Bruno
Opere italiane_1
testi critici di Giovanni Aquilecchia
coordinamento generale di Nuccio Ordine
Candelaio, La cena de le Ceneri,
De la causa, principio et uno
GIORDANO BRUNO
OPERE ITALIANE
Commento di
GIOVANNI AQUILECCHIA, NICOLA BADALONI
GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, MARIA PIA ELLERO
MIGUEL ANGEL GRANADA, JEAN SEIDENGART
Volume primo
Candelaio, ha cena de le Ceneri
De la causa, principio et uno
UTET
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fu
INDICE
IT
9 Introduzione di NUCCIO ORDINE
I. Tra Parigi e Londra: 1581-1585, 11 - II. La filosofia in teatro e 0
teatro nella filosofia: il comico come conoscenza, 26 - III. Gli inganni
dell'ignoranza: U Candelaio tra realtà e apparenza, 42 - IV. La cosmolo-
gia e la filosofia della natura: Cena, De la causa. De l'infinito, 68 - V. La
filosofia morale e la religione: Spaccio e Cabala, 90 - VI. La filosofia
contemplativa: i Furori, 120 - VII. Dal Candelaio ai Furori: il pittore, 0
filosofo e l'ombra, 144 - VIII. Filosofia, pittura e poesia: questione di
poetica, 171
191 Nota biografica di Maria Pia Ellero
197 Nota bibliografica di MARIA CRISTINA FlGORILLI
223 Nota filologica di Giovanni Aquilecchia
257 I. CANDELAIO commento di GIORGIO BARBERI SQUAROTTI
Il libro a gli abbeverati nel fonte caballino, 259 - Alla signora Morgana
B., 261 - Argumento et ordine della comedia, 265 - Antiprologo, 274 -
Proprologo, 276 - Bidello, 282 - Atto primo, 283 - Atto secondo, 306 -
Atto terzo, 323 - Atto quarto, 347 - Atto quinto, 374
425 II. LA CENA DE LE CENERI commento di GIOVANNI Aquilecchia
Dedica, 427 - Al mal contento, 429 - Proemiale epistola, 431 - Dialogo
primo, 441 - Dialogo secondo, 466 - Dialogo terzo, 489 - Dialogo quar-
to, 522 - Dialogo quinto, 544 - Appendici, 573
591 III. DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO commento di Giovanni
Aquilecchia
Proemiale epistola, 593 - Dialogo primo, 614 - Dialogo secondo, 645 -
Dialogo terzo, 671 - Dialogo quarto, 700 - Dialogo quinto, 725
A Giovanni Aquilecchia
maestro di studi bruniani
INTRODUZIONE
di
Nuccio Ordine
I risultati di questa introduzione sono frutto di una ricerca che ho condotto
per conto dell'Alexander von Humboldt-Stiftung presso l'Università di Eich-
statt desidero ringraziare il collega e amico Winfried Wehle per l'affettuosa
ospitalità e il comitato scientifico della Humboldt per avermi concesso l'onore
di accogliermi tra i Fellows della Fondazione. La mia gratitudine va anche al
Centre d'Etudes Supérieures de la Renaissance - al suo Direttore, Gerald
Chaix, e ai colleghi, tra cui vorrei ricordare l'indimenticabile Michel Simo-
nin - per avermi offerto, in collaborazione con il C.N.R.S., l'opportunità di
approfondire, durante un proficuo soggiorno di studio a Tours, molti dei temi
che ho qui discusso. Le quattro settimane trascorse a Londra - in qualità di
Visiting presso il Warburg Institute con il sostegno di una British Academy
Professorship - mi hanno consentito di rielaborare e approfondire i paragrafi
dedicati ai rapporti tra pittura e filosofia attraverso la nozione di ombra, che
avevo in parte già discusso in un seminario tenuto nel giugno 2001, sempre
presso il Warburg Institute, in occasione dei «Seminari bruniani» organizzati
dal Centro Intemazionale di Studi Bruniani dell'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici in collaborazione con l'istituzione londinese: alla British Academy,
ai colleghi e alla direzione del Warburg Institute (all'ex direttore Nicholas
Mann e al nuovo direttore Charles Hope) vanno i miei più sentiti ringrazia-
menti. In quell'occasione, per l'ultima volta, ho avuto modo di lavorare fianco
a fianco con Giovanni Aquilecchia: se la malattia che ce lo ha strappato glielo
avesse permesso, avrebbe dovuto concludere lui il ciclo delle lezioni. Ma quel-
l'ultima lezione non tenuta resterà per sempre nel ricordo di tutti noi: l'amore
per la ricerca e la filologia, la generosità con i giovani studiosi, il profondo
rispetto per la deontologia professionale saranno un punto fermo per quanti
hanno avuto la fortuna di intrecciare con Gianni rapporti di amicizia e di
lavoro. Senza di lui e senza i colleghi che hanno collaborato a questa edizione,
tra cui vorrei ricordare (poiché non figurano nel frontespizio) i preziosissimi
Yves Hersant e Alain Segonds, Bruno non avrebbe avuto il «monumento» fi-
lologico che meritava. Monumento voluto soprattutto dall'inesauribile entusia-
smo di Gerardo Marotta, presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filoso-
fici, che dal 1990 ha incoraggiato e sostenuto il progetto dell'edizione critica
Les Belles Lettres, promuovendo inoltre un rilancio degli studi bruniani in
Italia e all'estero senza precedenti. A Marotta - che nella sua battaglia per
l'Europa della cultura ha saputo coniugare ragione e passione, sapere e vita
civile — va la gratitudine di tutti noi.
Una versione ampliata di questa introduzione, con il titolo La soglia del-
l'ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno, apparirà presso l'edi-
tore Marsilio e presso Les Belles Lettres (per la versione francese) contempora-
neamente entro la primavera 2003.
Arcavacata, luglio 2002
Il valore dell'uomo non sta nella verità che
qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella
sincera fatica compiuta per raggiungerla. Perché le
forze che sole aumentano la perfettibilità umana,
non sono accresciute dal possesso, ma dalla ricerca
della verità.
Il possesso rende quieti, indolenti, superbi.
Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la
verità e nella sinistra il solo desiderio sempre vivo
della verità e mi dicesse: scegli! Sia pure a rischio di
sbagliare per sempre e in etemo mi chinerei con
umiltà sulla sua mano sinistra e direi: Padre, dam-
mela! La verità assoluta è per te soltanto.
GoTTHOLD Ephraim Lessino, Etne Duplik (1778)
I.
TRA PARIGI E LONDRA: 1581-1585
Bisogna partire dalle date per comprendere l'eccezionale stagione
del Bruno italiano. A Parigi, nel 1582, viene pubblicata la prima
opera in volgare a noi pervenuta: il Candelaio^. Poi a Londra, in
rapida successione, tra il 1584 e il 1585 vedono la luce i sei dialoghi.
Nel giro di pochi anni si concretizza un itinerario filosofico straordi-
nario che testimonia in maniera esemplare gli interessi enciclopedici
del Nolano.
Non si tratta, come a un primo sguardo superficiale si potrebbe
pensare, di un percorso scollegato, come se i passaggi da un testo al-
l'altro fossero dettati solo da situazioni contingenti, da repentine mu-
tazioni, da strategie legate ad improvvisi eventi. Le opere italiane,
nella struttura di fondo, sono invece il frutto di un disegno filosofico
coerente, sono la testimonianza di un progetto che dalla Cena — ma, in
maniera più informe, anche dal Candelaio - si estende fino ai Furori.
La stessa scelta del volgare per i dialoghi non può essere considera-
ta casuale: se, da una parte, si spiega con la volontà di illustrare la
sua «nova filosofia» con una lingua viva, lontana dal latino pedante-
I. Nella dedica del Candelaio, Bruno allude probabilmente a due sue opere
giovanili andate perdute: «Però, a tempo che ne posseamo toccar la mano, per
la prima vi indrizzai Gli pensier gai; apresso, // tronco d'acqua viva» (p. 262). Ma
ad altri testi in volgare a noi non pervenuti, come l'Arca di Noè, si fa riferi-
mento in alcune opere bruniane e nei documenti del processo.
12 INTRODUZIONE
SCO praticato nelle università, dall'altra, al di là del successo che l'ita-
liano poteva godere nelle due corti ^, va messa soprattutto in relazione
con una consuetudine già ampiamente attestata nei dibattiti filosofi-
ci e scientifici a Parigi, nel milieu vicino a Enrico III, e a Londra, nel-
l'entourage della regina Elisabetta.
Nella corte di Enrico III: lingua, filosofia morale, filosofia, della natura
In Francia, per esempio, dopo la pubblicazione de La défence et il-
lustration de la langue frangaise (1549) "^^ Du Bellay - in cui è possibile
reperire diversi calchi del Dialogo delle lingue di Sperone Speroni^ - si
fa sempre più forte la necessità di usare il volgare anche nella tratta-
tistica dedicata agli argomenti più specialistici. E non a caso, Pontus
de Tyard ribadirà questa esigenza in una dedica indirizzata ad Enri-
co IIP. Rinunciare al latino, per promuovere la complessa architet-
tura unitaria della sua «nova filosofia», significava per il Nolano ope-
rare una scelta ideologica, mettere in gioco una strategia comunicativa
che lo ponesse in sintonia con i circoli che operavano attorno al Va-
lois e alla Tudor. Anche a Londra, infatti, come ha mostrato con fi-
nezza Giovanni Aquilecchia, Bruno continuerà a trovare un ambiente
fortemente favorevole nell'aristocrazia cortigiana che, oltre a vedere
nell'uso del volgare una scelta polemica contro la cultura pedantesca
di Oxford e di Cambridge, aspirava soprattutto a promuovere la circo-
lazione del sapere nelle nuove classi emergenti'.
Sì è vero: Bruno pubblica i dialoghi italiani a Londra, presso la
tipografia di John Charlewood. Ma stampare un'opera in un luogo non
2. Sulla diffusione dell'italiano nell'Inghilterra elisabettiana, con una par-
ticolare attenzione ai manuali e alle grammatiche, si veda Spartaco Gambe-
RiNi, Lo studio dell'italiano in Inghilterra nel '500 e nel '600, Messina-Firenze,
D'Anna, 1970.
3. Cfr. la recente edizione bilingue a cura di Mario Pozzi in cui sono segna-
lati in nota tutti i calchi di Du Bellay: Sperone Speroni, Dialogue des langues,
texte établi par Mario Pozzi, traduction de Gerard Genot et Paul Larivaille,
introduction et notes de Mario Pozzi, Paris, Les Belles Lettres, 2001. Non biso-
gna dimenticare che questo stesso dialogo ebbe un'influenza importante sulla
concezione bruniana della lingua e della traduzione: cfr. Nuccio Ordine,
Théorie de Vimitation, rapport res/verba, traduction. Autour de quelques aspects du
débat sur la langue en Italie au XVF siede [1991], in Le rendez-vous des savoirs.
Littérature, phiktsophie et diplomatie à la Renaissance, Préface de Michel Simo-
nin, Paris, Klincksieck, 1999, pp. 113-118.
4. Su questo aspetto cfr. Isabelle Pantin, La poesie du del en France dans
la seconde moitié du seizième siede, Genève, Droz, 1995, pp. 46-49.
5. Giovanni Aquilecchia, L'adozione del volgare nei dialoghi londinesi di
Giordano Bruno [1953], in Id., Schede bruniane (ig^o-iggi), Manziana, Vecchia-
relli, 1993, pp. 41-63.
INTRODUZIONE I3
significa averla interamente concepita in quel preciso momento. Del
resto, le stesse date parlano chiaro: come avrebbe potuto il Nolano in
solo due anni portare a termine il suo ambizioso progetto filosofico?
Probabilmente, il canovaccio delle sei opere era stato in parte già con-
cepito a Parigi. È qui che Bruno comincia ad abbozzare un percorso
globale che dalla filosofia della natura {Cena, De la causa e Infinito),
passando per la filosofia morale {Spaccio e Cabala), approda alla filoso-
fia contemplativa {Furori). Un percorso che in gran parte coincide con
l'intero arco delle questioni che erano al centro del dibattito nelle riu-
nioni dell'Académie du Palais.
Tra il 1576 e il 1579, infatti, Enrico III si circonda di poeti e di
filosofia per discutere, tra l'altro, di virtù morali e intellettuali. Pur-
troppo solo una parte di queste orazioni, che si tenevano nel Louvre,
furono reperite nell'Ottocento da Édouard Fremy^ e poi arricchite da
Robert J. Sealy con la recente scoperta di due nuovi testi ^. Dietro l'ac-
ceso dibattito sulla superiorità dell'azione o della contemplazione,
sulla definizione delle diverse tipologie di vizi e di virtù, sul ruolo
specifico della collera o dell'onore emerge un vivissimo interesse per le
implicazioni di natura politica e sociale, per gli effetti positivi e nega-
tivi che le passioni possono scatenare nei singoli individui e nella col-
lettività. Si tratta di questioni legate, direttamente o indirettamente, al
forte momento di crisi che stava attraversando la Francia, e buona
parte dell'Europa, a causa delle guerre di religione. Il Re, assieme agli
accademici, si interroga su temi di grande attualità, esprimendo vivo
interesse per la filosofia (in particolare per Platone e per i suoi com-
mentatori: Plotino, Porfirio, Giamblico e Proclo)^, per la storia (soprat-
tutto per Polibio e Tacito) e per il tanto discusso Machiavelli, di cui
6. In una esplicita testimonianza di Claude Binet si dice chiaramente che
il re Enrico III, quando decise di fondare la sua Accademia, «fit choix des plus
doctes hommes de son roiaume, pour apprendre à moindre peine les bonnes
lettres par leurs rare discours, enrichis de plus belle chose qu'on peust recher-
cher sur un sujet, et qu'il debvoient taire chacun à leur tour. Du nombre
desquels furent choisis des premiers avec Ronsard le sieur de Pibrac, qui estoit
autheur de ceste entreprise, et Doron Maistre de Requetes, Tyard Evesque de
Chalons, Baìf, Desportes Abbé de Tyron, et le docte du Perron»: Claude Bi-
net, La vie de Pierre de Ronsard [1586], édition historique et critique avec
introduction et commentaire de Paul Laumonier, Paris, Hachette, 1910 (risi
anast. Genève, Slatkine, 1969), p. 38.
7. Édouard Fremy, L'Académie des Derniers Valois (1570-1585) d'après des
documents nouveaux et inédits, Paris, Ernest Leroux, 1887.
8. Robert J. Sealy, JTie Palace Academy of Henri III, Genève, Droz, 1981,
pp. 180-192.
9. É. Fremy, L'Académie des Derniers Valois (1570-1585) d'après des docu-
ments nouveaux et inédits cit, pp. 122-123.
14 INTRODUZIONE
aveva conoscenza diretta dei Discorsi e del Principe grazie alla media-
zione di Bartolomeo Del Bene'".
Ma nell'Académie du Palais non si dibatte soltanto di filosofia mo-
rale (basterebbe già questo solo aspetto, come vedremo, per capire fino
in fondo la genesi dello Spaccio de la bestia trionfante). Anche la filoso-
fia naturale occupa un posto di primo piano. Diverse testimonianze
alludono al grande interesse che Enrico III mostrava per la cosmolo-
gia e, più in generale, per le scienze naturali. Se Ronsard, nel Bocage
royal («Il a voulu s?avoir ce que peult la Nature»)", e Jacques Amyot,
in una lettera indirizzata a Pontus de Tyard'^, ci parlano della sua
curiosità per i segreti del cielo e della natura, l'ambasciatore inglese,
Dale, informa la regina Elisabetta che a corte si discute «de omni re
scibili»'^.
Tra i membri delle riunioni del Louvre, infatti, non manca l'atten-
zione per lo sviluppo delle diverse ipotesi cosmologiche e per le teorie
sull'infinità dei mondi. Nei dialoghi di Guy de Brues. Ronsard e An-
toine de Baif conversano, proprio nelle vesti di accademici, con Pla-
tone e Ficino e con altri filosofi antichi e contemporanei: mentre il
principe della Plèiade esprime seri dubbi sull'esistenza di altri mondi,
Baif sembra piuttosto aperto alle tesi di Copernico sulla mobilità della
Terra'"*. Ma su questi temi interviene in maniera più esplicita Pontus
de Tyard, influente animatore dell'Académie du Palais e traduttore
10. «Ma il Re [Enrico III], confidandosi nella occulta machina de' suoi di-
segni, che a lui sembravano ottimamente incaminati, stimava finalmente do-
vere con grande facilità superare tutte le opposizioni; e per indirizzare più re-
golarmente il filo del suo disegno aggiungendo la teoria alla pratica, si ridu-
ceva ogni giorno dopo pranzo con Baccio Del Bene e con Giacopo Corbinelli,
fiorentini, uomini di molte lettere greche e latine, da' quali si faceva leggere
Polibio, Cornelio Tacito, e molto più spesso i Discorsi e il Prencipe del Machia-
velli»: Enrico Caterino Davila, Storia delle guerre civili di Francia, a cura di
Mario d'Addio e Luigi Cambino, Roma. Istituto Poligrafico e zecca dello Stato,
1990. t I, p. 419. Cfr. anche Pierre Chevallier, Henri III. Paris, Fayard,
1985. pp. 394-395. Sui rapporti Bruno-Machiavelli vedi infra pp. 102-104.
11. «Il a voulu sgavoir ce que peult la Nature, / Et de quel pas marchoit la
premiere closture / Du ciel, qui toumoyant se ressuit en son cours, / Et du
Soleil qui faict le sien tout au rebours»: Ronsard, Bocage royale. in (Eiivres
contplétes. édition établie, présentée et annotée par Jean Céard. Daniel Ménager
et Michel Simonin, Paris, Gallimard, 1994. t II, vv. 201-204, p. 12 (tutte le
citazioni di Ronsard si riferiranno ai due volumi di questa edizione).
12. «Je fus bien aise, l'aultre jour que je receu vostre lettre [...] d'entendre
l'honeste occupation que prent le Roy de vous ouyr discourir de la constitu-
tions & muvement du ciel»: cit. in Frances A. Vates, Les académies en France
au XVr siede [London 1947], Paris. Puf, 1994, p. 130.
13. Pierre Che\'.\llier, Henri III cit, p. 490.
14. Su questi temi cfr. F. A. Yates, La philosophie naturelle des académies,
in Les académies en France au XVP siede cit., pp. 125-137.
INTRODUZIONE I5
dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo'^. Riprende apertamente, infatti,
la teoria copernicana nei Deux discours de la nature du monde et de ses
parties, dedicati a Enrico III per la sua «tres bonne et tres certaine
intelligence du subiet»"^. Qui, sullo sfondo di un antiaristotelismo per-
sistente, viene contestata la teoria dell'incorruttibilità delle cose celesti
e viene accolta favorevolmente l'ipotesi dell'esistenza della vita in al-
tri lontani mondi ''. Anche Jacques Davy Du Perron, potente accade-
mico e «professeur du roi aux Langues, Mathématiques et Philo-
sophie», sembra manifestare simpatie per le tesi di Copernico '^ e per il
lavoro di Tyard, come testimonia la sua prefazione ai Deux discours^"^.
Non è difficile immaginare che sin dal suo arrivo a Parigi, tra
l'estate e l'autunno del 1581, Bruno sia entrato in contatto con il mi-
lieu legato ad Enrico III. Dalle dichiarazioni autobiografiche del pro-
cesso si evince che si impegnò subito in una serie di lezioni dedicate al
commento dei «trenta attributi divini», ricavati dalla prima parte
della Summa di San Tommaso, con l'obiettivo di «farmi conoscer et
far saggio di me» 20. E i risultati non tardarono ad arrivare. Prima
l'offerta di «pigliar una lettione ordinaria», che Bruno rifiuta per
non piegarsi all'obbligo di partecipare alla «messa et alli altri divini
15. LEON HÉBRIEU, De l'amour, Lyon, J. de Toumes, issi-
lo. PoNTUS DE Tyard, Deux Discours de la nature du monde et de ses parties
a scavoir, le Premier Curieux traittant des choses matérielles, et le Second Curieux,
des intellectuelles, Paris, M. Patisson, 1578, e. aiii; ma si veda anche l'edizione
inglese: The Universe (Premier et Second Curieux), ed. J. C. Lapp, Ithaca-New
York, Cornell University Press, 1950. Sulla produzione scientifica di Tyard rin-
viamo a: K. M. Hall, Pontus de Tyard and his Discours philosophiques, Oxford,
1983; Eva Kushner, Pontus de Tyard dans le contexte de la revolution scientifi-
que, in «Revue d'études frangaises», 2 (1997), pp. 213-222; I. Pantin, La poesie
du del en Trance dans la seconde moitié du seizième siede cit., ad indicem; Mi-
chel Lerner, Le monde des sphères. IL La fin du cosmos classique, Paris, Les
Belles Lettres, 1997, p. 13. Giovanni Aquilecchia. nella sua nota 67 alla Cena
(infra, p. 542), segnala che Bruno e Tyard hanno forse commesso lo stesso er-
rore nell'interpretazione di un passaggio del De revolutionibus di Copernico.
17. Cfr. F. A. Yates, La philosophie naturelle des académies, in Id., Les aca-
démies en Trance au XVF siede cit., pp. 128-129.
18. Ibidem, pp. 130-132.
19. Jacques Davy du Perron, Préface à Pontus de Tyard, Deux Discours,
cit., e. aVr (cfr. F. A. Yates, Les académies en Trance au XVF siede cit, p. 117).
20. «Et doppoi per le guerre civili me parti et andai a Paris, dove me messi
a legger una lettion straordinaria per farmi conoscer et far saggio di me; et lessi
trenta lettioni et pigliai per materia trenta attributi divini, tolti da Santo
Thoma dalla prima parte»: Luigi Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura
di Diego Quaglioni, Roma, Salerno editrice, 1993 (doc. 11), p. 161. Di questi
documenti bruniani curati da Firpo è uscita recentemente in Francia un'edi-
zione bilingue a cura di Alain Segonds che si segnala per il sostanzioso ap-
parato di note supplementari: Giordano Bruno, CEuvres complètes, Documents.
I. Le procès, introduction et notes de Luigi Firpo, traduction et notes de Alain
Ph. Segonds, Paris, Les Belles Lettres, 2000, p. 49.
l6 INTRODUZIONE
offitii»2>. Poi l'invito a corte, voluto personalmente dal re di Fran-
cia:
Et leggendo quella [lettionj estraordinaria, acquistai nome tale che il
re Henrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria
che havevo et che professava era naturale o pur per arte magica; al qual
diedi sodisfattione; et con quello che li dissi et feci provare a lui medesmo,
conobbe che non era per arte magica ma per scientia. Et doppo questo feci
stampar un libro de memoria sotto titolo De utnbris idearum, il qual dedi-
cai a Sua Maestà; et con questa occasione mi fece lettor straordinario et
provisionato 22.
L'incontro con Enrico III sembra essere favorito soprattutto dal-
l'interesse per le arti della memoria, condiviso in parte anche dal Du
Perron^^ e dallo stesso Michel de Castelnau, ambasciatore francese in
Inghilterra^''. Non a caso, nel 1582, dopo aver dedicato il De umbris
idearum al re di Francia^', Bruno ottiene il prestigioso incarico di
«lecteur» presso il Collège Royal, sulle cui basi nascerà l'attuale Col-
lège de France. Fondata da Francesco I, questa nobile istituzione
aveva soprattutto il compito di offrire agli studiosi anticonformisti
quella libertà che la Sorbonne non permetteva, a causa del suo rigido
aristotelismo^"^.
21. «et doppoi essendo sta' ricercato a pigliar una lettione ordinaria, restai
[Biov] et non volsi accettarla, perché li lettori publici di essa città vanno or-
dinariamente a messa et alli altri divini offitii. Et io ho sempre fugito questo,
sapendo che ero scommunicato per esser uscito dalla religione et haver depo-
sto l'habito; che se bene in Tolosa hebbi quella lettione ordinaria, non ero però
obligato a questo, come sarei stato in detta città de Paris, quando havesse ac-
cettato la detta lettion ordinaria»: Ibidem (ed. frane, pp. 49-51).
22. Ibidem, pp. 161-162 (ed. frane, p. 51).
23. Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi ed
inediti, préface de Nuccio Ordine, Paris-Turin, Les Belles Lettres-Nino Aragno
Editore, 2000 [réempr. anast., Messina 1921], p. 313.
24. Ronsard, in un sonetto dedicato al Castelnau, lo descrive come «Plein
de faconde, et de memoire hereuse» ((Euvres complètes cit, t. II, p. 424; cfr.
infra, p. 95). Castelnau, su richiesta del cardinale di Lorena, avrebbe ripetuto a
memoria un sermone di Jean de Montluc: cfr. Gustave Hubault, Ambassade
de Michel de Castelnau en Angleterre (1575-1585), Saint-Cloud, Belin, 1856 (rééd.
anast. Genève, Slatkine, 1970), p. 2. Non a caso Bruno dedica all'ambasciatore
francese anche un'opera di mnemotecnica, VExplicatio triginta sigillonim.
25. Bruno, nella dedica indirizzata a Enrico III, loda la magnanimità e la
saggezza del re, offrendogli la sua opera per studiarla e proteggerla: cfr. Gior-
dano Bruno, De umbris idearum, a cura di Rita Sturlese, premessa di Eugenio
Garin, Firenze, Olschki, 1991, p. 5.
26. Per una storia delle origini e del ruolo del Collège de France si vedano
ora i saggi pubblicati in Les origines du Collège de France (1500-1360), Acte du
Colloque International (Paris, décembre 1995), sous la direction de Marc Fuma-
roli, textes réunis par Marianne Lion-Violet, Paris, Klincksieck, 1998.
INTRODUZIONE X'J
Proprio all'interno di questo milieu favorevole, Bruno lavora con
grande impegno. In un solo anno pubblica tre trattati mnemotecnici
in latino {De umbris idearum, Cantus circaeus e De compendiosa architec-
tura) e il Candelaio. La sua presenza a Parigi, al di là degli onori con-
cessigli da Enrico III, non passa certo inosservata. Anzi, come il No-
lano stesso ricorderà tempo dopo a Wittenberg in un brano dell'^cro-
tismus indirizzato al rettore Jean Filesac, molti colleghi nella capitale
francese non esitarono a considerarlo membro deir«alma mater» delle
lettere:
Dum non modo communi quadam, qua erga omnes affecti estis huma-
nitate, verum etiam certa haud vulgari ratione me vobis devinxistis, ubi
tum in pubblicis, tum et in privatis lectionibus, continua doctiorum adsi-
stentia negocium studii mei concelebrastis, adeo ut nuUus mihi de me mi-
nus, quam extranei, in hac alma literarum parente, titulus occurrere po-
tuerit unquam^^.
Non bisogna dimenticare che, sebbene in tono minore, nei primi
anni ottanta gli accademici legati al re di Francia erano ancora attivi.
Il loro interesse per la filosofia naturale e per la filosofia morale e con-
templativa traduceva il desiderio di avere una visione globale del sa-
pere. Basta rileggere il lavoro fondamentale della Yates sulle accade-
mie francesi, di cui ci siamo qua e là serviti, per seguire nei dettagli la
nascita e l'evoluzione dei vari dibattiti al centro delle riunioni, con una
particolare attenzione per le implicazioni politiche e religiose delle tesi
discusse. Non abbiamo documenti che attestino la partecipazione di
Bruno agli incontri voluti da Enrico III. Ma, nello stesso tempo, ci riesce
difficile immaginare che il Nolano non abbia avuto contatti diretti o
indiretti con alcuni accademici. Nel caso dello Spaccio, come vedremo,
emerge con chiarezza la conoscenza di tematiche ampiamente dibat-
tute a corte da autorevoli personaggi dell'Académie du Palais, tra cui
spicca Ronsard per la sua battaglia militante contro le guerre civili e
per la sua concezione della religione come cemento sociale.
Questa ipotesi, fondata su un dialogo a distanza tra le tesi di fondo
sostenute nelle opere londinesi e i dibattiti che si svolgevano al Lou-
vre, avrebbe potuto trovare sviluppo circa vent'anni dopo nei succes-
sivi lavori della Yates, direttamente dedicati a Bruno. Ma in Giordano
27. Giordano Bruno, Acrotismus camoeracensis, in Opera latine conscripta,
publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V. Im-
briani, C. M. Tallarigo], apud Dom. Morano [Florentiae, typis successorum Le
Monnier], Neapoli, 1879-1891, t. I-i, p. 57. Per le opere latine (salvo il De um-
bris idearum citato dall'edizione critica della Sturlese) terremo sempre presente
questa edizione, indicata con l'abbreviazione Opp. lat.
l8 INTRODUZIONE
Bruno e la tradizione ermetica e nelVArte della memoria^^ la studiosa
inglese abbandona completamente le promettenti tracce che aveva in-
dividuato nei suoi preziosi saggi sulle accademie francesi e sulle tur-
bolenti vicende politico-religiose di quel particolare decennio^'* per ab-
bracciare, invece, una lettura della «nolana filosofia» in una chiave
esclusivamente ermetica '°.
La corte di Elisabetta e lo scontro con i pedanti di Oxford
Eppure, sarebbe difficile credere a una sfilacciatura dei rapporti
con il milieu parigino durante il soggiorno in Inghilterra. Non bisogna
dimenticare che Bruno attraversa la Manica, presumibilmente nel-
l'aprile del 1583, con in tasca una lettera di raccomandazione di En-
rico III per il suo ambasciatore, Michel de Castelnau. Se è difficile co-
noscere nei dettagli le circostanze che spinsero il Nolano ad abbando-
nare Parigi - dai documenti del processo si evince genericamente che
il viaggio fu dovuto allo scoppio di «tumulti che nacquero doppo» -,
resta però evidente che il filosofo fu accolto amicalmente nell'amba-
sciata di Londra, dove viveva da «gentilhomo»'' e dove, da posizione
28. Frances a. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica [1964], Bari,
Laterza, 1969; Io., L'arte della memoria [1966], Torino, Einaudi, 1972, pp. 183-
296.
29. La gran parte di questi saggi pubblicati tra gli anni trenta e cinquanta,
assieme a qualche altro intervento, sono ora raccolti in Frances A. Yates,
Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, introduzione di Eugenio
Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988.
30. Senza sminuire i meriti di queste due ultime opere della Yates, la cri-
tica bruniana ha recentemente messo in evidenza i limiti di una interpreta-
zione panermetica delle opere bruniane. Si vedano, almeno: G. Aquilecchia,
Schede bruniane cit, pp. 41-63 e pp. ZTS'ZIT- Paolo Rossi, Hermeticism, Ratio-
nality and the Scientific Revolution, in Reason, Experiment and Mysticism in the
Scientific Revolution, a cura di R. W. Shea, New York, 1973, pp. 247-273; R.
Westman, Magical Reform and Astronomical Reform. The Yates Thesis reconside-
red, in Hermeticism and the Scientific Revolution, Los Angeles, 1977; Biagio de
Giovanni, Lo spazio della vita fra G. Bruno e T. Campanella, in «il Centauro»,
11-12 (1984), pp. 15-16; Michele Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione
di Giordano Bruno. Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 9-11; N. Ordine, La cabala
dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Napoli, Liguori, 1996^, p. 219;
Rita Sturlese, Per un'interpretazione del De umbris idearum di Giordano
Bruno, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e
Filosofia, XXII (1992). pp. 943-968 (in questo saggio è possibile ritrovare la
migliore spiegazione del complesso meccanismo mnemotecnico delle ruote nel
De umbris); Nicola Badaloni, // De umbris idearum come discorso sul metodo.
in «Paradigmi», XVIIII (2000), pp. 161-195.
31. E «per li tumulti che nacquero doppo, pigliai licentia et con littere
dell'istesso Re andai in [Biir] Inghilterra a star con l'ambasciator di Sua Mae-
stà, che si chiamava il signor della Malviciera, per nome Michel de Castelnovo;
INTRODUZIONE IQ
privilegiata, poteva avere ogni tipo di informazione sugli avvenimenti
francesi.
Neanche l'arrivo sull'isola britannica passò inosservato. Poco
tempo prima dell'imbarco, infatti, l'ambasciatore inglese a Parigi,
Henry Cobham, invia il 25 marzo 1583 un dispaccio a Francis Wal-
singham, segretario della Regina, in cui si annuncia l'intenzione di
Bruno di raggiungere l'Inghilterra. Nel presentarlo come «professor in
philosophy», il diplomatico non perde l'occasione di lanciare nelle po-
che righe un esplicito avvertimento: «whose religion I cannot com-
mend»'-.
Dall'importante testimonianza di George Abbot, che lascerà succes-
sivamente Oxford per ricoprire l'incarico di arcivescovo di Canter-
bury, si evince come ancora una volta il Nolano fosse mosso da un
grande desiderio di farsi conoscere «by some worthy exploite»". Non
appena oltrepassata la Manica, infatti, decide di dar prova di sé, di
manifestare immediatamente il valore del suo pensiero e della sua
«nova filosofia». E l'occasione gli si presentò quasi subito nel giugno
del 1583, quando, al seguito del conte palatino Alberto Laski'-*, si recò
in visita a Oxford. Qui, in una città che si era resa celebre per i suoi
studi e per le sue preziose biblioteche, Bruno si rese protagonista di
una disputa pubblica con il teologo John Underhill, nominato l'anno
dopo vice-cancelliere dell'università, e con altri illustri accademici. Di
questo primo episodio, segnalato dall'Harvey'', non parlano né Abbot,
che all'epoca era membro del Balliol College, né le cronache legate alla
visita del conte. Ma se ne potrebbe trovare conferma in un passaggio
in casa del qual non faceva altro, se non che stava per suo gentilhomo»: Luigi
Firpo, B processo di Giordano Bruno cit. (doc. 11), p. 162 (ed. frane, p. 51).
32. «Il Sr. Doctor Jordano Bruno, Nolano, a professor in philosophy, in-
tends to pass in to England; whose religion I cannot commend»: Calendar of
State Papers, Foreign Series, of the Reign of Elizabeth, January-June 1583, and
Addenda. Preserved in the Public Record Office, Edited by A.J. Butler and Sophie
Crawford Lomàs, London 1913; ora in G. Aquilecchia, Giordano Bruno in In-
ghilterra (1583-1585). Documenti e testimonianze, in «Bruniana & CampanelHa-
na», n. 1-2 (1995), p. 24.
33. George Abbot, The Reasons which Doctor Hill hath brough, Oxford, J.
Barnes, 1604, p. 303. Cfr. G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra (1583-
1585). Documenti e testimonianze cit, p. 33.
34. Non bisogna dimenticare che il Laski era al servizio di Enrico, durante
il suo breve regno in Polonia. Dopo la rocambolesca fuga del Valois nel 1574,
infatti, fu proprio lui ad adoperarsi per placare i sentimenti antifrancesi. Su
questi aspetti si veda Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno con do-
cumenti editi ed inediti cit., p. 340.
35. Cfr. G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra (1583-1585). Docu-
menti e testimonianze cit., pp. 26-28.
20 INTRODUZIONE
della Cena, dove Frulla allude esplicitamente a uno scontro avvenuto
in presenza del Laski:
E se non il credete, andate in Oxonia e fatevi raccontar le cose intra-
venute al Nolano, quando publicamente disputò con que' dottori in teolo-
gia in presenza del prencipe Alasco polacco, et altri della nobilita inglesa;
fatevi dire come si sapea rispondere a gli argomenti: come restò per quin-
deci sillogismi, quindeci volte qual pulcino entro la stoppa quel povero
dottor, che come il corifeo dell'Academia ne puosero avanti in questa
grave occasione; fatevi dire con quanta incivilita e discortesia procedea
quel porco, e con quanta pazienza et umanità quell'altro che in fatto mo-
strava essere napolitano nato et allevato sotto più benigno cielo '^.
La testimonianza di Abbot, invece, si fa preziosa quando riferisce
di un corso che il Nolano tenne a Oxford, in cui probabilmente anti-
cipò alcuni temi cosmologici in chiave copernicana che avrebbero tro-
vato poi sviluppo nei dialoghi londinesi. Ma anche questo secondo
soggiorno oxoniense si concluse in maniera traumatica. Il futuro arci-
vescovo di Canterbury, infatti, racconta che un personaggio influente
(probabilmente Martin Culpepper, membro del New College) si accorse,
sin dalla prima lezione, di un possibile plagio ai danni di Marsilio
Ficino, con calchi letterali tratti soprattutto dal De vita. E - in ac-
cordo con Tobie Matthew, decano del Christ Church - decise, senza
provocare scandalo, di informare il Nolano delle sue scoperte per in-
vitarlo ad interrompere le lezioni. Indipendentemente dall'attendibi-
lità di questa versione (che, come giustamente ricorda Aquilecchia, fu
pubblicata molti anni dopo i violenti attacchi di Bruno ai pedanti di
Oxford) ^^, resta certa la notizia del suo breve insegnamento e di un'in-
terruzione improvvisa dello stesso, ricordata anche nel già menzionato
passaggio della Cena («Informatevi come gli han fatte finire le sue pu-
bliche letture, e quelle de immortalìtate animae, e quelle de quintuplici
sphera»y^.
L'incidente oxoniense, come è possibile immaginare, non ebbe con-
seguenze positive. Il Nolano rientrò a Londra, dall'ambasciatore Ca-
stelnau, con un forte risentimento contro il milieu accademico, contro
un sapere ridotto a puro esercizio grammaticale, contro il predominio
della teologia sulla filosofia. In effetti la Oxford conosciuta da Bruno
era in preda, già da qualche decennio, a una forte crisi di identità. La
36. Cena, pp. 534-535-
37. Giovanni Aquilecchia, Giordano Bruno, Torino, Nino Aragno Editore,
2001, p. 38 (in appendice a questo volume è contenuta una Bibliografia delle
pubblicazioni [ig46-20oo] di Giovanni Aquilecchia a cura di Tiziana Prowidera).
38. Cena, p. 535.
INTRODUZIONE 21
penetrazione del protestantesimo nelle università inglesi aveva scate-
nato una guerra senza precedenti contro la cultura medievale, consi-
derata al servizio della Chiesa di Roma. Dai dati di un'inchiesta, con-
dotta intomo al 1550, le biblioteche oxoniensi erano state saccheggiate
da fanatici che avevano osato perfino distruggere i libri in roghi alle-
stiti nelle piazze più importanti^''. Lx) stesso destino toccò anche a pre-
ziosi manoscritti, sotto gli occhi atterriti di cattolici e protestanti mo-
derati.
Nella Cena e nel De la causa, come vedremo, Bruno aggredisce con
estrema fermezza la stupidità dei grammatici di Oxford, dei pedanti
incapaci di uscire dagli angusti confini di un sapere sterile e dogma-
tico. Se nel primo dialogo Torquato e Nundinio vengono ridotti a ca-
ricatura dei dottori oxoniensi, nel secondo viene operata una sottile
distinzione tra l'inutile culto della parola esercitato da questi imitatori
dei classici e la vera cultura degli Antichi che «poco solleciti de l'elo-
quenza e rigor grammaticale, erano tutti intenti alle speculazioni, che
da costoro son chiamate sofismi »■*". Di fronte al diffondersi dell'igno-
ranza nelle università, insomma, il Nolano non esita a tessere l'elogio
della Oxford medievale, a considerare più feconda la metafisica aristo-
telica («quantumque impura et insporcata con certe vane conclusioni
e teoremi, che non sono filosofici né teologali») di quei monaci («quan-
tumque barbari di lingua e cuculiati di professione») che il vano eser-
cizio di «questi de la presente etade con tutta la lor ciceroniana elo-
quenza et arte declamatoria »''^
Bruno coglie con chiarezza la frattura che si era creata tra Oxford,
sempre più legata ad un intollerante umanesimo aristotelico, e il mi-
lieu londinese, pronto ad accogliere invece le recenti ipotesi scientifi-
che e una concezione meno dogmatica del sapere. La corte di Elisa-
betta, infatti, aveva giocato un ruolo importante nell'incoraggiare
l'apertura di nuovi orizzonti culturali. Sotto la protezione di autore-
voli personaggi dell'aristocrazia londinese trovano spazio autori e libri
che non avrebbero avuto fortuna nel perimetro assai chiuso delle uni-
versità.
Già negli anni Cinquanta, infatti, è possibile reperire tracce delle
teorie copernicane nel Gasile of Knowledge di Robert Recorde e nella
39. Anthony à Wood, The History and Antiquities of the University of
Oxford, by John Gutch, Oxford, Printed for the Editor, 1792-1796, v. II, i""
parte, p. 108 (cit. da F. Yates, Giordano Bruno e la disputa con i dottori di
Oxford, in Id., Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento cit, p. 13).
40. De la causa, pp. 630-631.
41. Ibidem, p. 631.
22 INTRODUZIONE
Ephemeris anni 1557 cnrrentis iuxta Copernici et Reinholdi canones di
John Field, in cui appare anche una significativa prefazione di John
Dee, autorevole punto di riferimento per buona parte della nobiltà
cortigiana. Spetta a Thomas Digges nel 1576, invece, la prima parziale
traduzione del De revolutionibus, inserita nella ristampa del volume di
suo padre, A Prognostication Everlasting, pubblicato in prima edizione,
con un diverso titolo, nel 1553"^^.
A ben riflettere, quindi, anche a Londra Bruno finirà per trovare
un ambiente potenzialmente favorevole alla diffusione della sua «no-
va filosofia». In poco tempo, grazie anche alle mediazioni del Castel-
nau, viene accolto a corte, dove incontra la regina Elisabetta e i mem-
bri più autorevoli dei vari circoli filosofici e letterari. Intreccia rap-
porti di amicizia con il poeta Philip Sidney (genero di Francis
Walsingham), con William Cecil («gran tesorier del regno»)-*', con Ro-
bert Dudley (che annoverava tra i suoi protetti anche Pietro Ubaldini
e Tommaso Sassetto), con Fulke Greville, con Giovanni Florio, con
Matthew Gwinne: personaggi influenti che, in relazione alla loro fun-
zione, giocheranno proporzionalmente un ruolo più o meno impor-
tante nei dialoghi italiani.
L'idillio con una parte del milieu londinese purtroppo non durò a
lungo. La pubblicazione della Cena provocò le prime forti lacerazioni
non solo per gli attacchi ai teologi di Oxford («molti dottori di questa
patria co i quali ha raggionato di lettere, ha trovato nel modo di pro-
cedere aver più del bifolco, che d'altro che si potesse desiderare»)-*'*,
ma anche per le dure considerazioni sugli incivili costumi della plebe
britannica:
[...] ma importunissimamente, a dispetto del mondo ne viene a propo-
sito una plebe, la quale in esser plebe non è inferiore a plebe alcuna, che
pasca nel suo seno la pur troppa prodiga terra: perché questa veramente
dà saggio di plebe de tutte le plebe che io possa aver sin ora conosciute
irrevente, irrespettevole, di nulla civilità, male allevate. Quando vede un
forastiero, sembra (per dio) tanti lupi e tanti orsi: e con il suo torvo aspetto
gli fanno quel viso, che saprebbe far un porco ad un che venesse a torgli il
tino d'avanti-*'.
Le lodi alla Regina (non a caso, nella seconda redazione della Cena,
elogiata anche per «l'ospitalità e cortesia, co la quale accoglie ogni
42. Giovanni Aquilecchia, Giordano Bruno cit, pp. 41-42.
43. Cena, p. 582.
44. Ibidem, p. 467.
45. Ibidem, pp. 479-480.
INTRODUZIONE 23
sorte di forastiero»)'*^ e ai gentiluomini di corte riuscirono solo in
parte a compensare i passaggi dedicati al degrado di «arteggiani e bot-
tegari», descritti come esseri bestiali, come «animali urtativi» in grado
di deridere e aggredire ogni sorta di straniero'^''. Le reazioni di protesta
furono immediate e su Bruno si abbatté una vera e propria tempesta,
di cui si ritrovano tracce eloquenti nella dedica al De la causa. Sol-
tanto tra le mura dell'ambasciata, grazie alla protezione concessagli
dal Castelnau, fu possibile scampare «a sì rapido torrente di criminali
imposture w-'s. Un chiarimento si rendeva comunque necessario. E il
Nolano non esitò a spiegare che con quelle pagine non intendeva of-
fendere «tutto un regno» («Dicono di voi. Teofilo, che in quella vostra
cena tassate et ingiuriate tutta una città, tutta una provinzia, tutto un
regno»), ma esclusivamente il comportamento di una rozza mino-
ranza:
Questo mai pensai, mai intesi, mai feci: e se l'avesse pensato, inteso, o
fatto, io mi condennarei pessimo, e sarrei apparecchiato a mille retratta-
zioni, a mille revocazioni, a mille palinodie; non solamente s'io avesse in-
giuriato un nobile et antico regno come è questo, ma qualsivogli'altro
quantumque stimato barbaro: non solamente dico qualsivoglia città quan-
tumque diffamata incivile, ma e qualsivoglia lignaggio, quantumque di-
volgato salvaggio; ma e qualsivoglia fameglia, quantumque nominata ino-
spitale: per che non può essere regno, città, prole o casa intiera la quale
esser possa o si deve presupponere d'un medesimo umore, e dove non pos-
sano essere oppositi e contrarii costumi; di sorte che quel piace a l'uno,
non possa dispiacere a l'altro^'''.
Nonostante la significativa offerta di Filoteo, disponibile addirit-
tura ad interrompere la circolazione dell'opera incriminata, e le rassi-
curazioni del nobile inglese Annesso, pronto a riconoscere la buona
fede del filosofo e a ricondurre il conflitto a un pernicioso malinteso, i
«romori» scatenati dal primo dialogo finirono inevitabilmente per
alienare una parte delle simpatie che Bruno aveva conquistato sin dal
suo arrivo a Londra. Oltretutto, come le varianti della doppia reda-
zione della Cena rivelano, il Nolano in quell'occasione si trovò ad ope-
rare anche una scelta di campo, abbracciando il partito di Robert Du-
46. Ibidem, p. 478.
47. Ibidem, pp. 480-488 (ma si veda anche la redazione primitiva: Ibidem,
pp. 583-587). Sul topos della satira antibritannica si veda V. Spampanato, Vita
di Giordano Bruno con documenti editi ed inediti cit., p. 366.
48. De la causa, p. 594.
49. Ibidem, p. 625.
24 INTRODUZIONE
dley, in seguito all'improvviso conflitto con William Cecil, scoppiato
mentre il testo era sotto i torchi nella tipografia di Charlewood 5°.
A Parigi e a Londra: analogie dei due milieux
Alla luce di questa sintetica ricostruzione del milieu in cui Bruno si
trovò ad operare tra il 1581 e il 1585, emergono con chiarezza alcune
analogie che caratterizzano il suo soggiorno a Parigi e in Inghilterra.
Innanzitutto, la sua decisa volontà di conquistare immediatamente
uno spazio di rilievo da cui poter operare per diffondere la sua «nova
filosofia». Un obiettivo che il Nolano vuole raggiungere facendo leva
esclusivamente sulla forza del suo sapere e del suo pensiero, senza pie-
garsi alle diffuse pratiche di una cortigiania conformista e subalterna
ai gruppi di potere. Naturalmente, egli sa che senza l'appoggio dell'ari-
stocrazia più influente e, addirittura, senza i favori del Re o della Re-
gina è difficile trovare ascolto, insegnare, pubblicare, lavorare in pace
e avere proseliti. Ma la necessità del compromesso — e questo è un
tratto che ha caratterizzato tutta la vita di Bruno fino alla terribile
esperienza del rogo - non avrebbe potuto spingersi fino a mettere in
causa i nuclei portanti della sua filosofia. Ecco perché, nelle molteplici
tappe del suo peregrinare europeo, il Nolano è stato capace di rinun-
ciare a ogni privilegio, mostrando di essere sempre pronto ad intra-
prendere un nuovo viaggio nella speranza di raggiungere un luogo
dove poter filosofare in libertà.
A Parigi e a Londra, in effetti, Enrico III ed Elisabetta accolsero
Bruno con simpatia. I circoli di corte si ponevano, in entrambi i casi,
in una posizione antagonistica rispetto al conformismo delle univer-
sità. Se nella capitale francese l'Académie e il Collège Royal promuo-
vono saperi e proteggono insegnanti che difficilmente avrebbero tro-
vato posto nella Sorbonne, anche a Londra l'aristocrazia cortigiana fa-
vorisce la nascita di cenacoli scientifici molto lontani, per metodo e
per interessi, dalle aule di Oxford e di Cambridge. Bruno, attraverso la
sua diretta esperienza, ebbe modo di verificare la gravità di questa
frattura e non esitò, al di qua e al di là della Manica, a operare una
scelta di campo, vicina agli schieramenti fedeli al Re in Francia e alla
Regina in Inghilterra.
In particolare - ma su questo tema ritorneremo nel paragrafo de-
dicato allo Spaccio - le due monarchie, pur partendo da realtà diffe-
renti e operando scelte molto diverse nel delicato campo della politica
50. Cfr. G. Aquilecchia, Giordano Bruno cit, pp. 42-45.
INTRODUZIONE 25
estera, si ritrovarono a combattere sul fronte intemo una battaglia che
presentava significative analogie. Analogie che Bruno stesso metterà
in risalto nei ripetuti elogi indirizzati ai due regnanti in diverse pa-
gine dei dialoghi londinesi. Il Nolano capisce che soprattutto nella
concezione della religione è possibile individuare una serie di punti
comuni: il Valois e la Tudor, infatti, considerano il culto al servizio
dello Stato e della «civile conversazione», cercando con ogni mezzo di
distruggere i fanatismi religiosi. Entrambi, insomma, aspirano alla
pace, promuovono una politica di equidistanza dai settarismi cattolici
e protestanti e, in particolar modo, manifestano apertamente il loro
amore per la giustizia e per il sapere.
Certamente, il re di Francia si trova a vivere in una situazione ben
più difficile e avvelenata dalla ferocia della guerra civile. Ma non
perde occasioni di adattare alle nuove esigenze la strategia inaugurata
da sua madre, Caterina de' Medici, all'indomani della morte di Enri-
co II: in una totale indifferenza per il culto religioso, la Regina madre
aveva cercato di neutralizzare le opposte fazioni accordando conces-
sioni e riconoscimenti giuridici solo in funzione degli interessi della
Corona. Anche Enrico III cerca di mantenere un'equidistanza dagli
estremismi cattolici della Ligue e dagli estremismi protestanti degli
ugonotti. Dietro ogni decisione, finalizzata ad indebolire i blocchi an-
tagonisti, si ritrova la precisa volontà di conservare sani e salvi lo
Stato e il potere dei Valois.
Dall'altra parte della Manica, in un contesto molto meno agitato di
quello francese ma ugualmente complesso, Elisabetta non esita a pro-
muovere una strategia di indipendenza dai fanatismi cattolici e prote-
stanti. Anche l'anglicanesimo, in sostanza, riconosce alla religione la
funzione di instrumentum regni, di vincolo sociale al servizio dello
Stato e del potere monarchico'^. In difesa di questi valori, la Tudor
promuove, con durissime decisioni, campagne repressive contro le fa-
zioni rivali. Se nel 1580 il pugno di ferro si abbatte sui Gesuiti, nel
1583, invece, l'elezione di John Whitgift all'arcivescovato di Canter-
bury dà il via ad una feroce reazione al puritanesimo".
51. Sulla politica religiosa della regina Elisabetta cfr. Joseph Lecler, Hi-
stoire de la tolérance au siede de la Réforme, Paris, Albin Michel. 1994, pp. 697-
734; Roland H. Bainton, Sincretismo e compromesso nell'anglicanesimo, in La
riforma protestante, prefazione di Delio Cantimori, appendice bibliografica a
cura di Leandro Perini, Torino, Einaudi, 1958, pp. 190-193; HuGH Trevor-
ROPER, Protestantesimo e trasformazione sociale, Roma-Bari, Laterza, 1994, p.
269; Gilberto Sacerdoti, Caccia al cervo e potestas ecclesiastica in Pene
d'amore perdute, in «Intersezioni», 17 (1997), pp. 229-249.
52. Joseph Lecler, Histoire de la tolérance au siede de la Réforme cit., pp.
721-734.
26 INTRODUZIONE
Dalla sua specola privilegiata. Bruno intuisce le affinità che po-
trebbero legare Enrico III ad Elisabetta, la Francia all'Inghilterra.
Ma, in maniera particolare, coglie l'importanza di un'alleanza che,
oltre a favorire la pace, segnerebbe soprattutto il primato della fi-
losofia sulla teologia. Senza questo contesto, sarebbe difficile capire
la genesi delle opere italiane e gli interlocutori con cui il Nolano
intende dialogare. L'esperienza parigina e quella inglese non possono
essere scisse, non possono essere considerate come momenti separati.
Bruno pubblica a Londra, ma con un occhio rivolto alla situazione
inglese e con l'altro proiettato, al di là della Manica, verso le vicende
francesi. La sua «nova filosofia» vuole imporsi all'attenzione dei dotti
aristocratici che pensano e che agiscono nei circoli legati al Valois e
alla Tudor.
II.
LA FILOSOFIA IN TEATRO
E IL TEATRO NELLA FILOSOFIA:
IL COMICO COME CONOSCENZA
Tra Parigi e Londra, quindi. Bruno pubblica in volgare una com-
media e sei dialoghi. Si tratta di una scelta ben precisa, visto che
negli stessi anni, nelle due capitali, continua parallelamente a dare
alle stampe anche trattati in latino'*. Ma è possibile considerare que-
sti sette testi come tappe successive di un unico disegno che, dalla
Cena ai Furori, possa includere anche il Candelaio? E quale potrebbe
essere il tratto comune, il filo rosso che legherebbe queste opere tra
loro?
A prima vista si sarebbe portati a scartare la scelta della lingua.
Nonostante il latinorum di Mamfurio, sarebbe stato difficile, in effetti,
immaginare una commedia interamente scritta nella lingua di un pe-
dante o di Virgilio. Eppure, a uno sguardo più profondo, al di là dello
scarto latino/volgare, anche i materiali linguistici del Candelaio costi-
tuiscono un terreno interessante per capire lo sperimentalismo della
scrittura dialogica bruniana.
53. In Inghilterra Bruno pubblica anche VArs reminiscendi, VExplicatio tri-
ginta sigilloriitn e il Sigillus sigillorum.
INTRODUZIONE '2,^
La commedia e il dialogo
Naturalmente, il nesso più evidente riguarda la struttura dei generi
letterari e alcuni temi forti che percorrono le sette opere. Partiamo dal
primo aspetto, quello che balza subito agli occhi. Bruno inscrive la sua
brevissima, ma intensissima, stagione in volgare all'interno di due ge-
neri di successo nel Rinascimento: la commedia e il dialogo. Due ge-
neri che, in ragione della loro popolarità, non erano sfuggiti alla follia
classificatrice dei teorici cinquecenteschi. A rileggere la trattatistica sul
dialogo, per esempio, si percepiscono immediatamente i punti di con-
tatto che potrebbero accomunare l'una all'altro.
Carlo Sigonio nel De dialogo liber (1562), Sperone Speroni nelYApo-
logia (1574) e Torquato Tasso ntWArte del dialogo (1585) concordano
nel distinguere tre diverse specie di dialogo: il «rappresentativo» (che
«può montare in palco [...], percioch'in essa vi siano persone introdotte
a ragionare [...] com'è usanza di farsi nelle comedie e nelle tragedie»),
il «narrativo» o «storico» («che non può montare in palco, percioché,
conservando l'autore la sua persona, come istorico narra quel che disse
il tale e '1 cotale») e il «misto» (dove «conservando l'autore la sua
prima persona e narrando come istorico [poi introduce] a favellar
ÓQafiarLX(bg»Y-^ . Questa tripartizione si rifa allo schema dei generi let-
terari già discusso nella Repubblica di Platone e poi rielaborato da Ari-
stotele: mimetico o drammatico, espositivo o narrativo e misto '5.
La trattatistica fornisce anche i modelli classici di riferimento. Il
dialogo narrativo o storico trova la sua perfetta incarnazione nel De
oratore di Cicerone, quello rappresentativo in Platone e in Luciano,
quello misto ancora in Cicerone. Se la fortuna del dialogo diegetico,
nel primo trentennio del Cinquecento, si lega ai testi epidittici di
Bembo [Gli Asolani, 1505) e di Castiglione (// Cortegiano, 1528), dove la
«scena» e il «modo» della conversazione diventano parte integrante e
fondamentale di una Weltanschauung dominata esclusivamente da
una prospettiva cortigiana"^, alla forma mimetica, invece, ricorre-
54. Torquato Tasso, Dell'arte del dialogo, introduzione di Nuccio Ordine,
testo critico e note di Guido Baldassarri, Napoli, Liguori, 1998, pp. 39-40. Qui il
Tasso, come opportunamente segnala Baldassarri nella nota alle pp. 39-40, ri-
prende le definizioni offerte da Ludovico Castelvetro nella sua Poetica d'Aristo-
tele vidgarizzata e sposta (1570).
55. Cfr. ibidem, la nota 8, pp. 40-41.
56. Cfr. N. Ordine, Il genere dialogo tra latino e volgare, in Manuale di lette-
ratura italiana. Storia per Generi e Problemi, a cura di Franco Brioschi e Co-
stanzo Di Girolamo, t. 2, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 491-500 (cfr.
anche Io., Le Sei giornate: struttura del dialogo e parodia della trattatistica sul
28 INTRODUZIONE
ranno moltissimi autori, soprattutto nella seconda metà del secolo,
con scopi e obiettivi più eterogenei.
Tasso, partendo da una possibile contaminazione tra dramma e
dialogo, non nega che il secondo possa anche avvalersi, sulla base dei
suoi contenuti, di categorie in uso nell'ambito teatrale^': il Critone e il
Fedone, per esempio, potrebbero essere considerati tragici perché So-
crate nel primo rifiuta di fuggire dopo la condanna a morte e nel se-
condo beve il veleno dopo una lunga disputa sull'immortalità del-
l'anima; mentre il Convito, in cui Aristofane e Alcibiade si abbando-
nano senza alcun controllo al cibo e al vino, apparterrebbe alla sfera
della commedia. Ma nonostante queste concessioni, il trattatista di-
stingue i due generi soprattutto sulla base delle diverse funzioni del-
l'imitazione:
Nell'imitazione o s'imitano l'azioni degli uomini o i ragionamenti; e
quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi
senza operazione, almeno dell'intelletto, nondimeno assai diverse giudico
quelle da questi; e degli speculativi è proprio il discorrere, sì come degli
attivi l'operare. Due saran dunque i primi generi dell'imitazione; l'un del-
l'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti; l'altro delle parole, nel
quale sono introdotti i ragionanti. E '1 primo genere si divide in altri, che
sono la tragedia e la comedia, ciascun delle quali patisce alcune divisioni;
e '1 secondo si può divider parimente'^.
A partire da questa definizione, si vede subito che «questi mede-
simi dialogi non sono vere tragedie o vere comedie; perché nell'une e
nell'altre le quistioni e i ragionamenti son descritti per l'azione: ma ne'
dialogi l'azione è quasi per giunta de' ragionamenti; e s'altri la rimo-
vesse il dialogo non perderebbe la sua forma» 5''. Il ragionamento e
l'azione, insomma, costituiscono lo spartiacque teorico che separa i
due generi in questione.
Bruno, in contrasto con le prescrizioni dell'aristotelismo cinquecen-
tesco, finisce per fondere gli schemi della commedia e del dialogo
«rappresentativo» o mimetico, trasferendo elementi dialogici nel tea-
tro ed elementi teatrali nel dialogo. Il Candelaio si presenta così come
una commedia filosofica, mentre i dialoghi mettono in scena qua e là
una filosofia in commedia. In entrambi i casi, il Nolano fa deflagrare
gli elementi costitutivi del genere.
comportamento, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita, t II, Roma,
Salerno editrice, 1995, pp. 673-716).
57. Torquato Tasso, Dell'arte del dialogo cit, pp. 41-42.
58. Ibidem, pp. 38-39.
59. Ibidem, p. 42.
INTRODUZIONE 29
Nella sua unica opera teatrale, in fondo, la struttura drammatica
viene ridotta al minimo. Ogni componente clcissica subisce uno svuo-
tamento, una forte alterazione dei tratti tipici della sua identità. In-
nanzitutto, l'abolizione del canonico prologo <'°. O meglio: un suo
smembramento in « Anti prologo », «Proprologo» e «Bidello», preceduti
da un «Argumento» e da una dedica «Alla signora Morgana B.». Poi,
l'annuncio a sorpresa dell'indisponibilità degli attori a recitare («Quel-
la bagassa che è ordinata per rapresentar Vittoria e Carubina, have
non so che mal di madre. Colui che ha da rapresentar il Bonifacio, è
imbriaco »)^', come se la pièce fosse destinata a restare lontana dalle
scene, a vivere esclusivamente nel suo chiuso involucro cartaceo. E
infine una serie di densi monologhi, di complicati scambi dialogici e
di racconti che hanno poco a che fare con la vera e propria spettaco-
larità, con l'azione. Finanche il linguaggio si ribella agli schemi prefis-
sati: al registro quotidiano, popolareggiante, si sovrappongono, proprio
nei momenti dove si fa piti densa la riflessione filosofica, paradossali
miscele di registri alti e bassi, di termini molto dotti e di espressioni
vivamente oscene. Del resto, il Candelaio, oltre a «chiarir alquanto certe
Ombre dell'idee, le quali in vero spaventano le bestie, e come fussero dia-
voli danteschi, fan rimaner gli asini lungi a dietro «^^^ ha, soprattutto la
funzione di illuminare la realtà con una nuova luce («Con questa filo-
sofia l'animo mi s'aggrandisse, e me si magnifica l'intelletto »)'^^
Anche sul fronte del dialogo la musica non cambia. In un contesto
dove lo sforzo teorico di Bruno raggiunge vette straordinarie, non
mancano chiare aperture di tipo teatrale. Accanto a pagine dove il
ritmo dell'argomentazione si fa più incalzante e il linguaggio si muove
in un ambito tecnico ed erudito, l'autore inserisce momenti dominati
da un tono colloquiale, da battute e da schemi tipici della commedia.
L'incipit della Cena, come ha mostrato Aquilecchia, sembra avere tutti
gli elementi di uno scambio dialogico da palcoscenico:
[Smitho.] Parlavan ben latino? / Teofilo. Sì. / Smitho. Galant'uo-
mini? / Teofilo. Sì. / Smitho. Di buona riputazione? / Teofilo. Sì. /
60. Sulle funzioni e sulle tipologie dei prologhi bruniani cfr. Amelia
Buono Hodgart, Prologhi bruniani e prologhi classici, in «Atti della Accade-
mia Pontaniana», XLIII (1994), pp. 97-107 (ora in Io., Giordano Bruno's The
Candle-Bearer. An Enigmatic Renaissance Play, preface of Giovanni Aquilec-
chia, Lewiston-Queenston-Lampeter, The Edwin Mellen Press, 1997, pp. 15-23).
Ma si veda anche Donatella Riposio, Nova comedia v'appresento. Il prologo
nella commedia del Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1989, pp. 1 19-146.
61. Candelaio, p. 274.
62. Ibidem, pp. 262-263.
63. Ibidem, p. 263.
30 INTRODUZIONE
Smitho. Dotti? / Teofilo. Assai competentemente. / Smitho. Ben
creati, cortesi, civili? / Teofilo. Troppo mediocremente. / Smitho.
Dottori? / Teofilo. Messer sì, padre sì, madonnasì, madesì: credo da
Oxonia. / Smitho. Qualificati? / Teofilo. Come non? uomini da scel-
ta, di robba lunga, vestiti di velluto: un de quali avea due catene d'oro
lucente al collo; e l'altro (per Dio) con quella preziosa mano (che con-
tenea dodeci anella in due dita) sembrava uno ricchissimo gioielliero,
che ti cavava gli occhii et il core, quando la vagheggiava. / Smitho.
Mostravano saper di greco? / Teofilo. E di birra eziamdio. / Pruden-
zio. Togli via queir« eziamdio», poscia è una absoleta et antiquata di-
czione. / Frulla. Tacete maestro, che non parla con voi. / Smitho.
Come eran fatti? / Teofilo. L'uno parca il connestabile della gigantes-
sa e l'orco; l'altro l'amostante della dea de la riputazione. / Smitho. Sì
che eran doi? / Teofilo. Sì per esser questo un numero misterioso. /
Prudenzio. Ut essent duo testes. I Frulla. Che intendete per quel «tes-
tes»} I Prudenzio. Testimoni, essaminatori della nolana sufficienza^.
Bruno, insomma, dà il via alla sua «nolana filosofia» con una
scena comica. Usa consapevolmente quei giochi di parole tipici della
commedia. Le allusioni al «saper di greco» (nel doppio senso di «co-
noscere la lingua greca» o «puzzare di vino greco») o al ruolo dei
«testes» oxoniensi (dal latino «testis», da cui derivano «testimone» e
«testicolo»), l'uso delle didascalie nelle descrizioni dei due dottori ina-
nellati, potrebbero trarre in inganno colui che si predispone ad im-
mergersi nella nuova cosmologia dell'autore. Eppure, sin dall'inizio, il
codice interpretativo è già inscritto nell'epistola dedicatoria. Qui si
parla chiaramente di «dialogo» e di «lettori», ma anche di «satira e
comedia» e, quindi, di «spettatori»^'.
Il Nolano azzera le differenze, spiazza le regole imposte dai pedanti.
Inscrive la filosofia nella commedia e la commedia nella filosofia. Apre
in maniera plateale con la Cena, ma poi ripropone qua e là, in ma-
niera più o meno evidente, alcuni schemi della commistione tra i due
generi anche negli altri testi successivi. Nei primi tre dialoghi, addirit-
tura, le epistole dedicatorie potrebbero giocare il ruolo del prologo e la
suddivisione in cinque scene dialogiche potrebbe far pensare ai cinque
atti classici della commedia. Così come la presenza del grammatico
Prudenzio, oltre a ricordare per l'evidente omonimia lo sterile peda-
gogo del Pedante di Belo, non può non evocare alcuni tratti tipici tea-
trali della figura del pedante, già sperimentati nel Candelaio alle spese
64. Cena. pp. 441-442.
65. Ibidem, p. 438.
INTRODUZIONE 3I
dello sventurato Mamfurio^^. Allusioni, suggestioni, certo. Ma le coin-
cidenze non finiscono qui. Annesso, per esempio, ha il compito di sot-
tolineare nel De la causa la possibilità che dai discorsi di Filoteo-
Bruno «vegnan formate comedie, tragedie, lamenti, dialogi»''^. Finan-
che nello Spaccio, in un contesto dominato da una concitata assemblea
degli dèi, la decisiva confessione di Giove, che dà il via alla radicale
riforma del cielo, passa attraverso un monologo degno di una comme-
dia cinquecentesca:
Ecco, a me si dissecca il corpo, e mi s'umetta il cervello; mi nascono i
tofi, e mi cascano gli denti; mi s'inora la carne, e mi s'inargenta il crine; mi
si distendeno le palpebre, e mi si contrae la vista; mi s'indebolisce il fiato,
e mi si rinforza la tosse; mi si fa fermo il sedere, e trepido il caminare; mi
trema il polso, e mi si saldano le coste; mi s'assottigliano gli articoli e mi
s'ingrossano le gionture: et in conclusione (quel che più mi tormenta),
perché mi s'indurano gli talloni, e mi s'ammolla il contrapeso; l'otricello
de la cornamusa mi s'allunga, et il bordon s'accorta''*.
La frantumazione dei generi letterari
Dal Candelaio ai Furori, Bruno ci propone due generi che rivendi-
cano la loro fragilità, la loro precarietà, la loro frammentarietà. Nel
prologo della commedia è detto con chiarezza che si tratta di un «bar-
conaccio dismesso, scasciato, rotto, mal impeciato; che par che co croc-
chi, rampini et arpagini, sii stato per forza tirato dal profondo abisso;
da molti canti gli entra l'acqua dentro, non è punto spalmato»'^'''. Un
«barconaccio» che non mostra una forma definitiva e che, soprattutto,
ci invita a considerare la sua provvisorietà. Proprio come provvisori
vengono presentati gli stessi dialoghi del Nolano:
E però priego e scongiuro tutti, che non sia qualch'uno di animo tanto
enorme, e spirito tanto maligno, che voglia definire, donando ad intendere
a sé et ad altri, che ciò che sta scritto in questo volume, sia detto da me
come assertivamente [...]. Per tanto non sia chi pense altrimente, eccetto
che questi tre dialogi son stati messi e distesi sol per materia e suggetto
d'un artificio futuro'".
66. Cfr. G. Aquilecchi.\, Componenti teatrali nei dialoghi italiani di Gior-
dano Bruno, in «Bruniana & Campanelliana», V (1999/2), pp. 265-276.
67. De la causa, p. 617.
68. Spaccio, pp. 2 10-2 II.
69. Candelaio, pp. 274-275.
70. Spaccio, pp. 177-178.
32 INTRODUZIONE
Un dialogo non può definirsi autosufficiente, non può offrirsi come
definitivo, non può abbandonarsi ad affermazioni «assertive», valide
una volta per tutte. Lascia sempre questioni irrisolte. Presuppone ne-
cessariamente altri dialoghi futuri^'. Anche la Cabala non nasconde il
suo statuto di testo imperfetto, di opera non conclusa. Ecco perché il
dialogo principale si chiude bruscamente per lasciare posto a un altro
dialogo, VAsino etilenico, che Saulino, abbandonato dagli altri interlo-
cutori, (ci) legge sulla scena:
Or credo che passarà l'occasione de far molti altri raggionamenti sopra
la cabala del detto cavallo. Perché, qualmente veggio, l'ordine de l'uni-
verso vuole che come questo cavallo divino nella celeste regione non si
mostra se non sin all'umbilico (dove quella stella che v'è terminante è
messa in lite e questione se appartiene alla testa d'Andromeda o pur al
tronco di questo egregio bruto), cossi analogicamente accade che questo
cavallo descrittorio non possa venire a perfezzione'^.
In fondo, l'autore di un dialogo crea «preludii a similitudine de
musici», abbozza «certi occolti e confusi delineamenti et ombre, come
gli pittori», ordisce «certa fila, come le tessitrici», getta «bassi, pro-
fondi e ciechi fondamenti come gli grandi edificatori»^^. Ma, va detto
subito, la provvisorietà delle forme letterarie e dei contenuti che esse
veicolano non impoveriscono la «nova filosofia» di Bruno. Anzi, al
contrario, ne evidenziano la carica vitale, la forza travolgente, la di-
rompente pluridimensionalità. Spetta alla Cena, come abbiamo visto,
aprire la serie delle opere londinesi in volgare. Incipit del dialogo in
chiave teatrale, comica. Ma anche incipit di una serie di testi dialogici
che sembrano germinare tutti da un convito. Pura casualità? Certa-
mente no. Soprattutto se si pensa alla metafora del dialogo come cena
che Bruno stesso metterà in scena nel De la causa:
Non vi maravigliate, fratello, per che questa non fu altro ch'una cena
dove gli cervelli vegnono governati da gli affetti, quali gli vegnon porgiuti
dall'efficacia di sapori e fumi de le bevande e cibi. Qual dumque può es-
71. «Qua dumque avendo tutto l'altro (onde non si può raccòrre degno
frutto di dottrina) per cosa dubia, suspetta et impendente, prendasi per final
nostro intento l'ordine, l'intavolatura, la disposizione, l'indice del metodo, l'ar-
bore, il teatro e campo de le virtudi e vizii: dove appresso s'ha da discorrere,
inquirere, informarsi, addirizzarsi, distendersi, rimenarsi et accamparsi con al-
tre considerazioni; quando determinando del tutto secondo il nostro lume e
propria intenzione, ne esplicaremo in altri et altri particulari dialogi: ne li
quali l'universal architettura di cotal filosofia verrà pienamente compita; e
dove raggionaremo più per modo definitivo»: Ibidem, p. 180.
72. Cabala, pp. 474-475.
73. Spaccio, p. 179.
INTRODUZIONE 33
sere la cena materiale e corporale, tale conseguentemente succede la ver-
bale e spirituale: cossi dumque questa dialogale ha le sue parti varie e
diverse, qual varie e diverse quell'altra suole aver le sue; non altrimente
questa ha le proprie condizioni, circonstanze e mezzi, che come le proprie
potrebbe aver quella. [...] Ivi (come è l'ordinario et il dovero) soglion tro-
varsi cose da insalata da pasto, da frutti da ordinario, da cocina da spe-
ciaria, da sani da amalati; di freddo di caldo, di crudo di cotto, di acqua-
tico di terrestre, di domestico di salvatico, di rosto di lesso, di maturo di
acerbo; e cose da nutrimento solo e da gusto, sustanzioze e leggieri, salse et
insipide, agreste e dolci, amare e suavi. Cossi quivi, per certa conseguenza,
vi sono apparse le sue contrarietadi e diversitadi, accomodate a contrarii e
diversi stomachi e gusti, a' quali può piacere di farsi presenti al nostro
tipico simposio: a fine che non sia chi si lamente di esservi gionto in vano,
et a chi non piace di questo, prenda di quell'altro'''.
I dialoghi londinesi, insomma, si identificano con una grande ta-
vola imbandita, dove la varietas dei cibi allude alla varietas dei conte-
nuti e degli stili, alle molteplici possibilità di scelta, alla necessaria
compresenza degli opposti. Un ricco e «tipico simposio», in cui non
mancano però tutti gli imprevisti che talvolta possono capitare agli
invitati mentre consumano un pasto. La cena dialogale, infatti, com-
porta dei rischi proprio come quella materiale. Anche durante un ban-
chetto, la gioia porta con sé il dolore, e il piacere può cedere il passo
alla sofferenza;
Vedrai che né in questo la nostra cena è dissimile a qualumqu'altra
esser possa. Come dumque là nel più bel del mangiare, o ti scotta qualche
troppo caldo boccone, di maniera che bisogna cacciarlo de bel nuovo
fuora, o piangendo e lagrimando mandarlo vagheggiando per il palato, sin
tanto che se gli possa donar quella maladetta spinta per il gargazzuolo al
basso; o vero ti si stupefa qualche dente; o te s'intercepe la lingua che
viene ad esser morduta con il pane; o qualche lapillo te si viene a rompere
et incalcinarsi tra gli denti, per farti regittar tutto il boccone; o qualche
pelo o capello del cuoco ti s'inveschia nel palato, per farti presso che vo-
mire; o te s'arresta qualche aresta di pesce ne la canna, a farti suavemente
tussire; o qualch'ossetto te s'attraversa ne la gola per metterti in pericolo
74. De la causa, pp. 619-620. Anche Ronsard, nella raccolta Discours des
Misères de ce temps, utilizza la metafora del simposio per indicare la ricchez-
za dei «cibi» presentati al lettore: P. de Ronsard, CEuvres complètes cit, t. II,
w. 17-24, p. 1017. Sul topos del simposio si veda Michel Jeanneret, Des mets
et des mots. Banquets et propos de table à la Renaissance, Paris, J. Corti, 1987 (cfr.
anche Domenico Musti, // simposio nel suo sviluppo storico, Roma-Bari, La-
terza, 2001). Per l'uso specifico della metafora del banchetto nella letteratura
dialogica cfr. N. Ordine, Introduzione a T. Tasso, Dell'arte del dialogo cit.,
pp. 28-29.
34 INTRODUZIONE
di suffocare: cossi nella nostra cena (per nostra e comun disgrazia) vi si
son trovate cose corrispondenti e proporzionali a quelle ^5.
Dal Candelaio ai Furori, le opere italiane si presentano come teatro
degli opposti, ma anche come scena della vita. Spettatori e lettori - o
meglio: lo spettatore-lettore e il lettore-spettatore - non possono fare a
meno di confrontarsi con una realtà agitata dal fluire dei contrari.
Nessuna cosa può essere considerata in assoluto. Quello che per alcuni
è tragedia, per altri è commedia. Ciò che può suscitare il pianto può,
nello stesso tempo, suscitare il riso. Nell'universo infinito, come ve-
dremo, tutto è relativo, ogni giudizio è necessariamente determinato
da uno specifico punto di vista
La funzione gnoseologica del comico
Adesso il filo che lega le opere in volgare sembra assumere più con-
sistenza. La provvisorietà e la frammentarietà dei generi, ma anche
dei contenuti. Dalla commedia all'ultimo dialogo, sembra proprio il
comico a tenere uniti i tessuti, a irrorare la lingua, a regolare i flussi
sistolici e diastolici, a favorire le espansioni e le contrazioni. Bruno lo
ricorda, ancora una volta, senza ambiguità nel De la causa:
desidero di sapere, se fallano coloro che dicono, che tu fai la voce di un
cane rabbioso et infuriato, oltre che tal volta fai la simia, tal volta il lupo,
tal volta la pica, tal volta il papagallo, tal volta un animale, tal volta un
altro: meschiando propositi gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e
nobili, filosofici e comici ^'\
Sì, il Nolano crea questo strano ircocervo fatto di filosofia e com-
media, di serio e comico, di riso e pianto. Compie un'operazione che
già altri avevano intrapreso prima di lui. Luciano, per esempio, ne
rivendica esplicitamente la paternità. Ne La doppia accusa o le giurie,
infatti, immagina di essere trascinato in un tribunale dal Dialogo in
persona. Davanti ai giudici, viene accusato di aver contaminato un
genere nobile e serio, destinato alle cogitazioni dei filosofi, con un ge-
nere frivolo ed osceno come la commedia:
I torti e le offese che ho subito da costui consistono in questo, che,
mentre prima ero una persona rispettabile e studiavo gli dèi e la natura, e
i cicli periodici dell'universo camminando su in aria al di sopra delle nubi
[...], costui di sua mano, [...] mi frantumò le ali ed eguagliò il mio genere di
75. De la causa, pp. 620-621.
76. Ibidem, p. 619.
INTRODUZIONE 35
vita a quello del volgo; mi tolse la maschera tragica della mia saggezza e
me ne mise un'altra, comica e satirica, quasi ridicola. [...] La cosa, infatti,
più assurda di tutte è che formo un'incredibile mescolanza e non sono
pedestre e non vado sui metri, ma alla maniera di un ippocentauro do
l'impressione agli ascoltatori di un mostro fatto di pezzi diversi, mai visto
prima''.
Lo strano «ippocentauro» creato da Luciano sarà destinato ad
avere una buona fortuna nella cultura rinascimentale'^. Anche l'Are-
tino, autore molto caro al Nolano, spinge le strutture del dialogo verso
la teatralità'''. Ma Bruno, nel fondere i due generi, va al di là di uno
schema retorico e letterario. Piega il suo modello a rappresentare una
nuova visione del mondo, a farsi portatore di una rivoluzione filoso-
fica. Attraverso la forza corrosiva del comico ci fa capire, sin dal motto
che campeggia sul frontespizio della pièce («In tristitia hilaris, in hila-
ritate tristis»)^°, che sarebbe vano tracciare delimitazioni nette e sicure
nei domini della letteratura, della natura e della filosofia. Abolizione dei
confini nella cosmologia, negazione delle barriere nella poetica, abbat-
timento degli steccati nella gnoseologia: l'universo, in ogni suo aspetto,
si presenta nella sua totale unità. Non solo, quindi, commistione tra
dialogo e commedia, ma soprattutto commistione tra i saperi:
Se vi occoreno tanti e diversi propositi attaccati insieme, che non par
che qua sia una scienza, ma dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di
tragedia, dove di poesia, dove d'oratoria, dove lauda, dove vitupera, dove
77. Luciano, La doppia accusa o le giurie, in Dialoghi, a cura di Vincenzo
Longo, Torino, Utet, 1993, t. Ili, p. 75. Luciano affronta lo stesso tema anche in
A chi gli disse: «Tu sei il Prometeo della parola»: «In realtà il dialogo e la com-
media non furono originalmente in troppa confidenza ed amicizia, se è vero
che l'uno svolgeva le sue dispute a casa solo con se stesso e, tutt'al più, negli
atrii in compagnia di pochi, l'altra invece, consacratasi a Dioniso, frequentava
il teatro e scherzava, eccitava il riso [...], canzonava i seguaci del dialogo chia-
mandoli pensatori, acchiappanuvole e cose del genere [...]. Tuttavia io osai
unire ed accordare due elementi, i cui rapporti reciproci ho illustrato e che per
di più ubbidivano di mala voglia, né facilmente si rassegnavano a stare in-
sieme» (Ibidem, t. I, 1976, pp. 93-95)-
78. Per la diffusione di Luciano tra Quattrocento e Cinquecento si vedano:
Emilio Mattioli, Luciano e l'Umanesimo, Napoli, Istituto per gli Studi Storici,
1980; Christiane Lauvergnat-Gagnière, Lucien de Samosate et le lucianisme
en France au XVF siede, Genève, Droz, 1988.
79. Sugli elementi teatrali dei dialoghi aretiniani cfr. Giulio Ferroni, fi
teatro della Nanna, in Io., Le voci dell'istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del
teatro, Napoli, Liguori, 1977, pp. 136-202.
80. Pirandello, nell'esprimere la sua ammirazione per Bruno, considerò
questa epigrafe come «il motto dello stesso umorismo» (Luigi Pirandello,
L'umorismo e altri saggi, a cura di Enrico Ghidetti, Firenze, Giunti, 1994, p. 99).
36 INTRODUZIONE
dimostra et insegna, dove ha or del fisico, or del matematico, or del mo-
rale, or del logico; in conclusione non è sorte di scienza che non v'abbia di
suoi stracci *^
«Stracci» di differenti generi, «stracci» di scienze diverse: una filo-
sofia fatta di frammenti, è vero, ma anche travestita di scarti, abbi-
gliata in costume, presentata in «commedia». Dal Candelaio ai Furori,
non c'è dubbio, il comico assume una funzione importantissima, di-
venta Io strumento principale per scardinare luoghi comuni, regole
senza senso, superflue prescrizioni. Bruno se ne avvale con entusia-
smo, sfruttando la sua forza corrosiva per mettere in crisi quei valori
tradizionalmente considerati i più sicuri e i più saldi, per svelame la
natura illusoria e l'assurda pretesa di essere percepiti come definitivi e
assoluti. Ma non tutti i lettori-spettatori sapranno cogliere il senso pro-
fondo di questo meccanismo. La maschera esteriore della pièce e dei
dialoghi finirà necessariamente per selezionare il pubblico. È scritto a
chiare lettere nell'epistola-prologo della Cena, primo dialogo in volgare
della serie londinese:
Or qua se vedrete talvolta certi men gravi propositi, che par che deb-
bano temere di farsi innante alla superciliosa censura di Catone, non du-
bitate: perché questi Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran
scuoprir quel ch'è ascosto sotto questi Sileni. [...] Considerate ancora che
non v'è parola ociosa: per che in tutte parti è da mietere, e da disotterrar
cose di non mediocre importanza, e forse più là dove meno appare ®2.
La poetica del Sileno
La poetica dei Sileni non riguarda solo la distinzione dei generi
letterari, ma si configura soprattutto come metodo per conoscere, come
ermeneutica dei testi e delle cose. La lezione di Alcibiade su Socrate
lascia un segno profondo. Basta prendere in mano una di quelle sta-
tuette dell'antica Grecia per capire il meccanismo: un comico Sileno,
raffigurato all'esterno, nasconde al suo intemo la divinità. Bisogna ne-
cessariamente oltrepassare la scorza per vedere e per capire. Così, chi
vuole giudicare il padre dei filosofi non può farlo fidandosi delle rozze
regole della fisiognomica. Lo stesso principio vale per i suoi ragiona-
menti: dall'aspetto esteriore «apparirebbero molto ridicoli», ma «chi li
vede aperti e vi si addentri, anzitutto troverà che sono i soli discorsi
81. Cena, p. 438.
82. Ibidem.
INTRODUZIONE 37
che al loro intemo abbiano un intendimento»'^'. In molti, tra Quattro
e Cinquecento, si ricorderanno, per ragioni diverse, di questa stupenda
immagine platonica: Pico, nella polemica con Ermolao Barbaro, per
rivendicare il primato della filosofia sulla retorica, delle res sui verba^'*;
Erasmo, nel suo Sileni Alcibiadis, per denunciare i falsi sapienti ^5. Ra-
belais, nel prologo del Gargantua, per svelare il potere terapeutico del
riso^^. Ma anche Pierre de Ronsard^^ e Torquato Tasso '^^ ne faranno
uso nelle loro poesie.
Bruno, come è suo costume, si impossessa del topos. Lo inserisce nel
suo sistema di pensiero e, soprattutto, lo mette in relazione con altri
segni disseminati in altri luoghi strategici delle sue opere. Ne fa, insom-
ma, uno strumento ermeneutico per spiegare il funzionamento dei suoi
testi e del mondo. In entrambe le situazioni, nella letteratura e nella
vita, non bisogna fidarsi delle apparenze. Rinunciare al movimento,
per restare immobili sulla superficie, significherebbe vivere perenne-
mente nell'inganno. Senza lo sforzo di aprire il Sileno, si resterebbe pri-
gionieri nel fitto labirinto di illusioni che domina l'universo. Bisogna
andare al di là dell'involucro per cogliere la reale essenza delle cose:
Cossi dumque lasciaremo la moltitudine ridersi, scherzare, burlare e
vagheggiarsi su la superficie de mimici, comici et istrionici Sileni, sotto gli
quali sta ricoperto, ascoso e sicuro il tesoro della bontade e veritade: come
per il contrario si trovano più che molti, che sotto il severo ciglio, volto
sommesso, prolissa barba, e toga maestrale e grave, studiosamente a danno
universale conchiudeno l'ignoranza non men vile che boriosa, e non
manco perniciosa che celebrata ribaldaria^^.
83. Platone, Simposio, in Dialoghi filosofici, a cura di Giuseppe Cambiano,
Torino, Utet, 1981, voi. II, (221 e-222 a), p. 147.
84. Ermolao Barbaro - Giovanni Pico della Mirandola, Filosofia o elo-
quenza?, a cura di Francesco Bausi, NapoH, Liguori, 1998, pp. 48-49.
85. Erasmo da Rotterdam, / Sileni di Alcibidiabe, introduzione e note di
Jean-Claude Margolin, traduzione di Stefano U. Baldassarri, Napoli, Liguori,
2002.
86. Rabelais, Les cinq livres, édition critique de Jean Céard, Gerard Defaux
et Michel Simonin, préface de Michel Simonin, Paris, Le livre de Poche, 1994,
pp. 5-7 (trad. it.: Francois Rabelais, Gargantua e Pantagruel, a cura di Mario
Bonfantini, Torino, Einaudi, 1973, t. I, p. 7).
87. P. de Ronsard, La lyre, in Qìuvres complètes, t. II, w. 157-171, pp. 692-693.
88. Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, prefazione e note di Lanfranco
Caretti, Torino, Einaudi, 1980 (XVIII, 30), vv. 1-6, p. 545.
89. Spaccio, p. 9. Bruno aveva già fatto allusione ai Sileni nella Cena: «Or
qua se vedrete talvolta certi men gravi propositi, che par che debbano temere
di farsi innante alla superciliosa censura di Catone, non dubitate: perché que-
sti Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran scuoprir quel ch'è cisco-
sto sotto questi Sileni» (p. 438). Il topos ritoma anche nelle opere latine: nel-
l'Acrotismus camoeracensis («quantumlibet enim sub sylenis merces preciosis-
38 INTRODUZIONE
I veri filosofi, come i dottori oxoniensi insegnano, non si distin-
guono dalla toga e dagli anelli. Non a caso, nel suo autoritratto del
Candelaio, l'autore si descrive come uno «ch'have una fisionomia
smarrita» e che «par che sempre sii in contemplazione delle pene del-
l'inferno; par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per
far comme fan gli altri; per il più lo vedrete fastidito, restio e bizarro:
non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fanta-
stico com'un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipol-
la »^°. Bruno si presenta con abiti umili, veste i panni dell'istrione, si
dipinge come un ridicolo Sileno"^'. Applica a se stesso il medesimo
principio ermeneutico.
Un'immagine esteriore comica, quindi, non esclude un progetto fi-
losofico, una nuova visione del mondo. Anzi, se bisogna diffidare del-
l'involucro, si troverà ciò che si cerca proprio «più là dove meno ap-
pare» ^2 La paradossalità del Sileno si presta molto bene al gioco di
Bruno. La tecnica del rovesciamento ribalta i punti di vista, libera i
sima occultetur, sub ipsa tamen apparenti impossibilium assertionum facie
divinum illud veritatis specimen sublatescens, quod vilissima credendi con-
suetudo in multicurva obliquaque speculi superficie contortum intuetur, in
apertum, amotis ipsis fallacibus intermediis, evadat», Opp. lai., I, i, p. 62),
nel De immenso («gratae sub echinorum asperitate castaneae absconduntur,
subque silenis preciosissimae quandoque merces occultantur.» [«eccellenti ca-
stagne si nascondono sotto l'irtosità dei ricci, sostanze assai preziose sotto i
sileni»], Opp. lai., I, i, p. 208; trad. it: Giordano Bruno, L'immenso e gli innu-
merevoli, in Opere latine, a cura di Carlo Monti, Torino, Utet, 1980, p. 424) e
nell'Idiota triumphans («Caute igitur huius divini verba capienda sunt ut non
secundum rationem quae est in superficie verborum ad propositum disciplinae
referantur, sed perpetuo ad divinae lucis sensum qui sub illis umbris, formo-
sissimasque species quae sub illis silenis, suavissimumque nucleum sub illis
contentum corticibus, animum advertant»: Giordano Bruno, Due dialoghi
sconosciuti e due dialoghi noti, a cura di Giovanni Aquilecchia, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 1957, p. n). Per un'analisi del simbolo del Sileno in
Bruno cfr. N. Ordine, L'asino come i sileni: le apparenze ingannano, in Id., La
cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit., pp. 109- 11 8.
90. Candelaio, p. 275.
91. Così Bruno si descrive in un passaggio àtWOratio valedictoria: «cum ad
vos prò laribus vestris pellustrandis pervenissem, natione exterus, exul, tran-
sfuga, ludicrum fortunae, corpore pusillus, rerum possessione tennis, favore de-
stitutus, multitudinis odio pressus, et ideo stultis et ignobilissimis illis con-
temptibilis, qui nusquam nobilitatem agnoscunt, nisi ubi aurum fulget, tinnit
argentum (...)» [«essendo io venuto per vedere i vostri lari, sebbene fossi di
nazione forestiero, esule, fuggiasco, zimbello della fortuna, piccolo di corpo,
scarso di beni, privo di favore, premuto dall'odio della folla, quindi disprezza-
bile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non
dove splende l'oro, tinnisce l'argento (...)»] {Opp. lai, I, i, pp. 22-23; trad. it:
Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cura di Augusto Guzzo e di
Romano Amerio, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 687-689). Si veda anche il
«ritratto» del furioso abbozzato nei Furori: cfr. infra, p. 155.
92. Cena, p. 438.
INTRODUZIONE 39
concetti dalle catene di una vecchia logica, impone una nuova dialet-
tica tra intus ed extra. Su queste basi si gioca la nostra comprensione
del mondo e dei testi che questo mondo descrivono. Ecco perché i
dialoghi londinesi, come del resto la sua unica commedia, potranno
essere recepiti e giudicati nella più contraria maniera:
ecco a voi presento questo numero de dialogi, li quali certamente sa-
ranno cossi buoni o tristi, preggiati o indegni, eccellenti o vili, dotti o
ignoranti, alti o bassi, profittevoli o disutili, fertili o sterili, gravi o disso-
luti, religiosi o profani: come di quei, nelle mani de quali potran venire,
altri son de l'una, altri de l'altra contraria maniera ''^
Dal Candelaio ai Furori; un disegno filosofico unitario
Sull'ermeneutica del Sileno, sulla necessità di distinguere realtà ed
apparenza, Bruno traccia una linea che dal Candelaio arriva fino ai
Furori Lungo questo asse, il comico si scatena in azioni centrifughe e
centripete, unificanti e dissolventi. Separare la pièce dal resto delle
opere londinesi, come più volte a sproposito è stato fatto, significa re-
stare imprigionati all'interno di banali categorie che distinguono rigi-
damente la letteratura dalla filosofia''"'. Non è vero. La commedia è
intrisa di filosofia e la filosofia è intrisa di commedia. Riunificare que-
sti sette testi però, non significa perdere di vista specificità e diffe-
renze. Il Candelaio, in fondo, rappresenta uno stadio iniziale, testimo-
nia una fase aurorale, si configura come una vera e propria ouverture:
contiene in maniera meno definita, come vedremo tra poco, una serie
di motivi che troveranno organico sviluppo nelle opere londinesi '5.
Qui il Nolano, rinunciando necessariamente al rigore argomentativo,
si limita ad abbozzare alcune melodie che saranno riprese e svolte
nella complessa orchestrazione polifonica dei sei successivi movimenti
in volgare.
93. Spaccio, p. 172.
94. In effetti già Giovanni Gentile, rispetto agli editori ottocenteschi, se-
para i dialoghi italiani dalla commedia, pubblicando i primi nella serie dei
«Classici della filosofia moderna» e la seconda, a cura di Vincenzo Spampa-
nato, in un volume fuori collana. Questa «scelta» è analizzata criticamente da
Eugenio Canone nella sua Nota introduttiva a Giordano Bruno, Opere ita-
liane. Ristampa anastatica delle cinquecentine, a cura di E. Canone, Firenze, 01-
schki, 1999, voi. I, pp. XVI-XXI. L'espunzione del Candelaio dal corpus delle
opere italiane è mantenuta anche nel recente volume Giordano Bruno, Dia-
loghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di Michele Ciliberto,
Milano, Mondadori, 2000.
95. Alla metafora musicale, in relazione al Candelaio, ha fatto anche ricorso
P. R. Blum nel suo intervento tenuto a Wittenberg nel corso del convegno
Giordano Bruno und Wittenberg: 1586-1588 (Wittenberg, 8-11 ottobre 2000).
40 INTRODUZIONE
Tra Parigi e Londra, in effetti, Bruno attiva un arco voltaico: apre
con una commedia-filosofica e chiude con un dialogo dove si commen-
tano filosoficamente alcune poesie. Genera abilmente un'energia che,
sprigionandosi dal collegamento di questi due poli, alimenta l'intera
catena delle opere in volgare. Separare le forme letterarie dalla cono-
scenza, la lingua dal pensiero, significherebbe interrompere il circuito,
spezzare i fili. Significherebbe non capire, per esempio, la lunga serie
di versi che precedono puntualmente i dialoghi e restare disorientati
di fronte alla complessa architettura dei Furori. Certo, Bruno si con-
geda da Londra con un'opera di poesia. Fa coincidere le ultime pagine
della sua «nolana filosofia» in volgare con un commento ai componi-
menti di un furioso. Fa convergere in un «canzoniere» l'ultimo tratto
di una parabola che salda, nel movimento circolare, l'alfa e l'omega,
l'inizio e la fine, la letteratura e la filosofia.
Adesso sarà più facile pensare ai dialoghi come a un solo corpus,
animato da una straordinaria forza unificatrice. Bruno, infatti, li con-
cepisce all'interno di un unico disegno. Ci offre lui stesso, come Spam-
panato aveva già segnalato '^6, la vera cronologia, l'ordine sequenziale
della lettura. Nel De la causa si rievoca la Cena («nel primo dialogo
avete una apologia, o qualch'altro non so che, circa gli cinque dialogi
intomo la cena de le ceneri»)''^, nel De l'infinito si fa riferimento al De
la causa («quello che è seminato ne gli dialogi De la causa, principio et
uno, nato in questi De l'infinito, universo e mondi, per altri germoglie,
per altri cresca, per altri si mature, per altri mediante una rara mieti-
tura ne addite, e per quanto è possibile ne contente »)'^ nella Cabala si
parla dello Spaccio («al cavallier Sidneo, al quale ho dedicata la Bestia
trionfante »)'^'^ e soprattutto si chiarisce l'enigma lasciato in sospeso nel
corso della riforma celeste voluta da Giove '°°, nei Furori, infine, si rin-
via alla Cabala («Da qua si vede che l'ignoranza è madre della felicità
e beatitudine sensuale, e questa medesima è l'orto del paradiso de gli
96. Cfr. V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi ed ine-
diti cit, p. 324, nota 2. Su questi rinvii intemi si è soffermato recentemente E.
Canone nella sua Nota introduttiva a Giordano Bruno, Opere italiane. Ri-
stampa anastatica delle cinquecentine cit.. pp. XXIV-XXVII.
97. De la causa, p. 597. Ma un'altra esplicita citazione è nel dialogo primo,
a p. 619: «con che voci volete che sia saiutato particolarmente da noi quel
lustro di dottrina, che esce dal libro de La cena de le ceneri? quali animali son
quelli, che hanno recitata La cena de le ceneri?».
98. De l'infinito, p. 28.
99. Cabala, p. 412.
100. La Cabala, in effetti, si presenta come una continuazione dello Spaccio
sul tema dell'asinità. L'assegnazione della sedia celeste più eminente, occupata
dall'Orsa maggiore, troverà proprio in questo dialogo il suo compimento: cfr.
infra (p. 116) il paragrafo dedicato a La «Cabala» e le due asinità.
INTRODUZIONE 4I
animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pega-
seo»)^^K Una catena di citazioni che include in partenza anche il Can-
delaio, esplicitamente ricordato nell'epistola proemiale della Cena
(«non d'un Bonifacio Candelaio, per una comedia»)'°^.
Qui non è tanto importante il gioco di allusioni che passa da un
testo all'altro. In molti lavori di Bruno è possibile ritrovare tracce e
agganci ad opere già pubblicate o da pubblicare. Ma è indiscutibile
che questa rigorosa successione dei dialoghi assuma un valore ancora
più consistente, se considerata come elemento simbolico di un disegno
organico. Il Nolano, infatti, segue un procedimento ben definito. Ina-
nella i testi con particolare abilità. Getta prima le basi della sua co-
smologia infinitistica. E dopo aver liberato l'universo dalle catene del
geocentrismo, cerca di liberare, con movimenti successivi e conseguen-
ziali, la materia, l'etica, l'estetica e la conoscenza. L'ordine dei dialoghi
non è affidato al caso o alle contingenze. Bruno scrive la Cena ed ha
già in mente, per grandi linee, i Furori. Parte dalla filosofia della na-
tura, passa per la filosofia morale e approda alla filosofia contempla-
tiva. Segue uno schema ascendente ben preciso, frutto di un pro-
gramma coerente e predeterminato. Vuole dar prova di sé, coprendo
l'intero percorso del sapere. Vuole dialogare, in quegli anni particolar-
mente fecondi della sua produzione intellettuale, con filosofi e letterati
che operano soprattutto a Parigi e a Londra.
Il genere dialogo si presta facilmente a questo scopo. La sua strut-
tura duttile gli consente di inserire nel canovaccio teorico elementi di
attualità che fanno presa diretta sulla realtà londinese. I contesti delle
opere in volgare, veri o falsi che siano, non debbono trarre in inganno.
Bruno non aspettava certo la cena con i dottori oxoniensi per espri-
mere la sua nuova cosmologia. La disputa si presenta come un'occa-
sione («quelli che n'han donato occasione di far il dialogo») '°^ come
un evento di cronaca che consente all'autore di amalgamare abilmente
la sua interpretazione dell'eliocentrismo con un'analisi spietata del de-
grado delle università inglesi. Lo sfondo realistico di alcune circo-
stanze però non può farci credere che il Nolano si limiti, come un
notaio, a registrare i contenuti delle conversazioni. Non bisogna rele-
gare lo scheletro filosofico dell'opera nell'angusto spazio della situa-
zione dialogica. L'intervento a caldo rivela, invece, l'abilità dell'autore
nello sfruttare fino in fondo le potenzialità di un genere aperto all'im-
loi. Furori, p. 544.
102. Cena, p. 432.
103. Ibidem, p. 438.
42 INTRODUZIONE
mediata attuai izzazione dei contenuti"^. A Londra avrà certamente
discusso di quei temi così scottanti con vari interlocutori ed è normale
che diversi passaggi testuali siano segnati da queste esperienze dirette.
Ma i nuclei vitali della sua filosofia erano già lì, come in un brogliac-
cio, pronti per essere limati, perfezionati, ripensati in questo o in quel
passaggio.
A Londra, insomma, si consolida e si consuma un'esperienza già
iniziata a Parigi con il Candelaio. Sotto il tetto di Michel de Castelnau
il Nolano lavora sodo. Pensa, scrive, rielabora, corregge, rivede. Segue
personalmente, come Aquilecchia ha magistralmente dimostrato, la
stampa dei suoi testi sui banchi di John Charlewood '"'. Ma lavora su
un canovaccio organico, su un programma globale che dal primo dia-
logo include anche l'ultimo '°''.
III.
GLI INGANNI DELL'IGNORANZA:
IL CANDELAIO TRA REALTÀ E APPARENZA
Bruno inaugura a Parigi la stagione in volgare con una commedia.
Vuole dare un primo assaggio della sua filosofia in una chiave esplici-
tamente comica. Una vera e propria ouverture, dicevamo, capace di
anticipare alcuni temi forti del suo pensiero e, nello stesso tempo, in
grado di tracciare per grandi linee i princìpi generali di una poetica.
L'ermeneutica del Sileno, che caratterizzerà l'intera produzione dialo-
gica, trova già nel Candelaio la sua prima formulazione. Bisogna pren-
dere le mosse dal comico per cogliere i meccanismi che regolano la
funzione del modello.
104. Sul dialogo come strumento di divulgazione scientifica, da Galilei alla
prima metà del Settecento, mi permetto di rinviare, soprattutto per i rimandi
bibliografici, a N. Ordine, Il genere dialogo tra latino e volgare, in Manuale di
letteratura italiana. Storia per Generi e Problemi cit, pp. 500-504.
105. Giovanni Aquilecchia, Le opere italiane di Giordano Bruno. Critica
testuale e oltre, Napoli, Bibliopolis, 1991.
106. Sull'unità organica dei dialoghi italiani hanno insistito, con diverse
argomentazioni, anche Miguel Angel Granada [Introdudion à Giordano
Bruno, Des furéurs héroìques. (Euvres complètes. VII, texte établi par Giovanni
Aquilecchia, introduction et notes de Miguel Angel Granada, traduction de
Paul-Henri Michel revue par Yves Hersant, Paris, Les Belles Lettres, 1999, pp.
XXXIX-LVI) e Alfonso Ingegno {Regia pazzia. Bruno lettore di Calvino, Urbino,
QuattroVenti, 1987, pp. 143-148).
INTRODUZIONE 43
Innanzitutto, occorre affrontare l'enigmatica struttura tripartita
della commedia Perché intrecciare tre storie all'interno di un'unica
pièce} Si tratta di una scelta casuale o di un disegno ben meditato?
Senza tirare in ballo ipotesi numerologiche o esoterismi trinitari, si
potrebbe supporre che Bruno abbia voluto semplicemente mettere in
scena tre personaggi-tipo del teatro cinquecentesco: l'innamorato, l'al-
chimista e il pedante. Ma perché proprio questi tre, fra i tanti di cui si
sarebbe potuto servire? E poi, ritornando al quesito di partenza,
perché tre e non quattro o cinque o due?
Probabilmente, una risposta potrebbe venire da un'analisi delle
teorie del comico. Rileggere la trattatistica sui meccanismi che susci-
tano il riso non significa limitarsi alle poche righe dedicate alla com-
media nella Poetica di Aristotele. A fianco della tesi dominante dello
Stagirita, su cui ci soffermeremo più avanti, nel dibattito cinquecente-
sco bisogna anche registare la diffusa presenza, implicita o esplicita,
del Filebo di Platone, già pubblicato in latino nel 1484 da Marsilio
Ficino'°^. Nella Lezione sopra il comporre delle novelle (1574), per esem-
pio, Francesco Bonciani, pur avvalendosi della precettistica aristote-
lica, ricorre al dialogo platonico per offrire uno schema dei meccani-
smi che provocano il riso"'^. La stessa scelta avevano compiuto, in
maniera più o meno sfumata, il Maggi, il Trissino e il Ccistelvetro nei
loro commenti alla Poetica'^^'^.
n Filebo di Platone e la «non conoscenza di sé»
Le pagine del Filebo sul comico presentano, infatti, una serie di ri-
flessioni caratterizzate dall'intreccio tra filosofia e letteratura. Socrate,
nel corso del dialogo, analizza il concetto di «bene», ridiscutendo le
definizioni correnti di piacere, di gioia, di godimento. E per fornire un
esempio della compresenza di piacere e di dolore nell'anima si sof-
107. Sulla traduzione del Filebo realizzata da Ficino rinviamo alla detta-
gliata analisi di Ernesto Berti, Osservazioni filologiche alla versione del Filebo
di Marsilio Ficino, in E Filebo di Platone e la sua fortuna. Atti del convegno di
Napoli 4-6 novembre 1993, a cura di Paolo Cosenza, Napoli, M. D'Auria Edi-
tore, 1996, pp. 93-167.
108. Francesco Bonciani, Lezione sopra il comporre delle novelle, in Nuc-
cio Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento, Napoli, Liguori,
1996, pp. 121-124. SulFaristotelismo di Bonciani cfr. Trattati di poetica e di re-
torica del Cinquecento, a cura di Bernard Weinberg, Bari, Laterza, 1972, t. Ili,
pp. 493-494. , „ „
109. Sulla presenza del Filebo nei commenti cmquecenteschi alla Poetica di
Aristotele cfr. Nuccio Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinque-
cento cit, pp. 76-82.
44
INTRODUZIONE
ferma sulla natura degli spettacoli teatrali («E la disposizione della
nostra anima nelle commedie, tu sai che in questi casi c'è una mesco-
lanza di dolore e di piacere») "°. Proprio l'interesse per la commistione
di affezioni opposte - come il riso e il pianto, per esempio, possano
combinarsi «nell'intera tragedia e commedia della vita»'" -, spinge
Platone a esaminare i meccanismi che scatenano il ridicolo. Si tratta
di una breve ed intensa digressione (47d-5oe), in cui viene formulata
per la prima volta una spiegazione che mette in gioco contemporanea-
mente la vittima, l'autore e lo spettatore "2.
Socrate, per persuadere il suo interlocutore, fissa in una celebre
immagine la causa del ridicolo: per capire bene cosa accade, sulla
scena teatrale e sulla scena della vita, bisogna pensare la «situazione
contraria a quella indicata dall'iscrizione di Delfi» "^. In effetti, l'ele-
mento che scatena il riso viene provocato dalla «non conoscenza di
sé», da un vizio dell'anima che genera false opinioni sul proprio
valore. Una sorta di pericolosa ignoranza che si esplica in tre ambiti
ben precisi:
a) la prima riguarda la ricchezza, i beni di fortuna: crediamo di
essere ricchi più di quanto in realtà non siamo («In primo luogo per
quanto riguarda le ricchezze, credendosi più ricco di quanto comporti
la sua sostanza») "■••,
b) la seconda si basa sulle qualità del corpo: crediamo di essere
belli o forti più di quanto in realtà non siamo («Ma più numerosi sono
quelli che si credono più grandi e più belli e superiori in ogni qualità
corporea rispetto a quello che sono veramente») "';
e) la terza investe le qualità dell'anima: crediamo di essere vir-
tuosi più di quanto in realtà non siamo («Ma di gran lunga più nume-
rosi, credo, sono quelli che si sbcigliano a proposito del terzo aspetto,
no. Platone, Filebo, in Dialoghi filosofici, a cura di Giovanni Cambiano,
Torino, Utet, 1981, t. II (48 a), p. 541.
111. Ibidem (5ob), p. 544.
112. Per un'analisi di questi passaggi del Filebo si vedano almeno: M. Ma-
DER, Das Problem des Lachens und der Komódie bei Platon, Stuttgart, W.
Kohlhammer, 1977, pp. 13-28; Salvatore Cerasuolo, La teoria del comico nel
«Filebo» di Platone, Napoli, Turris Eburnea, 1980; Giulio Ferroni, Frammenti
di un discorso sul comico, in AA.VV., Ambiguità del comico, Palermo, Sellerio,
1983, pp. 19-23; N. Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento
cit, pp. 3-7; Anne Gabriele Wersinger, Comment dire l'envie jalouseP, in La
fèlure du plaisir. Études sur le Philèbe de Platon, commentaires sous la direction
de Monique Dixsaut, Paris, Vrin, 1999, voi. i, pp. 319-328.
113. Platone, Filebo in Dialoghi filosofici cit (48 c-d), p. 542.
114. Ibidem (48 e), p. 542.
115. Ibidem.
INTRODUZIONE 45
quello delle proprietà dell'anima, credendosi migliori per virtù, senza
esserlo »)''^
Il ridicolo, secondo l'interpretazione proposta da Socrate, nasce
dallo scarto che si crea tra ciò che noi crediamo di essere e ciò che in
effetti siamo. Chi provoca il riso, insomma, ostenta una presunzione di
superiorità che viene smentita dall'evidenza dei fatti, dalla realtà og-
gettiva che si presenta sulla scena. Millantare ricchezze, qualità fisiche
o virtù genera naturalmente il riso. Ma la tripartizione, nel modello
socratico, si riduce ad un'unica radice: la non conoscenza di sé, l'osten-
tazione di una supposta sapienza che finisce per rovesciarsi in una
misera ignoranza.
Il discorso di Socrate naturalmente coinvolge altre importanti que-
stioni (i rapporti di forza che si creano tra vittima e pubblico o la
funzione determinante deir« invidia» nel provocare la commistione di
piacere e di dolore in chi assiste alla scena comica) che non è possibile
affrontare in questa sede. Resta per noi importante, invece, il modello
interpretativo dei meccanismi che scatenano il riso.
La struttura tripartita della commedia
Ad un'analisi approfondita del Candelaio, infatti, i tre protagonisti
potrebbero esemplificare perfettamente lo schema disegnato nel Filebo:
a) Bartolomeo si inganna intomo alle ricchezze, ai beni mate-
riali: crede di essere potenzialmente ricco perché, dopo tanto penare, si
illude di aver ottenuto la formula che gli consentirà di fabbricare
l'oro; invece, agli occhi degli spettatori e dei personaggi che lo hanno
derubato, finirà per mostrare la sua reale povertà a causa delle somme
di danaro investite nella vana alchimia"^;
b) Bonifacio si inganna intomo ai beni del corpo: non solo ritiene
di poter possedere la signora Vittoria per le sue doti fisiche («Or che
dumque sarà di Bonifacio che, come non si trovassero uomini al
ii6. Ibidem.
II j. Ecco come la moglie descrive Bartolomeo, ormai sicuro di poter rive-
stire d'oro le travi della sua casa: «Le sue gemme e pietre preciose son gli
carboni, gli angeli son le bozzole che sono attaccate in ordinanza ne' fornelli
con que' nasi di vetro da equa; e da Uà tanti lambicchi di ferro, e de più
grandi e de più piccoli e di mezzani. E che salta, e che balla, e che canta quel
sciagurato che mi fa sovvenire dell'asino. Poco fa, per veder che cosa fa-
cess'egli, ho posto l'occhio ad una rima de la porta, e l'ho veduto assiso sopra
la sedia a modo di catedrante, con una gamba distesa da equa et un'altra di-
stesa da Uà, guardando gli travi della intempiatura della camera; a' quali, dopo
aver cennato tre volte co la testa, disse: "Voi, voi impiastrare di stelle fatte di
oro massiccio"» (Candelaio, pp. 303-304).
46 INTRODUZIONE
mondo, pensa d'essere amato per gli belli occhii suoi?»)"^ ma non si
rende conto, come gli suggerisce Gioan Bernardo, di esser «cande-
laio»'^^ e non «orefice» '^°;
118. Ibidem, p. 348. Sarà Bonifacio stesso a ricordare a Marta che gli attem-
pati hanno bisogno di giovinette: «In conclusione, madonna cara: a gatto vec-
chio sorece tenerello» [Ibidem, p. 358). In un passaggio dei Furori, inoltre.
Bruno fa riferimento al vecchio che si innamora, alludendo a uno dei topoi
teatrali più diffusi: «Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade
l'amor mette l'alfabeto in mano» (p. 87).
119. «Da candelaio volete doventar orefice»: Candelaio, p. 296. In maniera
più esplicita, l'allusione all'omosessualità di Bonifacio emerge anche dalla con-
versazione tra madonna Angela Spigna e Carubina: «A costei venne madonna
Carabina e disse: "Madre mia, voglion darmi marito: me si presenta Bonifacio
Trucco, il quale ha di che e di modo"; rispose la vecchia: "Prendilo"; "Sì, ma è
troppo attempato", disse Carubina; respose la vechia: "Figlia, non lo prendere";
[...] "Sono informata" disse Carubina, "ch'have un levrier di buona razza";
"Prendilo", rispose la vecchia madonn'Angela; "Ma ehimè" disse, "ho udito dir
ch'è candelaio"; "Non lo prendere", rispose» {Ibidem, pp. 418-419). Questo esi-
larante passaggio ricorda molto da vicino i ragionamenti prò e cantra il matri-
monio messi in scena nel Marescalco dell'Aretino (Pietro Aretino, Teatro, a
cura di Giorgio Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971, pp. 15-18 e pp. 82-83), che
probabilmente ispirarono anche il famosissimo dialogo tra Panurge e Panta-
gruel sull'opportunità di prender moglie (Rabelais, Le Tiers Livre cit, [eh. IX],
pp. 601-605; trad. it, t I, pp. 346-348). I tre testi sono messi a confronto da
Marcel Tetel, Rabelais et l'Italie, Firenze, Olschki, 1969, pp. 32-59.
120. Bonifacio ammette di non capire la battuta di Gioan Bernardo: «[...]
ecco costui non so che diavolo voglia intendere per l'orefice» {Candelaio, p. 296).
Nel colorito linguaggio metaforico della poesia burlesca rinascimentale il ter-
mine «oro» allude al rapporto sessuale «secondo natura», in opposizione ad
«argento», che essendo «meno prezioso», allude alla sodomia (cfr. la Canzona
dell'argento di Bernardo Giambullari e i Giovani fiorentini tornati dall'isole del
Perù del Lasca in Trionfi e Canti Carnascialeschi, a cura di Riccardo Bruscagli,
Roma, Salerno editrice, 1986, voli. I-II, pp. 260-261 e p. 388). Ma il termine
«orefice» in opposizione a quello di «candelaio» potrebbe anche tradurre il
contrasto tra la funzione «attiva» dell'artigiano e quella «passiva» dell'oggetto,
rinviando al dotto dibattito medievale sul deus arti/ex. Nei commenti al Timeo
di Platone, infatti. Dio viene indicato come artefice, demiurgo, vasaio, fabbro,
architetto, costruttore del cosmo. Tra le diverse metafore artigianali, nel Libar
de Planctu Naturae di Alano di Lilla figura anche quella di faber aurarius:
«Cum Deus ab ideali intemae praeconceptionis thalamo mundialis palatii fa-
bricam foras voluit enotare, et mentale verbum quod ab aetemo de mundi con-
stitutione conceperat reali ejusdem existentia velut materiali verbo depingere,
tanquam mundi elegans architectus, tanquam aitreae fabricae faber aurarius, ve-
lut stupendi artificii artificiosus artifex, tanquam ammirandi operis operarius
opifex [...) mundialis regiae admirabilem speciem fabricavit» (Alanus ab Insu-
lis, Liber de Planctu Naturae, in The Anglo-Latin Satirical Poets and Epigram-
maiists of Twelfth Century, now first collected and edited by Thomas Wright,
London [diversi editori], 1872, voi. II, p. 468-469 [il corsivo è nostro]; ristampa
anastatica Lessingdruckerei Wiesbaden, Kraus Reprint LTD, 1964). Anche nel
Cantico dei Cantici si fa riferimento al lavoro dell'orefice per indicare allegori-
camente il Deus artifex che modella i corpi: «Come son belli i tuoi piedi /nei
sandali, o nobile figlia, / le curve delle tue cosce, come monili, / lavoro di mano
d'artista» (Cantico dei Cantici [7-2], introduzione di Antonia S. Byatt, tradu-
zione dai testi originali di Fulvio Nardoni, Torino, Einaudi, 1999, p. 16). Que-
INTRODUZIONE 47
c) Mamfurio si inganna intomo ai beni dell'anima: crede di essere
un virtuoso pedagogo, mentre si rivela uno sterile pedante ^^^.
Neir«Argumento et ordine della comedia» è detto chiaramente che
le «tre materie principali» sono «intessute insieme» e che i tre perso-
naggi sono diversi solo per la «cognizion distinta de suggetti» e per
«raggion dell'ordine et evidenza dell'artificiosa testura»:
Son tre materie principali intessute insieme ne la presente comedia:
l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedantaria di Mamfurio.
Però per la cognizion distinta de suggetti, raggion dell'ordine et evidenza
dell'artificiosa testura, rapportiamo prima da per lui l'insipido amante, se-
condo il sordido avaro, terzo il goffo pedante: de quali l'insipido non è
senza goffaria e sordidezza; il sordido è parimente insipido e goffo; et il
goffo non è men sordido et insipido che goffo '^2.
Qui Bruno non ammette equivoci: l'attribuzione a Bonifacio, a Bar-
tolomeo e a Mamfurio delle stesse qualità negative riconduce all'unità
la tripartizione iniziale. L'« insipido amante», il «sordido avaro» e il
«goffo pedante», infatti, sembrano essere il risultato di un solo atteg-
giamento in grado di generare tutti gli altri. Anche in questo caso il
tratto che accomuna i tre personaggi è proprio la non conoscenza di
sti testi, assieme ad altri commenti, sono analizzati da Ernst Curtius, Dio
come artefice, in Letteratura europea e Medio Evo Latino, a cura di Roberto An-
tonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 609-611. Proprio queste testimo-
nianze avvalorano il fatto che Bruno - al di là del riferimento osceno alla
modalità del rapporto - avrebbe potuto anche alludere al ruolo «attivo» del-
l'orefice, in grado di modellare la materia, e al doppio ruolo «passivo» dell'og-
getto (il candelaio): passivo per la sua funzione (perché è atto a ricevere la
candela), ma anche passivo perché esso stesso è frutto della creazione di un
artifex. Spetta all'orefice, infatti, fabbricare i candelieri: «Chi fabrica i calici, le
croci, le patene, i candelieri [...] se non loro?» (Tomaso Garzoni, Degli orefici, in
La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di Paolo Cherchi e
Beatrice Collina, Torino, Einaudi, 1996, t. I, p. 777).
121. Ecco come viene descritto Mamfurio nel Proprologo: «Vedrete ancor la
prosopopeia e maestà d'un omo masculini generis. Un che vi porta certi sua-
violi da far sdegnar un stomaco di porco o di gallina: un instaurator di quel
lazio antiquo, un emulator demostenico; un che ti suscita Tullio dal più pro-
fondo e tenebroso centro; concinitor di gesti de gli eroi. Eccovi presente
un'acutezza da far lacrimar gli occhi, gricciar i capelli, stuppefar i denti; petar,
rizzar, tussir e starnutare. [...] Voi vedrete un di questi che mastica dottrina,
olface opinioni, sputa sentenze, minge autoritadi, eructa arcani, exuda chiari e
lunatici inchiostri, semina ambrosia e nectar di giudicii, da fame la credenza a
Ganimede e poi un brindes al fulgorante Giove. Vedrete un pubercola sinoni-
mico, epitetico, appositorio, suppositorio: bidello di Minerva, amostante di Pal-
lade, tromba di Mercurio, patriarca di Muse, e delfino del regno apollinesco (po-
co mancò ch'io non dicesse "polledresco")» {Candelaio, pp. 279-281). In questo
passaggio si trovano anticipati una serie di topoi che Bruno riprenderà in altri
passaggi antipedanteschi nei dialoghi italiani: cfr. infra, p. 76 e pp. 172-177.
122. Candelaio, p. 265.
48 INTRODUZIONE
sé. Il ridicolo viene causato da una presunzione di sapienza, dallo
scarto evidente che si crea sulla scena tra ciò che il personaggio crede
di essere e quello che effettivamente è. Lo schema tripartito potrebbe
allora tradurre in maniera simbolica uno dei nuclei vitali del pensiero
bruniano: la dialettica realtà-apparenza.
Il Candelaio si presenta, insomma, come messa in scena dell'igno-
ranza, come esemplificazione degli errori e delle follie che scaturiscono
da un sapere apparente, come rappresentazione di una serie di vani
esercizi pseudo-cognitivi:
Eccovi avanti gli occhii: ociosi principii, debili orditure, vani pensieri,
frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presup-
positi, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion
di fantasia, smarito peregrinaggio d'intelletto; fede sfrenate, cure insensate,
studi incerti, semenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia. [...] Vedrete
ancor in confuso tratti di marioli, statagemme di barri, imprese di fur-
fanti; oltre, dolci disgusti, piaceri amari, determinazion folle, fede fallite,
zoppe speranze, e caritadi scarse; giudicii grandi e gravi in fatti altrui,
poco sentimento ne' propri; temine virile, effeminati maschii; «tante voci
di testa e non di petto»: «chi più di tutti crede più s'inganna»; «e di scudi
l'amor universale». Quindi procedeno febbre quartane, cancheri spirituali,
pensieri manco di peso, sciocchezze traboccanti, intoppi baccellieri, gran-
chiate maestre, e sdrucciolate da fiaccars'il collo; oltre, il voler che spinge,
il saper ch'appressa, il far che frutta; «e diligenza madre de gli effetti». In
conclusione vedrete in tutto non esser cosa di sicuro: ma assai di negocio,
difetto a bastanza, poco di bello, e nulla di buono ^^^.
Attraverso questo scarto tra ciò che crediamo di essere e ciò che in
effetti siamo, tra ciò che sembra e ciò che è, la commedia ci mostra
come le apparenze («chi più di tutti crede più s'inganna») possano
ingannarci su diversi piani. Ricostruire la fitta rete di illusioni tessuta
nella commedia significa individuare alcuni nuclei centrali del pen-
siero filosofico di Bruno.
Le apparenze ingannano sul piano della poetica
Aristotele nella Poetica sancisce una separazione netta fra tragedia
e commedia, non solo sul piano dell'imitazione ma anche su quello
dello stile: la prima deve mettere in scena con un linguaggio aulico
personaggi e azioni nobili, mentre la seconda deve avvalersi di perso-
Uciggi vili che agiscono e parlano in sintonia con l'ambiente sociale di
123. Ibidem, pp. 277-281. Sull'antipetrarchismo bruniano cfr. infra pp. 172-
176.
INTRODUZIONE
49
cui sono espressione '24. La distinzione, nella trattatistica cinquecente-
sca, viene tradotta in una serie di formule prescrittive che hanno con-
tribuito ancor più a marcare la distanza tra i due generi.
Il Candelaio, ma lo stesso discorso vale anche per i dialoghi succes-
sivi, si fonda proprio sulla commistione di tragedia e commedia, di
riso e pianto. Al di là del motto che campeggia sul frontespizio («In
tristitia hilaris, in hilaritate tristis»), sono molteplici le allusioni al-
l'impossibilità di separare due opposti che interagiscono continua-
mente nella pièce. Se le riflessioni di Scaramuré mostrano come uno
stesso evento possa essere per alcuni tragedia e per altri commedia
(«La vostra comedia è bella: ma in fatti di costoro, è una troppo fasti-
diosa tragedia») 125^ il racconto di Marca della bagarre scatenatasi nel-
l'osteria del Cerriglio rivela l'enorme difficoltà a tracciare nette distin-
zioni tra i contrari sulla scena del teatro del mondo:
Concorsero molti: de quali, altri pigliandosi spasso altri attristandosi,
altri piangendo altri ridendo, questi consigliando quelli sperando, altri fa-
cendo un viso altri un altro, altri questo linguaggio et altri quello, era
veder insieme comedia e tragedia, e chi sonava a gloria e chi a mortoro. Di
sorte che, chi volesse vedere come sta fatto il mondo, derebbe desiderare
d'esservi stato presente '-6.
Le apparenze ingannano sul piano dei contenuti
Come il riso non può essere separato dal pianto e la commedia
dalla tragedia, alla stessa maniera il comico non può essere separato
dal serio. Dietro l'involucro ridicolo del Candelaio, Bruno ci presenta i
semi di una nuova filosofia. La poetica del Sileno, insomma, trova già
nella struttura della pièce la sua concreta anticipazione. Qui il comico
non è solo divertissement, è soprattutto uno strumento di conoscenza.
124. «Ed è per tale diversità che la tragedia differisce dalla commedia: que-
sta si propone di raffigurare uomini peggiori di come esistono realmente, e la
tragedia invece superiori»; Aristotele, Dell'arte poetica, a cura di Carlo Galla-
votti, Milano, Mondadori, 1978^ (48 a-15), p. 7.
125. Candelaio, p. 393.
126. Ibidem, p. 336. Anche nei Furori, Bruno descrive con sottile ironia il
suo essere sballottato tra la tragedia e la commedia: «Oltre perché traendolo da
un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Talia
con più vena che materia da l'altro, accadeva che l'una suffurandolo a l'altra,
lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente nego-
cioso» (p. 527). Del resto, anche Platone, pur nutrendo molta diffidenza per la
commedia, nel Simposio è costretto ad ammettere che «è proprio dello stesso
uomo saper comporre commedia e tragedia e chi è per tecnica poeta tragico
è "anche" poeta comico» (Platone, Simposio, in Dialoghi filosofici cit, 223 d,
p. 149).
50 INTRODUZIONE
un meccanismo al servizio di una Weltanschauung. Una delle sue più
importanti funzioni si evince anche dal ruolo di Momo, il dio-buffone
che attraverso il suo feroce sarcasmo provoca il riso fustigando gli dèi.
Sul «censore dell'opre di Giove» si sofferma Ascanio, in una intensa
conversazione con Gioan Bernardo, per sottolineare che «sono per
tutti necessarii questi che parlan liberamente»: il loro compito, infatti,
è proprio quello di far sì che principi e giudici «s'accorgano de gli
errori che fanno, e non conoscono mercé di poltroni e vilissimi adula-
tori» e che sentendosi sotto osservazione «temino di far una cosa più
ch'un'altra»'^^.
La «riabilitazione» di Momo, in effetti, dimostra che, in determi-
nati contesti, alcuni vizi possono essere considerati virtù e alcune
virtù vizi. La dote del dio del biasimo di «parlar liberamente» (e, tal-
volta, a sproposito come accade nello Spaccio) non è in contrasto con il
ruolo di teorico della dissimulazione, assegnatogli da Leon Battista Al-
berti nelle celebri pa^ne del Momus^^^. Non c'è da stupirsi. Per Bruno,
anche la dissimulazione non ha sempre e solo una funzione negativeu
Su questo tema, ancora una volta, il Candelaio sembra anticipare al-
cune riflessioni dello Spaccio. Nel dialogo londinese la pratica positiva
del dissimulare è posta in relazione alla verità: se normalmente la
«Dissimulazione» viene «stimata indegna del cielo», talvolta di essa
«soglion servirsi anco gli dèi» quando «per fuggir invidia, biasmo e
oltraggio, con gli vestimenti di costei la Prudenza suole occultar la
Veritade»^^''. Anche Scaramuré, in un esilarante passaggio della com-
127. Candelaio, p. 406.
128. Per un rapporto tra le pagine bruniane e il Momus di Alberti si ve-
dano: Eugenio Garin, Interpretazioni del Rinascimento, in Io., Medioevo e Ri-
nascimento, Roma-Bari, Laterza, 1990 3a, pp. 85-95; Id., Rinascite e rivoluzioni.
Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 140-
141; Lorenza Aluffi Begliomini, Note sull'opera dell'Alberti: il Momus e il
De re aedificatoria, in «Rinascimento», 12 (1972), p. 267 e p. 273; Stefano
SlMONClNl, L'avventura di Momo nel Rinascimento. Il nume della critica tra Leon
Battista Alberti e Giordano Bruno, in «Rinascimento», 38 (1998), pp. 431-454;
N. Ordine, Introduction à Giordano Bruno, Expulsion de la bete triomphan-
te. QLuvres complètes. V, texte établi par Giovanni Aquilecchia, notes de Ma-
ria Pia Ellero, traduction de Jean Balsamo, Paris, Les Belles Lettres, 1999, pp-
CLXXXVn-CLXXXVIII.
129. Spaccio, p. 304. Bruno cita, a questo proposito, l'esordio dell'Orlando
furioso (IV, i) in cui l'Ariosto discute gli «evidenti benefici» prodotti dalla si-
mulazione. Sulla nozione di dissimulazione in Bruno cfr Rosario Villari,
Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, Laterza,
1987, pp. 36-38 (si veda da ultimo anche il saggio di Jean-Pierre Cavaillé,
Théorie et pratique de la dissimulation dans le Spaccio de la bestia trionfante, in
Mondes, formes et société selon Giordano Bruno, Acte du Colloque International
Giordano Bruno - Paris 23-25 mars 2000, in corso di stampa). Per un'analisi
della teoria della dissimulazione in Accetto cfr Salvatore S. Nigro, Usi della
INTRODUZIONE 5I
media, le assegna una funzione positiva nell'ambito della giustiziammo,
per evitare pericolose vendette e inutili spargimenti di sangue:
Quanto alle parte onorate, la giustizia verrebbe a farli grandissimo
torto et ingiuria; per che non contrapesa il castigo che si dà a colui che
pianta le coma, et il vituperio che viene a fare ad un personaggio, facendo
la sua vergogna publica e notoria a gli occhi di tutto il mondo: sì che è
maggior l'offesa che patisce da la giustizia, che del delinquente; e ben che
nientemanco il mondo tutto lo sapesse, tutta via sempre le coma con
l'atto de la giustizia dovengono più sollenne e gloriose. Ogn'uomo dumque
capace di giudicio considera che questo dissimular che fa la giustizia, im-
pedisce molti inconvenienti: per che un cornuto e svergognato coperto (se
pur un tale può esser ditto cornuto o svergognato, di cui l'esistimazione
non è corrotta), per téma di non essere discoperto, o per minor cura ch'ab-
bia di quelle coma che nisciun le vede (le quali in fatto son nulla), si
astiene di far quella vendetta: la quale sarrebbe ubligato secondo il mondo
di fare, quando il caso a molti è manifesto '^i.
Occultare le coma, stendere su di esse un velo, significa neutraliz-
zare parzialmente una pratica diffusa che potrebbe provocare tragiche
lacerazioni nel tessuto sociale. Il giudice che rende giustizia al coniuge
tradito con una esemplare sentenza finisce per umiliarlo ancora di
più, perché nell'accertare la verità e nel fugare ogni dubbio trasforma
un disonore celato in un disonore universalmente manifesto. Bruno
piega il topos delle coma, tanto caro a Rabelais"^, a rappresentare in
pazienza, in Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, Torino, Einaudi,
1997, pp. XI-XXX.
130. Al tema della giustizia (per il Candelaio cfr. infra, p. 55 e p. 61) Bruno
dedicherà pagine importantissime nell'ampia architettura dello Spaccio: cfr. in-
fra pp. 102-104. Il termine «giustizia» ricorre 19 volte nel Candelaio e ben 69
volte nello Spaccio, mentre nelle altre opere italiane viene utilizzato solo 3 volte
nella Cena, i volta nel De la causa, 3 volte nella Cabala e 6 volte nei Furori.
131. Candelaio, p. 402. Il tema della coma sarà ripreso, da un altro punto di
vista, in un passaggio dello Spaccio (pp. 369-371).
132. Sullo stretto legame tra matrimonio e coma si intrattiene il medico
Rondibilis in Rabelais, Tiers Livre (eh. 32 e 33), cit, pp. 749-759 (trad. it, cit.,
pp. 427-432). Delle coma discutono anche Anton Francesco Doni, Giovan Bat-
tista Modio, Pietro Nelli, Anton Francesco Grazzini, Tommaso Garzoni: su
questi testi, soprattutto per i rinvìi bibliografici, si veda Maria Cristina Fi-
GORILLI, L'elogio paradossale nel Cinquecento. Indagine su testi volgari in prosa.
Tesi di dottorato, Università della Calabria, 2001. Per un'analisi del topos cfr.
anche: Patrick Dandrey, Véloge paradoxal de Gorgias à Molière, Paris, Puf,
1997, pp. 110-113 e pp. 252-269; Lina Bolzoni, Il mondo utopico e il mondo dei
cornuti. Plagio e paradosso nelle traduzioni di Gabriel Chappuys, in «I Tatti Stu-
dies», 8 (1999), pp. 171-196. A queste pagine bnmiane probabilmente si ispirò
Pirandello nel Berretto a sonagli (cfr. Nino Borsellino, Giordano Bruno eroico
e comico, in «L'illuminista», i, 2000, p. loi; ma di Borsellino si veda anche il
saggio sul Candelaio: Io., Necrologio della pazzia, in ID., Rozzi e Intronati. Espe-
52 INTRODUZIONE
maniera concreta la relatività dei punti di vista, perché nessuna cosa
in sé può essere giudicata in assoluto come fonte del male o del bene,
di vizi o di virtù ^^'. Del resto, come abbiamo già visto nel paragrafo
precedente, la stessa maschera comica del Sileno ha una funzione dis-
simulatrice, ponendosi come scudo protettivo per tener lontana la
moltitudine degli ignoranti.
Sul tema dell'onore '^•^ si era soffermato, qualche scena prima, il pit-
tore Gioan Bernardo, deus ex machina del Candelaio. Per far cedere Ca-
rubina, timorosa di compromettere la sua dignità morale, non esita a
tessere un elogio dell'apparenza;
Vita della mia vita, credo ben che sappiate che cosa è onore, e che cosa
anco sii disonore. Onore non è altro che una stima, una riputazione: però
sta semper intatto l'onore, quando la stima e riputazione persevera la me-
desma. Onore è la buona opinione che altri abbiano di noi: mentre perse-
vera questa, persevera l'onore. E non è quel che noi siamo e quel [che] noi
facciamo, che ne rendi onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri sti-
mano e pensano di noi'''.
L'ironia sulla preminenza dell'apparire sull'essere, benché strumen-
talmente al servizio di una strategia argomentativa finalizzata alla
conquista della moglie di Bonifacio"'", vuole mettere l'accento su una
delle cause che hanno provocato l'imbarbarimento della società. In
contrasto con tutta la manualistica cortigiana sul comportamento''^.
rienze e forme di teatro dal «Decameron» al «Candelaio», seconda edizione accre-
sciuta, Roma. Bulzoni. 1976. pp. 201-209).
133. «perché nulla è absolutamente. ma per certo rispetto, malo»: Spaccio, p.
373. Anche Speroni insiste sul fatto che ogni cosa, oltre al male, può anche con-
tenere il bene: « Ma non è cosa qua giuso né così rea che qualche bene non abbia
in sé» (Sperone Speroni, Opere, introduzione di Mario Pozzi, Manziana, Vec-
chiarelli, 1989, t V, p. 432; risi anast. dell'ed. Venezia, Domenico Occhi, 1749).
134. Nella riforma dello Spaccio l'Onore occupa un posto importantissimo.
Bruno lo considera in opposizione alle tesi sostenute dall'Ozio, dai riformati e
dai sostenitori delFetà dell'oro, riprendendo temi discussi da Machiavelli e da
alcuni membri dell'Accademia di Enrico III: cfr. infra pp. 103-104.
135. Candelaio, p. 388.
136. «Con questo. (XI scena), Carubina rimane nelle griffe di Gioan Ber-
nardo, il quale (come è costume di que' che ardentemente amano) con tutte
sottigliezze d'epicuraica filosofia (Amor fiacca il timor d'omini e numi) cerca di
troncare il legame del scrupolo che Carubina, insolita a mangiar più d'una
minestra, avesse possuto avere: della quale è pur da pensare che desiderasse
più d'esser vinta, che di vencere; però gli piacque di andar a disputar in luoco
più remoto»: Candelaio, p. 269.
137. Su questo tema cfr. Nuccio Ordine, Grandi modelli, rovesciamento dei
codici, precettistica del quotidiano, in Manuale di letteratura italiana. Storia per
Generi e Problemi cit., pp. 505-522 (cfr. anche Io., Le Sei giornate: struttura del
dialogo e parodia della trattatistica sul comportamento, in Pietro Aretino nel cin-
quecentenario della nascita cit, pp. 673-716).
INTRODUZIONE 53
Bruno vuole mettere in risalto i limiti di una realtà dove non conta
più «ciò che noi siamo e quel [che] noi facciamo» veramente, ma ciò
che gli «altri stimano e pensano di noi», l'immagine esteriore che noi
stessi riusciamo ad imporre.
Gioan Bernardo parla con cognizione di causa. Anche lui^ nono-
stante il ruolo di portavoce dell'autore, si è lasciato imprigionare, seb-
bene per un momento, nella rete delle false opinioni. Ingannato dalle
apparenze, ha erroneamente scaricato sulla «fortuna traditora» tutte le
responsabilità degli «errori che accadeno»:
Voi la intendete bene. Tutti gli errori che accadeno, son per questa
fortuna traditora: quella ch'ha dato tanto bene al tuo padrone Malefacio, e
me l'ha tolto. Questa fa onorato chi non merita, dà buon campo a chi noi
semina, buon orto a chi noi pianta, molti scudi a chi non le sa spendere,
molti figli a chi non può allevarli, buon appetito a chi non ha che man-
giare, biscotti a chi non ha denti. Ma che dico io? deve esser iscusata la
poverina per che è cieca, e cercando per donar gli beni ch'have intra le
mani, camina a tastoni; e per il più s'abbatte a sciocchi, insensati e fur-
fanti: de quali il mondo tutto è pieno. Gran caso è quando tocca di per-
sone degne che son poche; più grande si tocca una de più degne che son
più poche; grandissimo et estra ogni ordinario, tanto ch'abbi tastato,
quanto ch'abbia a tastare un de dignissimi che son pochissimi. Dumque si
non è colpa sua, è colpa de chi l'ha fatta"*.
Ma di fronte alle obiezioni di Ascanio («Vogliono i dèi, che la sol-
lecitudine discaccie la mala ventura e faccia acquistar le cose deside-
rate»), il pittore riconosce immediatamente, a partire dalla sua espe-
rienza («questo che dici è vero, et al presente l'ho io isperimentato»),
che il possesso di Carubina, nonostante gli sia stato «negato dalla for-
tuna», si è rivelato possibile grazie al suo ingegno, alla sua capacità di
cogliere al volo l'occasione («il giudizio mi ha mostrata l'occasione; la
diligenza me l'ha fatta apprendere pe' capelli; e la perseveranza rite-
nirla»)"^. L'uomo non può restare inerme e inoperoso aspettando che
i propri desideri siano soddisfatti dall'alto, perché «a chi vuole, non è
cosa che sii difìcile»''"l Senza la sollecitudine, senza un intenso lavoro
è impensabile «acquistar le cose desiderate».
Non è difficile in queste pagine ritrovare alcuni temi che Bruno
svilupperà nello Spaccio con la stupenda orazione della Fortuna, ma-
nifesto teorico dell'operosità e della sollecitudine. Si tratta di questioni
138. Candelaio, pp. 407-
139. Ibidem, p. 408.
140. Ibidem, p. 410.
54 INTRODUZIONE
vitali che anche nel Candelaio emergono, in diversi contesti, a più ri-
prese. Basti pensare alla favola dell'asino e del leone, raccontata da
Sanguino. Ancora una situazione oscena, una storia licenziosa che su-
scita il riso. Ma la prontezza dell'asino svela la capacità di saper co-
gliere immediatamente l'occasione. Il patto sancito tra i due animali
invoca la reciproca lealtà: nell'attraversare un fiume, a turno, l'uno
trasporterà l'altro. Il leone nel primo passaggio, per paura di cadere in
acqua, «sempre più e più gli piantava l'unghie ne la pelle di sorte che
a quel povero animale gli penetromo in sin all'ossa»'"*'. Otto giorni
dopo però, spettò all'asino accomodarsi sulla groppa del compagno:
Il quale essendogli sopra, per non cascar ne l'acqua, co i denti afferrò la
cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su. gli cacciò il suo stru-
mento (o come vogliam dire, il tu-m'intendi), per parlar onestamente, al
vacuo sotto la coda, dove manca la pelle: di maniera ch'il leone sentì mag-
gior angoscia che sentir possa donna che sia nelle pene del parto, gridando
«Olà, olà, oi, oi, oi, oimè! olà traditore!». A cui rispose l'asino in volto se-
vero e grave tuono: «Pazienza, f ratei mio: vedi ch'io non ho altr'unghia
che questa d'attaccarmi». E cossi fu necessario ch'il leone suff risse et in-
durasse sin che fusse passato il fiume. A proposito, « Omnia rero vecissitudo
este»: e nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta venendogli a pro-
posito, non si serva de l'occasione '■'^.
Servirsi dell'occasione significa aguzzare l'ingegno, ma anche essere
attivo, approfittare del tempo, ripudiare l'ozio e convivere con la sol-
lecitudine. Vittoria, nel tracciare un bilancio della sua vita, riconosce
che chi «tempo aspetta, tempo perde», nel senso che se «io aspetto il
tempo, il tempo non aspettarà me»'"*'. Per sopravvivere bisogna che
«ci serviamo di fatti altrui, mentre par che quelli abbian bisogno di
noi», occorre prendere «la caccia mentre ti siegue, e non aspettar che
ella ti fugga», perché altro «n'abbiamo l'inverno che quel che raccol-
semo l'estate» '■♦■*. La sfilza di proverbi richiama alla mente la vitalità
141. Ibidem, p. 317.
142. Ibidem. Qui il tema dell'asino è utilizzato in una chiave positiva, come
simbolo dell'ingegno e del saper cogliere l'occasione. Ma, in un altro contesto
del Candelaio, Bruno fa riferimento all'asino per deridere la religione cristiana
ormai ridotta a pura superstizione: «Io ti dico in nome de la benedetta coda de
l'asino ch'adorano a Castello i Genoesi: fa presto, tristo e mal volentieri» (p.
283). Il concetto di «santa asinità», in un'accezione anticristiana, sarà ampia-
mente sviluppato nello Spaccio e nella Cabala. Sulla connotazione positiva e
negativa del simbolo dell'asino nella filosofia di Bruno cfr. N. Ordine, La ca-
bala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit
143. Candelaio, p. 315.
144. Ibidem, pp. 315-316. Vittoria insisterà ancora sull'occasione in un altro
monologo: «Si se farà troppo tardi non si potrà far nulla per questa volta: e
INTRODUZIONE 55
dei personaggi minori della commedia, svela la loro capacità di appro-
fittare di ogni situazione per piegare gli eventi a proprio vantaggio.
Dietro lo sfondo di una Napoli popolare, Bruno mostra come l'opero-
sità, indipendentemente dai suoi obiettivi, produca dei frutti. L'iperat-
tivismo, la grinta e l'esuberanza dei marioli, per esempio, irrorano di
vita la commedia e, nello stesso tempo, si pongono come bastioni su
cui si infrange l'ignoranza dei tre protagonisti '■'5.
Bonifacio, Bartolomeo e Mamfurio vivono nella loro immobilità,
nella loro presunzione di sapienza. Rappresentano l'esercizio dell'er-
rore in tre ambiti distinti, in tre domini che racchiudono l'intero uni-
verso della conoscenza. La loro ignoranza, infatti, investe tutti gli
aspetti della vita umana: quello sociale, quello fisico e quello spiri-
tuale. Bruno ricorderà, sempre nello Spaccio, la tripartizione dei beni
in un contesto diametralmente opposto a quello del Candelaio:
Ove il feroce PERSEO mostra il gorgoni© trofeo, monta la Fatica, Sol-
lecitudine, Studio, Fervore, Vigilanza, Negocio, Esercizio, Occupazione,
con gli sproni del Zelo e del Timore. Ha Perseo gli talari de l'util Pensiero,
e Dispreggio del ben popolare, con gli ministri Perseveranza, Ingegno, In-
dustria, Arte, Inquisizione e Diligenza; e per figli conosce l'Invenzione et
Acquisizione, de quali ciascuno ha tre vasi pieni di Bene di fortuna, di
Ben di corpo, di Bene d'animo'-"'.
Qui i tre «Beni» rappresentano valori speculari a quelli messi in
scena nella commedia: se nel dialogo londinese i «vasi», piazzati sotto
non so si se potrà di bel nuovo offrirsi tale occasione, come si presenta questa
sera, di far che questa pecoraccia raccoglia i frutti degni del suo amore» (Ibi-
dem, p. 347).
145. A più riprese Sanguino, capo dei malviventi, ricorda che la «giustizia
non mancarrà» [Candelaio, p. 385) e che gli «errori bisogna che si castighino»
(Ibidem, p. 39Q). Le punizioni inflitte ai tre protagonisti rivelano che nella dia-
lettica realtà/apparenza messa in scena nel Candelaio la giustizia si afferma
anche attraverso la collaborazione dei malfattori in un disegno naturale in cui
spesso «errori e delitti han molte volte porgiuta occasione a grandissime regole
di giustizia e di bontade» (Cena, p. 439). Rispetto ai «crimini» dei marioli, i
«delitti» commessi da Bonifacio, Bartolomeo e Mamfurio - al di là della loro
apparente innocuità — sono da considerarsi molto più pericolosi per la vita
sociale e intellettuale. Sul tema della giustizia ha recentemente insistito Luca
Ronconi nella sua splendida messa in scena del Candelaio: cfr. Conversazione
con Luca Ronconi, a cura di Claudio Longhi in Candelaio di Giordano Bruno.
Regia di Luca Ronconi, Milano, Piccolo Teatro di Milano, novembre 2001, pp.
17-27.
146. Spaccio, pp. 189-190. Bruno sarà ancora più esplicito in un altro pas-
saggio in cui l'Acquisizione non deve essere frutto di un donum, ma una ricom-
pensa per i propri meriti: «Sieguati l'Acquisizione con le munizioni sue, che
son Bene del corpo, Bene del animo, e (se vuoi) Bene de la fortuna; e di questi
voglio che più sieno amati da te quei che tu medesima hai acquistati, che altri
che ricevi da altrui» (Ibidem, p. 309).
56 INTRODUZIONE
l'influenza deireroico Perseo, incarnano in positivo tutte le conquiste
deirinvenzione e dell'Acquisizione, nella pièce invece rispecchiano in
negativo le amare vicende dei tre personaggi, caratterizzate proprio dal-
la sterilità e dalla perdita, dall'inseguimento illusorio, nel caso di Bo-
nifacio e di Bartolomeo, della falsa magia '•^' e della falsa alchimia'-^**.
Il teatro del mondo
La dialettica realtà-apparenza investe anche i rapporti tra vita e
arte, tra verità e finzione. La scena del Candelaio, come più volte ab-
biamo visto, si presenta soprattutto come scena del mondo. Già So-
crate nel Filebo aveva ricordato certe analogie tra le rappresentazioni
drammatiche e ciò che accade «nell'intera tragedia e commedia della
vita»'-'''. Bruno conosce la letteratura sul teatro del mondo. Lui stesso,
nei Furori, ricorre all'espressione («Che tragicomedia? che atto, dico,
degno più di compassione e riso può esseme ripresentato in questo
teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze» '5°) per ri-
147. Così Bonifacio viene persuaso da Scaramuré a ottenere Vittoria per
mezzo di pratiche magiche: «Basta basta: equi non bisogna altro; vogHo effec-
tuare il tuo negocio con magia naturale, lasciando a maggior opportunità le
superstizioni d'arte più profonda» {Candelaio, p. 297). Nella derisione delle pra-
tiche magiche - oltre a una ricca tradizione nella commedia cinquecentesca
(cfr. Michel Plaisance, Dal Candelaio di Giordano Bruno a Lo Astrologo di
Giovan Battista Della Porta, in Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali nella
drammaturgia europea fra '500 e '600, a cura di Silvia Carandini, Roma, Bul-
zoni, 2000. pp. 263-276) — è anche importante l'invettiva di Leonardo intito-
lata «Contro il negromante e l'alchimista» (Leonardo da Vinci. Scritti letterari,
a cura di Augusto Marinoni, nuova edizione accresciuta con i manoscritti di
Madrid, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 161-168; su questo aspetto cfr. Davide Sti-
MiLLi, Caricatura e carattere. Una lettura del Candelaio, in «Carte italiane», 12,
1991-1992, p. 5). Sulla vera «magia», in quanto conoscenza della natura. Bruno
ritornerà nello Spaccio, cfr. infra, pp. 111-112.
148. Gioan Bernardo smaschera con ironia i piani truffaldini di Cencio:
«Queste diavolo de raggioni no mi toccano punto l'intellecto. Io vorrei veder
l'oro fatto e voi meglior vestito che non andiate: penso ben che si tu sapessi far
oro non venderesti la ricetta da far oro, ma con essa lo faresti; e mentre fai oro
per un altro per fargli vedere la esperienza, lo faresti per te a fin di non aver
bisogno di vendere il secreto» (Candelaio, p. 300).
149. Cfr. supra p. 44, nota iii. Platone utilizza la metafora del mondo
come teatro anche nelle Leggi (VII, 8i7b).
150. Furori, pp. 488-489. Non bisogna dimenticare che questo tema segnerà
la straordinaria esperienza teatrale di Shakespeare: sul Globe Theatre è scol-
pito il motto Totus mundus agit histrionem, mentre nella commedia Come vi
/>iace Jacques ricorderà agli spettatori che «Ali the world's a stage, / And ali
the men and women merely players» [«Il mondo è tutto un palcoscenico, / e
uomini e donne, tutti, sono attori»] (William Shakespeare. Teatro completo,
voi. II, a cura di Giorgio Melchiori, traduzione di Antonio Calenda e Antonio
Nediani, Milano, Mondadori, 1982 [II, vii], pp. 520-521).
INTRODUZIONE 57
dicolizzare le ossessioni amorose dei petrarchisti. Ma il topos assume
probabilmente un significato più circoscritto rispetto alla sua naturale
caratterizzazione polisemica^'i
Nel Candelaio il rapporto vita-commedia non sembra tanto esem-
plificare la vanitas della nostra esistenza, il valore transitorio della
vita umana, l'attaccamento eccessivo agli aspetti materiali e fragili
della nostra quotidianità. Dalla tensione tra questi due piani, invece,
scaturisce con maggiore forza la scissione tra realtà ed apparenza che
dalla scena teatrale si trasferisce sulla scena del mondo. In effetti, gli
smarrimenti, le pazzie, gli errori non riguardano solo gli attori in tea-
tro ma soprattutto gli uomini sul palcoscenico della vita. La posizione
di Bruno è molto lontana da quella espressa da Epitteto. In un celebre
passaggio del suo Encheirìdion, infatti, lo stoico greco utilizza l'imma-
gine del teatro del mondo in una chiave fortemente deterministica: gli
uomini, proprio come gli attori, sono costretti a recitare una parte ben
precisa, imposta dall'autore («questo è il tuo compito, recitare bene il
ruolo che ti è stato assegnato; sceglierlo invece spetta a un altro») 1^2.
151. Sul topos del teatro del mondo si vedano: Ernst Robert Curtius,
Metafore teatrali, in Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di Roberto
Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 158-164; Antonio Vilanova, El
tema del gran teatro del mundo, in «Boletin de la Real Academia de Buenas
Letras de Barcelona», 23 (1950), pp. 153-158; Jacques Jacquot, Le Théatre du
Monde de Shakespeare à Calderon, in «Revue de littérature comparée» (1957),
pp. 341-372; Mario Costanzo, E «Gran Theatro del Mondo», Milano, Scheivil-
ler, 1964; L G. Christian, Theatrum mundi. The History of an Idea, New York-
Londres, 1987; Germana Ernst, Esistenza umana e commedia universale, in
Id., Religione, ragione e natura. Ricerche su Tommaso Campanella e il tardo Ri-
nascimento, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 146-157.
152. Epitteto, Manuale, introduzione, traduzione e note di Martino Men-
ghi, Milano, Rizzoli, 1996 (17), p. 49. Su questo passaggio si veda il commento
di Simplicio, Commentaire sur le Manuel d'Épictète. Chapitre I à XXIX, texte
établi et traduit par Ilsetraut Hadot, Paris, Les Belles Lettres, 2001, t. I, pp.
122-123. Per Plotino, invece, l'attore, pur dovendo recitare una parte già asse-
gnata, è comunque responsabile dell'esecuzione buona o cattiva del suo ruolo:
«Ora nei drammi umani l'autore assegna le parole, mentre gli attori, ciascuno
individualmente, sono per sé e da sé responsabili della buona o della cattiva
interpretazione. Oltre alle espressioni dell'autore vi è infatti qualcosa che è
compito loro. Ma in quella creazione poetica vera ~ che gli uomini di natura
poetica sanno in parte imitare - è l'anima a recitare, e quel che recita lo
prende dall'autore. E come qui gli attori non ricevono a caso le maschere, i
costumi, le vesti tinte di zafferano e gli stracci, così anche l'anima non riceve a
caso le sorti: anch'esse sono conformi al principio razionale; ed armonizzando
a sé queste cose, pure lei diviene consona, e coordina se stessa al dramma e
alla ragione universale. [...] Ma per gli attori del dramma universale vi è un
vantaggio, perché recitano in uno spazio maggiore di quello delimitato da una
scena, perché l'autore li ha resi padroni di tutto, e perché vi è maggiore possi-
bilità di andare in luoghi di ogni genere, riscuotendo così onori e disonori,
giacché i luoghi stessi contribuiscono all'acquisto degli onori e dei disonori»
58 INTRODUZIONE
L'umanità, insomma, come giocattolo nelle mani della fortuna, o, se-
condo l'interpretazione di Lutero, come una sorta di «giuoco di Dio»,
di un Dio che fa della storia profana stessa un evento teatrale'".
Il Candelaio e lo Spaccio testimoniano l'esatto contrario. Il destino
degli uomini non è nelle mani di un regista estemo che dall'alto de-
termina tutti gli eventi. Né gli dèi, né la fortuna posseggono tale po-
tere. Lo ha sperimentato sulla sua pelle Gioan Bernardo, lo testimo-
nierà due anni dopo la Fortuna in persona, nella riforma celeste archi-
tettata da Giove. Bruno libera il topos dalle ambiguità, lo ripulisce da
ogni disegno predestinativo. Sfrutta abilmente il tema della «masche-
ra», così come emerge in un passaggio delle Lettere morali a Lucilio,
per esemplificare l'idea dell'inganno, dell'illusione. Seneca, infatti, ci
esorta a diffidare delle immagini esteme: gli uomini ricchi e potenti
sono felici quanto possono esserlo gli attori che recitano il ruolo di un
re a teatro. Finito lo spettacolo, dismessi gli abiti regali, tolti i coturni,
ognuno ritoma ad essere quello che veramente è nella vita di tutti i
giorni "'•:
(Plotino, Enneadi, a cura di Mario Casaglia, Chiara Guidelli, Alessandro Lin-
guitti, Fausto Moriani, prefazione di Francesco Adomo, Torino, Utet 1997, voi.
I [III, 2, 17], pp. 395-396). Plotino, in effetti, considera «giocattolo» solo la sfera
«umbratile» dell'uomo, la sua dimensione inferiore: «Alle uccisioni, alle morti
di ogni genere, alle prese e ai saccheggi di città dobbiamo assistere come se
avvenissero sui palcoscenici dei teatri: sono tutti cambi di scena e di costume,
finti pianti e finti lamenti. Perché anche qui, nei singoli eventi della vita, non
è l'anima interiore, bensì quella esteriore, ombra dell'uomo, a gemere e a di-
sperarsi, e a fare ogni cosa su un palcoscenico che è la terra intera, dove gli
uomini hanno allestito ovunque le loro scene. Così agisce infatti un uomo che
sa vivere soltanto per le cose inferiori ed esteriori, e che ignora che anche tra le
lacrime sta solo giocando, persino quando piange lacrime vere. Perché solo alla
parte nobile e seria dell'uomo è concesso impegnarsi con serietà in azioni serie,
mentre tutto il resto per lui è gioco» (Ibidem, III, 2, 15, pp. 391-392). Il topos
dell'uomo nelle vesti di attore appare anche nella riflessione conclusiva dei
Ricordi: Marco Aurelio, Ricordi, introduzione di Max Pohlenz, traduzione di
Enrico TuroUa, schemi analitici e commento di Marcello Zanatta, Milano, Riz-
zoli, 1997 (Xn, 36), p. 479.
153. Per l'interpretazione cristiana in generale e luterana cfr. Ernst Ro-
bert Curtius, Metafore teatrali, in Letteratura europea e Medio Evo latino cit.,
p. 160.
154. «Nemo ex istis quos purpuratos vides felix est, non magis quam ex
illis quibus sceptrum et chlamydem in scaena fabulae adsignant: cum prae-
sente populo lati incesserunt et coturnati, simul exierunt, excalceantur et ad
staturam suam redeunt. Nemo istorum quos divitiae honoresque in altiore fa-
stigio ponunt magnus est» («Nessuno di questi uomini che vedi con vesti di
porpora è felice, non più di quanto tu possa stimare felice uno di quelli a cui i
loro ruoli di attori tragici assegnano scettro e clamide sulla scena; prima ince-
dono davanti al pubblico con tronfio sussiego e rialzati sui coturni, poi, non
appena sono usciti dal palcoscenico, si tolgono i calzari e tornano alla loro
statura. Nessuno di costoro che la ricchezza e le cariche onorifiche pongono su
INTRODUZIONE 59
Hoc laboramus errore, sic nobis inponitur quod neminem aestima-
mus eo quod est, sed adicimus illi et ea quibus adomatus est. Atqui
cum voles veram hominis aestimationem inire et scire qualis sit, nu-
dum inspice; ponat patrimonium, ponat honores et alia fortunae men-
dacia, corpus ipsum exuat: animum intuere, qualis quantusque sit, alie-
no an suo magnus"'.
Bisogna svestire i commedianti e guardarli «nudi» per evitare gli
inganni. Le «maschere», soprattutto nel vorticoso gioco proposto da
Erasmo nelV Elogio della follia^^^, testimoniano lo scarto tra Vintus e
Veoctra. Anche il Candelaio non sfugge a questa ambiguità; esterior-
mente, è vero, si presenta in maschera; ma nello stesso tempo, come
testimonia il sonetto proemiale, si offre sotto forma di un «libro» de-
stinato a circolare «nudo» («oimè ch'i' men vo nudo com'un Bia»),
pronto a correre il rischio di «monstrar scuopert'alla signora mia /
il zero e menchia com'il padr'Adamo»!'^. Bruno si batte contro la
«censura»^'**. Mostrare le «oscenità» del corpo e smascherare (met-
tere a nudo) l'ignoranza dei tre personaggi-simbolo significa svelare
lo scarto tra sapienza vera e falsa sapienza, tra realtà e illusione:
tutto ciò nella profonda consapevolezza di esporsi a feroci reazioni,
a immediate ritorsioni («da le valli / veggio montar gran furia di
cavalli »)''''.
Ma il tema del theatrum mundi ci permette anche di reperire un
possibile legame con il milieu francese. Alla corte di Caterina de' Me-
dici, durante le feste organizzate dalla Regina a Fontainebleau nel
una vetta più alta è un uomo grande»): Seneca, Lettere morali a Lucilio (76), a
cura di Ferdinando Solinas, prefazione di Carlo Carena, Milano, Mondadori,
1995, v. I, pp. 454-455.
155. «Questo è l'errore di cui soffriamo, un'illusione che si impone alla no-
stra mente perché non valutiamo nessun uomo per quello che è, ma gli ag-
giungiamo i paludamenti di cui è ornato. Perciò, quando vorrai procedere alla
stima autentica di un uomo e sapere qual è la sua natura, osservalo nudo:
deponga il suo patrimonio, deponga le cariche onorifiche e gli altri mendaci
orpelli della Fortuna, si spogli persino del corpo. Considera attentamente la
sua personalità, quale e quanta consistenza abbia, se sia grande per virtù sua o
altrui»: Ibidem.
156. Per un'analisi del concetto di «teatro del mondo» in Erasmo e in
Bruno cfr. GIULIO Ferroni, Frammenti di discorsi sul comico, in AA.VV., Ambi-
guità del comico, cit, pp. 45-55.
157. Candelaio, p. 259.
158. «Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il pro-
prio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che
fa degno la natura; non cuopre quel ch'ella mostra aperto; chiama il pane,
pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede; et altre parti, di proprio nome;
dice il mangiare, mangiare; il dormire, dormire; il bere, bere: e cossi gli altri
atti naturali significa con proprio titolo»: Spaccio, p. 175.
159. Candelaio, p. 260.
60 INTRODUZIONE
1564 per pacificare le opposte fazioni di cattolici e ugonotti i*^, spetta a
Michel de Castelnau - futuro ambasciatore a Londra - recitare alcuni
versi di Ronsard sul rapporto vita-commedia:
La ben té regne au Ciel, la vertu, la justice:
En terre on ne voit rien que fraude, que malice:
Et bref tout ce monde est un publique marche,
L'un y vend, l'un desrobe, et l'autre achete et change,
Un mesme fait produit le blasme et la louange,
Et ce qui est vertu, semble à l'autre peché'^^.
Vedremo più avanti, a proposito della religione e della sua fun-
zione etico-civile, in che maniera si ritrovino nello Spaccio possibili
echi di Ronsard e di Castelnau. Resta evidente, in questi versi, la
preoccupazione per la natura illusoria del teatro del mondo: errori di
prospettiva e faJsi valori minacciano la nostra esistenza, creando peri-
colosi scambi tra vizi e virtù, realtà ed apparenza.
In sostanza, l'intera trama del Candelaio è costruita, come in un
gioco di specchi, sulla moltiplicazione degli inganni che si svolgono
sulla scena. Se Scaramuré^^^ e Mamfurio^^^ alludono al disorienta-
mento dei personaggi che in alcuni momenti sembrano recitare in una
commedia, il valzer dei travestimenti raggiunge livelli di allucina-
zione nei repentini scambi tra Carubina e Vittoria (rappresentate dalla
160. Sulla funzione politica delle feste si veda R Strong, Magnificenza «po-
litique», in Io., Arte e potere. Le feste del Rinascimento 1450-1650, Milano, Il Sag-
giatore, 1987 [1984], pp. 165-204 (sulle feste di Fontainebleau in particolare cfr.
le pp. 169-174).
161. Ronsard, Pour la fin d'une Comedie, in CEuvres complètes, t II, p. 844.
Ronsard insiste su questo tema anche nel Discours à Odet de CoUigny, cardinal
de Chatillon (1560): Ibidem, t II, w. 1-8, p. 836. La circostanza è ricordata anche
da Castelnau: «Et, après la comedie, qui fut admirée d'un chacun, je fus choisi
pour reciter en la grande salle, devant le Roy, le fruit qui se peut tirar des
tragedies, esquelles sont representées les actions des empereurs, rois, princes,
bergers et toutes sortes de gens qui vivent en la terre, le theatre commun du
monde, où les hommes sont les acteurs, et la fortune est bien souvent mai-
stresse de la scene et de la vie; car tei represente aujourd'huy le personnage
d'un gran prince, demain joue celuy d'un bouffon, aussi bien sur le gran thea-
tre que sur le petit» (Michel de Castelnau, Mémoires, in Collection complète
des Mémoires relatifs à l'histoire de France, réunie par M. Petitot Paris, Librairie
Foucault, 1823, t. XXXIII. pp. 323-324).
162. «GiOAN Bernardo. [...] son mascherati di barba anch'essi? Sca-
RAMURÉ. Tutti: che in vero questa mi par essere una comedia»: Candelaio,
p. 411.
163. «Mamfurio. [...] Oh, veggio di molti spectatori la corona. Ascanio.
Non vi par esser entro una comedia? Mamfurio. Ita sane. Ascanio. Non cre-
dete d'esser in scena? Mamfurio. Omni procul dubio»: Candelaio, p. 423.
INTRODUZIONE 6l
stessa attrice)'^ o nell'incontro tra Gioan Bernardo e il suo sosia (ov-
vero Bonifacio mascherato da Gioan Bernardo):
GiOAN Bernardo. O là messer-de-la-negra-barba, dimmi chi di noi dui
è io: io o tu? Non rispondi?
Bonifacio. Voi séte voi, et io sono io.
Gioan Bernardo. Come «io sono io»? Non hai tu, ladro, rubbata la
mia persona, e sotto questo abito et apparenzia vai commettendo di ribal-
derie? [...] 165.
In effetti, il pittore G. B., non solo dissimula la sua conoscenza de-
gli eventi con frasi ironiche («O io sono io, o costui è io»)!^^^ ma con-
tribuisce con alcuni suoi atteggiamenti a rendere ancora più parados-
sali gli ambigui rapporti tra vita e teatro, soprattutto quando di na-
scosto, neir« ombra», spia gli eventi che scorrono sulla scena: proprio
lui, deus ex machina, talvolta sembra estraniarsi dalla commedia e os-
servare dall'esterno la realizzazione dei suoi piani. Effetti di teatro nel
teatro, insomma ^^v jj pubblico nella sala (o il lettore nel silenzio del
suo studio) percepisce se stesso attraverso l'occhio di chi assiste allo
spettacolo dall'interno della pièce. Dentro e fuori, nello stesso tempo.
Seduto in poltrona, ma anche apparentemente coinvolto negli avveni-
menti che si producono sul palcoscenico. La scena invade il mondo e
il mondo si trasforma in una scena. Finzione e realtà si intrecciano, si
sovrappongono, si confondono.
Ma il gioco di travestimenti e di sdoppiamenti denuncia soprat-
tutto gli inganni che si vivono sulla scena del mondo. Come spesso
accade nel teatro inglese fra Cinque e Seicento - e questa analogia
rivela ancora di più l'interesse che le opere di Bruno potevano susci-
tare in un milieu avido di questi temi — la menzogna, la finzione ar-
chitettata sulla scena, risponde a una strategia di «svelamento». Pro-
prio nei momenti più intensi di metateatralità si apre uno spiraglio di
luce che la pièce pone al servizio della verità. Non a caso la questione
della giustizia e della sua ricomposizione ritoma con insistenza nella
grande stagione della drammaturgia inglese ^6*. Rappresentare un
164. Nell'ultimo atto, l'attrice che rappresenta Carabina e Vittoria («Quella
bagassa che è ordinata per rapresentar Vittoria e Carubina, bave non so che
mal di madre», p. 274) mentre veste i panni di Carubina si maschera da Vit-
toria (p. 367).
165. Candelaio, p. 382.
166. Ibidem.
167. Sui meccanismi illusori del teatro nel teatro cfr Georges Forestier,
Le théàtre dans le théàtre sur la scène frangaise du XVIF siede, Genève, Droz,
1996.
168. Su questo tema si vedano le interessanti considerazioni di Mario Do-
02 INTRODUZIONE
«processo» - come accade nel Candelaio - significa anche riproporre,
attraverso il teatro nel teatro, il momento solenne del «giudizio», in
cui ogni personaggio viene «retribuito» secondo i suoi «meriti»'^''.
L'uno e il molteplice
Seguire le vicende dei tre personaggi significa ripercorrere su vari
livelli le diverse forme della dialettica realtà-apparenza. Gli inganni
investono la concezione della poetica e del comico, della commedia e
della vita Ma soprattutto la loro potenza si esplica sul piano della
conoscenza, sulla capacità di orientarsi nella fitta rete di illusioni e di
travestimenti che domina il multiforme universo in cui siamo im-
mersi. Non solo la scena del Candelaio è caratterizzata dalla vicissitu-
dine delle cose e dall'energia vitale di personaggi in grado di annien-
tare tutto ciò che è immobile ed unidimensionale. Anche il theatrum
mundi è governato dalle stesse regole, dal continuo flusso degli oppo-
sti, dal tempo che «tutto toglie e tutto dà»:
Ricordatevi, signora, di quel che credo che non bisogna insegnarvi: - Il
tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annihila; è un solo
che non può mutarsi, un solo è etemo, e può perseverare eternamente uno,
simile e medesmo. - Con questa filosofia l'animo mi s'aggrandisse, e me
si magnifica l'intelletto. Però qualumque sii il punto di questa sera
ch'aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno,
e quei che son nel giorno, aspettano la notte. Tutto quel ch'è, o è equa o
Uà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi ^^°.
Ogni cosa si trasforma, si muta. Dinnanzi ai nostri occhi ciò che
esiste sembra perdersi definitivamente, una volta per tutte. In effetti,
non è così. Qua si annulla una forma, si dissolve uno specifico indivi-
duo. Ma nello stesso tempo là nasce un'altra forma, un nuovo essere si
apre alla vita. Gli aggregati si disgregano e gli elementi indistruttibili
vagano da un composto all'altro, senza fermarsi mai, senza conoscere
l'immobilità e il riposo. Fluire delle forme, da una parte. Permanere
dell'identità degli indivisibili, dall'altra. Ancora un tema capitale, ab-
bozzato in questa splendida ouverture teatrale, che troverà ulteriori
sviluppi nei movimenti successivi dei dialoghi italiani.
MENICHELLI, 7Z limite dell'ombra. Le figure della soglia nel teatro inglese fra Cinque
e Seicento, Milano, Franco Angeli. 1994, pp. 34-52 (ma in particolare pp. 36-43).
169. Ibidem, 41. Sul processo come rappresentazione del teatro nel teatro
cfr. l'Introduzione di Agostino Lombardo a W. Shakespeare, H mercante di Ve-
nezia, traduzione a cura di Agostino Lombardo, Milano, Feltrinelli, 1992, p. X.
170. Candelaio, pp. 263-264.
INTRODUZIONE 63
Di questo scarto tra ciò che appare e ciò che è, il Candelaio è viva
testimonianza. Allo spettatore-lettore è richiesto uno sforzo di sintesi,
uno scatto di intelligenza che gli permetta di ridurre l'apparente mol-
teplicità delle vicende dei tre personaggi a un comune denominatore,
a un «punto di unione»'^'. Dietro le tre storie, insomma, bisogna co-
gliere un'unica causa: l'ignoranza, la non conoscenza di sé. Effetti dif-
ferenti, è vero. Atteggiamenti che si esplicano in ambiti e in modi di-
versi, certo. Ma la radice da cui germinano è soltanto una: la presun-
zione di sapienza.
Solo su queste basi è possibile capire il vano movimento circolare
di Bonifacio, Bartolomeo e Mamfurio. Il loro avvolgersi su se stessi, il
loro apparente avanzare, il loro muoversi senza frutto sulla scena di
una commedia che si presenta pluricentrica. Bruno moltiplica i luo-
ghi, i tempi, le azioni. Sembra annunciare gli smarrimenti e i turba-
menti provocati da un «cosmo» infinito, da una scena acentrica, da
una pièce senza un punto fisso, senza un unico filo da seguire: «A me è
stato commesso il prologo; e vi giuro ch'è tanto intricato et indiavo-
lato, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra e dì e notte: che
non bastan tutti trombetti e tamburini delle Muse puttane d'Elicona a
ficcarmen'una pagliusca dentro la memoria» '^2 Decentramenti diso-
rientanti per un pubblico abituato alle rigide regole, letterarie e co-
smologiche, dell'aristotelismo cinquecentesco: alla funzione centripeta
di una forza normalizzatrice si sostituisce una funzione centrifuga di
una forza destabilizzatrice. Ma, come abbiamo visto, la questione del-
l'unità nel Candelaio si pone su piani diversi, che ormai non hanno
più nulla a che fare con una concezione «tolemaica» dell'universo,
della lingua, della poetica.
Bisogna cambiare prospettiva. Nella commedia è continuo l'invito
a «vedere» 1^^. L'intero proprologo si regge su questo verbo che, in po-
che paginette, ricorre per ben quattordici volte come incipit di lunghi
cataloghi caratterizzati dalYenumeraiio. Per «vedere», però, non ser-
vono solo gli occhi. Si «vede» anche, o soprattutto, con gli occhi della
171. «Però se fisica, matematica e moralmente si considera: vedasi che non
ha trovato poco quel filosofo che è dovenuto alla raggione della coincidenza de
contrarli; e non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare dove ella con-
siste»: Spaccio, p. 198. Ma nel De la causa Bruno ricorda anche che «in conclu-
sione chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemplo circa gli
minimi e massimi de gli contrarli et oppositl. Profonda magia è saper trar il
contrario, dopo aver trovato il punto de l'unione» (p. 744).
172. Candelaio, p. 274.
173. Carla De Bellis, Giordano Bruno: la parola e il vedere nei prologhi del
Candelaio, in «FM», Annali dell'Istituto di Filologia Moderna dell'Università di
Roma, 1-2 (1980), pp. 43-109.
64 INTRODUZIONE
mente. La «luce» del Candelaio, oltre a illuminare le vicende che flui-
scono sulla scena, promette di «chiarir alquanto certe Ombre delfidee».
Proprio in quello stesso anno, nel 1582, Bruno pubblica a Parigi il De
umbris idearum e il Cantus circaeus. Due testi di mnemotecnica, dove
su piani diversi e con linguaggi differenti il Nolano propone un itine-
rario «visivo». Pure qui, conoscere significa «vedere». Se nel De umbris
si vede attraverso le immagini che si combinano nel giro delle cinque
ruote '^-t, nel Cantus si vede nello scarto tra forme esteriori e sostanza
interiore, tra extra ed intus^^^. In entrambi i casi si tratta di unificare
ciò che è differente, cercando di distinguere dietro la molteplicità delle
apparenze la vera essenza delle cose'^^
In fondo, il fluire dei travestimenti e delle illusioni che caratterizza
il Candelaio si traduce in maniera diversa nella dialettica luce-ombra
messa in scena nel De umbris: totalmente immersi in una conoscenza
umbratile è difficile distinguere con chiarezza la realtà dall'inganno.
La stessa cosa, come abbiamo già visto, può essere benefica per alcuni
e malefica per altri. Il sole, per esempio, può «illuminare» e può ren-
dere completamente ciechi. E l'identico discorso vale anche per l'om-
bra; all'interno di un medesimo orizzonte — caratterizzato dal bene e
dal male, dal vero e dal falso - avremo l'ombra oscura della morte e
l'ombra che prepara lo sguardo alla luce'"''.
174. Sulla mnemotecnica bruniana e sulla nozione di «ombra» si vedano
gli eccellenti lavori di Rita Sturlese: Introduzione a Giordano Bruno, De
umbris idearum. a cura di Rita Sturlese. cit, pp. IX-LXXVII; Per un'interpreta-
zione del De umbris idearum di Giordano Bruno, cit Cfr. anche Michele Cili-
berto, Giordano Bruno. Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 22-46. Sulle arti della
memoria restano ancora un solido punto di riferimento il volume di F. A.
Yates (L'arte della memoria cit.) e quello di P.aolo Rossi (Clavis universalis.
Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz. Bologna, il Mulino,
1983). Importante il recente saggio di Nicola Badaloni, B De umbris idea-
rum come discorso sul metodo, cit Ai rapporti specifici tra parola e immagine ha
dedicato un prezioso contributo Lina Bolzoni. La stanza della memoria. Mo-
delli letterari e iconografici nell'età della stampa. Torino. Einaudi, 1995.
175. Alcuni possibili intrecci tra Candelaio e Cantus. alla luce del rapporto
apparenza/realtà, sono discussi da Michele Ciliberto, Giordano Bruno cit,
pp. 38-46
176. E interessante notare che, anche se da una prospettiva del tutto di-
versa, alcune pagine iniziali del Filebo di Platone siano proprio dedicate al
tema del rapporto tra unità e molteplicità: Filebo cit (14-15), pp. 491-493.
177. «Consequenter te non praetereat quod cum umbra habeat quid de
luce, et quid de tenebris, duplici aliquem accidit esse sub umbra; umbra vide-
licet tenebrarum et - ut aiunt - «mortis», quod est cum potentiae superiores
emarcescunt, et ociantur. aut subserviunt inferioribus, quatenus animus circa
vitam tantum corporalem versatur, atque sensum; et umbra lucis, quod est
cum potentiae inferiores superi[i]oribus adspirantibus in aetema eminentio-
raque obiecta subiiciuntur, ut accidit in caelis versanti qui spiritu irritamenta
camis inculcat Illud est umbra incumbere in tenebras, hoc est umbram in-
INTRODUZIONE 65
Gioan Bernardo, tra pittura e filosofia
Come orientarsi, allora, nel labirinto degli inganni? Nel Candelaio
una risposta potrebbe venire da un pittore, le cui iniziali (G. B.) non
lasciano dubbi sulla sua identità. Spetta a lui, infatti, tessere la «tela»
della commedia («Io mi accorgo che voi siete troppo scaltrito, che
avete saputo tessere tutta questa tela»)'^* per poi raccogliere i frutti
del suo lavoro e della sua intelligenza. Del resto, la pièce stessa si pre-
senta come una «tela» («questa è una specie di tela, ch'ha l'ordimento
e tessitura insieme; chi la può capir, la capisca; chi la vuol intendere,
l'intenda»)'^'', giocando evidentemente sulla polisemia della parola: al-
lusione al textum, naturalmente; allusione alla trama, all'ordito di una
storia; allusione alla tela del ragno, all'inganno, alla trappola; allu-
sione ai telari, scenari teatrali dipinti su tela. Ma anche allusione al-
l'attività del pittore, al suo dipingere tele. Attività che simbolicamente
avvicina ancora di più Gioan Bernardo a Giordano Bruno. Il primo
ordisce la trama dall'interno della commedia, il secondo tesse il textum
dall'esterno. Entrambi, però, praticano la «pittura»: Gioan Bernardo la
esercita esplicitamente nel Candelaio, mentre Giordano Bruno stesso a
più riprese rivendicherà il suo ruolo di «filosofo-pittore». In un pas-
cumbere in lucem. / In orizonte quidem lucis et tenebranim nil aliud intelli-
gere possumus quam umbram. Haec in orizonte boni et mali, veri et falsi. Hic
est ipsum quod potest bonificari, et maleficari, falsari, et ventate formari; quo-
dque istorsum tendens sub istius, illorsum vero sub umbra esse dicitur» [«Di
conseguenza non dovrà sfuggirti ciò: poiché l'ombra ha qualcosa della luce e
qualcosa della tenebra, capita che qualcuno sia sotto due specie di ombra: cioè
l'ombra delle tenebre e (come dicono) della morte; questo è quando le potenze
superiori avvizziscono ed oziano, oppure si fanno serve delle inferiori, allorché
l'animo si manifesta soltanto attorno alla vita corporea, e al senso; oppure
l'ombra della luce: che è quando le potenze inferiori si assoggettano alle supe-
riori le quali a loro volta aspirano a mete eteme e più eccellenti, così come
capita a chi dimora nei cieli, il quale con lo spirito soffoca le sollecitazioni
della carne. Quella è l'ombra che si protende verso la tenebra, questa è l'ombra
che si protende verso la luce. Nell'orizzonte della luce e della tenebra, nient'al-
tro possiamo infatti intendere se non l'ombra. Questa è nell'orizzonte del bene
e del male, del vero e del falso. Qui si trova quel che può essere reso buono e
cattivo, falsificato e conformato alla verità: esso, se tende da questa parte viene
detto essere sotto l'ombra di questo, se tende dall'altra invece sotto l'ombra di
quello»]: Giordano Bruno, De umbris idearum, a cura di Rita Sturlese, cit,
p. 28; trad. it.: Giordano Bruno, Le ombre delle idee. E canto di Circe. Il sigillo
dei sigilli introduzione di Michele Ciliberto, traduzione e note di Nicoletta Ti-
rinnanzi, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 61-62.
178. Candelaio, p. 387. Ma Gioan Bernardo è anche colui che si burla di
tutti: «Cencio. Oh, voi sempre burlate. Gioan Bernardo. Sì sì, burlo» (Ibidem,
p. 301).
179. Ibidem, p. 276.
66 INTRODUZIONE
saggio deW Explicatio triginta sigillonim la corrispondenza delle fun-
zioni finisce anche per inglobare la poesia i^°.
Filosofo e pittore, dunque, ma anche poeta. Da questa poliedrica
identità, come vedremo più avanti in un paragrafo interamente dedi-
cato all'argomento, non si può prescindere per capire la genesi delle
opere italiane. In fondo, filosofia, poesia e pittura si esprimono per im-
magini. E solo attraverso le «immagini» si dice l'indicibile, si vede
l'invisibile. Immersa nel fluire delle ombre, la conoscenza umana dif-
ficilmente potrebbe avvalersi di altro. Bruno «dipinge» nel Candelaio,
ma anche le altre opere londinesi sembrano concretizzarsi nel segno di
una «filosofia-poesia-pittura» '^^. Non a caso la Cena viene presentata
come un particolare tipo di «ritratto»:
Se nel ritrare vi par che i colori non rispondano perfettamente al vivo,
e gli delineamenti non vi parranno al tutto proprii, sappiate ch'il difetto è
provenuto da questo, che il pittore non ha possuto essaminar il ritratto
con que' spacii e distanze, che soglion prendere i maestri de l'arte: perché
oltre che la tavola o il campo era troppo vicino al volto e gli occhi, non si
possea retirar un minimo passo a dietro o discostar da l'uno e l'altro
canto, senza timor di far quel salto, che feo il figlio del famoso defensor di
Troia. Pur tal qual'è, prendete questo ritratto ove son que' doi, que' cento,
que' mille, que' tutti; atteso che non vi si manda per informarvi di quel
che sapete, né per gionger acqua al rapido fiume del vostro giudizio et
ingegno: ma perché so che secondo l'ordinario, benché conosciamo le cose
più perfettamente al vivo, non sogliamo però dispreggiar il ritratto e la
rapresentazion di quelle'*^.
Frammentarietà della riproduzione, imprecisione dei colori, inesat-
tezza dei «delineamenti»: la filosofia-pittura del Nolano sembra essere
coerente con i princìpi di fondo su cui ci siamo soffermati all'inizio.
Non bisogna dimenticare che, sul piano letterario, questi «ritratti»
i8o. Su questo brano cfr. infra pp. 177-178.
181. Per un'analisi specifica dei rapporti tra filosofia e pittura in Bruno,
rinvio ai successivi paragrafi 7 (Dal Candelaio ai Furori: il pittore, il filosofo e
l'ombra) e 8 (Filosofia, pittura e poesia: questioni di poetica): cfr. infra pp. 144-190.
182. Cena. pp. 439-440. Ma di pittura si parla anche in un altro passo della
Cena: «Et in ciò fa giusto com'un pittore: al qual non basta far il semplice
ritratto de l'istoria: ma anco, per empir il quadro, e conformarsi con l'arte a la
natura, vi depinge de le pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di
colline; e vi fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di
cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo un ucello, un
porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre basta di questo far veder una
testa, di quello un corno, de l'altro un quarto di dietro, di costui l'orecchie, di
colui l'intiera descrizzione; questo con un gesto et una mina, che non tiene
quello e quell'altro: di sorte che con maggior satisfazzione di chi remira e giu-
dica, viene ad istoriar (come dicono) la figura» (p. 435).
INTRODUZIONE 67
esprimono la precarietà e la provvisorietà del dialogo. All'autore-pit-
tore non è dato ricostruire la realtà nella sua interezza Se nello Spac-
cio si dichiara apertamente l'impossibilità di andare al di là di «certi
occolti e confusi delineamenti et ombre, come gli pittori» '^^, nella Ca-
bala si rivendica il valore conoscitivo del dettaglio:
E se questa raggione non vi sodisfa, dovete considerar oltre che questa
operetta contiene una descrizzione, una pittura; e che ne gli ritratti suol
bastar il più de le volte d'aver ripresentata la testa sola senza il resto.
Lascio che tal volta si mostra eccellente artificio in far una sola mano, un
piede, una gamba, un occhio, una svèlta orecchia, un mezo volto che si
spicca da dietro un arbore, o dal cantoncello d'una fenestra, o sta come
sculpito al ventre d'una tazza, la qual abbia per base un pie d'oca, o
d'aquila, o di qualch'altro animale: non però si danna, né però si spreggia,
ma più viene accettata et approvata la manifattura'**^.
Giordano Bruno, insomma, non è un pittore qualsiasi. Così come
non lo è Gioan Bernardo. Entrambi praticano un'«arte» speciale, fre-
quentano un genere che esprime in maniera ben precisa l'orizzonte dei
loro molteplici interessi. G. B., nella commedia, sa distinguere la realtà
dalla finzione. Di fronte alle pretese di Bonifacio («ma per vita vostra
fatemi bello»), il pittore non esita a differenziare i due piani del «ri-
trarre»: «Non comandate tanto, si volete esser servito: si desiderate che
io vi faccia bello, è una; si volete ch'io vi ritragga, è un'altra»'^'. Ma
questo non significa che un'immagine, anche se vera, sia sempre
uguale a se stessa nello scorrere del tempo:
Gioan Bernardo. Voi dite di gran cose: è possibile che quello che hai
fatto oggi abbi possuto far ieri o altro giorno, o voi o altro che sii? o che
per tutto tempo di vostra vita possiate fare quel che una volta è fatto?
Cossi quel che facesti ieri non lo farai mai più; et io mai feci quel ritratto
ch'ho fatto oggi, né manco è possibile ch'io possa farlo più: questo sì, che
potrò fame un altro '^^
Permanenza nella mutazione, mutazione nella permanenza. Non si
tratta di giochi di parole, ma di semi della filosofia nolana. Nessuna
cosa è sempre uguale a stessa, ma tutte le cose sono fatte di indivisibili
uguali. Apparentemente, oggi non sono diverso da ieri. Apparente-
mente, l'aggregato atomico muore. Non è facile, in entrambi casi, «ve-
dere» la forma che si trasforma e l'immortalità degli elementi ultimi.
183. Spaccio, p. 179.
184. Cabala, p. 414.
185. Candelaio, p. 295.
186. Ibidem, pp. 294-295.
68 INTRODUZIONE
Gioan Bernardo lancia un messaggio. Ci dice con chiarezza che la sua
«arte è di depengere, e donar a gli occhii de mundani la imagine di
nostro Signore, di nostra Madonna, e d'altri santi di paradiso»^*''. In
altre parole: G. B. cerca di mostrare «agli occhii de mundani» ciò che
non si vede, ciò che la realtà materiale non permette di cogliere.
Alla stessa maniera, sin dalle pagine della commedia, la funzione
simbolica del Bruno-pittore è proprio quella di mettere sotto gli occhi
degli uomini, attraverso l'uso delle immagini, ciò che si nasconde die-
tro le apparenze, per offrire con il suo Candelaio uno spiraglio di luce
in un universo fatto di ombre e di inganni, di illusioni e di finzioni, di
mutazioni e di vicissitudini ^^^.
IV.
LA COSMOLOGIA E LA FILOSOFIA DELLA NATURA:
CENA, DE LA CAUSA, DE L'INFINITO
La ricchezza dei temi e delle anticipazioni deìV ouverture annun-
ciano la straordinaria forza sovversiva del primo movimento. Il punto
di partenza della «nolana filosofia» è la creazione di un nuovo inizio,
di una nuova cosmologia capace di distruggere le catene del geocentri-
smo. Liberare la Terra dalla falsa immobilità, dai falsi princìpi di una
perversa filosofia, avrebbe significato rivoluzionare la concezione del-
l'universo: non più una separazione tra mondo sublunare e mondo ce-
leste, ma finalmente un cosmo unico, omogeneo, infinito, popolato da
innumerevoli mondi.
Per dare forma al suo progetto, il Nolano prende le mosse dalla
geniale scoperta di Copernico. Edito nel 1543 a Norimberga, il De re-
volutionibus aveva segnato una svolta importantissima nel campo
astronomico, dimostrando per la prima volta con solidi argomenti
geometrici e matematici il moto rotatorio della Terra attorno al So-
le 1^^. In poche paginette, infatti, si potevano ritrovare tutti gli ele-
187. Ibidem, p. 416.
188. Lo stesso titolo della commedia potrebbe alludere alla luce come fonte
necessaria per la proiezione delle ombre: su questo tema cfr. infra pp. 1 70-171.
189. Per una ricostruzione storica delle diverse teorie della rotazione della
Terra prima e dopo Copernico cfr. Michel Lerner, Le monde des sphères. II.
La fin du cosmos classique, Paris, Les Belles Lettres, 1997, pp. 86-135 (rn^ si veda
anche Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L'astronomia planetaria
nello sviluppo del pensiero occidentale, Torino, Einaudi, 1972). Sul rapporto Bru-
INTRODUZIONE 69
menti per spazzare via la cosmologia geocentrica, che aveva dominato
incontrastata per tantissimi secoli. Ma il trattato non ebbe l'acco-
glienza che meritava. Si diffuse soprattutto in circoli ristretti di ad-
detti ai lavori, senza suscitare ampi dibattiti.
Spezzare le catene del geocentrismo
Bisognerà aspettare La cena de le Ceneri (1584), e un po' più tardi le
riflessioni di Galilei, per avere un consapevole rilancio dell'ipotesi co-
pernicana 1''°. Suddivisa in cinque dialoghi, la Cena - di cui si conosce
una duplice redazione di alcuni specifici passaggi '''^ - è animata da
quattro interlocutori: Smitho (gentiluomo inglese, probabilmente John
Smith), Teofilo (il «filosofo», portaparola del pensiero di Bruno), Pru-
denzio (il «pedante») e Frulla («cosa da niente»). Nelle prime due parti
si enunciano alcuni temi del dibattito e si raccontano le circostanze
della cena che si terrà da Fulke Greville (amico di Philip Sidney e
no-Copemico si vedano almeno: E. Me Mullin, Bruno and Copernicus, in
«Isis», 78 (1987), pp. 55-74; R. Maspero, Scienza e copernicanesimo in Bruno:
principali orientamenti della critica dal 1950 ad oggi, in «Rivista di storia della
filosofia», I (1989), pp. 141-152; Miguel Angel Granada, Introduction à Gior-
dano Bruno, De l'infini, de l'univers et des mondes. (Euvres complètes. IV, texte
établi par Giovanni Àquilecchia, Notes de Jean Seidengart, traduction de Jean-
Pierre Cavaillé, Paris, Les Belles Lettres, 1995, pp. XXX-XLIII; Luciana de
Bernart, Bruno e i «fondamenti» filosofici della teoria copernicana, in «Nouvel-
les de la Republique des Lettres», II (1994), pp. 47-74.
190. «Quali furono le accoglienze fatte fuori d'Italia a questa dottrina? Il
Retico, discepolo del Copernico, l'abbracciò senza ampliarla, il Rheinold stette
incerto, Gaspare Peucero la qualificò ipotesi, il Ticone Brahe la ripudiò, il Me-
stlino la professò rimessamente. Un uomo solo in Germania, il Keplero, la pro-
clamò con impareggiabile arditezza, dedicandovi tutto se stesso [...]. In Italia in
diversa guisa con diverse tragiche vicende, due uomini unirono il loro nome al
trionfo di quella. Giordano Bruno e Galileo Galilei»: Domenico Berti, Coper-
nico e le vicende del sistema copernicano in Italia nella seconda metà del secolo
XVI e nella prima del XVII..., Roma, G. B. Paravia, 1876, pp. 76-77. Sull'attua-
lità del giudizio del Berti, nel riconoscere solo a Bruno e Galilei la compren-
sione e lo sviluppo del De revolutionibus, e sulla differenza tra le due specifiche
interpretazioni di Copernico si veda ora Maurizio Torrini, Introduzione a
AA.W., La diffusione del copernicanesimo in Italia 154J-1610, a cura di Mas-
simo Bucciantini e Maurizio Torrini, Firenze, Olschki, 1997, pp. i-io. Ma si
vedano anche: Michel-Pierre Lerner, Tre saggi sulla cosmologia alla fine del
Cinquecento, Napoli, Bibliopolis, 1992; Miguel Angel Granada, Thomas Dig-
ges, Giordano Bruno y el desarrollo del copernicanismo en Inglaterra, in «Endo-
xa», 4 (1993), pp. 7-42; AA.W., Copernico e la questione copernicana in Italia dal
XVI al XIX secolo, a cura di L. Pepe, Firenze, Olschki, 1996.
191. Le due redazioni sono discusse nel fondamentale lavoro di Giovanni
Àquilecchia, La lezione definitiva della Cena de le Ceneri di Giordano Bruno
[1950], in Schede bruniane cit, pp. 3-39 (ma cfr. anche Id., Le opere italiane di
Giordano Bruno. Critica testuale ed oltre cit.). Per la versione precedente cfr. l'ap-
pendice infra pp. 575-590.
70 INTRODUZIONE
protettore di Bruno), mentre nella terza e nella quarta si narra la di-
sputa del Nolano con Torquato e Nundinio (gli aristotelici oxoniensi)
e, infine, nella quinta si discutono in maniera più dettagliata i prin-
cìpi della cosmologia bruniana.
ISincipit del dialogo assume un importante valore simbolico. L'au-
tore tesse, in maniera aperta ed inequivocabile, le lodi di Copernico:
Lui [Copernico] avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno:
uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui, se
non per luogo di successione e tempo; uomo che quanto al giudizio natu-
rale è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo, e tutti gli altri
ch'han caminato appo i vestigli di questi: al che è dovenuto per essersi
liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non
voglio dir cecità. [...] chi potrà a pieno lodar la magnanimità di questo
germano, il quale avendo poco riguardo a la stolta moltitudine, è stato sì
saldo centra il torrente de la contraria fede? e benché quasi inerme di vive
raggioni, ripigliando quelli abietti e rugginosi fragmenti ch"ha possuto
aver per le mani da la antiquità, le ha ripoliti, accozzati e risaldati in
tanto con quel suo più matematico che naturai discorso, ch'ha resa la
causa già ridicola, abietta e vilipesa, onorata, preggiata, più verisimile che
la contraria; e certissimamente più comoda et ispedita per la teorica e rag-
gione calculatoria'''-.
L'elogio di Copernico non deve però trarre in inganno. Il Nolano
riconosce con entusicismo la genialità delle sue scoperte, il rigore delle
sue dimostrazioni. Considera straordinaria l'interpretazione dei feno-
meni celesti che attestano il movimento della Terra e ridicolizzano le
astruse costruzioni degli epicicli. Ma - e questo è un punto di vitale
entità - l'eliocentrismo del De revolutionibus rimane imprigionato in
un universo chiuso, in un cosmo circoscritto dalla sfera cristallina
delle stelle fisse. L'astronomo polacco opera una radicale innovazione,
inscrivendola però all'interno di una cosmologia tradizionale, chiusa e
delimitata. Non compie, secondo Bruno, il passo decisivo che avrebbe
distrutto una volta per tutte i limiti e i confini dell'universo. Non de-
duce dallo sradicamento del geocentrismo la necessità di liberare la
natura e gli esseri viventi da un cosmo percepito come un'angusta pri-
gione. Una ratio fondata esclusivamente su calcoli e misure, insomma,
non è sufficiente per cogliere fino in fondo tutte le necessarie conse-
guenze delle teorie copernicane:
192. Cena, pp. 448-449. Su questo brano cfr. Miguel Angel Granad.a,
L'interpretazione bruniana di Copernico e la «Narratio prima» di Rheticus, in «Ri-
nascimento», XXX (1990), pp. 343-365.
INTRODUZIONE 71
[...] per che lui più studioso de la matematica che de la natura, non ha
possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le
radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse
tutte le contrarie difficultà, e venesse a liberar e sé et altri da tante vane
inquisizioni, e fermar la contemplazione ne le cose costante et certe ^^*.
Ecco perché Bruno sin dalle prime battute della Cena non esita a
ribadire «che lui non vedea per gli occhi di Copernico, né di Ptolo-
meo», «ma per i proprii quanto al giudizio e la determinazione» '^•^.
Qui egli opera una precisa distinzione. Le osservazioni di alcuni «sol-
leciti matematici» e dell'astronomo polacco che «a tempi e tempi,
giongendo lume a lume, ne han donati principii sufficenti»''" sono
preziosissime. Ma non bastano. Spetta al filosofo, successivamente, pe-
netrare il senso delle cose, interpretare in profondità i segni e le impli-
cazioni delle scoperte («ma sono gli altri poi che profondano ne' sen-
timenti, e non essi medesimi »)^9^
Il Nolano intuisce che l'idea di un universo infinito, senza centro,
senza limiti, popolato da innumerevoli mondi, difficilmente si concilia
con le esigenze della «raggione calculatoria»!''^. Laddove le misure de-
vono confrontarsi con una realtà che sfugge alle misure, laddove i cal-
coli devono dar conto di entità incalcolabili, laddove le esigenze della
formalizzazione richiedono di dar forma all'informe, laddove si sgre-
tola la plurisecolare visione di un universo chiuso, limitato, determi-
nato c'è bisogno di un salto, di uno sforzo che può essere concepito
solo nella filosofia''^: «altro è giocare con la geometria, altro è verifi-
care con la natura»''^''. Pensare una «geometria» dell'infinito significa
misurarsi con concetti che implicano l'indeterminatezza, il caos, l'im-
mensità. Significa «profondare... ne' sentimenti», penetrare con la forza
della mente gli angoli più reconditi della natura
Le teorie di Copernico, insomma, si configurano «come un'aurora»,
come un primo bagliore di luce che penetra la secolare oscurità del-
l'ignoranza. Un chiarore che precede e annuncia «l'uscita di questo
sole de l'antiqua vera filosofia»^"". Spetta però al Nolano il compito di
stracciare definitivamente i limiti e i confini dell'universo:
193. Cena, p. 449.
194. Ibidem, p. 447.
195. Ibidem.
196. Ibidem.
197. Ibidem, p. 449.
198. Su questo tema ha scritto pagine importanti Biagio de Giovanni,
L'infinito in Bruno, in «il Centauro», 16 (1986), pp. lo-ii.
199. Cena, p. 549.
200. Ibidem, p. 450.
72 INTRODUZIONE
Or ecco quello ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle,
trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le
prime, ottave, none, decime, et altre che vi s'avesser potute aggiongere
sfere per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari.
Cossi al cospetto d'ogni senso e raggione, co la chiave di solertissima in-
quisizione aperti que' chiostri de la verità che da noi aprir si posseano,
nudata la ricoperta e velata natura; ha donati gli occhi a le talpe, illumi-
nati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l'imagin sua in tanti
specchi che da ogni lato gli s'opponeno. Sciolta la lingua a muti, che non
sapeano e non ardivano esplicar gl'intricati sentimenti; risaldati i zoppi
che non valean far quel progresso col spirto, che non può far l'ignobile e
dissolubile composto: le rende non men presenti, che si fussero proprii abi-
tatori del sole, de la luna, et altri nomati astri. Dimostra quanto siino si-
mili 0 dissimili, maggiori o peggiori, que' corpi che veggiamo lontano, a
quello che n'è appresso et a cui siamo uniti; e n'apre gli occhii ad veder
questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne
nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo al qual di nuovo sempre ne
riaccoglie; e non pensar oltre, lei essere un corpo senza alma e vita, et
anche feccia tra le sustanze corporali. [...] Cossi conoscemo tante stelle,
tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de migliaia ch'assi-
stono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito et
etemo efficiente. Non è più impriggionata la nostra raggione co i ceppi de
fantastici mobili e motori otto, nove e diece-°'.
In questa pagina carica di eroico entusiasmo è possibile ritrovare
accennati quasi tutti i nuclei vitali della «nolana filosofia». Bruno ci
accompagna per mano verso i presunti limiti dell'universo. Ci fa ve-
dere che nessuna muraglia racchiude il cosmo e che il nostro sistema
solare può essere uno dei tanti sistemi che popolano l'infinito. Ci mo-
stra che la Terra non è al centro, che l'uomo non è al centro del centro
e che la nozione in sé di centro assoluto è una menzogna. Nell'uni-
verso infinito il centro non esiste, non è in nessun luogo. O meglio: il
centro, proprio perché non è in nessun luogo, può essere dappertutto.
Si può parlare di centro, quindi, solo in un'accezione relativa. Con una
conseguenza, però, che cambia radicalmente il nostro modo di ragio-
nare: l'esperienza del centro può essere vissuta soltanto dal singolo in-
dividuo. Non è più possibile parlare in generale di uomini, di piante,
di animali, di astri. Ma di quello specifico uomo, di quella specifica
pianta, di quello specifico animale, di quello specifico astro. In altri
termini: Bruno spezza tutte le antiche gerarchie geocentriche, facendo
piazza pulita di una scala di valori priva di senso. Nell'universo infi-
nito gli aggregati atomici più grandi e quelli più piccoli godono di
20I. Ibidem, pp. 454-455.
INTRODUZIONE 73
Uguale dignità. La più minuscola pulce è al centro dell'universo, allo
stesso titolo del pianeta più grande. Di fronte all'indeterminatezza le
grandezze non contano: «per che cose minime e sordide son semi di
cose grande et eccellenti» ^"2.
La cosmologia bruniana azzera ogni tipo di classificazione, ogni
forma di subordinazione fondata sulle misure, sulle proporzioni, sulla
quantitas o su primati di perverse ontologie. Tutto ciò che esiste può
essere centro non solo per banali ragioni geometriche. Può essere cen-
tro soprattutto perché ogni essere, visibile o invisibile, indipendente-
mente dalle sue dimensioni è animato dalla stessa forza vitale. Quella
particolare formica o quella specifica stella sono espressioni diverse
della stessa natura, della stessa materia che nutre ogni cosa: ricono-
scere in ogni singolo individuo la medesima dignità significa porre la
vita al centro dell'universo infinito. Una vita infinita che alimenta ed
agita ogni cosa. Che ha un valore in sé, indipendentemente da ogni
gerarchia. Basta rileggere una splendida pagina dello Spaccio per ca-
pire come anche le più piccole «minuzzarie» siano al centro delle
preoccupazioni di Giove. Ancora una volta Bruno svolge un tema im-
portante in chiave comica. Mercurio scende sulla Terra, a Nola, per
portare a termine una serie di incarichi assegnatigli dal padre degli
dèi:
Ha ordinato [Giove] che [...] Vasta moglie di Albenzio, mentre si vuole
increspar gli capelli de le tempie, vegna (per aver troppo scaldato il ferro)
a bruggiame cinquanta sette: ma che non si scotte la testa; e per questa
volta non biastemi quando sentirà il puzzo, ma con pazienza la passe. [...]
Che la gonna che mastro Danese taglia su la pianca, vegna stroppiata. Che
da le tavole del letto di Costantino si partano dodeci cimici, e se ne va-
dano al capezzale: sette de gli più grandi, quattro de più piccioli, uno de
mediocri; e di quello che di essi ha da essere questa sera al lume di can-
dela, provederemo. Che a quindeci minuti de la medesima ora per il moto
de la lingua la quale si varrà la quarta volta rimenando per il palato, a la
vecchia di Fiurulo casche la terza mola che tiene nella mascella destra di
sotto: la qual caduta sia senza sangue e senza dolore; perché la detta mola
è gionta al termine della sua trepidazione, che ha perdurato a punto diece
sette annue revoluzioni lunari. Che Ambruoggio nella centesima e duode-
cima spinta abbia spaccio et ispedito il negocio con la mogliera, e che non
la ingravide per questa volta: ma ne l'altra con quel seme in cui si con-
vertisce quel porro cotto che mangia al presente con la sapa e pane di
miglio 2°^.
202. Ibidem, p. 439.
203. Spaccio, pp. 247-249.
74 INTRODUZIONE
I capelli di Vasta, le pulci di Costantino, la gonna di mastro Da-
nese, il molare della vecchia di Fiurulo occupano un posto importante
nel destino cosmico. La sequenza delle singole situazioni mostra come
il punto di vista si sposti man mano che Mercurio passa da un caso
all'altro. Vedremo più avanti, nel De la causa e nel De l'infinito, gli
sviluppi analitici delle riflessioni sui rapporti tra vita e materia, tra
vita e infinito. Qui ci preme, invece, mettere a fuoco qualche altro
spunto di rilievo della Cena.
Bruno sa di essere più «copernicano» di Copernico. E capisce con
chiarezza le implicazioni rivoluzionarie che le sue radicali interpreta-
zioni della cosmologia eliocentrica suscitano sul piano religioso. Non a
caso nelle pagine iniziali del terzo dialogo, l'ira del filosofo si abbatte
contro quella «bestia, che mostra pur troppo quanto sii ignorante de
la vera optica e geometria» 2°''. Si tratta dell'anonimo autore della pre-
fazione al De revolutionibus, attribuita all'Osiander, associato da Bruno
all'ampia schiera di coloro che considerano le ipotesi copernicane, pro-
prio perché in contrasto con il geocentrismo di matrice cristiana, come
«un passatempo da pazzi ingeniosi»^"^. In effetti, dietro l'invettiva di
Bruno c'è una chiara difesa dell'autonomia della filosofia dalla teolo-
gia. Nella Cena, infatti, ritroviamo abbozzata la distinzione tra filosofia
e religione, tra sapere razionale e fede, che sarà successivamente svi-
luppata nello Spaccio:
Smitho. Perché la divina scrittura (il senso della quale ne deve essere
molto raccomandato come cosa che procede da intelligenze superiori che
non errano) in molti luoghi accenna e suppone il contrario.
204. Cena, p. 495.
205. Ibidem, p. 493. L'Osiander nella sua prefazione, riducendo le ipotesi di
Copernico a puro esercizio matematico, salva la tradizionale visione del geo-
centrismo in accordo con i princìpi della teologia: «Ncque enim necesse est, eas
hypotheses esse veras, imo ne verisimiles quidam, sed sufficit hoc unum, si
calculum observationibus congruentem exhibeant [...]. Ncque quisquam, quod
ad hypotheses attinet, quicquam certi ab astronomia expectet, cum ipsa nihil
tale praestare queat, ne si in alium usum conficta prò veris arripiat, stultior ab
hac disciplina discedat quam accesserit» [«Non è infatti necessario che queste
ipotesi siano vere, e persino nemmeno verosimili, ma è sufficiente solo questo:
che presentino un calcolo conforme alle osservazioni [...]. E perché non si lasci
questo studio più stolti di quando lo si era intrapreso, prendendo per vere cose
preparate per altro uso, nessuno si aspetti dall'astronomia, per quello che si
attiene alle ipotesi, alcunché di certo, perché niente di simile essa può mostra-
re»] ([Andrea Osiander], Al lettore, sulle ipotesi di quest'opera, in Niccolò Co-
pernico, De revolutionibus orbiutn caelestium, a cura di Alexander Koyré, tra-
duzione di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1975, pp. 4-5). L'avvertimento
deirOsiander scatenò immediatamente le ire degli amici di Copernico, tra cui
Tiedemann Giese, che domandò alla magistratura di Norimberga di ordinare
la soppressione della lettera (cfr. V Introduzione di A. Koyré, ibidem, p. XIX).
INTRODUZIONE 75
Teofilo. Or quanto a questo credetemi che se gli Dei si fussero de-
gnati d'insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto
favore di proporci la prattica di cose morali, io più tosto mi accostarci alla
fede de le loro revelazioni, che muovermi punto della certezza de mie rag-
gioni e proprii sentimenti. Ma (come chiarissimamente ogn'uno può ve-
dere) nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le
demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia:
ma in grazia de la nostra mente et affetto, per le leggi si ordina la prattica
circa le azzione morali. Avendo dumque il divino legislatore questo scopo
avanti gli occhii, nel resto non si cura di parlar secondo quella verità per
la quale non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male et appigliarse
al bene: ma di questo il pensiero Isiscia a gli uomini contemplativi; e parla
al volgo di maniera che secondo il suo modo de intendere e di parlare,
venghi a capire quel ch'è principale ^o^.
I libri sacri non parlano di filosofia, non 'descrivono i fenomeni na-
turali, non indagano i segreti del moto degli astri. Sarebbe una follia
considerare le frasi delV Ecclesiaste sui movimenti del sole come pura
verità^o^. Si finirebbe per «prendere per metafora quel che non è stato
detto per metafora e per il contrario prendere per vero quel che è stato
detto per similitudine» 2°*. Ai teologi spetta istituire leggi morali, che
abbiano per scopo «la bontà de costumi, profitto della civilità, con-
vitto di popoli; e prattica per la commodità della umana conversa-
zione, mantenimento di pace et aumento di republiche»^^^. La «verità
delle cose e speculazioni», invece, riguarda solo e soltanto i filosofi.
Confondere i piani significa stravolgere i legami tra sapere e verità, tra
religione e società civile.
Le dottrine di Aristotele e i princìpi del cristianesimo hanno spez-
zato il rapporto autentico tra l'umanità e la vita, tra gli esseri viventi
e la natura. Un rapporto, invece, che era stato salvaguardato dalle teo-
rie presocratiche, dalla «antiqua vera filosofia». Il nuovo «sole» della
cosmologia bruniana si eleva per ristabilire quei perduti equilibri,
sommersi e occultati da secoli di oscure tenebre. Ricongiungere cielo e
206. Cena, p. 522.
207. «Molte volte, dumque, et a molti propositi, è una cosa da stolto et
ignorante, più tosto riferir le cose seconda la verità, che secondo l'occasione e
comodità. Come quando il sapiente disse "Nasce il sole e tramonta, gira per il
mezo giorno, e s'inchina a l'Aquilone", avesse detto "La terra si raggira a
l'oriente, e si tralascia il sole che tramonte; s'inchina a doi tropici, del Cancro
verso l'Austro, e Capricorno verso l'Aquilone", sarrebbono fermati gli auditori
a considerare: "Come costui dice la terra muoversi? che novelle son queste?";
l'arrebono al fine stimato un pazzo, e sarrebe stato da dovero un pazzo»: Ibi-
dem, pp. 523-524.
208. Ibidem, p. 525.
209. Ibidem, p. 523.
76 INTRODUZIONE
terra, forma e materia, sensibile e intelligibile all'interno di un uni-
verso unitario, infinito, omogeneo significa presentificare r« antiqua
vera filosofia», liberarla, con i nuovi strumenti della scienza, dalla buia
notte in cui era stata sepolta. Solo in questa accezione il «nuovo» e
r« antico» si fondono, diventando l'uno continuazione dell'altro: «atteso
che non è cosa nova, che non possa esser vecchia; e non è cosa vecchia,
che non sii stata nova»^'°. Ciò che oggi appare «nuovo» non è altro che
r« antico» riabilitato e rafforzato dalle conoscenze del presente.
L'unità di forma e materia
Con il De la causa, principio et uno (1584), Bruno mette in scena il
secondo movimento della «nolana filosofia». Nel dialogo primo, com-
posto probabilmente per ultimo e concepito come una autodifesa dagli
attacchi subiti per le critiche espresse nella Cena ai pedanti di Oxford
e alla «plebe» londinese, l'autore fa intervenire tre personaggi: Elitro-
pio (colui che si volge al sole bruniano: John Florio?), Filoteo (porta-
parola del Nolano) e Annesso (Matthew Gwinne?)^'^ Nei dialoghi se-
condo-quinto, invece, subentrano nuovi interlocutori per animare il
dibattito attorno alle teorie bruniane: Dicsono Arelio (Alexander Dic-
son, gentiluomo scozzese). Teofilo (con lo stesso ruolo di Filoteo), Ger-
vasio (con la funzione di provocare il pedante) e Polihimnio (il pe-
dante, sostenitore dell'aristotelismo)-^^'.
210. Ibidem, p. 460. Sul nuovo inizio di Bruno come rinnovamento della
filosofia antichissima cfr. Biagio de Giovanni, L'infinito in Bruno cit, pp. 19-
20.
211. Sull'autodifesa di Bruno cfr. supra p. 23.
212. Così Bruno descrive il pedante: «Questo sacrilego pedante avete per il
quarto: uno de rigidi censori di filosofi, onde si afferma Momo; uno affettissimo
circa il suo gregge di scolastici, onde si noma nell'amor socratico; uno perpetuo
nemico del femineo sesso, onde per non esser fisico, si stima Orfeo, Museo,
Titiro et Amfione. Questo è un di quelli che quando ti arran fatta una bella
construzzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase da la
popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive
Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizzione; qua
Radamanto umbras vacai ille silentum, qua Minoe re di Creta urnam movet
Chiamano all'essamina le orazioni, fanno discussione de le frase, con dire:
"Queste sanno di poeta, queste di comico, questa di oratore, questo è grave,
questo è lieve, quello è sublime, quell'altro è humile dicendi genus-, questa ora-
zione è aspera, sarrebe leve se fusse formata cossi; questo è uno infante scrit-
tore, poco studioso de la antiquità, non redolet Arpinatem, desipit Latium. Que-
sta voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca et altri probati
autori. Non si scrive 'homo', ma 'omo'; non 'honore", ma 'onore'; non 'Polihim-
nio', ma 'Poliinnio'"» {De la causa, p. 635-637). Ma si vedano anche gli attacchi
antipedanteschi nel Candelaio {supra, p. 47) e nei Furori {infra, pp. 171-172).
INTRODUZIONE ']']
Qui viene messo in discussione il rapporto antagonistico che Ari-
stotele instaura tra forma e materia, tra atto e potenza. Attraverso una
serie di delicati passaggi, che prendono sempre le mosse dalle argo-
mentazioni sostenute dall'avversario, Bruno arriva a ridurre il duali-
smo in monismo, liberando la materia dalla schiavitù della forma. Nei
quattro dialoghi, infatti, viene tracciato un percorso che mira a met-
tere a fuoco ogni singolo termine utilizzato nel titolo: nel primo si
parla della «causa», intesa come «forma» o «anima» (II dialogo); nel
secondo si discute del «principio», considerato come «materia» (III
dialogo); nel terzo si affronta la delicata questione del rapporto forma-
materia (IV dialogo); nel quarto si sancisce la piena indissolubilità
della forma e della materia nell'Uno, cioè nel «Tutto», nella natura
infinita ed omogenea (V dialogo)^'^
Tra i punti fermi della sua teoria, il Nolano annulla la distinzione
aristotelica tra materia in atto (realizzata pienamente in un oggetto) e
materia in potenza (virtualmente pronta a produrre o subire muta-
menti):
Non è dumque la materia in potenza di essere, o la che può essere;
perché lei sempre è medesima et inmutabile, et è quella circa la quale e
nella quale è la mutazione, più tosto che quella che si muta. Quello che si
altera, si aumenta, si sminuisce, si muta di loco, si corrompe, sempre (se-
condo voi medesimi Peripatetici) è il composto, mai la materia: perché
dumque dite la materia or in potenza or in atto?^'-"
Per spiegare ancora meglio l'infondatezza di questa separazione im-
posta dallo Stagirita, Bruno ricorre per analogia ad un'esemplifica-
zione tratta dal mondo dell'arte. Il pezzo di legno, da cui l'artista ri-
cava la statua, conserva successivamente in ogni caso la sua natura,
così come la statua continua a restare legno, pur avendo assunto una
nuova forma. Tra il legno grezzo (che potenzialmente potrà essere
tutto ciò che la sua natura gli consente: sedia, letto, armadio, finestra
ecc.) e l'oggetto che da esso deriva (prodotto dell'attualizzazione messa
in atto dallo scultore) non c'è nessuna differenza in quanto alla so-
stanza. La materia in potenza (il legno grezzo) e la materia in atto (la
statua) restano comunque identiche:
Come nelle cose artificiali quando del legno è fatto la statua, non di-
ciamo che al legno vegna nuovo essere, perché niente più o meno è legno
ora, che era prima: ma quello che riceve lo esser e l'attualità, è lo che di
213. Cfr. Giovanni Aquilecchia, Introduzione a De la causa, principio et
uno [1973], in Id., Schede bruniane cit., p. 254.
214. De la causa, p. 722.
y8 INTRODUZIONE
nuovo si produce, il composto, dico la statua. Come adumque a quello dite
appartenere la potenza, che mai sarà in atto o ara l'atto?^''
In effetti, esiste un'unica materia che compone tutto ciò che è «cor-
poreo» e «incorporeo» («Di maniera che, se vogliamo ben considerare,
da questo possiamo inferire una essere la omniforme sustanza, uno
essere il vero et ente, che secondo innumerabili circostanze et indivi-
dui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi suppositi»)^'^ E questa
materia universale non subisce mutazioni, rimane sempre uguale a se
stessa. Ciò che cambia è il composto che da essa prende forma. Qui e
là, insomma. Bruno sembra fare concessioni al dualismo, utilizzando
un lessico tradizionale che legittimerebbe l'autonomia della forma e
della materia:
dopo aver più maturamente considerato, avendo risguardo a più cose,
troviamo che è necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza,
l'uno che è forma, e l'altro che è materia; perché è necessario che sia un
atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto; et ancora una
potenza et un soggetto, nel quale non sia minor potenza passiva di tutto:
in quello è potestà di fare, in questo è potestà di esser fatto-'^.
Ma si tratta di concessioni apparenti. Le forme, infatti, non ven-
gono imposte dall'esterno, ma hanno una genesi endogena, scaturi-
scono dal seno stesso della materia. Sono animate da un «"artefice in-
temo", perché forma la materia, e la figura da dentro, come da dentro
del seme o radice manda et esplica il stipe, da dentro il stipe caccia i
rami, da dentro i rami le formate brande, da dentro queste ispiega le
gemme, da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, gli
fiori, gli frutti, e da dentro a certi tempi richiama gli suoi umori da le
frondi e frutti alle brance; da le brance, a gli rami; da gli rami, al stipe;
dal stipe alla radice: similmente ne gli animali spiegando il suo lavore
dal seme prima e dal centro del cuore, a li membri estemi, e da quelli
al fine complicando verso il cuore l'esplicate facultadi, fa come già
venesse a ringlomerare le già distese fila»^'^. E questo «artefice in-
temo» («intelletto universale») può essere considerato nello stesso
tempo come «causa estrinseca» (poiché si differenzia dagli effetti che
produce) e come «causa intrinseca» (poiché non opera dall'esterno, ma
dal di dentro della materia) ^'^. Una distinzione che Bruno concede
215. Ibidem, pp. 721-722.
216. Ibidem, p. 604.
217. Ibidem, pp. 678-679.
218. Ibidem, pp. 653-654.
219. Questo tema è discusso da Pierre Magnard, Puissance et matière, in
INTRODUZIONE 79
però solo su un piano astratto. Nella concretezza dell'agire, invece, ma-
teria e forma («causa» e «principio») si identificano totalmente, perché
«lo ente logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è
indiviso, indistinto et uno» 220. Proprio nell'Uno, che si esplica nella
natura infinita e omogenea, si concretizza questa indissolubile unita-
li De la causa, insomma, punta soprattutto a restituire alla «mate-
ria» una dignità che le era stata negata da Aristotele. La bruniana
filosofia della natura vuole per prima cosa dimostrare che la «materia
non è quel prope nihil, quella potenza pura, nuda, senza atto, senza
virtù e perfezzione»22i. Spetta al pedante Polihimnio riassumere, con
un linguaggio caricaturale, le posizioni dello Stagirita, che a più ri-
prese pone effettivamente sullo stesso piano negativo la materia e il
genere femminile: entrambi, infatti, si caratterizzano per la loro passi-
vità, per la loro inferiorità. La materia è subalterna alla forma, come
la femmina è subalterna al maschio:
Studiando nel mio museolo, in eum qui apud Aristoteletn est locum in-
cidi, del primo della Physica, in calce; dove volendo elucidare che cosa
fosse la prima materia, prende per specchio il sesso feminile; sesso, dico,
ritroso, fragile, inconstante, molle, pusillo, infame, ignobile, vile, abietto,
negletto, indegno, reprobo, sinistro, vituperoso, frigido, deforme, vacuo,
vano, indiscreto, insano, perfido, neghittoso, putido, sozzo, ingrato, trunco,
mutilo, imperfetto, incoato, insufficiente, preciso, amputato, attenuato, ru-
gine, eruca, zizania, peste, morbo, morte^^z.
L'analogia aristotelica dà vita a un catalogo misogino dove la
donna viene considerata come un elemento perturbatore, come un im-
pedimento, come una tempesta, come una tortura inflitta al genere
umano. Luoghi comuni, che Gervaso ribalta attraverso l'elogio di Ma-
rie de Bochetel, moglie di Michel de Castelnau, ambasciatore francese
a Londra:
Voi non riferite per il contrario tanti altri essempi di coloro che si son
stimati fortunatissimi per le sue donne; tra quali (per non mandarvi
Cosmologia, teologìa y religión en la obra y en el proceso de Giordano Bruno, Actas
del congreso celebrado en Barcelona 2-4 diciembre de 1999, al cuidado de Mi-
guel Angel Granada, Barcelona, Publicacions de la Universitat de Barcelona,
2001, pp. 81-91.
220. De la causa, p. 605.
221. Ibidem, pp. 716-717.
222. Ibidem, pp. 703-704. Sulla concezione del genere femminile nel mondo
classico, con particolare attenzione a Platone e Aristotele, cfr. Giulia Sissa,
Filosofia del genere: Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in George Duby e
MiCHELLE Perrot, Storia delle donne. L'antichità, a cura di Pauline Schmitt
Pantel, Roma-Bari, Laterza, 1990, voi. I, pp. 58-100.
8o INTRODUZIONE
troppo lontano): ecco sotto questo medesmo tetto il signor di Mauvissiero,
incorso in una, non solamente dotata di non mediocre corporal beltade,
che gli awela et ammanta l'alma; ma oltre, che col triumvirato di molto
discreto giudizio, accorta modestia et onestissima cortesia, d'indissolubil
nodo tien avvinto l'animo del suo consorte, et è potente a cattivarsi chium-
que la conosce. Che dirai de la generosa figlia, che a pena un lustro et un
anno ha visto il sole; e per le lingue non potrai giudicare s'ella è da Italia,
o da Francia, o da Inghilterra^'^
L'elogio della Bochetel non ha solo una funzione encomiastica.
Vuole mettere in discussione l'uso di categorie errate che ingiusta-
mente colpiscono la donna e la materia: la donna non è un essere
inferiore e imperfetto, proprio come la materia non è pura passività.
Anzi, nella filosofia della natura, è vero il contrario: non solo la mate-
ria non appetisce la forma perché la genera al suo intemo, ma è la
forma che desidera «la materia per perpetuarsi perché separandosi da
quella perde l'essere lei»^^'*. Quando il composto si corrompe è sba-
gliato dire «che la forma fugge la materia», ma si verifica piuttosto la
situazione opposta, cioè «che la materia rigetta quella forma, per pren-
der l'altra» '^5. In altri termini: è la materia che produce ogni cosa, che
dà vita al suo intemo a tutte le forme possibili («dumque si de' più
tosto dire che [la materia] contiene le forme e che le includa, che pen-
sare che ne sia vota e le escluda»)^^^. Ma questo non significa ripro-
porre un dualismo aristotelico di segno rovesciato. Bruno ci offre una
visione unitaria, dove «materia» e «forma» si ritrovano indistinta-
mente congiunte nell'Uno, nella natura:
È dumque l'universo uno, infinito, inmobile. Una, dico, è la possibilità
assoluta, uno l'atto. Una la forma o anima; una la materia o corpo. Una la
cosa. Uno lo ente. Uno il massimo et ottimo: il quale non deve posser
essere compreso, e però infinibile et interminabile, e per tanto infinito et
interminato; e per conseguenza inmobile. [...] Ecco come non è impossibile,
ma necessario che l'ottimo, massimo, incomprehensibile, è tutto, è per
tutto, è in tutto: perché come semplice et indivisibile può esser tutto, esser
per tutto, essere in tutto -^".
Nell'anma mundi, che vivifica ogni cosa, si concretizza questa
straordinaria comunione («Quella dumque che esplica lo che tiene im-
223. De la causa, p. 706. SuH'elogio a Marie de Castelnau cfr. Pierre Ma-
GNARD, Puissance et matière, in Cosmologìa, teologia y religión en la obra y en el
proceso de Giordano Bruno cit, p. 88.
224. De la causa, p. 723.
225. Ibidem.
226. Ibidem, p. 720.
227. Ibidem, pp. 725-728.
INTRODUZIONE 8l
plicato, deve essere chiamata cosa divina, et ottima parente, genetrice
e madre di cose naturali: anzi la natura tutta in sustanza»)228 SqJq j^gj
cosmo infinito le gerarchie si sgretolano; il massimo e il minimo, come
tutti i contrari, convergono in un solo essere ^^''; la molteplicità si con-
trae nella divina unità:
Possete quindi montar al concetto, non dico del summo et ottimo prin-
cipio, escluso della nostra considerazione, ma de l'anima del mondo, come
è atto di tutto e potenza di tutto, et è tutta in tutto: onde al fine (dato che
sieno innumerabili individui) ogni cosa è uno; et il conoscere questa unità
è il scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali: la-
sciando ne' sua termini la più alta contemplazione, che ascende sopra la
natura, la quale a chi non crede, è impossibile e nuUa^^o.
La «divinità», quindi, non va cercata «fuor del infinito mondo e le
infinite cose, ma dentro questo et in quelle»^". Lo sguardo va rivolto
all'interno della natura. Al di fuori dell'universo infinito, però, non c'è
né divinità, né sapere, né religione, né magia. Si tratta di un punto
vitale su cui Bruno non ammette ambiguità: lo anticipa nella Cena^^^,
lo rilancia qui nel De la causa, lo svilupperà ancora meglio, in altri
contesti, nello Spaccio^'^^ e nei FurorP^'*.
La filosofia, nella sua massima espressione, si concretizza proprio in
questa ricerca dell'Uno, in questa contemplazione della natura, in
questo sforzo di cogliere l'invisibile nel visibile, l'unità nella moltepli-
cità^^'. Su queste basi si distingue «il fidele teologo dal vero filoso-
fo »^'^ Resta qui evidente la funzione di raccordo del De la causa:
un'opera che guarda all'indietro (verso la Cena) e che, nello stesso
228. Ibidem, p. 720.
229. «Ecco dumque come non solamente il massimo et il minimo conve-
gnono in uno essere, come altre volte abbiamo dimostrato, ma ancora nel mas-
simo e nel minimo vegnono ad essere uno et indifferente gli contrari» {Ibidem,
PP- 739-740).
230. Ibidem, p. 717.
231. Ibidem.
232. «Et abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi: se l'ab-
biamo appresso, anzi di dentro piti che noi medesmi siamo dentro a noi. Non
meno che gli coltori de gli altri mondi non la denno cercare appresso di noi,
l'avendo appresso e dentro di sé» (Cena, pp. 455-456).
233. Su questo tema si veda infra (pp. 111-112) il paragrafo «Natura est deus
in rebus»: l'esempio degli Egizi.
234. Cfr. infra (pp. 136-139) i paragrafi dedicati a Atteone: «'l gran cacciator
dovenne caccia» e a Diana, la «divinità» nella natura infinita.
235. Si tratta di temi già presenti nel Candelaio, cfr. supra pp. 62-64.
236. De la causa, p. 717.
82 INTRODUZIONE
tempo, si proietta in avanti preparando il terreno al dialogo succes-
sivo ^^^.
Infiniti mondi in un universo infinito
Con il terzo movimento della sua «nova filosofia», il Nolano vuole
assestare un colpo definitivo ai confini dell'universo. Una volta accet-
tato il moto della terra e accolta l'omogeneità della materia nella na-
tura, non resta che dimostrare come una «causa» infinita non possa
che produrre un «effetto» infinito, ovvero un cosmo infinito popolato
da innumerevoli mondi. E per muovere l'assalto «definitivo» al De
caelo e alla Fisica di Aristotele, nel suo De l'infinito, universo e mondi
(1584) Bruno si serve nei primi quattro dialoghi di quattro interlocu-
tori - Elpino (giovane scolaro che finirà per avvicinarsi alle teorie in-
finitistiche), Filoteo (portaparola dell'autore), Fracastoro (Girolamo
Fracastoro, celebre medico, poeta e astronomo che ebbe modo di fre-
quentare Copernico) e Burchio (personaggio immaginario, intriso di
conoscenze peripatetiche) - facendo entrare in scena solo nel quinto
dialogo Albertino, che secondo Aquilecchia potrebbe essere identifi-
cato con il giurista Alberigo Gentili, probabilmente conosciuto da
Bruno in Inghilterra durante il suo soggiorno a Oxford^"*.
Anche per quest'opera bisogna partire dal titolo. Come Gentile
aveva già segnalato nella sua edizione, il termine «infinito» potrebbe
essere interpretato in due modi: in qualità di aggettivo {De l'infinito
universo e mondi) o in qualità di sostantivo {De l'infinito, universo e
mondi)^^"^. Nel primo caso, l'infinità sarebbe solo riferita all'universo.
Mentre nel secondo caso, l'infinito costituirebbe con l'universo e con i
mondi uno dei tre concetti cardine del dialogo. Nella sostanza, le cose
non cambiano, poiché nel testo è detto chiaramente che non solo
l'universo è infinito, ma che anche i mondi che lo popolano lo sono
237. Cfr. Giovanni .'\quilecchia, Introduzione a De la causa, principio et
uno [1973], in Id., Schede bruniane cit.. pp. 253-254.
238. Giovanni Aquilecchia, Tre schede su Bruno ad Oxford, in «Giornale
critico della filosofia italiana», 13 (1993), pp. 376-393. È interessante notare che
Bruno pubblica alcune sue opere a Wittenberg presso Zaccaria Oratone, lo
stesso stampatore di Alberico Gentili: cfr. Vincenzo Spampanato, Vita di Gior-
dano Bruno con documenti editi ed inediti cit, pp. 427-428. Ma sui rapporti Bru-
no-Gentili cfr. anche N. Ordine, Introduction à Giordano Bruno, Expulsion de
la bète triomphante. CEuvres complètes. V cit, pp. CLXVIII-CLXIX.
239. Cfr. la nota di Giovanni Gentile in Giordano Bruno, Dialoghi ita-
liani, nuovamente ristampati con note da Giovanni Gentile, terza edizione a
cura di Giovanni Aquilecchia, Firenze, Sansoni, 1972, nota i, pp. 345-346.
INTRODUZIONE 83
(«questi sono gl'infiniti mondi, cioè gli astri innumerabili »)2-'o. In
realtà, però, la questione non è superflua. L'opzione per l'uso sostanti-
vale di «infinito», operata da Gentile e confermata da Aquilecchia^'^',
ci aiuta a capire meglio la scelta strategica effettuata da Bruno. La
tattica argomentativa, infatti, si articola in due mosse: nella prima, si
sviluppano le tesi della necessaria esistenza dell'infinito per mostrare
successivamente, nella seconda mossa, come questa infinità si esplichi
nell'universo e nei mondi innumerevoli che lo compongono 2"'2. Soste-
nere l'esistenza di un cosmo finito significa dar vita a tutta una serie
di disastrosi corollari che inevitabilmente conducono a distorcere ogni
plausibile conoscenza della natura («noi credemo e veggiamo aperto,
che dal contrario di questo principio [l'infinito] lui ha pervertita tutta
la considerazion naturale »)2''^
Non è possibile, in questa sede, ricostruire tutti i passaggi significa-
tivi del dialogo, né mostrare come Filoteo respinga punto per punto le
obiezioni di Aristotele all'esistenza dell'infinito. Ci soffermeremo solo
su due argomenti che ci sembrano di grande rilievo ai fini del disegno
complessivo della «nolana filosofia»: il primo (di natura logica) critica
la concezione aristotelica del «luogo» e dello «spazio», mentre il se-
condo (di natura «teologica») riprende l'antica questione della potentia
absoluta e della potentia ordinata di Dio.
Nel quarto libro della Fisica il «luogo» non può essere definito «né
forma, né materia, né un intervallo che sia sempre qualcosa di diverso
da quello della cosa che viene spostata», ma viene a coincidere con «il
240. De l'infinito, p. 158. Nel lessico bruniano, in effetti, i termini «infiniti»
e «innumerabili» funzionano come se fossero sinonimi. Nell'intera produzione
in volgare, in contesti molto ravvicinati. Bruno li accosta per ben undici volte,
di cui otto occorrenze sono reperibili nel solo De l'infinito.
241. La scelta trova anche una giustificazione in alcune riprese del titolo
dove viene confermata la sua struttura tripartita. Se nel frontespizio originale
(«De l'infinito universo / et Mondi»), così come nel colophon («Fine de Cinque
Dialogi dell'infinito / universo et mondi»), la virgola non appare, essa viene
però inserita nell'incipit del primo dialogo {«De l'infinito, universo, /et mondi»)
e nel De rerum principiis, in cui il titolo viene riportato in latino («De infinito
et universo et mundis», in Opp. lat. III, p. 510). Un'altra allusione al dialogo è
contenuta in un passaggio dei Furori («de l'infinito universo e mondi innume-
rabili», p. 616). Su questo aspetto cfr. Giovanni Aquilecchia, Note philologi-
que, in Giordano Bruno, De l'infini, de l'univers et des mondes. CEuvres complè-
tes. IV cit, pp. LXXX-LXXXI.
242. Su questo specifico punto cfr. Miguel Angel Granada, Introdudion
à Giordano Bruno, De l'infini, de l'univers et des mondes. CEuvres complètes. IV
cit, pp. XVIl-XXII.
243. De l'infinito, p. 63.
84 INTRODUZIONE
limite [...] del coxpo contenente »'-''^. Il luogo di un corpo, quindi, è il
recipiente in cui esso è contenuto (cioè il suo «limite») e in quanto tale
appartiene al corpo contenente. Se non c'è corpo, per lo Stagirita, non
ci sarà neanche spazio, essendo il luogo un accidente del corpo. E al-
lora si potrà concludere che l'universo è finito perché non c'è corpo al
di là del cielo delle stelle fisse.
Bruno ribatte utilizzando l'immagine lucreziana, risalente a una
antichissima tradizione, della freccia lanciata al di là dei limiti del-
l'universo 2-*'. Se mi avvicino alla presunta sfera delle stelle fisse e sca-
glio un qualsiasi oggetto appuntito verso la barriera che contiene il
cosmo cosa succederà? L'oggetto sarà bloccato o continuerà la sua
corsa al di là del margine? Se ammettiamo che sarebbe assurdo pen-
sare una muraglia invalicabile o l'esistenza di un «vuoto» delimitante
che sia impenetrabile, dobbiamo accettare l'idea che la freccia potrà
andare oltre e che questo «oltre» presuppone uno spazio infinito. È un
po' quello che ci accade quando cerchiamo di percepire l'orizzonte:
244. Aristotele, Fisica, in Opere, j, traduzione di Antonio Russo, Roma-
Bari, Laterza, 1991 (IV, 4, 2i2a), p. 83.
245. «Il quarto argumento si toglie da una demostrazione o questione
molto urgente che fanno gli Epicurei» De l'infinito, p. 11. Qui Bruno cita un
brano del De rerum natura, di cui bisogna fornire un contesto più allargato per
essere compreso: «praeterea si iam finitum consti tuatur / omne quod est spa-
tium, siquis procurrat ad oras / ultimus extremas iaciatque volatile telura, / id
validis utrum contortum viribus ire / quo fuerit missum mavis longeque vo-
lare, / an prohibere aliquid censes obstareque posse? / alterutrum fatearis enim
sumasque necessest. / quorum utrumque tibi effugium praecludit et omne /
cogit ut exempta concedas fine patere. / nam sive est aliquid quod probeat
efficiatque / quominu" quo missum est vienat finique locet se, / sive foras fer-
tur, non est a fine profectum. / hoc pacto sequar atque, oras ubicumque loca-
ris, / extremas, quaeram quid telo denique fiat. / fiet uti nusquam possit con-
sistere finis / effugiumque fugae prolatet copia semper. / postremo ante oculos
res rem finire videtur. / aer dissaepit Collis atque aera montes, / terra mare et
contra mare terras terminat omnis; / omne quidem vero nil est quod finiat
extra» [«Supponiamo limitato tutto lo spazio esistente: se qualcuno nel suo
slancio avanzasse fino all'estremità dell'ultimo margine e da lì facesse volare
nello spazio una freccia, questa, scaraventata con grande vigore, preferisci cre-
dere che se vada verso la sua meta o se ne voli lontano, o pensi per caso che ci
possa essere un ostacolo ad interrompere la sua corsa? Una delle due ipotesi
bisogna scegliere e adottare: e l'una e l'altra ti tagliano ogni ritirata e ti obbli-
gano a riconoscere che l'universo si estende libero da ogni limite. Sia che un
ostacolo esteriore impedisca alla freccia di raggiungere la sua meta e fermarsi,
sia che possa proseguire la sua corsa, il punto da cui parte non è il termine
dell'universo. Senza sosta ti perseguiterò con questo argomento, e ovunque tu
porrai l'estremo margine del mondo, io ti chiederò che cosa avverrà della frec-
cia: accadrà che nessuna sua parte potrà uscire dai limiti e che senza sosta
nuovi spazi liberi prolungheranno all'infinito le sue possibilità di fuggir via»]:
Lucrezio, La natura, introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti, let-
tura critica di Alessandro Ronconi, Milano, Garzanti, 1975 (I, w. 968-987), pp.
62-63.
INTRODUZIONE 85
Ogni qualvolta ci spostiamo in avanti per raggiungerlo il presunto
margine si sposta assieme a noi. Eppure i sensi, proprio come accade
con l'apparente movimento del sole, sembrano farci credere che l'oriz-
zonte sia immobile, fermo, stabile. Liberarsi di queste illusioni signi-
fica spezzare le catene dell'errore. Un'esperienza che Bruno traduce in
versi nel sonetto che conclude VEpistola proemiale:
E chi mi impenna, e chi mi scald'il core?
Chi non mi fa temer fortuna o morte?
Chi le catene ruppe e quelle porte,
onde rari son sciolti et escon fore?
L'etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l'ore
figlie et armi del tempo, e quella corte
a cui né ferro né diamante è forte,
assicurato m'han dal suo furore.
Quindi l'ali sicure a l'aria porgo,
né temo intoppo di cristall' o vetro;
ma fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo.
E mentre dal mio globo a gli altri sorgo,
e per l'eterio campo oltre penetro:
quel ch'altri lungi vede, lascio al tergo^'*^
Il Nolano, rigettando l'idea che il «vuoto» sia non-essere, gli rico-
nosce la funzione di «luogo», di una grandezza fisica tridimensionale
che pur non essendo corporea è in grado di essere ricettacolo naturale
di tutti i corpi possibili 2'<7. Aristotele, invece, «destrugge (se pur de-
strugge) il vacuo secondo quella raggione la quale forse non è stata
presa da alcuno: atteso che gli antichi e noi prendiamo il vacuo per
quello in cui può esser corpo, e che può contener qualche cosa, et in
cui sono gli atomi e gli corpi; e lui solo diffinisce il vacuo per quello
che è nulla, in cui è nulla e non può esser nulla»^"***. Ma le ipotesi
peripatetiche sembrano cadere in contraddizione di fronte alla do-
manda: dov'è allora il luogo dell'universo se fuori dall'universo finito
non c'è niente? In cosa è contenuto il cielo delle stelle fisse se oltre di
esso non si ha nulla?
Se il mondo è finito, et estra il mondo è nulla, vi dimando: ove è il
mondo? ove è l'universo? Risponde Aristotele: è in se stesso. Il convesso
246. De l'infinito, p. 31.
247. Sulle nozioni di «vuoto» e di «spazio», con particolare attenzione an-
che alle opere latine, si vedano da ultimo Barbara Amato, La nozione di «vuo-
to» in Giordano Bruno, in «Bruniana & Campanelliana», III, 1997, pp. 209-229
e Mariassunta Picardi, La nozione di spazio nella riflessione cosmologica di
Giordano Bruno (1584-1591), in «Studi filosofici», XXI, 1998, pp. 49-94.
248. De l'infinito, p. 62.
86 INTRODUZIONE
del primo cielo è loco universale; e quello, come primo continente, non è
in altro continente: per che il loco non è altro che superficie et estremità
di corpo continente; onde chi non ha corpo continente, non ha loco. Or
che vuoi dir tu, Aristotele, per questo che «il luogo è in se stesso»? che mi
conchiuderai per «cosa estra il mondo»? Se tu dici che non v'è nulla, il
cielo, il mondo, certo non sarà in parte alcuna [...] il mondo sarà qualcosa
che non si trova^-*^.
Ma per essere più persuasivo, Bruno ridiscute la necessaria esi-
stenza dell'infinito da un altro punto di vista. Quello della «causa»,
della divina entità che avrebbe prodotto la realtà in cui viviamo. E lo
fa riprendendo, per rovesciarla, una delle classiche argomentazioni
scolastiche contro l'infinità dell'universo: la potentia absoluta di Dio,
che può fare tutto, non ha potuto creare un cosmo infinito perché la
materia imperfetta non sarebbe stata in grado di accogliere «l'atto del-
l'efficiente» («atteso che non ogni potenza attiva si converte in pas-
siva, ma quella sola la quale ha paziente proporzionato, cioè soggetto
tale, che possa ricevere tutto l'atto dell'efficiente; et in cotal modo non
ha corrispondenza cosa alcuna causata alla prima causa »)^'°. Questo
significa, sul piano teologico, che Dio («causa» infinita) potrebbe anche
produrre un «effetto» finito, rinunciando a comunicare tutta la sua
infinita potenza all'oggetto della sua creazione:
Ora per cominciarla; per che vogliamo o possiamo noi pensare che la
divina efficacia sia ociosa? Per che vogliamo dire che la divina bontà la
quale si può communicare alle cose infinite, e si può infinitamente diffon-
dere, che voglia essere scarsa et astrengersi in niente (atteso che ogni cosa
finita al riguardo de l'infinito è niente)? Perché volete che quel centro
della divinità, che può infinitamente in una sfera (se cossi si potesse dire)
infinita amplificarse, come invidioso, rimaner più tosto sterile che farsi
comunicabile, padre fecondo, ornato e bello? voler più tosto comunicarsi
diminutamente e (per dir meglio) non comunicarsi, che secondo la rag-
gione della gloriosa potenza et esser suo?^"
Ridimensionare gli «effetti» significa ridimensionare anche la
«causa»252 Significa pregiudicare «la eccellenza della divina imagine,
che deverebe più risplendere in un specchio incontratto, e secondo il
249. Ibidem, p. 36.
250. Ibidem, p. 146.
251. Ibidem, p. 46.
252. Sul rapporto tra potentia absoluta e potentia ordinata cfr. Miguel An-
GEL Granada, // rifiuto della distinzione tra potentia absoluta e potentia ordi-
nata di Dio e l'affermazione dell'universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista
di storia della filosofia», 49 (1994), pp. 495-532.
INTRODUZIONE 87
SUO modo di essere, infinito, imenso»^'^. Qui Bruno rilancia, in un
contesto diverso, alcuni temi di fondo già discussi nel De la causa. Se
«atto» e «potenza» coincidono non è possibile che una «causa» infi-
nita possa produrre un «effetto» finito: «Come vuoi tu che Dio, e
quanto alla potenza, e quanto a l'operazione, e quanto a l'effetto (che
in lui son medesima cosa), sia determinato, e come termino della con-
vessitudine di una sfera: più tosto che (come dir si può) termino inter-
minato di cosa interminata?» ^5-'. Anche in questo caso, il Nolano uti-
lizza la stessa tecnica argomentativa. Parte dalle tesi contrarie, ne ado-
pera il linguaggio e la specifica terminologia. Ma poi lentamente se ne
distacca, riportando il discorso nell'alveo concettuale della sua «nova
filosofia». L'opzione tra universo finito o infinito provoca le stesse con-
seguenze sul piano cosmologico e sul piano teologico. Se dalla natura
deir«effetto» noi possiamo risalire alla natura della «causa» non è
possibile intravedere nessuna utilità nell'ipotizzare un universo finito.
Dovremmo ammettere che la «divinità» sia finita e, quindi, non in
grado di produrre un effetto infinito. La sua straordinaria eccellenza,
invece, si riflette solo e soltanto in una natura infinita, popolata da
innumerevoli mondi:
Cossi si magnifica l'eccellenza de Dio, si manifesta la grandezza de l'im-
perio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili; non in una
terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in infiniti. Di sorte che non
è vana questa potenza d'intelletto, che sempre vuole e puote aggiungere
spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a numero: per
quella scienza che ne discioglie da le catene di uno angustissimo, e ne
promove alla libertà d'un augustissimo imperio; che ne toglie dall'opinata
povertà et angustia, alle innumerabili ricchezze di tanto spacio, di sì di-
gnissimo campo, di tanti coltissimi mondi: e non fa che circolo d'orizonte
mentito da l'occhio in terra, e finto da la fantasia nell'etere spacioso, ne
possa impriggionare il spirto, sotto la custodia d'un Plutone e la mercé
d'un Giove^".
