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Full text of "Opere italiane"

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Bruno 


Opere  italiane_1 

testi  critici  di  Giovanni  Aquilecchia 
coordinamento  generale  di  Nuccio  Ordine 


Candelaio,  La  cena  de  le  Ceneri, 
De  la  causa,  principio  et  uno 


GIORDANO  BRUNO 


OPERE  ITALIANE 


Commento  di 

GIOVANNI  AQUILECCHIA,  NICOLA  BADALONI 

GIORGIO  BÀRBERI  SQUAROTTI,  MARIA  PIA  ELLERO 

MIGUEL  ANGEL  GRANADA,  JEAN  SEIDENGART 


Volume  primo 

Candelaio,  ha  cena  de  le  Ceneri 
De  la  causa,  principio  et  uno 


UTET 


UTET  Libreria  -  Torino 
www.utetlibreria.it 

©  2002  Unione  Tipografico-Eìditrice  Torinese  nella  collana 
Classici  Italiani  fondata  da  Ferdinando  Neri  e  Mario  Fubini  con 
la  direzione  di  Giorgio  Bàrberi  Squarotti 

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CONFARTIGIANATO,  CASA,  CLAA],  CONFCOMMERCIO,  CONFESERCENTl 

il  1 8  dicembre  2000.  Le  riproduzioni  per  uso  differente  da  quello 
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Finito  di  stampare  nel  mese  di  dicembre  2006  da: 
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per  conto  della  UTET  Libreria 


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2007  2008  2009  2010  2011 


fu 

INDICE 

IT 


9     Introduzione  di  NUCCIO  ORDINE 

I.  Tra  Parigi  e  Londra:  1581-1585,  11  -  II.  La  filosofia  in  teatro  e  0 
teatro  nella  filosofia:  il  comico  come  conoscenza,  26  -  III.  Gli  inganni 
dell'ignoranza:  U  Candelaio  tra  realtà  e  apparenza,  42  -  IV.  La  cosmolo- 
gia e  la  filosofia  della  natura:  Cena,  De  la  causa.  De  l'infinito,  68  -  V.  La 
filosofia  morale  e  la  religione:  Spaccio  e  Cabala,  90  -  VI.  La  filosofia 
contemplativa:  i  Furori,  120  -  VII.  Dal  Candelaio  ai  Furori:  il  pittore,  0 
filosofo  e  l'ombra,  144  -  VIII.  Filosofia,  pittura  e  poesia:  questione  di 
poetica,  171 

191     Nota  biografica  di  Maria  Pia  Ellero 

197     Nota  bibliografica  di  MARIA  CRISTINA  FlGORILLI 

223    Nota  filologica  di  Giovanni  Aquilecchia 

257      I.  CANDELAIO  commento  di  GIORGIO  BARBERI  SQUAROTTI 

Il  libro  a  gli  abbeverati  nel  fonte  caballino,  259  -  Alla  signora  Morgana 
B.,  261  -  Argumento  et  ordine  della  comedia,  265  -  Antiprologo,  274  - 
Proprologo,  276  -  Bidello,  282  -  Atto  primo,  283  -  Atto  secondo,  306  - 
Atto  terzo,  323  -  Atto  quarto,  347  -  Atto  quinto,  374 

425    II.  LA  CENA  DE  LE  CENERI  commento  di  GIOVANNI  Aquilecchia 

Dedica,  427  -  Al  mal  contento,  429  -  Proemiale  epistola,  431  -  Dialogo 
primo,  441  -  Dialogo  secondo,  466  -  Dialogo  terzo,  489  -  Dialogo  quar- 
to, 522  -  Dialogo  quinto,  544  -  Appendici,  573 

591  III.  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO  commento  di  Giovanni 
Aquilecchia 

Proemiale  epistola,  593  -  Dialogo  primo,  614  -  Dialogo  secondo,  645  - 
Dialogo  terzo,  671  -  Dialogo  quarto,  700  -  Dialogo  quinto,  725 


A  Giovanni  Aquilecchia 
maestro  di  studi  bruniani 


INTRODUZIONE 

di 
Nuccio  Ordine 


I  risultati  di  questa  introduzione  sono  frutto  di  una  ricerca  che  ho  condotto 
per  conto  dell'Alexander  von  Humboldt-Stiftung  presso  l'Università  di  Eich- 
statt  desidero  ringraziare  il  collega  e  amico  Winfried  Wehle  per  l'affettuosa 
ospitalità  e  il  comitato  scientifico  della  Humboldt  per  avermi  concesso  l'onore 
di  accogliermi  tra  i  Fellows  della  Fondazione.  La  mia  gratitudine  va  anche  al 
Centre  d'Etudes  Supérieures  de  la  Renaissance  -  al  suo  Direttore,  Gerald 
Chaix,  e  ai  colleghi,  tra  cui  vorrei  ricordare  l'indimenticabile  Michel  Simo- 
nin  -  per  avermi  offerto,  in  collaborazione  con  il  C.N.R.S.,  l'opportunità  di 
approfondire,  durante  un  proficuo  soggiorno  di  studio  a  Tours,  molti  dei  temi 
che  ho  qui  discusso.  Le  quattro  settimane  trascorse  a  Londra  -  in  qualità  di 
Visiting  presso  il  Warburg  Institute  con  il  sostegno  di  una  British  Academy 
Professorship  -  mi  hanno  consentito  di  rielaborare  e  approfondire  i  paragrafi 
dedicati  ai  rapporti  tra  pittura  e  filosofia  attraverso  la  nozione  di  ombra,  che 
avevo  in  parte  già  discusso  in  un  seminario  tenuto  nel  giugno  2001,  sempre 
presso  il  Warburg  Institute,  in  occasione  dei  «Seminari  bruniani»  organizzati 
dal  Centro  Intemazionale  di  Studi  Bruniani  dell'Istituto  Italiano  per  gli  Studi 
Filosofici  in  collaborazione  con  l'istituzione  londinese:  alla  British  Academy, 
ai  colleghi  e  alla  direzione  del  Warburg  Institute  (all'ex  direttore  Nicholas 
Mann  e  al  nuovo  direttore  Charles  Hope)  vanno  i  miei  più  sentiti  ringrazia- 
menti. In  quell'occasione,  per  l'ultima  volta,  ho  avuto  modo  di  lavorare  fianco 
a  fianco  con  Giovanni  Aquilecchia:  se  la  malattia  che  ce  lo  ha  strappato  glielo 
avesse  permesso,  avrebbe  dovuto  concludere  lui  il  ciclo  delle  lezioni.  Ma  quel- 
l'ultima lezione  non  tenuta  resterà  per  sempre  nel  ricordo  di  tutti  noi:  l'amore 
per  la  ricerca  e  la  filologia,  la  generosità  con  i  giovani  studiosi,  il  profondo 
rispetto  per  la  deontologia  professionale  saranno  un  punto  fermo  per  quanti 
hanno  avuto  la  fortuna  di  intrecciare  con  Gianni  rapporti  di  amicizia  e  di 
lavoro.  Senza  di  lui  e  senza  i  colleghi  che  hanno  collaborato  a  questa  edizione, 
tra  cui  vorrei  ricordare  (poiché  non  figurano  nel  frontespizio)  i  preziosissimi 
Yves  Hersant  e  Alain  Segonds,  Bruno  non  avrebbe  avuto  il  «monumento»  fi- 
lologico che  meritava.  Monumento  voluto  soprattutto  dall'inesauribile  entusia- 
smo di  Gerardo  Marotta,  presidente  dell'Istituto  Italiano  per  gli  Studi  Filoso- 
fici, che  dal  1990  ha  incoraggiato  e  sostenuto  il  progetto  dell'edizione  critica 
Les  Belles  Lettres,  promuovendo  inoltre  un  rilancio  degli  studi  bruniani  in 
Italia  e  all'estero  senza  precedenti.  A  Marotta  -  che  nella  sua  battaglia  per 
l'Europa  della  cultura  ha  saputo  coniugare  ragione  e  passione,  sapere  e  vita 
civile  —  va  la  gratitudine  di  tutti  noi. 

Una  versione  ampliata  di  questa  introduzione,  con  il  titolo  La  soglia  del- 
l'ombra. Letteratura,  filosofia  e  pittura  in  Giordano  Bruno,  apparirà  presso  l'edi- 
tore Marsilio  e  presso  Les  Belles  Lettres  (per  la  versione  francese)  contempora- 
neamente entro  la  primavera  2003. 

Arcavacata,  luglio  2002 


Il  valore  dell'uomo  non  sta  nella  verità  che 
qualcuno  possiede  o  presume  di  possedere,  ma  nella 
sincera  fatica  compiuta  per  raggiungerla.  Perché  le 
forze  che  sole  aumentano  la  perfettibilità  umana, 
non  sono  accresciute  dal  possesso,  ma  dalla  ricerca 
della  verità. 

Il  possesso  rende  quieti,  indolenti,  superbi. 

Se  Dio  tenesse  chiusa  nella  mano  destra  tutta  la 
verità  e  nella  sinistra  il  solo  desiderio  sempre  vivo 
della  verità  e  mi  dicesse:  scegli!  Sia  pure  a  rischio  di 
sbagliare  per  sempre  e  in  etemo  mi  chinerei  con 
umiltà  sulla  sua  mano  sinistra  e  direi:  Padre,  dam- 
mela! La  verità  assoluta  è  per  te  soltanto. 

GoTTHOLD  Ephraim  Lessino,  Etne  Duplik  (1778) 


I. 
TRA  PARIGI  E  LONDRA:  1581-1585 


Bisogna  partire  dalle  date  per  comprendere  l'eccezionale  stagione 
del  Bruno  italiano.  A  Parigi,  nel  1582,  viene  pubblicata  la  prima 
opera  in  volgare  a  noi  pervenuta:  il  Candelaio^.  Poi  a  Londra,  in 
rapida  successione,  tra  il  1584  e  il  1585  vedono  la  luce  i  sei  dialoghi. 
Nel  giro  di  pochi  anni  si  concretizza  un  itinerario  filosofico  straordi- 
nario che  testimonia  in  maniera  esemplare  gli  interessi  enciclopedici 
del  Nolano. 

Non  si  tratta,  come  a  un  primo  sguardo  superficiale  si  potrebbe 
pensare,  di  un  percorso  scollegato,  come  se  i  passaggi  da  un  testo  al- 
l'altro fossero  dettati  solo  da  situazioni  contingenti,  da  repentine  mu- 
tazioni, da  strategie  legate  ad  improvvisi  eventi.  Le  opere  italiane, 
nella  struttura  di  fondo,  sono  invece  il  frutto  di  un  disegno  filosofico 
coerente,  sono  la  testimonianza  di  un  progetto  che  dalla  Cena  —  ma,  in 
maniera  più  informe,  anche  dal  Candelaio  -  si  estende  fino  ai  Furori. 
La  stessa  scelta  del  volgare  per  i  dialoghi  non  può  essere  considera- 
ta casuale:  se,  da  una  parte,  si  spiega  con  la  volontà  di  illustrare  la 
sua  «nova  filosofia»  con  una  lingua  viva,  lontana  dal  latino  pedante- 


I.  Nella  dedica  del  Candelaio,  Bruno  allude  probabilmente  a  due  sue  opere 
giovanili  andate  perdute:  «Però,  a  tempo  che  ne  posseamo  toccar  la  mano,  per 
la  prima  vi  indrizzai  Gli  pensier  gai;  apresso,  //  tronco  d'acqua  viva»  (p.  262).  Ma 
ad  altri  testi  in  volgare  a  noi  non  pervenuti,  come  l'Arca  di  Noè,  si  fa  riferi- 
mento in  alcune  opere  bruniane  e  nei  documenti  del  processo. 


12  INTRODUZIONE 

SCO  praticato  nelle  università,  dall'altra,  al  di  là  del  successo  che  l'ita- 
liano poteva  godere  nelle  due  corti ^,  va  messa  soprattutto  in  relazione 
con  una  consuetudine  già  ampiamente  attestata  nei  dibattiti  filosofi- 
ci e  scientifici  a  Parigi,  nel  milieu  vicino  a  Enrico  III,  e  a  Londra,  nel- 
l'entourage della  regina  Elisabetta. 

Nella  corte  di  Enrico  III:  lingua,  filosofia  morale,  filosofia,  della  natura 

In  Francia,  per  esempio,  dopo  la  pubblicazione  de  La  défence  et  il- 
lustration  de  la  langue  frangaise  (1549)  "^^  Du  Bellay  -  in  cui  è  possibile 
reperire  diversi  calchi  del  Dialogo  delle  lingue  di  Sperone  Speroni^  -  si 
fa  sempre  più  forte  la  necessità  di  usare  il  volgare  anche  nella  tratta- 
tistica dedicata  agli  argomenti  più  specialistici.  E  non  a  caso,  Pontus 
de  Tyard  ribadirà  questa  esigenza  in  una  dedica  indirizzata  ad  Enri- 
co IIP.  Rinunciare  al  latino,  per  promuovere  la  complessa  architet- 
tura unitaria  della  sua  «nova  filosofia»,  significava  per  il  Nolano  ope- 
rare una  scelta  ideologica,  mettere  in  gioco  una  strategia  comunicativa 
che  lo  ponesse  in  sintonia  con  i  circoli  che  operavano  attorno  al  Va- 
lois  e  alla  Tudor.  Anche  a  Londra,  infatti,  come  ha  mostrato  con  fi- 
nezza Giovanni  Aquilecchia,  Bruno  continuerà  a  trovare  un  ambiente 
fortemente  favorevole  nell'aristocrazia  cortigiana  che,  oltre  a  vedere 
nell'uso  del  volgare  una  scelta  polemica  contro  la  cultura  pedantesca 
di  Oxford  e  di  Cambridge,  aspirava  soprattutto  a  promuovere  la  circo- 
lazione del  sapere  nelle  nuove  classi  emergenti'. 

Sì  è  vero:  Bruno  pubblica  i  dialoghi  italiani  a  Londra,  presso  la 
tipografia  di  John  Charlewood.  Ma  stampare  un'opera  in  un  luogo  non 


2.  Sulla  diffusione  dell'italiano  nell'Inghilterra  elisabettiana,  con  una  par- 
ticolare attenzione  ai  manuali  e  alle  grammatiche,  si  veda  Spartaco  Gambe- 
RiNi,  Lo  studio  dell'italiano  in  Inghilterra  nel  '500  e  nel  '600,  Messina-Firenze, 
D'Anna,  1970. 

3.  Cfr.  la  recente  edizione  bilingue  a  cura  di  Mario  Pozzi  in  cui  sono  segna- 
lati in  nota  tutti  i  calchi  di  Du  Bellay:  Sperone  Speroni,  Dialogue  des  langues, 
texte  établi  par  Mario  Pozzi,  traduction  de  Gerard  Genot  et  Paul  Larivaille, 
introduction  et  notes  de  Mario  Pozzi,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  2001.  Non  biso- 
gna dimenticare  che  questo  stesso  dialogo  ebbe  un'influenza  importante  sulla 
concezione  bruniana  della  lingua  e  della  traduzione:  cfr.  Nuccio  Ordine, 
Théorie  de  Vimitation,  rapport  res/verba,  traduction.  Autour  de  quelques  aspects  du 
débat  sur  la  langue  en  Italie  au  XVF  siede  [1991],  in  Le  rendez-vous  des  savoirs. 
Littérature,  phiktsophie  et  diplomatie  à  la  Renaissance,  Préface  de  Michel  Simo- 
nin,  Paris,  Klincksieck,  1999,  pp.  113-118. 

4.  Su  questo  aspetto  cfr.  Isabelle  Pantin,  La  poesie  du  del  en  France  dans 
la  seconde  moitié  du  seizième  siede,  Genève,  Droz,  1995,  pp.  46-49. 

5.  Giovanni  Aquilecchia,  L'adozione  del  volgare  nei  dialoghi  londinesi  di 
Giordano  Bruno  [1953],  in  Id.,  Schede  bruniane  (ig^o-iggi),  Manziana,  Vecchia- 
relli,  1993,  pp.  41-63. 


INTRODUZIONE  I3 

significa  averla  interamente  concepita  in  quel  preciso  momento.  Del 
resto,  le  stesse  date  parlano  chiaro:  come  avrebbe  potuto  il  Nolano  in 
solo  due  anni  portare  a  termine  il  suo  ambizioso  progetto  filosofico? 
Probabilmente,  il  canovaccio  delle  sei  opere  era  stato  in  parte  già  con- 
cepito a  Parigi.  È  qui  che  Bruno  comincia  ad  abbozzare  un  percorso 
globale  che  dalla  filosofia  della  natura  {Cena,  De  la  causa  e  Infinito), 
passando  per  la  filosofia  morale  {Spaccio  e  Cabala),  approda  alla  filoso- 
fia contemplativa  {Furori).  Un  percorso  che  in  gran  parte  coincide  con 
l'intero  arco  delle  questioni  che  erano  al  centro  del  dibattito  nelle  riu- 
nioni dell'Académie  du  Palais. 

Tra  il  1576  e  il  1579,  infatti,  Enrico  III  si  circonda  di  poeti  e  di 
filosofia  per  discutere,  tra  l'altro,  di  virtù  morali  e  intellettuali.  Pur- 
troppo solo  una  parte  di  queste  orazioni,  che  si  tenevano  nel  Louvre, 
furono  reperite  nell'Ottocento  da  Édouard  Fremy^  e  poi  arricchite  da 
Robert  J.  Sealy  con  la  recente  scoperta  di  due  nuovi  testi  ^.  Dietro  l'ac- 
ceso dibattito  sulla  superiorità  dell'azione  o  della  contemplazione, 
sulla  definizione  delle  diverse  tipologie  di  vizi  e  di  virtù,  sul  ruolo 
specifico  della  collera  o  dell'onore  emerge  un  vivissimo  interesse  per  le 
implicazioni  di  natura  politica  e  sociale,  per  gli  effetti  positivi  e  nega- 
tivi che  le  passioni  possono  scatenare  nei  singoli  individui  e  nella  col- 
lettività. Si  tratta  di  questioni  legate,  direttamente  o  indirettamente,  al 
forte  momento  di  crisi  che  stava  attraversando  la  Francia,  e  buona 
parte  dell'Europa,  a  causa  delle  guerre  di  religione.  Il  Re,  assieme  agli 
accademici,  si  interroga  su  temi  di  grande  attualità,  esprimendo  vivo 
interesse  per  la  filosofia  (in  particolare  per  Platone  e  per  i  suoi  com- 
mentatori: Plotino,  Porfirio,  Giamblico  e  Proclo)^,  per  la  storia  (soprat- 
tutto per  Polibio  e  Tacito)  e  per  il  tanto  discusso  Machiavelli,  di  cui 


6.  In  una  esplicita  testimonianza  di  Claude  Binet  si  dice  chiaramente  che 
il  re  Enrico  III,  quando  decise  di  fondare  la  sua  Accademia,  «fit  choix  des  plus 
doctes  hommes  de  son  roiaume,  pour  apprendre  à  moindre  peine  les  bonnes 
lettres  par  leurs  rare  discours,  enrichis  de  plus  belle  chose  qu'on  peust  recher- 
cher  sur  un  sujet,  et  qu'il  debvoient  taire  chacun  à  leur  tour.  Du  nombre 
desquels  furent  choisis  des  premiers  avec  Ronsard  le  sieur  de  Pibrac,  qui  estoit 
autheur  de  ceste  entreprise,  et  Doron  Maistre  de  Requetes,  Tyard  Evesque  de 
Chalons,  Baìf,  Desportes  Abbé  de  Tyron,  et  le  docte  du  Perron»:  Claude  Bi- 
net, La  vie  de  Pierre  de  Ronsard  [1586],  édition  historique  et  critique  avec 
introduction  et  commentaire  de  Paul  Laumonier,  Paris,  Hachette,  1910  (risi 
anast.  Genève,  Slatkine,  1969),  p.  38. 

7.  Édouard  Fremy,  L'Académie  des  Derniers  Valois  (1570-1585)  d'après  des 
documents  nouveaux  et  inédits,  Paris,  Ernest  Leroux,  1887. 

8.  Robert  J.  Sealy,  JTie  Palace  Academy  of  Henri  III,  Genève,  Droz,  1981, 
pp.  180-192. 

9.  É.  Fremy,  L'Académie  des  Derniers  Valois  (1570-1585)  d'après  des  docu- 
ments nouveaux  et  inédits  cit,  pp.  122-123. 


14  INTRODUZIONE 

aveva  conoscenza  diretta  dei  Discorsi  e  del  Principe  grazie  alla  media- 
zione di  Bartolomeo  Del  Bene'". 

Ma  nell'Académie  du  Palais  non  si  dibatte  soltanto  di  filosofia  mo- 
rale (basterebbe  già  questo  solo  aspetto,  come  vedremo,  per  capire  fino 
in  fondo  la  genesi  dello  Spaccio  de  la  bestia  trionfante).  Anche  la  filoso- 
fia naturale  occupa  un  posto  di  primo  piano.  Diverse  testimonianze 
alludono  al  grande  interesse  che  Enrico  III  mostrava  per  la  cosmolo- 
gia e,  più  in  generale,  per  le  scienze  naturali.  Se  Ronsard,  nel  Bocage 
royal  («Il  a  voulu  s?avoir  ce  que  peult  la  Nature»)",  e  Jacques  Amyot, 
in  una  lettera  indirizzata  a  Pontus  de  Tyard'^,  ci  parlano  della  sua 
curiosità  per  i  segreti  del  cielo  e  della  natura,  l'ambasciatore  inglese, 
Dale,  informa  la  regina  Elisabetta  che  a  corte  si  discute  «de  omni  re 
scibili»'^. 

Tra  i  membri  delle  riunioni  del  Louvre,  infatti,  non  manca  l'atten- 
zione per  lo  sviluppo  delle  diverse  ipotesi  cosmologiche  e  per  le  teorie 
sull'infinità  dei  mondi.  Nei  dialoghi  di  Guy  de  Brues.  Ronsard  e  An- 
toine  de  Baif  conversano,  proprio  nelle  vesti  di  accademici,  con  Pla- 
tone e  Ficino  e  con  altri  filosofi  antichi  e  contemporanei:  mentre  il 
principe  della  Plèiade  esprime  seri  dubbi  sull'esistenza  di  altri  mondi, 
Baif  sembra  piuttosto  aperto  alle  tesi  di  Copernico  sulla  mobilità  della 
Terra'"*.  Ma  su  questi  temi  interviene  in  maniera  più  esplicita  Pontus 
de  Tyard,  influente  animatore  dell'Académie  du  Palais  e  traduttore 


10.  «Ma  il  Re  [Enrico  III],  confidandosi  nella  occulta  machina  de'  suoi  di- 
segni, che  a  lui  sembravano  ottimamente  incaminati,  stimava  finalmente  do- 
vere con  grande  facilità  superare  tutte  le  opposizioni;  e  per  indirizzare  più  re- 
golarmente il  filo  del  suo  disegno  aggiungendo  la  teoria  alla  pratica,  si  ridu- 
ceva ogni  giorno  dopo  pranzo  con  Baccio  Del  Bene  e  con  Giacopo  Corbinelli, 
fiorentini,  uomini  di  molte  lettere  greche  e  latine,  da'  quali  si  faceva  leggere 
Polibio,  Cornelio  Tacito,  e  molto  più  spesso  i  Discorsi  e  il  Prencipe  del  Machia- 
velli»: Enrico  Caterino  Davila,  Storia  delle  guerre  civili  di  Francia,  a  cura  di 
Mario  d'Addio  e  Luigi  Cambino,  Roma.  Istituto  Poligrafico  e  zecca  dello  Stato, 
1990.  t  I,  p.  419.  Cfr.  anche  Pierre  Chevallier,  Henri  III.  Paris,  Fayard, 
1985.  pp.  394-395.  Sui  rapporti  Bruno-Machiavelli  vedi  infra  pp.  102-104. 

11.  «Il  a  voulu  sgavoir  ce  que  peult  la  Nature,  /  Et  de  quel  pas  marchoit  la 
premiere  closture  /  Du  ciel,  qui  toumoyant  se  ressuit  en  son  cours,  /  Et  du 
Soleil  qui  faict  le  sien  tout  au  rebours»:  Ronsard,  Bocage  royale.  in  (Eiivres 
contplétes.  édition  établie,  présentée  et  annotée  par  Jean  Céard.  Daniel  Ménager 
et  Michel  Simonin,  Paris,  Gallimard,  1994.  t  II,  vv.  201-204,  p.  12  (tutte  le 
citazioni  di  Ronsard  si  riferiranno  ai  due  volumi  di  questa  edizione). 

12.  «Je  fus  bien  aise,  l'aultre  jour  que  je  receu  vostre  lettre  [...]  d'entendre 
l'honeste  occupation  que  prent  le  Roy  de  vous  ouyr  discourir  de  la  constitu- 
tions  &  muvement  du  ciel»:  cit.  in  Frances  A.  Vates,  Les  académies  en  France 
au  XVr  siede  [London  1947],  Paris.  Puf,  1994,  p.  130. 

13.  Pierre  Che\'.\llier,  Henri  III  cit,  p.  490. 

14.  Su  questi  temi  cfr.  F.  A.  Yates,  La  philosophie  naturelle  des  académies, 
in  Les  académies  en  France  au  XVP  siede  cit.,  pp.  125-137. 


INTRODUZIONE  I5 

dei  Dialoghi  d'amore  di  Leone  Ebreo'^.  Riprende  apertamente,  infatti, 
la  teoria  copernicana  nei  Deux  discours  de  la  nature  du  monde  et  de  ses 
parties,  dedicati  a  Enrico  III  per  la  sua  «tres  bonne  et  tres  certaine 
intelligence  du  subiet»"^.  Qui,  sullo  sfondo  di  un  antiaristotelismo  per- 
sistente, viene  contestata  la  teoria  dell'incorruttibilità  delle  cose  celesti 
e  viene  accolta  favorevolmente  l'ipotesi  dell'esistenza  della  vita  in  al- 
tri lontani  mondi  ''.  Anche  Jacques  Davy  Du  Perron,  potente  accade- 
mico e  «professeur  du  roi  aux  Langues,  Mathématiques  et  Philo- 
sophie»,  sembra  manifestare  simpatie  per  le  tesi  di  Copernico '^  e  per  il 
lavoro  di  Tyard,  come  testimonia  la  sua  prefazione  ai  Deux  discours^"^. 
Non  è  difficile  immaginare  che  sin  dal  suo  arrivo  a  Parigi,  tra 
l'estate  e  l'autunno  del  1581,  Bruno  sia  entrato  in  contatto  con  il  mi- 
lieu legato  ad  Enrico  III.  Dalle  dichiarazioni  autobiografiche  del  pro- 
cesso si  evince  che  si  impegnò  subito  in  una  serie  di  lezioni  dedicate  al 
commento  dei  «trenta  attributi  divini»,  ricavati  dalla  prima  parte 
della  Summa  di  San  Tommaso,  con  l'obiettivo  di  «farmi  conoscer  et 
far  saggio  di  me» 20.  E  i  risultati  non  tardarono  ad  arrivare.  Prima 
l'offerta  di  «pigliar  una  lettione  ordinaria»,  che  Bruno  rifiuta  per 
non  piegarsi  all'obbligo  di  partecipare  alla  «messa  et  alli  altri  divini 


15.  LEON  HÉBRIEU,  De  l'amour,  Lyon,  J.  de  Toumes,  issi- 
lo. PoNTUS  DE  Tyard,  Deux  Discours  de  la  nature  du  monde  et  de  ses  parties 
a  scavoir,  le  Premier  Curieux  traittant  des  choses  matérielles,  et  le  Second  Curieux, 
des  intellectuelles,  Paris,  M.  Patisson,  1578,  e.  aiii;  ma  si  veda  anche  l'edizione 
inglese:  The  Universe  (Premier  et  Second  Curieux),  ed.  J.  C.  Lapp,  Ithaca-New 
York,  Cornell  University  Press,  1950.  Sulla  produzione  scientifica  di  Tyard  rin- 
viamo a:  K.  M.  Hall,  Pontus  de  Tyard  and  his  Discours  philosophiques,  Oxford, 
1983;  Eva  Kushner,  Pontus  de  Tyard  dans  le  contexte  de  la  revolution  scientifi- 
que,  in  «Revue  d'études  frangaises»,  2  (1997),  pp.  213-222;  I.  Pantin,  La  poesie 
du  del  en  Trance  dans  la  seconde  moitié  du  seizième  siede  cit.,  ad  indicem;  Mi- 
chel Lerner,  Le  monde  des  sphères.  IL  La  fin  du  cosmos  classique,  Paris,  Les 
Belles  Lettres,  1997,  p.  13.  Giovanni  Aquilecchia.  nella  sua  nota  67  alla  Cena 
(infra,  p.  542),  segnala  che  Bruno  e  Tyard  hanno  forse  commesso  lo  stesso  er- 
rore nell'interpretazione  di  un  passaggio  del  De  revolutionibus  di  Copernico. 

17.  Cfr.  F.  A.  Yates,  La  philosophie  naturelle  des  académies,  in  Id.,  Les  aca- 
démies  en  Trance  au  XVF  siede  cit.,  pp.  128-129. 

18.  Ibidem,  pp.  130-132. 

19.  Jacques  Davy  du  Perron,  Préface  à  Pontus  de  Tyard,  Deux  Discours, 
cit.,  e.  aVr  (cfr.  F.  A.  Yates,  Les  académies  en  Trance  au  XVF  siede  cit,  p.  117). 

20.  «Et  doppoi  per  le  guerre  civili  me  parti  et  andai  a  Paris,  dove  me  messi 
a  legger  una  lettion  straordinaria  per  farmi  conoscer  et  far  saggio  di  me;  et  lessi 
trenta  lettioni  et  pigliai  per  materia  trenta  attributi  divini,  tolti  da  Santo 
Thoma  dalla  prima  parte»:  Luigi  Firpo,  Il  processo  di  Giordano  Bruno,  a  cura 
di  Diego  Quaglioni,  Roma,  Salerno  editrice,  1993  (doc.  11),  p.  161.  Di  questi 
documenti  bruniani  curati  da  Firpo  è  uscita  recentemente  in  Francia  un'edi- 
zione bilingue  a  cura  di  Alain  Segonds  che  si  segnala  per  il  sostanzioso  ap- 
parato di  note  supplementari:  Giordano  Bruno,  CEuvres  complètes,  Documents. 
I.  Le  procès,  introduction  et  notes  de  Luigi  Firpo,  traduction  et  notes  de  Alain 
Ph.  Segonds,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  2000,  p.  49. 


l6  INTRODUZIONE 

offitii»2>.  Poi  l'invito  a  corte,  voluto  personalmente  dal  re  di  Fran- 
cia: 

Et  leggendo  quella  [lettionj  estraordinaria,  acquistai  nome  tale  che  il 
re  Henrico  terzo  mi  fece  chiamare  un  giorno,  ricercandomi  se  la  memoria 
che  havevo  et  che  professava  era  naturale  o  pur  per  arte  magica;  al  qual 
diedi  sodisfattione;  et  con  quello  che  li  dissi  et  feci  provare  a  lui  medesmo, 
conobbe  che  non  era  per  arte  magica  ma  per  scientia.  Et  doppo  questo  feci 
stampar  un  libro  de  memoria  sotto  titolo  De  utnbris  idearum,  il  qual  dedi- 
cai a  Sua  Maestà;  et  con  questa  occasione  mi  fece  lettor  straordinario  et 
provisionato  22. 

L'incontro  con  Enrico  III  sembra  essere  favorito  soprattutto  dal- 
l'interesse per  le  arti  della  memoria,  condiviso  in  parte  anche  dal  Du 
Perron^^  e  dallo  stesso  Michel  de  Castelnau,  ambasciatore  francese  in 
Inghilterra^''.  Non  a  caso,  nel  1582,  dopo  aver  dedicato  il  De  umbris 
idearum  al  re  di  Francia^',  Bruno  ottiene  il  prestigioso  incarico  di 
«lecteur»  presso  il  Collège  Royal,  sulle  cui  basi  nascerà  l'attuale  Col- 
lège de  France.  Fondata  da  Francesco  I,  questa  nobile  istituzione 
aveva  soprattutto  il  compito  di  offrire  agli  studiosi  anticonformisti 
quella  libertà  che  la  Sorbonne  non  permetteva,  a  causa  del  suo  rigido 
aristotelismo^"^. 


21.  «et  doppoi  essendo  sta'  ricercato  a  pigliar  una  lettione  ordinaria,  restai 
[Biov]  et  non  volsi  accettarla,  perché  li  lettori  publici  di  essa  città  vanno  or- 
dinariamente a  messa  et  alli  altri  divini  offitii.  Et  io  ho  sempre  fugito  questo, 
sapendo  che  ero  scommunicato  per  esser  uscito  dalla  religione  et  haver  depo- 
sto l'habito;  che  se  bene  in  Tolosa  hebbi  quella  lettione  ordinaria,  non  ero  però 
obligato  a  questo,  come  sarei  stato  in  detta  città  de  Paris,  quando  havesse  ac- 
cettato la  detta  lettion  ordinaria»:  Ibidem  (ed.  frane,  pp.  49-51). 

22.  Ibidem,  pp.  161-162  (ed.  frane,  p.  51). 

23.  Vincenzo  Spampanato,  Vita  di  Giordano  Bruno  con  documenti  editi  ed 
inediti,  préface  de  Nuccio  Ordine,  Paris-Turin,  Les  Belles  Lettres-Nino  Aragno 
Editore,  2000  [réempr.  anast.,  Messina  1921],  p.  313. 

24.  Ronsard,  in  un  sonetto  dedicato  al  Castelnau,  lo  descrive  come  «Plein 
de  faconde,  et  de  memoire  hereuse»  ((Euvres  complètes  cit,  t.  II,  p.  424;  cfr. 
infra,  p.  95).  Castelnau,  su  richiesta  del  cardinale  di  Lorena,  avrebbe  ripetuto  a 
memoria  un  sermone  di  Jean  de  Montluc:  cfr.  Gustave  Hubault,  Ambassade 
de  Michel  de  Castelnau  en  Angleterre  (1575-1585),  Saint-Cloud,  Belin,  1856  (rééd. 
anast.  Genève,  Slatkine,  1970),  p.  2.  Non  a  caso  Bruno  dedica  all'ambasciatore 
francese  anche  un'opera  di  mnemotecnica,  VExplicatio  triginta  sigillonim. 

25.  Bruno,  nella  dedica  indirizzata  a  Enrico  III,  loda  la  magnanimità  e  la 
saggezza  del  re,  offrendogli  la  sua  opera  per  studiarla  e  proteggerla:  cfr.  Gior- 
dano Bruno,  De  umbris  idearum,  a  cura  di  Rita  Sturlese,  premessa  di  Eugenio 
Garin,  Firenze,  Olschki,  1991,  p.  5. 

26.  Per  una  storia  delle  origini  e  del  ruolo  del  Collège  de  France  si  vedano 
ora  i  saggi  pubblicati  in  Les  origines  du  Collège  de  France  (1500-1360),  Acte  du 
Colloque  International  (Paris,  décembre  1995),  sous  la  direction  de  Marc  Fuma- 
roli, textes  réunis  par  Marianne  Lion-Violet,  Paris,  Klincksieck,  1998. 


INTRODUZIONE  X'J 

Proprio  all'interno  di  questo  milieu  favorevole,  Bruno  lavora  con 
grande  impegno.  In  un  solo  anno  pubblica  tre  trattati  mnemotecnici 
in  latino  {De  umbris  idearum,  Cantus  circaeus  e  De  compendiosa  architec- 
tura)  e  il  Candelaio.  La  sua  presenza  a  Parigi,  al  di  là  degli  onori  con- 
cessigli da  Enrico  III,  non  passa  certo  inosservata.  Anzi,  come  il  No- 
lano stesso  ricorderà  tempo  dopo  a  Wittenberg  in  un  brano  dell'^cro- 
tismus  indirizzato  al  rettore  Jean  Filesac,  molti  colleghi  nella  capitale 
francese  non  esitarono  a  considerarlo  membro  deir«alma  mater»  delle 
lettere: 

Dum  non  modo  communi  quadam,  qua  erga  omnes  affecti  estis  huma- 
nitate,  verum  etiam  certa  haud  vulgari  ratione  me  vobis  devinxistis,  ubi 
tum  in  pubblicis,  tum  et  in  privatis  lectionibus,  continua  doctiorum  adsi- 
stentia  negocium  studii  mei  concelebrastis,  adeo  ut  nuUus  mihi  de  me  mi- 
nus,  quam  extranei,  in  hac  alma  literarum  parente,  titulus  occurrere  po- 
tuerit  unquam^^. 

Non  bisogna  dimenticare  che,  sebbene  in  tono  minore,  nei  primi 
anni  ottanta  gli  accademici  legati  al  re  di  Francia  erano  ancora  attivi. 
Il  loro  interesse  per  la  filosofia  naturale  e  per  la  filosofia  morale  e  con- 
templativa traduceva  il  desiderio  di  avere  una  visione  globale  del  sa- 
pere. Basta  rileggere  il  lavoro  fondamentale  della  Yates  sulle  accade- 
mie francesi,  di  cui  ci  siamo  qua  e  là  serviti,  per  seguire  nei  dettagli  la 
nascita  e  l'evoluzione  dei  vari  dibattiti  al  centro  delle  riunioni,  con  una 
particolare  attenzione  per  le  implicazioni  politiche  e  religiose  delle  tesi 
discusse.  Non  abbiamo  documenti  che  attestino  la  partecipazione  di 
Bruno  agli  incontri  voluti  da  Enrico  III.  Ma,  nello  stesso  tempo,  ci  riesce 
difficile  immaginare  che  il  Nolano  non  abbia  avuto  contatti  diretti  o 
indiretti  con  alcuni  accademici.  Nel  caso  dello  Spaccio,  come  vedremo, 
emerge  con  chiarezza  la  conoscenza  di  tematiche  ampiamente  dibat- 
tute a  corte  da  autorevoli  personaggi  dell'Académie  du  Palais,  tra  cui 
spicca  Ronsard  per  la  sua  battaglia  militante  contro  le  guerre  civili  e 
per  la  sua  concezione  della  religione  come  cemento  sociale. 

Questa  ipotesi,  fondata  su  un  dialogo  a  distanza  tra  le  tesi  di  fondo 
sostenute  nelle  opere  londinesi  e  i  dibattiti  che  si  svolgevano  al  Lou- 
vre, avrebbe  potuto  trovare  sviluppo  circa  vent'anni  dopo  nei  succes- 
sivi lavori  della  Yates,  direttamente  dedicati  a  Bruno.  Ma  in  Giordano 


27.  Giordano  Bruno,  Acrotismus  camoeracensis,  in  Opera  latine  conscripta, 
publicis  sumptibus  edita,  recensebat  F.  Fiorentino  [F.  Tocco,  H.  Vitelli,  V.  Im- 
briani,  C.  M.  Tallarigo],  apud  Dom.  Morano  [Florentiae,  typis  successorum  Le 
Monnier],  Neapoli,  1879-1891,  t.  I-i,  p.  57.  Per  le  opere  latine  (salvo  il  De  um- 
bris idearum  citato  dall'edizione  critica  della  Sturlese)  terremo  sempre  presente 
questa  edizione,  indicata  con  l'abbreviazione  Opp.  lat. 


l8  INTRODUZIONE 

Bruno  e  la  tradizione  ermetica  e  nelVArte  della  memoria^^  la  studiosa 
inglese  abbandona  completamente  le  promettenti  tracce  che  aveva  in- 
dividuato nei  suoi  preziosi  saggi  sulle  accademie  francesi  e  sulle  tur- 
bolenti vicende  politico-religiose  di  quel  particolare  decennio^'*  per  ab- 
bracciare, invece,  una  lettura  della  «nolana  filosofia»  in  una  chiave 
esclusivamente  ermetica '°. 

La  corte  di  Elisabetta  e  lo  scontro  con  i  pedanti  di  Oxford 

Eppure,  sarebbe  difficile  credere  a  una  sfilacciatura  dei  rapporti 
con  il  milieu  parigino  durante  il  soggiorno  in  Inghilterra.  Non  bisogna 
dimenticare  che  Bruno  attraversa  la  Manica,  presumibilmente  nel- 
l'aprile del  1583,  con  in  tasca  una  lettera  di  raccomandazione  di  En- 
rico III  per  il  suo  ambasciatore,  Michel  de  Castelnau.  Se  è  difficile  co- 
noscere nei  dettagli  le  circostanze  che  spinsero  il  Nolano  ad  abbando- 
nare Parigi  -  dai  documenti  del  processo  si  evince  genericamente  che 
il  viaggio  fu  dovuto  allo  scoppio  di  «tumulti  che  nacquero  doppo»  -, 
resta  però  evidente  che  il  filosofo  fu  accolto  amicalmente  nell'amba- 
sciata di  Londra,  dove  viveva  da  «gentilhomo»''  e  dove,  da  posizione 


28.  Frances  a.  Yates,  Giordano  Bruno  e  la  tradizione  ermetica  [1964],  Bari, 
Laterza,  1969;  Io.,  L'arte  della  memoria  [1966],  Torino,  Einaudi,  1972,  pp.  183- 
296. 

