PURCHASED FOR THE
UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY
FROM THE
HUMANITIES RESEARCH COUNCIL
SPECIAL GRANT
FOR
Italian Literature
from Romanticism
to Postino derni siti
AMEDEO TOSTI
Nemesi Carducciana
I Napoleonici! e gli Asburgo
nell'opera di Giosuè Car-
ducci & Con lettera-prefazione di
Vincenzo Morello (Rastìgnac)
(Quattro illustrazioni fuori testo) &
■ftIMJIWIGtiro
ROMA
SOCIETÀ LIBRARIA EDITRICE NAZIONALE
mi
AMEDEO TOSTI
Nemesi Carducciana
I Napoleonici! e gli Asburgo
nelF opera di Giosuè Carducci
con lettera-prefazione di V* Morello (Rastignac)
(Quattro illustrazioni fuori testo)
«fntWTWWTO.
ROMA
SOCIETÀ LIBRARIA EDITRICE NAZIONALE
J9U
PROPRIETÀ LETTERARIA X RI-
SERVATI I DIRITTI PER TUTTI I
PAESI COMPRESO IL REGNO DI
SVEZIA E NORVEGIA X X X X
Società Lito-Tipografica Pratese T. Grassi e C. - Prato
Carissimo Tosti,
Non scrivo una prefazione al suo libro, perchè
non ho V abitudine di fare il cerimoniere dinnanzi
al pubblico. Le ricordo, invece, un passo del di-
scorso del Carducci in onore di Vergilio, che po-
trà mettere, come la più vera e maggiore prefa-
zione, in testa al suo libro, a significare il valore
storico di tutta t opera del nostro grande poeta
nazionale : « Niun epico e forse nessun storico
antico fu più archeologo di Vergilio : nella poesia
di lui risorgono su i monti, su i colli, dai fiumi,
gli antichi dei della patria ; risorgono su le mine
delle città disparite i popoli spenti a cantare le
origini divine e gli instituti civili e i culti dei
padri e la forza delle armi : Arcadi, Etruschi,
— IV
Latini, Sabelli, si mescolano nel miluogo più glo-
rioso del mondo, su' colli e ne' campi ove poi crebbe
Roma » . Parole, come vede, che possono anche
sintetizzare tutto il contenuto della poesia Italica
del Carducci, di quel Carducci che i malinconici
deliquescenti mandano, oggi, con grazia infantile,
alt inferno, come archeologo. Era archeologo, a quel
che pare, anche Vergilio.
Io auguro la fortuna, che merita, a questo suo
saggio di critica, che dimostra perfetta conoscenza
della poesia del Carducci e delle fonti storiche,
dalle quali deriva, e anche molta finezza e molto
acume nello scernere e fissare le relazioni tra lo
spirito del poeta e i fatti, che lo muovono all'odio
e all'amore.
E mi creda
Roma, 22 Dicembre igio.
SUO
V. Morello
La mattina dell' n luglio 1859, ad ore nove e mezza,
in pieno sole, sulla strada che esce da Verona, ad un chi-
lometro di distanza da Villafranca, s' incontrarono Fran-
cesco Giuseppe, Imperatore d' Austria e Re d'Ungheria
e Napoleone III, Imperatore dei francesi.
Vestivano ambedue l'uniforme di campagna; lo Stato
Maggiore al seguito portava Y uniforme di gala, la scorta
1' alta tenuta. Accompagnavano Napoleone III il mare-
sciallo Vaillant, i generali Montebello, Ney e Fleury
ed un imponente corteo delle varie armi ; cavalcavano a
fianco di Francesco Giuseppe il settuagenario feld-mare-
sciallo barone di Hess, suo capo di Stato Maggiore, il
generale Mensdorff, 1' aiutante generale Grùnne e li se-
guiva una brillante scorta di ulani, usseri e gendarmi.
Alla presenza dei rispettivi Stati Maggiori i due sovrani
si strinsero la mano commossi : scambiati i primi com-
plimenti, Francesco Giuseppe si pose cortesemente alla
sinistra di Napoleone, e il corteggio mosse verso Villa-
franca. Qui furono accolti dallo sparo delle artiglierie e
dal suono delle campane a distesa. I sovrani scesero di
cavallo all' entrata della casa Gandini-Morelli. Salirono
immediatamente alla gran sala del primo piano, dove si
rinchiusero, dopo aver congedato il loro seguito. Due
sentinelle nell' anticamera, due sul pianerottolo, per im-
pedire V accesso a chicchessia. I due sovrani sedettero di
fronte, presso una tavola, sulla quale, accosto ad un vaso
di fiori di fresco recisi, si trovavano la carta del Regno
Lombardo Veneto, un calamaio, delle penne e alcuni fogli
di carta bianca (i).
Così s' incontravano per la prima volta Francesco Giu-
seppe e Napoleone III, i rappresentanti delle due più po-
tenti nazioni, che allora fossero in Europa : s' incontra-
vano T uno da vinto, Y altro da vincitore. Ma Y Imperatore
dei francesi era discendente di quel Napoleone, che più
volte aveva fiaccato 1' orgoglio degli Asburgo. Cinquan-
taquattro anni prima, il 2 dicembre 1805, ad Austerlitz,
il sole invernale aveva illuminato la più splendida vittoria
di Napoleone I, e l' Imperatore Francesco si era umiliato
sino a visitare il vincitore nel suo accampamento, per
ottenere un armistizio.
Nel 1859, ancora dopo una battaglia, il destino pose
a fronte, in quella sala di Villafranca. un Bonaparte e un
Asburgo, Napoleone III e Francesco Giuseppe, i quali
possono dirsi due uomini egualmente fatali : il loro regno
è senza dubbio dei più fortunosi, che ricordi la storia.
Per un non breve periodo essi tennero nelle mani i
destini d' Europa, ebbero le corti più sfolgoranti, i seguiti
(1) Notizie avute dalla cortesia del Prof. Lodovico Corio, vice-Presi-
dente del Museo del Risorgimento di Milano.
— 3 —
più brillanti e numerosi, ma poi quale incalzarsi terribile
di vicende nella Hofburg ed alle Tuileries !
Francesco Giuseppe siede sul trono austro-ungarico
da più di sessant' anni ; egli dal 2 dicembre 1 848 è una
volta imperatore e dieci volte re (per araldica finzione
pur di Gerusalemme e di Cipro), più è più volte gran-
duca, arciduca, duca, principe, margravio e conte, già in-
signito della corona Longobardica di ferro, nonché di quella
Ungarica di S. Stefano e di quelle di S. Venceslao e
S. Casimiro. Il suo regno quindi è stato forse il più lungo,
che si sia avuto in Europa.
Ma che regno !.... Mirabile sintesi ne fece Arturo Co-
lautti : « Regno lungo e disforme, vario e difficile, agi-
tato e insoluto, sperimentale e caotico, regno di resistenza
e di stanchezza, di coazione e di astuzia, d' evolvimento
e d' illusionismo, di transizione e di transazione : regno
colmo di eventi, largo di contrasti, saturo di problemi,
pervaso d' ironie ; regno, che vide il vespero vermiglio
dell' aristocrazia e il troppo roseo albore del socialismo ;
regno delle rivolte e delle rinunzie, dei martiri e dei ri-
scatti, delle agonie e delle risurrezioni, che confermò le
parabole degli apostoli e le apocalissi dei veggenti ; regno
dischiuso alla contraddizione logica e alla gestante utopia,
nel cui corso apparvero i più strani prodigi della storia,
e nel cui seno fiorirono i più stupendi paradossi del sogno,
si che le « espressioni geografiche » si mutarono in patrie
viventi e coscienti ; regno sacro all' ignoto e all' impre-
visto, in cui il provvisorio divenne permanente, e pos-
sibile si rese Y inverosimile stesso, e cioè il ritorno me-
— 4 —
teorico di un impero Bonapartista, il fallimento definitivo
delle vecchie case tiranniche dei Borboni e degli Estensi,
la reviviscenza del popolo italiano, lazzaro delle genti,
la riscossa trionfale della Prussia, umiliata da Metternich
e derisa da Heine, la rinascita delle stirpi balcaniche,
credute estinte da secoli, la metastasi dei Magiari ribelli
in complici necessari, dei birri boemi e croati in malcon-
tenti faziosi, dei tedeschi fedelissimi in irredentisti accaniti,
T accomandita naturale della Repubblica francese con l'au-
tocrazia moscovita, ossia dell' albero di libertà con lo
Knut, il minuscolo Giappone vincitore del biblico colosso
russo, lo Czar in maschera di principe costituzionale, in-
somma V Italia libera, la Germania unificata, l'Ungheria
autonoma, 1' Oriente redivivo, V Austria statutaria dopo
V Austria stataria, la Russia rappresentativa e la Triplice
Alleanza, equivoco e beffa della storia ! » ( i )
Né meno vari e meno fortunosi i rivolgimenti interni,
in quell' impero, che giustamente il Carducci chiamò :
« creato d' imbrogli fiamminghi, di avventure spagnuole,
di oppressione cattolica, di transazioni luterane, di follia
ingenita » (2), in quella « caldaia di popoli », in quel
« mosaico di nazionalità ».
La storia ricorda con orrore un intero decennio di
reazione sanguinosa in Ungheria, dal 1849 al 1859, dal-
l' ingloriosa vittoria di Novara alla impreveduta rotta di
(1) A. Colautti. Nella « Lettura » del dicembre 1907.
(2) G. Carducci. Discorso commemorativo per G. Oberdan. Opere.
Voi. XII.
— 5 —
Magenta. Nelle fosse di Arad ventidue generali unghe-
resi furono fucilati contro ogni legge di guerra, V Ungheria
coperta di stragi paurose.
E in Italia Haynau, la Jena assetata di omicidio, irri-
gava di sangue le vie di Brescia ; nessuno risparmiando,
soffocava nel sangue il ruggito generoso della « leonessa
d' Italia » anelante a libertà. E sugli spaldi di Mantova
facevano orribile mostra di sé i martiri nostri e nelle
carceri dello Spielberg e nei Piombi di Venezia echeg-
giavano lugubremente i gridi di dolore dei nostri fratelli,
di nuli' altro colpevoli che di volere una patria.
Napoleone III era salito al trono pure il 2 dicembre,
tre anni dopo Francesco Giuseppe. Ma questi vi era sa-
lito per l'abdicazione dello zio Ferdinando I e per la si-
multanea rinunzia del padre Francesco Carlo : Napoleone III
invece vi salì con un delitto. Per quanto la storia abbia
in parte attenuato le esagerazioni di Victor Hugo e dei
repubblicani intransigenti, il colpo di stato del 2 di-
cembre 1851 resta sempre una grave violazione del diritto
delle genti. v
Il principe Luigi Napoleone Bonaparte, che, prima
esiliato, aveva sorpreso la buona fede del popolo francese,
facendosi eleggere alla più alta carica della repubblica,
di nuli' altro curante che della sua ambizione e mentendo
di mirare solo al bene del popolo francese, meditò l' im-
pero e tradì la Francia. Erano appena scoccate le undici
di sera del 2 dicembre 1851, allorché una compagnia di
gendarmeria ricevette 1' ordine di occupare, sotto un pre-
testo qualsiasi, la Tipografia Nazionale. Fu questo il primo
atto materiale del colpo di stato (i). Quella notte istessa
i più noti deputati repubblicani venivano tratti in arresto.
Il 1 8 brumaio dell' anno VII della rivoluzione (9 no-
vembre 1799) i granatieri, invitati da Luciano Bonaparte,
fratello del « fatale dagli occhi d' aquila », avevano in-
vasa la sala del Parlamento francese, cacciandone i depu-
tati e coprendone le proteste col rullo dei tamburi. Così
si era preparato il trono Napoleone I ; cinquantadue anni
dopo il colpo di Stato veniva rinnovato da suo nipote. E
il grande sogno di Luigi Napoleone fu appunto quello
di formare un nuovo Impero napoleonico, più potente e
più vasto del primo. E infatti che cosa pareva mancargli ?
Gli mancava soltanto il genio di Napoleone, ma, nel suo
sogno megalomane, egli ardì porsi a paro del vincitore
di Austerlitz e di Marenco.
« Imperatore ? E perchè no ?, si domanda ironicamente
Victor Hugo. La sua uniforme verde si è veduta a Stra-
sburgo, la sua aquila si è veduta a Boulogne, il suo
Pio VII sta a Roma nella sottana di Pio IX, e il suo
soprabito grigio non lo portava ad Ham ? Casacca o so-
prabito è tutt' uno Se volete un' arciduchessa, aspettate
un poco e ne avrà una. Tu felix, Austria, nube. Il suo
Murat si chiama Saint- Arnaud, il suo Talleyrand si chiama
Morny, il suo duca di Enghien si chiama il diritto ! » (2)
E per compire il suo sogno il figlio di Ortensia scelse
(1) L. Cappelletti. Dal 2 dicembre a Sédan. Pag. 83.
(2) Victor Hugo. Naf>oléon le Petit.
proprio il giorno anniversario della battaglia di Auster-
litz e dell' incoronazione del grande Napoleone.
Il 2 dicembre 1804, nella chiesa di Nòtre-Dame, Na-
poleone I fu incoronato da papa Pio VII. Egli stesso prese
la corona e se la pose in capo, poi incoronò l' Impera-
trice Giuseppina, che gli stava inginocchiata innanzi. Il
2 dicembre 1851 Luigi Napoleone, come dice Victor Hugo,
fece uscire dalla notte invernale non so quale uccello not-
turno, lo fece ricamare sulla bandiera di Francia e disse :
soldati, ecco l'aquila imperiale !
Ma V aquila questa volta fu veramente un' upupa di
sinistro augurio, e il nuovo impero doveva finire a Sédan,
come 1' altro era finito a Waterloo.
L' impero Francese era più omogeneo dell' Austro-
Ungarico, e la Francia aveva tradizioni di regalità. Mentre
si diceva che nello stemma austriaco le due teste del-
l' aquila bicipite sdegnassero di guardarsi, a simboleg-
giare appunto le discordie intestine del confusionario im-
pero, 1' aquila Napoleonica, risorta alle Tuileries, sembrava
veramente che dovesse rinnovare i fasti dell'aquila Romana.
E Sebastopoli, S. Martino, Puebla parvero rinverdire i
lauri di Wagram, di Austerlitz e di Marenco.
Ma terribile, rapida, inesorabile doveva essere la de-
cadenza ; il gran sogno Napoleonico doveva naufragare
innanzi alla fatalità, irrompente con la furia del Fato
Greco. La delusione si abbattè sul novello imperatore, ed
egli dovette assistere alla rovina nel fango di tutti i suoi
progetti di gloria e di grandezza.
Giustamente il Carducci, dopo aver ricordato, a prò-
— 8 —
posito della sua morte, la descrizione, che Caio Svetonio
fa della morte di Cesare Augusto, scrisse : « Egli volle
incominciare dove Cesare (i) finì e ferire al cuore la Russia,
e dovè contentarsi di averne scalfito 1' epidermide a Se-
bastopoli. Egli volle riprendere la gran campagna del
1796 e spingere le novelle aquile sino agli ultimi seni
dell' Adriatico, e dovè sostare innanzi al Quadrilatero, e
dovè dispettoso vedersi sorgere al lato una nazione nuova,
com' ei avrebbe voluto che non fosse. Egli, arbitro del-
l' Europa, non potè muovere una guerra di Polonia, non
potè riassettare i confini della Francia, com' egli avrebbe
voluto e come avrebbe voluto la maggior parte del po-
polo francese, che perciò realmente lo aveva levato sugli
scudi. Egli per rifarsi, volle rialzare, com' egli diceva,
1' elemento latino, e il Messico provocato, assillato, ingiu-
riato, il Messico debole, deriso, anarchico fu la sua Spagna.
Egli voleva creare a tutto suo prò una questione ger-
manica e non potè o non seppe o non ebbe il coraggio
di farlo nel 1866 e lo fece tardi e male e paurosamente
nel 1869 col Lussemburgo e dovè eccitarla a sua salva-
zione, per iscampo del momento, dovè eccitarla legger-
mente, insipientemente, e vedersela sorgere innanzi gigante,
formidabile, schiacciante e soccombere non degnamente.
Egli infine proclamò alto il principio della nazionalità, e
ferì da per tutto le nazioni. Egli proclamò il non inter-
di) Di G. Cesare Napoleone III fu grande ammiratore, e scrisse una
Vita di lui. Il Carducci, dopo averne letto la prefazione, scrisse due sonetti,
intitolati : II Cesarismo — V. Giambi ed Epodi.
— 9 —
vento, e con V intervenire da per tutto isolò sé e il suo
impero, tra i rancori e le freddezze vendicatrici. Egli
volle riaccozzare le forze delle genti Latine, e accoppiarle
alla quadriga imperiale e spingerle e frenare a sua posta,
e non mai gli interessi e le voglie, gli affetti e le idee
delle genti Latine furono così separati e avversi tra loro
e cozzanti, come sotto lui : egli cadde, e lasciò, eredità
sua, V odio tra Y Italia e la Francia. Egli volle mettersi
a capo del movimento sociale e frenarlo nelle dighe uf-
ficiali, e ingrassare cesareamente la plebe, e non mai la
questione sociale ruggì così feroce, così implacabile, come
negli ultimi anni suoi, come intorno ai ruderi del suo
trono. Egli cadde e lasciò retaggio alla Parigi del colpo
di Stato la Comune, al palagio degli splendori Cesarei la
truce vampa del petrolio » (i).
Napoleone III, come Francesco Giuseppe, fu e sarà
variamente giudicato. Noi italiani non possiamo dimenti-
care 1' aiuto, che egli, mettendosi contro la diplomazia di
tutta Europa, portò ai Piemontesi nel 1859, ma è vivo
ancora nella nostra memoria il ricordo delle vergognose
spedizioni del 1849 e del 1867, con cui egli si fece pa-
ladino di un imbelle pontefice: il glorioso Vascello Ro-
mano porta ancora le tracce delle cannonate Francesi e i
morti di Mentana ancora gridano vendetta.
Alcuni storici hanno tentato di giustificare l'opera
.di Napoleone III nei riguardi dell'Italia, dando gran parte
(1) G. Carducci. Nella Voce del Popolo di Bologna. Opere. Voi. VII.
— IO —
della responsabilità all' imperatrice Eugenia ed affermando
che non poteva mantenersi il prestigio dell' impero senza
V appoggio morale del Papa. Tuttavia, allorché il Rouher
pronunziò il famoso : jamais, vuoisi che Napoleone gli
abbia detto con dolce accento di rimprovero : « En poli-
tique, mon cher Rouher, il ne faut point dire jamais ! » (i)
Altri invece hanno tutto attribuito alla sua sfrenata ambi-
zione. Napoleone III, scrive il Proudhon, era, nei rapporti
della Santa Sede, il continuatore della politica del primo
Napoleone. Come questi si vantava di essere il continua-
tore dell' opera di Carlomagno, così V altro aspirava al
titolo di imperatore apostolico e romano, a cui V impe-
ratore d'Austria aveva dovuto, dopo Wagram, rinunziare.
Quindi il suo intervento nella politica italiana sarebbe
stato sempre interessato. Mentre 1' imperatrice Eugenia
non voleva la spedizione del 1859, perchè desiderava che
il Papa facesse da padrino al neonato Principe Imperiale,
Napoleone la volle, per lo scopo principale d' impedire
che V Austria, fortificandosi nella Lombardia, minacciasse
da un altro lato i confini della Francia, e poi per affer-
mare la propria forza militare, come prima aveva affer-
mato la propria autorità diplomatica, eleggendosi a pro-
tettore del sommo Pontefice.