Alla luce di queste riflessioni, la natura viene concepita come «uno
infinito simulacro» in cui si esplica «la eccellenza divina incorporea
per modo corporeo» 2"'. L'universo infinito, insomma, coincide con
Vexplicatio della divina potenza, diventa «immagine» aperta della di-
vina unità {contractio): se Dio è «tutto l'infinito complicatamente e to-
talmente», l'universo invece è «tutto in tutto [...] explicatamente, e
253. De l'infinito, p. 46.
254. Ibidem.
255. Ibidem, p. 27.
256. Ibidem, p. 43.
88 INTRODUZIONE
non totalmente» ^5'. La distinzione non è superflua. Mira a spiegare
ancora meglio la differenza tra finito e infinito. L'universo infinito è
composto da innumerevoli aggregati finiti. L'infinità, quindi, riguarda
non le singole parti ma la loro totalità, cioè l'universo in quanto in-
sieme di infinite parti finite. Ma, anche in questo caso, il dualismo
(Dio e universo) si salda: «complicatio» ed «explicatio», «causa» ed
«effetto» si identificano con la forza vitale che anima tutto ciò che
esiste. Una cosa è distinguere concettualmente, un'altra cosa è consi-
derare i processi nella loro attualizzazione. Nella Vita si concretizza la
straordinaria unione dell'Uno e dell'universo. Spetta solo alla natura,
infinita ed omogenea, il ruolo di mediazione con la divina unità del
Tutto. Per questo il cristianesimo è un'impostura: non è il sacrificio di
Cristo che ci mette in comunicazione con la «divinità», ma è la con-
templazione dell'universo infinito che può svelarci come la moltepli-
cità e l'unità siano indistinte nella Vita^^s
Bisognerà aspettare lo Spaccio per capire sul piano religioso come
l'identificazione della «divinità» nella natura sia l'unica via possibile
per ristabilire una comunicazione tra il «divino» e !'« umano». Bruno,
però, non esita anche nel De l'infinito a riprendere la distinzione che
aveva già individuato nella Cena e sviluppato nel De la causa. La re-
ligione, secondo questa prospettiva, si occupa di istituire leggi morali
per istruire gli ignoranti, non di attivare processi di conoscenza scien-
tifica e filosofica:
257. Ibidem, p. 47. Qui il Nolano si serve, piegandoli alle sue esigenze, di
concetti («explicatio» e «complicatio») già utilizzati da Cusano nel De docta
ignorantia (II, 2 e 3). Ma sulle differenze e sulle analogie tra il pensiero di Cu-
sano e quello di Bnino si vedano: Nicola Badaloni, La filosofia di Giordano
Bruno, Firenze, Parenti, 1955, pp. 53, 71, 74; Fulvio Papi, Antropologia e civiltà
nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 25-27; Al-
fonso Ingegno, Cosmologia e filosofia nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze,
La Nuova Italia, 1978, p. 97; Hélène Vedrine, L'influence de Nicolas de Cues
sur Giordano Bruno, in Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno. Atti del Con-
gresso intemazionale in occasione del V centenario della morte di Nicolò Cu-
sano (Bressanone, 6-10 settembre 1964), Firenze, Sansoni, 1970, pp. 211-223;
Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, Genova, Marietti, 1992, pp.
493-644; Rita Sturlese, Nicolò Cusano e gli inizi della speculazione del Bruno,
in Historia Philosophiae Medii Aevi. Studien zur Geschichte der Philosophie des
Mittelalters, Festschrift fiir Kurt Flasch zu seinem 60. Geburtstag, hrsg. von
Burkhard Mojsisch und Olaf Pluta, Amsterdam-Philadelphia, Griiner, 1991, II,
pp. 953-966; Angelika Bònker-Vallon, Cusanismo e atomismo. La trasforma-
zione della «coincidentia oppositorum» nella teoria dell'indifferenza dello spazio in
Giordano Bruno, in Cosmologia, teologia y religión en la obra y en el proceso de
Giordano Bruno cit., pp. 67-79.
258. Su questi temi cfr. Miguel Angel Granada, Introduction à Gior-
dano Bruno, De l'infini, de l'univers et des mondes. (Euvres complètes. IV cit.,
pp. LVII-LIX.
INTRODUZIONE 89
E facilmente condonaranno [alcuni padri e pastori di popoli] a noi di
usar le vere proposizioni, dalle quali non vogliamo inferir altro che la
verità della natura e dell'eccellenza de l'autor di quella; e le quali non son
proposte da noi al volgo, ma a sapienti soli che possono aver accesso al-
l'intelligenza di nostri discorsi. Da questo principio depende che gli non
men dotti che religiosi teologi giamai han pregiudicato alla libertà de fi-
losofi; e gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre hanno faurito le
religioni: perché gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l'insti-
tuzione di rozzi popoli, che denno esser governati; e la demostrazione per
gli contemplativi, che sanno governar sé et altri ^^9
Il Nolano, insomma, continua a distinguere i due piani: c'è chi
fonda la «verità» «su la fede» e c'è chi invece la fa coincidere con
«l'evidenza di veri principii»^^° Un'opposizione che riecheggia anche
nelle parole di Fracastoro quando ricorda che si può essere «dotto per
fede e non per scienza»^^'. Il vero filosofo però favorisce la religione,
così come il vero teologo non deve pregiudicare «la libertà dei filoso-
fi». Gli uni e gli altri si rivolgono a un pubblico diverso: i primi ai
dotti, i secondi ai «rozzi popoli». Ma, per Bruno, anche dal punto di
vista della teologia, l'infinità dell'universo non fa altro che esaltare e
magnificare la potenza «divina». In fondo, ritoma il tema di un'antica
concezione della religione che vede Dio nella natura. Ritornano, come
abbiamo già visto nella Cena, antiche verità che per secoli erano rima-
ste occulte e che adesso il sole di una nuova filosofia può finalmente
illuminare, riattualizzandole:
Sono amputate radici che germogliano, son cose antique che rivegnono,
son veritadi occolte che si scuoprono: è un nuovo lume che dopo lunga
notte spunta all'orizonte et emisfero della nostra cognizione, et a poco a
poco s'avicina al meridiano della nostra intelligenza^'^^.
259. De l'infinito, pp. 51-52. Sul carattere averroista di questo passo si veda
Miguel Angel Granada, «Esser spogliato dall'umana perfezione e giustizia».
Nueva evidencia de la presencia de Averroes en la obra y en el proceso de Giordano
Bruno, in «Bruniana & Campanelliana», V (1999), pp. 309 e segg. Sull'averroi-
smo nei Furori cfr. infra, p. 131.
260. De l'infinito, p. 136.
261. Ibidem, p. 113.
262. Ibidem, p. 135.
90 INTRODUZIONE
V.
LA FILOSOFIA MORALE E LA RELIGIONE:
SPACCIO E CABALA
Dopo aver mostrato gli effetti nefasti della «fede» e della teologia
sui piani interrelati della cosmologia e della natura, con il quarto mo-
vimento della «nova filosofia» il Nolano vuole riannodare i fili, spez-
zati da secoli di barbarie, tra religione e società civile. Lo Spaccio de la
bestia trionfante (1584), infatti, si pone come allegoria di una riforma
etica in cui Bruno espone «gli numerati et ordinati semi della sua
moral filosofia»'^'. Si tratta di una tappa importantissima nel progetto
delle opere italiane. Liberare la Terra dalle catene del geocentrismo e
l'universo dai confini che lo delimitavano significava riawicinare gli
infiniti mondi al nostro pianeta, la «divinità» alla natura, la materia
«celeste» a quella «terrestre». Liberare, adesso, la religione dalla follia
distruttrice dei pedanti teologi significa religare l'uomo all'uomo, attra-
verso la concezione di un culto che favorisca la coesione sociale e che
inciti ad assumere comportamenti «eroici» nella vita civile.
Il dialogo, suddiviso in tre parti, si avvale di tre interlocutori: Sofia
(mediatrice tra gli dèi e gli uomini), Saulino {alter ego di Bruno) e Mer-
curio (messaggero divino). La «riforma» morale prende il via dal «pen-
timento» di Giove che convoca un'assemblea celeste per purificare il
cielo dai vizi che imperversano e per ristabilire le virtù. Costellazione
per costellazione - utilizzando probabilmente uno stratagemma mne-
motecnico già sperimentato da Tommaso Radini Tedeschi^^ — Bruno
ci presenta il padre degli dèi intento a proporre lo «spaccio» (l'espul-
sione) dei simboli negativi per assegnare invece nuova dignità ai sim-
boli positivi. Ma prima di addentrarsi nel complesso labirinto allego-
263. Spaccio, p. 176.
264. Thomae Radini Thodischi, Sideralis Abyssus. Luteciae, Thomae
Kees, 1514. Questo testo, in cui le costellazioni vengono piegate a rappresentare
vizi e virtù, fu ritenuto da Aby Warburg la fonte dello Spaccio. Lo studioso
tedesco ne parla più volte nel suo diario, ancora inedito, a partire dal dicembre
1928, quando Fritz Saxl da Amburgo gli invia il volume in Italia. Devo questa
notizia a Nicholas Mann, direttore del Warburg Institute, che in una confe-
renza tenuta a Tokyo - nell'ambito di un convegno su Bruno organizzato nel
marzo 1998 dal Centro Intemazionale di Studi Bruniani, dal Warburg Insti-
tute e da un gruppo di filosofi giapponesi - ha ricostruito il rapporto tra War-
bui^ e Bruno proprio a partire da queste annotazioni autobiografiche. Mi sem-
bra importante ricordare che l'autore del Sideralis abyssus si sia distinto per un
feroce attacco a Melantone: cfr. Tommaso Radini Tedeschi, Orazione contro
Filippo Melantone, testo, traduzione e note di Flaminio Ghizzoni, saggio di Giu-
seppe Berti, Brescia, Paideia, 1973.
INTRODUZIONE QI
lieo dell'opera è importante soffermarci sul contesto in cui essa è stata
concepita.
/ «Mémoires» di Michel de Castelnau
Il Nolano, come abbiamo già visto, durante il suo soggiorno lon-
dinese è ospite dell'ambasciatore francese, Michel de Castelnau (1518/
i520-i592)2'^5, a cui sono dedicati i primi tre dialoghi italiani e VExpli-
catio triginta sigillorum. Nella Cena, l'autore ringrazia il diplomatico
per la sua generosa accoglienza («A voi che con tanta munificenza e
libertà avete accolto il Nolano al vostro tetto e luogo più eminente di
vostra casa») 266^ mentre nel De la causa lo considera come protettore
delle Muse («siete quello che medesimo si rende sicuro e tranquillo
porto alle vere muse»)^^^ e, soprattutto, come coraggioso difensore
della «nolana filosofia »268. In effetti - le parole stesse di Bruno lo con-
fermano - senza la presenza del Castelnau le reazioni inglesi suscitate
dalla pubblicazione della Cena avrebbero potuto produrre effetti
molto spiacevoli 2''''.
265. Su Castelnau si vedano: l'articolo Michel de Castelnau, in «Dictionnaire
de biographie frangaise», t. VII, Paris, Librairie Letouyer et Ané, 1956, col.
1383-84; M. Lazard, L'image du Prince dans les Mémoires de Michel de Castel-
nau: le Prince dans la tourmente des passions religieuses (i520-i5g2), in Le pou-
voir monarchique et ses supports idéologiques aux XIV-XVIF siècles, Paris, La
Sorbonne Nouvelle, 1990, p. 91-125 (ma cfr. anche Id., Deux guerriers pacifistes:
Michel de Castelnau et Frangois de la Noue, in L'Homme de guerre au XVF siede,
Actes du CoUoque de l'Association RHR [Cannes 1989], publié par Gabriel-
André Pérouse, André Thierry et André Toumon, Saint-Etienne, Université de
Saint-Etienne, 1992, pp. 51-60).
266. Cena, p. 440. Nelle pagine finali della Cena Bruno non esita a sottoli-
neare che la «nolana filosofia» nasce sotto gli «auspicii» del Castelnau: «Ri-
manti tra tanto appo l'illustrissimo e generosissimo animo del signor di Mau-
vissiero (sotto l'auspicii del quale cominci a publicar tanto soUenne filosofia)»
{Ibidem, p. 569).
267. De la causa, pp. 595-596.
268. «Se da l'altro lato mi riduco a mente come (lasciando gli altri vostri
onorati gesti da canto) per ordinazion divina, et alta providenza e predestina-
zione, mi siete sufficiente e saldo difensore ne gl'ingiusti oltraggi ch'io patisco
(dove bisognava che fusse un animo veramente eroico per non dismetter le
braccia, desperarsi, e darsi vinto a sì rapido torrente di criminali imposture,
con quali a tutta possa m'have fatto empete l'invidia d'ignoranti, la presun-
zion di sofisti, la detrazzion di malevoli, la murmurazion di servitori, gli su-
surri di mercenarii, le contradizzioni di domestici, le suspizioni di stupidi, gli
scrupoli di riportatori, gli zeli d'ipocriti, gli odii di barbari, le furie di plebei,
furori di popolari [...]), ecco vi veggio qual saldo, fermo e constante scoglio, che
risorgendo e mostrando il capo fuor di gonfio mare, né per irato cielo, né per
orror d'inverno, né per violente scosse di tumide onde, né per stridenti aerie
procelle, né per violento soffio d'Aquiloni punto si scaglia, si muove o si
scuote» {Ibidem, pp. 594-595).
269. Cfr. supra, p. 23.
92 INTRODUZIONE
Non si tratta di elogi di circostanza, quindi, ma di un legame più
profondo, fondato soprattutto sul riconoscimento dell'autentico inte-
resse che l'ambasciatore nutre per coloro che amano la «vera sa-
pienza» e lo «studio della vera contemplazione» {De l'infinitoy^. Nella
Ccisa del Castelnau, infatti, Bruno afferma di aver vissuto come nella
sua propria patria:
Ipsae etenim quibus omne solum patria, ne alicubi haberentur peregri-
nae seque extraneas esse comperirent, per Italum alumnum, in seposita
Britannia, Gallicum, ipsumque regium, hospitium repperere. Vale, illum-
que satis tibi alligatum scias, cui Angliam in Italiam, Londinum in No-
lam, totoque orbe seiunctam domum in domesticos lares convertisti 2".
Ma nonostante ciò, il rapporto tra il Nolano e il Castelnau non è
mai stato analizzato a fondo, restando sempre confinato all'analisi del
reciproco scambio di attestazioni di stima e di amicizia. La critica, con
scarsi risultati, ha cercato di reperire nella corrispondenza del diplo-
matico, in gran parte andata perduta^"-, tracce della presenza del filo-
sofo, trascurando l'unica opera a noi pervenuta, i Mémoires, pubblicati
postumi nel 1621 dal figlio Jacques 2^^. L'esclusione di questa autobio-
grafia dall'orizzonte degli studi bruniani si fonda essenzialmente su un
inganno provocato dalla datazione degli eventi che, volta per volta,
precedono i vari capitoli presenti nei sette libri: il «diario» si apre con
la morte di Enrico II (1559) e si interrompe con un'allusione all'editto
di Saint-Germain (1570). A prima vista, l'arco cronologico ci induce a
considerare improbabile un qualsiasi rapporto tra queste pagine e la
presenza di Bruno a Londra (1583-1585). Ma a una lettura attenta, in-
vece, i Mémoires si rivelano di grande importanza per capire alcuni
aspetti fondamentali dello Spaccio.
Innanzitutto, bisogna soffermarsi sulle date. Come in ogni diario, le
riflessioni dell'autore sono sempre precedute dall'indicazione tematica
degli avvenimenti di cui si parlerà. La centralità di quegli eventi,
però, non impedisce al Castelnau di abbandonarsi a collegamenti con
situazioni e fatti degli anni ottanta. Quando si parla, per esempio, del-
l'elezione della regina Elisabetta e dei delicati affari scozzesi (1559-
270. De l'infinito, p. io.
271. G. Bruno, Explicatio triginta sigillorum, in Opp. lai. (II, 2), p. 75. Qui
Bruno riprende un tema a lui caro: «al vero filosofo ogni terreno è patria» {De
la causa, p. 61).
272. Cfr. G. HuBAULT, Ambassade de Michel de Castelnau en Angleterre (1575-
1585) cit, p. Vili.
273. Cfr. Michel de Castelnau, Mémoires cit.
INTRODUZIONE 93
1560) si fa allusione a decisioni che saranno prese in Inghilterra solo
nel 1581^^^. O, addirittura, si ritrovano qua e là notizie che riguardano
il definitivo rientro del diplomatico in Francia, nell'autunno del
1585^^5 j)i Bruno non si parla, è vero. Ma questi riferimenti - confor-
tati da altri indizi estemi ^^'' — ci fanno pensare che il Castelnau scri-
vesse i suoi Mémoires proprio quando il Nolano lavorava alla defini-
tiva stesura dello Spaccio.
Si tratta di una coincidenza che non può essere sottovalutata. In
fondo, l'ambasciatore e il filosofo, sotto lo stesso tetto, scrivono due
opere che hanno un denominatore comune: l'analisi delle cause e degli
effetti delle guerre di religione. Utilizzano generi letterari diversi (scrit-
tura memorialistica e dialogo), è vero^^^. Analizzano i temi da punti di
vista molto differenti (racconto di eventi vissuti e riflessione teorica
274. «Et pour cette cause fut arresté aux Estats tenus en Angleterre, au
mois de mars 1581 [...]»: Ibidem, p. 131.
275. Castelnau ricorda che i Guise fecero pressione su Enrico III per fargli
togliere il beneficio di Saint-Dizier, ottenuto per servigi resi nel 1568: «[Leurs
Majestée] me donnerent le gouvemement de Sainct-Disier, lequel depuis, pen-
dant mon sejour de dix ans que j'ay esté ambassadeur en Angleterre, m'a esté
oste pour le bailler au due de Guise» {Ibidem, p. 423).
276. Un'altra testimonianza proviene dalla traduzione di un trattato di
Pierre de la Ramée, effettuata dal Castelnau nel 1559: Traidé des Fagons et
Coustumes des Anciens Gaulloys, traduit du latin de P. de la Ramée par Michel de
Castelnau, Paris, Chez André Wechel, 1559 (Petrus Ramus, Liber de moribus
veterum gallorum, Parisiis, apud A. Wechelum, 1559). La ristampa di questa
traduzione viene promossa nel 1581 da Bernard Dupuy, che nella dedica al
Castelnau fa riferimento alla stesura in corso dei Mémoires: «lequelle [livre]
vous devroit donner courage au lieu et seiour de votre Ambassade, d'achever
les mémoires que vous avez commencer à taire, des choses que vous avez trait-
tées et maniées en vostre temps» (Traitté des Meurs et Fagons et des Anciens
Gaulloys, traduit du latin de P. de la Ramée par Michel de Castelnau, A Paris,
Chez Denys du Val, 1581, ce. 3r-3v). Non bisogna dimenticare che il trattato di
Pierre de la Ramée e la traduzione del Castelnau sono entrambi pubblicati da
André Wechel, padre del Ioannes presso cui a Francoforte Bruno darà alla
luce alcune sue opere latine. Sulla datazione dei Mémoires e sul milieu legato ai
Wechel in Francia e in Germania cfr. Nuccio Ordine, Introduction à Gior-
dano Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit, pp. XIII-XVII. Nel corso
della stesura di questo paragrafo riprenderò alcuni dei temi che ho discusso in
maniera più approfondita nella mia introduzione all'edizione Les Belles Let-
tres dello Spaccio.
277. In Francia, si pensi ai celebri Commentaires di Blaise de Montine, nella
seconda metà del Cinquecento i mémoires godono di un diffuso interesse. Sulla
nascita e gli sviluppi di questo genere cfr. Guy Demerson, La riflessione sulla
storia e i primi tentativi di una storia della letteratura, in Storia della letteratura
francese, diretta da Lionello Sozzi, Torino, Utet, 1993, v. I, pp. 390-394. Ma si
veda anche l'importante contributo di Marc Fumaroli, Mémoires et histoire:
le dilemme de l'historiographie humaniste au XVF siede, in Les valeurs chez les
mémorialistes frangais du XVIF siècles, par N. Hepp et J. Hennequin, Paris,
Klincksieck, 1979, pp. 21-37.
94 INTRODUZIONE
sulla filosofia morale), siamo d'accordo. Ma queste distinzioni sulla na-
tura dei due testi non impediscono di cogliere la profonda solidarietà
che li lega sul piano politico e religioso.
Nei Mémoires, considerati a giusta ragione come «le monument hi-
storique le plus instructif de cette epoque »2'8, l'autore ci parla della
sua fedeltà a Enrico III, della stima per la regina Elisabetta, delle vio-
lenze perpetrate in nome della religione dalle fazioni estremiste dei
cattolici e dei protestanti, della centralità dello Stato, della vitale im-
portanza della Legge e della Giustizia, della necessità della pace, degli
effetti catastrofici provocati dalle guerre civili. Ci parla, insomma, di
temi fortemente interrelati con alcuni passaggi dello Spaccio. E la sua
posizione di diplomatico e di protagonista di molte vicende legate ai
conflitti tra gli Ugonotti e i Guise, gli consente di smascherare le po-
sizioni strumentali delle grandi famiglie francesi che con il pretesto di
difendere la religione avevano finito per distruggere «tonte religion et
piété»:
Et le pis estoit qu'en cette guerre les armes. que l'on avoit prises pour
la deffence de la religion, aneantissoient toute religion et piété, et produi-
soient, comme un corps pourry et gasté la vermine et pestilence d'une
infinite d'atheistes; car les eglises estoient saccagées et demolies, les an-
ciens monasteres detruits, les religieux chassez et les religieuses violées; et
ce qui avoit esté basty en quatre cens ans, estoit destruit en un jour, sans
pardonner aux sepulchres des roys et de nos peres^^'.
Non è possibile soffermarci ulteriormente sui Mémoires^^°. Ci
preme, invece, sottolineare il ruolo di mediatore che il Castelnau
avrebbe potuto svolgere negli anni del soggiorno londinese di Bruno.
Tramite con il milieu inglese, senza dubbio, ma anche punto di rac-
cordo tra gli eventi politico-culturali francesi e il Nolano. Lavorando
nello stesso momento su temi affini, è difficile immaginare che tra i
due non intercorressero scambi di opinioni su una materia così deli-
cata, e all'ordine del giorno, come le guerre di religione. E non è im-
possibile ipotizzare che il Castelnau, per venire incontro agli interessi
del suo interlocutore, gli avesse messo sotto gli occhi una raccolta di
278. M. Petitot, Notice sur Castelnau et sur ses mémoires. in Michel de
Castelnau, Mémoires cit, p. i6. Ma anche Gustave Hubault riconosce il va-
lore dei Mémoires: «Rédigés en Angleterre, loin des passions qu'ils dépeignent,
ils sont empreints d'une équité que la distance, dans 1 "espace comme dans le
temps, rend plus facile et qu'ont admirée tous les historiens»: Ambassade de
Michel de Castelnau en Angleterre (1575-1585) cit., p. 143.
279. Michel de Castelnau, Mémoires cit, pp. 296-297.
280. Per un'analisi più dettagliata cfr. Nuccio Ordine, Introduction à
Giordano Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit, pp. XVII-XX.
INTRODUZIONE 95
versi militanti di Ronsard — il Discours des Misères de ce temps: 1567,
1578, ma ristampato proprio nel 1584 nell'edizione delle opere com-
plete-^i - in cui si ritrovano temi e immagini che presentano una
straordinaria coincidenza con alcuni passaggi dello Spaccio e con la
posizione stessa manifestata nei suoi Mémoires dal diplomatico fran-
cese, amico di lunga data del celebre fondatore della Plèiade ^^2
Ronsard e la religione come cemento sociale
Ronsard, nella polemica antiprotestante degli anni sessanta, gioca
un ruolo di primissimo piano, che resta vivo nella memoria dei fran-
cesi per alcuni decenni, come testimoniano le parole di Jacques Davy
Du Perron pronunciate il 24 febbraio del 1586 davanti al feretro del
poeta, nella cappella del Collège de Boncourt^^'. A distanza di oltre
vent'anni, infatti, i versi del Vendómois vengono ancora ricordati
come esempio di letteratura «engagée». In effetti, la pubblicazione del
Discours des Misères de ce temps ebbe una funzione importantissima
durante lo scoppio delle prime guerre di religione: allo straordinario
281. Sullo straordinario successo editoriale di questo polemico pamphlet
ronsardiano cfr. Jean Paul Barbier, Bibliographie des Discours politiques de
Ronsard, Genève, Droz, 1984.
282. Al di là dei versi di Ronsard sul teatro del mondo recitati a Fontai-
nebleau dal Castelnau nel 1564, in occasione di un'importante festa organiz-
zata da Caterina de' Medici (cfr. supra, p. 60), il poeta dedica al suo amico un
sonetto pieno di lodi: «Je n'ayme point ces noms ambitieux / Qui font enfler le
gros sourcil d'un livre: / Apres ma mort le mien pourra revivre / Sans le sacrer
aux princes ny aux dieux. // Mais rencontrant un homme ingenieux / Qui
comme toy les vertus veut ensuivre, / En lieu d'un marbré ou un pilier de
cuivre / Je l'etemize et le mets dans le cieux. // Te voyant né d'une ame gene-
reuse, / Plein de faconde, et de memoire heureuse, / Ayant la face et le naturel
bon, // Je t'ay donne ce livre, Mauvissiere, / Qui, sans faveur d'un plus superbe
nom, / Comme une Aurore annonce ta lumiere»: Ronsard, (Euvres complètes
cit, t. II, p. 424. Qui Ronsard «dipinge» un ritratto dell'ambasciatore francese a
Londra che trova riscontri in altre testimonianze. Per il riferimento alla por-
tentosa memoria del Castelnau, cfr. supra p. 16. L'immagine dell'aurora evo-
cata nel sonetto sarà anche utilizzata da Bruno nel suo elogio di Copernico:
«[Copernico] come un'aurora, che dovea precedere l'uscita di questo sole de
l'antiqua vera filosofìa» (Cena, p. 450).
283. «Alors Monsieur de Ronsard, qui avoit tousjours monstre sa fermeté
et sa costance, et s'estoit jamais laissé enchanter à toutes ces Sirenes. ny n'avoit
jamais degenere de la foy et de la religion de ses predecesseurs, [...] s'opposa de
telle sorte à toutes ces pestes d'escrivains [...] et les rendit si confus et si emer-
veillez, qu'ils demeurerent sans replique, et n'eurent ny plus de voix ny de
langue pour abbaier contre la verité. Dont oultre l'obbligation que tonte la
France luy en eut, et l'honner que le roy et la Royne sa mere lui firent en ceste
consideration [...]»: Jacques Davy Du Perron, Oraison funebre sur la mort de
Monsieur de Ronsard, édition critique par Michel Simonin, Genève, Droz, 1985,
pp. 88-90.
96 INTRODUZIONE
successo editoriale -**•* fecero seguito, infatti, numerose repliche, sotto
forma di violenti pamphlet, pubblicate anonimamente da attivi soste-
nitori del fronte protestante^**'. In questa raccolta, il principe della
Plèiade mostra una grande preoccupazione per le conseguenze dei con-
flitti civili: la società si disgrega, le istituzioni politiche crollano e le
lotte condotte in nome della religione finiscono per distruggere qual-
siasi forma di convivenza sociale e di religiosità. Tutto sembra essere
in preda al caos e la violenza spezza ogni forma di comunicazione tra
lo Stato e i suoi cittadini, tra il culto e i suoi fedeli. Nella sua polemica
antiprotestante - va detto con chiarezza per sgombrare il campo da
ogni possibile equivoco - Ronsard non manifesta alcun interesse per
questioni di natura teologica. Anzi: i suoi versi affermano in maniera
evidente che la religione deve avere soprattutto una funzione civile:
Tout Sceptre et tout Empire et toutes regions
Fleurissent en grandeur par les religions:
Par elles cu en paix cu en guerre nous sommes:
Car c'est le vray ciment qui entretient les hommes^**^.
Anche nel Panégyrique de la Renommée, indirizzato a Enrico III, la
parola «religione» viene derivata etimologicamente dal verbo latino
religare («legare», «annodare»), per evidenziare con maggiore forza la
sua funzione civile, il suo essere un perfetto collante sociale 2»'. Ron-
sard si inserisce, insomma, in un dibattito di natura strettamente po-
litica che da Machiavelli a Bodin considera i differenti culti al servizio
di un'unica missione: favorire ed accrescere la coesione tra gli uomi-
284. Sulla fortuna editoriale di questi versi di Ronsard cfr. J.-P. B.arbier,
Bibliographie des discours politiques de Ronsard cit
285. La polémique protestante contre Ronsard, édition, introduction et notes
par Jacques Pinaux, Paris, Didier, 1973, 2 voli. Sulla poesia protestante du-
rante le guerre di religione cfr. Jacques Pineaux. La poesie des Protestants de
langue frangaise [...] (i^^g-i^gS), Paris, Klincksieck, 1971. Sugli specifici attac-
chi dei riformati a Ronsard si veda F. Charbonnier, La poesie frangaise et les
guerres de religions (1560-15^4). Paris, 1920 (rist anast, Genève, Slatkine, 1970),
pp. 57-120 (ma cfr. anche il catalogo della mostra Ronsard et la Rome prote-
stante, Genève, Bibliothèque publique et universitaire, 1985).
286. Discours des Misères de ce temps, in (Euvres complètes cit, t II, w. 385-
388, p. 1029. Sulla religione come cemento e sull'importanza delle cerimonie,
Ronsard si sofferma anche nella Response anx injures: «Si tost quelle [l'Eglise]
eut rangé les villes et les Rois / Pour maintenir le peuple elle ordonna des
lois, / Et afin de coller les provinces unies / Gomme un cyment bien fort fit
des ceremonies, / Sans lesquelles long temps en toute region / Ne se pourroit
garder nulle religion» [Ibidem, t II, w. 397-402, p. 1053).
287. «Pour atteindre au sommet d'une telle equité 7 II faut la piété joincte
à la charité, / Et la religion dont reliez nous sommes, / Tant elle est agreable et
aux dieux et aux hommes!»: Panégyrique de la Renommée, in (Euvres complètes,
w. 95-98, t. II, p. 9.
INTRODUZIONE 97
ni^^^. L'atto del religare, quindi, non si esplica, come lo pretendevano i
protestanti, in un «legame» tra l'uomo e Dio, attraverso la mediazione
della fede. Per Ronsard, questo «nodo» deve concretizzarsi in un'al-
leanza tra uomo e uomo, tra l'individuo e la comunità sociale nella
quale egli vive. Ecco perché la funzione della religione è strettamente
interrelata alle funzioni della Legge e della Giustizia:
Doncques Roy, si tu veux qua ton regne prospere,
Il te faut craindre Dieu: le Prince qui revere
Dieu, Justice, et la Loy, vit tousjours fleurissant.
Et tousjours voit sous luy le peuple obeyssant^^^.
La distruzione dei luoghi sacri e degli altari, associata al disprezzo
per la legge e per la giustizia, provoca inesorabilmente la disintegra-
zione della società civile. E proprio in difesa di quest'ultima Ronsard
non esita a schierarsi con Caterina de' Medici, mantenendo un'equidi-
stanza dalle posizioni radicali sostenute dalle opposte fazioni in lotta.
Combattere i fanatismi religiosi, siano essi espressione del partito pro-
testante o di quello cattolico («Mort sont ces mots Papaux et Hugue-
nots»)^''", significa schierarsi a favore della Corona e, di conseguenza,
con tutti coloro che considerano al primo posto la solidità dello Stato
e della società civile^^i. Non a caso, nelle discussioni organizzate da
288. Cfr. Daniel Ménager. Religion et religions, in Ronsard. Le Roi, le Poète
et les Hommes, Genève, Droz, 1979, pp. 167-181; ma si veda anche Isidore Sil-
ver, Ronsard's Philosophic Thougt, I, Genève, Droz, 1992, pp. 232-238.
289. Ronsard, Hynne de la Justice, in QLuvres complètes cit., t II, w. 503-
506. p. 485. Tutto l'inno è centrato sul ruolo fondamentale della Giustizia e
della Legge (quest'ultima intesa anche nel senso di Legge divina, di religione)
per garantire la vita sociale nella città e la sicurezza degli uomini.
290. «De vostre grace un chacun vit en paix: / Pour le Laurier l'Olivier est
espais / Par toute France, et d'une estroitte corde / Avez serre les deux mains
de Discorde. / Morts sont ces mots Papaux et Huguenots»: Le Bocace Roy ale. II,
in (Euvres complètes, t II, w. 139-143, p. 96. Questi versi, non a caso dedicati a
Caterina de' Medici, si ricollegano alla posizione che Ronsard aveva già as-
sunto nella Remonstrance au peuple de France {Ibidem, t. II, vv. 213-216, p.
1025): «Je n'aime point ces noms qui sont finis en os. I Gots, Cagots, Austregots,
Visgots et Huguenots: / Ils me sont odieux comme peste, et je pense / Qu'ils
soni prodigieux à l'empire de France». Il tema ritoma in un poemetto inedito
(1570) di Germain Audebert: «On se bande, on se ligue et menée on brasse /
Chacun cherche son mieux et le party ambrasse / De qui luy semble bon et ces
divisions / Sont soubz pretexte sainct de deux religions / Dont le mesme su-
bject de diverse doctrine / Diversement mene cause notre mine / Et ces noms
factieux PAPAUX et huguenots / Trop malheureusement nous comblent de
tout maux» (Lino Fertile, Un poemetto inedito sulle guerre di religione: «L'eryn-
ne franqoise de la France affligée» di Germain Audebert, in «Bibliothèque d'Hu-
manisme et de Renaissance», XXXVIII. 1976, p. 309).
291. Cfr. N. Ordine, Introduction à Giordano Bruno, Expulsion de la bète
triomphante cit, pp. XXXVIII-XXXIX (ma cfr. anche D. Ménager, Religion et
98 INTRODUZIONE
Enrico III nell'Académie du Palais, Ronsard tesserà le lodi della vita
attiva e dell'etica ^''^. Senza la filosofia morale, senza quelle virtù che si
traducono in positivi modelli di comportamento, sarà difficile sconfig-
gere l'ignoranza e i mali che minacciano la vita degli uomini e delle
istituzioni politiche-'-".
La riforma celeste e la Gigantomachia
La necessità di una riforma celeste nello Spaccio parte proprio dalla
coscienza della profonda crisi che attanaglia l'umanità:
Là dove io avevo nobilissimi oracoli, fani et altari, ora, essendone
quelli gittati per terra et indegnissimamente profanati, in loco loro han
dirizzate are e statue a certi ch'io mi vergogno nominare, perché son peg-
gio che li nostri satiri e fauni et altri semebestie [...]. Le leggi, statuti, culti,
sacrificii e ceremonie, ch'io già per li miei Mercurii ho donate, ordinati,
comandati et instituiti, son cassi et annullati; et in vece loro si trovano le
più sporche et indegnissime poltronarie che possa giamai questa cieca al-
trimente fengere: a fine che come per noi gli omini doventavano eroi,
adesso dovegnano peggio che bestie ^^■*.
religions, in Ronsard. Le Roi, le Poète et les Hommes. cit., p. 172). La stessa posi-
zione di equidistanza dagli estremi era stata già teorizzata da Michel de L'Ho-
spital: «Ostons ces mots diaboliques, nomes de parts, factions et séditions. lu-
thériens, huguenots, papistes: ne changeons le nom de chrestien» (Michel de
L'Hospital, Harangue prononcée à l'ouverture de la session des État-Généreaux
assemblés à Orléans le ij décembre 1560. in CEuvres complètes. précédées d'un
essai sur sa vie et ses ouvrages par P. J. S. Duféy, Paris. A. Boulland. 1824. t. I,
p. 402: rist anast, Genève, Slatkine, 1968). Sull'importante ruolo di de L'Ho-
spital durante le guerre civili, soprattutto per la condanna dell'uso della vio-
lenza, cfr. Joseph Leclerc, Histoire de la tolérance aii siècle de la Ré/orme, Paris,
cit, pp. 430-478 (ma si vedano anche: Denis Crouzet, La sagesse et le malheur.
Michel de L'Hospital, chancelier de France, Seysell, Champ Vallon, 1998;
Thierry Wanegffelen, Ni Rome ni Genève. Des fidèles entre deiix chaires en
France au XVF siècle, Paris, Champion, 1997, pp. 209-220). Ronsard conosce
molto bene Michel de l'Hospital: gli dedica un'ode nel 1550 {(Eeuvres complètes
cit., t. I, pp. 626-650) e neW Insiitution pour l'adolescence du roy tres-chrestien
Charle IX" de ce nom, integrata nella raccolta Discours des Misères de ce temps.
tiene conto di un suo poema in latino sull'istruzione del principe (De sacra
Francisci II Galliarum initiatione, in CEuvres complètes cit, t. Ili, pp. 353-366).
Sui rapporti tra Ronsard e de L'Hospital si veda Pierre Champion, Cafards et
prédicants, in Ronsard et son temps, Paris, Champion. 1925. pp. 162-163.
292. «[...] il vaut mieulx choisir la meilleure partie, la plus utille et la plus
necessaire et plus propre aux manimens des affaires, qui sont les vertus moral-
les, qui nous rendent moderés, bien conditionnez et qui nous font appeler du
nom de vertueux et de gens de bien, que nous amuser à la vanite»: Ronsard,
Des vertus intellectuelles et moralles, in CEuvres complètes, t II, p. 1193.
293. Cfr. N. Ordine, Introduction à Giordano Bruno, Expulsion de la bète
triomphante cit, pp. XLIV-XLVII.
294. Spaccio, pp. 209-210.
INTRODUZIONE 99
Giove capisce che la profanazione degli altari e la degradazione dei
culti spinge gli uomini nel baratro della feritas. Perdendo la loro natu-
rale funzione, gli «statuti» divini non serviranno più a creare degli
eroi ma finiranno per incoraggiare comportamenti e atteggiamenti be-
stiali. Arrestare questo degrado significa innanzitutto ripristinare le
perdute virtù al posto dei diffusi vizi. L'uscita dalle tenebre può essere
provocata solo da una profonda riforma etica. Bisogna iniziare dal-
l'alto, con una severa autocritica che parta dagli stessi dèi. In cielo,
dipinti nelle quarantotto costellazioni, si vedono apertamente «gli
frutti, le reliquie, gli riporti, le voci, le scritture, le istorie di nostri
adulterii, incesti, fornicazioni» che hanno favorito «i triomfi de vizii»
e bandito «le virtudi e la giustizia»^^^ Per questo, il re dell'Olimpo
convoca un'assemblea celeste in un particolare anniversario, quello
della vittoria sui Giganti. Non si tratta di un dettaglio privo di signi-
ficato. Ieri, gli dèi dovevano difendere la loro posizione dal terribile
assalto dei figli di Gaia. Oggi, invece, è la loro dignità ad essere messa
in discussione («quel timor di noi che ne rendea tanto gloriosi, è spen-
to») finanche «da gli sorgi de la terra»-''^". Respingere i Giganti e
«spacciare» la «bestia trionfante» richiede uno sforzo enorme. La
lotta, come sottolinea Giove, si combatte su un doppio fronte: quello
interiore, in cui ciascun individuo si purifica dichiarando guerra a se
stesso, e quello esteriore, in cui si aggrediscono i vizi per favorire l'af-
fermazione sociale e politica delle virtù.
In entrambi i casi siamo di fronte a una Gigantomachia. Una scelta
casuale, quella di Giove, o un preciso messaggio in codice? La critica
finora non aveva raccolto la sfida. A pensarci bene, questo anniversa-
rio rinvia a un tema strettamente legato alle vicende delle guerre di
religione. Nel mondo classico, infatti, il tema della Gigantomachia è
generalmente associato alla lotta per la conquista del potere. I Giganti
sono percepiti come arroganti ribelli che osano provocare il disordine
e il caos 2'^'. Nella Teogonia di Esiodo, Zeus viene eletto solo dopo la
loro disfatta -2'^^. La vittoria degli dèi segna la nascita delle leggi divine
295. Ibidem, p. 217.
296. Ibidem, p. 216.
297. Sul significato di questo mito cfr. Francis Vian, La Guerre des Géants.
Le mythe avant l'epoque éllenistique, Paris, Klincksieck, 1952. Vian mostra come
la tradizione latina (Virgilio, Orazio, Ovidio) accomuna Giganti e Titani, an-
nullando ogni distinzione {Ibidem, pp. 173-174). Ma si veda anche F. Vian
(avec la coUaboration de M. B. Moore), Gigantes. in L.I.M.E.. Zurigo-Monaco,
1988 (IV, i), pp. 191-196.
298. «Così, dopo che gli dèi beati ebbero compiuto la loro fatica / e coi
Titani conclusa di forza la disputa per gli onori, / allora invitarono a prendere
il trono e il comando, / per i consigli di Gaia, l'Olimpo Zeus dall'ampio
lOO INTRODUZIONE
istituite proprio per neutralizzare chi commette dei crimini e chi con-
testa l'autorità del re. E ne Le opere e i giorni, il poeta greco definisce
ancora meglio lo scopo della sovranità di Giove: l'Altitonante si unisce
a Themis (Legge, Ordine) per generare Eunomie (Giustizia), Dike (Di-
ritto) e Eirene (Pace)^^''. Vedremo in seguito come i versi di Esiodo
sullo stretto rapporto lavoro-giustizia e sulla necessità che il re giusto
sia allevato dalle Muse trovino ulteriori sviluppi nello Spaccio.
Anche nel Rinascimento, all'interno di una forte ripresa dei miti
pagani, il tema della Gigantomachia ritoma con insistenza nella lette-
ratura e nelle arti in generale per celebrare il potere regale '°°. I Gi-
ganti rappresentano l'ambizione smisurata di coloro che vogliono ro-
vesciare i legittimi regnanti con la forza e la dura risposta di Giove,
che li disintegra con i suoi fulmini, incarna la terribile punizione in-
flitta dalla giustizia a chi non rispetta le leggi e l'autorità degli dèi'°'.
A partire dal 1549, la guerra tra divinità olimpiche e Giganti assume
un ruolo di primo piano nella poesia francese. Ma solo all'inizio degli
anni sessanta, con lo scoppio delle guerre di religione, il mito acquista
un valore politico e morale specifico. I figli di Gaia non vengono rico-
nosciuti più come generici ribelli. Per Ronsard e per i poeti della
Plèiade essi si identificano con i protestanti, con i feroci aggressori
delle leggi e della monarchia:
De là toute heresie au monde prist naissance.
De là vient que l'Eglise a perdu sa puissance.
De là vient que les Rois ont les sceptre esbranlé,
De là vient que le foible est du fort viole.
De là sont procedez ces Geans qui eschellent
sguardo, / sugli immortali; e bene distribuì a loro gli onori»: Esiodo, Teogonia,
in Opere, testi introdotti, tradotti e commentati da Graziano Arrighetti, Torino,
Einaudi, 1998, w. 881-885, p. 47.
299. «Per seconda [Zeus] poi sposò la splendida Themis, che fu madre
delle Horai, / Eunomie, Dike e Eirene fiorente, / che vegliano sull'opera degli
uomini mortali» (Ibidem, vv. 901-903).
300. Per una rassegna del mito, con riferimenti anche ai poeti italiani del
Quattrocento, cfr. Fran^^oise Joukovsky-Micha, La guerre des dieux et des
Géants chez les poètes franqais du XVF siècle (1^00-1585), in «Bibliothèque d'Hu-
manisme et Renaissance», XXIX (1967), pp. 55-92. Sulla fortuna della mitogra-
fia nel Rinascimento cfr. i lavori di Jean Seznec {La sopravvivenza degli antichi
dei, Torino, Boringhieri, 1981) e di Guy Demerson (La mythologie dassique
dans l'ceuvre de la «Plèiade», Genève, Droz, 1972).
301. Oltre ad un uso letterario (si pensi anche a Guillaume Bude o a
Joachim Du Bellay), il mito occupa un posto di rilievo in cicli pittorici legati
ai trionfi di Francesco I e di Carlo V (per quest'ultimo si pensi ai Gi-
ganti affrescati nella celebre sala di Palazzo Te a Mantova). Su questi temi cfr.
N. Ordine, Introduction à Giordano Bruno. Expulsion de la bète triomphante
cit., pp. LXIX-LXXII.
INTRODUZIONE IDI
Le Ciel, et au combat les Dieux mesmes appellent:
De là vient que le monde est plein d'iniquité,
Remply de desfiance et d'infidélité,
Ayant perdu sa reigle, et sa forme ancienne '°^.
All'interno di questo gioco allegorico, il futuro Enrico III viene ad
identificarsi con Giove quando atterra i Giganti-Ugonotti nelle batta-
glie di Jamac (13 marzo 1569) e di Montcontour (30 ottobre 1569)'°^.
Adesso la scelta di far coincidere la riforma celeste con l'anniversario
della Gigantomachia appare molto più chiara. Giove, infatti, designa
con precisione i veri nemici della Giustizia e della Legge, i veri re-
sponsabili della guerra civile in Europa:
Veda [il giudizio] se mentre dicono che vogliono riformare le diffor-
mate leggi e religioni, vegnono per certo a guastar tutto quel tanto che ci è
di buono, e confirmar et inalzar a gli astri tutto quello che vi può essere o
fingere di perverso e vano. Veda se apportano altri frutti che di togliere le
conversazioni, dissipar le concordie, dissolvere l'unioni, far ribellar gli figli
da padri, gli servi da padroni, gli sudditi da superiori, mettere scisma tra
popoli e popoli, gente e gente, compagni e compagni, fratelli e fratelli; e
ponere in disquarto le fameglie, cittadi, republiche e regni: et in conclu-
sione se mentre salutano con la pace, portano ovumque entrano il coltello
della divisione et il fuoco della dispersione, togliendo il figlio al padre, il
302. RoNSARD, Remonstrance au peuple de Frutice, in (Euvres complètes, t. II,
w. 331-339, p. 1028. È interessante notare che già Thomas More accusa Lutero
di comportarsi come i Giganti: «Vides ergo lector, quam detorte detraxerit
scripturam, hunc in locum Lutherus: ut inde strueret sibi fundamentum:
ex quo superstrueret arcem: unde more gigantum superos e celo depelleret»
{Responsio ad Lutherum, II, 15, in The Complete Works of St. Thomas More, edi-
ted by John M. Headley, New Haven and London, Yale University Press, 1969,
v. 5, p. I, p. 510). Anche in Italia, i seguaci di Lutero vengono già indicati come
Giganti: Benedictus Lampridius, Carmina, Venetiis, Apud G. lolitum, 1550,
f. 2IV.
303. «Ce fut quand vostre main à craindre comme foudre, / Fist à la gent
mutine ensanglanter la poudre: / Quand nos autels sacrez revirent leurs bons
Saincts, / Et quand mille estendars tous dechirez, et teints / De poussiere et de
sang, pour immortels exemples / D'un long ordre attachez pendirent à nos
temples»: Ronsard, À luy mesmes [À Henri III Roy de France et de Pologne],
in (Euvres complètes cit, t II, vv. 27-32, p. 16. Ma l'immagine ritoma in altri
versi: «Ils ont esté combatus / Abbatus, / Terracez dessus la poudre, / Comme
chesnes esbranchez / Trebuchez / Dessous l'esclat d'une foudre» (Ronsard,
Hynne du Roy Henri IIF, Roy de France pour la victoire de Montcontour, t. II, vv.
43-48, p. 513). Le vittorie del giovane Enrico vennero celebrate da Remy Bel-
leau, da Amadis Jamyn, da P. Le Loyer, da Hesteau de Nuysement: cfr. F.
JOUKOVSKV-M1CHA, La guerre des dieux et des Géants chez les poètes frangais du
XVF siede (1500-1585) cit., pp. 72-73 (ma si veda anche N. Ordine, Introduc-
tion à Giordano Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit., pp. LXXIII-
LXXIV).
102 INTRODUZIONE
prossimo al prossimo, l'inquilino a la patria, e facendo altri divorzii or-
rendi e contra ogni natura e legge'"'*.
Verità, Sofia, Legge e Giustizia
Uscire dal caos significa innanzitutto ristabilire la Legge. Ecco
perché nella riforma celeste Giove pone quest'ultima accanto alla Ve-
rità e alla Sofia («Alla Sofia succede la legge sua figlia: e per essa quella
vuole oprare, e per questa lei vuole essere adoperata; per questa gli
prencipi regnano, e li regni e republiche si mantegnono»)'°5. La Legge
divina (la religione) e la Legge civile devono perseguire gli stessi obiet-
tivi. Entrambe hanno il compito di offrire agli uomini norme di com-
portamento che garantiscano la pace e la conservazione della società-
Anche nello Spaccio, insomma, la «religione» in quanto «legge» ha
una funzione politica poiché Giove le «ha donata [...] la potenza di
legare »'°''. In questo passaggio, Bruno, come Ronsard, insiste sull'atto
del religare, sulla radice etimologica di un verbo che rinvia alla forza
unificatrice della religio, al suo ruolo di «cemento» sociale'"^. Del re-
sto, l'Altitonante lo ribadisce più volte nel corso dei suoi interventi: la
legge e la religione sono state create per favorire gli uomini non le
divinità. Gli dèi, infatti, non hanno bisogno di essere onorati per ac-
crescere la loro gloria. I riti e le cerimonie servono all'umanità. E sol-
tanto in funzione della coesione sociale saranno distribuiti i meriti e
le condanne. A Giove, insomma, interessano soltanto quegli atti e quei
gesti che favoriscono le «republiche» e r« umana conversazione»:
304. Spaccio, pp. 268-269. La stessa immagine ricorre più volte in Ronsard
(«Ce monstre arme le fils contre son propre pere, / Le frere factieux s'arme
contre son frere, / La soeur contre la soeur, et les cousins germains / Au sang de
leurs cousins veulent tremper leiirs mains: / Loncie hait son nepveu, le servi-
teur son maistre: / La femme ne veut plus son mary recognoistre: / Les enfans
sans raison disputent de la foy / Et tout à Tabandon va sans ordre et sans
loy», Discours à la Royne, in CEuvres complètes, t. II, vv. 159-166, p. 995) e in
altri autori (Jean Cochlaeus, Michel De L'Hospital, Michel de Castelnau) soprat-
tutto in una chiave antiprotestante. Già Esiodo ne Le opere e i giorni (vv. 180-
96) aveva utilizzato questo motivo in relazione al tema della giustizia. Per
un'analisi del topos cfr. N. Ordine, Introduction à Giordano Bruno, Expulsion
de la bète triomphante cit, pp. LXXV-LXXIX.
305. Spaccio, p. 260.
306. Ibidem, p. 261.
307. All'interno di questa prospettiva il termine religio deriverebbe dal
verbo religare (legare) piuttosto che da relegere (riconsiderare con cura). Per la
ricostruzione del dibattito sull'etimologia di «religione» cfr. sub vocem il Dic-
tionnaire de Théologie Catholique, Paris, 1937 (XIII/2), ce. 2182-2184 (ma per le
posizioni di Bruno e Ronsard si veda N. Ordine, Introduction à Giordano
Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit, pp. LXXX-LXXXI).
INTRODUZIONE IO3
Che non creda che in modo alcuno li dèi si senteno interessati in
quelle cose nelle quali nessuno uomo si sente interessato: perché di quelle
cose solamente gli dèi si curano delle quali si possono curar gli uomini, e
non per cosa che vegna fatta o detta o pensata per essi si commuoveno o
se adirano, se non in quanto per quello venesse a perdersi quel rispetto
per cui si mantegnono le republiche [...]; e però non minacciano castigo e
prometteno premio per male o bene che risulta in essi: ma per quello che
viene ad essere commesso nelli popoli e civile conversazioni, alle quali
hanno soccorso con le loro divine non bastandogli le umane leggi e statuti.
Per tanto è cosa indegna, stolta, profana e biasimevole pensare che gli Dei
ricercano la riverenza, il timore, l'amore, il culto e rispetto da gli uomini
per altro buon fine et utilitade che de gli uomini medesimi: atteso che
essendo essi gloriosissimi in sé [...] han fatto le leggi non tanto per ricevere
gloria, quanto per communicar la gloria a gli uomini 'o^.
Solo all'interno di questo contesto è possibile capire fino in fondo
l'elogio dei Romani, l'elogio di un popolo che ha saputo utilizzare ce-
rimonie e riti religiosi per stimolare azioni eroiche «promovendo gli
meritevoli» e «abassando gli delinquenti »'°''. Non è difficile ritrovare
in questi giudizi tracce di celebri pagine di Machiavelli. Nel Principe, e
soprattutto nei Discorsi, il culto è intimamente legato alla vita civi-
le ^i°. La gloria della Roma repubblicana sta proprio nell'aver saputo
stimolare, attraverso il rispetto divino, l'amore per la patria e per le
leggi. Qui, più che altrove, la religio ha manifestato tutta la sua po-
tenza civile, tutta la sua capacità di religare, di tenere uniti, di favorire
il «vivere civile». Si tratta di temi ampiamente discussi in Francia tra
308. Spaccio, p. 264.
309. Ibidem, p. 267.
310. «Quegli prìncipi o quelle republiche le quali si vogliono mantenere
incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie
della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione, perché nessuno
maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia, che vedere di-
spregiato il culto divino»: NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio (I, 12), a cura di Francesco Bausi, Roma, Salerno editrice, 2001,
t. 1, p. 83. A Londra nel 1584 il tipografo John Wolf pubblica i Discorsi e nel
1588 VAsino (cfr.: G. Aquilecchia, Schede bruniane cit, pp. 157-207; Maria
Grazia Bellorini, Le pubblicazioni italiane dell'editore londinese John Wolfe.
i^So-i^gi, in Miscellanea, a cura di Manlio Cortelazzo, Udine, Arti Grafiche
Friulane, 1971, pp. 31-34). Per i rapporti Bruno-Machiavelli: Ferdinando
D'Amato, Giordano Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana», XI {1930),
p. 92; Nicola Badaloni, Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica cit, pp. 114-
115; Michele Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno,
Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 176-178; Nuccio Ordine, La cabala dell'asino.
Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit., ad indicem (ma anche Id., Introduc-
tion à Giordano Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit., pp. LXXXIV-
XCIV); Miguel Angel Granada, Maquiavelo y Giordano Bruno: religión civil y
crìtica del cristianismo, in «Bruniana & Campanelliana», IV (1998), pp. 343-368.
Ma cfr. infra, p. 106.
104 INTRODUZIONE
gli anni sessanta e ottanta (si pensi al milieu attorno a Enrico III, a Le
Roy, a Bodin, a Montaigne) e che hanno segnato, in parte, anche l'al-
terna fortuna del Segretario fiorentino al di là delle Alpi'".
Giove insiste a più riprese sulla necessità di stimolare comporta-
menti eroici, di spingere gli uomini a compiere gesti concreti al servi-
zio dello Stato. Vhonos romano appare così come praemium virtutis,
come riconoscimento pubblico per un'azione a favore della comunità
sociale e, nello stesso tempo, come adesione personale a valori morali
ampiamente condivisi ''2. Contano le opere, insomma. Contano i frutti
che le opere producono. Le buone intenzioni, senza opere e senza
frutti, non meritano premi "^. Così come non merita ricompense chi
«abbia sanato un vile e disutil zoppo», ma chi invece «ha liberata la
patria e riformato un animo perturbato »"•'.
Contro la «iustitia sola fide»
In queste splendide pagine. Bruno esprime una visione della reli-
gione diametralmente opposta a quella sostenuta dalla teologia prote-
stante. Per Lutero e Calvino il rapporto tra uomo e Dio si materializza
in un legame individuale fondato solo ed esclusivamente sulla fede. E
finanche le Leggi, che nella visione veterotestamentaria sanzionavano
il contratto tra humanitas e divinitas, non garantiscono più la salvezza.
Tutto ciò che riguarda l'orizzonte mondano viene escluso, espunto,
neutralizzato. Solo la «grazia» produce le opere. Nel senso che la «gra-
zia» non può essere meritata attraverso le opere e che le nostre azioni
non hanno nessuna virtù salvifica in sé. Il credente, insomma, deve
sottomettersi passivamente alla volontà di Dio. Qui la religio viene
311. Per questo aspetto cfr. Nuccio Ordine, Introduction à Giordano
Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit, pp. LXXXVI-XCIV.
312. Sul tema dell'onore si veda Francesca Ricotti, L'onore degli onesti,
Milano, Feltrinelli, 1998.
313. In chiave ironica. Bruno aveva già nel Candelaio accennato al rap-
porto tra leggi umane e divine in funzione dei meriti: «Non possiamo non far
differenza tra il culto divino e quello di mortali. Adoriamo le sculture e le
imagini, et onoriamo il nome divino scritto, drizzando l'intenzione a quel che
vive. Adoramo et onoramo questi altri dèi che pisciano e cacano, drizzando la
intenzione e supplice devozione alle lor imagini e sculture, per che mediante
queste premiino i virtuosi, inalzino i degni, defendano gli oppressi, dilatino
i lor confini, conservino i suoi, e si faccino temere dall'aversarie forze: il re
dumque et imperator di carne et ossa, si non corre sculpito, non vai nulla»
(pp- 347-348).
314. Spaccio, p. 267.
INTRODUZIONE IO5
proiettata in un universo dove i valori della fede vengono chiara-
mente separati da quelli morali e civili^".
Bruno capisce con chiarezza le conseguenze funeste che la dottrina
della iustitia sola fide può avere sulla società; svalorizzare le opere e
l'etica, ma anche la ragione e le scienze speculative"*', non incoraggia
certamente gli uomini ad intraprendere la durissima strada del ri-
scatto dalla feritas. Per questo, Momo esprime parole durissime contro
la teologia protestante, contro le sette di briganti che insanguinano
l'Europa;
«Il peggio è» disse Momo, «che ne infamano dicendo che questa è in-
stituzione de superi; e con questo, che biasmano gli effetti e frutti nomi-
nandoli ancor con titolo di defetti e vizii; mentre nessuno opera per essi,
et essi operano per nessuno (perché non fanno altra opra che dir male de
l'opre), tra tanto vivono de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che
per essi, e che per altri hanno instituiti tempii, capelle, xeni, ospitali, col-
legii et universitadi: onde sono aperti ladroni et occupatori di beni eredi-
tarii d'altri »"7_
Per Mercurio la loro pericolosità è talmente enorme che sarebbe
«gran sacrificio a gli dèi e beneficio al mondo di perseguitarli, ammaz-
zarle e spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le
locuste sterili»"**. La teologia dei riformati, infatti, non può che pro-
durre effetti devastanti, come testimoniano le stesse immagini utiliz-
zate nei versi di Ronsard in cui l'azione dei protestanti viene parago-
315. Per un'analisi delle posizioni di Lutero e di Calvino cfr. Nuccio Or-
dine, Introduction à Giordano Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit, pp.
XCIILCIX. Suirantiluteranesimo di Bruno cfr.: Giovanni Gentile, E pensiero
italiano del Rinascimento [1907], Firenze, Sansoni, 1955, pp. 271-277; Alfonso
Ingegno, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana
del Bruno. Napoli, Bibliopolis, 1984; Michele Ciliberto, La ruota del tempo.
Interpretazione di Giordano Bruno cit.
316. Gli attacchi che Lutero, Melantone e altri riformati portarono a più
riprese alle teorie eliocentriche di Copernico ebbero certamente un peso nella
posizione antiriformata di Giordano Bruno: cfr. Thomas S. Kuhn, La rivolu-
zione copernicana. L'astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale
[1957], Torino, Einaudi, cap. VI, pp. 245-247 (ma, per gli sviluppi successivi
delle polemiche, si veda anche Enrico De Mas, L'attesa del secolo aureo (i6oj-
1625). Saggio di storia delle idee del secolo XVH, Firenze, Olschki, 1982, pp. 57-
71). Sul problema teologico dell'eliocentrismo e sulla reazione dei capi della
Riforma, con una particolare attenzione per le posizioni di Calvino, cfr. ora
Miguel Angel Granada, U problema astronomico-cosmologico dopo Copernico e
le Sacre Scritture: il ricorso di Christoph Rothmann alla teoria dell'accomodazione,
in «Rivista di storia della filosofia», 51 (1996), pp. 789-828.
317. Spaccio, p. 238.
318. Ibidem, pp. 239-240.
I06 INTRODUZIONE
nata a quella delle «chenilles» (bruchi) e delle «sauterelles» (cavallet-
te, locuste) '1".
L'elogio della Fatica e delle mani
Non c'è da stupirsi, quindi, se nella riforma celeste, disegnata nello
Spaccio, la Fatica giochi un ruolo fondamentale. Di fronte alla piena
svalutazione delle opere, dei valori civili e speculativi il duro lavoro
rappresenta l'unico mezzo per conquistare la civiltà e per intrapren-
dere il difficile cammino della conoscenza. Giove, infatti, non delimita
il suo campo d'azione, ma lascia libera la Fatica di raggiungere ogni
luogo e di perseguire ogni obiettivo perché grazie a lei «Perseo fu Per-
seo, et Ercole fu Ercole, et ogni forte faticoso è faticoso e forte w^^o g
senza di lei sarebbe difficilissimo raggiungere «il polo sublime della Ve-
rità» ^^i, sarebbe improbabile portare a termine un viaggio segnato dalla
sofferenza, dal dolore, dal pericolo. Spetta alla Fatica, quindi, conqui-
stare due obiettivi che richiedono sforzi sovrumani: dominare la For-
tuna («apprendi la Fortuna pe' capelli; affretta quando meglio ti pare il
corso della sua ruota: e quando ti sembra bene, figigli il chiodo, acciò
non scorra») '^2 e mantenere unite le operazioni del corpo e della mente
(«Non voglio che possi dividerti: perché se ti smembrarai, parte occu-
pandoti a l'opre de la mente e parte a l'oprazioni del corpo, verrai ad
essere defettuosa a l'una e l'altra parte; [...] se tutta inclinarai a cose ma-
teriali, nulla vegni ad essere in cose intellettuali, e per l'incontro »)'^\
319. «L"une [la chenille] monte en un chesne et lautre en un ormeau / Et
tousjours en mangeant se trainent au coupeau: / Puis descendent à terre, et
tellement se paissent / Qu'une seule verdure en la terre ne laissent» (Ronsard.
Continuation dii Discours à la Royne. in (Euvres complètes, t II, w. 345-352, p.
1005). Ma, proprio nei versi iniziali di questa stessa poesia, Ronsard paragona i
protestanti alle cavallette dell'Apocalisse: «Tandis vous exercez vos malices
cruelles, / Et de l'Apocalypse estes les sauterelles, / Lesquelles aussi tost que le
puis fut ouvert / D'Enfer, par qui le Ciel de nues fut couvert, / Avecque la
fumèe en la terre sortirent / Et des fiers scorpions la puissance vestirent / (...]
Ainsi qu'ardentement vous courez aux combas. / Et villes et chasteaux vous
renversez à bas» {Ibidem, w. 71-76 e w. 81-82, pp. 998-999).
320. Spaccio, p. 307.
321. Ibidem, p. 308.
322. Ibidem. Questo passaggio sembra richiamare l'invito di Machiavelli a
«battere» la Fortuna: «Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso
che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto,
batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli
che freddamente procedano»: Niccolò Machiavelli, Il Principe, in Tutte le ope-
re, a cura di Mario Martelli, Firenze, Sansoni, 1993 (cap. 25), p. 296. Sui rapporti
Bruno-Machiavelli cfr. supra. pp. 103-104.
323. Spaccio, p. 309.
INTRODUZIONE IO7
I compiti che Giove assegna alla Fatica mirano a favorire le azioni
eroiche per riscattare l'umanità dalla feritas. Ecco perché l'elogio del
lavoro si lega direttamente all'elogio delle mani, all'elogio di uno stru-
mento indispensabile per trasformare l'uomo in un dio capace di
creare, di modificare, di dominare gli altri animali e la natura:
E soggionse che gli dèi aveano donato a l'uomo l'intelletto e le mani, e
l'aveano fatto simile a loro donandogli facultà sopra gli altri animali; la
qual consiste non solo in poter operar secondo la natura et ordinario, ma
et oltre fuor le leggi di quella: acciò (formando o possendo formar altre
nature, altri corsi, altri ordini con l'ingegno, con quella libertade senza la
quale non arrebe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio de la terra^^''.
La «divinità» non deriva da astruse pratiche magiche, né si riceve
in dono dagli dèi. La «divinità» si conquista con il proprio lavoro, con
il sacrificio, con l'azione quotidiana. Senza sforzo e senza impegno non
c'è civiltà, non c'è conoscenza. Nelle critiche che l'Ozio avanza alla
Fatica, Bruno concentra una serie di luoghi comuni che dietro la loro
apparente semplicità nascondono una pericolosa Weltanschauung.
- Chi è quello, o Dei, che ha serbata la tanto lodata età de l'oro, chi
l'ha instituta, chi l'ha mantenuta, altro che la legge de l'Ocio, la legge della
natura? Chi l'ha tolta via? chi l'ha spinta quasi irrevocabilmente dal
mondo, altro che l'ambiziosa Sollecitudine, la curiosa Fatica? Non è que-
sta quella ch'ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il mondo, e l'ha
condotto ad una etade ferrigna e lutosa et argillosa, avendo posti gli po-
poli in ruota et in certa vertigine e precipizio dopo che l'ha sullevati in
superbia et amor di novità, e libidine de l'onore e gloria d'un partico-
lare?'^5
L'età dell'oro e il topos del «tuo» e del «mio»
L'esaltazione dell'età dell'oro implica un rovesciamento dei valori.
L'onore e la gloria, per fare un esempio, vengono presentati come per-
turbatori della pace e della tranquillità dei popoli, mentre la Fatica
viene vista come una minaccia per la «legge della natura». Bruno, at-
traverso le parole dell'Ozio, ci mostra come la ripresa di questa fabula
324. Ibidem, pp. 323-324. Nella Cabala del cavallo pegaseo (cfr. infra, p. 119)
Bruno assegna alla mano un ruolo ancora più importante nel passaggio dalla
natura alla cultura. Su questo aspetto rinviamo alle interessanti osservazioni
di Fulvio Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze,
La Nuova Italia, 1968, pp. 237-247 (ma cfr. anche: Nuccio Ordine, La cabala
dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit., pp. 45-50; Michele Cili-
berto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno cit., pp. 79-83).
325. Spaccio, p. 318.
1
lOO INTRODUZIONE I
pagana si accompagni a un recupero del paradiso terrestre di tradi-
zione cristiana: Adamo ed Eva, assieme ai primitivi dell'età aurea, di-
ventano simbolo di una humanitas che vive nell'immobilismo, all'in-
terno di uno splendido locus amoenus, senza conoscere il sudore e la
pena dell'attività. Mito classico e racconto biblico convergono nel con-
siderare il lavoro una punizione divina, una violenta sciagura che tra-
sforma la vita edenica in un inferno caratterizzato dal dolore e dalle
privazioni. Mangiare il frutto proibito e intraprendere il cammino
della civiltà comportano l'infelicità dell'uomo. Così come la nascita
della proprietà, del «tuo» e del «mio», segna l'inizio di una serie di
lotte fratricide, di guerre, di sciagure senza fine:
quai sono le aperte ribaldarie e stoltizie e malignitadi di leggi usurpa-
tive e proprietarie del mio e tuo; e del più giusto, che fu più forte posses-
sore; e di quel più degno, che è stato più sollecito e più industrioso e pri-
miero occupatore di que' doni e membri de la terra, che la natura e per
conseguenza Dio indifferentemente donano a tutti ^^^
Bruno intuisce immediatamente la posta in gioco. Capisce perfetta-
mente la forza pericolosa di queste ideologie. E nello Spaccio mira a
fare chiarezza, a mostrare che non ci può essere virtù laddove gli es-
seri umani vivono nell'inerzia e nell'ignoranza. Certo, il cammino
della civiltà porta con sé delle contraddizioni che possono essere però
sanate e risolte dalla ragione e da un uso controllato delle passioni
(«De le ingiustizie e malizie che crescono insieme con le industrie non
ti devi maravigliare») ^2^. Giove, insomma, si sforza di eliminare ogni
possibile ambiguità: gli uomini dell'età di Saturno erano bestie e in
quanto tali non possono rappresentare un positivo modello di com-
portamento. Così come non bisogna confondere il ritomo della Giusti-
zia e delle Virtù con il ritomo dell'età dell'oro ^'^. In molti autori rina-
326. Ibidem, p. 320. Sul topos del «tuo» e del «mio» — utilizzato da tantis-
simi autori nei contesti più diversi: da Pietro Martire a Giovan Battista Celli,
da Anton Francesco Doni a Guy de Brués, da Ronsard a Tommaso Campa-
nella, da Jean Bodin a Etienne Pasquier - si veda, anche per i rimandi biblio-
grafici, N. Ordine, Introduciion à Giordano Bruno, Expulsion- de la bète triom-
phante cit, pp. CXV-CXXXII.
327. Spaccio, p. 324.
328. Nel Balet comique de la Royne, allestito a Parigi nel 1582. si allude
chiaramente all'annuncio del secolo aureo: «Les Deesse des eaux ont voulu
prevenir / Naguere le Destin, et taire revenir / En France l'àge d'or, où desjà
i'edifice / D'un grand tempie de marbré on batist à Justice» (Baltasar de
Beaujoyeulx, Balet comique de la Royne [Paris, 1582], in Ballets et Mascarades
de cour de Henri III à Louis XIV (1581-1652) cit, 1 1, p. 51). L'avvento di Enrico
III, «Jupiter de France», ha creato le condizioni favorevoli per la riafferma-
zione della Giustizia. Ma questa restaurazione dell'età dell'oro si fonda
INTRODUZIONE lOQ
scimentali, infatti, il tema dell'età aurea si associa a quello del rientro
di Astrea (la Vergine-Giustizia) sulla terra '2''. Bruno separa i due
aspetti del mito: il ritomo della Giustizia è una cosa, la condanna
delle opere è un'altra cosa ancora. Per il Nolano non c'è altra strada: il
lavoro - la dura lotta per il lavoro - è l'unica soluzione per essere
giusti. Fatica e Giustizia si amalgamano fino ad identificarsi in
un'unica e sola immagine simbolica^^°.
«Pirati» all'assalto del Nuovo Mondo
Bruno sa che la scoperta del Nuovo Mondo ha giocato un ruolo
importantissimo nella ripresa letteraria del mito dell'età dell'oro. Ma
anche in questo caso il filosofo non esita a fare chiarezza; l'approdo
nelle Americhe ha rivelato in maniera drammatica il vero volto dei
conquistadores. Non si è trattato di un viaggio ispirato dal bisogno di
conoscere e scoprire, ma di un vero e proprio atto di pirateria consu-
mato ai danni di popolazioni inermi e pacifiche. In nome della «civil-
tà», infatti, sono state operate rapine e violenze, sono state disseminate
follie e ribellioni. Per riparare queste grandi ingiustizie, il parlamento
degli dèi decide di scacciare dal cielo la «Nave di Argo nella quale
sono inchiodate quarantacinque risplendenti stelle», simbolo dei «pri-
mi pirati», dei primi «solleciti predatori» del mare^^h
esclusivamente su valori civili: ricomposizione dei dissidi, pacificazione dei
conflitti sociali, affermazione della pace. Tutti gli altri elementi del mito ven-
gono evocati solo in una chiave negativa. Giove - oltre a sconfiggere Circe,
nemica delle Virtù - provvede soprattutto a far uscire gli uomini dall'oziosa
condizione bestiale in cui essi vivevano durante il regno di Saturno: «Le peu-
ple vagabond, poussé de la nature / Gomme les bestes sont, prenoit sa nourri-
ture / Des fruits sans cultiver que produisent les bois, / Et n'avoit que ses
moers pour police et lois; / Mais Jupiter chassa ceste mome paresse, / Des hom-
mes domestiques, et logea la finesse / Dans leurs àmes grossieres, afin de l'ai-
guiser / De soin et de labeur [...]» (Ibidem, p. 49). Su questo tema cfr. N. Or-
dine, Introdudion à Giordano Bruno, Expulsion de la bète triomphante cit.,
pp. LI-LIV.
329. Per un'analisi del mito, soprattutto in relazione al dibattito inglese
intomo alla figura di Elisabetta-Astrea, cfr. Frances A. Yates, Astrea. L'idea
di impero nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1990, 2^ edizione accresciuta.
330. Esiodo nell'incipit de Le opere e i giorni distingue con chiarezza due
tipi di «contesa», quella negativa che provoca le guerre e quella positiva che
spinge gli esseri umani a lavorare con entusiasmo per conquistare sempre
nuove mete: «Non v'è dunque un solo tipo di contesa, ma sulla terra / ne
esistono due: una da chi la intenda sarà lodata, / l'altra è da biasimare: i loro
cuori sono ben separati» (Esiodo, Le opere e i giorni, testo greco a fronte, nota
al testo, traduzione e note di Virgilio Costa, introduzione di Federica Cordano,
Pordenone, Studio Tesi, 1994, w. 11-13, p. 3).
331. Spaccio, p. 225.
no INTRODUZIONE
E non si tosto ebbe chiusa la bocca la dea di Pafo, che Minerva l'aperse
dicendo: «Or a che fine destinate la mia bella manifattura: quel palaggio
vagabondo, quella stanza mobile, quella bottega e quella fiera errante,
quella vera balena che gli traghiuttiti corpi vivi e sani le va a vomire ne
gli estremi lidi de le opposte, contrarie e diverse margini del mare?»; «Va-
da» risposero molti dèi, «con l'abominevole Avarizia, con la vile e preci-
pitosa Mercatura, col desperato Piratismo, Predazione, Inganno, Usura, et
altre scelerate serve, ministre e circonstanti di costoro. Et ivi risieda la
Liberalità, la Munificenza, la Nobiltà di spirito, la Comunicazione, Officio,
et altri degni ministri e servi loro»"-.
L'aperta condanna della spregiudicata «Mercatura», già anticipata
in un polemico passaggio della Cena dedicato alla famosa spedizione
di Colombo^", vuole essere una ferma protesta contro una «conqui-
sta» mascherata da «scoperta». Quelle popolazioni avevano una loro
cultura, una loro lingua, una loro religione. Avevano insomma il di-
ritto di vivere in pace secondo le loro leggi e i loro costumi. Ma la
brama spregiudicata del profitto ha trasformato presunti marinai ani-
mati dal desiderio di conoscenza in vili pirati assetati di oro e argento.
Parole forti, che si uniscono alle poche voci coraggiose di denuncia. Si
pensi alla Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie di Bartolomé
de Las Casas, apparsa proprio nel 1582 in traduzione francese per i
tipi di Julian, il libraio parigino che nello stesso anno darà alle stampe
il Candelaio^^-*.
332. Ibidem, p. 392.
333. «Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i
patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse,
per il commerzio radoppiar i diffetti e gionger vizii a vizii de l'una e l'altra
generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l'inaudite pazzie ove
non sono, conchiudendosi al fin più saggio quel che è più forte; mostrar novi
studi, instrumenti, et arte de tirannizar e sassinar l'un l'altro: per mercé de
quai gesti, tempo verrà ch'avendono quelli a sue male spese imparato, per
forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peg-
gior frutti de sì perniciose invenzioni» {Cena, p. 452).
334. Assieme alla Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie di Barto-
lomé de Las Casas, presentata a Carlo V nel 1542 e pubblicata a Siviglia nel
1552 presso Sebastiàn Trujillo, bisogna anche ricordare La Historia del Mondo
Nuovo di Girolamo Benzeni (Venezia, 1565). La traduzione francese del testo di
Las Casas apparirà con il titolo Tyrannies et cruautez des Espagnols, pefpetrées
en Indes Occidentales [...] traduites par Jacques de Migroddes, Paris, par Guil-
laume Julian, 1582. Per un'analisi più dettagliata della posizione bruniana rin-
viamo a: Giovanni Aquilecchia, Bruno e il «Nuovo Mondo» [1955], in Schede
bruniane (ig^o-iggi) cit., pp. 97-99; F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di
Giordano Bruno cit, pp. 341-358; Miguel Angel Granada, Giordano Bruno y
America. De la critica de la colonización a la crìtica del cristianismo, Barcellonji,
1990. Sulla scoperta del Nuovo Mondo cfr. Rosario Romeo, Le scoperte ame-
ricane nella coscienza italiana del Cinquecento, prefazione di Rosario Villari,
Roma-Bari, Laterza, 1989 [1971].
INTRODUZIONE III
Si tratta, certamente, di riflessioni che si inscrivono in un delicato
periodo di transizione. Sempre di più, a partire dall'inizio del Cinque-
cento, il dibattito sull'età dell'oro e sulle «scoperte» si legherà alle pro-
fezie, alle previsioni apocalittiche, alle promesse di renovatio^"'^ . La ne-
cessità di superare l'età del ferro e le lotte fratricide finisce per alimen-
tare un disperato bisogno di segni - sul piano politico e teologico,
magico e astrologico - che annuncino il ritorno della pace e dell'età di
Saturno.
«Natura est deus in rebus»: l'esempio degli Egizi
Anche su questo piano la risposta di Bruno è chiara: le grandi tra-
sformazioni storiche non si producono con i miracoli, né si realizzano
per volontà degli astri. Esse sono piuttosto il frutto dell'umile lavoro
degli uomini, della loro capacità di utilizzare assieme le mani e l'in-
telletto. Chi promette cambiamenti dall'alto, per opera di incanta-
menti, è un falso Mercurio, un mago ingannatore. Si comporta come
rOrione-Cristo che nello Spaccio vuole far credere agli uomini che dio
non apprezza le opere umane ma le azioni soprannaturali (come
quelle di «saltar sopra l'acqui, di far ballare i granchi, di far fare ca-
priole a' zoppi, far veder le talpe senza occhiali»)^"' e che «la natura è
una puttana bagassa» che non può «concorrere in un medesimo
buono fine» con la divinità^". Per queste concrete ragioni, il cristia-
nesimo non potrà mai favorire il ritomo della Giustizia e della pace.
Cancellare l'importanza delle opere, devalorizzare la vita terrena, sepa-
rare dio dalla natura significa distruggere la funzione essenziale della
religione, la sua forza di coesione civile. La divinità, come insegna
l'antica sapienza egiziana, non si cerca nelle reliquie («ne gli escre-
menti di cose morte et inanimate »)^'^ ma nelle cose e nella natura:
Conoscevano que' savii Dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella
natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per di-
verse forme fisiche con certi ordini venir a far partecipi di sé, dico de
335. Un'utilissima rassegna delle varie posizioni è ora in Enrico De Mas,
L'attesa del secolo aureo (1603-1623)- Saggio di storia delle idee del secolo XVII cit.
(ma si veda anche il recente volume collattaneo Tommaso Campanella e l'attesa
del secolo aureo, Firenze, Olschki, 1998). Sull'accesa polemica bruniana contro
visioni apocalittiche ed escatologiche si veda Miguel Angel Granada, Càlcu-
los cronológicos, novedades cosmológicas y exspectativas escatológicas en la Europa
del siglo XVI, in «Rinascimento», 37 (1997), pp. 357-435.
336. Spaccio, p. 381.
337. Ibidem.
338. Ibidem, p. 356. Si veda supra (p. 54), in un passaggio del Candelaio,
l'attacco ai cristiani che adorano la coda dell'asino.
112 INTRODUZIONE
l'essere, della vita et intelletto [...]. Ecco dumque come mai furono adorati
crocodilli, galli, cipolle e rape; ma gli Dei e la divinità in crocodilli, galli et
altri: la quale in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi, successivamente et
insieme insieme, si trovò, si trova e si trovarà in diversi suggetti quantum-
que siano mortali""^.
Solo all'interno di questo orizzonte naturale si può parlare di «ma-
gia», di un originale incontro fra tradizione ermetica (filtrata dal neo-
platonismo) e tradizione storica (in cui l'egizianesimo viene elevato a
modello di altissima civiltà) '^°. Il «mago» bruniano ascolta la natura,
ne raccoglie le vibrazioni e le regole più intime, ne indaga i segreti, ne
anticipa i movimenti. Fuori della natura non c'è né divinità, né reli-
gione, né magia^'". Del resto, il pronostico di Ermete Trismegisto, tra-
smesso dall' Asclepius, lo conferma: la fine della religione naturale e
magica degli Egiziani coinciderà con una serie di eventi negativi in
cui «le tenebre si preponeranno alla luce» e «nulla si trovarà di santo,
nulla di relligioso»^''^.
E discorso della Fortuna
Bruno sa che l'ordine vicissitudinale dell'universo vuole che alle
tenebre succedano la luce, alla notte il giorno, al male il bene, alla
morte la vita. Ma la legge dell'alternanza non esclude l'intervento del-
l'uomo nelle cose. Lo abbiamo visto con l'elogio della Fatica. E lo ve-
dremo ancora una volta con il discorso della Fortuna. Nessuna divi-
nità meglio di quest'ultima può esprimere il rapporto dialettico che
esiste tra l'ineluttabilità della mutazione e l'intervento umano, tra il
caso e la necessità. La dea bendata, a cui Giove assegna non uno spa-
zio preciso ma l'intero universo, si difende dalle accuse con grande
eloquenza. Se dall'urna, in cui ogni schedula è uguale all'altra («Non
veggio mitre, toghe, corone, arti, [...] acciò che in questo modo io vegna
a trattar tutti equalmente, e senza differenza alcuna»)^''', viene
339. Spaccio, pp. 357-360.
340. Il mito di Iside e Osiride è ricordato, in un contesto neoplatonico, da
Amadis Jamyn, De la vérité et du mensonge, in É. Fremy, UAcadémie des der-
niers Valois cit, pp. 364-365. Per un'analisi dei temi ermetici e della ripresa
dell'egizianesimo in queste pagine bnmiane: cfr. Fulvio Papi, Antropologia e
civiltà nel pensiero di Giordano Bruno cit., pp. 314-315; Michele Ciliberto, La
ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno cit., pp. 159-176; Nicola Ba-
daloni, Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica cit., pp. 11-21.
341. Già nel Candelaio Bruno aveva ridicolizzato le pratiche magiche di
Scaramuré e le pratiche alchemiche di Cencio (cfr. supra, p. 56).
342. Spaccio, p. 364.
343. Ibidem, p. 291.
INTRODUZIONE II 3
estratto un uomo inabile a governare la colpa non è del fato, ma della
Virtù che in quell'urna ha inserito un nome solo o della Sapienza che
ne ha introdotto uno o due. Di fronte a una massa indistinta di inetti
e viziosi, quale mano potrebbe pescare quei pochi all'altezza di svol-
gere brillantemente quel compito o quella missione? L'ingiustizia non
sta nel fatto che sia solo uno a governare. Ma che quell'uno non sia
capace, non abbia le giuste qualità per farlo («Non è errore che sia
fatto un prencipe: ma che sia fatto prencipe un forfante»)^-'''. E questo
non dipende dalla Fortuna:
Per voi [Bontade, Sapienza, Temperanza, Veritade] aviene che quando
la mia mano cava le sorti, occorrano più frequentemente, non solo al
male, ma ancora al bene, non solo a gl'infortunii, ma ancora a le fortune,
più per l'ordinario gli scelerati che gli buoni, più gl'insipidi che gli sa-
pienti, più gli falsi che gli veraci. Perché questo? perché? Viene la Pru-
denza e getta ne l'urna non più che doi o tre nomi; viene la Sofia e non ve
ne mette più che quattro o cinque; viene la Verità e non ve ne lascia più
che uno, e meno se meno si potesse: e poi di cento millenarii che son
versati ne l'urna, volete che alla sortilega mano più presto occorra uno di
questi otto o nove, che di otto o novecento mila. Or fate voi il contrario: fa
dico tu Virtù che gli virtuosi sieno più che gli viziosi, fa tu Sapienza che il
numero de savii sia più grande che quello de stolti, fa tu Verità che vegni
aperta e manifesta a la più gran parte [...]'"*'.
La Fortuna riconosce all'umanità la possibilità di condizionare in
senso positivo gli eventi. Se la necessità impone leggi irreversibili, la
libertà di agire dell'uomo e la sua capacità di compiere qualsiasi ope-
razione consentono di modificare il corso delle cose. L'esempio del
principato è simbolicamente eloquente: ci permette con chiarezza di
tracciare i confini tra ciò che deve essere e ciò che può essere. All'uomo
non è dato operare nella sfera della necessità. Il suo terreno d'interven-
to, invece, riguarda il dominio del modificabile. La necessità impone
che non tutti possano governare. Ma che quei pochi che siano destinati
al governo debbano essere virtuosi e non furfanti questo può dipendere
dalla volontà degli uomini, dalla loro capacità di sconfiggere il vizio e
l'ignoranza. Il movimento circolare della ruota, che aveva tanto terro-
rizzato l'uomo medievale, deve tener conto anche della volontà di ope-
rare e di fare di ogni singolo individuo. Giove - ci siamo già soffermati
su questo passo - riconosce solo alla Fatica l'abilità di prendere «la
Fortuna pe' capelli» e di agire sul corso della ruota.
344. Ibidem, p. 293.
345. Ibidem.
114 INTRODUZIONE
Enrico IH e l'Idra di Lerne
Nella riforma dello Spaccio Giove lascia in cielo la Corona Boreale
riservandosi di darla «in premio a quel futuro invitto braccio, che con
la mazza et il fuoco riportare la tanto bramata quiete alla misera et
infelice Europa: fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lemeo
mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatai veleno »^''^. Si tratta
di un augurio, di una speranza. Ma a chi spetterà questo dono?
Prima di rispondere, bisogna dare un volto preciso al mitologico
serpente ricorrendo ancora una volta al milieu francese. '^eWHydre de-
sfaict cu la louange de Monsegneur le due d'Anjou, frere du Roy, à present
Roy de France, Ronsard tesse le lodi del giovane Enrico che nel 1569
sbaraglia i protestanti, assimilati alla terribile Idra di Lerne:
Or ce Henry a fait chose impossible,
Tuant un Hydre au combat invincible:
Et Seul de tous par armes a desfait
Ainsi qu'Hercule un Serpent contrefait '•'''.
Enrico III, dunque, nelle vesti di Ercole vince la mostruosa creatu-
ra ^•^^. E proprio all'eroe greco, Giove assegna nello Spaccio il ruolo di
suo «luogotenente e ministro», inviandolo sulla terra per verificare «se
quell'idra, quella peste di Lerne, sia risuscitata a prendere le sue teste
rigermoglianti»^-''^. Sconfiggere l'orribile serpente significa sconfiggere
l'odio, le guerre civili, le divisioni, il degrado della società e delle
scienze. Favorire la pace e la coesione sociale vuol dire creare le pre-
messe per far uscire l'umanità dalle tenebre della morte. Ecco perché
346. Ibidem, p. 237.
347. Ronsard, Discours des Misères de ce temps. in (Euvres complètes, t. II,
w. 91-94, p. 1075 (ma cfr. anche un altro poema contemporaneo intitolato Les
Elements ennemis de L'Hydre, ibidem, pp. 1078-1080). Sull'Idra come simbolo
dell'eresia si veda C. Lenient, La satire en France ou la littérature militante au
XVr siede, Paris, Librairie Hachette, 1886, t II (ristampa anastatica Genève,
Slatkine, 1970), pp. 339-340.
348. «Car que fit-il [Hercule] jamais de plus grand que d'avoir combatu et
desfaict le serpent Hydra? [...] Et quel monstre estoit cestuy-là, compare à ce-
luy que vous avez [...] si hardimen assaylli [...]. C'est donc a bon droict. Sire,
que vous estes aujourd'huy comma Hercules, recue au nombre des Dieux: c'est-
à-dire au nombre des Roys»: Harangue de Louis Aleaume, in Nicolas Rous-
seau, Discours de l'entrée du Roy de Pologne faicte à Orléans, Orléans, E. Gibier,
1573, p. 30 e segg.; cit da Marc-René Jung, Hercule dans la littérature franca ise
du XVr siede, Genève, Droz, 1966, p. 168. Ma anche Audebert che pochi versi
prima aveva definito i protestanti invincibili come Anteo, loda il vincitore di
Montcontour, novello Ercole, come colui che ha «vaincu l'invincible puis-
sance» (Lino Fertile, Un poemetto inedito sulle guerre di religione: «L'erynne
franqoise de la France affligée» di Germain Audebert cit, p. 313).
349. Spaccio, p. 244.
INTRODUZIONE II5
nelle pagine finali del dialogo bruniano la corona celeste sarà asse-
gnata al novello Ercole, Enrico III:
- Qua propose Apolline: «Che sarà di quella Tiara? a che è destinata
quella Corona? che vogliamo far di essa?»; «Questa, questa,» rispose Giove,
«è quella corona la quale non senza alta disposizion del fato, non senza
instinto de divino spirito, e non senza merito grandissimo, aspetta l'invit-
tissimo Enrico terzo. Re della magnanima, potente e bellicosa Francia; che
dopo questa, e quella di Polonia, si promette, come nel principio del suo
regno ha testificato, ordinando quella sua tanto celebrata impresa: a cui
facendo corpo le due basse corone con un'altra più eminente e bella, s'ag-
giongesse per anima il motto: Tertia coelo manet. [...]. Ama la pace, conserva
quanto si può in tranquillitade e devozione il suo popolo diletto; non gli
piacene gli rumori, strepiti e fragori d'instrumenti marziali, che admi-
nistrano al cieco acquisto d'instabili tirannie e prencipati de la terra:
ma tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto camino al regno
etemo "°.
Il re di Francia incarna questo augurio, diventando egli stesso sim-
bolo della tanto attesa renovatio^^K La sua luce può dissipare l'oscurità
dell'ignoranza che avvolge il mondo. Lo Spaccio, insomma, si apre con
l'immagine del sole e si chiude con la luce della speranza, coinvol-
gendo simbolicamente anche l'etica e la politica in quella rivoluzione
eliocentrica che partita dalla cosmologia lentamente pervade ogni
sfera del sapere.
La «Cabala» e le due asinità
Molte questioni sollevate nello Spaccio vengono riprese e ridiscusse
nella Cabala del cavallo pegaseo (1585). Questa operetta, derivata da un
«cartaccio», si articola in tre dialoghi e contiene al suo intemo un
altro dialogo, intitolato VAsino cillenico. Solo Saulino {alter ego di
Bruno) compare in tutti e tre i dialoghi: Sebasto (con il compito di
350. Ibidem, p. 400.
351. La notizia dell'elezione di Enrico III al trono di Francia viene salu-
tata a Venezia come simbolo della renovatio: in diverse cronache del tempo,
infatti, questo avvenimento viene considerato un segno eloquente del passag-
gio dalle tenebre alla luce (cfr Fulvio Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di
Giordano Bruno cit., pp. 317-318). Sui diversi aspetti del concetto di renovatio si
veda Franco Simone, La coscienza della rinascita negli umanisti francesi, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1949. Per l'analisi del dibattito sulle implica-
zioni politiche della renovatio durante il regno di Enrico IV rinviamo a Cor-
rado ViVANTi, Il mito dell'Ercole Gallico e gli ideali monarchici di renovatio, in
Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi,
1974. PP- 74-131-
Il6 INTRODUZIONE
stimolare il dibattito) e Coribante (il pedante) partecipano al primo e
al secondo, mentre Onorio («asino malvagio», incarnazione di Aristo-
tele) interviene solo nel secondo e Alvaro (servitore di Sebaste) fa una
fugacissima apparizione nel brevissimo terzo dialogo, per annunciare
che i tre interlocutori (Sebasto, Coribante e Onorio) non verranno al-
l'appuntamento per una serie di improvvisi impedimenti. E Saulino,
rimasto solo sulla scena, per ingannare il tempo decide di leggere un
altro dialogo, i cui protagonisti sono l'Asino cillenico (asino-sapiente,
con le qualità di Mercurio), Micco pitagorico («piccola scimmia», pre-
sidente dell'accademia) e il messaggero degli dèi, Mercurio.
In questo penultimo movimento della «nolana filosofia». Bruno
rende ancora più espliciti, radicalizzandoli, alcuni temi del dialogo
precedente. Innanzitutto, nella Cabala si compie l'ultimo atto della ri-
forma iniziata nello Sfaccio^^^, con l'assegnazione delle «sedie» più
eminenti del cielo (fiume Eridano e dell'Orsa maggiore) ai due tipi di
Asinità:
Bene; dumque perché non più vi tormentiate su l'aspettar della risolu-
zione, sappiate che nella sedia prossima, immediata e gionta al luogo dove
era l'Orsa minore, e nel quale sapete essere exaitata la Veritade, essendone
tolta via l'Orsa maggiore nella forma ch'avete inteso, per previdenza del
prefato consiglio vi ha succeduto l'Asinità in abstratto: e là dove ancora
vedete in fantasia il fiume Eridano, piace a gli medesimi che vi si trove
l'Asinità in concreto, a fine che da tutte tre le celesti reggioni possiamo
contemplare l'Asinità, la quale in due facelle era come occolta nella via
de' pianeti, dov'è la coccia del Cancro^''.
Alla collocazione in cielo dell'asinità positiva, su cui ritorneremo
tra poco, corrisponde invece una spietata condanna dell'asinità nega-
tiva. Qui Bruno ne traccia una mappa dettagliata, seguendo con cura i
molteplici percorsi della pedanteria e dell'ignoranza. All'interno di
questo ampio fronte, infatti, si collocano diversi filoni. Un posto im-
portante spetta ai falsi filosofi: agli aristotelici che credono di sapere
tutto e agli scettici che credono che nulla si possa sapere. Si tratta di
posizioni che, per eccesso e per difetto, negano i processi dinamici
della conoscenza. Gli scettici per «parer più savii che gli altri», «con
minor fatica et intelletto», sostengono che «nulla si può determinare,
352. «Sia dumque l'Eridano in cielo, ma non altrimente che per credito et
imaginazione: là onde non impedisca che in quel medesimo luogo veramente
vi possa essere qualch'altra cosa di cui in un altro di questi prossimi giorni defi-
niremo: perché bisogna pensare sopra di questa sedia come sopra quella de
l'Orsa maggiore» {Spaccio, p. 385). Il corsivo è nostro.
353. Cabala, p. 433.
INTRODUZIONE II7
perché nulla si conosce»''"'. Mentre Aristotele dichiara apertamente la
sua presunzione attraverso le parole di Onorio, asino pegaseo, che ri-
corda di essersi «incarnato», a causa della trasmigrazione delle anime,
proprio nel corpo dello Stagirita:
Mi dissi principe de' Peripatetici, insegnai in Atene nel sottoportico Li-
ceo: dove secondo il lume e per dir il vero secondo le tenebre che regna-
vano in me, intesi et insegnai perversamente circa la natura de li principii
e sustanza delle cose, delirai più che l'istessa delirazione circa l'essenza de
l'anima, nulla possevi comprendere per dritto circa la natura del moto e
de l'universo; et in conclusione son fatto quello per cui la scienza naturale
e divina è stinta nel bassissimo della ruota, come in tempo de gli Caldei e
Pitagorici è stata in exaltazione'''.
L'autocritica di Onorio-Aristotele, dalla cosmologia alla filosofia
della natura, investe la struttura stessa di un sapere chiuso, immobile,
tautologico, incapace di aprirsi alla molteplicità e alla mutazione. Un
sapere in perfetta sintonia con la «santa ignoranza» teorizzata dal cri-
stianesimo:
O sant'asinità, sant'ignoranza,
santa stolticia e pia divozione,
qual sola puoi far l'anime sì buone,
ch'uman ingegno e studio non l'avanza:
non gionge faticosa vigilanza
d'arte qualumque sia, o 'nvenzione,
né de sofossi contemplazione,
al ciel dove t'edifichi la stanza.
Che vi vai, curiosi, il studiare,
voler saper quel che fa la natura,
se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura;
ma con man gionte e 'n ginocchion vuol stare
aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
eccetto il frutto de l'eterna requie,
la qual ne done Dio dopo l'essequie "'^.
Ritornano con insistenza, in questo sonetto «In lode dell'asino», i
termini della contrapposizione: da una parte la «sant'asinità», che non
avendo nessun interesse per lo studio e per la natura, invita gli uo-
mini a vivere «con man gionte e 'n ginocchion»; dall'altra parte, in-
354. Ibidem, p. 469.
355. Ibidem, pp. 459-460.
356. Ibidem, p. 415.
Il8 INTRODUZIONE
vece, r« umano ingegno» che spinto dalla curiositas vuole conoscere i
segreti del cosmo e della vita '^7. H Cristo-Orione dello Spaccio si river-
bera neU'Onorio-Aristotele della Cabala: entrambi, al di là di un pos-
sibile richiamo anagrammatico Orione-Onorio, rinviano su piani di-
versi a uno stesso atteggiamento. I miracoli di Orione-Cristo e gli im-
brogli di Onorio-Aristotele producono i medesimi effetti: la distruzione
di ogni possibile rapporto tra uomo e natura, tra vita e conoscenza.
Asini sono i falsi filosofi ed asini sono i proseliti del cristianesimo a
cui spetta il regno dei cieli. La polemica antiprotestante e anticristiana
si intreccia con la polemica contro i detrattori del sapere:
Stolti del mondo son stati quelli ch'han formata la religione, gli cere-
moni, la legge, la fede, la regola di vita; gli maggiori asini del mondo (che
son quei che privi d'ogn'altro senso e dottrina, e voti d'ogni vita e costume
civile, marciti sono nella perpetua pedantaria) son quelli che per grazia
del cielo riformano la temerata e corrotta fede, medicano le ferite de l'im-
piagata religione, e togliendo gli abusi de le superstizioni, risaldano le scis-
sure della sua veste; non son quelli che con empia curiosità vanno o pur
mai andaro perseguitando gli arcani della natura, computare le vicissitu-
dini de le stelle. Vedete se sono o furon giamai solleciti circa le cause se-
crete de le cose; se perdonano a dissipazion qualumque de regni, disper-
sion de popoli, incendii, sangui, mine et esterminii; se curano che perisca
il mondo tutto per essi loro: purché la povera anima sia salva, purché si
faccia l'edificio in cielo [...]"*.
Il fronte dell'asinità negativa, insomma, non può generare né cono-
scenza, né civiltà. Nell'esaltazione dell'età dell'oro, in una prospettiva
già anticipata nello Spaccio, si traduce l'esaltazione di un'epoca in cui
«gli uomini erano asini» e vivevano «come fan le bestie» '5'^. Nella Ca-
bala si ribadisce con chiarezza che solo nel passaggio dalla natura alla
cultura l'uomo può conquistare la divinitas. La differenza, infatti, tra
l'uomo e l'animale non risiede in astratte gerarchie ontologiche, ma è
data dalla pura materialità delle cose, dalla costituzione diversa dei
357. Sulla nozione di curiositas («sete illimitata di sapere») come segno
distintivo dell'età moderna si veda Hans Blumenberg, La legittimità dell'età
moderna cit, pp. 242-489. Per un'analisi della fortuna del concetto nel Rinasci-
mento rinviamo ai saggi raccolti in La curiosité à la Renaissance, Actes réunis
par Jean Céard, SEDES, Paris, 1986. La doppia connotazione, negativa e posi-
tiva, del termine in Bruno è indagata da Simona Nucciarelli, «Curiosus... in
bonam et in malam parte sumitur»: la «curiositade» nei Dialoghi italiani di Gior-
dano Bruno, in «Nouvelles de la République des Lettres», II (1998), pp. 85-108
(purtroppo questi importanti versi della Cabala non figurano nell'utile rasse-
gna della Nucciarelli).
358. Cabala, pp. 423-424.
359. Ibidem, p. 427.
INTRODUZIONE II9
corpi. L'anima dell'uomo, in coerenza con quanto sostenuto nel De la
causa, «è medesima in essenza specifica e generica con quella de le
mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trova
animata o abbia anima «"'O. La base di ogni aggregato vivente, infatti,
è composta dalla stessa «materia corporale» e dalla stessa «materia
spirituale».
Di conseguenza, il rapporto con la natura è fortemente condizio-
nato dalla propria «complessione» corporea. Attraverso l'uso del
corpo, infatti, ogni specie crea le modalità migliori per mantenersi in
vita, scegliendo quel tipo di operazione adatta alla propria corporeità.
Se un serpente assumesse il corpo di un uomo «intenderebbe, appari-
rebbe, spirarebbe, parlarebbe, oprarebbe, caminarebbe non altrimente
che l'uomo; perché non sarrebbe altro che uomo»^^^ Alla stessa ma-
niera, se un uomo assumesse il corpo di un serpente «non sarebbe al-
tro che serpente» e quindi «in luogo di caminare serperebbe, in luogo
d'edificarsi palaggio si cavarebbe un pertuggio, e non gli converrebbe
la stanza, ma la buca»^^'^. Solo su basi naturali, allora, si decreta la
superiorità dell'uomo sugli altri esseri viventi. La sua particolare con-
formazione corporea gli consente di avere la mano, «organo de gli or-
gani», e quindi gli permette di poter compiere operazioni che nessuna
altra specie può compiere: senza le mani non avrebbe mai potuto
creare «le instituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le con-
gregazioni de cittadini, le strutture de gli edificii, et altre cose assai che
significano la grandezza et eccellenza umana» ^6^.
360. Ibidem, p. 452.
361. Ibidem, p. 453.
362. Ibidem.
363. Ibidem, p. 454. Anche su questo tema, la posizione di Bruno espressa
nella Cabala non sembra essere molto lontana da quella sostenuta da Ronsard
in Paradoxe (CEuvres complètes, t. II, pp. 841-843), interamente dedicato alla
lode della mano. Qui il Vendòmois identifica con questo specifico organo la
natura stessa dell'uomo («Les Mains font l'homme, et le font de la beste / Estre
veincueur, non les pieds, ny la teste», vv. 55-56, p. 842), facendone uno stru-
mento essenziale per raggiungere le vette più alte («Qui peut son oeuvre aux
estoiles pousser, / Royne des arts, ministre du penser», vv. 53-54, p. 842) e
senza il quale la mente non può realizzare i suoi disegni: «Si la raison n'en est
accompaignée, / Ce n'est que vent: d'autant qu'elle ne peut / Parachever les
desseins qu'elle veut» (vv. 68-70, p. 842). Del resto, solo la mano aiuta a con-
quistare gli onori, come testimoniano le gloriose battaglie contro i protestanti
combattute a Dreux e a Saint-Denis: «Par les cinq doigts les honneurs se font
preux. / Que diray plus? la bataille de Dreux, / De sainct Denis par la Main fut
gaignée» (w. 65-67, p. 842). Spetta a Fulvio Papi il merito di aver segnalato
per primo questi versi di Ronsard in relazione ai passaggi bruniani sulla mano
(Fulvio Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno cit., pp. 244-
245)-
120 INTRODUZIONE
Il naturalismo bruniano rovescia la concezione finalistica dell'elo-
gio della mano sostenuta da Aristotele: per lo Stagirita l'uomo ha la
mano perché è l'animale ontologicamente più nobile, quindi ha in
dote lo strumento più nobile. Per il Nolano, in forte sintonia con Lu-
crezio, l'uomo domina le altre specie perché possiede un organo che le
altre specie non hanno '''^. Con la forza della mano, dunque, si costrui-
sce la civiltà. Qui ritroviamo i nuclei centrali dell'asinità positiva: fa-
tica da una parte e «sapere di non sapere» dall'altra, predisposizione
al durissimo lavoro e consapevolezza della propria ignoranza. Senza
«sudore», senza la coscienza che i processi di conoscenza non appro-
deranno mai a un punto di arrivo finale, non sarà possibile riscattare
l'uomo dalla sua condizione ferina.
Il simbolo dell'asino - che nel Rinascimento aveva avuto un
grande successo da Agrippa a Machiavelli, da Brant a Rabelais -
trova nello Spaccio e nella Cabala la sua espressione più alta. Qui,
come testimonia l'Asino cillenico, la «bestia negativa» presenta anche
un polo positivo dove convergono le qualità ambivalenti di Mercurio,
dio degli scambi, degli incroci, delle interferenze^^'.
VI.
LA FILOSOFIA CONTEMPLATIVA: I FURORI
Con il De gli eroici furori (1585), Bruno prende congedo non solo
dall'Inghilterra ma anche dalla lingua italiana. Chiude, infatti, la
grande stagione delle opere in volgare, per aprire un nuovo ciclo se-
gnato esclusivamente dal latino. Un doppio «congedo», quindi, che
assegna maggiore solennità a questo ultimo movimento della «nolana
filosofia». Dopo aver «riscritto» in nome dell'infinito i rapporti tra
uomo e cosmo, tra uomo e materia, tra uomo e natura, tra uomo ed
364. «ni! ideo quoniam natumst in corpore uti / possemus, sed quod natu-
mst id procreat usum» [«nessun organo del nostro corpo è stato creato per
nostro uso; ma è l'organo che crea l'uso»]: Lucrezio. La natura, introduzione,
traduzione e note di Olimpio Cescatti, con una lettura critica di Alessandro
Ronconi, Milano, Garzanti, 1975 (IV, 834-835), pp. 288-289.
365. Per una ricostruzione dell'ambivalente presenza dell'asino nella lette-
ratura del Rinascimento e nel pensiero di Bruno mi permetto di rinviare al
mio volume La cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit. Per
un'analisi del topos asinino all'interno di una concezione esclusivamente «ne-
gativa» del simbolo cfr. M. Ciliberto. La ruota del tempo. Interpretazioni di
Giordano Bruno cit.
INTRODUZIONE 121
etica, adesso il Nolano si accinge a «riscrivere» il rappoiio tra uomo e
conoscenza. E lo fa, ancora una volta, cercando di spezzare le muraglie
e i limiti entro cui la ricerca del sapere era stata circoscritta.
Il dialogo diventa teatro di una quète senza fine, in cui l'amore per
la conoscenza guida il filosofo a compiere un'esperienza eccezionale,
un percorso straordinario tutto teso verso l'unione con la natura uni-
genita, verso l'abbraccio «impossibile» con l'infinito.
I Furori si reggono su una complessa architettura, suddivisa in due
parti, al cui intemo si susseguono dieci dialoghi: i primi cinque (che
segnano la prima parte) sono animati dal poeta venosino Luigi Tan-
sillo e da Cicada, probabilmente Odoardo Cicala, uomo d'arme amico
del padre di Bruno "^''; nella seconda parte, invece, si alternano quattro
coppie di interlocutori, che Spampanato farebbe risalire ad amici e
conoscenti del milieu nolano ^*'^: Maricondo e Cesarino nei primi due
dialoghi, Liberio e Laodonio nel terzo, Severino e Minutolo nel quarto,
Giulia e Laodomia nel quinto ed ultimo.
La poesia d'amore
Come aveva già fatto in altre precedenti occasioni - si pensi all'uso
della cosmologia tradizionale nello Spaccio, attraverso la messa in
scena delle costellazioni ^^^ —, il Nolano anche in questo caso parte dal
già noto per mutarne il segno. Compie, con grande consapevolezza,
un'operazione eversiva: si «impadronisce» di quel codice specifico ra-
dicato nella cultura del tempo per stravolgerne ogni singolo elemento,
per piegarlo a funzioni che si pongono in netta contrapposizione con
quelle tradizionali. Nei Furori, come vedremo tra poco, il disegno si
concretizza in funambolismi di ogni sorta: sul piano dei contenuti, sul
366. Cfr. infra De gli eroici furori, p. 525, n. i.
367. Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno cit, pp. 64-65.
368. Cfr. N. Ordine, Introdudion à G. Bruno, Expulsion de la bète triom-
phante cit., pp. CLXXIX-CLXXX. Ma anche nei Furori Bnino si avvale più
volte nei componimenti di una serie di immagini che rinviano alla cosmologia
tradizionale (movimento del cielo e del sole o l'esistenza di una sfera che con-
tiene le stelle fisse): ma si tratta di un uso allegorico che non ha niente a che
fare con questioni di natura cosmologica. In altri passaggi di questo dialogo,
infatti, non mancano significative riprese di alcuni punti fermi della conce-
zione bruniana dell'universo: si critica l'esistenza delle nove sfere («atteso che
secondo la volgare imaginazione delle nove sfere», p. 41) e si ribadisce con
chiarezza l'infinità e l'omogeneità del cosmo («atteso poi che quello che vedi
alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, son fatture
simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la
divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi», p. 317). Su questo
tema cfr. Miguel Angel Granada, Introduction à Giordano Bruno, Les fu-
reurs héroiques cit, pp. 72-73 e pp. 99-100.
122 INTRODUZIONE
piano del lessico, sul piano della lingua, sul piano dei generi, sul piano
della metrica. Bruno, infatti, sceglie di «appropriarsi» dei temi del pe-
trarchismo e della trattatistica sull'amore per mettere in scena l'eroico
e difficile percorso della «milizia amorosa» del furioso^^^.
Il Nolano naturalmente conosce a perfezione gli schemi dominanti
del linguaggio d'amore della tradizione lirica romanza. Sa che la rela-
zione amorosa si traduce in un desiderio che non sarà mai appagato,
in un inseguimento senza fine caratterizzato da un amante che cerca
disperatamente di abbracciare l'amata che sfugge. Sa che l'amore, al-
l'interno di questo orizzonte, può produrre solo passioni frustrate in
quanto si dà esso stesso come frutto di un'impossibilità. Sa che la ten-
sione poetica trova alimento proprio in questo processo di negazione,
in questa predeterminata inafferrabilità dell'oggetto desiderato ^^°.
Sa, in particolar modo, che questi schemi si fissano in un linguag-
gio ossessivo, ripetitivo. In una serie di immagini che traducono in
maniera drammatica la tensione che anima l'innamorato: agitato da
opposte passioni (gioia e dolore, speranza e timore), chi ama finisce per
essere preda di sentimenti e sensazioni contrastanti (caldo e freddo,
luce e tenebre, sorriso e pianto), finisce per perdere il controllo di un
«io» sempre più frammentato. Sa, inoltre, che gli occhi e la visione
giocano un ruolo determinante. E che senza di loro non sarebbe pos-
sibile cogliere, in maniera immediata, in quel preciso istante, la supe-
riorità dell'oggetto amoroso su tutto ciò che gli sta intomo. Sa, infine,
che tutte queste immagini si articolano sul piano sintattico in paral-
lelismi e simmetrie, in coppie antitetiche, in un fitto gioco di richiami
e corrispondenze.
Ma — e questo mi pare un punto decisivo su cui ci soffermeremo
più avanti - Bruno sa anche che il petrarchismo cinquecentesco si
fonda essenzialmente su un linguaggio convenzionale che rinvia a se
stesso, su un codice autoreferenziale e autosufficiente, su un complesso
sistema di gesti, di simboli, di colori, di parole, di immagini comple-
tamente legato al chiuso orizzonte cortigiano. Un linguaggio d'amore,
insomma, capace soltanto di affermare la propria esistenza, di presen-
tarsi come puro strumento di intrattenimento sociale, di comunica-
zione tra gentiluomini. Dietro un'apparente pluralità, ogni cosa trova
369. Un'attenta lettura dell'uso bruniano del linguaggio petrarchesco è in
Patrizia Farinelli, // furioso nel labirinto. Studio su De gli eroici furori di
Giordano Bruno, Bari, Adriatica, 2000.
370. Sull'amore come desiderio frustrato nella tradizione poetica si veda
Marco Santagata, Pene e torture d'amore, in Id., Amate e amanti. Figure della
lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 141-172.
INTRODUZIONE 123
posto in un contenitore fatto di griglie prefabbricate, in cui finanche il
lessico platonicheggiante o più specificamente filosofico viene tradotto
in formule svuotate di ogni reale contenuto^''. Si pensi agli Asolarti
(1505) di Pietro Bembo che inaugurano nel Cinquecento la trattati-
stica in volgare sull'amore: la fusione tra prosa e poesia, tra platoni-
smo e cristianesimo, tra petrarchismo e corte avviene all'intèrno di
una struttura dialogica in cui la verità viene data sin dall'inizio,
perché ciò che conta non è tanto la conversazione in sé ma la «scena»
mondana entro cui gli interlocutori agiscono con gesti e parole. Il dia-
logo - fondato sull'omogeneità tra luoghi, personaggi e circostanze —
si offre così come modello di comportamento per un pubblico corti-
giano, pronto ad assumere quei gesti e quelle parole a prescindere da
un'autentica riflessione sui contenuti "2.
La scelta di Bruno non è dunque casuale. Così come non è casuale
il ricorso ad un altro genere alla moda, l'emblematica, strettamente
legato alla lirica petrarchista e al suo orizzonte cortigiano. Anche qui,
l'intreccio tra parola e immagine, tra «anima» e «corpo» finisce per
essere fissato in una serie di repertori, in modelli rigidi pronti per l'uso
nei rituali di scambio sociale tra signori e gentiluomini, dame e cava-
lieri, poeti e poetesse.
Un'opera di «invenzione» non di «imitazione»
Il Nolano, come dicevamo, utilizza questi schemi di ampia diffu-
sione per piegarli agli «eroici» obiettivi della sua filosofia Trasforma
un linguaggio asfittico, svuotato di ogni rapporto con il mondo, in un
universo aperto in cui la parola ritrova tutta la sua vitale energia.
Restituisce, insomma, alla poesia e alle immagini la loro funzione gno-
seologica. Riannoda, con il suo canzoniere, i legami tra letteratura e
vita, poesia e filosofia. Riassegna alle «pitture parlanti» un ruolo fon-
damentale nei complessi percorsi della conoscenza. E persegue questi
obiettivi, ancora una volta, compiendo un'operazione eversiva non
solo sul piano dei contenuti. Lavora, come al solito, con grande atten-
zione sulla lingua, liberando il lessico petrarchesco dalle astratte for-
mule autoreferenziali in cui era stato rinchiuso per farlo interagire con
371. Su questi temi cfr. V Introduzione di Giulio Ferroni a Poesia italiana. Il
Cinquecento, Milano, Garzanti, 1978, pp. VII-XXVI. Sulla tradizione della lirica
petrarchista si vedano i saggi di Amedeo Quondam, Il Naso di Laura. Lingua
e poesia nella tradizione del Classicismo, Modena, Franco Cosimo Panini, 1991
(ma cfr. anche la nota introduttiva di Marco Ariani alla sezione dedicata a
Petrarchisti e marinisti in Antologia della poesia italiana. Il Cinquecento, diretta
da Cesare Segre e Carlo Ossola, Torino, Einaudi, 2001, pp. 208-212).
372. Sull'uso del dialogo negli Asolani e nel Cortegiano cfr. supra, pp. 27-28.
124 INTRODUZIONE
un lessico colto, denso di significati filosofici, e con un lessico aperta-
mente burlesco. Logora, con grande abilità, le strutture metriche del
sonetto fino a sperimentare percorsi inusuali, non certamente radicati
nella tradizione lirica italiana: sottopone il metro più popolare del pe-
trarchismo alle pili svariate torsioni, fino a trasformarlo in un assem-
blaggio di altri metri, in cui trova soprattutto posto un'originale com-
binazione tra l'ottava e il madrigale''^.
Usa con disinvoltura gli schemi dell'impresa (composta da una fi-
gura e da un motto) e dell'emblema (formato da una figura, da un
motto e da un breve componimento in versi, in genere un epigram-
ma), articolandoli in una serie di combinazioni dove l'identità speci-
fica rimane quasi sempre sospesa. In alcuni casi, per esempio, i versi
sembrano legarsi alla figura e al motto, mentre in altri casi la loro
presenza non è direttamente riconducibile alle altre due componenti.
Alla stessa maniera, l'impresa, considerata come un simbolo stretta-
mente personale, viene dilatata ad esprimere concetti universali, in
cui si perde quella particolare carica di individualità^'-^. Bruno, in-
somma, si muove liberamente, senza tener conto dei vincoli prescrit-
tivi fissati dalla trattatistica e dalle convenzioni letterarie.
In piena sintonia con il suo progetto «eversivo», arriva perfino a
stravolgere, in maniera più radicale rispetto alle opere precedenti,
l'identità del genere dialogo: fonde prosa e poesia, versi e commento,
immagini e parole. Si tratta di un dialogo, è vero. Ma non bisogna
dimenticare che potrebbe anche trattarsi di un libro di imprese, di un
canzoniere o di un commento filosofico (sono del tutto assenti annota-
zioni di natura strettamente letteraria) a un canzoniere ^^5. Siamo di
373. Sulle scelte metriche bruniane si veda l'appendice di Zaira Borrenti
(infra, t. II, pp. 771 e segg.), in cui la curatrice anticipa parzialmente i risultati
di un lavoro dedicato ai componimenti presenti nelle opere italiane del No-
lano.
374. Cfr. la sezione dedicata alle imprese {infra, t II, pp. 835 e segg.) a cura
di Donato Mansueto.
375. Tra i precedenti del commento filosofico a testi poetici vanno almeno
ricordati il Convivio (1300-1308) di Dante e il Commento alla canzone d'amore
del fiorentino Girolamo Benivieni di Pico della Mirandola (i486). Sull'uso del
commento si vedano: Jean Céard, Les transformations du genre commentaire, in
L'Automne de la Renaissance, Paris. Vrin, 1988, pp. 101-115; Les Commentaires et
la naissance de la critique littéraire. France / Italie, Acte du Colloque intematio-
nal sur le Commentaire (Paris, mai 1998), textes réunis et présentés par Gisèle
Mathieu-Castellani et Michel Plaisance, Paris, Aux amateurs de livres, 1990; Le
commentaire entre tradition et innovation. Acte du colloque International de l'In-
stitut des traditions textuelles (Paris et Villejuif, 22-25 septembre 1999), pu-
bliés sous la direction de Marie-Odile Goulet-Cazé. Paris. Vrin, 2000; IVIassimo
Fusillo, Commentare, in II testo letterario. Istruzioni per l'uso, a cura di Mario
Lavagetto, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 31-56.
INTRODUZIONE 125
fronte a una complessa architettura che sfugge a ogni precisa etichetta,
che si sottrae a ogni canone tradizionale. Per questo rimane difficile
separare gli elementi che apparentemente sembrano eterogenei: né i
versi (si pensi a un possibile stralcio dell'intero canzoniere, composto
da ben settantadue componimenti tra «primari» e « secondari »)"^ né
le imprese (di cui abbiamo esclusivamente una descrizione verbale
delle immagini) potrebbero avere una vita autonoma al di fuori di
quel preciso contesto.
Lo stesso discorso vale per il commento: sarebbe fortemente ridut-
tivo considerarlo come un testo autosufficiente, capace di esprimere da
solo la complessità del discorso bruniano, o al contrario come un testo
destinato a un'esclusiva funzione di «supporto». L'autore se ne serve,
proponendo un modello che non tiene conto né del commentane tipico
dei testi sacri (in cui, secondo il motto Verbum dei sufficit, il ruolo del
metatesto è puramente secondario, parassitario, di umile invito alla
lettura della parola divina che non ha bisogno di essere spiegata)"^,
né del commentaire «didattico» (in cui tutte le possibilità interpreta-
376. Raramente i versi dei Furori sono stati proposti autonomamente in
antologie della poesia cinquecentesca. Se Giulio Ferroni inserisce undici com-
ponimenti nella Poesia italiana. B Cinquecento cit. (pp. 398-406), il Nolano è del
tutto assente nella recente einaudiana Antologia della poesia italiana. Il Cinque-
cento a cura di Carlo Ossola e Cesare Segre, cit. La distinzione tra componi-
menti «primari» e «secondari», resa in questa edizione con gli asterischi appo-
sti in apertura e chiusura di ogni poesia, è opportunamente indicata da Gio-
vanni Aquilecchia per segnalare al lettore la presenza nella princeps di fregi
utilizzati da Bruno per delimitare all'inizio e alla fine alcune liriche. Aquilec-
chia spiega con chiarezza la sua posizione nel saggio Sirma a «una polemica tra
brunisti» (in «Filologia e critica», i, 2001, pp. 132-142), replicando alla debole
autodifesa di Michele Ciliberto (Il testo rapito. Una polemica tra brunisti, in «Ri-
vista di storia della filosofia», 2, 2000, p. 243) che, pur accettando la distinzione
tra componimenti commentati e non, confermava comunque la sua decisione
di non tener conto dei fregi nel testo dei Furori, pubblicato nel Meridiano
Mondadori (G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, Milano, 2000). Ma la tesi di
Aquilecchia viene ancor più avvalorata dall'analisi diretta dei componimenti
effettuata da Zaira Sorrenti nell'appendice: solo sette testi poetici non figurano
tra i fregi tipografici. Si tratta, infatti, di componimenti che Bruno doveva con-
siderare «secondari» per un doppio ordine di ragioni: per la funzione di «ser-
vizio», innanzitutto (non sono oggetto di commento come gli altri, ma essi
stessi si presentano come un commento in versi dei componimenti «primari»);
e, probabilmente, anche per la loro «non originalità»: o perché già editi (i versi
ripresi dal De la causa), o perché non appartenenti all'autore (i quattro compo-
nimenti del Tansillo) o perché non innovativi sul piano metrico rispetto a
quegli altri inseriti tra le decorazioni tipografiche (l'ottava e il madrigale, che
isolati non esprimono le torsioni a cui viene invece sottoposto il «sonetto» in
seguito alla loro fusione).
377. Francois Rigolot, Introduction à l'étude du «commentaire». L'exemple
de la Renaissance, in Les Commentaires et la naissance de la critique littéraire.
France/Iialie cit, pp. 51-62.
126 INTRODUZIONE
tive trovjino pieno compimento nel discorso esegetico). Qui il Nolano,
in coerenza con i suoi princìpi, «svela» solo in parte i «tesori» conte-
nuti nei componimenti, attivando un percorso ermeneutico in cui il
pubblico viene chiamato a collaborare alla costruzione del senso"**. Il
lettore viene motivato, stimolato, assistito in alcuni passaggi, condotto
per mano lungo certi sentieri, posto talvolta di fronte a soluzioni che
sembrano eliminare ogni ambiguità: ma l'invito alla quète - in cui
testo e metatesto, versi e commento si presentano come un vasto ter-
reno di «caccia» - finisce per diventare l'elemento propulsore del pro-
cesso interpretativo ^^9.
In effetti, proprio la necessaria compresenza di elementi eterogenei
ma fortemente interrelati, permette al Nolano di saldare il legame tra
letteratura e filosofia, consentendogli così di chiudere a Londra, con i
Furori, quel cerchio che aveva già iniziato a tracciare a Parigi con il
Candelaio. Un itinerario, questo della «nolana filosofia», che sin dal-
l'inizio si apre all'insegna dell'originalità. Di un'originalità che assume
particolare rilievo soprattutto in questa sua ultima opera in volgare,
in cui è detto in maniera esplicita che essa «più riluce d'invenzione
che d'imitazione »^*l Qui Bruno allude a un preciso dibattito teorico,
su cui ci soffermeremo più avanti in un paragrafo dedicato alle que-
stioni di poetica. Per il momento, rimane evidente la programmatica
consapevolezza di muoversi sul piano dell'» invenzione» e non su
quello deir« imitazione». Di compiere, insomma, un'operazione sostan-
zialmente eversiva. Lo abbiamo in parte già visto, ma lo vedremo an-
cora meglio tra poco.
Sì è vero: i Furori prendono le distanze dal petrarchismo cinque-
centesco^**'. Ed è anche vero che nella sua esperienza di scrittura
378. Su questa tipologia di commento cfr. Michel Jeanneret, Préface,
commentaires et programmation de la lecture. L'exemple des Métamorphoses, Ibi-
dem, pp. 31-39.
379. In questo scambio di battute tra Cicada e Tansillo, posto in chiusura
dell'ultimo dialogo della prima parte, la ricerca del senso resta sospesa e affi-
data al lettore: «Tansillo. [...] Questo mi par più presto enigma che altro, però
non mi confido d'esplicarlo a fatto [...]. Ma questo mi par che richieda più
lunga e distinta considerazione. Cicada. Un'altra volta. Leggete la rima [seguo-
no i versi]. Andiamone, perché per il camino vedremo di snodar questo intrico,
se si può. Tansillo. Bene» (Furori, pp. 640-641). Su questo passaggio cfr. Ma-
ria Pia Ellero, Allegorie, modelli formali e modelli tematici negli Eroici furori di
Giordano Bruno, in «La Rassegna della letteratura italiana», XCVIII (1994), p.
43, nota IO.
380. Furori, p. 527.
381. Per un'ampia rassegna degli studi sulla lirica cinquecentesca si veda;
Giorgio Forni, Rassegna di studi sulla lirica del Cinquecento (igSg-iggg). Dal
Bembo al Casa, in «Lettere italiane», LII (2000), pp. 100-140; Id., Rassegna di
studi sulla lirica del Cinquecento (ig8g-2000). Dal Tansillo al Tasso, in «Lettere
INTRODUZIONE 127
Bruno attinge al variegato fonte dell'antipetrarchismo, sotto la cui eti-
chetta convivono autori e percorsi letterari estremamente eteroge-
nei'**2. Ma in entrambi i casi - e questo è un punto di fondamentale
importanza - la poesia rimane sacrificata all'interno di un orizzonte
esclusivamente letterario. L'esperienza poetica resta imbrigliata nelle
maglie di un gioco, in cui modelli e antimodelli si avvitano su se
stessi, mostrando apertamente come gli opposti possano rivelarsi com-
plementari. Certo, al Nolano non sfuggono le trasgressioni che ven-
gono operate da autori a lui molto cari sul piano della lingua, della
metrica e in taluni casi, molto più rari, sul piano dei contenuti. Tutto
ciò però non basta per coniugare assieme poesia e vita, letteratura e
filosofia.
Un'opera di filosofia, non di teologia
In questo senso, Bruno ha coscienza di intraprendere un'avventura
straordinaria. Ne conosce perfettamente i rischi. Sa che liberare la poe-
sia d'amore dalle sterili griglie del petrarchismo non serve a nulla
senza disfarsi, nello stesso tempo, di una tradizione fondata su astratti
misticismi, su fantomatiche «unioni» ultraterrene tra l'uomo e la di-
vinità, su ridicole promesse (indipendenti dai meriti individuali) di
una «felicità» e di una «perfezione» raggiungibili solo in un'altra vita
soprannaturale. In effetti, anche in un ambito più specificamente filo-
sofico il Nolano compie un'operazione di «riscrittura» di temi plato-
italiane», LUI (2001), pp. 422-461. Benché in alcuni di questi recenti saggi si
mostrino prospettive che in parte complicano la visione di un petrarchismo
«compatto ed univoco», non mi sembra però che le singole esperienze di qual-
che autore abbiano lasciato tracce forti di questi presunti «scarti» innovativi.
In fondo, il giudizio di Bruno, indipendentemente da qualche isolato «speri-
mentalismo», si pone come un prezioso punto di vista sull'uso cortigiano e
mondano di questo tipo di poesia. Del resto, come nota con finezza Marco
Ariani, anche la versione più estremistica del petrarchismo manierista è in-
scritta «all'interno dell'ars combinatoria escogitata dal Bembo», perché «la
"maniera" è implicita nel ludus imitativo stesso, un gioco tendenzialmente
autoreferenziale, indifferente, cioè, ad una vera responsabilità semantica che
non sia il meccanismo, spesso meramente automatico, dell'aggregazione e inca-
stro di tessere e formule date» {Antologia della poesia italiana. Il Cinquecento cit.,
p. 210).
382. Su questi temi restano ancora un importante punto di riferimento i
saggi di Giorgio Barberi Squarotti: L'esperienza stilistica del Bruno fra Rina-
scimento e Barocco, in La critica stilistica e il barocco letterario. Atti del secondo
congresso di studi italiani, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 154-169; Bruno e Fo-
lengo, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXV (1958), pp. 51-60;
Alcuni temi di un saggio su Giordano Bruno, in «Il Verri», II (1958), pp. 92-98;
Parodia e pensiero: Giordano Bruno, Milano, Greco & Greco Editori, 1997.
128 INTRODUZIONE
nici e neoplatonici: si serve, tra l'altro, del lessico ficiniano'^' - in cui
non mancano echi diretti di Plotino, dello pseudo Dionigi l'Areopa-
gita, di Proclo, di Giamblico - piegandolo però al suo particolare iti-
nerario gnoseologico, completamente immerso nello sforzo naturale
che il filosofo compie verso la sapientia^^. Lo stesso discorso potrebbe
valere anche per le allusioni all'immaginario erotico della tradizione
cabalistica, filtrato attraverso la mediazione dei Dialoghi d'amore di
Leone Ebreo ^*'.
Ma la singolare esperienza dei Furori potrebbe essere soprattutto
accostata alVHypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499).
Due testi molto diversi e lontani nel tempo, è vero. Eppure, al di là di
tutte le differenze possibili, una lettura attenta delle due opere po-
trebbe individuare una serie di legami concettuali a partire proprio da
una sorprendente «coincidenza»: la venatio sapientiae, nel simbolico
viaggio che Polifilo compie verso l'unione con Polla («diva um-
bra»)^*^ si realizza solo e soltanto all'interno della «parente natu-
ra»^*''. La visio in somniis del protagonista non avviene, come potrebbe
apparire in un primo momento, all'interno di un'esperienza irrazio-
nale, ma si concretizza in un esercizio razionale, in cui Ragione e Vo-
383. Sull'uso, anche polemico, che Bruno fa di Ficino si vedano: Alfonso
Ingegno, H primo Bruno e l'influenza di Marsilio Ficino, in «Rivista critica di
storia della filosofia», 23 (1968), pp. 149-170; Rita Sturlese. Le fonti del Sigil-
lus sigillorum del Bruno, ossia: il confronto con Ficino a Oxford sull'anima
umana, in «Nouvelle de la République des Lettres», 12 (1993), pp. 89-167; Mi-
guel Angel Granada, Digges, Bruno e il copernicanesimo in Inghilterra, in
Giordano Bruno 1583-1585. The English Experience / L'esperienza inglese. Atti del
convegno (Londra, 3-4 giugno 1994), a cura di Michele Ciliberto e Nicholas
Mann, Firenze, Olschki, 1997, pp. 140-154.
384. Su questo aspetto insiste giustamente Giovanni Aquilecchia, Gior-
dano Bruno cit, pp. 54-55.
385. Sul rapporto Bruno-Leone Ebreo sono importanti le osservazioni di
Giovanni Aquilecchia, Bruno e Leone Ebreo, in Giordano Bruno nella cultura
del suo tempo. Atti del convegno di Urbino e San Leo (22-23 settembre 2000), a
cura di Alfonso Ingegno e Amalia Perfetti, in corso di stampa. Pieni di inge-
nuità e di errori interpretativi sono gli interventi di David Harari, Leon l'Hé-
breux et Giordano Bruno: leurs rapports: solution des enigmes, in «Revue des Étu-
des juives», CL (1991), pp. 305-316 (ma cfr. anche Id., Le tracce del quarto dia-
logo smarrito di Leone Ebreo negli «Eroici furori» di Giordano Bruno, in Italia.
Studi e ricerche sulla storia, la cultura e la letteratura degli ebrei d'Italia. VII, 1-2,
Gerusalemme, 1988, pp. 93-155)- Per un'analisi approfondita dell'opera di
Leone Ebreo rinviamo a Marco .Ari.^ni, Imago fabulosa. Mito e allegoria nei
«Dialoghi d'amore» di Leone Ebreo. Roma, Bulzoni, 1984.
386. Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Riproduzione del-
l'edizione aldina del 1499, introduzione, traduzione e commento di Marco
Ariani e Mino Gabriele, Milano, Adelphi, 1998, p. 465.
387. Ibidem, p. 341. Su questo tema ha scritto pagine importanti Marco
Ariani nella sua introduzione: cfr II sogno filosofico, pp. XXXI-LXI (p. XLI in
particolare).
INTRODUZIONE I29
lontà giocano un ruolo importante'^*. Si tratta di una philosophia Ve-
neris - intrisa di neoplatonismo quattrocentesco, di materialismo lu-
creziano, di precetti fondati sulla medietas aristotelico-ciceroniana -
che si concretizza esclusivamente nella copulatio con la Natura Geni-
trice, in un orizzonte naturale che esclude l'Uno Ineffabile '*''. Una pai-
deia, quindi, interamente costruita su un indissolubile intreccio di ar-
chitetture verbali e iconografiche, di neologismi linguistici e visivi, di
sperimentalismi che pervadono ogni elemento del testo, sia su un
piano estetico sia su un piano specificamente filosofico ''".
Invenzione linguistica e immaginazione creatrice sono anche alla
base dei meccanismi che animano i Furori. Così come il sincreti-
smo assume un'importanza capitale in un «canzoniere» in cui ven-
gono sapientemente combinati modelli sacri e profani, miti della
tradizione pagana e immagini della tradizione cristiana, linguaggi
e motivi dell'ermetismo e della cabala'"''. Allusioni al Cantico dei
388. Per una parte del suo viaggio, Polifilo sarà accompagnato dalle ninfe
Logistica e Telemia, cioè Ragione e Volontà: Francesco Colonna, Hypneroto-
machia Poliphili cit., p. 122 (cfr. l'introduzione di Mino Gabriele, Il viaggio
dell'animo cit., p. XV).
389. Cfr. l'introduzione di Marco Ariani, Il sogno filosofico cit, p. XXXVII.
390. Su questo aspetto cfr. l'introduzione di Mino Gabriele, // viaggio del-
l'animo cit, pp. XXVII-XXIX (ma si veda anche Io., La grande construction
pyramidale de r« Hypnerotomachia Poliphili»: reconstruction et confrontation des
dimensions architecturales, in Le livre illustre italien au XVF siede. Texte/Image,
sous la direction de Michel Plaisance, Paris, Klincksieck, 1999, pp. 39-50).
391. In un passaggio del De umbris idearum Bruno, mettendo in discus-
sione la nozione assoluta di audoritas, mostra che nel diffìcile cammino per la
conquista del sapere ci si deve avvalere di diverse filosofie: «Non enim reperi-
mus unum artificem qui omnia uni necessaria proferat Non idem, inquam,
galeam, scuthum, ensem, hastilia, vexilla, timpanum, tubam, caeteraque om-
nia militis armamenta conflabit, atque periìciet Ita maiora, aliarum inventio-
num tentantibus opera non solius Aristotelis Platonisque solius officina suffi-
ciet. Quandoque etiam - ipsumque raro — si non consuetis uti videbimur ter-
minis, illud ideo est quia non consuetas per eos explicare cupimus intentiones.
Per universum autem diversis variorum philosophorum studiis utimur, quate-
nus melius propositum inventionis nostrae insinuemus» [«Non troviamo in-
fatti un unico artigiano che procura tutto quanto è necessario ad un'unica arte.
Voglio dire, non è lo stesso artigiano che fonde e forgia l'elmo, lo scudo, la
spada, le aste, i vessilli, il tamburo, la tromba e tutti gli altri armamenti del
soldato. Ugualmente anche a quanti cercano di compiere opere maggiori muo-
vendo da ritrovati originali non sarà sufficiente l'officina del solo Platone o del
solo Aristotele: se poi noi sembriamo usare (anche se ciò accade raramente) dei
termini non consueti, certamente lo facciamo perché con essi vogliamo espri-
mere dei contenuti non consueti. Generalmente invece ricorriamo ai diversi
studi dei vari filosofi per quanto ci serve a rendere più comprensibile il pro-
posito del nostro ritrovato»]: Giordano Bruno, De umbris idearum, ed. Stur-
lese, cit., p. 23; trad. it: ID., Le ombre delle idee. Il canto di Circe, Il sigillo dei
sigilli, introduzione di Michele Ciliberto, traduzione e note di Nicoletta Tirin-
nanzi, Milano, Rizzoli, 1997, p. 57.
130 INTRODUZIONE
CanticP"^^, a Platone, a Lucrezio, ad Averroè, al neoplatonismo, a Fi-
cino, alle correnti mistiche e cabalistiche: ma tutto ciò all'interno di
un disegno che riconduce l'esperienza del furioso in un ambito «natu-
rale» e razionale, in perfetta sintonia con l'itinerario della «nolana fi-
losofia» tracciato nei precedenti dialoghi. Bruno si serve di un lessico
iconologico e verbale diffuso, consolidato, nella consapevolezza di po-
terlo dominare e piegare alla sua Weltanschauung. Sa, insomma, di
compiere una difficile navigazione tra Scilla e Cariddi, tra le insidie di
una poesia convenzionale e i pericoli di una falsa teologia, tra le am-
biguità di una letteratura mondanizzata e l'irrazionalità di una mi-
stica ultraterrena.
Basta rileggere alcuni avvertimenti per cogliere fino in fondo la ne-
cessità di fare chiarezza. Sin dall'inizio si ribadisce che «questi furori
eroici ottegnono suggetto et oggetto eroico», che non si occupano quin-
di «d'amori volgari e naturaleschi»'"-'^. Sarebbe, infatti, «vituperoso»
dedicare «molto pensiero, studio e fatica» ad imitare quei poeti che
hanno cantato lodi alle donne "■^. E non perché tra queste non ve ne
fossero degne di riceverle («qua [non] voglio che sia tassata la dignità di
quelle che son state e sono degnamente lodate e lodabili») - come te-
stimoniano in verità le dame che abitano «particolarmente in questo
paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale »'95 _ ma
392. Bruno, in un primo momento, avrebbe voluto intitolare Cantica i suoi
Furori: «Però per liberare tutti da tal suspizione, avevo pensato prima di donar
a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza
d'amori et affetti ordinarii, contiene similmente divini et eroici furori, come
interpretano gli mistici e cabalisti dottori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica.
Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine» (pp. 494-495). Sul carattere alle-
gorico di questo passaggio e dell'intera struttura dei Furori cfr. Miguel Angel
Granada, Introduction à Giordano Bruno, Les fureurs héroiques cit, pp. LIX-
LXII.
393. Furori, pp. 493-494.
394. Ibidem, p. 497.
395. Qui Bnmo, nel lodare le dame inglesi, elogia in particolar modo la
regina Elisabetta, considerata come «unica Diana»: «Or (perché non si faccia
errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono
degnamente lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolar-
mente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale:
perché dove si biasimasse tutto l'orbe, non si biasima questo che in tal propo-
sito non è orbe, né parte d'orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete;
dove si raggionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de
alcune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son
temine, non son donne: ma (in similitudine di quelle) son nimfe, son dive, son
di sustanza celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell'unica Diana, che in
questo numero e proposito non voglio nominare» (Ibidem, p. 499). Sul tema
delle donne in Bruno si veda Giovanni Aquilecchia, Appunti su Giordano
Bruno e le donne, in Donne, filosofia e cultura nel Seicento, a cura di Pina Todaro,
Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1999, pp. 37-49.
INTRODUZIONE I3I
solo per evidenziare che qui la relazione amorosa non si identifica con
quella intrecciata naturalmente tra uomini e donne.
Questo non significa però che si tratti di amori mistici, sopranna-
turali. Al contrario: al centro dell'esperienza poetica e gnoseologica sta
proprio lo sforzo, tutto umano, del furioso. In questo percorso, che si
caratterizza per la sua straordinaria eccezionalità, è possibile rintrac-
ciare l'esperienza solitaria di chi vuole disperatamente abbracciare la
conoscenza nella sua totalità. L'amore per il sapere alimenta questa
quète infinita, questo inesauribile bisogno di possedere ciò che mai po-
tremo possedere nella sua interezza. Solo in questo senso è possibile
parlare di un itinerario «sovrumano» ed «eroico», di una tensione as-
soluta verso un inafferrabile oggetto del desiderio. Perché l'amante, nel
tentativo di avvicinarsi all'amata, è pronto a compiere il sacrificio
estremo, a disperdere tutte le sue forze nell'intento di conquistare ciò
che non potrà mai conquistare.
Niente confusione, dunque. I Furori si occupano di filosofia, non di
teologia '^6. Bruno lo ribadisce più volte nel corso dell'opera Ne parla
in prima persona neir« Argomento», quando spiega che il suo discorso
è solo «naturale e fisico» '^~, e non manca di sottolinearlo ancora una
volta attraverso le parole di Maricondo («Sappiamo che non fate il
teologo ma filosofo e che trattate filosofia non teologia»), immediata-
mente confermate dallo stesso Cesarino («Cossi è»)'''^. In fondo, questi
passaggi ribadiscono princìpi che sin dalla Cena si erano configurati
come un punto fermo della «nolana filosofia»: da una parte, quindi,
«gli teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli»,
dall'altra parte i filosofi che «parlano secondo la raggion naturale»''*''.
Alla luce di queste premesse, sarà più facile seguire alcune vicende
principali deir« amorosa milizia» del furioso, del suo straordinario
percorso verso la «somma felicità» che può compiersi, come suggerito
da Averroè, solo nel raggiungimento della «perfezzione per le scienze
speculative «'•"o.
396. Qui teologia assume il significato di «teologia soprannaturale», scienza
«pratica», che desume i suoi princìpi dalla rivelazione e si pone come guida
dei fedeli invitandoli ad agire per la loro salvezza. Ben altra cosa è la teologia
nel senso aristotelico di metafisica.
397. Furori p. 495-
398. Ibidem, p. 646. Ma anche nel dialogo terzo della seconda parte si fa
riferimento al fatto che sotto «queste sentenze la filosofia naturale ed etica [...]
vi sta occolta»: Ibidem, p. 708.
399. Ibidem, p. 514.
400. Ibidem, p. 567. Bruno nel processo di ascensione verso la «divinità»
combina nei Furori temi del platonismo e dell'averroismo, senza risparmiare
però critiche alle posizioni cosmologiche espresse dai due filosofi: cfr. Miguel
132 INTRODUZIONE _
1
/ «furori» come «impeto razionale»
Ma in cosa consistono questi «furori»? Nel rispondere alla do-
manda. Bruno sgombra ancora una volta il campo da qualsiasi ambi-
guità: si tratta esclusivamente di un «impeto razionale», di un pro-
cesso che riguarda «l'apprension intellettuale »-'°'. Niente a che fare,
dunque, con «ferine affezzioni» o comportamenti irrazionali ""o^: «Que-
sti furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in execu-
zione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son
negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si
procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello »-*°'.
La distinzione si rende necessaria. Non esiste, infatti, un solo tipo
di «furore». Abbiamo i furori che manifestano una certa «cecità, stu-
pidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato». E abbiamo
furori che consistono «in certa divina abstrazzione per cui dovegnono
alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii». Ma tra questi furori
«positivi», Bruno pone ancora una radicale differenza;
E questi sono de due specie perché: altri per essemo fatti stanza de dèi
o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi
o altri intendano la raggione; e tali per l'ordinario sono promossi a
questo da l'esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come
vóti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s'intrude il
senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei
che son colmi de propria raggione e senso, perché tal volta vuole ch'il
mondo sappia certo che se quei non parlano per proprio studio et
esperienza come è manifesto, seguite che parlino et oprino per intelligenza
superiore [...]. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per
aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno intemo stimolo e
fervor naturale suscitato da l'amor della divinitate, della giustizia, della
veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell'intenzione acuiscono
gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razio-
nale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vegnono al fine
Angel Granada, Introduction à Giordano Bruno, Les fureurs héroiques cit,
pp. LXXIII-XC (ma anche Id., «Essere spogliato dall'umana perfezione e giusti-
zia». Nueva evidencia de la presencia de Averroes en la obra y en el proceso de
Giordano Bruno cit). Si veda inoltre l'importante saggio di Rita Sturlese,
«Averroe quanlumque arabo et ignorante di lingua greca...». Note sull'averroismo di
Giordano Bruno, in «Giornale critico della filosofia italiana», 71 (1992), pp. 248-
275. Sulla concezione averroista del sapere cfr. Luca Bianchi, Filosofi, uomini e
bruti. Note per una antropologia averroista, in «Rinascimento», 32, 1992, pp. 185-
201 e Alain De Libera, La philosophie medievale, Paris, Puf, 1993, pp. 161-183;
trad. it Bologna, il Mulino, 1999.
401. Furori, p. 556.
402. Ibidem.
403. Ibidem, pp. 555-556.
INTRODUZIONE I33
a parlar et operar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et
efficienti-"".
I Furori, insomma, non si occupano di uomini ignoranti che sono
toccati dalla divinità proprio perché non parlano «per proprio studio
et esperienza». Questi «prescelti» finiscono per essere considerati «co-
me l'asino che porta li sacramenti»""^', come puri veicoli di una parola
e di un'esperienza che non gli appartiene. In questo dialogo, invece,
Bruno ci parla di quel furioso in cui «si considera e vede l'eccellenza
della propria umanitade»''"^. Nessuna «divinità» dall'esterno lo elegge,
prendendolo per mano. Ma guidato dai propri «sensi», dalla «cogitati-
va facultade», dal suo «lume razionale», dall'amore infinito per la co-
noscenza può egli stesso elevarsi alla «divinità», può egli stesso com-
piere un percorso eccezionale, raro, eroico, capace di liberarlo dalle
catene della condizione umana, dai vincoli della finitudine, per proiet-
tarlo in un abbraccio filosofico con l'universo infinito.
L'energia che muove questa quète, che tiene viva la passione del
furioso, è determinata dall'Amore, i cui effetti non producono gli stessi
risultati in tutti coloro che si infiammano. Il «Putto irrazionale»,
come spiega Tansillo, non è definito così perché «egli per sé sia tale»,
ma perché alcuni non sono in grado di riceverne le fiamme in posi-
tivo. Per l'animo «intellettuale e speculativo», questa spinta straordi-
naria «inalza più l'ingegno e più purifica l'intelletto facendolo sve-
gliato, studioso e circonspetto, promuovendolo ad un'animositate
eroica et emulazion di virtudi e grandezza: per il desio di piacere e
farsi degno della cosa amata». Nella maggior parte dei casi, invece,
l'Amore, nell'incontro con l'uomo comune, finisce per renderlo «pazzo
e stolto», facendolo «uscir de proprii sentimenti »''°^.
L'infinito desiderio dell'infinito
Avremo, quindi, furori «divini» e furori «bestiali», amori «raziona-
li» e amori «ferini». Naturalmente non si tratta di concetti che pos-
404. Ibidem, pp. 554-555-
405. Ibidem, p. 555. Sull'immagine deìVAsinus portans mysteria - usata da
Aristofane, Alciato, Agrippa di Nettesheim, Erasmo, Spenser — si veda N. Or-
dine, La cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit., p. 86. Qui
Bruno allude, in sintonia con l'emblema di Alciato Non Ubi, sed religioni, al
povero asino che, trasportando la statua di Iside, credeva che al suo passaggio
la gente rendesse omaggio a lui e non alla divinità (cfr. André Alciat, Les
Emblèmes, fac-simile de l'édition lyonnaise Macé-Bonhomme de 1551, pré-
face de Pierre Laurens, table de concordance de Florence Vuilleumier, Paris,
Klincksieck, 1997, p. 13).
406. Furori, p. 555.
407. Ibidem, p. 537.
134 INTRODUZIONE
sono essere assolutizzati. Prendiamo la delicata questione deir«appa-
gamento», del possesso di qualcosa che sia in grado di spegnere defi-
nitivamente il nostro desiderio: per il furioso chi «s'appaga del stato
suo» è un «insensato e stolto» 4°^, mentre per la «moltitudine igno-
rante» sarà l'irrefrenabile corsa del solitario furioso a destare sospetti
di follia. In effetti, l'uomo eroico vive continuamente «nell'eccesso
delle contrarietadi», ha «l'anima discordevole»: «triema nelle gelate
speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l'avidità stridolo, mutolo per
il timore; sfavilla dal core per cura d'altrui, e per compassion di sé
versa lacrime da gli occhi; muore ne l'altrui risa, vive ne' proprii la-
menti; e (come qualcuno che non è più suo) altri ama, odia se stes-
so»''''^. Chi si avvia a compiere questa straordinaria esperienza, sa sin
dall'inizio che il suo amore per l'oggetto del desiderio non si estin-
guerà mai. Anzi: tanto più si pratica l'inseguimento, tanto più ci si
infiamma, perché si tratta di un amore «che più accende, che possa
appagar il desio »'''°.
Con questa immagine dell'inappagabilità del furioso-"'. Bruno de-
408. Ibidem, p. 543.
409. Ibidem, pp. 547-548.
410. Ibidem, p. 566.
411. In un bellissimo passaggio del De immenso Bruno pone su un piano di
contiguità l'insoddisfazione dell'uomo nella ricerca della verità e l'insoddisfa-
zione della materia nella ricerca di nuove forme: «Quoties enim aliquam supe-
resse noscendam veritatem, et quandiu aliquod superesse bonum comparan-
dum judicamus, aliam semper inquirimus, aliud semper appetimus. Non igitur
in veritate terminum habente, et in bono finibus incluso, inquisitionis et expe-
tentiae finis erit. Insitus appetitus est, ut omnia fiant, singulis et unicuique:
appetit semper esse quidquid aliquando est; ubique videre, quidquid alicubi
videt; universaliter habere, quidquid singulariter habet; toto frui qui parte
fruitur, omnibus dominari tanquam etiam possit, hoc etiam quod omnibus
subjicitur appetit; et consequutis non est contentum, ubi aliquid ulterius re-
manserit assequendum. Sic materia particularis, sive corporea, sive incorporea
ipsa sit, expletur nunquam, et consequutis ab aetemo particularibus formis, in
aetemum nihilominus consequendas concupiscens, non est contenta» [«Ogni
volta, infatti, in cui riteniamo che rimanga una qualche verità da conoscere e
un qualche bene da raggiungere, noi sempre ricerchiamo un'altra verità ed
aspiriamo ad un altro bene. Insomma, l'indagine e la ricerca non si appaghe-
ranno nel conseguimento di una verità limitata e di un bene definito. E con-
naturato in tutti gli uomini ed in ciascuno il desiderio di abbracciare la tota-
lità: ogni uomo desidera che sia sempre ciò che è talvolta; vedere ovunque ciò
che vede soltanto in qualche luogo; considerare nella sua universalità ciò che
gli appare invece nella sua singolarità; usufruire totalmente ciò di cui usufrui-
sce solo in parte. Insomma, convinto di riuscirvi, cerca di dominare anche
quelle cose da cui è dominato; e non è soddisfatto dei risultati raggiunti,
quando si presenti ancora qualcosa da poter conseguire. Nello stesso modo, la
materia particolare, sia essa corporea o incorporea, non assume mai una strut-
tura definitiva e, non essendo, paga delle forme particolari assunte in etemo,
aspira nondimeno in etemo al conseguimento di nuove forme»]: G. Bruno,
Opp. lai., I/I, pp. 203-204; trad. it p. 420.
INTRODUZIONE 135
scrive la incommensurabile sproporzione che si crea tra un essere fi-
nito e un sapere infinito. Riuscire ad abbracciare ciò che cerchiamo
non significa abbracciare la totalità: chi vive in questa «milizia amo-
rosa» «vede che quel tutto che possiede è cosa misurata», che «non
può essere bastante per sé», perché «non è l'universo «""i^. Scopre, in-
somma, l'inafferrabilità di ciò che potrebbe veramente soddisfarlo una
volta per tutte. Ha coscienza del fatto «che non è cosa naturale né
conveniente che l'infinito sia compreso», che possa «donarsi finito:
percioché non sarrebe infinito». È persuaso, infine, che sia «convenien-
te e naturale che l'infinito per essere infinito sia infinitamente perse-
guitato»"^". All'interno di questa quète, in cui concorrono i sensi e l'in-
telletto, noi desideriamo anche ciò che sfugge alla «potenza sensitiva»
e che, quindi, siamo costretti a vedere con gli occhi della mente. Il
furioso, insomma, si infiamma non solo per «le cose conosciute e vi-
ste», ma soprattutto per le «cose ignote e mai viste», perché queste
ultime «se sono occolte quanto all'esser particulare, non sono occolte
quanto a l'esser generale »''^-^.
Proprio in questo straordinario paradosso si concretizza l'espe-
rienza eroica del furioso. Il suo percorso sarà segnato dalla dramma-
tica convivenza tra la consapevolezza della propria finitudine e la ne-
cessità di rifiutare ogni conoscenza parziale. In questa disperata ed
esaltante ricerca egli consuma la sua vita. O meglio: dissipa, senza ri-
guardo, ogni energia fisica e materiale per aprirsi a una nuova vita,
tutta immersa in una dimensione intellettuale. Come la farfalla, egli è
attratto dalla luce, dalla fiamma che può togliergli in un momento
l'esistenza. Ma a differenza della farfalla, che se «prevedesse la sua
mina» farebbe del tutto per evitare «di perder l'esser proprio» in
«quel fuoco nemico »■*'^ il furioso desidera «svanir nelle fiamme de
l'amoroso ardore »-^''^, come testimoniano i versi legati all'impresa «Ho-
stis non hostis» («Mai fia che de l'amor io mi lamente, / senza del qual
non vogli'esser felice»)''^^ e il componimento primario Se la farfalla al
suo splendor ameno'^^^.
412. Furori, p. 584.
413. Ibidem, p. 585.
414. Ibidem, p. 589.
415. Ibidem, p. 608.
416. Ibidem.
417. Ibidem, p. 607.
418. «Se la farfalla al suo splendor ameno / vola, non sa ch'è fiamm'al fin
discara; / se quand'il cervio per sete vien meno, / al rio va, non sa della freccia
amara; / s'il lioncomo corre al casto seno, / non vede il laccio che se gli pre-
para: / i' al lum', al font', al grembo del mio bene, / veggio le fiamme, i strali e
le catene» (Ibidem, p. 559).
136 INTRODUZIONE
Atteone: «'l gran cacciator dovenne caccia»
i
Questo amore per la sapienza è anche amore per la «divinità». Ed è
l'unica possibilità che è data all'uomo per trasformarsi nell'oggetto del
desiderio, per elevare se stesso a una condizione «divina». Ma di che
«divinità» si tratta? È qualcosa che si colloca al di fuori dell'orizzonte
«fisico e naturale» di cui Bruno aveva parlato all'inizio? Oppure si
tratta di quella «divinità» che è nella natura, di quella forza vitale
che anima dall'interno l'universo infinito?
Una risposta potrebbe venire dalla significativa esperienza di At-
teone, che costituisce certamente uno dei nodi centrali dei Furori. Nel
commento ai versi, collocati all'inizio del dialogo quarto della prima
parte •'^^, così Tansillo spiega la straordinaria avventura del mitico cac-
ciatore:
Atteone significa l'intelletto intento alla caccia della divina sapienza,
all'apprension della beltà divina. Costui slaccia «i mastini et i veltri»: de
quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l'operazion de l'intel-
letto precede l'operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et effi-
cace che quella; atteso che a l'intelletto umano è più amabile che com-
prensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l'amore è quello che
muove e spinge l'intelletto acciò che lo preceda come lanterna. «Alle sel-
ve», luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però
dove non son impresse l'orme de molti uomini, «il giovane» poco esperto
e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, «nel
dubio camino» de l'incerta et ancipite raggione et affetto designato nel
carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro
et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia
di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che
sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s'of-
freno a tutti quelli che le cercano'^-".
La caccia della «divina sapienza» è innanzitutto un'operazione
che si compie con gli strumenti «dell'intelletto umano» e con la vo-
419. «Alle selve i mastini e i veltri slaccia / il giovan Atteon, quand'il
destino / gli drizz'il dubio et incauto camino. / di boscareccie fiere appo la
traccia. / Ecco tra l'acqui il più bel busto e faccia / che veder poss'il mortai
e divino, / in ostro et alabastro et oro fino / vedde: e '1 gran cacciator doven-
ne caccia. / Il cervio ch'a' più folti / luoghi drizzav'i passi più leggieri, / rat-
to voraro i suoi gran cani e molti. / I' allargo i miei pensieri / ad alta preda,
et essi a me rivolti / morte mi dan con morsi crudi e fieri» (Ibidem, pp. 575-
576)-
420. Ibidem, pp. 576-577.
INTRODUZIONE I37
lontà-*^'. Niente miracoli, prodigi o strane magie. Si tratta di uomini
che affrontano un percorso solitario, difficilissimo, «spinoso», «incul-
to», «deserto». Di uomini rari, eroici, capaci di arrivare solo dove po-
chissimi possono arrivare: è vero. Ma pur sempre protagonisti di una
«venazione» solo ed esclusivamente umana. O meglio: di una «vena-
zione» che proprio per la sua straordinarietà ci eleva a una condizione
«divina», eccezionale, in grado di trasformare l'uomo in un dio. At-
teone compie questo cammino. Ma solo nell'incontro con Diana ri-
flessa nelle acque capisce che ciò che stava cercando è dentro di lui,
che la «divinità» tanto bramata non è al di fuori di chi la cerca:
«Ecco tra l'acqui», cioè nel specchio de le similitudini, nell'opre dove
riluce l'efficacia della boutade e splendor divino [...]; «vede il più bel busto
e faccia», cioè potenza et operazion estema che vedersi possa per abito et
atto di contemplazione et applicazion di mente mortai o divina, d'uomo o
dio alcuno. [...] «Vedde il gran cacciator»: comprese quanto è possibile, e
dovenne caccia: andava per predare e rimase preda, questo cacciator, per
l'operazion de l'intelletto con cui converte le cose apprese in sé"'^^.
Comprendere significa trasformarsi nell'oggetto della «venazione».
Ecco perché Atteone mentre pensa di trovare «estra di sé il bene, la
sapienza, la beltade, la fiera boscareccia» giunto in presenza della dea
si vede «convertito in quel che cercava». In un solo istante, insomma,
si accorge che «de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo ve-
nea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non
era necessario di cercare fuor di sé la divinità» ■'2^. L'incontro con Diana
e il «disquarto» provocato dai cani trasformano in maniera radicale
l'esistenza del mitico cacciatore, che da «uom volgare e comune, dovien
raro et eroico». Proprio nella perdita della vita si configura la nascita a
una nuova vita: «qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen-
suale, cieco e fantastico» e «comincia a vivere intellettualmente»''^"'.
Diana, la «divinità» nella natura infinita
Ma cosa significa la visione di Diana? Che cosa simbolizza la dea
«boscareccia»? Bruno risponde indirettamente a queste domande in
421. Sul topos della caccia nella letteratura si veda ora l'utile rassegna di
Giovanni Bàrberi Squarotti, Selvaggia dilettanza. La caccia nella letteratura
dalle origini a Marino, Venezia, 2000 (le pp. 329-363 sono dedicate al mito di
Atteone).
422. Furori, p. 577.
423. Ibidem, p. 578.
424. Ibidem, p. 579.
138 INTRODUZIONE
un luogo strategico dei Furori: nel primo dialogo della seconda parte,
in una posizione centrale di mise en abyme. Diana viene a coincidere
con «l'ordine di seconde intelligenze che riportano il splendor ricevuto
dalla prima» "'2'. La «dea della contemplazione», insomma, rappresen-
terebbe la natura infinita attraverso cui si manifesta la «divinità» as-
soluta, incarnata nella luce di Apollo-'^'^. E soltanto nell'incontro con
Diana, Atteone scopre che quella «divinità» che è tutto in tutto, che
anima ogni cosa, gli appartiene, è parte di lui e dal di dentro lo vivi-
fica, come dal di dentro vivifica tutto ciò che esiste. Dietro una termi-
nologia impregnata di neoplatonismo, il Nolano assimila di fatto il
mondo intelligibile all'universo infinito''^^.
Ritoma, con parole e immagini diverse, un concetto più volte riba-
dito anche negli altri dialoghi in volgare. L'unica conoscenza possibile
per l'uomo è quella concepita solo e soltanto nell'orizzonte umbratile
della natura. Lo sforzo di Atteone, infatti, si risolve in una visione
straordinaria, concettuale, che permette a un essere finito, attraverso
un percorso eroico, di contemplare per un momento l'infinità dell'uni-
verso:
Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come oggetto inobiet-
tabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare possibile de vedere
il sole, l'universale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccel-
lentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l'universo, la
natura che è nelle cose, la luce che è nell'opacità della materia; cioè quella
in quanto splende nelle tenebre'^^s
Si tratta di insegnamenti che il furioso apprende nel corso della
sua «milizia amorosa», perché «la lezzion principale che gli dona
Amore è che in ombra contemple (quando non puote in specchio) la
divina beltade»'*^^. Atteone e il furioso vivono la stessa esperienza, si
tramutano entrambi nella cosa amata. Anche la fiamma d'Amore, in-
fatti, «converte ne l'amante», poiché «il fuoco [...] è potente a conver-
tere tutti quell'altri semplici e composti in se stesso w-*^".
425. Ibidem, p. 671.
426. Su questo punto cfr. Paul-Henri Michel. Introdudion à Giord.'U>jo
Bruno, Des fureurs héroiques, Paris, Les Belles Lettres, 1984, pp. 61-62.
427. Cfr. Miguel Angel Granada, Introduction à Giordano Bruno, Les
fureurs héroiques cit, pp. CVIII-CIX.
428. Furori, pp. 694-695.
429. Ibidem, p. 558. Tansillo spiega che «in questo stato» è possibile «veder
Dio se non come in ombra e specchio» {Ibidem, p. 564).
430. Ibidem, p. 534. Ma anche Cicada afferma con chiarezza che «lo amore
transforma e converte nella cosa amata» (Ibidem, p. 578).
INTRODUZIONE I39
L'incontro con la «divinità», quindi, provoca sofferenza, fa vivere il
furioso nel tormento continuo di «contrarii affetti «""^^ Il suo vivere
immerso nella molteplicità del divenire gli rende difficile l'accesso alla
visione unitaria della natura infinita, alla visione della umbratile
Diana. Ma proprio quelle passioni contrastanti, a cui fa allusione il
motto «Ut robori robor», che «danno orrore a persone ordinarie e vi-
li »-*^2 non sono avvertite come nocive dal furioso, talmente infiam-
mato dal piacere del suo amore che «non è potente dispiacere alcuno
a distorlo o far cespitare in punto»''^^
Bruno-AUeone e Diana: un percorso autobiografico
Il componimento primario Chi femmi ad alt' amor la mente desta può
essere certamente utile per rileggere l'esperienza del furioso attraverso
il percorso biografico di Bruno. Nelle prime due quartine, sullo sfondo
deir«aura Campana», viene rievocato l'incontro tra il filosofo e Diana:
Chi femmi ad alt'amor la mente desta,
chi fammi ogn'altra diva e vile e vana,
in cui beltad'e la bontà sovrana
unicamente più si manifesta;
quell'è ch'io viddi uscir da la foresta,
cacciatrice di me la mia Diana,
tra belle ninfe su l'aura Campana,
per cui dissi ad Amor «Mi rendo a questa»'"''.
Nel commento, Mariconda spiega che «Diana splendor di specie in-
telligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bellezza e grazia l'ha
ferito prima, e se l'ha legato poi»-*^' L'interpretazione lascia un mar-
gine di ambiguità che, in effetti, è possibile ritrovare in altri luoghi dei
Furori. Qui Bruno sembra essere «preso» dalla dea, che viene presen-
tata attivamente nelle vesti di cacciatrice. Ma questa immagine po-
trebbe alludere alla «passività» del soggetto, in quanto «prescelto»
dalla divinità, o all'istante dell'incontro in cui il soggetto si trasforma
in oggetto? La questione è delicata e tocca uno dei temi importanti
dell'intero dialogo. Lo sguardo dell'amata è conditio sine qua non per
vederla?''"' Oppure traduce simbolicamente il fatto che «veder la divi-
431. Ibidem, p. 628.
432. Ibidem, p. 625.
433. Ibidem, p. 624.
434. Ibidem, p. 683.
435. Ibidem, p. 684.
436. Questa domanda ha suscitato diverse risposte. Ciliberto {Giordano
Bruno cit.), pur negando che il percorso del furioso possa essere frutto di un
140 INTRODUZIONE
nità» e «l'esser vista da quella» sono la stessa cosa?''^^ In altri termini:
il furioso nella sua infinita ricerca si avvale solo dei suoi strumenti
umani, l'intelletto e la volontà, o ha anche bisogno di una «spinta»
esteriore?
Nello stesso componimento. Amore risponde a Bruno, sottoli-
neando che la «visione» di Diana «ottenesti per studio e per sorte »-*^^
In effetti, qui entrano in gioco due componenti: il fervore intellettuale
dell'individuo e la sorte. Ma se intendessimo per sorte una «predesti-
nazione» all'incontro con la «divinità», questo significherebbe inscri-
vere l'esperienza individuale in un «destino» già determinato altrove,
in cui i meriti acquisiti perderebbero il loro peso effettivo. Probabil-
mente, qui Bruno vuole sottolineare che i disegni individuali, nel
complesso corso delle vicissitudini, devono anche fare i conti con una
serie di eventi naturali, difficilmente controllabili dal furioso. La sorte
potrebbe identificarsi con la «fortuna», con l'incognita, con il caso, con
tutti quegli elementi indipendenti dalla volontà umana. La sola deter-
minazione del soggetto non basta. L'esito della quète non può essere
predeterminato soltanto dalle nostre forze.
Non a caso sono rarissimi i veri «Atteoni alli quali sia dato dal
destino di posser contemplar la Diana ignuda »''^'^. Ma, nella prospet-
tiva di Bruno, non è determinante raggiungere l'obiettivo. Nella co-
scienza dell'eccezionalità di questa esperienza eroica, sembra assume-
re più importanza il comportamento da tenere lungo il percorso che
il conseguimento di un reale risultato: «Basta che tutti corrano; as-
donum dei (p. 183), riconosce comunque alla «divinità» la decisione finale, il
«beneplacito» sull'esito della quète (pp. 191-192). A me pare, invece, che nel
rileggere con attenzione il brano dei Furori — se si escludono, come Bruno
stesso dice con chiarezza, gli inconsapevoli «prescelti» dalla «divinità — questo
«beneplacito» finisca per assumere solo una funzione di «sbarramento» per chi
non cerca autenticamente la divinità per se stessa, ma per altri fini: «Non è
differenza quando la divina mente per sua providenza viene a comunicarsi
senza disposizione del suggetto: voglio dire quando si communica, perché ella
cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quando aspetta e vuol essere
cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo
non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano» {Furori, p.
728). Questa specificazione finale, che ho evidenziato in corsivo, farebbe pen-
sare che la «divinità» non frappone ostacoli a chi la cerca, perché essa si vuol
far vedere solo da chi veramente vuole vederla, come del resto testimonia
l'esperienza stessa di Atteone. Perché la «divinità» dovrebbe negarsi a chi au-
tenticamente la cerca? E in base a quale criteri la «divinità» dovrebbe mo-
strarsi ad alcuni e negarsi ad altri? E infine: come si potrebbe conciliare questa
«scelta» della divinità con l'etica bruniana fondata sui «meriti»?
437. Furori, p. 663.
438. Ibidem, p. 683.
439. Ibidem, p. 695.
INTRODUZIONE I4I
sai è ch'ognun faccia il suo possibile; perché l'eroico ingegno si con-
tenta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell'alte imprese,
dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in
cose men nobili e basse »"*'*°. Ciò che conta è l'esercizio della «venazio-
ne», come del resto riconosceva Montaigne in una bellissima pagina
degli Essais.
L'inseguimento e la caccia sono il nostro vero scopo; non abbiamo
scuse se li pratichiamo male e senza la dovuta cura. Fallire proprio al
momento della presa è un'altra cosa. Il fatto è che noi siamo nati per an-
dare in cerca della verità; possederla appartiene a una potenza ben più
grande'''*^
Su queste basi si infrange nei Furori la questione del ruolo giocato
dalla «divinità»: il valore del furioso, il suo eroismo, non si misura
sull'effettiva conquista del «palio» ma, al di là di ogni possibile dibat-
tito sul ruolo del «bene placito» divino, resta evidente che esso si con-
cretizza essenzialmente nella giusta disposizione da tenere lungo il
percorso che compiamo nel tentativo di arrivare al traguardo. Il fu-
rioso lo sa: tanto più ambizioso è l'obiettivo, tanto più difficile ed in-
certo sarà il cammino per poterlo raggiungere. In questa consapevo-
lezza di un incontro «impossibile» con la sapienza infinita, ma conti-
nuamente ricercato, si inscrive la vita del filosofo. La coscienza della
sua «cecità», come l'esempio del nono cieco insegna, lo spinge a «que-
sto studio e pensiero d'investigare, de sorte che non possa mai gionger
più alto che alla cognizione della sua cecità et ignoranza» '•''2. Una cosa
è, quindi, la consapevole ignoranza degli «asini positivi», la «dotta
ignoranza» per dirla in termini cusaniani-'-^\ Un'altra cosa è invece
440. Ibidem, p. 568. In un passaggio della Cena, dove Bruno insiste sulla
priorità del comportamento eroico più che sul risultato da raggiungere, appare
chiara l'identificazione tra «sorte» e «fortuna»: «Giungesi a questo che, quan-
tumque non sia possibile arrivar al termine di guadagnar il palio: correte pure,
e fate il vostro sforzo in una cosa de sì fatta importanza, e resistete sin a l'ul-
timo spirto. Non sol chi vence vien lodato, ma anco chi non muore da codardo
e poltrone: questo rigetta la colpa de la sua perdita e morte in dosso de la sorte,
e mostra al mondo che non per suo difetto, ma per torto di fortuna è gionto a
termine tale. Non solo è degno di onore quell'uno ch'ha meritato il palio: ma
ancor quello e quel altro, ch'ha sì ben corso, ch'è giudicato anco degno e suf-
ficiente de l'aver meritato, ben che non l'abbia vinto» (p. 475).
441. Montaigne, L'arte del confronto. (Essais, III. 8), introduzione di Marc
Fumaroli, traduzione e note di Stefano U. Baldassarri, Napoli, Liguori, 2000,
P-39-
442. Furori, p. 441.
443. Sul particolare uso che Bruno fa di alcuni concetti cusaniani si veda
la bibliografia supra, nota 257.
142 INTRODUZIONE
r«ordinaria ignoranza» degli «asini negativi», che credendo di sapere
abbandonano qualsiasi ricerca del sapere:
e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi in-
sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di
suo non vedere, e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua
cecità; e però son nell'inquisizione, e nelle porte de l'acquisizione della
luce: delle quali son lungamente banditi gli altri •*'♦•'.
U sapiente-dio e il filosofo-non sapiente
Solo alla luce di queste considerazioni è possibile capire il rapporto
che si instaura nei Furori tra il sapiente e il furioso. Mentre il primo
«non si dismette, né si gonfia di spirito» e vive «continente nell'incli-
nazioni e temperato nelle voluptadi» perché «ha tutte le cose mutabili
come cose che non sono» •♦■^5, il secondo invece è continuamente agi-
tato dalle «contrarietadi». Il sapiente possiede la sapienza e non ha
bisogno di cercarla. Il furioso, al contrario, sa di esseme privo e fa di
questa quète la sua ragione di vita. In effetti, lo schema interpretativo
proposto da Bruno sembra rievocare perfettamente il particolare ruolo
del filosofo disegnato da Platone nel suo Simposio. Il filosofo, infatti,
desidera la sapienza proprio perché non la possiede. E non a caso la
sua posizione viene accostata a quella di Amore, che ama la Bellezza
perché ne è privo •^'^^ All'altro estremo, invece, troviamo il sapiente,
444. Furori, p. 508.
445. Ibidem, p. 545. Neir« Argomento» Bruno spiega che «il primo statuto
del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro» (Ibi-
dem, p. 496).
446. «"La cosa sta così. Nessuno degli dèi filosofa né desidera diventare
sapiente - perché lo è già - né chi altri è sapiente filosofa. Neppure gli igno-
ranti, d'altra parte, filosofano né desiderano diventare sapienti, perché proprio
questo ha di grave l'ignoranza, che chi non è né eccellente né intelligente crede
di averne a sufficienza E chi non si considera bisognoso, non desidera ciò di
cui non crede di avere bisogno". "Chi sono allora, Diotima, quelli che filoso-
fano, se non Io sono né i sapienti né gli ignoranti?». "È chiaro anche ad un
bambino ormai, disse, che sono quelli a metà tra questi due e che di essi fa
parte anche Amore. La sapienza, infatti, fa parte delle cose più belle e Amore è
amore del bello, sicché è necessario che Amore sia filosofo e, in quanto filosofo,
sia in mezzo tra il sapiente e l'ignorante. E anche di questo è causa la sua
nascita, perché è di padre sapiente e pieno di risorse, ma di madre priva di
sapienza e di risorse [...]'"»: Platone, Simposio, in Dialoghi filosofici cit. (204 a),
t. II, p. 126. Su questo tema si vedano: Pierre Hadot. La figure du sage dans
l'Antiqtiité greco-latine, in Les sagesses du monde, Colloque interdisciplinaire sous
la direction de Gilbert Gadoffre, Paris, Éditions Universitaires, 1991, pp. 11-12
(ora in P. Hadot, Etudes de philosophie ancienne. Paris, Les Belles Lettres, 1998,
pp. 235-236); Platon. L'amour du savoir, coordonné par Michel Narcy (in parti-
colar modo V Introdudion di Narcy, pp. 7-11); Giovanni Reale, Eros dèmone
INTRODUZIONE I43
assimilato a un dio, in quanto non ha bisogno, come accade agli dèi,
di desiderare ciò che già gli appartiene.
In questa contrapposizione, come Pierre Hadot dimostra in uno
splendido lavoro sulla figura del sapiente nel mondo classico, è possi-
bile ritrovare lo schema di fondo che accomuna, al di là delle diffe-
renti prospettive antropologiche e ideologiche, le posizioni di diverse
scuole filosofiche: i tratti caratteristici del sapiente corrispondono a
quelli di dio e in conseguenza la descrizione di dio coincide perfetta-
mente con l'idea che ciciscuna scuola si è fatta del saggio •^■^^. Proprio
nell'opposizione tra la figura ideale e «trascendente» del sapiente e
quella tutta umana e contraddittoria del filosofo è possibile cogliere la
distanza che separa l'umano dal divino. Il filosofo, come Bruno stesso
sembra suggerire, si colloca al centro tra due estremi: tra il sapiente
appagato e immobile, che vive nella luce al di fuori della dimensione
del tempo e dello spazio, e il non-sapiente che, indotto a credere dalla
sua ignoranza di essere appagato, rinuncia a qualsiasi forma di ricerca.
In entrambe queste figure, per eccesso e per difetto, non c'è tensione
verso la conoscenza. Il non-sapiente filosofo, invece, cosciente della sua
ignoranza e della distanza che lo separa dalla saggezza assoluta, sa che
il suo compito è quello di esercitarsi alla saggezza, di mantenere sempre
vivo l'amore per la sapienza. In questo, sta l'essenza della philo-sophia.
In questa continua tensione, sta il compito del filosofo che, nello sforzo
di emulare il modello ideale del sapiente, cerca eroicamente di far coin-
cidere la Ragione individuale con la Ragione universale.
Il filosofo sa che questa figura infallibile e libera del sapiente, capace
di esercitare a perfezione tutte le attività possibili, non potrà mai concre-
tizzarsi in un essere umano "'''^. Ma, nello stesso tempo, sa anche che senza
il fascino di questo modello ideale sarebbe impossibile per l'uomo eroico
elevarsi alla «perfezione», aspirare a vivere meglio, conquistare quella
libertà interiore, in grado di liberarlo dai capricci del desiderio e dalle
costrizioni della vita sociale e, soprattutto, di aiutarlo ad abbattere le
muraglie dello spazio e del tempo per ridurre l'alterità ad unità.
mediatore. Il gioco delle maschere nel Simposio di Platone, Milano, Rizzoli, 1997,
pp. 162-199.
447. Pierre Hadot, La figure du sage dans l'Antiquité greco-latine cit., p. 12
(p. 238).
448. «Non seulement le sage est infaillible, impeccable, impassible, hereux,
libre, beau, riche, mais il est aussi le seul homme d'État, le seul législateur, le
Seul general, le seul poète, le seul roi. [...] Cette figure ideale du sage, le philosophe
stoicien sait qu'il ne pourrat jamais la réaliser, mais elle exerce sur lui son at-
trait, provoque en lui l'enthousiasme et l'amour, lui fait entendre un appel à
vivre mieux, à prendre conscience de la perfection qu'il s'efforce d'atteindre»:
Pierre Hadot, La figure du sage dans l'Antiquité greco-latine cit., p. 17 (p. 245).
144 INTRODUZIONE
I Furori, in effetti, vogliono descrivere il percorso attraverso cui il
filosofo aspira a superare la sua individualità per cercare r« impossibi-
le» abbraccio concettuale con il cosmo, per dilatare il suo essere finito
nello splendore dell'infinito, per ritrovare l'unione con la natura infi-
nita. Ma questa individuale esperienza deir« indicibile» annulla solo
apparentemente il desiderio per la vita sociale. Il filosofo, pur com-
piendo un percorso tutto solitario, non esclude l'orizzonte etico e poli-
tico. Anzi: nella sua straordinaria esperienza, cerca disperatamente di
tenere assieme ciò che l'uomo comune separa, saldando le esigenze
della vita etica e sociale con quelle individuali della vita contempla-
tiva''''^. La distinzione dei due piani, insomma, è frutto di un'astra-
zione che nella prassi — proprio come accade nel De la causa per la
nozione di «materia» e «forma» - non ha ragione di esistere •"°.
VII.
DAL CANDELAIO AI FURORI:
IL PITTORE, IL FILOSOFO E L'OMBRA
Nei Furori, lo abbiamo visto più volte. Bruno si presenta nelle vesti
di filosofo-pittore. Non solo perché l'opera contiene al suo intemo
un'intera sezione dedicata alle imprese, ma soprattutto perché il pro-
449. «Contrairement à une opinion très répandue et très tenace, le sage an-
tique ne renonce pas à l'action politique. Dans aucune école philosophique de
l'Antiquité, le sage n'abandonne en effet le désir et l'espoir d'exercer une action
sur les autres hommes. [...] Elle [la figure du sage] est l'expression nécessaire de
la tension, de la polarité, de la dualité qui est inhérente à la condition hu-
maine. D'une part, en effet, l'homme a besoin, pour supporter sa condition, de
s'insérer dans le tissu de l'organisation sociale et politique [...]. Mais cette
sphère du quotidien ne le protège pas intièrement: il est confronté de manière
inévitable à ce qu'on pourrait appeler l'indicible, à l'énigme terrifiante de son
étre-là, ici et maintenant, livré à la mort, dans l'immensité du cosmos»: Pier-
re Hadot, La figure du sage dans l'Antiquité greco-latine cit, pp. 23-24 (pp. 253-
254)-
450. Cfr. supra, pp. 80-81. In effetti, anche nei Furori non mancano rifles-
sioni che riguardano la filosofia morale e la politica. Al di là della distinzione
averroistica tra teologia e filosofia (cfr. supra, p. 131), restano interessanti i
brani in cui si parla della naturale varietà delle componenti sociali («Bisogna
che siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, po-
veri, pedanti et altri simili: perché altrimente non potrebono essere filosofi,
contemplativi, coltori degli animi, padroni, capitani, nobili illustri, ricchi, sa-
pienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi», p. 684) e in cui si riconosce un
primato alla poesia civile ed eroica (cfr infra, p. 177). Sulla dialettica dei ceti
nella filosofia di Bruno cfr. Nicola Badaloni, La filosofia di Giordano Bruno,
Firenze, Parenti, 1955, pp. 211-213.
INTRODUZIONE I45
cesso stesso della conoscenza non può fare a meno delle immagini. In
effetti, due interi dialoghi (il quinto della prima pari:e e il primo della
seconda parie, con una coda di una sola impresa nel secondo della
seconda parte) vengono dedicati alla descrizione di ventotto imma-
gini, legate a un «motto» in latino e ad alcuni versi di commento. Non
si capisce bene se gli interlocutori ricavino le informazioni iconografi-
che dalla lettura di un libro, come spesso accade in altre opere bru-
niane, o dall'osservazione diretta, in una speciale pinacoteca, di imma-
gini accompagnate dalle relative « tabelle «""'^ Attraverso questa «mi-
stura mistica di pitture e parole» - come sottolinea Bartolomeo
Amigio, membro autorevole dell'Accademia degli Occulti di Brescia
(1564-1570) - l'impresa si presenta come un «Sileno arteficiale», il cui
significato sta proprio nella dialettica tra Vintus e Vextra"*^^.
Dipingere con le parole: l'uso ^eZZ'ekphrasis
Bruno «dipinge» le imprese, dunque. Con il suo particolare lin-
guaggio, sollecita il lettore a trasformarsi in osservatore. Eleva
451. Sia nel De umbris che nella Cabala, Bruno immagina che il dialogo
prosegua con la lettura di un libro. Per i Furori, Spampanato ipotizza che si
tratti piuttosto di una galleria di immagini (V. Spampanato, Bruno e Nola,
Castrovillari, Patitucci, 1899, p. 69). Ma su questa questione e, più in generale,
sull'uso bruniano delle imprese si veda Patrizia Farinelli, B furioso nel labi-
rinto. Studio su De gli eroici furori di Giordano Bruno cit, pp. 74-87.
452. «Et perché l'Impresa, a mio giudicio, è una mistura mistica di pit-
tura & parole rappresentante in picciolo campo a qualunque huomo di non
ottuso Intelletto qualche recondito senso d'una o di più persone [...]. Et certo
panni convenevole cosa, che qualunque schiera o collegio di Virtuosi, ch'ad
operationi rare di mano o di lingua si disponga, debba ancora con qualche
suo leggiadro segno o simbolo rappresentar'altrui l'Instituto, la Mente, lo
Studio, overo Fin suo. Perilche l'Academia de gli Occulti [...] ha eletto
oltre molti d'usare per corpo d'Impresa l'Imagine di Sileno non naturale;
ma, come si soleva da gli antichi maestrevolmente formare, in guisa,
ch'aprire & chiudere si poteva, perciocché nel voto del corpo suo si riser-
bavano rinchiuso qualche bellissimo Idolo di Dio o di Dea; accio dall'ingiu-
ria dell'aere, della polve, o del luto non si consumasse; ma nella sua intera
perfettione lungo tempo durasse [...]. Sotto'l velo del corpo di questo Sileno
arteficiale ascondiamo l'anima dell'Impresa, ch'è l'intento primo di mantener
la parte nostra migliore nella sua nativa forma & purissima luce, però v'ag-
giungiamo, qual sia il fine nostro sotto'l Ietterai vestimento del Motto, Intus
non extra, cioè, come per entro al Sileno, & non per di fuori miravano gli
antichi; così noi nell'interna & non nellestema forma curiamo di porre ogni
studio»: Rime de gli Academici Occulti con le loro imprese et discorsi, Brescia,
appresso Vincenzo di Sabbio, 1568, ff. 1-2 (cfr anche Ercole Tasso, Della
realtà e perfettione delle Imprese... con l'Essamine di tutte le openioni infino a qui
scritte sopra tal'Arte, Bergamo, per Comino Ventura, 1612, pp. 132-134). Sul
rapporto tra impresa e pensiero si veda Robert Klein, La teoria dell'espres-
sione figurata nei trattati italiani sulle «imprese» (1555-1612), in Io., La forma e
146 INTRODUZIONE
Vekphrasis a figura dominante nella sua concezione della letteratura ■*5^.
Sa che la scrittura non può essere indifferente alla conoscenza dell'og-
getto che descrive. Ma innanzitutto - e questo mi sembra un punto
decisivo - fa dell'immagine stessa un elemento essenziale della sua
teoria della conoscenza. Nel corso dei Furori, infatti, le metafore del
«simulacro», dello «specchio», del «vestigio», dell'» ombra» esprimono
l'impossibilità per l'uomo ad avere un accesso diretto alle «idee», alla
conoscenza suprema ed assoluta, che può essere colta solo nel riflesso
delle cose naturali, nell'immagine di Diana, nell'universo infinito:
perché veggiamo non gli effetti veramente, e le vere specie de le cose, o
la sustanza de le idee, ma le ombre, i vestigli e simulacri de quelle, come
color che son dentro l'antro et hanno da natività le spalli volte da l'en-
trata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedono quel che è
veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l'antro sustanzialmente si
trova'*''*.
Non si tratta di temi che Bruno affronta per la prima volta nei
Furori. Già a Parigi, in contesti legati alla mnemotecnica, questi deli-
cati concetti costituivano il nucleo centrale di opere come il De umbris
idearum e il Cantus circaeus^'^^ . Né si pensi che la ripresa del celebre
mito platonico della caverna possa essere considerata come fonte
esclusiva della teoria bruniana della conoscenza.
La questione è complessa e, certamente, non può essere affrontata
in questo contesto. Resta indiscutibile, però, la funzione dell'immagine
l'intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l'arte moderna, Torino, Einaudi, 1975,
pp. 1 19-149. Per le relazioni tra imprese e poesia si veda da ultimo A. Mag-
gi, Identità e impresa rinascimentale, Ravenna, Longo, 1998.
453. Sui rapporti tra letteratura e arti si vedano i saggi raccolti in La litté-
rature et les arts figurés de VAntiquité à nos joiirs, Actes du XIV congrès de
l'Association Guillaume Bude (Limoges, 25-28 aoùt 1998), Paris, Les Belles Let-
tres. SnW ekphrasis cfr. V Introduzione di Sonia Maffei a Luciano di Samosata.
Descrizioni di opere d'arte, a cura di Sonia Maffei, Torino, Einaudi, 1994, pp.
XV-LXXI (cfr. anche David Rosand, Ekphrasis and the Renaissance of Painting
Observations on Alberti's Third Book, in Florilegium Columbianum. Essays in Ho-
nor of Paul Oskar Kristeller, ed. by Karl L. Selig and Robert Somerville, New
York, Italica Press, 1987, pp. 147-163).
454. Furori p. 732-
455. Sulla mnemotecnica bruniana e sulla nozione di «ombra» si vedano
gli eccellenti lavori di Rita Sturlese: Introduzione a Giordano Bruno, De
umbris idearum, cit; Per un'interpretazione del De umbris idearum di Giordano
Bruno cit Importante il recente saggio di Nicola Badaloni, B, De umbris
idearum come discorso sul metodo cit Sul duplice significato di graphein (scrive-
re e dipingere) in relazione al dibattito sulla memoria si veda l'ottimo contri-
buto di Jacques Jouanna, Graphein. Écrire et peindre: contribution à l'histoire
de l'imaginaire de la mémoire en Grece ancienne, in La littérature et les arts figurés
de VAntiquité à nos jours cit., pp. 55-70).
INTRODUZIONE I47
(verbale e visiva) come elemento di mediazione, come strumento per
rendere visibile l'invisibile, sia su un piano specificamente iconogra-
fico sia su un piano puramente linguistico-*'''^. Proprio a partire da que-
sto nodo centrale della «nolana filosofia» sarà utile interrogarsi retro-
spettivamente sul rapporto che si instaura tra filosofia e pittura. Nella
sezione dedicata al Candelaio ci siamo già soffermati sull'uso metafo-
rico che Bruno fa del lessico pittorico in diversi luoghi dei dialoghi
italiani "*5^. E abbiamo avuto modo di constatare come questi brani si
prestino perfettamente a descrivere per «immagini» la particolare con-
cezione del genere dialogo o la tecnica di indagine usata dall'autore.
Ma l'analisi non può limitarsi a riflessioni di natura generale. Né questa
relazione può essere interpretata come un dovuto omaggio alla moda
dell'M/ pictura poesis-*^^. Non è possibile considerare come un fatto ca-
suale che Bruno apra a Parigi la serie delle opere italiane nelle vesti di
pittore-filosofo, come testimonia Gioan Bernardo nel Candelaio, e suc-
cessivamente la chiuda a Londra, con i Furori, nel ruolo di filosofo-
pittore. Ma cosa hanno veramente in comune il filosofo e il pittore?
n mito delle origini della pittura
Una risposta potrebbe venire dal mito delle origini della pittura.
Plinio, infatti, nel trentacinquesimo libro della sua Naturalis historia
fa allusione alle oscure circostanze in cui sarebbe nata questa nuova
arte. Alla discordanza delle fonti sul luogo dell'evento e sulla paternità
dell'invenzione, lo storico oppone, invece, un consenso generale sulla
tecnica che avrebbe dato luogo alla prima pittura: «omnes umbra ho-
minis lineis circumducta»'*'^. In effetti, l'atto fondatore sarebbe consi-
456. Il ruolo del pittore e del poeta è anche quello di «fingere»: dare forma
all'informe, imitare, ma anche «former des images mentales»: cfr. Anne-Ma-
rie Lecoq, «Finxit». Le peintre camme «fictor» ati XVF siècle, in «Bibliothèque
d'Humanisme et de Renaissance», XXXVII (1975), pp. 225-243 (p. 229 per la
citazione).
457. Cfr. supra, pp. 66-67.
458. Sulla diffusione di questo tema nel Rinascimento si veda R. W. Lee,
Ut pictura poesis, Firenze, Sansoni, 1974.
459. «tutti comunque concordano che [la pittura] nacque dall'uso di trac-
ciare con delle linee il contomo dell'ombra umana»: Plinio, Storia naturale. V.
Mineralogia e storia dell'arte (Libri 33-37), edizione diretta da Gian Biagio Conte,
traduzioni e note di Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Giampiero Rosati, To-
rino, Einaudi, 1988 (XXXV, 5, 15), pp. 306-307. Questo paragrafo sul mito della
pittura deve moltissimo alla lettura dell'appassionante libro di Victor Stoi-
CHITA, Breve storia dell'ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Milano, Il
Saggiatore, 2000, di cui mi sono servito trascurando una serie di questioni di
fondo che non rientravano nell'orizzonte specifico dell'analisi qui proposta.
148 INTRODUZIONE
stito nel contornare, con linee, l'ombra di un corpo umano. Si tratta di
un mito che, come vedremo, non sarà ignorato nel Rinascimento. Re-
sta interessante per noi sapere che questa arte non trova le sue origini
nella diretta osservazione del modello, in questo caso il corpo umano,
ma nella riproduzione della proiezione del modello, cioè nella sua
ombra.
A questo mito fa riferimento anche Quintiliano, néìV Institutio ora-
toria, in un contesto strettamente legato alla teoria dell'imitazione. Qui
il retore, nel condannare la concezione deìVimitatio come mera ripro-
duzione passiva di un modello, si chiede quale destino avrebbe avuto
la pittura se i pittori si fossero limitati a tracciare meccanicamente il
contomo dell'ombra proiettata dai corpi esposti al sole (« non esset pie-
tura, nisi quae lineas modo extremas umbrae quam corpora in sole
fecissent circumscriberet»)'^'^"°.
Plinio e Quintiliano, da punti di vista diversi, assegnano al contor-
namento dell'ombra la funzione di base da cui il pittore parte per ela-
borare il suo prodotto. In entrambi, implicitamente, l'ombra viene
identificata non direttamente con il corpo, ma come immagine del
corpo, come proiezione del modello.
Ma l'ombra, come abbiamo già visto nell'ultima citazione bru-
niana, sta anche alla base di un altro mito importantissimo: quello
della caverna, elaborato da Platone nella Repubblica (5i4a-5i5c). Si
tratta di pagine celebri che hanno scatenato diverse interpretazioni-"''.
Alla cui base però resta fermo un principio: nel processo gnoseologico
la vista e le immagini giocano un ruolo di primo piano'*''^. Anche qui
«conoscere» significa «vedere». E per conoscere e vedere, i prigionieri
nell'oscura caverna devono intraprendere un percorso faticoso, incar-
nato simbolicamente nelle catene da cui bisogna liberarsi per capire
che le ombre proiettate non sono le cose in sé, ma un simulacro di-
storto di quelle cose. Poco più avanti, Platone mette in relazione la
riproduzione apparente di oggetti, come accade nell'immagine riflessa
in uno specchio, e l'attività del pittore: in entrambe le situazioni
460. «non avremmo altra pittura, se non quella che ritrae i contomi delle
ombre degli oggetti esposti al sole»: Marco Fabio Quintiliano, LHstituzione
oratoria, a cura di Rino Faranda e Piero Pecchiura, Torino, Utet, 1979, t. II (X,
2, 7), pp. 446-447-
461. Sull'uso dei miti nei dialoghi di Platone si veda Geneviève Droz,
Les mythes platoniciens, Paris, Éditions du Seuil, 1992 (sul mito della caverna
pp. 88-102).
462. Victor Stoichita, Breve storia dell'ombra. Dalle origini della pittura
alla Pop Art cit., p. 23.
INTRODUZIONE 149
avremo pura apparenza, avremo non la cosa in sé, ma un'immagine
«riflessa» di quella cosa-*".
Ora, come ha mostrato Victor Stoichita, non può essere certamente
sottovalutato il fatto che il mito dell'origine della pittura (Plinio) e il
mito dell'origine della conoscenza (Platone) abbiano in comune la no-
zione di ombra ■^^. In effetti, indipendentemente dal diverso significato
dei due miti e dalla diversa concezione dell'ombra, non può essere tra-
scurata sul piano ermeneutico questa straordinaria analogia che fa
coincidere l'essenza della pittura e della conoscenza nella necessità di
superare la soglia dell'ombra""^'. In entrambi i domini, il filosofo e il
pittore lavorano sulle ombre, costruiscono i loro prodotti a partire
dalle ombre.
463. «- [...] se vuoi prendere uno specchio e portarlo in giro da per tutto: in
men che non si dica subito farai il sole e tutto che sia nel cielo, la terra, te
stesso, gli altri esseri viventi, mobili, piante, tutti gli oggetti di cui sopra ab-
biamo parlato. - È vero - esclamò - Ma soltanto oggetti apparenti che tutta-
via non hanno in sé alcuna realtà. - Bene - affermai —, quel che dici calza
esattamente con il nostro argomento: che fra questi artefici io penso vi sia
anche il pittore, non è vero? — Come no? - Credo però che tu dirai non esser
cose vere quelle che fa il pittore. Ad ogni modo anch'egli, in un certo senso, fa
un letto, non ti pare? - Sì - rispose -, anche lui un letto in apparenza»: Pla-
tone, La Repubblica, in Dialoghi politici e lettere, a cura di Francesco Adomo,
Torino, Utet, 1970, t. I (5966), p. 622. Ma Platone in altri luoghi distingue tra
«ombra» e «specchio» sul piano della mimesi (cfr. V. Stoichita, Breve storia
dell'ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art cit, pp. 25-29). Per un'analisi
del topos dello specchio, anche in relazione al mito di Narciso, si veda Andrea
Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica,
Milano, Feltrinelli, 1991 (sulla concezione del «miroir» nell'antichità cfr. Bi-
nar Mar Jónson, Le miroir. Naissance d'un genre littéraire, Paris, I^s Belles
Lettres, 1995, pp. 21-61). In maniera del tutto generica, Platone {Repubblica,
50ib) accosta il lavoro del filosofo che «disegna» il nuovo Stato a quello del
pittore intento a ritoccare il suo quadro (cfr Jacques Jouanna, Graphein.
Écrire et peindre: contribution à Vhistoire de Vimaginaire de la mémoire en Grece
ancienne, in La littérature et les arts figurés de l'Antiquité à nos jours cit, p. 63).
464. «Il mito pliniano e il mito platonico sono racconti paralleli senza rap-
porti sul piano tematico, ma tra i quali è possibile stabilirne a livello ermeneu-
tico. Se non sono mai stati studiati/interpretati insieme, ciò è dovuto al carat-
tere rischioso dell'iniziativa; in effetti, Plinio e Platone parlano di cose tra loro
diverse e ne parlano in contesti diversi. Parecchi sono tuttavia gli elementi che
giustificano lo stabilirsi di correlazioni tra questi due testi: prima di tutto si
tratta di due miti sulle origini (origine dell'arte in Plinio, della conoscenza in
Platone); in secondo luogo il mito degli inizi della rappresentazione artistica e
quello della rappresentazione cognitiva si incentrano su di uno stesso motivo:
la proiezione; per finire, questa proiezione originaria è una macchia in nega-
tivo, è un'ombra»: V. Stoichita, Breve storia dell'ombra. Dalle origini della pit-
tura alla Pop Art cit, p. io.
465. Ibidem. Va detto però che Stoichita non presta molta attenzione al
fatto che per Platone l'ombra assume soprattutto una connotazione negativa
(cfr. infra, p. 154).
150 INTRODUZIONE
Alberti, Vasari e l'ombra di Narciso
Ritornerò più avanti su questo punto. Adesso mi sembra impor-
tante ricordare che il mito raccontato da Plinio subisce nel Quattro-
cento una modificazione significativa. Leon Battista Alberti, nel suo
De pictura, accenna brevemente alle origini di quest'arte, riscrivendo
l'immagine evocata dalle due fonti latine:
Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de' poeti, quel
Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; che già ove
sia la pittura fiore d'ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a pro-
posito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abbracciare con
arte quella ivi superficie del fonte? Diceva Quintiliano ch'e' pittori antichi
solcano circonscrivere l'ombre al sole, e così indi poi si trovò questa arte
cresciuta ■'6^.
Qui Alberti intreccia il motivo dell'ombra, ricorrente in Plinio e in
Quintiliano ■'''^, con il mito di Narciso che contempla la sua immagine
in una fonte''^^. L'originale commistione fissa la nascita della pittura
in un atto erotico che si riflette sul soggetto. Narciso, infatti, si inna-
mora, senza saperlo, della sua ombra proiettata nell'acqua. Ma nello
stesso tempo questa esperienza d'amore finisce anche per segnare il
destino dell'arte del dipingere: proprio in quel rispecchiarsi del sé si in-
scrive il valore illusorio della pittura, delle immagini che essa produ-
ce. L'atto fondatore, per Alberti, coincide con un gesto simbolico ben
preciso, con il disperato tentativo di «abbracciare con arte quella [...]
superficie del fonte». Narciso e il pittore, come ha dimostrato Giuseppe
466. «Quae cum ita sint, consuevi Inter familiares dicere picturae invento-
rem fuisse, poetarum sententia, Narcissum illum qui sit in florem versus, nam
cum sit omnium artium flos pictura, tum de Narcisso omnis fabula pulchre ad
rem ipsam perapta erit Quid est enim aliud pingere quam artem superficiem
illam fontis amplecti? Censebat Quintilianus priscos pictores solitos umbras ad
solem circumscribere, demum additamentis artem excrevisse»: Leon Battista
Alberti, De pictura, in Opere volgari, voi. Ili, a cura di Cecil Grayson, Bari,
Laterza, 1973, pp. 46-47.
467. Plinio viene ricordato da Alberti, sempre nel De pictura, subito dopo il
brano dedicato a Narciso: «Ma qui non molto si richiede sapere quali prima
fussero inventori dell'arte o pittori, poi che non come Plinio recitiamo storie,
ma di nuovo fabrichiamo un'arte di pittura [...]» [«Sed non multum interest
aut primos pictores aut picturae inventores tenuisse, quando quidem non hi-
storiam picturae ut Plinius sed artem novissime recenseamus (...)»]: Ibidem.
468. Non può essere considerato certo un caso che Filarete annoveri anche
Narciso tra i pittori: «Narcisso gli era ancora, il quale la storia sua aveva di-
pinta poi come quando si convertì in fiore» (Antonio Averlino detto il Fila-
rete, Trattato di Architettura, testo e cura di Anna Maria Pinoli e Liliana
Grassi, introduzione e note di Liliana Grassi, Milano, il Polifilo, 1972, t 2,
p. 581).
INTRODUZIONE I5I
Barbieri, si misurano con i « riverberi »-^^''. La loro esperienza conosci-
tiva si svolge all'interno di un perimetro «drasticamente limitato alle
apparenze sensibili, a quella illusoria verità che si rivela in superfi-
cie»-^''^. La pittura, proprio come attesta la vicenda vissuta dal suo mi-
tico fondatore, si muove solo in un orizzonte dominato dagli accidenti,
dalle apparenze, dalle mutazioni. Lo sforzo di Narciso di afferrare la
sua immagine e quello dell'artista di stringere una realtà sfuggente
fanno dell'impossibile «abbraccio» l'essenza stessa di chi lavora con le
ombre ''^'. Ma su questi temi ritornerò più avanti.
Adesso mi preme sottolineare che il nuovo modello albertiano sem-
bra coincidere simbolicamente con l'interpretazione che Vasari ci offre
del mito delle origini della pittura: l'artista in due affreschi, dipinti
rispettivamente nella sua casa di Arezzo nel 1548 e in quella di Fi-
renze intomo al 1570, disegna infatti un pittore che contoma la sua
ombra proiettata sul muro (fig. i)-'^^. La «riscrittura» vasariana pro-
pone un modello alternativo rispetto a quello offerto da Plinio: mentre
in quest'ultimo, come testimonia uno stupendo quadro di Murillo con-
servato a Bucarest (fig. 2)"^"^, contornare l'ombra significa circoscrivere
469. Cfr. Giuseppe Barbieri, L'inventore della pittura. Leon Battista Alberti e
il mito della pittura, introduzione di Giancarlo Sciolla, Vicenza, Terra Ferma,
2000, pp. 145-159.
470. Ibidem, p. 154. Barbieri mostra in maniera persuasiva che nel De pie-
tura l'uso insistito del termine «superficie» in diversi contesti del trattato au-
torizza una piena identificazione di questo concetto con quello di «pittura».
471. Ibidem, pp. 168-169. Al tema dell'ombra. Barbieri dedica un intero ca-
pitolo: Umbra. Narciso dopo Ovidio (pp. 1 17-140).
472. «Ma, secondo che scrive Plinio, questa arte venne in Egitto da Gige
lidio, il quale, essendo al fuoco e l'ombra di se medesimo riguardando, subito
con un carbone in mano contornò se stesso nel muro; e da quella età per un
tempo le sole linee si costumò mettere in opera senza corpi di colore, sì come
afferma il medesimo Plinio»: Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti architetti,
pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri (Edizione per i tipi
di Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550), a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi,
presentazione di Luciano Previtali, Torino, Einaudi, 1986, p. 91. Bisogna ricor-
dare che Vasari, leggendo male il testo di Plinio, attribuisce erroneamente a
Gige di Lidia, inventore del gioco della palla, l'origine della pittura: «[...] pilam
lusoriam Gyges Lydus [instituit); picturam Aegyptii [...]» |«Gige di Lidia [fon-
dò] il gioco della palla; la pittura ebbe origine in Egitto [...]»]: Plinio, Storia
naturale. II. Antropologia e zoologia (Libri j-ii). traduzioni e note di Alberto
Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone, Giuliano Ranucci, Torino, Ei-
naudi, 1983, v. II (VII, 205), pp. 126-127. Sulla datazione dei due affreschi di-
pinti da Vasari nelle sue case di Arezzo e di Firenze cfr Pierre Georgel-
Anne Marie Lecoq, La Pittura nella pittura. Milano, Mondadori, 1987, p. 100.
473. Una bellissima riproduzione del quadro (1660-1665) — conosciuto con
vari titoli: Arte della pittura. L'origine della pittura. Il quadro delle ombre - è nel
catalogo Maestra Picturii Europene. Secolele XV-XVII. Muzeul National de Artà
al Romàniei, Milano, Electa, 1998, pp. 78-79 (cfr V. Stoichita, Breve storia
dell'ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art cit, pp. 42-44). per Plinio e
l'aneddoto di Butade, cfr. infra nota 598.
152 INTRODUZIONE
la proiezione dell'altro, in Vasari, al contrario, riprodurre l'ombra si-
gnifica riprodurre l'immagine della propria ombra. Nel primo caso il
pittore e il modello sono due persone diverse (Plinio). Nel secondo caso,
invece, soggetto e oggetto della riproduzione vengono a coincidere nel-
la figura dell'artista: Vasari incorpora «lo stadio dell'ombra in quello
dello specchio», proponendo una rappresentazione frontale del sé-*^-*.
Ora, indipendentemente dalle due interpretazioni del mito, tra Cin-
que e Seicento la questione delle origini della pittura non viene igno-
rata né sul piano teorico, né su quello specificamente iconografico. Al
centro, resta sempre il tema del «contornamento» dell'ombra. Nella
trattatistica sulle arti, tanto per offrire qualche significativo esempio,
il mito viene rievocato da Leonardo da Vinci nel Trattato della Pittura
(«La prima pittura fu sol di una linea, la quale circondava l'ombra
dell'uomo fatta dal sole ne' muri»)-*^^ (j^ Filarete nel Trattato di Archi-
tettura («Eragli ancora quello che Quintiliano dice che ritraeva da
l'ombra del sole le figure, e poi si venne assottigliando a poco a poco
l'arte »)•*'^ da Anton Francesco Doni nel Disegno («Ma se gl'ha a ri-
guardare donde le derivano, non so come l'andrà, perché la pittura
venne da l'ombra e la scoltura da gl'idoli »)-^^^, da Paolo Pino nel suo
Dialogo di pittura («Ma sia come si voglia, tutti sono conformi nel
modo dell'invenzione, affirmando che tal arte ebbe origine dall'ombra
dell'uomo »)^^^, da Giovanni Andrea Gillo nel dialogo Degli errori e de-
gli abusi de' pittori («Tutti però s'accordano che da l'ombra de l'uomo
origine avesse, la quale fu in quei principii grossamente circoscrit-
ta w)-^^*^, da Giovanni Paolo Lomazzo nel Libro dei sogni («La prima pit-
tura di altro che di linee fatta non era, secundo il principio suo, che
474. Sulla riscrittura vasariana del mito, anche in relazione al modello di
Alberti, cfr. V. Stoichita, Breve storia dell'ombra. Dalle origini della pittura alla
Pop Art cit, pp. 38-39.
475. Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura cit (§ 126), p. 58. Una
buona sezione della quinta parte del trattato è dedicata al tema dell'ombra.
476. Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato di Architettura cit, L 2,
p. 581.
477. Anton Francesco Doni, Disegno [Venezia 1549], in Scritti d'Arte del
Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Milano, Ricciardi, 1971-1977, t. I, p. 564.
Qui l'allusione di Doni cdìafabida delle origini della pittura è certamente ironica,
478. Paolo Pino, Dialogo di pittura [Venezia 1548I, in Trattati d'arte del
Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di Paola Barocchi, Bari, La-
terza, i960- 1962, t I, p. 123.
479. Giovanni Andrea Gilio, De^i errori e degli abusi de' pittori circa l'isto-
rie [Camerino 1564], in Trattati d'arte del Cinquecento fra Manierismo e Contro-
riforma cii, t II, p. 12. Dei dialoghi del Gilio esiste anche una ristampa ana-
statica: G. A. Gilio, Due dialogi, introduzione di Paola Barocchi, Firenze,
S.P.E.S., 1986.
INTRODUZIONE I53
COSÌ del dintorno a l'ombra di l'uomo naque»)'*^°, da Giovati Battista
Armellini nel De' veri precetti della pittura («Egli è opinione comune
[...] che la pittura si trovasse da gli Eggizzii e che la sua origine si
sia cavata dall'ombra dell'uomo»)'*^', da Raffaello Borghini ne U
Riposo («Del principio della pittura varie sono l'opinioni; [...] ma
tutti s'accordano, che circondando l'ombra dell'huomo con una sol
linea primieramente si facesse, e poi aggiungendovi un sol colore, e
ponendovi più diligenza»)''^^ g ^a Antonio Possevino nella Tractatio
de Poèsi et Pictura («[...] nam cum picturam primum inventam tra-
didisset hominis umbra circumducta, deinde ostendisset umbram
fuisse coloribus inductam, ac post modum linearum sine coloribus,
addidit [...]»)^**'. Mentre, in un ambito legato alle immagini, abbiamo
le testimonianze di Laurentius Haechtanus (fig. 3) — che nel suo
Mikrokosmos (i579)''*'^ inserisce una silografia intitolata Inventar pic-
turae, poi ripresa nel Gundel Winckel di Joost van den Vondel'^^^ _
e di un capolettera, conservato in un volume di Joachim von San-
drart della Deutsche Akademie di Norimberga (1675), in cui è dise-
480. Giovanni Paolo Lomazzo, Libro dei sogni [1563?], in Scritti sulle arti,
a cura di Roberto Paolo Ciardi, Firenze, Marchi & Bertolli, 1973, t. I, p. 88.
481. GiovAN Battista Armenini, De' veri precetti della pittura [Ravenna
1586], edizione a cura di Marina Gorreri, prefazione di Enrico Castelnuovo,
Torino, Einaudi, 1988, p. 57. Poco più avanti, l' Armenini aggiunge: «Ma se-
condo Plinio fu l'inventore Gige Lidio d'Egitto, il quale dice che, essendo al
fuoco e risguardando la sua ombra, tolse un carbone e contornò se stesso»
{Ibidem).
482. Raffaello Borghini, Il Riposo, Fiorenza, Appresso Giorgio Mare-
scotti, 1584, p. 266 (rist. anastatica a cura di Mario Rosei, Milano, Edizioni
Labor, 1967).
483. «Infatti, dopo aver detto che la pittura fu scoperta per la prima volta
contornando l'ombra di un uomo, e che poi la pittura era stata un'ombra co-
perta di colori ed anche fatta di sole linee senza colori, ha aggiunto [...]»: An-
tonio Possevino, Tractatio de Paesi et Pictura ethnica, humana et fabulosa col-
lata cum vera, honesta et sacra [Lugduni, 1595], in Scritti d'Arte del Cinquecento
cit, voi. I, p. 42.
484. Laurentius Haechtanus [Laurens van Haecht Goidtsenhoven],
Mikrokosmos. Parvus mundus, Antwerp, apud Gerardum de lode, 1579, em-
blema 72 (su questo testo cfr. Judith Dundas, Emblems on the Art of Painting:
Pictura and Purpose, in «Glcisgow Emblem Studies», Nine Essays edited by
Alison Adams, voi. i, 1996, pp. 76-77). Una ristampa di questa raccolta viene
pubblicata sempre ad Anversa proprio nel 1584. L'emblema raffigura un pa-
store intento a contornare con un bastone l'ombra proiettata da una pecora. È
interessante notare che la riproduzione «al naturale» della pecora ricorda
l'aneddoto, raccontato da Vasari nella vita di Giotto, in cui Cimabue scopre le
doti dell'inconsapevole giovane pittore proprio mentre questi ritrae il quadru-
pede con un sasso appuntito su una lastra (cfr. G. Vasari, Le vite de' più. eccel-
lenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri cit.,
p. 118).
485. Joost van den Vondel, Die vernieuwde gunden winckel kunstliebende
Nederlanders..., Amstelredam, Dirck Pietersz, 1622, emblema 71.
154 INTRODUZIONE
gnato un pittore nell'atto di circoscrivere la sua ombra proiettata su
un muro (fig. 4)"'*^.
Filosofo e pittore: il «superamento» dell'ombra
Adesso, su un piano strettamente simbolico, non è difficile capire
cosa possano avere in comune il filosofo e il pittore"**'. Entrambi lavo-
rano con le ombre^^, fabbricano immagini a partire da proiezioni, si
misurano continuamente con una realtà costruita sul complesso rap-
porto tra sostanza e apparenza. Del resto, è Bruno stesso a riconoscere
che i pittori nella fase iniziale si limitano a «imbozzar certi occolti e
confusi delineamenti et ombre »"**^. Pittore e filosofo — e questo mi
sembra il dato più significativo - si sforzano insomma di «superare»
lo stadio dell'ombra per svolgere la loro professione ai livelli più alti.
Ma questo «superamento» non implica una svalutazione del potere
conoscitivo dell'ombra, come accade nel mito evocato da Platone'*''*^:
486. JOACHIM VON Sandrart, Uacodemia tedesca della architettura, scultura
e pittura, oder Teutsche Akademie.... Niimberg. J. Von Sandrart 1675, p. i. Sem-
pre all'interno dello stesso in-folio c'è una seconda parte che contiene due
incisioni di fronte alla p. 2, legate alla descrizione del mito delle origini
della pittura: nella prima c'è un pastore che contoma con un bastone l'ombra
proiettata dal suo corpo e nella seconda si vede la figlia di Butade contornare
l'ombra dell'amato proiettata su un muro. Su queste due irtimagini rinviamo a;
V. Stoichit.a, Breve storia dell'ombra cit, pp. 116-119; Édouard Pommier,
Théories du portrait. De la Renaissance aux Lumières, Paris, Gallimard, 1998,
pp. 21-23.
487. Leonardo da Vinci, da altri punti di vista, allude più volte ai rapporti
tra pittura e filosofia; «La pittura si estende nelle superficie, colori e figure di
qualunque cosa creata dalla natura, e la filosofia penetra dentro ai medesimi
corpi, considerando in quelli le loro proprie virtù, ma non rimane satisfatta
con quella verità che fa il pittore che abbraccia in sé la prima verità di tali
corpi, perché l'occhio meno si inganna» (Leonardo d.a Vinci, Trattato della
Pittura, prefazione di Marco Tabarrini. Roma, Unione Cooperativa Editrice,
1890, p. 6). Poco più avanti. Leonardo dedica un paragrafo al tema «Come chi
sprezza la pittura non ama la filosofia, né la natura», ricordando che tutte le
forme sono composte «di ombra e lume» {Ibidem, p. 7).
488. «Hic hominum mores picturae gratia scribit / Sic operi proprio scriptu-
ra fideliter baerei / Ut res pietà minus a vero deviet esse. / 0 nova picturae mi-
racula, transit ad esse / Quod nihil esse potesti picturaque simia veri, / Arte nova
ludens. in res umbracula rerum / Vertit et in verum mendacia singula mutat
[...]»: Alanus de Insulis, Anticlaudianus [\. L cap. IV]. in Patrologiae cursus com-
pletus. Lutetiae. J.-P. Migne. 1885, t CCX, e. 491. Sul legame pittura-ombra e
pittura-scrittura cfr. Giuseppe Barbieri, L'inventore della pittura. Leon Battista
Alberti e il mito di Narciso cit, pp. 211-212 (ma si veda anche Rosario Assunto,
La critica d'arte nel pensiero medievale, Milano, il Saggiatore. 1961, p. 151).
489. Spaccio, p. 179.
490. Sulla concezione negativa dell'ombra nella filosofia di Platone cfr.
Roberto Casati, La scoperta dell'ombra. Da Platone a Galileo la storia di un
enigma che ha affascinato le grandi menti dell'umanità. Milano. Mondadori, 2001.
INTRODUZIONE I55
dall'ombra bisogna comunque partire per conoscere il mondo'^'^'.
Senza l'ombra, non sarebbe possibile risalire alla consistenza materiale
delle cose''^^. Il Nolano, l'ho ricordato più volte, apre la serie delle
opere italiane nelle vesti di pittore-filosofo e la chiude presentandosi
come un filosofo-pittore. Non si tratta di una banale casualità. Anzi, al
contrario, questa convergenza si configura come un'ulteriore spia del-
l'unità strutturale che lega le sette opere italiane.
Candelaio e Furori, con linguaggi diversi, insistono sull'importanza
del «vedere». Costituiscono l'inizio e la fine di un percorso circolare, in
cui l'autore, compiendo per tappe il suo viaggio nell'universo infinito,
cerca di dipingere con gli occhi della mente ciò che pochi erano riu-
sciti a percepire. In questo consiste la filosofia-pittura di Bruno: ren-
dere visibile l'invisibile, spezzando le catene di una Weltanschauung
chiusa e limitata. Tra l'altro, a pensarci bene, i «colori» caratteristici
del ritratto del furioso disegnato nei Furori («Quindi il corpo è maci-
lento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue, copia di malanco-
lici umori »)■''='' sembrano coincidere perfettamente con l'autoritratto
che l'autore ci aveva già offerto nel Candelaio'^'^'^ .
Ma Candelaio e Furori — mi sia consentita questa ipotesi — potreb-
bero anche prestarsi a una «riscrittura» in chiave filosofica dei due
modelli del mito delle origini della pittura: descrizione dell'a/iro nella
Casati ha il merito di mostrare come la nozione di ombra abbia giocato
un ruolo positivo anche nel corso della storia della scienza, soprattutto nel-
l'ambito dell'astronomia (pp. 67-135).
491. Per il neoplatonismo, l'ombra riflessa nello specchio consente a coloro
che non si lasciano ingannare come Narciso di risalire dal menzognero «rifles-
so» alle cose reali: cfr. Einar Mar Jónson, Le miroir. Naissance d'un genre lit-
téraire cit., pp. 98-99.
492. Non a caso nel celebre racconto di Adalbert von Chamisso {Meraviglio-
sa storia di Peter Schlemihl, 1814), il protagonista scopre l'importanza della sua
ombra subito dopo averla venduta al diavolo: il suo corpo, senza la proiezione
dell'ombra, finisce per non avere più posto nella realtà. Su questo tema, anche
in relazione alla concezione negativa dell'ombra in Platone, si veda Ernst
GoMBRiCH, Ombre, Torino, Einaudi. 1996, pp. 13-16.
493. Furori, p. 628. In questo brano non è diffìcile ritrovare l'eco delle teo-
rie ficiniane: «L'animo dello amante è rapito inverso la immagine dello amato,
che è nella fantasia scolpita: e inverso la persona amata. Inverso questa sono
tirati ancora gli spiriti, e volando quivi continuamente si consumano [...]. Di
qui il corpo si secca e impallidisce: di qui gli amanti divengono malinconici
perché l'umore malinconico si moltiplica per il sangue secco, grosso e nero. E
questo umore con i suoi vapori riempie il capo, dissecca il cervello, e non resta
dì e notte di affliggere l'Anima di immagini nere e spaventevoli» (Marsilio
Pigino, Sopra lo Amore, ovvero Convito di Platone, a cura e con uno scritto di
Giuseppe Renzi, Milano, ES, 1992 |VI, IX|, p. 105; ma del testo latino si veda
ora la nuova edizione curata da Pierre Laurens: Marsile Ficin, Commentaire
sur le Banquet de Platon, par Pierre Laurens, Paris, Les Belles Lettres, 2002).
494. Cfr supra, p. 38.
156 INTRODUZIONE
commedia, proiezione del sé nel dialogo. In effetti, l'esperienza di Nar-
ciso e quella di Atteone conducono allo stesso risultato: «vedere» si-
gnifica conoscere (conoscersi), prendere coscienza in maniera definitiva
che soggetto e oggetto d'amore coincidono. Nel rileggere la fonte ovi-
diana, che sta alla base dei due miti, balza subito agli occhi una serie
di simboliche analogie: Narciso, cacciatore di cervi, si avvicina ad una
fonte incontaminata, in un luogo dove non erano mai stati né uomini
né animali ■*^5; «mentre cerca di spegnere la sua sete, un'altra sete gli
cresce »-*^^; si invaghisce della forma che vede riflessa, «spera in un
amore che non ha corpo, crede che sia un corpo quella che è un'om-
bra w'*^^; desidera «senza saperlo se stesso; elogia ma è lui l'elogiato, e
mentre brama, si brama, e insieme accende e arde»"''^^; tenta dispera-
tamente più volte di abbracciare ciò che gli sfugge perché non sa che
«questa che scorgi è l'ombra, il riflesso della tua figura»-*'*'^; «Né desi-
derio di cibo, né desiderio di riposo riesce invece a staccarlo da lì»'™;
si consuma irreversibilmente quando scopre di essersi innamorato di
se stesso'^'. Nel sacrificio estremo della sua esistenza, Narciso compie
la profezia di Tiresia, enunciata sin dalla sua nascita: vivrà solo «Si se
non noverit», se non conoscerà se stesso 5°^.
Narciso, Atteone e il «miroèrs perilleus»: metamorfosi e conoscenza
Mi sembra del tutto inutile ricordare che l'enigmatica figura di
Narciso non può essere circoscritta a queste sole sequenze delle Meta-
morfosi che ho, per comodità, selezionato '°^ Resta però evidente che
495. «Fons erat inlimis, nitidis argenteus undis, / quem ncque pastores nc-
que pastac monte capellac / contigcrant aliudve pecus, qucm nulla volucris /
nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus»: Publio Ovidio Nasone, Meta-
morfosi a cura di Piero Bernardini Marzolla, con uno scritto di Italo Calvino,
Torino, Einaudi, 1979 (III, 407-10), pp. 112-113.
496. «dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit»: Ibidem (III, 415).
497. «spem sine corpore amat, corpus putat esse, quod umbra est»: Ibidem
(III, 417).
498. «Se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur / dumque petit, pe-
titur, pariterque accendit et ardet»: Ibidem (III, 425-426).
499. «Ista repercussae, quam cemis, imaginis umbra est»: Ibidem (III, 434).
500. «Non illum Cereris, non illum cura quietis / abstrahere inde potest
[...]»: Ibidem (III, 437-438).
501. «Uror amore mei, flammas moveoque feroque»; Ibidem (III, 464), pp.
114-115.
502. «[...] de quo consultus, an esset / tempora maturae visurus longa se-
nectae, / fatidicus vates "Si se non noverit" inquit»: Ibidem (III, 346-348), pp.
108-109. Nonostante il contesto sia ambiguo - si potrebbe indicare il «conoscere»
anche nel senso di «riconoscersi» — resta comunque legittima l'interpretazione
che vede anche nell'atto di «riconoscersi» una maniera di «conoscere se stesso».
503. Per una ricostruzione delle varie rielaborazioni del mito fino al roman-
INTRODUZIONE I57
in Ovidio il mito diventa espressione degli inganni prodotti dalla con-
fusione tra apparenza e realtà. Nell'esperienza del solitario cacciatore,
messa in scena nelle Metamorfosi, i temi dell'errore e dell'illusione
fanno di questo specifico episodio quasi una mise en abyme dell'intero
poema'^"*. Narciso, infatti, è vittima di un duplice riflesso illusorio:
vede la sua immagine nell'acqua e crede che si tratti di un'altra per-
sona (illusione ottica); ascolta riecheggiare una voce che non riconosce
come sua (illusione acustica). In entrambi i casi, Vimago nella fonte e
Vimago vocis si manifestano come se fossero realtà vere e autonome,
mentre sono solo il «riflesso», la «copia» del soggetto che le produce.
Lo smarrimento di Narciso - oltre a rivelare la «tragicommedia del-
l'amore di sé», di chi scopre che soggetto e oggetto del rapporto erotico
coincidono — esemplifica a perfezione il rapporto paradossale che si
instaura tra l'uomo e la realtà mutevole che lo circondcL, tra lo stesso
poema e il mondo:
Il paradosso - spiega Gianpiero Rosati — è una delle forme in cui si
dispiega lo spettacolo del mondo: esso esprime spesso nel modo più effi-
cace l'opposizione latente tra ciò che appare e ciò che è, rivela l'intima
incongruenza che si annida nelle cose e nel mondo. Il paradosso, in-
somma, è la figura che nasce dallo scarto tra apparenza e realtà, è la se-
greta verità di un mondo dagl'incerti confini. Nel poema delle forme in
movimento, le cose possono assumere l'aspetto più imprevisto e sorpren-
dente: ciò che sembra reale e definitivo può di colpo rivelare la sua natura
transitoria, può tradire la sua provvisoria «superficie» migrando verso
un'altra forma o un'altra dimensione. I motivi dell'inganno, del travesti-
mento, dell'equivoco fatale, dell'error (spesso inflitto come punizione di-
vina ai mortali) ricorrono con straordinaria frequenza nelle Metamorfosi:
sembrano illustrare la legge segreta che governa la scena del mondo: la
mutevolezza delle cose e l'illusorietà delle apparenze '°'.
Nel testo ovidiano imago e umbra finiscono per diventare sinonimi:
l'autore li impiega indistintamente per indicare il volto di Narciso ''^.
E nella lirica medievale, alla luce della brillante analisi proposta da
ticismo rinviamo all'ottimo lavoro di Louise Vince, The Narcissus Theme in We-
stern European Literature up to the Early ig"' Century, Land, Gleerups, 1967.
504. Sul mito di Narciso nelle Metamorfosi ha scritto pagine importanti
Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmaltone. Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi
di Ovidio, con un saggio di Antonio La Penna, Firenze, Sansoni, 1983. Sui le-
gami tematici tra l'episodio del mitico cacciatore e l'intero poema cfr. Ibidem,
pp. 44-46.
505. Ibidem, p. 39. Per la «tragicommedia dell'amore di sé» cfr. Ibidem,
p.38.
506. Cfr. Giuseppe Barbieri, L'inventore della pittura. Leon Battista Alberti e
il mito della pittura cit, p. 117.
158 INTRODUZIONE
Giorgio Agamben, il mito viene spesso assunto a paradigma dell'alle-
goria d'amore, «secondo uno schema psicologico per cui ogni autentico
innamoramento è sempre un "amare per ombra" o per "figura"», come
«ogni profonda intenzione erotica è sempre rivolta idolatricamente a
un' ymage»^^''. Lungo questo itinerario esegetico, Agamben utilizza la
teoria fantasmatica averroistica come strumento di lettura per capire
le diverse rappresentazioni poetiche dello sforzo che l'innamorato
compie nei ripetuti tentativi di afferrare un'immagine sfuggente, di
abbracciare un fantasma riflesso in un miroers perilleus^^^.
Ma è ora di rimettere al centro dell'attenzione i possibili legami
tematici tra l'esperienza di Narciso e quella di Atteone. Entrambi, cac-
ciatori di cervi, muoiono per aver visto ciò che non si sarebbe dovuto
vedere: Atteone contempla Diana nuda mentre si bagna in una fonte e
Narciso la sua immagine riflessa. In entrambi i casi, però, la visione
avviene in presenza di una imago riflessa in una fonte'"^. Lo specchio
d'acqua si rivela un miroers perilleus, che provoca nei due personaggi
una profonda metamorfosi. Narciso e Atteone, in tempi e modi diversi,
scoprono che quell'immagine è la propria e che, di conseguenza, sog-
507. Giorgio Agamben, La parola e il fantasma nella cultura occidentale,
Torino, Einaudi, 1977, p. 98. Agamben, tra gli altri, fornisce due esempi poetici
significativi: Chiaro Davanzati («Come Narcissi in sua spera mirando / s'ina-
morao per ombra a la fontana», in Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco
Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, i960, t. I, p. 425) e Ozil de Cadars («Vos
amador, que amatz per figura», in Artur Langfors, Le Troubadour Ozil de
Cadars, Helsinki, Suomaleisen Tiedeakatemian Kustantama, 1913, p- 5).
508. Giorgio Ag.amben, La parola e il fantasma nella cultura occidentale
cit, pp. 73-155. L'analisi di Agamben della teoria del fantasma in Averroè
- del fantasma concepito come punto di unione tra individuo e l'unico intel-
letto possibile - viene posta in relazione alle teorie dell'amore nella lirica e nei
trattati medievali, aprendo prospettive nuove ed interessanti.
509. Atteone vede Diana mentre si bagna in una fonte, ma Ovidio non
specifica, come farà invece Bruno, che la visione della dea avviene attraverso
lo specchio dell'acqua. Alla visione «riflessa» allude anche Boccaccio: «Hic
[Actheon], ut ostendit idem Ovidius, venator fuit, et cum die quadam vena-
tione fessus in valle Gargaphie descendisset, eo quod in ea fontes esset recens
et limpidus, et ad eum forte potaturus accederet, vidit in ea Dianam nudam se
lavantem. Quod cum egre Diana tulisset, sumpta manibus aqua, in faciem eius
proiecit dicens "Vade et die, si potes"» [Questi (Atteone), come indica lo stesso
Ovidio, fu cacciatore. Un giorno, stanco per la caccia, scese nella valle Garga-
fia, perché in quella c'era un fonte fresco e limpido. Si avvicinò per bere e vide
in esso Diana nuda che prendeva il bagno. Diana non tollerò il suo sguardo e
presa acqua alle mani la gettò sulla sua faccia dicendo «Va e parla, se puoi»]
(Giovanni Boccaccio, Genealogie deorum gentilium. in Tutte le opere di Gio-
vanni Boccaccio, a cura di Vittorio Zaccaria, Milano, Mondadori, 1998, pp. 548-
549). Nelle Metamorfosi di Ovidio, però, Atteone ha la certezza di essere stato
trasformato in cervo solo quando si specchia nell'acqua: «Ut vero vultus et
comua vidit in unda» [«Quando poi si vide nell'acqua quel muso e le coma»]:
Metamorfosi cit. (II, 200), pp. 102-103.
INTRODUZIONE 159
getto ed oggetto della visione coincidono nella stessa persona. Per
mezzo delVimago, insomma, i due cacciatori sperimentano l'unione tra
chi vede e chi è visto, tra vedente e veduto.
Non sarà un caso se nella celebre galleria di ritratti «disegnata» da
Filostrato trovano posto Narciso e Atteone (a quest'ultimo è dedicata
solo una citazione), in una prospettiva che probabilmente fonda pro-
prio sul tema della «visione», e sulle «punizioni» che da essa deri-
vano, il filo rosso che guida lo spettatore nella fantastica pinacoteca^'".
E nelle Eikones, tra l'altro - al di là delle analogie temiinologiche che
avrebbero potuto ispirare il già discusso brano di Alberti sull'inven-
zione della pittura'" -, si fa esplicito riferimento al gioco degli in-
ganni che l'immagine proiettata nello specchio d'acqua produce nel
soggetto che la guarda, facendogli credere vero un riflesso falso "^.
Per Plotino, invece, l'errore di Narciso e il suo «dissolversi» nell'ele-
510. Pierre Hadot, Le mythe de Marcisse et son interprétation par Plotìn, in
«Nouvelle Revue de Psychanalise», 13 (1976), pp. 89-90 (ora in P. Hadot, Plo-
tin, Porphyre. Études néoplatoniciennes, Paris, Les Belles Lettres, 1999, pp. 231-
232); ma di Hadot si veda anche il bel saggio introduttivo, in parte dedicato al
ritratto di Narciso, in Philostrate, La galerie de tableaux, traduit par Auguste
Bougot, revoisé et annoté par Francois Lissarague, préface de Pierre Hadot,
Paris, Les Belles Lettres, 1991, pp. VII-XXH. Su Narciso e Atteone cfr. Her-
mann Frankel, Ovid. A Poet between Two Worlds, Berkeley and Los Angeles,
University of California Press, 1945, p. 213; su Narciso, pp. 82-85 (m^ si veda
anche G. Rosati, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di
Ovidio cit, p. 21). Il testo di Filostrato ebbe una circolazione enorme tra Quat-
trocento e Cinquecento, come testimoniano centinaia di manoscritti. In Fran-
cia, e poi in Europa, giocò un ruolo importantissimo la traduzione di Blaise de
Vigenère (1578), concepita all'interno del milieu dell'Académie du Palais, per
esaudire un desiderio più volte manifestato da Enrico III. Per la fortuna di
Filostrato e della traduzione francese si veda l'ottima introduzione di Fran-
goise Oraziani a Philostrate, Les images cu tableaux de piatte peinture. Traduc-
tion et commentaire de Blaise de Vigenère (1578), presente et annoté par Fran-
goise Oraziani, Paris, Honoré Champion, 1995, t. I, pp. I-LXVIII (in particolare
le pp. XXVII-L).
511. Cfr. Giuseppe Barbieri, L'inventore della pittura. Leon Battista Alberti e
il mito della pittura cit., pp. 84-85.
512. Anche negli Asolani di Bembo l'immagine di Narciso si configura pro-
prio come esempio simbolico del rapporto illusione/realtà: «0 stolti, che vaneg-
giate? voi ciechi, d'intorno a quelle false bellezze occupati, a guisa di Narciso vi
pascete di vano disio, e non v'accorgete che elle sono ombre della vera, che voi
abandonate?» (Pietro Bembo, Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino,
Utet, 1966, pp. 488-489; Bembo, nel secondo libro, ricorderà anche la metamor-
fosi di Atteone come coincidenza di amante e amata: ibidem, p. 414). Sullo stesso
tema insiste Tasso in un passaggio de II Minturno overo de la bellezza: «[...] sciocco
è senza fallo il giudicio di coloro i quali cercano la bellezza in queste membra
terrene: e mi paiono simili a quelli che rimirano l'imagini e l'ombre ne l'acque,
come si favoleggia di Narcisso, e mentre abbracciano l'onde e i fuggitivi simo-
lacri, restano sommersi senza avedersene» (Torquato Tasso, Dialoghi, edizione
critica a cura di Ezio Raimondi, Firenze, Sansoni, 1958, II/II, p. 938).
l6o INTRODUZIONE
mento liquido, cioè nella materia, traducono in termini simbolici il non
aver saputo distinguere tra ombra e realtà, mondo visibile e idee'^^:
Perché chi vede la bellezza dei corpi non deve inseguirli, ma sapendo
che sono immagini, tracce ed ombre, deve fuggire verso ciò di cui queste
sono immagini. Se infatti qualcuno corresse loro incontro per impadronir-
sene, quasi fossero cose reali, assomiglierebbe a colui che volendo afferrare
la bella immagine di sé che affiorava sull'acqua - a questo sembra voleva
alludere una favola - s'immerse nella corrente profonda e scomparve. Allo
stesso modo chi rimane avvinto dalla bellezza dei corpi e non se ne libera,
sprofonderà - e non con il corpo ma con l'anima - negli abissi scuri e
tristi per l'intelletto, dove cieco rimarrà nell'Ade, ed anche là, come qui, se
ne starà in compagnia delle ombre "■*.
Lo stesso pericolo segnala Ficino nel suo commento al Simposio di
Platone. Narciso e la sua ombra rappresentano la duplice natura del-
l'uomo, il suo essere in posizione mediana tra spirito e materia, tra la
caduca bellezza dei corpi e la vera bellezza;
Di qui seguita quel crudelissimo fato di Narciso che canta Orfeo: di qui
seguita la miserabile calamità degli uomini. Narciso adolescente, cioè
l'anima dell'uomo temerario e ignorante, non guarda il volto suo: che si
intende, che egli non considera la propria sustanzia e virtù sua; ma l'om-
bra sua nella acqua seguita, e sforzasi d'abbracciarla; cioè bada intomo
alla Bellezza che vede nel corpo fragile, corrente, come acqua, la quale è
ombra dello Animo: lascia la sua figura, e l'ombra mai non piglia. Perché
l'animo seguitando il corpo, sé medesimo disprezza, e per l'uso corporale
non si empie: perché egli non appetisce in verità il corpo: ma desidera
(come Narciso) la sua spezie propria, allettato dalla forma corporale: la
quale è immagine della spezie sua; e perché non s'avvede di questo errore,
desiderando una cosa, e seguitandone un'altra, non può mai empiere il
desiderio suo. E però si distilla in lacrime, cioè l'animo poi che è caduto
fuori di sé e tuffato nel corpo, da mortali turbazioni è tormentato e mac-
chiato dalle macule corporali, quasi affogci, e muore: perché già apparisce
corpo piuttosto che animo^'^
Ma le interpretazioni neoplatoniche ci torneranno utili più tardi.
Restano evidenti per il momento - e indipendentemente dalle letture
negative o positive delle vicende che riguardano in particolare il figlio
di Lirìope - le analogie che collegano l'esperienza di Narciso e quella
513. Pierre Hadot, Le mythe de Marcisse et son interprétation par Piotiti cit.,
p. 244 e p. 249 (p. 99 e p. 103).
514. Plotino, Enneadi cit. (1.6.8), p. 201.
515. Marsilio Ficino, Sopra lo Amore, ovvero Convito di Platone cit (VI,
XVIII), pp. 127-128.
INTRODUZIONE l6l
di Atteone: vedere ciò che non si sarebbe dovuto vedere e scoprire,
nella visione, che l'oggetto del desiderio coincide con se stessi. Si tratta
di contiguità che potrebbero trovare conferma anche sul piano icono-
grafico 5'^. Nel Thronus cupidinis, una raccolta di emblemi pubblicata
ad Amsterdam nel 1620, Atteone e Narciso si ritrovano affiancati in .
una sezione dedicata al tema dell'amore: l'immagine del primo, tra-
sformato in cervo mentre osserva Diana nello specchio d'acqua, è ac-
compagnata da commenti in versi che indicano esplicitamente nel
«troppo vedere» la causa della sua rovina (fig. 5)^'^; la silografia del
secondo, in cui si mostra Narciso specchiarsi in una fonte,
è preceduta da componimenti che rinviano al motto Nosce te ipsum
(fig. 6)518. La stessa iscrizione delfica aveva ispirato Nikolaus Reusner
(1545-1602) che nei suoi Emblemata, pubblicati a Francoforte nel 1581,
colloca Narciso nella sezione intitolata Nosce te ipsum^^'^.
Bruno e Narciso: Vimpossibile abbraccio
Bruno, è vero, non parla esplicitamente di Narciso né nei Furori, né
negli altri dialoghi italiani. Però utilizza per ben due volte il mito
nelle opere latine. Nel De minimo, per ricordare che il concetto di mi-
nimo «ha schivato gli sforzi del volgo, come l'acqua le fauci bruciate
516. Vorrei anche segnalare che il Filarete, nel proporre una serie di meta-
morfosi per ornare le facciate di un intemo, colloca proprio l'uno accanto al-
l'altro i due miti: «E nelle facciate da canto vorrei fare alcune cose ch'io ho
lette, cioè come Febo andava dietro a Dapne, la quale si convertì in uno alloro;
e come Narcisso diventò fiore; e come Diana convertì Anteon in cervio; e ancora
come Perseo tagliò il capo a Medusa; e '1 rapimento di Prosperpina da Pluto; e
alcune altre ancora» (Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato di Architet-
tura cit., t. I, p. 260; il corsivo è mio).
517. Thronus cupidinis, editio tertia, Amsterodami, Apud Wilhelmum loan-
sonium, 1620, p. 30 (ristampa anastatica Amsterdam, Universiteits-Bibliotheek,
1968). Questi i versi che figurano sotto il titolo Trop voire decoit: «Si le bouillant
desir qui brusle la jenesse, / Se pouvoit moderer par sens et par raison, / Beau-
coup, qui sur la fin meurent en marisson, / Pourroient pour le malheur s'ap-
proprier liesse: / Car tei dresse ses yeux plus avant qu'il ne doit, / Qui s'en
repent bien tost: puis que trop voir decoit». Le silografie dovrebbero essere
state realizzate da Crispin Van de Passe senior (1565/1570-1637), autore delle
illustrazioni di un'edizione delle Metamorfosi di Ovidio [Metamorphoseon, deli-
neata editi per Crispianum Passaeum calcographum, 1602] e di un ritratto di
Francis Walsingham: cfr. D. Franken, L'OEuvre grave des Van de Passe, Am-
sterdam, F Muller, 1881.
518. Ibidem, p. 31.
519. NicoLAUS Reusner, Emblemata, Francoforti, per Ioannem Feyera-
bendt, 1581, p. 137. All'immagine di Narciso in questa raccolta di emblemi e
nel Thronus cupidinis accenna Mario Domenichelli, // limite dell'ombra. Le
figure della soglia nel teatro inglese fra Cinque e Seicento cit., pp. 229-230.
102 INTRODUZIONE
di Tantalo, come il proprio volto Narciso, come l'ombra il proprio cor-
po»52o. E nel De immenso, in un contesto dominato dagli errori della
vecchia cosmologia:
Tanto grande è la confusione che ne è derivata che attribuiscono il
■ principio di questo moto apparente del mondo, per cui si scandiscono le
ore del giorno, alla sfera che si eleva al di sopra di ogni cosa e non si
accorgono di possedere già ciò che ricercano, ma fanno come l'infelice
Narciso che cerca di abbracciare la propria immagine nell'acqua in cui si
specchia. Ma, essendo così vicina, invano la ricerca lontano e quanto più
tende le braccia e quanto più le si avvicina, tanto più la vede allontanarsi.
Quanto egli avanza, tanto più ella indietreggia. Intanto gli sta di fronte,
sorridendo a lui che sorride, scambiando i baci con i baci. Infatti non è
frapposto nulla tra Narciso e l'immagine, se non il piano. Quando egli
cerca di abbracciarla per appagare il proprio desiderio, non fa altro che
sconvolgere le acque: l'immagine e la confusa speranza svaniscono, af-
finché egli si renda conto che finzioni hanno costretto l'uomo ad inutile
fatica; poiché, tralasciando le cose più vicine per ricercare sé e ciò che gli
appartiene fuori di sé, infelice ed illuso erra tanto lontano da sé per
quanto gli è permesso d'inoltrarsi sempre più nei templi spaziosi del cielo
e di introdursi nell'augusta reggia degli Dei^^i.
Basterebbe già questa lunga citazione per testimoniare la cono-
scenza diretta della fonte ovidiana. Ma Bruno vuole lasciare un segno
ancora più forte: chiude il De immenso con un verso «Narcissis refe-
ram: peramarunt me quoque Nymphae»^^^ che riprende, con una leggera
520. «[...] (conamina vulgi / Namque olim ingenti studio atque labore peti-
tum / Elusit, velati fauces aqua Tantali adustas, / Narcissum vultusque suus,
sua corpus et umbra)»: Opp. lai., I/III, p. 251; traduzione italiana, cit, p. 195.
521. «Istis nimirum tanta est confusio aderta, / Namque apparentis mundi
vertiginis hujus, / Qua definitum est tempus generale diumum, / Principium
tribuunt huic, quae supereminet omne, / Sphaerae constanten sibi nec adeo
usque propinquum / Agnoscunt, velut infelix Narcissus in undis / Subjectis
speciem complecti tendit; at illa / Proxima cum tam sit, frustra tam quaeritur
extra: / Et magis atque magis protendens brachia, et ultra / Amplius adprope-
rans, tanto illam cemit abire: / Quoque ipse accedens, hoc longius illa rece-
dens. / Interea occurrit, ridenti adridet, et ore / Oscula quae hic parai concin-
nat et illa vicissim; / Ut praeter planum nihil hunc siet inter et illam. / Ergo
ubi complexu hic votum concludere tentat, / Turbat aquas: species, et spes
confusa recedunt, / Ut tandem noscat vanum simulacra laborem / Injunxisse
viro, quia proxima praetereundo, / Ut sua seque suos fines exquireret ultra, /
Devius infelix tam longius exulat a se, / Quam spaciosa magis sibi coeli tem-
pia subire / Suadet, et augustam divum pertingere in aulam»: Opp. lai., I/I, p.
317; traduzione italiana, cit., pp. 512-513.
522. «Quod si ut sum factus, divùm prò munere, memet / Ingerero rigi-
dum, membrisque viriliter acrem, / Infrenem, invictum, sementoseque sonan-
tem; / Narcissis referam: peramarunt me quoque Nymphae» [«Se così son
fatto, grazie agli Dei, mi conserverò qual sono, severo, virilmente forte nelle
INTRODUZIONE 163
modificazione, il secondo emistichio di un verso delle Metamorfosi
(«Est mea quam fugias et amarunt me quoque nymphae»)^^^. Qui l'au-
tore ci fornisce un «autoritratto» nei panni virili di chi, come Narciso,
è amato dalle ninfe. L'attenzione dedicata al mito mostra che l'inte-
resse del Nolano si concentra sull'impossibilità dell'abbraccio, sui rap-
porto ambiguo tra realtà e illusione e, soprattutto, sul fatto che non
bisogna cercare le cose al di fuori di sé.
Senza questi riferimenti alla figura di Narciso sarebbe difficile co-
gliere il senso profondo dei versi del Tansillo che Bruno utilizza nella
Cena all'interno del lungo passaggio dedicato all'elogio del Nolano e
sfuggirebbero, inoltre, anche alcuni legami sotterranei che rafforzano
gli intrecci tra il De immenso e le opere italiane ^24. In un contesto
membra, intrepido, indomito e con voce maschile dirò ai Narcisi: le Ninfe
hanno molto amato anche me»]: Opp. lat, I/II, p. 318; trad. it, cit, p. 809. Una
probabile allusione al puer Narciso potrebbe essere in un passaggio iniziale del
De immenso dedicato alla distinzione tra luce e tenebre, in cui, subito dopo
aver evocato l'immagine del Sileno, si cita un verso («O formose puer nimium
ne crede colori»): «Ad isthaec, quaeso vos, qualiacunque primo videantur as-
pectu (si iniqui judicii titulum abhorretis) adtendite: ut qui vobis insanire vi-
detur, saltem, quibus insaniat rationibus, cognoscatis: gratae sub echinorum
asperitate castaneae absconduntur, subque silenis preciosissimae quandoque
merces occultantur. 0 formose puer nimium ne crede colori. Est sententia, quam
prima eminus fronte stultam, et contradictione indignam judicavi, quae de
propinquo possibilis, et de proximo vera comperta est, demumque penitius
considerata tum necessaria tum evidentissima comprobatur» [«eccellenti ca-
stagne si nascondono sotto l'irtosità dei ricci, sostanze assai preziose sotto i
sileni: "0 bel fanciullo, non credere troppo all'apparenza". Sono parole che, ad
una prima considerazione, ho giudicato stolte ed indegne di obiezione, ma da
vicino possibili, dappresso vere, e ora, finalmente, più profondamente esami-
nate, appaiono sia necessarie che oltremodo evidenti»] {Opp. lat.. I/I, p. 208;
trad. it. cit., pp. 424-425). Qui Bruno cita per intero un verso della II Bucolica
di Virgilio — «O formose puer ninimium ne crede colori» [«(...) O mio ragazzo
bello / dell'apparenza non fidarti tanto»]: Virgilio, Le Bucoliche, prefazione e
versione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1970, v. 17, p. 26 - con il
chiaro intento di alludere al tema dell'apparenza: in effetti il personaggio vir-
giliano Alessi ricorda la bellezza di Narciso, che nelle Metamorfosi viene per
ben sei volte evocato come puer (Ovidio, Metamorfosi, III, vv. 352, 379, 413,
454, 495, 500). In maniera del tutto marginale Narciso, in coppia con Eco,
viene utilizzato nelle ruote del De umbris (ed. Sturlese, cit, p. 117).
