slacciandosi  le  vesti,  si  potè  vedere  sotto  il 
candido  seno  un  piccolo  foro,  che  non  dava  sangue.  Lu- 
cheni,  macabro  idiota,  l'aveva  ferita  con  una  lima  trian- 
golare. 

Chiesero  all'  imperatrice  :  «  soffrite  ?  »  Apri  i  begli 
occhi  sereni,  e  rispose  dolcemente  :  «  no  ».  Un  minuto 
dopo  era  spirata,  mentre  il  sole  tramontava  sul  lago  di 
un  purpureo  tramonto  autunnale. 

Chiesto  al  Lucheni,  perchè  avesse  commesso  V  infame 
delitto,  rispose  per  suprema  ironia  :  «  perchè  ella  era  fe- 
lice ed  io  no  !  »  Il  Pascoli  credette  alla  grande  infelicità 
di  colui  che  divenne  il  più  odioso  assassino  della  storia, 
e  scrisse,  rivolto  a  lui  : 

....con  l'arma,  che  gocciò  vermiglia, 
Passasti  il  cuore  di  una  tua  sorella, 
Di  un'  infelice  ! 

E  implorò  per  lui  la  Pietà,  perchè  era  «  suo  focolare 
il  dolor  del  mondo  »  : 

E  l'odio  è  stolto,  ombre  dal  volo  breve, 
Tanto  se  insorga,  quanto  se  incateni  ; 
È  la  pietà,  che  l'uomo  a  l'uom  più  deve  ! 
Persino  ai  re,  persino  a  te,  Lucheni  !    (i) 

(i)  Giovanni  Pascoli.  Nel  carcere  di  Ginevra. 


«        —    92    — 

Ma  tutto  il  mondo  civile,  che  aveva  visto  passare, 
commiserando,  l'imperatrice,  condannò  unanime  e  male- 
disse il  suo  assassino. 

Pochi  giorni  dopo  il  delitto,  che  commosse  tutto  il 
mondo,  il  Carducci  leggeva  a  pochi  amici  la  sua  elegia 
«  per  i  funerali  di  Elisabetta  imperatrice  regina  ».  Fu 
resa  nota  il  23  settembre  ;  vide  poi  la  luce  nella  «  Rivista 
d'Italia  ». 

Il  grande  poeta  s' inchinava  per  la  seconda  volta 
«  all'  Eterno  Femminino  Regale  »,  e  veramente  nessuna 
donna,  per  Y  aureola  di  bellezza,  di  regalità  e  di  mar- 
tirio, che  tre  volte  la  cinse,  in  nome  di  una  vita  più  dolo- 
rosa e  di  una  più  tragica  morte  poteva  meglio  di  lei 
meritare  1'  ultimo  omaggio  dalla  Poesia  che  non  muore. 

La  concezione  fantastica  di  questa  elegia  è  forse  la 
più  originale  di  tutta  la  poesia  carducciana  ;  superbo  poi 
il  movimento  lirico,  con  cui  1'  epicedio  si  apre  : 

Bionde  Valchirie,  a  voi  diletta  sferzar  de'  cavalli, 
Sovra  i  nembi  natando,  1*  erte    criniere  al  cielo. 

Via  dal  lutto  uniforme,  dal  pianger  lento  dei  cherci, 
Rapite  or  voi,  volanti,  di  Wittelsbach  la  donna  ! 

E  V  idea  di  affidare  il  corpo  dell'  imperatrice,  trafitto 
dal  pugnale  villano,  alle  Valchirie,  agitatrici  di  cavalli, 
perchè  lo  involino  da  la  pompa  di  liturgiche  funzioni  al 
silenzio  più  gradito  di  una  riva  più  cortese,  non  solo  è 
originalissima,  ma  non  poteva  essere  più  felice,  sia  perchè 
V imperatrice  Elisabetta  era  stata  una  perfetta  amazzone, 
sia  perchè  ella  fu  una   fervida  ammiratrice   di  Riccardo 


—  93  — 

Wagner,  che  le  nordiche   deità   eternò  nella  sua  musica 
divina,  (i) 