29.  La  gran  parte  di  questi  saggi  pubblicati  tra  gli  anni  trenta  e  cinquanta, 
assieme  a  qualche  altro  intervento,  sono  ora  raccolti  in  Frances  A.  Yates, 
Giordano  Bruno  e  la  cultura  europea  del  Rinascimento,  introduzione  di  Eugenio 
Garin,  Roma-Bari,  Laterza,  1988. 

30.  Senza  sminuire  i  meriti  di  queste  due  ultime  opere  della  Yates,  la  cri- 
tica bruniana  ha  recentemente  messo  in  evidenza  i  limiti  di  una  interpreta- 
zione panermetica  delle  opere  bruniane.  Si  vedano,  almeno:  G.  Aquilecchia, 
Schede  bruniane  cit,  pp.  41-63  e  pp.  ZTS'ZIT-  Paolo  Rossi,  Hermeticism,  Ratio- 
nality  and  the  Scientific  Revolution,  in  Reason,  Experiment  and  Mysticism  in  the 
Scientific  Revolution,  a  cura  di  R.  W.  Shea,  New  York,  1973,  pp.  247-273;  R. 
Westman,  Magical  Reform  and  Astronomical  Reform.  The  Yates  Thesis  reconside- 
red,  in  Hermeticism  and  the  Scientific  Revolution,  Los  Angeles,  1977;  Biagio  de 
Giovanni,  Lo  spazio  della  vita  fra  G.  Bruno  e  T.  Campanella,  in  «il  Centauro», 
11-12  (1984),  pp.  15-16;  Michele  Ciliberto,  La  ruota  del  tempo.  Interpretazione 
di  Giordano  Bruno.  Roma,  Editori  Riuniti,  1986,  pp.  9-11;  N.  Ordine,  La  cabala 
dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno,  Napoli,  Liguori,  1996^,  p.  219; 
Rita  Sturlese,  Per  un'interpretazione  del  De  umbris  idearum  di  Giordano 
Bruno,  in  «Annali  della  Scuola  Normale  Superiore  di  Pisa»,  Classe  di  Lettere  e 
Filosofia,  XXII  (1992).  pp.  943-968  (in  questo  saggio  è  possibile  ritrovare  la 
migliore  spiegazione  del  complesso  meccanismo  mnemotecnico  delle  ruote  nel 
De  umbris);  Nicola  Badaloni,  //  De  umbris  idearum  come  discorso  sul  metodo. 
in  «Paradigmi»,  XVIIII  (2000),  pp.  161-195. 

31.  E  «per  li  tumulti  che  nacquero  doppo,  pigliai  licentia  et  con  littere 
dell'istesso  Re  andai  in  [Biir]  Inghilterra  a  star  con  l'ambasciator  di  Sua  Mae- 
stà, che  si  chiamava  il  signor  della  Malviciera,  per  nome  Michel  de  Castelnovo; 


INTRODUZIONE  IQ 

privilegiata,  poteva  avere  ogni  tipo  di  informazione  sugli  avvenimenti 
francesi. 

Neanche  l'arrivo  sull'isola  britannica  passò  inosservato.  Poco 
tempo  prima  dell'imbarco,  infatti,  l'ambasciatore  inglese  a  Parigi, 
Henry  Cobham,  invia  il  25  marzo  1583  un  dispaccio  a  Francis  Wal- 
singham,  segretario  della  Regina,  in  cui  si  annuncia  l'intenzione  di 
Bruno  di  raggiungere  l'Inghilterra.  Nel  presentarlo  come  «professor  in 
philosophy»,  il  diplomatico  non  perde  l'occasione  di  lanciare  nelle  po- 
che righe  un  esplicito  avvertimento:  «whose  religion  I  cannot  com- 
mend»'-. 

Dall'importante  testimonianza  di  George  Abbot,  che  lascerà  succes- 
sivamente Oxford  per  ricoprire  l'incarico  di  arcivescovo  di  Canter- 
bury, si  evince  come  ancora  una  volta  il  Nolano  fosse  mosso  da  un 
grande  desiderio  di  farsi  conoscere  «by  some  worthy  exploite»".  Non 
appena  oltrepassata  la  Manica,  infatti,  decide  di  dar  prova  di  sé,  di 
manifestare  immediatamente  il  valore  del  suo  pensiero  e  della  sua 
«nova  filosofia».  E  l'occasione  gli  si  presentò  quasi  subito  nel  giugno 
del  1583,  quando,  al  seguito  del  conte  palatino  Alberto  Laski'-*,  si  recò 
in  visita  a  Oxford.  Qui,  in  una  città  che  si  era  resa  celebre  per  i  suoi 
studi  e  per  le  sue  preziose  biblioteche,  Bruno  si  rese  protagonista  di 
una  disputa  pubblica  con  il  teologo  John  Underhill,  nominato  l'anno 
dopo  vice-cancelliere  dell'università,  e  con  altri  illustri  accademici.  Di 
questo  primo  episodio,  segnalato  dall'Harvey'',  non  parlano  né  Abbot, 
che  all'epoca  era  membro  del  Balliol  College,  né  le  cronache  legate  alla 
visita  del  conte.  Ma  se  ne  potrebbe  trovare  conferma  in  un  passaggio 


in  casa  del  qual  non  faceva  altro,  se  non  che  stava  per  suo  gentilhomo»:  Luigi 
Firpo,  B  processo  di  Giordano  Bruno  cit.  (doc.  11),  p.  162  (ed.  frane,  p.  51). 

32.  «Il  Sr.  Doctor  Jordano  Bruno,  Nolano,  a  professor  in  philosophy,  in- 
tends  to  pass  in  to  England;  whose  religion  I  cannot  commend»:  Calendar  of 
State  Papers,  Foreign  Series,  of  the  Reign  of  Elizabeth,  January-June  1583,  and 
Addenda.  Preserved  in  the  Public  Record  Office,  Edited  by  A.J.  Butler  and  Sophie 
Crawford  Lomàs,  London  1913;  ora  in  G.  Aquilecchia,  Giordano  Bruno  in  In- 
ghilterra (1583-1585).  Documenti  e  testimonianze,  in  «Bruniana  &  CampanelHa- 
na»,  n.  1-2  (1995),  p.  24. 

33.  George  Abbot,  The  Reasons  which  Doctor  Hill  hath  brough,  Oxford,  J. 
Barnes,  1604,  p.  303.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Giordano  Bruno  in  Inghilterra  (1583- 
1585).  Documenti  e  testimonianze  cit,  p.  33. 

34.  Non  bisogna  dimenticare  che  il  Laski  era  al  servizio  di  Enrico,  durante 
il  suo  breve  regno  in  Polonia.  Dopo  la  rocambolesca  fuga  del  Valois  nel  1574, 
infatti,  fu  proprio  lui  ad  adoperarsi  per  placare  i  sentimenti  antifrancesi.  Su 
questi  aspetti  si  veda  Vincenzo  Spampanato,  Vita  di  Giordano  Bruno  con  do- 
cumenti editi  ed  inediti  cit.,  p.  340. 

35.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Giordano  Bruno  in  Inghilterra  (1583-1585).  Docu- 
menti e  testimonianze  cit.,  pp.  26-28. 


20  INTRODUZIONE 

della  Cena,  dove  Frulla  allude  esplicitamente  a  uno  scontro  avvenuto 
in  presenza  del  Laski: 

E  se  non  il  credete,  andate  in  Oxonia  e  fatevi  raccontar  le  cose  intra- 
venute  al  Nolano,  quando  publicamente  disputò  con  que'  dottori  in  teolo- 
gia in  presenza  del  prencipe  Alasco  polacco,  et  altri  della  nobilita  inglesa; 
fatevi  dire  come  si  sapea  rispondere  a  gli  argomenti:  come  restò  per  quin- 
deci  sillogismi,  quindeci  volte  qual  pulcino  entro  la  stoppa  quel  povero 
dottor,  che  come  il  corifeo  dell'Academia  ne  puosero  avanti  in  questa 
grave  occasione;  fatevi  dire  con  quanta  incivilita  e  discortesia  procedea 
quel  porco,  e  con  quanta  pazienza  et  umanità  quell'altro  che  in  fatto  mo- 
strava essere  napolitano  nato  et  allevato  sotto  più  benigno  cielo '^. 

La  testimonianza  di  Abbot,  invece,  si  fa  preziosa  quando  riferisce 
di  un  corso  che  il  Nolano  tenne  a  Oxford,  in  cui  probabilmente  anti- 
cipò alcuni  temi  cosmologici  in  chiave  copernicana  che  avrebbero  tro- 
vato poi  sviluppo  nei  dialoghi  londinesi.  Ma  anche  questo  secondo 
soggiorno  oxoniense  si  concluse  in  maniera  traumatica.  Il  futuro  arci- 
vescovo di  Canterbury,  infatti,  racconta  che  un  personaggio  influente 
(probabilmente  Martin  Culpepper,  membro  del  New  College)  si  accorse, 
sin  dalla  prima  lezione,  di  un  possibile  plagio  ai  danni  di  Marsilio 
Ficino,  con  calchi  letterali  tratti  soprattutto  dal  De  vita.  E  -  in  ac- 
cordo con  Tobie  Matthew,  decano  del  Christ  Church  -  decise,  senza 
provocare  scandalo,  di  informare  il  Nolano  delle  sue  scoperte  per  in- 
vitarlo ad  interrompere  le  lezioni.  Indipendentemente  dall'attendibi- 
lità di  questa  versione  (che,  come  giustamente  ricorda  Aquilecchia,  fu 
pubblicata  molti  anni  dopo  i  violenti  attacchi  di  Bruno  ai  pedanti  di 
Oxford) ^^,  resta  certa  la  notizia  del  suo  breve  insegnamento  e  di  un'in- 
terruzione improvvisa  dello  stesso,  ricordata  anche  nel  già  menzionato 
passaggio  della  Cena  («Informatevi  come  gli  han  fatte  finire  le  sue  pu- 
bliche  letture,  e  quelle  de  immortalìtate  animae,  e  quelle  de  quintuplici 
sphera»y^. 

L'incidente  oxoniense,  come  è  possibile  immaginare,  non  ebbe  con- 
seguenze positive.  Il  Nolano  rientrò  a  Londra,  dall'ambasciatore  Ca- 
stelnau,  con  un  forte  risentimento  contro  il  milieu  accademico,  contro 
un  sapere  ridotto  a  puro  esercizio  grammaticale,  contro  il  predominio 
della  teologia  sulla  filosofia.  In  effetti  la  Oxford  conosciuta  da  Bruno 
era  in  preda,  già  da  qualche  decennio,  a  una  forte  crisi  di  identità.  La 


36.  Cena,  pp.  534-535- 

37.  Giovanni  Aquilecchia,  Giordano  Bruno,  Torino,  Nino  Aragno  Editore, 
2001,  p.  38  (in  appendice  a  questo  volume  è  contenuta  una  Bibliografia  delle 
pubblicazioni  [ig46-20oo]  di  Giovanni  Aquilecchia  a  cura  di  Tiziana  Prowidera). 

38.  Cena,  p.  535. 


INTRODUZIONE  21 

penetrazione  del  protestantesimo  nelle  università  inglesi  aveva  scate- 
nato una  guerra  senza  precedenti  contro  la  cultura  medievale,  consi- 
derata al  servizio  della  Chiesa  di  Roma.  Dai  dati  di  un'inchiesta,  con- 
dotta intomo  al  1550,  le  biblioteche  oxoniensi  erano  state  saccheggiate 
da  fanatici  che  avevano  osato  perfino  distruggere  i  libri  in  roghi  alle- 
stiti nelle  piazze  più  importanti^''.  Lx)  stesso  destino  toccò  anche  a  pre- 
ziosi manoscritti,  sotto  gli  occhi  atterriti  di  cattolici  e  protestanti  mo- 
derati. 

Nella  Cena  e  nel  De  la  causa,  come  vedremo,  Bruno  aggredisce  con 
estrema  fermezza  la  stupidità  dei  grammatici  di  Oxford,  dei  pedanti 
incapaci  di  uscire  dagli  angusti  confini  di  un  sapere  sterile  e  dogma- 
tico. Se  nel  primo  dialogo  Torquato  e  Nundinio  vengono  ridotti  a  ca- 
ricatura dei  dottori  oxoniensi,  nel  secondo  viene  operata  una  sottile 
distinzione  tra  l'inutile  culto  della  parola  esercitato  da  questi  imitatori 
dei  classici  e  la  vera  cultura  degli  Antichi  che  «poco  solleciti  de  l'elo- 
quenza e  rigor  grammaticale,  erano  tutti  intenti  alle  speculazioni,  che 
da  costoro  son  chiamate  sofismi »■*".  Di  fronte  al  diffondersi  dell'igno- 
ranza nelle  università,  insomma,  il  Nolano  non  esita  a  tessere  l'elogio 
della  Oxford  medievale,  a  considerare  più  feconda  la  metafisica  aristo- 
telica («quantumque  impura  et  insporcata  con  certe  vane  conclusioni 
e  teoremi,  che  non  sono  filosofici  né  teologali»)  di  quei  monaci  («quan- 
tumque barbari  di  lingua  e  cuculiati  di  professione»)  che  il  vano  eser- 
cizio di  «questi  de  la  presente  etade  con  tutta  la  lor  ciceroniana  elo- 
quenza et  arte  declamatoria  »''^ 

Bruno  coglie  con  chiarezza  la  frattura  che  si  era  creata  tra  Oxford, 
sempre  più  legata  ad  un  intollerante  umanesimo  aristotelico,  e  il  mi- 
lieu londinese,  pronto  ad  accogliere  invece  le  recenti  ipotesi  scientifi- 
che e  una  concezione  meno  dogmatica  del  sapere.  La  corte  di  Elisa- 
betta, infatti,  aveva  giocato  un  ruolo  importante  nell'incoraggiare 
l'apertura  di  nuovi  orizzonti  culturali.  Sotto  la  protezione  di  autore- 
voli personaggi  dell'aristocrazia  londinese  trovano  spazio  autori  e  libri 
che  non  avrebbero  avuto  fortuna  nel  perimetro  assai  chiuso  delle  uni- 
versità. 

Già  negli  anni  Cinquanta,  infatti,  è  possibile  reperire  tracce  delle 
teorie  copernicane  nel  Gasile  of  Knowledge  di  Robert  Recorde  e  nella 


39.  Anthony  à  Wood,  The  History  and  Antiquities  of  the  University  of 
Oxford,  by  John  Gutch,  Oxford,  Printed  for  the  Editor,  1792-1796,  v.  II,  i"" 
parte,  p.  108  (cit.  da  F.  Yates,  Giordano  Bruno  e  la  disputa  con  i  dottori  di 
Oxford,  in  Id.,  Giordano  Bruno  e  la  cultura  europea  del  Rinascimento  cit,  p.  13). 

40.  De  la  causa,  pp.  630-631. 

41.  Ibidem,  p.  631. 


22  INTRODUZIONE 

Ephemeris  anni  1557  cnrrentis  iuxta  Copernici  et  Reinholdi  canones  di 
John  Field,  in  cui  appare  anche  una  significativa  prefazione  di  John 
Dee,  autorevole  punto  di  riferimento  per  buona  parte  della  nobiltà 
cortigiana.  Spetta  a  Thomas  Digges  nel  1576,  invece,  la  prima  parziale 
traduzione  del  De  revolutionibus,  inserita  nella  ristampa  del  volume  di 
suo  padre,  A  Prognostication  Everlasting,  pubblicato  in  prima  edizione, 
con  un  diverso  titolo,  nel  1553"^^. 

A  ben  riflettere,  quindi,  anche  a  Londra  Bruno  finirà  per  trovare 
un  ambiente  potenzialmente  favorevole  alla  diffusione  della  sua  «no- 
va filosofia».  In  poco  tempo,  grazie  anche  alle  mediazioni  del  Castel- 
nau,  viene  accolto  a  corte,  dove  incontra  la  regina  Elisabetta  e  i  mem- 
bri più  autorevoli  dei  vari  circoli  filosofici  e  letterari.  Intreccia  rap- 
porti di  amicizia  con  il  poeta  Philip  Sidney  (genero  di  Francis 
Walsingham),  con  William  Cecil  («gran  tesorier  del  regno»)-*',  con  Ro- 
bert Dudley  (che  annoverava  tra  i  suoi  protetti  anche  Pietro  Ubaldini 
e  Tommaso  Sassetto),  con  Fulke  Greville,  con  Giovanni  Florio,  con 
Matthew  Gwinne:  personaggi  influenti  che,  in  relazione  alla  loro  fun- 
zione, giocheranno  proporzionalmente  un  ruolo  più  o  meno  impor- 
tante nei  dialoghi  italiani. 

L'idillio  con  una  parte  del  milieu  londinese  purtroppo  non  durò  a 
lungo.  La  pubblicazione  della  Cena  provocò  le  prime  forti  lacerazioni 
non  solo  per  gli  attacchi  ai  teologi  di  Oxford  («molti  dottori  di  questa 
patria  co  i  quali  ha  raggionato  di  lettere,  ha  trovato  nel  modo  di  pro- 
cedere aver  più  del  bifolco,  che  d'altro  che  si  potesse  desiderare»)-*'*, 
ma  anche  per  le  dure  considerazioni  sugli  incivili  costumi  della  plebe 
britannica: 

[...]  ma  importunissimamente,  a  dispetto  del  mondo  ne  viene  a  propo- 
sito una  plebe,  la  quale  in  esser  plebe  non  è  inferiore  a  plebe  alcuna,  che 
pasca  nel  suo  seno  la  pur  troppa  prodiga  terra:  perché  questa  veramente 
dà  saggio  di  plebe  de  tutte  le  plebe  che  io  possa  aver  sin  ora  conosciute 
irrevente,  irrespettevole,  di  nulla  civilità,  male  allevate.  Quando  vede  un 
forastiero,  sembra  (per  dio)  tanti  lupi  e  tanti  orsi:  e  con  il  suo  torvo  aspetto 
gli  fanno  quel  viso,  che  saprebbe  far  un  porco  ad  un  che  venesse  a  torgli  il 
tino  d'avanti-*'. 

Le  lodi  alla  Regina  (non  a  caso,  nella  seconda  redazione  della  Cena, 
elogiata  anche  per  «l'ospitalità  e  cortesia,  co  la  quale  accoglie  ogni 


42.  Giovanni  Aquilecchia,  Giordano  Bruno  cit,  pp.  41-42. 

43.  Cena,  p.  582. 

44.  Ibidem,  p.  467. 

45.  Ibidem,  pp.  479-480. 


INTRODUZIONE  23 

sorte  di  forastiero»)'*^  e  ai  gentiluomini  di  corte  riuscirono  solo  in 
parte  a  compensare  i  passaggi  dedicati  al  degrado  di  «arteggiani  e  bot- 
tegari»,  descritti  come  esseri  bestiali,  come  «animali  urtativi»  in  grado 
di  deridere  e  aggredire  ogni  sorta  di  straniero'^''.  Le  reazioni  di  protesta 
furono  immediate  e  su  Bruno  si  abbatté  una  vera  e  propria  tempesta, 
di  cui  si  ritrovano  tracce  eloquenti  nella  dedica  al  De  la  causa.  Sol- 
tanto tra  le  mura  dell'ambasciata,  grazie  alla  protezione  concessagli 
dal  Castelnau,  fu  possibile  scampare  «a  sì  rapido  torrente  di  criminali 
imposture  w-'s.  Un  chiarimento  si  rendeva  comunque  necessario.  E  il 
Nolano  non  esitò  a  spiegare  che  con  quelle  pagine  non  intendeva  of- 
fendere «tutto  un  regno»  («Dicono  di  voi.  Teofilo,  che  in  quella  vostra 
cena  tassate  et  ingiuriate  tutta  una  città,  tutta  una  provinzia,  tutto  un 
regno»),  ma  esclusivamente  il  comportamento  di  una  rozza  mino- 
ranza: 

Questo  mai  pensai,  mai  intesi,  mai  feci:  e  se  l'avesse  pensato,  inteso,  o 
fatto,  io  mi  condennarei  pessimo,  e  sarrei  apparecchiato  a  mille  retratta- 
zioni, a  mille  revocazioni,  a  mille  palinodie;  non  solamente  s'io  avesse  in- 
giuriato un  nobile  et  antico  regno  come  è  questo,  ma  qualsivogli'altro 
quantumque  stimato  barbaro:  non  solamente  dico  qualsivoglia  città  quan- 
tumque  diffamata  incivile,  ma  e  qualsivoglia  lignaggio,  quantumque  di- 
volgato  salvaggio;  ma  e  qualsivoglia  fameglia,  quantumque  nominata  ino- 
spitale: per  che  non  può  essere  regno,  città,  prole  o  casa  intiera  la  quale 
esser  possa  o  si  deve  presupponere  d'un  medesimo  umore,  e  dove  non  pos- 
sano essere  oppositi  e  contrarii  costumi;  di  sorte  che  quel  piace  a  l'uno, 
non  possa  dispiacere  a  l'altro^'''. 

Nonostante  la  significativa  offerta  di  Filoteo,  disponibile  addirit- 
tura ad  interrompere  la  circolazione  dell'opera  incriminata,  e  le  rassi- 
curazioni del  nobile  inglese  Annesso,  pronto  a  riconoscere  la  buona 
fede  del  filosofo  e  a  ricondurre  il  conflitto  a  un  pernicioso  malinteso,  i 
«romori»  scatenati  dal  primo  dialogo  finirono  inevitabilmente  per 
alienare  una  parte  delle  simpatie  che  Bruno  aveva  conquistato  sin  dal 
suo  arrivo  a  Londra.  Oltretutto,  come  le  varianti  della  doppia  reda- 
zione della  Cena  rivelano,  il  Nolano  in  quell'occasione  si  trovò  ad  ope- 
rare anche  una  scelta  di  campo,  abbracciando  il  partito  di  Robert  Du- 


46.  Ibidem,  p.  478. 

47.  Ibidem,  pp.  480-488  (ma  si  veda  anche  la  redazione  primitiva:  Ibidem, 
pp.  583-587).  Sul  topos  della  satira  antibritannica  si  veda  V.  Spampanato,  Vita 
di  Giordano  Bruno  con  documenti  editi  ed  inediti  cit.,  p.  366. 

48.  De  la  causa,  p.  594. 

49.  Ibidem,  p.  625. 


24  INTRODUZIONE 

dley,  in  seguito  all'improvviso  conflitto  con  William  Cecil,  scoppiato 
mentre  il  testo  era  sotto  i  torchi  nella  tipografia  di  Charlewood  5°. 

A  Parigi  e  a  Londra:  analogie  dei  due  milieux 

Alla  luce  di  questa  sintetica  ricostruzione  del  milieu  in  cui  Bruno  si 
trovò  ad  operare  tra  il  1581  e  il  1585,  emergono  con  chiarezza  alcune 
analogie  che  caratterizzano  il  suo  soggiorno  a  Parigi  e  in  Inghilterra. 
Innanzitutto,  la  sua  decisa  volontà  di  conquistare  immediatamente 
uno  spazio  di  rilievo  da  cui  poter  operare  per  diffondere  la  sua  «nova 
filosofia».  Un  obiettivo  che  il  Nolano  vuole  raggiungere  facendo  leva 
esclusivamente  sulla  forza  del  suo  sapere  e  del  suo  pensiero,  senza  pie- 
garsi alle  diffuse  pratiche  di  una  cortigiania  conformista  e  subalterna 
ai  gruppi  di  potere.  Naturalmente,  egli  sa  che  senza  l'appoggio  dell'ari- 
stocrazia più  influente  e,  addirittura,  senza  i  favori  del  Re  o  della  Re- 
gina è  difficile  trovare  ascolto,  insegnare,  pubblicare,  lavorare  in  pace 
e  avere  proseliti.  Ma  la  necessità  del  compromesso  —  e  questo  è  un 
tratto  che  ha  caratterizzato  tutta  la  vita  di  Bruno  fino  alla  terribile 
esperienza  del  rogo  -  non  avrebbe  potuto  spingersi  fino  a  mettere  in 
causa  i  nuclei  portanti  della  sua  filosofia.  Ecco  perché,  nelle  molteplici 
tappe  del  suo  peregrinare  europeo,  il  Nolano  è  stato  capace  di  rinun- 
ciare a  ogni  privilegio,  mostrando  di  essere  sempre  pronto  ad  intra- 
prendere un  nuovo  viaggio  nella  speranza  di  raggiungere  un  luogo 
dove  poter  filosofare  in  libertà. 

A  Parigi  e  a  Londra,  in  effetti,  Enrico  III  ed  Elisabetta  accolsero 
Bruno  con  simpatia.  I  circoli  di  corte  si  ponevano,  in  entrambi  i  casi, 
in  una  posizione  antagonistica  rispetto  al  conformismo  delle  univer- 
sità. Se  nella  capitale  francese  l'Académie  e  il  Collège  Royal  promuo- 
vono saperi  e  proteggono  insegnanti  che  difficilmente  avrebbero  tro- 
vato posto  nella  Sorbonne,  anche  a  Londra  l'aristocrazia  cortigiana  fa- 
vorisce la  nascita  di  cenacoli  scientifici  molto  lontani,  per  metodo  e 
per  interessi,  dalle  aule  di  Oxford  e  di  Cambridge.  Bruno,  attraverso  la 
sua  diretta  esperienza,  ebbe  modo  di  verificare  la  gravità  di  questa 
frattura  e  non  esitò,  al  di  qua  e  al  di  là  della  Manica,  a  operare  una 
scelta  di  campo,  vicina  agli  schieramenti  fedeli  al  Re  in  Francia  e  alla 
Regina  in  Inghilterra. 

In  particolare  -  ma  su  questo  tema  ritorneremo  nel  paragrafo  de- 
dicato allo  Spaccio  -  le  due  monarchie,  pur  partendo  da  realtà  diffe- 
renti e  operando  scelte  molto  diverse  nel  delicato  campo  della  politica 


50.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Giordano  Bruno  cit,  pp.  42-45. 


INTRODUZIONE  25 

estera,  si  ritrovarono  a  combattere  sul  fronte  intemo  una  battaglia  che 
presentava  significative  analogie.  Analogie  che  Bruno  stesso  metterà 
in  risalto  nei  ripetuti  elogi  indirizzati  ai  due  regnanti  in  diverse  pa- 
gine dei  dialoghi  londinesi.  Il  Nolano  capisce  che  soprattutto  nella 
concezione  della  religione  è  possibile  individuare  una  serie  di  punti 
comuni:  il  Valois  e  la  Tudor,  infatti,  considerano  il  culto  al  servizio 
dello  Stato  e  della  «civile  conversazione»,  cercando  con  ogni  mezzo  di 
distruggere  i  fanatismi  religiosi.  Entrambi,  insomma,  aspirano  alla 
pace,  promuovono  una  politica  di  equidistanza  dai  settarismi  cattolici 
e  protestanti  e,  in  particolar  modo,  manifestano  apertamente  il  loro 
amore  per  la  giustizia  e  per  il  sapere. 

Certamente,  il  re  di  Francia  si  trova  a  vivere  in  una  situazione  ben 
più  difficile  e  avvelenata  dalla  ferocia  della  guerra  civile.  Ma  non 
perde  occasioni  di  adattare  alle  nuove  esigenze  la  strategia  inaugurata 
da  sua  madre,  Caterina  de'  Medici,  all'indomani  della  morte  di  Enri- 
co II:  in  una  totale  indifferenza  per  il  culto  religioso,  la  Regina  madre 
aveva  cercato  di  neutralizzare  le  opposte  fazioni  accordando  conces- 
sioni e  riconoscimenti  giuridici  solo  in  funzione  degli  interessi  della 
Corona.  Anche  Enrico  III  cerca  di  mantenere  un'equidistanza  dagli 
estremismi  cattolici  della  Ligue  e  dagli  estremismi  protestanti  degli 
ugonotti.  Dietro  ogni  decisione,  finalizzata  ad  indebolire  i  blocchi  an- 
tagonisti, si  ritrova  la  precisa  volontà  di  conservare  sani  e  salvi  lo 
Stato  e  il  potere  dei  Valois. 

Dall'altra  parte  della  Manica,  in  un  contesto  molto  meno  agitato  di 
quello  francese  ma  ugualmente  complesso,  Elisabetta  non  esita  a  pro- 
muovere una  strategia  di  indipendenza  dai  fanatismi  cattolici  e  prote- 
stanti. Anche  l'anglicanesimo,  in  sostanza,  riconosce  alla  religione  la 
funzione  di  instrumentum  regni,  di  vincolo  sociale  al  servizio  dello 
Stato  e  del  potere  monarchico'^.  In  difesa  di  questi  valori,  la  Tudor 
promuove,  con  durissime  decisioni,  campagne  repressive  contro  le  fa- 
zioni rivali.  Se  nel  1580  il  pugno  di  ferro  si  abbatte  sui  Gesuiti,  nel 
1583,  invece,  l'elezione  di  John  Whitgift  all'arcivescovato  di  Canter- 
bury dà  il  via  ad  una  feroce  reazione  al  puritanesimo". 


51.  Sulla  politica  religiosa  della  regina  Elisabetta  cfr.  Joseph  Lecler,  Hi- 
stoire  de  la  tolérance  au  siede  de  la  Réforme,  Paris,  Albin  Michel.  1994,  pp.  697- 
734;  Roland  H.  Bainton,  Sincretismo  e  compromesso  nell'anglicanesimo,  in  La 
riforma  protestante,  prefazione  di  Delio  Cantimori,  appendice  bibliografica  a 
cura  di  Leandro  Perini,  Torino,  Einaudi,  1958,  pp.  190-193;  HuGH  Trevor- 
ROPER,  Protestantesimo  e  trasformazione  sociale,  Roma-Bari,  Laterza,  1994,  p. 
269;  Gilberto  Sacerdoti,  Caccia  al  cervo  e  potestas  ecclesiastica  in  Pene 
d'amore  perdute,  in  «Intersezioni»,  17  (1997),  pp.  229-249. 

52.  Joseph  Lecler,  Histoire  de  la  tolérance  au  siede  de  la  Réforme  cit.,  pp. 
721-734. 


26  INTRODUZIONE 

Dalla  sua  specola  privilegiata.  Bruno  intuisce  le  affinità  che  po- 
trebbero legare  Enrico  III  ad  Elisabetta,  la  Francia  all'Inghilterra. 
Ma,  in  maniera  particolare,  coglie  l'importanza  di  un'alleanza  che, 
oltre  a  favorire  la  pace,  segnerebbe  soprattutto  il  primato  della  fi- 
losofia sulla  teologia.  Senza  questo  contesto,  sarebbe  difficile  capire 
la  genesi  delle  opere  italiane  e  gli  interlocutori  con  cui  il  Nolano 
intende  dialogare.  L'esperienza  parigina  e  quella  inglese  non  possono 
essere  scisse,  non  possono  essere  considerate  come  momenti  separati. 
Bruno  pubblica  a  Londra,  ma  con  un  occhio  rivolto  alla  situazione 
inglese  e  con  l'altro  proiettato,  al  di  là  della  Manica,  verso  le  vicende 
francesi.  La  sua  «nova  filosofia»  vuole  imporsi  all'attenzione  dei  dotti 
aristocratici  che  pensano  e  che  agiscono  nei  circoli  legati  al  Valois  e 
alla  Tudor. 


II. 

LA  FILOSOFIA  IN  TEATRO 

E  IL  TEATRO  NELLA  FILOSOFIA: 

IL  COMICO  COME  CONOSCENZA 

Tra  Parigi  e  Londra,  quindi.  Bruno  pubblica  in  volgare  una  com- 
media e  sei  dialoghi.  Si  tratta  di  una  scelta  ben  precisa,  visto  che 
negli  stessi  anni,  nelle  due  capitali,  continua  parallelamente  a  dare 
alle  stampe  anche  trattati  in  latino'*.  Ma  è  possibile  considerare  que- 
sti sette  testi  come  tappe  successive  di  un  unico  disegno  che,  dalla 
Cena  ai  Furori,  possa  includere  anche  il  Candelaio?  E  quale  potrebbe 
essere  il  tratto  comune,  il  filo  rosso  che  legherebbe  queste  opere  tra 
loro? 

A  prima  vista  si  sarebbe  portati  a  scartare  la  scelta  della  lingua. 
Nonostante  il  latinorum  di  Mamfurio,  sarebbe  stato  difficile,  in  effetti, 
immaginare  una  commedia  interamente  scritta  nella  lingua  di  un  pe- 
dante o  di  Virgilio.  Eppure,  a  uno  sguardo  più  profondo,  al  di  là  dello 
scarto  latino/volgare,  anche  i  materiali  linguistici  del  Candelaio  costi- 
tuiscono un  terreno  interessante  per  capire  lo  sperimentalismo  della 
scrittura  dialogica  bruniana. 


53.  In  Inghilterra  Bruno  pubblica  anche  VArs  reminiscendi,  VExplicatio  tri- 
ginta  sigilloriitn  e  il  Sigillus  sigillorum. 


INTRODUZIONE  '2,^ 

La  commedia  e  il  dialogo 

Naturalmente,  il  nesso  più  evidente  riguarda  la  struttura  dei  generi 
letterari  e  alcuni  temi  forti  che  percorrono  le  sette  opere.  Partiamo  dal 
primo  aspetto,  quello  che  balza  subito  agli  occhi.  Bruno  inscrive  la  sua 
brevissima,  ma  intensissima,  stagione  in  volgare  all'interno  di  due  ge- 
neri di  successo  nel  Rinascimento:  la  commedia  e  il  dialogo.  Due  ge- 
neri che,  in  ragione  della  loro  popolarità,  non  erano  sfuggiti  alla  follia 
classificatrice  dei  teorici  cinquecenteschi.  A  rileggere  la  trattatistica  sul 
dialogo,  per  esempio,  si  percepiscono  immediatamente  i  punti  di  con- 
tatto che  potrebbero  accomunare  l'una  all'altro. 

Carlo  Sigonio  nel  De  dialogo  liber  (1562),  Sperone  Speroni  nelYApo- 
logia  (1574)  e  Torquato  Tasso  ntWArte  del  dialogo  (1585)  concordano 
nel  distinguere  tre  diverse  specie  di  dialogo:  il  «rappresentativo»  (che 
«può  montare  in  palco  [...],  percioch'in  essa  vi  siano  persone  introdotte 
a  ragionare  [...]  com'è  usanza  di  farsi  nelle  comedie  e  nelle  tragedie»), 
il  «narrativo»  o  «storico»  («che  non  può  montare  in  palco,  percioché, 
conservando  l'autore  la  sua  persona,  come  istorico  narra  quel  che  disse 
il  tale  e  '1  cotale»)  e  il  «misto»  (dove  «conservando  l'autore  la  sua 
prima  persona  e  narrando  come  istorico  [poi  introduce]  a  favellar 
ÓQafiarLX(bg»Y-^ .  Questa  tripartizione  si  rifa  allo  schema  dei  generi  let- 
terari già  discusso  nella  Repubblica  di  Platone  e  poi  rielaborato  da  Ari- 
stotele: mimetico  o  drammatico,  espositivo  o  narrativo  e  misto '5. 

La  trattatistica  fornisce  anche  i  modelli  classici  di  riferimento.  Il 
dialogo  narrativo  o  storico  trova  la  sua  perfetta  incarnazione  nel  De 
oratore  di  Cicerone,  quello  rappresentativo  in  Platone  e  in  Luciano, 
quello  misto  ancora  in  Cicerone.  Se  la  fortuna  del  dialogo  diegetico, 
nel  primo  trentennio  del  Cinquecento,  si  lega  ai  testi  epidittici  di 
Bembo  [Gli  Asolani,  1505)  e  di  Castiglione  (//  Cortegiano,  1528),  dove  la 
«scena»  e  il  «modo»  della  conversazione  diventano  parte  integrante  e 
fondamentale  di  una  Weltanschauung  dominata  esclusivamente  da 
una  prospettiva  cortigiana"^,  alla  forma  mimetica,  invece,  ricorre- 


54.  Torquato  Tasso,  Dell'arte  del  dialogo,  introduzione  di  Nuccio  Ordine, 
testo  critico  e  note  di  Guido  Baldassarri,  Napoli,  Liguori,  1998,  pp.  39-40.  Qui  il 
Tasso,  come  opportunamente  segnala  Baldassarri  nella  nota  alle  pp.  39-40,  ri- 
prende le  definizioni  offerte  da  Ludovico  Castelvetro  nella  sua  Poetica  d'Aristo- 
tele vidgarizzata  e  sposta  (1570). 

55.  Cfr.  ibidem,  la  nota  8,  pp.  40-41. 

56.  Cfr.  N.  Ordine,  Il  genere  dialogo  tra  latino  e  volgare,  in  Manuale  di  lette- 
ratura italiana.  Storia  per  Generi  e  Problemi,  a  cura  di  Franco  Brioschi  e  Co- 
stanzo Di  Girolamo,  t.  2,  Torino,  Bollati  Boringhieri,  1994,  pp.  491-500  (cfr. 
anche  Io.,  Le  Sei  giornate:  struttura  del  dialogo  e  parodia  della  trattatistica  sul 


28  INTRODUZIONE 

ranno  moltissimi  autori,  soprattutto  nella  seconda  metà  del  secolo, 
con  scopi  e  obiettivi  più  eterogenei. 

Tasso,  partendo  da  una  possibile  contaminazione  tra  dramma  e 
dialogo,  non  nega  che  il  secondo  possa  anche  avvalersi,  sulla  base  dei 
suoi  contenuti,  di  categorie  in  uso  nell'ambito  teatrale^':  il  Critone  e  il 
Fedone,  per  esempio,  potrebbero  essere  considerati  tragici  perché  So- 
crate nel  primo  rifiuta  di  fuggire  dopo  la  condanna  a  morte  e  nel  se- 
condo beve  il  veleno  dopo  una  lunga  disputa  sull'immortalità  del- 
l'anima; mentre  il  Convito,  in  cui  Aristofane  e  Alcibiade  si  abbando- 
nano senza  alcun  controllo  al  cibo  e  al  vino,  apparterrebbe  alla  sfera 
della  commedia.  Ma  nonostante  queste  concessioni,  il  trattatista  di- 
stingue i  due  generi  soprattutto  sulla  base  delle  diverse  funzioni  del- 
l'imitazione: 

Nell'imitazione  o  s'imitano  l'azioni  degli  uomini  o  i  ragionamenti;  e 
quantunque  poche  operazioni  si  facciano  alla  mutola,  e  pochi  discorsi 
senza  operazione,  almeno  dell'intelletto,  nondimeno  assai  diverse  giudico 
quelle  da  questi;  e  degli  speculativi  è  proprio  il  discorrere,  sì  come  degli 
attivi  l'operare.  Due  saran  dunque  i  primi  generi  dell'imitazione;  l'un  del- 
l'azione, nel  quale  son  rassomigliati  gli  operanti;  l'altro  delle  parole,  nel 
quale  sono  introdotti  i  ragionanti.  E  '1  primo  genere  si  divide  in  altri,  che 
sono  la  tragedia  e  la  comedia,  ciascun  delle  quali  patisce  alcune  divisioni; 
e  '1  secondo  si  può  divider  parimente'^. 

A  partire  da  questa  definizione,  si  vede  subito  che  «questi  mede- 
simi dialogi  non  sono  vere  tragedie  o  vere  comedie;  perché  nell'une  e 
nell'altre  le  quistioni  e  i  ragionamenti  son  descritti  per  l'azione:  ma  ne' 
dialogi  l'azione  è  quasi  per  giunta  de'  ragionamenti;  e  s'altri  la  rimo- 
vesse il  dialogo  non  perderebbe  la  sua  forma» 5''.  Il  ragionamento  e 
l'azione,  insomma,  costituiscono  lo  spartiacque  teorico  che  separa  i 
due  generi  in  questione. 

Bruno,  in  contrasto  con  le  prescrizioni  dell'aristotelismo  cinquecen- 
tesco, finisce  per  fondere  gli  schemi  della  commedia  e  del  dialogo 
«rappresentativo»  o  mimetico,  trasferendo  elementi  dialogici  nel  tea- 
tro ed  elementi  teatrali  nel  dialogo.  Il  Candelaio  si  presenta  così  come 
una  commedia  filosofica,  mentre  i  dialoghi  mettono  in  scena  qua  e  là 
una  filosofia  in  commedia.  In  entrambi  i  casi,  il  Nolano  fa  deflagrare 
gli  elementi  costitutivi  del  genere. 


comportamento,  in  Pietro  Aretino  nel  cinquecentenario  della  nascita,  t  II,  Roma, 
Salerno  editrice,  1995,  pp.  673-716). 