523. Così Narciso parla alla sua ombra: «Quove petitus abis? certe nec
forma nec aetas / est mea, quam fugias, et amarunt me quoque nymphae» [«Do-
ve te ne vai mentre io ti desidero? E sì che la mia bellezza e la mia età non
sono da disprezzare: mi hanno amato anche delle ninfe»] (Metamorfosi, III, vv.
455-456, pp. 114-115; il corsivo è mio). Devo questa indicazione all'amico Mi-
guel Ange] Granada che nel rileggere il mio dattiloscritto e nel controllarne le
citazioni ovidiane mi ha segnalato la preziosa ripresa, sfuggitami nella prima
lettura delle Metamorfosi
524. Per le relazioni tra opere italiane e opere latine resta ancora un solido
punto di riferimento il saggio di Felice Tocco, Le opere latine di Giordano
164 INTRODUZIONE
strettamente legato alle tesi di fondo della cosmologia bruniana, Teo-
filo spiega con viva passione che in un universo infinito e omogeneo
non bisogna «cercar la divinità rimossa da noi» perché «l'abbiamo
appresso, anzi di dentro più che noi medesmi siamo dentro a noi»,
così come «gli coltori de gli altri mondi non la denno cercare appresso
di noi, l'avendo appresso e dentro di sé» in ragione del fatto che «non
più la luna è cielo a noi, che noi alla luna»'^?. Subito dopo segue la
citazione di due ottave di Tansillo, che Teofilo invita a rileggere con
altri occhiali per tirarne «certo meglior proposito»:
Se non togliete il ben che v'è da presso,
come terrete quel che v'è lontano?
Spreggiar il vostro mi par fallo espresso,
e bramar quel che sta ne l'altrui mano.
Voi séte quel ch'abandonò se stesso,
la sua sembianza desiando in vano;
voi séte il veltro che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
Lasciate l'ombre et abbracciate il vero,
non cangiate il presente col futuro,
Io d'aver dì meglior già non dispero;
ma per viver più lieto e più sicuro,
godo il presente, e del futuro spero:
cossi doppia dolcezza mi procuro '^^
Qui i versi del Vendemmiatore, riprodotti con qualche variante, ven-
gono piegati a rappresentare nuovi significati. Da un punto di vista
legato ad un generico appello edonistico ai valori del carpe diem e alla
necessità di non trovare il «paradiso» al di fuori del proprio corpo '^7
si sposta l'attenzione verso una più profonda prospettiva: le strofe fi-
Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze, Le Monnier, 1889 (una ri-
stampa anastatica, con prefazione di Miguel Angel Granada, è annunciata da
Les Belles Lettres-Nino Aragno Editore).
525. Cena, pp. 455-456.
526. Ibidem, p. 456. Alla iìne della citazione, Teofilo ricorderà il ruolo im-
portante del Nolano, la sua straordinaria capacità di vedere ciò che gli altri
non vedono: «Con ciò un solo, benché solo, può e potrà vencere, et al fine ara
vinto e triomfarà contra l'ignoranza generale; e non è dubio, se la cosa de'
determinarsi non co la moltitudine di ciechi e sordi testimoni, di convizii e di
parole vane, ma co la forza di regolato sentimento, il qual bisogna che con-
chiuda al fine: perché in fatto tutti gli orbi non vagliono per uno che vede, e
tutti i stolti non possono servire per un savio» (Ibidem, p. 456).
527. «E se quest'orto in grembo vel tenete, / perché non vi pigliate indi
diporto? / A che loco cercar da voi diviso, / se in voi stesse trovate il paradi-
so?»: Luigi Tansillo, Il Vendemmiatore, in Io., L'egloga e i poemetti, con intro-
duzione e note di Francesco Flamini, Napoli, 1893 (XVH, w. 5-8), p. 59.
INTRODUZIONE 165
niscono per mettere sotto gli occhi gli errori che scaturiscono dalla
folle scelta di perdere se stessi per inseguire un'« ombra »528^ di cercare
altrove ciò che già possediamo. Errori esemplificati in due analoghi
episodi letterari: quello di Narciso («Voi séte quel ch'abandonò se
stesso, / la sua sembianza desiando in vano») e quello della cagna pro-
tagonista di una favola di Esopo («voi séte il veltro che nel rio tra-
bocca, / mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca»)529, di cui Bruno
farà nuovamente uso in un importante brano dello Spaccio^^^. L'acco-
stamento delle due fabulae ci autorizza a mettere in relazione questi
versi con un altro passaggio del De immenso:
Perché a proposito dell'ordine degli elementi, invece, celiamo con mi-
steri platonici e aristotelici e prestiamo attenzione a parole senza senso?
Perché ci solleviamo su una scala di tal genere fino a quei cieli e a quelle
ombre celesti e fantasie, con ali platoniche, divine, matematiche, astratte,
effimere, come se non avessimo niente davanti agli occhi che nobilmente
ci muova, ci inciti, ci renda più perfetti e ci adomi? Perché lasciamo le
vere specie delle cose per le ombre che non hanno nessuna consistenza,
528. L'allusione al perdere se stessi per inseguire l'ombra spiega anche ret-
rospettivamente la citazione che Teofilo fa all'inizio dell'elogio del Nolano {Ce-
na, p. 453) dei versi del Furioso (XXXV, i, w. 1-2) dedicati al viaggio di
Astolfo sulla luna per recuperare il senno perduto di Orlando; nella prima ot-
tava del XXIV canto, infatti, l'Ariosto individua con chiarezza la causa evi-
dente della follia: «E quale è di pazzia segno più espresso / che, per altri voler,
perder se stesso?» (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Ga-
retti, Torino, Einaudi, 1996, t. II, p. 698). Sui rapporti Ariosto-Bruno vedi Lina
Bolzoni, Note su Bruno e Ariosto, in «Rinascimento», 40 (2000), pp. 19-43.
529. «Una cagna attraversava un fiume con un pezzo di carne in bocca.
Vide la propria immagine riflessa nell'acqua, credette che si trattasse di un'al-
tra cagna con un pezzo di carne più grosso, e, lasciando andare il suo, balzò
giù per afferrare quello di quell'altra. Ecco come fu che rimase senza l'uno e
senza l'altro: all'uno non ci arrivò perché non c'era; all'altro perché esso fu
portato via dalla corrente» (Esopo, La cagna che portava la carne, in Favole,
introduzione di Giorgio Manganelli, traduzione di Elena Ceva Valla, Rizzoli,
Milano, 1982 [185], p. 211). La favola è ripresa anche da Fedro che sintetizza
già nel primo verso il senso del racconto: «Ammitit merito proprium qui alie-
num adpetit» [«Chi vuol togliere ad altri il suo può perdere»] {È Cane che porta
carne pel fiume, in Favole, a cura di Manlio Faggella, Milano, Feltrinelli, 1982,
PP- 32-33)-
530. «Lasciate l'ombre et abbracciate il vero. / Non cangiate il presente col
futuro. / Voi siete il veltro che nel rio trabocca, / mentre l'ombra desia di quel
ch'ha in bocca. / Aviso non fu mai di saggio o scaltro / perder un ben per
acquistarne un altro. / A che cercate sì lungi diviso / se in voi stessi trovate il
paradiso? // Anzi chi perde l'un mentre è nel mondo, / non speri dopo morte
l'altro bene: / per che si sdegna il ciel dar il secondo / a chi il primero don caro
non tene; / cossi credendo alzarvi gite al fondo, / et a i piacer togliendovi, a le
pene / vi condannate: e con inganno etemo / bramando il ciel vi state ne
l'inferno» (Spaccio, pp. 321-322). Qui Bruno riscrive le strofe del Vendemmiatore
operando un collage di versi, leggermente modificati, delle ottave XVII-XX.
l66 INTRODUZIONE
uscendo da noi stessi non diversamente dal cane di Esopo che, lasciata la
carne che aveva in bocca, spinto dall'avidità dell'ombra più grande si
lanciò precipitosamente nel fiume?'"
L'immagine del cane di Esopo, come giustamente ha messo in ri-
lievo Miguel Angel Granada, assume in questo contesto un valore for-
temente polemico contro il platonismo ficiniano e, in generale, contro
una Weltanschaimng misticheggiante che finisce per togliere ogni va-
lore alla vita terrena in cambio della speranza di un'altra vita mi-
gliore in un mondo superiore 5^^. Per Bruno le cose stanno diversa-
mente: non bisogna cercare altrove ciò che già in noi stessi posse-
diamo.
Dopo questa necessaria digressione, l'apparente assenza di Narciso
nelle opere italiane si trasforma in una significativa presenza, almeno
in due luoghi strategici della Cena e dello Spaccio. Adesso l'accosta-
mento alla metamorfosi di Atteone si fa ancora più interessante. Pro-
prio la vicenda di quest'ultimo, raccontata nei Furori, potrebbe coin-
cidere in positivo con l'esperienza stessa di Narciso quando, ormai li-
berato dall'illusione, coglie la profonda unità che lega l'immagine
riflessa alla sua persona. Attraverso il difficile percorso del cacciatore,
il filosofo-pittore dipinge il ritratto di se stesso, traccia la sua singolare
esperienza umana ed intellettuale, disegna il faticoso itinerario verso
un abbraccio «impossibile» con il sapere infinito, mostra che cono-
scere significa innanzitutto conoscersi. Lavora, insomma, a partire
dalla sua ombra nel disperato tentativo di «superarla», senza perdere
mai di vista però la consapevolezza che l'eroica avventura si svolge a
partire da noi stessi, su questa terra, all'interno di un universo «fisico
e naturale», infinito ed omogeneo. In questo preciso contesto. Bruno,
probabilmente ancora in polemica con le interpretazioni neoplatoni-
che e ficiniane, inscrive il destino del furioso nell'esperienza stessa di
531. «Quid ergo circa eum elementorum ordinem platonicis nugamur my-
steriis et aristotelicis, et verbis sane sine sensu porrigimus aures? quid ultra ad
coelos illos et coelestes illas umbras atque somnia istiusmodi per scalam, pla-
tonicis, divinis, mathematicis, abstractis, evanidisque sustollimur alis, quasi
nihil habeamus ante oculos quod nos alte moveat, incitet, invitet, perficiat,
omet; quo relinquimus veras rerum species umbris quae nullam omnino ha-
bent subsistentiam, non alitar alienati quam canis ille aesopicus, qui, relieta
carne, quam habebat in ore, per aviditatem maioris umbrae, praecipitem se
iecit in fluvium?»: Opp. lai., I/II, p. 118; traduzione italiana cit, p. 664. Il cor-
sivo nelle due citazioni è nostro.
532. Miguel Angel Granada, Digges, Bruno e il copernicanesimo in Inghil-
terra, in Giordano Bruno 1582-1^85. The English Experience/L'esperienza inglese
cit, pp. 140-54. Qui Granada rilegge, attraverso l'immagine del cane di Esopo, i
brani della Cena, dello Spaccio e del De immenso in una chiave antificiniana.
INTRODUZIONE 167
Narciso. O meglio: nell'esperienza di un Narciso che, cosciente dell'im-
possibile abbraccio con se stesso, non può fare a meno però di conti-
nuare a desiderarlo fino alla completa estinzione di tutte le sue forze.
Nella circolarità di questo rapporto - splendidamente messa in rilievo
da Caravaggio nel suo Narciso^^^ - soggetto e oggetto finiscono per
costituire un'unica e sola figura. Il pittore (l'inventore della pittura) e
il filosofo, come abbiamo già visto, si occupano di «immagini», cer-
cano di «conoscere se stessi». Hanno coscienza di vivere in un mondo
dominato dalle intermittenze, dai fantasmi, dai simulacri. Si relazio-
nano con le ombre e con le superfici. Cercano di «abbracciare» river-
beri inafferrabili.
Bisogna però operare un'ulteriore distinzione per evitare di restare
invischiati nella rete abilmente tesa dal Nolano. Ci sono Narcisi e Nar-
cisi: quelli che non distinguono i confini tra realtà e apparenza e
quelli - più «virili», per riprendere il passaggio del De immenso - che,
pur avendo coscienza di questa distinzione, tentano disperatamente di
«superarla» nel desiderio di un simbolico «abbraccio» con la natura
infinita e unigenita^'-*. Alla stessa maniera ci sono Atteoni e Atteoni.
L'oscillazione dei simboli, si pensi al caso eclatante dell'asino, è una
costante nel pensiero di Bruno. Basta riprendere in mano il Candelaio
per averne ancora conferma a proposito del mito del cacciatore tra-
sformato in cervo. Qui l'autore-pittore mette in scena l'ignoranza di tre
personaggi che incarnano a perfezione la non conoscenza di sé (il nasce
te ipsum al contrario, secondo le indicazioni di Socrate nel Filebo),
affidando a Gioan Bernardo la regia intema degli avvenimenti. Ma
G. B. sulle orme dell'albertiano inventore della pittura, viene presen-
tato nella pièce nelle vesti di un artista che eccelle particolarmente
nella realizzazione di ritratti. E il ritrattista, come ricorda Pontus de
Tyard, è soprattutto colui che «peint l'ombre «'^^ jsjon a caso il triplice
533. Questo stupendo quadro di Caravaggio - che ha suscitato un acceso
dibattito, ancora aperto, per l'attribuzione — è conservato a Roma, nella galle-
ria di Arte Antica (Palazzo Corsini): cfr. la scheda a cura di Mina Gregori in
Caravaggio e il suo tempo, Milano, Electa Napoli, 1985, pp. 265-267.
534. Anche Rosati individua nelle Metamorfosi di Ovidio due momenti fon-
damentali dell'esperienza di Narciso: se nella prima parte il personaggio è vit-
tima dell'illusione, nella seconda prende coscienza della natura fittizia dell'im-
magine, riconoscendola come una sua proiezione (cfr. G. Rosati, Narciso e Pig-
malione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio cit, p. 25).
535. Pontus de Tyard, legato al milieu di Enrico III (cfr. supra, pp. 14-15),
in un componimento della raccolta Erreurs amoureuses (1549) riconosce che il
pittore può solo dipingere l'ombra della donna amata dal poeta: «Il [le Ria-
manti ne m'osa promettre d'avantage / De retirer de ses beautez que l'ombre /
Elle ha (dit-il) tant de beautez ensemble, / Et au soleil si luisamment ressem-
ble, / Qu'elle esblouit mes yeux de tous costez. / Puis ayant peint l'ombre, me
l68 INTRODUZIONE
portrait degli ignoranti protagonisti della commedia sarà destinato a
rappresentare in chiave comica i falsi Atteoni'^^: Bonifacio, infatti, il-
ludendosi di godersi Vittoria «dovenne a fatto cornuto: figurato vera-
mente per Atteone, il quale andando a caccia, cercava le sue come: et
all'or che pensò gioir de sua Diana, dovenne cervo»'". Il «candelaio»,
per aver cercato altrove ciò che lui stesso possedeva in casa, finisce
insomma per perdere anche Carubina, che da moglie «insolita a man-
giar più d'una minestra»'^** viene iniziata da Gioan Bernardo air«epi-
curaica filosofia»^'''.
Qui il ritratto è rappresentazione àtWaltro, è la spietata raffigura-
zione vivente di come la presunzione di sapienza possa condurre a
un'ingloriosa perdita di se stesso e di ogni bene. Dalla negazione del
nosce te ipsum nel Candelaio alla sua piena affermazione nei Furori, la
dit ainsi: / Contente-toy seulement de ceci, / Qui passe ancore toutes autres
beautez» (Pontus de Tyard, CEuvres poétiques complètes, édition critique avec
introduction et commentaire par John C. Lapp, Paris, M. Didier, 1966, pp. 68-
69). Il tema del ritratto come ombra, con un accenno a questi versi di Pontus
de Tyard e alla silografia del portrait di una donna intitolata L'ombre apparsa
nell'edizione del 1552 della raccolta Erreurs amoureiises. è brillantemente di-
scusso da Edouard Pommier, Théories du portrait. De la Renaissance aux Lu-
mières cit (in particolare i paragrafi L'ombre, la mort et la mémoire alle pp. 18-24
e La poursuite de l'ombre alle pp. 434-436).
536. Bruno identifica i «falsi Atteoni» anche con gli ignoranti teologi: «Ma
il male è, che sovente accade che mentre questi Atteoni vanno perseguitando
gli cervi del deserto, vegnono dalla lor Diana ad esser convertiti in cervio
domestico» {Spaccio, p. 390). Su questo tema cfr. A. Ingegno, Regia pazzia cit,
pp. 69-75.
537. Candelaio, p. 270. Nella letteratura «irregolare» del Cinquecento sono
molteplici i riferimenti ironici ad Atteone, come prototipo del marito tradito:
«né per altro finsero e poeti Atteone in cervo convertito che per darci ad in-
tendere che per il smoderato studio del cacciare consumando le facultà nostre
doventiamo non solo bestie, ma bestie cornute, e io ho conosciuto più d'un
paio di temine, istimate le più savie e pudiche ch'avesse la lor patria, le quali
come prima il marito s'era levato per far volare alla pianura il suo falcone, o
vero per dar la fuga a qualche timido animaluzzo, tantosto per non lasciar
rafreddare il luogo del consorte cogli amanti loro si coricavano» (Ortensio
Landò, Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere, a cura di Antonio Cor-
saro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. 91); Giovan Battist.a
Modio, e Convito overo del peso della moglie dove ragionando si conchiude che non
può la donna disonesta far vergogna a l'uomo, in Trattati del Cinquecento sulla
donna, a cura di G. Zonta, Bari, Laterza, 1913, pp. 331 e 345; Giovan Battista
Pino, Ragionamento sovra de l'asino, a cura di Olga Casale, Introduzione di
Carlo Bemari, Roma, Salerno Editrice, 1982, pp. 59-60. Anche a testi parados-
sali, contenuti nel secondo libro delle Lettere facete e piacevoli di diversi grandi
uomini e chiari ingegni (raccolte da Francesco Turchi, Venezia, 1575), fa riferi-
mento Eugenio Garin in relazione all'immagine bruniana di Atteone: E. Ga-
rin, Echi italiani di Erasmo e di Lefèvre d'Etaples, «Rivista critica di storia
della filosofia», XXVI (1971), i, pp. 88-90.
538. Candelaio, p. 269.
539. Ibidem.
INTRODUZIONE 169
filosofia-pittura di Bruno traccia un itinerario che, teso a superare la
soglia dell'ombra, si apre «in negativo» con i falsi-Atteoni, con i ciechi
che non sanno di non sapere ^-^o, con i Narcisi che cercano fuori di sé
ciò che già posseggono, per concludersi «in positivo» con l'eccezionale
esperienza solitaria ed individuale del furioso, tutta segnata dalla con-
sapevolezza della propria cecità, del proprio non-sapere. Due modi di-
versi di intendere la «venazione». Ma anche due opposte concezioni
dell'amore: Bonifacio, Bartolomeo e Mamfurio si infiammano per cose
futili e vane 5"", mentre il furioso innamorato della sapienzcu, la inse-
gue fino allo stremo delle sue forze. Comportamenti antitetici, che ne-
cessariamente presuppongono «ricompense» in sintonia con il per-
corso compiuto: chi riceve in premio un bel paio di «coma», come i
due mariti traditi '■^2, o una scarica di «spalmate» come Mamfurio e
chi, al contrario, gode della «visione» di Diana. Ma vedere la «natura»
significa anche essere visti da quella; significa, come Atteone e Narciso
hanno sperimentato, che soggetto e oggetto del desiderio vengono a
coincidere, che il cacciatore e la sua preda costituiscono un'unica cosa,
che l'amante e l'amata hanno un identico volto^-*'. Quella visione però
non può lasciarci immutati. Chi «vede» subisce necessariamente una
metamorfosi: in cervo (come Atteone) o in fiore (come Narciso), poco
importa Ma trasformarsi, in questi due miti, implica solo apparen-
temente una «perdita». A pensarci bene, lo smarrimento iniziale si
traduce in un grande «guadagno», in una straordinaria esperienza
gnoseologica che conducendoci all'infuori di noi stessi apre la strada
all'infinità della natura, alla percezione unitaria del molteplice.
540. Chi crede di sapere finisce per guardare gli altri dall'alto, consideran-
doli poveri infelici, come accade al pedante Polihimnio, sicuro delle sue cono-
scenze grammaticali: «Con questo triomfa, si contenta di sé, gli piaceno più
ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da l'alta specula remira, e consi-
dera la vita de gli altri uomini soggetta a tanti errori, calamitadi, miserie, fa-
tiche inutili: solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la
sua divinità nel specchio d'un spicilegio, un dizzionario, un calepino, un
lexico, un cornucopia, un Nizzolio. Con questa suflìcienza dotato, mentre cia-
scuno è uno, lui solo è tutto» {De la causa, p. 637).
541. «Bartolomeo compare nell'atto primo. III scena, dove si beffa del-
l'amor di Bonifacio: concludendo che l'inamoramento dell'oro e de l'argento, e
perseguire altre due dame, è più a proposito» {Candelaio, p. 270).
542. Anche Bartolomeo, oltre a perdere tempo e danari, finisce per gettare
la moglie nella braccia di altri: «Nell'atto secondo, V scena, raggionando Barro
con Lucia, mostra parte del profìtto che facea Bartolomeo: cioè che mentre lui
attendeva ad una alchimia, la moglie Marta facea la bucata et insaponava i
drappi» {Ibidem, p. 271).
543. Su Atteone vittima dell'illusione, della confusione tra realtà (ciò che è)
e apparenza (ciò che si vede) cfr. G. Rosati, Narciso e Pigmalione. Illusione e
spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio cit, pp. 113-114.
170 INTRODUZIONE
Quell'extra che cercavamo è intra. E solo attraverso questo necessario
passaggio è possibile capire che noi siamo una minuscola parte di quel
tutto infinito. Conoscere è innanzitutto conoscersi. Potrà sembrare un
paradosso: ma proprio il rivolgere lo sguardo in se stessi permette
di intraprendere lo straordinario viaggio al di fuori di ogni limite e di
ogni confine.
Già nelVouverture teatrale, infatti, si concretizza la dialettica luce-
ombra, realtà-apparenza, che segnerà l'intero percorso bruniano da Pa-
rigi a Londra. All'interno di questo contesto, finanche il titolo della
commedia assumerà un ruolo simbolico ancora più forte, che va molto
al di là del banale riferimento all'omosessualità di Bonifacio. Bruno fa
pili volte allusione al «Candelaio di carne et ossa», è vero '''■*. Ma que-
sto non basta a spiegare perché la pièce sarebbe destinata a «chiarir
alquanto certe Ombre deU'idee»^-*'^. Il pittore-filosofo, invece, per mar-
care con forza il suo esordio, non avrebbe potuto trovare un titolo più
significativo. Chi si occupa delle ombre, da pittore e da filosofo, sa che
senza una fonte di luce esse non esisterebbero''^'^. Basta prendere in
mano un disegno realizzato nella scuola di Leonardo da Vinci, intito-
lato Studio di proiezioni d'ombre (fig. 7)'"*'', o due incisioni che raffigu-
rano alcuni allievi dell'Accademia romana di Baccio Bandinelli in
una stanza invasa da proiezioni di ombre, per capire che senza la luce
di una candela non sarebbe possibile lavorare sulle ombre '-"s. Bruno
lo sa. Ed è per questo che accende sin dall'inizio quella metaforica
544. Candelaio, pp. 263, 296 e 419.
545. Ibidem, p. 262.
546. È interessante un emblema, accompagnato dal significativo motto
«Umbrae non timendae», dove vi sono raffigurate tre candele che proiettano
ombre: Juan de Borja, Empresas tnorales, Bruselas, Francisco Foppens, 1680, pp.
330-331; ristampa anastatica a cura di Carmen Bravo-Villasante, Madrid, Fun-
dación universitaria espafiola, 1981 (nella princeps, pubblicata a Praga nel 1581,
non è incluso questo emblema). Su Juan de Borja, diplomatico presso la corte di
Rodolfo II a Praga, si vedano: Rafael Garcia Mahiques, Les Empresas Morales
de Juan de Borja, una primera aproximación, in «Ullal», io (1986), pp. 6-21; Lu-
BOMIR KoNECKNY, La Hustracìón de las Empresas Morales de Juan de Borja: Era-
smo Hornich, in «Ars Longa. Cuardemos de Arte», 3 (1992), pp. 9-12.
547. Scuola di Leonardo da Vinci, Studio di proiezioni d'ombre (dopo il
1500), Codex Huygens, fol. 902, New York, The Pierpont Morgan Library (cfr.
Erwin Panofsky, Le codex Huygens et la théorie de l'art de Léonard de Vinci
[1940], traduit de Tanglais et présente par Daniel Arasse, Paris, Flammarion,
1966, p. 44).
548. Agostino Veneziano, L'accademia di Baccio Bandinelli (1531), New
York, Metropolitan Museum of Art (collezione Elisha Whittelsey); l'altra inci-
sione [fig. 8] è attribuita a Enea Vico: cfr. .'Vdam Bartash, Le peintre graveur,
Leipzig, Chez J. A. Barth, 1867. voi. XV, pp. 305-306. Sul disegno leonardesco e
sull'incisione di Veneziano, si veda V. Stoichita, Breve storia dell'ombra cit,
PP- 59-63 e pp. 119-121.
INTRODUZIONE I7I
fiamma che lo accompagnerà nel travagliato e straordinario viaggio
della «nolana filosofia».
Un percorso, conviene ancora sottolinearlo, che dal Candelaio con-
duce sino ai Furori, connotando in maniera particolare il legame che
si intreccia tra V ouverture e l'ultimo movimento della «nova filosofia».
La commedia e il dialogo si risolvono in un gioco fondato sull'illu-
sione e sull'ombra, sui travestimenti e sulle finzioni. In entrambi i te-
sti, la «scena» è abitata da simulacri, da immagini, da riflessi. Se nel-
l'esperienza teatrale il palcoscenico diventa la «soglia dell'apparire e
dello svanire, il luogo delle illusioni, il vero luogo della caverna pla-
tonica, o dello specchio offuscato, che è comunque l'unico tramite del
conoscere» 5-''^, nell'esperienza di Narciso la superficie della fonte e
l'ombra che in essa si riflette finiscono per alludere al theatrum natu-
rae, al regno delle metamorfosi e dei riverberi.
Vili.
FILOSOFIA, PITTURA E POESIA:
QUESTIONI DI POETICA
La questione del «superamento» dello stadio dell'ombra si pone na-
turalmente anche sul piano specifico dell'estetica. Sarà utile, a questo
punto, rileggere in un contesto allargato la citazione di Quintiliano, su
cui mi sono soffermato nel paragrafo dedicato al mito delle origini
della pittura:
Quem ad modum quidam pictores in id solum student, ut describere
tabulas mensuris ac lineis sciant, turpe etiam illud est, contentum esse id
consequi quod imiteris. Nam rursus quid erat futurum, si nemo plus effe-
cisset eo quem sequebatur? [...] ratibus adhuc navigaremus; non esset pie-
tura, nisi quae lineas modo extremas umbrae quam corpora in sole fecis-
sent circuniscriberet"°.
549. Mario Domenichelli, // limite delVomhra. Le figure della soglia nel tea-
tro inglese fra Cinque e Seicento cit, p. 229. In questo bel volume, Domenichelli
ricostruisce in maniera persuasiva il fitto intreccio che si instaura nel teatro
inglese rinascimentale tra tematiche neoplatoniche e il ricorrente tema del-
l'ombra e della soglia in alcune opere spiccatamente metateatrali. Interessanti
anche i passaggi dedicati all'identità tra «attore» e «ombra» (Ibidem, pp. 85-86).
550. «Come alcuni pittori si studiano solo di copiare dei quadri servendosi
di linee e misure, così è ugualmente indegno contentarsi dei risultati della sola
imitazione. Che sarebbe accaduto, se nessuno avesse realizzato qualcosa in più
del modello che imitava? [...] navigheremmo ancora su zattere; non avremmo
172 INTRODUZIONE
Il pittore non può limitarsi a circoscrivere l'ombra. A riprodurre
meccanicamente il modello. Se così fosse stato, l'umanità navighe-
rebbe ancora sulle zattere. In realtà, tutte le arti hanno avuto bisogno
di «superare» la soglia delle conoscenze iniziali, di passare daìVintitatio
aWinventio, nella coscienza che senza questo sforzo necessario non sa-
rebbe stato possibile conquistare nuovi orizzonti («nihil autem crescit
sola imitatione»)"!.
Da/rimitatio aWinventio: la poesìa non nasce dalle regole
Bruno, da filosofo e pittore, affronta questo tema in un significativo
passaggio dei Furori Si rende conto, infatti, che il suo particolare
«canzoniere» non poteva non essere preceduto da una riflessione teo-
rica sul ruolo della poesia e sulla natura dell'imitazione a partire da
un'analisi della tradizione lirica petrarchista e «antipetrarchista» '^2
Un'occasione importante per spiegare, retrospettivamente, anche al-
cune scelte operate nella commedia e negli altri dialoghi in volgare.
Spetta naturalmente al poeta Tansillo, nell'esordio del primo dialogo
della prima parte, introdurre il dibattito sulla funzione delle «regole»:
CiCADA. Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta
Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri
molti in numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica
d'Aristotele.
Tansillo. Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie: perché
non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell'ome-
rica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar tal volta un poeta
eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri che potrebbero essere, con
altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de diversi geni.
CiCADA. Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da
regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad
imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di
sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell'una sorte, cioè
dell'omerica poesia, in serviggio di qualch'uno che volesse doventar non
altra pittura, se non quella che ritrae i contomi delle ombre degli oggetti espo-
sti al sole»: Marco Fabio Quintiliano, L'istituzione oratoria cit., t. II (X, 2,
7-8), pp. 446-447.
551. «e nulla cresce con la sola imitazione»: Ibidem (X, 2, 8).
552. Per un'analisi problematica del dibattito sull'imitazione nel Rinasci-
mento si vedano da ultimo i saggi di Francesco Bausi {Poesie et imitation au
Quattrocento, pp. 438-462) e di Ferrine Galand-Hallyn e Lue Deitz {Poesie
et imitation au XVF siede, pp. 462-488) contenuti nel volume Poétiques de la
Renaissance. Le modèle italien, le monde franco-bourguignon et leur héritage en
France au XVF siede, sous la direction de Ferrine Galand-Hallyn et Femand
Hallyn, préface de Terence Cave, Genève, Droz, 2001.
INTRODUZIONE I73
un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la
musa altrui.
Tansillo. Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non
per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti
son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti '5'.
Bruno opera con chiarezza una distinzione di fondo. Le regole del-
l'aristotelismo cinquecentesco servono solo per «pittura dell'omerica
poesia», hanno cioè il compito di descrivere un modello. E pertanto
non possono ridurre la poesia a una meccanica riproduzione all'infi-
nito dello «stesso». Sarebbe, per riadoperare la metafora quintilianea,
come limitare la pittura alla passiva circoscrizione delle ombre. Delle
rigide norme, infatti, hanno bisogno esclusivamente «coloro che son
più atti ad imitare che ad inventare». I veri poeti, facendo natural-
mente i conti con la tradizione, si sforzano di operare uno scarto, un
salto, una deviazione nel tentativo di innovare, allargare gli orizzonti,
promuovere nuove prospettive. La poesia, infatti, «non nasce da le re-
gole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le
poesie» 554. Un'affermazione che rielabora nell'ambito della poetica
una polemica formula, finora sfuggita all'attenzione della critica bru-
niana, già usata da Cicerone nel suo De oratore: «sic esse non eloquen-
tiam ex artificio, sed artificium ex eloquentia natum»''?. In realtà, per
Marco Tullio i precetti imposti nelle scuole di retorica, da sterili gram-
matici intenti soltanto a insegnare come si debba insegnare, non ser-
vono a creare i buoni oratori. Non bisogna confondere il mezzo con lo
scopo: prima di proferire parola il vero retore deve pensare, deve stu-
diare, deve impare a conoscere uomini e libri, deve abbracciare, in
maniera generale, diversi domini del sapere; deve essere, insomma,
oratore e filosofo nello stesso tempo. Senza Vingenium^^'^ personale V ar-
tificium non può produrre effetti eccezionali: i grandi oratori non deri-
vano dal rispetto delle regole, ma le regole derivano dall'eloquenza dei
grandi oratori '57.
553. Furori, p. 528.
554. Ibidem.
555. «Così possiamo dire che non è stata l'eloquenza a nascere dalla teoria,
ma la teoria dall'eloquenza»: Cicerone, De oratore, in Opere retoriche, a cura di
Giuseppe Norcio, Torino, Utet, 1976 (I, xxxii, 146), pp. 160-161.
556. La polisemica nozione di ingenium avrà grande fortuna tra la fine del
Cinquecento e l'inizio del Seicento: cfr. La métaphore baroque. D'Aristote à Te-
sauro. Extraits du Cannocchiale aristotelico, présentés, traduits et commentés
par Yves Hersant, Paris, Seuil, 2001, pp. 187-190.
557. Su questi temi cfr. V Introduction di Edmond Courbaud à Cicéron, De
Vorateur, texte établi et traduit par Edmond Courbaud, Paris, Les Belles Let-
tres, 1985 [1922], t. I, pp. X-XV.
174 INTRODUZIONE
Ancora una volta bisogna ricorrere a Narciso. Lui, inventore della
pittura, incarna, secondo la prospettiva teorizzata da Alberti, l'affer-
mazione «della libertà dell'artista nella gestazione creatrice, nella crea-
zione dell'opera «^'s. Però, come sottolinea giustamente Barbieri, soste-
nere l'autonomia del pittore, la sua capacità di misurarsi con un
mondo cangiante e mutevole, non significa rivendicare scelte e com-
portamenti «anarchici». Con questo mito, l'autore del De pidura vuole
simbolicamente indicare «il rifiuto di una concezione troppo o esclu-
sivamente mimetica dell'arte (e della pittura in particolare) »559. Del
resto - si pensi alla comparazione del Cusano - la stessa creazione
operata da Dio è assimilata a quella del «pittore che mescola diversi
colori per potersi ritrarre e avere un'immagine di sé in cui la sua arte
trovi diletto e si acquieti»'''". Ma la figura di Narciso, nella prospettiva
indicata da Agamben, si ricollega anche al ruolo che la fantasia può
giocare in un'estetica dominata da immagini e fantasmi che si riflet-
tono in un miroérs penlleus''^K
L'autore, nelle sue vesti di artifex, non può muoversi passivamente
all'interno di un perimetro segnato da norme e modelli ben precisi.
Ecco perché nei Furori, l'attacco ai grammatici, pur riprendendo mo-
tivi già ampiamente sviluppati in precedenza, si concentra con più
vigore sull'uso insensato delle regole. L'ira del Nolano, infatti, si sca-
glia contro «certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal nu-
mero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore con-
formi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei
d'Omero e Vergilio» o «per mille altre maniere d'examine, per censure
e regole». Questi asini, credendo che la letteratura possa identificarsi
esclusivamente con le loro prescrizioni, finiscono per attribuire solo a
558. G. Barbieri, L'inventore della pittura. Leon Battista Alberti e il mito
della pittura cit, pp. 256-257.
559. Ibidem, pp. 213-214.
560. Nicolò Cusano, La visione di Dio, in Opere filosofiche, a cura di Gra-
ziella Federici-Vescovini, Torino, Utet, 1972, p. 603. Sul tema di Dio quasi
pictor, anche in relazione ai commenti al Timeo platonico, si vedano le interes-
santi osservazioni di Barbieri, L'inventore della pittura. Leon Battista Alberti e
il mito della pittura cit., pp. 42-50.
561. Cfr. Giorgio Agamben, La parola e il fantasma nella cultura occiden-
tale cit, pp. 84-120. Sullo specifico ruolo delle immagini, della phantasia e del-
Vimaginatio in Giordano Bruno rinviamo ai lavori di: Robert Klein, L'imma-
ginazione come veste dell'anima in Marsilio Ficino e Giordano Bruno, in La forma
e l'intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l'arie moderna, Torino, Einaudi, 1975,
pp. 45-74; Eugenio Garin, «Phantasia» e «imaginatio» fra Ficino e Pomponazzi,
in Umanisti Artisti Scienziati. Studi sul Rinascimento italiano, Roma, Editori
Riuniti, 1989, pp. 305-317 (ma si veda, nello stesso volume, anche il saggio II
termine «spiritus» in alcune discussioni fra Quattrocento e Cinquecento, pp. 295-
303)-
INTRODUZIONE I75
se stessi il titolo di «veri poeti», mentre in effetti «non son altro che
vermi che non san fare cosa di buono» se non «rodere, insporcare e
stercorar gli altrui studi e fatiche» '''2.
Il petrarchismo, come abbiamo visto, è il più evidente risultato di
questa follia normativa. È l'eloquente prodotto di una letteratura con-
venzionale, autoreferenziale, fissata in schemi e griglie precostituite.
Diventa l'esempio schiacciante di un linguaggio vuoto, capace di dire
se stesso, all'interno di uno spazio mondano chiuso e limitato:
Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et in-
tonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d'insegne, d'im-
prese, de motti, d'epistole, de sonetti, d'epigrammi, de libri, de prolissi
scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con strida ch'assordiscon
gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, doglie che fanno
stupefar l'anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per
quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel
vermiglio, per quella lingua [...]; quel schifo, quel puzzo, quel sepolcro,
quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella
estrema ingiuria e torto di natura '6'.
In questo comico repertorio di temi e immagini. Bruno condensa
una tradizione da cui prende le distanze sul piano dei contenuti e
dello stile. Nei Furori, è vero, si parla di amore, si leggono e si com-
mentano versi, si disegnano e si descrivono «pitture». Ma - come ab-
biamo visto — questo «canzoniere» si colloca in un orizzonte in cui la
poesia ritrova il suo legame con la filosofia e con la vita, mostrando di
essere frutto di «invenzione» più che di «imitazione». Al Nolano, in-
somma, non interessa «rovesciare» gli schemi e il lessico petrarchista
all'interno di un codice parodico dove il modello finisce per essere la
conditio sine qua non dell'antimodello. Non si tratta di un gioco lette-
562. Ibidem, p. 529. Ma, oltre alle esilaranti pagine antipedantesche del Can-
delaio (cfr. supra, p. 47), si veda anche il celebre passaggio del De la causa {su-
pra, p. 76).
563. Furori, pp. 489-490. Così Bruno, nel «Proprologo» del Candelaio, anti-
cipa le vicende dell'innamorato Bonifacio, comico rappresentante di un uso
degradato della lirica d'amore: «Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadac-
chiamenti, tremori, sogni, rizzamenti, «e un cuor rostito nel fuoco d'amore»;
pensamenti, astrazzioni, colere, maninconie, invidie, querele, e men sperar quel
che più si desia Qui trovarrete a l'animo ceppi, legami, catene, cattività, prig-
gioni, eteme ancor pene, martìri e morte; alla ritretta del core, strali, dardi,
saette, fuochi, fiamme, ardori, gelosie, suspetti, dispetti, ritrosie, rabbie et oblìi,
piaghe, ferite, omei, folli, tenaglie, incudini e martelli; «l'archiero faretrato,
cieco e ignudo». L'oggetto poi del core, un cuor mio, mìo bene, mìa vita, mia
dolce piaga e morte, dio, nume, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, tra-
montana stella, et un bel sol ch'a l'alma mai tramonta; et a l'incontro ancora,
crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto dì diamante, [...]» (pp. 277-278).
176 INTRODUZIONE
rario, di un esercizio ludico, di un divertissetnent retorico. Senza queste
premesse, non sarebbe possibile capire fino in fondo la scelta di «ria-
bilitare» il fronte eterogeneo della poesia comica - di coloro che nel
passato «han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l'asino,
de Sileno, de Priapo» e che oggi cantano «lodi de gli orinali, de la
piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del mar-
tello, della caristia, de la peste» - fino a porlo sullo stesso piano del
petrarchismo"^. In verità. Bruno non esita a riconoscere dignità lette-
raria a certe aree dell'antipetrarchismo, a certi testi trasgressivi di cui
lui stesso si è servito per arricchire il suo bagaglio linguistico e stili-
stico. Ma lo fa, nella consapevolezza di un disegno che va molto al di
là di quella concezione della poesia-
Dei resto, nei Furori è detto con chiarezza che il genio poetico può
esercitarsi in modi e maniere diverse. Esistono, infatti, «più specie de
poeti e de corone» non soltanto per «quante son le muse, ma e di gran
numero di vantaggio »5^5 Bruno, coerentemente con la sua aperta vi-
sione del mondo, proietta la letteratura in un universo ampio e varie-
gato di forme e di stili, di contenuti e di generi. Promuove il comico a
un'altissima dignità, liberandolo dal ruolo subalterno in cui la pedan-
teria dei grammatici lo aveva racchiuso. Ricorda, nello Spaccio, che gli
dèi leggono anche «la Pippa, la Nanna, l'Antonia, il Burchiello, l'An-
croia» in ragione del fatto che «pigliano piacere nella moltiforme re-
presentazione di tutte cose, e frutti moltiformi de tutti ingegni »"=^. Ri-
fiuta categoricamente di legiferare in materia di poetica, sostituendo
regole con regole, schemi con schemi, immagini con immagini. E
quando Cicada chiede «come dumque saranno conosciuti gli vera-
564. Furori, p. 498. In chiusura di questo brano. Bruno significativamente
aggiunge: «le quaU [le cose futili cantate dai poeti burleschi] non men forse sen
danno gir altere e superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi, che debbano
e possano le prefate et altre dame per gli suoi» {Ibidem). Alle «cose basse» si fa
anche riferimento in un brano della versione primitiva della Cena: «È lecito, et
è in potestà di principi, de essaltar le cose basse: le quali se essi farran tali,
saran giudicate degne, e veramente saran degne; et in questo gli atti loro son
più illustri e notabili, che si aggrandissero i grandi [...]. Or vedete con qual
similitudine potrete intendere per che Teofilo exaggere tanto questa materia:
la qual quantumque rozza vi paia, è pur altra cosa che esaltar la Salza, VOrti-
cello, il Culice. la Mosca, la Noce, e cose simili con gli antichi scrittori; e con
que' di nostri tempi, il Palo, la Stecca, il Ventaglio, la Radice, la Gniffeguerra, la
Candela, il Scaldaletto, il Fico, la Quintana, il Circello. et altre cose che non solo
son stimate ignobili, ma son anco molte di quelle stomacose» (pp. 579-580).
Sulla letteratura dell'elogio paradossale si veda da ultimo Maria Cristina
FiGORiLLi, L'elogio paradossale nel Cinquecento. Indagine su testi volgari in pro-
sa cit
565. Furori, p. 528.
566. Spaccio, p. 278.
INTRODUZIONE I77
mente poeti», Tansillo risponde con una tautologia che lascia indefi-
nita la questione: «Dal cantar de versi» 5^^. Ma nonostante l'avversione
a creare nuove norme, Bruno non rinuncia però a esprimere le sue
priorità. Assegna la corona di mirto «a quei che cantano d'amori»,
riservando la corona d'alloro esclusivamente a «quei che degnamente
cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia spe-
culativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio
exemplare a gli gesti politici e civili w^^s.
Poesia-filosofia e poesia-teologia
Alla letteratura e alla poesia, quindi, viene riconosciuta una impor-
tantissima funzione morale e sociale. Devono servire innanzitutto da
«specchio exemplare» per promuovere «gesti politici e civili». Un
compito fondamentale che richiede una specifica formazione, che va
ben al di là delle normali competenze attribuite ai protagonisti del-
l'ampia e variegata repubblica degli scrittori. I veri poeti devono per
prima cosa esercitarsi «alla contemplazion, e studi de filosofia». Senza
fervore intellettuale e consuetudine con il sapere, infatti, l'impegno let-
terario risulterebbe inefficace, poiché le attività «cogitative», in qua-
lità di «parenti de le Muse» 5^^, devono «esser predecessori a quelle »'''°.
Non a caso nella Lampas triginta statuarum, Bruno ricorda che i sa-
pienti «diventano poeti e filosofi non tanto per un dono gratuito,
quanto piuttosto per il loro zelo e impegno» («qui non tantum ex
dono quantum etiam ex industria quadam et studio fiunt poetae et
philosophi»)'^'.
Non c'è da meravigliarsi, dunque, se in un celebre passaggio del-
VExplicatio triginta sigillorum, opera di mnemotecnica pubblicata nel
1583, il vero poeta viene associato al vero filosofo e al vero pittore:
Idem ad utrumque proximum est principium; ideoque philosophi sunt
quodammodo pictores atque poetae, poetae pictores et philosophi, pictores
567. Furori, p. 528.
568. Ibidem, p. 527.
569. Sul rapporto tra le Muse e la «nolana filosofia» si veda Andrzej
NowiCKi, Giordano Bruno e la filosofia di «cultus musarum» e «ardens erga reli-
gio», in Giordano Bruno e il Rinascimento quale prospettiva verso una cultura
europea senza frontiere. Atti del convegno di Bucarest (3-5 dicembre 2000), a
cura di Smaranda Bratu Elianu (in corso di stampa).
570. Ibidem, p. 527.
571. Giordano Bruno, Opere magiche, edizione diretta da Michele Cili-
berto, a cura di Simonetta Bassi, Elisabetta Scapparone, Nicoletta Tirinnanzi,
Milano, Adelphi, 2000, p. 1233.
178 INTRODUZIONE
philosophi et poètae, mutuoque veri poétae, veri pictores et veri philo-
sophi se diligunt et admirantur'"^.
Il filosofo-pittore-poeta non può trascurare il piano formale. Sa che
un processo eversivo non riguarda solo i contenuti. Sa che la lingua, la
metrica, lo stile e la stessa scelta dei generi contribuiscono in maniera
importantissima ad esprimere un pensiero teso a spezzare catene di
ogni sorta. Liberare l'universo dallo spazio angusto della vecchia co-
smologia, annullare le differenze tra cielo e terra, riunificare una volta
per tutte forma e materia, identificare la «divinità» con la forza vitale
che anima ogni cosa dalFintemo, riassegnare alla religione la sua au-
tentica funzione di cemento sociale, esaltare l'infinito percorso verso la
conoscenza infinita: tutto ciò non può prescindere da una scrittura ca-
pace di farsi essa stessa universo infinito, coincidenza degli opposti,
teatro della varietà e della contraddizione. Dal lessico alla sintassi, dal
verso alla struttura metrica ogni singolo elemento espressivo viene
piegato a questa eroica funzione'''. Lx) stile bruniano, che per molto
tempo aveva destato perplessità in filosofi e letterati, solo negli ultimi
decenni è stato oggetto di accurate analisi che gli hanno procurato
uno spazio di rilievo anche nelle storie della letteratura'"-*.
Ma Bruno è consapevole del fatto che la battaglia per liberare la
poesia e gli altri generi dalle regole e dalle norme dei pedanti non
basta. L'aggressione alla concezione «tolemaica» della lingua e della
scrittura non può prescindere da un'azione eversiva che sottragga la
letteratura al dominio della teologia'"'. Bisogna attivare anche sul
piano dell'estetica lo stesso processo di liberazione avviato nelle sfere
dell'etica, della cosmologia e della gnoseologia. Anche in questo am-
572. Giordano Bruno, Opp. lat. (II/II), p. 133. Del resto, la stessa arte della
memoria è una pittura-scrittura; Fr.'VNCES A. Yates, Varie della memoria cit,
pp. 34-41 (ma cfr. anche Lina Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli lette-
rari e icotwgrafici nell'età della stampa cit).
573. Su questi temi cfr. Nuccio Ordine, L'entropia della scrittura, in La
cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit, pp. 143-168.
574. Vorrei almeno ricordare l'importante presenza di Giordano Bruno ne
La letteratura italiana. Storia e testi diretta da Carlo Muscetta (Laterza), nella
Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno
(Garzanti), nella Storia della civiltà letteraria italiana diretta da Gioito Bàrberi
Squarotti (Utet) e nella einaudiana Letteratura italiana diretta da Alberto Asor
Rosa (in cui La cena de le Ceneri viene inserita nel «canone» dei classici). Tra i
manuali, la figura del Nolano occupa una spazio di particolare rilievo nella
Storia della letteratura italiana di Giulio Terroni (Einaudi scuola).
575. Per un'analisi del dibattito in ambito umanistico sui rapporti tra poe-
sia e teologia è utilissima la rassegna offerta ora da Francesco Bausi, Poesie et
religion au Quattrocento, in Poétiques de la Renaissance cit, pp. 219-238.
INTRODUZIONE I7g
bito, l'esercizio della pedanteria, incarnato nel radicalismo riformato e
cattolico, rivela tutta la sua estrema pericolosità.
Calvino, in prima persona, conduce la crociata contro i falsi e bu-
giardi letterati che usano le immagini poetiche per deviare e perver-
tire i buoni cristiani:
Cette bende [ceux qui convertissent à demi la chrétienté en philo-
sophie] est quasi toute de gens des lettres. Non pas qua toutes gens de
lettres en soient. Car i'amerois mieux que toutes les sciences humaines
fuissent exterminées de la terre, que si elle estoyent cause de refroidir le
zele des chrestiens et les destoumer de Dieu'^^\
In questo brano, tratto da VExcuse à Messieurs les nicodemites (1544),
l'esponente di punta della Riforma ginevrina sancisce in maniera
esplicita e violenta la rottura tra letteratura e fede, tra la corrotta filo-
sofia e la divina teologia. Addita, con l'indice teso, i princìpi di natura
etica ed estetica da cui nessun buon cristiano deve derogare. Innanzi-
tutto, è necessario rinunciare al fascino apparente della cultura pa-
gana, della mitologia, della pura menzogna, per abbracciare invece la
verità della fede. Norme poetiche e morali ben precise, dunque, che
durante le guerre di religione si inaspriranno sempre più, fino a met-
tere in difficoltà gli stessi poeti cristiani, incapaci di rinunciare alla
loro formazione umanistica in nome di un rispetto della parola sacra
imposto con metodi coercitivi. All'interno di questo contesto però, di-
venta sempre più difficile conciliare la poesia pagana con il culto dei
testi sacri. Basterebbe rileggere le «soglie» di alcune opere di Théodore
de Bèze, di Louis Des Masures, di Jean Tagaut, di Henri Hestienne, di
Claude de Boissière, di Jean Macer, di André de Rivaudeau — fautori
del rigore teologico - per ritrovare, con parole e argomentazioni di-
verse, una poetica tutta proiettata verso la condanna della tradizione
lirica sia sul piano dei contenuti (come si possono invocare le Muse o
riconoscere all'Amore una forza divina, mescolando sacro e profano?)
che su quello più specifico dello stile (come si possono forgiare nuovi
vocaboli o, addirittura, intrecciare serio e comico?)'''''.
576. Jean Calvin, Excuse à Messieurs les nicodemites, in Joannis Calvini
opera, ediderunt Guilielmus Baum, Eduardus Cunitz, Eduardus Reuss, Bruns-
vigae, Apud C. A. Schwetschkeet et Filium, 1867, t. VI, e. 600 [Corpus reforma-
torum, voi. XXXIV]; cfr. Marcel Raymond, Uinfluence de Ronsard sur la poe-
sie frangaise (1550-1585), Paris, Champion, 1927, p. 330.
577. Cfr. Nuccio Ordine, Introduction à G. Bruno, Expulsion de la bète
triomphante cit, pp. CLXXII-CLXXVIII. Sulla nozione di «soglia» testuale cfr.
GERARD Genette, Soglie. I dintorni del testo [1988I, a cura di Camilla Maria
Cedema, Torino, Einaudi, 1989.
l80 INTRODUZIONE
La fabula, i poeti e i «versificatori»
Nella Francia degli anni sessanta, allo scoppio dei primi conflitti
religiosi, gli attacchi sul piano estetico si concentrano contro la
Plèiade, che aveva fatto della mitologia pagana e dell'uso della fabula
uno dei punti forti della sua poetica. Non a caso la polemica di Ron-
sard contro i protestanti, su cui mi sono soffermato all'inizio, investe
anche una serie di temi di natura letteraria. Nel replicare agli anonimi
pamphlet - che lo accusavano di essere un poeta «innovatore», tra-
sgressivo, epicureo, dedito alla lettura di Aretino, di Boccaccio e di
antichi autori pagani — il Vendòmois insiste a più riprese sul ruolo
gnoseologico del mito: da una parte, infatti, esso aiuta a comprendere
ciò che altrimenti resterebbe incomprensibile e dall'altra, invece, copre
la verità con un sottile velo per evitare che possa essere sporcata dai
profani. La. fabula, insomma, «svela» perché traduce in immagini con-
crete le conoscenze più astratte e, nello stesso tempo, «vela» ciò che
deve essere difeso dallo sguardo superficiale dell'uomo comune. In
questo doppio, e antitetico, movimento sta l'essenza della poesia, si
concretizza Tatto creativo del poeta, così come l'aveva teorizzato il
grande umanista, Jean Dorat:
M'apprist la Poesie, et me monstra comment
On doit feindre et cacher les fables proprement
Et à bien desguiser la verité des choses
D'un fabuleux manteau dont elles sont encloses'^^.
Anche per Ronsard, dunque, la vera poesia nasce come una specie
di «Theologie allegorique» con la funzione, prettamente filosofica, di
suscitare la ricerca della verità, di incitare a «superare» l'ombra,
perché «jamais hommes ne congneut parfaictement la cause des cho-
ses, sinon par umbre et en nue»^^''. E nello svolgere il suo lavoro, il
poeta, nel ruolo di «Philosophe bardi w'**", si comporta spesso come il
pittore quando «dipinge» i veli ben sottili con cui copre alcuni detta-
gli della sua operarsi. Su queste basi, il principe della Plèiade distin-
578. Ronsard, Hynne de l'Autonne, in (Euvres complètes cit, t II (w. 79-82),
p. 561.
579. Ronsard, Des vertues intelleduelles et moralles {Ibidem, p. 1193).
580. Ronsard, Hynne de l'Hyver, v. 25 {Ibidem, p. 571).
581. «Fuis à fin que le peuple ignorant ne mesprise / La verité cognue
apres l'avoir apprise, / D'un voile bien subtil (comme les peintres font / Aux
tableaux bien portraits) luy couvre tout le front, / Et laisse seulement tout au
travers du voile / Paroistre ses rayons comme une belle estoile, / A fin que le
vulgaire ait desir de chercher/La couverte beauté dont il n'ose approcher»:
Ronsard, L'Hynne de l'Hyver {Ibidem, p. 572, w. 71-78).
INTRODUZIONE l8l
gue tra il poeta eroico, che sempre con argomenti nuovi si sforza di
mettere in comunicazione gli uomini con gli dèi, e i banali «versifica-
tori», che credono di «avoir beaucoup fait pour la Republique, quand
ils ont compose de la prose rimée»'^^
Sulla stessa opposizione ritoma più volte anche Bruno nei dialoghi
italiani e in qualche opera latina. Nello Spaccio, in un contesto domi-
nato dall'Ozio, spetterà a Momo ricordare quei «vani versificatori ch'ai
dispetto del mondo si vogliono passar per poeti «^^^^ mentre nei Furori
il termine «versificatore» viene utilizzato proprio in diretto contreisto
con quello di poeta '84. Senza la conoscenza precisa dei meccanismi
che regolano la rappresentazione del velo'*^ non sarà possibile utiliz-
zare in maniera consapevole l'ampio materiale mitologico, né operare
scarti originali rispetto alla tradizione e ai precedenti modelli. Del re-
sto, la duplice funzione che la Sollecitudine assegna nello Spaccio alla
Sagacità la dice lunga sulla dialettica nascondere/mostrare («Fa ch'il
mio lavoro sia occolto e sia aperto: aperto, acciò che non ogniuno il
cerca et inquira; occolto, acciò che non tutti, ma pochissimi lo ritrove-
no»)^^'', in cui è possibile riconoscere i tratti essenziali della poetica
del Sileno.
Ma anche in presenza della fabula bisogna fare attenzione. I miti e
i «veli» si possono utilizzare per scopi che non hanno nulla a che
vedere né con la filosofia morale, né con quella contemplativa. Tanti
versificatori ne fanno uso, come accade in certa lirica d'amore, solo ed
esclusivamente all'interno di un codice puramente letterario e mon-
582. RoNSARD, Au lecteur apprentif, in Franciade, t. I, p. 11 64.
583. Spaccio, p. 332.
584. «Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta
Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in
numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica d'Aristotele»:
Furori, p. 528. Ma nel De umbris idearum l'opposizione è messa in rilievo in
maniera più esplicita: «Logifer: Non sentis idem de carminilegis et versifica-
toribus nostris qui alienis inventionibus, hemiversibus et versibus prò suis se
nobis venditant poetis? Philothimus: Mitte poetas. Sicut enim prò locis sci-
mus longas regibus esse manus, ita et altae longaeque prò locis atque tempo-
ribus poetis solent esse voces. Logifer: De versificatoribus dixi, non poetis»
[«LOGIFERO. Non la pensi allo stesso modo dei nostri raccoglitori di carmi e
versificatori, che con gli altrui ritrovati, emiversi e versi, cercano di procac-
ciarsi il nostro plauso come se fossero quei loro poeti? Filotimo. Lascia stare i
poeti. Infatti come sappiamo che in certi luoghi i re hanno le mani lunghe,
così anche i poeti, in certi tempi e luoghi, hanno di solito voci alte ed insi-
stenti. LoGiFERO. Ho detto dei versificatori, non dei poeti»): Giordano Bruno,
De umbris idearum, ed. Sturlese, pp. 20-21; trad. it., a cura di N. Tirinnanzi,
P- 54)-
585. Cfr. L. Chines, / veli del poeta. Un percorso tra Petrarca e Tasso, Roma,
Carocci, 2000.
586. Spaccio, p. 310.
l82 INTRODUZIONE
dano. Ai migliori si potrà assegnare una corona di mirto. Mentre
quella di alloro spetterà al poeta-filosofo-pittore capace di impegnarsi
in una poesia filosofica, animata da una grande tensione etico-civile.
L'elogio di Sidney, poeta-fUosofo-uomo d'azione
Si tratta di una posizione teorica che potrebbe trovare ulteriori
conferme nella scelta di dedicare lo Spaccio e i Furori a sir Philip
Sidney. Bruno, come al solito, spiega con precisione le ragioni del
«dono», evidenziando le raffinate qualità intellettuali del giovane gen-
tiluomo inglese, capace di racchiudere in sé il poeta, il filosofo e
l'uomo dotato di animo eroico:
A voi dumque si presentano, perché l'Italiano raggioni con chi l'in-
tende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d'un poeta; la filosofia
si mostre ignuda ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose eroiche
siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate do-
tato's^.
Un destinatario, insomma, in grado di dominare con sicurezza i
molteplici temi affrontati da Bruno nei due dialoghi. Dalle dediche,
infatti, emergono tratti significativi di una personalità poliedrica, con-
fermati anche da Fulke Greville nella biografia dedicata all'uomo
d'azione e al poeta-filosofo 5^». Basta rileggere, inoltre, alcuni passaggi
dell'Arcadia, per cogliere, nel complesso intreccio del romanzo pasto-
rale, echi dei dibattiti su vizi e virtù, sulla vita attiva e su quella con-
templativa, che si andavano svolgendo nella corte di Elisabetta'^'*. Ma
soprattutto Sidney è autore di un polemico trattatello, pubblicato po-
stumo nel 1595, intitolato VElogio della poesià^'^^. Probabilmente si
tratta di una risposta, elaborata intomo al 1581, a Stephen Gosson,
587. Furori, p. 521.
588. Cfr. Fulke Greville, Life of Sir Philip Sidney [1652], Oxford, 1907.
589. Su questo aspetto cfr. Nuccio Ordine, Introdudion à G. Bruno,
Expulsion de la bète trtomphante cit, pp. CLXII-CLXIII. Ma si veda soprattutto
il volume di B. VVorden {The Sound of Virtue. Philip Sidney's Arcadia and Eli-
zabethan Politics, New Haven-London, Yale University Press, 1997, capitolo II),
in cui si mostra come la concezione della virtù sia legata all'azione e come
nelY Arcadia la religione si fondi su princìpi di natura etica e non teologica.
590. La Defence of Poetry ebbe certamente una circolazione manoscritta nei
primi anni Ottanta del Cinquecento. Le posizioni di Sidney, infatti, influenza-
rono une serie di trattati che in quegli anni affrontavano questioni molto si-
mili: si pensi al Discourse of English Poesie di William Webbe (1586) o all'Apo-
logie of Poetrie di sir John Harington (1591). Su questo aspetto cfr. Pietro Spi-
nucci, Teatro elisabettiano teatro di Stato. La polemica dei puritani inglesi contro
il teatro nei secoli XVI e XVII, Firenze, Olschki, 1973, p. 104.
INTRODUZIONE 183
autore di un pamphlet, The School of Abuse (1579), in cui si condanna-
vano i poeti, i musicisti e gli attori, accusati di distogliere il pubblico
dalle necessarie attività religiose ^'^i.
Nelle argomentazioni di Sidney in difesa della poesia è possibile
trovare interessanti indicazioni per capire che cosa avesse spinto
Bruno a dedicare a un protestante un violento dialogo contro la pe-
danteria dei riformati {Spaccio) e un «canzoniere filosofico» fortemente
critico con la tradizione lirica petrarchista e con un uso futile dei temi
d'Amore {Furori). In effetti, VElogio della poesia si configura come
un'importante apologia delle funzioni morali della letteratura. Qui ab-
biamo un protestante moderato che reagisce con vigore all'intolle-
ranza di un puritano militante («le finalità e i metodi della Poesia, se
correttamente applicati, non meritano di essere banditi dalla Chiesa di
Dio»), riconoscendo alla poesia un ruolo fondamentale per educare i
lettori ai più alti valori etici. Il vero scrittore, infatti, disegna con la
sua immaginazione la figura di uomini eccezionali in grado di fornire
modelli eroici di comportamento utilissimi alla vita civile:
questo atto creativo, inoltre, non è interamente frutto di immagina-
zione, come solitamente diciamo di chi costruisce castelli in aria, ma il
suo effetto è così sostanziale da creare non già un solo Ciro (il che sarebbe
imitabile dalla Natura stessa), ma da regalare al mondo un Ciro capace di
generarne molti altri, a patto che ben s'intenda come e perché egli sia
stato creato dal suo artefice''*-.
Sidney, per essere ancora più chiaro, ribadisce che il sapere su-
premo risiede «nella conoscenza di sé e nella riflessione etica e poli-
tica, con lo scopo non solo di conoscere ma anche di ben agire »5''^. E
se «il fine ultimo di ogni umano sapere è l'azione virtuosa, tutte le arti
che maggiormente servono a promuoverla saranno le più degne del
titolo di virtù maestre, superiori ad ogni altra»'''*-*. Proprio per l'impor-
tante funzione di incoraggiare «l'uomo a mettere in pratica ciò che si
591. Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia delV estetica. III. L'estetica moderna,
a cura di Giampiero Cavaglià, Torino, Einaudi, 1980, p. 384. Al pamphlet di
Gosson, replicò immediatamente nel 1580 lo scrittore e medico Thomas Lodge
con un trattato, intitolato Defence of Poetry (cfr. Anna Anzi, Storia del teatro
inglese dalle origini al Seicento, Torino, Einaudi, 1997. pp. 82-83). Sulle circo-
stanze della pubblicazione deìVElogio della poesia si veda anche Ronald Le-
VAO, Préface à Philip Sidney, Éloge de la poesie, traduction de Patrick Hersant,
Paris, Les Belles Lettres, 1994, pp. IX-XI.
592. SiR Philip Sidney, Elogio della poesia, a cura di Marco Pustianaz, Ge-
nova, il Melangolo, 1989, pp. 29-30.
593. Ibidem, p. 34.
594. Ibidem.
184 INTRODUZIONE
apprende» 5^5, la poesia dovrebbe ottenere una posizione di grande ri-
lievo nella vita intellettuale e civile.
Ma il giovane gentiluomo inglese sa che le sue posizioni trovano
difficilmente ascolto in un momento storico minacciato dalla pedan-
teria, da grammatici sempre pronti «a correggere il verbo prima di
comprendere il sostantivo, e a confutare le nozioni altrui prima di sa-
per chiarire le proprie» 5'*'^. A chi si muove sulla superficie delle parole
non è dato distinguere tra poeta e versificatore:
Ma sono i versi e le rime ad offrire la maggior opportunità al loro bef-
fardo umore. Si è già detto, e penso giustamente, che non sono rime e versi
a fare la Poesia: si può essere poeti anche senza comporre in versi e versi-
ficatori senza essere poeti ''^.
Non basta scrivere versi per essere poeta. Un'affermazione che, ol-
tre a mettere in gioco diverse concezioni della poesia, finisce per inve-
stire radicalmente due opposte visioni della conoscenza e della vita: la
pedanteria da una parte e la poesia-filosofia dall'altra.
Scrivere la vita e vivere la filosofia
Il mito di Narciso, nella «rilettura» proposta da Paolo Pino nel suo
Dialogo della pittura, potrebbe anche alludere al simbolico rapporto
che l'autore intrattiene con la sua opera 5''*^. Nella relazione amorosa
595. Ibidem, p. 43.
596. Ibidem, p. 53.
597. Ibidem.
598. Maurice Brock (Narcisse ou l'amour de la peinture: le Dialogo di pit-
tura de Paolo Pino, in «Albertiana», IV, 2001, pp. 189-227) mostra come nel
dialogo di Pino il mito di Narciso, superando l'idea albertiana dell'invenzione
della pittura, finisca per rappresentare la relazione che si instaura tra il pittore
e la sua arte. L'amore visto come fonte dell'invenzione artistica è un concetto
che ritoma con insistenza nel neoplatonismo fiorentino: cfr. André Chastel,
Marsile Ficin et l'art, préface de Jean Wirth, Genève, Droz, 1996, pp. 130-148
(trad. it. a cura di Ginevra de Maio, Torino, Nino Aragno Editore, 1992). Del
resto, anche nel mito delle origini della coroplastica (modellazione in terracot-
ta), raccontato da Plinio, la prima opera nasce, con l'espediente del contomia-
mento di un'ombra proiettata a partire dal lume di una lanterna e non dalla
luce del sole come racconta Quintiliano, per un atto d'amore: «Fingere ex ar-
gilla similitudines Butades Sicyonius figulus primus invenit Corinthi filiae
opera, quae capta amore iuvenis, abeunte ilio peregre, umbram ex facie eius ab
lucemam in pariete lineis circumscripsit, quibus pater eius inpressa argilla
typum fecit [...]» [«Butade Sicionio, vasaio, per primo trovò l'arte di foggiare
ritratti in argilla, e questo a Corinto, per merito della figlia che, presa d'amore
per un giovane, dovendo quello andare via, tratteggiò i contomi della sua om-
bra, proiettata sulla parete dal lume di una lanterna; su queste linee il padre
impresse l'argilla riproducendone il volto»]: Gaio Plinio Secondo, Storia na-
INTRODUZIONE 185
con se stesso è possibile, infatti, ritrovare i tratti significativi del-
l'amore che lega l'artista al suo prodotto. Un legame che si caratterizza
innanzitutto per la sua natura materiale, fisica: l'ombra che Narciso
cerca di abbracciare gli appartiene, è parte di lui, è la proiezione del
suo corpo 5'''^. In sostanza, dipingere significa anche dipingere se stessi,
compiere un gesto di « autocontemplazione »^°°. Pittore e quadro, in-
somma, finiscono paradossalmente per diventare un'unica cosa, per es-
sere l'uno lo specchio dell'altro.
Un'immagine, forse, troppo generica. Ma che può aiutarci a capire
meglio come per Bruno scrivere significhi anche scrivere la propria
vita. Nelle opere italiane, infatti, ogni parola, ogni grafema tracciato,
contribuisce in maniera indiscutibile a costruire l'immagine di un
universo in cui vita e filosofia, biografia e letteratura si identificano
fino a fondersi l'una nell'altra'''^'. Proprio la radicalizzazione di questa
«identità» spinge il Nolano al punto «da scrivere in linguaggio filoso-
fico la propria vita, da diventare lui, come tale, materia filosofica»^"^.
turale. V. Mineralogia e storia dell'arte (Libri 33-37), cit. (XXXV. 43, 151), pp.
306-307 (cfr. Victor Stoichita, Breve storia dell'ombra. Dalle origini della pit-
tura alla Pop Art cit., pp. 13-22). Questo aneddoto pliniano sarà ripreso da
Charles Perrault per testimoniare che Amore ha fatto nascere la pittura dal
contornamento dell'ombra; «Sur le mur oppose la lamp en ce moment / Mar-
quoit, du beau gargon le visage charmant, / L'éblouìssant rayon de sa vive
lumiere / Serrant de tonte parts l'ombre épaisse & grossiere, / Dans le juste
contour d'un trait clair, & subtil / En avoit nettement designé le profil» (Ch.
Perrault, La Peinture, Edition présentée, établie et annotée par Jean-Luc
Gautier-Gentès, Genève, Droz, 1992 [vv. 627-631], p. 137). Il topos del rapporto
amante-ritratto è ricostruito da Maurizio Bettini, Il ritratto dell'amante, To-
rino, Einaudi, 1992 (si vedano, in particolare, i capitoli II e IX dedicati, rispet-
tivamente, a Butade e a Narciso).
599. Su questo legame «materiale» tra Narciso e la sua ombra insiste giu-
stamente Hubert Damisch, L'inventeur de la peinture, in «Albertiana», IV
(2001), p. 181.
600. Maurice Brock, Marcisse ou l'amour de la peinture: le Dialogo di pit-
tura de Paolo Pino cit., p. 206.
601. Mi sembra inutile specificare che questa lettura del rapporto tra bio-
grafia e opere si colloca al di là delle estreme posizioni teorizzate dal «biogra-
fismo» di stampo positivistico (ridurre le opere a mero supporto della biogra-
fia) e da alcune correnti del formalismo (separare le opere dalla vita, in nome
dell'autoreferenzialità linguistica dei testi). I limiti di questi due opposti atteg-
giamenti sono stati oggetto di un vasto dibattito che sarebbe impossibile qui
rievocare. Nel caso specifico di Bruno mi pare che la solidarietà tra vita e
filosofia sia mantenuta salda, nonostante la frammentarietà e le contraddizioni
che caratterizzano alcuni aspetti dell'una e dell'altra. Naturalmente, neH'acco-
stare vita e filosofia bisogna tener conto anche di quelle inevitabili incon-
gruenze che non permettono di stabilire facili equazioni in tutti i casi: su que-
sta questione cfr ora Richard Shusterman, Vivre la philosophie. Pragmatisme
et art de vivre, Paris, Klincksieck, 2001.
602. Biagio de Giovanni, Lo spazio della vita fra G. Bruno e T. Campanella,
in «il Centauro», n. 11-12 (1984), p. 14. Sui rapporti tra biografia e filosofia mi
l86 INTRODUZIONE
In questo senso, come abbiamo visto, la scritturci, la «pittura parlante»
messa in scena nella commedia e nei dialoghi, traduce sulla pagina la
quète gnoseologica di Bruno: parola e pensiero percorrono assieme
strade mai battute, aprendo la via a una diversa concezione della vita
e del sapere.
I segni vergati sulla carta e i segni impressi nella realtà con le pro-
prie azioni quotidiane parlano lo stesso linguaggio: esprimono il mo-
vimento, l'incertezza, lo scarto, l'insoddisfazione, lo sforzo, l'entusia-
smo, il bisogno di andare sempre al di là di ogni possibile confine, di
ogni invalicabile barriera, di ogni indiscutibile frontiera. Qui la parola
si fa vita e la vita si fa parola. Bruno scrive le sue opere. Ma nello
stesso tempo quelle opere scrivono la sua esistenza, ne segnano il per-
corso, ne condizionano la traiettoria, ne favoriscono gli esiti positivi e
negativi. Nessuna meraviglia, quindi, se proprio questi testi diventano
espressione eloquente di una forte presenza Si tratta di opere viventi,
che testimoniano in ogni pagina il bisogno di superare la frattura tra
la filosofia come discorso filosofico (il sapere che costruisce un sistema)
e la filosofia come esperienza vissuta^°^. La visione teorica non si con-
figura come fine a se stessa, come una formula astratta che domanda
solo un'adesione intellettuale. La scelta consapevole di una filosofia
dell'infinito richiede una partecipazione totale che comporta necessa-
riamente una modifica della propria vita, una metamorfosi. L'ardua
concezione di un cosmo senza limiti e la gioia di percorrerlo in lungo
e in largo in tutta la sua meravigliosa infinità producono necessaria-
mente una trasformazione dell'io: la coscienza si dilata a tal punto da
proiettare l'individuo oltre se stesso. Pensare l'infinito significa, in par-
ticolar modo, pensarsi come minuscola parte di un Tutto, significa
manifestare con entusiasmo la certezza che anche la propria vita par-
tecipa, in proporzione, all'incessante movimento dell'Universo. In que-
sta concezione della filosofia come permanente esercizio della quète, in
questo ritrovarsi in sintonia con una realtà nel suo farsi continuo.
Bruno afferma il valore infinito della vita.
Nella singolare autenticità di questa esperienza si concretizza la
consapevolezza che l'avventura della conoscenza e l'avventura della
vita sembrano correre parallele lungo lo stesso binario. Entrambe ne-
permetto di rinviare alla mia Préface à Vincenzo Spampanato, Vita di Gior-
dano Bruno, cit., pp. [VII-XXV]. Si veda anche Michele Ciliberto, Umbra
profunda. Saggi su Giordano Bruno cit., pp. 35-95.
603. Sull'opposizione tra discorso filosofico e filosofia come maniera di vi-
vere si vedano le affascinanti riflessioni di Hadot in Pierre Hadot, La phi-
losophie camme manière de vivre. Eniretiens avec Jeannie Carlier et Arnold I. Da-
vidson, Paris, Albin Michel, 2001.
INTRODUZIONE 187
gano la stasi, aprendosi all'infinità dell'universo. Il duro percorso
verso la domus sapientiae, sebbene si collochi all'interno di una dimen-
sione universale, non può non segnare il nostro cammino nel mondo,
non può non essere considerato parte integrante della nostra prassi
quotidiana, anche nelle azioni e nei gesti più umili. Vivere la cono-
scenza e scrivere la conoscenza equivale a scrivere la propria vita;
Venni tra gli altri io, attratto dal desiderio di visitare la casa della
sapienza, ardente di contemplare codesto Palladio, onde non mi vergogno
d'aver sopportato la povertà, la malevolenza e l'odio dei miei, le esecra-
zioni, le ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e giovai, gli effetti di
un'estrema barbarie e d'una avarizia sordidissima; [...]. Per il che non mi
duole d'esser incorso in fatiche, dolori, esilio: che faticando profittai, sof-
frendo feci esperienza, vivendo esule imparai: che trovai in breve fatica
lunga quiete, in leggera sofferenza gaudio immenso, in un angusto esilio
una patria grandissima^"^.
Senza cogliere questo nesso tra biografia e pensiero, tra vita e lette-
ratura, sarebbe difficile afferrare il senso profondo della tragica morte
del Nolano. Chi osa sostenere e diffondere idee che mettono in discus-
sione dogmi religiosi e cosmologici, etici e letterari, politici ed estetici
non è destinato all'ascolto ma all'emarginazione e, nei casi più
estremi, alla persecuzione e al sacrificio della vita. Non a caso il filo-
sofo infiammato dall'amore per la conoscenza conclude la sua esi-
stenza, come la farfalla dei Furori, nella luce di un rogo. Ma proprio
tra quelle fiamme, alimentate da una feroce intolleranza. Bruno scrive
una delle pagine più eloquenti della sua filosofia: si possono ridurre in
cenere uomini e libri, senza impedire però che il pensiero continui a
circolare, che le parole possano trasudare entusiasmo e trasmettere
pcissione. In altri termini: se biografia e filosofia coincidono, la vita
non sarà sconfitta dalla morte. Anzi, la morte potrebbe diventare
604. «Veni Inter alios ego istius domus sapientiae visendae amore concita-
tus, flagrans spectandi Palladii istius ardore, prò quo me subisse non pudet
paupertatem, invidiam et odium meorum. execrationes, ingratitudines eorum,
quibus prodesse volai, atque profui, extremae barbariei et avaritiae sordidissi-
raae effectus: ab iis, qui mihi amorem, servitium et honorem debebant, convi-
tia, calumnias, iniurias, etiam infamias. Neque pudet expertum esse irrisiones,
contemptus ignobilium atque stultorum, quorumdam qui piane bestiae cum
sint, cultu atque fortuna sub imagine et similitudine hominum, temeraria su-
perbiunt arrogantia. Pro quo incurrisse non piget labores, dolores, exilium:
quia laborando profeci, dolendo sum expertus, exulando didici: quia inveni in
brevi labore diutumam requiem, in levi dolore immensum gaudium, in angu-
sto exilio patriam amplissimam»: Opp. lat., I/I, pp. 21-22 (traduzione italiana:
Giordano Bruno, Oraiio valedictoria, in Giordano Bruno e Tommaso Cam-
panella, Opere, a cura di Augusto Guzzo e Romano Amerio, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1956, p. 687).
l88 INTRODUZIONE
espressione di un amore infinito per la filosofia e per quella vita che di
questa filosofia è viva testimonianza.
Purtroppo, però, la «fortuna» del Nolano ha conosciuto momenti
alterni, spesso fondati più su un uso improprio della sua biografia che
su una consapevole lettura delle sue opere. Proprio a partire da quel-
l'ultima pagina, «scritta» col sangue in Campo de' Fiori, sono fioriti
«miti» che hanno segnato un uso strumentale della figura di Bruno
nelle direzioni più diverse"^'. Conteso da movimenti e sette, utilizzato
in riti segreti e in lotte di piazza, la poliedrica immagine del filosofo è
riuscita comunque a sfuggire a ogni tentativo di cristallizzare il suo
pensiero in una formula valida una volta per tutte. L'appassionato so-
stenitore dell'universo infinito non avrebbe potuto lasciarsi racchiu-
dere in un solo «luogo»: il suo essere atopos^^, pur utilizzando il topo-
nimo di Nolano, si manifesta in maniera coerente sia sul piano della
filosofia (caratterizzato da un pensiero mobile in grado di attraversare
saperi e metodi più diversi) sia su quello della biografia (segnato da
continui spostamenti nell'ampio perimetro europeo).
Non c'è da meravigliarsi, quindi, se del Nolano nel corso dei secoli
è stato detto tutto e il contrario di tutto. Campione della magia e del-
l'esoterismo, per alcuni. Precursore della scienza moderna, per altri.
Fautore dell'oscurantismo o sostenitore dei grandi temi della moder-
nità (tolleranza, unità dei saperi, relativismo, dialogo, infinitismo)^'^.
Un pensiero, insomma, che per la sua complessità e per la sua capa-
cità di usare consapevolmente in maniera «impropria» culture e filo-
sofie, spostando continuamente i concetti in un ambito «estraneo» alla
loro tradizionale appartenenza, ha finito per incora^are sempre
nuove letture e nuovi cicli interpretativi, non senza però attirare su di
sé anche insofferenze e antipatie:
Albertino. - Gran mercé alla vostra cortesia, poi che pretendete
d'avanzarmi e pormi in exaltazione, con farmi auditore di questo trava-
gliato [Filoteo], ch'ogni un sa quanto sia odiato nell'academie, quanto è
605. Cfr. Maria Luisa Barbera, La Bruno-mania, in «Giornale critico della
filosofia italiana», LIX (1980), pp. 103-140.
606. Sulle caratteristiche del filosofo aiopos cfr. Pierre Hadot, La philo-
sophie camme manière de vivre cit, p. 162.
607. Sul tema dell'unità dei saperi in Bruno si veda N. Ordine, Scienze
della natura e scienze delVuomo: una «nouvelle alliance», in La cabala dell'asino.
Asinità e conoscenza in Giordano Bruno cit, pp. 169-179. Preziose osservazioni
sulla modernità di alcune concezioni della fisica bruniana sono in Ilya Pri-
gogine, Pensare l'incerto, in «Campus Calabria», 1-2 (1998), pp. 11-18 (per la
nozione di «nouvelle alliance» è fondamentale Ily.-v Prigogine-Isabelle
Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, edizione italiana a cura
di Pier Daniele Napolitani, Torino, Einaudi, 1981).
INTRODUZIONE 189
aversario delle dottrine comuni, lodato da pochi, approvato da nessuno,
perseguitato da tutti.
Elpino. — Da tutti sì, ma tali e quali; da pochi sì, ma ottimi et eroi.
Aversario de dottrine comuni, non per esser dottrine o per esser comuni,
ma perché false. Dall'academie odiato, perché dove è dissimilitudine non è
amore. Travagliato, perché la moltitudine è contraria a chi si fa fuor di
quella; e chi si pone in alto, si fa versaglio a molti ^*.
Un pensiero che ha fatto della dialogicità, della plurivocità, del-
rascolto, soprattutto una questione di metodo ^°^, «per che il suo desio
consiste più in imparare che in insegnare, e si stima più atto a quello
ch'a questo»'^'". Non a caso Bruno cerca di esprimersi su un piano
concettuale quasi sempre usando il plurale: non parla della filosofia
ma delle filosofie ''^^ non parla della lingua ma delle lingue, non parla
della religione ma delle religioni.
608. De l'infinito, p. 139.
609. «Qui philosophari concupiscit de omnibus principio dubitans, non
prius de altera contradictionis parte definiat quam altercantes audierit, et ra-
tionibus bene perspectis atque coUatis non ex auditu, fama, multitudine, lon-
gaevitate, titulis et omatu, sed de constantis sibi atque rebus doctrinae vigore,
sed de rationis lumina veritate inspicua iudicet et definiat» [«Chi desidera fi-
losofare, dubitando all'inizio di tutte le cose, non assuma alcuna posizione in
un dibattito prima di aver ascoltato le parti in contrasto e dopo aver bene
considerato e confrontato il prò e il contro, giudichi e prenda posizione non
per sentito dire, secondo le opinioni dei più. l'età, i meriti e il prestigio, ma
sulla base della persuasività di una dottrina organica e aderente alla realtà,
nonché di una verità che si comprenda alla luce della ragione»]: Giordano
Bruno. De minimo, in Opp. lai.. I/III. p. 137 (trad. it. p. 94). Nella Cena Teofilo
ricorda che per imparare bisogna farsi «uditori» perché «non è possibile sap)er,
circa una arte o scienza, dubitar et interrogar a proposito, e co gli ordini che si
convengono, se non ha udito prima» (p. 463).
610. «E per descrivervi l'animo suo quanto al fatto del trattar cose specu-
lative, vi dico che non è tanto curioso d'insegnare, quanto d'intendere; e che
lui udirà meglior nova, e prenderà maggior piacere, quando sentirà che vo-
gliate insegnarlo (pur ch'abbia speranza de l'effetto), che se gli diceste che vo-
lete essere insegnato da lui: per che il suo desio consiste più in imparare che in
insegnare, e si stima più atto a quello ch'a questo»: De l'infinito, pp. 139-140.
Teofilo ricorda che il Nolano «non era andato [a quella cena] per leggere né
per insegnare, ma per rispondere» {Cena, p. 530).
611. Sulla pluralità dei metodi e delle filosofie Bruno ritoma più volte. Ol-
tre al brano del De umbris (cfr. supra, p. 129), è molto eloquente anche questo
passaggio del De la causa: «Non mi parrà però quella filosofia degna di essere
rigettata, massime quando sopra a qualsivoglia fundamento che ella presup-
pona, o forma d'edificio che si propona, venga ad effettuare la perfezzione della
scienzia speculativa e cognizione di cose naturali, come in vero è stato fatto da
molti più antichi filosofi. Perché è cosa da ambizioso, e cervello presuntuoso,
vano et individioso. voler persuadere ad altri, che non sia che una sola via di
investigare, e venire alla cognizione della natura: et è cosa da pazzo et uomo
senza discorso donarlo ad intendere a se medesimo. Benché dumque la via più
costante e ferma, e più contemplativa e distinta, et il modo di considerar più
alto deve sempre esser preferito, onorato e procurato più, non per tanto è da
igO INTRODUZIONE
Resta però un punto fermo nel rapporto tra biografia e sapere. Per
Bruno, separare la vita dalla filosofia e la filosofia dalla vita significhe-
rebbe ridurre la filosofia a un vile mestiere e la vita a una banale
rincorsa di falsi valori:
La sapienza e la giustizia cominciarono ad abbandonare la Terra allor-
quando i dotti, organizzati in sette, cominciarono ad usare la loro dottrina
a scopo di lucro. Indi ne derivò che, come si trattasse della propria vita e
di quella dei figli, combattessero fino all'annientamento degli avversari
per un semplice amor di parte. Sia la religione che la filosofia giacciono
annullate da simili atteggiamenti, sia gli Stati, i regni e gli imperi sono
sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi, ai principi e ai popoli'''^.
In un'epoca come la nostra, dove il sapere scientifico ed umanistico
rischiano sempre più di essere al servizio del profitto e del mercato o
al servizio di un vano esercizio di potere accademico, l'esperienza
umana e intellettuale di Bruno si pone come un faro morale, come un
edificante messaggio di speranza per le giovani generazioni del nuovo
millennio. Non ci può essere conoscenza senza l'amore disinteressato
per la conoscenza, senza la consapevolezza che l'acquisizione del sa-
pere non è un dono, ma il frutto di una faticosa conquista.
biasimar quell'altro modo, il quale non è senza buon frutto, ben che quello
non sia il medesmo arbore» (p. 688).
612. «Sapientia atque justitia tum primum terras deserere incoepit, ubi ex
opinionibus, sectae quaestum tacere coeperunt Inde quippe ortum est ut tan-
quam ad propriam atque liberorum vitam prò partis opinionibus ad adversa-
riorum usque ultimam intemecionem propugnarent Ejusmodi auspiciis tum
religio atque philosophia interempta jacet, tum respublicae, regna, atque impe-
ria, cum sapientibus, principibus, atque populis turbantur, perduntur, extermi-
nantur»: De immenso, in Opp. lai., I-I, p. 208; traduzione italiana, p. 425. Già nel
Candelaio Bruno aveva mostrato la corruzione operata nella società dall'oro e
dall'argento: «Li metalli, come oro et argento, sono il fonte de ogni cosa: questi,
questi apportano parole, erbe, pietre, lino, lana, seta, frutti, frumento, vino,
oglio: et ogni cosa sopra la terra desiderabile, da questi si cava: questi dico
talmente necessarii che, senza essi, cosa nisciuna di quelle si accapa o si pos-
sedè» (p. 323). Anche Alberti considera la pittura come un esercizio che non
può essere inquinato dalla sete del guadagno: «Raro potrà acquistare nome
animo alcuno che sia dato al guadagno. Vidi io molti quasi nel primo fiore
d'imparare, subito caduti al guadagno, indi acquistare né ricchezze, né lode,
quali certo se avessero acresciuto suo ingegno con studio, facile sarebbono sa-
liti in molta lode e ivi arebbono acquistato ricchezze e piacere assai» [Quaestui
enim intentus animus raro posteritatis fructum assequetur. Vidi ego plerosque
in ipso quasi flore perdiscendi illieo decidisse ad quaestum et nec divitias nec
laudem ullam inde fuisse adeptos, qui si ingenium studio auxissent, in laude
facile conscendissent, quo in loco et divitias et voluptatem nominis accepis-
sent] (Leon Battist.a. Alberti, De pictura Vi 29] cit, pp. 52-53).
NOTA BIOGRAFICA
di
Maria Pia Ellero
1548 Nasce a Nola, da Fraulisa Savolino e Giovanni Bruno, uomo
d'arme di modesta condizione; è battezzato con il nome di Fi-
lippo. A Nola, Filippo trascorre l'infanzia e riceve l'insegna-
mento elementare.
1562 Allo Studio di Napoli, dove si è trasferito per continuare gli
studi, segue il corso di dialettica tenuto dal filosofo averroista
Giovan Vincenzo Colle, detto il Samese, e studia privatamente
logica con il frate agostiniano Teofilo da Vairano. Negli stessi
anni, comincia ad occuparsi di arte della memoria, leggendo le
opere di Pietro da Ravenna.
1565 Entra nell'ordine domenicano, prendendo il nome di Giordano.
All'anno successivo risale il suo primo incidente con le autorità
ecclesiastiche, quando viene denunciato da fra' Eugenio Ga-
gliardo, maestro dei novizi, per due diversi episodi di vita con-
ventuale, che apparivano come una profanazione del culto di
Maria e dei santi.
1575 Dopo aver seguito il regolare corso di studi presso il convento di
san Domenico Maggiore, si addottora in teologia discutendo una
tesi su san Tommaso.
1576 Nel primissimi mesi dell'anno, lascia Napoli per sfuggire a un
processo in cui è accusato di avere espresso dubbi sulla Trinità.
In quella occasione vengono ritrovate tra le sue cose le opere di
san Girolamo con gli scoli di Erasmo (la lettura delle opere di
Erasmo era stata vietata ai frati nel capitolo generale del 1569).
Bruno raggiunge Roma e prende alloggio nel convento di Santa
Maria sopra Minerva, ma lascia prestissimo la città perché accu-
sato ingiustamente di essere coinvolto in un omicidio commesso
da un confratello. Nel lasciare Roma, Bruno depone l'abito e ab-
bandona la condizione di religioso.
1577 Dopo un breve passaggio per Genova, si ferma a Noli dove inse-
gna grammatica agli studenti più giovani e legge la Sfera di Gio-
vanni Sacrobosco ad alcuni gentiluomini per qualche mese.
igZ NOTA BIOGRAFICA
Nello stesso anno, si sposta a Savona, poi a Torino e ancora a
Venezia, dove fa stampare il perduto De' segni de' tempi.
Tra la fine dell'anno e quello successivo, viaggia ancora tra Pa-
dova, Bergamo, Brescia, Milano, Chambéry, Lione.
1578 È a Ginevra, dove il marchese napoletano Gian Galeazzo di
Vico, esponente di spicco della comunità evangelica italiana, lo
soccorre nelle prime necessità materiali. Qui Bruno pratica la
religione calvinista, probabilmente al fine di essere ammesso
alla locale Accademia, e vive lavorando come correttore di
bozze. Ma, avendo fatto stampare un elenco di venti errori con-
tenuti in una delle lezioni del titolare della cattedra di filosofia
allo Studio di Ginevra, viene processato per diffamazione ed
inoltre escluso dalla Cena eucaristica per aver chiamato pedanti
i ministri della chiesa calvinista. In seguito a questi fatti, lascia
la città per Lione e poi per Tolosa. Qui insegna per due anni
come lettore ordinario di filosofia, leggendo la Sfera del Sacrobo-
sco e il De anima di Aristotele. In questo periodo scrive la Clavis
magna, oggi perduto.
1581 Lascia Tolosa a causa del protrarsi, anche dopo la conclusione
della pace di Fleix, dei conflitti tra cattolici e ugonotti. A Parigi
tiene un corso di trenta lezioni sugli attributi di Dio secondo
san Tommaso. Il corso ha un tale successo che procura all'ora-
tore un posto di lettore ordinario presso lo Studio parigino;
Bruno tuttavia non può accettarlo perché, scomunicato e apo-
stata, non può assumersi l'obbligo di sentir messa che la carica
comporterebbe. Sull'onda della fama acquistata con le lezioni, il
filosofo viene chiamato a corte per dare al re, Enrico III, prova
della sua straordinaria memoria
1582 Esce a Parigi, per i tipi di Gourbin, il De umbris idearum, dedi-
cato a Enrico III, che lo nomina ledeur royal. Seguono a questa
prima pubblicazione parigina il Cantus Circaeus, il De compen-
diosa architectura et complemento Artis Lullii e la commedia Can-
delaio.
1583 Passa in Inghilterra al seguito dell'ambasciatore francese Michel
de Castelnau. In giugno, si trova a Oxford in occasione della vi-
sita alla celebre università del principe polacco Alberto Laski.
Qui disputa pubblicamente di teologia e filosofia con i professori
oxoniensi; durante l'estate vi ritoma per tenere una serie di con-
ferenze de quintuplici sphaera e de immortalitate animae, che fu
però costretto a interrompere sotto l'accusa di aver plagiato al-
cune opere di Ficino.
NOTA BIOGRAFICA ig3
Nello stesso anno pubblica VArs reminiscendi, VExplicatio triginta
sigillorum e il Sigillus sigillorum.
1584 Fa stampare presso John Charlwood la Cena de le Ceneri, il De la
causa, principio et uno, il De l'infinito, universo e mondi e lo Spac-
cio della bestia trionfante. Bruno è in contatto con gli esponenti
più colti e influenti della corte elisabettiana, quali William Ce-
cil, Francis Walsingham e Philip Sidney; entra inoltre a far
parte del circolo di intellettuali, vicino a Robert Dudley, cancel-
liere dell'Università di Oxford, che opera in polemica con l'indi-
rizzo grammaticale dell'accademia: di questo gruppo fa parte
anche Thomas Digges, sostenitore della teoria copernicana.
1585 Pubblica la Cabala del cavallo pegaseo e gli Eroici furori. Nello
stesso anno, segue a Parigi l'ambasciatore francese, richiamato a
corte. La situazione politica è molto cambiata: la città è control-
lata dagli estremisti cattolici e il rinnovato zelo nella lotta al-
l'eresia rende incerta la condizione di Bruno, apostata e scomu-
nicato. Il Nolano tenta dapprima di essere riammesso nella
Chiesa, poi, con l'appoggio di alcuni esponenti politiques di riac-
quistare la protezione di Enrico III e della Corte.
1586 Scrive e pubblica i due dialoghi sul compasso di Fabrizio Mor-
dente e la Figuratio aristotelici physici auditus; stringe inoltre
amicizia con alcuni italiani in vista negli ambienti di corte,
come Del Bene e Corbinelli; a questo gruppo è legato anche
Giovanni Boterò, che Bruno ha forse occasione di incontra-
re. Durante l'estate, fa stampare altri due dialoghi, questa vol-
ta polemici, su Mordente: la polemica ha il valore di un pic-
colo incidente diplomatico, perché Mordente è legato al partito
dei Guisa. La situazione si fa insostenibile in seguito a una
tumultuosa disputa tenuta da Bruno alla presenza dei lecteurs
royaux su Centum et viginti articuli de natura et mundo adver-
sus peripateticos. Il filosofo passa in Germania, fermandosi,
dopo varie peregrinazioni, a Wittenberg, dove riannoda i rap-
porti con il giurista Alberigo Gentili, conosciuto a Londra, e ot-
tiene una lettura sull'Organon di Aristotele, che tiene per due
anni.
1587 Fa stampare il De lampade combinatoria tulliana e il De progressu
et lampade venatoria logicorum; compone la Lampas triginta sta-
tuarum, che sarà stampato postumo. Tiene privatamente un
corso di retorica, anch'esso pubblicato postumo con il titolo di
Artificium perorandi.
1588 Sotto il nuovo titolo di Camoeracensis acrotismus, dà alle stampe
i Centum viginti articuli, oggetto della disputa parigina di due
194 NOTA BIOGRAFICA
anni prima; compone inoltre un commento alla Fisica di Aristo-
tele (noto oggi come Libri physicorum Aristotelis explanati).
Nella primavera lascia la città, per il clima di intransigenza in
materia confessionale che vi si era instaurato. Per qualche mese
si trattiene a Praga, dove spera, probabilmente, di ricevere un
incarico da Rodolfo II, ricavandone invece soltanto la somma,
seppur ragguardevole, di 300 talleri, come segno di gratitudine
per gli Articuli sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos,
dedicati alla persona dell'imperatore. Al principio dell'autunno.
Bruno si trova a Helmstedt, dove riscuote il favore del duca En-
rico Giulio e degli intellettuali della Academia lulia, fondata dal
padre del duca. Nello stesso periodo, il Nolano viene escluso
dalla Cena dal sovrintendente della Chiesa luterana In questo
periodo, compone il trattatello De rerum principiis e la serie dei
trattati sulle arti magiche: il De magia, il De magia mathematica,
le Theses de magia.
1590-gi Pubblica a Francoforte, presso Wechel, la trilogia dei poemi
filosofici: De triplici minimo et mensura. De monade, numero et fi-
gura, De innumerabilibus, immenso et infigurabili, per i quali inta-
glia anche i legni per le figure.
Da Francoforte è costretto ad allontanarsi improvvisamente, a
causa di un ordine di estradizione del senato della città; a Zu-
rigo, dove si reca, legge filosofia scolastica per qualche tempo
(queste lezioni saranno pubblicate postume da Raphael Egly,
con il titolo di Summa terminorum metaphysicorum), poi si sposta
di nuovo a Francoforte per pubblicare il De imaginum, signorum
et ideanim compositione, l'ultima opera della cui stampa potrà
occuparsi personalmente. Qui, lo raggiunge l'invito di Giovanni
Mocenigo, patrizio veneziano, che lo prega di insegnargli l'arte
della memoria.
Bruno si reca dunque a Venezia, poi a Padova, dove forse spera
di ottenere la cattedra di matematica, vacante dal 1588; priva-
tamente, impartisce lezioni ad alcuni studenti tedeschi, rivede e
fa trascrivere dal suo allievo, Hieronymus Besler, il De vinculis,
che aveva già abbozzato a Francoforte.
1592 Si trasferisce a Venezia, accettando infine l'invito di Mocenigo;
frequenta il ridotto Morosini, dove ha forse occasione di cono-
scere Sarpi, ed entra in contatto con i membri del patriziato ve-
neziano. In maggio, vuol prendere congedo dal suo ospite per
raggiungere Francoforte, dove intende stampare alcune sue
opere: Mocenigo lo fa rinchiudere nella sua camera e lo denun-
cia all'Inquisizione. Bruno viene arrestato. Durante il processo si
NOTA BIOGRAFICA I95
difende abilmente; gli inquisitori veneti, del resto, non sono in
possesso delle sue opere più compromettenti. La vicenda si con-
clude con un parziale riconoscimento da parte di Bruno di er-
rori marginali e con la sua sottomissione incondizionata. In
questa situazione, egli non rischia condanne gravi, non essendo
un relapsus.
L'Inquisizione romana chiede e ottiene l'estradizione.
1593 È imprigionato nel carcere del Sant'Uffizio di Roma, dove, in
quegli stessi anni, si troveranno Francesco Pucci, Tommaso
Campanella, Cola Antonio Sfigliola.
1599 Dopo alterne vicende processuali, il 12 gennaio, il cardinale Bel-
larmino chiede che vengano sottoposte a Bruno otto proposi-
zioni eretiche ricavate dagli atti del processo e dai suoi scritti,
perché le abiuri; con quest'atto, egli potrebbe ancora salvarsi la
vita. Il 25 gennaio Bruno si mostra disposto all'abiura, purché i
suoi errori siano definiti per tali dalla Chiesa e dal Papa ex nunc,
e tenta di difendersi con memoriali indirizzati ai giudici e al
papa, Clemente Vili. Viene invitato ad abiurare senza condi-
zioni, ma Bruno cerca ancora di trattare fino al 29 dicembre,
data dell'ultimo costituto, quando dichiara di non essere dispo-
sto a pentirsi e di non aver niente di cui pentirsi.
1600 Bruno respinge un'ultima proposta di abiura il 20 di gennaio.
La sentenza che lo dichiara eretico formale e impenitente e lo
consegna al braccio secolare gli sarà comunicata l'S di febbraio:
Bruno la ascolta con grandissima dignità e fermezza. Il 17 feb-
braio, in Campo dei Fiori, nudo, la lingua in una morsa di le-
gno, perché non potesse parlare, viene arso vivo.
NOTA BIBLIOGRAFICA
di
Maria Cristina Figorilli
La prima edizione delle opere italiane - che ebbe il merito, mal-
grado i limiti ecdotici, di diffondere i testi bruniani in Europa per
gran parte del XIX secolo — è quella lipsiense del 1830: Opere di Gior-
dano Bruno Nolano ora per la prima volta raccolte e pubblicate da A.
Wagner, 2 voli, Leipzig, Weidmann, 1830. Sempre in area tedesca sul
finire del secolo venne allestita con metodi decisamente più rigorosi
una nuova edizione delle opere italiane: Le opere italiane di Giordano
Bruno ristampate da P. de Lagarde [Paul Anton Bòtticher], 2 voli.,
Gòttingen, Dieterische Universitàtsbuchhandlung, 1888 [1889]. La sto-
ria editoriale delle opere italiane di Bruno continua nel primo Nove-
cento con l'edizione Opere italiane, I: Dialoghi metafisici [II: Dialoghi
morali]. Nuovamente ristampati con note da G. Gentile, Bari, La-
terza, 1907 [-1908] (2^ ed. riveduta e accresciuta, 1925; ora Dialoghi
italiani, 3"^ ed., a cura di G. Aquilecchia, Firenze, Sansoni, 1958).
Si dispone anche di una ristampa anastatica delle prime stampe
delle opere italiane: Opere italiane, Ristampa anastatica delle cinque-
centine, a cura di E. Canone, 4 voli., Firenze, Olschki, 1999.
Oggi l'edizione di riferimento per le opere italiane è l'edizione cri-
tica approntata da G. Aquilecchia nella collana bilingue delle (Eu-
vres complètes, pubblicata da Les Belles Lettres di Parigi con il patro-
cinio dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e del Centro Intema-
zionale di Studi Bruniani e diretta da Y. Hersant e N. Ordine: I:
Chandelier, Introduction philologique de G. Aquilecchia, Texte établi
par G. Aquilecchia, Préface et notes de G. Bàrberi Squarotti, Tra-
duction de Y. Hersant (1993); II: Le souper des cendres, Texte établi
par G. Aquilecchia, Notes de G. Aquilecchia, Préface de A. Ophir,
Traduction de Y. Hersant (1994); III: De la cause, du principe et de
l'un, Texte établi par G. Aquilecchia, Notes de G. Aquilecchia, In-
troduction de M. Ciliberto, Traduction de L. Hersant (1996); IV: De
l'infini, de l'univers et des mondes, Texte établi par G. Aquilecchia,
Notes de J. Seidengart, Introduction de M. A. Granada, Traduction
de J.-P. Cavaillé (1995); V: Expulsion de la bète triomphante, Texte
établi par G. Aquilecchia, Notes de M. P. Ellero, Introduction de
igS NOTA BIBLIOGRAFICA
N. Ordine, Traduction de J. Balsamo (1999); VI: Cabale du cheval pé-
gaséen, Texte établi par G. Aquilecchia, Préface et notes de N. Bada-
loni, Traduction de T. Dacron (1994); VII: Des fureurs héroiques,
Texte établi par G. Aquilecchla, Introduction et notes de M. A. Gra-
NADA, Traduction de P.-H. Michel revue par Y. Hersant (1999). Si
tratta della prima edizione critica moderna, fondata sulla collazione
di un gran numero di esemplari della stessa princeps, in sintonia con i
più recenti orientamenti della filologia dei testi a stampa
A partire dai testi critici stabiliti da Aquilecchia per Les Belles Let-
tres, con il patrocinio dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e del
Centro Intemazionale di Studi Bruniani, si è avviato un progetto di
traduzione dell'opera bruniana in giapponese, in cinese, in danese, in
rumeno. Ad oggi sono state pubblicate la traduzione giapponese del
De la causa principio et uno (Introduzione, traduzione e note di M.
Kato, Tokio, Toshindo Publishing Co., 1998); la traduzione cinese del
Candelaio (Introduzione di N. Ordine, traduzione di L. He, Pechino,
China Social Science Documentation Publishing House, 1999); la tra-
duzione rumena del Candelaio [Lumànàriil, Prefata de N. Ordine, tra-
ducere din limba italiana, note si adaptare pentru scena de S. Bratu
Elian, Bucuresti, Editura Fundatiei Culturale Romàne, 2000); la tra-
duzione danese del De la causa, principio et uno (Om àrsagen, princippet
og enheden, i oversaettelse ved O. Jorn og med indledning af A. Haa-
NING, Kobenhavn, Reitzel, 2000). Tra le iniziative precedenti, da ricor-
dare la meritoria attività di traduzione e commento svolta da M. A.
Granada per Alianza Editorial di Madrid, col patrocinio dell'Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici: La cena de las cenizas (1984); Expulsión
de la bestia triunfante (1989); Càbala del Caballo Pegaso (1990); Del infi-
nito: el universo y los mundos (1993).
L'edizione critica delle opere italiane allestita da Aquilecchia e
pubblicata dall'editore Les Belles Lettres è consultabile anche nel CD-
Rom delle opere complete, a cura di N. Ordine, Roma-Torino, Lexis-
Nino Aragno Editore, 1999 (segnalo che il testo del CD-Rom è provvi-
sto dell'assai utile «riferimento topografico», ossia dell'indicazione
delle pagine dell'edizione Aquilecchia).
Nel 2000 sono stati pubblicati nella collana «1 Meridiani» i Dialo-
ghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Cili-
berto, Milano, Mondadori. Questa iniziativa editoriale ha suscitato
durissime polemiche poiché nella Nota sta testi si dichiara sommaria-
mente che l'edizione di riferimento, cioè l'edizione curata da Aquilec-
chia per Les Belles Lettres, è stata migliorata con correzioni di refusi e
imperfezioni, senza però fornire la lista degli interventi effettuati dal
«curatore». Aquilecchia, dopo aver comparato parola per parola i testi
NOTA BIBLIOGRAFICA I99
Mondadori e quelli Les Belles Lettres, è intervenuto con un articolo in
cui ha mostrato come la maggior parte dei cambiamenti introdotti nel
«Meridiano» siano «erronei o ingiustificati» (7 dialoghi bruniani «a
cura» (o sinecura?) di Michele Ciliberto, «Giornale storico della lettera-
tura italiana», CLXXVII [2000], 579, pp. 422-439). A sua volta anche
M. Ciliberto ha dedicato alcune pagine alla questione: Il testo rapito.
Una polemica tra brunisti, «Rivista di storia della filosofia», n. s., LV
(2000), 2, pp. 235-252. La risposta di G. Aquilecchia, Sirma a «Una
polemica tra brunisti», è stata pubblicata postuma su «Filologia e Cri-
tica», XXVI (2001), I, pp. 132-142. Diversi sono stati gli studiosi inter-
venuti nella querelle, che ha riguardato non solo questioni filologiche
ma anche aspetti etici e deontologici: si vedano, oltre al saggio del
direttore generale della casa editrice Les Belles Lettres (A. Segonds, TZ
«Meridiano» Giordano Bruno, «Belfagor», LV [2000], 4, pp. 467-472), la
recensione al volume mondadoriano di B. Basile apparsa negli «Stu-
di e problemi di critica testuale», 61 (2000), pp. 228-231, e la nota di
U. Dotti, Il Bruno rapito, «la Rivista dei Libri», X (novembre 2000),
II, pp. 9-10. Per gli interventi apparsi sui diversi quotidiani («la Re-
pubblica», «Corriere della Sera», «il Manifesto») rimando alla rassegna
stampa consultabile nel sito Internet allestito dal Centro Intemazio-
nale di Studi Bruniani www.giordanobruno.it
Per gli autografi si vedano G. Aquilecchia, Un autografo scono-
sciuto di Giordano Bruno, «Giornale storico della letteratura italiana»,
CXXXIV (1957), 406-407, pp. 333-338 (ora in Id., Schede bruniane
(igSO-iggi), Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp. 101-106); Id., Pre-
sunti autografi bruniani, «Giornale storico della letteratura italiana»,
CXL (1963), 429, pp. 148-15 1 (ora in Id., Schede bruniane, cit, pp. 237-
241); A. NowiCKY, Un autografo inedito di Giordano Bruno in Polonia,
«Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche» della Società Na-
zionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli, LXXVIII (1967), pp. 262-
268; I. KoRZAN, Praski krqg humanistów wokói Giordana Bruna, «Euhe-
mer», LXXI-LXXII (1969), 1-2, pp. 81-93; M. R. Pagnoni Sturlese,
Su Bruno e Tycho Brahe, «Rinascimento», XXV (1985), pp. 309-333;
E AD., Un nuovo autografo del Bruno, con una postilla sul «De umbra ra-
tionis» di A. Dickson, ivi, XXVII (1987), pp. 387-391.
Prezioso strumento per la ricognizione delle prime stampe è R.
Sturlese, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di Gior-
dano Bruno, Firenze, Olschki, 1987. Al riguardo segnalo che la Biblio-
teca del Centro Intemazionale di Studi Bruniani (CISB), istituito
presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dispone di
circa seicento microfilm di antiche stampe bruniane.
200 NOTA BIBLIOGRAFICA
È da segnalare anche il lessico del Bruno italiano di M. Ciliberto,
Lessico di Giordano Bruno, 2 voli., Roma, Edizioni dell'Ateneo & Biz-
zarri, 1979.
Per una ricognizione storica e documentaria vedi Giordano Bruno
1548-1600, Mostra storico documentaria (Roma, Biblioteca Casana-
tense, 7 giugno-30 settembre 2000), Firenze, Olschki, 2000.
Nel 1995 è uscito il primo numero di una nuova rivista, «Bruniana
& Campanelliana» (con uscita semestrale, eccetto i primi due numeri
doppi), diretta da E. Canone e G. Ernst: segnalo che nel secondo
fascicolo del 2000 (alle pp. 323-535) si possono leggere, a cura di E.
Canone, gli Atti del quarto incontro delle Letture Bruniane del Les-
sico Intellettuale Europeo-Centro di Studio del CNR (Roma, 22-23 ot-
tobre 1999), dal titolo L'individualità tra divino e umano.
Per gli strumenti bibliografici fondamentale V. Salvestrini, Bi-
bliografia di Giordano Bruno (i582-ig§o), Seconda edizione postuma a
cura di L. Firpo, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1958. Per gli anni
1950-1972 utile la bibliografia di A. NowiCKi, Giordano Bruno nella
cultura contemporanea (In appendice la continuazione della Bibliografia di
Salvestrini), «Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche» della
Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli, LXXXIII
(1972), pp. 391-450. Per altre integrazioni alla bibliografia del Salve-
strini si vedano, sempre di NowiCKi: Intorno alla presenza di Giordano
Bruno nella cultura del Cinquecento e Seicento: aggiunte alla bibliografia del
Salvestrini, ivi, LXXIX (1968), pp. 505-526; La presenza di G. Bruno nel
Cinque, Sei e Settecento (aggiunte ulteriori alla Bibliografia. Bruniana del
Salvestrini), ivi, LXXXI (1970), pp. 325-344. Ulteriori integrazioni alla
bibliografia del Salvestrini in J. G. Fucilla, Aggiunte alVultima biblio-
grafia bruniana, «Filologia Romanza», VI (1959), 3, pp. 333-336. Utili
rassegne bibliografiche in G. Barberi Squarotti, Rassegna bruniana,
«Lettere Italiane», X (1958), 4, pp. 493-501 e G. Aquilecchla, Note di
bibliografia bruniana, ivi, XII (i960), 3, pp. 322-325 (ora in Id., Schede
bruniane (ig^o-iggi), Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp. 209-212).
Si veda anche la recensione di R. TissoNi alla Bibliografia di Salvestrini,
sul «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVI (1959), 415,
pp. 489-494. Ma per un regesto complessivo della bibliografia critica si
veda da ultimo M. C. Figorilli, Per una bibliografia di Giordano Bruno
(1800-iggg), Torino, Nino Aragno Editore, 2002.
Per la biografia, ancora essenziali V. Spampanato, Vita di Giordano
Bruno con documenti editi ed inediti, Messina, Principato, 1921 (se ne
veda la ristampa anastatica con Préface di N. Ordine, Paris-Torino,
Les Belles Lettres-Nino Aragno Editore, 2000) e Id., Documenti della
vita di Giordano Bruno, Firenze, Olschki. 1933. La biografia che G.
NOTA BIBLIOGRAFICA 201
Aquilecchia pubblicò nel 1971 nella collana «Bibliotheca Biogra-
phica» dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, ha ora una nuova edi-
zione, aggiornata e ampliata: G. Aquilecchia, Giordano Bruno, To-
rino, Nino Aragno Editore, 2001. Ma ora si veda anche S. Ricci, Gior-
dano Bruno nell'Europa del Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 2000.
Assai utile anche il volume miscellaneo Giordano Bruno. Gli anni na-
poletani e la 'peregrinano' europea. Immagini. Testi. Documenti, a cura di
E. Canone, Cassino, Università degli Studi, 1992. Per momenti parti-
colari della vicenda biografica bruniana (indagata con maggiore atten-
zione relativamente agli anni inglesi) si segnala inoltre F. A. Yates,
Giordano Bruno, Some New Documents, «Revue intemationale de phi-
losophie», XVI (1951), 2, pp. 174-199 (ora in Ead., Giordano Bruno e la
cultura europea del Rinascimento, Introduzione di E. Garin, Roma-
Bari, Laterza, 1988, pp. 117-136); F. Lombardi, Una nota sul soggiorno
di Giordano Bruno in Francoforte sul Meno, in Medioevo e Rinascimento.
Studi in onore di Bruno Nardi, 2 voli., Firenze, Sansoni, 1955, II, pp.
467-473; L. Grosso, Giordano Bruno «capitanio» del re di Navarra,
«Nuova Antologia», 468 (1956), 1871, pp. 355-362; R. McNulty, Bruno
at Oxford, «Renaissance News», XIII (i960), 4, pp. 300-305; G. Aqui-
lecchia, Ancora su Giordano Bruno ad Oxford (in margine ad una re-
cente segnalazione), «Studi secenteschi», IV (1963), pp. 3-13 (ora in Id.,
Schede bruniane (ig^o-iggi), Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp.
243-252); J. BOSSY, Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata, trad. it.
Milano, Garzanti, 1992 (ed. or. New Haven, Yale University Press,
1991); G. Aquilecchia, Tre schede su Bruno e Oxford, «Giornale critico
della filosofia italiana», LXXII (1993), 3, pp. 376-393; Id., Giordano
Bruno in Inghilterra (1583-138^). Documenti e testimonianze, «Bruniana
& Campanelliana», I (1995), 1-2, pp. 21-42 (raccolta di tutte le testimo-
nianze, trascritte dalle fonti originarie, sul soggiorno inglese di Bruno);
M. Miele, Indagini sulla comunità conventuale di Giordano Bruno
(1556-1526), ivi, pp. 157-203; G. Aquilecchia, Paralipomeno nella docu-
mentazione su Bruno in Inghilterra, ivi, II (1996), 1-2, pp. 359-360; T.
Prowidera, On the Printer of Giordano Bruno's London Works, ivi, pp.
361-367; Giordano Bruno 1583-1585. The English Experience. L'espe-
rienza inglese. Atti del convegno (Londra, 3-4 giugno 1994), a cura di
M. Ciliberto e N. Mann, Firenze, Olschki, 1997; A. Gorfunkel, No-
tizie bruniane I: «Et partito de Paris per causa di tumulti, me ne andai in
Germania»; II: «Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata», «Rivista
di storia della filosofia», n. s., LII (1997), 4, pp. 747-761.
Sul processo si vedano A. Mercati, Il sommario del processo di Gior-
dano Bruno, con appendice di documenti sull'eresia e l'Inquisizione a Mo-
dena nel secolo XVI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,
202 NOTA BIBLIOGRAFICA
1942 (risi anast. Roma, Multigrafica, 1972); L. Firpo, Il processo di
Giordano Bruno, «Rivista storica italiana», LX (1948), pp. 542-597 e
LXI (1949), pp. 5-59 (da consultare nell'edizione curata da D. QuA-
GLIONI, Roma, Salerno Editrice, 1993; ora in trad. francese e con note
di A. Ph. Segonds, Paris, Les Belles Lettres. 2000); G. Aquilecchia,
Un nuovo documento del processo di Giordano Bruno, «Giornale storico
della letteratura italiana», CXXXVI (1959), 413, pp. 91-96 (ora in Id.,
Schede bruniane (ig^o-iggi), Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp.
151-156); C. DE Prede. L'estradizione di Giordano Bruno da Venezia
(agosto i^g2 -febbraio isgj), «Archivio Storico per le Province Napole-
tane», CXII (1994), pp. 57-101; L. Spruit, Due documenti noti e due do-
cumenti sconosciuti sul processo di Bruno nelVArchivio del Sant'Uffizio,
«Bruniana & Campanelliana», IV (1998), 2, pp. 469-473; D. Qua-
GLIONI, «Ex his quae deponet iudicetur». L'autodifesa di Bruno, ivi, VI
(2000), 2, pp. 299-319.
Qui di seguito verrà fornita solo una selezione della vasta produ-
zione critica intomo a Bruno, a partire dal 1950: rinviamo per una
ricognizione più dettagliata agli strumenti bibliografici sopra indicati.
Tra gli studi critici di carattere generale si vedano E. Troilo, Pro-
spetto, sintesi e commentario della filosofia di Giordano Bruno, «Atti e
Memorie della Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze mo-
rali», s. Vili, III (1951), 9, pp. 543-607; N. Badaloni, La filosofia di
Giordano Bruno, Firenze, Parenti, 1955; A. Renaudet, Humanisme et
Renaissance. Dante, Pétrarque, Standonck, Erasme, Lefèvre d'Etaples,
Marguerite de Navarre, Rabelais, Guichardin, Giordano Bruno, Genève,
Droz, 1958; G. Aquilecchia, Giordano Bruno, in Encyclopaedia Britan-
nica, IV. Chicago-London-Toronto, 1959, p. 308; A. Guzzo, Giordano
Bruno, Torino, Edizioni di «Filosofia», i960; A. NowiCKi, Centralne ka-
tegorie filozofii Giordana Bruna, Warszawa, Pànstwowe Wydawnictwo
Naukowe, 1962; P. O. Kristeller, Bruno, in Id., Eight Philosophers of
the Italian Renaissance, Stanford (Cai.), Stanford University Press,
1964, pp. 127-144 (trad. it di R. Federici, Milano-Napoli, Ricciardi,
1970); F. A. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, Lon-
don, Routledge and Kegan Paul, 1964 (trad. it. di R. Pecchioli, Ro-
ma-Bari, Laterza, 1969); E. Garin, Bruno, Roma-Milano, CEI, 1966;
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La Nuova Italia, 1968; N. Badaloni, L'arte e il pensiero di Giordano
Bruno, in La letteratura italiana. Storia e testi, IV/ii: Il Cinquecento. Dal
Rinascimento alla Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 426-448
(risi in Id., R. Barilli e W. Moretti, Cultura e vita civile tra Riforma
e Controriforma, Roma-Bari, Laterza [LIL], 1982, pp. 56-78); G. Galli,
La vita e il pensiero di Giordano Bruno, Milano, Marzorati, 1973; G.
NOTA BIBLIOGRAFICA 203
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della vita fra G. Bruno e T. Campanella, «il Centauro», 11-12 (1984), pp.
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ciclopedico, Torino, Utet, 1985"*, III, pp. 765-768; M. Ciliberto, La
ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Roma, Editori Riu-
niti, 1986; B. De Giovanni, L'infinito di Bruno, «il Centauro», 16
(1986), pp. 3-21; N. Ordine, La cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in
Giordano Bruno, Napoli, Liguori, 1987 (2'' ed. con Prefazione di E. Ga-
rin, ivi, 1996); N. Badaloni, Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica,
Bari-Roma, De Donato, 1988; B. Hentschel, Die Philosophie Giordano
Brunos. Chaos oder Kosmos? Frankfurt am Main-Bem-New-Jork, Lang,
1988; L. Spruit, ti problema della conoscenza in Giordano Bruno, Napoli,
Bibliopolis, 1988; F. A. Yates, Giordano Bruno e la cultura europea del
Rinascimento, Introduzione di E. Garin, trad. it. di M. De Martini
Griffin e A. Rojec, Roma-Bari, Laterza, 1988; M. Ciliberto, Gior-
dano Bruno, Roma-Bari, Laterza, 1990; J. Seidengart, Giordano Bruno,
in Encyclopaedia Universalis, IV, Paris, Encyclopaedia Universalis
France, 1990, pp. 602-604; G. Ferroni, La nuova filosofia, in Id., Storia
della letteratura italiana, II: Dal Cinquecento al Settecento, Milano, Ei-
naudi Scuola, 1991, pp. 297-317 (301-310); M. Frigerio, Invito al pen-
siero di Bruno, Milano, Mursia, 1991; G. Aquilecchia, Schede bruniane
(igso-iggi), Manziana (RM), Vecchiarelli, 1993; E. Garin, Attualità di
Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXII (1993), 3, pp.
394-404; Fonti e motivi dell'opera di Giordano Bruno, «Nouvelles de la
République des Lettres», 1994, 2 (Atti del convegno [Cassino, 11-12
dicembre 1992]); G. Conforto, Giordano Bruno e la scienza odierna,
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profunda. Studi su Giordano Bruno, Roma, Edizioni di Storia e Lettera-
tura, 1999; G. Vehr, Giordano Bruno, Miinchen, Deutscher Taschen-
buch Verlag, 1999; A. Verrecchia, Giordano Bruno. Nachtfalter des
Geistes, Wien, Bòhlau, 1999 (trad. it. Roma, Donzelli, 2002); J. Winter,
Giordano Bruno. Eine Einfiihrung, Dusseldorf, Parerga, 1999.
Per gli aspetti ecdotici si vedano G. Aquilecchia, La lezione defini-
tiva della «Cena de le Ceneri» di Giordano Bruno, «Atti dell'Accademia
nazionale dei Lincei». Memorie. Classe di Scienze morali, storiche e
filologiche», s. Vili, III (1950), 4, pp. 207-243 (ora in Id., Schede bru-
niane (ig^o-iggi), Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp. 1-40); Id.,
Dieci postille ai dialoghi «De la causa», «Il Verri», II (1958), 2, pp. 205-
217 (ora in Id., Schede bruniane, cit, pp. 133-142); L. Firpo, Per l'edi-
zione critica dei dialoghi italiani di Giordano Bruno, «Giornale storico
della letteratura italiana, CXXXV (1958), 412, pp. 587-606; R. TissoNi,
Sulla redazione definitiva della «Cena de le ceneri», ivi, CXXXVI (1959),
416, pp. 558-563; G. Aquilecchia, Lo stampatore londinese di Giordano
Bruno e altre note per l'edizione della «Cena», «Studi di filologia italia-
na», XVIII (i960), pp. 101-162 (ora in Id., Schede bruniane, cit, pp. 157-
207); Id., Lezioni inedite di Giordano Bruno in un codice della Biblioteca
Universitaria di Jena, «Accademia Nazionale dei Lincei, Rendiconti
della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», s. Vili, XVII
(1962), 7-12, pp. 463-485 (ora in Id., Schede bruniane, cit, pp. 213-236);
Id., «Redazioni a stampa» originarie e seriori (Considerazioni di un edi-
tore di testi cinquecenteschi), in La critica del testo. Problemi di metodo ed
esperienze di lavoro. Atti del Convegno (Lecce, 22-26 ottobre 1984),
Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 67-80; Id., Le opere italiane di Gior-
dano Bruno. Critica testuale e oltre, Napoli, Bibliopolis, 1991; Id., L'ecdo-
tica ottocentesca delle opere italiane di Bruno, in Brunus Redivivus. Mo-
menti della fortuna di Giordano Bruno nel XIX secolo, a cura di E. Ca-
none, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Intemazionali, 1998,
pp. 1-17.
Sulla fortuna si veda, per una sintesi, G. Radetti, Bruno, in Que-
stioni di storiografia filosofica, II, a cura di V. Mathieu, Brescia, La
Scuola, 1974, pp. 97-182. Si vedano poi, per ambiti particolari, G.
Aquilecchia, Nota su John Toland traduttore di Giordano Bruno, «En-
glish Miscellany», 9 (1958), pp. 77-86 (ora in Id., Schede bruniane (igso-
iggi), Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp. 143-150); N. Badaloni,
Appunti intorno alla fama del Bruno nei secoli XVII e XVIII, «Società»,
XIV (1958), 3, pp. 487-519; A. Gorfunkel', Giordano Bruno in Russia,
«Rivista di Filosofia», LII (1961), 4, pp. 461-476; A. NowiCKl, Bruno
nel Settecento, «Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche» della
NOTA BIBLIOGRAFICA 205
Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli, LXXX (1969),
pp. 199-230; J. L. Vieillard-Baron, De la connaissance de Giordano
Bruno à V epoque de V<<idéalisme allemand», «Revue de Métaphysique et
de Morale», LXXVI (1971), 4, pp. 406-423; A. NowiCKi, Giordano
Bruno nella patria di Copernico, Wroclaw, Zaklad Narodowi Imienia
Ossolinskich-Wydawnictwo Polskiej Akademii Nauk, 1972; G. Aqui-
lecchia, Scheda bruniana: la traduzione 'tolandiana' dello «Spaccio»,
«Giornale storico della letteratura italiana», CLII (1975), 478, pp. 311-
313 (ora in Id., Schede bruniane, cit, pp. 279-280); Id., Un documento
bruniano recuperato: l'«Artificium Aristotelico-Lullio-Rameum» di Hans
von Nostitz, «Studi secenteschi», XVII (1976), pp. 155-159 (ora in Id.,
Schede bruniane, cit, pp. 281-285); D. Massa, Giordano Bruno's Ideas in
Seventeenth-Century England, «Journal of the History of Ideas»,
XXXVIII (1977), 2, pp. 227-242; M. L. Barbera, La Brunomania,
«Giornale critico della filosofia italiana», LIX (1980), 1-4, pp. 103-140;
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reus» di Abraham von Franckenberg, «Nouvelles de la République des
Lettres», 1985, i, pp. 49-65; M. R. Pagnone Sturlese, Postille auto-
grafe di John Toland allo «Spaccio» del Bruno, «Giornale critico della
filosofia italiana», LXV (1986), i, pp. 27-41; Ead., «Et Nolanus vivai,
recipiatur, adoretur». Le note del «Postillatore napoletano» al dialogo «De
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Scuola Normale Superiore, 1987, pp. 1 17-128; A. Savorelli, Bruno
«lullìano» nell'idealismo italiano dell'Ottocento (con un inedito di Ber-
trando Spaventa), «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII
(1989), I, pp. 45-77; S. Ricci, La fortuna del pensiero di Giordano Bruno
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nio e Cleopatra» di Shakespeare, Bologna, il Mulino, 1990; S. Ricci, La
ricezione del pensiero di Giordano Bruno in Francia e in Germania. Da
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(1991), 3, pp. 431-465; R. Sturlese, L'arte della memoria tra Bruno e
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Prowidera, Essex e il 'Nolanus'. Un nuovo documento inglese su Bruno,
ivi, pp. 437-448; P. T0TAR0, Un documento trascurato sulla fortuna di
Bruno in Italia, ivi, IV (1998), i, pp. 213-222; C. Buccolini, Una
«Quaestio» inedita di Mersenne contro il «De immenso», ivi, V (1999), i,
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Per le fonti e più genericamente per il rapporto con altri autori si
vedano A. Nowicki, Sviluppo di tre motivi pichiani nelle opere di Gior-
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nella storia dell'Umanesimo, Convegno intemazionale (Mirandola, 15-18
settembre 1963), 2 voli., Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rina-
scimento, 1965, II, pp. 357-362; A. Ingegno, E primo Bruno e l'in-
fluenza di Marsilio Ficino, «Rivista critica di storia della filosofia»,
XXIII (1968), 2, pp. 149-170; H. VÉDRINE, L'influence de Nicolas de
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Atti del Congresso intemazionale in occasione del V centenario della
morte di Nicolò Cusano (Bressanone, 6-10 settembre 1964), Firenze,
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critica di storia della filosofia», XXVII (1972), 2, pp. 222-223; P- R-
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sofia dell'Università di Lecce», IX (1984), lo-ii, pp. 201-228; H. VÉ-
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Bruno lettore di Calvino, Urbino, Quattro Venti, 1987; E. McMullin,
Bruno and Copernicus, «Isis», LXXVIIII (1987), pp. 55-74; G. Aquilec-
CHIA, Ramo, Patrizi e Telesio nella prospettiva di Giordano Bruno, «Di-
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studi su Bernardino Telesio [Cosenza, 12-13 "faggio 1989], Cosenza, Ac-
cademia Cosentina, 1990, pp. 181-191; ora in Id., Schede bruniane
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VCH Verlagsgesellschaft, 1991; R. Sturlese, Nicolò Cusano e gli inizi
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dien zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters. Festschrift fiir Kurt
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Convegno (Napoli, 15-17 dicembre 1989), a cura di R. Sirri e M. ToR-
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(ora in Id., Schede bruniane, cit., pp. 303-310); R. Sturlese, «Averroe
quantumque arabo et ignorante di lingua greca...». Note sull'averroismo di
Giordano Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXI
(1992), 2, pp. 248-275; M. A. Granada, Giordano Bruno e l'interpreta-
zione della tradizione filosofica: l'aristotelismo e il cristianesimo di fronte
all'«antiqua vera filosofia», in L'interpretazione nei secoli XVI e XVII,
Atti del Convegno intemazionale di studi (Milano, 18-20 novembre
1991, Parigi, 6-8 dicembre 1991), a cura di G. Canziani, Y. C. Zarka,
Milano, FrancoAngeli, 1993, pp. 59-82; V. Reinecke, Blaise Pascal und
Giordano Bruno, «Sinn und Form», XLV (1993), 5, pp. 742-756; Fonti e
motivi dell'opera di Giordano Bruno, «Nouvelles de la République des
Lettres», 1994, 2 (Atti del convegno di Cassino, 11-12 dicembre 1992);
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Cosenza, Accademia Cosentina, 1994, pp. 63-74; M- ^- Granada, Bruno
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aux XVr et XVIF siècles, Actes du coUoque CERPHI (4-5 juin 1993),
publiés sous la dir. de J. Lagrée, Caen, Université de Caen, 1994, pp.
53-80 (sp. Giordano Bruno y la Stoa: ^una presencia no reconocida de
motivos estoicos?, «Nouvelles de la République des Lettres», 1994, i, pp.
123-151); R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigillorum» del Bruno, ossia:
il confronto con Ficino a Oxford sull'anima umana, «Giornale critico
della filosofia italiana», LXXIII (1994), i, pp. 33-72; P. Zambelli, Il
«De auditu Kabbalistico» e la tradizione tulliana nel Rinascimento (1965),
in Ead., L'apprendista stregone. Astrologia, cabala e arte tulliana in Pico
della Mirandola e seguaci, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 55-172; F. Cen-
TAMORE, «Omnia mutantur, nihil interit»: il pitagorismo delle «Metamor-
fosi» nell'idea di natura di Bruno, «Bruniana & Campanelliana», III
(1997), 2, pp. 231-243; M. A. Granada, Giordano Bruno et «le banquet de
Zeus chez les Éthiopiens»: la transformation de la doctrine stotcienne des
210 NOTA BIBLIOGRAFICA
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dano Bruno: religión civil y critica del Cristianismo, ivi, IV (1998), 2, pp.
343-368; Id., «Esser spogliato dall'umana perfezione e giustizia». Nueva
evidencia de la presencia de Averroes en la obra y en el proceso de Gior-
dano Bruno, ivi, V (1999), 2, pp. 305-331; D. Knox, Ficino, Copernicus
and Bruno on the Motion of the Earth, ivi, pp. 333-366; D. Tessicini,
«Attoniti... quia sic Stagyrita docebat». Bruno in polemica con Digges, ivi,
pp. 521-526; D. GiovANNOZzi, «Porphyrius, Plotinus et alii Platonici».
Echi neoplatonici nella demonologia bruniana, ivi, VI (2000), i, pp. 79-
103.
Sulla mnemotecnica si vedano C. Vasoli, Umanesimo e simbologia
nei primi scritti tulliani e mnemotecnici del Bruno, in Umanesimo e sim-
bolismo, «Archivio di Filosofia», 1958, 2-3, pp. 251-304 (ristampato, con
titolo lievemente diverso, in Io., Studi sulla cultura del Rinascimento,
Manduria, Lacaita, 1968, pp. 345-426); P. Rossi, Studi sul lullismo e sul-
l'arte della memoria nel Rinascimento: i teatri del mondo e il lullismo di
Giordano Bruno, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV (1959),
I, pp. 28-59; Id., La logica fantastica di Giordano Bruno, in Id., Clavis
universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz,
Milano-Napoli, Ricciardi, i960, pp. 109-134 (2* ed., con titolo Clavis
universalis. Arti della memoria..., Bologna, il Mulino, 1983, pp. 131-154);
F. A. Yates, The Art of Memory, London, Routledge and Kegan Paul,
1966 (trad. it. di A. Biondi, Torino, Einaudi, 1972); A. Noferi, Gior-
dano Bruno: ombre, segni, simulacri e la funzione della grafìa, in Ead., B
gioco delle tracce. Studi su Dante, Petrarca, Bruno, il Neo-classicismo, Leo-
pardi, l'Informale, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 69-209; M.
Cambi, Giordano Bruno tra mnemotecnica ed esigenza pansofica. Nota
sulla «Explicatio triginta sigillorum», «Discorsi», IV (1984), i, pp. 29-62;
S. Jannelli, Appunti suir«Ars Reminiscendi» di Giordano Bruno,
«AION». Annali dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, Sez.
Romanza, XXVII (1985), 2, pp. 437-453; R. Sturlese, Il «De imagi-
num, signorum et idearum compositione» di Giordano Bruno, ed il signifi-
cato filosofico dell'arte della memoria, «Giornale critico della filosofia ita-
liana», LXIX (1990), 2, pp. 182-203; G. De Rosa, Giordano Bruno: il
linguaggio delle ombre, «Atti dell'Accademia Nazionale di Scienze Mo-
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Napoli, GII (1991), pp. 67-86; R. Sturlese, Per una interpretazione del
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Superiore di Pisa Classe di Lettere e Filosofia», s. Ili, XXII (1992), 3,
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Tra i contributi più attenti agli aspetti letterari e linguistici nonché
per la poetica e l'estetica si vedano G. Aquilecchia, L'adozione del
volgare nei dialoghi londinesi di Giordano Bruno, «Cultura Neolatina»,
XIII (1953), 2-3, pp. 165-189 (ora in Id., Schede bruniane (ig^o-iggi),
Manziana [RM], Vecchiarelli, 1993, pp. 41-63); F. Puglisi, Dell'estetica
di Giordano Bruno, «Sophia», XXI (1953), i, pp. 36-43; G. Barberi
Squarotti, Alcuni temi di un saggio su Giordano Bruno, «Il Verri», II
(1958), 2, pp. 76-100; Id., Bruno e Folengo, «Giornale storico della lette-
ratura italiana», CXXXV (1958), 409, pp. 51-60; Id., L'esperienza stili-
stica del Bruno fra Rinascimento e Barocco, in La critica stilistica e il
barocco letterario. Atti del secondo Congresso Intemazionale di Studi
Italiani, a cura della Associazione Intemazionale per gli Studi di Lin-
gua e Letteratura Italiana, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 154-169; Id.,
Per una descrizione e interpretazione della poetica di Giordano Bruno,
«Studi secenteschi», I (i960), pp. 39-59; E. Hatzantonis, Il potere me-
tamorfico di Circe quale motivo satirico in Machiavelli, Gelli e Bruno,
«Italica», XXXVII (i960), 4, pp. 257-267; R. Tissoni, Saggio di com-
mento stilistico al «Candelaio». Dedicatoria alla Signora Morgana, «Gior-
nale storico della letteratura italiana», CXXXVII (i960), 417, pp. 41-
60; Id., Appunti per uno studio sulla prosa della dimostrazione scientifica
nella «Cena de le ceneri» di Giordano Bruno, «Romanische Forschun-
gen», LXXIII (1961), 3-4, pp. 347-388; Id., La correlazione in Giordano
Bruno, in Petrarca e il Petrarchismo. Atti del III Congresso dell'Associa-
zione Intemazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana, Bo-
logna, 1961, pp. 395-396; V. Zanone, L'estetica di Giordano Bruno, «Ri-
vista di Estetica», XII (1967), 3, pp. 388-398; M. Agrimi, Giordano
Bruno, filosofo del linguaggio, «Studi filosofici», II (1979), pp. 105-153; G.
Aquilecchia, Da Bruno a Marino. Postilla air« Adone», X 45, «Studi
secenteschi», XX (1979), pp. 89-95 (ora in Id., Schede bruniane, cit, pp.
287-292); P. Bertini Malgarini, Giordano Bruno linguista, «Critica
letteraria», Vili (1980), 4, pp. 681-716; C. Borrelli, Spoglio linguistico
del «Candelaio» di Giordano Bruno, «Misure critiche», X (1980), 35-36,
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212 NOTA BIBLIOGRAFICA
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della memoria e scrittura mitologica di Giordano Bruno, in Id., La filosofia
del Manierismo. La scena mitologica della scrittura in Della Porta, Bruno,
Campanella, Napoli, Liguori, 1984, pp. 73-104; N. Ordine, Raccontare
l'uomo, raccontare la natura: l'eterna ricerca nei dialoghi di Bruno, in
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bruniano nel «Candelaio» e nella «Cena de le ceneri», Beme-Francfort s.
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italiano tra diegesi e mimesi, «Studi e Problemi di Critica Testuale», 37
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dano Bruno, Roma, Bulzoni, 1989; G. Barberi Squarotti, Pensiero e
poesia di Giordano Bruno, «Testo», 19 (1990), pp. 29-69 (Atti del conve-
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temporanei» [Brescia, 28-31 ottobre 1989]); N. Ordine, Teoria e «situa-
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europeo. Atti del convegno intemazionale di studi (Milano, 28-30 mag-
gio 1987), a cura di D. Bigalli e G. Canziani, Milano, FrancoAngeli,
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Se affarone e N. Tirinnanzi, Giordano Bruno e la composizione del
«De vinculis», «Rineiscimento», XXXVII (1997), pp. 155-231; M. Ca-
nova, E caos come metamorfosi nel «Candelaio» di Giordano Bruno,
«L'immagine riflessa», n. s., VII (1998), i, pp. 57-78; P. Sabbatino, Nei
luoghi di Circe. L'« Asino» di Machiavelli e il «Cantus Circaeus» di Bruno,
in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno (Firenze-Pisa,
27-30 ottobre 1997), Roma, Salerno Editrice, 1998, pp. 553-596; D. Tes-
SICINI, Bruno e Roeslin. Sulla presenza della «Theoria nova coelestium
METEQPQN» nel «De immenso», «Bruniana & Campanelliana», IV
(1998), 2, pp. 475-487; S. Otto, Gli occhi e il cuore. H pensiero filosofico in
base alle 'regole' e alle 'leggi' della sua presentazione figurale negli «Eroici
furori», ivi, V (1999), i, pp. 13-24; A. Perfetti, Nota su un 'introvabile'
esemplare del «De monade» (1614), ivi, V (1999), 2, pp. 513-519; C. Pe-
SCA-Cupolo, Oltre la scena comica: la dimensione teatrale bruniana e
l'ambientazione napoletana del «Candelaio», «Italica», LXXVI (1999), i,
pp. 1-17; P. Sabbatino, «Scuoprir quel ch'è ascosto sotto questi sileni». La
220 NOTA BIBLIOGRAFICA
forma dialogica degli «Eroici furori», «Bruniana & Campanelliana», V
(1999), 2, pp. 367-380; M. Spang, Brunos «De monade, numero et figura»
und christliche Kabbala, ivi, V (1999), i, pp. 67-94; A. Bònker-Vallon,
L'unità del metodo e lo sviluppo di una nuova fisica. Considerazioni sul
significato del «De l'infinito, universo e mondi» di Giordano Bruno per la
scienza moderna, ivi, VI (2000), i, pp. 35-56; L. Catana, Bruno's «Spac-
cio» and Hyginus' «Poetica astronomica», ivi, pp. 57-77; A. Maggi, The
language of the visible: the «Eroici furori» and the Renaissance philosophy
of «imprese», ivi, pp. 1 15-142; V. Perrone Compagni, «Minime occul-
tum chaos». La magia riordinatrice del «Cantus Circaeus», ivi, VI (2000),
2, pp. 281-297.
La presente edizione
Si riproduce qui il testo dell'edizione critica delle opere italiane di
Giordano Bruno che Giovanni Aquilecchia ha stabilito per Les Belles
Lettres di Parigi (1993-1999), nella collana delle «CEuvres complètes»
diretta da Y. Hersant e N. Ordine avvalendosi dei testi di base che,
a partire dal 1966, stava predisponendo per l'Utet. All'edizione fran-
cese - le cui pagine sono segnalate a margine fra parentesi quadre -
si rinvia per le note filologiche ai singoli testi e per le relative va-
rianti. Naturalmente si è tenuto conto delle correzioni segnalate dallo
stesso Aquilecchia nel suo saggio I dialoghi bruniani «a cura» (0 sine-
cura?) di Michele Ciliberto, «Giornale storico della letteratura italiana»,
CLXXVII (2000) pp. 422-439. Entrambe le edizioni (Les Belles Lettres
e Utet) appaiono con il patrocinio dell'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici e del Centro Intemazionale di Studi Bruniani.
Questo è l'elenco dei testi dell'edizione critica Les Belles Lettres:
Chandelier, Texte établi par Giovanni Aquilecchia. Traduction de Yves
Hersant. Introduction et notes par Giorgio Bàrberi Squarotti. Intro-
duction philologique generale par Giovanni Aquilecchia, 1993.
Le souper des Cendres, Texte établi par Giovanni Aquilecchia Traduc-
tion de Yves Hersani Introduction par Adi Ophir. Notes par Gio-
vanni Aquilecchia, 1994.
De la cause, du principe et de l'un, Texte établi par Giovanni Aquilec-
chia. Traduction de Lue Hersant. Introduction par Michele Cili-
berto. Notes par Giovanni Aquilecchia, 1996.
De l'infini, de l'univers et des mondes, Texte établi par Giovanni Aqui-
lecchia. Traduction de Jean-Pierre Cavaillé. Introduction par Mi-
guel Angel Granada. Notes par Jean Seidengart, 1995.
NOTA BIBLIOGRAFICA 221
Expulsion de la bète triomphante, Texte établi par Giovanni Aquilec-
chia. Traduction de Jean Balsamo. Introduction par Nuccio Ordine.
Notes par Maria Pia Ellero, 1999.
Cabale du cheval pégaséen, Texte établi par Giovanni Aquilecchia. Tra-
duction de Tristan Dagron. Introduction et notes par Nicola Bada-
loni, 1994.
Des fureurs héroìques, Texte établi par Giovanni Aquilecchia. Traduc-
tion de Paul-Henri Michel (revue par Yves Hersant). Introduction
et notes par Miguel Angel Granada, 1999.
NOTA FILOLOGICA*
di
Giovanni Aquilecchia
Ritengo inevitabile, quando ci si accinga a presentare il risultato di
un lavoro che, con interruzioni più o meno prolungate, ha occupato
oltre quarant'anni di vita, rifarsi con il pensiero all'epoca e alle circo-
stanze in cui questo lavoro è nato. L'epoca è l'indomani della seconda
guerra mondiale. Nell'Italia di quegli anni, mentre si sviluppavano in
letteratura una corrente di poesia impegnata e una forma di racconto
neo-realista, si assisteva sul piano della critica a una reazione contro il
neo-idealismo di Benedetto Croce, che si tradusse o in uno storicismo
di origine marxista, nei casi più estremi (tale fu la svolta critica del
mio maestro, Natalino Sapegno), o in un filologismo tecnico e tuttavia
sollecito di risultati storicamente probanti. Questa seconda fu la mia
opzione.
Attratto dalla prosa della fine del XVI secolo, in cui vedevo il ri-
flesso cangiante di un periodo di crisi europea, avevo allora come pro-
getto di comparare da un punto di vista stilistico — senza tuttavia
perdere di vista le differenze ideologiche tra i due autori - Bruno a un
suo contemporaneo, il Tasso. Ma, nel caso del filosofo, una condizione
si imponeva: occorreva indagare sulla validità del testo delle opere di-
sponibili, prima di tentarne l'esame stilistico propriamente detto. Que-
sto esame, mi auguro oggi che altri possano approfondirlo, sulla base
del testo critico qui presentato.
Le edizioni del XIX secolo: Wagner e Lagarde
Dell'opera di Bruno in italiano ci resta una commedia, pubblicata
a Parigi nel 1582, e sei dialoghi filosofici pubblicati a Londra nel 1584-
85. Si deve collocare anteriormente alla prima di queste date un libro
perduto, incentrato su un soggetto morale e dedicato dall'autore al
papa Pio V, L'Arca di Noè, mentre un piccolo libro, forse astrologico.
De' segni de' tempi, anch'esso perduto, fu stampato a Venezia tra il
Traduzione dal francese di Anna Chiara Peduzzi.
224 NOTA FILOLOGICA
1577 e il 1578. La parte conservata dell'opera latina, stampata o non,
supera in quantità la parte italiana e si colloca interamente nel decen-
nio che va dal 1582 (anno delle prime opere mnemotecniche parigine)
al 1591 (anno dei grandi poemi pubblicati a Francoforte). Di una tale
produzione, nonostante l'esistenza della monumentale edizione del
XIX secolo - Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, publicis
sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino (F. Tocco, G. Vitelli, V. Im-
briani, C. M. Tallarigo) I-III, Neapoli-Florentiae 1879-1891 - non si
può dire esista tuttora un testo propriamente critico, fatta eccezione
per i quattro Dialoghi parigini sul compasso di Fabrizio Mordente, che
ho pubblicato nel 1957 presso le Edizioni di Storia e Letteratura di
Roma sotto il titolo Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti (con
Erratum-corrige stampato a parte), così come per le ultime lezioni pa-
dovane, Praelectiones geometricae e Ars deformationum, che erano rima-
ste sconosciute quanto inedite e che ho pubblicato nel 1964, presso lo
stesso editore romano. Più recente è l'eccellente edizione storico-critica
del De umhris idearum fornita da Rita Sturlese (Firenze, Olschki, 1991);
attendiamo ora l'edizione critica delle opere latine che questa specia-
lista ha in preparazione per le Belles Lettres.
L'edizione corrente delle opere italiane, all'epoca delle mie prime
ricerche su Bruno, era la seconda edizione delle Opere italiane, pubbli-
cate a Bari da Laterza; Giovanni Gentile si era incaricato dei sei dia-
loghi (in due volumi, 1925 e 1927) e Vincenzo Spampanato della com-
media (1923). Il corpus italiano di Bruno aveva conosciuto precedente-
mente - dopo le edizioni del XVI secolo e anteriormente alla prima
edizione Laterza, di cui riparlerò più avanti - due riprese nel XIX
secolo, entrambe in Germania: la prima nel 1830, a Lipsia, in due vo-
lumi dovuti a Adolph Wagner, la seconda datata del 1888 ma in
realtà pubblicata nel 1889 a Gottinga, in due volumi stabiliti da Paul
de Lagarde (vale a dire dall'orientalista tedesco Paul Anton Bòtticher).
Quanto all'edizione del 1830, il suo editore specificava che, per stabi-
lire i testi, aveva fatto copiare quelli che gli «erano stati assai cortese-
mente trasmessi dal dottissimo Ebert, bibliotecario di Dresda» e che li
aveva «comparati quando necessario con quelli delle biblioteche di Got-
tinga e di Vienna», disponendoli nell'ordine cronologico tratto dalla bio-
grafia dell'autore o dalle indicazioni inteme fomite dall'opera. È infatti
uno dei meriti di Wagner avere fissato l'ordine cronologico delle opere
italiane in modo del tutto convincente. La lista è la seguente:
1. Candelaio (datato: Parigi 1582);
2. La cena de le Ceneri (datato del 1584, senza indicazione del
luogo di stampa);
NOTA FILOLOGICA 225
3. De la causa, principio et uno (datato del 1584, con Venezia
come luogo di stampa fittizio);
4. De l'infinito, universo e mondi (datato del 1584, con Venezia
come luogo di stampa fittizio);
5. Spaccio de la bestia trionfante (datato del 1584, con Parigi come
luogo di stampa fittizio);
6. Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino cillenico (da-
tato del 1585, con Parigi come luogo di stampa fittizio);
7. De gli eroici furori (datato del 1585, con Parigi come luogo di
stampa fittizio).
Sorge qualche esitazione, invece, sulle edizioni del XVI secolo uti-
lizzate direttamente o indirettamente da Wagner. Il bibliotecario di
Dresda, infatti, non potè fornirgli la Cabala, di cui la Sàchsische Lan-
desbibliothek non possedeva, allora come oggi, nessun esemplare; è
quanto risulta dal lavoro di Rita Sturlese, Bibliografìa, censimento e sto-
ria delle antiche stampe di Giordano Bruno (Firenze, Olschki, 1987),
dove si apprende inoltre che gli esemplari del Candelaio, della Cena,
dell'Infinito e dei Furori un tempo in possesso di questa biblioteca fu-
rono distrutti durante la seconda guerra mondiale. Tra le localizza-
zioni citate da Wagner, solo la Kaiserliche Kònigliche Hofbibliothek
di Vienna (divenuta poi Oesterreichisch Nationalbibliothek) posse-
deva la serie completa delle opere italiane di Bruno; non risulta infatti
che la Niedersàchsische Staats- und Universitàtbibliothek di Gottinga
abbia mai custodito copie della Cena, dello Spaccio e della Cabala. Per
la grafia adottata nella riproduzione dei testi, Wagner si limitò a for-
nire qualche esempio delle modernizzazioni che aveva operato, am-
mettendo altresì una certa «incoerenza»; per la punteggiatura, pur ri-
conoscendo la sua importanza nell'interpretcìzione dei testi, confessava
in fin dei conti, con una notevole ingenuità, di averla modificata di
modo che le frasi non fossero né troppo lunghe né troppo corte.
Quanto al resto, corresse la lingua dell'autore «talvolta senza nem-
meno avvisare il lettore». Queste le ragioni che dovevano in seguito
rendere criticabile e poco raccomandabile l'edizione di Lipsia, il cui
grande merito fu tuttavia quello di rimettere in circolazione il corpus
italiano di Bruno nella sua interezza.
Se si eccettua un'edizione del Candelaio indipendente dal testo di
Wagner (il cui editore è anonimo), così come altre edizioni della stessa
commedia che dipendono, invece, dal testo di Wagner (salvo quella di
Imbriani-Tria su cui si fonda largamente l'edizione Sicardi), esclu-
dendo le ristampe della commedia e dei dialoghi che, a eccezione della
Causa e dell'Infinito nell'edizione Daelli (Milano 1863-1864), dipendono
tutte dal testo di Wagner, bisogna arrivare alla già citata edizione di
226 NOTA FILOLOGICA
Paul de Lagarde datata Gottinga, 1888 (Dieterichsche Universitàts-
buchhandlung), per fissare il vero e proprio inizio della storia delle
edizioni di Bruno.
Pur con l'intenzione di riprodurre fedelmente la grafia e la punteg-
giatura delle edizioni originali, questa edizione si autorizzò a emen-
darle (con avvertimento in nota), incorrendo talvolta in errori dovuti
a incomprensioni. Benché non si trattasse di un'edizione propriamente
diplomatica, essa ha consentito in gran parte di assicurare il difficile
reperimento delle edizioni originali. Nella sua nota finale, l'editore for-
nisce informazioni poco esplicite quanto alle copie delle prime stampe
sulle quali il suo lavoro si fonda; gli capita di riferire dei particolari
aneddotici che non sempre appaiono convincenti. Per essere precisi,
dichiara di avere utilizzato l'esemplare di Gottinga solo nel caso del
Candelaio; per lo Spaccio non precisa la localizzazione dell'esemplare
utilizzato, ma segnala l'assenza delle prime trentatré pagine, fomite da
un'inglese che le aveva copiate dall'esemplare del British Museum.
L'intero testo della Cabala gli fu consegnato in condizioni analoghe
(solo in seguito potè confrontare la sua copia con l'esemplare britan-
nico; rimanda anche a una copia effettuata a Monaco che assicura di
avere consultato, ma non risulta che Monaco disponga del minimo
esemplare della Cabala). Solo un'induzione permette di pensare che
Lagarde abbia utilizzato l'esemplare di Berlino per il testo della Causa,
mentre un esemplare di questo dialogo si trovava già nella biblioteca
di Gottinga. Quanto all' Infinito e ai Furori, si può dedurre dal mutismo
dell'editore che egli abbia utilizzato gli esemplari della stessa biblio-
teca, che tuttavia non possedeva nessuna copia della Cena; questo si-
lenzio ha potuto indurre in errore gli editori posteriori del dialogo.
L'edizione Gentile
Il testo di Lagarde è servito come base, almeno per quanto riguarda
i sei dialoghi, alla prima edizione del nostro secolo delle Opere italiane
pubblicate da Laterza (Bari). Il primo e il secondo volume, che conten-
gono appunto i dialoghi, apparvero rispettivamente nel 1907 e nel
igoS grazie a Giovanni Gentile: sotto il titolo generale di Dialoghi me-
tafisici, il primo volume comprendeva la Cena, la Causa e Vlnfinito
(dialoghi che critici più recenti hanno preferito definire «dialoghi co-
smologici»); sotto il titolo di Dialoghi morali, anch'esso imposto da
Gentile, il secondo riuniva lo Spaccio, la Cabala e i Furori. Nel terzo
volume, pubblicato nel 1909, si trovava il Candelaio, affidato a 'V^in-
cenzo Spampanato; questa edizione, pur dichiarandosi condotta «con
l'Edizione del Giuliano [cioè Guillaume Julian] sempre sott'occhio».
NOTA FILOLOGICA 227
non precisa quale sia stato l'esemplare comparato, probabilmente, con
il testo stabilito da Lagarde. La prefazione di Gentile al primo volume
ometteva anch'essa la designazione esplicita della base testuale del-
l'edizione: se ne poteva nondimeno inferire che, per la Causa e Vlnfi-
nito. Gentile avesse utilizzato il testo di Lagarde, confrontandolo con
le edizioni originali conservate a Gottinga. In mancanza di precisa-
zioni sulla Cena, si può ritenere che anche per questo dialogo si sia
servito del testo di Lagarde, ma senza confrontarlo con nessun esem-
plare del XVI secolo. Quanto ai criteri di trascrizione. Gentile optò per
una modernizzazione dell'ortografìa e della punteggiatura, di cui rico-
nosceva lui stesso gli eccessi. «Ma a noi - sottolineava - preparando
una nuova ristampa delle opere italiane del Bruno per una collezione
di filosofi, è parso che egli debba essere e sia letto da assai più che non
potranno essere mai gli studiosi della sua grammatica, della sua grafia
e punteggiatura»; optava così per una «forma graficamente moderna e
nostra, foneticamente antica e bruniana». Per lo Spaccio e i Furori
(pubblicati nel 1908 nel secondo volume), Gentile potè collazionare il
testo di Lagarde con le copie di questi due dialoghi che la Biblioteca
Nazionale di Napoli aveva acquisito nel 1907 dalla libreria di Tamaro
de Marinis, senza modificare, ovviamente, i suoi criteri di trascrizione.
Quanto al testo della Cabala, fu copiato da quello di Lagarde senza
altro controllo.
Nel 1907, la Biblioteca Nazionale di Napoli aveva acquisito anche
una copia deìVInfinito e una della Cena (rilegata con lo Spaccio), troppo
tardi tuttavia perché Gentile potesse tenerne conto nella sua edizione
dei Dialoghi metafisici. Nondimeno la prefazione ai Dialoghi morali gli
fornì l'occasione di recensire le particolarità della copia napoletana
della Cena; cosicché a lui si deve il principale contributo alla critica
testuale di Bruno, prima delle scoperte che dovevano compiersi qua-
rant'anni più tardi. Pur dicendo di aver preso per errore come termine
di comparazione un «esemplare di Gottinga» che, come si è detto, non
è mai stato ritrovato nelle collezioni della Niedersàchsische Staats-
und-Universitàtbibliothek (la comparazione è stata compiuta più pro-
babilmente con il testo dell'edizione Lagarde), Gentile notava che
dopo il primo folio (A) l'esemplare napoletano contiene quattro pagine
fino a quel momento «sconosciute ai bibliofili e agli studiosi di
Bruno» (come mi è stato gentilmente segnalato da Giorgio Fulco, esse
erano state tuttavia indicate, benché in modo impreciso, nel Catalogne
de la Bihliothèque du feu M. Benedetto Maglione de Naples, Prima parte,
Parigi, 1894, pp. 46-47). Alle pagine XVI-XIX dei Dialoghi morali, l'edi-
tore riproduceva queste quattro pagine, riconoscendovi una redazione
primitiva dell'inizio del primo dialogo; spiegava che la redazione defi-
228 NOTA FILOLOGICA
nitiva di questo inizio veniva a occupare le ultime cinque pagine del
primo folio (stampato per ultimo e le cui ultime cinque pagine dove-
vano essere rimaste bianche). Gentile osservava anche, senza maggiori
precisazioni, che se Bruno aveva prodotto una variante di questo
brano aumentandolo da quattro a cinque pagine, era stato per ragioni
di convenienza personale o di natura artistica, a meno che non fosse
stato per puro «capriccio». Prima di continuare il nostro excursus nella
storia delle edizioni di Bruno, conviene chiarire meglio le ragioni e le
circostanze di un siffatto rimaneggiamento, il che implica un breve
richiamo delle vicissitudini che condussero Bruno a Londra e alla re-
dazione della Cena.
Breve digressione biografica
Verso il 1562, Bruno aveva lasciato il borgo di Nola, nel viceregno
di Napoli, dove era nato nel gennaio o febbraio del 1548; studiando
nella capitale la logica e la dialettica, aveva subito il fascino delle cor-
renti speculative (l'averroismo anti-umanistico, l'immanentismo) e
delle tradizioni metodologiche, come la mnemotecnica, che dovevano
successivamente caratterizzare le sue ricerche filosofiche. Ci si può
dunque stupire di vederlo entrare nell'ordine dei Domenicani nel
1565, presso il convento napoletano di San Domenico Maggiore. Nono-
stante un primo incidente nella sua vita conventuale (tra il 1566 e il
1567), è ordinato prete nel 1572 e nel 1575 supera gli esami di laurea
in teologia. Ma la lettura dei commenti erasmiani gli procura ben pre-
sto un veto ecclesiastico, così come i suoi dubbi sulla Trinità lo fanno
sospettare di eresia, a tal punto che un processo a suo carico viene
istruito da parte del Padre provinciale. Di qui la sua decisione di re-
carsi a Roma nel febbraio 1576, dove risiederà non oltre marzo, es-
sendo venuto a sapere che le edizioni di Erasmo che gli erano appar-
tenute erano state ritrovate a Napoli (un secondo processo fu istruito
dall'ordine dei Predicatori nel 1576). Spretato, si reca in Liguria e si
stabilisce a Noli fino all'inizio del 1577, insegnando il latino e com-
mentando la Sfera (si ignora se seguisse il sistema tolemaico o quello
copernicano). Di qui, dopo una breve sosta in Piemonte, prosegue
verso Venezia, dove fa stampare l'opuscolo De' segni de' tempi di cui si
è detto sopra. Giunto a Milano nel 1578, si reca quello stesso anno a
Ginevra, dove nel 1552 il marchese Gian Galeazzo di Vico aveva fon-
dato la comunità evangelica italiana. Gli esuli italiani gli procurano
un posto di correttore di bozze in una tipografia, attività che esercita
per circa due mesi e che, successivamente, gli tornerà assai utile per
l'edizione delle sue opere. A Ginevra, non foss'altro che per ragioni di
NOTA FILOLOGICA 229
convenienza personale, Bruno aderisce al calvinismo, come prova non
tanto la sua iscrizione autografa all'Università (in data 20 maggio
1579) quanto un processo per diffamazione nei confronti del profes-
sore titolare di filosofia, Antoine La Faye, istruito contro di lui dal
concistoro nel mese di agosto di quello stesso anno. Scomunicato dalla
Chiesa di Ginevra, poi reintegrato dopo abiura, abbandona la città con
un sentimento di rancore che si tradurrà più tardi nella polemica an-
ti-calvinista: ricorrente nelle sue opere, essa deve essere messa a con-
fronto con le simpatie politiche che Bruno manifestò durante i suoi
soggiorni successivi in Francia e in Inghilterra, se si vogliono com-
prendere meglio le varianti del testo stampato da cui ha preso le
mosse la presente digressione. Dopo un soggiorno di un mese a Lione,
il filosofo si reca a Tolosa, che era all'epoca uno dei baluardi dell'orto-
dossia cattolica: nonostante la sua condizione di apostata, viene invi-
tato a insegnare in particolare la Sfera. Diventato magister artium, ot-
tiene per concorso un posto di lettore titolare di filosofia, che occupa
per circa due anni. Essendosi fatta più precisa durante il 1581 la mi-
naccia di una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa
per Parigi, dove tiene un corso sugli attributi divini nell'opera di san
Tommaso. Ma se attira l'attenzione della corte di Enrico III, è soprat-
tutto grazie alla notorietà che gli avevano procurato il suo insegna-
mento e la sua pratica della mnemotecnica di origine lulliana: il re lo
invita a offrire una dimostrazione della sua arte. Non c'è di che stu-
pirsi, se si pensa all'interesse che nutrivano per il sapere enciclopedico
e per le arti mnemoniche a questo connesse i circoli intellettuali della
corte, dove si sviluppavano ambiziosi progetti di riforma culturale con
uomini come J. D. du Perron, il futuro cardinale, e il vescovo di Chà-
lons-sur-Saòne, Pontus de Tyard. D'altra parte, mantenendosi equidi-
stante tra il rigorismo cattolico e protestante. Bruno si trovava giusto
nella linea politico-religiosa di una corte opposta all'estremismo dei
membri della Lega guidati dal duca di Guisa e piuttosto tollerante, per
converso, verso i protestanti sostenuti dal re di Navarra.
È al re di Francia che Bruno ha dedicato la prima delle sue opere
pervenutaci, il De umbris idearum, stampata da G. Gourbin nel 1582
con l'Ars memoriae. Enrico III colse quest'occasione per includere il
filosofo nel novero dei lettori reali sovvenzionati, che insegnavano al
di fuori della Sorbona e attaccavano il suo conformismo aristotelico.
Seguì la pubblicazione del Cantus circaeus, piccola opera mnemotec-
nica in forma di dialogo, stampata nello stesso anno da E. Gilles; la
dedica a Enrico di Angouléme, fratello naturale del re, fu scritta dal
segretario J. Régnault, essendo Bruno occupato da grauioribus negociis
di cui non si sa nulla. Data dello stesso anno 1582 il De compendiosa
230 NOTA FILOLOGICA
architedura et complemento Artis Lullii, stampato da Gourbin con una
dedica dello stesso Bruno all'ambasciatore veneziano Giovanni Moro.
Negli ultimi mesi del 1582 (dopo la pubblicazione dei primi due trat-
tati mnemonico-lulliani, ma forse prima della pubblicazione del De
compendiosa architectura), vedeva la luce a Parigi il Candelaio, nella ti-
pografia di Guillaume Julian figlio; completata in agosto, la redazione
probabilmente era stata intrapresa da Bruno prima della sua partenza
dall'Italia. Scritta in un italiano popolare che conserva, nel lessico
come nella morfologia, notevoli caratteristiche del dialetto napoletano,
questa commedia testimonia in modo esplicito, per la prima volta, del
rigetto della società e della cultura contemporanee che aveva indotto
Bruno a rompere con l'Ordine e poi a esiliarsi.
In mancanza di autografi e di manoscritti, la critica testuale delle
opere italiane di Bruno deve sottoporre a rigorosa disamina le prime
edizioni (quella parigina del 1582 per la commedia, quelle londinesi
del 1584-1585 per i dialoghi); esse assumono un valore di archetipi, o
addirittura di originali — in quanto edizioni d'autore —, se si tiene
presente che il filosofo era un esperto correttore di bozze. Per il pe-
riodo anteriore all'edizione della commedia e dei dialoghi, ho già detto
del suo mestiere di correttore a Ginevra (cfr. V. Spampanato, Docu-
menti della vita di G. Bruno, Firenze, 1933, p. 83); per il periodo poste-
riore, sappiamo da una richiesta rivolta al Senato di Francoforte nel
luglio 1590 che Bruno intendeva alloggiare presso lo stampatore We-
chel per controllare la stampa dei suoi poemi latini (Documenti tedeschi
IX: ibidem, p. 55). Nella sua lettera di dedica al De minimo, Wechel
stesso si riferiva alla correzione di Bruno dei fogli stampati del poema,
così come al suo ruolo nell'incisione delle illustrazioni (Opera latine
conscripta, I, 3, p. 123); non va nemmeno dimenticato che, per almeno
uno dei dialoghi italiani, egli procedette a correzioni d'autore sul testo
in corso di stampa. Ciò che altresì conferma il valore di archetipi o
addirittura di originali delle prime edizioni è il fatto che lo stampa-
tore dei dialoghi di Londra non era affatto abituato ai testi in italiano;
allo stato attuale della ricerca, niente prova che lo stampatore della
commedia ne avesse maggiore esperienza. Per quanto riguarda il Can-
delaio e il suo stampatore, devo precisare che la monumentale edizione
postuma degli Imprimeurs et Libraires Parisiens du XVI siede di Phi-
lippe Renouard, che comprende a tutt'oggi solo i primi tre tomi (Pari-
gi, 1964-1979), seguiti dal Fascicule Breyer (1982), dal Fascicule Brumen
(1984) e dal Fascicule Cavellat, Marnef/Cavellat (1986), recensisce i nomi
Abada-Billon; si è dunque ancora lontani dalla lettera J. Disponiamo
tuttavia, anche se questo supporto è parziale, à.Q\V Index of Printers and
Publishers del Sort-title Catalogne of Books printed in France... from 1470
NOTA FILOLOGICA 23 1
to 1600 now in the Brìtish Library, Supplement (1986), pp. 89-286, dove
si apprende che l'officina di Guillaume Julian, rappresentata da edi-
zioni che datano dal 1552 al 1589, produsse prima del 1582, anno
della pubblicazione del Candelaio, quattordici libri in latino e quattro
in francese; nello stesso anno 1582 apparvero un'opera in francese e
una in spagnolo. Dai Documents sur les Imprimeurs, Libraires... ayant
exercé à Paris de 1450 à 1600 dello stesso Renouard (Parigi, 1901),
emerge che lo stampatore di Bruno era (all'età di ventidue anni e sotto
tutela) succeduto nell'ottobre 1581 a suo padre Guillaume Julian, di
cui era omonimo. Né il padre né il figlio sembrano avere avuto la
minima esperienza di un libro italiano prima del Candelaio. Tutte que-
ste circostanze inducono a pensare che la stampa fu controllata dal-
l'autore; la confusione particolare che regna nella numerazione delle
scene della commedia potrebbe allora essere imputata alle circostanze
della sua composizione.
Comunque sia, il 28 marzo 1583, l'ambasciatore d'Inghilterra a Pa-
rigi, H. Cobham, inviava al primo segretario del regno un messaggio
che lo informava dell'intenzione di Bruno di attraversare la Manica;
precisava che la fede del filosofo lasciava piuttosto a desiderare. L'ar-
rivo di Bruno in Inghilterra deve collocarsi nell'aprile del 1583. Non è
possibile stabilire con certezza i motivi che lo indussero a interrom-
pere il suo soggiorno in Francia; se ci si attiene alle dichiarazioni rese
nel corso del suo processo, si sarebbe allontanato da Parigi «per li tu-
multi che nacquero»: {Documenti veneti, IX). In realtà, non si trattava
di sommosse in senso stretto, ma di una nuova situazione politica che
andava allora configurandosi in Francia, quella stessa che, due anni
più tardi, doveva indurre il re a revocare gli editti di tolleranza. In
questo contesto, la presenza dell'apostata Bruno, compromesso con il
calvinismo ginevrino, non poteva non infastidire la corte di Enri-
co III. Quest'ultimo, tuttavia, non mancò di raccomandare l'esule ita-
liano all'ambasciatore di Francia a landra, Michel de Castelnau, si-
gnore di Mauvissière, presso il quale il filosofo fu ospitato durante il
suo soggiorno londinese. Da Londra, Bruno si recò una prima volta a
Oxford al seguito del conte palatino-polacco Albert Laski, che visitò
questa università dal io al 13 giugno 1583. In questa occasione, il fi-
losofo partecipò a un dibattito e corona con il teologo di Oxford John
Underhill (che doveva diventare vice-cancelliere dell'Università
l'anno successivo), richiamandosi alla logica aristotelica contro le po-
sizioni ramiste del suo avversario. Fu forse dopo il suo ritomo a Lon-
dra che inviò la pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Acade-
miae Procancellarium, unita a alcuni esemplari dell' Explicatio triginta
sigillorum (e, come quest'ultima opera, stampata nella capitale da John
232 NOTA FILOLOGICA
Charlewood, di cui si riparlerà a proposito dei dialoghi londinesi). Du-
rante l'estate dello stesso anno, Bruno ritornò a Oxford e tenne una
serie di lezioni pubbliche; sostenne la teoria copernicana, ma esten-
dendola alla propria concezione dell'infinito, senza esitare a ricorrere
alla definizione ermetica di Dio. Per trattare dell'immortalità del-
l'anima, fece un uso puramente strumentale della terminologia neo-
platonica derivata da Ficino. C'era di che scandalizzare il suo pub-
blico oxoniense, che lo costrinse a interrompere le sue lezioni, in modo
scortese, a quanto dice Bruno stesso nel quarto dialogo della Cena; in
modo diplomatico, secondo il polemista George Abbot, futuro arcive-
scovo di Canterbury, in The reasons that Doctor Hill hath brought, 1604.
Occorre tenere conto di questo episodio per capire meglio, nelle prime
redazioni di alcuni brani della Cena, la violenta polemica contro
Oxford e i protestanti. Di ritomo a Londra, pur continuando a allog-
giare presso l'ambasciatore di Francia, Bruno confermò nettamente la
sua posizione anti-accademica (insieme anti-aristotelica e anti-umani-
stica), tanto oralmente quanto per iscritto. La sua prima opera pubbli-
cata in Inghilterra è un piccolo volume, stampato senza indicazione
del luogo né della data ma certamente apparso a Londra nel 1583, che
raccoglie alcuni dei suoi testi sull'arte della memoria; più che gli
scritti lulliani sulla mnemotecnica pubblicati a Parigi, l'opera svi-
luppa una teoria della conoscenza e prepara la via alle formulazioni
filosofiche dei futuri dialoghi italiani. Il volume comprende l'Ars remi-
niscendi, VExplicatio triginta sigillorum (preceduta, in alcune copie,
dalla succitata lettera al vice-cancelliere dell'Università di Oxford) e il
Sigillus sigillorum. È solo a proposito della lettera e delV Explicatio che
si può affermare con certezza che lo stampatore fu John Charlewood.
Ma prima di parlare di quest'ultimo e della sua responsabilità nella
stampa dei sei dialoghi italiani, è opportuno riprendere il nostro di-
scorso interrotto sulle varianti della Cena, offrendo nel contempo un
esempio del sostegno che la bibliografia materiale e la critica testuale
possono fornire tanto alla ricostituzione biografica quanto a quella del
contesto ambientale.
La Cena de le ceneri e le sue varianti
Occorre anzitutto escludere che l'opera abbia potuto essere riveduta
per «capriccio», tanto è difficile per chi sia in esilio mostrarsi capric-
cioso. D'altra parte, le cinque pagine bianche che seguivano la Proe-
miale epistola, alla fine del primo folio (A), non possono essere spiegate
con un errore dell'autore e dello stampatore: secondo questa ipotesi,
essi si sarebbero sbagliati di due fogli e mezzo, cioè cinque pagine, nel
NOTA FILOLOGICA 233
calibrare la lettera di introduzione, che occupa invece solo quattro fo-
gli e mezzo, cioè la metà degli otto che costituiscono il folio (il primo
reca infatti sul recto il frontespizio e sul verso il sonetto Al malconten-
to). Sottolineamo che nella Causa, stampata immediatamente dopo la
Cena, dopo la lettera introduttiva - la quale, a esclusione del primo
foglio (II) che contiene il frontespizio e che è bianco sul verso, occupa
anche, oltre al resto del folio (I2-8), il primo foglio del seguente se-
condo folio (2Ì[4) - viene una serie di cinque poemi (tre in latino e
due in italiano) che occupano altrettante pagine e lasciano in bianco
solo il verso dell'ultimo foglio del mezzo-folio, di fronte al foglio Ai
recto dove comincia il dialogo propriamente detto. Piuttosto che attri-
buire all'autore e allo stampatore un grossolano errore di calcolo, sarei
incline a credere che entrambi avessero riservato queste cinque pa-
gine, o almeno le prime quattro, per altrettanti poemi: forse i quattro
che in seguito furono collocati all'inizio dei dialoghi della Causa, a
prescindere dal sonetto Causa, principio e uno eterno. Il cambiamento
di programma potè essere determinato, nell'autore e per contraccolpo
nello stampatore, da seri motivi di convenienza personale, motivi che
Gentile, come ho ricordato, non ha mancato di citare, senza tuttavia
cercare di identificarli e di spiegarli. Per parte mia, sostengo che, es-
sendo stato il primo folio composto per ultimo, il contenuto dei folio
successivi - comprendenti la polemica sarcastica di Bruno contro
l'orientamento aristotelico e grammaticale dell'università di Oxford,
ma anche, con prevedibili eccezioni, contro la stessa società londine-
se — era venuto nel frattempo a conoscenza degli ambienti intellet-
tuali e della corte, tanto da suscitare il risentimento espresso da Bruno
nella sua lettera di introduzione al primo dialogo della Causa, dove si
dichiara disposto a sopprimere puramente e semplicemente l'edizione
della Cena. Comunque sia, è concesso supporre che il contenuto di
questi folio già stampati fosse noto agli amici e ai protettori di Bruno
citati nell'esordio del primo dialogo; come suggeriscono alcune dichia-
razioni ulteriori dello stesso autore, questi amici non apprezzarono
forse che il loro nome fosse citato, ancorché in modo lusinghiero, in
un contesto fortemente polemico verso la cultura e la società inglesi. Il
tenore dell'opera fu certamente noto a John Florio (rappresentante
della cultura italiana a Londra, autore di dizionari anglo-italiani e,
pare, amico di Shakespeare) che risiedeva come Bruno presso l'amba-
sciatore di Francia, in qualità di tutore delle giovanissime figlie di
quest'ultimo. Era ormai impossibile, e troppo costoso, ricomporre i fo-
lio già stampati; Bruno, del resto, non desiderava certamente rinun-
ciare alla sua polemica, ma riuscì ad approfittare delle cinque pagine
bianche del primo folio per rimediare, quanto meno, alle imprudenti
234 NOTA FILOLOGICA
citazioni contenute nell'inizio del dialogo I. Prima variante riguar-
dante i nomi propri: la soppressione del qualificativo «studioso gen-
til'huomo» applicato all'interlocutore «Smitho», vale a dire a uno
Smith che oggi non è possibile identificare tra gli omonimi contempo-
ranei di Bruno, ma che allora, grazie a questo qualificativo, doveva
essere più facilmente riconoscibile. Poiché questo interlocutore ha la
funzione, nel dialogo, di spalleggiare «Theophilo» (cioè Bruno stesso),
la sua identificazione avrebbe potuto rivelarsi imbarazzante nel con-
testo che abbiamo illustrato. È significativo, a questo proposito, che
l'altro interlocutore di cui Bruno modifica la definizione sia «Frulla»:
qualificato come «servitor di Smitho» nella redazione primitiva, non è
più definito nella seconda. Avendo questo domestico la funzione, se-
condo l'uso della commedia italiana, di mettere in evidenza la sempli-
cità e l'ignoranza di «Prudentio Pedante» (non si deve dimenticare
che «Prudentio», nel dialogo, rappresenta l'orientamento aristotelico e
grammaticale dell'università di Oxford a quell'epoca), Bruno dovette
evitare anche in questo caso di mettere troppo esplicitamente in causa
quegli inglesi il cui circolo probabilmente frequentava. In compenso,
le definizioni dei personaggi «Theophilo» e «Prudentio» come «Philo-
sopho» e «Pedante» rimangono immutate; «Prudentio», il cui nome
sembra in certo modo anticipare quello di «Simplicio», di galileiana
memoria, è infatti l'unico interlocutore opposto alle teorie di Coper-
nico e di Bruno. Viene eliminata qualunque allusione alla «casa del-
l'illustrissimo ambasciatore di Francia», dove risiedeva il filosofo;
viene eliminato anche il riferimento al luogo in cui «messer Florio» e
«maestro Guin» (il gallese Matthew Gwinne) si erano recati per invi-
tarlo a esporre le sue teorie a un personaggio della corte, non nomi-
nato nella prima e nella seconda edizione di questo inizio, ma inden-
tificato da un brano difficile della Proemiale epistola come Fulke Gre-
ville, amico e biografo di Philip Sidney e anch'egli poeta.
Per ben comprendere la prudenza che impose queste diverse mo-
difiche, bisogna tenere presente quanto ho già detto a proposito
delle circostanze del trasferimento di Bruno in Inghilterra e delle
sue prime esperienze inglesi. Quanto alle mie osservazioni sulle va-
rianti subite dai nomi propri (osservazioni precedentemente esposte
in una serie di lezioni di critica testuale bruniana tenute nel 1988
alla Scuola di Studi Superiori dell'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici di Napoli), vorrei integrarle oggi in riferimento a un'opera
recente di Michele Ciliberto che, nel suo Giordano Bruno (Roma-Bari,
Laterza, 1990, pp. 56-58), si interroga sulla seconda redazione del-
l'inizio del primo dialogo e tenta di precisarne la funzione. Ecco di
NOTA FILOLOGICA
235
seguito alcuni brani utili alla dimostrazione, a cominciare dalle re-
pliche in cui si rivela l'appartenenza all'ambiente universitario dei
due avversari del «Nolano», all'epoca della discussione che ebbe
luogo il mercoledì delle Ceneri 1584:
Biw
Smitho. Dottori anch'essi?
Frulla. Messer si, Madonna sì,
padre sì, madesì, dottori an-
ch'essi, et bisognava che fussero
personaggi d'importanza
Smitho. Dottori?
Theofilo. Messer sì, Padre sì,
Madonnasì, Madesì; credo da
Oxonia.
Come nota M. Ciliberto, Bruno intende sottolineare «che è contro
l'ambiente oxoniense che si rivolge la sua critica, non contro tutta la
cultura inglese». Ugualmente, attenuando il tono della sua polemica
anti-cristiana, il filosofo si sforza di rendere accettabile alla società in-
glese un testo il cui scopo principale è quello di enunciare una nuova
cosmologia:
A yv
Doi furono le misteriose cavalca-
ture del nostro Redentore, che si-
gnificano il suo antico credente
Hebreo et il novello Gentile...
Bi r-i»
Il nostro redentore nacque in
mezzo di due animali l'cisino et il
bue. Trionfò sopra due montature
l'asina et il pullo, che come di-
cono i santi dottori significano il
popolo hebreo et il gentile, che
erano per credergli. Visse tra due
generationi, Giudei et Samaritani.
Morse tra due villani Dimas, et
Gestas, et cossi discorrendo per
scala del binario fino a I'Ite et il
Venite del giorno del giuditio...
Più avanti, Ciliberto nota una variante a proposito di Copernico.
Se, da un lato, l'astronomo appare in primo piano, dall'altro viene re-
lativizzato rispetto al filosofo, i cui «paradossi» consistono nel ripristi-
nare l'antica sapienza:
B2W
Sono già circa quindeci giorni
passati che essendo il Nolano in
casa dell'illustrissimo ambascia-
tor di Francia: li venne messer
Florio insieme con maestro Guin
A8 V
Ai dì passati vennero doi al No-
lano da parte d'un regio scudie-
ro facendogl'intendere qualmente
colui bramava sua conversazione
per intender il suo Copernico et
236 NOTA FILOLOGICA
da parte d'un gentiruomo regio altri paradossi di sua nova filoso-
scudiero (...) e gli dissero qual- fia.
mente colui era desideroso de la
sua conversazione, specialmente
per brama che egli aveva de in-
tendere le raggioni del moto de la
terra, et altri paradossi che costui
fermamente approvava; gion-
gendo a questo, che quello era
molto cupido d'intendere i con-
cetti del Copernico.
Riferendomi al secondo brano citato, vorrei far osservare che se
l'attenuazione della polemica anti-cristiana è evidente, questa pru-
denza sembra applicarsi all'ambiente cattolico dell'ambasciata di
Francia, di cui il filosofo era ospite, piuttosto che all'ambiente prote-
stante dell'università o della corte. Il motivo dell'asino, infatti, che
nella Cena prelude alla satira anti-pedante (anti-umanistica, anti-teo-
logica e, nel caso specifico, anti-protestante), si amplia in seguito nella
nuova redazione. Quest'ultima, di conseguenza, ha dovuto seguire di
poco la precedente: non essendo ancora entrato in contatto diretto con
personaggi della corte elisabettiana. Bruno non si sentiva tenuto a mo-
derare la sua satira anti-protestante. Altra variante, resa possibile
dallo spazio supplementare disponibile: inserire una lunga invoca-
zione alle Muse, nella fattispecie quelle giovani inglesi alle quali l'au-
tore dichiara la sua passione attraverso trasparenti metafore sessuali
tratte in parte da Tansillo e dalla Priapea di Nicolò Franco.
In occasione della seconda edizione delle Opere italiane. Gentile
non mancò di pubblicare, allegata al primo volume (1925), la Prima
redazione del principio della Cena de le ceneri; nella prefazione, ringra-
ziava Luigi Russo e «il doti Angelo Bruschi» di avere collazionato per
lui la copia Guicciardini della Causa (Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze), mentre «la Cena e il De Vinfinito sono stati rivisti sugli arche-
tipi della Nazionale di Napoli» (p. XXII). Quanto ai Dialoghi morali,
ringraziava Vincenzo Spampanato della «più rigorosa revisione del te-
sto, accuratamente riscontrato con le stampe originali. Poiché oltre le
edizioni del 1584 e del 1585 dello Spaccio e degli Eroici furori, posse-
dute dalla Biblioteca nazionale di Napoli, si è potuta questa volta te-
ner presente una riproduzione fotografica della Cabala, tratta dal-
l'esemplare che si conserva nella Biblioteca Centrale di Zurigo» (p.
XIV). Spampanato, infine, nell'introduzione alla seconda edizione del
Candelaio, dichiarava: «un'oculata collazione con le vecchie stampe mi
NOTA FILOLOGICA 237
ha porta l'occasione di scoprire nuove piccole mende sfuggitemi nel
1909, e di emendarie» (p. XXVI); indicava anche la segnatura di tre
esemplari napoletani, conservati rispettivamente nelle biblioteche
Universitaria, Nazionale e Lucchesiana (p. XI).
L'annuncio della scoperta di Gentile — l'inizio del primo dialogo
della Cena — data del 1908, come si è detto. Bisogna in seguito atten-
dere il 1950 per sentir parlare di altre varianti nelle opere di Bruno.
Nel frattempo, i ricercatori sono rimasti sulle generali; Leonardo 01-
schki, per esempio, nota che «gli esemplari conservatici hanno l'im-
portanza di veri e proprii codici» e che «Bruno, dopo di aver improv-
visati i suoi dialoghi colla fretta che gli era abituale, vi trovava ancora
qualche cosa da mutare a stampa compiuta». Aggiunge che «opportu-
namente dunque la biblioteca universitaria di Heidelberg conserva gli
archetipi bruniani nel fondo de' manoscritti» (La Bibliofilia, XXVI,
1925, pp. 372-374). Due anni più tardi, in una recensione della Biblio-
grafici di Bruno a opera di Virgilio Salvestrini (Pisa, 1926) - primo
tentativo di localizzazione delle prime edizioni di Bruno che ci riman-
gono —, Antonio Bruers segnalava che il suo «amico Angelo Marzorati
di Roma, uno dei più esperti bibliofili d'Italia e grande ammiratore
del Bruno», era riuscito a raccogliere numerose edizioni originali delle
opere italiane e latine di questo autore (cfr. il Giornale Storico della
letteratura italiana, XC, 2° semestre 1927, pp. 181- 183). Marzorati mori
nel 1931; l'anno successivo fu pubblicata a Bologna dalle Librerie Ita-
liane Riunite, con una prefazione di Bruers, La Biblioteca Marzorati,
cioè un catalogo degli esemplari appartenuti al bibliofilo che, quel-
l'anno, venivano messi in vendita. Fu allora che Bruers riuscì, con il
sostegno di Giovanni Gentile, a far acquisire dal ministero compe-
tente, a beneficio della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, le
prime edizioni delle opere italiane di Bruno iscritte in quel catalogo: il
Candelaio, la Cena, l'Infinito e i Furori. È curioso notare che né Marzo-
rati né Bruers né Gentile si accorsero che almeno uno degli esemplari
in questione conteneva delle varianti d'autore. Nella prefazione prece-
dentemente citata, Bruers aveva osservato tutt'al più — il che è piut-
tosto comico - che sul frontespizio dei Furori « il nome di Sidneo, Phil-
lippo, nell'esemplare collazionato, è corretto in Philippo e che non vi è
tra la parola Anno e la data 158$ il punto che si vede nella copia
riprodotta da Silvestrini». Ma, se si era accorto dell'assenza di questo
punto, non aveva notato che l'esemplare della Cena acquisito per la
Biblioteca Nazionale di Roma conteneva enormi varianti d'autore.
Per parte mia, sotto il titolo «La lezione definitiva della Cena de le
Ceneri di Giordano Bruno», ho pubblicato nel 1950 negli Atti dell'Ac-
cademia Nazionale dei Lincei (Claisse di Scienze morali, storiche e filo-
238 NOTA FILOLOGICA
logiche, serie Vili, voi. Ili, fase. 4) una comunicazione che doveva ser-
vire da base, cinque anni più tardi, alla mia edizione della Cena (To-
rino, Einaudi, 1955). Questa edizione, «critica» per l'epoca, aveva
potuto avvalersi di ricerche condotte a Parigi e a Londra sotto la di-
rezione rispettivamente di Augustin Renaudet e di Frances A. Yates;
essa si fondava essenzialmente sul volume romano stampato e mano-
scritto con segnatura 71.11.A.17. Oltre al testo stampato del folio D
(corrispondente all'incirca al secondo dialogo e all'inizio del terzo),
questo esemplare ci restituisce manoscritta una seconda redazione, co-
piata da un esemplare stampato che era appartenuto al bibliofilo scoz-
zese Thomas Rawlinson (1681-1725). La trascrizione manoscritta di
questa nuova redazione, così come le varianti rispetto allo stampato,
datano del XVIII secolo. All'epoca della mia edizione, non era ancora
stato ritrovato nessun esemplare che presentasse, sotto forma stam-
pata, i brani manoscritti dell'esemplare romano. Spetta a Roberto Tis-
soni il merito di avere segnalato, in una prima comunicazione su «Lo
sconosciuto fondo bruniano della Trivulziana» (pubblicata negli Atti
della Accademia delle Scienze di Torino, classe di scienze morali ecc.,
xeni, 1958-1959, pp. 459-468, poi precisata in un altro articolo, «Sulla
redazione definitiva della Cena de le ceneri» pubblicato nel Giornale
storico della letteratura italiana, CXXXVI, 1959, pp. 558-563), l'esistenza
di un tale esemplare nella Biblioteca Trivulziana di Milano (Triv. L.
594), l'unico noto fino a oggi; sempre Tissoni ha indicato alcune diver-
genze, per quanto riguarda la nuova redazione del folio D, rispetto alla
trascrizione del XVIII secolo del volume romano, a cui si deve ormai
applicare il criterio delV eliminatio codicum descriptorum. Per la prima
volta dopo il 1584, si troverà nella presente edizione il testo della Cena
riprodotto direttamente sulla base della stampa che Bruno in persona
aveva sottoposto a revisione.
La seconda redazione dell'inizio del dialogo I, come si è visto, indi-
cava che era tréiscorso un breve lasso di tempo dalla redazione primi-
tiva. Più significative sono le modifiche apportate dalla revisione del
secondo dialogo e dell'inizio del terzo: a parte alcune varianti di por-
tata stilistica o retorica (come la citazione del libro I delle Georgiche di
Virgilio, vv. 197-203, con tuttavia l'omissione del secondo emistichio
del secondo verso e dell'intero terzo verso e l'alterazione non solo sin-
tattica ma anche semantica che ne risulta), queste modifiche ci forni-
scono degli elementi sulla posizione ideologica di Bruno in Inghilterra.
Eccone alcuni:
- dalla riga 30 della pagina 33 alla riga 13 della pagina 35, nella
redazione stampata primitiva, è stata eliminata una critica dell'atteg-
giamento politico dei prìncipi verso i loro sudditi. Benché compensata
NOTA FILOLOGICA 239
dal brano compreso tra le righe da 6 a 20 della pagina 34 nella nuova
edizione stampata, che è di carattere discorsivo e comico, questa eli-
minazione ha anche come effetto di sacrificare la critica di Bruno nei
confronti dei contenuti bassi del genere classico, di cui forniva esempi
tratti dal Moretum e dal Culex pseudo-virgiliani così come dalla Nux
elegeia; risultava sacrificata anche la critica del genere bernesco a cui
Bruno stesso non aveva tuttavia mancato di ricorrere. Questa modifica
permette già di supporre che al momento della revisione Bruno si
fosse maggiormente rivolto verso gli ambienti aristocratici della corte,
il che rendeva ormai inopportuna la critica dei principi.
- Fu eliminato anche un brano in cui i futuri avversari del filo-
sofo, chiamati più avanti «Nundinio» e «Torquato», erano paragonati
agli asini della Bibbia. Se è vero che la metafora asinina permette qui
di designare dei rappresentanti della religione riformata, è forse che
alla corte di Elisabetta Bruno frequentava sempre più i circoli puri-
tani e protestanti (come sottolinea Michele Ciliberto ne La ruota del
tempo, Roma, Editori Riuniti, 1986); questo punto apparirà più chiara-
mente in altre varianti.
- Se si notano dalla pagina 35 (riga 13) alla pagina 36 (riga 12)
delle varianti espressive e discorsive senza importanza, è dalla riga 13
della pagina 36 alla riga 23 della stessa pagina (sempre riferendosi alla
stampa primitiva del folio D) che si trova la variante più notevole,
che dovette indurre per estensione alla revisione di tutto il folio. La
redazione primitiva presentava il testo che segue:
Quivi (bench'io come particolare non le conosca, né abbia pensiero di
conoscerli) odo tanto nominar gl'illustrissimi et eccellentissimi cavallieri,
un gran tesorier del regno, e Roberto Dudleo, conte di Licestra, la genero-
sissima umanità di quali è tanto conosciuta dal mondo, nominata insieme
con la fama della Regina e regno, tanto predicata ne le vicine provinzie,
come quella ch'accoglie con particolar favore ogni sorta di forastiero, che
non si rende al tutto incapace di grazia et ossequio.
L'espressione «un grand tesorier del regno» indica il lord treasurer,
William Cecil, barone Burghley dal 1572; l'altro personaggio è Robert
Dudley, conte di Leicester, favorito della regina. Fondandomi sui dati
della storiografia inglese, credo possibile affermare che se Cecil non si
era mostrato contrario alla regina nel suo tentativo di servirsi a suo
vantaggio dell'influenza francese nei Paesi Bassi, intraprendendo delle
trattative matrimoniali con il duca di Anjou, fu la corrente puritana,
di cui Leicester era il principale rappresentante a corte, che impedì la
riuscita di tali negoziati. D'altra parte, Cecil non poteva permettersi di
indebolire il movimento puritano militante di fronte all'atteggiamento
aggressivo dei cattolici. Fu proprio nel 1584 che Guglielmo d'Orange
240 NOTA FILOLOGICA
doveva essere assassinato e solo l'anno successivo Cecil si decise a so-
stenere la spedizione di Leicester nei Paesi Bassi. Ma il 1584 fu anche
l'anno dell'apparizione dell'opuscolo noto sotto il titolo di Leicester's
Commonwealth, dovuto forse alla penna di un polemista cattolico, ma
che non è da escludersi fosse stato ispirato da Cecil stesso. Leicester,
membro della setta puritana, era diventato il capo di quei protestanti
che, in materia di politica estera, avrebbero preferito un'azione ener-
gica nei confronti della Spagna e che, in politica intema, erano parti-
giani della repressione anti-cattolica (tuttavia, proprio a quell'epoca,
non mancò di esercitare lui stesso un'influenza moderatrice di fronte
al puritanesimo radicale, come sembra indicare la documentazione
raccolta da Patrick Collinson in The Elizabethan Puntati Movement,
Londra, Jonathan Cape, 1967). La redazione originale del brano riflette
l'equidistanza diplomatica di Bruno tra due correnti politico-corti-
giane di cui non aveva ancora, a suo dire, incontrato di persona i
principali rappresentanti. Tra le due, lo si sarebbe potuto supporre
portato piuttosto verso quella di cui Cecil era il capo e la cui linea
moderata si traduceva, in politica estera, in una certa francofilia. Tut-
tavici, la redazione definitiva ha modificato il brano come segue:
Non te si offre occasione di parlar de la generosissima umanità de l'il-
lustrissimo monsignor conte Roberto Dudleo, conte di Licestra etc, tanto
conosciuta dal mondo, nominata insieme con la fama del regno e la regina
d'Inghilterra ne' circostanti regni; tanto predicata da i cuori di generosi
spirti italiani quali specialmente da lui con particolar favore (accompa-
gnando quello de la sua signora) son stati e son sempre accarezzati.
L'eliminazione totale del riferimento a William Cecil, insieme alla
rivelazione dell'ospitalità ricevuta dal filosofo presso il conte di Leice-
ster (suggerita dal riferimento alla moglie di quest'ultimo) costituisce,
a tutt'oggi, l'unico indizio di un eventuale impegno politico-religioso
di Bruno in Inghilterra o, quanto meno, di una presa di posizione tat-
tica. Subito dopo il brano riportato sopra, invece, rimane invariata la
citazione deir« eccellentissimo signor Francesco Walsingame, gran se-
cretario del regio Conseglio». Benché puritano convinto e organizza-
tore di operazioni poliziesche, tra cui la sorveglianza degli stranieri
presenti sull'isola, applicò le decisioni della regina anche quando non
coincidevano con il suo protestantesimo radicale. Per tacere delle ra-
gioni comprensibili che indussero Bruno alla prudenza, il manteni-
mento della citazione di questo personaggio nell'ultima redazione
sembrerebbe confermare, dopo il riferimento ampliato e particolareg-
giato a Leicester, una svolta filo-protestante da parte di Bruno, almeno
a questo stadio del suo soggiorno inglese. Non è un caso che venga
NOTA FILOLOGICA 24I
mantenuto, in quanto segue, il riferimento a Philip Sidney: nipote di
Leicester, nel 1583 era diventato genero di Walsingham e la sua fede
calvinista era ben nota, anche se esaltando soprattutto lo «spirito» e le
«maniere» del giovane cortigiano Bruno sembrava alludere piuttosto
al suo gusto per l'attività letteraria Così stando le cose, se i nomi di
Leicester e di Walsingham non saranno più ripetuti nell'opera di
Bruno, Sidney riapparirà invece come destinatario della dedica dei
due dialoghi successivi di Bruno, lo Spaccio (1584) e i Furori. (1585). È
tuttavia proprio la sparizione di questi due nomi a convalidare l'ipo-
tesi di Ciliberto, secondo la quale Bruno nutrì per un periodo l'illu-
sione (riflessa dalla versione tardiva del folio D della Cena) di un pos-
sibile «terreno di compromesso» con l'ambiente puritano, «cercando,
anzi, di mettersi sotto la protezione di Robert Dudley, conte di Leice-
ster» {La ruota del tempo, cit, p. 50). Le altre varianti, nel folio D della
Cena, tendono anch'esse a smussare le punte polemiche contro la reli-
gione riformata - il che, nonostante l'ambigua apologia contenuta nel
primo dialogo della Causa, non ha affatto impedito a Bruno di ripren-
dere ulteriormente i suoi attacchi, soprattutto nello Spaccio e nella
Cabala.
Nel lungo brano che segue il riferimento a Sidney, cioè dalla pa-
gina 37, riga IO, alla pagina 43, riga 26 delle copie che offrono la re-
dazione divulgata, si trovano soprattutto varianti e sostituzioni pura-
mente formali e stilistiche. Tuttavia, almeno quattro interventi vanno
nel senso del «compromesso» di cui ho parlato:
- pagina 40, riga 27 del folio originale, sono eliminate le parole In
Roma al Campo di Flora (senza che sia modificata l'economia della pa-
gina). Si trattava dell'ultima di una serie di indicazioni di luoghi dove
potevano incontrarsi gli sfaccendati in alcune grandi città europee del
tempo (Londra, Parigi, Napoli e Venezia). Eliminare il riferimento al
Campo dei Fiori (proprio la piazza dove, come è noto, sedici anni più
tardi Bruno doveva subire il suo orrendo supplizio), era forse, anche in
questo caso, un modo di non urtare la suscettibilità puritana inglese,
che poteva essere irritata da una semplice allusione a Roma.
- Nel mio commento alla Cena (1955), esitavo ancora sul caso di M.
Alessandro Citolino (pagina 42, righe 365 della redazione primitiva del
folio D). Esule italiano in Inghilterra, autore di opere mnemotecniche
e di una grammatica italiana, nato all'incirca nel 1500 a Serravalle
delle Alpi (oggi Città Vittorio), Citolino era stato raccomandato a al-
cuni personaggi della corte elisabettiana, così come alla stessa regina,
tra il 1565 e il 1568, da Johan Sturm di Strasburgo, e in numerose
occasioni incaricato dalla corte di Inghilterra di delicate missioni di-
plomatiche. Le ultime informazioni che possediamo di lui sono prò-
242 NOTA FILOLOGICA
prie quelle fomite da Bruno in questa pagina della Cena. A proposito
della violenza della plebe londinese verso gli stranieri - soprattutto,
possiamo supporre, se di tipo meridionale -, Bruno riferisce un episo-
dio che dovette svolgersi nel 1583: «ad un povero messer Alessandro
Citolino», scrive nella prima versione, «con riso e piacer di tutta la
piazza, fu rotto e fracassato un braccio». La nuova redazione racconta,
in modo anonimo, come «un povero gentil' uomo italiano» ebbe la
gamba rotta. All'epoca del mio primo commento della Cena de le Ce-
neri, queste varianti mi sembravano riflettere uno scrupolo: Bruno
avrebbe esitato a inserire in un brano tragi-comico il nome di un com-
pagno di esilio che, a oltre ottant'anni e con un braccio rotto - senza
contare che era letteralmente «povero», come indicano due lettere da-
tate del 1573 e 1574, di cui la seconda è rivolta alla regina Elisabetta
in persona -, avrebbe potuto non sopravvivere alla sua disavventura.
Benché non si possiedano ulteriori informazioni sul suo conto (il che
potrebbe confermare quest'ultimo punto), sarei oggi incline a credere
che simili varianti, dissimulando l'identità della vittima, vadano nello
stesso senso delle precedenti, ovvero evitino di offendere la suscettibi-
lità di personaggi di spicco della corrente riformata in Inghilterra.
Non si può escludere neppure che Citolino, se era ancora in vita tra la
prima e la seconda redazione, si sia lagnato di vedere il suo nome
usato in una satira della società che lo accoglieva e di cui condivideva
le idee, sia religiose sia politiche.
- Dalla pagina 42, riga 15, alla pagina 43, riga 16 della versione
originale, la metafora asinina è stata sostituita da un brano umori-
stico, che prosegue la descrizione della traversata notturna di landra
da parte del «Nolano» e dei suoi compagni. Nuovo esempio di auto-
censura: durante la fase ottimistica della sua esperienza inglese, pro-
prio dopo la redazione primitiva del secondo dialogo della Cena,
Bruno intendeva rimediare agli eccessi della sua polemica contro la
Riforma.
— La sua intenzione appare ancora più evidente laddove sopprime
(dalla pagina 44, riga 24 alla pagina 45, riga 27) il brano che contiene
la descrizione realistica, se non addirittura ripugnante, di quel «cere-
monio di quell'urciuolo, o becchieri, che suole passar per la tavola, a
mano a mano, da alto a basso, da sinistra a destra, et altri lati, senza
altro ordine che di conoscenza e cortesia da montagne»» Descrivere
questo «ceremonio», come ha suggerito F. Yates, significava criticare il
rito eucaristico protestante così come era praticato «negli ambienti più
bassi» (nozione che sembra anticipare quella di una «low church», più
rigorosamente protestante di una «high church» non troppo lontana
dal rituale e dalla gerarchia cattolici).
NOTA FILOLOGICA 243
— Alla fine del secondo e all'inizio del terzo dialogo, altre varianti
sembrano prive di implicazioni politico-religiose, salvo che le repliche
finali, dopo le modifiche, insistono sul fatto che il dibattito del merco-
ledì delle Ceneri abbia luogo presso un alto personaggio inglese (ulte-
riore alibi, forse, destinato a coprire con diplomazia l'ambasciatore di
Francia di cui Bruno era ospite).
Gli altri dialoghi
Per la terza edizione dei «dialoghi metafisici» e dei «dialoghi mo-
rali» di Gentile, sotto il nuovo titolo generale di Dialoghi italiani (San-
soni, Firenze, 1958), ho potuto avvalermi delle nuove informazioni ap-
portate dopo la seconda edizione, così come della verifica delle fonti.
Prima di questa data, un unico dialogo era stato pubblicato indipen-
dentemente dai testi di Lagarde e di Gentile: De gl'heroici furori {Des
fureurs héroiques), testo stabilito e tradotto da Paul-Henri Michel, Pa-
rigi, Les Belles Lettres, 1954. Questa edizione sembra avere tenuto
conto di almeno due degli esemplari dell'edizione originale dell'opera,
conservati rispettivamente a Parigi alla Bibliothèque Mazarine e alla
Bibliothèque Nationale. Michel adotta criteri di trascrizione differenti
e alcune soluzioni che si allontanano da quelle delle edizioni prece-
denti, anche se nel testo da lui stabilito non si riscontrano varianti
rispetto al testo noto. Fu invece una ricerca sul corpus latino di Bruno
a indurre il sottoscritto, prima del 1958, alla scoperta di due dialoghi:
l'Idiota triumphans e il De somnii interpretatione, il cui testo era rimasto
virtualmente sconosciuto nell'unico esemplare rimanente dell'edizione
parigina del 1586, alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Questi dialo-
ghi (Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: Idiota triumphans. De
somnii interpretatione, Mordentius, De Mordentii circino, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 1957) escono dai limiti della presente introdu-
zione. Ma gli altri due, già noti attraverso un esemplare conservato
alla Biblioteca Nazionale di Torino, permettono di notare due varianti
d'autore. L'una si trova nel testo stesso, l'altra in una figura geome-
trica. Esse confermano, in tutt'altro contesto, che Bruno aveva l'abitu-
dine non solo di controllare la stampa delle sue opere, ma anche di
introdurvi delle modifiche, persino durante la tiratura di un folio. È
invece inutile attardarci sul secondo recupero di un'opera latina, da
me pubblicata (dopo una relazione all'Accademia dei Lincei nel 1962,
intitolata « Praelectiones geometricae» e «Ars deformationum») nel 1964
presso lo stesso editore: oltre a esulare dal corpus italiano di Bruno,
quest'opera ci è trasmessa da un manoscritto del XVII secolo.
Essenzialmente cosmografica, la Cena de le Ceneri non si oppone
244 NOTA FILOLOGICA
soltanto al geocentrismo aristotelico-tolemaico, ma supera lo stesso
eliocentrismo copernicano affermando la pluralità dei mondi e l'infi-
nità dell'universo. Fin dal principio, il sonetto Al malcontento rivela la
natura polemica di un'opera che, con i suoi attacchi contro l'Univer-
sità di Oxford e la sua critica dei costumi londinesi, suscita una vio-
lenta reazione degli ambienti universitari e cittadini: se si presta fede
alla lettera di introduzione e al primo dei cinque dialoghi della Causa
— pubblicata subito dopo la Cena -, Bruno divenne l'oggetto di una
persecuzione in piena regola. Senza spingersi fino a affermare, con
Gentile, che il filosofo fu gettato in prigione, si noterà che nello stesso
periodo alcuni partigiani fanatici della politica anti-cattolica si abban-
donarono a una serie di violenze contro il personale e la sede stessa
dell'ambasciata di Francia. A seguito di una protesta di Castelnau
presso Walsingham, si può ritenere che gli impiegati dell'ambasciata
- nel cui novero doveva figurare anche Bruno in qualità di «gentil'
uomo» dell'ambasciatore - poterono vedere ristabilita la loro immu-
nità diplomatica. Questo è il contesto, a mio avviso, che chiarisce la
dichiarazione di Bruno a Castelnau, nella Proemiale epistola della
Causa: «io per tale tanto favore da voi già ricettato, nodrito, difeso,
liberato, ritenuto in salvo, mantenuto in porto; come scampato per voi
da perigliosa e gran tempesta». Su di un piano piiì personale, la pub-
blicazione della Cena dovette far perdere a Bruno molte delle simpatie
che era riuscito a attirarsi a Londra. Greville dovette mostrarsi parti-
colarmente scontento di essere accusato, nel quarto dialogo, del fatto
che «non avea fatto provisione de meglior suppositi». Del raffredda-
mento nei suoi confronti. Bruno prenderà atto neìVEpistola esplicatoria
dello Spaccio. Tuttavia, lo scandalo suscitato dalla pubblicazione della
Cena lo indusse a far precedere un dialogo a tratti apologetico agli
altri quattro già composti per la Causa, ma non ancora stampati: in
esso Bruno riprende i suoi precedenti attacchi contro l'orientamento
grammaticale e il conformismo aristotelico che regnavano nelle uni-
versità inglesi, pur ammettendo, questa volta, alcune eccezioni e di-
chiarando di ammirare la tradizione di Oxford prima della Riforma. Il
primo dialogo della Causa si distingue dagli altri quattro tanto per il
suo soggetto e il suo tono stilistico quanto per l'apparizione di nuovi
interlocutori: «Elitropio» deve essere identificato con John Florio,
mentre «Annesso» potrebbe indicare il gallese Matthew Gwinne. Inol-
tre, il discepolo londinese di Bruno, lo scozzese Alexander Dicson, per-
mette di allargare la polemica contro la cultura accademica inglese: il
filosofo non attacca più solo Oxford, come nella Cena, ma anche Cam-
bridge, almeno implicitamente. Questo personaggio che Bruno chia-
ma «Arelio» (e che si designava come Arelius nei frontespizi delle sue
NOTA FILOLOGICA 245
opere) era nato nel 1558 nel villaggio di Errol; prima di recarsi a Lon-
dra, dove si trovava nel 1583 quando Bruno arrivò in Inghilterra, era
stato scholar — noi oggi diremmo «borsista» — di Maria di Scozia a
Parigi. Alla corte godette anch'egli del patrocinio di Sidney e di Leice-
ster, ai quali dedicò il De umbra rationis (pubblicato con la data del
1583, cioè 1584 in stile moderno), opera mnemotecnica ispirata al De
umbris idearum di Bruno. La reazione che fece seguito alla pubblica-
zione del De umbra non mancò di mettere in discussione le prese di
posizione metodologiche dello stesso Bruno: VAntidicsonus (1584) del
teologo puritano William Perkins, ramista di Cambridge, associa
Bruno e Dicson in una stessa critica del metodo mnemotecnico clas-
sico adottato, nei suoi elementi essenziali, dai suoi due avversari e op-
posto al metodo logico ramista. Questa polemica, che si ampliò con
una Defensio di Dicson sotto lo pseudonimo di Heius Scepsius, seguita
da un Libellus de memoria di Perkins, testimonia ulteriormente dell'an-
tiramismo di Bruno: nel terzo dialogo della Causa, questi aveva già
trattato Ramo da «francese arcipedante».
Sul piano politico-religioso, non bisogna dimenticare che Dicson,
anche se tardivamente, svolse un ruolo pratico nelle trattative anglo-
francesi a proposito del matrimonio della regina Elisabetta e del duca
di Alengon: partecipava al programma dei «politici», aperto forse alle
aspirazioni conciliatrici dello stesso Bruno.
Senza entrare nei particolari, poiché ciascuna delle opere italiane
contenute in questa edizione è preceduta da un'introduzione specifica,
si può dire che i quattro dialoghi più propriamente speculativi della
Causa hanno per oggetto la definizione dei tre termini del titolo: causa
e principio si intendono analogicamente come la «forma» (o «anima»)
e la «materia» che, indissolubilmente unite, formano Vuno, che è il
«tutto». Al di là della polemica anti-aristotelica e del ricorso, soprat-
tutto terminologico, alla tradizione neoplatonica. Bruno riesce a for-
nire una base teorica originale alla cosmologia che aveva già enun-
ciato, in modo drammatico, nella Cena e elaborato poco tempo dopo
ntW Infinito. Quanto alla satira anti-pedantesca, essa stavolta prende di
mira in particolare il rigorismo teologico dei riformati, non meno del
rigorismo grammaticale allora dominante a Cambridge come a Oxford.
Composto con maggior rigore rispetto alla Cena, il dialogo De l'infinito,
universo et mondi (1584) annuncia la polemica che Bruno condurrà in
seguito contro i matematici suoi contemporanei (nelle opere latine che
vanno dai Dialogi duo, 1586, al De minimo, 1591). Respingendo la teo-
ria della divisibilità all'infinito, egli salvaguarda la concezione atomi-
sta; ma sostenendo contemporaneamente l'infinità dell'universo e la
pluralità dei mondi, cade in un dilemma matematico che emetterà
246 NOTA FILOLOGICA
pienamente nel De minimo. D'altra parte, con la tesi dell'infinito,
Bruno arriva a sviluppare i presupposti cosmologici e teorici annun-
ciati nella Cena, dove il superamento intuitivo dell'eliocentrismo co-
pernicano aveva già trovato come alleato, sul piano speculativo, il
concetto di infinito elaborato da Niccolò di Cusa. Aggiungendo argo-
menti teologici agli argomenti logici. Bruno insiste sul principio se-
condo cui una causa infinita non può che avere un effetto infinito
(vana precauzione: la censura ecclesiastica vedrà in ciò una condizione
di natura necessaria nella creazione divina). Non è un caso se proprio
in quest'opera si trova esplicitamente formulato, in accordo con la teo-
ria averroista esposta da Pomponazzi, il pensiero di Bruno sul rap-
porto tra la filosofia e la religione: «(...) da questo principio depende
che gli non men dotti che religiosi teologi giamai han pregiudicato
alla libertà de' filosofi; e gli veri, civili e bene accostumati filosofi sem-
pre hanno faurito le religioni: perché gli uni e gli altri sanno che la
fede si richiede per l'instituzione di rozzi popoli, che denno esser go-
vernati; e la demostrazione per gli comtemplativi, che sanno governar
sé et altri» (primo dialogo). Bruno continuerà a sostenere la tesi del-
l'infinito in opere più tardive, in particolare nel poema latino De im-
menso, in cui risuonano ancora gli echi dei primi dialoghi londinesi.
Tra gli interlocutori àeWInfinito compare l'astronomo e filosofo ve-
ronese Girolamo Fracastoro, le cui teorie appaiono sullo sfondo nel
terzo dialogo. L'identificazione, invece, di «Albertino» con il giurista
Alberigo Gentili resta discutibile, anche se Bruno l'ha certamente in-
contrato a Oxford. Secondo Spampanato e Gentile, si tratterebbe piut-
tosto di un membro della famiglia Albertini di Nola.
La pubblicazione dello Spaccio della bestia trionfante segue di poco,
sempre nel 1584, quella delle tre opere cosmologiche: questo ritmo pre-
cipitato si spiega solo se si considera che Bruno, fin dall'estate 1583,
cioè all'epoca delle lezioni di Oxford, aveva dovuto elaborare il mate-
riale utilizzato in seguito nelle prime tre opere italiane. Se Ylnfinito
portava ancora la dedica a Mauvissière, lo Spaccio è dedicato a Sidney,
di cui Bruno celebra i meriti. «Vi siete scuoperto a me nel primo prin-
cipio ch'io giunsi a l'isola Britannica», dichiara nella sua epistola
esplicatoria; ecco un elemento che potrebbe indicare che, nei primi
rapporti di Bruno con la corte, gli interessi culturali prevalevano su
politica e religione. La dedica a Sidney suggerisce, proprio nel mo-
mento in cui sparisce qualsiasi riferimento a Leicester, che questi rap-
porti poterono continuare anche dopo lo scandalo sollevato dalla
Cena. Ciò che caratterizza lo Spaccio (il cui tono satirico ricorda, sul
piano letterario, i dialoghi «piacevoli» di Nicolò Franco e, ben prima,
di Luciano), è la trasposizione sul piano etico della nuova concezione
NOTA FILOLOGICA 247
dell'universo, così come la esponevano i dialoghi cosmologici. Nel suo
piano di riforma morale, l'opera critica implicitamente l'etica cri-
stiana, in particolare il principio calvinista della salvezza per la sola
fede; Bruno si esprime in nome di un attivismo umanistico, ben di-
stinto dall'umanismo retorico e misticheggiante che le ideologie cri-
stiane dominanti avevano già assorbito. Se abbozza una critica della
duplice natura del Cristo, non è a motivo di un interesse per le que-
stioni teologiche, ma piuttosto perché la sua etica è fondamentalmente
estranea al cristianesimo. Quanto alle allusioni politiche, esse confer-
mano gli orientamenti precedenti di Bruno, quali si erano già manife-
stati in Francia: egli tendeva a conciliare le diverse confessioni e que-
sta conciliazione gli sembrava possibile se il cattolicesimo laico e tol-
lerante della monarchia francese fosse riuscito a imporsi contro
l'estremismo protestante da una parte e contro l'irrigidimento politico-
religioso della Spagna e del papa dall'altra.
Allo Spaccio fa seguito la Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta
dell'Asino cillenico, pubblicata nel 1585. Dal punto di vista tematico,
questo elogio metà serio e metà ironico dell'asino si inserisce nella let-
teratura «asinina» del Rinascimento, essa stessa dipendente dai mo-
delli classici dello pseudo-Luciano e di Apuleio. Quanto alla satira mo-
rale. Bruno distingue, come ha mostrato Nuccio Ordine nel suo libro
La cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in G. Bruno, Napoli, Liguori
editore, 1987, una asinità «positiva» (resistenza, umiltà, tolleranza) e
una asinità «negativa» (ozio, arroganza, unidimensionalità), impli-
cante la «santa ignoranza» e, almeno per questa ragione, riferita alla
concezione cristiana della vita. È tuttavia l'asinità negativa a essere
presentata come la «bestia trionfante viva»: su questa apparente con-
traddizione con l'espulsione dei vizi operata nel dialogo precedente, si
veda il mio Giordano Bruno, Roma, Istituto per l'Enciclopedia Ita-
liana, 1971, di cui riprendo parzialmente l'esposizione. Per spiegare
questa apparente contraddizione, che è stata la prima a notare, F.
Yates avanza un'ipotesi: la Cabala sarebbe posteriore al 21 settembre
1585, data di pubblicazione della bolla di Sisto V che, scomunicando
il re di Navarra, dissolve le speranze conciliatrici dei partigiani di En-
rico III. Ma la pubblicazione della Cabala è precedente a quella dei
Furori e, fin dal mese di ottobre. Bruno era rientrato in Francia con
l'ambasciatore. Nella sua pregevole edizione spagnola della Cabala
(Madrid, Alianza Editorial, 1991), Miguel A. Granada ha ripreso la
questione e ha saputo risolverla in modo convincente, segnalando che
per «bestia trionfante viva» Bruno intende l'asinità cristiana messa a
nudo (ma aggiunge nella medesima pagina di non vedere l'apparente
contraddizione che segnalavo seguendo F. Yates, e preferisce parlare di
248 NOTA FILOLOGICA
«inexistente incoherencia», il che mi sembra ridursi al mio stesso si-
gnificato). Nel De imaginum compositione (1591), Bruno dichiara che la
Cabala «fu eliminata perché spiacque al volgo e non piacque ai sa-
pienti a causa del suo sinistro significato» («quia vulgo displicuit et
sapientibus propter sinistrum sensum non placuit, opus est suppres-
sum», in Opera latine conscripta, II, 3, p. 237); in effetti, è la più rara
delle opere di Bruno in italiano. Forse, per interpretare corettamente
l'affermazione di Bruno, bisogna reinserirla in un contesto storico pre-
ciso: quello della campagna condotta da Sisto V contro l'astrologia
giudiziale, che culmina con la Constitutio del 9 gennaio 1586 contro le
arti divinatorie. Questo accostamento, che non convince Granada (il
critico preferisce prendere alla lettera la dichiarazione di Bruno: come
se, pubblicando la sua satira sull'asinaggine, il filosofo avesse potuto
aspettarsi un'accoglienza favorevole da parte del volgo e dei pedanti),
si trova invece implicitamente rafforzato da Ciliberto; in La ruota del
tempo (cit, p. 45), egli mette bene in evidenza il fatto che Bruno con-
futò pubblicamente la Cabala «quando, nel 1591, decide di tornare in
Italia», senza per questo rinunciare, come riveleranno le deposizioni
dei testimoni a carico durante il processo, alla metafora dell'asino
nella sua polemica anti-pedante e anti-cristiana
Con il De gli eroici furori, pubblicati anch'essi nel 1585. Bruno con-
cluse degnamente la serie dei suoi dialoghi in lingua italiana trat-
tando più direttamente, e in modo meno satirico, della fusione dello
spirito umano con l'Uno, che è il Tutto. Sotto questo profilo, l'opera
supera le speculazioni cosmologiche, gnoseologiche e morali dei prece-
denti dialoghi. In uno stile complesso che, pur servendosene, sovverte
il petrarchismo così come la terminologia neo-platonica - e di cui
Y Argomento sottolinea il carattere «naturale e fisico» -, i Furori espri-
mono anche una poetica; rifiutando quelle troppo marcate dall'aristo-
telismo, e accettando provvisoriamente il delectare e il prodesse di Ora-
zio, Bruno attribuisce in fin dei conti alla poesia la funzione di enun-
ciare la «verità».
Lo stampatore londinese
Tutti i dialoghi londinesi di Bruno, è stato detto, sono usciti da
una stessa tipografia. Ma chi era lo stampatore? La risposta è stata
fornita nel 1924 da Harry Sellers, in una comunicazione alla «Biblio-
graphical Society» pubblicata nello stesso anno da Tìie Library, IV s.,
V 2: criticando una tradizione fondata su un aneddoto, secondo la
quale lo stampatore sarebbe stato Thomas VautroUier, ugonotto fran-
cese esiliato in Inghilterra, Sellers ha fornito la prova tipografica che i
NOTA FILOLOGICA
249
sei volumi di Bruno (pubblicati senza privilegio) furono stampati dal
londinese John Charlewood. A sostegno della sua dimostrazione, Sel-
lers fa valere il fatto che i medesimi caratteri di stampa sono stati
usati per i sei volumi, che presentano le stesse iniziali e gli stessi or-
namenti nei culs-de-lampe, in particolare una rosa sormontata da una
corona, affiancata da due cesti di frutta, e un'aquila tra due cervi. Fre-
quenti nei libri stampati da Charlewood, questi culs-de-lampe non si
ritrovano altrove. Facendo lo spoglio del Short-title Catalogne of Books
printed in Italy and of Italian Books printed in other Countries front 1463
to 1600 now in the British Museum (Londra, 1958), si constata che, ec-
cettuati i sei dialoghi di Bruno prodotti dal 1584 al 1585, nessun altro
volume in lingua italiana è uscito dalla tipografia, né prima di questa
data né dopo, e che lo stampatore non aveva nessun progetto di col-
lana italiana. Nella sua produzione, i dialoghi di Bruno rimangono
un'eccezione. Quanto alle opere in latino, a parte V Explicatio Triginta
Sigillorum (1583) di Bruno, l'esperienza di Charlewood fu minima, per
non dire nulla, prima della stampa dei dialoghi così come a seguito di
questa. Per quanto riguarda le traduzioni dall'italiano, l'indagine può
permettere di circoscrivere la cultura dello stampatore, ma non può
servire a determinare la sua pratica editoriale. Dai repertori bibliogra-
fici, risulta che prima dei dialoghi bruniani Charlewood stampò nel
1576, in una traduzione inglese in versi dovuta a Thomas Achelley, la
storia di Violenta and Didaco tratta dalla novella I, 42 di Matteo Ban-
dello, per altro tradotta in prosa inglese fin dal 1566; la stampa fu
compiuta «for Thomas Butter» che bisogna considerare come l'editore,
distinto dallo stampatore. Nella stessa epoca in cui stampava le opere
di Bruno, Charlewood produsse in proprio A letter lately written from
Rome, tradotta da John Florio (1585); questa Letter anonima e abba-
stanza corta, che partecipa di quella che potremmo definire come la
produzione giornalistica dell'epoca, è l'unica pubblicazione di Florio
durante il suo soggiorno all'ambasciata di Francia (dove, come si è
detto, alloggiava anche Bruno, al servizio di Michel de Castelnau). È
anche la sola traduzione dall'italiano pubblicata in proprio da Char-
lewood: lo stampatore era infatti noto soprattutto per la sua vasta pro-
duzione di ballate inglesi e di altri opuscoli di letteratura popolare.
Ciò nonostante, all'edizione londinese dei dialoghi fu apportata una
cura eccezionale: impressionante è il contrasto tra l'inesperienza di
Charlewood nel campo dell'italiano e del latino e la relativa perfezione
dei volumi di Bruno usciti dalla sua tipografia. Ed è proprio questo
che impone alla critica testuale di valutare l'intervento costante, mi-
nuzioso ed esclusivo dell'autore stesso: durante la stampa dei suoi te-
sti, fu forse l'unico responsabile e dovette mettere a frutto l'esperienza
250 NOTA FILOLOGICA
di correttore di bozze che aveva acquisito a Ginevra e di cui doveva
ancora avvalersi, quasi alla vigilia della sua incarcerazione. È dunque
opportuno riconoscere ai testi italiani di Bruno trasmessi attraverso le
edizioni londonesi - così come alla versione del Candelaio stampata a
Parigi da Guillaume Julian figlio nel 1582 - un valore assoluto per
determinare le caratteristiche dell'ortografia di Bruno, il suo usus scri-
bendi et punctuandi, con tutte le implicazioni fono-morfologiche e sti-
listiche che questi usi comportano agli occhi del critico moderno. È
infatti innegabile che l'ortografia di Bruno traspare in modo «autogra-
fo», in quei tratti che sono già allora caratteristici rispetto agli usi del-
l'epoca, se si osservano le pagine qua e là abbozzate della stampa pa-
rigina della commedia o quelle, più disciplinate, delle stampe londi-
nesi dei dialoghi. Basti ricordare l'uso del gruppo gì non seguito da i
per notare il suono palatale davanti a a, e, 0, u; altrettanto costante è
l'uso di s doppio in cossi (fenomeno che, come altri, è insieme fonetico
e grafico), o quello di m al posto di n in dumque. per non dire della
distinzione tra i latinismi del tipo di vitio e quelli del tipo di perfet-
tione (perfectione), cornittione (corruptione). I linguisti ci insegnano che
questa distinzione corrisponde a una differenza fonetica che comin-
ciava a scomparire a Firenze nella seconda metà del XVI secolo,
benché sopravviva ancora oggi nell'Italia meridionale. Anche per
quanto riguarda la punteggiatura, bisogna escludere che lo stampatore
londinese abbia potuto applicare ai dialoghi delle norme tipografiche.
Nel mio saggio su Lo stampatore londinese di G. Bruno, osservavo che le
stampe inglesi di Charlewood differiscono da quelle delle opere di
Bruno, non solo per un impiego minimo dei segni che possiedono in
comune, ma anche per la limitata varietà dei simboli. Per esempio, le
stampe di testi inglesi ignorano il punto finale seguito da una minu-
scola, il punto finale seguito da un doppio spazio lasciato in bianco e
in generale il punto e virgola. Da una comparazione dei segni di pun-
teggiatura usati da Bruno nelle pagine non dialogate della Cena de le
Ceneri (1584), cioè la Proemiale Epistola (f. A2r-A6r), con quelli usati da
Florio l'anno successivo nella sua traduzione di A letter lately written
from Rome (f. 2Air-2A8i^), senza tener conto delle virgole né pretendere
un risultato matematicamente esatto (a causa della differenza di corpo
tra un'edizione e l'altra), ho tratto le due conclusioni seguenti. Si con-
stata non solo un enorme squilibrio a favore di Bruno per quanto at-
tiene ai segni comuni, ma anche, nelle pagine di Florio, l'assenza com-
pleta di certi segni e simboli di punteggiatura, come il punto e virgola
seguito da una minuscola o lo stesso punto e virgola seguito da una
maiuscola, il punto interrogativo seguito da una maiuscola, il punto
finale seguito da una minuscola e lo stesso punto finale seguito da un
NOTA FILOLOGICA 25 1
doppio spazio, tutti segni frequenti nelle pagine di Bruno. Se questo
risultato conferma l'autonomia della punteggiatura di Bruno, rivela
altresì che Florio non ha collaborato alla stampa dei testi di un autore
che tuttavia viveva allora sotto il suo stesso tetto.
Norme adottate nella presente edizione
Quanto precede giustifica il criterio piuttosto conservatore qui
adottato; si trattava di preservare i caratteri fono-morfologici e stili-
stici dell'ortografia di Bruno, così come il ritmo musicale e recitativo
della sua lingua. Una modernizzazione, vale a dire una sostituzione di
segni grafici o di punteggiatura, è tuttavia stata compiuta nei seguenti
casi (senza tenere conto di alcune scelte specifiche per ciascuna opera,
che saranno segnalate in nota):
a) Si è eliminato Vh etimologico laddove non ha funzione dia-
critica conforme all'uso moderno; è stato tuttavia mantenuto in po-
sizione intervocalica qualora la sua eliminazione avesse provocato
l'incontro di due vocali uguali. L'uso di h nelle interiezioni è stato
regolarizzato ogni volta che bisognava aggiungerlo a a e a o. L'oscil-
lazione tra 0 e oh è stata risolta tramite una distinzione tra o vocativo
e oh interiettivo o esclamativo con valore enfatico (nei casi ambigui è
stata mantenuta l'ortografia originale). Le oscillazioni tra ch'hai {ha,
hanno) / chai {ha, hanno) sono state risolte a vantaggio della trascri-
zione con h.
b) La grafia etimologizzante -ti- + vocale è stata resa con -zi- (an-
che nelle terminazioni -antia e -entia); -tti- + vocale con -zzi -, dato che,
come già si è detto, essa riflette una differenza non solo etimologica
ma anche fonetica ancora oggi presente nel parlato dell'Italia meridio-
nale. I gruppi latinizzanti occasionali -cti- e -fti- hanno un carattere
soprattutto parodico; sono anch'essi stati mantenuti, unificando la tra-
scrizione sul modello di -ti- > -zi-. Si è conservata la grafia -ci- del tipo
odo anche quando ci sia esitazione con la grafia -ti- > -zi-.
e) La / palatale, normalmente trascritta nei testi di Bruno, come
si è detto, gì davanti a a, e, o, u, è resa con gli; gV è mantenuto davanti
a una parola cominciante per i, ma i rari casi di gli + i sono stati
rispettati.
d) Ijì. grafia arcaica -ngn- è stata resa con -gn-, ma è stata mante-
nuta la grafia occasionale con apostrofo ogn' altro, ogn' altra, ognun(o).
e) La grafia colta y è stata modernizzata in i; le terminazioni in
-ij- e -ii afone sono state unificate sul modello -ii. Quanto ai plurali che
potrebbero essere ambigui {principi per esempio), un accento è stato
messo sulla vocale tonica delle parole proparossitone.
252 NOTA FILOLOGICA
fi La. i diacritica è stata mantenuta per indicare il suono palatale
di e, g e se anche davanti a e (per esempio goccie, leggiero, lascierù); è
stata rispettata l'alternanza di superficie e di superflue.
g) Le grafie eh, gh sono state conservate solo nei limiti dell'uso
diacritico moderno; ph e th sono state rese con fet (sono state tuttavia
conservate le grafie originali dei nomi propri stranieri, anche quando
le loro terminazioni sono italianiazzate, per esempio Smitho, Mattheo,
Machometto, Alchazele, o ancora Beuckurst e Thalmutisti). Il gruppo
■^mph- è stato reso con -mf-, grafia attestata nei testi del XVI secolo.
h) Sono state mantenute le grafie latinizzanti -mn- (per esempio
omnipotente), in + labiale (per esempio inpiaga, inpiceato e, per esten-
sione, ingonbrato), in + m (per esempio inmaturo), m + q (per esempio
dumque, forma costante in Bruno e in cui si sviluppa l'abbreviazione
duq > dumque, così come qualuq > qualumque, m + d (etiamdio > eziam-
dio).
t) La 5' di eloqutione e di iniqus è stata resa con e.
j) è stato mantenuto ad etimologico + consonante (del tipo adve-
nire), così come ad preposizione, anche davanti a iniziale consonan-
tica, conformemente all'uso latineggiante come al napoletano antico.
k) è stata mantenuta la x iniziale o intervocalica.
l) Quanto alle consonanti semplici o doppie, un criterio ortofo-
nico si sarebbe rivelato arbitrario, soprattutto nel caso di un autore
che non è toscano. Senza voler ricondurre assolutamente le forme ori-
ginali a un sistema fonologico che si applica al napoletano (quando
certi fenomeni grafici potrebbero invece intendersi come segni di iper-
correzione) e senza voler necessariamente interpretarle come un ri-
flesso della pronuncia di Bruno, si è pensato, tenuto conto della gran
parte di autenticità formale che occorre riconoscere ai testi qui ripro-
dotti, che si dovesse mantenerle, anche quando sono esitanti, evitando
di normalizzarle secondo le soluzioni correnti o le più frequenti. Sono
tuttavia stati corretti i probabili errori di stampa, così come alcune
grafie anormali. Ma si è mantenuta la lettera raddoppiata in Appollini
e diffetti (forma quest'ultima che si trova anche in Castiglione, Corte-
giano, I, 8) e si sono conservate forme come pappa, quatro (cfr. il napo-
letano), adesso, bizarro e, ovviamente, le esitazioni come mezo I mezzo,
mezogiorno I mezzogiorno, come anche, al futuro e al condizionale, le
diverse alterazioni dovute a combinazioni con il tema verbale, com-
presa l'estensione analogica di -rr-. Ma per evitare l'ambiguità seman-
tica, si è trascritto eappelli con una sola p ogni volta che la parola
designava i capelli.
m) La separazione tra le parole è stata ristabilita ogni volta che
la sua soppressione sembrava imputabile a un errore tipografico. In-
NOTA FILOLOGICA 253
versamente, è con la massima prudenza che sono state riunite, per se-
guire l'uso moderno, parole che il testo stampato separa; ci si è guar-
dati da qualsiasi intervento suscettibile di indebolire la fonosintassi.
Quanto alle preposizioni articolate, si è mantenuta la separazione
nella serie a, da, de, co, ne, su + i / gli. Si è compiuta la separazione
nelle rare occorrenze di dela, nela, nele. Non si è alterata la grafia di
quel altro (trattandosi del tipo normale con apocope sillabica davanti a
una parola che comincia per una vocale; ma il tipo quell altro ha rice-
vuto l'apostrofo). Si sono mantenute le esitazioni perche I per che, poi-
che I poi che, benché I ben che, perdo / per do (ma si è staccato perilche
in per il che). Si è mantenuta l'esitazione benvenuto I ben venuto, mal-
viaggio /mal viaggio, poverh (u)omo (-homini) I pover h (u)omo (homini),
quantosivoglia I quanto si voglia (scegliendo di unificare tutti i casi
dubbi; ma se si è proceduto al legame per la forma qual sivoglia, la
separazione si è imposta nel caso di ouesiuoglia > ove si voglia, chesiuo-
glia > che si voglia). Tra altretanto e altre tanto, si è scelta la prima
forma piuttosto che trascrivere altr'e tanto, ma si è mantenuto altri
tanti (agg.). Quanto ai gruppi pronominali, si è mantenuta la separa-
zione di gli le, gli ne e l'esitazione esso lui I essolui. Si è compiuto il
legame in d'esso {desso), ma si è invece tagliato sene e la congiunzione
senon. Per quanto riguarda gli avverbi, si è mantenuta l'esitazione alfin
(e) I al fin (e), appresso I a presso; si sono riuniti i due elementi di nullu
I di meno quando sono divisi tra due righe. Si sono unite le forme de
pò > depo', do pò > dopo, do pò > dopò, do poi > dopoi, così come a
dumque, al quanto, in sieme, tutta via. In compenso, si sono tagliate le
grafie ouesiuogla > ove si voglia, pertutto > per tutto; è stata conservata
l'esitazione tra già mai e giamai. Per le esclamazioni e le interiezioni, si
è mantenuta l'esitazione ola I o la, orsù I or su, ordumque I or dumque.
Per le parole latine, si è conservata la separazione in in cassum, ut potè,
ut pula, haud quaquam, non ne, per parvum, quando quidem; è stata
mantenuta l'esitazione tra id est e idest (avverbio dichiarativo); si è
proceduto al legame in ad mixtum, per perdentibus, multi modis.
n) In generale, la grafia originale delle parole latine è stata con-
servata. Quanto alla dittongazione, la si è eliminata nei rari casi in cui
si produceva nelle parole italiane derivate dal latino {Caesare, Aeneide),
mentre si è mantenuta l'alternanza bruniana tra ae e oe. Si sono elimi-
nati i casi di iperdittongazione, ma mantenuta la vocale semplice, ec-
cetto nelle desinenze e nei casi in cui l'assenza di dittongazione
avrebbe potuto dare luogo a un'ambiguità etimologica e grammaticale.
La sigla & e. in contesto italiano è stata resa con et celerà quando ha
valore di allusione o di eufemismo per omissione; la si è invece resa
254 NOTA FILOLOGICA
con l'abbreviazione etc. se è aggiunta ai titoli dei personaggi o se as-
sume un valore generico alla fine della frase.
o) La congiunzione et (resa anche con & nell'originale) è stata ri-
dotta a e davanti a una consonante; ma la si è conservata davanti alle
vocali, salvo nei testi poetici dove è rilevante per la misura del verso
(questo è, del resto, l'uso generalmente rispettato da Bruno stesso).
P) Le parole abbreviate, compresi i nomi propri, sono state tra-
scritte nella loro forma completa in assenza di elementi di ambiguità.
Laddove la risoluzione delle abbreviazioni poteva creare dei dubbi, la
parte finale della parola è stata messa tra parentesi. A questo propo-
sito, occorre osservare in Bruno un'esitazione tra forme elise e non
elise in parole come (mon) signor I signore, messer I messere, soprattutto
in posizione vocativa, ma talvolta anche davanti a nomi propri, qua-
lunque sia l'iniziale. Per non appesantire l'apparato critico, è stato se-
gnalato lo sviluppo di queste parole solo in posizione vocativa.
q) Quanto ai numerali espressi in cifre, i testi esitano tra cifre
arabe e romane. Sono stati distinti usando le cifre arabe per gli agget-
tivi cardinali, le romane per gli ordinali. Nei numeri espressi in let-
tere, l'eventuale separazione delle migliaia, delle centinaia e delle doz-
zine è stata conservata.
r) L'uso delle maiuscole iniziali è stato unificato conformemente
ai criteri moderni. È stato tuttavia conservato e esteso l'uso delle
maiuscole nei titoli dei destinatari delle dediche {Signor, Capitano, Go-
vernatore, ecc.). Sono state invece eliminate all'inizio dei versi le maiu-
scole non rese necessarie dalla sintassi.
s) Ci si è sforzati di rispettare gli schemi ritmici della lingua di
Bruno, pur modernizzando la punteggiatura secondo le esigenze della
logica o della sintassi e sostituendo i segni tipici della fine del XVI
secolo con i loro equivalenti moderni. La virgola è stata generalmente
soppressa quando non aveva valore di pausa: per esempio davanti a
e(t) congiunzione in una serie di termini. Sono stati collocati tra virgo-
lette ad angolo (« ») i brani o i discorsi citati nel testo; tra virgolette
doppie alte (" ") le citazioni di frasi o le parole isolate, così come i
versi in un brano in prosa, quando siano isolati tra due punti nell'ori-
ginale (. .) e abbiano una iniziale maiuscola. Si sono collocati tra virgo-
lette semplici e ') i titoli latini inseriti in un contesto latino (anch'esso
trascritto in corsivo) e ugualmente si è stampato in corsivo il titolo delle
opere letterarie in qualunque lingua siano, le parole isolate in latino o
in lingue straniere così come le espressioni onomatopeiche senza valore
interiettivo. Sono state indicate tra parentesi quadre ([ ]) le aggiunte di
parole intere; per ogni opera, si segnaleranno in una nota specifica le
aggiunte parziali, le soppressioni, le precisazioni critiche.
NOTA FILOLOGICA 255
Nello stabilire i testi, ho tenuto conto delle indicazioni fomite dalle
seguenti opere:
H. M. Adams, Catalogue of books printed on the Continent of Europe,
1^01-1600, in Cambridge Libraries, voi. I (1967), p. 202.
Giovanni Aquilecchia, «La lezione definitiva della Cena de le Cancri
di Giordano Bruno», Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, anno
CCCXLVII; Memorie, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, sè-
rie Vili - voi. Ili (1950). fase. 4, pp. 209-243.
— «Note di bibliografia bruniana», Lettere Italiane, XII anno (i960),
pp. 322-325.
— Le opere italiane di Giordano Bruno. Critica testuale e oltre, Napoli,
Bibliopolis, 1991.
— «Saggio di un commento letterale al testo critico del Candelaio»,
Filologia e critica, XVI (1991), pp. 91-126.
Giordano Bruno, La cena de le Ceneri, a cura di Giovanni Aquilec-
chia, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1955, pp. 237-239, 274.
— Dialoghi italiani, a cura di Gentile-Aquilecchia, Firenze, Sansoni,
1958, pp. V-LXII.
— De la causa, principio et uno, a cura di Giovanni Aquilecchia, To-
rino, Giulio Einaudi Editore, 1973, pp. 166-172.
Hilary Gatti, «Giordano Bruno: the texts in the Library of the ninth
Earl of Northumberland», Journal of the Warburg and courtauld In-
stitutes, voi. 46 (1983), pp. 63-77.
— «Mimimum and maximum, finite and infinite. Bruno and the Nor-
thumberland circle». Journal of the Warburg and Courtauld Institu-
tes, voi. 48 (1985), pp. 144-163.
A. Ch. Gorfunkel, «Pervye izdanija proizvedenij Diordano Bruno v
Bibliotekach Leningrada», in Kniga Issledovania i materiali, III
(i960), pp. 432-436.
John Hayward, «The location of copies of the first editions of Gior-
dano Bruno», Tlie Book Collector, voi. 5 (1956), pp. 152-157.
— «First editions of Giordano Bruno: location of additional copies»,
ibid., pp. 381-382.
Index Aureliensis, Catalogus librorum sedecimo saeculo im-
pressonum. Prima Pars, tomus V, Aureliae Aquensis, 1974, pp. 370-
371-
Istituto Centrale per il Catalogo unico delle Biblioteche italiane e per
le Informazioni bibliografiche. Le edizioni italiane del XVI secolo.
Censimento nazionale, volume II (B), Roma, 1989.
Iwo Korzan, «Praski krag Humanistów wokól Giordana Bruna»,
Euhemer, voli. 71-72 (1969), pp. 81-93.
The National Union Catalogne, Pre-ig^ó Imprints: A cumulative author
list representing Library of Congresss printed cards and titles reported
256 NOTA FILOLOGICA
by other American Libraries (...), voi. 81, Londra, Mansell Infoma-
tion/publishing Ltd., 1970, pp. 32.-37.
Andrzej Nowicki, «Egzemplarze pierwszych wydan dziel Giordana
Bruna w bibliotekach polskich», Euhemer, voi. 34 (1963) pp. 20-31.
— «Intorno alla presenza di Giordano Bruno nella cultura del cinque-
cento e seicento. Aggiunte alla bibliografia di Salvestrini», Atti del-
l'Accademia di Scienze morali e politiche della Società Nazionale di
Scienze, Lettere ed Arti in Napoli, voi. LXXIX (1968), pp. 505-526.
— Giordano Bruno nella patria di Copernico, Accademia Polacca delle
Scienze, Bibioteca e Centro Studi, Roma (Conferenze, fascicolo 54),
1972.
Printed Books (...), The Property of the loth Duke od Deconshire's Chari-
table Trust, which will be sold at Chtistie's Great Rooms, Wednesday
30 September igSi, AH: lots 1-236 (...) this sale should be referred
to as Chatsworth (...), Londra, Christie, Manson & Woods Ltd., 1981,
n. 64-68.
Virgilio Salvestrini, Bibliografia di Giordano Bruno (1582-1950),
2"* ed. (postuma), a cura di Luigi Firpo, Firenze, Sansoni, 1958.
Rita Sturlese, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di
Giordano Bruno, Firenze, Sansoni, 1987.
— «Censimento e Storia delle antiche stampe di Giordano Bruno con-
servate nelle biblioteche d'Europa, i. Austria, Germania, Svizzerei,
Scandinavia», Rinascimento, 2"^ serie, voi. XXIV (1984), pp. 289-346.
Roberto Tissoni, «Lo sconosciuto fondo bruniano della Trivulzia-
na». Atti della Accademia delle Scienze di Torino, voi. 93 (1958-1959),
pp. 431-472.
— «Sulla redazione definitiva della Cena de le Ceneri», Giornale Storico
della Letteratura Italiana, voi. CXXXVI (1959), pp. 558-563.
Denis B. Woodfield, Surreptitious Printing in England ig^o-1640,
New York, Bibliographical Society of America, 1973.
In conclusione, spero che la cura apportata nello stabilire i testi
non venga giudicata eccessiva. Questa minuzia costituisce infatti
l'unico mezzo per preservare il significato logico dell'opera; l'unico an-
che per rivelare il funzionamento di una prosa che, mescolando alla
letteratura anticonformista le parodie della retorica antica o dell'arte
oratoria ecclesiastica e a formulazioni scientifiche talvolta immature
l'esaltazione ditirambica delle scoperte intuitive dello spirito, rappre-
senta uno dei documenti letterari più stimolanti del tardo Rinasci-
mento europeo.
University College London
marzo 199 1
I
CANDELAIO
commento di
Giorgio Barberi Squarotti
IL LIBRO
A GLI ABBEVERATI
NEL FONTE CABALLINO'
Voi che tettate di muse da mamma^,
e che natate' su lor grassa broda
col musso ■*, l'eccellenza vostra m'oda,
si fed'e caritad' il cuor v'infiamma.
Piango, chiedo, mendico un epigramma,
un sonett', un encomio, un inno, un'oda
che mi sii post' in poppa over in proda^,
per farmene gir lieto a tata'' e mamma.