Ricordate  la  sua  grandiosa  cavalcata  delle  Valchirie? 
Sulla  vetta  di  una  montagna  dirupata  è  il  convegno  delle 
Valchirie.  A  destra  una  foresta  di  abeti.  Fantastiche  nuvole, 
cacciate  dalla  tempesta,  sfiorano  passando  gli  orli  delle 
rupi.  Ne  balzano  fuori  armate  di  tutto  punto  le  fiere 
figliuole  di  Wotan,  montate  sui  focosi  destrieri,  coi  corpi 
dei  guerrieri  morti,  appesi  agli  arcioni.  Esse  attraver- 
sano la  scena  al  galoppo,  gettando  all'  aria  il  loro  sel- 
vaggio grido  di  guerra  e  brandendo  le  lunghe  lance  sfa- 
villanti. L'eco  ripete  le  loro  grida,  il  vento  sibila  acutamente, 
flagellando  le  cime  degli  abeti,  che  si  piegano  paurosi 
alle  raffiche  violente,  e  1'  uragano  mugge,  si  scatena,  imper- 
versa. Ed  ecco  un'  altra  Valchiria,  un'  altra  ancora  ;  le 
prime  arrivate  si  appostano  in  vedetta  sui  picchi  più 
elevati,  eccitano  con  le  loro  esclamazioni  le  sopravvenienti, 
le  salutano  col  loro  grido  di  guerra  e  con  un  forte  pic- 
chiare delle  lance  sugli  scudi.  Per  Y  aria  risuonano  voci 
di  giubilo,  scoppi  violenti  di  risa,  schioccar  di  fruste, 
tintinnar  di  sonagli,  galoppar  di  cavalli,  lanciati  a  tutta 
corsa  tra  i  sibili  del  vento,  lo  svettar  degli  abeti,  gli 
scrosci  del  tuono  e  il  mugolar  de  la  tempesta  (2)  e 

...  Wagner  possente  mille  anime  intona 

Ai  cantanti  metalli  ;  trema  agli  umani  il  cuore. 

G.  Carducci.  Presso  V  tinta  di  P.  B.  Shelley. 

(1)  Di  lui  1*  imperatrice  diceva  che  «  aveva  incarnato  musicalmente  i  segreti 
più  reconditi  dell'  anima  umana  » . 

(2)  D.  Depanis.  L'  anello  del  Nibelungo. 


—  94  — 
Così,  così, 

Via,  Valchirie,  con  voi  la  bionda  qual  voi  di  cavalli 
Agitatrice,  a  riva  più  cortese  ! 

Insuperabile  agitatrice  di  cavalli  ella  fu  proclamata 
dagli  stessi  inglesi,  quando  prese  parte  alle  cacce  nelle 
verdi  Erinni,  e  dei  suoi  cavalli  ella  diceva  :  «  molti  di 
questi  generosi  animali  si  son  precipitati  per  me  alla 
morte,  ciò  che  nessuno  tra  gli  uomini  avrebbe  fatto  o 
farebbe  ;  piuttosto  mi  assassinerebbero  ». 

Ed  infatti  il  destino  dette  ragione  alle  sue  parole 
amare  : 

Ahi  !  quanto  fato  grava  su  1'  alta  tua  casa  crollante, 
Su  la  tua  bianca  testa,  quanto  dolore,  Asburgo  ! 

Pace,  o  veglianti  ne  la  caligin  di  Mantova  e  Arad 
Ombre,  ed  o  scarmigliati  fantasimi  di  donne  ! 

Allorché  il  vecchio  imperatore  apprese  la  notizia  della 
tragedia  di  Ginevra,  ruppe  in  un  singhiozzo  convulso  e 
disperato,  e  nel  pianto  esclamò  :  «  ecco  il  giorno  più 
triste  de  la  mia  vita  »  ! 

