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Full text of "Nozze Pércopo-Luciani, 30 luglio 1902"

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NOZZE 
PÈRCOPO-LUCIANI. 



NOZZE 



PÉRCOPO- LUCIANI 



30 luglio 1 902 







NAPOLI 

STAB. TIP. LUIGI PIERRO E FIGLIO 

Piazza Dante 76 

1903 



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.;:••:>:•../ *S4iM^\di:ioo esemplari in carta a mano. 
Esemplare ».** 






AL PROF. ERASMO PÉRCOPO. 



Carissimo Erasmo, 

Anche questa raccolta nuziale y com'è avvenuto di qtudche altra, 
arriva postuma; ma noi non potevamo obbligarti a ritardar le 
nozze sino al suo compimento; e troppe cagioni di ritardo sono 
frattanto intervenute ad allontanare vieprU i termini/ I tuoi com- 
pagni pensavano di darti una piccola prova del loro affetto e della 
loro stima, quando pareva che tu uscissi da un periodo di ab- 
battimento e di tristezza, e in questo io vedevo accordarsi con noi 
alcuni maestri e qualche discepolo. Insieme con la felicità dome- 
stica riacquistata, altre cose son venute a provare che le amarezze 
cUU'tiomo btiorw e laborioso non possono durare. Ma il volume era 
ormai varato, ossia era per noi una cosa fatta; né sempre i saggi 
devono mutare col mutar dei tempi. Ond'è che io, in nome dei 
cortesi collaboratori, te lo presento questo ora compiuto, insieme con 
gli augura che ciascuno teneva in serbo sin dal luglio dell'anno 
scorso^ e che spero seguitino a riuscire sempre ptìi efficaci. 



Palermo, 4 aprile 1903. 



Affeztonatissimo 

Nicola Zingarelli 






INDICE. 



E. Proto : Il padre di famiglia : dialogo di T. Tasso pc^, i 

G. DI NisciA : Per una fonte probabile della « Bisbetica domata ». » 29 

E. Cocchia: Confronto fra 1' « Iliade » e 1& « Cfaanson de Roland » » 59 

B. Croce: Cmiosità vichiane » 119 

G. Rosalba : Un episodio nella vita di Vittoria Colonna. . . . » 125 

F. ToRRACA : Sol « Ritmo Cassinese ». NuoTe osservazioni e con- 

gettare » 143 

B. ZuMBiNi : Gli episodi dei montoni e della tempesta presso il Fo- 
lengo e presso il Rabelais » I75 

N. ZiNGARELU : Per la storia del « Secretum Secretorum ». Testo 

in antico francese secondo il cod. berlinese Hamilton 46 . » 185 



»%^»»»*»^>»»* 



IL PADRE DI FAMIGLIA 



DIALOGO DI T. TASSO 



Questo dialogo, che il Giordani disse bellissimo, a me vera- 
mente sembra la più bella prosa filosofica del Tasso: vuoi per- 
chè esso tratta di argomenti non cosi strettamente filosofici, 
che inaridiscan la floridezza della prosa tassesca , vuoi per- 
chè alla esposizione dottrinale è congiunta la rappresentazione 
di un fatto reale, che ravviva ed infiora la materia filosofica. 
Di esso nessuno si occupò particolarmente : qualche giudizio 
esposto qua e là, qualche confronto , come quello che il Tal- 
larigo e r Imbriani (i) vollero far di un brano di esso con un 
altro del dialogo di L. B. Alberti, senz* accorgersi della fonte 
comune ad ambedue ; e nient' altro. Il Cecchi (2) , al solito , 
esagerò nel suo giudizio; un cenno rapido ne fé' il Falco, nella 
esposizion generale delle dottrine tassesche ; né se ne occupò 
subito dopo il Bianchini (3). Io solo, se non erro, nel passar 
rapidamente a rassegna i risultati degli studi del Falco , cer- 
cando qua e là di correggerli e di compierli (4) , accennai 
alle fonti di esso: cenno che vedo accolto ultimamente dal chiaro 



(i) Nuova Crestomazia italiana, Napoli, Morano, 1883, voi. II, 117-18. 

(2) T, Tasso , il pensiero e le belle lettere italiane nel sec. XVI, Firenze, 
^^11^ 193-4- 

(3) F. Falco, Dottrine filosofiche di T, Tasso, Lucca, 1895 ; G. Bianchini, 
n pensiero filosofico di T. Tasso, Verona-Padova, Dracker, 1897. 

(4) Rassegna critica II, 116. 



— 2 — 

Prof. A. Solerti neir ediz. scolastica del dialogo , secondo 
r autografo (i). 

Non sarà quindi , credo io, discaro che, in questa lieta oc- 
casione, nella quale una nuova famiglia si apre, si torni a ra- 
gionar del Padre di famiglia di T. Tasso, per mostrare pregi 
e difetti, e per indagarne e più minutamente valutarne le fonti. 

I. 

', .Ndl'rctttóbre del 1578 Torquato, in abito di sconosciuto pel- 
'le'grirfb,' àfidgindo da Novara a Vercelli , s* imbattè in un gio- 
yatìe , 11 .'fliial,è , poiché il fiume Sesia era oltremodo cresciuto 
per la piena , gli offri albergo nella sua casa non molto lon- 
tana. E di qui piglia occasione il dialogo. 

Il Tasso, nella casa , piglia a ragionar degli affari di cam- 
pagna col padre di famiglia; e fra molti ragionamenti dà modo 
di farsi conoscere per uomo di gran senno, anzi di far sospettar 
deir essere suo ; talché il signore stima conveniente chiamarlo 
giudice di un ragionamento, che il padre gli fé', quando volle 
cedergli la somma delle cose di famiglia. E qui comincia l'espo- 
sizione dottrinale di ciò che dee praticare un padre di fami- 
glia. C é dunque, nel dialogo, un fondo storico (2), reale, che 
s' intreccia col dottrinale e Tavviva di luce artistica. Il dialogo 
perciò si può dividere in una introduzione narrativa, che mo- 
stra r origine di esso; in una prima parte, veramente dialogica, 
nella quale la narrazione s' intreccia al dialogo raccontato ; e 
infine in una seconda parte, prettamente espositiva, dottrinale. 
Cosi, dunque, alla grossa, senza badare alla narrazione intro- 
duttiva, e senza scendere alla particolare tessitura , il dialogo 
del Tasso ricorderebbe la disposizione dell' Economico di Seno- 



(i) T. Tasso, / discorsi dell'arte poetica, il Padre di famiglia e VAminta 
annotati per cura di A. Solerti; Torino, Paravia, 1901, p. 70. 

(2) Si è ricercata la casa ove fu ospitato il T. e il signore che l'ospitò. Cfr. 
Solerti, Vita di T. T. I, 297: Op. cU, 7^-76. 



— 3 — 

fonte; nel quale Socrate, prima comincia a discutere della scienza 
domestica con Critobulo, e poi narra deir incontro da lui cer- 
cato ed avuto col buon padre di famiglia Iscomaco ; il quale 
gli espone i principii da lui messi in opera per menar innanzi 
la famiglia. Il racconto delFincontro sarebbe del Tasso, traspor- 
tato innanzi e quindi reso tutto il dialogo raccontato : il dia- 
logo fra Socrate e Critobulo rifletterebbe la prima parte prepa- 
ratoria: l'esposizione di Iscomaco corrisponderebbe alla espo- 
sizione dottrinale del padre di famiglia. Vedremo meglio, in fine, 
a qual dialogo per la tessitura quello del Tasso si avvicini: per 
ora è necessario notar che coir Economico di Senofonte ha que- 
sto di comune, che in ambedue T esposizione dottrinale è fatta 
da un buon padre di famiglia ad uno che T apprende e la ri- 
ferisce all' altro interlocutore del dialogo; che sono due, tanto 
nel Tasso, quanto in Senofonte. 

Il titolo riproduce il vocabolo latino peUerfamilias ; e sembra 
preso da Senofonte stesso (Econom. I, 2), e da un altro libro, 
che , come indicai allora , è il fondamento della dottrina tas- 
sesca: la Politica di Aristotele (i). 

II. 

Il dialogo, dunque, comincia con la narrazione dell' incontro 
durante il viaggio, tra flovara e Vercelli, che il Tasso fa di un 
figlio del padre di famiglia. Mentre cavalca ed è presso la sera, 
gli percote 1' orecchio un latrato di cani confuso da gridi: ecco 
un capriolo inseguito da due veltri e che gli vien quasi a mo- 
rire ai piedi. E poco stante arriva un giovanetto, che, perco- 
tendo i cani e sgridandoli, toglie loro la fiera di bocca e la dà 
a un villano. Il giovinetto si volge al Tasso, chiedendogli la meta 
del suo viaggio: e poiché quegli nomina Vercelli, il giovinetto 
gli mette innanzi i pericoli del fiume in piena e lo invita a passar 



(i) Arìst. Politica (edìz. Didot), 1. I e. Ili, 22 (ecco la traduz. dell' Argi- 
ropulo: « sed com sit ut patrisfamUias ecc. ») 



la notte in sua casa. Il Tasso acconsente e scende da cavallo : e 
cosi, strada facendo, poiché s' accorge che il giovanetto lo viene 
squadrando, comincia a dire eh' egli non è di quel paese; sicché 
il giovane coglie da ciò V occasione per domandargli chi sia : 
ed egli risponde di esser nato nel regno di Napoli di madre 
napolitana, ma di padre bergamasco; ma tace il suo nome, per- 
ché oscuro « fugge sdegno di principe e di fortuna, e si ripara 
ne gli Stati di Savoia » . Vengono cosi dicendo presso il Sesia; 
e perché lo trovano veramente gonfio, é giocoforza di accettar 
r invito; e cosi vengono a casa. 

Qui certamente, in questa graziosa e viva narrazione, biso- 
gna riconoscere un fondo reale: V incontro, V impedimento del 
Sesia , r invito ; ma l' incontro fu poi cosi in tutti i suoi mi- 
nuti particolari ? Ne dubito ; perché un incontro simile egli gio- 
vinetto avea escogitato poeticamente nel /Rinaldo (e. I st. 51 
sgg-)- Anche colà Rinaldo, mentre va per la foresta « Strepito 
pargli d'animai correnti Sentir nel bosco... ». Ed ecco una leg-' 
giadra cerva stanca correre inseguita da una giovanetta a ca- 
vallo che r ha ferita. Potrà darsi che il caso abbia fatto seguir 
un incontro reale nelle stesse forme di un incontro poetico ? Io 
non dico di no; ma sarebbe un caso veramente casuale ! Dirò 
di più che, mentre Rinaldo alla domanda di Clarice esce subito 
a dir la sua origine e svela superbamente il suo nome: il Tasso, 
invece, benché sia già chiaro, non lo vuole svelar , dicendolo 
oscuro. Vuol dire che l'avrà appreso dalla dura lezione che Cla- 
rice dette a Rinaldo, dicendogli: « Ma di voi nuli' ancor la fama 
apporta »; come appunto T avea appreso Rinaldo; il quale, al 
campo di Carlo , dopo le mirabili prove mostrate in parecchi 
duelli, non vuole svelare il suo nome, perché ntdl' or pregialo ì 
Ed é, come osservai altrove (i), costume di cavalieri della Ta- 
vola Rotonda. E come nel /Rinaldo, all' appressarsi della sera, 
si giunge a casa, dove Clarice invita il cavaliero (I, 88 sgg.); 
cosi nel Padre di famiglia. Se non che Rinaldo , offeso dal 



(i) Sul Rinaldo di T. Tasso, Napoli, Tocco, 1895 (P- ^M- 



— 5 - 

brusco trattamento della dama, non crede di accettare 1* invito 
(onde poi se ne pente amaramente): qui, invece, la realtà spinge 
il Tasso nella casa del Signore ; che egli descrive accuratamente, 
mentre vi entra col giovinetto. 

HI. 

Intanto , sopraggiungono un altro giovinetto e il padre di 
famiglia ; che domanda al figlio maggiore chi sia queir ospite 
che gli si presenta. Si pongono a tavola; e di qui bellamente 
è introdotto il ragionamento. Poiché , pigliando occasione dal 
porger di melloni a tavola, il padre di famiglia, comincia col 
citar Virgilio, imitato dal Petrarca, per scusarsi che non pone 
a tavola se non povere vivande, ma non comprate , poiché si 
é in villa. 

È già molto, risponde il Tasso, il* non esser costretto a man- 
dare in città per cosa alcuna. Non ve n' é bisogno, dice il Si- 
gnore , perché ogni cosa é somministrata dalle mie terre (ve- 
dremo esser questa V attuazione di un principio economico), le 
quali ho divise in quattro parti: V una per seminagione, Taltra 
per alberi e piante , la terza per prati , la quarta per erbe e 
fiori, con gli alveari. Il Tasso stesso e* indica la fonte di questa 
divisione, col dire al padre di famiglia che egli cosi si mostra 
studioso di Varrone, come di Virgilio. Ma , per quanto abbia 
ricercato, non mi è riuscito di trovar cotale divisione in Var- 
rone: il quale, anzi (De re rustica I, 7), riporta la distinzione 
di Catone di nove gèneri di terreni: vigneto , orto , saliceto , 
oliveto, prato, campo frumentario, selvoso, arboreo , querceto. 
Forse, aggruppando gli alberi tutti insieme, e mettendo fuori 
il campo frumentario, la prateria e V orto, si potrebbero aver 
le quattro divisioni. Ma il vero è che questa é più una di- 
visione poetica , che naturale : deriva , cioè , non da Varrone, 
ma da Virgilio , che nelle Georgiche tratta nel I libro della 
seminagione dei campi, nel II degli alberi e delle piante, nel 
III della pastorizia, nel IV delle api, e vorrebbe trattar degli 



orti (di cui poi prese a trattar Columella). Abbiamo così le 
quattro divisioni del Tasso, né più, né meno! 

Il padre di famiglia aggiunge un suo sfavorevole giudizio sui 
melloni, che dice indigesti : e il Tasso, con osservazione psico- 
logica felicissima, intorno alla voglia dei vecchi di ragionare e 
di essere ascoltati con attenzione, mostra di approvar ciò che 
quegli dice. Quegli, però, s* avvede della mancanza della mo- 
glie , la fa chiamare ed assidere in capo di tavola. E questo 
dà occasione ad altri discorsi ; perché il padre di famiglia, non 
avendo figlie, manifesta il desiderio di dar moglie al maggior 
dei figli, se egli non se ne mostrasse alieno. 

Il Tasso disapprova tal pensiero, perché i giovani non debbono 
ammogliarsi così presto : i padri dovrebbero eccedere i figli di 
ventotto o trent'anni, non meno; perchè allora son quetate in 
essi quelle voglie , di che non debbono dar malo esempio ai 
figli; dai quali hanno maggior rispetto , perchè non sembran 
quasi fratelli, come accade a quelli che s* ammogliano troppo 
presto: non debbono eccedere di più , perchè non potrebbero 
ammaestrare i figli piccolissimi , né averne queir aiuto che si 
aspettano. E qui il Tasso comincia a saggiare la materia aristo- 
telica ; perchè questo ragionamento è tolto dalla Politica di Ari- 
stotele (i), con aggiunto il pericolo della rivalità negli amori 
tra figlio e padre. 

Questo discorso piace al figlio maggiore. E così anche la nar- 
razione s'intreccia al dialogo; perchè qui si serve della selvaggina 
e dei piccioni : e questo è causa di una digressione poetica in- 
torno ai conviti descritti da Omero e Virgilio, a cui si aggiunge 
il giudizio del Tasso, che quelli eroi mangiassero di quelle carni 
perché, essendo sane, servivano bene a sostentar le loro fati- 
che (2), e di una breve digressione anche intorno ai vini (3). 



(i) Aristotelis Colitica (ediz. cit.) , lib. VII (IV deU' ediz. del Saint-Hi- 
laire), cap. XIV, 2. Ho presente la traduzione dell' Argiropulo, nella quale nel 
Rinascimento si riconobbe Aristotele. 

(2) Cf. Plutarco, De esu camium oratio, I, vi, 3. 

(3) Cf. Solerti, // padre di famiglia dt. pp. 82-3. 



7 — 



o dueh 



Finita la cena e portate le frutte, il buon vej||ì^ prende a 
ragionar della nobiltà delle stagioni, ricordando due lettere del 
Muzio e di B. Tasso intorno alla nobiltà del verno e della 
state. Veramente, come osserva il Solerti (i), le lettere sono 
tre, perchè c'è anche la replica del Muzio ; ma il Tasso ne indica 
due, e vuol dir che quelle due soltanto conosceva. Gli argo- 
menti che quei due recavano, ciascuno a conforto della sua 
opinione, sono qui usati per respinger V una e V altra. 

Il Muzio scusava il verno del freddo e gli dava vanto dei 
molti giuochi e spettacoli ; mentre Bernardo vantava V estate 
pei frutti, di cui è copiosa: Tuno trovava noioso il caldo, Taltro 
il freddo. Or bene , il padre di famiglia dice che alla noia, 
tanto del freddo , quanto del caldo , non possono riparare il 
verno coi giuochi, l'estate coi frutti. Bernardo sosteneva che i 
viandanti e i marinai non potessero uscir d* inverno: anzi, di- 
ceva il Muzio, d'estate tutti amano stare all'" ombra; ed ecco 
Torquato far giustizia di tutti e due, col dir che né l'uno riè 
r altra è fatto pei viandanti e cacciatori. Vi aggiunge che il 
padre di famiglia non può andar visitando i campi né d'estate, 
né d' invei-no: e questo, mentre deriva da un consiglio econo- 
mico di Senofonte (Ecanom, XI, 14 sgg.), e del Pandolfini 
{Trattato del governo della famiglia, ed. citata più innanzi, p. 66), 
serve anche a collegar la presente discussione incidente con la 
discussione generale. Il Muzio oppone a Bernardo che l'estate 
è piena di sudore e di fatica : e questa opposizione accoglie 
Torquato ; ma non vuole , col Muzio , che 1' estate consumi i 
frutti della primavera: e con Bernardo chiama pigro il verno, 
in cui, tra l'ozio e la crupula, si consuma tutto ciò che è stato 
acquistato. 

Inoltre, Bernardo vantava l'estate pel giorno lungo, che dà 
più spazio alle osservazioni : il Muzio rispondeva che , se la 
luce spirituale è superiore alla materiale, vale di più il verno, 



(i) Op, ciU, p. 84 n. (2). Le due lettere sono in Lettere diB. Tasso, Pa- 
dova, Cornino, 1733, voi. II. pp. 5-30. 



— 8 — 

in cui le notti lunghe concedono più spazio alle meditazioni 
deir anima. Torquato non mena buono al Muzio il suo argo- 
mento; ma ne oppone un altro contro Testate, in cui il giorno 
è tiranno contro la notte , che è fatta per riposare i corpi 
stanchi; e vi aggiunge una punta erotica, che ricorda i lamenti 
degli amanti contro Talba degli antichi rimatori. Cosi son noie 
ed incomodi, tanto nel verno, quanto nell'estate: i quali inco- 
modi mancano alla primavera e all' autunno, che son pieni di 
diletti e ristabiliscono la giustizia fra giorno e notte. Il Tasso, 
dunque, sorpassa i suoi antecessori; e fa questione fra tutte le 
stagioni; perchè anche fra primavera ed autunno preferisce l'au- 
tunno, il quale deve esser giudicato superiore, quanto è ragio- 
nevole (usa un argomento di Bernardo in favor dell'estate) (i), 
che cedan le speranze agli affetti e i fiori ai frutti: dei quali è 
ricco l'autunno, per quelli che gli restan dall'estate, e per altri 
suoi propri, e soprattutto per la vendemmia. 

Questa discussione non era nuova : basta appena accennare 
ai contrasti delle stagioni, che qui non occorre riandare; piut- 
tosto bisogna ricordare un grazioso idillio di Bione , che ha 
parecchi punti di contatto col ragionamento del Tasso (spe- 
cialmente quello della giustizia fra il giorno e la notte), benché 
finisca in favor della primavera (2). 

Il padre di famiglia, a rafforzar la sua opinione , aggiunge 
che di autunno fu creato il mondo : e quest' affermazione dà 
bella occasione al Tasso di discorrere delle varie opinioni sul 
proposito. Pel qual ragionamento egli stesso scopre la fonte, 
additando il Timeo di Platone. Il cielo è rotondo ed uniforme, 
né ha principio, né fine , né destra, né sinistra, né sopra, né 
sotto, innanzi, dietro; cioè i sei movimenti, come dice appunto 
Platone (3), che assegna al cielo il moto circolare. Se non forse 



(i) Cf. Lettere di B. Tas»o, ed cit. p. 26. 

(2) Cfr. Bucolicorum graecorum Theocriti , Bionis, Moschi reliquiae etc. 
edidit Henr. Ludolf. Ahrens, Lipsia, Teubner MDCCCLV (idyll. XVII). 

(3) Timaeus (ediz. Didot) 33 b - 34 a. 



— 9 — 

solo « rispetto al moto, perciocché destra è quella parte da la 
quale ha principio il movimento; ma perchè il movimento del 
sole va contra il movimento del primo mobile, dubitar si po- 
trebbe se queste sei differenze del luogo si debbano principal- 
mente prendere secondo il moto del primo mobile, o secondo 
il moto del sole. » E questo appunto dice Platone (i). Nondi- 
meno perchè le cose di questo mondo dipendono dal sole, è 
ragionevole che dal sole si determini il movimento. E questo 
è pur secondo Platone (2), che dà al mondo interno il moto 
del diverso e come misura il sole. 

Stante questo fondamento , il mondo è dovuto nascere in 
quella stagione , nella quale il sole s* avvicina a noi ; e cioè 
quando sta in Ariete. E questo si vedrà, considerando il di- 
scorso di Dio padre agli Dei minori nel Timeo di Platone (3) 
(dove a dir vero io non vedo ciò; ma forse si deduce dal con- 
cetto della generazione, che in quel discorso è espresso). Vero 
è che, pigliando il moto del primo mobile, si avrebbe tutto il 
contrario, e la nascita del mondo quando il sole era in Libra; 
ma la prima opinione è la più probabile , perchè il nostro 
mondo fu degno della presenza del Cristo, il quale volle morir 
di primavera, per riscotere Tuomo nello stesso tempo che Tavea 
creato. E questa è la ragione accolta da tutti gli antichi, spe- 
cialmente da Dante, come ognun sa. 



IV. 



Qui finisce la prima parte del dialogo, la più bella, originale 
e piena di naturalezza e vivacità. Da questo punto comincia 
la seconda parte, in cui il dialogo sparisce per cedere il posto 
ad una pura esposizione dottrinale. Poiché il padre di famiglia, 



(i) timaeus (ediz. dt.) 36 b-d ; 39 a-b ; ma il moto da destra a sinistra 
più chiaro in Plutarco De placitis philosoph. 1. II, e. X, i. 

(2) Timaeus loc. cit. Le stesse idee il T. sviluppava contemporaneamente nel 
Messaggero (prima lezione in Dialoghi ediz. Gruasti, I, 238-9). 

(3) Timaeus 41 a-d; anche questo in Messaggero, ed. dt. I, 240-1. 

2 



— IO — 

al ragionamento del Tasso, comincia a sospettar d' aver dato 
ricetto a maggior ospite eh* ei non credesse e forse ad uno, 
di cui anche in quelle parti giunse il grido (i). Or se è tale, 
non potrà essere, se non convenevole giudice d'un ragionamento 
che il padre gli fece, alcuni anni prima di morire , rinunzian- 
dogli il governo della casa e della famiglia. E mentre tutti i 
servi sparecchiano la tavola e i figli si seggono (e qui è Tul- 
tima traccia di descrizione) , il padre comincia che , quando 
Carlo V depose la monarchia, il padre lo chiamò e disseglì 
che le azioni dei re grandissimi consigliano gli altri ad imitarli: 
epperò egli , volendolo imitare , si sgravava della soma della 
famiglia, quasi abdicando a lui ; ma prima lo voleva ammae- 
strare come egli stesso fu ammaestrato dal padre. 

Ognun vede quanto futile sia il pretesto per V esposizione 
delle dottrine. Per ora teniam presente questa posizione, che 
chi svolge gli ammaestramenti ricevuti dal padre, ora si trova 
a svolgerli innanzi ai figli che l'ascoltano. Cosi proprio accade 
nel Trattato del governo detta famiglia attribuito ad Agnolo 
Pandolfini (2); il quale espone appunto gli ammaestramenti ai 
figli che l'ascoltano. Anzi, c'è somiglianza in questo, che come 
il Pandolfini, benché abbia ricevuto ammaestramenti dal padre, 
pur s'è addottrinato con lo studio, la lettura e l'esperienza (3); 
cosi il padre del Signor del dialogo tassesco, benché ricevesse 



(i) Son d'accordo col Solerti {pp, cit, 88) nel sollevar dubbio intorno a que- 
sta parte dell* ospite. Quand* anche fosse vera, perchè al ragionamento del T. 
l'ospite dovea pensar proprio a lui ? Se avesse letto il Messaggero, le stesse idee 
lo avrebbero svelato ; ma il Messaggero fu scritto nello stesso anno (1580) del 
Padre di famiglia e pubblicato nel 1583 ; mentre la scena del Padre di fa- 
miglia è posta nel 1578. L'unico sospetto sarebbe in quelle indicazioni date 
dal T. al figlio e da questo ripetute sotto voce al padre. Ma anche codil dub- 
bio resta; e tutto spinge a credere, col Solerti, che il T. abbia posto quell'ac- 
cenno per mostrar quanto fosse grande la sua infelicità, da esser conosciuta fin 
corì lontano e in un villaggio ! 

(2) Nell'originale di L. B. Alberti l'ordine dell'esposizione è diversa. 

(3) Tengo presente l'ediz. di G. Pinzi, Firenze, Barbera 1890 (pp. 21-22; 
122-123). 



— II —• 

ammaestramento dal padre , pur si fé' più sapiente e perchè 
uomo di lettere e perchè più esperto del mondo. V'è differenza 
di una generazione; che tutto questo è del padre di colui che 
parla nel Tasso, mentre nel Pandolfini proprio è di colui che parla. 
Ma se si pensa che anche il padre del Signor del Tasso espone 
i suoi insegnamenti al figlio, V equilibrio è ristabilito. Se non 
che, anche questo ci riconduce alla fonte comune , Senofonte 
(Ecan. XX) , in cui Iscomaco dice di avere avuto il padre 
esperto agricoltore. Così la somiglianza col dialogo del Tasso cre- 
sce; perchè Iscomaco rappresenta il padre del Signore: e come 
quegli dà gì' insegnamenti a Socrate, che li riferisce all' altro 
interlocutore del dialogo; cosi il padre del Signore li espone 
a questo , che li riferisce all' altro interlocutore del dialogo, 
cioè il Tasso. Ed eccoci al cominciamento dell' esposizione. 

In esso l'autore propone 1' argomento di tutta 1' esposizione: 
la cura del padre di famiglia a due cose si estende, alle persone 
ed alle fatoltà; e con le persone tre uffici deve esercitare , di 
marito, di padre, di signore ; e nelle facoltà due fini si propone: 
la conservazione e l'accrescimento; e intorno a ciascuno di questi 
capì partitamente ragionerà. Eccoci subito di fronte ad Ari- 
stotele (Polisca, lib. I cap. II, 1-2), non del greco, ma della 
versione dell' Argiropulo (i). Soltanto c'è questa differenza, che 
Aristotele parla solo dell'acquisto delle facoltà, mentre il Tasso 
parla anche della conservazione; e questo deriva dal perchè il 
Tasso, come vedremo, tenea presente anche Y Economico di 
Senofonte, che tratta a lungo di essa conservazione e 1' Econo- 
mica di Aristotele (I, 6) (2), che fa appunto quella distin- 



(1) Anstotele, per es., ha: « xaOta 8'èoTl fttoitoxixij xal Y«Jit*^ (àv(àvo|iov 
Y&p % 'pvoMcòc "mX àvSpò^ ou^sugtC) xxl xp^tov xexvono irj^ixi^' xocl y^ %^t^ 
OUK àvójjiaoTXL l8J(p òvójjiaTt »; e P Argiropulo traduce : « hoc est, de dome- 
stica, de conjugaU, de patema dìsdplma. . », eliminando alcune frasi spiegative 
del greco. E cosi riproduce il T. 

(2) Se non che e' è da osservare che nell' esposizione di S. Tommaso (1. I 
lect. n) è detto: " dispensatio domus maxime consistit in aoquisitione et crni" 
servanone pecnniae » : la tenne presente UT.? 



12 — 

zione (i). E come Aristotele nella Politica e n^Econom,, anche il 
Tasso comincia a trattar delle persone; ma nell'ordine della tratta- 
zione segue V Economica {^^ 3-5), che tratta prima della moglie (su 
cui nella Politica Aristotele sorvola un poco), poi dei figli, poi 
dei servi, indi delle possessioni. 

Il Nostro comincia col rilevar la comunanza delle cose fra ma- 
rito e moglie (Arist. Econom. I, 3; Senof. Econom, VII, 13), a 
somiglianza del corpo e dell'anima consorti ; citando un luogo 
petrarchesco e un altro della canz. di Dante sulla nobiltà (2) ; 
per concludere che sono pari fra essi gioie e dolori; per il che, 
come disciolto il nodo fra corpo ed anima non si può più con- 
giungere , così parrebbe convenevole che la donna e V uomo 
non passassero in seconde nozze. « Nondimeno, perchè V usanza 
e le leggi in ciò dispensano, può così la donna come V uomo 
senza biasimo passare alle seconde nozze, massimamente se vi 
trapassano per desiderio di successione * : pensiero di Platone 
{LegeSy VI, 773 a, segg.). E segue ancora a prender le mosse 
da Platone , quando parla dei riguardi , che si debbono aver 
per la condizione, nei matrimoni. Se non che, mentre Platone 
li vuol fra gente di diversa condizione, per aver l'accordo dei 
dissimili ; il Tasso (tenendosi all' etimologia della parola conju- 
gium) vuol che marito e moglie sian di egual condizione. Però 
anch'egli, come Platone, ammette l'eguaglianza anche fra gente 
di differente condizione. E qui tien d' occhio a ciò che dice 
Aristotele del potere civile (del maschio sulla femina) , che 
ammette l'eguaglianza fra i cittadini {Politica^ I, v, 1-2). 

Quanto all' età , la moglie deve essere anzi giovanetta che 
attempata, perchè nell'età giovanile la donna è più atta a ge- 
nerare , e perchè , secondo Esiodo , può esser meglio educata 



(i) Che il T. tenesse presente questo libretto, si vede dal cenno che ne farà 
in fine dello stesso dialogo: che lo possedesse si vede, se non da altro, dalla 
nota di libri pubblicata dal Guasti, Lettere di T, T, IV, 311- 13, dove c'è un 
Aristotelis Polittca, e anche un Arìstotelis et Xenophontis Oeconomica, 

(2) Il Solerti a questo punto (op. cit. 91) cita CorvviviOy tratt. IV, e. XXIII. 



— 13 — 

dal marito (cfr. Arist. Ecom. 1 , 4). E qui ci avviciniamo .di 
nuovo ad Aristotele : il quale consiglia, è vero, di prender la 
moglie non troppo giovane, che può render debole la genera- 
zione ; ma vuol che la donna sia in sui diciotto e Tuomo sui 
trentasette, perchè : « In hoc... tempore et vigentibus corpori- 
bus conjungentur , ac procedente tempore simul apte desinent 
procreare posse » . E questo appunto dice il Tasso. Il quale, però, 
con queir inciso « e più tosto invecchia la donna che l'uomo, 
come quella in cui il calor naturale non è proporzionato a la 
soverchia umidità » , sembra tener presente la esposizione di 
S. Tommaso (1. VII, lect. XII, o.) (i). Se farà questo V uomo, 
potrà esercitare su di lei quella superiorità che dalla natura 
a l'uomo è stata concessa (JPoliHca I, 11, 12, v, i), né la tro- 
verà repugnante come la cupidità smodata alla ragione , per- 
ciochè tale è la donna in rispetto de l'uomo, quale è la cupi- 
dità in rispetto deir intelletto (Politica, I, 11, 11; v, i). Ari- 
stotele qui parla del principato civile e signorile: questo sopra 
i servi, quello sopra la moglie e i figli, come l'anima ha prin- 
cipato signorile sul corpo, civile sull'appetito. Ma si tratta dei 
corpi ben disposti, non di quelli mal disposti, ai quali allude il 
Tasso con quella cupidità smoderata, come chiaramente si vede 
in Aristotele (I, 11, io). E che a questo si riferisca il T., lo 
mostra il brano seguente, che dice che virtù della donna è il 
saper ubbidire all' uomo , non come il servo al padrone , o il 
corpo all'anima, ma civilmente, come nelle città bene ordinate 
e come la parte affettiva alla ragionevole. < Ed in ciò conve- 
nevolmente da la natura è stato adoperato ; perciochè dovendo 
ne la compagnia che è fra l'uomo e la donna esser diversi gli 



(i) « Est autem ìnteilìgeDdum quod qnamvis viri et muUeres sint eiusdem spe- 
dei, non tamen idem perìodns est vitae vìriusque ipsonim, quia tempus dura- 
tionis ipsorum non seqnitur eos ratione speciei communis utrìque, sed sequitur 
▼irtutem complezionis , virtus autem complexionis multo fortior est in viro 
qu<tm in muliere propter abundantiam calidi, et meliorem proportùmem eius 
ad alias qualitates..,, ». 



— 14 — 

uffici e le operazioni de Tuno da quelli de V altro, diverse con- 
veniva che fosser le virtù. Virtù propria de Tuomo è la pru- 
dienza e la fortezza e la liberalità ; de la donna , la modestia 
e la pudicizia, con le quali V uno e l'altro molto ben può far 
queir operazioni che son convenienti ». 

Questo brano è un po' scabroso. Esso è fondato tutto su 
Aristotele {Politica I , v, 3 segg.), il quale distingue appunto 
nelle forze dell' anima per natura esser diverse le virtù. Con- 
viene alla donna esser modesta , forte e giusta ? Non posson 
differire l'imperante e l'obbediente in queste virtù per la quan- 
tità, ma per la specie : cosi l'imperante sarà temperato e giusto 
in diverso modo che l'obbediente sarà temperato e forte. Que- 
sto si vede anche nell'anima : ciò che per natura impera e ciò 
che obbedisce, e cioè la parte razionale e la irrazionale, hanno 
diverse virtù. Cosi accade anche nell' uomo rispetto alla moglie, 
ai figli , ai servi ; i quali tutti hanno le parti dell' anima, ma 
differentemente < il servo non ha la parte deliberativa, la mo- 
glie r ha debole, il fanciullo 1' ha imperfetta. Cosi tutti deb- 
bono aver le virtù morali, ma non nello stesso modo, bensì 
quanto è necessario. Cosi non sarà la stessa la modestia del- 
l' uomo e della donna, né la fortezza, né la giustizia ecc. 

Questo brano ha tenuto presente il Tasso ; ma ha tenuto 
presente anche S. Tommaso (1. I, lect. X), che spiega come 
della parte razionale dell' anima è propria la prudenza, dell'ir- 
razionale la temperanza e la fortezza. Cosi nell' uomo , nella 
donna nel servo son tutte queste virtù , ma differentemente ; 
nella donna é invalido il consiglio della prudenza , e la tem- 
peranza e la fortezza in diverso modo che liell' uomo, di cui, 
come dice Aristotele, son proprie queste virtù. 

Quindi tutte e tre il Tasso le attribuisce all'uomo: perché Ari- 
stotele vuole che l'uomo , come la parte razionale , abbia per- 
fetta la virtù morale. E perché Aristotele si era domandato se 
convenisse esser la donna modesta , forte e giusta , e di poi 
pone propria della donna la taciturnità (I, v, 8), che, secondo S. 
Tommaso ex verecundia provenit; ecco il Tasso porre proprie 



— 15 — 

della donna la modestia e la pudicizia. Ma perchè anche Ari- 
stotele ammetteva la modestia nell' uomo , sebbene in diverso 
modo , egli consiglia al marito di men che può offender le 
leggi maritali ; tenendo presente anche Aristotele (Ecanom. I, 4) 
e Plutarco {Confugatia praecepta^ XLIV), 

Le donne son rattenute da vergogna, da amore e da timore, 
che son lodevoli. « Perciò con molta ragione da Aristotele fu detto 
che la vergogna, che nell'uomo non merita lode, è lodevol ne 
la donna : e con molta ragione disse la figliuola sua, che niun 
più bel colore orna le guancie de la donna di quel che da ver- 
gogna si suole esser dipinto. » Ora a me non è riuscito di trovar 
dove Aristotele abbia detto questo. Aristotele parla dell'atox^VTj 
(Rheih. Il , 6 ; Elh. Nic. IV , 9), ossia del pudore nel senso 
cattivo, e lo dice lodevole nei giovani, non già negli uomini. 
Altra volta (JMagn. maral. I , xxxj parla della verecondia 
(oiSwc), e la dice una virtù fra l'impudenza e lo stupore. Nel 
Tasso è tenuto presente il brano dell'-fi^a, come si vede dal 
timore e dal rossore; ma % cambiato il giovane nella donna; ed 
io credo che tale attribuzione ad Aristotele derivi dal Convivio 
(proprio dalla canzone citata poc'anzi), in cui Dante (tratt. IV, 
cap. XIX), spiegando il verso E noi in donne, ed in età novella 

dice : « cioè in giovani ; perocché, secondochè vuole il 

Filosofo nel quarto àitWEHca vergogna non è laudabile, né sta 
bene nei vecchi ; né negli uomini studiosi. Alli giovani e alle 
donne non è tanto richiesto (dico tale riguardo) ; e però in loro 
è laudabile la paura del disonore ricevere per la colpa ...... 

Ma non m'è riuscito di trovar il detto della figlia di Aristotele. 
Il qual detto, per altro, dà agio al Tasso di passare a parlar 
del belletto nelle donne , che si dee vietar con le buone , se- 
guendo il ragionamento di Senofonte (^Economico, X, da cui è 
preso quello dell'Alberti), ed anche di Plutarco {Op. di. XXIX). 
Ma a differenza di Plutarco {Op, cit XLVIII), e in genere degli 
antichi, concede alle donne gli ornamenti , per l'usanza che li 
vuole. E qui tempera anche il precetto aristotelico {Econ. I, 4), 
di cui riporta anche la similitudine della soverchia pompa con- 



— i6 — . 

veniente ai teatri ed alla scena (i). Ma il Tasso trova anche una 
ragione seria: che negli animali il maschio è più adorno, 
nella razza umana invece è la femina ; e quindi avendo avuto 
natura riguardo alla sua bellezza , si dee concederle di poter 
usargli ornamenti. E quanto ai divertimenti non la si dee ritener 
tanto ristretta che non possa unirsi con le oneste, né lasciarla 
in tanta licenza che deponga quella vergogna (che qui ha senso 
di pudicizia), che è (lo ripete) tanto convenevole alle donne (2); 
ed è una spècie di timore distinta dal timor servile, che si ac- 
compagna con V odio, non con V amore. 

E qui teneva presente A. Gelilo (XIV, 6); che, riportando 
un problema di Aristotele , definisce il pudore proprio una 
specie di timore (3); e Cicerone, forse, (De Offids I, 27), che 
riporta un emistichio : « oderìnt dum metuant (se non n*è altra 
la fonte) (4). Ma dee la vergogna conservare anche negli abbrac- 
ciamenti ; nei quali il marito non vien come V amante. E qui 
tien presente Plutarco (Conjugalia pr<uceptay XLVII). E vi ag- 
giunge una considerazione suir episodio omerico di Giove e 
Giunone sul monte Ida, per concludere che pur talvolta la mo- 
glie piglia forma d* amante; ma deve subito deporla. 



V. 



Passando ai figliuoli , la cura dee esser divisa fra madre e 
padre: la madre deve nutrirli, il padre ammaestrarli (Aristotele 
Econom. I, 3). E qui una lunga digressione sul dar latte delle 
madri. 

Una larga letteratura v'è sull'argomento, a cui il Tasso attin- 



(i) « '^ dà di& zffi xooiii^oecoc oOdèv dixqpépouad éaxi tfj? Té5y tpatytpdcov èv 
T^ 0X80^ iipòC àXXi^Xouc ójitXCa. » 

(2) Lo stesso consiglio dava V Ariosto (Satira terza, 271 sgg.). 

(3) « cum sit pudox spedes timorìs ». 

(4) Cfr. anche Seneca, De Clem. I, 12; II, 2. 



^ 17 - 

geva (i); specialmente egli tien presente A. Gelilo (XII, i), e 
Plutarco {De educ, puer. cap. 5). Ecco quello che il Tasso vi 
aggiunge, sulla scorta di Aristotele {Politica^ VII, xv). Aristo- 
tele dice che bisogna dare il latte senza vino; e questo consi- 
glia il Tasso di sbieco per le nutrici. Passata quell'età, restino 
con la madre; ma perchè questa li può allevar troppo mol- 
lemente, vigili il padre (VII, xv, i, 3). 

E perchè hanno il calor naturale, meglio avvezzarli al freddo, 
come si legge presso Aristotele che facessero i Celti (2-3); la 
quale usanza è anche riportata da Virgilio. Non debbono es- 
sere educati in molle disciplina, come i Frigi anche presso Vir- 
gilio (il che deriva sempre dai consigli aristotelici). Ma non 
debbono neppure allevarsi fieri come i Lacedemoni {Politìca , 
XIII , III , 3) ; né come Achille fu allevato da Chirone ; « e 
quando pur fosse conveniente a gli eroi.., la tua privata con- 
dizione ricerca che tu pensi di allevare in modo i tuoi figliuoli, 
che essi possan riuscire buoni cittadini de la tua città, e buoni 
servitori del tuo principe, il quale de' soggetti ne' negozi , ne 
le lettere, e ne la guerra è usato di servirsi (e qui si ram- 
menta di esser nel Cinquecento). A le quali professioni tutti i tuoi 
figliuoli riusciranno non inabili, se tu cercherai che divengano 
di complessione non atletica, né femminile e robusta, e che 
s' esercitino ne gli esercizi del corpo e de lo intelletto pari- 
mente » . Tutto questo è riproduzione delle dottrine aristoteli- 
che. (Politica Vili, III, 3-5). E come Aristotele impone che sia 
cura dello stato la educazione {Politica Vili, i), cosi il Tasso se 
n'esce col dire che è del politico il prescriver l' educazione dei 
fanciulli, e perciò se ne passa col ricordar che debbono essere 
educati nel timor di Dio e nelle arti del corpo e dell'anima 
(che sarebbero poi le quattro arti consigliate nella Politica di 
Aristotele, Vili, iv). 



(i) Vedi le note del Flamini alla Balia del Tansillo (V Egloga e i poemetti 
di L. Tansillo con introd. e note di F. Flamini , Napoli, MDCCCXCIII pp. 
246 sgg. 



— I8 



VI. 



Sì è parlato di ciò che il padre di famiglia deve far come 
marito e come padre : or resta (secondo la distinzione aristo- 
telica) quella che deve far come padrone o signore verso il 
servo. 

Anzitutto il Tasso fa una distinzione : secondo gli antichi (e 
qui si riferisce ad Aristotele, Ecanam. I, 5) con V opra, col cibo 
e col castigo si debbono guidare i servi ; ma perchè v* è diffe- 
renza fra i servi antichi , che erano schiavi e quelli moderni , 
che sono uomini liberi; perciò tralascia il castigo; e in sua vece 
dee aversi T ammonizione ^ che pur secondo Aristotele {Poli- 
fica, I, v, II), dee esser più severa verso i servi che verso i 
figliuoli. Se no , meglio è licenziarli (come consiglia anche il 
Pandolfini). Un* altra cosa non considera van gli antichi, la mer- 
cede (la quale , secondo Aristotele , pei servi è il cibo) : e 
questa dee aggiungersi. 

Ma al Tasso non dice il cuore di abbandonare Aristotele ; e 
pur dopo esser venuto a tale distinzione, segue che, quantunque 
le leggi e le usanze degli uomini sieno variabili, le leggi non- 
dimeno e le differenze della natura non si mutano per varietà 
di tempi e d* usanze. E questo per venire alla dottrina /onda- 
mentale aristotelica della differenza che natura pone fra servo 
e signore. 

Dice, dunque, il Tasso che questa differenza fra servo e signore 
è fondata su la natura, perciocché alcuni nascono naturalmente 
a comandare, altri ad ubbidire {Politica I, i, 4; 11, 7; 14) ; e 
la riserva, che fa subito dopo, quantunque assuma forma ori- 
ginale, deriva sempre da Aristotele (I, 11, 14-15). Ma quando 
si trovi alcuno non sol di condizione e di fortuna, ma d* inge- 
gno e d* animo servile, questo è proprio servo : e il Tasso dice 
ciò perchè anche Aristotele ammette che vi siano alcuni, servi 
solo per condizione e per fortuna {PoliOca I, 11, 16-20) ; quan- 
tunque si tratti di servi fatti in guèrra; mentre qui si tratta 



— 19 — 

di tutt' altro. Di questi servi, cioè anche di natura e d' ingegno 
servile, il padre di famiglia, che vuol per servitori persone a 
le quali egli ragionevolmente possa comandare, compone la sua 
famiglia: questo perchè Aristotele (I, ii, 20-21) dice che è pos- 
sibile comandare ed aver amicizia coi servi di natura, non con 
quelli che vi stanno forzati per legge. < Né desidera in loro 
se non tanto di virtù solamente, quanto li renda capaci ad inten- 
dere i suoi comandamenti e ad eseguirli », differenti dalle bestie 
in ciò che lontani ancora dalla presenza del padrone ritengono 
a memoria le cose comandate: il che non avviene de le bestie. 
Questo è anche di Aristotele {Politica I, 11, 13 ; v, 7-9). « È 
dunque il servo animai ragionevole per partecipazione (JPth 
Htka I, II, 13) (i); in quel modo... che l'appetito, per par- 
tecipazione del lume de T intelletto, ragionevole diventa; per- 
ciocché, sì come r appetito ritiene in sé le forme de le virtù, 
che da la ragione in lui sono state impresse, cosi il servo ri- 
tiene le forme de le virtù impressegli ne T animo da gli am- 
maestramenti del padrone ». Qui segue Aristotele {Politica^ I, 
v, 3-4); ma tiene presente assai più T esposizione di S. Tom- 
maso (1. I, lect. X, f-g), che chiarisce il concetto del Tasso 

Dopo una citazione petrarchesca, segue : « E perchè non t* in- 
ganni l'autorità di Esiodo che pone il bue invece del servo 
(Aristotele PoUiica I, i, 6, citando il verso di Esiodo, dice il 
bue essere ai poveri invece di servo; cfr. Ecanom. I, 2), il modo 
come sono ammaestrate le bestie è differente da quello in 
cui sono ammaestrati i servi. E nel brano , che di ciò tratta, 
tiene presente decisamente Aristotele (Politica I, 11, 13; v, 5, 
9, II), precisando T intemperanza con Tubbriachezza (che to- 
glie àaXL' Econom. I, 5), e aggiungendovi l'aiuto dei servi nei 
pericoli dei padroni, per recar alcuni esempi di virtù servile. E 
se si trovan nelle storie guerre condotte da schiavi, si dee ri- 
cordar la distinzione fatta di servi per fortuna e per natura 
(per cui abbiamo già rimandato ad Aristotele). Tuttavia gran- 



(x) Cfr. respoflózìoiie di S. Tonimaso (I, kct., IH, K). 



— 20 — 

d'argomento della viltà che fortuna servile suol ne gli animi 
generare è Tesempio degli Sciti che vinsero i servi con le sferze: 
e questo fatto trae da Erodoto, IV, 3-4. 

Ma ritornando ai servi, non debbono essere di corpo e di 
animo atto alle guerre (Aristotele Politica, I, 11, 14) ; li vuole 
di due specie: V una di soprastanti o maestri, V altra di opèrarii 
(Arist. Ecanom. I, 5); e fra quelli il mastro di casa {Politica I, 
II, 23). Ce ne vorrebbero parecchi, il mastro di casa, di stalla, 
il fattore di campagna (i); ma il T. , trattando qui dei servi 
privati, si contenta, come Aristotele, di un solo. Dee darsi a 
ciascuno la mercede competente e il cibo abbondante {Econom, 
I, 5); anzi vuol che il padrone mangi di quel che mangiano i 
servi. E la ciua eh' ei vuol che il maestro o il padrone usi nel 
tener occupati i servi, sebbene si fondi su Arist. {Econom, I, 5) 
e su Senofonte {Econom, XII), e specialmente sul Pandolfini, che 
consiglia ciò di fare al padrone (come anche il Tasso), invece 
che al mastro di casa, perchè tiene il fattore (p.,105 sgg.); 
nondimeno si tratta di ammaestramenti che derivano anche 
dair uso. 

E pigliando cagione dal parlar dell' affezionarsi i servi (Senof. 
Ecom, XII) che si rendono obbedienti come cani al padrone 
o meglio come la mano destra è detta istrumento degl' istru- 
menti...., così il servo è addomandato istrumento de gì' istru- 
menti ecc.; attingendo per tutto questo brano ad Aristotele {^Poli- 
tica I, II, 4-7). 

Ma perchè ai suoi tempi v' era bisogno anche del segretario, 
ecco aggiungere ai servi anche tal sorta d' impiegati , di cui 
parla rapidamente, perchè ne fu scritto dal signor G. de la Casa 
nel Trattato de gli Uffici minori (2) ; e che non sono schiavi 
resi liberi , come fu tra gli antichi , ma amici per eccellenza , 
giusta la dottrina aristotelica {Eth, Nic. VIII, vi). 



(t) Che consiglia il Pandolfini, ed. dt. 105 sgg. 

(2) Cfr. Solerti op. cit., 105. Il T. anche ha trattato distintamente del Se- 
gretario (Prose diverse II, 251 sgg.). 



— 21 — 



VII. 



Passando alla cura della facoltà , distingue la conservazione 
e r accrescimento. Della conservazione non parla Aristotele 
nella Politicay ma solo dell' acquisto : di essa quasi solamente 
parla Senofonte nell' Economico. Ma di tale distinzione tratta 
Aristotele nell* Economica (I, 6); da cui prende qui le mosse il 
Tasso. Il quale dice che è proprio del padre V accrescere, della 
madre il conservare (come vuole Senofonte, VII, 15 sgg,); ma 
si corregge (con Aristotele) che il conservare spetti all' uno e 
air altra ; perchè (come dicono Aristotele e Senofonte, Econom. 
VIII, 40) ninna cosa può essere accresciuta, se non è conser- 
vata; e quindi il padre di famiglia dee saper bene tutto quello 
che gli convenga di fare. 

Tutto questo brano , quantunque atteggiato e variato alla 
moderna, deriva sempre da Aristotele {Econam. I, 6), e da Se- 
nofonte {Econom. VII, 35 sgg.). Parla anche del denaro e dei 
frutti che può dare, e della qualità delle facoltà, che elle siano 
o artificiali o naturali, animate o inanimate : e di tutto dee in- 
tendersi il padre di famiglia (Arist. Politica I, rv, 1-4). 

£ in questa considerazione entra quella della situazione delle 
possessioni ( per cui si veda Varrone , de re rustica I , xii e 
Pandolfini, 67 sgg.). Ma per venire a più minute particolarità, 
bisogna che della villa venga tutto in città (Senofonte , Econ. 
V ; Pandolfini, 65-70) ; e ritenuto quel che basta, si venda il 
superfluo, per comprar ciò che non si ha (Arist. Econom. I, 6; 
Pandolfini, 74). E il padre di famiglia potrà fare anche qual- 
che utile con qualche preveggenza, come fé' Talete, secondo il 
fatto che si trova narrato pur nella Politica (I, iv, 5). Questa 
è la cura del padre di famiglia. Ma delle cose che saranno 
portate a casa la cura deve esser della madre di famiglia ; e 
tutto questo lungo brano (ed. Guasti, 385-387), con aggiunte 
alcune citazioni virgiliane e di fatti e costumi romani e greci, 
è intessuto proprio suU* Econom, di Senofonte (VII-IX, ben- 
ché un pò ve ne sia anche xì!^^ Econom. di Aristotele, i, 6), 



— aa — 

e sul Pandolfini (no sgg.). Segue un paragone dell' ordine con 
la memoria (Cicerone, De Oratore , II , 86 ; RheL ad Herenr 
nìumWl, 16-17; Quint InsL orai. XI, 2, 4); e con un esem- 
pio ammodernato dell'ordine da lui visto in una casa simile 
all'armeria de' Veneziani o degli altri principi, e che deriva 
sempre da Senofonte {Econ. Vili), chiude questa prima parte. 

Ma passando ormai dalla conservazione a l'acquisto, il Tasso, 
passa ormai a tener dietro fedelmente ad Aristotele {Politica l, 
III), che riproduce fino a quando parla delle bestie e degli uo- 
mini nei loro diversi alimenti (I, ili, 1-4): e qui abbrevia (i), 
specialmente dove quegli parla delle prede degli uomini (I, ili, 4 
sgg.). Perchè, dove Aristotele distingue quelli che vivon di preda 
e quelli che vivon di latrocinio, poiché alla fine del cap. prece* 
dente avea parlato di « bellica quaedam insta », e poiché pone 
in seguito (I, iii, 8) un' arte predatoria contro gli uomini, che 
sono fatti da natura per obbedire e non vogliono; e questa è 
giusta per natura ; il Tasso comincia col riprodurre quest'ultimo 
periodo, e poi se n'esce, per tutto il resto, col supplire alcune 
citazioni di Tucidide e di Virgilio, e col ricordo dei corsari e 
dei cavalieri di Malta del suo tempo. 

Ma riprende subito Aristotele (I, iii, 2 sgg.) , col dire che 
tutte queste arti convengono al padre di famiglia, ma special- 
mente l'agricoltura (che Aristotele cita la prima e sola invece 
consiglia Senofonte Econ, III, IV, XV ecc.). Né é da disdirsi 
al padre di famiglia la mercanzia. Vero è che Cicerone ne parla 
male negli Offici (I, 42): ma altrove (e allude alla Oratio prò 
Cn. Piando, e ^Wepist. ad Quintum fratrem I, i, 3), parla bene 



(i) Qui il T. distingue fra le bestie « alcune montuose e congr^abiH, altre 
solitarie ed erranti ». Aristotele ha: « . . . . xà |iiv àyeXal*, xà de aiiopadixà 
èaiiv », e V Agiropulo traduce: « quidem aliae graegales sunt, aliae solivagae > . 
Or qui il solivagae è riprodotto in solitarie ed, erranti: il graegales in congre- 
gabili: e il montuose ? U Solerti sospetta sia un errore per mansuete^ ed è co^; 
perchè, come il T. dice che se ne fanno greggi armenti ecc., cosi Aristotele dice 
che gli uomini oziosi che attendono ai paschi ed agli armenti traggono nutri- 
mento « a mansuetibus animalibus ». 



— a3 — 

deir ordine dei pubblicani , che in Roma esercitava la mer* 
canzia. Ma neanche nel De OfficHs (aggiungo io) parla tutto 
male della mercanzia ; anzi, come nella lett al fratello , Cice- 
rone vi ammette la necessità di trasportar d'altronde le merci: 
e questa specie di mercanzia è lodata anche dal Tasso (perchè 
ammessa da Aristotele, PoHHca I, m, 13-14; 21-3; iv, 2 sgg.), 
non quella di comprare per rivendere sulla stessa piazza a più 
caro prezzo; dimenticando di aver poc'anzi consigliato l'artifizio 
di Talete , pel quale Aristotele appunto loda quel mezzo di 
far denaro. Ma loda il Tasso (come Cicerone nel De Officiis , 
poiché era della stessa condizione dei romani), il vendere i 
prodotti del proprio suolo. 

Dà anche alcuni consigli per ben mercanteggiare, cioè V es- 
sere informato di tutto , dei prodotti , dei luoghi , dei mezzi 
di trasporto ecc. E mentre stai vedendo il mercante italiano 
esperto, eccoti di nuovo Aristotele, nel dir che il padre di fa- 
miglia dee trattar queste cose come padre di famiglia, non 
come mercante , pel quale il lucro è scopo, mentre pel padre 
di famiglia è mezzo {Politica I , in , 8; 18). Di qui segue a 
trattar con Aristotele delle ricchezze come strumenti finiti (I, 
III, 9) , inserendo anche un altro brano di paragone col fine 
della medicina (I, ni, 17). Segue un brano intorno alla ric- 
chezza che deve esser quanto basta {Politica, I, in, 8, 19); né 
deve essere esagerata oltre i limiti d' un cittadino ; tenendosi 
presente Senofonte {Econom. II). 