Ehimè ch'in van d'andar vestito bramo,
oimè ch'i' men vo nudo com'un Bia'';
e peggio: converrà fors' a me gramo ^
monstrar scuopert' alla signora mia
il zero^ e menchia^" com'il padr' Adamo i\
quand'era buono dentro sua badia. [5]
1. Il fonte di Ippocrene, fatto scaturire con un calcio, secondo il mito, dal
cavallo alato Pegaso, ai piedi dell'Elicona, il monte sacro alle Muse; le sue
acque davano l'ispirazione poetica. Gli abbeverati al fonte caballino sono,
quindi, i poeti.
2. Succhiate il latte dalle mammelle delle Muse.
3. Nuotate. Il Bruno cita qui l'invocazione del Folengo alle «grasis Camoe-
nis» del suo poema Baldus (I, 2).
4. Labbro. Tutti questi primi tre versi contengono scherzose circonlocu-
zioni per indicare i poeti.
5. Davanti o dietro, cioè all'inizio o alla fine della commedia.
6. Babbo (napoletano).
7. Biante, uno dei sette savi dell'antica Grecia, che andava in giro nudo
dicendo «Omnia mea mecum porto».
8. Infelice.
9. Deretano.
10. Il membro virile.
11. La citazione della Genesi è parodica.
200 CANDELAIO
Una pezzentaria
di braghe mentre chiedo, da le valli
[7I veggio montar ^an furia di cavalli 1^.
12. Il cavallo era una punizione corporale in uso nelle scuole, consistente
nello sferzare i ragazzi fatti spogliare nudi e posti a cavalcioni di un compa-
gno. L'intero sonetto è una scherzosa invocazione ai poeti, da parte dell'opera
che parla in proprio, di darle una presentazione autorevole e di non lasciarla
oscenamente andare in giro nuda, tanto più che, in un tempo dominato dai
pedanti, c'è il pericolo di subire qualche punizione corporale (qualche critica
ingiusta e troppo severa).
ALLA SIGNORA MORGANA B. ^
SUA SIGNORA SEMPRE ONORANDA
Et io a chi dedicarrò il mio Candelaio}^ A chi, o gran destino,
ti piace ch'io intitoli^ il mio bel paranirafo"*, il mio bon cori-
feo? ' A chi inviarrò quel che dal sirio^ influsso celeste, in questi
più cuocenti giorni, et ore più lambiccanti^, che dicon canicu-
lari, mi han fatto piovere nel cervello le stelle fisse ^, le vaghe
lucciole^ del firmamento mi han crivellato soprano, il decano de
dudici segnici m'ha balestrato in capo '2, e ne l'orecchie inter-
ne '^ m'han soffiato i sette lumi erranti? i"* A chi s'è voltato, dico
1. Forse una donna di Nola, conosciuta dal Bruno negli anni giovanili. An-
che la citazione della Signora Morgana B. è parodica, facendo riferimento a
una prostituta mascherata da celebrazioni roboanti.
2. Gioco di parola equivoca, poiché il «candeliere» che il Candelaio pos-
siede è, sì, il portatore di luce del vero, ma significa anche omosessuale, poiché
«candela» vale «sesso maschile» nella pederastia attiva.
3. Dedichi.
4. Ruffiano (perché dovrà servire ad acquistare al Bruno le grazie della
signora Morgana).
5. Propriamente, colui che guidava il coro dell'antica tragedia greca; qui, in
senso figurato, significa l'opera che porta i complimenti e le lodi del Bruno alla
signora Morgana.
6. Sirio è la stella principale della costellazione del Cane maggiore, in cui il
sole resta dal 24 luglio al 26 agosto (qui la parola è usata come aggettivo: sirio
influsso, l'influsso che viene dalla stella Sirio). La lettera dedicatoria è stata
scritta, evidentemente, fra luglio e agosto (nel 1582).
7. Che fanno sudare copiosamente («lambiccare», propriamente, vale distil-
lare attraverso l'alambicco).
8. Secondo il sistema tolemaico, le stelle erano fisse nel cielo.
9. I corpi celesti (come le comete) mobili per il cielo.
10. «Crivellare» vuol dire, propriamente, passare al crivello, setacciare la
farina, separandone il fiore dalla crusca; qui l'espressione del Bruno significa,
quindi, che gli astri gli hanno inviato preziosi, rarissimi influssi celesti.
11. Secondo gli astrologi, i decani erano le tre parti in cui era diviso cia-
scuno dei dodici segni dello Zodiaco (e a ogni decano era preposta una di-
vinità).
12. Messo in capo, ispirato.
13. Quelle dell'anima a cui è rivolta l'ispirazione (il «soffio»).
14. I sette pianeti, che nell'astronomia tolemaica giravano intomo alla
terra, ciascuno col suo cielo.
202 CANDELAIO
(9] io? a chi riguarda? a chi prende la mira? A sua Santità? no.
A sua Maestà Cesarea? no. A sua Serenità? no. A sua Altezza,
Signoria illustrissima e reverendissima? non, no. Per mia fé non
è prencipe o cardinale, re, imperadore o pappa '^ che mi levarrà
questa candela ^^ di mano in questo sollennissimo offertorio'^.
A voi tocca, a voi si dona; e voi o l'attaccarrete al vostro cabi-
netto 1^, o la ficcarrete al vostro candeliero: in superlativo dotta,
saggia, bella e generosa mia signora Morgana; voi coltivatrice
del campo dell'animo mio: che dopo aver attrite le glebe ''* della
sua durezza e assottigliatogl' il stile 2*^, acciò che la polverosa
nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse gli
occhi di questo e quello, con acqua divina, che dal fonte del
vostro spirto deriva, m'abbeveraste l'intelleto. Però, a tempo che
ne posseamo toccar la mano, per la prima vi indrizzai Gli pen-
sier gai; apresso, U tronco d'acqua viva^K Adesso che tra voi che
godete al seno d'Abraamo^^, e me che senza aspettar quel tuo
soccorso che solea rifrigerarmi la lingua, desperatamente ardo e
sfavillo, intermezza un gran caos, pur tropp' invidioso del mio
bene: per farvi vedere che non può far, quel medesmo caos, che
il mio amore, con qualche proprio ostaggio^' e material presen-
te^"", non passe al suo marcio dispetto^'^ eccovi la candela che
vi vien porgiuta per questo Candelaio che da me si parte, la
[11] qual in questo paese^^ ove mi trovo potrà chiarir alquanto certe
Ombre dell'idee^'' le quali in vero spaventano le bestie, e come
15. Papa.
16. Bruno gioca sul titolo della commedia con intenzione oscena.
17. Allusione blasfema alla liturgia della Messa.
18. Stanza riservata, intima; ma vale, per metafora oscena, per vulva
19. Sminuzzate le zolle (per rendere possibile la coltivazione).
20. Manico della falce e, per sineddoche, falce.
21. Forse componimenti poetici giovanili del Bruno, oggi perduti. Toccar la
mano, così come rifrigerarmi la lingua poco più sotto, sono allusioni erotiche.
22. Allusione irriverente, alla parabola di Lazzaro che dal paradiso (nel lin-
guaggio biblico, il seno d'Abramo) vede il ricco Epulone che si torce nelle
fiamme e chiede a lui una goccia di refrigerio.
23. Pegno.
24. Dono.
25. Il Bruno è esule e lontano, ma il suo amore supera ogni difficoltà e
distanza (il caos).
26. Il Bruno era in Francia, a Parigi.
27. De umbris idearum è il titolo dell'opera mnemonica in latino del Bruno,
uscita a Parigi nel 1582.
ALLA SIGNORA MORGANA B. 263
f ussero diavoli danteschi 2^, fan rimaner gli asini lungi a dietro;
et in cotesta patria ove voi siete, potrà far contemplar l'animo
mio a molti, e fargli vedere che non è al tutto smesso ^^. — Sa-
lutate da mia parte quell'altro Candelaio di carne et ossa'",
delle quali è detto che «Regnum Dei non possidebunt»^^; e ditegli
che non goda tanto che costì si dica la mia memoria esser stata
strapazzata a forza di pie di porci e calci d'asini: per che a que-
st'ora a gli asini son mozze l'orecchie, et i porci qualche decem-
bre me la pagarranno. E che non goda tanto con quel detto
«Abiit in regionem longinquam»^^; per che si avverrà giamai ch'i
cieli mi concedano ch'io effettualmente possi dire «Surgam et
ibo»^^, cotesto vitello saginato^'* senza dubbio sarrà parte della
nostra festa. Tra tanto viva e si goveme, et attenda a farsi più
grasso che non è; perché dall'altro canto io spero di ricovrare il
lardo, dove ho persa l'erba: si non sott'un mantello, sotto un
altro; si non in una, in un'altra vita'^. Ricordatevi, signora, di
quel che credo che non bisogna insegnarvi: — Il tempo '^ tutto
toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annihila; è un solo"
che non può mutarsi, un solo è etemo, e può perseverare eter- [13]
namente uno, simile e medesmo. — Con questa filosofia l'animo
mi s'aggrandisse'^, e me si magnifica l'intelletto. Però qualum-
28. Allusione ai diavoli di Dante, Inferno, XXI, dai quali cercano di na-
scondersi i barattieri immersi nella pece bollente; allo stesso modo gli igno-
ranti e i pedanti tentano di nascondersi dalla verità esposta dal Bruno nel suo
libro.
29. Decaduto.
30. È il personaggio reale che ha ispirato il protagonista della commedia:
forse un confratello del Bruno nel convento di San Domenico Maggiore a Na-
poli, certamente omosessuale.
31. «Non erediteranno il regno dei cieli»: S. Paolo, / Corinzi, VI, 9.
32. «Se ne andò in una regione lontana»: citazione di Luca, XV, 13 (nella
parabola del figliuol prodigo che lascia la casa patema).
33. «Mi alzerò e andrò»: citazione di Luca, XV, 18 (nella stessa parabo-
la, sono le parole che il figliuol prodigo dice quando decide di ritornare dal
padre).
34. Ingrassato (in Luca, XV, 23 il vitello saginato è fatto uccidere dal padre
nel banchetto per il ritomo del figliuol prodigo).
35. Allusione alla metempsicosi, in cui il Bruno credeva: il Bruno spera di
recuperare (ricovrare) con guadagno (il lardo) quello che ha perduto, anche in
un'altra forma (sotto un altro mantello) o in un'altra vita.
36. Di colpo, scritta a questo punto la rapida quanto essenziale sentenza
filosofica, poi svolta in più passi dei Dialoghi.
37. Dio.
38. Ingrandisce, esalta.
264 CANDELAIO
que sii il punto di questa sera ch'aspetto, si la mutazione è vera,
io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel
giorno, aspettano la notte. Tutto quel ch'è, o è equa o Uà, o vi-
cino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete dumque, e
[15] si possete state sana, et amate chi v'ama.
ARGUMENTO ET ORDINE
DELLA COMEDIA
Son tre materie principali intessute insieme ne la presente
comedia: l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pe-
dantaria di Mamfurio. Però per la cognizion distinta de sug-
getti, raggion dell'ordine et evidenza dell'artificiosa testura i,
rapportiamo prima da per lui l'insipido amante, secondo il sor-
dido avaro, terzo il goffo pedante: de quali l'insipido non è
senza goffaria e sordidezza; il sordido è parimente insipido e
goffo; et il goffo non è men sordido et insipido che goffo.
BONIFACIO dumque
nell'atto primo, scena prima, inamorato della signora Vittoria^,
et accorgendosi che non possea reciprocarsi l'amore^ (del che
era la caggione che quella er'amica, come si dice, di fiori di
barbe e frutti di borse *♦, e lui non era giovane né liberale), pone
la sua speranza nella vanità de le magiche superstizioni, per
venire a gli amorosi effetti; e per questo manda il suo servitore
a trovar Scaramuré che gli era stato descritto efficace mago.
.II. scena. Avendo inviato Ascanio, discorre tra se medesmo ri-
ducendosi a mente il valor di quell'arte, .iii. scena. Gli sopra-
gionge Bartolomeo che con certo mezzo artificio gli fa vomitare
il suo secreto; e mostra la differenza dell'ogetto dell'amor suo.
.IV. scena. Sanguino padre e pastor di marioli, et un scolare che
studiava sotto Mamfurio, che da parte aveano uditi questi rag-
gionamenti, discorreno sopra quel fatto; e Sanguino particular-
1. Intreccio complesso.
2. Il titolo di signora, come già per Morgana, allude alla condizione di pro-
stituta (di alto livello).
3. Ottenere di essere riamato.
4. Gioventù e denaro.
206 CANDELAIO
mente comincia a prender il capo per ordir qualche tela^ verso
di Bonifacio, .vi. scena. Compare Lucia ruffiana con un presen-
tuccio che Bonifacio mandava, e ne fa notomia^ e si dispone a
prenderne la decima^, e poco mancò che non vi fusse sopra-
giunta da lui. .VII. scena. Bonifacio se ne viene tutto glorioso per
certo suo poema di nova cola* in onor e gloria della sua dama;
nella qual festa (.vili, scena) fu ritrovato da Gioan Bernardo pit-
tore, al quale arrebbe discoperto il suo nuovo poetico furore: ma
lo distrasse il pensier del ritratto, et il pensiero sopra un dubbio
che gli lasciò Gioan Bernardo nella mente; e (.ix. scena) rimane
perplesso su l'enigma: per che o più o meno intende il termino
«candelaio», ma non molto può capir che voglia dir «orefice»''.
Mentre dimora in questo pensiero, ecco (.x. scena) riviene Asca-
nio col mago: il quale dopo avergli fatte capir alcune pappola-
te i°, lo lascia in speranza d'accaparri jj tutto.
Nell'atto secondo, .11. scena, si monstrano la signora Vittoria
e Lucia entrate in speranza di premer vino da questa pumice e
cavar oglio da questo subere ^^: e sperano col seminar speranze
nell'orto di Bonifacio, di tirar mèsse di scudi nel proprio ma-
gazzino; ma s'ingannavano le meschine pensando che l'amor gli
avesse tanto tolto l'intelletto che non avesse sempre avanti gli
occhi della mente il proverbio che gli udirrete dire nel princi-
[19] pio della sesta scena nell'atto quarto. .111. scena: rimasta la si-
gnora Vittoria sola, fa di bei castelli in aria presupponendo che
questa fiamma d'amor facesse colar e fonder metalli; e che que-
sto martello di Cupido co l'incudine del cuor di Bonifacio stam-
par potesse al men tanta moneta, che fallendo'^ col tempo l'arte
5. Preparare qualche inganno, qualche imbroglio.
6. Anatomia (cioè esamina minuziosamente il regalo di Bonifacio).
7. Sottrarre per sé una parte.
8. Di nuova invenzione. Credo che il termine alluda al ritmo del verso, in
latino.
9. Contrapposto a candelaio, vale l'essere attratto dal sesso femminile. Si
comprende, qui e dopo, il fatto che Bonifacio è sì omosessuale, ma nel senso
che, con la moglie, opera soltanto in modo sodomitico.
10. Discorsi sciocchi.
11. Conseguire.
12. Le due donne sperano di riuscire a ottenere denaro e doni dall'avaris-
simo Bonifacio (paragonato all'aridissima pomice e al non meno arido subere:
sughero).
13. Venendo meno.
ARGUMENTO ET ORDINE DELLA COMEDIA 267
sua, non gli fusse necessario di incantar'-* quella di Lucia, iuxta
illud: «Et iam fada vetus, fit rofiana Venus»^''. Mentre dumque si
pasce di que' venticelli che gonfiano la panza e non nutriscono,
(.IV. scena) sopraviene Sanguino, che per quel ch'avea udito
dalla propria bocca di Bonifacio comincia ad tramar qualche
bella impresa, e si retira con lei per discorrere come si doves-
sero governar col fatto suo.
Nell'atto terzo, .11. scena, viene Bonifacio con Lucia che lo
constrista tentandolo di pacienza per la borsa: or mentre masti-
cava come avesse in bocca il panferlich'^, gli cascò il lasagno
dentr'al formaggio 1^, idest ebbe occasion di levarsela d'avanti
per quella volta, per dover trattar cose importanti con dui che
sopragiunsero. .111. scena: questi erano Scaramuré et Ascanio, co
i quali si tratta come si dovesse governare ne' magichi cerimo-
ni; dona parte del suo conto al mago, e se ne va. .iv. scena: ri-
mane, beffandosi de la smania di costui, Scaramuré; e (.v. scena)
ritoma Lucia che pensava che Bonifacio l'aspettasse: e costui
la rende certa che la speranza era vana e la fatica persa; e
con ciò vanno alla signora Vittoria per chiarirla del tutto: il
che fece costui a fin che col fingere di quella'^ potesse graffar''' [21]
qualch'altra somma da Bonifacio, .ix. scena: compaiono San-
guino e Scaramuré come quei ch'aveano appuntato qualche
cosa con la signora Vittoria e messer Gioan Bernardo; e questi
dui con dui altri venturieri ^° sotto la bandiera di Sanguino,
trattano di negociare alcuni fatti con stravestirsi da capitano e
birri: del qual partito (nella .xiii. scena) si contentano molto.
Nell'atto quarto, .1. scena, la signora Vittoria vien fuori fasti-
dita per molto aspettare; discorre sopra l'avaro amor di Bonifa-
cio e sua vana speranza; mostra d'esser inanimataci a fargli
qualch'insapore^c^ insieme col finto capitano, birri e Gioan Ber-
nardo. Tra tanto venne Lucia (.11. scena) che mostra di non aver
14. Mettere all'asta.
15. Secondo il celebre verso «E ormai invecchiata, Venere diventa ruffia-
na». E una citazione di T. Folengo, Moscheidos, libro III, 8.
16. Dolce popolare napoletano sotto forma di bastone di zucchero filato.
17. Gli venne un'occasione estremamente favorevole.
18. Fingendo che quella fosse a sua volta innamorata di Bonifacio.
19. Arraffare, sottrarre.
20. Gente di malaffare.
21. Ben decisa.
22. Dispetto, dispiacere.
268 CANDELAIO
perso il tempo, e [non esser stata] vana la fatica: espone come
abbia informata et instrutta^^ Carubina moglie di Bonifacio;
e (scena .ni.) sopragionte da Bartolomeo, sdegnate si parteno.
.IV. scena: rimane Bartolomeo discorrendo sopra la sua materia;
et ecco (.V. scena) gli occorre Bonifacio, e raggionano un pezzo
insieme burlandosi l'un de l'altro. Tra tanto Lucia che non dor-
meva sopra il fatto suo, (.vi. scena) trova messer Bonifacio il
quale, disciolto da Bartolomeo, vien ad esser molto persuaso
dall'estreme novelle che quella gli disse: cioè che per il meno la
signora Vittoria gli arrebbe donato tutt'il suo; con questo, che la
andasse a chiavar^'' per quella sera: ch'altrimente moreva; il
che per le cose che erano passate della magica fattura ^^^ non fu
difficile a donarglielo ad intendere: prese ordine di stravestirsi
lui come Gioan Bernardo. Lucia si parte co le vesti di Vittoria a
mascherar Carubina. .vii. scena: rimane Bonifacio facendo tra
se medesmo festa dell'effetto che vede del suo incantesimo;
apresso (.vili, scena) si berteggia ^^^ insieme con Marta, moglie
[23] di Bartolomeo, per un pezzo; e poi è verisimile ch'andasse sub-
bito al mascherarci^ per accomodarsi come san Cresconio^^.
.xii. scena: ecco Carubina stravestita et istrutta da Lucia: fa in-
tendere i belli allisciamenti^'' e vezzi che questa sofistica Vitto-
ria dovea far al suo alchimico inamorato; e prende il camin
verso la stanza di Vittoria; e (.xiii. scena) rimane Lucia con de-
terminazione d'andar a trovar Gioan Bernardo: ma ecco che
(.xrv. scena) colui viene a tempo per che non vegliava meno
sopra il proprio negocio, che Lucia sopra l'altrui; equa si deter-
mina de le occasione che dovean prendere, come le persone si
doveano disporre al loco e tempo; e poi Lucia va a trovar Bo-
nifacio, e Gioan Bernardo a dar ordine all'altre cose.
Nell'atto quinto, scena .1., eccoti Bonifacio in abito di Gioan
Bernardo, che spirava amor dal culo'" e tutti gli altri buchi
23. Ammaestrata
24. Fottere.
25. Incanto, incantesimo.
26. Scherza.
27. Colui che affittava le maschere.
28. Santo venerato a Napoli, la cui statua lo mostrava avvolto in panni
sgargianti e con una spessa barba.
29. Blandimenti, carezze.
30. Citazioni di F. Berni, Sonetto al Divizio, v. 14.
ARGUMENTO ET ORDINE DELLA COMEDIA 269
della persona; e con Lucia, dopo aver discorso un poco, sen va
alla bramata stanza. Tra tanto Gioan Bernardo teneva il ba-
stonai dritto, pensando a Carubina: et aspettò un gran pezzo
facendo la sentinella, mentre Sanguino mariolava^^ e Bonifacio
prendev' i suoi disgusti^'; sin tanto che, (.ix. scena) venendo
fuori Bonifacio confusissimo con l'ancor sdegnatissima Caru-
bina, a l'impensata de l'uno e l'altra, trovomo un altro osso da
rodere e gruppo da scardare^-*: cioè si trovomo rincontrati con
Gioan Bernardo; quindi nacquero molti dibatti ^^ (jj paroli, et
essendono prossimi a toccarsi co le mani, (.x. scena) sopravien
Sanguino stravestito da capitan Palma con sui compagni stra-
vestiti da birri; e per ordinario ^^ della corte et instanza di
Gioan Bernardo menomo Bonifacio in una stanza vicina, fin-
gendo intenzione di condurlo, dopo spediti'^ altri negocii, in
Vicaria. Con questo, (.xi. scena) Carubina rimane nelle griffe ^^
di Gioan Bernardo, il quale (come è costume di que' che arden- [25]
temente amano) con tutte sottigliezze d'epicuraica filosofia
(Amor fiacca il timor d'omini e numi) cerca di troncare il le-
game del scrupolo che Carubina, insolita a mangiar più d'una
minestra'^, avesse possuto avere: della quale è pur da pensare
che desiderasse più d'esser vinta, che di vencere; però gli piac-
que di andar a disputar in luoco più remoto. Tra tanto che pas-
savano questi negocii, Scaramuré ch'avea l'orloggio^'^ nel sto-
maco e nel cervello, [(.xrv. scena)] andò con specie -^^ di sovve-
nire a Bonifacio; e (.xv. scena) trova Sanguino co i compagni et
impetrò licenza di parlar a Bonifacio; et avendola impetrata,
con certe mariolesche circostanze (.xvi. scena), viene (.xvii.
scena) a persuadere a Bonifacio che l'incanto avea, per fallo di
esso Bonifacio, avuto confuso effetto; e dice di voler negociar
per il presente la sua libertà. Il che facendo (.xviii. scena) con
31. Metafora oscena per membro virile.
32. Compiva le sue imprese furfantesche.
33. Rimbrotti.
34. Nodo, difficoltà da sciogliere.
35. Dibattiti, contrasti.
36. Ordine.
37. Compiuti.
38. Grinfie, mani.
39. Carubina era sempre rimasta fedele al marito.
40. Orologio.
41. Pretesto.
270 CANDELAIO
offrire qualche sottomano-^- al capitano, ricevè da quel, che non
era novizio"*^ nell'arte sua, una asprissima risoluzione la quale
da dovero mosse Bonifacio e Scaramuré, in quel modo che pos-
seva, a ingenocchiarsi in terra e chieder grazia e mercé: sin
tanto ch'impetromo da lui che si contentasse di farli grazia. La
qual gli fu concessa con questa condizione, che Scaramuré fa-
cesse di modo che venessero la moglie Carubina e Gioan Ber-
nardo a rimettergli l'offesa. Cossi questo accordo si venne a trat-
tar con molte apparenti difficultà (.xxi. e .xxii. scena); sin tanto
che (.XXIII. scena), dopo aver chiesa perdonanza in ginocchioni
a Gioan Bernardo e la moglie, e ringraziato Sanguino e Scara-
muré, et onta la mano"*-^ del capitano e birri, fu liberato per
grazia del signor Dio e della Madonna: dopo' la cui partita,
(.XXIV. scena) Sanguino et Ascanio fanno un poco di considera-
[27] zione sopra il fatto suo. Considerate dumque come il suo ina-
morarsi della signora Vittoria l'inclinò a posser esser cornuto, e
quando si pensò di fruirsi di quella, dovenne a fatto cornuto:
figurato veramente per Atteone-'^, il quale andando a caccia,
cercava le sue come: et all'or che pensò gioir de sua Diana, do-
venne cervo. Però non è maraviglia si è sbranato e stracciato
costui da questi cani marioli.
B.A.RTOLOMEO compare
nell'atto primo, .111. scena, dove si beffa dell'amor di Bonifacio:
concludendo che l'inamoramento dell'oro e de l'argento, e per-
seguire altre due dame-^% è più a proposito. Et è verisimile che
quindi partito, fusse andato a far l'alchimia nella quale studia-
va sotto la dottrima di Cencio: il quale Cencio nella .xi. scena si
discuopre barro-*" secondo il giudizio di Gioan Bernardo; e poi
nella .xii. scena egli medesmo si mostra a fatto truffatore. Viene
42. Mancia, donativo fatto di nascosto per comprare il falso sbirro.
43. Novellino, principiante.
44. Dato denaro, corrotto con denaro.
45. Mitico cacciatore emulo di Artemide, che fu mutato in cervo dalla dea,
sdegnata per essere stata sorpresa da lui mentre si bagnava, e venne sbranato
dai suoi stessi cani. Il mito è sviluppato dal Bruno negli Eroici furori, ma ha
significativi riferimenti classici e, dopo, nel Petrarca (cfr. Giovanni Barberi
Squarotti, Selvaggia dilettanza, Venezia, 2000).
46. L'oro e l'argento, che sono gli amori di Bartolomeo.
47. Truffatore.
ARGUMENTO ET ORDINE DELLA COMEDIA 27 1
Marta sua moglie nella .xiii. scena, e discorre sopra l'opra del
marito; e nella .xiv. scena è sopragionta da Sanguino che si bur-
lava di lui e lei.
Nell'atto secondo, .v. scena, raggionando Barro con Lucia,
mostra parte del profitto che facea Bartolomeo: cioè che mentre
lui attendeva ad una alchimia, la moglie Marta facea la bucata
et insaponava i drappi ■^^.
Nell'atto terzo, .i. scena, Bartolomeo discorre sopra la nobi-
lita della sua nuova professione: e mostra con sue raggioni che
non v'è meglior studio e dottrina de quello de minerabilibus'^^; e [29]
con questo, ricordato del suo esercizio, si parte.
Nell'atto quarto, .111. scena, va Bartolomeo aspettando il ser-
vitore ch'avea inviato per il pulvis ChristP^; e (.iv. scena) di-
scorre sopra quel detto «Onus leve»^\ assomigliando l'oro alle
piume, .vili, scena: la sua moglie dimostra quanto fusse onesta
matrona nel raggionar che fa con messer Bonifacio; mostra
quanto lei fusse più esperta nell'arte del giostrare ^^ ch'il suo
marito in far alchimia; e nella .ix. scena dona ad intendere ciò
non esser maraviglia, perché a quella disciplina fu introdotta
nella età di dodici anni; e donando più vivi segnali della sua
dottrina da cavalcare^', fa una lamentevole e pia digressione
circa quel studio di suo marito, che l'avea distratto da sue oc-
cupazioni megliori. Mostra anco la diligenza che teneva in sol-
licitar gli suo' dèi a fin che gli restituissero il suo marito nel
grado di prima. Con questo, (.x. scena) comincia ad veder effetto
di sue orazioni: per essere l'alchimia tutta andata in chiasso'''
per un certo pulvis Christi che non si trovava altrimente che
facendolo Bartolomeo medesmo; il quale de cinque talenti gli
arrebbe reso talenti cinque. Or l'uomo [per] informarsi meglio
va col suo Mochione ad ritrovar Consalvo.
Nell'atto quinto, .11. scena, vengono Consalvo e Bartolomeo
che si lamentava di lui come consapevole e complice della
48. Metafora oscena.
49. «Intorno ai minerali».
50. Polvere alchimistica dotata del potere di trasformare le sostanze vili in
oro.
51. «Peso leggero» (cfr. Matteo, XI, 30).
52. L'arte di amare.
53. Altra metafora oscena per indicare le arti erotiche.
54. Andata in fumo, finita in niente (propriamente, in postribolo).
272 CANDELAIO
burla fattagli da Cencio; e cossi dalle pareli venuti a' pugni,
(.III. scena) fumo sopragionti da Sanguino e compagni in gui-
sa55 di capitano e birri: li quali sotto specie di volerle menare
in priggione, le^^ legarono co le mani a dietro; et avendole me-
[31] nati a parte più remota, gionsero le mani dell'uno alle mani
dell'altro a schena a schena: e cossi gli levomo le borse e vesti-
menti, come si vede nel discorso delle .rv., .v., .vi., .vii., .viii.
scene; e poi nella .xii. scena, avendone caminato per fianco e
fianco per incontrarsi con alcuno che le slegasse, giunsero al
fine dov'era Gioan Bernardo e Carubina che andavano oltre: i
quali volendo arrivare 5'^, Consalvo con affrettar troppo il passo
fé' cascar Bartolomeo che si tirò lui appresso; e rimasero cossi,
sin che (.xiii. scena) sopravenne Scaramuré e le sciolse, e le
mandò per diversi camini a proprie case.
MAMFURIO
nell'atto primo, .v. scena, comincia ad altitonare^^; e viene ad
esser conosciuto da Sanguino per pecora da pastura^'': cioè ch'i
marioli cominciomo a formar dissegno sopra il fatto suo^°.
Nell'atto secondo, prima scena, vien burlato dal signor Otta-
viano, che prima monstrava maravigliarsi di sui bei discorsi;
appresso de far poco conto di suoi poemi: per conoscere come si
portava quando era lodato, e come quando era o meno o più bia-
simato. E partitosi il signor Ottaviano, porge Mamfurio una let-
tera amatoria al suo Pollula inviandola a messer Bonifacio, per
il cui servizio l'avea composta: la quale epistola poi nella .vii. sce-
na viene ad essere letta e considerata da Sanguino e Pollula.
Nell'atto terzo, sguaina un poema contra il signor Ottaviano,
in vendetta della poca stima che fece di sui versi; sopra i quali
mentre discorre con il suo Pollula, sopraviene messer Gioan
Bernardo (scena .vii.), col qual discorse sin tanto che gli cascò
I33] la pazienza. Ritoma nella .xi. scena: appare con Corcovizzo che
55. Negli abiti, nel travestimento.
56. Li.
57. Raggiungere.
58. Parlare con molta presunzione.
59. Uomo sciocco.
60. I suoi denari.
ARGUMENTO ET ORDINE DELLA COMEDIA 273
fé' di modo che gli tols' i scudi de mano. Or mentre di ciò
(.XII. scena) si lagna e fa strepito, gli occorreno Barra e Marca e
(.XIII. scena) Sanguino: i quali ponendolo in speranza di ritrovar
il furbo ^' e ricovrare il furto ^^, li femo cangiar le vesti e lo me-
nomo via.
Nell'atto quarto, .xi. scena, riviene cossi mal vestito com'era,
lamentandosi che gli secondi marioli gli aveano tolte le vesti-
menta talari ^^ e pileo'^'' prezioso: facendolo rimaner solo nel
passar di certa stanza; e con questo avea vergogna di ritornar a
casa: aspetta il più tardi retirandosi in un cantoncello; sin tanto
che nella .xv. scena si fa in mezzo spasseggiando e discorrendo
circa quel che ivi avea udito e visto. Tra tanto (.xvi. scena)
viene Sanguino, Marca et altri in forma di birri; e volendosi
Mamfurio ritirar in secreto, con quella et altre specie ^^ io pre-
sero priggione e lo depositomo nella prossima stanza.
Nell'atto quinto, penultima scena, gli vien proposto che fac-
cia elezzione'^'' de una di tre cose per non andar priggione: o di
pagar la bona sfrena'^'' a gli birri e capitano, o di aver diece
spalmate 6^, o ver cinquanta staffilate a brache calate. Lui ar-
rebbe accettata ogni altra cosa più tosto che andar con quel
modo priggione; però delle tre elegge le diece spalmate; ma
quando fu alla terza, disse: «Più tosto cinquanta staffilate alle
natiche»; de quali avendone molte ricevute, e confondendosi il
numero or per una or per un'altra causa, avvenne che ebbe
spalmate, staffilate, e pagò quanti scudi gli erano rimasti alla
giomea^^: e vi lasciò il mantello che non era suo. E fatto tutto
questo, posto in arnese come don Paulino^°, nella scena ultima
fa e dona il plaudite'^^. [35]
61. Ladro.
62. Recuperare la refurtiva.
63. L'abito lungo fino ai piedi, proprio di chi esercitava professioni liberali.
64. Il cappello dottorale.
65. Pretesto.
66. Scelta.
67. Mancia.
68. Punizione corporale in uso nelle scuole, consistente nel colpire il ra-
gazzo punito sulla mano aperta con una bacchetta.
69. Borsa per tenervi i denari.
70. Modo di dire proverbiale, che vale «deluso e beffato».
71. Parola latina, che significa «applaudite» e con cui l'attore della comme-
dia romana annunciava la fine dello spettacolo, invitando gli spettatori all'ap-
plauso.
ANTIPROLOGO
Messer sì: ben considerato; bene appuntato; bene ordinato.
Forse che non ho profetato, che questa comedia non si sarrebbe
fatta questa sera? Quella bagassa' che è ordinata^ per rapresen-
tar Vittoria e Carubina, have non so che mal di madre ^. Colui
che ha da rapresentar il Bonifacio, è imbriaco che non vede ciel
né terra da mezzo dì in qua; e come non avesse da far nulla,
non si vuol alzar di letto; dice: «Lasciatemi lasciatemi, che in
tre giorni e mezzo e sette sere, con quatro o dui rimieri"*, sarrò
tra parpaglioni 5 e pipistregli: sia, voga; voga, sia»^. A me è stato
commesso il prologo; e vi giuro ch'è tanto intricato et indiavo-
lato^, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra e dì e notte:
che non bastan tutti trombetti* e tamburini delle Muse puttane
d'Elicona'' a ficcarmen' una pagliusca^" dentro la memoria. Or
va fa il prologo: sii battello di questo barconaccio dismesso",
scasciato'2, rotto, mal impeciato ''; che par che co crocchi*'',
rampini et arpagini^^, sii stato per forza tirato dal profondo
1. Bagascia, prostituta.
2. Incaricata.
3. Malattia dell'utero.
4. Rematori, battellieri.
5. Farfalle notturne.
6. «Siare» significa spingere indietro e «vogare» spingere avanti la barca.
Tutte le parole riferite dell'attore ubriaco vogliono significare il suo stato di
completa dissoluzione mentale in mezzo ai fumi del vino.
7. Complicato e difficile, come se a renderlo oscuro avesse dato una mano
il diavolo.
8. Suonatori di tromba, araldi.
9. Il monte della Beozia sede mitica delle Muse.
10. Una briciola, una quantità minima.
11. Fuori uso.
12. Sconnesso.
13. Male spalmato di pece.
14. Ganci, uncini.
15. Arpioni.
ANTIPROLOGO 275
abisso; da molti canti gli entra l'acqua dentro, non è punto
spalmato '^- e vuole uscire, e vuol fars'in alto mare? lasciar que- [37]
sto sicuro porto del Mantracchio? ' ■' far partita dal Molo del si-
lenzio?'^. L'autore, si voi lo conosceste, dirreste ch'have una fi-
sionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle
pene dell'inferno; par sii stato alla pressa come le barrette 1^: un
che ride sol per far comme fan gli altri; per il più lo vedrete
fastidito 2°, restio e bizarro: non si contenta di nulla, ritroso
come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ri-
cevute mille spellicciate^\ pasciuto di cipolla^^. Al sangue^',
non voglio dir de chi, lui e tuti quest'altri filosofi, poeti e pe-
danti, la più gran nemica che abbino è la richezza e beni: de
quali mentre col lor cervello fanno notomia, per tema di non
essere da costoro da dovero sbranate, squartate e dissipate, le
fuggono come centomila diavoli, e vanno a ritrovar quelli che
le mantengono sane et in conserva. Tanto che io con servir si-
mil canaglia, ho tanta de la fame, tanta de la fame, che si me
bisognasse vomire^'', non potrei vomir altro ch'il spirto; si me
fusse forza di cacare, non potrei cacar altro che l'anima com'un
appiccato 25. In conclusione io voglio andar a farmi frate, e chi
vuol far il prologo sei faccia. [39]
16. Di pece.
17. Porto minore di Napoli.
18. Porto maggiore di Napoli. Tutte queste metafore si riferiscono alla com-
media che sta per avere inizio.
19. Il feltro con cui vengono fatti i cappelli è sottoposto all'operazione di
pressa o follatura, che consiste nel far bollire in un'acqua appositamente pre-
parata e nel premere e rassodare successivamente il feltro stesso.
20. Pieno di noia, di fastidio, dalla stoltezza e dalla banalità degli uomini
normali. Il Bruno sembra alludere, qui come successivamente, a sé come
l'uomo superiore, il filosofo, che, per antifrasi, sembra misero e mal ridotto,
cupo e malinconico, là dove in questo modo è davvero sublime nella sua con-
templazione e celebrazione del vero. C'è certamente un'allusione zWEncomium
moriae di Erasmo.
21. Bastonate che gli hanno levato il pelo.
22. La cipolla, notoriamente, fa piangere.
23. Imprecazione.
24. Vomitare.
25. Impiccato.
PROPROLOGO
Dove è ito quel farfante', schena da bastonate, che dovea far
il prologo? Signori, la comedia sarrà senza prologo: e non im-
porta; per che non è necessario che vi sii: la materia, il suggetto,
il modo et ordine e circonstanze di quella, vi dico che vi si
farran presenti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi
per ordine; il che è molto meglio che si per ordine vi fussero
narrati: questa è una specie di tela, ch'ha l'ordimento e tessitura
insieme; chi la può capir, la capisca; chi la vuol intendere, l'in-
tenda. Ma non lascierò per questo di avertirvi che dovete pen-
sare di essere nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio
di Nilo 2. Questa casa che vedete equa formata, per questa notte
servirrà per certi barri ^, furbi e marioli (guardatevi pur voi che
non vi faccian vedovi di qualche cosa che portate adosso); equa
costoro stenderranno le sue rete"*: e zara a chi tocca 5. Da questa
parte si va alla stanza del Candelaio, id est messer Bonifacio, e
Carubina moglie, e quella di messer Bartolomeo. Da quest'altra
si va a quella della signora Vittoria, e di Gioan Bernardo pit-
tore e Scaramuré che fa del necromanto ^. Per questi contomi,
non so per qual'occasioni, molto spesso si va rimenando un sol-
[41] lennissimo pedante detto Mamfurio. Io mi assicuro che le ve-
drete tutti. E la ruffiana Lucia per le molte facende bisogna che
non poche volte vada e vegna; vedrete Pollula col suo magister''
1. Furfante.
2. Uno dei cinque quartieri in cui era divisa Napoli (o Nido).
3. Furfanti.
4. Plurale, per «reti».
5. A chi tocca, suo danno.
6. Negromante, mago.
7. «Maestro».
PROPROLOGO 277
per il più: quest'è un scolare da inchiostro nero e bianco^; ve-
drete il paggio di Bonifacio Ascanio: un servitor da sole e da
candela^. Mochione, garzone di Bartolomeo, non è caldo né
freddo, non odora né puzza. In Sanguino, Barra, Marca e Coreo-
vizzo contemplarrete in parte la destrezza della mariolesca di-
sciplinalo. Conoscerrete la forma dell'alchimicii' barrarle ^^ in
Cencio. E per un passatempo vi si farrà presente Consalvo spe-
ciale, Marta moglie di Bartolomeo, et il facetissimo signor Otta-
viano. Considerate chi va chi viene, che si fa che si dice, come
s'intende come si può intendere: che certo contemplando que-
st'azzioni e discorsi umani col senso d'Eraclito o di Democri-
to 1^, arrete occasion di molto o ridere o piangere.
Eccovi avanti gli occhii: ociosi principii, debili orditure i'^,
vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto ^5, scover-
ture di corde "^, falsi presuppositi ^~', alienazion di mente, poetici
furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarito pe-
regrinaggio d'intelletto; fede sfrenate, cure insensate, studi in-
certi, somenzei^ intempestive, e gloriosi frutti di pazzia.
Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchiamenti ^^,
tremori, sogni, rizzamenti^o, «e un cuor rostito nel fuoco d'amo-
re»; pensamenti, astrazzioni, colere^', maninconie, invidie, que- [43]
relè, e men sperar quel che più si desia. Qui trovarrete a l'animo
ceppi, legami, catene, cattività, priggioni, eteme ancor pene,
martiri e morte; alla ritretta^^ del core, strali, dardi, saette, fuo-
chi, fiamme, ardori, gelosie, suspetti, dispetti, ritrosie, rabbie et
8. Allusione oscena alla pederastia tradizionale di cui sono accusati i pe-
danti nei confronti dei loro scolari.
9. Altra allusione oscena, questa volta alla pederastia di Bonifacio.
10. Il mondo dei furfanti.
11. Plurale femminile.
12. Truffe, imbrogli.
13. Secondo la tradizionale distinzione tra i due antichi filosofi greci,
Eraclito sarebbe stato il pessimista assoluto, Democrito l'ottimista convinto.
14. Piani, disegni.
15. Esplosioni d'amore.
16. Rivelazioni di sentimenti (propriamente, budella).
17. Supposizioni.
18. Semi, inizi (di pazzia).
19. Sbadigli.
20. Erezioni sessuali (ma il termine è ambiguo con innalzamenti, subli-
mazioni).
21. Collere.
22. Al rifugio.
278 CANDELAIO
oblii, piaghe, ferite, omei^', folli 2-^, tenaglie, incudini e martelli;
«l'archiero faretrato, cieco e ignudo» 2'. L'oggetto poi del core,
un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio,
nume, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, tramontana
stella, et un bel sol ch'a l'alma mai tramonta; et a l'incontro
ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto di dia-
mante, e cruda man ch'ha chiavi del mio cuore, e mia nemica,
e mia dolce guerriera, versaglio-"^ sol di tutti miei pensieri, «e
bei son gli amor miei non quei d'altrui »^^. Vedrete in una di
queste femine sguardi celesti, suspiri infocati, acquosi pensa-
menti, terestri desiri e aerei fottimenti: co riverenza de le caste
orecchie, è una che sei prende con pezza bianca e netta di bu-
cata^s. La vedrete assalita da un amante armato di voglia che
scalda, desir che cuoce, carità ch'accende, amor ch'infiamma,
brama ch'avvampa, e avidità ch'ai ciel mica^^ e sfavilla. Ve-
drete ancora (a fin che non temiate diluvio universale) '° l'arco
[45] d'amore ^1 il quale è simile a l'arco del sole, che non è visto da
chi vi sta sotto, ma da chi n'è di fuori: perché de gli amanti
l'uno vede la pazzia dell'altro e nisciun vede la sua. Vedrete
un'altra di queste femine, priora delle Repentite '^ per l'ommis-
sione di peccati che non fece a tempo ch'era verde: adesso do-
lente come l'asino che porta il vino^'; ma che? un'angela,
un'ambasciadora, secretaria, consigliera, referendaria '•♦, novelle-
rà'^; venditrice, tessitrice, fattrice'^, negociante e guida; mer-
cantessa di cuori, e ragattiera che le compra e vende a peso,
23. Lamenti.
24. Mantici.
25. Cupido, il dio Amore.
26. Bersaglio.
27. In tutto questo passo il Bruno raccoglie satiricamente un catalogo di
formule e frasi del Petrarca e del petrarchismo contemporaneo.
28. L'espressione significa che la donna non è vergine, anzi è una prostituta
lurida.
29. Scintilla.
30. Allusione al mito biblico e all'arcobaleno con cui Dio promette a Noè
che non si avranno più flagelli del genere.
31. Quello di Cupido, che ferisce le loro vittime facendole innamorare (non
senza un'allusione erotica).
32. Convertite (con allusione ai monasteri dove venivano accolte le donne
traviate che si erano pentite).
33. Allusione al proverbio dell'asino che trasporta il vino e beve l'acqua.
34. Relatrice.
35. Narratrice.
36. Chi provvede a tutto.
PROPROLOGO 279
misura e conto: quella ch'intrica e strica^^, fa lieto e gramo,
inpiaga e sana, sconforta e riconforta, quando ti porta o buona
nova o ria, quando porta de polli magri o grassi; advocata, in-
tercessora, mantello, rimedio, speranza, mediatrice, via e porta:
quella che volta ^^ l'arco di Cupido, conduttrice del strai del dio
d'amore; nodo che lega, vischio ch'attacca, chiodo ch'accoppia,
orizonte che gionge gli emisferi". Il che tutto viene a effettuare
mediantihus fìnte bazzane^*", grosse panzanate"'^ suspiri a posta,
lacrime a comandamento, pianti a piggione, singulti che si
muoiono di freddo"*^; berte^^ masculine, baie illuminate''-*, lu-
singhe affamate, scuse volpine ■*', accuse lupine""^, e giuramenti
che muion'*^ di fame, lodar presenti biasmar assenti, servir tutti
amar nisciuno: «t'aguza l'apetito, e poi digiuni». ■ [47]
Vedrete ancor la prosopopeia e maestà d'un omo masculini
generis'^^. Un che vi porta certi suavioli"''^ da far sdegnar un sto-
maco di porco o di gallina: un instaurator di quel lazio^" anti-
quo, un emulator demostenico''; un che ti suscita Tullio dal
più profondo e tenebroso centro; concinitor^^ di gesti de gli eroi.
Eccovi presente un'acutezza da far lacrimar gli occhi, gricciar^^
i capelli, stuppefar i denti; petar, rizzar, tussir e starnutare. Ec-
covi un di compositor di libri bene meriti di republica, postil-
37. Districa.
38. Dirige.
39. Propriamente, il cerchio metallico che univa, negli antichi mappa-
mondi in uso al tempo del Bruno, circondati dai cieli secondo l'astronomia
tolemaica, i due emisferi celesti (e, nell'immagine, allude all'opera della ruf-
fiana).
40. La bazzana era una pelle di capretto usata per rilegare libri; qui vuol
significare scritto, messaggio. Mediantihus vale mediamente in lessico pedan-
tesco.
41. Bugie, fandonie.
42. Perché sono falsi, non nascono da autentico dolore e sentimento.
43. Beffe, inganni (ma unite con masculine è gioco di parole col nome pro-
prio femminile Berta, con l'ambiguità del rapporto sessuale).
44. Beffe geniali (una baia vale pure come una pezza di stoffa scura: ripu-
lita, di conseguenza, dalle macchie dell'uso nel fottere).
45. Abili, astute.
46. Furiose, accanite (di lupi).
47. Muoiono.
48. «Di genere maschile».
49. Baci.
50. Latino.
51. Emulo di Demostene, il celebre autore greco.
52. Cantore.
53. Arricciare.
28o CANDELAIO
latori, gì osatoli, construttori, metodici, additori^^, scoliatori '5,
traduttori, interpreti, compendiarli ^6, dialetticarii ^^ novelli, ap-
paritori^s con una grammatica nova, un dizzionario novo, un
lexicon^'^, una varia lectio^^, un approvator d'autori, un appro-
vato autentico, con epigrammi greci, ebrei, latini, italiani, spa-
gnoli, francesi posti in fronte libri^K Onde l'uno e l'altro, e l'altro
e l'uno, vengono consecrati all'immortalità, come benefattori
del presente seculo e futuri, obligati per questo a dedicarli sta-
tue e colossi ne' mediterranei mari e nell'oceano, et altri luochi
inabitabili de la terra. La lux perpetua vien a fargli di sberret-
tate; e con profonda riverenza se gl'inchina il secula seculorum^^;
ubligata la fama di fame sentir le voci a l'uno e l'altro polo, e
d'assordir co i cridi, strepiti e schiassi ^^ il Borea e l'Austro, et il
mar Indo e Mauro. Quanto campeggia bene (mi par veder tante
perle e margarite^ in campo d'oro) un discorso latino in mezzo
l'italiano, un discorso greco [in] mezzo del latino; e non lasciar
[49] passar un foglio di carta dove non appaia al meno una dizzio-
netta, un versetto, un concetto d'un peregrino carattere et
idioma. Oimè che mi danno la vita, quando o a forza o a buona
voglia, e parlando e scrivendo, fanno venir a proposito un ver-
setto d'Omero, d'Esiodo, un stracciolin di Plato o Demosthenes
greco. Quanto ben dimostrano che essi son quelli soli a quai
Saturno ha pisciato il giudizio in testa, le nove damigelle di
Pallade^' un comucopia^^^ di vocaboli gli han scarcato tra la
pia e dura matre"^": e però è ben conveniente che sen vadino
con quella sua prosopopeia, con quell'incesso gravigrado^^, bu-
54. Coloro che compiono aggiunte e chiarimenti a un testo.
55. Commentatori.
56. Autori di compendi, di riassunti.
57. Dialettici.
58. Imbonitori, banditori.
59. Dizionario.
60. «Variante» (nel linguaggio filologico).
61. Nel frontespizio.
62. L'allusione alla lux perpetua e ai saecula saeculorum che vengono a pro-
sternarsi al pedante vuole significare che, con tutta la sua inutile dottrina, è
un morto, non un vivo.
63. Rumore, chiasso.
64. Perle.
65. Le Muse.
66. Un'immensa abbondanza.
67. Le due membrane che avvolgono il cervello e il midollo spinale.
68. A passi lenti, misurati.
PROPROLOGO 281
sto ritto, testa salda et occhii in atto di una modesta altiera
circumspeczione^^. Voi vedrete un di questi che mastica dot-
trina, olface^o opinioni, sputa sentenze, minge autoritadi, eructa
arcani, exuda chiari e lunatici'' inchiostri, semina ambrosia e
nectar di giudicii, da fame la credenza^^ a Ganimende e poi un
brindes al fulgorante Giove. Vedrete un pubercola'^ sinonimico,
epitetico, appositorio, suppositorio ^'': bidello di Minerva, amo-
stante ''^ di Pallade, tromba di Mercurio, patriarca di Muse, e
dolfino'"^ del regno apollinesco (poco mancò ch'io non dicesse
«polledresco»^^).
Vedrete ancor in confuso tratti di marioli, statagemme di
barri, imprese di furfanti; oltre, dolci disgusti, piaceri amari, de-
terminazion folle, fede fallite, zoppe speranze, e caritadi scarse;
giudicii grandi e gravi in fatti altrui, poco sentimento ne' pro-
pri; f emine virile, effeminati maschii; «tante voci di testa e non
di petto »^^: «chi più di tutti crede più s'inganna»; «e di scudi
l'amor universale». Quindi procedeno febbre quartane, cancheri
spirituali, pensieri manco di peso, sciocchezze traboccanti, in- [51]
toppi baccellieri"^^, granchiate^" maestre, e sdrucciolate da fiac-
cars' il collo; oltre, il voler che spinge, il saper ch'appressa, il far
che frutta; «e diligenza madre de gli effetti». In conclusione ve-
drete in tutto non esser cosa di sicuro: ma assai di negocio, di-
fetto a bastanza, poco di bello, e nulla di buono. — Mi par udir
i personaggi; a dio. [53]
69. Scardo dato all'intorno, dairalto al basso.
70. Odora, fiuta.
71. Sublimi.
72. Assaggiare i cibi e le bevande da parte dei coppieri e degli scalchi
prima che fossero date al signore, per assicurarsi che non fossero avvelenate.
73. Educatore di ragazzi.
74. Voci derivate da categorie grammaticali, che alludono alla pedanteria
scolastica di Mamfurio.
75. Titolo di governatore presso gli Arabi.
76. Delfino, principe ereditario.
yy. Cioè degli animali.
78. Parole insincere, ingannevoli.
79. Aggettivo scherzosamente equivoco, che può derivare sia da baccello =
sciocco, sia dal grado accademico, a precisare di quale genere siano gli spropo-
siti (intoppi).
80. Granchi, svarioni, errori madornali.
BIDELLO
Prima ch'i' parie, bisogna ch'i' m'iscuse. Io credo che si non
tutti, la maggior parte al meno mi dirranno: «Cancaro vi man-
gia il naso: dove mai vedeste comedia uscir col bidello?». Et io
vi rispondo: il mal an ■ che Dio vi dia, prima che fussero come-
die, dove mai furon viste comedie? e dove mai fuste visti prima
che voi fuste? E pare ad voi ch'un suggetto come questo che vi
si fa presente questa sera, non deve venir fuori e comparire con
qualche privileggiata particularità? Un eteroclito ^ babbuino, un
naturai coglione, un moral menchione, una bestia tropologica,
un asino anagogico' come questo-^, vel farro degno d'un conne-
stable^, si non mei fate degno d'un bidello. Volete ch'io vi dica
chi è lui? voletelo sapere? desiderate ch'io vel faccia intendere?
Costui è (vel dirrò piano): il Candelaio. Volete ch'io vel dimo-
stri? desirate vederlo? Eccolo. Fate piazza; date luoco; retiratevi
dalle bande, si non volete che quelle coma vi faccian male, che
[55] fan fuggir le genti oltre gli monti ^
1. Malanno.
2. Strano, straordinario.
3. Allusione ironica alla tropologia e all'analogia, due sensi morali o tipi di
allegoria.
4. Come il Candelaio.
5. Alto grado militare nelle antiche monarchie (in particolare, Normanni,
Angioini. Francesi).
6. Allusione a Matteo, XXIV, 16, che descrive le tribolazioni prossime nella
Giudea (chi è nelle pianure fugga sui monti).
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Bonifacio, Ascanio
Bonifacio. - Va lo ritrova adesso adesso; e forzati di me-
narlo equa. Va fa, e vieni presto.
Ascanio. — Mi forzarrò di far presto e bene. Meglio un poco
tardi, che un poco male: sat cito, si sat bene^.
Bonifacio. — Lodato sii Idio: pensavo d'aver un servitore
solamente, et ho servitore, mastro di casa, satrapo, dottore e
consigliero; e dicon poi ch'io son povero gentil omo. Io ti dico
in nome della benedetta coda de l'asino ch'adorano a Castello i
Genoesi^: fa presto, tristo, e mal volentieri; e guardati di entrare
in casa, intendi tu? chiamalo che si faccia alla fenestra, e gli
dirrai come ti ho detto. Intendi tu?
Ascanio. - Signor sì; io vo. [57]
scena II
Bonifacio solo
L'arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or poi ch'a
la mal'ora non posso far che questa traditora m'ame, o che al
meno mi remiri con un simulato amorevole sguardo d'occhio,
chi sa? forse quella che non han mossa le paroli di Bonifacio,
l'amor di Bonifacio, il veder spasmare Bonifacio, potrà esser
forzata con questa occolta filosofia. Si dice che l'arte magica è di
tanta importanza che contra natura fa ritornar gli fiumi a die-
1. Motto di Catone: «Abbastanza in fretta se abbastanza bene».
2. Allusione alla reliquia venerata a Genova, che si diceva essere dell'asina
con cui Gesù fece il suo ingresso in Gerusalemme.
284 CANDELAIO
tro, fissar il mare, muggire i monti, intonar' l'abisso, proibir^ il
sole, despiccar^ la luna, sveller le stelle, toglier il giorno e far
fermar la notte; però l'Academico di nulla Academia-*, in quel-
l'odioso titolo e poema smarrito, disse:
Don'a' rapidi fiumi in su ritomo,
smuove de l'alto ciel l'aurate stelle,
fa sii giorno la notte, e nott'il giorno.
E la luna da l'orbe proprio svelle
e gli cangia in sinistro il destro corno,
e del mar l'onde ingonfia e fissa quelle.
Terr', acqua, fuoco et aria despiuma^,
et al voler uman fa cangiar piuma.
Di tutto si potrebbe dubitare: ma circa quel ch'ultimamente
dice quanto all'affetto d'amore, ne veggiamo l'esperienza d'ogni
giorno. Lascio che del magistero di questo Scaramuré sento dir
cose maravigliose a fatto. Ecco: vedo un di quei che rubbano la
vacca e poi donano le coma^ per l'amor di Dio, veggiamo che
porta di bel novo.
SCENA III
Messer Bonifacio, messer Bartolomeo raggionano;
Pollula e Sanguino accolti ascoltano
Bartolomeo. - Crudo amore, essendo tanto ingiusto e tanto
violento il regno tuo, che vói dir che perpetua tanto? per che fai
che mi fugga quella ch'io stimo e adoro? per che non è lei ad me,
come io son cossi strettissimamente a lei legato? si può imaginar
questo? et è pur vero. Che sorte di laccio è questa? di dui fa l'un
incatenato a l'altro, e l'altro più che vento libero e sciolto.
1. Parlare.
2. Fermare.
3. Staccare dal cielo, far scendere dal cielo.
4. Titolo con cui il Bruno indica se stesso, proclamando la volontà di es-
sere libero da condizionamenti di corti, obblighi accademici, conformismi filo-
sofici, politici, letterari ecc.
5. In senso figurato, cambiare, mutare.
6. Vedo uno che ha fama di adultero. La vacca è la donna di facili costumi.
ATTO PRIMO 285
Bonifacio. — Forse ch'io son solo? uh, uh, uh...
Bartolomeo. — Che cosa avete, messer Bonifacio mio? pian-
gete la mia pena?
Bonifacio. — Et il mio martire ancora. Veggo ben che séte
percosso, vi veggio cangiato di colore, vi ho udito adesso lamen-
tare, intendo il vostro male: e come partecipe di medesma pas-
sione e forse peggior, vi compatisco. Molti sono de giorni che ti
ho visto andar pensoso et astratto, attonito, smarrito (come
credo ch'altri mi veggano), scoppiar profondi suspir dal petto,
co gli occhi molli. «Diavolo» dicevo io, «a costui non è morto
qualche propinquo 1, familiare e benefattore; non ha lite in cor-
te^; ha tutto il suo bisogno, non se gli minaccia male, ogni cosa [61]
gli va bene; io so che non fa troppo conto di soi peccati; et ecco
che piange e plora, il cervello par che gli stii in cimbalis male
sonantibus^: dumque è inamorato, dumque qualch' umore flem-
matico, o colerico, o sanguigno, o melancolico (non so qual sii
questo umor cupidinesco"^), gli è montato su la testa». Adesso ti
sento proferir queste dolce parole: conchiudo più fermamente
che di quel tossicoso^ mèle abbi il stomaco ripieno.
Bartolomeo. — Oimè ch'io son troppo crudamente preso da
suoi sguardi. Ma di voi mi maraviglio, messer Bonifacio, non di
me, che son di dui o tre anni più giovane; et ho per moglie una
vecchia sgrignuta"^ che m'avanza di più d'otto anni. Voi avete
una bellissima mogliera, giovane di venticinque anni, più bella
della quale non è facile trovar in Napoli; e séte inamorato?
Bonifacio. - Per le paroli che adesso voi avete detto, credo
che sappiate quanto sii imbrogliato e spropositato il regno
d'amore: si volete saper l'ordine, o disordine, di miei amori,
ascoltatemi vi priego.
Bartolomeo. - Dite, messer Bonifacio, che non siamo come
le bestie ch'hanno il coito servile solamente per l'atto della ge-
nerazione: però hanno determinata legge del tempo e loco; come
1. Parente.
2. Tribunale.
3. «Nei cembali che suonano male»: parodia del Salmo CL, 5: «in cymbalis
bene sonantibus».
4. Amoroso.
5. Velenoso.
6. Gobba.
286 CANDELAIO
gli asini a i quali il sole, particulare o principalemente il mag-
gio, scalda la schena, et in climi caldi e temperati generano: e
[63] non in freddi, come nel settimo clima et altre parti più vicine
al polo; noi altri in ogni tempo e loco.
Bonifacio. - Io ho vissuto da 42 anni al mondo talmente
che con mulieribus non sum coinquinato ^. Gionto che fui a que-
sta etade nella quale cominciavo ad aver qualche pelo bianco
in testa, e nella quale per l'ordinario suol infreddarsi l'amore e
cominciar a venir meno...
Bartolomeo. - In altri cessa, in altri si cangia.
Bonifacio. — ... suol cominciar a venir meno com'il caldo al
tempo de l'autunno: all'ora fui preso da l'amor di Carubina.
Questa mi parve tra tutte l'altre belle bellissima; questa mi
scaldò, questa m'accese in fiamma talmente, che mi bruggiò di
sorte, che son dovenuto esca. Or per la consuetudine et uso con-
tinuo tra me e lei, quella prima fiamma essendo estinta, il cuor
mio è rimasto facile ad esser acceso da nuovi fuochi...
Bartolomeo. — S'il fuoco fusse stato di meglior tempra, non
t'arrebbe fatto esca, ma cenere: e s'io fusse stato in luoco di vo-
stra moglie, arrei fatto cossi.
Bonifacio. — Fate ch'io finisca il mio discorso; e poi dite
quel che vi piace.
Bartolomeo. - Seguite quella bella similitudine.
Bonifacio. - Or essendo nel mio cor cessata quella fiamma
che l'ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da un'al-
tra fiamma acceso...
Bartolomeo. - In questo tempo s'inamorò il Petrarca^ e gli
asini anch'essi cominciano a rizzar la coda.
Bonifacio. - Come avete detto?
Bartolomeo. - Ho detto che in questo tempo s'inamorò il
I65I Petrarca; e gli animi, anch'essi si drizzano alla contemplazione:
per che i spirti ne l'inverno son contratti per il freddo; ne
l'estade per il caldo son dispersi; la primavera sono in una me-
diocre e quieta tempratura: onde l'animo è più atto alla con-
7. «Non mi sono imbrattato con donne» (citazione deW Apocalisse, XIV, 4).
8. In primavera, nel giorno di Pasqua, secondo quanto il poeta confessa. La
congiunzione della sublimità poetica del Petrarca con l'oscenità degli asini che
fanno rizzar la coda è fortemente parodica e riprende quanto il Bruno dice nel
Prologo.
ATTO PRIMO 287
templazione per la tranquillità della disposizion del corpo, che
lo lascia libero alle sue proprie operazioni.
Bonifacio. - Lasciamo queste fìlastroccole, venemo a pro-
posizio. All'ora essendo io ito a spasso a Pusilipo^, da gli
sguardi della signora Vittoria fui sì profondamente saettato, e
tanto arso da suoi lumi, e talmente legato da sue catene, che
oimè.
Bartolomeo. - Questo animale che chiamano amore, per il
più suole assalir colui ch'ha poco da pensare e manco da fare:
non eravate voi andato a spasso?
Bonifacio. - Or voi fatemi intendere il versaglio^" del-
l'amor vostro, poi che m'avete donata occasion di discuoprirvi
il mio; penso che voi ancora doviate prendere non poco refrige-
rio confabulando con quelli che patiscono del medesmo male: si
pur male si può dir l'amare.
Bartolomeo. - Nominativo: la signora Argenteria m'af-
fligge; la signora Orelia'^ m'accora.
Bonifacio. - Il mal an che Dio dia a te et a lei et a lei.
Bartolomeo. — Genitivo: della signora Argenteria ho cura;
della signora Orelia tengo pensiero.
Bonifacio. — Del cancaro che mange Bartolomeo, Aurelia et
Argentina.
Bartolomeo. — Dativo: alla signora Argenteria porto amore;
alla signora Orelia suspiro. Alla signora Argenteria et Orelia co-
munmente mi raccomando.
Bonifacio. — Vorrei saper che diavolo ha preso costui.
Bartolomeo. - Vocativo: o signora Argenteria, per che mi
lasci? o signora Orelia, per che mi fuggi?
Bonifacio. - Fuggir ti possano tanto, che non possi aver
mai bene. Va col diavolo: tu sei venuto per burlarti di me.
Bartolomeo. — E tu resta con quel dio che t'ha tolto il cer-
vello, se pur è vero che n'avesti giamai: io vo a negociar'^, per
le mie padrone.
9. Posillipo.
10. Bersaglio.
11. Allusione scherzosa all'argento e alloro, che costituiscono gli oggetti
dell'amore di Bartolomeo (detti poi le mie padrone).
12. Avere rapporti, in senso sessuale, ma metaforicamente, trattandosi di
metalli preziosi.
[67]
288 CANDELAIO
Bonifacio. - Guarda guarda con qual tiro e con quanta fa-
cilità questo scelerato me si ha fatto dir quello che meglio sar-
rebbe stato dirlo a cinquant'altri. Io dubito con questo amore di
aver sin ora raccolte le primizie della pazzia. Or alla mal'ora
voglio andar in casa ad ispedir Lucia. Veggo certi furfanti che
ridono: suspico ch'arrano udito questo diavol de dialogo an-
ch'essi. Amor et ira non si puot'ascondere.
SCENA IV
[Sanguino, Pollula]
Sanguino. - Ah! ah! ah! ah! oh, che li sii donato il pan co la
balestra ^ buffalo d'India, asino di Terra d'Otranto, menchione
[69] d'Avella, pecora d'Arpaia^: forse che ci ha bisognato molto per
fargli confessare ogni cosa senza corda? Ah! ah! ah! quell'altro
fanfalucco^ vedi con qual proloquio l'ha saputo tirare a farsi
dire che è inamorato, e chi è la sua dea, et il mal an che Dio li
dia, e come e quando e dove.
Pollula. — Vi prometto che costui, quando dice l'officio di
nostra Donna, non ha bisogno di pregar Dio col dire «Domine,
labia mea aperies»"^.
Sanguino. — Che vuol dire «Domino lampia mem periens»?
Pollula. - «Signore, aprime la bocca, a fin ch'io possa di-
re». Et io dico che quest'orazione non fa per quelli che son
pronti a dir i fatti suoi a chi le vuol sapere.
Sanguino. — Sì: ma non vedi che al fine s'è repentito d'aver
detto? però non gli ne potrà succeder male, per che dice la Scrit-
tura in un certo loco: «Chi pecca et emenda, salvo este»^.
Pollula. - Or ecco il mastro: dimoraremo equa tutt'oggi, in
[71 1 nome del diavolo che gli rompa il collo.
1. Imprecazione, che significa «sia trattato male, vada in malora».
2. Ingiurie popolaresche; gli asini della terra di Otranto erano famosi; gli
abitanti di Avella e Arpaia, villaggi presso Nola, erano proverbialmente derisi
per la loro semplicità.
3. Bugiardo, inventore di menzogne, di fole.
4. «Signore, aprimi le labbra», è la preghiera con cui il sacerdote dà inizio
alla recita del breviario. Sanguino, poi, deforma il latino ecclesiastico, che non
capisce.
5. Deformazione di latino pseudobiblico (la frase non si trova nella Scrit-
tura).
ATTO PRIMO 289
SCENA V
Mamfurio, Pollula, Sanguino
Mamfurio. — Bene repperiaris, bonae, melioris, optimaeque in-
dolis adolescentule: quomodo tecum agitur? ut vales?^
Pollula. - Bene.
Mamfurio. — Gaudeo sane gratulorque satis; si vales bene est,
ego quidem valeo^: marcitulliana^ eleganza in quasi tutte le sue
familiari missorie servata.
Pollula. - Comandate altro, domine Magisteri Io vo oltre
per compir un negocio con Sanguino, e non posso induggiar con
voi.
Mamfurio. — Oh buttati in damo i miei dictati, li quali nel
mio almo minervale gimnasio (excerpendoli^ dall'acumine^ del
mio Marte ^) ti ho fatti nelle candide pagine col calamo di negro
attramento intincto exarareV buttati dico in cassum^, cum sit
che a tempo e loco, eorum servata ratione'^, servirtene non sai.
Mentre il tuo preceptore, con quel celeberrimo apud omnes
(etiam barbaras) nationes^^ idioma lazio, ti sciscita^', tu etiam [73]
dum^^ persistendo nel commercio bestiis similitudinario^^ del
volgo ignaro, abdicaris a theatro literarum^'*, dandomi responso
composto di verbi quali dalla baila ^^ gf obstetrice in incunabulis^^
1. «Ben trovato, giovane di buona, migliore, ottima indole: come va?, come
stai?».
2. «Ne sono molto lieto e mi rallegro vivamente, se tu stai bene anch'io sto
bene».
3. Di Marco Tullio Cicerone, he familiari missorie sono le Epistulae familia-
res appunto di Cicerone.
4. Traendoli fuori.
5. Acutezza.
6. Forza, capacità.
7. «Scrivere» (attramento: «inchiostro»).
8. «Invano».
9. «Messo in serbo il loro senso».
10. «Presso tutti i popoli, anche barbari».
11. Interroga.
12. «Ancor ora».
13. «Pratica da bestie».
14. «Rinunci al mondo delle lettere».
15. Balia.
16. «E dall'ostetrica nella culla».
290 CANDELAIO
hai susceputi'^ vel (ut melius dicam)^^ suscepti. Dimmi, sciocco,
quando vuoi dispuerascereì ^"^
Sanguino. - Mastro, con questo diavolo di parlare per gram-
muffo^°, o catacunibaro^\ o delegante e latrinesco^^, amorbate il
cielo, e tutt'il mondo vi burla.
Mamfurio. — Sì, se questo megalocosmo^^ e machina mundia-
le, o scelesto^-* et inurbano, fusse di tuoi pari referto e confarcito ^5.
Sanguino. - Che dite voi di Cosmo celeste e de Urbano?^^
parlatemi che io v'intenda, che vi responderò.
Mamfurio. — Vade ergo in infaustam nefastamque crucem, si-
nistroque Hercule^'^: si dedignano^^ le Muse di subire il porcile
del contubernio 2^ vostro, vel haram colloquii vestrP^. — Che giu-
dicio fai tu di questo scelesto'\ o Pollula? Pollula, appositorie
[75] frudus eruditionum mearum^^, receptaculo del mio dottrinai
seme, ne te moveant modo a nohis dicta^^, perché, quia, namque,
quandoquidem {particulae causae redditivae) '-^ ho voluto farti par-
tecipe di quella frase con la quale lepidissime eloquentissime-
que^^ facciamo le obiurgazioni ''^, le quali voi post hac, deinceps^^
(si li cellcoli ^^ vi elargiranno quel ch'hanno a noi concesso), al-
l'inverso de vostri erudiendi''^ descepoli, imitar potrete.
Pollula. — Bene: ma bisogna farle con proposito et occasione.
17. Hai ricevuto.
18. «0, per meglio dire».
19. Neologismo latino coniato dal Bruno: uscire dalla fanciullezza, cessare
d'essere fanciullo (ma ce l'allusione a S. Paolo, / Corinzi, XIII, 11).
20. Grammatica, per deformazione scherzosa.
21. Oscuro, come sono le catacombe.
22. Deformazione scherzosa di «elegante e latinesco».
23. L'universo.
24. Scellerato.
25. Ricolmo e ripieno.
26. Sanguino equivoca sulle parole dotte pronunciate da Mamfurio.
27. «Va' dunque sull'infausta e nefasta croce», in malora.
28. Disdegnano.
29. Compagnia.
30. «Ovvero porcile della vostra compagnia».
31. Malvagio.
32. «Per modo di apposizione, frutto delle mie erudizioni».
33. «Non ti turbino dunque le parole che ho detto».
34. «Particelle causali».
35. «Con estrema eleganza ed eloquenza».
36. Rimproveri.
37. «In seguito».
38. Gli dèi.
39. Che devono essere ammaestrati.
ATTO PRIMO 291
Mamfurio. - La causa della mia excandescentia'^^ è stata il
vostro dire «Non posso induggiar con voi»; debuisses dicere, vel
elegantius (infinitivo antecedente subiunctivum) dicere debuisses:
«Excellentia tua, erudizione tua, non datur, non conceditur mihi
cum tuis dulcissimis musis ocium»'*K Poscia quel din «con voi»,
vel ethruscius'^^ «vosco», nec bene dicitur latine respectu unius, nec
urbane'*^ inverso di togati e gimnasiarchi-^-^.
Sanguino. — Vedete vedete come va el mondo: voi siete ac-
cordati, et io rimagno fuori come catenaccio ■♦5. Di grazia, domine
magister, siamo amici ancora noi: perché, ben che io non sii atto [77]
di essere soggetto alla vostra verga, idest esservi discepolo, potrò
forse servirvi in altro.
Mamfurio. — Nil mihi vobiscum'^^.
Sanguino. - Et con spiritu to-*^.
Mamfurio. — Ah! ah! ah! Come sei, Pollula, adiunto socio a
questo bruto?
Sanguino. — Brutto -^^ o bello, al servizio di vostra Maestà,
onorabilissimo signor mio.
Mamfurio. — Questo mi par molto disciplinabile "'^ e non
cossi inmorigerato 5° come da principio si monstrava, per che
mi dà epiteti molto urbani et appropriati.
Pollula. — Sed a principio videbatur libi homo nequam^^.
Mamfurio. — Togli via quel «nequam»: quantumque sii as-
sumpto nelle sacre pagine^^, non è però dictio ciceroniana^^ «Tu
40. Escandescenza, ira.
41. «Avresti dovuto dire, o, per esprimermi con maggior eleganza — fa-
cendo precedere l'infinito al congiuntivo — dire avresti dovuto: "Dalla tua ec-
cellenza, dalla tua erudizione, non è dato, non è concesso indugiarmi con le tre
dolcissime muse"».
42. «O in modo più toscano».
43. «Non è ben detto in latino quando è riferito a una sola persona, né in
modo gentile».
44. Maestri di scuola.
45. Sono escluso dalla conversazione.
46. «Non ho nulla a che fare con voi».
47. Sanguino equivoca sulle parole di Mamfurio, e riconoscendo in esse
qualcosa della formula liturgica Dominus vobiscum, dà, con popolaresca defor-
mazione, la rispósta consueta nella liturgia.
Altro equivoco di Sanguino.
Che può essere educato, ammaestrato.
Rozzo, grossolano.
«Eppure al principio ti sembrava uomo malvagio».
La Bibbia.
«Espressione ciceroniana».
292 CANDELAIO
vivendo bonos, scribendo sequare peritos»^'^, disse il ninivita Gio.
Dispauterio55 seguito dal mio preceptore Aloisio Antonio Side-
cino Sarmento Salano successor di Lucio Gio. Scoppa '^ ex vo-
luntate heredis^''. Dicas igitur «non aequum», prima dictionis litera
diphtongata^^, ad dijferentiam della quadrupede substantia ani-
mata sensitiva, quae dìpthongum non admittit in principio.
Sanguino. - Dottissimo signor maester, è forza che vi chie-
diamo licenza, per che ne bisogna al più tosto esser con messer
Gioan Bernardo pittore. A dio.
Mamfurio. - Itene dumque co i fausti volatili 5^. - Ma chi è
questa che con quel calatho in brachiis^" me si fa obviaì^^ È una
mulierciila, quod est per ethimologiam «mollis Hercules», apposita
iuxta se posita^^: sexo molle, mobile, fragile et inconstante, al
contrario di Ercole. O bella etimologia: è di mio proprio Marte^'
or ora deprompta^. Or dumque quindi propriam versus [do-
mum]^^ movo il gresso^^, per che voglio notarla maioribus lite-
ris^^ nel mio propriarum elucubrationum libro^^. Nulla dies sine
linea^'^.
54. «Nella vita segui i buoni, nello scrivere gli esperti».
55. Jean Despautères o Van Pauteren, grammatico belga, nato a Ninove nel
Brabante (da cui l'altro nome, con cui è noto, di Jean le Ninivite: il Ninivita)
nel 1460 e morto nel 1520 a Comines, autore dei Commentarii grammatici;
Mamfurio confonde e storpia i nomi di due grammatici napoletani, Luigi An-
tonio Sompano (detto Sidecino o Sedecino, cioè «Sedere» per un gioco equi-
voco di parole derivato da un'infelice frase contenuta in un suo scritto), e Ser-
gio Sarmento Solano, che scrissero varie opere in collaborazione.
56. Lucio Giovanni Scoppa, altro grammatico napoletano, morto nel 1549.
57. «Per la volontà degli eredi» dello Scoppa, che cedettero probabilmente
i locali del maestro defunto al celebre Sompano.
58. «Dirai infatti: "Non è giusto" con la prima sillaba della parola ditton-
gata, a differenza della quadrupede sostanza animale sensitiva, che non con-
tiene un dittongo all'inizio» (cioè il «cavallo», in latino equus).
59. Traduce la formula latina di saluto Ite bonis avibtis, ma la traduzione
nel linguaggio pedantesco ha un effetto irresistibilmente comico.
60. «Canestro al braccio».
61. «Incontro».
62. «Una donnetta, cioè, secondo l'etimologia, un molle Ercole, mettendo
insieme gli opposti».
63. Dal mio ingegno.
64. «Cavata fuori».
65. «Verso la mia casa».
66. Passo.
67. «A grandi lettere».
68. «Il libro dei miei pensieri originali».
69. «Non un giorno senza una linea»: è il celebre motto che Plinio riferisce
essere stato di Apelle.
ATTO PRIMO 293
SCENA VI
Lucia sola
Oimè son stanca, voglio riposarmi equa: tutta questa notte
(non la voglio maldire) son stata a far la guarda in piedi e pa-
scermi di fumo di rosto et odor di pignata^ grassa; et io sono
come il rognone, misera me, magra in mezzo al sevo^. Or pen-
siamo ad altro, Lucia; poi che sono in loco dove non mi vede
alcuno, voglio contemplar che cose son queste che messer Boni-
facio manda alla signora Vittoria: qua son de gravioli^, targhe
di zuccaro"", mustaccioli di San Bastiano 5; vi son più basso più
sorte di confetture; vi è al fondo una pòlicia"^: e son versi in
fede mia. Per mia fé, costui è doventato poeta. Or leggiamo:
Ferito m'hai o gentil signora il mio core
e me hai impresso all'alma gran dolore
e si non mei credi guarda al mio colore
che si non fusse ch'io ti porto tanto amore
quanto altri amanti mai che sian d'onore
hanno portato alle loro amate signore
cose farrei assai di proposito fore
però ho voluto essere della presente autore
spento 7 di tue bellezze dal gran splendore
acciò comprendi per di questa il tenore
che si non soccorri al tuo Benefacio, more.
Di dormire, mangiar, bere, non prende sapore
non pensando ad altro ch'a te tutte l'ore
smenticato^ di padre madre fratelli e sore^.
1. Minestra di cavoli condita con prosciutto e lardo (poi la pentola in cui
veniva cotta: pignatta).
2. Il rene è avvolto da un involucro di grasso.
3. Forme di pan di Spagna ripiene.
4. Pani di zucchero caramellato.
5. Pasta di farina, zucchero, mandorle, di cui avevano la specialità le mo-
nache di San Bastiano.
6. Polizza, biglietto.
7. Spinto.
8. Dimentico.
9. Sorelle.
294 CANDELAIO
O bella conclusione, belli propositi, a punto suttili come lui: io
[83] per me di rima non m'intendo; pure, s'io posso fame giudicio,
dico due cose: l'uno, ch'i versi son più grandi che gli ordinarti;
l'altra, che son fatti a suon di campana e canto asinino, li quali
sempre toccano alla medesima consonanza. Ma voglio partirmi
di qua, per trovar più comodo luoco, dove io possa prender la
decima di questo presente '°: che in fine bisogna ch'ancor io fia
partecipe de" frutti della pazzia di costui.
SCENA VII
Bonifacio solo
Grande è la virtù dell'amore. Da onde, o Muse, mi è scorsa
tanta vena et efficacia in far versi, senza che maestro alcuno
m'abbia insegnato? Dove mai è stato composto un simile so-
netto? Tutti versi dal primo a l'ultimo finiscono con desinenzia
della medesma voce: leggi il Petrarca tutto intiero, discorri tutto
l'Ariosto, non trovarai un simile. Traditora traditora, dolce mia
nemica, credo ch'a quest'ora l'abbi letto e penetrato; e si l'animo
tuo non è più alpestre che d'una tigre, son certo che non farai
oltre poco caso del tuo Bonifacio. - Oh, ecco Gioan Bernardo.
SCENA vili
Gioan Bernardo, Bonifacio
Gioan Bernardo. - Bondì e bon anno a voi, misser Bonifa-
cio: avete fatta alcuna buona fazzione^ oggi?
Bonifacio. - Che dite voi? Oggi ho fatta cosa che giamai
[85] feci in tutto tempo di mia vita.
Gioan Bernardo. - Voi dite di gran cose: è possibile che
quello che hai fatto oggi abbi possuto far iert o altro giorno, o
voi o altro che sii? o che per tutto tempo di vostra vita possiate
fare quel che una volta è fatto? Cossi quel che facesti iert non lo
farai mai più; et io mai feci quel rttratto ch'ho fatto oggi, né
IO. La parte adeguata che mi spetta per il servizio fatto (consegnando i
versi sgrammaticati di Bonifacio alla signora Vittoria). L'espressione rinvia
alle decime ecclesiastiche, cioè alle tasse della terra imposte dalla Chiesa per la
propria necessità
I. Lavoro, azione.
ATTO PRIMO 295
manco è possibile ch'io possa farlo più: questo sì 2, che potrò
fame un altro.
Bonifacio. - Or lasciamo queste vostre sofisticarle; mi avete
fatto sovvenire del ritratto: hai visto quel che mi ho fatto fare?
GiOAN Bernardo. - L'ho visto e revisto.
Bonifacio. - Che ne giudicate?
GiOAN Bernardo. - È buono: assomiglia assai più a voi che
a me.
Bonifacio. — Sii come si vuole, ne voglio un altro di vostra
mano.
Gioan Bernardo. - Che, lo volete donare a qualche vostra
signora per memoria di voi?
Bonifacio. - Basta: son altre cose che mi vanno per la
mente.
Gioan Bernardo. — È buon segno quando le cose vanno
per la mente; guardati^ che la mente non vadi essa per le cose:
per che potrebbe rimaner attaccata con qualch' una di quelle,
et il cervello la sera in damo l'aspettarebbe a cena; e poi biso-
gnasse "• far come la matre di fameglia ch'andava cercando lo
intellecto co la lanterna. — Quanto al ritratto, io lo farò quanto
prima.
Bonifacio. — Sì: ma per vita vostra fatemi bello.
Gioan Bernardo. - Non comandate tanto, si volete esser [87]
servito: si desiderate che io vi faccia bello, è una; si volete ch'io
vi ritragga, è un'altra.
Bonifacio. - Di grazia lasciamo le burle: attendete a far
cosa buona, che io per questo verrò a ritrovarvi in casa.
Gioan Bernardo - Venite pur quando vi piace; e non du-
bitate di cosa buona dal canto mio: attendete pur voi a far bene
dal canto vostro; perché...
Bonifacio. — Che vuol dir «per che»?
Gioan Bernardo. — ... lasciate l'arte antica.
Bonifacio. — Come? non v'intenderebbe il diavolo.
2. È possibile.
3. In modo pittorescamente parodico Gioan Bernardo vuole prendersi beffa
della probabile perdita della ragione in Bonifacio innamorato.
4. Bisognerebbe.
296 CANDELAIO
GiOAN Bernardo. — Da candelaio volete doventar orefice '.
Bonifacio. - Come orifice? come candelaio?
GiOAN Bernardo. - Basta, me vi racomando.
Bonifacio. - Dio vi dia quel che desiderate.
GiOAN Bernardo. - Et a voi quel che vi manca.
SCENA IX
Bonifacio solo
«Da candelaio volete doventar orefice»: è pur gran cosa il
fatto mio. Tutti, chi da equa chi da Uà, mi motteggiano: ecco
costui non so che diavolo voglia intendere per l'orefice. Lo es-
sere orefice non è male: non ha egli altro di brutto che quel
[89] guazzarsi 1 le mani dentro l'urina dove tal volta pone in infu-
sione la materia dell'arte sua, oro, argento et altre cose preciose:
pur queste parabole ^ qualche dì l'intenderemo. - Ecco mi par
veder Ascanio con Scaramuré.
SCENA X
Scaramuré, Bonifacio, Ascanio
Scaramuré. - Ben trovato, messer Bonifacio.
Bonifacio. - Siate il molto ben venuto, signor Scaramuré,
speranza della mia vita appassionata.
Scaramuré. — Signum affedi animìK
Bonifacio. - Si vostra Signoria non rimedia al mio male, io
son morto.
Scaramuré. - Sì come io vedo, voi séte inamorato.
Bonifacio. — Cossi è: non bisogna ch'io vi dica più.
Scaramuré. - Come mi fa conoscere la vostra fisionomia, il
computo di vostro nome, di vostri parenti o progenitori, la si-
gnora della vostra natività fu Vemis retrograda in signo mascii-
lino; et hoc fortasse in Geminibus vigesimo septimo gradu^: che si-
5. L'espressione significa che Bonifacio ha abbandonato l'omosessualità per
l'amore della donna.
1. Mettere a bagno, per nettare da impurità oro, argento e gemme preziose.
2. Allusioni.
1. «Indizi del turbamento dell'animo».
2. «Venere retrograda nel segno maschile; e questo forse nei Gemelli nel
ATTO PRIMO 297
gnifica certa mutazione e conversione nell'età di 46 anni nella
quale al presente vi ritrovate. [91]
Bonifacio. — A punto, io non mi ricordo quando nacqui:
ma per quello che da altri ho udito dire, mi trovo da 45 anni in
circa.
ScARAMURÉ. - Gli mesi, giorni et ore computare ben io più
distintamente, quando col compasso arò presa la proporzione
dalla latitudine dell'unghia maggiore alla linea vitale, e di-
stanza dalla summità dell'annulare a quel termine del centro
della mano, ove è designato il spacio di Marte; ma basta per ora
aver fatto giudicio cossi universale et in comuni^. Ditemi:
quando fustivo"^ punto dall'amor di colei per averla guardato, a
che sito ti stava ella? a destra o a sinistra?
Bonifacio. - A sinistra.
ScARAMURÉ. — Arduo opere nanciscenda^. Verso mezzogiorno
o settentrione, oriente o occidente, o altri luochi intra questi?
Bonifacio. — Verso mezogiomo.
SCARAMURÉ. - Oportet advocare spetentrionales'^. — Basta ba-
sta: equi non bisogna altro; voglio effectuare il tuo negocio con
magia naturale, lasciando a maggior opportunità le supersti-
zioni d'arte più profonda.
Bonifacio. — Fate di sorte ch'io accape il negocio^, e sii
come si voglia.
ScARAMURÉ. — Non vi date impaccio: lasciate la cura ad me.
La cosa già fu per fascinazione?^
Bonifacio. — Come per fascinazione? io non intendo.
SCARAMURÉ. — Id est, per averla guardata guardando lei anco
voi. [93]
Bonifacio. — Sì, signor sì, per fascinazione.
ScARAMURÉ. - Fascinazione si fa per la virtù di un spirito
lucido e sottile, dal calor del core generato di sangue più puro,
il quale a guisa di raggi mandato fuor de gli occhi aperti, che
grado ventisettesimo». Scaramuré parla un linguaggio astrologico pieno di er-
rori e svarioni (Geniinibus per Geminis) e privo di senso.
3. «In generale».
4. Voi foste.
5. «Difficile da trovare».
6. «Bisogna invocare gli spiriti settentrionali».
7. Raggiunga lo scopo.
8. L'ammaliare con la forza degli occhi, per maleficio.
298 CANDELAIO
con forte imaginazion gardando vengono a ferir la cosa guar-
data, toccano il core e sen vanno ad afficere^^ l'altrui corpo e
spirto: o di affetto di amore, o di odio, o di invidia, o di manin-
conia, o altro simile geno ^" di passibili qualità. L'esser fascinato
d'amore adviene quando con frequentissimo o ver (benché
istantaneo) intenso sguardo, un occhio con l'altro, e reciproca-
mente un raggio visual con l'altro, si rincontra, e lume con
lume si accopula". All'ora si gionge spirto a spirto; et il lume
superiore inculcando l'inferiore, vengono a scintillar per gli oc-
chi, correndo e penetrando al spirto intemo che sta radicato al
cuore: e cossi commuoveno amatorio incendio. Però chi non
vuol esser fascinato deve star massimamente cauto e far buona
guardia ne gli occhii, li quali in atto d'amore principalmente
son fenestre dell'anima; onde quel detto: «Averte, averte ocidos
tuos»^^. — Questo per il presente basti; noi ci revedremo a più
bell'aggio, provedendo alle cose necessarie.
Bonifacio. - Signor, si questa cosa farete venire al butto 1^,
vi accorgerete di non aver fatto servizio a persona ingrata.
ScARAMURÉ. - Misser Bonifacio, vi fo intender questo: che
voglio io prima esser grato a voi; e poi son certo, si non mi
[95] sarete grato, mi doverete essere.
Bonifacio. - Comandatemi; che vi sono affezzionatissimo,
et ho gran speranza nella prudenza vostra.
ASCANIO. - Orsù, a rivederci tutti. A dio.
Bonifacio. - Andiamo, ch'io veggio venir l'uomo più mole-
sto a me, ch'abbia possuto produre la natura: non voglio aver
occasion di parlargli; verrò a voi, signor Scaramuré.
SCARAMURÉ. - Venite, che vi aspetto. A dio.
9. «Perturbare».
10. Genere.
11. Unisce.
12. «Distogli, distogli i tuoi occhi». È citazione del Cantico dei Cantici, VI, 5.
13. Scopo.
ATTO PRIMO 299
SCENA XI
Cencio, Gioan Bernardo
Cencio. - Cossi bisogna guidar quest'opra, per la doctrina di
Ermete' e di Geber^. La materia di tutti metalli è Mercurio: a
Saturno appartiene il piombo, a Giove il stagno, a Marte il
ferro, al sole l'oro, a Venere il bronzo, alla luna l'argento. Lo
argento vivo si attribuisce ad Mercurio particularmente, e si
trova nella sustanza di tutti gli altri metalli: però si dice nuncio
di dèi, maschio co maschii, e femina co temine. Di questi me-
talli Mercurio Trimegisto chiamò il cielo padre, e la terra ma-
dre; e disse che questa madre ora è impregnata ne' monti, or
nelle valli, or nelle campagne, or nel mare, or ne gli abissi et [97]
antri: il quale enigma ti ho detto che cosa significa. Nel grembo
de la terra la materia di tutti metalli afferma esser questa in-
sieme col solfro' il dottissimo Avicenna-*, nell'epistola scritta ad
Hazez^: alla quale opinione postpongo quella di Ermete, che
vuole la materia di metalli essemo gli elementi tutti; et insieme
con Alberto Magno'' chiamo ridicula la sentenza attribuita a
Democrito da gli alchimisti, che la calcina e lisciva (per la
quale intendono l'acqua forte^) siino materia di metalli tutti.
Né tampoco posso approvar la sentenza di Gilgile^, nel suo li-
bro De' secreti dove vuole « metallorum materiam esse cinerem in-
fusum»'^, per che vedeva che «cinis liquatur in vitrum et congela-
tur frigido» ^^■. al quale errore suttilmente va obviando il pren-
cipe Alberto...
GiOAN Bernardo. - Queste diavolo de raggioni no mi toc-
1. Ermete detto Trismegisto, mitico personaggio, a cui si attribuirono nel
Medio Evo opere di magia e di occultismo.
2. Geber o Giaber o Gebber, il cui nome fu Abu Mussah Djafar al-Sofi, fu
un alchimista arabo del VII secolo, autore di un gran numero di opere ma-
giche.
3. Zolfo.
4. Il celebre medico e filosofo arabo, vissuto fra il 980 e il 1037.
5. Hazen o Hazem, cioè Abu Ali al-Hassanben, matematico arabo, morto
nel 1038.
6. Il grande filosofo e scienziato domenicano, maestro di Tommaso
d'Aquino, nato alla fine del XII secolo, morto a Colonia nel 1280.
7. Acido nitrico.
8. Un alchimista citato da Alberto Magno nel Liber animalìum.
9. «La sostanza dei metalli è la cenere infusa dentro di essi».
10. «La cenere si scioglie in vetro e viene congelata dal freddo».
300 CANDELAIO
cano punto l'intellecto. Io vorrei veder Toro fatto e voi meglior
vestito'^ che non andiate: penso ben che si tu sapessi far oro
non venderesti la ricetta da far oro, ma con essa lo faresti; e
mentre fai oro per un altro per fargli vedere la esperienza, lo
[99] faresti per te a fin di non aver bisogno di vendere il secreto.
Cencio. - Voi mi avete interrotto il discorso. Pensate voi
solo di aver giudicio, e di aver apportato un grandissimo argo-
mento: per le cautele che have usate meco messer Bartolomeo,
dimostra esser assai più cauto che voi non vi stimate d'essere. E
sa lui che io son stato rubbato e sassinato al bosco di Cancello
venendo da Airola... ^^
GiOAN Bernardo. - Credo ch'il sappia più per vostro che
per mio dire.
Cencio. — ... e però io, non avendo il modo di comprar gli
semplici 1^ e minerali che si richiedono a tal opra, ho fatto come
sapete.
Gioan Bernardo. — Dovevi ponerti in pegno e securtà'^, e
dire: «Mess(ere), avanzare oro per me e per te»; che certo tanto
lui quanto altro ti arebbe niente manco soccorso: e quell'oro che
cerchi dalle borse, l'aresti con tua meglior riputazione et onore
sfornato dalla tua fornace.
Cencio. — Mi ha piaciuto far cossi: quando io sarò morto,
che mi fa che tutto il mondo sappia far oro? che mi fa che tutto
il mondo sii pieno d'oro?
Gioan Bernardo. - Io mi dubito che l'argento et il stagno
valerà più caro oggimai, che l'oro.
Cencio. - Dovete saper per la prima che messer Bartolomeo,
lui ebbe tutta la ricetta in mano, dove si contiene et il modo di
operare e le cose che vi concorreno. Lui mandava al speciale '',
per le cose che bisognano, il suo putto ^<^; lui è stato presente al
tutto che si faceva; lui faceva tutto: e da me non volea altro che
[101] la dechiarazione, con dirgli «Fa in questo modo, fa in quello,
non far cossi, fa colà, or applica questo, or togli quello»; di sorte
11. Vestito meglio.
12. Località fra Nola e Napoli.
13. Neirantica medicina, le erbe medicinali.
14. Dovevi prenderti garanzie.
15. Speziale, farmacista.
16. Ragazzo, servo.
ATTO PRIMO 301
ch'ai fine con allegrezza grande ha ritrovato l'oro purissimo e
probatissimo al fondo della vitrea cucurbita ^^, risaldata luto sa-
pientiae... ^^
GiOAN Bernardo. - Luto''' della polvere delle potte sudate
al viaggio di Piedigrotta^^.
Cencio. — ... e cossi, assicuratissimo, mi ha pagato seicento
scudi per il secreto che gli ho donato, secondo le nostre conven-
zioni.
GiOAN Bernardo. — Or poi che avete fatta una cosa, fatene
un'altra: e sarà compito tutto il negocio a non mancarvi nulla.
Cencio. — Che volete che noi facciamo?
Gioan Bernardo. — Lui essendo nella miseria che eravate
voi, con aver seicento scudi meno, e voi essendo nella comodità
nella quale era lui, con aver oltre seicento scudi: però come
avete cambiata fortuna, cambiatevi ancora gli mantelli e le ba-
rette^i. Ch'alfine non conviene ch'egli vada in quello abito, e tu
in questo.
Cencio. - Oh, voi sempre burlate.
Gioan Bernardo. - Sì sì, burlo: la prima volta che vi vedrò
insieme dirò «Ecco qui la tua cappa. Cencio; ecco qui la tua
cappa, Bartolomeo». Ma dimmi da galant'omo (parliamo da do-
vero): non l'hai tu attacata^^ a costui come l'attaccò il Gigio al
Perrotino?^^ [103]
Cencio. - E che fec'egli?
Gioan Bernardo. - Non sai quel che fece? io tei saprò dire:
- Costui cavò un pezzo di legno: vi inserrò l'oro dentro, poi lo
bruggiò fuori facendolo a guisa de gli altri carboni; et al suo
tempo con una bella destrezza sei tolse dalla saccoccia, e po-
nendo mani ad dui altri carboni ch'erano presso la fornace, fece
venir a proposito di ponere quel carbone pregnante^-*: dove pre-
17. Un tipo di alambicco.
18. «Con l'argilla della sapienza».
19. Fango.
20. La celebre località presso Napoli (oggi in città) dove si trovava un san-
tuario alla Vergine meta di pellegrinaggi l'S settembre.
21. Berrette.
22. L'hai ingannato.
23. Il Perrotino è soprannome di Pietro Pomponazzi; il sommo filologo ari-
stotelico della prima metà del Cinquecento (Mantova, 1462-Bologna, 1525), og-
getto di beffe perché piccolo di statura.
24. Pieno d'oro.
302 CANDELAIO
sto, per la forza del fuoco incinerito, stillò l'oro impolverato per
gli buchi a basso.
Cencio. — Oh vagliarne Dio: mai arei possuto imaginarmi
una sì fatta gaglioffaria. Ingannar io? fars'ingannar messer Bar-
tolomeo? Or credo che di questo tratto lui ne sii stato infor-
mato. Egli non solo non ha voluto ch'io tocasse cosa alcuna; ma
anco mi ha fatto seder sei passi lungi dalla fornace, la prima
volta che si oprò in mia presenza per la dechiarazion della
prattica della ricetta; e nella seconda volta ha voluto esser solo,
con farmene essere al tutto absente, avendo solo la mia ricetta
per guida. Di sorte che dopo che la esperienza è fatta due volte
in poca materia e pochissima spesa, or vi si è risoluto a tutta
passata^', g come vi ho detto, fa gran seminata per racogliere
gran frutto.
GiOAN Bernardo. - Come, have egli aumentate le dose?
Cencio. — Tanto che in questa prima posata tirarà cinque-
cento scudi come cinquanta soldi.
GiOAN Bernardo. - Credo più presto come cinquanta soldi,
che come cinquant'altri scudi: ora sì che hai profetato meglio
ch'un Caifasso^^ Or aspettiamo il parto, che allora vedremo si
[105] l'è maschio o femina. A dio.
Cencio. — A dio, adio: assai è che crediate gli articoli di fede.
[scena xii]
Cencio solo
In vero si Bartolomeo avesse il cervello di costui, e che tutti
fussero cossi male avisati, in damo arei stesa la rete in questa
terra. Or facciamo di bon modo, poi che l'ucello è dentro: che
non siamo come quello che sei fé' venire a la rete, e poi sei fé'
fuggir dalla mano. Mai mi stimare possessor di questi scudi, né
le chiamarò miei, sin tanto che non sarò fuor del Regno'. Ho
dato ordine alla posta, et or ora vo a montarvi su; non mi fia
mistiero d'andar a prendere altre bagaglie: quando l'oste aprirà
25. Del tutto, completamente.
26. Allusione a quanto dice di Caifa Giovanni, XI, 51-52.
I. Di Napoli.
ATTO PRIMO 303
la balice^ che ha nelle mani, la trovarà piena di sassi, e che
vale più quel che è di fuori che quel che è di dentro; credo che
non dimorarà troppo a veder il conto suo anche lui. Non biso-
gna ch'io mi fermi equi sino al tempo che potrà essere che Bar-
tolomeo manda per trovare il pulvis Christi^. Mi par veder la
moglie: non voglio che mi veda cossi imbottato''.
[SCENA XIII]
Marta sola
Credo che Sautanasso, Barsabucco^ e tutti quelli che squa-
gliano^, sei prenderanno per compagno; per che saprà egli attiz-
zar il fuoco dell'inferno per suffriggere e rostire l'anime dan- [107]
nate. La faccia di mio marito assomiglia ad uno il quale è stato
trent'anni a far carboni alla montagna di Scarvaita, che sta da
là del monte de Cicala^. Non sta cossi volentieri pesce in acqua,
come lui presso que' carboni vivi a fumegarse tutto il giorno
(non voglio maldirlo): poi mi viene avanti con quelli occhi rossi
et arsi di sorte che rassomiglia a Luciferre"*. In fine non è fatica
tanto grave che l'amore non faccia non solamente lieve, ma pia-
cevole. Ecco costui per essergli ficcato nel cervello la speranza
di far la pietra filosofale, è dovenuto a tale che il suo fastidio è
il mangiare, la sua inquietitudine è il trovarsi a letto, la notte
sempre gli par lunga come a putti che hanno qualche abito
nuovo da vestirsi. Ogni cosa gli dà noia, ogni altro tempo gli è
amaro: e solo il suo paradiso è la fornace. Le sue gemme e pietre
preciose son gli carboni, gli angeli son le bozzole^ che sono at-
taccate in ordinanza ne' fornelli con que' nasi di vetro da equa;
e da Uà tanti lambicchi di ferro, e de più grandi e de più piccoli
e di mezzani. E che salta, e che balla, e che canta quel sciagu-
2. Valigia.
3. La polvere che avrebbe dovuto mutare i metalli vili in oro.
4. Con gli stivali per il viaggio.
1. Deformazioni popolaresche di Satanasso, Beelzebub.
2. Quelli che spariscono prodigiosamente sono i diavoli.
3. Località presso Nola.
4. Altra deformazione popolaresca per Lucifero.
5. Storte.
304 CANDELAIO
rato che mi fa sovvenire dell'asino^. Poco fa, per veder che cosa
facess'egli, ho posto l'occhio ad una rima' de la porta, e l'ho
veduto assiso sopra la sedia a modo di catedrante, con una
gamba distesa da equa et un'altra distesa da Uà, guardando gli
travi della intempiatura^ della camera; a' quali, dopo aver cen-
nato tre volte co la testa, disse: «Voi, voi impiastrare di stelle
fatte di oro massiccio». Poi non so che si borbottasse guardando
le casce ^ e voltando il viso a' scrigni. «Mia fé» dissi io, «penso
[109] che questi presto saranno pieni di doppioni »'o. - Oh, ecco San-
guino.
[SCENA xrv]
Sanguino, Marta
Sanguino. — (cantando). Chi vooo spazzacamin? Chi vói con-
ciare stagni, candelier, conche, caldare?'
Marta. - Che buon'ora è, Sanguino? è egli cosa nuova che tu
sei pazzo? che canti per mezzo le strade? quale delle due è l'arte
tua?
Sanguino. - Non so: o l'una o l'altra. E voi non sapete?
Marta. - Se non me dite, non so altro.
Sanguino. - Son servitor, discepolo e compagno di vostro
marito, il quale o è un spazza-camino, o ver ripezza-stagni, tac-
coneggia-padelle^ o risalda-frissore'. Si non mei credi, guardagli
il viso e miragli le mani. Che diavolo fa egli? Tenetelo forse
appeso al fumo come le salciche"*, e come mesesca di botracone^
in Puglia?
Marta. - Ahi me lassa: per lui sarò mostrata a dito; ogni
poltrone me darrà la baia. Intendi, Sanguino? questo va a dirlo
a lui, e non a me.
6. Allusione al proverbio «Asinus ad lyram, ad tibiam», contenuto negli
Adagi di Erasmo.
7. Fessura.
8. Volta, soffitto.
9. Casse.
10. Monete d'oro spagnole.
1. Caldaie.
2. Racconcia, aggiusta, mette pezze.
3. Padelle.
4. Salsicce.
5. Carne affumicata di grossa pecora o castrato.
ATTO PRIMO 305
Sanguino. — Se dice che nostro Signore sanò tutte altre sorte
de infirmità, ma che giamai volse accostarsi ad pazzi. [m]
Marta. - E però va via, ch'io non voglio accostarmi a te,
pazzacone.
Sanguino. — Va pure accostati a lui, madonna cara: e guar-
dati di porgerli la lingua, che la minestra ti saprà di fumo^.
Fine dell'atto primo [113]
6. Allusione oscena.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Messer Ottaviano, Mamfurio, Pollula
Ottaviano. — Maestro, che nome è il vostro?
Mamfurio. - Mamphurius.
Ottaviano. - Quale è vostra professione?
Mamfurio. - Magister artium, moderator di pueruli, di te-
neri unguicoli, lenium malarum, puberum, adolescentulorum: eo-
rum qui adhuc in virga in omnem valent erigi, flecti, atque duci
partem; primae vocis, apti al soprano, irrosorum denticulorum, suc-
ciplenularum carnium, recentis naturae, nullius rugae, lactei hali-
tus, roseorum lahellulorum, lingulae hlandulae, mellitae simplicita-
tis, in flore, non in semine degentium, claros hahentium ocellos,
puellis adiaphoronK
Ottaviano. - Oh maestro gentile, attillato, eloquentissimo,
I115J galantissimo architriclino' e pincema^ delle Muse...
Mamfurio. — O bella apposizione.
Ottaviano. — ... patriarca del coro apolinesco..."'
Mamfurio. — Melius diceretur^ «apollineo».
Ottaviano. - ... tromba di Febo, lascia ch'io te dia un bacio
1. «Insegnante delle arti liberali, educatore di fanciulli, di teneri possessori
di piccole unghie, di guance lisce, di puberi, di ragazzini; di coloro che, essendo
ancora in stelo, possono essere fatti crescere, piegati e guidati dove si vuole,
che hanno la prima voce infantile, adatti al soprano, con i dentini non ancora
limati, con le carni ritondette, di giovane natura, privi di rughe, con l'alito che
sa di latte, con le labbruzze rosse, con le carezzevoli linguette, ingenui in modo
dolce come il miele, che sono in fiore, non in seme, che hanno gli occhietti
chiari, non differenti dalle fanciulle».
2. Maggiordomo.
3. Coppiere.
4. Il coro delle Muse.
5. «Si potrebbe dir meglio».
ATTO SECONDO 3O7
nella guancia sinestra: che non mi reputo degno di baciar
quella dolcissima bocca...
Mamfurio. - «Ch'ambrosia e nectar non invidio a Giove »^.
Ottaviano. — ... quella bocca dico, che spira sì varie e bellis-
sime sentenze et inaudite frase.
Mamfurio. - Addam et plura: in ipso aetatis limine, ipsis in
vitae primordiis, in ipsis negociorum huius mundialis seu cosmicae
architecturae rudimentis, ex ipso vestibulo, in ipso aetatis vere, ut
qui adnuptunanf , ne in apiis quidem...^
Ottaviano. — O maestro, fonte caballino, di grazia non mi
fate morir di dolcezza, prima ch'io dichi la mia colpa; non par-
late più, vi priego, per che mi fate spasimare.
Mamfurio. — Silebo igitur, quia opprimitur a gloria maiesta-
tis'^, come accadde a quella meschina i° di cui Ovidio nella Me-
tamorphosi fa menzione: a cui le Parche avare troncomo il filo, [117]
vedendo, lei, nella propria maiestade il folgorante Giove.
Ottaviano. — Di grazia, vi supplico per quel dio Mercurio
che vi ha indiluviato di eloquenzia...
Mamfurio. - Cogor morem gerere^^.
Ottaviano. — ... abbiate pietà di me, e non mi lanciate più
cotesti dardi, che mi fanno andar fuor di me.
Mamfurio. — In echstasim profunda trahit ipsum admiratio.
Tacebo igitìir, de iis hactenus, nil addam, muti pisces, tantum effa-
tus, vox faucibus haesit^^.
Ottaviano. — Misser Mamfurio, amenissimo fiume di elo-
quenza, serenissimo mare di dottrina, ...
6. Citazione di F. Petrarca, Rime, CXCIII, 2.
7. «Aggiungerò molte altre cose ancora: proprio sulla soglia della vita, pro-
prio all'inizio dell'esistenza, proprio nei primi rudimenti delle esperienze di
questo congegno dell'universo, nell'atrio, nella primavera della vita, come co-
loro che aspirano alle nozze».
8. Espressione oscura.
9. «Tacerò dunque, perché si resta oppressi dalla gloria della maestà».
10. Semele, che per aver voluto vedere Giove nella sua potenza, ne rimase
incenerita.
11. «Sono costretto a fare a modo vostro».
12. «L'ammirazione profonda lo conduce all'estasi. Tacerò dunque di que-
ste cose a questo punto, non aggiungerò nulla, sarò come i muti pesci, tanto
avendo parlato, la voce si spense nella gola». L'ultima espressione (vox faucibus
haesit) è citazione di Virgilio, Aen., Ili, 48.
308 CANDELAIO
Mam FURIO. — Tranquillitas maris, serenitas aeris^^.
Ottaviano. — ... avete qualche bella vostra di composizione?
per che ho gran desiderio aver copia di vostre doctissime carte.
Mamfurio. — Credo, signor, che in toto vitae curricido^'^ e di-
scorso di diverse e varie pagine non ve siino occorsi carmini ^^
di calisimetria ''^, idest^^ cossi bene adaptati, come questi che al
presente io son per dimostrarvi equi exarati^^.
[119] Ottaviano. — Che è la materia di vostri versi?
Mamfurio. Litterae, syllabae, dictio et oratio, partes propinquae
et remotae^'^.
Ottaviano. - Io dico, quale è il suggetto et il proposito.
Mamfurio. - Volete dire de quo agitur? materia de qua} circa
quam?^° È la gola, ingluvie^' e gastrimargia^^ di quel lurcone^^
Sanguino (viva effigie di Filoxeno ^'♦j qui collum gruis exoptabat^'^)
con altri suoi pari, socii^^, aderenti, simili e collaterali.
Ottaviano. — Piacciavi di farmeli udire.
Mamfurio. — Lubentissime. Eruditis non sunt operienda ar-
cana: ecco, io explico papirum propriis elaboratum et lineatum di-
gitisi'. Ma voglio che pemotiate'^ che il sulmonense Ovidio
{«Sulmo mihi patria est»^'^), nel suo libro Metamorphoseon octavo,
13. «La tranquillità è del mare, la serenità è dell'aria»: Mamfurio pedante-
scamente corregge le espressioni di Ottaviano.
14. «In tutto il corso della vita».
15. Composizioni poetiche.
16. Bella simmetria.
17. «Cioè».
18. «Cavati fuori».
19. «Lettere, sillabe, espressione, colorito retorico, parti vicine e remote».
Mamfurio prende con pedantesca stoltezza alla lettera le domande di Otta-
viano e gli espone le parti materiali e grammaticali di cui constano i versi,
invece dell'argomento.
20. «Di che si tratta? di quale argomento? intomo a che cosa?».
21. Ingordigia.
22. Immensità del ventre.
23. Ghiottone.
24. Poeta greco del IV secolo a. C, autore di ditirambi in cui celebrava i
piaceri della mensa.
25. «Che bramava avere il collo della gru» (per poter assaporare più a
lungo il cibo).
26. Amici.
27. «Molto volentieri. Non bisogna nascondere i segreti ai dotti: ecco, io
apro il foglio scritto secondo le regole dell'arte proprio con le mie mani».
28. Notiate con cura (seguo qui la lezione della prima edizione, rifiutando
come non necessaria la correzione prenotiate proposta dallo Spampanato).
29. «Sulmona è la mia patria» (Ovidio, Trist, IV, io, 3).
ATTO SECONDO 3O9
con molti epiteti l'apro calidonio^° descrisse: alla cui imitazione
io questo domestico porco vo delineando.
Ottaviano. — Di grazia leggetele presto. [121I
Mamfurio. — Fiat. Qui cito dat, bis dat. Exordium ab admiran-
tis affectu^^.
O porco sporco, vii, vita disutile:
ch'altro non hai che quel gruito^^ fatuo
col quale il cibo tu ti pensi acquirere^^;
gola quadruplicata da Vaxungia^'^
dall'anteposto absorpta^^ brodulario^^
che ti prepara il sozzo coquinario^^
per canal emissario ^^:
per pinguefarti^^ più, vase d'ingluvie,
in cotesto porcil t'intromettesti
u' ad altro obiecto non guardi ch'ai pascolo;
e privo d'exercizio,
per inopia e penuria
di meglior letto e di meglior cubiculo '*°,
altro non fai ch'ai sterco e fango involverti.
Post haec^h
Ad nullo sozzo volutabro^^ inabile,
di gola e luxo infìrmità incurabile,
ventre che sembra di Pleiade il puteo"*',
30. Il cinghiale calidonio, il mostruoso animale mitico che Artemide inviò
a devastare il territorio di Calidone e che fu ucciso da Meleagro con l'aiuto di
numerosi eroi e semidei.
31. «Sia fatto. Chi dà presto, dà due volte. L'inizio dipende dalla disposi-
zione di chi ascolta».
32. Grugnito.
33. Procacciarti.
34. Grasso.
35. Inghiottita.
36. Truogolo.
37. Cuoco.
38. Esofago.
39. Ingrassarti.
40. Stanza.
41. «Dopo questi versi».
42. Voltolamento.
43. Il pozzo delle Pleiadi, figlie di Atlante, che, secondo il mito, morirono
struggendosi in lacrime per il dolore della morte delle sorelle ladi.
310 CANDELAIO
abitator di fango, incola luteo'''';
fauce indefessa, assai vorante gutture-'^;
[123] ingordissima arpia, di Tizio vulture-'^
terra mai sazia, fuoco e vulva cupida"*^;
orificio pretenso ■'^ nare putida-^'';
nemico al cielo, speculator terreo ^o,
mano e pie infermo, bocca e dente ferreo;
l'anima ti fu data sol per sale
a fin che non putissi^i; dico male?
Che vi par di questi versi? Che, ne comprendete col di vostro
ingegno il metro?
Ottaviano. - Certo, per esser cosa d'uno della profession vo-
stra, non sono senza bella considerazione.
Mamfurio. - Sine conditione et absolute^^ denno esser giudi-
cati di profonda perscrutazion^^ degni questi frutti raccolti
dalle meglior piante che mai producesse l'eliconio monte ^'♦, ir-
rigate ancor dal parnasio fonte'', temprate dal biondo Apolline
e dalle sacrate Muse coltivato. E che ti par di questo bel di-
scorso? Non vi admirate addesso come pria già?
Ottaviano. — Bellissimo e sottil concepto. Ma ditemi, vi
priego, avete speso molto tempo in ordinar questi versi?
Mamfurio. - Non.
Ottaviano. - Sietevi affatigato in farli?
Mamfurio. - Minime^''.
[125] Ottaviano. - Avetevi speso gran cura e pensiero?
44. Abitatore del fango.
45. Gola.
46. Secondo il mito, il gigante Tizio, per aver cercato di violentare Latona,
fu ucciso da Artemide e Apollo, e, nel Tartaro, sta inchiodato al suolo mentre
un avvoltoio gli rode il cuore che continuamente ricresce.
47. Allusione al passo dei Proverbi, in cui si parla delle quattro cose che
non dicono mai «basta».
48. Orificio, bocca protesa.
49. Puzzolente.
50. Che guarda sempre a terra.
51. Motto del filosofo stoico Crisippo (citato da Cicerone), secondo il quale
l'animo, nello sciocco, è soltanto il sale per conservare il corpo.
52. «Senza condizione e assolutamente».
53. Investigazione accurata.
54. L'Elicona, la sede delle Muse.
55. La fonte d'Ippocrene.
56. «Per nulla».
ATTO SECONDO 3II
Mamfurio. - Nequaquam^'' .
Ottaviano. - Avetele fatti e rifatti?
Mamfurio. - Haud quaquam^^.
Ottaviano. - Avetele corretti?
Mamfurio. — Minime gentium: non opus eraP'^.
Ottaviano. - Avetene destramente presi, per non dir marie-
lati <^°, a qualche autore?
Mamfurio. - Neutiquam, absit verbo invidia, dii avertant, ne
faxint ista superi'^K Voi troppo volete veder di mia erudizione:
credetemi che non ho poco io del fonte caballino absorpto; né
poco liquor mi have infuso la de cerebro nata lovis^^: dico la
casta Minerva, alla quale è attribuita la sapienza. Credete ch'io
non sarei minus foeliciter^^ risoluto, quando fusse*^"* stato provo-
cato ad explicandas notas ajfirmantis vel asserentis^^ . Non hanno
destituita la mia memoria: sic, ita, etiam, sane, profedo, palam,
verum, certe, proculdubio, maxime, cui dubium?, utique, quidni?,
mehercle, aedepol, mediusfidius et caetera^^.
Ottaviano. - Di grazia, in luoco di queWet caetera, ditemi
un'altra negazione. [127]
Mamfurio. — Questo cacocephaton^'^ , idest prava elocuzione,
non farò io: per che factae enumerationis clausulae non est adpo-
nenda unitas'^^.
Ottaviano. - Di tutte queste particule affirmative, quale vi
piace più de l'altre?
Mamfurio. — QneW «utique» assai mi cale, eleganza in lingua
aethrusca vel tuscia, meaeque inhaeret menti^^: eleganza di più
profondo idioma.
57. «Niente affatto».
58. Per nulla.
59. «Niente affatto, non era necessario».
60. Rubati.
61. «Certo che no, sia detto senza offendere alcuno, che gli dèi liberino da
una tal cosa, che i Superi non lo permettano».
62. «Nata dal cervello di Giove».
63. «Meno felicemente».
64. Fossi.
65. «A fare il catalogo delle particelle affermative».
66. Mamfurio fa un ricco elenco degli avverbi affermativi in latino.
67. Deformazione di cacophaton o cacepheton, termine grammaticale, che
Mamfurio stesso spiega con prava elocuzione.
68. «Una volta conclusa l'enumerazione non bisogna farvi neppure un'ag-
giunta».
69. «Nella lingua etnisca o toscana, e mi sta infìsso in mente».
312 CANDELAIO
Ottaviano. — Delle negative, qua! vi piace più?
Mamfurio. - Quel «nequaquam» est mihi cordP^, e mi sodisfa.
Ottaviano. - Or dimandatemi voi adesso.
Mamfurio. - Ditemi, signor Ottaviano, piacenvi gli nostri
versi?
Ottaviano. - Nequaquam.
Mamfurio. — Come nequaquam: non sono elli optimi}
Ottaviano. — Nequaquam.
Mamfurio. - Duae negationes affìrmant''^: volete dir dumque
che son buoni.
Ottaviano. - Nequaquam.
Mamfurio. - Burlate?
[129] Ottaviano. - Nequaquam.
Mamfurio. - Sì che dite da senno?
Ottaviano. - JJtique.
Mamfurio. — Dumque poca stima fate di mio Marte e di
mia Minerva? '2
Ottaviano. - JJtique.
Mamfurio. — Voi mi siete nemico e mi portate invidia:
da principio vi admiravate della nostra dicendi copia^^; adesso,
ipso lectionis progressu^-^, la admirazione è metamorfita'^ in in-
vidia?
Ottaviano. - Nequaquam: come invidia? come nemico? non
mi avete detto che queste diczioni vi piaceno?
Mamfurio. - Voi dumque burlate, e dite exercitationis gra-
tiaì'^'
Ottaviano. - Nequaquam.
Mamfurio. — Dicas igitur sine simulatione et fuco'''': hanno
enormità, crassizie''^ e rudità^'^^ gli miei numeri? ^°
«Mi piace».
«Due negazioni affermano» (in latino).
Delle mie forze e del mio ingegno.
«Nostra eloquenza».
«Nello svolgimento del discorso».
Mutata, trasformata
«A scopo di esercizio».
«Parla dunque, senza infingimenti e trucco
Grossolanità.
Ignoranza.
Versi.
ATTO SECONDO 3I3
Ottaviano. - Utique.
Mamfurio. — Cossi credete a punto?
Ottaviano. - Utique, sane, certe, equidem, utique, utique.
Mamfurio. - Non voglio più parlar con voi.
Ottaviano. — Si non volete resistere a udir quel che dite che
vi piace, che sarrebbe s'io vi dicesse cosa che vi dispiace? A dio. [131]
Mamfurio. — Vade, vade. Adesdum^^, Pollula: hai considera-
ta la proprietà di questo uomo, il quale or ora è da noi absen-
tato?82
Pollula. - Costui da principio si burlava di voi di una
sorte; al fine vi dava la baia d'un'altra sorte.
Mamfurio. - Non pensi tutto ciò esser per invidia che gli
inepti portano ad altri {melius diceretur «alii», differentia /adente
«aliud»)^^ eruditi?
Pollula. — Tutto vi credo, essendo voi mio maestro, e per
farvi piacere.
Mamfurio. — De iis hactenus, missa faciamus haec^. Or ora
voglio gire a ispedir le muse centra questo Ottaviano: e come
gli ho fatti udire, in proposito di altro, gli porcini epiteti, post-
hac in suo proposito voglio che odi quelli di uno inepto giudi-
cator della doctrina altrui. Ecco, vi porgo una epistola amatoria
fatta ad istanzia di messer Bonifacio: il quale, per gratificare
alla sua amasia ^^^ mi ha richiesto che gli componesse questa
lectera incentiva ^'^. Andate, e gli la darrete secretamente da mia
parte in mano, dicendogli che io sono implicito ^^ in altri nego-
cii circa il mio ludo literario^^ — Ego quoque hinc pedem refe-
ram^'^, perché veggio due femine appropiare^", de quibus illud
«Longe fac a me»'^K
81. «Va', va'. Orsù, vieni».
82. Allontanato.
83. «Meglio che altri si direbbe alii, perché alti significa una differenza
qualitativa fra soggetti della stessa specie».
84. «Basta così, lasciamo perdere queste cose».
85. La donna amata.
86. Introduttiva all'incontro amoroso.
87. Occupato.
88. La scuola.
89. «Anch'io di qui mi allontanerò».
90. Avvicinarsi.
91. «Alle quali si riferisce quel detto: "Allontanale da me"» (citazione dei
Proverbi, V, 8, in cui si descrivono le arti delle meretrici).
314 CANDELAIO
POLLULA. — Salve, domine praeceptor'^^.
[133] Mamfurio. — Faustum iter dicitur «vale»^^.
SCENA II
Signora Vittoria, Lucia
Signora Vittoria. - La gran pecoragine che io scorgo in lui
mi fa inamorar di quest'uomo; la bestialità sua mi fa argumen-
tare che non perderemo per averlo per amante; e per essere un
Bonifacio come vedete, non ne potrà far altro che bene.
Lucia. — Costui non è di que' matti ch'han troppo secco il
cervello, ma di quei che l'han tropp'umido: però è necessario
che dii di botto ^ al troppo grosso e dolce umore^, più che al
troppo suttile, fastidioso, colerico e bizarro.
Signora Vittoria. - Or andiate e ringraziatelo da mia
parte; e ditegli ch'io non posso vedermi sazia di leggere la sua
carta, e che in poco tempo che siate stata presso di me, diece
volte me l'avete veduta cacciar e rimettere nel petto: dategli
quante panzanate voi possete, per fargl'intendere ch'io li porto
grand'amore.
Lucia. — Lascia la cura ad me (disse Gradasso)^. Cossi po-
tesse io guidar il re o l'imperadore, come potrò maneggiar co-
stui. Rimanete sana.
Signora Vittoria. - Andate. Fate come vi dettarà la pru-
I135I denza vostra. Lucia mia.
SCENA HI
Signora Vittoria sola
L'amore si depinge giovane e putto per due cause: l'una, per
che par che non stia bene a' vecchi; l'altra, per che fa l'uomo di
leggiero e men grave sentimento, come fanciulli. Né per l'una
né per l'altra via è entrato amor in costui. Non dico per che gli
92. «Salve, signor professore».
93. «Buon viaggio si augura con vale». È un'altra pedanteria di Mamfurio.
1. Dia sfogo.
2. Carattere zotico e sciocco.
3. Allusione a L. Ariosto, Orlando furioso, XXVII, 66.
ATTO SECONDO 315
stesse bene: atteso che non paiono buone a lui simili giostre'; né
per che gli avesse a togliere l'intelletto: per che nisciuno può
essere privato di quel che non ha. - Ma non ho tanto da guar-
dar a lui, quanto debbo aver pensiero de fatti miei. Considero,
che, come di vergini, altre son dette sciocche, altre prudenti 2;
cossi anco de noi altre che gustiamo de meglior frutti che pro-
duce il mondo, pazze son quelle ch'amano sol per fine di quel
piacer che passa, e non pensano alla vecchiaia che si accosta
ratto senza ch'altri la vegga o senta, insieme insieme' facen-
do discostar gli amici. Mentre quella increspa la faccia, questi
chiudono le borse; quella consuma l'umor di dentro, e [questi
scemano] l'amor di fuori; quella percuote da vicino, e questi
salutano da lontano''. Però fa di mestiero di ben risolversi a
tempo. Chi tempo aspetta, tempo perdei S'io aspetto il tem-
po, il tempo non aspettare me. Bisogna che ci serviamo di fatti
altrui, mentre par che quelli abbian bisogno di noi. Piglia la
caccia"^ mentre ti siegue, e non aspettar che ella ti fugga. Mal
potrà prendere l'ucel che vola, chi non sa mantener quello
ch'ha in gabbia. Ben che costui abbia poco cervello e mala [137]
schena^, ha però la buona borsa: del primo, suo danno ^; del
secondo, mal non m'accade; del terzo se ne de' far conto. I sa-
vi vivono per i pazzi, et i pazzi per i savii'^. Si tutti f ussero
signori, non sarebbono signori: cossi, se tutti saggi, non sareb-
bono saggi; e se tutti pazzi, non sarebbono pazzi. Il mondo sta
bene come sta. - Or torniamo a proposito, Porzia '°: conviene a
1. Rapporti sessuali.
2. Allusione blasfema alla parabola delle vergini in Matteo, XXV, 1-13.
3. Subito.
4. Nella vecchiaia, mentre il volto femminile si riempie di rughe, il marito
o l'amante non lo curano più e non danno più doni e denari; Vumor di dentro si
riferisce al disseccarsi della pelle e del corpo, ormai non più gradevole e affa-
scinante; Yamor di dentro è quello degli uomini che più non curano le donne
invecchiate; quella è la donna che insiste per avere denaro e affetto, mentre
questi è l'uomo che se ne tiene ben lontano.
5. La signora Vittoria procede nel suo monologo per sentenze popolaresche.
6. Selvaggina.
7. Sessualmente debole, quasi impotente.
8. Peggio per lui.
9. Le sentenze della signora Vittoria si fanno a questo punto serie, met-
tendo a confronto la saviezza e la pazzia del mondo, alterne e opposte nel
mondo. Il Bruno implicitamente ricorda l'Ariosto nella rappresentazione della
follia del mondo neWOrlando.
10. Secondo nome della signora Vittoria.
3l6 CANDELAIO
chi è bella per la gioventù, che sii saggia per la vecchiaia. Altro
n'abbiamo^' l'inverno che quel che raccolsemo l'estate. Or fac-
ciamo di modo che quest'ucello con sue piume oltre non passa.
- Ecco Sanguino.
SCENA IV
Sanguino, signora Vittoria
Sanguino. — Bàsovi' quelle bellissime ginocchia e piedi, si-
gnora Porzia mia dolcissima, saporitissima più che zucchero,
cannella e senzeverata^. O ben mio, si non fussemo in piazza,
non mi terrebono le catene di santo Leonardo^ ch'io non ti
piantasse un bacio a quelle labbra che mi fan morire.
Signora Vittoria. - Che portate di novo. Sanguino?
Sanguino. - Messer Bonifacio ve si raccomanda; et io vel
[139] racomando cossi come i buoni padri raccomandano i lor putti
a' maestri: idest che se egli non è saggio, lo castigate ben bene; e
se volete uno che sappia e possa tenerlo a cavallo, servitevi di
me.
Signora Vittoria. - Ah! ah! ah! che volete dir per questo?
Sanguino. — Non l'intendete? non sapete quel ch'io voglio
dire? Siete tanto semplicetta voi?
Signora Vittoria. - Io non ho queste malizie che voi avete.
Sanguino. - Se non avete di queste malizie, avete di quelle,
e di quelle, e di quell'altre; e se non séte fina come posso esser
io, séte come può essere un altro. Or lasciamo queste parole da
vento: vengamo al fatto nostro. — Era un tempo che il leone e
l'asino erano compagni; et andando insieme in peregrinaggio
convennero che al passar de fiumi si franassero a vicenna"*:
com'è dire, che una volta l'asino portasse sopra il leone, et
un'altra volta il leone portasse l'asino. Avendono dumque ad
II. Non abbiamo.
1. Vi bacio.
2. Sorta di dolce fatto con farina e melassa, e contenente molto zenzero.
3. Santo eremita vissuto nella prima metà del VI secolo, invocato per la
liberazione dei prigionieri.
4. Si trasportassero vicendevolmente a nuoto. Sanguino racconta qui una
parabola fra il comico e l'osceno, di argomento animalesco e popolaresco.
ATTO SECONDO 3I7
andar a Roma, e non essendo a lor serviggio né scafa ^ né ponte,
gionti al fiume Garigliano, l'asino si tolse il leone sopra: il quale
natando verso l'altra riva, il leon, per tema di cascare, sempre
più e più gli piantava l'unghie ne la pelle di sorte che a quel
povero animale gli penetromo in sin all'ossa. Et il miserello (co-
me quel che fa professione di pazienza) passò al meglio che potè
senza far motto. Se non che gionti a salvamento fuor de l'acqua,
si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o quattro
volte per l'arena calda: e passoron oltre. Otto giorni dopo, al
ritornare che fecero, era il dovero che il leone portasse l'asino.
Il quale essendogli sopra, per non cascar ne l'acqua, co i den-
ti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo
su, gli cacciò il suo strumento (o come vogliam dire, il tu-m'in- [141]
tendi), per parlar onestamente, al vacuo sotto la coda, dove
manca la pelle: di maniera ch'il leone sentì maggior angoscia
che sentir possa donna che sia nelle pene del parto, gridando
«Olà, olà, oi, oi, oi, oimè! olà traditore!». A cui rispose l'asino
in volto severo e grave tuono: «Pazienza, fratel mio: vedi ch'io
non ho altr'unghia che questa d'attaccarmi». E cossi fu neces-
sario ch'il leone suff risse et indurasse^ sin che fusse passato il
fiume. A proposito, «Omnio rero vecissitudo este»'': e nisciuno è
tanto grosso asino, che qualche volta venendogli a proposito,
non si serva, de l'occasione. Alcuni giorni fa messer Bonifa-
cio rimase contristato di certo tratto ch'io gli feci; oggi, all'ora
ch'io credevo che si fusse desmenticato, me l'ha fatta peggio che
non la fece l'asino al lione: ma io non voglio che la cosa rima-
gna equa.
Signora Vittoria. - Che vi ha egli fatto? che volete voi
fargli?
Sanguino. — Ve dirò... Oh, veggio compagni che vengono: re-
tiriamoci e parlaremo a bell'aggio.
Signora Vittoria. — Voi dite bene: andiamo in nostra casa,
che voglio saper de cose da voi.
Sanguino. — Andiamo, andiamo.
5. Barca.
6. Pazientasse.
7. Sanguino deforma il proverbio latino «Omnium rerum vicissitudo est»:
«C'è continuo mutamento nelle cose».
3l8 CANDELAIO
SCENA V
Lucia, Barra
Lucia. - Starnuti di cornacchia, pie d'ostreca et ova di liom-
pardo^
[143] Barra. - Ah! ah! ah! il suo marito era dentro ad attizzar la
fornace, a lavorar più dentro; et io lavoravo co lei a la prima
camera....
Lucia. - Che lavore, il vostro?
Barra. - Il giuoco de zingani^: e che l'è fuori e che l'è den-
tro; e se volete intendere il successo per ordine, credo che ride-
rete.
Lucia. - Di grazia fatemi ridere, ch'io n'ho gran voglia.
Barra. — Questa vecchiazza barba-di-cocchiara^, richiesta da
me si me voleva fare quel piacere, mi rispose «No no no no...»
Lucia. - 0 gaglioffo, dumque tu vai subvertendo-' le povere
donnecciole e svergognando i parentadi?
Barra. - Tu hai il diavolo in testa: chi ti parla di questo? è
forse una sorte ' di piacere che possono far le donne a gli uo-
mini?
Lucia. — Or séquita.
Barra. - Si lei avesse detto una volta «No», io non arrei più
parlato facendo rimaner la cosa cossi Ili; ma per che disse più
de dodici volte «No, no no, non non, non, none, none, none,
nani, nani, none»: «Cazzo,» dissi intra di me, «costei ne vuole:
al sangue de suberi^ di pianelle vecchissime^, che in questo
viaggio passaremo qualche fiume»®. Poi riprendo idest ripiglio il
sermone, facendomegli udire in questa foggia: «O faccia di oro
fino, et occhii di diamante, tu vuoi farmi morire, an?»
1. Leopardo. La battuta è marcatamente beffarda e allusiva, fantastica, sur-
reale, sul modello del Burchiello.
2. Zingari. La battuta è fortemente oscena, e parte dai giochi di prestigita-
zione degli zingari.
3. Cucchiaio; ma qui allude al mento sporgente, alla bazza.
4. Corrompendo.
5. Una sola sorte.
6. Sugheri.
7. Imprecazione.
8. Allusione oscena
ATTO SECONDO 3X9
Lucia. — E poi dice la bestia che non intendeva di quella
facenda.
Barra. - Tu, Lucia, mi vuoi far rinegare: non ti puoi imagi- [145]
nare più di una sorte con la quale le donne possono far morire
gli uomini?
Lucia. — Passa oltre: ella che rispose a questo?
Barra. — Et ella rispose: «Va via, va via, via, via, via, via,
via, via, via, mal uomo». Si lei avesse detto una volta «Va via»,
forse io arei smaltito di quella sicurtà che gli tanti «non, non»
mi aveano data: ma per che, ripigliando due volte il fiato, disse
più di quindeci volte «Via, via», et io ho udito dire da mastro
Mamfurio che le due negazione affermano, e molto più le tre
come veggiamo per isperienza: «Dumque» dissi io intra me
stesso, «costei vuol dansare a tre pie''; e torsi che io gli piantare
un'altra gamba tra le due, acciò possa ancor meglio correre».
Lucia. — Or adesso ti ho.
Barra. — Hai il mal-an-che-Dio-ti-dia (perdonami si t'offen-
do): s'io te dico che non vuoi pigliar si non a mala parte quel
che ti dico!
Lucia. - Ah! ah! ah! séquita, ch'io voglio tacere sin a l'ultima
conclusione: e tu che gli dicesti?
Barra. — All'or io con una bocca piccolina me gli feci udire
in questo tenore: «Dumque, cor mio, tu vuoi ch'io mora? e per
che vuoi ch'io mora: per che ti amo? che farai dumque ad un
che t'odia, o vita mia? Eccoti il coltello: uccidemi con tua
mano, che certo certo morirò contento».
Lucia. - Ah! oh! ah! e lei?
Barra. — «Gaglioffo, disonesto, ricercatore'", cubiculario":
dirò al padre mio spirituale, che tu mi hai fascinata; ma tu con
tutte le tue paroli non bastarai giamai di farmeti consentire; né
con tutte tue forze giamai verrai a quell'effetto che ti pensi: e [147]
s'il provassi, tei farei vedere certissimo. Credi tu, per esser ma-
schio, di aver più forza di me? Cagnazzo traditore, s'io avesse
un pugnale, adesso ti ucciderei, che non vi è testimonio alcuno,
né persona che ci vegga». S'io avesse avuta la testa più grossa di
9. Immagine oscena.
10. Tentatore, corruttore.
11. Adultero.
320 CANDELAIO
quella di san Sparagorio'^, o s'io fusse stato il più gran tam-
burro del mondo, la dovevo intendere: il tamburro pure,
quando è toccato, suona.
Lucia. — Or dumque che suono facesti tu?
Barra. — Andiamo dentro che tei farò vedere.
Lucia. — Dite dite pure, perché dentro non si vede.
Barra. Andiamo andiamo, che batteremo tanto il fucile i',
che allumaremo questa candela, che sempre porto dentro le
brache per le occorrenze.
Lucia. - Allumar la possa il fuoco di santo Antonio '■♦.
Barra. — È da temer più di deluvio'^ d'acqua, che di fuoco.
Lucia. — Lasciamo questi propositi: ella che si monstrava
tanto ritrosa e tanto gagliarda, che fece? come ve ha resistito?
Barra. - Oimè, ch'a la poverina tutta la forza gli andò a
[149] dietrovia'^. Parsemi veder la mula d'Alciono'^, che s'ell'avesse
avuto al cui la briglia, arebbe fatto il giorno cento miglia. Il
conto di costei mi par simile a quel d'un'altra che spunzona-
va ^'^ don Nicola, alla quale don Nicola disse: «Si tu mi sponto-
neggi^^ un'altra volta, tei farò»; et ella: «Ecco ti spontoneggio
un'altra volta: or che potrai far tu? che pensi far adesso, don
Nicola? chi è uomo da nulla più di te? Ecco ti spontoneggio
un'altra volta: or che mi farai tu? 0 caro don Nicola, non potrai
muovere un sassolino, s'io non voglio». Or dimmi, Lucia, che
dovea far quel povero don Nicola che molti giorni fa non avea
celebrato?2° Il buon omo di don Nicola dovenne a tale, che non
so che vena se gli ruppe.
Lucia. — Ah! ah! voi siete fino. Lasciatemi andar a rendere
12. San Paragorio, rappresentato come un gigante nell'iconografia popolare.
Il Bruno dovette vedere la chiesa di S. Paragorio con l'immagine a Noli dove
passò.
13. Fucile è propriamente l'esca: serve ad accendere la polvere delle armi
da fuoco. Tutta la frase è oscena.
14. Herpes zoster, erisipela.
15. Diluvio, in senso osceno, per alludere allo sperma.
16. Dietro.
17. L'Alcionio, nato a Venezia alla fine del secolo XV e morto nel sacco di
Roma, fu prima correttore di stampa presso Aldo Manuzio, poi insegnò greco
allo Studio fiorentino. Fu molto fedele ad Aristotele: di qui il disprezzo del
Bruno. L'allusione alla mula d'Alcionio dipende da un sonetto del Bemi: è
oscena sia come metafora della mula, sia per intendere rapporti sodomitici.
18. Stuzzicava,
ig. Ecciti.
20. Allusione oscena.
ATTO SECONDO 321
certa risposta a misser Bonifacio, che son pur troppo dimorata
a sentir le tue ciancie.
Barra. - Andate via, ch'io ancor ho da parlar con questo
giovane che viene.
SCENA VI
Pollula, Barra
POLLULA. - A dio, messer Barra.
Barra. — Ben venuto, cor mio: onde venite, dov'andate?
Pollula. - Vo cercando messer Bonifacio per donargli que-
sta carta. [151]
Barra. - Che cosa l'è, si può vedere?
Pollula. — Non è cosa ch'io possa tener ascosta a voi. È una
epistola amatoria, la quale maestro Mamfurio gli ha composta,
che lui vuole inviare non so a chi sua inamorata.
Barra. - Ah! ah! ah! alla signora Vittoria: veggiamo che cosa
contiene.
Pollula. - Legete voi, to'.
Barra. — «Bonifacius Luccus^ D. Vittoriae Blancae S. P. D.^
Quando il rutilante Febo scuote dall'oriente il radiante capo,
non sì bello in questo superno emisfero appare, come alla mia
concupiscibile' il tuo exilarante'' volto, tra tutte l'altre belle,
pulcherrima signora Vittoria...». — Che ti ho detto io? non ho io
divinato?
Pollula. - Leggete pur oltre.
Barra. — «... Laonde maraviglia non fìa, né sii anco ver uno
eh' inarcando le ciglia, la rugosa fronte increspi, nemo scilicet
miretur, nemini dubium sìL.»^. — Che diavolo di modo di parlar
a donne è questo? lei non intende parole per gramatico'', ah! ah!
Pollula. - Eh di grazia sequite.
Barra. — «... nemini dubium sit, si l'arcifero puerulo' con
1. Allocco (con gioco scherzoso al cognome di Bonifacio).
2. Salutem pluritnan dicit «Invia molti saluti».
3. L'anima concupiscibile degli aristotelici.
4. Che rallegra, che dà gioia.
5. «Nessuno certo si meraviglierebbe, nessuno dubiterebbe».
6. In latino.
7. Cupido.
322 CANDELAIO
quell'arco medesmo, la di cui piaga ha sentito lo in varie forme
cangiato gran monarca Giove, divum pater atque hominum rex^,
[153] hammi negli precordi! penetrato con del suo quadrello^ la
punta, il vostro gentilissimo nome indelebilmente con quella
sculpendovi. Però per le onde stigie (giuramento a i cellcoli in-
violando'°)...». — Vada in bordello questo becco pedante, con le
sue cifre ^^; e questo grosso modorro'^ che potrà donar ad inten-
dere con questa lettera? Bonifacio vuol far del dotto: e lei non
crederà che sii cosa sua. Oltre che mi par una dotta coglioneria
quel che equi si contiene. To', io ne ho letto pur troppo, non ne
voglio veder più. Si costui non have altro batti-porta'^ che que-
sta pistola, non ce l'attacca questa settimana.
PoLLULA. - Cossi credo io: le donne voglion lettere rotonde.
Barra. - Meste de gli carlini '-'•, e vogliono il ritratto de lo
re 15. Andiamo avanti, che voglio dirti un poco a lungo; e questo
negocio lo farai dopoi.
PoLLULA. - Andiamo.
[155] [Fine dell'atto secondo]
8. «Padre degli dèi e re degli uomini».
9. Freccia.
10. Inviolabile.
11. Espressioni incomprensibili.
12. Sciocco, stolto.
13. Mezzo per ingraziarsi la donna.
14. Monete d'argento.
15. Sulle monete d'argento era impresso il ritratto di Filippo IL
ATTO TERZO
SCENA I
Messer Bartolomeo solo
Chi è stato quel gran bestia-da-campana ^ che si tira a presso
un armento cossi grande? Mentre comunmente si va conside-
rando dove consista la virtù ^ delle cose, fanno quella divisione
«in verbis, in herbis et in lapidibus»^. Oh che gli vada il mal di
san Lazaro"", e tutto quello che non vorei per me! Per che,
prima che dichino queste tre cosacele, non dicono «i metalli»?
Li metalli, come oro et argento, sono il fonte de ogni cosa: que-
sti, questi apportano parole, erbe, pietre, lino, lana, seta, frutti,
frumento, vino, oglio; et ogni cosa sopra la terra desiderabile, da
questi si cava: questi dico talmente necessarii che, senza essi,
cosa nisciuna di quelle si accapa^ o si possedè. Però l'oro è detto
materia del sole, e l'argento la luna: per che, togli questi dui
pianeti dal cielo, dove è la generazione delle cose? dove è il
lume dell'universo? Togli questi dui de la terra, dove è la par-
ticipazione, possessione e fruizione di quelle? Però quanto
arebbe meglio fatto quel primo animale, di porre in bocca al [157]
volgo quell'un solo soggetto di virtù, che tutti quelli altri tre
senza quest'uno: se per ciò non è stato introdutto^, a fin che
non tutti intendano e possedano quel che io intendo e possedo.
Erbe, parole e pietre son materia di virtù a presso certi filosofi
matti et insensati; li quali odiati da Dio, dalla natura e dalla
fortuna, si vedono morir di fame, lagnarsi senza un poverello
1. Capo dell'armento.
2. Virtù magica.
3. «Nelle parole, nelle erbe e nelle pietre».
4. Lebbra.
5. Si porta a compimento.
6. Tranne che non sia stato introdotto.
324 CANDELAIO
quattrino in borsa: per temprar il tossico dell'invidia ch'hanno
verso pecuniosi^, biasmano l'oro, argento e possessori di quello.
Poi quando mi accorgo, ecco che tutti questi vanno come ca-
gnoli per le tavole de ricchi: veramente cani che non sanno con
altro che col baiare^ acquistars'il pane. Dove? a tavole di ricchi,
di que' stolti, dico, che per quattro paroli a sproposito da quelli
dette con certe ciglia irsute, occhi attoniti et atto di maraviglia,
si fanno cavar il pan di cascia'', e danari dalle borse: e gli fanno
conchiudere con verità che «in verbis sunt virtutes»^^. Ma stare-
bon ben freschi, si dal canto mio aspectassero effetto de le lor
ciancie: atteso che non so ripascere d'altro che di quelle mede-
sme, chi mi pasce di parole. Or facciano conto di erbe le bestie,
di pietre gli matti, e di paroli gli salta-in-banco: ch'io per me
non fo conto d'altro, che di quello per cui si fa conto d'ogni
cosa. Il danaio contiene tutte l'altre quattro i': a chi manca il
danaio, non solo mancano pietre, erbe e parole, ma l'aria, la
terra, l'acqua, il fuoco e la vita istessa. Questo dà la vita tempo-
rale; e la etema ancora, sapendosene servire, con fame limosina:
la qual pure si deve far con gran discrezzione; e non senza sa-
[159] per il conto tuo devi privar la borsa dell'anima sua'^: però dice
il saggio, « Si bene feceris, vide cui» ^^. Ma in questa teorica non
vi è guadagno. - Ho inteso che è ordine nel Regno che gli car-
lini di vint'uno non vagliano più di vinti tomesi^'': io voglio
andar prima che si publichi l'editto a cambiar i tre che mi
trovo; interim ^^ il mio garzone tomarà da prendere il pulvis
Christi.
7. Ricchi. Ritoma qui antifrasticamente la proclamazione, in bocca a Bar-
tolomeo, della follia e della miseria dei filosofi in contrapposizione ai ricchi,
dediti all'oro e al guadagno.
8. Abbaiare. L'allusione ai cagnoli per le tavole de ricchi dipende all'apologo
evangelico di Lazzaro (già prima citato dal Bruno), miserabile e affamato, che
raccoglie le briciole di pane cadute dalla tavola del ricco Epulone, Luca, 16, 19.
9. Madia.
10. «Le virtù magiche sono nelle parole».
11. I quattro elementi (acqua, terra, fuoco, aria).
12. L'anima della borsa è il denaro.
13. «Se vorrai fare del bene, bada a chi lo farai». È una delle sentenze
attribuite a Catone il Vecchio.
14. Moneta francese. Al carlino, moneta spagnola, era imposto, a Napoli, un
cambio forzoso con il tomese, moneta francese.
15. «Frattanto».
ATTO TERZO 325
SCENA II
Messer Bonifacio, messer Bartolomeo, Lucia
Bonifacio. — Olà messer Bartolomeo, ascolta due paroli:
dove in fretta? mi fuggi, ah?
Bartolomeo. - Adio, adio, messer poco-pensiero: ho assai
meglio da far, che di cianciar co gli vostri amori.
Bonifacio. — Ah! ah! ah! andate dumque procuriate per
quell'altra vostra, che vi fa morire.
Lucia. - Che motteggiamenti son questi vostri? sa egli che
siete inamorato?
Bonifacio. - Sa il mal-an-che-Dio-li-dia: è per che mi vede
conversar con voi. Or al fatto nostro: che cosa dice la mia dol-
cissima signora Vittoria?
Lucia. — La povera signora, per necessità nella quale si
trova, have impegnato un diamante e quel suo bel smeraldo.
Bonifacio. - O diavolo, oh che fortuna!
Lucia. — Credo che li sarebbe cosa gratissima, si gli le faces- [i6i]
sivo ricuperare: non stanno per più che per diece scudi.
Bonifacio. — Basta basta: farò farò.
Lucia. — Il presto è il meglio.
Bonifacio. — Oh! oh! perdonami, Lucia, a rivederci; non
posso darvi risoluzione alcuna adesso: ecco un mio amico col
quale ho da negociar cose d'importanza. A dio, a dio.
Lucia. - A dio.
SCENA III
Ascanio, Scaramuré, Bonifacio
AscANio. — Oh, ecco messer Bonifacio mio padrone. Misser,
siamo equi con il signor eccellentissimo e dottissimo il signor
Scaramuré.
Bonifacio. — Ben venuti: avete dato ordine alla cosa? è
tempo di far nulla?
Scaramuré. — Come nulla? ecco equi la imagine di cera ver-
gine, fatta in suo nome; ecco equi le cinque aguglie' che gli
I. Aghi.
326 CANDELAIO
devi piantar in cinque parti della persona. Questa particulare
più grande che le altre, li pungerà la sinistra mammella: guarda
di profondare troppo dentro, per che fareste morir la paziente.
Bonifacio. — Me ne guardare bene.
ScARAMURÉ. - Ecco ve la dono in mano: non fate che da ora
avanti la tenga altro che voi. Voi Ascanio siate secreto; non fate
che altra persona sappia questi negocii.
Bonifacio. - Io non dubito di lui: tra noi passano negocii
[163] più secreti di questo.
SCARAMURÉ. — Sta bene. Farete dumque far il fuoco ad Asca-
nio di legne di pigna, o di oliva, o di lauro, si non possete farlo
di tutte tre materie insieme. Poi^ arrete d'incenso alcunamente
esorcizato o incantato, co la destra mano lo gettarete al fuoco;
direte tre volte: «Aurum thus»''; e cossi verrete ad incensare e
fumigare la presente imagine, la qual prendendo in mano, di-
rete tre volte: «Sine quo nihil»'*; oscitarete^ tre volte co gli occhii
chiusi, e poi a poco a poco svoltando verso il caldo del fuoco la
presente imagine (guarda che non si liquefaccia, per che mor-
rebbe la paziente)...
Bonifacio. — Me ne guardare bene.
ScARAMURÉ. - ... la farrete tornare al medesmo lato tre volte,
insieme insieme tre volte dicendo: «Zalarath Zhalaphar nectere
vincula: Caphure, Mirion, Sarcha Vittoriae»^, come sta notato in
questa cartolina^. Poi mettendovi al contrario sito del fuoco
verso l'occidente, svoltando la imagine con la medesma forma
quale è detta, dirrete pian piano: «Felapthon disamis festino ba-
rocco daraphti. Celantes dabitis fapesmo frises omorum»^. Il che
tutto avendo fatto e detto, lasciate ch'il fuoco si estingua da per
lui; e locarrete'^ la figura in luoco secreto, e che non sii sordido,
ma onorevole et odorifero.
2. Poiché.
3. «Oro incenso» (allusione a Matteo, II, 11, dove sono descritti i doni dei
Magi a Gesù).
4. «Senza il quale nulla» (ed è part;e di formula liturgica).
5. Sbadiglierete.
6. Insieme di parole magiche, ebraiche, greche, latine, che vorrebbe dire: «O
potenza, o potenza che stringi i lacci, capta per me il gran corpo di Vittoria».
7. Biglietto.
8. Sono le formule mnemoniche dei vari tipi di sillogismo, variamente de-
formate.
9. Porrete.
ATTO TERZO 327
Bonifacio. — Farro cossi a punto. [165]
ScARAMURÉ. — Sì, ma bisogna ricordarsi ch'ho spesi cinque
scudi alle cose che concorreno al far della imagine.
Bonifacio. - Oh, ecco li sborso: avete speso troppo.
ScARAMURÉ. — E bisogna ricordarvi di me.
Bonifacio. - Eccovi questo per ora; e poi farò di vantaggio
assai, si questa cosa verrà a perfeczione.
SCARAMURÉ. — Pazienza. Avertite, messer Bonifacio, che si
voi non la spalmarete bene^'', la barca correrà malamente.
Bonifacio. - Non intendo.
SCARAMURÉ. - Vuol dire che bisogna onger" ben bene la
mano: non sapete?
Bonifacio. — In nome del diavolo: io procedo per via d'in-
canti, per non aver occasione di pagar troppo. Incanti e con-
tanti...
ScARAMURÉ. — Non induggiate. Andate presto a far quel che
vi è ordinato, per che Venere è circa l'ultimo grado di Pesci.
Fate che non scorra mezza ora, che son trenta minuti di Ariete.
Bonifacio. — Adio dumque. Andiamo, Ascanio. Cancaro a
Venere 12, e...
ScARAMURÉ. - Presto; a la buon'ora: caldamente. [167]
[SCENA IV]
Scaramuré solo
Assai è di aver cavati sette scudi da le mani di questa piat-
tola: sempre si deve da simil gente cavar il conto suo col prete-
sto della spesa che concorre nella confezzione del secreto. Ecco
che, per mia fatica, non m'arrebbe dato più d'un par di scudi
per adesso; a complir poi del resto \ nel giorno di Santa Maria
delle Catenelle^, la quale sarà l'ottava del giorno del Giudizio^.
10. Non darete abbondantemente la pece sul fondo della barca, cioè non
darete un bel po' di denaro come mancia.
11. Ungere (la mano, nel senso di dare un bel po' di denaro come mancia).
12. Imprecazione.
1. A soddisfarmi poi del resto.
2. Una Santa Maria della Catena aveva una chiesa a Napoli.
3. Cioè un giorno che non verrà mai.
328 CANDELAIO
SCENA V
Lucia, Scaramuré
Lucia. - Dove malviaggio è andato costui? Mi castroneggia
un castrone': aspettavo da lui una certa risoluzione.
Scaramuré. - Oh, adio Lucia, dove dove?
Lucia. — Cerco messer Bonifacio, che ora ho lasciato con voi:
credevo che mi aspettasse equa.
Scaramuré. - Che volete da lui?
Lucia. — Per dirvela come ad amico, la signora Vittoria gli
manda a chieder di danari.
Scaramuré. - Ah, ah, io so, io so: adesso la scaldarà e gli
darrà de l'incenso^: de danari ne ha dati ad me per non aver
occasione di dame a lei.
[169] Lucia. — Come diavolo può esser questo?
Scaramuré. - La signora Vittoria dimanda troppo: e lui con
mezza duzena di scudi, se la vuole attaccare a chiave et a ca-
tene \
Lucia. — Ditemi come passa la cosa.
Scaramuré. - Andiamo insieme a trovar la signora Vittoria;
e raggionaremo con lei et ordinaremo qualche bella matassa, a
fin che io rimanghi col credito con questo babuino"*: e facciamo
qualche bella comedia.
Lucia. — Voi dite bene; massime che non è bene di raggionar
equi: veggo venir di gente.
Scaramuré. — Ecco il magister. leviamoci da equa.
SCENA VI
Mamfurio, Scaramuré, Pollula
Mamfurio. — Adesdum, paucis te volo\ domine Scaramuree.
Scaramuré. - Dictum putah a rivederci un'altra volta,
quando arrò poche facende.
1. Mi lascio gabbare da uno sciocco.
2. La frase è oscena.
3. È un'altra battuta oscena, analoga alla precedente.
4. Stolto.
1. «Vieni, ti voglio dire due parole» (citazione di Terenzio, Andr., I, i e 2),
2. «Tientelo per detto».
ATTO TERZO 329
Mamfurio. - Oh bel responso! Or, mio Pollula, ut eo redeat
unde egressa est oratio^, ti stupirrai, uhi!
Pollula. - Volete che le legga io?
Mamfurio. - Minime, per che non facendo il punto secondo
la raggione"* de periodi, e non proferendoli con quella energia
che requireno, verrete a digradirli ' dalla sua maestà e gran-
dezza: per il che disse il prencipe di greci oratori Demostene, la [171]
precipua parte dell'oratore essere la pronunciazione. Or odi; ar-
rige aures, Pamphile^:
Uomo di rude e di crassa Minerva'',
mente offuscata, ignoranza proterva;
di nulla leczion, di nulla fruge^
in cui Pallad'et ogni Musa lugge'*;
lusco^° intellecto et obcecato" ingegno,
bacellone di cinque '^^ uomo di legno;
tronco discorso '^, industria tenebrosa,
volatile noctuma, a tutti exosa'"*:
per che non vait'a ascondere,
o della terra madre inutil pondereP^^
Giudizio inepto, perturbato senso,
tenebra obscura e lusca, Èrebo denso ^^
ascilo'^ auriculato'^, indocto al tutto,
in nullo ludo litterario instructo;
di fave cocchiaron ''', gran maccarone^"
3. «Affinché il discorso ritomi là donde è pariiito».
4. Ritmo.
5. Degradarli, abbassarli.
6. «Drizza le orecchie, Panfilo» (citazione di Terenzio, Andr., V, 4, 30).
7. Di tardo e grosso ingegno.
8. Utilità.
9. Sta in gramaglie, è in lutto.
10. Orbo.
11. Cieco.
12. Grosso sciocco.
13. Lo stolto non sa parlare a lungo.
14. Odioso.
15. Peso.
16. L'Èrebo è l'inferno pagano, quindi la metafora significa «oscurità pro-
fonda».
17. Asinelio.
18. Dalle lunghe orecchie.
19. Grande mangiatore.
20. Sciocco.
330 CANDELAIO
ch'a Foglio fusti posto a infusione;
cogitato disperso^', astimo losco^^,
absorpto fium leteo^^, Avemo fosco 2^:
tu di tenelli unguicoli e incunabili^'
l'inepzia-'" hai protracta insin al senio^^.
Inmaturo pensier, fantasia perdita^^,
intender vacillant', attenzion sperdita 2'';
illiterato et indisciplinato,
in cecità educato,
privo di proprio Marte, inerudito'",
[173] di crassizie imbibito '',
senza veder, di nulla apprensione,
bestia irrazionai, grosso mandrone'^,
d'ogni lum privo, d'ignoranza figlio,
povero d'argumento e di consiglio.
Vedeste simili decade" giamai? Altri fan di quattrini ^■^, altri di
sextine, altri di octave; mio è il numero perfecto, idest, videlicet,
scilicet, nempe, utpote, ut puta^'^, denario: authore Pythagora,
atque Platone. — Ma chi è cotesto vel cotello^*' properante ''^ vèr
noi?
PoLLULA. - Gioan Bernardo pittore.
21. Pensiero svagato.
22. Giudizio cieco, erroneo.
23. Il Lete è il fiume infernale le cui acque davano l'oblio, quindi la meta-
fora significa «persona che ha bevuto tutta l'acqua del Lete, che non ricorda
nulla».
24. L'Avemo è altro nome dell'inferno pagano e la metafora ha lo stesso
significato di «Èrebo denso».
25. Teneri fanciulli ancora nella culla, che hanno le unghie piccole.
26. La semplicità.
27. La vecchiaia.
28. Depravata.
29. Vacillante, sperduta.
30. Ignorante.
31. Imbevuto, ripieno.
32. Montone.
33. Le strofe di Mamfurio sono di dieci versi.
34. Quartine.
35. Tutte particelle che significano «cioè».
36. Colui.
37. Che si affretta.
ATTO TERZO 331
SCENA VII
Mamfurio, Gioan Bernardo, Pollula
Mamfurio. - Bene veniat ille^ a cui non men convien no-
menclatura della ribombante fama dalla tromba, che a Zeusi,
Apelle, Fidia, Timagora e Polignoto^.
Gioan Bernardo. - Di quanto avete proferito, non intendo
altro che quel «pignato»' ch'avete detto al fine. Credo che que-
sto insieme col bocalc* vi fa parlar di varie lingue 5. S'io avesse
cenato ti risponderei.
Mamfurio. - Il vino exilara et il pane confirma- [175]
Bacchus et alma Ceres, vestro si munere tellus
chaoniam pingui glandem mutavit arista^,
disse Publio Virgilio Marone, poeta mantuano, nel suo libro
della Georgica primo, verso il principio, facendo more poetico'' la
invoccLzione: dove imita Exiodo, attico poeta e vate.
Gioan Bernardo. - Sapete, domine magister..?
Mamfurio. - Hoc est «magis ter», tre volte maggiore^:
Palici, quos aequus amavit
luppiter, aut ardens evexit in aethera virtus'^.
Gioan Bernardo. - Quello che voglio dir è questo: vorrei
sapere da voi che vuol dir «pedante».
Mamfurio. - Lubentissime^^ voglio dirvelo, insegnarvelo, de-
1. «Ben venuto».
2. Mamfurio fa un elenco di celebri pittori greci, ma fa confusione fra Ti-
magora, uomo politico ateniese, e il pittore di nome Timante.
3. Zuppa grassa. Gioan Bernardo equivoca con Polignoto.
4. Di vino.
5. Allusione irriverente all'episodio della capacità di parlare in varie lingue
per dono dello Spirito Santo narrato negli Atti degli Apostoli, II, 4.
6. «Tu Bacco e alma Cerere, se per grazia vostra la terra passò dalla
ghianda caonia alla pingue spiga» (citazione di Virgilio, Georg., l, 7-8).
7. «Secondo la consuetudine poetica».
8. Una delle assurde e ridicole etimologie di Mamfurio.
9. «I pochi, che il giusto Giove amò, o che l'ardente virtù innalzò il cielo»
(citazione di Virgilio, Aen., VI, 129-130).
10. «Molto volentieri».
332 CANDELAIO
clararvelo, exporvelo, propalarvelo, palam farvelo", insinuar-
velo et {particula coniunctiva in ultima dictione apposita^^) enu-
clearvelo'^; sicut, ut, velut, valuti, quemadmodum «Nucetn» ovidia-
nam meis coram discipulis (quo melius nucleum eius edere possint)
[177] enucleavi^'*. «Pedante» vuol dire quasi «pede ante»: utpote quia
have lo incesso prosequitivo^^ col quale fa andare avanti gli
erudiendi puberi; vel per strictiorem arctioremque aethymologiam:
pe, «perfectos»; dan, «dans»; te, «thesauros»^^. Or che dite de le
ambedue?
GiOAN Bernardo. — Son buone: ma a me non piace né l'una
né l'altra; né mi par a proposito.
Mamfurio. — Cotesto vi è a dirlo lecito, alia meliore in me-
dium prolata ' ', idest quando arrete apportatane un'altra vie più
degna.
GiOAN Bernardo. — Ecco vela: pe, «pecorone»; dan, «da nul-
la»; te, «testa d'asino».
Mamfurio. — Disse Catone seniore: «Nil mentire, et nihil te-
mere credideris»^^.
GiOAN Bernardo. - Hoc est, id est, chi dice il contrario ne
mente per la gola.
Mamfurio. - Vade, vade:
Cantra verbosos, verbis contendere noli^"^.
Verbosos cantra, noli contendere verbis.
[179] Verbis verbosos noli contendere contra.
GiOAN Bernardo. — Io dono al diavolo quanti pedanti sono!
- Resta con cento mila di quelli angeli de la faccia cotta-°.
11. Rivelarvelo.
12. «Posta la congiunzione accanto all'ultima parola».
13. Sviscerarvelo.
14. «Come, a quel modo che sviscerai per filo e per segno la "Noce" ovi-
diana davanti ai miei scolari, affinché possano più facilmente mangiarne il
nocciolo». Il Liber nucis è un'operetta pseudo-ovidiana.
15. Passo che fa progredire.
16. «O secondo un'etimologia più concisa e profonda; Pe, perfetti, dan,
dante, te, tesori».
17. «Quando avrete apportato un'altra etimologia migliore».
18. «Non mentire e non credere alla leggera».
19. «Non contendere a parole contro i chiacchieroni» (è un'altra massima
catoniana).
20. Sono i diavoli.
ATTO TERZO 333
Mamfurio. - Menateli pur, come socii vostri, vescovi. - U'
siete voi Pollula? Pollula che dite? vedete che nefando, abomi-
nando, turbulento e portentoso seculo?
Questo secol noioso in cui mi trovo,
Vóto è d'ogni valor, pien d'ogni orgoglio 22.
Ma properiamo 25 verso il domicilio, poscia che voglio oltre
exercitarvi in que' adverbii locali, motu de loco, ad locum et per
locum: «ad, apud ante, adversum vel adversus, cis, citra, contra,
erga, infra, in retro, ante, coram, a tergo, intus et extra».
Pollula. — Io le so tutti, e li tegno ne la mente.
Mamfurio. - Questa leczione bisogna saepius reiterarla et in
memoriam revocarla; lectio repetita placebit^'^:
Gutta cavai lapidem non bis sed saepe cadendo:
sic homo fit sapiens bis non, sed saepe legendo^^.
Pollula. - Vostra Excellenzia vada avanti, ch'io vi seguirrò
a presso. [181]
Mamfurio. — Cossi si fa in foro et in platea^^: quando siamo
in privatis aedibus^^, queste urbanità, observanze e cerimonie
non bisognano.
SCENA vili
Barra, Marca
Marca. — Oh, vedi il mastro Mamfurio che sen va?
Barra. — Lascialo col diavolo: seguita il proposito incomin-
ciato; fermiamoci equa.
21. Con voi.
22. Citazione di F. Petrarca, Trionfo d'Amore, I, 17-18.
23. Affrettiamoci.
24. «La lettura ripetuta piacerà» (citazione di Orazio, Ars poet., 365); ma
qui Mamfurio vuol dire che la lezione ripetuta sarà di vantaggio al suo scolaro.
25. «La goccia scava la pietra cadendo non una o due, ma infinite volte;
allo stesso modo l'uomo diviene dotto facendo non una o due, ma infinite
letture». Il primo emistichio è ricavato da Ovidio, Ex Ponto, IV, io, 5; il resto
è un'aggiunta medievale.
26. «Per le piazze».
27. «In casa privata».
334 CANDELAIO
Marca. - Ordumque iersera all'osteria del CerriglioS dopo
che ebbemo benissimo mangiato, sin tanto che non avendo lo
tavernaio del bisogno, lo mandaimo ad procacciare altrove per
fusticelli^, cocozzate', cotugnate-* et altre bagattelle da passar il
tempo; dopo' che non sapevamo che più dimandare, un di no-
stri compagni finse non so che debilità^; e l'oste essendo corso
con l'aceto, io dissi: «Non ti vergogni, uomo da poco? camina
prendi dell'acqua namfa^ di fiori di cetrangoli', e porta della
malvasìa di Candia^». All'ora il tavernaio non so che si rinegas-
se^ egli; e poi comincia ad cridare, dicendo: «In nome del dia-
volo, séte voi marchesi o duchi? Séte voi persone di aver speso
quel che avete speso? Non so come la farremo al far del conto:
questo che dimandate non è cosa da osteria»; «Furfante, ladro,
mariolo» dissi io, «pensi ad aver a far con pari tuoi? tu sei un
[183] becco, cornuto, svergognato»; «Hai mentito per cento canne»,
disse lui. All'ora tutti insieme per nostro onore ci alzaimo di
tavola, et acciaffaimo '" ciascuno un spedo di que' più grandi,
lunghi da diece palmi...
Barra. - Buon principio, messere.
Marca. - ... li quali ancor aveano la provisione ^^ infilzata; et
il tavernaio corre ad prendere un partesanone 1^; e dui di suoi
servitori due spadi rugginenti ^^. Noi ben che fussimo sei con sei
spedi più grandi che non era la partesana, presimo delle caldaia
per servirne per scudi e rotelle...
Barra. - Saviamente.
Marca. — Alcuni si puosero certi lavezzi '•* di bronzo in testa
per elmetto over celata...
1. Osteria di Napoli, frequentata, a quanto appare da testimonianze con-
temporanee, da cortigiane, mercanti, soldati, malfattori ecc.
2. Chiodi di garofano.
3. Zucche condite.
4. Marmellata di cotogne.
5. Deliquio.
6. Essenza odorosa distillata di fiori d'arancio.
7. Melarance.
8. Vino dolce di Creta.
9. Bestemmiasse.
10. Afferrammo.
11. Il cibo.
12. Grossa picca.
13. Rugginose.
14. Laveggi, conche.
ATTO TERZO 335
Barra. — Questa fu certo qualche costellazione che puose in
esaltazione i lavezzi, padelle e le caldaie ^5.
Marca. - È cossi bene armati reculando, ne andavamo de-
fendendo e retirandoci per le scale in giù, verso la porta, benché
facessimo finta di farci avanti...
Barra. — Bel combattere: un passo avanti e dui a dietro, un
passo avanti e dui a dietro (disse il signor Cesare da Siena '^).
Marca. - Il tavernaio quando ci vedde molto più forti, e
timidi più del dovero, in loco di gloriarsi come quel che si por-
tava valentemente, entrò in non so che suspizione...
Barra. - Ci sarrebbe entrato Scazzolla*^. [185]
Marca. - ... per il che buttata la partesana in terra, comandò
a sua servitori che si retirassero, che non volea di noi vendetta
alcuna...
Barra. — Buon'anima da canonizzare.
Marca. - E voltato a noi disse: «Signori gentil'omini, perdo-
natime; io non voglio offendervi da dovero: di grazia pagatemi
et andiate con Dio».
Barra. - All'or sarrebe stata bene qualche penitenza con
l'assoluzione.
Marca. - «Tu ci vói uccidere, traditore», dissi io; e con que-
sto puosemo i piedi fuor de la porta. All'ora l'oste desperato,
accorgendosi che non accettavamo la sua cortesia e devozione,
riprese il partesanone chiamando aggiuto^^ di servi, figli e mo-
glie. Bel sentire: l'oste cridava «Pagatemi pagatemi»; gli altri
stridevano: «A' marioli, a i marioli! ah, ladri traditori!». Con
tutto ciò nisciun fu tanto pazzo che ne corresse a dietro, per che
l'oscurità della notte fauriva più noi che altro. Noi dumque te-
mendo il sdegno ostile, idest de l'oste, fuggivimo^^ ad una
stanza apresso li Carminilo; dove, per conto fatto, abbiamo an-
cor da fame le spese per tre giorni.
Barra. - Far burla ad osti, è far sacrificio ad nostro Signore;
rubbare un tavernaio, è far una limosina: in batterlo bene con-
15. Qualche influsso celeste vi fece mobilitare gli arnesi di cucina.
16. Persona non altrimenti nota.
17. Altra persona ignota.
18. Aiuto.
19. Fuggimmo.
20. Contrada della parte orientale di Napoli, dove era il convento e la
chiesa dei Carmelitani.
336 CANDELAIO
siste il merito di cavar un'anima di purgatorio. Dimmi, avete
saputo poi quel che seguitò nell'ostaria?
Marca. - Concorsero molti: de quali, altri pigliandosi spasso
[187I altri attristandosi, altri piangendo altri ridendo, questi consi-
gliando quelli sperando, altri facendo un viso altri un altro, al-
tri questo linguaggio et altri quello, era veder insieme comedia
e tragedia, e chi sonava a gloria e chi a mortoro. Di sorte che,
chi volesse vedere come sta fatto il mondo, derebbe desiderare
d'esservi stato presente.
Barra. - Veramente la fu buona. Ma io che non so tanto di
rettorica, «solo soletto senza compagnia», l'altr'ieri venendo da
Nola per Pumigliano^^ dopoi ch'ebbi mangiato non avendo
tropo buona fantasia di pagare, dissi al tavernaio: «Messer osto,
vorrei giocare»; «A qual gioco» disse lui, «volemo giocare? equa
ho de tarocchi»; risposi: «A questo maldetto gioco non posso
vencere, perché ho una pessima memoria»; disse lui: «Ho di
carte ordinarie»; risposi: «Saranno forse segnate, che voi le co-
noscerete; avetele che non siino state ancor adoperate?»; lui ri-
spose de non. «Dumque pensiamo ad altro gioco»; «Ho le tavo-
le ^2, sai?»; «Di queste non so nulla»; «Ho de scacchi, sai?»;
«Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo». All'ora gli venne il
senapo in testa^^: «A qual dumque diavolo di gioco vorai giocar
tu? proponi»; dico io: «A stracquare^'^ a pall'e maglio ^5»; disse
egli: «Come a pall'e maglio? vedi tu equa tali ordegni? vedi
luoco da posservi giocare?». Dissi: «A la mirella?»^''; «Questo è
gioco da f achini, bifolchi e guarda-porci». «A cinque dadi?»^^;
«Che diavolo di cinque dadi? mai udivi di tal gioco. Si vuoi,
[189] giocamo a tre dadi» 2*; io gli dissi che a tre dadi non posso aver
sorte. «Al nome di cinquantamila diavoli» disse lui, «si vuoi
giocare, proponi un gioco che possiamo farlo e voi et io». Gli
21. Pomigliano d'Arco, oggi grosso comune a mezza strada fra Napoli e
Nola.
22. Gioco che si fa su una scacchiera con dadi e pedine per la dama (detto
anche tric-trac o sbaraglino).
23. Gli venne la mosca al naso, montò su tutte le furie.
24. Faticare, sudare.
25. Pallamaglio, gioco che si faceva con una palla di legno, spinta con un
maglio (analogo al cricket).
26. Tipo di lotta popolare (a Roma).
27. Allusione oscena.
28. Zara.
ATTO TERZO 337
dissi: «Giocamo a spaccastrommola»^^; «Va» disse lui, «che tu
mi dai la baia: questo è gioco da putti, non ti vergogni?». «Or su
dumque» dissi, «giocamo a correre»; «Or questa è falsa», disse
lui; et io soggionsi: «Al sangue dell'Intemerata^", che giocarai».
«Vuoi far bene?» disse, «pagami; e si non vuoi andar con Dio,
va col prior de' diavoli». Io dissi: «Al sangue delle scrofole, che
giocarai»; «E che'^ non gioco!», diceva; «E che giochi!», dicevo;
«E che mai mai vi giocai!»; «E che vi giocarrai adesso!»; «E che
non voglio!»; «E che vorrai!». In conclusione comincio io a pa-
garlo co le calcagne, ideste a correre. Et ecco quel porco che
poco fa diceva che non volea giocare, e giurò che non volea
giocare, e giurò che non volea giocare: e giocò lui, e giocomo
dui altri suoi guattari^^; di sorte che per un pezzo correndomi a
presso, mi arrivomo e giunsero, co le voci. Poi ti giuro per la
tremenda piaga di san Rocco '^, che né io l'ho più uditi, né essi
mi hanno più visto.
Marca. - Veggio venir Sanguino e messer Scaramuré. [191]
SCENA IX
Sanguino, Barra, Marca, Scaramuré
Sanguino. — A punto voi io andavo cercando: siamo pe far
di bei tratti questa sera, e non saranno senza qualche nostro
profitto, o spasso almeno. Io mi voglio vestire da capitan
Palma; voi insieme con Corcovizzo mostrarete di esser birri: sta-
remo alla posta equi vicino, che spero che questa sera attra-
paremo^ messer Bonifacio all'uscita o entrata che farà dalla
stanza della signora Vittoria; e faremo piacere alla signora, et
utile a noi.
Barra. — E ci prenderemo mille spassi.
Marca. - Sì alla fé: e può essere che ci possano occorrere
altre belle occasioni.
29. Gioco fanciullesco, che si faceva con la trottola.
30. Imprecazione alla Madonna.
31. E se.
32. Sguatteri.
33. San Rocco è rappresentato, nell'iconografia, con una profonda piaga
sulla coscia per la lebbra.
I. Ghermiremo, afferreremo.
338 CANDELAIO
Barra. — Facende non ci mancaranno.
ScARAMURÉ. — Quanto al fatto di messer Bonifacio, sarrò io
che verrò come a caso ad accomodarlo con far che vi doni qual-
che cortesia, a fin che lo lasciate: e non menarlo in Vicaria^
priggione \
Sanguino. - Questo pensiero non è de' peggiori del mondo.
Venete dumque quanto prima: per che daremo una volta"^ e vi
aspettaremo, in casa della signora Vittoria.
[193] Barra. - Andate in buon'ora.
SCENA X
Barra, Marca
Barra. - Ai sangue de mi... ^ che non è poca comodità di
venir a qualche dissegno ^, il mostrar di essere birri di notte:
saremo tre o quattro, portaremo la insegna della birraria, ideste
le verghette in mano; e quando vedremo la nostra^ farremo.
Marca. — Ah, per san Quintino! ecco a punto Corcovizzo che
viene.
Barra. - Ma chi è quel che va con lui?
Marca. - Mi par mastro Mamfurio.
Barra. — Egli è desso; presto, discostiamoci un po' da equi,
che Corcovizzo ne fa segno: credo che stia un procinto di fargli
qualche burla.
Marca. — Andiamo qui dietro, che non siam veduti.
SCENA XI
Corcovizzo, Mamfurio
Corcovizzo. - Voi lo sapete ben, che egli è inamorato?
Mamfurio. - Oh, benissimo; il suo amor passa per le mie
mani: gli ho composta una epistola amatoria, della quale come
2. Il Tribunale.
3. Prigioniero.
4. Faremo un giro.
1. Imprecazione interrotta, perché, essendo travestito da birro, ricorda che
deve far osservare le leggi contro i bestemmiatori.
2. Venire a capo di qualche piano.
3. Occasione.
ATTO TERZO 339
sua si debba servire, per essere dalla sua amasia admirato e più
istimato. [195]
CoRCOVizzo. — Or egli ieri, come fusse un giovane di 25 anni,
andò a proponere a mastro Luca che per oggi gli avesse fatto un
par di stivaletti di marrocchino di Spagna, buoni a passeggiar
per la città: il che avendo udito il mariolo, è stato oggi a la
mirai quando messer Bonifacio veneva ad calzarsi. Or veggen-
dolo spuntar da Nilo verso la bottega, pian piano se gli accostò
senza mantello, sin che con essolui si fece dentro la bottega. Il
quale, per essere venuto gionto a messer Bonifacio, fu stimato
servitor suo dal mastro; e per che era senza mantello, mezzo
sbracciato, fu stimato da messer Bonifacio lavorante di bottega.
Per il che, avendosi da calzar, quel povero messere senza dub-
bito^ alcuno si lasciò prendere la cappa, fasciata di veluto et
inbottonata d'oro ^, da colui; il quale avendosela posta su le due
braccia, o come buon valetto di camera, o com' un de' lavoranti
a cui appartenga la sfrena'*, mentre mastro Luca era occupato
ad assestare l'opra sua^, e messer Bonifacio curvo su le gambe a
farsi ben servire, costui con una bella continenza, or guardando
i travi della bottega, or chi passava, chi andava, chi veneva, or
dava una volta e giravasi: sin tanto che vedendo la sua, puose
un pie fuor de la porta. In conclusione: «cappa» cuius generis?
Ablativi^.
Mamfurio. — Ah! ah! ah! dativus a dando, ablativus ab aufe-
rendo'^: si voi avessivo^ studiato, e non fussivo^ idiota 'o, arestivo
un bell'ingenio: credo che avevate Minerva in ascendente ''. [197]
CORCOVizzo. - Per tornare al proposito: accomodato che fu
messer Bonifacio, et avendoli menato la scopetta ^^ per il dorso
1. Appostato, in agguato.
2. Sospetto.
3. Fornita di bottoni, di fibbie d'oro.
4. Mancia.
5. Il momento propizio.
6. «La cappa a quale genere appartiene? All'ablativo».
7. «Dativo del dare, ablativo del portar via».
8. Aveste voi.
9. Foste voi; arestivo, avreste voi.
10. Incolto, privo di studi.
11. Quando un pianeta è in ascendente, allora il suo influsso è massimo.
Minerva è la dea latina della cultura.
12. Spazzola.
340 CANDELAIO
mastro Luca, scuotendosi le mani dimanda la cappa. Risponde
mastro Luca: «Il vostro servitor la tiene; o là, dove sei tu? S'è
fatto fuori per badare»; «Non ho bisogno di cotesti onori e ca-
stella» ^^ disse messer Bonifacio, «dite pur che è vostro lavoran-
te»; «Per santa Maria del Carmelo che mai lo viddi», disse ma-
stro Luca; e che è cossi, e che è colà. Considerate che bel vedere
è stato di messer Bonifacio, co i stivaletti nuovi, che s'ha fatto
rubbar la bella cappa. Or mai non si può più vivere per'"» tanti
poltroni marioli tagliaborse.
Mamfurio. — Gran miseria et infelice condizione sotto que-
sto campano clima, il cui celeste periodo subest Mercurio^^; il
qual è detto nume e dio de furi^*': però, amico mio, sta in cer-
vello per la borsa.
CoRCOVizzo. — Io per me porto i danari equi sotto l'ascella,
vedete.
Mamfurio. - Et io la mia giornea ^^ non la porto a la schena
né al fianco, ma sopra l'inguine o ver sotto il pectine"^, poscia'*^
cossi si fa in terra di ladri.
CoRCOVizzo. - Domino magister, ben veggio che siete sapien-
tissimo: e non senza gran profitto avete studiato.
Mamfurio. — Hoc non latet il mio Mecenate, di cui li pueruli
199] ego erudio, idest extra ruditatem facio, vel e ruditate eruo^^. M'ha
egli imposto ch'io vadi a decemere^i del preggio della materia e
della structura de gli indumenti di quelli, e liberar la elargienda
pecunia^^: la quale come buono^^ economico {Oeconomia est do-
mestica gubernatio^'^) in questa coriacea e vellutacea^^ giornea
riserbo 2^
13. Di questi lussi, di questo fasto.
14. A causa di.
15. «È sottoposto a Mercurio».
16. Ladri.
17. Borsa.
18. Pube.
19. Poiché.
20. «Ciò non è nascosto al mio Mecenate, i cui figlioletti io erudisco, ovvero
pongo fuori dell'ignoranza, ossia traggo fuori dall'ignoranza».
21. Riconoscere.
22. Pagare il prezzo dovuto.
23. Bene.
24. «L'economia è governo della casa».
25. Di cuoio e di velluto.
26. Custodisco.
ATTO TERZO 34I
CoRCOVizzo. - Oh lodato sia Dio, signor eccellente maestro:
ho imparato da voi belli consegli e modi di vivere. Fatemi di
grazia un altro favore d'agiutarmi, ch'io non abbia pensiero di
andar a cambiar sei doppioni 2'' sino a' banchi ^^: si voi avete
scudi o altra moneta, io ve li lasciare. Io sparmiarò^^ la fatica
del camino, e voi guadagnarete sei granilo.
Mamfurio. — Io non il fo lucri causa, iuxta illud: «Nihil inde
sperando»; sed, ma, ex humanitate et officio; mitto quod eziamdio
ego minus oneratus abibo^K Ecco, li numero: tre, dui son cinque;
sette e quattro fanno undeci, cinque e quattro son nove, fan
vinti carlini; tre, tre, sei, e dui, son otto cianfroni'^^ fan sei du-
cati; cinque aurei di Francia ^^. Ne bisogna suttrarre alquanto. [201]
SCENA [xii]
Mamfurio, Barra, Marca
Mamfurio. - Olà, Olà, equa equa, aggiuto, agiuto! Tenetelo,
tenetelo! A l'involatore, al surreptore^, al surreptore, al fure, am-
putator di marsupii et incisor di crumene!^ Tenetelo, tenetelo,
che ne porta via gli miei aurei solari^ con gli argentei!
Barra. - Che cosa, che cosa v'ha egli fatto?
Mamfurio. - Per che lo avete lasciato andare?
Barra. — Diceva il poverello: «Mi vuol battere il mio pa-
drone, a me povero innocente»; però l'abbiam lasciato: acciò
che vi facciate passar la còlerà prima, per che poi lo potrete
castigar a bell'agio in casa.
Marca. — Signor sì, bisogna perdonar qualche volta a' servi-
tori, e non usar sempre de rigore.
27. Moneta d'oro spagnola, del valore di due doppie.
28. I banchi dei cambiavalute e la strada dove si trovano.
29. Risparmierò.
30. Moneta d'oro, sottomultiplo della doppia.
31. «Per guadagno, secondo quel precetto: "Date a prestito senza aspettarne
interesse", ma per gentilezza e cortesia; tralascio che, inoltre, me ne andrò di
qui più leggiero». Il precetto è evangelico: Luca, VI, 35.
32. Moneta d'argento che valeva cinque carlini, cioè mezzo ducato.
33. Mezzo scudo d'oro di Francia.
1. Al ladro, al rapinatore.
2. Strappatore di borse e rapitore di portafogli.
3. II mezzo scudo d'oro di Francia era chiamato demi écu au soleil perché
aveva sopra la figura del sole.
342 CANDELAIO
Mamfurio. - Oh, che non è punto mio servo né familiare:
ma un ladro che mi ha rubbati diece scudi di mano.
Barra. - Può far l'Intemerata''... E voi perché non Gridavate
«il mariolo, al mariolo»? che non so che diavolo de linguaggio
avete usato.
Mamfurio. - Questo vocabulo che voi dite, non è latino né
etrusco 5: e però non lo proferiscono di miei pari.
[203] Barra. — Per che non cridavate «al ladro»?
Mamfurio. — «Latro» è sassinator di strada, in qua vel ad
quam latet^. «Fur» qui furtim et subdole come costui mi ha fatto:
qui et «subreptor» dicitur a subtus rapiendo, vel quasi rependo'',
per che sotto specimine^ di uomo da bene, mi ha decepto^.
Oimè, i scudi.
Barra. - Or vedete che avete avanzate co le vostre lettere, a
non voler parlar per volgare: ma, col vostro latrino e trusco^°,
credevamo che parlassivo'^ con esso lui più che con noi.
Mamfurio. - O fure, degna pastura d'avoltori.
Marca. — Dite, per che non correvate appresso lui?
Mamfurio. — Volete voi ch'un grave moderator di ludo
literario, e togato, avesse per publica platea accelerato il gres-
so? '^ A miei pari convien quel adagio {si proprie adagium licet
dicere) «Festina lente»; item et illud «Gradatim, paulatim, pede-
tentim»^^.
Barra. - Avete raggione, signor dottore, d'aver sempre risguar-
do al vostro onore, et alla maestà del vostro andare.
Mamfurio. — O fure le cui ossa vorei vedere sovra una ruo-
4. Madonna Immacolata.
5. Lingua fiorentina, italiano.
6. «Latro è assassino di strada, nella quale ovvero presso la quale sta in
agguato».
7. «Furo è chi opera furtivamente e subdolamente ... e si chiama anche
rapinatore dal fatto che rapisce dal di sotto o forse dal fatto che va quasi
strisciando».
8. Apparenza.
9. Ingannato.
10. Equivoco scherzoso di Marca sulle parole «latino ed etrusco» dette da
Mamfurio.
11. Parlaste voi.
12. Passo.
13. «Se è esatto chiamarlo adagio: "Affrettati lentamente", e ugualmente
anche quell'altro: "A grado a grado, a poco a poco, a passo a passo"».
ATTO TERZO 343
ta'-' attrite! 1' Oimè, forse che non me gli ha tutti involati? ^^ Or [205]
che dirà il mio Mecena?^^ Io gli risponderò con l'autorità del
prencipe di Peripatetici Aristotele, secundo «Physicorum», vel
«Periacroaseos»: «Casus est eorum quae eveniunt in minori parte, et
praeter intentionem»^^.
Barra. — Io credo che si contenterà.
Mamfurio. - 0 ingiusti moderatori di giustizia'^, si voi fa-
cessivo il vostro debito, non sarebbe tanta copia di malfattori.
Forse che non l'ha tutti presi? Oh, sceleratissimo.
SCENA XIII
Sanguino, Barra, Mamfurio, Marca
Sanguino. - 0 là uomini da bene: per che è fuggito colui?
che ha egli fatto, quel ribaldo?
Barra. — Siate ben venuto, messer mio. Noi siamo ne la
maggior angoscia del mondo: abbiamo avuto quel ladro (o non
so come vuol che sì chiama il signor magister) intra le mani; e
perché non sappiamo di lettera ^ è scappato al diavolo.
Sanguino. — Non so che raggioni son queste vostre: io ve
dimando per che è fuggito.
Mamfurio. - Mi ha involati ^ diece scudi.
Sanguino. - Come diavolo han volato diece scudi? [207]
Marca. — Ben si vede che mai andaste a scola.
Sanguino. — Subito ch'io ebbi imparata la b a, ba, mio pa-
dre me die per ragazzo al capitan Mancino^.
Mamfurio. — Veniamus ad rem"^: mi ha egli rubbati diece
scudi.
14. Della tortura.
15. Schiacciate, pestate.
16. Rubati.
17. Mamfurio chiama «suo Mecenate» il gentiluomo dei cui figli è precet-
tore.
18. «Nel secondo libro della Fisica, ovvero Intorno all'udito: "Il caso si ri-
ferisce a quegli eventi che accadono in casi eccezionali, e al di fuori di ogni
intenzionalità"».
19. I birri, nel linguaggio pedantesco di Mamfurio.
1. Siamo ignoranti, non sappiamo di letteratura.
2. Rubato, portato via. Volato: Sanguino equivoca sulla parola dotta di
Mamfurio.
3. Celebre capo di birri.
4. «Veniamo al fatto».
344 CANDELAIO
Sanguino. — Rubbato? rubbato? a voi domineì a voi domine
magisteri Bàsovi le mani, non mi conoscete?
Mamfurio. — Io vi ho, alcune ore fa, quando eravate con il
mio discepolo Pollula.
Sanguino. — Io son quello, signor domino magister. Sappiate
ch'io vi son servitor, et ho gran voglia di farvi piacere; e per ora
sappiate che vostri scudi son recuperati.
Mamfurio. — Dii velini, faxint ista superi, o utinaml^
Barra. — Oh, si farete tanto bene a questo gentil omo, mai
facestivo meglior e più degna opra: et egli non vi sarà ingrato,
et io da parte mia vi donare un scudo.
Sanguino. - Son ricuperati dico.
Marca. - L'avete voi?
Sanguino. — Non, ma cossi come l'avesse nelle mani il si-
gnor magister.
Barra. - Conoscete voi colui?
Sanguino. - Conosco.
[209] Barra. — Sapete dove dimora?
Sanguino. - So.
Mamfurio. — O superi, 0 celicoli diique deaeque omnes!
Marca. — Noi siamo a cavallo.
Barra. — Bisogna soccorrere al negocio di questo monsi-
gnore, per amor et obligo ch'abbiamo alle lettere et a'ietterati.
Mamfurio. — Me vobis comendo: mi raccomando alle vostre
cortisie.
Marca. - Non dubitate, signore.
Sanguino. - Andiamo tutti insieme, per che lo trovaremo:
io so certissimo il loco dove va ad annidarsi costui; di averlo in
mano non è dubbio alcuno. Non potrà negar il furto, per che
benché lui non mi abbia visto, io ho veduto lui fuggire.
Marca. - E noi l'abbiamo veduto fuggire dalle mani del si-
gnor maestro.
Mamfurio. — Vos fidelissimi testes^.
Sanguino. — Non bisogna rompersi la testa: o ne darà gli
scudi o lo daremo in mano della giustizia.
5. «Lo vogliano gli dèi, che i Superi me lo concedano, voglia il cielo!».
L'esclamazione è ripetuta in modo quasi analogo subito dopo da Mamfurio.
6. «Voi siete fidatissimi testimoni».
ATTO TERZO 345
Mamfurio. — Ita, ita, nil melius^: voi dite benissimo.
Sanguino. - Signor magister, bisogna che voi siate presente.
Mamfurio. — Optime. «Urget praesentia Turni^». [211]
Sanguino. — Però, andando noi tutti quattro insieme, al bat-
ter che faremo de la porta, potrà essere che quella puttana con
la quale egli dimora, consapevole del negocio, o perché lui per
qualche rima^ ne vegga, non venghino ad concederne l'entrata;
o che quell'uomo fugga, o si asconda ad altra parte: ma non
essendo voi conosciuto, son certo che lo tirarò a raggionar meco
per ogni modo sotto certe specie di cose che passano. Però sarà
bene, anzi necessario, che cangiate vestimenta, mostrandovi di
robba corta ^'^. Voi altro, messer, quale è vostro nome, si ve
piace dirlo?
Barra. - Coppino al servizio vostro.
Sanguino. - Voi messer Coppino, farete questo piacere a me
et al signor magister, il quale vi potrà far di favori assai...
Mamfurio. - Me tibi offero^K
Sanguino. — ... imprestategli lo vostro mantello, e voi vi co-
prirete di sua toga: che per esser voi più corto di persona, par-
rete un altro. E per meglio compartire, date, signor magister, il
cappello a questo altro compagno, e voi prendete la sua baretta;
et andiamo.
Mamfurio. — Nisi urgente necessitate, nefas esset habitum pro-
prium dimictere; tamen, nihilominus^^, nulla di meno, quia ita
videtur^^, ad imitazion di Patroclo che co le vesti cangiate si
finse Achille'^, e di Corebo'^ che apparve in abito di Androgeo,
e del gran Giove {poetarum testimonio) ^'^ per suoi dissegni in [213]
7. «Sì, sì, non c'è nulla di meglio».
8. «Urge la presenza di Turno» (citazione di Virgilio, Aen., II, 73).
9. Fessura.
10. Vestito corto, non l'abito talare tipico dei professori (e di Mamfurio).
11. «Mi metto a tua disposizione».
12. «Tranne il caso di urgente necessità, non è bene lasciare il proprio
abito; tuttavia, ciononostante».
13. «Poiché così par bene».
14. Allude al celebre episodio deWIliade, quando Patroclo ottiene le armi
da Achille per rianimare i Greci sconfitti e spaventare i Troiani, dando a cre-
dere che Achille stesso sia ritornato a combattere.
15. Allusione a un episodio delVEneide, quando, durante l'ultima notte di
Troia, il troiano Corebo veste le armi del greco Androgeo appena ucciso, spe-
rando così di portare confusione negli assalitori e fame strage.
16. «Per testimonianza dei poeti».
346 CANDELAIO
tante forme cangiato, deponendo talvolta la più sublime forma,
non mi dedignarrò'^ deporre la mia toga literaria: optimo mihi
proposito fine^^, di animadvertere contra''-* questo criminoso abo-
minando.
Barra. — Ma ricordatevi, signor mastro, di riconoscere la
cortesia di questi galant'ommi, che per me non ve dimando
nulla.
Mamfurio. - A voi in comuni destino la terza parte de gli
ricovrati 2° scudi.
Sanguino. — Gran mercé alla vostra liberalità.
Barra. — Or su andiamo andiamo.
Mamfurio. — Eamus dextro Hercule^K
Sanguino, Marca. - Andiamo.
[215] [Fine dell'atto terzo]
17. Rifiuterò.
18. «Proponendomi rottimo fine».
19. Punire.
20. Recuperati.
21. «Andiamo col favore di Ercole».
ATTO QUARTO
SCENA I
Signora Vittoria sola
Aspettare e non venire, è cosa da morire. Si se farà troppo
tardi non si potrà far nulla per questa volta: e non so si se potrà
di bel nuovo offrirsi tale occasione, come si presenta questa
sera, di far che questa pecoraccia raccoglia i frutti degni del suo
amore. Quando mi credevo di guadagnar una dote co l'amor di
costui, sento dir che cerca d'affatturarmi ^ con l'avermisi for-
mata in cera. E potrebbe giamai l'unita forza fatta del profondo
inferno, gionta alla efficacia che si trova ne' spirti de l'aria e
l'acqui, far ch'io possa amar un che non è soggetto amoroso? Si
fusse il dio d'amore istesso, bello quanto si voglia, si sarà egli
povero o ver (che tutto viene ad uno) avaro, ecco lui morto di
freddo; e tutto il mondo agghiacciato per lui. Certo quel dir
«povero, over avaro», è un miserabile e svergognatissimo epi-
teto, che fa parer brutti i belli, ignobili i nobili, ignoranti i savii,
et impotenti i forti. Tra noi che si può dir più che reggi, monar-
chi et imperadori? questi pure, si non arran de quibus^, si non
farran cerere gli de quibus, saran come statue vecchie d'altari
sparati', a' quali non è chi faccia riverenza. Non possiamo non [217]
far differenza tra il culto divino e quello di mortali. Adoriamo
le sculture e le imagini, et onoriamo il nome divino scritto,
drizzando l'intenzione a quel che vive. Adoramo et onoramo
questi altri dèi che pisciano e cacano**, drizzando la intenzione
e supplice devozione alle lor imagini e sculture, per che me-
1. Farmi il maleficio, conquistarmi per forza di magia.
2. Il denaro.
3. Senza parati, senza ornamenti.
4. La signora Vittoria allude con disprezzo a re e prìncipi, in contrapposi-
zione, in quanto uomini, agli dèi del Cielo.
348 CANDELAIO
diante queste premiino i virtuosi, inalzino i degni, defendano
gli oppressi, dilatino ^ i lor confini, conservino i suoi, e si fac-
cino temere dall'aversarie forze: il re dumque et imperator di
carne et ossa, si non corre sculpito, non vai nulla. Or che
dumque sarà di Bonifacio che, come non si trovassero uomini
al mondo, pensa d'essere amato per gli belli occhii suoi? Vedete
quanto può la pazzia. Questa sera intenderà che possan far con-
tanti; questa sera spero che vedrà l'effetto della sua incanta-
zione. — Ma questa faccia di strega che fa tanto che non viene?
Oh, la veggo in fine.
SCENA II
Lucia, signora Vittoria
Lucia. — Voi siete equa, signora?
Signora Vittoria. - Non possevo resister dentro col tanto
aspectarti: vedi che passarà la comodità', che questa sera ab-
biamo per questi uomini. Avete parlato a la moglie di Boni-
facio?
Lucia. — Io gli ho tutta la verità narrata, et oltre di gran
punti d'avantaggio^: di sorte che ella tutta s'infiamma et arde
[219] di convencere suo marito in questo fatto. Anzi lei ha pensato
un'altra cosa che molto mi piace, ciò è che gli improntiate' vo-
stra gonnella e manto, per dui serviggi: et a fin che non sii co-
nosciuta al venir et all'entrar et uscir di casa vostra; et anco per
che, negli abbracciari che gli faremo far al buio, venghi a cono-
scerla per signora Vittoria in tutte l'altre parte fuor ch'il volto,
il qual per il camino portarà amantato secondo la vostra con-
suetudine"*: e poi dentro la camera per un pezzo gli faremo
aspettar il lume, tanto che possan far^ per una volta.
Signora Vittoria. - Sì, ma bisognarà pure che lei lo risa-
5. Ampliano, con la loro conquista. Tutto il monologo della signora Vitto-
ria è investito dalla violenta polemica del Bruno contro la religione e contro i
potenti e i sovrani.
1. Occasione.
2. Molto di più.
3. Imprestiate.
4. Alle meretrici erano imposti particolari segni che le distinguessero; a Na-
poli, evidentemente, dovevano andare col volto coperto.
5. In senso osceno.
ATTO QUARTO 349
luti e gli risponda qualche parola: e sarà difficile che non la
venghi a conoscere nella voce.
Lucia. - Oh, provedere a questo è la più facil cosa del
mondo: io gli dirò che parli piano e sotto voce, per che gionte a
muro a muro son de vicine che odono tutto quel che si dice Ili
dentro.
Signora Vittoria. — Voi dite assai bene: lei farà finta de
temer d'essere udita da gli altri di casa e da' vicini. — Chi è che
viene?
Lucia. — Messer Bartolomeo.
SCENA III
Signora Vittoria, messer Bartolomeo, Lucia
Signora Vittoria. — Dove va, messer Bartolomeo?
Bartolomeo. - Vo al diavolo. [221]
Lucia. — Più presto trovarai costui che l'angelo Gabriello.
Bartolomeo. — Madonna portano velie, accordaliuto': per
che gli angeli non sono cossi affabili come diavoli, lo mondo
vien prò vesto di te e di tue pari per scusar quelli^.
Signora Vittoria. - Forse che ci va troppo per farti montar
il senapo: il molto frequentar e prossimarti al fuoco t'ha disec-
cato, tanto che facilmente la rabbia ti predomina, dai dentro a
l'ingiurie senz'esser provocato.
Bartolomeo. — Non dico a voi signora Vittoria, che vi
porto ogni rispetto et onore.
Signora Vittoria. — Come non dite ad me? vi par che que-
sta ingiuria che dite a lei non resulti criminalmente^ in mia
persona? Andiamone, Lucia.
Bartolomeo. - Non cossi in furia, signora: io burlo con Lu-
cia che più mi tenta, si più mi vede fastidito.
Lucia. — Sì, sì, messer sì, in tutto Napoli non è peggio lingua
che la tua, che ti sii mozza, lingua da risse e da discordia.
Bartolomeo. - Al contrario di cotesta tua, di concordia,
pace et unione.
1. Allusione al fatto che Lucia fa la ruffiana.
2. Gli angeli (che non sono affabili con gli uomini perché il mondo è pieno
di persone come Lucia).
3. Da essere denunciato come un delitto.
350 CANDELAIO
SCENA IV
Bartolomeo solo
Cancaro se mangi quante ruffiane e puttane sono al mondo:
[223] starebbono fresche le potte s'aspettassero la nostra rendita, idest
l'entrata; per me tanto, sicuramente l'aragne' vi potran far la
tela. — Di metalli dicono che il più grave è l'oro: e tutta via
nulla cosa fa andar l'uomo più sciolto, leggiero et isnello che
questo: non ogni peso et ogni cosa che ne s'aggionge, ne ag-
grava; ma se ne trova una tale che è tanto lieve che, quanto è
più grande, fa più ispedito^ e destro. L'uomo senza l'argento et
oro, è come ucello senza piume: che chi lo vuol prendere, sei
prende, chi sei vuol mangiar, sei mangia; il qual però, s'ha
quelle, vola, e se n'ha tante più, tanto più vola, e più s'appliglia
ad alto. Messer Bonifacio quando s'arrà scrollata la borsa e la
schena^, si sentirà più grave-*, al dispetto di tutti suoi nemici. -
Ma ecco a tempo quel bel paranimfo' inamorato; non porta più
la bella cappa: bendette siino le mani a quel mariolo; adesso
corre all'odore ^
SCENA V
Messer Bartolomeo, messer Bonifacio
Bartolomeo. — Affrettati, affretta un po' più, messer Boni-
facio: poco fa ho veduto passar il tuo core, la tua anima per
equa; ti giuro che adesso veggendola mi son ricordato di tuoi
amori: e per ciò considerandola un poco più attentamente, mi
ha parsa cossi bella, che mi s'è tanto gonfiata la vena maestra,
che non posso più dimorar dentro le brache'.
Bonifacio. - Basta: mi doni la baia, messer Bartolomeo. Io
1. Ragni.
2. Rapido, leggero.
3. Avrà vuotato il portafoglio e, per metafora, i testicoli e la schiena dopo
aver posseduto la donna amata.
4. Malcontento.
5. Ruffiano.
6. A cercare di recuperare la cappa che gli è stata portata via.
I. Allusioni oscene.
ATTO QUARTO 35 1
sono inamorato, io sono incatenato: voi fate per li nominativi 2,
et io per li aggetivi; voi co la vostra alchimia, et io co la mia;
voi al vostro fuoco, et io al mio.
Bartolomeo. — Io al fuoco di Vulcano, e voi a quel di Cu-
pido. [225]
Bonifacio. - Vedremo chi di noi farà meglior riuscita.
Bartolomeo. - Vulcano è un uomo raggionevole, discreto e
da bene; quest'altro è un putto senza raggion, bardaselo sfonda-
to^: il quale a chi non fa disonore, fa danno; et a chi non fa
l'uno, fa l'uno e l'altro.
Bonifacio. - Beato voi s'arete cossi buona riuscita, come
avete buon conseglio.
Bartolomeo. - Sfortunato voi si la madre di pazzi non vi
aggiuta-^.
Bonifacio. - Volete dir la sorte. Ve dirrò, messer Bartolo-
meo: alle buone riuscite ogn'un sa trovar quella raggione che
già mai vi fu; ancor ch'io maneggi miei affari con furia di porco
salvatico^, e mi succedon bene, ogn'un dirà: «Costui ha bel di-
scorso, ha saputo prender il capo del negocio cossi e cossi, et ha
ben fatto». Per il contrario, dopo' ch'io arrò compassato*^ i miei
negocii con quante filosofie giamai abbiano avuto que' barbife-
ri'' mascalzone di Grecia e de l'Egitto, si per disgrazia la cosa
non accade a proposito, ogn' un mi chiamarà balordo. Si la cosa
passa bene, «Chi l'ha fatto, chi l'ha fatto?»: «Il gran consiglio
pariggino^»; si la va male, «Chi l'ha fatto, chi l'ha fatto?»: «La
furia francesa»^o. Oltre, «Per che questo, per che?»: «Per conse-
glio di Spagna» '1; «Perché, perché?»: «Per l'alta e lunga spagno-
2. Nomi (tutta la frase vuol dire che diversi sono gli oggetti delle passioni
che infiammano i due personaggi).
3. Bardassa, effeminato, che si dà a tutti.
4. Allusione a Venere, madre di Cupido; pazzi sono gli innamorati; aggiu-
ta: aiuto.
5. Cinghiale.
6. Concluso.
7. Barbuti, pieni di saggezza e di sapienza, perché barbuti sono per antono-
masia i filosofi.
8. Malandrino, masnadiero.
9. La saggezza francese.
10. L'impeto cieco e non sempre ragionevole dei Francesi.
11. Gli Spagnoli avevano fama di abilità diplomatica e di grande prudenza
politica.
352 CANDELAIO
la»^^. «Chi ha guadagnato e mantiene tanti bei paesi ne l'Istria,
Dalmazia, Grecia, nel Adriatico mare e Gallia Cisalpina? chi
orna Italia, l'Europa et il mondo tutto di una tanta Republica a
[227] nisciun tempo et a nisciun modo serva?»: «Il maturo conseglio
vineziano»!^; «Chi ha perso Cipri'", chi l'ha perso?»: «La coglio-
neria di que' magnifici '5, la avarizia di que' messeri Pantalo-
ni»'^. All'ora dumque si fa conto del giudizio, et è lodato,
quando la sorte et il successo è buono.
Bartolomeo. - Tanto che volete dir a nostro proposito:
«Ventura dio, niente senno basta»'". — Veggio venir Lucia: io ve
la lascio. Ho inviato alla botteca di Consalvo il mio garzone per
certa polvere, e non vede ora di venire: bisogna ch'io vi vadi.
[Bonifacio.] - Andate: ch'io ho da raggionar con costei per
altri affari, che per quei che voi credete.
SCENA VI
Bonifacio, Lucia
[Bonifacio.] - Costei per la prima mi chiederà de danari:
son certo che sarà questo il proemio; e la mia risoluzion sarà
«cazzo in potta, e danari in mano»: ch'a la fine non voglio che
femine sappiano più di me. - Ben venga Lucia; che mi porti di
nuovo?
Lucia. — Oh, misser Bonifacio dolce, io non ho tempo di sa-
lutarti, per che vi bisogna parlar di soccorrer presto al fatto di
[229] questa signora infelicissima.
12. Allusione all'alterezza e alla boria spagnola.
13. Anche Venezia aveva nome di consumata abilità diplomtica e di
grande astuzia politica. Gallia Cisalpina è la Lombardia orientale e il Veneto,
conquistati dai Veneziani e diventati per antonomasia il dominio «di Terra».
Il nome è di origine latina, e si riferisce all'Italia settentrionale che era stan-
ziata dai Galli, in contrapposizione alla Gallia al di là delle Alpi, nell'attuale
Francia.
14. Cipro era stata conquistata dai Turchi nel 1573 (e l'episodio fu conside-
rato un segno di decadenza di Venezia).
15. Patrizi veneziani.
16. Soprannome dei Veneziani, dal nome della loro maschera.
17. Se si ha la fortuna favorevole, non è necessaria nessuna abilità o sag-
gezza.
ATTO QUARTO 353
Bonifacio. — Fate buone premisse, se volete buona conclu-
sione. - Il mal de la borsa i.
Lucia. - La si muore...
Bonifacio. — Quando sarà morta la faremo sepelire, disse un
santo Padre ^.
Lucia. - Io dico che la nostra signora Vittoria si muore per
voi crudele. Questa è la vita che possete donargli, e che gli pro-
mettete? voi menate passatempi, e quella povera gentil donna si
risolve tutta in suspiri e lacrime: che si voi la vedrete non la
conoscerete più, non vi parrà forse bella come vi solca parere;
non so si in voi potrà tanto l'amore quanto la compassion di
lei.
Bonifacio. — Che, ha bisogno di danari?
Lucia. — Che vói dir danari? che vuol dir danari? vadano in
mal'ora^ quanti ne sono al mondo: si voi ne volete da lei, la ve
ne darrà.
Bonifacio. — Or questo non..., ah! ah! ah! questo non crederò
io, ah! ah! ah! ah!
Lucia. - Dumque non lo credete, crudelaccio, senza pietà,
uh, uh, uh, uh...
Bonifacio. - Voi piangete?
Lucia. — Piango la crudeltà vostra, e la infelicità di quella
signora... uh uh, misera me, meschina me, che mal'ora t'ha
presa adesso? mai viddi né udivi "• amor posser tanto in petto di
femina: sin al giorno d'oggi la vi amava certo... uh uh uh... da
alcune ore in equa non so che fantasia l'abbia presa, che non ha [231]
altro in bocca che «Messer Bonifacio mio, cor mio, viscere del-
l'anima mia, mio fuoco, mio amore, mia fiamma, mio ardore».
Vi giuro che son quindici anni ch'io la conosco, tanto piccolina,
sempre l'ho veduta d'un medesmo volto, nell'amor freddissima;
adesso si voi verrete la trovarrete poggiata sopra il letto, col
viso in giù sopra un coscino^ che tiene abbracciato con ambe le
braccia, e dire (che me ne vien rossore e pietà): «Ahi, messer
1. La brama del denaro (e ce anche un'allusione oscena).
2. È una battuta scherzosa di Bonifacio, che attribuisce a un'autorità una
massina lapalissiana, cioè a un papa.
3. Sventura.
4. Udii.
5. Cuscino.
354 CANDELAIO
Bonifacio mio, chi me ti toglie? Ahi, mia cruda fortuna: quando
m'ha egli voluta, me gli hai negata; son certa, adesso che io lo
bramo e per lui mi consumo, che me lo negarai. Ahi, cuor mio
impiagato »^
Bonifacio. - È possibile? può esser che lei dica questo? pos-
sono essere tante cose?
Lucia. - Voi, voi Bonifacio, mi farete far cosa, che già mai
feci in vita mia: voi mi farete rinegare... uh, uh, uh, uh, uh...
povera signora Vittoria mia, che pessima sorte tua; in mano di
chi sei incappata... uh, uh, uh... Ora, ora, adesso m'accorgo che
voi mai la amasti vo''; e che in tutto Napoli non è uomo più
finto di te... uh, uh uh uh uh, oimè, desolata me: che rimedio
potrò porgerti, poverina?
Bonifacio. - Uh uh, ti credo, ti credo. Lucia mia: non più
piangere. Non è ch'io non credesse quel che voi dite, ma mi
maravigliavo: che influenza nova del cielo può esser questa che
mi voglia faurir tanto, che quella mia signora la qual (mercé
del mio intenso amore) sempre me si ha mostrata non manco
cruda che bella, quel petto di diamante sii cangiato?
Lucia. - Cangiata? cangiata? s'io non l'avesse reprimuta*,
volea venire a ritrovarvi in casa vostra. Io li dissi: «Folla^ che
[233] voi siete; voi gli farete dispiacere: che dirà sua moglie? che dirà
tutto il mondo che vi vedrà. Ogn'un dirà: "Che novità è questa?
è impazzata costei?". Non sapete voi ch'egli vi ama? avete voi
persa la memoria de sui trattamenti insin al giorno d'oggi? Siete
ben cieca e forsennata, se non credete ch'egli si stimarà beatis-
simo, quando me si udirà dire che voi desiderate che egli venga
a voi»...
Bonifacio. - E chi ne dubita? avete detto l'evangelio'".
Lucia. - ... All'ora quell'afflitt'alma (come dismenticata di
tanti segni d'amore che voi gli avete mostrati et io gli ho donati
ad intendere) disse: «È possibile, o cielo, cielo a me sola crudele,
che possa lui venir ad me quel bene, che non fai che mi sia
lecito di cercarlo?»
6. La piaga d'amore è metafora tipica del linguaggio petrarchesco.
7. Amaste voi.
8. Trattenuta.
9. Pazza.
10. Una verità indiscutibile.
ATTO QUARTO 355
Bonifacio. — Uh, uh, uh, dubita dumque la vita mia del-
l'amor mio?
Lucia. — Voi sapete che dove troppo cresce il desio, suol al-
tretanto indebolirsi la speranza; e forse ancora la gran novità e
mutazione che vede in se medesma, gli fa per il simile suspettar
mutazion dal canto vostro. Chi vede un miracolo, facilmente ne
crede un altro.
Bonifacio. — Più presto persequitaranno i lepri le balene, i
diavoli se farann' il segno de la santa croce, sarrà più presto un
bresciano uomo cortese ^^ più presto Satanasso dirrà un Pater et
Ave Maria per le anime che sono in purgatorio, che io esser
possa giamai senza l'amor della mia tanto amata e desiderata
signora. Or dumque senza più parole, dove andiate cossi carga-
ta^^ voi? [235]
Lucia. — Ad una vicina per restituirgli questi drappi co i
quali, facendo io una via e dui serviggi, venevo per ritrovarvi
in vostra casa; ma la buona fortuna me vi ha fatto rincontrar
qua. Che risoluzione vogliam prendere? Bisogna, spedito ch'arrò
questa facendola i^, ritornar presto subbito subito ad solaggiar'""
quella meschina, dicendogli che vi ho visto e parlato, e che sar-
rete tosto a lei.
Bonifacio. - Promettetegli di certo, e ditegli che questo è il
più felice giorno ch'io abbia veduto in tutta mia vita: che mi
vien concesso di baciar quel bellissimo volto ch'io tanto adoro,
che tien le chiavi di questo afflitto core.
Lucia. - Afflitto core è il suo: bisogna non mancar que-
sta sera, atteso che lei non è per mangiare né per dormire né
per riposare alcunamente; più tosto per morire, si non ve si
vede a presso: non la fate più lagnar, vi priego (si pietà giamai
avesti al core), che la veggio consumar com'una candela ar-
dente.
Bonifacio. - Adesso adesso vo ad ispedir un negocio; e poi
o veramente mi verrete, o vi verrò ad ritrovare.
11. Il Bruno era stato a Brescia, e forse questa battuta nasce da un ricordo
autobiografico.
12. Carica.
13. Faccenduola.
14. Consolare, sollevare.
356 CANDELAIO
Lucia. — Sapete quale è il negocio che dovete fare? Per suo e
vostro onore bisogna riparare alla suspizion delle persone del
mondo, si fusti veduto uscire o entrare in sua casa: voi sapete
che le vicine, sino e mezza notte, son sempre alle fenestre; e chi
va e chi viene. È dumque necessario stravestirvi, con accomo-
darvi di una biscappa^^ simile a quella di messer Gioan Ber-
nardo, il qual senza suspizione alcuna suole entrar in questa
casa; e non sarà fuor di proposito, si per sorte fussivo guardato
più da presso, di portar una barba negra posticcia simile alla
sua: per che a tal guisa potremo andar insieme, et io v'intro-
durrò dentro la stanza. Cossi farrete la cosa con più satisfaz-
zione della signora, che con questo si persuaderà che voi amate
ancora il suo onore.
Bonifacio. - Voi avete benissimo pensato: io ho la persona
né più né meno grande di quella di messer Gioan Bernardo;
una biscappa simile alla sua non bisogna ch'io la vadi cer-
cando, per che penso averne una intra le mani. Adesso con que-
sto medesmo passo me ne vo a Pellegrino mascherare'^: e mi
farò accomodare una barba posticcia che sii a proposito.
Lucia. — Andate dumque vi priego, e speditevi presto. A dio,
che vo a levarmi questa soma da le spalli.
Bonifacio. - Va in buona ora.
SCENA VII
Bonifacio solo
Per quel che costei me dice, io credo di aver approssimata la
imagine tanto presso al fuoco che quasi si sarebbe liquefatta:
penso d'averla troppo scaldata; guarda come la povera donna
viene tormentata dall'amore: per mia fé che non ho possuto
contener le lacrime. Si messer Scaramuré (che Dio li dia il bon-
giomo e la buona sera: che adesso conosco per propria espe-
rienza che è un galantissimo uomo) non mi avesse avertito con
dirmi «Guarda che non si liquefacela», io certamente arrei fatta
qualche pazzia ch'io non ardisco tra me stesso dirla. Or va nu-
mera l'arte maggica tra le scienze vane.
15. Cappa molto ampia.
16. Venditore o affittatore di maschere.
ATTO QUARTO 357
SCENA Vili
Marta, Bonifacio
Marta. — Ecco equa quel pezzo d'asino, il quale volesse Dio
che fusse un asino intiero, che potrebbe servire a qualche cosa.
- Bonasera, messer Buon-in-faccia^.
Bonifacio. — Ben venga la cara madonna Marta. Vostro ma-
rito è filosofo, bisogna che voi siate filosofessa; però non è mara-
viglia se fate notomia^ de vocaboli: che cosa intendete per quel
«Buon in faccia»? Non credete ch'io ve sia amico alle spalli et in
assenzia, come in presenzia? Avete torto a darmi la berta.
Marta. — Come vi sta la borsa? ^
Bonifacio. - Come il cervello di vostro Martino'» (volsi dir
marito), quando la non ha carlini dentro.
Marta. — Io dico di quella di sotto.
Bonifacio. — Gran mercé a vostra cortesia. Voi andate cer-
cando il male come i medici: si voi vi potessivo remediare, vi
farei intendere il come e quale; si volete della broda, andate a
Santa Maria della Nova^. [241]
Marta. — Volete dir ch'io son cosa da frati ^, ser coglione?
Bonifacio. — Io ve dirrò d'avantaggio: voi siete cosa da ce-
miterio^, per che una femina che passa trenta cinque anni, deve
andar in pace, ideste in purgatorio ad pregar Dio per i vivi.
Marta. — Questo niente manco doviamo dir noi femine di
voi altri mariti.
Bonifacio. - Dominedio non ha cossi ordinato, perché ha
fatto le femine per gli omini e non gli uomini per le femine; e
son state fatte per quel servizio: e quando non son buone a
quello, fàccisen presente al povero diavolo, per eh' il mondo
1. Gioco di parole di Marta col nome Bonifacio, il quale ribatte con qual-
che asprezza, sospettando che Marta voglia beffarlo.
2. Anatomia.
3. Gioco di parole osceno.
4. Così Bonifacio chiama Bartolomeo per la sua scempiaggine, popolar-
mente allusiva col nome proprio di Martino.
5. I frati di Santa Maria Nova distribuivano giornalmente la minestra ai
poveri. Ma qui tutto il discorso è osceno.
6. Proverbialmente, i frati erano detti di gusti grossolani in fatto di amori.
7. Donna decrepitai, sul punto di morire.
358 CANDELAIO
non le vuole. Ad altare scarrupato^ non s'accende candela; a
scrigno sgangherato non si scrolla sacco '^.
Marta. - Non è vergogna ad un uomo attempato qual voi
siete, di farsi sentir parlare in questa foggia? A i giovanetti le
giovanette, a giovani le giovane, e più vecchi si denno conten-
tar delle più stanti ve'".
Bonifacio. - E si non, va le apicchi '^ al fumo e falle staso-
nar'2 dentro un camino. Non è questa la ricetta che ferono i
medici al patriarca Davitte'^, e poco fa ad un certo Padre san-
to'■*, il qual morse '5 dicendo «Mene, mene: non più baser»; ma
costui scaldò troppo, e lui dovea esser tettato '^ e tettava; e però
[243] non è maraviglia, se...
Marta. — È per che puose troppo pepe al cardo '^.
Bonifacio. - In conclusione, madonna cara: a gatto vecchio
sorece'^ tenerello.
Marta. - Questo, come intendete per i vecchii, perché non
intendete per le vecchie?
Bonifacio. - Per che le donne son per gli uomini, no gli
omini per le donne.
Marta. - Pur Uà: il mal è per che voi uomini siete giodici e
parte; ma pazze son de noi altre quelle che...
Bonifacio. — Quelle che si lasciano patire'^.
Marta. — Non voglio dir questo io, ma qualche vostro degno
castigo e contra cambio.
Bonifacio. - Meste essi ad altre, et esse ad altri.
Marta. - Ih, ih, ih, ih.
8. Rovinato, diroccato.
9. Metafora oscena.
10. Attempate.
11. Valle ad appendere.
12. Stagionare.
13. Secondo il racconto biblico (7 Re, I, 1-4) il re Davide, in vecchiaia, per
scaldarsi dormiva con una fanciulla.
14. Secondo un racconto molto diffuso, papa Innocenzo Vili sarebbe vis-
suto gli ultimi mesi nutrendosi solo di latte di donna II fatto è qui interpre-
tato in senso osceno, come appare dalle parole fatte dire al papa in dialetto
franco-italiano, e dal successivo commento.
15. Morì.
16. Essere toccato sessualmente.
17. Altra allusione oscena.
18. Sorcio, topo. È proverbio napoletano che allude alla preferenza per le
ragazze giovani da parte degli uomini anziani.
19. In senso osceno.
ATTO QUARTO 359
Bonifacio. - Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah.
Marta. — Come trattate la vostra moglie? credo che la la-
sciate morir di sete. È pur lei giovane e bella: ma che? sii buona
la vianda^o quanto si voglia, l'appetito si sdegna si non si varia,
ancor che si dia di botto a cose peggiori; non è vero?
Bonifacio. — Non è vero, voi? Voi non sapete quel che vo-
lete dire: parlate per udir dire, voi? Or lasciamo le burle, ma-
donna Marta mia. Io so che voi sapete di molti secreti: vorrei
che m'agiutassi ad farmi vittorioso. Io gioco con mia moglie
questa notte di qualche cosa, che farro più di quattro poste: in- [245]
segnatemi di grazia qualche droga o pozione, per che mi man-
tegna dritto sul destriero ^1.
Marta. — Recipe acqua di rene, oglio di schene, colatura di
verga e manna di coglioni; ad guantoni suffrica, mesceta et fiat
potum^^; e poi vi governarete in questa foggia: videlicet, statevi
su le staffe, a fin che, galoppando galoppando, l'arcione de la
sella non vi rompa il culo^^.
Bonifacio. - Per san Fregonio^^ voi siete una matricolata
maestra. Son costretto a lasciarvi per alcun necessario affare. A
dio, m'avete satisfatto.
Marta. - Adio. Si vedete quell'affumato di mio marito, di-
tegli ch'io l'ho mandato ad cercare, e ch'il cerco per cosa che
importa.
SCENA IX
Marta sola
Nez couppé n'ha fante de lunettes^, solea dir quel buon compa-
gno Gianni di Brettagna^ (benedetta sia l'anima sua che mi
puose la lingua francesa in bocca, ch'ancora non avevo dodieci
20. Carne.
21. Allusione oscena.
22. Nel latino alquanto approssimato di Marta, vuol dire: «Frega quanto
basta, mescola e fanne una pozione».
23. Tutto questo discorso è osceno.
24. Parola oscena personificata.
1. Proverbio francese che significa: «A naso mozzo non sono necessari oc-
chiali».
2. Nome proprio di persona che Marta conobbe (sessualmente) da ragazzina.
360 CANDELAIO
anni e mezzo'): voleva egli inferire a proposito che quanto lui
era più povero ch'il re di Francia, tanto il re di Francia è più
bisognoso di lui. Chi più ha, più pensa, più richiede, e manco
[247] gode. Il prencipe di Conca^ mantiene il suo principato con rice-
verne un scudo e mezzo il giorno; il re di Francia a pena può
mantener il suo regno con spenderne tal volta diecemilia il
giorno. Pensa dumque chi di questi dui è più ricco, e chi deve
essere più contento: quello che ha un poco da ricevere, o quello
che ha molto da dare? Quando fu la rotta di Pavia^, udivi dire
«Al re di Francia bisognano più di otto conti d'oro "^«i il pren-
cipe di Conca quando mai ebbe bisogno più che de venti o
venti cinque scudi? quando mai sarà possibile, che gli ne biso-
gnano d'avantaggio? Or vedi chi di questi dui prencipi è manco
bisognoso. Meschina me: io lo dico, io lo so, io l'esperimento.
Ero più contenta, quando questo zarrabuino^ di mio marito
non avea tanto da spendere, che non potrei essere al dì d'oggi.
All'ora giocavamo a gamba-a-collo, alla strettola, a infilare, a
spaccafico, al sorecillo, alla zoppa, alla sciancata, a retoncunno,
a spacciansieme, a quattro-spinte, quattrobotte, trepertosa, et un
buchetto^. Con queste et altre devozioni passavamo la notte e
parte del giorno. Adesso perché ha scudi di vantaggio per la
eredità di Pucciolo (che gli sii maldetta l'anima anco si fusse in
seno di Abramma)*^, ecco lui posto in pensiero, angosce, trava-
gli, tema di fallire, suspicion d'esser rubbato, ansia di non essere
ingannato da questo, assassinato da quell'altro; e va e viene, e
trotta e discorre, e sbozza et imbozza, e macina e cola ^°, e soffia
3. Marta allude al primo rapporto che ella ebbe con Gianni, che la baciò,
secondo il costume francese, mettendole la lingua in bocca.
4. Giulio Cesare di Capua fu il primo principe di Conca, al tempo del
Bruno, ed ebbe fama di grande parsimonia. Conca è una località in provincia
di Caserta.
5. Nel 1525 l'esercito francese, guidato da Francesco I, fu sconfitto dagli
Spagnoli guidati dal marchese Ferdinando Francesco d'Avalos, e il re stesso fu
catturato e imprigionato in Spagna. Marta allude al riscatto che Francesco I fu
costretto a pagare agli Spagnoli per essere liberato e ritornare in patria.
6. Dallo spagnolo cuenio, che significa «milione».
7. Babbuino, sciocco.
8. Sono tutte allusioni alle pratiche erotiche di cui Marta era maestra {sore-
cillo: propriamente «topolino»; pertosa: «pertugi»).
9. Nel seno di Abramo riposano le anime dei giusti secondo la concezione
ebraica.
10. Allude al gran darsi da fare di Bartolomeo coi suoi alambicchi.
ATTO QUARTO 361
vintiquattro ore del giorno. Tra tanto oggi gran mercé a Barra:
che se lui non fusse, potrei giurare, che più di sette mesi sono, [249]
che non me ci ha piovuto i'. Ieri feci dir la messa di sant'Elia
contra la siccità '2; questa mattina ho speso cinque altre grana''
de limosina per far celebrar quella di san Gioachimo et Anna'-^,
la quale è miracolosissima ad riunir il marito co la moglie. Si
non è difetto di devozione dal canto del prete, io spero di rice-
vere la grazia; benché ne veggo mala vegilia: che in loco di la-
sciar la fornace e venirme in camera, oggi è uscito più del dover
di casa, che mi bisogna a questa ora di andarlo cercando. Pure
quando men la persona si pensa, le gracie si adempiscono. —
Oh, mi pare udirlo.
SCENA X
Messer Bartolomeo, Marta, Mochione
Bartolomeo. — O misero, sfortunato e desolato me...
Marta. - Ahi lassa, che lamenti son questi?
Bartolomeo. — ... Oimè, sì, questo è cossi: io ho perso peggio
che Foglio et il sonno. Dimmi, poltroncello, t'ha egli detto cossi
a punto? guarda bene.
Mochione. — Signor sì; dice: «Alla fine io non ho di questa
polvere, e non so si se ne ritrova», e che la li fu data da messer
Cencio, e dice che lui non sa che cosa sii il pulvis Christi. [251]
Bartolomeo. - 0 sconfitto Bartolomeo!
Marta. — lesus, santa Maria di Piedigrotta, vergine Maria
del rosario, nostra Donna di Monte, santa Maria Appareta',
advocata nostra di Scafata! ^ Alleluia, alleluia, ogni male fuia^.
11. Allusione oscena.
12. Il profeta Elia annunciò la pioggia dopo il flagello della siccità durato
tre anni (7 Re, XVIII). Marta continua la metafora oscena.
13. Moneta di piccolissimo valore (lo stesso che grano).
14. I genitori di Maria Vergine.
1. Santa Maria a Parete, venerata in santuario presso Nola. Marta si rivolge
ad altri santuari della Madonna venerati nei dintorni di Napoli e della provin-
cia per rendere grazie del fatto che il marito è stato beffato e ingannato dalla
sua illusione di trasformare in oro la materia vile per forza di alchimia.
2. Scafati, grosso paese in provincia di Salerno. Advocata è il nome con cui
la Madonna è invocata nel Salve Regina, la preghiera attribuita a san Tom-
maso.
3- Fugga.
362 CANDELAIO
Per san Cosmo e Giuliano, ogni male fia lontano. Male male,
sfiglia sfiglia'*, va lontano mille miglia. — Che cosa avete, Barto-
lomeo mio?
Bartolomeo. - E tu sei equa a questa ora, alla mal'ora? va
col tuo diavolo in casa, ch'io voglio andar a risolvermi, si me
debbo venir ad apiccar o non. Andiamo, Mochione, ad ritrovar
costui: lo hai lasciato in bottega?
Mochione. - Signor sì. Il camin più più corto è questo.
Marta. - Amara me: voglio tornar in casa ad aspettar la
nova. Temo di esser stata esaudita mal per me: io non ho core
di dire quel che penso. Salve, regina, guardane da mina. Giesu
auto et transi per medio milloro mibatte^. — Costui che mi vien
dietro cossi pian piano, certo deve essere qualche spia di ma-
rioli: è bene ch'io m'affretti.
SCENA XI
Mamfurio solo
Ne gli adagiani' Erasmi, dico ne gli Erasmi adagiani (io
sono allucinato), voglio dire ne gli erasmiani Adagii, ve n'è
uno tra gli altri il qual dice: «A toga ad pallium^». Questo
adimpiendosi in me ipso^, mi fa che questo giorno sii nigro
signandus lapillo'*. 0 caelum, 0 terras, 0 maria Neptuni^: dopo
essermi stati tolti di mano i danaii da un vilissimo ture, sotto
pretesto di volermi essere ufficiosi*^ tre altri me si sono offerti
e presentati; li quai, non inquam dexteritate, sed sinisteritate
quadam'^, lasciandomi sovr'il dorso un depilato^ palliolo^, pro-
4. Cammina
5. Corruzione popolaresca di un passo di Luca, IV, 30: «Ipse autem, tran-
siens per medium illorum, ibat» («Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne an-
dava»).
1. Sono un'opera di Erasmo da Rotterdam (adagiani: sentenze).
2. «Dalla toga al mantello» (e il proverbio indicava il passaggio da una
condizione superiore a una inferiore).
3. «Proprio in me».
4. «Da segnarsi con una pietruzza nera» (a indicare che è giorno sfortu-
nato).
5. «0 cielo, o terra, o mari di Nettuno!».
6. Cortesi.
7. «Non dico con atto destro, ma con atto sinistro».
8. Spelacchiato.
9. Mantello corto e di poco valore.
ATTO QUARTO 363
que capitis operculo^^ un capiziolo'^ vetusto (che versus centrum
et in medio, prue nimii sudoris densitudine^^ appare incerato, vel
inpiceato^^, vel coriceato^'', vel coriaceo, seu di cuoio), con il
mio pileo^^, la mia toga magisterial han toltami. Proh deùm
atque hominum fidem^^, eccome delapso a patella ad prunas^'^.
Mi han persuaso con il dire «Venite nosco ^^, che vi farrem
trovare il fure»: sono con essi loro bona fide^'^ andato, sin [255]
quando gionti ad di certe {ut facile crediderimy^ meretricule il
domicilio, dove entrati mi fecero rimaner nell'atrio inferior di-
cendomi «E ben che noi prima entriamo ad prevenirlo, a fin
che non paia che ex abrupto con la tua presenza vogliamo
confonderlo: però aspettate equi, che tosto da alcun di noi sar-
rete chiamato per decemere co la minor excandescentia^^ che si
potrà quod ad restitutionem attinet^^»; or avendo io per un
grand'intervallo di tempo aspetato deambulando^^, pensando a
gli argumenti coi quali io dovevo confonder costui, tandem^'^
non essendo ver'un che mi chiamasse, per certe scale asceso in
alto, toccai del primo cubiculo ^5 porta: dove mi fu risposto
che andasse oltre, perché ivi non era, né vi era stato altro che
que' domestici presenti. Aliquantolum progressus^^, batto l'uscio
di un altro abitaculo^^ il qual era nella medesma stanza^^:
dove mi fu parimente risposto da una vetula^"^ dicendomi s'io
volevo far ivi ingresso, che altro non v'era che certe minime
10. «E per coprire il capo».
11. Piccolo copricapo.
12. «Verso il centro e nel mezzo, per lo spessore del troppo sudore».
13. Come se si fosse attaccata pece.
14. Divenuto spesso e duro come cuoio.
15. Berretto.
16. «O fede degli dèi e degli uomini».
17. «Dalla padella nella brace».
18. Con noi.
19. «In buona fede».
20. «Facile supposizione».
21. Scandalo, clamore.
22. «Ciò che si riferisce alla restituzione».
23. «Passeggiando».
24. «Infine».
25. Stanza.
26. «Andato un poco avanti».
27. Abitazione.
28. Edificio.
29. Vecchietta.
364 CANDELAIO
contemnendae iuvenculae^'^; a cui dicendo che di altro fantasma
avevo ingonbrato il cerebro, ulterius progressus^^ mi ritrovo
fuor delia casa che avea l'altra uscita in un'altra platea^^. Al-
l'or de necessitate consequentiae^'' io conclusi: «Ergo forte'''* sono
[257] eziamdio stato da costoro deceputo", conciossia cosa che do-
mus ista duplici constai exitu et ingressu»^^; e di bel nuovo ri-
tornato dentro, percunctatus sum^'', si ivi dentro fusse altro re-
ceptaculo^^ in cui quei potessero esser congregati'''; mi fu in
forma conclusionis detto: «Amico mio, si sono entrati per quel-
la porta, son usciti per questa; si son entrati per questa, sono
usciti per quella». Tunc statini-*^ temendo qualch'altro soccorso
o consiglio simile a i preteriti ^^ mi sono indi absentato, e
{iuxta del pitagorico simbolo la sentenza) ■'^ le vie populari fug-
gendo e per i diverticoli-" andando, aspetto il tempo da tornar
in casa: quandoquidem'*-* adesso, per de gli eunti e redeunti'^^ la
frequenza, temo (con di mia reputazione il preiudicio) incide-
re-*^ in qualch'un che mi conosca in questo indecentissimo
abito. - Expedit che in istum angulum'*'^ mi retiri in questo
mentre, che veggio appropiar un paio di muliercule''^.
30. «Ragazzine per nulla da disprezzare».
31. «Andato ancora oltre».
32. Piazza.
33. «Necessariamente dall'effetto».
34. «Dunque forse».
35. Ingannato.
36. «Questa casa possiede due uscite ed entrate».
37. «Ho indugiato».
38. Nascondiglio.
39. Riuniti.
40. «Allora, subito».
41. Precedenti.
42. Allude a quattro versi del Carme aureo attribuito a Pitagora, nei quali
si consiglia di sopportare con animo tranquillo le disgrazie, pur cercando un
rimedio contro di esse.
43. Viuzze laterali.
44. «Poiché».
45. La gente che va e viene.
46. «Imbattermi».
47. «È bene che in questo angolo».
48. Donnicciole.
ATTO QUARTO 365
SCENA XII
Carubina, Lucia
Carubina. — Al nome sia di santa Raccasella
Lucia. — Advocata nostra. [259]
Carubina. — Vi par che ne' gesti e la persona vi rapresenti la
signora Vittoria?
Lucia. - Vi giuro per i quindici misterii del rosario (che ho
finiti de dire adesso) che io medesima, al presente, mi penso
essere con essa lei. Sin alla voce e le paroli vi sono accomoda-
tissime. Pur farrete bene ad parlargli sempre basso sotto voce,
con essortarlo al simile, fingendo téma di essere udita da vicine,
e dall'altre genti di casa che son gionte a muro e muro. Quanto
al toccarvi de la faccia, voi l'avete cossi verde ^ morbida e piena
come la signora Vittoria, si non alquanto megliore.
Carubina. - Voi farrete che lume non venghi in camera, sin
tanto che da me non vi si farrà segno, per che voglio conven-
cere costui d'intenzione e fatto.
Lucia. - Oltre che sarrà bene di dar qualche sollazzo alla
povera bestia, prima che tormentarla: fate che scarghe al meno
una volta la bisaccia^, per veder con quanta devozione si ma-
neggi.
Carubina. - Oh, quanto a questo voglio ch'il spasso sii più
vostro che suo. Io me gli mostrarrò tutta infiammata d'amore: e
con questo gli piantarrò de baci di orso, lo morsicarrò su le
guance, e gli strengerrò le labbra co' denti, di sorte che sii for-
zato ad farvi udir le strida e gustar de la comedia^. All'ora
dirrò: «Cor mio, vita mia, non cridate, che sarremo uditi; perdo-
nami, cor mio, che questo è per troppo amore...».
Lucia. — Il crederrà per la virtù e forza de l'incanto.
Carubina. - «... Io mi liquefacelo tanto, che ti sorbirrei tutto
in sin a l'ossa». [261]
Lucia. - Amor di vipera.
Carubina. - Oh, questo non basta. Poi farro di modo che mi
1. Fresca, giovane.
2. Metafora oscena.
3. La scena che Carubina metta in opera per farsi beffe e vendicarsi del
marito.
366 CANDELAIO
porga la lingua: e quella voglio premere tanto forte co gli denti,
che non la potrà ritrare a suo bel piacere; e non la voglio lasciar
sin tanto che non abbia gittati tre o quattro strida.
Lucia. - Ah! ah! ah! ih! ih! ih! ah! Dirrò alla signora Vittoria:
«Questa è la lingua». Potrà egli ben cridare, ma parlar non:
questa è alquanto troppo dura, e da fargli uscir l'amor dal culo.
Carubina. — All'or dirrò: «Cor mio bello, mia dolce piaga,
anima del mio core, comportami (ti priego) questo eccesso: il
mio troppo amare, il mio esser troppo scaldata n'è caggione,
questo mi fa freneticare».
Lucia. - Per santa Pollonia-* ch'avete di bei tiri; dirrà egli
tra sé: «Che canino ^ amor è di costei?».
Carubina. — Fatto questo secondo atto, mostrarrò di volergli
concedere l'entrata maestra per una volta, prima che ci col-
chiamo al letto. M'acconciarrò in atto da chiavare: e tosto che
lui arra cacciato il suo cotale^, farro bene che venghi aìVattollite
porta; ma prima che gionga zìVintroibi re gloria'^, voglio appren-
dergli i testicoli e la verga con due mani, e dirgli: «O ben mio
mio tanto desiderato, o speranza di quest'anima infiammata,
prima mi sarran le mani tolte, che tu mi sii tolto da le mani »; e
[263] con questo le voglio premere tanto forte, e torcergli come tor-
cesse^ drappi bagnati di bucata. Son certa che le sue mani in
questo caso non gli serveranno per defendersi.
Lucia. — Ih! ih! ih! ah! ah! certo quel dolore farrebbe perdere
la forza ad Erculesso^: oltre che è certo, che in ogni modo voi
séte più forte che lui.
Carubina. - All'ora siate certa che cridarrà tanto, che le
strida si sentiranno a nostra casa; e peggio per lui si non cri-
darrà bene: per che tanto più fortemente sarrà strento^" e tor-
ciuto. Quando saranno queste più solenne terze strida, correrete
voi di casa con i lumi: e cossi tutti insieme ne conosceremo alla
4. Apollonia.
5. Crudele, feroce, da cane rabbioso.
6. Il membro virile.
7. Carubina storpia, recandole a senso osceno, le parole dell'officio nella
prima domenica d'Avvento: «Tollite portas, principes, vestras et introibit rex
gloriae» («Aprite le vostre porte, o prìncipi, ed entrerà il re della gloria»).
8. Torcessi.
9. Ercole.
10. Stretto.
ATTO QUARTO 367
luce, con la grazia di santa Lucia ^^ De l'altro che sarrà ap-
presso, vederremo.
Lucia. — Tutto è bene appuntato. Andate dumque in casa
della signora; caminate come sapete; mantenetevi il viso co-
perto con il manto. Si l'incontrarete per il camino, lui non vi
parlarà, per che non è onesto per le strade: fategli una profonda
riverenza, e quando sarrete un po' oltre, fatevi cascar un focoso
suspiro, e prendete il camino verso la nostra porta che trovarete
aperta. Tra tanto io darrò una volta per certo altro affare; e poi
cercarrò lui e lo menarrò in casa. Governatevi bene. A dio.
Carubina. - A dio, a rivederci presto. [265]
SCENA XIII
Lucia sola
Dice bene il proverbio: «Chi vuole che la quatragesima ' gli
paia corta, si faccia debito per pagare a Pasca» 2. Tutto oggi non
mi ha parso un'ora per il pensiero ch'ho avuto, di far schiudere
queste uova^ in questa sera. Ogni cosa va bene. Resta sol ch'io
faccia avisato messer Gioan Bernardo, che si trovi a tempo, e
faccia che gli altri si trovino a tempo: bisogna martellare a mi-
sura, quando son più che uno a battere un ferro. — A fé di santa
Temporina"* che mi par lui costui.
SCENA XIV
Lucia, messer Gioan Bernardo
Lucia. - A punto siete venuto a proposito.
Gioan Bernardo. - Che hai fatto, Lucia mia?
Lucia. — Tutto. Messer Bonefacio è andato a stravestirsi, et
accomodarsi una barba simile alla vostra. Sua moglie adesso in
abito della signora Vittoria se n'è entrata. Sanguino vestito da
II. Che è invocata dal popolo come protettrice della vista.
1. Quaresima.
2. Pasqua.
3. Far riuscire bene la beffa (ma c'è anche un'allusione oscena).
4. Esclamazione popolaresca per dire che si incontra proprio la persona
che si cerca.
368 CANDELAIO
capitan Palma in barba lunga e bianca. Marca, Floro, Barra,
Corcovizzo sono accomodati da birri.
GiOAN Bernardo. - Io le' ho veduti or ora, ho parlato con
essi. Le ho lasciati equi vicino in bottega di un cimatore. Io
starrò in cervello che non mi farro scappare questo morsello ^ di
[267] bocca. Hai parlato del fatto mio ad madonna Carubina?
Lucia. — Liberamus domino^. Credete ch'io sii tanto poco ac-
corta?
GiOAN Bernardo. - Hai fatto saggiamente; voglio darti per
beveraggio un bacio: 'bà.
Lucia. — Gran mercé: io ho bisogno d'altro che di questo.
GiOAN Bernardo. - Questo è sol un pegno. Lucia mia, è
impossibile di trovar una donna da maneggi*^ simile a voi.
Lucia. — Si voi sapeste quanto mi ha bisognato di spirto, per
far capire a messer Bonifacio l'amor novello della signora Vit-
toria, e persuadergli che si stravesta cossi, et anco per ridurre
madonna Carubina a quel ch'è ridutta: vi maravigliareste assai.
GiOAN Bernardo. - Son certo che sapete cacciar le mani da
cose vie più importanti che questa. Or è bene che io mi parti da
equa, che non è più tempo di consegli. Si venisse ora e ne ve-
desse messer Bonifacio, guastarebbe la minestra il troppo sale\
Adio.
Lucia. - Andate accomodatevi voi altri: perché lui lo acco-
modarrò io.
scena XV
Mamfurio solo
Poi che costoro sono absentati, voglio rimenarmi un poco
per questo piccolo deambulario'. Ho veduto due muliercule
raggionar insieme, e poi una di quelle è rimasta a confabular
con quel pletore. La giovane deve esser qualche lupa^, unde de-
1. Li.
2. Boccone.
3. Corruzione popolaresca della litania Libera nos. Domine.
4. Ruffiana.
5. La beffa sarebbe eccessivamente saporosa
1. Strada.
2. «Prostituta».
ATTO QUARTO 369
rivatur lupanare la vetula senza dubio è una lena'*. Quel modo [269]
di colloquio habet lenodnii specimen^. Io istimo questo pictore
aliquantolum fomicario^ Ergo... sequitur conclusio''. — Veggo una
caterva che appropera^: voglio iterum^ retirarmi.
SCENA XVI
[Mamfurio,] Sanguino stravestito da capitan Palma;
Marca, Barra, Corcovizzo, da birri
Sanguino. - Senza dubio costui che fugge e si asconde è qual-
che povera anima da menarla in purgatorio; per certo è qualche
lesa conscienzia: prendetelo.
Barra. - Alto: la corte! 1 Chi è Uà?
Mamfurio. - Mamphurius artium magister. Non sum mal-
factore, non fur, non mechus, non testis inicus; alterius nuptam,
nec rem cupiens alienami.
Sanguino. — Che ore^ son queste che voi dite, compieta o
matutino?
Marca. - Settenzalmo, o officio defontoroì'*
Sanguino. — Che ufficio è il vostro? Costui per certo vorrà
far del clerico. [271]
Mamfurio. — Sum gymnasiarcha.
Sanguino. — Che vuol dir «asinarca»? Legatelo presto, che si
meni priggione.
Corcovizzo. — Toccatemi la mano, messer pecora-smarrita.
Venete, che vi vogliamo donar allogiamento questa sera: dimo-
rarrete in casa reggia^.
Mamfurio. - Domini, io sono un maestro di scola: a cui in
3. «Lupanare».
4. «Ruffiana».