E  dinanzi  a  questo  vegliardo,  sulla  cui  fronte  non 
e'  è  angolo,  ove  il  dolore  non  abbia  lasciato  un'  indelebile 
traccia,  nessuno  più  oserebbe  di  ricordare  le  colpe  antiche 
e  gli  antichi  errori  :  taccia  finalmente  il  grido  di  vendetta, 
che  si  eleva  dalle  fosse  di  Belfiore  e  di  Arad  !  Haynau, 
il  generale  Jena,  che  aveva  visto  «  Brescia  beverata  nel 
sangue  nemico,  »  che  aveva  mandato  al  supplizio  ven- 
tidue ufficiali  ungheresi  nelle  fosse  di  Arad,  e  ne  aveva 


—  95  — 

fatto  fustigare  le  donne,  ignude  davanti  all'  esercito  sghi- 
gnazzante, morì  solo,  abbandonato  in  un  albergo,  tra 
T  esecrazione  e  1'  abbominio  di  tutto  il  mondo  civile  ;  e 
già  in  Inghilterra  egli  era  stato,  come  un  essere  ripu- 
gnante, allontanato  e  coperto  d' ingiurie  e  di  fango  dagli 
ufficiali  di  Sua  Maestà  Britannica. 

E  sulla  casa  d'  Asburgo  la  Nemesi  ultrice  infierì  tanto 
inesorabile,  che  da  quelle  stesse  fosse  di  Mantova  e  di 
Arad  pare  che  s' impetri  tregua  al  destino  ! 

Voi 

tergete,  Valchirie,  tergete 
Dal  nobil  petto  1'  orma  nel  pugnale  villano. 
E  tergete  da  1'  alma,  voi  pie  sanatrici  divine 
Il  sogno  spaventoso,  lugubre  de  1'  impero  ! 

Laggiù, 

Sotto  Corcira  bella  1'  azzurro  Ionio  sospira, 

Con  suo  ritmo  pensoso,  verso  gli  aranci  in  fiore. 

Sorge  la  bianca  luna  da'  monti  d'  Epiro  ed  allunga 
Sino  a  Leuca  la  face  tremolante  sul  mare. 

Ivi  1'  aspetta  Achille 

il  mitico  eroe,  a  cui  ella  aveva  dedicato  il  suo  palagio, 
«  Ad  Achille  1'  ho  consacrato,  ella  diceva,  giacché  egli 
personifica  per  me  Y  anima  Ellenica  e  la  bellezza  della 
vita....  lo  amo,  perchè  era  rapido  alla  corsa,  perchè  era 
forte  e  fiero,  perchè  non  riteneva  sacra  che  la  propria 
volontà,  né  per  altro  visse  che  per  i  suoi  sogni....  e  la 
sua  tristezza  gli  fu  più  sacra  della  vita  !  » 


-  96  - 

Achille  ed  Arrigo  Heine  ella  glorificò  nel  tempio, 
che  fu  tutto  e  solamente  suo  :  la  statua  di  Achille  è  una 
delle  prime  che  si  scorge,  entrando  nell'Achillejon,  ed  Heine 
ha  un  vero  tempietto  dorico  in  un  recondito  angolo  dell'  in- 
cantevole giardino.  Il  poeta  riposa,  in  atteggiamento  stanco 
e  sofferente,  tra  un  cumulo  di  guanciali  :  tra  le  mani  ha 
un  foglio,  su  cui  è  impressa  questa  sua  strofe  sconsolata  : 

Was  willt  die  einsame  Thrane  ? 
Sie  trùbt  mir  ja  den  Blick 
Sie  bleibt  aus  alten  Zeiten 
In  meinen  Augen  zurùck. 

(che  vuole  la  solitaria  lacrima  ?  Essa  mi  oscura  la  vista  — 
ricordo  degli  anni  lontani,  s' indugiò  sulla  mia  pupilla.) 
Quantunque  credente,  ella  amò  Heine,  forse  perchè  gli 
rassomigliava  per  la  sconfinata  ammirazione  delle  cose 
naturali,  per  1'  ardore  del  sentimento,  per  il  disdegno  degli 
uomini,  per  la  scettica  concezione  della  vita  e  del  mondo. 
Interrogata,  quale  dei  Lieder  Heiniani  ella  preferisse,  ri- 
spose: »  tutti,  perchè  non  sono  che  un  unico  Lied  :  lo  scet- 
ticismo dell'  Heine,  incredulo  nella  sua  sentimentalità  e  nel 
suo  entusiasmo,  è  anche  la  mia  fede....  Io  1'  amo  per  il 
suo  immenso  disprezzo  delle  proprie  debolezze  umane  e 
per  la  mestizia,  di  cui  lo  riempivano  le  cose  terrene  », 
e  forse  ella  si  riconobbe  in  alcuni  versi  del  poeta  tedesco. 