Perciò, nelle recenti feste per il cinquantenario dell' anno
di S. Martino, abbiamo veduto che alcuni in Italia lo
salutavano come colui, che aveva posto la prima pietra
(1) P. De la Gorce. Hìstoire du Second Empire. Voi. V, Pag. 314 e
Cappelletti. Dal 2 dicembre a Sédan.
— II —
del grande edilìzio dell' indipendenza nazionale, altri in-
vece, pur essendo quei cittadini italiani, che nel 1859 lo
avevano acclamato a fianco di Vittorio Emanuele, non
tollerarono che un suo monumento uscisse alla luce del
sole da un cortile, dove era stato relegato.
Né meno disparati i giudizi degli storici francesi. Al-
cuni storici del secondo impero lo levarono alle stelle. Il
Thirria dice di lui che era di « un intelligence supé-
rieure » (1). Pier de la Gorce, il quale ha scritto la storia
forse più completa e più imparziale del secondo impero (2),
lo chiama : il regnante più geniale del secolo scorso.
Victor Hugo invece non disdegna di paragonarlo ad
Hudson Lowe, perchè, secondo lui, Napoleone III fu
« il vero uccisore della gloria di Napoleone I » (3) e apo-
strofa la Verità con queste parole roventi : « Non ti si
applaudirebbe, o Verità, quando agli occhi del mondo,
innanzi al popolo, innanzi a Dio, attestando 1' onore, il
giuramento, la fede, la religione, la santità della vita umana,
il diritto, la generosità di tutte le anime, innanzi alle
mogli, le sorelle, le madri, innanzi ai suoi lacchè, il suo
Senato, il suo Consiglio di Stato, innanzi ai suoi generali,
i suoi preti ed i suoi agenti di polizia, in nome del po-
polo incatenato, in nome dell' intelligenza proscritta, in
nome dell' umanità violata, innanzi a quel mucchio di
(1) Thirria. Napoléon III avant l'Empire. Voi. I. Pag. V e VI.
(2) P. De la Gorce. Opera citata. Prefazione.
(3) Victor Hugo. Napoléon le Petit.
— 12 —
schiavi, che non può e che non osa dire una parola, tu
non schiaffeggiassi quell'uomo! » (i).
Pure riconoscendo esagerati gli sdegni del grande
Poeta repubblicano, certo Napoleone III ebbe le sue colpe,
e forse più gravi di quelle di Francesco Giuseppe d' A-
sburgo. Il suo avvento al trono non solo fu un grande
delitto politico, ma costò anche spargimento di sangue al
popolo Francese. Il Thiers e gli altri storici repubblicani
parlano di centinaia e centinaia di vittime. Gli stessi
storici, ligi all' impero, non possono negare che la gior-
nata del 4 dicembre 1851 fu sanguinosissima a Parigi e
nei dintorni. Victor Hugo dice che fu uccisa persino una
donna che fuggiva, col suo bambino stretto al petto ;
furono perfino fucilati vecchi e fanciulli. E Giosuè Car-
ducci rimprovera all' imperatore di aver fatto fucilare
davanti al caffè Tortoni alcuni poveri bambini, con in
mano un giocattolo (2).
Né meno spietata fu la reazione politica contro i re-
pubblicani : esili, proscrizioni ed arresti portarono il pianto
e F angoscia in molte case di Francia, e la Caienna in
pochi mesi rigurgitò di prigionieri. E poi le feroci re-
pressioni di Cina e di Siria nel 1859 e nel 1860, la de-
lusione di Villafranca inflitta all' Italia, 1' abbandono di
Massimiliano d' Austria alla furia reazionaria dei Messi-
cani, la spedizione ingloriosa, che finì a Mentana, sono
errori, che gettano un' ombra sinistra sul secondo Impero.
(1) Victor Hugo. Napoléon le Petit.
(2) G. Carducci. Moderatucoli. Opere. Voi. XII.
— 13 —
E la storia registrò e giudicò, segnando il dì della Giu-
stizia. E la Giustizia fu invocata ed esaltata anche dall'arte.
Primo fra tutti, Giosuè Carducci eternò nella sua opera
immortale di poesia le colpe dei Napoleonidi e degli
Asburgo, e predisse i fati alle due case regnanti.
Giosuè Carducci volle essere sopra tutto il poeta della
storia (i), perchè egli intese con la sua poesia ad elevare la
dignità e la coscienza della nazione, e soltanto nei grandi e-
sempi del passato trovò un conforto alla miseria del presente.
Egli, dopo aver proclamato in un supremo momento
di sconforto e d' ira la viltà della patria contemporanea,
saliva sereno il monte dei secoli a contemplare, lungi
dalle malinconiche vanità del presente, le glorie del pas-
sato, ad evocare dalle mute case degli eroi il bello e dalla
morte il vero, a trarre dalle profondità di una sintesi
storica le fonti perenni della vita.
L' arte, che trae il suo alimento dalla storia è quella,
che, prima fra tutte « ad egrege cose il forte animo ac-
cende » e l'arte del Carducci fu proprio quella, a cui
Max Nordau attribuisce un' altissima funzione sociale,
perchè egli cantò veramente : « il sudore faticato dello
sforzo profondo, la lacrima della pietà per la sofferenza
altrui, il sangue sacro dei martiri per le idee, tutto ciò
che è la santa cresima del progresso » (2).
(1) Benedetto Croce lo chiamò : « il commosso poeta della storia ».
(2) Max Nordau. La funzione sociale dell'arte. Pag. 45.
— 14 —
Alla storia poi il Carducci si volse anche per sua in-
dole, perchè egli fu sempre fiero di essere italiano e della
gloria d' Italia, che canta il suo inno eterno dalle pagine
della storia, egli fu religiosamente geloso come di gloria
sua. Egli ebbe veramente quel!' anima italiana, che il Taine
chiamò : « figlia primogenita della civiltà moderna, im-
bevuta del suo diritto di primogenitura, e sede dell'or-
goglio romano e del r3atriottismo antico » (i).
Forte della sua cultura storica e del suo altissimo
spirito critico, egli passa dalle più pure rievocazioni di
classicismo alla considerazione degli avvenimenti più vi-
cini a noi, e davanti alla sua forza di artista gigantesco
tutte le difficoltà svaniscono. Qualche volta egli può sem-
brare poco giusto e sereno, ma non bisogna dimenticare che
egli fu un poeta di rivoluzione, ed alle rivoluzioni, diceva
il Settembrini, giovano le esagerazioni e le intemperanze.
E dal suo lungo studio e grande amore per la storia,
il Carducci trasse la convinzione che « non s' inganna ne
si oltraggia impunemente il genere umano né coi plebi-
sciti, né con le vessazioni » (2), e quindi la concezione
di una Nemesi storica, che si trova la prima volta adom-
brata in un' ode di Levia Gravia (nei primi giorni del
MDCCCLXI), dove la Nemesi è raffigurata come una Dea,
che cammina alta sugli uomini :
Bella ed austera vindice
Sui larghi mar cammina alta una Dea
(1) Ippolito Taine. Discorsi.
(2) G. Carducci. Nella Voce del popolo di Bologna. 1873. Opere. Voi. 7.
— i5 —
e dove la fatalità con triste presagio è predetta alla Casa
d' Asburgo :
E tu ne la man parvola,
Siccome verghe in tenue fascio unite,
Tu vuoi di sette popoli
Stringere, Asburgo, le discordi vite ?
La colpa antica ingenera
Error novi e la pena : informe attende
Ella, e il giusto giudìcio
Provocato da gli avi in te distende.
E d' Arad e di Mantova
Si scoverchiano orribili le tombe :
S' affaccia a 1' Alpi retiche
Lo spettro di Capeto e al soglio incombe.
E nella stessa ode Napoleone III e Francesco Giu-
seppe sono uniti nella terribile predizione di un fato ven-
dicatore :
E la dea che de' vigili
Occhi circonda il sir de' Franchi, e aspetta ;
E a noi mostra i romulei
Colli e il mar d' Adria e 1' ultima vendetta.
E nello stesso articolo, scritto il giorno dopo la morte
di Napoleone III, dice : « la giustizia non è altro che
V armonia dei fatti umani e nei fatti umani svolgendosi
annulla e vendica prima o poi le offese recate al diritto.
Noi, che crediamo al diritto, alla giustizia, alla libertà,
amiamo credere ancora che Lipsia e Waterloo facessero
la vendetta del 1 8 brumaio, e che il regno e. la caduta
— 16 —
ingloriosa del nipote fossero debita espiazione non pure
al 2 dicembre, ma alla usurpazione, al despotismo, alla
gloria incivile del grande zio ».
E già prima, dopo la disfatta dell' esercito francese,
aveva scritto « la Francia non cade ella ora sotto il peso
delle sue colpe, del suo ingeneroso orgoglio, della sua
imprevidente insolenza, della sua corruttela ?.... Vada
Sédan per Mentana e 1' obbrobrio delle capitolazioni per
il « jamais » di Rouher 1 »
Nel 1872 poi, sull' Alleanza Repubblicana, domandava;
« Dove lo mettereste il vostro trono? a Versailles, donde
portaron via 1' antico monarca le pesciaiole di Parigi, o
sulle nere macerie delle Tuileries, dove s' aggirano senza
testa gli spettri di Luigi e d' Antonietta ? »
Il concetto del Carducci, non è nuovo del resto, perchè
è un concetto classico. La fatale decadenza di Roma parve
anch' essa opera di una nemesi vendicatrice a Giovenale
ed Orazio (1), e ad essi inspirandosi il Carducci aveva già
scritto :
Un selvatico odore su da le fosse
Vaporava maligno.
Era il sangue del mondo che fervea
Con lievito mortale,
Su cui poggiava già nemesi dea,
Al vel prossimo 1' ale (2).
Tra i moderni ripresero questo concetto il Cattaneo
(1) Giovenale. Satira VI. - Orazio. Epodo VII.
(2) Giambi ed Epodi. A proposito del processo Fadda.
Sveglisi ne' freschi anni la pura, vindelica rosa
— i7 —
e il Michelet : ultimo il Carducci, che sollevò aspre cen-
sure. Benedetto Croce parlò di « un impegno d' idee »
ed aggiunse : « per esempio, nella deliziosa elegia per i
funerali di Elisabetta imperatrice regina, dopo il magni-
fico invocare delle bionde Valchirie, perchè trasportino
a riva più cortese, sotto il cielo Ellenico, la donna di
Wittelsbach, si inseriscono freddamente i distici terzo e
quarto, nei quali il poeta si sovviene di dover pagare
una cambiale politica, tratta a favore dei martiri di
Mantova e di Arad contro V imperatore degli impic-
cati » (3),
Ma il poeta, quando alcuni, che egli chiama « Mode-
ratucoli » insorsero contro il suo concetto storico, enun-
ziato ancora una volta nell' ode « In morte di Napoleone
Eugenio » rispose e spiegò : « non ho fatto altro che
adombrare una grande legge storica, la quale è sanzione
di giustizia e di moralità. Chi interrompe il diritto, chi
mette la volontà sua in luogo della volontà nazionale,
espressa con le norme e con le forme del diritto, chi
mette in luogo della legge la forza, quegli con la sua
rivoluzione personale rende perenne la rivoluzione sociale,
gitta anzi i semi di rivoluzioni e reazioni che scoppie-
ranno contro di lui, avvolgendo nella sua rovina i rap-
presentanti dinastici della usurpazione e della violazione.
La libertà si vendica dei colpi di Stato con catastrofi,
che paiono fatali, e la cui traccia pirica muove invece
(3) B. Croce. Nella « Critica » del gennaio 1903.
— 18 —
con meravigliosa procedenza logica dal punto stesso del
delitto politico » (i).
E quindi richiama alcuni suoi versi, scritti « con ferma
fede nella legge storica della giustizia » sin dal 1862,
proprio quando 1' impero era all' apogeo della fortuna e
della gloria :
Ferma, o pugnai, che in Cesare
Festi al regnar divieto,
O scure a cui mal docile
S' inginocchiò Capeto !
Sacro è costui : segnavalo
Co '1 dito suo divino
La libertà : risparmisi
L' imperiai Caino.
Levia Gravia. — Dopo Aspromonte.
Allora si gridò : Il Carducci odia ! Eppure odio non è !
È intima e sacra convinzione umana, perchè il Carducci,
anche quando monta sul sauro destrier della canzone è
sempre il filosofo ironico, il critico vigoroso, lo storico
della giustizia:
Quando io salgo de' secoli sul monte
Triste in sembiante e solo,
Levan le strofe intorno alla mia fronte
Siccome falchi, il volo,
Ed ogni strofa ha un'anima!....
ha la sua grande anima generosa!
(1) G. Carducci. Moderaticcolì. Opere. Voi. XII.
— ig —
Ed al passar delle sue strofe,
dolci aeree fanciulle,
Fremon per tutti i campi
L'ossa de' morti, e i tumuli a le culle
Mandan saluti e lampi.
Sublime incarico egli dà alle sue strofe:
A voi la vita mia; me ignota fossa
Accolga innanzi gli anni:
Pugnate voi contro ogni iniqua fossa,
Contro tutti i tiranni !
Giambi ed Epodi - A certi censori
Ed egli si levò col suo verso impetuoso contro tutti
i tiranni di fuori, per tutto il male che avean fatto alla
Italia sua, a quell'Italia che era in cima ai suoi pensieri.
No, egli non odiava la Francia : ne aveva cantati i su-
blimi ardimenti repubblicani in Ca Ira, l'aveva invocata
in un giorno di bacchica letizia:
O di vini e d'eroi Francia cortese,
Levia Gravia - Carnevale
1' aveva salutata ;
O Repubblica altera,
e pur dopo Sédan, il 21 settembre 1870, cantò con rim-
pianto :
O repubblica antica, ov'è il tuo tuon ?
Il cavallo del re, senti, ti pesta,
E dormi ne la tua polve, o Danton ?
Giambi ed Epodi - Nel LXXVII ann. della proci, della Republ. francese
20
E, pur piangendo e maledicendo per la morte di E-
duardo Corazzini, esclama accorato:
Noi cresciuti al tuo libero splendore,
Noi che t'amammo, o Francia ?
Persino, allorché in Italia si protestò contro l'intervento
di Garibaldi nei Vosgi, egli levò fieramente la sua voce
contro i « nepotuncoli del Machiavelli, rinforzati nell'aceto
dei Gesuiti e conservati nella salamoia delle polizie dei
cessati governi, capaci a dimostrare in forma che la in-
gratitudine e la vigliaccheria sono magnanimità Romana
di quella vecchia » (i).
Ma, quando Giuseppe Garibaldi era caduto ferito ad
Aspromonte, per una fatale spedizione mandatagli contro,
a cui la Francia, paladina del Papa (2), non era stata del
tutto estranea, egli aveva bevuto
al di che tingere
Al masnadier di Francia
Dee di tremante e luteo
Pallor l'oscena guancia,
(1) G. Carducci. Garibaldi in Francia. E tutti ricorderanno le com-
mosse parole del carducci in memoria del povero Giorgio Imbriani, caduto
da eroe a Digione e della « primavera sacra d'Italia che vendicò Roma e
Mentana, cadendo vittoriosi sulla gloriosa terra di Francia. Latin sangue
gentile ! » .
(2) E tale era sempre stata :
Fan da Svizzeri a San Piero
I nepoti di Volterò.
Iuvenilia. Al beato Giovanni della Pace.
21
ed imprecato così all'imperiai Caino:
un urlar di vittime
Da i gorghi della Senna
E da le fosse putride
De la feral Caienna
Lo insegua : e, spettri lividi
Con gli spioventi crini,
— Sii maledetto — gridingli
Mameli e Morosini.
Levia Gravia - Dopo Aspromonte
Ma quando il Carducci ricorda la cannonata dei fran-
cesi contro le mura di Roma nel 1849, e la strage del
2 dicembre sulla collina di Montmartre, allora, rivolto a la
giovine vittima della fucileria degli « chassepots », pro-
rompe :
Or co' caduti là nel giugno ardente
De l'alta Roma a fronte
E co i caduti nel decembre algente
De' martiri su '1 monte
Parla, e Nemesi al suo ferreo registro
Guarda con muto orrore,
Parla di lui, del Cesare sinistro,
Del bieco imperatore !
Giambi ed Epodi - In morte di E. Corazzini
Il poeta maledice ai tiranni di fuori ed ai vigliacchi
di dentro, in nome di tutte le madri che piansero i figli, di
tutte le spose che piansero l'amore perduto, in nome della
Sacra Primavera Italica, cui fu rapito dallo straniero il pa-
dre, in nome delle mille vittime sconosciute del carcere
22
e dell'esilio, in nome dei giustiziati, dei proscritti, degli
uccisi in faccia al sole della patria!
Le madri intanto accusano ne' pianti
Del viver tardo i fati
E con la man che gli addormian lattanti
Compongon gli occhi a' nati,
In vece di ghirlande le fanciulle
Vestonsi i neri panni,
Mancan le vite e le aspettanti culle
Maledetti i tiranni !
Idem.
Perciò egli prende per mano la madre e la sposa di
Eduardo Corazzini, penetra con le ali incoercibili de la sua
poesia là,
dove tra sue turbe ladre
Quel prete empio riposa,
e
Per le grige chiome de la madre,
E per le chiome bionde
De la sposa, che sciolte or sotto l'adre
Pieghe un sol vel confonde,
scomunica l'infame vecchio omicida
da la pietà che piange e prega
e
Da l'amor che liete
Le creature lega
egli,
Sacerdote de l'augusto vero,
Vate de l'avvenire !
23
Perciò, quando Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti
reclinarono il capo sotto la scure, che « aprì il cielo al
Locatelli » il poeta, in nome dei « miseri parenti », dei
« tremuli vegli », maledisse al
Ma
Si,
Chierico sanguinoso e imbelle re
Meglio così ! Sangue de i morti affretta
I rivi tuoi vermigli
E i fati ; al ciel vapora, e di vendetta
Inebria i nostri figli.
Giambi ed Epodi - Per G. Monti e G. Tognetti
Sparsa è la via di tombe, ma com'ara
Ogni tomba si mostra :
La memoria de i morti arde e rischiara
La grande opera nostra,
e avanza, avanza, avanza
la sacra legion tebana,
Veglio, che mai non muore !
Giambi ed Epodi - Per G. Monti e G. Tognetti
E di questa sacra legion tebana, che muove alla ri-
scossa, il poeta si fa condottiero in nome degli ideali più
puri e più santi della patria, egli che « avrebbe preferito a
qualunque fama letteraria aver sparso il suo sangue sotto
Monterotondo e Mentana » (i).
(i) Ai superstiti di Mentana. Confessioni e Battaglie. Serie IL
— 24 —
E venne per tutti il giorno segnato dal Fato ; Sadowa,
Sèdan, Porta Pia scossero il trono Asburghese, manda-
rono in esilio il Piccolo Napoleone, fecero di sé stesso
prigioniero il gran Pontefice. Venne per tutti il giorno
sacro alla Giustizia, alla Libertà, all'Idea bella e fulgente,
cui il poeta credeva, venne per « l' Asburghese predone »,
venne per « l'Austria dalla gialla insegna, avversaria del
bene » e non più regna
sul popol di Ferruccio
Un d'Asburgo....
Juvenilìa - Croce di Savoia
non più
d'Austria e Boemia la plebe
Si disseta di Mincio e di Brenta,
Jtivenilia - Sicilia e la Rivoluzione
e risplende come un astro ne i secoli
Belfiore, oscura fossa d'austriache forche fulgente,
Belfiore, ara de i martiri!
e la gloria di Pietro Calvi, che
Quale già d'Austria l'armi, tal d'Austria la forca.... guarda
Sereno ed impassibile !
Rime e Ritmi - Cadore
Ma quale dolorosa alternativa ed incertezza di eventi!