5. «Ha l'aspetto del lenocinio».
6. Frequentatore di meretrici.
7. «Quindi, deriva la conclusione».
8. Gruppo di persone che si avvicina.
9. «Di nuovo».
1. La polizia.
2. «Mamfurio, professore. Non sono un malfattore, non un ladro, non un
adultero, non un falso testimone: non desidero la donna né la roba di altri».
3. Le varie parti in cui è diviso l'ufficio divino che deve essere recitato dai
sacerdoti.
4. I sette salmi, o l'ufficio dei defunti.
5. La prigione, che è «casa del re» in quanto edificio dello stato.
370 CANDELAIO
queste ore prossime son stati da certi furbi rubbati i scudi, et
involate le vesti.
Sanguino. - Perché dumque fuggi la corte? Tu sei un ladro
nemico de la giustizia (zò, zò, zò).
Mamfurio. - Queso*^ non mi verberate': perché io fuggiva di
esser veduto in questo abito, il quale non è mio proprio.
Sanguino. - Olà famegli*^: non vi accorgete di questo ma-
riolo? non vedete questo mantello che porta, è stato rubbato ad
Tiburolo nella Dogana?
CoRCOVizzo. - Perdonatime, signor capitano, vostra Signoria
se inganna: perché quel mantello aveva passamani gialli nel
collaio^.
Sanguino. — E non le vedi? sei cieco? Non son passamani
questi? non son gialli?
CORCOVizzo. - Pò san Manganello '° che l'è vero.
Marca. - Al corpo della nostra... costui è un solenne mariolo
{zò, zò, zò, zò).
Mamfurio. - Oimè, voi perché mi bussate pure? Io vi ho
[273] detto che mi è stato elargito in vece della mia toga da alcuni
scelesti ^1 furi, e (ut more vestro loqiiar)^- marioli.
Sanguino. - Sin ora sappiamo che tu sei nostro fuggitivo;
che questo mantello è stato rubbato: va priggione, che si vedrà
chi è stato il mariolo.
Mamfurio. - Menatemi in casa del mio ospite, presso gli
Vergini 1^, che vi provarrò che non son malfattore.
Sanguino. — Non prendemo le persone per menarle in casa
sua, noi; {zò, zò) andate in Vicariai-*, ^he dirrete vostre raggioni
ad altro che a birri.
6. «Per favore».
7. Picchiate.
8. Sergenti, sbirri.
9. Collare.
10. Esclamazione scherzosa con personificazione e canonizzazione popola-
resca del bastone.
11. Malvagi.
12. «Per parlare secondo il vostro costume».
13. Borgo di Napoli, che prendeva nome dalla chiesa di Santa Maria dei
Vergini.
14. Il centro di polizia.
ATTO QUARTO 371
Mamfurio. - Oimè, cossi trattate gli eruditi maestri? dum-
que di tanto improperio mi volete afficereì^^
Marca. - Parla italiano, parla cristiano, in nome del tuo
diavolo, che ti intendiamo.
Barra. — Lui parla bon cristiano, perché parla come si parla
quando si dice la messa.
Marca. - Io dubito che costui non sia qualche monaco stra-
vestito.
CORCOVizzo. — Cossi credo io. Domine abhas, volimus comedere
fabbasì ^^ [275]
Barra. - Et si fabba non habbemo, quii comederemo?
Mamfurio. - Non sum homo ecclesiasticus^''.
Sanguino. - Vedete che porta chierica? porta la forma de
l'ostia in testa?
Mamfurio. - Hoc est calvitium^^.
Barra. — Per questo vizio farrai la penitenza, scomunicato
{zò, zò, zò, zò).
Mamfurio. — Dixi «calvitium», quasi calvae vitium^"^. E non
mi bussate, quia conquerar^^: cossi si trattano uomini di dot-
trina et eruditi maestri?
Sanguino. — Tu hai mentito: non hai forma né similitudine
di maestro {zò, zò).
Mamfurio. - Vi recitarrò cento versi del poeta Virgilio; aut,
per cafita^^, tutta quanta la Eneide. Il primo libro secondo al-
cuni comincia: «Eie ego qui quondam»; secondo altri che dicono
quei versi di Varo^^, comincia: «Arma virumque cano»; il .IL:
«Conticuere omnes»^^; il .III.: «Postquam res Asiae»; il .IV.: «At [277]
regina gravi»; il .V.: «Tu quoque littoribus nostris»; il .VI.: «Conti-
cuere omnes»...
15. «Colpire».
16. «Vogliamo mangiare le fave»; la frase scherzosa ha senso osceno.
17. «Non sono sacerdote».
18. «È la calvizie».
19. «Ho detto calvizie, quasi vizio del cranio». È un'altra delle assurde eti-
mologie di Mamfurio.
20. «Perché mi lamenterò».
21. «O per i versi iniziali».
22. Secondo alcuni critici antichi i primi versi dell'Eneide, con l'esposizione
sintetica del tema del poema, non sarebbero opera di Virgilio, ma dell'amico
Varo, che curò, con Tucca, la prima edizione dell'opera.
23. In realtà Mamfurio fa un po' di confusione, sbagliando l'inizio del
quinto e del sesto libro delVEneide.
372 CANDELAIO
Sanguino. - Non ci ingannarrai, poltrone, con queste parole
latine, imparate per il bisogno. Tu sei qualche ignorante: si fussi
dotto non sarreste mariolo.
Mamfurio. - Venghi dumque qualche erudito, e disputarrò
con esso lui.
Sanguino. - Cennera nomino quatta suni?^'*
Mamfurio. - Questa è interrogazione di principianti, tirum-
culi^^, isagogici ^^\ et primis attingentium labellis^'': a quai si de-
clara «masculeum» idest masculino, «faemineum» il feminile,
«neutrum» quel che non è l'uno né l'altro, «comune» quel che è
l'uno et altro...
Barra. - Mascolo e femina.
Mamfurio. - ... «epicenum», quel che non distingue l'un sexo
da l'altro.
Sanguino. - Quale di tutti questi séte voi? séte forse epi-
ceno?
Mamfurio. — Quae non distinguunt sexum, dicas epicena^^.
Sanguino. - Dimmi, si séte magister. che cosa per la prima
insegnate a putti?
Mamfurio. - Nella dispauteriana grammatica, è quel verso:
«Omne viro soli quod convenit, esto virile».
Sanguino. - Declara.
Mamfurio. — «Omne» idest totum, quidquid, quidlibet, quod-
cumque universum; «quod convenit», quadrai, congruit, adest; «viro
soli», soli, duntaxat, tantummodo, solummodo viro, vel fertur a viro;
«esto» idest sit, vel dicatur, vel habeatur «virile»: idest quel che
convien a l'uomo solamente, è virile.
Sanguino. - Che diavolo di propositi insegnano a putti per
la prima costoro! Quel che gli uomini soli hanno, e manca a le
donne, hoc este, ideste chiamisi, dichisi il virile, il membro virile.
Barra. — Questa é una bella lezzione, in fé di Cristo.
Mamfurio. - Nego, nego: io non dico quel che voi pensate
24. Deformazione popolaresca della domanda grammaticale: «Genera nomi-
num quot sunt» («quanti sono i generi dei nomi»).
25. Ragazzini inesperti.
26. Alunni principianti.
27. «E di coloro che bevono con le labbra appena i primi rudimenti».
28. «Quelle cose che non possono essere maschili o femminili si chiamano
ATTO QUARTO 373
(vedete che importa parlar con ineruditi); io dico del geno^*^ che
conviene a maschi.
Sanguino. — {Zò, zò, zó); questo è cosa da femine, scelerato
vegliacco.
Mamfurio. — Quello che voi pensate è di maschii proprie et
ut pars^^, et è di femine ut portio, et attributive vel applicative"^^. [281]
Sanguino. - Presto, presto, depositatelo in questa stanza,
che poi lo menaremo in Vicaria: vuol mostrarsi dottore, e ci fa
intendere che è de l'arte da spellechiar capretti ^^.
Mamfurio. — 0 me miserum: verba nihil prosunt. 0 diem in-
faustum atque noctemP^
[Fine dell'atto quarto] [283]
29. Genere.
30. «In modo specifico e come parte».
31. «Come una relazione, come qualcosa che si attribuisce e si applica
loro».
32. Metafora oscena con cui si allude alla pederastia.
33. «0 me infelice! le parole non servono a nulla. O giorno e notte in-
fausta!».
ATTO QUINTO
SCENA I
Bonifacio, Lucia
Bonifacio. - ...o-o-o-o-o... '
Lucia. — Sì che messer Gioan Bernardo mio...
Bonifacio. — Ricordatevi ch'io son Bonifacio ...o-o-o-o-o...
Lucia. - Vi giuro ch'io mi dismentico di esser con voi: tanto
séte accommodato bene, che par che non vi manchi il nome di
Gioan Bernardo.
Bonifacio. - ...o-o-o-o... Sarrà pur bene di chiamarmi cossi:
per che si alcuno vi udisse parlare ...e-e-e-e-e-e... sarrà bene che
vi senta chiamarmi cossi ...ii-i-ii...
Lucia. — Voi tremate: che cosa avete?
Bonifacio. — Niente ...e-e-e-e... Averstisci, Lucia, che si al-
cuno pensando ch'io sii Gioan Bernardo ...o-o-o-o-o... mi volesse
parlare, rispondete voi ...i-i-i-i-i... (che io bisogna che mi finga
andar in còlerà ...a-a-a... e passar oltre ...e-e-e...): voi dirrete che
mi lasciano ...o-o-o-o-o... che vo fantastico per alcune cose che
passano 2 ...o-o-o-o...
[285] Lucia. — Voi dite bene: non farro altrimente errore.
Bonifacio. - ...0-0-0-0-0-0...
Lucia. - Vorrei sapere per che tremate. Ditemi, tremate per
freddo o per paura? che cosa avete?
Bonifacio. - Cara mia Lucia, io ho ...0-0-0... il tremore de
l'amore, pensando che adesso adesso, ho da esser gionto al mio
bene ...e-e-e-e-e-e-e-e-e...
Lucia. — Oh sì sì, io so adesso qual sii questo tremore: cossi
trema quando uno si trova con qualche bona robba molto de-
1. Oh!
2. Accadono.
ATTO QUINTO 375
siderata: voi fate conto di esser con lei per che la non vi è
troppo lontano.
Bonifacio. — O ...o-o-o-o... signora Vittoria mia ...a-a-a-a... o
mio bene, quel petto di diamante, che mi facea morire ...e-e-e-e-
e...
Lucia. — Voi suo bene, e lei vostro bene. Giuro per quel
santo che die la mittà^ della sua cappa per l'amor de Dio'', che
da dovero ramollareste un diamante, tanto avete il sangue
dolce. Oggi mi parete più bello che mai: io non so se questo
procede da l'amore, o da altro.
Bonifacio. - ...o-o-o-o-o... Andiamo presto per che mi scappa
Lucia. - Non la fate andar a terra, si non volete la maldiz-
zion de Dio 5; ah! ah! ah! mi fate venir la risa. Se vi scappa que-
sto, scrollandovi farrete dell'altro. [287]
BoNiFicio. - È la verità; ma ...a-a-a-a-a-a...
Lucia. — Via dumque.
SCENA II
Bartolomeo, Consalvo, Mochione
Bartolomeo. - O traditor, o ladro, o sassino: dumque non
avete il pulvis Christi, el pulvis del diavolo? Oimè, ahi lasso, o
me disfatto, vituperato! Tu me la pagherrai.
Consalvo. — Meglio farrai tacendo, pover omo, altrimente
tutti ti stimaranno pazzo: sarrai la favola de tutto Napoli; sino
a' putti faranno comedia di fatti tuoi: e non avanzarrai altro.
Bartolomeo. — Con questa persuasione pensi di farmi ta-
cere?
[Consalvo.] — Si non vuoi tacere, crida tanto che ti schiat-
tino i pulmoni: che volevi tu ch'io sappesse di questo vostro
negocio? Un mese fa, venne questo vostro Cencio, e mi dimandò
s'io avevo litargirio^ alume, argento vivo, solfro rosso, verde [289]
3. Metà.
4. San Martino, che in un giorno di gran gelo divise a metà il suo mantello
con un mendico seminudo.
5. Allusione alla vicenda di Onan, maledetto da Dio (Genesi, XXXVIII, 9)
perché «semen fundebat in terram». Per la gioia Bonifacio sta per eiaculare.
I. Ossido di piombo.
376 CANDELAIO
rame, sale armoniaco^ et altre cose ordinarie; io li risposi che sì;
e lui soggionse: «Or dumque voi sarrete il mio ordinario^, per
certa opera che debbo fare. Tenete ancora a presso di voi questa
polvere, che si chiama pulvis Christi: della quale mi mandarrete
secondo la quantità che vi sarrà dimandata; abbiate ancora a
presso voi questo mio scrigno, dove sono le mie più cose care
ch'io abbia».
Bartolomeo. — Queste cose se l'ha prese?
Consalvo. — Non; e però tacete: che si lui verrà per quelle,
non uscirrà da mia casa come si pensa"*.
Bartolomeo. - Voi dite bene si non se ne fusse andato per
la posta: non l'hai udito tu adesso adesso, Mochione?
MoCHiONE. - Da tutte bande ^ si dice.
Consalvo. - Or che devevo far io? Voi lo dovevate cono-
scere che lavorava in vostra casa; et ha più de quindeci giorni
dimorato con voi: e poi non so dove sii alloggiato in sino ad
questo tempo. Voi di vostra mano mi avete mandato ad diman-
dar or questa, or quella cosa; e quanto al pulvis Christi (come
voi lo chiamate), mi dimandaste la prima volta tanto, che era
la mittà; e la seconda volta altretanto, che fu tutto il resto. Oggi
quando me hai mandato ad dimandar tanto, che tutto quel
ch'ebbi non farrebbe per la decima parte, mi son maraviglia-
to, e ti ho mandato ad dire, che l'alchimista Cencio non me ne
die più.
Bartolomeo. - Io non dubito che lui e tu mi avete piantato
il porro dietro ^
Consalvo. - Si tu pensi mal dal canto mio, tu pensi una
gran mentita^, pazzo da catena insensato: ha ben bastato lui
solo per burlarti; che volevi tu che io sapesse di fatti tuoi, che
son diece anni che non ti ho parlato? Avete mandato per cose
di mia bottega, et io ti ho mandato quel che avevo.
Bartolomeo. - Oimè: questo pulvis del diavolo era oro me-
schiato e posto in polvere, con qualche altra maldezzione, che
2. Cloruro di ammonio.
3. Fornitore.
4. Come egli immagina.
5. Da tutte le parti, ovunque.
6. Metafora oscena (e vale, genericamente e volgarmente, mi avete ingan-
nato).
7. Menzogna.
ATTO QUINTO 377
non lo facea conoscere. Ben vedevo io che gravava più ch'altra
polvere: da equa procedevano le verghette d'oro. Oh, maldetto '1
giorno che lo viddi: io mi appiccarrò^. [291]
Consalvo. - Va pure e fa presto.
Bartolomeo. - Mi appiccarrò, dopo aver fatto appiccar te,
barro ^ traditore.
Consalvo. - Hai mentito cento volte per la gola: va mi fa il
peggio che tu puoi, ch'io non ti stimo un danaio. Va, pazzo,
pover pazzo, cerca il pulvis Christi.
Bartolomeo. — Oimè che farro io? come ricuperarrò li miei
scudi io?
Consalvo. - Fate come ha fatto lui, si possete trovar un al-
tro ch'abbia il cervello come voi, e la borsa come la vostra.
Bartolomeo. - Vegliacco: questo è ufficio di pari tuoi.
Consalvo. - Aspetta un poco, che voglio farti uscir la paz-
zia o '1 vino dal naso: to', to', spacca-tornese 1°.
Bartolomeo. - Questo di più, an? O cornuto disonorato
{zò, zò).
Consalvo. - Gusta di questi altri, che son più calzanti {zò,
zò, zò).
Bartolomeo. - Oi oi, oimè, traditor sassino! aggiuto aggiuto!
MocHiONE. - Aggiuto! aggiuto! aggiuto! che uccide mio pa-
dron co' pugni.
Consalvo. - Lascia, che ti voglio aggiutar io a levarti la
pazzia di capo {zò, zò, zò, zò).
Bartolomeo. - Oh, per amor de Dio, ch'io sono assasinato:
aggiuto aggiuto! [293]
scena III
Sanguino da capitan Palma; Corcovizzo, Barra,
Marca da birri; Bartolomeo, Consalvo, Mochione
Sanguino. - Alto: la corte! Che rumore è questo?
Bartolomeo. — Questo sassino mi ha sassinato nelle facultà;
adesso mi assassina ne la persona, come vedete.
8. Impiccherò.
9. Truffatore.
10. Spilorcio, avaraccio.
378 CANDELAIO
Sanguino. - Legatele insieme, e menatele priggioni.
Consalvo. - Signor capitano: costui me vuole imponere cose,
che sono aliene da uomini da bene come sono conosciuto io.
Bartolomeo. - Andiamo in Vicaria, perché la giustizia
farrà il suo dovere.
Barra. - Caminate via presto, per che è notte.
Sanguino. - Strengile bene, che non scappino.
CORCOVizzo. - Si me scappano, dite che le ho liberati io.
Sanguino. - Strengile bene co la corda. Via via, andiamo.
Bartolomeo. - Oh, meschino me: e questo di più. Mo-
chione, va a Marta, e digli che doman mattina per tempo ven-
ghi a trovarmi in Vicaria.
Mochione. - Io vo
[295] Sanguino. - Caminate via in vostra mal'ora, presto.
scena IV
Mochione solo
Come un «autem genuit» tira l'altro, e l'altro l'altro, a l'altro
l'altro; e come uno «ex tribù et millia signati^», per certo filo
procede dall'altro; e come una cereggia^ tira l'altra; cossi so-
gliono far il più delle volte i guai e gli inconvenienti, che a
presso l'uno viene l'altro. Et è proverbio universale che le scia-
gure mai vengon sole. Mio padrone, per primo male, conobbe
Cencio; per il secondo, vi ha lasciato seicento scudi; per il terzo,
ha tanto speso in far provisione di bozzole', fornelli, carboni et
altre cose che concorreno a quella follia; ha, per il quarto, perso
tanto tempo; per il quinto, la fatica; per il sesto, ha fatto que-
stione, e farrà, con questo speciale-*; per il septimo, ha avanzate
sin a dodici pugni fermi da bastaggio^; per l'ottavo, è andato
priggione; per il nono, sarrà qualch'altra mal'ora prima che esca
di carcere, e ci varrà di tempo e moneta; per l'ultimo, sarrà di
1. Allusione alla genealogia di Cristo (Matteo, I, 1-16) che il sacerdote legge
nella Messa alla vigilia della festa dell'Immacolata Concezione, e a un passo
dell'Apocalisse, VII, 4-8, che viene letto nella Messa della festa di Tutti i Santi.
2. Ciliegia.
3. Stort;e.
4. Speziale.
5. Facchino.
ATTO QUINTO 379
lui fatta comedia per questo maldetto pulvis Christi. — Mi par
veder messer Gioan Bernardo; costui deve aver intesa qualche
cosa: voglio udirlo, che va borbottando da per lui. [297]
SCENA V
Messer Gioan Bernardo, Mochione
Gioan Bernardo. - Dubito che questi marranchini 1 co le
lor frascherie sarranno attenti a far qualch'altro negocio; e non
farranno venir ad effetto questo principale, se pur ne farranno
uno degli dui: per certo credo che la strappazzarranno. Olà, olà
bel figlio!
Mochione. - Che comandate, messer Gioan Bernardo?
Gioan Bernardo. - Avete vedute alcune persone equa?
Mochione. - Ne ho viste pur troppo alla mal'ora.
Gioan Bernardo. - Che gente l'era?
Mochione. — Il capitanio di agozzini, con tre zaffi ^ che han
menato mio padrone priggione, insieme con Consalvo speciale:
per che l'han qui trovati a donarsi de pugni, le menano stretta-
mente legati in Vicaria.
Gioan Bernardo. - Chi è vostro padrone?
Mochione. - Messer Bartolomeo.
Gioan Bernardo. - Dumque è andato priggione messer
Bartolomeo? che disgrazia! Mio figlio, dimmi un'altra cosa:
perché si batteva insieme col Consalvo?
Mochione. - Signor, io non so; vostra Signoria mi perdoni,
che io ho fretta di andar in casa.
Gioan Bernardo. - Or andate con Dio. [299]
scena vi
Gioan Bernardo solo
Burla burlando, questo frappone' di Sanguino starrà occu-
pato per far qualche mariolaria con questi altri cappeggianti^; e
1. Diminutivo (con intenzione spregiativa) di marrani.
2. Guardie.
1. Ciurmatore, ingannatore.
2. Mariuoli.
380 CANDELAIO
tra tanto Bonifacio co la moglie uscirranno di casa de la si-
gnora: et io solo non potrò far cosa che vaglia. Oh, che mal
viaggio facciano! Bisognarrà, a l'uscita di costoro, che io abbia
modo de intrattenergli: sin che possano costoro, in qualche can-
tone dove l'arran ridutti, aver spedito V«Ave Maria, questa
borsa è la mia; Ave Maria, questa cappa è la mia» - Piaccia a
Dio che questi che veggo venir siino essi'.
SCENA VII
Sanguino, Barra, Marca, Corcovizzo
Sanguino. — Ah! ah! ah! il fatto di costoro è come quel di
Cola Perilloi, che si sentea male e non sapeva in qual parte de
la persona si fusse il dolore. Il medico gli toccava il petto e
diceva: «Vi duol equa?»; «Non». Poi li tocca la schena: «Vi duol
equa?»; «Non». Poi ne gli reni: «Vi duol equa?»; Non». Poi li
tocca il stomaco: «Vi duol equa?»; «Non». Al ventre: «Vi duol
equa?»; «Non». A' coglioni: «Vi duolen forse questi?»; «Non». Il
medico disse: «È forse a questa gamba?»; «Signor non»; «Vedi
[301] di grazia che non fusse a quell'altra».
Barra. - Ah! ah! ah!
Sanguino. - Cossi questi pover'omini, essendo in nostre
mani, si senteano male; e non sapeano dove lo si consistesse.
Corcovizzo. - Quando messer Bartolomeo me si sentì poner
mano alla borsa, disse: «Cossi siete voi birri et io priggione da
Vicaria, come voi séte cardinali et io papa. Prendete prendete, e
buon prò' vi faccia: per che tutto cavarrò io da questo mio so-
cio». — «Sì, sì» disse quell'altro, «cappello paga tutto»^.
Sanguino. - E quell'altro, quando gli toglieste la sua, che
disse?
Corcovizzo. — Ah! ah! ah! «Corpo di nostra Donna, la sen-
tenza è data: ecco noi arrivati in Vicaria, eccone spediti. Per la
grazia di santo Lonardo^ che gli voglio offrire una messa con
3. Giovan Bernardo interrompe il monologo udendo avvicinarsi un gruppo
di persone in cui non ha ancora riconosciuto Sanguino e i compagni.
1. Nome proverbiale di napoletano sciocco.
2. Proverbio che significa: tocca a me pagare.
3. Leonardo.
ATTO QUINTO 381
un collaio di ferro: noi abbiamo fatto il peccato e le borse ne
fanno la penitenza».
Sanguino. — E tu che gli dicesti? non parlavi?
[CoRCOVizzo.] — «Noi» li dissi, «per questa volta vi perdo-
niamo, e non vogliamo menarvi in priggione: et acciò non vi
facciate male col battervi, vogliamo lasciarvi equi legati, a fin
che non possiate darvi di pugni senza un terzo; e per che non è
onesto che in questo bene che io fo venghi a perdere mia fatica,
tempo et un passo e mezzo di fune"*, voglio pagarmi: e per che
equa non è lume, aspettatemi ch'io venghi a ritornarvi il re-
stante». [303]
SCENA Vili
Esce Gioan Bernardo
GiOAN Bernardo. - Ah! ah! ah! che avete fatto?
Sanguino. — Abbiamo castigati dui mal fattori.
Gioan Bernardo. - Fate la giustizia, che Dio vi agiutarrà.
Sanguino. — Come quella d'un certo papa (non so se fusse
stato papa Adriano) \ che vendeva i beneficii più presto facen-
done buon mercato che credenza^: il quale era tutto il dì co le
bilancie in mano per veder se i scudi erano di peso. Cossi far-
remo noi, e vedremo quanto ne viene a ciascuno.
Gioan Bernardo. — Come le avete lasciati priggioni?
Sanguino. - Con sicurtà che non si diano di pugni mentre
sarran dui.
Gioan Bernardo. — Olà olà, retiratevi retiratevi, che credo
che messer Bonifacio viene.
Sanguino. - Olà Barra, Marca, Corcovizzo, a dietro, a dietro:
lasciamo che prima raggionino con messer Gioan Bernardo.
Gioan Bernardo. - Andate, che io le aspettarrò equa al
passo. [305]
4. Con la fune venivano sospesi per punizione e fatti cadere a terra con
violenza i malfattori.
1. Adriano VI, che fu papa dal 1521 al 1524, olandese, famoso per l'auste-
rità dei costumi.
2. A basso prezzo piuttosto che a credito. Si allude qui a una delle molte
maldicenze sorte intomo al rigido pontefice, poco amato dalla corte romana
dopo gli splendori di Leone X.
382 CANDELAIO
SCENA IX
Messer Bonifacio, Carubina,
messer Gioan Bernardo
Bonifacio. - Tutto questo male l'ha fatto questa ruffiana
strega di Lucia, e quest'altra puttana vacca di sua padrona.
S'hanno voluto giocar di fatti miei: mai mai più voglio credere
a temine: si venesse la Vergine... poco ha mancato ch'io non di-
cesse qualche biastema.
Carubina. — Togli via queste iscusazioni, scelerato, che io ti
conosco, e le conosco. - Chi è costui che cossi dritto dritto se ne
viene verso noi?
Bonifacio. - Questa è qualch'altra diavolo di matassa:
credo che questa ruffianacela me ne abbia fatte più di quattro
insieme.
Gioan Bernardo. - O io sono io, o costui è io.
Bonifacio. - Questo è un altro diavolo più grande e più
grosso: non te l'ho detto?
Gioan Bernardo. - Olà messer uomo-da-bene...
Bonifacio. - Questo ci mancava per la giunta di una mezza
libra.
Gioan Bernardo. - O là messer-de-la-negra-barba, dimmi
chi di noi dui è io: io o tu? Non rispondi?
Bonifacio. - Voi séte voi, et io sono io.
Gioan Bernardo. - Come «io sono io»? Non hai tu, ladro,
rubbata la mia persona, e sotto questo abito et apparenzia vai
commettendo di ribalderie? come sei equa tu? che fai con la
[307I signora Vittoria?
Carubina. — Io son sua moglie, messer Gioan Bernardo, che
son venuta cossi, per grazia che mi ha fatta una signora per
farmi convencere questo ribaldo.
Gioan Bernardo. - Dumque voi séte madonna Carubina,
voi? e costui come è fatto Gioan Bernardo?
Carubina. — Io non so: dicalo lui che sa parlare et have l'età.
Bonifacio. - Et io ho mutato abito, per conoscere' mia mo-
glie.
I. Possedere carnalmente.
ATTO QUINTO 383
Carubina. - Tu hai mentito, traditore: ancora ardisci in mia
presenza negare?
GiOAN Bernardo. - Furfantone, in questo modo tradisci
tua donna, la quale conosco onoratissima?
Bonifacio. - Di grazia, messer Gioan Bernardo, non ve-
nemo a termini de ingiurie: lasciami che io faccia i miei negocii
con mia moglie.
Gioan Bernardo. - Come, ribaldo, pensi tu scappar dalle
mie mani cossi? Voglio veder conto e raggione di questo abito;
voglio saper come abusate di mia persona. Tu puoi aver fatte in
questa foggia mille ribaldarie, le quali sarranno attribuite ad
me, si non starrò in cervello.
Bonifacio. - Io vi priego, perdonatime; perché non ho fatto
altro fallo... che con mia moglie: il quale non è cognito ad altro
che alla signora Vittoria, e quei di sua casa, che hanno cono-
sciuto che sono io.
Carubina. - Fatelo per amor mio, messer Gioan Bernardo:
non fate che questo passe oltre. [309]
Gioan Bernardo. — Perdonatemi, madonna, che è impossi-
bile che io faccia passar questa cosa cossi di leggiero. Io non so
che cosa abbia egli fatto: però non so che cosa io gli debbia
perdonare.
Bonifacio. - Andiamo, andiamo, Carubina.
Gioan Bernardo. - Ferma, ferma, barro: che tu non, non
mi scapparrai.
Bonifacio. — Lasciami, ti priego, si non vogliamo venire a i
denti et a le mani.
Carubina. - Misser Gioan Bernardo mio, ti priego per l'onor
mio.
Gioan Bernardo. - Signora, sarrà intiero l'onor vostro, per
che non può esser male quel che voi avete fatto: ma io voglio
veder del torto che costui ha fatto a voi et ad me.
Bonifacio. - Tu non m'impedirrai.
Gioan Bernardo. - Tu non mi scapparrai.
384 CANDELAIO
SCENA X
Sanguino, Barra, Marca, Corcovizzo,
Gioan Bernardo, Carubina, Bonifacio
Sanguino. - Olà, olà, alto: la corte! Che rumori son questi?
Bonifacio. - A l'altra! - Siate li ben venuti, signori; vedete
che io mi sono incontrato con quest'uomo vestito di mia foggia,
caminando con mia moglie: viene a fame violenza. Io mi que-
relo di lui.
Gioan Bernardo. - Tu hai mentito, scelerato; e ti provarrò
[311] per questo vestimento che porti, che tu sei un falso.
Sanguino. - Che diavolo: son dui gemini ^ che fanno a que-
stione.
Barra. — Questi tre, insieme con la femina, faranno dui in
carne una-.
Marca. — Credo che cercano chi de lor dui è esso, per essere
il marito de la femina.
Sanguino. - Questa deve essere qualche sollenne imbroglia:
menatele priggioni tutti, tutti.
Gioan Bernardo. - Signore, non dovete menar in priggione
altro che costui, non me.
Sanguino. - Via, via, sciagurato, tu sarrai il primo.
Gioan Bernardo. - Di grazia, signor Palma, non mi fate
questo torto, perché son persona onorata: io son Gioan Ber-
nardo pittore, omo da bene.
Corcovizzo. - Signor capitano, vedete che non mostra diffe-
renza l'uno dall'altro.
Carubina. - Signor capitan Palma, viva la verità: questo
stravestito è mio marito messer Bonifacio; quest'altro è messer
Gioan Bernardo. Questa è la verità che non si può ascondere.
Gioan Bernardo. - E per confirmazione, vedete si quella
barba è la sua.
Bonifacio. - Io confesso che è posticcia; ma lo ho fatto per
certo disegno per cose che passano tra me e mia moglie.
1. Gemelli.
2. Battuta oscena, con allusione alla Genesi, II, 24: «Erunt duo in carne
una» («Saranno due in una sola carne»).
ATTO QUINTO 385
CORCOVizzo. — Ecco la barba equa di questo uomo da bene
nelle mie mani. [313]
Sanguino. — Dimmi, uomo da bene, è la barba tua questa?
Barra. — Signor sì, è la sua: per che l'have comprata.
Sanguino. — Adesso conoscemo che costui è falso: menate
dumque lui preggione con la femina. Et a voi, messer Gioan
Bernardo, da parte della Gran Corte de la Vicaria comandiamo
che domani, ad ore quattordici', doviate trovarvi avante il gio-
dice ordinario per la informazione di questo fatto: sotto pena di
cento cinquanta scudi.
Gioan Bernardo. — Io non mancarrò, signore Palma: sa vo-
stra Signoria che questo non lo deve nisciuno cercare più di me,
al quale è fatta ingiuria; e mi protesto "• per le ribalderie che può
aver commesse costui sotto questo abito.
Sanguino. - La giustizia non mancarrà.
Carubina. — Et io misera ancora debbo esser vituperata et
andar priggione, per aver voluto apprendere ^ questo scelerato
di mio marito?
Gioan Bernardo. — Signore capitano: io risponderrò, e vi
dono assicuranza per questa madonna, la quale conosco onora-
tissima, benché sii sua moglie; e lei non è partecipe in questo
fatto.
Sanguino. — Voi vi dovereste contentare che lasciamo vo-
stra persona. Costei non andava insieme con suo marito?...
Gioan Bernardo. - Signor sì.
Sanguino. — ... dumque verrà insieme con lui. [315]
Carubina. — Ma io non ero consapevole: io lo ho cercato e
ritrovato in fallo; et ora me ne venevo dalla casa della signora
Vittoria, riprendendolo per questo maldetto fatto; e si ve piace,
sarrà equi tutto il mondo che non vi dirrà cosa che m'incolpi:
andiamo dalla signora Vittoria, e gli altri di sua casa.
Gioan Bernardo. - Vi assicuro, signor, che non è errore dal
canto di madonna; e si vi fusse, io mi dono ubligato ad ogni
satisfazzione per lei. A me basta solo, e fo instanzia, che costui
3. L'azione della commedia si immagina avvenire verso la metà di aprile,
quindi le ore quattordici corrispondono alle nove del mattino, poiché le ore si
contavano, al tempo del Bruno, da un tramonto all'altro.
4. Mi querelo in giudizio.
5. Sorprendere.
386 CANDELAIO
vada in preggione solamente: e da madonna Carubina io non
pretendo altro; e di nuovo vi priego che la lasciate andare.
Sanguino. - Par che apertamente non costa delitto dal
canto suo: la rimetto a vostra preciaria'', con questo, che ad voi
... come vi chiamate?
Carubina. - Carubina, al servizio di vostra Signoria.
Sanguino. - ... a voi madonna Carubina, da parte della
Gran Corte della Vicaria facciamo comandamento che domani,
ad ore quattordeci, vi doviate trovare avant'il giodice ordinario
per la informazione di questo fatto: sotto pena di sessanta scudi.
Carubina. - Sarrò ubedientissima, secondo il mio devere.
Bonifacio. - Vi accorgerrete, messer Gioan Bernardo, che io
non vi ho tanto offeso, quanto vi pensate.
Gioan Bernardo. - Tutto se vedrà.
Sanguino. - Or su andiamo, non più dimora; videte che
non fugga; depositatelo con quel mastro di scola: per che poi le
menarremo in corte.
Bonifacio. - Di grazia legatemi: fate ancor questo piacere a
mia moglie et ad messer Gioan Bernardo.
Sanguino. — Fate pur che non fugga. Via, bona notte.
Gioan Bernardo. - Buona notte e buon anno a vostra Si-
gnoria, signore capitano, e la compagnia.
SCENA XI
Gioan Bernardo, Carubina
Gioan Bernardo. - Vedi, ben mio, che gran torto fa questo
pazzacone a vostre divine bellezze: non vi par giusto che egli sii
pagato della medesma moneta?
Carubina. - Si lui non fa quel che gli conviene, io non
debbo far il simile.
Gioan Bernardo. - Parrete, cor mio, quel che conviene,
quando non farrete altro che quello che farrebbe ogni persona
di giudicio e sentimento che vive in terra. Voglio, ben mio, che
sappiate che questi che lo tengono non sono birri, ma certi
compagnoni galant'omini miei amici: per li quali lo farremo
trattare come a noi piace. Ora dimorarrà Uà; e tra tanto che
6. Garanzia.
ATTO QUINTO 387
questi fingono altri negocii, prima che menario in Vicaria, an-
darrà un ceri;o messer Scaramuré, il quale fingerrà di acordar ^
questa cosa: con questo, che si umilii a noi, che siamo stati da
lui offesi, e che doni qualche cortesia a questi compagni; non
perché loro si curino di questo, ma per far la cosa più verisi-
mile: e vostra Signoria non verrà a perdere cosa alcuna.
Carubina. - Io mi accorgo che voi siete troppo scaltrito, che
avete saputo tessere tutta questa tela: io comprendo adesso
molte cose. [319]
GiOAN Bernardo. — Vita mia, io son tale che per vostro ser-
vicio mi gettarrei in mille precipicii. Or poi che mia fortuna e
bona sorte (la quale piaccia a gli dèi che voi la confirmiate) ha
permesso ch'io vi sii cossi a presso come vi sono, vi priego per il
fervente amore, che sempre vi ho portato e porto, che abbiate
pietà di questo mio core tanto profonda et altamente impiagato
da vostri occhii divini. Io son quello che vi amo, io son quello
che vi adoro: che si m'avessero concesso gli cieli quello che a
questo sconoscente e sciocco (che non stima le mirabile vostre
bellezze) han conceduto, giamai nel petto mio scintilla d'altro
amore arrebe avuto luoco, come anche non ha.
Carubina. — Oimè, che cose io veggio e sento? a che son io
ridutta?
GiOAN Bernardo. — Priegovi, dolce mia diva, si mai
fiamma d'amor provaste (la quale in petti più nobili, generosi et
umani suol sempre avere più loco), che non prendiate a mala
parte quel che dico; e non credete, né caschi già mai nella
mente vostra, che per poco conto ch'io faccia del vostro onore
(per cui spargerrei mille volte il sangue tutto) cerchi quel che
cerco da voi: ma per appagar l'intenso ardore che mi consuma,
il qual però né per essa morte ^ posso credere che giamai si
possa sminuire.
Carubina. - Oimè, messer Gioan Bernardo, io ho ben tenero
il core: facilmente credo quel che dite, benché siino in prover-
bio le lusinghe d'amanti; però desidero ogni consolazion vostra:
ma dal canto mio non è possibile senza pregiudizio del mio
onore.
1. Sistemare.
2. Per la morte stessa.
388 CANDELAIO
GiOAN Bernardo. - Vita della mia vita, credo ben che sap-
[321] piate che cosa è onore, e che cosa anco sii disonore. Onore non è
altro che una stima, una riputazione: però sta semper intatto
ronore, quando la stima e riputazione persevera la medesma.
Onore è la buona opinione che altri abbiano di noi: mentre per-
severa questa, persevera l'onore. E non è quel che noi siamo e
quel [che] noi facciamo, che ne rendi onorati o disonorati, ma sì
ben quel che altri stimano e pensano di noi.
Carubina. - Sii che si vogli de gli omini, che dirrete in con-
spetto de gli angeli e de' santi, che vedeno il tutto, e ne giudi-
cano?
GiOAN Bernardo. - Questi non vogliono esser veduti più di
quel che si fan vedere; non vogliono esser temuti più di quel
che si fan temere; non vogliono esser conosciuti più di quel che
si fan conoscere.
Carubina. - Io non so quel che vogliate dir per questo; que-
ste paroli io non so come approvarle, né come riprovarle: pur
hanno un certo che d'impietà.
GiOAN Bernardo. - Lasciamo le dispute, speranza del-
l'anima mia. Fate (vi priego) che non in vano v'abbia prodotta
cossi bella il cielo: il quale, benché di tante fattezze e grazie vi
sii stato liberale e largo, è stato però dall'altro canto a voi
avaro, con non giongervi ad uomo che facesse caso di quelle; et
ad me crudele, col farmi per esse spasimare, e mille volte il
giorno morire. Or, mia vita, più dovete curare di non farmi mo-
rire, che temer in punto alcuno, che si scemi tantillo^ del vostro
onore. Io liberamente mi ucciderrò (si non sarrà potente il do-
lore a farmi morire) si avendovi avuta, come vi ho, comoda e
tanto presso, di quel che mi è più caro che la vita dalla crudel
fortuna rimagno defraudato. Vita di questa alma afflitta, non
[323] sarrà possibile che sia in punto leso il vostro onore, degnandovi
di darmi vita: ma sì ben necessario ch'io muoia, essendomi voi
crudele.
Carubina. — Di grazia andiamo in luoco più remoto, e non
parliamo equi di queste cose.
GiOAN Bernardo. - Andiamo, dolcezza mia, che vengono di
persone.
3. Un pochetto.
ATTO QUINTO 389
SCENA XII
Consalvo e Bartolomeo
attaccati insieme con le mani dietro
Consalvo. — Camina in tua mal'ora, becco cornuto: arri-
viamo queste gente che ne sciolgano.
Bartolomeo. — Oh, che ti venga il cancaro, castronaccio pa-
dre de becchi: mi hai fatto cadere.
Consalvo. - Oimè, la coscia.
Bartolomeo. - Vorrei che t'avessi rotto il collo; ecco siamo
caduti: or alzati adesso.
Consalvo. - Alziamoci.
Bartolomeo. — Al tuo dispetto, voglio star cossi tutta que-
sta notte: testa di cervo.
Consalvo. — Alziamoci, che non possi alzarti né mo'^ né
mai.
Bartolomeo. - Or dormi, perché sei colcato. Vedi, poltrone,
quanto per te ho patito, e patisco.
Consalvo. - E patirrai.
Bartolomeo. - Cornuto coteconaccio^, fuuuh! [325 1
Consalvo. - Oimè, mi mordi, an? Giuro per san Cuccufato^,
che si tu vuoi giocare a mordere, ti strepparò il naso di faccia, o
ver un'orecchia di testa.
scena XIII
Scaramuré, Consalvo, Bartolomeo
Scaramuré. - Vorrei sapere che uomini son questi, che cossi
colcati fanno a questione.
Consalvo. - Alziamoci, porco: sarremo peggio svergognati si
sarremo trovati cossi.
Bartolomeo. — Quasi che fai gran conto di essere svergo-
gnato. I travi non ti danno fastidio, ma sì ben il pelo'.
1. Ora.
2. Villano ostinato.
3. Santo spagnolo, entrato nelle esclamazioni popolari per la bizzarria del
nome.
I. Allusione al detto evangelico del trave dell'occhio proprio non visto da
chi vede il fuscello nell'occhio altrui (Matteo, VII, 3).
390 CANDELAIO
Consalvo. - S'io avesse le mani libere, ti farrei cridare ag-
giuto di altra sorte, che non cridaste un'altra volta. Non ti vói
alzare?
Bartolomeo. — Io ti ho detto che voglio dimorar tutta que-
sta notte cossi.
ScARAMURÉ. - Ah! ah! ah! questi certo sono stati attaccati
insieme, co le mani ad dietro: l'uno si vuol alzare e l'altro non.
Uno de dui mi par tutto messer Bartolomeo alla voce: ma è
impossibile, perché veggo che son mascalzoni in camiso^. Olà
imbreachi!^ che avete, che fate cossi Uà?
Consalvo. - 0 messer gentil omo, vi priego, venete a
[327] sciòme. O messer Scaramuré, séte voi?
Bartolomeo. - Io vi priego, lasciatene cossi.
Scaramuré. - O là messer Bartolomeo, e voi messer Con-
salvo, non mi possevo imaginar che voi fuste: che caso strano é
questo? dui uomini saggi in questo modo? state e perfidiate'' in
questa foggia? siete impazziti?
Bartolomeo. - Peggio dirrete quando saprete che mi sono
appiccato: di grazia non ne sciogliete.
Scaramuré. - Lascia lascia far ad me. Come passa questo
negocio?
Consalvo. — Io avevo paroli con costui: siamo venuti a pu-
gni. Corsero certi marioli in fazzone^ di birri al rumore; ne le-
gomo come ne volessero menar in Vicaria; quando fummo ad
Maiella*^, ne svoltomo^ l'altre mani a dietro in questa forma
che vedete, a culo a culo; e per la prima, ne levomo le borse e si
partimo; poi ricordatosi meglio, ritomomo dui di essi, e ne le-
vomo i mantelli e le berrete; e ne hanno scuciti gli panni di
sopra con un rasoio. Dopo' siamo noi partiti, et abbiamo di-
scorso sin tanto che viddi un omo et una donna in questo loco.
Volsi affrettarmi per chiamarli o giongerli; et al tirar che feci di
questo buon omo, ...
Bartolomeo. - E tu sei una buona bestia, un buon bue.
2. Camicia.
3. Ubriachi.
4. Spergiurate.
5. Veste, aspetto.
6. La chiesa e il convento di San Pietro a Maiella.
7. Legarono dietro.
ATTO QUINTO 39I
ScARAMURÉ. - Avete torto ad ingiuriarvi cossi.
Consalvo. — ... al tirar che feci di costui, cascò come un
asino che porta troppo gran soma: et ha fatto cascar ancora me; [329]
e per perfìdia non si vuole alzare.
ScARAMURÉ. - Alzatevi adesso, che séte sciolti. La troppo cò-
lerà fa l'uomo pazzo e furioso. Or su, non voglio saper più di
vostre raggioni, perché é notte. Guardate di battervi: perché il
primo di voi che si moverrà, ne arra dui centra. Voi messer
Consalvo, prendete quel camino; e voi messer Bartolomeo, que-
st'altro.
Bartolomeo. - Sì, sì, passarrà questa notte: domani ci reve-
derremo con questo amico.
Consalvo. - A rivederci da ora a cent'anni. Bona notte a
voi, messer Scaramuré.
SCARAMURÉ. - A dio, andate.
Bartolomeo. - Adio. — O povero Bartolomeo, quando sarrò
appiccato, son certo che sarrò libero: che più disastri non me si
aggiongerranno.
SCENA XIV
Scaramuré solo
Questo diavolo di Sanguino è conosciuto come la falsa mo-
neta: e con tutto ciò si sa maneggiare ^ di tal sorte, che in certo
modo il capitan Palma medesmo non si saprebbe rapresentar
meglio che come lo rapresenta lui. Guarda guarda come tratta
queste povere bestie. Or mentre messer Gioan Bernardo negocia
lui da un canto, io voglio far di modo che questo buon cristiano
non solo non si lamenti di me, ma che me si tenga ubligato.
Ecco qua la porta della academia di marioli. {Tò, tò, tò). [331]
SCENA XV
Corcovizzo, Scaramuré, Sanguino, messer Bonifacio
CORCOVizzo. - Chi è alla, chi è?
Scaramuré. — Sono Scaramuré, al vostro servizio.
I. Fare, combinare maneggi, affari complicati.
392 CANDELAIO
CoRCOVizzo. - Che Scaramuré? che nome di Zingano! ^ che
volete? che séte voi?
Scaramuré. - VogHo dir una parola al signor capitan
Palma.
CoRCOVizzo. - È occuppato: pur aspetta un poco, che li dirrò
si ve vuole udire.
Scaramuré. - Ah! ah! ah! come son prattichi della sua arte
costoro: l'arte di mariolare have li suoi termini e regole come
tutte l'altre.
Sanguino. - Chi è? olà.
Scaramuré. - Amico.
Sanguino. - O amico, o parente, o creato, o paesano, vieni
domani in Vicaria.
Scaramuré. - Di grazia uditemi, per che è necessario ch'io
vi parli per questa sera.
Sanguino. - Chi séte voi?
Scaramuré. - Son Scaramuré.
Sanguino. — Non vi conosco: pure, che cercate?
Scaramuré. — Vorrei pregarvi di una cosa che importa.
Sanguino. - Aspettate che da equa ad un'ora voglio con-
[333] dure certi priggioni in Vicaria, e mi parlarrai per il camino.
Scaramuré. - Io vi supplico, si é possibile venete qui: che
voglio dirvi cose d'importanza, che non vi dispiacerrà saperle.
Sanguino. — Voi séte troppo fastidioso. Aspettate che de-
scenderrò.
Scaramuré. — Ah! ah! ah! gli altri son professi o baccalau-
rei^: costui é dottore e maestro; credo che... - Oh, veggo messer
Bonifacio alla fenestra.
Bonifacio. - Eh, messer Scaramuré, vedete dove sono io?
Voi sapete quel che voglio dire.
Scaramuré. - Non più, non più: questa é la causa che mi ha
fatto venir equa.
Sanguino. - Levati via da quella fenestra in tua mal'ora,
porco presuntuoso: chi ti ha data licenzia di accostarti alla fe-
nestra e parlare?
1. Zingaro.
2. Professo è chi ha fatto professione dei voti religiosi; baccalaureo è il bac-
celliere, lo scolaro che ha raggiunto il primo grado universitario.
ATTO QUINTO 393
Bonifacio. - Signor capitano, vostra Signoria mi perdona,
io me ritiro.
ScARAMURÉ. — Ah! ah! ah! ah! voi séte tanti diavoli. Io adesso
ho sciolti messer Bartolomeo e Consalvo, che non si possevano
alzar da terra, si mordevano, arrabiavano, si davano del becco
cornuto...
Sanguino. - Ah! ah! ah! e si sapessi gli altri propositi che
passamo con messer Bonifacio et il pedante, rideresti altri-
mente.
SCARAMURÉ. - La vostra comedia è bella: ma in fatti di co-
storo, è una troppo fastidiosa tragedia.
Sanguino. — In conclusione ne vogliamo mandare il pe-
dante de po'^ avergli graffati*^ quelli altri scudi che gli son ri-
masti dentro la giornea. Or parlate a Bonifacio et accomodatelo
con noi. [335]
Scaramuré. — Farro prima certe scuse con esso lui. Farro che
lui mi mandi a pregar messer Gioan Bernardo che gli perdoni;
e lo farro venire, e dimandar perdono a lui et a lei; e tutti in-
sieme dimandaremo a voi grazia di Icisciarlo libero: e credo che
vi farrà ogni partito^, per téma che non lo menate in Vicaria.
Sanguino. — Or su, non si perda tempo. Io lo farro venire
cossi legato a basso; e vi darrò comodità di parlargli come in
secreto.
Scaramuré. - Fate, ch'io aspetto.
SCENA XVI
Sanguino, Barra, Marca, Bonifacio, Scaramuré
Sanguino. — Olà Coppino': sta in cervello, che costui non
fugga.
Barra. - Non dubitate, signore.
Sanguino. - E voi Panzuottolo^, guardate da quell'altro
passo.
3. Dopo.
4. Sottratti, portati via
5. Si adatterà a ogni soluzione.
1. Finto nome di Barra.
2. Finto nome di Marca.
394 CANDELAIO
Marca. - Cossi fo.
Sanguino. - Discostatevi un poco, fate che possa parlar co-
stui con questo uomo da bene a suo bel comodo. Voi altro, mes-
ser... non posso retenir il vostro nome...
ScARAMURÉ. — Scaramuré, al servicio di vostra Signoria.
Sanguino. - ... voi messer Scaramuré, parlate a costui in
questo angolo, remoti.
Scaramuré. - Ringrazio vostra Signoria per infinite volte.
Sanguino. - Mi basta una grazia per una volta.
Scaramuré. - Che ha detto vostra Signoria?
Sanguino. - Basta basta.
scena xvii
Scaramuré, messer Bonifacio
Scaramuré. - Messer Bonifacio, accostatevi.
Bonifacio. - Uh, uh, uh, misero me, quante confusioni oggi:
vedete che frutti raccolgo di miei amori e di vostri consegli,
messer Scaramuré.
Scaramuré. - Oh, reniego'... che mi vien voglia di toccar un
de santi più grandi di paradiso.
Bonifacio. - Chi, san Cristoforo?^ uh, uh, uh...
Scaramuré. - Io dico non il più grande e grosso, ma un di
que' baroni'; ma basta la litania de santi che ho detta all'ora,
subbito che seppi questa cosa: ma in luoco di dire « Ora prò no-
his», io li ho mandate tante blasfeme a tutti (fuor ch'a san Leo-
nardo, della cui grazia al presente abbiam bisogno) che si per
ogni peccato io debbo star sette anni in purgatorio, solo per i
peccati miei da due ore in equa, bisogna ch'il giorno del Giudi-
ciò aspetti più di diece milia anni, prima che venga.
Bonifacio. - Fate errore a blasfemare.
Scaramuré. - Che volete ch'io facesse considerando il vo-
stro danno e disonore, e che par ch'io vi abbia affrontato'', e che
1. Bestemmia interrotta.
2. Che è rappresentato di statura gigantesca.
3. I santi principali, più importanti.
4. Offeso.
ATTO QUINTO 395
si questa cosa va avanti, possemo venire a termine di essere
minati voi et io.
Bonifacio. — Come lo avete saputo?
ScARAMURÉ. — Come sapea le cose lontane Apollonio ', Mer-
lino e Malaggigi?"^
Bonifacio. - Io vi intendo. Piaccia al cielo che con questa
arte mi possi liberare da le mani di costoro.
Scaramuré. - Lasciami fare, ch'io non son venuto per altro
che per rimediare a questo. Ma ditemi prima un poco le vostre
cose. Pensate voi che senza arte ho ridutto costui a donarmi
facultate di parlarti cossi come ti parlo in secreto, che essi ne
guardino solamente di lontano? sai che non sogliono simil
gente concedere anco a quelli che conoscono et hanno per
amici?
Bonifacio. — Per certo che io ne ho avuto un poco di mara-
viglia.
Scaramuré. — Ho proceduto con umiltà, preghiere e scon-
giuri, et un scudo. Ma prima che procediamo ad altro, ditemi, vi
priego, vostri affari.
Bonifacio. — Che volete ch'io vi dichi? Ecco (sfortunato me)
che mi han fatto i vostri rimedii e ricette. Ecco l'amor di quella
puttana, ecco la malignità di quella ruffianacela di Lucia, che [341]
mi ha fatto credere cose che non mi arrebbe possute dare ad
intendere anco il patriarca del concistoro de diavoli: io voglio
spendere vinticinque scudi a fargli marcare il volto ^.
Scaramuré. — Guarda bene che non è stata la colpa di co-
stei, né della signora Vittoria, né mia (per che credo che pensi
peggio di me che de gli altri, benché non vogli dirlo), ma la
vostra forse.
Bonifacio. — Di grazia vedete si possete persuadermi questo.
Scaramuré. — Séte voi certo che quei capelli ch'io vi diman-
dai per porgli alla testa dell'imagine, erano della signora Vitto-
ria?
Bonifacio. - Son certo del cancaro che si mangi quella ba-
gassa di mia fortuna: i capelli son di mia mogliera (che gli va-
5. Di Tiana; vissuto nel I secolo d. C, ebbe fama di mago.
6. Sono i celebri maghi dei poemi cavallereschi.
7. La pena dei ruffiani era il marchio di fuoco sul volto.
396 CANDELAIO
dano mille mal' anni, a compartirseli con colui che pensò di
darmela, con quel che mi portò la prima nova, e quel prete
schiricato^ che la sposò); quelli raccolsi io destramente sabbato
a sera, quando si pettinava.
ScARAMURÉ. - Or ecco come io ho intesa la verità.
Bonifacio. - Da chi?
SCARAMURÉ. - Da chi la sa, et ha possuto dirmela: ho di-
mandato capelli di vostra moglie io?
Bonifacio. - Signor non; ma mi dimandaste i capelli di
donna.
ScARAMURÉ. - Io vi dissi, in nome del diavolo, i capelli de la
[343] donna, e non i capelli di donna indifferentemente: eravamo
forse in proposito di far qualche pippata'' per le bambine?
Bonifacio. - E qual differenza fate voi tra i capelli di
donna et i capelli de la donna?
SCARAMURÉ. - Quella che saprebbono far i putti quando co-
minciano ad aver l'uso di raggione: non eravamo noi in propo-
sito di far la imagine in suo nome?
Bonifacio. - Per dir la verità, non posso io avere quella
capacità che avete voi. Talvolta voi pensate di dar a bastanza
ad intendere la cosa ad un altro per che la intendete voi: e non
è sempre cossi.
ScARAMURÉ. - Or ecco la maldetta causa ch'have imbro-
gliato l'effetto de l'incanto: la cera è stata scelta et incantata in
nome di Vittoria; la imagine è stata formata in suo nome; i ca-
pelli poi erano di tua moglie: da equa è avenuta questa confu-
sione. Tua moglie in casa di Vittoria: tua moglie è stata tirata ^°;
Vittoria è stata inamorata. Tua moglie co i vestimenti di Vitto-
ria; Vittoria senza i suo' vestimenti. Tua moglie in loco de Vit-
toria, in casa de Vittoria, in letto di Vittoria, in veste di Vitto-
ria; Vittoria solamente si bruggia et arde per voi: e per sola vo-
stra esistimazione è stata gionta con voi. E Vittoria e Lucia, e
quella tua moglie, tutti stanno estremamente maravigliate. Lu-
cia se ricorda di avere portato a tua moglie li vestimenti della
signora Vittoria, e non se ricorda come, e non sa dire che cosa
8. Spretato.
9. Bambola
10. Trascinata a forza per opera di magia.
ATTO QUINTO 397
l'ha spinta ad farlo. La signora Vittoria è estremamente stupita,
come voi vestito da messer Gioan Bernardo, con vostra moglie
vestita di sue vesti, e con lei vi siate trovati in suo letto; come a
quell'ora si son trovate tutte le porte aperte per voi e vostra
moglie, e Lucia stordita a condur lei e voi; e lei con altre fante
e garzoni trovarsi occupata dentro la sala, che non s'arrebbe [345]
possuto partire insino a certo termine. Vostra moglie ancora ve-
derete che è rimasta attonita: che non sa la raggione di quel
ch'ha fatto circa il vestirse di quell'abito, et essersi menata in
quella stanza.
Bonifacio. - Questo è uno intrecciamento troppo grande.
ScARAMURÉ. - Tutto quel che ha causato questa confusione,
più destintamente l'intenderete quando sarremo fuor di questi
intrichi.
Bonifacio. - Mi maraveglio; ma un dubio mi resta: per che
mia moglie, come è venuta in loco della signora Vittoria per lo
effetto che se è adimpito in lei e non in quella, in causa che mi
doveva amare, mi ha fatti di strazii che non si derrebono aver
fatti ad un cane?
ScARAMURÉ. - Non vi ho detto che tua moglie, in virtù de
gli capelli ch'eran sui, è stata solamente attirata in quella
stanza; ma non posseva essere inamorata, perché la cera non è
stata scelta, formata, puntata e scaldata in suo nome?
Bonifacio. - Adesso son capace del tuttofi: prima non
avevo bene inteso.
SCARAMURÉ. — Or su, basta: abbiamo troppo discorso circa
questo negocio. Veggiamo di far di modo di donar qualche cosa
a costoro et uscirgli da le mani; che fingano che séte fuggito o
qualch'altro partito prendano: per che l'altre cose poi facilissi-
mamente potranno accomodarsi.
Bonifacio. — Io non mi ritrovo più di otto scudi sopra '^; e li
ne prometterrò, si sarrà duro'^ a volerne, di vantaggio. [347]
ScARAMURÉ. - Oh, non vi credeno^'' per all'ora che gli sar-
rete uscito da le mani.
Bonifacio. — Gli lasciarrò, oltre, il mantello e le anella che
11. Ho capito tutto l'accaduto.
12. Addosso.
13. Insistente.
14. Fanno credito.
398 CANDELAIO
ho nelle dita. E credo che col vostro dire farran per meno: per-
ché costoro per un scudo rinegarebono Cristo e la madre, e la
madre della madre.
SCARAMURÉ. — Voi non conoscete il capitan Palma.
SCENA XVIII
Sanguino, Scaramuré, Bonifacio, [Marca], [Barra]
Sanguino. - Vorrei sapere quando sarran finiti questi vostri
raggionamenti: abbiamo da star ad aspettar voi tutta questa
notte equa?
Scaramuré. — Vostra Signoria ne perdoni si l'abbiamo dato
troppo fastidio, facendola tanto aspettare. Or poi che si è de-
gnata di farci tanto di favore, la supplicamo che ne ascolta una
parola.
Sanguino. — Non più, non più: è ora d'andare in Vicaria;
domani potremo parlar a bell'aggio. Andiamo andiamo: olà
Panzuottolo, Coppino.
Bonifacio. - Oimè, Dio aggiutami, santo Leonardo glorioso.
Scaramuré. - Fatene questa grazia per amor de Dio, signor
capitano.
Bonifacio. - Et io ve ne prego co le braccia in croce.
Sanguino. - Or su, ho comportato tanto: posso comportar
un altro poco.
Scaramuré. — Signor mio, quel tanto che noi vogliamo farvi
intendere è questo: che a vostra Signoria non può rendere gio-
vamento alcuno la confusione di questo povero gentil uomo;
ma sì ben si farrà un perpetuo e servitore e schiavo, tanto me
quanto lui, si accettando una piccola offerta ne farrà grazia di
donargli libertà che si parta.
Sanguino. — Io me imaginavo bene che tu eri venuto per
questa prattica, con speranza di subornare la giustizia: mi ma-
raviglio assai della tua temerità, uomo di pochissima con-
scienza, in sperare di farmi uscir di mano un priggione di
quella importanza che può esser questo uomo. Forse che non
l'ho detto a questi miei famigli? Però io ti ho data questa bal-
danza e ti ho sentito parlare: per aver occasione di castigarti del
tuo fallo, e farti essere essempio a gli altri; et acciò ne sii più
ATTO QUINTO 399
certo, verrai priggione insieme con lui a mano a mano. Olà Cep-
pino.
Barra. — Signore, che comandate?
Sanguino. — Porta equa per legar quest'altro uomo da bene.
ScARAMURÉ. — Di grazia signor Palma, vostra Signoria mi
ascolti prima.
Bonifacio. — Signor mio, per amor de Dio, per tutti li cori
de li angeli, per la intemerata Vergine, per tutta la corte cele-
stiale io vi priego...
Sanguino. — Alzati via, ch'io non voglio essere adorato: non
son io re di Spagna, né gran Turco.
Bonifacio. — ... io vi priego, abbiate compassion di me e non
entriate in còlerà; e ricordatevi che tutti siamo peccatori et
avemo bisogno della misericordia di Dio, il quale ne promette [351]
tante misericordie quante noi ne facciamo ad altri.
Sanguino. — Un scelerato come costui sarrebbe un predica-
tore si avesse studiato. - Li errori bisogna che si castighino, sai
tu?
Bonifacio. — Si tutti li errori si castigassero, in che consi-
sterrebbe la misericordia?
Sanguino. — Va in mal'ora, che io ho altro da fare che di
disputare.
SCARAMURÉ. — Tacete voi messer Bonifacio: lasciate dir a
me. — Signor Palma, non abbia giamai permettuto Dio, che io
avesse voluto tentar questo con pregiudicio della giustizia, e di-
sonor di vostra Signoria: la quale, circa le cose che apparten-
gono alla giustizia, è conosciuta sincerissima da tutto Napoli.
Sanguino. — Lasciamo da canto queste adulazioni: non sono
io che fo misericordia o rigore, giustizia o ingiustizia, ma gli
miei superiori. Sai bene che il mio ufficio è solo di far condurre
priggione i mal fattori, over i pretenduti mal fattori; del resto io
non posso impacciarmi.
Bonifacio. - Oimè povero me.
SCARAMURÉ. - Signormo\ si vostra Signoria ascolta, spero
che mi essaudirrà.
Sanguino. - Io non mi prendo còlerà e fantasia per passa-
I. Signor mio.
400 CANDELAIO
tempo; abbiate dumque buone raggioni come mi promettete: al-
trimente non dormirrete in vostro letto questa notte.
Bonifacio. - O Cristo, aggiutami.
ScARAMURÉ. — Vostra Signoria sa che in Italia non è come in
[353] certi paesi oltramontani dove (o sii per la freddezza di quelli, o
sii per gran zelo delle povere anime, o per sordida avarizia di
quei che administrano la giustizia) sono perseguitati que' che
vanno a cortiggiane. Cqua, come in Napoli, Roma e Venezia,
che di tutte sorte di nobilita son fonte e specchio al mondo
tuto, non solamente son permesse le puttane, o corteggiane
come vogliam dire...
Sanguino. — Mi par vedere che costui loda le tre città per
esservi bordelli et essemo copiose di puttane: questo paradosso
non è de gli ultimi.
ScARAMURÉ. — La priego che mi ascolti. Non solamente, dico,
son permesse, tanto secondo le leggi civili e monicipali, ma
ancora sono instituiti i bordelli, come fussero claustri^ di pro-
fesse^.
Sanguino. — Ah! ah! ah! ah! questa è bella: or mai vorrà co-
stui che sii uno degli 400 maggiori, o degli quattro Ordini mi-
nori ■*; e per un bisogno, vi instituirrà la abbatessa, ah! ah!
ScARAMURÉ. — Di grazia ascoltatemi: equi in Napoli ab-
biamo la Piazetta, il Fundaco del Cetrangolo, il Borgo di Santo
Antonio, una contrada presso Santa Maria del Carmino'. In
Roma, perché erano disperse, nell'anno 1569^ sua Santità or-
[355] dinò che tutte si riducessero in uno, sotto pena della frusta: e li
destinò una contrada determinata, la quale di notte si fermava
a chiave"; il che fece non già per vedere il conto suo circa quel
eh' appartiene alla gabella^, ma acciò si potessero distinguere
dalle donne oneste, e non venessero ad contaminarle. Di Vene-
zia non parlo: dove per magnanimità e liberalità della illustris-
2. Chiostri.
3. Religiose, monache.
4. Sanguino fa una gran confusione fra ordini religiosi e il sacramento del-
l'ordine, e, naturalmente, esagera iperbolicamente sul numero degli ordini esi-
stenti.
5. Scaramuré elenca i quartieri di Napoli dove abitavano le meretrici.
6. In realtà, il provvedimento di Pio V fu preso nel 1566.
7. Si chiudeva.
8. Ufficio a cui dovevano essere iscritte le meretrici, pagavano una tassa
mensile e potevano deferire le loro questioni.
ATTO QUINTO 4OI
sima Republica (sii che si voglia di alcuni particulari messeri
arcinf anf ali ^ clarissimi, che per un bezzo ''^ si farrebbono ca-
strare, per parlar onestamente) ivi le puttane sono esempte ^ ' da
ogni aggravio; e son manco soggette a leggi che gli altri: quan-
tumque ve ne siino tante (per che le cittadi più grandi e più
illustre più ne abondano) che bastarebbono in poco anni, pa-
gando un poco di gabella, ad far un altro tesoro in Venezia
forse come l'altro. Certo se il Senato volesse umiliarsi un poco a
far come gli altri, si farrebbe non poco più ricco di quel ch'è:
ma per che è detto «in sudore vultui ti»'^^, e non «in sudore delle
povere potte», si astengono di farlo. Oltre che, alle prefate '^ put-
tane portano grandissimo rispetto, come appare per certa ordi-
nanza novamente fatta sotto grave pena, che non sii persona
nobile o ignobile, di qualunche grado e condizion ch'ella sii,
ch'abbia ardire di ingiuriarle e dirgli improperii e villanie: il
che mai si fé' per altra sorte di donne...
Sanguino. - Ah! ah! ah! non viddi più bel sofista di costui. [357]
— Tu me la prendi troppo larga e lunga; e mi pare che ti burli
di me e di questo povero omo ch'aspetta il frutto della tua ora-
zione, o leggenda, o cronica (non so che diavolo la sii): ma pur
concludi presto, ch'io ti supportarrò un altro poco.
Bonifacio. - Ti priego, parla a mio proposito: che hai da far
di Venezia, Roma e Napoli?
ScARAMURÉ. - Concludo, signor, che in queste tre città con-
siste la vera grandezza di tutta Italia: per che la prima di quel-
l'altre tutte che restano, è di gran lunga inferiore a l'ultima di
queste.
Bonifacio. - Oimè che mi vien voluntà di cacare.
Sanguino. - Ah! ah! aspetta, buon omo, veggiamo dove va a
calar costui al fine.
Scaramuré. - La conclusione è che le puttane in Napoli,
Venezia e Roma, ideste in tutta Italia, son permesse, faurite^'^,
han sui statuti, sue leggi, sue imposizioni, et ancora privileggii...
9. Persona presuntuosa e ignorante.
10. Moneta veneziana di poco valore.
11. Esenti.
12. Scaramuré storpia le parole della Genesi, III, 19: «In sudore vultus lui
vesceris» («Ti nutrirai col sudore della tua fronte»).
13. Nominate prima, citate più sopra.
14. Favorite.
402 CANDELAIO
Sanguino. — Devi dire «come privileggii».
ScARAMURÉ. - E però consequentemente non si toglie fa-
cultà a persone di andar a corteggiane, e non son persequitate
dalla giustizia...
Sanguino. — Io comincio ad intendere costui.
Bonifacio. — Et io: si va accostandola^ laude e gloria a no-
stra Donna di Loreto '^
SCARAMURÉ. — ... e non solamente questo; ma ancora gelosis-
[359] simamente la giustizia si astiene di procedere, perseguitare e
comprendere ^'' quelli che vanno a donne di onore: per che con-
siderano i nostri principi esser cosa da barbari di prendere le
coma che un gentil omo, un di stima e di qualche riputazione
abbia in petto, et attaccarglile nella fronte. Però, sii l'atto noto-
rio quanto si voglia, non si suol procedere contra: eccetto
quando la parte (la qual semper suol essere di vilissima condi-
zione) non si vergogna di fame instanzia. Quanto alle parte
onorate, la giustizia verrebbe a farli grandissimo torto et ingiu-
ria; per che non contrapesa il castigo che si dà a colui che
pianta le coma, et il vituperio che viene a fare ad un personag-
gio, facendo la sua vergogna publica e notoria a gli occhi di
tutto il mondo: sì che è maggior l'offesa che patisce da la giu-
stizia, che del delinquente; e ben che nientemanco il mondo
tutto lo sapesse, tutta via sempre le coma con l'atto de la giu-
stizia dovengono più sollenne e gloriose. Ogn'uomo dumque ca-
pace di giudicio considera che questo dissimular che fa la giu-
stizia, impedisce molti inconvenienti: per che un cornuto e
svergognato coperto (se pur un tale può esser ditto cornuto o
svergognato, di cui l'esistimazione non è corrotta), per téma di
non essere discoperto, o per minor cura ch'abbia di quelle coma
che nisciun le vede (le quali in fatto son nulla), si astiene di far
quella vendetta: la quale sarrebbe ubligato secondo il mondo
di fare, quando il caso a molti è manifesto. La consuetudine
dumque d'Italia et altri non barbari paesi, dove le coma non
vanno a buon mercato, non solamente comporta e dissimula
tali eccessi, ma anco si forza di coprirli: onde in certo modo son
15. Al problema, alla questione principale.
16. La santa casa della Madonna, miracolosamente trasportata a Loreto.
17. Arrestare.
ATTO QUINTO 4O3
da lodare quei che permettono i bordelli, per li quali si ripara a
massimi inconvenienti, che possono accadere in nostre parti...
Sanguino. — Concludi presto, vi dico. [361]
Bonifacio. - Oimè, mi fa morir di sete; mi viene il parasi-
simo^^.
ScARAMURÉ. - Finalmente, dico a vostra Signoria che l'ec-
cesso di messer Bonifacio è stato per conto di donna: la quale, o
sii puttana, o sii d'onore, non deve esser caggione che lui, che è
uomo di qualche stima e nobile...
Bonifacio. — Io so^*^, mi par, gentil omo del seggiolo di San
Paulo.
ScARAMURÉ. — ... sii visto priggione et celerà: onde potrebono
ancor altri venir ad essere gravemente vituperati. A vostra Si-
gnoria che è persona discreta, credo che basti d'aver udito que-
sto, per intendere tutto il caso.
Sanguino. - Si questo è per causa di donne, io son molto
mal contento che costui mi sii venuto nelle mani: e mi scuso
avanti a Dio et il mondo, che non è mia intenzione di ponere in
compromisso l'onor di persona vivente. Ma voglio che sappi tu,
e lui medesmo mi può esser testimonio e la compagnia pre-
sente, che a questa cosa non posso riparare io. Costui mi è stato
posto nelle mani da un certo messer Gioan Bernardo pittore, il
quale lui contrafacea con una barba posticia, et ancora contrafà
con la biscappa che gli vedi; e la barba è equa in mano di no-
stri famegli: la quale si volete vedere come gli sta bene, verrete
domani a 14 ore in Vicaria, che potrete ridere quando le con-
frontarremo insieme co le barbe. [363]
Bonifacio. — O povero me: eh, per amor de Dio agiutatemi.
Sanguino. — Or quel pover omo da bene fa istanzia alla giu-
stizia, per eccessi che costui può aver fatti e pretenduti di fare
in forma e specie di sua persona: onde possa per l'avenire aversi
qualche pretensione contra colui, da qualche parte lesa, per ec-
cessi che abbia commesi costui.
Bonifacio. - Signor, di questo non è da dubitare.
Sanguino. — Omo da bene, non sono io che dubito: sì che
18. Il parossismo, un attacco di nervi.
19. Io sono.
20. Quartiere.
404 CANDELAIO
comprendete voi, e sappia ogn'uno, ch'io non lo tengo e meno
in Vicaria per mio bel piacere, ma per che ne ho da render
conto; e colui è molto scalfato^' contra di questo: et è appare-
chiato doman mattina di far gli suoi atti contra il presente; ol-
tre, la sua femina anco si lamenta; e messer Gioan Bernardo e
la donna mi potrebbono dare gran fastidio.
SCARAMURÉ. — Della donna non si dubita.
Sanguino. — Anzi di quella io dubito più: queste per gelosia
sogliono strapazzar la vita et onor proprio e di mariti. Or dum-
que considerate voi messeri, che cosa posso far io per voi: posso
aver compassion de lui, ma non agiutarlo.
ScARAMURÉ. - Signor capitano, vostra Signoria parla come
un angelo.
Bonifacio. — Come un evangelista: non si può dir meglio;
santamente.
Sanguino. — Or su dumque andiamo. Panzuottolo, fa che
[365] venghi abasso quel magister, e spediamoci.
ScARAMURÉ. — Signor capitanio, io dono una nova a vostra
Signoria.
Sanguino. - Che nova?
SCARAMURÉ. — Io mi confido di far di modo (si ne vuol far
tanto di grazia di aspettar un mezzo quarto d'ora) di riconci-
liare quel messer Gioan Bernardo con messer Bonifacio.
Bonifacio. — Oh, che piacesse a Dio, e potessi far questo.
Sanguino. - Voi ne date la berta: questo è impossibile.
SCARAMURÉ. — Anzi è necessario: quando lui saprà come la
cosa passa, io credo che et cetera. Io li son tanto amico che, si l'è
colcato^^^ lo farro levare e lo farro venir equa, e farro de modo
che si accordino insieme; ma bisogna che voi messer Bonifacio
li chiedete perdono, e gli facciate qualche degna satisfazzione di
parole et atti d'umiltà: per che veramente lui può presumere
che l'abbiate molto offeso.
Bonifacio. — Cossi è; io mi offero di baciargli i piedi et es-
sergli amico et ubligato in perpetuo, si me perdona questo fallo
e non mi espone alla vergogna: non solamente a lui... uh, uh,
21. Scaldato, irritato.
22. Coricato.
ATTO QUINTO 405
uh... ma ancora a vostra Signoria, signor capitanio mio, uh, uh,
uh...
Sanguino. — Alzati, non, non mi baciar i piedi sin tanto
ch'io non sii papa.
Bonifacio. — ... a vostra Signoria sarrò ubligato si in questo
fatto mi aggiutarrà dandone comodità per un poco di tempo di
trattar questo accordo. Et a voi messer Scaramuré, vi priego co
le viscere del core et anima mia, trattate questo negocio calda-
mente, che la vita mia vi sarrà in perpetuo ubligatissima. [367]
Scaramuré. - Io mi confido assai, almeno di condurlo sotto
qualche pretesto sin equa: e quando vi sarrà, farremo tanto co
la vostra umiltà et intercessione del signor capitanio (si ne vuol
tanto faurire) e mie persuasioni, che la cosa non passarrà
avanti; et è anco necessario che non sii ingrato alla generosità
del signor capitano.
Sanguino. — Oh, io non mi curo di questo quanto a me: bi-
sognarà sì ben far qualche buona cortisia a questi mei famegli,
al meno per chiudergli la bocca. Oltre che, non mi basta questo:
voglio che si riconcilii ancora con la sua femina, e che dimanda
mercé a lei cossi bene come a quell'altro; e quando vedrò quelli
dui contenti e satisfatti, io non procederrò oltre: per che non
posso far di non aver compassione ancor io di questo povero
messer Bonifacio.
Bonifacio. — Signor mio, eccome equa tutto in anima e
corpo al servizio vostro; per li compagni, dico per questi fame-
gli, ecco equa le anella, tutto quel ch'ho dentro questa borsa, e
questa maldetta biscappa, che per ogni modo me la voglio levar
di sopra.
Sanguino. - Basta basta, voi fate il conto senza l'oste (come
se dice): di tutto questo non sarrà nulla, si vostra mogliera e
messer Gioan Bernardo non si contentano.
Bonifacio. - Io spero che si contentarranno. Andate, vi
priego, messer Scaramuré mio.
Scaramuré. - Io lo guidarrò sin equa sotto qualch'altro pre-
testo che non potrà mancare. Vostra moglie son certo che per
suo onore ancora non mancarrà di venire.
Sanguino. - Andate e fate presto, si volete che vi aspet-
tiamo. [369]
406 CANDELAIO
SCARAMURÉ. - Signor, non è troppo lontano da equa l'uno e
l'altra. Io verrò quanto prima.
Sanguino. - Fate che siamo presto risoluti del sì o '1 non: e
non mi fate aspettare in vano.
SCARAMURÉ. - Vostra Signoria non dubiti.
Bonifacio. — O santo Leonardo glorioso, agiutami.
Sanguino. — Andiamo, ritorniamo dentro, ch'aspettarremo
un poco Uà.
scena XIX
Gioan Bernardo, Ascanio
GiOAN Bernardo. - Tanto che, figliol mio, tornando al pro-
posito, è opinion comone, che le cose son talmente ordinate, che
la natura non manca nel necessario, e non abonda in soverchio.
Le ostreche non han piedi: per che in qual si voglia parte del
mar che si trovino, han tutto quel che basta a lor sustenta-
mento; per che d'acqua sola, e del caldo del sole (la cui virtute
penetra in sino al profondo del mare), si mantengono. Le talpe
ancora non hann'occhii; perché la lor vita consiste sotto terra, e
non vivono d'altro che di terra, e non posson perderla. A chi
non have arte, non si danno ordegni.
Ascanio. - Cossi è certissimo. Ho udito dire che un certo
censore dell'opre di Giove che si chiama Momo' (per che son
[371] per tutto necessarii questi che parlan liberamente: prima,
perché i principi e giodici s'accorgano de gli errori che fanno,
e non conoscono mercé di poltroni e vilissimi adulatori; se-
condo, perché temino di far una cosa più ch'un'altra; terzo,
perché la bontà e virtù, quando ha contrario, si fa più bella,
manifesta e chiara, e si confirma e si rinforza), questo censor
dumque di Giove...
Gioan Bernardo. - Costui non è nominato per un de primi
e meglior dèi del cielo: per che questi che han più corte le brac-
cia, per l'ordinario han la lingua più lunga.
Ascanio. - ... questo censor di Giove, in quel tempo dispu-
tando con Mercurio (il quale è stato ordinato interprete e cau-
I. Dio del riso e dei motteggi, che personificava, nella mitologia greca, lo
scherzo e la satira.
ATTO QUINTO 4O7
sidico^ di dèi), venne ad interrogarlo in questa foggia: «O Mer-
curio, più ch'ogni altro sofista, falso persuasore e ruffiano de
l'Altitonante: essendo bene secondo le occasioni et esigenze di
venti che soffiano, o più o meno frenar, allentar, alzar e stender
vela, onde avviene che quest'arbore di nave non ha scotta?^ Il
dirrò più per volgare: perché la potta (parlando con onore del-
l'oneste orecchie) non ha bottoni?»; a cui rispose Mercurio: «Per-
ché (parlando co riverenza) il cazzo non have unghie da spun-
tarla'»».
GiOAN Bernardo. - Ah! ah! ah! che debberò dir gli altri dèi
all'ora?
AsCANio. - La casta Diana e pudica Minerva voltomo la
schena, e se n'andaron via; et un de disputanti disse: «Vadano
in bordello»; arrebbe detto «Vadano al diavolo», ma in quel [373]
tempo non era ancor memoria di quest'uomo da bene. — Sì che,
a confirmazion di quel che voi dite, quantumque costui ha
mosse, muove e moverrà (come è stato per il passato, et è al
presente, e sarrà per l'avenire) tante questioni, già mai potrà
provare errore nelle cose ordinate da natura et intellecto, si non
che in apparenza.
GiOAN Bernardo. - Voi la intendete bene. Tutti gli errori
che accadeno, son per questa fortuna traditora: quella ch'ha
dato tanto bene al tuo padrone Malefacio^, e me l'ha tolto. Que-
sta fa onorato chi non merita, dà buon campo a chi noi semina,
buon orto a chi noi pianta, molti scudi a chi non le sa spendere,
molti figli a chi non può allevarli, buon appetito a chi non ha
che mangiare, biscotti a chi non ha denti. Ma che dico io? deve
esser iscusata la poverina per che è cieca, e cercando per donar
gli beni ch'have intra le mani, camina a tastoni; e per il più
s'abbatte a sciocchi, insensati e furfanti: de quali il mondo tutto
è pieno. Gran caso è quando tocca di persone degne che son
poche; più grande si tocca una de più degne che son più poche;
2. Avvocato.
3. La manovra corrente o fune che serve per spiegare e distendere le vele
(ma tutta la battuta di Momo è oscena: quest'arbore di nave è, naturalmente, il
membro virile).
4. Sbottonarla.
5. Gioan Bernardo ironizza sul nome di Bonifacio, or che tanti guai ha
combinato.
408 CANDELAIO
grandissimo et estra ogni ordinario, tanto ch'abbi tastato^,
quanto ch'abbia a tastare un de dignissimi che son pochissimi.
Dumque si non è colpa sua, è colpa de chi l'ha fatta. Giove
niega d'averla fatta: però o fatta o non fatta ch'ella sii, o non ha
colpa o non si trova chi l'abbia.
AsCANiO. — E per tanto, incolpar ella o altro è cosa ingiusta e
vana. Anzi alcuni provano che sii non solo conveniente ma ne-
(375I cessaria: per che ogni virtute è vana senza l'esercizio et atto suo;
e non è virtù, ma cosa ociosa e vana''. A chi è dato di posserla
cercare, e trovarla, non è degno che stia ad aspettarla. Vogliono
i dèi, che la sollicitudine discaccie la mala ventura e faccia ac-
quistar le cose desiderate: come è avvenuto in proposito vostro.
È forza che gli doni e grazie sien divisi, a fin che l'uno abbi
bisogno dell'altro, e per consequenza l'uno ami l'altro. A chi è
concesso il meritare, sii negato l'avere; a chi è concesso l'avere,
sii negato il meritare.
GiOAN Bernardo. - O figlio mio, quanto parli bene, quanto
il tuo sentimento avanza l'età tua: questo che dici è vero, et al
presente l'ho io isperimentato. Quantumque questo bene ch'ho
posseduto questa sera, non mi sii stato concesso da dèi e la na-
tura; benché mi sii stato negato dalla fortuna: il giudizio mi ha
mostrata l'occasione; la diligenza me l'ha fatta apprendere® pe'
capelli; e la perseveranza ritenirla. In tutti negocii la difficultà
consiste che passi la testa: perché a quella facilmente il busto et
il corpo tutto succede 9. Per l'avenire tra me e madonna Caru-
bina son certo che non bisognarranno tanti studi, proemii, di-
scorsi, raggioni et argumenti.
AscANio. - È vero, perché basta esservi una volta abboccati
insieme, e lei aver appreso il vostro, e voi il suo linguaggio: oc-
chii si vedeno, lingue si parlano, cuori s'intendeno. Tal volta
quel che si concepe in un momento si retien per sempre. A don
[377] Paulino curato di Santa Primma, che è in un villaggio presso
6. Conosciuto, scoperto.
7. Allusione bruniana sia al canto VII deWInferno di Dante, sia al Principe
del Machiavelli e, in genere, al concetto della Fortuna nella filosofia politica
del Quattrocento e del Cinquecento fino al Guicciardini.
8. Afferrare.
9. Tiene dietro. Tutta l'espressione significa che solo gli inizi sono difficili,
poi le cose vanno avanti da sole, con maggiore agevolezza.
ATTO QUINTO 4O9
Nola, Sipion Savolino^" un vener'^ santo confessò tutti suoi
peccati: da quali, quantumque grandi e molti, per essergli com-
pare, senza troppo difficultà fu assoluto. Questo bastò per una
volta: per che ne gli anni seguenti poi senza tante paroli e cir-
constanze diceva Sipione a don Paulino: «Padre mio, gli peccati
di oggi fa l'anno voi le sapete»; e don Paulino rispondeva a
Sipione: «Figlio, tu sai l'assoluzione d'oggi fa l'anno: vadde in
pacio et non amplio peccare» ^^.
GiOAN Bernardo. - Ah! ah! ah! Noi abbiam molto discorso
sopra di ciò: vedi questa porta?
AscANio. - Signor sì.
GiOAN Bernardo. — Questo è il luoco dove l'han posto; non
bisogna toccar questa porta, sin tanto ch'io non sii risoluto ^^ da
messer Scaramuré: credo che lui a quest'ora abbia tutto fatto, e
che mi vadi cercando. Andate voi tra tanto, e fate che madonna
Carubina venghi presto.
Ascanio. - Cossi farro. Credo che vi trovvarremo equa?
GiOAN Bernardo. - Certissimo, che non tardarrò troppo ad
esser con messer Scaramuré. Andate. [379]
scena XX
Messer Gioan Bernardo solo
Scrisse un epitafìo, sopra la sepoltura di Giacopon Tansillo^,
il Fastidito^; che sonava in questa foggia:
Chi falla in appuntar^ primo bottone,
né mezzani né l'ultimo indovina:
però mia sorte canobbi a mattina,
io che riposo morto Giacopone.
10. Zio materno del Bruno.
11. Venerdì.
12. Ascanio storpia le parole di Luca, VII, 50 e Giovanni, Vili, 11: «Vade in
pace et noli amplius peccare» («Va in pace e non peccare più»).
13. Non mi sia data via libera.
1. Pare che si tratti di un nolano, morto assassinato.
2. Il Bruno.
3. Attaccare.
410 CANDELAIO
Il primo bottone che appuntò messer Bonifacio fuor della sua
greffa-*, fu l'inamorarsi di Vittoria; il .IL fu l'averse fatto dar ad
intendere che messer Scaramuré, co l'arte magica, facesse uscire
Satanasso da catene, venir le donne per l'aria volando Uà dove
piacesse a lui, et altre cose assai fuor dell'ordinario corso natu-
rale. Da equa tutti gli altri svariamenti sono accaduti l'uno
dopo l'altro, come figli e figli de figli, nipoti e nipoti di nipoti.
Altro non manca adesso ch'appuntar la stringa et assestar la
bracchetta^ col gippone^: il che si farrà, chiedendo lui mercé e
misericordia per l'offesa fatta a noi poveri innocenti.
SCENA XXI
Gioan Bernardo, Ascanio, Scaramuré, Carubina
[381] Gioan Bernardo. - Voi dumque siete presto ritornati.
Ascanio. — Io le ho rancontrati che veneano.
Scaramuré. - Ecco equa, siamo tutti per liberar questa po-
vera anima dal purgatorio.
Carubina. - Piacess'a Dio che da senno vi fusse talmente
che non mi bisognasse di vederlo più.
Ascanio. - A chi vuole, non è cosa che sii dificile.
Scaramuré. - Io per non avervi trovato in casa vostra, son
stato a quella della signora Vittoria credendo che vi fussi; poi
ho inviata Lucia che vi cercasse e vi menasse equa.
Gioan Bernardo. - Noi siamo tutte le persone necessarie.
Voi madonna Carubina con Ascanio fate sembiante di venir da
per voi; lasciate prima che io e messer Scaramuré negoziamo
con Sanguino e quest'altri: voi in questo mentre vi potrete reti-
rare, e dimorar un poco equa dietro questo angulo.
Carubina. — Voi pensate benissimo. Andiamo, Ascanio.
Ascanio. — Ritiriamoci equa, madonna: perché potremo
Eiscoltar quel che si dice, e scegliere il tempo più comodo per
sopragiongere.
Carubina. - Ben, bene.
4. Occhiello.
5. Parte anteriore dei calzoni.
6. Giubbone. Tutta la frase vuol dire che non resta ormai che sistemare le
cose per il meglio.
ATTO QUINTO 4II
SCENA XXII
Messeri Scaramuré, Gioan Bernardo, Corcovizzo,
Ascanio, Sanguino, [Barra]
Scaramuré. - Toccamo la porta (tó, tò, tò).
Corcovizzo. - Chi è là?
Scaramuré. - Amici. Avisate il signor capitano che noi
siamo equa. [383]
Corcovizzo. - Or ora, messer mio.
Scaramuré. - Questo è Corcovizzo: adesso mi par che si fac-
cia chiamar non so se Cappino o che diavolo d'altro nome. Io
ho udito chiamar Panzuottolo o quell'atro ^ o costui.
Gioan Bernardo. - Ah! ah! ad un bisogno il pedante e mes-
ser Bonifacio le sapranno conoscere: son mascherati di barba
anch'essi?
Scaramuré. - Tutti: che in vero questa mi par essere una
comedia vera. Al pedante non manca altro che la barba; messer
Bonifacio, si se la vuole attaccare, l'ha. Questi dui si conoscono
tra loro, ma non sanno che gli altri ancora sono mascherati.
Ascanio. - Manca sol che madonna Carubina porti la sua
maschera.
Sanguino. - Voi siete equa? la moglie non l'avete condotta?
Avertite che senza lei non si farrà nulla.
Scaramuré. — Signor, la è in camino, viene: adesso adesso
sarrà presente.
Sanguino. - Aspettate dumque, che verremo con que-
st'uomo a basso.
Scaramuré. - Tenetevi su la vostra per un poco di tempo.
Gioan Bernardo. - Lascia guidar il fatto mio ad me.
Sanguino. - Siate il benvenuto, messer Gioan Bernardo.
[Gioan Bernardo.] - Vostra Signoria sia il molto ben tro-
vato: subito che ho inteso da messer Scaramuré che vostra Si-
gnoria mi dimandava, mi son alzato di letto, e venuto come di [385]
posta, dubitando che non si fusse scoperta qualche cosa che
quel malfattore sotto la mia forma abbia commessa.
Sanguino. - Il malfattore, il Malefacio, eccolo equa presente.
I. Quell'altro (ma Scaramuré fa un gioco di parole con latro che significa
ladro).
412 CANDELAIO
Ma in nome del diavolo, io non vi ho mandato a chiamare; ma
questo messer Scaramuré lui ha tanto pregato ch'io aspettasse
un poco da menar costui priggione in Vicaria, e che questo sap-
rebbe stato di vostra satisfazzione, sapendo altre cose che pas-
sano circa il negocio del stravestimento di costui. Io sì per farvi
piacere, sì anco mosso dalle preghiere di messer Scaramuré, ol-
tre dalle lacrime e contrizzione di questo povero peccatore, vi
ho aspettato; ma non vi ho mandato a chiamare.
Bonifacio. - Misericordia per amor de Dio!
GiOAN Bernardo. — Messer Scaramuré, voi non m'avete
chiamato da parte del signor capitano, con dirmi che mi di-
manda per cose che molto importano circa il nostro negocio,
che mi avete fatto montar la pagura^ da le calcagne? Come mi
fate questi tradimenti? è questa l'amicizia? è questo il zelo
ch'avete dell'amor mio? Avete studiato e, come mi par, studiate
di faurire et aggiutare con mio pregiudizio questa pessima con-
scienza di omo. Signor capitano, io mi querelo ancor di costui,
che ha abusato del mio nome et intenzione parlando con vostra
Signoria; et bave abusato dell'autorità e nome di vostra Signo-
ria facendomi aver questo disaggio di venir sin equa e fastidir
tante persone.
Bonifacio. - Misericordia per l'onor de Dio e di nostra
Donna!
Sanguino. — Piano, piano: veggiamo si questa cosa si può
[387] accomodare; veggiamo si l'è tanto criminale. Poi che voi siate
equa, pensate bene a quel che fate, non vi lasciate trasportar
dalla còlerà.
GiOAN Bernardo. - La cosa non si potrà acomodar giamai
dal canto mio; anzi, dopo' che la giustizia arra fatto il suo corso,
credo che la cosa non sarrà finita tra me e lui.
Scaramuré. — Messer Gioan Bernardo mio, quello che io ho
fatto e fo, non credo che sia con interesso' de l'onor vostro:
tutte volte che si trovarrà errore che di notte sii stato commesso
come in persona vostra, siamo equa tanti testimonii per farli
cascare sopra messer Bonifacio; ma non essendovi passate altro
2. Paura.
3. Interesse.
ATTO QUINTO 413
che certe levità, non so per che causa che passa tra lui e sua
moglie, dovete quietarvi.
GiOAN Bernardo. — Si è dumque stravestito per farmi esser
stimato ch'io fusse insieme con sua moglie, per confondere lei e
me: per ponerci in pena"^ della vita. Non sapete voi che cerca di
cangiarla^, et ad me di farmi il peggio che puote?
Bonifacio. - Non piaccia a Dio: e perché questo a voi, mes-
ser Gioan Bernardo mio? Perdonatime, vi priego: misericordia
per le cinque piaghe di nostro Signore.
Gioan Bernardo. — Non tanti baciamenti di piedi, vi
priego.
Barra. — Tutto il mondo è re e papa alla devozion di costui
solamente in questa occasione: si Dio li farrà grazia, apresso
farrà un casocavallo'' a tutti. [389]
Sanguino. - Su su, abbiate pietà al meno sin tanto che non
costi che lui non abbia fatto altro errore che questo. Vedi che
deve esser stato qualch'altro intrico: sua moglie ancora era stra-
vestita da un'altra; non era in suo proprio abito, come mi dice
costui: però non è verisimile che per quel mezzo vi volesse con-
fondere.
ScARAMURÉ. — Oltre che, era sua moglie in abito di una
donna la qual senza suspizione alcuna sempre prattica con
messer Gioan Bernardo. Su su, messer Gioan Bernardo mio: io
ancor vi priego che abbiate la misericordia de Dio avanti gli
occhii. Io sapevo bene che voi non sareste venuto sin equa s'io
non vi parlavo in quel modo; ancora ho eccesso^ a riguardo del
signor capitano: stimando certo che non me ne sarreste nemici,
essendo che è per far misericordia e carità ad uno, senza far
torto ad un altro.
Bonifacio. — Messer Gioan Bernardo mio, io mi offero^ obli-
gato a tutte pretensione et interessi, che vi si potessero avve-
nire. Messer Gioan Bernardo, obligatevi, vi priego, questa po-
4. In pericolo.
5. Ingannarla.
6. Formaggio tipico dell'Italia meridionale, foggiato a forma di fiaschette
che a coppie vengono sospese per mezzo dì una funicella a cavallo di un ba-
stone. Metaforicamente, Barra allude, per la forma di tale formaggio, all'intento
di mandare a impiccare coloro di cui non si abbia più bisogno.
7. Ecceduto.
8. Offro.
414 CANDELAIO
vera anima di Bonifacio: il quale si voi volete sarrà svergogna-
tissimo. L'onor mio è in vostra mano; non potrò negar giamai
che per vostra mercé io ho il mio onore: si me fate questa gra-
zia... uh, uh, uh, uh...
[391] Sanguino. - Oh ben, bene: eccola sua moglie.
SCENA XXIII
Carubina, Sanguino, Scaramuré, Gioan Bernardo,
Bonifacio, Barra, Corcovizzo, Ascanio, Marca
Carubina. - Ancora è equa questo concubinaro di sua mo-
glie.
Sanguino. - È gran cosa nova questa: credo che questi che
fan professione di casi di conscienza non si abbiano ancora
imaginato come uno può essere fornicano, o concubinario, chia-
vando sua propria e legitima moglie.
Scaramuré. — Orsù lasciamo queste ironie e queste colere:
bisogna risolvere questa cosa equa tra noi (poi che il signor ca-
pitan Palma ne fa tanto di favore, di fame consultar dell'onor
vostro, madonna Carubina), atteso che la vergogna di vostro
marito non può risultar in vostro onore; né manco in utilità
vostra, messer Gioan Bernardo.
Bonifacio. - Cossi è certissimo. Misericordia, pietà, compas-
sione, carità per amor de Dio: messer Gioan Bernardo mio, e
moglie mia, perdonatime, vi priego, per questa prima volta.
Barra. - È gran cosa il mondo: altri sempre fanno errori e
mai fanno la penitenza, per quel che si vede; altri la hanno
dopo molti errori; altri vi accappano' nel primo; altri ancor
non han peccato, che ne portano la pena; altri suffriscono senza
peccato; altri la portano per gli peccati altrui. In quest'uomo, si
ben si considera, tutte queste specie sono congionte insieme.
Bonifacio. - Io vi dimando mercé e grazia: la vi supplico
che mi concediate come il signor nostro Giesu Cristo al bon la-
[393] trone, alla Madalena.
Barra. - Cazzo, che buon latrone è costui: quando voi sarrete
buon latrone come colui che rubbò il paradiso, come da nostro
I. Incappano.
ATTO QUINTO 415
Signore vi si farrà misericordia. Voi siete un ladro che togliete
quel che è di vostra moglie, e lo donate ad altre: il suo latte, il suo
liquore, la sua manna, la sua sustanza et il suo bene.
GiOAN Bernardo. — E la mia persona, e la mia barba, e la
mia biscappa, e forse il mio onore per quel che può aver fatto.
Barra. — Però non se gli de' perdonare comò a buon latrone:
più tosto come alla Madalena.
CORCOVizzo. - Vedete che gentil Madalena: che gli vada il
cancaro a lui e le quattrocento piattole che deve aver nel bosco
dell'una e l'altra barba. Vedete che precioso unguento va spar-
gendo costui: per mia fé non gli manc'altro che la gonna, per
farlo Madalena. Io dico che se gli de' perdonare come i Giudei
perdonomo a Barrabam.
Sanguino. — Bel modo di aggiutar un poveruomo; bella
forma di consolar un afflitto: tacete tacete voi; non v'impacciate
a questo, attendete a far quel che vi si comanda.
SCARAMURÉ. - Io vi priego che gli perdonate; e lui vi priega
ancora, come vedete, in ginocchioni: o sia in nome de Dio o in
nome del diavolo; o come a Barrabam ^ o come a Dimas^.
Sanguino. — Cossi, cossi bisogna et è ben che se gli faccia
misericordia. [395]
GiOAN Bernardo. - Che dite voi madonna Carubina?
Carubina. — Io per questa volta gli rimetto: ma che stii in
cervello per l'avenire, che gli farro pagare e questo e quello.
Bonifacio. - Certissima vi fo, Carubina mia...
Carubina. - Io son vostra, ma voi della signora Vittoria.
Bonifacio. — ... che mai, mai più mi trovarrete in fallo.
Carubina. — Per che adesso hai imparato di farlo più accor-
tamente.
GiOAN Bernardo. - Voi l'intendete.
Bonifacio. — Io dico che non mi trovarrete in fallo per che
io non farro fallo.
Barra. - Le donne quando sono a i dolori del parto, dicono:
«Mai mai mai più; adesso vi fermo a chiave: marito traditore, si
me ti accostarrai, t'ucciderrò; certissimo ti stracciarrò co i den-
ti». Non tanto presto poi ch'è uscita quella creatura, per non
2. Barabba.
3. Il nome del buon ladrone della Passione del Cristo.
4l6 CANDELAIO
dar vacuo in natura "", vuoleno per ogni modo che v'entri l'altra.
Ecco equa il pentimento di donna quando figlia, ecco il propo-
nimento di donna quando infanta^.
Sanguino. - O bel vedere: quando altri piange, altri sta in
còlerà; voi fate de i tiri, e prendete passatempi. Tacete, tacete.
Carubina. - Io non solamente vi perdono, ma per farti più
grazia e per l'onor mio che vi va per mezzo, ancor supplico
messer Gioan Bernardo che si contenti farvi donar libertà al
signor capitano.
[397] Bonifacio. - Io vi ringrazio, moglie mia cara. Sino ad oggi
vi ho amato per un rispetto e dui doveri: da oggi avanti vi
amarrò per tutti doveri e tutti rispetti.
Gioan Bernardo. - Messer Bonifacio, io son cristiano, e fo
professione di buon catolico. Io mi confesso generalmente, e co-
munico tutte le feste principali dell'anno. La mia arte è di de-
pengere, e donar a gli occhii de mundani^ la imagine di nostro
Signore, di nostra Madonna, e d'altri santi di paradiso. Però il
core non mi comporta, vedendoti mosso a penitenzia, di non
perdonarti, e farti quella rimessione che ogni pio e buon cri-
stiano è ubligato di fare in casi simili: per tanto Iddio ti per-
doni in cielo, et io ti perdono in terra. Una cosa solamente mi
riservo (per che è scritto «Honore meom nemini tabbo»''): che si
sotto questo abito avessi commesso altro delitto, che vi appare-
chiate ad fame tutte reparazione; e questo lo promettete al si-
gnor capitano come ministro della giustizia, ad me avanti vo-
stra moglie, messer Scaramuré e questi altri compagni.
Sanguino. - Non promettete cossi?
Bonifacio. - Lo prometto e riprometto, affirmo e confirmo;
et oltre di ciò io giuro con ambe le mani alzate al cielo, ch'io
non ho comesso altro errore per il quale possa e debba contri-
starsi messer Gioan Bernardo, che di essermi contrafatto a lui,
4. La natura non ammette il vuoto; ed è proposizione filosofica diffusa
nelle scuole.
5. Partorisce.
6. Uomini.
7. Gioan Bernardo storpia il proverbio «Honorem meum nemini dabo»
(«Non cederò a nessuno il mio onore»). Tutta la scena fra Gioan Bernardo,
Bonifacio e Carubina, con l'ambigua pacificazione fra i due e le allusioni ero-
tiche fra il pittore e la moglie del «candelaio», ripropone le scene conclusive
della Mandragola machiavelliana.
ATTO QUINTO 417
per non esser conosciuto, entrando e sortendo dalla stanza della
signora Vittoria: nella quale esso messer Gioan Bernardo non
può esser veduto con scandalo o mala suspizione per essere
quella sua, che questa donna tiene a piggione.
Sanguino. - Per mia fé si questo è errore, non è grande er- [399]
rore. Orsìi alzatevi in piedi, messer Bonifacio: abbracciatevi in-
sieme con messer Gioan Bernardo; siate meglio amici per l'ave-
nire che per il passato, cercate l'un di far serviggio a l'altro,
visitate l'un l'altro, aggiutate l'un l'altro.
Gioan Bernardo. — Cossi farremo si sarrà come deve essere;
e con questo vi abbraccio et accetto per amico.
Bonifacio. - Io vi sarrò sempre amico e servitore.
Barra. - Siate buoni compagni.
Sanguino. - Che fate? abbracciate, baciate vostra moglie.
Carubina. — Questo non importa tra noi: la pace è fatta.
Marca. - In casa, in casa. Trattate bene vostra moglie, mes-
ser Bonifacio: altrimente vi castigarrà lei insieme con messer
Gioan Bernardo.
Sanguino. - Orsù andiate tutti con Dio: passate per dentro
questa stanza, per che uscirrete per quell'altra porta; e voi mes-
ser Bonifacio, lasciarrete quella offerta che avete promessa a
questi compagni per il disaggio che abbiamo avuto per voi.
Bonifacio. - Molto di bona voglia, signor mio.
Scaramuré. - Andiamo; che sia lodato Idio, ch'ha fatta que-
sta pace et unione di messer Bonifacio, madonna Carubina e di
messer Gioan Bernardo: tre in uno.
Bonifacio. — Amen amen.
Carubina. - Passate voi, messer Gioan Bernardo.
Gioan Bernardo. - Non lo farro mai, signora: vostra Signo-
ria vadi avanti.
Carubina. - Bisogna che sia cossi. [401]
Gioan Bernardo. - Tocca a voi, madonna.
Carubina. - Io dumque vo per farvi servizio et ubedirvi.
Gioan Bernardo. - Seguitemi, messer Bonifacio: tenetevi a
me et appigliatevi alla mia cappa, e guardate di non cascare.
Bonifacio. - Io me guardarrò bene.
Sanguino. - Aspetta un poco equa con me tu, figlio mio, per
che starremo insieme mentre costoro si spediscono de lì dentro.
AsCANio. - Cossi farro come vostra Signoria comanda.
4l8 CANDELAIO
SCENA XXIV
Sanguino, Ascanio
Sanguino. - Or che vi par del padron vostro messer Bo-
nifacio?
Ascanio. - Quel che ne vedo, bene.
Sanguino. - Non è lui galant'uomo, saggio, accorto, di va-
lore, d'ogni stima degno?
Ascanio. - Quant'ogni par suo.
Sanguino. - Chi vi par suo pare?
Ascanio. - Chi non sa e conosce più né men che lui, e chi
non vale più né men che lui.
Sanguino. — Essendono molte le specie della pazzia, in
quale pensate voi che lavori costui?
Ascanio. — Le specie della pazzia le possiamo prender da
più capi; ma prendendole da questo, che di pazzi altri sono in-
differenti, altri son tristi, altri son buoni, costui viene ad essere
[403] di tutte tre le cotte: addormito è indifferente, desto è tristo,
morto è buono.
Sanguino. - Per che l'ha preso madonna Carubina?
Ascanio. - Per che è pazzo.
Sanguino. - Vi par ch'ell'abbi fatto bene?
Ascanio. - Secondo il conseglio del mustaccio' della barba
di quella vecchia lanuta di madonna Angela, ha fatto più che
bene: ideste benissimo. Quella è stata la sua consegliera: quella è
la pastora di tutte belle figlie di Napoli. Chi vuol agnusdei^; chi
vuol granelli benedetti; chi vuol acqua di san Pietro Martire',
la semenza di san Gianni, la manna di sant'Andrea-*, l'oglio
dello grasso della midolla de le canne dell'ossa del corpo di san
Piantorio^; chi vuol attaccar un voto per aver buona ventura:
vada a trovar madonna Angela Spigna. A costei venne ma-
donna Carubina e disse: «Madre mia, voglion darmi marito: me
1. Propriamente volto, qui pelo.
2. Immagine benedetta, raffigurante l'Agnello di Dio.
3. Il pozzo della chiesa e convento domenicano di San Pietro Martire a
Napoli era celebre per l'acqua limpida e fresca.
4. Allusioni irriverenti a reliquie che erano venerate in chiese napoletane.
Ma tutte le esclamazioni, fin dai granelli benedetti, sono allusioni oscene.
5. Metafora oscena.
ATTO QUINTO 4I9
si presenta Bonifacio Trucco, il quale ha di che e di modo»;
rispose la vecchia: «Prendilo»; «Sì, ma è troppo attempato»,
disse Carubina; respose la vecchia: «Figlia, non lo prendere»; «I
miei parenti mi consegliano di prenderlo»; rispose: «Prendilo»;
Ma a me non piace troppo», disse Carubina; «Dumque non lo
prendere», rispose. Carubina soggionse: «Io lo conosco di buon
parentado»; «Prendilo», disse la vecchia; «Ma intendo che dà [405]
tre morsi ad un faggiuolo»''; rispose: «Non lo prendere»; «Sono
informata» disse Carubina, «ch'have un levrier di buona raz-
za»^; «Prendilo», rispose la vecchia madonn' Angela; «Ma
ehimè» disse, «ho udito dir ch'è candelaio»^; «Non lo prende-
re», rispose. Disse Carubina: «Lo stiman tutti pazzo»; «Prendilo,
prendilo, prendilo, prendilo, prendilo, prendilo, prendilo» sette
volte disse la vecchia, «non importa che sii candelaio, non ti
curar che dii tre morsi ad un faggiuole, non ti fa nulla che non
piace troppo, non ti curar che sii troppo attempato; prendilo
prendilo, perché è pazzo: ma guarda che non sii di que' riggidi,
amari, agresti»^; «Son certa che non è di quelli», disse Ca-
rubina; «Prendilo dumque» disse madonna Angela, «prendilo».
— Oh, ecco equa i compagni.
SCENA XXV
Barra, Marca, Corcovizzo, Mamfurio,
Sanguino, Ascanio
Barra. - Quell'altro è ispedito: che vogliam far di costui, del
domino magisteri
Sanguino. — Questo porta sua colpa su la fronte: non vedi
ch'è stravestito? non vedi che quel mantello è stato rubbato a
Tiburolo? non l'hai visto che fugge la corte?
Marca. - È vero; ma apporta certe cause verisimile. [407]
Barra. — Per ciò non deve dubitare d'andar priggione.
Mamfurio. — Verum; ma cascarrò in derisione appo miei
scolastici e di altri per i casi che me si sono aventati al dorso.
Sanguino. - Intendete quel che vuol dir costui?
6. È avarissimo.
7. Metafora oscena.
8. Sodomita.
9. Di carattere acido, bisbetico.
420 CANDELAIO
CoRCOVizzo. — Non l'intenderebbe Sansone'.
Sanguino. — Or su, per abbreviarla vedi magister a che cosa
ti vuoi resolvere: si volete voi venir priggione, over donar la
bona mano^ alla compagnia di que' scudi che ti son rimasti
dentro la giornea, perché (come dici) il mariolo ti tolse sol
quelli ch'avevi in mano per cambiarli.
Mamfurio. - Minime^, io non ho altrimente veruno: quelli
che avevo tutti mi furon tolti: ita mehercle, per lovem, per Altito-
nantem, vos sidera testar"^.
Sanguino. - Intendi quel che ti dico; si non vói provar il
stretto della Vicaria, e non hai moneta, fa elezione d'una de le
altre due: o prendi diece spalmate con questo ferro di correggia
che vedi, o ver a brache calate arrai un cavallo de cinquanta
staffilate: che per ogni modo tu non ti partirrai da noi senza
penitenza di tui falli.
[409] Mamfurio. — «Diwbus proposìtis malis minus est tolerandwn:
sicut duobus proposìtis bonis melius est eligendum», dicit Peripate-
ticorum princeps^.
AscANio. - Maestro, parlate che siate inteso, per che queste
son gente sospette^.
Barra. — Può essere che dica bene costui all'or che non vuol
esser inteso?
Mamfurio. — Nil mali vobis imprecar, io non vi impreco
male.
Sanguino. - Pregatene ben quanto volete, che da noi non
sarrete essaudito.
CORCOVizzo. — Elegetevi presto quel che vi piace, o vi legar-
remo meglio e vi menarremo.
1. Proverbialmente citato per la sua abilità nell'interpretare enigmi (con
riferimento a Giudici, XVI, 12 e segg.).
2. Mancia
3. «Niente affatto».
4. «Così, per Ercole, per Giove, per l'Altitonante, vi giuro, vi chiamo in
testimonio, o stelle».
5. «Di due mali proposti deve essere sopportato il minore, come di due
beni si deve scegliere il migliore, dice il principe dei Peripatetici» (cioè Ari-
stotele, Rhetor, i, 6, 5).
6. Sospettose.
ATTO QUINTO 421
Mamfurio. — Minus pudendum erit palma feriri, quam quod
congerant in veteres flagella nates: id enim puerile esf.
Sanguino. - Che dite voi, che dite in vostra mal'ora?
Mamfurio. - Vi offro la palma.
Sanguino. — Tocca Uà, Corcovizzo: dà fermo.
CoRCOVizzo. - Io do {taf): una...
Mamfurio. - Oimmè, lesus, of!
Corcovizzo. - Apri bene l'altra mano {taf): e due...
Mamfurio. - Of Of, lesus Maria. [411]
Corcovizzo. - Stendi ben la mano, ti dico; tienla dritta cossi
{taf): e tre...
Mamfurio. - Oi oi oimè, uf of of... of... per amor della pas-
sion del nostro signor lesusr. potius fatemi alzar a cavallo, per
che tanto dolor suffrir non posso nelle mani.
Sanguino. — Orsù dumque Barra, prendilo su le spalli; tu
Marca, tienlo fermo per i piedi che non si possa movere; tu Cor-
covizzo, spuntagli^ le brache e tienle calate ben bene a basso: e
lasciatelo strigliar ad me; e tu maestro, conta le staffilate ad una
ad una, ch'io t'intenda; e guarda ben, che si farrai errore nel
contare, che sarrà bisogno di ricominciare; voi Ascanio, vedete e
giudicate.
Marca. — Tutto sta bene: cominciatelo a spolverare, e guar-
datevi di far male a i drappi che non han colpa.
Sanguino. — Al nome di santa Scoppettella'^, conta {toff).
Mamfurio. - {Tof) una; {tof) oh tre; {tof) oh oi, quattro; {toff)
oimè oimè...; {tof) oi i oimè...; {tof) oh, per amor de Dio, sette!
Sanguino. - Cominciamo da principio un'altra volta; vedete
si dopo quattro son sette: dovevi dir cinque.
Mamfurio. - Oimè che farro io? erano in rei veritate^^ sette.
Sanguino. — Dovevi contarle ad una ad una. Or su via [di]
novo {toff).
Mamfurio. - {Toff una; {toff una; {toff oimè, due; {toff, toff
toff tre, quattro; {toff toff cinque, oimè; {toff, toff sei. Oh, per
7. «È meno vergognoso essere colpito sulla mano che lasciarsi accumulare
frustate sulle vecchie natiche: questa non è cosa da bambini».
8. Sbottonagli, slegagli.
9. Scherzosa canonizzazione dei birri del tribunale ecclesiastico o, più pro-
babilmente, delle frustate.
10. «In verità».
422 CANDELAIO
[413] l'onor di Dio {tojf) non più (toff, toff) non più che vogliamo {toff^
toff) veder nella giornea {toff) che vi sarran alquanti scudi.
Sanguino. — Bisogna contar da capo, che ne ha lasciate
molte, che non ha contate.
Barra.. — Perdonategli di grazia signor capitano, per che
vuol far quell'altra elezzione di pagar la strena".
Sanguino. - Lui non ha nulla.
Mamfurio. - Ita, ita, che adesso mi ricordo aver più di
quattro scudi.
Sanguino. - Ponetelo abasso dumque: vedete che cosa vi è
dentro la giornea.
Barra. — Sangue di... che vi son più di sette de scudi.
Sanguino. — Alzatelo, alzatelo di bel novo a cavallo, per la
mentita eh' ha detta, e falsi giuramenti eh' ha fatti: bisogna
contarle, fargli contar settanta.
Mamfurio. - Misericordia: prendetevi gli scudi, la giornea, e
tutto quanto quel che volete, dimittam vobis^^.
Sanguino. — Or su pigliate quel che vi dona, e quel mantello
ancora, che è giusto che sii restituito al povero padrone. Andia-
mone noi tutti: bona notte a voi, Ascanio mio.
Ascanio. — Bona notte e mille bon'anni a vostra Signoria,
[415] signor capitanio, e buon prò' faccia al mastro.
scena xxvi
Mamfurio, Ascanio
Mamfurio. — Ecquis erit modus?^
Ascanio. - O là mastro Mamfurio, mastro Mamfurio.
Mamfurio. - Chi è chi mi conosce? chi in questo abito e
fortuna mi distingue? chi per nome mio proprio m'appella?
Ascanio. - Non ti curar di questo, che t'importa o poco o
nulla: apri gli occhi, e guarda dove sei; mira ove ti trovi.
Mamfurio. — Quo melius videam^, per corroborar l'intuito* e
11. Mancia.
12. «Lascerò a voi».
1. «Quale sarà mai il termine dei miei guai?».
2. «Per veder meglio».
3. Vista
ATTO QUINTO 423
firmar'' l'acto della potenza visiva, acciò l'acie' de la pupilla
più efficacemente per la linea visuale emittendo il radio <^ a
l'obiecto visibile, venghi ad introdur la specie^ di quello nel
senso interiore, idest mediante il senso comone collocarla nella
cellula de la fantastica facultade, voglio applicarmi gli oculari^
al naso. Oh, veggio di molti spectatori la corona.
AscANio. - Non vi par esser entro una comedia?
Mamfurio. - Ita sane'^.
AsCANio. — Non credete d'esser in scena?
Mamfurio. - Omni procul dubio^^.
AsCANio. — A che termine vorreste che fusse la comedia? [417]
Mamfurio. — In calce, in fine: ncque enim et ego risu ilia
tendo^^.
AsCANio. — Or dumque fate e donate il plaudite^^.
Mamfurio. -
Quam male possum plaudere,
tentatus pacientia:
nam plausus per me factus est
iam dudum miserabilis,
et natibus et manibus
et aureorum sonitu. Amen^^.
AsCANio. — Donate dico il plaudite; e forzatevi di farlo an-
cora voi, e fate il tutto bene da maestro et uomo di lettere che
voi siete: altrimente tomarrà gente in scena mal per voi.
Mamfurio. - Hilari efficiam animo, forma quae sequitur^'^:
— Sì come i marinali, bench' abbin l'arbor tronco, persa la vela,
4. Rendere più forte.
5. Acutezza.
6
Immagine.
Occhiali.
«Proprio così».
10. «Senza nessun dubbio».
11. «Alla conclusione, alla fine: infatti, io non tendo per il riso i fianchi»
(ed è rifacimento scherzoso di un verso di Virgilio, Georg., Ili, 506-507).
12. Il segnale degli applausi finali.
13. «Troppo male posso applaudire, provato nella mia sopportazione; l'ap-
plauso infatti mi è diventato da tempo ragione di pianto, a cagione delle na-
tiche e delle mani e del suono dei quattrini. Così sia».
14. «Mi proverò con animo lieto, nel modo seguente».
424 CANDELAIO
rotte le sarte, e smarrito il temone per la turbida tempesta, so-
glion nulla di meno, per esser gionti al porto, plaudere; et iuxta
la maroniana sentenza:
Votaque servati solvent in littore nautae
Glauco, et Panopeae, et Inoo Melicertae^^;
parimente ego Mamphurius, graecarum, latinarum vulgariumque
literarum, non inquam regius, nec gregius, sed egregius (quod est per
aethimologiam «e grege assumptus») professor; nec non philosophiae,
medicinae, et iuris utriusque, et theologiae doctor, si voluissem^^:
per esser gionto al porto di miei erumnosi ^^ e calamitosi succes-
si'^, post hac vota soluturus, plaudo^'^. Proinde^^ dico a voi, nobi-
lissimi spectatori {quorum omnium ora atque oculos in me video
esse coniectosY^, sì come io per ritrovarm'al fine del mio esser
tragico supposito^^, si non co le mani, giornea e vesti, corde lu-
men, et animo plaudo^^; cossi e megliormente voi, meliori hacte-
nus adi fortuna^'^, che di nostri fastidiosi et importuni casi siete
stati gioiosi e lieti spectatori. Valete et Plaudite.
[Fine dell'atto quinto]
15. Citazione di Virgilio, Georg., I, 436-437: «E tratti a salvamento i mari-
nai scioglieranno i voti sul lido a Glauco, Panopea e a Melicerta figlio di Ino».
16. «Io, Mamfurio, non dico regio, né di gregge, ma egregio, cioè, etimologi-
camente, scelto dal gregge, professore di lettere greche, latine e volgari, nonché
dottore in filosofia, medicina e diritto civile e penale e teologia, purché avessi
voluto».
17. Pieni di travagli, di affanni.
18. Vicende.
19. «Poi, sul punto di adempiere i voti, do il segnale degli applausi».
20. «Perciò».
21. «I cui volti e sguardi vedo in me rivolti».
22. Soggetto, materia.
23. «Col cuore, tuttavia, e con l'animo do il segnale degli applausi».
24. «Guidati fin qui da migliore fortuna».
II
LA CENA DE LE CENERI
commento di
Giovanni Aquilecchia
Traduzione italiana e adattamento delle note a cura di Filiberto Wal-
ter Lupi.
LA CENA DE LE CENERI
DESCRITTA IN CINQUE DIALOGI
PER QUATTRO INTERLOCUTORI
CON TRE CONSIDERAZIONI
CIRCA DOI SUGGETTI
All'unico refugio de le Muse:
l'illustrissimo Michel di Castelnovo,
Signor di Mauvissier, Concressalto e di lonvilla,
Cavalier del ordine del Re Cristianissimo
e Conseglier nel suo privato Conseglio;
Capitano di 50 uomini d'arme,
Govemator e Capitano di San Desiderio,
et Ambasciator alla serenissima Regina d'Inghilterra.
L'universale intenzione è dechiarata nel proemio.
1584
AL MAL CONTENTO '
Se dal cinico 2 dente sei trafitto,
lamentati di te barbaro perro^:
ch'in van mi mostri il tuo baston e ferro,
se non ti guardi da farmi despitto"^.
Per che col torto mi venesti a dritto ',
però tua pelle straccio e ti disserro:
e s'indi accade ch'il mio corpo atterro,
tuo vituperio è nel diamante scritto.
Non andar nudo a tórre a l'api il mèle.
Non morder se non sai s'è pietra o pane.
Non gir discalzo a seminar le spine.
Non spreggiar, mosca, d'aragne le tele.
Se sorce sei, non seguitar le rane^;
fuggi le volpi, o sangue di galline.
E credi a l'Evangelo^,
che dice di buon zelo:
dal nostro campo miete penitenza,
chi vi gittò d'errori la semenza. [5]
1. Il sonetto prende di mira l'avversario che Bruno fu costretto ad affron-
tare il mercoledì delle Ceneri, nello svolgimento della cena che sta per narrare.
L'inglese malcontent, agg. e sost., è ricorrente nel dramma elisabettiano (in Mar-
ston e Webster, ad esempio).
2. Nel senso etimologico dal greco xuvixóg («canino»).
3. Ferro («cane») è parola spagnola entrata nel dialetto napoletano del-
l'epoca.
4. «Despitto» è forma arcaica (utilizzata da Petrarca) di «dispetto».
5. Non sfugga il giuoco di parole « torto »/« dritto».
6. Allusione alla Batracomiomachia (La battaglia dei topi e delle rane, poe-
metto falsamente attribuito a Omero e adattato in italiano da Lodovico Dolce
nel 1573).
7. Parafrasi ironica di Proverbi, XXH, 8; Giobbe, IV, 8; Ecclesiaste, VII, 3.
PROEMIALE EPISTOLA
scritta
all'illustrissimo et eccellentissimo
SIGNOR DI MAUVISSIERO
Cavalier de l'Ordine del Re^,
e Conseglier del suo privato Conseglio,
Capitano di cinquant'uomini d'arma,
Govemator generale di San Desiderio,
et Ambasciator di Francia in Inghilterra^.
Or eccovi, signor, presente, non un convito nettareo de l'Al-
titonante, per una maestà; non un protoplastico i°, per una
8. Probabilmente, l'Ordre du Saint-Esprit.
9. Michel de Castelnau a cui Bruno dedica pure l'opuscolo Triginta sigillo-
rum explicatio e i dialoghi De la causa e De l'infinito, era dal 1574 ambasciatore
di Enrico III, re di Francia, presso Elisabetta d'Inghilterra. Nato a Mauvissière
in Turenna verso il 1520, morì a Joinville nel 1592. Dopo due soggiorni in
Italia, al tempo della giovinezza, intraprese la carriera militare e diplomatica
che lo condusse in Scozia (presso Maria Stuart), in Inghilterra (presso Elisa-
betta, in occasione dei negoziati per Calais), poi, in qualità di ambasciatore, in
Germania, in Savoia ed a Roma (presso Paolo IV). Alla morte di Francesco II,
nel dicembre 1560, Castelnau aveva riaccompagnato Maria Stuart in Scozia,
soggiornandovi per circa un anno. Tornato in Francia, prese parte alle guerre
di religione e cadde prigioniero degli Ugonotti. Nominato ambasciatore in In-
ghilterra, vi rivestì questa carica fino all'ottobre 1585; Bruno che aveva abitato
in casa sua nel periodo inglese, lo seguì al momento del suo rientro a Parigi
(cfr. L. Firpo, // processo di G. Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma, 1993,
p. 162). Una parte della sua vita (gli anni dal 1559 al 1570) ci è nota grazie ai
Mémoires, Paris, 162 1 (e Bruxelles, 1731), redatti in Inghilterra e dedicati al
figlio. Si veda G. Hubault, Michel de Castelnau, ambassadeur en Angleterre,
1575-1585, Paris, 1859 [risi anastatica, Genève, 1970]; J. Bossy, G. Bruno and
the Embassy Affair, New Haven-London, 1991 (traduz. di L. Salerno, Milano,
1992).
10. L'aggettivo «protoplastico», dal greco nQoxon'kaazòc, («primo creato»)
432 LA CENA DE LE CENERI
umana desolazione; non quel d'Assuero, per un misterio"; non
di Lucullo, per una ricchezza; non di Licaone, per un sacrile-
gio'2; non di Tieste, per una tragedia'^; non di Tantalo, per un
supplicio; non di Platone, per una filosofia; non di Diogene, per
una miseria; non de le sanguisughe, per una bagattella; non
d'un arciprete di Fogliano, per una bernesca'-*; non d'un Boni-
facio Candelaio, per una comedia''. Ma un convito sì grande, sì
picciolo; sì maestrale, sì disciplinale; sì sacrilego, sì religioso;
sì allegro, sì colerico; sì aspro, sì giocondo; sì magro fiorentino,
sì grasso bolognese"^; sì cinico, sì sardanapalesco; sì bagattel-
[7] liero, sì serioso; sì grave, sì mattacinesco'^; sì tragico, sì comico:
che certo credo che non vi sarà poco occasione da dovenir
eroico, dismesso; maestro, discepolo; credente, mescredente;
gaio, triste; saturnino, gioviale; leggiero, ponderoso; canino, libe-
rale; simico, consulare; sofista con Aristotele, filosofo con Pita-
gora; ridente con Democrito, piangente con Eraclito'^. Voglio
dire: dopo ch'arrete odorato con i Peripatetici, mangiato con i
Pitagorici, bevuto con Stoici, potrete aver ancora da succhiare
con quello che mostrando i denti avea un riso sì gentile, che
con la bocca toccava l'una e l'altra orecchia'^. Perché rompendo
designa Adamo. Tale allusione al peccato originale è ironica, poiché Bruno
ammette l'esistenza dei «preadamiti» e soprattutto l'origine naturale e polige-
netica degli esseri umani.
11. Banchetto al quale Ester aveva invitato Assuero ed Aman e che
avrebbe causato il capovolgimento delle sorti ebraiche in Persia; il «misterio»
è forse un'allusione ai Purim israelitici, poiché tale festa non è priva di una
componente teatrale.
12. Banchetto durante il quale Licaone servì carne umana a Zeus, suo
ospite (cfr. Ovidio, Metam., I, 216-231).
13. Banchetto durante il quale Tieste mangiò, senza saperlo, le carni dei
propri figli, assassinati da suo fratello Atreo (cfr. la tragedia di Seneca Thiestes).
14. Allusione all'ignobile accoglienza descritta nel Capitolo del prete di Po-
vigliano a messer leronimo Fracastoro. di Francesco Bemi (1497-1535).
15. Allusione al protagonista della commedia bruniana Candelaio.
16. Bologna la grassa era un'espressione divenuta proverbiale (cfr. J. Flo-
rio, Second Fruites, London, 1591, pp. 106 e 108).
17. «Mattacinesco» da mattacino, parola esemplata sullo spagnolo matachin,
buffone danzatore che si esibiva nel corso delle feste.
18. Tema classico (cfr. Seneca, De ira, II, io, 2; Giovenale, Satyrae, X,
28-30; Luciano, Vitanim audio, XIII, 553), ripreso dalla cultura umanistica:
cfr. L. Carbone, Facezie, XXXI: Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia.
Prefazione; A. Fregoso, Riso de Democrito et pianto de Heraclito (1506), più
volte ristampato nel corso del XVI secolo. Si veda inoltre N. Ordine, La ca-
bala dell'asino. Asinità e conoscenza in G. Bruno, Napoli, 1996^, pp. 115-116.
19. Cfr., al principio del Dialogo terzo, la descrizione del dottor Nundinio,
primo oppositore di Bruno nella discussione del mercoledì delle Ceneri.
PROEMIALE EPISTOLA 433
l'ossa e cavandone le midolla, trovarete cosa da far dissoluto
san Colombino patriarca de gli Gesuati^*'; far impetrar qualsi-
voglia mercato, smascellar le simie, e romper silenzio a qualsi-
voglia cemiterio. Mi dimanderete: che simposio, che convito è
questo? È una cena. Che cena? De le ceneri. Che vuol dir cena
de le ceneri? fu vi posto forse questo pasto innante? potrassi
forse dir qua cinerem tamquam panem manducabamì^^ Non; ma
è un convito, fatto dopo il tramontar del sole, nel primo giorno
de la quarantana, detto da nostri preti dies cinerum^^, e talvolta
«giorno del memento»^^. In che versa questo convito, questa
cena? Non già in considerar l'animo et effetti del molto nobile e
ben creato signor Folco Crivello ^•^, alla cui onorata stanza si
convenne. Non circa gli onorati costumi di que' signori civilis-
simi, che per esser spettatori et auditori, vi furono presenti. Ma
20. Il senese Giovanni Colombini (1304-1367), convertitosi nel 1355, fonda-
tore dell'ordine laico dei Gesuati, aveva persuaso sua moglie ad osservare il
voto di castità.
21. Salmi, CII, IO: «Mangio la cenere quasi fosse pane» (i testi scritturali
sono citati da La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata, a cura di
E. Galbiati, A. Penna e P. Rossano, Torino, 1973^, 3 voli.).
22. «Il giorno delle Ceneri». Bruno spiega allo stesso modo il titolo di
quest'opera al tribunale dell'Inquisizione di Venezia, il 3 giugno 1592 (cfr.
L. Firpo, E processo cit, p. 188). Il giorno delle Ceneri cadeva, nel 1584, il 15
febbraio (ma cfr Dialogo secondo, p. 466, nota 2). F. A. Yates ha osservato che
Cène è il termine usato dalla Riforma in Francia per indicare la mensa euca-
ristica e che la disputa sulla teoria copernicana (in particolare sulla questione
del moto reale della Terra), sulla quale Bruno si soffermerà in quest'opera, po-
trebbe essere interpretata anche come una disputa sulla presenza reale di Cri-
sto nell'ostia consacrata. Cfr. The French Academies of the Sixteenth Century,
London, 1947, p. 228 e The Religious Policy of G. Bruno, «Journal of the War-
burg and Courtauld Institute» [London], III, 1939-1940, pp. 181-207 (traduz. in
G. Bruno e la cultura europea del Rinascimento, introd. di E. Garin, Roma-Bari,
1988, pp. 29-57).
23. «Ricordati».
24. Sir Fulke Greville (1554-1628), amico e biografo di Philip Sidney e
poeta egli stesso (cfr. J. Rees, Fulke Greville: A Criticai Biography, London,
1971) protesse Bruno all'inizio del suo soggiorno in Inghilterra, ma finì per
negargli la propria amicizia: sia perché fu influenzato da alcune calunnie in
merito alla persona di Bruno (è la spiegazione avanzata da quest'ultimo nel-
l'Epistola esplicatoria dello Spaccio, p. 172), sia perché dovette spiacergli l'aspra
satira della Cena sulla società e la cultura accademica inglese. Si ritiene che la
discussione riportata nella Cena abbia avuto luogo nella «stanza» di Greville
(non nella sua residenza personale di Brooke Street, a Holbom, ma nei suoi
appartamenti a corte, nei pressi di Whitehall o all'interno della stessa Whi-
tehall che è la destinazione finale dell'itinerario descritto nel Dialogo secondo).
Nel costituto del 3 giugno 1592 (cfr. L. Firpo, loc. cit.). Bruno situa la cena
nella «casa dell'Ambasciator di Francia», avendo creduto forse più opportuno
menzionare l'ambasciata di un paese cattolico piuttosto che la dimora di un
protestante.
434 LA CENA DE LE CENERI
circa un voler veder quantumque può natura in far due fanta-
stiche befane, doi sogni, due ombre e due febbri quartane-': del
I9I che mentre si va crivellando il senso istoriale, e poi si gusta e
mastica, si tirano a proposito topografie, altre geografice, altre
raziocinali, altre morali; speculazioni ancora, altre metafisiche,
altre matematiche, altre naturali.
ARGOMENTO DEL PRIMO DIALOGO
Onde vedrete nel primo dialogo proposti in campo doi sug-
getti con la raggion di nomi loro, se la vorrete capire 2^: secondo,
in grazia loro celebrata la scala del numero binario; terzo, ap-
portate le condizioni lodabili della ritrovata e riparata filosofia;
quarto, mostrato di quante lodi sia capace il Copernico; quinto,
postiv'avanti gli frutti de la nolana filosofia: con la differenza
tra questo e gli altri modi di filosofare.
ARGOMENTO DEL SECONDO DIALOGO
Vedrete nel secondo dialogo: prima la causa originale de la
cena; secondo, una descrizzion di passi e di passaggi, che più
poetica e tropologica-' forse, che istoriale sarà da tutti giudi-
cata; terzo, come confusamente si precipita in una topografia
25. Parafrasi di F. Berni. Sonetto in descrizion dell'arcivescovo di Firenze, w.
1-3: «Chi vuol veder quantunque pò natura / in far una fantastica befana, /
un'ombra, un sogno, una febbre quartana» (Rime, LXI, a cura di G. Bàrberi
Squarotti, Torino, 1969, pp. 174-176).
26. Dei due avversari affrontati dal Nolano ad Oxford il primo, Torquato
(nome derivato dal latino torques. «collana») «avea due catene d'oro lucente al
collo» (cfr. infra, p. 441): il secondo, Nundinio (nome derivato dal latino nun-
dinae. «mercato»: i mercanti si riconoscevano dai loro anelli), «con quella pre-
ziosa mano (che contenea dodeci anella in due dita)» (cfr. infra, pp. 441-442).
27. «Tropologico» vuol dire secondo il «senso figurato», rivolto air«edifica-
zione dei costumi», a ciò che può essere interpretato in senso morale (uno dei
quattro sensi della Scrittura): si veda H. De Lubac, Esegesi medievale, traduz.
di G. Auletta, Roma, 1962. pp. 192-207 e 983-998. Per G. Gentile, in G. Bruno.
Dialoghi italiani. Firenze, 1958^. voi. I, p. 58, nota 2. la spedizione notturna,
attraverso Londra, descritta nel Dialogo secondo, simboleggia l'obbligo in cui
Bruno si sarebbe trovato di attraversare la scienza delle scuole del tempo, per
raggiungere la sua propria scienza, esposta e difesa nella «stanza» di Greville.
Rimane il fatto che la conformità della descrizione del Dialogo secondo con la
topografia di Londra non può che accentuare il suo significato di esperienza,
assieme, vissuta e letteraria, sul quale Bruno, del resto, non ha mancato di
attirare l'attenzione.
PROEMIALE EPISTOLA 435
morale: dove par che con gli occhi di Linceo ^^ quinci e quindi
guardando (non troppo fermandosi) cosa per cosa, mentre fa il
suo camino, oltre che contempla le gran machine, mi par che
non sia minuzzarla, né petruccia, né sassetto^^, che non vi vada [n]
ad intoppare. Et in ciò fa giusto com'un pittore^"; al qual non
basta far il semplice ritratto de l'istoria: ma anco, per empir il
quadro, e conformarsi con l'arte a la natura, vi depinge de le
pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di colline; e vi
fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di
cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo
un ucello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre
basta di questo far veder una testa, di quello un corno, de l'al-
tro un quarto di dietro, di costui l'orecchie, di colui l'intiera
descrizzione; questo con un gesto et una mina^', che non tiene
quello e quell'altro: di sorte che con maggior satisfazzione di chi
remira e giudica, viene ad istoriar (come dicono) la figura. Cossi
al proposito, leggete, e vedrete quel che voglio dire. Ultimo, si
conclude quel benedetto dialogo con l'esser gionto a la stanza,
esser graziosamente accolto, e cerimoniosamente assiso a tavola.
ARGOMENTO DEL TERZO DIALOGO
Vedrete il terzo dialogo (secondo il numero de le proposte
del dottor Nundinio) diviso in cinque parti. De quali la prima
versa circa la necessità de l'una e de l'altra lingua. La seconda
esplica l'intenzione del Copernico; dona risoluzione d'un dubio
importantissimo circa le fenomie celesti; mostra la vanità del
studio di perspettivi et optici, circa la determinazione della
quantità di corpi luminosi; e porge, circa questo, nuova, risoluta [13]
e certissima dottrina. La terza mostra il modo della consistenza
di corpi mondani, e dechiara essere infinita la mole de l'uni-
28. Linceo, quello degli Argonauti dotato di vista eccezionalmente pene-
trante. Cfr. Orazio, Sat.. I, 2, 90; Seneca, Medea. 231-232.
29. «Né petruccia, né sassetto» sono allusioni a Petruccio Ubaldini ed a
Tommaso Sassetto, menzionati qualche pagina più sotto.
30. Cfr. G. Bruno, Ars reminiscendi (Opera latine conscripta [= Op. lai.]. Na-
poli-Firenze, 1879-1891, II, 2, p. 133): «Non est enim philosophus nisi qui fingit
et pingit» («Il filosofo infatti altri non è che un uomo che dà una forma e
dipinge»).
31. «Mina», dal francese mine, aspetto, espressione del viso.
436 LA CENA DE LE CENERI
verso; e che in vano si cerca il centro o la circonferenza del
mondo universale ^2, come fusse un de corpi particulari. La
quarta afferma esser conformi in materia questo mondo nostro
ch'è detto globo della terra, con gli mondi che son gli corpi de
gli altri astri; e che è cosa da fanciulli aver creduto e credere
altrimente; e che quei son tanti animali intellettuali: e che non
meno in quelli vegetano et intendono molti et innumerabili in-
dividui semplici e composti, che veggiamo vivere e vegetar nel
dorso di questo. La quinta, per occasion d'un argomento ch'ap-
portò Nundinio al fine, mostra la vanità di due grandi persua-
sioni con le quali, e simili, Aristotele et altri son stati acciecati
sì, che non veddero esser vero e necessario il moto de la terra; e
son stati sì impediti, che non han possuto credere quello esser
possibile: il che facendosi, vengono discoperti molti secreti de la
natura sin al presente occolti.
ARGOMENTO DEL QUARTO DIALOGO
Avete nel principio del quarto dialogo mezzo per rispondere
a tutte raggioni et inconvenienti teologali: e per mostrar questa
filosofia esser conforme alla vera teologia, e degna d'esser fau-
rita da le vere religioni. Nel resto vi se pone avanti uno, che
non sapea né disputar, né dimandar a proposito — il quale per
[15I esser più impudente et arrogante, pareva a gli più ignoranti più
dotto ch'il dottor Nundinio: ma vedrete che non bastarebbono
tutte le presse del mondo, per cavar una stilla di succhio dal
suo dire — per prender materia da far dimandar Smitho, e ri-
32. Eco diretta della formula, attribuita ad Ermete Trismegisto, secondo
cui il centro del mondo è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo.
Bruno ha potuto leggerla, in questa accezione propriamente cosmologica, in
N, Cusano, De docta ignorantia, II, 11 e 12 (traduz. in Opere filosofiche, a cura di
G. Federici-Vescovini, Torino, 1972, pp. 144 e 147). Essa s'incontra spesso nelle
pagine del Nolano, come ricorda G. Àquilecchia, a proposito della famosa te-
stimonianza di George Abbot sul modo in cui Bruno pronunciava chentrum &
chircolus & circumferenchia (cfr. he opere italiane di G. Bruna Critica testuale e
oltre. Napoli, 1991, pp- 84-85 ed infra. Dialogo quarto, p. 534, nota 44). Sul
tema, si veda D. Mahnke, Unendliche Sphàre und Allmittelpunkt, Stuttgart,
1966, pp. 76 e segg., nonché S. Meier-Oeser, Die Prdsenz des Vergessenen. Zur
Rezeption der Philosophie des Nicolaus Cusanus vom 75. bis zum 18. Jahrhundert,
Munster, 1989, pp. 225 e segg. e R. Sturlese, Nicolò Cusano e gli inizi della spe-
culazione del Bruno, in: Historia Philosophiae Medii Aevi. Studien zur Geschich-
te der Philosophie des Mittelalters, Amsterdam-Philadelphia. 1991, pp. 953-966.
PROEMIALE EPISTOLA 437
Spendere il Teofilo; ma è a fatto soggetto de le spampanate di
Prudenzio e di rovesci di Frulla^'. E certo mi rincresse^"* che
quella parte ve si trove.
ARGOMENTO DEL QUINTO DIALOGO
S'aggionge il quinto dialogo (vi giuro) non per altro rispetto,
eccetto che per non conchiudere sì sterilmente la nostra cena.
Ivi primamente s'apporta la convenientissima disposizione di
corpi nell'eterea reggione, mostrando che quello, che si dice «ot-
tava sfera», «cielo de le fisse», non è sì fattamente un cielo, che
que' corpi ch'appaiono lucidi siano equidistanti dal mezzo: ma
che tali appaiono vicini, che son distanti di longhezza e latitu-
dine l'uno da l'altro, più che non possa essere l'uno e l'altro dal
sole e da la terra. Secondo, che non sono sette erranti corpi so-
lamente, per tal caggione che sette n'abbiamo compresi per tali:
ma che per la medesima raggione sono altri innumerabili; quali
da gli antichi e veri filosofi, non senza causa, son stati nomati
aethera, che vuol dire corridori '5. per che essi son que' corpi,
che veramente si muovono, e non l'imaginate sfere. Terzo, che
cotal moto procede da principio intemo necessariamente come
da propria natura et anima ^<^: con la qual verità si destruggono
molti sogni, tanto circa il moto attivo della luna sopra l'acqui'^ [17]
et altre sorte d'umori, quanto circa l'altre cose naturali, che par
che conoscano il principio de lor moto da efficiente esteriore.
Quarto, determina contra que' dubii che procedeno con la stol-
tissima raggione della gravità e levità di corpi: e dimostra ogni
moto naturale accostarsi al circolare, o circa il proprio centro, o
circa qualch'altro mezzo. Quinto, fa vedere quanto sia necessa-
rio che questa terra et altri simili corpi si muovano non con
33. Smitho, Teofilo, Prudenzio e Frulla sono i quattro interlocutori della
Cena, cfr. infra, p. 441.
34. «Rincresse» per rincresce è assimilazione caratteristica dei dialetti del-
l'Italia settentrionale, ma osservata pure in quelli del meridione.
35. Etimologia erronea proposta da Platone, Cratylus, 410 b e ribadita da
Aristotele, De caelo, I, 3, 270 b 22-23.
36. Per Platone, l'anima (ipuxTi; cfr. Phaedrus, 245 e) è il principio del mo-
vimento; per Aristotele è la natura (cpùoi?) ad avere questa funzione (cfr. Phys.
Auscultai., II, i).
37. «Acqui»: le parole dal singolare in -a e dal plurale in -i sono caratteri-
stiche dell'italiano antico (in Boccaccio, ad esempio, abbiamo le «porti»).
438 LA CENA DE LE CENERI
una, ma con più differenze di moti; e che quelli non denno es-
ser più, né meno di quattro semplici, ben che concorrano in un
composto: e dice quali siano questi moti ne la terra. Ultimo,
promette di aggiongere per altri dialogi quel che par che manca
al compimento di questa filosofia; e conchiude con una adiura-
zione di Prudenzio.
Restarete maravigliato come con tanta brevità e sufficienza
s'espediscano sì gran cose. Or qua se vedrete talvolta certi men
gravi propositi, che par che debbano temere di farsi innante
alla superciliosa censura di Catone, non dubitate: perché questi
Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran scuoprir
quel ch'è ascosto sotto questi Sileni 's. Se vi occoreno tanti e
diversi propositi attaccati insieme, che non par che qua sia una
scienza, ma dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di trage-
dia, dove di poesia, dove d'oratoria, dove lauda, dove vitupera,
dove dimostra et insegna, dove ha or del fisico, or del matema-
tico, or del morale, or del logico; in conclusione non è sorte di
scienza che non v'abbia di suoi stracci: considerate, signore, che
[19] il dialogo è istoriale; dove mentre si riferiscono l'occasioni, i
moti, i passaggi, i rancontri, i gesti, gli affetti, i discorsi, le pro-
poste, le risposte, i propositi et i spropositi, remettendo tutto
sotto il rigore del giudizio di que' quattro, non è cosa che non
vi possa venir a proposito con qualche raggione. Considerate
ancora che non v'è parola ociosa: per che in tutte parti è da
mietere, e da disotterrar cose di non mediocre importanza, e
forse più là dove meno appare. Quanto a quello che nella super-
ficie si presenta, quelli che n'han donato occasione di far il dia-
logo, e forse una satira e comedia, han modo di dovenir più
circonspetti, quando misurano gli uomini con quella verga con
la quale si misura il velluto, e con la lance di metalli bilan-
ciano gli animi. Quelli che sarrano spettatori o lettori, e che
38. È il tema platonico (cfr. Symp., 215 a) della verità e del valore che si
celano dietro l'immagine deforme del Sileno, ripreso da Cusano, da Pico, da
Rabelais {Gargantua, prologo), da Tasso (Gerusalemme liberata, XVIII, 30. 1-2),
chiarito da Erasmo, Adagia, III, 3, i (cfr. Erasmo, / Sileni di Alcibiade, introd. e
note di Jean-Claude Margolin, traduz. di Stefano U. Baldassarri. Napoli, 2002);
ricorrente in Bruno (Spaccio, p. 173 n. 5; Acrotismus, Op. lai., I, i, p. 62 e De
immenso, I, 2, ivi, p. 208 e traduz. in Opere latine, a cura di C. Monti, Torino,
1980, p. 424). Cfr. anche N. Ordine. La cabala dell'asino cit., pp. 109-118.
PROEMIALE EPISTOLA 439
vedranno il modo con cui altri son tocchi, hanno per farsi ac-
corti et imparar a l'altrui spese. Que' che son feriti o punti, apri-
ranno forse gli occhi, e vedendo la sua povertà, nudità, indi-
gnità, se non per amore, per vergogna al meno si potran correg-
gere o cuoprire, se non vogliono confessare.
Se vi par il nostro Teofìlo e Frulla troppo grave e rigidamen-
te^^ toccare il dorso d'alcuni suppositi, considerate, signor, che
questi animali non han sì tenero il cuoio: che se le scosse fus-
sero a cento doppia maggiori, non le stimarebono punto, o sen-
tirebbono più che se fussero palpate d'una fanciulla. Né vorrei
che mi stimate degno di riprensione, per quel che sopra sì fatte
inepzie e tanto indegno campo che n'han porgiuto questi dot-
tori, abbiamo voluto exaggerar sì gravi e sì degni propositi: per
che son certo che sappiate esser differenza da togliere una cosa [21]
per fondamento, e prenderla per occasione. I fondamenti in
vero denno esser propozionati alla grandezza, condizione e no-
biltà de l'edificio. Ma le occasioni possono essere di tutte sorte,
per tutti effetti: per che cose minime e sordide son semi di cose
grande et eccellenti. Sciocchezze e pazzie sogliono provocar
gran consegli, giudizii et invenzioni; lascio ch'è manifesto che
gli errori e delitti han molte volte porgiuta occasione a grandis-
sime regole di giustizia e di boutade.
Se nel ritrare vi par che i colori non rispondano perfettamente
al vivo, e gli delineamenti non vi parranno al tutto proprii, sap-
piate ch'il difetto è provenuto da questo, che il pittore non ha
possuto essaminar il ritratto con que' spacii e distanze, che so-
glion prendere i maestri de l'arte: perché oltre che la tavola o il
campo era troppo vicino al volto e gli occhi, non si possea retirar
un minimo passo a dietro o discostar da l'uno e l'altro canto,
senza timor di far quel salto, che feo il figlio del famoso defensor
di Troia""". Pur tal qual'è, prendete questo ritratto ove son que'
doi, que' cento, que' mille, que' tutti; atteso che non vi si manda
per informarvi di quel che sapete, né per gionger acqua al rapido
fiume del vostro giudizio et ingegno: ma perché so che secondo
39. «Grave e rigidamente»: coppia aplologica. Porre sotto un unico suffisso
avverbiale uno o più aggettivi che si susseguono è uso abbastanza frequente
dell'italiano antico.
40. Allusione alla fine tragica di Astianatte, figlio di Ettore, gettato giù dai
bastioni di Troia dagli Achei vittoriosi (cfr. Seneca, Troades, 1063, 11 18).
440 LA CENA DE LE CENERI
l'ordinario, benché conosciamo le cose più perfettamente al vivo,
non sogliamo però dispreggiar il ritratto e la rapresentazion di
quelle. Oltre che son certo ch'il generoso animo vostro drizzarà
l'occhio della considerazion più alla gratitudine dell'affetto con
[23] cui si dona, che al presente della mano che vi porge. Questo s'è
drizzato a voi, che siete più vicino, e vi mostrate più propizio e
più faurevole al nostro Nolano: e però vi siete reso più degno
supposito di nostri ossequii in questo clima dove i mercanti sen-
za conscienza e fede, son facilmente Cresi; e gli virtuosi senz'oro,
non son difficilmente Diogeni. A voi che con tanta munificenza
e libertà avete accolto il Nolano al vostro tetto e luogo più emi-
nente di vostra casa-^'; dove se questo terreno in vece che manda
fuori mille torvi gigantoni, producesse altri tanti Alessandri Ma-
gni, vedreste più di cinquecento venir a corteggiar questo Dioge-
ne, il qual per grazia de le stelle non hav'altro che voi che gli
venga a levar il sole''^^ se pur (per non farlo più povero di quel
cinico mascalzone) manda qualche diretto o reflesso raggio den-
tro quella buca che sapete. A voi si consacra, che in questa Bri-
tannia rapresentate l'altezza di sì magnanimo, sì grande e sì po-
tente re-^', che dal generosissimo petto de l'Europa, con la voce de
la sua fama fa rintronar gli estremi cardini de la terra. Quello che
quando irato freme, come leon da l'alta spelonca, dona spaventi
et orror mortali a gli altri, predatori potenti di queste selve; et
quando si riposa e si quieta, manda tal vampo di liberale e di
cortese amore, ch'infiamma il tropico vicino, scalda l'Orsa gelata,
e dissolve il rigor de l'artico deserto, che sotto l'eterna custodia
del fiero Boote si raggira''''.
[25] Vale 45
41. Nel costituto del 30 maggio 1592 (cfr. L. Firpo, 77 processo cit., p. 162),
Bruno dichiara che durante il suo soggiorno londinese era alloggiato presso la
residenza dell'ambasciatore Michel de Castelnau; forse a Butcher Row (via nei
pressi della chiesa di Saint Clemens Danes, fra Tempie Bar e lo Strand, oggi
non più esistente), secondo W. Boulting (G. Bruno, London, 1914, p. 89), oppure
a Salisbury Court, secondo J. Bossy (traduz. cit, pp. 293-297).
42. Cfr. Diogene Laerzio, VI, 38.
43. Enrico III, il sovrano che aveva ricevuto a corte Bruno, durante il
primo soggiorno parigino di questi, nel 1581-1583, nominandolo Lecteur royal.
Bruno gli aveva dedicato il De unibris idearum.
44. La stessa immagine in Seneca, Octauia, 236-239 e Medea, 314-317. Si
veda anche, di Bruno, VOratio valedidoria, Op. lat, I, i, p. 24.
45. «Addio».
DIALOGO PRIMO
Interlocutori ^
Smitho, Teofilo filosofo, Prudenzio pedante,
Frulla
[Smitho.] - Parlavan ben latino?
Teofilo. - Sì.
Smitho. - Galant'uomini?
Teofilo. - Sì.
Smitho. - Di buona riputazione?
Teofilo. - Sì.
Smitho. - Dotti?
Teofilo. - Assai competentemente.
Smitho. — Ben creati, cortesi, civili?
Teofilo. - Troppo mediocremente.
Smitho. - Dottori?
Teofilo. — Messer sì, padre sì, madonnasì, madesì: credo da
Oxonia.
Smitho. - Qualificati?
Teofilo. - Come non? uomini da scelta, di robba lunga, ve-
stiti di velluto: un de quali avea due catene d'oro lucente al
collo; e l'altro (per Dio) con quella preziosa mano (che contenea [27]
I. Teofilo è il portavoce del Nolano. - Smitho deve probabilmente il suo
nome a John Smith, a cui Claudius Hollyband dedicò (col suo vero nome, De-
sainliens) The Italian Schoole-master, London, 1597, un manuale per l'insegna-
mento della lingua italiana. - «Frulla» vuol dire, alla lettera, «cosa di poco
valore»: è il nome di uno degli ospiti della commedia Gli ingannati (1532), III,
2. — Prudenzio è il nome dato al protagonista de H pedante, commedia di Fran-
cesco Belo la cui prima edizione conosciuta è del 1538. Sui cambiamenti inter-
venuti nella presentazione dei personaggi fra la prima e la seconda redazione e
sulle differenze tra le due redazioni del Dialogo primo, si veda la Nota filologica
di Giovanni Aquilecchia in questo volume alle pp. 238-243 e l'Appendice I alle
PP- 575-578.
442 LA CENA DE LE CENERI
dodeci anella in due dita) sembrava uno ricchissimo gioielliero,
che ti cavava gli occhii et il core, quando la vagheggiava.
Smitho. - Mostravano saper^ di greco?
Teofilo. - e di birra eziamdio.
Prudenzio. - Togli via queir« eziamdio», poscia è una abso-
leta et antiquata diczione.
Frulla. — Tacete maestro, che non parla con voi.
Smitho. — Come eran fatti?
Teofilo. - L'uno parea il connestabile della gigantessa e
l'orco; l'altro l'amostante della dea de la riputazione.
Smitho. - Sì che eran doi?
Teofilo. — Sì per esser questo un numero misterioso^.
Prudenzio. — Ut essent duo testes'^.
Frulla. — Che intendete per quel «testes»?^
Prudenzio. — Testimoni, essaminatori della nolana sufficien-
za: ai me hercle^ per che avete detto, Teofilo, che il numero bi-
nario è misterioso?
Teofilo. — Perché due sono le prime coordinazioni, come
dice Pitagora: finito et infinito, curvo e retto, destro e sinistro, e
va discorrendo. Due sono le spezie di numeri: pare et impare, de
quali l'una è maschio, l'altra è femina. Doi sono gli Cupidi^:
superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti de la
vita^: cognizione et affetto. Doi sono gli oggetti di quelli: il vero
et il bene. Due sono le specie di moti: retto con il quale i corpi
2. L'ambiguità della frase è determinata giocando (come sta per fare Teo-
filo) sul doppio senso del verbo sapere, che significa sia «conoscere [il greco]»
sia «puzzare [di birra]».
3. Cfr. G. Bruno, De monade. III, Diadis figura digonus, Op. lai., I, 2, pp. 349
e segg. (traduz. in G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Torino, 1980,
pp. 317-325). Nei secoli XVI e XVII i numeri erano spesso ritenuti, giusta la
tradizione platonico-cristiana, simboli misteriosi della divinità.
4. «Purché vi siano due testimoni».
5. Allusione oscena al doppio senso del latino tesiis: «testimone» e «testico-
lo». Cfr. NizOLius, Lyon, 1583, p. 142: «Testes: verbum honestum in judiciis:
alias turpe» {«Testes: parola onesta in un contesto giudiziario; osceno negli al-
tri»).
6. «Ma, per Ercole...».
7. Derivata da Platone, Symp., 181 b e segg., la distinzione tra i due
Amori è successivamente passata nella teologia neoplatonica (cfr., tra gli altri,
Proclo, In Ale, 30, 8 e segg., sezione tradotta da Marsilio Ficino).
8. Teofilo riprende fedelmente la terminologia della tradizione pitagorica.
Per un esame preciso del significato dei numeri da i a io, si veda il De mo-
nade, Op. lat, I, 2, pp. 319-384 (ed in particolare sulla dualità, le pp. 353-357)-
Cfr. ed. Monti cit, pp. 293-413 (318-320).
DIALOGO PRIMO 443
tendeno alla conservazione, e circulare col quale si conservano. [29]
Doi son gli principii essenziali de le cose: la materia e la forma.
Due le specifiche differenze della sustanza: raro e denso, sem-
plice e misto. Doi primi contrarii et attivi principii: il caldo et il
freddo. Doi primi parenti de le cose naturali: il sole e la terra ^.
Frulla. — Conforme al proposito di que' prefati doi, farò
un'altra scala del binario 1°. Le bestie entromo ne l'arca a due a
due; ne uscirono ancora a due a due^i. Doi sono i corifei di
segni celesti: Aries e Taurus^^. Due sono le specie di nolite fieri^^:
cavallo e mulo. Doi son gli animali ad imagine [e] similitudine
de l'uomo: la scimia in terra, el barbagianni in cielo. Due sono
le false et onorate reliquie di Firenze in questa patria: i denti di
Sassetto''', e la barba di Pietruccia''. Doi sono gli animali che
9. Si tratta di termini che derivano dalla fìsica qualitativa di Platone e di
Aristotele, passando attraverso il Medio Evo latino (cfr. L. Cozzi, // lessico
scientifico nel dialogo del Rinascimento, in: H dialogo filosofico nel '§00 europeo, a
cura di D. Bigalli e G. Canziani, Milano, 1990. p. 71). - Riferendosi in partico-
lare agli «attivi principii: il caldo et il freddo», H. Gatti, Telesio, G. Bruno e
Thomas Harriot (relazione letta il 16 ottobre 1992 all'Accademia Cosentina in
occasione della giornata di studio su La filosofia naturale del Rinascimento me-
ridionale) ha segnalato la fonte telesiana della «scala del binario» presentata
qui da Teofilo (cfr. G. Aquilecchia, «La cena de le ceneri», in: Letteratura ita-
liana. Le opere, Torino, voi. II, 1993, p. 702).
10. Frulla inizia a parodiare i temi della dottrina cristiana, ricollegandoli
alla tradizione pagana. Si veda la citazione del De civitate Dei di Agostino data
da Pietro Bongo nei suoi Numerorum mysteria, Bergamo, 1583-1584 (ediz. Paris,
1618, pp. 69-72). E cfr. B. Croce, Libri secenteschi sui misteri dei numeri, «La
Critica» [Bari], XIX, 1921, pp. 251-256.
11. Cfr. Genesi, VI, 19 e Vili, 16.
12. L'Ariete e il Toro sono detti «corifei» perché occupano le prime due
case dello Zodiaco all'equinozio; cfr. Appendice, II, p. 587.
13. Cfr. Salmi. XXXII, 9: «Non essere come un cavallo, un mulo senza in-
telligenza».
14. Il toscano Tommaso di Vincenzio Sassetto, già capitano in Francia,
passò in seguito al servizio della regina d'Inghilterra e mori nel 1593 (cfr.
V. Spampanato, Postille storico-letterarie alle opere italiane di G. Bruno, «La Cri-
tica» [Bari], IX, 191 1, p. 468). Nelle Hatfield Papers, una lettera di delazione
indirizzata a Elisabetta e datata 1577 (ma 1578) lo presenta come uomo di
fiducia di Robert Dudley, conte di Leicester, che l'avrebbe salvato nel mo-
mento in cui l'italiano correva il rischio di essere impiccato per omicidio (cfr.
H. Walpole, Anedoctes of Painting in England with some Account of the Princi-
pals Artists, London, 1888, I, p. 169).
15. Il toscano Pietruccio Ubaldini era arrivato in Inghilterra nel 1545 e
aveva preso parte alle guerre di Enrico Vili e di Edoardo VI. Era apprezzato
soprattutto come miniatore di codici e uomo di lettere, godendo della simpatia
della regina Elisabetta. Cfr. G. Pellegrini, Un fiorentino alla corte d'Inghilterra
nel Cinquecento: P. Ubaldini, Torino, 1967 (in appendice: La relazione dlnghilter-
ra); A. M. Crinò, Avvisi di Londra di P. Ubaldini fiorentino, relativi agli anni
^579'^594^ con notizie sulla guerra di Fiandra, «Archivio storico italiano» [Fi-
444 ^^ CENA DE LE CENERI
disse il profeta 1^ aver più intelletto ch'il popolo d'Israele: il
bove, perché conosce il suo possessore, e l'asino, perché sa tro-
var il presepio del padrone. Doi furono le misteriose cavalca-
ture del nostro redentore, che significano il suo antico credente
ebreo, et il novello gentile: l'asina et il pullo ^ '. Doi sono da que-
sti li nomi derivativi ch'han formate le dizzioni titulari al se-
cretario d'Augusto: Asinio e Pullione^^ Doi sono i geni de gli
asini: domestico e salvatico. Doi i lor più ordinarii colori: biggio
e morello. Due sono le piramidi nelle quali denno esser scritti e
dedicati all'eternità i nomi di questi doi et altri simili dottori:
la destra orecchia del cavai di Sileno, e la sinistra de Fantigoni-
sta del dio de gli orti^^.
Prudenzio. - Optimae indolis ingenium, enumeratio minime
[31] contemnenda~^\
Frulla. - Io mi glorio, messer Prudenzio mio, per che voi
renze], CXXVII, 1969 (1970), pp. 461-581 e Come P. Ubaldini vede lo scisma
d'Inghilterra in un suo manoscritto consertato all'Archivio di Stato di Firenze, in:
Studi offerti a R. Ridolfi, Firenze, 1973. pp. 223-236; su Ubaldini come «curato-
re» delle opere italiane stampate da John Wolf a Londra, si veda N. Orsini,
Studi sul Risorgimento italiano in Inghilterra, Firenze, 1937 {Le traduzioni elisa-
bettiane inedite di Machiavelli); per un elenco delle opere di Ubaldini, tutte
edite a Londra, cfr. H. Sellers, Italian Books printed in England before 1640,
London, 1924. Secondo D. Zancani, Anglicismi nella «Relazione d'Inghilterra» e
nella «Descrittione del Regno di Scotia» di P. Ubaldini. «Lingua nostra» [Firen-
ze], XXXVI, 1975, pp. 53-58, «sembra certo che abbia tradotto dall'inglese
l'opuscolo ... The Execution of Justice in England, del 1584», commissionato da
William Cecil. Lord Bui^hley. contro Leicester se ciò fosse vero, si compren-
derebbe meglio il carattere satirico dell'allusione al personaggio. Quanto alla
«barba» è un'indicazione di Bruno che potrebbe contribuire a far identifica-
re come Petruccio Ubaldini il «Barbagrigia stampatore» (in realtà «curatore»
per conto di John Wolf) che ha edito i Ragionamenti dell'Aretino, Londra,
1584, e redatto la lettera dello stampatore (cfr. P. Aretino, Sei giornate, a cura
di G. Aquilecchia, Bari, 1969, p. 400, nota i). Più recentemente, si è voluto
indicare in Giacomo Castel vetro il vero «curatore» delle edizioni italiane di
Wolf: cfr. P. Ottolenghi, Giacopo Castelvetro, esule modenese nell'Inghilterra di
Shakespeare, Pisa, 1982.
16. Cfr. Isaia, l, 3.
17. Cfr. Zaccaria, IX. 9 e Matteo, XXI, 6-7. Si guardi all'uso che T. Folengo
fa di queste citazioni bibliche nel Caos del Triperunc, selva II (Opere italiane, a
cura di U. Renda, Bari, voi. L 1911, p. 323).
18. Un'analoga osservazione in F. TvRCHi, Lettere facete, Venezia, 1575. IL
pp. 424-425.
19. Si tratta dell'asino, «antagonista» di Priapo. dio degli orti, perché i suoi
ragli avevano svegliato la ninfa Lotis. insidiata dal dio (cfr. Ovidio, Fasti, I,
415 e segg.). Frulla vuol dunque dire che i due dottori meriterebbero un mo-
numento composto da due orecchie d'asino.
20. «Che ingegno di buona temprai Che enumerazione degna della mas-
sima considerazione!».
DIALOGO PRIMO 445
approvate il mio discorso, che séte più prudente che l'istessa
prudenzia, perciò che séte la prudenzia masculini generis^K
Prudenzio. — Ncque id sine lepore et gratia^^. Orsù isthaec mit-
tamus encomia. Sedeamus quia, ut ait Peripateticorum princeps, se-
dendo et quiescendo sapimus^^: e cossi insino al tramontar del
sole protelaremo il nostro tetralogo, circa il successo del collo-
quio del Nolano col dottor Torquato et il dottor Nundinio.
Frulla. — Vorrei sapere quel che volete intendere per quel
«tretalogo».
Prudenzio. — «Tetralogo» dissi io, id est quatuorum sermo,
come «dialogo» vuol dire duorum sermo, «trilogo» trium sermo; e
cossi oltre, de «pentalogo», «eptalogo» et altri, che abusiva-
mente si chiamano «dialogi», come dicono alcuni, quasi diver-
sorum logi: ma non é verisimile che gli Greci inventori di questo
nome, abbino quella prima sillaba «di» prò capite illius latinae
dictionis «diversum»^'^.
Smitho. — Di grazia, signor maestro, lasciamo questi rigori
di gramatica, e venemo al nostro proposito.
Prudenzio. — 0 seclum^^, voi mi parete far poco conto delle
buone lettere. Come potremo far un buon tetralogo, se non sap-
piamo che significhi questa dizzione «tetralogo»? e quod peius
est^^, pensaremo che sia un dialogo? non ne a definitione et a
nominis explicatione exordiendum^'' , come il nostro Arpinate ne
insegna? 2^
Teofilo. — Voi, messer Prudenzio, séte troppo prudente: la- [33]
sciamo, vi priego, questi discorsi grammaticali, e fate conto che
21. È come se dicesse la prudenza «fatta uomo».
22. «Peraltro non priva di fascino e di grazia».
23. «Basta con questi elogi. Sediamo dunque perché, come dice il principe
dei Peripatetici, è restando seduti ed a riposo che si apprende». Cfr. Aristo-
tele, Phys. Auscultai, VII, 3, 247 b io; Tommaso d'Aquino, Comm. Phys., I,
VII, lect. 6; Dante, De Monarchia, I, 4, 2.
24. Id est ... sermo: «vale a dire, discorso a quattro». — Duorum sermo: «un
discorso a due». - Trium sermo: «un discorso a tre». - Diversorum logi: «ragio-
namenti fatti tra persone diverse». — «di» ... «diversum»: «[La prima sillaba]
"di" come principio della parola latina "diversum"». Tutte le etimologie pro-
poste, così come quella rifiutata, sono false.
25. «O secolo!».
26. «Ciò che è peggio».
27. «Forse che non si deve cominciare con una definizione ed una spiega-
zione del nome?».
28. L' Arpinate è, ovviamente, Cicerone, di cui si parafrasa qui De officiis, 1,
2,7-
446 LA CENA DE LE CENERI
questo nostro raggionamento sia un dialogo; atteso che benché
siamo quattro in persona, saremo dui in officio: di proponere e
rispondere, di raggionare et ascoltare. Or per dar principio e re-
portar il negocio da capo - venite ad inspirarmi, o Muse; non
dico a voi che parlate per gonfio e superbo verso in Elicona^'':
per che dubito che forse non vi lamentiate di me al fine,
quando dopo aver fatto sì lungo e fastidioso peregrinaggio, var-
cati sì perigliosi mari, gustati sì fieri costumi, vi bisognasse di-
scalze e nude tosto repatriare, perché qua non son pesci per
Lombardi'". Lascio che non solo siete straniere, ma siete ancor
di quella razza per cui disse un poeta:
Non fu mai greco di malizia netto '^
Oltre che non posso inamorarmi di cosa ch'io non vegga. Altre,
altre sono che m'hanno incatenata l'alma'^ a voi altre dumque
dico, graziose, gentili, pastose, morbide, gioveni, belle, delicate,
biondi capelli, bianche guance, vermiglie gote, labra succhiose,
occhi divini, petti di smalto e cuori di diamante '': per le quali
tanti pensieri fabrico ne la mente, tanti affetti accolgo nel
spirto, tante passioni concepo nella vita, tante lacrime verso da
gli occhi, tanti suspiri sgombro dal petto, e dal cor sfavillo tante
fiamme; a voi Muse d'Inghilterra dico, inspiratemi, suffiatemi,
scaldatemi, accendetemi, lambiccatemi, e risolvetemi in liquore,
29. Cfr. G. Bruno, Be la causa. Dialogo primo, p. 617: «Non raggionarò
come ... gonfiato di vento da le puttane muse di Parnaso».
30. La frase, che riproduce l'ultimo verso di un sonetto del Burchiello (La
gloriosa fama de i Dauitti. in Rime del Burchiello cementate dal Doni, Venezia,
1553, pp. 17-19), conclude una dichiarazione di poetica anti-classica.
31. Bruno condensa qui due versi di L. Pulci: «Non vi fu mai guercio di
malizia netto» (cfr. Morgante. XXI, 138, 7) e «Odi ribaldo! odi malizia greca»
(ivi. XVIII, 75, 5). Dal XIV al XVI secolo, la «malizia greca» era divenuta
proverbiale nella letteratura italiana (cfr. G. \ìllani. Cronica, XII, 8; T. Tasso,
Gerusalemme liberata, II, 72, i).
32. Cfr. l'Argomento sopra gli Eroici Furori, p. 487, in cui, dopo aver consi-
derato la donna come soggetto poetico, alla stregua dei più bassi e triviali,
propone un'eccezione «per quelle che possono essere e sono particolarmente in
questo paese Britannico ... perché ... dove si ragionasse de tutto il sesso feme-
nile, non si deve né può intendere de alcune vostre, che ... non son femine, non
son donne, ma, in similitudine di quelle, son nimfe, son dive, son di sustanza
celeste» e ivi, p. 498-499, il sonetto Iscusation del Nolano alle più virtuose e leg-
giadre dame.
33. Espressioni caratteristiche dello stile di Petrarca e della tradizione pe-
trarchista.
DIALOGO PRIMO 447
datemi in succhio^'', e fatemi comparir non con un picciolo, de-
licato, stretto, corto e succinto epigramma: ma con una copiosa
e larga vena di prosa lunga, corrente, grande e soda; onde non [35]
come da un arto calamo, ma come da un largo canale mande i
rivi miei. E tu, Mnemosine mia, ascosa sotto trenta sigilli, e rin-
chiusa nel tetro carcere dell'ombre de le idee '5, intonami un
poco ne l'orecchio. — A i dì passati vennero doi^*^ al Nolano da
parte d'un regio scudiero^'', facendogl'intendere qualmente co-
lui bramava sua conversazione per intender il suo Copernico et
altri paradossi di sua nova filosofia ^^. Al che rispose il Nolano,
che lui non vedea per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo;
ma per i proprii quanto al giudizio e la determinazione; benché
quanto alle osservazioni stima dover molto a questi et altri sol-
leciti matematici, che successivamente a tempi e tempi, gion-
gendo lume a lume, ne han donati principii sufficenti per i
quali siamo ridutti a tal giudici©, quale non possea se non dopo
molte non ociose etadi esser parturito. Giongendo che costoro in
effetto son come quelli interpreti che traducono da uno idioma
a l'altro le paroli: ma sono gli altri poi che profondano ne' sen-
timenti, e non essi medesimi'^. E son simili a que' rustici che
rapportano gli affetti e la forma d'un conflitto a un capitano
absente; et essi non intendono il negocio, le raggioni e l'arte, co
34. Questa prolungata metafora erotica trova i suoi precedenti letterari non
solamente in N. Franco, Priapea (sonetti Nell'opra, ch'ora io tesso al chiaro
onore, 0 Polimnia, io prego che m'aiti, Donne, saper dovete, ch'acqua rosa), ma
altresì nei Capitoli di L. Tansillo. Le espressioni di Bruno sono più complesse e
più ambigue, ma la situazione è analoga: si tratta di rifiutare l'aiuto delle Muse
della mitologia classica, per rivolgersi a donne in carne ed ossa.
35. Allusione alla Triginta sigillorum explicatio ed al De umbris idearum,
dove Bruno espone la sua arte della memoria.
36. John Florio e Matthew Gwinne, i cui nomi apparivano nella redazione
primitiva del principio di questo Dialogo: cfr. Appendice I, p. 578 e Dialogo
secondo, p. 467, nota 6.
37. Sir Fulke Greville.
38. Copernico aveva egli stesso sottolineato il carattere «paradossale» e
«assurdo» dell'eliocentrismo, che colpì in effetti i primi lettori del De revolutio-
nibus.
39. Bruno ha sviluppato la sua concezione della traduzione nel De la
causa. Dialogo terzo. Ad Oxford, l'anno precedente, aveva parlato della neces-
sità delle traduzioni, com'è attestato da N[icholas?] W[hithalk?], nella sua pre-
fazione alla versione inglese delle Imprese di Paolo Giovio apprestata da Sa-
muel Daniel, London, 1585. Si veda inoltre J. Florio, prefazione To the cur-
teous Reader, alla sua traduzione degli Essays di Montaigne, London, 1603 (cfr.
G. Aquilecchia, G. Bruno in Inghilterra (1583-1585). Documenti e testimonianze,
«Bruniana & Campanelliana» [Pisa-Roma], L 1995. PP- 28-31).
448 LA CENA DE LE CENERI
la quale questi son stati vittoriosi: ma colui che ha esperienza e
meglior giudicio ne l'arte militare. Cossi a la tebana Manto, che
vedeva ma non intendeva, Tiresia cieco, ma divino interprete,
diceva:
Visti carentem magna pars veri latet,
sed quo vocat me patria, quo Phoebus sequar:
tu lucis inopem gnata genitorem regens,
[37] manifesta sacri signa fatidici refer'*^.
Similmente che potreimo giudicar noi, si le molte e diverse ve-
rificazioni de l'apparenze de corpi superiori o circostanti non ne
fussero state dechiarate e poste avanti gli occhi de la raggione?
Certo nulla. Tutta via dopo aver rese le grazie a gli dèi distri-
butori de doni che procedono dal primo et infinito omnipotente
lume, et aver magnificato il studio di questi generosi spirti, co-
noscerne apertissimamente che doviamo aprir gli occhi a quello
ch'hanno osservato e visto: e non porgere il consentimento a
quel ch'hanno conceputo, inteso e determinato.
Smitho. - Di grazia fatemi intendere che opinione avete del
Copernico.
Teofilo. - Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo
ingegno-*!: uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che
sii stato avanti lui, se non per luogo di successione e tempo;
uomo che quanto al giudizio naturale è stato molto superiore a
Tolomeo, Ipparco, Eudoxo'*^, e tutti gli altri ch'han caminato
appo i vestigli di questi: al che è dovenuto per essersi liberato
da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non
40. Seneca, Oedipus, 295-296 e 301-302, traduz. in Tragedie, a cura di
C. Giardina con la collaborazione di R. Cuccioli Melloni, Torino, 1987, p. 435:
«A chi è privo della vista una gran parte della verità resta oscura. Ma andrò
per la via a cui mi chiama la patria e Febo»; «Tu, figlia, che guidi il padre
privo della luce, riferiscigli i segni manifesti del sacrificio che deve annunciare
il nostro destino».
41. Copernico è lodato più ampiamente nel De immenso. III, 9. De lumine
Nicolai Copernici, Op. lai, I, i. pp. 38 e segg. (ed. Monti cit., pp. 563-570).
42. Sono, in ordine cronologico inverso, i principali sostenitori della teoria
geocentrica; Eudosso di Cnido (408-355 a. C), fondatore della scuola di Cizico;
Ipparco di Nicea (attivo tra il 161 e il 126 a. C), autore del primo vero catalogo
di stelle; Claudio Tolomeo (100-175? d. C), autore àtW Almagestum. Si veda, a
riguardo, O. Neugebauer, A History of Ancient Mathematical Astronomy, Ber-
lin-Heidelberg-New York, 1975, 3 voli.: I, pp. 21-261, 274-343; II, pp. 675-689.
DIALOGO PRIMO 449
voglio dir cecità. Ma però non se n'è molto allontanato: per che
lui più studioso de la matematica che de la natura''', non ha
possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto to-
glier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde per-
fettamente sciogliesse tutte le contrarie difficultà, e venesse a
liberar e sé et altri da tante vane inquisizioni, e fermar la con-
templazione ne le cose costante et certe. Con tutto ciò chi potrà
a pieno lodar la magnanimità di questo germano, il quale [39]
avendo poco riguardo a la stolta moltitudine, è stato sì saldo
contra il torrente de la contraria fede? e benché quasi inerme di
vive raggioni, ripigliando quelli abietti e rugginosi fragmenti
ch'ha possuto aver per le mani da la antiquità, le ha ripoliti,
accozzati e risaldati in tanto con quel suo più matematico che
naturai discorso, ch'ha resa la causa già ridicola, abietta e vili-
pesa, onorata, preggiata, più verisimile che la contraria; e certis-
simamente più comoda et ispedita per la teorica e raggione cal-
culatoria. Cossi questo alemano^"* benché non abbi avuti suffi-
43. Secondo M. A. Granada, L'interpretazione hruniana di Copernico e la
«Narratio prima» di Rheticus, «Rinascimento» [Firenze], 2'^ serie, XXX, 1990,
pp. 343-365, si può ritenere che la Narratio prima, dove Copernico è presentato
come un matematico ispirato dalla divinità finanche nel suo stesso brancolare
nel buio, abbia suggerito a Bruno l'idea di Copernico che egli propone: un ma-
tematico «cieco», sprovvisto di «vive raggioni», le cui teorie hanno bisogno di
essere interpretate dal Nolano. L'interesse di quest'ultimo per la filosofia natu-
rale lo spingeva a sottovalutare l'importanza della matematica, anche quando
era messa al servizio dell'astronomia, come era avvenuto con Copernico. Cfr.
G. Aquilecchia, Bruno e la matematica a lui contemporanea: in margine al «De
minimo», «Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], LXIX, 1990, pp.
151-159, ristampato in Id., Schede bruniane, Manziana (Roma), 1993, pp. 317-
318; sul rapporto tra filosofi e «matematici» nel Rinascimento, cfr. I. Pantin
nell'ed. e traduz. francese di G. Galilée, Sidereus nuncius. Le Messager celeste,
Paris, 1992, p. 49, nota 2. - Copernico sarà allo stesso modo definito «mathe-
maticus» nel De immenso, III, io, Op. lat., I, i, p. 395 (ed. Monti cit, p. 575);
questa critica di Bruno è da accostare a quella che egli fa dell'ottica geome-
trica euclidea.
44. Pur essendo suo padre originario di Cracovia, Copernico era nato nel
1473 a Thom, nella parte di Prussia occidentale a quel tempo sotto la sovra-
nità del re di Polonia. E. Rosen lo ha definito un «Polacco di lingua tedesca»,
ma come i suoi confratelli del capitolo di Frauenburg, Copernico difese la sua
terra natale contro gli attacchi dei Cavalieri Teutonici. Capitava spesso, nella
seconda metà del XVI secolo, e ancora nel XVII, che Copernico venisse consi-
derato un germanusr. si veda, ad esempio, T. Campanella, Apologia prò Galileo,
Francofurti, 1622 (ed. a cura di L. Firpo, Torino, 1969, p. 138: a definirlo così è
il luterano Tobia Adami; di questo testo campanelliano si veda ora l'ottima
edizione bilingue: T. Campanella, Apologia prò Galileo, testo, traduzione e
note di Michel Pierre Lemer, Paris, 2001); G. Galilei, Lettera a Madama Cri-
stina di Lorena, in Opere, a cura di F. Brunetti, Torino, voi. I, 1980"^, p. 554:
450 LA CENA DE LE CENERI
cienti modi per i quali, oltre il resistere, potesse a bastanza
vencere, debellare e supprimere la falsità, ha pure fissato il
piede in determinare ne l'animo suo, et apertissimamente con-
fessare, ch'ai fine si debba conchiudere necessariamente che più
tosto questo globo si muova a l'aspetto de l'universo, che sii
possibile che la generalità di tanti corpi innumerabili, de quali
molti son conosciuti più magnifici e più grandi, abbia al di-
spetto della natura e raggioni, che con sensibilissimi moti cri-
dano il contrario, conoscere questo per mezzo e base de suoi giri
et influssi. Chi dumque sarà sì villano e discortese verso il stu-
dio di quest'uomo, ch'avendo posto in oblio quel tanto che ha
fatto con esser ordinato da gli dèi come una aurora, che dovea
precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia, per
tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna,
proterva et invida ignoranza-"', vogli, notandolo per quel che
non ha possuto fare, metterlo nel medesmo numero della grega-
ria moltitudine che discorre, si guida e si precipita più per il
[41J senso de l'orechio d'una brutale et ignobil fede: che vogli com-
putarlo tra quei che col felice ingegno s'han possuto drizzare, et
inalzarsi per la fidissima scorta del occhio della divina intelli-
genza? — Or che dirrò io del Nolano? Forse per essermi tanto
Copernico fu chiamato a Roma «sin dall'ultime parti di Germania», per la
riforma del calendario. Cfr. E. Rosen, Biography of Copernicus, in Three Coper-
nican Treatìses, New York, 1971^, pp. 313-318, nonché N. Swerdlow-0. Neu-
GEBAUER, Mathematical Astronomy in Copernicus's «De revolutionibus», New
York-Berlin, 1984, pp. 10-14.
45. Secondo Bruno (cfr. i Dialoghi terzo e quarto), tanta ignoranza è frutto
dell'adesione alle teorie geocentriche e geostatiche di Aristotele e Tolomeo,
mentre «l'antiqua vera filosofia» include, com'è noto, Pitagora, le cui teorie
non erano geocentriche. Ma P.-H. Michel {G. Bruno et le système de Copernic
d'après la «Cène des Cendres», in: Pensée humaniste et tradttion chrétienne aux
XV^ et XVF siècles. Notes, essais et documents publiés sous la direction de H. Bé-
darida, Paris, 1950, pp. 313-331; cfr. anche, dello stesso. La cosmologie de G.
Bruno, Paris, 1962, pp. 212-215) ha fatto notare quanto sia approssimativa la
conoscenza che Bruno ha delle teorie pitagoriche, le quali, in effetti, lasciano
che il sole stesso graviti intorno a un fuoco situato al centro dell'universo. Il
tema della sepulta veritas che Copernico riporta alla luce si ritroverà, ad esem-
pio, in P. A. FoscARiNL Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici, e del Copernico,
Napoli, 1615 (ed. anastatica a cura di L. Romeo, Montalto Uffugo, 1992, p. 3) ed
in T. Campanella, Apologia prò Galileo cit, pp. 144-145. Quanto al tema del
sole della verità che fuga le tenebre dell'ignoranza, lo si ritrova infra, p. 461
e nella prefazione degli Articuli adversus mathematicos, pubblicati nel 1588,
Op. lat., I, 3, pp. 3-7. Su questo punto cfr., inoltre, le osservazioni di I. Pantin
nella sua ed. e traduz. francese di J. BLepler, Discussion avec le messager celeste.
Rapport sur l'obsen^ation des satellites de Jupiter, Paris, 1993, pp. 66-67, nota 61;
pp. 126-127, note 241 e 242.
DIALOGO PRIMO 451
prossimo quanto io medesmo a me stesso, non mi converrà lo-
darlo? Certamente uomo raggionevole non sarà che mi riprenda
in ciò: atteso che questo talvolta non solamente conviene, ma è
anco necessario, come bene espresse quel terso e colto Tansillo:
Bench'ad un uom, che preggio et onor brama,
di se stesso parlar molto sconvegna,
per che la lingua, ov'il cor teme et ama,
non è nel suo parlar di fede degna;
l'esser altrui precon de la sua fama
pur qualche volta par che si convegna,
quando vien a parlar per un di dui:
per fuggir biasmo, o per giovar altrui ■*'^.
Pure, se sarà un tanto supercilioso che non vogli a proposito
alcuno patir la lode propria o come propria, sappia che quella
talvolta non si può dividere da sui presenti e riportati effetti.
Chi riprenderà Apelle che presentando l'opra, a chi lo vuol sa-
pere, dice quella esser sua manifattura? chi biasimarà Fidia s'a
un che dimanda l'autore di questa magnifica scoltura, risponda
esser stato lui? Or dumque a fin ch'intendiate il negocio pre-
sente e l'importanza sua, vi propono per una conclusione che
ben presto, facile e chiarissimamente vi si provarà: che se vien
lodato lo antico Tifi per avere ritrovata la prima nave e co gli
Argonauti trapassato il mare:
Audax nimium, qui freta primus
rate tam fragili perfida rupit; [43]
terrasque suas post terga videns,
animam levibus credidit auris'^'^;
se a' nostri tempi vien magnificato il Colombo, per esser colui,
de chi tanto tempo prima fu pronosticato:
Venient annis
secula seris, quibus Oceanus
46. L. Tansillo, Vendemmiatore, st. XXIX.
47. Seneca, Medea, 301-304, traduz. in Tragedie cit, p. 297: «Troppo teme-
rario fu colui che attraversò con una nave tanto fragile le ingannevoli onde del
mare e vedendo la sua terra dietro le spalle affidò la vita alle brezze leggere».
452 LA CENA DE LE CENERI
vincula rerum laxet, et ingens
pateat tellus, Tiphysque novos
detegat orbes, nec sit terris
ultima Thule'*^;
che de' farsi di questo che ha ritrovato il modo di montare al
cielo, discorrere la circonferenza de le stelle, lasciarsi a le spalli
la convessa superficie del firmamento? -^^ Gli Tifi han ritrovato
il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le
reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse, per
il commerzio radoppiar i diffetti e gionger vizii a vizii de l'una
e l'altra generazione, con violenza propagar nove follie e pian-
tar l'inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi al fin più
saggio quel che è più forte; mostrar novi studi, instrumenti, et
arte de tirannizar e sassinar l'un l'altro 5°: per mercé de quai
gesti, tempo verrà ch'avendono^i quelli a sue male spese impa-
rato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e po-
tranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose inven-
zioni:
Candida nostri secula patres
videre procul fraude remota:
sua quisque piger littora tangens,
patrioque senex fractus in amo
parvo dives, nisi quas tulerat
[45] natale solum non norat opes.
48. Ivi, 375-379, traduz. (con modifiche) in Tragedie cit, p. 301: «Verranno
anni, nei tempi più tardi, in cui l'Oceano allenterà i vincoli degli elementi e si
dispiegherà una immensa terra e Tifi metterà a nudo nuovi mondi e fra le
terre Tuie non sarà più l'estrema».
49. Elogio simile a quello che Lucrezio fa di Epicuro nel De rerum natura,
I, 72 e segg.
50. Dopo Gerolamo Benzoni {La Historia del Mondo Nuovo, Venezia, 1565),
Bruno è uno dei rari autori italiani che abbia denunciato i metodi tristemente
famosi usati soprattutto dagli Spagnoli per la conquista dell'America. Su que-
sto passo, cfr. in particolare G. Aquilecchia, Bruno e il Nuovo Mondo, «Rina-
scimento» [Firenze], VI, 1955, pp. 168-170, ora in Io., Schede bruniane cit, pp.
97-99; S. Ricci, Infiniti mondi e Mondo Nuovo. Conquista dell'America e critica
della civiltà europea in G. Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana» [Fi-
renze], LXIX, 1990, pp. 204-221; M. A. Granada, G. Bruno y America. De la
critica de la colonización a la critica del cristianismo, «Geocritica. Cuademos cri-
ticos de Geografia Humana» [Barcelona], 90, 1990, pp. 44-56.
51. Avendone è una forma di gerundio plurale coniugato (con desinenza
«-mo» alla prima e «-no» alla terza persona) che ha resistito, negli autori na-
poletani, almeno fino a Vico.
DIALOGO PRIMO 453
Bene dissepti faedera mundi
traxit in unum thessala pinus,
iussitque pati verterà pontum,
partemque metus fieri nostri
mare sepositum^^.
Il Nolano 55, per caggionar effetti al tutto contrarii, ha disciolto
l'animo umano e la cognizione che era rinchiusa ne Partissimo
carcere de l'aria turbulento'-^, onde a pena come per certi buchi
avea facultà de remirar le lontanissime stelle, e gli erano mozze
l'ali, a fin che non volasse ad aprir il velame di queste nuvole e
veder quello che veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le
chimere di quei che essendo usciti dal fango e caverne de la terra,
quasi Mercuri et Appollini discesi dal cielo, con moltiforme im-
postura han ripieno il mondo tutto d'infinite pazzie, bestialità e
vizii, come di tante vertù, divinità e discipline: smorzando quel
lume che rendea divini et eroichi gli animi di nostri antichi
padri, approvando e confirmando le tenebre caliginose ^^ de so-
fisti et asini. Per il che già tanto tempo l'umana raggione op-
pressa, tal volta nel suo lucido intervallo piangendo la sua sì
bassa condizione, alla divina e provida mente, che sempre ne
l'interno orecchio li susurra, si rivolge con simili accenti:
Chi salirà per me, madonna, in cielo,
a riportarne il mio perduto ingegnoP^^
52. Seneca, Medea, 329-339, traduz. in Tragedie cit, pp. 297-299: «I nostri
antenati videro una candida era, quando l'inganno era lontano: ciascuno pi-
gramente toccando la sua propria spiaggia e diventando vecchio nella campa-
gna patema, ricco del poco, non conosceva altre risorse da quelle che produ-
ceva il suolo natio. Le parti in cui secondo una saggia regola era stato diviso il
mondo furono riunite in un solo insieme dalla nave Tessala, che costrinse il
mare a sopportare l'urto dei remi e un mare lontano a divenire parte delle
nostre paure».
53. Si veda l'elogio che Bruno fa di se stesso nelV Acrotismus (Op. lai., I,
I, pp. 66-67) ^ nel De immenso, IV, i {Op. lai., I, 2, pp. 2-3; ed. Monti cit.,
PP- 578-579)-, .
54. Aria è il più delle volte maschile, in Bruno.
55. Come ha notato M. A. Granada nella sua traduzione spagnola della
Cena (Madrid, 1994^, p. 70, nota 23), Bruno ritiene che Cristo sia, appunto, uno
di questi profeti delle tenebre (cfr. il Dialogo terzo dello Spaccio, pp. 379-384) e
che il cristianesimo sia alleato con la pseudo-filosofia volgare, sensuale e pe-
dante di Aristotele (si guardi alla coppia Aristotele-asino, nel Dialogo secondo
della Cabala del cavallo pegaseo, pp. 458-463).
56. L. Ariosto, Orlando furioso, XXXV, I, 1-2; ma qui l'allusione al poema
454 LA CENA DE LE CENERI
Or ecco quello ch'ha varcato l'aria ''', penetrato il cielo, discorse
le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fanta-
stiche muraglia de le prime, ottave, none, decime, et altre che vi
s'avesser potute aggiongere sfere per relazione de vani matema-
[47] tici e cieco veder di filosofi volgari 's. Cossi al cospetto d'ogni
senso e raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti
que' chiostri de la verità che da noi aprir si posseano, nudata la
ricoperta e velata natura: ha donati gli occhi a le talpe, illumi-
nati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l'imagin sua
in tanti specchi che da ogni lato gli s'opponeno. Sciolta la lin-
gua a muti, che non sapeano e non ardivano esplicar gl'intricati
sentimenti; risaldati i zoppi che non valean far quel progresso
col spirto, che non può far l'ignobile e dissolubile composto: le
rende non men presenti, che si fussero proprii abitatori del sole,
de la luna, et altri nomati astri. Dimostra quanto siino simili o
dissimili, maggiori o peggiori, que' corpi che veggiamo lontano,
a quello che n'è appresso et a cui siamo uniti; e n'apre gli occhii
ad veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso
ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo
al qual di nuovo sempre ne riaccoglie; e non pensar oltre, lei
essere un corpo senza alma e vita, et anche feccia tra le su-
ariostesco è palese già qualche riga più in alto, nell'espressione «lucido interval-
lo» (cfr. «Or che di mente ho lucido intervallo», Orlando furioso. XXIV, III, 4) che
rinvia ad un aneddoto del Chronicon di san Gerolamo, secondo il quale Lucrezio
avrebbe composto il De rerum natura «per intervalla insaniae».
57. Si veda il già citato elogio che Lucrezio fa di Epicuro nel De rerum
natura. I, 72 e segg., così come il De immenso. Op. lat. I, i, p. 201 (ed. Monti cit,
p. 418) e la fine della Proemiale epistola àeW Infinito, universo e mondi.
58. Un luogo parallelo neW Acrotismus, Op. lat.. I, i, pp. 67-68: «Caelum pe-
netrai stellas discurrit...». Nel suo In Sphaeram Ioannis de Sacro Bosco commen-
iarius (nella prima ed. del 1570 e fino all'ed. del 1593) il gesuita Cristoforo
Clavio proponeva un «systema mundi» con dieci cieli (o sfere) mobili: l'ottavo
è il cielo delle stelle fisse, il nono che «a nonnullis theologis dici solet caelum
glaciale, seu aqueum. Et ab aliis Chrystallinum» e il decimo il «primum mo-
bile». A partire dal 1593 (aderendo al modello di Magini), Clavio aggiungerà
un undicesimo cielo mobile. Ma questo numero era già stato rciggiunto da
Johannes Werner nel suo De motti octavae spherae. Nuremberg, 1522, contro cui
Copernico aveva composto, nel 1534, una Epistola (rimasta inedita lui vivente).
A tutti questi cieli doveva aggiungersene un dodicesimo, il cielo empireo im-
mobile dei teologi, l'esistenza del quale era stata accettata da astronomi e filo-
sofi. Osserviamo, a riguardo, che nel De immenso. III, i, Op. lat. I, i, pp. 316-317
(ed. Monti cit, p. 512), Bruno evoca l'aggiunta «recente» di una undicesima
sfera, precisando che pure la dodicesima comincia a sollevare la testa; segue
un'allusione alla follia di Fracastoro, che postula sfere innumerevoli e concen-
triche (e, per un'ulteriore denuncia di questa fuga in avanti, cfr. ivi, III, 6, Op.
lat, I, I, pp. 364-366; ed. Monti cit, p. 550).
DIALOGO PRIMO 455
stanze corporali ^9. A questo modo sappiamo che si noi fussimo
ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile
a questo, e forse in peggiore: come possono esser altri corpi cossi
buoni, et anco megliori per se stessi e per la maggior felicità de
propri animali '^'^. Cossi conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti
numi, che son quelle tante centenaia de migliaia ch'assistono al
ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito et
etemo efficiente. Non è più impriggionata la nostra raggione co
i ceppi de fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Cono- [49]
scemo che non è ch'un cielo, un'eterea reggione inmensa, dove
questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità
de la participazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti
corpi son que' ambasciatori, che annunziano l'eccellenza de la
gloria e maestà de Dio^'. Cossi siamo promossi a scuoprire l'in-
finito effetto dell'infinita causa ^2, il vero e vivo vestigio de l'in-
finito vigore. Et abbiamo dottrina di non cercar la divinità ri-
59. Cfr. G. Galilei, Sidereus nuncius, traduz. di M. Timpanaro Cardini, in
Opere, ed. Brunetti cit., voi. I, p. 294: «Si dimostra validissima la riflessione
solare operata dalla Terra, a coloro che vanno proclamando doversi questa
escludere dal giro danzante delle Stelle ... perché noi la dimostreremo errante e
superante in splendore la Luna, e non già sentina di sordidezze e terrene brut-
ture». Come rammenta I. Pantin, nell'ed. francese di quest'opera, loc. cit, nota
85, «si dava per acquisito dai tempi di Aristotele che, in una sfera, il centro
fosse la posizione più bassa e che la Terra fosse il più vile degli elementi. Tut-
tavia le imprecazioni contro la "sentina" erano piuttosto un espediente per i
predicatori o energiche meditazioni sulla miseria hominis ... I partigiani della
riabilitazione della Terra, come Nicolò Cusano (De dada ignorantia, II, 12, in
Opere filosofiche, a cura di G. Federici- Vescovini, Torino, 1972, pp. 147-154) e
dopo di lui Leonardo da Vinci ... cercarono innanzitutto di renderla una stella
ed a trovarne l'irradiamento». — Cfr. R. Brague, La géocentrisme camme hiimi-
liation de Vhomme, in: Hermeneutique et ontologie. Hommage à P. Aubenque, Paris,
1990, pp. 203-223.
60. L'idea di un adattamento delle creature viventi al loro pianeta - all'oc-
correnza la luna - si trova già nel De placitis dello pseudo-Plutarco. «Gio-
cando» a sua volta con questa idea, Keplero darà un formidabile contributo
alla speculazione sugli esseri extraterrestri (cfr. J. Kepler, Dissertatio cum
Nuncio Sidereo accedit Narratio de quattuor lovis satellitibus, a cura di E. Pascli e
G. Tabarroni, Torino, 1972, pp. 44-45 e nota 107).
61. Cfr. Salmi, XIX, 2: «I cieli celebrano la gloria di Dio, / il firmamento
proclama l'opera delle sue mani».
62. Su questa visione unitaria di un universo infinito ed omogeneo, ani-
mato da innumerevoli mondi simili al nostro, che Bruno difenderà con espres-
sioni identiche innanzi ai suoi giudici (cfr. L. Firpo, E processo di G. Bruno, a
cura di D. Quaglioni, Roma, 1993, pp. 267-271), si veda M. A. Granada, Bruno,
Digges, Palingenio. Omogeneità ed eterogeneità nella concezione dell'universo infi-
nito, «Rivista di storia della filosofia» (Milano], XLVII, 1992, pp. 47-73. Sul-
l'immanenza di Dio nella natura cfr. Lampas triginta statuarum, nn. 12, 18, 29
{Op. lai., pp. 41, 50, 53) e F. Tocco, Le opere inedite di G. Bruno, Napoli, 1899,
p. 47, nota I.
456 LA CENA DE LE CENERI
mossa da noi: se l'abbiamo appresso, anzi di dentro più che noi
medesmi siamo dentro a noi. Non meno che gli coltori de gli
altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l'avendo ap-
presso e dentro di sé. Atteso che non più la luna è cielo a noi,
che noi alla luna. Cossi si può tirar a certo meglior proposito
quel che disse il Tansillo quasi per certo gioco ^^:
Se non togliete il ben che v'è da presso,
come torrete quel che v'è lontano?
Spreggiar il vostro mi par fallo espresso,
e bramar quel che sta ne l'altrui mano.
Voi séte quel ch'abandonò se stesso,
la sua sembianza desiando in vano;
voi séte il veltro che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca-
Lasciate l'ombre et abbracciate il vero,
non cangiate il presente col futuro.
Io d'aver dì meglior già non dispero;
ma per viver più lieto e più sicuro,
godo il presente, e del futuro spero:
cossi doppia dolcezza mi procuro.
Con ciò un solo, benché solo, può e potrà vencere, et al fine ara
vinto e triomfarà contra l'ignoranza generale; e non è dubio, se
[51] la cosa de' determinarsi non co la moltitudine di ciechi e sordi
testimoni, di convizii e di parole vane, ma co la forza di rego-
lato sentimento, il qual bisogna che conchiuda al fine: perché in
fatto tutti gli orbi non vagliono per uno che vede, e tutti i stolti
non possono servire per un savio ^.
63. Cfr. in L. Tansillo, Vendemmiatore, XVIII e XIX, w. 1-6 (con una va-
riante, al terzo verso della seconda stanza cit., probabilmente dovuta allo
stesso Bruno). Nel loro contesto originario, le parole di Tansillo sembrano piut-
tosto un'esortazione edonista; ma si sa che Bruno è solito far esprimere alla
poesia italiana, tanto petrarchista, quanto realistico-erotica, le sue personali
concezioni morali e filosofiche.
64. Cfr. Eraclito, fragm. B 49, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker,
Berlin, 1903 (e cfr. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Gian-
nantoni, Bari, 1969, I, p. 207). Cfr. altresì G. Bruno, Acrotismus, toc. cit., p. 69.
DIALOGO PRIMO 457
Prudenzio. -
Rebus et in sensu, si non est quod fuit ante,
fac vivas contentus eo quod tempora praebent.
ludicium populi nunquam contempseris unus,
ne nulli placeas dum vis contemnere multos^^.
Teofilo. - Questo è prudentissimamente detto in proposito
del convitto e regimento comone, e prattica de la civile conver-
sazione: ma non già in proposito de la cognizione de la verità, e
regola di contemplazione, per cui disse il medesmo saggio:
Disce, sed a doctis; indoctos ipse doceto^.
È anco, quel che tu dici, in proposito di dottrina espediente a
molti, e però è conseglio che riguarda la moltitudine, per che
non fa per le spalli di qualsivoglia questa soma, ma per quelli
che possono portarla, come il Nolano; o almeno muoverla verso
il suo termine senza incorrere difficoltà disconveniente, come il
Copernico ha possuto fare. Oltre, color ch'hanno la possessione
di questa verità non denno ad ogni sorte di persona comuni-
carla, si non vogliono lavar (come se dice) il capo a l'asino, se
non vuolen vedere quel che san far i porci a le perle '^'', e racco-
gliere que' frutti del suo studio e fatica, che suole produrre la
temeraria e sciocca ignoranza, insieme co la presunzione et in-
civiltà, la quale è sua perpetua e fida compagnia. Di que' dum-
que indotti possiamo esser maestri, e di quei ciechi illumina- [53]
tori, che non per inabilità di naturale impotenza, o per priva-
zion d'ingegno e disciplina, ma sol per non avvertire e non
considerare, son chiamati orbi: il che avviene per la privazion
de l'atto solo, e non de la facultà ancora. Di questi sono alcuni
tanto maligni e scelerati, che per una certa neghittosa invidia si
65. Disticha Catonis, III, 11 e II, 29 («Se nei beni e nel (sentimento) non c'è
quel che c'era prima, fa di vivere contento di ciò che offrono i tempi; non
essere mai solo a spregiare il giudizio popolare, se non vuoi spiacere a tutti
disprezzando la maggioranza»). L'edizione del 1584 presenta al primo verso la
variante in sensu (attestata da alcuni mss.), al posto dell'jM censu della vulgata
66. «Impara, ma dai dotti; agli ignoranti sii tu stesso ad insegnare».
67. Per il «lavar il capo all'asino» cfr. Erasmo da Rotterdam, Adagia, III,
3, 39 e per «quel che san far i porci a le perle», Matteo, VII, 6.
458 LA CENA DE LE CENERI
adirano et inorgogliano centra colui che par loro voglia inse-
gnare - essendo, come son creduti e (quel ch'è peggio) si cre-
deno, dotti e dottori; - ardisca mostrar saper quel che essi non
sanno: qua le vederete infocar e rabbiarsi.
Frulla. — Come avvenne a que' doi dottori barbareschi, de
quali parlaremo, l'un de quali non sapendo più che si rispon-
dere e che argumentare, s'alza in piedi in atto di volerla finir
con una provisione di adagii d'Erasmo, o ver co i pugni, cridò:
« Quid? non ne Anticyram navigas? Tu ille philosophorum protopla-
stes, qui nec Ptolomeo, nec tot tantorumque philosophorum et astro-
nomorum maiestati quippiam concedis? Tu ne nodum in scirpo
quaeritas?»^^; et altri propositi, degni d'essergli decisi a dosso
con quelle verghe doppie (chiamate bastoni) co le quale i fac-
chini soglion prender la misura per far i gipponi a gli asini.
Teofilo. - Lasciamo questi propositi per ora. Sono alcuni
altri che per qualche credula pazzia, temendo che per vedere
non se guastino, vogliono ostinatamente perseverare ne le tene-
bre di quello ch'hanno una volta malamente appreso. Altri poi
sono i felici e ben nati ingegni, verso gli quali nisciuno onorato
[55] studio è perso, temerariamente non giudicano, hanno libero
l'intelletto, terso il vedere, e son prodotti dal cielo, si non inven-
tori, degni però esaminatori, scrutatori, giodici e testimoni de la
verità. Di questi ha guadagnato guadagna e guadagnare l'as-
senso e l'amore il Nolano. Questi son que' nobilissimi ingegni
che son capaci d'udirlo e disputar co lui. Per che in vero ni-
sciuno è degno di contrastarli circa queste materie: che si non
vien contento di consentirgli a fatto, per non esser tanto capace,
non gli sotto scriva al meno ne le cose molte, maggiori e prin-
cipali; e confesse che quello che non può conoscere per più
vero, è certo che sii più verisimile.
Prudenzio. - Sii come la si vuole, io non voglio discostarmi
68. «E che! Stai salpando per Anticira? Ti credi l'antesignano dei filosofi
per non concedere nulla a Tolomeo ed all'autorità di tanti e tali filosofi ed
astronomi? Non vorrai spaccare un capello in quattro?». Anticira era il nome
di tre città rinomate per la coltivazione deirelleboro, pianta che si considerava
un toccasana nella cura della follia; Anticyram navigare significa dunque «dare
dei segni di pazzia.». D'altra parte, nodum in scirpo quaerere vuol dire, alla let-
tera, «cercare un nodo sopra un giunco", cioè delle difficoltà dove non esi-
stono. Queste due espressioni, rispettivamente attestate in Orazio (Satyrae, II, 3,
83) ed in Plauto {Menaechmi, 247), sono commentate da Erasmo negli Adagia, I,
8, 52 e II, 4, 76.
DIALOGO PRIMO 459
dal parer de gli antichi, per che dice il saggio: «Ne l'antiquità è
la sapienza M*^^.
Teofilo. - E soggionge: «... in molti anni la prudenza »~°. Si
voi intendreste bene quel che dite, vedreste che dal vostro fon-
damento s'inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire
che noi siamo più vecchi et abbiamo più lunga età che i nostri
predecessori '1; intendo per quel che appartiene in certi giudizii,
come in proposito. Non ha possuto essere sì maturo il giodi-
cio d'Eudosso che visse poco dopo la rinascente astronomia, se
pur in esso non rinacque, come quello di Calippo che visse
trent'anni dopo la morte d'Alessandro Magno: il quale come
giunse anni ad anni, possea giongere ancora osservanze ad os-
servanze. Ipparco, per la medesma raggione, dovea saperne più
di Calippo, per che vedde la mutazione fatta sino a centono-
nantasei anni dopo la morte d'Alessandro. Menelao Romano [57]
geometra, per che vedde la differenza de moto quatrocento ses-
santa dui anni dopo Alessandro morto, è raggione che n'inten-
desse più ch'Ipparco. Più ne dovea vedere Machometto Ara-
cense mille ducente e dui anni dopo quella. Più n'ha veduto il
69. Cfr. Giobbe. XII, 12.
70. Ivi.
71. G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze, 1940, pp. 131
e segg.. ha visto all'opera in questo passo il principio della veritas filia temporis.
ma si noti che Bruno precisa: «intendo per quel che appartiene in certi giudi-
zii», limitando la portata delle sue riflessioni sul progresso delle conoscenze
alle osservazioni astronomiche che elenca. Cfr. anche F. Simone, «Veritas filia
temporis». A proposito di un testo di G. Bruno, «Revue de littérature comparée»
[Paris], 22, 1948. pp. 508-521 e le osservazioni di I. Pantin, nell'ed. francese di
J. Kepler, Discussion cit. pp. iio-iii, nota 197; pp. 111-112, nota 203 e p. 133,
nota 5. - Su Eudosso, cfr. supra. nota 42. - Calippo è Callippo di Cizico, allievo
di Polemarco (un sodale di Eudosso), attivo verso la fine del IV secolo a. C. e
noto per aver ripreso e corretto il sistema delle sfere concentriche di Eudosso
(cfr. Aristotele, Metaph.. XII, 8. 1073 b 15-35): né l'uno, né l'altro hanno la-
sciato le loro osservazioni ai posteri. Il ciclo che viene attribuito a Callippo
comprende 76 anni; il primo anno risalirebbe al 330 a. C. L'aver associato il
nome di Eudosso alla «rinascita» dell'astronomia è forse dovuto a Pierre de la
Ramée (cui Bruno, in De la causa, dà la qualifica di «arcipedante»). - Ipparco:
cfr. supra, nota 42. - Menelao è Menelao di Alessandria, definito «romano»
pure da Copernico, perché fu attivo a Roma nel 98 d. C. - Machometto è
Muhammed Al-Battàni (858P-929?), le cui opere astronomiche furono pubbli-
cate in latino per la prima volta a Nuremberg nel 1537; l'aggettivo «Aracense»
deriva da «ar-Raqqah», luogo di nascita del filosofo. — A proposito di Coper-
nico. Bruno qui s'allontana alquanto dal De revolutionibus. III, 2. Copernico
dice che Menelao fece le sue osservazioni 422 anni (e non 462) dopo la morte
di Alessandro Magno. Le notizie riguardanti Maometto Aracense e Copernico
sono, per contro, riportate correttamente.
460 LA CENA DE LE CENERI
Copernico quasi a' nostri tempi appresso la medesma anni
mille ottocento quarantanove. Ma che di questi alcuni che son
stati appresso, non siino però stati più accorti che quei che fu-
ron prima, e che la moltitudine di que' che sono a nostri tempi
non ha però più sale, questo accade per ciò che quelli non vis-
sero e questi non vivono gli anni altrui, e (quel che è peggio)
vissero morti quelli e questi ne gli anni proprii.
Prudenzio. - Dite quel che vi piace, tiratela a vostro bel
piacer dove vi pare, io sono amico de l'antiquità; e quanto ap-
partiene a le vostre opinioni o paradossi, non credo che sì molti
e sì saggi sien stati ignoranti come pensate voi et altri amici di
novità.
Teofilo. — Bene, maestro Prudenzio, si questa volgare e vo-
stra opinione per tanto è vera, in quanto che è antica, certo era
falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofìa con-
forme al vostro cervello, fu quella de gli Caldei, Egizzii, Maghi,
Orfici, Pitagorici ^2 et altri di prima memoria, conforme al no-
stro capo: da quali prima si ribbellomo questi insensati e vani
logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità quanto
alieni da la verità. Poniamo dumque da canto la raggione de
l'antico e novo: atteso che non è cosa nova, che non possa esser
vecchia; e non è cosa vecchia, che non sii stata nova: come ben
[59] notò il vostro Aristotele ^\
Frulla. - S'io non parlo scoppiarò, creparò certo. Avete
detto «il vostro Aristotele», parlando a mastro Prudenzio: sa-
pete come intendo che Aristotele sii suo, idest lui sii peripate-
tico? (di grazia facciamo questo poco di digressione per modo di
parentesi) come di dui ciechi mendichi a la porta de l'arcivesco-
72. Tutti rappresentanti «de l'antiqua vera filosofia». Cfr. D. P. Walker,
The Ancient Theology. Studies in Christian Platonism front the Fifteenth to the
Eighteenth Century, London, 1972; L Klutstein, Marsilio Ficino et la théologie
ancienne: Oracles Chaldaìques, Hymnes Orphiques, Hymnes de Proclus, Firenze,
1987; F. A. Yates, G. Bruno e la tradizione ermetica, traduz. di B. Pecchioli,
Roma-Bari, 2002^ (ma si veda infra. Dialogo quarto, p. 527, nota 17).
73. Cfr. Aristotele, Meteor., I, 3, 339 b 27-29, traduz. di L Pepe, Napoli,
1982, p. 41: «noi diciamo che le stesse opinioni ricorrono fra gli uomini non
una o due o più volte, ma in etemo ciclo»; si veda inoltre De caelo, I, 3, 270 b
19 (e la nota 12 di Pepe, loc. cit.). - Su questo tema, cfr. R. Sorabji, Time,
Creation and the Continuum. Theories in Antiquity and the early Middle Ages,
London, 1983, pp. 182-190.
DIALOGO PRIMO 461
vate di Napoli: l'uno se diceva guelfo e l'altro ghibellino '^'^; e
con questo si cominciomo sì crudamente a toccar l'un l'altro
con que' bastoni ch'aveano, che si non fussero stati divisi, non
so come sarebbe passato il negozio. In questo se gli accosta un
uom da bene, e li disse: «Venite qua, tu e tu, orbo mascalzone:
che cosa è guelfo? che cosa è ghibellino? che vuol dir esser
guelfo et esser ghibellino?». In verità l'uno non seppe punto che
rispondere né che dire. L'altro si risolse dicendo: «Il signor Pie-
tro Costanzo ^5 che è mio padrone, et al quale io voglio molto
bene, è gibellino». Cossi a punto molti sono Peripatetici che si
adirano, se scaldano e s'imbraggiano per Aristotele, voglion de-
fendere la dottrina d'Aristotele, son inimici de que' che non
sono amici d'Aristotele, voglion vivere e morire per Aristotele: i
quali non intendono né anche quel che significano i titoli de
libri d'Aristotele. Se volete ch'io ve ne dimostri uno: ecco costui
al quale avete detto «il vostro Aristotele», e che a volte a volte
ti sfodra un Aristoteles noster Peripateticorum princeps, un Plato
noster, et ultra'' ^.
Prudenzio. — Io fo poco conto del vostro conto, niente
istimo la vostra stima.
Teofilo. — Di grazia non interrompete più il nostro discorso. [6i]
Smitho. — Seguite, signor Teofilo.
Teofilo. — Notò, dico, il vostro Aristotele che come è la vi-
cissitudine de l'altre cose, cossi non meno de le opinioni et ef-
fetti diversi ^^: però tanto è aver riguardo alle filosofie per le loro
antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte.
Quello dumque al che doviamo fissar l'occhio de la considera-
zione, è si noi siamo nel giorno, e la luce de la verità è sopra il
nostro orizonte, overo in quello de gli aversarii nostri antipodi;
si siamo noi in tenebre, o ver essi; et in conclusione si noi che
damo principio a rinovar l'antica filosofia, siamo ne la mattina
74. Questi termini sono stati utilizzati in Italia fino al XVII secolo, per
designare fazioni politiche e consorterie familiari, ma già Aretino, nelle Sei
giornate, se ne faceva beffe.
75. Pietro Costanzo era probabilmente un compagno d'armi del padre di
Bruno, secondo V. Spampanato, Vita di G. Bruno con documenti editi ed inediti,
Messina, 192 1 (risi anastatica con una postfazione di N. Ordine, Roma, 1988, p.
39)'
76. «Aristotele nostro, principe dei Peripatetici, Platone nostro e così via».
77. Cfr. ancora Aristotele, Metaph., XII, 8, 1074 b 10-14; Analytica Post., I,
33. 89 a 5.
462 LA CENA DE LE CENERI
per dar fine a la notte, o pur ne la sera per donar fine al giorno:
e questo certamente non è difficile a determinarsi, anco giudi-
cando a la grossa da frutti de l'una e l'altra specie di contem-
plazione. — Or veggiamo la differenza tra quelli e questi. Quelli,
nel viver, temperati; ne la medicina, esperti; ne la contempla-
zione, giudiziosi; ne la divinazione, singolari; ne la magia, mira-
colosi; ne le superstizioni, providi; ne le leggi, osservanti; ne la
moralità, irreprensibili; ne la teologia, divini; in tutti effetti,
eroici: come ne mostrano lor prolongate vite, i meno infermi
corpi, l'invenzioni altissime, le adempite pronosticazioni, le su-
stanze per lor opra transformate, il convitto pacifico de que' po-
poli, gli lor sacramenti inviolabili, l'essecuzioni giustissime, la
familiarità de buone e protettrici intelligenze, et i vestigli
(ch'ancora durano) de lor maravigliose prodezze. Questi altri
contrarii lascio essaminargli al giudizio de chi n'ha.
Smitho. — Or che direte se la maggior parte di nostri tempi
pensa tutto il contrario, e spezialmente quanto a la dottrina?
Teofilo. — Non mi maraviglio, per che (come è ordinario)
quei che manco intendeno, credono saper più: e quei che sono
al tutto pazzi, pensano saper tutto.
Smitho. — Dimmi: in che modo si potran corregger questi?
Frulla. — Con toglierli via quel capo, e piantargline un altro.
Teofilo. — Con toglierli via in qualche modo d'argumenta-
zione quella esistimazion di sapere; e con argute persuasioni
spogliarle quanto si può di quella stolta opinione, a fin che si
rendano uditori: avendo prima avvertito, quel che insegna, che
siino ingegni capaci et abili. Questi (secondo l'uso de la scuola
pitagorica^^ e nostra) non voglio ch'abbino facultà di esercitar
atti de interrogatore o disputante, prima ch'abbino udito tutto
il corso de la filosofia: per che all'ora se la dottrina è perfetta in
sé, e da quelli è stata perfettamente intesa, purga tutti i dubii, e
toglie via tutte le contradizzioni. Oltre, s'avviene che ritrove un
più polito ingegno, all'ora quel potrà vedere il tanto che vi si
può aggiongere, togliere, correggere e mutare. All'ora potrà con-
ferire questi principii e queste conclusioni, a quelli altri contra-
rii principii e conclusioni; e cossi raggionevolmente consentire
78. Sul «corso de la filosofia» nella scuola pitagorica, cfr. la Cabala del ca-
vallo pegaseo e L'asino etilenico di Bruno, pp. 477-484.
DIALOGO PRIMO 463
o dissentire, interrogare e rispondere: per che altrimente non è
possibile saper, circa una arte o scienza, dubitar et interrogar a
proposito, e co gli ordini che si convengono, se non ha udito
prima. Non potrà mai esser buono inquisitore e giodice del [65]
caso, se prima non s'è informato del negocio. Però dove la dot-
trina va per i suoi gradi, procedendo da posti e confirmati prin-
cipii e fondamenti a l'edificio e perfezzione de cose che per
quella si possono ritrovare, l'auditore deve essere taciturno, e
prima d'aver tutto udito et inteso, credere che con il progresso
de la dottrina cessarranno tutte difficultadi. Altra consuetudine
hanno gli Efettici^^ e Pirroni: i quali facendo professione che co-
sa alcuna non si possa sapere, sempre vanno dimandando e cer-
cando, per non ritrovar giamai. Non meno infelici ingegni son
quei, che anco di cose chiarissime vogliono disputare, facendo la
maggior perdita di tempo che imaginar si possa; e quei che per
parer dotti, e per altre indegne occasioni, non vogliono insegnare
né imparare: ma solamente contendere et oppugnar il vero.
Smitho. — Mi occorre un scrupolo circa quel ch'avete detto:
che essendo una innumerabil moltitudine di quei che presu-
meno di sapere, e se stimano degni d'essere costantemente uditi,
- come vedete che per tutto le università et academie so'^°
piene di questi Aristarchi ^i, che non cederebbono un zero a l'al-
titonante Giove, sotto i quali quei che studiano non aranno al
fine guadagnato altro, che esser promossi da non sapere (che è
una privazione de la verità) a pensarsi e credersi di sapere, che
è una pazzia et abito di falsità; vedi dumque che cosa han gua-
dagnato questi uditori: tolti da la ignoranza di semplice nega-
zione, son messi in quella di mala disposizione, come la dicono,
— ora chi me farà sicuro, che facendo io tanto dispendio di
tempo e di fatica, e d'occasione di meglior studi et occupazioni, [67]
79. Efettici, dal greco ècpextixoi, «coloro i quali praticano la sospensione del
giudizio». Si tratta dei discepoli di Pirrone di Elide {365?-275? a. C). Si veda la
Cabala cit, pp. 468-470.
80. Sd per «sono» è una forma di prima persona al singolare e di terza
persona al plurale, diffusa nell'italiano antico e nel napoletano.
81. Aristarco di Samotracia, il grammatico greco del II secolo a. C. reso
celebre dai suoi lavori critici su Omero e ritenuto autore del «canone alessan-
drino». Agli occhi di Cicerone (Ad Atl, I, 14, 3) o di Orazio (Ars poet, 450) egli
rappresentava il critico par excellence. Su di lui, cfr. R. Pfeiffer, History of
Classical Scholarship. Front the Beginnings to the End of the Hellenistic Age,
Oxford, 1968, pp. 210-233.
464 LA CENA DE LE CENERI
non mi avvenga quel ch'a la massima parte suole accadere: che
in luogo d'aver comprata la dottrina, non m'abbi infettata la
mente di pemiziose pazzie? Come io che non so nulla potrò co-
noscere la differenza de dignità et indignità, de la povertà e ric-
chezza, di que' che si stimano e son stimati savi? Vedo bene che
tutti nascemo ignoranti, credemo facilmente d'essere ignoranti,
crescemo e siamo allevati co la disciplina et consuetudine di
nostra casa: e non meno noi udiamo biasimare le leggi, gli riti,
le fede e gli costumi de nostri adversarii et alieni da noi, che
quelli de noi e di cose nostre. Non meno in noi si piantano per
forza di certa naturale nutritura le radici del zelo di cose nostre,
che in quelli altri molti e diversi de le sue. Quindi facilmente
ha possuto porsi in consuetudine, che i nostri stimino far un
sacrificio a gli dèi, quando arranno oppressi, uccisi, debellati e
sassinati gli nemici de la fé nostra: non meno che quelli altri
tutti quando arran fatto il simile a noi. E non con minor fer-
vore e persuasione di certezza quelli ringraziano Idio d'aver
quel lume per il quale si prometteno etema vita, che noi ren-
diamo grazie di non essere in quella cecità e tenebre ch'essi
sono. A queste persuasioni di religione e fede, s'aggiongono le
persuasioni de scienze. Io o per elezzione di quei che me gover-
naro, padri e pedagogi, o per mio capriccio e fantasia, o per
fama d'un dottore, non men con satisfazzione de l'animo mio
mi stimare aver guadagnato sotto l'arrogante e fortunata igno-
ranza d'un cavallo, che qualsivoglia altro sotto un meno igno-
rante o pur dotto. Non sai quanta forza abbia la consuetudine
[69] di credere, et esser nodrito da fanciullezza in certe persuasioni,
ad impedirne da l'intelligenza de cose manifestissime? non al-
trimente ch'accader suole a quei che sono avezzati a mangiar ve-
leno, la complession de quali al fine non solamente non ne sente
oltraggio, ma ancora se l'ha convertito in nutrimento naturale: di
sorte che l'antidoto istesso gli è dovenuto mortifero. Or dimmi:
con quale arte ti conciliarai queste orecchie più tosto tu ch'un
altro, essendo che ne l'animo di quello è forse meno inclinazione
ad attendere le tue proposizioni, che quelle di mill'altri diverse?
Teofilo. — Questo è dono de gli dèi, se ti guidano e dispen-
sano le sorte da farte venir a l'incontro un uomo che non tanto
abbia l'esistimazion di vera guida, quanto in verità sii tale, et
DIALOGO PRIMO 465
illuminano l'interno tuo spirto al far elezzione de quel ch'è me-
gliore.
Smitho. — Però comunemente si va appresso al giudizio co-
mone, a fin che se si fa errore, quello non sarà senza gran favore
e compagnia.
Teofilo. - Pensiero indegnissimo d'un uomo: per questo gli
uomini savii e divini son assai pochi; e la volontà di dèi è que-
sta, atteso che non è stimato né prezioso quel tanto ch'è comone
e generale.
Smitho. — Credo bene che la verità è conosciuta da pochi, e
le cose preggiate son possedute da pochissimi: ma mi confonde
che molte cose son poche, tra pochi, e forse appresso un solo,
che non denno esser stimate, non vaglion nulla, e possono esser
maggior pazzie e vizii.
Teofilo. — Bene, ma in fine è più sicuro cercar il vero e
conveniente fuor de la moltitudine: perché questa mai apportò [71]
cosa preziosa e degna; e sempre tra pochi si trovomo le cose di
perfezzione e preggio; le quali, se fusser sole ad esser rare et ap-
presso rari, ogn'uno, ben che non le sapesse ritrovare, al meno
le potrebbe conoscere: e cossi non sarebbono tanto preziose per
via di cognizione, ma di possessione solamente.
Smitho. — Lasciamo dumque questi discorsi, e stiamo un
poco ad udire et osservare i pensieri del Nolano. È pure assai
che sin ora s'abbia conciliato tanta fede, ch'è stimato degno
d'essere udito.
Teofilo. — A lui basta ben questo. Or attendete quanto la sua
filosofia sii forte a conservarsi, defendersi, scuoprir la vanità, e
far aperte le fallacie de sofisti e cecità del volgo e volgar filosofia.
Smitho. — A questo fine (per esser ora notte) tomaremo do-
mani qua a l'ora medesma, e faremo considerazione sopra gli
rancontri e dottrina del Nolano.
Prudenzio. — Sat prata biberunt: nam iam nox humida cacio
praecipitat^^ .
Fine del primo dialogo [73]
82. La citazione fonde versi da due opere di Virgilio, Bue, III, iii («Sat
prata biberunt»: «abbastanza i prati han bevuto») ed Aen., II, 8-9 («[Nam] iam
nox humida caelo / praecipitat»: «[infatti] già la notte umida dal cielo preci-
pita»). Cfr. Virgilio, Opere, a cura di C. Carena, Torino, 1971, pp. 97 e 337.
DIALOGO SECONDO
Teofilo. - All'ora gli disse il signor Folco Crivello ^: «Di
grazia, signor Nolano, fatemi intendere le raggioni per le quali
stimate la terra muoversi». A cui rispose, che lui non gli arebbe
possuto donar raggione alcuna, non conoscendo la sua capacità:
e non sapendo come potesse da lui essere inteso, temerebbe far
come quei che dicono le sue raggioni a le statue et andane a
parlare co gli morti. Per tanto gli piaccia prima farsi conoscere
con proponere quelle raggioni, che gli persuadeno il contrario:
per che secondo il lume e forza de l'ingegno che lui dimostrarà
apportando quelle, gli potranno esser date risoluzioni. Aggiunse
a questo, che per desiderio che tiene di mostrar la imbecillità di
contrari pareri per i medesmi principii co quali pensano esser
conlìrmati, se gli farebbe non mediocre piacere di ritrovar per-
sone, le quali fussero giudicate sufficiente a questa impresa; e
lui sarebbe sempre apparecchiato e pronto al rispondere; con
questo modo si potesse veder la virtù de fondamenti di questa
sua filosofia contra la volgare, tanto megliormente, quanto mag-
gior occasione gli verrebe presentata di rispondere e dechiarare.
Molto piacque al signor Folco questa risposta; disse: «Voi mi
[75] fate gratissimo officio; accetto la vostra proposta, e voglio deter-
minare un giorno, nel quale ve si opporranno persone, che forse
non vi faran mancar materia di produr le vostre cose in campo.
Mercoldì ad otto giorni che sarà de le ceneri 2, sarete convitato
con molti gentil'omini e dotti personaggi, a fin che dopo man-
giare si faccia discussione di belle e varie cose; «Vi prometto»
1. Il dialogo è ambientato, adesso, a casa di Greville.
2. Il 15 febbraio 1584. Per la cronologia della Cena (in funzione del calen-
dario gregoriano e di quello giuliano, in uso in Inghilterra fino al XVIII seco-
lo), cfr. J. BossY, G. Bruno e il mistero dell'ambasciata, traduz. di L. Salerno,
Milano, 1992, pp. 13-14 e 132-133.
DIALOGO SECONDO 467
disse il Nolano, «ch'io non mancarò d'esser presente all'ora e
tutte volte che si presentare simile occasione: per che non è
gran cosa sotto la mia elezzione, che mi ritarde dal studio di
voler intendere e sapere. Ma vi priego che non mi fate venir
innanzi persone ignobili, mal create e poco intendenti in simile
speculazioni» (e certo ebbe raggione di dubitare, per che molti
dottori di questa patria co i quali ha raggionato di lettere, ha
trovato nel modo di procedere aver più del bifolco, che d'altro
che si potesse desiderare). Rispose il signor Folco, che non du-
bitasse, perché quelli che lui propone, son morigeratissimi e
dottissimi. Cossi fu conchiuso. Or essendo venuto il giorno de-
terminato — aggiutatemi Muse a racontare — ...
Prudenzio. — Apostrophe, pathos, invocatio poetarum more^.
Smitho. — Ascoltate, vi priego, maestro Prudenzio.
Prudenzio. - Lubentissime-^.
Teofilo. - ... il Nolano avendo aspettato sin dopo pranso, e
non avendo nuova alcuna, stimò quello gentil'uomo per altre
occupazioni aver posto in oblio, o men possuto proveder al ne-
gocio: e sciolto da quel pensiero, andò a rimenarsi, e visitar al-
cuni amici italiani; e ritornando al tardi dopo il tramontar del
sole... [77]
Prudenzio. - Già il rutilante Febo avendo volto al nostro
emisfero il tergo, con il radiante capo ad illustrar gli antipodi
sen giva^.
Frulla. — Di grazia, magister, raccontate voi, per che il vo-
stro modo di recitare mi sodisfa mirabilmente.
Prudenzio. — Oh s'io sapesse l'istoria.
Frulla. — Or tacete dumque in nome del vostro diavolo.
Teofilo. - ... la sera al tardi gionto a casa, ritrova avanti la
porta messer Florio e maestro Guin'^% i quali s'erano molto tra-
3. «Apostrofe, pathos, invocazione alla maniera dei poeti».
4. «Assai volentieri».
5. Si ricordi il modo di parlare del pedante Mamfurio, in Candelaio, II, 6.
6. John Florio (1553-1625), nato da padre toscano a Londra, città dove si
era consacrato all'insegnamento dell'italiano. Ha pubblicato alcuni manuali
per l'apprendimento della lingua, dei dizionari (A Worlde of Wordes nel 1598 e
A New World of Words, nel 1611) e la già menzionata traduzione degli Essais di
Montaigne (con un'epistola dedicatoria che dimostra la sua amicizia per il gal-
lese Matthew Gwinne). Nel 1581, egli era al Magdalen College di Oxford; nel
1584, al momento della pubblicazione della Cena, era precettore della figlia
dell'ambasciatore francese Michel de Castelnau, che l'ospitava. Sulla vita e
468 LA CENA DE LE CENERI
vagliati in cercarlo; e quando il veddero venire: «O di grazia»
dissero, «presto senza dimora andiamo, che vi aspettano tanti
cavallieri, gentil'omini e dottori, e tra gli altri ve n'è un di
quelli ch'hanno a disputare, il quale è di vostro cognome»^;
«Noi dumque» disse il Nolano, «non ne potremo far male: sin
adesso una cosa m'è venuta in fallo, ch'io sperava di far questo
negocio a lume di sole: e veggio che si disputare a lume di can-
dela». Iscusò maestro Guin per alcuni cavallieri, che desidera-
vano esser presenti, «non han possuto essere al desinare, e son
venuti a la cena». «Orsù» disse il Nolano, «andiamo e pre-
ghiamo Dio che ne faccia accompagnare in questa sera oscura,
a sì lungo camino, per sì poco sicure strade». - Or benché fus-
semo ne la strada diritta*', pensando di far meglio, per accortar
il camino, divertimmo verso il fiume Tamesi'^ per ritrovar un
battello 1°, che ne conducesse verso il Palazzo '^ Giunsemo al
ponte de palazzo del milord Beuckhurst^^: e quinci Gridando e
[79] chiamando «oares», idest gondolieri, passammo tanto tempo,
quanto arrebe bastato a bell'agio di condurne per terra al loco
l'opera di Florio, cfr. F. A. Yates. The Life of an Italian in Shakespeare's En-
gland, Cambridge, 1934; S. Policardi, /. Florio e le relazioni culturali anglo-ita-
liane agli albori del XVII secolo, Venezia. 1947; D. O'Connor, /. Florio's Contri-
bntion io Italian-English Lexicography, «Italica» [New York], XLI, 1972, pp. 49-
67; L. Gallesi, Nota introduttiva a J. Florio, Giardino di Ricreazione, Milano,
1993, pp. 9-35. - Matthew Gwinne (i558?-i627), medico, poeta e filosofo amico
di Florio. Su di lui, cfr. V Introduction di A. Cizek a M. Gwinne, Vertumnus sive
annus recurrens, New York. 1983.
7. Probabilmente un non meglio identificato «Brown» (equivalente inglese
di Bruno).
8. Lo Strand, che correva parallelo al Tamigi e conduceva direttamente da
Tempie Bar (che delimitava il territorio tra la City di Londra e la City di
Westminster) a Charing Cross, da dove ci si portava a Withehall, sede della
Corte. Nella sua qualità di scudiero della regina, Fulke Greville vi aveva suoi
appartamenti, anche se la sua residenza personale era situata in un altro quar-
tiere della città.
9. Svoltarono evidentemente a sinistra, lungo una delle stradine che colle-
gavano lo Strand con il Tamigi.
10. Le vie fluviali erano assai utilizzate nella Londra del XVI secolo.
11. Il palazzo reale di Withehall.
12. Thomas Sackville. Lord Buckhurst (1536-1608), personaggio impiortante
nella vita culturale e politica inglese. Cfr. P. Bacquet, Un contemporain d'Eli-
zabeth I: Thomas Sackville. L'homme et l'oeuvre, Genève. 1966 e N. Berlin,
T Sackville, New York, 1974. My Lord era il titolo accordato ai cadetti delle
famiglie nobili inglesi (cfr. G. Rando, Voci inglesi nelle «Relazioni» cinquecente-
sche degli ambasciatori veneti in Inghilterra, «Lingua nostra» (Firenze), XXXI,
1970, p. 108); ma dal XVI secolo. Francesi ed Italiani usavano il termine per
indicare i gentiluomini inglesi in generale.
DIALOGO SECONDO 469
determinato, et avere spedito ancora qualche piccolo negozio.
Risposero al fine da lungi dui barcaroli; e pian pianino, come
venessero ad appiccarsi, giunsero a la riva: dove dopo molte in-
terrogazioni e risposte del d'onde, dove, e perché, e come, e
quanto, approssimomo la proda a l'ultimo scalino del ponte; et
ecco, di dui che v'erano, un che pareva il nocchier antico del
tartareo regno, porse la mano al Nolano; et un altro che penso
ch'era il figlio di quello, benché fusse uomo de sessantacinque
anni in circa, accolse noi altri appresso: et ecco che senza che
qui fusse entrato un Ercole, un Enea, o ver un re di Sarza Ro-
domonte i^,
gemuti sub pondere cimba
sutilis, et multam accepit limosa paludem^'^.
Udendo questa musica il Nolano: «Piaccia a Dio» disse, «che
questo non sii Caronte: credo che questa è quella barca chia-
mata l'emula de la lux perpetua^^; questa può sicuramente com-
petere in antiquità co l'arca di Noè: e per mia fé, per certo par
una de le reliquie del diluvio». Le parti di questa barca ti re-
spondevano ovomque la toccassi, e per ogni minimo moto ri-
suonavano per tutto. «Or credo» disse il Nolano, «non esser
favola che le muraglia (si ben mi ricordo) di Tebe erano
vocali, e che talvolta cantavano a raggion di musica'"^: si noi
credete, ascoltate gli accenti di questa barca; che ne sembra
tanti pifferi con que' fischi, che fanno udir le onde quando
13. Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, XLVI, 105, 3 e XXVIII, 85-91.
14. Virgilio, Aen., VI, 412-413, traduz. in Opere, a cura di C. Carena, To-
rino, 1971, p. 551: «Gemettero sotto il peso le connessure del guscio e molto
imbarcò, per le fessure, di fango» (da notare al v. 2 la variante limosa per n-
mosa). Come ha osservato M. A. Granada nella sua traduzione della Cena (Ma-
drid, 1994^, p. 85, nota 6), sotto l'effetto delle ripetute citazioni del Libro VI
deìVEneide, la spedizione del Nolano finisce per rassomigliare alla discesa di
Enea agli Inferi.
15. Allusione all'O^iMW defunctorum: i cristiani raggiungono l'aldilà ac-
compagnati dal Requiem, nello stesso modo in cui i defunti pagani erano cari-
cati sulla barca di Caronte.
16. Secondo la leggenda, Amfione avrebbe edificato le mura di Tebe suo-
nando la lira, ed esse avrebbero mantenuto una certa virtù musicale (cfr. Sta-
zio, Thebaidos, I, 9-10).
470 LA CENA DE LE CENERI
entrano per le sue fessure e rime d'ogni canto». Noi rìsemo.
[8ij ma Dio sa come:
... Annibal quand'a Timperio afflitto
vedde farsi fortuna sì molesta,
rise tra gente lacrimosa e mesta'".
Prudenzio. - Risus sardonicus^^.
Teofilo. - Noi invitati sì da quella dolce armonia, come da
amor gli sdegni, i tempi e le staggioni, accompagnammo i suoni
con i canti. Messer Florio (come ricordandosi de suoi amori)
cantava il «Dove senza me dolce mia vita»'^. Il Nolano ripi-
gliava: «Il saracin dolente, o femenil ingegno »^°, e va discor-
rendo. Cossi a poco a poco, per quanto ne permettea la barca:
che (benché da le farle et il tempo fusse ridutta a tale ch'arrebe
possuto servir per subero) parca col suo festina lente^^ tutta di
piombo, e le braccia di que' dua vecchi, rotte; i quali benché col
rimenar de la persona mostrassero la misura lunga, nuUadi-
meno co i remi faceano i passi corti.
Prudenzio. — Optinie discriptum^- illud «festina», con il dorso
frettoloso di marinali; «lente», col profitto de remi: qual mali
operarii del dio de gli orti.
Teofilo. — A questo modo avanzando molto di tempo e
poco di camino, non avendo già fatta la terza parte del viaggio,
poco oltre il loco che si chiama «il Tempio »^\ ecco che i nostri
patrini, in vece d'affrettarsi, accostano la proda verso il lido.
Dimanda il Nolano: «Che voglion far costoro? voglion forse ri-
17. F. Petr.\rc.\, sonetto Cesare, poi ch'el traditor d'Egitto (Canzoniere, CU),
w. 5-7.
18. «Riso sardonico» (per il quale cfr. Erasmo da Rotterdam, Adagia, III,
5>i)-
19. Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso. Vili, 76, 1-2 («Deh! dove senza me,
dolce mia vita, / Rimassa sei sì giovane e sì bella?»).
20. Ivi. XXVII, 117, 1-2 («Di cocenti sospir l'aria accendea / Dovunque an-
dava il Saracin dolente») e 5-6 («Oh feminile ingegno, egli dicea, / Come ti
volgi e muti facilmente»). Si era soliti, nel XVI secolo, cantare i versi dei poeti
più popolari.
21. Festina lente. «Affrettati con calma»; traduzione latina di 'Ejteùòe
PpcóÉcoc! motto caro ad Augusto (cfr. Svetonio, De vita Caesarum, II, 25). È il
primo degli Adagia di Erasmo (II, 2, i); celeberrimo, dal momento che Aldo
Manuzio Taveva scelto come marca tipografica.
22. «Ottima descrizione».
23. Perché era stata la sede dei Templari, a Fleet Street
DIALOGO SECONDO 4/1
prendere un po' di fiato?»; e gli venne interpretato ^^ che quei
non erano per passar oltre: perché quivi era la lor stanza. Priega
e ripriega, ma tanto peggio: per che questa è una specie de ru-
stici, nel petto de quali spunta tutti i sui strali il dio d'amor del
popolo villano25_ [83]
Prudenzio. — Principio omni rusticorum generi, hoc est a na-
tura tributum, ut nihil virtutis amore faciant; et vix quicquam for-
midine poenae^'\
Frulla. - È un altro proverbio anco in proposito di ciasche-
dun villano:
Rogatus tumet,
pulsatus rogai,
pugnis concisus adorai^''.
Teofilo. — In conclusione, ne gittarono là; et dopo pagategli
e resegli le grazie (per che in questo loco non si può far altro,
quando se riceve un torto da simil canaglia), ne mostromo il
diritto camino per uscire a la strada. — Or qua te voglio dolce
Maf elina, che sei la musa di Merlin Cocaio^». - Questo era un
camino che cominciò da una buazza^^ la quale né per ordina-
rio, né per fortuna, avea divertiglio. Il Nolano il quale ha stu-
diato et ha pratticato ne le scuole più che noi, disse: «Mi par
veder un porco passaggio, però seguitate a me»; et ecco non
avea finito quel dire, che vien piantato lui in quella fanga di
sorte che non possea ritrame fuora le gambe; e cossi aggiutando
24. Come apprenderemo dalle prime battute del Dialogo terzo, il Nolano
non capisce l'inglese, benché si trovi nell'isola da un anno.
25. V'era tutta una letteratura satirica che attaccava i villani. Cfr. gli
esempi raccolti da E. Sereni, La satira contro il villano, in: Storia d'Italia, To-
rino, voi. I, 1972, pp. 193-196.
26. «La natura ha stabilito in principio che i villani di ogni genere nulla
facciano per amore della virtù, e qualcosa appena per timore del castigo».
27. «Pregato si gonfia, / picchiato prega /colpito con pugni adora», mas-
sima tratta da Giovenale, Sat., Ili, vv. 293 e 300 (cfr. inoltre J. Florio, Giar-
dino di Ricreazione cit., pp. 68 e 74).
28. Cfr. T. Folengo, Baldus, I, 14, ed. a cura di M. Chiesa, Torino, voi. I,
1997, pp. 68-69 (si veda la nota, loc. cit., «Cosa, Comina, Mafelina, Togna, Striax
sono, nell'ordine, le [muse] ispiratrici ognuna di un gruppo di cinque libri del
Baldus, invocate all'inizio della cinquina e congedate alla fine». Si veda, inol-
tre, ivi, XI, 16, pp. 484-485 e Vindice dei nomi, voi. Il, p. 1091).
29. Cfr. il francese bone. Secondo Gentile, «intese l'autore raffigurare in que-
sti pantani la scienza delle scuole del tempo, attraverso la quale anche a lui
era convenuto passare per raggiungere quella che da lui verrà esposta e difesa
in casa del Greville» (G. Bruno, Dialoghi italiani, Firenze, 1958^, p. 58, nota 2).
472 LA CENA DE LE CENERI
l'un l'altro, vi dammo per mezzo, sperando che questo purgato-
rio durasse poco: ma ecco che per sorte iniqua e dura, lui e noi,
noi e lui ne ritrovammo ingolfati dentro un limoso varco il
qual come fusse l'orto de la gelosia, o il giardin de le delizie, era
terminato quinci e quindi da buone muraglia; e perché non era
luce alcuna che ne guidasse, non sapeamo far differenza dal ca-
mino ch'aveam fatto e quello che doveam fare, sperando ad
ogni passo il fine: sempre spaccando il liquido limo, penetra-
tasi vamo sin alla misura delle ginocchia verso il profondo e tene-
broso avemo. Qua l'uno non possea dar conseglio a l'altro, non
sapevam che dire, ma con un muto silenzio chi sibilava per
rabbia, chi faceva un bisbiglio, chi sbruffava co le labbia, chi git-
tava un suspiro e si fermava un poco, chi sotto lengua bestemmia-
va; e per che gli occhi non ne serveano, i piedi faceano la scorta a
i piedi, un cieco era confuso in far più guida a l'altro ^°. Tanto che,
Qual uom che giace e piange lungamente
sul duro letto il pigro andar de l'ore,
or pietre, or carme, or polve, et or liquore
spera ch'uccida il grave mal che sente:
ma poi ch'a lungo andar vede il dolente
ch'ogni rimedio è vinto dal dolore,
desperando s'acqueta; e se ben more,
sdegna ch'a sua salute altro si tente^';
cossi noi dopo aver tentato e ritentato, e non vedendo rimedio
al nostro male, desperati, senza più studiar e beccarsi il cervello
in vano, risoluti ne andavamo a guazzo a guazzo per l'alto mar
di quella liquida bua, che col suo lento flusso andava del pro-
fondo Tamesi a le sponde...
Prudenzio. - O bella clausula.
Teofilo. — ... tolta ciascun di noi la risoluzione del tragico
cieco d'Epicuro:
Dov'il fatai destin, mia guida cieco,
lasciami andar e dove il pie mi porta;
né per pietà di me venir più meco.
30. Erasmo da Rotterdam, Adagia, I, 8, 40.
31. L. Tansillo, sonetto Qual uom che giace, e piange lungamente, w. 1-8.
DIALOGO SECONDO 473
Trovarò forse un fosso, un speco, un sasso
piatoso a traimi fuor di tanta guerra,
precipitando in loco cavo e basso ^2. [87]
Ma per la grazia de gli dèi (per che, come dice Aristotele, non
datur infinitum in actu)^^, senza incorrer peggior male, ne ritro-
vammo al fine ad un pantano: il quale benché ancor lui fusse
avaro d'un poco di margine pe dame la strada, pure ne relevò
con trattarci più cortesemente, non inceppando oltre i nostri
piedi; sin tanto che (montando noi più alto per il sentiero) ne
rese a la cortesia d'una lava la quale da un canto lasciava un sì
petroso spazio per porre i piedi in secco, che passo passo ne fé'
cespitar come ubriachi, non senza pericolo di romperne qualche
testa o gamba.
Prudenzio. — Condusio, conclusio^'*.