Né più gli rimane a dire intomo all'acquisto naturale, come 
appunto dice Aristotele (I, in, 20); e v'inserisce un brano di 
consigli igienici al padre di famiglia per esercizi moderati del 
corpo (pei quali tiene presente Senofonte, Econam. XI). 

Di qui prende a parlar dell' acquisto non naturale, tuttoché 
al padre di famiglia non appartenga. E di questo tratta inte- 
ramente seguendo Aristotele (I , in , 10-20) , inserendovi una 
breve dissertazione intomo al numero. Poi ritorna a trattar del 
cambio e dell'usura secondo Aristotele e secondo i famosi versi 
di Dante {Inf. XI, loi-ii), che alla fin fine si riferiscono an- 



— 24 — 

che ad Aristotele. Coi quali versi gli par bene di chiudere il 
ragionamento intomo alla famiglia. 

E questo ragionamento il padre glie lo scrisse in un libretto, 
per fargli ricordar gli ammaestramenti di cui son fine le ope- 
razioni {Politica VII, III, 6). 

Vili. 

Da questo punto ripiglia il racconto: poiché il Signore, finito 
il ragionamento , chiede al Tasso il suo parere : il quale non 
può non esser favorevole. € Solo », dice il T., < si potrebbe 
forse desiderare, che alcuna cosa a le cose da lui dette s' ag- 
giungesse: e questa particolarmente, s'una sia la cura e '1 go- 
verno famigliare, o se più; e se, più essendo , son cognizione 
ed operazione d'un solo, o di più. » E di questo appunto si 
mettono a discorrere brevemente (i) , e con più parole che 
pensieri ; perchè , in sostanza, si richiamano le quattro distin- 
zioni fatte da Aristotele nell' Economica (1. IL cap. i) , il li- 
bretto attribuito ad Aristotele, come dice il Tasso, che qui espres- 
samente lo cita. La divisione in quattro non la riprova egli: 
perchè, sebbene ai suoi tempi non vi fosse la sairapica , pur 
si potea dir tale l'amministrazione delle case del viceré di Na- 
poli e di Sicilia, e del governatore di Milano , e quella delle 
case dei duchi di Savoia, di Ferrara, di Mantova ecc. Accenna 
alla cvvHe o alla privata , con parole di Aristotele : vorrebbe 
parlar della reale, in caso che qualcuno dei figli si mettesse nei 
servigi delle corti; ma V ora tarda lo impedisce. Del resto, quello 
che si può aggiungere si può imparare in Aristotele (come ha 
imparato lui, per esporlo in questo dialogo, aggiungo io), e nel- 
l'esperienza delle corti. 

E qui si levano e vanno a lètto a prender riposo, di cui il 
povero Tasso avea tanto bisogno, nel corpo e nell' animo. 



(i) Qui il T. cita quel che Del Convito di Platone da Socrate ad Aristotele 
è provato: ma nel luogo del Convito, a cui il T. si riferisce (223 D.), il discorso 
è fatto da Socrate ad Aristofane, che è l' interlocutore del dialogo platonico. H 
T. errò citando a memoria: e l'errore è grave. 



— 25 — 

IX. 

Poiché abbiamo cosi sminuzzato il dialogo, possiamo darne 
un sicuro giudizio. Esso è raccontato: ha, cioè, una breve intro- 
duzione narrativa ; una prima parte, in cui i discorsi, che fanno 
i due commensali , sono bellamente provocati dallo sviluppo 
della situazione ; e una seconda parte, puramente espositiva, 
dottrinale, in cui il padron di casa coglie un pretesto per fare, 
luì solo, una lunga esposizione dei doveri del padre di famiglia, 
solamente perchè l'altro giudichi del merito più o meno di essa, 
È un pretesto , che rende la seconda parte non conseguente, 
ma susseguente, senza dipendenza della prima. Abbiam notato 
i punti di contatto colla tessitura A€ùi! Economico di Senofonte: 
or bene, anche in Senofonte ad un tratto Socrate si mette ad 
esporre, poco dialogata, la conversazione di Iscomaco; ma, oltre 
che questa non è poi rigidamente una esposizione dottrinale, 
perchè ha sempre la forma dialogica; lo scopo del dialogo è 
proprio quello: mentre nel Tasso quella esposizione vien fuori 
con un pretesto qualsiasi. Io credo che fosse condotto a im- 
maginar tale esposizione teoretica, dal trovarsi appunto a ri- 
produrre una esposizione dottrinale, un trattato, qual era quello 
della Politica di Aristotele, che con grandissima difficoltà po- 
teva trasformarsi in forma dialogica. 

Cosi come il dialogo è costruito, ricorda, dei dialoghi plato- 
nici, ai quali il Tasso cercava di conformare i suoi, quel mirabile 
Convito^ che è proprio citato in fine da lui stesso, e in cui è 
appunto raccontata la conversazione avuta a tavola fra i com- 
mensali. Anche nel Convito precede la narrazione di un fatto, 
che mena alla conversazione principale: alla quale precede una 
preparazione di brevi discussioni , come quella della sapienza 
che si appropria col contatto, di cui discute Socrate, e quella 
di Erissimaco intorno alla ubbriachezza. Ma in breve entra lo 
scopo principale , che vien proposto dallo stesso Erissimaco, 
cioè passare il tempo in elogi di Amore: quindi seguono i 
discorsi degli altri commensali , che menano a quello di So- 



— 26 — 

crate ; il quale anche espone una dottrina che egli dice a lui 
esposta da Diotina. In complesso, dunque, si può dire che il 
dialogo tassesco nella sua costituzione ricorda il Convito, Però, 
mentre in questo è breve il preambolo narrativo, a cui segue la 
esposizione dei discorsi (la quale è naturale, dato il costume di 
parlare a tavola e dopo la proposta di Erissimaco); e il discorso 
di Socrate, che vien dopo come il riassunto e il correttivo di 
tutti, non è interamente espositivo, anzi serba la forma dialo- 
gica socratica fra Socrate e Diotima: nel Tasso invece, V introdu- 
zione non è cosi breve; e i vari discorsi che seguono, occupano 
più tempo che non quei brevi preparativi in Platone; e tenendo 
il luogo delle varie discussioni dei commensali platonici sul- 
r amore, hanno il torto di non esser congiunti nell'argomento, 
cosi da menar logicamente a quella esposizione dottrinale, che 
il padre di famiglia coglie il pretesto di far lungamente, spez- 
zando per tre quinti del dialogo la forma dialogica , supplita 
dalla espositiva. Or bene, sotto questo aspetto, il nostro dia- 
logo ricorda più il Convito di Senofonte : in questo il dialogo 
è pure raccontato (salvo che il narrator non partecipa alla di- 
scussione): e la somiglianza è maggiore in ciò, che, come nel 
Tasso la descrizione dei fatti è larga ed assume la più bella 
parte del dialogo ; così in Senofonte è la esposizione di tutti gli 
incidenti del convito; e il dialogo comincia proprio con un invito 
a casa, come quello del Tasso. I vari argomenti discussi a tavola 
dal Tasso e dal padre di famiglia ricordano quelli tenuti dai com- 
mensali nel Convito di Senofonte; ai quali, come qui, s'intrec- 
cia la descrizione dei fatti che accadono durante i discorsi. 
Salvo naturalmente la differenza di essi, derivante dalla diversa 
natura del dialogo e dai diversi costumi rappresentati. E come, 
quando son finiti questi discorsi, mentre il Siracusano prepara 
i quadri mimici, Socrate esce in un discorso su Amore, perchè 
questo era un dio pel quale tutti i presenti avean devozione 
(un pretesto, dunque, per la esposizione della dottrina dell'a- 
more, che si appicca al resto del dialogo solo per la comunan- 
za dei sentimenti fra gl'interlocutori); così appunto nel Tasso, 



— 27 — 

dopo vari discorsi, mentre i servi sparecchiano e i figli si seg- 
gono, il padre di famiglia coglie un pretesto per la esposizione 
della sua dottrina, che si attacca al rimanente solo per la con- 
sonanza ideale fra i discorsi che si svolgono a tavola. V* è 
però una differenza, in favor del dialogo senofonteo; nel quale 
la euritmia è serbata dalla brevità del discorso di Socrate, in 
relazione al rimanente del dialogo ; mentre nel Tasso il discorso 
del padre di famiglia occupa quasi i tre quinti del tutto. 

Passando al valor filosofico del dialogo, ognuno ha visto che, 
salvo i discorsi della prima parte, veramente originale e bella, 
la seconda , cioè la esposizione delle dottrine economiche , è 
tutta un tessuto di idee di Senofonte e di Aristotele, a cui ogni 
tanto è intrammezzato qualche brano che ti riconduce ai tempi 
dell'autore. La trasformazione delle dottrine apprese e l'adatta- 
mento di esse al bisogno mutato dei tempi non è compiuto: e 
si noti che si tratta appimto di dottrine politiche ed economiche, 
le quali debbono adattarsi ai tempi; non già di dottrine astratte 
filosofiche, le quali possono riprodursi, trovando la loro continuità 
nella generalità delle idee che riproducono. Chi vuol sincerarsi 
di quello che io dico, confronti col nostro dialogo quello del- 
l' Alberti, che pur deriva tanto da Senofonte. Ebbene, l'Alberti, 
pur essendo nel fervor dell'umanesimo, trasforma la materia in 
tal modo, che non vi si riconosce più il suo carattere antico, ma 
si mostra come la esposizione della vita privata del Quat- 
trocento. 

Nel Tasso c'è pure qualche punto preso da Senofonte: e in 
esso trattandosi di ordine delle còse di casa, non si può incon- 
trare un forte anacronismo, perchè il Tasso le vedea volgendosi 
attorno. Ma, laddove entra nella esposizione di precetti econo- 
mici aristotelici , li riproduce tali e quali , senza adattarli ai 
tempi in cui vivea. Quando si tratta di origine della società, 
è naturale che la esposizione delle dottrine aristoteliche non 
dia alcun inconveniente, perchè è la spiegazione di un fatto, 
che entra nell'orbita delle dottrine puramente filosofiche. Né 
gli si dee far merito di ciò, che non gli appartiene, come vor- 



— aa — 

rebbe il Cecchi. Il quale (i) giunge anche a dargli il merito 
di una nuova dottrina intorno alla servitù. Via! Se il Tasso 
distingue la schiavitù antica dalla servitù, vi era costretto dalla 
necessità del fatto ; ma abbian visto come accettasse ad occhi 
chiusi la dottrina aristotelica del servo per natura e per legge, 
e questo per ragion di guerra : spingendosi fino a respingere 
ogni virtù assoluta nel servo, che paragona , òome Aristotele, 
al corpo , «cioè alla materia agitata dall' anima. E giunge fino 
a riconoscere la giustizia della preda: che lode dobbiam fargli ? 
E di più , il Cecchi gli dà merito per un altro brano , che 
abbiamo visto derivato da Senofonte. 

Concludo col dire che questo dialogo supera tutti gli al- 
tri per la bellezza della introduzione e della prima parte, in 
cui il Tasso si mostra artista finissimo, descrittore e narratore 
così vivace, che ci fa doler ch'ei non abbia scritto così anche 
tutta la narrazione dei casi della sua vita. Invece, la seconda 
parte, che si attacca malamente alla prima e che è la esposi- 
zione delle dottrine economiche , mentre si rivela , come tutte 
le prose filosofiche del Nòstro, un centone di pensieri e ragio- 
namenti di filosofi antichi ; a me pare che, per la sua natura 
stessa, si renda inferiore a tutti gli altri dialoghi, perchè, da 
una parte vi manca l'attrattiva della forma dialogica, che dà 
forma artistica agli altri dialoghi tasseschi ; dall' altra le dot- 
trine che vi sono esposte e le quali, più che le altre filosofi- 
che , avean bisogno di fondersi nel crogiuolo dei bisogni del 
tempo, non subiscono la trasformazione necessaria per adat- 
tarsi alle diverse condizioni di civiltà ; e mostrano il distacco 
delle idee antiche applicate a condizioni moderne, distacco che 
si rivela qua e là più bruscamente per l' inserzione di brani, 
che ci fanno ad un tratto balenare innanzi agli occhi la con- 
dizione della vita contemporanea del Tasso. 
Aironi (Costiera d'Amalfi), giugno 1902. 

Enrico Proto 



(1) op. ciU 193-4. 



PER UNA FONTE PROBABILE 



DELLA 



BISBETICA DOMATA,, 



La bisbetica domata (the taming of the shrew), o, come 
altri tradusse, la selvatica ammansata (i), la bizzarra commedia 
dello Shakspeare, è in parte nota agli spettatori italiani, perchè 
una delle favole che la compongono «fu presentata anni or sono 
su le nostre scene da Ermete Novelli e da Gustavo Salvini. 
Essa è di quelle commedie che' si dicono a favola doppia, cioè 
con un doppio intreccio , che , adoperate già da* poeti la- 
tini, furono largamente usate da' nostri autori comici del Cin- 
quecento, e talvolta — e certo per imitazione — dallo stesso 
Shakspeare^ come si può vedere nella notissima commedia degli 
equivoci, palese derivazione de' Menaechmi di Plauto, che ha 
una parentela non lontana con qualche commedia del Cecchi e con 
la Calandra del Dovizi (2). Anzi possiamo dire che la bisbetica 
domata abbia non due, ma ben tre favole, cioè azioni. Invero 
2l cmque atti della commedia precede un prologo, che contiene 



(i) A. Gaspary, Stor, della Leti. Hai. voi. II, trad. da V. Rossi, p. II, 
75. — Meno propriamente il Rusconi : La mala femmina domata, 

(2) E con / Lucidi del Firenzuola, che sono una libera traduzione de' Me- 
naechmi, 

5 



— 30 — 

un altro intreccio, che prepara V azione vera della commedia. — 
Il calderaio Sly è un celebre ubbriacone, che una notte si la- 
scia cadere, vinto dal sonno, innanzi alla porta d' un* osteria. 
Quivi lo trova un signore, che torna co' suoi servi e co' suoi 
cani dalla caccia, e vedendo queir ubbriacone disteso al suolo, 
e non dar segno di vita, pensa di fargli una piacevole burla. 
Lo fa trasportare nella sua casa, in una ricca stanza , e ada- 
giare in un morbido Ietto, in modo che Sly, destandosi, creda 
d' esser diventato un signore davvero. E cosi appunto avviene; 
che i servi, bene istruiti a ciò dal padrone, gli fanno credere 
ch'egli è un ricco, ma malato di cervello. E quando il povero 
calderaio parla di vino e di osteria e grida di essere Sly , i 
servi gli dicono che questa è appunto la sua malattia, che lo 
travaglia da dieci anni, di credersi un povero calderaio. E, ad 
accrescere V inganno , un servo travestito da donna, gli parla 
come se fosse la moglie, che piange e si dispera per i vaneg- 
giamenti del suo povero Sly; il quale, non ancora ben persuaso 
di quel che tutti gli dicono , trovando però il suo tornaconto 
in quel cambiamento di vita , comincia ad adattarvisi. E qui 
una schiera di commedianti , giunta nel castello, si prepara a 
dare uno spettacolo innanzi al supposto signore, per aifrettame 
con quel diletto la guarigione. La rappresentazione comincia, 
e con essa la commedia vera, quella da' cinque atti, e che ri- 
sponde al titolo indicato più sopra. Chi mai voglia sapere la 
sorte del povero calderaio, se mai egli perda il senno, davvero, 
o se lo riacquisti con una nuova sbornia. 

Dal muto aspetti quindi le novelle, 

perchè il poeta lo abbandona, e non ne parla più. (i) 



(i) Certamente però doveva la commedia finire con qualche scena, dove il 
calderaio, riacquistati i sensi, dicesse le sue impressioni su lo spettacolo, a cu 
lo avevan fatto assistere ; ed è verosimile anche ch'egli interrompesse la rap- 
presentazione con esclamazioni e riflessioni sue ; ma queste parti sono andate 
perdute. 



— 31 — 

Come si vede la commedia vera è una finzione nella fin- 
zione, perchè gli attori si presentano non come personaggi 
veri , ma come istrioni. La trovata non è nuova nella storia 
del teatro , e non è nuova neanche la favola del prologo, 
che lo Schlegel dice derivata da qualche antica novella , e 
che fu poi più ampiamente trattata, in cinque atti , dal Nol- 
berg. Certo è un soggetto quanto grazioso, altrettanto comune. 
Una simile storiella si trova narrata in MiUe e una notte 
sotto il titolo Istoria di un dormiglione risvegliato. Qui chi fa 
la piacevole burla è il califfo Harun Alraschild, e la vittima è 
il semplice Habu-Hassan, che prende però la cosa sul serio, 
tanto da perderne il senno. Accolto in un ospedale di matti 
vi è crudelmente trattato, finché non rinunzia alla sua idea. 
Uscito fuori toma da capo ; ma è definitivamente tratto d' in- 
ganno e compensato de' mali sofferti, poiché ottiene in isposa 
una schiava favorita del principe reale (i). 



(i) Ecco come in Mille e una notte il califfo stesso racconta la burla ad 
Abou-Hassan : — « Saper tu devi primieramente che sovente mi travesto, e par- 
ticolarmente la notte, per conoscer da me stesso se tutto cammini con ordine 
nella città di Bagdad. E come ho gran piacere di saper pure ciò che accade 
nei contomi, prefisso mi sono di fare il primo di ogni mese un gran giro al di 
fuori, ora dall' una, ora dall'altra parte, e ritomo sempre per il ponte. Ritor- 
navo da questo giro la sera che tu mi invitasti a cenare in tua casa. Nel no- 
stro dialogo mi facesti conoscere bramare ardentemente di essere califfo e gran 
commendatore de* credenti pel solo spazio di ventiquattro ore, per ridurre al 
dovere 1* iman della moschea del' tuo quartiere ed i quattro sceicchi suoi con- 
siglieri. La tua brama parvemi propria a somministrarmi cagione di divertimento 
ed a questo oggetto pensai subito al mezzo di procurarti la soddisfazione che 
bramavi. Io portava meco certa polvere, la quale fa dormire nello stesso tem- 
po in cui è presa, non facendo risvegliare se non in capo a certo tempo : senza 
che te ne accorgessi ne gittai una certa dose nelPultima tazjsa che ti presentai e 
che bevesti. Appena fosti oppresso dal sonno, ti feci prendere e trasportare nel 
mio palazzo dal mio schiavo, dopo aver lasciato aperta nell' uscire la porta della 
tua camera. Necessario non è dirti ciò che successe nel mio palazzo quando ti 
risvegliasti e durante il giorno sino alla sera; ove dopo esser stato banchettato 
lautamente, per mio ordine una delle mie schiave, la quale ti serviva, gettò 
un'altra dose della stessa polvere nell'ultimo bicchiere che ti presentò e che 
bevesti. Subito fosti immerso nel letargo, e trasportar ti feci alla tua casa dallo 



— 2,2 — 

In Mille e un giorno Haffan, il veglio della montagna, si av- 
vale di questa burla per acquistar sempre nuovi seguaci alla 
sua religione, che prometteva a* credenti un paradiso sensuale 
simile a quello de* Musulmani. Accolti in sua casa i più belli 
e i più valorosi giovani, dava loro una bevanda soporifera, e 
li faceva riporre in un giardino, dove essi, destandosi, si tro- 
vavan circondati da tanti piaceri, che credevano veramente di 
essere in paradiso. A tempo opportuno una seconda bevanda 
soporifera li faceva ricadere nel sonno, dal quale si destavano 
trovandosi questa volta ricacciati nella prima e dolorosa con- 
dizione. Rimpiangevano allora il bene perduto, finché Haffan 
prescriveva loro le condizioni alle quali il profeta era disposto a 
concedere ad essi per sempre quella beatitudine, che i giovani, 
cioè, ubbidissero a lui e fossero pronti a sacrificar la vita ad 
ogni suo cenno. Questa invenzione si riscontra anche in un'o- 
pera di un gesuita del secolo XVII, cioè nell' Istoria di Iacopo 
Bidermann, che fu pubblicata nel 1640 e fu poi ristampata più 
volte (i). Il Bidermann scrive in un latino disinvolto e non 
privo di eleganza ed interrompe spesso le sue narrazioni per 
citare versi de' principali poeti latini. Questo episodio occupa 
gran parte del quarto e del quinto libro. Qui il contadino Me- 
nalca, tornato nella sua prima condizione, è accusato di usur- 
pazione dell' autorità regia, e cosi per apparenza e per burla 



stesso schiavo che ti aveva portato coir ordine di lasciare ancora nell' uscire la 
porta della tua camera aperta. Tu stesso mi hai narrato quello che ti è acca- 
duto la mattina ed i giorni segueiiti. Immaginato non m'era per nulla che tanto 
dovessi penare quanto in questo incontro hai sofferto; ma come mi son già im* 
panato verso di te, farò di tutto per consolarti e darti occasione di porre in 
oblio tutti i tuoi mali ». Cito da un'edizione italiana, E. Politti, Milano, 1870, 
in due volumi, compilata su la traduzione francese di Antonio GaUand; voi. II, 
pag. 132. 

(i) L'edizione da me consultata, che credo sia la prima, porta questo titolo: 
Utopia I Jacobi | Bidermani | e societate Jesu | Sales Musici | quibus | ludicra 
mixtim I et seria litterate ac festive de | narrantur | Dilingae | Operis Gasparis 
Sutoris I 1640. 



— 33 — 

-vien fatto il processo e V esecuzione del povero ubbriaco. Ma 
la fonte a cui probabilmente attinse lo Shakspeare (i) fu il 
Tré^or d' histoires admirables et merveiUeuses de notre temps 
di <}oulart, dove sotto il tìtolo Vanite du monde magnifiquC' 
ment représentée, si racconta che il principe di Burgund, dopo 
d'aver parlato con un suo confidente della vanità delle umane 
cose, una notte incontrò su la via un contadino ubbriaco, e 
volle farlo servire ad esempio delle cose di cui poco prima 
avea discorso. Lo fa condurre nel suo palazzo, dove, smaltita 
la sbornia, si presentano al povero contadino, che crede d'es- 
ser diventato duca, quasi tutte quelle delizie e quegl'inganni, 
che noi abbiamo già veduti nella commedia e negli altri rac- 
conti citati. Ma con la commedia c'è questa relazione di più, 
che qui tra i piaceri offerti all'attonito contadino e' è la rap- 
presentazione d' una splendida ed allegra farsa, e questa cir- 
costanza sembra giustamente importantissima al Simrock (2), 
perchè da essa deriva nella commedia il legame del prologo 
con l'azione principale. Ma anche il Goulart non fu originale, 
perchè questa invenzione si trova nella storia di Heutero (3), 
dove si riscontra anche il particolare della rappresentazione 
data innanzi al falso duca. Questo basti a dimostrare quanto 
questo soggetto fosse comune, e il Simrock afferma che esso 
torna di frequente sulle scene del teatro tedesco, e che la 
stessa invenzione si trova anche in un melodramma francese. 
Alle nostre scene non può dirsi interamente estraneo. Un' opera 
buffa italiana « Il marchese del Grillo » è una variazione del 
noto soggetto. — Torniamo ora alla favola principale del lavoro 
shakspeariano. 



(1) C£r. per tutto ciò: SiM&OCK Die Quellen des Shakspeare^ zweite Auflage, 
BonD, 1872. Erster Theil « Die gezdkmte Keiferin », pag. 334 e seg. 

(2) Loc. cit. pag. 336. 

(3) Rerum Burgundicarum libri sex, auctore Ponto Heutero Delfio. 
Autuerpiae, 1584. — Il racconto è nel 4*° libro pag. 150. — Cfr. anche Sim- 
rock, pag. 336. 



— 34 -- 

IL 

L' azione della commedia si svolge quasi tutta in Padova. — 
Lucenzio , giovine molto ricco, viene da Pisa in Padova, per 
attendervi agli studi scientifici e letterari, ed è accompagnato, 
com' è naturale, da Tranio, servo fedele non meno che scaltro. 
Appena giunto nella nuova città in uria pubblica piazza — 
quella piazza così nota alla commedia italiana sino al Gol- 
doni — gli capita di assistere, non veduto, a un dialogo , 
che trasporta subito gli spettatori nel cuore deir azione. Bat- 
tista, ricco padovano ha due figlie, Caterina e Bianca. Bianca 
è buona e gentile^ ed è desiderata in isposa dal giovine Or- 
tensio e da Gremio, che non è più tale, ma compensa la per- 
duta giovinezza con un ricco censo. L* altra, Caterina , è sel- 
vatica , violenta , dispotica , una vipera addirittura, come la 
chiama il padre, una diavolessa, come la dice Ortensio. Onde 
Battista, che sa il fatto suo, dichiara che non lascerà sposare 
Bianca, se prima non avrà trovato un marito che gli porti via 
queir ossesso di Caterina. Bianca intanto rimarrà chiusa in 
casa ; e perchè la solitudine le sia men grave , Battista farà 
venire de' maestri , che possano istruirla nella musica e nella 
poesia. E qui cominciano grintrighi. Ortensio e Gremio, ben- 
ché con poca speranza di successo , si mettono alla ricerca 
d'uno che voglia sposare Caterina ; ed intanto Lucenzio, jche 
al solo vedere la deliziosa fanciulla s' è innamorato di Bianca, 
si propone, per guadagnarne il cuore , di presentarsi in casa 
di Battista, sotto le false spoglie di maestro di letteratura e 
col nome di Cambio ; mentre Tranio , il servo fedele , prese 
le vesti del suo padrone , si farà conoscere in Padova per 
il vero Lucenzio. Con tal nome si metterà nella schiera de' 

pretendenti alla mano di Bianca , terrà feste e conviti , e 

fingerà di studiare. Ortensio dal canto suo ha un'idea simile, 
e, mutato abito e sembiante, sarà il maestro destinato a eru- 
dir Bianca nella musica e nelle matematiche. Una concordia 



— 35 — 

temporanea si stabilisce tra tutti questi pretendenti. Tra i 
quali la fortuna , che volge propizia agli amanti , fa capitare 
un tal Petrucchio di Verona , il tipo più originale di tutta la 
commedia. Petrucchio , che per la recente morte del padre è 
ormai solo al mondo, s*è avventurato a questo viaggio per cer- 
care una moglie molto ricca, essendo la ricchezza il solo ritor- 
nello della sua canzone ; e quando apprende da Gremio e da 
Ortensio che Caterina risponde appunto a questa condizione, 
non vuol sapere altro. Che la donna che domanderà per moglie 
sia violenta e collerica , non è cosa che lo turbi. La domerà. 
Nella sua vita ha sentito ruggire i leoni, veduto il mare bat- 
tuto da' venti sdegnarsi come un cignale in furore , ha inteso 
gli scrosci de' cannoni della terra e quelli delle folgori del cielo, 
ha assistito tante volte a' clamori delle battaglie : che paura 
potrà avere della lingua d'una femmina ? Se Caterina Tingiuria, 
le dirà che la sua voce è dolce come il canto dell' usignuolo; 
se la sua fronte si corruga, le dirà ch'essa è ridente e serena 
come la rosa del mattino rinfrescata dalla rugiada; se rimane 
silenziosa, vanterà la forza della sua persuasiva eloquenza; se 
lo scaccia, la ringrazierà , come se lo pregasse di restare per 
una settimana; se rifiuta di sposarlo la supplicherà di fissare 
il giorno in cui seguirà il matrimonio. Con questi propositi 
Petrucchio entra in casa di Battista , dove vengono pure Lu- 
cenzio, travestito da maestro di letteratura, Ortensio da mae- 
stro di musica ; il falso Lucenzio, cioè Tranio, e Gremio. Ma 
le cose sul principio vanno male , perchè Caterina alla prima 
lezione di musica rompe il liuto su la testa ad Ortensio, e Pe- 
trucchio, come primo trionfo, riceve dalle mani della sua bella 
uno schiaffo. Ortensio rivolge allora tutte le sue cure a Bianca, 
che però fa miglior viso a Cambio, cioè a Lucenzio , ed alla 
musica e alle matematiche mostra di preferire la letteratura. 
Petrucchio con la costanza la vince, e, ottenuto il consenso del 
padre, fissa il giorno delle nozze con Caterina. Andrà intanto 
a Venezia a provvedere i gioielli necessari. Ma il giorno delle 
nozze arriva : è l'ora fissata per gli sponsali , il banchetto è 



- 36 - 

pronto , i convitati son tutti nella casa , ma Petrucchio non 
torna. Caterina attende tra la più grande impazienza , mossa 
più dalla rabbia che dal desiderio. Ma ecco finalmente lo sposo ! 
Arriva in tenuta da viaggio con un cappello nuovo ed un abito 
vecchio, con gli stivali fino al ginocchio ed una spada arrug- 
ginita priva deir elsa e del fodero. In questo strano abbiglia- 
mento conduce Caterina ali* altare, e qui pronunzia il suo si, 
accompagnato da una bestemmia, cosi forte, che il prete inter- 
detto, lascia sfuggirsi il libro di mano. Tornano dalla chiesa, 
la mensa li aspetta. Ma Petrucchio deve partire. Non ascolta 
cpnsigli e preghiere; e si trae dietro a forza Caterina, atterrita 
dalla violenza dello sposo. La via che mena al castello di Pe- 
trucchio è lunga e scabrosa. I due sposi vanno su un sol ca- 
vallo, attraverso mille pericoli. Nel discendere una montagna il 
cavallo cade, e spaventato si dà alla fuga. I due sposi son co- 
stretti a seguitare il loro viaggio a piedi sino al castello. Vi 
giungono di notte. Caterina è sfinita per il freddo, per la stan- 
chezza, e più ancora pel digiuno. Una buona cena è preparata. 
Ma Petrucchio trova che le vivande non sono ben cucinate, 
s' arrabbia, grida, percuote i servi e rovescia la mensa. Cate- 
rina dovrà andare a letto senza cena. Almeno riposerà. Ma 
neanche il letto sembra ben preparato a Petrucchio, che, con 
questo pretesto, getta air aria coltri e materasse, onde Caterina 
dovrà passar la notte distesa sul pavimento, ma senza dormire, 
perchè lo sposo non cessa un istante dal gridare, dicendole però 
che tutto ciò lo fa pel suo bene, perchè tutti le usino i dovuti 
riguardi. Al mattino Caterina è domata. La stanchezza e la fame 
hanno vinto i suoi nervi e V hanno ricondotta alla ragione. — 
Nella casa di Battista intanto i rivali si contendono più che mai 
la mano di Bianca. Il vero Lucenzio è preferito dalla fanciulla, 
a cui egli ha svelato V inganno, e perciò Bianca, per riuscire 
neirintento, mostra di preferire il falso Lucenzio, che è poi Tranio. 
Battista acconsente , ma vuole chi gli garentisca la dote. Ed 
allora Lucenzio e Tranio ricorrono a un inganno. Persuadono un 
vecchio pedante, giunto allora da Mantova, ad assumere la parte 



— 37 — 

del padre di Lucenzio. Tranio lo conduce in sua casa e si ac- 
cinge a presentarlo a Battista. L'inganno sta per riuscire, quando 
capita in Padova Vincenzio, il vero padre del vero Lucenzio. 
La frode si scopre, ma troppo tardi. Lucenzio e Bianca sono 
già sposi, un prete li ha uniti in matrimonio. I due padri s'a- 
dirano in su le prime, ma poi si placano e tutto finisce a bene. 
E tornato intanto Petrucchio con Caterina, la più docile, la più 
ubbidiente delle mogli. E nella casa di Battista con un ban- 
chetto si solennizzano, benché tardi, i due matrimoni. V'inter- 
vengono anche Gremio, che ha rinunziato omai ad ogni vel- 
leità di conquista, e Ortensio, che per consolarsi ha sposato una 
vedova. Dopo il banchetto i tre mariti, Petrucchio , Lucenzio 
e Ortensio, discutono — come già i Tarquini nell' assedio di 
Ardea — della docilità delle loro mogli. Le mettono alla prova, 
la palma spetta a Caterina , che poi, per volere del marito» 
spiega a' convitati quali siano i doveri d' una buona moglie. 
E la commedia finisce. 

in. 

Come si vede, sono due le favole che compongono la com- 
media, due le trame in che si rannodano i fili dei vari avve- 
nimenti. Una della bisbetica Caterina, soggiogata dal senno e 
più dell'energica volontà di Petrucchio; l'altra quella che mette 
capo al matrimonio di Bianca e a' raggiri e agi' inganni a 
cui ricorrono i vari pretendenti per ottenerne la mano ; tra i 
quali inganni il primo e più importante, quello che costituisce 
il nodo principale di questa parte della commedia, è la frode 
usata da Tranio , per cui egli e il vecchio pedante si sosti- 
tuiscono al vero Lucenzio e al padre di lui, Vincenzo. Tutta 
questa prima favola, che s'aggira su l'intrigo di Tranio e sul 
matrimonio del suo padrone Lucenzio con Bianca fu dallo 
Shakspeare tolta, com'è noto, dalla commedia dell'Ariosto, che 
ha per titolo / suppositi, che il grande drammaturgo ebbe agio 
di conoscere, perchè / suppositi, tradotti in inglese da Giorgio 
Gascoigne, furono rappresentati a Londra nel 1566, cioè due 

6 



- 38 - 

anni dopo la nascita dello Shakspeare (i). La commedia del- 
l' Ariosto è molto bella e si fa leggere anche ora con grande 
diletto ; ma non ha tutta quella vita , tutto quel brio che il 
poeta inglese seppe infondere in queir umile soggetto. Per la 
grande perizia eh' egli ebbe della scena potè dare al suo la- 
voro quella maggiore varietà e verità , che mancano alla com- 
media italiana , dove , se ne togli i personaggi principali , gli 
altri sono figure pallide e scolorite. Nella commedia inglese 
invece il comico abbonda ; tutti i personaggi hanno un carat- 
tere proprio, chiaro e distinto, che interessa moltissimo gli spet- 
tatori. E a questo maggior brio nella commedia molto contri- 
buisce Tunione di questa con l'altra favola, quella della bisbe- 
tica. I personaggi stessi della prima riescono , per cosi dire, 
meglio lumeggiati, tanto che nel rapido succedersi di così vari 
avvenimenti , non accade mai che il lettore li perda di vista. 
11 Gaspary (2) osserva che il modo come lo Shakspeare ha 
trattato il soggetto dei Suppositi ci/ mostra i difetti deir origi- 
nale. « Infatti — egli dice — il poeta inglese ci dà in metà di 
tempo due volte tanto d'azione interessante, e la parte narra- 
tiva che neir Ariosto abbonda si trasforma costantemente in 
viva azione rappresentata sulla scena. » Questo è vero ; ma è 
giustizia riconoscere, che date le condizioni del teatro italiano, 
costretto tra regole rigorose, non era possibile all' Ariosto far 
meglio. Il noto precetto oraziano in medias rapere res , per 
esempio, costrinse il nostro poeta a premettere alla commedia 
la lunga scena tra la balia e Polinesta , in cui il dialogo tra 
le due donne serve ad informare gli spettatori de' fatti an- 
tecedenti ; poiché, quando 1' azione comincia, Erostrato, che col 
finto nome di Dulippo serve in casa di Damonio, è già da lun- 
go tempo r amante della figlia di costui, Polinesta. Nella com- 
media inglese invece nulla è avvenuto prima che si alzi la tela. 



(i) La commedia ariostesca fu rappresentata a Ferrara nel 1509, e dieci 
anni dopo a Roma nel Vaticano alla presenza di I^one X e de* Cardinali. 
(2) Loc- cit. 



— 39 — 

Ma se per questo TAriosto ha dovuto cominciar la sua com- 
media con un lungo dialogo narrativo, bisogna pur convenire 
che r unità dell* azione se n' avvantaggia, e che questa scena 
costituisce una protasi niente affatto spregevole , perchè per 
essa lo spettatore è trasportato sin dal principio nel mezzo 
deir azione. Torto addirittura mi pare che abbia il Gaspary, 
quando aggiunge che « solo nello Shakspeare è chiaro il vero 
scopo di tutta la marioleria, giacché ne' SupposiH non si vede 
affatto a che cosa essa debba servire qualora riesca ; anche senza 
di questo il padre dovrebbe dare la sua figliuola ad Erostrato, 
non appena egli si scopra, perchè la fanciulla è già sua. » La 
marioleria di cui qui parla il Gaspary è la frode usata da Du- 
lippo di fare che il vecchio Sanese, giunto in Ferrara da Ve- 
nezia e da Padova, sia creduto vero padre di Erostrato. L' in- 
ganno è necessario. Damonio sta per conchiudere le nozze di 
sua figlia Polinesta col dottore Oleandro, che ha promesso due 
mila ducati di sopraddote. Dulippo , che finge di essere Ero- 
strato, ha promesso altrettanto; ma , com'egli stesso dice , la 
promessa non è valida senza il mandato del padre: 

Che obbligo, 
Fingendomi figliuolo di Filogono, 
.Posso far io senza mandato in spezie 
Del padre in questo? 

È necessario dunque che un falso padre convalidi la pro- 
messa d'un falso figlio. Damonio non bada che alla dote , e 
quando scopre che Erostrato, ch'egli aveva in casa come servo, 
col falso nome di Dulippo, è già l'amante della figliuola, lo 
fa legare e chiudere in un sottoscala, cercando di tener nascosta 
la cosa, perchè la brutta novella non abbia a distoglier Olean- 
dro da queste nozze. 



— 40 — 

IV. 

Ma la derivazione di questo intrigo della commedia è nota, 
e fu già da lungo tempo additata. Quale sarà invece la fonte 
deiraltra favola, quella della bisbetica domata, che costituisce 
la parte principale della commedia? In questa vollero alcuni 
ricercare de'particolari della vita privata del poeta, e vedervi 
delle allusioni alle sue relazioni con la moglie (i) ; ma son que-' 
ste ipotesi pericolose , e congetture che non menano a nulla. 
Dicono pure che, come per altri suoi lavori' s' ispirò a vecchi 
drammi, così il poeta si servisse per la favola principale di que- 
sta commedia di un vecchio lavoro del Greene , al quale lo 
Shakspeare avrebbe aggiunto di suo la vivacità di alcuni tipi 
e le arguzie e la freschezza del dialogo. Ma della vecchia com- 
media del Greene non conosciamo neanche il titolo, benché il 
Campbell dica che era quasi identico a quello della commedia 
dello Shakspeare. Sappiamo solo che il lavoro del Greene fu 
registrato negli* Stationers Books del 1594, e stampato nel 
1607 (2). Lo Schlegel osserva che « nella maniera con la quale 
Petrucchio sa domare T intrattabile naturale di quella Caterina 
si ravvisa il carattere e Tumor particolare degl'inglesi », e sarà 
forse vero; ma il fatto che la scena è in Padova, che Petrucchio 
è Veronese, e che gli altri personaggi son tutti parimente ita- 
liani, può forse indicarci che in Italia bisogna ricercare V ori- 
gine di quell'arguta invenzione (3). Lo Schlegel stesso, osser- 
vando che i colori del quadro sono un poco forti, ma però giu- 



(i) Cfr. A. R. Levi, Storta della Letteratura inglese; Palermo, 1898, voi. 
I, pag. 464. 

(2) Per tutto ciò cfr. Levi, loc, cit. 

(3) Questo colorito, diciamo cosi, italiano della commedia. fu già notato da 
altri. Il Levi aggiunge che vi abbondano «le apostrofi alla ricchezza artistica, 
alla fertilità, alla ospitalità del nostro paese , e non mancano nemmeno gli ac- 
cenni alla parlata famigliare italiana, i perdonatemi^ gli scusatemi, i benvenuti 
e vìa di seguito ». Xfx^. cit. pag. 465. 



— 41 — 

sti, soggiunge che « quando si mostra come un marito, facendo 
vista d'essere ancora più violento e più insolentemente capric- 
cioso di sua moglie, può venire a capo di sottometterla, biso- 
gna dare ad una simile lezione l'evidente chiarezza d' un pro- 
verbio popolaresco ». E questa favola a me sembra che abbia 
tutti i caratteri di quelle allegre e scapigliate invenzioni, di che 
son ricche le nostre novelle popolari. Tra queste dunque do- 
vremo ricercare la fonte o le fonti a cui attinse il poeta. Su 
questo tema della cattiva moglie domata dal senno e dall'ener- 
gia del marito, abbiamo tutta una fioritura di novelle, che si 
ravvicinano alla nostra commedia e le sono somiglianti quale 
per l'uno, quale per 1' altro particolare. Riesce perciò molto 
difficile stabilire quale fosse la vera fonte conosciuta dallo 
Shakspeare, che forse le conobbe quasi tutte , e tolse da cia- 
scuna quei particolari che meglio rispondevano al suo scopo 
e giovavano ai fini dell' arte. Il Simrock ha additato ed esposte 
tutte queste fonti. 

Una novella simile è raccontata nel libro El Conde Lucanor 
di Giovanni Manuel (i), uno scrittore spagnuolo del secolo XIV, 
morto in Cordova prima del 1362. El Conde Lucanor è una 
raccolta di cinquanta ti;a favole e novelle, riunite — secondo il 
costume seguito anche da' nostri novellatori — da una tela che 
le collega in un sol tutto. Ma il Simrock non crede che questa 



(i) Fu moralista, poeta, storico, guerriero, uomo di stato, che ebbe gran 
fama al suo tempo. Nacque in Escalona il 5 maggio 1282, e mori in Cordova 
secondo i più nel 1347, certo non più tardi del 1362, perchè questa è la data, 
che fu scolpita a piedi del monumento che gli fu innalzato in Penafìel, dove 
fu .sepolto. La prima edizione del Conde Lucanor apparve in Siviglia nel 1575. 
Ce n*è una traduzione francese, che abbiamo riscontrata, di M. Adolphe de 
Puibusque (Paris, Damyot, 1854), con un discorso su la vita e le opere del- 
l'autore. La novella di cui qui si parla è la XXVI e ha per titolo: De ce qui 
advint a un empereur et a don Alouar Fanez Minata avec leurs femmes. — 
Nello stesso Ubro si trova anche un'altra novella (XXX) su lo stesso soggetto: 
De ce qui advint a un jeune marie le jour de ses noces avec une f emme très 
violente et très-revèche. Ed in questa novella le somiglianze con la commedia 
sono anche maggiori che nella prima. 



— 42 — 

possa essere la fonte di cui si giovò lo Shakspeare. Ed invero 
se ne togli un solo particolare, quello del marito cfee pretende 
dalla moglie ch'ella veda le cose, non come sono realmente, ma 
com' egli vuole, e che dica che è notte quando è giorno, e che 
chiami luna il sole ; tranne questo particolare, le somiglianze 
sono molto scarse. Maggiori se ne trovano — come accenneremo 
più tardi — in altre novelle, tra le quali una di origine danese, 
e una persino orientale. Pure il Simrock stima che nessuna no- 
vella sia più vicina alla commedia inglese di un racconto con- 
tenuto nelle Piacevoli notti dello Straparola (i). Diamo qui un 
sunto di questa allegra novella. — In Corneto vivevano due 
fratelli giurati, che s' amavano come se fossero nati da uno 
stesso ventre ; V uno si chiamava Pisardo, V altro Silverio ed 
ambidue erano soldati del papa. Silverio, che era il minore 
sposò la figliuola d'un sarto a nome Spinella, giovane bella e 
vaga, ma di cervello gagliarda molto. Della bellezza di costei 
s'accese tanto il marito, che le compiaceva in tutto quello 
ch'ella gli domandava ; onde Spinella venne in tanta baldanza 
e signoria, che nulla o poco conto faceva del marito. Non passò 



{\) Le tredici Piacevoli Notti àtl Sig. Gio. FRANCESCO Straparola da 
Caravaggio (libri due) ; in Vinegia, appresso Domenico Farri, 1570. — La no- 
vella di cui si tratta è la seconda della notte ottava. Anche in un'altra novella 
(notte duodecima, favola terza) Straparola tratta del medesimo argomento, cioè 
che « gli huomini savi, e aveduti denno tener le lor mogli sotto timore, ne pa- 
tire, che elle li pongano le brache in capo ; percioche altrimenti facendo, alla 
fine si troveranno pentiti ». E racconta che un tal Federigo da Pozzuoli, che 
intendeva bene il linguaggio degli animali, cavalcando verso NapoU con la mo- 
glie, ode un discorso del puledro con la cavalla. Egli ride fortemente e la mo- 
glie, curiosa, vuol sapere la ragione ; egli non sa resistere alle insistenze di lei, 
e promette di dirgliela, benché sia necessario, che, svelato il segreto, egli muoia. 
Mentre è nel letto in tal disposizione, ode il gallo che dice al cane: Bene sta 
che il padrone muoia. Non sai tu che Aristotele nel primo della Politica dice 
che la femmina e il servo sono a un grado medesimo ? Io ho cento mogli e 
facciole tutte obbedientissime, ed egli non sa farsi ubbidire da una sola. Udito 
questo Federigo si leva, e quando la moglie viene di nuovo a domandargli la 
causa del suo rìdere, egli la prende per ì capelli, e le dà tante busse che la 
lascia per morta. 



— 43 — 

un anno che Pisardo prese per moglie Taltra figliuola del sarto 
nominata Fiorella, donna non meno bella d'aspetto e gagliarda 
di cervello di Spinella. Condotta la moglie a casa, Pisardo prese 
un paio di brache da Uomo e due bastoni, e disse alla moglie, 
presentandole le brache : piglia tu un di questi lati, ed io pren- 
derò Taltro e combattiamo per vedere chi di noi le debba por- 
tare. Chi sarà vincitore le porti, chi sarà perditore ubbidisca al- 
Valtro. Ma Fiorella rispose che la moglie deve ubbidienza al ma- 
rito, e che il marito doveva portar le brache. Il marito allora 
le diede il governo di tutta la sua casa. Quindi la condusse 
nella stalla a vedere i suoi cavalli', e poiché uno di essi non 
si mostrava ubbidiente a' suoi comandi, Pisardo, tratta la spada, 
l'uccise e disse alla moglie : Sappi che tutti quelli che man- 
giano il mio, e non fanno a mio modo li premio di si fatta 
moneta. Perciò Fiorella, ebbe tanto spavento che diventò mo- 
glie ubidientissima al marito. Saputo questo, Silverio andò a 
visitare il fratello, per sapere come avesse fatto ad ammaestrar 
così bene la moglie. Pisardo gli raccontò puntualmente V or- 
dine e il modo che aveva tenuto e lo consigliò a sperimentare 
anch'egli lo stesso metodo. Silverio, tornato a casa, si accinse 
alla difficile prova cominciando dal presentare a Spinella le bra- 
che. Ma la donna lo trattò da pazzo, dicendogli : U osso è fatto 
troppo duro, la piaga è ormai incancrenita, né vi é più rime- 
dio, più per tempo voi dovevate provvedere alla vostra strana 
sciagura. E Silverio deliberò d^aver pazienza sino alla morte; 
ma la moglie, imbaldanzita, se prima aveva fatto d' un dito, 
ora fece d' un braccio, perché « la donna ostinata per natura 
— dice l'autore — più tosto patirebbe mille morti, che mutare 
la ferma sua deliberazione ». 

Come si vede non sono molte le somiglianze tra questa no- 
vella e la commedia inglese. Anche la morale è diversa, per- 
chè nella commedia si dimostra che la donna ostinata per na- 
tura possa con una savia educazione cambiarsi. Ma al Simrock 
sembra che nessuno de' racconti ricordati, e citati come pro- 
babili fonti da lui e dagli altri sia più di questa novella vi- 



— 44 — 

cino alla commedia (i). E questa maggior somiglianza egli la 
trova nel fatto dell'antitesi tra le due sorelle (2). 

Certo, come abbiamo già detto, riesce molto difficile stabilire 
la vera fonte. Possiamo solamente notare alcuni evidenti ri-, 
scontri tra questa o quella parte della commedia ed alcuni 
racconti popolari. Cosi la descrizione del matrimonio e del 
viaggio di Petrucchio trova il suo riscontro in una novella da- 
nese, tradotta in tedesco da Reinhold Kòhler (3), nella quale lo 
sposo di Mette, che era la più cattiva di tre sorelle, nel giorno 
delle nozze si fa lungamente aspettare nella chiesa ; e, quando 
giunge, viene cavalcando un vecchio cavallo grigio, con un archi- 
bugio a lato e un paio di guanti di lana alle mani, e seguito da 
un grigio cane. E appena terminate le nozze, ordina alla donna 
di salire innanzi a lui sul cavallo. La donna cosi fece; ma per 
via egli uccise il cane ed il cavallo, talché gli sposi dovettero 
seguitare la strada a piedi. Qui la somiglianza è evidente. E 
così quando Petrucchio e Caterina tornana dal castello alla 
casa paterna, quella scena in cui Petrucchio vuole ad ogni co- 
sto che Caterina chiami luna il sole, trova in questa stessa no- 
vella il suo riscontro. Lo sposo riconduce Mette alla casa pa- 
terna. Incontrano per via una grande quantità di cicogne : che 
bei corvi, dice lo sposo. Son cicogne, dice Mette. E il marito 
irritato per la contraddizione ritorna a casa. Una seconda volta, 
ricominciando il viaggio, incontrano una greggia di pecore e di 
agnelU : — che grossi lupi, dice Tuomo. Non sono lupi, riprende 
la donna ; e il marito la riconduce indietro ; finché una terza 
volta, incontrata una gran quantità di galline, quando l'uomo 
dice : — che moltitudine di cornacchie ! • la donna risponde : — 
sì, é vero. 

Su questo soggetto della cattiva moglie domata il genio po- 
polare s'esercitò non poco ; e gran parte di questi racconti do- 



(i) Loc. dt., pag. 348. 

(2) Pag. 351. 

(3) Citata dal Simrock, pag. 346. 



— 45 — 

vettero esser conosciuti dal grande tragico, se pure non si 
vuole ammettere che lo Shakspeare trovasse innanzi a sé un 
altro lavoro scenico, nel quale tutte queste invenzioni, prodotte 
dalla fantasia popolare, fossero state già riunite e coordinate. 
Tra i racconti che si riferiscono a questo soggetto io voglio, 
ora ricordare uno del più popolare tra i nostri scrittori di 
novelle, di Franco Sacchetti, e che mi pare sia sfuggito a tutti 
i ricercatori di fonti Shakspeariane. Il racconto, che non è molto 
lungo, possiamo qui riportarlo intero. 

Fra Michele Porcelli trova una spiacevole ostessa tn uno albergo , e fra se 
dice : Se costei fusse mia moglie , io la gastigherei si che ella muterebbe 
modo, n marito di quella muore ; fra Michele la toglie per moglie^ e ga- 
stigala com*eUa merita. 

Passati sono circa a trent* anni che fu uno Imolese , chiamato fra Michele 
Porcelli, il quale era chiamato fra Michele, non perchè fosse frate, ma era di 
quelli che hanno il terzo ordine di santo Francesco, e avea moglie ed era un 
uomo malizioso e reo, e di diversa maniera ; e andava facendo sua mercanzia 
di merce per Romagna e per Toscana ; poi si ritornava ad Imola, come vedea 
che per lui si facesse. Tornando costui una volta tra l'altre verso Imola, giunse 
una sera a Tosignano. e smontato a uno albergo d'uno, che aveva nome Ugo- 
Uno Castrone, il quale Ugolino avea per moglie una donna assai spiacevole e 
smanierosa, chiamata monna Zoanna , sceso che fu fra Michele da cavallo , e 
venendosi rassettando, disse all' oste : Fa die noi abbiam ben da cena; hai tu 
buon vino ? Si bene , voi starete bene. Disse fra Michele : Deh fa che noi 
abbiamo una insalata. Disse Ugolino : Zoanna (chiamando la moglie), va, cogli 
una insalata. La Zoanna torce il grifo, e dice : va cotela tu. Il marito dice: deh 
▼avvi. Ella risponde : Io non vi voglio andare. Fra Michele, veggendo i modi 
di costei, si rodea tutto di stizza. Ancora avendo fra Michele voglia di bere, 
dice 1' albergatore alla moglie : Deh , va per lo tal vino, e porgele 1' orciuolo. 
Dice Madonna Zoanna : Va tu, che tornerai più tosto, ed hai 1' orciuolo in mano, 
e sai meglio la botte di me. Fra Michele, veggendo la spiacevolezza in moltis- 
sime cose di costei, dice all'oste : Ugolino Castrone, tu sei ben castrone, anco 
pecora ; per certo s' io fossi come te io farei che questa tua moglie farebbe 
quello ch'io gli dicesse. Disse Ugolino : Fra Michele, se voi fosse com'io, fa- 
reste quel che fo io. Fra Michele si consumava di nequizia, veggendo i modi 
fecciosi della moglie di Ugolino, e fra se stesso dicea : Signore Iddio, stu mi 
facessi tanta grazia, che morisse la donna mia e morisse Ugolino, per certo e* 
converrebbe che io togliessi costei per moglie per gastigarla della sua follia. 

7 



- 46 - 

Passossì fra Michele la sera , come poteo , e la mattina se n* andò ad Imola. 
Avvenne che Panno seguente in Romagna fu una mortalità, per la quale morì 
Ugolino Castrone, e la donna di fra Michele. Da ivi a parecchi mesi, cessata 
la pestilenza, e fra Michele adoprò tutti gì* ingegni ad avere per moglie ma- 
donna Zoanna ; e in fine fu adempiuto il suo intendimento. Venuta questa buona 
donna a marito, e andandosi la sera a letto, dove ella si credea esser vicitata 
con quello che sono le novelle spose, e fra Michele che non avea sgozzato ancor 
la 'nsalata da Tosignano, la vicita con un bastone, e cominciagli a dare, e sanza 
restare, tanto gli diede, che tutta la ruppe ; e la donna gridando, egli era nulla, 
che costui gliene diede per un pasto, e poi s' andò a dormire. Da ivi a due 
sere, e fra Michele disse eh* ella ponesse dell*acqua. che si volea lavare i piedi, 
e la moglie che non dicea, va, ponla tu, cosi fece, e poi levandola dal fuoco, 
e messala nel bacino, fra Michele si cosse tutti i piedi, si era calda. Com*egli 
sente questo, non dice : Che ci è dato ? rimette 1* acqua nell *orciuolo, e ripo- 
sela al fuoco, tanto ch'ella levò il bollore. Come questo fu fatto, toglie il ba- 
cino e mettevi 1* acqua e dice alla moglie : Va , siedi , che io voglio lavare i 
piedi a te. Costei non volea ; alla fine per paura di peggio, le convenne volere. 
Costui lavala con l'acqua bollente, la donna squittisce : Oimè, e tira i piedi a 
sé. Fra Michele gli tira nell' acqua , e dagli un pugno , e dice : Tieni i pie' 
fermi. La donna dice, trista, io mi cuoco tutta. Dice fra Michele : Ei si dice; 
togli moglie che ti cuoca ; ed io ti ho tolta per cuocer te, innanzi ch'io voglia 
che tu cuoca me. E brievemente e* la cosse à , che più di quindici dì stette 
che quasi non potea andare, si era desolata. E un altro óì gli disse fra Mi- 
chele : Va per lo vino. La donna che non potea appena metter li piedi in terra 
tolse la *nghestara , e andava a stento , come potea. Com*ella è in capo della 
scala, e fra Michele di dietro gli dà un pugno, dicendole : Va tosto ; e gettala 
giù per la scala ; e poi aggiunge : Credi tu che io sia Ugolino Castrone , che 
quando ti disse : Va per lo vino ; e tu rispondesti : Vavvi tu ? E cosi questa 
donna Zoanna cotta, livida e percossa, convenia che facesse quello che quand'ella 
era sana non volea fare. Avvenne che un di fra Michele Porcelli serrò gli usci 
della casa, per fare l'ottava con lei ; questa, avvedendosi fuggì di sopra, e per 
una finestra di in sul tetto se n*andò fuggendo di tetto in tetto, tantoché giunse a 
una vicina di fra Michele, alla quale, venendognene pietà, se la ritenne in casa ; 
e poi alcuno e vicino e vicina, venendo a pregare fra Michele che ritogliesse la 
sua donna , e che stesse con lei , come dovesse , egli rispose che com* ella se 
n*era ita, cosi ritornasse; s*ella se n'era andata super lo tetto, per quella me- 
desima via ritornasse, e non per altra, e se ciò non facesse, non aspettasse mai 
di ritornare in casa sua. La vicinanza sappiendo chi era fra Michele , feciono 
che su per le tetta, come le gatte, la donna ritornò al macello. Come ella fu 
in casa e fra Michele comincia a sonare le nacchere. La donna macera e tor- 
mentata dice al marito : Io ti prego che innanzi che tu mi tormenti ogni di a 
questo modo, senza saper p erché, che tu mi dia morte. Dice fra Michele ; poiché 



— 47 — 

tu non sai ancora, perchè io fo questo, ed io tei voglio dire. Tu ricordi bene, 
quando io venni una sera allo albergo a Tosignano, che tu eri moglie ad Ugo- 
lino Castrone ; e ricorditi tu, quando egli ti disse che tu andassi a cogliere la 
insalata per me, e tu dicesti : Vavvi tu ? e su questa, le diede un grandissimo 
pugno ; e poi dice : E quando disse , va per lo tal vino ; e tu dicesti io non 
vi voglio andare ? e dagliene un altro ; allora me ne venne tanto sdegno , che 
io pregai Iddio che desse la morte a Ugolino Castrone , e alla moglie che io 
avea , acciocché io ti togliesse per moglie. Egli , come pietoso esauditore dei 
miei prieghi , gli mandò ad esecuzione ; ed ha fatto si che tu sei mia moglie, 
acciocché quello castigamento che il tuo Castrone non ti dava , io te lo dea 
io ; si che ciò , che t* ho fatto infino a qui , é stato per punirti dei falli e 
dei fastidiosi tuoi modi, quando eri sua moglie. Or pensa che essendo tu da 
quinci innanzi mia moglie, se tu vorrai tener quelli modi, quello che io farò ; 
per certo ciò che io ho fatto fino a qui , ti parrà latte e mele ; si che a te 
sta oggimai se tu con le prove, ed io con li bastoni e con li spuntoni se bi- 
sognerà. La donna disse ; Marito mio, se io ho fatto per li tempi passati cose 
che non si convenga , tu m' hai ben data la pena. Dio mi dia grazia che da 
quinci innanzi io faccia si che tu ti possa contentare ; io me n' ingegnerò, e 
Dio mi dia la grazia. Fra Michele disse : Messer Batacchio te n*ha fatta chiara; 
a te stia. Questa buona donna si mutò tutta di costumi, come s'ella rinascesse, 
e non bisognò che fra Michele adoperasse, non che le battiture, ma la lingua, 
eh' ella s' immaginava quello ch'egli dovesse volere , e non andò, ma volando 
per la casa, e fu bonissima donna. 