Nel 1848
Languido il tuon de l'ultimo cannone
Dietro la fuga austriaca morìa :
— 25 —
Il re a cavallo discendeva contra
Il sol cadente !
Rime e Ritmi - Piemonte
Poi, F anno dopo, venne ad oscurare V astro d' Italia
la brumai Novara
E a' tristi errori meta ultima Oporto
Idem
Ma ecco il 1859, e, commista al rullo dei sardi tam-
buri,
Di balza in balza, angel di guerra, vola
La Marsigliese
ecco il 1866, che fiacca ancora una volta l'orgoglio au-
striaco sui piani di Sadowa ! « E il 3 luglio 1866 e 1' or-
goglioso Benedek, travolto ne la fuga incomposta e folle
di Sadowa, passa vicino alla fortezza di Iosephstadt, dove
tanti cospiratori italiani dei processi di Mantova avevano
fremuto e sofferto per sua sentenza » (1).
Pure ancora un'onta terribile era riservata all'Italia:
l'onta insanabile di Lissa, che il poeta sentì per lunghi
anni come un schiaffo sul suo volto, come un colpo al
suo nobile cuore. Per « Lo sposalizio del mare », rinno-
vantesi a Venezia, egli ammonì:
Qualcheduno a Lissa infracida,
Che potrebbesi svegliar!....
E dopo la infausta campagna del 1866, quando parve
(1) A. Luzio. / martiri di Belfiore.
— 20 —
che l' Italia si adagiasse in una vile inerzia, timorosa di
Roma e di Parigi, il poeta si ritrasse sdegnoso tra le me-
morie dei grandi de la patria e fulminò irosamente i suoi
giambi sui Fucci e sui Bonturi della Terza Italia.
Un « giovincello scrittore di versi sulla Germania »,
in quegli anni osò insultare le donne d' Italia : il poeta
fieramente rispose : « Non ricordate voi le donne milanesi
fatte bastonare dal vostro Kaiser cavalleresco, e la Co-
lomba Antonietti, sposa ventenne, travolta dalle palle fran-
cesi a pie delle mura di S. Pancrazio, mentre porgeva
F arme carica al marito e la Giuditta Tavani e l'Adelaide
Cairoli? Non ricordate l' infelice Teresa Confalonieri? Noi
fanciulli salutammo lo scrosciare delle cinque giornate mi-
lanesi sui terghi tedeschi, noi stupimmo, pallidi di reli-
gioso terrore, alla danza della morte, ballata per dieci
giorni da Brescia nell' ebrietà del sangue tedesco (Haynau
ammirava), noi ricordiamo Pasquale Sottocorno, lo scian-
cato, che tra le scariche va ad incendiare i ridotti tede-
schi, noi ricordiamo Carlo Zima, che, incendiato dai Croati,
si avvinghia alle bestie nemiche e le incatena con sé ad
una morte: noi ricordiamo il « Tiremm Innanz » dello
Sciesa. E tirammo innanzi col re che fulminò a S. Mar-
tino, con Giuseppe Garibaldi monarchico, che ricacciò coi
calci dei fucili alle spalle gli imperiali Austriaci da Va-
rese e da Como, con Giuseppe Garibaldi repubblicano,
che raccolse una tedesca bandiera lasciata sur un mucchio
di morti tedeschi dagli imperiali prussiani. Io, quando il
passato m' incresca, mi rifugio tra i morti della Patria,
— 27 —
e dalle loro memorie traggo gli auspici della gloria fu-
tura » (i).
Tale fu il poeta della terza Italia, il poeta dell' Italia
nova! Maledisse i tiranni e predisse loro la vendetta dei
Fati che non perdonano, ebbe un fremito d'indignazione
per tutte le ingiustizie, ed inneggiò al Giusto ed al Vero,
ma, quando il popolo d' Italia, vecchio titano ignavo, sem-
brò svegliarsi sotto lo scalpitare dell' indomito destrier de
la canzone e l' Italia fu libera tutta ed una, allora un'onda
novella di memorie pie rifluì al cuore del poeta dalle flo-
ride piaggie del cerulo Tirreno, ed un desiderio gli tornò
di cantare la novella Primavera Italica, ricca di messi e
di fiori ; allora egli abbracciò nel suo lirico amplesso gli
estremi lembi dell' Italia, dalle Alpi al mare, sognò in una
radiosa visione le miti e soavi madonne del Perugino e,
dopo aver inneggiato all' altra Madonna, all' idea fulgente
di giustizia e di pietà, proruppe nel divino saluto:
Salute, o genti umane affaticate.
Tutto trapassa e nulla può morir :
Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate !
Il mondo è bello e santo è l'avvenir !
Gia?nbi ed Epodi - Canto dell'amore
E « risplenda sulla vita che passa l' eternità d'amore »
cantata dal poeta, la cui parola è sacra. Quando egli morì,
il compianto Alfredo Oriani affidò ai vibranti fili del te-
legrafo queste alate parole, che ogni italiano aveva nel
(i) Protesta. Confessioni e battaglie. Serie seconda.
— 28 —
cuore : « coprite di bandiere la strada, per la quale il poeta
uscirà per sempre dalla vostra città, e le ultime trombe
Garibaldine suonino davanti al suo carro la fanfara della
nostra rivoluzione nazionale ! Tutti i grandi morti si le-
veranno per venirgli incontro, perchè, dopo Garibaldi, egli
fu l' ideale condottiero d' Italia, che ne gittò la nuova
classica parola all' avvenire. La sua morte deve quindi es-
sere non tramonto, ma aurora, per un popolo che risale
T erta de la storia a riconquistarvi il primato del proprio
genio antico! ».
Ma restava ancora qualche gradino dell' erta da salire.
11 sogno del poeta si era rivolto con tensione appassio-
nata anche al di là delle mal vietate Alpi, verso le prode
del glauco mare nostro, eh' egli amava. Era vecchio, quando
il nostro re elesse a sua sposa Elena del Montenegro, e
-scrisse: « Come italiano, son felice che questo principe
di Savoia stenda la mano ad una fanciulla del Montene-
gro, perchè.... perchè oh! quanto mareggia fulgido l'A-
driatico laggiù in fondo, tra l'Illiria e la Grecia! » Egli
aveva già inviato oltre San Giusto ed il Quarnero, là dove
di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
Leva tra i nembi,
Odi Barbare - Miramar
— 2Q —
già aveva inviato i suoi antichi versi italici, perchè can-
tassero
In faccia allo stranier, che armato accampasi
Sul nostro suol,
Odi Barbare - Saluto italico
la fatidica parola: Italia, Italia, Italia!.... quando l'Asburgo
aggiunse ancora una colpa a quelle, che già lo avevano
reso inviso a chiunque avesse sangue italiano nelle vene.
Victor Hugo aveva telegrafato all' Imperatore: J'ai recu
en deux jours des Universités et Academies d' Italie onze
depèches. Tous demandent la vie d'un condamné. L'em-
pereur d' Autriche a en ce moment une gràce a faire. Qu' il
signe cette gràce et ce sera grand! ».
Giosuè Carducci levò alta la sua voce: « No, perdoni
il grande poeta: non si tratta di un condannato, ma di
un confessore, di un martire della religione e della patria! ».
E quando il misfatto fu compiuto, tutti ricordano i
suoi disperati appelli alla gioventù italiana per un monu-
mento sulle Alpi nostre a Caio Mario e a Giuseppe Ga-
ribaldi col motto: Stranieri addietro!, per un monumento,
no, per una sola pietra, che segnasse la nostra obbliga-
zione col martire (i).
(i) Un magistrato, per i nobili articoli su Guglielmo Oberdan, osò ac-
cusare in un pubblico dibattimento il Carducci di imbestialire la gioventù.
Egli rispose neramente : « Oh ! è prossimo il fango, che sale, sale, sale 1
Oggi è divenuto accusatore sulla bocca di un magistrato. Domani diventerà
boia e ci vorrà affogare, perchè gli diciamo che è fango.... E fango è ».
— 3o —
Un anno prima, nel 1882, era stato conchiuso il patto,
con cui « la scienza di stato si era illusa di stracciare
cento pagine di storia, ma, quando una sera il Carducci
a Roma sentì suonare in piazza Colonna Y inno austriaco,
senti un'onda di ribellione nel suo petto: « Io udii con
queste orecchie, e anche da certe foscaggini passanti per
l'aria del grave crepuscolo estivo, parvemi udire: Vili,
vili! Onta a voi ed ai vostri figliuoli! Credei fossero le
ombre degli italiani impiccati, sgozzati, bruciati, fucilati,
delle italiane bastonate al suono di quell' inno. Ma forse
erano le nuvole portate dallo scirocco. E scappai singhioz-
zando ferocemente e ringhiottendo nell' ira un mio verso ».
Non vi par di vederlo il Carducci?
— No, l'imperatore non grazierà, egli previde, no,
perdoni Victor Hugo, non grazierà, ed allora.... anche una
volta.... sia maledetto l'imperatore!
E non graziò, ed ancora, come cantò Gabriele d'An-
nunzio, un'ombra
S'allunga da Lissa remota a la riva materna,
e Faà di Bruno chiede:
Sarà dunque eterna la vergogna ?
E la sua voce risuona lugubremente, là dove
l'occhio dell'anima scorge
Oltre mare in lontananza
La città che sorge,
Alta sul suo golfo splendendo a la nostra speranza,
— 3i —
Da tutte le torri splendendo ne l'unica fede :
Sempre a te, sempre la stessa ! (i)
Ed ancora
— Quando — i vecchi fra sé mesti ripetono,
Che un dì, con nere chiome, l'addio, Trento, ti dissero.
— Quando — fremono i giovani, che videro
Pur ieri da S. Giusto ridere glauco l'Adria
Odi Barbare - Saluto Italico
Il generale Schenfeld, ex-capo di Stato Maggiore, co-
mandante militare supremo di Trieste, esaminati gli atti
del processo, si era rifiutato di firmare la sentenza. Allora
fu chiamato, per udirne il parere, un vecchio uditore ge-
nerale da Innsbruch, che si uniformò all' opinione del co-
mandante: non essere cioè il caso di applicare la pena di
morte. Ma il governo austriaco la volle ad ogni costo, e
passò gli atti del processo al signor Shrott, procuratore
di Stato, che a sua volta in una minuta relazione con-
cluse non potersi parlare di pena capitale ; ammesso tutto,
il massimo della pena applicabile essere quello di venti
anni di fortezza.
Questi tre galantuomini caddero in disgrazia: Schen-
feld traslocato al comando della fortezza di Hermanstadt
in Transilvania, il vecchio uditore pensionato, il procu-
ratore di Stato richiamato a Vienna. Fu nominato coman-
dante di Trieste il generale Corsk, ferocissimo, il quale,
da buon carnefice, appose la sua firma alla sentenza di
morte.
(2) G. D'Annunzio. Odi navali. Ad una torpediniera nell'Adriatico.
— 32 —
Dopo V esecuzione, il governo imperiale fece recapi-
tare a la madre del condannato la nota delle spese del
processo e dell' esecuzione, in cui figuravano anche i po-
chi soldi spesi per il capestro.
Ma la povera madre fu vendicata da te, o Maria Wec-
zera, da te,
che rapisti con sottile incanto
Il fulvo duce a le falangi ladre,
E vendicasti d' Oberdan la madre,
Pianto rendendo a Cesare per pianto (i).
E chissà che in una livida alba di dicembre, non s'af-
facci alle invetriate della Hofburg il volto pallido e triste
di Guglielmo Oberdan, morto, come scrisse Felice Ca-
vallotti, « là, ai piedi delle sue Alpi, là in faccia al suo
mare, là sotto il suo cielo, eh' egli, pur ne l'ultima alba
grigia e piovosa, aveva salutato, perchè sotto quel cielo
la sua Italia continuava ! » (2).
Maledisse il poeta, e raccolsero la maledizione i Fati.
Colpevoli di debolezza o di despotismo, di crudeltà o di
ambizione, di insania o di mal governo, i Napoleonidi e
gli Asburgo furono travolti da un impetuoso incalzarsi
di sciagure, di disfatte, di rivolgimenti interni ed esterni,
(1) A. Colautti. Maria Weczera. Nei «Canti virili».
(2) F. Cavallotti. Tra tombe e monumenti. Per G. Oberdan.
e .5
° e
— 33 —
che ai più sembrarono la giusta rivendicazione dei vari
errori.
Spuntò « brumoso, accidioso e lutulento » il mattino
del i settembre 1870: Napoleone III montò a cavallo
con il suo Stato Maggiore, e si diresse verso il campo
di battaglia, verso il suo destino, che doveva compiersi
tutto, ineluttabilmente. « Di mano in mano che essi avanza-
vano, il rumore dei cannoni e delle fucilate si faceva
ognor più intenso ; e ciò contribuiva a far nascere nel-
V animo del sovrano presentimenti tristi e funebri. Dopo
un' ora il sole cominciò a dissipare quella nebbia, ed allora
Napoleone III e la sua scorta poterono rendersi conto di
ciò che accadeva a Bézeilles. La battaglia, quivi impe-
gnatasi, risaliva lentamente verso il Nord, circondando
Sédan e raggiungendo Y altipiano della Mocelle come
anche il Fond de Givonne » (1).
Era così impegnata la battaglia, che doveva far crol-
lare del tutto F impero già vacillante. L' imperatore, benché
sofferente, fu come sempre coraggioso ed impassibile di-
nanzi al pericolo, sprezzante dinanzi alla morte. La Francia
non era più con lui, ed egli volle mostrare sino all' ultimo
il suo prestigio d' imperatore.
« Egli, scrive il repubblicano Emilio Zola, si avanzò
solo in mezzo alle palle ed agli obici, senza fretta, col
suo incedere cupo ed indifferente, come s' incamminasse
al suo destino. Forse egli udiva dietro di sé la voce, che
da Parigi gli gridava : « Cammina ! cammina ! Muori da
(1) L. Cappelletti. Dal 2 decembre a Sédan. Pag. 478.
— 34 —
eroe sui cadaveri ammucchiati del tuo popolo : colpisci
il mondo intero di un' ammirazione commovente, affinchè
tuo figlio possa regnare » ed egli procedette, spingendo
il suo cavallo al passo.... Tutto ad un tratto si fermò,
aspettando la morte, che era venuto a cercare. Le palle
soffiavano intorno a lui come un vento furioso ; un obice
era scoppiato ai piedi della sua cavalcatura, coprendolo
tutto quanto di terra. Egli continuò ad aspettare. Irti per
lo spavento erano i crini del suo cavallo, tutte le sue
membra tremavano in una repulsione istintiva, dinanzi
alla morte che passava, ad ogni secondo, senza atterrare
né V uomo né il cavallo. Allora, dopo aver lungamente
atteso, 1' imperatore, col suo fatalismo rassegnato, com-
prendendo che ivi non era il suo destino, tornò indietro
tranquillamente, come se egli si fosse colà recato per
riconoscere 1' esatta posizione delle batterie nemiche » (i).
E Pier de la Gorce scrive « Pendant quatre heures, le
monarque avait erre sur le champ de bataille, se mon-
trant avec un simple et modeste courage aux endroits
le plus périlleux.... on a repété que le prince avait cher-
ché la mort ; qu'il suffise de dire qu'il ne fit rien pour
l'éviter » (2).
Così aveva cercato la morte Carlo Alberto sugli spaldi
di Novara, ma la morte aveva voluto risparmiarlo all' ul-
tima amarezza dell' abdicazione : e così Napoleone III fu
(1) E. Zola. La Debacle. Voi. II.
(2) P. de la Gorce. Op. cit. Voi. VII. Pag. 345.
— 35 —
risparmiato dalle palle tedesche, perchè dovesse offrire
la sua spada al « Signore, suo fratello ».
A mezzogiorno di quel dì non più V inno di Francia
sorvola vittorioso fra la cannonata, ma le ultime fanfare
si spengono sinistramente lontano, come perdentisi dietro
ad un corteo funebre ; non più « le diane e il rullo
pugnace, » ma la ritirata, suonata da le poche trombe
superstiti.
Il giorno seguente, alle sei del mattino, Napoleone III
si rendeva prigioniero. Qualche giorno dopo, mentre egli
prendeva la via dell' esilio, i tedeschi si avviavano con
V oltracotanza dei vincitori a Parigi. Come i francesi ave-
vano follemente gridato : À Berlin, à Berlin, ora i prus-
siani gridavano baldanzosi: Nach Paris!
E F imperatore dovette mendicare 1' ultimo omaggio ad
un popolo straniero. A Verviers, nel Belgio, la popola-
zione era mal disposta verso di lui : sotto all' albergo
della Strada Ferrata, all' ora fissata per la partenza del-
l' imperatore, si radunò una gran folla. « Grida, oltraggi,
apostrofi ingiuriose uscivano da quella moltitudine all' in-
dirizzo dell' imperatore. Il Generale Chazal ordinò al capo
stazione di tener pronta un' entrata nascosta, per la quale
l' imperatore potesse rifugiarsi liberamente nella sua vet-
tura. Quindi risolvette di parlare a quei forsennati, in
attesa che i suoi ordini venissero eseguiti. Accompagnato
dal capitano Sterckx, il vecchio generale apparve sulla so-
glia dell'albergo, e, guardando in faccia la moltitudine, fece
segno di voler parlare. Tutti immediatamente tacquero,
e il generale, profittando di questo silenzio, pronunziò
- 36 -
ad alta voce queste parole : « Signori, Sua Maestà F im-
peratore dei francesi sta per comparire innanzi a voi. Egli
si reca in Germania come prigioniero di guerra. Ma in
questo momento é ospite nostro : io vi domando adunque,
in nome della ospitalità belga, in nome della vostra città
ospitale, di accoglierlo con quel rispetto e con quella com-
mozione, che inspirano il suo alto infortunio. Io ben vi
conosco, o signori, e son più che certo che voi non verrete
meno a quei doveri, che s' impongono in circostanze tanto
penose. » Appena pronunziato queste parole, un gran mo-
vimento si fece nella folla, e quegli stessi, che poco prima
insultavano alla sventura, proruppero in applausi, in ac-
clamazioni, gridando: « Viva il generale Chazal! » Allora
si fece avanti F imperatore e, appoggiandosi sul braccio
del vecchio soldato, discese con lui lo scalino dell'albergo,
seguito dal generale prussiano de Boyen e dal capitano
Sterckx.
La folla, fattasi in un momento calma e rispettosa,
altamente impressionata, si scoprì, e in mezzo ad un pro-
fondo silenzio vide passare quel sovrano, che oggi vinto,
procedeva ieri circondato dai raggi della potenza e della
gloria » (i).
Così come pochi giorni prima F imperatore si era tra-
scinato umiliato, stanco e senza comando dietro il suo
esercito disfatto, si avviava adesso verso Wilhelmshòhe
e Chiselhurst, accompagnato dalla scorta del prussiano
vincitore. Ora egli dorme F ultimo sonno, proprio in
(i) L. Cappelletti. Dal 2 decembre a Sedano. . Pag. 501.
— 37 —
quella terra, che fu tanto fatale alla sua dinastia, e 1' im-
peratrice Eugenia, quella che fu la bella, la radiosa, 1' or-
gogliosa Eugenia di Montijo, trascina la sua cadente
persona per le città d' Europa. Una volta, richiesta di ac-
cordare un' udienza ad un alto personaggio straniero, ella
rispose amaramente : « Oui, je sais, on vient me voir
comme un cinquième acte ».
Ma la fine della gran tragedia doveva compiersi in
un estremo lembo della « fascinosa Africa impura » ; una
zagaglia barbara doveva chiudere 1' opera del Fato, cui
Napoleone III credeva, anche quando egli era chiamato
« Y oracolo delle Tuileries » : « Il croyait d' une invin-
cible foi à V étoile Napoléonienne, à sa propre étoile ; il
était fataliste » (i).