Teofilo. - In conclusione, tandem laeta arva tenemus^^: ne
parve essere a i campi Elisii, essendo arrivati a la grande et
ordinaria strada ^^; e quivi da la forma del sito considerando
dove ne avesse condotti quel maladetto divertiglio, ecco che ne
ritrovammo poco più o meno di vintidui passi discosti da onde
eravamo partiti per ritrovar gli barcaroli, e vicino a la stanza
del Nolano^^. O varie dialettiche, o nodosi dubii, o importuni
sofismi, o cavillose capzioni, o scuri enigmi, o intricati laberinti,
o indiavolate sfinge risolvetevi, o fatevi risolvere:
In questo bivio, in questo dubbio passo,
che debo far? che debbo dir, ahi lasso? ^^
Da qua ne richiamava il nostro allogiamento: per che ne avea sì
32. M. A. Epicuro, Cecaria, terzine I e III (al verso i, la variante: mi guida,
ed all'ultimo verso la variante: oscuro e basso).
33. Aristotele, Phys. Auscultai, III, 5, 204 a 20: «Non si dà infinito in
atto».
34. «Conclusione! conclusione!».
35. «Alla fine nei lieti campi ci arrestiamo» (citazione approssimativa di
Virgilio, Aen., VI, 744, ed. Carena cit., pp. 568-569).
36. Lo Strand.
37. Nella vicina residenza dell'ambasciatore di Francia a Butcher Row op-
pure a Salisbury Court (cfr. Proemiale epistola, p. 440, nota 41).
38. Cfr. F. Petrarca, canzone Che debb'io far (Canzoniere, CCLXVIII).
474 LA CENA DE LE CENERI
fattamente imbottati ^'^ maestro Buazzo e maestro Pantano, ch'a
pena posseamo movere le gambe. Oltre, la regola de la odoman-
zia"*" e Tordinario de gli augurii importunamente ne conseglia-
[89] vano a non seguitar quel viaggio. Li astri per essemo"" tutti
ricoperti sotto l'oscuro e tenebroso manto, e lasciandoci l'aria
caliginoso, ne forzavano al ritomo. Il tempo ne dissuadeva l'an-
dar sì lungi avante, et essortava a tornar quel pochettino a die-
tro. Il loco vicino applaudeva benignamente. L'occasione la
quale con una mano ci avea risospinti sin qua, adesso con dui
più forti pulsi facea il maggior empito del mondo. La stan-
chezza al fine (non meno ch'una pietra dal intrinseco principio
e natura è mossa verso il centro) ne mostrava il medesmo ca-
mino, e ne fea inchinar verso la destra. Da l'altro canto ne chia-
mavano le tante fatiche, travagli e disaggi i quali sarrebono
stati spesi in vano; ma il vermine de la conscienza diceva: «Se
questo poco di camino n'ha costato tanto, che non è vinticin-
que passi, che sarà di tanta strada che ne resta? Meior es perdere,
che mas perdere»-^-. Da là ne invitava il desio comone ch'aveamo
di non defraudar la espettazione di que' cavallieri e nobili per-
sonaggi; dall'altro canto rispondeva il crudo rimorso, che quelli
non avendo avuto cura né pensiero di mandar cavallo o bat-
tello a gentil'uomini in questo tempo, ora et occasione, non fa-
rebbono ancora scrupolo del nostro non andare. Da là eravamo
accusati per poco cortesi al fine, o per uomini che van troppo
sul pontiglio, che misurano le cose da i meriti et uffici, e fan
professione più di ricever cortesia, che di fame: e come villani
et ignobili, voler più tosto esser vinti in quella, che vencere. Da
qua eravamo iscusati che dove è forza, non è raggione. Da là ne
attraea il particolar interesse del Nolano ch'avea promesso, e
che gli arrebono possuto attaccar a dosso un non so che. Oltre
[91] ch'ha lui gran desio che se gli offra occasione di veder costumi,
conoscere gl'ingegni, accorgersi, si sia possibile, di qualche nova
verità, confirmar il buono abito de la cognizione, accorgersi di
39. Imbottati: cfr. il francese «botte» e lo spagnolo «bota».
40. L'arte di divinare il cammino da seguire.
41. «Essemo» è forma d'infinito coniugato (cfr. stipra, p. 452. nota 51).
42. «È meglio perdere che perdere di più», proverbio spagnolo. Cfr. P. Are-
tino, Cortigiana, prima redazione, III, 7: «Disse lo Spagnolo che gli è meglio
perdere che masperdere» (ed. a cura di A. Romano, Milano, 1989, p. 115).
DIALOGO SECONDO 475
cosa che gli manca. Da qua èramo ritardati dal tedio comone, e
da non so che spirto che diceva certe raggioni più vere che de-
gne a referire. A chi tocca determinar questa contradizzione?
chi ha da trionfar di questo libero arbitrio? a chi consentisce la
raggione? che ha determinato il fato? Ecco questo fato, per
mezzo de la raggione, aprendo la porta de l'intelletto, si fa den-
tro, e comanda a l'elezzione, che ispedisca il consentimento di
continuar il viaggio: «0 passi graviora»-^^ ne vien detto, «o pu-
sillanimi, o leggieri, incostanti et uomini di poco spirto...».
Prudenzio. — Exaggeratio concinna-^^.
Teofilo. — «... non è, non è impossibile, benché sii diffìcile,
questa impresa; la difficoltà è quella ch'è ordinata a far star a
dietro gli poltroni. Le cose ordinarie e facili son per il volgo et
ordinaria gente. Gli uomini rari, eroichi e divini passano per
questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la neces-
sità a concedergli la palma de la immortalità. Giungesi a questo
che, quantumque non sia possibile arrivar al termine di guada-
gnar il palio: correte pure, e fate il vostro sforzo in una cosa de
sì fatta importanza, e resistete sin a l'ultimo spirto "^5. Non sol
chi vence vien lodato, ma anco chi non muore da codardo e
poltrone: questo rigetta la colpa de la sua perdita e morte in
dosso de la sorte, e mostra al mondo che non per suo difetto,
ma per torto di fortuna"*^ è gionto a termine tale. Non solo è
degno di onore quell'uno ch'ha meritato il palio: ma ancor [93]
quello e quel altro, ch'ha sì ben corso, ch'è giudicato anco de-
gno e sufficiente de l'aver meritato, ben che non l'abbia vinto; e
son vituperosi quelli ch'ai mezzo de la carriera desperati si fer-
mano, e non vanno (ancor che ultimi) a toccar il termine con
quella lena e vigor, che gli è possibile:
Vidi ego leda din et multo spedata labore
degenerare tanten, ni vis. Sic omnia fatis
in peius mere, ac retro sublata referri:
43. Virgilio, Aen., I, 199. ed. Carena cit., p. 303: «O voi che avete sofferto
[sventure] più gravi».
44. «Bella amplificazione retorica!».
45. Cfr. Ovidio, Pontica, III, 4, 79; G. Bruno, De monade, VII, Op. lai., l, 2, pp.
424-425 (traduz. in Opere latine, a cura di C. Monti, Torino, 1980, pp. 376-377).
46. Qui inizia il foglio D deWediiio princeps della Cena. Si veda V Appendi-
ce Il p. 579.
476 LA CENA DE LE CENERI
non aliter quam qui adverso vix flumine lembum
remigiis subigit, si brachia forte remisit
atqiie illum in preceps prono rapii alveus amne'^''.
Venca dumque la perseveranza: per che se la fatica è tanta, il
premio non sarà mediocre. Tutte cose preziose son poste nel dif-
ficile; stretta e spinosa è la via de la beatitudine; gran cosa forse
ne promette il cielo, per il che dice il poeta:
Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros: curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna vetertW^^.
Prudenzio. — Questo è un molto emfatico progresso, che
converrebe a una materia di più grande importanza.
Frulla. — È lecito, et è in potestà di principi, de essaltar le
cose basse: le quali se essi farran degne, saran giudicate degne, e
veramente saran degne; et in questo gli atti loro son più illustri
e notabili, che si aggrandissero i grandi; i quali non è cosa che
non credeno meritar per la sua grandezza, o vero che si mante-
[95] nessero i superiori ne la sua superiorità, i quali diranno quello
convenirgli non per grazia, cortesia e magnanimità di principe,
ma per giusticia e raggione. Or applica a proposito del discorso
del nostro Teofilo. Pure, maestro Prudenzio, se vi par ancor
aspro, distaccalo da questa materia, et attacalo ad un'altra.
Prudenzio. - Io non dissi altro, eccetto che il progresso pa-
rca molto emfatico per questa materia, che s'offre al presente.
Frulla. — Volevo io ancor dire che Teofilo par ch'abbia un
poco del Prudenzio: ma perdonategli, per che (come mi pare)
47. Virgilio, Georg., I, 197-203, ed. Carena cit, p. 165: «Io vidi semi selezio-
nati a lungo ed esaminati con molta cura però poi tralignare, se l'attività vi-
gorosa [dell'uomo ogni anno i più grossi via via non sceglieva]. Così tutto è
destino che in peggio precipiti e vacillando retroceda, al modo di chi a stento
contro la corrente una barca coi remi sospinge, se le braccia per caso allenta,
ma lui a precipizio nell'alveo travolge la rapida del fiume». Bruno ha intro-
dotto Ego nel primo verso e omesso nel secondo, tra «ni vis» e «Sic», le parole
«humana quotannis / maxima quaeque manu legeret».
48. Ivi I. 121-124, ed. cit, p. 161: «Il Padre lui stesso volle che non fosse
facile la coltivazione, e lui per prima con arte fece rinnovare i campi, con le
loro cure aguzzando gli ingegni umani, anziché lasciare che intorpidisse il suo
regno in pesante letargo».
DIALOGO SECONDO 477
questa vostra infirmità è contagiosa. E non dubitate, per che
Teofilo sa far de necessità vertù; e de infirmità cautela, preser-
vazione e sanità. Seguite, Teofìlo, il vostro discorso.
Prudenzio. - Ultra, domine-*"^.
Smitho. - Via su affrettiamoci a fin ch'il tempo non ci ve-
gna meno.
Teofìlo. — Or alza i vanni, Teofilo, e ponti in ordine, e sappi
ch'ai presente non s'offre occasione di apportar de le più alte
cose del mondo. Non hai qua materia di parlar di quel nume de
la terra, di quella singolare e rarissima dama, che da questo
freddo cielo, vicino a l'arctico parallelo, a tutto il terreste globo
rende sì chiaro lume: Elizabetta dico, che per titolo e dignità
regia, non è inferiore a qualsivoglia re, che sii nel mondo ^o. Per
il giodicio, saggezza, conseglio e governo, non è seconda a nes-
sun che porti scettro in terra. Ne la cognizione de le arti, notizia
de le scienze, intelligenza e prattica de tutte lingue, che da per-
sone popolari e dotte possono in Europa udirseli, senza contra-
dizzione alcuna è a tutti gli altri prencipi superiore; e trionfa- [97]
trice di tal sorte, che se l'imperio de la fortuna corrispondesse e
fusse agguagliato a l'imperio del generosissimo spirto et inge-
gno, sarebbe l'unica imperatrice di questa terreste sfera: e con
49. «Andate oltre, signore».
50. Per un giudizio e un elogio più approfonditi nei riguardi della regina,
cfr. De la causa, Dialogo primo, p. 643. Nel costituto veneto del 3 giugno 1592,
Bruno ammette di aver dato a Elisabetta il titolo di «diva», ma aggiunge che,
avendola conosciuta personalmente - poiché faceva parte del seguito dell'am-
basciatore francese e aveva dovuto recarsi spesso a Corte —, era tanto più ob-
bligato a uniformarsi all'usanza inglese che prescriveva di elogiare Elisabetta
(cfr. L. Firpo, // processo di G. Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma, 1993,
p. 189). Sul mito della regina Elisabetta, si vedano i saggi di F. A. Yates,
Queen Elizabeth as Asiraea (1947) e Allegorical Portraits of Queen Elizabeth I ai
Hatfield (1952), ora in Astraea. The Imperiai Theme in the Sixteenth Century, Lon-
don, 1975, pp. 39-104 e 251-255 (traduz. di E. Basaglia, Torino, 1978). Infatti,
come ha indicato la stessa Yates {La politica religiosa di G. Bruno, traduz. in G.
Bruno e la cultura europea del Rinascimento, introd. di E. Garin, Roma-Bari,
1988, pp. 42-43), il protestantesimo moderato di Elisabetta ed il cattolicesimo
moderato di Enrico III hanno probabilmente condotto Bruno a concepire la
possibilità di un avvicinamento fra le due nazioni (Scozia e Navarra compre-
se), in vista di una distensione politico-religiosa in Europa.
51. Era noto che Elisabetta parlava italiano, ed anche assai bene; collo-
quiando con italiani, non utilizzava altra lingua. Cfr. la Relazione d'Inghilterra
(1554) dell'ambasciatore veneziano Giacomo Soranzo, in: Relazioni degli amba-
sciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto, raccolte ed illustrate da
E. Alberi, s. I, Firenze, voi. Ili, 1853, p. 43, nonché Ambasciatori veneti in Inghil-
terra, a cura di L. Firpo, Torino, 1978, p. 74 (Giovan Carlo Scaramelli al doge
Marino Grimani, Londra, 19 febbraio 1603).
478 LA CENA DE LE CENERI
più piena significazione quella sua divina mano sustentarebbe
il globo di questa universale monarchia. — Non hai materia di
parlar di quell'animo tanto eroico, che già vinticinque anni e
più 52^ col cenno de gli occhi sui, nel centro de le borasche d'un
mare d'adversità, ha fatto trionfar la pace e la quiete; mantenu-
tasi salda in mezzo di tanto gagliardi flutti e tumide onde di sì
varie tempeste: co le quali a tutta possa gli ha fatto empito que-
sto orgoglioso e pazzo Oceano, che da tutti contomi la circonda.
Non hai qua materia di far discorso di colei, la quale se volessi
assomigliar a regina di memoria di passati tempi, profanareste
la dignità del suo essere singolare e sola; perché di gran lunga
avanza tutte: altre in grandezza de l'autorità, altre ne la perse-
veranza del lungo, intiero e non ancora abbreviato governo;
tutte poi ne la sobrietà, pudicizia^^, ingegno e cognizione; tutte
ne l'ospitalità e cortesia, co la quale accoglie ogni sorte di fo-
rastiero, che non si rende al tutto incapace di grazia e favore.
- Non te si offre occasione di parlar de la generosissima uma-
nità de l'illustrissimo monsignor conte Roberto Dudleo, conte
di Licestra'-* etc, tanto conosciuta dal mondo, nominata in-
sieme con la fama del regno e la regina d'Inghilterra ne' circo-
stanti regni; tanto predicata da i cuori di generosi spirti italiani
quali specialmente da lui con particolar favore (accompagnan-
[99] do quello de la sua signora) 5' son stati e son sempre accarezzati.
52. Elisabetta successe alla sorella Maria il 17 novembre 1558 e fu incoro-
nata il 1° gennaio 1559. La Cena fu composta dopo il 15 febbraio 1584.
53. Cfr. negli Eroici furori. V Argomento e Vlscusazion del Nolano alle più vir-
tuose e leggiadre dame, pp. 499 e 524, dove Bruno difende implicitamente la
regina dalle correnti accuse di avarizia e di lussuria.
54. Robert Dudley (1532-1588). Earl of Leicester, favorito della regina, can-
celliere deirUniversità di Oxford, rappresentante della corrente puritana a
Corte. a\'versario del protestantesimo moderato di William Cecil, Lord Bui^h-
ley, il cui nome è scomparso nella seconda redazione del Dialogo secondo della
Cena, al pari di certe pointes antipuritane (per esempio, contro il rito eucari-
stico tipico della Low Church: cfr. Appendice II. p. 588). Gli è che nel frattempo
Bruno ha conosciuto Leicester e conta sui puritani per sostenere le proprie
teorie (illusione di corta durata, come provano la ripresa dei suoi attacchi an-
tiprotestajiti nello Spaccio ed una sprezzante allusione a Leicester nello stesso
dialogo). Cfr. M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di G. Bruno.
Roma, 1992^, p. 50; G. Aquilecchia, Tre schede su Bruno e Oxford. «Giornale
critico della filosofìa italiana» (Firenze], LXXIL 1993, pp. 376-393; Io., Bruno
at Oxford between Aristotle and Copernicus, in: Giordano Bruno 1583-1585. The
English Experience/L esperienza inglese. Firenze, 1997. pp. 1 17-124.
55. Lettice KnoUis, contessa di Essex, seconda moglie di Leicester (una
volta che questi ebbe messo da parte ogni speranza di sposare la regina).
DIALOGO SECONDO 479
Questo insieme co l'eccellentissimo signor Francesco Walsinga-
me56, gran secretano del regio Conseglio, come quelli che sie-
deno vicini al sole del regio splendore, con la luce de la lor gran
nobiltade son sufficienti a spengere et annullar l'oscurità: e con
il caldo de l'amorevol cortisia disrozzir e purgare qualsivoglia
rudezza e rusticità, che ritrovar si possa non solo tra Brittanni,
ma anco tra Sciti, Arabi, Tartari, Canibali et Antropofagi. Non
ti viene a proposito di referire l'onesta conversazione, civilità e
buona creanza di molti cavallieri e molto nobili personaggi in-
ghilesi, tra quali è tanto conosciuto, et a noi particolarissima-
mente, per fama prima, quando eravamo in Milano ^^ et in
Francia^s, e poi per esperienza, or che siamo ne la sua patria,
manifesto, il molto illustre et eccellente cavalliero, signor Fil-
lippo Sidneo^^: di cui il tersissimo ingegno (oltre i lodatissimi
costumi) è sì raro e singolare, che difficilmente tra singolaris-
simi e rarissimi, tanto fuori quanto dentro Italia, ne trovarete
un simile. — Tolto ne è a fatto materia di lode; ma importunis-
simamente, a dispetto del mondo ne viene a proposito una
plebe, la quale in esser plebe non è inferiore a plebe alcuna, che
pasca nel suo seno la pur troppo prodiga terra: perché questa
veramente dà saggio di plebe de tutte le plebe che io possa aver
sin ora conosciute irrevente, irrespettevole, di nulla civilità,
male allevate. Quando vede un forastiero, sembra (per dio) tanti
lupi, tanti orsi: e con il suo torvo aspetto gli fanno quel viso,
56. Sir Francis Walsingham (i532?-i59o), primo segretario della regina dal
1573, era, con il Lord tesoriere Burghley, il più alto responsabile dell'ammini-
strazione del regno: era incaricato dello spionaggio ed è lui che, il 28 marzo
1583, l'ambasciatore di Francia Henry Cobham informa dell'arrivo imminente
di Bruno in Inghilterra, pronunciando riserve sulla «religion» del soggetto (cfr.
O. Elton, Modem Studies, London, 1907, p. 334; G. Aquilecchia, «La cena de
le ceneri», in: Letteratura italiana. Le opere, Torino, voi. O, 1993, p. 665). Man-
cando totalmente di prove documentarie, appare infondata la congettura di
J. BossY, G. Bruno e il mistero dell'ambasciata cit., pp. 203-204 e passim, secondo
cui Bruno avrebbe agito come spia di Walsingham presso Castelnau.
57. È l'unico accenno mai fatto da Bruno a un suo soggiorno a Milano
(avvenuto probabilmente nel 1578).
58. Bruno ha vissuto a Lione (settembre-ottobre 1579). ^ Tolosa e poi a
Parigi (autunno 1581-marzo 1583). Cfr. L. Firpo, // processo cit, p. 161.
59. Celebre poeta e critico inglese (1554-1586), autore di un'Arcadia e di The
Defence of Poesie, pubblicata nel 1595 (ed. it. a cura di G. Del Re e A. R. Parrà,
Pisa, 1997), nipote di Dudley, genero di Walsingham e amico di F. Greville,
che sarebbe diventato suo biografo. Tra il 1572 e il 1575, aveva risieduto in
continente (segnatamente, in Francia ed in Italia, dalla fine del 1573 al luglio
1574). Bruno gli ha dedicato lo Spaccio e gli Eroici furori.
480 LA CENA DE LE CENERI
che saprebbe far un porco ad un che venesse a torgli il tino
d'avanti '^°. Questa ignobilissima plebe, per quanto appartiene al
proposito, è divisa in due parti...
Prudenzio. - Omnis divisto debet esse himembris, vel reducibi-
lis ad bimembrem^K
Teofilo. - ... de quali l'una è de arteggiani e bottegari, i
quali conoscendoti in qualche foggia forastiero, ti torceno il
musso, ti ridono, ti ghignano, ti petteggiano co la bocca, ti chia-
mano in suo lenguaggio «cane», «traditore», «strangiero»: e
questo appresso loro è un titolo ingiuriosissimo, e che rende il
supposito capace ad ricevere tutti i torti del mondo, sii pur
quantosivoglia uomo giovane o vecchio, togato o armato, nobile
o gentil uomo ''2. Al che son mossi dal desio di aver occasione di
far a questione con un forastiero: et in questo le assicura che
non come in Italia, s'avviene ch'un rompa il capo ad un de
simil canaglia, si staranno tutti ad vedere se per sorte viene
qualche zaffo ufficiale ch'il prenda; e se pur è alcuno che si
muova, lo fa per dividere et appacare, aggiutare l'impotente, e
prendere specialmente la causa d'un forastiero: e nisciuno che
non è ufficiai di corte, o ministro de la giustizia id est birro,
have ardire né autorità di por mano sopra il delinquente; e se
pur quello non sarà potente a prenderlo, si vergognarà ogn'uno
di aggiutarlo in simile ufficio: e cossi il birro, e tal volta i birri,
60. La xenofobia dei londinesi è confermata da molteplici testimonianze
d'epoca; a metà Cinquecento, gli artigiani stranieri costituivano ancora un
terzo della popolazione cittadina, ma dovevano scontrarsi con una borghesia
locale in rapida espansione. Cfr. H. KOHN, The Genesis and Character of English
Nationalism, «Journal of the History of Ideas» [New York-Lancaster Pa], I,
1940, p. 73.
61. «Ogni divisione dev'essere un raddoppiamento o deve potersi ridurre a
un raddoppiamento». Allusione al principio delle divisioni dicotomiche della
logica di Pierre de la Ramée, logica che, all'epoca, si stava diffondendo in tutte
le università inglesi (cfr. M. Feingold, The Mathematicians' Apprendiceship.
Science, Universities and Society in England, 1560-1640, Cambridge, 1984, pas-
sim; G. Oldrini, Le particolarità del ramismo inglese, «Rinascimento» [Firenze],
s. II, XXV, 1985, pp. 19-80; G. Aquilecchia, Ramo, Patrizi e Telesio nella pro-
spettiva di G. Bruno, ora in Id., Schede bruniane, Manziana (Roma), 1993, pp.
293-302; M. FiNTONi, Mnemosine: dal «Sigillus sigillorum» ai «Dialoghi italiani»,
in: Giordano Bruno 1583-1585. The English Experience cit., pp. 23-35).
62. Cfr. G. SORANZO, Relazione d'Inghilterra cit, p. 52: «Li nobili per loro
natura sono molto cortesi, e massime colli forestieri, ma i popoli sono super-
bissimi ed inimicissimi coi forestieri, parendo loro che quella utilità che ca-
vano li mercanti di fuori del regno sia loro tolta, e immaginando che senza il
commercio di altri da per loro potrebbero vivere».
DIALOGO SECONDO 40I
perdeno la caccia. Ma qua se per mala sorte ti vien fatto, che
prendi occasione di toccarne uno, o porre mano a l'armi, ecco
in un punto ti vedrai, quanto è lunga la strada, in mezzo d'uno
esercito di coteconi i quali, più di repente che (come fingono i
poeti) ^^ da' denti del drago seminati da lasone risorsero tanti
uomini armati, par che sbuchino da la terra: ma certissima-
mente sorteno da le botteghe; e facendo una onoratissima e gen-
tilissima prospettiva de una selva de bastoni, di pertiche lun- [103]
ghe, alebarde, partesane e forche rugginenti, le quali per queste
e simile occasioni han sempre apparecchiate e pronte: benché a
meglior uso gli siino state concesse dal prencipe. Cossi con una
rustica furia te le vedrai avventar sopra, senza guardare a chi,
perché, dove e come, senza ch'un se ne referisca a l'altro:
ogn'uno sfogando quel sdegno naturale ch'ha contra il fora-
stiero, ti verrà di sua propria mano (se non sarà impedito da la
calca de gli altri che poneno in effetto simil pensiero) e con la
sua propria verga a prendere la misura del saio; e se non sarai
cauto, a saldarti ancora il cappello in testa. E se per caso vi
fusse presente qualch'uomo da bene o gentil'uomo, al quale si-
mil villania dispiaccia, quello (ancor che fusse il conte o il
duca) dubitando con suo danno, senza tuo profitto, d'esserti
compagno (per che questi non hanno rispetto a persona, quan-
do si veggono in questa foggia armati), sarà forzato a rodersi
dentro et aspettar, stando discosto, il fine. Or al tandem^ quan-
do pensi che ti sii lecito d'andar a trovar il barbiere''', e riposar
il stanco e mal trattato busto, ecco che trovarai quelli medesmi
esser tanti birri e zaffi, i quali se potran fengere che tu abbi
tocco alcuno, potreste aver la schena e gambe quantosivoglia
rotte, come avessi gli talari di Mercurio, o fussi montato sopra il
cavallo Pegaseo^^, o premessi la schena al destrier di Perseo ^^, o
63. Cfr. Ovidio, Metam., VII, 121 e segg.
64. «Infine».
65. Si ricordi la Barber-Surgeons Company, attiva ai tempi di Bruno.
66. Fu l'impresa di Bellerofonte. Cfr. G. Boccaccio, Genealogie, X, 27 {De
Pegaso), ed. a cura di V. Romano, Bari, 1951, voi. II, p. 508.
67. Nella mitologia classica, Perseo si solleva infatti nell'aria grazie a dei
sandali alati; è probabilmente a partire da Lattanzio che si verifica una conta-
minazione (per esempio nello Spaccio, pp. 221-223) fra il mito di Bellerofonte
e Pegaso da un lato e, dall'altro, quello di Perseo (cfr. G. Boccaccio, op. cit,
pp. 509 e 594-595)-
482 LA CENA DE LE CENERI
cavalcassi l'ipogriffo d'Astolfo ^^ o ti menasse il dromedario de
Madian'^'-', o ti trottasse sotto una de le ciraffe de gli tre Magi: a
forza di bussate ti faran correre, aggiutandoti ad andar avanti
[105] con que' fieri pugni, che meglio sarrebe per te fussero tanti calci
di bue, d'asino o di mulo; non ti lasciaranno mai, sin tanto che
non t'abbiano ficcato dentro una priggione: e qua me libi co-
ntendo'''^.
Prudenzio. — A fulgore et tempestate, ab ira et indignatione,
malitia, tentatione et furia rusticorum...
Frulla. — ... libera nos domine^^.
Teofilo. - Oltre a questi s'aggionge l'ordine di servitori; non
parlo de quelli de la prima cotta, i quali son gentil'uomini de
baroni, e per ordinario non portano impresa o marca se non o
per troppo ambizione de gli uni o per soverchia adulazion de
gli altri: tra questi se ritrova civilità.
Prudenzio. - Omnis regula exceptionem patitur^^.
Teofilo. - Ma parlo de la altre specie di servitori; de quali,
altri sono de la seconda cotta: e questi tutti portano la marca
affibbiata a dosso. Altri sono de la terza cotta: li padroni de
quali non son tanto grandi che li convegna dar marca a' servi-
tori; o pur essi son stimati indegni et incapaci di portarla. Altri
sono de la quarta cotta, e questi siegueno gli marcati e non
marcati: e son servi de servi.
Prudenzio. — Servus servorum non est malus titulus usque-
quaque''^.
Teofilo. - Quelli de la prima cotta son i poveri e bisognosi
gentil'uomini, li quali per dissegno di robba o di favore, se ri-
ducono sotto l'ali di maggiori: e questi per il più non son tolti
da sua casa, e senza indignità seguitano i sui milordi, son sti-
68. Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, XXIII, 16 e segg.
69. Cfr. Isaia. LX, 6.
70. «A te mi affido» (cfr. Luca, XXIII, 46: «Pater, in manus tuas commendo
spiritum meum»).
71. «Dalla folgore e dalla bufera, dall'ira e dallo sdegno, dalla malizici,
dalla tentazione e dalla furia dei villani... liberaci. Signore»: parodia della Li-
tania prò rogationibus.
72. «Non v'è regola che non subisca eccezione». Cfr. P. Aretino, Mare-
scalco, IV, 5: «Omnis regula patitur exceptionem, latine loquendo».
73. «Non è mai un cattivo incarico essere servo dei servitori»: allusione al
titolo di servus servorum Dei, posseduto dal Papa. Cfr. anche Genesi, IX, 25
(«Sia maledetto Canaan! / sarà schiavo degli schiavi dei fratelli suoi!»).
DIALOGO SECONDO 483
mati e fauriti da quelli. Quelli de la seconda cotta sono de' mer-
cantuzzi falliti, o arteggiani, o quelli che senza profitto han stu- [107]
diato a leggere o qualch'arte: e questi son tolti o fuggiti da qual-
che scuola, fundaco o bottega. Quelli de la terza cotta son que'
poltroni che, per fuggir maggior fatica, han lasciato più libero
mestiero: e questi o son poltroni acquatici, tolti da battelli, o
son poltroni terrestri, tolti da gli aratri. Gli ultimi de la quarta
cotta sono una mescuglia di desperati, di disgraziati da lor pa-
droni, de fuor usciti da tempeste, de pelegrini, de disutili et
inerti, di que' che non han più comodità di rubbare, di que' che
frescamente son scampati di priggione, di quelli che han dise-
gno d'ingannar qualcuno che le viene a tórre da là: e questi son
tolti da le colonne de la Borsa'-^ e da la porta di San Paolo'^.
De simili se ne vuoi a Parigi, ne trovarai quanti ne vuoi a la
porta del Palazzo ^^; in Napoli, a le grade di San Paolo ^'; in Ve-
nezia, a Rialto ^^. — De le tre ultime specie sono quei che per
mostrar quanto siino potenti in casa sua, e che sono persone di
buon stomaco, son buoni soldati et hanno a dispreggio il
mondo tutto: ad uno che non fa mina di volergli dar la piazza
larga, gli donaranno co la spalla, come con un sprone di galera,
una spinta, che lo faran voltar tutto ritondo, facendogli veder
quanto siino forti, robusti e possenti, et ad un bisogno buoni
per rompere un'armata. E se costui che se farà incontro sarà un
forastiero, donigli pur quanto si voglia di piazza, che vuole per
ogni modo che sappia quanto san far il Cesare, l'Anniballe, l'Et-
torre, et un bue che urta ancora. Non fanno solamente come
l'asino il quale (massimamente quando è carco) si contenta del
suo diritto camino per il filo, d'onde se tu non ti muovi, non si
moverà anco lui, et converrà che o tu a esso, o esso a te doni la [109]
scossa: ma fanno cossi questi che portan l'acqua, che se tu non
74. VExchange, costruito nel 1566 da Thomas Gresham, chiamato Royal
Exchange dopo la visita della regina nel 1570, distrutto nel grande incendio di
Londra nel 1666.
75. La cattedrale di San Paolo, distrutta anch'essa nell'incendio del 1666.
76. Lo Chàtelet, sede dei tribunali (cfr. J.-J. Bouchard, Journal, a cura di
E. Kanceff, Torino, voi. Il, 1977, p. 250).
77. San Paolo Maggiore, antica cattedrale di Napoli (cfr. G. C. Capaccio, Il
forastiero, giom. IX, Napoli, 1634, pp. 866-867).
78. Il ponte di Rialto, in legno fino al 1587 (cfr. J. Florio, A New Wnrld of
Words cit., p. 432: «... an eminent place in Venice where Marchants commonly
meete, as on Exchange at London»).
484 LA CENA DE LE CENERI
stai in cervello, ti farran sentir la punta di quel naso di ferro
che sta a la bocca de la giarra. Cossi fanno ancora color che
portan birra et ala^'^: i quali facendo il corso suo, se per tua
inavertenza te si avventaranno sopra, te faran sentir l'empito
de la carca che portan sopra; e che non solamente son possenti
a portar su le spalli, ma ancora a buttar una cosa innante, e
tirar se fusse un carro ancora. Questi particolari, per l'autorità
che tegnono in quel caso che portano la soma, son degni d'escu-
sazione, per che hanno più del cavallo, mulo et asino, che de
l'uomo; ma accuso tutti gli altri li quali hanno un pochettino
del razionale, e sono più che questi altri ad imagine e similitu-
dine de l'uomo: et in luoco di donarte il buon giorno o buona
sera, dopo averti fatto un grazioso volto, come ti conoscessero e
ti volessero salutare, ti verranno a donar una scossa bestiale ^°.
Accuso, dico, quell'altri i quali tal volta fìngendo di fuggire, o
voler perseguitare alcuno, o correre a qualche negocio necessa-
rio, se spiccano da dentro una bottega: e con quella furia ti ver-
ranno da dietro o da costa, a donar quella spinta che può donar
un toro quando è stizzato; come pochi mesi fa accadde ad un
povero gentil'uomo italiano, al quale in cotal modo, con riso e
piacer di tutta la piazza, fu rotta e fracassata una gamba^': al
che volendo poi provedere il magistrato, non si trovò manco
che tal cosa avesse possuto accadere in quella piazza ^^. Sì che
79. Vale è una birra forte. Cfr. G. Rando, Voci inglesi cit, p. 106.
80. Cfr. Giovenale, Satyrae, III, 243-248.
81. La prima redazione del Dialogo secondo specificava: «un povero messer
Alessandro Citolino, al quale ... fu rotto e fracassato un braccio» (cfr. Appendi-
ce II, p. 586). La versione definitiva si spiega forse con la preoccupazione di
non mettere in imbarazzo un protestante italiano, bene o male inserito nella
società londinese. Su questo grammatico friulano, esule per motivi religiosi in
Svizzera e poi, dal 1566, in Inghilterra, autore di una Lettera in difesa della
lingua volgare, Venezia, 1540, della Tipocosmia, Venezia, 1561 e di una Gram-
matica manoscritta conservata alla British Library, si veda la voce di M. Firpo
nel Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, voi. XXVI, 1982, pp. 39-46 (ed ora
l'ipotesi di M. FiNTONi, Mnemosine cit., p. 31). Bruno, tuttavia, sembra essere
l'ultimo ad evocare questo personaggio quando è ancora vivente. Può darsi che
la sua morte sia intervenuta nel periodo intercorso tra la prima e la seconda
redazione. La soppressione del suo nome si potrebbe spiegare allora col rispetto
delle convenienze, in merito a un defunto.
82. Cfr. G. Micheli, in: Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, ed. Alberi
cit, voi. II, p. 346, sui rapporti tra gli Inglesi e gli stranieri della corte di Fi-
lippo II, marito di Maria Tudon «Quando occorre disparere tra alcuno Inglese
ed uno di questi, la giustizia non procede in quel modo che dovria; che come
va tra forestieri e Inglesi, sono tante le cavillazioni, le lunghezze e le spese
DIALOGO SECONDO 485
quando ti piace uscir di casa, guarda prima di farlo senza ur-
gente occasione, che non pensassi come di voler andar per la [m]
città a spasso; poi segnati col segno de la santa croce, armati di
una corrazza di pazienza che possa star a prova d'archibugio; e
disponeti sempre a comportar il manco male liberamente, se
non vuoi comportar il peggio per forza. Pòrtati prudentemente,
e pensa che non hai a far mai con un solo, né con doi o cin-
quanta: ma con tutta la republica e la patria plebesca, per la
quale o a dritto o a torto ogn'uno è ubligato di ponere sin a la
vita. Però, fratello, quando ti sentirai toccare in questo modo,
poni mano al tuo cappello, saluta il tuo antigonista, e fa conto
che quello abbia fatto come si suol fare tra compagni et amici;
o pure, se la ti parrà troppo dura, dimandagli perdono a fin che
non ritomi a farti peggio: con provocarti, fingendo che tu l'hai
spento, o l'hai voluto spengere. - Or ecco quel tempo, quell'oc-
casione, ne la quale meglio che mai le potrai conoscere. Dice il
Nolano che in diece mesi ch'ha soggiornato in Inghilterra^^,
non ha profittato quanto questa una sera in far penitenze e
guadagnar perdoni. Questa sera gli fu bene accomodata ad esser
principio, mezzo, e fine de la quarantana. «Questa sera» disse,
«voglio che vaglia per la penitenza ch'arrei fatta diggiunando
quaranta giorni benedetti e quaranta notte ancora. Questa sera
son stato nel deserto: dove non per una, o tre, ma per quaranta
tentazioni ho guadagnato quarantamilia anni d'indulgenzia
plenaria... w^"*.
Prudenzio. — Per modum suffraggii^^.
Teofilo. — «... tanto che, per buona fede, credo averne non
solo per i peccati ch'ho fatti, ma anco per molti altri che oltre
potrei fare». [113]
senza fine di quelli loro giudizj, che a torto o a diritto conviene che il fore-
stiero soccomba».
83. Se si data alla seconda metà del mese di febbraio 1584 la composizione
ed il rimaneggiamento del Dialogo, l'arrivo di Bruno in Inghilterra rimonte-
rebbe all'aprile 1583, cosa che sarebbe compatibile col dispaccio citato di
Cobham a Walshingham (28 marzo 1583). J. BossY. G. Bruno e il mistero del-
l'ambasciata cit, p. 135, calcola però che Bruno abbia scritto la Cena tra la
Pasqua secondo il nuovo Stile (22 marzo) e la Pasqua secondo il vecchio Stile
(19 aprile 1584).
84. Allusione ironica alle tentazioni di Cristo ed alla dottrina delle indul-
genze (cfr. M. A. Granada, traduz. cit., p. loi, nota 44).
85. Prudenzio vuol dire che il Nolano sta esagerando.
486 LA CENA DE LE CENERI
Prudenzio. - Supererogatone^^\
Frulla. — Vorrei sapere se egli numerò questi rintuzzi et
urti salvaticini che dici esserne stati quaranta. Mi fate venir a
memoria mastro Mamfurio, al quale certi marranchini ne femo
contare non so quante *^^.
Teofilo. — Se costui avesse saputo che ne dovea portar
tanti, forse sarebbe stato curioso in contarle: ma lui sempre sti-
mava che ogn'uno dovesse essere l'ultimo; ma era ben ultimo a
rispetto de quelli ch'erano passati. In questo che lui dice es-
serno stati, gli urti, quaranta, forse fa com'un devoto peccatore;
il quale dovendo rispondere al padre confessore del quoties, cioè
quante volte, e non se ricordando a punto il numero, se teneva
a l'alto più tosto che al basso: dubitando che per dir meno più
presto che d'avantaggio, qualche peccato ne rimanesse di fuori,
in loco che più tosto alcuno vi arrebbe rimaner dentro la mano
del prete che l'assolve. E lascio che nel ricevere di queste spinte,
urti e ferute, non si prende quel piacere che l'uomo può avere
in racontarle: perché in corpo non si senteno senza dolore o cor-
doglio; e da la bocca escono con quella medesima facilità le
due, che le dodici, che le quaranta, che le cento, che le mille. Ma
siino quante si vogliano: io non ho possute contar le sue, ma
ben le mie. Egli si teneva a dietro come soglion far quei ch'ai
mal passo onorano il compagno ^^; ma lui s'ingannava: per che
le battarie non meno occorrevano dalle spalli per quei che ne
seguivano, che da la fronte per quei che ne venevano a l'incon-
[115] tro. Nondimeno lui per manco male faceva com'un priore che
seguita il suo convento, o pur come si fa in forma quando si va
a combattere (ove al presente si imaginava d'essere col sentirse
adosso tanti rincontri di lance spezzate); facendosi riparo di noi
altri se teneva a dietro come buon capitano, che per salute del
suo esercito, la quale con la sua morte perirebbe, se tiene a die-
tro in conserva al sicuro et al largo '^'^ onde poi ad un bisogno
86. «Pagata fin troppo bene».
87. Allusione a Candelaio, atto V, scena 25, p. 421-422, dove il pedante
Mamfurio è preso a staffilate. - Marranchini, per «marioli», è una parola na-
poletana che fa il paio con lo spagnolo «marrancho».
88. Cfr. J. Florio-G. Torriano, Vocabolario italiano e inglese, London, 1659,
p. 104: «Dir come disse Merlin Coccaia, i.e. ad malos passos honora compagnos»;
e si veda G. Aquilecchia, «La cena de le ceneri» cit, p. 697.
89. Cfr. N. Secchi, Gl'Inganni, atto IV, io.
DIALOGO SECONDO 487
possa correre a comandar ad altre genti che vengano al soc-
corso, o ver essere lui medesmo l'ambasciator de la desgrazia.
Lui dumque caminando in questo ordine, non possea esser ve-
duto da noi, i quali medesmamente essendo occupati in casi
nostri non aveamo aggio di rivoltarci a dietro, e far que' gesti
per manco dissimular, più criminali.
Prudenzio. — Optime consultum'^^.
Teofilo. — Pure particolarmente quando fummo a la pira-
mide ^^ vicina al Palazzo '^^, in mezzo di tre strade...
Prudenzio. - In trivio'^"'.
Teofilo. - ... quivi ne se femo incontro sei galant'omini che
aveano avanti un putto con una lanterna: e de questi uno dà
una scossa a me che mi fé' voltar a veder un altro che ne die'
un'altra doppia al Nolano, la quale fu sì gentile e gorda, che
sola possea passar per diece; e gli ne fé' donar un'altra al muro,
che possea quella anco passar per altre diece.
Prudenzio. — In silentio et spe erit fortitudo vestra. Si quis de-
derit Uhi alapam, tribue illi et alter am'^'^. [117]
Teofilo. — Questa fu l'ultima borasca; per che poco oltre per
la grazia di san Fortunio, dopo aver discorsi mal triti sentieri,
pcLssati dubbiosi divertigli, varcati rapidi fiumi, tralasciati are-
nosi lidi, superati limosi fanghi, spaccati turbidi pantani, vesti-
gate pietrose lave, lustrati salvatichi incontri, trascorse lubriche
strade, intoppato in ruvidi sassi, urtato in perigliosi scogli, gion-
semo per grazia del cielo vivi al porto, idest a la porta: la quale
subito toccata ne fu aperta. Entrammo, trovammo a basso de
molti e diversi personaggi, diversi e molti servitori: i quali
senza cessar, senza chinar la testa, e senza segno alcun di rive-
90. «Ottima decisione».
91. La parola inglese «pyramis» serviva a designare diverse costruzioni di
forma piramidale, in particolare obelischi, guglie ecc. Qui si sta parlando del
monumento di Charing Cross, edificato da Edoardo I in memoria della moglie
Eleonora (una sua riproduzione è visibile nello yard di Charing Cross Station).
Su questo sito è stata successivamente innalzata la statua equestre di Carlo I,
davanti alla colonna di Nelson, all'imbocco di Withehall.
92. La residenza reale di Withehall.
93. «All'incrocio». Laddove lo Strand si apre su Charing Cross confluivano
Hay Market, a nord, e la via che portava a Withehall ed al Tamigi, a sud.
94. «Nel silenzio e nella speranza sarà la vostra forza. Se qualcuno ti dà
uno schiaffo, rendigliene un altro»: palese rovesciamento della massima evan-
gelica (cfr. Isaia, XXX, 15 e Matteo, V, 39).
400 LA CENA DE LE CENERI
renza, mostrandone spreggiar co la sua gesta ''5, ne femo questo
favor, de monstrame la porta. Andiamo dentro, montamo su,
trovamo che dopo averci molto aspettato, desperatamente
s'erano posti a tavola a sedere. Dopo fatti i saluti et i resa-
luti...
Prudenzio. - Salutazioni.
Teofilo. — ... et alcuni altri piccoli ceremoni (tra quali ve fu
questo da ridere, che ad un de nostri essendo presentato l'ul-
timo loco, idest la coda de la tavola, e lui pensando che là fusse
il capo, per umiltà voleva andar a seder dove sedeva il primo; e
qua si fu un piccol pezzo di tempo in contrasto tra quelli che
per cortesia lo voleano far sedere ultimo, e colui che per umiltà
volea seder il primo), in conclusione: messer Florio sedde a viso
d'un cavalliero, che sedeva al capo de la tavola ^^; il signor
Folco, a destra de messer Florio; io et il Nolano a sinistra de
messer Florio; il dottor Torquato a sinistra del Nolano; il dottor
Nundinio a viso a viso del Nolano.
Smitho. — Or su lasciamo cenar costoro, lasciamole a tavola
ripossar sin a domani.
Frulla. — Son certo che non prenderanno tanti" bocconi,
quanto han fatto de passi.
Smitho. Suppliranno le paroli. A rivederci.
Teofilo. - A dio.
Prudenzio. - Valete^''.
Fine del secondo dialogo
95. La stessa descrizione in L. Ariosto, Orlando furioso, XLVI, 104, 1-3:
«Senza smontar, senza chinar la testa, / e senza segno alcun di reverenzia, /
mostra Carlo sprezzar con la sua gesta, / e de tanti signor Talta presenzia».
96. Potrebbe trattarsi del Brown o Browne menzionato più sopra, ma per
L Firpo (Il processo di G. Bruno cit.) «è più probabile che quel posto d'onore
toccasse al padron di casa, il Castelnau, che non vien nominato perché il
Bruno vuol far credere che il convito si svolgesse in casa del Greville». - Sa-
rebbe da supporre che Bruno, dichiarando nel corso del suo processo che la
cena si è svolta presso l'ambasciatore, non abbia cercato di nascondere che
essa si era effettivamente tenuta presso Greville.
97. «Addio».
DIALOGO TERZO
Teofilo. - Or il dottor Nundinio, dopo essersi posto in
punto de la persona, scrollato un poco il dorso, poste le due
mani su la tavola, riguardatosi un poco circum circa\ accomo-
datosi alquanto la lingua in bocca, rasserenati gli occhi al cielo,
spiccato da la bocca un delicato risetto, e sputato una volta,
comincia in questo modo: ...
Prudenzio. — In haec verba, in hosce prorupit sensus^.
Prima proposta di Nundinio
Teofilo. — ... «IntelUgis domine quae diximus?»""; e gli di-
manda s'intendea la lingua inglesa. Il Nolano rispose che non, e
disse il vero.
Frulla. - Meglio per lui: per che intenderrebe più cose di-
spiacevoli et indegne, che contrarie a queste. Molto giova esser
sordo per necessità, dove la persona non sarebbe sordo per elez-
zione. Ma facilmente mi persuaderei che lui la intenda; ma per
non togliere tutte l'occasioni che se gli porgeno per la moltitu-
dine de gli incivili rancontri, e per posser meglio filosofare circa
i costumi di quei che gli se fanno innanzi, finga di non inten-
dere. [123]
Prudenzio. - Surdorum, ahi natura, alti physico accidente,
aia rationali voluntate^.
Teofilo. — Questo non v'imaginate de lui: perché, benché sii
1. «Tutti intomo a lui».
2. «Se ne uscì con queste parole, proprio con questo discorso».
3. «Capisci, signore, ciò che abbiamo detto?».
4. «Tra i sordi (ce ne sono] certi per natura, certi per un accidente fisico,
certi altri ancora per scelta razionale».
490 LA CENA DE LE CENERI
appresso un anno che ha pratticato in questo paese', non in-
tende più che due o tre ordinariissime paroli; le quali sa che
sono salutazioni, ma non già particolarmente quel che voglian
dire; e di quelle, se lui ne volesse proferire una, non potrebbe.
Smitho. - Che vói dire ch'ha sì poco pensiero d'intendere
nostra lingua?
Teofilo. - Non è cosa che lo costringa, o che l'inclini a que-
sto: perché coloro che son onorati e gentil uomini, co li quali lui
suol conversare, tutti san parlare o latino, o francese, o spa-
gnolo, o italiano^; i quali sapendo che la lingua inglesa non
viene in uso se non dentro quest'isola^, se stimarebbono salva-
tici, non sapendo altra lingua che la propria naturale.
Smitho. - Questo è vero per tutto, ch'è cosa indegna non
solo ad un ben nato inglese, ma ancora di qualsivogli'altra ge-
nerazione, non saper parlare più che d'una lingua: pure in In-
ghilterra (come son certo che anco in Italia e Francia) son molti
gentil'omini di questa condizione, co i quali, chi non ha la lin-
gua del paese, non può conversare senza quella angoscia che
sente un che si fa et a cui è fatto interpretare.
Teofilo. — È vero che ancora son molti che non son gen-
til'omini d'altro che di razza, i quali per più loro e nostro espe-
[125] diente, è bene che non siino intesi, né visti ancora.
De la seconda proposta di Nundinio
Smitho. - Che soggionse il dottor Nundinio?
Teofilo. — «Io dumque» disse in latino, «voglio interpre-
5. Cfr. Dialogo secondo, p. 485, nota 83.
6. Sulla diffusione dell'italiano in Inghilterra nell'età elisabettiana, in par-
ticolare fra gli aristocratici ed a Corte, e sull'effetto che ha potuto avere tale
diffusione sulla decisione di Bruno di scrivere i suoi dialoghi londinesi in ita-
liano piuttosto che in latino, cfr. G. Aquilecchla, L'adozione del volgare nei
dialoghi londinesi di G. Bruno. «Cultura neolatina» [Roma-Modena], XIII, pp.
165-189, ora in Id., Schede bruniane, Manziana (Roma), 1993, pp. 41-63. In par-
ticolare, sugli ambienti di Corte, cfr. Ambasciatori veneti in Inghilterra, a cura di
L. Firpo, Torino, 1978, p. 64, dove Giovanni Fallerò, nell'inverno 1576, riferisce
al Senato veneto di un pranzo con Lord Burghley e gli altri membri del regio
Consiglio, «tutti signori principalissimi ... parlando quasi tutti la lingua nostra
italiana, almeno intendendola tutti».
7. Si veda la testimonianza di J. Florio, Second Fruites, London, 1591, p.
50, sull'inglese che «è una lingua che vi farà bene in Inghilterra, ma passate
Dover, la non vai niente».
DIALOGO TERZO 49 1
tarvi quello che noi dicevamo: che è da credere il Copernico
non esser stato d'opinione che la terra si movesse, per che que-
sta è una cosa inconveniente et impossibile; ma che lui abbia
attribuito il moto a quella più tosto che al cielo ottavo, per la
comodità de le supputazioni». Il Nolano disse che se Copernico
per questa causa sola disse la terra moversi, e non ancora per
quell'altra, lui ne intese poco, e non assai ^. Ma è certo che il
Copernico la intese come la disse, e con tutto suo sforzo la
provò.
Smitho. — Che vói dir che costoro sì vanamente buttomo
quella sentenza su l'opinione di Copernico, se non la possono
raccogliere da qualche sua proposizione?
Teofilo. - Sappi che questo dire nacque dal dottor Tor-
quato, il quale di tutto il Copernico (benché posso credere che
l'avesse tutto voltato) ne avea retenuto il nome de l'autore, del
libro, del stampatore, del loco ove fu impresso, de l'anno, il nu-
mero de' quinterni e de le carte; e per non essere ignorante in
gramatica, avea intesa certa epistola superliminare attaccata
non so da chi asino ignorante e presuntuoso'', il quale (come
8. Si trova qui un riassunto delle due interpretazioni possibili dell'ipotesi
eliocentrica: «finzione» comoda, destinata a spiegare più agevolmente i feno-
meni celesti (come suggerisce la premessa anonima che apre l'edizione Petreius
del De revoliiHonibus), ma anche tesi cosmologica che pretende di descrivere la
struttura reale dell'universo (come dichiara Copernico nella sua opera, in par-
ticolare nella lettera a Paolo III). La prima interpretazione era stata sostenuta
ad Oxford da Henry Savile, nelle sue lezioni del 1573 (cfr. G. Aquilecchia,
Tre schede su Bruno e Oxford, «Giornale critico della filosofìa italiana» [Firen-
ze], LXXII, 1993, pp. 378-382).
9. Si tratta della premessa citata al De revolutionibiis, dovuta al teologo lu-
terano Andreas Osiander (1498-1552), che l'aveva sostituita all'introduzione
inizialmente prevista da Copernico (cfr. G. Seebass, Das reformatorische Werk
des And. Osiander, Nuremberg, 1967). Già nella sua lettera del 1543 a G. loachi-
nus Rheticus, Tiedemann Giese aveva deplorato il falso perpetrato con l'inse-
rimento di questo scritto nel corpo del De revolutionibus. Scrivendo allo stesso
Rheticus, nel 1563, Pierre de la Ramée sembra attribuirgli la paternità della
premessa, negandola implicitamente a Copernico. Ma fu Kepler il primo a ri-
velame, in un libro a stampa, il vero nome dell'autore; nella sua Astronomia
nova, Praha, 1609 (Gesammelte Werke, Miinchen, voi. Ili, 1937, p. 6), riecheg-
giando probabilmente Bruno, egli aggiunse che la prefazione di Osiander
«è stata scritta da un asino che si rivolgeva ad altri asini». Cfr. Y Introduzione di
F. Barone alla traduzione della Rivoluzione delle sfere celesti, in N. Copernico,
Opere, Torino, 1979, pp. 156-161 (qui pure la lettera di Giese a Rheticus, pp.
846-848). Si veda anche U. Forti, Precursori e compagni di Copernico e Galileo,
«Cultura e scuola» [Roma], III, 1964, pp. 277-286 e B. Wrightsman, Andreas
Osiander's Contribution to the Copernican Achievement, in: The Copernican Achie-
vement, a cura di R. S. Westman, Berkeley-Los Angeles, 1975, pp. 213-243.
492 LA CENA DE LE CENERI
volesse iscusando faurir l'autore, o pur a fine che anco in questo
libro gli altri asini, trovando ancora le sue lattuche e frutticelli,
avessero occasione di non partirsene a fatto deggiuni) in questo
[127] modo le awertisce avanti che cominciano ad leggere il libro e
considerar le sue sentenze 1°: «Non dubito che alcuni eruditi»
(ben disse «alcuni», de quali lui può esser uno) «essendo già
divolgata la fama de le nove supposizioni di questa opera '\ che
vuole la terra esser mobile et il sole starsi saldo e fisso in mezzo
del universo, non si sentano fortemente offesi, stimando che
questo sia un principio per ponere in confusione l'arte liberali
già tanto bene et in tanto tempo poste in ordine. Ma se costoro
vogliono meglio considerar la cosa, trovaranno che questo au-
tore non è degno di riprensione, perché è proprio a gli astro-
nomi raccòrre diligente et artificiosamente l'istoria di moti ce-
lesti: non possendo poi per raggione alcune trovar le vere cause
di quelli, gli è lecito di fengersene e formarsene a sua posta per
principii di geometria, mediante i quali tanto per il passato,
quanto per avenire si possano calculare: onde non solamente
non è necessario che le supposizioni siino vere, ma né anco ve-
risimile Tali denno esser stimate l'ipotesi di questo uomo, ec-
cetto se fusse qualch'uno tanto ignorante de l'optica e geome-
tria, che creda che la distanza di quaranta gradi e più, la quale
acquista Venere discostandosi dal sole or da l'una or da l'altra
parte, sii caggionata dal movimento suo ne l'epiciclo. Il che se
fusse vero, chi è sì cieco che non veda quel che ne seguirebbe
10. Il testo che segue è la «traduzione» eseguita da Bruno - probabilmente
la prima in lingua volgare - di larghi estratti della premessa di Osiander. Il
filosofo ha dovuto avere sotto gli occhi il libro di Copernico, sia nell'edizione
del 1543. sia in quella del 1566. Di recente, si è creduto di poter identificare
come appartenente a Bruno un esemplare di quest'ultima edizione, oggi con-
servato alla Biblioteca Casanatense di Roma (segnatura; I.I.XII.65): cfr. E. Me
MuLLiN, Bruno and Copernicus. «Isis» [Cambridge, Mass.], LXXVIII, 1987,
p. 59, che deve quest'informazione a O. Gingerich (di quest'ultimo, si veda il
recente The Eye of Heavens, Ptolemy, Copernicus, Kepler, New York, 1993,
p. 266). La notizia, basata sopra il reperimento del nome Brunus vergato sul
foglio di guardia anteriore dell'esemplare suddetto, appare poco fondata: a
parte il fatto che la calligrafia non ha nulla in comune con la caratteristica
mano bruniana, eccezionale sarebbe l'uso del cognome non preceduto da lor-
danus (e per lo più seguito da Nolanus); inoltre il nominativo indicherebbe
pertinenza^ anziché appartenenza, del libro al personaggio nominato. Il foglio
di guardia col nome Brunus è ora riprodotto in: Giordano Bruno. Gli anni na-
poletani e la «peregrinano» europea. Immagini, testi, documenti, a cura di E. Ca-
none, Cassino, 1992, p. 93.
11. Qui termina il foglio D deìVeditio princeps.
DIALOGO TERZO 493
centra ogni esperienza: che il diametro de la stella apparirebbe
quattro volte, et il corpo de la stella più di sedeci volte più
grande quando è vicinissima nel opposito de l'auge i^, che
quando è lontanissima, dove se dice essere in auge? Vi sono
ancora de altre supposizioni non meno inconvenienti che que- [129]
sta, quali non è necessario riferire». - E conclude al fine: «La-
sciamoci dumque prendere il tesoro di queste supposizioni, so-
lamente per la facilità mirabile et artificiosa del computo: per
che se alcuno queste cose sente prenderà per vere, uscirrà più
stolto da questa disciplina, che non v'è entrato»'^.
Or vedete che bel portinaio: considerate quanto bene v'apra
la porta per farvi entrar dentro alla participazion di quella ono-
ratissima cognizione, senza la quale il saper computare e misu-
rare e geometrare e perspettivare, non è altro che un passa-
tempo da pazzi ingeniosi. Considerate come fidelmente serve al
padron di casa. — Al Copernico non ha bastato dire solamente
che la terra si move; ma ancora protesta e conferma quello, scri-
vendo al papai'' e dicendo, che le opinioni di filosofi son molto
lontane da quelle del volgo indegne d'essere seguitate, degnis-
sime d'esser fugite: come contrarie al vero e dirittura. Et altri
molti espressi indizii porge de la sua sentenza; non ostante ch'ai
fine par ch'in certo modo vuole a comun giudizio tanto di
quelli che intendeno questa filosofia, quanto de gli altri che son
puri matematici, che se per gli apparenti inconvenienti non
piacesse tal supposizione, conviene ch'anco a lui sii concessa
libertà di ponere il moto de la terra per far demostrazioni più
ferme di quelle ch'han fatte gli antichi: i quali fumo liberi nel
12. In modo singolare. Bruno riprende la terminologia medievale, parlando
di aux ed oppositum augis, memore probabilmente dei suoi corsi di cosmologia,
mentre Copernico ritoma di proposito al vocabolario di Tolomeo (e reca apo-
gaeus e perigaeus), seguito da Osiander.
13. Un confronto del testo latino con l'adattamento di Bnmo dimostra
come quest'ultimo si sia preoccupato di eliminare i passaggi in cui Osiander
sottolineava il carattere essenzialmente ipotetico dell'astronomia, incapace di
farci conoscere la vera struttura del mondo.
14. Papa Paolo III. Cfr. la lettera Ad Sanctissintum Dominum Paulum III
Pontifkem Maximum, Nicolai Copernici Praefatio in libros Reuolutionum, in De
revolutionibus orbium coelestium libri sex, Nuremberg, 1543, ff. ii'^-iv^ (traduz. in
N. Copernico, Opere cit, pp. 168-178). Nel De immenso. III, 9, Op. lai., I, i, pp.
381-388, Bruno riprodurrà integralmente questa prefazione, seguita dal testo
del capitolo II del copernicano Libro I, intitolato Definitio triplicis Terrae motus
per Copernicum (ivi, pp. 385-389, traduz. in Opere latine, a cura di C. Monti,
Torino, 1980, pp. 563-570).
494 LA CENA DE LE CENERI
fengere tante sorte e modelli di circoli, per dimostrar gli feno-
meni de gli astri. Da le quale paroli non si può raccòrre che lui
dubiti di quello che sì constantemente ha confessato, e provarà
[131] nel primo libro sufficientemente respondendo ad alcuni argo-
menti di quei che stimano il contrario: dove non solo fa ufficio
di matematico che suppone, ma anco de fisico che dimostra il
moto de la terra. - Ma certamente al Nolano poco se aggionge
che il Copernico, Niceta Siracusano Pitagorico, Filolao, Eraclide
di Ponto, Ecfanto Pitagorico'', Platone nel Timeo (benché ti-
mida et inconstantemente, per che l'avea più per fede che per
scienza) 1^ et il divino Cusano nel secondo suo libro De la dotta
ignoranza^'', et altri in ogni modo rari soggetti, l'abbino detto,
insegnato e confìrmato prima "^: perché lui lo tiene per altri pro-
15. Niceta - o piuttosto Hiceta - di Siracusa considerava la Terra come il
solo corpo mobile dell'universo (cfr. Cicerone. Acad. Prior. I, 123). - Su Filo-
lao di Crotone (V secolo a. C), si veda Diogene Laerzio, Vili, 85; Copernico
cita «Filolao Pitagorico» come uno dei suoi principali precursori (La rivolu-
zione. Dedica a Paolo III, ed. Barone cit, p. 174). - Eraclide Pontico (attivo
verso il 360 a. C.) era discepolo di Platone (cfr. Diogene Laerzio, V, 86-93); nel
sistema che gli è stato a lungo attribuito, il sole era al centro dei moti di Venere
e Mercurio (cfr. P. Duhem, Le système du monde, Paris, voi. I, 1913, pp. 406-410,
ma sulla questione si veda la messa a punto di B. S. Eastvvood, Heraclides and
Heliocentrism. Texts, Diagrams and Interpretations, «Journal for the History of
Astronomy» [Cambridge], 23, 1992, pp. 233-260). - Ecfanto: scienziato siracusa-
no che sviluppò la teoria di Filolao, sostenendo la rotazione della Terra intomo
al suo proprio centro, da occidente a oriente. Su questi filosofi, si veda G. V.
Schi.'^p.'VRELLI, I precursori di Copernico nell'antichità. Milano, 1873 e VV. BuR-
KERT, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism. Cambridge (Mass.), 1972.
16. Secondo Aristotele, De caelo. II, 13, 239 b 30-32, ed. a cura di
0. Longo, Firenze, 1961, pp. 166-167, «alcuni dicono che la Terra è posta al
centro, e si muove rivolgendosi intomo al "polo teso attraverso al Tutto",
com'è scritto nel Timeo». Il testo di Platone (Timaeus, 40 b-c) pone un pro-
blema di lettura e può essere interpretato nel senso di una Terra che resta fissa
al centro dell'universo (cfr. Platone, Dialoghi politici, a cura di F. Adomo,
Torino, voi. I, 1988^, pp. 758-759, nota 7. Si veda, inoltre, H. Cherniss, Ari-
stotle's Criticism of Plato and the Academy, New York, voi. I, 1972, App. VIII,
pp. 545 e segg.).
17. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, II, 12 (traduz. in Opere filosofiche, a
cura G. Federici-Vescovini, Torino, 1972, pp. 147-154); Bruno, De immenso. III,
9, Op. lai.. I, I, p. 381 (ed. Monti cit, p. 563).
18. In questo elenco, sembra che Bruno — a differenza di Copernico, De
revolutionibus — non faccia distinzione fra gli autori che hanno ipotizzato e
quelli che non hanno ipotizzato un moto di rivoluzione della Terra intomo al
Sole: nella seconda categoria si collocano, senza dubbio, Platone e Nicolò Cu-
sano. Contrariamente a ciò che è stato frequentemente detto e ripetuto, le ana-
lisi di S. Meier-Oeser, Die Pràsenz des Vergessenen, Miinster, 1989, pp. 190-21 1,
indicano che il cardinale di Cusa non è un «precursore» di Copernico nell'am-
bito scientifico (nondimeno, la sua concezione potrebbe esseme considerata un
antecedente metafisico).
DIALOGO TERZO 495
prii e più saldi principii, per i quali non per autoritate, ma per
vivo senso e raggione, ha cossi certo questo, come ogn'altra cosa
che possa aver per certa i*^.
Smitho. — Questo è bene; ma di grazia che argumento è
quello che apporta questo superliminario del Copernico: per che
gli pare ch'abbia più che qualche verisimilitudine (se pur non è
vero) che la stella di Venere debba aver tanta varietà di gran-
dezza, quanta n'ha di distanza?
Teofilo. — Questo pazzo il quale teme et ha zelo che alcuni
impazzano con la dottrina del Copernico, non so se ad un biso-
gno avrebe possuto portar più inconvenienti di quello 2°: che,
per aver apportato con tanto sollennità, stima sufficiente ad di-
mostrar che pensar quello sii cosa da un troppo ignorante d'op-
tica e geometria. Vorrei sapere de quale optica e geometria in-
tende questa bestia, che mostra pur troppo quanto sii ignorante
de la vera optica e geometria lui e quelli da quali have imparato.
Vorrei sapere come da la grandezza de corpi luminosi si può in- [133]
ferir la raggione de la propinquità e lontananza di quelli; e per
il contrario, come da la distanza e propinquità di corpi simili si
può inferire qualche proporzionale varietà di grandezza^^ Vor-
19. Più sotto, nella Quarta proposta del Nundinio, Bruno allude alla sua
concezione della Terra grande animale, al pari degli altri corpi celesti: è questo
uno dei princìpi più caratteristici del Nolano, che gli impongono di sostenere
la mobilità della Terra.
20. Infatti, l'argomento di Osiander prende di mira una conseguenza della
rappresentazione tolemaica di Venere, che dota questo pianeta di un epiciclo
enorme rispetto alla dimensione del suo deferente. Si tratta, per il prefatore di
Copernico, di denunciare l'assurdità fisica di tale ipotesi. In Copernico, che fa
girare Venere attorno al Sole, questo epiciclo sproporzionato sparisce. Galilei si
rifarà, a sua volta, a questo passaggio della premessa di Osiander per dimo-
strare che le sue conclusioni non contrastano minimamente con quelle di
Copernico (cfr. Considerazioni circa l'opinione copernicana, in G. Galilei, Opere,
ed. nazionale a cura di A. Favaro, 20 voli, Firenze, 1890-1909, voi. V, 1895, pp.
360-363).
21. G. Galilei, ivi, p. 362, suggerirà che «per levar ogn'ombra di dubitare,
quando il non apparire al senso così gran diversità nelle grandezze apparenti
del corpo di Venere avesse a revocare in dubbio la sua circolar conversione
intomo al Sole, conforme al sistema Copernicano, facciasi diligente osserva-
zione con stromento idoneo, cioè con un perfetto telescopio, e troverassi pun-
tualmente rispondere il tutto in effetto ed in esperienza; cioè si vedrà Venere,
quando è vicinissima alla Terra, falcata, e di diametro ben 6 volte maggiore
che quando è nella sua massima lontananza, cioè sopra '1 Sole, dove si scorge
rotonda e piccolissima: e come dal non discemer tal diversità con la semplice
vista ... parerà che si potesse ragionevolmente negar tal posizione, così ora dal
vederne esattissimo riscontro in questa ed in ogn'altra particolarità, rimovasi
ogni dubbio, e si reputi per vera e reale».
496 LA CENA DE LE CENERI
rei sapere con qual principio di prospettiva o di optica, noi da
ogni varietà di diametro possiamo definitamente conchiudere
la giusta distanza o la magior e minor differenza. Desiderarei
intendere si noi facciamo errore, che poniamo questa conclu-
sione: — Da l'apparenza de la quantità del corpo luminoso, non
possiamo inferire la verità de la sua grandezza, né di sua di-
stanza; per che sicome non è medesma raggione del corpo opaco
e corpo luminoso, cossi non è medesma raggione d'un corpo
men luminoso et altro più luminoso et altro luminosissimo,
acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro^^.
La mole d'una testa d'uomo a due miglia non si vede; quella
molto più piccola de una lucerna, o altra cosa simile di fiamma,
si vedrà senza molta differenza (se pur con differenza) discosta
sessanta miglia: come da Otranto di Puglia si veggono al spesso
le candele d'Avellona^', tra' quai paesi tramezza gran tratto del
mare Ionio. Ogn'uno che ha senso e raggione, sa che se le lu-
cerne fussero di lume più perspicuo a doppia proporzione, come
ora son viste ne la distanza di settanta miglia, senza variar
grandezza, si vedrebbono ne la distanza di cento quaranta mi-
glia; ad tripla, di ducento e diece; ad quatrupla, di ducento ot-
tanta; medesmamente sempre giudicando ne l'altre addizioni di
proporzioni e gradi: perché più presto da la qualità et intensa
virtù de la luce, che da la quantità del corpo acceso, suole man-
[135] tenersi la raggione del medesmo diametro e mole di corpo. Vo-
lete dumque, o saggi optici et accorti perspettivi, che se io veggo
un lume distante cento stadii aver quattro dita di diametro,
sarà raggione che, distante cinquanta stadii, debbia averne otto;
a la distanza di vinticinque, sedeci; di dodici e mezzo, trenta
22. Bruno rifiuta la concezione euclidea generalmente accettata, secondo la
quale la distanza e/o la grandezza di un corpo si misurano grazie al triangolo
visivo il cui vertice è posto nell'occhio dell'osservatore e la base sull'oggetto,
utilizzando il principio di congruenza dei triangoli. Secondo il Nolano, invece,
per i corpi luminosi, la base del triangolo (vale a dire il diametro apparente
dell'oggetto) è indeterminabile: l'immagine che i nostri occhi ne ricevono di-
pende dalla sua luminosità più o meno intensa. Poco più sotto. Bruno fa rife-
rimento alla teoria epicurea riportata da Lucrezio, ma si deve osservare che
essa differisce alquanto dalla sua. Sulla stima delle distanze nell'ottica tradi-
zionale, si veda G. Simon, Le regard. Tètre et Vapparence. Paris, 1988, ed il com-
mento di I. Pantin nella sua ed. e traduz. francese di J. Kepler, Discussion avec
le messager celeste, Paris, 1993, pp. 58-59, nota 40.
23. E probabilmente Valona, in Albania.
DIALOGO TERZO 497
due; e cossi va discorrendo: sin tanto che, vicinissimo, venghi
ad essere di quella grandezza che pensate?
Smitho. - Tanto che, secondo il vostro dire, benché sii
falsa, non però potrà essere improbata per le raggioni geome-
trice la opinione di Eraclito Efesio^"* che disse il sole essere di
quella grandezza che s'offre a gli occhi; al quale sottoscrisse
Epicuro, come appare ne la sua Epistola a Sofocle^^ e ne l'un-
decimo libro De natura (come referisce Diogene Laerzio): dice
che, per quanto lui può giudicare, «la grandezza del sole, de
la luna e d'altre stelle è tanta, quanta a' nostri sensi appare»;
«perché» dice, «se per la distanza perdessero la grandezza, ad
più raggione perderebbono il colore»; «e certo» dice, «non
altrimente doviamo giudicar di que' lumi, che di questi che
sono appresso noi»^^
Prudenzio. — Illud quoque epicureus Lucretius testatur quinto
«De natura» libro:
Nec nimio solis maior rota, nec minor ardor
esse potest, nostris quam sensibus esse videtur.
Nam quihus e spaciis cumque ignes lumina possunt
adiicere et calidum membris adflare vaporem,
illa ipsa intervalla nihil de corpore limant
flammarum, nihilo ad speciem est contractior ignis.
Luna quoque sive notho fertur, sive lumine lustrans,
sive suam proprio iactat de corpore lucem, [137]
quicquid id est, nihilo fertur maiore figura.
Postremo quoscunque vides hinc aetheris ignes,
dum tremar est clarus, dum cernitur ardor eorum,
scire licet perquam pauxillo posse minores
esse, vel exigua maiores parte brevique,
quando quidem quoscunque in terris cernimus ignes,
perparvum quiddam interdum mutare videntur,
alterutram in partem filum, cum longius absint^''.
24. Cfr. Diogene Laerzio, IX, 7 (H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker,
Berlin, 1903, 22A, I, p. 141, 11 e segg.).
25. Si tratta, in realtà, della Epistola a Pitocle. Cfr. Diogene Laerzio, X, 91
(in Epicuro, Opere, a cura di M. Isnardi Parente, Torino, 1983^, pp. 182-183).
26. Ivi
27. «Questo è anche attestato dall'epicureo Lucrezio nel quinto libro Sulla
natura: "Né la ruota del sole né il suo calore possono essere molto maggiori o
minori di quel che appare ai nostri sensi. Qualunque sia la distanza dalla
498 LA CENA DE LE CENERI
Teofilo. - Certo voi dite bene, che con l'ordinarie e proprie
raggioni in vano verranno i perspettivi e geometri a disputar
con Epicurei: non dico gli pazzi quale è questo liminare del
libro di Copernico, ma di quelli più saggi ancora; e veggiamo
come potran concludere che a tanta distanza quanta è il diame-
tro de l'epiciclo di Venere, si possa inferir raggione di tanto dia-
metro del corpo del pianeta, et altre cose simili. - Anzi voglio
avertirvi d'un'altra cosa. Vedete quanto è grande il corpo de la
terra? sapete che di quello non possiamo veder se non quanto è
l'orizonte artificiale?^^
Smitho. - Cossi è.
Teofilo. — Or credete voi che se vi fusse possibile di reti-
rarvi fuor de l'universo globo de la terra in qualche punto de
l'eterea regione (sii dove si vuole), che mai avverrebbe che la
terra vi paia più grande?
Smitho. - Penso di non, per che non è raggione alcuna per
la quale de la mia vista la linea visuale debba esser forte più, et
allungar il semidiametro suo, che misura il diametro de l'ori-
zonte.
Teofilo. - Bene giudicate. Però è da credere che discostan-
dosi più l'orizonte sempre si disminuisca. Ma con questa dimi-
quale i fuochi possono gettare la luce e alitar sulle membra un caldo soffio,
questi stessi intervalli non sottraggono nulla di quanto appartiene al corpo
delle fiamme, il fuoco non è per nulla ridotto allo sguardo ... E la luna, sia che
ruoti con luce non sua illuminando la terra, sia che irraggi dal proprio corpo
la sua luce, come di ciò sia, si muove con una forma per nulla maggiore |di
quella con cui appare ai nostri occhi] ... Infine tutti i fuochi dell'etere che di
quaggiù vedi, finché se ne distingue il palpito e la chiara fiamma, certo in
piccolissima misura possono essere minori, o di ben poco maggiori di quel che
ci appaiono, siccome tutti i fuochi che scorgiamo sulla terra, di lieve misura si
vedono talvolta mutare in più o meno la loro grandezza, secondo che sono
lontani"» (cfr. Lucrezio, De rerum natura, V, 564-569; 575-578; 585-[595], ed. a
cura di A. Fellin, Torino, 1997-', pp. 366-367. Questa, e le altre edizioni mo-
derne, danno i versi lucreziani in un ordine leggermente diverso e con varianti
che tuttavia non mutano il significato complessivo della citazione).
28. Suir« orizzonte artificiale» si veda Clavius, In sphaeram, Lugduni,
1593, pp. 340-341, dove leggiamo: «Proclus, Albertus Magnus et plerique alii
scriptores duplicem horizontem constituunt. Dicunt enim unum esse ratione
perceptum, quem appellant Rationalem, Naturalemve. Altenim sensu esse per-
ceptum, quem vocant sensibilem apparentemve. Rationalis est, qui dividit to-
tum caelum in duo hemisphaeria aequalia, segregatque partem visam a non
visa». Clavius precisa che questo orizzonte, passando dal centro della Terra (a
differenza dell'orizzonte sensibile determinato da un piano parallelo al primo,
ma tangente la superficie del globo) è chiamato da alcuni «Artificialis, eo quod
beneficio artis Astronomicae sit inventus».
DIALOGO TERZO
499
nuzione de l'orizonte notate che ne si viene ad aggiongere la
confusa vista di quello che è oltre il già compreso orizonte, [139]
come si può mostrare nella presente figura: dove l'orizonte arti-
ficiale è I-I, al quale risponde l'arco del globo A-A; l'orizonte de
f
[FlG. l]
la prima diminuzione è 2-2, al quale risponde l'arco del globo [141]
B-B; l'orizonte de la terza^'^ diminuzione è 3-3, al quale ri-
29. In realtà, della seconda. Cfr. De immenso. III, 2, Op. laL, I, i, pp. 327-329,
dove troviamo riprodotta la stessa figura (e cfr. l'ed. Monti cit., p. 520). Alla riga
seguente, «quarta» è da correggersi in «terza» diminuzione.
500 LA CENA DE LE CENERI
sponde l'arco C-C; l'orizonte de la quarta diminuzione è 4-4, al
quale risponde l'arco D-D^^\ e cossi oltre attenuandosi l'ori-
zonte, sempre crescerà la comprehensione de l'arco, insino alla
linea emisferica et oltre. Alla quale distanza o circa quale posti,
vedreimo la terra con quelli medesmi accidenti co i quali veg-
giamo la luna aver le parti lucide et oscure secondo che la sua
superficie è aquea e terrestre 'i. Tanto che, quanto più se strenge
l'angolo visuale, tanto la base maggiore si comprende de l'arco
emisferico, e tanto ancora in minor quantità appare l'orizonte:
il qual vogliamo che tutta via perseveri a chiamarsi orizonte,
benché secondo la consuetudine abbia una sola propria signifi-
cazione. Allontanandoci dumque, cresce sempre la comprehen-
sione de l'emisfero et il lume: il quale quanto più il diametro si
disminuisce, tanto d'avantaggio si viene ad riunire; di sorte che
se noi fussemo più discosti da la luna, le sue macchie sarrebono
sempre minori, sin alla vista d'un corpo piccolo e lucido sola-
mente.
Smitho. - Mi par aver intesa cosa non volgare, e non di poca
importanza. Ma di grazia vengamo al proposito de l'opinion di
Eraclito et Epicuro: la qual dite che può star costante contra le
raggioni perspettive, per il difetto de principii già posti in que-
sta scienza. Or per scuoprir questi difetti, e veder qualche frut-
to de la vostra invenzione, vorrei intendere la risoluzione di
quella raggione, co la quale molto demostrativamente si pro-
va ch'[il] sole non solo è grande, ma anco più grande che la
[143] terra. Il principio della qual raggione è che il corpo luminoso
maggiore spargendo il suo lume in un corpo opaco minore, de
l'ombra conoidale produce la base in esso corpo opaco, et il
cono oltre quello ne la parte opposita: come ne la seguente fi-
30. Le cifre 4-4 e le lettere D-D non appaiono nella xilografia originale.
31. Nel Sidereus nuncius del 1610, Galilei scriverà: «Avendo io sempre rite-
nuto per certo che del globo terrestre, veduto da lontano quando sia illumi-
nato dai raggi solari, le terre emerse si mostrerebbero più luminose, le acque
invece più oscure» (traduz. in Opere, a cura di F. Brunetti, Torino, voi. I, 1980^,
p. 184). Siffatta posizione è opposta a quella che Bruno qui difende, ispirata
verosimilmente da Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet (ed. a cura di
D. Del Como-L. Lehnus, Milano, 1991), e che era condivisa da Leonardo così
come da Kepler prima del 1610.
DIALOGO TERZO
501
gura^^, M corpo lucido dalla base di C, la quale è terminata per
HI, manda il cono de l'ombra ad A'^ punto. Il corpo luminoso
minore avendo formato il cono nel corpo opaco maggiore, non
conoscerà determinato loco, ove raggionevolmente possa desi-
gnarsi la linea de la sua base; e par che vada a formar una
conoidale infinita, come quella medesma figura A corpo lucido,
dal cono de l'ombra ch'è in C corpo opaco, manda quelle due
linee CD C-E, le quali sempre più e più dilatando la ombrosa
conoidale, più tosto correno in infinito che possino trovar la [145]
base che le termini. La conclusione di questa raggione è che il
sole è corpo più grande che la terra, per che manda il cono de
l'ombra di quella sin appresso alla sfera di Mercurio, e non
passa oltre"; che se il sole fusse corpo lucido minore, bisogna-
32. Cfr. la figura 2. Le lettere del testo non corrispondono a quelle indica-
te nella figura: M (testo) = A (figura); A (testo) = B (figura); A^ (testo) = / (figura);
H (testo) indica il punto d'intersezione delle rette FN (testo) ed AE (testo) o
delle rette IF (figura) ed EB (figura).
33. La lunghezza dell'ombra della Terra, misurata in raggi terrestri (rt), è,
approssimativamente, la stessa di Tolomeo (268 rt) e di Copernico (265 rt). Nel
502 LA CENA DE LE CENERI
rebbe giudicare altrimente: onde seguitarebbe che trovandosi
questo luminoso corpo ne Temisfero inferiore, verrebbe oscurato
il nostro cielo in più gran parte che illustrato: essendo dato o
concesso, che tutte le stelle prendeno lume da quello'-^.
[Teofilo]. - Or vedete come un corpo luminoso minore può
illuminare più della mittà d'un corpo opaco più grande. Dovete
avvertire quel che veggiamo per esperienza. Posti dui corpi, de
quali l'uno è opaco e grande come A, l'altro piccolo lucido come
N^^, se sarà messo il corpo lucido nella minima e prima di-
stanza, come è notato nella seguente figura, verrà ad illuminare
secondo la raggione de l'arco piccolo C-D, stendendo la linea B^.
Se sarà messo nella seconda distanza maggiore, verrà ad illumi-
nare secondo la raggione de l'arco maggiore E-F, stendendo la
linea B^. Se sarà nella terza e maggior distanza, terminarà se-
condo la raggione de l'arco più grande G-H, terminato da la
linea B^. Dal che si conchiude che può avvenire che il corpo
lucido B, servando il vigore di tanta lucidezza che possa pene-
trare tanto spacio quanto a simile effetto si richiede, potrà, col
molto discostarsi, comprendere al fine arco maggior che il semi-
circolo: atteso che non è raggione che quella lontananza ch'ha
ridutto a tale il corpo lucido che comprenda il semicircolo, non
[147] possa oltre promoverlo a comprendere di vantaggio ^<'. Anzi vi
dico de più, che essendo ch'il corpo lucido non perde il suo dia-
metro se non tardissima e difficilissimamente, et il corpo opaco
(per grande che sia) facilissimamente et improporzionalmente il
sistema tolemaico, la sfera di Mercurio è situata tra 64 e 166 rt (valori che
corrispondono al perigeo e all'apogeo di questo pianeta). In Copernico, Mercu-
rio è ad una distanza media di 710 rt dalla Terra. Sia in un caso sia nell'altro,
l'affermazione di Bruno è del tutto fittizia, sia per eccesso, sia per difetto. È
poco probabile che abbia effettuato egli stesso un calcolo per il quale non pos-
sedeva le basi, ma allora qual è stata la sua fonte?
34. Cfr. J. Kepler, Dissertano cum Nuncio Sidereo, a cura di E. Fasoli e
G. Tabarroni. Torino. 1972, pp. 52-57, 70-73 e note. L"idea che le stelle riceves-
sero la loro luce dal Sole non era affatto condivisa da tutti.
35. La figura originale (n. 3) è incomprensibile, a causa dell'assenza della
lettera N e degli esponenti che le corrispondono.
36. Non v"è alcuna distanza, per quanto grande possa essere, da dove N
riuscirebbe a illuminare la metà dell'emisfero opaco. Secondo Amerio (in Opere
di G. Bruno e T. Campanella. Milano-Napoli. 1956) questa «affermazione para-
dossa, su cui trasvolano i commentatori, riceve qualche senso plausibile se la
si connetta non con la fisica, ma colla metafisica bruniana dell'infinito. All'in-
finito, infatti, il punto luminoso non pure è presente a una parte, ma a tutte le
parti ».
DIALOGO TERZO
503
perde, però sì come per progresso de distanza dalla corda mi-
nore C-D è andato a terminare la corda maggiore E-F e poi la
massima G-H, la quale è diametro": cossi crescendo più e più
la distanza, terminarà l'altre corde minori oltre il diametro, sin
[149]
[FiG. 3]
tanto ch'il corpo opaco tramezzante non impedisca la reciproca
vista de gli corpi diametralmente opposti. E la causa di questo
è che l'impedimento che dal diametro procede, sempre con esso
diametro si va disminuendo più e più, quanto l'angolo B si
rende più acuto. Et è necessario al fine che l'angolo sii fatto
tanto acuto (per che nella fisica divisione d'un corpo finito è
37. Sulla figura 3, il diametro è indicato con la linea i-k.
504 LA CENA DE LE CENERI
pazzo chi crede farsi progresso in infinito, o l'intenda in atto o
in potenza)^^ che non sii più angolo, ma una linea, per la quale
dui corpi visibili oppositi possono essere alla vista l'un de l'al-
tro, senza che in punto alcuno, quel ch'è in mezzo, vaglia impe-
dire: essendo che questo ha persa ogni proporzionalità e diffe-
[151] renza diametrale, la quale ne i corpi lucidi persevera. Però si
richiede che il corpo opaco che tramezza, ritegna tanta distanza
da l'un e l'altro, per quanta possa aver persa la detta propor-
zione e differenza del suo diametro: come si vede et è osservato
nella terra; il cui diametro non impedisce che due stelle diame-
tralmente opposte si veggano l'una l'altra, cossi come l'occhio
senza differenza alcuna può veder l'una e l'altra dal centro emi-
sferico A'^ e dalli punti de la circonferenza ANO (avendoti ima-
ginato in tal bisogno, che la terra per il centro sii divisa in due
parte uguali a fin ch'ogni linea perspettivale abbia il suo loco).
Questo si fa manifesto facilmente ne la presente figura ^^. Dove,
per quella raggione che la linea ^-A^, essendo diametro, fa l'an-
golo retto ne la circonferenza; dove è il secondo loco, lo fa
acuto; nel terzo più acuto: bisogna ch'ai fine dovenghi a l'acu-
tissimo, et al fine a quel termine che non appaia più angolo, ma
linea; e per conseguenza è destrutta la relazione e differenza del
semidiametro; e per medesma raggione, la differenza del diame-
tro intiera A-0 si destruggerà. Là onde al fine è necessario che
dui corpi più luminosi, i quali non sì tosto perdeno il diametro,
non saranno impediti per non vedersi reciprocamente: non es-
sendo il lor diametro svanito, come quello di non lucido o men
luminoso corpo tramezzante. — Concludasi dumque che un
corpo maggiore il quale è più atto a perdere il suo diametro,
benché stia per linea rettissima al mezzo, non impedirà la pro-
38. Nel Libro III di Phys. Auscultai., Aristotele dimostrava l'impossibilità di
un infinito in atto ed «esaminava due casi di infinito in potenza; quello nu-
merico, per il quale si ha un limite inferiore (l'unità), ma non un limite supe-
riore, e quello delle grandezze, in teoria divisibili all'infinito ma che non pos-
sono essere accresciute senza limite» (I. Pantin, in J. Kepler, Discussion cit., p.
123, nota 238). Sulle posizioni bruniane, cfr. il De minimo, I, 6-7, dove vengono
attaccati i matematici che credono il continuo divisibile all'infinito. Si veda G.
Aquilecchia, Bruno e la matematica a lui contemporanea: in margine al «De
minimo», «Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], LXIX, 1990, pp,
151-159, nonché Id., B dilemma matematico di Bruno fra atomismo e injìnitismo,
Napoli, 1992 (ora tutt'e due in Schede bruniane cit., pp. 311-317, 319-326).
39. Si veda la figura 4, riusata da Bruno nel De immenso, V, 5, Op. lat., I, 2,
p. 133 (ed. Monti cit, p. 675).
DIALOGO TEBIZO
505
spettiva di dui corpi quantosivoglia minori, pur che serbino il
diametro della sua visibilità, il quale nel più gran corpo è per-
so "^o. Qua per disrozzir uno ingegno non troppo suUevato, a fin
che possa facilmente introdurse a comprendere la apportata
[153]
[FiG. 4]
raggione, e per ammollar al possibile la dura apprensione, fate-
gli esperimentare ch'avendosi posto un stecco vicino a l'occhio,
la sua vista sarà di tutto impedita a veder il lume de la candela
posta in certa distanza: al qual lume quanto più si viene acco-
stando il stecco, allontanandosi da l'occhio, tanto meno impe-
dirà detta veduta; sin tanto che essendo sì vicino e gionto al
lume, come prima già era vicino e gionto a l'occhio, non impe-
dirà forse tanto, quanto il stecco è largo. Or giongi a questo che
ivi rimagna il stecco, et il lume altretanto si discoste: verrà il
stecco ad impedir molto meno. Cossi più e più aumentando
l'equidistanza de l'occhio e del lume dal stecco: al fine senza
40. Secondo F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno esposte e confrontate con le
italiane, Firenze, 1889, p. 272, Bruno ha «giustamente notato, che talvolta un
corpo opaco non impedisce la vista del corpo luminoso, quando questo sia
posto a tale distanza, che il corpo opaco non si vegga più. Erra solo nelFaffer-
mare che a grandissima distanza il corpo opaco non impedisca la vista del
luminoso anche quando sia d'esso maggiore. L'esempio portato dal Bruno è
giustissimo, ma soltanto nel caso che il corpo luminoso sia più grande del-
l'opaco».
506 LA CENA DE LE CENERI
sensibilità alcuna del stecco, vedrai il lume solo. Considerato
questo, facilmente quantosivoglia grosso intelletto potrà essere
introdutto ad intendere quel che poco avanti è detto.
Smitho. — Mi par, quanto al proposito, mi debba molto es-
sere satisfatto; ma mi rimane ancora una confusione nella
mente quanto a quel che prima dicesti: come noi alzandoci da
la terra e perdendo la vista de l'orizonte di cui il diametro sem-
pre più e più si va attenuando, vedreimo questo corpo essere
una stella''^ Vorrei che a quel tanto ch'avete detto aggiongessi-
vo-^2 qualche cosa circa questo, essendo che stimate molte essere
terre simili a questa, anzi innumerabili; e mi ricordo de aver
visto il Cusano-^^ di cui il giodizio so che non riprovate, il
quale vuole che anco il sole abbia parti dissimilari come la
luna e la terra: per il che dice, che se attentamente fissaremo
[155] l'occhio al corpo di quello, vedremo in mezzo di quel splendore
più circonferenziale che altrimente, aver notabilissima opacità.
Teofilo. - Da lui divinamente detto et inteso, e da voi assai
lodabilmente applicato. Se mi recordo, io ancor poco fa dissi
che (per tanto che il corpo opaco perde facilmente il diametro,
il lucido difficilmente) avviene che per la lontananza s'annulla
e svanisce l'apparenza de l'oscuro; e quella del illuminato dia-
fano o d'altra maniera lucido, si va come ad unire: e di quelle
parti lucide disperse si forma una visibile continua luce. Però se
la luna fusse più lontana, non eclissarebbe il sole; e facilmente
potrà ogni uomo che sa considerare in queste cose [comprende-
41. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, II, 17, ed. Federici-Vescovini cit.,
pp. 148-149: «Se un uomo si trovasse al di fuori della regione del fuoco, la
nostra terra vista attraverso il fuoco gli apparirebbe come una stella luminosa
sulla circonferenza della sua regione ... La terra è, dunque, una stella nobile».
Si veda, inoltre, G. Bruno, De l'infinito. Dialogo terzo, p. 94; De immenso, IV, 8,
Op. lai., I, 2, p. 40 (ed. Monti cit, pp. 609-610).
42. «Aggiongessivo» cioè «aggiungeste». Spesso, in napoletano, le forme
plurali dei verbi si ottengono aggiungendo i suffissi del plurale alle forme del
singolare.
43. N. Cusano, De docta ignorantia, II, 12, ed. Federici-Vescovini cit, p. 148:
«Se si considera il corpo del sole e, all'estremità della circonferenza, un ba-
gliore luminoso come di fuoco; in mezzo, quasi, una nube di acqua e di aria
più chiara. La terra ha gli stessi elementi». L'affermazione è teorica; Cusano,
contrariamente a quanto ha scritto Bruno, non si richiama all'osservazione
diretta del corpo solare. Secondo F. Tocco, Le fonti piti recenti della filosofia di
Bruno, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei» [Roma], CI. di Scienze mo-
rali, storiche e filologiche, s. V, I, 1892, p. 611, «a questa magnifica divinazione
della teorica delle macchie solari, che il Galileo molto piìi tardi scopri, il
Bruno applaude senza riserva».
DIALOGO TERZO 507
re] che quella più lontana sarebbe anco più luminosa"'': nella
quale se noi fussemo, non sarrebe più luminosa a gli occhi no-
stri; come essendo in questa terra, non veggiamo quel suo lume
che porge a quei che sono ne la luna-'', ij quale forse è maggior
di quello che lei ne rende per i raggi del sole nel suo liquido
cristallo diffusi. Della luce particolare del sole non so per il pre-
sente se si debba giudicar secondo il medesmo modo, o altro. Or
vedete sin quanto siamo trascorsi da quella occasione: mi par
tempo di rivenire all'altre parti del nostro proposito.
Smitho. — Sarà bene de intendere l'altre pretensioni, le quali
lui ha possute apportare.
La terza proposta del dottor Nundinio
Teofilo. — Disse appresso Nundinio che non può essere ve-
risimile che la terra si muove, essendo quella il mezzo e centro [157]
de l'universo, al quale tocca essere fisso e costante fundamento
d'ogni moto''*'. Rispose il Nolano, che questo medesmo può dir
colui che tiene il sole essere nel mezzo de l'universo, e per tanto
inmobile e fisso, come intese il Copernico et altri molti che
hanno donato termine circonferenziale a l'universo: di sorte che
questa sua raggione (se pur è raggione) è nulla centra quelli, e
suppone i proprii principii. E nulla anco contra il Nolano il
quale vuole il mondo essere infinito, e però non esser corpo al-
cuno in quello al quale simplicimente convegna essere nel
mezzo, o nell'estremo, o tra que' dua termini: ma per certe rela-
zioni ad altri corpi e termini intenzionalmente appresi "'^.
Smitho. - Che vi par di questo?
Teofilo. — Altissimamente detto; per che come di corpi na-
44. Bruno ha, nello stesso tempo, ragione e torto: ragione perché una Luna
più lontana non eclisserebbe il Sole, più di quanto non avvenga con Venere e
Mercurio, fin tanto che si possono osservare ad occhio nudo; d'altro canto, non
si capisce come essa potrebbe diventare più luminosa in modo proporzionale
alla sua distanza.
45. Cfr. De immenso, I, 2 e 4, Op. lai., I, i, pp. 328, 341 (ed. Monti cit., pp.
422-425 e 429-433). - Bruno continua a seguire Cusano (De docta ignorantia, II,
12), quando è questione di credere che, al pari della Terra, Sole ed astri sono
abitati.
46. Cfr. Aristotele, De caelo, segnatamente II, 14, 296 b 21-26.
47. L'idea era stata esposta con chiarezza da N. Cusano, De docta ignoran-
tia, II, 11-12 (ed. Federici-Vescovini cit., pp. 145-147). Il passo che segue è ispi-
rato direttamente da Cusano.
508 LA CENA DE LE CENERI
turali nessuno si è verificato semplicemente rotondo, e per con-
seguenza aver semplicemente centro, cossi anco de moti che noi
veggiamo sensibile e fisicamente ne' corpi naturali, non è al-
cuno che di gran lunga non differisca dal semplicemente circu-
lare e regolare circa qualche centro: fòrzensi quantosivoglia co-
lor che fingono queste borre et empiture de orbi disuguali, di
diversità de diametri, et altri empiastri e recettarii per medicar
la natura sin tanto che venga al servizio di maestro Aristotele,
o d'altro, a conchiudere che ogni moto è continuo e regolare
circa il centro-**^. Ma noi che guardamo non a le ombre fantasti-
che, ma a le cose medesme; noi che veggiamo un corpo aereo,
[159] etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e di quiete, sino
immenso et infinito (il che dovamo affermare al meno perché
non veggiamo fine alcuno sensibilmente, né razionalmente), e
sappiamo certo che essendo effetto e principiato da una causa
infinita e principio infinito, deve secondo la capacità sua corpo-
rale e modo suo essere infinitamente infinito"**^. E son certo che
non solamente a Nundinio, ma ancora a tutti i quali sono pro-
fessori de l'intendere, non è possibile giamai di trovar raggione
semiprobabile per la quale sia margine di questo universo cor-
porale; e per conseguenza ancora li astri che nel suo spacio si
contengono, siino di numero finito; et oltre essere naturalmente
determinato cento e mezzo di quello.
Smitho. — Or Nundinio aggiunse qualche cosa a questo? ap-
portò qualche argomento, o verisimilitudine, per inferire che
l'universo prima sii finito; secondo, che abbia la terra per suo
mezzo; terzo, che questo mezzo sii in tutto e per tutto inmobile
di moto locale?
Teofilo. - Nundinio, come colui che quello che dice, lo dice
per una fede e per una consuetudine, e quello che niega, lo
niega per una dissuetudine e novità, come è ordinario di que'
che poco considerano e non sono superiori alle proprie azzioni,
tanto razionali quanto naturali, rimase stupido et attonito:
come quello a cui di repente appare nuovo fantasma. Come
quello poi che era alquanto più discreto e men borioso e mali-
48. Allusione critica all'assioma del moto circolare uniforme, sul quale To-
lomeo, al pari di Copernico, fonda la scienza astronomica. Una critica analoga
si trovava già in Cusano.
49. Il tema è abbondantemente sviluppato nei dialoghi De l'infinito.
DIALOGO TERZO 50g
gno ch'il suo compagno, tacque e non aggiunse paroli ove non
posseva aggiongere raggioni.
Frulla. — Non è cossi il dottor Torquato: il quale o a torto o
a raggione, o per Dio o per il diavolo, la vuol sempre combat- [i6i]
tere; quando ha perso il scudo da defendersi e la spada da of-
fendere, dico quando non ha più risposta né argumento, salta
ne' calci de la rabbia, acuisce l'unghie de la detrazzione, ghigna
i denti delle ingiurie, spalanca la gorgia de i clamori: a fin che
non lascie dire le raggioni contrarie, e quelle non pervengano a
l'orecchie de circostanti, come ho udito dire.
Smitho. - Dumque non disse altro.
Teofilo. - Non disse altro a questo proposito, ma entrò in
un'altra proposta.
Quarta proposta del Nundinio
Per che il Nolano per modo di passaggio disse essere terre
innumerabili simile a questa, or il dottor Nundinio, come bon
disputante, non avendo che cosa aggiongere al proposito, co-
mincia a dimandar fuor di proposito; e da quel che diceamo
della mobilità o immobilità di questo globo, interroga della
qualità de gli altri globi, e vuol sapere di che materia fusser
quelli corpi che son stimati di quinta essenzia: d'una ma-
teria inalterabile et incorrottibile, di cui le parti più dense son
le stelle 50.
Frulla. — Questa interrogazione mi par fuor di proposizio^',
benché io non m'intendo di logica.
Teofilo. - Il Nolano per cortesia non gli volse improperar
questo; ma dopo avergli detto che gli arebbe piaciuto che Nun-
dinio seguitasse la materia principale, o che interrogasse circa
quella, gli rispose che li altri globi che son terre, non sono in [163]
50. I naturales medievali, ed anche altri autori del XVI secolo, credevano,
in effetti, che i pianeti (e le stelle) fossero parti più dense del resto della loro
orbita o sfera. Si veda, ad esempio, Tommaso d'Aquino, In Aristotelis libros de
Coelo et Mundo, lib. II, lect. io: «Rarum et densum invenitur in corporibus
caelestibus, secundum quod astra sunt spissiora ... quam sphaerae eorum».
- Sulla «quinta essenzia» (termine che non appartiene al vocabolario di Ari-
stotele, che parla piuttosto di «primo corpo» e di «etere»), cfr. Aristotele,
De caelo, I, 3.
51. Nel linguaggio maccheronico di Frulla «proposizio» sta per «pro-
posito».
510 LA CENA DE LE CENERI
punto alcuno differenti da questo in specie: solo in esser più
grandi e piccioli, come ne le altre specie d'animali per le diffe-
renze individuali accade inequalità; ma quelle sfere che son
foco come è il sole, per ora crede che differiscono in specie come
il caldo e freddo: lucido per sé e lucido per altro.
Smitho. - Perché disse creder questo per ora, e non lo af-
finilo assolutamente?
Teofilo. - Temendo che Nundinio lasciasse ancora la que-
stione che novamente aveva tolta, e si afferasse et attaccasse a
questa. Lascio che essendo la terra un animale 5^, e per conse-
guenza un corpo dissimilare, non deve esser stimata un corpo
freddo per alcune parti massimamente esteme eventilate da
l'aria, che per altri membri, che son gli più di numero e di
grandezza, debba esser creduta e calda e caldissima. Lascio an-
cora che disputando con supponere in parte i principii de
l'adversario il quale vuol essere stimato e fa professione di pe-
ripatetico, et in un'altra parte i principii proprii, e gli quali non
son concessi ma provati, la terra verrebbe ad esser cossi calda
come il sole in qualche comparazione.
Smitho. - Come questo?
Teofilo. — Per che (per quel che abbiamo detto) dal svani-
mento delle parti oscure et opache del globo, e dalla unione
delle parti cristalline e lucide, si viene sempre alle reggioni più
e più distante a diffondersi più e più di lume. Or se il lume è
causa del calore (come, con esso Aristotele 5', molti altri affer-
52. Cfr. De la causa. Dialogo secondo, p. 649, dove gli astri sono chiamati
«grandi animali». Come ha osservato P. H. Michel, «già Leonardo da Vinci
aveva affermato che la Terra era un animale» (G. Bruno et le système de Coper-
nic d'après la «Cène des Cendres». in: Pensée humaniste et tradition chrétienne aux
XV et XVr siècles, Paris, 1950, p. 327 e Io., La cosmologie de Bruno, Paris, 1962,
pp. 286 e segg.). Ma molti altri autori come Ficino e Fracastoro condividevano
l'idea.
53. Infatti, Aristotele crede che il calore e la luce provenienti dal cielo (in
particolar misura dal Sole, di per sé privo di calore «per natura») siano dovuti
all'attrito con l'aria della sfera che trasporta il Sole: cfr. De caelo, II, 7, 289 a 19
e segg.; MeteoroL, I, 3, 341 a 17 e segg. Siffatta spiegazione ha messo assai presto
in difficoltà commentatori quali Simplicio e Averroé. Quest'ultimo scrive, ad
esempio, nel Sermo de siibstantia orbis. cap. 2: «Et expositores ... dicunt quod
lux, in eo quod lux, videtur calefacere quando reflectitur» (cfr. Aristotelis opera
cum Averrois commentariis, Venetiis, 1562 [rist. anastatica, Frankfurt a. M., voi.
9, 1962, fol. 8A]), ma aggiunge di non condividere questa tesi. La dottrina se-
condo la quale la luce è causa del calore sarà infatti difesa da commentatori
«infedeli» al pensiero di Aristotele o apertamente anti-aristotelici, come Pa-
DIALOGO TERZO 5II
mano i quali vogliono che anco la luna et altre stelle per mag-
gior e minor participazione di luce son più e meno calde: onde
quando alcuni pianeti son chiamati freddi, vogliono che se in- [165]
tenda per certa comparazione e rispetto)^'', avverrà che la terra
co gli raggi che ella manda alle lontane parti de l'eterea reg-
gione, secondo la virtù della luce, venghi a comunicar altre-
tanto di virtù di calore. Ma a noi non costa che una cosa per
tanto che è lucida, sii calda: per che veggiamo appresso di noi
molte cose lucide ma non calde. Or per tornare a Nundinio:
ecco che comincia a mostrar i denti, allargar le mascelle, stren-
ger gli occhi, rugar le ciglia, aprir le narici, e mandar un crocito
di cappone per la canna del polmone; acciò che con questo riso
gli circostanti stimassero che lui la intendeva bene, lui avea
raggione: e quell'altro dicea cose ridicole.
Frulla. — E che sia il vero, vedete come lui se ne rideva?
Teofilo. - Questo accade a quello che dona confetti a porci.
Dimandato perché ridesse, rispose che questo dire et imaginarsi
che siino altre terre, che abbino medesme proprietà et accidenti,
è stato tolto dalle Vere narrazioni di Luciano. Rispose il Nolano
che se quando Luciano disse la luna essere un'altra terra cossi
abitata e colta come questa, venne a dirlo per burlarsi di que'
filosofi che affermomo essere molte terre (e particolarmente la
luna, la cui similitudine con questo nostro globo è tanto più
sensibile, quanto è più vicina a noi), lui non ebbe raggione; ma
mostrò essere nella comone ignoranza e cecità''': per che se ben
consideriamo trovarremo la terra e tanti altri corpi che son
chiamati astri, membri principali de l'universo, come danno la
trizi, Telesio o Campanella che — negando la quinta essenza — restituivano al
cielo (ed agli astri) luce e calore (sul problema, cfr. ora L. De Franco, La teoria
della luce di B. Telesio, in: Bernardino Telesio e la cultura napoletana, Napoli,
1992, pp. 53-77).
54. Sono soprattutto gli astrologi che, prestando qualità terrestri ai pianeti,
hanno dovuto escogitare una terminologia che preservasse il dogma dell'etere,
pur smentendolo nella pratica: cfr. H. Bouché-Leclerq, L'astrologie grecque
(1899), rist. Bruxelles, 1963, pp. 25-27.
55. Di fatto, Luciano stesso aveva esplicitamente dichiarato l'intento paro-
dico delle sue teorie (Historia vera, I, 2); sul modo usato da Bnmo per interpre-
tare Luciano, cfr. Acrotismus, Op. lat., I, i, p. 63. Sulla Historia lucianea e la sua
fortuna, fino al XVII secolo, si veda M. H. Nicolson, Voyages to the Moon, New
York, 1948. Per il titolo di Vere narrazioni, cfr. la versione di Nicolò da Lo-
NIGO, / L)ialoghi piacevoli, le vere narrationi, le facete epistole di Luciano philo-
sopko, in Venetia, 1541.
512 LA CENA DE LE CENERI
[167] vita e nutrimento alle cose, che da quelli toglieno la materia et
a' medesmi la restituiscano, cossi e molto maggiormente hanno
la vita in sé: per la quale, con una ordinata e naturai volontà,
da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii
convenienti ad essi"'. E non sono altri motori estrinseci che col
movere fantastiche sfere vengano a trasportar questi corpi come
inchiodati in quelle: il che se fusse vero, il moto sarrebe vio-
lento fuor de la natura del mobile, il motore più imperfetto, il
moto et il motore solleciti e laboriosi; et altri molti inconve-
nienti s'aggiongerebbeno57. Consideresi dumque che come il
maschio se muove alla femina, e la femina al maschio, ogni
erba et animale, qual piii e qual meno espressamente, si muove
al suo principio vitale, come al sole et altri astri; la calamita se
muove al ferro, la paglia a l'ambra, e finalmente ogni cosa va a
trovar il simile, e fugge il contrario: tutto avviene dal suffi-
ciente principio interiore per il quale naturalmente viene ad
esagitarse, e non da principio esteriore come veggiamo sempre
accadere a quelle cose che son mosse o contra o extra la propria
natura. Muovensi dumque la terra e gli altri astri secondo le
proprie differenze locali dal principio intrinseco che è l'anima
propria 58. «Credete» disse Nundinio, «che sii sensitiva questa
anima?»; «Non solo sensitiva» rispose il Nolano, «ma anco in-
tellettiva; non solo intellettiva come la nostra, ma forse anco
più». Qua tacque Nundinio e non rise^^.
Prudenzio. — Mi par che la terra essendo animata deve non
56. Su questo tema, si vedano anche i numerosi passaggi del De immenso
citati e commentati da P. H. Michel, La cosmologie cit, pp. 285-296.
57. Allusione critica alla dottrina aristotelica delle sfere e dei loro motori
separati, come è esposta nel Libro XII, cap. 8 della Metaphysica. Più in gene-
rale, Bruno rigetta, nelle righe che seguono, il principio secondo il quale «ora-
ne quod movetur ab aliquo movetur». — Sull'immagine dei «corpi come in-
chiodati» (o altrimenti, del «nodo»), cfr. M.-P. Lerner, «Sicut nodus in tabula».
De la rotation propre du soleil an XVF siede, «Journal for the History of Astro-
nomy» [Cambridge], 11, 1980, pp. 114-129.
58. Cfr. De l'infinito, Dialogo primo, p. 54: «essendo infiniti gli mondi ...
quali sono le terre, li fuochi et altre specie di corpi chiamati astri, tutti se
muoveno dal principio intemo, che è la propria anima ... e però è vano andar
investigando il lor motore estrinseco». Si veda, inoltre, G. Bruno, Acrotismus,
Op. lai., l, I, p. 68; De immenso, VI, 5, Op. lat., I, 2, pp. 177-178 (ed. Monti cit,
pp. 707-709). M. A. Granada, nella sua traduzione della Cena (Madrid, 1994^,
p. 39), rimanda qui ad Aristotele, Phys. Auscultat., 192 b 21-23 ed a Pla-
tone, Phaedrus, 245 e.
59. Nundinio ammira l'altezza della speculazione bruniana o è spaventato
dal suo aspetto eretico?
DIALOGO TERZO 513
aver piacere quando se gli fanno queste grotte e caverne nel
dorso, come a noi viene dolor e dispiacere quando ne si pianta
qualche dente là o ne si fora la carne. [169]
Teofilo. - Nundinio non ebbe tanto del Prudenzio che po-
tesse stimar questo argomento degno di produrlo, benché gli
fusse occorso: per che non è tanto ignorante filosofo, che non
sappia che se ella ha senso, non l'ha simile al nostro; se quella
ha le membra, non le ha simile a le nostre; se ha carne, sangue,
nervi, ossa e vene, non son simili a le nostre; se ha il core, non
l'ha simile al nostro: cossi de tutte l'altre parti, le quali hanno
proporzione a gli membri de l'altri et altri che noi chiamiamo
animali, e comunmente son stimati solo animali. Non è tanto
buono Prudenzio e mal medico ^° che non sappia che alla gran
mole de la terra, questi sono insensibilissimi accidenti, li quali
a la nostra imbecillità sono tanto sensibili. E credo che intenda
che non altrimente che ne gli animali quali noi conoscemo per
animali, le loro parti sono in continua alterazione e moto, et
hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre
qualche cosa dall'estrinseco, et mandando fuori qualche cosa da
l'intrinseco: onde s'allungano l'unghie; se nutriscono i peli, le
lane et i capelli; se risaldano le pelle, s'induriscono i cuoii: cossi
la terra riceve l'efflusso et influsso delle parti, per quali molti
animali (a noi manifesti per tali) ne fan vedere espressamente
la lor vita. Come è più che verisimile (essendo che ogni cosa
participa de vita), molti et innumerabili individui vivono non
solamente in noi, ma in tutte le cose composte; e quando veg-
giamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto cre-
dere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella acci-
dentale composizione e concordia, rimanendono, le cose che
quella incorreno, sempre inmortali: più quelle che son dette spi- [171]
rituali, che quelle dette corporali e materiali, come altre volte
60. I due dottori di Oxford con cui Bruno si trovò a disputare erano, con
tutta probabilità, laureati in medicina: prima del 1619, la Facoltà di Medicina
era infatti la sola facoltà di Oxford che assicurasse un insegnamento superio-
re di astronomia (cfr. F. R. Johnson, Astronomical Thought in Renaissance
England, Baltimore, 1937, pp. 11-12); per di più Bruno stesso aveva dichia-
rato, nel costituto del 3 giugno 1592, che la disputa si era svolta «il giorno
delle Ceneri, con dei medici» (cfr. L. Firpo, E processo di G. Bruno, a cura di
D. Quaglioni, Roma, 1993, p. 188).
514 LA CENA DE LE CENERI
mostraremo^'. Or per venire al Nolano, quando vedde Nundi-
nio tacere, per risentirse a tempo di quella derisione nundinica,
che comparava le posizioni del Nolano a le Vere narrazioni di
Luciano, espresse un poco di fiele, e li disse che disputando one-
stamente non dovea riderse e burlarse di quello che non può
capire: «che se io» disse il Nolano, «non rido per le vostre fan-
tasie, né voi dovete per le mie sentenze; se io con voi disputo
con civilità e rispetto, almeno altretanto dovete far voi a me: il
quale vi conosco di tanto ingegno, che se io volesse defendere
per verità le dette narrazioni di Luciano, non sareste sufficiente
a destruggerle». Et in questo modo con alquanto di còlerà ri-
spose al riso: dopo aver risposto con più raggioni alla dimanda.
Quinta proposta di Nundinio
Importunato Nundinio sì dal Nolano, come da gli altri, che
lasciando le questioni del perché, e come, e quale, facesse qual-
che argomento...
Prudenzio. — Per quomodo et quare, quilibet asinus novit di-
sputare^^.
Teofilo. — ... al fine fé' questo del quale ne son pieni tutti
cartoccini: che se fusse vero la terra muoversi verso il lato che
chiamiamo oriente, necessario sarrebbe che le nuvole del aria
sempre apparissero discorrere verso l'occidente, per raggione del
velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio
[173] di vintiquattro ore deve aver compito sì gran giro^^. A questo
rispose il Nolano che questo aere per il quale discorrono le nu-
vole e gli venti, è parte de la terra: per che sotto nome di terra
vuol lui (e deve essere cossi al proposito) che se intenda tutta la
machina e tutto l'animale intiero che costa di sue parti dissimi-
lari: onde gli fiumi, gli sassi, gli mari, tutto l'aria vaporoso e
turbulento il quale è rinchiuso ne gli altissimi monti, appar-
tiene a la terra come membro di quella, o pur come l'aria ch'è
61. Niente perisce, tutto si trasforma. Si veda, ad esempio. De la causa. Dia-
logo secondo, p. 665 che si rifa ad Ecclesiaste, I, 9: «Quanto è stato, sarà; /
quanto si è fatto si rifarà; / non ce nulla di nuovo sotto il sole».
62. «A forza di quomodo e di qua re, qualsiasi asino sa disputare».
63. La difficoltà era stata sottolineata (e respinta) da Copernico in De revo-
luHonibus, I, 7 e 8, ed. Barone cit, pp. 196-198, dove sono citati Aristotele e
Tolomeo.
DIALOGO TERZO 5 15
nel pulmone et altre cavità de gli animali, per cui respirano, se
dilatano le arterie, et altri effetti necessari! a la vita s'adempi-
scono. Le nuvole dumque da gli accidenti che son nel corpo de
la terra, si muoveno e son come nelle viscere de quella, cossi
come le acqui. Questo lo intese Aristotele nel primo de la Me-
teora, dove dice che «questo aere che è circa la terra umido e
caldo per le exalazioni di quella, ha sopra di sé un altro aere, il
quale è caldo e secco, et ivi non si trovan nuvole: e questo aere
è fuori della circonferenza de la terra, e di quella superfice che
la definisce a fin che venga ad essere perfettamente rotonda; e
che la generazion de venti non si fa se non nelle viscere e luo-
chi de la terra; però sopra gli alti monti, né nuvole, né venti
appaiono; et ivi l'aria si muove regolatamente in circolo, come
l'universo corpo m*^^. Questo forse intese Platone all'or che disse
noi abitare nelle concavità e parte oscure de la terra; e che
quella proporzione abbiamo a gli animali che vivono sopra la
terra, la quale hanno gli pesci a noi abitanti in un umido più
grosso ''5. Vuol dire che in certo modo questo aria vaporoso è
acqua; et il puro aria che contiene più felici animali è sopra la
terra: dove, come questo Amfitrite^*^ è acqua a noi, cossi questo [175]
nostro aere è acqua a quelli. Ecco dumque onde si può rispon-
dere a l'argomento referito dal Nundinio: per che cossi il mare
non è nella superficie, ma nelle viscere de la terra, come l'epate
fonte de gli umori è [in] noi; questo aria turbolento non è fuori
ma è come nel polmone de gli animali.
Smitho. - Or onde avviene che noi veggiamo l'emisfero in-
tiero, essendo che abitiamo ne le viscere de la terra?
Teofilo. — Da la mole de la terra globosa non solo nella
ultima superficie, ma anco in quelle che sono interiori, accade
che alla vista de l'orizonte cossi una convessitudine doni loco a
l'altra '^^, che non può avvenire quello impedimento qual veg-
64. Cfr. Aristotele, MeteoroL, 340 b 25-341 a 1.
65. Cfr. Platone, Phaedo, 109 b-e.
66. Il mare (dal nome della ninfa marina, figlia di Oceano e Teti, sposa di
Nettuno).
67. «Bruno vuol dire in sostanza che le depressioni terrestri, quando sono
profonde, sono solitamente anche molto vaste, e chi si trova in esse non perde
la visione dell'intero emisfero celeste, perché le alture circostanti, per la curva-
tura terrestre, non recano impedimento. Ciò entro certi limiti può essere vero,
ma non ha alcun carattere di rigorosa generalità»: L. Firpo, Scritti scelti di
5i6
LA CENA DE LE CENERI
giamo quando tra gli occhi nostri et una part;e del cielo se in-
terpone un monte, che per esseme vicino ne può togliere la per-
fetta vista del circolo de l'orizonte. La distanza dumque di cotai
monti i quali siegueno la convessitudine de la terra, la quale
non è piana ma orbicolare, fa che non ne sii sensibile l'essere
entro le viscere de la terra; come si può alquanto considerare
nella presente figura ^^ dove la vera superficie de la terra è ABC,
[FiG. 5]
entro la quale superficie vi sono molte particolari del mare et
altri continenti: come per essempio M, dal cui punto non meno
veggiamo l'intiero emisfero, che dal punto A et altri de l'ultima
superficie. Del che la raggione è da dui capi: e dalla grandezza
de la terra, e dalla convessitudine circunferenziale di quella; per
il che M punto non è in tanto impedito che non possa vedere
[177] l'emisfero: perché gli altissimi monti non si vengono ad inter-
porre al punto M come la linea M-B (il che credo accaderebbe
G. Bruno e di T. Campanella, Torino, 1949, p. 118, nota 28. - «Globosa»: latini-
smo formato a partire dal vocabolario di Copernico.
68. Si veda la figura 5. La linea M-D non è tracciata correttamente sulla
figura originale.
DIALOGO TERZO 517
quando la superficie della terra fusse piana), ma come la linea
M-C, M-D. la quale non viene a caggionar tale impedimento,
come si vede in virtù de l'arco circonferenziale; e nota d'avan-
taggio che sì come si referisce M ad C et M ad D, cossi anco K si
referisce ad M: onde non deve esser stimato favola quel che
disse Platone delle grandissime concavità e seni de la terra. [179]
Smitho. - Vorrei sapere se quelli che sono vicini a gli altis-
simi monti patiscono questo impedimento 6''.
Teofilo. - Non, ma quei che sono vicini a monti minori;
per che non sono altissimi gli monti, se non sono medesma-
mente grandissimi in tanto, che la loro grandezza è insensibile
alla nostra vista: di modo che vengono con quello ad compren-
dere più, e molti orizonti artificiali, ne i quali gli accidenti de
gli uni non possono donar alterazione a gli altri; però per gli
altissimi non intendiamo come l'Alpe e gli Pirenei e simili: ma
come la Francia tutta ch'è tra dui mari, settentrionale Oceano
et australe Mediterraneo; da quai mari verso l'Alvemia sempre
si va montando, come anco da le Alpe e gli Pirenei, che son
stati altre volte la testa d'un monte altissimo: la qual venendo
tutta via fracassata dal tempo (che ne produce in altra parte
per la vicissitudine de la rinovazione de le parti de la terra),
forma tante montagne particolari le quale noi chiamiamo
monti. Però quanto a certa instanzia che produsse Nundinio de
gli monti di Scozia, dove forse lui è stato, mostra che lui non
può capire quello che se intende per gli altissimi monti: per che
secondo la verità, tutta questa isola Britannia è un monte che
alza il capo sopra l'onde del mare Oceano: del qual monte la
cima si deve comprendere nel loco più eminente de l'isola; la
qual cima, se gionge alla parte tranquilla de l'aria, viene a pro-
vare che questo sii uno di que' monti altissimi, dove è la reg-
gione de forse più felici animali. Alessandro Afrodiseo raggiona
del monte Olimpo, dove per esperienza delle ceneri de sacrificii,
mostra la condizion del monte altissimo e de l'aria sopra i con-
fini e membri de la terra^*^. [181]
69. La discussione sull'altezza dei monti aveva un suo posto nelle discussio-
ni sulla rotondità della Terra. Si vedano le numerose osservazioni di Pantin,
nella traduz. francese di G. Galilée, Sidereiis nuncius. Le Messager celeste, Paris,
1992, pp. 70-72, nota 69.
70. Narrava la leggenda che le lettere, tracciate nella cenere dei sacrifici
5l8 LA CENA DE LE CENERI
Smitho. — M'avete sufficientissimamente satisfatto, et alta-
mente aperto molti secreti de la natura, che sotto questa chiave
sono ascosi. Da quel che respondete a l'argomento tolto da venti
e nuvole, si prende ancora la risposta del altro, che nel secondo
libro Del cielo e mondo apportò Aristotele, dove dice che sarebbe
impossibile che una pietra gittata a l'alto, potesse per medesma
rettitudine perpendicolare tornare al basso: ma sarrebbe neces-
sario che il velocissimo moto della terra se la lasciasse molto a
dietro verso l'occidente''. Perché essendo questa proiezzione
dentro la terra, è necessario che col moto di quella si venga a
mutar ogni relazione di rettitudine et obliquità; perché è diffe-
renza tra il moto della nave, e moto de quelle cose che sono nella
nave^^: il che se non fusse vero, seguitarrebe che quando la nave
corre per il mare giamai alcuno potrebbe trarre per dritto qual-
che cosa da un canto di quella a l'altro, e non sarebbe possibile
che un potesse far un salto e ritornare co' pie onde le tolse.
[Teofilo]. — Con la terra dumque si muoveno tutte le cose
che si trovano in terra; se dumque dal loco extra la terra qual-
che cosa fusse gittata in terra, per il moto di quella perderebbe
la rettitudine. Come appare nella nave AB''^: la qual passando
eseguiti sulla sommità del monte, erano state ritrovate intatte un anno dopo,
provando così la perenne imperturbabilità dell'aria, a quelle altitudini. L'aned-
doto è ben conosciuto: cfr. ad esempio Plutarco, fragm. 191 Sandbach; Ales-
sandro DI Afrodisia, In Aristotelis metereologica, ed. Hayduck, p. 16.12 e segg.;
FiLOPONO, In Aristotelis metereologica, ed. Hayduck, p. 26.32-37.3; Olimpiodoro,
In Aristotelis metereologica, ed. Stùve, p. 22.27-23. Esso è stato ripreso da quasi
tutti i commentatori rinascimentali.
71. Cfr. Aristotele, De caelo, II, 14, 296 b 21.
72. «Bruno condanna con assoluta chiarezza la fallacia sulla quale posa
l'argomentazione classica contro il moto della Terra»: P. Duhem, Éttides sur
Léonard de Vinci, Paris, 1913 (rist. 1984, voi. 3, pp. 257-258, con la traduz. fran-
cese di questi passi).
73. La figura 6 non corrisponde esattamente alle indicazioni contenute nel
testo. Non esibisce nessuna delle lettere ivi menzionate e, cosa che più conta,
non è possibile riscontrarvi nessuno degli elementi descritti nel testo. A detta
di E. GosSELiN e L. Lerner, The Ash Wednesday Supper (La cena de le Ceneri),
traduz. inglese, Hamden, 1977, pp. 44 e segg., questa mancata corrispondenza
sarebbe intenzionale: l'obiettivo di Bruno non sarebbe stato d'illustrare l'argo-
mento della caduta, servendosi della figura, ma di pubblicare un messaggio
politico, «un messaggio di pace del re di Francia indirizzato alla regina d'In-
ghilterra»! Questo tipo di interpretazione, che oltrepassa i limiti del ragione-
vole in relazione ad una lettura «ermetizzante» e «mistica» della cosmologia
bruniana - una linea interpretativa inaugurata da F. A. Yates — è stata criti-
cata, da un punto di vista generale, da Westman nel suo studio Magical Re-
form and Astronomical Reform: the Yates Thesis Reconsidered, in R. S. West-
MAN-J. E. Me Guire, Hermeticism and the Scientific Revolution. Papers read ut a
DIALOGO TERZO
519
per il fiume, se alcuno che se ritrova ne la sponda di quello C
venga a gittar per dritto un sasso, verrà fallito il suo tratto per
quanto comporta la velocità del corso. Ma posto alcuno sopra
[FiG. 61
l'arbore di detta nave, che corra quanto si voglia veloce, non
fallirà punto il suo tratto ^-^i di sorte che per dritto dal punto E,
che è nella cima de l'arbore o nella gabbia, al punto D, che è
nella radice de l'arbore, o altra parte del ventre e corpo di detta [183]
Clark Library Seminar, March g, 1974 (William Andrew Clark Memorial Li-
brary), Los Angeles, 1977, pp. 1-89, segnatamente pp. 5-40 (un riassunto del
dibattito in E. Me Mullin, Bruno and Copernicus cit, pp. 62 e segg.; si veda
inoltre G. Aquilecchia, Schede brimiane cit, Appendice I, pp. 375-377 e Id., Le
opere italiane di G. Bruno: Critica testuale e oltre. Napoli, 1991, pp. 82-85).
74. Cfr. G. Mormino in G. Aquilecchia, «La cena de le Ceneri» cit, p. 693:
«L'immagine della nave è ... servita a Bruno per operare una marcata relati-
vizzazione delle categorie di spazio e moto ... L'impasse nella quale, secondo il
giovane Newton, si trova Descartes è già presente in nuce nell'opera di Bruno e
la strada per uscirne era quella che avrebbe portato all'enunciazione del prin-
cipio di inerzia nella specifica forma datagli da Newton ... L'avvenuto supera-
mento del relativismo viene da Newton sottolineato prendendo come esempio
di spostamento assoluto proprio il moto di una nave sul mare, vale a dire il
modello irrinunciabile di ogni argomentazione relativistica».
520 LA CENA DE LE CENERI
nave, la pietra o altra cosa grave gittata non vegna''^. Cossi se dal
punto D al punto E alcuno che è dentro la nave gitta per dritto
una pietra, quella per la medesma linea ritomarà a basso, muo-
vasi quantosivoglia la nave, pur che non faccia de gl'inchini.
Smitho. — Dalla considerazione di questa differenza s'apre la
porta a molti et importantissimi secreti di natura e profonda fi-
losofia: atteso che è cosa molto frequente e poco considerata,
quanto sii differenza da quel che uno medica se stesso, e quel che
vien medicato da un altro; assai ne è manifesto che prendemo
maggior piacere e satisfazzione se per propria mano venemo a
cibarci, che se per l'altrui braccia. I fanciulli all'or che possono
adoprar gli proprii instrumenti per prendere il cibo, non volen-
tieri si servono de gli altrui: quasi che la natura in certo modo gli
faccia apprendere, che come non v'è tanto piacere, non v'è anco
tanto profitto. I fanciullini che poppano, vedete come s'appiglia-
no con la mano a la poppa? Et io giamai per latrocinio son stato
sì fattamente atterrito, quanto per quello d'un domestico servi-
tore: per che non so che cosa di ombra e di portento apporta seco
più un familiare che un strangiero, per che referisce come una
forma di mal genio e presagio formidabile.
Teofilo. — Or per tornare al proposito: se dumque saranno
dui, de quali l'uno si trova dentro la nave che corre, e l'altro fuori
di quella, de quali tanto l'uno quanto l'altro abbia la mano circa
il medesmo punto de l'aria; e da quel medesmo loco nel mede-
75. Secondo F. R. Johnson-S. V. Larkey, Thomas Digges: the Copernican
System and the Idea of Infinity of the Universe, «The Huntington Library Bulle-
tin» [San Marino Cai.], n. 5, 1934, p. 99, l'esempio del peso lasciato cadere dalla
«cima de l'arbore» era stato già utilizzato da Th. Digges nella sua Perfit De-
scription of the Caelestial Orbes in appendice all'edizione del 1576 della Progno-
stication euerlastinge del padre Léonard, d^"^. Ma Digges aveva già fatto riferimen-
to al principio della relatività nella sua opera, menzionando lo strato «basso»
di aria che appartiene alla Terra. L'esempio del peso lasciato cadere dalla som-
mità dell'albero sul ponte di una nave, il cui movimento - rettilineo — «by
discours of reason» dev'essere «mixte» (circolare e rettilineo), serve a Digges
per confutare l'opinione peripatetica che vuole il movimento di un corpo sem-
plice, a sua volta semplice. L'argomento di Bnmo è ripreso da G. Galilei,
Dialogo sopra i massimi sistemi. Seconda giornata, ed. Brunetti cit, voi. H, pp.
198-199. - Per contro, l'esempio del sasso gettato sulla nave dall'esterno non
ha precedenti. Cfr. G. Aquilecchia, Introduzione a G. Bruno, La cena de le
Ceneri, Torino, 1955, pp. 41-44 (ora in Io., Schede bruniane cit, pp. 83-85); ID.,
Possible Brunian Echoes in Galileo, «Nouvelles de la République des Lettres»
[Napoli], XIV, 1995, pp. 11-17; Id., Bruno at Oxford, in: Giordano Bruno 1583-
1585. The English Experience, Firenze, 1997, pp. 118-121 (nonché M. A. Gra-
NADA, Digges, Bruno e il copernicanesimo in Inghilterra, ivi, pp. 125-155).
DIALOGO TERZO 521
smo tempo ancora, l'uno lascie scorrere una pietra, e l'altro un'al- [185]
tra, senza che gli donino spinta alcuna: quella del primo senza
perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco; e
quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro. Il che non pro-
cede da altro, eccetto che la pietra che esce dalla mano del uno
che è sustentato da la nave, e per consequenza si muove secondo
il moto di quella, ha tal virtù impressa"'' quale non ha l'altra che
procede da la mano di quello che n'è di fuora, benché le pietre
abbino medesma gravità, medesmo aria tramezzante, si partano
(se possibil fia) dal medesmo punto, e patiscano la medesma
spinta. Della qual diversità non possiamo apportar altra raggio-
ne, eccetto che le cose che hanno fissione o simili appartinenze
nella nave, si moveno con quella: e la una pietra porta seco la [187]
virtù del motore, il quale si muove con la nave; l'altra di quello
che non ha detta participazione. Da questo manifestamente si
vede che non dal termine del moto onde si parte, né dal termine
dove va, né dal mezzo per cui si move, prende la virtù d'andar
rettamente: ma da l'efficacia de la virtù primieramente impressa,
dalla quale depende la differenza tutta^^. E questo mi par che
basti aver considerato quanto alle proposte di Nundinio.
Smitho. - Or domani ne revedremo per udir gli propositi
che soggionse Torquato.
Prudenzio. - FiaP^.
Fine del terzo dialogo [189]
76. Cfr. L. Cozzi, E lessico scientifico nel dialogo del Rinascimento, in: B dia-
logo filosofico nel '500 europeo, a cura di D. Bigalli e G. Canziani, Milano, 1990,
p. 71: «Il sintagma "virtù impressa" corrisponde aìVimpetus impressus dei filo-
sofi parigini del Trecento, che avevano sviluppato la fisica aristotelica in una
concezione più moderna della dinamica e della cinematica».
yy. Cfr. A. Kovré, Etudes galiléennes, Paris, 1966 (traduz. di M. Torrini, To-
rino, 1979, pp. 172-183) che esalta, a proposito di questo passo della Cena (pro-
babilmente noto a Galileo) «la novità del ragionamento di Bruno» in rapporto
a quello di Copernico. A p. 175, Koyré sostiene che la descrizione bruniana dei
movimenti di caduta («naturali») o dei lanci («violenti») effettuati sulla nave
che scivola sulla superficie dell'acqua si rifa all'idea di «sistema meccanico»,
vale a dire «di un insieme di corpi uniti dalla loro partecipazione a un movi-
mento comune». Cfr. anche M. Clagett, La scienza della meccanica nel Me-
dioevo, traduz. di L. Sosio, Milano, 1972, pp. 727-728 e passim. M. Clavelin nota,
nondimeno, due lacune nel ragionamento peraltro originale e profondo di
Bruno: i) egli non enuncia il principio di conservazione del moto; 2) egli ignora
poi che il sistema meccanico dev'essere dotato di un moto rettilineo e uniforme
(cfr. La philosophie naturelle de Galilée, Paris, 1968, p. 259, nota).
78. «E sia».
DIALOGO QUARTO
Smitho. — Volete ch'io vi dica la causa?'
Teofilo. - Ditela pure.
Smitho. — Perché la divina scrittura (il senso della quale ne
deve essere molto raccomandato come cosa che procede da in-
telligenze superiori che non errano) in molti luoghi accenna e
suppone il contrario.
Teofilo. — Or quanto a questo credetemi che se gli Dei si
fussero degnati d'insegnarci la teorica delle cose della natura,
come ne han fatto favore di proporci la prattica di cose morali,
io più tosto mi accostarci alla fede de le loro revelazioni, che
muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii senti-
menti 2. Ma (come chiarissimamente ogn'uno può vedere) nelli
divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le
demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se
fusse filosofia: ma in grazia de la nostra mente et affetto, per le
leggi si ordina la prattica circa le azzione morali. Avendo dum-
que il divino legislatore^ questo scopo avanti gli occhii, nel
resto non si cura di parlar secondo quella verità per la quale
non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male et appi-
[191I gliarse al bene: ma di questo il pensiero lascia a gli uomini con-
templativi; e parla al volgo di maniera che secondo il suo modo
de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale^.
1. Vale a dire il perché ci si opponga alla mobilità della Terra.
2. Argomento ripreso da Galilei nella sua Lettera a Madama Cristina di Lo-
rena, in Opere, a cura di F. Brunetti, Torino, voi. I, 1980^, p. 553. Cfr. S. Tim-
panaro, Scritti di storia e critica della scienza, Firenze, 1952, pp. 104-105 e
G. Aquilecchia, Introduzione a G. Bruno, La cena de le Ceneri, Torino, 1955,
p. 20 (ora in Id., Schede bruniane, Manziana [Roma], 1993, p. 70).
3. Mosè.
4. Nella Somma teologica, I, q. 68, art 3 e q. 70, art. i, traduz. e commen-
to a cura dei Domenicani italiani, testo latino dell'Edizione Leonina, Firenze,
DIALOGO QUARTO 523
Smitho. — Certo è cosa conveniente, quando uno cerca di far
istoria e donar leggi, parlar secondo la comone intelligenza, e
non esser sollecito in cose indifferenti. Pazzo sarrebe l'istorico
che trattando la sua materia, volesse ordinar vocaboli stimati
novi, e riformar i vecchi; e far di modo che il lettore sii più
trattenuto a osservarlo et interpretarlo come gramatico, che in-
tenderlo come istorie©. Tanto più uno che vuol dare a l'uni-
verso volgo la legge e forma di vivere, se usasse termini che le
capisse lui solo et altri pochissimi, e venesse a far considera-
zione e caso de materie indifferenti dal fine a cui sono ordinate
le leggi, certo parrebbe che lui non drizza la sua dottrina al
generale et alla moltitudine per la quale sono ordinate quelle;
ma a savii e generosi spirti, e quei che sono veramente uomini,
li quali senza legge fanno quel che conviene ^r per questo disse
Alchazele filosofo, sommo pontefice e teologo mahumetano, che
il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e
speculazioni, quanto la bontà de costumi, profitto della civilità,
convitto di popoli; e prattica per la commodità della umana
conversazione, mantenimento di pace et aumento di republi-
che*'. Molte volte, dumque, et a molti propositi, è una cosa da
voi. V, 1954, pp. 88-93 e 108-113, san Tommaso dichiara (a proposito delle
«acque poste al di sopra del firmamento» o delle stelle fissate su sfere rotanti e
invisibili) che Mosè «volendo adattarsi alla rozzezza del suo popolo, si attenne
alle apparenze sensibili». Ma Tommaso non arriva ad affermare che, nella
Scrittura, non si troverebbe nessuna verità riguardo alla realtà naturale. Di-
cendo qui che la Bibbia contiene essenzialmente insegnamenti di ordine mo-
rale o prescrittivi, il Nolano sembra andar contro i teologi a lui contempora-
nei, persuasi nella quasi totalità che Dio avesse consegnato ad Adamo, e poi ai
suoi profeti, la scienza delle cose naturali. Infatti, Bruno non nega a Mosè, a
Giobbe e neanche a Salomone, una conoscenza dei fenomeni della natura, di
cui il Nolano crede di aver decifrato il «sentimento» non «metaforico», a dif-
ferenza dei teologi «pappagalli d'Aristotele, Platone, et Averroe», come li qua-
lificherà più oltre, a p. 527. Cfr. infra, note 12 e 17.
5. R. Amerio, in Opere di G. Bruno e T. Campanella, Milano-Napoli, 1956,
p. 254, menziona a proposito I Timoteo, I, 9-10.
6. M. A. Granada, nella sua traduzione, Madrid, 1994^, p. 134, nota 2 (che
rinvia a F. Papi, Antropogia e civiltà nel pensiero di G. Bruno, Firenze, 1968, pp.
297-301) ritiene dettata dalla prudenza questa singolare attribuzione della po-
sizione di Averroè, che è quella dello stesso Bruno, ed al-GhazàlT (1058-1111),
critico della filosofia da un punto di vista religioso e tradizionalista. Ricor-
diamo che, nel Medio Evo, era stata tradotta in latino solo la prima parte della
Composizione in quaranta libri di al-Ghazàli {Le intenzioni dei filosofi, consacrata
essenzialmente all'esposizione di Avicenna), non la seconda {L'incoerenza dei
filosofi, dedicata alla confutazione delle tesi avicenniane, incompatibili con gli
insegnamenti del Corano), cosa che aveva fatto considerare erroneamente un
filosofo il teologo al-Ghazàlì (cfr. A. De Libera, Storia della filosofia medievale,
524 LA CENA DE LE CENERI
stolto et ignorante, più tosto riferir le cose seconda la verità, che
secondo l'occasione e comodità. Come quando il sapiente disse
«Nasce il sole e tramonta, gira per il mezo giorno, e s'inchina a
l'Aquilone^», avesse detto «La terra si raggira a l'oriente, e si
[193] tralascia il sole che tramonte; s'inchina a doi tropici, del Cancro
verso l'Austro, e Capricorno verso l'Aquilone», sarrebbono fer-
mati gli auditori a considerare: «Come costui dice la terra muo-
versi? che novelle son queste?»; l'arrebono al fine stimato un
pazzo, e sarrebe stato da dovere un pazzo. — Pure per satisfare a
l'importunità di qualche rabbino impaziente e rigoroso, vorrei
sapere se col favore della medesma scrittura questo che diciamo
si possa confirmare facilissimamente.
Teofilo. — Vogliono forse questi reverendi, che quando
Mosè disse che Dio tra gli altri luminari ne ha fatti dui grandi s,
che sono il sole e la luna, questo si debba intendere assoluta-
mente per che tutti gli altri siino minori della luna: o vera-
mente secondo il senso volgare, et ordinario modo di compren-
dere e parlare? Non sono tanti astri più grandi che la luna? non
possono essere più grandi che il sole?^ che manca a la terra, che
non sii un luminare più bello e più grande che la luna, che
medesmamente ricevendo nel corpo de l'Oceano et altri medi-
terranei mari il gran splendore del sole 1°, può comparir lucidis-
traduz. di F. Ferri, Milano, 1995, pp. 115-117). Bruno lo cita accanto ad
Averroè negli Eroici furori, II, 4, p. 729 e se ne serve come autorità nel De
immenso, I, 4, Op. lai., I, i, p. 217, ed. Monti cit, p. 432 (e cfr. ora R. Sturlese,
«Averroe quantumqiie arabo et ignorante di lingua greca...». Note sull'averroismo
di Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], LXXIII, 1992,
pp. 266-273).
7. Cfr. Ecclesiaste, I, 5-6: uno dei testi della Sacra Scrittura che i teologi
opporranno puntualmente ai fautori della mobilità della Terra.
8. Genesi, I, 16.
9. Fino ad ora, gli interrogativi di Bruno andavano ad aggiungersi a quelli
degli interpreti tradizionali della Bibbia, che vi rispondevano in funzione di
conoscenze astronomiche già ben fissate su questo punto. Si veda, ad esempio,
san Tommaso (Somma teologica, I, q. 70, art i, ed. cit, p. 112: «Secondo il Cri-
sostomo si parla di "due luminari grandi", non per riguardo alla loro mole, ma
alla loro efficacia e potenza. È vero che altre stelle sono materialmente più
grandi della luna; però gli effetti della luna sono maggiormente sentiti in que-
sta stessa sfera inferiore. Inoltre essa apparisce più grande ai sensi»). Ma, im-
mediatamente dopo, le domande di Bruno cessano di essere quelle classiche:
da un lato, troviamo l'interrogativo sulla Terra definita anch'essa come un «lu-
minare», dall'altro il suggerimento che Mosè non abbia parlato della Terra
come di un astro, benché lo riconoscesse come tale. Si ritrova dunque, l'idea
che il grande legislatore fosse altresì al corrente della verità sulla natura.
10. Eco dell'idea, formulata già a p. 507, che il riflesso della luce solare sui
DIALOGO QUARTO 525
simo corpo a gli altri mondi chiamati astri, non meno che
quelli appaiono a noi tante lampeggiante faci? Certo, che non
chiami la terra un luminare grande o piccolo, e che tali dichi
essere il sole e la luna, è stato bene e veramente detto nel suo
grado, perché dovea farsi intendere secondo le paroli e senti-
menti comoni: e non far come uno che qual pazzo e stolto usa
della cognizione e sapienza. Parlare con i termini de la verità
dove non bisogna, e voler che il volgo e la sciocca moltitudine
dalla quale si richiede la prattica abbia il particular intendi- [195]
mento, sarrebe come volere che la mano abbia l'ochio: la quale
non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per oprare e con-
sentire a la vista. Cossi, benché intendesse la natura delle su-
stanze spirituali, a che fine dovea trattarne, se non quanto che
alcune di quelle hanno affabilità e ministerio con gli uomini,
quando si fanno ambasciatrici? ^^ Benché avesse saputo che alla
luna et altri corpi mondani che si veggono e che sono a noi
invisibili, convenga tutto quel che conviene a questo nostro
mondo, o al meno il simile, vi par che sarrebbe stato ufficio di
legislatore di prenderse e donar questi impacci a' popoli? Che
ha da far la prattica delle nostre leggi e l'essercizio delle nostre
virtù con quell'altri? Dove dumque gli uomini divini parlano
presupponendo nelle cose naturali il senso comunmente rice-
vuto, non denno servire per autorità; ma più tosto dove parlano
indifferentemente, e dove il volgo non ha risoluzione alcuna: in
quello voglio che s'abbia riguardo alle paroli de gli uomini di-
vini, anco a gli entusiasmi di poeti, che con lume superiore ne
han parlato; e non prendere per metafora quel che non è stato
detto per metafora e per il contrario prendere per vero quel che
è stato detto per similitudine. Ma questa distinzione del meta-
forico e vero, non tocca a tutti di volerla comprendere: come
non è dato ad ogni uno di posserla capire. — Or se vogliamo
mari (e non sulle terre, come sosterranno Galilei e Kepler dopo il 1610) da-
rebbe il suo splendore al nostro globo visto dalle altre stelle.
II. Allusione al problema che è stato sollevato da numerosi Padri della
Chiesa e dai loro interpreti: perché Mosè non ha parlato della creazione degli
angeli? Si veda, ad esempio, S. Agostino, Civitas Dei, XI, 9 (traduz. di C. Gior-
gi, «Biblioteca Agostiniana», s. I, n. 5, Firenze, 1928, pp. 386-388) e S. Tom-
maso, Somma teologica, I, q. 68, art. 3, ed. cit., p. 90, dove il silenzio di Mosè
è giustificato dalla necessità di «non proporre qualcosa di ignoto a persone
ignoranti ».
520 LA CENA DE LE CENERI
voltar rocchio della considerazione a un libro contemplativo,
naturale, morale e divino, noi trovaremo questa filosofia molto
faurita e favorevole. Dico ad un Libro di Giob, quale è uno di
singularissimi che si possan leggere, pieno d'ogni buona teolo-
[197] già, naturalità e moralità, colmo di sapientissimi discorsi '^, che
Mosè come un sacramento ha congionto a i libri della sua legge.
In quello un di personaggi volendo descrivere la provida po-
tenza de Dio, disse quello formar la pace ne gli eminenti suoi,
cioè sublimi figli ^^, che son gli astri, gli dèi, de quali altri son
fuochi, altri sono acqui'-* (come noi diciamo altri soli, altri ter-
re), e questi concordano: per che quantumque siino contrari!,
tutta via l'uno vive, si nutre e vegeta per l'altro; mentre non si
confondeno insieme, ma con certe distanze gli uni si moveno
circa gli altri. Cossi vien distinto l'universo in fuoco et acqua,
che sono soggetti di doi primi principi! formali et activi, freddo
e caldo ^^. Que' corpi che spirano il caldo son gli soli che per se
stessi son lucenti e caldi; que' corpi che spirano il freddo, son le
terre: le quali essendo parimente corpi eterogenei, son chiamate
più tosto acqui, atteso che tai corpi per quelle si fanno visibili,
onde meritamente le nominiamo da quella raggione che ne
sono sensibili!; sensibili dico non per se stessi: ma per la luce de
soli sparsa ne la lor faccia. A questa dottrina è conforme Mosè,
12. Lo stesso giudizio positivo sul libro di Giobbe in De magia, Op. lai.,
p. 431 (ed. a cura di A. Biondi, Pordenone, 1986. p. 62): nel De monade, V, Op.
lat., I, 2, p. 390, Bruno scrive che, in questo stesso libro, «sono contenuti i
profondi misteri dei Caldei» (ed. a cura di Monti, Torino, 1980, p. 348): su que-
sto punto, cfr. le osservazioni di A. Corsano. Il pensiero di G. Bruno nel suo
svolgimento storico, Firenze, 1940, pp. 118-119, ma soprattutto M. A. Granada,
G. Bruno e l'interpretazione della tradizione filosofica: l'aristotelismo e il cristiane-
simo di fronte air«antiqua vera filosofia», in: L'interpretazione nei secoli XVI e
XVII, a cura di G. Canziani-Y. C. Zarka, Milano, 1993, pp. 52-82 (in particolare,
pp. 74-78).
13. Cfr. Giobbe, XXV, 2.
14. Giacché una simile asserzione non si trova nel libro di Giobbe, è proba-
bile che Bruno segua l'etimologia erronea offerta dal Talmud (Haghigà 12"),
dove «Shamaim», il «cielo», si ritiene composto da «Esh», «fuoco», e da
«Maim», «acqua». Cosi D. Castelli in F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno
esposte e confrontate con le italiane, Firenze. 1889. p. 311, nota i.
15. Sono i due princìpi alla base della fisica di Telesio (che Bruno ha letto,
giudicandolo nei modi studiati da G. Aquilecchia, Schede bruniane cit, nn.
XX e XXI, pp. 293-310); ma l'accostamento deve fermarsi qui, perché il mondo
telesiano, strutturato a partire da caldo e freddo, resta un cosmo geocentrico.
L'universo popolato da terre e soli infiniti che le pagine della Cena evocano
non ha niente a che vedere con quello telesiano, così come, del resto, con
quello della dottrina di Mosè.
DIALOGO QUARTO 527
che chiama «firmamento» l'aria, nel quale tutti questi corpi
hanno la persistenza e situazione, e per gli spacii del quale ven-
gono distinte e divise le acqui inferiori, che son queste che sono
nel nostro globo, da l'acqui superiori, che son quelle de gli altri
globi; dove pure se dice, esserno divise l'acqui da l'acqui '^ E se
ben considerate molti passi della scrittura divina, gli dèi e mi-
nistri de l'Altissimo son chiamati «acqui», «abissi», «terre», e
«fiamme ardenti»: chi lo impediva che non chiamasse «corpi
neutri, inalterabili, inmutabili», «quinte essenze», «parti più [199]
dense delle sfere», «berilli», «carbuncoli», et altre fantasie de le
quali, come indifferenti, niente manco il volgo s'arrebe possuto
pascere?
Smitho. — Io per certo molto mi muovo da l'autorità del
Libro di Giobbe e di Mosè'^, e facilmente posso fermarmi in que-
sti sentimenti reali più tosto che in metaforici et astratti: se non
che alcuni pappagalli d'Aristotele, Platone, et Averroe, dalla fi-
losofia de quali son promossi poi ad esser teologi, dicono che
questi sensi son metaforici, e cossi in virtù de lor metafore le
fanno significare tutto quel che gli piace, per gelosia della filo-
sofia nella quale son allevati.
Teofilo. — Or quanto siino costante queste metafore, lo pos-
sete giudicar da questo che la medesma scrittura è in mano di
Giudei, Cristiani e Mahumetisti; sette tanto differenti e contra-
rie, che ne parturiscono altre innumerabili contrariisime e dif-
ferentissime, le quali tutte vi san trovare quel proposito che gli
piace e meglio li vien comodo: non solo il proposito diverso e
16. Cfr. Genesi, I, 7. Ma, nel testo biblico, «firmamento» indica la volta ap-
parente del cielo, cupola solida che trattiene le acque superne, dalle cui fendi-
ture passarono le acque del Diluvio (cfr. anche il commento di E. Galbiati
nella traduz. della Bibbia da lui curata, Torino, voi. I, 1973^, p. 8). Bruno si
allontana sensibilmente dall'interpretazione tradizionale. Per alcuni precedenti
medievali di tale glossa, cfr. E. Grant, Planets, Stars and Orbs. The Medieval
Cosmos, i20o-i68y, Cambridge, 1994, pp. 96-97. Vi saranno però teologi del XVI
secolo, come Calvino o Peucer, che interpreteranno anch'essi l'ebraico Rakia
non nel senso del firmamentum della Vulgata, ma come il nome da attribuire
allo spazio occupato dall'aria o da un elemento fluido, all'interno del quale si
muovono gli astri. - Affatto originale è, invece, l'interpretazione bruniana
delle acque «inferiori» e «superiori».
17. Il Genesi. Sulla dipendenza, sostenuta da Bruno, della sapienza mosaica
dal sapere pagano (capovolgimento dello schema di Ficino o di Pico, che fa-
cevano dipendere la scienza dei Greci dalla Prisca theologia biblica), si veda
M. A. Granada, G. Bruno e l'interpretazione della tradizione filosofica cit., nota
12, pp. 72 e segg.
528 LA CENA DE LE CENERI
differente, ma ancor tutto il contrario; facendo de un «sì», un
«non», e di un «non», un «sì»: come verbi gratta in certi passi
dove dicono che Dio parla per ironia.
Smitho. - Lasciamo di giudicar questi; son certo che a loro
non importa che questo sii o non sii metafora: però facilmente
ne potranno far star in pace con nostra filosofia.
Teofilo. - Dalla censura di onorati spirti, veri religiosi, et
anco naturalmente uomini da bene, amici della civile conversa-
[201] zione e buone dottrine, non si de' temere; perché quando bene
arran considerato, trovarranno che questa filosofia non solo
contiene la verità, ma ancora favorisce la religione'^ più che
qualsivoglia altra sorte de filosofia: come quelle che poneno il
mondo finito 1^; l'effetto e l'efficacia della divina potenza finiti;
le intelligenze e nature intellettuali solamente otto o diece; la
sustanza de le cose esser corrottibile; l'anima mortale, come che
consista più tosto in una accidentale disposizione, et effetto di
complessione, e dissolubile contemperamento et armonia; l'ese-
cuzione della divina giustizia sopra l'azzioni umane per conse-
quenza nulla; la notizia di cose particolari a fatto rimossa dalle
cause prime et universali; et altri inconvenienti assai: li quali
non solamente come falsi acciecano il lume de l'intelletto, ma
ancora, come neghittosi et empii, smorzano il fervore di buoni
affetti.
Smitho. - Molto son contento di aver questa informazione
della filosofia del Nolano. — Or veniamo un poco a gli discorsi
fatti col dottor Torquato: il quale son certo che non può essere
tanto più ignorante che Nundinio, quanto è più presuntuoso,
temerario e sfacciato.
Frulla. - Ignoranza et arroganza son due sorelle individue
in un corpo et in un'anima.
Teofilo. — Costui con un emfatico aspetto, col quale il di-
vum pater^^ vien descritto nella Metamorfose seder in mezzo del
concilio de gli dèi, per fulminar quella severissima sentenza
18. Lo stesso convincimento è espresso in De la causa, Dialogo quarto,
p. 710 e nel De l'infinito, Dialogo primo, pp. 51-52.
19. Lo stesso tema viene sviluppato nel De l'infinito. Dialogo primo,
pp. 51-52 e nel De immenso, I, 11 e Vili, 3, Op. lai, 1, i, pp. 242-243 e I, 2,
pp. 294-295 (ed. Monti cit, pp. 452-453 e 791-792).
20. «Il padre degli dèi».
DIALOGO QUARTO 529
centra il profano Licaone^^ dopo aver contemplato la sua au-
rea collana... [203]
Prudenzio. - Torquem auream, aureum ntonile^^.
Teofilo. - ... et appresso remirato al petto del Nolano, dove
più tosto arrebe possuto mancar qualche bottone^'; dopo essersi
rizzato, ritirate le braccia da la mensa, scrollatosi un poco il
dorso, sbruffato co la bocca alquanto, acconciatasi la beretta di
velluto 24 in testa, intorcigliatosi il mustaccio, posto in arnese il
profumato volto, inarcate le ciglia, spalancate le narici, messosi
in punto con un riguardo di rovescio, poggiatasi al sinistro
fianco la sinistra mano^^; per donar principio alla sua scrima,
appuntò le tre prime dita della destra insieme, e cominciò a
trar di mandritti, in questo modo parlando: «Tune ille philo-
sophorum protoplastes...?»^^. Subito il Nolano suspettando di ve-
nire ad altri termini che di disputazione, gl'interroppe il parlare
dicendogli: « Quo vadis domine, quo vadisP Quid si ego philosopho-
rum protoplastes? quid si nec Aristoteli nec cuiquam magis conce-
dam, quam mihi ipsi concesserint? ideo ne terra est centrum mundi
inmobile?»^''. Con queste et altre simili persuasioni, con quella
maggior pazienza che posseva, l'essortava a portar propositi,
con i quali potesse inferire demostrativa o probabilmente in fa-
vore de gli altri protoplasti, contra di questo novo protoplaste.
E voltatosi il Nolano a gli circostanti ridendo con mezo riso:
«Costui» disse, «non è venuto tanto armato di raggioni quanto
21. Cfr. Ovidio, Metam., I, 177-181.
22. «La sua catena d'oro, la sua collana dorata».
23. Tema neoplatonico: cfr. il «laxus calceus» di Socrate (il «calzare slac-
ciato») e la sua «toga dissidens» (la «toga in disordine»), evocati da Pico della
Mirandola nella lettera ad Ermolao Barbaro {Prosatori latini del Quattrocento, a
cura di E. Garin, Milano-Napoli, 1952, pp. 814-815). Sulla tenuta dimessa di
Bruno, cfr. J. Florio, Second Fruites, London, 1591, l, p. io, dove il Nolano dice
a Torquato: «Voi non andate dunque vestito a figure come faccio io, ciò è
sempre ad un modo».
24. Segno distintivo di coloro che avevano ottenuto il titolo accademico di
dottore.
25. Si veda la descrizione che l'Aretino fa di Erode neìV Umanità di Cristo,
Venetia, 1539, ^- '^T ■
26. «Saresti tu, forse, il prototipo dei filosofi?».
27. «Dove vai, signore, dove vai?» (ripresa ironica della domanda fatta a
Gesù: «Quo vadis. Domine?»). «E se io fossi davvero il prototipo dei filosofi? Se
non concedessi ad Aristotele ed a qualsiasi altro, più di quanto essi non mi
concederebbero? Così che la Terra non sia più il centro immobile del mondo?».
530 LA CENA DE LE CENERI
di pareli e scommi, che si muoiono di freddo e fame»^^. Pregato
da tutti che venesse a gli argumenti, mandò fuori questa voce:
« Unde igitur stella Martis nunc maior, mine vero minor apparet, si
[205] terra movetur?»^^.
Smitho. - O Arcadia, è possibile che sii in rerum natura^^,
sotto titolo di filosofo e medico...
Frulla. — E dottore e torquato.
Smitho. - ... che abbia possuto tirar questa consequenza? Il
Nolano che rispose?
Teofilo. - Lui non si spanto per questo: ma gli rispose che
una delle cause principali per le quali la stella di Marte appare
maggiore e minore, a volte a volte, è il moto della terra e di
Marte ancora, per gli proprii circoli, onde aviene che ora siino
più prossimi, ora più lontani".
Smitho. - Torquato che soggionse?
Teofilo. - Dimandò subito della proporzione de moti degli
pianeti e la terra.
Smitho. - Et il Nolano, ebbe tanta pazienza che vedendo un
sì presuntuoso e goffo, non voltò le spalli et andarsene a casa, e
dire a colui che l'avea chiamato ^^ che...
Teofilo. - Anzi rispose che lui non era andato per leggere
né per insegnare, ma per rispondere; e che la simmetria, ordine
e misura de moti celesti si presuppone tal qual'è, et è stata co-
nosciuta da antichi e moderni ^^; e che lui non disputa circa
28. Cfr. Candelaio, Proprologo, p. 279.
29. «Come si spiegherebbe dunque che la stella di Marte appare ora mag-
giore, ora minore, se la Terra si muove?».
30. «In natura».
31. L'esempio è ben scelto: raggiungendo le variazioni di distanza tra la
Terra e Marte il fattore 5 (da cui un rapporto d'intensità luminosa da i a 25),
era difficile giustificarlo in un sistema geocentrico. Tolomeo aveva dovuto ac-
cordare a Marte un cielo di uno «spessore» considerevole (7560 raggi terrestri,
corrispondenti a un rapporto da i a 7 per la sua distanza, al perigeo e all'apo-
geo), senza pertanto arrivare ad una spiegazione razionale di ciò che si osser-
vava. Rheticus e, dopo di lui, tutti i seguaci di Copernico hanno sottolineato la
superiorità dell'ipotesi eliocentrica su quella tolemaica. Cfr. De libris Revolutio-
num narratio prima, in N. COPERNICO, Opere, a cura di F. Barone, Torino, 1979,
pp. 772-773.
32. Fulke Greville.
33. Si è appena visto che un grande disaccordo regnava tra Antichi e Mo-
derni attorno a questi problemi. È chiaro che nemmeno Bruno ha raggiunto su
di essi un punto di vista definitivo. Da «filosofo», non si considera obbligato a
verificare «le misure e teorie» (all'epoca contraddittorie) dei «matematici». Ciò
dimostra che egli non ha valutato in pieno il cambiamento introdotto da Co-
DIALOGO QUARTO 53 1
questo, e non è per litigare contra gli matematici per togliere le
lor misure e teorie, alle quali sottoscrive e crede: ma il suo
scopo versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi
moti. Oltre disse il Nolano: «Se io metterò tempo per rispondere
a questa dimanda, noi staremo qua tutta la notte senza dispu-
tare e senza ponere giamai gli fondamenti delle nostre preten-
sioni contra la comone filosofia: per che tanto gli uni quanto gli [207]
altri condoniamo tutte le supposizioni, pur che si conchiuda la
vera raggione delle quantità e qualità di moti, et in questi
siamo concordi: a che dumque beccarse il cervello fuor di pro-
posito? Vedete voi se dalle osservanze fatte e dalle verificazioni
concesse, possiate inferire qualche cosa che conchiuda contra
noi: e poi arrete libertà di proferire le vostre condannazioni».
Smitho. — Bastava dirgli che parlasse a proposito.
Teofilo. — Or qua nessuno di circostanti fu tanto ignorante,
che col viso e gesti non mostrasse aver capito che costui era
una gran pecoraccia aurati ordinisi'*.
Frulla. — Idest il tosone.
Teofilo. — Pure, per imbrogliar il negocio, pregomo il No-
lano che esplicasse quello che lui volea defendere, per che il
prefato dottor Torquato argumentarebbe. Rispose il Nolano che
lui s'avea troppo esplicato; e che se gli argumenti de gli aversa-
rii erano scarsi, questo non procedeva per difetto di materia,
come può essere a tutti ciechi manifesto. Pure di nuovo gli con-
firmava che l'universo è infinito; e che quello costa d'una in-
mensa eterea reggione: è veramente un cielo il quale è detto
spacio e seno, in cui sono tanti astri che hanno fissione in
quello, non altrimente che la terra; e cossi la luna, il sole et altri
corpi innumerabili sono in questa eterea reggione, come veg-
giamo essere la terra. E che non è da credere altro firmamento,
altra base, altro fundamento, ove s'appoggino questi grandi ani-
mali che concorreno alla constituzion del mondo: vero soggetto [209]
pemico e perfezionato da Kepler esiste un rapporto necessario tra la «quanti-
tà» dei moti celesti e l'ipotesi cosmologica su cui l'astronomo si fonda, cosa che
il Nolano non sembra aver inteso, quando più sotto adotterà un'attitudine
concordista di fronte ad ipotesi che sembravano accettabili, giacché tutte «sal-
vavano» i fenomeni.
34. «Dell'ordine d'oro» (l'Ordine del Toson d'oro era stato fondato da Fi-
lippo III il Buono, nel 1429).
532 LA CENA DE LE CENERI
et infinita materia della infinita divina potenza attuale"; come
bene ne ha fatto intendere tanto la regolata raggione e discorso,
quanto le divine revelazioni che dicono non essere numero de
ministri de l'Altissimo, al quale migliaia de migliaia assistono,
e diece centenaia de migliaia gli amministrano ^^ Questi sono
gli grandi animali de quali molti, con lor chiaro lume che da
lor corpi diffondeno, ne sono di ogni contomo sensibili. De
quali, altri son effettualmente caldi come il sole et altri innu-
merabili fuochi; altri son freddi, come la terra, la luna. Venere
et altre terre innumerabili. Questi per comunicar l'uno a l'altro,
e participar l'un da l'altro il principio vitale, a certi spacii, con
certe distanze, gli uni compiscono gli lor giri circa gli altri,
come è manifesto in questi sette che versano circa il sole: de
quali la terra è uno che movendosi circa il spacio di 24 ore dal
lato chiamato occidente verso l'oriente, caggiona l'apparenza di
questo moto de l'universo circa quella, che è detto moto mun-
dano e diurno". La quale imaginazione è falsissima, contra na-
tura et impossibile: essendo che sii possibile, conveniente, vero
e necessario, che la terra si muova circa il proprio centro per
participar la luce e tenebre, giorno e notte, caldo e freddo; circa
il sole per la participazione de la primavera, estade, autunno,
inverno; verso i chiamati poli et oppositi punti emisferici, per
la rinovazione di secoli e cambiamento del suo volto: a fin che
dove era il mare, sii l'arida; ove era torrido, sii freddo; ove il
tropico, sii l'equinozziale; e finalmente sii de tutte cose la vicis-
situdine: come in questo, cossi ne gli altri astri, non senza rag-
[211] gione da gli antichi veri filosofi chiamati «mondi»'^. Or mentre
35. Si veda il principio del Dialogo quinto, dove sono ripresi gli stessi temi.
36. Cfr. Daniele, VII, io. Gli angeli diventano gli astri innumerevoli, per
certi autori visibili, per altri no, al servizio di Dio.
37. Nei passaggi successivi. Bruno descrive, secondo una prospettiva «fina-
lista», totalmente assente in Copernico: i) il movimento diurno della Terra;
2) il suo movimento annuale; 3) il movimento detto «di declinazione», che,
inspiegabilmente, nel Dialogo quinto, scompone in due movimenti (cfr. infra,
p. 557) ed al quale attribuisce la storia geologica del globo terrestre: cosa in-
tuita da Aristotele, che pure non sapeva determinarne le vere cause.
38. In virtù della sostanziale omogeneità dei diversi mondi sparsi negli
spazi infiniti, gli astri eterei considerati immutabili nella tradizione aristote-
lica, devono essere — a loro volta - sottomessi al divenire. Gli «antichi veri
filosofi» che, a differenza di Aristotele, hanno capito realmente cosa fosse un
mondo, sono gli epicurei? Cfr. De l'infinito. Dialogo secondo, pp. 60-62 nonché
Dialogo quarto, pp. 1 15-134.
DIALOGO QUARTO 533
il Nolano dicea questo, il dottor Torquato cridava: «Ad rem, ad
rem, ad rem»^'^. Al fine il Nolano se mise a ridere, e gli disse, che
lui non gli argomentava, né gli rispondeva, ma che gli propo-
neva: e però «ista sunt res, res, res»'*^; e che toccava al Torquato
appresso de apportar qualche cosa ad rem.
Smitho. — Perché questo asino si pensava essere tra goffi e
balordi, credeva che quelli passassero questo suo «ad rem» per
uno argumento e determinazione: e cossi un semplice crido, co
la sua catena d'oro, satisfar alla moltitudine.
Teofilo. — Ascoltate d'avantaggio. Mentre tutti stavano ad
aspettar quel tanto desiderato argumento, ecco che voltato il
dottor Torquato a gli commensali, dal profondo della suffi-
cienza sua sguaina e gli viene a donar sul mostaccio uno adagio
erasmiano: «Anticiram navigat»"*^.
Smitho. — Non possea parlar meglio un asino, e non possea
udir altra voce chi va a pratticar con gli asini.
Teofilo. — Credo che profetasse (benché non intendesse lui
medesmo la sua profezia) che il Nolano andava a far provisione
d'elleboro per risaldar il cervello a questi pazzi barbareschi.
Smitho. - Se quelli che v'eran presenti, come erano civili,
fussero stati civilissimi, gli arrebbono attaccato in loco della
collana un capestro al collo; e fattogli contar quaranta basto-
nate in commemorazione del primo giorno di quaresima.
Teofilo. - Il Nolano gli disse che il dottor Torquato, lui
non, era pazzo per che porta la collana'*^: la quale se non avesse [213]
a dosso, certamente il dottor Torquato non valerebe più che per
suoi vestimenti; i quali però vagliono pochissimo se a forza di
bastonate non gli sarran spolverati sopra. E con questo dire si
39. «I fatti! i fatti! i fatti!». A. Corsano, Il pensiero di G. Bruno nel suo svol-
gimento storico cit, p. 38, ricorda la grande disputa che nel XV secolo oppone,
soprattutto a Parigi, i partigiani dell'ire ad res ai partigiani dell'ire ad terminos.
40. «Questi sono fatti, fatti, fatti».
41. «Sta veleggiando per Anticira». Cfr. supra, Dialogo primo, p. 458, nota
68.
42. Giuoco di parole, occasionato dalla prossimità semantica di «collana»
con «catena», in modo da suggerire che Torquato (alla lettera, «portatore di
collana o di catena») sia «pazzo da catena», vale a dire matto da legare. Sul-
l'abbinamento catena/ follia, cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, XXIV, II, 7-8 («A
chi in amor s'invecchia, oltre ogni pena, / si convengono i ceppi e la catena»);
A. Caro, Apologia degli Accademici di Banchi di Roma contra messer L. Castelve-
tro, Opposizion XII, in Opere, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, 1974, p. 168;
A. F. Doni, / marmi, I, 6, ed. a cura di E. Chiòrboli, Bari, 1928, p. 84.
534 LA CENA DE LE CENERI
alzò di tavola, lamentandosi ch'il signor Folco non avea fatto
provisione de meglior suppositi■*^
Frulla. - Questi son i frutti d'Inghilterra: e cercatene pur
quanti volete, che le trovarete tutti dottori in gramatica, in que-
sti nostri giorni: ne' quali in la felice patria regna una costella-
zione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione, mi-
sta con una rustica incivilita che farebbe prevaricar la pazienza
di Giobbe. E se non il credete, andate in Oxonia e fatevi raccon-
tar le cose intravenute al Nolano, quando publicamente disputò
con que' dottori in teologia in presenza del prencipe Alasco po-
lacco, et altri della nobilita inglesa"*"^; fatevi dire come si sapea
rispondere a gli argomenti: come restò per quindeci sillogismi,
quindeci volte qual pulcino entro la stoppa quel povero dottor,
che come il corifeo dell'Academia ne puosero avanti in questa
grave occasione "^5; fatevi dire con quanta incivilita e discortesia
43. L'eco di queste lamentele di Bruno gli alieneranno l'amicizia di «Fol-
co», cioè di Fulke Greville (cfr. Spaccio. Epistola esplicatoria, p. 172: «se tra noi
non avesse sparso il suo arsenito de vili, maligni et ignobili interessati l'invi-
diosa Erinni»).
44. Bruno si era recato per la prima volta a Oxford (dopo Londra), al seguito
del conte palatino polacco Albrecht Laski, che visitò l'università tra il io e il 13
giugno 1583; nel resoconto delle dispute che si tennero per l'occasione, compilato
da A. Wood. in modo peraltro tanto particolareggiato da menzionare, giorno per
giorno, il nome dei diversi partecipanti (cfr Historia et Antiquitates Universitatis
Oxoniensis. Oxford, 1674, pp. 299-300), non v'è traccia della presenza di Bruno;
ma il fatto che vi fosse è attestato da un testimone oculare, il polemista prote-
stante George Abbot, futuro arcivescovo di Canterbury, secondo cui Bruno
avrebbe avuto il più vivo desiderio di distinguersi in questa circostanza (cfr. The
Reasons which Doctour Hill hat brought, for the iipholding of Papistry, Oxford,
1604, p. 87; ripubblicato in G. Aquilecchia, G. Bruno in Inghilterra (1583-1585),
«Bruniana & Campanelliana» [Pisa-Roma], I, 1995, Testimonianza 6, pp. 33-36).
Cfr., oltre a R. McNulty, Bruno ai Oxford. «Renaissance News» [New York],
XIII, i960, pp. 300-305 (che ha segnalato per la prima volta e parzialmente pub-
blicato il documento), i numerosi studi di G. Aquilecchia (Schede bruniane
cit., n. XV, pp. XXV-XXVI e 243-252; «La cena de le ceneri», in: Letteratura ita-
liana. Le opere. Torino, voi. II, 1993, pp. 668-669; ^''^ schede su Bruno e Oxford,
«Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], LXXIV, 1993. pp. 376 e
segg.), nonché F. A. Yates, G. Bruno e la disputa con i dottori di Oxford (1938-
1939), in: G. Bruno e la cultura del rinascimento, Roma-Bari, 1988, pp. 11-28 (e Id.,
G. Bruno e la tradizione ermetica. Roma-Bari, 2002'', pp. 231-232); E. Me MuLLiN,
G. Bruno at Oxford, «Isis» [Cambridge, Mass.], LXXVII, 1986, pp. 85-94; M. Ci-
liberto, La ruota del tempo. Roma, 1992^. pp. 91-95.
45. Grazie a un testimone oculare, Gabriel Harvey (Marginalia, a cura di
G. C. Moore Smith, Stratford-upon-Avon, 1913, p. 156), si sa che questo inter-
locutore era John Underhill, diventato un anno più tardi vicecancelliere del-
l'università di Oxford. Cfr. G. Aquilecchia, G. Bruno in Inghilterra cit., Testi-
monianza 2, pp. 26-28 (ed ora anche M. Fintoni, Mnem.osine, in: Giordano Bruno
1583-1585. The English Experience / L'esperienza inglese, Firenze, 1997. pp. 25-26).
DIALOGO QUARTO 535
procedea quel porco, e con quanta pazienza et umanità quell'al-
tro che in fatto mostrava essere napolitano nato et allevato
sotto più benigno cielo. Informatevi come gli han fatte finire le
sue publiche letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle
de quintuplici sphera'^^.
Smitho. — Chi dona perle a porci non si de' lamentar se gli
son calpestrate-^^. Or sequitate il proposito del Torquato. [215]
Teofilo. - Alzati tutti di tavola, vi furono di quelli che in
lor linguaggio accusavano il Nolano per impaziente, in vece che
doveano aver più tosto avanti gli occhi la barbara e salvatica
discortesia del Torquato e propria. Tutta volta il Nolano, che fa
professione di vencere in cortesia quelli che facilmente pos-
seano superarlo in altro, se rimesse; e come avesse tutto posto in
oblio, disse amichevolmente al Torquato: «Non pensar, fratello,
ch'io per la vostra opinione voglia o possa esservi nemico: anzi
vi son cossi amico, come di me stesso. Per il che voglio che
sappiate, ch'io prima ch'avesse questa posizione per cosa certis-
sima, alcuni anni a dietro la tenni semplicemente vera. Quando
46. De immortalitate animae: «Sull'immortalità dell'anima»; de quintuplici
sphera: «Sulla quintuplice sfera» (espressione problematica che non trova ri-
scontro né in Copernico, né in Tolomeo). Secondo G. Abbot, Bruno si sarebbe
recato una seconda volta ad Oxford, durante l'estate 1583, per impartirvi una
serie di lezioni favorevoli alle teorie copernicane, e con la speranza di ottenervi
la cattedra (cfr. la lettera bruniana Ad excellentissimum Oxoniensis Achademiae
Procancellarium, Op. lai, II, 2, pp. 76-78, scritta a Londra nel 1583, tra il primo
e il secondo viaggio ad Oxford). Due dottori di Oxford - Tobie Matthew e,
probabilmente, Martin Culpepper, tutt'e due lodati in De la causa, Dialogo
primo, p. 633 — avrebbero imposto con discrezione al filosofo di concluderle,
dopo essersi accorti che plagiava il De vita coelitus comparanda di Ficino: ma
quest'opera non ha alcun rapporto con il problema del moto della Terra,
Bruno avrà utilizzato nelle sue lezioni (come farà nei dialoghi italiani) la ter-
minologia simbolico-speculativa di osservanza ermetica, orfica o neoplatonica,
propria del corpus ficiniano, soprattutto a proposito deir«anima del mondo»
(cfr. M. Ciliberto, Giordano Bruno, Roma-Bari, 1992^, pp. 31-45). Oppure, se-
guendo l'interpretazione alternativa di R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigil-
lorum» del Bruno, ossia: il confronto con Ficino ad Oxford sull'anima umana,
«Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], LXXV, 1994, p. 33-72, «la
lettura "de immortalitate animae" si rivelerà lettura-dimostrazione ... della so-
stanzialità, per sé sussistenza dell'anima come condizione indispensabile di
una sua vita imperitura. La lettura "de quintuplici sphaera" s'appaleserà com-
pletamento teorico della prima, rivolta a determinare il contenuto concreto di
quella vita immortale e all'uopo incentrata sul concetto di anima umana come
impronta, "sigillo" dell'Uno originario, e perciò essa stessa unità implicativa ed
unità dispiegantesi — centro che "s'amplifica in una sfera"». Cfr. infine il ten-
tativo di mediazione di G. Aquilecchia, G. Bruno in Inghilterra cit, pp. 35-36.
47. Cfr. MaUeo, VII, 6.
536 LA CENA DE LE CENERI
ero più giovane e men savio, la stimai verisimile. Quando ero
più principiante nelle cose speculative, la tenni sì fattamente
falsa, che mi maravigliavo d'Aristotele che non solo non si
sdegnò di fame considerazione, ma anco spese più de la mittà
del secondo libro Del cielo e mondo forzandosi dimostrar che la
terra non si muova. Quando ero putto et a fatto senza intelletto
speculativo, stimai che creder questo era una pazzia-*^: e pen-
savo che fusse stato posto avanti da qualcuno, per una materia
sofistica e capziosa, et esercizio di quelli ociosi ingegni, che vo-
gliono disputar per gioco, e che fan professione di provar e de-
fendere che il bianco è nero"'''. Tanto dumque io posso odiar voi
per questa caggione, quanto me medesmo quando ero più gio-
vane, più putto, men saggio e men discreto 5°. Cossi in loco ch'io
mi devrei adirar con voi vi compatisco; e priego Idio che come
ha donato a me questa cognizione, cossi, se non gli piace di
[217] farvi capaci del vedere, al meno vi faccia posser credere che
séte ciechi: e questo non sarà poco per rendervi più civili e cor-
tesi, meno ignoranti e temerarii. E voi ancora mi dovete amare,
se non come quello che sono al presente più prudente e più
vecchio, al meno come quel che fui più ignorante e più giovane:
quando ero in parte, ne gli miei più teneri anni, come voi séte
in vostra vecchiaia. Voglio dire che quantumque mai son stato,
conversando e disputando, cossi salvatico, mal creato et inci-
vile, son stato però un tempo ignorante come voi. Cossi avendo
io riguardo al stato vostro presente, conforme al mio passato; e
voi al stato mio passato, conforme al vostro presente: io vi
amaro, e voi non m'odiarete».
48. Discorso analogo nel De immenso. III, 9, Of. lat., I, i, pp. 380-381 (ed.
Monti cit., p. 563) e, in un contesto differente, nel De vinculis in genere, Op. lat.,
III, p. 683 (ed. Biondi cit, pp. 174-175).
49. Cfr. De la causa, Dialogo quarto, p. 704, dove Polihimnio dichiara; «non
fo (sophystarum more) professione di dimostrar ch'il bianco è nero».
50. E un peccato che queste differenti tappe che hanno condotto Bruno dal
rifiuto alla totale accettazione della tesi della Terra in movimento non possano
essere cronologicamente precisate. A quando risale l'apertura del Nolano al
«copernicanesimo»? Non esiste, per quello che ne sappiamo, un saggio speci-
fico su questo punto. Si sa, tuttavia, che «abbozzi della visione cosmologica
bruniana», come ha scritto M. Ciliberto, Giordano Bruno cit, p. 15, si trovano
già nella prima delle sue opere a stampa, il De umbris idearum, apparsa a Pa-
rigi nel 1585, della quale si veda l'edizione storico-critica curata da R. Sturlese,
Firenze, 1991 (e la traduz. di N. Tirinnanzi, Milano, 1997)-
DIALOGO QUARTO 537
Smitho. — Essi, poi che sono entrati in un'altra specie di di-
sputazione, che dissero a questo?
Teofilo. - In conclusione: che loro erano compagni di Ari-
stotele, di Tolomeo e molti altri dottissimi filosofi; et il Nolano
soggionse che sono innumerabili sciocchi, insensati, stupidi et
ignorantissimi che in ciò sono compagni non solo di Aristotele
e Tolomeo, ma di essi loro ancora i quali non possono capire
quel che il Nolano intende: con cui non sono né possono esser
molti consenzienti, ma solo uomini divini e sapientissimi come
Pitagora, Platone et altri. «Quanto poi alla moltitudine che si
gloria d'aver filosofi dal canto suo, vorrei che consideri che per
tanto che sono que' filosofi conformi al volgo, han prodotta una
filosofia volgare. E per quel ch'appartiene a voi che vi fate sotto
la bandiera d'Aristotele, vi dono aviso che non vi dovete glo-
riare, quasi intendessivo quel che intese Aristotele, e penetras- [219]
sivo quel che penetrò Aristotele; per che è grandissima diffe-
renza tra il non sapere quel che lui non seppe, e saper quel che
lui seppe: per che dove quel filosofo fu ignorante ha per compa-
gni non solamente voi, ma tutti vostri simili, insieme con i sca-
fari e fachini londrioti; dove quel galant'uomo fu dotto e giudi-
cioso, credo e son certissimo che tutti insieme ne séte troppo
discosti. Di una cosa fortemente mi maraveglio: che essendo voi
stati invitati e venuti per disputare, non avete giamai posto tali
fondamenti, e proposte tale raggioni, per le quali in modo al-
cuno possiate conchiudere contra me, né contra il Copernico; e
pur vi sono tanti gagliardi argomenti e persuasioni». Il Tor-
quato, come volesse ora sfodrare una nobilissima demostra-
zione, con una augusta maestà dimanda: « Ubi est aux solis?»^K
Il Nolano rispose che lo imaginasse dove gli piace, e conclu-
desse qualche cosa; per che l'auge si muta e non sta sempre nel
medesmo grado de l'eclittica ^^^ e non può veder a che proposito
dimanda questo. Toma il Torquato a dimandar il medesmo,
51. «Dove si trova l'apogeo del Sole?».
52. Tolomeo considerava ancora l'apogeo del Sole come fisso in rapporto
alle stelle. Copernico, basandosi sulle osservazioni di alcuni astronomi arabi e
sulle sue personali, riuscì a determinare la posizione apparente del Sole sul-
l'eclittica, così come il suo moto medio (cfr. De revoluHonibus, III, 22, ed. Ba-
rone cit, pp. 443-444).
538 LA CENA DE LE CENERI
come il Nolano non sapesse rispondere a questo. Rispose il No-
lano: « Quot sunt sacramenta ecclesiae? Est circa vigesìmum Cancri;
et oppositum circa decimum vel centesimum Capricorni^^, o sopra
il campanile di San Paolo w^-^.
Smitho. — Possete conoscere a che proposito dimandasse
questo?
Teofilo. - Per mostrar a que' che non sapean nulla, che lui
disputava, e che diceva qualche cosa, et oltre tentare tanti qiio-
modo, quare, ubi^^, sin che ne trovasse uno al quale il Nolano
[221] dicesse che non sapea: sin a questo, che volse intendere quante
stelle sono della quarta grandezza. Ma il Nolano disse che non
sapeva altro che quello che era al proposito. Questa interroga-
zione de l'auge del sole, conchiude in tutto e per tutto che co-
stui era ignorantissimo di disputare ^^ Ad uno che dice la terra
muoversi circa il sole, il sole star fisso in mezzo di questi er-
ranti lumi, dimandare dove è l'auge del sole, è a punto come se
uno dimandasse a quello de l'ordinario parere, dove è l'auge de
la terra: e pur la prima lezzione che si dà ad uno che vuole
imparar di argumentare è di non cercare e dimandar secondo i
proprii principii, ma quelli che son concessi da l'avversario";
ma a questo goffo tutto era il medesmo: per che cossi arrebe
saputo tirar argumenti da que' suppositi che sono a proposito,
come da que' che son fuor di proposito. - Finito questo di-
scorso, cominciomo a raggionar in inglese tra loro: e dopo aver
53. «Quanti sacramenti ha la Chiesa? [l'apogeo] si trova verso il ventesimo
grado del Cancro; ed il suo opposto verso il decimo o centesimo del Capricor-
no». Si veda la nota di R. Amerio, in Opere di G. Bruno cit: «Con domandare
all'avversario cosa affatto estranea alla disputa e col rispondere alla sua do-
manda in modo strampalato, il Nolano intende render manifesta la stoltizia di
Torquato».
54. La guglia della cattedrale di San Paolo era andata distrutta nell'incen-
dio del 1561.
55. «Come, perché, dove?».
56. Bruno ha perfettamente ragione. Ad essere precisi, parlare di apogeo del
Sole in un sistema eliocentrico è assurdo (si dovrebbe dire «afelio», termine
che sarà creato da Kepler, assieme al simmetrico «perielio»). Rimane il fatto
che lo stesso Copernico parli di apogeo del Sole, non certo per incompetenza,
ma perché conserva, come dichiara, la terminologia corrente in un sistema
geocentrico.
57. Principio metodologico rispettato solo parzialmente dallo stesso Bruno
nei dialoghi della Cena e, con maggiore rigore, in quelli De la causa (cfr. l'in-
troduzione di G. Aquilecchia all'edizione Torino, 1973, pp- XI e segg.).
DIALOGO QUARTO 539
alquanto trascorso insieme, ecco comparir su la tavola carta e
calamaio. Il dottor Torquato distese quanto era largo e lungo
un foglio, prese la piuma in mano, tira una linea retta per
mezzo del foglio da un canto a l'altro, in mezzo forma un cir-
colo a cui la linea predetta, passando per il centro, facea diame-
tro, e dentro un semicircolo di quello scrive Terra, e dentro l'al-
tro scrive Sol. Dal canto de la terra forma otto semicircoli, dove
ordinatamente erano gli caratteri di sette pianeti e circa l'ul-
timo scritto Octava Sphaera Mobilis^^, e ne la margine Ptolomeus.
Tra tanto il Nolano disse a costui che volea far di questo, che
sanno sin a i putti? Torquato rispose: «.Vide, tace et disce: ego
doceho te Ptolomeum et Copernicum»^'^. [223]
Smitho. - Sus quandoque Minervam^^.
Teofilo. - Il Nolano rispose che quando uno scrive l'alfa-
beto, mostra mal principio di voler insegnar gramatica ad un
che ne intende più che lui. Seguita a far la sua descrizione il
Torquato; e circa il sole che era nel mezzo, forma sette semicir-
coli con simili caratteri, circa l'ultimo scrivendo Sphaera Inmo-
hilis Fixarum^^, e ne la margine: Copernicus. Poi se volta al terzo [225]
circolo ^2, et in un punto della sua circonferenza forma il centro
d'un epiciclo, al quale avendo delineata la circonferenza, in
58. «Ottava sfera mobile». La figura 7, che pare illustrare nella parte supe-
riore il sistema di Tolomeo e nella parte inferiore quello di Copernico, si allon-
tana, ancora una volta, dalla descrizione di Teofilo, poiché non reca le parole
Terra, Sol, Octava Sphaera Mobilis, Sphaera Immobilis Fixarum. Si osservi che,
nella parte superiore, il primo degli otto semicerchi rappresenta (o si crede che
rappresenti) la superficie della Terra, seguita in ordine ascendente dai sette
cerchi dei sette pianeti tradizionali. La situazione non è chiara, dal punto di
vista grafico, per la parte inferiore della figura: se i simboli vi fossero stati
realmente disegnati, sarebbe stato possibile accorgersi sia che il «sistema» Ter-
ra-Luna è collocato male, sia che manca un semicerchio.
59. «Guarda, taci e impara: io t'insegnerò Tolomeo e Copernico».
60. «Il maiale talvolta fa lezione a Minerva»: proverbio greco e latino com-
mentato da Erasmo negli Adagia, I, i, 40.
61. «Sfera immobile delle fisse». Contrariamente all'indicazione del testo, la
figura mostra su questo lato otto semicerchi, mentre ne occorrerebbero nove (cfr.
la figura del De revolutionibus riprodotta qui alla nota 65). Il risultato è che il
cerchio del pianeta Marte (lato dedicato a Tolomeo) coincide con il cerchio sul
quale è rappresentato il simbolo della Luna (lato dedicato a Copernico), co-
sicché manca un cerchio per uno dei tre pianeti superiori.
62. Errore: il cerchio sul quale Torquato ha preso un punto a mo' di centro
dell'epiciclo è «a scendere» il quinto cerchio ed «a salire» il quarto. Per di più,
su questo punto, non si ritrova nessuna indicazione: né la parola Terra, né
qualche segno particolare.
540
LA CENA DE LE CENERI
detto centro penge il globo de la terra '^'; et a fin che alcuno non
s'ingannasse pensando che quello non fusse la terra, vi scrive a
bel carattere: Terra; et in un loco de la circonferenza de l'epi-
PTOLEMAEVS-
COPERNICVS.
[FiG. 7]
ciclo distantissimo dal mezzo, figurò il carattere della luna.
Quando vedde questo il Nolano, «Ecco» disse, «che costui mi
volea insegnare del Copernico, quello che il Copernico medesmo
63. Sulla figura 7. tuttavia, la Terra è situata sul medesimo epiciclo della
Luna, in sintonia d'altronde con la lettura erronea che Bruno fornirà della
figura e del testo dello stesso Copernico, nelle righe successive.
DIALOGO QUARTO
541
non intese, e più tosto s'arrebe fatto tagliar il collo che dirlo o
scriverlo. Perché il più grande asino del mondo saprà che da
quella parte sempre si vedrebbe il diametro del sole equale; et
altre molte conclusioni seguitarebbono che non si possono veri-
ficare». «Tace, tace» disse il Torquato, «tu vis me docere Coperni-
cum?»^; «Io curo poco il Copernico» disse il Nolano, «e poco
mi curo che voi o altri l'intendano; ma di questo solo voglio
avertirvi, che prima che vengate ad insegnarmi un'altra volta,
che studiate meglio». Femo tanta diligenza i gentil'omini che
v'eran presenti, che fu portato il libro del Copernico ''5; e guar-
dando nella figura, veddero che la terra non era descritta nella
circonferenza de l'epiciclo come la luna; però volea Torquato
che quel punto che era in mezzo de l'epiciclo nella circonfe-
renza della terza sfera, significasse la terra ^^.
Smitho. - La causa de l'errore fu, che il Torquato avea con-
template le figure di quel libro, e non avea letto gli capitoli: e se
pur le ha letti, non l'ha intesi.
64. «Taci, taci, vorresti insegnarmi Copernico?».
65. Il De revolutionibus orbium caelestium era leggibile, all'epoca, nella prima
edizione norimberghese del 1543 e nella seconda edizione basileese del 1566. La
figura qui riprodotta è tratta dal cap. io del Libro primo del De revolutionibus,
1543, fol. 9\
66. Torquato interpreta correttamente Copernico. Si osserverà che qui non
è più questione di un terzo cerchio, ma della terza sfera. Ora, sulla figura di
Copernico, la terza sfera a partire dal Sole, che reca la leggènda Telluris cum
orbe lunari annua reuolutio («Rivoluzione annuale della Terra con la sfera della
Luna»), è delimitata da due cerchi, il terzo ed il quinto a partire dal centro; il
quarto rappresenta il deferente della Terra, centro intomo al quale è stato trac-
ciato l'epiciclo della Luna, che occupa tutto lo spessore del magnus orbis.
542 LA CENA DE LE CENERI
[227] Teofilo. - Il Nolano se mise ad ridere; e dissegli che quel
punto non significava altro che la pedata del compasso, quando
si delineò l'epiciclo della terra e della luna, il quale è tutto uno
et il medesmo: «Or se volete veramente sapere dove è la terra
secondo il senso del Copernico, leggete le sue paroli». Lessero, e
ritrovamo che dicea «la terra e la luna essere contenute come
da medesmo epiciclo», etc.^'. E cossi rimasero mastigando in
lor lingua, sin tanto che Nundinio e Torquato avendo salutato
tutti gli altri, eccetto ch'il Nolano, se n'andomo: e lui inviò uno
appresso che da sua parte salutasse loro. Que' cavallieri, dopo
aver pregato il Nolano che non si turbasse per la discortese in-
civilita e temeraria ignoranza de lor dottori, ma che avesse
compassione alla povertà di questa patria, la quale è rimasta
vedova delle buone lettere, per quanto appartiene alla profes-
sione di filosofia e reali matematiche (nelle quali mentre sono
tutti ciechi, vengono questi asini e ne si vendono per oculati, e
ne porgano vessiche per lanterne), con cortesissime salutazioni
lasciandolo, se ne andaro per un camino; noi et [il] Nolano per
un altro ritornammo tardi a casa, senza ritrovar di que' rintuzzi
ordinarii, per che la notte era profonda, e gli animali comupeti
e calcitranti'^^ non ne molestaro al ritomo, come alla venuta;
per che prendendo l'alto riposo s'erano nelle lor mandre e stalle
retirati.
67. Da un lato, è proprio la Terra, e non «la pedata del compasso», che
sulla circonferenza del cerchio mediano della terza sfera occupa il centro del-
l'epiciclo della Luna, nella figura a fol. 9^ dell'edizione 1543 così come dell'edi-
zione 1566 del De revolutionibus; dall'altro, la lettera stessa del testo: «Quartum
in ordine annua revolutio locum obtinet, in quo terram cum orbe lunari tan-
quam epicyclo contineri diximus», non significa, come intende Bruno, che «la
terra e la luna essere sostenute come da medesmo epiciclo», bensì che «il
quarto posto è occupato dalla rivoluzione annuale della sfera in cui abbiamo
detto che è contenuta la Terra con l'orbe lunare come se fosse un epiciclo» (ed.
Barone cit, p. 212 e figura a p. 213). Lo stesso errore ritoma nella traduzione
francese di Pontus de Tyard: «Au quatrieme lieu est logee la sphere qui se
toume en un an: en laquelle comme dans un Epicycle, la Terre & tonte la
region Elementaire, avec le globe de la Lune, est contenue» (Deux discours de
la nature du monde. Paris, 1578 citato in F. A. Yates, The French Academies of
the Sixteenth Century, London. 1947, p. 103. nota). Su questo errore di Bruno
si veda E. Me Mullin, Bruno and Copernicus, «Isis» [Cambridge, Mass.],
LXXVin, 1987, pp. 55-59. Non si deve, tuttavia, escludere che la misinterpre-
tazione bruniana sia stata influenzata dal rifiuto di «ammettere una subordi-
nazione di pianeti nell'universo», come asserisce N. Badaloni, La filosofia di
G. Bruno, Firenze. 1955, pp. 82-83.
68. Cfr. Esodo, XXI 29.
DIALOGO QUARTO 543
Prudenzio. -
Nox erat et placidum carpebant fessa soporem
corpora per terras, sylvaeque et saeva quierant
aequora, cum medio volvuntur sidera lapsu,
cum tacet omnis ager, pecudes, etc/^'^.
Smitho. - Orsù abbiamo assai detto oggi: di grazia, Teofilo,
ritornate domani, perché voglio intendere qualch'altro propo- [229]
sito circa la dottrina del Nolano; perché quella del Copernico,
benché sii comoda alle supputazioni, tutta volta non è sicura
et ispedita quanto alle raggioni naturali, le quali son le prin-
cipali ^°.
Teofilo. — Ritomarò volentieri un'altra volta.
Frulla. - Et io.
Prudenzio. - Ego quoque. Valete''^.
Fine del quarto dialogo [231]
69. Virgilio, Aen.. IV, 522-525, in Opere, a cura di C. Carena, Torino, 1971,
p. 463: «La notte regnava e placido gustavan stanchi il sopore i corpi su tutta
la terra, le foreste anche e dalle furie riposava la distesa delle acque, quando a
mezzo si volgono gli astri della loro caduta, quando tace ogni campo, il be-
stiame, etc».
70. Già nel Dialogo primo, p. 449, Bruno ha definito Copernico «più stu-
dioso de la matematica che de la natura».
71. «Io anche, addio».
DIALOGO QUINTO
Teofilo. — Perché non son più né altramente fisse le altre
stelle al cielo, che questa stella che è la terra è fissa nel mede-
smo firmamento che è l'aria. E non è più degno d'esser chia-
mato ottava sfera dove è la coda de l'Orsa, che dove è la terra,
nella quale siamo noi: per che in una medesma eterea reggione,
come in un medesmo gran spacio e campo, son questi corpi di-
stinti; e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da
gli altri 1. Considerate la caggione per la quale son stati giudi-
cati sette cieli de gli erranti, et uno solo di tutti gli altri. Il vario
moto che si vedeva in sette, et uno regolato in tutte l'altre stelle
che serbono perpetuamente la medesma equidistanza e regola,
fa parer a tutte quelle convenir un moto, una fissione et un
orbe; e non esser più che otto sfere sensibili per gli luminari che
sono com'inchiodati in quelle-. — Or se noi venemo a tanto
lume e tal regolato senso, che conosciamo questa apparenza del
moto mondano procedere dal giro de la terra; se dalla similitu-
dine della consistenzia di questo corpo in mezzo l'aria, giudi-
chiamo la consistenza di 'tutti gli altri corpi: potremo prima cre-
dere, e poi demostrativamente conchiudere il contrario di quel
[233] sogno e quella fantasia che è stato quel primo inconveniente
che ne ha generati et è per generarne tanti altri innumerabili.
1. Questa descrizione di un universo «esploso», da dove ogni sfera è stata
eliminata - persino l'ultima, chiamata per convenzione l'ottava - mostra di
quanto Bruno sia andato oltre Copernico, per il quale l'unico mondo di cui è
questione nel De revoluHonibus resta un cosmos di tipo tradizionale, con un
centro ed una circonferenza.
2. Al di là dell'ottava sfera sensibile, gli astronomi avevano aggiunto, come
Bruno stesso ha ricordato sopra, un certo numero di cieli invisibili. A questi
cieli dotati di una funzione astronomica, i teologi avevano aggiunto l'empireo,
cielo immobile, senza funzione astronomica propria. - «Quel sogno e quella
fantasia», nel passaggio seguente, è di nuovo un'eco di F. Bemi (cfr. supra,
Proemiale epistola, p. 434, nota 25).
DIALOGO QUINTO 545
Quindi accade quello errore. Come a noi che dal centro dell'ori-
zonte voltando gli occhi da ogni parte, possiamo giudicar la
maggior e minor distanza da, tra, et in quelle cose che son più
vicine; ma da un certo termine in oltre, tutte ne parranno
equalmente lontane: cossi alle stelle del firmamento guardando,
apprendiamo la differenza de moti e distanze d'alcuni astri più
vicini; ma gli più lontani e lontanissimi, ne appaiono inmobili,
et equalmente distanti e lontani quanto alla longitudine. Qual-
mente un arbore talvolta parrà più vicino a l'altro perché si
accosta al medesmo semidiametro; e perché sarà in quello indif-
ferente, parrà tutt'uno: e pure con tutto ciò sarà più lontananza
tra questi, che tra quelli che son giudicati molto più discosti,
per la differenza di semidiametri. Cossi accade che tal stella è
stimata molto maggiore, che è molto minore; tale molto più
lontana, che è molto più vicina. Come nella seguente figura,
dove ad 0 occhio la stella A pare la medesima con la stella B, e
se pur si mostra distinta, gli parrà vicinissima; e la stella C, per
essere in un semidiametro molto differente, parrà molto più
lontana: et in fatto è molto più vicina. - Dumque che noi non
veggiamo molti moti in quelle stelle, e non si mostrino allonta-
narsi et accostarsi l'une da l'altre e Fune a l'altre, non è perché
non facciano cossi quelle come queste gli lor giri: atteso che non
è raggione alcuna, per la quale in quelle non siano gli medesmi
accidenti che in queste, per i quali medesmamente un corpo,
per prendere virtù da l'altro, debba muoversi circa l'altro. E
però non denno esser chiamate fisse per che veramente serbino [235]
la medesma equidistanza da noi e tra loro: ma per che il lor
moto non è sensibile a noi^. Questo si può veder in essempio
d'una nave molto lontana: la quale se farà un giro di trenta o di
quaranta passi, non meno parrà che la stii ferma, che se non si [237]
movesse punto. Cossi proporzionalmente è da considerare in di-
stanze maggiori, in corpi grandissimi e luminosissimi, de quali
è possibile che molti altri et innumerabili siino cossi grandi e
cossi lucenti come il sole, e di vantaggio"^: i circoli e moti di
3. Pare che Bruno voglia annullare ogni distinzione reale tra pianeti e
stelle. Per lui, si tratta di corpi celesti tutti egualmente in moto e composti
materialmente dalla stessa sostanza: un'altra rottura nei confronti della vi-
sione tanto tradizionale, quanto copernicana.
4. Nuova proposizione cosmologica contraria alla tradizione: fino a Tycho
546
LA CENA DE LE CENERI
quali molto più grandi non si veggono. Onde se in alcuni astri
di quelli accade varietà di approssimanza, non si può conoscere
se non per lunghissime osservazioni, le quali non son state co-
0, la vista, l'occhio.
OAB, OC, OD, lunghezze, longitudini e
linee visuali.
AC, AD, CD, larghezze, latitudini.
[FlG. 8]
Brahe (Copernico non si pronuncia sul problema) le stelle di prima magnitudo
erano considerate all'incirca cento volte più grandi (in volume) della Terra.
Essendo circa i66 volte più voluminoso del nostro pianeta, il Sole era il più
grosso corpo dell'universo. Con Tycho, le cifre vennero corrette al ribasso: il
rapporto per quello che riguarda il Sole e le stelle di prima grandezza scese,
rispettivamente, a 140 e 68. Sola eccezione (quanto a grandezza) la nova del
DIALOGO QUINTO 547
minciate né perseguite; perché tal moto nessuno l'ha creduto,
né cercato, né presupposto: e sappiamo che il principio de l'in-
quisizione è il sapere e conoscere che la cosa sii, o sii possibile e
conveniente, e da quella si cave profitto 5.
Prudenzio. — Rem acu tangis^.
Teofilo. — Or questa distinzion di corpi ne la eterea reg-
gione l'ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora,
Parmenide, Melisso, come ne fan manifesto que' stracci che
n'abbiamo^: onde si vede, che conobbero un spacio infinito, re-
gione infinita, selva infinita, capacità infinita di mondi innu-
merabili simili a questo; i quali cossi compiscono i lor circoli
come la terra il suo: e però anticamente si chiamavano ethera,
ciò è corridori, corrieri, ambasciadori, nuncii della magnificenza
de l'unico Altissimo, che con musicale armonia contemprano
l'ordine della constituzion della natura, vivo specchio dell'infi-
nita deità. Il qual nome di ethera dalla cieca ignoranza è stato
tolto a questi, et attribuito a certe quinte essenze, nelle quali
come tanti chiodi siino inchiodate queste lucciole e lanterne. —
Questi corridori* hanno il principio di moti intrinseco la pro-
1572 che, secondo Tycho, aveva raggiunto, al suo massimo, un volume 360
volte più grande della Terra (per questi dati, si vedano le tavole a corredo di
A. Van Helden, Measuring the Universe. Cosmic Dimensions front Aristarchus to
Halley, Chicago and London, 1985, pp. 27, 30 e 50). - Com'è noto, Kepler re-
spingerà vigorosamente l'idea bruniana degli astri-soli, mentre Galilei la farà
propria.
5. Osservazione penetrante; ma — ancora una volta — Bruno è in anticipo e
scambia i suoi desideri per realtà. Nel De immenso, I, 5 e III, io (traduz. in
Opere latine, a cura di C. Monti, Torino, 1980, pp. 433-436 e 570-577), egli cre-
derà confermati dalle osservazioni di Brahe e degli «astronomi del nostro tem-
po», i movimenti propri delle fisse che aveva, da parte sua, scoperti «dal punto
di vista fisico» (e provati con r« evidenza del senso intemo»). Infatti, perché
fosse determinato il movimento proprio di una stella - nel caso specifico Ar-
turo, costellazione di Boote - si dovrà aspettare il XVIII secolo. Il merito è
attribuito da alcuni storici della scienza ad E. Halley (nel 1718), da altri a
J. Cassini (nel 1738).
6. «Questo è andare al cuore del problema» (cfr. Erasmo da Rotterdam,
Adagia, II, 4, 93).
7. Secondo L. Firpo, Scritti scelti di G. Bruno e T. Campanella, Torino, 1949,
p. 141, nota 2: «studiando i frammenti e le testimonianze di questi antichi
filosofi, il Bruno ne aveva tratto un accostamento che non deve parere super-
ficiale: in Eraclito trovava l'idea della perenne rinnovazione cosmica; quella
dei mondi innumerevoli in Lucrezio, che riecheggiava Epicuro e Democrito;
quella dell'eterno ritomo ciclico in Pitagora; quella dell'immutabilità del tutto
in Parmenide; quella dell'infinito universo in Melisso».
8. Sull'etimologia erronea di ethera, cfr. Proemiale epistola, p. 437, nota 35.
A partire dal momento in cui venne abbandonata l'idea degli orbi vettori, per
«spiegare» i moti degli astri si doveva ricorrere ad un principio di tipo animi-
548 LA CENA DE LE CENERI
[239] pria natura, la propria anima, la propria intelligenza: per che
non è sufficiente il liquido e sottile aria, a muovere sì dense e
gran machine; per che a far questo gli bisognarebbe virtù trat-
tiva, o impulsiva, et altre simili, che non si fanno senza con-
tatto di dui corpi almeno, de quali l'uno con l'estremità sua
risospinge, e l'altro è risospinto: e certo tutte cose che son mosse
in questo modo, riconoscono il principio de lor moto o contra o
fuor de la propria natura, dico o violento o almeno non natu-
rale. È dumque cosa conveniente alla commodità delle cose che
sono, et a l'effetto della perfettissima causa, che questo moto sii
naturale da princippio intemo e proprio appulso, senza resi-
stenza. Questo conviene a tutti corpi che senza contatto sensi-
bile di altro impellente o attraente si muoveno. Però la inten-
deno al rovescio quei che dicono che la calamita tira il ferro,
l'ambra la paglia, il getto la piuma, il sole l'elitropia: ma nel
ferro è come un senso (il quale è svegliato da una virtù spiri-
tuale che si diffonde dalla calamita) col quale si muove a
quella, la paglia a l'ambra, e generalmente tutto quel che desi-
dera et ha indigenza si muove alla cosa desiderata, e si converte
in quella al suo possibile, cominciando dal voler essere nel me-
desmo loco^. Da questo considerar che nulla cosa si muove lo-
calmente da principio estrinseco senza contatto più vigoroso del-
la resistenza del mobile, depende il considerare quanto sii sol-
lenne goffaria, e cosa impossibile a persuadere ad un regolato
sentimento, che la luna muove l'acqui del mare, caggionando il
flusso in quello "\ fa crescere gli umori, feconda i pesci, empie
stico o vitale (si pensi airimmagine, di molto anteriore a Bruno, dei pianeti
che si muovono come gli uccelli nell'aria o i pesci nell'acqua). Kepler stesso,
per qualche tempo, assegnerà agli astri delle intelligenze motrici.
9. L'idea sarà sviluppata, negli stessi anni, da Campanella; la prima reda-
zione del suo De sensu rerum risale al 1587-1589.
10. In G. Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi. Giornata quarta, in
Opere, a cura di F. Brunetti, Torino, voi. II, pp. 502 e segg., la fondamentale,
estesa risposta di Salviati alle «leggerezze» che pretendono di spiegare le ma-
ree, ed in particolare a quelli che «referiscon ciò alla Luna», ofifre una singo-
lare analogia con il rifiuto dell'influsso lunare in proposito da parte di Bruno.
Con tutto che il rifiuto galileiano dipende, esplicitamente, dalla persuasione di
aver individuato proprio nel flusso e riflusso del mare l'unica prova dei movi-
menti della Terra che fosse constatabile dalla Terra stessa, mentre in Bruno
permane la concezione animistica di un un «princippio intemo», nella quale è
forse da indicare, al di là delle innegabili analogie, il divario maggiore tra la
concezione galileiana e quella bruniana dell'universo (cfr. G. Aquilecchia, /
«Massimi sistemi» di Galileo e la «Cena» di Bruno (per una comparazione temati-
DIALOGO QUINTO 549
l'ostreche, e produce altri effetti: atteso che quella di tutte queste [241]
cose è propriamente segno, e non causa"; segno et indizio dico,
perché il vedere queste cose con certe disposizioni della luna, et
altre cose contrarie e diverse, con contrarie e diverse disposizioni,
procede da l'ordine e corispondenza delle cose, e le leggi di una
mutazione, che son conformi e corrispondenti alle leggi de l'altra.
Smitho. — Dall'ignoranza di questa distinzione procede che di
simili errori son pieni molti scartafazzi, che ne insegnano tante
strane filosofie dove le cose che son segni, circonstanze et acciden-
ti, son chiamate cause. Tra quali inezzie quella è una delle reggi-
ne, che dice li raggi perpendicolari e retti esser causa di maggior
caldo, e li acuti et obliqui di magior freddo: il che però è accidente
del sole vera causa di ciò, quando persevera più o meno sopra la
terra. Raggio reflesso e diretto, angolo acuto et ottuso, linea per-
pendicolare, incidente e piana, arco maggiore e minore, aspetto
tale e quale, son circostanze matematiche e non cause naturali.
Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura.
Non son le linee e gli angoli che fanno scaldar più o meno il fuoco;
ma le vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore ^^
co-strutturale), «Nuncius» [Firenze], X, 1995, pp. 485-496, segnatamente pp. 491-
492 e 495-496)-
11. Allusione al dibattito antropologico sulla funzione causale oppure pre-
dittiva degli astri (cfr. la traduzione spagnola di M. A. Granada, Madrid,
1994^, p. 154, nota 5); si veda la distinzione aristotelica fra orifielov (segno) ed
aixiov (causa), in De divinatione per somnum, I, ^òzh-^ò^a.- Il dilemma che oppone
gli astri-segni agli astri-cause è perfettamente articolato in Plotino, Enn., II, 3,
52; la distinzione è stata ripresa da Origene, Philocalia, § 23, sant'Agostino ecc.
Ma, in questo passo. Bruno fa molto di più che abbozzare una critica all'astro-
logia giudiziaria: egli rimette in causa il fondamento stesso della divinazione
secondo gli astri, poiché non soltanto l'azione del Sole sulle cose di quaggiù, ma
anche quella della Luna sull'elemento acquoreo — segnatamente sulle maree -
erano ritenute verità evidenti (cfr. Tolomeo, Tetrabiblon, I, 2-3). Tale influenza
causale non sarà, del resto, messa in discussione dalle bolle papali contro l'astro-
logia (si veda quella del 1586). Se in qualche riga Bruno sembra genericamente
ispirarsi a Pico della Mirandola, di cui il Nolano conosceva le Disputationes
adversus astrologiam divinatricem, quest'opera non sembra seguita in merito al-
l'azione che causerebbe le maree, attribuita nonostante tutto alla Luna. Per
l'autore delle Disputationes (III, 15, ed. a cura di E. Garin, Firenze, voi. I, 1946,
pp. 304-321), la Luna non agirebbe per mezzo di una virtus occulta, che Pico
respinge costantemente, bensì attraverso la luce, il calore ed il suo movimento.
Sulle critiche di Pico all'astrologia, si veda E. Garin, Lo zodiaco della vita. La
polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari, 1982^.
12. Mescolanza di vero e di falso: è verissimo che i raggi obliqui non sono
causa «di maggior freddo», ma considerati come vettori di energia e non come
linee geometriche astratte, essi hanno effetti fisici che dipendono dai differenti
angoli formati con le superfici.
550 LA CENA DE LE CENERI
Teofilo. — La intendete molto bene; ecco come una verità
chiarisce l'altra. — Or per conchiudere il proposito: questi gran
corpi, se fusser mossi dall'estrinseco, altrimente che come dal
fine e bene desiderato '\ sarrebono mossi violente et accidental-
mente, ancor che avessero quella potenza la quale è detta non
repugnante: per che il vero non repugnante è il naturale, et il
[243] naturale (o vogli o non) è principio intrinseco, il quale da per sé
porta la cosa dove conviene: altrimente l'estrinseco motore non
moverrà senza fatica, o pur non sarà necessario, ma soverchio; e
se vuoi che sia necessario, accusi la causa efficiente per defi-
ciente nel suo effetto, e che occupa gli nobilissimi motori a mo-
bili assai più indegni !■*, come fanno quelli che dicono Tazzioni
delle formiche et aragne essemo non da propria prudenza et
artificio, ma da l'intelligenze divine non erranti, che gli donano
{verbi gratia)^^ le spinte, che si chiamano istinti naturali, et altre
cose significate per voci senza sentimento: per che se doman-
date a questi savii che cosa è quello instinto, non sapranno dir
altro che «instinto», o qualche altra voce cossi indeterminata e
sciocca, come questo instinto, che significa principio istigativo,
che è un nome comunissimo; per non dir o un sesto senso, o
raggione. o pur intelletto '^
Prudenzio. — Nimis arduae quaestìones^'.
Smitho. — A quelli che non le vogliono intendere, ma che
vogliono ostinatamente credere il falso. — Ma ritorniamo a noi.
Io saprei bene che rispondere a costoro che hanno per cosa dif-
ficile che la terra si muova, dicendo che è un corpo cossi
13. Oltre che l'animismo naturalistico, v"è dunque una componente teleo-
logica nel modo in cui Bruno si rappresenta il movimento (traduz. di M. A.
Granada cit, p. 155, nota 6). Il «teleologismo» di Bruno, più oltre, sarà espli-
citamente applicato al «moto locale della terra» (cfr. pp. 555 e segg.).
14. Dietro questo passo si ritrova tutta la problematica medievale della vir-
tus (finita o infinita) dei motori separati ed il connesso problema di conoscere
se la loro virtus sia o no fatigabilis (si veda, ad esempio, A. Poppi, Causalità e
infinità nella scuola padovana dal 1480 al 1513. Padova, 1966 e E. Grant, Pla-
nets, Stars and Orbs. The Medieval Cosmos, i200-i68j, Cambridge, 1994, pp. 539-
544)-
15. «Per esempio».
16. Bruno tornerà sul problema dell'istinto nella Cabala, Dialogo secondo,
pp. 455-457 (cfr. inoltre la Summa terminorum metaphysicorum, art Motus, Op.
lai., I, 4, pp. 120-121). Campanella svilupperà la questione nel De sensu rerum,
I, 6-8.
17. «Problemi d'insormontabile difficoltà».
DIALOGO QUINTO 551
grande, cossi spesso, e cossi grave '^. Pure vorrei udire il vostro
modo di rispondere, per che vi veggio tanto risoluto nelle rag-
gioni.
Prudenzio. - Non talis mihi^'^.
Smitho. - Per che voi siete una talpa.
Teofilo. — Il modo di rispondere consiste in questo, che il
medesmo potreste dir della luna, il sole, e d'altri grandissimi [245]
corpi e tanti innumerabili che gli aversarii vogliono che sì ve-
locemente circondino la terra con giri tanto smisurati. E pur
hanno per gran cosa che la terra in 24 ore si svolga circa il
proprio centro et in un anno circa il sole^°. Sappi che né la
terra, né altro corpo è assolutamente grave o lieve: nessuno
corpo nel suo loco è grave né leggiero ^^ Ma queste differenze e
qualità accadeno non a corpi principali, e particolari individui
perfetti dell'universo; ma convegnono alle parti che son divise
dal tutto, e che se ritrovano fuor del proprio continente, e come
peregrine: queste non meno naturalmente si forzano verso il
loco della conservazione, che il ferro verso la calamita, il quale
va a ritrovarla non determinatamente al basso, o sopra, o a de-
stra, ma ad ogni differenza locale ovumque sia. Le parti della
terra da l'aria vengono verso noi: perché qua è la lor sfera; la
qual però se fusse alla parte opposita, se parterebono da noi, a
quella drizzando il corso. Cossi l'acqui, cossi il fuoco. L'acqua
nel suo loco non è grave, e non aggrava quelli che son nel pro-
fondo del mare; le braccia il capo et altre membra non son
grievi al proprio busto, e nessuna cosa naturalmente costituita
caggiona atto di violenza nel suo loco naturale. Gravità et le-
18. Anche questo è un argomento utilizzato da Tycho Brahe, negli stessi
anni, per «giustificare» il geocentrismo.
19. «A me non sembra tale».
20. Argomento classico dei sostenitori, copernicani o no, come R. Ursus o
W. Gilbert, della rotazione come caratteristica della Terra.
21. Cfr. De l'infinito, Dialogo secondo, pp. 68-69; ^^ immenso, II, 3, vv. 128-
135 (ed. Monti cit., p. 470). I passaggi successivi s'ispirano, in tutta evidenza, a
come Copernico discute l'argomento principale, chiamato in causa dai sosteni-
tori dell'immobilità terrestre: «Come causa principale allegano la gravità e la
leggerezza» {De revolutionibus, I, 7, in Opere, a cura di F. Barone, Torino, 1979,
p. 196). «Continente», nella frase seguente e a p. 553, è «nel significato dato dal
Bruno... più volte, un'autentica invenzione difficile anche da esplicare: lo spa-
zio che contiene uno o più corpi celesti chiamati mondi» (cfr. L. Cozzi, 77 lessico
scientifico nel dialogo del Rinascimento, in: Il dialogo filosofico nel '^00 europeo, a
cura di D. Bigalli e G. Canziani, Milano, 1990, p. 68).
552 LA CENA DE LE CENERI
vita non si vede attualmente in cosa che possiede il suo loco e
disposizione naturale, ma si trova nelle cose che hanno un certo
empito col quale si forzano al loco conveniente a sé^^; però è
cosa assorda di chiamar corpo alcuno naturalmente grave o
lieve, essendo che queste qualità non convengono a cosa che è
nella sua constituzione naturale, ma fuor di quella: il che non
[247] aviene alla sfera giamai, ma qualche volta alle parti di quella;
le quali però non sono determinate a certa differenza locale se-
condo il nostro riguardo, ma sempre si determinano al loco
dove è la propria sfera et il centro della sua conservazione^^.
Onde se infra la terra si ritrovasse un'altra spezie di corpo, le
parti della terra da quel loco naturalmente montarebbono; e se
alcuna scintilla di foco si trovasse (per parlar secondo il co-
mone) sopra il concavo della luna, verrebbe a basso con quella
velocità con la quale dal convesso de la terra ascende in alto.
Cossi l'acqua non meno descende insino al centro de la terra, se
si gli dà spacio, che dal centro della terra ascende alla superficie
di quella. Parimente l'aria ad ogni differenza locale con mede-
sma facilità si muove. Che vuol dir dumque grave e lieve? Non
veggiamo noi la fiama talvolta andar al basso et altri lati, ad
accendere un corpo disposto al suo nutrimento e conserva-
zione? Ogni cosa dumque che è naturale, è facilissima; ogni loco
e moto naturale, è convenientissimo. Con quella facilità, con la
quale le cose che naturalmente non si muoveno persisteno fisse
nel suo loco, le altre cose che naturalmente si muoveno, mar-
ciano per gli lor spacii. E come violentemente e contra sua na-
tura quelle arrebono moto, cossi violentemente e contra natura
queste arrebono fissione. — Certo è dumque che se alla terra na-
turalmente convenesse l'esser fissa, il suo moto sarrebbe vio-
lento, contra natura e difficile-"": ma chi ha trovato questo? chi
22. In queste pagine. Bruno rimette in questione le categorie poriianti della
fisica aristotelica che sono, come ha egregiamente dimostrato M. Clavelin, La
philosophie naturelle de Galilée. Paris, 1968, pp. 19-74. inseparabili da una strut-
tura cosmica affatto particolare: il geocentrismo.
23. Si sente qui, forse, l'eco di un passo del De revolufionibus, I, 9, ed. Ba-
rone cit, p. 203: «Da parte mia, penso che la gravità non sia altro che un certo
naturale desiderio infuso dalla provvidenza divina dell'artefice del mondo
nelle parti, perché esse, riunendosi nella forma di una sfera, realizzino la loro
unità e la loro integrità».
24. È la posizione di Copernico, ivi, I, 18, ed. ciL, p. 197, in alternativa
all'argomento degli avversari del moto terrestre, che a loro avviso sarebbe
DIALOGO QUINTO 553
l'ha provato? la corrione ignoranza, il difetto di senso e di rag-
gione.
Smitho. - Questo ho molto ben capito, che la terra nel suo
loco non è più grave che il sole nel suo, e gli membri de corpi [249]
principali, come le acqui, nelle sue sfere: da le quali divise, da
ogni loco, sito e verso si moverrebono ad quelle. Onde noi al
nostro riguardo le potreimo dire non meno gravi che lieve,
gravi e lieve, che indifferenti: come veggiamo ne le comete et
altre accensioni, le quali da i corpi che bruggiano alle volte
mandano la fiamma a luoghi oppositi, onde le chiamano «co-
mate»; alle volte verso noi, onde le dicono «barbate»; alle volte
da altri lati, onde le dicono « caudate »25. L'aria il quale è gene-
ralissimo continente, et è il firmamento di corpi sferici, da tutte
parti esce, in tutte parti entra, per tutto penetra, a tutto si dif-
fonde: e però è vano l'argomento che costoro apportano, della
raggione della fissione de la terra, per esser corpo ponderoso,
denso e freddo.
Teofilo. — Lodo Idio che vi veggio tanto capace, e che mi
togliete tal fatica, et avete bene compreso quel principio col qua-
le possete rispondere a più gagliarde persuasioni di volgari filo-
sofi, et avete adito a molte profonde contemplazioni della natura.
Smitho. - Prima che venghi ad altre questioni, al presente
vorrei sapere: come vogliamo noi dire che il sole è l'elemento
vero del fuoco, e primo caldo, e quello è fisso in mezzo di questi
corpi erranti, tra quali intendiamo la terra? Perché mi occorre
che è più verisimile, che questo corpo si muova che li altri: che
noi possiamo veder per esperienza del senso.
stato violento: «Se qualcuno pensasse che la terra ruota, direbbe in ogni caso
che il moto è naturale, non violento. E le cose che si realizzano secondo natura
hanno effetti contrari a quelle che si realizzano, invece, secondo violenza».
25. Bruno si limita a menzionare soltanto tre delle numerose specie di co-
mete enumerate dagli Antichi (cfr. ad esempio Plinio, Nat. hist., II, 22, 89-90,
ed. diretta da G. B. Conte, Torino, voi. I, 1982, pp. 259-260). Sembra che qui il
Nolano consideri le comete come fiamme mentre, fin dal 1550, Cardano, nel
suo De subtilitate, aveva formulato l'ipotesi che la coda delle comete (sempre in
posizione opposta al Sole, come Fracastoro aveva osservato, intomo al 1530)
non fosse la sede di una combustione, ma di un'illuminazione ad opera della
luce solare: idea ripresa da Tycho Brahe ed, in seguito, considerata valida una
volta per tutte (si veda C. C. Hellmann, The Comet of i^yy. Its Place in the
History of Astronomy, New York, 1971, pp. 13-117). Ma nel De immenso, I, 5, Op.
lai., I, I, p. 218 (ed. Monti cit., pp. 435-436) scriverà che le comete non differi-
scono in niente dai pianeti, se non nella maniera in cui ci arriva la loro luce.
554 LA CENA DE LE CENERI
Teofilo. - Dite la raggione.
Smitho. — Le parti della terra ovomque siino o natural-
[251] mente o per violenza ritenute, non si muoveno. Cossi le parti de
l'acqui fuor del mare, fiumi, et altri vivi continenti, stanno
ferme. Ma le parti del foco quando non hanno facultà di mon-
tare in alto, come quando son ritenute dalle concavità delle for-
naci, si svolgeno e ruotano in tondo, e non è modo che le rite-
gna. Se dumque vogliamo prendere qualche argumento e fede
dalle parti, il moto conviene più al sole et elemento di foco che
alla terra.
Teofilo. — A questo rispondo prima, che per ciò si potrebe
concedere che il sole si muova circa il proprio centro. Ma non
già circa altro mezzo ^i^: atteso che basta che tutti i circostanti
corpi si muovano circa lui, per tanto che di esso quelli han bi-
sogno; et anco per quel che forse anco lui potesse desiderar da
essi. Secondo è da considerare che l'elemento del foco è soggetto
del primo caldo, è corpo cossi denso e dissimilare in parti e mem-
bri, come è la terra: però quello che noi veggiamo muoversi di tal
sorte, è aria acceso, che si chiama «fiamma»; come il medesmo
aria alterato dal freddo della terra, si chiama «vapore».
Smitho. — E da questo mi par aver mezzo di confirmar quel
che dico; perché il vapore si muove tardo e pigro, la fiamma et
esalazione velocissimamente: e però quello che è più simile al
foco si vede molto più mobile, che quello aria che è simigliante
più alla terra.
Teofilo. — La caggione è che il fuoco più si forza di fuggire
da questa reggione la quale è più connaturale al corpo di con-
traria qualità. Come se l'acqua o il vapore se ritrovasse nella
[253] reggione del fuoco, o loco simile a quella, con più velocità fug-
girebbe che l'exalazione la quale ha con lui certa participazione
e connaturalità maggiore, che contrarietà o differenza. Bastivi
26. Questa ipotesi, a riguardo della quale il Nolano è ancora esitante (come
Teofilo dichiara un poco più sotto), è data per certa nel De immenso, III, 5 e IV,
8, Op. lai, I, I, p. 359 e I, 2, p. 45 (ed. Monti cit., pp. 433-434 e 607). Contra-
riamente a ciò che scriveva H. Brunnhofer, G. Bruno's Weltanschauung und
Verhàngnis, Leipzig, 1882, Bruno non è stato il primo a postulare la rotazione del
Sole: l'intuizione risale a Platone e, prima di Bruno, sarà ripresa, fra gli altri,
da B. Telesio (cfr. M. P. Lerner, «Sicut nodus in tabula». De la rotation propre
du soleil au XVF siede, «Journal for the History of Astronomy» [Cambridge],
II, 1980, pp. 121 e 128).
DIALOGO QUINTO 555
di tener questo: per che della intenzione del Nolano non trovo
determinazione alcuna circa il moto o quiete del sole. Quel
moto dumque che veggiamo nella fiamma, ch'è ritenuta e con-
tenuta nelle concavità de le fornaci, procede da quel, che la
virtù del foco perseguita, accende, altera e trasmuta l'aria vapo-
roso, del quale vuole aumentarsi e nodrirsi; e quel altro si ritira,
e fugge il nemico del suo essere e la sua correzzione^'^.
Smitho. — Avete detto l'aria vaporoso: che direste dell'aria
puro e semplice?
Teofilo. — Quello non è più soggetto di calore, che di
freddo; non è più capace e ricetto di umore quando viene in-
spessato dal freddo, che di vapore et exalazione quando viene
attenuata l'acqua dal caldo.
Smitho. - Essendo che nella natura non è cosa senza provi-
denza e senza causa finale, vorrei di nuovo saper da voi (perché,
per quel ch'avete detto, ciò si può perfettamente comprendere):
per qual causa è il moto locale della terra?^^
Teofilo. - La caggione di cotal moto è la rinovazione e ri-
nascenza di questo corpo; il quale secondo la medesma disposi-
zione non può essere perpetuo: come le cose che non possono
essere perpetue secondo il numero (per parlar secondo il co-
mune) si fanno perpetue secondo la spezie; le sustanze che non
possono perpetuarsi sotto il medesmo volto, si vanno tutta via
cangiando di faccia: per che essendo la materia e sustanza delle
27. Si accosti quello che Bruno dice qui sul fuoco e sulla fiamma «terre-
stri» (in opposizione all'elemento del fuoco di cui sarebbe composto il Sole,
idea estranea a Copernico, ma non a Telesio) ad un passo del De revolutionibus,
I, 8, ed. Barone cit, pp. 200-201: «Duplice è il movimento delle cose che ca-
dono e che salgono in rapporto al mondo, e che deve essere composto di mo-
vimento rettilineo e circolare. Poiché di quelle cose che precipitano per il loro
peso, in quanto sono terrose al massimo, non c'è dubbio che le parti conser-
vino la stessa natura del loro tutto. E non diversamente accade per quelle cose
che, invece, dalla loro natura ignea, sono trascinate verso l'alto. Infatti, anche
questo fuoco terrestre si alimenta principalmente di materia terrena; e dicono
che la fiamma non sia altro che fumo ardente. Ora è proprietà del fuoco quella
di estendere ciò che ha invaso, cosa che fa con tanta violenza che in nessun
modo e con nessun strumento può essere trattenuto dal compiere l'opera, spez-
zando ciò che lo imprigiona». - Il termine «esalazione» pare a L. Cozzi, loc.
cit., «usato, anche se in senso vago e non specifico, nel significato di gas, perché
Bruno lo distingue sia dal fuoco che dal vapore».
28. Ogni movimento dei corpi celesti ha la sua finalità; riveste una fun-
zione «vitale» per l'astro che ne è la sede. Questo vale sia per la Terra, sia per
il Sole che gira su se stesso. — Ciò che non si può perpetuare aQÙi^^u) si perpe-
tua eiÓEi: cfr. ARISTOTELE, De animalium generatione, II, i, 731 b 31-35.
556 LA CENA DE LE CENERI
[255] cose incorrottibile, e dovendo quella secondo tutte le parti esser
soggetto di tutte forme, a fin che secondo tutte le parti (per
quanto è capace) si fia tutto, sia tutto, se non in un medesmo
tempo et instante d'eternità, al meno in diversi tempi, in vani
instanti d'eternità, successiva e vicissitudinalmente; per che
quantumque tutta la materia sia capace di tutte le forme in-
sieme, non però de tutte quelle insieme può essere capace ogni
parte della materia. Però a questa massa intiera della qual con-
sta questo globo, questo astro, non essendo conveniente la
morte e la dissoluzione, et essendo a tutta natura impossibile
l'annihilazione: a tempi a tempi, con certo ordine, viene a rino-
varsi, alterando, cangiando, mutando le sue parti tutte; il che
conviene che sia con certa successione, ogn'una prendendo il
loco de l'altre tutte: per che altrimente questi corpi che sono
dissolubili, attualmente talvolta si dissolverebbono: come av-
viene a noi particolari e minori animali ^'^. Ma ad costoro (come
crede Platone nel Timeo^^, e crediamo ancor noi) è stato detto
dal primo principio: «Voi siete dissolubili, ma non vi dissolve-
rete». Accade dumque che non è parte nel centro e mezzo della
stella, che non si faccia nella circonferenza e fuor di quella; non
è porzione in quella extima et extema, che non debba tal volta
farsi et essere intima et intema: e questo l'esperienza d'ogni
giorno nel dimostra; che nel grembo e viscere della terra, altre
cose s'accoglieno, et altre cose da quelle ne si mandan fuori. E
noi medesmi e le cose nostre andiamo e vegnamo passiamo e
ritorniamo: e non è cosa nostra che non si faccia aliena, e non è
cosa aliena che non si faccia nostra. E non è cosa della quale
[257] noi siamo, che talvolta non debba esser nostra, come non è cosa
la quale è nostra, della quale non doviamo talvolta essere: se
una è la materia delle cose, in un geno; se due sono le materie,
in dui geni: per che ancora non determino se la sustanza e ma-
29. La stessa idea nel De infinito. Dialogo secondo, p. 72. D'altro canto, nel
De immenso, II, 5, Op. lai., I, i, p. 272 (ed. Monti cit, p. 478), Bruno ammette
che, nel tempo, i mondi - e dunque la Terra - possano dissolversi all'interno
di un universo infinito, di per sé imperituro.
30. Cfr. Timaeus, 41 a-b. Il discorso del Demiurgo è rivolto, al tempo stesso,
agli dèi sempre visibili, rappresentati dagli astri, ed agli dèi tradizionali, che si
mostrano in maniera discontinua. Bruno allude ancora a questo passo del Ti-
meo in De la causa. Dialogo secondo, p. 649, e poi nel De immenso, II, 5, Op. lai.,
I, I, p. 272 (ed. Monti cit, p. 479), dove aggiunge che Platone si rifa ai «misteri
caldaici ».
DIALOGO QUINTO 557
teria che chiamiamo spirituale, si cangia in quella che diciamo
corporale, e per il contrario; o veramente non. Cossi tutte cose
nel suo geno hanno tutte vicissitudine di dominio e servitù, fe-
licità et infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che
si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male. E non è cosa
alla quale naturalmente convegna esser etema eccetto che alla
sustanza che è la materia; a cui non meno conviene essere in
continua mutazione ^^ Della sustanza soprasustanziale non
parlo al presente, ma ritomo a raggionar particularmente di
questo grande individuo ch'è la nostra perpetua nutrice e ma-
dre, di cui dimandaste per qual caggione fusse il moto locale; e
dico che la causa del moto locale, tanto del tutto intiero,
quanto di ciascuna delle parti, è il fine della vicissitudine: non
solo per che tutto si ritrove in tutti luoghi, ma ancora perché
con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme; per ciò che
degnissimamente il moto locale è stato stimato principio d'ogni
altra mutazione e forma, e che tolto questo non può essere al-
cun altro. - Aristotele s'ha possuto accorgere della mutazione
secondo le disposizioni e qualità, che sono nelle parti tutte de la
terra; ma non intese quel moto locale che è principio di quelle.
Pure nel fine del primo libro della sua Meteora^^ ha parlato
come un che profetiza e divina; che benché lui medesmo tal
volta non s'intenda, pure in certo modo zoppigando, e me- [259]
schiando sempre qualche cosa del proprio errore al divino fu-
rore, dice per il più e per il principale il vero. Or apportiamo
quel che lui dice, e vero e degno d'essere considerato; e poi sog-
giungeremo le cause di ciò, quali lui non ha possuto conoscere.
«Non sempre» dice egli, «gli medesmi luoghi della terra son
umidi o secchi; ma secondo la generazione e difetto di fiumi, si
cangiano: però quel che fu et è mare, non sempre è stato e sarà
mare; quello che sarà et è stato terra, non è né fu sempre terra:
ma con certa vicissitudine, determinato circolo et ordine, si de'
credere che dove è l'uno sarà l'altro, e dov'è l'altro sarà l'uno».
31. Bruno affronta il problema della materia nel De la causa. Dialoghi
terzo e quarto.
32. Segue un riassunto di MeteoroL, I, 14, 351 a 19-352 a 16. - Sull'Aristo-
tele che, secondo Bruno, «profetiza», si veda M. A. Granada, L'interpretazione
bruniana di Copernico e la «Narratio prima» di Rheticus, «Rinascimento» [Firen-
ze], 2^ serie, XXX, 1990, pp. 356-358.
558 LA CENA DE LE CENERI
E se dimandate ad Aristotele il principio e causa di ciò, ri-
sponde che «gl'interiori de la terra, come gli corpi delle piante
et animali, hanno la perfezzione, e poi invecchiano. Ma è diffe-
renza tra la terra e gli altri detti corpi: per che essi intieri in un
medesmo tempo secondo tutte le parti hanno il progresso, la
perfezzione et il mancamento, (come lui dice) il stato, e la vec-
chiaia; ma nella terra questo accade successivamente a parte a
parte: con la successione del freddo e caldo, che caggiona l'au-
mento e la diminuzione, la qual seguita il sole et il giro, per cui
le parti della terra acquistano complessioni e virtù diverse^^.
Da qua i luoghi acquosi in certo tempo rimagnono; poi di novo
si disseccano et invecchiano, altri si ra\'vivano e secondo certe
parti s'inacquano^-'. Quindi veggiamo svanir i fonti, i fiumi or
da piccioli dovenir grandi, or da grandi farsi piccioli e secchi al
fine. E da questo, che gli fiumi si cassano, proviene che per ne-
cessaria consequenza si tolgano i stagni e mutinsi gli mari. Il
[261] che però, accadendo successivamente circa la terra a tempi lun-
ghissimi e tardi, a gran pena la nostra e di nostri padri la vita
può giudicare; atteso che più tosto cade la età e la memoria de
tutte genti, et avvengono grandissime corrozzioni e mutazioni,
per desolazioni e desertitudini, per guerre, per pestilenze e per
diluvii; alterazioni di lingue e di scritture, trasmigrazioni e ste-
rilità de luoghi: che possiamo ricordarci di queste cose da prin-
cipio sin al fine per sì lunghi, varii e turbolentissimi secoli.
Queste gran mutazioni assai ne si monstrano nelle antiquità del
33. L'affermazione è un antecedente della domanda di Sagredo a Simplicio
(Dialogo sopra i massimi sistemi, Giornata quarta, ed. Brunetti cit., II, p. 85):
«ma se all'eternità dell'intero globo terrestre non è punto pregiudiziale la cor-
ruttibilità delle parti superficiali ... perché non potete e dovete voi ammetter
alterazioni, generazioni etc. parimente nelle parti esteme de i globi celesti, ag-
giugnendo loro ornamento, senza diminuirgli perfezione o levargli l'azioni,
anzi accrescendogliele, col far che non solo sopra la Terra, ma che scambievol-
mente fra di loro tutti operino, e la Terra ancora verso di loro?». - Poche
pagine prima, in Galileo troviamo la definizione della «Terra nobilissima ed
ammirabile per le tante e sì diverse alterazioni, mutazioni, generazione etc,
che in lei incessabilmente si fanno» (ivi, p. 82): ciò potrebbe rapportarsi alla
concezione bruniana della materia «a cui non meno conviene esser in con-
tinua mutazione». Cfr. G. Aquilecchia, / «Massimi sistemi» di Galileo e la
«Cena» cit, p. 494.
34. Sull'altemarsi dei periodi di umidità e di secchezza nelle regioni terre-
stri, cfr. Acrotismus, art. LXXIV, Op. lat.. I, i, p. 186; De immenso, III, 4, vv. 9-18;
IV, 3, vv. 39-58, Qp. lat, I, I, p, 341 e I, 2, pp. 17-18 (ed. Monti cit, pp. 532 e
590). - «Il sole e il giorno»: si veda, infra, note 42 e 43.
DIALOGO QUINTO 559
Egitto; nelle porte del Nilo le quali tutte (tolto il canobico^^
esito) son fatte a opra di mano; nell'abitazioni della città di
Memfi, dove i luoghi inferiori son abitati dopo i superiori. Et in
Argo e Micena, de quali al tempo di Troiani la prima reggione
era paludosa, e pochissimi vivevano in quella; Micena per esser
più fertile, era molto più onorata: del che a tempi nostri è tutto
il contrario: per che Micena è al tutto secca, et Argo è dovenuta
temperata et assai fertile. Or come accade in questi luoghi pic-
cioli, il medesmo doviamo pensar circa grandi e reggioni in-
tiere: però come veggiamo che molti luoghi che prima erano
acquosi ora son continenti, cossi a molti altri è sopravenuto il
mare»^"^. Le quali mutazioni veggiamo farsi a poco a poco come
le già dette, e come ne fan vedere le corrosioni de monti altis-
simi e lontanissimi dal mare: che quasi fusser freschi, mostrano
gli vestigli dell'onde impetuose. E ne costa dall'istorie di Felice
Martire Nolano", quale dechiarano al tempo suo (che è stato
poco più o meno di mill'anni passati) era il mare vicino alle
mura della città, dove è un tempio chi ritiene il nome di Por- [263]
to^**: onde al presente è discosto dodeci milia passi. Non si vede
il medesmo in tutta la Provenza? Tutte le pietre che son sparse
per gli campi, non mostrano un tempo esser state agitate da
l'onde? La temperie della Francia parvi che dal tempo di Cesare
al nostro sia cangiata poco? All'ora in loco alcuno non era atta
alle viti; et ora manda vini cossi deliziosi come altre parti del
mondo; e da settentrionalissimi terreni di quella, si raccoglieno
gli frutti de le vigne. E questo anno ancora ho mangiate de
l'uve de gli orti di Londra, non già cossi perfette come de peg-
35. «Canobico» dall'antica città egiziana di Canope.
36. Sul tema delle parti della Terra ricoperte e poi abbandonate dal mare,
si veda De l'infinito, Dialogo terzo, pp. 101-103.
37. Ci sono due san Felice da Nola, festeggiati rispettivamente il 14 gennaio
ed il 15 novembre. Il primo, che fu vescovo di Nola, è morto nel 484; il se-
condo, Felice il Confessore, è morto nel 260. Cfr. i RR. PP. Boudot e Chaus-
SIN, Vie des Saints et des Bienheureux, Paris, 1935-1959, 13 tomi, rispettiva-
mente t. I, pp. 262-266 e t. XI, pp. 462-463. Se ci si mantiene all'indicazione
approssimativa di Bruno: «al tempo suo (che è stato poco più o meno di
mill'anni passati)», la cronologia militerebbe in favore del primo. La cattedrale
di Nola era consacrata a san Felice, cfr. V. Spampanato, Documenti della vita
di G. Bruno, Firenze, 1933, «Documenti parigini», II, p. 650: «Jourdanus ... m'a
dit que la cathédrale de Noie est de S. Felix».
38. La cappella di Santa Maria del Porto, nei paraggi di Nola Nel De ma-
gia, Op. lat. III, p. 341 (ed. Biondi cit., p. 63), Bruno parla degli spiriti che si
manifestano «in località solitaria presso il tempio di Porto».
560 LA CENA DE LE CENERI
glori di Francia, ma pur tale quali affermano mai esseme pro-
dotte simili in terra inglesa^'^. — Da questo dumque, che il mare
Mediterraneo lasciando più secca e calda la Francia e le parti
de l'Italia, quali io con gli miei occhi ho viste, va inchinando
verso la Libia-"", seguita che venendosi più e più ad scaldarsi
l'Italia e la Francia, e temprarsi la Britannia, doviamo giudi-
care che generalmente si mutano gli abiti de le reggioni: con
questo, che la disposizion fredda si va disminuendo verso l'Ar-
tico polo. Dimandate ad Aristotele: «Onde questo avviene?»; ri-
sponde: «Dal sole, e dal moto circolare». Non tanto confusa et
oscuramente, quanto ancora da lui divina et alta e verissima-
mente detto. Ma come? forse come da un filosofo? Non: ma più
presto come da un divinatore; o pur da uno che intendeva e
non ardiva de dire, forse come colui che vede e non crede a
quel che vede, e se pur il crede dubita d'affirmarlo, temendo
che alcuno non venghi a constringerlo di apportar quella rag-
gione la qual non ha. Referisce, ma in modo col quale chiuda la
F265] bocca a chi volesse oltre sapere; o forse è modo di parlar tolto
dagli antichi filosofi-*'. Dice dumque che il caldo il freddo,
l'arido l'umido, crescono e mancano sopra tutte le parti della
terra: ne la quale ogni cosa ha la rinovazione, consistenza, vec-
chiaia e diminuzione; e volendo apportar la causa di questo,
dice: «propter solem et circumlationem^^ . Or per che non dice
39. La coltivazione dell'uva, al pari della vinificEizione, è attestata a Lon-
dra in quegli anni: cfr. J. Florio, Second Fruites, London, 1591, p. 50; Erasmo
DA Rotterdam, Opus Epistolarum, Oxford, voi. I, 1906, n. 283, p. 547 (lettera
ad Ammonio del 21 dicembre 15 13). - Per contro, parlando della Francia,
Bruno sbaglia, in parte: la vigna era coltivata in lungo e in largo nelle regioni
meridionali, fin dal tempo di Cesare; si veda ad esempio Plinio, Nat. hist.,
XIV, 8, 68 (ed. Conte cit, voi. Ili, i, 1984, pp. 220-221). E sulle origine della
viticoltura in Francia, cfr. R. DiON, Histoire de la vigne et dti vin en Frutice des
origines an XIX"^ siede, Paris, 1959, pp. 95 e segg.
40. L'Africa del Nord (nella geografia di Tolomeo).
41. Nell'ed. critica del 1955 (p. 222, nota 6 e segg.). avevo evocato la lettera
di Campanella a Rodolfo II d'Austria (aprile? 1607), dove si legge: «nec velati
sapiens, sed uti fur dictorum Calippi et Eudoxi sermones excelsos pronunciat»
(Lettere, a cura di V. Spampanato, Bari, 1927, p. 87). Amerio si è sbagliato (Ope-
re di G. Bruno e T. Campanella. Milano-Napoli, 1956, p. 280, nota 2) credendo
che la citazione fosse riferita soltanto alla parte centrale del passo bruniano (e
mettendomi in conto il suo errore).
42. «Propter solem et circumlationem»: 6ià tòv r\kio\ xaì rryv rtegicfogàv
(«a causa del sole e della [sua] traslazione»). Cfr. .Aristotele, Meteoroi. 1, 14,
351 a 32 (traduz. di L. Pepe, Napoli, 1982 - modificata - p. 72). Così traduceva,
a sua volta, Guglielmo di Moerbeke, utilizzato da san Tommaso nelle Senten-
tiae super Meteora (cfr. In Aristotelis libros ... Meteorologicorum expositio, ed. R. M.
DIALOGO QUINTO 56 1
propter solis circulationem?-^^ Per che era determinato appresso
lui, e conceduto appo tutti filosofi di suoi tempi e di suo umore,
che il sole con il suo moto non possea caggionar questa diver-
sità: per che in quanto che l'ecliptica declina dall'equinozziale,
il sole eternamente versava tra i doi punti tropici, e però esser
impossibile d'esser scaldata altra parte di terra; ma eternamente
le zone et i climi essere in medesma disposizione. Per che non
disse «per circolazione d'altri pianeti»? Perché era determinato
già che tutti quelli (se pur alcuni per qualche poco non trapas-
sano) si muoveno sol per quanto è la latitudine del zodiaco
detto «trito camino de gli erranti»'*'*. Per che non disse «per
circolazione del primo mobile»? Per che non conosceva altro
moto che il diurno, et era a' suoi tempi un poco de suspizione
d'un moto di retardazione, simile a quello di pianeti '♦5. Per che
non disse «per la circolazion del cielo»? Per che non possea dire
come e quale ella potesse essere. Per che non disse «per la cir-
colazion de la terra»? Per che avea quasi '*'^ come un principio
Spiazzi, cit., p. 459) e riproposto negli Aristotelis opera cum Averrois commenta-
riis, Venetiis, 1562 [rist. anast. cit], voi. 5, fol. 519G. Tommaso glossa queste
parole in tal modo: «Propter motum solis et alias circulationes coelestium cor-
porum. Et inde est quod secundum diversum situm in aspectu solis et stella-
rum, partes terrae recipiunt diversam virtutem» (ed. cit, p. 461 [132]). Simil-
mente, Tommaso colloca i diversi cambiamenti che si verificano sulla Terra,
sotto l'influenza dell'insieme dei corpi celesti - di per sé incontaminati ed im-
mutabili in etemo - in conformità con quello che Aristotele diceva nel Primo
libro dei Meteorologica, capp. 2 e 3.