Io per me, come detto è , credo che' mariti siano quasi il tutto , di fare e 
buone e cattive mogli. E qui si vede che quel che il Castrone non aveva saputo fare, 
fece il Porcelli. E comeché uno proverbio dice : Buona femmina e mala fem- 
mina vuol bastone (i); io sono colui che credo che la mala femmina vuole bastone, 
ma alla buona non é di bisogno ; perocché se le battiture si danno per far mu- 
tare i cattivi costumi in buoni, alla mala femmina si vogliono dare, perch'ella 
muti li rei costumi ; ma non alla buona, perchè s' ella mutasse li buoni, potrebbe 
pigliare li rei, come spesso interviene , quando li buoni cavalli sono battuti ed 
aspr^giati diventano restii. 



(i) Questo proverbio si trova ricordato quasi con le stesse parole in quella 
novella del Boccaccio , dove si parla del senno e del giudizio di Salomone 
(IX, 9). Gioseffo , che ha una cattiva moglie, ricorre a Salomone per averne 
consiglio che via tener dovesse con lei. Il re gli dice: Va al ponte ali* oca. 
Qui Gioseffo, osservando come i mulattieri fanno con i muli ostinati, comprende 
che la moglie tua deve esser trattata col bastone, e così fa. La morale di questa 
favola è cesi enunciata da Emilia, che è la reina della giornata: « Buon cavallo 
e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol bastone. » 



- 4» 



V. 



Le principali somiglianze tra quest'umile novella italiana e la 
magnifica commedia inglese sono due. Entrambi i protagonisti 
delle due favole, fra Michele Porcelli e Petrucchio da Padova, 
incontrano una donna di carattere perverso, e, invece di fug- 
gire da lei, spontaneamente risolvono di prenderla in moglie, 
per poter godere la soddisfazione di averla resa docile. En- 
trambi adoperano per riuscire nell'intento la violenza, sicuri che 
lo strano umore della donna, cederà quando questa sia convinta 
d'essere innanzi ad una volontà più forte e più potente. Ed a 
queste corrispondenze possiamo aggiungerne un'altra. Cosi Pe- 
trucchio, come Fra Michele non s'arrestano alle prime vittorie : 
non rallentano il loro rigore, che quando la donna si riconosce 
interamente vinta, e con una completa confessione de' propri torti . 
fa proponimento di esser moglie saggia e ubbidiente al marito. 
Queste le somiglianze evidenti. Manca qui, è vero, 1' antitesi 
tra le due donne, che costituisce secondo il Simrock la prin- 
cipale somiglianza tra la commedia e la novella dello Strapa- 
rola. Ma l'osservazione del Simrock, se è in parte giusta, non 
ha però un valore assoluto. Il contrasto tra le due donne, la 
buona e la cattiva, nasce spontaneamente nella commedia, per 
il fatto che il poeta volle all'azione principale innestare l'azione 
episodica degli amori di Bianca e di Lucenzio , episodio che 
egli non attinse da nessuna novella, ma, come abbiamo già 
detto, da / supposiii dell'Ariosto. Del resto qui l'antitesi tra i 
due metodi, che possono presedere ad un regime coniugale , è 
quasi connaturata al tema. Non e' è nessuna delle novelle da 
noi ricordate nella quale essa non si trovi. Nella novella danese 
tradotta dal Kòhler e da noi ricordata, si tratta non di due,, 
ma di tre sorelle , Care, Mare e Mette , di cui Mette , che è 
la peggiore, diventa la moglie più ubbidiente. E dove di donne 
non ce n'è che una sola, c'è sempre i due uomini, messi l'uno 
di fronte all' altro , che col diverso carattere , col differente 



— 49 — 

metodo di governo familiare stanno a dimostrare la verità 
che il buon marito fa la buona moglie. In una novella di 
origine orientale (i) , quando Merdek , un povero nano, de- 
bole di mente e di cuore, apprende da Sadik-Beg, che aveva 
sposato la superba figlia di Rabob, il modo col quale aveva 
ridotto air ubbidienza la moglie ribelle, vuol fare altrettanto 
con la moglie sua. E poiché Sadik-Beg per spaventar la sua 
donna, nel giorno delle nozze, le aveva con un colpo di spada 
ucciso il gatto, Merdek, tornato a casa, fa altrettanto ; ma la 
moglie, dandogli uno schiaffo, gli disse : tu sei un infelice imi- 
tatore ; tu avresti dovuto uccidere il gatto nel giorno del ma- 
trimonio. Ed anche nella nostra novella Tanti tesi è tra i due 
uomini, uno debole e rassegnato, l'altro forte e risoluto, Ugo- 
lino Castrone e fra Michele Porcelli. 

Certo né la nostra novella, né altra potè essere la sola fonte ; 
ma anche di questa potè giovarsi il grande poeta per creare 
r originale carattere di Petrucchio, per comporre una com- 
media così bizzarramente nuova, ma pur cosi vera e così 
umana. Sotto le apparenti stranezze che vi abbondano, si na- 
sconde un' analisi finissima de* caratteri, uno studio diligente 
degli affetti e delle debolezze umane. Importantissima é la 
scena prima del secondo atto, nella quale Petrucchio s'incontra 
la prima volta con Caterina. Il gentiluomo veronese é sicuro 
della sua forza. Attratto dalla cupidigia d'una ricca dote, è 
venuto a Padova disposto a sposare una donna fosse pur de- 
forme e vecchia come una sibilla, malvagia come Santippe, tem- 
pestosa come il mare Adriatico, purché molto ricca. Caterina 
è bella, é ricca, ma ha un carattere indomabile. Questo non lo 
spaventa. Petrucchio è esperto del mondo, potrà mai temere la 
lingua d' una donna ? E nel suo primo colloquio con 1* amata 
usa tutti quei mezzi , tutti quegli accorgimenti che un doma- 
tore metterebbe in opera per soggiogare una fiera. Comincia 
con assecondarla, ma, venuto il momento opportuno, spiega tutta 



(I) Cfr. Simrock, loc. cit., pag. 349. 



— so- 
la sua energia. Neil* applicare il suo metodo, che riesce a mera- 
viglia, non ha un istante solo di esitanza o di sgomento. Non 
perde la sua pazienza , neanche quando Caterina gli dà uno 
schiaffo. La riottosa donna si dibatte come un toro selvatico 
colto al laccio. Tenta invano liberarsi dalle strette del suo 
nuovo padrone, dal quale finalmente rimane vinta, e quando 
Petrucchio le dice : « Ecco vostro padre che viene : non mi 
rifiutate , perchè voglio che diveniate mia » , Caterina non ri- 
sponde una sillaba. Ma essa è vinta, non ancor domata. Ad ab- 
battere la forza de 'suoi nervi ci voglion ben altri mezzi potenti 
che non sian le parole. Petrucchio li adopera. Appena cele- 
brate le nozze, come abbiamo narrato, conduce via con la vio- 
lenza la fresca sposa , e nel viaggio al castello e nella prima 
dimora in questo, le fa soffrire mille disagi, mille privazioni. La 
stanchezza, la mancanza del sonno, la fame fiaccano i nervi della 
prepotente donna. Ma 1 ' opera di Petrucchio non è ancora finita. 
Perchè egli non sia costretto ad usar di nuovo quei mezzi vio- 
lenti e a chiuder così per sempre la via alla libera manifesta- 
zione dell'affetto, perchè nella sua casa regnino la pace e l'a- 
more, è necessario che Caterina, diventata docile sia come sug- 
gestionata dalla volontà del suo signore ; che non pensi che 
col pensiero di Petrucchio, che non veda che con gli occhi di 
lui. I due sposi tornano alla casa paterna, dove stanno per ce- 
lebrarsi le nozze della sorella Bianca con Lucenzio. È giorno 
chiaro, ma Petrucchio dice : 

Pet. Come è bella e splendida questa sera la luna! 

Cat. La luna! È il sole: non vi è raggio di luna ora. 

Pet. Vi dico che è la luna che risplende coi^ lucida. 

Cat. Ed io so che è il sole che manda quello splendore. 

Pet. Oh ! pel figlio di mia madre, ossia per me stesso, sarà la luna o una 
stella o quello che mi pare. Sempre contraddizioni: torniamo indietro, tali con- 
traddizioni m'indispettiscono. 

Cat. Ve ne prego, poiché siamo venuti così da lontano, continuiamo, e sia 
pure la luna o il sole, o tutto quello che vi piacerà. Se voleste che fosse anche 
una candela, vi giuro che tale pure la chiamerei, 

Pet. Dico che è la luna. 



— 51 — 

Cat. Io pure lo dico. 

Pet. Voi mentite; è il benefico sole. 

Cat. Dio sia benedetto ! è il benefico sole; ma cessa di essere il sole, dacché 
voi dite che non lo è ; e la luna-' muta a tenore delle vostre idee. Qualunque 
cosa però vi piaccia di chiamarla, cosa uguale sarà anche per Caterina. 

Pet. Bene , avanti, avanti. Ecco come 1* acqua deve correre senza trovare 
inciampi. 

Questo è un caso di vera e propria suggestione ipnotica, di 
cui abbiamo un altro esempio nell'ultima scena della commedia, 
quella, dove, come si è detto, i tre mariti mettono a prova la 
docilità delle proprie mogli. Bianca e la vedova che ha spo- 
sato Ortensio, chiamate, non s'arrendono a Voleri de' loro mariti, 
Caterina solo viene subito, ma Petrucchio la sottopone ad una 
novella prova. 

Pet, Dov*è vostra sorella e la moglie di Ortensio ? 
Cat. Stanno sedute al fuoco ciarlando. 

Pet. Andate a cercarle e fatele venir qui. Se rifiutano, obbligatele con mi- 
nacce ad obbedirvi. Andate tosto vi dico. 

E Caterina ritorna conducendo le ribelli spose prigioniere della 
stia eloqtienza femminile (i). 

VI. 

La morale della favola, tanto nella commedia che nella no- 
vella si può ridurre a questa^ che il buon marito fa la buona 



(i) Ma neanche qui il poeta è originale. Nella novella tradotta dal KShler, 
che abbiamo ricordata più su, si racconta: Le tre sorelle Kare, Mare e Mette, 
erano riunite co' loro mariti nella casa paterna. Il vecchio padre collocò su la 
tavola un boccale pieno di monete d'oro, promettendolo a quello de* tre uo- 
mini che avesse la moglie più ubbidiente. Allora gridò il primo uomo: Karen, 
piccola Karen, vieni fuori ! Ma per quanto egli gridasse e pregasse, Karen non 
venne fuori, e non ubbidì neanche una volta eh' egli andò dentro a pregarla. 
Il secondo uomo ebbe con la sua donna la stessa sorte. Venuto il turno del 
terzo, questi andò semplicemente alla porta, picchiò e disse: Mette, vieni fuori. 
E la moglie venne fuori di corsa e gli domandò che cosa volesse. 



~ 52 — 

moglie (i); ma nella novella, com*è naturale, manca quella viva 
rappresentazione de* caratteri e delle passioni , che costituisce 
il merito primo del teatro Shakspeariano. Madonna Zoanna è 
ancor più incresciosa di Caterina , ma non ha la vivacità di 
questa e riesce antipatica al lettore quasi più che allo stesso 
Fra Michele. Tutta la spiacevolezza di Zoanna si manifesta in 
quel diniego continuo ch'essa oppone ^' desideri del marito, 
del povero Ugolino Castf-one, in quei due monosillabi con cui 
risponde agi' inviti di lui: va tu. E fra Michele , dopo che 
Ugolino è morto , e ch'egli ha potuto sposare , come aveva 
chiesto in grazia al Signore Iddio , Madonna Zoanna , non 
cerca di suggestionarla, come fa Petrucchio. Egli non è come 
questo cosi esperto dei segreti dell' animo femminile , né così 
pratico in fisiologia. Fra Michele va più per le spicce e fin 
dalla prima sera leva alto il bastone , e poi nei giorni se- 
guenti sottopone la moglie ad una crudele terapia, che è pos- 
sibile descrivere in una novella popolare, non rappresentare su 
la scena, dove produrrebbe disgusto. E prima le cuoce i piedi 
nell'acqua bollente, poi la getta giù per le scale, e quando la 
poverina per sottrarsi a nuovi tormenti fugge da un finestrino 
su i tetti, e ripara in casa d'un' amica, Fra Michele acconsente 



(i) « I mariti siano quasi il tutto di far buone e cattive mogli » dice il Sac- 
chetti. — Il Levi (loc. cit.) a proposito del metodo messo in opera da Petrucchio 
fa qualche riserva. E se gli capitava — dice — una donna su lo stampo del- 
l' Angelica del Giorgio Dandin ? Ma il confronto non è opportuno. George 
Dandin nella bella commedia del Molière non ha né l'ingegno, né la forza d'a- 
nimo di Petrucchio. Ingannato, tradito, battuto, calunniato dalla moglie, non sa 
fare altro che abbandonarla. Con una cattiva moglie — esclama — non c'è di meglio 
a fare che gettarsi in mare col capo all' ingiù : 

Ah I je la quitte maintenant, et je n'y vois plus de reméde. Lorsque on a, 
corame moi, épousé une méchante femme, le meilleur parti qu'on puisse prendre 
c'est d* aller se jeter dans l'eau, la téte la première (George Dandin, a. Ili, 
se. ultima). 

Dandin è un debole, e con le donne, guai a' deboli. 



— 53 — 

a riprenderla con sé, purché torni per dove è fuggita, da* tetti. 
Il metodo curativo di F>a Michele è, per cosi dire, più empi- 
rico e più grossolano ; ma ciò non basta a farci escludere che 
tra le tante lo Shakspeare conoscesse anche quest' altra no- 
vella. Di tanti altri suoi lavori la fonte é ancor più umile. 
Se per Giulietta e Romeo , per 1' Otello , e per Shylock egli 
trovò ne' racconti precedenti molti di quei particolari che ri- 
produsse ne' suoi drammi , per altri non ebbe innanzi a sé 
modelli così completi , e dovè attingere a fonti molteplici. 
Dalla novella di Giannetto nel Pecorone trasse , più che da 
altre fonti la favola del Mercante di Venezia , e nello stesso 
dramma per V invenzione de' tre forzieri si servì probabilmente 
di una novella (la prima della decima giornata) del Boccaccio (i). 
« Ciò che ha importanza per lo.Shakspeare — dice il Chiarini — 
non è tanto l'invenzione, quanto la trattazione dell'argomento 
e la creazione de' caratteri. L'invenzione egli la prende spesso 
e volentieri dove la trova già bella e fatta ; e quella inven- 
zione diventa subito in mano sua una cosa affatto nuova » (2). 
E non vediamo nessuna difficoltà ad ammettere che lo Sha- 
kspeare potesse aver notizia della novella italiana. Pur trala* 
sciando la questione s'egli conoscesse o pur no la nostra lingua, 
s' egli venisse mai in Italia , come vogliono alcuni biografi, i 
quali suppongono, non senza qualche probabilità di vero, che 
egli andasse a Venezia tra gli anni 1586 e 1590 (3); noi 
sappiamo che la letteratura inglese, nel tempo dello Shakspeare, 
era addirittura inondata di traduzioni de' nostri novellieri , e 
che molte di esse andarono poi perdute col tempo (4). Potè 
dunque lo Shakspeare conoscere questa novella del Sacchetti, 
come conobbe alcuni racconti del Boccaccio, del Pecorone, del 



(i) Cfr. G. Chiarini, Le fonti del « Mercante di Venezia» in Studi Sha- 
ksj>eariani, Livorno, Giusti, 1896. 

(2) Nel libro cit. pag. 178. 

(3) Chiarini, loc. cit. pag. 186. 

(4) Chiarini, loc. cit. pag. 159. 

.8 



— 54 — 

Da Porto , del Randello , del Giraldi. E come per altri suoi 
drammi e commedie si servi oltre che delle novelle italiane 
anche de' lavori teatrali di scrittori che lo precedettero , ma 
che non ebbero come. lui l'arte di popolare la scena di tipi 
immortali, cosi anche per la Bisbetica egli si giovò forse tanto 
de' racconti italiani, quanto della commedia del Greene. 

Né può esser soggetto di meraviglia la grande differenza che 
passa tra i racconti popolari e la commedia inglese, sia nella 
varietà dell' intreccio , sia nella viva rappresentazione de' ca- 
ratteri. Chiunque conosca anche mediocremente l'arte di questo 
grande poeta, a che il suo merito speciale sta in questo, ch'egli 
sa trasportarci in un mondo di fantasmi, che è più bello e più 
attraente della stessa realtà. In esso gli affetti e le passioni, 
pur non perdendo nulla della loro verità, sono sempre più grandi 
di quelli che s'agitano nel mondo reale. Qual meraviglia dunque 
che col magistero d'un 'arte così perfetta, e direi quasi divina, 
il rozzo fra Michele Porcelli si sia mutato nel carattere strano, 
ma nobilmente forte di Petrucchio da Padova,^ e che la povera 
donna Zoanna sia divenuta la bisbetica Caterina ? Non sono 
minori le differenze che corrono tra altri suoi drammi e le 
rispettive fonti italiane, eppure nessuno negherebbe la deriva- 
zione di quelli da queste. Ricordiamo un solo esempio, e ab uno 
disce omnes. Osserviamo il modo come comincia 1' amore di Giu- 
lietta e Romeo nella nota tragedia, che porta questo titolo , e 
nella novella del Randello, da cui principalmente lo Shakspeare 
derivò il suo dramma (i). Nella novella italiana l'azione comincia 
nel modo più comune. Il giovane Montecchi e la fanciulla Ca- 
puleti s'incontrano in una festa, si scambiano qualche occhiata; 



(i) Cfr. Chiarini loc. cit. pagg. 235 e 237. — Questo soggetto è trattato in 
tre novelle italiane, di Masuccio Salernitano, del Da Porto, e del Bandello. Il 
Da Porto prese la materia del suo racconto (edito in Venezia forse nel 1531) 
da Masuccio , il cui Novellino fu pubblicato nel 1476. Nel racconto di Ma- 
succio il fatto accade in Siena. Il Bandello rifece , mutando solo qualche pic- 
cola circostanza, la novella del Da Porto, e pubblicò la sua nel 1554. 






— 55 — 

poi Romeo passeggia sotto la casa di Giulietta , dove questa 
si mostra alla finestra , e infine i due amanti , come due mo- 
desti borghesi, si fanno la loro dichiarazione. Ma argutamente 
osserva il Chiarini che « gli amanti, che incominciano a fare 
all'amore cosi, ordinariamente muoiono tranquilli nel loro letto, 
dopo aver messo al mondo una mezza dozzina di figliuoli» (i). 
Lo Shakspeare s'accorse che quel principio non s'addiceva al- 
l'amore di due giovani destinati a così tragica, a cosi terribile 
fine. Nel dramma Giulietta e Romeo , non appena si vedono, 
si amano. Giulietta vede per la prima volta Romeo alla festa, 
e prega la sua nutrice di appurare chi egli sia. « Se è am- 
mogliato — dice — la mia tomba sarà il mio letto nuziale » . 
E quando ha saputo il nome di lui, ch'egli è de' Montecchi, 
antichi e fieri nemici del nome suo : « Oh qual prodigioso 
amore è nato in me, poiché io debbo amare un nemico ese- 
crato ! » E Romeo, che pure amava un'altra donna, Rosalina, 
non ha appena veduto la giovanile bellezza di Giulietta, che 
subito dimentica la prima amante. « Il mio cuore amò egli 
mai fino ad ora ? Smentite una simile cosa, o occhi miei ; poi- 
ché fino a questa notte io non aveva mai veduto la vera bel- 
lezza » . Com'è più vero questo principio ! come per esso subito 
intendiamo che i due giovani, dominati da un amore cosi forte, 
così prepotente, non avranno mai la forza di sottrarsi al fato 
che ad essi sovrasta ! 

Questa è 1' arte sovrana dello Shakspeare. Se descrive una 
passione , questa é sempre la più forte , la più violenta , che 
possa prorompere dal cuore umano. Se ci presenta su la scena 
un carattere, questo compendia in sé tutti i vizi, tutte le virtù, 
che si possono trovare negli uomini dello stesso stampo. I suoi 
personaggi , simili in questo agli eroi di Omero , sono come 
accresciuti di proporzione. Sono come i rappresentanti d'un'altra 
età in cui gli uomini erano più validi di forze, più grandi di 
animo. Innanzi ad essi torna spontaneo su le labbra il lamento 



(i) Loc. cit. pag. 332. 



- 56 - 

di Nestore. Come l'ira di Achille supera quella di tutti gli altri 
uomini, così la gelosia di Otello è irrefrenabile, e mai alcuno 
ne conobbe la maggiore. E così Caterina accoglie in sé tutte 
le piccole perversità , che possano intristire un animo femmi- 
nile ; e Petrucchio tutta l'accortezza, tutta la sagacia d'un buon 
marito , che voglia e sappia domar la moglie. Grandi sempre 
questi personaggi, sì nel riso come nel pianto, e sempre ci sfor- 
zano alla più sconfinata ammirazione. « Quasi impaurito — dice 
lo Zumbini — io guardo quei personaggi, i quali, benché mossi 
dalle nostre medesime passioni, sono pur tanto maggiori di noi. 
Mi par di essere come un pigmeo dinanzi a giganti ; e nondi- 
meno in quegli atti giganteschi sento anche me stesso ; e la 
percezione simultanea di quell' antitesi e di quell' identità, su- 
blimandomi e prostrandomi , suscita nel mio cuore moti e af- 
fetti nuovi, non mai prima avvertiti nell'immediata contempla- 
zione dèlia vita » (i). 



G. Di Niscia 



d) Studi di leti, straniere; Firenze, 1893, pag. JJ, 



ALL* AMICO 

PROF. ERASMO PERCOPO 

NEL FAUSTO GIORNO DELLE SUE NOZZE 

COLLA SIGNORINA 

LIVIA LUCIANI. 



Carissimo Pércopo , 

io scritto , che io sottraggo per te ali* oblìo di ventidue anni 
and' è rimasto ricoperto, ti appartiene a doppio titolo : per i ri- 
cordi che vi si congiungono , per la destinazione a cui F avevo 
nel mio pensiero riserbato, L* epoca, in cui fu composto ^ è fra le 
pili gioconde della mia vita , e il ricordo che ne serbo neW ani- 
mo, non turbato da nessun rimpianto, si colorisce e ravviva nella 
mia memoria coli* immagine soanje dei compagni di studio, che 
ebbero con me comuni gli ideali, se non ancora in tutto il destino 
della vita. Tempi felici, Ai cui ho trattenuto sempre neW animo 
r illusione, quando eravamo sì pronti a sentire e ricambiare la 
sincerità dell' affetto, senza che nessuna considerazione utilitaria 
potesse intorbidarne il gaudio / 

Tra questi amici eri tu, che hai conservato fede piti stabile a 
queU' antica e felice spensieratezza dei nostri anni migliori, A te 
dunque apparteneva il ricordo di un* età, non guasto né corretto 
dai frutti di un* esperienza forse più sana e matura, ma ahimè/ 
tanto diversa da quella prima e ingenua fiducia, che era e si 
sentiva così beata di se medesima, 

9 



- 58 - 

Questa felice disposizione del tuo spirito , che conserva inalte- 
rati gli entusiasmi della giovinezza ed inesauste nella sua ricca 
sentimentalità le fonti più pure del piacere e dell'amore, mi presta 
occasione a ridar vita ad un mio antico proposito , il solo forse 
rimasto obliato fra quanti il fido pensiero ha imposti come un 
dovere al compito della mia vita. 

Lo scritto^ che ora vede la luce^ era riserbato a te sin daWS/f; 
né io so ridirti la ragione, per cui non attenni questa promessa. 
Fu consiglio forse dell' animo presago, che volle riserbarlo alla 
tua felicità piti lunga e durevole? Inutilmente ci sforzeremmo 
d' indagare i misteri dell'animo. A te basti che tale sia in que- 
st* ora il voto del mio cuore. 

Cesinali, i settembre y igo2. 

Tuo 
Enrico Cocchia. 



Confronto fra V a Iliade » 

e la c( Chanson de Roland » ^'\ 



éq {Jitxpòv \ur(ÓLk(f eh&aoa 
Thuc. 4, 37. 



Che cosa è la Chanson de Roland? È la più antica delle 
epopee neolatine , uno degli esempi più insigni di epica po- 
polare. 

L' epica è poesia primitiva, che sorge quando appena un po- 
polo comincia a spogliarsi della sua primitiva rozzezza e a rac- 
cogliere nel fido tesoro della sua memoria i ricordi del passato, 
ingranditi dair amore della gloria, dalla passione del racconto, 
dalle iridescenze di una vivida fantasia. A creare questo mondo 
vario e pittoresco di ricordi e di immagini, concorrono la n a- 
tura esteriore coi suoi fenomeni maravigliosi, la cui po- 
tenza diventa espressione della volontà degli dei, e gli eroi, 
tipo intermedio tra la divinità e V uomo , i quali riproducono 
sulla terra quei portenti medesimi, che gli dèi compiono nella 
sfera del cielo. 

Questo mondo degli dei e- degli eroi, questa mitolo- 
gia eroica e poetica, ecco il contenuto dell'epopea pri- 
mitiva. 

A questa base comune nel fondo , ma che ciascun popolo 



(i) Questo studio letterario intorno alla Chanson de Roland è sostanzial- 
mente un'antica tesi di concorso, premiata dall' Università di Napoli nel gen^ 
naie del 1880. 



• — 6o — 

elabora e arricchisce secondo la varia conformazione del luogo 
in cui vive, secondo la speciale potenza fantastica che sortì da 
natura, si congiungono di tempo in tempo le azioni più o meno 
grandi e gloriose di età più recenti, i ricordi delle nuove lotte 
sostenute, la memoria di quelli che più efficacemente vi parte- 
ciparono. Tra questi ricordi , la fantasia crea o carezza con 
maggior predilezione un nome solo , il quale poi diventa il 
tipo o Teroe della tribù o della gente, tema comune dei rac- 
conti che passano di generazione in generazione sulla bocca 
del popolo. L'eroe, questa creazione — per cosi dire — 
spontanea della fantasia e della storia, assorbe in sé T opera 
di tanti altri eroi, così come il poeta che verrà più tardi, e darà 
forma artistica a quelle creazioni impersonali dell' immagina- 
zione popolare, concentrerà in sé V opera di più secoli e il la- 
voro collettivo di parecchie generazioni. 

L' esistenza di queste narrazioni ci é attestata, fra i Greci, 
da Pindaro e da Euripide. Ed é ben degno di considerazione 
il fatto che lo stesso F i r d u s i, poeta epico persiano, confer- 
ma le notizie della morte di Rtistetriy colla relazione da lui rac- 
colta sulla bocca di un contadino. « Rammentiamo ora, egli 
« narra, la storia della morte di Rustem. . . Eravi un vecchio 
« di nome Azadserv che abitava in Merv, dove egli aveva il libro 
« della storia dei Re. . . Il cuor suo era pieno di prudenza, la 
e sua mente piena di parole e la lingua sua piena d' antiche 
« storie. . . Egli aveva a memoria molte delle battaglie di Ru- 
« stem. Io riferirò questa storia quale da lui V intesi, e V una 
« dietro V altra metterò insieme le sue parole ». Il comandante 
Emilio Dehousset ricorda, che presso il villaggio di Kend 
in Persia, ancora qualche anno fa, egli udì raccontare cantando 
le eroiche imprese di Rustem. E il cantore del Kalévala , if 
poema nazionale dei Finni, afferma d'aver udito quei racconti 
dalla bocca del padre , mentre questo attendeva a fabbricarsi 
ima scure, e dalla madre mentre faceva girare il fuso (i). 



(l) V. Italo Pizzi, Ammaestramenti di letteratura, passim. 



— 6i — 

Quasi tutti i popoli antichi ebbero o scelsero qualche argo- 
mento prediletto per i loro racconti. Dapprincipio forse questi 
consistettero semplicemente in alcuni canti staccati, destinati 
alla narrazione di un fatto solo, quale è ad es. il racconto che 
neir Odissea fa V aedo D emodoco delle avventure di Ares, 
Afrodite ed Efesto. Ma più tardi questi racconti dovettero in- 
nestarsi o riannodarsi più strettamente tra loro, e compaginarsi 
insieme neir unità di ^n poema. 

Tali a un dipresso furon le vicende, per cui si tramandò 
anche in Francia la memoria della rotta di Roncisvalle. La 
leggenda dovè impadronirsi assai presto di questa tradizione, 
destinata a commuovere tra le emozioni più vive la fantasia 
popolare. Nel lavoro collettivo si temprarono a poco a poco le 
nuove attitudini che il popolo francese manifestava al canto, e 
al vinto di Roncisvalle si dovettero destinare canzoni , pari a 
quelle dedica|:e più tardi al vescovo Faraone e a Guglielmo 
d' Aquitania, il paladino di Carlomagno, il quale nel 793, colla 
sua morte eroica a Villedaigne, salvò la Francia da una inva- 
sione di Saraceni (i). 

Venuta in potere del popolo, la tradizione di Roncisvalle 
perde la sua fisonomia primitiva, si collegò con altre memorie 
nazionali che facevano parte dei ricordi più gloriosi del popolo 
francese, e divenne a poco a poco il piccolo nucleo storico di 
un intero ciclo poetico. I Gtiasconi scomparvero per ceder luogo 
ai Saraceni, i più grandi nemici del nome cristiano, e Rolando 
divenne parente di Carlomagno, per offrire agevole il modo di 
congiungere più strettamente fra di loro le due più grandi figure 
del ciclo carolingio. Col proceder dei secoli , si avvertono an- 
cora nuovi bisogni. Per trovare una spiegazione plausibile al 
disastro, s' inventa il tradimento di Ganelone; e non potendosi 
ammettere, per orgoglio nazionale, che resti impunito il delitto, 
si crea V ultima parte della leggenda, la rivincita sui Saraceni 



(i) Vita Sancii Faraonis, Meldensis episcopi in Acta Sanctorum ordinis 
sancii Benedica sacc. II, p. 617; e Vita ab atictore gravi scripta saec. XI m 
Ada Sanctorum Mai F/, p, 811. 



— 62 — 

e la punizione del traditore. La materia è già formata , e le 
intromesse posteriori non saranno che semplici variazioni di 
forme e di particolari. Ecco la tessitura generale del racconto, 
che il manoscritto di Oxford ci ha conservato sotto il titolo 
di Chanson de Roland , cioè di un poema che il G a u t i e r 
non disdegna di battezzare col nome pomposo di « Iliade del 
popolo francese » . 

II. 

L* Iliade y V epopea eroica della Grecia, la più grande e per- 
fetta delle epopee ispirate dal genio poetico popolare ! \J Iliade, 
V epopea nazionale per eccellenza, che riassume in sé tutte le 
forme dello spirito letterario e porta come in germe i destini 
del popolo greco ! L* Iliade che canta la rovina di Troia e pre- 
lude alle lotte storiche tra le due giovani razze, nella cui ri- 
valità si estingue precocemente la vivace energia del popolo 
greco ! L' Iliade che nel colorito epico della leggenda canta il 
primo trionfo della civiltà sulla barbarie, quasi eco. canora di 
quella lotta tra la luce e le tenebre, tra il principio del bene 
e quello del male, onde è intessutà la prima tradizione poetica 
di quasi tutti i popoli indo-germanici! 

Quel germe, che i progenitori del popolo Ellenico talliti dal 
ceppo comune dei popoli arii portarono con sé qual prezioso 
ricordo della vita unitaria e remota delle loro origini , quel 
germe , — quando i loro discendenti si furono stabilmente fis- 
sati nella regione che si dispiega tra il Ionio e V Egeo, tra le 
rive frastagliate dell' Asia Minore e le sponde lungi risonanti 
del mare di Ausonia, — pigliò nuova vita, nuovi rami germo- 
gliarono su quel ceppo invecchiato, e i ricordi della tradizione 
e della leggenda s'intrecciarono colle nuove esigenze della vita 
storica , alimentando e creando il poema nazionale della vita 
greca. L' Eliade era disposta da natura in modo da dover dare 
vita a due popoli di tendenze diverse , anche se affini tra 
di loro per origine. Le necessità della vita crearono quella lotta, 



~ 63 - 

e la fantasia agilissima della razza ionica vi congiunse i colori 
più vivi e le armonie più sonore dei suoi canti, per renderne 
immortale il ricordo e celebrare in versi indimenticati la vit- 
toria. Ma la lotta è condizione essenziale della vita del popolo 
ellenico, e quella lotta risorge appena assopita, anzi si continua 
neir età storica tra i due suoi rampolli più vivaci, fino al lóro 
completo esaurimento. E colla libertà greca tramonta per sem- 
pre, nella sua giovinezza , pur quel fiero spirito di indipen- 
denza che era stato la sua gloria. 

Ecco la lotta, che serve come di sfondo 2IV Iliade y una lotta 
che è condizione vitale per la esistenza del popolo greco ! Il 
poema che era stato come il canto della vittoria, che aveva 
suonato sulla bocca dei Greci come Tinno religioso e patriot- 
tico nelle tradizioni di un popolo civile, rimase testimone pe- 
renne alle generazioni venture della potenza del genio ellenico 
e del crudo fato, che natura impose agli abitatori di quel suolo, 
benedetto dalle Grazie e sede preferita della musa ispiratrice 
dei carmi. Il ricordo o presentimento di un destino sì fatale 
quasi par che intorbidi la stessa gaiezza del mondo eroico; e tu 
non puoi senza pena raccogliere la commozione che sfiora Tani- 
mo del giovane eroe greco, il mìrmidone Achille, nel punto in 
cui ha placato V ombra di Patroclo coi lamenti inascoltati e 
le strazianti preghiere del vecchio Priamo : 

S^ Y^P ^TCexXdwfavxo 9eol 5ecXoTot PpoioTocv 

III. 

Che cosa può contrapporre a questo contenuto cosi essen- 
zialmente nazionale la Francia, colla sua Ckanson de Roland f 
La Chanson de Roland, e in generale tutte les chansons de gè- 



i) //., XXIV, 525. 



- 64 - 

ste (i), ritraggono un sentimento, che da Clodoveo sin quasi 
ai giorni nostri è rimasto tra le prerogative più caratteristiche 
del popolo francese. La Francia, fin da quel primo momento, ha 
sentito il bisogno di atteggiarsi a protettrice del Cattolicesimo, e 
ha creato un intero ciclo poetico per dare espressione a questo suo 
sentimento. L'idea che pre4omina nel ciclo carolingio è tutta 
ed esclusivamente religiosa. I nemici, con cui combattono i Fran- 
chi sotto Carlomagno e i suoi paladini, son doppiamente nemici : 
essi non solo attentano alla distruzione dell'impero, ma — quel 
che è peggio — voi*rebbero estirpata dalla faccia del mondo la 
religione cristiana. È questo che scalda più fortemente il petto 
alla nazione francese e la incita a combattere. Ho chiamato 
questo sentimento una prerogativa, non certo la più durevole e 
forse nemmeno la più nobile del popolo francese, perchè si può 
affermare senza tema dì contradizione che, mentre la religione 
cristiana ha dato impulso a tante nobili imprese, a cui l'Europa 
intera ha preso parte senza distinzione di nazionalità, la Fran- 
cia ha voluto esagerare e quasi sfruttare questo sentimento a 
suo peculiare vantaggio, e farsi essa sola la paladina della fede 
cattolica. 

Ma v'ha di più. Se il ciclo carolingio fosse emanazione di- 
retta delle Crociate, io non dubiterei di chiamare nobile senti- 
mento quello che lo ispira. Invece la composizione della Chanson 
de Roland precede a questo glorioso avvenimento , e i trionfi 
di Carlomagno, che essa canta, non son punto trionfi riportati 
direttamente in sostegno della fede e della religione cattolica. 
La singolare importanza dell'opera compiuta dal figlio di Pi- 
pino, per cui la storia connette indissolubilmente al suo nome 
il titolo di Grande, consiste nell' aver opposto un potente ba- 
luardo, per mezzo della ricostituzione dell'impero di occidente, 
alla nuova barbarie che minacciava di avanzarsi nel cuore del- 



(i) Questo' titolo ricorre nel nostro poema sei volte, e non quattro come 
afferma U Gautier (p. xxi) cioè nei vv. 1443, 1685, 2090, 3181, 3262, 3741. 



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TEuropa. Il sentimento religioso si aggiunse bensì a coadiuvare 
e quasi a consacrare questo suo intento. Ma se Carlomagno 
consenti e quasi sofferse, che nella notte del Natale del 799 
Leone III gli ponesse la corona sul capo , ciò avvenne sola- 
mente perchè la Chiesa Romana, cresciuta all'ombra dell'Im- 
pero, pareva quasi, nel sentimento comune, che alla sua deca- 
denza ne avesse ereditato il potere. 

Il contenuto della Chanson non è dunque ispirato da nessuno 
di quei nobili sentimenti, per cui il popolo francese ha fatto 
pendere verso il vero progresso la bilancia dei destini dell' u- 
manità. Or già da questo primo raffronto s'intende, come si 
trovi a disagio la Chanson ad esser paragonata coli' Iliade, 
Questo è poema nazionale per eccellenza, quella una semplice 
canzone di gesta. L'uno rappresenta il culmine dell'epo- 
pea, l'altra l'infimo genere di essa. 

IV. 

La Chanson de Roland non è che un episodio del vasto ciclo 
carolingio, un momento di quella lotta avventurosa combattuta 
da Carlomagno contro i Saraceni, lotta che parve trovare la sua 
catastrofe o il suo scioglimente disastroso nella rotta di Ronci- 
s valle, che ne è affatto indipendente. Chi va in cerca di stu- 
diati raffronti, potrebbe affermare o consolarsi al pensiero, che 
la Chanson serbi verso il ciclo carolingio presso a poco le stesse 
proporzioni, che ebbe V Iliade nel ciclo epico troiano. 
Ma stacchiamo da questi due cicli i rispettivi poemi, per met- 
terli a raffronto diretto tra loro. 

L'uno è un quadro finissimo, perfetto in tutte le sue parti, 
armonico, vivo, artistico, leggiadro, d*una gaiezza che ti vivi- 
fica*, di una bellezza sempre varia e nuova che ti affascina: 
l'altro è monotono, rozzo, arido , compenetrato quasi in ogni 
sua laisse da una goffaggine di bassa lega. Apritelo dovunque 
vi piaccia, al principio al mezzo o alla fine, questo impuro monu- 
mento dell'orgoglio francese, e vi riscontrerete immancabilmente 



— 66 — 

un tono uniforme, monotono, privo di qualunque splendore di 
forma e di varietà materiale d'incidenti. Basta una strofe sola 
a riflettere, nelle sue linee generali, tutto il contenuto di questi 
quattromila versi. Scelgo a caso la strofe 202 : 

« (o sent RoUanz de sun tens n 'i ad plus; 
« devers Espaigne gist en un pai agut. 
« A l'nne main si ad san piz batat : 
« 'Deas 1 meie culpe, vers les taes Tertaz, 
« De mes pecchiez, des granz e des menuz, — 
« Que jo ai fait dès l*ure que nez fui 
« Tresqu'à cest jur que ci sui consoùz * ! 
« Sun destre guant en ad vers Deu tendnt : 
« Angle de 1' ciel i descendent à lui » (i). 

Ecco i due sentimenti che ispirano o determinano l'intona- 
zione generale del poema. Il fiero Rolando, che ha bagnato mille 
volte il suo braccio nel sangue Saraceno, muore come un birbone, 
più dei suoi che dei nostri giorni, dopo d* aver commesso tutte le 
furfanterie di cui era capace, cioè battendosi il petto e implo- 
rando da Dio perdono per i suo falli. Il poeta non sente, non 
conosce altro, perchè nulla sa o riferisce la sua fonte. Fuori del 
campo in cui i soldati son riuniti a consiglio, mentre i capi de- 
liberano (2), fuori del piano in cui gli eserciti si scontrano (3), 
nuiraltro esiste per lui. I suoi eroi non sono altro che una forza 
che opera, una spada cioè, secondo l'espressione significativa ed 
energica che ricorre nel poema dei Nibelungen (Schwerf). Essi 
non sanno che sgozzare e pregar Dio, prima d'esser ricam- 
biati della stessa mercè dal nemico, tante volte abbattuto nel- 
l'arena o nel sangue. 

Come ardiremmo di mettere a raffronto questa incommensu- 



(1) Chansoftt w. 2366-75. 

(2) Chanson^ str. 1-83. 

(3) Chanson, str. 84-318. 



- 67 - 

rabile aridità della fantasia pittrice coirimmensa e meravigliosa 
varietà di Omero? 

Omero ci dà V immagine di un animo , capace di ammirare 
ed intendere le manifestazioni più varie della vita e della na- 
tura. Egli pasce la sua fantasia negli spettacoli più diversi, e 
il cuore di lui si mostra aperto alle impressioni più svariate. 
Canta la guerra e la detesta , si compiace di stare in mezzo 
all'agitazione e in mezzo al riposo, dipinge colla stessa voluttà 
le campagne teatro di mischie furiose, come i piani tranquilli, 
nella cui letizia si allegra e rispecchia il contadino, che vi con- 
duce alla pastura la sua gregge. Al momento stesso s'adira e 
s' intenerisce , trionfa col vincitore e geme colla vittima. Ha 
slanci d' ira selvaggia , quando i guerrieri minacciano di ucci- 
dere i pargoletti nel seno delle loro madri ; ha invece accenti 
teneri di commovente malinconia, quando pensa che genera- 
zioni di uomini passano come le foglie degli alberi ! 



Abbiamo già messi in mostra due caratteri, per cui Y Iliade 
e la Ckanson appariscono fra loro contrapposte, la velleità e la 
monotonia da un lato, il generoso sentimento e la varietà dei 
motivi poetici dall'altro. Ma dobbiamo ancora aggiungere, che 
questa antitesi del contenuto si riflette pure nella forma. 

Le strofe della Ckanson sono rozze, dure , tutte fuse in un 
solo stampo e, come ha osservato con mirabile precisione Ga- 
ston Paris, « les vers sans varieté de coupes, sans enjambe- 
« ment, le plus souvent composés d'une phrase entiére, avec ses 
« verbes au présent et son allure tout d'une pièce , que n' as- 
« souplissent pas les particules , se suivent et retentissent pa- 
« reillement l'une après l'autre comme des barons pesamment 
« armés ». 

Anche n^' Iliade la forma è semplice, punto complicata, ma 
svelta, leggiera, capace d'esprimere o di echeggiare ogni più 
vario sentimento dell'animo. Si legga, ad es., la scena che ha 



— 68 — 

luogo neirOlimpo tra Giove, Era ed Efesto, e si vedrà anche 
da chi voglia conservar l'animo ottuso alle impressioni più 
delicate dell'arte, che è in ogni caso una proporzione inversa 
quella che si stabilisce, per questo rispetto, tra V Iliade e la 
Ckanson. Ma intanto prestiamo ascolto alla voce indignata di 
Era, che sfolgora colla sua ira TOlimpo: 

ife S'a5 Tot, 6oXo|i^a, 6e©v ou|KppaaaaTO pouXà^; 
atef tot q^iXov èorlv, è|JLe5 àTiovóocptv èóvxa, 
xpuTttàSca (ppovéovxa 5txa^é|iev oò5é zi tz& |iot 
Tcp&ppCDV téx^rixa^ eJTcecv hzot; Bxxt voi^cng^ (i). 

Il verso mormora come in un suono lugubre, e risuóna per 
Tetra ripercossa il fragore del tuono, nunzio della vicina tem- 
pesta. U orecchio, fatto sensibile alle voci delicate dell' animo, 
raccoglie tutta l'agitazione interiore onde è sconvolto il cuore 
di Era, e si corruga come la fronte di Giove scolpita per arte 
divina nel marmo di Otricoli, mentre quegli frena e smorza in 
un composto sorriso il terribile cenno della sua potenza. 

La monotonia della forma , che abbiamo con altri additata 
nella tessitura della Ckanson, non si può restringere soltanto 
alla disposizione estema delle parole, ma è ben più intima : essa 
s' infiltra anche nello stile, cioè nella veste propria dei pensieri. 
C'è in questo poema una cotal gravità e rigidezza, per cui il 
cantore riesce quasi sempre a dimostrare piena assenza di sen- 
timento poetico e nessuno studio ricercato di effetto artistico. 
Predomina in lui il tono arido e stentato della narrazione, che 
non spazia, che non s'oblia mai sino al punto da mettere sotto 
gli occhi il campo dell'azione. E il poema intero, che dovrebbe 
essere l'ispirazione vigorosa di una fantasia giovanile e vivace, 
ti offre invece l'immagine di una fanciulla che nel fior dell'età, 
quando la giovinezza dovrebbe riderle in core e la grazia nel 



(i) 77., I, 540-4. 



- 69 -- 

volto, si atteggia a una severità rigida e contegnosa, e riesce 
compassata e fredda in ogni suo atto. Tale è la Chanson / Prima 
produzione poetica della Francia, non risente di quella vivacità 
e spontaneità di fantasia, che è principale carattere dei popoli 
giovani. In quattromila e più versi non incontri propriamente 
che un solo paragone: 

« Si cum li cerfs s'en vait devant les chiens, 
« Devant Rollanz si s'en fuient paien » (i). 

Non ' mancano ben è verq, nel corso del poema, altre sei o 
sette similitudini. Ma, quasi a farlo a posta, Fautore si è stu- 
diato di riuscir monotono anche neir uso di questo espediente 
cosi semplice e primitivo dell* arte poetica. La profondità del- 
l' abisso è paragonata una volta al color nero della pece li- 
quefatta : 

« Issi (abismes) est neirs cume peiz k'est demise » (2). 

Ma , di fronte a queste immagini , per quattro volte ri- 
torna il medesimo paragone della barba fiorita: 

« bianche ad la barbe cume fleur en avrìl » (3), 

« sa barbe 

« altresì bianche cume fleur en espine » (4), 

« bianche ad la barbe ensement cume flur p (5), 

« lur barbes 

« altresì blanches cume neifs sur gelée » (6) ; 



(i) CAansofty v. 874-5. 

(2) Chanson j v. 635. 

(3) V. 3503. 

(4) V. 3521. 

(5) V. 3173. 

(6) V. 3319. 



— 70 — 
e con mutazione del primo termine : 

« tant par iert blancs cume flur en estet » (i). 

La descrizione è sfuggita e non entra che raramente ad an- 
nunziare il cadere o il sorgere del giorno, in una maniera 
asciutta, artefatta, meschina, uniforme. La natura par che non 
impressioni questo poeta e la gente che Tha ispirato. Esso è 
sordo alla vita ; e per nulla lo spettacolo del sole morente, 
fonte inesauribile d' ispirazione alla poesia d^ogni tempo, è ca- 
pace di strappare dal suo animo un gemito o un'emozione. Or 
quando manca la prima, la più semplice delle forme poetiche, 
quella — sarei per dire — che discerne i confini della prosa 
dalla poesia, quando siamo al punto che il poeta si mostra in- 
capace di alternare perfino il tono della descrizione con quello 
narrativo, le due forme primordiali di ogni arte poetica, a che 
perdurare ancora in un* ammirazione tanto cieca per questa 
Chanson , e come persistere nella pretesa di un raffronto col- 
r Iliade^ la creazione più splendida della fantasia umana ? 

VL 

Ma passiamo in rassegna questi meschini accenni descrittivi, 
in cui pur si trovano i germi appena incipienti dell'arte. Due 
volte il poeta descrive l'appressarsi del vespro : 

« bels fnt lì vespres e li soleilz fut clers » (2), 
« tresvait li jurz, la noiz est aserìe » (3), 

e un'altra il comparir dell'alba : 

« par main en Palbe, si cum li jurz esclairet » (4). 



(i) V. 3162. 

(2) Chanson, v. 157. 

(3) V. 717, cfr. ancora w. 737, 1807, 3345 e 3560. 

(4) Ckansony v. 667. 



— 71 — 

Né manca un accenno al pallido astro (inargento che illumina la 
notte : 

« Clere est la noit, e la lune luisant » ( i). 

Anzi il tentativo non infelice sospinge per due volte il poeta 
a cimentarsi perfino nella descrizione dei luoghi : 

« halt sunt li poi e li vai tenebras, 

« les roches bises, li destreit merveillus » (2), 

« icele terre 
« soleilz n' i loist, ne blet n' i poet pas creistre, 
« pluie n* i chiet, rusée n' i adeiset, 
« pierre n' i ad qui tute ne seit neìre » (3). 

Lo spettacolo insolito a cui si abbandona e il diletto che ne 
consegue son cosi nuovi, che l'autore ferma il passo ad abboz- 
zare ben anche la descrizione di una tempesta : 

« en France en ad mult merveillus turment: 

« orez i ad de tuneire e de vent, 

« pluie e greziìz desmesuréement. 

« Chiéent i fuildres e menut e suvent ; 

« e tenemoete 90 i ad veirement.. 

« nen ad recet dunt li mur ne cravent. 

« Cuntre midi tenebres i ad granz, 

« n' i ad clartet, se li ciels nen i fent » (4). 

La mano gli si scaltrisce a poco a poco, sino al punto da 
disegnare nel verso gli atteggiamenti varii che presenta nella 
corsa un alato destriero : 



(i) Ibtd. ▼. 2512, cfr. anche v, 3658-9. 

(2) V. 814-5, cfr- anche V. 3305. 

(3) Chanson, v. 979-84. 

(4) Chanson, v. 1423-33. 



72 



« Li destriers est e curant e aates (i), 
« piez ad copiez et les gambes ad plates, 
« curte la quisse e la crupe«bien large, 
« lungs les costez e Ineschine ad bien balte, 
« bianche la cue e la crìgnete jalne, 
« petite oreille, la teste tute falve » {2), 

Ma qui s' arresta la maggiore finezza dell' arte del poeta, e 
non pfocede più oltre in un tentativo, a cui forse non lo sor- 
reggerebbe né r ala dell* ingegno, né la tecnica onde egli di- 
spone. Rallegriamoci dunque di questi pochi tratti, in cui comin- 
cia a far capolino il genio della razza e si presente di lontano la 
ricca e ubertosa vegetazione, che pompeggerà più tardi dalle 
aiuole fiorite della poesia francese. Ma bandiamo per sempre 
dal nostro spirito raffronti così inconcludenti ed inadeguati, come 
sarebbe il paragone di quest' arte ancora infantile coli* abbon- 
danza di similitudini e di descrizioni, onde luccica ad ogni passo 
la materia poetica dell* litade , per la nota maestria d* Omero 
neiruso di questi due procedimenti artistici. Abbiamo proprio 
bisogno di ricordare, a chi si ostinasse nella possibilità di questo 
raffronto, i magnifici versi, con cui Achille sdegnato respinge 
le preghiere e Tinvito supplichevole dell'amico Patroclo : 

liTzzt 5e5àxpuaat, naTp6xXet<;, fjóxe xouprj 
vyjTrfy], ^' 5|jLa {lYjxpl tìéoua 'àveXéoOat àvcóyet, 
efavoO àTCTO[iévr), xal T'Iaoufiévrjv xaxepuxec, 
Saxpuóeaaa 5é p,cv TroxtSepxexat, &pp'àvéXTf)xat (3) ? 

Si può nulla immaginare di più vivo, di più delicato, di più 
fino dell'emozione, onde l'animo é incalzato e quasi tratto fuor 



(i) Forse da alatus, per la trafila di adatus, 

(2) Chanson» v. 1651-57. 

(3) II., c. 16, V. 6-10. 



— 73 — 

di sé stesso, alla contemplazione di questa pittura sublime che 
vi procura il turbamento e le vertigini medesime, onde Tocchio 
è preso innanzi ai più grandiosi fenomeni della natura ? In 
mezzo a quella gaiezza del suolo greco, frastagliato da monti, 
da valli , da fiumi , in mezzo a quelle lingue di terra qhe si 
protendono nelle onde azzurrine, tra quegli spettacoli indimen- 
ticabili a cui fa specchio il nitido candore di un cielo sereno 
e purissimo, in mezzo a quella natura viva ed animata che da 
ogni banda ti fa spettacolo dei suoi tesori inesauribili di bel- 
lezze infinite, il primo dei poeti attinse la divina ispirazione dei 
carmi e trasfuse nell' Iliade y coi sogni della sua anima passio- 
nata, tutto r incanto soave della poesia, onde è ricca la voce 
multiforme della natura immortale. 

Il verso del poeta riflette e raccoglie tutta quest'onda di ar- 
monia e di vita, e le immagini vi si incalzano ad ogni passo, 
quasi in gara feconda che istituisca la poesia, per tutti echeg- 
giare in sé gli spettacoli della natura. L*arte raggiunge tal colmo 
di raffinatezza, da rappresentare nella successione delle imma- 
gini le varie vicende delle azioni umane. Tale è nel secondo 
canto deir Iliade lo schierarsi in campo degli Achei , ritratto 
con cinque similitudini progressive, che rappresentano rav- 
vicinarsi graduale del nemico, la sua disposizione in ordine di 
battaglia, T impeto violento dei suoi attacchi (i). 