Tuttavia, quando, nel massimo lustro dell' impero, nac-
que il Principe Imperiale, quando, tra l' entusiasmo di tutta
Parigi, si festeggiò alle Tuileries il primo battesimo (on-
doiement) del Figlio di Francia, quando nella cattedrale
di Nótre Dame, per il battesimo ufficiale, si rinnovarono
in lusso e magnificenza i fasti dell' incoronazione del Primo
Napoleone, egli non potè mai pensare che l' impero sa-
rebbe rovinato nel fango di Sédan, che il Principe Im-
periale sarebbe andato a farsi uccidere dagli Zulù, che
nelle stesse sale delle Tuileries il 18 gennaio 1871 si
sarebbe incoronato imperatore di Germania Guglielmo I,
e che poco dopo si sarebbe abbattuta su di esse la furia
distruttrice della Comune !
(1) H. Thirria. Op. cit. Pag. V. — VI.
- 38 -
Il Principe Imperiale Napoleone Luigi Eugenio nacque
il 16 di Marzo del 1856, Domenica delle Palme. Teofilo
Gauthier consacrò al neonato principe questi versi :
Qu' un bonheur fidèle accompagne
L'enfant Imperiai, qui dort,
Blanc comme les jasmins d'Espagne,
Blond comme les abeilles d' or !
e il Barthélemy cantò :
Que nous annonce — t — il ce canon trionphant ?
Quel faveur du sort nous visite? Un enfant!
C'est celui, que la France appellait à genoux ;
Un nls de 1' Empereur, un Empereur pour nous.
Cresciuto tra gli splendori della Corte Imperiale, gio-
vinetto ancora dovette seguire il Fato dei suoi. Con suo
padre egli si recò sul teatro della guerra Franco-Prus-
siana : la stampa avversa all' impero lo pose in ridicolo :
« a Sarrebruck, scrissero, egli raccoglieva le palle morte
dei prussiani »\
Separato violentemente da suo padre dal disastro di
Sédan e dalla prigionia, lo riabbracciò in terra di esilio.
Studente nelT Accademia Reale di Woodwich, ne fu ri-
chiamato all' improvviso, per assistere agli ultimi istanti
di suo padre: giunse in tempo solamente per baciarne
il cadavere.
Divenuto maggiorenne nel 1874, mosse a lui un pel-
legrinaggio ossequente di ottomila francesi, che forse
nella sua giovane anima Napoleonica fece rigermogliare
— 39 —
la speranza dell' Impero. Ricevuto famigliarmente alla
Corte della Regina Vittoria, divenne 1' amico migliore
del Principe di Galles, e s' invaghì della principessa Bea-
trice, che sarebbe stata certamente sua sposa.
Viaggiò lungo tempo in Europa, accolto con grande
simpatia da tutti i regnanti : forse fu appunto questo,
che lo indusse a guadagnarsi un qualsiasi lauro di gloria
militare. Da prima pensò di recarsi nei Balcani, che in
quel tempo, come sempre, erano in convulsioni guerre-
sche, ma ne fu dissuaso per ragioni politiche ; allora ri-
solse di andare a combattere nel Zululand, sotto la Ban-
diera Inglese. Fu un sogno folle di gloria, che doveva
costargli la vita.
Alla sua partenza tutti, e sua madre per prima, ebbero
tristi presagi : il principe stesso, la vigilia della sua par-
tenza, fece testamento. Il 27 febbraio 1879 s' imbarcò per
il Natal sul « Danubio », che issò la bandiera Francese ;
sbarcò ai primi di aprile al Capo, e fu subito addetto allo
Stato Maggiore di Lord Chelmsford. Assalito da febbre
violenta, dopo qualche giorno si ristabilì e prese parte
ad una prima scaramuccia, sotto gli ordini del colonnello
Bulter. La sera del 3 1 maggio ricevette V ordine dal co-
lonnello Harrison di effettuare per l' indomani una per-
lustrazione in avanti : la mattina dopo infatti egli lasciò
V attendamento del generale Wood con un tenente, un
sergente, un caporale, quattro soldati ed un negro, pra-
tico del luogo.
Si avanzarono con circospezione lungo la riva del
fiume Blood-River (fiume di sangue), e dopo una lunga
— 4Q —
marcia si fermarono in un campo di frumento, a trecento
metri circa dal villaggio di Donga, per far pascere i ca-
valli. Alle quattro del pomeriggio vennero sorpresi da
una turba di Zulù. Il tenente Carey vilmente saltò a
cavallo e prese la fuga, seguito da alcuni soldati : il prin-
cipe, vistosi perduto, fece anch' egli per saltare a cavallo,
aggrappandosi alla sella, ma, spezzatasi la cinghia, cadde
rovescio. Gli Zulù si avventarono su di lui, urlando sel-
vaggiamente, con le lance e le zagaglie. Egli si alzò e
scaricò tutti i colpi del suo revolver, poi impugnò la spada
e si difese eroicamente. Estenuato, grondante sangue dalle
molteplici ferite, una delle quali aveva trapassato V occhio
destro, cadde per non rialzarsi mai più ! (i).
La sua misera salma fu raccolta poco dopo da una
pattuglia inglese, e trasportata in Europa a bordo del-
l' « Oriente » : grande fu il compianto di tutta Europa.
La morte del principe Eugenio valse a spegnere anche
gli ultimi bagliori, che ancora restavano dell' impero,
perchè agli occhi del popolo francese qualunque altro
pretendente Napoleonico sembrava un pallido rappresen-
tante dell' idea imperiale, quand' era scomparso il figlio
di Napoleone III, eh' esso aveva visto bambino per Pa-
rigi, nei giorni del suo maggior splendore.
« Chiunque ripensi alla grandezza di Napoleone III
(i) Varie ed incerte sono le versioni sulla fine del povero principe im-
periale. V. sull'argomento il bel libro di Martinet André - Le prince
Imperiai - Paris, 1895.
— 41 —
da!7i854 al 1866, all' Europa che pendeva dal suo labbro,
che ne spiava e scrutava con timorosa curiosità i gesti
ed i pensieri, cercando di leggere la sua sorte, non può
vedere senza compianto, come la mano della fortuna si
sia aggravata sulla sua casa. La potenza è perduta, la
gloria svanita, e la scena del secondo gran dramma napo-
leonico termina con un cadavere all' estremità dell' Africa,
come il primo si era chiuso con una tomba a S. Elena » (1).
All' annunzio de la morte di Napoleone Eugenio, Gio-
suè Carducci scrisse un' ode, al cui altissimo volo, dice il
Mazzoni, sembra che la stessa aquila napoleonica abbia
prestato le penne immortali.
Il poeta incomincia, paragonando la fine miseranda
del figlio di Napoleone III, a quella del figlio di Napo-
leone I, dell'infelice Aiglon, che era stato proclamato Re
di Roma, anche lui fra la trepida riverenza dell'Europa
e gl'inni de' poeti:
Questo la incoscia zagaglia barbara
Prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
Vita sorrisi da i fantasmi
Fluttuanti ne l'azzurro immenso.
L'altro, di baci sazio in austriache
Piume e sognante su l'albe gelide
Le diane e il rullo pugnace,
Piegò come pallido giacinto.
Odi Barbare - In morte di Nap. Eugenio
Il Re di Roma, non so se più o meno fortunato di
;(i) V. Nttova Antologia del luglio 1879.
— 42 —
Napoleone Eugenio, mori alla corte di Vienna, presso
l'imperiai suo nonno, affidato alle cure del principe di
Metternich, che gli camuffò perfino il bel titolo, datogli
dall' orgoglio del suo gran padre, in quello austriacamente
odioso di duca di Reichstadt.
Però sulla condotta seguita dal Metternich verso il
figlio di Napoleone molte esagerazioni si son dette; al-
cune anzi furono raccolte anche nell'Aiglon di Rostand,
bellissimo lavoro artistico, ma storicamente inesatto, e forse
anche il Carducci vi cadde in quest' ode, con le parole
« di baci sazio in austriache piume ». Si disse che il prin-
cipe di Metternich avesse voluto avvelenare moralmente
e fisicamente il principe, facendolo tuffare in ogni sorta
di facili amori, ed avesse perfino ingiunto ai suoi pre-
cettori di istupidirlo.
Ora tutto ciò dai migliori storici napoleonici è stato
dimostrato essere non altro che una leggenda, e special-
mente dal tedesco Edoardo Wertheimer, che scrisse una
splendida monografia sul re di Roma, dimostrando, per
esempio, che la Fanny Essler, la pretesa complice di Met-
ternich, non ebbe alcun rapporto col duca, come vorrebbe
il Rostand, e rilevando dai diari dell' Obenaus, maestro
di storia al giovane, che anche questo personaggio fu in-
giustamente calunniato dal poeta francese (i).
Scrive Alessandro Luzio : « la sola violenza contro na-
tura, commessa a danno del duca di Reichstadt, sta tutta
(i) E. Wertheimer. Die Herzog von Reichstadt, ein Lebensbild nach
neuen Quellen. Stuttgart, 1902.
— 43 —
qui, neh" aver cercato di soffocare in quel giovane pieno
d'avvenire tutto quanto di originale gli derivava dagli
istinti irreducibili del suo carattere di Francese e di Na-
poleonide. Gli si tolsero le bonnes parigine a cinque anni:
lo si obbligò a parlar tedesco, per quanto strepitasse che
•voleva esser francese (« ich will kein Deutcher sein, ich
Will Franzose sein »)*, si ricorse perfino, per ordine del
nonno, alla sferza!.... Dall'animo di lui si volle sradi-
care ogni aspirazione al trono di Francia e il ricordo del
padre ; sostituirvi la convinzione, suo unico dovere fosse
quello di obbedire al nonno a accrescerne un giorno con
la spada gli allori, servendo la monarchia austriaca. I sol-
dati della I. R. truppe ebbero l" ordine di agevolare que-
sta metamorfosi del Re di Roma, creandogli una popo-
larità anticipata, e si permetteva l'infrazione regolamen-
tare, che durante le manovre, al solo apparire del Duca
di Reichstadt, quelle milizie, avvezze alla più ferrea e si-
lenziosa disciplina, prorompessero in urrà al futuro capi-
tano, da cui speravano risarcimento per le batoste, loro
inflitte dal padre (i).
Ad ogni modo stranissima e dolorosa coincidenza sto-
rica questa della morte di due principi della stessa dina-
stia, che sembrava fossero nati imperatori. Ambedue eb-
bero per condanna di essistere alla rovina di quello che
doveva essere il loro trono, e morirono entrambi in terra
straniera, lontano dalla madre.
(i) A. Luzio. Profili biografici e bozzetti storici. Il Re di Roma.
— 44 —
Ambo a le madri lungi; e le morbide
Chiome fiorenti di puerizia
Pareano aspettare anche il solco
De la materna carezza
Ma quale diversità tra le madri ! Eugenia di Montijo
si aggravò di molte colpe dinanzi alla storia, ma mostrò
un animo forte e rassegnato nella sventura, ed ebbe per
V unico suo figlio una vera adorazione : quando egli morì,
rimase annientata.
Maria Luisa invece, la madre dell' Aiglon, la duchessa
di Parma, che non sdegnò di cambiare gli amplessi di
Napoleone con quelli del generale Neipperg, Maria Luisa,
d'Asburgo frutto,
Bambola augusta, cortigiana pia,
Scordava in braccio a maggiordomi irrisi,
D' Italia il vanto e de la storia il lutto
E del Fatale la lenta agonia,
E il Re di Roma sacro alla tisi (i).
Ella non si curò mai soverchiamente del figlio affi-
dato ai suoi imperiali parenti di Vienna : soltanto, quando
fu chiamata al suo letto di morte, accorse in tempo per
vederlo spirare.
Quindi all' infelice Re di Roma non mancò del tutto
1' ultimo solco de la materna carezza ; anzi si vuole che
le sue ultime parole siano state : « Ich gehe unter! Mutter !
Mutter ! (Mamma, mamma, io muoio !)
(i) A. Colautti. Maria Luisa. Nei « Canti Virili ».
— 45 —
Più infelice di lui il principe imperiale balzò nel buio;
veramente « giovinetta anima senza conforto », e gli fu
negato anche Y ultimo omaggio della terra, dove egli era
nato : il governo della Repubblica Francese infatti ricusò
il permesso di assistere alle sue esequie ai generali
Fleury, Canrobert, Leboeuf e perfino a Mac Mahon, che
erano stati i più fedeli al padre suo :
né de la patria
U eloquio seguivali al passo
Co' suon de 1' amore e de la gloria !
Eppure i fati del Re di Roma erano stati deprecati
dal capo del piccolo principe del secondo Impero ! Eppure
egli era nato quando sembrava che da 1' alto della colonna
Vendòme un fulgido astro preludesse ad un' era di splen-
dore e di gloria per la Francia e per il suo imperatore I
Vittoria e pace da Sebastopoli
Sopian col rombo de 1' ali candide
Il piccolo : Europa ammirava :
La colonna splendea come un faro.
Ma il Fato, memore delle colpe napoleoniche e dei'
delitti del 1 8 brumaio e del 2 dicembre, stese anch' egli
le sue ali nefaste su la culla de V infante, e non perdonò t
Ma di decembre, ma di Brumaio
Cruento è il fango, la nebbia è perfida :
Non crescono arbusti a quell' aure,
O dan frutti di cenere e tòsco
E frutti di Asfaltide furono il Re di Roma e il Figlio
- 46 -
da Francia, per la fatale legge storica, che il Carducci am-
metteva.
Il poeta poi, con superbo movimento lirico, passa ad
evocare le origini della famiglia Bonaparte e la solitaria
casa d' Aiaccio,
Cui verdi e grandi le querce ombreggiano
E i poggi coronan sereni
E davanti le risuona il mare ! (i)
Ivi Letizia, bel nome Italico,
Che ornai sventura suona ne i secoli,
Fu sposa, fu madre felice,
Ahi troppo breve stagione ! ed ivi,
Lanciata ai troni 1' ultima folgore,
Date concordi leggi tra i popoli,
Dovevi, o consol, ritrarti
Fra il mare e Dio, cui tu credevi.
Su quest' ultimo verso principalmente si accanirono
i critici del poeta, i quali mal compresero o vollero ve-
derci quello che non e' era, e il poeta spiegò : « Ho in-
teso con quei versi di rilevare come sfondo al gruppo
dei Bonaparte abbattuti, il grande ignoto Dio, in cui il
Corso credeva, mentre tutta, si può dire, la Fancia e gran
parte dell' Europa comme il faut, lo abbandonava al con-
sumo della gente bassa, e lo serbava per le decorazioni
(i) Si noti il costrutto di questa strofa, che potrebbe sembrare perfino
strano ed asintattico : invece è efficacissimo quel brusco : « e davanti le risuona
il mare » . Così altrove, nell' Idìllio Maremmano :
onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele e il camposanto è a lato !
— 47 —
teatrali, in certi casi, mentre la scienza, per bocca del
Laplace e proprio in faccia al Primo Console lo rigettava,
come un' ipotesi, di cui non aveva bisogno ». E poiché
osarono di dirgli che quel verso era anche « una repen-
tina caduta », egli replicò tra il serio e Y ironico : « il
cui tu credevi V ho messo apposta per sciupare il verso,
per fare una caduta. Tutti i gusti son gusti. Io amo di
sciupare i versi così e di far le cadute repentine, massime
quando ho dinanzi un concetto di sublimità oggettiva ;
ho imparato da Eschilo, da Pindaro, da Orazio » (i).
Le tre strofe, in cui il Carducci trae dall' ombra la
dolente madre di Napoleone, son senza dubbio le più belle
dell' ode, e la infelice Letizia Ramolino meritava questo
postumo omaggio di un grande poeta :
non lei di Cesare
Il raggio precinse ; la corsa
Madre visse fra le tombe e 1' are.
Infatti ella non seguì il figlio nel suo vertiginoso cam-
mino : rimase, umile e trepida madre, sotto la cappa del
vecchio focolare, mentre
su '1 dubbio ponte tra i folgori
Passava il pallido còrso, recandosi
Di due secoli il fato
Ne l'esile man giovine (2).
Ritiratasi dopo il 1 8 1 4 a Roma, vi condusse vita au-
(1) G. Carducci. Moderatucoli.
(2) G. Carducci. Su l'Adda « Odi Barbare ».
- 48 -
stera, solitaria nel suo immenso dolore. Invano ella aveva
atteso che « il duce del concitato impero » cui « neri gli
occhi scintillando immoti, fòran dal fondo del pensier le
cose » (i) tornasse a lei, alla piccola casa paterna, come
Washington era tornato alla sua « casa bianca ».
Ora la cara e dolce imagine materna pare ancora aggi-
rarsi ne la solitaria casa di Aiaccio : laggiù ai visitatori
ancora si mostra quella che fu la sua camera. « È sem-
plicissima, un letto, un grande specchio, poggiante su di
un camino di marmo, lavoro italiano del settecento, un
busto del povero principe Imperiale, alle pareti ritratti di
Letizia e di Luigi Bonaparte, Re d'Olanda, un presepio
assai grazioso, portato in dono da Napoleone alla madre,
al suo ritorno da V Egitto. Dalle finestre si vede cam-
peggiare ne 1' azzurro del cielo un ulivo, piantato innanzi
alla casa nel 1856, a ricordo della nascita di Luigi Napo-
leone » (2).
La casa è vuota e deserta, le tombe disperse lontane :
Il suo fatale da gli occhi d' aquila,
Le figlie come 1' aurora splendide,
Frementi speranza i nepoti,
Tutti giacquer, tutti a lei lontano.
Sta ne la notte la còrsa Niobe,
Sta su la porta donde al battesimo
Le us ciano i figli, e le braccia
Fiera tende su '1 selvaggio mare :
(i) G. Carducci. Bicocca di S. Giacomo.
(2) Da un articolo di O. F. Tencajolt, nel Secolo XX del decem-
bre 1 908 . « La solitaria casa d' Aiaccio » .
Questo la inconscia zagaglia barbara
Prostrò... »
— 49 —
E chiama, chiama, se da 1' Americhe
Se di Britannia, se da V arsa Africa
Alcun di sua tragica prole
Spinto da morte le approdi in seno.
E così si chiude la bellissima alcaica, con il ricordo
funebre di Girolamo Bonaparte Paterson, figlio di Giro-
lamo, re di Westfalia, morto nel 1870 a Baltimora, di
Napoleone III morto nella Britannica Chiselhurst, di Na-
poleone Eugenio, barbaramente trucidato nell' Africa tene-
brosa, evocati da Letizia Bonaparte, che, simile alla Niobe
antica, chiama a gran voce i figli di sua gente, in faccia
all' eterna impassibilità del mare !
Alcuni moderni cultori di biologia, per spiegare i feno-
meni dell' ereditarietà fisiologica e psichica, hanno fatto
profonde indagini nella storia di tutti i tempi e di tutti i
paesi, trovando largo campo a ricerche nello studio delle
case regnanti.