43. «A causa del moto circolare del sole». Cfr. la traduzione dovuta a Fran-
gois Vatable dei Meteorologicorum Aristotelis Libri Quatuor, Lugduni, 1546, I, 3,
p. 36: «propter solis calorem, conversionemque».
44. Bruno sta parlando della fascia dello zodiaco, la cui larghezza era va-
lutata, secondo la tradizione, «in 12 gradi, 6 a nord eòa sud dell'eclittica,
indicando così la quantità delle deviazioni della Luna e dei pianeti rispetto
alla via del Sole, come riferisce Calcidio» (cfr. G. Bezza, Commento al Primo
libro della «Tetrabiblos» di Tolemeo, Milano, 1990, p. 306).
45. Bruno allude al lento movimento di precessione, che si effettua in
senso inverso alla rivoluzione diurna? Esso, in effetti, era sconosciuto nel IV
secolo a. C. Ma allora, cosa significa che se ne aveva, all'epoca, «un poco di
suspizione»? Bruno ha un ricordo confuso del capitolo in cui Pico della Miran-
dola, citando Proclo, rammenta che gli Antichi (egiziani, caldei e, probabil-
mente, Aristotele) non conoscevano il moto di precessione introdotto - contro
ogni verosimiglianza — da Ipparco? Quanto a Proclo, vissuto nel V secolo, sap-
piamo che non credeva alla realtà di detto movimento (cfr. Pico della Mi-
randola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, IX, 11, ed. Garin cit,
voi. II, 1952, pp. 348-349)-
46. Curiosa formulazione: perché questo «quasi»? Aristotele è certo di aver
dimostrato l'immobilità e la posizione centrale della Terra, nel Libro II del De
caelo. Bruno vuol dire forse che, in realtà, questa dimostrazione non vale
niente, essendo al servizio di una tesi preconcetta, se non di un pregiudizio?
562 LA CENA DE LE CENERI
supposto, che la terra è inmobile. Per che dumque lo disse? for-
zato da la verità: la quale per gli effetti naturali si fa udire "*^.
Resta dumque che sia dal sole e dal moto. Dal sole dico, per che
[267I lui è quel unico che diffonde e comunica la virtù vitale. Dal
moto ancora, per che se non si movesse o lui a gli altri corpi,
o gli altri corpi a lui, come potrebbe ricevere quel che non ha, o
donar quel ch'ha? È dumque necessario che sia il moto: e que-
sto di tal sorte che non sia parziale: ma con quella raggione con
cui causa la rinovazione di certe parti, venga ad apportarla a
quell'altre; che come sono di medesma condizione e natura,
hanno la medesima potenza passiva, alla quale (se la natura
non è ingiuriosa) deve corrispondere la potenza attiva**^. — Ma
con ciò troviamo molto minor raggione-^'' per la quale il sole e
tutta l'università de le stelle s'abbino a muovere circa questo
globo, che esso per il contrario debba voltarsi a l'aspetto del-
l'universo, facendo il circolo annuale circa il sole e diversa-
mente con certe regolate successioni per tutti i lati svolgersi et
inchinarsi a quello, come a vivo elemento del fuoco. Non è ra-
gione alcuna che senza un certo fine et occasione urgente gli
astri innumerabili che son tanti mondi, anco maggiori che que-
sto, abbino sì violenta relazione a questo unico; non è ragione
47. Strada facendo, Teofilo ha dimenticato di menzionare un'interpreta-
zione di tali «mutazioni», da attribuire ad Eraclito e criticata da Aristotele,
Meteorol., I, 14, 352 a 17 e segg. (traduz. Pepe cit, p. 74): «Coloro la cui osserva-
zione è ristretta ad un piccolo campo credono che la causa di tali processi sia
un mutamento generale che riguarda l'intero universo ... Ma non bisogna cre-
dere che la causa di ciò sia il divenire del mondo; è infatti ridicolo far muo-
vere il tutto per dei mutamenti minimi: perché la massa della terra è di gran-
dezza nulla rispetto all'intero cielo». Sulle origini del tema filosofico-letterario
della piccolezza della Terra all'interno dell'immensità del mondo, cfr. inoltre
A. J. Festugière, La Révélation d'Hermes Trismégiste, II, Le Dieii cosmique, Pa-
ris. 1949, pp. 449-459-
48. Cfr. De immenso, IV, 7, w. 57-64 e 9, vv. loo-ioi, Op. lai.. I. 2, pp. 34-35
e 50 (ed. Monti cit, pp. 601-602 e 613).
49. In tutta la parte conclusiva del suo intervento, Teofilo-Bruno fa più
volte riferimento alla «raggione», ma la sua è una ragione che non va oltre i
limiti del probabile. Trattandosi della rotazione terrestre, l'aspetto «razionale»
ed «economico» di questo moto, attribuito a un piccolo corpo piuttosto che
all'enorme macchina celeste, era stato senza meno intravisto da autori come
Buridano o N. Oresme. Ma la ragione a cui essi si rifacevano, puramente logica,
e tale da non poter confermare nessuna dimostrazione fisica, non era stata suf-
ficiente a vincere le loro credenze, mentre ora convince Smitho. Copernico, Pa-
trizi ed altri ancora faranno ricorso allo stesso argomento: cfr. M. P. Lerner,
L'Achille des Coperniciens, «Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance» [Genè-
ve], t 42, 1980, pp. 313-327.
DIALOGO QUINTO 563
che ne faccia dir più tosto trepidar il polo, nutar l'asse del
mondo, cespitar gli cardini de l'universo, e sì innumerabili, più
grandi e più magnifici globi ch'esser possono, scuotersi, svol-
tarsi, ritorcersi, rappezzarsi, et al dispetto de la natura squar-
tarsi in tanto, che la terra cossi malamente (come possono di-
mostrare i sottili optici e geometri) venghi ad ottener il mezzo,
come quel corpo che solo è grave e freddo 'O: il qual però non si
può provar dissimile a qualsivoglia altro che riluce nel firma-
mento, tanto nella sustanza e materia, quanto nel modo della
situazione; per che se questo corpo può esser vagheggiato da [269]
questo aria nel quale è fisso, e quelli possono parimente esser
vagheggiati da quello che ie circonda; se quelli da per se stessi
come da propria anima e natura possono dividendo l'aria cir-
cuire qualche mezzo, e questo nientemeno.
Smitho. — Vi priego questo punto al presente si presuppona:
sì per che quanto a me tengo per cosa certissima che più tosto
la terra necessariamente si muova, che sii possibile quella inta-
volatura et inchiodatura di lampe: sì anco per che quanto a
quelli che non l'han capito, è più espediente dechiararlo come
materia principale, che in altro proposito toccarlo per modo di
digressione. Però se volete compiacermi venite presto ad speci-
ficarme i moti che convegnono a questo globo.
Teofilo. - Molto volentieri: per che questa digressione ne
arebbe fatto troppo differire di conchiudere quel che io volevo
della necessità et il fatto de tutte le parti de la terra, che suc-
cessivamente devono participar tutti gli aspetti e relazioni del
sole, facendosi soggetto di tutte complessioni et abiti. Or dum-
que per questo fine è cosa conveniente e necessaria, che il moto
de la terra sia tale, per quale con certa vicissitudine dove è il
mare sia il continente, e per il contrario; dove è il caldo sii
il freddo, e per il contrario; dove è l'abitabile e più temprato, sia
il meno abitabile e temprato, e per il contrario; in conclusione,
50. Benché questo discorso non menzioni alcun autore in particolare, esso
potrebbe prendere di mira una cosmologia geocentrica come quella che Telesio
aveva sviluppato nel suo De rerum natura iuxta propria principia, I ed. Roma,
1565; II ed. Napoli, 1570 (e cfr. l'ed. critica a cura di L. De Franco, Cosenza-
Firenze, 1965-1976, 3 voli.), dove tutto era ordinato intomo alla Terra, sede del
freddo e centro immobile del mondo. I.-e diverse edizioni del De rerum natura
sono ora interrogabili nel cd-rom B. Telesio, Opere complete, a cura di Giorgio
Stabile e Roberto Bondì, Torino, Nino Aragno Editore, 2002.
564 LA CENA DE LE CENERI
ciascuna parte venghi ad aver ogni risguardo ch'hanno tutte
l'altre parti al sole: a fin che ogni parte venghi a participar ogni
vita, ogni generazione, ogni felicità. Prima dumque per la sua
[271] vita e delle cose che in quella si contengono, e dar come una
respirazione et inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e
tenebre, in spacio di vintiquattro ore equali la terra si muove
circa il proprio centro, esponendo al suo possibile il dorso tutto
al sole. Secondo, per la regenerazione delle cose, che nel suo
dorso vivono e si dissolveno, con il centro suo circuisce il lu-
cido corpo del sole, in trecento sessantacinque giorni et un qua-
drante in circa; ove da quattro punti della ecliptica fa la crida
della generazione, dell'adolescenzia, della consistenzia e della
declinazione di sue cose. Terzo, per la rinovazione di secoli par-
ticipa un altro moto per il quale quella relazione ch'ha questo
emisfero superiore della terra a l'universo, venga ad ottener
l'emisfero inferiore, e quello succeda a quella del superiore.
Quarto, per la mutazione di volti e complessioni della terra, ne-
cessariamente gli conviene un altro moto, per il quale l'abitudi-
ne'i ch'ha questo vertice de la terra verso il punto circa l'Ar-
tico, si cangia con l'abitudine ch'ha quell'altro verso l'opposito
punto de l'Antartico polo'^. Il primo moto si misura da un
punto de l'equinozziale della terra, sin che toma o al medesmo
o circa il medesmo. Il secondo moto si misura da un punto
imaginario de l'ecliptica (ch'è la via della terra circa il sole), sin
che ritoma al medesmo, o circa quello. Il terzo moto si misura
51. Qui, e nella riga successiva, il termine «abitudine» va messo in rela-
zione coi poli terrestri. Poco oltre, con la linea dell'equatore. L. Cozzi, Il lessico
scientifico cit, p. 68, pensa che «questo uso derivi dal latino medievale perché
lo ritroviamo analogo nella Quadratura circuii di Cusano».
52. Secondo G. V. Schiaparelli (in F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno
esposte e confrontate con le italiane, Firenze, 1889, pp. 313-314, nota 3): «Il Bruno
descrive i moti della Terra secondo il sistema di Copernico, non quale si trova
nel libro De Revolutionibus, ma secondo l'interpretazione ed immaginazione
sua». Purtuttavia, scrive P. H. Michel, La cosmologie de Bruno, Paris, 1962,
p. 324: «la sua definizione del primo movimento (rotazione del pianeta su se
stesso in ventiquattrore) elimina le inutili correzioni introdotte da Copernico».
- Più tardi. Bruno abbandonerà non soltanto il quarto movimento, ma anche
il terzo: per un'analisi di questo passo della Cena, così come per l'esposizione
delle teorie copernicane nel De immenso. III, 9-10, Op. lat.. I, i, pp. 380 e segg.
(ed. Monti cit, pp. 563-577), si veda P. H. Michel, op. cit, pp. 206-219. S. Ric-
ci, La fortuna del pensiero di G. Bruno, 1600-1750, Firenze, 1990, p. 54, nota 13,
ha ricordato che W. Gilbert nel De mundo, II, 22 (terminato nel 1603, ma pub-
blicato soltanto nel 165 1) aveva esplicitamente attribuito a Bruno due movi-
menti della Terra, in aggiunta al secondo movimento intomo al Sole. Cfr. inol-
tre G. Aquilecchia, / «Massimi sistemi» di Galileo e la «Cena» cit, pp. 492-493.
DIALOGO QUINTO 565
da la abitudine ch'ha una linea emisferica della terra, che vale
per rorizonte, con le sue differenze al universo, sin che tomi la
medesma linea, o proporzionale a quella, alla medesma abitu-
dine. Il quarto moto si misura per il progresso d'un punto po-
lare de la terra, che per il dritto di qualche meridiano, passando
per l'altro polo, si converta al medesmo o circa il medesmo [273]
aspetto dove era prima. E circa questo è da considerare che
quantumque diciamo esser quattro moti, nulladimeno tutti
concorreno in un moto composto. Considerate, che di questi
quattro moti: il primo si prende da quel, che in un giorno na-
turale par che circa la terra ogni cosa si muova sopra i poli del
mondo, come dicono. Il secondo si prende da quel, che appare
ch'il sole in un anno circuisce il zodiaco tutto, facendo ogni
giorno, secondo Tolomeo '^ nella terza dizzione del Almagesto,
cinquanta nove minuti, otto secondi, 17 terzi, 13 quarti, 12
quinti, 31 sesti; secondo Alfonso ^''j cinquanta nove minuti, 8
secondi, 11 terzi, 37 quarti, 19 quinti, 13 sesti, 56 settimi; se-
condo Copernico, cinquanta nove minuti, 8 secondi, 11 terzi. Il
terzo moto si prende da quel, che par che l'ottava sfera, secondo
l'ordine di segni, a l'incontro del moto diurno, sopra i poli del
zodiaco, si muove sì tardi, che in ducento anni non si muove
più ch'un grado e 28 minuti: di modo che in quaranta nove
milia anni vien a compir il circolo^'; il principio del qual moto
attribuiscono ad una nona sfera. Il quarto moto si prende dalla
trepidazione 5^, accesso e recesso, che dicono far l'ottava sfera
53. Cfr. Tolomeo, Syntaxis Mathematica, III, i (ed. Heiberg, pp. 191 e segg.).
54. Vale a dire gli astronomi di Alfonso X di Castiglia, che, nella metà del
XIII secolo, ordinò la redazione delle Tavole alfonsine per completare e miglio-
rare quelle di Tolomeo. Non abbiamo reperito la fonte utilizzata da Bruno per
la grandezza del moto diurno del Sole, secondo «Alfonso». Peraltro poteva leg-
gere in Copernico che, dividendo il moto annuo del Sole per 365 giorni, «avre-
mo il moto diurno di 59' 8" 11'" 22"". Che se aggiungeremo a questi la preces-
sione degli equinozi media e uniforme, otterremo anche il moto uniforme in
anni tropici, quello annuo ... e quello diurno di 59' 8" 19'" 37""» {De revolutio-
nibus. III, 14; ed. Barone cit, p. 415).
55. Dato tratto dalle Tavole alfonsine. Nello Spaccio, Dialogo primo, p. 201,
Bruno ridurrà l'anno cosmico a 36.000 anni. Cfr. altresì De rerum principiis, Op.
lai., III, p. 538. - Ricordiamo che la stima di Copernico per l'intera rivoluzione
uniforme della precessione degli equinozi era di 25.816 anni (cfr. De revolutio-
nibus, III, 6; ed. Barone cit, p. 386). Quanto alla sua spiegazione, Copernico
rinunciava evidentemente a farla dipendere da una o due sfere celesti, per at-
tribuirla ad un movimento proprio dell'asse terrestre, il famoso terzo movi-
mento.
56. Per un'esposizione della teoria della trepidazione, si veda ad esempio
C. Clavius, In Sphaeram, ed. Lugduni, 1593, pp. 56 e 63-64.
566 LA CENA DE LE CENERI
sopra dui circoli equali, che fingono nella concavità della nona
sfera, sopra i principii dell'Ariete e Libra del suo zodiaco. Si
prende da quel, che veggono esser necessario che l'ecliptica del-
l'ottava sfera non sempre s'intenda intersecare l'equinozziale
ne' medesmi punti: ma tal volta essere nel capo d'Ariete, tal
volta oltre quello da l'una e l'altra parte dell'ecliptica; da quel,
che veggono le grandissime declinazioni del zodiaco non esser
(275] sempre medesme: onde necessariamente seguita che gli equinoz-
zii e solstizii continuamente si variino, come effetualmente è
stato da molto tempo visto. Considerate, che quantumque di-
ciamo quattro essere questi moti, nulladimeno è da notar che
tutti concorreno in un composto. Secondo, che benché le chia-
miamo circulari, nullo però di quelli è veramente circulare.
Terzo, che benché molti si siino affaticati di trovar la vera re-
gola de tai moti, l'han fatto, e quei che s'affaticaranno lo fa-
ranno, in vano: per che nessuno di que' moti è a fatto regolare e
capace di lima geometrica 5^. Son dumque quattro; e non denno
esser più né meno moti (voglio dir differenze di mutazion locale
nella terra), de quali l'uno irregolare necessariamente rende gli
altri irregolari, i quali voglio che si discrivano nel moto di una
palla che è gittata nell'aria. Quella, prima, col centro si muove
da A in B^^. Secondo, intratanto che con il centro si muove da
alto a basso, o da basso in alto, si svolge circa il proprio centro,
movendo il punto / al loco del punto K, et il punto K, al loco
del punto /. Terzo, tornando a poco a poco, et avanzando di
camino e velocità di giro, over perdendo e scemando (come ac-
cade alla palla che montando in alto, da quel che prima si mo-
veva più velocemente, poi si muove più tardi, et il contrario fa
ritornando al basso, et in mediocre proporzione nelle mezze di-
stanze, per le quali ascende e descende), a quella abitudine che
tiene questa metà della circonferenza, che è notata per i, 2, 3, 4,
promoverrà quell'altra metà la quale è 5, 6, 7, 8 5^. Quarto,
perché questa conversione non è retta, atteso che non è come
d'una ruota che corre con l'impeto d'un circolo, in cui consista
57. Idea ripresa e sviluppata nel De immenso. III, 5-6 e io, Op. lat., I, i, pp.
350, 362-366 e 395 (ed. Monti cit, pp. 547-552 e 575-576). Si veda, su questo
punto, M. A. Granada, L'interpretazione hruniana di Copernico cit, pp. 345-346.
58. Si veda la figura 9. B nel testo corrisponde ad E sulla figura.
59. Le cifre da i a 8, non indicate sulla figura dell'edizione del 1584, vanno
riferite ad otto segmenti che dividono la perpendicolare AE (in figura) = AB
(nel testo), all'interno del cerchio.
DIALOGO QUINTO
567
il momento della gravità, ma si va obliquando, perché è di un [277]
globo il quale facilmente può inchinarsi a tutte parti: però il
punto I e K non sempre si convertano per la medesma rettitu-
[FiG. 9]
dine, onde è necessario che o a lungo o a breve, o ad interrotto
o a continuo andare, si dovenghi a tanto, che si adempisca quel
moto per il quale il punto 0 si faccia dove è il punto V, e per il
(279]
508 LA CENA DE LE CENERI
contrario. Di questi moti, uno che non sii regolato, è sufficiente
a far che nessuno de gli altri sia regolato; uno ignoto fa tutti gli
altri ignoti. Tutta volta hanno un certo ordine con il quale più
e meno s'accostano et allontanano dalla regolarità. Onde in
queste differenze di moti, il più regolato che è più vicino al
regolatissimo è quello del centro. Appresso a questo è quello
circa il centro per diametro, più veloce. Terzo è quello che con
la irregolarità del secondo (quale consiste nell'avanzar di velo-
cità e tardità) a mano a mano muta l'intiero aspetto dell'emi-
sfero. L'ultimo, irregolatissimo et incertissimo, è quello che can-
gia i lati; per che talvolta in loco d'andar avanti, toma a dietro,
e con grandissima inconstanzia viene al fine a cangiar la sedia
d'un punto opposito con la sedia d'un altro ^"°. Similmente la
terra; prima ha il moto del suo centro, che è annuale, più rego-
lato che tutti, e più che gli altri simile a se stesso; secondo, men
regolato, è il diurno; terzo, l'irregolato, chiamiamo l'emisferico;
quarto, irregolatissimo, è il polare o ver colurale^^
Smitho. - Questi moti vorrei sapere con qual ordine e regola
il Nolano ne farà comprendere.
Prudenzio. — Ecqids erit modus? novis usque et usque semper
indigebimus theoriis?^^
Teofilo. - Non dubitate, Prudenzio, per che del bon vecchio
non vi si guastarà nulla. A voi, Smitho, mandare quel dialogo
[281] del Nolano, che si chiama Purgatorio de rinferno^^: et ivi vedrai
il frutto della redenzione. Voi, Frulla, tenete secreti i nostri di-
scorsi; e fate che non venghino a l'orecchie di quelli ch'abbiamo
60. Cfr. Schiaparelli in F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno cit, p. 316,
nota i: «Può certamente un tal globo avere intomo al centro un moto com-
plesso di rotazione, in virtù del quale l'asse rotatorio si vada spostando non
solo rispetto allo spazio circostante, ma anche rispetto alla massa del globo
trasportandosi i poli da un punto all'altro della sua superficie. Ma questo passo
... non giova punto a provare che la Terra abbia un simil movimento».
61. I coluri sono due cerchi massimi della sfera celeste che s'intersecano ai
poli, passando uno dagli equinozi, l'altro dai solstizi.
62. «Non vi sarebbe un giusto mezzo? Fino a quando avremo bisogno di
teorie sempre nuove?».
63. Dialogo perduto, a meno che questo titolo non stia ad indicare lo Spac-
cio, pubblicato anch'esso nel 1584 ed il cui terzo dialogo fa allusione al Purga-
torio (cfr. p. 401, dove si dice che gli dèi hanno «purgato» il cielo). Più sopra,
neìV Argomento del Dialogo quinto della Cena (p. 438), Bruno prometteva (facen-
do riferimento al nostro passo) «di aggiongere per altri dialogi quel che par che
manca al compimento di questa filosofia»: una possibile allusione allo Spaccio
pensato, ma non ancora scritto.
DIALOGO QUINTO 569
rimorduti: a fin che non s'adirino centra di noi, e venghino a
donarne nove occasioni per farsi trattar peggio e ricever meglio
castigo. Voi, maestro Prudenzio, fate la conclusione, et una epi-
logazione morale solamente del nostro tetralogo"^: per che l'oc-
casione specolativa, tolta dalla cena de le ceneri, è già conclusa.
Prudenzio. — Io ti scongiuro. Nolano, per la speranza ch'hai
nell'altissima et infinita unità che t'avviva, et adori; per gli
eminenti numi, che ti protegeno, e che onori; per il divino tuo
genio che ti defende, et in cui ti fidi: che vogli guardarti di vile,
ignobili, barbare et indegne conversazioni; a fin che non contrai
per sorte tal rabbia e tanta ritrosia, che dovvenghi forse come
un satirico Momo tra gli dèi"^', e come un misantropo Timon
tra gli uomini "^^ Rimanti tra tanto appo l'illustrissimo e gene-
rosissimo animo del signor di Mauvissiero (sotto l'auspicii del
quale cominci a publicar tanto sollenne filosofia): che forse
verrà qualche sufficientissimo mezzo per cui gli astri e potentis-
simi superi ti guidaranno a termine tale, onde da lungi possi
riguardar simil brutaglia. E voi altri, assai nobili personaggi,
siete scongiurati, per il scettro del fulgorante Giove, per la civi-
lità famosa di Priamidi, per la magnanimità del senato e po-
polo quirino, e per il nettareo convito che sopra la Etiopia bu-
gliente fan gli dèi: che se per sorte un'altra volta avviene, che il
Nolano per farvi servizio, o piacere, o favore, venghi a pernottar
in vostre case, facciate di modo, che da voi sii difeso da simili [283]
rancontri; e dovendo per l'oscuro cielo ritornar a la sua stanza,
se non lo volete far accompagnar con cinquanta o cento torchi
(i quali, ancor che debba marciar di mezo giorno, non gli man-
caranno, se gli avverrà di morir in terra catolica romana), fa-
telo almeno accompagnar con un di quelli; o pur se questo vi
parrà troppo, improntategli una lanterna, con un candelotto di
sevo dentro a fin ch'abbiamo faconda materia di parlar della
sua buona venuta da vostre case: della qual non si è parlato
64. Teofilo adotta qui il vocabolario di Prudenzio.
65. Cfr. lo Spaccio, Dialogo primo, p. 204, dove Momo ottiene il privilegio di
criticare con irriverenza i vizi degli dèi.
66. Abbandonato dagli amici a causa del suo fallimento, l'ateniese Timone
resta misantropo anche dopo aver riacquistato le sue ricchezze (si veda il Ti-
mone di Luciano, la commedia omonima di Boiardo e il Timon of Athens di
Shakespeare).
570 LA CENA DE LE CENERI
ora. — Adiuro vos'^'^, o dottori Nundinio e Torquato, per il pasto
de gli Antropofagi, per la pila del cinico Anaxarco^^, per gli
smisurati serpenti di Laocoonte*^^, e per la tremebonda piaga di
san Rocco ''°: che richiamate (se fusse nel profondo abisso, e do-
vesse essere nel giorno del giudizio) quel rustico et incivile vo-
stro pedagogo che vi die creanza, e quell'altro archiasino et
ignorante, che v'insegnò di disputare; a fin che vi risaldano le
male spese, e l'interesse del tempo e cervello che v'han fatto
perdere. Adiuro vos, barcaroli londrioti che con gli vostri remi
battete l'onde del Tamesi superbo, per l'onor d'Eveno^' e Tibe-
rino "2, per quali son nomati dui famosi fiumi, e per la celebrata
e spaciosa sepoltura di Palinuro^^: che per nostri danari ne gui-
date al porto. E voi altri. Trasoni '■• salvatici e fieri mavorzii del
popolo villano, siete scongiurati per le carezze che femo le Stri-
monie^5 ad Orfeo, per l'ultimo servizio che femo i cavalli a Dio-
mede et al f ratei di Semele'^ e per la virtù del sassifico broc-
67. «Vi supplico».
68. Il mortaio dove, per ordine del satrapo Nicocreonte, fu maciullato il
filosofo Anassarco (380-320 a. C), che, in questa occasione, mostrò un coraggio
eccezionale (cfr. Diogene Laerzio, IX, 59). Si vedano gli Eroici furori, I, 5, p.
625 ed il Sigilhis sigilloriim, Op. lai. II, 2, p. 192 (traduz. di N. Tirinnanzi, Mi-
lano, 1997, p. 396). Su Anassarco di Abdera, cfr. H. Diels, Die Fragmente der
Vorsokratiker, Berlin, 1903, 59, pp. 475-479 (GlANNANTONi, op. cit., 72, voi. II,
pp. 839-846). Cfr. inoltre M. Pigino, Theologia Platonica, XIII, i, ed. a cura di
M. Schiavone, Bologna, voi. II, 1965, pp. 194-195.
69. Cfr. Virgilio, Aen., II, 203-208, ma anche Plinio, Naturalis Historia,
XXXVI, 37, ed. a cura di S. Ferri, Roma, 1946, pp. 240-242 e nota. Sulla sco-
perta del Laocoonte nel 1506 e sulla sua contemporanea collocazione nel Bel-
vedere del Vaticano, si veda da ultimo S. Settis, Des rtdnes aii miisée. La de-
stinée de la sculpture classique, «Annales E.S.C.» [Paris], 48, 1993, pp. 1347-1380
(in particolare, pp. 1353-1354, con relativa bibliografia).
70. Rocco di Montpellier (1295-1327), patrono degli appestati, era rappresen-
tato con una piaga o con un bubbone alla coscia. Cfr. Candelaio, III, 8, p. 337.
71. Figlio di Marte, battuto in una corsa da Ida, si buttò in un fiume, al
quale diede il suo nome: cfr. Ovidio, Ibis, 511-512; Metani., IX, 104; Heroid., IX,
141.
72. Divinità eponima del Tevere.
73. Palinuro, il pilota di Enea, venne sepolto su un promontorio della Lu-
cania al quale diede il proprio nome (cfr. Virgilio, Aen., VI, 380).
74. Trasone è, originariamente, il nome dato da Terenzio al soldato van-
tone àeW Eunuchtis.
75. Le Menadi (che Prudenzio chiama Strimonie, dal fiume Strymon, in
Tracia) fecero Orfeo a pezzi: cfr Ovidio, Metam., XI, i e segg.
76. Ercole fece divorare Diomede, re di Tracia, dai cavalli che questi nu-
triva con carne umana (cfr. Seneca, Troades, w. 1108-1109; Hercules furens,
w. 1168-1170). - Il «fratel di Semele» è Polidoro, figlio di Cadmo. Bruno forse
confonde il v. 280 dell'Ibis di Ovidio, dove è questione di una sorella di Semele,
ed i vv. 282-283, dove si parla dello smembramento eseguito dai cavalli.
DIALOGO QUINTO 571
chier di Cefeo^"^: che quando vedete et incontrate i forasteri e
viandanti, se non volete astenervi da que' visi torvi et erinnici, [285]
al meno l'astinenza da quegli urti vi sii raccomandata. Tomo a
scongiurarvi tutti insieme: altri per il scudo et asta di Minerva;
altri per la generosa prole del troiano cavallo ^^; altri per la ve-
neranda barba d'Esculapio; altri per il tridente di Nettuno; altri
per i baci che diemo le cavalle a Glauco^^: ch'un'altra volta con
meglior dialogi ne facciate far notomia di fatti vostri, o al men
tacere.
Il fine de la Cena de le Ceneri [287]
Tj. Si tratta dello scudo ricoperto dalla testa della Gorgone che apparte-
neva a Perseo, genero di Cefeo. Cfr. Ovidio, Metani., V, 216-217.
78. I guerrieri greci, che uscirono dal ventre del grande cavallo di legno e
incendiarono Troia; cfr. Lucrezio, De rerum natura, I, ^yè-^yy.
79. Le cavalle lo divorarono. Cfr. Virgilio, Georg., Ili, 266-268.
APPENDICI
APPENDICE I
La redazione primitiva del principio del dialogo I
della Cena de le Ceneri (ce. Bir - B2y)
DIALOGO PRIMO
Interlocutori
Smitho, studioso gentil' uomo; Teofilo filosofo;
Prudenzio pedante. Frulla, servitor di Smitho
[Smitho]. — Parlavan ben latino?
Teofilo. - Sì.
Smitho. — Galant'uomini?
Teofilo. - Sì.
Smitho. — Di buona riputazione?
Teofilo. - Sì.
Smitho. - Dotti?
Teofilo. — Cossi cossi.
Smitho. - Ben creati, cortesi, civili?
Teofilo. — Cossi cossi.
Smitho. - Dottori anch'essi?
Frulla 1. - Messer sì, madonna sì, padre sì, madesì, dottori [291]
1. Le due prime risposte attribuite a Frulla nella prima redazione (qui, ul-
tima riga e pagina seguente, riga 7) saranno attribuite a Teofilo nella seconda
(p. 441, riga 16 e p. 442, riga 4). Bruno dev'essersi senz'altro accorto che Frulla,
non avendo partecipato alla cena - cfr. la fine del Dialogo secondo — non
poteva essere informato su alcune caratteristiche dei convitati. Non può trat-
tarsi qui di un errore di stampa, e nemmeno di un lapsus calami. La prova è il
terzo intervento di Frulla (p. 570, riga io): «io non parlo con voi» diventa,
nella seconda redazione, «non parla con voi», dove il verbo «parla» ha per
soggetto Teofilo. La prima redazione tradisce una svista di Bruno o la sua in-
certezza riguardo all'ulteriore sviluppo dell'opera. Nel testo definitivo, si noti
un'analoga contraddizione in un'altra replica di Frulla, che non è stata cor-
retta (p. 458, righe 5-14).
576 LA CENA DE LE CENERI
anch'essi, e bisognava che fussero personaggi d'importanza: sì
per che fumo di scelta, sì perché andavano co robba lunghis-
sima, e vestiti di veluto; et un di quelli avea due catene d'oro (si
non eran dorate) al collo, e l'altro avea dodici anella in due dita:
che quando moveva quella preziosa mano ti rallegrava il core.
Smitho. - Mostravano saper di greco?
Frulla. — E di birra anco, eziamdio.
Prudenzio. — Togli via queir« eziamdio», poscia è una abso-
leta et antiquata diczione.
Frulla. — Tacete maestro, per che io non parlo con voi.
Smitho. — Come eran fatti?
Frulla. — L'uno parea il connestabile de la gigantessa e
l'orco; l'altro l'amostante della dea de la riputazione.
Smitho. — Sì che eran dui?
Teofilo. - Sì, per esser un numero misterioso.
Prudenzio. - Ut essent duo testes.
Frulla. - Che intendete per quel «testes»}
Prudenzio. — Testimoni, essaminatori e perscrutatori de la
sufficienza del Nolano: et mehercle ha ben detto Teofilo che il
numero binario è misterioso.
Frulla. - Perché?
Teofilo. — Essendo che, come dice Pitagora, due sono le
prime coordinazioni: finito infinito, curvo retto, destro sinistro,
e va discorrendo. Due sono le specie de numeri: pare et impare,
[293] de quai l'uno dicea maschio e l'altro femina. Dui sono i fonda-
menti de l'ombre de l'idee: intenzione e concepzione. Dui sono
gli obietti d'ogni invenzione, disposizione, giudicio e memoria:
il campo et la figurazione. Dui sono li enciclii nel libro de
trenta sigilli 2: quadrato e circolare. Dui principii essenziali de le
cose: la materia e la forma. Due specifiche differenze de la su-
stanza: raro e denso, o ver semplice e misto. Dui primi contrarii
et attivi principii: il caldo e freddo. Dui primi parenti de le cose
naturali: il sole e la terra.
Smitho. - Fatemi un piacere d'apportar alcune specie di
dualità più conforme e corrispondente alla dualità della quale
abbiamo proposito.
2. Allusione aiV Explicatio triginta sigillorum, stampata nel 1583 in Inghil-
terra (ed. a cura di F. Tocco-G. Vitelli, in Op. lai., II, 2). A riguardo, cfr.
R. Sturlese, Introduzione a De umbris idearum, Firenze* 1991, pp. XI e passim.
APPENDICE I 577
Frulla. — Come è dire che i frati di san Francesco vanno a
dui a dui. Le bestie entromo ne l'arca di Noè a due a due, ne
uscimo ancora a due a due. Il nostro redentore nacque in
mezzo di dui animali: l'asino et il bue. Trionfò sopra due mon-
tature: l'asina et il pullo; che come dicono i santi dottori, signi-
ficano il popolo ebreo et il gentile, che erano per credergli. Visse
tra due generazioni: Giudei e Samaritani. Morse tra dui villani:
Dimas e Gestas^; e cossi discorrendo per scala del binario sin a
V«ite» et il «venite» del giorno del giudizio: trovarete questo nu-
mero essere misteriosissimo.
Prudenzio. — Optimae indolis ingenium, enumeratio minime
contemnenda.
Frulla. — Io mi glorio, messer Prudenzio mio, per che voi
approvate il mio discorso, che séte più prudente che l'istessa
prudenzia, perciò che séte la prudenzia masculini generis. [295]
Prudenzio. — Neque id sine lepore et gratia. Orsù isthaec mit-
tamus encomia. Sedeamus quia, ut ait Peripateticorum princeps, se-
dendo et quiescendo sapimus: e cossi in sino al tramontar del sole
protelaremo il nostro tetralogo circa il successo del colloquio
del Nolano col dottor Torquato et il dottor Nundinio.
Frulla. - Vorrei sapere quel che volete intendere per quel
«tretalogo».
Prudenzio. — «Tetralogo» dissi io, idest quatuorum sermo,
come «dialogo» vuol dire duorum sermo, «trilogo» trium sermo, e
cossi oltre, de «pentalogo», «eptalogo» et altri, che abusiva-
mente si chiamano «dialogi», come dicono alcuni, quasi diver-
sorum logi: ma non é verisimile che Greci inventori di questo
nome, abbino quella prima sillaba «di» prò capite illius latinae
dictionis «diversum».
Smitho. - Di grazia, signor maestro, lasciamo questi rigori
di gramatica, e venemo al nostro proposito.
Prudenzio. - O seclum, voi mi parete far poco conto delle
buone lettere. Come potremo far un buon tetralogo, si non sap-
piamo che significhi questa dizzione «tetralogo»? e quodpeius est,
pensaremo che sii un dialogo? non ne a definitione et a nominis
explicatione exordiendum, come il nostro Arpinate ne insegna?
3. Il nome dei due ladroni non compariva nella Bibbia, ma nella Narra-
zione di Giuseppe di Arimatea, che fa parte degli Apocrifi del Nuovo Testamento
(cfr. l'ed. a cura di L Moraldi, Torino, voi. I, 1971, p. 688).
578 LA CENA DE LE CENERI
Teofilo. — Voi, messer Prudenzio, séte troppo prudente: la-
sciamo, vi priego, questi discorsi grammaticali, e fate conto che
questo nostro raggionamento sii un dialogo; atteso che benché
siamo quattro in persona, saremo dui in officio: di proponere e
[297] rispondere, di raggionare et ascoltare. Or per dar principio e re-
portar il negocio da capo: sono già circa quindeci giorni passati
che essendo il Nolano in casa del illustrissimo ambasciator di
Francia, li venne messer Florio insieme con maestro Guin^ da
parte d'un gentil' uomo regio scudiero...
Prudenzio. — Ab origine, ab ovo: a tempore, loco et personis,
optime exorditum^.
Teofilo. - ... e gli dissero qualmente colui era desideroso de
la sua conversazione, specialmente per brama che egli aveva de
intendere le raggioni del moto de la terra, et altri paradossi che
costui fermamente approvava; giongendo a questo, che quello
era molto cupido d'intendere i concetti del Copernico.
Prudenzio. — Omnes homines suapte natura sciendi desiderio
trahuntur, disse il Stagirita*^.
[Teofilo]. - A questo rispose il Nolano che lui non vedea
per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo, ma per i proprii
quanto al giudizio e la determinazione: benché quanto alle os-
servazioni stima dover molto a questi et altri solliciti matema-
tici, che successivamente a tempi e tempi, giongendo lume a
lume, ne han donati principii sufficenti per i quali siamo ri-
dutti a tal giudicio, quale non possea se non dopo molte non
ociose etadi esser parturito. Giongendo che costoro in effetto
son come quelli interpreti che traducono da uno idioma a l'al-
tro le paroli: ma sono gli altri poi che profondano ne' senti-
menti, e non essi medesmi. E son simili a que' rustici che ra-
portano gli effetti e la forma d'un conflitto a un capitano ab-
[299] sente; et essi non intendono (...)
4. John Florio e Mattew Gwinne, amici londinesi di Bruno (cfr. Dialogo
secondo, p. 467, nota 6).
5. «[Partire] dall'origine, dall'uovo: ottimo esordio quello che indica i
tempi, il luogo e i personaggi».
6. «Tutti gli uomini sono coinvolti per natura dal desiderio di conoscere»,
citazione dell'esordio della Metaphysica, A i, 980 a 21. Bruno non adopera qui
la versione del Moerbeke, che traduceva, con maggiore sobrietà: «Omnes homi-
nes natura scire desiderant».
APPENDICE II
La redazione primitiva della seconda parte
del dialogo II e del principio del III
della Cena de le Ceneri (foglio D)
[Teofilo]. — (...) fortuna è gionto a termine tale. Non solo è
degno di onore quell'uno eh' ha meritato il palio: ma ancor
quello e quell'altro, eh' ha sì ben corso eh' è giudicato anco de-
gno e sufficiente de l'aver meritato, ben che non l'abbia vinto; e
son vituperosi quelli ch'ai mezzo de la carriera desperati si fer-
mano, e non vanno (ancor che ultimi) a toccar il termine con
quella lena e vigor, che gli è possible.
Venca dumque la perseveranza: per che se la fatica è tanta, il
premio non sarà mediocre. Tutte cose preziose son poste nel dif-
ficile; stretta e spinosa è la via de la beatitudine; gran cosa forse
ne promette il cielo:
Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros: curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Prudenzio. - Questo è un molto emfatico progresso, che
converrebe a una materia di più grande importanza.
Frulla. — È lecito, et è in potestà di principi, de essaltar le
cose basse: le quali se essi farran tali, saran giudicate degne, e [301]
veramente saran degne; et in questo gli atti loro son più illustri
e notabili, che si aggrandissero i grandi; perché non è cosa che
non credeno meritar per la sua grandezza, o vero che si mante-
nessero i superiori ne la sua superiorità, perché diranno quello
convenirgli non per grazia, cortesia e magnanimità di principe,
ma per giusticia e raggione. Cossi non essaltano per ordinario
degni e virtuosi, perché gli pare che quelli non hanno occasione
580 LA CENA DE LE CENERI
di rendergli tante grazie, quante un aggrandito poltrone e feccia
di forfanti. Oltre hanno questa prudenza per far conoscere che
la fortuna (alla cui cieca maestà son obligati molto) è superiore
à la virtù: se tal volta esaltano un uom da bene et onorato tra
quelli, di rado li faran tener quel grado nel quale non se gli
prepona un tale, che gli faccia conoscere quanto l'autorità vale
sopra i meriti; e che i meriti non vagliono, se non quanto quella
permette e dispensa. Or vedete con qual similitudine potrete in-
tendere per che Teofilo exaggere tanto questa materia; la qual
quantumque rozza vi paia, è pur altra cosa che esaltar la Salza,
V Orticello, il Culice, la Mosca, la Noce, e cose simili con gli anti-
chi scrittori; e con que' di nostri tempi, il Palo, la Stecca, il Ven-
taglio, la Radice, la Gniffeguerra, la Candela, il Scaldaletto, il Fico,
la Quintana, il Circello, et altre cose che non solo son stimate
ignobili, ma son anco molte di quelle stomacose ''. Ma si tratta
dell'andar a ritrovar tra gli altri un par di suppositi: che portan
seco tal significazione, che certo gran cosa ne promette il cielo.
Non sapete che quando il figlio di Cis chiamato Saul andava
[303] cercando gli asini, fu in punto d'esser stimato degno et esser
ordinato re del popolo israelita? Andate, andate a leggere il
primo libro di Samuele^; e vi vedrete che quel gentil personag-
gio tutta via fea più conto di trovar gli asini, che d'esser onto
re. Anzi par che non si contentava del regno, se non trovava gli
asini. Onde tutte volte che Samuele gli parlava di coronarlo, lui
rispondeva: «E dove son gli asini? gli asini dove sono? Mio pa-
dre m' ha inviato a ritrovar gli asini, e non volete voi eh' io
ritrove gli miei asini?». In conclusione non si quietò mai, sin
tanto che non gli disse il profeta che gli asini eran trovati, vo-
lendo accennar forse ch'avea quel regno, per cui possea conten-
tarsi, che valeva per gli suoi asini, e d'avantaggio ancora. Ecco
dumque come alle volte tal cosa si è andato cercando, che quel
cercare è stato presagio di regno. Gran cosa adunque ne pro-
mette il cielo. Or seguita, Teofilo, il tuo discorso. Narra i suc-
7. L'elogio delle «cose basse» era criticato da G. B. Giraldi Cinzio nei suoi
Discorsi del 1554 (in Scritti estetici, Milano, 1864, parte seconda, pp. 30-31).
Bruno allude scopertamente al Moretum ed al Culex attribuiti a Viiplio, alla
Nux elegia (su cui, cfr. Candelaio, III, 7), ma anche ai paradossi di autori mo-
derni quali Bemi, Giovanni della Casa, Mauro, Molza, Doni, Aretino.
8. Samuele, I, 9.
APPENDICE II 581
cessi di questo cercare che facea il Nolano; fanne udire il re-
stante de i casi di questo viaggio.
Prudenzio. — Benest, prò bene est, prosequere, Theophile'^.
Smitho. — Ispedite presto, per che s'accosta l'ora d'andar a
cena. Dite brevemente quel che vi occorse dopo che vi risolve-
ste di seguitar più tosto il lungo e fastidioso camino, che ritor-
nar a casa.
Teofilo. — Alza i vanni, Teofilo, e ponti in ordine, e sappi
ch'ai presente non s'offre occasione di apportar de le più alte
cose del mondo. Non hai qua materia di parlar di quel nume de
la terra, di quella singolare e rarissima Dama, che da questo
freddo cielo, vicino a l'artico parallelo, a tutto il terreste globo [305]
rende sì chiaro lume: Elizabetta dico, che per titolo e dignità
regia non è inferiore a qualsivoglia re che sii nel mondo; per il
giodicio, saggezza, conseglio e governo, non è facilmente se-
conda ad altro che porti scettro in terra. Ne la cognizione de le
arti, notizia de le scienze, intelligenza e prattica de tutte lingue,
che da persone popolari e dotte possono in Europa parlarsi, la-
scio al mondo tutto giudicare qual grado lei tenga tra tutti gli
altri principi. Certo se 1' imperio de la fortuna corrispondesse e
fusse agguagliato a 1' imperio del generosissimo spirto et inge-
gno, bisognarebe che questo grande Amfitrite aprisse le sue fim-
brie, et allargasse tanto la sua circonferenza, che sì come gli
comprende una Britannia et Ibemia, gli desse un altro globo
intiero, che venesse ad uguagliarsi a la mole universale: onde
con più piena significazione la sua potente mano sustente il
globo d'una generale et intiera monarchia.
Non hai materia di parlar di tanto maturo, discreto et pro-
vido conseglio, con il quale quell'animo eroico già vinticinque
anni e più, col cenno de gli occhi suoi, nel centro delle borasche
d'un mare d'adversità, ha fatto trionfar la pace e la quiete;
mantenutasi salda in tanto gagliardi flutti e tumide onde di sì
varie tempeste: con le quali a tutta possa gli ha fatto impeto
quest'orgoglioso e pazzo Oceano, che da tutti contomi la cir-
conda. Quivi (bench' io come particolare non le conosca, né ab-
bia pensiero di conoscerli) odo tanto nominar gì' illustrissimi et
9. «Bene, benissimo! continua, Teofilo».
582 LA CENA DE LE CENERI
eccellentissimi cavallieri, un gran tesorier del regno '°, e Ro-
berto Dudleo, conte di Licestra, la generosissima umanità di
[307] quali è tanto conosciuta dal mondo, nominata insieme con la
fama della Regina e regno, tanto predicata ne le vicine pro-
vinze, come quella ch'accoglie con particolar favore ogni sorte
di forastiero, che non si rende al tutto incapace di grazia et os-
sequio. Questi insieme co l'eccellentissimo signor Francesco
Walsingame, gran secretarlo del regio Conseglio, come quelli
che siedeno vicini al sole del regio splendore, con la luce de la
lor gran civiltade son sufficienti a spengere et annullar l'oscu-
rità: e con il caldo de l'amorevol cortesia desrozzir e purgare
qualsivoglia rudezza e rusticità, che ritrovar si possa non solo
tra Brittanni, ma anco tra Sciti, Arabi, Tartari, Canibali et An-
tropofagi. Non ti viene a proposito di referire l'onesta conversa-
zione, civilità e buona creanza di molti cavallieri e molto nobili
personaggi del regno, tra quali è tanto conosciuto et a noi par-
ticolarissimamente, per fama prima, quando eravamo in Mi-
lano et in Francia, e poi per esperienza, or che siamo ne la sua
patria, manifesto, il molto illustre et eccellente cavalliero, si-
gnor Fillippo Sidneo: di cui il tersissimo ingegno (oltre i loda-
tissimi costumi) è sì raro e singolare, che difficilmente tra sin-
golarissimi e rarissimi, tanto fuori quanto dentro Italia, ne tro-
varete un simile.
Ma a proposito importunissimamente ne si mette avanti gli
occhi una gran parte de la plebe; la quale è una sì fatta sentina,
che se non fusse ben ben suppressa da gli altri, mandarebbe tal
puzza e sì mal fumo, che verrebe ad offuscar tanto il nome di
tutta la plebe intiera, che potrebe vantarsi l'Inghilterra d'aver
[309I una plebe, la quale in essere irrespettevole, incivile, rozza, ru-
stica, salvatica e male allevata, non cede ad altra che pascer
possa la terra nel suo seno. Or messi da canto molti soggetti che
sono in quella degni di qualsivoglia onore, grado e nobiltà, ec-
covi proposta avanti gli occhi un'altra parte, che quando vede
un forastiero, sembra (per Dio) tanti lupi, tanti orsi: che con il
suo torvo aspetto gli fanno quel viso, che saprebe far un porco
IO. È il lord ireasurer. dal 1572, William Cecil, Lord Burghley (1520-1590).
Cfr. G. Aquilecchia, La lezione definitiva della «Cena de le ceneri» (1950), ora in
Schede bruniane. Manziana (Roma), 1993, n. i, pp. 17-18; Id., «La cena de le
ceneri», in: Letteratura italiana. Le opere, Torino, voi. II, 1993, pp. 676-677.
APPENDICE II 583
ad un che venesse a torgli il tinello d'avanti. Questa ignobilis-
sima porzione (per quanto appartiene al proposito) è divisa in
due specie...
Prudenzio. — Omnis divisio dehet esse bimembris, vel reducibi-
lis ad bimembrem.
Teofilo. - ... de quali l'una è de arteggiani e botteggari, che
conoscendoti in qualche foggia forastiero, ti torceno il musso, ti
ridono, ti ghignano, ti petteggiano co la bocca, ti chiamano in
suo lenguaggio «cane», «traditore», «straniero»: e questo ap-
presso loro è un titolo ingiuriosissimo, e che rende il supposito
capace ad ricevere tutti i torti del mondo, sia pur quantosivo-
glia uomo giovane o vecchio, togato o armato, nobile o gen-
til'uomo. Or qua se per mala sorte ti vien fatto, che prendi oc-
casione di toccarne uno, o porre mano a l'armi, ecco in un
punto ti vedrai, quanto è lunga la strada, in mezzo d'uno eser-
cito di coteconi i quali, più di repente che (come fingono i poeti)
da' denti del drago seminati per lasone risorsero tanti uomini
armati, par che sbuchino da la terra: ma certissimamente
esceno da le botteghe; e facendo una onoratissima e gentilis-
sima prospettiva de una selva de bcistoni, pertiche lunghe, ale-
barde, partesane e forche rugginenti, le quali (benché ad ottimo [311]
uso gli siano state concesse dal prencipe) per questa e simile
occasioni han sempre apparecchiate e pronte, cossi con una ru-
stica furia te le vedrai avventar sopra, senza guardare a chi,
perché, dove e come, senza ch'un se ne referisca a l'altro:
ogn'uno sfogando quel sdegno naturale eh' ha centra il fora-
stiero ti verrà di sua propria mano (se non sarà impedito da la
calca de gli altri che poneno in effetto simil pensiero) e con
la sua propria verga a prendere la misura del saio; e se non
sarai cauto, a saldarti ancora il cappello in testa. E se per caso
vi fusse presente qualch'uomo da bene, o gentil'uomo, al quale
simil villania dispiaccia, quello (ancor che fusse il conte o il
duca) dubitando con suo danno, senza tuo profitto, d'esserti
compagno (per che questi non hanno rispetto a persona,
quando si veggono in questa foggia armati), sarà forzato a ro-
dersi dentro et aspettar, stando discosto, il fine. Or al tandem
quando pensi che ti sii lecito d'andar a trovar il barbiero, e ri-
posar il stanco e mal trattato busto, ecco che trovarai quelli
medesimi esser tanti birri e zaffi, i quali se potran fengere che
584 LA CENA DE LE CENERI
tu abbi tocco alcuno, potreste aver la schena e gambe quanto-
sivoglia rotte, come avessi gli talari di Mercurio, o fussi mon-
tato sopra il cavallo Pegaseo, o premessi la schena al destrier di
Perseo, o cavalcassi l'ipogriffo d'Astolfo, o ti menasse il drome-
dario de Madian, o ti trottasse sotto una de le ciraffe de gli tre
Magi: a forza di bussate ti faran correre, aggiutandoti ad andar
avanti con que' fieri pugni, che meglio sarrebe per te fussero
tanti calci di bue, d'asino o di mulo; non ti lasciaranno mai, sin
[313] tanto che non t'abbiano ficcato dentro una priggione: e qua me
tibi contendo.
Prudenzio. — A fulgure et tempestate, ab ira et indignatione,
malitia, tentatione et furia rusticorum...
Frulla. — ... libera nos domine.
Teofilo. - Oltre a questi s'aggionge l'ordine di servitori; non
parlo de quelli de la prima cotta, i quali son gentil'uomini de
baroni, e per ordinario non portano impresa o marca, se non o
per troppo ambizione de gli uni, o per soverchia adulazion de
gli altri: tra questi se ritrova civilità.
Prudenzio. — Omnis regula exceptionem patitur.
Teofilo. - Ma (eccettuando però di tutte specie alcuni, che
vi posson essere men capaci di tal censura) parlo de le altre
specie di servitori; de quali, altri sono de la seconda cotta: e
questi tutti portano la marca affibbiata a dosso. Altri sono de la
terza cotta: li padroni de quali non son tanto grandi, che li con-
vegna dar marca a' servitori, o pur essi son stimati indegni et
incapaci di portarla. Altri sono de la quarta cotta, e questi sie-
gueno gli marcati e non marcati: e son servi de servi.
Prudenzio. — «Servus servorum» non est malus titulus usque-
quaque.
Teofilo. — Quelli de la prima cotta son i poveri e bisognosi
gentil'uomini, li quali per dissegno di robba o di favore, se ri-
ducono sotto l'ali di maggiori: e questi per il più non son tolti
da sua casa, e senza indignità seguitano i sui milordi, son sti-
mati e fauriti da quelli. Quelli de la seconda cotta sono de mer-
[315J cantuzzi falliti, o arteggiani, o quelli che senza profitto han stu-
diato a leggere, scrivere o altra arte: e questi son tolti o fuggiti
da qualche scuola, fundaco o bottega. Quelli de la terza cotta
son que' poltroni che, per fuggir maggior fatica, han lasciato più
libero mestiere: e questi o son poltroni acquatici, tolti da bat-
APPENDICE II 585
telli, o son poltroni terrestri, tolti da gli aratri. Gli ultimi de la
quarta cotta sono una mescuglia di desperati, di disgraziati da
lor padroni, de fuor usciti da tempeste, de pelegrini, de disutili
et inerti, di que' che non han più comodità di rubbare, di que'
che frescamente son scampati di priggione, di quelli che han
disegno d'ingannar qualcuno, che le viene a tórre da là: e questi
son tolti da le colonne de la Borsa e da la porta di San Paolo.
De simili se ne vuoi a Parigi, ne trovarai quanti vi piace a la
porta del Palazzo; in Napoli, a le grade di San Paolo; in Vene-
zia, a Rialto; in Roma, al Campo di Flora '^ - De le tre ultime
specie sono quei che per mostrar quanto siino potenti in casa
sua, e che sono persone di buon stomaco, son buoni soldati et
hanno a dispreggio il mondo tutto: ad uno che non fa mina di
volergli dar la piazza larga, gli donaranno con la spalla, come
con un sprone di galera, una spinta, che lo faran voltar tutto
ritondo, facendogli veder quanto siino forti, robusti e possenti,
et ad un bisogno buoni per rompere un'armata. E se costui che
se farà incontro sarà un forastiero, donigli pur quanto si voglia
di piazza, che vuole per ogni modo che sappia quanto san far il
Cesare, l'Anniballe, l'Ettorre, et un bue che urta ancora. Non
fanno solamente come l'asino il quale (massimamente quando è
carco) si contenta del suo diritto camino per il filo, d'onde se tu
non ti muovi, non si moverà anco lui, e converrà che o tu a [317]
esso, o esso a te doni la scossa: ma fanno cossi questi che portan
l'acqua, che se tu non stai in cervello, ti farran sentir la punta
di quel naso di ferro che sta a la bocca de la giarra. Cossi fanno
ancora color che portan birra et ala: i quali facendo il corso suo,
se per tua inavertenza te si avventaranno sopra, te faran sentire
l'empito de la carca che portano, e che non solamente son pos-
senti a portar su le spalli, ma ancora a buttar una cosa innante,
e tirar, se fusse un carro, ancora. Questi particolari, per l'auto-
rità che tegnono in quel caso che portano la soma, son degni
d'escusazione, per che hanno più del cavallo, mulo, et asino,
che de l'uomo; ma accuso tutti gli altri li quali hanno un po-
chettino del razionale, e sono più che gli predetti ad imagine e
II. È proprio il Campo dei Fiori, dove Bruno verrà giustiziato. Per la sop-
pressione di questa frase, si veda l'ipotesi di G. Aquilecchia, Le opere italiane
di G. Bruno: Critica testuale e oltre, Napoli, 1991, pp. 39-40.
586 LA CENA DE LE CENERI
similitudine de l'uomo: et in luoco di donarte il buon giorno o
buona sera, dopo averti fatto un grazioso volto, come ti cono-
scessero e ti volessero salutare, ti verranno a donar una scossa
bestiale. Accuso, dico, quell'altri i quali tal volta fingendo di
fuggire, o voler perseguitare alcuno, o correre a qualche negocio
necessario, se spiccano da dentro una bottega: e con quella furia
ti verranno da dietro o da costa, a donar quella spinta che può
donar un toro quando è stizzato; come pochi mesi fa accadde
ad un povero messer Alessandro Citolino^^, al quale in cotal
modo, con riso e piacer di tutta la piazza, fu rotto e fracassato
un braccio: al che volendo poi provedere il magistrato, non
trovò manco che tal cosa avesse possuto accadere in quella
piazza. Sì che quando ti piace uscir di casa, guarda prima di
[319] farlo senza urgente occasione, che non pensassi come di voler
andar per la città a spasso; poi segnati col segno de la santa
croce, armati di una corrazza di pazienza, che possa star a
prova d'archibugio; e disponeti sempre a comportar il manco
male liberamente, se non vuoi comportar il peggio per forza. Ma
di che devi lamentarti, ahi lasso? Ti par ignobiltà l'essere un
animale urtativo? Non ti ricordi, Nolano, di quel che è scritto
nel tuo libro intitolato L'arca di Noèì^^ Ivi mentre si dovean
disponere questi animali per ordine, e doveasi terminar la lite
nata per le precedenze, in quanto pericolo è stato l'asino di per-
dere la preeminenza, che consistea nel seder in poppa de l'arca,
per essere un animai più tosto di calci che di urti? Per quali
animali si rapresenta la nobiltà del geno umano nell'orrido
giorno del giudizio, eccetto che per gli agnelli e gli capretti? Or
questi son que' virili, intrepidi et animosi, de quali gli uni da
gli altri non saran divisi come oves ab haedis^'*; ma qual più
venerandi, feroci et urtativi, saran distinti come gli padri de gli
agnelli da' padri di capretti. Di questi però i primi nella corte
celestiale hanno quel favore che non hanno gli secondi; e se
non il credete, alzate un poco gli occhi, e guardate: chi è stato
12. Cfr. Dialogo secondo, p. 484, nota 81 (ed Aquilecchia, La lezione defi-
nitiva cit, pp. 15-16; «La cena de le ceneri» cit, pp. 678-679).
13. Menzionata pure nella Cabala del cavallo pegaseo ed evocata durante il
processo, L'arca di Noè (attualmente perduta) dovrebbe essere stata composta
prima del 1572 e dedicata a Pio V.
14. «Le pecore dai capri» (cfr. Matteo, XXV, 32).
APPENDICE II 587
posto per capo de la vanguardia di segni celesti? chi è quello
che con la sua comipotente scossa ne apre l'anno?
Prudenzio. — Aries primo; post ipsum, Taurus^^.
Teofilo. — Appresso a questo gran capitano e primiero
prencipe de le mandre, chi è stato degno d'essergli prossimo e
secondo, eccetto eh' il gran duca de gli armenti a cui s'aggion-
gono, come per doi paggi o doi Ganimedi, que' bei gemegli gar- [321]
zoni? Considerate dumque quale e quanta sia cotal razza di per-
sone, che tengono il primato altrove che dentro un'arca infraci-
dita.
Frulla. — Certo, non saprei trovar differenza alcuna tra co-
storo e quel geno d'animali: eccetto che quelli urtano di testa, et
essi urtano di spalla ancora. Ma lasciate queste digressioni, e
tornate al proposito di quel ch'avvenne in questo residuo del
viaggio, in questa sera.
Teofilo. — Or dopo ch'il Nolano ebbe riscosse da vinti in-
circa di queste spuntonate, particolarmente alla piramide vi-
cina al Palazzo, in mezzo di tre strade, ne si femo incontro sei
galant'uomini, de quali uno gli ne die una sì gentile e gorda,
che sola possea passar per diece; e gli ne fé' donar un'altra al
muro, che possea certo valer per altre diece. Il Nolano disse:
«Tanchi, maester»^^. Credo che lo ringraziasse per che li die di
spalla, e non di quella punta ch'è posta per centro del broc-
chiere, o per cimiero de la testa. — Questa fu l'ultima borasca;
per che poco oltre per la grazia di san Fortunnio, dopo aver
discorsi sì mal triti sentieri, passati sì dubbiosi divertigli, var-
cati sì rapidi fiumi, tralasciati sì arenosi lidi, superati sì limosi
fanghi, spaccati sì turbidi pantani, vestigate sì pietrose lave, tra-
scorse sì lubriche strade, intoppato in sì ruvidi sassi, urtato in sì
perigliosi scogli, gionsemo per grazia del cielo vivi al porto, idest
a la porta: la quale subito toccata ne fu apperta. Entrammo,
trovammo a basso de molti e diversi personaggi, diversi e molti
servitori: i quali senza cessar, senza chinar la testa, e senza se- [323]
gno alcun di riverenza, mostrandone spreggiar co la sua gesta,
ne femo questo favore, de monstrame la porta. Andiamo den-
15. «Per primo l'Ariete, dopo di esso il Toro».
16. Trascrizione «fonetica» dall'inglese elisabettiano: Thank ye, master,
«GrcLzie, maestro».
588 LA CENA DE LE CENERI
tro, montamo su, trovamo che dopo averci molto aspettato, de-
speratamente s'erano posti a tavola a sedere. Dopo fatti i saluti
et i resaluti...
Prudenzio. - Vicissim.
Teofilo. — ... et alcuni altri piccoli ceremoni (tra quali vi fu
questo da ridere, che ad un de nostri essendo presentato l'ul-
timo loco, e lui pensando che là fusse il capo, per umiltà voleva
andar a seder dove sedeva il primo; e qua si fu un picciol pezzo
di tempo in contrasto tra quelli che per cortesia lo voleano far
sedere ultimo, e colui che per umiltà volea seder il primo), in
conclusione: messer Florio sedde a viso a viso d'un cavalliero,
che sedeva al capo de la tavola; il signor Folco, a destra de mes-
ser Florio; io et il Nolano a sinistra de messer Florio; il dottor
Torquato a sinistra del Nolano; il dottor Nundinio a viso a viso
del Nolano.
Qua per grazia di Dio non viddi il ceremonio di quell'ur-
ciuolo, o becchieri, che suole passar per la tavola, a mano a
mano, da alto a basso, da sinistra e destra, et altri lati, senza
altro ordine che di conoscenza e cortesia da montagne. Il quale
dopo che quel che mena il ballo se l'ha tolto di bocca, e lascia-
tovi quella impannatura di pinguedine che può ben servir per
colla, appresso beve questo, e vi lascia una mica di pane; beve
quell'altro, e v'affige a l'orlo un frisetto di carne; beve costui, e
vi scrolla un pelo de la barba: e cossi con bel disordine gustan-
[325] dosi da tutti la bevanda, nessuno è tanto mal creato, che non vi
lasse qualche cortesia de le reliquie che tiene circa il mustaccio.
Or se a qualcuno (o per che non abbia stomaco, o per che faccia
del grande) non piacesse di bere, basta che solamente se l'acco-
ste tanto a la bocca, che v'imprima un poco di vestigio de le sue
labbra ancora. Questo si fa a fine, che sicome tutti son conve-
nuti a farsi un carnivoro lupo col mangiar d'un medesmo corpo
d'agnello, di capretto, di montone, o di un Grunnio Corocotta:
cossi applicando tutti la bocca ad un medesimo bocale, ven-
ghino a farsi una sanguisuga medesima, in segno d'una urba-
nità, una fratellanza, un morbo, un cuore, un stomaco, una gola
et una bocca. E ciò si pone in effetto con certe gentilezze e ba-
gattelle, che è la più bella comedia del mondo a vederlo, e la
più cruda e fastidiosa tragedia a trovarvisi un galant'uomo in
mezzo, quando stima esser ubligato a far come fan gli altri, te-
APPENDICE II 589
mendo esser tenuto incivile e discortese: per che qua consiste
tutto il termine della civilità e cortesia. Ma per che questa os-
servanza è rimasta nelle più basse tavole, et in queste altre non
si trova oltre, se non con certa raggione più veniale, per tanto
senza guardare ad altro lasciamoli cenare; e domani parlaremo
di quel ch'occorse dopo cena.
Smitho. - A rivederci.
Frulla. - A dio.
Prudenzio. - Valete.
Fine del secondo dialogo [327]
DIALOGO TERZO
Teofilo. — Or il dottor Nundinio, dopo essersi posto in
punto de la persona, rimenato un poco la schena, poste le due
mani su la tavola, riguardatosi un poco circum circa, accomoda-
tosi alquanto la lingua in bocca, rasserenati gli occhi al cielo,
spiccato dai denti un delicato risetto, e sputato una volta, co-
mincia in questo modo...
[329] Prima proposta di Nundinio ^^
17. A partire da questo punto, e fino alla conclusione del foglio D, la reda-
zione ulteriore (tranne qualche trascurabile variante tipografica) coincide con
la prima redazione. Due sole eccezioni degne di nota: siano > siino (p. 490, riga
22); Da la > De la (p. 490, riga 23).
Ili
DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
commento di
Giovanni Aquilecchia
Traduzione italiana e adattamento delle note a cura di Filiberto Wal-
ter Lupi.
PROEMIALE EPISTOLA 1
Scritta all'illustrissimo
Signor Michel di Castelnovo^,
Signor di Mauvissiero, Concressalto, e di lonvilla,
Cavallier de l'ordine del Re Cristianissimo,
Conseglier del suo privato Conseglio.
Capitano di 50 uomini d'arme
et Ambasciator alla Serenissima Regina
d'Inghilterra.
Illustrissimo et unico cavalliero, s'io rivolgo gli occhi della
considerazione a remirar la vostra longanimità, perseveranza e
sollecitudine, con cui giongendo ufficio ad ufficio, beneficio a
beneficio m'avete vinto, ubligato e stretto, e solete superare ogni
difficultà, scampar da qualsivoglia periglio, e ridur a fine tutti
vostri onoratissimi dissegni: vegno a scorgere quanto propria-
mente vi conviene quella generosa divisa, con la quale ornate il
1. In realtà a Londra, presso John Charlewood (cfr. G. Aquilecchia, Lo
stampatore londinese di G. Bruno e altre note per V edizione della «Cena», «Studi di
filologia italiana» [Firenze], XVIII, i960, pp. 101-162, ora in Id., Schede bru-
niane, Manziana, 1993, pp. 157-209, nonché Id., Introduction philologique a
G. Bruno, OEuvres italiennes, Paris, voi. I, 1993, pp. XLVII-L, «L'imprimeur
londonien»). Come lo stesso Bruno ebbe a dichiarare durante il processo, vera
una ragione pratica per menzionare un falso luogo di stampa: tutti i suoi libri
«che dicono nella impression loro che sono stampati in Vinetia, sono stati
stampati in Inghilterra; et fu il stampator che volse metterve che erano stam-
pati in Vinetia, per venderli pili facilmente et acciò havessero maggior esito,
perché quando s'havesse detto che fossero stampati in Inghilterra più difficil-
mente s'haveriano venduti in quelle parti» (cfr. il costituto del 2 giugno 1592,
in L. Firpo, Il processo di G. Bruno, Roma, 1993, p. 166).
2. Su Michel de Castelnau, ambasciatore di Francia a Londra (nella cui
casa Bruno era ospitato), e per i titoli attribuitigli, cfr. Cena, p. 431, nota 9.
594 ^^ LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
vostro terribil cimiero ^ Dove quel liquido umore, che suave-
mente piaga, mentre continuo e spesso stilla, per forza di perse-
veranza rammolla, incava, doma, spezza et ispiana un certo,
denso, aspro, duro e ruvido sasso ■•.
Se da l'altro lato mi riduco a mente come (lasciando gli altri
vostri onorati gesti da canto) per ordinazion divina, et alta pro-
[5] videnza e predestinazione, mi siete sufficiente e saldo difensore
ne gl'ingiusti oltraggi ch'io patisco' (dove bisognava che fusse
un animo veramente eroico per non dismetter le braccia, despe-
rarsi, e darsi vinto a sì rapido torrente di criminali imposture,
con quali a tutta possa m'have fatto empeto l'invidia d'igno-
ranti, la presunzion di sofisti, la detrazzion di malevoli, la mur-
murazion di servitori, gli susurri di mercenarii, le contradiz-
zioni di domestici, le suspizioni di stupidi, gli scrupoli di ripor-
tatori, gli zeli d'ipocriti, gli odii di barbari, le furie di plebei,
furori di popolari, lamenti di ripercossi*^ e voci di castigati: ove
altro non mancava ch'un discortese, pazzo e malizioso sdegno
3. Dal testo è possibile dedurre che il motto deirimpresa di Castelnau sarà
stato Gutia cavai lapidem («La goccia scava la pietra»). Cfr. Ovidio, Ex Ponto,
IV, IO, ed. in Opere II, a cura di F. Della Corte e S. Fasce, Torino, 1986, pp.
582-583: «Gutta cavat lapidem, consumitur anulus usu» («La goccia d'acqua
scava la pietra, l'anello si consuma con l'uso»); Id., Ars amatoria, \, 473-474, ed.
in Opere I, a cura di A. Della Casa, Torino. 1982, pp. 516-517: «Quid magis est
saxo durum, quid mollius unda? / Dura tamen molli saxa cavantur aqua»
(«Che cosa è più duro della pietra, più molle dell'acqua? Eppure le pietre dure
vengono scavate dall'acqua molle»); G. Bruno, Candelaio, III, 7, p. 333; Lucre-
zio, De rerum natura, IV, 1286-1287, ed. a cura di A. Fellin. Torino, 1997^, pp.
332-333: «Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis / umoris longo in spatio
pertundere saxa?» («Non vedi che anche le gocce d'acqua stillanti sulle pietre
in lungo spazio di tempo traforano la roccia?»). B. Castiglione, Il Cortegiano,
III, 50: «con quel continuo battere, che fa che l'acqua spezzi i durissimi
marmi» (cfr. // Cortegiano con una scelta delle opere minori, a cura di B. Maier,
Torino, 1955, pp. 409-410).
4. Sulla corrispondenza perfetta tra i cinque verbi e i cinque aggettivi leg-
gibili in questo passo, che fornisce un notevole esempio di duplice pentacolon
nella prosa bruniana, cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille ai dialoghi «De la cau-
sa», «Il Verri» (Mantova], II, 1958. pp. 205 e segg., ora in Id., Schede bruniane
cit, i'^ postilla, pp. 133-134 (e Id., Le opere italiane di G. Bruno: Critica testuale e
oltre, Napoli, 1991, pp. 55-56).
5. Allusione al modo in cui gli ambienti universitari e cortigiani inglesi, e
parimenti il popolo di Londra, avevano reagito alla pubblicazione della Cena
de le ceneri, nello stesso anno 1584. Inoltre, si veda qui il Dialogo primo, p. 617:
«Non vorrei che di questi vostri discorsi vegnan formate comedie, tragedie,
lamenti, dialogi (o come vogliam dire) simili a quelli che poco tempo fa, per
essemo essi usciti in campo a spasso, vi hanno forzato di starvi rinchiusi e
retirati in casa».
6. Cfr. G. Bruno, Cena, son. Al Mal contento, p. 429.
PROEMIALE EPISTOLA 595
feminile^, di cui le false lacrime soglion esser più potenti, che
quantosivoglia tumide onde e rigide tempeste di presunzioni,
invidie, detrazzioni, mormorii, tradimenti, ire, sdegni, odii e fu-
rori), ecco vi veggio qual saldo, fermo e constante scoglio, che
risorgendo e mostrando il capo fuor di gonfio mare, né per irato
cielo, né per orror d'inverno, né per violente scosse di tumide
onde, né per stridenti aerie procelle, né per violento soffio
d'Aquiloni punto si scaglia, si muove o si scuote: ma tanto più
si rinverdisce, e di simil sustanza s'incota^ e si rinveste. Voi
dumque dotato di doppia virtù, per cui son potentissime le li-
quide et amene stille, e vanissime l'onde rigide e tempestose;
per cui contra le goccie si rende sì fiacco il fortunato sasso, e
contra gli flutti sorge sì potente il travagliato scoglio^: siete
7. Non sappiamo nulla sulle donne che Bruno ha frequentato a Londra;
secondo F. A. Yates, John Florio, Cambridge, 1934, p. 99, la persona di cui si
parla faceva probabilmente parte della cerchia del Nolano, al seguito di Michel
de Castelnau. Cfr. G. Bruno, De gli eroici furori, I, 3, p. 562: «E non voglio
lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quantumque in un
animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com e dire una sporca
avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ricevuti fa-
vori e cortesie, un amor di persone al tutto vili ... tutta volta non mancava
ch'io ardesse per la beltà corporale».
8. Cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille cit., in Io., Schede bruniane cit, 2^
postilla, p. 134. Fondandosi sulla frequenza delle espressioni sinonimiche
in Bruno e rifacendosi alla voce Incottalo del New World of Words di J. Flo-
rio («incoated, having a coat on») - sapendo, per di più, che la mancanza
della seconda t in s'incoia è un ispanismo normale nel dialetto napoleta-
no dell'epoca — si può ritenere che s'incoia abbia lo stesso significato di si rin-
veste.
9. Virgilio, Aen., VII, 586-590, in Opere, a cura di C. Carena, Torino, 1971,
pp. 614-615: «lUe velut pelagi rupes immota resistit, ut pelagi rupes magno
veniente fragore, / quae sese multis circum latrantibus undis / mole tenet; sco-
puli necquiquam et spumea circum / saxa fremunt laterique inlisa refunditur
alga» («Egli, come nell'oceano una rupe resiste irremovibile, come nell'oceano
una rupe al sopraggiungere di un grande fragore, che mentre la moltitudine
intomo latra delle onde, per la sua mole sta salda: inutilmente gli scogli e
spumeggiando intomo i sassi fremono, e dai suoi fianchi dopo l'urto rifluisce
l'alga»); ivi, X, 693-696, ed. cit., pp. 762-763: «ille velut rupes, vastum quae
prodit in aequor, 7 obvia ventorum furiis expostaque ponto, / vini cunctam
atque minas perfet caelisque marisque, / ipsa immota manens» («lui Mezenzio,
come una rupe slanciata nella vasta distesa delle acque, incontro alle furie dei
venti ed esposta all'oceano, tutta la violenza, ma le minacce sopporta, del cielo
e del mare, essa stessa immota restando»); Seneca, De constantia sapientis. III,
5, traduz. di A. Marastoni, Milano, 1979, p. 107: «quedmadmodum profecti in
altum scopuli mare frangunt ... ita sapientis animus solidus est» («come certi
scogli, prominenti verso l'alto mare, frangono i flutti ... così è solida l'anima del
sapiente»); Dante, Purgatorio, V, 14-15, ed. a cura di S. A. Chimenz, Torino,
1962, p. 355: «Sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar
de' venti»; Poliziano, Stanze, II, 37, 3-6: «... come scoglio che incontro al mar
596 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
quello che medesimo si rende sicuro e tranquillo porto alle vere
muse, e ruinosa roccia in cui vegnano a svanirsi le false muni-
zioni de impetuosi dissegni de lor nemiche vele. Io dumque,
[7] qual nessun giamai potè accusar per ingrato, nullo vituperò per
discortese, e di cui non è chi giustamente lamentar si possa; io
odiato da stolti ^°, dispreggiato da vili, biasimato da ignobili, vi-
tuperato da furfanti, e perseguitato da geniii^ bestiali; io amato
da savii, admirato da dotti '^, magnificato da grandi, stimato da
potenti, e favorito da gli dèi; io per tale tanto favore da voi già
ricettato, nodrito, difeso, liberato, ritenuto in salvo ^^, mante-
nuto in porto; come scampato per voi da perigliosa e gran tem-
pesta: a voi consacro questa àncora, queste sarte, queste fiaccate
vele, e queste a me più care et al mondo future più preziose
merci, a fine che per vostro favore non si sommergano dall'ini-
quo, turbulento e mio nemico Oceano. Queste nel sacrato tem-
pio de la fama appese, come saran potenti contra la protervia
de l'ignoranza e voracità del tempo, cossi renderanno etema
dura / o torre da borea si difende, / suoi colpi aspetta con fronte sicura / e sta
sempre provisto a sue vicende»; B. Castiglione, B Cortegiano, ed. Maier cit., p.
410: «adamantine e salde nella lor infinita constanzia più che gli scogli al-
l'onde del mare»; Galeazzo di Tarsia, sonetto XLVII, 3-4, in: Lirici del Cin-
quecento, a cura di D. Ponchiroli-G. Davico Bonino, Torino, 1968, p. 576: «E
quasi incontro al mondo saldo e fermo / scoglio, che forza d'aquilon non sen-
te»; T. Tasso, Gerusalemme liberata, I, 4, w. 1-5, in Opere, a cura di B. T. Sozzi,
Torino, 1974^, voi. I, p. 96: «Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli / al furor di
fortuna e guidi in porto / me peregrino errante, e fra gli scogli / e fra l'onde
agitato e quasi absorto, / queste mie carte in lieta fronte accogli».
10. G. Bruno, Ad Oxoniensis Academiae Procancellarium (Opera latine con-
scripta [= Op. lat.]. Napoli-Firenze, 1879-1891, II, 2, p. 76): «quem stultitiae pro-
pagatores et hypocritunculi detenstatur» («[io] che sono detestato dai propala-
tori di stupidità e dagli ipocritucci»).
11. L. Limentani, Saggio di un commento letterale ad alcune pagine di Bruno,
in: Ricordi e studi in memoria di F. Flamini, Napoli-Città di Castello, 193 1, p. 60,
nota 25, non esclude che qui si debba leggere geni (plurale di geno, da genus:
forma comune nel sec. XVI), generi, genie (cfr. più sotto, Dialogo primo, p. 624,
ogni geno di bestiali = «ogni genere di bestiali»); ma la correzione è da conside-
rarsi arbitraria.
12. G. Bruno, Ad Oxoniensis Academiae Procancellarium, ed. cit, pp. 76-yy.
«quem probi et studiosi diligunt, et cui nobiliora plaudunt ingenia» («[io] che
sono amato dagli onesti e dai dotti ed applaudito dai più nobili ingegni»).
13. La reazione del pubblico inglese all'apparizione della Cena coincise
con gli attacchi, e persino con la serie di aggressioni, in cui furono coinvolte
le persone al servizio dell'ambasciata di Francia (a Butcher Row o piutto-
sto Salisbury Court, dove era alloggiato Bruno; cfr. Cena, Proemiale epistola,
p. 440, nota 41), ad opera di fanatici antipapisti. Si veda F. A. Yates, John
Florio cit, pp. 63-65 e loi.
PROEMIALE EPISTOLA 597
testimonianza dell'invitto favor vostro: a fin che conosca il
mondo che questa generosa e divina prole inspirata da alta in-
telligenza, da regolato senso i"* conceputa, e da nolana Musa par-
turita, per voi non è morta entro le fasce, et oltre si promette
vita: mentre questa terra col suo vivace i' dorso verrassi svol-
tando all'eterno aspetto de l'altre stelle lampegianti.
Eccovi quella specie di filosofia nella quale certa e veramen-
te^^ si ritrova quello che ne le contrarie e diverse vanamente si
cerca: e primeramente con somma brevità vi porgo per cinque
dialogi tutto quello che par che faccia alla contemplazion reale
della causa, principio et uno. [9]
Argomento del Primo Dialogo '^
Ove nel primo dialogo avete una apologia, o qualch'altro
non so che, circa gli cinque dialogi intomo la cena de le cene-
ri, ecc.
14. L'espressione regolato senso, che si riferisce al metodo gnoseologico
di Bruno, toma sotto diverse forme, nelle sue opere latine (cfr., in merito, la
nota dell'editore P. R. Blum, nella traduz. tedesca di A. Lasson, Hamburg,
1993)-
15. Nel senso di «dotato di vita», perché per Bruno la Terra è animata;
cfr. Cena, Dialogo terzo, p. 510: «essendo la terra un animale»; Dialogo quinto,
p. 564: «Prima dumque per la sua vita e delle cose che in quella si contengono,
e dar come una respirazione et inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e
tenebre, in spacio di vintiquattro ore equali la terra si muove circa il pro-
prio centro, esponendo al suo possibile il dorso tutto al sole. Secondo, per la
regenerazione delle cose, che nel suo dorso vivono e si dissolveno, con il
centro suo circuisce il lucido corpo del sole, in trecento sessantacinque gior-
ni et un quadrante in circa; ove da quattro punti della ecliptica fa la crida
della generazione, dell'adolescenzia, della consistenzia e della declinazione di
sue cose».
16. Certa e veramente: coppia avverbiale aplologica («certamente e vera-
mente»).
17. «Questo primo dialogo fu scritto dopo gli altri quattro, già composti,
forse quando fu pubblicata la Cena e il Bruno non aveva ancora sofferto la
persecuzione che il primo dialogo gli procurò. Infatti: 1° gl'interlocutori del
I dial. diversi da quelli degli altri quattro, parlano di questi ultimi come già
scritti; 2° qui appresso il B., nell'Argomento del III dial., chiama primo il
secondo dialogo; e nell'Argomento del IV, chiama secondo il dialogo ter-
zo; segno evidente che dei quattro dial., che trattano propriamente D e 1 a
causa, principio et uno, erano scritti anche gli argomenti quando
l'A. credette opportuno premettervi questa apologia della Cena; e allora non
badò a correggere il numero d'ordine dei dialoghi precedenti» (G. Gentile, in
G. Bruno, Dialoghi italiani, Firenze, 1958^, voi. I, pp. 177-178).
598 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Argomento del Secondo Dialogo
Nel dialogo secondo avete primamente la raggione della dif-
ficultà di tal cognizione 1*^: per sapere quanto il conoscibile og-
getto sia allontanato dalla cognoscitiva potenza. Secondo, in
che modo e per quanto dal causato e principiato vien chiarito il
principio e causa. Terzo, quanto conferisca la cognizion della
sustanza de l'universo alla noticia di quello '^ da cui ha depen-
denza. Quarto, per qual mezzo e via noi particolarmente ten-
tiamo di conoscere il primo principio. Quinto, la differenza e
concordanza, identità e diversità, tra il significato da questo ter-
mino^° «causa» e questo termino «principio». Sesto, qual sia la
causa la quale si distingue in efficiente, formale e finale^': et in
quanti modi è nominata la causa efficiente, e con quante rag-
gioni è conceputa. Come questa causa efficiente è in certo modo
intima alle cose naturali, per essere la natura istessa; e come è
in certo modo esteriore a quelle. Come la causa formale è con-
gionta a l'efficiente, et è quella per cui l'efficiente opera; e come
la medesima vien suscitata dall'efficiente dal grembo de la ma-
ini feria. Come coincida in un soggetto principio, l'efficiente e la
forma; e come l'una causa è distinta da l'altra. Settimo, la diffe-
renza tra la causa formale universale, la quale è una anima per
cui l'universo infinito (come infinito) non è uno animale posi-
tiva, ma negativamente 22, e la causa formale particulare molti-
plicabile e moltiplicata in infinito; la quale quanto è in un sog-
getto più generale e superiore, tanto è più perfetta; onde gli
grandi animali quai sono gli astri denno esser stimati in gran
18. Vale a dire la «contemplazione reale della causa, principio, et uno», di
cui è questione qualche riga più sopra, quasi al principio àeW Argomento del
Primo Dialogo (cosa che prova, ancora una volta, che quest'ultimo è stato inse-
rito successivamente).
19. Il Primo Principio.
20. Cfr. il napoletano «tèrmeno».
21. Si ricordi la celebre definizione aristotelica delle quattro cause: mate-
riale, efficiente, formale, finale (cfr. Metaph., V, 2, 1013 a 24 e segg., ed. a cura di
C. A. Viano, Torino, 1974, pp. 298-299).
22. In altre parole, l'universo è l'animale considerato assolutamente, l'ani-
male che non appartiene a nessuna specie determinata. - Positiva ... negativa-
mente: coppia avverbiale aplologica («positivamente ... negativamente»). Cfr.
G. Bruno, Lampas triginta statuarum. «De praedicatis absolutis», VII, Op. lat..
Ili, p. 188 e Stimma terminorum ttietaphysicorum, «Praemissa», Op. lat.. I, 4, p. 9
(risi anastatica dell'ed. Marburg, 1609, a cura di T. Gregory-E. Canone, Roma,
1989, p. a40. Si veda, infine, il Dialogo quinto, p. 737.
PROEMIALE EPISTOLA 599
comparazione più divini, cioè più intelligenti senza errore, et
operatori senza difetto. Ottavo, che la prima e principal forma
naturale, principio formale e natura efficiente, è l'anima de
l'universo: la quale è principio di vita, vegetazione e senso in
tutte le cose, che vivono, vegetano e senteno. E si ha per modo
di conclusione, che è cosa indegna di razionai suggetto posser
credere che l'universo et altri suoi corpi principali sieno inani-
mati: essendo che da le parti et escrementi di quelli derivano
gli animali che noi chiamiamo perfettissimi 2^. Nono, che non è
cosa sì manca, rotta, diminuta et imperfetta, che per quel che
ha principio formale, non abbia medesimamente anima, benché
non abbia atto di supposito^'» che noi diciamo animale. E si
conchiude con Pitagora^^ et altri che non in vano hanno aperti
gli occhi, come un spirito immenso secondo diverse raggioni et
ordini, colma e contiene il tutto. Decimo, se viene ad fare inten-
dere che essendo questo spirito persistente insieme con la ma-
teria^^ la quale gli Babiloni e Persi ^^ chiamaro ombra, et es-
sendo l'uno e l'altra indissolubili, è impossibile che in punto
alcuno cosa veruna vegga la corrozzione, o vegna a morte se-
condo la sustanza; benché secondo certi accidenti ogni cosa si [13]
cangie di volto, e si trasmute or sotto una or sotto un'altra com-
posizione, per una o per un'altra disposizione, or questo or quel-
l'altro essere lasciando e repigliando. Undecimo, che gli Aristo-
teleci^**. Platonici 2^ et altri sofisti '° non han conosciuta la su-
stanza de le cose; e si mostra chiaro che ne le cose naturali
quanto chiamano sustanza oltre la materia, tutto è purissimo
accidente. E che da la cognizion de la vera forma s'inferisce la
vera notizia di quel che sia vita, e di quel che sia morte; e
23. G. Bruno, Cena, Dialogo terzo, p. 513.
24. L'adus suppositi degli scolastici.
25. I neoplatonici e i neopitagorici hanno attribuito a Pitagora l'idea di
un'anima del mondo che, in realtà, proveniva dalla filosofia platonica e stoica.
Cfr. J. MOREAU, L'àme du monde de Platon aux Stoìciens, Paris, 1939.
26. Sull'opposizione neopitagorica tra spirito e materia, cfr. G. Bruno,
Summa terminorum metaphysicorum, XXV, «Oppositio», Op. lat., I, 4, p. 84 (rist
Gregory -Canone cit, pp. 80-81).
27. Secondo L. Limentani, Saggio di un commento letterale cit, p. 63, nota
54, Bruno allude «ai sapienti Caldei e ai Maghi persiani», conosciuti probabil-
mente attraverso la lettura di Proclo e di Patrizi.
28. Forma napoletana.
29. Qui, come in tutto il De la causa, si tratta dei filosofi neoplatonici.
30. Gli scolastici.
600 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
spento a fatto il terror vano e puerile di questa, si conosce una
parte de la felicità che apporta la nosta contemplazione, se-
condo i fondamenti de la nostra filosofia: atteso che lei toglie il
fosco velo del pazzo sentimenio circa l'Orco et avaro Caronte^',
onde il più dolce de la nostra vita ne si rape et avelena. Duo-
decimo, si distingue la forma non secondo la raggion sustan-
ziale per cui è una; ma secondo gli atti et essercizii de le facul-
tose potenze, e gradi specifici de lo ente che viene a produre.
Terzodecimo, si conchiude la vera raggion definitiva del princi-
pio formale: come la forma sia specie perfetta, distinta nella
materia secondo le accidentali disposizioni dependenti da la
forma materiale, come da quella che consiste in diversi gradi e
disposizioni de le attive e passive qualitadi. Si vede come sia
variabile, come invariabile; come definisce e termina la mate-
ria, come è definita e terminata da quella. Ultimo, si mostra
con certa similitudine accomodata al senso volgare, qualmente
questa forma, quest'anima può esser tutta in tutto e qualsivo-
[15] glia parte del tutto '2.
Argomento del Terzo Dialogo
Nel terzo dialogo (dopo che nel primo ^' è discorso circa la
forma, la quale ha più raggion di causa che di principio) si pro-
cede alla considerazion de la materia, la quale è stimata aver
31. Tema epicureo e lucreziano. Cfr. Lucrezio, De rerum natura. III, 37-40,
ed. Fellin cit, pp. 202-203: « [Videtur...] et metus ille foras praeceps Acheruntis
agendus, / funditus humanam qui vitam turbat ab imo / omnia suffundens
mortis nigrore neque ullam / esse voluptatem liquidam puramque relinquit»
(«[mi sembra ch'io debba...] cacciar via a capofitto quel terrore dell'Acheronte,
che dalle radici profonde sconvolge la vita dell'uomo tutte le cose aduggiando
col nero della morte, né alcuna gioia ci lascia limpida e pura»), ripreso da
Bruno nel De vinculis in genere, &p. lai. Ili, p. 683 (traduz. di A. Biondi, Por-
denone, 1986, pp. 174-175): «Etsi enim nuUus sit infemus, opinio et imaginatio
infemis sine veritatis fundamento vere et verum facit infemum» («Posto an-
che che non esista inferno, la credenza immaginaria nell'inferno senza fonda-
mento di verità produce veramente un vero inferno»). Sull'Orco e V avaro Ca-
ronte, cfr. G. Bruno, De compositione imaginum. II, «Orci imago», Op. lai.. II, 3,
p. 217: «Confusissima succedebat in imagine et monstrosissima Orcus omnifor-
mis, nulliformis, omni vero superficie tristis et horrendus. Illum antecedit cu-
stos ianitor triceps, temo horribilis latratu Cerberus».
32. Si veda Dialogo secondo, p. 661, nota 57.
33. Bruno parla di «primo» dialogo, per via dell'errore evidenziato supra,
nota 17.
PROEMIALE EPISTOLA 6oi
più raggion di principio et elemento che di causa^"*: dove (la-
sciando da canto gli preludii che sono nel principio del dialogo)
prima si mostra che non fu pazzo nel suo grado David de Di-
nante in prendere la materia come cosa eccellentissima e divi-
na ^5. Secondo, come con diverse vie di filosofare possono pren-
dersi diverse raggioni di materia, benché veramente sia una
prima et absoluta; perché con diversi gradi si verifica, et è
ascosa sotto diverse specie cotali, diversi la possono prendere
diversamente secondo quelle raggioni che sono appropriate a sé:
non altrimente che il numero che è preso da l'aritmetrico pura
e semplicemente '^ è preso dal musico armonicamente, tipica-
mente dal cabalista, e da altri pazzi et altri savii, altrimente
suggetto. Terzo, si dechiara il significato per il nome «materia»
per la differenza e similitudine che è tra il suggetto naturale et
arteficiale'^. Quarto, si propone come denno essere ispediti gli
pertinaci, e sin quanto siamo ubligati di rispondere e disputare.
Quinto, dalla vera raggion de la materia s'inferisce che nulla
forma sustanziale perde l'essere; e fortemente si convence, che
gli Peripatetici et altri filosofi da volgo (benché nominano
34. La stessa affermazione in G. Bruno, Lampas triginta statuarum, Op. lai..
Ili, p. go: «materia enim per se causae rationem non habet, sed principii»
(«la materia infatti in sé non ha valore di causa, ma valore di principio»).
Seneca, Epist, 65, 2, fa risalire agli stoici la distinzione tra causa(-forma) e
(principio-)materia.
35. Bruno qui fa da contraltare al giudizio espresso da Tommaso d'Aquino
su David di Dinant, il filosofo panteista del XIII secolo: cfr. Summa cantra
Gentiles, I, 17, Quod Deus non est materia, ed. italiana a cura di T. S. Centi,
Torino, 1975, p. 97: «In hoc autem insaniam Davidis confunditur, qui ausus
est dicere Deum esse idem quod prima materia» («E in questo viene svergo-
gnata la stoltezza di David di Dinant, il quale osò affermare che Dio s'identi-
fica con la materia prima»); Somma teologica, I, q. 3, art. 8, Utrum Deus in com-
positione aliorum veniat, traduz. e commento a cura dei Domenicani italiani,
testo latino dell'Ed. Leonina, Firenze, voi. I, 1964, pp. 116-117: «Tertius error
fuit David de Dinando, qui stultissime posuit Deum esse materiam primam»
(«Il terzo errore è quello di David di Dinant, il quale stoltissimamente affermò
che Dio è la materia prima»). Cfr. il Dialogo quarto (e non il terzo, come si
potrebbe credere leggendo questo Argomento), infra, p. 723, nota 103. Per un
elenco di tutte le citazioni di David di Dinant in Alberto Magno e san Tom-
maso, cfr. G. Thery, Autour du décret de 1210: 1. David de Dinant. Etude sur san
panthéisme matérialiste, Kain, Le Saulchoir, 1925-1926, pp. 151-155. I fram-
menti dei Quadernuli di David di Dinant sono stati pubblicati negli «Studia
Mediewistyczne» [Warszawa], III, 1963.
36. Aritmetrico: cfr. il napoletano «aritmetreco». Pura e semplicemente: cop-
pia avverbiale aplologica («puramente e semplicemente»).
37. S'intenda - con L. Limentani, Saggio di un commento letterale cit, p. 66,
nota 76 - «tra la materia (informe) come soggetto della natura, e la materia
(formata) come soggetto delle arti».
602 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
forma sustanziale) non hanno conosciuta altra sustanza che la
materia. Sesto, si conchiude un principio formale constante,
[17] come è conosciuto un constante principio materiale; e che con
la diversità de disposizioni che son nella materia, il principio
formale si trasporta alla moltiforme figurazione de diverse spe-
cie et individui: e si mostra onde sia avenuto che alcuni alle-
vati nella scuola peripatetica, non hanno voluto conoscere per
sustanza altro che la materia. Settimo, come sia necessario che
la raggione distingua la materia da la forma, la potenza da
l'atto; e si replica quello che secondariamente si disse: come il
suggetto e principio di cose naturali per diversi modi di filoso-
fare può essere, senza incorrere calunnia, diversamente preso;
ma più utilmente secondo modi naturali e magici, più vana-
mente secondo matematici e razionali: massime se questi tal-
mente fanno alla regola et essercizio della raggione ^^, che per
essi al fine non si pone in atto cosa degna, e non si riporta qual-
che frutto di prattica, senza cui sarebbe stimata vana ogni con-
templazione.
Ottavo, si proponeno due raggioni con le quali suol essere
considerata la materia, cioè come la è una potenza, e come la è
un soggetto. E cominciando dalla prima raggione, si distingue
in attiva e passiva, et in certo modo se riporta in uno. Nono,
s'inferisce dall'ottava proposizione come il supremo e divino è
tutto quello che può essere, e come l'universo è tutto quello che
può essere, et altre cose non sono tutto quello che esser posso-
no ^^. Decimo, per conseguenza di quello ch'è detto nel nono,
altamente, breve et aperto^*" si dimostra onde nella natura sono
i vizii, gli mostri, la corrozzione e morte. Undecime, in che
I19I modo l'universo è in nessuna et in tutte le parti: e si dà luogo a
una eccellente contemplazione della divinità.
Duodecimo, onde avvenga che l'intelletto non può capir que-
38. Bruno critica le applicazioni troppo rigide del formalismo. Sul valore
ch'egli attribuisce alle differenti specie di magia, cfr. F. Tocco, Le opere inedite
di G. Bruno, Napoli, 1899, pp. 102-103 e 109.
39. Qui, come in altri passi del De la causa, sembra che il monismo di
Bruno ammetta solo una distinzione secondo l'espressione: materia e spirito,
potenza ed atto, fattori dell'universo infinito, sono i due modi generali con i
quali il Dio infinito si esprime.
40. Gruppo avverbiale aplologico inverso («altamente, brevemente e aper-
tamente»).
PROEMIALE EPISTOLA 603
sto absolutissimo atto, e questa absolutissima potenza. Terzode-
cimo, si conchiude l'eccellenza della materia, la quale cossi
coincide con la forma, come la potenza coincide con l'atto. Ul-
timo, tanto da questo che la potenza coincide con l'atto e l'uni-
verso è tutto quello che può essere, quanto da altre raggioni, si
conchiude ch'il tutto è uno.
Argomento del Quarto Dialogo
Nel quarto dialogo (dopo aver considerata la materia nel se-
condo'*^ in quanto che la è una potenza) si considera la materia
in quanto che la è un suggetto. Ivi prima con gli passatempi
polihimnici''^ s'apporta la raggion di quella secondo gli princi-
pe volgari tanto di Platonici alcuni, quanto di Peripatetici
tutti. Secondo, raggionandosi iuxta'^^ gli proprii principii, si mo-
stra una essere la materia di cose corporee et incorporee con più
raggioni. De quali: la prima si prende dalla potenza di mede-
simo geno"**^. La seconda dalla raggione di certa analogia pro-
porzionale del corporeo et incorporeo, absoluto e contratto "'5. La
terza da l'ordine e scala di natura, che monta ad un primo com-
plettente o comprendente. La quarta da quel che bisogna che
sia uno indistinto, prima che la materia vegna distinta in cor-
porale e non corporale: il quale indistinto vien significato per il
supremo geno della categoria ^^ La quinta da quel che sicome è
una raggion comune al sensibile et intelligibile, cossi deve es- [21]
sere al suggetto della sensibilità [et al suggetto della intelligibi-
lità]. La sesta da quel che l'essere della materia è absoluto da
41. Secondo, ancora a causa dell'errore spiegato supra, nota 17.
42. Cioè con i discorsi del pedante Polihimnio.
43. Dal latino: «secondo».
44. L. Limentani, Saggio di un commento letterale cit, p. 68, nota 92, spiega
che «la distinzione di sostanza corporea e di sostanza incorporea rimanda a un
genus comune - la materia - nel quale le due distinte species sono contenute
in potenza, come distinte possibilità».
45. Il gruppo dei quattro termini, corporeo, contratto, incorporeo e absoluto è
disposto in chiasmo: «A corporeo corrisponde contratto (contratto - s'intende -
a esser corpo: e questo è la materia, in quanto è estesa, determinata dimen-
sionalmente e quantitativamente); a incorporeo corrisponde absoluto (absolu-
to - s'intende - ovvero sciolto, da l'esser corpo: e questo è la materia, come
soggetto, substantia, anche di cose incorporee)»: ivi, nota 93.
46. La categoria «materia».
604 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
l'esser corpo: onde non con minor raggione può quadrare a cose
incorporee che corporee. La settima da l'ordine del superiore et
inferiore che si trova ne le sustanze: perché dove è questo, se vi
presuppone et intende certa comunione la quale è secondo la
materia che vien significata sempre per il geno, come la forma
vien significata dalla specifica differenza"'''. La ottava è da un
principio estraneo, ma conceduto da molti. La nona dalla plu-
ralità di specie che si dice nel mondo intelligibile. La decima
dalla similitudine et imitazione di tre mondi: metafisico, fisico,
e logico. La undecima da quel che ogni numero, diversità, or-
dine, bellezza et ornamento è circa la materia.
Terzo, si apportano con brevità quattro raggioni contrarie, e
si risponde a quelle. Quarto, si mostra come sia diversa rag-
gione tra questa e quella, di questa e quella materia, e come ella
ne le cose incorporee coincida con l'atto e come tutte le specie
de le dimensioni sono nella materia, e tutte le qualitadi son
comprese ne la forma. Quinto, che nessun savio disse mai le
forme riceversi da la materia come di fuora: ma quella caccian-
dole come dal seno, mandarle da dentro. Là onde non è un
prope nihil'^^, un quasi nulla, una potenza nuda e pura, se tutte
le forme son come contenute da quella, e dalla medesima per
virtù dell'efficiente (il qual può esser anco indistinto da lei se-
condo l'essere) prodotte e parturite; e che non hanno minor rag-
[23] gione di attualità nell'essere sensibile et esplicato, se non se-
condo sussistenza accidentale: essendo che tutto il che'''' si vede,
e fassi aperto per gli accidenti fondati su le dimensioni, è puro
accidente; rimanendo pur sempre la sustanza individua, e coin-
cidente con la individua materia. Onde si vede chiaro, che dal-
l'esplicazione non possiamo prendere altro che accidenti; di
sorte che le differenze sustanziali sono occolte, disse Aristotele
forzato da la verità. Di maniera che, se vogliamo ben conside-
rare, da questo possiamo inferire una essere la omniforme su-
stanza, uno essere il vero et ente, che secondo innumerabili cir-
costanze et individui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi
suppositi. Sesto, quanto sia detto fuor d'ogni raggione quello
47. Cfr. Dialogo secondo, pp. 661-662.
48. «Quasi nulla».
49. Cfr. lo spagnolo «lo que».
PROEMIALE EPISTOLA 605
che Aristotele et altri simili intendeno quanto all'essere in po-
tenza la materia, il qual ceiio è nulla: essendo che secondo lor
medesimi, questa è sì fattamente permanente, che giamai can-
gia o varia l'esser suo, ma circa lei è ogni varietà e mutazione; e
quello che è dopo che posseva essere, anco secondo essi, sempre
è il composto. Settimo, si determina de l'appetito de la materia,
mostrandosi quanto vanamente vegna definita per quello, non
partendosi da le raggioni tolte da principii e supposizioni di
color medesimi che tanto la proclamano come figlia de la pri-
vazione, e simile a l'ingordiggia irreparabile de la vagliente^^
femina.
Argomento del Quinto Dialogo
Nel quinto dialogo, trattandosi specialmente de l'uno, viene
compito il fondamento de l'edificio di tutta la cognizion natu-
rale e divina. Ivi prima s'apporta proposito della coincidenza [25]
della materia e forma, della potenza et atto: di sorte che lo ente
logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è in-
diviso, indistinto et uno; e questo insieme insieme ^^ infinito, in-
mobile, impartibile, senza differenza di tutto e parte, principio e
principiato. Secondo, che in quello non è differente il secolo da
l'anno, l'anno dal momento, il palmo dal stadio, il stadio da la
parasanga52, e nella sua essenza questo e quell'altro essere spe-
cifico non è altro et altro; e però nell'universo non è numero, e
però l'universo è uno. Terzo, che ne l'infinito non è differente il
punto dal corpo 5^: per che non è altro la potenza et altro l'atto;
et ivi se il punto può scorrere in lungo, la linea in largo, la
superficie in profondo, l'uno è lungo, l'altra è larga, l'altra è pro-
50. Come dire «valens» in senso erotico; cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille
cit., in Id., Schede bruniane cit, 3"^ postilla, p. 134. Cfr., inoltre, P. Aretino,
Sonetti sopra i XVI modi, son. 9, vv. 15-16, ed. a cura di G. Aquilecchia, Roma,
1992, p. 35: «e mi direte al fine, / che sono un valent'uomo in tal mistiero».
51. Iterazione avverbiale ricorrente nell'opera di Bruno.
52. Il palmo è una misura di lunghezza che, a Napoli, era equivalente a
0,264 rn; lo stadio equivaleva a un quarto di mille; la parasanga era una mi-
sura di lunghezza persiana equivalente a 30 stadi.
53. Cfr. De minimo, I, 4, Op. lai., I, 3, p. 148 (traduz. in Opere latine, a cura di
C. Monti, Torino, 1980, p. 106): «punctus mobilis est substantia omnium, et
punctus manens est totum» («Il punto mobile è la sostanza di tutte le cose ed
il punto fisso rappresenta il tutto»).
6o6 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
fonda; et ogni cosa è lunga, larga e profonda: e per consequenza
medesimo et uno; e l'universo è tutto centro, e tutto circonfe-
renza^"^. Quarto, qualmente da quel che Giove (come lo nomi-
nano) ^^ più intimamente è nel tutto che possa imaginarsi es-
servi la forma del tutto (perché lui è la essenzia per cui tutto
quel ch'è ha Tessere; et essendo lui in tutto, ogni cosa più inti-
mamente che la propria forma ha il tutto), s'inferisce che tutte
le cose sono in ciascuna cosa, et per consequenza tutto è uno'^
Quinto, se risponde al dubio che dimanda, perché tutte le cose
particolari si cangiano, e le materie particolari, per ricevere al-
tro et altro essere, si forzano ad altre et altre forme; e si mostra
come nella moltitudine è l'unità, e ne l'unità è la moltitudine; e
come l'ente è un moltimodo e moltiunico, et in fine uno in su-
stanza e verità. Sesto, se inferisce onde proceda quella diffe-
[27I renza e quel numero, e che questi non sono ente, ma di ente e
circa lo ente. Settimo, avertesi che chi ha ritrovato quest'uno,
dico la raggione di questa unità, ha ritrovata quella chiave,
senza la quale è impossibile aver ingresso alla vera contempla-
54. Riferimento alla definizione post-ermetica (parafrasata nel Dialogo
quinto, p. 728, nota io): «Deus est sphaera infinita, cuius centrum est ubique,
circumferentia nusquam»; cfr. Liber XXIV Philosophorum, prop. II, ed. a cura di
P. Necchi, Genova, 1996, pp. 28-30 e note. Bruno (cfr. De immenso, IV, 6, Op.
lai, I, 2, p. 32; ed. Monti cit., p. 600) trae questa definizione da N. Cusano, De
docta ignorantia. II, 12, ed. in Opere filosofiche, a cura di G. Federici-Vescovini,
Torino, 1972, p. 147: «Unde erit machina mundi quasi habens unique centrum
et nullibi circumferentiam, quoniam eius circumferentia et centrum est deus,
qui est undique et nullibi» («La macchina del mondo avrà il centro dovunque
e la circonferenza in nessun luogo, perché la sua circonferenza e il suo centro
sono Dio che è dovunque e in nessun luogo»). È possibile che Bruno citasse
queste parole durante le sue lezioni oxoniensi: cfr. G. Aquilecchia, Ancora su
Bruno a Oxford, «Studi secenteschi» [Firenze], IV, 1964, pp. 3-13, ora in Io.,
Schede bruniane cit., pp. 243-252; Id., Le opere italiane di G. Bruno cit, pp. 84-85.
55. Cfr. G. Bruno, De immenso, I, i, Op. lai., l, i, p. 204 (ed. Monti cit,
p. 421); Spaccio, Dialogo secondo, p. 256 e terzo, p. 359 (ma già Aristotele, De
mundo, 7, 401 a 12). Sulla «mobilità dialettica che aveva portato Dionigi Areo-
pagita e Cusano ad ammettere innumerevoli "nomi divini" per un'unica di-
vinità ineffabile», cfr. E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, traduz. di
P. Bertolucci. Milano, 1971, p. 302.
56. Cfr. G. Bruno, Acrotismus, Op. lat, I, i, p. 69 («haec \i.e. divinitas] magis
ipsa nobis, quam ipsi nobis esse possimus, intima est»); Cena, Dialogo primo,
pp. 455-456 («Et abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi: se
l'abbiamo appresso, anzi di dentro più che noi medesmi siamo dentro a noi»);
Lampas triginta statuarum, Op. lai.. Ili, p. 41 («(Pater seu mens seu plenitudo:]
Magis intrinsecum est rerum substantiae. et intimius in omnibus ac singulis,
quam omnia ac singula esse possunt in se ipsis»); p. 42 («Dicitur omnia in
omnibus, ex qua ratione, quia ipse est totus ubique praesens, dixit Anaxagoras:
"Omnia in omnibus"; quia qui est omnia, est in omnibus»).
PROEMIALE EPISTOLA 607
zion de la natura. Ottavo, con nova contemplazione si replica,
che l'uno, l'infinito, lo ente, e quello che è in tutto, è per tutto,
anzi è l'istesso ubique^''; e che cossi la infinita dimensione, per
non essere magnitudine, coincide con l'individuo, come la infi-
nita moltitudine, per non esser numero, coincide con la unità.
Nono, come ne l'infinito non è parte e parte, sia che si vuole ne
l'universo esplicatamente: dove però tutto quel che veggiamo di
diversità e differenza, non è altro che diverso e differente volto
di medesima sustanza. Decimo, come ne li doi^^ estremi che si
dicono nell'estremità della scala de la natura, non più è da con-
templare doi principii che uno, doi enti che uno, doi contrarii e
diversi, che uno concordante e medesimo. Ivi l'altezza è profon-
dità, l'abisso è luce inaccessa^'', la tenebra è chiarezza, il magno
è parvo, il confuso è distinto, la lite è amicizia, il dividuo è
individuo, l'atomo è immenso; e per il contrario. Undecimo,
qualmente certe geometriche nominazioni come di punto et
uno, son prese per promovere alla contemplazione de lo ente et
uno, e non sono da per sé sufficienti a significar quello: onde
Pitagora, Parmenide e Platone non denno essere sì sciocca-
mente interpretati, seconda la pedantesca censura di Aristotele.
Duodecimo, da quel che la sustanza et essere è distinto dalla
quantità, dalla misura e numero, s'inferisce che la è una et in-
dividua in tutto et in qualsivoglia cosa. Terzodecimo, s'appor- [29]
tano gli segni e le verificazioni per quali gli contrarii veramente
concorreno, sono da un principio, e sono in verità e sustanza
uno: il che dopo esser visto matematicamente, si conchiude fi-
sicamente.
Ecco, illustrissimo signore, onde bisogna uscire prima che
voler entrare alla più speciale et appropriata cognizion de le
cose. Quivi come nel proprio seme si contiene et implica la mol-
titudine de le conclusioni della scienza naturale '^'^'. Quindi de-
57. «Ovunque».
58. Cfr. Cena, Dialogo primo, pp. 443-444, per la flessione di questo nume-
rale in Bruno: doi (cfr. il napoletano «dòje») al maschile; due al femminile.
59. Cfr. S. Paolo, Epistola a Timoteo, VI, 16.
60. G. Bruno, De l'infinito. Proemiale epistola, p. 28: «quel che è seminato
ne gli dialogi De la causa, principio, et uno, nato in questi De l'infinito, universo
e mondi, per altri germoglia, per altri cresca, per altri si mature, per altri me-
diante una rara mietitura ne addite, e per quanto è possibile ne contente».
6o8 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
riva la intessitura, disposizione et ordine de le scienze specula-
tive. Senza questa isagogia in vano si tenta, si entra, si comin-
ciai^. Prendete dumque con grato animo questo principio,
questo uno, questo fonte, questo capo: per che vegnano animati
a farsi fuora e mettersi avanti la sua prole e genitura; gli suoi
rivi e fiumi maggiori si diffondano; il suo numero successiva-
mente si moltipliche, e gli suoi membri oltre si dispongano: a
fin che cessando la notte col sonnacchioso velo e tenebroso
manto, il chiaro Titane^^ parente de le dive muse, ornato di sua
fameglia^^ cinto da la sua etema corte, dopo bandite le not-
turne faci, ornando di nuovo giorno il mondo, risospinga il
trionfante carro dal vermiglio grembo di questa vaga Aurora^.
[31] Vale 65,
61. Il De la causa si propone come un'opera propedeutica ai dialoghi De
l'infinito.
62. Elios, il Sole, figlio del titano Iperione, era spesso designato come «il
Titano».
63. Forma napoletana.
64. Immagine biblica. Cfr. Ester, Vili, 16: «Per i Giudei vi era luce, letizia,
esultanza, onore»; Matteo, IV, 16: «Il popolo immerso nella tenebra / ha veduto
una gran luce; / su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte / una luce
si è levata» (i testi scritturali sono citati da La Sacra Bibbia, tradotta dui testi
originali e commentata, a cura di E. Galbiati, A. Penna e P. Rossano, Torino,
19733, 3 voli.). - Cfr. anche Sinesio di Cirene, Inni, V, 1-9, in Opere, a cura di
A. Garzya, Torino, 1989, pp. yjS-jjq: «Di nuovo la luce, di nuovo l'aurora, di
nuovo il giorno risplende dopo l'oscurità vagante per la notte! Canta di nuovo,
mio cuore, con gl'inni dell'alba il Dio che ha dato la luce all'aurora, ha dato
alla notte gli astri, schiera danzante intomo all'universo».
65. «Addio».
GIORDANO NOLANO
A I PRINCIPI DE l'universo
Lethaeo undantem retinens ab origine^^ campum
emigret o Titan^'', et petat astra precor.
Errantes stellae, spedate procedere in orhem
me geminum, si vos hoc reserastis iter.
Dent geminas somni portas^^ laxarier usque,
vestrae per vacuum me properante vices:
obductum tenuitque diu quod^'^ tempus avarum,
mi liceat densis promere de tenebris.
Ad partum properare tuum, mens aegra, quid obstat,
sedo haec indigno sint tribuenda licet?
Umbrarum fluctu terras mergente, cacumen
adtolle in clarum, noster Olimpe, lovem''^. [33]
66. Origo è qui maschile: cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille cit, in Io.,
Schede bruniane cit., 4^ postilla, pp. 135-136.
67. Il Sole (cfr. supra, nota 62).
68. Virgilio, Aen., VI, 893, ed. Carena cit., pp. 581-582: «Sunt geminae
Somni portae» («sono due del Sonno le porte»).
69. Quod: la verità, «la quale ascosa sotto il velame di tante sordide e be-
stiale imaginazioni, sino al presente è stata occolta, per l'ingiuria del tempo
e vicissitudine de le cose, dopo che al giorno de gli antichi sapienti succese
la caliginosa notte di temerari sofisti» (G. Bruno, De l'infinito, Dialogo terzo,
p. 88).
70. Cioè l'aria pura.
6lO DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Al proprio Spirto
Mons, licei innixum tellus radicibus altis
te capiat, tendi vertice in astra vales;
mens''\ cognata vocat summo de culmine rerum,
discrimen quo sis manibus atque lovi'^-.
Ne perdas hic iura tui, fundoque recumbens
impetitus''^ tingas nigri Archerontis aquas:
at mage sublimeis tentet natura recessus,
I35] nam, tangente Deo^^, fervidus ignis eris.
71. Si noti il giuoco di parole tra mons e mens (vv. i e 3).
72. L'abisso e il cielo.
73. Impetitus è al maschile perché, sebbene sia l'epiteto di mens, rinvia allo
spirto del titolo.
74. Cfr. G. Bruno, De gli eroici furori, I, 3, p. 556: «doviene un dio dal con-
tatto intellettuale di quel nume oggetto».
PROEMIALE EPISTOLA 6ll
Al Tempo
Lente senex, idemque celer, claudensque relaxans;
an ne bonum qids te dixerit, anne malum?
Largus es, esque tenax: quae munera porrigis, aufers;
quique parens aderas, ipse peremptor ades,
viscerebusque educta tuis in viscera condis,
tu cui prompta sinu carpere fauce licet;
omnia cumque facis, cumque omnia destruis, hinc te
non ne bonum possem dicere, non ne malum?
Porro ubi tu diro rabidus frustraberis ictu,
falce minax ilio tendere parce manus,
nulla ubi pressa Chaos atri vestigia parent
ne videare bonus, ne videare malus. [37]
6l2 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
De l'Amore
Amor per cui tant'alto il ver discemo,
ch'apre le porte di diamante e nere'',
per gli occhi entra il mio nume, e per vedere
nasce, vive, si nutre, ha regno etemo '^
Fa scorger quant'ha il ciel terr'et inferno,
fa presente d'absenti effigie vere^^,
repiglia forze e trando dritto fere,
e impiaga sempr'il cor, scuopr'ogn'intemo'^^.
O dumque volgo vile^^, al vero attendi,
porgi l'orecchio al mio dir non fallace,
apri, apri (se puoi) gli occhi, insano e bieco.
Fanciullo il credi perché poco intendi.
Perché ratto ti cangi, ei par fugace.
[39] Per esser orbo tu, lo chiami cieco ^°.
Causa, principio, et uno sempitemo^i,
onde l'esser, la vita, il moto pende;
75. Cfr. F. Petrarca (che riecheggia qui frequentemente), CCCLVIII, 6:
«che col pe' ruppe le tartaree porte»; N. Franco, Dialoghi piacevoli, dial. Il,
Venetia, 1541, p. XLVIP': «La porta fatta di Diamante durissimo, a la cui guar-
dia è proposto Cerberon».
76. Cfr. F. Petrarca, CXL, i: «Amor che nel penser mio vive e regna».
77. Cfr. Id., CXXVII, 94-95: «perch'a gli occhi miei lassi / sempre è presen-
te...».
78. Cfr. Id., LXXXVII, 5-8: «... il colpo de' vostr'occhi, / donna, sentiste a le
mie parti inteme / dritto passare; onde conven ch'etteme / lagrime per la
piaga il or trabocchi ».
79. Cfr. Id., Triumphus Pudicitiae. 157: «Taccia il vulgo ignorante! io di-
co...».
80. Id., CLI, 9: «Cieco non già, ma faretrado il veggo»; Triumphus Cupidi-
nis, lì, 51: «che in tutto è orbo chi non vede il sole». Il sonetto bruniano è
riprodotto, con leggere varianti, in De gli eroici furori, p. 539, al momento di
formulare il principio, d'ispirazione platonica e pitagorica, secondo il quale
«l'amore illustra, chiarisce, apre l'intelletto e fa penetrar il tutto e suscita mi-
racolosi effetti».
81. Si veda la frase con cui il De la causa si conclude, p. 740.
PROEMIALE EPISTOLA 613
e a lungo, a largo e profondo si stende
quanto si dic'in ciel terr'et inferno:
con senso, con raggion, con mente scemo
ch'atto, misura e conto non comprende
quel vigor, mole e numero ^2, che tende
oltr'ogn'inferior, mezzo e superno.
Cieco error, tempo avaro, ria fortuna 8^,
sord'invidia, vii rabbia, iniquo zelo,
crudo cor, empio ingegno, strano ardire
non bastaranno a farmi l'aria bruna,
non mi porrann'avanti gli occhi il velo^"^,
non faran mai ch'il mio bel sol non mire. [41]
82. Cfr. G. Bruno, La cabala, Declamazione, p. 429: «Le filosofiche e razio-
nali contemplazioni, quali nascono da gli sensi, crescono nella facultà discor-
siva e si maturano nell'intelletto»; atto, misura e conto corrispondono rispetti-
vamente a senso, raggion, mente; vigor, mole e numero corrispondono rispettiva-
mente ad atto, misura e conto.
83. Cfr. F. Petrarca, CLIII, 13: «e ria fortuna pò ben venir meno».
84. Id., CCCXXIX, 12-13: «Ma 'nanzi a gl'occhi m'era post' un velo. / che
mi fea non veder quel eh' i' vedea»; CCXXX, 1-2: «quel vivo sole alli occhi
miei non cela».
GIORDANO BRUNO NOLANO
De la causa, principio et Uno
DIALOGO PRIMO
Interlocutori
Entropio, Filoteo, Annesso ^
Elitropio. - Qual rei nelle tenebre avezzi, che liberati dal
fondo di qualche oscura torre escono alla luce, molti de gli es-
sercitati nella volgar filosofia^, et altri, paventaranno, admira-
ranno e (non possendo soffrire il nuovo sole de tuoi chiari con-
cetti) si turbaranno'.
Filoteo. — Il difetto non è di luce, ma di lumi: quanto in sé
sarà più bello e più eccellente il sole, tanto sarà a gli occhi de le
notturne strige odioso e discaro di vantaggio"^.
1. Eutropio è, secondo l'etimo del nome, il «fiore che si volge al sole» della
nuova filosofia bruniana. A detta di F. A. Yates, John Florio, Cambridge, 1934,
pp. 102-103, è possibile identificario col Florio la cui impresa raffigurava
appunto il girasole (cfr. G. Bruno, Cena, Dialogo secondo, p. 467 e nota 6).
- Filoteo, come «Teofilo» nella Cena e nei Dialoghi secondo e quinto del De la
causa, è Bruno stesso. — Armesso, personaggio non identificato, certamente in-
glese (si veda p. 627); secondo F. A. Yates, loc cit, potrebbe trattarsi del Mat-
thew Gwinne di cui parla la Cena, Dialogo secondo, p. 467 e nota 6; mentre per
D. Singer, Giordano Bruno, New York, 1950, p. 39, nota 40, è personaggio che
ricorderebbe piuttosto il «Mercurius» del De umbra rationis di A. Dicson (cfr.
Dialogo secondo, p. 645, nota i), ma è piuttosto «Mercurius» che pare esempli-
ficato suir« Hermes» bruniano del De umbris idearum, identificabile a sua volta
con Ermete Trismegisto: cfr. F. A. Yates, G. Bruno e la tradizione ermetica, tra-
duz. di B. Pecchioli, Bari, 1969, pp. 216 e 222.
2. I peripatetici.
3. Tema d'origine platonica: cfr. Platone, Respublica, VII, 514-515. Si veda
G. Bruno, De immenso, I, 2, Op. lai., I, i, pp. 206-208 (traduz. in Opere latine, a
cura di C. Monti, Torino, 1990, pp. 422-423), dove questo esordio è parafrasato
in versi latini.
4. Cfr. B. Castiglione, Il Cortegiano, I, 9, a cura di B. Maier, Torino,
DIALOGO PRIMO 615
Elitropio. — La impresa che hai tolta, o Filoteo, è difficile,
rara e singulare^, mentre dal cieco abisso vuoi cacciarne, et
amename al discoperto, tranquillo e sereno aspetto de le stelle,
che con sì bella varietade veggiamo disseminate per il ceruleo [43]
manto del cielo. Benché a gli uomini soli l'aitatrice mano di tuo
piatoso zelo soccorra, non saran pero meno vani gli effetti de
ingrati verso di te, che varii son gli animali che la benigna terra
genera e nodrisce nel suo materno e capace seno; se gli è vero
che la specie umana, particularmente ne gl'individui suoi, mo-
stra de tutte l'altre la varietade: per esser in ciascuno più
espressamente il tutto, che in quelli d'altre specie. — Onde ve-
dransi questi ^ che qual appannata talpa'', non sì tosto senti-
ranno l'aria discoperto, che di bel nuovo, risfossicando^ la terra,
tentaranno a gli nativi oscuri penetrali. Quelli qual notturni
ucelli, non sì tosto arran veduta spuntar dal lucido oriente la
vermiglia ambasciatrice del sole'', che dalla imbecillità de gli
occhi suoi verranno invitati alla caliginosa ritretta^^^. Gli ani-
manti tutti banditi dall'aspetto de le lampade celesti, e desti-
1955, p. 95: «come quegli uccelli debili di vista, che non affisano gli occhi nella
spera del sole, non possono ben conoscer quanto esso sia perfetto». Tema pla-
tonico e neoplatonico: cfr. nQoX.8YÓTiEva rfjg n>taTcovo5 qjiÀooocpiag I, 9, ed. a
cura di L. G. Westerink, Paris, 1990, p. i, che ha per fonte Aristotele, Me-
taph., I, 993 b 9-10, ed. a cura di C. A. Viano, Torino, 1974, p. 229: «L'intelli-
genza della nostra anima sta di fronte alle cose che per natura sono più evi-
denti come gli occhi delle civette di fronte allo splendore del giorno». - Le
strige sono rapaci notturni, non streghe, delle quali tuttavia G. B. Della
Porta, Magiae Naturalis ... Libri IIII, Napoli, 1558, dice che «a strigis avis
noctumae similitudine vocant».
5. Cfr. G. Bruno, De immenso, l, 2, Op. lai, l, i, pp. 206-208: «Altum, diffi-
cilem, rarum perferre laborem Mens me sacra jubet...» (ed. Monti cit, p. 423:
«La sacra mente mi ordina di portare a termine una grande, difficile e straor-
dinaria impresa...»).
6. Il testo sviluppa qui l'immagine utilizzata dall'Hermes bruniano all'ini-
zio del De umbris idearum, Op. lai, 11, i, p. 7: «Ipso oriente operatores tenebra-
rum congregantur in cubilia, homo vero & animalia lucis exeunt ad opus
suum» (traduz. di N. Tirinnanzi, Milano, 1997, p. 43: «Al suo sorgere [i.e. del
sole], quanti operano nelle tenebre si affrettano alle proprie tane, mentre
l'uomo e gli animali della luce escono alla loro opera»).
7. Cfr. P. Bembo, Asolani, III, 21, in Prose e rime, a cura di C. Dionisotti,
Torino, 1966^, p. 501: «con occhi di talpa, sì come i nostri animi sono di queste
voglie fasciati, non si può sofferire il sole». E cfr. G. Bruno, De gli eroici furori.
Parte seconda, dialogo IV, p. 721: «Al cieco che seguita, per il molto lacrimare
accade che siano talmente appannati gli occhi...»; Acrotismus, Op. lai., I, i, p. 55:
«lis ... qui Talpae sunt».
8. Cfr. il napoletano «sfossecare».
9. L'aurora. Cfr. Odyssea, V, 121: «L'Aurora dalle dita di rosa».
10. Cfr. il napoletano «ritretto» (ed il francese «retraite»).
6l6 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
nati all'eterne gabbie, bolge et antri di Plutone, dal spaventoso
et erinnico corno d'Alecto'^ richiamati, apriran l'ali, e drizza-
ranno il veloce corso alle lor stanze.
Ma gli animanti nati per vedere il sole, gionti al termine del-
l'odiosa notte, ringraziando la benignità del cielo, e disponen-
dosi a ricevere nel centro del globoso cristallo de gli occhi suoi
gli tanto bramati et aspettati rai, con disusato applauso di
cuore, di voce e di mano adoraranno l'oriente: dal cui dorato
balco '^ avendo cacciati gli focosi destrieri il vago Titane^^,
rotto il sonnacchioso silenzio de l'umida notte, raggionaranno
gli uomini; belaranno gli facili, inermi e semplici lanuti greggi;
[45] gli cornuti armenti sotto la cura de ruvidi bifolchi muggiranno.
Gli cavalli di Sileno '•* (perché di nuovo in favor de gli smarriti
dèi possano dar spavento a i più de lor stupidi gigantoni ^^) rag-
ghiaranno; versandosi nel suo limoso letto, con importun gruito
ne assordiranno gli sannuti ciacchi. Le tigri, gli orsi, gli leoni, i
lupi, e le fallaci golpi, cacciando da sue spelunche il capo, da le
deserte alture contemplando il piano campo de la caccia, man-
daranno dal ferino petto i lor grunniti, ricti, bruiti, fremiti, rug-
giti et orli.
Ne l'aria e su le frondi di ramose piante, gli galli, le aquile,
gli pavoni, le grue, le tortore, i merli, i passari, i rosignoli, le
cornacchie, le piche, gli corvi, gli cuculi e le cicade non sarran
negligenti di replicare e radoppiar gli suoi garriti strepitosi.
11. Aletto, Tisifone e Megera sono le tre Erinni dei greci (assimilate dai
romani alle Furie). Con il loro corpo alato, la capigliatura composta da ser-
penti, armate di torce e scudisci, tormentano e fanno impazzire le loro vittime,
che si sono macchiate di ogni specie di crimine (omicidio, delitti contro la
famiglia o la comunità). Nella tradizione più tarda, esse svolgono la stessa at-
tività agli Inferi, dove torturano le anime dei dannati.
12. Cfr. Dante, Ptirg., IX, 1-2: «La concubina di Tifone antico / già s'im-
biancava al balco d'oriente».
13. Il sole (si veda supra, Proemiale epistola, p. 608, nota 62).
14. Gli asini.
15. Nello Spaccio, Dialogo primo, p. 220; nella Cabala, Declamazione, p. 424
e nel De compositione imaginum, Op. lai, II, 3, p. 238, Bruno evoca questo stesso
mito secondo il quale, durante la sua guerra coi Giganti, Giove avrebbe rice-
vuto l'aiuto di Bacco, di Vulcano, dei Satiri e di Sileno che cavalcavano asini;
tali «cavalli di Sileno» ragliarono in modo così sonoro da mettere in fuga i
Giganti, terrorizzati. Si veda N. Ordine, La cabala dell'asino. Asinità e cono-
scenza in G. Bruno, Napoli, 1996^, p. 21, che rinvia allo Pseudo-Eratostene,
Catasterismi, 11 (cfr. Scholia vetera latina in Caesaris Germanici Aratea Phaeno-
mena, II, 51).
DIALOGO PRIMO 617
Dal liquido et instabile campo ancora, li bianchi cigni, le
molticolorate anitre, gli solleciti merghi, gli paludosi bruzii ^^ le
ceche rauche, le querulose rane ne toccaranno l'orecchie col suo
rumore: di sorte ch'il caldo lume di questo sole diffuso all'aria
di questo più fortunato emisfero, verrà accompagnato, salutato
e forse molestato da tante e tali diversitadi de voci, quanti e
quali son spirti che dal profondo di proprii petti le caccian
fuori.
FiLOTEO. - Non solo è ordinario, ma anco naturale e neces-
sario, che ogn'animale faccia la sua voce: e non è possibile che
le bestie formino regolati accenti et articulati suoni come gli
uomini: come contrarie le complessioni, diversi i gusti, varii
gli nutrimenti.
Armesso. — Di grazia concedetemi libertà di dir la parte mia
ancora: non circa la luce, ma circa alcune circonstanze, per le
quali non tanto si suol consolare il senso, quanto molestar il [47]
sentimento di chi vede e considera: perché per vostra pace e
vostra quiete, la quale con fraterna caritade vi desio, non vorrei
che di questi vostri discorsi vegnan formate comedie, tragedie,
lamenti, dialogi (o come vogliam dire) simili a quelli che poco
tempo fa, per essemo^^ essi usciti in campo a spasso, vi hanno
forzato di starvi rinchiusi e retirati in casa^^.
FiLOTEO. — Dite liberamente.
Armesso. - Io non parlare come santo profeta, come astratto
divino, come assumpto apocaliptico, né quale angelicata asina
di Balaamo^^; non raggionarò come inspirato da Bacco, né gon-
fiato di vento da le puttane muse di Pamaso^°, o come una
Sibilla impregnata da Febo, o come una fatidica Cassandra^\
né qual ingombrato da le unghie de piedi sin alla cima di ca-
pegli de l'entusiasmo apollinesco, né qual vate illuminato nel-
16. Cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille ai dialoghi «De la causa», «Il Verri»
[Mantova], II, 1958, in Id., Schede bruniane, Manziana, 1993, s'' postilla, p. 136
(col rinvio alla voce brutio del New World of Words di J. Florio: «a kind of
vermine living in fens or moorish grounds»).
17. Forma d'infinito coniugato.
18. Si veda supra, Proemiale epistola, pp. 594 e 596, note 5 e 13.
19. L'asina aveva ricevuto da Dio la parola, dopo che aveva riconosciuto
ed evitato l'angelo che sbarrava la strada al suo padrone (cfr. Numeri, XII,
22-30).
20. Cfr. G. Bruno, Cena, Dialogo primo, p. 446.
21. Cfr. Virgilio, Aen., II, 246-247.
6l8 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
roraculo, o delfico tripode; né come Edipo^^ esquisito contra gli
nodi de la sfinge; né come un Salomone in ver gli enigmi della
regina Sabba^^; né qual Calcante^'' interprete dell'olimpico se-
nato; né come un inspiritato Merlino ^^^ o come uscito da l'antro
di Trofonio^^: ma parlare per l'ordinario e per volgare, come
uomo che ho avuto altro pensiero che d'andarmi lambiccando
il succhio de la grande e picciola nuca^^, con farmi al fine ri-
manere in secco la dura e pia madre^^; come uomo dico che
non ho altro cervello ch'il mio: a cui manco gli dèi dell'ultima
cotta e da tinello nella corte celestiale (quei dico che non be-
veno ambrosia, né gustan nettare ^9, ma si vi tolgon la sete col
[49] basso de le botte e vini rinversati, se non vogliono far stima de
limfe^° e nimfe, quei dico che sogliono essere più domestici, fa-
miliari e conversabili con noi), come è dire né il dio Bacco, né
quel imbreaco cavalcator de l'asino^^ né Pane, né Vertunno, né
Fauno, né Priapo, si degnano cacciarmene una pagliusca^^ di
più e di vantaggio dentro, quantumque sogliano far copia de
fatti lor sin a i cavalli
Elitropio. - Troppo lungo proemio^^.
Armesso. - Pacienza'-*, che la conclusione sarà breve. Voglio
22. Cfr. Seneca, Oedipus, 92-93 e 101-102.
23. Cfr. / Re, X, 1-3.
24. Cfr. Virgilio, Aen., II, 122-124.
25. Cfr. G. Bruno, Candelaio, V, 17, p. 395: «Come sapea le cose lontane
Apollonio, Merlino e Malaggigi?».
26. Si tratta dell'antro dove, secondo il mito, il semidio Trofonio, re di Or-
comeno, pronunziava i suoi oracoli; cfr. Erasmo da Rotterdam, Elogio della
follia, I, ed. a cura di E. Garin, Milano, 1984, p. 9: «... cupi ed ansiosi come se
foste tornati allora dall'antro di Trofonio»; Adagia, II, III, yy, Basilea, 1536, p.
260: «In antro Trophonii vaticinatus est».
27. Espressione ricorrente anche nello Spaccio, Dialogo terzo, nel De l'infi-
nito. Dialogo terzo; Cabala, Dialogo secondo, De gli eroici furori. Argomento.
28. La stessa espressione in Candelaio, Proprologo, p. 280: «tra la pia e dura
matre».
29. In De gli eroici furori. Argomento, p. 493, Bruno scrive: «Sileno, Bacco,
Pomona, Vertunno, il dio di Lampsaco et altri dèi che son dèi da tinello, da
cervosa forte e vino rinversato, ... non siedono in cielo a bever nettare e gustar
ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri simili...».
30. Limfe nel senso di «acque correnti o limpide» che il termine poteva
ancora avere nel XVI secolo.
31. Sileno.
32. Forma napoletana.
33. Cfr. P. Aretino, Cortegiana, prima redazione, V, 12, a cura di A. Ro-
mano, Milano, 1989, p. 147: «Questo è stato un gran proemio».
34. Forma dialettale.
DIALOGO PRIMO ÓlQ
dir brevemente che vi farò udir pareli ^^^ che non bisogna disci-
ferarle^^ come poste in distillazione, passate per lambicco, dige-
rite dal bagno di maria, e subblimate in recipe di quinta es-
senza: ma tale quali m'insaccò nel capo la nutriccia", la quale
era quasi tanto cotennuta, pettoruta, ventruta, fiancuta e nati-
cuta, quanto può essere quella londriota, che viddi a Westme-
ster, la quale per iscaldatoio del stomaco, ha un paio di tettaz-
ze, che paiono gli borzacchini'^ del gigante san Sparagorio '^: e
che concie in cuoio varrebono sicuramente a far due pive fer-
rarese'*''.
Elitropio. — E questo potrebe bastare per un proemio.
Armesso. - Or su, per venire al resto, vorrei intendere da
voi (lasciando un poco da canto le voci e le lingue a proposito
del lume e splendor che possa apportar la vostra filosofia) con
che voci volete che sia salutato particolarmente da noi quel lu-
stro di dottrina, che esce dal libro de La cena de le ceneri^ quali
animali son quelli, che hanno recitata La cena de le ceneri^ di-
mando se sono acquatici, o aerei, o terrestri, o lunatici''^; e la- [51]
sciando da canto gli propositi di Smitho, Prudenzio e Frulla-*^,
desidero di sapere, se fallano coloro che dicono, che tu fai la
voce di un cane rabbioso et infuriato'*', oltre che tal volta fai la
simia, tal volta il lupo, tal volta la pica, tal volta il papagallo,
tal volta un animale, tal volta un altro: meschiando propositi
gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e nobili, filosofici e
comici.
FiLOTEO. - Non vi maravigliate, fratello, per che questa non
35. Il tipo di sing. -a, plur. -i, è frequente nell'italiano dei primi secoli e
ricorrente in Bruno.
36. Cfr. il napoletano «descifrare».
37. Cfr. il napoletano «notriccia».
38. Dallo spagnolo «borceguì» e dall'arabo «marzuqì» (cfr. G. B. Pelle-
grini, Gli arabismi nella lingua italiana, «Cultura e scuola» [Roma], II, 1963,
n. 7, p. 50). Cfr. B. Castiglione, /Z Cortegiano, II, 27, ed. Maier cit, p. 231.
39. Per qualche mese del 1579, Bruno aveva soggiornato a Noli, sulla ri-
viera ligure di Ponente (cfr. V. Spampanato, Vita di Bruno, Messina, 1921, rist.
anastatica con una postfazione di N. Ordine, Roma, 1988, p. 270). Qui, nella
chiesa dedicata al martire san Paragorio, oltre ad una colossale statua lignea di
Cristo, si conservava un dipinto che rappresentava il santo a cavallo.
40. A Ferrara viveva all'epoca Ippolito Cricca, uno stimatissimo fabbri-
cante di stnimenti musicali.
41. Giuoco di parole: lunatici al posto di lunari.
42. È uno degli interlocutori secondari della Cena.
43. Cfr. G. Bruno, Cena, son. Al mal contento, p. 429.
620 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
fu altro ch'una cena dove gli cervelli vegnono governati da gli
affetti, quali gli vegnon porgiuti dall'efficacia di sapori e fumi
de le bevande e cibi. Qual dumque può essere la cena materiale
e corporale, tale conseguentemente succede la verbale e spiri-
tuale: cossi dumque questa dialogale ha le sue parti varie e di-
verse, qual varie e diverse quell'altra suole aver le sue; non al-
trimente questa ha le proprie condizioni, circonstanze e mezzi,
che come le proprie potrebbe aver quella.
Armesso. — Di grazia fate ch'io vi intenda.
FiLOTEO. Ivi (come è l'ordinario et il dovero) soglion trovarsi
cose da insalata da pasto, da frutti da ordinario, da cocina da
speciaria'*'^, da sani da amalati; di freddo di caldo, di crudo di
cotto, di acquatico di terrestre, di domestico di salvatico, di ro-
ste di lesso, di maturo di acerbo; e cose da nutrimento solo e da
gusto, sustanzioze e leggieri, salse et insipide, agreste e dolci,
amare e suavi. Cossi quivi, per certa conseguenza, vi sono ap-
parse le sue contrarietadi e diversitadi, accomodate a contrari! e
[53] diversi stomachi e gusti, a' quali può piacere di farsi presenti al
nostro tipico simposio: a fine che non sia chi si lamente di es-
servi gionto in vano, et a chi non piace di questo, prenda di
quell'altro.
Armesso. - È vero: ma che dirai, se oltre nel vostro convito,
ne la vostra cena appariranno cose, che non son buone né per
insalata né per pasto, né per frutti né per ordinario, né fredde
né calde, né crude né cotte, né vagliano per appetito né per
fame, non son buone per sani né per ammalati; e conviene che
non escano da mani di cuoco né di speciale?
FiLOTEO. — Vedrai che né in questo la nostra cena è dissi-
mile a qualumqu'altra esser possa. Come dumque là nel più bel
del mangiare, o ti scotta qualche troppo caldo boccone, di ma-
niera che bisogna cacciarlo de bel nuovo fuora, o piangendo e
lagrimando mandarlo vagheggiando per il palato, sin tanto che
se gli possa donar quella maladetta spinta per il gargazzuolo al
basso; o vero ti si stupefa qualche dente; o te s'intercepe la lin-
gua che viene ad esser morduta con il pane; o qualche lapillo te
si viene a rompere et incalcinarsi tra gli denti, per farti regittar
tutto il boccone; o qualche pelo o capello del cuoco ti s'inve-
44. Cfr. il napoletano «speziaria».
DIALOGO PRIMO 021
schia nel palato, per farti presso che vomire; o te s'arresta qual-
che aresta'*^ (jj pesce ne la canna, a farti suavemente tussire; o
qualch'ossetto te s'attraversa ne la gola per metterti in pericolo
di suffocare: cossi nella nostra cena (per nostra e comun disgra-
zia) vi si son trovate cose corrispondenti e proporzionali a
quelle. Il che tutto avviene per il peccato dell'antico nostro pro-
toplaste Adamc*^, per cui la perversa natura umana è condan- [55]
nata ad aver sempre i disgusti gionti a i gusti.
Armesso. - Pia e santamente. Or che rispondete a quel che
dicono che voi siete un rabbioso cinico?
FiLOTEO. - Concederò facilmente, se non tutto, parte di que-
sto.
Armesso. — Ma sapete che non è vituperio ad un uomo
tanto di ricevere oltraggi, quanto di fame.
FiLOTEO. — Ma basta che gli miei sieno chiamati vendette, e
gli altrui sieno chiamati offese.
Armesso. — Anco gli dèi son suggetti a ricevere ingiurie, pa-
tir infamie e comportar biasimi: ma biasimare, infamare et in-
giuriare, è proprio de vili, ignobili, dappoco e scelerati.
FiLOTEO. — Questo è vero, pero noi non ingiuriamo, ma ri-
buttiamo l'ingiurie, che son fatte non tanto a noi quanto a la
filosofia spreggiata, con far di modo ch'a gli ricevuti dispiaceri
non s'aggiongano de gli altri.
Armesso. - Volete dumque parer cane che morde"*^, a fin
che non ardisca ogn'uno di molestarvi?
FiLOTEO. — Cossi è, perché desidero la quiete, e mi dispiace il
dispiacere.
Armesso. - Si, ma giudicano che procedete troppo rigorosa-
mente.
FiLOTEO. — A fine che non tornino un'altra volta essi, et altri
45. Cfr. il napoletano «resta».
46. Quest'allusione al peccato di Adamo protoplaste (dal greco jiqo-
TOJiX,aoTÓ5, «primo creato») è ironica, perché Bruno ammette l'esistenza dei
preadamiti e, soprattutto, un'origine naturale e plurale del genere umano; cfr.
Dialogo quarto, p. 702, nota 19. Bruno impiega l'aggettivo «protoplastico» an-
che nella Cena, Proemiale epistola, p. 431; cfr. inoltre G. Bruno, De immenso,
VII, 18, Op. lat, I, 2, p. 284 (ed. Monti cii, p. 784).
47. Comportamento "cinico" nel vero senso della parola (dal greco xùcdv:
«cane»); cfr. G. Bruno, Cena, son. Al mal contento, p. 429 e nota 2).
622 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
imparino di non venir ad disputar meco e con altro, trattando
[57] con simili mezzi termini queste conclusioni.
Armesso. — La offesa fu privata, la vendetta è publica.
FiLOTEO. - Non per questo è ingiusta: perché molti errori si
commetteno in privato, che giustamente si castigano in publico.
Armesso. — Ma con ciò venite a guastare la vostra riputa-
zione, e vi fate più biasmevole che coloro; perché publicamente
se dirà che siete impaziente, fantastico, bizarro, capo sventato.
FiLOTEO. - Non mi curo: purché oltre non mi siano essi o
altri molesti; e per questo mostro il cinico bastone''*, acciò che
mi lascino star co' fatti miei in pace; e se non mi vogliono far
carezze, non vegnano ad esercitar la loro incivilita sopra di me.
Armesso. — Or vi par che tocca ad un filosofo di star su la
vendetta?
FiLOTEO. - Se questi che mi molestano fussero una Xantip-
pC*^, io sarei un Socrate.
Armesso. - Non sai che la longanimità e pazienza sta bene
a tutti, per la quale vegnano ad esser simili a gli eroi et emi-
nenti dèi: che secondo alcuni '^ si vendicano tardi, e secondo
altri 51 né si vendicano né si adirano?
FiLOTEO. - Ti inganni pensando ch'io sia stato su la ven-
detta.
Armesso. - E che dumque?
FiLOTEO. - Io son stato su la correzzione, nell'esercizio della
quale ancora siamo simili a gli dèi. Sai che il povero Vulcano è
[59] stato dispensato da Giove di lavorare anco gli giorni di festa ^2,
e quella maladetta incudine non si lassa o stanca mai ad com-
portar le scosse di tanti e sì fieri martelli, che non sì tosto è
alzato l'uno, che l'altro è chinato: per far che gli giusti fólgori
(con gli quali gli delinquenti e rei si castigheno) non vegnan
meno.
48. Il bastone di cui si servivano i cinici greci per difendersi contro gli
sberleffi e gli insulti suscitati dal loro modo di vivere; cfr. G. Bruno, Cena, son.
cit
49. La moglie bisbetica di Socrate.
50. Allusione a Plutarco, De sera numinis vindicta (Moralia, 548 a).
51. Gli stoici.
52. Al contrario, nell'ambito della "riforma" celeste proposta dallo Spaccio,
Dialogo primo, p. 204: «[Giove] ha ordinato al suo fabro Vulcano, che non
lavore de giorni di festa».
DIALOGO PRIMO 623
Armesso. — È differenza tra voi et il fabro di Giove e marito
de la ciprigna dea.
FiLOTEO. - Basta che ancora non son dissimile a quelli forse
nella pazienza e longanimità, la quale in quel fatto ho esserci-
tata, non rallentando tutto il freno al sdegno, né toccando di
più forte sprone l'ira.
Armesso. - Non tocca ad ogn'uno di essere correttore, mas-
sime de la moltitudine.
FiLOTEO. - Dite ancora, massime quando quella non lo
tocca.
Armesso. — Si dice che non devi esser sollecito nella patria
aliena^'.
FiLOTEO. — Et io dico due cose: prima, che non si deve ucci-
dere un medico straniero, perché tenta di far quelle cure, che
non fanno i paesani. Secondo, dico che al vero filosofo ogni ter-
reno è patria.
Armesso. — Ma se loro non ti accettano né per filosofo, né
per medico, né per paesano?
FiLOTEO. — Non per questo mancare ch'io sia.
Armesso. - Chi ve ne fa fede?
FiLOTEO. — Gli numi che me vi han messo, io che me vi
ritrovo, e quelli ch'hanno gli occhi, che me vi veggono. [6i]
Armesso. — Hai pochissimi e poco noti testimoni.
FiLOTEO. - Pochissimi e poco noti sono gli veri medici:
quasi tutti sono veri amalati. Tomo a dire, che loro non hanno
libertà altri di fare, altri di permettere che sieno fatti tali trat-
tamenti a quei che porgono onorate merci: o sieno stranieri o
non.
Armesso. — Pochi conoscono queste merci.
FiLOTEO. - Non per questo le gemme sono men preciose, e
non le doviamo con tutto il nostro forzo ^-^ defendere e farle de-
fendere, liberare e vendicare, dalla conculcazione de pie porcini,
con ogni possibil rigore. E cossi mi sieno propicii gli superi, Ar-
messo mio, che io mai feci di simili vendette per sordido amor
proprio, o per villana cura d'uomo particulare: ma per amor
della mia tanto amata madre filosofia, e per zelo della lesa
53. In Inghilterra
54. Cfr. il napoletano «fuorzo».
624 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
maestà di quella; la quale da mentiti familiari e figli (per che
non è vii pedante, poltron'^ dizzionario, stupido fauno, igno-
rante cavallo, che o con mostrarsi carco di libri, con allungarsi
la barba, o con altre maniere mettersi in prosopopeia, non vo-
glia intitolarsi de la fameglia) è ridutta a tale, che appresso il
volgo tanto vai dire un filosofo, quanto un frappone^^, un disu-
tile, pedantaccio, circulatore, saltainbanco, ciarlatano, buono
per servir per passa-tempo in casa e per spavantacchio d'ucelli
a la campagna.
Elitropio. — A dire il vero la famiglia de filosofi è stimata
più vile, dalla maggior parte del mondo, che la famiglia de cap-
pellani; perché non tanto quelli, assunti da ogni specie di gen-
[63] taglie, hanno messo il sacerdocio in dispreggio, quanto questi,
nominati da ogni geno di bestiali, hanno posto la filosofia in
vilipendio.
FiLOTEO. - Lodiamo dumque nel suo geno l'antiquità,
quando tali erano gli filosofi, che da quelli si promovevano ad
essere legislatori, consiliarii e regi. Tali erano consiliari! e regi,
che da questo essere s'inalzavano ad essere sacerdoti; a questi
tempi la massima parte di sacerdoti son tali, che son spreggiati
essi, e per essi son spreggiate le leggi divine: son tali quasi tutti
quei che veggiamo filosofi, che essi son vilipesi, e per essi le
scienze vegnono vilipese. Oltre che tra questi la moltitudine de
forfanti, come di urtiche, con gli contrari sogni suole dal suo
canto ancora opprimere la rara virtù e veritade, la qual si mo-
stra a i rari.
Armesso. - Non trovo filosofo che s'adire sì per la spreggiata
filosofia, né (o Elitropio) scorgo alcuno sì affetto per la sua
scienzia, quanto questo Teofilo 5^: che sarrebe se tutti gli altri
filosofi fussero della medesima condizione, voglio dire sì poco
pazienti?
Elitropio. - Questi altri filosofi non hanno ritrovato tanto,
55. Il termine poltrone qualifica il personaggio eponimo della commedia 77
pedante di Francesco Belo (atto I, se. i e atto II, se. i), così come analoghi
personaggi della Calandra di Bibbiena (atto I, se. 2) e degli Ingannati (atto III,
se. 2). Cfr. G. Davico Bonino, 77 teatro italiano, voi. II, La commedia del Cinque-
cento, Torino, 1977, t I, p. 15, t II, pp. 13, 22, 140.
56. Napoletanismo.
57. Qui, e per tutto il resto del dialogo, si dovrà leggere «Filoteo». Teofilo è
il nome del portavoce di Bruno nella Cena.
DIALOGO PRIMO 625
non hanno tanto da guardare, non hanno da difender tanto:
facilmente possono ancor essi tener a vile quella filosofia che
non vai nulla, o altra che vai poco, o quella che non conoscono;
ma colui che ha trovata la verità, che è un tesoro ascoso, acceso
da la beltà di quel volto divino, non meno doviene geloso
perché la non sia defraudata, negletta e contaminata, che possa
essere un altro sordido affetto sopra l'oro, carbuncolo e dia-
mante, o sopra una carogna di bellezza feminile. [65]
Armesso. — Ma ritorniamo a noi, e vengamo al quia^^. Di-
cono di voi. Teofilo, che in quella vostra cena tassate et ingiu-
riate tutta una città, tutta una provinzia, tutto un regno.
FiLOTEO. — Questo mai pensai, mai intesi, mai feci: e se
l'avesse pensato, inteso, o fatto, io mi condennarei pessimo, e
sarrei apparecchiato a mille retrattazioni, a mille revocazioni, a
mille palinodie; non solamente s'io avesse ingiuriato un nobile
et antico regno come è questo ^9, ina qualsivogli'altro quantum-
que stimato barbaro: non solamente dico qualsivoglia città
quantumque diffamata incivile, ma e qualsivoglia lignaggio,
quantumque divolgato salvaggio; ma e qualsivoglia fameglia,
quantumque nominata inospitale: per che non può essere regno,
città, prole o casa intiera la quale esser possa o si deve presup-
ponere d'un medesimo umore, e dove non possano essere oppo-
siti e contrarii costumi; di sorte che quel piace a l'uno, non
possa dispiacere a l'altro.
Armesso. - Certo quanto a me, che ho letto e riletto, e ben
considerato il tutto (benché circa particolari non so perché vi
trovo alquanto troppo effuso) circa il generale vi veggo casti-
gata, raggionevole e discretamente procedere: ma il rumore è
sparso nel modo ch'io vi dico.
Elitropio. — Il rumore di questo et altro è stato sparso dalla
viltà d'alcuni di quei che si senton ritoccati: li quali, desiderosi
di vendetta, veggendosi insufficienti con propria raggione, dot-
trina, ingegno e forza, oltre che fingono quante altre possono
falsitadi, alle quali altri che simili a loro non posson porger (67]
58. «Perché»; parodia del linguaggio della Scolastica, che troviamo già in
P. Aretino, Sei giornate, I, i, ed. a cura di G. Aquilecchia, Roma-Bari, 1975,
p. 19 oppure in Rabelais.
59. L'Inghilterra.
626 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
fede, cercano compagnia con fare ch'il castigo particolare sia
stimato ingiuria commune.
Armesso. — Anzi credo che sieno di persone non senza giu-
dicio e conseglio, le quali pensano l'ingiuria universale, perché
manifestate tai costumi in persone di tal generazione.
FiLOTEO. - Or quai costumi son questi nominati, che simili,
peggiori e molto più strani in geno, specie e numero non si tro-
vino in luoghi de le parti e provinze più eccellenti del mondo?
Mi chiamarete forse ingiurioso et ingrato a la mia patria s'io
dicesse, che simili e più criminali costumi se ritrovano in Italia,
in Napoli, in Nola? Verrò forse per questo a digradir quella re-
gione gradita dal cielo, e posta insieme insieme talvolta capo e
destra di questo globo, governatrice e domitrice''" dell'altre ge-
nerazioni (e sempre da noi et altri è stata stimata maestra, nu-
trice e madre de tutte le virtudi, discipline, umanitadi, mode-
stie e cortesie), se si verrà ad essagerar di vantaggio quel che di
quella han cantato gli nostri medesimi poeti, che non meno la
fanno maestra di tutti vizii^^ inganni, avarizie e crudeltadi?
Elitropio. - Questo è certo secondo gli principii della vo-
stra filosofia; per i quali volete che gli contrarii hanno coinci-
denza ne' principii e prossimi suggetti'^^: per che que' medesimi
ingegni, che sono attissimi ad alte, virtuose e generose imprese,
se sian perversi, vanno a precipitar in vizii estremi. Oltre che là
si sogliono trovare più rari e scelti ingegni, dove per il comune
sono più ignoranti e sciocchi; e dove per il più generale son
I69] meno civili e cortesi, nel più particulare si trovano de cortesie
et urbanitadi estreme: di sorte che in diverse maniere, a molte
generazioni, pare che sia data medesima misura de perfezzioni
et imperfezzioni.
FiLOTEO. - Dite il vero.
Armesso. - Con tutto ciò io (come molti altri meco) mi
60. Calco del latino «domitrix».
61. Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, XVII, 76. 5: «0 d'ogni vizio fetida sen-
tina».
62. Tema d'ispirazione cusaniana (cfr. Dialogo quinto, p. 737, e nota 43 e
pp. 738, 740 e note 45, 47, 49, 50). Cfr. inoltre G. Bruno, De immenso, VII, io,
Op. lat., I, 2 (ed. Monti cit., p. 773): «In dialogis de causa principio et uno osten-
dimus ut contraria coincidant in individuo principio atque fine» («Nei dialo-
ghi sulla Causa principio et uno abbiamo dimostrato come i contrari coinci-
dano nel principio e nel termine indivisibili»).
DIALOGO PRIMO 627
dolgo, Teofilo, che voi nella nostra amorevol patria siate incorsi
a tali suppositi, che vi hanno porgiuta occasione di lamentarvi
con una cinericia cena; che ad altri et altri molti che vi avesser
fatto manifesto, quanto questo nostro paese (quantumque sia
detto da vostri penitus loto divisus ab orbe)^^ sia prono a tutti gli
studi de buone lettere, armi, cavalleria, umanitadi e cortesie;
nelle quali per quanto comporta de le nostre forze il nerbo, ne
forziamo di non esser inferiori a nostri maggiori, e vinti da le
altre generazioni, massime da quelle che si stimano aver le no-
bilitadi, le scienze, le armi e civilitadi come da natura.
FiLOTEO. — Per mia fede, Armesso, che in quanto referisci, io
non debbo, né saprei con le pareli, né con le raggioni, né con la
conscienza contradirvi, perché con ogni desterità di modestia e
di argomenti fate la vostra causa. Però io per voi, come per
quello che non mi vi siete avicinato con un barbaro orgoglio,
comincio a pentirmi, e prendere a dispiacere di aver ricevuta
materia da que' prefati, di contristar voi et altri d'onestissima et
umana complessione: però bramarei, che que' dialogi non fus-
sero prodotti; e se a voi piace, mi forzarò che oltre non vengan
in luce.
Armesso. - La mia contristazione, con quella d'altri nobilis- [71]
simi animi, tanto manca che proceda dalla divolgazione de
quei dialogi, che facilmente procurarei che fussero tradotti in
nostro idioma: a fin che servissero per una lezzione a quei poco
e male accostumati, che son tra noi; che forse quando vedessero
con qual stomaco son presi, e con quai delineamenti son de-
scritti gli suoi discortesi rancontri, e quanto quelli sono mal si-
gnificativi, potrebe essere che se per buona disciplina e buono
essempio che veggano ne gli megliori e maggiori non si voglion
ritrar da quel camino, al meno vegnano a cangiarsi e confor-
marsi a quelli per vergogna di essemo connumerati tra tali e
quali: imparando che l'onor de le persone e la bravura non con-
63. Cfr. Virgilio, Bue, I, 66, in Opere, a cura di C. Carena, Torino, 1971, pp.
78-7^: «et penitus tot divisos orbe Britannos» («I Britanni fuori dal mondo»);
T. Tasso, La Gerusalemme liberata, I, 44, 8: «La divisa dal mondo ultima Irlan-
da»; VII, 67, 5-6: «un di Scozia, un d'Irlanda, ed un britanno / terre che parte
il mar dal nostro mondo»; G. Bruno, De gli eroici furori, Argomento, p. 499:
«perché dove si biasimasse tutto Torbe ... ma diviso da quello in tutto»; p. 518:
«penitus toto divisim ab orbe».
628 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
siste in posser e saper con que' modi esser molesto, ma nel con-
trario a fatto.
Elitropio. — Molto vi mostrate discreto et accorto nella
causa de la vostra patria; e non siete verso gli altrui buoni uffici
ingrato et irreconoscente: quali esser possono molti poveri d'ar-
gumento e di consiglio. Ma Filoteo non mi par tanto aveduto
per conservar la sua riputazione e defendere la sua persona:
perché quanto è differente la nobiltade dalla rusticitade, tanto
contrarii effetti si denno sperare e temere in un scita villano^,
il quale riuscirà savio, e per il buon successo verrà celebrato, se
partendosi dalle ripe del Danubio, vada con audace riprensione
e giusta querela a tentar l'autorità e maestà del Romano Se-
nato, che dal colui biasimo et invettiva sappia prendere occa-
sione di fabricarvi sopra atto di estrema prudenza e magnani-
mitade, onorando il suo rigido riprensore di statua e di colosso;
[73] che se un gentil'uomo e senator romano per il mal successo
possa riuscir poco savio, lasciando le amene sponde del suo Te-
vere sen vada, anco con giusta querela e raggionevolissima ri-
prensione, a tentar gli scitici villani, che da quello prendano
occasione di fabricar torri, e Babilonie d'argumenti di maggior
viltade, infamia e rusticitade: con lapidarlo, rallentando alla fu-
ria populare il freno, per far meglio sapere all'altre generazioni
quanta differenza sia di contrattare e ritrovarsi tra gli uomini, e
tra color che son fatti ad imagine e similitudine di quelli.
Armesso. - Non fia mai vero, o Teofilo, che io debba o possa
stimare, che sia degno, ch'io o altro che ha più sale di me voglia
prendere la causa e protezzione di costoro, che son materia de
la vostra satira, come per gente e persone del paese, alla cui
difensione dall'istessa legge naturale siamo incitati: perché non
confessare giamai, e non sarò giamai altro che nemico de chi
affirmasse che costoro sieno parte e membri de la nostra patria,
la quale non consta d'altro che di persone cossi nobili, civili,
accostumate, disciplinate, discrete, umane, raggionevoli come
altra qualsivoglia. Dove, benché vegnan contenuti questi, certo
non vi si trovano altrimente che come lordura, feccia, lettame e
carogna; di tal sorte, che non potrebono con altro modo esser
chiamati parte di regno o di cittade, che la sentina parte de la
64. Lo scita era il barbaro par excellence.
DIALOGO PRIMO 629
nave: e però per simili tanto manca che noi doviamo risentir-
ci, che risentendoci doveneremmo vituperosi. Da questi non
escludo gran parte di dottori e preti, de quali quantumque al-
cuni per mezzo del dottorato doventano signori, tutta volta per
il più quella autorità villanesca che prima non ardivano mo- [75]
strare, appresso per la baldanza e presunzione, che se gli ag-
giunge dalla riputazion di letterato e prete, vegnono audace e
magnanimamente a porla in campo; là onde non è maraviglia
se vedete molti e molti, che con quel dottorato e presbiterato
sanno più di armento, mandra e stalla, che quei che sono at-
tualmente strigliacavallo, capraio e bifolco: per questo non arrei
voluto che sì aspramente vi fusse^^ portato verso la nostra Uni-
versitade^^ ancora, quasi non perdonando al generale, né
avendo rispetto a quel che è stata, sarà o potrà essere per l'ave-
nire, et in parte è al presente.
FiLOTEO. — Non vi affannate, perché, benché quella ne sia
presentata per filo in questa occasione, tutta volta non fa tale
errore che simile non facciano tutte l'altre che si stimano mag-
giori, e per il più sotto titolo di dottori cacciano annulati ca-
valli et asini diademati*^". Non gli foglio però quanto da princi-
pio sia stata bene instituita, gli belli ordini di studii, la gravità
di ceremonie, la disposizione de gli esercizii, decoro de gli abiti,
et altre molte circonstanze che fanno alla necessità et orna-
mento di una academia: onde senza dubio alcuno non è chi
non debba confessarla prima in tutta l'Europa, e per conse-
guenza in tutto il mondo; e non niego che quanto alla genti-
lezza di spirti et acutezza de ingegni gli quali naturalmente
l'una e l'altra parte de la Brittannia^^ produce, sia simile e
possa esser equale a quelle tutte che son veramente eccellentis-
sime: né meno è persa la memoria di quel, che, prima che le
lettere speculative si ritrovassero nell'altre parti de l'Europa,
fiorimo in questo loco, e da que' suoi principi de la metafisica
65. Cfr. il napoletano «fùsseve».
66. L'università di Oxford, attaccata da Bruno nella Cena de le ceneri.
67. Può essere sia un'allusione ai dottori in generale (che portavano cap-
pello e anello), sia un'allusione più circostanziata ai due interlocutori inglesi
della Cena, Dialogo primo, pp. 441-442: «Un de quali avea due catene d'oro
lucente al collo; e l'altro (per Dio) con quella preziosa mano (che contenea
dodeci anella in due dita)...».
68. Scozia e Inghilterra.
630 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
[77] (quantumque barbari ^"^ di lingua e cuculiatilo di professione) è
stato il splendor d'una nobilissima e rara parte di filosofia^' (la
quale a tempi nostri è quasi estinta '2) diffuso a tutte l'altre aca-
demie de le non barbare provinze. Ma quello che mi ha mole-
stato e mi dona insieme insieme fastidio e riso è, che con questo
che io non trovo più romani e più attici di lingua che in questo
loco, del resto (parlo del più generale) si vantano di essere al
tutto dissimili e contrarii a quei che furon prima, li quali poco
69. Cfr. il modo di considerare i «barbaros hos philosophos» nella polemica
fra Pico della Mirandola ed Ermolao Barbaro, segnatamente nella lettera di
Pico del 3 giugno 1485, in: Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin,
Milano-Napoli, 1952, pp. 844-863 (e, per i termini della disputa, cfr. ora la Pré-
face di G. Tognon a J. Pie De La Mirandole, (Eiivres philosophiques, Paris,
1993, pp. XXV-XXVIII). La prima a dimostrare quanto l'atteggiamento di
Bruno fosse simile a quello di Pico è stata F. A. Yates, G. Bruno's Conflict with
Oxford, «Journal of the Warburg Institute» [London], II, 1938-1939, pp. 227-
242, traduz. di M. De Martini Griffin in Id., G. Bruno e la cultura europea del
Rinascimento, Roma-Bari, 1988, pp. 11-28 (in partic, pp. 25-28). Indipendente-
mente dalla sua critica attorno alla direzione presa dalla Oxford a lui contem-
poranea, ma sempre nel quadro della sua polemica antiumanistica. Bruno
esprime lo stesso giudizio al momento di approvare Paracelso (cfr. Dialogo
terzo, p. 674): «uno che non sa né di greco, né di arabico, e forse né di latino,
come il Paracelso») ed Averroè (cfr. Dialogo quarto, p. 715: «Averroe. il qual
quantumque arabo et ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica
però intese più che qualsivoglia greco»).
70. Assai comune nella critica antiscolastica, il termine indica qui i filosofi
medievali inglesi, frati pochissimo ortodossi, intinti di latino, che avevano in-
segnato ad Oxford (il domenicano Robert Kilwardby, dal 1248 al 1261; il fran-
cescano Duns Scoto, dal 1294 al 1304, ed altri). Pomponazzi l'ha impiegato per
farsi beffe dei monaci ostili alla sua interpretazione della mortalità dell'anima
in Aristotele (cfr. Ex. Gilson, L immortalile de l'àme à Venise au XVF siede, in:
Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, dir. V. Branca, Firenze, 1963, pp.
31-61, in partic. p. 35). Poliziano aveva attaccato i «Cuculiati, lignipides, cincti
funibus, superciliosum, incurvicervicum pecus» in un prologo ai Menaechmi di
Plauto (cfr. l'ed. moderna di M. Martelli, in: Le tradizioni del testo. Studi offerti a
D. De Robertis, Milano-Napoli, 1993, pp. 72-83).
71. La metafisica.
72. Sull'orientamento umanistico dell'insegnamento della filosofia ad
Oxford, ai tempi di Bruno, si vedano le osservazioni sparse di Ch. B. Schmitt
per esempio in Philosophy and Science in Sixteenth-Century Universities: Some
preliminary Comments. quinto degli Studies in Renaissance Philosophy and
Science, London, 1981, pp. 490 e nota 20. 517-518, ed in La tradizione aristotelica
fra Italia e Inghilterra, Napoli, 1985); cfr. anche M. CuRTis, Oxford and Cambri-
dge in Transition: 1558-1642, Oxford, 1959, cap. IV; J. E. C. Hill, Le origini
intellettuali della Rivoluzione inglese, traduz. di A. Ca' Rossa, Bologna, 1976 (Ap-
pendice: Nota sulle università, pp. 419-441). J. Me Conica, Humanism and Ari-
stotle in Tudor Oxford, «The English Historical Review» [London], XCIV, 1979,
pp. 291-317, afferma che «we must revise our views about the sharp break in
Oxford with medieval past» (p. 297). ma la sua ipotesi si fonda su una docu-
mentazione troppo scarsa (e ambigua) che non arriva a intaccare la tesi predo-
minante che parla di un orientamento essenzialmente umanistico-rinascimen-
tale nella Oxford di fine Cinquecento.
DIALOGO PRIMO 63 1
solleciti de l'eloquenza e rigor grammaticale, erano tutti intenti
alle speculazioni, che da costoro son chiamate sofismi ^^: ma io
più stimo la metafisica di quelli, nella quale hanno avanzato il
lor prencipe Aristotele (quantumque impura et insporcata con
certe vane conclusioni e teoremi, che non sono filosofici né teo-
logali, ma da ociosi e mal impiegati ingegni), che quanto pos-
sono apportar questi de la presente etade con tutta la lor cice-
roniana eloquenza et arte declamatoria''''.
Armesso. — Queste non son cose da spreggiare.
FiLOTEO. — E vero, ma dovendosi far elezzione de l'un de
doi, io stimo più la coltura de l'ingegno, quantumque sordida la
fusse, che di quantumque disertissime paroli e lingue.
Elitropio. — Questo proposito mi fa ricordar di fra Ventura:
il quale trattando un passo del santo Vangelo che dice «reddite
quae sunt Caesaris Caesari»''^, apportò a proposito tutti gli nomi
de le monete che sono state a tempi di Romani, con le loro
marche e pesi, che non so da qual diavolo di annale o scarta-
faccio l'avesse racolti, che furono più di cento e vinti, per fame
conoscere quanto era studioso e retentivo; a costui (finito il ser- [79]
mone) essendosegli accostato un uom da bene li disse: «Padre
mio reverendo, di grazia imprestatemi un carlino »'^^ A cui ri-
spose che lui era de l'ordine mendicante.
Armesso. - A che fine dite questo?
Elitropio. — Voglio dire che quei che son molto versati
73. Critica tradizionalmente indirizzata contro il pensiero medievale.
74. Nelle università dell'epoca elisabettiana, gli studi spiccatamente specu-
lativi erano stati soppiantati da una corrente umanistico-retorica, del tutto
nuova per la cultura inglese. Di fatto, la corrente scientifica (John Dee in testa,
fautore di Cusano e di Copernico, ma legato pure alla tradizione, vale a dire a
Roger Bacon) passò da Oxford a Londra. I «liberi» filosofi elisabettiani - fra i
quali Thomas Digges, difensore delle teorie copernicane - lottarono, allo stesso
modo di Bruno, contro l'aristotelismo connesso alla corrente retorica domi-
nante nelle università Preferendo l'antica Scolastica (R. Bacon, Duns Scoto)
alla corrente moderna, essi non auspicavano per questo un ritomo a posizioni
medievali, bensi piuttosto lo sviluppo di una ricerca speculativa e scientifica
che s'ispirava al «metodo» della grande Scolastica.
75. «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare» (Matteo, XXII, 21);
cfr. G. Bruno, De gli eroici furori. Argomento, p. 492.
76. Antica moneta napoletana (1367) che, all'epoca di Bruno, recava l'effi-
gie di Filippo II; dieci carlini facevano un ducato. Cfr. G. Bruno, Candelaio, II,
6 e III, II, pp. 322 e 311. Gli scrittori del XVI secolo erano appassionati colle-
zionisti di monete e medaglie antiche.
632 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
circa le dizzioni e nomi, e non son solleciti de le cose, cavalcano
la medesima mula con questo reverendo padre de le mule.
Armesso. — Io credo che oltre il studio de l'eloquenza, nella
quale avanzano tutti gli loro antiqui e non sono inferiori a gli
altri moderni, ancora non sono mendichi nella filosofica et
altrimente speculative professioni; senza la perizia de le qua-
li non possono esser promossi a grado alcuno: perché gli sta-
tuti de l'Università (alli quali sono astretti per giuramento)
comportano che «Nullus ad Philosophiae et Theologiae magis-
terium et doctoratum promoveatur, nisi epotaverit e fonte Aristo-
telìs»'''^.
Elitropio. - Oh, io ve dirò quel ch'han fatto per non esser
pergiuri. Di tre fontane che sono nell'Università, a l'una han-
no imposto nome Fons Aristotelis, l'altra dicono Fons Pythago-
rae, l'altra chiamano Fons Platonis^^. Da questi tre fonti traen-
dosi l'acqua per far la birra e la cervosa (de la qual acqua
pure non mancano di bere i buoi e gli cavalli), conseguente-
mente non è persona che con esser dimorata meno che tre o
[81] quattro giorni in que' studii e collegii, non vegna ad esser
77. «Che nessuno sia promosso al magistero o al dottorato di Filosofia e
Teologia se non ha bevuto alla fonte di Aristotele»; non si riscontra nessuna
formula simile negli Statuta antiqua Universitatis Oxoniensis, editi da Gibson
(Oxford, 1931); tuttavia, per il 1584 - anno di pubblicazione del De la causa -
vi si trova promulgato «quod nullus licentietur ad incipiendum in artibus nisi
prius iuret se legisse sex lectiones solemnes, in naturae philosophiae tres, tres
in philosophia morum» («che nessuno sia immatricolato nelle Arti se non ha
prima giurato di aver fatto le sei letture solenni, tre in filosofia della natura e
tre in filosofia morale»): Reformation of abuses, p. 431, nota 20; per l'anno 1586,
trattandosi delle Disputationes quadrigesimales, p. 437, si ribadisce che «vel Ari-
stotelem secundum vetera et laudabilia universitatis statuta, vel alios authores
secundum Aristotelem defendendos esse, omnesque steriles et inanes quaestio-
nes ab antiqua et vera philosophia dissidentes, a scholis escludendas et exter-
minandas» («Secondo gli antichi e lodevoli statuti dell'università, si deve sia
difendere Aristotele o gli altri antichi autori conformi alla sua dottrina, sia
escludere dagli studi e sopprimere ogni questione sterile e inane che dissenta
dall'antica e vera filosofia»). Cfr. G. Aquilecchia, Tre schede su Bruno e Oxford,
«Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], LXXIV, 1993, pp- 389-393.
78. Ivi, p. 531, si veda il documento del 1619 relativo all'elezione dei pro-
fessori di matematica: «Hos professores ... ordino ... fore perpetuis temporis eli-
gendos ... qui, hausta prius ex Aristotelis et Platonis fontibus puriore philo-
sophia, in mathematicis instructissimi sint» («Ordino ... che debbano essere
eletti professori a vita ... coloro i quali dopo aver attinto la più pura filosofia
alle fonti di Aristotele e di Platone, siano più che sapienti nelle matematiche»);
si ignora, nondimeno, se le «tre fontane» siano realmente esistite nella Oxford
del XVI secolo o in uno dei collegi dell'Università.
DIALOGO PRIMO 633
imbibito non solamente del fonte d'Aristotele, ma et oltre di
Pitagora e Platone.
Armesso. — Oimè che voi dite pur troppo il vero. Quindi
aviene, o Teofilo, che li dottori vanno a buon mercato come le
sardelle: perché come con poca fatica si creano, si trovano, si
pescano, cossi con poco prezzo si comprano. Or dumque tale
essendo appresso di noi il volgo di dottori in questa etade (ri-
serbando però la riputazione d'alcuni celebri e per l'eloquenza e
per la dottrina e per la civil cortesia, quali sono un Tobia Mat-
theo^^, un Culpepero^° et altri che non so nominare), accade
che tanto manca che uno per chiamarsi dottore possa esser sti-
mato aver novo grado di nobiltade, che più tosto è suspetto di
contraria natura e condizione, se non fia particolarmente cono-
sciuto. Quindi accade che quei che per linea o per altro acci-
dente son nobili, ancor che gli s'aggiunga la principal parte di
nobiltà, che è per la dottrina, si vergognano di graduarsi e farsi
chiamar dottori, bastandogli l'esser dotti: e di questi arrete mag-
79. Thobias Matthew (1526-1628), preside del St. John' College dal 1572 al
1577, decano del Christ Church dal 1576 fino ai primi del 1584, era stato vice-
cancelliere dell'Università di Oxford nel 1579. Promosso decano di Durham il
31 agosto 1583, fu nominato vescovo di York nel 1606 (cfr. il Didionary of
National Biography, XIII, pp. 60-63). Gli stessi cattolici riconoscevano la vastis-
sima cultura di questo convinto protestante (cfr. A. À WOOD, Historiae et Anti-
quitates Universitatis Oxoniensis, Oxford, 1674, voi. II, p. 255).
80. Martin Culpepper, professore di medicina e rettore del New College dal
1573 al 1599, decano di Chichester a partire dal 1577, era stato vicecancelliere
dell'Università di Oxford nel 1578 (cfr. ivi, voi. Il, pp. 133, 149). Ricordiamo
che Culpepper e Matthew erano tra i cinque dottori che ricevettero ufficial-
mente ad Oxford, il io luglio 1583, il principe polacco Albrecht taski, nel cui
seguito si trovava lo stesso Bruno (cfr. Cena, Dialogo quarto, p. 534 e nota 44).
Sono sempre loro che, secondo G. Abbot, intimarono con discrezione a Bruno
l'ordine di sospendere il suo ciclo di lezioni ad Oxford (lezioni de quintuplici
sphaera e de immortalitate animae, dove erano anticipate alcune teorie esposte
in De la causa, non senza ricorrere a formulazioni simbolico-speculative tratte
dalle opere, dalle traduzioni e dai commenti di Marsilio Ficino, e non senza
sostenere la teoria copernicana), una volta che il Nolano era stato accusato di
plagiare il De vita coelitus comparanda del filosofo toscano: cfr. G. Abbot, The
Reasons which Doctour Hill hat brought..., Oxford, 1604, p. 88 e, per la restante
bibliografia, G. Aquilecchia, Le opere italiane di G. Bruno: Critica testuale e
oltre, Napoli, 1991, pp. 77-85; Io., G. Bruno in Inghilterra (1583-1585). Documenti
e testimonianze, «Bruniana & Campanelliana» [Pisa- Roma], I, 1995, pp. 28-39,
nonché Id., Bruno at Oxford hetween Aristotle and Copernicus, in: Giordano Bruno
1583-1585. The English Experience/V esperienza inglese, Firenze, 1997, pp. 117-
124. Notiamo, infine, che Matthew e Culpepper avevano rivestito la loro carica
di vicecancelliere nel periodo di cancellierato di Robert Dudley, Karl of Leice-
ster, la cui cerchia pare sia stata frequentata da Bruno all'indomani della sua
partenza da Oxford.
634 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
gior numero ne le corti, che ritrovar si possano pedanti nel-
l'Uni versitade^^
FiLOTEO. - Non vi lagnate, Ermesso, perché in tutti luoghi
dove son dottori e preti si trova l'una e l'altra semenza di
quelli: dove quei che sono veramente dotti e veramente preti,
benché promossi da bassa condizione, non può essere che non
sieno inciviliti e nobilitati, perché la scienza è uno esquisitis-
simo camino a far l'animo umano eroico; ma quegli altri tanto
più si mostrano espressamente rustici, quanto par che vogliano
o col diviim pater^^ o col gigante Salmonea^^ altitonare, quando
[83] se la spasseggiano da purpurato^ satiro o fauno, con quella
spaventosa et imperiai prosopopeia*', dopo aver determinato
nella catedra regentale, a qual declinazione appartegna lo hic, et
haec, et hoc nihil.
Armesso. - Or lasciamo questi propositi. Che libro è questo
che tenete in mano?^''
FiLOTEO. - Son certi dialogi.
Armesso. - La Cenai
FiLOTEO. - Non.
Armesso. - Che dumque?
FiLOTEO. — Altri, ne li quali si tratta de la causa, principio et
uno, secondo la via nostra.
Armesso. — Quali interlocutori? forse abbiamo qualch'altro
81. Sulla rottura con il conformismo umanistico delle università da parte
degli ambienti di corte, si veda G. Aquilecchia, L'adozione del volgare nei dia-
loghi londinesi di Bruno. «Cultura Neolatina» [Roma-Modena], XIII, 1953. pp.
165 e segg., ora in Schede bruniane cit, pp. 58-61.
82. «Il padre degli dèi».
83. Cfr. \ÌRGiLio, Aen., VI. 585-586. ed. Carena cit. pp. 560-561: «Vidi et
crudelis dantem Salmonea poenas. / Dum flammas Jovis et sonitus imitatur
Olympi» («Vidi anche le crudeli pene che soffre Salmoneo. Mentre le fiamme
di Giove e il fragore imitava dell'Olimpo»).
84. Fin dal Medio Evo. la toga dei dottori universitari era rossa o color
porpora (cfr. Rashdall, The Universities of Europe. Oxford, voi. Ili, 1936,
p. 289).
85. Cfr. G. Bruno, Candelaio, Proprologo, p. 280 «e però è conveniente che
sen vadino con quella sua prosopopeia»; T. G.^RZONi. Piazza universale di tutte
le professioni del mondo, ed. a cura di P. Cherchi e B. Collina, Torino, voi. I,
1996. pp. 164-165: «Che dirò della Prosopopeia che spendano alcuni, tenendo-
si per Idoli della Grammatica per recitar... lo Sco{p)pa, et altri lor dogmati-
zanti...».
86. Si riconosce il modello platonico dell'esordio dialogico (cfr. ad esempio
il Phaedrus). già ripreso, fra gli altri, da Tasso ne II Nifo. 0 vero del Piacere.
DIALOGO PRIMO 635
diavolo di Frulla o Prudenzio ^^, che di bel nuovo ne mettano
in qualche briga?
FiLOTEO. - Non dubitate che tolto uno, tra gli altri, tutti son
suggetti quieti et onestissimi.
Armesso. - Sì che secondo il vostro dire arremo pure da
scardar^^ qualche cosa in questi dialogi ancora?
FiLOTEO. — Non dubitate, perché più tosto sarrete grattato
dove vi prore, che stuzzicato dove vi duole ^^.
Armesso. - Pure?
FiLOTEO. — Qua per uno trovarete quel dotto, onesto, amore-
vole, ben creato e tanto fidele amico Alessandro Dicsono^°, che
il Nolano ama quanto gli occhi suoi, il quale è causa che questa
materia sia stata messa in campo. Lui è introdutto come quello [85]
che porge materia di considerazione al Teofilo. Per il secondo
avete Teofilo, che sono io, che secondo le occasioni vegno a di-
stinguere, definire e dimostrare circa la suggetta materia. Per il
terzo avete Gervasio^', uomo che non è de la professione, ma
per passa-tempo vuole esser presente alle nostre conferenze: et è
una persona che non odora né puzza^^, e che prende per come-
dia gli fatti di Polihimnio, e da passo in passo gli dona campo
di fargli esercitar la sua pazzia. Questo sacrilego pedante ^^
avete per il quarto: uno de rigidi censori di filosofi, onde si af-
87. Personaggi della Cena de le Ceneri.
88. Napoletanismo.
89. Espressione proverbiale ricorrente nella letteratura italiana del XVI se-
colo (cfr. Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di V. Marucci, A. Marzo,
A. Romano, presentaz. di G. Aquilecchia, Roma, 1983, son. In Collegio ha pro-
posto l'Armellino, w. lo-ii, p. 258: «... perché aspetta / non esser tocco dove più
li dole»; P. Aretino, Sei giornate, II, i, ed. Aquilecchia cit, p. 320: «e grattan-
dolo dove gli duole»; p. 320: «io... ritocco dove le dole»; A. F. Grazzini, L'arzi-
gogolo, III, i; Pescetti, Proverbi italiani. Verona, 1598, p. 37: «Tu m'hai dato,
dove mi duole».
90. Su Dicson, si veda il Dialogo secondo, p. 645, nota i.
91. Su Gervasio, si veda il Dialogo secondo, p. 645, nota i.
92. Espressione proverbiale. Cfr. A. Calmo, Lettere, Torino, 1888, III, p. 34:
«No spuzza, ni no ulisse, ni sa del bon».
93. Così come Mamfurio nel Candelaio, Polihimnio rappresenta qui la ti-
pica pedanteria dei grammatici, che si distingue — almeno in parte — dalla
pedanteria moralistica raffigurata dal personaggio del pedante come si ritrova,
soprattutto, nella commedia italiana «erudita» dei primi decenni del secolo.
Alla pedanteria dei grammatici, Polihimnio - al pari del pedante Prudenzio
nella Cena - aggiunge una filosofia pedissequamente aristotelica: egli è sim-
bolo, dunque, di quella cultura accademica inglese contro cui Bruno ha pole-
mizzato nelle pagine precedenti.
636 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ferma Momo^^; uno affettissimo circa il suo gregge di scolastici,
onde si noma nell'amor socratico^'; uno perpetuo nemico del
femineo sesso, onde per non esser fisico, si stima Orfeo ^<', Museo, '
Titiro et Amfione^". Questo è un di quelli che quando ti arran
fatta una bella construzzione, prodotta una elegante epistolina,
scroccata una bella frase da la popina ciceroniana^^, qua è risu-
scitato Demostene, qua vegeta Tullio ^^, qua vive Salustio; qua è
un Argo che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizzione; qua
Radamanto umbras vocat ille silentum, qua Minoe re di Creta
urnam movet^"'^. Chiamano all'essamina le orazioni, fanno di-
scussione de le frase, con dire: «Queste sanno di poeta, queste di
comico, questa di oratore, questo è grave, questo è lieve, quello
94. Il beffardo critico degli dèi.
95. Eufemismo per «pederastia»», elemento che è uno dei bersagli della
satira contro il pedante nella commedia cinquecentesca; cfr. G. Bruno, Spac-
cio, Dialogo terzo, p. 325: «Tanto manca che Socrate revelasse qualche suo de-
fetto, che più tosto venne a lodarsi tanto maggiormente di continenza, quando
approvò il giudicio del fisionomista circa la sua naturai inclinazione al spor-
co amor di gargioni». - Cfr. Cicerone, Tusculanae, IV, 37, 80 e De fato, 5; G.
Bruno, Cabala. «L'Asino Cillenico del Nolano», p. 481: «v'apporto l'essempio
de Socrate, giudicato dal fisiognomico Zopiro per uomo stemprato, stupido,
bardo, effeminato, namoraticcio de putti et incostante».
96. Orfeo, considerato da Ovidio (Metam., X. 83-85) come colui che aveva
instaurato la pederastia (cfr. altresì A. Poliziano, Favola di Orfeo, w. 330 e
segg.), è menzionato assieme a Museo nella difesa che G. Pico fa dell'amor pla-
tonico nel Commento e la canzone d'amore del Benivieni, in G. Pico, «De hominis
dignitate» e altri scritti, a cura di E. Garin, Firenze, 1942, p. 538.
97. Titiror. il pastore della prima Bucolica di Virgilio. - Amfìone. marito di
Niobe, re di Tebe, ne aveva edificato le mura suonando la cetra (cfr. Ovidio,
Metam., VI, 178, 271, 402; XV, 427).
98. Cfr. G. Bruno, Candelaio. Proprologo, p. 280: «fanno venir a proposito
un versetto d'Omero, d'Esiodo, un stracciolin di Plato o Demosthenes greco»;
T. Garzoni, Piazza universale, ed. Cherchi-Collina cit, p. 164: «alcuni di loro,
gloriosetti e savioli, entrano in campo talora à far del Tullio con una sentenza
imparata a mente di Cicerone».
99. Cicerone.
100. « Umbras vocat ille silentum»: «È colui che convoca le ombre di chi non
ha pili voce». — «Urnam movet»: «agita l'urna». Minosse e Radamanto sono
menzionati anche nello Spaccio, I, p. 246; III, p. 333: « L'inexorabile tribunal di
Radamanto». Cfr. Virgilio, Aen., VI, 432-433, ed. Carena cit, pp. 550-553:
«quaesitor Minos urnam movet, ille silentum / consiliumque vocat vitasque et
crimina discit» («L'inquisitore Minosse agita l'urna, il tacito consiglio convoca
e le vite e le colpe ne scolta»); VI, 566, ed. cit., pp. 558-559: «Cnosius haec
Rhadamantus habet durissima regna» («Radamanto di Cnosso tiene questi du-
rissimi regni»); si veda pure N. Franco, Dialoghi piacevoli, f. 49^', dove il pe-
dante Borgio dichiara: «eccoci Minos, Eaco, Radamanto, non ignobili huomini,
ma veri figliuoli del padre Giove, dei quali che cosa più giusta si può trovare?»
e L. Pulci, Morgante, XXXI, 90, 2 («... il gran Minòs e Rodomanta»).
DIALOGO PRIMO 637
è sublime, quell'altro è humile dicendi genus^"^; questa orazione
è aspera, sarrebe leve se fusse formata cossi; questo è uno in-
fante scrittore, poco studioso de la antiquità, non redolet Arpina-
tem, desipit Latium^^^. Questa voce non è fosca, non è usurpata
da Boccaccio, Petrarca et altri probati autori i^^. Non si scrive [87]
"homo", ma "omo"; non "honore", ma "onore"; non "Polihim-
nio", ma "Poliinnio"»i°''. Con questo triomfa, si contenta di sé,
gli piaceno più ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da
l'alta specula 1*^5 remira, e considera la vita de gli altri uomini
suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie, fatiche inutili; solo
lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua
divinità nel specchio d'un spicilegio, un dizzionario, un cale-
pino, un lexico, un cornucopia, un Nizzolio''^^ Con questa suf-
ici. Lo «stile oratorio umile» è il primo dei tre genera dicendi che Cicerone
distingue nella sua tripartita varietas degli stili retorici (stile umile / stile medio
/ stile sublime).
102. «Non si sente l'odore di Cicerone (= l'Arpinate), rende insipida la par-
lata del Lazio». Si ricordi la satira anticiceroniana del Ciceronianus di Erasmo
(1528) ed in particolare come vi viene presentato il pedante Nosopono, anche
se Erasmo preferisce trarre la sua fraseologia piuttosto dal latino cristiano, che
dai luoghi classici, qui e altrove ridicolizzati da Bruno.
103. Queste parole rientrano, di solito, nei titoli di opere lessicografiche
coeve (cfr. ad esempio lo Spicilegium di L. G. Scoppa, edito per la prima volta
nel 1511, «ex ... multisque aliis probatissimis autoribus»).
104. Nella sua satira sopra il pedante. Bruno trova l'occasione di manife-
stare la sua opposizione alle proposte innovatrici dei grammatici contempora-
nei (Trissino, Tolomei, Varchi e Salviati). I «Grammatici» e «Pedanti» descritti
da T. Garzoni, Piazza universale, ed. Cherchi-Collina cit, p. 163, si chiedono a
loro volta: «se Vh è lettera o veramente nota d'aspirazione».
105. Cfr. Virgilio, Aen., Ili, 239; X, 454.
106. Cfr. G. Bruno, De minimo. III, i, Op. lai., I, 3, p. 236 (ed. Monti cit,
p. 182). La stessa presentazione caricaturale del pedante si leggeva già in
N. Franco, Dialoghi piacevoli cit, f. 51, e verrà in seguito ripresa da T. Garzoni,
Piazza universale, ed. Cherchi-Collina cit, pp. 158-169 (e cfr. ivi le note di P. Cher-
chi). - Spicilegio è un riferimento all'op. cit di L. G. Scoppa. - Calepino: dal nome
del lessicografo Ambrogio Calepino, autore di un Dictionarium (la cui prima edi-
zione risale a prima del 15 io), ristampato nel XVI secolo tanto spesso che «cale-
pino» divenne sinonimo di «dizionario» (cfr. L. Balsamo, // dizionario di A. Ca-
lepino, «La Bibliofilia» [Firenze], LXXX, 1978, p. 94; A. Gallina, Contributi alla
storia della lessicografia italo-spagnola dei secoli XVI e XVII, Firenze, 1959, cap. 7).
- Cornucopia (il mitico «corno dell'abbondanza»): allusione a N. Perotti, Cornu-
copiae sive commentaria linguae latinae, Venetia, 1489, con frequenti riedizioni nel
XV e XVI secolo (cfr. A. Mercati, Per la cronologia della vita e degli scritti di N.
Perotti Arcivescovo diSiponto, Roma, 1925). In Dolce, Ragazzo, II, 6, il pedante cita
la «cornucopia» ed il «calepino» come autorità linguistiche. - Nizzolia cioè il
fortunato lessico ciceroniano composto da Mario Nizzoli, Observationum in M.
T. Ciceronem Prima [Secunda] Pars, Prato Alboino, 1535, e successive edizioni col
titolo di Thesaurus ciceronianus (cfr. Q. Breen, Introduction a M. NizoLio, De veris
principiis, Roma, 1956, pp. XV-LXXIV; A. Gallina, Contributi cit, cap. 14).
638 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ficienza dotato, mentre ciascuno è uno, lui solo è tutto. Se avien
che rida, si chiama Democrito; s'avien che si dolga, si chiama
Eraclito ^^^; se disputa, si chiama Crisippo; se discorre, si noma
Aristotele; se fa chimere, si appella Platone; se mugge un ser-
moncello, se intitula Demostene; se construisce Virgilio, lui è il
Marone^o^. Qua correge Achille, approva Enea, riprende Ettore,
esclama centra Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno,
iscusa Didone 1°^, comenda Acate, et in fine mentre verhum verbo
reddit^^'^ et infilza salvatiche sinonimie, nihil divinum a se alie-
num putat^^^: e cossi borioso smontando da la sua catedra, come
colui ch'ha disposti i cieli, regolati i senati, domati eserciti, ri-
formati i mondi, è certo che se non fusse l'ingiura del tempo,
farrebe con gli effetti quello che fa con l'opinione. O tempora, 0
mores\^^^ Quanti son rari quei che intendeno la natura de par-
ticipii, de gli adverbii, delle coniunczioni. Quanto tempo è
scorso che non s'è trovato la raggione e vera causa, per cui
l'adiectivo deve concordare col sustantivo, il relativo con l'an-
tecedente deve coire, e con che regola ora si pone avanti, ora
[89I addietro '1^ de l'orazione; e con che misure e quali ordini vi s'in-
107. Tema classico (cfr. Seneca, De ira. II, X, 5; Giovenale, Sai., X, 28-30;
Luciano, Vitanim audio, XII [533]) e, successivamente, umanistico (cfr.
L. Carbone, Facezie, edite da A. el K. Salza, Livorno, 1900, XXXI, p. 29; Era-
smo DA Rotterdam, Elogio della follia, ed. Garin cit., p. 4 e nota 2), già utiliz-
zato a proposito del pedante da N. Franco, Dialoghi piacevoli, f. ^1^. Cfr. inol-
tre A. Fregoso, Riso de Democrito e pianto de Heraclito, più volte ristampato
nel XVI secolo. Sul tema del riso di Democrito in età classica, cfr. Ippocrate,
Sul riso e la follia, a cura di Y. Hersant, Palermo, 1991; P. Guaragnella, Le
maschere di Democrito e Eraclito, Bari, 1990; N. Ordine, La cabala dell'asino cit,
p. 115-116 e 159; T. Rutten, Demokritlachender Philosoph und sanguinischer
Melancholiker, Leiden, 1992.
108. Raddoppiamento satirico del nome del grande poeta latino Virgilio
Marone.
109. Cfr. Giovenale, Sat., VI, 435, ed. in Persio-Giovenale, Satire, a cura
di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino, 1979, pp. 280-281: «... periturae ignoscit
Elissae» («Giustifica Didone risoluta al suicidio»).
no. «Traduce parola per parola».
111. «Ritiene che tutto ciò che capita agli dèi tocchi anche a lui». Parafrasi
parodica di Terenzio, Heautontimoroumenos, I, i, yj: «Homo sum; nihil hu-
mani a me alienum puto» (traduz. di V. Soave, Torino, 1953, p. 106: «Sono un
uomo, e tutto ciò che capita agli uomini tocca anche a me»).
112. «Che tempi! che costumi!» (Cicerone, In Catil., I, 2, in Le orazioni, ed.
a cura di A. Bellardi, Torino, voi. II, 1981, pp. 686-687).
113. Doppio senso sessuale nello stile di P. Aretino. Sei giornate, I, 2, ed.
Aquilecchia cit., p. 82: «quei della scuola vogliono che il K si metta dietro al
libro, e non dinanzi», preparato - poco più in alto - dal verbo coire (lett:
«congiungersi») e amplificato dalle successive «interieczione dolenfis, gauden-
DIALOGO PRIMO 639
termesceno quelle interieczione dolentis, gaudentis^^'^, «heu»,
«oh», «ahi», «ah», «hem», «ohe», «hui», et altri condimenti,
senza i quali tutto il discorso è insipidissimo?
Elitropio. — Dite quel che volete, intendetela come vi piace,
io dico che per la felicità de la vita è meglio stimarsi Creso et
esser povero, che tenersi povero et esser Creso. Non è più con-
venevole alla beatitudine aver una zucca, che ti paia bella e ti
contente 1^5^ che una Leda, una Elena, che ti dia noia e ti vegna
in fastidio? Che dumque importa a costoro l'esser ignoranti et
ignobilmente occupati, se tanto son più felici, quanto più sola-
mente piaceno a se medesimi? Cossi è buona l'erba fresca a
l'asino, l'orgio^'^ al cavallo, come a te il pane di puccia e la
perdice^^^; cossi si contenta il porco de le ghiande et il brodo ^^^
come un Giove de l'ambrosia e nettare. Volete forse toglier co-
storo da quella dolce pazzia, per la qual cura appresso ti derre-
bono rompere il capo? Lascio che, chi sa se è pazzia questa, o
quella? Disse un pirroniano: «Chi conosce se il nostro stato è
morte, e quello di quei che chiamiamo defunti è vita?»'^^. Cossi
chi sa se tutta la felicità e vera beatitudine consiste nelle debite
copulazioni et apposizioni de membri de l'orazioni?
Armesso. — Cossi è disposto il mondo: noi facciamo il Demo-
crito sopra gli pedanti e grammatisti, gli solleciti cortegiani
fanno il Democrito sopra di noi, gli poco penserosi monachi e
tis»: cfr. G. Bruno, Spaccio, Dialogo terzo, p. 330: «Perché l'adiettivo accade
che si pona davanti et appresso al sostantivo?».
114. Cfr. J. Despautères, Commentarti Grammatici, Paris, 1537, p. 19, che
redige un elenco di queste interiezioni: «heu» (dolentis), «oh» (gaudentis), «ah»
(dolentis, exclamantis, expavescentis), «ohe» (satiati).
115. È da notare che il motto posto sul ritratto di John Florio, identifica-
bile col personaggio di Elitropio, era «Chi si contenta gode»; cfr. F. A. Yates,
/. Florio cit, p. 102 (il ritratto si vede oggi riprodotto in J. Florio, Giardino di
Ricreazione, a cura di L. Gallesi, Milano, 1993, p. 4).
116. Cfr. il francese «orge» ed il napoletano «vorgio».
117. Pane di puccia: così L. G. Scoppa, Spicilegium cit, traduce «Panis pri-
marius». — Perdice. latinismo che si ritrova in Sannazaro ed Ariosto.
118. Cfr. G. Bruno, De gli eroici furori, I, 4, p. 595: «Cossi il porco non può
desiderar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all'appetito umano ...
perché l'affetto seguita la raggion della specie».
119. Cfr. Diogene Laerzio, IX, 11, 72-73 (traduz. di M. Gigante, Roma-
Bari, voi. II, 1976, p. 384: «Ed Euripide dice: "Chi sa se il vivere non sia morire
e se il morire non sia quel che i mortali credono vita?»). G. Cardano, Prae-
cepta ad filios, cap. 5, art. 3, ed. L. Firpo, «Studia Oliveriana» [Pesaro], III, 1956,
p. 21: «Cogitate quod vita hominis mors est et mors vita».
640 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
preti democriteggiano 1^*^ sopra tutti; e reciprocamente gli pe-
[91] danti si beffano di noi, noi di corteggiani, tutti de gli monachi:
et in conclusione mentre l'uno è pazzo a l'altro, verremo ad es-
ser tutti differenti in specie, e concordanti in genere et numero et
FiLOTEO. — Diverse per ciò son specie e maniere de le cen-
sure; vani son gli gradi di quelle: ma le più aspre, dure, orribili
e spaventose son de gli nostri archididascali; però a questi do-
viamo piegar le ginocchia, chinar il capo, converter gli occhi et
alzar le mani, suspirar, lacrimar, esclamare e dimandar mer-
cede. A voi dumque mi rivolgo, o chi 1^2 portate in mano il ca-
duceo di Mercurio, per decidere ne le controversie, e determi-
nate le questioni ch'accadeno tra gli mortali e tra gli dèi; a voi
Menippi, ch'assisi nel globo de la luna con gli occhi ritorti e
bassi ne mirate, avendo a schifo e sdegno i nostri gesti; a voi
scudieri di Pallade, antesignani di Minerva, castaidi di Mercu-
rio, magnariii23 di Giove, collattanei d'Apollo, manuarii d'Epi-
meteo^^-^, botteglieri di Bacco, agasoni de le Evante^^^, fustiga-
tori de le Edonidei26^ impulsori de le Tiade'^^, subagitatori ^2*
de le Menadi, subomatori de le Bassaridi 1^^, equestri de le Mim-
120. È come dire «ridono della vanità del mondo». Democriteggiare (così
come il suo contrario: eraditizzare) è un verbo frequentemente usato nel Rina-
scimento: cfr. ad esempio F. Rabelais, Gargantiia, XX (traduz. di G. Nicoletti
in Id., Opere, Torino, voi. I, 1963, p. 75: in Ponocrate ed Eudemone «si vede-
vano rappresentati e Democrito eraclitizzante e Eraclito democritizzante»).
121. «In genere, in numero e in caso».
122. «O voi che». La stessa accezione ha il pronome relativo «chi» nel Can-
delaio, p. 422 e nello Spaccio, Dialogo terzo.
123. Cfr. L. G. Scoppa, Spicilegium, art. Magnarius.
124. Cfr. Calepino, Onomasticon, 1551: «Epimetheus ... Promethei frater,
qui ingenio valens, hominis statuam primus ex luto finxit».
125. Da Evoè, il grido delle baccanti.
126. Deliranti sacerdotesse di Bacco; il loro nome proviene dal monte
Edon, in Tracia.
127. Il thiasus era la danza in onore di Bacco, cfr. Virgilio, Aen., IV, 300-
303, ed. Carena cit, pp. 448-449: «Saevit inops animi totamque incensa per
urbem / bacchatur, qualis commotis excita sacris / Thyas, ubi audito stimu-
lant trieterica Baccho / orgia noctumusque vocat clamore Cithaeron» («[Dido-
ne] si scatena, priva di senno, e ovunque infiammata, per la città va infu-
riando, come al muoversi dei sacri arredi si eccita la tiade, quando, udito il
grido di Bacco, la pungola l'orgia triennale e col notturno grido la chiama il
Citerone»).
128. Dal latino subigitare («palpare»). Il senso erotico del termine - anche
in E. S. PiccoLOMiNi, Chrysis, XVIII - rimonta a Plauto (cfr. G. Vorberg,
Glossarium eroticum, Hanau Main, 1965).
129. Sacerdotesse di Bacco. Secondo L. G. Scoppa, Spicilegium, p. 108 D-E,
DIALOGO PRIMO 64 1
mallonidi^'°, concubinarii de la nimfa Egeria, correttori de l'in-
tusiasmo, demagoghi del popolo errante, disciferatori di Demo-
gorgone i^\ Dioscori de le fluttuanti discipline, tesorieri del Pan-
tamorfo^^^, e capri emissarii del sommo pontefice Aron^^^: a voi
raccomandiamo la nostra prosa, sottomettemo le nostre muse,
premisse, subsumpzioni, digressioni, parentesi, applicazioni,
clausule, periodi, costruzzioni, adiettivazioni, epitetismi. O voi
suavissimi aquarioli, che con le belle eleganzucchie ne furate
l'animo, ne legate il core, ne fascinate la mente, e mettete in [93]
prostribulo ^^"^ le meretricole anime nostre: riferite a buon con-
seglio i nostri barbarismi, date di punta a' nostri solecismi, tu-
rate le male olide voragini, castrate i nostri Sileni, imbracate gli
nostri Noemi 1^5^ fate eunuchi di nostri macrologi, rappezzate le
nostre eclipsi, affrenate gli nostri taftologi, moderate le nostre
acrilogie, condonate a nostre escrilogie, iscusate i nostri perisso-
esse prendevano questo nome da una lunga veste proveniente «a bassareo Ly-
diae loco» («da un luogo della Lidia chiamato Bassareo»).
130. Baccanti; cfr. Ovidio, Ars amatoria, I, 539, in Opere /. a cura di
A. Della Casa, Torino, 1982, pp. 520-521: «Ecce, Mimalonides sparsis in terga
capillis» («Ecco, le Mimallonidi con i capelli sparsi sulle spalle»); p. 541:
«Ebrius ecce senex ... Dum sequitur Bacchas, Bacchae fugiuntque petuntque,
Quadrumpedem ferula dum malus urget eques» («Ecco ubriaco il vecchio [Si-
leno] ... Mentre insegue le Baccanti, le Baccanti al tempo stesso fuggono e lo
assaltano, mentre, maldestro cavaliere, mette alla frusta il suo quadrupede»).
131. Interpreti di un'enigmatica divinità; cfr. Roscher, Lexicon, I, p. 987. D'al-
tra parte, l'interpretazione di G. Boccaccio, Genealogia, I, Prohemium, ed. a
cura di V. Romano, Bari, 1951, voi. I, pp. 13-15 («Demogorgon» significherebbe
«deorum omnium gentilium proavus»: «antenato di tutti gli dèi pagani») ri-
scosse grande successo durante il Rinascimento: cfr. M. M. Boiardo, Orlando
innamorato, II, 13, 26-29; L. Ariosto, Cinque canti, I, 4. Secondo A. NowiCKi,
Giovanni Bracesco e l'antropologia di Bruno, «Logos» [Napoli], 1969, pp. 589-627,
che studia la presenza di Demogorgon nelle opere di Boccaccio, Bracesco,
Bruno e Robert Fludd, l'espressione «disciferatori di Demogorgone» indica gli
alchimisti. Cfr. G. Bruno, Lampas triginta statuarum, «De Demogorgone, id est
habitudine seu relatione» nonché «Ex Demogorgonis atrio», Op. lai., Ili, pp.
131-135 e 251-252.
132. Vale a dire r«onniforme» oppure il «Principio di tutte le forme». Cfr.
Thesaurus graecae linguae: « navTÓ(xoQ(jjog; vitiose prò nuvxóuoQq^iog...» (con rin-
vio ad Ermes Trismegisto, Tract. XI, § 16). Cfr. G. Bruno, Spaccio, Dialogo
secondo, p. 285: «[L'avarizia] La mi par certo il pantamorfo de gli animali
bruti... è una bestia moltiforme». Si veda inoltre il riferimento tratto dalla ca-
bala ebraica air«infinitum aliquod principium, quod vocant ensoph, e quo sta-
tim emanat Primigenitus Pantamorphon, sive princeps facierum» nella tarda
Ars Magna di Elia Astorini (cfr. E. Garin, Dal Rinascimento alV Illuminismo,
Pisa, 1970, p. 145).
133. Cfr. Levitico, Vili, 18 e segg.
134. Dal latino «prostibulum» e dall'italiano «postribolo».
135. Ubriaco, Noè si era mostrato ignudo ai suoi figli; cfr. Genesi, IX, 22.
642 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
logi, perdonate a' nostri cacocefati'^^ Tomo a scongiurarvi tutti
in generale, et in particulare te, severo, supercilioso e salvaticis-
simo maestro Polihimnio: che dismettiate quella rabbia contu-
mace, e quell'odio tanto criminale, contra il nobilissimo sesso
femenile; e non ne turbate quanto ha di bello il mondo, et il
ciel con suoi tanti occhi scorge. Ritornate ritornate a voi, e ri-
chiamate l'ingegno, per cui veggiate che questo vostro livore
non è altro che mania espressa e frenetico furore. Chi è più in-
sensato e stupido, che quello che non vede la luce? Qual pazzia
può esser più abietta, che per raggion di sesso, esser nemico al-
l'istessa natura, come quel barbaro re di Sarza'^^, che per aver
imparato da voi, disse:
Natura non può far cosa perfetta,
poi che natura femina vien detta"*.
Considerate alquanto il vero, alzate l'occhio a l'arbore de la
scienza del bene et il male'^^, vedete la contrarietà et opposi-
zione ch'è tra l'uno e l'altro: mirate chi sono i maschi, chi sono
le temine. Qua scorgete per suggetto il corpo ch'è vostro amico,
maschio; là l'anima ch'è vostra nemica, femina. Qua il maschio
136. Per una definizione dei vizi del linguaggio menzionati qui da Bruno
(tutti termini ben attestati nel lessico greco della retorica), cfr. Donato, Ars
grammatica, ed. Keil, pp. 394 e segg. e J. Despautères, Commentarti Grammatici
cit., pp. 606 e segg. - Acrilogia: «discorso improprio»: escrilogia: «discorso
osceno o ingiurioso»; perissologia «discorso vanamente minuzioso»; cacocefator.
contaminazione burlesca dei sinonimi greci x.axócfatov e xaxé|i(paTov (o
xaxÉcpaiov) che significano «parola o discorso osceno».
137. Rodomonte, celebre personaggio àéìVOrlando furioso. Cfr. G. Bruno,
Cena, Dialogo secondo, p. 469 e nota 13.
138. Bruno ha leggermente mutilato due versi di L. Ariosto, Orlando fu-
rioso, XXVII, 120, 7-8: «veggo che non può far cosa perfetta, / poi che Natura
femina vien detta».
139. Dietro questa allusione all'Albero del Paradiso, è questione della disci-
plina coltivata da Polihimnio stesso: la grammatica; tutta la dimostrazione che
segue è dunque satirica, poiché confuta la posizione del pedante, usando i suoi
stessi argomenti. Bruno esprime ciò che pensa realmente delle donne nell'epi-
stola a Sidney che apre De gli eroici furori In De la causa, la critica bruniana
va inquadrata nella satira contro il pedante (si veda l'inizio del Dialogo terzo ed,
in particolare, le equivalenze aristoteliche maschio = forma; femmina = ma-
teria), mentre, scrivendo a Sidney, Bruno parla più spiccatamente della donna
come di un soggetto per il quale non si addice la poesia lirica che dovrebbe
essere riservata all'esaltazione delle verità filosofiche. Nelle righe successive, si
ha il preambolo di un elogio della regina Elisabetta che, nonostante il carat-
tere iperbolico, è privo di ogni intenzione satirica.
DIALOGO PRIMO 643
caos, là la femina disposizione; qua il sonno, là la vigilia; qua il
letargo, là la memoria; qua l'odio, là l'amicizia; qua il timore, là [95]
la sicurtà; qua il rigore, là la gentilezza; qua il scandalo, là la
pace; qua il furore, là la quiete; qua l'errore, là la verità; qua il
difetto, là la perfezzione; qua l'inferno, là la felicità; qua Poli-
himnio pedante, là Polihimnia musai''°: e finalmente tutti vizii,
mancamenti e delitti son maschi; e tutte le virtudi, eccellenze e
boutadi son temine. Quindi la prudenza, la giustizia, la fortezza,
la temperanza, la bellezza, la maestà, la dignità, cossi si nomi-
nano cossi s'imaginano, cossi si descriveno, cossi si pingono,
cossi sono. E per uscir da queste raggioni teoriche, nozionali e
grammaticali convenienti al vostro argumento, e venire alle na-
turali, reali e prattiche: non ti deve bastar questo solo essempio
a ligarti la lingua e turarti la bocca, che ti farà confuso con
quanti altri sono tuoi compagni, se ti dovesse mandare a ritro-
vare un maschio megliore, o simile a questa diva Elizabetta^'''
che regna in Inghilterra; la quale per esser tanto dotata, essal-
tata, faurita^'^^, difesa e mantenuta da' cieli, in vano si forza-
ranno di desmetterla l'altrui paroli o forze? A questa dama,
dico, di cui non è chi sia più degno in tutto il regno, non è chi
sia più eroico tra nobili, non è chi sia più dotto tra togati ^^\
non è chi sia più saggio tra consulari? In comparazion de la
quale, tanto per la corporal beltade, tanto per la cognizion de
lingue da volgari e dotti, tanto per la notizia de le scienze et
arti, tanto per la prudenza nel governare, tanto per la felicitade
di grande e lunga autoritade, quanto per tutte l'altre virtudi
civili e naturali, vilissime sono le Sofonisbe, le Faustine, le Se-
mirami, le Didoni, le Cleopatre et altre tutte, de quali gloriar si
possano l'Italia, la Grecia, l'Egitto et altre parti de l'Europa et [97]
Asia per gli passati tempi? Testimoni mi sono gli effetti et il
fortunato successo, che non senza nobil maraviglia rimira il se-
colo presente; quando nel dorso de l'Europa, correndo irato il
Tevere, minaccioso il Po, violento il Rodano, sanguinosa la
Senna, turbida la Garonna, rabbioso l'Ebro, furibondo il Tago,
140. Cfr. Donato, Ars grammatica cit, p. 335: «masculinum, ut hic magi-
ster, femininum, ut haec Musa».
141. Un altro elogio di Elisabetta in Cena, Dialogo secondo, pp. 477-478.
142. Forma napoletana.
143. Gli universitari.
644 ^^ LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
travagliata la Mesa, inquieto il Danubio '•*■': ella col splendor de
gli occhi suoi per cinque lustri e più^'^^ s'ha fatto tranquillo il
grande Oceano, che col continuo reflusso e flusso, lieto e quieto
accoglie nell'ampio seno il suo diletto Tamesi; il quale fuor
d'ogni tema e noia, sicuro e gaio si spasseggia, mentre serpe e
riserpe per l'erbose sponde. Or dumque per cominciar da capo,
quali...
Armesso. — Taci taci Filoteo, non ti forzar di gionger acqua
al nostro Oceano, e lume al nostro sole: lascia di mostrarti ab-l
stratto (per non dirti peggio) disputando con gli absenti Poli-
himnii. Fatene un poco copia di questi presenti dialogi, a fine
che non meniamo ocioso questo giorno et ore.
Filoteo. — Prendete, leggete.
[99] Fine del primo dialogo
144. Allusione ad avvenimenti contemporanei: in Spagna, l'accanirsi del-
l'Inquisizione contro gli ebrei e contro i mussulmani; in Inghilterra, le perse-
cuzioni (qui taciute) contro i presbiteriani e contro i cattolici; in Francia, l'ot-
tava guerra di religione; nelle Fiandre, l'insurrezione contro Filippo lì; in Ger-
mania, i dissidi fra protestanti.
145. Il De la causa è del 1584, Elisabetta regna dal 1558.
DIALOGO SECONDO
Interlocutori
Dicsono Arelio, Teofilo, Gervasio, Polihimnio^
I. Diesano Arelio: lo scozzese Alexander Dicson, nato nel 1558 nella Kirk-
town di Errol (da cui il nome di Arelius) ottiene, nel 1577, il baccalaureato
nell'Università di Saint Andrews, da dove passa probabilmente a Parigi, come
scholar di Maria Stuart Lo si ritrova a Londra nel 1583 (lo stesso anno dell'ar-
rivo di Bruno), col titolo di gentleman; a partire dal 1584, fa parte della cerchia
di Robert Dudley, Earl of Leicester, a cui dedica il suo De umbra rationis,
stampato a Londra da Vautrollier (a lungo considerato l'editore di Bruno), con
la data del 1583, che va però intesa 1584 stile moderno (e ristampato a Leyden,
1597, col titolo di Thamus). Dicson frequenta dunque la corte di Elisabetta
nella stessa epoca di Bruno; i suoi rapporti col Nolano al momento della com-
posizione del De la causa sono, quindi, attestati tanto sul piano politico-di-
plomatico (Bruno era in contatto con Leicester, cfr. Cena, Dialogo secondo,
p. 478), sia sul piano intellettuale (il De umbris rationis di Dicson deve molto al
De umbris idearum bruniano e questi due testi presentano un metodo mnemo-
nico opposto al metodo di Ramo). Per di più, Dicson e Bruno sono oggetto
della stessa «scomunica» da parte del teologo puritano e ramista di Cambridge
William Perkins, nella dedicatoria déW Antidicsonus e nel Libellus de memoria,
Londini, 1584, scritti che si oppongono al De umbra rationis. Di fronte agli
attacchi che il suo discepolo Dicson subisce ad opera dei ramisti di Cambridge
(e che portano Dicson a pubblicare, nel 1584, sotto lo pseudonimo di Heius
Scepsius una Defensio prò Alexandro Arelio, ambigua nei confronti di Ramo),
Bruno reagì violentemente - cfr. infra. Dialogo terzo, p. 676 - anche se il suo
antiramismo è, comunque, già manifesto a partire dalle sue prime prese di
posizione ad Oxford. Per ulteriori informazioni biografiche e bibliografiche su
Dicson cfr., oltre che i materiali ora raccolti in G. Aquilecchia, Schede bru-
niane, Manziana, 1993, pp. 136-137, 273-278, 294-295, R. Sturlese, Un nuovo
autografo del Bruno, con una postilla sul "De umbra rationis " di A. Dickson, « Ri-
nascimento» [Firenze], XXVIL 1987, pp. 387-391 e i contributi di M. Fiutoni e
S. Clucas, in: Giordano Bruno 158J-1585. The English Experience, Firenze, 1997,
pp. 28-29, 37"59- ^it^ Sturlese ha reperito tre esemplari di stampe originali di
Bruno che recano la firma di Dicson: De la causa (Oldenburg); Spaccio
(Washington); De l'infinito (Glasgow, University Library), dove si può leggere,
al verso dell'ultima pagina, il motto: «Il vostro malignare non gioua nulla»,
che riporta probabilmente alla rottura prodottasi tra Dicson e Bruno dopo la
pubblicazione del De la causa (si veda G. Aquilecchia, Le opere italiane di
G. Bruno: Critica testuale e oltre, Napoli, 1991, pp. 87-97. cui si riallaccia M. A.
Granada, Introduction a G. Bruno, De l'infini, de Vunivers et des mondes, Paris,
^995' PP- ^^11 6 segg.). La questione è tuttavia passibile di ulteriore sviluppo,
646 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
[DicsoNO]. - Di grazia, maestro Polihimnio, e tu Gervasio,
non interrompete oltre i nostri discorsi.
Polihimnio. - Fiat^.
Gervasio. — Se costui, che è il magister, parla, senza dubio io
non posso tacere.
DicsoNO. — Sì che dite. Teofilo, che ogni cosa che non è
primo principio e prima causa, ha principio et ha causa? ^
Teofilo. - Senza dubio, e senza controversia alcuna.
DicsoNO. — Credete per questo che chi conosce le cose cau-
sate e principiate, conosca la causa e principio?
Teofilo. — Non facilmente la causa prossima e principio
prossimo; difficilissimamente (anco in vestigio) la causa e prin-
cipio primo-^.
DicsoNO. - Or come intendete che le cose che hanno causa e
[loi] principio primo e prossimo, siano veramente conosciute, se se-
condo la raggione della causa efficiente (la quale è una di quelle
che concorreno alla real cognizione de le cose) sono occolte?
Teofilo. - Lascio che è facil cosa ordinare la dottrina de-
mostrativa, ma il demostrare è difficile. Agevolissima cosa è or-
dinare le cause, circostanze e metodi di dottrine: ma poi mala-
mente gli nostri metodici et analitici' metteno in esecuzione i
loro organi, principii di metodi et arte de le arti^.
coincidendo le parole di Dicson col motto che si trova impresso nella divisa
tipografica di edizioni londinesi di John Wolf, tra le quali, segnatamente, nello
stesso anno della stampa charlewoodiana del De l'infinito bruniano, / Discorsi e
n prencipe di Machiavelli (cfr. G. Aquilecchia, Paralipomeno nella documenta-
zione su Bruno in Inghilterra, «Bruniana & Campanelliana» [Pisa- Roma], II,
1996, pp. 359-360). - Teofilo è il «fidel relatore della nolana filosofia» (Dialogo
quinto, p. 746). - Gervasio è un personaggio secondario non identificato, senza
personalità, la cui funzione è di far trapelare l'ottusità del pedante; sull'uso di
tale nome per designare Io stupido, cfr. B. Migliorini, Dal nome proprio al
nome comune, Genève, 1927, p. 22 («Gervasius»). - Polihimnia il pedante de-
scritto nel Dialogo primo, p. 635, nota 93.
2. «Sia».
3. Platone, Phaedrus. 245 d.
4. Distinzione aristotelica e scolastica fra la causa prima (Dio) e le cause
seconde.
5. Allusione agli Analitici, dove Aristotele espone la sua teoria della dimo-
strazione.
6. Definizione tradizionale della filosofia come «CTiorriiiii ÈjrioTTinwv»,
«T8XVIÌ xeyvwv». Secondo E. Namer, c'è un'allusione probabile all'ars magna di
Ramon LluU (cfr. la sua traduz. di G. Bruno, Cause, principe et unite, Paris,
1930 [nuova ed., Paris, 1982, p. 82, nota 4]).
DIALOGO SECONDO 647
Gervasio. — Come quei che san far sì belle spade, ma non le
sanno adoperare.
PoLiHiMNio. - Ferme.
Gervasio. — Fermati te siano gli occhi ^, che mai le possi
aprire.
Teofilo. — Dico però che non si richiede dal filosofo naturale,
che ammeni tutte le cause e principii: ma le fisiche sole, e di que-
ste le principali e proprie. Benché dumque, perché dependeno
dal primo principio e causa, si dicano aver quella causa e quel
principio, tutta volta non è sì necessaria relazione, che da la co-
gnizione de l'uno s'inferisca la cognizione de l'altro: e però non si
richiede che vengano ordinati in una medesma disciplina.
DicsoNO. - Come questo?
Teofilo. — Perché dalla cognizione di tutte cose dependenti
non possiamo inferire altra notizia del primo principio e causa,
che per modo men efficace che di vestigio: essendo che il tutto
deriva dalla sua volontà o bontà, la quale è principio della sua [103]
operazione, da cui procede l'universale effetto. Il che medesmo
si può considerare ne le cose artificiali, in tanto che chi vede la
statua, non vede il scultore; chi vede il ritratto di Elena, non
vede Apelle*^: ma vede lo effetto de l'operazione, che proviene
da la bontà de l'ingegno d'Apelle (il che tutto è uno effetto de
gli accidenti e circostanze de la sustanza di quell'uomo, il quale
quanto al suo essere assoluto non è conosciuto punto).
DicsoNO. — Tanto che conoscere l'universo, è come conoscer
nulla dello essere e sustanza del primo principio, per che è
come conoscere gli accidenti de gli accidenti.
Teofilo. — Cossi; ma non vorei che v'imaginaste ch'io in-
tenda in Dio essere accidenti, o che possa esser conosciuto come
per suoi accidenti.
7. Il fraintendimento di Gervasio sull'avverbio latino ferme (che vuol dire
«press'a poco») lascia pensare che il personaggio fosse immaginato come fran-
cese; accentata nelle antiche stampe sull'ultima sillaba, la parola ferme era pro-
babilmente pronunciata come un'ossitona.
8. Sembra che qui Bruno confonda Apelle e Zeusi (cfr. Cicerone, De inven-
tione, II, i); la stessa confusione in De gli eroici furori, I, 5, p. 630: «come av-
venne nel geno solo della corporal bellezza di cui le condizioni tutte non le
potè approvare Apelle in una, ma in più vergini». Per contro, l'equivoco è
evitato in G. Bruno, De vinculis in genere, Op. lai., Ili, p. 660 (traduz. di A.
Biondi, Pordenone, 1986, p. 125: «Zeusi che compose la sua Elena di parecchie
fanciulle di Crotone»).
040 DE LA CAUSA, PRIN'CIPIO ET UNO
DicsONO. — Non vi attribuisco sì duro ingegno, e so che altro
è dire essere accidenti, altro essere suoi accidenti, altro essere
come suoi accidenti ogni cosa che è estranea dalla natura di-
vina. Nell'ultimo modo [di] dire credo che intendete essere gli
effetti della divina operazione; li quali quantumque siano la su-
stanza de le cose, anzi e ristesse sustanze naturali, tutta volta
sono come accidenti remotissimi, per fame toccare la cogni-
zione apprehensiva della divina sopranaturale essenza.
Teofilo. - Voi dite bene.
DicsoNO. — Ecco dumque che della divina sustanza, sì per
essere infinita, sì per essere lontanissima da quelli effetti, che
sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facul-
[105] tade, non possiamo conoscer nulla, se non per modo di vestigio
come dicono i Platonici^, di remoto effetto come dicono i Peri-
patetici, di indumenti come dicono i Cabalisti 1°, di spalli o po-
steriori come dicono i Talmutisti'^ di spechio, ombra et
enigma come dicono gli Apocaliptici '^.
9. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, I, 3, in Opere, a cura di G. Federici-
Vescovini, Torino, 1972, p. 60: «Quod praecisa veritas sit incomprehensibilis»
(«La verità precisa è incomprensibile»).
10. Cfr. Zohar, 1. 19 b-20 a: «Il Santo benedetto vide come inevitabile mettere
al mondo queste cose per dargli sussistenze per mezzo di esse, di modo che fosse,
per così dire, un cervello — un nocciolo - con intomo ad esso molte membrane
- gusci — . Il mondo intero, sia quello di sopra sia quello di sotto, si fonda su
questo principio, dal punto supremo mistico fino ai gradi più lontani, che sono
tutti l'uno il rivestimento dell'altro, cervello entro il cervello, spirito entro lo spi-
rito, guscio entro il guscio. Il punto supremo originario è la luminescenza intima,
incommensurabilmente traslucida, sottile e pura, tanto che non la si comprende:
quando si diffonde, diventa un "palazzo" che riveste il punto con una lumine-
scenza anch'essa inconoscibile perché traslucida oltre ogni dire. Il palazzo, vesti-
mento del punto originario inconoscibile, è anch'esso una luminescenza incom-
mensurabile e tuttavia meno sottile e meno traslucida di quel punto originario
mistico. Il palazzo si diffonde con l'effusione della luce primordiale, che è il suo
abito. Di qui in poi vi è estensione oltre estensione, ognuna che forma il vestimen-
to della precedente, come la membrana per il cervello: ognuna è guscio di ciò che
la precede e nocciolo di ciò che viene dopo» (traduz. di E. Loewenthal in: Zohar.
Passi scelti della Qabbalah, a cura di G. Scholem, Torino, 1998, p. 6).
11. Cfr. Esodo, XXXIII, 20-23, sulla visione di Jehovah da parte di Mosè.
Com'è spiegato — S. Tommaso d'Aquino, Somma teologica. I, q. 12, ari 11 (tra-
duz. e commento a cura dei Domenicani italiani, testo latino dell'Ed. Leonina,
Firenze, voi. I, 1964, pp. 280-285) - le parole della Scrittura significano che
l'uomo non può vedere Dio per essenza (la sua «faccia»), ma solo attraverso i
suoi effetti (le «terga»).
12. Cfr. S. Paolo, I Corinzi. 12: «Ora vediamo come in uno specchio, in
immagine; ma allora vedremo faccia a faccia». Bruno chiama dunque Apoca-
liptici i profeti in generale, poiché la concezione del mondo come specchio
o come enigma si trova più in san Paolo che in san Giovanni. Cfr. inoltre
DIALOGO SECONDO 649
Teofilo. — Anzi di più; perché non veggiamo perfettamente
questo universo di cui la sustanza et il principale è tanto difficile
ad essere compreso, avviene che assai con minor raggione noi co-
nosciamo il primo principio e causa per il suo effetto, che Apelle
per le sue formate statue possa essere conosciuto: per che queste le
possiamo veder tutte, et essaminar parte per parte; ma non già il
grande et infinito effetto della divina potenza: però quella simili-
tudine deve essere intesa senza proporzionai comparazione i^.
DicsONO. - Cossi è, e cossi la intendo.
Teofilo. — Sarà dumque bene d'astenerci da parlar di sì alta
materia.
DicsoNO. — Io lo consento, perché basta moralmente e teolo-
galmente conoscere il primo principio in quanto che i superni
numi hanno revelato, e gli uomini divini dechiarato. Oltre che
non solo qualsivoglia legge e teologia, ma ancora tutte rifor-
mate filosofie conchiudeno esser cosa da profano e turbulento
spirto, il voler precipitarsi a dimandar raggione e voler definire
circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza.
Teofilo. - Bene: ma non tanto son degni di riprensione co-
storo, quanto son degnissimi di lode quelli che si forzano alla [107]
cognizione di questo principio e causa, per apprendere la sua
grandezza quanto fia possibile discorrendo con gli occhi di re-
golati sentimenti, circa questi magnifici astri e lampegianti
corpi, che son tanti abitati mondi, e grandi animali, et eccellen-
tissimi numi, che sembrano e sono innumerabili mondi non
molto dissimili a questo che ne contiene i"*; i quali essendo im-
possibile ch'habbiano l'essere da per sé, atteso che sono compo-
sti e dissolubili (benché non per questo siano degni d'essemo
disciolti, come è stato ben detto nel TimeoY^, è necessario che
conoscano principio e causa: e consequentemente con la gran-
S. Tommaso d'Aquino, Somma teologica, I, q. 12, art. 2 (ed. cit., pp. 250-253):
«Se l'essenza di Dio sia veduta dall'intelletto creato per mezzo di una qualsiasi
immagine», e G. Bruno, Furori, II, 4, p. 732, «questo stato detto ... dal teologo
"vision per similitudine speculare et enigma"».
13. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, I, 3, ed. Federici-Vescovini cit.,
p. 60: «Non c'è proporzione dell'infinito col finito».
14. Cfr. lo sviluppo di questo punto in Cena, Dialogo terzo, pp. 509 e segg.
15. Cfr. Platone, Timaeus. 41 a-b; G. Bruno, Cena, Dialogo quinto, p. 556:
«Ma ad costoro (come crede Platone nel Timeo, e crediamo ancor noi) è stato
detto dal primo principio: "Voi siete dissolubili, ma non vi dissolverete"»; De
immenso, II, 5, Op. lat, I, i, p. 274 (ed. Monti cit, p. 479).
650 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
dezza del suo essere, vivere et oprare, monstrano e predicano in
un spacio infinito, con voci innumerabili, la infinita eccellenza
e maestà del suo primo principio e causa '^ Lasciando dumque
(come voi dite) quella considerazione per quanto è superiore ad
ogni senso et intelletto, consideriamo del principio e causa per
quanto, in vestigio, o è la natura istessa, o pur riluce ne l'am-
bito e grembo di quella. Voi dumque dimandatemi per ordine,
se volete ch'io per ordine vi risponda.
DicsoNO. — Cossi farò. Ma primamente, per che usate dir
«causa» e «principio», vorei saper se questi son tolti da voi
come nomi sinonimi.
Teofilo. - Non.
DicsoNO. — Or dumque che differenza è tra l'uno e l'altro
termino?
Teofilo. — Rispondo che quando diciamo Dio primo princi-
[log] pio e prima causa, intendiamo una medesma cosa con diverse
raggioni; quando diciamo nella natura principii e cause, di-
ciamo diverse cose con sue diverse raggioni. Diciamo Dio primo
principio in quanto tutte cose sono dopo lui secondo certo or-
dine di priore e posteriore, o secondo la natura, o secondo la
durazione, o secondo la dignità. Diciamo Dio prima causa, in
quanto che le cose tutte son da lui distinte come lo effetto da
l'efficiente, la cosa prodotta dal producente. E queste due rag-
gioni son differenti, perché non ogni cosa che è priore e più
degna, è causa di quello che [è] posteriore e men degno; e non
ogni cosa che è causa, è priore e più degna di quello che è cau-
sato, come è ben chiaro a chi ben discorre.
DicsoNO. — Or dite in proposito naturale, che differenza è tra
causa e principio?
Teofilo. — Benché alle volte l'uno si usurpa per l'altro'^,
nulladimeno parlando propriamente, non ogni cosa che è prin-
16. Parafrasi del Salmo XVIII, 2.
17. Così Aristotele, per il quale «tutte le cause sono principi» (cfr. Metaph.,
V, I, 1013 a 17, ed. a cura di C. A. Viano, Torino, 1974, p. 298). Non è che,
talora, Aristotele non consideri l'àg/'l («principio») come la causa prima in
una serie di cause, operando così una distinzione con l'aixiov («causa») in ge-
nerale (cfr. De generatione et corriiptione. 324 a 27; Metaph., II, 2, 994 a i, ed. cit,
pp. 230-232), ma il più delle volte lo Stagirita utilizza i due termini come si-
nonimi, poiché, allo stesso tempo, le loro denotazioni sono identiche, mentre le
loro definizioni differiscono.
DIALOGO SECONDO 65 1
cipio, è causa: per che il punto è principio della linea, ma non è
causa di quella'^; l'instante è principio dell'operazione, [e non
causa dell'operazione]; il termine onde, è principio del moto, e
non causa del moto; le premisse son principio de l'argumenta-
zione, non son causa di quella. Però «principio» è più general
termino che «causa» ^'^.
DicsoNO. — Dumque strengendo questi doi termini a certe
proprie significazioni, secondo la consuetudine di quei che par-
lano più riformatamente, credo che vogliate che principio sia
quello che intrinsecamente concorre alla constituzione della
cosa, e rimane nell'effetto, come dicono la materia e forma, che [m]
rimagnono nel compostolo, o pur gli elementi da quali la cosa
viene a comporsi e ne' quali va a risolversi^i. Causa chiami
quella che concorre alla produzzione delle cose esteriormente,
et ha l'essere fuor de la composizione, come è l'efficiente et il
fine, al quale è ordinata la cosa prodotta.
Teofilo. — Assai bene.
DicsoNO. - Or poi che siamo risoluti de la differenza di que-
ste cose, prima desidero che riportiate la vostra intenzione circa
le cause, e poi circa gli principii. E quanto alle cause, prima
vorei saper della efficiente prima; della formale, che dite esser
congionta all'efficiente; oltre della finale, la quale se intende
motrice di questa ^2.
Teofilo. — Assai mi piace il vostro ordine di proponere. Or
quanto alla causa effettrice, dico l'efficiente fisico universale es-
sere l'intelletto universale, che è la prima e principal facultà de
l'anima del mondo, la quale è forma universale di quello.
DicsONO. - Mi parete essere non tanto conforme all'opinione
di Empedocle^^, quanto più sicuro, più distinto e più esplicato,
i8. Cfr. G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, V, «Principium» e
VI "Causa", Op. lai., I, 4, pp. 17-19 (risi Gregory-Canone cit., pp. 4-7).
19. S. Tommaso d'Aquino, Somma teologica, I, q. 33, art. 2 (ed. cit, Firenze,
voi. Ili, 1966, p. 149): «principium communius est quam causa».
20. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., II, 2, 194 a 15 e segg.
21. Sugli oToixeìa («elementi») dei filosofi naturalisti, cfr. Aristotele, Me-
taph., V, 3, 1014 a 33, ed. Viano cit, p. 301.
22. È la distinzione aristotelica fra cause materiali (cfr. Metaph., V, 2,
1013 a 24), formali (1013 a 26), efficienti (1013 a 29) e finali (1013 a 32). Cfr. ed.
Viano cit, p. 298.
23. Si tratta, in effetti, dell'opinione di Empedocle, come se la rappresenta-
vano i pensatori del Medio Evo (cfr. S. Munk, Mélanges de philosophie juive et
arabe, Paris, 1927, pp. 3, 241 e segg.).
652 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
oltre (per quanto la soprascritta mi fa vedere) più profondo:
però ne farete cosa grata di venire alla dechiarazion del tutto
per il minuto, cominciando dal dire che cosa sia questo intel-
letto universale.
Teofilo. - L'intelletto universale è l'intima, più reale e pro-
pria facultà e parte potenziale de l'anima del mondo^''. Questo è
uno medesmo, che empie il tutto, illumina l'universo et in-
[113J drizza la natura a produre le sue specie come si conviene; e
cossi ha rispetto alla produzzione di cose naturali come il no-
stro intelletto alla congrua produzzione di specie razionali. Que-
sto è chiamato da Pitagorici «motore» et «esagitator del univer-
so», come esplicò il poeta, che disse:
totamque infusa per arctus,
mens agitai molem, et toto se corpore miscet^^.
Questo è nomato da Platonici «fabro del mondo» 2^. Questo fa-
bro, dicono, procede dal mondo superiore (il quale è a fatto
24. La nozione di anima del mondo, presente nella filosofia platonica (cfr.
J. MOREAU, L'àme du monde de Platon aux Stoìciens, Paris, 1939) e nella patri-
stica greca, fu parimenti assai diffusa nel XII secolo, per via dell'uso che a quel
tempo venne fatto di autori come Calcidio, Macrobio e Virgilio, per non par-
lare di Platone (cfr. T. Gregory, L'«anima mundi» nella filosofia del XII secolo,
«Giornale critico della filosofia italiana» [Firenze], XXX, 1950, pp. 494-508).
La nozione venne riusata dal neoplatonismo rinascimentale, internamente a
un vagheggiato sincretismo platonico-cristiano (col relativo ricorso ai prisci
theologi - frammenti orfici ecc. -: cfr. D. P. Walker, Orpheus the Theologian and
Renaissance Platonists, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes»
[London], XVI, 1953, pp. 100-120), tendenza che mirava ad assimilare le per-
sone della Trinità cristiana ai princìpi metafisici (l'Uno, l'Intelletto e l'Essere)
della filosofia platonica e neoplatonica - segnatamente lo Spirito Santo al-
Vanima mundi - non andando lontano dal costituire un'eresia. Sulla conce-
zione bruniana, sostanzialmente estranea alla problematica teologica del-
Vanima mundi, cfr. G. Aquilecchia, Introduzione a «De la causa, principio et
uno», ora in Id., Schede bruniane cit, pp. 264-266.
25. Cfr. Virgilio, Aen., VI, 726-727, in Opere, a cura di C. Carena, Torino,
1971, pp. 568-569: «E, infusa in tutte le membra, una mente muove l'intera
massa e al grande corpo si mescola» (si noti che la lezione dei Mss. dà magno
invece di toto, che riproduce, forse, la vulgata); cfr. G. Bruno, De Magia mathe-
matica, XII, De anima mundi et mundanorum juxta priscorum magiam, Op. lat,
III, p. 497: «una mens infusa per ipsius artus universam molem exagitat, ut
dicit Pjrthagoras»; De Magia, Op. lat., III, p. 434 (traduz. Biondi cit, pp. 68-69).
Cfr. inoltre il terzo costituto (Venezia, 2 giugno 1592), in L. Firpo, Il processo di
G. Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma, 1993, p. 169.
26. Cfr. Platone, Timaeus, 28 e (ed. in Dialoghi politici, a cura di F.
Adomo, Torino, 1988, p. 739 e note 3-5); Plotino, Enn., Ili, 22, traduz. latina
di M. Ficino, Basileae, 1580, p. 256: «Intellectus ... infundens sui aliquid in
materiam, immobilis ipse quietusque consistens omnia fabricavit».
DIALOGO SECONDO 653
uno) a questo mondo sensibile che è diviso in molti: ove non
solamente la amicizia, ma anco la discordia^^, per la distanza
de le parti, vi regna. Questo intelletto, infondendo e porgendo
qualche cosa del suo nella materia, mantenendosi lui quieto et
inmobile, produce il tutto. È detto da Maghi ^s «fecondissimo de
semi», o pur «seminatore» 2'': per che lui è quello che impregna
la materia di tutte forme; e secondo la raggione e condizion di
quelle, la viene a figurare, formare, intessere: con tanti ordini
mirabili, li quali non possono attribuirsi al caso, né ad altro
principio che non sa distinguere et ordinare. Orfeo lo chiama
«occhio del mondo »^°, per ciò che il vede entro e fuor tutte le
cose naturali, a fine che tutto non solo intrinseca, ma anco
estrinsecamente venga a prodursi e mantenersi nella propria
simmetria. Da Empedocle è chiamato «distintore» ^\ come
quello che mai si stanca ne l'esplicare le forme confuse nel seno
della materia, e di suscitar la generazione de l'una dalla corroz-
zion de l'altra cosa. Plotino lo dice «padre e progenitore», per
che questo distribuisce gli semi nel campo della natura, et è il [115]
prossimo dispensator [de] le forme ^^. Da noi si chiama «artefice
27. Cfr. il NcLxog e la Oi^tóxTig di Empedocle (in H. Diels, Die Fragmente der
Vorsokratiker, Berlin, 1903, B 17, vv. 19-20).
28. Gli autori della tradizione ermetica.
29. Espressione ermetica; cfr. Corpus hermeticum, IX, 6, ed. a cura di A.-J.
Festugière, Paris, 1946 [2^ ed., Paris, 1972, p. 99]: «òyadòg i,wr]c, ytwgyòc,»
(«buon seminatore di vita»).
30. M. Pigino, Theologia Platonica, II, io B, Parisiis, 1559 [rist anastatica,
Hildesheim-New York, 1975, p. 29"^]: «Quapropter divina mens cum sit infi-
nita, merito nominatur ab Orphicis cìjieiqov ó[i[ia, id est, oculus infinitus»;
G. P. Valeriano, Hierogliphica, XXXIII, § Deus, Basilea, 1575, p. 234C: «... Deum
illum optimum maximum, mundi oculum, patrum luminum a Jacobo nuncu-
patum, omnia formositate transcendere omniaque gubemare, atque, ut ait
Apostolus, nihil eum latere...» (traduz. del p. Figliuccio senese, Venetia, 1602,
p. 481: «... Dio ottimo, e grandissimo, è l'occhio del mondo, padre di tutti i
lumi detto da S. Giacomo, tutte le cose con la sua bellezza trapassa, tutte le
cose governa. Et come dice l'Apostolo niente gli è celato...»); E. Wind, Misteri
pagani nel Rinascimento, traduz. di P. Bertolucci, Milano, 1971, figura n. 84,
illustrazione di Orapollo Quo modo Deum. La definizione è classica (cfr. Ovidio,
Metam., IV, 228), umanistica (cfr. G. Pico, Heptaplus), rinascimentale e bru-
niana (cfr. De compendiosa architectura, Op. lai., II, 2, p. 55: «Quid sol? "Oculus
mundi"» - «Cosa è il sole? "L'occhio del mondo"»).
31. «Forse il Bruno scambia Anassagora con Empedocle, poiché il concetto
di una Mente che distingue ciascuna cosa dal caos iniziale in cui tutte trovansi
confuse è proprio di Anassagora» (R. Amerio).
32. Cfr. M. FiciNO, ad Platini Enneades, IV, 4, 12, ed. cit., p. 407: «Formae
sive rationes rerum seminales in natura sunt ultima quaedam vestigia divino-
654 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
intemo», perché forma la materia, e la figura da dentro, come
da dentro del seme o radice manda et esplica il stipe, da dentro
il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brande, da
dentro queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura, intesse,
come di nervi, le frondi, gli fiori, gli frutti, e da dentro a certi
tempi richiama gli suoi umori da le frondi e frutti alle brance;
da le brance, a gli rami; da gli rami, al stipe; dal stipe alla ra-
dice: similmente ne gli animali spiegando il suo lavore dal seme
prima e dal centro del cuore, a li membri estemi, e da quelli al
fine complicando verso il cuore l'esplicate facultadi, fa come già
venesse a ringlomerare le già distese fila'\ Or se credemo non
essere senza discorso et intelletto prodotta quell'opera come
morta che noi sappiamo fengere con certo ordine et imitazione
ne la superficie della materia, quando scorticando e scalpel-
lando un legno, facciamo apparir l'effige d'un cavallo, quanto
credere debbiamo esser maggior quell'intelletto artefice, che da
l'intrinseco della seminai materia risalda l'ossa, stende le carti-
lagini, incava le arterie, inspira i pori, intesse le fibre, ramifica
gli nervi, e con sì mirabile magistero dispone il tutto? Quanto,
dico, più grande artefice è questo, il quale non è attaccato ad
una sola parte de la materia, ma opra continuamente tutto in
tutto? Son tre sorte de intelletto: il divino che è tutto, questo
[117I mundano che fa tutto, gli altri particolari che si fanno tutto;
perché bisogna che tra gli estremi se ritrove questo mezzo, il
quale è vera causa efficiente, non tanto estrinseca come anco
intrinseca, de tutte cose naturali.
DicsoNO. — Vi vorei veder distinguere come la intendete
causa estrinseca, e come intrinseca.
Teofilo. — Lo chiamo causa estrinseca perché come effi-
ciente non è parte de li composti e cose produtte; è causa intrin-
seca in quanto che non opra circa la materia e fuor di quella,
rum»; G. Bruno, Sigillus sigillorum, II, io, Qp. lai., II, 2, p. 202: «[Forma] Pater
formarumque dator appellatur» (traduz. di N. Tirinnanzi, Milano, 1997, p. 413:
«[La forma] è chiamata padre e datore delle forme»).
33. Per il significato di questo passo dal punto di vista della storia delle
scienze, cfr. W. Pagel, G. Bruno: the Philosophy of Circles and Circular Movement
of the Blood, «Journal of the History of Medicine» [New Haven], VI, 1951,
pp. 116-124. Passi analoghi in G. Bruno, De minimo, I, 3; De monade, II; De
rerum principiis; De Immenso, VI, 8 {Qp. lat.. I, 3, p. 142 = ed. Monti cit, p. 100;
I, 2, p. 347 = ed. cit, p. 309; II. pp. 521-522; I, 2, pp. 185-187 = ed. cit. pp.