Quale straordinario effetto di incomparabile bellezza poetica 
deriva dal ricordo di quella passera , che vola attorno al suo 
nido, che geme mestamente alla vista del serpe, mentre questo 
si allunga nelle terribili spire ad ingoiare i suoi passerini, che 
tranquilla aspetta il suo fato, per diventare alla sua volta essa 
stessa preda deiringordo animale (2) I 

E quale spettacolo più eloquente della bellezza di Elena, ri- 
tratta coirimpressione che questa desta, nel passar per le porte 
Scee, sui vecchi Troiani ? 



(i) /?., 2, 440-85. 

(2) Ibid., 2, 308-18. 



— 74 ~ 
oE S'd)^ o5v slSove *EX£vY]v èiA Trópyov toOaav, 

OS véfieotc Tpffioc 'wtl èuxvi^fitSa^ 'Axatoói; 
TOi^ à|ji(pl Yuvatxl TcoXbv xp^vov àXyea Ttàoxetv 
alvfiyg àOavàmgat Oe-g^ eh; ima lotxev (i). 

A questi effetti artistici, di cui è capace soltanto la bellezza 
che cessa di apparire come un semplice epiteto, per trasfor- 
marsi in molla efficace delle azioni umane, non arriva che la 
grande poesia. Né può arrecarci sorpresa Tasèenza completa di 
questi grandi sussidii dell'arte dall'informe poesia delle origini, 
adombrata nella Chanson, 



VII. 



Ho affermato di sopra che manca nella Chanson de Roland 
la forma descrittiva. E pure la cosa non è perfettamente esatta. 
Manca, ben è vero, la descrizione dell'ambiente in cui si com- 
piono gli eventi, e al quadro fa assai spesso difetto lo sfondo, 
che illumini la situazione artistica. Ma il difetto è come com- 
pensato , almeno nelle intenzioni dell* artista , da un elemento 
nuovo, in cui si confondono e compenetrano insieme le due 
forme elementari dell' arte, la narrazione e il processo descrit- 
tivo. Il rozzo troverò della Chanson mi dà V idea di uno di 
quei cantastorie, che corrono anche oggi le piazze delle 
nostre città di provincia, e fermandosi in mezzo ad una calca 
di popolo vi spiegano sopra larghe tele, grossolanamente e 
goffamente dipinte, i fatti tragici che vi sono rappresentati. Lo 
stile della Chanson io direi che è appunto uno stile dichia- 
rativo o esplicativo, inventato a bella posta per so- 
stituire r uso delle tavole, a cui si appigliava fin dall' antichità 
la misera sorte dei naufraghi o derelitti della fortuna. Come da 



(i) n., ra, V. 154-9. 



- 75 - 

questa considerazione è lecito di argomentare , il rozzo tro- 
verò che cantava in pubblico le sue Hrades, era preoccupato 
dal pensiero dell* effetto, e si studiava fino ali* ultimo di tener 
desta, anche con mezzi esterni , V attenzione del suo uditorio. 
Basta leggere una strofe sola per rendersi conto di questo 
suo atteggiamento. Noi V abbiam rilevato , non tanto per 
evitare la facile contraddizione colla realtà , in cui qualcuno 
ci avrebbe sorpresi, quanto per notare che V assenza delle fa- 
coltà descrittive, da noi deplorata, va sempre intesa con una 
certa discrezione, perchè non è mai presumibile che vi faccia 
completa rinunzia colui, al quale incombe cosi spesso Tobbligo 
di ritrarre un campo di battaglia. Ma è appunto questo esame, 
che finisce per giustificare il nostro apprezzamento e per met- 
tere nella sua vera luce il paragone istituito dianzi. 

L' essenza della forma descrittiva o pittorica con- 
siste nel cogliere V atto, nel presentare sotto gli occhi un gran 
quadro, in cui tutto agisca di conserva. La sua efficacia è ri- 
posta nel ritrarre lo stesso momento dell* azione e nel farcela 
abbracciare con uno sguardo solo. Quando però la nostra at- 
tenzione è concentrata sulle frequenti scene di mél^e cioè 
di ^mischia', ritratte nella Chanson, V azione non ci apparisce 
più come rappresentata di conserva in un momento solo. Cia- 
scuno dei pari opera per suo conto , e il teatro della battaglia 
si trasforma in una specie di sala da ballo, ai cui estremi siano 
disposti da un lato un ordine di cavalieri e dall* altro una muta 
schiera di dame. A un dato segno una dama abbandona la sua 
fila, per avanzarsi nel mezzo della sala, e dall' altra banda si 
distacca un cavaliere per venirle incontro e stringerle la mano 
nei vortici della danza. Tale è 1' intonazione monotona della 
Cha$^<m per più di cento delle sue tìrades^ dalla laisse 97 alla 
203. Basta leggerne una sola, per formarsi un concetto ade- 
guato dello stile del poema. Fermiamoci per un momento sulla . 
prima situazione , che anticipa e quasi concentra in sé tutte 
quante le altre : 



- V6 - 

« li niés Manille (il ad num Aelroth) 

« ttit premereìns chevalchet devant 1' ost. 

« De soz Franceis irait disant si mais moz : 

« ' Feluns franceis, hoi justerez as noz; 

« tralt VHS ad ki à guarder vus out; 

« fola est li reis ki vus laissat as porz; 

« encoi perdrat France dulce san los, 

« Carles li magnes le destre bras de ì* cors\ 

« Quant r ot RoUanz, Deus 1 si grant doel en out 1 

« Sun cheval brochet, laisset corre ad esforz. 

« Vait le ferir li quens quanque il pout, 

« r escut li freint e 1' osberc li desdot^ 

« trenchet le piz, si li briset les os... 

« en dous meitiez li ad briset le col. 

« Ne laisserat, 90 dist, qae n' i parolt: 

« • Ultre , culverz ! Carles n' est mie fols, 

« ne traisun nnkes amer ne volt. 

« H fist qae pruz qn' il nus laissat as porz; 

« hoi n* en perdrat France dulce sun los ' » (i). 

Per rendere completo Io spettacolo della danza, non manca 
neppure una specie di scambio fra le due parti; perchè sino 
a un certo punto esce un pagano dalle file , per ricevere un 
colpo mortale dal cavaliere cristiano (2) , ma poi si inver- 
tono le parti e il guerriero pagano piglia il sopravvento (3). 
U altalena si protrae innanzi invariata per un bel pezzo. Ma 
in tutta questa mostra non passano innanzi al nostro sguardo 
altro che quadri staccati. Manca la vera méUe , perchè al 
poeta è mancata la potenza descrittiva di raffigurarcela, col ma- 
gistero della sua arte. In qualche momento ci si presenta di- 
nanzi il cozzarsi delle due schiere nemiche (4), come avviene 
di preferenza nella terza parte della canzone, che il Gautier 



(1) Chanscfif y. 1188-211. 

(2) Chanson, str. 97-128. 

(3) Ihid.y str. 128 e segg. 

(4) Chanson^ str. 113 e 138. 



— 77 — 

raffigura quasi per ischerno ad una potente trilogia. Ma subito 
siamo ricondotti da capo un' altra volta ai certami singolari (i), 
i quali evocano lo spettacolo monotono di una lanterna magica 
a tipi fissi. Infatti si ripete sempre fino air ultimo particolare 
la medesima scena , colle stesse circostanze ed incidenti che 
r accompagnarono la prima volta. Il guerriero pagano si avanza, 
apostrofando con maggiore o minor violenza il guerriero cri- 
stiano ; e questo, dopo di avergli assestata una buona botta, 
mira a terra la sua vittima e € ne laisserat que n'i parali > , 

Egli è vero che anche nell' Iliade troviamo di siffatte apo- 
strofi tra i due combattenti. Ma non dobbiamo dimenticare che 
cioè avviene soprattutto nelle monomachie, per mettere 
a fronte i diversi caratteri, gli opposti interessi dei due guer- 
rieri scesi in campo a lottare. Tenzóne veramente singolare, 
in quanto è destinata assai spesso a decidere l'esito di una 
lunga contesa ! Nel terzo canto dell' Iliade infatti ci abbattiamo 
nella sfida corsa tra Alessandro e Menelao ; nel settimo nel 
duello sanguinoso combattuto tra Ettore ed Aiace, dopo acri 
rampogne che si scambiano fra di loro le due parti conten- 
denti (2). Ma Omero disposa a questo suo compiacimento per 
le lotte singolari anche V attitudine più squisita a ritrarre l'a- 
zione, che si svolge generale in un campo di battaglia (3), il 
cozzare furioso dei due eserciti, gli episodii particolari che vi 
s' intrecciano in terreno appartato e quasi solitario. La sua 
arte spazia colla stessa libertà nelle situazioni più opposte: rende 
maestosamente lo spettacolo dell'insieme e concentra gli splen- 
dori della sua luce in un modesto episodio, ovvero anche nel 
ritrarre i contomi delle cose più semplici, col magistero sovrano 
delle più vaghe immagini. 



(1) Chans&n, w. 342 1-3 700. 

(2) Zr., VII, 226 segg. 

(3) n., nr, 422 segg. 



-- 78 - 



Vili. 



Ho accennato di sopra a una specie di preoccupazione per 
r effetto artìstico, onde sembra dominato il cantore della Chan- 
san. Tale considerazione ci porta allo studio di una novella 
specie di raffronti, già istituiti da altri col poema Omerico. Io 
accenno ai cosiddetti epiteti epici, che una volta creati si 
generalizzano, per non dimenticarsi mai più. £ Achille resterà 
sempre per il poeta tcóSo? àxb^ 'Axt^e^, anche se ritirato sotto 
la sua tenda si roda neir interno cordoglio, o pure ferito non 
possa più far prova dell' agilità dei suoi piedi. 

Parimenti nella Chanson^ non si ricorda mai il bel nome di 
Francia, senza che il poeta vi aggiunga l'epiteto di dulcty tanto 
caro al suo cuore (i). È notevole però che questo epiteto ap- 
parisce la prima volta sulla bocca di re Marsilio, fiero nemico 
del nome francese : 

« Oes, Seignurs, quel pecchiet nus encombret : 
« h emperere Carles de Fr ance dui e e 
« en cest paìs nus est venus confundre » (2). 

Saremmo quasi tentati di domandare, perchè 'mai il nome di Fran-^ 
eia suoni cosi dolce perfino pei suoi nemici, se non sapessimo 
che l'epiteto è ridotto nella poesia epica ad una pura astrazione, 
cristallizzata nella sua forma e affatto indifferente o insignifi- 
cante per il concetto che adombrava in origine. 



^ (i) Non faccio menzione particolare dei m<^ti altri luoghi, in cui al pari die 
in Omero questo epiteto è afiatto omesso, come nei w. 470, 488 ecc., ma mi 
fermo solo a ricordare il v. 3315 : 

« Veez Torgoill de France la loie », 

a causa della sostituzione afihtto singolare. 

(2) Chanson, t. 15-17, cfr. anche v. 1194, 2579. 



— 79 — 

È questo fuor di dubbio uno dei tratti più spiccati e carat- 
teristici della poesia 'primitiva, come ha ben riconosciuto Leone 
Gautìer. Ma esso si è forse infiltrato nella poesia epica ro- 
manzesca, solo per degenerazione del genuino uso classico, 
continuato senza discernimento da questi rozzi e monotoni ri- 
facitori del ciclo carolingio. 

A noi sfugge in gran parte anche il valore primitivo ed ori- 
ginario dell'epiteto omerico. Per il poeta antico Afrodite 
è sempre aurea, T e t i da* pie d'argento, egioco Giove, rosea 
r A u r o r a; ma forse assai spesso il cantore medesimo ignorava 
la convenienza intima di questi aggettivi alla personificazione di- 
vina dei fenomeni naturali, in cui essi s'incarnano. La sovrapposi- 
zione della forma umana agli antichi concetti mitici ha spesso 
annebbiata la trasparenza originaria di questi antichi attributi, 
staccati dal fondo naturalistico del fenomeno e impressi come 
emblemi o suggelli sul tipo divino, in cui dalla fantasia religiosa 
e poetica furono trasfigurati. I mitologi comparatori raccoglie- 
ranno spesso, nello studio di questi epiteti, il fondamento o la 
conferma più salda delle loro intuizioni o interpretazioni natu- 
ralistiche deir antica mitologia. A questra stregua Michele Bréal 
insegnerà con molto acume, che Vegida, cioè lo * scudo di pelle * 
onde è armata la sinistra di Giove, è assai probabilmente la 
* tempesta ' che egli scatena dalla sua sede del cielo nuvoloso, 
donde trasse appuntò il nome di Egioco cioè * portator di tem- 
pesta * (cfr. infatti accanto ad aX^ * la*capretta saltellante' 
da abaco * mi slancio * il n. composto >taTàt5,-yts adoperato ap- 
punto per indicar la * tempesta *). 

Di fronte a quest'analogia di significato cosi profondo, V epi- 
teto romanzesco si scolora per noi e perde gran parte della 
sua efficacia. Senza dire che i limiti assai angusti in. cui esso 
è usato nel poema francese, come ben nota il Wedding (i), — 
un altro entusiastico ammiratore della Chanson, — son tali da 
escludere V importanza intrinseca di questo raffronto, onde tanto 

(i) Étude, p. 25. 



— 8o — 

si compiaceva il Gautier. Infatti, a prescindere dal dolce quale 
attributo del nome di Francia, Taltro epiteto che ricorre con pari 
predilezione nella Chanson è quello per cui i capelli e la barba 
di Carlomagno son paragonati al color bianco della neve 
e dei fiori. Si può anzi affermare che Carlo non lasci un istante 
solo in pace Tonore del suo mento, perchè non apparisce mai 
sulla scena« senza far sventolare nobilmente sul petto la lunga 
barba fiorita. Come Filippo II, nella narrazione dello Schiller, 
esprime le più intense e profonde commozioni dell* animo, ca- 
rezzando la sua barba, cosi Carlomagno nei momenti più dif- 
ficili della vita non tralascia mai di domandar consigli alla 
gradita compagna delle sue distrazioni : 

« Li emperere en tint sun chief enbninc, 
« si doist sa barbe, afaltat sun gernun » (i). 

Come gli dei antichi esprimevano le loro promesse o le loro 
minacce per TOrco, così egli giura solennemente per la sua 
barba : 

« Respunt li reis : * vus estes saives hume; 
« par ceste barbe e par cest mien gemnn 
« vus n'irez pas uan de mei si luign » (2). 

E giunto sul campo di Roncisvalle, alla vista del cadavere di 
Rolando, non altrimenti che un musulmano accecato dall'ira, 

« sa barbe bianche cumencet à detraire, 

« ad ambes mains les cheveis de sa teste » (3). 

La barba è il* complemento necessario degli eroi, che circon- 
dano Carlo o che combattono contro di lui. Anche Baligante, 



(i) Chanson, v. 21 4-5. 

(2) Jbid.y V. 248-50. 

(3) Chanson^ v. 2930-1, cfr. anche vr. 261, 772, 1843, 2414, 2930, 2982, 
3122, 3712, 3954. 



— 8i — 



« li amiralz, ad sa barbe fors mise, 

« altresì bianche cume flur en espine » (i). 

E Blancandrino non altrimenti respinge le bravate francesi, che 
colla mimica apostrofe : 

« par ceste meie destre 
« e par la barbe ki à Vpiz me venteUt, 
« l'ost des Franceis verrez sempres desfere » (2). 

Ho detto che la barba è il complemento della mimica della 
canzone, e che aiuta Tindustria del gesto, si da far trasparire 
neir autore la persona dell* attore. Or se noi riuscissimo a con- 
fermare col sussidio di prove precise questo concetto, trove- 
remmo in tale dimostrazione un novello e non insignificante 
divario da Omero, che non lascia mai intravedere sulla scena 
la persona del poeta. Però non dobbiamo dimenticare che non 
manca neppure nell* Iliade qualche lontano e anticipato raf- 
fronto colla barba prediletta di Catlo. Al modo stesso che Vem- 
pevere magne si strappa dalla testa i capelli, con ambe le mani, 
e sconvolge nella grande eccitazione del suo dolore la barba , 
alla vista del cadavere, di Rolando, cosi Agamennone, quando 
macchina la spedizione notturna e, nel punto di adempierla, 
scorge di lontano il campo dei Troiani già desto, cede ad un 
improvviso impeto d'ira e 

TcoXXà^ ex %vsy£k% 7ipo9eXó|xvou^ IXxeto yctivi/;, (3). 

Achille, air udire la morte di Patroclo , nella profondità della 
sua angoscia 



(i) Chansan, v. 3520-I. 

(2) Ib., vv. 47-50. 

(3) IL IO, V. 15. 



82 



cpfXigat... X^9^^ xófirjv ^ax^ve 5at^a)v (i). 

Priamo, innanzi allo spettacolo lacrimevole del cadavere di Et- 
tore imbrattato di polvere e di sangue, 

fifuo^ev... x£cpaX))v 5'5ye x6(J>aTo x^P^^v (2), 

e la madre infelice Ecuba, fra i singhiozzi, 

xfXXs x6|X7]v (3). 

Sennonché conviene avvertire, che Omero ricorre in generale 
con pili parsimonia a un simile espediente, e solo quando esso 
è consigliato dalla disperazione vera e intensa dell* anima, sia 
per ritrarre il dolore del padre, della madre, dell'amico, innanzi 
alla perdita di persona diletta, sia per rappresentare con mag- 
giore efficacia lo strazio del capitano che vede attraversato il 
suo estremo disegno di scampo. Ma, anche allora, il gesto dei 
personaggi apparisce artisticantente composto, nella sincerità del 
dolore profondo. Invece nella Chanson s'intravede a cento miglia 
r artifizio, e la posa dei personaggi apparisce non spontanea, 
ma studiatamente cercata. Il dolore di Carlo non ha altra ma- 
nifestazione esterna che questa della violenza, fatta capiti int- 
inerenti ; ma neppure un segno d' agitazione interiore traspare 
a rigargli il ciglio. Egli è che le lagrime annunziano l'uomo, 
e al nostro poeta manca V attitudine di evocarlo. 

IX. 

A questa comica trovata della barba, di effetto quasi sempre 
antiestetico, si accoppiano altre immagini goffe, a provare che la 



(i) ib. 18, V. 27. 

(2) ib, 22 V. 33. 

(3) Ih, 22, V. 406. 



- 83 - 

Chanson è composta nell'intento precipuo di secondare il gusto 
grossolano degli spettatori. La scena in cui i Pagani abbattono 
e calpestano le immagini delle loro divinità, in pena della scon- 
fitta patita, rasenta la più bassa e lurida volgarità: 

« ensembrod lui (i. e. Marsilie) plus de vint milie humes, 

« ki tuit maldient Carlun e France dulce, 

«. ad Apollin en vunt en une crute, 

« tencent à luì, laidement IMespersument : 

« * E ! malvais Deus, pur quei nus fais tei hunte ? 

« Cest nostre rei pur quei laissas cunfundre ? 

« Ki mult te sert, malvais luer l*en dunes *. 

« Pois si li tolent sun sceptre e sa curune, 

<!, par Us mains Vpendent desur une culumbe, 

« erUre lur piez à fere le Irestumenl, 

« à granz bastuns le batent e defruisent, 

« A Tervagan tolent sun escarbuncle, 

« e Mahummet enz en un fossat butent, 

» e porc e chien le tnordent e defulent » (i). 

Questo spettacolo cosi abbietto e volgare, così sconcio e ridi- 
colo, è superato soltanto dalla grottesca punizione, che inflig- 
gono al traditore Gano i cuochi di Carlomagno 

« li reis fait prendre le cunte Guenelun, 
<i si Pcumandat as cous de sa maisun. 
« Tut le plus maistre en apelet Besgun : 
« *Bien le me guarde, si cume tei felun 
« de ma maisniée ad faite trajfsun \ 
■ « Cil le receit, si met cent cumpaignuns 
« de la quisine, des ^lielz e des pejurs : 
« icil li peHent la barbe e les gernuns ^ 
« cascuns le fìert quatre colps de sun puign; 
« bien le batirent à fuz e à basluns^ 
« e si le Tnetent eVcjol un caeignun; 
«{ si Vencaeinent altresì cume im urs. 
« Sur un somier Vunt mis à deshonur; 
« tant le guarderent que Trendent à Carlun » (2). 



(i) Chanson^ v. 2578-91. 
(2) Chanson^ v. 1816-30. 



— 84 - 

Anche qui ritornano in iscena i tradizionali mustacchi colla 
barba ; ma V esagerazione e la goffaggine hanno oltrepassato 
talmente il segno, che perfino il Gautier è stato costretto a 
rilevare che « sur ce nos pères riaient à pleines dents, et j*a- 
€ voue que ce tire n'était aucunement attique » (i). 

Questo comico di bassa lega non trascorre eccezionalmente 
o inconsapevolmente nei versi del poeta , ma è connaturato 
strettamente alla forma del suo pensiero e della sua arte. Egli 
infatti lo riversa a piene mani sulle azioni più serie dellm vita. 
L' arcivescovo Turpino, quando vede ridotta alle strette V oste 
di Carlo, vuole indurre il conte Rolando a dar fiato al jjuo 
corno , e non sa fargli altro ragionamento più persuasivo di 
questo : 

« nostre Franceis 
« truverunt nus e morz e detrenchìez, 
« leverunt nus en bières sur sumiers, 
» si nus plurrunc de doel e de pitìet, 
€ enfuirunt en aitres de mustìers, 
« n* en mangerunt ne lu, ne por^ ne chien » (2). 

Tali comiche stravaganze arieggiano alla lontana la descrizione 
del Paradiso, che si legge in Fra Giacomino da Verona. L'an- 
gelo, che ne guarda la porta, 

« noge lassa de là nuja 9ente 
« vegnir, tayan né mosca, né bizo né serpente, 
« né losco né asìrao, né alcuna altra 9ent, 
« ke a quella cité pos'esro nocument ». 

Noi siamo caduti in questo modo nelle stravaganze più gros- 
solane; e dobbiamo girare appena l'occhio intorno, per sorpren- 
dere gli elementi plebei che il rozzo troverò di Brettagna ha 



(i) Chansùn ediz. Gautier, p. xxx. 
(2) Chanson^ v. 1746-51. 



- 85 - 

disseminato a larghe mani nel suo poema. Ne riferiremo pochi 
cenni. Carlomagno, a detta del re Marsilio, 

« mien escient, dous cenz anz ad passet» (i). 

Il corno di Rolando ha già le virtù maravigliose, diventate 
poi tradizionali nei romanzi cavallereschi : 

« Rollanz ad nùs l'olifant à sa buche, 
« empeint le bien, par grant vertut le sunet. 
« Halt sont li pui e la voiz est mult lunge : 
<L granz trente liwes Votrent il respundre » (2). 

Soltanto lo strano e il miracoloso par che facciano impressione 
sul poeta e sulla moltitudine che lo ascolta. Perchè Carlomagno 
possa compiere V estermitìio dei Pagani e loro non serva di 
scampo l'oscurità della notte. Dio ha cura di rinnovare il mi- 
racolo di Giosuè e di fermare il sole : 

« pur Carlemagne fìst Deus vertut mult grant, 
« car li soleilz est remés en estant » (3). 

A simili goffaggini non si domanda neppure un raffronto 
coir arte d'Omero. Perchè il senso artistico dei Greci è anche 
nella sua infanzia cosi sereno , da non intorbidarsi o smarrir 
mai la visione della realtà. L' Iliade è come uno specchio di 
cristallo, in cui si ritrae la vita greca in tutta la sua vitalità. 
Omero non rifugge dallo spettacolo disgustoso, jna sa egli per 
il primo, colla sua rappresentazione, ispirartene ribrezzo. Geme 
coi miseri l'animo del poeta, anzi direi che la parola stessa nei 
suoi atteggiamenti echeggi il gemito lamentevole di Tersite 
sotto la sferza d' Agamennone : 



(i) Chanson, V, 524, cfr. v. 539, 552. 

(2) Chanson,y. 1753-7. 

(3) Chansony v. 2458-9, 



— 86 — 



Sy; dtp ' ?9Y), oxir^ircptp 5è iiexàcppevov fjSè xol &\uo 
nkfjitr 6 S'BvwGifl, OoXepòv 8è oE ?xn:eae Sàxpu. 
a|i6)5t5 B'aEjiatóeaaa iiexi^pevov è^-uTC-av-éoTT] 
oxifjirTpou Ó7CÒ xp\)oéo[) (i). 



Finora abbiamo preso in esame soltanto i caratteri comuni, 
che informano V Iliade e la Chanson^ e nell* uso dei processi 
artistici abbiamo notato l'abbondanza varia e copiosa d'Omero, 
e lo stento meschino in cui va a terminare in ogni incontro 

« la Geste que Turoldus deciinet ». 

Procederemo oltre, mettendo a raffronto anche le analogie che 
si notano nelle situazioni poetiche. 

Cominciamo da un tratto comune, l'anticipazione cioè della 
catastrofe o dello scioglimento del dramma, nel principio del- 
l' azione epica. Già nel v. 335 della Chanson , quando Carlo 
consegna a Ganelone il suo guanto, capita un caso sinistro, che 
il guanto gli sfugga di mano, e i Francesi son subito pronti a 
tirarne un augurio sfavorevole per la loro impresa : 

« li emperere li tent sun guant, le destre; 

« mais -li quens Guenes iloec ne volsìst estre; 

« quant le dut prendre, si li caìt à tere. 

« Dient Franceis : * Deus ! que purrat 90 estre, 

« de cest message nus aviendrat grant perte » (2). 

Questo tratto, che potrebbe giudicarsi nell'insieme di una 
certa finezza artistica, riesce però nell'effetto assai inferiore a 
quello che trovasi adoperato nella Kaiser Karl Magtms Kro- 



(i) Zf., Il, V. 265-9. 
(2) Chanson, w. 331-b. 



- 87 - 

nike. Quivi il conte Gano, a cansa della paura onde è sorpreso 
e che lo rende incerto neiradempimento della sua missione, si 
lascia scappare di mano le credenziali invece che il guanto, e 
assai più opportunamente « les douze Pairs sourient et Roland 
« dit : * sì Temperere m' avait confié ces lettres, la peur ne me 
« les aurait pas fait làcher , et elles ne seraient pas tombées 
« à terre ' ». È un semplice avviso, e il cronista dimostra nello 
adoperarlo un sentimento artistico assai più vivo del poeta, 
perchè non analizza la situazione e non interviene inopportu- 
namente in mezzo agli eventi a predirne il corso. Invece Tau- 
tore della Chansan^ preoccupato della soluzione già presente al 
suo pensiero, induce i Francesi a trarre dalla caduta del guanto 
un presagio sinistro , assai più lato di quel che consentisse il 
semplice fatto della paura di Gano. 

Questa prima e dubbia predizione degli eventi , annunziata 
così a mezza voce, diventa più oltre un' anticipazione ordinata 
e compiuta delle diverse fasi deirazione epica : 

« la bataille est adurée endementres : 
« Frane e Paien merveillus colps i rendent : 
« fièrcDt li un, li altre se defendent. 
« Tante hanste i ad e fraite e sanglente, 
« tant gunf anun mmput e tante enseigne ! 
« Tant bon Franceis i perdent lur juvente I 
« Ne revemint lur meres ne lur femmes 
« ne cels de France kì as porz les atendent. 
« Carles li magnes en pluret, si s* dementet. 
« De Qo qui cali f N'en avrunt succurrance, 
« Malvais servùe le jur lur rendit Guents 
<L qu*en Sarraguce sa maisnièe alai vendre, 
« Pois en perdit e sa vie e ses membres, 
« el* plait ad Ais en fut jugiez à penare ; 
« de ses parenz ensembV od lui tei trente^ 
« ki de murir n*en ourent espairnance » (i). 

Il Gautier giudica senz' altro un tratto profondamente epico 
quest'annunzio profetico dello snodamento dell'azione. Sennonché 



(i) Chanson, w. 1396-1412. 



— 88 — 

la forma/ in cui esso è presentato, mi lascia assai incerto che 
se ne debba attribuire Torigine ad un'intenzione artistica del- 
l'autore della Chanson, Il supplizio di Ganelone è rappresentato 
dal narratore non già come una visione dell'avvenire, ma come 
un fatto già compiuto : 

« pois en ferdit e sa vie e ses membres ». 

Ora il tono espositivo del poema ci vieta d'interpretare questo 
cenno come una profezia. E tre ipotesi ci soccorrono , egual- 
mente verosimili, a spiegare questa interruzione insolita della 
forma narrativa. Potrebbe darsi cioè che l'espositore, per quella 
naturale soddisfazione che prova l'animo all'annunzio di una mal- 
vagia azione punita, non sappia scindere il pensiero della strage 
dal tradimento di Ganelone e anticipi il supplizio riserbato alla 
sua opera nefanda. Potrebbe anche congetturarsi che la terza 
parte della trilogia, come la chiama con soverchia solennità 
il Gautier, quella cioè relativa alla morte di Rolando, fosse in 
origine un canto staccato , in cui si ripetesse incidentalmente 
il motivo di un'altra tradizione popolare. O piuttosto può ri- 
tenersi come meglio plausibile l'ipotesi di quei dotti, i quali fanno 
terminare lo svolgimento originario della Chanson alla morte di 
Rolando , e considerano come una sovrapposizione tardiva e 
riflessa quella parte di essa in cui si narra la vendetta di Carlo 
sui Saraceni e la punizione di Gano , sovrapposizione che si 
sarebbe poi compenetrata o saldata nell' orditura generale del 
poema, facendone preannunziare nel corso del suo svolgimento 
la novella catastrofe. 

Anche nell' Iliade si trova preannunziato l'esito finale della 
guerra, ma in una forma che rende plausibile la visione anti- 
cipata degli eventi, cioè per bocca di Giove stesso, che allet- 
tato dai vezzi di Era dimentica le cure del regno e lascia al- 
l'arbitrio di Nettuno di poter concorrere ad un momentaneo 
sopravvento del Greci. Quando però egli si desta e riconosce 
l'effetto delle sue distrazioni, o meglio delle perfide malie di Era, 



- 89 ~ 

vorrebbe irritarsi, ma smorza regalmente in un sorriso il suo 
sdegno, per confidare alla fida consorte, che Taiuto offerto ai 
Troiani, in grazia delle preghiere di Teti, durerà solo fintanto 
che i Greci rimeritino degnamente Achille e riacquistino defi- 
nitivamente il diritto alla vittoria finale. La predizione avviene 
in un momento opportuno e affatto consono alla necessità degli 
eventi, senza nessuna di quelle intrusioni che lasciano scorgere 
l'artifizio o il posticcio. Giove così narra : 

aòxàp 'Axatou^ 

^eÙYOvxc»; 5'èv vrjuol KoXu/Xi[Cai irsawatv 
IlTjXetSéa) 'AxtXfJo^* 6 5'àvamfjaec 8v éxalpov 
nàxpoxXov TÒv 5è xTsvel È^X^'i^ 9ati5t|xo^ ''Exxwp 
'IXtou 7ip07càpoc6e, noXiou; òXéaavi'aìI^Tjoó? 
xou^ àXXou^, ^tèxà 5'uEòv èjiòv Saprcif^Sova 5rov. 
ToO 5è yiok(sìoi\izyo<; xxevel TExxopa Sco^ 'Axt^Xeó^. 
'Ex xoO 5'àv xot Ineixa, TioXfto^tv Tcapà VTfjwv 
aJèv lyà xeóxot|xc 5ta{i7i€pè<;, efoóxa 'Ax«to( 
"IXtov ató gXocev 'A6ir)va(Tf)^ 8tà ^ouXo^ (i). 

La differenza dei due motivi è lampante, ed esclude anche 
qui la sostanza di quel raffronto o di quelle analogie , di cui 
tanto mostrava di compiacersi il Gautier. 

XL 

Soccorre però in compenso un elemento, che è davvero co- 
mune alle due rappresentazioni , il catalogo cioè delle navi e 
la rassegna dei due eserciti greci e troiani (2) , a cui fa ri- 
scontro nella terza parte della Chanson la rivista dei due eser- 
citi nemici, schierati di fronte a mortale tenzone, il francese ed 



(1) //., XV, 61-73. 

(2) //., n, 484-872. 

13 



- 90 — 

il pagano (i). Sennonché anche in questo il Gautier è dav- 
vero sfortunato, perchè quasi a farlo a posta il raffronto viene 
ad istituirsi con una delle parti meno belle dell* Iliade , anzi 
proprio con quella che anche i critici unitarii stralciano dalla 
tessitura primitiva del poema omerico. Accenno di sfuggita alle 
ricerche del Kòchly , dello Schwartz e del Niese , che hanno 
indubbiamente contribuito a mettere in mostra le frequenti in- 
terpolazioni di quel catalogo e la boria delle città elleniche 
che vi fa capolino. Ciò spiega forse T aridità di quella enu- 
merazione, che non accresce pregio alcuno al porma. E ci lascia 
anche intendere, perchè la corrispondenza colla Chanson tragga 
motivo proprio dà uno di quegli elementi dell' Iliade , di cui 
è meno perspicuo V interesse artistico. 

Per tal mezzo ci siamo aperta la via allo studio di quelle 
situazioni, che il Gautier contrassegna col nome di complets 
similaires. È uno dei caratteri più spiccati della poesia primi- 
tiva , che un ambasciatore non compia mai la sua missione, 
senza ripetere per filo e per segno il discorso che il suo re 
gli ha indettato. Questo caso però si ripete due volte sole nella 
Chanson , e la seconda volta la ripetizione non si ottiene , se 
non coli' aggiungere dal mscr. di Venezia una prima strofe af- 
fatto omessa da quello di Oxford. Nella prima circostanza il 
re Marsilio , fisso nel proposito di mandare un* ambasceria a 
Carlo, 

« dist à ses humes: * Seignurs, vus en ìreiz, 

« branches d'olive en voz mains portereiz: 

e si me direz à Carlemagne, à 1' rei, 

« pur, le soen Deu qu'il ait mercit de mei. 

« £inz ne verrat passer cest premier meis 

« que jo 1' sivrai od mil de mes fedeilz, 

e si recevrai la cliristiene lei, 

« serai sis hum par amm: e par feid; 

« s*il voelt ostages, il en avrat par veir » (2). 



(1) Chanson^ w. 3025-95 e 3210-3265. 

(2) Chanson^ vv, 78-89. 



— 91 — 

Quando Blancandrino , a cui la missione è affidata , giunge 
innanzi al re di Francia, così egli parla: 

« saluez seiez de Deu 
« le Glorius, que devez aiirer! 
« I90 vus mandet reis Marsilies li ber: 
« enquis ad mult la lei de salvetet; 
« de sun aveir vus voelt asez duner, 
e urs e leuns e veltres caeignez, 
« set cenz cameils e mil osturs muez, 
« d*or e d'argent quatre cenz mulz trassez, 
« cinquante cares que carier ferez » ecc. (i). 

Or io avverto con grande maraviglia, che qui manca affatto 
la ripetizione del discorso, che Blancandrino aveva udito dal 
suo re Marsilio. Certo di una maggiore e più diretta rassomi- 
glianza potrebbero conservar traccia le due strofe 24 e 35, se 
esse ricorressero nella medesima redazione del poema. Sennon- 
ché in questa ripetizione dello stesso messaggio prima da Mar- 
silio a Carlomagno, poi da Carlomagno a Marsilio, e da capo 
ancora per V ultima volta da Marsilio a Carlo, noi troviamo 
bensì un cenno o un ritorno delle medesime circostanze, — 
appunto perchè esse costituivano come la base o la premessa 
immancabile di un accordo prestabilito, — ma nei tre casi è 
significativo il divario della forma, nella quasi perfetta identità 
del contenuto. Sicché anche questo tentativo del Gautier , di 
additare la monotona ripetizione di uno stesso motivo, fino a 
tre o quattro volte, nelFordito dei poemi omerici come un ;io- 
vello carattere di conformità tra la Chanson e Vlliadey apparisce 
air esame dei fatti destituito di prove. 

In Omero gli ambasciatori compiono la relazione delle loro 
ambascerìe , colle parole medesime con cui V hanno apprese. 
Quando Giove ebbe fatto al Sonno la commissione di cui gli 



(i) Chanson^ vv. 113 sgg. 



— 92 — 

dà incarico presso di Agamennone (i) , quegli si avvia verso 
le navi degli Achei e riferisce al loro capo il comando rice- 
vuto (2), nella forma medesima in cui questo lo esporrà più 
tardi air adunanza dei suoi soldati (3). La stessa narrazione 
ricorre altra volta neìV Iliade sotto il medesimo aspetto, anche in 
circostanze diverse (cfr. ades. 1,371 -9=1, 13- i6h-22- 25). 
Ma si noti che la ripetizione omerica riveste quasi sempre il 
carattere di perfetta semplicità e naturalezza, che piace e non 
stanca.' L* insistenza del poeta sopra le stesse idee, che costitui- 
scono come il motivo principale dell'azione, arieggia il ritorno di 
quelle frasi musicali, che in un lungo spartito fissano l'intonazione 
fondamentale del dramma. E il ricorso della stessa melodia, pro- 
vocata sovente dall' antitesi della situazione, carezzando 1' orec- 
chio come un' armonia già nota, scende a comporre in una calma 
momentanea e soave le tempeste dell' anima. 

Nulla di simile al sentimento di sollievo, che emana da questi 
felici ricorsi, noi possiamo sorprendere nell' armonia musicale 
della Ckansan de Roland. La successione di più strofe, rivolte 
a ripetere con assonanze diverse, ma coi termini stessi, un'iden- 
tica situazione di fatto (4) , non presenta alcun riscontro col 
fenomeno melodico della poesia antica, raccolto e illeggiadrito 
nelle forme più recenti della nostra opera musicale. G é n i n e 
d'Avril, Weddigen e Gautier, Graf e Fau- 
riel, Hertz e G. Paris, Laurentius ed altri han 
posto tutti attenzione a questo fenomeno della Chanson, e se- 
condo r ordine di successione data ai loro nomi si sono stu- 
diati di proporre un'interpretazione, che raggiunge di grado 
in grado i limiti della più perfetta verosimiglianza. Il Gènin 



(i) n.^ n, V. 11-16. 

(2) Ibid., w. 28-33. 

(3) Ibid,, vv. 60-70 = 23-33; cfr. anche 2, 160-5 = 2, 176-181; 2, 421-32 
= I, 458-69. 

(4) Cfr. Chanson, tir. 5 e 6, 42-43-44, 87-88-89 , 198-199-200 e così di 
seguito. 



— 93 — 

aveva affermato: « on ne peut en douter, ces repétitions étaient 
« une forme de V art primitif; Tintention en est doublé. EUes 
€ servaient d' abord à insister sur une circostance notable, en- 
« suite à faire éclater 1' habilité du versificateur ; car T erreur 
€ serait grande de croìre que le peuple ait jamais été insen- 
c sible à ces finesses de la forme, à ce mente de la difficulté 
« vaincue, dont V appréciation semblerait le privilége des ar- 
« tistes » (i). Lo stesso ripete il d'Avril. Ma il Weddigen, 
professore a Schewerin, in una dissertazione stampata nel 1876, 
portando air ultima esagerazione questa teoria, osò di sorpren- 
dere una bellezza poetica in ogni gaucherie di questo informe 
parto dello spirito francese , e di attribuire al poeta , in cia- 
scun nuovo tipo di ripetizione, lo scopo preciso « d'augmenter 
< r effet, ou de mettre sous nos yeux les situations d'une ma- 
« nière plus frappante » (2). 

Il primo autore di una teoria diversa e anche più plausibile 
fu il Fauriel. « Le texte de la Chansan de Roland, » egli la- 
sciò scritto, « est r oeuvre d' un copiste sans intelligence, qui 
« avait sous ses yeux troia legons diverses du mème passage, 
€ et au lieu de choisir entre elles la meilleure, les a transcrites 
« à la suite Tune de T autre. Ainsi nous n^avons qu' une ré- 
« daction confuse » (3). A questo concetto aderì V Hertz, e 
il Paris ne fece fondamento di una dimostrazione assai felice, 
donde risulta che le ripetizioni sono fasi diverse di redazione 
dello stesso esemplare primitivo. 

Il Laurentius, accettando queste deduzioni, in un pregevole 
studio Zur Kritik der Chansan che vide la luce nel ^1878, opinò 
di poter fissare la redazione originale con uno studio diretto 
di raffronto fra le diverse forme di questo motivo, commesso è ri- 
petuto nella Chansan , e la redazione primitiva riferita nella 
Cranaca di Turpino. Il Graf ammette la composizione rapso- 



(i) GÉNiN, presso Gautier, p. cn. 

(2) Ètude, p. 20. 

(3) Fauriel, Histoire de la poesie provenccUe, 



— 94 — 

dica del poema, ma non sarebbe alieno dall* additare un este- 
riore riscontro omerico « nella triplice ripetizione del messaggio 
«di Ganellone a Marsiglio» (i), senza bene avvertire che la 
terza volta, cioè nella strofe 37, Ganelone ripete semplicemente 
al re l'annunzio medesimo che gli ha già dato nella strofe 34. 
Vediamo. 

« Envers le rei s' est Guenes aproismiez, 

« sì lì ad dit: * à tort vus curuciez, 

« car 90 vus mandet Carles ki France tient, 

« que recevez la lei de chrestìens (2); 

« demi Espaigne vus durrat il en fiet, 

« r altre meitiet avrat RoUanz sis niés : 

« mult i avrez orgoillus parqunier. 

« Se cest acorde ne vulez otrier, 

« en Sarraguce vus viendrat asegier; 

« par poestet serez prìs e liez, 

« menez serez tut dreit ad Ais le siet » ecc. (3). 

11 Weddigen (4), mettendo a riscontro questa t i r a d e 37 
coir altra precedente, già da noi riferita, ammira in essa come di 
solito r artistica bellezza, V artificio con cui è costruita questa 
ripetizione, la finissima variazione con cui è modificato il primo 
motivo, mercè V aggiunta dei due versi 

« 1* altre meitiet avrat RoUanz sis niés, 
« mult i avrez orgoillus par9unier ». 

Anzi arriva sino al punto da intravedere in essi « T interesse 
« personale* di Ganelone , la sua fina diplomazia , che impie- 
« ga a proposito gli argomenti decisivi per atterrire il Saraci- 



(i) Epopea neolatina^ p. 146. 

(2) Cfr. V. 78 segg. citati di sopra. 

(3) Chanson^ w. 468-485. 

(4) Op, cit., p. 14. 



— 95 — 

« no » (i). Or si badi che non sfugge neppure a me Tartifizio 
di quella tirata : 

« mult i avrez orgoìllus par9unier », cioè * orgogliosi rivali ' . 

Sennonché invece di trovarvi un argomento di ammirazione, 
come fa il Weddigen, io vi riscontro la prova di una duplice 
redazione , e sono indotto a riferire questa inserzione tardiva 
deir ultima strofe a quel periodo della genesi del poema , in 
cui il tradimento di Gano, aggiunto, a complemento o dichia- 
razione della rotta di Roncisvalle, fé* sentire il bisogno di an- . 
ticipare questo motivo stesso e di aprirgli come un novello spi- 
raglio, anche in altre parti della Chanson. Si avverta infatti che, 
se non fosse questo il motivo diretto di quella inserzione, non 
s* intenderebbe in alcun modo il suo differimento alla seconda 
strofe, perchè Ganelone non era punto in grado di presumere 
o sospettare la prima volta, che gli si sarebbe presentata più tardi 
1' occasione d' essere più esplicito. La genesi di questa sovrab- 
bondanza della strofe 37 è così evidente, che nel ms. di Ve- 
nezia essa è stata aggiunta, coi versi 433-4, a completare anche 
la lacuna della strofe 34. 

In tutto questo armeggio fatto dai critici , per spiegare le 
ripetizioni della Chanson, quello che più ci sorprende è l'alta- 
lena faticosa del pensiero del Gautier. Egli confessa di non 
prestar fede alle preoccupazioni letterarie , che altri intravede 
nel compositore francese, affatto alieno nella sua semplicità da 
simili artifizi (2) ; e d' altra parte, pur avvicinandosi alla teoria 
del Paris, non manca di rilevare altrove i processi artistici fan- 
tasticati dal Génin (3). La preoccupazione non è estranea alla 
forma estetica del poema , come abbiamo dimostrato con evi- 
denza in parecchi riscontri; ma non fa in alcun modo capolino 



(i) Op. ciu, p. 14. 

(2) O/. cit,^ p. XIX. 

(3) Cff. la n. al v. 62. 



- 96 ~ 

in queste redazioni diverse dell'antica materia epica, redazioni 
talvolta contradittorie (i), che attestano la duplice mano e che 
non possono in nessun caso derivare da un' unica fonte. 

XII. 

Facciamoci ora a discorrere più dappresso del sentimento reli- 
gioso , a cui s* ispira il poeta francese nella sua composizione. 
Trattandosi di un raffronto artistico, noi non abbiamo per for- 
tuna alcun bisogno di inforcare V arcione e di seguire il Gau- 
tier nelle sue dispute , circa la superiorità del pensiero che 
infiamma la Chanson, di fronte a quello che è lo spirito ani- 
matore deir Iliade (2). A noi basta indagare, se questa diver- 
sità d' intonazione si rifletta come forza viva neir organismo 
interiore delle due creazioni poetiche. 

Accennammo di sopra alla morte del paladino di Roncisvalle, 
avvolta in un velo di profondo misticismo; e qui aggiungiamo 
che il suo spirito vola al cielo, scortato da una schiera di angeli: 

« si priet Deu mercit; 
« * Veire paterne, ki unkes ne mentis, 
« Seint Lazanm de mort resurrexis 
« e Daniel des leuns guaresis, 
« guaris de mei V anme de tuz perilz 
« pur les pecchiez qu* en ma vie fis * ! 
« Sun destre guante à Deu en purofifrit, 
« e de sa main seinz Gabriel 1' ad prìs. 
« Desur sun braz teneit le chief enclìn : 
« juintes ses mains est alez à sa fin. 
« Deus li tramist sun angle Cherubin 
< e seint Michiel de la mer de 1* perii. 
« Ensemble od els seinz Gabriel i vint, 
« Tanme de V cunte purtent en pareìs » (3). 

Questo paradiso, che T antichità non conosce (come afferma 



(i) Cfr. tra loro le laisses 61 e 62, 235 e 236. ecc. 

(2) Op, cit,, p. XLV. 

{3) ChansoHy w. 2383-96. 



— 97 — 

il Gautier) , è un immenso giardino di fiori , che la fede cri- 
stiana offre in premio ai cavalieri che muoiono per la sua di- 
fesa. Ed è appunto colla promessa di tale beatitudine, che Tar- 
ci vescovo Turpino incita alla pugna te schiere francesi : 

€ Seìgnurs baruns, Carles nus laissat ci, 
€ pur nostre rei devum nus fìeu murìr; 
« Chrestientet aidiez à sustenir. 

< Batailles avrez, vus en estes tuit fid, 
4r car à voz oilz veez les Sarrazins. 

< Clamez vos culpes, si prdez Dea mercit. 

< Asoldrai vus pur voz anmes guarir; 
« se vos murez, esterez seint martir; 

* ^iéges avrez el* greignur pareis » (i). 

Ben altro è il premio che Agamennone neir I/tade promette 
ai suoi prodi : 

at xév |iot ÒbYQ Zeu^ x'atytoxo^ xal 'AOì^vy] 
'IXfou èJEpikxnóiflLi èOxxffJievov TctoXfeOpov, 
TTpércp tot |jLex'è|iè Tnpeapifjlòv Iv y(jifl 9V]aa), 
^ tpùnoS'-fiè 500 titKQu^ aòtolacv S^ea^tv 
fjè '{ìjyfaXx^ f) x£v ta ójiòv Xéxo; sJaavapafvoc (2). 

La vittoria qui sorride a Teucro, coli' invito stesso che fanno 
le Uri ai martiri della fede, nel paradiso di Maometto : 

< Impatient to their halls invite 

< and the dark heaven of Hourìs' eyes 
4i on him shall glance for ever bright ; 

4C they come, their kerchiefs green they wave, 

< and welcome with a kiss the brave; 
t who falls in battle ' gainst a Giaour 

< is worthiest an hnmortal bower > (3). 



(i) Chanson, w. 1127-35. 

(2) II. vra, vv. 287-92. 

(3) Byron, nel The Giaour, 

. »4 



^ 98 - 

Né diversa è la promessa che fa Baligante ai suoi Saraceni, 
neir ultima parte della Chansan: 

€ ferez, pauten, pur el venut n' i estes? 

€ Jo vus durrai muillers gentes e beles^ 

€ si vus durrai fieus e honurs e teres > (i). 

Ma che altro potremo noi argomentare da quest* antitesi, che 
è intervenuta nelle credenze, se non che si è convertita la base 
della fede? La coscienza antica dei pagani rifuggiva dal pen- 
siero della morte, e si cullava anche dopo di essa in sogni di deli- 
zie mondane; la coscienza cristiana soddisfa i suoi numerosi pro- 
seliti, colla speranza dei mistici godimenti del Paradiso. Ammet- 
tiamo che il sentimento morale è già molto progredito dall'una 
air altra credenza. Ma vorremo perciò menarne vanto, e river- 
berarne alcun merito sull'arte speciale che rifulge nella Chansonf 
Ciò che qui interessa unicamente è il modo diverso, onde i due 
sentimenti si prestano ad esser rivestiti di forme poetiche. E 
da questo punto di vista non può non essere altamente istrut- 
tivo il fatto, che nessun tipo vero e vitale è uscito dalla fan- 
tasia deir autore della Chansan, « La faiblesse de la caracté- 
« ristique, ha avvertito coli* abituale concisione Gaston Paris, 
€ est sensible dans T epopèe francaise >. In essa non vi ha nulla 
che corrisponda alla prodigiosa varietà di Omero, alla stupenda 
creazione di tanti caratteri opposti, tutti tipi vivi ed armonici, 
finamente ideati e mirabilmente scolpiti nella vena lucidissima 
del marmo più perfetto. 

Donde ripeteremo noi tal diversità di effetti ? Il genio arti- 
stico del popolo ellenico, nella sua precocità e perfezione tanto 
sup)eriore alle tendenze naturali dell'ingegno gallico, sarà certo 
tra le cagioni precipue e dirette di simile divario. Il genio in- 
dividuale portentoso di Omero e quello ancor rozzo e inedu- 
cato dell'anonimo troverò di Francia, avranno certo contribuito 
alla creazione di così opposti fenomeni letteraria Ma non si può 



(i) Chanson, w. 3397-340O' 



— 99 — 

negare , che vi ha conferito anche in parte il mondo diverso 
dei sentimenti che campeggiano nei due poemi. Il monoteismo 
cristiano assorbe troppo in sé V individuo^ mantiene V uomo 
troppo occupato di un solo pensiero, la salute dell'anima, perchè 
la vita reale faccia ed operi un' impressione durevole sul suo 
spirito. Quindi era assai difficile, soprattutto in un periodo di 
rozzezza e d'inerzia di ogni altra facoltà dello spirito, che l'arte 
potesse esplicarsi e ritrarre vita da questo sentimento. In un 
tempo di profonda esaltazione religiosa, non parea che 1' uomo 
potesse mirare ed assurgere a qualche azione nobile e degna, se 
non in quanto combattesse a vantaggio della sua fede. Di fronte 
a quest'arte ancora infantile, l' individuo era costretto a scom- 
parire, per cedere il posto alla virtù onde si sentiva animato. 
Gli uomini appariscono niente altro che come strumenti nelle 
mani di un principio supremo, cui piegano la fronte, per spo- 
gliarsi, nel loro omaggio, di ogni personalità e di una passione 
diversa da quella, che è loro imposta da questa forma cosi esclu- 
siva ed assorbente della loro fede. 

Io non affermo già che il Cristianesimo, come si sostenne a 
torto da alcuni, impedisca lo sviluppo della poesia e 1' educa- 
zione del senso artistico. Il Cristianesimo contribuì nuovi e no- 
tevoli elementi alla vita della fantasia e del cuore. Ma, per dar 
loro forma sensibile, era necessario di superarli , di spogliarsi 
del sentimento estatico di una vita puramente contemplativa , 
di far sorgere nel credente Tindustre spiritò di uno studioso, 
ammiratore e riproduttore della bellezza poetica. Per cantare 
un poema ispirato dalla religione, occorreva di non esser più 
preoccupati dell'unico sentimento, che non vi fosse altra òpera 
meritoria al di fuori di quella prestata in servigio e tutela della 
fede. L'attore distruggeva nel credente il poeta. Difatti la virtù 
del cavaliere cristiano non era riposta altrove che nella fierezza 
e nella forza; e, in assenza di queste virtù, nessun altro com- 
pito gli apparteneva tranne che quello di seppellirsi in un mo- 
nastero e di pregare da Dio mercè per le sue peccata. 



— 100 — 

) 
« Di«t l'ArceTesques: ' Ases le faites iMen. 

« Itel valur deit aveir cbeTaliers, 

« ki annes portet e en bon cheval siet; 

« deit en botatile tels estre forz e fiers^ 

« altrement ne vaU quatre deniers; 

« ei$a deit monjes estres en Un de cez mi^stùrs: 

4L si ^eierat tu» jurt pur not pecchie^ » (i)« 

A non voler essere sordi o renitenti alla morale di Turpino, 
converrebbe concludere che proprio quel sentimento, per cui il 
Gautier va cosi orgoglioso duella eccellenza della Chanson , è 
stato la causa della sua deficienza sotto .l'aspetto dell'arte. 

Ben diverso era l'ideale del mondo greco. L'illustre maestro 
Bonaventura Zumbini ha notato assai acutamente, in un suo 
scritto mirabile intorno all' inno del Leopardi Ai pairiarcM^ < che 
« i maggiori poeti dei tempi ultimi hanno considerato la morte 
< delle favole antiche come uno dei più grandi danni che potcs- 
« sero intervenire alla vita umana e segnatamente all'arte ». Noi 
non dobbiamo assurgere cosi in alto, all'esame di un problema 
che. qui .non ci tocca direttamente. Ma ciò non toglie verità alla 
nostra affermazione, che proprio quel mondo, condannato al- 
l' oblio dalla coscienza del credente, era quello che si trovava 
in commercio e in relazione più diretta col mondo dell'arte. Io 
non intendo con ciò di negare al Cristianesimo le sue grandi 
ispirazioni e di disconoscere i suoi effetti mirabili in ogni ge- 
nere d'arte. Ma essa è una religione, più che altra mai, spiri- 
tualizzata e ideale, mentre invece il politeismo classico toccava 
la sfera del reale e rimaneva in più intimo contatto coU'uomo 
e colla natura. Gli Iddii si rivelavano alla coscienza di quei 
nostri antichi e fortunati progenitori in forme sensibili. Or se 
il processo dell'arte consisterà sempre nel dar vita all'ideale e 
nel rappresentarlo sotto forma sensibile, se il suo costante obiet- 
tivo sarà quello di poggiare verso il concreto e dimenticare 
l'idea nella ricchezza più perfetta della sua immagine, non si 



(i) Ckanson, vv. 1876-82. 



— lOI — 

Z '* * « • • • 
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può disconoscere la maggiore intimità del mondo pagino *c6n *' 
quello dell'arte, e la maggiore distanza p>er cui:la oonce4Qn<^* 
del Cristianesimo si distacca o s'innalza sulla sfera, clie è do- 
minio proprio e assoluto dell'arte. Dante stesso, uno dei sim- 
boli e delle incarnazioni più potenti della nuova arte, non riuscì 
a vincere neppur lui interamente e direttamente questo ostacolo, 
né riusci ad impedire che la più poetica delle sue tre canti- 
che risultasse l' Inferno. Egli è qui che l'uomo si rivela nella 
sua interezza, e sia pure nella sua degradazione, ma uomo 
sempre, sopratutto nei suoi vizii e nelle sue passioni; mentre 
invece nella sfera del Paradiso brilla di luce incorporea la virtù, 
e l'arte trova più sorda e difficile la materia della sua elabora- 
zione : luce tremula come suono, che è destinato a trasformarsi, 
per miracolo della parola, nel più musicale di tutti i mondi 
poetici. 

XIIJ. 