E son riusciti a formulare una legge, per cui tutte
le dinastie, quando fausti incroci non funzionino da ele-
menti rigeneratori, sono condannate o ad una fatale estin-
zione o ad un processo, più o meno rapido, di degene-
razione. Una bella e compiuta sintesi di questi studi fu
fatta dal valoroso professore Antonio Renda nel suo libro:
« Il destino delle dinastie o L' eredità morbosa nella
storia ». E nel primo capitolo di questo volume, che
— 5o —
tratta in generale dei fenomeni ereditari e de le forme
degenerative, e' è una pagina, che pare inspirata in par-
ticolar modo dalle vicende drammatiche della famiglia
d' Asburgo : « sono amori peccaminosi, che hanno il pro-
fumo dell' idillio e cercano lungi dalle aule fredde delle
Corti la pace serena di un affetto indisturbato, impeti
vittoriosi di passione, che lanciano una principessa dal
seggio aureo sulle tavole di un palcoscenico o infrangono
con la drammaticità d' una leggenda una vita e uniscono
neir eterno bacio de la morte amanti sventurati : sono
bisogni morbosi, che con la tinta impudica delle turpi-
tudini degli Eliogabali, ricercano fuori le auguste pareti
i suburbi e i misteri e i ritrovi notturni delle grandi
città ; sono malinconie e rimpianti profondi, che hanno
bisogno della solitudine della tolda d' una nave errante
per anni lunghi, pensosi, tristi, di lido in lido, tra le
suggestioni del mare infinito e del cielo infinito ; sono ri-
nunzie, abbandoni, sparizioni romanzesche e silenzi foschi,
che avvolgono alcune regge come di un* aura di fatalità
tragica.
Di quando in quando il grido di un' anima dolo-
rante, un atto disperato, le angoscie di un folle, le stra-
nezze di un principe, la lenta estinzione di un etico,
V empietà d' un padre, le follie d'un marito Il pensiero
dello studioso, che segue in epoche diverse, tra circostanze
varie, sotto le forme più disparate di potere, le vicende
delle famiglie reali, ha viva Y impressione della comunità
tragica del loro destino, e V animo prova la commozione
— 5i —
medesima, che desta ancora in noi la cieca azione del
Fato, cantata dai poeti greci » (i).
Ora tutte le varie forme di dissolvimento patogeno,
fisico, fisiologico e psicologico, enumerate dal Renda, si
riscontrano nella dinastia Asburghese, e davanti all' ine-
sorabile destino biologico, che ha colpito questa Casa,
ritorna imperioso il ricordo del Fato Greco. Maurizio
Barrès, parlando di Elisabetta d' Austria, scrive : « Dans
sa maison le Meurtre, le Suicide, la Démence, et le Crime
semblent errer, comme les Furies d' Hellas sous les por-
tiques du palais de Mycènes » (2). Ed Arturo Colautti,
parlando dei drammi ed infortuni della disgraziata fami-
glia, dice che essi « nelle leggende avvenire, accomu-
neranno Vienna a Tebe, a Micene, a Pella, città del pianto,
sacre ad Atropo, ultima dea ! » (3).
Infatti quale quadro pauroso di sangue, di lacrime e
di follia nel giro di pochi anni !... L' arciduchessa Sofia,
figlia primogenita dell' imperatore Francesco Giuseppe,
muore a quaranta mesi nel 1858 d'infezione difterica (e
questa fu forse la prima causa del distacco di anime, ac-
centuatosi poi sempre più tra l' imperatore e l' imperatrice) ;
nel 1864 l'arciduchessa Margherita (destinata forse in
isposa al Principe ereditario d'Italia, che fu poi Re Um-
berto), acconciandosi innanzi allo specchio per un ballo
di corte, perisce miseramente fra le fiamme, appiccatesi ai
(1) Antonio Renda. // destino delle dinastie. Ed. Bocca, Pag. 24.
(2) Maurice Barrés. Amori et dolori sacrum. Pag. 164.
{3) A. Colautti. Franz Joseph, Nella «Lettura». Dicembre 1907.
— 52 —
suoi veli; nel 1867 Massimiliano d'Austria, tratto alle lu-
singhe di un impero, cade a Querétaro sotto i colpi della
reazione, e sua moglie Carlotta impazzisce. Non tardano
a seguirla nei regni bui della follia i reali cugini Ludo-
vico II e Ottone III di Baviera (1886).
Nell'anno 1889 poi V Ananke misteriosa addensa la
più fiera tempesta sul capo dell' Augusta coppia impe-
riale. La mattina del 3 1 gennaio l' arciduca Rodolfo, 1' Unser
Rudi del popolino viennese, 1' erede idolatrato del trono,
in un padiglione di caccia di Mayerling, alle porte della
metropoli, è trovato immerso nel suo sangue, vittima o
suicida, per amore o per vendetta, in un' orgia o in un
agguato, presso la sua bellissima amante, la baronessina
Maria Weczera.
Nel 1897 Sofia, duchessa d' Alencon e sorella dell'impe-
ratrice, perisce a Parigi nell' incendio del Bazar della Cha-
rité, e nel settembre 1898 infine la stessa imperatrice Eli-
sabetta cade sotto l' infame colpo di una belva, che pur
aveva un nome umano. Né basta : il cugino preferito del-
l' imperatrice, Luigi di Baviera, il re del sogno, annega
nel lago di Starnberg, 1' arciduca Guglielmo è ucciso dal
suo cavallo, 1' arciduca Lazio perisce in un accidente di
caccia, il cognato, conte Luigi di Trani, si suicida a Zurigo,
1' arciduca Giovanni Nepomuceno, fratello dell' imperatore
scompare tra le braccia dell' amante Melly Shebel a bordo
della « Santa Margherita », che, qual nuovo vascello fan-
tasma, si invola tra i gorghi Magellanici (1). Degli altri
(1) È ancora viva l'eco delle recenti notizie più o meno fantastiche su
Giovanni Orth, che sarebbe ancora vivo in altro continente.
— 53 —
fratelli dell' imperatore, Carlo Luigi muore di mal sottile,
seguito l'anno appresso dal figlio Ottone Francesco, con-
sunto da lue segreta (1897), e l'arciduca Luigi Vittorio
vive relegato e custodito per degenerazione psicopatica nel
castello Salisburghese di Klessheim.
Quindi ben può ripetersi della famiglia d' Asburgo
quello che Voltaire disse della famiglia degli Atridi : « J' ai
toujours regardé la famille d' Atrée, depuis Pélops jusqu' à
Iphigénie, comme 1' attelier, où 1' on a du forger les poi-
gnards de Melpomene ». Ma in questa moderna casa d' Impe-
riali Melpomene può dar la mano a Talia, perchè alle
angosce supreme della tragedia mesconsi scandalosi amori
da commedia ed intrighi da pochade. « Nella più bigotta
delle corti cattoliche, scrive il Colautti, gli scandali erotico-
giudiziari si succedono con inverecondia allarmante; nella
più rigida delle dinastie Europee, i matrimoni « con la
mano sinistra », le « mésalliances » sentimentali, le unioni
nicht ehebilrtige, ossia non conformi alla nascita, crebbero
a vista. I notai della corona non erano occupati ad altro
che a riempir moduli di rinunzia, a stendere atti di dimis-
sione ». E tutto questo accadeva in una corte, che aveva
preferito la lenta degenerazione dei matrimoni consanguinei,
anziché tralignare. Dopo la scomparsa di Giovanni Nepo-
muceno, (ultimo figlio del Granduca Leopoldo II di To-
scana e grande amico dell' arciduca Rodolfo), il quale ri-
nunziò al suo nome, assumendo quello di Giovanni Orth,
per navigare il mondo insieme con la sua bellissima amica,
la principessa Elisabetta di Baviera, nipote prediletta
dell' imperatore, perchè figlia di sua figlia Gisella, inva-
— 54 —
ghitasi del tenente barone Ottone Von Seifried, nel 1893
scappò con lui fino a Genova, dove si celebrarono se-
grete nozze. Nel 1 904 Y Arciduchessa Stefania, figlia del
re dei Belgi e vedova dell' Arciduca Rodolfo, gettò le
bende vedovili e passò a seconde nozze con l'unghe-
rese conte Elemero Lyonay, attirandosi la maledizione
del padre e la scomunica dell' imperatore, il quale nello
stesso anno dovette soffrire che il presunto erede del trono,
il nipote Francesco Ferdinando d' Asburgo-Este per gra-
titudine di convalescente, impalmasse la contessina boema
Sofia Chotek, promossa poi a principessa di Hohemberg.
Due anni appresso, quasi per confermare l' ineluttabilità
della legge ereditaria, 1' unigenita figlia di Rodolfo e Ste-
fania si faceva pur essa romanticamente rapire dal principe
Ottone di Windischgraetz-Buttersheim, e l'augusto avo do-
vette rassegnarsi anche a quest'ultimo colpo dolorosissimo.
Specialmente il ramo collaterale di Toscana doveva
dare le maggiori amarezze all' imperatore. Per parlare sol-
tanto degli ultimi, tutti ricordano le avventure della princi-
pessa Luisa di Sassonia, prima contessa di Montignoso
e poi signora Toselli, e di suo fratello, che, col nome di
Leopoldo "Wolfìng, andò a sposare nello stesso anno 1903
in Svizzera la signorina Sofia Adamovich, già cassiera
in un caffè di Budapest; idillio vegetariano e naturista,
finito con una sentenza di divorzio per incompatibilità di
carattere e con un nuovo matrimonio, ancor peggiore, con
una Maria Maddalena Ritter, figlia di un minatore Slesiano,
e donna mal nota alla polizia dei costumi di Monaco e
Berlino (1907).
— 55 —
Ma anche in questo può scorgersi una vendetta del
destino. Un anonimo epigrammista latino (forse lo Scali-
gero) disse che casa d' Asburgo, più che al lauro di guerra,
doveva la sua prosperità all' arancio simbolico: « Tufelix,
Austria, nube »... e V Austria per cinque secoli usò una
politica nuziale, e mandò le sue Arciduchesse su tutti i
troni, su quello di Spagna, di Baviera, di Toscana, di
Parma, di Lorena, delle due Sicilie, di Francia ; ambì di
veder unita una sua figlia imperiale sopra un trono ai
più potenti sovrani, e dette in isposa Maria Antonietta
a Luigi XVI e Maria Luisa a Napoleone I. Ma, come
ben dice il Colautti, nel secolo rivoluzionario, secolo dei
lumi e delle fiamme, Eros diede lo sgambetto ad Imene,
paraninfo, sensuale, faccendiere di casa d' Austria. Non
più il fidanzamento diplomatico, 1' unione prefissa sin da
la culla, il contratto pattuito di lunga mano, non più nozze
politiche, coniugi territoriali, matrimoni di stato. Nasce
invece, ed esplode e trionfa t Amore : 1' Amore contro la
tradizione e contro la diplomazia, contro la prudenza e
contro 1' etichetta, Y Amore che si beffa delle convenienze
e delle parentele, che ignora la ragione statale e l' inte-
resse dinastico, 1' Amore che abolisce le sante alleanze e
sopprime Y equilibrio europeo, 1* Amore senza dote, senza
corona e senza vergogna, che rinunzia a tutto fuorché a
sé stesso, che comincia come un romanzo e può finire
come un dramma, 1' Amore illegittimo e schietto, libero
e liberale, che, se consente alla consacrazione, lo fa di
nascosto, senza pompa e senza rammarico ; Y Amore infine,
con l' iniziale maiuscola.
- 56 -
Amore dunque si vendica, perchè Asburgo troppo aveva
abusato del matrimonio, e ne aveva fatto strumento di
regno, arma di conquista, fonte di potenza !
Delle tragedie, che funestarono la casa d' Asburgo, due
furono cantate dal Carducci, quella dell' arciduca Massi-
miliano e quella di Elisabetta imperatrice regina ; 1' una
nell' ode « Miramare » e 1' altra nell' elegia « Alle Val-
chirie », che fu una delle sue ultime.
Già fin da quando la Spagna, l' Inghilterra e la Francia
avevano condotto la prima spedizione contro il nuovo go-
verno repubblicano, instaurato nel Messico da Benito Juarez,
il Carducci aveva biasimato in due sonetti : ( i )
Ancella Francia ad ogni rio potere,
Spagna feroce ed Anglia mercantesca.
Levia Gra-via - Per la spedizione del Messico.
La spedizione partì e giunse nel 1861 al Messico, gui-
data dai tre comandanti Prim, Wike, e Jurien de la Gra-
vière, ma ben presto, paghi delle soddisfazioni avute da
Juarez e offesi dall' insolente contegno del comandante
Francese, gli Spagnuoli e gli Inglesi tornarono in Europa.
Restarono soli i Francesi, benché decimati dalla febbre
(i) Mai il Carducci fu così violento contro Napoleone III, il « Caco
Imperiale » come in questi due sonetti :
Ei, che guatò ladro notturno al soglio ecc.
— 57 —
gialla e gravemente minacciati da Juarez. Ma giunse in
loro aiuto nel 1863 il generale Forey con un forte corpo
d' esercito, pose P assedio a Puebla, eroicamente difesa
dagli abitanti e, dopo tre mesi di assedio, P espugnò.
Divenuti così arbitri della situazione i Francesi, i Mes-
sicani, e specialmente i numerosi emigrati, residenti a
Parigi, furono indotti dalla politica di Napoleone III a
mutare il governo da repubblicano in monarchico, e ad
offrire la corona d' imperatore all' arciduca Ferdinando
Massimiliano d' Austria, fratello di Francesco Giuseppe.
Fu costituita una reggenza provvisoria, presieduta dal
generale Almonte, mentre una missione partiva per P Eu-
ropa, incaricata di portare il voto della nazione messicana
al castello di Miramare, dove Massimiliano risiedeva.
Dapprima egli energicamente rifiutò ; ma nel 1864, ac-
cettando P invito dell' imperatore dei francesi, si recò a
Parigi e colà furono vinte le sue riluttanze. Recatosi di
poi a Vienna, ebbe un violento contrasto con P impera-
tore d' Austria e con gli altri fratelli, circa la rinunzia ai
suoi diritti, ed ancora una volta volle rifiutare. Napoleone III
telegrafò : « Vostra Altezza è impegnata, e pensi alla sua
gloria: un rifiuto oggi mi sembra impossibile », pregò il
re dei belgi, cognato dell' arciduca, di volersi intromettere
e inviò il generale Froissard a Miramare. Benché questo
generale scrivesse : « P arciduc n' a pas de confiance dans
la grande entreprise, qu' il va tenter », il io aprile 1864
a Miramare veniva firmato un atto con cui Massimiliano
rinunziava ai suoi diritti di agnato al trono austriaco e
•dava finalmente, e in forma solenne, la sua accettazione
- 58 -
alla deputazione messicana : la Francia, con un trattato,
che fu detto di Miramare, si era obbligata di fornire aiuto
di armi e di denaro al nuovo imperatore, sino a quando
questi non fosse riuscito a dar completo assetto al novello
impero.
Quattro giorni dopo la convenzione di Miramare, sulla
fregata austriaca « La Novara », Massimiliano prendeva
il mare con la sua bellissima consorte Carlotta e il 28 maggio
sbarcava a Vera-Cruz, accolto piuttosto freddamente dalla
popolazione. L' ingresso al Messico invece fu trionfale,
ma gì' inizi del nuovo regno furono burrascosi: la Chiesa,
per alcune questioni, risolte personalmente dall' imperatore,
protestò il e maresciallo Bazaine, nuovo comandante delle
forze francesi, ebbe tosto dei dissapori con lui, acuiti dal
fatto che l'imperatore chiamò a presiedere il primo mini-
stero Velasquez de Leon, un avversario di Napoleone III.
Intanto gli Stati Uniti d'America, non avendo voluto
riconoscere il nuovo impero, favorivano nascostamente le
mire dei fuorusciti repubblicani, e in Francia lo spirito
nazionale e il Corpo Legislativo facevano sempre più aspre
le loro censure verso l' imperatore per la disgraziata spe-
dizione. Quindi Napoleone III, accettando le rimostranze
del gabinetto di Washington, ordinava il ritiro delle truppe
francesi, proprio quando più vi era bisogno di esse, per
un inasprimento causato nelle file repubblicane, non del
tutto disperse, dalla cattura in uno scontro di due loro
generali e di alcuni colonnelli, i quali poi furono fucilati
per ordine di Massimiliano.
Per tentare di far recedere Napoleone dal suo ordine
— 59 —
di ritiro delle truppe, che poteva essere fatale, partì in
persona per l'Europa Y imperatrice Carlotta, e trovò l'impe-
ratore malato a Saint-Cloud e infastidito del cattivo esito
della sua politica germanica. Ella descrisse a foschi co-
lori la situazione di suo marito e diede a leggere all'impe-
ratore due lettere, scritte da lui stesso a Massimiliano,
con cui gli prometteva appoggio ed aiuto sino a quando
ve ne fosse bisogno. U imperatore dette alle lettere una
scorsa distratta e le restituì, dicendo di aver fatto quanto
poteva e di non poter dare ne un uomo né uno scudo più.
Pallida d' indignazione, Y infelice donna vuoisi che abbia
risposto : « Lo sapevo ; una nipote di Luigi Filippo d' Or-
léans non avrebbe dovuto affidare il suo destino ad un
Bonaparte ! » Fu 1' ultimo scatto del suo sangue regale :
recatasi a Roma dal Papa, avute nuove e più recise ri-
pulse, la sua mente non resse a tanta dolorosa delusione,
e d' allora ella vive nell' abisso della Follia.
Intanto nel Messico gli eventi precipitavano : il mare-
sciallo Bazaine, ambiziosissimo, forse avrebbe voluto fa-
vorire la caduta dell' imperatore, per mettersi al suo posto,
anche perchè aveva sposato una ricca messicana. Con ci-
nica vigliaccheria, diventò traditore ; venne a segreti
accordi coi ribelli, e fece sì che Napoleone III telegrafasse
all' imperatore di abdicare.
E Massimiliano, il 18 ottobre 1866, avuto la notizia,
dell' impazzimento di Carlotta, risolvette subito di lasciare
il Messico. Nelle prime ore del mattino del 21 ottobre,
si mise in viaggio per Oribaza, dove giunse la sera del 27.
I francesi ricevettero l' imperatore con una salva di arti-
— 6o —
glieria e fecero suonare le campane a festa.... e il loro
capo lo tradiva !
Ad Oribaza il colonnello austriaco Kodolies e il ca-
pitano Kevenhuller, si presero l' incarico di distogliere
1' imperatore dai propositi di abdicazione, e lo fecero in
ginocchio ; il ministro Lacunza gli ricordò in nome del
paese la sua promessa : Un d' Asburgo non lascierà mai
il suo posto nel momento del pericolo !
E Y imperatore debole, contrariato, avvilito rimase,
mentre sorgevano i primi bagliori della guerra civile. Il 5
di febbraio 1' esercito francese abbandonò la capitale, e
il 1 2 lo seguirono i Belgi e gli Austriaci ; Massimiliano,
per difendersi dalla rivoluzione imminente, dovette disporsi
subito a raccogliere un esercito indigeno e inesperto.
E la lotta incominciò. Juarez, tornato alla riscossa,
occupò in pochi giorni molte città e borgate, mentre Por-
firio Diaz poneva 1' assedio a Puebla ed Escobedo si di-
rigeva su Querétaro con 16 mila uomini. L' esercito impe-
riale, guidato dal generale Miramon, riportò una bella
vittoria a Zacatas, ma dopo poco fu sconfitto a San Gia-
cinto: lo stesso Miramon ferito, suo fratello fatto prigioniero
e fucilato al lume di una candela.
Allora Massimiliano tornò al suo proposito di abdicare,
ma il presidente dei ministri gli consigliò di recarsi a Queré-
taro, città devota all'impero, fortificandosi e di là trattare con
Juarez, ottenendo tutte le garanzie possibili e poi abdicare.
E Massimiliano il 13 febbraio 1867, alle due del mat-
tino, con 1500 uomini, seguito dai generali messicani
Lopez e Marquez, partì per Querétaro.
— 6i —
« Mentre passava galoppando sotto gli antichi alberi
della bella Hacienda de los Ahuehentes, traverso la su-
perba vallata del Messico verso il Nord, si trasportava
con la fantasia ai tempi in cui quegli stessi alberi ave-
vano formato come colonne maestose le gigantesche cat-
tedrali all' antica religione idolatra degli indiani, sotto le
cui ombre Montezuma, il primo difensore dell' indipen-
denza messicana, aveva celebrato i suoi misteriosi sacrifici.