57.  Torquato  Tasso,  Dell'arte  del  dialogo  cit,  pp.  41-42. 

58.  Ibidem,  pp.  38-39. 

59.  Ibidem,  p.  42. 


INTRODUZIONE  29 

Nella  sua  unica  opera  teatrale,  in  fondo,  la  struttura  drammatica 
viene  ridotta  al  minimo.  Ogni  componente  clcissica  subisce  uno  svuo- 
tamento, una  forte  alterazione  dei  tratti  tipici  della  sua  identità.  In- 
nanzitutto, l'abolizione  del  canonico  prologo  <'°.  O  meglio:  un  suo 
smembramento  in  «  Anti  prologo  »,  «Proprologo»  e  «Bidello»,  preceduti 
da  un  «Argumento»  e  da  una  dedica  «Alla  signora  Morgana  B.».  Poi, 
l'annuncio  a  sorpresa  dell'indisponibilità  degli  attori  a  recitare  («Quel- 
la bagassa  che  è  ordinata  per  rapresentar  Vittoria  e  Carubina,  have 
non  so  che  mal  di  madre.  Colui  che  ha  da  rapresentar  il  Bonifacio,  è 
imbriaco  »)^',  come  se  la  pièce  fosse  destinata  a  restare  lontana  dalle 
scene,  a  vivere  esclusivamente  nel  suo  chiuso  involucro  cartaceo.  E 
infine  una  serie  di  densi  monologhi,  di  complicati  scambi  dialogici  e 
di  racconti  che  hanno  poco  a  che  fare  con  la  vera  e  propria  spettaco- 
larità, con  l'azione.  Finanche  il  linguaggio  si  ribella  agli  schemi  prefis- 
sati: al  registro  quotidiano,  popolareggiante,  si  sovrappongono,  proprio 
nei  momenti  dove  si  fa  piti  densa  la  riflessione  filosofica,  paradossali 
miscele  di  registri  alti  e  bassi,  di  termini  molto  dotti  e  di  espressioni 
vivamente  oscene.  Del  resto,  il  Candelaio,  oltre  a  «chiarir  alquanto  certe 
Ombre  dell'idee,  le  quali  in  vero  spaventano  le  bestie,  e  come  fussero  dia- 
voli danteschi,  fan  rimaner  gli  asini  lungi  a  dietro «^^^  ha,  soprattutto  la 
funzione  di  illuminare  la  realtà  con  una  nuova  luce  («Con  questa  filo- 
sofia l'animo  mi  s'aggrandisse,  e  me  si  magnifica  l'intelletto  »)'^^ 

Anche  sul  fronte  del  dialogo  la  musica  non  cambia.  In  un  contesto 
dove  lo  sforzo  teorico  di  Bruno  raggiunge  vette  straordinarie,  non 
mancano  chiare  aperture  di  tipo  teatrale.  Accanto  a  pagine  dove  il 
ritmo  dell'argomentazione  si  fa  più  incalzante  e  il  linguaggio  si  muove 
in  un  ambito  tecnico  ed  erudito,  l'autore  inserisce  momenti  dominati 
da  un  tono  colloquiale,  da  battute  e  da  schemi  tipici  della  commedia. 
L'incipit  della  Cena,  come  ha  mostrato  Aquilecchia,  sembra  avere  tutti 
gli  elementi  di  uno  scambio  dialogico  da  palcoscenico: 

[Smitho.]  Parlavan  ben  latino?  /  Teofilo.  Sì.  /  Smitho.  Galant'uo- 
mini?  /  Teofilo.  Sì.  /  Smitho.  Di  buona  riputazione?  /  Teofilo.  Sì.  / 


60.  Sulle  funzioni  e  sulle  tipologie  dei  prologhi  bruniani  cfr.  Amelia 
Buono  Hodgart,  Prologhi  bruniani  e  prologhi  classici,  in  «Atti  della  Accade- 
mia Pontaniana»,  XLIII  (1994),  pp.  97-107  (ora  in  Io.,  Giordano  Bruno's  The 
Candle-Bearer.  An  Enigmatic  Renaissance  Play,  preface  of  Giovanni  Aquilec- 
chia, Lewiston-Queenston-Lampeter,  The  Edwin  Mellen  Press,  1997,  pp.  15-23). 
Ma  si  veda  anche  Donatella  Riposio,  Nova  comedia  v'appresento.  Il  prologo 
nella  commedia  del  Cinquecento,  Torino,  Tirrenia  Stampatori,  1989,  pp.  1 19-146. 

61.  Candelaio,  p.  274. 

62.  Ibidem,  pp.  262-263. 

63.  Ibidem,  p.  263. 


30  INTRODUZIONE 

Smitho.  Dotti?  /  Teofilo.  Assai  competentemente.  /  Smitho.  Ben 
creati,  cortesi,  civili?  /  Teofilo.  Troppo  mediocremente.  /  Smitho. 
Dottori?  /  Teofilo.  Messer  sì,  padre  sì,  madonnasì,  madesì:  credo  da 
Oxonia.  /  Smitho.  Qualificati?  /  Teofilo.  Come  non?  uomini  da  scel- 
ta, di  robba  lunga,  vestiti  di  velluto:  un  de  quali  avea  due  catene  d'oro 
lucente  al  collo;  e  l'altro  (per  Dio)  con  quella  preziosa  mano  (che  con- 
tenea  dodeci  anella  in  due  dita)  sembrava  uno  ricchissimo  gioielliero, 
che  ti  cavava  gli  occhii  et  il  core,  quando  la  vagheggiava.  /  Smitho. 
Mostravano  saper  di  greco?  /  Teofilo.  E  di  birra  eziamdio.  /  Pruden- 
zio. Togli  via  queir« eziamdio»,  poscia  è  una  absoleta  et  antiquata  di- 
czione.  /  Frulla.  Tacete  maestro,  che  non  parla  con  voi.  /  Smitho. 
Come  eran  fatti?  /  Teofilo.  L'uno  parca  il  connestabile  della  gigantes- 
sa  e  l'orco;  l'altro  l'amostante  della  dea  de  la  riputazione.  /  Smitho.  Sì 
che  eran  doi?  /  Teofilo.  Sì  per  esser  questo  un  numero  misterioso.  / 
Prudenzio.  Ut  essent  duo  testes.  I  Frulla.  Che  intendete  per  quel  «tes- 
tes»}  I  Prudenzio.  Testimoni,  essaminatori  della  nolana  sufficienza^. 

Bruno,  insomma,  dà  il  via  alla  sua  «nolana  filosofia»  con  una 
scena  comica.  Usa  consapevolmente  quei  giochi  di  parole  tipici  della 
commedia.  Le  allusioni  al  «saper  di  greco»  (nel  doppio  senso  di  «co- 
noscere la  lingua  greca»  o  «puzzare  di  vino  greco»)  o  al  ruolo  dei 
«testes»  oxoniensi  (dal  latino  «testis»,  da  cui  derivano  «testimone»  e 
«testicolo»),  l'uso  delle  didascalie  nelle  descrizioni  dei  due  dottori  ina- 
nellati, potrebbero  trarre  in  inganno  colui  che  si  predispone  ad  im- 
mergersi nella  nuova  cosmologia  dell'autore.  Eppure,  sin  dall'inizio,  il 
codice  interpretativo  è  già  inscritto  nell'epistola  dedicatoria.  Qui  si 
parla  chiaramente  di  «dialogo»  e  di  «lettori»,  ma  anche  di  «satira  e 
comedia»  e,  quindi,  di  «spettatori»^'. 

Il  Nolano  azzera  le  differenze,  spiazza  le  regole  imposte  dai  pedanti. 
Inscrive  la  filosofia  nella  commedia  e  la  commedia  nella  filosofia.  Apre 
in  maniera  plateale  con  la  Cena,  ma  poi  ripropone  qua  e  là,  in  ma- 
niera più  o  meno  evidente,  alcuni  schemi  della  commistione  tra  i  due 
generi  anche  negli  altri  testi  successivi.  Nei  primi  tre  dialoghi,  addirit- 
tura, le  epistole  dedicatorie  potrebbero  giocare  il  ruolo  del  prologo  e  la 
suddivisione  in  cinque  scene  dialogiche  potrebbe  far  pensare  ai  cinque 
atti  classici  della  commedia.  Così  come  la  presenza  del  grammatico 
Prudenzio,  oltre  a  ricordare  per  l'evidente  omonimia  lo  sterile  peda- 
gogo del  Pedante  di  Belo,  non  può  non  evocare  alcuni  tratti  tipici  tea- 
trali della  figura  del  pedante,  già  sperimentati  nel  Candelaio  alle  spese 


64.  Cena.  pp.  441-442. 

65.  Ibidem,  p.  438. 


INTRODUZIONE  3I 

dello  sventurato  Mamfurio^^.  Allusioni,  suggestioni,  certo.  Ma  le  coin- 
cidenze non  finiscono  qui.  Annesso,  per  esempio,  ha  il  compito  di  sot- 
tolineare nel  De  la  causa  la  possibilità  che  dai  discorsi  di  Filoteo- 
Bruno  «vegnan  formate  comedie,  tragedie,  lamenti,  dialogi»''^.  Finan- 
che nello  Spaccio,  in  un  contesto  dominato  da  una  concitata  assemblea 
degli  dèi,  la  decisiva  confessione  di  Giove,  che  dà  il  via  alla  radicale 
riforma  del  cielo,  passa  attraverso  un  monologo  degno  di  una  comme- 
dia cinquecentesca: 

Ecco,  a  me  si  dissecca  il  corpo,  e  mi  s'umetta  il  cervello;  mi  nascono  i 
tofi,  e  mi  cascano  gli  denti;  mi  s'inora  la  carne,  e  mi  s'inargenta  il  crine;  mi 
si  distendeno  le  palpebre,  e  mi  si  contrae  la  vista;  mi  s'indebolisce  il  fiato, 
e  mi  si  rinforza  la  tosse;  mi  si  fa  fermo  il  sedere,  e  trepido  il  caminare;  mi 
trema  il  polso,  e  mi  si  saldano  le  coste;  mi  s'assottigliano  gli  articoli  e  mi 
s'ingrossano  le  gionture:  et  in  conclusione  (quel  che  più  mi  tormenta), 
perché  mi  s'indurano  gli  talloni,  e  mi  s'ammolla  il  contrapeso;  l'otricello 
de  la  cornamusa  mi  s'allunga,  et  il  bordon  s'accorta''*. 

La  frantumazione  dei  generi  letterari 

Dal  Candelaio  ai  Furori,  Bruno  ci  propone  due  generi  che  rivendi- 
cano la  loro  fragilità,  la  loro  precarietà,  la  loro  frammentarietà.  Nel 
prologo  della  commedia  è  detto  con  chiarezza  che  si  tratta  di  un  «bar- 
conaccio  dismesso,  scasciato,  rotto,  mal  impeciato;  che  par  che  co  croc- 
chi, rampini  et  arpagini,  sii  stato  per  forza  tirato  dal  profondo  abisso; 
da  molti  canti  gli  entra  l'acqua  dentro,  non  è  punto  spalmato»'^'''.  Un 
«barconaccio»  che  non  mostra  una  forma  definitiva  e  che,  soprattutto, 
ci  invita  a  considerare  la  sua  provvisorietà.  Proprio  come  provvisori 
vengono  presentati  gli  stessi  dialoghi  del  Nolano: 

E  però  priego  e  scongiuro  tutti,  che  non  sia  qualch'uno  di  animo  tanto 
enorme,  e  spirito  tanto  maligno,  che  voglia  definire,  donando  ad  intendere 
a  sé  et  ad  altri,  che  ciò  che  sta  scritto  in  questo  volume,  sia  detto  da  me 
come  assertivamente  [...].  Per  tanto  non  sia  chi  pense  altrimente,  eccetto 
che  questi  tre  dialogi  son  stati  messi  e  distesi  sol  per  materia  e  suggetto 
d'un  artificio  futuro'". 


66.  Cfr.  G.  Aquilecchi.\,  Componenti  teatrali  nei  dialoghi  italiani  di  Gior- 
dano Bruno,  in  «Bruniana  &  Campanelliana»,  V  (1999/2),  pp.  265-276. 

67.  De  la  causa,  p.  617. 

68.  Spaccio,  pp.  2 10-2 II. 

69.  Candelaio,  pp.  274-275. 

70.  Spaccio,  pp.  177-178. 


32  INTRODUZIONE 

Un  dialogo  non  può  definirsi  autosufficiente,  non  può  offrirsi  come 
definitivo,  non  può  abbandonarsi  ad  affermazioni  «assertive»,  valide 
una  volta  per  tutte.  Lascia  sempre  questioni  irrisolte.  Presuppone  ne- 
cessariamente altri  dialoghi  futuri^'.  Anche  la  Cabala  non  nasconde  il 
suo  statuto  di  testo  imperfetto,  di  opera  non  conclusa.  Ecco  perché  il 
dialogo  principale  si  chiude  bruscamente  per  lasciare  posto  a  un  altro 
dialogo,  VAsino  etilenico,  che  Saulino,  abbandonato  dagli  altri  interlo- 
cutori, (ci)  legge  sulla  scena: 

Or  credo  che  passarà  l'occasione  de  far  molti  altri  raggionamenti  sopra 
la  cabala  del  detto  cavallo.  Perché,  qualmente  veggio,  l'ordine  de  l'uni- 
verso vuole  che  come  questo  cavallo  divino  nella  celeste  regione  non  si 
mostra  se  non  sin  all'umbilico  (dove  quella  stella  che  v'è  terminante  è 
messa  in  lite  e  questione  se  appartiene  alla  testa  d'Andromeda  o  pur  al 
tronco  di  questo  egregio  bruto),  cossi  analogicamente  accade  che  questo 
cavallo  descrittorio  non  possa  venire  a  perfezzione'^. 

In  fondo,  l'autore  di  un  dialogo  crea  «preludii  a  similitudine  de 
musici»,  abbozza  «certi  occolti  e  confusi  delineamenti  et  ombre,  come 
gli  pittori»,  ordisce  «certa  fila,  come  le  tessitrici»,  getta  «bassi,  pro- 
fondi e  ciechi  fondamenti  come  gli  grandi  edificatori»^^.  Ma,  va  detto 
subito,  la  provvisorietà  delle  forme  letterarie  e  dei  contenuti  che  esse 
veicolano  non  impoveriscono  la  «nova  filosofia»  di  Bruno.  Anzi,  al 
contrario,  ne  evidenziano  la  carica  vitale,  la  forza  travolgente,  la  di- 
rompente pluridimensionalità.  Spetta  alla  Cena,  come  abbiamo  visto, 
aprire  la  serie  delle  opere  londinesi  in  volgare.  Incipit  del  dialogo  in 
chiave  teatrale,  comica.  Ma  anche  incipit  di  una  serie  di  testi  dialogici 
che  sembrano  germinare  tutti  da  un  convito.  Pura  casualità?  Certa- 
mente no.  Soprattutto  se  si  pensa  alla  metafora  del  dialogo  come  cena 
che  Bruno  stesso  metterà  in  scena  nel  De  la  causa: 

Non  vi  maravigliate,  fratello,  per  che  questa  non  fu  altro  ch'una  cena 
dove  gli  cervelli  vegnono  governati  da  gli  affetti,  quali  gli  vegnon  porgiuti 
dall'efficacia  di  sapori  e  fumi  de  le  bevande  e  cibi.  Qual  dumque  può  es- 


71.  «Qua  dumque  avendo  tutto  l'altro  (onde  non  si  può  raccòrre  degno 
frutto  di  dottrina)  per  cosa  dubia,  suspetta  et  impendente,  prendasi  per  final 
nostro  intento  l'ordine,  l'intavolatura,  la  disposizione,  l'indice  del  metodo,  l'ar- 
bore, il  teatro  e  campo  de  le  virtudi  e  vizii:  dove  appresso  s'ha  da  discorrere, 
inquirere,  informarsi,  addirizzarsi,  distendersi,  rimenarsi  et  accamparsi  con  al- 
tre considerazioni;  quando  determinando  del  tutto  secondo  il  nostro  lume  e 
propria  intenzione,  ne  esplicaremo  in  altri  et  altri  particulari  dialogi:  ne  li 
quali  l'universal  architettura  di  cotal  filosofia  verrà  pienamente  compita;  e 
dove  raggionaremo  più  per  modo  definitivo»:  Ibidem,  p.  180. 

72.  Cabala,  pp.  474-475. 

73.  Spaccio,  p.  179. 


INTRODUZIONE  33 

sere  la  cena  materiale  e  corporale,  tale  conseguentemente  succede  la  ver- 
bale e  spirituale:  cossi  dumque  questa  dialogale  ha  le  sue  parti  varie  e 
diverse,  qual  varie  e  diverse  quell'altra  suole  aver  le  sue;  non  altrimente 
questa  ha  le  proprie  condizioni,  circonstanze  e  mezzi,  che  come  le  proprie 
potrebbe  aver  quella.  [...]  Ivi  (come  è  l'ordinario  et  il  dovero)  soglion  tro- 
varsi cose  da  insalata  da  pasto,  da  frutti  da  ordinario,  da  cocina  da  spe- 
ciaria,  da  sani  da  amalati;  di  freddo  di  caldo,  di  crudo  di  cotto,  di  acqua- 
tico di  terrestre,  di  domestico  di  salvatico,  di  rosto  di  lesso,  di  maturo  di 
acerbo;  e  cose  da  nutrimento  solo  e  da  gusto,  sustanzioze  e  leggieri,  salse  et 
insipide,  agreste  e  dolci,  amare  e  suavi.  Cossi  quivi,  per  certa  conseguenza, 
vi  sono  apparse  le  sue  contrarietadi  e  diversitadi,  accomodate  a  contrarii  e 
diversi  stomachi  e  gusti,  a'  quali  può  piacere  di  farsi  presenti  al  nostro 
tipico  simposio:  a  fine  che  non  sia  chi  si  lamente  di  esservi  gionto  in  vano, 
et  a  chi  non  piace  di  questo,  prenda  di  quell'altro'''. 

I  dialoghi  londinesi,  insomma,  si  identificano  con  una  grande  ta- 
vola imbandita,  dove  la  varietas  dei  cibi  allude  alla  varietas  dei  conte- 
nuti e  degli  stili,  alle  molteplici  possibilità  di  scelta,  alla  necessaria 
compresenza  degli  opposti.  Un  ricco  e  «tipico  simposio»,  in  cui  non 
mancano  però  tutti  gli  imprevisti  che  talvolta  possono  capitare  agli 
invitati  mentre  consumano  un  pasto.  La  cena  dialogale,  infatti,  com- 
porta dei  rischi  proprio  come  quella  materiale.  Anche  durante  un  ban- 
chetto, la  gioia  porta  con  sé  il  dolore,  e  il  piacere  può  cedere  il  passo 
alla  sofferenza; 

Vedrai  che  né  in  questo  la  nostra  cena  è  dissimile  a  qualumqu'altra 
esser  possa.  Come  dumque  là  nel  più  bel  del  mangiare,  o  ti  scotta  qualche 
troppo  caldo  boccone,  di  maniera  che  bisogna  cacciarlo  de  bel  nuovo 
fuora,  o  piangendo  e  lagrimando  mandarlo  vagheggiando  per  il  palato,  sin 
tanto  che  se  gli  possa  donar  quella  maladetta  spinta  per  il  gargazzuolo  al 
basso;  o  vero  ti  si  stupefa  qualche  dente;  o  te  s'intercepe  la  lingua  che 
viene  ad  esser  morduta  con  il  pane;  o  qualche  lapillo  te  si  viene  a  rompere 
et  incalcinarsi  tra  gli  denti,  per  farti  regittar  tutto  il  boccone;  o  qualche 
pelo  o  capello  del  cuoco  ti  s'inveschia  nel  palato,  per  farti  presso  che  vo- 
mire; o  te  s'arresta  qualche  aresta  di  pesce  ne  la  canna,  a  farti  suavemente 
tussire;  o  qualch'ossetto  te  s'attraversa  ne  la  gola  per  metterti  in  pericolo 


74.  De  la  causa,  pp.  619-620.  Anche  Ronsard,  nella  raccolta  Discours  des 
Misères  de  ce  temps,  utilizza  la  metafora  del  simposio  per  indicare  la  ricchez- 
za dei  «cibi»  presentati  al  lettore:  P.  de  Ronsard,  CEuvres  complètes  cit,  t.  II, 
w.  17-24,  p.  1017.  Sul  topos  del  simposio  si  veda  Michel  Jeanneret,  Des  mets 
et  des  mots.  Banquets  et  propos  de  table  à  la  Renaissance,  Paris,  J.  Corti,  1987  (cfr. 
anche  Domenico  Musti,  //  simposio  nel  suo  sviluppo  storico,  Roma-Bari,  La- 
terza, 2001).  Per  l'uso  specifico  della  metafora  del  banchetto  nella  letteratura 
dialogica  cfr.  N.  Ordine,  Introduzione  a  T.  Tasso,  Dell'arte  del  dialogo  cit., 
pp.  28-29. 


34  INTRODUZIONE 

di  suffocare:  cossi  nella  nostra  cena  (per  nostra  e  comun  disgrazia)  vi  si 
son  trovate  cose  corrispondenti  e  proporzionali  a  quelle ^5. 

Dal  Candelaio  ai  Furori,  le  opere  italiane  si  presentano  come  teatro 
degli  opposti,  ma  anche  come  scena  della  vita.  Spettatori  e  lettori  -  o 
meglio:  lo  spettatore-lettore  e  il  lettore-spettatore  -  non  possono  fare  a 
meno  di  confrontarsi  con  una  realtà  agitata  dal  fluire  dei  contrari. 
Nessuna  cosa  può  essere  considerata  in  assoluto.  Quello  che  per  alcuni 
è  tragedia,  per  altri  è  commedia.  Ciò  che  può  suscitare  il  pianto  può, 
nello  stesso  tempo,  suscitare  il  riso.  Nell'universo  infinito,  come  ve- 
dremo, tutto  è  relativo,  ogni  giudizio  è  necessariamente  determinato 
da  uno  specifico  punto  di  vista 

La  funzione  gnoseologica  del  comico 

Adesso  il  filo  che  lega  le  opere  in  volgare  sembra  assumere  più  con- 
sistenza. La  provvisorietà  e  la  frammentarietà  dei  generi,  ma  anche 
dei  contenuti.  Dalla  commedia  all'ultimo  dialogo,  sembra  proprio  il 
comico  a  tenere  uniti  i  tessuti,  a  irrorare  la  lingua,  a  regolare  i  flussi 
sistolici  e  diastolici,  a  favorire  le  espansioni  e  le  contrazioni.  Bruno  lo 
ricorda,  ancora  una  volta,  senza  ambiguità  nel  De  la  causa: 

desidero  di  sapere,  se  fallano  coloro  che  dicono,  che  tu  fai  la  voce  di  un 
cane  rabbioso  et  infuriato,  oltre  che  tal  volta  fai  la  simia,  tal  volta  il  lupo, 
tal  volta  la  pica,  tal  volta  il  papagallo,  tal  volta  un  animale,  tal  volta  un 
altro:  meschiando  propositi  gravi  e  seriosi,  morali  e  naturali,  ignobili  e 
nobili,  filosofici  e  comici  ^'\ 

Sì,  il  Nolano  crea  questo  strano  ircocervo  fatto  di  filosofia  e  com- 
media, di  serio  e  comico,  di  riso  e  pianto.  Compie  un'operazione  che 
già  altri  avevano  intrapreso  prima  di  lui.  Luciano,  per  esempio,  ne 
rivendica  esplicitamente  la  paternità.  Ne  La  doppia  accusa  o  le  giurie, 
infatti,  immagina  di  essere  trascinato  in  un  tribunale  dal  Dialogo  in 
persona.  Davanti  ai  giudici,  viene  accusato  di  aver  contaminato  un 
genere  nobile  e  serio,  destinato  alle  cogitazioni  dei  filosofi,  con  un  ge- 
nere frivolo  ed  osceno  come  la  commedia: 

I  torti  e  le  offese  che  ho  subito  da  costui  consistono  in  questo,  che, 
mentre  prima  ero  una  persona  rispettabile  e  studiavo  gli  dèi  e  la  natura,  e 
i  cicli  periodici  dell'universo  camminando  su  in  aria  al  di  sopra  delle  nubi 
[...],  costui  di  sua  mano,  [...]  mi  frantumò  le  ali  ed  eguagliò  il  mio  genere  di 


75.  De  la  causa,  pp.  620-621. 

76.  Ibidem,  p.  619. 


INTRODUZIONE  35 

vita  a  quello  del  volgo;  mi  tolse  la  maschera  tragica  della  mia  saggezza  e 
me  ne  mise  un'altra,  comica  e  satirica,  quasi  ridicola.  [...]  La  cosa,  infatti, 
più  assurda  di  tutte  è  che  formo  un'incredibile  mescolanza  e  non  sono 
pedestre  e  non  vado  sui  metri,  ma  alla  maniera  di  un  ippocentauro  do 
l'impressione  agli  ascoltatori  di  un  mostro  fatto  di  pezzi  diversi,  mai  visto 
prima''. 

Lo  strano  «ippocentauro»  creato  da  Luciano  sarà  destinato  ad 
avere  una  buona  fortuna  nella  cultura  rinascimentale'^.  Anche  l'Are- 
tino, autore  molto  caro  al  Nolano,  spinge  le  strutture  del  dialogo  verso 
la  teatralità'''.  Ma  Bruno,  nel  fondere  i  due  generi,  va  al  di  là  di  uno 
schema  retorico  e  letterario.  Piega  il  suo  modello  a  rappresentare  una 
nuova  visione  del  mondo,  a  farsi  portatore  di  una  rivoluzione  filoso- 
fica. Attraverso  la  forza  corrosiva  del  comico  ci  fa  capire,  sin  dal  motto 
che  campeggia  sul  frontespizio  della  pièce  («In  tristitia  hilaris,  in  hila- 
ritate  tristis»)^°,  che  sarebbe  vano  tracciare  delimitazioni  nette  e  sicure 
nei  domini  della  letteratura,  della  natura  e  della  filosofia.  Abolizione  dei 
confini  nella  cosmologia,  negazione  delle  barriere  nella  poetica,  abbat- 
timento degli  steccati  nella  gnoseologia:  l'universo,  in  ogni  suo  aspetto, 
si  presenta  nella  sua  totale  unità.  Non  solo,  quindi,  commistione  tra 
dialogo  e  commedia,  ma  soprattutto  commistione  tra  i  saperi: 

Se  vi  occoreno  tanti  e  diversi  propositi  attaccati  insieme,  che  non  par 
che  qua  sia  una  scienza,  ma  dove  sa  di  dialogo,  dove  di  comedia,  dove  di 
tragedia,  dove  di  poesia,  dove  d'oratoria,  dove  lauda,  dove  vitupera,  dove 


77.  Luciano,  La  doppia  accusa  o  le  giurie,  in  Dialoghi,  a  cura  di  Vincenzo 
Longo,  Torino,  Utet,  1993,  t.  Ili,  p.  75.  Luciano  affronta  lo  stesso  tema  anche  in 
A  chi  gli  disse:  «Tu  sei  il  Prometeo  della  parola»:  «In  realtà  il  dialogo  e  la  com- 
media non  furono  originalmente  in  troppa  confidenza  ed  amicizia,  se  è  vero 
che  l'uno  svolgeva  le  sue  dispute  a  casa  solo  con  se  stesso  e,  tutt'al  più,  negli 
atrii  in  compagnia  di  pochi,  l'altra  invece,  consacratasi  a  Dioniso,  frequentava 
il  teatro  e  scherzava,  eccitava  il  riso  [...],  canzonava  i  seguaci  del  dialogo  chia- 
mandoli pensatori,  acchiappanuvole  e  cose  del  genere  [...].  Tuttavia  io  osai 
unire  ed  accordare  due  elementi,  i  cui  rapporti  reciproci  ho  illustrato  e  che  per 
di  più  ubbidivano  di  mala  voglia,  né  facilmente  si  rassegnavano  a  stare  in- 
sieme» (Ibidem,  t.  I,  1976,  pp.  93-95)- 

78.  Per  la  diffusione  di  Luciano  tra  Quattrocento  e  Cinquecento  si  vedano: 
Emilio  Mattioli,  Luciano  e  l'Umanesimo,  Napoli,  Istituto  per  gli  Studi  Storici, 
1980;  Christiane  Lauvergnat-Gagnière,  Lucien  de  Samosate  et  le  lucianisme 
en  France  au  XVF  siede,  Genève,  Droz,  1988. 

79.  Sugli  elementi  teatrali  dei  dialoghi  aretiniani  cfr.  Giulio  Ferroni,  fi 
teatro  della  Nanna,  in  Io.,  Le  voci  dell'istrione.  Pietro  Aretino  e  la  dissoluzione  del 
teatro,  Napoli,  Liguori,  1977,  pp.  136-202. 

80.  Pirandello,  nell'esprimere  la  sua  ammirazione  per  Bruno,  considerò 
questa  epigrafe  come  «il  motto  dello  stesso  umorismo»  (Luigi  Pirandello, 
L'umorismo  e  altri  saggi,  a  cura  di  Enrico  Ghidetti,  Firenze,  Giunti,  1994,  p.  99). 


36  INTRODUZIONE 

dimostra  et  insegna,  dove  ha  or  del  fisico,  or  del  matematico,  or  del  mo- 
rale, or  del  logico;  in  conclusione  non  è  sorte  di  scienza  che  non  v'abbia  di 
suoi  stracci  *^ 

«Stracci»  di  differenti  generi,  «stracci»  di  scienze  diverse:  una  filo- 
sofia fatta  di  frammenti,  è  vero,  ma  anche  travestita  di  scarti,  abbi- 
gliata in  costume,  presentata  in  «commedia».  Dal  Candelaio  ai  Furori, 
non  c'è  dubbio,  il  comico  assume  una  funzione  importantissima,  di- 
venta Io  strumento  principale  per  scardinare  luoghi  comuni,  regole 
senza  senso,  superflue  prescrizioni.  Bruno  se  ne  avvale  con  entusia- 
smo, sfruttando  la  sua  forza  corrosiva  per  mettere  in  crisi  quei  valori 
tradizionalmente  considerati  i  più  sicuri  e  i  più  saldi,  per  svelame  la 
natura  illusoria  e  l'assurda  pretesa  di  essere  percepiti  come  definitivi  e 
assoluti.  Ma  non  tutti  i  lettori-spettatori  sapranno  cogliere  il  senso  pro- 
fondo di  questo  meccanismo.  La  maschera  esteriore  della  pièce  e  dei 
dialoghi  finirà  necessariamente  per  selezionare  il  pubblico.  È  scritto  a 
chiare  lettere  nell'epistola-prologo  della  Cena,  primo  dialogo  in  volgare 
della  serie  londinese: 

Or  qua  se  vedrete  talvolta  certi  men  gravi  propositi,  che  par  che  deb- 
bano temere  di  farsi  innante  alla  superciliosa  censura  di  Catone,  non  du- 
bitate: perché  questi  Catoni  saranno  molto  ciechi  e  pazzi,  se  non  sapran 
scuoprir  quel  ch'è  ascosto  sotto  questi  Sileni.  [...]  Considerate  ancora  che 
non  v'è  parola  ociosa:  per  che  in  tutte  parti  è  da  mietere,  e  da  disotterrar 
cose  di  non  mediocre  importanza,  e  forse  più  là  dove  meno  appare ®2. 

La  poetica  del  Sileno 

La  poetica  dei  Sileni  non  riguarda  solo  la  distinzione  dei  generi 
letterari,  ma  si  configura  soprattutto  come  metodo  per  conoscere,  come 
ermeneutica  dei  testi  e  delle  cose.  La  lezione  di  Alcibiade  su  Socrate 
lascia  un  segno  profondo.  Basta  prendere  in  mano  una  di  quelle  sta- 
tuette dell'antica  Grecia  per  capire  il  meccanismo:  un  comico  Sileno, 
raffigurato  all'esterno,  nasconde  al  suo  intemo  la  divinità.  Bisogna  ne- 
cessariamente oltrepassare  la  scorza  per  vedere  e  per  capire.  Così,  chi 
vuole  giudicare  il  padre  dei  filosofi  non  può  farlo  fidandosi  delle  rozze 
regole  della  fisiognomica.  Lo  stesso  principio  vale  per  i  suoi  ragiona- 
menti: dall'aspetto  esteriore  «apparirebbero  molto  ridicoli»,  ma  «chi  li 
vede  aperti  e  vi  si  addentri,  anzitutto  troverà  che  sono  i  soli  discorsi 


81.  Cena,  p.  438. 

82.  Ibidem. 


INTRODUZIONE  37 

che  al  loro  intemo  abbiano  un  intendimento»'^'.  In  molti,  tra  Quattro 
e  Cinquecento,  si  ricorderanno,  per  ragioni  diverse,  di  questa  stupenda 
immagine  platonica:  Pico,  nella  polemica  con  Ermolao  Barbaro,  per 
rivendicare  il  primato  della  filosofia  sulla  retorica,  delle  res  sui  verba^'*; 
Erasmo,  nel  suo  Sileni  Alcibiadis,  per  denunciare  i  falsi  sapienti  ^5.  Ra- 
belais, nel  prologo  del  Gargantua,  per  svelare  il  potere  terapeutico  del 
riso^^.  Ma  anche  Pierre  de  Ronsard^^  e  Torquato  Tasso '^^  ne  faranno 
uso  nelle  loro  poesie. 

Bruno,  come  è  suo  costume,  si  impossessa  del  topos.  Lo  inserisce  nel 
suo  sistema  di  pensiero  e,  soprattutto,  lo  mette  in  relazione  con  altri 
segni  disseminati  in  altri  luoghi  strategici  delle  sue  opere.  Ne  fa,  insom- 
ma, uno  strumento  ermeneutico  per  spiegare  il  funzionamento  dei  suoi 
testi  e  del  mondo.  In  entrambe  le  situazioni,  nella  letteratura  e  nella 
vita,  non  bisogna  fidarsi  delle  apparenze.  Rinunciare  al  movimento, 
per  restare  immobili  sulla  superficie,  significherebbe  vivere  perenne- 
mente nell'inganno.  Senza  lo  sforzo  di  aprire  il  Sileno,  si  resterebbe  pri- 
gionieri nel  fitto  labirinto  di  illusioni  che  domina  l'universo.  Bisogna 
andare  al  di  là  dell'involucro  per  cogliere  la  reale  essenza  delle  cose: 

Cossi  dumque  lasciaremo  la  moltitudine  ridersi,  scherzare,  burlare  e 
vagheggiarsi  su  la  superficie  de  mimici,  comici  et  istrionici  Sileni,  sotto  gli 
quali  sta  ricoperto,  ascoso  e  sicuro  il  tesoro  della  bontade  e  veritade:  come 
per  il  contrario  si  trovano  più  che  molti,  che  sotto  il  severo  ciglio,  volto 
sommesso,  prolissa  barba,  e  toga  maestrale  e  grave,  studiosamente  a  danno 
universale  conchiudeno  l'ignoranza  non  men  vile  che  boriosa,  e  non 
manco  perniciosa  che  celebrata  ribaldaria^^. 


83.  Platone,  Simposio,  in  Dialoghi  filosofici,  a  cura  di  Giuseppe  Cambiano, 
Torino,  Utet,  1981,  voi.  II,  (221  e-222  a),  p.  147. 

84.  Ermolao  Barbaro  -  Giovanni  Pico  della  Mirandola,  Filosofia  o  elo- 
quenza?, a  cura  di  Francesco  Bausi,  NapoH,  Liguori,  1998,  pp.  48-49. 

85.  Erasmo  da  Rotterdam,  /  Sileni  di  Alcibidiabe,  introduzione  e  note  di 
Jean-Claude  Margolin,  traduzione  di  Stefano  U.  Baldassarri,  Napoli,  Liguori, 
2002. 

86.  Rabelais,  Les  cinq  livres,  édition  critique  de  Jean  Céard,  Gerard  Defaux 
et  Michel  Simonin,  préface  de  Michel  Simonin,  Paris,  Le  livre  de  Poche,  1994, 
pp.  5-7  (trad.  it.:  Francois  Rabelais,  Gargantua  e  Pantagruel,  a  cura  di  Mario 
Bonfantini,  Torino,  Einaudi,  1973,  t.  I,  p.  7). 

87.  P.  de  Ronsard,  La  lyre,  in  Qìuvres  complètes,  t.  II,  w.  157-171,  pp.  692-693. 

88.  Torquato  Tasso,  Gerusalemme  liberata,  prefazione  e  note  di  Lanfranco 
Caretti,  Torino,  Einaudi,  1980  (XVIII,  30),  vv.  1-6,  p.  545. 

89.  Spaccio,  p.  9.  Bruno  aveva  già  fatto  allusione  ai  Sileni  nella  Cena:  «Or 
qua  se  vedrete  talvolta  certi  men  gravi  propositi,  che  par  che  debbano  temere 
di  farsi  innante  alla  superciliosa  censura  di  Catone,  non  dubitate:  perché  que- 
sti Catoni  saranno  molto  ciechi  e  pazzi,  se  non  sapran  scuoprir  quel  ch'è  cisco- 
sto  sotto  questi  Sileni»  (p.  438).  Il  topos  ritoma  anche  nelle  opere  latine:  nel- 
l'Acrotismus  camoeracensis  («quantumlibet  enim  sub  sylenis  merces  preciosis- 


38  INTRODUZIONE 

I  veri  filosofi,  come  i  dottori  oxoniensi  insegnano,  non  si  distin- 
guono dalla  toga  e  dagli  anelli.  Non  a  caso,  nel  suo  autoritratto  del 
Candelaio,  l'autore  si  descrive  come  uno  «ch'have  una  fisionomia 
smarrita»  e  che  «par  che  sempre  sii  in  contemplazione  delle  pene  del- 
l'inferno; par  sii  stato  alla  pressa  come  le  barrette:  un  che  ride  sol  per 
far  comme  fan  gli  altri;  per  il  più  lo  vedrete  fastidito,  restio  e  bizarro: 
non  si  contenta  di  nulla,  ritroso  come  un  vecchio  d'ottant'anni,  fanta- 
stico com'un  cane  ch'ha  ricevute  mille  spellicciate,  pasciuto  di  cipol- 
la »^°.  Bruno  si  presenta  con  abiti  umili,  veste  i  panni  dell'istrione,  si 
dipinge  come  un  ridicolo  Sileno"^'.  Applica  a  se  stesso  il  medesimo 
principio  ermeneutico. 

Un'immagine  esteriore  comica,  quindi,  non  esclude  un  progetto  fi- 
losofico, una  nuova  visione  del  mondo.  Anzi,  se  bisogna  diffidare  del- 
l'involucro, si  troverà  ciò  che  si  cerca  proprio  «più  là  dove  meno  ap- 
pare» ^2  La  paradossalità  del  Sileno  si  presta  molto  bene  al  gioco  di 
Bruno.  La  tecnica  del  rovesciamento  ribalta  i  punti  di  vista,  libera  i 


sima  occultetur,  sub  ipsa  tamen  apparenti  impossibilium  assertionum  facie 
divinum  illud  veritatis  specimen  sublatescens,  quod  vilissima  credendi  con- 
suetudo  in  multicurva  obliquaque  speculi  superficie  contortum  intuetur,  in 
apertum,  amotis  ipsis  fallacibus  intermediis,  evadat»,  Opp.  lai.,  I,  i,  p.  62), 
nel  De  immenso  («gratae  sub  echinorum  asperitate  castaneae  absconduntur, 
subque  silenis  preciosissimae  quandoque  merces  occultantur.»  [«eccellenti  ca- 
stagne si  nascondono  sotto  l'irtosità  dei  ricci,  sostanze  assai  preziose  sotto  i 
sileni»],  Opp.  lai.,  I,  i,  p.  208;  trad.  it:  Giordano  Bruno,  L'immenso  e  gli  innu- 
merevoli, in  Opere  latine,  a  cura  di  Carlo  Monti,  Torino,  Utet,  1980,  p.  424)  e 
nell'Idiota  triumphans  («Caute  igitur  huius  divini  verba  capienda  sunt  ut  non 
secundum  rationem  quae  est  in  superficie  verborum  ad  propositum  disciplinae 
referantur,  sed  perpetuo  ad  divinae  lucis  sensum  qui  sub  illis  umbris,  formo- 
sissimasque  species  quae  sub  illis  silenis,  suavissimumque  nucleum  sub  illis 
contentum  corticibus,  animum  advertant»:  Giordano  Bruno,  Due  dialoghi 
sconosciuti  e  due  dialoghi  noti,  a  cura  di  Giovanni  Aquilecchia,  Roma,  Edizioni 
di  Storia  e  Letteratura,  1957,  p.  n).  Per  un'analisi  del  simbolo  del  Sileno  in 
Bruno  cfr.  N.  Ordine,  L'asino  come  i  sileni:  le  apparenze  ingannano,  in  Id.,  La 
cabala  dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  109- 11 8. 

90.  Candelaio,  p.  275. 

91.  Così  Bruno  si  descrive  in  un  passaggio  àtWOratio  valedictoria:  «cum  ad 
vos  prò  laribus  vestris  pellustrandis  pervenissem,  natione  exterus,  exul,  tran- 
sfuga, ludicrum  fortunae,  corpore  pusillus,  rerum  possessione  tennis,  favore  de- 
stitutus,  multitudinis  odio  pressus,  et  ideo  stultis  et  ignobilissimis  illis  con- 
temptibilis,  qui  nusquam  nobilitatem  agnoscunt,  nisi  ubi  aurum  fulget,  tinnit 
argentum  (...)»  [«essendo  io  venuto  per  vedere  i  vostri  lari,  sebbene  fossi  di 
nazione  forestiero,  esule,  fuggiasco,  zimbello  della  fortuna,  piccolo  di  corpo, 
scarso  di  beni,  privo  di  favore,  premuto  dall'odio  della  folla,  quindi  disprezza- 
bile agli  stolti  e  a  quegli  ignobilissimi  che  non  riconoscono  nobiltà  se  non 
dove  splende  l'oro,  tinnisce  l'argento  (...)»]  {Opp.  lai,  I,  i,  pp.  22-23;  trad.  it: 
Opere  di  Giordano  Bruno  e  Tommaso  Campanella,  a  cura  di  Augusto  Guzzo  e  di 
Romano  Amerio,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1956,  p.  687-689).  Si  veda  anche  il 
«ritratto»  del  furioso  abbozzato  nei  Furori:  cfr.  infra,  p.  155. 