Ma non dimentichiamo troppo i termini del nostro raffronto. 
Il poeta della Chans<m non conosce 1' uomo e tutti i lati can- 
gianti della sua anima. Abbiamo già osservato che egli non sa 
altro concepire che l'eroe, che uccide e muore in sostegno della 
sua fede. A nessun altro sentimento, a nessun' altra azione è 
aperto e preparato l'animo degli attori, che partecipano a que- 
sto grande dramma umano. Di qui deriva queir uniformità di 
figure , queir assenza di caratteristica deplorata dal Paris. Ti 
sembra di assistere al lavoro di una falange di mietirori, che 
in un campo biondeggiante di spiche attendono all' opera co- 
mune, tutti vestiti del medesimo e indistinto colore. Un'unica 
differenza tu avverti ed è questa, che i mietitori del poema fran- 
cese falciano vite umane. Sennonché, mentre nell 'avvicinarti a 
quelli tu puoi pur distinguere il vecchio piegatp sotto il peso 
degli anni dal giovane aitante della persona, i mietitori del no- 
stro poeta non riesci mai a fissarli in viso. Essi rassomigliano 
a macigni con articolazioni mobili, in atto di brandire una spada. 



— I02 — 

Il'Gaùlier ha pronunziato una grande eresia afTermando, 
;chec gii jèroi 3 quali circondano Carlomagno rappresentano tutti 
i sentimenti e tutte le forze dell' ànimo umano (i). Anche a 
non considerarli sul campo di battaglia, cioè nella sfera più 
larga delle loro azioni, anche a voler giudicare dei loro carat- 
teri dall'epiteto che loro assegna il poeta, epiteto insignificante 
come già osservammo, perchè tramandato dalla tradizione e non 
filtrato attraverso il talento e Telaborazione artistica del com- 
positore — , noi non dobbiamo dimenticare che gli epiteti stessi 
non riproducono in alcun modo una fisonomia particolare dei 
singoli attori, in questo dramma uniforme e monotono. 

Saggio è Blancandrino : 

« Blancandrins fat des plus sawes p£ù[ens , 

< de vasselage fat assez chevaliers, 

« produrne i out pur sun seignur aidier » (2); 

saggio è anche Naimes (3), e non meno di loro due Oli- 
viero : 

« Rollanz est pruz e Olivters est sages » (4). 

Qualcuno forse potrebbe esser tentato a scorgere in questa 
ultima antitesi come il riflesso di due caratteri. Sennonché il 
poeta si affretta subito a disingannarci, aggiungendo nel verso 
successivo : 

« ambeduì unt merveillus vasselage ». 

Nello spirito di vassallaggio sono entrambi congiunti 
con Blancandrino e con Naimes, e hanno in comune con essi 



(1) Op, cit,^ p. XXXIII. 

(2) ChansoHy w. 24-27. 

(3) Jhid. V. 248: « respunt li reis : *Vus (Naipies) estes sawes hum ' ». 

(4) Chanson, v. 1093, ^^^- anche 253 : « vostre curage est mult pesmes e 
fiers ». 



— . I03 — 

la virtù di f e d e 1 1 à e quella della prodezza. Manca dun- 
que quella differenza di caratteristica, che il primo epiteto ci 
induceva a supporre. 

Però nei due personaggi nominati per ultimo, Oliviero e Ro- 
lando, noi troviamo i segni iniziali di due caratteri distinti, ma 
abortiti sul nascere. Intravediamo il carattere di Rolando fiero, 
duro, intransigente , che cozza colle difficoltà e tenta di non 
soccombervi, soprattutto in quella scena finale dell'azione epica, 
in cui rifiuta il saggio consiglio di Oliviero. Questi aveva sug- 
gerito di richiamare con uno squilla del suo magico corno Carlo 
e i Francesi, perchè colle loro scarse schiere non sarebbero stati 
in grado di tener fronte ali* impeto straordinario dei Saraceni 

« Campainz Rollanz, sonez vostre olifant : 

« si l'orrat Carles ki est as porz passant ; 

« jo vus plevìs, ja retumenmt Frane. 

« ' Ne placet Deu, 90 li respunt Rollanz, 

« que 90 seit dit de noi hume vivant 

« ne pur pa!en que ja seie comant ! 

« Ja n'en avrunt reproece mi parent. 

« Quant jo serai en la bataille grant 

'« e jo ferrai e mil colps e set cenz» 

« de Durendal verrez Tacier sanglent. 

« Franceis sunt bon, si ferrunt vassalment ; 

« jà di d'Espaigne n'avrunt de mort guarant » (i). 

Ma il Rolando francese non si mantiene all'altezza dell'Achille 
omerico , su cui pur si direbbe modellato. Atterrito dall' im- 
menso vuoto , che r incalzarsi sempre più impetuoso dell' oste 
nemica lascia nelle sue file, egli s' induce alfine a richiedere di 
consiglio Oliviero, se possa in quell'ora estrema dar fiato al 
suo corno, per invitare l'imperatore a recar soccorso ai super- 
stiti. Ma qui appare un lampo fugace , più che della sag- 
gezza, della nobiltà intrepida dell'animo di Oliviero, che rifiuta 
r inutile tentativo dell' estrema ora , inopportuno e inefficace 
oramai dopo che la strage è compiuta: 



(i) Chanson, w. 1070-81. 



— I04 — 

« Dist OMviers : * Verguigne sereit grant 

« e reprover à trestuz voz parenz : 

« iceste hiinte durreit à e ' lur vivant. 

« Quant jo 1' vus dis, n'en felstes nient, 

« mais ne I' ferez par le mien loement : 

« se VHS comez, n*iert mìe hardement. 

«Ja avez tus ambsdous les braz stfnglenz' » (i). 

Rolando decade dalla sua antica fermezza, e soggiace alla forza 
ineluttabile delle cose : par quasi che gli eventi lo scuotano dal 
suo indomabile ardire, e che egli rinunzi al proposito in cui parca 
poco fa tanto saldo. Quel consiglio stesso che egli avea respinto, 
mentre ancor poteva essere efficace, gli si presenta innanzi al 
pensiero come accettabile, soltanto ora che non può trame più 
partito. Oliviero invece non perde la sua antica lucidità di spi- 
rito: si avvede che il tentativo è fatto ormai inutile e prefe- 
risce di morire, saldo nella sua antica prudenza, senza mostrar 
paura o codardia di fronte alla morte. tL questo un guizzo di 
luce improvvisa, che spunta in mezzo alle tenebre : unica situa- 
zione viva, che lampeggia dal seno stesso della morte. 

Un'altra momentanea e felice ispirazione del nostro poeta è 
quella che gli governa la mano, nel delineare la figura di Carlo : 

« un faldestoel i out, fait tut d'or mier : 

« là siet li reis ki dulce France tient ; 

« bianche ad la barbe e tut flurit le chief, 

« gent ad le cors e le cuntenant fier. 

« S'est ki r demandet, ne Vesioet enseigner » (2). 

Basterebbe solo questo verso a tratteggiare la grande figura di 
Carlo: vi senti dentro qualche cosa che arieggia di lontano, per 
r effetto subitaneo, la sublime ipotiposi del Farinata dantesco: 

« Dalla cìntola in su tutto il vedrai ». 



(i) Chamon, w. 1705-1711. 
(2) Chanson» w, 1 15-120. 



— 105 — 

Ma son lampi passaggierì che splendono un istante, per lasciare 
nello spirito, alla loro scomparsa , tenebre più dense di quelle 
che avevano illuminate. 

Tale ad esempio è la scena che sussegue all'abbozzo felicQ 
dei due caratteri di Rolando e di Oliviero, nell'ora suprema della 
loro vita. Oliviero, ferito a morte, infuria nella mischia come un 
cane arrabbiato: 

« en la grant presse or i fiert cume ber, 
« tranchet cez hanstes e cez escuz buclers, 
« e piez e puìgnz, espàlles e costez. 
« Ki lui veist Sarrazms desmembrer, 
« un mort sur l'altre à la tere geter, 
« de bon vassal li poùst remembrer » (i). 

Per la perdita del sangue , che gli scorre a rivi dalle ferite, 
egli ha perduto ogni forza, e perfino il discernimento. Mentre si 
agita ancora convulso colla spada tra le mani, sente accostarglisi 
qualcuno, che l'occhio non discerne , ma in cui 1' animo pre- 
sente un nemico ; e ciò basta a fargli ripigliare per un istante 
il vigore smarrito. Sennonché l'estremo suo colpo non va a 
ferire altri che Rolando. 

« Ne loinz ne près ne poet veeir si cler 

« que reconoistre posset hume mortel. 

« Sun cumpaignun, cum il Pad encuntret , 

« si r fiert amunt sur l'helme ad or gemmet ; 

« tut li detrenchet d'ici que à Tnasel ; 

« mais en la teste ne Tad mie adeset. 

« A icel colp l*ad Rollanz reguardet, 

« si li demandet dulcement e suef: 

« * Sire cumpainz^ faites le vus de grei ? 

« Ja est e ' Rollanz, ki tant vus soelt amer ; 

^par nule guise ne m'avez desfiet * , 



(i) Chanson, w. 1967-71, 

15 



— io6 — 

« Dist Oliviers : * Or vus oi jo parler ; 
« jo ne vus vei : veiet vus damnes Deus / 
e Ferut vus ai ; kar le me perdunez* (l). 

Ancor qui si tocca ìì germe dì una vera creazione artistica, 
iniziata con chiarezza , ma poco sviluppata e affatto indecisa 
nei suoi contorni. Oliviero, che al sentirsi divenuto ormai im- 
potente vibra colpi all'impazzata e spezza Telmo a Rolando, 
è un tipo felicemente ideato, che attira l'interesse dello spetta- 
tore e del lettore , alla vista delle prove disperate della sua 
impotenza. C* è qua dentro qualche cosa di vivo e di umano, 
che poteva assurgere ad un grande effetto poetico ; ma resta 
sopraffatto dall' inopportuna sopravvivenza dell' antica fierezza 
ed orgoglio cavalleresco nello spirito di Rolando. Il quale ban- 
disce dall'animo la compassione per discutere coU'infelice, secondo 
le norme dell' arte cavalleresca, se è il caso di domandargli per 
le armi riparazione dell' offesa involontaria ricevuta. In questo 
momento di coscienza riflessa si distrugge il nuovo sentimento 
più delicato ed umano, che cominciava a farsi strada nell'animo 
di Rolando, mentre più non sopravvive in lui l'uomo antico. Egli 
non sa mostrarsi pietoso, e intanto ha già dimenticato d' essere 
fiero. Infatti l' ira, che doveva esplodere repentina dal petto del 
cavaliere offeso, se in lui sopravvivevano ancora gli antichi spi- 
riti, si smorza, prima di ceder luogo alla vendetta ; e d' altra 
parte lo stimolo di questa gli punge ancor tanto l'animo, offeso 
senza ragione da un amico , da frenare la compassione spon- 
tanea, che pur prova è dimostra, nel tono dolce e soave della 
voce, per lo stato miserevole di lui. 

Il poeta aveva cominciato il disegno di un quadro finissimo; 
ma l'ha interrotto nel primo abbozzo, sul punto in cui i sen- 
timenti cominciavano a complicarsi e a sovrapporsi nell'animo dei 
suoi personaggi , e più non gli bastava l'arte per distinguerli 
e rappresentarli. La vita abortisce in questa Chansan alle prime 



(i) Chansony w. 1992-2005. 



— I07 ■— 

sue manifestazioni, come pallidi fiorellini di una primavera pre- 
coce che avvizziscono al gelido contatto delle brine ritardate 
deir inverno. 

XIV. 

Nella scena finale del dramma, Rdando ci apparisce ferito a 
morte: gli sopravvive soltanto la coscienza della sua prossima 
fine e, pronto a morire, afferra la spada con ambedue le mani 
per spezzarla sopra di un macigno , affinchè la gloriosa. Du- 
rendal, compagna delle sue gesta, non cada in potere del nemico. 
Sarebbe un momento poetico di estrema bellezza; ma esso resta 
come disciolto e distrutto in una triplice monotona ripetizione 
delle stesse idee , senza che nessuno dei rifacitori progressivi 
della Chanson sia riuscito ad intendere e a rappresentare i sen- 
timenti, che in quella circostanza estrema e dolorosa della vita 
si affollano neiranimo del paladino, per sopraffarlo e schiacciarlo 
sotto il cumulo delle sue memorie (i). 

Ci è anzi un'osservazione curiosa a fare. I nostri paladini , 
di solito cosi indifferenti e schivi — nel periodo maggiore della 
gloria — ad ogni delicatezza di sentimento, ne accolgono neira- 
nimo i riflessi e accennano a diventar persone vive , proprio 
sul punto in cui si dipartono dalla vita ; quasi che V arte del 
poeta prediliggesse di illuminare soltanto queste situazioni spa- 
renti , in cui la vita spunta dal seno stesso della mòrte , per 
rimanerne poi subito sopraffatta. 

Tale è anche la figura di Alda, . T unico tipo di donna che 
venga a interrompere la monotonia eroica dì questo mondo 
rigido della cavalleria. Essa apparisce sulla scéna della vita, 
proprio nel momento in cui è costretta ad abbandonarla per 
sempre. Ma la sua rappresentazione poetica, per la solita de- 
ficienza di mezzi tecnici, resta come una gemma confusa e of- 
fuscata dai rozzi materiali che la circondano. Essa ci si pre- 
senta dinanzi, all'indomani della terribile rotta, per chiedere, 



(i) Chanson, str. 198-200. 



— io8 — 

neir ansia della disp)erazione, notizie all' imperatore del suo fi- 
danzato Rolando. E Carlo, fatto insensibile al suo e all'altrui 
dolore, non sa offrirle altra consolazione che non sia la prò* 
messa di novelli sponsali : 

« Soer, chere amie, d*hume mort me demandes, 
« jo t'en durrai mult esforciet escange : 
« c'est Loewis, mielz ne sai jo qu'sn parie : 
« il est mis filz e si tiendrat mes marches > (i). 

È questa una risposta cruda, insensata, rozza, degna solo del 
protagonista della Chansotiy il cui animo resta inaccessibile 
cosi alla gioia come ai grandi dolori. Alda si ribella a tanta 
inurbanità; e nel suo contegno, quantunque ancor troppo arti- 
ficiale , cominciano a comparire i primi lineamenti del cuore di 
una donna. La risposta di Carlo era stata insensata e tirannica; 
ma l'animo di Alda è percosso da troppo grave pena, per av- 
vertire quella insensibile durezza ,* nella piena del dolore che 
le incombe e nell'ansia della morte che l'opprime. 

« Ne placet Deu ne ses seinz ne ses angles 
« après Rollant que jo vive remaigne » (2): 

cosi esclama la poverina, e cade sotto l'angoscia del suo dolore. 
La scena sarebbe riuscita per tal modo assai delicata e gentile. Ma 
il poeta ha preferito di contraffarla e di mettere sulla bocca 
di Alda proprio quel sentimento di indignazione, che un vero 
artista avrebbe sottinteso e lasciato nelle ombre del suo qua- 
dro. La povera donna è costretta, dall' imperfetta tecnica del- 
l'artistai ad analizzare e sviluppare l'intimo sentimento dell'ani- 
mo suo, e ad esprimere al sovrano il cordoglio e la sorpresa 
per la proposta di lui. 



{\) Chanson, w. 37I3-7- 
(2) Chanson^ vv. 3718-9, 



— I09 — 
« Ci8t moz mei est estranget », 

ella comincia; e mette cosi a nudo Tinsufficienza del narratore, 
inetto a rispettare e conservare una situazione altamente poetica, 
senza che essa degeneri in una goffaggine. Si dica lo stesso del 
modo , come egli distempera la rappresentazione dello stato di 
Alda, in quel supremo frangente. Essa cade a terra svenuta e, 
più che morire, assaggia il senso della morte : 

« pert U culur, chiet as piez Carlemagne ». 

Sennonché il poeta ha ancora bisogno di aggiungere 

« sempres est morte »; 

e distrugge cosi, con un'analisi inopportuna, V effetto incoscia- 
mente raggiunto. 

Chiuderemo l'analisi rapidissima dei caratteri delineati nella 
CAansofiy con V esame di quello di Ganelone. Egli è uno dei 
personaggi più importanti del poema, e risente nella sua con- 
cezione delle diverse fasi che hanno contribuito a integrarlo, 
nella forma tradizionale e ben nota di tutti i poemi cavallere- 
schi. Egli è il tipo del traditore , ma cova ben altro nel suo 
animo. È un personaggio che fa dimenticare il tipo, per acco- 
starsi all'individuo. E il carattere meglio delineato e più vero 
di tutto quanto il poema, il primo dei guerrieri che abbia un 
senso di umanità e di gentilezza. Ecco come egli è presentato 
sulla scena : 

« £n Samguoe sai bien qu'aler m'estoet; 
€ hum Id là Tsit repairìer ne s'en poet. 
« Ensurquetut m'uixur est vostre soer, 
« si n'ai un fihy ja plus hels n'en estoet» 
a ^*est Baldewins, 90 dit, qui iert prozdoem. 



— no — 

« A Itti laÌ8-jo mes honiirs e mes fieas. 

« Guardez le Òien, ja ne f verrai tUs aih» 

e Carles respnnt : ' Trop ave» tendre coer ' » (i). 

Anche altrove ai paladini di Carlomagno si allegra il core, 
sul punto in cui ritornano in patria, per la gioia lungamente 
appettata di riveder moglie e figliuoli : 

« dune lur remembret des fieus e de» honors^ 
e e des pulceles e des gentìbs mznn » (2); 

ma essi non sanno discemere il piacere, che si prova alla vista 
delle persone amate, da quello che accompagna il saluto ai pro- 
prii poderi. L'emozione di Ganelone è più delicata e profonda, 
e si accompagna ad un' altra caratteristica , affatto speciale in 
lui, quella di affabile parlatore: 

« mais li quens Guenes se fat bien piiq>eiisez: 
« par grani saveir cumencet à parler 
€ eume eil hum hi ìfien /aire le set » (3). 

Prerogativa quest'ultima assai notevole, che faceva considerare 
r Hermes greco che ne era fomitQ, come naturale mezzano di 
tutti gli imbrogli, e che consigliò di affibbiare a Gano la veste 
di traditore , il giorno in cui V orgoglio nazionale cercò uno 
schermo o diversivo alla sconfìtta patita. Egli è uomo fornito 
di coraggio a tutta, prova. Quando annunzia a re Marsilio il 
messaggio del suo imperatore, e quegli indignato pone mano 
air arco, nessuna trepidazione invade V animo di Gano; ma, 
pronto a rintuzzare l'offesa, prorompe in questi fieri e magna- 
nimi accenti : 



(1) Chanson, yv. 310-318. 

(2) Chansofty tv. 820-21. 

(3) Ibid, TV. 425-28. 



— Ili — 

« malt estes bele e dere , 
« tant ms aTrai en cnrt à rd portèe, 
« ja ne Tdirat de France Temperere 
« que jo suh moerge en Vestrange cuntrée; 
« eim vus aurunt li fneiUur cumparée » (i). 

I tentativi postumi non seppero ben fondere ed armonizzare 
l'antica figura leggendaria del conte col nuovo tipo che fu chiamato 
a rappresentare; e continuarono a sussistere insieme le due fi- 
gure, senza che la poesia successiva sentisse il bisogno di eli- 
minare la contradizione e di cancellare le tracce di questa in- 
tramessa, consigliata piuttosto dal patriottismo che dal senti- 
mento dell'arte. La preoccupazione del nuovo tipo è però così 
viva nella coscienza del narratore» che egli non può schierare 
in mostra i paladini di Carlo, senza annunziare, prima ancora 
che y richieda il corso degli eventi , che del bel numero fa 
parte anche Gano 

« ìd la traXsnn fist > (2). 

Questa intemperanza artistica fa sì che anche Gano , il tipo 
più compiuto e meglio sviluppato della Chanson^ apparisca nel 
fondo come un carattere difettoso e manchevole. 



XV. 



Se passiamo ora a dare uno sguardo anche fugace all'Iliade, 
la distanza, già così profonda in ogni altra parte, apparirà da 
questo punto di vista affatto incommensurabile. Qui tutto è vivo 
e vario, perchè vi alita dentro una forza creatrice maraviglio- 
sa, che dalle cime più alte del sentimento scende sull'umile piano, 
per ispirare un soffio potente di vita a tutte le creature figlie del 



(i) Chanson, ▼▼. 443-450. 
(2) ChansóHf y. 178. 



— 112 — 

pensiero e dell'arte, dal Dio all'eroe, dal re allo schiavo, dagli 
esseri umani, in cui sembra estinto il senso della vita, alle cose 
inanimate che piangono e si commuovono alle miserie dei 
mortali. 

Gli Dei del mondo classicìo hanno sentimenti umani, teneri, 
gentili. Teti apprende il dolore del suo figliuolo' Achille e su- 
bito vola a consolarlo, 

Xepf Té |JLtv xaxépe^ev, Stco^ x'i^ax'Sit T'6v6[ia^£V 
Téxvov, Tt xXafet^; zi Sé ae cppévoi; fxexo 7:év6o;; 
è^aóSa, [i)j xeOOe vócp, fva eT5o(JLev S.\i.cp(j) (i). 

Semplici parole, ma quanta finezza in ciascuna di esse ! Ogni 
suono Indica un atto, da quello che esprime il home, secondo 
una delle prove più comuni airaffetto divino (2), alla preghiera 
che si provi ad attenuare il proprio dolore, partecipandone alla 
madre Tinterno affanno. 

Gli dei non incepppano le azioni umane, ma le dirigono, le 
guidano coi proprii consigli, e, quando non possono evitarle, 
ne attenuano l'impeto o la sorpresa col prevederle (3). Essi non 
vivono in una sfera apportata dagli uomini, ma formano con 
essi una sola famiglia , e partecipano all' ira e alle passioni 
mortali, collo stesso impeto selvaggio onde è agitata e scon- 
volta la vita umana. Ci verrebbe voglia di citare la scena più 
bella e più fina, che mette gli dei alla stregua stessa della vita 
reale d' ogni giorno , 1' inganno cioè che tende Era a Giove, 
per attrarlo nelle spire voluttuose del suo amore e procurare un 
momentaneo trionfo ai Greci. Leggeremmo ad ogni passo la prova 
più autentica, che il naturalismo nell' arte non è un problema 
caratteristico dell' età nostra (4). Era ricorre all'aiuto di Afro- 



(1) n. I, 361-63. 

(2) Cfr. n, V, 373; 6, 353 ecc. 

(3) n, TV, 127-140 e 16, ^50-5. 

(4) 2òtd, rv, 170-186. 



— 113 — 

dite; con inganno le sottrae T aureo cinto delle sue grazie e 
.il dóno divino deiramcmfe, onde è dotata; corre dal Sonno; con 
donativi V induce ad immergere il Dio del cielo in profondò 
sopore, dopo che ella V avrà inebriato fra le delizie del suo 
amore (i); e in atto di provocatrice cottnpare sull' Ida. Giove 
la guarda; 

ùy; StSev, é^ tiev Ipa)^ Tcuxtv&c fpévac àpfexiXtxjttv, 
e?c eòvijv ^ottfòvte, <piXoo{ Xifiovu toxfJoE^ (2). 

L' effetto è prodotto, V incanto è già consumato. Era mette 
a partito le sue astuzie più raffinate: solletica in Giove voglie 
voluttuose e si mostra renitente ad appagarle. Tenterebbe per- 
fino sdegnarsi; ma il suo sdegno si smorza in una grazia pu- 
dica. La scena è di una perfezione inarrivabile: svolta e rap- 
presentata attraverso tutte le gradazioni del sentimento, essa 
non s'intorbida mai, perchè gaia e serena é la musa, che pe- 
netra negli abissi della vita e scopre a foglia a foglia 1 se- 
greti dell'anima profonda. Quando Giove ha composto il trono 
delle sue delizie, una nube -d'oro li avvolge tra i suoi densi 
vapori e li sottrae allo sguardo invido dei celesti (3). 

Che cosa manca a questa rappresentazione della vita , com- 
piuta dall'arte nel fiore della sua giovinezza? Ti viene incontro 
Agamennone superbo e disdegnoso , che fa schermo della sua 
autorità alle voglie insane di potere e di dominio (4). Ma lo 



(i) 77., l. e, V. 183-291. 

(2) Ibid., 294-6. 

(3) lòid., 312-350- 

(4) n., 1, 287.290: 

dS'dvijp é6éXtt nepl Tcdvtcov )(;i(&sv«t &XX01V, 
7cdvxo>v |isv xpaetétiv ft6éXst, icdvxsaot d'&vdoativ, 
n&oi 8ò of^fittCvciv, & vy'oò fa{<3to6ai òtta. 

x6 



— 114 — 

scorgi dopo poco , atterrito dalla necessità degli eventi , pie- 
garsi rassegnato alle minacce' d'Achille (i). E tu miri di fronte 
al suo lo sdegno implacabile dell' eroe, il migliore degli Achei, 
che nella piena coscienza del suo valore non consente che gli si 
neghi compenso adeguato ai suoi meriti (2). Ferito negli affetti 
più delicati dell' anima, deciso e indomabile nel proposito di 
vendetta , non bastano nemmeno le preghiere dell' amico Pa- 
troclo a ritrarlo della sua tenda e a riportarlo sul campo di 
battaglia. E, secondo Capaneo, smania ed impreca contro gli Dei, 
che hanno negato al suo spirito possente, coll'anelito feroce di 
vendetta, i mezzi adeguati per adempierla : 

fi Q'dcv xcoatfjiyjv, ti jiot Sóvajife y^ Tcopefr]. (3). 

Fra i caratteri di donna, concepiti e riflessi dall'arte, non vi 
ha forse alcuno che gareggi, per verità e compiutezza, con 
quello di Elena. Dolce, tenera, debole, incerta, ti offre l'incanto 
di una bellezza non interamente guasta e colpevole , che ha 
soggiaciuto ad un'altra forza parimenti irresistibile, come quella 
che incosciamente essa possiede, la bellezza ispiratrice sovrana 
d' amore. Ella ha ceduto ai vezzi di Paride , ha dimenticato 
per lui i parenti, la patria, lo sposo; ma in quel cuore hanno 
sede due divinità onnipossènti e irreconciliabili coli' amore, l'or- 
goglio e la fierezza di donna. Innamorata di Paride sino alla 
follia , essa conserva accanto a quella immagine soave , conje 
velato ed offuscato nel profondo del cuore, un altro ricordo, 
che, per quanto obliato e nascosto, un nonnulla potrebbe richia- 
mare in vita. La vista dell' arena , su cui saranno chiamati a 
combattere 1' uno di fronte all'altro Paride e Menelao, ecclissa 
per un momento in lei, nei ricordi della vita passata, i suoi 
giornalieri trascorsi. E quella rimembranza innocente fa sì che. 



(i) Jòid., 9, 130-3. 

(2) //., I, 244; 9, 348-56. 

(3) y?., 22, 15-21. 



— 115 — 

còl nome di Menelao, le risorga neir animo il desiderio della 
sua vita primiera. In quest'anelito passeggiero di obliare se 
medesima, trova nel pianto conforto all'agitazione interna del 
cuore (i). Sospinta fuori delle sue stanze, si avvia presso le porte 
Scee e sale sulla parte più alta della torre, per assistere di lon- 
tano alla sanguinosa tenzone. Ella è commossa ; e, quando 
Priamo le domande il nome dei guerrieri greci che ingombran 
l'agone, non può senza rammarico riandare i tristi casi della 
sua vita: 

&Q S<ytXev 6àvaTÓ€ |jiot àSelv xaxò^, Stzkozz SeOpo 

\Mx a$ éTC6|i7)v, 0£Xa|iov fytùXoÙQ te XtTroOaa x. x. X. (2). 

Paride soccombe nella prova e si dimostra codardo; ed Elena, 
che sente quasi più dell' amore potente la forza del suo orgo- 
glio , disdegna la preferenza accordata dal suo cuore in un 
momento di oblio, e apre più vivamente V animo a riaccen- 
dervi il fuoco del suo legittimo amore. Indarno Afrodite la 
sforza a non ritornare sui suoi passi. Quasi ih tono di dispre- 
gio, essa ne respinge ì consigli : 

oeXX' aiti TC$pl xeTvov òt^ue noi é 9 uXooae 
eJoóxE a'i) àXoxov jzovfptxai, fi 8ye SpuXrjv. 
xetae S'èy^v oòx eljit — ve|iiaaif)Tov 5é xev tiri — 
xetvou Tiopouvéouoa Tà^qì (3). 

Ma Afrodite finisce per ottenere il sopravvento, le riconduce 
Elena , indamo riluttante , presso le stanze dove giace Paride 
ferito. La vista di lui le ispira più forte ribrezzo, e le riaccende 
. nell'animo l'ira non ancora sopita (4). L'adultero non contrasta 
a questo moto violento dell'animo; ma vi contrappone accor^ 



(i) /?., ra, 139-143. 

(2) lòid., ▼. I7I-3' 

(3) n., ra, 403-4". cfr' «i<^« VI, 344-355- 

(4) JÒid., ra, 428.436. 



— nò- 
tamente il ricordo di queirora soave, in cui essa soccombè la 
prima volta alle vertigini di un amore tempestoso: 

&i oso vOv 1^041» %d (u yXwàiQ Ejupoc oigiJC (i). 

Tal ricordo genera ora una novella caduta. Elena ha dimen- 
ticato un'altra volta Menelao, e placa tra i più dolci amplessi 
il dolore del suo Paride. Mai forse V arte delineò in forma più 
perfetta i moti vani e cangianti dell'animo femminile. Ma Omero 
è poeta sovrano, e non lascia alcun campo intentato agli alti 
domimi della sua arte. 

Ecco là un'altra donna, bella anch'essa come un angelo di 
virtù e di tenerezza, Andromaca la sposa di Ettore , dolce e 
forte di quella soave passione , che sorrìde ai nostri fantastici 
sogni. Sul punto in cui muove a terribile cimento , Ettore si 
reca a salutarla ; ed dia gli va incontro col suo bambino al 
collo , che gli stende le braccia e sorrìde. Lo Schiller , nella 
Sposa dei Fieschiy ha forse tentato di gareggiare col poeta an- 
tico; ma soccombe alla prova, perchè la tenerezza di Giulia 
Fieschi ha minor vita e verìtà che quella di Andromaca. Questa, 
dopo di aver tentato indamo di distrarre dalla pugna l'animo 
dello sposo , con p^ole che toccano le fibre più interne del- 
l'animo (2), 

icolS'iòv 1^ 8'(Spa |jLtv xvjc&Ser Sitato xóXtk)) 

Xetpf té |itv Tcoxépe^tv (3). 

L'idillio è composto e intrecciato per l'eternità in una pace e 
in un godimento cosi soave, a cui più non saprà inalzarsi dòpo 
di Omero l'anima di altro artista. Alessandro contemplando 

(i) lòid,, r. 446. 
(a) L. e. 439-433. 
(3) lì^id., 6, •462-466. 



— 117 — 

r immenso campo del cielo stellato » sorpreso da un senso di 
sconforto, diceva a un suo cortigiano: e guarda queste miriadi 
di stelle che adomano il cielo : esse sono altrettanti mondi. E 
che cosa son io che ne ho conquistato uno solo » ? Altrettanto 
vorrei ripetere per mia parte delle . bellezze ddV Iliade, e addi- 
tarvi le fonti di quel sentimento cavalleresco, che pare ai più 
una concezione moderna, sol perchè si lascia nell'oblio la fine 
eroica di Otrione, che muove ardimentoso in difesa di Troia, 
per acquistarvi gloria e rendersi degno della mano di Cassan- 
d|?i(i). 

Ma già troppo io ho indugiato in un parallelo, a cui fui 
sospinto da un'infelice ispirazione del Gautier; e mi pare per- 
fino superfluo di proseguirlo più oltre. Se non avessi già di 
troppo ecceduti i confini, proposti a questo esame, non esiterei 
di dimostrare che il difetto sostanziale della Ckanson proviene 
da quella specie di ristagno degli eventi, oltre i termini fissati 
all'azione principale. Infatti questa si prolunga fino a quattro- 
mila versi, quando già al 2396 l'azione è compiuta colla morte 
del protagonista. L'ampiezza dell' epilogo , che eguaglia quasi 
in durata il corpo del poema, non può non riuscire a discapito 
dell'interesse che questo desta. Ma la dimostrazione riuscirebbe 
oramai superflua e stentata ; e a me piace di concluderla con 
un saluto alla pura arte classica, immeritevole del confronto 
cui l'esigenza del tema mi ha obbligato di assoggettarla. 

Enrico Cocchia. 



(x) y?., xra, 3^3-3^- 



CURIOSITÀ VICHIANE 



Giambattista Vico ebbe a manifestare , in qualità di regio 
revisore, il suo giudizio su due delle più celebri serie di tra- 
gedie italiane del primo trentennio del secolo XVIII: sulle Tra- 
gecUe cinque del Gravina , e sulle Tragedie cristiane di Anni- 
bale Marchese. Designato revisore delle prime il 27 luglio 17 12, 
il suo parere, che reca la data del io settembre di quell'anno 
ed ha forma di lettera, si legge in fronte alla prima edizione 
delle tragedie graviniane, pubblicata in Napoli dal Mosca nel 
171 2 (i). La revisione delle tragedie del Marchese gli fu com- 
messa il 26 ottobre 1728, e la lettera d'adempimento da lui 
scrìtta, con la data del 6 gennaio 1729, aòcompagna il primo 
volume della ricca edizione di quelle tragedie, fatta dallo stesso 
editore Mosca nel 1729 (2). Né l'uno né l'altro scritterello venne 
raccolto dal benemerito marchese diVillarosa nei quattro vo- 
lumi degli Opuscoli del Vico, che mise insieme con grande di- 
ligenza (3): ed invano si cercherebbero nelle varie posteriori 
edizioni delle opere complete del filosofo, che inglobarono ma- 
terialmente la raccolta del Villarosa: onde non spiacerà che io 
ristampi qui quel paio di obliate, o trascurate, paginette. 



(i) Di\ Vincenzo \ Gravina \ Tragedie \ Cinque | In Napoli | Nella stam- 
peria di Felice Mosca MDCCXII | Con licenza de' Superiori. 

(2) Tragedie \ cristiane \ del Duca \ Annibale Marchese \ dedicate ] all' Im- 
peradore de' Cristiani | Carlo VI | il Grande | Volume I (e II) | In Napoli, 
M.DCC.XXIX. I Nella stamperia di Felice Mosca | Con licenza de' Superiori. 

(3) Napoli, 1818-1819-1823. 



— I20 — 

Non che dalle osservazioni del Vico si possa prendere alcun 
lume critico intorno alle tragedie del Gravina e del Marchese 
(le quali, in questo anno e nel passato , per un singolare in- 
contro di studiosi indipendenti tra loro hanno goduto del be- 
neficio di un'amplissima illustrazione (i)) — L'occasione per cui 
il Vico ne scrisse non importava che egli dovesse pronunziarsi 
sul loro merito letterario; né, ad ogni modo, il timido e reve- 
rente filosofo avrebbe avuto V animo di giudicar con severità 
o libertà le opere di due personaggi cosi altolocati, dei quali 
uno almeno V onorava anche della sua amicizia ; né , in fine, 
egli come critico d'arte si mostrò mai molto felice. Che se 
nessuno meglio di lui comprese, da filosofo, l'indole della poe- 
sia, nessuno come lui, da critico, lodò, o dovè lodare, peggior 
poesia: tragedie di Gravina, versi di De Angelis, e commedie 
del Marchese di Liveri ! Pure, questi due pareri hanno un qual- 
che interesse per 1* insìstere, che il Vico fa in essi, sul fine 
morale della poesia. Ed a giustificazione dei personaggi tra- 
gici tutti buoni o tutti cattivi, che il Gravina aveva costruiti 
contradicendo al noto canone aristotelico della qtuUità mediocre j 
il Vico escogitava V argomento: che la regola di Aristotele si 
confaceva alle repubbliche gentili, ma che in quelle cristiane ser- 
va meglio il reciso contrasto degli estremi, del bene e del male. 
E nel Marchese scopriva l'autore della « tragedia propria delle 
Repubbliche Cristiane» (2). L'occasione di un parere politico e 
morale lo spingeva a méttere in rilievo questo concetto pra- 



(i) E. Bbrtaka, n teatro tragico italiano nel s. XVIII prima delF Alfieri 
in Giom, star, Utt, ital., Sup]}!., n. 4, 1901, pp., 41-8, 126-8; A. Galletti, 
Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel s, XVIII; parte I, Cremo- 
na, 1901, pp. 134-178; A. ParduCCI, La tragedia classica nel s, XVIII 
anteriore alV Alfieri, Rocca S. Casciano, 1963, pp. 221-253. 

(2) È da notare tuttavìa una differenza tra il primo e il secondo scritto: 
quello del 17 12, anteriore alla Scienza Nuova, assegna alla poesia il compito 
di rendere accessibile la più riposta filosofia; Taltro, posteriore alla Scienwa Nuova, 
e con reminiscenze di frasi solite in questa, non porla più della riposta, filosofia. 



— 121' — 

tico e moralistico, che non è estraneo, per altro, neppure alla 
Scienza nuava. 

Ora può domandarsi , ed è stato domandato : come mai il. 
Vico, che pel primo fermò il principio dell* autonomia della fa- 
coltà poetica considerandola quale funzione teoretica della fan- 
tasia, potè professare nel tempo stesso quella vecchia teoria 
sul fine educativo della poesia, eh' è in intima opposizione al 
suo cosi importante ed originale concetto estetico? Si tratta 
qui della sopravvivenza frammentaria di un mondo distrutto, 
quasi di un organo reso inutile deli' evoluzione del suo pen- 
siero, e rimasto rudimentario ? O si tratta, invece, di un pen- 
siero, ch'egli credeva conciliabile con l'altro ? 

Questa seconda ipotesi, come ho altrove accennato (i), pare 
a me che sia la vera. La mediazione tra le due proposizioni con- 
tradittorie era pel Vico nell'idea di una civiltà poetica , in cui 
e la scienza e la pratica assumessero carattere dalla poesia, la 
quale, come perciò sarebbe stata educatrice delle nazioni pri- 
mitive, cosi avrebbe continuato ad essere , nei periodi ul- 
teriori della civiltà, educatrice di popolo. E, se questo con- 
cetto di civiltà poetica s'intendesse in senso storico ed approssi- 
mativo^ esso risponderebbe a qualcosa di reale, essendo esatta 
osservazione che vi sono periodi di civiltà e strati sociali nei 
quali la fantasia è prevalente ed impronta di sé tutto il resto. 
Ma, se s'intende come una distinzione e determinazione rigo- 
rosa e filosofica, non è sostenibile; giacché e una scienza, per 
quanto scarsa, e una vita pratica , per quanto semplice , una 
civiltà insomma, per quanto rozza, non possono esplicarsi sulla 
base della mera fantasia e senza cooperazione di elementi in- 
tellettivi, L' idea equivoca della civiltà o sapienza poetica , ora 
fatto storico ora posizione ideale, nascondeva al Vico la con- 
tradizione inconciliabile tra la poesia come cognizione fanta- 
stica e la poesia come funzione pratica moralizzatrice. Egli 



(i) Estetica, Palermo, 1902, p. 242. 

17 



— 122 — 

manteneva il fine morale della poesia non perchè, come i suoi 
predecessori, subordinasse la fantasia airintelletto, ma perchè, 
con esagerazione nascente dalla stessa rivendicazione che aveva 
fatto deir importanza della fantasia , supponeva in questa vir- 
tualità tutte proprie , d' indole scientifica e morale , o meglip 
capaci di surrogar la scienza e la morale, tali da dar luogo 
ad un'anticipazione di questa fantastica e non intellettualizzata. 
Certo, ci è un altro modo di mettere in armonia la più as- 
soluta indipendenza dell'arte con alcuni almeno degli obblighi 
morali che s'impongono comunemente agli artisti; e sarebbe di con- 
siderare i due ordini di affermazioni come non cadenti in pari ma- 
teria: r indipendenza venendo riferita all'arte considerata in sé 
stessa, e le esigenze morali all' attività esterna e pratica che 
volge sulla comunicazione e divulgazione sociale dell' op/era 
d'arte intema (i). Ma a questa soluzione, e al problema da cui 
sorgeva, frutto di uno stadio molto più sviluppato della scieoza, 
il Vico ai suoi tempi non pensava. 

Napoli, agosto 1902 

Benedetto Croce 



(l) Cfr. Estetica^ pp. 117-8. 



— 123 — 



Giudizio sulle tragedie di G. V. Gravina. 

Eccellentissimo Signore^ 

Ho letto, per comando dì V. E. il Libro, il cui titolo è, Tragedie di Vin- 
cenzo Grauina GiurisconsuUo; nel quale non ho 2dcuna cosa notato, che offenda 
la Kegal Giurisdizione, o i civili costumi: anzi vi osservo che il dottissimo Au- 
tore con maraviglìosa facilità fa discendere neirintendimento del Teatro gli al- 
tissimi sensi della più riposta Filosofia, che è il prìncipal fine della Poesia utile 
alle Repubbliche: e facccndo signoreggiar la vera Imitazion sopra 1' Arte , la 
quale è fatta tutt^ per la vera Imitazione; ci fa avvertire le collere, e le que- 
rele de' Grandi, non dover essere iscompagnate da un propio loro contegno, e 
da una signoril gravità. Ma ciò, che più importa, non seguendo egli da Arte- 
fice i precetti, ma riflettendo da Filosofo al fine dell'Arte; perchè ella fu scritta 
acconcia alle gentili Repubbliche, le quali non volevano, che le passioni si stu- 
pidissero, né si sfrenassero, perchè per le passioni moderate i Cittadini operassero 
bene, appruovavano i mediocri Suggetti deile Tragedie: ma tra noi Cristiani, non 
avendo termine l'orrore del vizio; e la virtù essendo tutta riposta in patire; esso 
gli ha scelto estremi; e dovunque può, desta abbominazione dei rei costumi della 
deca gentilità; e contro a' vìzj de' Grandi, che rovinano gli Stati, nell' istesso 
tempo espone in mostra maravigliose virtù altrui, che gli conservano; acciochè i 
Prendpi, come in uno specchio posto all'ombra di maggior lume, più chiaramente 
si ravvisino buoni, o si ravvedan cattivi. Per tutto ciò lo stimo degnissimo 
delle stampe, purché cosi piaccia a V. E. Napoli io settembre 17 12. 

Di V. E. 

Umilissimo Servo 
Giambattista di Vico 



— 124 — 



II. 



Giudizio sulle tragedie di A. Marchese. 

Eccellentissimo Principe, 

Per comando di V. E. ho letto le Tragedie del Duca Annibale Marchese 
o stimo appartenersi allo splendore di questo Reame, che da Napoli esca alla luce 
del Mondo la Tragedia propia delle Repubbliche Cristiane; la qual' a' Popoli, 
che quanto riescono men docili ad apprendere da quantunque robusti raziocinj, 
altrettanto sono ben disposti a profittare degli esempli maravigliosi, insegni ne* 
Teatri i doveri della Religione, la qual sola è efficace a produrre gli altri tutti 
delle morali e delle civili virtù: e la medesima insiememente per lo principal 
fine, onde fu ritrovata, con la stessa invitta pazienza de* suoi Eroi ammonisca 
i Principi a riverire, e temere le leggi eteme della Natura, e di Dio. Laonde, 
poiché esse alla di Lui sacra soave ombra rifulgono , debbono queste Tragedie 
essere tanti pubblici testimoni, che *1 nostro Augustissimo Regnante, Imperador 
Carlo VI d'Austria sia egli Principe per zelo di Religione, e per amor di giu- 
stizia gloriosissimo. Perlochè deesi fermamente operare, che Tltaliaiie Scene deb- 
bano e godere di lor tanta utilità e rallegrarsi col divino ben culto ingegno del 
chiarissimo Autore, che le faccia comparire ricche di quel piacere, che dilettando 
trattenga, finché cali il panno, gli spettatori; e di meritarne ! 'universal applauso 
cosà alla di lui natia nobiltà , come alla singoiar virtù dell' animo; dalle quali, 
e non altronde, quel naturai sublime proviene, che è sommamente desiderato in 
si fatta spezie di grande Poesia , che sia ella animata da sublimità di senti- 
menti, e vestita di signorile, e grave naturalezza di favellari. Casa 6 gennaio 1729. 

Di V. E. 

Ossequiosissimo Servitore 
Glambattista Vico 



UN EPISODIO 

NELLA VITA DI VITTORIA COLONNA. 



Dopo la battaglia di Pavia, il cui buon successo fu dovuto 
in massima parte al genio militare e al valore di Ferrante 
Francesco d'Avalos, Carlo V, cavallerescamente, scrisse a Vit- 
toria Colonna per ringraziarla dei congratulamenti che ella gli 
aveva fatto pervenire ; e, date le debite lodi al consorte , le 
soggiunge: « Merito itaque victoriam Victoria » [il bisticcio era 
inevitabile ! ] « gratularis , ex qua intelligere potes , tantum in 
« te amplitudinis, tantum gloriae redundare, et commoda etiam^ 
€ quum nihil tam magnum sit, quod Marchio ipse de nostra et 
« gratitudine et liberalitate expectare non possit » (i). Al che, 

con molta dignità, tra le altre cose Vittoria rispose : « la 

« promessa comodità desidero più per testimonio in questo > [cioè: 
che « li servitii , la fede e la sincerità del Marchese , mio si- 
« gnore, e di mia casa... sono a V. C. Maestà accetti »] « che 
« per insolita cupidità mia ; benché la gratitudine e la liberalità 
« sua sempre prevenne ogni giusta domanda » (2). Il premio 
materiale, però, tanto solennemente promesso dalla Maestà Ce- 
sarea, non venne mai; che anzi il Pescara non solo non ebbe 
conceduta la contea di .Carpi, da lui domandata dopo la morte 
di Prospero Colonna (3), ma perfino cadde quasi in disgrazia, 
onde espresse una volta il desiderio di ritirarsi « in un cantuccio 



(i) Carteggio di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, raccolto e pub- 
blicato da E. Ferrerò e G. Muixer, Torino, 1889, p. 28. 

(2) Carteggio ecc., p. 31. 

(3) A. Reumont, Vittoria Colonna ecc., vera, di G. Mullkr ed E. Fer- 
rerò, Torino, 1883, pp. 64-65. 

18 



— 126 — 

lontano dai sospetti e dalle lotte » (i). Se non che, per quanto 
fossero vive le ragioni del suo malcontento , egli , spagnuolo 
d* origine e di sentimenti , sebben nato in Italia , e ligio ai 
doveri di lealtà feudale (2), preferì, com' è noto, di rinunziare 
alla corona di Napoli e, peggio ancora, di rendere odiosa la 
sua fama, « perchè la fedeltà a Cesare disonorò coli* affiggersi 
alla gogna di spia (3) » . Appena ebbe reso questo più segnalato 
servigio, il Pescara fu colto da morte; ma V imperatore, passato 
già un anno, scrivendo alla vedova per condolersi, ancora più 
vagamente accenna alla sua gratitudine e all' antica promessa: 
« Nos certe tanti viri tum vetera tum recentia officia iucunda 
« semper memoria prosequemur , et gziam animi graditudinem 
« erga illum habebamus , erga devotionem tuam atque illustrem 
« Marchionem Vasti.... qtiam libentissime depromenms » (4). Vit- 
toria , non giunta in tempo a rivedere il marito per V ultima 
volta, che r avviso della sua morte le fu recato a Viterbo, si 
ritirò in Roma nel monastero di S. Silvestro in Capite a rac- 
cogliersi nel primo assalto del suo profondo dolore; ma Tanno 
seguente, a causa della ribellione a mano armata della sua fa- 
glia comintro papa Clemente VII, dovette passare a Marino, 
poi ad Aquino, e infine tornò a Napoli e da ultimo in Ischia, 
il grato soggiorno del suo tempo felice di sposa. Qual fosse 
li in quegli anni la sua vita, oramai cosi dolorosamente mutata, 
non ci è dato che immaginarlo, poiché nessun accenno ne resta 
nelle sue rime o nelle sue lettere; ma due documenti ritrovati 
nel regio Archivio di Napoli possono sollevare almeno un lembo 
di quel velo. 

La casa D'Avalos per sentimento, per tradizione, per necessità, 
fu sempre fedele a Carlo V. Alfonso, marchese del Vasto, che 



(i) G. De Leva, Storia documentata di Carlo V, Venezia, 1864; II, pp. 
280-281. 

(2) De Leva, II, p. 288. 

(3) De Leva, II, p. 302. 

(4) Carteggio ecc., p. 44. 



— 127 — 
» 

giovinetto Vittoria aveva educato ed istruito, onde lo chiamava 
figlio del suo ingegno, e che da lei e dalla zia Costanza, du- 
chessa di Francavilla, era stato incoraggiato nella sua inclina- 
zione alla carriera delle armi , aveva in questa preso parte 
importante sotto il comando supremo del cugino Ferrante Fran- 
cesco, fin dal 1521. Dopo la morte di lui, occupò insieme col 
De Leva il castello di Milano; comandava la fanteria spagnuola 
nella campagna di Roma del 1527, sebbene, come il viceré 
Lannoy, non partecipasse al memorando sacco dell' eterna 
città (i) ; fu parte attivissima nella difesa di Napoli contro il 
Lautrech, sotto il generalissimo Filiberto di Chalon, principe di 
Grange. Nella battaglia navale contro Filippino Doria ebbe egli 
il comando della flotta, disputato tra TOrange e il viceré Mon- 
cada, che volle andare air impresa come privato. Vinto e fatto 
prigioniero, s'adoperò a trarre alla parte imperiale Andrea Doria, 
scontento di Francesco I, e vi riuscì facilmente, « onde — dice il 
cronista Rosso (p. 20) — serveva il suo padrone assai più che se 
fusse presente all'assedio di Napoli ». D'altro canto, in questo 
stesso torno di tempo, e nella guerra medesima. Costanza d'Ava- 
los, donna veramente singolare, lodata, tra gli altri ammiratori, da 
Iacopo Sannazaro (2), teneva Ischia per l'imperatore. Già parecchi 
anni addietro, nel 1501 , per la fedeltà usata nel governo di 
essa, r ultimo degli Aragonesi, Federico, encomiandola, le aveva 
donato in premio la duchea di Francavilla; e nel 1503, quando 
la dinastia nazionale era caduta per sempre, aveva difeso l'isola 
per gli Spagnuoli contro i Francesi, onde Ferdinando il Cattolico 
le aveva riconfermato, nel 1 504, quel titolo e quel possesso (3). 
Ed ora, nel secondo e meno valido tentativo dei Francesi di 



(i) Istoria delle cose di Napoli di GREGORIO Rosso (nella Raccolta del 
GravieTy Vili), p. 5. 

(2) Cfr. il mio saggio La cronologia delle « Eclogae Piscatoriae » di J, San- 
nazaro^ Bologna, 1893, p. 21. 

(3) R.® Archivio in Napoli : Repertorio dei Quintemioni : Abbruzzo dtra, 
PP. 37 e segg. 



— 128 — 

togliere il regno alla Spagna, « attese ella — dice Filonico A- 
licarnasseo (i) — non come donna letterata e devota , ma da 
« guerriera e d' amazzonica professione, a guardar Ischia, ani- 
« mando soldati, disponendo presidii e sollecitando l'animo del 
« coronello Santacroce, capo delle genti spagnuole ivi intromesse, 
«con ardente e considerato trascorso del dover loro ecc. ». 

I nuovi servigi della casa D'Avalos, aggiunti agli antichi, me- 
ritavano premio novello, questa volta prima dato che promesso. 
Infatti il principe d' Grange, succeduto come viceré di Napoli 
al Moncada, morto nella battaglia del Capo d' Orso nel giugno 
1528, con un suo privilegio del 28 novembre dello stesso anno, 
ricordando i meriti di Alfonso, e specialmente che: « in huius 
« regni invasione firmiter exìstendo et in redeundo ad devotio- 
« nem et servitia praefatarum Cath.^"*^ Maiestatum 111. Andream 
« de Oria cum eius classe fuit maxima causa victoriae » , concede 
a lui e ai suoi eredi e successori le terre devolute per ribellione 
di Gio. Vincenzo Carrafa, già marchese di Montesarchio. Esse 
sono, oltre la terra di Montesarchio, col titolo di marchesato, 
in Principato ultra: Airola, Cervinara, Campora, Rotondo, Valle 
di Vitulano, Cacciano, Tocco, Foglianise e la città di Bisaccia; 
in Capitanata: Castelpagano, Colle, Circello ; in Calabria citra: 
Amendolara e Cerchiara; in Terra di Lavoro: Vico di Pantano, 
col territorio detto li Caponi e tutti i territori che il detto Car- 
rafa aveva nel luogo chiamato Logando. Di più gli concede 
Lettere , Gragnano , Angri , Pimonte , Positano , e U Franchi, 
devolute per ribellione di Carlo Miraballo di Napoli (2). Né 
Costanza d' Avalos fu dimenticata , anzi era stato provveduto 
qualche mese innanzi prima a lei che al nipote. Un privilegio 
del viceré del 25 settembre 1528 ricorda la fedeltà della fa- 
miglia e le virtù della duchessa di Francavilla : « verum etiam 
« ipsa Constantia Dux quae non foemineis artibus imbuta sed 



(i) Vita della principessa dt Francavilla i ms. della Biblioteca Nazionale 
di Napoli, segn. X. B. 67. 

(2) R,° Arcliivio: CollaUrale PrvviUgiorum, voi. XIX, ce. 48-65. 



— 129 — 

« in rebus bellicis adeo se strenue ac prudenter exercuit quod 
« amazonum virtute instaurata non minorem quam proavorum 
«et fratrum laudem in re militari et fidelitate acquisiverit.... »,* 
indi la difesa dell'isola d'Ischia in unione del fratello don Inico, 
fatta nell'antica guerra coi Francesi al tempo di Ferdinando; e 
finalmente ciò che aveva operato nell' attuale invasione e nel- 
r assedio di Napoli. « Quid enim in praesenti bello et Neapolis 
« obsidione fecerit ipsa Constantia, nos ipsi qui vidimus ingenue 
« testamur. Nam arcem insulamque dictam, non solum a trire- 
« mibus venetis et gallicis in numero quadraginta in menses 
« quatuor obsidentibus tutata est, verum etiam classem ipsam 
« saepius eludendo, assidue nobis, qui Neapoli obsessi eramus, 
« lembos ac celoces commeatu ac fructibus, quibus recreabamur, 
« onustos interdiu noctuque transmittebat : innumeraque alia 
« exercuit stratagemmata , quibus fatemur nos a praefata IH. 
« Constantia in praesenti regno Victoria contro Gallos plurimum 
« fuisse adiutos » . Riguardando ai meriti di detti servigi , Fi- 
liberto concede a lei, e dopo la sua morte ad Alfonso d' Avalos 
e suoi eredi e successori in perpetuo , a beneplacito delle Ce- 
saree Maestà e « per anulum regium ut moris est » , la terra 
e il passo di Pescara nella provincia di Abruzzo citra e ultra, 
devoluti alla Regia Corte per la notoria ribellione della città 
di Chieti, con tutti gli annessi diritti feudali (i). 

Messosi sulla via dei favori, l' imperatore non s 'arrestò, ma 
volle andare innanzi, tanto più che il marchese del Vasto con- 
tinuava a farsi merito presso di lui nelle imprese militari. Gli 
fu affidato l' incarico, che veramente ebbe poco felice esito, di 
cacciar via dalla Puglia i Francesi; e fu chiamato dall' Grange 
per valido suo aiuto nella guerra contro Firenze. Carlo V, allora 
in Bologna per l' incoronazione, volle conoscerlo di persona, ma 
poi lo rimandò subito al campo, perchè v'era bisogno di lui. 