Uno di questi alberi prediletti da Montezuma era stato
battezzato « albero della notte del dolore », perchè, seduto
sotto le sue foglie, lo spagnuolo avventuriero Fernando
Cortez aveva pianto dopo un combattimento notturno,
per cui era stato espulso dal Messico. Fu questo il ri-
cordo, che si affacciò alla mente dell' imperatore. Egli
scrisse a questo proposito nel suo diario : « questo mo-
mento nella storia del gran conquistatore mi ha sempre
commosso nel fondo de Y anima, perchè e' insegna che
anche gli spiriti più forti e dominatori, per solito sì saldi
e tenaci, hanno momenti, in cui si credono abbandonati
dalla loro stella e cadono nella più grande prostrazione.
Se in tali istanti non giunge una salutare reazione, quel-
Y uomo è finito e la sua stella tramontata per sempre.
La stella di Cortez non fu offuscata che per un breve
intervallo da una nube passeggera ; egli si risollevò più'
forte che mai dal suo dolore e riconquistò il perduto cre-
dito nel Messico e compì felicemente Y opera sua » (i).
(i) Prof. Alberto Allan. Studi Carducciani. Commento all'ode «Mi-
ramare » .
— 62 —
L' opera invece del giovane imperatore d' Asburgo
doveva miseramente naufragare. A Querétaro egli fu
accolto con entusiasmo, ma subito bisognò pensare alla
difesa, perchè il nemico cingeva da ogni parte la città.
Massimiliano inviò i generali Marquez e Vidaurri a Mes-
sico, perchè portassero quei soccorsi di uomini e denaro,
che il Ministero si era rifiutato d' inviare. Ma il Marquez,
giunto al Messico trovò la città assediata da Porfidio
Diaz e quasi sguarnita di milizie ; quindi egli concepì
T ardito disegno di recarsi a Puebla, liberarla dall'assedio,
di cui pur essa era cinta, e con quella guarnigione cor-
rere a Querétaro. Ma per la lentissima marcia la fortezza
cadde, prima che gli aiuti giungessero, ed ormai era
troppo tardi per avviarsi a Querétaro, non essendo più
possibile di farsi strada.
Allora Marquez ritornò verso Messico, ove riuscì a
penetrare ed assunse il comando della piazza, ma non
fece più a tempo ad uscirne, perchè il Diaz vi pose un
rigoroso blocco.
L' imperatore quando seppe che nessun soccorso po-
teva attendersi da Marquez, per portare la guerra in campo
aperto, tentò una sortita, che diresse in persona e da vero
valoroso, insieme col generale Miramon. L' esito della
sortita fu vittorioso, ma gli imperiali non seppero appro-
fittare del varco aperto fra i nemici ; ne approfittò invece
Escobedo, il quale, chiamati a raccolta fulmineamente i
suoi e favorito da un aiuto giuntogli in queir istante,
assalì l' imperatore, obbligandolo a rientrare precipitosa-
mente in Querétaro.
- 63 -
Si pensò allora di venire a patti e il colonnello Lopez
fu inviato al campo di Escobedo : si lasciasse partire il
sovrano per Tuxpan, donde s' imbarcherebbe per l'Europa,
rinunziando ad ogni intromissione nelle questioni del
Messico. Si disse che il Lopez avesse vilmente tradito
la causa imperiale, rivelando al nemico che nella notte
dal 14 al 15 maggio si sarebbe tentata un' ultima dispe-
rata sortita, e mostrando le posizioni dei reggimenti e
la dimora del sovrano : il prezzo del suo infame tradi-
mento, che non avrebbe riscontro nella storia, gli sarebbe
stato pagato con 200000 piastre. Ma il Lopez, più tardi,
si scolpò dell' infame accusa, pubblicando uno scritto,
intitolato: « Michele Lopez ai suoi concittadini e al mondo ».
Lo stesso Escobedo, interrogato, quando nel 1887 egli,
già vecchio, si era ritirato a vita privata, in una minuta
esposizione dei fatti al suo governo disse : « Miguel Lopez
non ha tradito Massimiliano d' Austria, e non ha nem-
meno abbandonato il suo posto di combattimento ». (V.
Iglesias. Rectificacionas historicas. Pag. 96).
E il Cappelletti riporta queste parole del Cav. Tavera,
segretario della legazione austriaca al Messico : « l'impe-
ratore parlava con animo tranquillo di Lopez ; solo allor-
ché veniva a parlare di Bazaine e di Marquez si mostrava
indignato ». Certo molti ancora credono al tradimento,
fra cui il Tencaioli, in un suo scritto recentissimo.
Comunque siano andate le cose, alla mezzanotte del 14,
i nemici forzavano in serrati battaglioni le porte della
città : al Cerro de las Campanas venivano affrontati dal-
l' imperatore. La mischia si svolse sanguinosissima, tra
- 64 -
le grida, i clamori, le imprecazioni contro il Lopez, il
rombo delle fucilate e delle artiglierie, il suono delle cam-
pane. Il prode generale Miramon cadde ferito, e, recatosi
in casa del Dottor Liceo, suo amico, per farsi medicare,
fu da costui vigliaccamente consegnato al nemico.
Quando le vie della città ebbero avuto tutte il loro bat-
tesimo di sangue, i dragoni dell' Imperatrice furono quasi
tutti sterminati dal fuoco nemico e i difensori di Massi-
miliano interamente sgominati, 1' imperatore inviò ad
Escobedo il suo aiutante di campo Pradillo, con bandiera
bianca, per trattare la resa.
Escobedo riceveva poco dopo nelle sue mani la spada
di Massimiliano d' Austria, e lo menava prigioniero nel
convento della Croce. Il giorno 17 1' ex imperatore pas-
sava nel convento della Corona, e poi, quasi subito, in
una cella del convento dei Cappuccini ; in altre due celle
si trovavano già i generali Miramon e Meija.
Ai prigionieri fu accordato quel simulacro di pro-
cesso, che Napoleone I accordò al duca di Enghien e il
Borbone a Gioacchino Murat. La condanna a morte era
decretata già prima che si riunisse il così detto consiglio
di guerra.
Victor Hugo e Giuseppe Garibaldi telegrafarono a
Juarez, chiedendo la vita dei condannati ; gli Stati Uniti
stessi raccomandarono la clemenza ed i governi francese
ed austriaco, per mezzo dei loro ambasciatori a Washin-
gton, fecero vive istanze per salvare l' imperatore e i due
generali.
Ma tutto fu inutile e V esecuzione venne fissata per il
- 65 -
mercoledì 1 9 giugno, alle ore sette : i due generali pas-
sarono 1' ultimo giorno con le loro famiglie e l'imperatore
lo passò a scriver lettere : raccomandò al fratello Fran-
cesco Giuseppe la vedova di Miramon e inviò il suo ri-
tratto con dedica ad Escobedo, pregandolo di scegliere
dei buoni tiratori per V esecuzione. La notte dormì ; si
destò all' alba, fece colazione e si abbigliò con cura. In
carrozza fu condotto al luogo fissato per V esecuzione,
quello stesso Cerro de las Campanas, che era stato teatro
de T ultima battaglia.
Abbracciò e baciò i generali Meija e Miramon, con-
dannati a morire con lui ; all' ufficiale, incaricato di co-
mandare il fuoco, che lo pregò di volerlo perdonare,
rispose : « voi siete soldato e dovete obbedire : vi sono
grato della vostra simpatia ».
Quindi pronunziò poche parole, inneggiando al Mes-
sico ed alla sua grandezza, e, quando echeggiò la sca-
rica fatale, cadde sul fianco destro pronunziando la pa-
rola : e hombre » (uomo) : siccome parve che non fosse
morto, un soldato gli sparò a bruciapelo una revolve-
rata nel cuore (1).
Tale fu la conclusione raccapricciante del gran dramma,
che empì di commozione e di sgomento tutta Europa ;
da ogni parte si rivolsero sguardi di rancore e di rim-
provero verso quelli che erano stati i primi responsabili
della catastrofe, sopra tutto verso Napoleone III, il quale
(1) V. E. Masseral. Un essai d'empire au Mexique.
— 66 —
sentì che la spedizione messicana aveva dato il primo
crollo violento al secondo impero.
Il Colautti, ventisette anni dopo, indirizzando un so-
netto all' infelice Carlotta, che, tutto ignorando il pauroso
dramma di Querétaro, ancora attende il ritorno del biondo
imperatore, scrisse :
Scuoti, o fedele, il torpido pensiero
A misurar per un istante solo
L'alta ruina del secondo impero !
Scuoti, e mirando de la corsa gente
La vergogna e d'Eugenia umile il duolo,
Per allegrezza avrai salva la mente ! (i)
Il trionfatore Juarez, trincerandosi nella legalità, nella
fredda ragion di Stato, volle dapprima contendere la re-
stituzione del cadavere dell'usurpatore giustiziato, e si
piegò a concessioni, solamente quando il ministro Beust,
con una mortificante richiesta ufficiale, ebbe fatto impli-
cito omaggio alla legittimità del nuovo governo messi-
cano ed alla legalità dell' esecuzione.
Come Francesco Giuseppe aveva negato questo ultimo
conforto alla madre di Carlo Poma, giustiziato a Man-
tova (2), così per lungo tempo il feroce messicano lo
negò all'angosciata arciduchessa Sofia, esclamante col
Foscolo :
Straniere genti, almen l'ossa rendete
al petto de la madre mesta !
(1) A. Colautti. Carlotta. Nei « Canti Virili ».
(2) V. A. Luzio. / martiri di Belfiore.
- 67 -
La misera salma di Massimiliano fu riportata in Eu-
ropa dall'ammiraglio Tegethoff, sulla stessa fregata au-
striaca la « Novara », sulla quale, tre anni prima, egli
si era imbarcato, fiorente di gioventù e di speranze. Il
funebre approdo avvenne il 28 gennaio 1868 a Trieste,
poco lontano dal Castello di Miramare, dallo splendido
nido di gioia e d'amore, ch'egli aveva ideato nei giorni
felici.
Sorge il castello bianco e turrito sopra una collinetta,
che sporge nel mare ; il Carducci lo vide nel luglio del
1878, in una oscura giornata di temporale, e ne riportò
un' impressione profonda :
O Miramare, a le tue bianche torri
Attediate per lo ciel piovorno
Fosche con volo di sinistri augelli
Vengon le nubi.
O Miramare, contro i tuoi graniti
Grige dal torvo pelago salendo
Con un rimbrotto d'anime crucciose
Battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
Stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,
Gemme del mare ;
E tutte il mare spinge le mugghianti
Collere a questo basti'on di scogli,
Onde t'affacci a le due viste d'Adria,
Rocca d'Asburgo ;
— 68 —
E tona il cielo a Nabresina lungo
La ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
Leva tra' nembi.
Da queste cinque strofe emerge nitida nel cielo la
mole candida del castello, tra la calma sospetta del mare
e la minaccia immanente delle nuvole basse e trasvo-
lanti.
E per contrasto il poeta ripensa alla bella serenità
del dì, che il biondo arciduca lasciò il suo castello e la
sua tranquilla stanza da studio, (costruita in guisa da
rassomigliare alla cabina della nave contrammiraglia la
« Novara ») per correre con la sua sposa alla conquista
di una corona:
Deh come tutto sorridea quel dolce
Mattin d'aprile, quando usciva il biondo
Imperatore, con la bella donna,
A navigare !
A lui dal volto placido raggiava
La maschia possa de l'impero : l'occhio
De la sua donna cerulo e superbo
Iva su '1 mare.
Addio, castello pe' felici giorni
Nido d'amore costruito in vano !
Altra su gli ermi oceani rapisce
Aura gli sposi.
Nota bene il Mazzoni che le parole : « Nido d'amore
costruito in vano » potrebbero scriversi sulla fronte del
- 6g -
castello. Sulle pareti delle sale fastose esiste ancora un
affresco, rappresentante il trionfo di Massimiliano ed in-
torno intorno corrono delle sentenze latine, dettate da
lui stesso ( i ) ; presso ai quattro usci della grande biblio-
teca son collocati i busti marmorei (non tavole) di Omero,
di Dante, di Goethe, di Shakespeare, e sul tavolo sta
ancora aperto un libro di antiche Romanze Castigliane.
Tutto sembra voglia parlare in quelle sale di calma e di
serenità, perchè il visitatore dimentichi la fiera tempesta,
cui il biondo arciduca andò incontro, seguendo l'invito
di una Sfinge allevatrice, di cui l'immagine si presentò
al poeta, mirando una piccola Sfinge Egiziana, che, da la
punta del moletto d'approdo, guarda l'Adriatico.
Essa porta la scritta: « // destino dei marinai ».... Ed
è la Sfinge di chiunque reca nell'animo qualche traccia
dell'insaziabile desiderio di Ulisse e di Cortez ; è il sim-
bolo del destino di Massimiliano, nel cui animo si fonde-
vano il desiderio di dominio e l'istinto errabondo del
navigatore.
Ma triste presagio segue la nave d'Asburgo, veleg-
giale verso la terra degli Atzechi : dalla punta di Sal-
vore, memore di tedesche sciagure (2), i morti veneti e
(1) Si fortuna iuvat, caveto tolli. Saepe sub dulci melle venena latent.
Non ad astra mollis e terris via. Vivitur ingenio, caetera mortis erunt.
(2) È fama che quivi Ottone, figlio di Federico Barbarossa, fosse
sconfitto in battaglia navale dalle armate veneziana e istriana congiunte nel
1178, due anni dopo Legnano. La moderna scienza storica ha negato il
fatto, ma esso fu anche eternato dal Tintoretto in un gran quadro del Pa-
lazzo Ducale.
— 70 —
le vecchie fate Istriane cantano lugubre nenia, tra il roco
piangere dei flutti :
— Ahi ! mal tu sali sopra il mare nostro,
Figlio d'Asburgo, la fatai « Novara » .
Teco l'Erinni sale oscura e al vento
Apre la vela.
Il nome della « brumai Novara », che fu fatale la
prima volta per l'italo Amleto, lo sarà pure per il figlio
d'Asburgo. L'amarissimo Adriatico mal tollera una nave
austriaca, che porta il nome di un'italica sconfitta!
E l'Erinni vendicatrice sale sulla nave, spiega essa la
vela e ne volge la prora, non verso la gloria, ma verso
la morte !
È evidente poi la somiglianza di questa strofe con la
famosa ode oraziana (XV del libro I), in cui Nereo, alto
sulle onde, invia il suo sinistro auspicio dietro alla nave,
che porta Paride con Elena, rapita al talamo maritale.
« All'efficacia della lirica oraziana, nota il prof. Allan,
giova molto la brevità della pròtasi e quel subito ir-
rompere del tragico vaticinio nel gran silenzio dei venti
e dei flutti : « Mala ducis avi domum ! » Il Carducci in-
vece, secondando il suo genio descrittivo, s' indugia al-
quanto a descrivere la marina intorno e l'interno del
castello » (i).
Ma si potrebbe notare che in quest'ode carducciana le
poche battute di descrizione accrescono la triste solen-
(i) Prof. A. Allan. Studi Cardticciani. Comm. all'Ode « Miramare ».
— 7i —
nità del presagio, che vola sul mare ; le nubi « attediate
per lo ciel piovorno » sostituiscono quasi il gran silenzio
dei venti e dei flutti, che preparano il vaticinio ora-
ziano (i).
Nella Ninna Nanna di Carlo V « il Carducci aveva
immaginato che tre fate cantassero presso la culla del
futuro re e imperatore, avvolgendolo in una cupa malia
d'ombra, di sciagura e di maledizione:
Salve, o fanciul da la faccia cagnazza,
Salve, o figliuol di Giovanna la pazza,
Salve, o pollon de la mista razza,
Che dee la terra cristiana aduggiare.
La discordia dei sangui per tre rivi,
E il bulicame dei pensier cattivi,
E 1' accidie degl' impeti mal vivi,
Sale nel tuo cervello a fermentare.
Rime Nuove. Ninna Nanna di Carlo V.
E qui la voce, che sale da le onde, accenna a Massi-
miliano la Sfinge del mare, che, con strane metamorfosi,
assume via via sembianti nuovi e paurosi : or è il viso
pallido e stravolto di Giovanna la Pazza, madre di Carlo V,
immagine della pazzia, di cui sarà colpita V infelice Car-
lotta, or è il teschio orribilmente ghignante di Maria
(i) L'ode oraziana era già stata imitata dal Carducci nell'ode giovanile
« Il vaticinio », ed un verso di essa trovasi pure nell'ode : « In morte di
Napoleone Eugenio» : «Non hoc pollicitus tuae » «Non questo....
avevi promesso ecc. »
— 72 —
Antonietta, che ammonisce la continuazione del fato ine-
sorabile degli Asburgo, or è la ripugnante faccia gialla
di Montezuma, del prigioniero di Fernando Cortez, che
già assapora la tarda vendetta :
Tra boschi immani d' agavi non mai
Mobili ad aura di benigno vento,
Sta ne la sua piramide, vampante
Livide fiamme
Per la tenebra tropicale, il dio
Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
E navigando il pelago co '1 guardo
Ulula — Vieni.
Quant' è che aspetto ! La ferocia bianca
Strussemi il regno ed i miei tempi infranse :
Vieni, devota vittima, o nepote
Di Carlo quinto.
Non io gì' infami avoli tuoi di tabe
Marcenti o arsi di regal furore ;
Te io voleva, io colgo te, rinato
Fiore d' Asburgo ;
E a la grand' alma di Guatimozino
Regnante sotto il padiglion del sole
Ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
Massimiliano.
Così sempre ritorna sovrana la inflessibile legge sto-
rica, per cui i tardi nepoti scontano le colpe dei padri
remoti e
....il grande
Vitzliputzli, il sanguinario
— 73 —
Dio guerrier dei Messicani,
Il feroce, orribil mostro, (i)
per vendicare le stragi e le torture, a cui i condottieri
spagnuoli sottoposero gli abitanti d' oltre mare al tempo
di lor fortuna, alla grand' anima di Guatimozino, ultimo
re degli Atzechi, che, prima d' essere impeso, fu adagiato
sui carboni ardenti, perchè rivelasse all' ingordigia degli
stranieri, dove potessero saziare la loro sete di oro, manda
privilegiata inferia, il puro, il forte, il bello Massimiliano !
In tal modo il rinato fiore d' Asburgo scontava le
colpe di sua gente, perchè il destino della sua casa, a tra-
verso lui, doveva compiersi tutto, da Maria Antonietta,
che il popol di Parigi mandò sul palco fatale, sino ad
Elisabetta imperatrice regina, « che il pugnai di Lucheni
aspettava » !
Una mattina l'imperatrice Elisabetta percorreva l'Adria-
tico sul suo Yact « Miramare », insieme con il suo mae-
stro di greco Costantino Christomanos. « Il mare era
vuoto e sconvolto, di un cupo turchino di piombo, che
rendeva quasi sensibile la pesantezza delle liquide masse,
e bianchi nastri di schiuma attraversavano quel triste
turchino infinito. Gabbiani svolazzavano con ali silenziose
dietro al legno ; a volta a volta cacciavano stridule grida.
— Ad ogni mio viaggio, disse V imperatrice, i gab-
(i) A. Heine. Dal « Romanzerò ». Trad., di G. Chiarini.
— 74 —
biani seguono il mio vascello, ma ve n' è sempre uno di
colore fosco, quasi nero, come quello lì.
Ed ella additò un gabbiano nerastro, che volava alla
testa di tutti gli altri. E soggiunse:
— Quello lì solo verrà quasi sino a Corfù. A volte
il nero gabbiano m' ha accompagnata per un' intera set-
timana, da un continente all' altro. Io credo che esso sia
il mio destino » (i).