92.  Cena,  p.  438. 


INTRODUZIONE  39 

concetti  dalle  catene  di  una  vecchia  logica,  impone  una  nuova  dialet- 
tica tra  intus  ed  extra.  Su  queste  basi  si  gioca  la  nostra  comprensione 
del  mondo  e  dei  testi  che  questo  mondo  descrivono.  Ecco  perché  i 
dialoghi  londinesi,  come  del  resto  la  sua  unica  commedia,  potranno 
essere  recepiti  e  giudicati  nella  più  contraria  maniera: 

ecco  a  voi  presento  questo  numero  de  dialogi,  li  quali  certamente  sa- 
ranno cossi  buoni  o  tristi,  preggiati  o  indegni,  eccellenti  o  vili,  dotti  o 
ignoranti,  alti  o  bassi,  profittevoli  o  disutili,  fertili  o  sterili,  gravi  o  disso- 
luti, religiosi  o  profani:  come  di  quei,  nelle  mani  de  quali  potran  venire, 
altri  son  de  l'una,  altri  de  l'altra  contraria  maniera ''^ 

Dal  Candelaio  ai  Furori;  un  disegno  filosofico  unitario 

Sull'ermeneutica  del  Sileno,  sulla  necessità  di  distinguere  realtà  ed 
apparenza,  Bruno  traccia  una  linea  che  dal  Candelaio  arriva  fino  ai 
Furori  Lungo  questo  asse,  il  comico  si  scatena  in  azioni  centrifughe  e 
centripete,  unificanti  e  dissolventi.  Separare  la  pièce  dal  resto  delle 
opere  londinesi,  come  più  volte  a  sproposito  è  stato  fatto,  significa  re- 
stare imprigionati  all'interno  di  banali  categorie  che  distinguono  rigi- 
damente la  letteratura  dalla  filosofia''"'.  Non  è  vero.  La  commedia  è 
intrisa  di  filosofia  e  la  filosofia  è  intrisa  di  commedia.  Riunificare  que- 
sti sette  testi  però,  non  significa  perdere  di  vista  specificità  e  diffe- 
renze. Il  Candelaio,  in  fondo,  rappresenta  uno  stadio  iniziale,  testimo- 
nia una  fase  aurorale,  si  configura  come  una  vera  e  propria  ouverture: 
contiene  in  maniera  meno  definita,  come  vedremo  tra  poco,  una  serie 
di  motivi  che  troveranno  organico  sviluppo  nelle  opere  londinesi '5. 
Qui  il  Nolano,  rinunciando  necessariamente  al  rigore  argomentativo, 
si  limita  ad  abbozzare  alcune  melodie  che  saranno  riprese  e  svolte 
nella  complessa  orchestrazione  polifonica  dei  sei  successivi  movimenti 
in  volgare. 


93.  Spaccio,  p.  172. 

94.  In  effetti  già  Giovanni  Gentile,  rispetto  agli  editori  ottocenteschi,  se- 
para i  dialoghi  italiani  dalla  commedia,  pubblicando  i  primi  nella  serie  dei 
«Classici  della  filosofia  moderna»  e  la  seconda,  a  cura  di  Vincenzo  Spampa- 
nato, in  un  volume  fuori  collana.  Questa  «scelta»  è  analizzata  criticamente  da 
Eugenio  Canone  nella  sua  Nota  introduttiva  a  Giordano  Bruno,  Opere  ita- 
liane. Ristampa  anastatica  delle  cinquecentine,  a  cura  di  E.  Canone,  Firenze,  01- 
schki,  1999,  voi.  I,  pp.  XVI-XXI.  L'espunzione  del  Candelaio  dal  corpus  delle 
opere  italiane  è  mantenuta  anche  nel  recente  volume  Giordano  Bruno,  Dia- 
loghi filosofici  italiani,  a  cura  e  con  un  saggio  introduttivo  di  Michele  Ciliberto, 
Milano,  Mondadori,  2000. 

95.  Alla  metafora  musicale,  in  relazione  al  Candelaio,  ha  fatto  anche  ricorso 
P.  R.  Blum  nel  suo  intervento  tenuto  a  Wittenberg  nel  corso  del  convegno 
Giordano  Bruno  und  Wittenberg:  1586-1588  (Wittenberg,  8-11  ottobre  2000). 


40  INTRODUZIONE 

Tra  Parigi  e  Londra,  in  effetti,  Bruno  attiva  un  arco  voltaico:  apre 
con  una  commedia-filosofica  e  chiude  con  un  dialogo  dove  si  commen- 
tano filosoficamente  alcune  poesie.  Genera  abilmente  un'energia  che, 
sprigionandosi  dal  collegamento  di  questi  due  poli,  alimenta  l'intera 
catena  delle  opere  in  volgare.  Separare  le  forme  letterarie  dalla  cono- 
scenza, la  lingua  dal  pensiero,  significherebbe  interrompere  il  circuito, 
spezzare  i  fili.  Significherebbe  non  capire,  per  esempio,  la  lunga  serie 
di  versi  che  precedono  puntualmente  i  dialoghi  e  restare  disorientati 
di  fronte  alla  complessa  architettura  dei  Furori.  Certo,  Bruno  si  con- 
geda da  Londra  con  un'opera  di  poesia.  Fa  coincidere  le  ultime  pagine 
della  sua  «nolana  filosofia»  in  volgare  con  un  commento  ai  componi- 
menti di  un  furioso.  Fa  convergere  in  un  «canzoniere»  l'ultimo  tratto 
di  una  parabola  che  salda,  nel  movimento  circolare,  l'alfa  e  l'omega, 
l'inizio  e  la  fine,  la  letteratura  e  la  filosofia. 

Adesso  sarà  più  facile  pensare  ai  dialoghi  come  a  un  solo  corpus, 
animato  da  una  straordinaria  forza  unificatrice.  Bruno,  infatti,  li  con- 
cepisce all'interno  di  un  unico  disegno.  Ci  offre  lui  stesso,  come  Spam- 
panato aveva  già  segnalato '^6,  la  vera  cronologia,  l'ordine  sequenziale 
della  lettura.  Nel  De  la  causa  si  rievoca  la  Cena  («nel  primo  dialogo 
avete  una  apologia,  o  qualch'altro  non  so  che,  circa  gli  cinque  dialogi 
intomo  la  cena  de  le  ceneri»)''^,  nel  De  l'infinito  si  fa  riferimento  al  De 
la  causa  («quello  che  è  seminato  ne  gli  dialogi  De  la  causa,  principio  et 
uno,  nato  in  questi  De  l'infinito,  universo  e  mondi,  per  altri  germoglie, 
per  altri  cresca,  per  altri  si  mature,  per  altri  mediante  una  rara  mieti- 
tura ne  addite,  e  per  quanto  è  possibile  ne  contente »)'^  nella  Cabala  si 
parla  dello  Spaccio  («al  cavallier  Sidneo,  al  quale  ho  dedicata  la  Bestia 
trionfante »)'^'^  e  soprattutto  si  chiarisce  l'enigma  lasciato  in  sospeso  nel 
corso  della  riforma  celeste  voluta  da  Giove '°°,  nei  Furori,  infine,  si  rin- 
via alla  Cabala  («Da  qua  si  vede  che  l'ignoranza  è  madre  della  felicità 
e  beatitudine  sensuale,  e  questa  medesima  è  l'orto  del  paradiso  de  gli 


96.  Cfr.  V.  Spampanato,  Vita  di  Giordano  Bruno  con  documenti  editi  ed  ine- 
diti cit,  p.  324,  nota  2.  Su  questi  rinvii  intemi  si  è  soffermato  recentemente  E. 
Canone  nella  sua  Nota  introduttiva  a  Giordano  Bruno,  Opere  italiane.  Ri- 
stampa anastatica  delle  cinquecentine  cit..  pp.  XXIV-XXVII. 

97.  De  la  causa,  p.  597.  Ma  un'altra  esplicita  citazione  è  nel  dialogo  primo, 
a  p.  619:  «con  che  voci  volete  che  sia  saiutato  particolarmente  da  noi  quel 
lustro  di  dottrina,  che  esce  dal  libro  de  La  cena  de  le  ceneri?  quali  animali  son 
quelli,  che  hanno  recitata  La  cena  de  le  ceneri?». 

98.  De  l'infinito,  p.  28. 

99.  Cabala,  p.  412. 

100.  La  Cabala,  in  effetti,  si  presenta  come  una  continuazione  dello  Spaccio 
sul  tema  dell'asinità.  L'assegnazione  della  sedia  celeste  più  eminente,  occupata 
dall'Orsa  maggiore,  troverà  proprio  in  questo  dialogo  il  suo  compimento:  cfr. 
infra  (p.  116)  il  paragrafo  dedicato  a  La  «Cabala»  e  le  due  asinità. 


INTRODUZIONE  4I 

animali;  come  si  fa  chiaro  nelli  dialogi  de  la  Cabala  del  cavallo  Pega- 
seo»)^^K  Una  catena  di  citazioni  che  include  in  partenza  anche  il  Can- 
delaio, esplicitamente  ricordato  nell'epistola  proemiale  della  Cena 
(«non  d'un  Bonifacio  Candelaio,  per  una  comedia»)'°^. 

Qui  non  è  tanto  importante  il  gioco  di  allusioni  che  passa  da  un 
testo  all'altro.  In  molti  lavori  di  Bruno  è  possibile  ritrovare  tracce  e 
agganci  ad  opere  già  pubblicate  o  da  pubblicare.  Ma  è  indiscutibile 
che  questa  rigorosa  successione  dei  dialoghi  assuma  un  valore  ancora 
più  consistente,  se  considerata  come  elemento  simbolico  di  un  disegno 
organico.  Il  Nolano,  infatti,  segue  un  procedimento  ben  definito.  Ina- 
nella i  testi  con  particolare  abilità.  Getta  prima  le  basi  della  sua  co- 
smologia infinitistica.  E  dopo  aver  liberato  l'universo  dalle  catene  del 
geocentrismo,  cerca  di  liberare,  con  movimenti  successivi  e  conseguen- 
ziali,  la  materia,  l'etica,  l'estetica  e  la  conoscenza.  L'ordine  dei  dialoghi 
non  è  affidato  al  caso  o  alle  contingenze.  Bruno  scrive  la  Cena  ed  ha 
già  in  mente,  per  grandi  linee,  i  Furori.  Parte  dalla  filosofia  della  na- 
tura, passa  per  la  filosofia  morale  e  approda  alla  filosofia  contempla- 
tiva. Segue  uno  schema  ascendente  ben  preciso,  frutto  di  un  pro- 
gramma coerente  e  predeterminato.  Vuole  dar  prova  di  sé,  coprendo 
l'intero  percorso  del  sapere.  Vuole  dialogare,  in  quegli  anni  particolar- 
mente fecondi  della  sua  produzione  intellettuale,  con  filosofi  e  letterati 
che  operano  soprattutto  a  Parigi  e  a  Londra. 

Il  genere  dialogo  si  presta  facilmente  a  questo  scopo.  La  sua  strut- 
tura duttile  gli  consente  di  inserire  nel  canovaccio  teorico  elementi  di 
attualità  che  fanno  presa  diretta  sulla  realtà  londinese.  I  contesti  delle 
opere  in  volgare,  veri  o  falsi  che  siano,  non  debbono  trarre  in  inganno. 
Bruno  non  aspettava  certo  la  cena  con  i  dottori  oxoniensi  per  espri- 
mere la  sua  nuova  cosmologia.  La  disputa  si  presenta  come  un'occa- 
sione («quelli  che  n'han  donato  occasione  di  far  il  dialogo») '°^  come 
un  evento  di  cronaca  che  consente  all'autore  di  amalgamare  abilmente 
la  sua  interpretazione  dell'eliocentrismo  con  un'analisi  spietata  del  de- 
grado delle  università  inglesi.  Lo  sfondo  realistico  di  alcune  circo- 
stanze però  non  può  farci  credere  che  il  Nolano  si  limiti,  come  un 
notaio,  a  registrare  i  contenuti  delle  conversazioni.  Non  bisogna  rele- 
gare lo  scheletro  filosofico  dell'opera  nell'angusto  spazio  della  situa- 
zione dialogica.  L'intervento  a  caldo  rivela,  invece,  l'abilità  dell'autore 
nello  sfruttare  fino  in  fondo  le  potenzialità  di  un  genere  aperto  all'im- 


loi.  Furori,  p.  544. 

102.  Cena,  p.  432. 

103.  Ibidem,  p.  438. 


42  INTRODUZIONE 

mediata  attuai izzazione  dei  contenuti"^.  A  Londra  avrà  certamente 
discusso  di  quei  temi  così  scottanti  con  vari  interlocutori  ed  è  normale 
che  diversi  passaggi  testuali  siano  segnati  da  queste  esperienze  dirette. 
Ma  i  nuclei  vitali  della  sua  filosofia  erano  già  lì,  come  in  un  brogliac- 
cio, pronti  per  essere  limati,  perfezionati,  ripensati  in  questo  o  in  quel 
passaggio. 

A  Londra,  insomma,  si  consolida  e  si  consuma  un'esperienza  già 
iniziata  a  Parigi  con  il  Candelaio.  Sotto  il  tetto  di  Michel  de  Castelnau 
il  Nolano  lavora  sodo.  Pensa,  scrive,  rielabora,  corregge,  rivede.  Segue 
personalmente,  come  Aquilecchia  ha  magistralmente  dimostrato,  la 
stampa  dei  suoi  testi  sui  banchi  di  John  Charlewood  '"'.  Ma  lavora  su 
un  canovaccio  organico,  su  un  programma  globale  che  dal  primo  dia- 
logo include  anche  l'ultimo '°''. 


III. 

GLI  INGANNI  DELL'IGNORANZA: 

IL  CANDELAIO  TRA  REALTÀ  E  APPARENZA 

Bruno  inaugura  a  Parigi  la  stagione  in  volgare  con  una  commedia. 
Vuole  dare  un  primo  assaggio  della  sua  filosofia  in  una  chiave  esplici- 
tamente comica.  Una  vera  e  propria  ouverture,  dicevamo,  capace  di 
anticipare  alcuni  temi  forti  del  suo  pensiero  e,  nello  stesso  tempo,  in 
grado  di  tracciare  per  grandi  linee  i  princìpi  generali  di  una  poetica. 
L'ermeneutica  del  Sileno,  che  caratterizzerà  l'intera  produzione  dialo- 
gica, trova  già  nel  Candelaio  la  sua  prima  formulazione.  Bisogna  pren- 
dere le  mosse  dal  comico  per  cogliere  i  meccanismi  che  regolano  la 
funzione  del  modello. 


104.  Sul  dialogo  come  strumento  di  divulgazione  scientifica,  da  Galilei  alla 
prima  metà  del  Settecento,  mi  permetto  di  rinviare,  soprattutto  per  i  rimandi 
bibliografici,  a  N.  Ordine,  Il  genere  dialogo  tra  latino  e  volgare,  in  Manuale  di 
letteratura  italiana.  Storia  per  Generi  e  Problemi  cit,  pp.  500-504. 

105.  Giovanni  Aquilecchia,  Le  opere  italiane  di  Giordano  Bruno.  Critica 
testuale  e  oltre,  Napoli,  Bibliopolis,  1991. 

106.  Sull'unità  organica  dei  dialoghi  italiani  hanno  insistito,  con  diverse 
argomentazioni,  anche  Miguel  Angel  Granada  [Introdudion  à  Giordano 
Bruno,  Des  furéurs  héroìques.  (Euvres  complètes.  VII,  texte  établi  par  Giovanni 
Aquilecchia,  introduction  et  notes  de  Miguel  Angel  Granada,  traduction  de 
Paul-Henri  Michel  revue  par  Yves  Hersant,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1999,  pp. 
XXXIX-LVI)  e  Alfonso  Ingegno  {Regia  pazzia.  Bruno  lettore  di  Calvino,  Urbino, 
QuattroVenti,  1987,  pp.  143-148). 


INTRODUZIONE  43 

Innanzitutto,  occorre  affrontare  l'enigmatica  struttura  tripartita 
della  commedia  Perché  intrecciare  tre  storie  all'interno  di  un'unica 
pièce}  Si  tratta  di  una  scelta  casuale  o  di  un  disegno  ben  meditato? 
Senza  tirare  in  ballo  ipotesi  numerologiche  o  esoterismi  trinitari,  si 
potrebbe  supporre  che  Bruno  abbia  voluto  semplicemente  mettere  in 
scena  tre  personaggi-tipo  del  teatro  cinquecentesco:  l'innamorato,  l'al- 
chimista e  il  pedante.  Ma  perché  proprio  questi  tre,  fra  i  tanti  di  cui  si 
sarebbe  potuto  servire?  E  poi,  ritornando  al  quesito  di  partenza, 
perché  tre  e  non  quattro  o  cinque  o  due? 

Probabilmente,  una  risposta  potrebbe  venire  da  un'analisi  delle 
teorie  del  comico.  Rileggere  la  trattatistica  sui  meccanismi  che  susci- 
tano il  riso  non  significa  limitarsi  alle  poche  righe  dedicate  alla  com- 
media nella  Poetica  di  Aristotele.  A  fianco  della  tesi  dominante  dello 
Stagirita,  su  cui  ci  soffermeremo  più  avanti,  nel  dibattito  cinquecente- 
sco bisogna  anche  registare  la  diffusa  presenza,  implicita  o  esplicita, 
del  Filebo  di  Platone,  già  pubblicato  in  latino  nel  1484  da  Marsilio 
Ficino'°^.  Nella  Lezione  sopra  il  comporre  delle  novelle  (1574),  per  esem- 
pio, Francesco  Bonciani,  pur  avvalendosi  della  precettistica  aristote- 
lica, ricorre  al  dialogo  platonico  per  offrire  uno  schema  dei  meccani- 
smi che  provocano  il  riso"'^.  La  stessa  scelta  avevano  compiuto,  in 
maniera  più  o  meno  sfumata,  il  Maggi,  il  Trissino  e  il  Ccistelvetro  nei 
loro  commenti  alla  Poetica'^^'^. 

n  Filebo  di  Platone  e  la  «non  conoscenza  di  sé» 

Le  pagine  del  Filebo  sul  comico  presentano,  infatti,  una  serie  di  ri- 
flessioni caratterizzate  dall'intreccio  tra  filosofia  e  letteratura.  Socrate, 
nel  corso  del  dialogo,  analizza  il  concetto  di  «bene»,  ridiscutendo  le 
definizioni  correnti  di  piacere,  di  gioia,  di  godimento.  E  per  fornire  un 
esempio  della  compresenza  di  piacere  e  di  dolore  nell'anima  si  sof- 


107.  Sulla  traduzione  del  Filebo  realizzata  da  Ficino  rinviamo  alla  detta- 
gliata analisi  di  Ernesto  Berti,  Osservazioni  filologiche  alla  versione  del  Filebo 
di  Marsilio  Ficino,  in  E  Filebo  di  Platone  e  la  sua  fortuna.  Atti  del  convegno  di 
Napoli  4-6  novembre  1993,  a  cura  di  Paolo  Cosenza,  Napoli,  M.  D'Auria  Edi- 
tore, 1996,  pp.  93-167. 

108.  Francesco  Bonciani,  Lezione  sopra  il  comporre  delle  novelle,  in  Nuc- 
cio Ordine,  Teoria  della  novella  e  teoria  del  riso  nel  Cinquecento,  Napoli,  Liguori, 
1996,  pp.  121-124.  SulFaristotelismo  di  Bonciani  cfr.  Trattati  di  poetica  e  di  re- 
torica del  Cinquecento,  a  cura  di  Bernard  Weinberg,  Bari,  Laterza,  1972,  t.  Ili, 
pp.  493-494.  ,      „     „ 

109.  Sulla  presenza  del  Filebo  nei  commenti  cmquecenteschi  alla  Poetica  di 
Aristotele  cfr.  Nuccio  Ordine,  Teoria  della  novella  e  teoria  del  riso  nel  Cinque- 
cento cit,  pp.  76-82. 


44 


INTRODUZIONE 


ferma  sulla  natura  degli  spettacoli  teatrali  («E  la  disposizione  della 
nostra  anima  nelle  commedie,  tu  sai  che  in  questi  casi  c'è  una  mesco- 
lanza di  dolore  e  di  piacere»)  "°.  Proprio  l'interesse  per  la  commistione 
di  affezioni  opposte  -  come  il  riso  e  il  pianto,  per  esempio,  possano 
combinarsi  «nell'intera  tragedia  e  commedia  della  vita»'"  -,  spinge 
Platone  a  esaminare  i  meccanismi  che  scatenano  il  ridicolo.  Si  tratta 
di  una  breve  ed  intensa  digressione  (47d-5oe),  in  cui  viene  formulata 
per  la  prima  volta  una  spiegazione  che  mette  in  gioco  contemporanea- 
mente la  vittima,  l'autore  e  lo  spettatore  "2. 

Socrate,  per  persuadere  il  suo  interlocutore,  fissa  in  una  celebre 
immagine  la  causa  del  ridicolo:  per  capire  bene  cosa  accade,  sulla 
scena  teatrale  e  sulla  scena  della  vita,  bisogna  pensare  la  «situazione 
contraria  a  quella  indicata  dall'iscrizione  di  Delfi»  "^.  In  effetti,  l'ele- 
mento che  scatena  il  riso  viene  provocato  dalla  «non  conoscenza  di 
sé»,  da  un  vizio  dell'anima  che  genera  false  opinioni  sul  proprio 
valore.  Una  sorta  di  pericolosa  ignoranza  che  si  esplica  in  tre  ambiti 
ben  precisi: 

a)  la  prima  riguarda  la  ricchezza,  i  beni  di  fortuna:  crediamo  di 
essere  ricchi  più  di  quanto  in  realtà  non  siamo  («In  primo  luogo  per 
quanto  riguarda  le  ricchezze,  credendosi  più  ricco  di  quanto  comporti 
la  sua  sostanza»)  "■••, 

b)  la  seconda  si  basa  sulle  qualità  del  corpo:  crediamo  di  essere 
belli  o  forti  più  di  quanto  in  realtà  non  siamo  («Ma  più  numerosi  sono 
quelli  che  si  credono  più  grandi  e  più  belli  e  superiori  in  ogni  qualità 
corporea  rispetto  a  quello  che  sono  veramente») "'; 

e)  la  terza  investe  le  qualità  dell'anima:  crediamo  di  essere  vir- 
tuosi più  di  quanto  in  realtà  non  siamo  («Ma  di  gran  lunga  più  nume- 
rosi, credo,  sono  quelli  che  si  sbcigliano  a  proposito  del  terzo  aspetto, 


no.  Platone,  Filebo,  in  Dialoghi  filosofici,  a  cura  di  Giovanni  Cambiano, 
Torino,  Utet,  1981,  t.  II  (48  a),  p.  541. 

111.  Ibidem  (5ob),  p.  544. 

112.  Per  un'analisi  di  questi  passaggi  del  Filebo  si  vedano  almeno:  M.  Ma- 
DER,  Das  Problem  des  Lachens  und  der  Komódie  bei  Platon,  Stuttgart,  W. 
Kohlhammer,  1977,  pp.  13-28;  Salvatore  Cerasuolo,  La  teoria  del  comico  nel 
«Filebo»  di  Platone,  Napoli,  Turris  Eburnea,  1980;  Giulio  Ferroni,  Frammenti 
di  un  discorso  sul  comico,  in  AA.VV.,  Ambiguità  del  comico,  Palermo,  Sellerio, 
1983,  pp.  19-23;  N.  Ordine,  Teoria  della  novella  e  teoria  del  riso  nel  Cinquecento 
cit,  pp.  3-7;  Anne  Gabriele  Wersinger,  Comment  dire  l'envie  jalouseP,  in  La 
fèlure  du  plaisir.  Études  sur  le  Philèbe  de  Platon,  commentaires  sous  la  direction 
de  Monique  Dixsaut,  Paris,  Vrin,  1999,  voi.  i,  pp.  319-328. 

113.  Platone,  Filebo  in  Dialoghi  filosofici  cit  (48  c-d),  p.  542. 

114.  Ibidem  (48  e),  p.  542. 

115.  Ibidem. 


INTRODUZIONE  45 

quello  delle  proprietà  dell'anima,  credendosi  migliori  per  virtù,  senza 
esserlo  »)''^ 

Il  ridicolo,  secondo  l'interpretazione  proposta  da  Socrate,  nasce 
dallo  scarto  che  si  crea  tra  ciò  che  noi  crediamo  di  essere  e  ciò  che  in 
effetti  siamo.  Chi  provoca  il  riso,  insomma,  ostenta  una  presunzione  di 
superiorità  che  viene  smentita  dall'evidenza  dei  fatti,  dalla  realtà  og- 
gettiva che  si  presenta  sulla  scena.  Millantare  ricchezze,  qualità  fisiche 
o  virtù  genera  naturalmente  il  riso.  Ma  la  tripartizione,  nel  modello 
socratico,  si  riduce  ad  un'unica  radice:  la  non  conoscenza  di  sé,  l'osten- 
tazione di  una  supposta  sapienza  che  finisce  per  rovesciarsi  in  una 
misera  ignoranza. 

Il  discorso  di  Socrate  naturalmente  coinvolge  altre  importanti  que- 
stioni (i  rapporti  di  forza  che  si  creano  tra  vittima  e  pubblico  o  la 
funzione  determinante  deir« invidia»  nel  provocare  la  commistione  di 
piacere  e  di  dolore  in  chi  assiste  alla  scena  comica)  che  non  è  possibile 
affrontare  in  questa  sede.  Resta  per  noi  importante,  invece,  il  modello 
interpretativo  dei  meccanismi  che  scatenano  il  riso. 

La  struttura  tripartita  della  commedia 

Ad  un'analisi  approfondita  del  Candelaio,  infatti,  i  tre  protagonisti 
potrebbero  esemplificare  perfettamente  lo  schema  disegnato  nel  Filebo: 

a)  Bartolomeo  si  inganna  intomo  alle  ricchezze,  ai  beni  mate- 
riali: crede  di  essere  potenzialmente  ricco  perché,  dopo  tanto  penare,  si 
illude  di  aver  ottenuto  la  formula  che  gli  consentirà  di  fabbricare 
l'oro;  invece,  agli  occhi  degli  spettatori  e  dei  personaggi  che  lo  hanno 
derubato,  finirà  per  mostrare  la  sua  reale  povertà  a  causa  delle  somme 
di  danaro  investite  nella  vana  alchimia"^; 

b)  Bonifacio  si  inganna  intomo  ai  beni  del  corpo:  non  solo  ritiene 
di  poter  possedere  la  signora  Vittoria  per  le  sue  doti  fisiche  («Or  che 
dumque  sarà  di  Bonifacio  che,  come  non  si  trovassero  uomini  al 


ii6.  Ibidem. 

II j.  Ecco  come  la  moglie  descrive  Bartolomeo,  ormai  sicuro  di  poter  rive- 
stire d'oro  le  travi  della  sua  casa:  «Le  sue  gemme  e  pietre  preciose  son  gli 
carboni,  gli  angeli  son  le  bozzole  che  sono  attaccate  in  ordinanza  ne'  fornelli 
con  que'  nasi  di  vetro  da  equa;  e  da  Uà  tanti  lambicchi  di  ferro,  e  de  più 
grandi  e  de  più  piccoli  e  di  mezzani.  E  che  salta,  e  che  balla,  e  che  canta  quel 
sciagurato  che  mi  fa  sovvenire  dell'asino.  Poco  fa,  per  veder  che  cosa  fa- 
cess'egli,  ho  posto  l'occhio  ad  una  rima  de  la  porta,  e  l'ho  veduto  assiso  sopra 
la  sedia  a  modo  di  catedrante,  con  una  gamba  distesa  da  equa  et  un'altra  di- 
stesa da  Uà,  guardando  gli  travi  della  intempiatura  della  camera;  a'  quali,  dopo 
aver  cennato  tre  volte  co  la  testa,  disse:  "Voi,  voi  impiastrare  di  stelle  fatte  di 
oro  massiccio"»  (Candelaio,  pp.  303-304). 


46  INTRODUZIONE 

mondo,  pensa  d'essere  amato  per  gli  belli  occhii  suoi?»)"^  ma  non  si 
rende  conto,  come  gli  suggerisce  Gioan  Bernardo,  di  esser  «cande- 
laio»'^^  e  non  «orefice» '^°; 


118.  Ibidem,  p.  348.  Sarà  Bonifacio  stesso  a  ricordare  a  Marta  che  gli  attem- 
pati hanno  bisogno  di  giovinette:  «In  conclusione,  madonna  cara:  a  gatto  vec- 
chio sorece  tenerello»  [Ibidem,  p.  358).  In  un  passaggio  dei  Furori,  inoltre. 
Bruno  fa  riferimento  al  vecchio  che  si  innamora,  alludendo  a  uno  dei  topoi 
teatrali  più  diffusi:  «Ma  il  spasso  e  riso  è  di  quelli  alli  quali  nella  matura  etade 
l'amor  mette  l'alfabeto  in  mano»  (p.  87). 

119.  «Da  candelaio  volete  doventar  orefice»:  Candelaio,  p.  296.  In  maniera 
più  esplicita,  l'allusione  all'omosessualità  di  Bonifacio  emerge  anche  dalla  con- 
versazione tra  madonna  Angela  Spigna  e  Carubina:  «A  costei  venne  madonna 
Carabina  e  disse:  "Madre  mia,  voglion  darmi  marito:  me  si  presenta  Bonifacio 
Trucco,  il  quale  ha  di  che  e  di  modo";  rispose  la  vecchia:  "Prendilo";  "Sì,  ma  è 
troppo  attempato",  disse  Carubina;  respose  la  vechia:  "Figlia,  non  lo  prendere"; 
[...]  "Sono  informata"  disse  Carubina,  "ch'have  un  levrier  di  buona  razza"; 
"Prendilo",  rispose  la  vecchia  madonn'Angela;  "Ma  ehimè"  disse,  "ho  udito  dir 
ch'è  candelaio";  "Non  lo  prendere",  rispose»  {Ibidem,  pp.  418-419).  Questo  esi- 
larante passaggio  ricorda  molto  da  vicino  i  ragionamenti  prò  e  cantra  il  matri- 
monio messi  in  scena  nel  Marescalco  dell'Aretino  (Pietro  Aretino,  Teatro,  a 
cura  di  Giorgio  Petrocchi,  Milano,  Mondadori,  1971,  pp.  15-18  e  pp.  82-83),  che 
probabilmente  ispirarono  anche  il  famosissimo  dialogo  tra  Panurge  e  Panta- 
gruel  sull'opportunità  di  prender  moglie  (Rabelais,  Le  Tiers  Livre  cit,  [eh.  IX], 
pp.  601-605;  trad.  it,  t  I,  pp.  346-348).  I  tre  testi  sono  messi  a  confronto  da 
Marcel  Tetel,  Rabelais  et  l'Italie,  Firenze,  Olschki,  1969,  pp.  32-59. 

120.  Bonifacio  ammette  di  non  capire  la  battuta  di  Gioan  Bernardo:  «[...] 
ecco  costui  non  so  che  diavolo  voglia  intendere  per  l'orefice»  {Candelaio,  p.  296). 
Nel  colorito  linguaggio  metaforico  della  poesia  burlesca  rinascimentale  il  ter- 
mine «oro»  allude  al  rapporto  sessuale  «secondo  natura»,  in  opposizione  ad 
«argento»,  che  essendo  «meno  prezioso»,  allude  alla  sodomia  (cfr.  la  Canzona 
dell'argento  di  Bernardo  Giambullari  e  i  Giovani  fiorentini  tornati  dall'isole  del 
Perù  del  Lasca  in  Trionfi  e  Canti  Carnascialeschi,  a  cura  di  Riccardo  Bruscagli, 
Roma,  Salerno  editrice,  1986,  voli.  I-II,  pp.  260-261  e  p.  388).  Ma  il  termine 
«orefice»  in  opposizione  a  quello  di  «candelaio»  potrebbe  anche  tradurre  il 
contrasto  tra  la  funzione  «attiva»  dell'artigiano  e  quella  «passiva»  dell'oggetto, 
rinviando  al  dotto  dibattito  medievale  sul  deus  arti/ex.  Nei  commenti  al  Timeo 
di  Platone,  infatti.  Dio  viene  indicato  come  artefice,  demiurgo,  vasaio,  fabbro, 
architetto,  costruttore  del  cosmo.  Tra  le  diverse  metafore  artigianali,  nel  Libar 
de  Planctu  Naturae  di  Alano  di  Lilla  figura  anche  quella  di  faber  aurarius: 
«Cum  Deus  ab  ideali  intemae  praeconceptionis  thalamo  mundialis  palatii  fa- 
bricam  foras  voluit  enotare,  et  mentale  verbum  quod  ab  aetemo  de  mundi  con- 
stitutione  conceperat  reali  ejusdem  existentia  velut  materiali  verbo  depingere, 
tanquam  mundi  elegans  architectus,  tanquam  aitreae  fabricae  faber  aurarius,  ve- 
lut stupendi  artificii  artificiosus  artifex,  tanquam  ammirandi  operis  operarius 
opifex  [...)  mundialis  regiae  admirabilem  speciem  fabricavit»  (Alanus  ab  Insu- 
lis,  Liber  de  Planctu  Naturae,  in  The  Anglo-Latin  Satirical  Poets  and  Epigram- 
maiists  of  Twelfth  Century,  now  first  collected  and  edited  by  Thomas  Wright, 
London  [diversi  editori],  1872,  voi.  II,  p.  468-469  [il  corsivo  è  nostro];  ristampa 
anastatica  Lessingdruckerei  Wiesbaden,  Kraus  Reprint  LTD,  1964).  Anche  nel 
Cantico  dei  Cantici  si  fa  riferimento  al  lavoro  dell'orefice  per  indicare  allegori- 
camente il  Deus  artifex  che  modella  i  corpi:  «Come  son  belli  i  tuoi  piedi  /nei 
sandali,  o  nobile  figlia,  /  le  curve  delle  tue  cosce,  come  monili,  /  lavoro  di  mano 
d'artista»  (Cantico  dei  Cantici  [7-2],  introduzione  di  Antonia  S.  Byatt,  tradu- 
zione dai  testi  originali  di  Fulvio  Nardoni,  Torino,  Einaudi,  1999,  p.  16).  Que- 


INTRODUZIONE  47 

c)  Mamfurio  si  inganna  intomo  ai  beni  dell'anima:  crede  di  essere 
un  virtuoso  pedagogo,  mentre  si  rivela  uno  sterile  pedante  ^^^. 

Neir«Argumento  et  ordine  della  comedia»  è  detto  chiaramente  che 
le  «tre  materie  principali»  sono  «intessute  insieme»  e  che  i  tre  perso- 
naggi sono  diversi  solo  per  la  «cognizion  distinta  de  suggetti»  e  per 
«raggion  dell'ordine  et  evidenza  dell'artificiosa  testura»: 

Son  tre  materie  principali  intessute  insieme  ne  la  presente  comedia: 
l'amor  di  Bonifacio,  l'alchimia  di  Bartolomeo  e  la  pedantaria  di  Mamfurio. 
Però  per  la  cognizion  distinta  de  suggetti,  raggion  dell'ordine  et  evidenza 
dell'artificiosa  testura,  rapportiamo  prima  da  per  lui  l'insipido  amante,  se- 
condo il  sordido  avaro,  terzo  il  goffo  pedante:  de  quali  l'insipido  non  è 
senza  goffaria  e  sordidezza;  il  sordido  è  parimente  insipido  e  goffo;  et  il 
goffo  non  è  men  sordido  et  insipido  che  goffo '^2. 

Qui  Bruno  non  ammette  equivoci:  l'attribuzione  a  Bonifacio,  a  Bar- 
tolomeo e  a  Mamfurio  delle  stesse  qualità  negative  riconduce  all'unità 
la  tripartizione  iniziale.  L'« insipido  amante»,  il  «sordido  avaro»  e  il 
«goffo  pedante»,  infatti,  sembrano  essere  il  risultato  di  un  solo  atteg- 
giamento in  grado  di  generare  tutti  gli  altri.  Anche  in  questo  caso  il 
tratto  che  accomuna  i  tre  personaggi  è  proprio  la  non  conoscenza  di 


sti  testi,  assieme  ad  altri  commenti,  sono  analizzati  da  Ernst  Curtius,  Dio 
come  artefice,  in  Letteratura  europea  e  Medio  Evo  Latino,  a  cura  di  Roberto  An- 
tonelli,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1992,  pp.  609-611.  Proprio  queste  testimo- 
nianze avvalorano  il  fatto  che  Bruno  -  al  di  là  del  riferimento  osceno  alla 
modalità  del  rapporto  -  avrebbe  potuto  anche  alludere  al  ruolo  «attivo»  del- 
l'orefice, in  grado  di  modellare  la  materia,  e  al  doppio  ruolo  «passivo»  dell'og- 
getto (il  candelaio):  passivo  per  la  sua  funzione  (perché  è  atto  a  ricevere  la 
candela),  ma  anche  passivo  perché  esso  stesso  è  frutto  della  creazione  di  un 
artifex.  Spetta  all'orefice,  infatti,  fabbricare  i  candelieri:  «Chi  fabrica  i  calici,  le 
croci,  le  patene,  i  candelieri  [...]  se  non  loro?»  (Tomaso  Garzoni,  Degli  orefici,  in 
La  piazza  universale  di  tutte  le  professioni  del  mondo,  a  cura  di  Paolo  Cherchi  e 
Beatrice  Collina,  Torino,  Einaudi,  1996,  t.  I,  p.  777). 

121.  Ecco  come  viene  descritto  Mamfurio  nel  Proprologo:  «Vedrete  ancor  la 
prosopopeia  e  maestà  d'un  omo  masculini  generis.  Un  che  vi  porta  certi  sua- 
violi  da  far  sdegnar  un  stomaco  di  porco  o  di  gallina:  un  instaurator  di  quel 
lazio  antiquo,  un  emulator  demostenico;  un  che  ti  suscita  Tullio  dal  più  pro- 
fondo e  tenebroso  centro;  concinitor  di  gesti  de  gli  eroi.  Eccovi  presente 
un'acutezza  da  far  lacrimar  gli  occhi,  gricciar  i  capelli,  stuppefar  i  denti;  petar, 
rizzar,  tussir  e  starnutare.  [...]  Voi  vedrete  un  di  questi  che  mastica  dottrina, 
olface  opinioni,  sputa  sentenze,  minge  autoritadi,  eructa  arcani,  exuda  chiari  e 
lunatici  inchiostri,  semina  ambrosia  e  nectar  di  giudicii,  da  fame  la  credenza  a 
Ganimede  e  poi  un  brindes  al  fulgorante  Giove.  Vedrete  un  pubercola  sinoni- 
mico, epitetico,  appositorio,  suppositorio:  bidello  di  Minerva,  amostante  di  Pal- 
lade,  tromba  di  Mercurio,  patriarca  di  Muse,  e  delfino  del  regno  apollinesco  (po- 
co mancò  ch'io  non  dicesse  "polledresco")»  {Candelaio,  pp.  279-281).  In  questo 
passaggio  si  trovano  anticipati  una  serie  di  topoi  che  Bruno  riprenderà  in  altri 
passaggi  antipedanteschi  nei  dialoghi  italiani:  cfr.  infra,  p.  76  e  pp.  172-177. 

122.  Candelaio,  p.  265. 


48  INTRODUZIONE 

sé.  Il  ridicolo  viene  causato  da  una  presunzione  di  sapienza,  dallo 
scarto  evidente  che  si  crea  sulla  scena  tra  ciò  che  il  personaggio  crede 
di  essere  e  quello  che  effettivamente  è.  Lo  schema  tripartito  potrebbe 
allora  tradurre  in  maniera  simbolica  uno  dei  nuclei  vitali  del  pensiero 
bruniano:  la  dialettica  realtà-apparenza. 