(i) Ibid.: Collaterale Prwilegiorufn^ voi. cit., ce. 167-180 Cfr. anche A. 
Broccoli, Di Vittoria Colonna e dei due Galeazzi di Tarsia, Napoli, 18^4, 
p. 26, 



— I30 — 

Morto r Grange, non ebbe il comando supremo, da lui ambito, 
e che fu dato a Ferrante Gonzaga; ma in compenso ebbe quello 
della fanteria nell'impresa d'Ungheria del 1532, ed a corte 
« stava in grandissima stima de lo Imperatore e de lo re dei 
Romani », dice il già citato Rosso (p. 45). A questo tempo 
si riferisce un privilegio imperiale del 29 luglio 1532, ratificato 
in Napoli il 12 settembre, col quale si concedono al D'Avalos, 
« remunerationis ac donationis titulo » , altre terre e titoli e gli 
si confermano le donazioni dell* Grange. Perchè si confrontino 
insieme e si misuri la munificenza cesarea, eccole per esteso: 
la terra di Montesarchio in provincia di Principato ultra, con 
titolo ed onore di principato ; le terre , castelli e luoghi di 
Castro Pagano, Cervinara, Rotondo, Airola, Vico di Pantano, 
la città di Bisaccia, la valle di Vitulano, il « ius luendi » sulle 
terre di Cercellì e Colle, tutto ciò devoluto per ribellione di 
Giov. Vincenzo Carrafa, già marchese di Montesarchio; più una 
casa in Napoli nella piazza di Nido, orto, taverna e case in 
Ghiaia, fuori le mura, case dentro e fuori le mura di detta città, 
e beni mobili in dette terre, castelli e luoghi, spettanti al detto 
Giov. Vincenzo; più la terra di Pescara, con titolo ed onore 
di marchesato, devoluta per ribellione della città di Chieti; più 
castello e terra di Baniveli (?) in Contado di Molise, devoluta 
per ribellione di Antonio di Santo Felice; più « ius luendi > 
su Lettere, Angri, Gragnano, Pimonte, Le Franche, Positano, 
devolute per ribellione di Carlo Miraballo; più tremila seicento 
ducati annui sulle funzioni fiscali e diritti di focolari e sali nelle 
dette città e terre, per sé e suoi eredi e successori (i). I meriti 
del marchese sono esposti in principio del privilegio, in forma 
d' enfatico elogio a lui diretto: le prove del suo valore e della 
perizia nelle cose di guerra, appena succeduto nel comando 
della fanteria al cugino marchese di Pescara; la difesa di Mi- 
lano da numerosissimo esercito, dai cittadini ribellati e daigli 



(i) Ibid.: Collaterale Prwilegiomm, voi. XXV,, ce. 5 segg. 



— 131 — 

stessi soldati tumultuanti, «onde a lui si dovè se non fu perduta 
la Lombardia; la difesa di Napoli neir assedio; la sua prigio: 
nia nella battaglia navale; T aver fatto passare il Doria con 14 
triremi agli stipendi dell'imperatore; la liberazione di Napoli; 
il ricupero degli altri luoghi occupati dai nemici. Si rallegrino 
i cuori dei patriotti, nessun cenno dell' assedio di Firenze ! 
Dair enumerazione dei donativi imperiali si scorge che tra que- 
sti è anche Pescara, già data dall* Grange nel 1528 a Costanza 
d'Avalos; ma ciò non è certo segno di disfavore, poiché già era 
destinato a succederle in quella terra il nipote, al quale V im- 
peratore volle concederla ora direttamente , per annettervi il 
il titolo di marchese (i). Del resto, verso la difenditrice d'Ischia 
non fu meno generoso Carlo V. Troviamo in un privilegio del 
1533 che, essendo ella rimasta erede universale del marchese di 
Pescara, non si era curata fino allora di denunciare V eredità 
e di pagare il relevio, ma V imperatore, « attentis suis et suo- 
rum erga nos innumeratis meritis et obsequiis » , la esonera dal 
pagamento e dalla pena e le fa prestare il giuramento e il ligio 
omaggio (2). Con questa notizia si corregge un' inesattezza dei 
biografi, i quali fanno erede di Ferrante Francesco il cugino 
Alfonso: doveva egli raccogliere, unico superstite maschile, tutti 
i beni della casa, ma questa era sempre rappresentata dalla 
forte donna, che aveva curato la maschia educazione dei due 



(i) Non possiamo non rilevare una contraddizione che è in altri documenti 
da noi visti, a proposito di cotesta donazione di Pescara a Costanza d'Avalos. 
Da un canto, avendo l'università di Chieti chiesto l'indulto per la sua ribellione, 
ed ottenutolo mediante il pagamento di dodicimila scudi d' oro (1533), le sono 
restituite tutte le terre, eccetto Pescara, che doveva restare « in manibus et posse 
111. Constantiae Dauolos de Aquino Francaville principis » (Collaterale Privilegio' 
rum, voi. XXrV, ce. 199-202); dall'altro, la medesima Costanza chiede all' im- 
peratore (1534) di voler concedere l'assenso per la donazione che ella intende 
fare, riservandosi l'usufrutto, ad Alfonso d'Avalos di tutte le sue terre, che 
sono enumerate, ma tra esse non si trova Pescara (Quintemùmi, voi. LXVI, 
ce. 62 w e sgg.) 

(2) R. Arch.: Collaterale Privilegiorum, voi. XXIX, ce. 168 sgg. 



— 132 — 

nipoti. Ma più d' onore assai le aveva fatto la Maestà Cesarea, 
mutando in Principessa il titolo di Duchessa di Francavilla che 
possedeva. In che anno ciò sia stato non ci risulta da do- 
cumenti, ma certo fu tra il 1528, in cui ancora era detta du- 
chessa, e il 1533, poiché nel su citato privilegio (i) si dice: 
« dictae Constantiae principissae ». 

Tanta pioggia d* imperiali favori sulla famiglia D* Avalos, che 
a penoso riscontro all' ingratitudine verso il Pescara, beneme- 
rito non certo di noi Italiani, ma molto del suo padrone, e alla 
dimenticanza della promessa verso la sua illustre consorte, vera 
gloria nostra, doveva in parte versarsi anche su quest* ultima, 
non foss* altro per tardiva resipiscenza. Così, abbiamo ritrovato 
una lettera esecutoriale, appunto del 1533, che pubblichiamo 
per intero in appendice (Documento I), dalla quale risulta che 
Carlo V concede a Vittoria Colonna mille ducati di rendita per 
sé e suoi eredi su beni di ribelli, e in conto di essi le terre di 
Rocca d* Evandro e di Camino, devolute per ribellione di Fe- 
derico di Monforte. Di che le sarà spedito privilegio in forma, 
ma per intanto vuole che le si dia immediatamente il possesso 
delle dette terre, senza bisogno di altri ordini, perché ella possa 
godere dei loro frutti e delle loro rendite in conto della detta 
mercede, dal giorno della data della lettera imperiale (8 maggio). 
E questo, avendo rispetto « alos muchos grandes y sennalados 
« servicios que recebimos del 111. marques de Pescara, ya de- 
« functo, y ala affection que la IH. Victoria Colonna marquesa 
« de Pescara, su muger, ha tenido y tiene à nostro servicio » . 
Non possiamo non sorridere al veder l'imperatore ricordarsi 
dopo otto anni dei servigi del marchese di Pescara, appena 
fuggevolmente nominato nel privilegio del marchese del Vasto 
dell' anno innanzi (« Marchione Piscariae patrueli tuo Duce mo- 
dis omnibus in vieto per se adhuc vivente»); e vantare l'affe- 
zione di Vittoria Colonna, di cui più non s'era curato dal 1526! 



(I) Ha il medesimo tìtolo di prìncipefsa nel docun. dt. alla nota (i). 



— 133 — 

E pure ella gli si era ricordata, scrivendogli il 30 giugno 1528 
non per sé, ma per raccomandargli una vedova e un orfano (i) ! 
È quindi evidente che la vedova del vincitore di Pavia dovè 
solo all'alto favore di cui godeva in corte Alfonso d* Avalos, 
decorato inoltre del Toson d' oro (2) e deputato ad accompa- 
gnar rimperatore in Ispagna, ove si trovava appunto nel mag- 
R^o 1533 (3)» il tardivo risveglio della memoria cesarea. Non è 
inutile notare che la concessione di mille ducati di rendita era 
da considerarsi come un dono reale, non come una sovvenzione 
di cui la Colonna non aveva punto bisogno, poiché, oltre alla 
dovizia della casa D' Avalos, aveva portato di suo ricca dote e 
corredo (4). 

Il privilegio imperiale, promesso nella lettera esecutoriale, fu 
spedito poco meno d* un anno appresso, il 16 gennaio 1534, 
fatto più ricco di favori, e per noi di notizie (Documento II). 
Innanzi tutto, la concessione di mille ducati di rendita sulle 
terre di Rocca d' Evandro e di Camino è mutata nel pieno pos- 
sesso di dette terre, devolute per ribellione di Federico di Mon- 
forte, con tutti i diritti e privilegi feudali, la cui enumerazione 
occupa parecchi fogli (5). Di più vi si aggiunge: i.° annui du- 
cati 220 sugli introiti della città di Matera, devoluti per ribel- 
lione di Paolo Restiliano; 2.^ tutti i beni burgensatici e feudali 
di Michelangelo e di Federico Grison in Ischia, già concessi 
dal principe d' Grange a Cesare Plantadio, devoluti per loro 
ribellione; 3.^ ducati 197 di annuo reddito sui beni di Giovanni 
Batttista de Salice, già concessi a Pietro lacobo de Afflitto, e 



(I) Carteggio ecc., p. 56. 

{2) Segao qui piuttosto il Rosso (p. 48-49), molto minuto nelle notizie circa 
il D' Avalos, il quale pone nel 1533 il conferimento della suprema onorificenza, 
invece che il Reumont (p. 136), e che lo pone nel 1531. 

(3) Rosso, p. 49. 

(4) E. Visconti, Vita di V, C, premessa ali* ediz. delle Rime , Roma, 
1840, pp. Lxviii, cxLi sgg. ; Reumont, pp. 14, 86, 280 sgg. 

(5) Cfr. la nota in fine del docum. II. 

19 



— 134 — 

devoluti per ribellione del predetto Giovanni Battista [Queste 
due ultime concessioni, però, non sono confermate dal viceré, 
perchè ad esse era già stato provvisto dalla Regia Camera (i)]; 
4.° le funzioni fiscali e i diritti di focolari e sali nelle terre di 
Rocca d' Evandro e di Camino. In tutti cotesti possedimenti, 
dopo la morte di Vittoria Colonna, sono destinati a succedere, 
non, come nel primo documento, gli eredi di lei, ma « ex nunc » 
r illustre don Alfonso d' Avalos d* Aquino, principe di Monte- 
sarchio ecc. ecc., e poi gli eredi e successori discendenti legit- 
timamente dal suo corpo, in perpetuto ed in feudo. L'interces- 
sione di lui non fu al certo disinteressata — innanzi a certe 
passioni son sempre eguali gli uomini di tutti i tempi, di tutti 
i luoghi, di tutte le condizioni — e la donazione alla Colonna 
si risolveva in un pretesto d'accrescimento di potenza al già 
potentissimo Marchese del Vasto (2) ! In questo privilegio, per 
la prima volta dopo nove anni, sono ricordati solennemente i 
meriti e i servigi del Marchese di Pescara, cioè la campagna 
di Lombardia , il recupero dello stato di Milano , la battaglia 
di Pavia e la prigionia di re Francesco, delle quali finalmente 
si confessa che egli fu massima causa — « maximam causam 
ipsum Marchionem dedisse fateamur » — mentre lui vivo si 
cercò di diminuirgliene il merito (3). Della maggior prova, però, 
di fedeltà^ V aver rinunziato alla corona di Napoli e sventata 
la trama, non si fa nessun accenno; la ragione politica lo vie- 
tava ; i congiurati d' allora subivano adesso la potenza del pa- 
drone d' Italia, ed erano, per amore o per forza, divenuti suoi 
amici. Ma più nuovo ci riesce quanto si dice nel documento 
della nostra eroina ; onde ne citeremo testualmente le parole. 



(i) Cfr. il documento II, in fine. 

(2) Non godè però egli il possesso di tali terre, perchè premorto a Vittoria 
Colonna, nel 1546. La vedova di lui, Maria d'Aragona, le vendè nel 1548, un 
anno dopo la morte della Colonna, a Giulio Carrafa per ducati 5000 {Reper- 
torio Quintemtoni, I, pp. 151 sgg.) 

(3) De Leva, II, 280. 



— 135 — 

« Nec minori laude dignam censeamus animi magnitudinem 
« prudentiam aliasque singulares virtutes et eruditionem non 
« vulgarem, rem in foemineo sexu raram, quae in Illustri Vii- 
« ioria Columna praefati Marchionis vidua relitta sita esse intel- 
« leximus ; verum etiam offitia quae nobis exhibuit, dum Galli 
« aliique eorum confederali regnum nostrum praefaium dterioris 
« SicUiae invaderint , in qiia ex Ischia , ubi ipsa lune temporis 
« moraòatur, naviliis diversis rebus ad vittum necessariis insirut- 
« Hs, ita subvenit ut propter haec et vigilantiam quam gessit in 
4i mittendis exploratoribus ad inimicum exercitum , ut ministros 
€ nostros Neapoli existentes admoneret^ non parvam Umdem sii 
« promerita etc. » Come si vede, né più né meno di quello che 
aveva fatto Costanza d' Avalos nella medesima difesa dell' isola : 
soccorrere di vettovaglie gli assediati in Napoli ed informarli 
delle mosse nemiche. 

Ora, la critica storica, sempre a ragione diffidente, deve du- 
bitare della veridicità nella notizia? 11 silenzio dei cronisti con- 
temporanei circa la parte presa da Vittoria in queir avvenimento, 
si può spiegare agevolmente, considerando che la figura prin- 
cipale e rappresentante la famiglia era la Duchessa di Franca- 
villa, mentre la Marchesa di Pescara non era in quel tempo 
ancora in tanta fama, come fu appresso. Quanto al parlarne lei 
stessa, si sa come ella fu aliena dal ritrarre nelle sue poesie 
altro che il suo mondo interiore, e ce ne ha detto le ragioni, 
da maestro, lo Zumbini (i): ma se anche ciò non fosse stato, 
glielo avrebbe vietato un modesto riserbo. Né la solennità del 
documento ufficiale può venire infirmata dal sospetto d' una 
rettorica amplificazione, perché a dar ragione del beneficio im- 
periale — che, del resto, torniamo a rammentarlo, si riversava 
su Alfonso d' Avalos — bastava il ricordo della virtù e dell' e- 
rudizione di Vittoria e un generico accenna alla fedeltà di lei,. 



(i) B. Zumbini, Vittoria Colonna, in Studi di letteratura italiana, Firenze 
1894, pp. 26-27. 



- 136 - 

senza bisogno d'inventare dei servigi così determinati. Perciò 
non istentiamo a credere che la nostra poetessa abbia avuto 
realmente parte nelle operazioni militari, che avevano il loro 
centro in Ischia. Né noi, avvezzi a figurarci solo la sua mite 
figura di donna immersa in unico gran dolore, o tutto chiusa 
nel suo misticismo, ne prenderemo gran meraviglia, se conside- 
deriamo che ella visse il meglio della sua giovinezza accanto 
alla fiera Costanza, forse sua educatrice (i), la quale, non più 
giovane nel 1528, aveva bisogno d'un valido aiuto di braccio 
e di mente, che solo in Vittoria, e non nelle altre donne della 
famiglia raccolte nel castello, poteva ritrovare. E la vaga isola, 
amor di poeti (2), che il classico mito fa simbolo di forza: 

duroinque cubile 

Inarime |oyìs imperiis imposta Typhoeo (3), 

può vantar nella sua storia d' aver fatto esperienza del valore 
(dolorosamente, però, speso non a prò della patria, ma dello 
straniero !) di due nobili donne. Questi documenti, che pub- 
blichiamo, sono come una nuova conferma ufficiale delle ge- 
niali parole del nostro maestro (4), il quale chiamò Vittoria Co- 
lonna « regina di quest' isola e di questo paradiso di natura » , 
e disse che la sua figura entra con gloria nella storia degli 
avvenimenti politici e militari più famosi del secolo XVI. 

Giovanni Rosalba 



(i) Rbumont, p. 120. 

(2) G. Majlradi, Poesie, Firenze, Barbèra, 1902; son. € Ischia, amor di 
poeti, isola vaga ». 

(3) VlXGlup, Eneide, IX, w. 7i5'7i6. OiOCRO, Iliade, II, w. 789-3^93. 

(4) ZUMBINI, Op» cit„ p. 6. 



137 — 



DOCUMENTI. 



1.(1) 

Alfonsus etc. Nobili viro Jacobo Gattaie de Ciuitate Vici fideli regio et amico 
nostro car."* salutem. Per parte de la 111. Victoria Colonna marchesa de Piscara 
sono state presentate in questa R> camera lettere clause et sigillate del HI. "*<> 
S.^w viceré quale sono del tenor sequente v. a tergo : 111.* et magnificis viris 
magno huius regni camerario eiusque locumtenenti presidentibus et rationalibus 
regie camere sommarie , coUateralis consiliarììs regiis fìdelibus dilectissimis. In- 
tns vero: Carolus quintus etc. Illustres et magnifici viri coUateralis consìliarii 
regii fideles dìlectissimì : Per parte de la infrascritta supplicante ne è stata pre- 
sentata lettera de la cesarea Maestà del tenor sequente v. a tergo: Al 111.^ 
Marques de Villafranca nuestro primo visorey y Capitan general nel reyno de 
Napoles. Intus vero : El Rey : 111.* marques primo nuestro visorey lugart.^ y 
capitan general: Porque haviendo respecto alos muchos grandes y sennalados 
servicios que recehimos del III, marques de Pescara ya defuncto y ala affec- 
tion que la RU Victoria colofina marquesa de pescara su muger ha tenido y 
tiene à nuestro servicio, le hauemas hecho merced de mill ducados de renta 
para ella y sus herederos en bienes de Rehelles deuolutos y pertenescientes à 
nuestra Corte y en cuenta dellos delos lugares de rocca de vandro y Camino 
deuolutos à nuestra regia corte por la rebellion y delictos de federico de monforte, 
paraque los tenga y possea assi y de la misma manera que à nos pertenesce- 
ron y pertenescen por la dicha rebellion. delo qual todo le manderemos de- 
spachar luego el prìuilegio en forma. Pero porque entre tanto queremos que 
se le de luego la possession delos dìchos lugares de rocca de vandro y Camino, 
por la presente os encargamos y mandamos que proueays comò luego que està 
nuestra carta os fuere presentada sin esperar el nuestro prìuilegio dela dicha 
merced, ny otra consulta ny mandamiento nuestro, ny otra cosa alguna hagays 
dare y proueays que se de ala dicha marquesa de pescara o aquien su podere 
oviere la possession de los dichos lugares de rocca de vandro y camino, y que 
se le entregaen à quellos con todo loque à dlos pertenesce segund y corno nos 



(I) R. Arch.: Esecutoriale Regia Camera, voi. XXXIII, ce. 89-90. Sono 
dispersi i voli, dei Privilegiorum del Collaterale, nei quali dovrebbero trovarsi 
questo documento e il seguente. 



- 138 - 

pertenesce à nos y à nuestra regia corte por virtud dela dicha rebellion , pa- 
raque gotte dellos, y delos fructos y rentas dellos en cuenta dela dicha mer- 
ced, que corno dicho es le hauemos hecko des del dia dela data dela presente 
en adelante, syn consentir que en elio se sea puesto dilacion o difficultad al- 
grina , porque assi procede de nuestra determinada voluntad , y queremos que 
se haga y cumpla toda dubda consulta e Impedimientos cessantes , y seremos 
muy servido que fauorezeays etc. y todo lo demas que le toccare, comò de per- 
sona aquien tenemos toda voluntad, por loque ella meresce. la presente restituyd 
al presentante. Datum en barcelona a viij de mayo anno de 1533: yo El Rey: 
Couos comen.o' mayor Secretarius : in exequtoria Comalonga prò taxatore. In 
partium XII fol. 404. Noi volendo obedire come semo tenuti a li mandati dela 
Cesarea Maestà ve decimo et ordìnamo che servata la forma dele preinserte let- 
tere dela ces. M.*^ ad ogni instantia de detta III, marchesa o de altro per sua 
parte debiate consignarU et farli consignare la possessione de dette terre de 
rocca de vandro et ccffnino^ conforme a le preinserte lettere de soa Ces. M.*^ 
quale ad unguem exequerite et farrite exequire iuxta Uor continentia et tenore: 
che tale è nostra voluntà et intencione: Datum in castello nono neapoli die xij 
mensis lunii 1533: Don Petro de toledo: vidit figueroa Regens, vidit loffredus 
Regens: L. viceprothonotarius: vidit Alfonsus Sanchez generalis thesaurarius: 
Bemardinus martiranus secretarius: In partium locumtenentie iij fol. 264: Et vo- 
lendo questa regia camera exequire quanto detto Ill."*<* S. viceré ne ordina ve 
decimo et comandamo che ve debiate personalmente conferire ad dette terre de rocca 
de vandro et Camino: et exequire quanto in le preinserte lettere de sua Ces. 
M.*^ et de dicto HI."»® S. viceré sta ordinato Iuxta lloro forma continentia et 
tenore, comandando ad tutti et singuli officiali tanto regii comò de baroni, sìn- 
dici , electi , università et homini de dette terre che per la exequtione prefata 
ve debiano assistere obedire «t prestare tutto lo aiuto et fauore che da vui U 
sarà recercato: Et non facciano lo contrario etc. et sub pena de ducati mille : 
Datum neapoli in R. Camera die xiij mensis lunii 1533 — Hieronimus de fran- 
cisco locumtenens magni camerari! — nardus antonius de lo rizio prò magìstro 
actorum. 

n. (i) 

Carolus quintus etc. 

Don Petrus de Toledo Marchio ville franche Caes. et Cath. Maiestatum in 
praesenti regno vicerex locumteneus %i capitaneus generalis ete. Illustrìbus spet- 
tabilibus Magnìficis nobilibus et egregiis viris magno huius regni Camerario pro- 
thonotario magistro Justitiarìo eorumque locatenentibus R. Camerae Summariae 



(i) Ibid. : Quintemioni, voi. LXVIII, ce. 3-10. 



— 139 — 

scribis portionnm Thesaarario generali »eu offitia praefata regentibus, tmiversita- 
tibus et hominibus terrarum rocchae de vandro et camino earumque casalium 
caeterisque universis et singulis offitialibus tribunalibus et subditis Regiis Ma- 
yoribus et minorìbos quovis nomine nuncupatis offitio titulo auctorìtate praehe- 
minentia et jurisdictione fiingentibus ad quoa spcttabit et praesentes pcrvenerint 
praesentìbns et futuris seu eorum locatenentibus et substitutis gratiam Regiam et 
bonam voluntatem. Nuper prò parte lUustrù Vittoriae Columne marchtonisse 
Ptscarie fnit nobis praesentatum quoddam priuilegium Ces. et Cath. Maiesta- 
tnm tenoris sequentis v, CAROLUS diuina fauente clementia romanonun Im- 
perator semper augnstus rex germaniae etc. Joanna mater et Idem Carolus dei 
gratia reges cartelle aragonum ntrìusque Sicilie hyemsalem ungariae di^lm^tiag 
crohatiae legionis navarrae granate Toleti valentiae galletiae mayoricaram hyspa- 
Us sardìneae Cordnbae corsicae giennis algarbij algezire gibraltaris Insularmn Ca- 
nariae Insulanimque Indiarum et Terrae firmae maris occeani archiduces austriae 
duces burgondiae et bramantis Comites barchinonae flandriae et Tiroli domini 
vìscayae et molinae duces athenarum et neopatriae etc comites rossilionis et cen- 
tàniae Marchionesque oristanni et gotiani etc. recognoscimus et notnm facimus 
tenore praesentium imiversis quemadmodum ad rempublicam rette gubemandam 
necessarium admodmn est ut qui a suis principibus deficiunt meritis poenis af- 
ficiantur: Ita etiam par est ut qui bene et fideliter serviimt praemiis et honori- 
bns cohonestentur ut ìllorum supplitium subditos a nefando rebellionis scelere de- 
terreat, horum autem praemium eos.dem in fide retineat et ad virtutem in- 
vitet, quo fit ut superiori anno 1528 gallis una cum aliis hostibus nostris re- 
gnum nostrum siciliae citerioris invadentibus federicus de monforte utilis domi- 
nus tunc temporis terrarum rocche de vandro et camino: nec non paulus restil- 
lianus Joannes baptista de salice michelangelus et federicus grison filii Jacobi 
grìson obliti fidei et iurisiurandi nobis praestiti a nobis deficientes eisdem ho- 
stibus nostris adheserint et in nos rebellionis crìmen et felioniam commiserint 
et propterea Terrae praefatae ceteraque eorumdem bona publicata et fisco no- 
stro applicata fuerint de eisque nobis liberum sit arbitrio nostro disponere, ani- 
Tnadvertentes innumera nullaque Mrvione delenda obsequia quae per lUustrem 
quondam ferdinandum franciscum dauolos marchùmem piscariae nostrum dum 
vixit Capitaneum generalem et in praefaio regno nostro citerioris siciliae ma' 
gnum camerarium nobis exhibitafuerunt in Insubria praesertim in recuperando 
statu et dominio mediolanensi et hostibus ab eo profligandisob suam strenui- 
totem et prudentiam quamvis in diversis conflittibus nulli non patefecit in 
ea pugna qua cum gallis apud Ticinum exercitus noster consertccvit rexquc 
ipse vittus in nostram potestatem fuit adduttus ita se virum ostendit ut capti- 
vitcttis ipsius regis et vittoriae quam de eius exercitu dei optimi maximi auxilio 
nostri milites reportavere non infamiam immo mcLximam causam ipsum mar- 
chùmem dedisse fateamur^ ut omittamus interim ea quae nobis antea in regni 



— 140 — 

nostri praefati tuitìone et recaperatione exhibuerat quae omnia ita per orbem sunt 
nota ut nostro testimonio quantum vis auctoritatis illud addere possunt minime 
indigeant, nec minori laude dignam censeamus animi magnitudinem ^ruderi' 
tiam aliasque singulares virtutes et eruditionem non vulgarem rem in foemi- 
neo sexu raram quae in Illustri VITTORIA COLUMNA praefati marckionis vi' 
dua relitta sitas esse intelleximus verum etiam offitia quae noòis exhibuit dum 
gaUi aliique eorum confederati regnum nostrum praefaium citerioris siciliae 
invaderint in qua ex ischia ubi ipsa lune temporis moraòatur nauiliis diversis 
rèbus ad vittum necessariis instruttis ita subtienit ut propter haec et vigilati' 
tiam quam gessit in mittendis exploraiibus ad inimicum exercitum ut mini' 
stros nostros neapoli existentes admoneret non parvam laudem sit promerita, 
ita fit ut prò his et aliis offidis nobis praestitis et in mariti memorìam cuius 
merita mayori remimeratione digna esse non possumus non fateri merito animnm 
inducimus ut ipsi Vittoriae aliqua ex his quae praefati rebelles sua culpa ami- 
serunt in suae virtutis et erga nos deuotionis ac nostrae munificentiae memorìam 
concedamus : Tenore igitur praesentium motu proprio nostra ex certa scientia 
consiliique penes nos assistentis matura accedente deliberatione ac R. et domi- 
nica potestate nostra ac ex gratia speciali moti respettibus praefatis et aliis men- 
tem nostram digne moventibus Terras praefatas rocche de vandro et camini 
ipsarumque casalia sitas in prouintia terre laboris ad nos et nostram Regiam 
Curiam legitimo et pieno Jure spettantes et pertinentes ac deuolutos ob noto- 
ria?:^ rebellionem praefati federici de monforte ipsiusque proditionem et defet- 
tionem cantra nos staium seruitiumque nostrum ut supra comissas de quibus 
nobis et ipsi R. Curiae nostrae pienissime constat : nec non annuos ducatòs 
ducentos et viginti quos paulus restillianus super introytibus ciuitatis materae 
emptos possidebat propter eius notoriam rebellionem ad nos et eandem nostram 
R. Curiam deuolutos nec non uniuersa bona tam burgensatica quam feudalia 
mickaelis angeli et federici grison in Ischia sita et quae per quondam princi' 
pem- orangiae cesari plantadio commissa fuerant cui nos et eandem nostram 
R, Curiam ob eorum rebellionem seu felloniam deuoluta et spettantia duca- 
tosque centum nonaginta septem annui redditus super bonis Joannis Baptistae 
de salice qui petro Jacobo de afflitto concessi fuerant sub nostro beneplacito ad 
nos et eandem R, Curiam nostram ob rebellionem et felloniam et defettionem 
praefati Joannis Baptistae deuolutos et spettantes ac pertinentes nec non fun- 
tiones fiscales seu iura foculariorum et salis in dictis terris rocche de vandro 
et camini nobis nostrae R, Curiae praefatae spettantes et pertinentes iam dictae 
VITTORIAE MAl^CHIONISSE et post eius obitum ex nunc HL DON ALFONSO DAUO- 
LOS DE AQUINO principis montis herculei marchiani vastiaymonis et ipsius 
principis heredibus ex suo carpare legitime descendentibus in perpetuum et in 
feudum et sub contigenti et debito feudali servitio seu adoha quotiens in regno 
praefato generaliter indicetur damus donamus concedimus et Uberaliter elargì- 



— r4i — 

miir cum omnibus et singulis ipsarum Terrarum casaLibus castrìs fortellitiis ho- 
minibus vaxallis vaxallonimqae reddìtibus feudis quatematis et non qoatematis (i). 



Datum in ciuitate nostra Cesaragusta die xvj mensis /attuar ti anno a natioitate 
domini MDXXXIIII Imperii nostri xiiij regnorum autem nostroram yj reginae 
castellae legionis granatae etc anno xxj navare xx aragonum utriusque siciliae 
hyerasalem et alioram xjx regis vero omnium xjx yo el REY. vidit pcrrenotus 
prò prothonotario et magno Camerario — vidit Maius victorius — vidit ludovicus 
Sanchez Regius Xhesaurarius generalis: sacra Caes. et Cath. Maiestas mandavit 
michi alfonso idiaqui: solvit prò nunc ducatos xxxx prò nunc in exequtoria de 
residuo habeatur ratio Cardona protaxatore: in priuilegiorum xvij fol. clxxxjx — 
Ea propter volentes ut tenemur Caes. et Cath. Maiestatum obedire mandatis 
praecipimus et mandamus vobis omnibus superdictis et cuilibet vestrum in so- 
Udum quatenus servata forma praeinserti priuilegii earumdem Maiestatum illam 
praefate III, marckùmissae vel eius legitimo procuratori et post eius obitum 
praefato III. marchioni vastiaymonis suisque heredibus et successoribus obser- 
vetis et exequamini ac exequi et observarì faciatis per quos decet in omnibus 
aliis contentìs in preinserto privilegio praeterquam in bonis quae fuerunt mi- 
chaelis angeli grison sitis in insula yschiae super quiòus est lata sententia 
per i?.**™ Cameram summariae in fauorem uxoris dicti michaelis angeli ac 
Joannis Baptistae de salice quae asseruntur vendita per regiam Curiam do- 
nec super pratfatis aliter de iustitia visum et contrarium non faciatis prò quanto 
gratiam praefatarum Maiestatum caram habetis ac paenam in praeinserto regio 
priuilegio contentam cupitis evitare. In quorum fìdem praesentes fieri fecimus 
magno praefatarum Maiestatimi pendenti sigillo munitas. Datum in castello nouo 
neapoli die xij mensis martii MDXXXIV. Don petro de toledo — Vidit de 
Colle Regens-Vidit figueroa Regens- Vidit loftredus Regens — L. viceprothono- 
tarius: Augustinus locumtenens M. Camerarii — Vidit alfonsus sanchez genera- 
lis Xhesaurarius — Dominus vicerex locumtenens generalis mandavit michi ber- 
nardino martirano — Solvit tarenos duos prò nunc et caveat prò iure sigilli bo- 
norum federici grisoni et Joannis baptistae de salcetis Salernus prò taxatore — 
In priuilegiorum locumtenentie xij fol. cviiij. 



(lì Si è omessa la lunga enumerazione dei diritti feudali, delle norme per 
l'amministrazione della giustizia, degli altri privilegi, l'ordine d* iscrizione nei 
Quinternioni, la partecipazione agli officiali ecc. : cioè da e, 5 a e. 9 v. 



Sul " RITMO CASSINESE „ 

NUOVE OSSERVAZIONI E CONGETTURE. 



Eo, sinjuri, s'eo f abello del Ritmo cassinese, è un mero caso. 
L'anno scorso, e proprio nel mese di gennaio , essendomi ca- 
pitato di proporre (i) un'interpretazione nuova e la data ap- 
prossimativa della cosi detta antichissima < cantilena d'un giul- 
lare toscano » , mi venne voglia, cosi come accade, di dare un'oc- 
chiata a questo altro frammentario avanzo, e venerabile, della 
nostra preistoria letteraria, del quale anch'io, un tempo, avevo 
capito < assai poco » (2). Mi fermò subito, al solito, il terzo 
verso : 

em mebe cendo flagello, 

uno di quelli , « che hanno sino a qui dato più da fare agli 
interpreti » (3). « Che sarà quel cendo f » , ripetevo tra me e 
me. « Certo non un verbo, perchè ne abbiamo già uno in fla- 
gello » (4). — Certo ? E perchè certo ? Non potrebbe essere 
stata omessa la congiunzione ? Ed è un verbo flagello , o non 
piuttosto un sostantivo ? Rileggiamo. 



(i) Rivista d^Italia, 1901, fase. 2.° Queste pagine furono scritte nel feb- 
braio del 1901. Nella Rassegna hibliogr, dell'agosto-settembre 1* egregio prof. 
I. Sanesi, citando dal Du Gange un passo d* una carta del Quattrocento — 
< Unum flagellum cerae » — propose di dare a flagello il senso di fiaccola, 

(2) // Ritmo Cassinese di nturuo pubblicato da I. Gio&Gi e G. Navone 
nella Rvv. di fiL rem,, II, 91 -no. 

(3) Novati, // Ritmo Cassinese e le sue interpretazioni y nella Miscellanea 
Caix- Canello, p. 3. 

(4) Novati, ivi. 



— 144 — 

E rilessi , e « quel cendo » mi richiamò facilmente alla me- 
moria lamenti e dichiarazioni di innamorati, morti la bellezza 
di sei secoli e mezzo fa: la donna del contrasto di Cielo, che 
finge, r ipocrita !, di avvampare tutt' a un tratto, dopo il giura- 
mento solenne di lui\ 

Meo sire, poi iurastimi, eo tutta quanta incenno, 

e si arrende e gli addita, la sfacciata! lo letto-, Rinaldo d'Aquino, 
che giura al < sovrano fior di Messina » : 

tutto esto mondo è di neve : 
di tal foco [eo?]so 'raciso 
che me ne consuma, 
e con foco, che non pare, 
che la neve fa llumare, 
ed incendo tra lo chiaccio, 

— gli avrà creduto il sovrano fiore? — ; la donzella, che piange 
la partenza e la lontananza del crociato diletto : 

Oimè lassa tapina ! 

ch'io ardo e 'ncendo tutta. 

Desideri infiniti, sospiri vani , che si sperderono al vento, 
brame impudiche presto soddisfatte , ardori spirituali , fiamme 
della carne... Lasciamo stare. Ma « questo cendo » non è per 
r appunto incendo f Per T appunto. Che cosa dice l'autore? — 
Mentre io parlo : yiz;^/^ linguis! State attenti, ascoltate. Bando 
alle ciance di questa vita; io vi parlerò dell' altra.... Ecco, 
io riapro agli altri la via, e in me « incendo flagello » . Così arde 
la candela , e mostra ad altri la via libera... Anch'io fo lume 
per voi, e mi affretto a dirvi, dell'altra vita, quello, che so. — Che 
cosa fa, dunque, il brav'uomo ? Si paragona alla candela ; an- 
ch'egli arde e rischiara, perchè ha acceso in sé «flagello ». 

— Qui ti casca l'asino ! Accendo flagello, in me accendo fla- 
gello.,. Non si tratta davvero di frusta, di scuriada, di corda, 



— 145 — 

di nerbo di bue ; quantunque.... in un certo senso.... Uhm.., 
« Incendo flagello ».. 

Ma proprio s'ha da leggere flagello f Se fosse /ugello.., non 
so qual sugo ne potrei spremere. Se fosse flaello.,. Oh diva 
Pegasea ! Come dice Dante , là , nel Paradiso , quando narra 
dell'Aquila formata di spiriti, che parevano rubinetti splendenti 
ai raggi del sole? Quando «tutte quelle vive luci, Vieppiù 
lucendo cominciaron canti ? » Ecco : 

O dolce amor, che di rìso t'ammanti, 
quanto parevi ardente in quei flailli^ 
ch'avieno spirto sol di pensier santi ! 

Flailli ; flaelH / Sta a vedere! Il Rilmo Cassinese, che con- 
ferma una lezione dantesca ; Dante, che chiarisce H Ritmo Cas- 
sinese... — Eh sì ! Non trascurò di farselo mostrare quando andò 
a Montecassino, e vide il monte Cacume, e adocchiò, divorò e 
forse trafugò il libercolo di Alberigo ! — Eppure ! Che ne ha 
detto l'amico Zingarelli ? Nulla, proprio nulla (i): e perchè?...! 
commentatori, lo so, ne hanno sballate , al solito , di quelle... 
Può, domando io, nel cervello di uomini colti e ingegnosi, en- 
trare , fermarsi , mettere radici , germogliare Y idea che gli 
spiriti dell'Aquila sibilassero, fischiassero come tanti monelli ? 
Ebbene, cosi credè di spiegare il buon Benvenuto da Imola: 
« in quei favilli, idest, sibilis, scilicet , in vocibus canorìs ilio- 
rum spiritum » ; cosi ripetono i moderni, anche i più acuti e 
più cauti. A render meno inverosimile l'incredibile, l' inconce- 
pibile — si sa, i commentatori non sono mai a corto dì argo- 
menti ; non importa loro di scrutinarli, di pesarli, di vedere se 
sieno di quelli, che « te li senti andar per la persona sino al 



(i) Ne tocca, invece, il Parodi, nel bello stadio La rima e i vocaboli, in rima 
nella <k Divina Commedia i^ {Bull, d, Soc. Dantesca, III, f. 6, p. 145) : 
M, flailli,,, che si manifesta in toscano col suo fla iniziale, e che va certo col 
flavel * flauto *, e magari con flajel^ poiché è evidente che si tratu d'uno stru- 
mento ». E interpreta 1* ultimo verso così: « cioè, ne* quali i santi pensieri 
tenevano il luogo di soffio ». 



— 146 — 

cervello e rimanervi drente » — spiccano un bel salto e vanno 
ad acciuffare Tultimo verso del terzetto seguente: 

Poser silenzio agli angelici squilli. 

Sentite ? Squilli : ora, gli squilli sono suoni; dunque, flailli sono 
suopi anch'essi, « canti soavi », o strumenti, che rendono suono 
soave , magari « piccoli flauti » . E spieghino perchè e come 
r amor divino si manifesti ardente nei flauti o nei suoni dei 
flauti. Non si concepisce cosa ardente, che non sia accesa, ca- 
lore, e fuoco. Dice Stazio nel Purgatorio : 

Al mio ardor fur seme le faville, 
che mi scaldar, della divina fiamma, 
onde sono allumati più di mille. 

Ma, soggiunge il Casini, V idea della luce, già espressa avanti 
e ripetuta subito dopo, « sarebbe superflua qui ». Oh ! sarebbe 
conveniente che le vive luci lucenti, nel passaggio da un ter- 
zetto air altro, si mutassero in istrumenti musicali, per diven- 
tare subito dopo lapilli lucidi ? Per quanto ricco il vocabolario 
di Dante, non erano senza numero le parole adatte a signifi- 
care che gli spiriti si mostravano a lui come luci o fiamme. 
Non ha nessun valore il fatto che « un grandissimo numero di 
eccellenti manoscritti hanno flailli f » (i). E non significa 
niente che proprio il commentatore cassinese postilli : « fla- 
grantes splendores » e faccia « derivare la parola dal verbo 
flagrare ? » (2) Sennonché, mi si può obbiettare. Dante scrive 
flailli e l'autore del l^\\xi\o flagello, — Ed io domanderei: l'au- 
tore, o il copista? Questo g non rappresenta quel suono gut- 
turale {gh) per il quale, su le labbra di filosofi meridionali 
abruzzesi e molisani, Videga diventava gatto? Nel Caio di Cate- 



(i) Blanc, Vocabolario Dantesco, 142. Parecchi, a dispetto della rima, re- 
cano flaelli. 

(2) Casini, La Divina Commedia col commento, p. 693. 



— 147 — 

naccio esso produce conseguenze curiosissime ; per esempio, 
trasforma ài y sai^ assai, sui, angustie, fiate, in aghi, saghi, 
assaghi, sughi, angustighe, figate. Quanto air e, che prende il 
posto di iy non abbiamo faella nel Cato e in scritture meridio- 
nali, in luogo del toscano e latino faviUaf Mi auguro che qual- 
che filologo voglia studiar la questione. 

Tutto sta a dare il primo passo. Non sarà possibile — mi 
son domandato — chiarire gli altri luoghi oscuri del componi- 
mento, colmare qualche lacuna, renderlo, insomma, più pulito se 
non più terso, togliendo via diligentemente la rozza patina, della 
quale fu coperto dall'ignoranza o dalla trascuraggine di chi ce 
lo lasciò scritto ? E mi son detto : Tentiamo. 

Prima di tutto e più di tutto ha fermato Tattenzione mia la 
costituzione, Torganesimo della stanza. È noto che essa somi- 
glia a quella di altri componimenti didattici antichi, come il 
Cato di Catenaccio, il Regimen SanitatiSy I Bagni di Pozzuoli \ 
ma non si è rilevato, credo, quanto sia più varia, più mossa è più 
ricca di rime. Nel Ritmo i primi tre versi e il quarto compon- 
gono una serie di ben sette ottonari con la stessa rima ; viene 
poi la solita coppia di endecasillabi : negli altri poemetti citati 
manca il verso breve ; i primi quattro — ognuno de* quali ri- 
sulta dair unione di due settenari — non rimano al mezzo. Il 
maggiore artifizio, la ricerca d'un numero di rime più che doppio, 
indicano a chiare note che l'autore non schivava fatiche, anzi 
si compiaceva di affrontare e superare una prova non facile : se 
non inventò egli questo tipo di stanza — del quale non conosco 
altri esempi, — volle e seppe piegarlo al suo intanto. Non era un 
dappoco, insomma; probabilmente, non era al primo tentativo. 
Se non inventò egli il sistema delle rime, l'osservò esattamente, 
direi: rigidamente, dal principio alla fine, perchè è facile ridurre 
a rime esatte le due consonanze delle st. VI (pso-uso) e XII (ete-ite). 
Quest'uomo così curante delle rime non avrà fatto traballare e 
zoppicare i versi ; è colpa di chi li trascrisse, il quale, forse, li 
aveva imparati a mente con poca attenzione o da troppo lungo 



— 148 — - 

tempo, se, su la pagina del codice, par che i versi ballino il 
ballo di S. Vito. Perciò non mi sono soltanto permesso, ma ho 
creduto fosse dover mio procurar di restituirli tutti alla loro 
giusta misura, aggiungendo o mutando il minor numero pos- 
sibile di parole, per lo più con tagli opportuni di superfluità e 
di escrescenze. 

Lo schema, che ci sarà guida sicura, è questo : 

8 a-f- 8 a 
8 a + 8 a 

8a+ S a 

8a 
II b 
II b. 

Nelle stanze I, III e IV è intatto. Nella II vediamo subito, 
invece del primo ottonario, un accozzo di dieci sillabe. Ab- 
bengo pare rappresenti un abbenga che , capace di diradare 
il buio di quel culpa jactìo : mantenendo lui con la piccola 
modificazione e la giunta necessaria, è forza rinunziare a et 
o ad eOy ed anche, né ce ne dorremo, a sence. Un'altra sup- 
posizione è possibile : se ^nce bengo e 'n ctdpa jacczo; ma non 
mi dice nulla. Il quarto verso cresce di due sillabe e non 
ha la stessa rima dei precedenti : bisogna, perciò, sostituire a 
figura un'altra parola di tre sillabe in -acczo, e cancellare una di 
queste tre: Aio nova dieta. Paiono latine, e tali furono credute, 
forse perchè un po' di latino non sarebbe stato male in bocca 
ad un frate. Aio , secondo me , è la prima persona dell' indi- 
cativo presente' del verbo avere (cfr. il v. 57). E perchè qui 
sta , se mi si passa il vocabolo , la proposizione del compo- 
nimento, r annunzio di ciò, che V autore ha inteso di fare, 
considero aio come parte d' una formula d'uso comune. « Aio 
trvòato » , ovvero : « Aio facto » . Che cosa ? « Novu dictu » . 
Il posto di aio e del suo attributo è segnato dalla lacuna 
del terzo verso. Leggo in volgare novu dictu: nessuno ignora 
che detto , dettato — in francese dit , dittié — fu titolo abba- 



— 149 — 

stanza elastico di poemetti per lo più didattici. Detto era per 
Pietro da Barsegape' il suo compendio del Vecchio e del Nuovo 
Testamento ; Bonvesin da Riva volle « far ditai » della vita di 
Giob ; la leggenda del transito della Madonna è un dictatu, « che 
la contessa Mobilia fé' fare », quella di S. Caterina un diciatti, 
che Buccio di Ranallo « trasse dalla sua scriptura ». Al bel 
principio del Regimen Sanitatis Tautore «narra la intencione» sua: 

Novellamente vénneme plenaria volontate 
alcuno dicto scrivere per fare utilitate 
comunemente all' omini, che no so lecterate 



Per loro amore fac9onde in vulgare lo decto 
che cascheduno ayande plenario intellecto; 
lo mio podere faconde, ca multo me dilecto 
che fa^a lo mio dicere generale profiecto. 

Del pari, Y autore nostro si propone V utile altrui, de' tra- 
viati, di coloro, che pensano solo alle vanità del mondo, e fa 
un detto nuovo , secondo le sue forze. Non direi che lo faccia 
per sollazzo ; probabilmente qui cominciava Tavvertenza conte- 
nuta nei due ultimi versi : non vi taccio che,.. 

Tolte via , per necessità di rima, le parole per fegura, non 
regge più la spiegazione : « i nuovi detti si debbono inten- 
dere figuratamente ». Ma fegura non deve sparire da questa 
stanza, perchè il principio della seguente la richiede; se l'au- 
tore si accinge a desplanare la fegura^ ciò vuol dire che di essa 
ha fatto menzione. Appunto, dove fu letto transfegura mi pare 
il codice porti tranffegura ; del resto, trasfigura ci lascerebbe al 
buio. Propongo : 

et no he tacczo 

ca da materia no sse trae ffegura 

ovvero : 

ca da materia no ss* entra 'n ffegura. 



Alfra non si può riferire se non a ftgura; non si coglie 
esattamente il senso riposto, se non paragonando diligentemente 
la lettera con l'allegoria (i); bisogna che la figura si con- 
fronti bene con la materia ; dunque il verso ultimo deve comin- 
ciare con se\ 

se ccoiraltra non bene s' aftegura. 

La terza stanza comincia cosi : 

La fegura desplanare ca poi lo bollo pria mnstrare. 

« Questa dichiarazione » , pensò il Novati , « questo despla- 
nare la figura li cercheremmo invano nel Ritmo quale ci è 
giunto » (2). Ma la figura si desplana proprio qui, in questa stan- 
za. Il secondo emistichio ha nove sillabe in vece di otto, e pre- 
senta pai in contraddizione con pria. Cancellato poi^ che guasta 
la misura, vien fuori il senso esatto : l'autore annunzia di voler 
dichiarare la /?^ra, l'allegoria, prima di mostrarla; esporrà la 
morale prima di riferire il dialogo, che ha in mente, del quale 
essa è il succo ed il significato : 

La fegura desplanare he bollo pria de mustrare. 

Infatti, la splana per via di esclamazioni. — Ahi ! noti crede 
nessuno di far mai vita migliore di questa , riposare , godere, 
divertirsi ; non crede nessuno che, dopo la morte, si abbia a 
godere tanto, quanto in questo basso e brutto mondaccio ! Pur 
troppo ! I godimenti terreni impediscono di vedere la verità, 
rendono miscredenti gli uomini. — Nel secondo verso étmque 
non ha diritto di rimanere. 



(i) Dante, Cowv,^ II, i: « Conciossiachè la litterale sentenza sempre sia 
soggetto e materia dell'altre, massimamente dell* allegorica ecc. ». 
(2) P. 388. 



I 



— 151 — 

Ahi! pencza nuU'oino fare questa vita : requiare, 
deducere, deportare ! morte, non bita gustare 
e' unqua de questa sìa pare ! 

S'ingannano a partito, ed io lo proverò. — E uno spiacevole fatto; 
ma è un fatto, che il rimatore osserva e commenta mestamente: 
perciò tolgo il punto interrogativo alla fine del terzo verso. 

Mi ha dato specialmente da fare la st. IX, che il codice pre- 
senta in grandissimo disordine, forse perchè alcune dichiarazioni 
o glosse riuscirono a passare, inavvertite, nel testo. Obe Vai as- 
similata (la vivanda) mi pare, infatti» peggio che ripetizione, 
alterazione di un concetto già espresso. Dei due versi : 

en qualecumqua causa delectamo, 
* tutt^a quella binja lo trobamo, 

uno non è necessario : en qualecumqua causa . equivale a tutto, 
che segue. Cosi questi tre (st. X) : 

homo ki nnim bebé ni manduca, 
non sactio comunque se deduca 
ni 'm quale vita si conduca; 

si possono restringere in due soli, perchè lo schema strofico non 
ne ammette di più, e perchè , in verità , il terzo , su per giù, 
dice lo stesso del secondo ; o , piuttosto, il terzo spiega il se- 
condo e, nel secondo, specialmente 1' ultima parola d' uso non 
comune : deduca. 

Per Tultima parte della st. XII, il Novati propose di leggere: 

Homo ki fame unqua non sente nim è sitiente 

Qued a besonju, tebe saccente de manducare de bibere niente. 

Non ricordò che la stanza deve finire con una coppia di en- 
decasillabi, i quali devon essere preceduti da un ottanario con 
la rima -are (i). Alla parola saccente, poco cortese anche se la 



(I) Non se ne era ricordato nemmeno il Bohmer (Novati, p. 484, o.). 



— 152 — 

rima non la respingesse, sostituisco curare, prima di tutto per 
la rima, e poi perchè lo trovo preceduto da bisogna nel Cato (st. 
129): 

Chi sa in quistu muDdu la sea vita passare, 
non li abbesongia multu della morte curare. 



I tentativi fatti per attribuire al Ritmo contenuto storico non 
approdarono (i) 

II Novati , che ebbe il merito di mostrare quanto di ca- 
priccioso , di arbitrario , fosse nelle ipotesi degl* interpreti , 
propose « una congettura molto acuta » (2), la quale, per 
quanto io so , non trovò contraddittori. « Il po^ta... si è 
accinto a dettare una esortazione a coloro , che , immersi nel 
fango dei terrestri godimenti, non sanno innalzare a più eccelsa 
mèta i loro sguardi, per indurli a scuotersi dal torpore ed as- 
sorgere, purificati, alla contemplazione delle gioie. oltremondane. 



(1) Non direi nemmeno ispirata da una reale diffusione dell* epicureismo «pra- 
tico » la protesta del rimatore. Proteste siffatte sono antichissime. Cfr., p. e., 
CoMMODiANO, Instruct,, lib. I, xxvi: 

Gens et ego fui perversa mente moratus 
et vitam istius scteculi caram esse putaham 
mortemque similUer sicut vos iudicabam adesse, 
cum semel exisset^ animum periisse defunctum, 

E Carmen Apologeticum, 750-55: 

Dicentes adiciunt : Nihil est post funera nostra 
Dum vivimus.,,. 

Nulla sit luxurta, quae nos pertranseat aevo : 
Dum tempus est vitae^ perfruamur omnia saech. 
Indisciplinati clementiam Dei refugant 
strenui sectanies, quasi sola vita sit, istam, 

(2) Cosi il (tasparv, Op, cit,y p, 418, 



— 153 — 

E per rendere non solo più efficaci i suoi ammonimenti , ora 
anche più comprensibili al grosso intelletto dei suoi rozzi udi- 
tori , ha stimato opportuno rivestirli di forme concrete, direi 
quasi palpabili, e di coprirli della veste trasparente dell'apologo, 
della allegoria. Perciò ha foggiati i due personaggi , dei quali 
Tuno, vir magno e prudente, vestito forse delle lane monacali, 
sta a raffigurare T uomo dedito alla vita spirituale ; V altro a 
simboleggiare quello che giace sotto l'impero dei sensi. Ed in 
bocca al primo, che giunge da una regione ignota e misteriosa, 
anzi oltremondana, ha posto parole che descrivono le gioie di 
una esistenza, sciolta da ogni laccio terreno, gioie che dair Oc- 
cidentale, incapace di raffigurarsi altri godimenti che non siano 
quelli a cui aspira, son riputate simili a quelle, di cui fruiscono 
in questo mondo coloro che son detti felici ; perciò egli chiede 
se anche le vivande di lassù siano cosi saporite e gustose come 
qui. E quando ode rispondersi che di vivande non fa bisogno 
in quel beato paese , accoglie con incredulità e stupore la ri- 
sposta e protèsta che il suo intorlócutore, se vive senza cibarsi, 
non deve esser un uomo. E cosi il dialogo non poteva termi- 
nare ; ma TOrientale probabilmente proseguiva ed induceva con 
i suoi discorsi nell' animo dell' Occcidentale un santo desiderio 
di conoscere egli pure , ripudiate le mondane fallaci lusinghe, 
quella soprannaturale felicità , di cui gli era dipinto un tanto 
incantevole quadro » (i). 

La congettura del Nova ti contiene molta parte di vero; ma, 
se non m'inganno, in ciò, che concerne i due personaggi, deve 
essere modificata o, se si preferisce , meglio determinata. Uno 
de' due vive, l'altro è morto; il primo ha tuttora pieno il capo 
delle fallaci opinioni terrene, l'altro ha già assaporato la bea- 
titudine celeste. Le parole del secondo: 

frate meu, de quillu mundu bengo, 
loco sejo e ibi me combengo, 



(I) Pp. 388-89. 



— 154 — 

non permettono dubbi: quillu mundu ( i) — locuzione tuttora viva 
nel Mezzogiorno e , suppongo , anche altrove — è, generica- 
mente, « Taltra vita » ed è, in questo caso, il Paradiso. Abbiamo, 
quindi, innanzi a noi, uno di quei contrasti o dialoghi tra il 
Morto e il Vivo, che furono così frequenti nelF età di mezzo. 
Sennonché, d' ordinario il Morto veniva dall* Inferno e giovava 
al Vivo mediante la descrizione de* supplizi eternamente inflitti 
alle anime dei reprobi ; qui viene dal Paradiso e soccorre il 
Vivo, provandogli, con la propria esperienza, che vi sono con- 
tentezze spirituali di gran lunga migliori della brutale soddi- 
sfazione degr istinti, de* bisogni materiali. Da questo lato il 
Ritmo segna un progresso, un più inoltrato processo di purifi- 
cazione rispetto al concetto prevalente in altri componimenti 
didattici popolari. Uguccione da Lodi e Giacomino da Verona 
ancora descrivono il Paradiso come il paese di cuccagna , un 
quissimile della terra di Bengodi. Giunti gli eletti alla presenza 
del Creatore, attesta Uguccione, 

de la gloria de deu aura tanta ubertadhe , 
que ^a oo sera cosa, s' el gen uen volonthade, 
qe 'n presente non sea del tutto saciadhe (2). 

Giacomino si compiace di descrivere i mirabili effetti delle 
acque e delle fontane, « ke cor per la cita », 

de le quale 9ascauna si à tanta vertù 
k' elle fa tornar 1* omo veclo cn 90ventù 
e l'omo, k'è mil agni él monumento fasù, 
a lo so tocamento vivo e sano leva su. 

E che dire dei « fruiti de li albori e de li prai ? » 

A lo so gustamento se sana li amalai, 

e più è dul9i ke mei né altra consa mai (3). 



( I ) Al No VATI non era sfuggito « il contrasto fra quel mondo, quillu mundu, 
donde 1* Orientale giunge e questo » ; ma non aveva da esso dedotto la conse- 
guenza più semplice e più naturale. 

(2) Vv. 334-36. Cfr. 410-420. 

(3) VV. 85 segg. 