E si parlò pure di un « corvo degli Asburgo », che
si voleva fosse apparso sul palazzo Imperiale, quando
Francesco Giuseppe fu coronato imperatore ad Olmutz,
quando Massimiliano d' Austria, votato alle scariche del
plotone di giustizia, fece 1' ultima passeggiata nel giar-
dino di Miramare, e quando Y arciduchessa Maria Cri-
stina, fidanzata al re Alfonso XII di Spagna, si avviava
in vettura alla stazione, per andare a cingere la dolorosa
corona. Ed un' altra leggenda ancora si narrò di una
« dama bianca », che più volte era stata vista aggirarsi
nelle sale più recondite della Hofburg.
Così le tragiche vicende della famiglia d' Asburgo
inspirarono la fantasia popolare e la fantasia dei poeti. Ma
è strano come Elisabetta credesse fermamente di dover
seguire il destino della sua dinastia.
Nel castello reale di Versailles, esisteva uno specchio
tragicamente profetico. Nello spogliatoio di Maria Anto-
nietta questo largo specchio era incastrato nel muro con
altri due laterali più stretti della medesima altezza, che
(i) CfflUSTOMANOS. Regina di dolore.
— 75 —
facevano da una parte e dall' altra un angolo retto, come
gli stipiti di una porta. Lo specchio di mezzo rifletteva
la persona integralmente, se uno si collocava di fronte,
ma negli angoli laterali la persona appariva decapitata,
se la persona si collocava diagonalmente. Ciascuno degli
specchi ad angolo rifletteva una spalla, un braccio, metà
della persona ; ma il capo, per una curiosa combinazione
spariva, mentre, inclinandolo un poco di qua o di là dalla
linea diagonale, tornava o neh" uno o nell' altro specchio
ad apparire. Il fenomeno non era difficile a spiegarsi otti-
camente, ma è strano che Maria Antonietta inconsape-
vole leggesse ogni mattina nello specchio la sua sorte (i).
Elisabetta d' Austria invece credeva di leggere il suo
destino nelle onde del mare : « io e le mie sorelle, diceva,
crediamo fermamente di dover morire annegate nel mare ».
E non se ne sarebbe tanto rammaricata, perchè ella
lo adorava il mare : quando ne parlava, trovava delle
espressioni originali e frementi di passione :
« Il mare è come una gran madre, sul cui petto si
dimentica tutto ».
« Il mare mi vuole avere ; esso sa eh' io gli appar-
tengo ».
« Il mare è il mio confessore, che io debbo giornal-
mente consultare. Esso mi ringiovanisce, togliendo da
me tutto ciò che è estraneo e dandomi i suoi pensieri,
che sono V unica giovinezza immortale. Da lui viene tutta
la mia saggezza ».
(i) Luigi d' Insengard. Memorie di ttn vagabondo.
- 76 -
« Il mare ci disumana; esso non tollera in noi nes-
suna delle animalità della terra.... Quando il mare è in
tempesta, credo io stessa di essere diventata un' onda
schiumante ».
« Io sono come un uccello de la tempesta, e, quando
le onde infuriano, mi faccio legare ad una sedia, sulla
tolda del mio Yact, per pascermi della vista superba dei
flutti irritati ».
Così ella era sempre stata, amante del mare e della
natura tutta, adorante della libertà, che favoriva la sua
indole fantasiosa e strana, sin da fanciulla. Madame Arvède
Barine così parla della prima giovinezza di lei : « Suo
padre, Massimiliano — Giuseppe Birkenfeld, duca di
Baviera, era un parente povero della famiglia imperiale
d' Austria. Carico di figli, assorbito dalle cure, per stabilire
i maggiori, egli si adoperava con sua moglie, la duchessa
Ludovica, per trovar marito alle figliuole primogenite. Si
contava di pensare alla piccola Elisabetta più tardi, quando
le maggiori sarebbero già a posto. Elisabetta si trovava
molto contenta della sua parte di Cendrillon (ella stessa
si era battezzata così), e profittava di non essere sor-
vegliata da alcuno per scorazzare il paese e rendersi
familiare a tutti gli abitanti dei dintorni. Questa fu Y ori-
gine dei suoi mali. La fanciulla crebbe in appresso estra-
nea all'idea monarchica, nell'ignoranza dei sacrifizi, ch'essa
esige dalle sue vittime, le teste coronate. I casolari, dove
ella si riparava familiarmente durante gli acquazzoni, dove
ella andava a chiedere un bicchiere di latte, le insegna-
— 77 —
vano una ben altra lezione, molto pericolosa per una
futura imperatrice. Ella vi imparava a conoscere le gioie
semplici degli umili, la loro mancanza di ogni ritegno,
e si avvezzava all' idea folle che ella pure potesse pre-
tendervi. E non era sua colpa ; nessuno infatti le aveva
insegnato come dovesse comportarsi una principessa. I
suoi genitori credevano di aver del tempo davanti a loro,
perchè Elisabetta portava ancora le vesti corte e non pran-
zava neppure alla tavola di famiglia ; si poteva passare
delle settimane intere al castello di Possenhoffen, senza
vedere la loro Cendrillon.
Aveva ella sedici anni, quando un grande avvenimento
accadde nella famiglia. La degna coppia di Possenhoffen
veniva finalmente ricompensata delle sue pene : la figlia
maggiore era chiesta in matrimonio dall' imperatore d' Au-
stria. Si attendeva il giovane monarca al castello, per
celebrare il fidanzamento. Si era alla fine dell' inverno
del 1854, al principio di primavera. Francesco Giuseppe
giunse. Egli aveva ventiquattro anni. Poco dopo sbar-
cato, gli venne V idea di andare a passeggiare solo nei
boschi.... L' imperatore vide venire a lui, sotto i grandi
alberi, una piccola fata vestita di bianco, di una bellezza
meravigliosa. I suoi occhi turchini erano pieni di luce,
la sua chioma fluttuante le cadeva sino ai ginocchi. Due
grandi cani bianchi le galoppavano a lato. Mentre il gio-
vane principe contemplava questa apparizione, la piccola
fata si avvicinò e gli gettò con entusiasmo le braccia al
collo. Era la cugina Elisabetta, che non gli era stata
- 78 -
mai presentata e che aveva riconosciuto il suo futuro
cognato dai ritratti di lui, che aveva visti. « (Arvède
Barine, Les Débats, 8 novembre 1899.)
La Barine aggiunge che quella stessa sera il giovane
imperatore dichiarò al duca di Baviera la sua intenzione
di sposare la piccola Elisabetta. Ma più esatti particolari
dette ultimamente il giornalista francese Enrico Nicolle (1).
L' imperatore più tardi fece dare un gran ballo ad Ischi,
a cui furono invitate le cugine di Baviera. La duchessa
si affrettò ad accettare ed a condurre le figlie maggiori
Elena e Sofia, scusando l'assenza di Elisabetta, la quale,
nella villeggiatura di Ischi, non aveva portato seco una
« toelette » degna di figurare in una festa così sfarzosa.
Ma 1' imperatore si ostinò. Un secondo invito fu mandato
direttamente alla piccola principessa con queste parole :
« con la più semplice veste ed un fiore nei capelli, la
cuginetta saprà anche meglio di ogni altra figurare a
corte ».
E la principessa Elisabetta venne al ballo, e fu, nella
modestia dei suoi abiti, la vera regina della festa. Sul
tardi l'imperatore e la principessa erano insieme in un
calottino appartato : sopra un tavolo si trovava un ma-
gnifico album, nel quale erano mirabilmente riprodotti i
costumi delle popolazioni dei diciotto stati dell'Austria.
Francesco Giuseppe sfogliava l'album, descrivendo ad
Elisabetta i diversi tipi e le particolarità di ogni paese.
(1) H. Nicolle, Les rois en pantoufles.
— 79 —
Quando fu all'ultimo foglio, disse : « questi sono i miei
sudditi. Se lo volete, mia bella cugina, essi saranno anche
i vostri ».
Per sola risposta la giovane principessa mise la sua
manina nella mano dell' imperatore.... Non sembra una
storia d'amore come quella di Cendrillon e del Prince
Charmant ?
Le nozze avvennero il 24 aprile 1854; il viaggio sul
Danubio fu trionfale, quasi fantastico. Elisabetta discese
il gran fiume sino a Vienna, in un battello, tutto inghir-
landato di fiori, dalle vele rosse di seta, dal velabro di
velluto porpora, ricamato di api d'oro, accompagnata dalle
semplici canzoni, già intonate a lei dalla musa popolare,
mentre fanciulle bianco vestite spargevano viole sul suo
cammino. Così viaggiaron l'eroine dei racconti delle fate,
accompagnate da mille guerrieri e cento vergini. Il po-
polo viennese credette che meglio del nome di « Cen-
drillon » le convenisse quello di « Princesse Printemps ».
Ma la sua educazione doveva subito urtare contro il
cerimoniale minuzioso e complicato della corte di Vienna ;
la sua natura, fatta di vive sensazioni, di mobili capric-
ciosità, di subite ribellioni, di stranezze infantili, doveva
assolutamente soffrire nell'aura severa della corte austriaca.
Ed era forse troppo tardi per correggersi ; in vano sua
madre le scriveva: « più noi siamo alti sulla scala so-
ciale, meno noi abbiamo il diritto di sottrarci a quegli
obblighi, che poco ci costa di sopportare ». In lei si venne
sempre più accentuando il disdegno per tutto quanto ap-
— 8o —
partenesse al cerimoniale di corte, alla grande finzione
delle persone regali.
— • A me, diceva, sembra talvolta di far parte di una
grande mascherata in costume da imperatrice.... Fra cento
anni forse non vi saran più troni. Il nostro IO vale più
di tutti i titoli, di tutte le dignità, cenci variopinti, con
cui cerchiamo di coprire le nostre nudità, ma che non
cambiano nulla al nostro intimo essere ». Ella osava per-
fino dire : « noi non abbiamo neppure il portamento, che
si addice a Regine. Le Borboni sì, hanno il vero incesso
regale e vanno come oche orgogliose ».
Per la politica poi aveva un invincibile disprezzo :
« io reputo la politica immeritevole d' interesse ; essa non
è che commedia ed inganno ».
Il conflitto, sorto tra lei e la corte, si aggravò quando
Y imperatore Y offese nel suo orgoglio coniugale. Ella, senza
voler più intendere alcuno, si allontanò da Vienna e si dette
a viaggiare sul suo Yact attraverso il Mediterraneo.
Ritornò poi a corte, ma tra lei e l'imperatore ci fu
sempre come una nube di freddezza, favorita dall'astio
mal dissimulato dall'arciduchessa Sofia, che la chiamava
« ochina romantica ». L'imperatrice sapeva di non essere
compresa e di non potere essere apprezzata dai volgari
cortigiani, i quali mal tolleravano che la nobile e bella
creatura facesse pesar troppo sulla loro aulica miseria mo-
rale la sua indissimulata e luminosa superiorità.
A venti anni già ella era stata tradita dal marito, col-
pita dalla morte nella sua prima gioia materna, odiata,
— 81 —
perseguitata, dileggiata. Ma ben altro le riserbava il de-
stino ; il 1889 fu il suo anno fatale! L'unico figlio Ro-
dolfo, quegli che era tutto per lei, trovava la morte nelle
braccia della baronessina Maria Veczera, la bella Levan-
tina ambiziosa ed intrigante. Dopo venti anni non è stato
ancora svelato il mistero, che copre quella tragedia. Si
sa soltanto che l'arciduca Rodolfo, costretto a giurare al
padre di abbandonare la sua amante, dette convegno nel
castello di Mayerling ad alcuni amici, tra cui il principe
Filippo di Coburgo e il conte Hoyos. La sera il cocchiere
Brabfish, inseparabile compagno dell'arciduca, lo condu-
ceva a Mayerling con la Weczera. Si cenò allegramente ;
la mattina dopo furono trovati cadaveri, lei strozzata, lui
sfregiato e con la tempia fracassata da una palla. Si
crede che lei, edotta del prossimo abbandono, l'abbia evi-
rato, e che egli, nell' impeto del dolore, dopo averla stroz-
zata, si sia fatto saltar le cervella. Ed ultimamente hanno
fatto il giro dei giornali diverse altre versioni, più o
meno attendibili.
D'allora V imperatrice non conobbe più pace: un anno
dopo tornò a Mayerling, per assistere alla messa di Re-
quiem, celebrata per il figlio in una cappella da lei de-
dicatagli, poi si dette a quel suo triste vagabondaggio,
che non doveva cessar mai più. La corona imperiale non
ebbe più alcun fascino per lei, e forse non ne aveva mai
avuto. Una volta, mentre stava pettinandosi la sua chioma
superba, il Christomanos le disse : « Vostra Maestà porta
i suoi capelli come una corona invece di quella d'impe-
— 82 —
ratrice ». « Soltanto che più facilmente si può liberarsi
di questa corona », rispose ella col suo indicibile sorriso
di pena (i).
Volle liberarsi anche de l'altra, troppo pesante per la
sua fragile persona stanca, e lo fece, senza che questa
volta nessuno osasse insultare al suo grande dolore. Ella
potè dire col Carducci :
Non cerco un regno, io solo chieggo al mondo l'oblio !
Odi Barbare
— Per il Chiarone di Civitavecchia.
Nel suo disordinato pellegrinaggio fu vista a Schoen-
brunn, a Corfù, a San Remo, a Parigi, a Villafranca, a
Nautheim, tutta chiusa, tutta sola, tutta dolorosa, povera
foglia travolta dal destino ; pallida, diritta, muta, sempre
vestita di bruno, immagine del dolore che mai non posa,
de l'angoscia che non si quieta, de la sventura che mai
si dimentica, che non ha più canzoni sulle labbra, e non
ha più lacrime negli occhi. '
Passò così, circonfusa di un mistero, che nessuno mai
riuscì a disvelare ; la sua fu l' intima vita ideale di una
creatura d' eccezione, che seppe sottrarre alla curiosità
morbosa della folla tanta parte della sua tragica esistenza,
che seppe contendere con superbi fastidi alla volgarità il
segreto dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri. Fuggì
« la nebbia d'ombra e di sangue, gravida di destini, che
(i) C. Christomanos. Regina di dolore, pag. 63.
- 83 -
cova su Vienna » (i), ed andò a posare le fervide ali dei
suoi sogni, dovunque avessero il loro regno la bellezza
e la poesia : sulle spiagge fiorite eternamente dalla pri-
mavera, sul mare che fu forse la sua sola passione, nelle
chiese in cui « re e regine ferree eransi dato convegno
a traverso i secoli », nella Hoffgarten, il giardino della
Reggia Tirolese, « così raccolto nella sua porpora autun-
nale, » presso la cascata di Gastein, « che ne la notte geme
come un'anima in pena ». La sua tristezza le fu più cara
della vita, perchè a lei non restava che amare il suo do-
lore, ed il suo dolore ella lo portò pei clivi fioriti d'ane-
moni ed asfodeli, nei giardini olezzanti di giacinti e di
rose, nelle selve di ulivi argentei e nelle cipressaie tene-
brose, nei boschetti di aranci ricchi di oro pendulo, nelle
piccole insenature azzurre di Garitza e di Chalikiopoulos,
sulle cime aride e brulle dei monti Akrocerauni, dove
abitano le Eumeneidi, sulle eccelse corna gemelle del Pan-
tòkrator, baciate dai primi raggi del sole, e tutti i suoi
sogni raccolse in un solo grande sogno di solitudine....
l' Achillejon !
I Wittelsbach e gli Asburgo hanno popolato i loro
possedimenti dei più superbi castelli e delle ville più
splendide, che siano in Europa, col più fine intuito arti-
stico e la più signorile magnificenza. Le loro costruzioni
possono ben dirsi col Gauthier: « Vrais comtes de fées
réalisées ».
Luigi di Baviera, cugino dell' imperatrice Elisabetta,
(i) Christomanos.
- 84 -
il regale sognatore di bellezze, che perì così miseramente,
costruì dei castelli, che furon detti « sogni di marmo ».
Egli, che già possedeva il castello di Hohenschwangau,
infiorato dalla leggenda di Lohengrin, concepì il disegno
di un nuovo castello, che, traendo gli auspici dal nome
di un cigno, sorgesse tra il cielo e la terra, più vicino
al cielo e più lontano dalla terra. Tale fu il castello di
Neuschwanstein, che sorse sulla nuda roccia della Torbau,
sogno ribelle d'arte e d'audacia. « V'è davvero qualche
cosa di audace e di gigantesco, di ciclopico e di sovru-
mano, scrive il Tencajoli, in quel castello terribile che
troneggia con le sue torri alte duecento metri: coi suoi
pinnacoli aguzzi come punte di spade taglienti, con le sue
scarpate rudi come tagli di asce giganti ; v'è qualche cosa
di terribilmente maestoso in tutta quella costruzione gra-
nitica, che all'altezza di mille metri posa sulla roccia nuda
e grigia, quasi spinta verso F infinito dalle vette palpi-
tanti dei pini. È un sogno, che pare si debba infrangere
da un momento all' altro con una raffica impetuosa di
vento » (i).
E dopo Neuschwanstein, il re dalla fantasia morbosa
costruì il castello di Linderhof, vero palazzo incantato,
che « sboccia da una foresta selvaggia come un fiore di
trine marmoree » e ancora il castello di Herrenchiemsee,
che è una riproduzione del palazzo di Versailles, elevan-
(i) O. F. Tencajoli. Il re solitario e i suoi castelli. Nel Secolo XX
dell'Ottobre 1908.
- 85 -
tesi in mezzo ad un lago, rinserrato tra gli abbracci della
montagna bavarese.
Così, in cima ad una roccia selvaggia, nella radura
di una foresta sconfinata, fra le onde tranquille di un
lago, 1' infelice amico di Wagner cercava di appagare il
desiderio vago e indefinito di bellezza, che gli torturava
la mente malata.
Massimiliano d'Austria aveva elevato il castello di
Miramare, bianca e radiosa visione di pace e d'amore ed
Elisabetta stessa aveva già fatto costruire il castello di
Lainz, dando all'opera maestosa tesori di denaro, di ener-
gia, di arte, di fantasia, quand'ella pensò all'Achille]' on.
Oltre il porto di Corfù, oltre i giardini di Nausicaa,
protesi al mare come in uno slancio appassionato, oltre
il porto dei Feaci, donde Ulisse s' imbarcò per Y Itaca
petrosa, oltre l' isoletta dei cipressi alti e cupi, che ispirò
il celebre quadro del Boeklin, « l'Isola della Morte », sotto
una costiera rivestita di uliveti, che scende al mare, è la
piccola baia di Benizze.
« Dalla spiaggia, dice il Christomanos, comincia a sa-
lire assai in alto un dolce clivo, mollemente ricoperto
di una lanugine di argentei olivi, e in mezzo a questa
luminosa mollezza, neri cipressi drizzansi solitari, e, come
alberi di navi sommesse, contemplano il vuoto mare ai
loro piedi, desolatamente. Ma sulla vetta, di tra le ultime
onde di fogliame, il bianco Palagio di Achille abbagliante
sorge » (i). L'Achillejon è meno splendido del castello di
(i) Christomanos, Regina di dolore. Pag. 146.
— 86 —
Lainz, ma ha il gran fascino segreto, che hanno sempre
e soltanto le cose raccolte intorno ad un grande amore
e ad un grande dolore, da chi sa goderlo e soffrirlo con
tutta l'anima e con tutti i sensi.