Il  Candelaio  si  presenta,  insomma,  come  messa  in  scena  dell'igno- 
ranza, come  esemplificazione  degli  errori  e  delle  follie  che  scaturiscono 
da  un  sapere  apparente,  come  rappresentazione  di  una  serie  di  vani 
esercizi  pseudo-cognitivi: 

Eccovi  avanti  gli  occhii:  ociosi  principii,  debili  orditure,  vani  pensieri, 
frivole  speranze,  scoppiamenti  di  petto,  scoverture  di  corde,  falsi  presup- 
positi,  alienazion  di  mente,  poetici  furori,  offuscamento  di  sensi,  turbazion 
di  fantasia,  smarito  peregrinaggio  d'intelletto;  fede  sfrenate,  cure  insensate, 
studi  incerti,  semenze  intempestive,  e  gloriosi  frutti  di  pazzia.  [...]  Vedrete 
ancor  in  confuso  tratti  di  marioli,  statagemme  di  barri,  imprese  di  fur- 
fanti; oltre,  dolci  disgusti,  piaceri  amari,  determinazion  folle,  fede  fallite, 
zoppe  speranze,  e  caritadi  scarse;  giudicii  grandi  e  gravi  in  fatti  altrui, 
poco  sentimento  ne'  propri;  temine  virile,  effeminati  maschii;  «tante  voci 
di  testa  e  non  di  petto»:  «chi  più  di  tutti  crede  più  s'inganna»;  «e  di  scudi 
l'amor  universale».  Quindi  procedeno  febbre  quartane,  cancheri  spirituali, 
pensieri  manco  di  peso,  sciocchezze  traboccanti,  intoppi  baccellieri,  gran- 
chiate  maestre,  e  sdrucciolate  da  fiaccars'il  collo;  oltre,  il  voler  che  spinge, 
il  saper  ch'appressa,  il  far  che  frutta;  «e  diligenza  madre  de  gli  effetti».  In 
conclusione  vedrete  in  tutto  non  esser  cosa  di  sicuro:  ma  assai  di  negocio, 
difetto  a  bastanza,  poco  di  bello,  e  nulla  di  buono  ^^^. 

Attraverso  questo  scarto  tra  ciò  che  crediamo  di  essere  e  ciò  che  in 
effetti  siamo,  tra  ciò  che  sembra  e  ciò  che  è,  la  commedia  ci  mostra 
come  le  apparenze  («chi  più  di  tutti  crede  più  s'inganna»)  possano 
ingannarci  su  diversi  piani.  Ricostruire  la  fitta  rete  di  illusioni  tessuta 
nella  commedia  significa  individuare  alcuni  nuclei  centrali  del  pen- 
siero filosofico  di  Bruno. 

Le  apparenze  ingannano  sul  piano  della  poetica 

Aristotele  nella  Poetica  sancisce  una  separazione  netta  fra  tragedia 
e  commedia,  non  solo  sul  piano  dell'imitazione  ma  anche  su  quello 
dello  stile:  la  prima  deve  mettere  in  scena  con  un  linguaggio  aulico 
personaggi  e  azioni  nobili,  mentre  la  seconda  deve  avvalersi  di  perso- 
Uciggi  vili  che  agiscono  e  parlano  in  sintonia  con  l'ambiente  sociale  di 


123.  Ibidem,  pp.  277-281.  Sull'antipetrarchismo  bruniano  cfr.  infra  pp.  172- 
176. 


INTRODUZIONE 


49 


cui  sono  espressione '24.  La  distinzione,  nella  trattatistica  cinquecente- 
sca, viene  tradotta  in  una  serie  di  formule  prescrittive  che  hanno  con- 
tribuito ancor  più  a  marcare  la  distanza  tra  i  due  generi. 

Il  Candelaio,  ma  lo  stesso  discorso  vale  anche  per  i  dialoghi  succes- 
sivi, si  fonda  proprio  sulla  commistione  di  tragedia  e  commedia,  di 
riso  e  pianto.  Al  di  là  del  motto  che  campeggia  sul  frontespizio  («In 
tristitia  hilaris,  in  hilaritate  tristis»),  sono  molteplici  le  allusioni  al- 
l'impossibilità di  separare  due  opposti  che  interagiscono  continua- 
mente nella  pièce.  Se  le  riflessioni  di  Scaramuré  mostrano  come  uno 
stesso  evento  possa  essere  per  alcuni  tragedia  e  per  altri  commedia 
(«La  vostra  comedia  è  bella:  ma  in  fatti  di  costoro,  è  una  troppo  fasti- 
diosa tragedia»)  125^  il  racconto  di  Marca  della  bagarre  scatenatasi  nel- 
l'osteria del  Cerriglio  rivela  l'enorme  difficoltà  a  tracciare  nette  distin- 
zioni tra  i  contrari  sulla  scena  del  teatro  del  mondo: 

Concorsero  molti:  de  quali,  altri  pigliandosi  spasso  altri  attristandosi, 
altri  piangendo  altri  ridendo,  questi  consigliando  quelli  sperando,  altri  fa- 
cendo un  viso  altri  un  altro,  altri  questo  linguaggio  et  altri  quello,  era 
veder  insieme  comedia  e  tragedia,  e  chi  sonava  a  gloria  e  chi  a  mortoro.  Di 
sorte  che,  chi  volesse  vedere  come  sta  fatto  il  mondo,  derebbe  desiderare 
d'esservi  stato  presente '-6. 

Le  apparenze  ingannano  sul  piano  dei  contenuti 

Come  il  riso  non  può  essere  separato  dal  pianto  e  la  commedia 
dalla  tragedia,  alla  stessa  maniera  il  comico  non  può  essere  separato 
dal  serio.  Dietro  l'involucro  ridicolo  del  Candelaio,  Bruno  ci  presenta  i 
semi  di  una  nuova  filosofia.  La  poetica  del  Sileno,  insomma,  trova  già 
nella  struttura  della  pièce  la  sua  concreta  anticipazione.  Qui  il  comico 
non  è  solo  divertissement,  è  soprattutto  uno  strumento  di  conoscenza. 


124.  «Ed  è  per  tale  diversità  che  la  tragedia  differisce  dalla  commedia:  que- 
sta si  propone  di  raffigurare  uomini  peggiori  di  come  esistono  realmente,  e  la 
tragedia  invece  superiori»;  Aristotele,  Dell'arte  poetica,  a  cura  di  Carlo  Galla- 
votti,  Milano,  Mondadori,  1978^  (48  a-15),  p.  7. 

125.  Candelaio,  p.  393. 

126.  Ibidem,  p.  336.  Anche  nei  Furori,  Bruno  descrive  con  sottile  ironia  il 
suo  essere  sballottato  tra  la  tragedia  e  la  commedia:  «Oltre  perché  traendolo  da 
un  canto  la  tragica  Melpomene  con  più  materia  che  vena,  e  la  comica  Talia 
con  più  vena  che  materia  da  l'altro,  accadeva  che  l'una  suffurandolo  a  l'altra, 
lui  rimanesse  in  mezzo  più  tosto  neutrale  e  sfacendato,  che  comunmente  nego- 
cioso»  (p.  527).  Del  resto,  anche  Platone,  pur  nutrendo  molta  diffidenza  per  la 
commedia,  nel  Simposio  è  costretto  ad  ammettere  che  «è  proprio  dello  stesso 
uomo  saper  comporre  commedia  e  tragedia  e  chi  è  per  tecnica  poeta  tragico 
è  "anche"  poeta  comico»  (Platone,  Simposio,  in  Dialoghi  filosofici  cit,  223  d, 
p.  149). 


50  INTRODUZIONE 

un  meccanismo  al  servizio  di  una  Weltanschauung.  Una  delle  sue  più 
importanti  funzioni  si  evince  anche  dal  ruolo  di  Momo,  il  dio-buffone 
che  attraverso  il  suo  feroce  sarcasmo  provoca  il  riso  fustigando  gli  dèi. 
Sul  «censore  dell'opre  di  Giove»  si  sofferma  Ascanio,  in  una  intensa 
conversazione  con  Gioan  Bernardo,  per  sottolineare  che  «sono  per 
tutti  necessarii  questi  che  parlan  liberamente»:  il  loro  compito,  infatti, 
è  proprio  quello  di  far  sì  che  principi  e  giudici  «s'accorgano  de  gli 
errori  che  fanno,  e  non  conoscono  mercé  di  poltroni  e  vilissimi  adula- 
tori» e  che  sentendosi  sotto  osservazione  «temino  di  far  una  cosa  più 
ch'un'altra»'^^. 

La  «riabilitazione»  di  Momo,  in  effetti,  dimostra  che,  in  determi- 
nati contesti,  alcuni  vizi  possono  essere  considerati  virtù  e  alcune 
virtù  vizi.  La  dote  del  dio  del  biasimo  di  «parlar  liberamente»  (e,  tal- 
volta, a  sproposito  come  accade  nello  Spaccio)  non  è  in  contrasto  con  il 
ruolo  di  teorico  della  dissimulazione,  assegnatogli  da  Leon  Battista  Al- 
berti nelle  celebri  pa^ne  del  Momus^^^.  Non  c'è  da  stupirsi.  Per  Bruno, 
anche  la  dissimulazione  non  ha  sempre  e  solo  una  funzione  negativeu 
Su  questo  tema,  ancora  una  volta,  il  Candelaio  sembra  anticipare  al- 
cune riflessioni  dello  Spaccio.  Nel  dialogo  londinese  la  pratica  positiva 
del  dissimulare  è  posta  in  relazione  alla  verità:  se  normalmente  la 
«Dissimulazione»  viene  «stimata  indegna  del  cielo»,  talvolta  di  essa 
«soglion  servirsi  anco  gli  dèi»  quando  «per  fuggir  invidia,  biasmo  e 
oltraggio,  con  gli  vestimenti  di  costei  la  Prudenza  suole  occultar  la 
Veritade»^^''.  Anche  Scaramuré,  in  un  esilarante  passaggio  della  com- 


127.  Candelaio,  p.  406. 

128.  Per  un  rapporto  tra  le  pagine  bruniane  e  il  Momus  di  Alberti  si  ve- 
dano: Eugenio  Garin,  Interpretazioni  del  Rinascimento,  in  Io.,  Medioevo  e  Ri- 
nascimento, Roma-Bari,  Laterza,  1990  3a,  pp.  85-95;  Id.,  Rinascite  e  rivoluzioni. 
Movimenti  culturali  dal  XIV  al  XVIII  secolo,  Roma-Bari,  Laterza,  1976,  pp.  140- 
141;  Lorenza  Aluffi  Begliomini,  Note  sull'opera  dell'Alberti:  il  Momus  e  il 
De  re  aedificatoria,  in  «Rinascimento»,  12  (1972),  p.  267  e  p.  273;  Stefano 
SlMONClNl,  L'avventura  di  Momo  nel  Rinascimento.  Il  nume  della  critica  tra  Leon 
Battista  Alberti  e  Giordano  Bruno,  in  «Rinascimento»,  38  (1998),  pp.  431-454; 
N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bete  triomphan- 
te.  QLuvres  complètes.  V,  texte  établi  par  Giovanni  Aquilecchia,  notes  de  Ma- 
ria Pia  Ellero,  traduction  de  Jean  Balsamo,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1999,  pp- 
CLXXXVn-CLXXXVIII. 

129.  Spaccio,  p.  304.  Bruno  cita,  a  questo  proposito,  l'esordio  dell'Orlando 
furioso  (IV,  i)  in  cui  l'Ariosto  discute  gli  «evidenti  benefici»  prodotti  dalla  si- 
mulazione. Sulla  nozione  di  dissimulazione  in  Bruno  cfr  Rosario  Villari, 
Elogio  della  dissimulazione.  La  lotta  politica  nel  Seicento,  Roma-Bari,  Laterza, 
1987,  pp.  36-38  (si  veda  da  ultimo  anche  il  saggio  di  Jean-Pierre  Cavaillé, 
Théorie  et  pratique  de  la  dissimulation  dans  le  Spaccio  de  la  bestia  trionfante,  in 
Mondes,  formes  et  société  selon  Giordano  Bruno,  Acte  du  Colloque  International 
Giordano  Bruno  -  Paris  23-25  mars  2000,  in  corso  di  stampa).  Per  un'analisi 
della  teoria  della  dissimulazione  in  Accetto  cfr  Salvatore  S.  Nigro,  Usi  della 


INTRODUZIONE  5I 

media,  le  assegna  una  funzione  positiva  nell'ambito  della  giustiziammo, 
per  evitare  pericolose  vendette  e  inutili  spargimenti  di  sangue: 

Quanto  alle  parte  onorate,  la  giustizia  verrebbe  a  farli  grandissimo 
torto  et  ingiuria;  per  che  non  contrapesa  il  castigo  che  si  dà  a  colui  che 
pianta  le  coma,  et  il  vituperio  che  viene  a  fare  ad  un  personaggio,  facendo 
la  sua  vergogna  publica  e  notoria  a  gli  occhi  di  tutto  il  mondo:  sì  che  è 
maggior  l'offesa  che  patisce  da  la  giustizia,  che  del  delinquente;  e  ben  che 
nientemanco  il  mondo  tutto  lo  sapesse,  tutta  via  sempre  le  coma  con 
l'atto  de  la  giustizia  dovengono  più  sollenne  e  gloriose.  Ogn'uomo  dumque 
capace  di  giudicio  considera  che  questo  dissimular  che  fa  la  giustizia,  im- 
pedisce molti  inconvenienti:  per  che  un  cornuto  e  svergognato  coperto  (se 
pur  un  tale  può  esser  ditto  cornuto  o  svergognato,  di  cui  l'esistimazione 
non  è  corrotta),  per  téma  di  non  essere  discoperto,  o  per  minor  cura  ch'ab- 
bia di  quelle  coma  che  nisciun  le  vede  (le  quali  in  fatto  son  nulla),  si 
astiene  di  far  quella  vendetta:  la  quale  sarrebbe  ubligato  secondo  il  mondo 
di  fare,  quando  il  caso  a  molti  è  manifesto '^i. 

Occultare  le  coma,  stendere  su  di  esse  un  velo,  significa  neutraliz- 
zare parzialmente  una  pratica  diffusa  che  potrebbe  provocare  tragiche 
lacerazioni  nel  tessuto  sociale.  Il  giudice  che  rende  giustizia  al  coniuge 
tradito  con  una  esemplare  sentenza  finisce  per  umiliarlo  ancora  di 
più,  perché  nell'accertare  la  verità  e  nel  fugare  ogni  dubbio  trasforma 
un  disonore  celato  in  un  disonore  universalmente  manifesto.  Bruno 
piega  il  topos  delle  coma,  tanto  caro  a  Rabelais"^,  a  rappresentare  in 


pazienza,  in  Torquato  Accetto,  Della  dissimulazione  onesta,  Torino,  Einaudi, 
1997,  pp.  XI-XXX. 

130.  Al  tema  della  giustizia  (per  il  Candelaio  cfr.  infra,  p.  55  e  p.  61)  Bruno 
dedicherà  pagine  importantissime  nell'ampia  architettura  dello  Spaccio:  cfr.  in- 
fra pp.  102-104.  Il  termine  «giustizia»  ricorre  19  volte  nel  Candelaio  e  ben  69 
volte  nello  Spaccio,  mentre  nelle  altre  opere  italiane  viene  utilizzato  solo  3  volte 
nella  Cena,  i  volta  nel  De  la  causa,  3  volte  nella  Cabala  e  6  volte  nei  Furori. 

131.  Candelaio,  p.  402.  Il  tema  della  coma  sarà  ripreso,  da  un  altro  punto  di 
vista,  in  un  passaggio  dello  Spaccio  (pp.  369-371). 

132.  Sullo  stretto  legame  tra  matrimonio  e  coma  si  intrattiene  il  medico 
Rondibilis  in  Rabelais,  Tiers  Livre  (eh.  32  e  33),  cit,  pp.  749-759  (trad.  it,  cit., 
pp.  427-432).  Delle  coma  discutono  anche  Anton  Francesco  Doni,  Giovan  Bat- 
tista Modio,  Pietro  Nelli,  Anton  Francesco  Grazzini,  Tommaso  Garzoni:  su 
questi  testi,  soprattutto  per  i  rinvìi  bibliografici,  si  veda  Maria  Cristina  Fi- 
GORILLI,  L'elogio  paradossale  nel  Cinquecento.  Indagine  su  testi  volgari  in  prosa. 
Tesi  di  dottorato,  Università  della  Calabria,  2001.  Per  un'analisi  del  topos  cfr. 
anche:  Patrick  Dandrey,  Véloge  paradoxal  de  Gorgias  à  Molière,  Paris,  Puf, 
1997,  pp.  110-113  e  pp.  252-269;  Lina  Bolzoni,  Il  mondo  utopico  e  il  mondo  dei 
cornuti.  Plagio  e  paradosso  nelle  traduzioni  di  Gabriel  Chappuys,  in  «I  Tatti  Stu- 
dies»,  8  (1999),  pp.  171-196.  A  queste  pagine  bnmiane  probabilmente  si  ispirò 
Pirandello  nel  Berretto  a  sonagli  (cfr.  Nino  Borsellino,  Giordano  Bruno  eroico 
e  comico,  in  «L'illuminista»,  i,  2000,  p.  loi;  ma  di  Borsellino  si  veda  anche  il 
saggio  sul  Candelaio:  Io.,  Necrologio  della  pazzia,  in  ID.,  Rozzi  e  Intronati.  Espe- 


52  INTRODUZIONE 

maniera  concreta  la  relatività  dei  punti  di  vista,  perché  nessuna  cosa 
in  sé  può  essere  giudicata  in  assoluto  come  fonte  del  male  o  del  bene, 
di  vizi  o  di  virtù  ^^'.  Del  resto,  come  abbiamo  già  visto  nel  paragrafo 
precedente,  la  stessa  maschera  comica  del  Sileno  ha  una  funzione  dis- 
simulatrice, ponendosi  come  scudo  protettivo  per  tener  lontana  la 
moltitudine  degli  ignoranti. 

Sul  tema  dell'onore '^•^  si  era  soffermato,  qualche  scena  prima,  il  pit- 
tore Gioan  Bernardo,  deus  ex  machina  del  Candelaio.  Per  far  cedere  Ca- 
rubina,  timorosa  di  compromettere  la  sua  dignità  morale,  non  esita  a 
tessere  un  elogio  dell'apparenza; 

Vita  della  mia  vita,  credo  ben  che  sappiate  che  cosa  è  onore,  e  che  cosa 
anco  sii  disonore.  Onore  non  è  altro  che  una  stima,  una  riputazione:  però 
sta  semper  intatto  l'onore,  quando  la  stima  e  riputazione  persevera  la  me- 
desma.  Onore  è  la  buona  opinione  che  altri  abbiano  di  noi:  mentre  perse- 
vera questa,  persevera  l'onore.  E  non  è  quel  che  noi  siamo  e  quel  [che]  noi 
facciamo,  che  ne  rendi  onorati  o  disonorati,  ma  sì  ben  quel  che  altri  sti- 
mano e  pensano  di  noi'''. 

L'ironia  sulla  preminenza  dell'apparire  sull'essere,  benché  strumen- 
talmente al  servizio  di  una  strategia  argomentativa  finalizzata  alla 
conquista  della  moglie  di  Bonifacio"'",  vuole  mettere  l'accento  su  una 
delle  cause  che  hanno  provocato  l'imbarbarimento  della  società.  In 
contrasto  con  tutta  la  manualistica  cortigiana  sul  comportamento''^. 


rienze  e  forme  di  teatro  dal  «Decameron»  al  «Candelaio»,  seconda  edizione  accre- 
sciuta, Roma.  Bulzoni.  1976.  pp.  201-209). 

133.  «perché  nulla  è  absolutamente.  ma  per  certo  rispetto,  malo»:  Spaccio,  p. 
373.  Anche  Speroni  insiste  sul  fatto  che  ogni  cosa,  oltre  al  male,  può  anche  con- 
tenere il  bene:  «  Ma  non  è  cosa  qua  giuso  né  così  rea  che  qualche  bene  non  abbia 
in  sé»  (Sperone  Speroni,  Opere,  introduzione  di  Mario  Pozzi,  Manziana,  Vec- 
chiarelli,  1989,  t  V,  p.  432;  risi  anast.  dell'ed.  Venezia,  Domenico  Occhi,  1749). 

134.  Nella  riforma  dello  Spaccio  l'Onore  occupa  un  posto  importantissimo. 
Bruno  lo  considera  in  opposizione  alle  tesi  sostenute  dall'Ozio,  dai  riformati  e 
dai  sostenitori  delFetà  dell'oro,  riprendendo  temi  discussi  da  Machiavelli  e  da 
alcuni  membri  dell'Accademia  di  Enrico  III:  cfr.  infra  pp.  103-104. 

135.  Candelaio,  p.  388. 

136.  «Con  questo.  (XI  scena),  Carubina  rimane  nelle  griffe  di  Gioan  Ber- 
nardo, il  quale  (come  è  costume  di  que'  che  ardentemente  amano)  con  tutte 
sottigliezze  d'epicuraica  filosofia  (Amor  fiacca  il  timor  d'omini  e  numi)  cerca  di 
troncare  il  legame  del  scrupolo  che  Carubina,  insolita  a  mangiar  più  d'una 
minestra,  avesse  possuto  avere:  della  quale  è  pur  da  pensare  che  desiderasse 
più  d'esser  vinta,  che  di  vencere;  però  gli  piacque  di  andar  a  disputar  in  luoco 
più  remoto»:  Candelaio,  p.  269. 

137.  Su  questo  tema  cfr.  Nuccio  Ordine,  Grandi  modelli,  rovesciamento  dei 
codici,  precettistica  del  quotidiano,  in  Manuale  di  letteratura  italiana.  Storia  per 
Generi  e  Problemi  cit.,  pp.  505-522  (cfr.  anche  Io.,  Le  Sei  giornate:  struttura  del 
dialogo  e  parodia  della  trattatistica  sul  comportamento,  in  Pietro  Aretino  nel  cin- 
quecentenario  della  nascita  cit,  pp.  673-716). 


INTRODUZIONE  53 

Bruno  vuole  mettere  in  risalto  i  limiti  di  una  realtà  dove  non  conta 
più  «ciò  che  noi  siamo  e  quel  [che]  noi  facciamo»  veramente,  ma  ciò 
che  gli  «altri  stimano  e  pensano  di  noi»,  l'immagine  esteriore  che  noi 
stessi  riusciamo  ad  imporre. 

Gioan  Bernardo  parla  con  cognizione  di  causa.  Anche  lui^  nono- 
stante il  ruolo  di  portavoce  dell'autore,  si  è  lasciato  imprigionare,  seb- 
bene per  un  momento,  nella  rete  delle  false  opinioni.  Ingannato  dalle 
apparenze,  ha  erroneamente  scaricato  sulla  «fortuna  traditora»  tutte  le 
responsabilità  degli  «errori  che  accadeno»: 

Voi  la  intendete  bene.  Tutti  gli  errori  che  accadeno,  son  per  questa 
fortuna  traditora:  quella  ch'ha  dato  tanto  bene  al  tuo  padrone  Malefacio,  e 
me  l'ha  tolto.  Questa  fa  onorato  chi  non  merita,  dà  buon  campo  a  chi  noi 
semina,  buon  orto  a  chi  noi  pianta,  molti  scudi  a  chi  non  le  sa  spendere, 
molti  figli  a  chi  non  può  allevarli,  buon  appetito  a  chi  non  ha  che  man- 
giare, biscotti  a  chi  non  ha  denti.  Ma  che  dico  io?  deve  esser  iscusata  la 
poverina  per  che  è  cieca,  e  cercando  per  donar  gli  beni  ch'have  intra  le 
mani,  camina  a  tastoni;  e  per  il  più  s'abbatte  a  sciocchi,  insensati  e  fur- 
fanti: de  quali  il  mondo  tutto  è  pieno.  Gran  caso  è  quando  tocca  di  per- 
sone degne  che  son  poche;  più  grande  si  tocca  una  de  più  degne  che  son 
più  poche;  grandissimo  et  estra  ogni  ordinario,  tanto  ch'abbi  tastato, 
quanto  ch'abbia  a  tastare  un  de  dignissimi  che  son  pochissimi.  Dumque  si 
non  è  colpa  sua,  è  colpa  de  chi  l'ha  fatta"*. 

Ma  di  fronte  alle  obiezioni  di  Ascanio  («Vogliono  i  dèi,  che  la  sol- 
lecitudine discaccie  la  mala  ventura  e  faccia  acquistar  le  cose  deside- 
rate»), il  pittore  riconosce  immediatamente,  a  partire  dalla  sua  espe- 
rienza («questo  che  dici  è  vero,  et  al  presente  l'ho  io  isperimentato»), 
che  il  possesso  di  Carubina,  nonostante  gli  sia  stato  «negato  dalla  for- 
tuna», si  è  rivelato  possibile  grazie  al  suo  ingegno,  alla  sua  capacità  di 
cogliere  al  volo  l'occasione  («il  giudizio  mi  ha  mostrata  l'occasione;  la 
diligenza  me  l'ha  fatta  apprendere  pe'  capelli;  e  la  perseveranza  rite- 
nirla»)"^.  L'uomo  non  può  restare  inerme  e  inoperoso  aspettando  che 
i  propri  desideri  siano  soddisfatti  dall'alto,  perché  «a  chi  vuole,  non  è 
cosa  che  sii  difìcile»''"l  Senza  la  sollecitudine,  senza  un  intenso  lavoro 
è  impensabile  «acquistar  le  cose  desiderate». 

Non  è  difficile  in  queste  pagine  ritrovare  alcuni  temi  che  Bruno 
svilupperà  nello  Spaccio  con  la  stupenda  orazione  della  Fortuna,  ma- 
nifesto teorico  dell'operosità  e  della  sollecitudine.  Si  tratta  di  questioni 


138.  Candelaio,  pp.  407- 

139.  Ibidem,  p.  408. 

140.  Ibidem,  p.  410. 


54  INTRODUZIONE 

vitali  che  anche  nel  Candelaio  emergono,  in  diversi  contesti,  a  più  ri- 
prese. Basti  pensare  alla  favola  dell'asino  e  del  leone,  raccontata  da 
Sanguino.  Ancora  una  situazione  oscena,  una  storia  licenziosa  che  su- 
scita il  riso.  Ma  la  prontezza  dell'asino  svela  la  capacità  di  saper  co- 
gliere immediatamente  l'occasione.  Il  patto  sancito  tra  i  due  animali 
invoca  la  reciproca  lealtà:  nell'attraversare  un  fiume,  a  turno,  l'uno 
trasporterà  l'altro.  Il  leone  nel  primo  passaggio,  per  paura  di  cadere  in 
acqua,  «sempre  più  e  più  gli  piantava  l'unghie  ne  la  pelle  di  sorte  che 
a  quel  povero  animale  gli  penetromo  in  sin  all'ossa»'"*'.  Otto  giorni 
dopo  però,  spettò  all'asino  accomodarsi  sulla  groppa  del  compagno: 

Il  quale  essendogli  sopra,  per  non  cascar  ne  l'acqua,  co  i  denti  afferrò  la 
cervice  del  leone:  e  ciò  non  bastando  per  tenerlo  su.  gli  cacciò  il  suo  stru- 
mento (o  come  vogliam  dire,  il  tu-m'intendi),  per  parlar  onestamente,  al 
vacuo  sotto  la  coda,  dove  manca  la  pelle:  di  maniera  ch'il  leone  sentì  mag- 
gior angoscia  che  sentir  possa  donna  che  sia  nelle  pene  del  parto,  gridando 
«Olà,  olà,  oi,  oi,  oi,  oimè!  olà  traditore!».  A  cui  rispose  l'asino  in  volto  se- 
vero e  grave  tuono:  «Pazienza,  f ratei  mio:  vedi  ch'io  non  ho  altr'unghia 
che  questa  d'attaccarmi».  E  cossi  fu  necessario  ch'il  leone  suff risse  et  in- 
durasse sin  che  fusse  passato  il  fiume.  A  proposito,  «  Omnia  rero  vecissitudo 
este»:  e  nisciuno  è  tanto  grosso  asino,  che  qualche  volta  venendogli  a  pro- 
posito, non  si  serva  de  l'occasione  '■'^. 

Servirsi  dell'occasione  significa  aguzzare  l'ingegno,  ma  anche  essere 
attivo,  approfittare  del  tempo,  ripudiare  l'ozio  e  convivere  con  la  sol- 
lecitudine. Vittoria,  nel  tracciare  un  bilancio  della  sua  vita,  riconosce 
che  chi  «tempo  aspetta,  tempo  perde»,  nel  senso  che  se  «io  aspetto  il 
tempo,  il  tempo  non  aspettarà  me»'"*'.  Per  sopravvivere  bisogna  che 
«ci  serviamo  di  fatti  altrui,  mentre  par  che  quelli  abbian  bisogno  di 
noi»,  occorre  prendere  «la  caccia  mentre  ti  siegue,  e  non  aspettar  che 
ella  ti  fugga»,  perché  altro  «n'abbiamo  l'inverno  che  quel  che  raccol- 
semo  l'estate» '■♦■*.  La  sfilza  di  proverbi  richiama  alla  mente  la  vitalità 


141.  Ibidem,  p.  317. 

142.  Ibidem.  Qui  il  tema  dell'asino  è  utilizzato  in  una  chiave  positiva,  come 
simbolo  dell'ingegno  e  del  saper  cogliere  l'occasione.  Ma,  in  un  altro  contesto 
del  Candelaio,  Bruno  fa  riferimento  all'asino  per  deridere  la  religione  cristiana 
ormai  ridotta  a  pura  superstizione:  «Io  ti  dico  in  nome  de  la  benedetta  coda  de 
l'asino  ch'adorano  a  Castello  i  Genoesi:  fa  presto,  tristo  e  mal  volentieri»  (p. 
283).  Il  concetto  di  «santa  asinità»,  in  un'accezione  anticristiana,  sarà  ampia- 
mente sviluppato  nello  Spaccio  e  nella  Cabala.  Sulla  connotazione  positiva  e 
negativa  del  simbolo  dell'asino  nella  filosofia  di  Bruno  cfr.  N.  Ordine,  La  ca- 
bala dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit 

143.  Candelaio,  p.  315. 

144.  Ibidem,  pp.  315-316.  Vittoria  insisterà  ancora  sull'occasione  in  un  altro 
monologo:  «Si  se  farà  troppo  tardi  non  si  potrà  far  nulla  per  questa  volta:  e 


INTRODUZIONE  55 

dei  personaggi  minori  della  commedia,  svela  la  loro  capacità  di  appro- 
fittare di  ogni  situazione  per  piegare  gli  eventi  a  proprio  vantaggio. 
Dietro  lo  sfondo  di  una  Napoli  popolare,  Bruno  mostra  come  l'opero- 
sità, indipendentemente  dai  suoi  obiettivi,  produca  dei  frutti.  L'iperat- 
tivismo,  la  grinta  e  l'esuberanza  dei  marioli,  per  esempio,  irrorano  di 
vita  la  commedia  e,  nello  stesso  tempo,  si  pongono  come  bastioni  su 
cui  si  infrange  l'ignoranza  dei  tre  protagonisti  '■'5. 

Bonifacio,  Bartolomeo  e  Mamfurio  vivono  nella  loro  immobilità, 
nella  loro  presunzione  di  sapienza.  Rappresentano  l'esercizio  dell'er- 
rore in  tre  ambiti  distinti,  in  tre  domini  che  racchiudono  l'intero  uni- 
verso della  conoscenza.  La  loro  ignoranza,  infatti,  investe  tutti  gli 
aspetti  della  vita  umana:  quello  sociale,  quello  fisico  e  quello  spiri- 
tuale. Bruno  ricorderà,  sempre  nello  Spaccio,  la  tripartizione  dei  beni 
in  un  contesto  diametralmente  opposto  a  quello  del  Candelaio: 

Ove  il  feroce  PERSEO  mostra  il  gorgoni©  trofeo,  monta  la  Fatica,  Sol- 
lecitudine, Studio,  Fervore,  Vigilanza,  Negocio,  Esercizio,  Occupazione, 
con  gli  sproni  del  Zelo  e  del  Timore.  Ha  Perseo  gli  talari  de  l'util  Pensiero, 
e  Dispreggio  del  ben  popolare,  con  gli  ministri  Perseveranza,  Ingegno,  In- 
dustria, Arte,  Inquisizione  e  Diligenza;  e  per  figli  conosce  l'Invenzione  et 
Acquisizione,  de  quali  ciascuno  ha  tre  vasi  pieni  di  Bene  di  fortuna,  di 
Ben  di  corpo,  di  Bene  d'animo'-"'. 

Qui  i  tre  «Beni»  rappresentano  valori  speculari  a  quelli  messi  in 
scena  nella  commedia:  se  nel  dialogo  londinese  i  «vasi»,  piazzati  sotto 


non  so  si  se  potrà  di  bel  nuovo  offrirsi  tale  occasione,  come  si  presenta  questa 
sera,  di  far  che  questa  pecoraccia  raccoglia  i  frutti  degni  del  suo  amore»  (Ibi- 
dem, p.  347). 

145.  A  più  riprese  Sanguino,  capo  dei  malviventi,  ricorda  che  la  «giustizia 
non  mancarrà»  [Candelaio,  p.  385)  e  che  gli  «errori  bisogna  che  si  castighino» 
(Ibidem,  p.  39Q).  Le  punizioni  inflitte  ai  tre  protagonisti  rivelano  che  nella  dia- 
lettica realtà/apparenza  messa  in  scena  nel  Candelaio  la  giustizia  si  afferma 
anche  attraverso  la  collaborazione  dei  malfattori  in  un  disegno  naturale  in  cui 
spesso  «errori  e  delitti  han  molte  volte  porgiuta  occasione  a  grandissime  regole 
di  giustizia  e  di  bontade»  (Cena,  p.  439).  Rispetto  ai  «crimini»  dei  marioli,  i 
«delitti»  commessi  da  Bonifacio,  Bartolomeo  e  Mamfurio  -  al  di  là  della  loro 
apparente  innocuità  —  sono  da  considerarsi  molto  più  pericolosi  per  la  vita 
sociale  e  intellettuale.  Sul  tema  della  giustizia  ha  recentemente  insistito  Luca 
Ronconi  nella  sua  splendida  messa  in  scena  del  Candelaio:  cfr.  Conversazione 
con  Luca  Ronconi,  a  cura  di  Claudio  Longhi  in  Candelaio  di  Giordano  Bruno. 
Regia  di  Luca  Ronconi,  Milano,  Piccolo  Teatro  di  Milano,  novembre  2001,  pp. 
17-27. 

146.  Spaccio,  pp.  189-190.  Bruno  sarà  ancora  più  esplicito  in  un  altro  pas- 
saggio in  cui  l'Acquisizione  non  deve  essere  frutto  di  un  donum,  ma  una  ricom- 
pensa per  i  propri  meriti:  «Sieguati  l'Acquisizione  con  le  munizioni  sue,  che 
son  Bene  del  corpo,  Bene  del  animo,  e  (se  vuoi)  Bene  de  la  fortuna;  e  di  questi 
voglio  che  più  sieno  amati  da  te  quei  che  tu  medesima  hai  acquistati,  che  altri 
che  ricevi  da  altrui»  (Ibidem,  p.  309). 


56  INTRODUZIONE 

l'influenza  deireroico  Perseo,  incarnano  in  positivo  tutte  le  conquiste 
deirinvenzione  e  dell'Acquisizione,  nella  pièce  invece  rispecchiano  in 
negativo  le  amare  vicende  dei  tre  personaggi,  caratterizzate  proprio  dal- 
la sterilità  e  dalla  perdita,  dall'inseguimento  illusorio,  nel  caso  di  Bo- 
nifacio e  di  Bartolomeo,  della  falsa  magia '•^'  e  della  falsa  alchimia'-^**. 

Il  teatro  del  mondo 

La  dialettica  realtà-apparenza  investe  anche  i  rapporti  tra  vita  e 
arte,  tra  verità  e  finzione.  La  scena  del  Candelaio,  come  più  volte  ab- 
biamo visto,  si  presenta  soprattutto  come  scena  del  mondo.  Già  So- 
crate nel  Filebo  aveva  ricordato  certe  analogie  tra  le  rappresentazioni 
drammatiche  e  ciò  che  accade  «nell'intera  tragedia  e  commedia  della 
vita»'-'''.  Bruno  conosce  la  letteratura  sul  teatro  del  mondo.  Lui  stesso, 
nei  Furori,  ricorre  all'espressione  («Che  tragicomedia?  che  atto,  dico, 
degno  più  di  compassione  e  riso  può  esseme  ripresentato  in  questo 
teatro  del  mondo,  in  questa  scena  delle  nostre  conscienze» '5°)  per  ri- 


147.  Così  Bonifacio  viene  persuaso  da  Scaramuré  a  ottenere  Vittoria  per 
mezzo  di  pratiche  magiche:  «Basta  basta:  equi  non  bisogna  altro;  vogHo  effec- 
tuare  il  tuo  negocio  con  magia  naturale,  lasciando  a  maggior  opportunità  le 
superstizioni  d'arte  più  profonda»  {Candelaio,  p.  297).  Nella  derisione  delle  pra- 
tiche magiche  -  oltre  a  una  ricca  tradizione  nella  commedia  cinquecentesca 
(cfr.  Michel  Plaisance,  Dal  Candelaio  di  Giordano  Bruno  a  Lo  Astrologo  di 
Giovan  Battista  Della  Porta,  in  Teatri  barocchi.  Tragedie,  commedie,  pastorali  nella 
drammaturgia  europea  fra  '500  e  '600,  a  cura  di  Silvia  Carandini,  Roma,  Bul- 
zoni, 2000.  pp.  263-276)  —  è  anche  importante  l'invettiva  di  Leonardo  intito- 
lata «Contro  il  negromante  e  l'alchimista»  (Leonardo  da  Vinci.  Scritti  letterari, 
a  cura  di  Augusto  Marinoni,  nuova  edizione  accresciuta  con  i  manoscritti  di 
Madrid,  Milano,  Rizzoli,  1991,  pp.  161-168;  su  questo  aspetto  cfr.  Davide  Sti- 
MiLLi,  Caricatura  e  carattere.  Una  lettura  del  Candelaio,  in  «Carte  italiane»,  12, 
1991-1992,  p.  5).  Sulla  vera  «magia»,  in  quanto  conoscenza  della  natura.  Bruno 
ritornerà  nello  Spaccio,  cfr.  infra,  pp.  111-112. 

148.  Gioan  Bernardo  smaschera  con  ironia  i  piani  truffaldini  di  Cencio: 
«Queste  diavolo  de  raggioni  no  mi  toccano  punto  l'intellecto.  Io  vorrei  veder 
l'oro  fatto  e  voi  meglior  vestito  che  non  andiate:  penso  ben  che  si  tu  sapessi  far 
oro  non  venderesti  la  ricetta  da  far  oro,  ma  con  essa  lo  faresti;  e  mentre  fai  oro 
per  un  altro  per  fargli  vedere  la  esperienza,  lo  faresti  per  te  a  fin  di  non  aver 
bisogno  di  vendere  il  secreto»  (Candelaio,  p.  300). 

149.  Cfr.  supra  p.  44,  nota  iii.  Platone  utilizza  la  metafora  del  mondo 
come  teatro  anche  nelle  Leggi  (VII,  8i7b). 

150.  Furori,  pp.  488-489.  Non  bisogna  dimenticare  che  questo  tema  segnerà 
la  straordinaria  esperienza  teatrale  di  Shakespeare:  sul  Globe  Theatre  è  scol- 
pito il  motto  Totus  mundus  agit  histrionem,  mentre  nella  commedia  Come  vi 
/>iace  Jacques  ricorderà  agli  spettatori  che  «Ali  the  world's  a  stage,  /  And  ali 
the  men  and  women  merely  players»  [«Il  mondo  è  tutto  un  palcoscenico,  /  e 
uomini  e  donne,  tutti,  sono  attori»]  (William  Shakespeare.  Teatro  completo, 
voi.  II,  a  cura  di  Giorgio  Melchiori,  traduzione  di  Antonio  Calenda  e  Antonio 
Nediani,  Milano,  Mondadori,  1982  [II,  vii],  pp.  520-521). 


INTRODUZIONE  57 

dicolizzare  le  ossessioni  amorose  dei  petrarchisti.  Ma  il  topos  assume 
probabilmente  un  significato  più  circoscritto  rispetto  alla  sua  naturale 
caratterizzazione  polisemica^'i 

Nel  Candelaio  il  rapporto  vita-commedia  non  sembra  tanto  esem- 
plificare la  vanitas  della  nostra  esistenza,  il  valore  transitorio  della 
vita  umana,  l'attaccamento  eccessivo  agli  aspetti  materiali  e  fragili 
della  nostra  quotidianità.  Dalla  tensione  tra  questi  due  piani,  invece, 
scaturisce  con  maggiore  forza  la  scissione  tra  realtà  ed  apparenza  che 
dalla  scena  teatrale  si  trasferisce  sulla  scena  del  mondo.  In  effetti,  gli 
smarrimenti,  le  pazzie,  gli  errori  non  riguardano  solo  gli  attori  in  tea- 
tro ma  soprattutto  gli  uomini  sul  palcoscenico  della  vita.  La  posizione 
di  Bruno  è  molto  lontana  da  quella  espressa  da  Epitteto.  In  un  celebre 
passaggio  del  suo  Encheirìdion,  infatti,  lo  stoico  greco  utilizza  l'imma- 
gine del  teatro  del  mondo  in  una  chiave  fortemente  deterministica:  gli 
uomini,  proprio  come  gli  attori,  sono  costretti  a  recitare  una  parte  ben 
precisa,  imposta  dall'autore  («questo  è  il  tuo  compito,  recitare  bene  il 
ruolo  che  ti  è  stato  assegnato;  sceglierlo  invece  spetta  a  un  altro»)  1^2. 