712-713).
DIALOGO SECONDO 655
ma come è stato poco fa detto: onde è causa estrinseca per l'es-
ser suo distinto dalla sustanza et essenza de gli effetti, e perché
l'essere suo non è come di cose generabili e corrottibili, benché
verse circa quelle; è causa intrinseca quanto a l'atto della sua
operazione.
DicsoNO. - Mi par ch'abbiate a bastanza parlato della causa
efficiente. Or vorei intendere che cosa è quella che volete sia la
causa formale gionta a l'efficiente: è forse la raggione ideale? per
che ogni agente che opra secondo la regola intellettuale, non
procura effettuare, se non secondo qualche intenzione, e questa
non è senza apprensione di qualche cosa; e questa non è altro
che la forma de la cosa che è da prodursi: e per tanto questo
intelletto che ha facultà di produre tutte le specie, e cacciarle
con sì bella architettura dalla potenza della materia a l'atto, bi-
sogna che le preabbia tutte, secondo certa raggion formale,
senza la quale l'agente non potrebe procedere alla sua manifat-
tura; come al statuario non è possibile d'exequir diverse statue,
senza aver precogitate diverse forme prima. [119]
Teofilo. - Eccellentemente la intendete; per che voglio che
siano considerate due sorte di forme: l'una, la quale è causa,
non già efficiente, ma per la quale l'efficiente effettua; l'altra è
principio, la quale da l'efficiente è suscitata da la materia.
DicsoNO. - Il scopo e la causa finale la qual si propone l'ef-
ficiente, è la perfezzion dell'universo: la quale è che in diverse
parti della materia tutte le forme abbiano attuale existenza: nel
qual fine tanto si deletta e si compiace l'intelletto, che mai si
stanca suscitando tutte sorte di forme da la materia, come par
che voglia ancora Empedocle ^"^.
Teofilo. - Assai bene: e giongo a questo che sicome questo
efficiente è universale nell'universo, et è speciale e particulare
nelle parti e membri di quello, cossi la sua forma et il suo fine.
DicsoNO. - Or assai è detto delle cause: procediamo a raggio-
nar de gli principii.
Teofilo. — Or per venire a li principii constitutivi de le
cose, prima raggionarò de la forma per esser medesma in certo
34. «Il Bruno, attingendo a fonti medioevali, si riferisce forse indiretta-
mente ai w. del fr. 35 di Empedocle» (Gentile). Cfr. H. Diels, Die Fragmente
cit, B 35).
656 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
modo con la già detta causa efficiente: per che l'intelletto che è
una potenza de l'anima del mondo, è stato detto efficiente pros-
simo di tutte cose naturali.
DiCSONO. — Ma come il medesmo soggetto può essere princi-
pio e causa di cose naturali? come può aver raggione di parte
intrinseca e non di parte intrinseca?
Teofilo. — Dico che questo non è inconveniente, conside-
rando che l'anima è nel corpo come nochiero nella nave: il qual
nocchiero, in quanto vien mosso insieme con la nave, è parte di
[121] quella^'; considerato in quanto che la governa e muove, non se
intende parte, ma come distinto efficiente: cossi l'anima de
l'universo, in quanto che anima et informa, viene ad esser parte
intrinseca e formale di quello; ma come che drizza e governa,
non è parte, non ha raggione di principio, ma di causa. Questo
ne accorda l'istesso Aristotele: il qual quantumque neghi
l'anima aver quella raggione verso il corpo, che ha il nocchiero
alla nave'*^, tutta volta, considerandola secondo quella poten-
za con la quale intende e sape, non ardisce di nomarla atto e
forma di corpo; ma come uno efficiente separato dalla materia
secondo l'essere, dice che quello è cosa che viene di fuora, se-
condo la sua subsistenza, divisa dal composto ^^.
DicsoNO. — Approvo quel che dite, per che se l'essere sepa-
rata dal corpo alla potenza intellettiva de l'anima nostra con-
viene, e lo aver raggione di causa efficiente, molto più si deve
affirmare de l'anima del mondo; per che dice Plotino scrivendo
contra gli Gnostici, che «con maggior facilità l'anima del
35. Cfr. A. Mercati, Il sommario del processo di G. Bruno, Città del Vati-
cano, 1942, § 259, pp. 118-119: «Dove non intendo secondo l'ordine del mio
filosofare l'anima esser forma, come nessuno luogo della divina scrittura la
chiama così, ma spirito ch'è nel corpo bora come habitante nella sua casa...»;
questa posizione era considerata eretica, poiché il Concilio di Vienne (131 1-
1312) aveva riprovato «come erronea e contraria alla verità della fede catto-
lica, ogni dottrina o tesi che asserisce temerariamente, o revoca in dubbio, che
la sostanza dell'anima razionale o intellettiva non sia veramente e per sé la
forma del corpo umano» (cfr. Decisioni dei Concili ecumenici, a cura di G. Albe-
rigo, Torino, 1978, p. 333); cfr. G. Bruno, Spaccio. Epistola esplicatoria, p. 182;
De umbris idearum, Op. lat.. II, i, p. 42; Lampas triginta statuarnm. «De ulti-
ma et tertia praxi», «Ex campo Veneris», I, Op. lat.. Ili, p. 253 (cfr. inoltre
F. Tocco, Le opere inedite di G. Bruno. Napoli, 1891, pp. 57-61).
36. Cfr. Aristotele, De anima, II, 2, 413 a 8.9.
37. Ivi. Ili, 5, 430 a 17 e segg.
DIALOGO SECONDO 657
mondo regge l'universo, che l'anima nostra il corpo nostro »^^,
poscia è gran differenza dal modo con cui quella e questa go-
verna. Quella non come alligata regge il mondo di tal sorte, che
la medesma non leghi ciò che prende; quella non patisce da
l'altre cose né con l'altre cose; quella senza impedimento
s'inalza alle cose superne; quella donando la vita e perfezzione
al corpo non riporta da esso imperfeczione alcuna: e però eter-
namente è congionta al medesmo soggetto. Questa poi è ma-
nifesto che è di contraria condizione. Or se secondo il vostro
principio le perfeczioni che sono nelle nature inferiori, più alta- [123]
mente denno essere attribuite e conosciute nelle nature supe-
riori, doviamo senza dubio alcuno affirmare la distinzione che
avete apportata. Questo non solo viene affirmato ne l'anima del
mondo, ma anco de ciascuna stella, essendo (come il detto filo-
sofo vòle) che tutte hanno potenza di contemplare Mio, gli
principii di tutte le cose e la distribuzione de gli ordini de l'uni-
verso: e vòle che questo non accade per modo di memoria, di
discorso e considerazione: per che ogni lor opra è opra etema, e
non è atto che gli possa esser nuovo, e però niente fanno che
non sia al tutto condecente, perfetto, con certo e prefisso ordine,
senza atto di cogitazione^''; come per essempio di un perfetto
scrittore e citarista mostra ancora Aristotele, quando per questo
che la natura non discorre e ripensa, non vuole che si possa
conchiudere che ella opra senza intelletto et intenzion finale:
per che li musici e scrittori equisiti, meno sono attenti a quel
che fanno, e non errano come gli più rozzi et inerti, gli quali
con più pensarvi et attendervi, fanno l'opra men perfetta et
anco non senza errore-^".
Teofilo. — La intendete. Or venemo al più particolare. Mi
par che detrahano alla divina bontà et all'eccellenza di questo
grande animale e simulacro del primo principio, quelli che non
vogliono intendere né affirmare il mondo con gli suoi membri
38. Lo stesso titolo introdotto da Ficino nella sua traduzione di Plotino,
Enn., II, 9, 7, ed. cit., p. 205: Quomodo facilius anima mundi regat mundum, quam
anima nostra corpus nostrum.
39. Cfr. Plotino, Enn., II, 2, 2; IV, 4, 38 (ed. a cura di M. Casaglia, C. Gui-
delli, A. Linguiti, F. Moriani, Torino, 1997, 2 voli.: I, pp. 250-251 e II, p. 633).
40. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai, II, 8, 199 b 26-28; De anima, II, 415 b
16-17; Ethica ad Nicomachum, II, i, 1103 a 26-1103 b 2 (per il paragone con le
arti).
658 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
essere animato**'; come Dio avesse invidia alla sua imagine, 1
come l'architetto non amasse l'opra sua singulare: di cui dice I
Platone che si compiaque nell'opificio suo, per la sua similitu-
dine che remirò in quello"*^. E certo che cosa può più bella di
[125] questo universo presentarsi a gli occhi della divinità? et es-
sendo che quello costa di sue parti, a quali di esse si deve più
attribuire che al principio formale? Lascio a meglio e più parti-
colar discorso mille raggioni naturali oltre questa topicale o lo-
gica.
DicsoNO. — Non mi curo che vi sforziate in ciò, atteso non è
filosofo di qualche riputazione, anco tra Peripatetici, che non
voglia il mondo e le sue sfere essere in qualche modo anima-
te-*^ Vorei ora intendere con che modo volete che questa forma
venga ad insinuarsi alla materia de l'universo.
Teofilo. - Se gli gionge di maniera che la natura del corpo,
la quale secondo sé non è bella, per quanto è capace viene a
farsi partecipe di bellezza, atteso che non è bellezza se non con-
siste in qualche specie o forma, non è forma alcuna che non sia
prodotta da l'anima-*-*.
DicsoNO. — Mi par udir cosa molto nova: volete forse che
non solo la forma de l'universo, ma tutte quante le forme di
cose naturali siano anima?
Teofilo. - Sì.
DicsONO. — Sono dumque tutte le cose animate?
Teofilo. - Sì.
DicsoNO. - Or chi vi accordare questo?
Teofilo. - Or chi potrà riprovarlo con raggione?
DicsoNO. - E comune senso che non tutte le cose vivono.
[127] Teofilo. - Il senso più comune non è il più vero.
41. Per la teologia cristiana. Dio è causa diretta del mondo, senza l'apporto
di un'Anima del Mondo.
42. Cfr. Platone, Timaeiis, 29 e.
43. In Aristotele, effettivamente, esistono alcune allusioni ad una siffatta
«animazione» universale, ma si tratta di passi che devono essere interpretati
nel contesto in cui appaiono.
44. Si veda il titolo di Ricino a Plotino, Enn., I, 6, 2, ed. cit, p. 51: Pulchri-
tudo in corporibus est flos formae materiae superantis propter imperium idealis
rationis super materiam (cfr. l'ed. italiana cit., I, pp. igi-193): G. Bruno, De gli
eroici furori, I, 5, p. 611: «La raggion dumque apprende il più vero bello per
conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello; e
questa è l'anima che l'ha talmente fabricato e infigurato».
DIALOGO SECONDO 659
DicsoNO. — Credo facilmente che questo si può difendere. Ma
non bastarà a far una cosa vera per che la si possa difendere:
atteso che bisogna che si possa anco provare.
Teofilo. — Questo non è diffìcile. Non son de filosofì che
dicono il mondo essere animato? '•^
DicsONO. — Son certo molti, e quelli principalissimi.
Teofilo. — Or perché gli medesmi non diranno le parti tutte
del mondo essere animate?
DicsONO. — Lo dicono certo, ma de le parti principali e
quelle che son vere parti del mondo: atteso che non in minor
raggione vogliono l'anima essere tutta in tutto il mondo, e tutta
in qualsivoglia parte di quello"*"^, che l'anima de gli animali a
noi sensibili, è tutta per tutto.
Teofilo. - Or quali pensate voi che non siano parti del
mondo vere?
DicsONO. — Quelle che non son primi corpi come dicono i
Peripatetici: la terra con le acqui et altre parti, le quali, secondo
il vostro dire, constituiscono l'animale intiero, la luna, il sole et
altri corpi. Oltre questi principali animali son quei che non
sono primere parti de l'universo, de quali altre dicono aver
l'anima vegetativa, altre la sensitiva, altre la intellettiva.
Teofilo. - Or se l'anima per questo che è nel tutto, è anco
ne le parti, per che non volete che sia ne le parti de le parti? [129]
DicsONO. - Voglio, ma ne le parti de le parti de le cose ani-
mate.
Teofilo. — Or quali son queste cose che non sono animate, o
non son parte di cose animate?
DicsoNO. — Vi par che ne abbiamo poche avanti gli occhi?
Tutte le cose che non hanno vita.
45. Cfr. Aristotele, De anima, I, 5, 411 a 7 e segg.
46. Cfr. G. Bruno, De immenso, VII, 18, Of. lai., I, 2, p. 284: «anima ubique
est una, spiritus unus mundanus, totus in toto et qualibet sui parte» (ed. Monti
cit, p. 784: «Ovunque è un'unica anima, un unico spirito del mondo, tutto nel
tutto ed in qualsiasi sua parte»); Sigillus sigillorum, II, 3, Op. lai.. Il, 2, p. 196:
«... cum anima ubique praesens existat, illaque tota in toto et in quaecumque
parte tota...» (traduz. Tirinnanzi cit, p. 403: «giacché l'anima è presente dovun-
que, è tutta in tutto ed è tutta in qualsiasi parte»). Si veda altresì il titolo dato
da Ficino alla sua traduz. di Plotino, Enn., IV, 4, 36, ed. cit, p. 430: Una
mundi anima omnes licei aliter alias vegetai mundi partes, atque ipsa ... exundat in
ioium.
660 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Teofilo. — E quali son le cose che non hanno vita, al meno
principio vitale?
DiCSONO. - Per conchiuderia, volete voi che non sia cosa che
non abbia anima, e che non abbia principio vitale?
Teofilo. — Questo è quel ch'io voglio al fine.
POLIHIMNIO. — Dumque un corpo morto ha anima? dumque
i miei calopodii, le mie pianella, le mie botte, gli miei sproni et
il mio annulo e chiroteche-'^, serano animate? la mia toga et il
mio pallio, sono animati?
Gervasio. — Sì, messersì, mastro Polihimnio, per che non?
Credo bene che la tua toga et il tuo mantello è bene animato,
quando contiene un animai come tu sei dentro; le botte e gli
sproni sono animati, quando contegnono gli piedi; il cappello è
animato, quando contiene il capo, il quale non è senza anima; e
la stalla è anco animata quando contiene il cavallo, la mula o
ver la Signoria vostra. Non la intendete cossi Teofilo? non vi
par ch'io l'ho compresa meglio che il dominus magisteri "^^
Polihimnio. — Cuium pecusì-^'^ come che non si trovano de
gli asini etiam atque etiam^^^ sottili? hai ardir tu apirocalo'', abe-
[131] cedario, di volerti equiparare ad un archididascalo e moderator
di ludo minervale52 par mio?
Gervasio. — Pax vobis, domine magister, servus servorum et
scabellum pedum tuorum^^.
47. Calopodii: «zoccoli» oppure «pantofole» (cfr. J. Florio, New World of
Works, London, 161 1, p. 76); chiroteche, grecismo estemporaneo che significa
«guanti» (cfr. ivi, p. 99).
48. «Il signor maestro».
49. «Di chi è il gregge?»: modo di dire dei pedanti (cfr. Francesco Pugiella
cit da A. e K. Salza, Una commedia pedantesca del Cinquecento, in: Miscellanea
di studi critici edita in onore di A. Graf, Bergamo, 1903. p. 436, nota 2: «[I pe-
danti] che sempre mostrano masticare il cuius genus col cuium pecus»), messo
alla berlina da L. Dolce, Ragazzo, I, 5 e che proviene da un verso di Virgilio,
Bue, ITI, I, ed. Carena cit. pp. 86-87: «Die mihi, Damoeta, cuium pecus? an
Moeliboei?» («Dimmi, Dameta, di chi è questo gre^e? di Melibeo?»).
50. «Molte e molte volte».
51. Grecismo per dire «ignorante».
52. «Letterario»; cfr. Candelaio. I. 5. p. 289: «almo minervale gimnasio» e
ITI, 12, p. 342: «moderator di ludo literario».
53. «Pace a voi, signor maestro, [io sono] lo schiavo dei tuoi schiavi e lo
sgabello dei tuoi piedi». - Pax vobis: «Pace a voi» (cfr. Giovanni, XX, 19, 21,
26). - Servus servorum: «schiavo degli schiavi» (cfr. Genesi, IX, 25); Servus ser-
vorum Dei è, inoltre, uno dei titoli del Papa. - Scabellum pedum tuorum: «lo
sgabello dei tuoi piedi» è un'espressione ricorrente nella Bibbia, cfr. ad es.
Salmi, ex (CIX), i.
DIALOGO SECONDO 66l
PoLiHiMNio. — Maledicat te deus in secula seculorum^'*.
DicsONO. — Senza còlerà: lasciatene determinare queste cose
a noi.
PoLiHiMNio. - Prosequatur ergo sua dogmata Theophilus^^.
Teofilo. - Cossi farò. Dico dumque, che la tavola come ta-
vola non è animata, né la veste, né il cuoio come cuoio, né il
vetro come vetro, ma come cose naturali e composte hanno in
sé la materia e la forma. Sia pur cosa quanto piccola e minima
si voglia, ha in sé parte di sustanza spirituale; la quale, se trova
il soggetto disposto, si stende ad esser pianta, ad esser animale,
e riceve membri di qualsivoglia corpo, che comunmente se dice
animato: perché spirto si trova in tutte le cose, e non è minimo
corpusculo che non contegna cotal porzione in sé, che non ina-
nimi.
POLIHIMNIO. — Ergo quidquid est, animai est^^.
Teofilo. — Non tutte le cose che hanno anima si chiamano
animate.
DicsoNO. — Dumque al meno tutte le cose han vita?
Teofilo. — Concedo che tutte le cose hanno in sé anima,
hanno vita, secondo la sustanza, e non secondo l'atto et opera-
zione conoscibile da Peripatetici tutti, e quelli che la vita et [133]
anima definiscono secondo certe raggioni troppo grosse.
DicsoNO. — Voi mi scuoprite qualche modo verisimile con il
quale si potrebe mantener l'opinion d'Anaxagora, che voleva
ogni cosa essere in ogni cosa^^: perché essendo il spirto o ani-
54. «Ti maledica Dio per tutti i secoli», parafrasi parodica di Tobia, Vili, 5
e 15: «Benedetto sei tu. Dio dei nostri Padri; e benedetto per tutte le genera-
zioni il tuo nome! Ti benedicano i cieli e tutte le creature per tutti i secoli!».
55. «Che Teofilo continui dunque i suoi ragionamenti».
56. «Dunque, tutto ciò che è, è animale».
57. Cfr. G. Bruno, Lampas triginta statuarum, «De patre seu mente seu ple-
nitudine», XXIII, Op. lai.. Ili, p. 42: «Dicitur omnia in omnibus, ex qua ratione
quia ipse est totus ubique praesens, dixit Anaxagoras "omnia esse in omnibus";
quia qui est omnia, est in omnibus». Qui, come altrove (cfr. Sigillus sigillorum,
II, 3, Op. lai., II, 2, p. 196), Bruno accosta in modo arbitrario la dottrina neo-
platonica ed il pensiero di Anassagora. Sull'utilizzazione di tale tema anassa-
goreo — che gli proviene da N. Cusano (cfr. De doda ignorantia, II, 5, ed. Fede-
rici-Vescovini cit, p. 121: «Qualunque cosa in qualunque cosa») ritrovandosi
nei frammenti del filosofo greco (cfr. H. Diels, Fragmente cit, B 6, 8 e 11)
secondo Aristotele, Phys. Auscultai., Ili, 4, 203 a 19 e segg.; I, 4, 187 a 20 e
segg. - segnatamente in questo passo del De la causa, così come nel Dialogo
quinto del De l'infinito e nell'Argumento del Degl'heroici furori, cfr. A. NowiCKi,
Alchemiczna trésc mitów a filozoficzna antropologia G. Bruna, «Euhemer» [Wars-
662 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ma o forma universale in tutte le cose, da tutto si può produr
tutto.
Teofilo. — Non dico verisimile, ma vero: perché quel spirto
si trova in tutte le cose, le quali se non sono animali, sono ani-
mate; se non sono secondo l'atto sensibili d'animalità e vita,
son però secondo il principio e certo atto primo d'animalità e
vita. E non dico di vantaggio, perché voglio supersedere circa la
proprietà di molti lapilli e gemme: le quali rotte e recise e poste
in pezzi disordinati, hanno certe virtù, di alterar il spirto et in-
generar novi affetti e passioni ne l'anima, non solo nel corpo. E
sappiamo noi che tali effetti non procedeno, né possono prove-
nire da qualità puramente materiale, ma necessariamente si re-
feriscono a principio simbolico vitale et animale; oltre che il
medesmo veggiamo sensibilmente ne' sterpi e radici smorte, che
purgando e congregando gli umori, alterando gli spirti, mo-
strano necessariamente effetti di vita. Lascio che non senza cag-
gione gli necromantici 58 sperano effettuar molte cose per le ossa
de morti: e credeno che quelle ritegnano, se non quel medesmo,
un tale però e quale atto di vita, che gli viene a proposito a
effetti estraordinarii. Altre occasioni'^ mi faranno più a lungo
[135] discorrere circa la mente, il spirto, l'anima, la vita che penetra
tutto, è in tutto <'°, e move tutta la materia, empie il gremio di
quella, e la sopravanza più tosto che da quella è sopravanzata:
zawa], LXXIII, 1969, n. 3. Gli sviluppi del pensiero di Anassagora nel pensiero
bruniano sono stati studiati da R. Klein, La forma e l'intelligibile, traduz. ita-
liana, Torino, 1975, pp. 71-73.
58. Cfr. G. Bruno, Sigillus sigillorum, II, 4, Op. lai., II, 2, p. 197: «Mirto quod
Inter mathematica et physica debetur locus quorundam naturalium corporura
profluviis integrum characterem ad certam intercapedinem servantibus, qui-
bus quandoque Magi ad aliquem perdendum uti consuevere. Id sensit Heracli-
tus et Epicurus, Synesius et Proclus confirmavere, nos minime ignoramus, et
necromantici maxime experiuntur» (traduz. Tirinnanzi cit., p. 405: «Lascio poi
da parte il fatto che a metà tra gli enti matematici e quelli fisici si apre uno
spazio destinato ai flussi di certi corpi naturali, flussi che conservano un ca-
rattere immutabile rispetto ad una determinata interruzione; di questi furono
soliti servirsi di quando in quando i Magi per uccidere qualcuno. Mostrarono
consenso verso questa opinione Eraclito ed Epicuro, Sinesio e Proclo lo confer-
marono, noi stessi non ne siamo affatto all'oscuro e soprattutto ne fanno espe-
rienza i necromanti»). Cfr. F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno esposte e con-
frontate con le italiane. Firenze, 1889, pp. 81-82, nota 3.
59. Cfr. Dialogo quarto, ma anche De l'infinito ed il De immenso.
60. Cfr. G. Fracastoro, Fracastorius sive de anima, in Opera omnia. Vene-
tia, I574^ f. ^o\
DIALOGO SECONDO 663
atteso che la sustanza spirituale dalla materiale non può essere
superata, ma più tosto la viene a contenere^^
DicsoNO. — Questo mi par conforme non solo al senso di Pi-
tagora, la cui sentenza recita il Poeta quando dice:
Principio caelum ac terras camposque liquentes,
lucentemque globum lunae Titaniaque astra
spiritus intus alti, totamque infusa per arctus
mens agitai molem, totoque se carpare miscet^^;
ma ancora al senso del Teologo, che dice: «Il spirto colma et
empie la terra, e quello che contiene il tutto »^^. Et un altro
parlando forse del commercio de la forma con la materia e la
potenza, dice che è sopravanzata da l'atto e da la forma.
Teofilo. — Se dumque il spirto, la anima, la vita si ritrova
in tutte le cose, e secondo certi gradi empie tutta la materia,
viene certamente ad essere il vero atto, e la vera forma de tutte
le cose. L'anima dumque del mondo è il principio formale con-
stitutivo de l'universo, e di ciò che in quello si contiene; dico
che se la vita si trova in tutte le cose, l'anima viene ad esser
forma di tutte le cose: quella per tutto è presidente alla materia,
e signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consi-
stenzia de le parti '^. E però la persistenza non meno par che si
convegna a cotal forma, che a la materia. Questa intendo essere
una di tutte le cose; la qual però secondo la diversità delle di-
sposizioni della materia, e secondo la facultà de principii mate-
riali attivi e passivi ^5, viene a produr diverse figurazioni et ef- [137]
fettuar diverse facultadi, alle volte mostrando effetto di vita
61. Cfr. Plotino, Enn., IV, 3, 20-23 ^^ ^^^ il titolo di VI, 4, 2, nella traduz.
latina di Ficino cit., p. 645: «Mundus intelligibilis, id est ens primum est ve-
runi, universum atque magnum, quoniam et cuncta entia est, et est in quolibet
sui totum, nec est in universo. Et quum dicitur ubique esse, est ipsum quod
appellatur ubique. Mundus vero sensibilis est vere parvus, quia ubique constat
ex parvis. Atque est in mundo superiore non tanquam in loco continente, nec
tanquam in intervallo quodam vacuo, sed tanquam in efficiente, servante, si-
stente, movente, comprehendente...».
62. Cfr. Virgilio, Aen., VI, 724-727, ed. Carena cit., pp. 568-569: «Da prin-
cipio il cielo e la terra e le piane liquide e il luminoso globo della luna e il
titanico astro uno spirito all'interno vivifica e, infuse in tutte le membra, una
mente muove l'intera massa e a [tutto] il corpo si mescola».
63. Salomone, nella Sapienza, I, 7.
64. Cfr. Plotino, Enn., IV, 7, 9 (ed. italiana cit., voi. II, pp. 685-686).
65. Da una parte, il caldo e il freddo. Dall'altra, l'umido e il secco.
664 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
senza senso, tal volta effetto di vita e senso senza intelletto, tal
volta par ch'abbia tutte le facultadi suppresse e reprimute o
dalla imbecillità o da altra raggione de la materia ^^. Cossi mu-
tando questa forma sedie e vicissitudine, è impossibile che se
annulle: perché non è meno subsistente la sustanza spirituale
che la materiale. Dumque le formi esteriori sole si cangiano, e si
annullano ancora, perché non sono cose, ma de le cose; non
sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze.
PoLiHiMNio. - Non entra sed entium^'^.
DicsONO. - Certo se de le sustanze ^^ s'annullasse qualche
cosa, verrebe ad evacuarse il mondo ^^.
Teofilo. - Dumque abbiamo un principio intrinseco for-
male, etemo e subsistente, incomparabilmente megliore di
quello che han finto gli sofisti ^^, che versano circa gli accidenti,
ignoranti della sustanza de le cose; e che vengono a ponere le
sustanze corrottibili perché quello chiamano massimamente,
primamente e principalmente sustanza, che resulta da la com-
posizione: il che non è altro ch'uno accidente, che non contiene
in sé nulla stabilità e verità, e se risolve in nulla^'. Dico-
no quello esser veramente omo che resulta dalla composizio-
ne; quello essere veramente anima che è o perfezzione et atto
di corpo vivente, o pur cosa che resulta da certa simmetria di
complessione e membri ^2; onde non è maraviglia se fanno
tanto, e prendeno tanto spavento per la morte e dissoluzione:
66. Si tratta, nell'ordine, delle piante, degli animali e della sostanza inorga-
nica.
67. «Non sono enti ma [caratteristiche] degli enti»; cfr. G. Bruno, Sigillus
sigillorum, Op. lat., II, 2, p. 180: «... superius et inferius non ens sunt sed entis,
non sunt id quod unum, sed quae unius, vel ex uno vel de uno» (traduz. Ti-
rinnanzi cit., p. 378: «superiore ed inferiore non sono l'ente, ma sono proprietà
dell'ente, non sono ciò che è uno, ma ciò che è proprio dell'uno, ovvero deriva
dall'uno, ovvero discende dall'uno»); Summa terminorum metaphysicorum,
«Praemissa de ente ejusque synonymis», Op. lat., I, 4, pp. 7 e segg. (risi anasta-
tica a cura di T. Gregory-E. Canone, Roma, 1989, pp. as^-aS^). Si tratta della
distinzione tra essere e accidente.
68. Cioè l'anima del mondo e la materia.
69. Tema derivato da Plotino, Enti.. IV, 7, 9, traduz. latina di Ficino cit,
p. 463: «caetera omnia dilabentur, ncque gignentur iterum, siquando eiusmodi
natura perierit».
70. Nelle sue opere. Bruno chiama «sofisti» i peripatetici.
71. Cfr. G. Bruno, Spaccio, Epistola esplicatoria, p. 181; Lampas triginta sta-
tuarum, Op. lat. III, pp. 253, 256.
72. Questa definizione dell'anima come armonia del corpo (come semplice
epifenomeno, dunque) si deve, in realtà, al pitagorico Simmia: cfr. Platone,
Phaedo, 86 b-c.
DIALOGO SECONDO 665
come quelli a' quali è imminente la iattura de l'essere. Contra la [139]
qual pazzia crida ad alte voci la natura, assicurandoci che non
gli corpi né l'anima deve temer la morte, perché tanto la mate-
ria quanto la forma sono principii constantissimi ^^:
0 genus attonitum gelidae formidine mortis,
quid styga, quid tenebras, et nomina vana timetis,
materiam vatum falsique pericula mundi?
Corpora sive rogus fiamma seu tabe vetustas
abstulerit, mala posse pati non ulla putetis:
morte carent animae domibus habitantque receptae.
Omnia mutantur, nihil interif"^.
DiCSONO. - Conforme a questo mi par che dica il sapientis-
simo stimato tra gli Ebrei Salomone: «Quid est quod est? ipsum
quod fuit. Quid est quod fuit? ipsum quod est. Nihil sub sole no-
vum»'^^. Sì che questa forma, che voi ponete, non è inexistente
et aderente a la materia secondo l'essere, non depende dal corpo
e da la materia a fine che subsista?
Teofilo. — Cossi è; et oltre ancora non determino se tutta la
forma è accompagnata da la materia: cossi come già sicura-
73. Cfr. De minimo, Op. lai, I, 3, p. 141: «... concluditur mortem ad corporis
substantiam non pertinere, multoque minus ad animam» (traduz. Monti cit,
pp. 98 e segg.: «... si potrà concludere che la morte non riguarda la sostanza
corporea e tanto meno l'anima»).
74. Cfr. Ovidio, Metam., XV, 153-159, 165 (1° emistichio), ed. a cura di
P. Bernardini Marzolla, Torino, 1979, pp. 610-613: «0 stirpe sbigottita dal ter-
rore della morte gelida! Perché temete lo Stige, perché le tenebre e cose che
sono nomi vani, materia da poeti, e i pericoli di un mondo immaginario? I
corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la
decomposizione, non soffrono più, credete a me [Pitagora]. Le anime non
muoiono e, sempre, lasciata una sede, sono accolte in un'altra dimora e lì abi-
tano e continuano a vivere... Tutto si trasforma, nulla perisce»; G. Bruno, Can-
delaio, «A Madama Morgana B.», p. 263: «Ogni cosa si muta, nulla s'annihila»;
De minimo, I, 3, vv. 1-49, Op. lat., I, 3, pp. 141-142 (ed. Monti cit., pp. 99-100);
N. Cusano, De docta ignorantia, II, 12, ed. Federici-Vescovini cit., pp. 152-153.
75. Cfr. Ecclesiaste, I, 9-10: parole spesso riportate da Bruno (dai tempi del
De umbris e del Sigillus sigillorum, fino al terzo costituto veneziano del 2 giu-
gno 1592, senza dimenticare i Libri Physicorum Aristotelis explicaii, Op. lat., II,
I, p. 44; II, 2, p. 213; III, p. 341): «Quanto è stato, sarà; / quanto si è fatto si
rifarà; / non c'è nulla di nuovo sotto il sole». La formula riappare nell'auto-
grafo bruniano leggibile nell'album di Hans von Wamsdorf (Wittemberg, 18
settembre 1588) e ancora trascritto al verso di una xilografia donata agli amici
di Wittemberg in data 8 marzo 1584 (cfr. G. Bruno, Gesammelte Werke, Iena,
voi. VI, 1909, p. 72).
666 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
I
mente dico de la materia non esser paiie che a fatto sia desti-
tuita da quella, eccetto compresa logicamente, come da Aristo-
tele ^^ il quale mai si stanca di dividere con la raggione quello
che è indiviso seconda la natura e verità.
DicsoNO. - Non volete che sia altra forma che questa etema
compagna di la materia?
Teofilo. - E più naturale ancora, che è la forma materiale
de la quale raggionaremo appresso. Per ora notate questa distin-
[141] zione de la forma: che è una sorte di forma, prima, la quale
informa, si estende e depende; e questa perché informa il tutto,
è in tutto; e perché la si stende, comunica la perfezzione del
tutto a le parti; e perché la dipende e non ha operazione da per
sé, viene a communicar la operazion del tutto alle parti, simil-
mente il nome e l'essere ^^: tale è la forma materiale come quella
del fuoco, per che ogni parte del fuoco scalda, si chiama fuoco
et è fuoco. Secondo, è un'altra sorte di forma, la quale informa e
depende, ma non si stende: e tale per che fa perfetto et attua il
tutto, è nel tutto et in ogni parte di quello; perché non si stende,
avviene che l'atto del tutto non attribuisca a le parti; per che
depende, l'operazione del tutto comunica a le parti: e tale è
l'anima vegetativa e sensitiva, perché nulla parte de l'animale
è animale, e nulladimeno ciascuna parte vive e sente. Terzo, è
un'altra sorte di forma, la quale attua e fa perfetto il tutto; ma
non si stende, né depende quanto a l'operazione. Questa perché
attua e fa perfetto, è nel tutto et in tutto et in ogni parte; per
che la non si stende, la perfezzione del tutto non attribuisse^^ a
le parti; perché non depende, non comunica l'operazione. Tale è
l'anima, per quanto può esercitar la potenza intellettiva, e si
chiama intellettiva: la quale non fa parte alcuna de l'uomo che
si possa nomar uomo, né sia uomo, né si possa dir che intenda.
Di queste tre specie la prima è materiale, che non si può inten-
dere, né può essere senza materia; l'altre due specie (le quali in
fine concorreno a uno secondo la sustanza et essere, e si distin-
76. Aristotele non concepiva, infatti, una materia che fosse realmente priva
di forma (cfr. De generatione et corniptione, II, i e Phys. Auscultai., Ili, 5).
77. Cfr. AviCEBRON, Fons vitae, I, io: «[materia universalis] dans omnibus
essentiam suam et nomen» («la materia universale che dà la propria essenza e
il proprio nome a tutte le cose»).
78. Equivale ad «attribuisce»; per l'assimilazione, cfr. il rincresse, nella
Cena, Proemiale epistola, p. 437, nota 34.
DIALOGO SECONDO 667
gueno secondo il modo che sopra abbiamo detto) denominano
quel principio formale, il quale è distinto dal principio mate-
riale. [143]
DicsoNO. - Intendo.
Teofilo. - Oltre di questo voglio che si avertisca, che
benché parlando secondo il modo comune, diciamo che sono
cinque gradi de le forme, ciò è di «elemento», «mixto», «vege-
tale», «sensitivo» et «intellettivo»^^, non lo intendiamo però se-
condo l'intenzion volgare; per che questa distinzione vale se-
condo l'operazioni che appaiono e procedono da gli suggetti,
non secondo quella raggione de l'essere primario e fondamen-
tale di quella forma e vita spirituale, la quale medesma empie
il tutto, e non secondo il medesmo modo.
DicsoNO. - Intendo. Tanto che questa forma che voi ponete
per principio, è forma subsistente, constituisce specie perfetta, è
in proprio geno, e non è parte di specie come quella peripate-
tica.
Teofilo. - Cossi è.
DicsoNO. - La distinzione de le forme nella materia non è
secondo le accidentali disposizioni che dependeno da la forma
materiale.
Teofilo. - Vero.
DicsoNO. Onde anco questa forma separata non viene a es-
sere moltiplicata secondo il numero, per che ogni multiplica-
zione numerale depende da la materia^".
Teofilo. - Sì.
DicsoNO. — Oltre, in sé invariabile, variabile poi per li sog-
getti e diversità di materie: e cotal forma benché nel soggetto
faccia differir la parte dal tutto, ella però non differisce nella
parte e nel tutto; benché altra raggione li convegna come subsi-
stente da per sé, altra in quanto che è atto e perfezzione di [145]
qualche soggetto, et altra poi a riguardo d'un soggetto con di-
sposizioni d'un modo, altra con quelle d'un altro.
79. Cfr. G. Bruno, Cause, principe et unite, traduz. francese di E. Namer cit.,
p. 109, nota 56: «r"elemento" e il "mixto" fanno parte della "forma materiale",
vale a dire sensibile; il "vegetale", "sensitivo" e "intellettivo" fanno parte del-
l'anima del mondo».
80. Si veda supra l'Argomento del Secondo dialogo, al punto terzodecimo,
p. 600.
668 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Teofilo. — Cossi a punto.
DicsoNO. — Questa forma non la intendete accidentale, né
simile alla accidentale, né come mixta alla materia, né come
inerente a quella: ma inexistente, associata, assistente.
Teofilo. - Cossi dico.
DicsoNO. - Oltre, questa forma è definita e determinata per
la materia, per che avendo in sé facilità di constituir partico-
lari, di specie innumerabili, viene a contraersi a constituir uno
individuo; e da l'altro canto la potenza della materia indetermi-
nata, la quale può ricevere qualsivoglia forma, viene a termi-
narsi ad una specie: tanto che l'una è causa della definizione e
determinazion de l'altra.
Teofilo. - Molto bene.
DicsoNO. - Dumque in certo modo approvate il senso di
Anaxagora che chiama le forme particolari di natura «latitan-
ti»^\ alquanto quel di Platone^^ q\iq Iq deduce da le idee, al-
quanto quel di Empedocle che le fa provenire da la intelligen-
za^^, in certo modo quel di Aristotele che le fa come uscire da
la potenza de la materia?
Teofilo. - Sì, per che come abbiamo detto che dove è la
forma è in certo modo tutto, dove è l'anima, il spirto, la vita, è
tutto: il formatore è l'intelletto per le specie ideali; e le forme, se
[147I non le suscita da la materia, non le va però mendicando da
fuor di quella, per che questo spirto empie il tutto.
POLIHIMNIO. - Velim scire quomodo forma est anima mundi
ubique tota^, se la è individua. Bisogna dumque che la sia
81. In realtà, Anassagora aveva chiamato «latitanti» non le forme, ma le
particelle minime che compongono un corpo, nessuna delle quali è discernibile
a causa della loro piccolezza: cfr. H. Diels, Fragmente cit., Bi; Aristotele,
Pkys. Auscultai., I, 4, 17 a 26-29; Lucrezio, De rerum nahira, I, 876-877, ed. a
cura di A. Fellin, Torino, 1997^, pp- 116-117: «Anassagora ... pensa che tutte le
cose si celino mescolate in tutte le cose»; G. Bruno, De gli eroici furori, II, 2,
pp. 693: «... Anaxagora et Empedocle che considerando che la omnipotente et
omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che
non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni».
82. Si tratta piuttosto dei neoplatonici, per i quali le specie sono ragioni
seminali che riproducono, nella natura, le idee del mondo intelligibile.
83. È sempre la concezione di Empedocle, com'era stata recepita nel Medio
Evo.
84. «Vorrei sapere come la forma sia l'anima del mondo presente ovunque,
nella sua totalità».
DIALOGO SECONDO 669
molto grande, anzi de infinita dimensione, se dici il mondo es-
sere infinito.
Gervasio. - È ben raggione che sia grande. Come anco del
nostro Signore disse un predicatore a Grandazzo in Sicilia ^^i
dove in segno che quello è presente in tutto il mondo, ordinò
un crucifisso tanto grande, quanta era la chiesa^^; a similitu-
dine de Dio padre, il quale ha il cielo empireo per baldacchino,
il ciel stellato per seditoio, et ha le gambe tanto lunghe, che
giungono sino a terra, che gli serve per scabello^^. A cui venne a
dimandar un certo paesano, dicendogli: «Padre mio reverendo,
or quante olne di drappo bisognaranno per fargli le calze?»; et
un altro disse che non bastarebono tutti i ceci, faggiuoli e fave
di Melazzo e Nicosia^^ per empirgli la pancia. Vedete dumque
che questa anima del mondo non sia fatta a questa foggia an-
ch'ella.
Teofilo. - Io non saprei rispondere al tuo dubio, Gervasio,
ma bene a quello di mastro Polihimnio: pure dirò con una si-
militudine, per satisfar alla dimanda di ambi doi, per che vo-
glio che voi ancora riportiate qualche frutto di nostri raggiona-
menti e discorsi. Dovete dumque saper brevemente che l'anima
del mondo, e la divinità, non sono tutti presenti per tutto e per
ogni parte, in modo con cui qualche cosa materiale possa es-
servi: perché questo è impossibile a qualsivoglia corpo e qualsi- [149]
voglia spirto; ma con un modo il quale non è facile a displicar-
velo altrimente se non con questo. Dovete avvertire, che se
l'anima del mondo e forma universale se dicono essere per
tutto, non s'intende corporalmente e dimensionalmente, per che
tali non sono, e cossi non possono essere in parte alcuna: ma
sono tutti per tutto spiritualmente; come per essempio (anco
rozzo) potreste imaginarvi una voce, la quale è tutta in tutta
una stanza et in ogni parte di quella: per che da per tutto se
intende tutta; come queste paroli ch'io dico sono intese tutte da
tutti, anco se fussero mille presenti, e la mia voce si potesse
85. Oggi Randazzo, in provincia di Catania.
86. Un'espressione proverbiale, ai tempi di Bruno, si riferiva al «Buon Dio
di Grandazzo» (cfr. G. E. Della Porta, Tabernaria, atto II, se. 3).
87. Allusione all'espressione biblica «scabellum pedum Dei», già impiegata
supra, p. 660.
88. Melazzo è Milazzo, in provincia di Messina. - Nicosia: in provincia di
Catania.
670 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
giongere a tutto il mondo, sarebe tutta per tutto *^. Dico dum-
que a voi mastro Polihimnio, che l'anima non è individua,
come il punto, ma in certo modo come la voce. E rispondo a te
Gervasio, che la divinità non è per tutto, come il Dio di Gran-
dazzo è in tutta la sua cappella: per che quello, benché sia in
tutta la chiesa, non è però tutto in tutta; ma ha il capo in una
parte, li piedi in un'altra, le braccia et il busto in altre et altre
parti. Ma quella è tutta in qualsivoglia parte, come la mia voce
è udita tutta da tutte le parti di questa sala.
Polihimnio. - Percepì optime'^^.
Gervasio. - Io l'ho pur capita la vostra voce.
DicsoNO. — Credo ben la voce, ma del proposito penso che vi
[è] entrato per un'orecchia et uscito per l'altra.
Gervasio. - Io penso che non v'è neanco entrato: per che è
tardi, e l'orloggio che tegno dentro il stomaco, ha toccata l'ora
[151] di cena^^
Polihimnio. - Hoc est, idest bave il cervello in patinis'^^.
DicsoNO. - Basta dumque. Domani conveneremo per raggio-
nar forse circa il principio materiale.
Teofilo. — O vi aspettare, o mi aspettarete qua,
[153] Fine del secondo dialogo
89. Esempio tratto da Plotino, Enti., VI, 4, 12 (ed. italiana cit, voi. II, pp.
968-969).
.90. «Ho capito perfettamente».
91. Si veda l'espressione proverbiale «sentir che l'oriuolo è ito giù», cioè
«sento venir la fame» (Torriano, Piazza universale, p. 123); G. Bruno, Cande-
laio, p. 269: «Scaramuré ch'avea l'orloggio nel stomaco e nel cervello».
92. Avere la testa in patinis, «nelle padelle», è un'espressione proverbiale
tratta da Terenzio, Eunuchus, IV, 7, 46: «animus in patinis» (traduz. di V.
Soave, Torino, 1953, p. 219), ripetuta dal pedante nella commedia Gl'Ingannati,
II, I (G. Da VICO Bonino, Il teatro italiano, voi. II, La commedia del Cinquecento,
Torino, 1977, t. II, p. 137).
DIALOGO TERZO
Gervasio. — È pur gionta l'ora, e costoro non son venuti. Poi
che non ho altro pensiero che mi tire, voglio prender spasso di
udir raggionar costoro, da' quali oltre che posso imparar qual-
che tratto di scacco di filosofia, ho pur un bel passatempo, circa
que' grilli che ballano in quel cervello eteroclito di Polihimnio
pedante: il quale mentre dice che vuol giudicar chi dice bene,
chi discorre meglio, chi fa delle incongruità et errori in filosofia,
quando poi è tempo de dir la sua parte, e non sapendo che
porgere, viene a sfilzarti da dentro il manico della sua ventosa
pedantaria una insalatina di proverbiuzzi, di frase per latino o
greco, che non fanno mai approposito di quel ch'altri dicono;
onde senza troppo difficultà non è cieco che non possa vedere
quanto lui sia pazzo per lettera ^ mentre de gli altri son savii
per volgare^. Or eccolo in fede mia, come sen viene che par che
nel movere di passi ancora sappia caminar per lettera^. — Ben
venga il dominus magisteri.
Polihimnio. - Quel «magisteri non mi cale: poscia che in
questa devia et enorme etade', viene attribuito non più a miei
pari, che ad qualsivoglia barbitonsore, cerdone e castrator di
porci; però ne vien consultato: «Nolite vocari Rabi»^. [155]
Gervasio. — Come dumque volete ch'io vi dica? Piacevi il
« reverendissimo »?
1. Cfr. G. Bruno, Spaccio, Dialogo terzo, p. 326: «parlando per lettera»;
J. Florio, Giardino di Ricreazione, a cura di L. Gallesi, Milano, 1993, p. 151:
«I pazzi per lettera, sono i maggior pazzi».
2. Tema controrinascimentale ricorrente in Bruno.
3. Vale a dire «in modo sostenuto, solenne». Cfr. P. Aretino, Sei giornate,
ed. a cura di G. Aquilecchia, Roma-Bari, 1975, p. 65: «spassegiare per lettera».
4. «Signor maestro».
5. Cfr. Dante, Purg., XI, 93: «etati grosse».
6. Cfr. Matteo, XXIII, 8: «Ma voi non fatevi chiamare Rabbi, perché uno
solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli».
672 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
PoLiHiMNio. — Illud est praesbiterale et clericutn''.
Gervasio. - Vi vien voglia deir« illustrissimo»?
PoLiHiMNio. - Cedant arma togae^: questo è da equestri
eziamdio, come da purpurati'^.
Gervasio. - La «maestà cesarea» an?
POLIHIMNIO. - Quae Caesaris, Caesari^^.
Gervasio. — Prendetevi dumque il «domine», deh, toglietevi
il «gravitonante», il «divum pater»^^. Venemo a noi: per che
siete tutti cossi tardi?
PoLiHiMNio. - Cossi credo che gli altri sono impliciti in
qualch'altro affare, come io, per non tralasciar questo giorno
senza linea i^, sono versato circa la contemplazion del tipo del
globo, detto volgarmente il mappamondo i'.
Gervasio. - Che avete a far col mappamondo?
POLIHIMNIO. - Contemplo le parti de la terra, climi, pro-
vinze e regioni: de quali, tutte ho trascorse con l'ideai raggione,
molte co gli passi ancora.
Gervasio. — Vorei che discorressi alquanto dentro di te me-
desmo: per che questo mi par che più te importi, e di questo
credo che manco ti curi.
PoLiHiMNio. - Absit verbo invidia'^\ per che con questo
molto più efficacemente vengo a conoscere me medesmo.
[157] Gervasio. - E come mei persuaderai?
POLIHIMNIO. - Per quel che dalla contemplazione del mega-
7. «Esso si addice a sacerdoti ed ecclesiastici».
8. Prima parte del verso ciceroniano «Cedant armae togae, concedat laurea
laudi» (cfr. Cicerone, I frammenti poetici, a cura di A. Traglia, Milano, 1971^,
pp. 64-65: «Ceda la forza militare di fronte al potere civile / [ceda l'alloro del
condottiero dinanzi alla gloria dell'uomo politico]»).
9. I magistrati.
10. Cfr. Matteo, XXII, 21: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare
e a Dio quello che è di Dio».
11. «Il Padre degli dèi».
12. Motto di Apelle, secondo Plinio, Nat. hist, XXXV, 84: «Apelles del re-
sto osservò la continua consuetudine di non lasciar mai passare un sol giorno,
anche pieno d'occupazioni, senza mantenersi in esercizio tirando linee (lineam
ducendo); onde il noto proverbio» (cfr. C. Plini Secundi Naturalis Historiae
quae pertinent ad artes antiquorum, a cura di S. Ferri, Roma, 1946, p. 167). Si
veda anche G. Bruno, Candelaio, I, 5, p. 292: «nulla dies sine linea».
13. Allusione agli amori «socratici» del pedante: cfr. Dialogo primo, p. 636,
nota 95.
14. Cfr. Livio, IX, 19, 15: «Absit invidia verbo [et civilia bella sileant]»
(traduz. in Storie, a cura di L. Perelli, Torino, voi. IV, 1979, p. 471: «Le mie
parole non siano prese in mala parte, e tacciano le guerre civili»).
TERZO DIALOGO 673
cosmo, facilmente (necessaria deductione facta a simili) ^^ si può
pervenire alla cognizione del microcosmo, di cui le particole
alle parti di quello corrispondeno^^
Gervasio. — Sì che trovaremo dentro voi la luna, il Mercurio
et altri astri, la Francia, la Spagna, l'Italia, l'Inghilterra, il Cali-
cutto'^ et altri paesi?
POLiHiMNio. — Quid ni? per quamdam analogiam^^.
Gervasio. — Per quandam analogiam io credo che siate un
gran monarca: ma se fuste una donna vi dimandarci se vi è per
alloggiare un putello, o di porvi in conserva una di quelle
piante che disse Diogene'^.
POLiHiMNio. — Ah! ah! quodammodo facete^^. Ma questa peti-
zione non quadra ad un savio et erudito.
Gervasio. — S'io fusse erudito, e mi istimasse savio, non ver-
rei qua ad imparar insieme con voi.
POLIHIMNIO. - Voi sì, ma io non vegno per imparare, perché
nunc meum est docere; mea quoque interest eos qui docere volunt
iudicare^h però vegno per altro fine, che per quel che dovete voi
venire, a cui conviene l'esser tirone, isagogico e discepolo.
Gervasio. - Per qual fine?
15. «Operata la necessaria deduzione da ciò che è simile».
16. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., Vili, 2, 252 b 26-28 e De anima, III, 8;
N. Cusano, De docta ignorantia, III, 3, in Opere, a cura di G. Federici-Vescovini,
Torino, 1972, pp. 165-166 (e nota 2): «La natura umana è quella che è stata
elevata al di sopra di tutta l'opera di Dio ed è di poco inferiore alla natura
angelica. Essa complica la natura intellettuale e quella sensibile, e racchiude
in sé tutti gli universi per cui gli antichi l'hanno chiamata con ragione "mi-
crocosmo" ossia piccolo mondo».
17. Sineddoche per «India».
18. «Perché no? per una certa analogia...».
19. Allusione oscena all'aneddoto secondo il quale Diogene, a chi gli chie-
deva cosa stesse per fare con una prostituta, nel bel mezzo di una strada, ri-
spose: «cpDTEÙu) àvdgojjiov» («Pianto un uomo»). Cfr. G. Boccaccio, Decameron,
IX, IO, 18, a cura di N. Sapegno, Torino, 1956, p. 861: «[donno Gianni di Ba-
rolo] preso il pinolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco
per ciò fatto messolo...». L'allusione toma in altri scrittori del XVI secolo, ad
esempio A. Caro, Nasca, Londra, 1584, p. 130 e A. F. Grazzini, Cene, I, 2, 18
(ed. R. Bruscagli, Roma, 1976, p. 35). In L. Guicciardini, L'ore di ricreazione, I,
6 (ed. a cura di A.-M. Van Passen, Leuven-Roma, 1990, p. 50), questa frase è
attribuita a Cratete, ma non v'è riferimento a fonti classiche, come Diogene
Laerzio, tanto che P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, art. Hipparchia,
Amsterdam, 1740^, p. 769, pensa addirittura che l'aneddoto non sia reperibile
in nessuno scrittore antico.
20. «Abbastanza divertente».
21. «Ora è a me che spetta insegnare, ed a me spetta anche giudicare coloro
i quali vogliono insegnare».
674 ^^ LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
PoLiHiMNio. - Per giudicare dico.
Gervasio. — In vero a pari vostri più che ad altri sta bene di
far giudicio de le scienze e dottrine: per che voi siete que' soli a
[159] quali la liberalità de le stelle e la munificenza del fato ha con-
ceduto il poter trarre il succhio da le paroli.
PoLiHiMNio. — E consequentemente da i sensi ancora, i
quali sono congionti alle paroli...
Gervasio. — Come al corpo l'anima.
POLIHIMNIO. - Le qual paroli essendo ben comprese, fanno
ben considerar ancor il senso: però dalla cognizion de le lingue
(nelle quali io più che altro che sia in questa città sono exerci-
tato, e non mi stimo men dotto di qualumque sia che tegna
ludo di Minerva^^ aperto) procede la cognizione di scienza
qualsivoglia.
Gervasio. - Dumque tutti que' che intendeno la lingua ita-
liana comprenderanno la filosofia del Nolano?^'
POLIHIMNIO. - Sì, ma vi bisogna anco qualch'altra prattica e
giudizio.
Gervasio. - Alcun tempo io pensava che questa prattica
fusse il principale; per che un che non sa greco può intender
tutto il senso d'Aristotele, e conoscere molti errori in quello,
come apertamente si vede: che questa idolatria che versava
circa l'autorità di quel filosofo (quanto a le cose naturali prin-
cipalmente) è a fatto abolita appresso tutti che comprendono i
sensi che apporta questa altra setta; et uno che non sa né di
greco, né di arabico, e forse né di latino, come il Paracelso^"',
può aver meglio conosciuta la natura di medicamenti e medi-
cina, che Galeno, Avicenna e tutti che si fanno udir con la lin-
[161] gua romana^5 Le filosofie e leggi non vanno in perdizione per
penuria d'interpreti di paroli, ma di que' che profondano ne'
sentimenti.
22. Cfr. Dialogo secondo, p. 660, nota 52.
23. Bruno non manca mai di presentarsi come figlio della città di Nola.
24. Paracelso dettava le sue opere in tedesco.
25. Bruno elogia la medicina di Paracelso anche nell'Orafo valedictoria, nel
Sigillus sigillorum e nella Praefatio ad Lampadem Combinatoriam (cfr. Op. lai., I,
I, p. 17; II, 2, pp. 181, 234) e segue la teoria paracelsiana dello spirito nel De
monade e negli scritti di magia (cfr. F. Tocco, Le fonti più recenti della filosofia
del Bruno, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei», CI. di Scienze Morali,
Storiche e Filologiche, [Roma], ser. V, I, 1892, pp. 514, 524, 617-618).
TERZO DIALOGO 675
PoLiHiMNio. — Cossi dumque vieni a computar un par mio
nel numero della stolta moltitudine?
Gervasio. - Non vogliano gli dèi, per che so che con la co-
gnizione e studio de le lingue (il che è una cosa rara e singulare)
non sol voi, ma tutti vostri pari séte valorosissimi circa il far
giudicio delle dottrine, dopo aver crivellati i sentimenti di color
che ne si fanno in campo.
PoLiHiMNio. — Perché voi dite il verissimo, facilmente posso
persuadermi che non lo dite senza raggione: per tanto come non
vi é difficile, non vi sia grave di apportarla.
Gervasio. — Dirò (referendomi pur sempre alla censura de la
prudenza e letteratura vostra): è proverbio comune, che quei
che sono fuor del gioco, ne intendeno più che quei che vi son
dentro; come que' che sono nel spettacolo, possono meglio giu-
dicar de gli atti, che quelli personaggi che sono in scena; e della
musica può far meglior saggio un che non è de la capella o del
conserto; similmente appare nel gioco de le carte, scacchi, seri-
ma ^'^ et altri simili: cossi voi altri signor pedanti, per esser
esclusi e fuor d'ogni atto di scienza e filosofia, e per non aver e
giamai aver avuto participazione con Aristotele, Platone et altri
simili, possete meglio giudicarli e condannar con la vostra suf-
ficienza grammaticale e presunzion del vostro naturale, che il
Nolano che se ritrova nel medesmo teatro, nella medesma fami-
liarità e domestichezza: tanto che facilmente le combatte dopo [163I
aver conosciuti i loro interiori e più profondi sentimenti. Voi
dico per esser extra ogni profession di galant'uomini e pelegrini
ingegni, meglio le possete giudicare.
POLIHIMNIO. - Io non saprei cossi di repente rispondere a
questo impudentissimo. Vox faucihus haesit^''.
Gervasio. — Però i pari vostri son sì presuntuosi, come non
son gli altri che vi hanno il pie dentro: e per tanto io vi assi-
curo, che degnamente vi usurpate l'ufficio di approvar questo,
26. Cfr. C. Battisti-C. Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze, voi.
V, 1958, art. scrima: «Passato in francese come escrime che però è documentato
prima della nostra voce. È possibile che la nostra voce non sia altro che il
provenzale escrima (escrimir)».
27. Cfr. Virgilio, Aen., II, 74; III, 48, in Opere, a cura di C. Carena, Torino,
1971, pp. 380-381; 386-387: «Obstipui steteruntque comae et vox faucibus hae-
sit» («Mi arrestai attonito, rizzati i capelli e la voce nella gola strozzata»).
676 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
riprovar quello, glosar quell'altro; far qua una concordia e col-
lazione, là una appendice.
POLIHIMNIO. - Questo ignorantissimo, da quel che io son pe-
rito nelle buone lettere umane, vuol inferir che sono ignorante
in filosofìa.
Gervasio. — Dottisimo messer Polihimnio, io vo' dire che se
voi aveste tutte le lingue che son (come dicono i nostri predica-
tori) settantadue 2^...
Polihimnio. - Cum dimidia^^.
Gervasio. — ... per questo non solamente non siegue che
siate atto a far giudizio di filosofi, ma oltre non potreste togliere
di essere il più gran goffo animale che viva in viso umano: et
anco non è che impedisca che uno ch'abbia a pena una de le
lingue ancor bastarda, sia il più sapiente e dotto di tutto il
mondo ^°. Or considerate quel profitto ch'han fatto doi cotali: de
quali è un francese arcipedante, ch'ha fatte le Scole sopra le arte
liberali e l'Animadver sioni contra Aristotele^\ et un altro sterco di
28. Cfr. Cabala, Declamazione, p. 421: «Origene Adamanzio, accettato tra gli
ortodoxi e sacri dottori, vuole che il frutto de la predicazione de' settanta doi
discepoli è significato per li settanta doi milia asini che il popolo israelita
guadagnò contra gli Moabiti» (e si veda la nota di N. Badaloni al passo a
p- 422).
29. «E mezzo».
30. Cfr. Bruno, De gli eroici furori, II, 2, p. 685: «Non vedete in quanta
iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno vo-
luto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar cose divi-
ne?». Cfr. anche G. B. Celli, I capricci del bottaio. Ragionamento quarto, in
Opere, a cura di D. Maestri, Torino, 1976, p. 178: «La grammatica, o per me'
dire il latino, è una lingua, e le lingue non sono quelle che faccino gli uomini
dotti, ma i concetti e le scienzie: perché altrimenti ne seguirebbe che quello
Ebreo che fa oggi l'orafo al canto de' Pecori, che sa otto o dieci lingue, fusse il
più dotto uomo di Firenze».
31. Pierre de la Ramée ovvero Ramus (1515-1572), assassinato nella Notte
di san Bartolomeo; autore - fra l'altro - di Scholae in Liberales Artes, ristam-
pate a Basilea nel 1578, e di Aristotelicae Animadversiones, Parisiis, 1543. In De
gli eroici furori, II, 2, p. 686, Bruno si pronuncia contro la critica dei ramisti
alla logica aristotelica e contro la loro confusione di logica e retorica: «Cossi a'
tempi nostri quel tanto di buono ch'egli [Aristotele] apporta e singulare di
raggione inventiva, indicativa e di metafisica, per ministerio d'altri pedanti
che lavorano col medesimo sursum corda, vegnono istituite nove dialettiche e
modi di formar la raggione tanto più vili di quello d'Aristotele quanto forse la
filosofia d'Aristotele è incomparabilmente più vile di quella de gli antichi»; nel
Candelaio, Proprologo, pp. 279-280, Bruno scrive, a proposito del pedante
Mamfurio, «eccovi un di ... dialetticarii novelli» (e allude ai ramisti). Nel De la
causa, il riferimento negativo a Ramus dev'essere riallacciato alla polemica sul
metodo mnemotecnico, in cui era stato coinvolto A. Dicson (si veda supra. Dia-
logo secondo, p. 645, nota i). Sull'intero brano, dedicato a tre filosofi contem-
TERZO DIALOGO 677
pedanti, italiano, che ha imbrattati tanti quinterni con le sue [165]
Discussioni peripatetiche^^. Facilmente ogn'un vede ch'il primo
molto eloquentemente mostra esser poco savio; il secondo sem-
plicemente parlando, mostra aver molto del bestiale et asino.
Del primo possiamo pur dire che intese Aristotele, ma che l'in-
tese male; e se l'avesse inteso bene, arebbe forse avuto ingegno
di far onorata guerra contra lui, come ha fatto il giudiciosis-
simo Telesio Consentino". Del secondo non possiamo dir che
l'abbia inteso né male né bene: ma che l'abbia letto e riletto,
cucito scucito, e conferito con mill'altri greci autori amici e ne-
mici di quello; et al fine fatta una grandissima fatica, non solo
senza profitto alcuno, ma etiam'"^ con un grandissimo sprofitto:
di sorte che chi vuol vedere in quanta pazzia e presuntuosa
vanità può precipitar e profondare un abito pedantesco, veda
poranei, cfr. G. Aquilecchia, Ramo, Patrizi e Telesio nella prospettiva di Bruno,
in: Atti del Convegno internazionale di studi su B. Telesio (Cosenza, 12-13 maggio
igSg), Cosenza, 1990, pp. 181-192 (ora in Id., Schede bruniane, Manziana, 1993,
pp. 293-302). Cfr. inolte C. Vasoli, Bruno, Ramo e Patrizi, «Nouvelles de
la République des Lettres» [Napoli], II, 1994, pp. 169-190 (e l'intervento di
M. MucciLLO, Su Ramo, Patrizi, Bruno, ivi, pp. 201-203).
32. Francesco Patrizi da Cherso (1529-1597), autore — fra l'altro - di Discus-
sionum Peripateticarum Tomi IV. Quibus Aristotelicae Philosophiae universa Histo-
ria atque Dogmata cum Veterum Placitis collata, eleganter et erudite declarantur,
Basileae, 1581 (il cui primo tomo era apparso come Discussionum Peripatetica-
rum, Tomi Primi, Libri XIII, Venetiis, 1571): tra la filosofia bruniana e quella
di Patrizi si possono ravvisare punti di contatto, ma «agli occhi del Bruno la
critica del Patrizi appariva infeconda, e meglio opera di erudizione che di
scienza» (F. Tocco, Le fonti più recenti cit, p. 537).
33. Bernardino Telesio (1508-1588), nato a Cosenza, autore del De rerum
natura iuxta propria principia (ed. critica a cura di L. De Franco, Cosenza-Fi-
renze, 1965-1976, 3 voli.), dove veniva contestata la fisica aristotelica. Le sue
posizioni sono qui esaltate in opposizione a Ramus ed a Patrizi ma, nel com-
plesso. Bruno non si riferisce spesso alle teorie telesiane. Cfr. De immenso, II,
9, Op. lai., I, I, p. 289 (in Opere, a cura di C. Monti, Torino, 1980, p. 491); De
monade, V, Op. lai., 1, 2, p. 395: «... et temporibus nostris (... ex principiis adver-
sarii ipsius Aristotelis inductis) ausus est Thelesius Consentinus ignem humi-
dae naturae asserere, quod minime infeliciter est prosequutus, non, ut par est,
prò rei veritate, sed ut decebat eum qui ex suismet Aristotelis physicam prin-
cipiis voluit redarguere» (ed. Monti cit, p. 352: «... per venire ai nostri tempi
— ... criticando i princìpi del suo avversario Aristotele - il cosentino Telesio ha
asserito che il fuoco è di natura umida, risultato che con successo ha rag-
giunto, come è noto, non in base all'evidenza della cosa in sé, ma come conve-
niva a lui che volle confutare la fisica di Aristotele con gli stessi suoi princìpi»,
ma sulle difficoltà pòrte dal brano, in questa traduzione o in quella di Tocco,
cfr. G. Aquilecchia, Le opere italiane di G. Bruno: Critica testuale e oltre, Na-
poli, 1991, pp. loi e segg., da aggiungere alla bibliografia indicata supra, nota
31, assieme a Id., Ancora su Bruno e Telesio, in Schede bruniane cit, pp. 303-
310).
34. «Anche».
678 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
quel sol libro, prima che se ne perda la semenza. Ma ecco pre-
senti il Teofilo col Dicsono.
PoLiHiMNio. — Adeste felices, dominP^. La presenzia vostra è
causa che la mia excandescenzia non venga ad exaggerar fulmi-
nee sentenze contra i vani propositi ch'ha tenuti questo garrulo
frugiperda^^
Gervasio. - Et a me tolta materia di giocarmi, circa la
maestà di questo reverendissimo gufo.
Dicsono. - Ogni causa va bene se non v'adirate.
Gervasio. - Io quel che dico, lo dico con gioco; perché amo
il signor maestro.
POLIHIMNIO. — Ego quoque quod irascor, non serio irascor, quia
[167] Gervasium non odi^^.
Dicsono. — Bene: dumque lasciatemi discorrer con Teofilo.
Teofilo. - Democrito dumque e gli Epicurei, i quali quel
che non è corpo dicono esser nulla, per conseguenza vogliono la
materia sola essere la sustanza de le cose, et anco quella essere
la natura divina, come disse un certo arabo chiamato Avice-
bron^^, come mostra in un libro intitolato Fonte di vita. Questi
medesmi, insieme con Cirenaici, Cinici e Stoici, vogliono le
forme non essere altro che certe accidentali disposizioni de la
materia: et io molto tempo son stato assai aderente a questo
parere, solo per questo, che ha fondamenti più corrispondenti
alla natura che quei di Aristotele; ma dopo aver più matura-
mente considerato, avendo risguardo a più cose, troviamo che è
necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza, l'uno
che è forma, e l'altro che è materia; perché è necessario che sia
un atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto;
35. «Siate i benvenuti, signori».
36. «Albero che perde il suo frutto» (cfr. Plinio, Nat. hist, XVI, 46, ed.
diretta da G. B. Conte, Torino, voi. Ili, i, 1984, pp. 432-433: «Ocissime salix
amittit semen antequam omnino maturitatem sentiat, ob id dieta ab Homero
frugiperdia»).
37. «Ed anche io quando mi adiro, non mi adiro sul serio, perché non odio
Gervasio».
38. Salomon Ibn Gabirol, ovvero Avicebron, autore del Fons Vitae (dove le
dottrine neoplatoniche sono tradotte in maniera originale). Al pari degli Sco-
lastici. Bruno lo crede arabo, mentre era un ebreo di Spagna. Il suo Fons Vitae
è citato più volte da Alberto Magno e da Tommaso d'Aquino. Sull'eco del pen-
siero di Avicebron nei testi bruniani, cfr. M. Wittmann, G. Bruno Beziehungen
zu Avencebrol, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie» [Berlin], XIII, 1900,
pp. 147-152.
TERZO DIALOGO 679
et ancora una potenza et un soggetto, nel quale non sia minor
potenza passiva di tutto: in quello è potestà di fare, in questo è
potestà di esser fatto.
DicsoNO. — È cosa manifesta ad ogn'uno che ben misura,
che non è possibile che quello sempre possa far il tutto, senza
che sempre sia chi può essere fatto il tutto. Come l'anima del
mondo (dico ogni forma), la quale è individua, può essere figu-
ratrice, senza il soggetto delle dimensioni, o quantità, che è la
materia? E la materia come può esser figurata? forse da se
stessa? Appare che potremo dire che la materia vien figurata da
se stessa, se noi vogliamo considerar l'universo corpo formato [169]
esser materia, chiamarlo materia; come un animale con tutte le
sue facultà chiamaremo materia distinguendolo, non da la
forma, ma dal solo efficiente.
Teofilo. - Nessuno vi può impedire che non vi serviate del
nome di materia, secondo il vostro modo, come ad molte sette
ha medesmamente raggione di molte significazioni. Ma questo
modo di considerar, che voi dite, so che non potrà star bene se
non a un mecanico o medico che sta su la prattica, come a co-
lui che divide l'universo corpo in mercurio, sale e solfro^''; il
che dire non tanto viene a mostrar un divino ingegno di me-
dico quanto potrebe mostrare un stoltissimo, che volesse chia-
marsi filosofo: il cui fine non è de venir solo a quella distinzion
di principii, che fisicamente si fa per la separazione che procede
dalla virtù del fuoco, ma anco a quella distinzion de principii,
alla quale non arriva efficiente alcuno materiale, per che
l'anima inseparabile dal solfro, dal mercurio e dal sale, è prin-
cipio formale; quale non è soggetto a qualità materiali, ma è al
tutto signor della materia, non è tocco dall'opera di chimici la
cui divisione si termina alle tre dette cose, e che conoscono
un'altra specie d'anima che questa del mondo, e che noi do-
viamo diffinire.
DicsoNO. - Dite eccellentemente; e questa considerazione
molto mi contenta, perché veggio alcuni tanto poco accorti, che
non distingueno le cause della natura assolutamente secondo
tutto l'ambito de lor essere, che son considerate da filosofi, e de [171]
quelle prese in un modo limitato et appropriato: per che il
39. Allusione a Paracelso.
680 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
primo modo è soverchio e vano a medici, in quanto che son
medici, il secondo è mozzo e diminuto a filosofi, in quanto che
son filosofi.
Teofilo. - Avete toccato quel punto nel quale è lodato Pa-
racelso ch'ha trattata la filosofia medicinale, e biasimato Galeno
in quanto ha apportata la medicina filosofale, per far una mi-
stura fastidiosa, et una tela tanto imbrogliata, che al fine renda
un poco exquisito medico e molto confuso filosofo. Ma questo
sia detto con qualche rispetto: perché non ho avuto ocio, per
esaminare tutte le parti di quell'uomo.
Gervasio. — Di grazia, Teofilo, prima fatemi questo piacere a
me che non sono tanto prattico in filosofia: dechiaratemi che
cosa intendete per questo nome «materia» e che cosa è quello
che è materia nelle cose naturali.
Teofilo. — Tutti quelli che vogliono distinguere la materia e
considerarla da per sé senza la forma, ricorreno alla similitu-
dine de l'arte. Cossi fanno i Pitagorici '*°, cossi i Platonici ■*!, cossi
i Peripatetici "'2. Vedete una specie di arte come del lignaiolo, la
quale per tutte le sue forme e tutti suoi lavori ha per soggetto il
legno; come il ferraio il ferro, il sarto il panno. Tutte queste arti
in una propria materia fanno diversi ritratti, ordini e figure, de
le quali nessuna è propria e naturale a quella. Cossi la natura, a
cui è simile l'arte, bisogna che de le sue operazioni abbia una
materia: per che non è possibile che sia agente alcuno, che se
[173] vuol far qualche cosa, non abia di che farla; o se vuol oprare,
non abbia che oprare. È dumque una specie di soggetto, del
qual, col quale e nel quale la natura effettua la sua operazione,
il suo lavoro; et il quale è da lei formato di tante forme che ne
presentano a gli occhi della considerazione tanta varietà di spe-
cie. E sì come il legno da sé non ha nessuna forma artificiale,
ma tutte può avere per operazione de legnaiolo; cossi la materia
di cui parliamo, da per sé et in sua natura, non ha forma al-
cuna naturale, ma tutte le può aver per operazione dell'agente
attivo principio di natura. Questa materia naturale non è cossi
sensibile come la materia artificiale, perché la materia della na-
40. Nella misura in cui Bruno crede che Timeo sia un pitagorico.
41. Cfr. Platone, Timaeus, 50 a-b.
42. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., II, i, 193 a 15-18.
TERZO DIALOGO 68 1
tura non ha forma alcuna assolutamente, ma la materia del-
l'arte è una cosa formata già della natura, poscia che l'arte non
può oprare se non nella superficie delle cose formate da la na-
tura, come legno, ferro, pietra, lana e cose simili: ma la natura
opra dal centro (per dir cossi) del suo soggetto o materia; che è
al tuto informe. Però molti sono i soggetti de le arti, et uno è il
soggetto della natura: per che quelli, per essere diversamente
formati dalla natura, sono differenti e vani; questo, per non es-
sere alcunamente formato, è al tutto indifferente, atteso che
ogni differenza e diversità procede da la forma.
Gervasio. — Tanto che le cose formate della natura sono
materia de l'arte, et una cosa informe sola è materia della na-
tura?
Teofilo. - Cossi è.
Gervasio. - È possibile che sicome vedemo e conoscemo
chiaramente gli soggetti de le arti, possiamo similmente cono- [175]
scere il soggetto de la natura?
Teofilo. — Assai bene, ma con diversi principii di cogni-
zione: perché sì come non col medesmo senso conoscemo gli co-
lori e gli suoni, cossi non con il medesmo occhio veggiamo il
soggetto de le arti et il soggetto della natura.
Gervasio. — Volete dire che noi [con] gli occhi sensitivi veg-
giamo quello, e con l'occhio della raggione"*^ questo.
Teofilo. - Bene.
Gervasio. - Or piacciavi formar questa raggione.
Teofilo. — Volentieri. Quella relazione e riguardo, che ha la
forma de l'arte alla sua materia, medesma (secondo la debita
proporzione) ha la forma della natura alla sua materia. Sì come
dumque ne l'arte variandonsi-^'* in infinito (se possibil fosse) le
forme, è sempre una materia medesima che persevera sotto
quelle, come appresso la forma de l'arbore è una forma di
tronco, poi di trave, poi di tavola, poi di scanno, poi di scabello,
poi di cascia''^, poi di pettine, e cossi va discorrendo; tutta volta
l'esser legno sempre persevera: non altrimente nella natura, va-
43. Espressione platonica per eccellenza; «omxa toì3 kóyov» oppure «6ji|xa
Tfi5 TiiDxng».
44. Esempio di gerundio coniugato.
45. Forma napoletana per «cassa».
682 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
riandosi in infinito e succedendo l'una a l'altra le forme, è sem-
pre una materia medesma.
Gervasio. - Come si può saldar questa similitudine?
Teofilo. — Non vedete voi che quello che era seme si fa
[177] erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa
pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo
embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra,
da questa pietra o altra cosa, e cossi oltre per venire a tutte
forme naturali?
Gervasio. - Facilmente il veggio.
Teofilo. - Bisogna dumque che sia una medesima cosa che
da sé non è pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non
embrione, non sangue o altro: ma che dopo che era sangue, si fa
embrione ricevendo l'essere embrione; dopo che era embrione,
riceva l'essere uomo, facendosi omo: come quella formata dalla
natura che è soggetto de la arte, da quel che era arbore, è ta-
vola, e riceve esser tavola; da quel che era tavola, riceve l'esser
porta, et è porta.
Gervasio. — Or l'ho capita molto bene. Ma questo soggetto
della natura mi par che non possa esser corpo, né di certa qua-
lità; per che questo che va strafugendo or sotto una forma et
essere naturale, or sotto un'altra forma et essere, non si dimo-
stra corporalmente come il legno o pietra, che sempre si fan
veder quel che sono materialmente o soggettivamente, pongansi
pure sotto qual forma si voglia.
Teofilo. - Voi dite bene.
Gervasio. — Or che farò quando mi avverrà di conferir que-
sto pensiero con qualche pertinace, il quale non voglia credere
che sia cossi una sola materia sotto tutte le formazioni della
natura, come è una sotto tutte le formazioni di ciascuna arte?
[179] perché questa che si vede con gli ochi, non si può negare; quella
che si vede con la raggione sola, si può negare.
Teofilo. — Mandatelo via, o non gli rispondete.
Gervasio. — Ma se lui sarà importuno in dimandarne evi-
denza, e sarà qualche persona di rispetto, il quale non si possa
più tosto mandar via, che mandarmi via, e che abbia per ingiu-
ria ch'io non li risponda?
Teofilo. - Che farai se un cieco semideo, degno di qualsi-
voglia onor e rispetto, sarà protervo, importuno e pertinace a
TERZO DIALOGO 683
voler aver cognizione e dimandar evidenza di colori, dì pure, de
le figure esteriori di cose naturali: come è dire, quale è la forma
de l'arbore? quale è la forma de monti? di stella? oltre, quale è
la forma de la statua, de la veste? e cossi di altre cose arteficiali,
le quali a quei che vedeno son tanto manifeste?
Gervasio. - Io li risponderei che se lui avesse occhii, non ne
dimandarebe evidenza, ma le potrebe veder da per lui; ma es-
sendo cieco, è anco impossibile che altri gli le dimostri.
Teofilo. — Similmente potrai dire a costoro, che se avessero
intelletto, non ne dimandarebono altra evidenza; ma la potre-
bono veder da per essi.
Gervasio. — Di questa riposta quelli si vergognarebono, et
altri la stimarebono troppo cinica.
Teofilo. - Dumque li direte più copertamente cossi: «Illu-
strissimo signor mio» o «sacrata maestà, come alcune cose non
possono essere evidenti se non con le mani et il toccare, altre se
non con l'udito, altre non, eccetto che con il gusto, altre non, [i8i]
eccetto che con gli occhi: cossi questa materia di cose naturali
non può essere evidente se non con l'intelletto».
Gervasio. — Quello forse intendendo il tratto per non esser
tanto oscuro né coperto, me dirà: «Tu sei quello che non hai
intelletto: io ne ho più che quanti tuoi pari si ritroveno».
Teofilo. — Tu non lo crederai più che se un cieco ti dicesse,
che tu sei un cieco e che lui vede più che quanti pensano veder
come tu ti pensi.
DicsoNO. — Assai è detto in dimostrar più evidentemente,
che mai abbia udito, quel che significa il nome «materia», e
quello che si deve intender materia nelle cose naturali. Cossi il
Timeo pitagorico ^^ il quale, dalla trasmutazione dall'uno ele-
mento nell'altro, insegna ritrovar la materia che è occolta, e che
non si può conoscere, eccetto che con certa analogia-*^: «Dove
era la forma della terra» dice lui^**, «appresso appare la forma
de l'acqua», e qua non si può dire che una forma riceva l'altra;
46. Il riferimento è qui allo scritto dello pseudo-Timeo di Locri, intitolato
De anima mundi et natura, p. 94A (cfr. Mullach, Fragm., II, 38). Si veda la
versione latina di L. Nogarola, Timaei Locri De animo mundi et natura, Pari-
siis, 1572 (e per le ultime edizioni, cfr. G. Reale, Storta della filosofia antica,
Milano, voi. V, igSg'*, pp. 564-565).
47. Cfr. Timaeus Locrus, p. 3; Platone, Timaeus, 49 e-50 a.
48. È citazione che non si legge nel testo dello pseudo-Timeo.
684 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
perché un contrario non accetta né riceve l'altro''^, ciò è il secco
non riceve l'umido, opur la siccità non riceve la umidità: ma da
una cosa terza vien scacciata la siccità et introdotta la umidità,
e quella terza cosa è soggetto de l'uno e l'altro contrario, e non è
contraria ad alcuno. Adumque se non è da pensar che la terra
sia andata in niente, è da stimare che qualche cosa che era
nella terra, è rimasta et è ne l'acqua: la qual cosa per la mede-
sima raggione, quando l'acqua sarà trasmutata in aria (per quel
[183] che la virtù del calore la viene ad estenuare in fumo o vapore)
rimarrà e sarà nel aria.
Teofilo. - Da questo si può conchiudere (anco a lor di-
spetto) che nessuna cosa si anihila e perde l'essere, eccetto che
la forma accidentale esteriore e materiale: però tanto la materia
quanto la forma sustanziale di che si voglia cosa naturale, che è
l'anima, sono indissolubili 5*^ et adnihilabili perdendo l'essere al
tutto e per tutto; tali per certo non possono essere tutte le forme
sustanziali de Peripatetici et altri simili, che consisteno non in
altro, che in certa complessione et ordine di accidenti: e tutto
quello che sapranno nominar fuor che la lor materia prima,
non è altro che accidente, complessione, abito di qualità, prin-
cipio di definizione, quiddità^i. Là onde alcuni cucullati^^ sut-
tili metafisici'' tra quelli, volendo più tosto iscusare che accu-
sare la insufficienza del suo nume Aristotele, hanno trovata la
umanità, la bovinità, la olività, per forme sustanziali specifiche:
questa umanità, come socreità, questa bovinità, questa cavalli-
nità, essere la sustanza numerale 5-*; il che tutto han fatto per
donarne una forma sustanziale, la quale merite nome di su-
stanza, come la materia ha nome et essere di substanza. Ma
49. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai, I, 5, 188 a 30.
50. Il prefisso privativo di in-dissolubili vale implicitamente per adnihila-
bili.
51. Quiddità è, in Aristotele, il «ri rjv EÌvai» di una cosa, la sua essenza
espressa in una definizione.
52. Monaci (cfr. Dialogo primo, p. 630, nota 70); cfr. G. Bruno, Acrotismus,
art I, Op. lai., I, i, pp. 85-86: «Considerate an Aristoteles docuerit unquam di-
cere de Socrate, de Calila, de Platone, esse scientiam, secundum quod homo, de
homine esse scientia secundum rationem specificam, quoad ejus substantiam,
essentiam, naturam: an potius sint quorundam Scolasticorum voces, atque si-
milium cucullatorum?».
53. I discepoli di Duns Scoto, il «Dottor Sottile».
54. La «sustanza numerale» (la haecceitas scotista) è la sostanzialità dell'in-
dividuo, la forma individuante che viene ad assommarsi alla forma specifica.
TERZO DIALOGO 685
però non han profittato già mai nulla; perché se gli dimandate
per ordine: «In che consiste l'essere sustanziale di Socrate?», ri-
sponderanno: «Nella socreità»; se oltre dimandate: «Che inten-
dete per socreità?», risponderanno: «La propria forma sustan-
ziale e la propria materia di Socrate». Or lasciamo star questa
sustanza che è la materia; e ditemi, che è la sustanza come
forma? Rispondeno alcuni, la sua anima. Dimandate: «Che cosa
è questa anima?». Se diranno una entelechia e perfezzione di [185]
corpo che può vivere ^5, considera che questo è uno accidente.
Se diranno che è un principio de vita^^, senso, vegetazione et
intelletto, considerate che benché quel principio sia qualche su-
stanzia fundamentalmente considerato come noi lo conside-
riamo, tutta volta costui non lo pone avanti, se non come acci-
dente; perché esser principio di questo o di quello, non dice rag-
gione sustanziale et assoluta, ma una raggione accidentale e
respettiva a quello che è principiato: come non dice il mio es-
sere e sustanza quello che proferisce lo che''' io fo o posso fare;
ma sì bene quel che dice lo che io sono, come io, et absoluta-
mente considerato. Vedete dumque come trattano questa forma
sustanziale che è l'anima: la quale se pur per sorte è stata cono-
sciuta da essi per sustanza, già mai però l'hanno nominata né
considerata come sustanza. Questa confusione molto più evi-
dentemente la possete vedere se dimandate a costoro, la forma
sustanziale d'una cosa inanimata, in che consista, come la
forma sustanziale del legno: fingeranno que' che son più sottili:
nella ligneità. Or togliete via quella materia la quale è comune
al ferro, al legno e la pietra, e dite: quale resta forma sustanziale
del ferro? giamai ve diranno altro che accidenti; e questi sono
tra principii d'individuazione, e danno la particularità, perché
la materia non è contraibile alla particularità, se non per qual-
che forma; e questa forma, per esser principio constitutivo
d'una sustanza, vogliono che sia sustanziale, ma poi non la po-
tranno mostrare fisicamente, se non accidentale; et al fine
quando aranno fatto tutto, per quel che possono, hanno una [187]
forma sustanziale sì, ma non naturale, ma logica: e cossi al fine
55. Celebre definizione di Aristotele, De anima, II, i, 412 a 27-28.
56. Definizione platonica dell'anima.
57. Cfr. lo spagnolo «lo que».
686 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
qualche logica intenzione viene ad esser posta principio di cose
naturali.
DicsoNO. - Aristotele non si awedde di questo?
Teofilo. — Credo che se ne awedde certissimo; ma non vi
potte^^ rimediare: pero disse che l'ultime differenze sono inno-
minabili et ignote.
DicsoNO. - Cossi mi pare che apertamente confesse la sua
ignoranza; e però giudicarci ancor io esser meglio di abbracciar
que' principii di filosofia, li quali in questa importante di-
manda non allegano ignoranza: come fa Pitagora, Empedocle et
il tuo Nolano, le opinioni de quali ieri toccaste.
Teofilo. - Questo vuole il Nolano: che è uno intelletto che
dà l'essere [a] ogni cosa, chiamato da Pitagorici et il Timeo «da-
tore de le forme»; una anima e principio formale che si fa et
informa ogni cosa, chiamata da medesmi «fonte de le forme»;
una materia della quale vien fatta e formata ogni cosa, chia-
mata di tutti «ricetto de le forme».
DicsONO. - Questa dottrina (per che par che non gli manca
cosa alcuna) molto mi aggrada: e veramente è cosa necessaria
che come possiamo ponere un principio materiale costante et
etemo, poniamo un similmente principio formale. Noi veg-
giamo che tutte le forme naturali cessano dalla materia, e no-
vamente vegnono nella materia: onde par realmente nessuna
cosa esser costante, ferma, etema e degna di aver esistimazione
di principio, eccetto che la materia; oltre che le forme non
hanno l'essere senza la materia, in quella si generano e corrom-
pono, dal seno di quella esceno, et in quello si accogliono: però
la materia la qual sempre rimane medesima e feconda, deve
aver la principal prorogativa d'essere conosciuta sol principio
substanziale, e quello che è, e che sempre rimane; e le forme ^^
tutte insieme non intenderle, se non come che sono disposizioni
varie della materia, che sen vanno e vegnono, altre cessano e se
rinnovano: onde non hanno riputazione tutte di principio. Però
si son trovati di quelli che avendo ben considerata la raggione
delle forme naturali, come ha possuto aversi da Aristotele et
altri simili, hanno concluso al fine, che quelle non son che ac-
58. Forma napoletana arcaica per «potè».
59. Cioè le forme individuali.
TERZO DIALOGO 687
cidenti e circostanze della materia; e però prerogativa di atto e
di perfezzione doverse referire alla materia, e non a cose de
quali veramente possiamo dire che esse non sono sustanza né
natura, ma cose della sustanza e della natura: la quale dicono
essere la materia, che appresso quelli è un principio necessario
etemo e divino, come a quel moro Avicebron '''^ che la chiama
«Dio che è in tutte le cose».
Teofilo. — A questo errore son stati ammenati quelli da
non conoscere altra forma che l'accidentale: e questo moro,
benché dalla dottrina peripatetica nella quale era nutrito,
avesse accettata la forma sustanziale, tutta volta consideran-
dola come cosa corrottibile, non solo mutabile circa la materia;
e come quella che è parturita e non parturisce, fondata e non
fonda, è rigettata e non rigetta, la dispreggiò e la tenne a vile in
comparazione della materia stabile, etema, progenitrice, madre.
E certo questo avviene a quelli che non conoscono quello che [191]
conosciamo noi.
DicsoNO. — Questo è stato molto ben considerato: ma è
tempo che dalla digressione ritorniamo al nostro proposito.
Sappiamo ora distinguere la materia dalla forma, tanto dalla
forma accidentale (sia come la si voglia) quanto dalla sustan-
ziale: quel che resta a vedere è la natura e realità sua. Ma prima
vorrei saper se per la grande unione, che ha questa anima del
mondo e forma universale con la materia, si potesse patire
quell'altro modo e maniera di filosofare, di quei che non sepa-
rano l'atto dalla raggion della materia, e la intendeno cosa di-
vina: e non pura et informe talmente, che lei medesma non si
forme e vesta.
Teofilo. — Non facilmente, perché niente assolutamente
opera in se medesimo, e sempre è qualche distinzion tra quello
che è agente e quello che è fatto, o circa il quale è l'aczione et
operazione: là onde è bene nel corpo della natura distinguere la
materia da l'anima; et in questa distinguere quella raggione
delle specie^'. Onde diciamo in questo corpo tre cose: prima
l'intelletto universale indito nelle cose; secondo, l'anima vivifi-
60. Si veda supra, nota 38.
61. «La raggione delle specie» è «l'intelletto universale», menzionato nella
frase successiva.
688 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
catrice del tutto; terzo, il soggetto. Ma non per questo negaremo
esser filosofo colui che prenda nel geno di suo filosofare questo
corpo formato, o (come vogliam dire) questo animale razionale;
e comincie a prendere per primi principii in qualche modo i
membri di questo corpo, come dire, aria, terra, fuoco; over ete-
rea regione et astro; over spirito e corpo; opur vacuo e pieno:
[193] intendendo però il vacuo non come il prese Aristotele; o pur in
altro modo conveniente. Non mi parrà però quella filosofia de-
gna di essere rigettata, massime quando sopra a qualsivoglia
fundamento che ella presuppona, o forma d'edificio che si pro-
pona. venga ad effettuare la perfezzione della scienzia specula-
tiva e cognizione di cose naturali, come in vero è stato fatto da
molti più antichi filosofi. Perché è cosa da ambizioso, e cervello
presuntuoso, vano et individioso, voler persuadere ad altri, che
non sia che una sola via di investigare, e venire alla cognizione
della natura: et è cosa da pazzo et uomo senza discorso donarlo
ad intendere a se medesimo. Benché dumque la via più co-
stante e ferma, e più contemplativa e distinta, et il modo di
considerar più alto deve sempre esser preferito, onorato e pro-
curato più, non per tanto è da biasimar quell'altro modo, il
quale non è senza buon frutto, ben che quello non sia il mede-
smo arbore.
DicsoNO. — Dumque approvate il studio de diverse filosofie?
Teofilo. - Assai, a chi ha copia di tempo et ingegno; ad
altri approvo il studio della megliore, se gli dèi vogliono che la
addovine.
DicsoNO. - Son certo però che non approvate tutte le filoso-
fie, ma le buone e le megliori.
Teofilo. — Cossi è: come anco in diversi ordini di medicare,
non riprovo quello che si fa magicamente per applicazion di
radici, appension di pietre e murmurazione d'incanti ^^, s'il ri-
gor di teologi mi lascia parlar come puro naturale. Approvo
[195] quello che si fa fisicamente, e procede per apotecarie ricette, con
le quali si perseguita o fugge la còlerà, il sangue, la flemma e la
62. Bruno approva la medicina magica anche nel Sigillus sigillorum, I, 39,
Op. lat, II, 2, pp. 183-184 (traduz. di N. Tirinnanzi, Milano, 1997. pp. 384-385),
così come in De gli eroici furori, I, 5, p. 606.
TERZO DIALOGO D09
melancolia^^. Accetto quello altro che si fa chimicamente, che
abstrae le quinte essenze, e per opera del fuoco, da tutti que'
composti fa volar il mercurio, subsidere il sale, e lampeggiar o
disogliar il solfro*^. Ma però in proposito di medicina, non vo-
glio determinare tra tanti buoni modi, qual sia il megliore:
perché l'epilettico sopra il quale han perso il tempo il fisico et il
chimista, se vien curato dal mago, approvare non senza rag-
gione più questo, che quello e quell'altro medico. Similmente
discorri per l'altre specie: de quali nessuna verrà ad essere men
buona che l'altra, se cossi l'una come le altre viene ad effettuar
il fine che si propone. Nel particolar poi è meglior questo me-
dico che mi sanarà, che gli altri che m'uccidano o mi tormen-
tino.
Gervasio. — Onde avviene che son tanto nemiche tra lor
queste sette di medici?
Teofilo. — Dall'avarizia, dall'invidia, dall'ambizione e dal-
l'ignoranza. Comunmente a pena intendono il proprio metodo
di medicare, tanto si manca che possano aver raggione di quel
d'altrui. Oltre che la maggior parte non possendo alzarsi al-
l'onor e guadagno con proprie virtù, studia di preferirsi con ab-
bassar gli altri, mostrando dispreggiar quello che non può ac-
quistare. Ma di questi l'ottimo e vero, è quello che non è sì fi-
sico, che non sia anco chimico e matematico. Or per venir al
proposito: tra le specie della filosofia, quella è la meglior che più
comoda et altamente effettua la perfezzion de l'intelletto
umano, et è più corrispondente alla verità della natura, e [197]
quanto sia possibile [ne renda] coperatori di quella, o divi-
nando (dico per ordine naturale, e raggione di vicissitudine;
non per animale istinto come fanno le bestie e que' che gli son
simili; non per ispirazione di buoni o mali demoni, come fanno
i profeti; non per melancolico entusiasmo, come i poeti et altri
63. I quattro umori della medicina antica.
64. Sulla natura di queste operazioni, cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille ai
dialoghi «De la causa», in Id., Schede bruniane cit, postilla 8^ pp. 138-139 (dove
sono riportati tre brani della Pirotechnia di V. Biringuccio (Vinegia, 1559, cap.
Del solfo et sua miniera, ce. 25^, 26'' e 2^"); cfr. inoltre G. Bracesco, Legno
della vita, 1542, f. D iv": «nello aceto [il metallo] sublimare il suo sale & solpho,
il quale solpho tu l'hai tanto a lavare, che quella rubedine ontuosa & adhusti-
bile si separi, & quello che diventi bianco come argento». La triade «mercu-
rio», «sale» e «solfro» rinvia a Paracelso (si veda supra, nota 39).
690 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
contemplativi), o ordinando leggi e riformando costumi, o me-
dicando, o pur conoscendo e vivendo una vita più beata e più
divina. Eccovi dumque come non è sorte di filosofia, che sia
stata ordinata da regolato sentimento, la quale non contegna in
sé qualche buona proprietà, che non è contenuta da le altre. Il
simile intendo della medicina, che da tai principii deriva, quali
presupponeno non imperfetto abito di filosofia: come l'opera-
zion del piede o della mano, quella de l'occhio. Però è detto che
non può aver buono principio di medicina, chi non ha buon
termine di filosofia^'.
DicsoNO. — Molto mi piacete, e molto vi lodo: che sì come non
séte cossi plebeio come Aristotele, non séte anco cossi ingiurioso
et ambizioso come lui; il quale l'opinioni di tutti altri filosofi, con
gli lor modi di filosofare, volse che fussero a fatto dispreggiate.
Teofilo. - Benché de quanti filosofi sono, io non conosca
più fondato su l'imaginazioni e rimosso dalla natura che lui; e
se pur qualche volta dice cose eccellenti, son conosciute che
non dependeno da principii suoi, e però sempre son proposi-
zioni tolte da altri filosofi: come ne veggiamo molte divine nel
199] libro Della generazione, Meteora, De animali e Piante^^.
DicsONO. — Tornando dumque al nostro proposito: volete
che della materia, senza errore et incorrere contradizzione, se
possa definire diversamente?
Teofilo. - Vero, come del medesmo oggetto possono esser
giodici diversi sensi; e la medesma cosa si può insinuar diver-
samente. Oltre che (come è stato toccato) la considerazione di
una cosa si può prendere da diversi capi. Hanno dette molte
cose buone gli Epicurei, benché non s'inalzassero sopra la qua-
lità materiale; molte cose excellenti ha date a conoscere
Eraclito, benché non salisse sopra l'anima. Non manca Anassa-
gora di far profitto nella natura''^, perché non solamente entro a
65. Si veda supra. p. 680, l'elogio di Paracelso e il biasimo di Galeno.
66. Si veda l'enumerazione bruniana delle opere naturalistiche di Aristo-
tele nella Figuratio Physici auditus, «Divisio naturalis philosophiae», Op. lat, I,
4, p. 141.
67. Cfr. G. Bruno, De immenso. III, 8, Op. lai., I, i, p. 377 (ed. Monti cit.,
p. 560: «Anassagora ... riteneva la sostanza del Sole terrea ed ignea, densa per
l'umido nel corpo lucente e, con un'unica parola, la definì pietra ardente. Non
si sa se forse perché non aveva con ciò troppo profondamente meditato sulla
sostanza divina e animale, fu giudicato dal popolo degno della morte»).
TERZO DIALOGO 69 1
quella, ma fuori, e sopra forse, conoscer voglia un intelletto, il
quale medesmo da Socrate, Platone, Trimegisto"^^ e nostri teo-
logi è chiamato Dio. Cossi niente manco bene può promovere a
scuoprir gli arcani della natura, uno che comincia dalla rag-
gione esperimentale di semplici (chiamati da loro)'^'*, che quelli
che cominciano dalla teoria razionale. E di costoro, non meno
chi da complessioni, che chi da umori ''", e questo non più che
colui che descende da sensibili elementi''^; o più da alto quelli
assoluti''^, o da la materia una, di tutti più distinto principio.
Perché talvolta chi fa più lungo camino, non farà però sì buono
peregrinaggio; massime se il suo fine non è tanto la contempla-
zione, quanto l'operazione. Circa il modo poi di filosofare, non
men comodo sarà di esplicar le forme come da un implicato,
che distinguerle come da un caos, che distribuirle come da un
fonte ideale, che cacciarle in atto come da una possibilità, che [201]
riportarle come da un seno, che dissotterarle alla luce come da
un cieco e tenebroso abisso^^: perché ogni fundamento è buono,
se viene approvato per l'edificio; ogni seme è convenevole, se gli
arbori e frutti sono desiderabili.
DicsoNO. — Or per venire al nostro scopo: piacciavi apportar
la distinta dottrina di questo principio.
Teofilo. — Certo questo principio che è detto materia può es-
sere considerato in doi modi: prima, come una potenza; secondo,
come un soggetto. In quanto che presa nella medesima significa-
zione che potenza, non è cosa nella quale in certo modo e secon-
do la propria raggione non possa ritrovarse: e gli Pitagorici ^""j
68. Cfr. G. Bruno, Spaccio, Dialogo terzo, pp. 354-365, per la «traduzione»
bruniana delV Asclepius pseudo-ermetico (come si legge nell'edizione aldina del
Mercurii Trismegisti Dialogus Lucio Apuleio Madaurensi Philosopho Plato-
nico Interprete, Venetiis, 1516, ff. I25'^-I4i''). Per quello che concerne l'in-
fluenza dell'ermetismo sul pensiero del Nolano, cfr. F. A. Yates, Bruno e la
tradizione ermetica, traduz. di B. Pecchioli, Roma-Bari, 2002^.
69. Vale a dire materialisti: da un canto, Anassagora (che parla di «parti»);
dall'altro, i seguaci di Democrito e di Epicuro (che parlano di «atomi»).
70. I quattro umori della medicina ippocratica e galenica, combattuta da
Paracelso; si veda supra, p. 680.
71. Anassagora, ad esempio.
72. Gli atomisti.
73. Allusioni, rispettivamente, a Nicolò Cusano, ad Anassagora, alla filoso-
fia «araba», ad Aristotele, di nuovo agli Arabi e infine ad Ermete Trismegisto.
74. Beninteso, i neo-pitagorici.
692 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Platonici "^5, Stoici et altri, non meno l'han posta nel mondo in-
telligibile, che nel sensibile. E noi non la intendendo a punto
come quelli la intesero, ma con una raggione più alta e più
esplicata, in questo modo raggionamo della potenza over possi-
bilità: - la potenza comunmente si distingue in attiva per la
quale il soggetto di quella può operare, et in passiva per la
quale o può essere, o può ricevere, o può avere, o può essere
soggetto di efficiente in qualche maniera. De la potenza attiva
non raggionando al presente, dico che la potenza che significa
in modo passivo (benché non sempre sia passiva) si può consi-
derare [o relativamente] o vero assolutamente; e cossi non è
cosa di cui si può dir l'essere, della quale non si dica il posser
essere ^^. E questa sì fattamente risponde alla potenza attiva,
che l'una non è senza l'altra in modo alcuno: onde se sempre è
[203] stata la potenza di fare, di produre, di creare, sempre è stata la
potenza di esser fatto, produto e creato; perché l'una potenza
implica l'altra: voglio dir, con esser posta, lei pone necessaria-
mente l'altra. La qual potenza, perché non dice imbecillità in
quello di cui si dice, ma più tosto confirma la virtù et efficacia,
anzi al fine si trova che è tutt'uno et a fatto la medesma cosa
con la potenza attiva, non è filosofo né teologo che dubiti di
attribuirla al primo principio sopra naturale ^^. Per che la pos-
sibilità assoluta per la quale le cose che sono in atto, possono
essere, non è prima che la attualità, né tampoco poi che quella:
oltre, il possere essere è con lo essere in atto, e non precede
quello; per che se quel che può essere facesse se stesso, sarebe
prima che fusse fatto ^^. Or contempla il primo et ottimo prin-
75. Cfr. Plotino, Enn., II, 4, 4 (e il titolo nella traduz. latina di M. Ficino,
Basileae, 1580, p. 160: Probat esse in intelligibili mundo materiam); Calcidio,
[Platonis] Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus, cap. CCCXX,
ed. J.-H. Waszink, London-Leyden, 1962, p. 316: «Recte igitur eam simpliciter
et ex natura sua neque corpoream neque incorpoream cognominamus, sed pos-
sibilitate corpus et item possibilitate non corpus».
76. Cfr. N. Cusano, De dacia ignorantia, II, 7, ed. Federici-Vescovini cit.,
p. 128: «Quomodo enim quid asset, si non potuisset esse?» («Quale cosa sa-
rebbe, se non potesse essere?»).
jy. Ivi, II, 8, ed. cit., p. 132: «Quare possibilitas absoluta in deo est deus,
extra ipsum vero non est possibilis» («Pertanto la possibilità assoluta è Dio in
Dio, e non è possibile fuori di lui»).
78. Cfr. N. Cusano, Trialogus de possest, ed. Federici-Vescovini cit., p. 750:
« Possibilitas ergo absoluta, de qua loquimur, per quam ea quae actu sunt, actu
esse possunt, non praecedit actualitatem, neque etiam sequitur. Quomodo
TERZO DIALOGO 693
cipio, il quale è tutto quel che può essere; e lui medesimo non
sarebe tutto, se non potesse essere tutto: in lui dumque l'atto e
la potenza son la medesima cosa. Non è cossi nelle altre cose, le
quali quantumque sono quello che possono essere, potrebono
però non esser forse; e certamente altro, o altrimente che quel
che sono: perché nessuna altra cosa è tutto quel che può essere.
Lo uomo è quel che può essere, ma non è tutto quel che può
essere. La pietra non è tutto quello che può essere, per che non
è calci, non è vase, non è polve, non è erba. Quello che è tutto
che può essere, è uno, il quale nell'esser suo comprende ogni
essere. Lui è tutto quel che è, e può essere qualsivogli'altra cosa
che è e può essere ^^. Ogni altra cosa non è cossi: però la potenza
non è equale a l'atto, perché non è atto assoluto ma limitato;
oltre che la potenza sempre è limitata ad uno atto, perché mai [205]
ha più che uno essere specificato e particolare; e se pur guarda
ad ogni forma et atto, questo è per mezzo di certe disposizioni, e
con certa successione di uno essere dopo l'altro. Ogni potenza
dumque et atto che nel principio è come complicato, unito et
uno, nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato ^''. Lo
universo che è il grande simulacro, la grande imagine e l'unige-
nita natura, è ancor esso tutto quel che può esser per le mede-
sime specie e membri principali e continenza di tutta la mate-
ria; alla quale non si aggionge e dalla quale non si manca, di
tutta et unica forma: ma non già è tutto quel che può essere per
le medesime differenze, modi, proprietà et individui; però non è
altro che un'ombra del primo atto e prima potenza, e per tanto
enim actualitas esse posset, possibilitate non existente? Coaetema ei^o sunt
absoluta potentia et actus et utriusque nexus» («Dunque la possibilità asso-
luta, di cui stiamo parlando, per la quale le cose che sono in atto possono
essere in atto, non precede l'attualità, e neppure la segue. E come l'attualità
potrebbe essere, se non esistesse la possibilità? La potenza assoluta, l'atto e il
loro nesso sono, dunque, coetemi»). Cfr. altresì Avicebron, Fons Vitae, V, 42.
79. N. Cusano, De dada ignorantta, II, 9, ed. Federici-Vescovini cit, p. 138:
«Unde formae rerum non sunt distinctae, nisi ut sint contraete. Ut sunt abso-
lute, sunt una indistincta, quae est Verbum in divinis» («Perciò le forme delle
cose sono distinte solo in modo contratto. Allorché sono in modo assoluto,
sono un'unica forma indistinta che, nella sfera divina, è il Verbo»).
80. Cfr. G. Bruno, Spaccio, Dialogo primo, p. 251: «l'unità è uno infinito im-
plicito, e l'infinito è la unità explicita»; N. Cusano, Trialogus de possest, ed.
Federici-Vescovini cit, p. 751: «Volo dicere omnia illa complicite in deo esse
deus sicut explicite in creatura mundi sunt mundus» («Voglio dire che tutto
ciò che è in Dio è complicativamente Dio, nella creatura del mondo è esplica-
tivamente mondo»).
694 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
in esso la potenza e l'atto non è assolutamente la medesima
cosa, per che nessuna parte sua è tutto quello che può essere.
Oltre che in quel modo specifico che abbiamo detto, l'universo
è tutto quel che può essere, secondo un modo esplicato, di-
sperso, distinto: il principio suo è unitamente et indifferente-
mente; perché tutto è tutto et il medesmo semplicissimamente,
senza differenza e distinzione.
DicsoNO. - Che dirai della morte, della corrozzione, di vizii,
di difetti, di mostri? volete che questi ancora abiano luogo in
quello che è il tutto che può essere, et è in atto tutto quello che
è in potenza?
Teofilo. — Queste cose non sono atto e potenza; ma sono
difetto et impotenza, che si trovano nelle cose esplicate, per che
non sono tutto quel che possono essere, e si forzano a quello
[207] che possono essere: là onde non possendo essere insieme et ad
un tratto tante cose, perdeno l'uno essere per aver l'altro; e
qualche volta confondeno l'uno essere con l'altro, e tal'or sono
diminuite, manche e stroppiate, per l'incompassibilità di questo
essere e di quello, et occupazion della materia in questo e
quello. Or tornando al proposito: il primo principio assoluto è
grandezza, è magnitudine: et è tal magnitudine e grandezza, che
è tutto quel che può essere. Non è grande di tal grandezza che
possa esser maggiore, né che possa esser minore, né che possa
dividersi, come ogni altra grandezza che non è tutto quel che
può essere; però è grandezza massima, minima, infinita, impar-
tibile, e d'ogni misura^^ Non è maggiore, per esser minima; non
è minima, per esser quella medesima massima^^; è oltre ogni
equalità, per che è tutto quel che ella possa essere. Questo che
dico della grandezza, intendi di tutto quel che si può dire^^:
81. Cfr. ivi ed. cit, p. 751: «Si ergo deus est magnus magnitudine quae id est
quod esse potest et — ut dicis — quae maior non potest et quae minor esse non
potest, tunc deus est magnitudo maxima pariter et minima» («Se, dunque. Dio
è grande della grandezza che è ciò che può essere e che, come dici, non può essere
più grande o più piccola. Dio è, allora, la grandezza parimenti massima e mi-
nima»); De docta ignorantta, I, 4, ed. Federici-Vescovini cit, pp. 61-63.
82. Cfr. ivi, I, 16, ed. cit, p. 82: «Maximum enim, cui non opponitur mini-
mum, necessario omnium est adaequatissima mensura, non maior quia mini-
mum, non minor quia maximum» («Il massimo, infatti, a cui non si oppone il
minimo, è necessariamente la più adeguata misura di tutto: non maggiore,
perché è il minimo, non minore, perché è il massimo»).
83. Cfr. N. Cusano, Trialogus de possest, ed. Federici-Vescovini cit., p. 752:
TERZO DIALOGO 695
perché è similmente bontà che è ogni bontà che possa essere, è
bellezza che è bellezza che è tutto il bello che può essere; e non
è altro bello che sia tutto quello che può essere, se non questo
uno. Uno è quello che è tutto e può esser tutto assolutamente.
Nelle cose naturali oltre non veggiamo cosa alcuna, che sia al-
tro che quel che è in atto, secondo il quale è quel che può essere
per aver una specie di attualità: tuttavia né in questo unico
esser specifico giamai è tutto quel che può essere qualsivoglia
particulare. Ecco il sole: non è tutto quello che può essere il
sole, non è per tutto dove può essere il sole, per che quando è
oriente a la terra, non gli è occidente, né meridiano, né di altro
aspetto ^■'. Or se vogliamo mostrar il modo con il quale Dio è
sole, diremo (perché è tutto quel che può essere) che è insieme [209]
oriente, occidente, meridiano, merinozziale, e di qualsivoglia di
tutti punti de la convessitudine della terra: onde se questo sole
(o per sua revoluzione, o per quella de la terra) vogliamo inten-
dere che si muova e muta loco, perché non è attualmente in un
punto senza potenza di essere in tutti gli altri, e però have at-
titudine ad esservi; se dumque è tutto quel che può essere, e
possiede tutto quello che è atto a possedere, sarà insieme per
tutto et in tutto; è sì fattamente mobilissimo e velocissimo, che
è anco stabilissimo et immobilissimo: però tra gli divini di-
scorsi troviamo che è detto «stabile in etemo», e «velocissimo
che discorre da fine a fine»^^^ perché se intende inmobile quello
che in uno istante medesimo si parte dal punto di oriente et è
«Et fortassis non solum in magnitudine hoc verum, sed etiam in omnibus
quae de creaturis verificantur» («Questo, tuttavia, è vero non solo della gran-
dezza, ma anche di tutte le cose che si riscontrano nelle creature»).
84. Ivi: «Nam si dicitur, Deum esse Solem, utique si intelligitur id sane de
Sole, qui est omne id in actu, quod esse potest, tunc dare videtur, hic Sol non
esse aliquid simile ad illum» («Se si dice che Dio è Sole, ciò va inteso certa-
mente del Sole che è in atto tutto ciò che può essere: allora, vediamo chiara-
mente che questo Sole non è qualcosa di simile a quello»).
85. Cfr. Sapienza, VII, 22-24: «In essa, infatti, c'è uno spirito intelligente,
santo, / unico, molteplice, leggero, / nobilissimo, penetrante, incontaminato, /
terso, impassibile, amante del bene, acuto, / libero, benefico, filantropico, / sta-
bile, sicuro, senza preoccupazioni, / onnipotente, onniveggente / e che permea
tutti gli spiriti / intelligenti, puri, leggerissimi. / La Sapienza infatti è il più
agile di tutti i moti; / per la sua purezza attraversa e penetra ogni cosa»;
N. Cusano, Trialogus de possest, ed. Federici-Vescovini cit., pp. 758-759: «... et
verbum velociter currere et omnia penetrare atque a fine ad finem pertingere
atque ad omnia progredì» («Il Verbo corre velocemente e penetra tutte le cose,
va da un fine all'altro e avanza verso tutte le cose»).
696 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ritornato al punto di oriente; oltre che non meno si vede in
oriente, che in occidente, e qualsivoglia altro punto del circuito
suo: per il che non è più raggione che diciamo egli partirsi e
tornare, esser partito e tornato, da quel punto a quel punto, che
da qualsivoglia altro de infiniti, al medesimo; onde verrà esser
tutto e sempre in tutto il circolo et in qualsivoglia parte di
quello; e per consequenza ogni punto individuo dell'eclittica,
contiene tutto il diametro del sole: e cossi viene uno individuo
a contener il dividuo; il che non accade per la possibilità natu-
rale, ma sopranaturale: voglio dire quando si sopponesse che il
sole fosse quello che è in atto tutto quel che può essere. La po-
testà sì assoluta non è solamente quel che può essere il sole, ma
quel che è ogni cosa, e quel che può essere ogni cosa^^. Potenza
[211] di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite,
anima di tutte le anime, essere de tutto l'essere; onde altamen-
te è detto dal Revelatore*^^: «Quel che è me invia, colui che è
dice cossi». Però quel che altrove è contrario et opposito, in lui
è uno e medesimo, et ogni cosa in lui è medesima: cossi di-
scorri per le differenze di tempi e durazioni, come per le diffe-
renze di attualità e possibilità; però lui non è cosa antica e non
è cosa nuova, per il che ben disse il Revelatore^^: «primo e no-
vissimo».
DicsoNO. - Questo atto absolutissimo, che è medesimo che
l'absolutissima potenza, non può esser compreso da l'intelletto,
se non per modo di negazione: non può, dico, esser capito né in
quanto può esser tutto, né in quanto è tutto; perché l'intelletto
86. Cfr. G. Bruno, Lampas triginta statuarum, V, «De patre, seu mente, seu
plenitudine», Op. lat.. Ili, p. 40: «Sicut in se ipso est idem undique, ita in aliis,
quorum nuUum est extra ipsum, intelligitur velut essentia essentiae, anima
animae, natura naturae».
87. Qui, Mosè. Cfr. Esodo, III, 14; G. Bruno, Articuli adversus mathematicos,
Op. lai., I, 3, p. 26: «unum est ens, unum est verum, multitudo vero relinquitur
ut accidens, ut vanitas, ut non ens: ita intelliges ubi monadis vocem audies:
SUM QUOD EST»; N. Cusano, Trialogus de possest, ed. Federici-Vescovini cit,
p. 754: «Ideo dum deus sui vellet notitiam primo revelare, dicebat "Ego" sum
"deus omnipotens", id est sum actus omnis potentiae. Et alibi: "Ego sum qui
sum". Nam ipse est qui est» («Quando Dio volle al principio dare notizia in sé,
disse per questo: "Io sono Dio onnipotente", cioè l'atto di ogni potenza. E al-
trove: "Io sono chi sono". Infatti egli è colui che è»).
88. Qui, il profeta Isaia oppure l'autore deW Apocalisse. Cfr. Isaia, XLI, 4:
«Io, lahvé, sono il primo, / ma sono ugualmente con gli ultimi»; XLIV, 6: «Io
il primo e io l'ultimo»; XLVIII, 12: «Io sono, io il primo, / io parimenti l'ulti-
mo»; Apocalisse, I, 17: «Io sono il Primo e l'Ultimo».
TERZO DIALOGO 697
quando vuole intendere, gli fia mestiere di formar la specie in-
telligibile, di assomigliarsi, conmesurarsi et ugualarsi a quella:
ma questo è impossibile, perché l'intelletto mai è tanto che non
possa essere maggiore; e quello per essere inmenso da tutti lati e
modi, non può esser più grande. Non è dumque occhio ch'ap-
prossimar si possa o ch'abbia accesso a tanto altissima luce e sì
profondissimo abisso ^^.
Teofilo. — La concidenzia di questo atto con l'assoluta po-
tenza è stata molto apertamente descritta dal spirto divino
dove dice: « Tenehrae non obscurabuntur a te. Nox sicut dies illu-
minabitur. Sicut tenehrae eius, ita et lumen eius»'^^. Conchiudendo
dumque vedete quanta sia l'eccellenza della potenza la quale se
vi piace chiamarla raggione di materia, che non hanno pene-
trato i filosofi volgari, la possete senza detraere alla divinità
trattar più altamente, che Platone nella sua Politica et il Ti- [213]
meo''^ Costoro per avemo^^ troppo alzata la raggione della ma-
teria son stati scandalosi ad alcuni teologi. Questo è accaduto o
perché quelli non si son bene dechiarati, o perché questi non
hanno bene inteso, perché sempre prendeno il significato della
materia secondo che è soggetto di cose naturali solamente, come
nodriti nelle sentenze d'Aristotele; e non considerano che la
materia è tale appresso gli altri, che è comune al mondo intel-
ligibile e sensibile ^^, come essi dicono, prendendo il significato
secondo una equivocazione analoga. Però prima che sieno con-
dannate denno essere ben bene essaminate le opinioni, e cossi
distinguere i linguaggi come son distinti gli sentimenti: atteso
che benché tutti convegnano tal volta in una raggion comune
della materia, sono differenti poi nella propria. E quanto appar-
tiene al nostro proposito, è impossibile (tolto il nome della ma-
teria, e sie capzioso e malvaggio ingegno quantosivoglia) che si
89. Cfr. G. Bruno, De gli eroici furori, II, 2, p. 694: «Questa verità è cercata
come cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensi-
bile»; N. Cusano, De docta ignorantia, I, 3, ed. Federici-Vescovini cit, pp. 60-61:
Quod praecisa veritas sii incomprehensibtlis («La verità precisa è incomprensi-
bile»).
90. Salmi. CXXXIX, 12: «Le tenebre non sono oscure abbastanza per te / e
la notte risplende qual giorno; / tenebre e luce sono la stessa cosa».
91. Vale a dire lo pseudo-Timeo di Locri; cfr. Calcidio, [Platonis] Timaeus
cit., p. 316.
92. Forma coniugata d'infinito.
93. Cfr. Plotino, Enn., II, 4, 4 (ed. italiana, Torino, 1997, voi. I, pp. 278-279).
698 DE LA CAUSA, PRINXIPIO ET UNO
trove teologo che mi possa imputar impietà, per quel che dico
et intendo della coincidenza della potenza et atto, prendendo
assolutamente l'uno e l'altro termino. Onde vorrei inferire che
(secondo tal proporzione, quale è lecito dire) in questo simula-
cro''"' di quell'atto e di quella potenza, per essere in atto speci-
fico tutto quel tanto che è in specifica potenza, pertanto che
l'universo secondo tal modo è tutto quel che può essere (sie che
si voglia quanto a l'atto e potenza numerale), viene ad aver una
potenza la quale non è absoluta dall'atto; una anima non abso-
luta dal animato, non dico il composto, ma il semplice: onde
cossi del universo sia un primo principio che medesmo se in-
[215] tenda, non più distintamente materiale e formale; che possa in-
ferirse dalla similitudine del predetto, potenza absoluta et atto.
Onde non fia difficile o grave di accettar al fine che il tutto
secondo la sustanza è uno: come forse intese Parmenide, igno-
bilmente trattato da Aristotele'''.
DicsONO. — Volete dumque che benché descendendo per
questa scala di natura, sia doppia sustanza, altra spirituale altra
corporale, che insomma l'una e l'altra se riduca ad uno essere et
una radice.
Teofilo. - Se vi par che si possa comportar da quei che non
penetrano più che tanto.
DicsoNO. — Facilissimamente, pur che non t'inalzi sopra i
termini della natura.
Teofilo. - Questo è già fatto. Se non avemo quel medesimo
senso e modo di diffinire della divinità il quale [è] comune,
avemo un particolare, non però contrario, né alieno da quello:
ma più chiaro forse e più esplicato, secondo la raggione che non
è sopra il nostro discorso, da la quale non vi promesi ''^ di aste-
nermi.
DicsoNO. — Assai è detto del principio materiale, secondo la
94. L'universo.
95. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., I, 3, i86a 22 e segg.; Metaph., I, 5,
986 b 27 e segg.; G. Bruno, Acrotismus. art. Ili, Op. lai., I, i. p. 96: «Unum ens
infinitum immobile bene posuit Xenophanes, et eius discipulus Parmenides, et
huius discipulus Melissus, nec feliciter eos insectatur Aristoteles». In realtà, il
monismo parmenideo si opponeva al dualismo pitagorico del pieno e del
vuoto, non al dualismo della materia e della forma: da qui l'esitazione di
Bruno.
96. Per «promisi», forma popolare ricorrente nei Dialoghi italiani di Bruno.
. TERZO DIALOGO 699
raggione della possibilità o potenza: piacciavi domani di appa-
recchiarvi alla considerazion del medesimo, secondo la raggione
dell'esser soggetto.
Teofilo. — Cossi farò.
Gervasio. - A rivederci.
POLiHiMNio. - Bonis avihus'^'^.
Fine del terzo dialogo [217]
97. Cfr. Ovidio, Fasti, I, 513: «este bonis avibus visi natoque mihique»
(«Fate che vi vediamo, mio figlio ed io, sotto buoni auspici»).
DIALOGO QUARTO
PoLiHiMNio. - «Et OS vulvae nunquam dicit: sufficit»^; idesi,
scilicet, videlicet, ut potè, quod est dictu, materia (la quale vien si-
gnificata per queste cose) recipiendis formis numquam expletur^.
Or poi che altro non è in questo Liceo, vel potius'' Antiliceo,
solus (ita inquam solus, ut minime omnium solus) deambulato, et
ipse mecum confahulahof^ . La materia dumque di Peripatetici
dal prencipe, e dell'altigrado ingenio del gran Macedone mode-
ratore 5, non minus che dal Platon divino et altri, or chaos, or
hyle, or sylva^, or massa, or potenzia, or aptitudine, or privationi
1. Cfr. Proverbi, XXX, i6; G. Boccaccio, Corbaccio, ed. Scrivano, p. 256:
«Egli è per certo quel golfo [la vulva] una voragine infernale; la quale allora si
riempirebbe, o sazierebbe, che il mare d'acqua o il fuoco di legna». Offre un
esempio di come questo tema sia utilizzato nella letteratura dei grammatici,
F. Luna, Vocabolario, Napoli, 1536, art. Fessura. È da_ osservare che la Vulgata
traduce con «os vulvae» l'espressione ebraica «W'' Oser Raham», che signi-
fica, al contrario, «seno chiuso» (cioè sterile): cfr. B. Garvin, Belli e i sonetti di
Morrovalle, «Il Belli» [Roma], II, 4, 1992 (e infatti, la versione italiana dei Pro-
verbi dovuta ad A. Penna, nella Sacra Bibbia, Torino, 1973^, II, p. 284, inter-
preta correttamente: « Lo Shed, il seno sterile, / la terra mai sazia d'acqua / e il
fuoco, che mai dice: "Basta!"»).
2. «Cioè, ben inteso, evidentemente, giacché, com'è noto, la materia non è
mai paga di ricevere le forme». È nel Timaeus, 49 a-53 b, che Platone definisce
la materia prima ricettacolo di tutta la generazione; il tema platonico è modi-
ficato da Aristotele, in Phys. Auscultai., I, 9, 192 a, dove si dice che la mate-
ria desidera la forma «come la femmina desidera il maschio». Cfr. altresì V In-
dex di Plutarco, Ethica sive moralia, Guilielmo Xylandro augustano inter-
prete, Basileae, 1572, alle voci «materia» e «materia prima» (che rinviano
soprattutto al plutarcheo Commentarius de animae procreatione, pars III, pp. 92-
126). Si veda, infine, B. Castiglione, // Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino,
^955' PP- 356'358, che, pur accettando il dualismo aristotelico, confuta l'affer-
mazione secondo la quale «l'omo s'assimiglia alla forma, la donna alla ma-
teria».
3. «O piuttosto». - Antiliceo, come a dire il luogo dove sistematicamente si
criticano i princìpi del Liceo, la scuola fondata da Aristotele.
4. «Andrò a passeggio da solo (intendo dire tanto solo che nessuno potrà
esserlo di più) e colloquierò con me stesso».
5. Aristotele, precettore di Alessandro Magno.
6. Cfr. Calcidio, [Platonis] Timaeus a Calcidio translatus commentarioque in-
DIALOGO QUARTO 701
admixtum, or peccati causa, or ad maleficium ordinata, or per se
non ens, or per se non scibile, or per analogiam ad formam cogno-
scibile, or tabula rasa, or indepictum, or subiectum, or substratum,
or substerniculum, or campus, or infinitum, or indeterminatum, or
^ro/>e ni/iz7, or ne^w^ ^-mì^, w^^we ^Ma/g, ne^M^ quantum'^; tandem^,
dopo aver molto con varie e diverse nomenclature (per definir
questa natura) collimato: ab ipsis scopum ipsum attingentibus'^,
femina vien detta; tandem inquam (ut una complectantur omnia
vocula), a melius rem ipsam perpendentibus faemina dicitur^^. E
me hercle^^ non senza non mediocre caggione a questi del Pal-
ladio regno senatori ^^ ha piaciuto di collocare nel medesimo
equilibrio queste due cose: materia e femina; poscia che da
l'esperienza fatta del rigor di quelle, son stati condotti a quella [219]
rabia e quella frenesia (or qua mi vien per filo un color retori-
co): Queste sono un chaos de irrazionalità, hyle di sceleraggini,
selva di ribalderie, massa di immundizie, aptitudine ad ogni
perdizione. (Un altro color retorico detto da alcuni complessioY^:
structus, cap. CXXIII, ed. J.-H. Waszink, London-Leyden, 1962, p. 167: «Chaos
quam Graeci hylen, nos silvam vocamus, substituisse terram».
7. Elenco di espressioni aristoteliche o derivate da Aristotele: «Mescolata
alla privazione, causa di peccato, orientata al male, entità per sé non esistente,
non conoscibile per sé, conoscibile solo per analogia con la forma, tavola pri-
vata di segni, senza raffigurazioni, soggetto passivo, sostrato, sottofondo,
campo, infinito, indeterminato, quasi niente, né cosa, né qualità, né quantità».
8. «Infine».
9. «Da coloro che vanno dritti al bersaglio».
10. Tandem ... dicitur. «Infine dico (per raccogliere in una voce tutte le al-
tre) che è stata chiamata femmina da quelli che hanno meglio valutata la cosa
per come stava»; tema ciceroniano (cfr. De finibus, V, g e De inventione, I, 40),
già utilizzato da G. Bruno, De umbris idearum, ed. a cura di R. Sturlese, Fi-
renze, 1991, p. 19: «LOGIFERO. Et uno verbo tandem omnia complectar...» (tra-
duz. di N. Tirinnanzi, Milano, 1997, p. 52: «Logifero. E infine per riassumere
tutto in una sola parola...»).
11. «Per Ercole!».
12. I filosofi.
13. «Complessione»; cfr. Rethorica ad Herennium, IV, 14: «Complexio est,
quae utramque complectitur exomationem, et hanc {conversió), et quam ante
exposuimus (repetitio), ut et repetatur idem verbum saepius et crebro ad idem
postremum revertamur»; G. Aquilecchia, Dieci postille ai dialoghi «De la
causa, in Id., Schede bruniane, Manziana, 1993, postilla 9*, pp. 139-140. Secondo
N. Franco, Dialoghi piacevoli, Vinegia, 1541, p. XLIV: «la complessione ... si fa
quando si ripete il medesimo primo verbo spesso, e spesso rivoltiamo l'ultimo
in questo modo: Chi è quello, che ogni giorno fa stampare la sua gramatica?
Giovanni Scoppa. Chi è quello, ch'ogni giorno ci fa la giunta? Giovanni
Scoppa. Chi è quello, che non scompone altro che goffe pedanterie? Giovan-
ni Scoppa. Chi è quello che poi le vende ne la sua scuola? Giovanni Scoppa.
Vedete dunque che honore sarà, quello che meriti Giovanni Scoppa».
702 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Dove era in potenza non solum remota, ma etiam propinqua la
destruzzion di Troia? In una donna'-". Chi fu l'instrumento
della destruzzion della sansonica fortezza? di quello eroe io dico
che con quella sua mascella d'asino che si trovava, dovenne
trionfator invitto di Filistei? Una donna '5. Chi domò a Capua
l'empito e la forza del gran capitano e nemico perpetuo della
Republica Romana Annibale? Una donna '^ {Exclamatió)^'':
Dimmi, o citaredo profeta, la caggion della tua fragilità; «Quia
in peccatis concepii me mater mea»^^. Come, o antico nostro pro-
toplaste'^, essendo tu un paradisico ortolano et agricoltor de
l'arbore de la vita, fuste maleficiato sì, che te con tutto il germe
umano al baratro profondo della perdizion risospingesti? «Mu-
lier quam dedit mihi, ipsa, ipsa me decepit»^^. Proculdubio^^ la
forma non pecca, e da nessuna forma proviene errore, se non
per esser congionta alla materia. Cossi la forma significata per il
maschio, essendo posta in familiarità della materia, e venuta in
composizione o copulazion con quella, con queste paroli, o pur
con questa sentenza risponde alla natura naturante ^^: «Mulier
quam dedisti mihi», idest la materia la quale mi hai dato con-
14. Cfr. B. Castiglione, Il Cortegiano;lV, 56, ed. Maier cit, p. 521: «Spesso
le bellezze di donne son causa che al mondo intervengon infiniti mali, inimi-
cizie, guerre, morti e distruzioni; di che pò far bon testimonio la mina di
Troia»; T. Folengo, Zanitonella, v. 549, in Macaronee minori, a cura di M. Zag-
gia, Torino, 1987, p. 251: «Troia per solam cecidit bagassam» («Troia è caduta
per un'unica bagascia»).
15. Cfr. Giudici, XVI, 1-21; G. Bruno, Cabala, Declamazione, p. 424; De
compositione imaginum, II, Op. lai, II, 3, p. 238.
16. Cfr. Livio, XXIII, 18; F. Petrarca, De remediis, I, 69, Lugduni, 1584,
p. 258: «Hannibal apud Ticinum, apud Trebiam, apud Trasimenam, apud
Cannam victor, ad demum in patria vincendus sua, prius ad Salapiam Apuliae
oppidum, quo inexcusabilior sit, meretricio amore subactus est»; Id., Trium-
phus cupidinis, w. 25-27; A. Calmo, Lettere, II, 5, Torino, 1888, p. 81: «Anibal
tanto superbo capitanio, per star a sonar cimbani de le femene puiese l'andete
vagabondo, vagando recete per levante».
17. «Esclamazione»; cfr. Rethorica ad Herennium, IV, 14; G. Aquilecchia,
Dieci postille cit. in Id., Schede bruniane cit, pp. 139-140.
18. Cfr. Salmi, LI, 7: «Ecco sono stato generato nell'iniquità; / mia madre
mi ha concepito nel peccato» Il «citaredo profeta» è David.
19. Si veda Dialogo primo, p. 621, nota 46.
20. «La donna che mi hai dato, è lei, proprio lei che mi ha ingannato». Cfr.
Genesi, III, 12: «Rispose l'uomo: "La donna che tu hai messo accanto a me, è
stata lei a darmi dell'albero, e io ho mangiato"».
21. «Senza dubbio».
22. Espressione scolastica che designa la natura vista come potere attivo e
produttivo (in opposizione alla natura naturata che è l'insieme delle cose esi-
stenti, prodotte da tale attività).
DIALOGO QUARTO 703
sorte, «ipsa me decepit», hoc esP^, lei è caggione d'ogni mio pec-
cato. Contempla, contempla, divino ingegno, qualmente gli
egregii filosofanti e de le viscere della natura discreti notomisti,
per pome pienamente avanti gli occhi la natura della materia, [221]
non han ritrovato più accomodato modo, che con avertirci con
questa proporzione: qual significa il stato delle cose naturali per
la materia, essere come l'economico, politico e civile per il femi-
neo sesso. Aprite, aprite gli occhi et — Oh, veggio quel colosso di
poltronaria Gervasio, il quale interrompe della mia nervosa
orazione il filo; dubito che son stato da lui udito: ma che im-
porta?
Gervasio. - Salve magister dodorum optime^'^.
PoLiHiMNio. - Se non {tuo moreY^ mi vuoi deludere, tu quo-
que salve^'^.
Gervasio. — Vorrei saper che è quello che andavi solo rumi-
nando.
POLiHiMNio. — Studiando nel mio muscolo, in eum qui apud
Aristotelem est locum incidi^'', del primo della Physica, in calce^^;
dove volendo elucidare che cosa fosse la prima materia, prende
per specchio il sesso feminile; sesso, dico, ritroso, fragile, incon-
stante, molle 29, pusillo, infame, ignobile, vile'°, abietto, negletto,
indegno, reprobo, sinistro, vituperoso, frigido, deforme, vacuo,
vano, indiscreto, insano, perfido, neghittoso, putido, sozzo, in-
grato, trunco, mutilo, imperfetto^', incoato, insufficiente, pre-
23. Idest - Hoc est «cioè».
24. «Salve, o maestro supremo dei dottori».
25. «Come al tuo solito».
26. «Salve anche a te».
27. «Sono capitato su quel passo che vi è in Aristotele».
28. Cfr. Aristotele, Phys. Ausciiltat, I, 9, 192 a 22-25.
29. Cfr. G. Bruno, Candelaio, I, 5, p. 292: «sexo molle, mobile, fragile et
incostante». Su questa definizione del sesso femminile — fra gli altri - cfr.
J. WiER, De praestigiis Daemonum, Basileae, 1583, coli. 253-256. Il tema dell'in-
costanza delle donne si trova già in Virgilio, Aen., IV, 569-570, in Opere, a
cura di C. Carena, Torino, 1971, pp. 464-465 («varium et mutabile semper /
foemina»); in Calpurnio, Bucolicon, III, io («mobilior ventis foemina»); in G.
Boccaccio, Filostrato, I, 22-24 («come al vento si volge la foglia, / così in un dì
ben mille volte il core / di lor si volge»); infine in A. Poliziano, Stanze, I, 14, i
cui versi divennero proverbiali nel XVI secolo.
30. Cfr. G. Boccaccio, Corbaccio cit, p. 233; «così vile sesso, come è il feme-
nile».
31. Cfr. Aristotele, De generatione animalium, IV, 6, 775 a, traduz. di D.
Lanza in Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, Torino, 1996^, p. 1004:
«Le femmine sono per natura più deboli e piìi fredde, e si deve supporre che la
704 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ciso, amputato, attenuato, rugine, eruca, zizania, peste, morbo,
morte:
Messo tra noi da la natura e Dio
per una soma e per un greve fio^^.
Gervasio. - Io so che voi dite questo più per esercitarvi ne
l'arte oratoria, e dimostrar quanto siate copioso et eloquente,
[223] che abbiate tal sentimento che dimostrate per le paroli. Per che
è cosa ordinaria a voi signori umanisti, che vi chiamate profes-
sori de le buone lettere, quando vi ritrovate pieni di que' con-
cetti che non possete ritenere, non andate a scaricarli altrove,
che sopra le povere donne; come quando qualch'altra còlerà vi
preme, venete ad isfogarla sopra il primo delinquente di vostri
scolari'^. Ma guardatevi, signori Orfei, dal furioso sdegno de le
donne tresse.
PoLiHiMNio. - Polihimnio son io, no sono Orfeo.
Gervasio. — Dumque non biasimate le donne da dovere?
Polihimnio. - Minime, minime quidem^^: io parlo da dovero
e non intendo altrimente, che come dico; per che non fo {sophy-
starum moreY^ professione di dimostrar ch'il bianco è nero'^.
Gervasio. — Perché dumque vi tingete la barba? ^^
Polihimnio. - Ma ingenue loquor^^: e dico che un uomo
natura femminile sia come una menomazione»; B. Castiglione, Il Cortegiano,
III, II, ed. Maier cit, p. 352: «quando nasce una donna, è diffetto o error della
natura, e contra quello che essa vorrebbe fare».
32. Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, XXVII, 119: «Credo che t'abbia la Na-
tura e Dio / produtto, o scelerato sesso, al mondo / per una soma, per un grave
fio».
33. Sul tema della pederastia del pedante, si veda Dialogo primo, p. 636,
nota 95. Cfr. G. Bruno, Candelaio. IV, 16, p. 373; Spaccio, I, p. 206.
34. «È così, è proprio così».
35. «Come usano i sofisti».
36. Tema classico (ricorrente in Bruno) della polemica antiumanistica.
Cfr. G. Pico, Lettera ad Ermolao Barbaro del 3 giugno 1485, in: Prosatori latini
del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, 1952, pp. 808-809: «È me-
stiere vostro, vi vantate, poter cambiare, a volontà, il nero in bianco, il bianco
in nero», ripreso, a scopo satirico, da Erasmo. Si vedano, ancora, le locuzioni
proverbiali di B. Castiglione, Il Cortegiano, I, 44, ed. Maier cit., p. 163: «Che
non si lasci dar a intendere il nero per lo bianco», nonché A. Calmo, Lettere,
Torino, 1988, III, 14, p. 187: «far parere il bianco per negro».
37. Cfr. L. Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, VII, a cura di S. Volpicella,
Napoli, 1887^, p. 109: «Dirà qualcun: Persona che si tinge / La barba, puro aver
non puote il petto: / Ciò che fa, ciò che dice, mente e finge».
38. «Parlo sinceramente».
DIALOGO QUARTO 7O5
senza donna, è simile a una de le intelligenze; è (dico) uno eroe,
un semideo qui non duxit uxorem^'^.
Gervasio. — Et è simile ad un'ostreca**", et ad un fungo an-
cora; et è un tartufo.
PoLiHiMNio. - Onde divinamente disse il lirico poeta:
Credile, Pisones, melius nil celibe vita'*^.
E se vuoi saperne la caggione, odi Secondo filosofo: «La fe-
mina» dice egli, «è uno impedimento di quiete, danno conti- [225]
nuo, guerra cotidiana, priggione di vita, tempesta di casa, nau-
fragio de l'uomo»"*^. Ben lo confirmò quel biscaino che fatto im-
paziente e messo in còlerà per una orribil fortuna e furia del
mare, con un torvo e coierie viso rivoltato a l'onde: «O mare
mare» disse, «ch'io ti potesse maritare»; volendo inferire che la
femina è la tempesta de le tempeste-*^ Per ciò Protagora, di-
mandato perché avesse data ad un suo nemico la figlia, rispose
che non possea fargli peggio che dargli moglie^''. Oltre, non mi
farà mentire un buon uomo francese, al quale (come a tutti gli
altri che pativano pericolosissima tempesta di mare) essendo
39. «Chi non ha preso moglie». Contro il matrimonio esistono testimo-
nianze di Orazio, Giovenale, Erasmo, Ariosto, Aretino e Rabelais.
40. Forma napoletana.
41. Fusione di due versi di Orazio, Epist., I, i, 88 («... melius nil caelibe
vita»: «nulla più desiderabile del celibato»); De arte poetica, 6 («Credite Piso-
nes»: «Ebbene, o Pisoni»). Cfr. Q. Orazio Placco, Le opere, a cura di T. Cola-
marino e D. Bo, Torino, 1969^, pp. 436 e 534.
42. Secondo-, filosofo del II secolo d. C, la cui Vita greca fu molto letta e
tradotta nel Medio Evo. Si veda la risposta al quesito n. io («ti èoxi ruvT)»,
«Che cos'è la donna?») in B. E. Perry, Secundus: the Silent Philosopher, Ithaca-
New York, 1964, pp. 84-85 (qui pure le traduzioni medievali di Willelmus
Medicus, p. 96, e di Vincent de Beauvais, p. 103, da cui dipende Secondo filo-
safo, in: / «Fiori di filosafi». Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. Se-
gre, Torino, 1969, pp. 185-189, «la femina», p. 187). Cfr. W. Burley, Liber de
Vita et Moribus Philosophorum, ed. H. Knust, Stuttgart, 1886, cap. CXXII, Se-
cundus, p. 380; L. Guicciardini, L'ore di ricreazione, ed. a cura di A.-M. Van
Passen, Leuven-Roma, 1990, I, 145, Opinione di filosofo astratto sopra il maritag-
gio, p. 97.
43. Cfr. M. A. Biondo, Angoscia, f. is"": «Oh Donna tu sei più pericolosa che
non è il mare tempestuoso»; L. Guicciardini, L'ore di ricreazione cit., I, 143,
pp. 96-97: «Orrenda è la tempesta del gran mare ... ma sopra tutto è peggio
mala donna».
44. Cfr. ivi, I, 142, p. 96: «Protagora filosofo domandato per qual causa egli
aveva maritata la sua figliuola a un suo nimico, rispose: "Perché io non gli
poteva far peggio, a mio giudizio, che dargli moglie"».
706 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
comandato da Cicala padron de la nave, di buttare le cose più
gravi al mare, lui per la prima vi gittò la moglie -^^
Gervasio. - Voi non riferite per il contrario tanti altri es-
sempi di coloro che si son stimati fortunatissimi per le sue
donne; tra quali (per non mandarvi troppo lontano): ecco sotto
questo medesmo tetto il signor di Mauvissiero, incorso in una,
non solamente dotata di non mediocre corporal beltade, che gli
awela et ammanta l'alma; ma oltre, che col triumvirato di
molto discreto giudizio, accorta modestia et onestissima corte-
sia, d'indissolubil nodo tien avvinto l'animo del suo consorte, et
è potente a cattivarsi chiumque la conosce-'''. Che dirai de la
generosa figlia, che a pena un lustro et un anno ha visto il sole;
e per le lingue non potrai giudicare s'ella è da Italia, o da Fran-
cia, o da Inghilterra-^^. Per la mano circa gli musici istrumenti,
non potrai capire s'ella è corporea, o incorporea sustanza. Per la
[227] matura bontà di costumi, dubitarai s'ella è discesa dal cielo, o
pur è sortita da la terra. Ognun vede che in quella non meno,
per la formazion di sì bel corpo, è concorso il sangue de l'uno e
45. L'aneddoto si trova già in T. Folengo, Baldus, XII, 571-580; XIII, 117-
121 (ed. Chiesa, Torino, 1997, pp. 558-559 e 568-569) e in L. Domenichi, Face-
tie. Motti et Burle, Venetia, 1581, p. 57. Sul tema delle «cose gravi», cfr. G. B.
MoDio, E convito... overo del peso della moglie, Roma, 1554 (poi in: Trattati del
Cinquecento sulla donna, a cura di G. Zonta, Bari, 1913, pp. 309-370). — Cicala:
V. Spampan.'^to, Postille storico-letterarie alle opere di Bruno, «La Critica» [Bari],
XI, 191 1, pp. 233-234, l'identifica col «Magnifico Odoardo Cicala», rimborsato
nel 1585 per le due galere che aveva messo a disposizione di Filippo II (e
barone d'Àngri, secondo G. C. Capaccio che, nel 1598. gli dedica i Mergellina);
nella sua Vita di Bruno [rist. anastatica con una postfazione di N. Ordine, Roma,
1988, p. 65, nota 2], lo stesso Spampanato lo presenta, invece, come «un cono-
scente, se non un amico» di Gioan Bruno, padre di Giordano. Si ricordi, in ul-
timo, il «Cicada» (forma latina di Cicala), personaggio del De gli eroici furori.
46. Michel de Castelnau, destinatario del De la causa, aveva sposato nel
giugno 1576 Marie de Bochetel, morta di parto nel dicembre 1586: cfr. Castel-
nau, Les Mémoires. Bruxelles, 173 1, p. 108. Si legga, inoltre, l'elogio di Maria
nella lettera di condoglianze inviata da Jean Bodin a Castelnau, ivi, p. 153
(«... J'ai remarqué tant d'argumens de la sincere affection & amitié qu'elle vous
portoit, & de sa Prudence, integrité, & courtoisie, qu'est impossible que vous
en eussiex pù souhaiter une plus parfaite»), e nei rendiconti del successore di
Castelnau all'ambasciata, ivi, p. 154 («qui s'estoit comportée si vertueusement
par tout & principalement en ce Pays, qu'elle y est fort regrettée de tous ceux
qui la luy ont connùe»).
47. Catherine-Marie de Castelnau era nata in Inghilterra. Il suo nome riu-
niva quello delle due madrine, Caterina de' Medici e Maria Stuart Sposò Louis
de Rochechouart nel 1595 e morì nel 1616. Gli elogi a lei riservati da Bruno si
sommano a quelli contenuti in una lettera che Maria Stuart, già prigioniera, ha
inviato alla sua figlioccia (cfr., ivi, p. no). Ricordiamo, infine, che ella ebbe
come precettore John Florio.
DIALOGO QUARTO 707
l'altro parente, ch'alia fabrica del spirto singulare, le virtù del-
l'animo eroico di que' medesimi.
PoLiHiMNio. — Rara avis'^^ come la Maria da Bohstel. Rara
avis come la Maria da Castelnovo'^''.
Gervasio. - Quel raro che dite de le femine, medesimo si
può dir de' maschi.
PoLiHiMNio. - In fine, per ritornare al proposito, la donna
non è altro che una materia. Se non sapete che cosa è donna,
per non saper che cosa è materia, studiate alquanto gli Peripa-
tetici che con insegnarvi che cosa è materia, te insegnaranno
che cosa è donna.
Gervasio. — Vedo bene che per aver voi un cervello peripa-
tetico, apprendeste poco o nulla di quel che ieri disse il Teofilo
circa l'essenza e potenza della materia.
POLIHIMNIO. — De l'altro sia che si vuole: io sto sul punto
del biasimar l'appetito de l'una e de l'altra, il quale è caggion
d'ogni male, passione, difetto, mina, corrozzione. Non credete
che se la materia si contentasse de la forma presente, nulla al-
terazione o passione arrebe domino sopra di noi, non mori-
remmo, sarrebemo incorrottibili et etemi?
Gervasio. — E se la si fosse contentata di quella forma che
avea cinquanta anni addietro, che direste? sareste tu Polihim-
nio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta anni passati,
sareste sì adultero, (dico) sì adultero, sì perfetto e sì dotto? Come [229]
dumque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa,
cossi è in volontà de la natura che ordina l'universo, che tutte
le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa
nostra sustanza, di farsi ogni cosa ricevendo tutte le forme, che
ritenendone una sola, et essere parziale. Cossi al suo possibile
ha la similitudine di chi è tutto in tutto.
POLIHIMNIO. — Mi cominci ad riuscir dotto, uscendo fuor del
48. «Uccello raro»; cfr. Giovenale, Sat., VI, 165; G. Boccaccio, Corbaccio,
ed. cit, p. 233: «[Le donne di tal genere] sono più rare che le fenici».
49. Marie de Bochetel (nome qui scritto all'inglese: Boshtel) e Marie (cioè
Catherine-Marie) de Castelnau sono, rispettivamente, la moglie e la figlia del
protettore di Bruno. Cfr. G. Aquilecchia, Dieci postille cit., 10^ postilla, in
Schede bruniane cit., pp. 141-142.
50. Un giuoco di parole simile sta in Sfaccio, II, p. 277: «Sei più licenzioso
(volsi dir licenziato) tu solo che tutti gli altri».
708 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
tuo ordinario naturale: applica ora, se puoi, a similP^ appor-
tando la dignità che si ritrova ne la femina.
Gervasio. - Farollo facilissimamente. Oh, ecco il Teofilo.
POLIHIMNIO. - Et il Dicsone. Un'altra volta dumque. De iis
hadenus^^.
Teofilo. — Non vedemo che de Peripatetici, come di Plato-
nici anco, divideno la sustanza per le differenze di corporale et
incorporale? Come dumque queste differenze si reducono alla
potenza di medesimo geno, cossi bisogna che le forme sieno di
due sorte^^: perché alcune sono trascendenti, cioè superiori al
geno'"^, che si chiamano principii, come «entità», «unità»,
«uno», «cosa», «qualche cosa»^' et altre simili; altre son di
certo geno distinte da altro geno, come «sustanzialità», «acci-
dentalità»: quelle che sono de la prima maniera, non distin-
gueno la materia e non fanno altra et altra potenza di quella,
ma come termini universalissimi che comprendono tanto le
corporali, quanto le incorporali sustanze, significano quella uni-
[231] versalissima, comunissima et una de l'une e l'altre. Appresso,
«che cosa ne impedisce» disse Avicebron^^, «che sì come prima
che riconosciamo la materia de le forme accidentali, che è il
composto, riconoscemo la materia della forma sustanziale, che
è parte di quello; cossi prima che conosciamo la materia che è
contratta ad esser sotto le forme corporali, vegnamo a conoscere
una potenza la quale sia distinguibile per la forma di natura
corporea e de incorporea, dissolubile e non dissolubile?». An-
cora, se tutto quel che è (cominciando da l'ente summo e su-
premo) have un certo ordine, e fa una dependenza, una scala,
nella quale si monta da le cose composte alle semplici, da que-
51. «Secondo la somiglianza».
52. «Su queste cose facciamo punto».
53. Sostanza corporea e sostanza incorporea sono le due «specie» di un solo
e medesimo genere, il genere «sostanza». Ecco perché è necessario distinguere
forme «di due sorte»: da una parte, le forme relative al genere sostanza, dal-
l'altro le forme relative alle due «specie».
54. Geno è qui sinonimo di «specie» (essendo d'altronde ogni genere una
specie in relazione al genere che gli è superiore). Bruno afferma dunque che le
forme trascendenti si applicano ad ogni «sostanza», al di là di ogni possibile
specificazione.
55. Si tratta dei "trascendentali" della Scolastica: ens, unitas, unum, res, alt-
quid.
56. Cfr. AviCEBRON, Fons Vitae, IV, 15 (in una traduzione approssimativa
dello stesso Bruno).
DIALOGO QUARTO 70g
ste alle semplicissime et assolutissime per mezzi proporzionali
e copulativi, e partecipativi de la natura de l'uno e l'altro
estremo, e secondo la raggione propria neutri; non è ordine
dove non è certa participazione, non è participazione dove non
si trova certa colligazione, non è colligazione senza qualche par-
tecipazione: è dumque necessario che de tutte cose che sono
sussistenti, sia uno principio di subsistenza. Giongi a questo che
la raggione medesima non può fare che avanti qualsivoglia
cosa distinguibile non presuppona una cosa indistinta (parlo di
quelle cose che sono, perché «ente» e «non ente» non intendo
aver distinzione reale, ma vocale e nominale solamente) ^7. Que-
sta cosa indistinta è una raggione comune a cui si aggionge la
differenza e forma distintiva ^s. E certamente non si può negare
che sicome ogni sensibile presuppone il soggetto della sensibi-
lità, cossi ogni intelligibile il soggetto della intelligibilità: biso-
gna dumque che sia una cosa che risponde alla raggione co-
mune de l'uno e l'altro soggetto 5^; perché ogni essenzia, neces- [233]
sariamente è fondata sopra qualche essere: eccetto che quella
prima che è il medesimo con il suo essere, perché la sua poten-
zia è il suo atto, perché è tutto quel che può essere, come fu
detto ieri<^o. Oltre se la materia (secondo gli adversarii mede-
simi) non è corpo, e precede secondo la sua natura l'essere cor-
porale, che dumque la può far tanto aliena da le sustanze dette
incorporee? E non mancano di Peripatetici*^' che dicono, si-
come nelle corporee sustanze si trova un certo che di formale e
divino, cossi nelle divine convien che sia un che di materiale, a
fine che le cose inferiori s'accomodino alle superiori, e l'ordine
de Fune dependa da l'ordine de l'altre. E li teologi, benché al-
cuni di quelli siano nodriti ne l'aristotelica dottrina, non mi
denno però esser molesti in questo, se accettano esser più debi-
tori alla lor scrittura, che alla filosofia e naturai raggione. «Non
57. Con ciò, Bruno previene una possibile obiezione: se essere e non-essere
non si collocano sotto un medesimo genere superiore, questo significa che essi
non sono realmente distinti; solo l'essere è reale, il non-essere non è altro che la
sua negazione.
58. Alla materia, affatto indeterminata in sé, si aggiungono le determina-
zioni di «sensibile» o d'« intelligibile».
59. AviCEBRON, Fons Vitae, IV, 2; e cfr. Averroes, De anima. III, 17, ed.
Crawiord, pp. 436-437.
60. Cfr. il Dialogo terzo, p. 692.
61. Aristotelici, ma legati manifestamente a posizioni neoplatoniche.
710 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
mi adorare» disse un de loro angeli al patriarca lacob, «perché
son tuo fratello »^^; or se costui che parla (come essi intende-
no)*^' è una sostanza intellettuale, et affirma col suo dire che
quell'uomo e lui convegnano nella realità d'un soggetto stante
qualsivoglia differenza formale, resta che gli filosofi abbiano
uno oraculo di questi teologi per testimonio.
DicsoNO. - So che questo è detto da voi con riverenza,
perché sapete che non vi conviene di mendicar raggioni da tai
luoghi, che son fuori de la nostra messe.
Teofilo. — Voi dite bene e vero: ma io non allego quello per
[235] raggione e confirmazione; ma per fuggir scrupolo quanto posso,
perché non meno temo apparere, che essere contrario alla teo-
logia.
DicsoNO. - Sempre da discreti teologi ne saranno admesse le
raggioni naturali^, quantumque discorrano, pur che non deter-
minino contra l'autorità divina, ma si sottomettano a quella.
Teofilo. - Tali sono e sarano sempre le mie.
DicsoNO. - Bene dumque. Seguite.
Teofilo. - Plotino ancora dice nel libro De la materia, che
«se nel mondo intelligibile è moltitudine e pluralità di specie, è
necessario che vi sia qualche cosa comune, oltre la proprietà e
differenza di ciascuna di quelle. Quello che è comune tien luogo
di materia, quello che è proprio e fa distinzione, tien luogo di
forma». Gionge che «se questo è a imitazion di quello, la com-
posizion di questo è a imitazion della composizion di quello.
Oltre, quel mondo, se non ha diversità, non ha ordine; se non
ha ordine, non ha bellezza et ornamento: tutto questo è circa la
materia»^^. Per il che il mondo superiore non solamente deve
62. Cfr. Apocalisse, XIX, io, dove peraltro le parole dell'angelo sono rivolte
- senza possibilità di equivoci - non a Giacobbe, ma proprio a Giovanni. Su
Giobbe che s'incontra con Dio, cfr. Genesi, XXXII, 28.
63. La teologia considerava gli angeli della Bibbia come esseri puramente
spirituali ed i teologi vicini alle posizioni aristoteliche li assimilavano alle in-
telligenze astrali di cui parlava lo Stagirita.
64. Per Nicola Antonio Stelliola, contemporaneo di Bruno, «la religione et
la scienza, essendo ambi divine, sono di conseguenza concordi»: Carteggio Lin-
ceo, n. 431, p. 570 (cit. in A. Alessandro, Documenti lincei e cimeli galileiani,
1965, p. 22). Più tardi, Bartholomàus Keckermann avrebbe sostenuto che «Ve-
ra Philosophia cum sacra Theologia nusquam pugnat» (cfr. R. A. MuLLER,
«Sixteenth Century Journal» [Saint-Louis], XV, 1984, p. 350).
65. Cfr. Plotino, Enn., II, 4, 4, traduz. latina di M. Ficino, Basileae, 1580,
pp. 160-161; N. Cusano, De docta ignorantia, I, 5, in Opere, a cura di G. Federi-
DIALOGO QUARTO 7II
esser stimato per tutto indivisible, ma anco per alcune sue con-
dizioni divisibile e distinto; la cui divisione e distinzione non
può esser capita senza qualche soggetta materia ^^. E benché di-
chi che tutta quella moltitudine conviene in uno ente imparti-
bile e fuor di qualsivoglia dimensione, quello dirò essere la ma-
teria, nel quale si uniscono tante forme; quello, prima che sia
conceputo per vario e multiforme, era in concetto uniforme; e
prima che in concetto formato, era in quello informe '^^. [237]
DicsONO. — Benché in quel ch'avete detto, con brevità ab-
biate apportate molte e forte raggioni, per venire a conchiudere
che una sia la materia, una la potenza per la quale tutto quel
che è, è in atto; e non con minor raggione conviene alle su-
stanze incorporee, che alle corporali: essendo che non altri-
mente quelle han l'essere per lo possere essere, che queste per lo
posser essere hanno l'essere; e che oltre per altre potenti rag-
gioni (a chi potentemente le considera e comprende) avete di-
mostrato: tuttavia (se non per la perfezzione della dottrina, per
la chiarezza di quella) vorei che in qualch'altro modo specifica-
ste, come ne le cose eccellentissime quali sono le incorporee, si
trova cosa informe et indefinita? come può ivi essere raggione
di medesima materia, e che per advenimento della forma et
atto, medesimamente non si dicono corpi? Come dove non è
mutazione, generazione, né corrozzione alcuna, volete che sia
materia, la quale mai è stata posta per altro fine? Come po-
tremo dire la natura intelligibile esser semplice, e dir che in
quella sia materia et atto? Questo non lo dimando per me, al
quale la verità è manifesta, ma forse per altri che possono es-
ci-Vescovini, Torino, 1972, p. 63: «Sublato enim numero cessant rerum discre-
tio, ordo, proportio, harmonia atque ipsa entium pluralitas» («Tolto il numero,
scompaiono, infatti, la distinzione delle cose, l'ordine, la proporzione, l'armo-
nia e la pluralità stessa degli enti»).
66. Cfr. Plotino, Enn., II, 4, 4, traduz. lat. Ficino cit, p. 161: «Indivisibilis
quidem prorsus est ubique mundus ipse superior, & quadam rursus conditione
diuiduus. Ac si partes eius inter se dispersae sint: sectio ipsa atque dispersio est
quaedam materiae passio: Ipsa enim est proprie quae passa dicitur sectionem».
67. Cfr. ivi: «Sin autem quae multa illic sunt, unum ens impartibile sint:
nimirum multa in uno existentia, in uno ilio sunt ceu materia, ipsaque ipsius
sunt formae. Unum namque ipsum quod est varium considerandum in primis
est varium atque multiforme. Considerandum rursus velut informe antequam
varium» (si veda pure la traduz. moderna di M. Casaglia nell'ed. italiana Plo-
tino, Enneadi, Torino, 1997, voi. I, p. 279).
712 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
sere più morosi e difficili, come per essempio maestro Polihim-
nio e Gervasio.
PoLiHiMNio. - Cedo^^.
Gervasio. - Accepto^'^; e vi ringrazio, Dicsone, perché consi-
derate la necessità di quei che non hanno ardire di dimandare,
come comporta la civilità de le mense oltramontane: ove a quei
che siedeno gli secondi, non lice stender le dita fuor del proprio
[239] quadretto o tondo; ma conviene aspettar che gli sia posto in
mano, a fin che non prenda boccone, che non sia pagato col suo
«granmercé»''".
Teofilo. - Dirò per risoluzion del tutto, che sì come l'uomo
secondo la natura propria de l'uomo, è differente dal leone se-
condo la natura propria del leone; ma secondo la natura co-
mone de l'animale, de la sustanza corporea, et altre simili, sono
indifferenti e la medesima cosa''^; similmente secondo la pro-
pria raggione è differente la materia di cose corporali dalla de
cose incorporee. Tutto dumque lo che apportate de lo esser
causa costitutiva di natura corporea, de l'esser soggetto di tra-
smutazioni de tutte sorti, e de l'esser parte di composti, con-
viene a questa materia per la raggione propria, perché la mede-
sima materia, (voglio dir più chiaro) il medesimo che può esser
fatto, o pur può essere, o è fatto, è per mezzo de le dimensioni et
extensione del suggetto, e quelle qualitadi che hanno l'essere
nel quanto: e questo si chiama sustanza corporale e suppone
materia corporale; o è fatto (se pur ha l'esser di novo), et è senza
quelle dimensioni, extensione e qualità: e questo si dice su-
stanza incorporea, e suppone similmente detta materia. Cossi
ad una potenza attiva tanto di cose corporali quanto di cose
incorporee, over ad un essere tanto corporeo quanto incorporeo,
corrisponde una potenza passiva tanto corporea quanto incor-
porea, et un posser esser tanto corporeo quanto incorporeo. Se
dumque vogliamo dir composizione tanto ne l'una quanto ne
l'altra natura, la doviamo intendere in una et un'altra maniera;
68. «Lo concedo».
69. «Dò il mio assenso».
70. Cfr. il francese «grand merci».
71. Cfr. David di Dinant, in Alberto Magno, Stimma de creaturis, pars II,
q. V, art. 2: «Quia vero substantia de qua sunt omnia corpora, dicitur hyle,
substantia vero ex qua sunt omnes animae dicitur ratio sive mens, manifestum
est Deum esse rationem omnium animarum, et hyle omnium corporum».
DIALOGO QUARTO 713
e considerar che se dice nelle cose eteme una materia sempre
sotto un atto; e che nelle cose variabili sempre contiene or uno [241]
or un altro. In quelle la materia ha una volta, sempre et in-
sieme tutto quel che può avere, et è tutto quel che può essere;
ma questa in più volte, in tempi diversi e certe successioni.
DicsoNO. — Alcuni, quantumque concedano essere materia
nelle cose incorporee, la intendono però secondo una raggione
molto diversa '2.
Teofilo. — Sia quantosivoglia diversità secondo la raggion
propria per la quale l'una descende a l'esser corporale e l'altra
non, l'una riceve qualità sensibili e l'altra non, e non par che
possa essere raggione comune a quella materia a cui ripugna la
quantità et esser suggetto delle qualitadi che hanno l'essere
nelle demensioni, e la natura a cui non ripugna l'una né l'altra:
anzi l'una e l'altra è una medesima; e che (come è più volte
detto) tutta la differenza depende dalla contrazzione a l'essere
corporea e non essere corporea: come nell'essere animale ogni
sensitivo è uno^^; ma contraendo quel geno a certe specie, ripu-
gna a l'uomo l'esser leone, et a questo animale d'esser quell'al-
tro. Et aggiungo a questo (sei ti piace) perché mi direste che
quello che giamai è, deve essere stimato più tosto impossibile e
contra natura, che naturale; e però giamai trovandosi quella
materia dimensionata, deve stimarsi che la corporeità gli sia
contra natura; e se questo è cossi, non è verisimile che sia una
natura comune a l'una e l'altra, prima che l'una se intenda es-
ser contratta a l'esser corporea: aggiungo (dico) che non meno
possiamo attribuir a quella materia la necessità de tutti gli atti
dimensionali, che (come voi vorreste) la impossibilità. Quella [243]
materia per essere attualmente tutto quel che può essere, ha
72. Cfr. Plotino, Enti., II, 4, 5 (ed. italiana cit, I, pp. 279-281).
73. Cfr. David di Dinant, in Alberto Magno, Opera omnia, Monasterii
Westfalorum, Aschendorff, t. IV, pars I, Physica, I, 2, io, ed. Hossfeld, p. 31:
«Sed hic nobis sufficit, qualiter omnium corporum materia est una. Hanc au-
tem materiam totam substantiam et totum esse omnium corporeum esse dixe-
runt, quia formam, quae est in materia, esse non percepenmt, sed putabant
ipsam per non-vere-ens distingui, quia formas et accidentes non dixerunt esse
nisi in sentire et apparere et non in esse, sicut adhuc multi dicunt, quorum
pater est Alexander et David de Dinante, qui secutus est Alexandrum in hoc.
Et ideo dixerunt, quod id quod est extra ens, est extra vere ens, et hoc non est
ens, sed videtur esse secundum sensum et aestimationem; et quod homo et
asinus sunt unum, sed apparent alia».
714 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e
perché le have tutte, non ne ha nessuna, perché quello che è
tante cose diverse, bisogna che non sia alcuna di quelle partico-
lari. Conviene a quello che è tutto, che escluda ogni essere par-
ticolare.
DicsoNO. - Vuoi dumque che la materia sia atto? vuoi an-
cora che la materia nelle cose incorporee coincida con l'atto?
Teofilo. — Come il posser essere coincide con l'essere.
DicsONO. — Non differisce dumque da la forma?
Teofilo. — Niente nell'absoluta potenza et atto absoluto; il
quale però è nell'estremo della purità, simplicità, indivisibilità
et unità, perché è assolutamente tutto: che se avesse certe di-
mensioni, certo essere, certa figura, certa proprietà, certa diffe-
renza, non sarebbe absoluto, non sarebbe tutto.
DicsONO. — Ogni cosa dumque che comprende qualsivoglia
geno, è individua?
Teofilo. — Cossi è, perché la forma che comprende tutte le
qualità non è alcuna di quelle; lo che ha tutte le figure, non ha
alcuna di quelle; lo che ha tutto lo essere sensibile, e però non
si sente. Più altamente individuo è quello che ha tutto l'essere
naturale; più altamente lo che^'' ha tutto lo essere intellettuale;
[245] altissimamente quello che ha tutto lo essere che può essere.
DicsoNO. — In similitudine di questa scala de lo essere, vo-
lete che sia la scala del posser essere, e volete che come ascende
la raggione formale, cossi ascenda la raggione materiale?
Teofilo. - È vero.
DiCSONO. — Profonda et altamente prendete questa defini-
zione di materia e potenza.
Teofilo. - Vero.
DicsoNO. - Ma questa verità non potrà esser capita da tutti;
perché è pur arduo a capire il modo con cui s'abbiano tutte le
specie di dimensioni, e nulla di quelle; aver tutto l'essere for-
male, e non aver nessuno essere forma.
Teofilo. — Intendete voi come può essere?
DicsONO. Credo che sì: perché capisco bene che l'atto per es-
ser tutto, bisogna che non sia qualche cosa.
74. Cfr. lo spagnolo «lo que».
DIALOGO QUARTO 715
PoLiHiMNio. — Non potest esse idem, totum, et aliquid: ego quo-
que illud capio''^.
Teofilo. - Dumque potrete capir a proposito, che se voles-
simo ponere la dimensionabilità per raggione della materia^^
tal raggione non ripugnarebe a nessuna sorte di materia: ma
che viene a differire una materia da l'altra, solo per esser abso-
luta da le dimensioni, et esser contratta alle dimensioni. Con
esser absoluta, è sopra tutte e le comprende tutte; con esser con-
tratta, vien compresa da alcune et è sotto alcune.
DicsoNO. — Ben dite, che la materia secondo sé, non ha certe
demensioni, e però se intende indivisibile, e riceve le dimen- [247]
sioni secondo la raggione de la forma che riceve. Altre dimen-
sioni ha sotto la forma umana, altre sotto la cavallina, altre
sotto l'olivo, altre sotto il mirto: dumque prima che sia sotto
qualsivoglia di queste forme, bave in facultà tutte quelle di-
mensioni, cossi come ha potenza di ricevere tutte quelle forme.
PoLiHiMNio. — Dicunt tamen propterea quod nullas habet di-
mensiones^^ .
DicsoNO. — E noi diciamo, che ideo habet nullas, ut omnes
habeat'^.
Gervasio. — Per che volete più tosto che le includa tutte,
che le escluda tutte?
DicsoNO. — Perché non viene ad ricevere le dimensioni come
di fuora, ma a mandarle a cacciarle come dal seno.
Teofilo. - Dice molto bene: oltre che è consueto modo di
parlare di Peripatetici ancora, che dicono tutti l'atto dimensio-
nale e tutte forme naturali uscire e venir fuori dalla potenza de
la materia. Questo intende in parte Averroe, il qual quantum-
que arabo et ignorante di lingua greca, nella dottrina peripate-
tica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto: et
arebbe più inteso, se non fusse stato cossi additto al suo nume
75. «La stessa cosa non può essere tutto e qualche cosa: anch'io posso com-
prendere questo».
76. Tesi averroista, secondo P. R. Blum (nota a p. 86 nella traduz. tedesca
del De la causa, a cura di A. Lasson, Hamburg, 1993), che rinvia alla discus-
sione di S. Tommaso D'Aquino, De natura materiae et dimensionibus intermina-
tis, in Opuscula philosophica, Roma, 1954, pp. 134 e segg., 138 e segg.
yj. «Lo dicono tuttavia giacché [la materia] non ha alcuna dimensione».
78. «È perché non ne ha alcuna che le ha tutte».
7l6 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Aristotele^''. Dice lui che la materia ne l'essenzia sua comprende
le dimensioni interminate: volendo accennare che quelle perve-
gnono a terminarsi, ora con questa figura e dimensioni, ora con
quella e quell'altra, quelle e quell'altre, secondo il cangiar di
[249] forme naturali. Per il qual senso si vede che la materia le
manda come da sé, e non le riceve come di fuora. Questo in
parte intese ancor Plotino, prencipe nella setta di Platone. Co-
stui facendo differenza tra la materia di cose superiori et infe-
riori, dice che quella è insieme tutto; et essendo che possiede
tutto, non ha in che mutarsi: ma questa con certa vicissitudine
per le parti, si fa tutto; et a tempi e tempi, si fa cosa e cosa, però
sempre sotto diversità, alterazione e moto. Cossi dumque mai è
informe quella materia, come né anco questa, benché differen-
temente quella e questa ^O: quella ne l'istante de l'eternità, que-
sta ne gl'istanti del tempo; quella insieme, questa successiva-
mente; quella esplicatamente, questa complicatamente; quella
come molti, questa come uno; quella per ciascuno e cosa per
cosa, questa come tutto et ogni cosa^'.
DicsoNO. - Tanto che non solamente secondo gli vostri prin-
cipii, ma oltre secondo gli principii de l'altrui modi di filoso-
fare, volete inferire che la materia non è quel profe nihil^^,
79. Cfr. M. FiciNO, Theologia Platonica, XV, i, a cura di M. Schiavone, Bo-
logna, 1965, voi. II. pp. 250-251: «Averroè, spagnolo di origine, arabo di lingua,
erudito aristotelico, ignaro di lingua greca, si dice che abbia letto i libri di
Aristotele corrotti dal greco in lingua barbara, piuttosto che tradotti [Aristote-
licos libros... perversos potius quam conversos legisse traditur]». Prima dell'umani-
sta toscano, Gemisto Pletone aveva sostenuto che Averroè aveva frainteso il
pensiero aristotelico, proprio a causa della sua ignoranza del greco (come rife-
risce lo stesso Ficino nella prefazione alla sua traduz. di Plotino del 1492: cfr.
P. O. Kristeller, Platonismo bizantino e fiorentino e la controversia su Platone e
Aristotele, in: Venezia e l'Oriente, dir. A. Pertusi. Firenze, 1966, p. 114). La vene-
razione avvertita da Averroè per Aristotele traspariva nell'introduzione al suo
commento della Physica (cfr. S. Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe,
Paris, 1927, pp. 316 e 340-341). Secondo R. Sturlese, «Averroè quantumque ara-
bo...». Note sull'averroismo di Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana»
[Firenze], LXXIII, 1992, pp. 251-256, in questo passo bruniano si susseguono
«quattro diversi registri».
80. Cfr. Plotino, Enn., Il, 4, 3, che nella traduz. latina di Ficino cit, p. 60,
s'intitolava: Solvit argumenia probantia non esse in intelligibili mundo mate-
riam.
81. Si noti che, nella diadi quella/questa della seconda parte della frase, la
«materia di cose superiori» è indicata non più prima, ma dopo la materia di
cose «inferiori». D'altra parte, le nozioni di «complicazione» e di «esplicazio-
ne» non appartengono tanto a Plotino, quanto al lessico di Nicolò Cusano.
82. «Quasi niente».
DIALOGO QUARTO 717
quella potenza pura, nuda, senza atto, senza virtù e perfez-
zione^^
Teofilo. — Cossi è; la dico privata de le forme e senza
quelle, non come il ghiaccio è senza calore, il profondo è pri-
vato di luce: ma come la pregnante è senza la sua prole, la
quale la manda e la riscuote da sé; e come in questo emispe.ro
la terra la notte è senza luce, la quale con il suo scuotersi è
potente di raquistare.
DicsoNO. — Ecco che anco in queste cose inferiori, se non a
fatto, molto viene a coincidere l'atto con la potenza. [251]
Teofilo. - Lascio giudicar a voi.
DicsONO. - E se questa potenza di sotto venesse ad essere
una finalmente con quella di sopra ^'', che sarrebe?
Teofilo. - Giudicate voi. Possete quindi montar al concetto,
non dico del summo et ottimo principio, escluso della nostra
considerazione, ma de l'anima del mondo, come è atto di tutto
e potenza di tutto, et è tutta in tutto: onde al fine (dato che
sieno innumerabili individui) ogni cosa è uno; et il conoscere
questa unità è il scopo e termine di tutte le filosofie e contem-
plazioni naturali: lasciando ne' sua termini la più alta contem-
plazione, che ascende sopra la natura, la quale a chi non crede,
è impossibile e nulla.
DicsoNO. — È vero, perché se vi monta per lume sopranatu-
rale, non naturale ^5.
Teofilo. — Questo non hanno quelli che stimano ogni cosa
esser corpo, o semplice come lo etere, o composto come li astri e
cose astrali: e non cercano la divinità fuor del infinito mondo e
le infinite cose, ma dentro questo et in quelle ^^
DicsONO. - In questo solo mi par differente il fidele teologo
dal vero filosofo.
83. Cfr. G. Bruno, Lamfas triginta statuarum, «De tertio infigurabili, puta
de nocte seu tenebris», V, Óp. lat.. Ili, p. 25.
84. Bruno parla qui di «potenza di sotto» e «di sopra» (che in una cosmo-
logia come la sua non avrebbero senso), perché era opinione comune che
l'agente fosse posto «al di sopra» del paziente.
85. Cfr. G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, «De Deo seu men-
te»: art. L, Fides, Op. lat., I, 4, p. 100 (rist. anastatica a cura di T. Gregory-
E. Canone, Roma, 1989, p. 99).
86. Cfr. G. Bruno, Lampas triginta statuarum, «De primo intellectu», XIV,
Op. lat., III, p. 49: «est enim artifex, qui non circa materiam, sed intra omnem
materiam et naturam operatur».
7l8 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Teofilo. - Cossi credo ancor io. Credo che abbiate compreso
quel che voglio dire.
DicsoNO. — Assai bene io mi penso. Di sorte che dal vostro
dire inferisco che quantumque non lasciamo montar la materia
sopra le cose naturali, e fermiamo il piede su la sua comune
[253] definizione che apporta la più volgare filosofia, trovaremo pure
che la ritegna meglior prorogativa che quella riconosca: la
quale al fine non li dona altro che la raggione de l'esser soggetto
di forme e di potenza receptiva di forme naturali, senza nome,
senza definizione, senza termino alcuno, perché senza ogni at-
tualità. Il che parve difficile ad alcuni cuculiati, i quali non
volendo accusare ma iscusar questa dottrina, dicono aver solo
l'atto entitativo*^', cioè differente da quello che non è semplice-
mente, e che non ha essere alcuno nella natura, come qualche
chimera o cosa che si finga: perché questa materia in fine ha
Tessere; e gli basta questo cossi senza modo e dignità, la quale
depende da l'attualità, che è nulla. Ma voi dimandareste rag-
gione ad Aristotele: «Perché vuoi tu, o principe di Peripatetici,
più tosto che la materia sia nulla per aver nullo atto, che sia
tutto per aver tutti gli atti, o l'abbia confusi o confusissimi
come ti piace? Non sei tu quello che sempre parlando del novo
essere delle forme nella materia, o della generazione de le cose,
dici le forme procedere e sgombrare da l'interno de la materia, e
mai fuste udito dire che per opera d'efficiente vengano da
l'esterno, ma che quello le riscuota da dentro? Lascio che l'effi-
ciente di queste cose, chiamato da te con un comun nome «Na-
tura», lo fai pur principio intemo, e non estemo come aviene
ne le cose artificiali^^. All'ora mi par che convegna dire che la
non abbia in sé forma et atto alcuno, quando lo viene a rice-
vere di fuora; all'ora mi par che convegna dire che l'abbia tutte,
quando si dice cacciarle tutte dal suo seno. Non sei tu quello
[255] che, se non costretto da la raggione, spinto però dalla consuetu-
dine del dire, deffinendo la materia, la dici più tosto essere
quella cosa di cui ogni specie naturale si produce, che abbi mai
detto esser quello in cui le cose si fanno, come converrebe dire
87. Secondo E. Namer, traduz. francese. Paris, 1930, Bruno alluderebbe qui
aWhaecceitas di Duns Scoto e dei suoi discepoli. Si veda il Dialogo terzo, p. 684,
nota 54.
88. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai.. II. i. 192 b 13-16.
DIALOGO QUARTO 719
quando li atti non uscissero da quella, e per consequenza non le
avesse? » ^^.
POLiHiMNio. — Certe consuevit dicere Aristoteles cum suis po-
tìus formas educi de potentia materiae, quam in illam induci; emer-
gere potius ex ipsa, quam in ipsam ingeri'^^: ma io direi che ha
piaciuto ad Aristotele chiamar «atto» più tosto la esplicazione
de la forma che la implicazione.
DicsONO. — Et io dico, che l'essere espresso, sensibile et espli-
cato, non è principal raggione de l'attualità, ma è una cosa con-
sequente et effetto di quella: sì come il principal essere del le-
gno e ragione di sua attualità non consiste ne l'essere letto, ma
ne l'essere di tal sustanza e consistenza, che può esser letto,
scanno, trabe, idolo et ogni cosa di legno formata. Lascio che
secondo più alta raggione della materia naturale si fanno tutte
cose naturali, che della artificiale le artificiali; per che l'arte
dalla materia suscita le forme, o per suttrazzione, come quando
de la pietra fa la statua, o per apposizione, come quando gion-
gendo pietra a pietra e legno e terra, forma la casa: ma la na-
tura de la sua materia fa tutto per modo di separazione, di
parto, di efflusione, come intesero i Pitagorici, comprese Anas-
sagora^' e Democrito, confirmomo i Sapienti di Babilonia, a i
quali sottoscrisse anco Mosè'*^, che descrivendo la generazione
delle cose, comandata dal efficiente universale, usa questo [257]
modo di dire: «Produca la terra li suoi animali; producano le
acqui le anime viventi», quasi dicesse: producale la materia;
perché, secondo lui, il principio materiale de le cose è l'acqua:
onde dice che l'intelletto efficiente (chiamato da lui spirito) «co-
vava sopra l'acqui», cioè li dava virtù procreatrice e da quelle
produceva le specie naturali, le quali tutte poi son dette da lui
in sustanza acqui ''^. Onde parlando della separazione de corpi
89. Cfr. Aristotele, De generatione et corrupHone, I, 3.
90. «È certo che Aristotele ed i suoi seguaci asseriscono che le forme sono
estratte dalla potenza della materia, più che indotte in essa; che esse emergono
dalla materia più di esseme conformate».
91. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., I, 4, 187 a.
92. Cfr. Genesi, I, 20 e 24: «E Dio disse: "L-e acque brulichino di un bruli-
chio d'esseri vivi e volatili svolazzino sopra la terra, in faccia al firmamento
del cielo". E così avvenne»; «E Dio disse: "La terra faccia uscir fuori degli
esseri viventi secondo la loro specie: bestiame e rettili e fiere della terra se-
condo le loro specie". E così avvenne».
93. Cfr. ivi, I, 2: «E lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque».
720 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
inferiori e superiori, dice che «la mente separò le acqui da l'ac-
qui», da mezzo de le quali induce esser comparuta l'arida^'^.
Tutti dumque per modo di separazione vogliono le cose esse-
re da la materia, e non per modo di apposizione e recepzione:
dumque si de' più tosto dire che contiene le forme e che le in-
cluda, che pensare che ne sia vota e le escluda. Quella dumque
che esplica lo che tiene implicato, deve essere chiamata cosa
divina, et ottima parente, genetrice e madre di cose naturali:
anzi la natura tutta in sustanza. Non dite e volete cossi. Teofilo?
Teofilo. - Certo.
DicsONO. - Anzi molto mi maraviglio come non hanno i no-
stri Peripatetici continuata la similitudine de l'arte ^5, la quale
de molte materie che conosce e tratta, quella giudica esser me-
gliore e più degna, la quale è meno soggetta alla corrozzione et
è più costante alla durazione, e della quale possono esser pro-
dotte più cose; però giudica l'oro esser più nobile che il legno, la
pietra et il ferro, perché è meno soggetto a corrompersi: e ciò
[259] che può esser fatto di legno e di pietra, può farsi de oro, e molte
altre cose di più, maggiori e megliori per la sua bellezza, co-
stanza, trattabilità e nobilita. Or che doviamo dire di quella
materia della quale si fa l'uomo, l'oro e tutte cose naturali? Non
deve esser ella più stimata degna che la artificiale, et aver rag-
gione di meglior attualità? Perché, o Aristotele, quello che è fon-
damento e base de la attualità, dico, di ciò che è in atto, e
quello che tu dici esser sempre, durare in etemo, non vorai che
sia più in atto che le tue forme, che le tue entelechie che vanno
e vegnono, di sorte che quando volessi cercare la permanenza
di questo principio formale ancora...
PoLiHiMNio. — Quia principia oportet semper manere"^^.
DicsoNO. — ... e non possendo ricorrere alle fantastiche idee
di Platone, come tue tanto nemiche, sarai costretto e necessitato
a dire che queste forme specifiche, o hanno la sua permanente
94. Cfr. ivi, I, 7 e 9: «Dio fece il firmamento e separò le acque, che son sotto
il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento»; «E Dio disse: "Le
acque che sono sotto il cielo, si ammassino in una sola massa ed appaia
l'asciutto". E così avvenne».
95. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., I, 7, 190 b 5-6.
96. «Poiché è necessario che i princìpi siano permanenti».
DIALOGO QUARTO 721
attualità nella mano de l'efficiente^'', e cossi non puoi dire,
perché quello è detto da te suscitatore e riscuotitore de le forme
dalla potenza de la materia, o hanno la sua permanente attua-
lità nel seno de la materia: e cossi ti fia necessario dire, perché
tutte le forme, che appaiono come nella sua superficie, che tu
dici individuali et in atto, tanto quelle che furono, quanto le
che sono e sarranno, son cose principiate, non sono principio.
(E certo cossi credo essere nella superficie della materia la
forma particolare, come lo accidente è nella superficie della
sustanza composta; onde minor raggione di attualità deve
avere la forma espressa al rispetto della materia, come minor
raggione di attualità ha la forma accidentale in rispetto del
composto). [261]
Teofilo. - In vero poveramente si risolve Aristotele che
dice insieme con tutti gli antichi filosofi, che li principii denno
essere sempre permanenti: e poi quando cercamo nella sua dot-
trina, dove abbia la sua perpetua permanenza la forma natu-
rale, la quale va fluttuando nel dorso de la materia, non la tro-
varemo ne le stelle fisse, perché non descendeno da alto queste
particulari che veggiamo; non ne gli sigilli ^^ ideali seperati'^^ da
la materia, perché quelli per certo se non son mostri, son peggio
che mostri, voglio dire chimere e vane fantasie. Che dumque?
sono nel seno della materia; che dumque? ella è fonte de la at-
tualità. Volete ch'io vi dica di vantaggio, e vi faccia vedere in
quanta assurdità sia incorso Aristotele? Dice lui materia essere
in potenza; or dimandategli: quando sarà in atto? Risponderà
una gran moltitudine con esso lui: quando ara la forma 'O'^. Or
aggiungi e dimanda: che cosa è quella che ha l'essere di novo?
Risponderanno a lor dispetto: il composto, e non la materia;
perché essa è sempre quella, non si rinova, non si muta. Come
nelle cose artificiali quando del legno è fatto la statua, non di-
ciamo che al legno vegna nuovo essere, perché niente più o
97. Ipotesi neoplatonica.
98. Cfr. G. Bruno, De compositione imaginum, I, 3, Op. laL, II, 3, p. 98: «Si-
gnum est quodammodo genus ad omnia quae significant, sive ut idea sive ut
vestigium sive ut umbra vel aliter. — Sigillum (quod signi quoddam diminuiti-
vum est) signi partem notabiliorem vel signum contractius acceptum signifi-
cat».
99. Forma arcaica.
100. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., II, i, 193 a 36 e segg.
722 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
meno è legno ora, che era prima: ma quello che riceve lo esser e
l'attualità, è lo che di nuovo si produce, il composto, dico la
statua. Come adumque a quello dite appartenere la potenza, che
mai sarà in atto o ara l'atto? Non è dumque la materia in po-
tenza di essere, o la che può essere; perché lei sempre è mede-
sima et inmutabile, et è quella circa la quale e nella quale è la
mutazione, più tosto che quella che si muta. Quello che si al-
[263] tera, si aumenta, si sminuisce, si muta di loco, si corrompe,
sempre (secondo voi medesimi Peripatetici) è il composto, mai
la materia: perché dumque dite la materia or in potenza or in
atto? Certo non è chi debba dubitare, che o per ricevere le
forme, o per mandarle da sé, quanto all'essenza e sustanza sua
essa non riceve maggior e minor attualità: e però non esser rag-
gione per la quale venga detta in potenza, la quale quadra a ciò
che è in continuo moto circa quella, e non a lei che è in etemo
stato, et è causa del stato più tosto: perché se la forma, secondo
l'essere fondamentale e specifico, è di semplice et invariabile es-
senza, non solo logicamente nel concetto e la raggione, ma anco
fisicamente nella natura, bisognarà che sia nella perpetua fa-
cultà de la materia; la quale è una potenza indistinta da l'atto
come in molti modi ho esplicato, quando della potenza ho
tante volte discorso.
PoLiHiMNio. - Queso^^^, dite qualche cosa dello appetito de
la materia, a fine che prendiamo qualche risoluzione, per certa
alterazione ^°2 tra me e Gervasio.
Gervasio. — Di grazia fatelo. Teofilo, perché costui mi ha
rotto il capo con la similitudine de la femina e la materia: e che
la donna non si contenta meno di maschi, che la materia di
forme; e va discorrendo.
Teofilo. — Essendo che la materia non riceve cosa alcuna
da la forma, perché volete che la appetisca? se (come abbiamo
detto) ella manda dal suo seno le forme e per consequenza le ha
in sé, come volete che le appetisca? Non appetisce quelle forme
che giornalmente si cangiano nel suo dorso: perché ogni cosa
[265I ordinata appetisce quello dal che riceve perfezzione. Che può
loi. «Per favore».
102. L'uso di «alteratio» per «altercatio» è attestato nel dizionario del Du
Gange.
DIALOGO QUARTO 723
dare una cosa corrottibile ad una cosa etema? una cosa imper-
fetta come è la forma de cose sensibili, la quale sempre è in
moto, ad una cosa etema? una cosa imperfetta come è la forma
de cose sensibili, la quale sempre è in moto, ad un'altra tanto
perfetta, che se ben si contempla è uno esser divino nelle cose,
come forse volea dire David de Dinante, male inteso da alcu-
ni ^^^ che riportano la sua opinione? Non la desidera per esser
conservata da quella, perché la cosa corrottibile non conserva
la cosa etema; oltre che è manifesto che la materia conservar la
forma: onde tal forma più tosto deve desiderar la materia per
perpetuarsi perché separandosi da quella perde l'essere lei, e
non quella che ha tutto ciò che aveva prima che lei si trovasse,
e che può aver de le altre. Lascio che quando si dà la causa de
la corrozzione, non si dice che la forma fugge la materia, o che
lascia la materia: ma più tosto che la materia rigetta quella
forma, per prender l'altra. Lascio a proposito, che non abbiamo
più raggion di dire che la materia appete le forme, che per il
contrario le ha in odio (parlo di quelle che si generano e cor-
rompono: perché il fonte de le forme che è in sé, non può appe-
tere, atteso che non si appete lo che^^'' si possiede); per che per
tal raggione, per cui se dice appetere lo che tal volta riceve o
produce, medesimamente quando lo rigetta e toglie via, se
può dir che l'abomina. Anzi più potentemente abomina che
appete, atteso che eternamente rigetta quella forma numerale
che in breve tempo ritenne. Se dumque ricordarai questo, che
quante ne prende, tante ne rigetta, devi equalmente farmi
lecito de dire che ella ha in fastidio: come io ti farò dire che [267]
ella ha in desio.
103. Allusioni implicite ad Alberto Magno (cfr. Summa de creaturis, pars II,
q. V, art. 2: «Haec sententia in libro David Mathensis invenitur non solum
tacta, sed etiam multis rationibus probata, ex quibus rationibus concluditur in
fine sic: Manifestum est igitur unam solam substantiam esse, non tantum om-
nium corporum, sed etiam animarum omnium, et eam nihil aliud esse, quam
ipsum Deum») ed a San Tommaso (cfr. Somma teologica, I, q. 3, art. 8, traduz. e
commento a cura dei Domenicani italiani, testo latino dell'Ed. Leonina, Fi-
renze, voi. I, 1964, pp. 116-117). Si può allora comprendere quale fosse, per
Bruno, il vero significato della teoria di David di Dinant, una volta che si fosse
messa tra parentesi l'etichetta di panteismo materialista e tenuto conto degli
antecedenti, segnalati dallo stesso Alberto Magno: Anassimene e Democrito; cfr.
G. Bruno, Spaccio, Dialogo terzo, pp. 354-355; De vinculis in genere, Op. lai., III,
p. 696 (traduz. di A. Biondi, Pordenone, 1986, pp. 200-201).
104. Cfr. lo spagnolo «lo que».
724 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Gervasio. - Or ecco a terra non solamente gli castelli di Po-
lihimnio, ma ancora di altri che di Polihimnio.
PoLiHiMNio. — Parcius ista viris^^^.
DicsoNO. - Abbiamo assai compreso per oggi, a rivederci do-
mani.
Teofilo. — Dumque, a dio.
[269] Fine del quarto dialogo
105. Cfr. Virgilio, Bue, III, 7, ed. Carena cit, pp. 86-87: «Parcius ista viris
tamen obicienda memento» («Più cauto però devi essere nel rimproverare così
un uomo»). Citazione già ripetuta dal Pedante degli Ingannati, atto IV, se. 2
(G. Davico Bonino, E teatro italiano, voi. II, La commedia del Cinquecento, To-
rino, 1977, t II, p. 156).
DIALOGO QUINTO
Teofilo. — È dumque l'universo uno, infinito, inmobile.
Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto. Una la forma o
anima; una la materia o corpo. Una la cosa. Uno lo ente. Uno il
massimo et ottimo: il quale non deve posser essere compreso \ e
però infinibile et interminabile, e per tanto infinito et intermi-
nato; e per conseguenza inmobile. Questo non si muove local-
mente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che
sia il tutto. Non si genera, perché non è altro essere che lui
possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere 2.
Non si corrompe, perché non è altra cosa in cui si cange, atteso
che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è
infinito, a cui come non si può aggiongere, cossi è da cui non si
può suttrarre^: perciò che lo infinito non ha parte proporziona-
bili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha
estemo da cui patisca e per cui venga in qualche affezzione.
Oltre, che per comprender tutte contrarietadi nell'essere suo, in
unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad al-
tro e novo essere, o pur ad altro et altro modo di essere, non
può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può
aver contrario o diverso che lo alteri: perché in lui è ogni cosa
concorde. Non è materia, perché non è figurato né figurabile, [271]
1. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, I, 4, in Opere, a cura di G. Federici-
Vescovini, Torino, 1972, pp. 61-63: Maximum absolutum incomprehensibiliter in-
telligitur, cum quo minimum coincidit («Il massimo assoluto con il quale coin-
cide il minimo, è conosciuto in modo incomprensibile»).
2. Questa affermazione sembra un'obiezione a Plotino, Enn., IV, 8, 6: «non
può esistere l'Uno soltanto — ogni cosa resterebbe nascosta e priva di forma in
esso» (traduz. di C. Guidelli in Plotino, Enneadi, Torino, 1997, voi. II, p. 700).
3. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, I, 5, ed. Federici-Vescovini cit., p. 64:
«... non recipit ipsa unitas magis nec minus, nec est multiplicabilis. Deitas itaque
est unitas infinita» («L'unità non è suscettibile né del più né del meno e non
è moltiplicabile. La divinità è, perciò, unità infinita»).
726 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non in-
forma né figura altro: atteso che è tutto, è massimo, è uno, è
universo. Non è misurabile, né misura. Non si comprende,
perché non è maggior di sé. Non si è compreso, perché non è
minor di sé. Non si agguaglia, perché non è altro et altro: ma
uno e medesimo-^. Essendo medesimo et uno, non ha essere et
essere; e perché non ha essere et essere, non ha parte e parte: e
per ciò che non ha parte e parte, non è composto. Questo è ter-
mine di sorte che non è termine; è talmente forma che non è
forma; è talmente materia che non è materia; è talmente anima,
che non è anima 5: perché è il tutto indifferentemente, e però è
uno, l'universo è uno''. In questo certamente non è maggiore
l'altezza che la lunghezza e profondità: onde per certa similitu-
dine si chiama, ma non è, sfera.
Nella sfera medesima cosa è lunghezza che larghezza e pro-
fondo, per che hanno medesimo termino; ma ne l'universo me-
desima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesi-
mamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno
mezzo, quadrante et altre misure, se non vi è misura, non vi è
parte proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal
tutto: perché se vuoi dir parte de l'infinito, bisogna dirla infi-
nito; se è infinito, concorre in uno essere con il tutto: dumque
l'universo è uno, infinito, impartibile. E se nel infinito non si
trova differenza come di tutto e parte, e come di altro et altro,
certo l'infinito è uno. Sotto la comprensione de l'infinito, non è
parte maggiore e parte minore^; per che alla proporzione de
[273 1 l'infinito non si accosta più una parte quantosivoglia maggiore,
4. Cfr. ivi: «Est igitur unitas absoluta, cui nihil opponitur ipsa absoluta
maximitas, quae est Deus benedictus» («Essa è l'unità assoluta a cui niente si
oppone, la massimità assoluta che è Dio benedetto»).
5. Cfr. il frammento di David di Dinant riportato da Alberto Magno,
Summa de creaturis cit. (si veda anche Proemiale epistola, p. 601, nota 35; Dia-
logo quarto, p. 723, nota 103).
6. Cfr. G. Bruno, De minimo, II. i, Op. lai., I, 3, pp. 187-188: «Una materia,
una forma, unum effìciens. In omni serie, scala, analogia ab uno proficiscitur,
in uno constitit et ad unum refertur multitudo» (traduz. in Opere, a cura di
C. Monti, Torino, 1990, p. 141: «Una è la materia, una è la forma, uno è l'effi-
ciente. In ogni successione, scala, analogia, la molteplicità precede dall'uno, si
fonda sull'uno e ad esso si riferisce»).
7. Il medesimo tema era stato sviluppato da N. Cusano, De Docta ignoran-
tia ed. Federici-Vescovini cit., II, i, pp. 107-111: Correlaria preambularia ad in-
ferendum unum infinitum universum («Corollari preliminari per arrivare a con-
cludere che l'universo è uno e infinito»).
ì
DIALOGO QUINTO 727
che un'altra quantosivoglia minore; e però ne l'infinita durazione
non differisce la ora dal giorno, il giorno da l'anno, l'anno dal
secolo, il secolo dal momento: perché non son più gli momenti e
le ore, che gli secoli; e non hanno minor proporzione quelli che
questi a la eternità. Similmente ne l'immenso non è differente il
palmo dal stadio, il stadio da la parasanga: perché alla propor-
zione de la inmensitudine non più si accosta per le parasanghe
che per i palmi ^. Dumque infinite ore non son più che infiniti
secoli, et infiniti palmi non son di maggior numero che infinite
parasanghe. Alla proporzione, similitudine, unione et identità de
l'infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una
stella che un uomo: per che a quello essere non più ti avicini con
esser sole, luna, che un uomo o una formica, e però nell'infinito
queste cose sono indifferenti; e quello che dico di queste, intendo
di tutte l'altre cose di sussistenza particulare. Or se tutte queste
cose particulari ne l'infinito non sono altro et altro, non sono dif-
ferenti, non sono specie, per necessaria consequenza non sono
numero: dumque l'universo è ancor uno immobile.
Questo, perché comprende tutto, e non patisce altro et altro
essere, e non comporta seco né in sé mutazione alcuna, per con-
sequenza è tutto quello che può essere; et in lui (come dissi l'al-
tro giorno)^ non è differente l'atto da la potenza. Se dalla po-
tenza non è differente l'atto, è necessario che in quello il punto,
la linea, la superficie et il corpo non differiscano; perché cossi
quella linea è superficie, come la linea movendosi può essere
superficie; cossi quella superficie è mossa et è fatta corpo: come
la superficie può moversi e con il suo flusso può farsi corpo. È [275]
necessario dumque che il punto ne l'infinito non differisca dal
corpo: per che il punto scorrendo da l'esser punto si fa linea;
scorrendo da l'esser linea si fa superficie; scorrendo da l'esser
superficie, si fa corpo: il punto dumque perché è in potenza ad
esser corpo, non differisce da l'esser corpo dove la potenza e
l'atto è una medesima cosa. Dumque l'individuo non è diffe-
rente dal dividuo, il simplicissimo da l'infinito, il centro da la
circonferenza.
Perché dumque l'infinito è tutto quello che può essere, è in-
8. Cfr. la Proemiale epistola, p. 605, nota 52.
9. Cfr. Dialogo terzo, p. 694.
728 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
mobile. Perché in lui tutto è indifferente, è uno; e perché ha
tutta la grandezza e perfezzione che si possa oltre et oltre avere,
è massimo et ottimo immenso.
Se il punto non differisce dal corpo, il centro da la circonfe-
renza, il finito da l'infinito, il massimo dal minimo, sicura-
mente possiamo affirmare che l'universo è tutto centro, o che il
centro de l'universo è per tutto; e che la circunferenza non è in
parte alcuna 1°, per quanto è differente dal centro; o pur che la
circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto
che è differente da quella. Ecco come non è impossibile, ma
necessario che l'ottimo, massimo, incomprehensibile, è tutto, è
per tutto, è in tutto: perché come semplice et indivisibile può
esser tutto, esser per tutto, essere in tutto. E cossi non è stato
vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inabita tutte le
parti de l'universo, è centro de ciò che ha l'essere: uno in tutto,
e per cui uno è tutto". Il quale essendo tutte le cose e compren-
dendo tutto l'essere in sé, viene a far che ogni cosa sia in ogni
[277] cosa. Ma mi direste: perché dumque le cose si cangiano, la ma-
teria particulare si forza ad altre forme? Vi rispondo, che non è
mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere. E
questa è la differenza tra l'universo e le cose de l'universo:
perché quello comprende tutto lo essere e tutti modi di essere;
di queste ciascuna ha tutto l'essere, ma non tutti i modi di es-
sere. E non può attualmente aver tutte le circostanze et acci-
denti; perché molte forme sono incompossibili in medesimo
soggetto, o per essemo '^ contrarie, o per appartener a specie di-
verse: come non può essere medesimo supposito individuale
sotto accidenti di cavallo et uomo, sotto dimensioni di una
10. Definizione pseudo-ermetica di Dio, anticipata nella Proemiale epistola,
p. 606 e nota 54; cfr. E libro dei XXIV Filosofi, prop. II, ed. a cura di P. Necchi,
Genova, 1996, pp. 28 e segg. È lo stesso testo citato da F. Rabelais, E Terzo
Libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruele, XIII, traduz. di G. Nicoletti in
Id., Opere, Torino, voi. I, 1963, p. 467: «... l'infinita sfera intellettiva, il cui cen-
tro è in ogni luogo dell'universo, la circonferenza in nessuno (cioè Dio secondo
la dottrina di Ermete Trismegisto)». Sul tema, fondamentale D. Mahnke,
Unendliche Sphàre und Allmittelpunkt, Halle, 1937 {rist Stuttgart, 1966).
11. Cfr. Cleante, Inno a Zeus, in A.-J. Festugière, La révélation d'Hermes
Trismegiste, II, Le Dieu Cosmique, Paris, 1949, pp. 310-312. Cfr. Proemiale epi-
stola, p. 607, nota 57, nonché G. Bruno, Spaccio, Dialogo primo, p. 251: «La
unità è nel numero infinito, ed il numero infinito nell'unità».
12. Forma d'infinito coniugato.
DIALOGO QUINTO 729
pianta et uno animale'^. Oltre, quello comprende tutto lo essere
totalmente, perché estra et oltre lo infinito essere, non è cosa
che sia: non avendo estra né oltra; di queste poi ciascuna com-
prende tutto lo essere, ma non totalmente, perché oltre cia-
scuna, sono infinite altre. Però intendete tutto essere in tutto;
ma non totalmente et omnimodamente in ciascuno. Però inten-
dete come ogni cosa è una; ma non unimodamente. Però non
falla chi dice uno essere lo ente, la sustanza e l'essenza; il quale
come infinito et interminato, tanto secondo la sustanza, quanto
secondo la durazione, quanto secondo la grandezza, quanto se-
condo il vigore, non ha raggione di principio né di principiato:
perché concorrendo ogni cosa in unità et identità, dico mede-
simo essere, viene ad avere raggione absoluta e non respettiva.
Ne l'uno infinito, inmobile, che è la sustanza, che è lo ente, se
vi trova la moltitudine, il numero, che per essere modo e molti-
formità de lo ente, la quale viene a denominar cosa per cosa, non [279]
fa per questo che lo ente sia più che uno: ma moltimodo e mol-
tiforme e moltifigurato. Però profondamente considerando con
gli filosofi naturali, lasciando i logici ne le lor fantasie, troviamo
che tutto lo che ^"^ fa differenza e numero, è puro accidente, è pura
figura, è pura complessione: ogni produzzione di qualsivoglia
sorte che la sia è una alterazione; rimanendo la sustanza sempre
medesima, perché non è che una, uno ente divino, immortale.
Questo lo ha possuto intendere Pitagora, che non teme la morte
ma aspetta la mutazione '': l'hanno possuto intendere tutti filo-
sofi chiamati volgarmente fisici ^^ che niente dicono generarsi se-
condo sustanza né corrompersi: se non vogliamo nominar in que-
sto modo la alterazione; questo lo ha inteso Salomone, che dice
non esser cosa nova sotto il sole: ma quel che è, fu già prima'''.
13. Cfr. Dialogo quarto, p. 723, nota 103, la testimonianza di Alberto Ma-
gno su David de Dinant, e Avicebron, Fons Vitae, I, 6-7.
14. Cfr. lo spagnolo «lo que».
15. Cfr. Dialogo secondo, p. 665: «Non gli corpi né l'anima deve temer la
morte, perché tanto la materia quanto la forma sono principi constantissimi».
16. Sono i filosofi ionici menzionati da Aristotele, Phys. Auscultai, I, 3,
187 a 12.
17. Cfr. Ecclesiaste, I, 9-10, spesso citato da Bruno, ad es. nel Dialogo se-
condo, p. 665. Cfr. A. Mercati, // sommario del processo di Bruno, Città del
Vaticano, 1942, § 225, p. 144; E, Canone, G. Bruno. Gli anni napoletani e la
«peregrinano» europea. Cassino, 1992, pp. 121-122 e p. 118, figura g (autografo di
Bruno); L. Firpo, Il processo di G. Bruno, Roma, 1993, Terzo costituto, p. 169.
730 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Avete dumque come tutte le cose sono ne l'universo e l'universo
è in tutte le cose, noi in quello, quello in noi: e cossi tutto con-
corre in una perfetta unità. Ecco come non doviamo travagliarci
il spirto, ecco come cosa non è per cui sgomentar ne doviamo:
perché questa unità è sola e stabile, e sempre rimane: questo uno
è etemo; ogni volto, ogni faccia, ogn'altra cosa, è vanità, è come
nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno.
Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali
hanno ritrovata questa unità. Medesima cosa a fatto è la sofia,
la verità, la unità '^. Hanno saputo tutti dire che vero, uno et
ente son la medesima cosa; ma non tutti hanno inteso: per che
altri hanno seguitato il modo di parlare, ma non hanno com-
[281] preso il modo d'intendere di veri sapienti. Aristotele tra gli al-
tri, che non ritrovò l'uno, non ritrovò lo ente, e non ritrovò il
vero: perché non conobe come uno lo ente; e benché fusse stato
libero di prendere la significazione de lo ente comune alla su-
stanza e l'accidente, et oltre de distinguere le sue categorie se-
condo tanti geni e specie, per tante differenze: non ha lasciato
però di essere non meno poco aveduto nella verità, per non pro-
fondare alla cognizione di questa unità et indifferenza de la co-
stante natura et essere; e come sofista ben secco, con maligne
esplicazioni e con leggiere persuasioni, pervertere le sentenze de
gli antichi et opporsi a la verità, non tanto forse per imbecillità
de intelletto quanto per forza d'invidia et ambizione 1^.
DicsoNO. - Sì che questo mondo, questo ente, vero, universo,
infinito, inmenso, in ogni sua parte è tutto -'^: tanto che lui è lo
istesso ubique^^. Là onde ciò che è ne l'universo, al riguardo de
l'universo (sia che si vuole a rispetto de li altri particolari cor-
pi), è per tutto, secondo il modo della sua capacità: perché è
18. Cfr. G. Bruno, Sfaccio, Dialogo secondo, p. 255: «uno è lo ente, buono e
vero; medesimo è vero, ente e buono»; De minimo, I. 4, w. 17-18, Op. lai., I, 3,
p. 144: «... Deusque est / Extans totum, infinitum, verum. omne, bonum,
unum» (ed. Monti cit, p. 102).
19. Cfr. G. Bruno, Cabala, p. 459, le opinioni attribuite ad Onorio {alias
Aristotele): «Cossi malamente e scioccamente riportando le opinioni de gli an-
tiqui, e de maniera tal sconcie, che né manco gli fanciulli e le insensate vec-
chie parlarebono et intenderebono come io introduco quelli galantuomini in-
tendere e parlare, mi venni ad intrudere come riformator di quella disciplina
della quale io non avevo notizia alcuna».
20. Si veda il Dialogo secondo, p. 661. nota 57.
21. «Dappertutto».
DIALOGO QUINTO 73 1
sopra, è sotto, infra, destro, sinistro, e secondo tutte differenze
locali: perché in tutto lo infinito son tutte queste differenze, e
nulla di queste. Ogni cosa che prendemo ne l'universo, perché
ha in sé quello che è tutto per tutto, comprende in suo modo
tutta l'anima del mondo (benché non totalmente come già ab-
biamo detto)22, la quale è tutta in qualsivoglia parte di quello.
Però come lo atto è uno, e fa uno essere ovumque lo sia, cossi
nel mondo non è da credere che sia pluralità di sustanza e di
quello che veramente è ente. Appresso so che avete come cosa
manifesta, che ciascuno di tutti questi mondi innumerabili che [283]
noi veggiamo ne l'universo-^, non sono in quello tanto come in
un luogo continente, e come in uno intervallo e spacio: quanto
come in uno comprensore, conservatore, motore, efficiente^-*; il
quale cossi tutto vien compreso da ciascuno di questi mondi,
come l'anima tutta da ciascuna parte del medesimo. Però
benché un particolare mondo si muova verso e circa l'altro,
come la terra al sole e circa il sole, niente di meno al rispetto
dell'universo nulla si muove verso né circa quello: ma in
quello.
Oltre volete che sicome l'anima (anco secondo il dir comune)
è in tutta la gran mole a cui dà l'essere, et insieme insieme è
individua, e per tanto medesimamente è in tutto et in qualsi-
voglia parte intieramente, cossi la essenza de l'universo è una
nell'infinito et in qualsivoglia cosa presa come membro di
quello: sì che a fatto il tutto et ogni parte di quello viene ad
esser uno secondo la sustanza. Onde non essere inconveniente-
mente detto da Parmenide^', uno, infinito, immobile (sia che si
vuole della sua intenzione, la quale è incerta, riferita da non
assai fidel relatore) ^6. Dite che quel tutto che si vede di diffe-
renza ne gli corpi quanto alle formazioni, complessioni, figure,
colori et altre proprietadi e communitadi, non è altro che un
diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrot-
22. Cfr. supra pp. 728-729.
23. Sta parlando degli astri.
24. Cfr. G. Bruno, Acrotismus, art:. XXVIII, Op. lat, I, i, pp. 123-125.
25. In realtà questa opinione è di Melisso (criticato da Aristotele, Phys.
Auscultai, I, 3, 185 b 17-18; III, 6, 207 a 15 e segg.); G. Bruno, De minimo, I, 4, Op.
lai., I, 3, p. 145 (ed. Monti cit, p. 102) attribuirà a Senofane la teoria della sfera
infinita.
26. Allusione ad Aristotele, Metaph., I, 5, 986 b.
732 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
tibile, di uno inmobile, perseverante et etemo essere; in cui son
tutte forme, figure e membri: ma indistinti e come agglomerati,
non altrimente che nel seme, nel quale non è distinto il braccio
da la mano, il busto dal capo, il nervo dal osso: la qual distin-
[285] zione e sglomeramento, non viene a produre altra e nuova su-
stanza; ma viene a ponere in atto e compimento certe qualitadi,
differenze, accidenti et ordini circa quella sustanza.
E quel che si dice del seme al riguardo de le membra de gli
animali, medesimo si dice del cibo al riguardo de l'esser chilo,
sangue, flemma, carne, seme; medesimo di qualch'altra cosa che
precede l'esser cibo o altro; medesimo di tutte cose, montando
da l'infimo grado della natura, sino al supremo di quella, mon-
tando da l'università fisica conosciuta da filosofi, alla altezza
dell'archetipa creduta da teologi, se ti piace: sin che si dovenga
ad una originale et universale sustanza medesima del tutto, la
quale si chiama lo ente, fondamento di tutte specie e forme di-
verse. Come ne l'arte fabrile^^ è una sustanza di legno, soggetta
a tutte misure e figure, che non son legno, ma di legno, nel le-
gno, circa il legno. Però tutto quello che fa diversità, di geni,
di specie, differenze, proprietadi, tutto che consiste nella gene-
razione, corrozzione, alterazione e cangiamento, non è ente, non
è essere: ma condizione e circostanza di ente et essere, il qua-
le è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima, vero
e buono. Volete che per essere lo ente indivisibile e semplicis-
simo perché è infinito, et atto tutto in tutto, e tutto in ogni par-
te^^ (in modo che diciamo parte nello infinito, non parte dello
infinito), non possiamo pensar in modo alcuno, che la terra sia
parte dello ente, il sole parte della sustanza: essendo quella im-
partibile; ma sì bene è lecito dire, sustanza della parte, o pur
meglio sustanza nella parte. Cossi come non è lecito dire parte
[287I dell'anima esser nel braccio, parte dell'anima esser nel capo: ma
sì bene l'anima nella parte che è il capo, la sustanza della parte
o nella parte che è il braccio; perché lo essere porzione, parte,
membro, tutto, tanto, quanto, maggiore, minore, come questo,
come quello, di questo, di quello, concordante, differente e di
27. Nella sua traduzione di Vitruvio (Perugia, 1536, f. 91'''), G. B. Caporali
rende così questo aggettivo: «legname fabrile cioè da fabbricare o lavorare».
28. Cfr. Dialogo secondo, p. 661, nota 57.
DIALOGO QUINTO 733
altre raggioni che non significano uno assoluto, e però non si
possono riferire alla sustanza, a l'uno, a l'ente, ma per la su-
stanza, nell'uno e circa lo ente, come modi, raggioni e forme:
cossi come comunmente si dice circa una sustanza essere la
quantità, qualità, relazione, azzione, passione et altri circostanti
geni; talmente ne l'uno ente summo, nel quale è indifferente
l'atto dalla potenza, il quale può essere tutto assolutamente, et è
tutto quello che può essere; è complicatamente uno, inmenso,
infinito, che comprende tutto lo essere: et è esplicatamente in
questi corpi sensibili, et in la distinta potenza et atto che veg-
giamo in essi. Però volete che quello che è generato e genera (o
sia equivoco o univoco agente come dicono quei che volgar-
mente filosofano)^'^ e quello di che si fa la generazione ^o, sem-
pre sono di medesima sustanza. Per il che non vi sonarà mal ne
l'orecchio la sentenza di Eraclito ^i, che disse tutte le cose essere
uno, il quale per la mutabilità ha in sé tutte le cose; e perché
tutte le forme sono in esso, conseguentemente tutte le diffini-
zioni gli convegnono: e per tanto le contradittorie enunciazioni
son vere. E quello che fa la moltitudine ne le cose, non è lo
ente, non è la cosa: ma quel che appare, che si rapresenta al
senso et è nella superficie della cosa^^. [289]
Teofilo. - Cossi è. Oltre questo, voglio che apprendiate più
capi di questa importantissima scienza e di questo fondamento
solidissimo de le veritadi e secreti di natura. Prima dumque
voglio che notiate essere una e medesima scala, per la quale
la natura descende alla produzzion de le cose, e l'intelletto
29. Al modo degli scolastici, Bruno traduce qui con «univoco» ed «equivo-
co» i termini aristotelici ónibvvfiov e o^)vó)v^)^ov (sono «omonime» le cose che
hanno come sola caratteristica comune il nome ma non la definizione corri-
spondente al nome; sono «sinonime» quelle che hanno in comune il nome e la
definizione; cfr. Aristotele, Categoriae, I, i a i, traduz. di M. Zanatta, Milano,
1989, p. 301). Si veda l'impiego fatto da Bruno dell'avverbio univocamente in
De l'infinito. Dialogo quinto.
30. In termini aristotelici, «quello di che si fa la generazione» è la materia;
«quello che genera», è la causa; «quello che è generato» è il «composto» che
nasce quando la causa trae dalla materia il nuovo essere.
31. Per «la sentenza di Eraclito» si veda H. Diels, Die Fragmente der Vor-
sokratiker, Berlin, 1903, 12 B io (e cfr. I Presocratici. Testimonianze e frammenti,
a cura di G. Giannantoni, Bari, 1969, I, p. 198). Cfr. inoltre Aristotele, Phys.
Auscultata I, 3, 185 a 7, b 20; III, 5, 205 a 3. Si accusava Eraclito di aver voluto
vanificare il principio del terzo escluso.
32. Cfr. David di Dinant, in Alberto Magno, Physica, I, 2, art. io: «et con-
tradictoria sunt simul vera, si appareat unum uni, et alterum alteri: quia cum
materia una sit, id quod agit pluritatem, non est vere ens, sed esse videtur».
734 ^^ LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ascende alla cognizion di quelle; e che l'uno e l'altra da l'unità
procede all'unità, passando per la moltitudine di mezzi. Lascio
che con il suo modo di filosofare gli Peripatetici e molti Plato-
nici alla moltitudine de le cose, come al mezzo, fanno procedere
il purissimo atto da uno estremo, e la purissima potenza da l'al-
tro ^^. Come vogliono altri'-* per certa metafora convenir le tene-
bre e la luce alla constituzione de innumerabili gradi di forme,
effigie, figure e colori. Appresso i quali, che considerano dui
principii e dui principi '5, soccorreno altri nemici et impazienti
di poliarchia ^^ e fanno concorrere que' doi in uno, che medesi-
mamente è abisso e tenebra, chiarezza e luce, oscurità profonda
et impenetrabile, luce superna et inaccessibile. Secondo, consi-
derate che l'intelletto volendo liberarse e disciòrse dall'imagina-
zione alla quale è congionto, oltre che ricorre alle matematiche
et imaginabili figure, a fin che o per quelle o per la similitudine
di quelle comprenda l'essere e la sustanza de le cose, viene an-
cora a riferire la moltitudine e diversità di specie a una e me-
desima radice: come Pitagora che puose gli numeri principii
specifici de le cose, intese fundamento e sustanza di tutti la
unità; Platone et altri che puosero le specie consistenti nelle fi-
gure, di tutti il medesimo ceppo e radice intesero il punto come
[291] sustanza e geno universale": e forse le superficie e figure son
quelle che al fine intese Platone per il suo «magno», et il punto
et atomo è quello che intese per il suo « parvo »^^ gemini prin-
cipii specifici de le cose, i quali poi si riducono ad uno, come
33. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., II, i, 193 a 28 e segg.; Platone, Ti-
maeus, 35 a.
34. Gli gnostici.
35. Vale a dire il principio della luce e il principio delle tenebre, che presso
gli gnostici erano personificati da un arconte («principe») della luce e da un
arconte delle tenebre.
36. David di Dinant e Bruno stesso.
37. Bruno interpreta qui Platone, Timaeus, 53 e e segg. Cfr. N. Cusano,
De docta ignorantia, I, 11, ed. Federici- Vescovi ni cit. p. 73: «Nonne Pythagoras,
primus et nomine et re philosophus, omnem veritatis inquisitionem in nume-
ris posuit? Quem Platonici et nostri etiam primi in tantum secuti sunt, ut...»
(«Forse che Pitagora, primo filosofo di nome e di fatto, non pose nei numeri
tutta la ricerca della verità? Lo seguirono i Platonici e i nostri primi mae-
stri...»); G. Bruno, Sigillus sigillorum, II, 4, «De mathesi», Op. lai., II. 2, p. 197:
«Ideoque Pythagoras, Plato, et omnes, qui res profundas atque difficiles nobis
sunt insinuare conati, aliis quam mathematicis mediis non usquam usi sunt».
38. Cfr. Aristotele, Phys. Auscultai., Ili, 4, 203 a 15-16: «Platone dice che
gli infiniti sono due: il grande e il piccolo».
DIALOGO QUINTO 735
Ogni dividuo a l'individuo. Que' dumque che dicono il princi-
pio sustanziale esser l'uno, vogliono che le sustanze son come i
numeri; gli altri che intendeno il principio sustanziale come il
punto, vogliono le sustanze de cose essere come figure: e tutti
convegnono con ponere un principio individuo. Ma meglior e
più puro è il modo di Pitagora che quel di Platone, perché la
unità è causa e raggione della individuità e puntalità, et è un
principio più absoluto et accomodabile a l'universo ente.
Gervasio. — Perché Platone, che venne appresso, non fece
similmente né meglio che Pitagora?
Teofilo. — Perché volse più tosto dicendo peggio e con men
comodo et appropriato modo, esser stimato maestro, che di-
cendo megliormente e meglio, farsi riputar discepolo. Voglio
dire che il fine de la sua filosofia era più la propria gloria, che
la verità: atteso che non posso dubitar che lui sapesse molto
bene che il suo modo era appropriato più alle cose corporali e
corporalmente considerate; e quell'altro non meno accomodato
et appropriabile a queste, che a tutte l'altre che la raggione,
l'imaginazione, l'intelletto, l'una e l'altra natura sapesse fabri-
care. Ogniuno confessarà che non era occolto a Platone che la
unità e numeri necessariamente essaminano e donano raggione
di punto e figure; e non sono essaminati e non prendeno rag-
gione da figure e punti necessariamente, come la sustanza di- [293]
mensionata e corporea depende dall'incorporea et individua: ol-
tre che questa è absoluta da quella, perché la raggione di nu-
meri si trova senza quella de misura, ma quella non può essere
absoluta da questa, perché la raggione di misure non si trova
senza quella di numeri. Però la aritmetrica^'' similitudine e pro-
porzione, è più accomodata che la geometrica per guidarne, per
mezzo de la moltitudine, alla contemplazione et apprensione di
quel principio indivisibile, che per essere unica e radicai su-
stanza di tutte cose, non è possibile ch'abbia un certo e deter-
minato nome''", e tal dizzione che significhe più tosto positiva
39. Forma napoletana (già incontrata nella Proemiale epistola, p. 601).
40. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, I, 24, ed. Federici-Vescovini cit.,
p. 98: «Nam manifestum est, cum maximum sit ipsum maximum simpliciter,
cui nihil opponitur, nullum nomen ei proprie posse convenire ... Ubi vero om-
nia sunt unum, nullum nomen proprium esse potest. Unde recte ait Hermes
Trismegistus: "Quoniam Deus est universitas rerum, tunc nullum nomen prò-
736 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
che privativamente: e però è stato detto da altri «punto», da
altri «unità», da altri «infinito», e secondo varie raggioni simili
a queste. Aggiungi a quel che è detto che quando l'intelletto
vuol comprendere l'essenzia di una cosa, va simplificando
quanto può: voglio dire, dalla composizione e moltitudine se
ritira rigittando gli accidenti corrottibili, le dimensioni, i segni,
le figure, a quello che sottogiace a queste cose. Cossi la lunga
scrittura e prolissa orazione non intendemo, se non per contraz-
zione ad una semplice intenzione: l'intelletto in questo dimo-
stra apertamente come ne l'unità consista la sustanza de le cose,
la quale va cercando o in verità o in similitudine. Credi, che
sarebbe consummatissimo e perfettissimo geometra quello che
potesse contraere ad una intenzione sola tutte le intenzioni di-
sperse ne' principii di Euclide; perfettissimo logico chi tutte le
intenzioni contraesse ad una. Quindi è il grado delle intelli-
genze: per che le inferiori non possono intendere molte cose, se
[295] non con molte specie, similitudini e forme. Le superiori inten-
deno megliormente con poche. Le altissime con pochissime per-
fettamente. La prima intelligenza in una idea perfettissima-
mente comprende il tutto. La divina mente e la unità assoluta,
senza specie alcuna, è ella medesimo lo che intende e lo che [è]
inteso. Cossi dumque montando noi alla perfetta cognizione,
andiamo complicando la moltitudine: come descendendosi alla
produzzione de le cose, si va esplicando la unità. Il descenso è da
uno ente ad infiniti individui e specie innumerabili: lo ascenso è
da questi a quello. Per conchiudere dumque questa seconda con-
siderazione, dico che quando aspiriamo e ne forziamo al princi-
pio e sustanza de le cose, facciamo progresso verso la indivisibi-
lità: e giamai credemo esser gionti al primo ente, et universal
sustanza, sin che non siamo arrivati a quell'uno individuo, in cui
tutto si comprende. Tra tanto, non più credemo comprendere di
sustanza e di essenza, che sappiamo comprendere di indivisibi-
lità. Quindi i Peripatetici e Platonici, infiniti individui riducano
ad una individua raggione di molte specie; innumerabili specie
comprendono sotto determinati geni, quali Archita primo volse
prium est eius"» («È evidente che nessun nome può convenire al massimo, in
quanto è il massimo assoluto cui niente si oppone ... Là dove invece tutte le
cose sono uno, nessun nome è appropriato. Ermete Trismegisto disse giusta-
mente: "Poiché Dio è l'universalità delle cose, nessun nome gli è proprio"»).
DIALOGO QUINTO 737
che fussero diece'''; determinati geni ad uno ente, una cosa; la
qual cosa, et ente, è compresa da costoro come un nome e diz-
zione, et una logica intenzione, et in fine una vanità; perché trat-
tando fisicamente poi, non conosceno uno principio di realità et
essere di tutto quel che è, come una intenzione e nome comune a
tutto quel che si dice e si comprende: il che certo è accaduto per
imbecillità di intelletto. [297]
Terzo, devi sapere che essendo la sustanza et essere distinto et
assoluto da la quantità, e per conseguenza la misura e numero
non è sustanza ma circa la sustanza, non ente ma cosa di ente,
aviene che necessariamente doviamo dire la sustanza essenzial-
mente essere senza numero ""^ e senza misura, e però una et indi-
vidua in tutte le cose particolari, le quali hanno la sua particu-
larità dal numero, ciò è da cose che sono circa la sustanza. Onde
chi apprende Polihimnio, come Polihimnio, non apprende su-
stanza particolare, ma sustanza nel particolare e nelle differenze
che son circa quella, la quale per esse viene a ponere questo uo-
mo in numero e moltitudine sotto una specie. Qua come certi
accidenti umani fanno moltiplicazione di questi chiamati indi-
vidui dell'umanità, cossi certi accidenti animali fanno moltipli-
cazione di queste specie dell'animalità. Parimente certi accidenti
vitali fanno moltiplicazione di questo animato e vivente. Non
altrimente certi accidenti corporei fanno moltiplicazione di cor-
poreità. Similmente certi accidenti di sussistenza fanno moltipli-
cazione di sustanza. In tal maniera certi accidenti di essere fanno
moltiplicazione di entità, verità, unità, ente, vero, uno.
Quarto, prendi i segni e le verificazioni per le quali conchiu-
der vogliamo gli contrarii concorrere in uno''^; onde non fìa dif-
41. Le dieci categorie dello pseudo-Archita (cfr. Architae Tarentini Decem
Praedicamenta, Dominico Pizimentio Vihonensi interprete, Venetiis, 1561) sono
menzionate da Bruno pure nel De compendiosa architedura, Op. lai., II, 2, p. 60,
ma è probabile che non abbia conosciuto l'edizione citata e che si rifacesse alle
Categoriae di Simplicio. Cfr. Boezio, In Praedicamenta Aristotelis, I, in Opera om-
nia, Basileae, 1570, p. 114: «Archites etiam duo composuit libros quos xadó)iOi)c
^.óyouc; [sic] inscripsit, quorum in primo haec praedicamenta disposuit». Sullo
pseudo-Archita, cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, voi. V, Milano, 1989"*,
(voci: Archita e Mediopitagorici, pp. 316 e 423). Dei KuOóXixoi Xóyoi óÉxa esiste
l'edizione (con importante commento) di Th. A. Szlezàk, Berlin, 1972.
42. Cfr. N. Cusano, De dacia ignorantia, I, 5, ed. Federici-Vescovini, cit., pp.
63-65-
43. Tema d'ispirazione cusaniana (cfr. Dialogo primo, p. 626, nota 62; qui,
pp. 742-744 e note).
738 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
ficile al fine inferire, che le cose tutte sono uno: come ogni nu-
mero tanto pare quanto ìmpare, tanto finito quanto infinito, se
riduce all'unità, la quale iterata con il finito pone il numero, e
con l'infinito nega il numero-*"*. I segni le prenderai dalla mate-
matica, le verificazioni da le altre facultadi morali e specula-
[299] tive. Or quanto a' segni. Ditemi, che cosa è più dissimile alla
linea retta che il circolo? che cosa è più contrario al retto che il
curvo? pure nel principio e minimo concordano ^5- atteso che
(come divinamente notò il Cusano, inventor di più bei secreti
di geometria) qual differenza trovarai tu tra il minimo arco e la
minima corda? -^^ Oltre, nel massimo, che differenza trovarai tra
il circolo infinito e la linea retta? Non vedete come il circolo
quanto è più grande, tanto più con il suo arco si va approssi-
mando alla rettitudine?"''' chi è sì cieco che non veda qualmente
l'arco BB, per esser più grande che l'arco AA; e l'arco CC più
grande che l'arco BB; et l'arco DD più che gli altri tre: riguar-
dano ad esser parte di maggior circolo, e con questo più e più
avicinarsi alla rettitudine della linea infinita del circolo infinito
significata per IKì-*^ Quivi certamente bisogna dire e credere
che, sì come quella linea che è più grande, secondo la raggione
44. Cfr. N. Cusano, De doda ignorantia, I, 19, ed. Federici-Vescovini cit
pp. 88-90.
45. Cfr. G. Bruno. Praelectiones geometricae, teorema I, ed. a cura di G.
Aquilecchia, Roma, 1964, p. 22: «Minimum vero quod est utriusque mensura,
ubi de recto et circulari est iudicandum, non distinguitur, sed unum et idem
est utriusque: minimum enim quod est principium recti et quod est princi-
pium curvi idem est».
46. Cfr. Id., Articuli adversus mathemaiicos, Op. lat.. I, 3, pp. 11, 27: «Cen-
trum, minimus arcus et minima chorda idem sunt et aequalia ... Minimus ar-
cus et minima chorda non differunt, sicut maximus arcus et maxima chorda
idem omnino sunt».
47. Si veda la figura i. Cfr. N. Cusano, De doda ignorantia, 1, 18, ed. Federici-
Vescovini cit, p. 86: «Quare quanto curvum est minus curvum, ut est circumfe-
rentia maioris circuii, tanto plus participat de rectitudine» («Perciò, quanto più
il curvo è meno cun,'o - come è la circonferenza del cerchio maggiore - tanto più
partecipa della rettitudine») e I, 12, ed. cit, p. 75: Id., De mathematica perfedione,
Parisiis, 15 14, voi. II, f. CF : «Necesse erit igitur me recurrere ad visum intellec-
tualem, qui videt minimam sed non adsignabilem chordam, cum minimo arca
coincidere»; G. Bruno, De minimo, I, 4, Op. lat., I, 3, p. 148 (ed. Monti cit,
pp. 105-106); Spaccio. Dialogo primo, p. 198 (allude a Nicolò Cusano).
48. Cfr. G. Bruno, De minimo, I, 4, fig. 2, Qp. lat., I, 3, p. 148 (ed. Monti cit,
p. 106). Bruno ricorre a un simbolismo geometrico che, attraverso la matema-
tica cusaniana, risale alla più antica tradizione platonica Questo simbolismo è
conforme al metodo seguito dal Nolano negli Articuli adversus mathemaiicos,
nel De minima e, in maniera più rigorosa, nelle Praelectiones geometricae e nel-
YArs deformationum.
DIALOGO QUINTO
739
*— M ■■■ ■iiiwi -• ^^rtW»»»^->»
X /^
1 1 ri
[FiG. i]
di maggior grandezza è anco più retta, similmente la massima
di tutte deve essere in superlativo più di tutte retta: tanto che
al fine la linea retta infinita vegna ad esser circolo infinito.
740 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
Ecco dumque come non solamente il massimo et il minimo
convegnono in uno essere, come altre volte abbiamo dimo-
strato, ma ancora nel massimo e nel minimo vegnono ad essere
uno et indifferente gli contrari'*^. Oltre, se ti piace comparare le
specie finite al triangolo 5°, perché dal primo finito e primo ter-
minato tutte le cose finite se intendeno per certa analogia par-
ticipare la finitudine e la terminazione (come in tutti geni li
predicati analogi tutti prendeno il grado et ordine dal primo e
massimo di quel geno), pertanto che il triangolo è la prima fi-
[301] gura, la quale non si può risolvere in altra specie di figura più
semplice (come per il contrario il quatrangolo se risolve in
triangoli) e però è primo fondamento di ogni cosa terminata e
figurata: trovarai che il triangolo come non si risolve in altra
figura, similmente non può procedere in triangoli, di quai gli
tre angoli sieno maggiori o minori, benché sieno varii e diversi,
di varie e diverse figure, quanto alla magnitudine maggiore e
minore, minima e massima. Però se poni un triangulo infinito
(non dico realmente et assolutamente, perché l'infinito non ha
figura: ma infinito dico per supposizione, e per quanto angolo
dà luogo a quello che vogliamo dimostrare), quello non ara an-
golo maggiore che il triangolo minimo finito, non solo che li
mezzani et altro massimo. Lasciando stare la comparazione de
figure e figure, dico di triangoli e triangoli: e prendendo angoli
et angoli, tutti (quantumque grandi e piccioli) sono equali come
in questo quadro appare 5', il quale per il diametro è diviso in
tanti triangoli: dove si vede, che non solamente sono uguali li
angoli retti di quadrati A, B, C, ma anco tutti gli acuti che ri-
sultano per divisione di detto diametro, che constituisce tanti
al doppio triangoli, tutti di equali angoli. Quindi per similitu-
dine molto espressa si vede come la una infinita sustanza può
essere in tutte le cose tutta, benché in altri finita, in altri infi-
nitamente; in questi con minore, in quelli con maggior misura.
Giongi a questo (per veder oltre che in questo uno et infinito
49. Cfr. N. Cusano, De dada tgnorantia, I, 22, ed. Federici-Vescovini cit,
pp. 94-96: Quomodo Dei providentia contradictoria unii («In che modo la provvi-
denza divina unisce i contraddittori»).
50. Per la dimostrazione che segue, cfr. ivi, I, 14, ed. cit, pp. 78-79: Quod
infinita linea sit triangolus («La linea infinita è triangolo»).
51. Si veda la figura 2.
DIALOGO QUINTO
741
li contrarii concordano) ^2 che lo angolo acuto et ottuso sono
dui contrarii, i quali non vedi qualmente nascono da uno, in- [305]
dividuo e medesimo principio, ciò è da una inclinazione che fa
[FiG. 2]
la linea perpendicolare M, che si congionge alla linea iacente
BD, nel punto C? Questa, su quel punto, con una semplice in-
clinazione verso il punto D^^, dopo che faceva indifferente-
mente angulo retto e retto, viene a fare tanto maggior diffe-
renza di angolo acuto et ottuso, quanto più s'avicina al punto
Z)54: al quale essendo gionta et unita, fa l'indifferenza d'acuto
et ottuso, similmente annullandosi l'uno e l'altro, perché sono
uno nella potenza di medesima linea. Quella, come ha possuto
52. Si veda la figura 3. Nella traduz. spagnola della Cena (Madrid, 1994^,
p. 28), M. A. Granada osserva che questo diagramma, utilizzato nel De umbris
[Op. lat, II, I, p. 38) per indicare il punto di convergenza dell'intelletto, del-
l'anima e della materia, è ripreso in De la causa per illustrare la coincidentia
oppositorum, dunque l'unità ontologica.
53. Ma sulla figura 3, l'inclinazione è verso il punto C.
54. C nell'edizione 1584: ma sulla figura 3, la linea si avvicina al punto B.
742 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
unirsi e farsi indifferente con la linea BD, cossi può disunirsi e
farsi differente da quella, suscitando da medesimo, uno et indi-
viduo principio i contrariissimi angoli, che sono il massimo
acuto e massimo ottuso: sin al minimo acuto et ottuso minimo,
et oltre all'indifferenza di retto, e quella concordanza che con-
siste nel contatto della perpendicolare e iacente'^.
Quanto alle verificazioni poi, chi non sa primamente circa le
qualitadi attive prime della natura corporea, che il principio
del calore è indivisibile, e però separato da ogni calore, perché
il principio non deve essere cosa alcuna de le principiate? Se è
cossi, chi deve dubitare di affirmare che il principio non è caldo
né freddo, ma uno medesimo del caldo e del freddo? ^^ Onde
aviene che un contrario è principio de l'altro 5^, e che però le
trasmutazioni son circolari, se non per essere un soggetto, un
principio, un termine, et una continuazione et un concorso de
l'uno e l'altro? Il minimo caldo et il minimo freddo non son
[307] tutte uno? 58 Dal termine del massimo calore, non si prende il
principio del moto verso il freddo? Quindi è aperto che non
solo ocorreno tavolta i dui massimi nella resistenza, e li dui
minimi nella concordanza; ma etiam il massimo et il minimo
per la vicissitudine di trasmutazione: onde non senza caggione
nell'ottima disposizione sogliono temere i medici, nel supremo
grado della felicità son più timidi gli providi. Chi non vede uno
55. Cfr. G. Bruno, De minimo, I, 4, fig. i, «Coincidentia anguli», Op. lat, I,
3, p. 147 (ed. Monti cit, p. 105).
56. E riferendosi allo stesso argomento che Bruno cita Telesio nel De im-
menso, I, 9, Op. lat, I, I, p. 289: «Nullis rationibus usus, / Naturam humentem
asseruitque Thelesius ignem» (ed. Monti cit, p. 491: «Telesio, non rifletten-
do sufficientemente, disse umida la natura del fuoco») e nel De monade, V,
«Natura quatuor elementorum in caelo», Op. lat., I, 2, p. 395 (ed. Monti cit,
p. 352). Si veda Dialogo terzo, pp. 676-677 e note 31-33, anche per la biblio-
grafia. Per tutto il discorso di Teofilo, fino alla conclusione del dialogo, cfr.
inoltre N. Cusano, De beryllo, XXV e XXVI, ed. Federici-Vescovini cit,
pp. 668, 670-671 (cfr. R. Sturlese, A''. Cusano e gli inizi della speculazione del
Bruno, in: Historia Philosophiae Medii Aevi. Studien zur Geschichte der Philo-
sophie, Festschrift fùr K. Flasch, a cura di B. Mojsisch e O. Fiuta, Amsterdam,
1990).
57. Tale formula è in totale contraddizione con Aristotele, Phys. Auscul-
tai., I, 6, 189 a 23 e segg.
58. La finale in -e, invece che in -0, sembra un esempio dell'affievolirsi della
vocale finale in conformità con la fonetica napoletana (cfr. Male essempio e
delle exequire nello Spaccio, Dialogo terzo, pp. 345, 351, mentre lavare, qui nel
Dialogo secondo, p. 654, può essere una forma italiana arcaica).
DIALOGO QUINTO
743
essere il principio della corrozzione e generazione? l'ultimo del
corrotto, non è principio del generato? non diciamo insieme:
tolto quello, posto questo; era quello, è questo? Certo (se ben
[FiG. 3]
misuramo) veggiamo che la corrozzione non è altro che una ge-
nerazione; e la generazione non è altro che una corrozzione:
l'amore è un odio, l'odio è uno amore al fine. L'odio del contra-
rio è amore del conveniente, l'amor di questo è l'odio di quello.
In sustanza dumque e radice, è una medesima cosa amore et
744 l'È LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
odio, amicizia e lite^^. Da onde più comodamente cerca l'antido-
to il medico, che dal veleno? ^o chi porge meglior teriaca che la
vipera? ''1 Ne' massimi veneni, ottime medecine^^. Una potenza
non e di dui contrarii oggetti? or onde credi che ciò sia, se non da
quel che cossi uno è il principio de l'essere, come uno è il prin-
cipio di concepere l'uno e l'altro oggetto; e che cossi li contrarii
son circa un soggetto, come sono appresi da uno e medesimo sen-
so? Lascio che l'orbicolare posa nel piano; il concavo s'acqueta e
risiede nel convesso; l'iracondo vive gionto al paziente. Al super-
[311] bissimo massimamente piace l'umile; a l'avaro il liberale.
In conclusione chi vuol sapere massimi secreti di natura, ri-
guardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrarii
et oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver
trovato il punto de l'unione '^^. A questo tendeva con il pensiero
il povero Aristotele ponendo la privazione (a cui è congionta
certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della for-
ma"^: ma non vi potè aggiungere, non ha possuto arrivarvi;
perché fermando il pie nel geno de l'opposizione, rimase incep-
pato di maniera, che non descendendo alla specie de la contra-
rietà, non giunse né fissò gli occhi al scopo: dal quale errò a
tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente conve-
nire in soggetto medesimo.
59. Toma Eraclito con la sua concezione della realtà universale come dia-
lettica di Amore-Odio.
60. Cfr. G. Bruno, Theses de Magia, XXXI, Op. lat. III, p. 475: «Et in proèmio
libri Physicorum dicit Averrhoès consuetudinem esse maximam causam, ut quae
sunt venena non tantum vertantur in antidota, sed etiam in nutrimenta».
61. Cfr. N. A. Stigliola, Theriace et Mithridiata libellus, in quo harum anti-
dotorum apparatus, atque usus monstratur, Neapoli, 1577 (l'autore era compa-
triota e contemporaneo di Bruno); M. Ficino, De vita libri tres, «Epidemiarum
Antidotus», Lugduni, 1567, p. 363.
62. Espressione proverbiale; cfr. Torriano, Piazza universale, p. 299: «Il ve-
leno si scaccia col veleno»; G. Bruno, De rerum principiis, Op. lat.. Ili, pp. 549-
550: «In summis venenis summae medicinae», dove si cita esplicitamente que-
sto passo del De la causa.
63. Bruno contraddice qui Aristotele, Phys. Auscultai., I, 6, 189 a 12, che
afferma che gli opposti non sono una sola e medesima cosa.
64. Cfr. Aristotele, Metaph., I, 1055 b; N. Cusano, De beryllo, XXV, ed.
Federici-Vescovini cit., p. 668: «Se Aristotele avesse inteso il principio che
chiama privazione, come quello che afferma la coincidenza dei contrari e che,
privato della contrarietà di entrambi, precede la dualità necessaria ai contrari,
lo avrebbe allora compreso bene. Il timore di affermare che i contrari ineri-
scono simultaneamente alla medesima cosa, lo privò della verità di questo
principio. Ma siccome ritenne necessario un terzo principio, che doveva essere
la privazione, ammise la privazione senza porla come tale principio».
DIALOGO QUINTO 745
PoLiHiMNio. - Alta, rara e singularmente^^ avete determi-
nato del tutto, del massimo, de l'ente, del principio, de l'uno.
Ma vi vorei veder distinguere de l'unità, perché trovo un Vae
soli'^'^. Oltre che sento grande angoscia per quel che nel mio
marsupio e crumena non vi alloggia più che un vedovo so-
lido «.
Teofilo. - Quella unità è tutto la quale non è esplicata, non
è sotto distribuzione e distinzione di numero, e tal singularità
che tu intendereste forse; ma che è complicante e compren-
dente.
PoLiHiMNio. - Exemplumì^^ Per che a dire il vero intendo,
ma non capio^'^.
Teofilo. - Come il denario è una unità similmente, ma
complicante, il centenario non meno è unità, ma più compli-
cante; il millenario non è unità meno che l'altre, ma molto più
complicante. Questo che ne l'aritmetrica vi propone, devi più
alta e semplicemente intenderlo ne le cose tutte ^o. Il sommo
bene, il sommo appetibile, la somma perfezzione, la somma [315]
beatitudine, consiste nell'unità che complica il tutto. Noi ne de-
lettamo nel colore, ma non in uno esplicato qualumque sia, ma
massime in uno che complica tutti colori. Ne delettamo nella
voce, non in una singulare, ma in una complicante che resulta
da l'armonia di molte. Ne delettamo in uno sensibile, ma mas-
sime in quello che comprende in sé tutti sensibili: in uno co-
gnoscibile, che comprenda ogni cognoscibile; in uno apprensi-
bile, che abbraccia tutto che si può comprendere; in uno ente,
che compiette tutto ''i; massime in quello uno che è il tutto
65. Gruppo avverbiale aplologico (sta per «altamente, raramente e singolar-
mente»).
66. «Guai a chi è solitario». Cfr. Ecclesiaste, IV, io.
67. Marsupio, crumena, solido (da «solidum», per «soldo»): il linguaggio del
pedante è ricco di latinismi.
68. «Per esempio?».
69. «Sono attento ma non comprendo».
70. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, II, 6, ed. Federici-Vescovini cit,
pp. 124-126: De complicatione et gradibus contractiones universi («La complica-
zione e i gradi di contrazione dell'universo»).
71. Tutto questo brano sul colore, la voce, il «cognoscibile» e r«apprensi-
bile», deriva da N. Cusano, De beryllo, XXXV, ed. Federici-Vescovini cit,
pp. 681-682 (come ha segnalato R. Sturlese durante il convegno Bernardino Te-
lesio e la cultura napoletana, Napoli, 1989; cfr. G. Aquilecchia, Schede bruniane,
Manziana, 1993, p. 306, nota 2).
746 DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO
istesso^^. Come tu Polihimnio ti delettareste più ne l'unità di
una gemma tanto preziosa che contravalesse a tutto l'oro del
mondo, che nella moltitudine di migliaia delle migliaia di tai
soldi, di quali ne hai uno in borsa.
Polihimnio. - Optime^K
Gervasio. - Eccomi dotto: perché come chi non intende
uno, non intende nulla, cossi chi intende veramente uno, in-
tende tutto; e chi piiì s'avicina airintelligenza dell'uno, s'ap-
prossima più all'apprension di tutto.
DicsONO. — Cossi io, se ho ben compreso, mi parto molto ar-
richito dalla contemplazione del Teofilo, fidel relatore della no-
lana filosofia.
Teofilo. - Lodati sieno di dèi, e magnificata da tutti vi-
venti la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutis-
sima causa, principio et uno"-^.
Fine de' cinque dialogi
de la causa, principio et uno
72. Cfr. G. Bruno, De l'infinito. Dialogo quinto, p. 152: «... l'infinito numero
e l'unità coincideno; et il summo agente e potente fare il tutto, con il possibile
esser fatto il tutto, coincideno in uno: come è mostrato nel fine del libro Del-
la causa, principio et uno»; De immenso, VII, 13; De monade, cap. II; De minimo,
1, 4 {Op. lat, I, 2, pp. 273-274 e 342-344; I, 3, pp. 144 e segg.; cfr. ed. Monti cit,
pp. 101-106, 312-314 e 777).
73. «Perfetto».
74. Causa e principio sono, rispettivamente, la «forma» (o r«anima») e la
«materia», indissolubilmente congiunte ntWuno, che è «il tutto».
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Los Angeles
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NOV 0 1 2008
UNIVERSITY OF CAUFORNIA-LOS ANGELES
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A costei venne madonna Carubina e disse: "Madre mia,
voglion darmi marito: me si presenta Bonifacio Trucco,
il quale ha di che e di modo"; rispose la vecchia: "Prendilo";
"Sì, ma è troppo attempato", disse Carubina; respose la
vechia: "Figlia, non lo prendere"; (...) "Sono informata" disse
Carubina, "ch'ave un levrier di buona razza"; "Prendilo",
rispose la vecchia madonn'Angela; "Ma ehimè" disse,
"ho udito dir ch'è candelaio"; "Non lo prendere", rispose.
Giordano Bruno, Candelaio
Classici italiani
Copertina
Progetto grafico: Gaetano Cassini e Annalisa Gatto
Fotografia: Berlino, maggio 1933, ®Austrian Archives, Corbis
Euro 27,1
ISBN 978-88-02-07633-1
9 i788802"076331