— 155 — 

L« « corpulentissime fantasie » dei volghi medioevali non con- 
cepivano la felicità etema del Cielo, né gli eterni patimenti 
dell'Inferno, se non sensibili, palpabili. 

Il rimatore nostro, invece, vuol condannare il basso concetto 
che della beatitudine oltremondana hanno i suoi contempora- 
nei, il quale, adombrato con brevi tratti sintetici nella stanza 
III, si manifesta in tutta la sua stupidità e move al riso nelle 
domande: 

Que bidande manducate ? 
Abete bidande cusci amorose 
Como queste nostre saporose ? 

e nella conclusione, apparentemente tirata a fil di logica dalla 
risposta : 

Ergo non mandicate ? non credo ke bene aiate. 

Per questa via il Ritmo si accosta ad un altro tema diffuso, 
al tema dei contrasti tra Y Anima e il Corpo, 

L'interlocutore di questo mondo, che si preoccupa della cu- 
cina e della cantina , delle quali non arriva a supporre sprov- 
veduto il mondo di là,, ha lo stesso ideale del Corpo nei con- 
trasto di Buon vicino : 

Deo m' ha dao in quest mondo molte cose da inbandison, 
formento, panigo e leme, e fruite, che san da bon, 
vin preclusi, plumente, salvadhesine, capon, 
carne d'agnello e de bo e de porco e de molton. 
Deo m' ha dao in quest mondo capon, salvadhesine, 
formagio e ove e pisci e specie oltremarine. 
Adonca eo vojo usar de quelle menestre fine : 
tu, anima, che non mangi, usa dre cose divine. 



Eo Yojo mangiar e bere, dormir e star in pax. 

Così ragiona il volgo epicureo. Invece, V autore del Ritmo pro- 
clama altamente : de bedere ne saiiamo ; ci basta il vedere. Par 
di udire la voce di frate Giordano : « Non credono i mondani 



- 156 - 

che possa esser maggiore diletto o altri che quelli del corpo. 
Se altri diletti che quelli della carne non fossero, mala parte 
s'avrebbe serbata Iddio per sé e per gli angeli suoi, che non 
mangiano né beono... I miseri peccatori non sentono e non 
sanno che si sia altri beni che questi di quaggiù vili e mi- 
seri » (i). Probabilmente, a nuovi quesiti e dubbi del Vivo 
opponeva il Ritmo trionfali repliche del Morto, e finiva con la 
compiuta conversione del primo, come il contrasto di Buonvicino 
finisce con la sottomissione e l'emenda .del Corpo, 

Se le cose stanno come io le vedo , si riduce a ben poco, 
nel Hitmo ey foTsey svanisce T influenza di «quelle leggende, po- 
polarissime nel Medio Evo , che descrivono quel beato sog- 
giorno , da cui r umanità era stata bandita per il delitto del 
primo parente, il paradiso terrestre » (2). Tralascio che le leg- 
gende non collocavano il paradiso deliziano in quillu mundUy 
fuori della terra ; che il paradiso deliziano, da quando Adamo 
ed Eva ne furono discacciati, non fu, se ben ricordo, abitato, e 
perciò non può parlar di esso il Morto , adoperando il noi, né 
il 'Vivo adoperando il voi. 

Il Morto , quello degi* interlocutori, che il No va ti crede ve- 
nuto dall' Oriente, dal Paradiso deliziano, é precisamente quello 
che descrive e spiega le beatitudini spirittiali dell'altra vita, del 
Paradiso celeste voglio dire, non del Paradiso terrestre. In 
cielo gli eletti si pascono 

di quel fmcto savoroso, 

di quel cibo spiritale 

ke sirà sempiternale, 

vivo pane sustanziale 

cum dol^e aulor pretioso (3). 



(i) Prediche inedite, XV, XL. 

(2) NovATi, p. 390. 

(3) Laudi cortonezi del sec. XIII, pubblicate da G. MAZZONr nel Propu- 
gnatore, N. S., Ili, p. 7» 



^ 157 — 

Se la vigna de hUhi tempu fructaia apparteàesse e alla fami- 
glia di quelle piante meravigliose le qtiali crescono nella cele- 
stiale dimora » -^ perchè celestiale, se sta in terra ? — « e sono 
in ogni stagione cariche di frutti » , le innumerevoli bellezze, le 
stupende ricchezze del Paradiso deliziano sarebbero una vera 
miseria. La vigna è simbolica, rappresenta il regno dei Cieli: 
né il simbolo proviene dalle leggende medioevali , ma da una 
fonte più antica insieme e più prossima — dal Vangelo (i). 

Da chi potè essere composto il RUmo f E quando ? Il Na- 
vone ritenne che, nelle parole en aitu m* encastelluy si potesse 
€ raffigurare la Badia di Montecassino » ; il Novati vide in 
queste parole del poeta e un' allusione allo stato monastico 
che egli aveva abbracciato». Dimostrata la parentela, che il 
componimento ha con altri poemetti popolari d' intonazione 
morale e religiosa, ma non propriamente ascetici , né tutti di 
origine chiesastica, non mi pare punto necessario, e non giova 
a niente, continuar a credere che V autore fosse un monaco 
€ probabilmente, fors'anche un cassinese » . Cosi il Novati , che 
pure aveva giudicato a buon diritto « erroneo , per chi abbia 
a mente V uso larghissimo che si faceva nel Medio Evo del 
titolo di fratello, il vedere nel « frate » , con cui più volte i 
due personaggi si apostrofano, un'allusione alla loro condizione » . 
Infatti, nella favola, 

l'aseno, come bestia sconoscente, 
comen^a a rrìdere et ad mostrare li denti, 
e Tolia jocare oc lo porco sengnale, 
et disse : fraU^ iamo ad solla^fare. 

Il Novati soggiunse, e rispetto air incastellarsi , che in do- 
cumenti medioevali si trova, benché raramente, usato un verbo 
castellare, che vale non solo abitare in un castello , ma anche 



(x) n Novati {397) aveva bene veduto: « questa vigna... non può essere 
altra cosa che la vigna del Signore , quella che simboleggia la vita eterna , il 
regno celeste ecc. » ; ma poi preferi l'opinione riferita nel testo. 



- 158 - 

semplicemente dimorare in quakhe luogo ». Io ho innanzi una 
raccolta di documenti medioevali, (i) in cui il verbo incastellare 
ricorre moltissime volte, e che permette di determinare uno de' 
significati di esso con maggiore esattezza. Castellanus , m' ap- 
prende questa raccolta, non era chi abitava un castrum; ma chi, 
abitandovi, vi esercitava diritti e adempiva doveri; perciò, con 
haàitare quasi sempre si unisce incastellare, che aggiunge al 
concetto della dimora nel castrum quello della partecipazione 
alla vita pubblica del castrum. Recherò alcuni esempi scelti 
tra i più adatti a provare la mia asserzione: e 1198: Om- 
nes castellanps quos pater meus communitati [Matelice'] dedit , 
et quos ego do, concedo ipsi communitati cui incastellandum 
et perpetuo in castro Matelice habitandum, et ad omnia fa- 
ciendum que alius casiellanus predicti castri prò negotio com. 
munitatis facit in castro predicto. — 1210: Dedit omnes suos 
homines... ad habitandum et incastellandum in Matelica, et fa- 
ciendum quicquid alii castellani faciunt. — Promittimus... sem- 
per esse castellani et habitatores predicti castri ad voluntatem 
potestas vel consul predicti castri, et annuatim jurare, obedire 
consules vel consul predicti vel potest. predicti castri Matelice... 
Item promittimus... haòiiare ad sensum et voluntatem potesta- 
tis etc. Item promittimus incastellare in predicto castro cum 
rebus, quas habebimus in curia eiusdem castri. — 1213 : Pro- 
mitto hcMtare , incastellare in dicto castro per pacem et guer- 
ram ad sensum et voluntatem rectoris vel rectorum dicti castri. — 
1220: Do et trado et concedo... medietatem de XIII foculariis (2) 
et eorum heredum et subcessorum... ad cUntandum, et tncastel- 
landumy jurandum et obediendum, et omnia necessaria predicti 
castri et communis faciendum sicut alii castellani dicti communis 
faciunt. — 1246: Fecerunt etc. sindicum etc. ad recipiendum... 



(1) ACQU ACOTTA, Lapidi e Documenti alle Memorie di Matelica , Ancona,. 
Baluffì, 1879. Cito senza correggere, anche dove la correzione é ovvia. 

(2) Capi di famiglia. 



— 159 — 

omnes et singulos homines, qui veniunt et venire voluerint 
ad habitandum et perfnanendutn in castellania castri et commu- 
iiis Mathelice, et ad recipiendum ab eis... promissiones... et ad 
faciendum promissiones. » — Si usò anche excastellare: un mca- 
stellato doveva scastellare « ad voluntatem rectorum », non di 
suo arbitrio (i). 

Un altro significato ebbe il verbo nel linguaggio militare, 
quello di fortificare un luogo. Trovo, infatti : « ut de monasterio 
et reliquis munitionibus, quas incastellare presumpserant, milites 
et servientes quos in eis posuerat deberet statim... expellere » (2); 
« qui locum ipsum incastellasse asseritur » (3) ; « castrum intel- 
ligimus recuperatum etiam sine superiori iruastellatura » (4) ; 
« quam turrim et ciborium teneant usque ad mandatum nostrum 
sine iruastellatiane vel munitione aliqua facienda » (5). Anche le 
navi « s 'incastellavano » , ossia si guemivano di castelli a poppa. 
Nel Roman de Troie, Palamede dà questo consiglio ai Greci: 

.... lo matin sanz plus tardier, 
fesons nos nès appareillier. 
Quant les aurons enchastelées, 
et por bataille conreées, 
et nostre cors seront arme, 
si coron dreit à la cité (6). 



(1) ACQUACOTTA, pp. 89 e lOO. 

(2) Riccardo di S. Germano, Chronica priora^ Napoli, 1888, p. 89. 11 
cronista a^unse : « Qui (abbas) rediens de monasterio tantum milites et ser- 
ventes eiecit, et, reliquis castellis sibi retentis, quibus manda verat papa ea noluit 
assignare ». La cronaca posteriore narra : « Qui (abbas) prestito sacramento, quod 
monasterìum decastellaret et roccas predictas etc . Et rediens ad monasterium, 
illud tantum decastellavU, reliquis sibi castellis retentis ». 

(3) MINIERI-Riccio, Supplemento ed saggio di cod. diplomatico, p. 63. 

(4) Santini, Docum, dell* antica costitu». del Com, di Firenze (1172), p. l^l* 
Sono alcuni cittadini di S. Miniato, che promettono il loro borgo (castrum) ai 
Fiorentini ed ai Pisani per quando Tavranno ricuperato ; promettono anche Vin- 
castellatura «si illam recuperavimus»* Cfr. Acquacotta, doc. 67. 

(5) Levi, Registro del Card, U. d* Ostia, XXXXVIII, p. 99» 

(6) Vv. 7013 segg. 



ì 



E s' incastellavano gli elefanti (i). 

Quale dei due significati spetta al verbo nel Ritmof Non il 
secondo, mi pare, perchè l'intenzione dell'autore non è punto 
quella di premunirsi contro possibili assalti; anzi egli vuole riu- 
scir utile, si offre spontaneamente al vantaggio degli uditori. Egli 
annunzia di essere diventato, metaforicamente, castellano di un 
alto castello — Dante dice : « cittadino di una vera città » — 
ossia, fuor di metafora, di essersi sollevato a studi, a medita- 
zioni, che gli permettono di illuminare e guidare chi sta tuttora 
nel basso dell'errore ed al buio dell'ignoranza. 

Il nome dell'autore della libera versione dei DisHcha de ma- 
riàus, di messer Catenaccio cavaliere di Anagni, mi si è offerto 
spontaneamente a colmar la lacuna della seconda stanza : 

Trubato aio eo Catenaczo^ c'a scrìptura be' me placzo, 
novu dictu... 

Sono quasi le stesse parole del Caio : 

Bui che queste sententie legete et ascoltate, 
(faio io Caienax^u in vulgaru trovate... 

Alcuni altri riscontri concorrono a rinforzare 1' ipotesi. Il pe- 
nultimo distico suona cosi : 

Cutn Hai corUigerit studiò cognoscere multa, 
Fac discaSy multa a vita te scire doceri. 

Vediamo come lo parafrasò il buon Catenaccio: 



(i) FaUi di Cesare, ediz. Romagnoli, p. 255. 



— l6f — 

Se sai molte coie, qneUo donne sci sacosate 

no tenere celatu, mustraio sayiamente 

in parole, volentem, e spargilo in fra la gente ; 

ka la nascosa scientia pocu yale oi niente. 

Non tenere scientia toa nascosa, 

ca se radoppla, anti la exerci et usa. 

Oh non fu luì , che trovò il nuovo detto , imaginò la figura 
e la desplanò per far lume agli altri, dicendo quel, che sapeva ? 
La parafrasi del Caio fu composta 

perchè la rti^a gente n'agia doctrìnamintu; 

r autore del Ritmo, uomo serio , assorto in pensieri gravi , 
disprezza la vita frivola, si compiace della propria dottrina; ma 
liberalmente procura di divulgarla tra gì' ignoranti. 
Catenaccio, traducendo il precetto di Catone : 

Interpone tuis interdum gaudia curis. 

Ut possis animo quemvis sufferre iaÒorem ; 

lo approva , e ci fa sapere che lo metteva in pratica quanto 
poteva : 

PeB9a allecuna volta l'anima recreare 
et prendere solla^. .... 
Et quanto ad dò, no faUo [io ?] Catana^u ; 
qoantonca P090 piliome solla9u. 

Ecco un*altra volta il nome introdotto nel testo del Cato, e 
questa volta in posizione di rima. Dice brevemente il poemetto 
latino : 

Si quid amare libet vel discere amare legenda, 
Nasanem petite. 

Catenaccio, dopo aver parafrasato, aggiunge di suo la men- 
zione de' Remedia Amoris, e conchiude : 

D'amare et de remedio ne mostra 
Ovidio la ria sci corno è lostra. 



— l62 — 

Nel Ritmo, la candela e ad altri mustra bia dellibera > . 

Un' osservazione generale e indeterminata : 

Si vitam tnspicias komùtum^ si denique mores^ 
cum culpant cUioSy nemo sine crimine vrvit, 

sotto la penna di Catenaccio diventa precetto ed esortazione : 

Non te gire travagliando, sopre altri indicare ; 

qnanno de fallemintu altrui tu voi incolpare, 

pen9a de ti stissu . innanti gastigare, 

cha nuUu in quistn mundu vive sen^a penare. 

Reprendere chi vole altruiu fallo, 

sbatase innanti, come fa lu gallu. 

Non diversamente V autore del Ritmo , accingendosi a dare 
ammaestramento altrui , confessa di non essere uno stinco di 
santo, di giacere nella colpa. 

Tralascio minori corrispondenze , somiglianze, identità di 
modi, di parole, di forme. Noto che tuttavia, frequente nel 
Caio, ci si offre due volte ne' settanta versi supersiti del Ritmo. 

Dall'esame della scrittura del Ritmo nel codice cassinese, il 
Giorgi arguì che esso « potrebbe anche appartenere al XIII se- 
colo ». Catenaccio dovette nascere verso la metà di quel secolo, 
se nel 1283 fu, come pare, vicario di Loffredo Gaetani pode- 
stà di Todi. Nel 13 io tenne la podesteria di Foligno per il re 
Roberto di Napoli , nel 13 14 quella di Orvieto. Suo fratello 
Guarnaccione , al quale egli dedicò il Cato , era vivo ancora 
nel 1325 (i). A queste date — posteriori alla fioritura poetica 
« siciliana » e toscana — convien bene lo schema strofico del 
Ritmo, che presuppone lunga elaborazione. Nel secolo XII, che 
ancora, giunto al termine, non offre se non le serie monorime 
del Salva lo vescovo, uno schema siffatto sarebbe e mirabil 
mostro ». 

Francesco Torraca 



(i) Monaci, Sult antica parafrasi dei « Disticha de tnoriàus » verseggiata da 
un rimatore anagnino {/Rendiconti de]l& K. Accad. dei Lincei, Vili, fase. 5 '-6®). 



IL TESTO 
Proposto dal Giorgi e dal Navone, 



I Eo, sinjuri, s'eo fabello lo bostro audire compello. 
de questa bita interpello e ddell'altra bene spello, 
poi k'enn altu m'encastello ad altri bia renubello. 
em mebe cendo flagello. 

Et arde la candela sebe libera 5 

et altri mustra bia dellibera. 

,11 Et eo sence abbengo culpa jactio por vebe luminaria factio. 
tuttabia mende abbibatio e ddiconde quello ke sactio, 

c'alia scriptura bene platio. 

Aio nova dieta per fegura io 

ke da materia no sse transfegura 
e ccoll'altra bene s'affegura. 

Ili La fegura desplanare ca poi lo bollo pria mustrare 
ai ! dumque pentia null'omo fare questa bita regnare 
deducere deportare morte non guita gustare, 15 

cunqua de questa sia pare? 
ma tantu quistu mundu è gaudebele 
ke l'uno e U'altru face mescredebele. 

IV Ergo poneteb* a mente la scriptura corno sente. 

ca là sse mosse d' oriente unu magnu vir prudente, 20 

et un altru occidente, fori junti 'nalbescente, 
addemandaruse presente. 
Ambo addemandaru de nubelle, 
Tunu e ll'altru dicuse nubelle. 



IL TESTO 
Proposto da me. 



I Eo, sinjurì, s'eo fabello, lo bostru audire compello, 
de questa bita interpello e ddell'altra be ne spello : 
poi ke 'nn altu m'encastello, ad altri bia renubello, 
e 'mmebe 'ncendo flagello : 

et arde la candela, s' è be' libera, 5 

et ad altri mustra bia dellibera. 

II Eo, abbenga 'n culpa jacczo, prò bui luminaria facczo : 
tuttabia me 'nde abbiba^zo, e ddiconde quello che sacczo. 
Trubato aio, eo Catenaccto^ e* a scriptura be' me plarczo, 
novu dictu; et no he taccio io 
ke da materia no ss' entra 'n /fegura, 

sfi ccoll'altra no bene s'affegura. 

Ili La fegura desplanare be bollo, pria de mustrare. 
Ahi ! pencza null'omo fare questa vita : restare, 
deducere, deportare ! morte, non iita gustare, 1 5 

e' unqua de questa sìa pare ! 
Ma tantu quistu niundu è gaudebele, 
ke l'un e U'altru face mescredebele. 

IV Ergo, poneteb'a mente la scriptura comò sente : 

ca sse mosse d' oriente unu magnu \ìx prudente, 20 

et un altra d* occidente : foro junti *n 'albescente ; 

ddemandaruse presente. 

Ambo s* addemandaru de nubelle, 

e l'unu e U'altra dicuwse nubelle. 

23 



— 166 — 

V Quillu d* Oriente pria altia Tocclu si Uu spia. 25 

Addemandaulu tattabia corno era corno già. 

« frate meu, de quillu mundu bengo, 

loco sejo et ibi me combengo ». 30 

VI Quillu, auditu stu respusu cuscì bonu 'd amurusu, 
dice : « frate, sedi joso ; non te paira despectusu, 
ca multu fora colejusu tia fabellare ad usu. 

hodie mai più n[on] andare, 

ca tte bollo multu addemandare ». 35 

« serbire se mme dingi commandare ». 

VII « Boltìer audire nubelle de sse toe dulci fabelle. 

Onde sapentia spelle dell'altra bene spelle. 

« . . . . 40 



Vili « Certe credotello, frate, ca tutt' è *m beritate. 
Una caosa me dicate de ssa bostra dignitate : 
poi k'en tale destuttu state, quale bit^ bui menate ? 45 

que bidande mandicate? 
Abete bidande cusci amorose 
comò queste nostre saporose ! » 

IX « Ei parabola dissensata ! quantu male fui trobata ! 
Obebelli n' ai nucata tia bidanda scelerata ? 

Obe l'ai assimilata? 50 

bidand'abemo purgata da benitiu preparata, 

perfecta binja piantata de tuttu tempu fructata. 

en qualecumqua causa delectamo 

tutta quella binja lo trobajo 55 

eppuru de bedere ni satiamo ». 

X « Ergo non mandicate ? non credo che bene aiate 



homo ki nnim bebé ni manduca 60 

non sactio comunqua se deduca 
ni 'm quale vita se conduca. 



— 1^7 — 

V Qttillu d'oriente pria alcza Toccltt, si lu spia, 25 

'ddemandaula tuttabia comò era, corno già. 
Ctisci ll'atiru respundia : 
'« Frate meu, de quillu mundu bengo, 
loco s^o et ibi me combengo ». 

VI QuiUu, auditu stu respusu cusci bonu 'd amurusu, 
dice : « Frate, sedi joso ; non te paira despectusu, 
multu fora ^lejusa eco ti fabeliare ad usu. 
Hodie mai prindi repusu^ 

ca tte bollo multa addemandare ». 35 

« Sérbi/e, se mme dingi commandare ». 

VII « Bolczer' audire nubelle de sse toe dolci fabelle ' 

onde sapiencza spelle ». 

^f^de ll'altr», bene spelle: 40 

« 



VITI « Certe, credotello, frate, cca tutt'ew* beritate : 
Una caosa me dicate de ssa bostra dignitate, 
k*en tale desdutta state : quale bita bui menate ? 45 

que bidande manducate ? 
Abete bidande cusd amorose 
comò nui queste nostre saporose ? ». 

IX « £i pararla dissensata, quantu male fui trobata ! 

Obebelli ài manducata tea. bidanda scelerata. 50 

Abemo biaja purgata, d'ab eniziu preparata, 
de tuttu tempu fructata : 
tutt' a quella binja lo trobamo, 
eppuru de bedere nn sa^rsiamo ». 

X « Ergo, bui noif. mandicate ? non credo che bene aiate 55 



Homo, ki niente bebé ni manduca, 

non sacczo 'm quale vita se deduca »♦ 60 



— i68 — 

XI Dumqoa te mere scoltare : tie que tte bollo mustrare, 
se tu sai judicare tebe stissu metto a llaudare. 

credi D[on] me betare lo mello ci ttende pare. 65 

homo ki fame miqua non sente, non è sitiente, 
qued à besonju tebe, saccente, 
de mandicare de bibere? niente. 

XII Poi k'en tanta gloria sedete, nulla necessu n'abete : 
ma quantunque deu petite tuttu lo 'm balia tenete, 
et em quella forma bui gaudete. Angeli de celu sete. 



— i69 — 

XI « Dnmqua, te mere scollare : tei, que tte bollo mustrare 
se tu sai be' judicare ; te stissa inetto a laudare : 
credi, non me lo betare ; dimmtVLo che tte 'nde pare. . 
Qued à besonju curare 

homo, ki fame ni sete non sente, 
de mandicare, de bibere niente ? 

XII óe' n tanta gloria sedete, nullu necessu n'abete ; 

ma, quantmnqu* a Deu petite, tuttu *m balia lo tenete, 
em quella forma gaudete. Angeli de celu sete. 



ALCUNE ILLUSTRAZIONI 



Gli editori dà Ritmo, i più recenti come i più antichi (t. Giorgi e Navone, 
PP* 4 > 5 > varianti , 18-20 ; Wiese e Pércopo, p. 9) hanno adoperato le let- 
tere cti (jactio, factio ecc.) per trascrivere in caratteri comuni una lettera, che 
io credo abbia valore, nel testo, di cz {c\ «, a, secondo i casi, nella pro- 
nunzia moderna). Scrivo perciò: jacczo, facczo, penczo, alesa, sentencza, conforme 
all'uso meridionale, durato sino a tutto il secolo XV, ed anche oltre. V. p. e. 
Tre scritture napoletane del secolo XV pubblicate da G. De Blasiis nell*-4r- 
ckivio storico per le prav, napoletane, IV: p. 417 : comenczato, 418 piczole, 
419 peczendo, 421 mecza, tercza, 424 sencza^ 425 ammacczate, 428 sacczelo, 
sacczo, 431 cacczia, ^'^2 esselcza, é^ZZ P^^^^* czoe, piczolana, 437 auczare ecc* 
Cfr. Mandalarì, Rimatori Napoletani del Quattrocento, Caserta 1885, p. 4: 
enpaczate, 9 auczide, 12 sperancza, ig preczar e, 20 paczo, 62/aczct, log Jrecza, 
allegrecza, aUecza ecc. Cfr. anche Pércopo, / Bagni di Pozzuoli, Napoli^ Fur* 
cheim, 1887. — Nel nostro testo manca e innanzi a ^ 2 di aòòibaczo, placzo, che 
il Giorgi lesse aòòiòatio, platio, ed io lo aggiungo. 



I numeri corrispondono a quelli del testo del Giorgi e del Navone. — Ho 
consultato, e citato nelle poche note, che seguono, queste opere: 

Apol. — Apologhi verseggiati in antico volgare reatino, pubblicati da E. Mo- 
naci, nei Rendiconti della R. Accademia dei lincei , Roma, 1892. 

Caio» — Volgarizzamento dei Disticka de Moribus, pubblicato da A. Miola, 
Le scritture in volgare dei primi tre secoli della lingua ricercate nei codici 
della Biblioteca Nazionale di Napoli, Bologna, Fava e Gars^ani, 1878. 

C. — Ceci, Vocalismo alatrino xm^ Archivio Glottologico italiano, X, 2. 

jy O, — D'Ovidio, Fonetica del dialetto di Campobasso, nellMnrA. cit., IV, 2. 

S. Cat, — Leggenda di S. Caterina {^Alessandria, pubblicata da A. Mus- 
safìa, Wien, 1885 ; e da E. Pércopo, 2 V Poemetti sacri dei secoli XIV e XV, 
Bologna, Romagnoli, 1885. 

F. — Finamore, Vocabolario délV uso abruzzese * ; Città di Castello, Lapi, 1893. 

S. Marg. — Leggenda di S. Margherita ^Antiochia, nel volume citato del 
Pércopo. 

Reg, San. — Liber de Regimifie Sanitatis , pubblicato da A. Mussafìa, 
Wien, 1884. 

S, Tom, — La leggenda de sancto Tomascio , pubblicata da E. Monaci nei 
Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, Roma, !893. 

Trans, — Leggenda del Transito della Madonna, nel voi. cit. del Pércopo. 



— 171 — 

Mfisc. — Sul codice Angelico V. j. 14 della Mascalcia di Lorema Rusio\ 
nota dì £. Monaci, nei Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, 1893. 



I, I. Compello^ lat. {compello^ as), parlo a voi, mi rivolgo alle vostre orec- 
chie. Novali : « chieggo conto di questa vita ». — 2. Interpello^ lat. , inter- 
rompo, lascio stare. — Spello: « Voce d'origine germanica; got. spillón^ a. ted. 
spellón, indicare, spiegare; conf. inglese spella fr. épeler, prov. espelhar. Gia- 
como Pugliese nel Cod. Vat. 2793, n. 57 : « Già non t'incresca sed io canto ed 
ispello Per vostro amore ». Navone. — 3. * Ncendo, accendo, ardo, brucio. — " 
4. Parecchi riscontri latini, francesi, provenzali e italiani raccolsero il Navone e 
il Novati per questa similitudine ; altri se ne potrebbero aggiungere. Cfr. Tor- 
raca, D'un commento nuovo alla Divina Commedia^ 71. — 5. Et ad altri: cfr. 
CaiOf n. 15, 17, ecc. Dellibera: «non può valere qui che libera^ sgomàra, 
tale che vi si può camminare con passo franco, perchè si vede senza inciampi ». 
Novati. I Toscani usarono delibero, delivero, dilivero* 

n, 7. Abòenga ke. Mcucalc., XVII: « Abegnire (abegnia ?) che fosse pe- 
iore ». Cfr. XIII : « Aduenga deiu che »; XIV « Avenga che ». Avvenga senza 
che^ in Dante, Canz,, ball. XI. — lacczo, jaccio^ giaccio: Apol» 15: « La notte 
quando jdccio ad repusare »; S, Tom,^ 729J: « comò jace el facto ». — Pro, per, 
frequente nel Caio; p. e. due volte nella st. 98. Luminaria: S. Margh.y 428: 
« £ chi luminaria in casa facesse ». — 8. Abbibazio « da vrvacius., vale afi&ettarsì ». 
Navone. Cfr. Mussafia, Zur Katharinenl,, 68, n. al verso 504: « Io no saccio 
Rispondere vivacelo »; ApoL^ 19 : « Lu sorce iunse et rose lu lacdu, Et de cam- 
pare lu lione fu vivacciu ». — 9. Aio^ ho ; cfr. aiate al v. 57: Apol, 7: « Se- 
fosse vero quello c'aio udito ». Cfr. Cato, st. 154: « Taio io Catenaccio ». 

Ili, 13. Desplanare : cfr. Caio, 44 : « Cerca Lucano, cha lo dice in soa 
storia. Et pianamente tratane ad fotura memoria ». Tutti conoscono lo Spia- 
namento di G. Pateg. — 14. Requiare: Tristano Riccardiano^ 186: « e ttanto 
iera lo dolore, eh* egli sentia de lo braccio, che non potea requiare ». — 15. De- 
ducere^ deportare: Caio, st. 60: « Chi vence per malitia non dura seo de- 
portu ». Cfr. Ruggerone, Oi lasso, st, 2: « Membfandomi suo dolze 'nsegna- 
mento , Tutt' i diporti m' escono di mente ; E non mi vanto eh* in disdotto 
sìa. Se non là ov*è la dolze donna mia». — 17-18 GaudebeU, mescredebele: 
cfr. Caio st. 31: « Scomenevele »; 35: « place vele ». 

rV, 21. N^ albescente, dal lat. albesco, allo spuntare del giorno. — 22. Ad' 
demandarese: Cato, st. 117 : « ademanna », 119 «demandare»; ApoU 15: 
« Lu lupu Padimanda di nuveiie ». — Presente, subito: Notar Giacomo, Dolce: 
4k Presente mi contava E non mi si celava Tutto suo convenente» ; R. d'Aquino, 
Ormai: « La primavera Che ven presente ». Negli Apol, più volte, eie presente , 



— 172 — 

p. e. 14: « Lu villano disse [alla scure]: tu non tagli niente Et abela spec9ata 
de presente ». 

V, 25. Llu spia, Tosserva: Cato^ st. 55 : «Tosta non despre99areli, spiali, 
facti innanti » ; Guittone, Amor tanf altamente : « Poi Mazeo di Rico... Mi 
saluta, mi spia ». — 27. Apol,, io : « Et diraiote comò fo et comò sia ». — 
30. Loco sejOf colà seggo. ApoL, io : « luoco ». 

VI, 31. Respusu, risposta; cfr. il tose, responso. —32. loso, giù. Trans,, 
638 : « La dompna joso aguardase » ; 76 : « più no strarrai quaioso ». — 33. 
Golejusu, goloso, bramoso. Trans. 353 : « Nui te avemo in celo multa gulia- 
ta » ; 5. Cat„ « Or judicete voi Quale degio goliare E meglio procacciare D'avere 
prò meo spuso ». Cfr. S, Tom,, 404 : « Del mio figliolo me vengo spisso gole»; 
Caio, st. 89 : « Ma guardate per golo da arricchare tal male fare non mictirte 
et ad fallare ». Il Navone : « corejusu, lat. curiosus ». — 34. Repusu ; Caio, 
st. 84 : « E lu corpu destrugese peliu troppu repusu ». — Prindti Caio , st. 
107, 127 ecc. — 36. Dingi {digt), devi. 

VII, 37. Bolczer' (bolzera), vorrei. Tfons, 89 : « lo volsera sapire »; Dante, 
De Vulg, EL , I , XII: « Dicunt Apuli: Volzera che chiangesse lo quatraro » 
(cfr. Navone) ; Boccaccio, Epist. in lingtia napoletana : « non boiserie (?) inde 
l'abenisse arcuna cosa ». 

Vili, 43. Certe: Caio, st. 14: « Certe non la promectere ». — Ene: Caio, st. 
147: «Troppo ene misera vita;» 149: «dò che ene mustrata » — Beritaie, 
verità : Caio, st. 66 : « viritate ». — 44. Me dicaie, ditemi. Trans,, 268 : « Ma 
Tui in prima me dicate » ; S, Tom , 803 : « Dicate »; 1453: « Dicateme » — 
45. Desdutto i cfr. v. Reg. Sanit, , 130 : «E tale tìempo passalo in giochi 
et in desdutti ». — 46. Bidande, vivande. Vidanda è in testi latini e toscani. 
Gli Apol, hanno « vidanna ». 

IX, 50. Ohehelli: S, Cai,, lOO : « Contarese non porriano Quanti [de 
alni et de castrati] se-nne occideano, Et altri pulii et celli; sacciate ca foni 
velli »; Reg, San. , 100: « E poi de chesto gióngonce de non mangiare uelli »; 
Caio, st. 67: « Lo vino non fai male a chivelli. Se non a quilli chenne viva 
velli ». H Mussafia , nella nota al verso del Reg, San., spiega : velli =: 
uvelli = ubi velles, dappertutto, e, nel passe del Caio, senza misura. Il signi- 
ficato di oòebelli, cosi determinato, giustifica la lezione da me proposta : man' 
ducaia. Lo magno vir d'occidente dice, in sostanza : Troppa ne hai mangiata 
della tua scellerata vivanda. — 51. Assimilata, raccolta. Trans,, 288 : « Sac- 
ciate, che per ciò assemegliati sete, Cha-lu corpu sou socterra mecterete ». — 
Tiai sostituisco tea, che, è la forma solita nel Caio (masc. teu, plur. tky): v. 
st. 5, 72, 76, 82. Vive ancora nel dialetto alatrino: C, 6. — 52. Dabeniziu: 



— 173 — 

Tixol rìprodurre Vaò mùtOf latino. Cfr. aò aetemo, Reg^ San.^ 4: « et lo delo 
siimliter solo verbo creare » — 54. Qualecumgnte ccnisa, qualunque cosa, Cfr. 
CaiOy st. 7 : « alecuna cosa» ; S. Tom., 537: « qualeche abito ». — 56. Ni: 
il Monaci propose net (non et). Nei per ci, a noi, può stare; non ci farebbe dire 
al « frate » dell'altro mondo tutt'altro da ciò, che il senso richiede: « C è tutto 
lassù; ma noi non tocchiamo niente ; a noi basta il vedere ». Leggasi la st. 
seguente. 

X^ 60. Si noti l'incertezza tra mandicare (46, 57, 68) e manducare. Caio, 
st. 114 : « de manecare et de vevere », 128 : « No lungu tempu in sanetà dura 
Chi non manduca et beve co men9ura »; Reg, San., 200: < mandicare >; Apol. 
18: « manicone», 20 : < manicatrice, manicare, magnare ». 

Xn, 63. Te mere, H Mussafia, annotando il verso della Legg» di S. Cai,, 
330 : « Che regere li mere », fa derivare la parola da merere e cita le locu- 
zioni merita andare = conviene andare, non merita dire = non è ^uopo che 
si dica. Il Navone notò che mere « vive tuttora nei dialetti campani sotto 
la forma mare m senso di bisogna y>, — Scollare, cfr. Caio, st. 18: «non ci 
gire ad scoltare ». — Stissu, stesso, frequente nel Caio , st. 5 : « /m stissu, 
sistissuy^. — 7>«, tieni. Cato , st. 7 : « Quanno tei alecuna cosa da no- 
cere, Ne tanta te scia cara, nolla tenere», 128; « Troppo no consentire, ma 
tei lu frinu in manu », 151 : « Co toa molliera tei la via de me9u ». — 65. 
Betare, vietare. D. Nep, 43: « vitare ». — Dimmello ci ttende pare, dimmelo 
che te ne pare. S. Tom., 241 : « Que vinne pare? dite vostro abiso »: Cato, 
st. 125: « Dictu tello agio ». — 67. Besonju: il Caio ha, 24 : « li abesogni 
tei^, 25 : « besognanuT^, 117: 4L se abesognu fene », 126 : « abesogna »; gli 
Apol., 6 : « abisongoso ». Verrebbe voglia di correggere : « qued abbesogna ? » — 
Saccente s' incontra più volte negli Apol. P. 23 : « Lu cane , come saviu et 
saccente ». 

xn, 69. Nullu necessu', nessun bisogno. Reg. San. 92 : « ad cui necesso 
'nd' ave ». — 70. Quantunque, quanto. Cato, st. 8: « Poi quantunca te sia ». — 
70. Petite, chiedete. Cato, 32 : « Peti quello che scia justu... Se voi petire fa 
petetione ». Cfr. S. Tom. , 888 : «Rascione facciovi comò me petete » , 892: 
€ PetenM>, singiore, conviato ». 



«4 



GLI EPISODI DEI MONTONI 

E DELLA TEMPESTA 
PRESSO IL FOLENGO E PRESSO IL RABELAIS. 



Cosi nel Baldo (i), come nel Pantagruel (2), il fatto delle 
pecore che si gittano in mare, e l'altro della tempesta in cui 
per poco non periscono il protagonista e i suoi compagni, 
accadono in sul principio di quel pellegrinaggio che nei due 
poemi è non mediocre parte di tutta 1' azione. Una è in essi 
poemi la sostanza di questi fatti, ma più^o meno diversa l'in- 
tenzione e l'arte onde sono rappresentati. Cingar e Panurgo 
usano la medesima astuzia di comprare una pecora e poi di 
gittarla in mare, perchè vi si gittino dietro tutte le altre; 
amendue, buffoni nel tempo stesso e crudeli, compiendo con la 
violenza ciò che avevan cominciato con l' inganno, •fan si che 
perisca a quel modo tutta la greggia e, per giunta, i pastori. 
Presso il Folengo è questo uno dei tanti episodi che si seguono 
nel corso vertiginoso dell' azione; e non pare che debba rife- 
rirsi a veruna delle cose fino allora narrate; presso il Rabelais, 
invece, tale episodio è ingegnosamente legato coi fatti ante- 
riori. 



(i) Macaronicorum poema, Venetìis, apud Petram BoseUum, MDLV: « Mafe- 
lìnae », 1. II. Cfr. Pedìz. Portigli, Mantova, 1882; macch. XI. 

(2) Pantagruel, IV e segg. in F. Rabelais, Oeuvres, ediz. Moland, 
Paris, Garnier, pp. 364 e segg. 



— 176 — 

Prima di dire in che il legame consista, ricorderò che, 
secondo uno degli ultimi espositori , il Fleury , V episodio se- 
guendo immediatamente alla descrizione del paese delle par- 
venze e degrimitatori, dovrebb' essere considerato come un esem- 
pio comico di questi, ciascuno de' quali faceva come l'altro; non 
dissimili in ciò dalle pecore (i). Ma tale interpetrazione a me 
par più sottile che giusta, non leggendosi nulla in tutto quel 
lungo racconto che possa far fede di un simile intendimento 
nell'autore, e non essendo neppure evidente , come sembra al 
detto critico, che in esso paese il Rabelais abbia descritto, ol- 
tre cheTefficacia delle apparenze nel mondo, anche il costume 
degl' imitatori. E poi , se avesse voluto ancor questo , perchè 
sarebbe egli ricorso all'esempio dei montoni soltanto dopo aver 
fatto allontanare la compagnia pantagruelina da quel luogo ? 
Perchè mai avrebbe fatto sì che noi dovessimo cercar nella scena 
presente il significato di quelle che erano già sparite dal no- 
stro sguardo? 

È assai più probabile che il poeta , senza forse dargli una 
particolare significazione allegorica, abbia voluto collegare l'e- 
pisodio a ciò che di più vivace era nella storia di Panurgo e 
trame nuova occasione ad avventure strane e a comiche dipin- 
ture. Il pellegrinaggio al paese della Divina Bottìglia era stato 
intrapreso a cagion di Panurgo, il quale, cercando sempre mo- 
glie e sen^ndosi insieme rodere dal sospetto che questa poi 
avesse a fargli le fusa torte, non credeva, fallitigli mille altri 
tentativi , di poter risolvere altrimenti la gran quistione , che 
consultando quell'oracolo. Ma vedete caso strano ! Erasi messo 
da pochi giorni in mare coi suoi compagni, quando s'imbattè 
in quel mercante di montoni, che, al primo vederlo, proprio 
come se gli avesse letto in faccia tutta quella grande angoscia, 
esclamò: e Che bel tipo di marito incoronato! » Per tal modo, 
nel poema francese, questa scena imitata dal Folengo diventa 



(i) J. Fleury, Rabelais et scs oeuvres^ V^ns, Didier, 1877; n, 114 e ij^. 



— 177 — 

una continuazione della storia panurghiana ; perdhè qui, come; 
altrove, V autore seppe cosi valersi delle invenzioni altrui da 
farle parere come uno svolgimento naturale e quasi neccessario 
delle sue invenzioni medesime. Ma si noti anche qui che tal 
altra volta, non che trasformarle e adattarle alle proprie idee, 
le arricchì di parecchie immaginazioni parallele. 

II. 

Cosi, per dare un esempio di questo secondo modo, al luogo 
del mercante folenghiano, che con due sole parole vendeva le 
sue pecore e nel racconto non aveva ulteriore importanza, egli 
pose quel Dindenault che ha tanta dovizia di lacciuoli, da, 
confondere lo stesso Panurgo. 

Una sola parte dell'episodio maccheronico egli non volle imi- 
tare: quella delle pecore galleggianti sulle acque e poi dive- 
nute pasto di Nettuno e delle ninfe: 



Tempore Diluvi super alta cacumina pisces 

Lustrabant sylvas: perque ulmos, perque pioppas 

Errabant laeti: mirantes prata, fìores. 

Gres modo lanosus sub gurgite pascolai algas 

Contra suamque yolam mangìat, bibit atque negat. 

Neptunus magnum quista?ìt alhora botinum: 

Qui maraviabat pegoras descendere tantas: 

De quibus et Nymphis, chortisque Baronibus imam 

Donavit caenam: mangianmt omnia plenis 

Ventrìbus affattum: gattisque dolentibus ossa, 

Ossa polita nimis sub mensis esse gitata (i). 



Cotesto è uno di quei luoghi, dove il poeta mostra di aver 
fatto egregia prova dei suoi precipui modi di arte: qui ci sono 



(i) Ediz. bosell. dt.; « Mafel. », II, pp. loi (a) e s^. 



- 178- 

alcune reminiscenze ovidiane e oraziane tirate al comico (i); 
c'è la parodia delle favole mitologiche, e, inoltre, Timitazione 
di quel Morgante (2), da cui il nostro autore seppe sem- 
pre derivar tesori d' immagini; tanto che potrebbe dirsi il Pulci 
essere talvolta stato per lui ciò ch'egli medesimo fu poco dopo 
per lo scrittore francese. E poiché tali parodie abbondano nel 
Baldo e scarseggiano anche nei luoghi del Pantagruel corri- 
spondenti per altri rispetti a quelli dello stesso poema ita- 
liano, cosi vorrei fare questa osservazione d' ordine generale: 
che il Rabelais trattava d'ordinario le favole antiche con mag- 
gior serietà che non il Folengo. Le più larghe sorgenti di co- 
mico egli le trovava nei fatti della storia, e non pare che sen- 
tisse il bisogno di collegar la commedia umana con un' altra 
d'indole sovrannaturale, come fa spesso il Folengo. Della qual 
differenza la più forte ragione io credo consista in ciò, che l'uso 
e l'abuso di quelle favole erano stati incomparabilmente mag- 
giori in Italia che non in Francia: dimodoché 1' autore delle 
Maccaroniche^ vedendosele sempre innanzi, le considerava come 
uno di quei tanti ingombri dello spirito e della coscienza con- 
tro cui fosse mestieri volger la sua beffa potente. 

III. 

Non meno importante 1' episodio, che viene appresso della 



(i) Ovidio, Metam. I, 295-6: 

Ule supra segetes, aut mersae culmina viUae, 
Navigat; hic summa piscem deprendit in ulmo. 
Orazio, Od, I, 2: 

Pisciun; et somma genus haesit ulmo, 
Nota qnae sedes fuerat columbis. 
(2) Morg. ediz. Volpi, Firenze, Sansoni, 1900; I, 67: 
E femo a scoppia corpo per un tratto, 
£ scuffian che parìen dell'acqua usciti; 
Tanto che '1 can se ne doleya e '1 gatto, 
Che gli ossi rimanean troppo puliti. 



tempesta. Anche in questo il Francese volle seguire , e , tal- 
volta, nei più minuti particolari, l'Italiano, dando però alla sua 
narrazione un significato morale tutto proprio, come si scorge 
da ciò che fece dire a Macrobio: che, cioè, ogni qualvolta mo- 
risse uno dei demoni od eroi, abitatori dell'isola dei' Macreoni 
fremevano le foreste, grandi calamità desolavano la terra e la 
procella infuriava sui mari (i). Tuttavia è da riconoscere che 
questo è uno dei suoi luoghi non del tutto chiari. Che gente è 
quella che abita V isola misteriosa , e la cui morte è cagione 
di tanto scompiglio nel mondo ? E quali sono propriamente le 
allusioni storiche e gì* intendimenti morali del poeta ? (2). Se 
non che, qui, come in altri episodi rabelesiani, Tarte ha, per 
mio giudizio," maggior importanza del concetto filo^fico che il 
poeta abbia voluto adombrare, I concetti di tal sorta costitui- 
scono il maggior pregio dell' opera soltanto quando siano cosi 
chiari e certi, che la storia della cultura possa tenerne conto; 
ma dove non abbiano una siffatta chiarezza, allora, checché si 
dica in contrario , non è possibile eh' essi non sembrino men 
degni d'attenzione al confronto di un'arte egregia. E questo è 
proprio il caso presente. Con la descrizione della gran tem- 
pesta il Rabelais non solo accrebbe il numero delle bellezze 
poetiche, che pure abbondano nell'opera sua, ma portò ancora 
alla perfezione quel comico introdotto già dal Folengo nella 
dipintura di uno dei più sublimi spettacoli del mondo, qual è 
appunto la tempesta del mare. 

La tempesta del mare è stata sempre un elemento este- 
tico fecondo dei migliori effetti. Neil' epopea classica essa 
crebbe talvolta grandezza all'eroe; il quale, superando in mare 



(i) Pantag,^ ediz. dt., IV, cap. xxvi, pp. 402 e seg. 

(2) Anche in questo proposito mi sembra infondata l'opinione del Flbury (Op. 
cit. H, pp. 136 , 147) > che nella tempesta fossero significati gli e£fetti futuri 
del Concilio di Trento, al quale si recava la turba dei monaci incontrati poco 
acanti. 



— l8o — 

nuovi e maggiori pericoli di quelli superati in terra, ci appare 
doppiamente glorioso. Tale , ad esempio , è il caso di Ulisse 
néiV. Odissea. CsLxnpi di più terribili battaglie ci sembrano 
allora gli spazi marini, dove Teroe combatte contro le stesse 
forze del mondo fisico; e noi , partecipando alle sue fatiche, 
sentiamo, nel suo, battere il nostro cuore non meno di quando 
egli lottava contro forze che, per quanto straordinarie, appar- 
tenevano pur sempre alla stessa natura umana. Tal altra volta, 
nei grandi poemi, la tempesta del mare è descritta non già 
come una potentissima forza naturale che lotti con un eroe, 
ma piuttosto come uno spettacolo da cui vengano al nostro 
spirito moti nuovi e stupendi. Nei casi poi dove non produce 
né l'uno né Taltro effetto, essa non può avere per noi che un 
pregio di mera arte, più o meno squisita, ma, in ogni modo, 
sempre inferiore di gran lunga a quelle altre due forme. L'in- 
fimo grado poetico della tempesta è quello eh' essa ha nelle 
opere d'immaginazione, dove sia stata adoperata come espe- 
diente di arte: perchè, ad esempio , i personaggi si dividano, 
si ricongiungano e abbiano sempre nuovi casi; e perchè la fa- 
vola, acquistando maggior varietà, mantenga sempre viva l'a- 
spettazione e la meraviglia: cose tutte cercate da quegli au- 
tori, i quali, per solito, non sarebbero capaci di ciò che più 
importa, cioè di ritrarre gli affetti umani in maniera che ne 
dipenda in tutto o in gran parte 1' efficacia delle cose imma- 
ginate. Di cotesta ultima specie è la tempesta in quei romanzi 
greci, che ne diedero più numerosi esempi, e che forse, anche 
a cagione di cotesta loro arte inferiore , dovevano essere cosi 
largamente imitati da scrittori medievali di racconti cavalle- 
reschi e di novelle. 



IV. 



Ma presso il Folengo e il Rabelais la tempesta è intro- 
dotta nel racconto con intendimento ben diverso da tutti 
quelli ricordati fin ora. Come da tanti altri fatti della natura 



— i8i — 

e della stona , cosi da questo i due autori vollero trarre ar- 
gomento per nuove rappresentazioni comiche e satìriche, riu- 
scendo ad opera veramente originale. Dalle stesse immagini che 
Tarte di ogni tempo aveva usate a suscitar nel cuore umano 
effetti sublimi e terribili, seppero derivarne altri di natura op- 
posta e portarono all'ultima perfezione la commedia e la pa- 
rodia sul mare in tempesta. Il Francese , anzi , atteggiò a 
maggior bellezza quella nuova sostanza drammatica, già cosi 
varia e abbondante presso Tltaliano: e ciò con più modi. 

Primamente, attribuendo al solo Panurgo ti\tte quelle parole 
di paura , che il Folengo mette in bocca a Cingar insieme e 
ai mercanti di montoni, fece si che il suo personaggio rap- 
presentasse tutta la parte comica del dramma, divisa fra molti 
nell' episodio dell* altro poeta. Di che ognuno intende quanto 
più efficace dovesse riuscirne V azione del suo erpe e quanto 
più forte il contrasto fra esso e gli altri personaggi minacciati 
dallo stesso pericolo di annegare. Poi, dalla medesima scena 
folenghiana egli deriva altre scene che fanno insieme come una 
commedia compiuta, il cui protagonista è sempre Panurgo. Il 
quale, infuriando la tempesta, si rivolge ai compagni e in specie 
a fra Giovanni, perchè abbiano pietà di lui; promette a chi lo 
salvi, ricchezze che non ha mai avute, e vuol fare il suo te- 
stamento che, in caso di naufragio, sarebbe dalle onde pietose 
portato sulla spiaggia, e quindi, come Ulisse, raccolto da qual- 
che figliuola di re. 

Fino a questo punto la rappresentazione rabelesiana , per 
quanto più ricca e più poetica, è sostanzialmente la stessa di 
quella che s'è vista nel Baldo; ma, col cessar del pericolo, 
eccoci innanzi una scena tutta nuova, dove il buffone, passando 
dalla paura all' insolenza , schernisce come vili e infingardi i 
compagni che pure avevan fatto stupende prove di forza e di 
coraggio! E all'ultimo, rassicurato del tutto, schernisce il suo 
stesso voto di erigere una cappella a san Nicola; tanto che 
a qualcuno parve il caso di citare il proverbio italiano: « Pas- 
sato il pericolo, gabbato il santo ». Cosi, al buffone della 

2S 



paura e tielk dèvo2»one , segue qnello dell* eroismo e dell'ir- 
riverenza religiosa nello stesso Panurgo, il quale, dopo sif&tte 
molteplici rappresentazioni, scende a terra come adorno di nuovi 
aliorì e sem» paragone più glorioso di Cingar suo padre. 



L'autor francese agfgiunse all'episodio Ima parte non pur se» 
ria, ma ancor solenne e religiosa: quella di Pàntaghiel che^ 
mentre Panurgo delirava di paura e fra Giovanni e gli altri com- 
pagni si adoperavano al comìune salvamento, sempre imperturbatò 
e sereno, prega Dio, con semplici e sublimi parole, di soccorrerlo 
in tanta guerra. Presso il Folengo non c'è alcun personaggio 
che possa per tal rispetto confrontarsi al protagonista rabete- 
siano; il quale, se lotta eroicamente, come Baldo, contro le for^ 
della natura, adora insieme quella divinità , a cui la natura 
stessa ubbidisce. Cosi il Rabelais , con Questo e con gli altri 
personaggi minori, potè far si che tutte ci si dispiegassero alla 
vista le varie proprietà del cuore umano: da quelle onde si ge- 
nera la commedia e la farsa, e quelle altre che destano ih noi i 
pensieri più generosi e par che congiungano la terra col cielo. 
Qui, come in altri suoi luoghi, egli dimostria quello stupendo 
sentimento del divino , che d'ordinario giudichiiamo men forte 
e men costante nel Folengo. E veramente, interpetrando i su- 
premi veri del cristianesimo con la scienza e là coscienza dei 
tempi nuovi, egli a null'altro era cosi intento nd suo segreto co- 
me a deliziarsi in qtiel gran rinnovamento d'ogni cosa ch'ei pre- 
sentiva dovesse seguirne; mentre il poeta italiano, pur cott la 
stessa fede e gii stessi fini, assai più volentieri è più a lungo 
' si fermava a deridere i falsi interpetri ddla religione e tatto 
ciò che facesse ancor contrasto die nuove e più vere conce** 
zioni della vita e del mondo. Ma, come dimostrai altrove (x). 



(i) V&a pa€sana e cittadina nel poema del Folengo m Raccolta ài studti 
criHci dedicata ad Alessandro éP Ancona ecc., Firenze Barbèra, i^i, tn?*^3 ^ 



- 183 - 

nelle stesse dipinture folenghiane più comiche è facile avver- 
tire quel vivissimo sentimento del bene universale e quelle 
aspirazioni a qualche cosa di più alto, la cui assoluta man- 
canza avrebbe resi impossibili, o almeno molto più scarsi, questi 
effetti medesimi : facile avvertirli persino nella dipintura del 
convento di Motella, che sembra e, per più rispetti, è vera- 
mente il rovescio di quel beato regno, cioè di quel paradiso 
d'ogni idealità umana, che il Francese descrisse nella sua Ba- 
dia di Thelème (i). 

Più noi li studiamo col debito amore , e più ci si fa chiara 
l'intima parentela di questi due autori che, fra i confini delle 
due ultime grandi età della storia universale, dipinsero il tra- 
montar dell'una e il sorgere dell'altra con tanta ricchezza d'i- 
dee e verità storica e insieme con tanta originajità di comiche 
forme , che il complesso di siffatte qualità è ben raro trovare 
in altre rappresentazioni poetiche antiche e moderne. Quel co- 
mico, specialmente, rimase diversissimo così dagli stessi esem- 
pi classici, a cui più potrebbe rassomigliarsi, come dagli esempi 
posteriori, in cui fu imitato esso medesimo: comico stupendo 
che, pur nelle sue forme, più strane e più inverosimili, riusciva 
a significare le più serie idee dei nuovi tempi, che penetrava 
gloriosamente anche nelle manifestazioni della vita, dove il 
suo potere era sempre parso o men legittimo o meno forte, e 
che, come s'è visto da questi due episodi, faceva prove inau- 
dite su quegli stessi terribili regni della natura, ch'erano, per 
dir cosi , le scene tradizionali a rappresentazioni d' indole al 
tutto contraria. 

Bonaventura Zumbini 



(i) La badta di TheUme ne' miei Studi di letUr. straniere^ Firenze, Le 
Monnier, 1893. 



PER LA STORIA 

DEI. 

c< SECRETUM SECRETORUM ». 