151.  Sul  topos  del  teatro  del  mondo  si  vedano:  Ernst  Robert  Curtius, 
Metafore  teatrali,  in  Letteratura  europea  e  Medio  Evo  latino,  a  cura  di  Roberto 
Antonelli,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1992,  pp.  158-164;  Antonio  Vilanova,  El 
tema  del  gran  teatro  del  mundo,  in  «Boletin  de  la  Real  Academia  de  Buenas 
Letras  de  Barcelona»,  23  (1950),  pp.  153-158;  Jacques  Jacquot,  Le  Théatre  du 
Monde  de  Shakespeare  à  Calderon,  in  «Revue  de  littérature  comparée»  (1957), 
pp.  341-372;  Mario  Costanzo,  E  «Gran  Theatro  del  Mondo»,  Milano,  Scheivil- 
ler,  1964;  L  G.  Christian,  Theatrum  mundi.  The  History  of  an  Idea,  New  York- 
Londres,  1987;  Germana  Ernst,  Esistenza  umana  e  commedia  universale,  in 
Id.,  Religione,  ragione  e  natura.  Ricerche  su  Tommaso  Campanella  e  il  tardo  Ri- 
nascimento, Milano,  Franco  Angeli,  1991,  pp.  146-157. 

152.  Epitteto,  Manuale,  introduzione,  traduzione  e  note  di  Martino  Men- 
ghi,  Milano,  Rizzoli,  1996  (17),  p.  49.  Su  questo  passaggio  si  veda  il  commento 
di  Simplicio,  Commentaire  sur  le  Manuel  d'Épictète.  Chapitre  I  à  XXIX,  texte 
établi  et  traduit  par  Ilsetraut  Hadot,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  2001,  t.  I,  pp. 
122-123.  Per  Plotino,  invece,  l'attore,  pur  dovendo  recitare  una  parte  già  asse- 
gnata, è  comunque  responsabile  dell'esecuzione  buona  o  cattiva  del  suo  ruolo: 
«Ora  nei  drammi  umani  l'autore  assegna  le  parole,  mentre  gli  attori,  ciascuno 
individualmente,  sono  per  sé  e  da  sé  responsabili  della  buona  o  della  cattiva 
interpretazione.  Oltre  alle  espressioni  dell'autore  vi  è  infatti  qualcosa  che  è 
compito  loro.  Ma  in  quella  creazione  poetica  vera  ~  che  gli  uomini  di  natura 
poetica  sanno  in  parte  imitare  -  è  l'anima  a  recitare,  e  quel  che  recita  lo 
prende  dall'autore.  E  come  qui  gli  attori  non  ricevono  a  caso  le  maschere,  i 
costumi,  le  vesti  tinte  di  zafferano  e  gli  stracci,  così  anche  l'anima  non  riceve  a 
caso  le  sorti:  anch'esse  sono  conformi  al  principio  razionale;  ed  armonizzando 
a  sé  queste  cose,  pure  lei  diviene  consona,  e  coordina  se  stessa  al  dramma  e 
alla  ragione  universale.  [...]  Ma  per  gli  attori  del  dramma  universale  vi  è  un 
vantaggio,  perché  recitano  in  uno  spazio  maggiore  di  quello  delimitato  da  una 
scena,  perché  l'autore  li  ha  resi  padroni  di  tutto,  e  perché  vi  è  maggiore  possi- 
bilità di  andare  in  luoghi  di  ogni  genere,  riscuotendo  così  onori  e  disonori, 
giacché  i  luoghi  stessi  contribuiscono  all'acquisto  degli  onori  e  dei  disonori» 


58  INTRODUZIONE 

L'umanità,  insomma,  come  giocattolo  nelle  mani  della  fortuna,  o,  se- 
condo l'interpretazione  di  Lutero,  come  una  sorta  di  «giuoco  di  Dio», 
di  un  Dio  che  fa  della  storia  profana  stessa  un  evento  teatrale'". 

Il  Candelaio  e  lo  Spaccio  testimoniano  l'esatto  contrario.  Il  destino 
degli  uomini  non  è  nelle  mani  di  un  regista  estemo  che  dall'alto  de- 
termina tutti  gli  eventi.  Né  gli  dèi,  né  la  fortuna  posseggono  tale  po- 
tere. Lo  ha  sperimentato  sulla  sua  pelle  Gioan  Bernardo,  lo  testimo- 
nierà  due  anni  dopo  la  Fortuna  in  persona,  nella  riforma  celeste  archi- 
tettata da  Giove.  Bruno  libera  il  topos  dalle  ambiguità,  lo  ripulisce  da 
ogni  disegno  predestinativo.  Sfrutta  abilmente  il  tema  della  «masche- 
ra», così  come  emerge  in  un  passaggio  delle  Lettere  morali  a  Lucilio, 
per  esemplificare  l'idea  dell'inganno,  dell'illusione.  Seneca,  infatti,  ci 
esorta  a  diffidare  delle  immagini  esteme:  gli  uomini  ricchi  e  potenti 
sono  felici  quanto  possono  esserlo  gli  attori  che  recitano  il  ruolo  di  un 
re  a  teatro.  Finito  lo  spettacolo,  dismessi  gli  abiti  regali,  tolti  i  coturni, 
ognuno  ritoma  ad  essere  quello  che  veramente  è  nella  vita  di  tutti  i 
giorni  "'•: 


(Plotino,  Enneadi,  a  cura  di  Mario  Casaglia,  Chiara  Guidelli,  Alessandro  Lin- 
guitti,  Fausto  Moriani,  prefazione  di  Francesco  Adomo,  Torino,  Utet  1997,  voi. 
I  [III,  2,  17],  pp.  395-396).  Plotino,  in  effetti,  considera  «giocattolo»  solo  la  sfera 
«umbratile»  dell'uomo,  la  sua  dimensione  inferiore:  «Alle  uccisioni,  alle  morti 
di  ogni  genere,  alle  prese  e  ai  saccheggi  di  città  dobbiamo  assistere  come  se 
avvenissero  sui  palcoscenici  dei  teatri:  sono  tutti  cambi  di  scena  e  di  costume, 
finti  pianti  e  finti  lamenti.  Perché  anche  qui,  nei  singoli  eventi  della  vita,  non 
è  l'anima  interiore,  bensì  quella  esteriore,  ombra  dell'uomo,  a  gemere  e  a  di- 
sperarsi, e  a  fare  ogni  cosa  su  un  palcoscenico  che  è  la  terra  intera,  dove  gli 
uomini  hanno  allestito  ovunque  le  loro  scene.  Così  agisce  infatti  un  uomo  che 
sa  vivere  soltanto  per  le  cose  inferiori  ed  esteriori,  e  che  ignora  che  anche  tra  le 
lacrime  sta  solo  giocando,  persino  quando  piange  lacrime  vere.  Perché  solo  alla 
parte  nobile  e  seria  dell'uomo  è  concesso  impegnarsi  con  serietà  in  azioni  serie, 
mentre  tutto  il  resto  per  lui  è  gioco»  (Ibidem,  III,  2,  15,  pp.  391-392).  Il  topos 
dell'uomo  nelle  vesti  di  attore  appare  anche  nella  riflessione  conclusiva  dei 
Ricordi:  Marco  Aurelio,  Ricordi,  introduzione  di  Max  Pohlenz,  traduzione  di 
Enrico  TuroUa,  schemi  analitici  e  commento  di  Marcello  Zanatta,  Milano,  Riz- 
zoli, 1997  (Xn,  36),  p.  479. 

153.  Per  l'interpretazione  cristiana  in  generale  e  luterana  cfr.  Ernst  Ro- 
bert Curtius,  Metafore  teatrali,  in  Letteratura  europea  e  Medio  Evo  latino  cit., 
p.  160. 

154.  «Nemo  ex  istis  quos  purpuratos  vides  felix  est,  non  magis  quam  ex 
illis  quibus  sceptrum  et  chlamydem  in  scaena  fabulae  adsignant:  cum  prae- 
sente  populo  lati  incesserunt  et  coturnati,  simul  exierunt,  excalceantur  et  ad 
staturam  suam  redeunt.  Nemo  istorum  quos  divitiae  honoresque  in  altiore  fa- 
stigio ponunt  magnus  est»  («Nessuno  di  questi  uomini  che  vedi  con  vesti  di 
porpora  è  felice,  non  più  di  quanto  tu  possa  stimare  felice  uno  di  quelli  a  cui  i 
loro  ruoli  di  attori  tragici  assegnano  scettro  e  clamide  sulla  scena;  prima  ince- 
dono davanti  al  pubblico  con  tronfio  sussiego  e  rialzati  sui  coturni,  poi,  non 
appena  sono  usciti  dal  palcoscenico,  si  tolgono  i  calzari  e  tornano  alla  loro 
statura.  Nessuno  di  costoro  che  la  ricchezza  e  le  cariche  onorifiche  pongono  su 


INTRODUZIONE  59 

Hoc  laboramus  errore,  sic  nobis  inponitur  quod  neminem  aestima- 
mus  eo  quod  est,  sed  adicimus  illi  et  ea  quibus  adomatus  est.  Atqui 
cum  voles  veram  hominis  aestimationem  inire  et  scire  qualis  sit,  nu- 
dum  inspice;  ponat  patrimonium,  ponat  honores  et  alia  fortunae  men- 
dacia, corpus  ipsum  exuat:  animum  intuere,  qualis  quantusque  sit,  alie- 
no an  suo  magnus"'. 

Bisogna  svestire  i  commedianti  e  guardarli  «nudi»  per  evitare  gli 
inganni.  Le  «maschere»,  soprattutto  nel  vorticoso  gioco  proposto  da 
Erasmo  nelV Elogio  della  follia^^^,  testimoniano  lo  scarto  tra  Vintus  e 
Veoctra.  Anche  il  Candelaio  non  sfugge  a  questa  ambiguità;  esterior- 
mente, è  vero,  si  presenta  in  maschera;  ma  nello  stesso  tempo,  come 
testimonia  il  sonetto  proemiale,  si  offre  sotto  forma  di  un  «libro»  de- 
stinato a  circolare  «nudo»  («oimè  ch'i'  men  vo  nudo  com'un  Bia»), 
pronto  a  correre  il  rischio  di  «monstrar  scuopert'alla  signora  mia  / 
il  zero  e  menchia  com'il  padr'Adamo»!'^.  Bruno  si  batte  contro  la 
«censura»^'**.  Mostrare  le  «oscenità»  del  corpo  e  smascherare  (met- 
tere a  nudo)  l'ignoranza  dei  tre  personaggi-simbolo  significa  svelare 
lo  scarto  tra  sapienza  vera  e  falsa  sapienza,  tra  realtà  e  illusione: 
tutto  ciò  nella  profonda  consapevolezza  di  esporsi  a  feroci  reazioni, 
a  immediate  ritorsioni  («da  le  valli  /  veggio  montar  gran  furia  di 
cavalli  »)''''. 

Ma  il  tema  del  theatrum  mundi  ci  permette  anche  di  reperire  un 
possibile  legame  con  il  milieu  francese.  Alla  corte  di  Caterina  de'  Me- 
dici, durante  le  feste  organizzate  dalla  Regina  a  Fontainebleau  nel 


una  vetta  più  alta  è  un  uomo  grande»):  Seneca,  Lettere  morali  a  Lucilio  (76),  a 
cura  di  Ferdinando  Solinas,  prefazione  di  Carlo  Carena,  Milano,  Mondadori, 
1995,  v.  I,  pp.  454-455. 

155.  «Questo  è  l'errore  di  cui  soffriamo,  un'illusione  che  si  impone  alla  no- 
stra mente  perché  non  valutiamo  nessun  uomo  per  quello  che  è,  ma  gli  ag- 
giungiamo i  paludamenti  di  cui  è  ornato.  Perciò,  quando  vorrai  procedere  alla 
stima  autentica  di  un  uomo  e  sapere  qual  è  la  sua  natura,  osservalo  nudo: 
deponga  il  suo  patrimonio,  deponga  le  cariche  onorifiche  e  gli  altri  mendaci 
orpelli  della  Fortuna,  si  spogli  persino  del  corpo.  Considera  attentamente  la 
sua  personalità,  quale  e  quanta  consistenza  abbia,  se  sia  grande  per  virtù  sua  o 
altrui»:  Ibidem. 

156.  Per  un'analisi  del  concetto  di  «teatro  del  mondo»  in  Erasmo  e  in 
Bruno  cfr.  GIULIO  Ferroni,  Frammenti  di  discorsi  sul  comico,  in  AA.VV.,  Ambi- 
guità del  comico,  cit,  pp.  45-55. 

157.  Candelaio,  p.  259. 

158.  «Qua  Giordano  parla  per  volgare,  nomina  liberamente,  dona  il  pro- 
prio nome  a  chi  la  natura  dona  il  proprio  essere;  non  dice  vergognoso  quel  che 
fa  degno  la  natura;  non  cuopre  quel  ch'ella  mostra  aperto;  chiama  il  pane, 
pane;  il  vino,  vino;  il  capo,  capo;  il  piede,  piede;  et  altre  parti,  di  proprio  nome; 
dice  il  mangiare,  mangiare;  il  dormire,  dormire;  il  bere,  bere:  e  cossi  gli  altri 
atti  naturali  significa  con  proprio  titolo»:  Spaccio,  p.  175. 

159.  Candelaio,  p.  260. 


60  INTRODUZIONE 

1564  per  pacificare  le  opposte  fazioni  di  cattolici  e  ugonotti  i*^,  spetta  a 
Michel  de  Castelnau  -  futuro  ambasciatore  a  Londra  -  recitare  alcuni 
versi  di  Ronsard  sul  rapporto  vita-commedia: 

La  ben  té  regne  au  Ciel,  la  vertu,  la  justice: 
En  terre  on  ne  voit  rien  que  fraude,  que  malice: 
Et  bref  tout  ce  monde  est  un  publique  marche, 
L'un  y  vend,  l'un  desrobe,  et  l'autre  achete  et  change, 
Un  mesme  fait  produit  le  blasme  et  la  louange, 
Et  ce  qui  est  vertu,  semble  à  l'autre  peché'^^. 

Vedremo  più  avanti,  a  proposito  della  religione  e  della  sua  fun- 
zione etico-civile,  in  che  maniera  si  ritrovino  nello  Spaccio  possibili 
echi  di  Ronsard  e  di  Castelnau.  Resta  evidente,  in  questi  versi,  la 
preoccupazione  per  la  natura  illusoria  del  teatro  del  mondo:  errori  di 
prospettiva  e  faJsi  valori  minacciano  la  nostra  esistenza,  creando  peri- 
colosi scambi  tra  vizi  e  virtù,  realtà  ed  apparenza. 

In  sostanza,  l'intera  trama  del  Candelaio  è  costruita,  come  in  un 
gioco  di  specchi,  sulla  moltiplicazione  degli  inganni  che  si  svolgono 
sulla  scena.  Se  Scaramuré^^^  e  Mamfurio^^^  alludono  al  disorienta- 
mento dei  personaggi  che  in  alcuni  momenti  sembrano  recitare  in  una 
commedia,  il  valzer  dei  travestimenti  raggiunge  livelli  di  allucina- 
zione nei  repentini  scambi  tra  Carubina  e  Vittoria  (rappresentate  dalla 


160.  Sulla  funzione  politica  delle  feste  si  veda  R  Strong,  Magnificenza  «po- 
litique»,  in  Io.,  Arte  e  potere.  Le  feste  del  Rinascimento  1450-1650,  Milano,  Il  Sag- 
giatore, 1987  [1984],  pp.  165-204  (sulle  feste  di  Fontainebleau  in  particolare  cfr. 
le  pp.  169-174). 

161.  Ronsard,  Pour  la  fin  d'une  Comedie,  in  CEuvres  complètes,  t  II,  p.  844. 
Ronsard  insiste  su  questo  tema  anche  nel  Discours  à  Odet  de  CoUigny,  cardinal 
de  Chatillon  (1560):  Ibidem,  t  II,  w.  1-8,  p.  836.  La  circostanza  è  ricordata  anche 
da  Castelnau:  «Et,  après  la  comedie,  qui  fut  admirée  d'un  chacun,  je  fus  choisi 
pour  reciter  en  la  grande  salle,  devant  le  Roy,  le  fruit  qui  se  peut  tirar  des 
tragedies,  esquelles  sont  representées  les  actions  des  empereurs,  rois,  princes, 
bergers  et  toutes  sortes  de  gens  qui  vivent  en  la  terre,  le  theatre  commun  du 
monde,  où  les  hommes  sont  les  acteurs,  et  la  fortune  est  bien  souvent  mai- 
stresse  de  la  scene  et  de  la  vie;  car  tei  represente  aujourd'huy  le  personnage 
d'un  gran  prince,  demain  joue  celuy  d'un  bouffon,  aussi  bien  sur  le  gran  thea- 
tre que  sur  le  petit»  (Michel  de  Castelnau,  Mémoires,  in  Collection  complète 
des  Mémoires  relatifs  à  l'histoire  de  France,  réunie  par  M.  Petitot  Paris,  Librairie 
Foucault,  1823,  t.  XXXIII.  pp.  323-324). 

162.  «GiOAN  Bernardo.  [...]  son  mascherati  di  barba  anch'essi?  Sca- 
RAMURÉ.  Tutti:  che  in  vero  questa  mi  par  essere  una  comedia»:  Candelaio, 
p.  411. 

163.  «Mamfurio.  [...]  Oh,  veggio  di  molti  spectatori  la  corona.  Ascanio. 
Non  vi  par  esser  entro  una  comedia?  Mamfurio.  Ita  sane.  Ascanio.  Non  cre- 
dete d'esser  in  scena?  Mamfurio.  Omni  procul  dubio»:  Candelaio,  p.  423. 


INTRODUZIONE  6l 

stessa  attrice)'^  o  nell'incontro  tra  Gioan  Bernardo  e  il  suo  sosia  (ov- 
vero Bonifacio  mascherato  da  Gioan  Bernardo): 

GiOAN  Bernardo.  O  là  messer-de-la-negra-barba,  dimmi  chi  di  noi  dui 
è  io:  io  o  tu?  Non  rispondi? 

Bonifacio.  Voi  séte  voi,  et  io  sono  io. 

Gioan  Bernardo.  Come  «io  sono  io»?  Non  hai  tu,  ladro,  rubbata  la 
mia  persona,  e  sotto  questo  abito  et  apparenzia  vai  commettendo  di  ribal- 
derie? [...]  165. 

In  effetti,  il  pittore  G.  B.,  non  solo  dissimula  la  sua  conoscenza  de- 
gli eventi  con  frasi  ironiche  («O  io  sono  io,  o  costui  è  io»)!^^^  ma  con- 
tribuisce con  alcuni  suoi  atteggiamenti  a  rendere  ancora  più  parados- 
sali gli  ambigui  rapporti  tra  vita  e  teatro,  soprattutto  quando  di  na- 
scosto, neir« ombra»,  spia  gli  eventi  che  scorrono  sulla  scena:  proprio 
lui,  deus  ex  machina,  talvolta  sembra  estraniarsi  dalla  commedia  e  os- 
servare dall'esterno  la  realizzazione  dei  suoi  piani.  Effetti  di  teatro  nel 
teatro,  insomma  ^^v  jj  pubblico  nella  sala  (o  il  lettore  nel  silenzio  del 
suo  studio)  percepisce  se  stesso  attraverso  l'occhio  di  chi  assiste  allo 
spettacolo  dall'interno  della  pièce.  Dentro  e  fuori,  nello  stesso  tempo. 
Seduto  in  poltrona,  ma  anche  apparentemente  coinvolto  negli  avveni- 
menti che  si  producono  sul  palcoscenico.  La  scena  invade  il  mondo  e 
il  mondo  si  trasforma  in  una  scena.  Finzione  e  realtà  si  intrecciano,  si 
sovrappongono,  si  confondono. 

Ma  il  gioco  di  travestimenti  e  di  sdoppiamenti  denuncia  soprat- 
tutto gli  inganni  che  si  vivono  sulla  scena  del  mondo.  Come  spesso 
accade  nel  teatro  inglese  fra  Cinque  e  Seicento  -  e  questa  analogia 
rivela  ancora  di  più  l'interesse  che  le  opere  di  Bruno  potevano  susci- 
tare in  un  milieu  avido  di  questi  temi  —  la  menzogna,  la  finzione  ar- 
chitettata sulla  scena,  risponde  a  una  strategia  di  «svelamento».  Pro- 
prio nei  momenti  più  intensi  di  metateatralità  si  apre  uno  spiraglio  di 
luce  che  la  pièce  pone  al  servizio  della  verità.  Non  a  caso  la  questione 
della  giustizia  e  della  sua  ricomposizione  ritoma  con  insistenza  nella 
grande   stagione   della   drammaturgia   inglese  ^6*.   Rappresentare   un 


164.  Nell'ultimo  atto,  l'attrice  che  rappresenta  Carabina  e  Vittoria  («Quella 
bagassa  che  è  ordinata  per  rapresentar  Vittoria  e  Carubina,  bave  non  so  che 
mal  di  madre»,  p.  274)  mentre  veste  i  panni  di  Carubina  si  maschera  da  Vit- 
toria (p.  367). 

165.  Candelaio,  p.  382. 

166.  Ibidem. 

167.  Sui  meccanismi  illusori  del  teatro  nel  teatro  cfr  Georges  Forestier, 
Le  théàtre  dans  le  théàtre  sur  la  scène  frangaise  du  XVIF  siede,  Genève,  Droz, 
1996. 

168.  Su  questo  tema  si  vedano  le  interessanti  considerazioni  di  Mario  Do- 


02  INTRODUZIONE 

«processo»  -  come  accade  nel  Candelaio  -  significa  anche  riproporre, 
attraverso  il  teatro  nel  teatro,  il  momento  solenne  del  «giudizio»,  in 
cui  ogni  personaggio  viene  «retribuito»  secondo  i  suoi  «meriti»'^''. 

L'uno  e  il  molteplice 

Seguire  le  vicende  dei  tre  personaggi  significa  ripercorrere  su  vari 
livelli  le  diverse  forme  della  dialettica  realtà-apparenza.  Gli  inganni 
investono  la  concezione  della  poetica  e  del  comico,  della  commedia  e 
della  vita  Ma  soprattutto  la  loro  potenza  si  esplica  sul  piano  della 
conoscenza,  sulla  capacità  di  orientarsi  nella  fitta  rete  di  illusioni  e  di 
travestimenti  che  domina  il  multiforme  universo  in  cui  siamo  im- 
mersi. Non  solo  la  scena  del  Candelaio  è  caratterizzata  dalla  vicissitu- 
dine delle  cose  e  dall'energia  vitale  di  personaggi  in  grado  di  annien- 
tare tutto  ciò  che  è  immobile  ed  unidimensionale.  Anche  il  theatrum 
mundi  è  governato  dalle  stesse  regole,  dal  continuo  flusso  degli  oppo- 
sti, dal  tempo  che  «tutto  toglie  e  tutto  dà»: 

Ricordatevi,  signora,  di  quel  che  credo  che  non  bisogna  insegnarvi:  -  Il 
tempo  tutto  toglie  e  tutto  dà;  ogni  cosa  si  muta,  nulla  s'annihila;  è  un  solo 
che  non  può  mutarsi,  un  solo  è  etemo,  e  può  perseverare  eternamente  uno, 
simile  e  medesmo.  -  Con  questa  filosofia  l'animo  mi  s'aggrandisse,  e  me 
si  magnifica  l'intelletto.  Però  qualumque  sii  il  punto  di  questa  sera 
ch'aspetto,  si  la  mutazione  è  vera,  io  che  son  ne  la  notte,  aspetto  il  giorno, 
e  quei  che  son  nel  giorno,  aspettano  la  notte.  Tutto  quel  ch'è,  o  è  equa  o 
Uà,  o  vicino  o  lungi,  o  adesso  o  poi,  o  presto  o  tardi  ^^°. 

Ogni  cosa  si  trasforma,  si  muta.  Dinnanzi  ai  nostri  occhi  ciò  che 
esiste  sembra  perdersi  definitivamente,  una  volta  per  tutte.  In  effetti, 
non  è  così.  Qua  si  annulla  una  forma,  si  dissolve  uno  specifico  indivi- 
duo. Ma  nello  stesso  tempo  là  nasce  un'altra  forma,  un  nuovo  essere  si 
apre  alla  vita.  Gli  aggregati  si  disgregano  e  gli  elementi  indistruttibili 
vagano  da  un  composto  all'altro,  senza  fermarsi  mai,  senza  conoscere 
l'immobilità  e  il  riposo.  Fluire  delle  forme,  da  una  parte.  Permanere 
dell'identità  degli  indivisibili,  dall'altra.  Ancora  un  tema  capitale,  ab- 
bozzato in  questa  splendida  ouverture  teatrale,  che  troverà  ulteriori 
sviluppi  nei  movimenti  successivi  dei  dialoghi  italiani. 


MENICHELLI,  7Z  limite  dell'ombra.  Le  figure  della  soglia  nel  teatro  inglese  fra  Cinque 
e  Seicento,  Milano,  Franco  Angeli.  1994,  pp.  34-52  (ma  in  particolare  pp.  36-43). 

169.  Ibidem,  41.  Sul  processo  come  rappresentazione  del  teatro  nel  teatro 
cfr.  l'Introduzione  di  Agostino  Lombardo  a  W.  Shakespeare,  H  mercante  di  Ve- 
nezia, traduzione  a  cura  di  Agostino  Lombardo,  Milano,  Feltrinelli,  1992,  p.  X. 

170.  Candelaio,  pp.  263-264. 


INTRODUZIONE  63 

Di  questo  scarto  tra  ciò  che  appare  e  ciò  che  è,  il  Candelaio  è  viva 
testimonianza.  Allo  spettatore-lettore  è  richiesto  uno  sforzo  di  sintesi, 
uno  scatto  di  intelligenza  che  gli  permetta  di  ridurre  l'apparente  mol- 
teplicità delle  vicende  dei  tre  personaggi  a  un  comune  denominatore, 
a  un  «punto  di  unione»'^'.  Dietro  le  tre  storie,  insomma,  bisogna  co- 
gliere un'unica  causa:  l'ignoranza,  la  non  conoscenza  di  sé.  Effetti  dif- 
ferenti, è  vero.  Atteggiamenti  che  si  esplicano  in  ambiti  e  in  modi  di- 
versi, certo.  Ma  la  radice  da  cui  germinano  è  soltanto  una:  la  presun- 
zione di  sapienza. 

Solo  su  queste  basi  è  possibile  capire  il  vano  movimento  circolare 
di  Bonifacio,  Bartolomeo  e  Mamfurio.  Il  loro  avvolgersi  su  se  stessi,  il 
loro  apparente  avanzare,  il  loro  muoversi  senza  frutto  sulla  scena  di 
una  commedia  che  si  presenta  pluricentrica.  Bruno  moltiplica  i  luo- 
ghi, i  tempi,  le  azioni.  Sembra  annunciare  gli  smarrimenti  e  i  turba- 
menti provocati  da  un  «cosmo»  infinito,  da  una  scena  acentrica,  da 
una  pièce  senza  un  punto  fisso,  senza  un  unico  filo  da  seguire:  «A  me  è 
stato  commesso  il  prologo;  e  vi  giuro  ch'è  tanto  intricato  et  indiavo- 
lato, che  son  quattro  giorni  che  vi  ho  sudato  sopra  e  dì  e  notte:  che 
non  bastan  tutti  trombetti  e  tamburini  delle  Muse  puttane  d'Elicona  a 
ficcarmen'una  pagliusca  dentro  la  memoria» '^2  Decentramenti  diso- 
rientanti per  un  pubblico  abituato  alle  rigide  regole,  letterarie  e  co- 
smologiche, dell'aristotelismo  cinquecentesco:  alla  funzione  centripeta 
di  una  forza  normalizzatrice  si  sostituisce  una  funzione  centrifuga  di 
una  forza  destabilizzatrice.  Ma,  come  abbiamo  visto,  la  questione  del- 
l'unità nel  Candelaio  si  pone  su  piani  diversi,  che  ormai  non  hanno 
più  nulla  a  che  fare  con  una  concezione  «tolemaica»  dell'universo, 
della  lingua,  della  poetica. 

Bisogna  cambiare  prospettiva.  Nella  commedia  è  continuo  l'invito 
a  «vedere»  1^^.  L'intero  proprologo  si  regge  su  questo  verbo  che,  in  po- 
che paginette,  ricorre  per  ben  quattordici  volte  come  incipit  di  lunghi 
cataloghi  caratterizzati  dalYenumeraiio.  Per  «vedere»,  però,  non  ser- 
vono solo  gli  occhi.  Si  «vede»  anche,  o  soprattutto,  con  gli  occhi  della 


171.  «Però  se  fisica,  matematica  e  moralmente  si  considera:  vedasi  che  non 
ha  trovato  poco  quel  filosofo  che  è  dovenuto  alla  raggione  della  coincidenza  de 
contrarli;  e  non  è  imbecille  prattico  quel  mago  che  la  sa  cercare  dove  ella  con- 
siste»: Spaccio,  p.  198.  Ma  nel  De  la  causa  Bruno  ricorda  anche  che  «in  conclu- 
sione chi  vuol  sapere  massimi  secreti  di  natura,  riguardi  e  contemplo  circa  gli 
minimi  e  massimi  de  gli  contrarli  et  oppositl.  Profonda  magia  è  saper  trar  il 
contrario,  dopo  aver  trovato  il  punto  de  l'unione»  (p.  744). 

172.  Candelaio,  p.  274. 

173.  Carla  De  Bellis,  Giordano  Bruno:  la  parola  e  il  vedere  nei  prologhi  del 
Candelaio,  in  «FM»,  Annali  dell'Istituto  di  Filologia  Moderna  dell'Università  di 
Roma,  1-2  (1980),  pp.  43-109. 


64  INTRODUZIONE 

mente.  La  «luce»  del  Candelaio,  oltre  a  illuminare  le  vicende  che  flui- 
scono sulla  scena,  promette  di  «chiarir  alquanto  certe  Ombre  delfidee». 
Proprio  in  quello  stesso  anno,  nel  1582,  Bruno  pubblica  a  Parigi  il  De 
umbris  idearum  e  il  Cantus  circaeus.  Due  testi  di  mnemotecnica,  dove 
su  piani  diversi  e  con  linguaggi  differenti  il  Nolano  propone  un  itine- 
rario «visivo».  Pure  qui,  conoscere  significa  «vedere».  Se  nel  De  umbris 
si  vede  attraverso  le  immagini  che  si  combinano  nel  giro  delle  cinque 
ruote '^-t,  nel  Cantus  si  vede  nello  scarto  tra  forme  esteriori  e  sostanza 
interiore,  tra  extra  ed  intus^^^.  In  entrambi  i  casi  si  tratta  di  unificare 
ciò  che  è  differente,  cercando  di  distinguere  dietro  la  molteplicità  delle 
apparenze  la  vera  essenza  delle  cose'^^ 

In  fondo,  il  fluire  dei  travestimenti  e  delle  illusioni  che  caratterizza 
il  Candelaio  si  traduce  in  maniera  diversa  nella  dialettica  luce-ombra 
messa  in  scena  nel  De  umbris:  totalmente  immersi  in  una  conoscenza 
umbratile  è  difficile  distinguere  con  chiarezza  la  realtà  dall'inganno. 
La  stessa  cosa,  come  abbiamo  già  visto,  può  essere  benefica  per  alcuni 
e  malefica  per  altri.  Il  sole,  per  esempio,  può  «illuminare»  e  può  ren- 
dere completamente  ciechi.  E  l'identico  discorso  vale  anche  per  l'om- 
bra; all'interno  di  un  medesimo  orizzonte  —  caratterizzato  dal  bene  e 
dal  male,  dal  vero  e  dal  falso  -  avremo  l'ombra  oscura  della  morte  e 
l'ombra  che  prepara  lo  sguardo  alla  luce'"''. 


174.  Sulla  mnemotecnica  bruniana  e  sulla  nozione  di  «ombra»  si  vedano 
gli  eccellenti  lavori  di  Rita  Sturlese:  Introduzione  a  Giordano  Bruno,  De 
umbris  idearum.  a  cura  di  Rita  Sturlese.  cit,  pp.  IX-LXXVII;  Per  un'interpreta- 
zione del  De  umbris  idearum  di  Giordano  Bruno,  cit  Cfr.  anche  Michele  Cili- 
berto, Giordano  Bruno.  Roma-Bari,  Laterza,  1996,  pp.  22-46.  Sulle  arti  della 
memoria  restano  ancora  un  solido  punto  di  riferimento  il  volume  di  F.  A. 
Yates  (L'arte  della  memoria  cit.)  e  quello  di  P.aolo  Rossi  (Clavis  universalis. 
Arti  della  memoria  e  logica  combinatoria  da  Lullo  a  Leibniz.  Bologna,  il  Mulino, 
1983).  Importante  il  recente  saggio  di  Nicola  Badaloni,  B  De  umbris  idea- 
rum  come  discorso  sul  metodo,  cit  Ai  rapporti  specifici  tra  parola  e  immagine  ha 
dedicato  un  prezioso  contributo  Lina  Bolzoni.  La  stanza  della  memoria.  Mo- 
delli letterari  e  iconografici  nell'età  della  stampa.  Torino.  Einaudi,  1995. 

175.  Alcuni  possibili  intrecci  tra  Candelaio  e  Cantus.  alla  luce  del  rapporto 
apparenza/realtà,  sono  discussi  da  Michele  Ciliberto,  Giordano  Bruno  cit, 
pp.  38-46 

176.  E  interessante  notare  che,  anche  se  da  una  prospettiva  del  tutto  di- 
versa, alcune  pagine  iniziali  del  Filebo  di  Platone  siano  proprio  dedicate  al 
tema  del  rapporto  tra  unità  e  molteplicità:  Filebo  cit  (14-15),  pp.  491-493. 

177.  «Consequenter  te  non  praetereat  quod  cum  umbra  habeat  quid  de 
luce,  et  quid  de  tenebris,  duplici  aliquem  accidit  esse  sub  umbra;  umbra  vide- 
licet  tenebrarum  et  -  ut  aiunt  -  «mortis»,  quod  est  cum  potentiae  superiores 
emarcescunt,  et  ociantur.  aut  subserviunt  inferioribus,  quatenus  animus  circa 
vitam  tantum  corporalem  versatur,  atque  sensum;  et  umbra  lucis,  quod  est 
cum  potentiae  inferiores  superi[i]oribus  adspirantibus  in  aetema  eminentio- 
raque  obiecta  subiiciuntur,  ut  accidit  in  caelis  versanti  qui  spiritu  irritamenta 
camis  inculcat  Illud  est  umbra  incumbere  in  tenebras,  hoc  est  umbram  in- 


INTRODUZIONE  65 

Gioan  Bernardo,  tra  pittura  e  filosofia 

Come  orientarsi,  allora,  nel  labirinto  degli  inganni?  Nel  Candelaio 
una  risposta  potrebbe  venire  da  un  pittore,  le  cui  iniziali  (G.  B.)  non 
lasciano  dubbi  sulla  sua  identità.  Spetta  a  lui,  infatti,  tessere  la  «tela» 
della  commedia  («Io  mi  accorgo  che  voi  siete  troppo  scaltrito,  che 
avete  saputo  tessere  tutta  questa  tela»)'^*  per  poi  raccogliere  i  frutti 
del  suo  lavoro  e  della  sua  intelligenza.  Del  resto,  la  pièce  stessa  si  pre- 
senta come  una  «tela»  («questa  è  una  specie  di  tela,  ch'ha  l'ordimento 
e  tessitura  insieme;  chi  la  può  capir,  la  capisca;  chi  la  vuol  intendere, 
l'intenda»)'^'',  giocando  evidentemente  sulla  polisemia  della  parola:  al- 
lusione al  textum,  naturalmente;  allusione  alla  trama,  all'ordito  di  una 
storia;  allusione  alla  tela  del  ragno,  all'inganno,  alla  trappola;  allu- 
sione ai  telari,  scenari  teatrali  dipinti  su  tela.  Ma  anche  allusione  al- 
l'attività del  pittore,  al  suo  dipingere  tele.  Attività  che  simbolicamente 
avvicina  ancora  di  più  Gioan  Bernardo  a  Giordano  Bruno.  Il  primo 
ordisce  la  trama  dall'interno  della  commedia,  il  secondo  tesse  il  textum 
dall'esterno.  Entrambi,  però,  praticano  la  «pittura»:  Gioan  Bernardo  la 
esercita  esplicitamente  nel  Candelaio,  mentre  Giordano  Bruno  stesso  a 
più  riprese  rivendicherà  il  suo  ruolo  di  «filosofo-pittore».  In  un  pas- 


cumbere  in  lucem.  /  In  orizonte  quidem  lucis  et  tenebranim  nil  aliud  intelli- 
gere  possumus  quam  umbram.  Haec  in  orizonte  boni  et  mali,  veri  et  falsi.  Hic 
est  ipsum  quod  potest  bonificari,  et  maleficari,  falsari,  et  ventate  formari;  quo- 
dque  istorsum  tendens  sub  istius,  illorsum  vero  sub  umbra  esse  dicitur»  [«Di 
conseguenza  non  dovrà  sfuggirti  ciò:  poiché  l'ombra  ha  qualcosa  della  luce  e 
qualcosa  della  tenebra,  capita  che  qualcuno  sia  sotto  due  specie  di  ombra:  cioè 
l'ombra  delle  tenebre  e  (come  dicono)  della  morte;  questo  è  quando  le  potenze 
superiori  avvizziscono  ed  oziano,  oppure  si  fanno  serve  delle  inferiori,  allorché 
l'animo  si  manifesta  soltanto  attorno  alla  vita  corporea,  e  al  senso;  oppure 
l'ombra  della  luce:  che  è  quando  le  potenze  inferiori  si  assoggettano  alle  supe- 
riori le  quali  a  loro  volta  aspirano  a  mete  eteme  e  più  eccellenti,  così  come 
capita  a  chi  dimora  nei  cieli,  il  quale  con  lo  spirito  soffoca  le  sollecitazioni 
della  carne.  Quella  è  l'ombra  che  si  protende  verso  la  tenebra,  questa  è  l'ombra 
che  si  protende  verso  la  luce.  Nell'orizzonte  della  luce  e  della  tenebra,  nient'al- 
tro  possiamo  infatti  intendere  se  non  l'ombra.  Questa  è  nell'orizzonte  del  bene 
e  del  male,  del  vero  e  del  falso.  Qui  si  trova  quel  che  può  essere  reso  buono  e 
cattivo,  falsificato  e  conformato  alla  verità:  esso,  se  tende  da  questa  parte  viene 
detto  essere  sotto  l'ombra  di  questo,  se  tende  dall'altra  invece  sotto  l'ombra  di 
quello»]:  Giordano  Bruno,  De  umbris  idearum,  a  cura  di  Rita  Sturlese,  cit, 
p.  28;  trad.  it.:  Giordano  Bruno,  Le  ombre  delle  idee.  E  canto  di  Circe.  Il  sigillo 
dei  sigilli  introduzione  di  Michele  Ciliberto,  traduzione  e  note  di  Nicoletta  Ti- 
rinnanzi,  Milano,  Rizzoli,  1997,  pp.  61-62. 

178.  Candelaio,  p.  387.  Ma  Gioan  Bernardo  è  anche  colui  che  si  burla  di 
tutti:  «Cencio.  Oh,  voi  sempre  burlate.  Gioan  Bernardo.  Sì  sì,  burlo»  (Ibidem, 
p.  301). 

179.  Ibidem,  p.  276. 


66  INTRODUZIONE 

saggio  deW Explicatio  triginta  sigillonim  la  corrispondenza  delle  fun- 
zioni finisce  anche  per  inglobare  la  poesia  i^°. 

Filosofo  e  pittore,  dunque,  ma  anche  poeta.  Da  questa  poliedrica 
identità,  come  vedremo  più  avanti  in  un  paragrafo  interamente  dedi- 
cato all'argomento,  non  si  può  prescindere  per  capire  la  genesi  delle 
opere  italiane.  In  fondo,  filosofia,  poesia  e  pittura  si  esprimono  per  im- 
magini. E  solo  attraverso  le  «immagini»  si  dice  l'indicibile,  si  vede 
l'invisibile.  Immersa  nel  fluire  delle  ombre,  la  conoscenza  umana  dif- 
ficilmente potrebbe  avvalersi  di  altro.  Bruno  «dipinge»  nel  Candelaio, 
ma  anche  le  altre  opere  londinesi  sembrano  concretizzarsi  nel  segno  di 
una  «filosofia-poesia-pittura» '^^.  Non  a  caso  la  Cena  viene  presentata 
come  un  particolare  tipo  di  «ritratto»: 

Se  nel  ritrare  vi  par  che  i  colori  non  rispondano  perfettamente  al  vivo, 
e  gli  delineamenti  non  vi  parranno  al  tutto  proprii,  sappiate  ch'il  difetto  è 
provenuto  da  questo,  che  il  pittore  non  ha  possuto  essaminar  il  ritratto 
con  que'  spacii  e  distanze,  che  soglion  prendere  i  maestri  de  l'arte:  perché 
oltre  che  la  tavola  o  il  campo  era  troppo  vicino  al  volto  e  gli  occhi,  non  si 
possea  retirar  un  minimo  passo  a  dietro  o  discostar  da  l'uno  e  l'altro 
canto,  senza  timor  di  far  quel  salto,  che  feo  il  figlio  del  famoso  defensor  di 
Troia.  Pur  tal  qual'è,  prendete  questo  ritratto  ove  son  que'  doi,  que'  cento, 
que'  mille,  que'  tutti;  atteso  che  non  vi  si  manda  per  informarvi  di  quel 
che  sapete,  né  per  gionger  acqua  al  rapido  fiume  del  vostro  giudizio  et 
ingegno:  ma  perché  so  che  secondo  l'ordinario,  benché  conosciamo  le  cose 
più  perfettamente  al  vivo,  non  sogliamo  però  dispreggiar  il  ritratto  e  la 
rapresentazion  di  quelle'*^. 