Non  è  Elisabetta,  di  cui  parla  Arrigo  Heine  nel  «  Cielo 
del  mare  del  Nord  »  ? 

Sta  una  donna  bella  e  malata 
Diafana  e  bianca  come  di  marmo, 


—  97  — 

E  il  vento  sparpaglia  le  sue  chiome  ! 
E  trascina  il  suo  tetro  canto 
Sopra  il  mare  deserto  e  procelloso. 

Ora  là,  sotto  la  placida  rete  d'argento,  che  la  luna 
distende  sulle  onde,  nella  infinita  serenità  del  cielo  e  del 
mare,  risuoni  di  novelli  accordi  la  cetra  del  poeta  tede- 
sco ed  a  lui  risponda,  dallo  scoglio  di  Leucade,  Saffo  so- 
spirosa, per  comporre  così  l'ultimo  sonno  alla  «  Principessa 
della  Primavera  ». 

Sveglisi  nei  freschi  anni  la  pura  Vindelica  rosa, 
A  un  dolce  accordo  novo  di  t'innienti  cetre, 

Qual  più  soave  mai,  la  musa  di  Heine  risuona  : 
Chi  da  l'erma  risponde  Leucade  sospirando? 

Tien  la  spirtale  riva  un'alta  serena  quiete 
Come  d'elisio  sotto  la  graziosa  luna. 

Così  finisce  l' elegia,  come  un  sospiro,  con  la  pacata 
visione  della  spirtale  riva,  accarezzata  dal  raggio  pleni- 
lunare, e  dal  batter  lento  de  l'onda,  mentre  il  vento  ra- 
pisce effluvi  inebrianti  agli  aranci  in  fiore. 

L'imperatrice  aveva  detto  :  «  nell'Achillejon  io  voglio 
essere  sepolta.  Qui  io  non  avrò  sovra  di  me  che  le  stelle 
ed  i  cipressi  sospireranno  per  me  assai  più  che  non  fa- 
rebbero gli  uomini  :  nel  loro  pianto  io  vivrò  più  eterna- 
mente che  non  nella  memoria  dei  miei  sudditi  ». 

Invece  il  destino  andò  anche  oltre  la  morte,  e  la  regina 
di  dolore  non  ebbe  la  sepoltura  sognata  da  lei  e  per  lei 
invocata  dal  poeta.  Pochi  anni  dopo  la  sua  morte  l'Achil- 


-  98  - 

lejon  fu  venduto  ad  un  imperatore,  che  ne  tolse  persino 
la  statua  di  Heine,  per  un  meschino  rancore  dinastico. 
Quando  il  corteggio  tedesco  varcò  il  cancello  del  palagio 
di  Achille,  il  gran  sogno  dell'  imperatrice  ripiegò  le  sue 
ali  e  si  dileguò  per  sempre  sconfitto.  Non  più  or  sembra 
che  biancheggi  la  villa  del  sogno  nell'alta  serena  quiete 
del  cielo  e  del  mare,  ma 

....  le  celeri 
Nubi  a  galoppo  inseguono 
Pari  a  Valchirie  fiere,  la  nomade 
Luna,  la  selva  palpita 
D'antiche  musiche,  di  saghe  eroiche. 

A.  Colautti 

E,  nei  lontani  anni  del  futuro,  se  mai  avrete  la  for- 
tuna di  veleggiare  nel  piccolo  mare  glorioso,  che  dà  il 
suo  bacio  perenne  alle  coste  della  Vecchia  Grecia,  vi 
parrà  certo  di  vedere  dalla  tolda  della  vostra  nave,  un 
bianco  fantasma  errare  da  la  placida  baia  di  Benizze,  su 
su  a  traverso  un  sentiero  fiancheggiato  di  ulivi,  sino  al 
candido  palagio  di  Achille  !  Allora  inchinatevi  riverenti. 
E  P  imperatrice! 


1042011