Se lo studio degli antichi monumenti letterarii mira atten- 
tamente alla storia della civiltà, bisogna che non posponga alle 
grandi opere della poesia quelle assai modeste, d' indole morale 
e didascalica, che in certe epoche hanno avuto una straordinaria 
diffusione. Questi libercoli erano in perfetta armonia con lo spi- 
rito dei lettori, rispondevano quasi a tante domande sottintese, 
o annunziate vagamente in ciascuno, divertivano ed istruivano, 
consacravano con Tautorità le inclinazioni, i desiderii, le abitudini, 
o temperavano e frenavano. Autori e pubblico vi collaboravano 
insieme, e, secondo i tempi e le occasioni, con rimutamenti 
e sostituzioni vi si rinfrescava T immagine dei loro ideali. La 
diffusione di un'opera nel Medio Evo non ha riscontro né coi 
tempi antichi, nè^ a maggior ragione, coi moderni; perchè non 
è rispettata, come avviene generalmente in questi, la forma ori- 
ginaria, ma i traduttori e gli editori, per dir così, di opere 
semipc^lari usano di tale grande libertà, che danno luogo a 
redazioni nuove, talvolta diverse sostanzialmente. E se le fa- 
tiche degli studiosi si fanno perciò più difficili e complesse, il 
loro interesse aumenta, e la scoperta del vero le compensa ad 
usura. Una di queste opericciuole, a cui si son rivolte bene 
spesso le cure dei filologi, ma che aspettano tuttavia chi ne 
illustri compiutamente la storia, è appunto quel Secretum Secre- 
torunty che sorto, come credesi, nell'età bizantina, fu senz'altro 
attribuito al più grande dei filosofi, e con l'autorità di Ari- 

26 



— i86 — 

stotele ha attraversato tutto T Umanesimo. Un certo Giovanni 
figlio di Patrizio dice di averlo tradotto dal greco in romaico, 
e poi in arabo, e di qui lo traduce in latino un tal Filippo chie- 
rico del pontefice di Tripoli. Ma bisogna proprio credere a questo 
Yùhannà, o più musulmanamente Yahyà ibn al-Bitrìq? Dobbiamo 
ammettere quindi la gelosa conservazione del libro pseudaristo- 
telico, scritto a lettere d* oro, nel tempio di Ermes, dove egli 
l'avrebbe a gran stenti veduto e copiato? Noi non possediamo 
altri testi che l'arabico e il latino: e Topera è così inzuppata 
delle idee e dei costumi moderni, che anche senza altre prove 
è da negare ogni fede a queirasserzione. Il libro che in alcuni 
codici arabi porta il titolo di Sirr al-asrar ecc., ossia Segreto dei 
segreti, in altri quello di KitStò al-siyàsah ecc., ossia Libro del 
reggimento (e i due titoli si trovano accoppiali nelle versioni 
latine e nelle volgari), ormai pei dotti arabisti, secondo le no- 
tizie che mi comunica il collega C. A. Nallino, è una falsi- 
ficazione di un Arabo del X o XI secolo, compilata da varie 
fonti (i), e attribuita al traduttore suddetto. 

I manoscritti col testo latino del Secretum sono moltissimi, 
e chi sa quali differenze vi si troverebbero a studiarli tutti (2) ! 
Certo nella prima metà del secolo XII ne fu estratta V Epistola 
Aristotilis ad Alexandrum da un ebreo, che convertendosi al 
cristianesimo cambiò il nome suo di Avendear in quello di 
Johannes Hispalensis, e offerta ad una regina di Spagna, la 
quale non può essere altra se non quella indicata da H. Suchier, 



(i) FoERSTER, De Aristotelis Secretis Secretorum commentatio, Kiel, 1888; 
SxEiNSCHNEroER, Dù arobischen Uebersetzungen aus dem griechischen, § 64 
(Ccntralhlatt fur Bihliotekwesen^ Beiheft XII, 1893, lahrg. X); e Die he- 
brdlschen Ueberòetzungen des Mittelalters, Berlin, 1893, § 368. 

(2) V. 11 ricco elenco datone da G. Cecioni, // Secretum Secretorum e le 
sue redaz, volgari in Propugnatore^ N. S. II, p. II, pp. 72 sgg. Non conosco la 
più recente edizione che del testo latino ha procurata "W. Toischer, Aristo- 
telis Heimlichkeit Vi&\ Jahresberichte d. k. k, Staats- Obergymnasiums in Wiener 
Neustadt, 1882, né le due brevi memorie che al libro e alle sue redazioni nor- 
diche ha consacrate più tardi. 



- 187 - 

Teresa , madre del primo re di Portogallo , la quale tenne la 
reggenza dal 1112 al 11 28 (i). Sembra ormai accertato che 
non Hispaniensis, secondo alcuni manoscritti ricordati dal Su- 
chier , ma Ispalensis sia il nome di questo dotto , che perciò 
chiamasi senz* altro Giovanni di Siviglia, autore di molte opere, 
tra cui la versione di Alfragano. Egli staccò dal libro del Se- 
cretum la parte che insegnava Tarte di saper vivere, una diete- 
tica^ la quale a sua volta pare che non si trovi in tutti i ma- 
noscritti arabi, quale che ne sia la ragione (2). Ma ora assunta 
forma di lettera, essa, seguendo liberamente la sua strada, ebbe 
l'onore di un rifacimento provenzale (3), il cui autore sosteneva 
di aver tradotto da Ippocrate e da Galeno, e non si peritava a 
sua volta di aggiungere cose di suo capo, e di derivarne altre 
da altra fonte, come quell'insegnamento sui mesi dell'anno, che 
si ritrova spesso in altri testi latini, fu rifatto in lingua d'oil, e 
riassunto in quella di oc da Matfre Ermengau nel Breviari 
d'amor. Gl'insegnamenti della dietetica provenzale rappresentano 
la trasformazione più cavalleresca cui pervenisse quella scrittura, 
e bene armonizzano col carattere impresso ormai ad Alessan- 
dro Magno, il più cortese cavaliere del mondo, che si diletta 
non solo di armi, ma dei canti àìjoglars ^joglaressas, di lunghe 
chansons, oltre che di suoni di strumenti. E per questo il Secretum 



(t) H. SUCHIER, Denkmàler provenzalùcher Literatur und Sprache, I, 
Halle, Niemeyer, 1883, p. 531; e il testo critico della lettera a p. 473-80' 

(2) Ahlwardt, Verzetchniss dtr arabischen HandschrifUn d. kón,BtbL zu 
Berlin , 1887-99 , V 106-7. In testi latini e volgari quella parte non sta nei 
primi capitoli, ma tra gli ultimi. Ad ogni modo, provata resistenza sua nei 
testi arabi del Sirr alasrar, cade V ipotesi del Reinsch, citato qui appresso, che 
quella lettera fosse aggiunta al Secretum posteriormente solo nei testi latini. 

(3) H. SucHiER, cit. 201 segg. La dietetica provenzale fu nello stesso tempo 
analizzata da Robert Reinsch, Ueòer das Secretum Secretorum des Pseudo Ari- 
stoteles als Quelle e Ines noch uivoeroffentlichten prorven<ialtscken Gedichtes^ in 
Her&ig 's Arckrv f, neueren Sprachen LXVlll 9 sgg. Una niK>va e bella edi- 
zione, col sussidio di altri testi , ha poi stampata il Suchier stesso , Praven- 
zalische DidUtik auf Grund neuen Materials ^ Ralle, Nien^eyer , 1894, pel 
secondo centenario dell* Università di Halle. 



— 188 — 

rientra nella^ leggen4a di Alessandro, e forge vi entra più diruta- 
mente che non attraverso il suo, estratto (i). Inoltre nel Se- 
cr^ium vi è una parte che talvolta segue , tal altra sta in 
m^zzo , p manca del tutto, un trattato sull'arte di intendere 
gli uomini dai line;^imenti del volto, ossia physiognomUi, E con 
la medesiipa libertà codesto libro corre tutta Europa, e si tra- 
veste in francese, in tedesco, in castigliano, in italiano, pren- 
dendo a^che forma poetica con un anglonormanno del secolo 
Xni, Pierre dVAbernun, che secondo la felice ipotesi di P. 
Meyer è. la stessa persona con Pierre de Peckham, autoredi una 
più grande opera didascalica, la Lumiere as lais (2). E tra- 
duzioni da traduzioni: un povero napoletano. Cola di Gennaro, 
prigioniero a Tunisi da 18 anni, nel 1488 cercò d' interessare 
re Ferdinando I mandandogli la versione del Secretum nel proprio 
dialetto, da un testo catalano (3). Di che specie fossero quei 
travestimenti non si potrebbe spiegare con più chiarezza e com- 
piutezza di quel che fece un traduttore anglonormanno, anche 
del secolo XIII, Jofroi di Waterford, il quale dichiara di aver 
governato il Secretum a tutto suo piacere, soggiungendo argu- 
tamente che non credeva essere avvenuto altrimenti nel testo 
latino da lui seguito, perchè molte cose non gli parevano de- 
gne in tutto di quel grande e infallibile Aristotele (4). 

Tanto interesse destato da un'opera nel mondo medioevale, e 
così a lungo, merita Tattenzione dei dotti; e sarebbe tempo. che 
cessandosi dai lavori solitarii e isolati, dove si cominci sempre 



(i) Da&io Carrakqli, La leggenda di Alessandro Magno y Torino-Palenno, 
Clausien, 1892, p. 140, ricorda il Secretum (che chiama con altri inesattitmente 
Secrfita)y ma non vede altro nesso con la leggenda fuorché quello del nome dei 
personaggi. Nel Tesoro versificato vi è un episodio, di cui la forma più antica ap- 
pare nel Secretum (ma non in tutte le redazioni), cfr. A. D'Ancona, // Tesoro 
di B, L, versificato^ in Atti dell' Accad, dei Lincei, voi. IV (1888), 141. 

(2) P. Meyer, in Romania XV (1886) 287 seg. 

(l) A. Morel-Fatio, in Romania XXVI 74 5gg. Cfr. anche E. Pércofo, 
La prima imitazione deli^ Arcadia, Napoli, Pierro, 1894, p. 9 sgg. 

(4) V. Le Clerc, in Histoire liitéraire de la France, XXI 216 sgg. 



— i89 — 

col ripetere la stona dì Giovanni figlio di Patrizio e di Filippo 
d'Antiochia, venisse fuori una bella e solida monografia da 
chi fosse in istato di consultare molti manoscritti di varii paesi. 

Traduzioni del Secreium in volgare italiano non sono rare 
nei codici custoditi nelle nostre biblioteche, ed il povero G. Ce- 
cioni ne indicò parecchie, in un lavoro che ha appunto il me- 
rito della raccolta di materiali. Egli distinse anche due classi 
di manoscritti, ossia due tipi di traduzioni nel nostro volgare, 
prendendo a base un considerevole carattere esteriore: ma biso- 
gna inoltrarsi ad un esame ancor più minuto, e offrire notizie più 
sicure e ben determinate, e soprattutto appurare se questi nostri 
rifacimenti rimontino ai testi latini, e quali, ovvero, come io 
credo più probabile, a testi francesi. Abbiamo anche una vecchia 
stampa del Secreto o reggimento dei principi fatta in Venezia nel 
1538, e non sappiamo a quale dei due tipi sia da ricondurre. 

Il Meyer invitando e studiar le relazioni delle versioni fran- 
cesi, a proposito di una redazione contenuta nel ms. di Mont- 
pellier 164, cominciava dall' indicarne egli sei tipi differenti, 
tutti in più copie, alcuni più o men ligi al testo latino rappre- 
sentato neir edizione bolognese del 1501, altri rimaneggiati o 
abbreviati, e per sé stante la versione di Jofroi Waterford (i). 
Delle quattro stampe quattrocentine registrate dal Brunet (2), 
una (Paris, Anthoine Verard) corrisponde alla versione che egli 
ìndica con la sigi. C, e crede la più recente. Ma quale che ne 
sia r origine e Tetà, questa versione sembra la più diffusa: la 
^ % redazione italiana del ms. Magliabechiano XII , analizzata dal 
Cecìoni, è precisamente la stessa; ed un'altra copia deiroriginale, 
diciamo così, francese è nel nitido e bel codice di Berlino, Ha- 
milton, 46. Il desiderio di rinfrescare il ricordo dell'interessante 
tema , la rarità dei testi a stampa , m' inducono ad offrir qui 



(i) P. Meter, Notice d*un ms, messiti, in Romania XV 167 sgg., ^ appen- 
dice^ p. 188. 

(2) Beitnet, Manuel du libraire, vi édit., sotto Aristoteles, 



— IQO — 

un saggio della lezione del codice Hamilton, rimandando ad 
occasione più opportuna ogni altro ordine di considerazioni. 

È un bel codice membranaceo, legato in marocchino, di fogli 
123, a due colonne, di mm. 254x195, i cui primi 31 fogli sono 
occupati dal Secres, il rimanente da altre opericciuole: Les 
enseignemens qv£ le boti Roy Saint Loys envqya a la Royne de 
Navarre safille; les dits des Philosophes ; Leitres du Roy Alexan- 
dre y du Roy Dairs et de la Mere D'Alexandre; Avec le Dit des 
Roys de France (in versi; v. il Catalogo della vendita). Di bella 
lettera, del sec. XV, è adorno di una miniatura, che rappre- 
senta il traduttore nell'atto di presentare al re il libro, e di 
iniziali miniate. Io lo studiai, e ricopiai in parte, nel 1885, 
quando da due anni appena il codice era pervenuto a Berlino 
con gli altri del fondo Hamilton. Nessuno se n'^è occupato, da 
che esso è nella splendida biblioteca prussiana, per quanto io 
so , e mi conferma il valoroso e cortese dr. G. Naetebus , al 
quale mando ringraziamenti cordiali non solo per questo, ma 
principalmente per la diligente revisione che egli ha voluto 
fare del manoscritto sulle bozze di stampa. Nella stampa io ho 
seguito con tutta la possibile fedeltà il codice, conservando per- 
sino i nessi, non perchè cada dubbio sulla loro risoluzione, ma 
perchè questa è tanto facile che ben si possono lasciare come 
stanno. Piuttosto hx5 supplito le abbreviature , e spesso si ve- 
dranno in corsivo le lettere supplite , ma non sempre , paren- 
domi anche superfluo rilevare in ciò la modesta opera mia. Non 
sempre è facile discernere in quella pur nitida scrittura certi 
lettere e gruppi, come e, t, uu, rm, un, nu, im, mi: in alcuni 
punti la lezione é evidentemente errata, e il copista mostra di 
non aver saputo decifrare il suo esemplare. Nel porre V indi- 
cazione della pagina e della colonna, mi son permesso di non 
staccare le sillabe di una stessa |5arola, anteponendola a questa. 
Segni e sillabe aggiunte del tutto sono tra parentesi quadre. 

• N. ZlNGARELLI 



LIVRE DES SECREZ ARISTHOTE 

Lezione del codice berlinese Hamilton 46 

Ci commence le secret des secres daristote le quel il enuoya au roy alixandfe 

Le prologue don doctear en recommandant aristotc 

Vne espitre que alizandre enuoya aarìstote 

la respoDse dicelle espitre 

le prologue dun autre docteur appelle phelippe qui traushta ce liure en latin 

de la maniere des roys touchant largece 

de largesse et auarìce et de pluseurs vertus 

des vertus et des vices et de la doctrine aristote 

de lentendement 

de lentencion finale que le roy doit auoir 

des maulz qui sensuinent de chamel desir 

de la sagace et ordonnance duroy 

de la preudomie du roy religion et saintete 

de la pourueance duroy 

des vestemens.du roy 

(ir h) de la contenance du roy 

de la iustice du roy 

des desirs mondains 

de la chastete du roy 

des esbatemens du roy 

de la discrecion du roy 

de la reuerence du roy 

comment il doit souuenir au roy de ses subgiez 

de la misericorde du roy 

des paines 

de la congnoissance dicelles paines 

de la foy garder 

des estudes 

de la garde du roy 

de la difierence dastronomie 

de la garde de la sante 

du gouuemement des maladies 

en quantes manieres len puet garder sa sante 

des diuerses viandes de lestomac 

les signes pour congnoistre lestomac 

vne espitre de grant pris 



^ — 192 — 

la maniere de trauaiìlier 

(iv a) la maniere de mengier 

de abstinence 

de non boìre eaue pure 

la maniere da dormir 

de garder sa coustmne 

comment on doit chaagier constarne 

des iij. temps de lan 

de printemps et qael il est 

de este temps et qael il est 

de antonne et quel il' est 

de yuer temps et quel il est 

de la chaleur naturelle 

des choses qui engressent le corps 

des choses qui amaigrissent le corps 

de la premiere partie du corps 

de la seconde partie du corps 

de la tierce partie du corps 

de la quarte partie du corps 

des manieres des poissons 

(iv ò) de la nature des eaues 

de la nature du vin et du bìen et du mal qui senensuist 

du sirop 

de la fourme et maniere de iustice 

des secretaires du roy 

des messagiers du roy 

du gouuemement du pueple 

de la phisonomie des gens (i) 

Ct finent Ics rubriches de la tàble de ce liure 
(2r a) le prologtie dun docteur en \ recommandant aristote 

Dieuz tout puissant vueille garder nostre roy et la gioire deceulz qui croient 
en lui et confierme son royaume ap^^ndre la loy de dieu et le face regner alexal- 
tacion loenge et honneur des bons 

1^1' (2r b) je qui suis seruiteur du roy ay mis a execucion son commandement et 
ay donne enuie de acquerir le liure des bonnes meurs au gouuemement de lui. Le 
quel liure est nomme le secret des secres et le fist le prince des philosophes 
aristote iìlz de mahommet de macedoine son disciple lempereur alixandre filz: 
(2v a) de phelippe roy des grecs le quel alixandre eust deux couronnes. Et icestui 
liure fist le dit aristote en sa viellece et en la flebesce de son corps | pour ce 



(i) É attraversato da un sottile tratto in rosso, ossia scancellato. 



— tgi — 

^ il né pcmoit tranaillkr ne cheoattcfai^ ne £aìre lei befloui^eg que aUxwàr4 
luì aaoit enchargees. Car alìxandre lauoìt fait gouuerneur et maistxe pardessus 
toust et lamott moult pour ce quii estoit homme de tres bon conseil et de tres 
grant cleigie et de subtil entendement et touziours estadioit sans cesseir les bcm- 
nes et gradaues meors et les sciences espirituelles et contenqfitbtiufis et carìta- 
tires et si estoit mottU sages et hmablez et amoit rràE%a et inuMice et tomiours 
y i^portoit Teritc et loiaate. Et pour ce pluseurs pbsioAo^bfis le rappRteoI; dn 
nombre des propliettea et diaoient que ilz «noìent tcowae e& f^hiamim liures dea 
(2y b) grecs que dieux kii aooit enuoie son tres exoellent auge qui lui dist | yt te 
feray nommer par le mo^de plus aogel que homme | Et sacbles que le dit ani^ote 
fist en sa vie momlt de signes le8(|uelz forent esfranges oei^ures et vmagX^ qai 
seroìent trop longoes a raeonter ) Et aussi a sa mort fìat moult de^tranges e^uures 
pourquoy Yiie religion et compaingne des gens qui «appeUoit p{er]ipatique disoìt 
et tenoit oppmoa quìi auoit este montes au del en fourme dune coulompae de 
feu I et tant que le dit arìstote veaqui alixaodre par le bon conseil arìstote su- 
biuga toutes terres et eust victoke contre tous et acquist la seingoeurie de tont 
le monde. Et par toutes terres ala la renomoiee de lui et toutes nadops du 
monde furent sousmises ason commandemieat | mesmeme&t ceuU de perse et da- 
rabe | ne ne furent (3r a) gens nulles qui osassent resister contre lai ne en dit ne 
en fait et fìst le dist aiistote maintes bellea espitres pour la grant amour quìi auoit 
a alixandre et pour lui faire sauoir tous secres | et rae de ses espitres est cy des- 
soubs escripte laquelle il enuoia a aloandre | Car quftut alixandre eust subiugu^ 
ceulz de perse .et mis les plus hauls honnoes du royame eu ses prìsons U enuoia 
vng espi&e aaristote en la forme qui sensuit. Lesfitre que alùfSfndrt amma aari- 
stoU, Docteur de iustiee et tres noble recteur Nous singió&oos a ta grant sagece 
que non» auons trouue ou royaume de perse pluseurs bommes lesqu^ habondent 
tres graodement en raison et entendement subtìl et penestratif et cuident par- 
dessuz tous autres seingneurs auoir semgnorìe et acquenr tous royaumes pourquoy 
nous auons entencion de (y b) les raectre tous a mort | Toutesfois ce que bon 
te semblera nona vueUlez par tes lettres signi&er. La response dicelU espiare. Se 
tu puea muer et changier laix de la terre et leaue et lordenance des cites | accom- 
plis tout ton desir | Et se tu ne le pues faire | cesse et ne fay riens mais les 
gouueroe en ta bonte et les essauce en ta benignite | Et se ainsi le fais iay 
esperance alaide de dieu que tous seroot tes bons subgiz a tous tes bons plai- 
sirs et oommandemens et pour lamour que ilz ont atoy tu r^neras sur eulz paisi- 
blement en grant victoire | Quant alixandre eust lene cest espitre | il fist selon 
le conseil de axistote et fuzent ceulx de perse plus obeissans a aHzandise <]pie 
nulle autre nacion. Le prologue dun doctew appella phelippe qui translata ce 
liure en latin {yr a). 

IHielippe qui translata ce liure fu filz de paaris et fu tres sages interpreteur 
et entendeur de toutes languez | Et dist ainsi ie nay sceu ne lieu ne tempie ou 
les philosophez ayent accoustume de faire ou de desfake toutes oeuures et tous 

27 



— 194 — 

secres que ie naye cerche ne nay gceu nul sage homme pour tant que ie secasse 
qf^fl eust congnoissance des escrìptures des philosophez que ie naye visite iusques 
a tant que ie» vings a la congnoissance du souleil | La quelle fist exculapideos. 
Et trouuay vng homme solitaire plain de grant abstinence et tres sage en phi- 
losophie I au quel ie me humiliay diligeument et li suppliay deuotement quii 
me moustrast les escrìptures de la congnoissance du souleil Le quel les me 
baiUa tres voulentiers et sachi^e que je trouuay tout quanque (3T b) je desiroye | 
et tout ce pour quoy ie estoie ale audit lieu | et tout ce pour quoy iauoie trauaillie 
long temps. Et quant je eus ce que iauoie tant desire ie men retourne amon 
hostel atres grant joye et en rendi pluseurs et grans graces a mon createur et 
depuis a la requeste de tres noble roy en grant estude et en grant labour | Je 
translatay ce liure de grec en calde | et depuis de calde en langue arabique | Le 
quel fìst le tres sage aristote | qui respondoit touziours a toutes les requestes 
du roy aUxandre si comme plus a plain pourres cy dessoubs veoir par ordre. De 
la maniere des roys touchant largesse, Tres glorieux filz et tres iustes empereur 
dieu te confferme en la voye de congnoistre les chemins de verite et de ver- 
tus et te resfraingne des desirs chamelz et bestiaulz | et confferme ton royaume 
a son seruice (4r ci) et a son honneur. Sachies treschier filz que iay receuton 
espitre reueraument et honnourablement si comme il appartient | et ay plainement 
entendu le grant desir que tu as que ie feusse personnelment auec toy | et te me- 
rueilles comment ie me puis tant tenir daler par deuers toy | et si me repprews 
moult et dis quii me chault pou de tes besoingnes | Et pour ceste cause ie or- 
donne et me suis hastes de faire vng Uure pour toy le quel peserà et conten- 
dra toutes mes oeuurez et suppliera mon absence et mes deffaulz et te sera 
rigle et doctrìne tres certaine a toutes les besoingnes que tu vouldras et lesquelles 
ie te monsterroye se ie estoye auec toy. Treschier filz ne me dois repprendre 
ne blasmer car tu sces bien que ie ne lesseroie pour nulle chose du monde que 
je ne venisse a toy ce nestoit pour ce que ie sui tres grief pesant daage et en 
grant foiblece (4r b) de ma personne | pourquoy nullement je ne puis aler atoy 
Et sachiez que ce que tu mas demande | et que tu desires tant sauoir sont telz se- 
cres que humaine pensee a grant paine les pourroit comprendre ne soustenir. 
Comment donc puet il encuer mortel estre entendu ce que nappartient assauoir 
et qui ne me soit licite et couuenable atraictier [?] Toutesfois ie suis tenus par droit 
deuoir de respondre a ce que tu me demandes | Et aussi tu es tenus par le 
deuoir de sagece que iamais tu ne me demandes plus autre chose nulle | fors 
ce qui est contenu en ce liure | Car se tu le liz diligaument et tu lentendes 
plainement et que tu sachiez ce qui est contenu en ycellui sanz nulle doubte 
tu aras ce que tu desires | Car dieu ta donne celle grace cel entendement et 
subtilite de grant engin et de science | et auss> par la doctrìne que ie tay autre 
(4V b) foys donnee que par toy mesmes pourras concepuoir et entendre et sauoir 
tout ce que tu desires et demandes | Car le desir de la grant voulante que tu y as 
te ouuerra la voye que tu aiu-as ton propoz | et te menerà a laide de dieu a ce 



— 195 — 

que tu desires | et sachiez que la cause pourquoy ie te reuele mon secret fìgu- 
ratiuement et vàg petit obscurement Et que ie te parie par obscures exemples 
et par figurez si est car ie doubte moult que cilz liures ne viengne aux mains 
des infeaulz et ala puissance des arrogans et des mauuais et pourroient sauoir 
les grans secres de dieu et dieu scet bien quilz ne sont pas dignez | Certes ie 
fais doubte que ie trespasse la voulante et la grace de dieu pour toy descouurir 
et reueller les secres | mais sachies que par la voulante de dieu Je te renelle et 
descueure ceste chose ainsi comme (4V b) ha este de dieu autresfoys reuelle a toy 
et a moy Sachiez doncques chier filz que ie te descueure les choses qui sont 
aceler ] et se les secres ne retiens tu auras prouchainement asses de mauuaises 
fortunes | et si ne pourras estre seur des grans maulz qui te sont a auenir. Mais 
dieu tout puissant vueille garder toy et moy de celle chose et de toute oe- 
uure deshonneste. Apres toutes ces choses ayes en memoire ce noble et prouffitable 
enseingnement que ie te appareille et entens a exposer et ce sera ton grant 
soulas et mirouer de ton salut. Il couuient tres chier fìlz que chascun roy ait 
deux choses qui soustiennent lui et son royame m£ds il ne les puet fermement 
auoir se nest quant le gouuemeur ou cil qui doit gouuemer et cil qui regne 
est obeis des subgis et que les subgiz ' egalment {$t a) et dun courage et par 
vne mesme fourme obeissent auseingneur car par la desobeissance des subgiz est 
moult afoibliee la puissance du seingneur Se les subgiz regnent le gouuemeur 
ne puet riens faire Et je te monsterray la cause pourquoy les subgiz sont 
esmeux et encourage de obeir a leur seigneur | ilz sont deux choses lune est 
dedens lautre dehors, et ie tay nagaires desciare celle de hors Cest assauoir 
quant le seigneur dispense sagement ses richeces a ses subgis et quii ait ouure 
en eulz en largece en donnant a chascun selon ce quii est dignez Et auec ce il 
couuient que le roy ait vne cautelle de la quelle ie te feray mendon cy dessoubz 
ou chapitre des vices et des aides Et est assauoir que le roy se doit esforcier 
quii puisse auoir les cuers de ses subgiz par bonnes oeuures et (sr b) de cy est 
le premier degre et fondement de son fait et ce cy se puet faire par. 11. choses 
cest assauoir lune de deus lautre de hors, la cause de hors est que le roy face 
et maintiengne iustìce selon les possessions et richeces de ses subgis et quii soit 
piteux et misericors. la cause de deus si est que les grans philosophes et ders et 
sages hommes il honnoure et ait pOur recommandes | car dieu le commande Et 
je te recommande cestui secret pnncipaum^wt auec pluseurs autres que tu trouueras 
en divers chapitres de ce liure esquelx tu trouueras tres grant science et esquelx 
est contenue la cause finale par la quelle tu auras ton prindpal propos | Car 
quant tu aras apperceu les segneficactbns des paroUes | et lobscurte des exemples, 
lors auras plainement et parfaictement (5V b) ce que tu desires. Si prie adieu 
tressages et tres glorieux roy quii vueille enluminer ta raison et ton entendement | 
affin que tu puisses et sachiez apperceuoir les secres de ceste science et que en 
ycelle tu puisses estre mon hoir et mon seul successeur | et ce te vueille ottroier 
ycellui dieu qui ses richeces donne et eslargist habondaument alarne des sages 



— 196 — 

et aux estudians donne grace de congnoistre ce qui est fort et defficìle a natnre e 
sana le quél liens ne puet estre fait. de largece et auarice et De ^luseurs veHus, 
Hz sont quatte manieres de roys. H est roy qui est larges a soy et lai^es a 
ses subgiz et est roy qui est auer a soy et largez a ses subgiz | Et est roy qui 
est larges a soy et auer a ses subgiz et est roy qui (5V h) est auer a soy 
et auer a ses subgiz. Les ytaliens dient quii nest nul vice aroy qui est 
auer a soy et larges a sès subgiez. Les Indiens dient què le roy est bon qui 
est auer a soy et a ses subgiez. Les persiens dient tout le contrairc et tìennent 
oppinioh que le roy né vault rien qui nest largez a soy et a ses subgiez | mais 
entre tous les roys dessus dis cil est le pire et ne doit estre rien prisies qui 
nest larges a soy et a ses subgis. Car se il estoit auer a soy et a ses subgiz 
Bon royame seroit tost destruis. H nous couuient donc subtìlment enquerir des 
vertuz et vices dessus dis et monstrer quelle chose est largece et quelle chose 
est auarice et en quoy est lerreur de largece et quel mal sensuit pour non 
auoir largece. Il est cìere chose que les qualites sont a rèpprouu^r (6r 5) quant 
elles se esloingnent du moyen et sauons bien quel est fort chose de garder sa- 
gece et legiere chose de la trespasser et est achanm legiere chose destre anali- 
cieux et fol larges. Se tu veulz donquez acquerir largece regarde et cónsidere 
ton pouoir et le temps de ta neccessite et les merites des hommes Tu dds don- 
qùes douner selon ton pouoir par mesure a ceulz qui en ont neccessite et qm 
en soni dignez | Car qui donne autrement il peche et trespasse la nenie de lar- 
gece Et qui donne ses bìens a cellui qui na nulle neccessite il nabqtlìert nulle 
loenge et tout ce que leu donne a ceulz qui nen sont pas dignes est perdu. Et 
qui despent ses biens oultre mesure il vendra tost autres amer riuage de pourecte 
et est corame cellui qui sur lui donne victoire a ses ennemis | Qiai donne donc 
(6r h) de ses biens en temps de neccessite et a ceulz qui en ont besoing tei roy 
est larges a soy et a ses subgiz et vendra son royame en grant prosperite et ses 
commandemens seront acomplis et qui despent les biens de son royame sans 
ordre et donne a ceulz qui nen sont pas dignes | et qui nen ont nul besoing | 
Tel ròy destruit son pueple et la chose publique | et son royame et nest pas 
digtìe de regner. Car il est appelle fol larges. Le nom dauarice est trop laìt au 
roy I et aduient trop mal a la royal mageste. donques se le roy veult regner hon- 
nouràblement | Il couuient quii nait ne lun ne lautre de ces deux vices | Cestas- 
sauolt quii né soit ne fol larges ne auarìcie-ux | Et se le roy se veult conseillier 
il sé doit pourueoh- en tres grant diligence dun sage hortime le quel soit esleu 
entre plugeurs autres de son royame (6v a) àuquel il commande tout son fait 
et cellui de son royaume comment elles se dioiuent dispenser. Des -oertus et des 
vices et de la doctrine aristote, 

Roy alixandre chier filz Je te di certainem ent que se aucun roy veult faire 
plus grans despens que son royame né pùet & oustenir | ne qui se endine a folle 
largece | ne a auarice tei roy sanz doubte ser. a destruis | mais se il sencline a 
làr||ece il aura gioire perpetiiélle de 89Ji ypyaa le et cecy sentent quant le roy 



— i97 — 

se Ttttìàt et Uà core de prendre les bieiu et possessions de ses nibgiez. Et tachiez 
treschier file que iay troirae escrìpt es conunendei&eDB dun tres grant docteur 
hennogenes qui dist que la tres grant et souuendne bonte et vraye darte den- 
tendement et piente de loy et de science et signe de {6v b) perfeccion de roy est 
quant il se rettralt de prendre les biens et les possessiotìs ed ses subgiez | et fut 
.cela cause de la destmction dangleterfe | Car pluseurs roys dangleterre faisoient si 
oultrageux despens que les rentes du royaume ne pouoient sonfiire et ainsi pour 
soustenir leurs oultrageux despens ilz prmdrent les biens et les possessions de 
leurs subgis pour la quelle chose le pueple crìa a dieu | le quel enuoia sur ycenlz 
roys sa Tengence | telle que le pueple se rebella contre eulz | et furrat du 
totit destruiz et leurs ncnns mis au neant | Et se ne feust la grace et miserloorde 
du glorieux dieu qui ■soustint le pueple le royame eust este du tout destruit. 
Tu te dois doncquez garder des fob et oultrageux despens et des dons oultrageux 
et dois garder attrempance (7r a) Enlargece et ne vueilles enquerir les obscurs 
secres ne repprouchier le don que tu aras fait | Car il naffiert pa aux bons. 
Cy parie de lentendement. 

La substance de toutes vertus est reguerre donner les bons et pardonner iniures 
et honnourer oeulx qui sont a honnoui-er et porter reuerence a ceulz qui en sont 
dignes et souuenir aux humbiez et amender les desfauiz des simples et de saluer 
▼oulentÀrrv les gens et toy garder de trop parler | et laissier parler les iniures 
iusques a temps | et faindre que tu ne sachiez point la follie des foiz. Chier filz 
Je tay enseingnie et enseingneray pluseurs choses lesquelles tu retendras en ton 
cuer et Jay ferme science que yceulz enseingnemens s^ront touziours en toutes 
^s voyes et en toutes tes euures tu aras clarte touziours luisant et soufiìsant 
science a ton (71 à) gouuemement tout le temps de ta vie | tontesfois ie te 
apprendray la science de phisique abregee et iamais ne ten eusse riens dit ce 
nest ce que yceUe sdoice auec les eilseingnemois qui sensuiuent te denssent 
souffire en toutes oeuttres en ce siecle et en lautre. Ve ìentencùm finale que le 
roy doit auoir en soy. 

Sachies tres chier filz que lentendement est chief du gonuemement de lomme 
et salut de lame | gardeur des rertus et mirouer des vices | Car en cellui enten- 
dement nous regardons les choses que 1^ doit fouir et eslisons ce que len doit 
eslire et ensuir. Il est la clef des vertus et la racine de tous biens louables et 
honnourables et le premier instrument di cellui est desir de auoir bonne renom- 
mee | Car qui desire auoir bonne renommee il sera partout (7v a) glorieux et 
honnoures | et qui faintement et ypocrìtement la desire il sera a la fin confundus 
par mauuaise renommee. Le roy doit donc pfthcipalment querir a auoir bonne 
renoÀnmee plus pour le bon gouuemement de son royaume que pour lui. De len- 
tencion finale que le roy doit auoir. 

Le commencement de sagece et dentendement est dauoir bonne renommee par 
la quelle sont les royaumes et les grans seingnories acquises | et se tu acquiers 
ou que tu desires royaumes 00 seingnories se ce nest pour auoir bornie renom- 



— 198 — 

mee tu nen acqoerras ia en la fin que enaie | Et sachies que enuie engendre 
menssonge la quelle est racine et matiere de tous vices | Enuie engendre mal 
parler | mal parler engendre hayne | hayne engendre villenie | villenie engendre 
rancune | rancune engendre (;▼ 3) contrariete | Contrariete engendre iniustice | 
iniustice engendre bataille | bataille rompt toute loy et destruit cites et est 
contraire a nature et destruit le corps de lomme. Et pense donc chier filz et 
met tout ton desir que tu puisses auoir bonne renommee | Car pour le grant 
desir que tu aras dauoir bonne renommee tu tireras a toy la verìte de toutes cho- 
ses. Et sachies que verite est racine de toutes choses qui sont a louer et matiere 
de tous biens | car elle est contraire a mensonge | la quelle est racine et matiere 
de tous vices comme dit est. Et sachies que verite engendre desir de iustice | 
lustice engendre bonne foy bonne foy engendre largece | largece engendre fami- 
liarite | famiHarite engendre amistie | amistie engendre conseil et orde | par ces 
choses fust tout le monde ordennes | et les loys faictes Et sont couuenable a 
raison (8r a) et a nature. Il appert donquez clerement que desir dauoir bonne 
renommee est perdurable vie et honnourable. Des maulz qui sensuittent de 
chamel desir, 

Alizandre chier filz laisse tous desirs bestiaulz da desir chamel | car ilz sont 
corrompables | les desirs chameulz enclinent le cuer aux deliz de corrompcion de 
lame bestiale sanz nulle discrecion auoir | et se esjoissent en corps corrompable 
et corrompent lentendement de lomme | et sachies que telz desirs engendrent 
amour chamelle | amour chamelle engendre auarice | auarìce engendre desir de 
richesse | desir de richece fait homme sans vergoinge | et homme sans vemgoigne 
homme orgueilleuz | homme orgueilleux homme sans foy | homme sans foy est 
larron | larredn mat homme a victuppere et puis vient a chetiuite et a la (8r h) 
finale destruccion de son corps. De la sagece et ordonnance du roy. 

Il est chose juste et couuenable que la bonne renommee du roy soit en lo- 
uable science et preudomie espandue par toutes les parties de son royaume | et 
quii ait parlement et sage conseil souuent auec les siens | et par ainsi il s^fa lo- 
uez I honnoures et doubtes de ses subgiez quant ilz loiront parler et faìre ses 
besomgnes sagement. Et sachies que legierement se puet congnoistre la sagece ou 
la follie dun roy | car quant il se gouuemc en preudomie vers dieu | il est di- 
gne de regner | et de honnourablement seingnourir | mais cil qui met son ro- 
yaume en seruitude et en mauuaises coustumes il trespasse la voye et le che- 
min de verite | Car il mesprise la bonne voye et la loy de dieu | et il sera en 
(8v a) la fin mesprisies de tous. de la preudomie du roy religion et scintele, 

Je te pry derechief et diz ce que les sages phUosophes ont parie et dit | H affiert 
que la royal mageste soit gouuernee seìon les drois et les loys non pas par faìnte 
apparence mais de fait affin que chonm voye et congnoisse clerement la preudo- 
mie du roy et quii doubte dieu et quii se veult gouuemer selon dieu lors sera 
le roy honnoures et doubtes quant len verrà quii doubte | Et se il se monstre 
faintement preudomme et religieux et il soit mauuais a ses subgiez | Car mauuaise 



— 199 — 

oeaure ne se paet celer il sera mesprìsies de dieu et de toutes gens diffames 
et son fait en sera mendre | et fauldra lonneur de la couroime de son royaume 
Que te diray je plus [?] il nest tresorne autre chose qui soit en ce monde qui 
valile bonne renommee Et dautrepart chier (8v ò) filz II affiert que tu honnourez 
les clercs et porte reuerence aux preudes hommes de religion et essauce les saiges 
et parie souaent auec eulz et leur fay questions et doubtes | et aussi respons sai- 
gement a leurs demandes Les nobles aussi honnoures selon ce que chacun en est 
dignes. De la pourueance du roy. 

Il couuient que le saige roy pense souuent es choses aduenir affin quii puisse 
sagement pourueoìr a ce qui lui peut estre contraire | e quii puisse plus legie- 
rement porter les aduersites et les contraires auentures | et si doit estre le 
roy piteux et son couroux et son yre sagement couurir et restraindre | afin que 
sanz deliberacion il ne viengne au fait quii a pense en son couroux et doit rai- 
sonnablement congnoistre son erreur et rappeller sagem^rnt Car la plus souueraine 
(9r ci) sagesce et vertu que le roy puisse auoir est de lui sagement gouuemer et 
quant il voit aucune chose qui lui est bonne et prouffitable si la doit faire en 
grant discrecion afiìn que les gens ne dient quii fait ses besoingnes trop sote- 
ment ou trop negligement. des vestemens du roy. 

U affiert moult a la mageste royal que le roy soit vestus honnourablement 
et que tousiours se monstre en beaulz et riches vestemens et doit en beante de 
robes surmonter tous autres vestemens | Il doit user de beaulz | chiers | et estrain- 
ges vestemens | en grant prerogative et dignite car par ce sa dignite en est 
plus honnoree et sa pulssance plus essauce | et plus grant reuerence lui est faite 
et rendue et si affiert que le roy soit beauz parliers et doulz et aimablez et 
de gradeuse parolle et par especial en temps de guerres et de batailles. (gr b) 
De la contenance du roy. 

Alixandre chier filz comme est belle chose precieuse et honnourable quant 
le roy parie pou se tres grant neccessite ne le requiert II est meilleur que les 
parolles des gens soient ardans de escouter la parolle du roy que elles soient 
saoulees et ennuyees de lescouter par son trop parler et si ne doit le roy pas 
trop souuent soy monstrer a son pueple ne trop frequenter la compaìngnie de 
ses subgiz par especial des vilains ne des vìles gens | Car par trop grant fami- 
liarite il en seroit moins prisies. Et pour ce les Indiens ont vne trop belle 
coustume en lordennance de leur roy et du royame Ilz ont coustume que le roy 
ne se monstre en publique deuant son pueple que une foys lan j et lors il se 
monstre en appareil royal et sont tous ses barons chevdìiers de son royame armes 
enuiron (9V a) lui | et est richement adoubez et monte sur vng destrier le sceptre 
en la main et armes de richez armes royaulz | et est tout le pueple deuant lui 
asses loing des barons et des nobles du royaume | lors parlewt et traictent auec 
le roy des grosses et pesans besoingnes du royaume | et auec celui monstrent 
les diuers cas et perilleuses auentures qui sont passees | et comme lui et son 
conseil se sont bien gouuemes | et a le roy coustume de donner gratis dons*- 



et de pardonUér «aUctlnB kurt mesfaif | et alegier led grana chaiiges da poepLe 
et de faire asses dautres bonnes oeuures | Et quant le parlem^»t est fìsea le 
roy sassiet en sa chaiere | et tantost se lieue. i . dea plus sageiB princes | et porle 
au pueple en loant et recommandent le sens et le bon gouuemement du roy | 
Et rent graces adieu qui aìnsi bien a ordonne et maintenu le roy d^ Indiens | 
et qui de (9v ò) taat sage roy a honnoure et pourueu le paeple dea Indie&a et 
qui a confferme ycellui pueple en ung mesmes courage a lobeùssanoe du roy | 
et puis il recommande le pueple et le loue moult en racontant leura bonnes 
meura et leurs condicions | et leur dist de belles paroiles et exemples pour les 
mieuiz mectje en la grace et obeissance du roy | Et en la benùioleBce komilite 
reuerence et honneur du roy. Et quant cilz sages pràices a ainai parie | tout 
le pueple sesforce de essaucer les loenges du roy et ses borai^j oeuures recom- 
mander en priant dieu pour lui | Et par ainsi sont par les terrea et cites racon- 
tees les bonnes oeuures et sagece du roy | et ainsi sont les enfans dea leur 
enfance endoctrìnes en ìetmour honneur reuerence obeissance et cremour du roy | 
et est publie par tout le royame la bonne renommee du roy (lor a) en secret 
et en appert | Et en ycellui temps sont puniz et justicies ceulz qui lont des- 
serui afìn que ceulz qui ont voulante de mal faire sen rettraient et se corri- 
gent I et aussi le roy fait graces et allegemens. aux marchans des tribus qutiz 
doiuent au roy et fait eulz et leurs marchandises et richeces diligeument garder 
et defiendre | et cest la cause pour quoy k pueple des Indiens a moult de grans 
richesses Car de toutes pars du monde y vont les marchans et y ytreuuent grant 
gaaing Et en ycellui pays | estranges riches poures y sont soustenua pour quoy 
Ics tribuz et les rentes du roy y croissent contiuuehnent. De la Justice du roy. 

Le roy se doit bien garder quii ne face tort et vilaiiiìe aux marchaas mais 
les doit honnourer | car ilz vont par tout le monde et rapp<M't::nt la bonne et la | 
(xor h) mauuaise renommee des gens | et doit le roy par bonne iustice r«idre 
a chaacun ce qui est sien | ainsi seront ses terrea et ses cites g«mies de tous 
biens | et s^ont montepliees les rentes du roy et en sera plus r«doubtes de ses 
ennemis et ¥iura et regnerà la roy paisiblement et seurement et aura ce que 
sa TOttlante requiert et desire. D«s destrs mondains, 

Alixandre chier filz ne vueiiliez couuoitier les choses mondaìnes transitoires 
et corrompables | et pense quii te còuuendra tout laissier | donc les richeces qui 
ne se peuent corrompre et la vie qui ne se puet changier | et le royaume glorieux 
perdurable dois tu couuoitier | Adresce donc tes puissances en bien et te rens 
touziom-s fors et glorieux et laisse la vìe des bestes qui viuent touziours en leur 
ordure | Ne eroy pas (lov a) legierement tout ce que leu te dira | et ne soyes 
pas &op endines de pardonner aceulz contre qui tu as eu Tictoire et pense du 
temps et des cas qui peuent adoenir | Car tu ne sces qui est anenir | Et ne 
vueilles mectre tes de8ir$ en mengiers | ne en b(»re | en luxure | ne en long 
dormir | ne «n deliz c^ameulz. 

De la chasteie du roy. 



— 20I — 

Tres Doble emp^f^ur ne te vueillies encliner alaluxure des femmes Car cest 
vie de pourceaulz Quelle gioire sera a toy se tu te gouuemes selon les vices des 
bestes brutes et sanz raison [?] Chier filz croy moy car sans doubte la luxure 
est destrucdon de corps abregement de vie | corrompcion de toutes vertus | tre- 
spassement de foy et fait lomme tout femenin | et en la fin meuue lomme a tous 
maulz. Des esbatemens du roy (lov V) 

Il affiert bien que le roy aucune fois auec ses priues et feaulz se delite et 
prangne esbatement et diuerses et pluseurs manieres de menestres et orguez | 
et pluseurs autres instrumens et chancons et dances Car quant humaine creature 
est ennuyee naturelment en telz esbatemens se delite nature | Et le corps en 
pr^nt force et vigpur | Se tu te veulz doncques de telz choses deliter si fay le 
mjeulz et le plus ho nnestement et prxueement que tu pourras. Et quant tu seras 
en tes esbatemens sì te garde de boire vin | et te faingnez que tu as trop chault 
ponr boire et laisse les autres boire tant quii leur plaira et lors orras pluseurs 
secres descouurir | et tes esbatemens ne fay point trop souuent mas deux ou 
trois foys en lan dautre part il est bon que tu ayes pres de toy aucuns de 
tes familliers loiaulz (iir a) et secres qui te rapportent ce que len dist et que 
len &it par ton royame | et quant tu seras auec tes barons et tes subgiez fay hon- 
nour aux sages hommes et reuerence a ceulz qui én sont dignes | et tien chamn en 
son estat Et les fay aucune fois auec toy mengier lun apres lautre et donne 
robes vne foys a lun et vne autre foys a lautre selon leur estat et quilz en 
sont dìgn^j Et garde quii ne soit nul de tes cheualiers consseilliers qui ne sen- 
tent de ta largece | ainsi appa^^a a tous la noblece et la grandeur de ton cou- 
rage. De la discrecùm du roy 

Chier filz il est bon que le roy auec sagece ait bonne contenance et belle et 
especialment quii ne rie trop | Car par trop rire ly homs en est moins prisiez | 
et moins honnoures | et fait 1^ trop rire semblant de estre plus vieil. Apres 
sachiez que le roy doit plus honnourer ses hommes en sa court ou en sol con- 
seil ( I ir 3) que autrepart et se aucun fait villenie a vng autre il le doit punir 
selon ce quii aura desserui affin que les autres y praignent exemple et se ret- 
traient de mal faire | et sachies que au punir tu dois regarder la personne 
qui a fait le mesfait | Car autrement doit estre pugniz . i . haulz homs ou 
. I . noble et autrement . i . du pueple | Il est bon aucune fois de faire ri- 
gueureuse iustice | et aucune foys de faire gradeuse iustice afin quii soit fait 
difiereuce des persounes | Car il est escript ou liure des machabees que di roy 
doit estre loues et ames qui ressemble laigle qui a seingnorie sur tous oyseaulz 
Et non pas cil qui veult ressembler vng autre oisel subgiect alaigle Et pource 
se aucun en la presence de ta royal mageste fait villenie a . i . autre tu dois con- 
siderer sii la fait par gieu et pour faire rire et donner joye a tous et aux autres 
ou sii la fait (xiv a) en despit et victupere de ta mageste | Car pour le premier 
cas il deuroit estre legierement corrigie et pour le second mourir. De la reuerence 
du roy» Alixandre chier filz lobeissance du roy vient par quatre choses | pour 

28 



— 202 — 

la preudomie da roy pource quii se fait amer a ses subgìz et pource que il est 
courtoìs I et pour honneur et reuerence quii fait a ceulz qui en sont dignez Chiej 
fili fày taat que tu toumes a toy les courages de tes subgiez et leur lieue tous 
tors et toutes iniures qui leur seront faites | et garde que tu ne donnes a tes 
subgiez cause ne matiere de parler contre toy | car ce que le pueple dist le- 
gierement puet faire aucuue f ois dommages Gouuerne toy doncques tellement que 
riens ne puisse estre dit contre toy | ainsi escheueraz ce que ilz auoient en voulante 
de faire | et sachies dautre part que la sagece du roy est (iiv d) la gioire de sa 
dignite et de sa reuerence et est essaucement de son royaume | Il se treuùe en 
pluseurs saintes escriptures que le roy est en son royame aussi comme la pluie 
est en terre la quelle chose est grace de dieu | beneicon du ciel vie de la terre 
et de toutes creatures viuans | et par la est apparaillie le chemin aux marchans 
et aide aux edifiens combien que aucune fois en la pluie soìt fait tonneire et 
cheent fouldres et sengrosissent les fleuues | et la mer se tempeste | et moul* 
dautres mauz en viennent dont maintes verdures en sont pòrillees Et combien 
que tieulz accidens soient mauuais neant moins les hommes en loent le glorìeux 
createur et sa mageste considerans la pluie venir de sa gràce | et du don de sa 
misericorde | car par la pluie viuent toutes choses nees et en croisscnt toùs biens 
qui sónt a mengier | et a toutes (i2r a) choses verdoians donne beneisson et 
pource les hommes en rendent graces adieu et en oblient les maulz dessus diz qui 
leur estoient venuz | Et sachiez chier filz que lexemple est comme est lexemple 
des vens lesquelx le treshault dieu glorieux enuoie des tresors de sa misericorde 
Les nues font yceulz vens cheoir et par eulz croissent les blefs et prannent leur 
beaute la quelle auoit este desiree | il oeuure la voye aux uantonniers et moult 
dautres biens sensuiuent par eulz | Et toutesfois par les vens viennent moult 
de perilz et de maulz et ciempeschemens tant en mer comme en terre et en 
ont plus^rj* fois les gens douleur dedens leurs corps et dehors et les richeces 
des gens gectent et perdent dedens la mer | par eulz sont engendrees pluseurs 
còrromptions dair et venins mortelz en sont engendres et moult dautres maulz 
senensuiuent et (i2r ò) requierent les gens que la grace de dieu leur oste ces 
maulz neant moins suefire dieu qutlz facent leur cours et quilz tiennent lordre et 
la rigle quii leur a establie | Car la sagece de dieu egalment pesa et ordonna tou- 
tes choses pour seruir a ses creatures et ce fist il de sa tres grant bonne be- 
nignite et misericorde | Et ceste mesme exemple pourras trouuer en yuer et en 
este aux quelx la souueraine sagece diuine a ordonne les froidures et les cha- 
leurs a lengendrement et accroissement de toutes choses naturelles. Toutesfois 
moult de maulz et de perìlz viennent par la grant rìgueur des grans froidures 
dyuer et des grans cbaleurs deste | Ainsi est chier filz du roy | Car aucune fois 
còuuient que le roy face asses de griefs et de maulz a ses subgiez pour necces- 
site qui le contraint lesquelx desplaisent (i2y a) a ses subgiez et les portent con- 
tre leur cuer | mais quant le pueple voit et congnoist que par la sagece et bon 
gouuemement du roy ilz sont en paix et bien gouuemes ilz oblient les maulz 



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desstis di2 et looetit le glorìeax dieu qui les a pourueuz de si sage roy. Cam- 
mefnt il doit souuenù' au roy de ses subgie». 

Je te prie treschier filz qne tu doyes souueot enquerir de la neccetsite et poa- 
rete de tes subgiz t et par ta bonte te souuiengDe de tes poures subgiz en lev 
neccessite dautre part tu dois eslire vng homme qui soit prebdoms et qui ayme 
dieu et iustice et qui sache la langue de tes subgiz auquel tu commectes le 
gouuemement de tes subgiz et que il les gouueme piteusement et en ainour et 
se ainsi le fais tu feras le plaisir de tou createur et sera la garde de ton ro- 
yame et la leece de tes subgiz. (i2v b) De la misericorde du roy, 

Chier filz ie te prie et conseille que tu faces tousiours grant garDiàou de blefs 
de potages et de toutes vitaill^j que ton pais en alt totiziòurs habondance | afìn 
que quant il auendra comme aucune fois aduient le temps de cfaierie et de 
lamine que tu puisses souuenir par ta grant pulssance et grant prudence a tes 
subgiz car en temps de famine tu dois secourir a tes subgiz et dois ouurir tes 
guemiers et publier par ton royame et par tes cites les gràins et les autres tì- 
tailles que tu as assemblees et gardes i et ce sera grant sagece et grant cautelle 
a la garde de ton royame et au sauuement de ton pueple lors tes subgiz fé- 
ront de gnmt courage tous tes commandemens | lors sera ton fait en grant 
prosperile et tuit se esìouiront et se merueilleront (i3r ci) de ta grant sagece | 
Lors congnoistront tous que tu regarderas de loing en tes besoingn^^ et te rep- 
puteront comme saint et par elle priseront et loueront moult ta vaìllance et 
chascun se redoubtera de toy couroucier. Des peines, 

Alixandre chier filz Je tay souuent admonneste et de rechief te prie et admon- 
neste que tu vueillies garder ma doctrìne car se tu la gardes tu vendras a ton 
propoz et ton royame sera doubtable et en bon estat | Cestassauoir que sur tou- 
tes choses tu tegardes au plus que tu pourras de respendre le sang humain | 
car ce appartìent seuUement adieu qui scet Ijs secres des cuers des homnes. 
Ne vueilliez doncques prendre loffice qui appartieni adieu | car il nappartient 
point a toy de enquerir ne de sauoir les secres de dieu Garde toy doncques 
tant comme tu pues de respendre le sang (i3r ^) humain Car le tresnoble docteur 
hermogenez dist que qui occist la creature semblable a lui toutes les vertus du 
ciel ne cessent de crier a la mageste de dieu en disant Sire sire ton serf veult 
estre semblable a toy | Et sachies que qui occist homme especialment sanz 
cause raisonnable dieux en prendra vemgence | Car dieux respont aux vertus du 
ciel et dist laisse laisse car a moy en est la vengence et ie lui sauray bien 
rendre Et sachiez que les vertus du ciel pr^^entent sanz cesser deuant dieu la mort 
et le sang de cellui qui a este occis iusques a ce que dieux ait faite la vengence. 
De la congnoissance dicelles peines, 

Chier filz de toutes peines ayes la congnoissance | Sachies que iay eu en mons 
temps moult de maulz | fay que tu ayes souuent en memoire les fais de te 
peres et pense (13V a) comment ilz ont vesqu, et par ce pourras veoir et em- 
prendre maìntes bonnes exemplez et aussi leurs fais passes et donront grans ensei- 






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gnemens du temps a uenìr. Je te pry aussi que tu ne vueilles greuer ne mesprìser 
plus petit de toy. Car il aduient aucune fois que le petit honune puet tost mon- 
^ter en grant honneur et en grans richesses et lors est puissant de desdoma- 
gier . . . (i). 



(i) Il Secrez finisce a 3 ir a, lin. 6, con queste parole : « et se tu le pues 
auoir autrement que par bataille si le fay car la derreniere de tes oeuures doit 
estre la bataille, et la doiz faire quant tu ne pues auoir tes ennemis autrement 
et fay toutes tes besoignes par conseil sans toy haster ». L' explicit in rosso : 
Ci fine le secret des secres darisiote, — Avvertirò che nella nostra stampa a 
pag. 193, 1. 4 abbiamo posto risolutamente caritatiues in luogo di cantatines 
o tantaiiues — del cod.; a 198, 2 orde in luogo di arde; a 199, 9 preferito qui a 
ogni altra possibile lezione ; a 203, 7, dal basso, posto presentent in luogo 
dell* erroneo putent. 



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