Frammentarietà  della  riproduzione,  imprecisione  dei  colori,  inesat- 
tezza dei  «delineamenti»:  la  filosofia-pittura  del  Nolano  sembra  essere 
coerente  con  i  princìpi  di  fondo  su  cui  ci  siamo  soffermati  all'inizio. 
Non  bisogna  dimenticare  che,  sul  piano  letterario,  questi  «ritratti» 


i8o.  Su  questo  brano  cfr.  infra  pp.  177-178. 

181.  Per  un'analisi  specifica  dei  rapporti  tra  filosofia  e  pittura  in  Bruno, 
rinvio  ai  successivi  paragrafi  7  (Dal  Candelaio  ai  Furori:  il  pittore,  il  filosofo  e 
l'ombra)  e  8  (Filosofia,  pittura  e  poesia:  questioni  di  poetica):  cfr.  infra  pp.  144-190. 

182.  Cena.  pp.  439-440.  Ma  di  pittura  si  parla  anche  in  un  altro  passo  della 
Cena:  «Et  in  ciò  fa  giusto  com'un  pittore:  al  qual  non  basta  far  il  semplice 
ritratto  de  l'istoria:  ma  anco,  per  empir  il  quadro,  e  conformarsi  con  l'arte  a  la 
natura,  vi  depinge  de  le  pietre,  di  monti,  de  gli  arbori,  di  fonti,  di  fiumi,  di 
colline;  e  vi  fa  veder  qua  un  regio  palaggio,  ivi  una  selva,  là  un  straccio  di 
cielo,  in  quel  canto  un  mezo  sol  che  nasce,  e  da  passo  in  passo  un  ucello,  un 
porco,  un  cervio,  un  asino,  un  cavallo:  mentre  basta  di  questo  far  veder  una 
testa,  di  quello  un  corno,  de  l'altro  un  quarto  di  dietro,  di  costui  l'orecchie,  di 
colui  l'intiera  descrizzione;  questo  con  un  gesto  et  una  mina,  che  non  tiene 
quello  e  quell'altro:  di  sorte  che  con  maggior  satisfazzione  di  chi  remira  e  giu- 
dica, viene  ad  istoriar  (come  dicono)  la  figura»  (p.  435). 


INTRODUZIONE  67 

esprimono  la  precarietà  e  la  provvisorietà  del  dialogo.  All'autore-pit- 
tore  non  è  dato  ricostruire  la  realtà  nella  sua  interezza  Se  nello  Spac- 
cio si  dichiara  apertamente  l'impossibilità  di  andare  al  di  là  di  «certi 
occolti  e  confusi  delineamenti  et  ombre,  come  gli  pittori» '^^,  nella  Ca- 
bala si  rivendica  il  valore  conoscitivo  del  dettaglio: 

E  se  questa  raggione  non  vi  sodisfa,  dovete  considerar  oltre  che  questa 
operetta  contiene  una  descrizzione,  una  pittura;  e  che  ne  gli  ritratti  suol 
bastar  il  più  de  le  volte  d'aver  ripresentata  la  testa  sola  senza  il  resto. 
Lascio  che  tal  volta  si  mostra  eccellente  artificio  in  far  una  sola  mano,  un 
piede,  una  gamba,  un  occhio,  una  svèlta  orecchia,  un  mezo  volto  che  si 
spicca  da  dietro  un  arbore,  o  dal  cantoncello  d'una  fenestra,  o  sta  come 
sculpito  al  ventre  d'una  tazza,  la  qual  abbia  per  base  un  pie  d'oca,  o 
d'aquila,  o  di  qualch'altro  animale:  non  però  si  danna,  né  però  si  spreggia, 
ma  più  viene  accettata  et  approvata  la  manifattura'**^. 

Giordano  Bruno,  insomma,  non  è  un  pittore  qualsiasi.  Così  come 
non  lo  è  Gioan  Bernardo.  Entrambi  praticano  un'«arte»  speciale,  fre- 
quentano un  genere  che  esprime  in  maniera  ben  precisa  l'orizzonte  dei 
loro  molteplici  interessi.  G.  B.,  nella  commedia,  sa  distinguere  la  realtà 
dalla  finzione.  Di  fronte  alle  pretese  di  Bonifacio  («ma  per  vita  vostra 
fatemi  bello»),  il  pittore  non  esita  a  differenziare  i  due  piani  del  «ri- 
trarre»: «Non  comandate  tanto,  si  volete  esser  servito:  si  desiderate  che 
io  vi  faccia  bello,  è  una;  si  volete  ch'io  vi  ritragga,  è  un'altra»'^'.  Ma 
questo  non  significa  che  un'immagine,  anche  se  vera,  sia  sempre 
uguale  a  se  stessa  nello  scorrere  del  tempo: 

Gioan  Bernardo.  Voi  dite  di  gran  cose:  è  possibile  che  quello  che  hai 
fatto  oggi  abbi  possuto  far  ieri  o  altro  giorno,  o  voi  o  altro  che  sii?  o  che 
per  tutto  tempo  di  vostra  vita  possiate  fare  quel  che  una  volta  è  fatto? 
Cossi  quel  che  facesti  ieri  non  lo  farai  mai  più;  et  io  mai  feci  quel  ritratto 
ch'ho  fatto  oggi,  né  manco  è  possibile  ch'io  possa  farlo  più:  questo  sì,  che 
potrò  fame  un  altro '^^ 

Permanenza  nella  mutazione,  mutazione  nella  permanenza.  Non  si 
tratta  di  giochi  di  parole,  ma  di  semi  della  filosofia  nolana.  Nessuna 
cosa  è  sempre  uguale  a  stessa,  ma  tutte  le  cose  sono  fatte  di  indivisibili 
uguali.  Apparentemente,  oggi  non  sono  diverso  da  ieri.  Apparente- 
mente, l'aggregato  atomico  muore.  Non  è  facile,  in  entrambi  casi,  «ve- 
dere» la  forma  che  si  trasforma  e  l'immortalità  degli  elementi  ultimi. 


183.  Spaccio,  p.  179. 

184.  Cabala,  p.  414. 

185.  Candelaio,  p.  295. 

186.  Ibidem,  pp.  294-295. 


68  INTRODUZIONE 

Gioan  Bernardo  lancia  un  messaggio.  Ci  dice  con  chiarezza  che  la  sua 
«arte  è  di  depengere,  e  donar  a  gli  occhii  de  mundani  la  imagine  di 
nostro  Signore,  di  nostra  Madonna,  e  d'altri  santi  di  paradiso»^*''.  In 
altre  parole:  G.  B.  cerca  di  mostrare  «agli  occhii  de  mundani»  ciò  che 
non  si  vede,  ciò  che  la  realtà  materiale  non  permette  di  cogliere. 

Alla  stessa  maniera,  sin  dalle  pagine  della  commedia,  la  funzione 
simbolica  del  Bruno-pittore  è  proprio  quella  di  mettere  sotto  gli  occhi 
degli  uomini,  attraverso  l'uso  delle  immagini,  ciò  che  si  nasconde  die- 
tro le  apparenze,  per  offrire  con  il  suo  Candelaio  uno  spiraglio  di  luce 
in  un  universo  fatto  di  ombre  e  di  inganni,  di  illusioni  e  di  finzioni,  di 
mutazioni  e  di  vicissitudini  ^^^. 


IV. 

LA  COSMOLOGIA  E  LA  FILOSOFIA  DELLA  NATURA: 
CENA,  DE  LA  CAUSA,  DE  L'INFINITO 

La  ricchezza  dei  temi  e  delle  anticipazioni  deìV ouverture  annun- 
ciano la  straordinaria  forza  sovversiva  del  primo  movimento.  Il  punto 
di  partenza  della  «nolana  filosofia»  è  la  creazione  di  un  nuovo  inizio, 
di  una  nuova  cosmologia  capace  di  distruggere  le  catene  del  geocentri- 
smo. Liberare  la  Terra  dalla  falsa  immobilità,  dai  falsi  princìpi  di  una 
perversa  filosofia,  avrebbe  significato  rivoluzionare  la  concezione  del- 
l'universo: non  più  una  separazione  tra  mondo  sublunare  e  mondo  ce- 
leste, ma  finalmente  un  cosmo  unico,  omogeneo,  infinito,  popolato  da 
innumerevoli  mondi. 

Per  dare  forma  al  suo  progetto,  il  Nolano  prende  le  mosse  dalla 
geniale  scoperta  di  Copernico.  Edito  nel  1543  a  Norimberga,  il  De  re- 
volutionibus  aveva  segnato  una  svolta  importantissima  nel  campo 
astronomico,  dimostrando  per  la  prima  volta  con  solidi  argomenti 
geometrici  e  matematici  il  moto  rotatorio  della  Terra  attorno  al  So- 
le 1^^.  In  poche  paginette,  infatti,  si  potevano  ritrovare  tutti  gli  ele- 


187.  Ibidem,  p.  416. 

188.  Lo  stesso  titolo  della  commedia  potrebbe  alludere  alla  luce  come  fonte 
necessaria  per  la  proiezione  delle  ombre:  su  questo  tema  cfr.  infra  pp.  1 70-171. 

189.  Per  una  ricostruzione  storica  delle  diverse  teorie  della  rotazione  della 
Terra  prima  e  dopo  Copernico  cfr.  Michel  Lerner,  Le  monde  des  sphères.  II. 
La  fin  du  cosmos  classique,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1997,  pp.  86-135  (rn^  si  veda 
anche  Thomas  S.  Kuhn,  La  rivoluzione  copernicana.  L'astronomia  planetaria 
nello  sviluppo  del  pensiero  occidentale,  Torino,  Einaudi,  1972).  Sul  rapporto  Bru- 


INTRODUZIONE  69 

menti  per  spazzare  via  la  cosmologia  geocentrica,  che  aveva  dominato 
incontrastata  per  tantissimi  secoli.  Ma  il  trattato  non  ebbe  l'acco- 
glienza che  meritava.  Si  diffuse  soprattutto  in  circoli  ristretti  di  ad- 
detti ai  lavori,  senza  suscitare  ampi  dibattiti. 

Spezzare  le  catene  del  geocentrismo 

Bisognerà  aspettare  La  cena  de  le  Ceneri  (1584),  e  un  po'  più  tardi  le 
riflessioni  di  Galilei,  per  avere  un  consapevole  rilancio  dell'ipotesi  co- 
pernicana 1''°.  Suddivisa  in  cinque  dialoghi,  la  Cena  -  di  cui  si  conosce 
una  duplice  redazione  di  alcuni  specifici  passaggi '''^  -  è  animata  da 
quattro  interlocutori:  Smitho  (gentiluomo  inglese,  probabilmente  John 
Smith),  Teofilo  (il  «filosofo»,  portaparola  del  pensiero  di  Bruno),  Pru- 
denzio (il  «pedante»)  e  Frulla  («cosa  da  niente»).  Nelle  prime  due  parti 
si  enunciano  alcuni  temi  del  dibattito  e  si  raccontano  le  circostanze 
della  cena  che  si  terrà  da  Fulke  Greville  (amico  di  Philip  Sidney  e 


no-Copemico  si  vedano  almeno:  E.  Me  Mullin,  Bruno  and  Copernicus,  in 
«Isis»,  78  (1987),  pp.  55-74;  R.  Maspero,  Scienza  e  copernicanesimo  in  Bruno: 
principali  orientamenti  della  critica  dal  1950  ad  oggi,  in  «Rivista  di  storia  della 
filosofia»,  I  (1989),  pp.  141-152;  Miguel  Angel  Granada,  Introduction  à  Gior- 
dano Bruno,  De  l'infini,  de  l'univers  et  des  mondes.  (Euvres  complètes.  IV,  texte 
établi  par  Giovanni  Àquilecchia,  Notes  de  Jean  Seidengart,  traduction  de  Jean- 
Pierre  Cavaillé,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1995,  pp.  XXX-XLIII;  Luciana  de 
Bernart,  Bruno  e  i  «fondamenti»  filosofici  della  teoria  copernicana,  in  «Nouvel- 
les  de  la  Republique  des  Lettres»,  II  (1994),  pp.  47-74. 

190.  «Quali  furono  le  accoglienze  fatte  fuori  d'Italia  a  questa  dottrina?  Il 
Retico,  discepolo  del  Copernico,  l'abbracciò  senza  ampliarla,  il  Rheinold  stette 
incerto,  Gaspare  Peucero  la  qualificò  ipotesi,  il  Ticone  Brahe  la  ripudiò,  il  Me- 
stlino  la  professò  rimessamente.  Un  uomo  solo  in  Germania,  il  Keplero,  la  pro- 
clamò con  impareggiabile  arditezza,  dedicandovi  tutto  se  stesso  [...].  In  Italia  in 
diversa  guisa  con  diverse  tragiche  vicende,  due  uomini  unirono  il  loro  nome  al 
trionfo  di  quella.  Giordano  Bruno  e  Galileo  Galilei»:  Domenico  Berti,  Coper- 
nico e  le  vicende  del  sistema  copernicano  in  Italia  nella  seconda  metà  del  secolo 
XVI  e  nella  prima  del  XVII...,  Roma,  G.  B.  Paravia,  1876,  pp.  76-77.  Sull'attua- 
lità del  giudizio  del  Berti,  nel  riconoscere  solo  a  Bruno  e  Galilei  la  compren- 
sione e  lo  sviluppo  del  De  revolutionibus,  e  sulla  differenza  tra  le  due  specifiche 
interpretazioni  di  Copernico  si  veda  ora  Maurizio  Torrini,  Introduzione  a 
AA.W.,  La  diffusione  del  copernicanesimo  in  Italia  154J-1610,  a  cura  di  Mas- 
simo Bucciantini  e  Maurizio  Torrini,  Firenze,  Olschki,  1997,  pp.  i-io.  Ma  si 
vedano  anche:  Michel-Pierre  Lerner,  Tre  saggi  sulla  cosmologia  alla  fine  del 
Cinquecento,  Napoli,  Bibliopolis,  1992;  Miguel  Angel  Granada,  Thomas  Dig- 
ges,  Giordano  Bruno  y  el  desarrollo  del  copernicanismo  en  Inglaterra,  in  «Endo- 
xa»,  4  (1993),  pp.  7-42;  AA.W.,  Copernico  e  la  questione  copernicana  in  Italia  dal 
XVI  al  XIX  secolo,  a  cura  di  L.  Pepe,  Firenze,  Olschki,  1996. 

191.  Le  due  redazioni  sono  discusse  nel  fondamentale  lavoro  di  Giovanni 
Àquilecchia,  La  lezione  definitiva  della  Cena  de  le  Ceneri  di  Giordano  Bruno 
[1950],  in  Schede  bruniane  cit,  pp.  3-39  (ma  cfr.  anche  Id.,  Le  opere  italiane  di 
Giordano  Bruno.  Critica  testuale  ed  oltre  cit.).  Per  la  versione  precedente  cfr.  l'ap- 
pendice infra  pp.  575-590. 


70  INTRODUZIONE 

protettore  di  Bruno),  mentre  nella  terza  e  nella  quarta  si  narra  la  di- 
sputa del  Nolano  con  Torquato  e  Nundinio  (gli  aristotelici  oxoniensi) 
e,  infine,  nella  quinta  si  discutono  in  maniera  più  dettagliata  i  prin- 
cìpi della  cosmologia  bruniana. 

ISincipit  del  dialogo  assume  un  importante  valore  simbolico.  L'au- 
tore tesse,  in  maniera  aperta  ed  inequivocabile,  le  lodi  di  Copernico: 

Lui  [Copernico]  avea  un  grave,  elaborato,  sollecito  e  maturo  ingegno: 
uomo  che  non  è  inferiore  a  nessuno  astronomo  che  sii  stato  avanti  lui,  se 
non  per  luogo  di  successione  e  tempo;  uomo  che  quanto  al  giudizio  natu- 
rale è  stato  molto  superiore  a  Tolomeo,  Ipparco,  Eudoxo,  e  tutti  gli  altri 
ch'han  caminato  appo  i  vestigli  di  questi:  al  che  è  dovenuto  per  essersi 
liberato  da  alcuni  presuppositi  falsi  de  la  comone  e  volgar  filosofia,  non 
voglio  dir  cecità.  [...]  chi  potrà  a  pieno  lodar  la  magnanimità  di  questo 
germano,  il  quale  avendo  poco  riguardo  a  la  stolta  moltitudine,  è  stato  sì 
saldo  centra  il  torrente  de  la  contraria  fede?  e  benché  quasi  inerme  di  vive 
raggioni,  ripigliando  quelli  abietti  e  rugginosi  fragmenti  ch"ha  possuto 
aver  per  le  mani  da  la  antiquità,  le  ha  ripoliti,  accozzati  e  risaldati  in 
tanto  con  quel  suo  più  matematico  che  naturai  discorso,  ch'ha  resa  la 
causa  già  ridicola,  abietta  e  vilipesa,  onorata,  preggiata,  più  verisimile  che 
la  contraria;  e  certissimamente  più  comoda  et  ispedita  per  la  teorica  e  rag- 
gione  calculatoria'''-. 

L'elogio  di  Copernico  non  deve  però  trarre  in  inganno.  Il  Nolano 
riconosce  con  entusicismo  la  genialità  delle  sue  scoperte,  il  rigore  delle 
sue  dimostrazioni.  Considera  straordinaria  l'interpretazione  dei  feno- 
meni celesti  che  attestano  il  movimento  della  Terra  e  ridicolizzano  le 
astruse  costruzioni  degli  epicicli.  Ma  -  e  questo  è  un  punto  di  vitale 
entità  -  l'eliocentrismo  del  De  revolutionibus  rimane  imprigionato  in 
un  universo  chiuso,  in  un  cosmo  circoscritto  dalla  sfera  cristallina 
delle  stelle  fisse.  L'astronomo  polacco  opera  una  radicale  innovazione, 
inscrivendola  però  all'interno  di  una  cosmologia  tradizionale,  chiusa  e 
delimitata.  Non  compie,  secondo  Bruno,  il  passo  decisivo  che  avrebbe 
distrutto  una  volta  per  tutte  i  limiti  e  i  confini  dell'universo.  Non  de- 
duce dallo  sradicamento  del  geocentrismo  la  necessità  di  liberare  la 
natura  e  gli  esseri  viventi  da  un  cosmo  percepito  come  un'angusta  pri- 
gione. Una  ratio  fondata  esclusivamente  su  calcoli  e  misure,  insomma, 
non  è  sufficiente  per  cogliere  fino  in  fondo  tutte  le  necessarie  conse- 
guenze delle  teorie  copernicane: 


192.  Cena,  pp.  448-449.  Su  questo  brano  cfr.  Miguel  Angel  Granad.a, 
L'interpretazione  bruniana  di  Copernico  e  la  «Narratio  prima»  di  Rheticus,  in  «Ri- 
nascimento», XXX  (1990),  pp.  343-365. 


INTRODUZIONE  71 

[...]  per  che  lui  più  studioso  de  la  matematica  che  de  la  natura,  non  ha 
possuto  profondar  e  penetrar  sin  tanto  che  potesse  a  fatto  toglier  via  le 
radici  de  inconvenienti  e  vani  principii,  onde  perfettamente  sciogliesse 
tutte  le  contrarie  difficultà,  e  venesse  a  liberar  e  sé  et  altri  da  tante  vane 
inquisizioni,  e  fermar  la  contemplazione  ne  le  cose  costante  et  certe  ^^*. 

Ecco  perché  Bruno  sin  dalle  prime  battute  della  Cena  non  esita  a 
ribadire  «che  lui  non  vedea  per  gli  occhi  di  Copernico,  né  di  Ptolo- 
meo»,  «ma  per  i  proprii  quanto  al  giudizio  e  la  determinazione» '^•^. 
Qui  egli  opera  una  precisa  distinzione.  Le  osservazioni  di  alcuni  «sol- 
leciti matematici»  e  dell'astronomo  polacco  che  «a  tempi  e  tempi, 
giongendo  lume  a  lume,  ne  han  donati  principii  sufficenti»''"  sono 
preziosissime.  Ma  non  bastano.  Spetta  al  filosofo,  successivamente,  pe- 
netrare il  senso  delle  cose,  interpretare  in  profondità  i  segni  e  le  impli- 
cazioni delle  scoperte  («ma  sono  gli  altri  poi  che  profondano  ne'  sen- 
timenti, e  non  essi  medesimi  »)^9^ 

Il  Nolano  intuisce  che  l'idea  di  un  universo  infinito,  senza  centro, 
senza  limiti,  popolato  da  innumerevoli  mondi,  difficilmente  si  concilia 
con  le  esigenze  della  «raggione  calculatoria»!''^.  Laddove  le  misure  de- 
vono confrontarsi  con  una  realtà  che  sfugge  alle  misure,  laddove  i  cal- 
coli devono  dar  conto  di  entità  incalcolabili,  laddove  le  esigenze  della 
formalizzazione  richiedono  di  dar  forma  all'informe,  laddove  si  sgre- 
tola la  plurisecolare  visione  di  un  universo  chiuso,  limitato,  determi- 
nato c'è  bisogno  di  un  salto,  di  uno  sforzo  che  può  essere  concepito 
solo  nella  filosofia''^:  «altro  è  giocare  con  la  geometria,  altro  è  verifi- 
care con  la  natura»''^''.  Pensare  una  «geometria»  dell'infinito  significa 
misurarsi  con  concetti  che  implicano  l'indeterminatezza,  il  caos,  l'im- 
mensità. Significa  «profondare...  ne'  sentimenti»,  penetrare  con  la  forza 
della  mente  gli  angoli  più  reconditi  della  natura 

Le  teorie  di  Copernico,  insomma,  si  configurano  «come  un'aurora», 
come  un  primo  bagliore  di  luce  che  penetra  la  secolare  oscurità  del- 
l'ignoranza. Un  chiarore  che  precede  e  annuncia  «l'uscita  di  questo 
sole  de  l'antiqua  vera  filosofia»^"".  Spetta  però  al  Nolano  il  compito  di 
stracciare  definitivamente  i  limiti  e  i  confini  dell'universo: 


193.  Cena,  p.  449. 

194.  Ibidem,  p.  447. 

195.  Ibidem. 

196.  Ibidem. 

197.  Ibidem,  p.  449. 

198.  Su  questo  tema  ha  scritto  pagine  importanti  Biagio  de  Giovanni, 
L'infinito  in  Bruno,  in  «il  Centauro»,  16  (1986),  pp.  lo-ii. 

199.  Cena,  p.  549. 

200.  Ibidem,  p.  450. 


72  INTRODUZIONE 

Or  ecco  quello  ch'ha  varcato  l'aria,  penetrato  il  cielo,  discorse  le  stelle, 
trapassati  gli  margini  del  mondo,  fatte  svanir  le  fantastiche  muraglia  de  le 
prime,  ottave,  none,  decime,  et  altre  che  vi  s'avesser  potute  aggiongere 
sfere  per  relazione  de  vani  matematici  e  cieco  veder  di  filosofi  volgari. 
Cossi  al  cospetto  d'ogni  senso  e  raggione,  co  la  chiave  di  solertissima  in- 
quisizione aperti  que'  chiostri  de  la  verità  che  da  noi  aprir  si  posseano, 
nudata  la  ricoperta  e  velata  natura;  ha  donati  gli  occhi  a  le  talpe,  illumi- 
nati i  ciechi  che  non  possean  fissar  gli  ochi  e  mirar  l'imagin  sua  in  tanti 
specchi  che  da  ogni  lato  gli  s'opponeno.  Sciolta  la  lingua  a  muti,  che  non 
sapeano  e  non  ardivano  esplicar  gl'intricati  sentimenti;  risaldati  i  zoppi 
che  non  valean  far  quel  progresso  col  spirto,  che  non  può  far  l'ignobile  e 
dissolubile  composto:  le  rende  non  men  presenti,  che  si  fussero  proprii  abi- 
tatori del  sole,  de  la  luna,  et  altri  nomati  astri.  Dimostra  quanto  siino  si- 
mili 0  dissimili,  maggiori  o  peggiori,  que'  corpi  che  veggiamo  lontano,  a 
quello  che  n'è  appresso  et  a  cui  siamo  uniti;  e  n'apre  gli  occhii  ad  veder 
questo  nume,  questa  nostra  madre,  che  nel  suo  dorso  ne  alimenta  e  ne 
nutrisce,  dopo  averne  produtti  dal  suo  grembo  al  qual  di  nuovo  sempre  ne 
riaccoglie;  e  non  pensar  oltre,  lei  essere  un  corpo  senza  alma  e  vita,  et 
anche  feccia  tra  le  sustanze  corporali.  [...]  Cossi  conoscemo  tante  stelle, 
tanti  astri,  tanti  numi,  che  son  quelle  tante  centenaia  de  migliaia  ch'assi- 
stono al  ministerio  e  contemplazione  del  primo,  universale,  infinito  et 
etemo  efficiente.  Non  è  più  impriggionata  la  nostra  raggione  co  i  ceppi  de 
fantastici  mobili  e  motori  otto,  nove  e  diece-°'. 

In  questa  pagina  carica  di  eroico  entusiasmo  è  possibile  ritrovare 
accennati  quasi  tutti  i  nuclei  vitali  della  «nolana  filosofia».  Bruno  ci 
accompagna  per  mano  verso  i  presunti  limiti  dell'universo.  Ci  fa  ve- 
dere che  nessuna  muraglia  racchiude  il  cosmo  e  che  il  nostro  sistema 
solare  può  essere  uno  dei  tanti  sistemi  che  popolano  l'infinito.  Ci  mo- 
stra che  la  Terra  non  è  al  centro,  che  l'uomo  non  è  al  centro  del  centro 
e  che  la  nozione  in  sé  di  centro  assoluto  è  una  menzogna.  Nell'uni- 
verso infinito  il  centro  non  esiste,  non  è  in  nessun  luogo.  O  meglio:  il 
centro,  proprio  perché  non  è  in  nessun  luogo,  può  essere  dappertutto. 
Si  può  parlare  di  centro,  quindi,  solo  in  un'accezione  relativa.  Con  una 
conseguenza,  però,  che  cambia  radicalmente  il  nostro  modo  di  ragio- 
nare: l'esperienza  del  centro  può  essere  vissuta  soltanto  dal  singolo  in- 
dividuo. Non  è  più  possibile  parlare  in  generale  di  uomini,  di  piante, 
di  animali,  di  astri.  Ma  di  quello  specifico  uomo,  di  quella  specifica 
pianta,  di  quello  specifico  animale,  di  quello  specifico  astro.  In  altri 
termini:  Bruno  spezza  tutte  le  antiche  gerarchie  geocentriche,  facendo 
piazza  pulita  di  una  scala  di  valori  priva  di  senso.  Nell'universo  infi- 
nito gli  aggregati  atomici  più  grandi  e  quelli  più  piccoli  godono  di 


20I.  Ibidem,  pp.  454-455. 


INTRODUZIONE  73 

Uguale  dignità.  La  più  minuscola  pulce  è  al  centro  dell'universo,  allo 
stesso  titolo  del  pianeta  più  grande.  Di  fronte  all'indeterminatezza  le 
grandezze  non  contano:  «per  che  cose  minime  e  sordide  son  semi  di 
cose  grande  et  eccellenti» ^"2. 

La  cosmologia  bruniana  azzera  ogni  tipo  di  classificazione,  ogni 
forma  di  subordinazione  fondata  sulle  misure,  sulle  proporzioni,  sulla 
quantitas  o  su  primati  di  perverse  ontologie.  Tutto  ciò  che  esiste  può 
essere  centro  non  solo  per  banali  ragioni  geometriche.  Può  essere  cen- 
tro soprattutto  perché  ogni  essere,  visibile  o  invisibile,  indipendente- 
mente dalle  sue  dimensioni  è  animato  dalla  stessa  forza  vitale.  Quella 
particolare  formica  o  quella  specifica  stella  sono  espressioni  diverse 
della  stessa  natura,  della  stessa  materia  che  nutre  ogni  cosa:  ricono- 
scere in  ogni  singolo  individuo  la  medesima  dignità  significa  porre  la 
vita  al  centro  dell'universo  infinito.  Una  vita  infinita  che  alimenta  ed 
agita  ogni  cosa.  Che  ha  un  valore  in  sé,  indipendentemente  da  ogni 
gerarchia.  Basta  rileggere  una  splendida  pagina  dello  Spaccio  per  ca- 
pire come  anche  le  più  piccole  «minuzzarie»  siano  al  centro  delle 
preoccupazioni  di  Giove.  Ancora  una  volta  Bruno  svolge  un  tema  im- 
portante in  chiave  comica.  Mercurio  scende  sulla  Terra,  a  Nola,  per 
portare  a  termine  una  serie  di  incarichi  assegnatigli  dal  padre  degli 
dèi: 

Ha  ordinato  [Giove]  che  [...]  Vasta  moglie  di  Albenzio,  mentre  si  vuole 
increspar  gli  capelli  de  le  tempie,  vegna  (per  aver  troppo  scaldato  il  ferro) 
a  bruggiame  cinquanta  sette:  ma  che  non  si  scotte  la  testa;  e  per  questa 
volta  non  biastemi  quando  sentirà  il  puzzo,  ma  con  pazienza  la  passe.  [...] 
Che  la  gonna  che  mastro  Danese  taglia  su  la  pianca,  vegna  stroppiata.  Che 
da  le  tavole  del  letto  di  Costantino  si  partano  dodeci  cimici,  e  se  ne  va- 
dano al  capezzale:  sette  de  gli  più  grandi,  quattro  de  più  piccioli,  uno  de 
mediocri;  e  di  quello  che  di  essi  ha  da  essere  questa  sera  al  lume  di  can- 
dela, provederemo.  Che  a  quindeci  minuti  de  la  medesima  ora  per  il  moto 
de  la  lingua  la  quale  si  varrà  la  quarta  volta  rimenando  per  il  palato,  a  la 
vecchia  di  Fiurulo  casche  la  terza  mola  che  tiene  nella  mascella  destra  di 
sotto:  la  qual  caduta  sia  senza  sangue  e  senza  dolore;  perché  la  detta  mola 
è  gionta  al  termine  della  sua  trepidazione,  che  ha  perdurato  a  punto  diece 
sette  annue  revoluzioni  lunari.  Che  Ambruoggio  nella  centesima  e  duode- 
cima spinta  abbia  spaccio  et  ispedito  il  negocio  con  la  mogliera,  e  che  non 
la  ingravide  per  questa  volta:  ma  ne  l'altra  con  quel  seme  in  cui  si  con- 
vertisce  quel  porro  cotto  che  mangia  al  presente  con  la  sapa  e  pane  di 
miglio  2°^. 


202.  Ibidem,  p.  439. 

203.  Spaccio,  pp.  247-249. 


74  INTRODUZIONE 

I  capelli  di  Vasta,  le  pulci  di  Costantino,  la  gonna  di  mastro  Da- 
nese, il  molare  della  vecchia  di  Fiurulo  occupano  un  posto  importante 
nel  destino  cosmico.  La  sequenza  delle  singole  situazioni  mostra  come 
il  punto  di  vista  si  sposti  man  mano  che  Mercurio  passa  da  un  caso 
all'altro.  Vedremo  più  avanti,  nel  De  la  causa  e  nel  De  l'infinito,  gli 
sviluppi  analitici  delle  riflessioni  sui  rapporti  tra  vita  e  materia,  tra 
vita  e  infinito.  Qui  ci  preme,  invece,  mettere  a  fuoco  qualche  altro 
spunto  di  rilievo  della  Cena. 

Bruno  sa  di  essere  più  «copernicano»  di  Copernico.  E  capisce  con 
chiarezza  le  implicazioni  rivoluzionarie  che  le  sue  radicali  interpreta- 
zioni della  cosmologia  eliocentrica  suscitano  sul  piano  religioso.  Non  a 
caso  nelle  pagine  iniziali  del  terzo  dialogo,  l'ira  del  filosofo  si  abbatte 
contro  quella  «bestia,  che  mostra  pur  troppo  quanto  sii  ignorante  de 
la  vera  optica  e  geometria» 2°''.  Si  tratta  dell'anonimo  autore  della  pre- 
fazione al  De  revolutionibus,  attribuita  all'Osiander,  associato  da  Bruno 
all'ampia  schiera  di  coloro  che  considerano  le  ipotesi  copernicane,  pro- 
prio perché  in  contrasto  con  il  geocentrismo  di  matrice  cristiana,  come 
«un  passatempo  da  pazzi  ingeniosi»^"^.  In  effetti,  dietro  l'invettiva  di 
Bruno  c'è  una  chiara  difesa  dell'autonomia  della  filosofia  dalla  teolo- 
gia. Nella  Cena,  infatti,  ritroviamo  abbozzata  la  distinzione  tra  filosofia 
e  religione,  tra  sapere  razionale  e  fede,  che  sarà  successivamente  svi- 
luppata nello  Spaccio: 

Smitho.  Perché  la  divina  scrittura  (il  senso  della  quale  ne  deve  essere 
molto  raccomandato  come  cosa  che  procede  da  intelligenze  superiori  che 
non  errano)  in  molti  luoghi  accenna  e  suppone  il  contrario. 


204.  Cena,  p.  495. 

205.  Ibidem,  p.  493.  L'Osiander  nella  sua  prefazione,  riducendo  le  ipotesi  di 
Copernico  a  puro  esercizio  matematico,  salva  la  tradizionale  visione  del  geo- 
centrismo in  accordo  con  i  princìpi  della  teologia:  «Ncque  enim  necesse  est,  eas 
hypotheses  esse  veras,  imo  ne  verisimiles  quidam,  sed  sufficit  hoc  unum,  si 
calculum  observationibus  congruentem  exhibeant  [...].  Ncque  quisquam,  quod 
ad  hypotheses  attinet,  quicquam  certi  ab  astronomia  expectet,  cum  ipsa  nihil 
tale  praestare  queat,  ne  si  in  alium  usum  conficta  prò  veris  arripiat,  stultior  ab 
hac  disciplina  discedat  quam  accesserit»  [«Non  è  infatti  necessario  che  queste 
ipotesi  siano  vere,  e  persino  nemmeno  verosimili,  ma  è  sufficiente  solo  questo: 
che  presentino  un  calcolo  conforme  alle  osservazioni  [...].  E  perché  non  si  lasci 
questo  studio  più  stolti  di  quando  lo  si  era  intrapreso,  prendendo  per  vere  cose 
preparate  per  altro  uso,  nessuno  si  aspetti  dall'astronomia,  per  quello  che  si 
attiene  alle  ipotesi,  alcunché  di  certo,  perché  niente  di  simile  essa  può  mostra- 
re»] ([Andrea  Osiander],  Al  lettore,  sulle  ipotesi  di  quest'opera,  in  Niccolò  Co- 
pernico, De  revolutionibus  orbiutn  caelestium,  a  cura  di  Alexander  Koyré,  tra- 
duzione di  Corrado  Vivanti,  Torino,  Einaudi,  1975,  pp.  4-5).  L'avvertimento 
deirOsiander  scatenò  immediatamente  le  ire  degli  amici  di  Copernico,  tra  cui 
Tiedemann  Giese,  che  domandò  alla  magistratura  di  Norimberga  di  ordinare 
la  soppressione  della  lettera  (cfr.  V Introduzione  di  A.  Koyré,  ibidem,  p.  XIX). 


INTRODUZIONE  75 

Teofilo.  Or  quanto  a  questo  credetemi  che  se  gli  Dei  si  fussero  de- 
gnati d'insegnarci  la  teorica  delle  cose  della  natura,  come  ne  han  fatto 
favore  di  proporci  la  prattica  di  cose  morali,  io  più  tosto  mi  accostarci  alla 
fede  de  le  loro  revelazioni,  che  muovermi  punto  della  certezza  de  mie  rag- 
gioni  e  proprii  sentimenti.  Ma  (come  chiarissimamente  ogn'uno  può  ve- 
dere) nelli  divini  libri  in  servizio  del  nostro  intelletto  non  si  trattano  le 
demostrazioni  e  speculazioni  circa  le  cose  naturali,  come  se  fusse  filosofia: 
ma  in  grazia  de  la  nostra  mente  et  affetto,  per  le  leggi  si  ordina  la  prattica 
circa  le  azzione  morali.  Avendo  dumque  il  divino  legislatore  questo  scopo 
avanti  gli  occhii,  nel  resto  non  si  cura  di  parlar  secondo  quella  verità  per 
la  quale  non  profittarebbono  i  volgari  per  ritrarse  dal  male  et  appigliarse 
al  bene:  ma  di  questo  il  pensiero  Isiscia  a  gli  uomini  contemplativi;  e  parla 
al  volgo  di  maniera  che  secondo  il  suo  modo  de  intendere  e  di  parlare, 
venghi  a  capire  quel  ch'è  principale ^o^. 

I  libri  sacri  non  parlano  di  filosofia,  non 'descrivono  i  fenomeni  na- 
turali, non  indagano  i  segreti  del  moto  degli  astri.  Sarebbe  una  follia 
considerare  le  frasi  delV Ecclesiaste  sui  movimenti  del  sole  come  pura 
verità^o^.  Si  finirebbe  per  «prendere  per  metafora  quel  che  non  è  stato 
detto  per  metafora  e  per  il  contrario  prendere  per  vero  quel  che  è  stato 
detto  per  similitudine» 2°*.  Ai  teologi  spetta  istituire  leggi  morali,  che 
abbiano  per  scopo  «la  bontà  de  costumi,  profitto  della  civilità,  con- 
vitto di  popoli;  e  prattica  per  la  commodità  della  umana  conversa- 
zione, mantenimento  di  pace  et  aumento  di  republiche»^^^.  La  «verità 
delle  cose  e  speculazioni»,  invece,  riguarda  solo  e  soltanto  i  filosofi. 
Confondere  i  piani  significa  stravolgere  i  legami  tra  sapere  e  verità,  tra 
religione  e  società  civile. 

Le  dottrine  di  Aristotele  e  i  princìpi  del  cristianesimo  hanno  spez- 
zato il  rapporto  autentico  tra  l'umanità  e  la  vita,  tra  gli  esseri  viventi 
e  la  natura.  Un  rapporto,  invece,  che  era  stato  salvaguardato  dalle  teo- 
rie presocratiche,  dalla  «antiqua  vera  filosofia».  Il  nuovo  «sole»  della 
cosmologia  bruniana  si  eleva  per  ristabilire  quei  perduti  equilibri, 
sommersi  e  occultati  da  secoli  di  oscure  tenebre.  Ricongiungere  cielo  e 


206.  Cena,  p.  522. 

207.  «Molte  volte,  dumque,  et  a  molti  propositi,  è  una  cosa  da  stolto  et 
ignorante,  più  tosto  riferir  le  cose  seconda  la  verità,  che  secondo  l'occasione  e 
comodità.  Come  quando  il  sapiente  disse  "Nasce  il  sole  e  tramonta,  gira  per  il 
mezo  giorno,  e  s'inchina  a  l'Aquilone",  avesse  detto  "La  terra  si  raggira  a 
l'oriente,  e  si  tralascia  il  sole  che  tramonte;  s'inchina  a  doi  tropici,  del  Cancro 
verso  l'Austro,  e  Capricorno  verso  l'Aquilone",  sarrebbono  fermati  gli  auditori 
a  considerare:  "Come  costui  dice  la  terra  muoversi?  che  novelle  son  queste?"; 
l'arrebono  al  fine  stimato  un  pazzo,  e  sarrebe  stato  da  dovero  un  pazzo»:  Ibi- 
dem, pp.  523-524. 

208.  Ibidem,  p.  525. 

209.  Ibidem,  p.  523. 


76  INTRODUZIONE 

terra,  forma  e  materia,  sensibile  e  intelligibile  all'interno  di  un  uni- 
verso unitario,  infinito,  omogeneo  significa  presentificare  r«  antiqua 
vera  filosofia»,  liberarla,  con  i  nuovi  strumenti  della  scienza,  dalla  buia 
notte  in  cui  era  stata  sepolta.  Solo  in  questa  accezione  il  «nuovo»  e 
r« antico»  si  fondono,  diventando  l'uno  continuazione  dell'altro:  «atteso 
che  non  è  cosa  nova,  che  non  possa  esser  vecchia;  e  non  è  cosa  vecchia, 
che  non  sii  stata  nova»^'°.  Ciò  che  oggi  appare  «nuovo»  non  è  altro  che 
r« antico»  riabilitato  e  rafforzato  dalle  conoscenze  del  presente. 