Infatti tuttala villa meravigliosa (i) è come un Pantheon
della Poesia e della Bellezza : Omero rapsodo, Esopo fa-
voleggiatore, Apollo con le vergini Pieri di, la Peri della
luce sulle ali del cigno, Venere, Diana, Nótre Dame
de la Garde, patrona della gente di mare, Antinoo, Bacco
fanciullo, Achille morente, tutti i simulacri di una forma
di bellezza, tutti i simboli di un pensiero, vi sono vene-
rati con un eclettismo di adorazione, che sbalordirebbe
anziché commuovere, se non se ne indovinasse il fervore,
la sincerità profonda in tutte le altre superstiti manifesta-
zioni e rivelazioni della molteplice anima di Elisabetta
imperatrice.
Domina dovunque però una predilezione classica, quan-
d' anche alcune forme di essa abbiano piuttosto un valore
sentimentale che estetico (2).
Neil* Achillejon ella si ritirava, quando più profondo
sentiva il disgusto del mondo e degli uomini, di questa
(1) L' Achillejon è gloria italiana : 1' architetto Raffaele Carito di Napoli
lo costruì e lo decorò, riproducendo i più classici motivi pompeiani e il
prof. Capponetti, pure di Napoli, ne disegnò i mobili. Casa Borghese provvide
ad adornarla di statue antiche. La stessa imperatrice diceva di aver comperato
dai Borghese ed aggiungeva : « vede in che brutto mondo siamo : fin gli Dei
diventano schiavi abbandonati alla mercè del vile denaro » . (dal Christomanos) .
(2) V. Olga Ossani-Lodi. Nella Vita.
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nostra gran vita, fatta di piccole miserie ironiche e di
piccole giocondità amare, quando più imperioso sentiva
il bisogno delle sue ebbrezze di solitudine e di silenzio.
— Grazie alle mie lunghe solitudini, ella diceva, ho po-
tuto vedere che la miseria dell' esistenza la si sente sopra
tutto per il contatto con gli uomini.
Ella andava all' Achillejon, per vivere in quelF arcana
armonia tra i propri sentimenti e le cose circostanti, la
quale determina uno stato d' animo di appagamento e di
acquiescenza, che si ricerca per essere più felici : ella in-
vece lo ricercava per soffrire forse più intensamente, ma
lungi dagli uomini, di cui odiava non solo la curiosità,
ma anche il compianto. « Gli inglesi, ella diceva, sono
disperati di stare appostati per ore intere sulla collina,
senza riuscire a veder nulla », e rideva come una bam-
bina, lei che ha lasciato scritto : « il riso e il pianto sono
la cenere, sotto la quale arde la brace della nostra anima ».
E nel mistero di quell' anima nessuno mai seppe pene-
trare, neppure quelli che vissero a lungo con lei e che ci
hanno tramandato le sue memorie, il Christomanos cioè e
recentemente la contessa Szataray ; forse perchè la sua
vita si svolse in condizioni assolutamente uniche nella
storia umana. « L' atmosfera in cui vive P imperatrice,
scrisse il Christomanos, è ben altra che quella, in cui noi
respiriamo. Dal nostro punto di vista, la sua vita è piut-
tosto un non vivere ; si potrebbe dire che ella si trova,
pur essendo una creatura vivente, in uno stato, che esclude
la vita ».
— 88 —
Perciò, allorché ella fu uccisa, Lucheni fu paragonato
a Maramaldo, perchè aveva ucciso una creatura già morta.
Il Barrés, là dove parla del trapasso dell' imperatrice, inti-
tola : « LES VIOLONS CHANTENT.-JAM TRANSIIT », perchè
« déja elle avait passe » (i). E il Barrés stesso aveva
scritto : « gli antenati di cui ella era la continuazione mo-
rale, quasi il prolungamento, non potevano più parlare
con efficacia a lei. La loro concezione fondamentale della
vita non sapeva più cantare nella sua coscienza. Ella non
si conosceva più che come un individuo » (2). Un individuo
strano, complesso, fantasioso, malato, che visse in un mi-
stero, di cui nessuno saprà dirci l'intima verità e la parola
profonda ; fu un fantasma regale, che per la sua vita e
per la sua morte, per la tragica singolarità della sua anima,
per il velo, onde la bella persona si circonfuse e lieve
trasvolò tra gli umani, come 1' immagine del dolore portato
in silenzio per il vasto mondo, oscilla indecisa tra i do-
mini fluttuanti della leggenda e i confini sicuri della storia.
La credettero una donna intellettuale nel senso ironico
della parola, una femminista, ed ella diceva : « meno le
donne apprendono, maggior pregio esse hanno ». Dissero
che nelle sue stranezze ella cercava quel conforto, che le
veniva negato dalla fede perduta, ed ella aveva posto la
sua dimora preferita sotto un ausilio divino, ^scrivendo
questi versi appiè di un' immagine sacra :
Deh ! schiudi le tue braccia
Maria, che noi salutiamo !
(1) M. Barrés . Amori et Dolori sacrum ; Une imperatrice de la solitude .
(2) Idem.
Stendile a protezione di questa casa
Nella valle, ai piedi tuoi,
Benedici questo piccolo nido !
Imperversi intorno la bufera,
Esso rimanga saldo nella tua custodia...
Tu, piena di grazia, lo difenderai.
Alcuni moderni psichiatri, smaniosi di includere nelle
loro categorie anche quelle anime, che sfuggono ad ogni
pretensiosa nomenclatura scientifica, dissero che si trattava
di una nevrotica, di un' isterica, e, più tardi, di una pazza.
Pazzia non fu mai ! tutto al più si può riconoscere che il
turbine di sventura, che travolse quella debole anima fem-
minile abbia prodotto in lei quella naturale depressione
delle facoltà psichiche, cui mai nessun umano potè resistere.
La divina Antigone di Sofocle dice a sua sorella Is-
mene: « da lungo tempo io son morta alla vita, io non posso
più servire che i morti ». — « E un' insensata », pensa
Creonte. — « Principe, gli risponde Ismene, giammai la
ragione, che natura ci ha donato, ha potuto resistere al-
l' eccesso del male ».
Ed Elisabetta imperatrice regina ben fu chiamata :
« nordica figura di tragedia greca ». La sua vita fu detta
dal Barrès il più possente poema di nichilismo, per la sua
audacia e la sua ironia amara, per il suo accento scettico
e fatalista, per il suo invincibile disgusto di tutto e di
tutti, per la presenza, a lei perpetua, dell' ideale e della
morte, ed anche per certe sue fanciullaggini estetiche di
una malinconia suprema.
Il Christomanos, nell'entusiasmo delle sue « laudes »,
_ QO — .
dopo aver magnificato il suo spirito « fluido e profondo
come il mare », la proclamò: « una delle più sublimi e
tragiche parvenze dell' umanità ! »
E noi cosi pensiamo con lui ; perchè questa donna,
madre, sorella, sposa, fu tre volte purificata dal dolore,
perchè il suo martirio la levò in alto nella pietà delle
genti, perchè di questa regina
la reggia niuna
Invidiò, che presso il foco spento
Pure ci avesse un tremolio di cuna !
Niuna il suo trono invidiò, che il lento
Figlio aspettasse, tuttavia lunghe ore
Neil' abituro battuto dal vento ! (i)
Ella aveva detto : « io vado così, sola, alla ricerca del
mio destino, so che nulla al mondo può rattenermi dal-
l'incontrarlo nel giorno prefisso: il destino chiude gli occhi
per lungo tempo, ma ci vede pur sempre, e dà degli schiaffi
a tutte le nostre vanitose pretensioni di saggezza ». E con
queste parole rifiutò ancora una volta a Ginevra la scorta,
messa a sua disposizione dal governo elvetico.
Il io settembre 1898, nel pomeriggio, volle traversare
il lago, per recarsi a Montreux-Territet. Passava sullo
scalo, per salire sul battello, quando un giovane, vestito
da operaio, si alzò da una banchina, le andò incontro, e
(1) Giovanni Pascoli. Odi ed inni. Nel carcere di Ginevra.
— gi-
lè dette un colpo tremendo al petto. Ella cadde subito
per la violenza dell'urto, ma poi si rialzò, afferrò il braccio
della sua dama e rapidamente s' imbarcò. Ma, giunta sul
ponte del battello, cadde improvvisamente svenuta, e sol-
tanto allora, slacciandosi le vesti, si potè vedere sotto il
candido seno un piccolo foro, che non dava sangue. Lu-
cheni, macabro idiota, l'aveva ferita con una lima trian-
golare.
Chiesero all' imperatrice : « soffrite ? » Apri i begli
occhi sereni, e rispose dolcemente : « no ». Un minuto
dopo era spirata, mentre il sole tramontava sul lago di
un purpureo tramonto autunnale.
Chiesto al Lucheni, perchè avesse commesso V infame
delitto, rispose per suprema ironia : « perchè ella era fe-
lice ed io no ! » Il Pascoli credette alla grande infelicità
di colui che divenne il più odioso assassino della storia,
e scrisse, rivolto a lui :
....con l'arma, che gocciò vermiglia,
Passasti il cuore di una tua sorella,
Di un' infelice !
E implorò per lui la Pietà, perchè era « suo focolare
il dolor del mondo » :
E l'odio è stolto, ombre dal volo breve,
Tanto se insorga, quanto se incateni ;
È la pietà, che l'uomo a l'uom più deve !
Persino ai re, persino a te, Lucheni ! (i)
(i) Giovanni Pascoli. Nel carcere di Ginevra.
« — 92 —
Ma tutto il mondo civile, che aveva visto passare,
commiserando, l'imperatrice, condannò unanime e male-
disse il suo assassino.
Pochi giorni dopo il delitto, che commosse tutto il
mondo, il Carducci leggeva a pochi amici la sua elegia
« per i funerali di Elisabetta imperatrice regina ». Fu
resa nota il 23 settembre ; vide poi la luce nella « Rivista
d'Italia ».
Il grande poeta s' inchinava per la seconda volta
« all' Eterno Femminino Regale », e veramente nessuna
donna, per Y aureola di bellezza, di regalità e di mar-
tirio, che tre volte la cinse, in nome di una vita più dolo-
rosa e di una più tragica morte poteva meglio di lei
meritare 1' ultimo omaggio dalla Poesia che non muore.
La concezione fantastica di questa elegia è forse la
più originale di tutta la poesia carducciana ; superbo poi
il movimento lirico, con cui 1' epicedio si apre :
Bionde Valchirie, a voi diletta sferzar de' cavalli,
Sovra i nembi natando, 1* erte criniere al cielo.
Via dal lutto uniforme, dal pianger lento dei cherci,
Rapite or voi, volanti, di Wittelsbach la donna !
E V idea di affidare il corpo dell' imperatrice, trafitto
dal pugnale villano, alle Valchirie, agitatrici di cavalli,
perchè lo involino da la pompa di liturgiche funzioni al
silenzio più gradito di una riva più cortese, non solo è
originalissima, ma non poteva essere più felice, sia perchè
V imperatrice Elisabetta era stata una perfetta amazzone,
sia perchè ella fu una fervida ammiratrice di Riccardo
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Wagner, che le nordiche deità eternò nella sua musica
divina, (i)
Ricordate la sua grandiosa cavalcata delle Valchirie?
Sulla vetta di una montagna dirupata è il convegno delle
Valchirie. A destra una foresta di abeti. Fantastiche nuvole,
cacciate dalla tempesta, sfiorano passando gli orli delle
rupi. Ne balzano fuori armate di tutto punto le fiere
figliuole di Wotan, montate sui focosi destrieri, coi corpi
dei guerrieri morti, appesi agli arcioni. Esse attraver-
sano la scena al galoppo, gettando all' aria il loro sel-
vaggio grido di guerra e brandendo le lunghe lance sfa-
villanti. L'eco ripete le loro grida, il vento sibila acutamente,
flagellando le cime degli abeti, che si piegano paurosi
alle raffiche violente, e 1' uragano mugge, si scatena, imper-
versa. Ed ecco un' altra Valchiria, un' altra ancora ; le
prime arrivate si appostano in vedetta sui picchi più
elevati, eccitano con le loro esclamazioni le sopravvenienti,
le salutano col loro grido di guerra e con un forte pic-
chiare delle lance sugli scudi. Per Y aria risuonano voci
di giubilo, scoppi violenti di risa, schioccar di fruste,
tintinnar di sonagli, galoppar di cavalli, lanciati a tutta
corsa tra i sibili del vento, lo svettar degli abeti, gli
scrosci del tuono e il mugolar de la tempesta (2) e
... Wagner possente mille anime intona
Ai cantanti metalli ; trema agli umani il cuore.
G. Carducci. Presso V tinta di P. B. Shelley.
(1) Di lui 1* imperatrice diceva che « aveva incarnato musicalmente i segreti
più reconditi dell' anima umana » .
(2) D. Depanis. L' anello del Nibelungo.
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Così, così,
Via, Valchirie, con voi la bionda qual voi di cavalli
Agitatrice, a riva più cortese !
Insuperabile agitatrice di cavalli ella fu proclamata
dagli stessi inglesi, quando prese parte alle cacce nelle
verdi Erinni, e dei suoi cavalli ella diceva : « molti di
questi generosi animali si son precipitati per me alla
morte, ciò che nessuno tra gli uomini avrebbe fatto o
farebbe ; piuttosto mi assassinerebbero ».
Ed infatti il destino dette ragione alle sue parole
amare :
Ahi ! quanto fato grava su 1' alta tua casa crollante,
Su la tua bianca testa, quanto dolore, Asburgo !
Pace, o veglianti ne la caligin di Mantova e Arad
Ombre, ed o scarmigliati fantasimi di donne !
Allorché il vecchio imperatore apprese la notizia della
tragedia di Ginevra, ruppe in un singhiozzo convulso e
disperato, e nel pianto esclamò : « ecco il giorno più
triste de la mia vita » !
E dinanzi a questo vegliardo, sulla cui fronte non
e' è angolo, ove il dolore non abbia lasciato un' indelebile
traccia, nessuno più oserebbe di ricordare le colpe antiche
e gli antichi errori : taccia finalmente il grido di vendetta,
che si eleva dalle fosse di Belfiore e di Arad ! Haynau,
il generale Jena, che aveva visto « Brescia beverata nel
sangue nemico, » che aveva mandato al supplizio ven-
tidue ufficiali ungheresi nelle fosse di Arad, e ne aveva
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fatto fustigare le donne, ignude davanti all' esercito sghi-
gnazzante, morì solo, abbandonato in un albergo, tra
T esecrazione e 1' abbominio di tutto il mondo civile ; e
già in Inghilterra egli era stato, come un essere ripu-
gnante, allontanato e coperto d' ingiurie e di fango dagli
ufficiali di Sua Maestà Britannica.
E sulla casa d' Asburgo la Nemesi ultrice infierì tanto
inesorabile, che da quelle stesse fosse di Mantova e di
Arad pare che s' impetri tregua al destino !
Voi
tergete, Valchirie, tergete
Dal nobil petto 1' orma nel pugnale villano.
E tergete da 1' alma, voi pie sanatrici divine
Il sogno spaventoso, lugubre de 1' impero !
Laggiù,
Sotto Corcira bella 1' azzurro Ionio sospira,
Con suo ritmo pensoso, verso gli aranci in fiore.
Sorge la bianca luna da' monti d' Epiro ed allunga
Sino a Leuca la face tremolante sul mare.
Ivi 1' aspetta Achille
il mitico eroe, a cui ella aveva dedicato il suo palagio,
« Ad Achille 1' ho consacrato, ella diceva, giacché egli
personifica per me Y anima Ellenica e la bellezza della
vita.... lo amo, perchè era rapido alla corsa, perchè era
forte e fiero, perchè non riteneva sacra che la propria
volontà, né per altro visse che per i suoi sogni.... e la
sua tristezza gli fu più sacra della vita ! »
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Achille ed Arrigo Heine ella glorificò nel tempio,
che fu tutto e solamente suo : la statua di Achille è una
delle prime che si scorge, entrando nell'Achillejon, ed Heine
ha un vero tempietto dorico in un recondito angolo dell' in-
cantevole giardino. Il poeta riposa, in atteggiamento stanco
e sofferente, tra un cumulo di guanciali : tra le mani ha
un foglio, su cui è impressa questa sua strofe sconsolata :
Was willt die einsame Thrane ?
Sie trùbt mir ja den Blick
Sie bleibt aus alten Zeiten
In meinen Augen zurùck.
(che vuole la solitaria lacrima ? Essa mi oscura la vista —
ricordo degli anni lontani, s' indugiò sulla mia pupilla.)
Quantunque credente, ella amò Heine, forse perchè gli
rassomigliava per la sconfinata ammirazione delle cose
naturali, per 1' ardore del sentimento, per il disdegno degli
uomini, per la scettica concezione della vita e del mondo.
Interrogata, quale dei Lieder Heiniani ella preferisse, ri-
spose: » tutti, perchè non sono che un unico Lied : lo scet-
ticismo dell' Heine, incredulo nella sua sentimentalità e nel
suo entusiasmo, è anche la mia fede.... Io 1' amo per il
suo immenso disprezzo delle proprie debolezze umane e
per la mestizia, di cui lo riempivano le cose terrene »,
e forse ella si riconobbe in alcuni versi del poeta tedesco.
Non è Elisabetta, di cui parla Arrigo Heine nel « Cielo
del mare del Nord » ?
Sta una donna bella e malata
Diafana e bianca come di marmo,
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E il vento sparpaglia le sue chiome !
E trascina il suo tetro canto
Sopra il mare deserto e procelloso.
Ora là, sotto la placida rete d'argento, che la luna
distende sulle onde, nella infinita serenità del cielo e del
mare, risuoni di novelli accordi la cetra del poeta tede-
sco ed a lui risponda, dallo scoglio di Leucade, Saffo so-
spirosa, per comporre così l'ultimo sonno alla « Principessa
della Primavera ».
Sveglisi nei freschi anni la pura Vindelica rosa,
A un dolce accordo novo di t'innienti cetre,
Qual più soave mai, la musa di Heine risuona :
Chi da l'erma risponde Leucade sospirando?
Tien la spirtale riva un'alta serena quiete
Come d'elisio sotto la graziosa luna.
Così finisce l' elegia, come un sospiro, con la pacata
visione della spirtale riva, accarezzata dal raggio pleni-
lunare, e dal batter lento de l'onda, mentre il vento ra-
pisce effluvi inebrianti agli aranci in fiore.
L'imperatrice aveva detto : « nell'Achillejon io voglio
essere sepolta. Qui io non avrò sovra di me che le stelle
ed i cipressi sospireranno per me assai più che non fa-
rebbero gli uomini : nel loro pianto io vivrò più eterna-
mente che non nella memoria dei miei sudditi ».
Invece il destino andò anche oltre la morte, e la regina
di dolore non ebbe la sepoltura sognata da lei e per lei
invocata dal poeta. Pochi anni dopo la sua morte l'Achil-
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lejon fu venduto ad un imperatore, che ne tolse persino
la statua di Heine, per un meschino rancore dinastico.
Quando il corteggio tedesco varcò il cancello del palagio
di Achille, il gran sogno dell' imperatrice ripiegò le sue
ali e si dileguò per sempre sconfitto. Non più or sembra
che biancheggi la villa del sogno nell'alta serena quiete
del cielo e del mare, ma
.... le celeri
Nubi a galoppo inseguono
Pari a Valchirie fiere, la nomade
Luna, la selva palpita
D'antiche musiche, di saghe eroiche.
A. Colautti
E, nei lontani anni del futuro, se mai avrete la for-
tuna di veleggiare nel piccolo mare glorioso, che dà il
suo bacio perenne alle coste della Vecchia Grecia, vi
parrà certo di vedere dalla tolda della vostra nave, un
bianco fantasma errare da la placida baia di Benizze, su
su a traverso un sentiero fiancheggiato di ulivi, sino al
candido palagio di Achille ! Allora inchinatevi riverenti.
E P imperatrice!
1042011