L'unità  di  forma  e  materia 

Con  il  De  la  causa,  principio  et  uno  (1584),  Bruno  mette  in  scena  il 
secondo  movimento  della  «nolana  filosofia».  Nel  dialogo  primo,  com- 
posto probabilmente  per  ultimo  e  concepito  come  una  autodifesa  dagli 
attacchi  subiti  per  le  critiche  espresse  nella  Cena  ai  pedanti  di  Oxford 
e  alla  «plebe»  londinese,  l'autore  fa  intervenire  tre  personaggi:  Elitro- 
pio  (colui  che  si  volge  al  sole  bruniano:  John  Florio?),  Filoteo  (porta- 
parola  del  Nolano)  e  Annesso  (Matthew  Gwinne?)^'^  Nei  dialoghi  se- 
condo-quinto, invece,  subentrano  nuovi  interlocutori  per  animare  il 
dibattito  attorno  alle  teorie  bruniane:  Dicsono  Arelio  (Alexander  Dic- 
son,  gentiluomo  scozzese).  Teofilo  (con  lo  stesso  ruolo  di  Filoteo),  Ger- 
vasio  (con  la  funzione  di  provocare  il  pedante)  e  Polihimnio  (il  pe- 
dante, sostenitore  dell'aristotelismo)-^^'. 


210.  Ibidem,  p.  460.  Sul  nuovo  inizio  di  Bruno  come  rinnovamento  della 
filosofia  antichissima  cfr.  Biagio  de  Giovanni,  L'infinito  in  Bruno  cit,  pp.  19- 
20. 

211.  Sull'autodifesa  di  Bruno  cfr.  supra  p.  23. 

212.  Così  Bruno  descrive  il  pedante:  «Questo  sacrilego  pedante  avete  per  il 
quarto:  uno  de  rigidi  censori  di  filosofi,  onde  si  afferma  Momo;  uno  affettissimo 
circa  il  suo  gregge  di  scolastici,  onde  si  noma  nell'amor  socratico;  uno  perpetuo 
nemico  del  femineo  sesso,  onde  per  non  esser  fisico,  si  stima  Orfeo,  Museo, 
Titiro  et  Amfione.  Questo  è  un  di  quelli  che  quando  ti  arran  fatta  una  bella 
construzzione,  prodotta  una  elegante  epistolina,  scroccata  una  bella  frase  da  la 
popina  ciceroniana,  qua  è  risuscitato  Demostene,  qua  vegeta  Tullio,  qua  vive 
Salustio;  qua  è  un  Argo  che  vede  ogni  lettera,  ogni  sillaba,  ogni  dizzione;  qua 
Radamanto  umbras  vacai  ille  silentum,  qua  Minoe  re  di  Creta  urnam  movet 
Chiamano  all'essamina  le  orazioni,  fanno  discussione  de  le  frase,  con  dire: 
"Queste  sanno  di  poeta,  queste  di  comico,  questa  di  oratore,  questo  è  grave, 
questo  è  lieve,  quello  è  sublime,  quell'altro  è  humile  dicendi  genus-,  questa  ora- 
zione è  aspera,  sarrebe  leve  se  fusse  formata  cossi;  questo  è  uno  infante  scrit- 
tore, poco  studioso  de  la  antiquità,  non  redolet  Arpinatem,  desipit  Latium.  Que- 
sta voce  non  è  tosca,  non  è  usurpata  da  Boccaccio,  Petrarca  et  altri  probati 
autori.  Non  si  scrive  'homo',  ma  'omo';  non  'honore",  ma  'onore';  non  'Polihim- 
nio', ma  'Poliinnio'"»  {De  la  causa,  p.  635-637).  Ma  si  vedano  anche  gli  attacchi 
antipedanteschi  nel  Candelaio  {supra,  p.  47)  e  nei  Furori  {infra,  pp.  171-172). 


INTRODUZIONE  ']'] 

Qui  viene  messo  in  discussione  il  rapporto  antagonistico  che  Ari- 
stotele instaura  tra  forma  e  materia,  tra  atto  e  potenza.  Attraverso  una 
serie  di  delicati  passaggi,  che  prendono  sempre  le  mosse  dalle  argo- 
mentazioni sostenute  dall'avversario,  Bruno  arriva  a  ridurre  il  duali- 
smo in  monismo,  liberando  la  materia  dalla  schiavitù  della  forma.  Nei 
quattro  dialoghi,  infatti,  viene  tracciato  un  percorso  che  mira  a  met- 
tere a  fuoco  ogni  singolo  termine  utilizzato  nel  titolo:  nel  primo  si 
parla  della  «causa»,  intesa  come  «forma»  o  «anima»  (II  dialogo);  nel 
secondo  si  discute  del  «principio»,  considerato  come  «materia»  (III 
dialogo);  nel  terzo  si  affronta  la  delicata  questione  del  rapporto  forma- 
materia  (IV  dialogo);  nel  quarto  si  sancisce  la  piena  indissolubilità 
della  forma  e  della  materia  nell'Uno,  cioè  nel  «Tutto»,  nella  natura 
infinita  ed  omogenea  (V  dialogo)^'^ 

Tra  i  punti  fermi  della  sua  teoria,  il  Nolano  annulla  la  distinzione 
aristotelica  tra  materia  in  atto  (realizzata  pienamente  in  un  oggetto)  e 
materia  in  potenza  (virtualmente  pronta  a  produrre  o  subire  muta- 
menti): 

Non  è  dumque  la  materia  in  potenza  di  essere,  o  la  che  può  essere; 
perché  lei  sempre  è  medesima  et  inmutabile,  et  è  quella  circa  la  quale  e 
nella  quale  è  la  mutazione,  più  tosto  che  quella  che  si  muta.  Quello  che  si 
altera,  si  aumenta,  si  sminuisce,  si  muta  di  loco,  si  corrompe,  sempre  (se- 
condo voi  medesimi  Peripatetici)  è  il  composto,  mai  la  materia:  perché 
dumque  dite  la  materia  or  in  potenza  or  in  atto?^'-" 

Per  spiegare  ancora  meglio  l'infondatezza  di  questa  separazione  im- 
posta dallo  Stagirita,  Bruno  ricorre  per  analogia  ad  un'esemplifica- 
zione tratta  dal  mondo  dell'arte.  Il  pezzo  di  legno,  da  cui  l'artista  ri- 
cava la  statua,  conserva  successivamente  in  ogni  caso  la  sua  natura, 
così  come  la  statua  continua  a  restare  legno,  pur  avendo  assunto  una 
nuova  forma.  Tra  il  legno  grezzo  (che  potenzialmente  potrà  essere 
tutto  ciò  che  la  sua  natura  gli  consente:  sedia,  letto,  armadio,  finestra 
ecc.)  e  l'oggetto  che  da  esso  deriva  (prodotto  dell'attualizzazione  messa 
in  atto  dallo  scultore)  non  c'è  nessuna  differenza  in  quanto  alla  so- 
stanza. La  materia  in  potenza  (il  legno  grezzo)  e  la  materia  in  atto  (la 
statua)  restano  comunque  identiche: 

Come  nelle  cose  artificiali  quando  del  legno  è  fatto  la  statua,  non  di- 
ciamo che  al  legno  vegna  nuovo  essere,  perché  niente  più  o  meno  è  legno 
ora,  che  era  prima:  ma  quello  che  riceve  lo  esser  e  l'attualità,  è  lo  che  di 


213.  Cfr.  Giovanni  Aquilecchia,  Introduzione  a  De  la  causa,  principio  et 
uno  [1973],  in  Id.,  Schede  bruniane  cit.,  p.  254. 

214.  De  la  causa,  p.  722. 


y8  INTRODUZIONE 

nuovo  si  produce,  il  composto,  dico  la  statua.  Come  adumque  a  quello  dite 
appartenere  la  potenza,  che  mai  sarà  in  atto  o  ara  l'atto?^'' 

In  effetti,  esiste  un'unica  materia  che  compone  tutto  ciò  che  è  «cor- 
poreo» e  «incorporeo»  («Di  maniera  che,  se  vogliamo  ben  considerare, 
da  questo  possiamo  inferire  una  essere  la  omniforme  sustanza,  uno 
essere  il  vero  et  ente,  che  secondo  innumerabili  circostanze  et  indivi- 
dui appare,  mostrandosi  in  tanti  e  sì  diversi  suppositi»)^'^  E  questa 
materia  universale  non  subisce  mutazioni,  rimane  sempre  uguale  a  se 
stessa.  Ciò  che  cambia  è  il  composto  che  da  essa  prende  forma.  Qui  e 
là,  insomma.  Bruno  sembra  fare  concessioni  al  dualismo,  utilizzando 
un  lessico  tradizionale  che  legittimerebbe  l'autonomia  della  forma  e 
della  materia: 

dopo  aver  più  maturamente  considerato,  avendo  risguardo  a  più  cose, 
troviamo  che  è  necessario  conoscere  nella  natura  doi  geni  di  sustanza, 
l'uno  che  è  forma,  e  l'altro  che  è  materia;  perché  è  necessario  che  sia  un 
atto  sustanzialissimo,  nel  quale  è  la  potenza  attiva  di  tutto;  et  ancora  una 
potenza  et  un  soggetto,  nel  quale  non  sia  minor  potenza  passiva  di  tutto: 
in  quello  è  potestà  di  fare,  in  questo  è  potestà  di  esser  fatto-'^. 

Ma  si  tratta  di  concessioni  apparenti.  Le  forme,  infatti,  non  ven- 
gono imposte  dall'esterno,  ma  hanno  una  genesi  endogena,  scaturi- 
scono dal  seno  stesso  della  materia.  Sono  animate  da  un  «"artefice  in- 
temo", perché  forma  la  materia,  e  la  figura  da  dentro,  come  da  dentro 
del  seme  o  radice  manda  et  esplica  il  stipe,  da  dentro  il  stipe  caccia  i 
rami,  da  dentro  i  rami  le  formate  brande,  da  dentro  queste  ispiega  le 
gemme,  da  dentro  forma,  figura,  intesse,  come  di  nervi,  le  frondi,  gli 
fiori,  gli  frutti,  e  da  dentro  a  certi  tempi  richiama  gli  suoi  umori  da  le 
frondi  e  frutti  alle  brance;  da  le  brance,  a  gli  rami;  da  gli  rami,  al  stipe; 
dal  stipe  alla  radice:  similmente  ne  gli  animali  spiegando  il  suo  lavore 
dal  seme  prima  e  dal  centro  del  cuore,  a  li  membri  estemi,  e  da  quelli 
al  fine  complicando  verso  il  cuore  l'esplicate  facultadi,  fa  come  già 
venesse  a  ringlomerare  le  già  distese  fila»^'^.  E  questo  «artefice  in- 
temo» («intelletto  universale»)  può  essere  considerato  nello  stesso 
tempo  come  «causa  estrinseca»  (poiché  si  differenzia  dagli  effetti  che 
produce)  e  come  «causa  intrinseca»  (poiché  non  opera  dall'esterno,  ma 
dal  di  dentro  della  materia) ^'^.  Una  distinzione  che  Bruno  concede 


215.  Ibidem,  pp.  721-722. 

216.  Ibidem,  p.  604. 

217.  Ibidem,  pp.  678-679. 

218.  Ibidem,  pp.  653-654. 

219.  Questo  tema  è  discusso  da  Pierre  Magnard,  Puissance  et  matière,  in 


INTRODUZIONE  79 

però  solo  su  un  piano  astratto.  Nella  concretezza  dell'agire,  invece,  ma- 
teria e  forma  («causa»  e  «principio»)  si  identificano  totalmente,  perché 
«lo  ente  logicamente  diviso  in  quel  che  è  e  può  essere,  fisicamente  è 
indiviso,  indistinto  et  uno» 220.  Proprio  nell'Uno,  che  si  esplica  nella 
natura  infinita  e  omogenea,  si  concretizza  questa  indissolubile  unita- 
li De  la  causa,  insomma,  punta  soprattutto  a  restituire  alla  «mate- 
ria» una  dignità  che  le  era  stata  negata  da  Aristotele.  La  bruniana 
filosofia  della  natura  vuole  per  prima  cosa  dimostrare  che  la  «materia 
non  è  quel  prope  nihil,  quella  potenza  pura,  nuda,  senza  atto,  senza 
virtù  e  perfezzione»22i.  Spetta  al  pedante  Polihimnio  riassumere,  con 
un  linguaggio  caricaturale,  le  posizioni  dello  Stagirita,  che  a  più  ri- 
prese pone  effettivamente  sullo  stesso  piano  negativo  la  materia  e  il 
genere  femminile:  entrambi,  infatti,  si  caratterizzano  per  la  loro  passi- 
vità, per  la  loro  inferiorità.  La  materia  è  subalterna  alla  forma,  come 
la  femmina  è  subalterna  al  maschio: 

Studiando  nel  mio  museolo,  in  eum  qui  apud  Aristoteletn  est  locum  in- 
cidi, del  primo  della  Physica,  in  calce;  dove  volendo  elucidare  che  cosa 
fosse  la  prima  materia,  prende  per  specchio  il  sesso  feminile;  sesso,  dico, 
ritroso,  fragile,  inconstante,  molle,  pusillo,  infame,  ignobile,  vile,  abietto, 
negletto,  indegno,  reprobo,  sinistro,  vituperoso,  frigido,  deforme,  vacuo, 
vano,  indiscreto,  insano,  perfido,  neghittoso,  putido,  sozzo,  ingrato,  trunco, 
mutilo,  imperfetto,  incoato,  insufficiente,  preciso,  amputato,  attenuato,  ru- 
gine,  eruca,  zizania,  peste,  morbo,  morte^^z. 

L'analogia  aristotelica  dà  vita  a  un  catalogo  misogino  dove  la 
donna  viene  considerata  come  un  elemento  perturbatore,  come  un  im- 
pedimento, come  una  tempesta,  come  una  tortura  inflitta  al  genere 
umano.  Luoghi  comuni,  che  Gervaso  ribalta  attraverso  l'elogio  di  Ma- 
rie de  Bochetel,  moglie  di  Michel  de  Castelnau,  ambasciatore  francese 
a  Londra: 

Voi  non  riferite  per  il  contrario  tanti  altri  essempi  di  coloro  che  si  son 
stimati  fortunatissimi  per  le  sue  donne;  tra  quali  (per  non  mandarvi 


Cosmologia,  teologìa  y  religión  en  la  obra  y  en  el  proceso  de  Giordano  Bruno,  Actas 
del  congreso  celebrado  en  Barcelona  2-4  diciembre  de  1999,  al  cuidado  de  Mi- 
guel Angel  Granada,  Barcelona,  Publicacions  de  la  Universitat  de  Barcelona, 
2001,  pp.  81-91. 

220.  De  la  causa,  p.  605. 

221.  Ibidem,  pp.  716-717. 

222.  Ibidem,  pp.  703-704.  Sulla  concezione  del  genere  femminile  nel  mondo 
classico,  con  particolare  attenzione  a  Platone  e  Aristotele,  cfr.  Giulia  Sissa, 
Filosofia  del  genere:  Platone,  Aristotele  e  la  differenza  dei  sessi,  in  George  Duby  e 
MiCHELLE  Perrot,  Storia  delle  donne.  L'antichità,  a  cura  di  Pauline  Schmitt 
Pantel,  Roma-Bari,  Laterza,  1990,  voi.  I,  pp.  58-100. 


8o  INTRODUZIONE 

troppo  lontano):  ecco  sotto  questo  medesmo  tetto  il  signor  di  Mauvissiero, 
incorso  in  una,  non  solamente  dotata  di  non  mediocre  corporal  beltade, 
che  gli  awela  et  ammanta  l'alma;  ma  oltre,  che  col  triumvirato  di  molto 
discreto  giudizio,  accorta  modestia  et  onestissima  cortesia,  d'indissolubil 
nodo  tien  avvinto  l'animo  del  suo  consorte,  et  è  potente  a  cattivarsi  chium- 
que  la  conosce.  Che  dirai  de  la  generosa  figlia,  che  a  pena  un  lustro  et  un 
anno  ha  visto  il  sole;  e  per  le  lingue  non  potrai  giudicare  s'ella  è  da  Italia, 
o  da  Francia,  o  da  Inghilterra^'^ 

L'elogio  della  Bochetel  non  ha  solo  una  funzione  encomiastica. 
Vuole  mettere  in  discussione  l'uso  di  categorie  errate  che  ingiusta- 
mente colpiscono  la  donna  e  la  materia:  la  donna  non  è  un  essere 
inferiore  e  imperfetto,  proprio  come  la  materia  non  è  pura  passività. 
Anzi,  nella  filosofia  della  natura,  è  vero  il  contrario:  non  solo  la  mate- 
ria non  appetisce  la  forma  perché  la  genera  al  suo  intemo,  ma  è  la 
forma  che  desidera  «la  materia  per  perpetuarsi  perché  separandosi  da 
quella  perde  l'essere  lei»^^'*.  Quando  il  composto  si  corrompe  è  sba- 
gliato dire  «che  la  forma  fugge  la  materia»,  ma  si  verifica  piuttosto  la 
situazione  opposta,  cioè  «che  la  materia  rigetta  quella  forma,  per  pren- 
der l'altra» '^5.  In  altri  termini:  è  la  materia  che  produce  ogni  cosa,  che 
dà  vita  al  suo  intemo  a  tutte  le  forme  possibili  («dumque  si  de'  più 
tosto  dire  che  [la  materia]  contiene  le  forme  e  che  le  includa,  che  pen- 
sare che  ne  sia  vota  e  le  escluda»)^^^.  Ma  questo  non  significa  ripro- 
porre un  dualismo  aristotelico  di  segno  rovesciato.  Bruno  ci  offre  una 
visione  unitaria,  dove  «materia»  e  «forma»  si  ritrovano  indistinta- 
mente congiunte  nell'Uno,  nella  natura: 

È  dumque  l'universo  uno,  infinito,  inmobile.  Una,  dico,  è  la  possibilità 
assoluta,  uno  l'atto.  Una  la  forma  o  anima;  una  la  materia  o  corpo.  Una  la 
cosa.  Uno  lo  ente.  Uno  il  massimo  et  ottimo:  il  quale  non  deve  posser 
essere  compreso,  e  però  infinibile  et  interminabile,  e  per  tanto  infinito  et 
interminato;  e  per  conseguenza  inmobile.  [...]  Ecco  come  non  è  impossibile, 
ma  necessario  che  l'ottimo,  massimo,  incomprehensibile,  è  tutto,  è  per 
tutto,  è  in  tutto:  perché  come  semplice  et  indivisibile  può  esser  tutto,  esser 
per  tutto,  essere  in  tutto -^". 

Nell'anma  mundi,  che  vivifica  ogni  cosa,  si  concretizza  questa 
straordinaria  comunione  («Quella  dumque  che  esplica  lo  che  tiene  im- 


223.  De  la  causa,  p.  706.  SuH'elogio  a  Marie  de  Castelnau  cfr.  Pierre  Ma- 
GNARD,  Puissance  et  matière,  in  Cosmologìa,  teologia  y  religión  en  la  obra  y  en  el 
proceso  de  Giordano  Bruno  cit,  p.  88. 

224.  De  la  causa,  p.  723. 

225.  Ibidem. 

226.  Ibidem,  p.  720. 

227.  Ibidem,  pp.  725-728. 


INTRODUZIONE  8l 

plicato,  deve  essere  chiamata  cosa  divina,  et  ottima  parente,  genetrice 
e  madre  di  cose  naturali:  anzi  la  natura  tutta  in  sustanza»)228  SqJq  j^gj 
cosmo  infinito  le  gerarchie  si  sgretolano;  il  massimo  e  il  minimo,  come 
tutti  i  contrari,  convergono  in  un  solo  essere ^^'';  la  molteplicità  si  con- 
trae nella  divina  unità: 

Possete  quindi  montar  al  concetto,  non  dico  del  summo  et  ottimo  prin- 
cipio, escluso  della  nostra  considerazione,  ma  de  l'anima  del  mondo,  come 
è  atto  di  tutto  e  potenza  di  tutto,  et  è  tutta  in  tutto:  onde  al  fine  (dato  che 
sieno  innumerabili  individui)  ogni  cosa  è  uno;  et  il  conoscere  questa  unità 
è  il  scopo  e  termine  di  tutte  le  filosofie  e  contemplazioni  naturali:  la- 
sciando ne'  sua  termini  la  più  alta  contemplazione,  che  ascende  sopra  la 
natura,  la  quale  a  chi  non  crede,  è  impossibile  e  nuUa^^o. 

La  «divinità»,  quindi,  non  va  cercata  «fuor  del  infinito  mondo  e  le 
infinite  cose,  ma  dentro  questo  et  in  quelle»^".  Lo  sguardo  va  rivolto 
all'interno  della  natura.  Al  di  fuori  dell'universo  infinito,  però,  non  c'è 
né  divinità,  né  sapere,  né  religione,  né  magia.  Si  tratta  di  un  punto 
vitale  su  cui  Bruno  non  ammette  ambiguità:  lo  anticipa  nella  Cena^^^, 
lo  rilancia  qui  nel  De  la  causa,  lo  svilupperà  ancora  meglio,  in  altri 
contesti,  nello  Spaccio^'^^  e  nei  FurorP^'*. 

La  filosofia,  nella  sua  massima  espressione,  si  concretizza  proprio  in 
questa  ricerca  dell'Uno,  in  questa  contemplazione  della  natura,  in 
questo  sforzo  di  cogliere  l'invisibile  nel  visibile,  l'unità  nella  moltepli- 
cità^^'.  Su  queste  basi  si  distingue  «il  fidele  teologo  dal  vero  filoso- 
fo »^'^  Resta  qui  evidente  la  funzione  di  raccordo  del  De  la  causa: 
un'opera  che  guarda  all'indietro  (verso  la  Cena)  e  che,  nello  stesso 


228.  Ibidem,  p.  720. 

229.  «Ecco  dumque  come  non  solamente  il  massimo  et  il  minimo  conve- 
gnono  in  uno  essere,  come  altre  volte  abbiamo  dimostrato,  ma  ancora  nel  mas- 
simo e  nel  minimo  vegnono  ad  essere  uno  et  indifferente  gli  contrari»  {Ibidem, 

PP-  739-740). 

230.  Ibidem,  p.  717. 

231.  Ibidem. 

232.  «Et  abbiamo  dottrina  di  non  cercar  la  divinità  rimossa  da  noi:  se  l'ab- 
biamo appresso,  anzi  di  dentro  piti  che  noi  medesmi  siamo  dentro  a  noi.  Non 
meno  che  gli  coltori  de  gli  altri  mondi  non  la  denno  cercare  appresso  di  noi, 
l'avendo  appresso  e  dentro  di  sé»  (Cena,  pp.  455-456). 

233.  Su  questo  tema  si  veda  infra  (pp.  111-112)  il  paragrafo  «Natura  est  deus 
in  rebus»:  l'esempio  degli  Egizi. 

234.  Cfr.  infra  (pp.  136-139)  i  paragrafi  dedicati  a  Atteone:  «'l  gran  cacciator 
dovenne  caccia»  e  a  Diana,  la  «divinità»  nella  natura  infinita. 

235.  Si  tratta  di  temi  già  presenti  nel  Candelaio,  cfr.  supra  pp.  62-64. 

236.  De  la  causa,  p.  717. 


82  INTRODUZIONE 

tempo,  si  proietta  in  avanti  preparando  il  terreno  al  dialogo  succes- 
sivo ^^^. 

Infiniti  mondi  in  un  universo  infinito 

Con  il  terzo  movimento  della  sua  «nova  filosofia»,  il  Nolano  vuole 
assestare  un  colpo  definitivo  ai  confini  dell'universo.  Una  volta  accet- 
tato il  moto  della  terra  e  accolta  l'omogeneità  della  materia  nella  na- 
tura, non  resta  che  dimostrare  come  una  «causa»  infinita  non  possa 
che  produrre  un  «effetto»  infinito,  ovvero  un  cosmo  infinito  popolato 
da  innumerevoli  mondi.  E  per  muovere  l'assalto  «definitivo»  al  De 
caelo  e  alla  Fisica  di  Aristotele,  nel  suo  De  l'infinito,  universo  e  mondi 
(1584)  Bruno  si  serve  nei  primi  quattro  dialoghi  di  quattro  interlocu- 
tori -  Elpino  (giovane  scolaro  che  finirà  per  avvicinarsi  alle  teorie  in- 
finitistiche),  Filoteo  (portaparola  dell'autore),  Fracastoro  (Girolamo 
Fracastoro,  celebre  medico,  poeta  e  astronomo  che  ebbe  modo  di  fre- 
quentare Copernico)  e  Burchio  (personaggio  immaginario,  intriso  di 
conoscenze  peripatetiche)  -  facendo  entrare  in  scena  solo  nel  quinto 
dialogo  Albertino,  che  secondo  Aquilecchia  potrebbe  essere  identifi- 
cato con  il  giurista  Alberigo  Gentili,  probabilmente  conosciuto  da 
Bruno  in  Inghilterra  durante  il  suo  soggiorno  a  Oxford^"*. 

Anche  per  quest'opera  bisogna  partire  dal  titolo.  Come  Gentile 
aveva  già  segnalato  nella  sua  edizione,  il  termine  «infinito»  potrebbe 
essere  interpretato  in  due  modi:  in  qualità  di  aggettivo  {De  l'infinito 
universo  e  mondi)  o  in  qualità  di  sostantivo  {De  l'infinito,  universo  e 
mondi)^^"^.  Nel  primo  caso,  l'infinità  sarebbe  solo  riferita  all'universo. 
Mentre  nel  secondo  caso,  l'infinito  costituirebbe  con  l'universo  e  con  i 
mondi  uno  dei  tre  concetti  cardine  del  dialogo.  Nella  sostanza,  le  cose 
non  cambiano,  poiché  nel  testo  è  detto  chiaramente  che  non  solo 
l'universo  è  infinito,  ma  che  anche  i  mondi  che  lo  popolano  lo  sono 


237.  Cfr.  Giovanni  .'\quilecchia,  Introduzione  a  De  la  causa,  principio  et 
uno  [1973],  in  Id.,  Schede  bruniane  cit..  pp.  253-254. 

238.  Giovanni  Aquilecchia,  Tre  schede  su  Bruno  ad  Oxford,  in  «Giornale 
critico  della  filosofia  italiana»,  13  (1993),  pp.  376-393.  È  interessante  notare  che 
Bruno  pubblica  alcune  sue  opere  a  Wittenberg  presso  Zaccaria  Oratone,  lo 
stesso  stampatore  di  Alberico  Gentili:  cfr.  Vincenzo  Spampanato,  Vita  di  Gior- 
dano Bruno  con  documenti  editi  ed  inediti  cit,  pp.  427-428.  Ma  sui  rapporti  Bru- 
no-Gentili cfr.  anche  N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de 
la  bète  triomphante.  CEuvres  complètes.  V  cit,  pp.  CLXVIII-CLXIX. 

239.  Cfr.  la  nota  di  Giovanni  Gentile  in  Giordano  Bruno,  Dialoghi  ita- 
liani, nuovamente  ristampati  con  note  da  Giovanni  Gentile,  terza  edizione  a 
cura  di  Giovanni  Aquilecchia,  Firenze,  Sansoni,  1972,  nota  i,  pp.  345-346. 


INTRODUZIONE  83 

(«questi  sono  gl'infiniti  mondi,  cioè  gli  astri  innumerabili »)2-'o.  In 
realtà,  però,  la  questione  non  è  superflua.  L'opzione  per  l'uso  sostanti- 
vale di  «infinito»,  operata  da  Gentile  e  confermata  da  Aquilecchia^'^', 
ci  aiuta  a  capire  meglio  la  scelta  strategica  effettuata  da  Bruno.  La 
tattica  argomentativa,  infatti,  si  articola  in  due  mosse:  nella  prima,  si 
sviluppano  le  tesi  della  necessaria  esistenza  dell'infinito  per  mostrare 
successivamente,  nella  seconda  mossa,  come  questa  infinità  si  esplichi 
nell'universo  e  nei  mondi  innumerevoli  che  lo  compongono 2"'2.  Soste- 
nere l'esistenza  di  un  cosmo  finito  significa  dar  vita  a  tutta  una  serie 
di  disastrosi  corollari  che  inevitabilmente  conducono  a  distorcere  ogni 
plausibile  conoscenza  della  natura  («noi  credemo  e  veggiamo  aperto, 
che  dal  contrario  di  questo  principio  [l'infinito]  lui  ha  pervertita  tutta 
la  considerazion  naturale  »)2''^ 

Non  è  possibile,  in  questa  sede,  ricostruire  tutti  i  passaggi  significa- 
tivi del  dialogo,  né  mostrare  come  Filoteo  respinga  punto  per  punto  le 
obiezioni  di  Aristotele  all'esistenza  dell'infinito.  Ci  soffermeremo  solo 
su  due  argomenti  che  ci  sembrano  di  grande  rilievo  ai  fini  del  disegno 
complessivo  della  «nolana  filosofia»:  il  primo  (di  natura  logica)  critica 
la  concezione  aristotelica  del  «luogo»  e  dello  «spazio»,  mentre  il  se- 
condo (di  natura  «teologica»)  riprende  l'antica  questione  della  potentia 
absoluta  e  della  potentia  ordinata  di  Dio. 

Nel  quarto  libro  della  Fisica  il  «luogo»  non  può  essere  definito  «né 
forma,  né  materia,  né  un  intervallo  che  sia  sempre  qualcosa  di  diverso 
da  quello  della  cosa  che  viene  spostata»,  ma  viene  a  coincidere  con  «il 


240.  De  l'infinito,  p.  158.  Nel  lessico  bruniano,  in  effetti,  i  termini  «infiniti» 
e  «innumerabili»  funzionano  come  se  fossero  sinonimi.  Nell'intera  produzione 
in  volgare,  in  contesti  molto  ravvicinati.  Bruno  li  accosta  per  ben  undici  volte, 
di  cui  otto  occorrenze  sono  reperibili  nel  solo  De  l'infinito. 

241.  La  scelta  trova  anche  una  giustificazione  in  alcune  riprese  del  titolo 
dove  viene  confermata  la  sua  struttura  tripartita.  Se  nel  frontespizio  originale 
(«De  l'infinito  universo  /  et  Mondi»),  così  come  nel  colophon  («Fine  de  Cinque 
Dialogi  dell'infinito  /  universo  et  mondi»),  la  virgola  non  appare,  essa  viene 
però  inserita  nell'incipit  del  primo  dialogo  {«De  l'infinito,  universo,  /et  mondi») 
e  nel  De  rerum  principiis,  in  cui  il  titolo  viene  riportato  in  latino  («De  infinito 
et  universo  et  mundis»,  in  Opp.  lat.  III,  p.  510).  Un'altra  allusione  al  dialogo  è 
contenuta  in  un  passaggio  dei  Furori  («de  l'infinito  universo  e  mondi  innume- 
rabili», p.  616).  Su  questo  aspetto  cfr.  Giovanni  Aquilecchia,  Note  philologi- 
que,  in  Giordano  Bruno,  De  l'infini,  de  l'univers  et  des  mondes.  CEuvres  complè- 
tes.  IV  cit,  pp.  LXXX-LXXXI. 

242.  Su  questo  specifico  punto  cfr.  Miguel  Angel  Granada,  Introdudion 
à  Giordano  Bruno,  De  l'infini,  de  l'univers  et  des  mondes.  CEuvres  complètes.  IV 
cit,  pp.  XVIl-XXII. 

243.  De  l'infinito,  p.  63. 


84  INTRODUZIONE 

limite  [...]  del  coxpo  contenente  »'-''^.  Il  luogo  di  un  corpo,  quindi,  è  il 
recipiente  in  cui  esso  è  contenuto  (cioè  il  suo  «limite»)  e  in  quanto  tale 
appartiene  al  corpo  contenente.  Se  non  c'è  corpo,  per  lo  Stagirita,  non 
ci  sarà  neanche  spazio,  essendo  il  luogo  un  accidente  del  corpo.  E  al- 
lora si  potrà  concludere  che  l'universo  è  finito  perché  non  c'è  corpo  al 
di  là  del  cielo  delle  stelle  fisse. 

Bruno  ribatte  utilizzando  l'immagine  lucreziana,  risalente  a  una 
antichissima  tradizione,  della  freccia  lanciata  al  di  là  dei  limiti  del- 
l'universo 2-*'.  Se  mi  avvicino  alla  presunta  sfera  delle  stelle  fisse  e  sca- 
glio un  qualsiasi  oggetto  appuntito  verso  la  barriera  che  contiene  il 
cosmo  cosa  succederà?  L'oggetto  sarà  bloccato  o  continuerà  la  sua 
corsa  al  di  là  del  margine?  Se  ammettiamo  che  sarebbe  assurdo  pen- 
sare una  muraglia  invalicabile  o  l'esistenza  di  un  «vuoto»  delimitante 
che  sia  impenetrabile,  dobbiamo  accettare  l'idea  che  la  freccia  potrà 
andare  oltre  e  che  questo  «oltre»  presuppone  uno  spazio  infinito.  È  un 
po'  quello  che  ci  accade  quando  cerchiamo  di  percepire  l'orizzonte: 


244.  Aristotele,  Fisica,  in  Opere,  j,  traduzione  di  Antonio  Russo,  Roma- 
Bari,  Laterza,  1991  (IV,  4,  2i2a),  p.  83. 

245.  «Il  quarto  argumento  si  toglie  da  una  demostrazione  o  questione 
molto  urgente  che  fanno  gli  Epicurei»  De  l'infinito,  p.  11.  Qui  Bruno  cita  un 
brano  del  De  rerum  natura,  di  cui  bisogna  fornire  un  contesto  più  allargato  per 
essere  compreso:  «praeterea  si  iam  finitum  consti tuatur  /  omne  quod  est  spa- 
tium,  siquis  procurrat  ad  oras  /  ultimus  extremas  iaciatque  volatile  telura,  /  id 
validis  utrum  contortum  viribus  ire  /  quo  fuerit  missum  mavis  longeque  vo- 
lare, /  an  prohibere  aliquid  censes  obstareque  posse?  /  alterutrum  fatearis  enim 
sumasque  necessest.  /  quorum  utrumque  tibi  effugium  praecludit  et  omne  / 
cogit  ut  exempta  concedas  fine  patere.  /  nam  sive  est  aliquid  quod  probeat 
efficiatque  /  quominu"  quo  missum  est  vienat  finique  locet  se,  /  sive  foras  fer- 
tur,  non  est  a  fine  profectum.  /  hoc  pacto  sequar  atque,  oras  ubicumque  loca- 
ris,  /  extremas,  quaeram  quid  telo  denique  fiat.  /  fiet  uti  nusquam  possit  con- 
sistere finis  /  effugiumque  fugae  prolatet  copia  semper.  /  postremo  ante  oculos 
res  rem  finire  videtur.  /  aer  dissaepit  Collis  atque  aera  montes,  /  terra  mare  et 
contra  mare  terras  terminat  omnis;  /  omne  quidem  vero  nil  est  quod  finiat 
extra»  [«Supponiamo  limitato  tutto  lo  spazio  esistente:  se  qualcuno  nel  suo 
slancio  avanzasse  fino  all'estremità  dell'ultimo  margine  e  da  lì  facesse  volare 
nello  spazio  una  freccia,  questa,  scaraventata  con  grande  vigore,  preferisci  cre- 
dere che  se  vada  verso  la  sua  meta  o  se  ne  voli  lontano,  o  pensi  per  caso  che  ci 
possa  essere  un  ostacolo  ad  interrompere  la  sua  corsa?  Una  delle  due  ipotesi 
bisogna  scegliere  e  adottare:  e  l'una  e  l'altra  ti  tagliano  ogni  ritirata  e  ti  obbli- 
gano a  riconoscere  che  l'universo  si  estende  libero  da  ogni  limite.  Sia  che  un 
ostacolo  esteriore  impedisca  alla  freccia  di  raggiungere  la  sua  meta  e  fermarsi, 
sia  che  possa  proseguire  la  sua  corsa,  il  punto  da  cui  parte  non  è  il  termine 
dell'universo.  Senza  sosta  ti  perseguiterò  con  questo  argomento,  e  ovunque  tu 
porrai  l'estremo  margine  del  mondo,  io  ti  chiederò  che  cosa  avverrà  della  frec- 
cia: accadrà  che  nessuna  sua  parte  potrà  uscire  dai  limiti  e  che  senza  sosta 
nuovi  spazi  liberi  prolungheranno  all'infinito  le  sue  possibilità  di  fuggir  via»]: 
Lucrezio,  La  natura,  introduzione,  traduzione  e  note  di  Olimpio  Cescatti,  let- 
tura critica  di  Alessandro  Ronconi,  Milano,  Garzanti,  1975  (I,  w.  968-987),  pp. 
62-63. 


INTRODUZIONE  85 

Ogni  qualvolta  ci  spostiamo  in  avanti  per  raggiungerlo  il  presunto 
margine  si  sposta  assieme  a  noi.  Eppure  i  sensi,  proprio  come  accade 
con  l'apparente  movimento  del  sole,  sembrano  farci  credere  che  l'oriz- 
zonte sia  immobile,  fermo,  stabile.  Liberarsi  di  queste  illusioni  signi- 
fica spezzare  le  catene  dell'errore.  Un'esperienza  che  Bruno  traduce  in 
versi  nel  sonetto  che  conclude  VEpistola  proemiale: 

E  chi  mi  impenna,  e  chi  mi  scald'il  core? 
Chi  non  mi  fa  temer  fortuna  o  morte? 
Chi  le  catene  ruppe  e  quelle  porte, 
onde  rari  son  sciolti  et  escon  fore? 

L'etadi,  gli  anni,  i  mesi,  i  giorni  e  l'ore 
figlie  et  armi  del  tempo,  e  quella  corte 
a  cui  né  ferro  né  diamante  è  forte, 
assicurato  m'han  dal  suo  furore. 

Quindi  l'ali  sicure  a  l'aria  porgo, 
né  temo  intoppo  di  cristall'  o  vetro; 
ma  fendo  i  cieli,  e  a  l'infinito  m'ergo. 

E  mentre  dal  mio  globo  a  gli  altri  sorgo, 
e  per  l'eterio  campo  oltre  penetro: 
quel  ch'altri  lungi  vede,  lascio  al  tergo^'*^ 

Il  Nolano,  rigettando  l'idea  che  il  «vuoto»  sia  non-essere,  gli  rico- 
nosce la  funzione  di  «luogo»,  di  una  grandezza  fisica  tridimensionale 
che  pur  non  essendo  corporea  è  in  grado  di  essere  ricettacolo  naturale 
di  tutti  i  corpi  possibili 2'<7.  Aristotele,  invece,  «destrugge  (se  pur  de- 
strugge) il  vacuo  secondo  quella  raggione  la  quale  forse  non  è  stata 
presa  da  alcuno:  atteso  che  gli  antichi  e  noi  prendiamo  il  vacuo  per 
quello  in  cui  può  esser  corpo,  e  che  può  contener  qualche  cosa,  et  in 
cui  sono  gli  atomi  e  gli  corpi;  e  lui  solo  diffinisce  il  vacuo  per  quello 
che  è  nulla,  in  cui  è  nulla  e  non  può  esser  nulla»^"***.  Ma  le  ipotesi 
peripatetiche  sembrano  cadere  in  contraddizione  di  fronte  alla  do- 
manda: dov'è  allora  il  luogo  dell'universo  se  fuori  dall'universo  finito 
non  c'è  niente?  In  cosa  è  contenuto  il  cielo  delle  stelle  fisse  se  oltre  di 
esso  non  si  ha  nulla? 

Se  il  mondo  è  finito,  et  estra  il  mondo  è  nulla,  vi  dimando:  ove  è  il 
mondo?  ove  è  l'universo?  Risponde  Aristotele:  è  in  se  stesso.  Il  convesso 


246.  De  l'infinito,  p.  31. 

247.  Sulle  nozioni  di  «vuoto»  e  di  «spazio»,  con  particolare  attenzione  an- 
che alle  opere  latine,  si  vedano  da  ultimo  Barbara  Amato,  La  nozione  di  «vuo- 
to» in  Giordano  Bruno,  in  «Bruniana  &  Campanelliana»,  III,  1997,  pp.  209-229 
e  Mariassunta  Picardi,  La  nozione  di  spazio  nella  riflessione  cosmologica  di 
Giordano  Bruno  (1584-1591),  in  «Studi  filosofici»,  XXI,  1998,  pp.  49-94. 

248.  De  l'infinito,  p.  62. 


86  INTRODUZIONE 

del  primo  cielo  è  loco  universale;  e  quello,  come  primo  continente,  non  è 
in  altro  continente:  per  che  il  loco  non  è  altro  che  superficie  et  estremità 
di  corpo  continente;  onde  chi  non  ha  corpo  continente,  non  ha  loco.  Or 
che  vuoi  dir  tu,  Aristotele,  per  questo  che  «il  luogo  è  in  se  stesso»?  che  mi 
conchiuderai  per  «cosa  estra  il  mondo»?  Se  tu  dici  che  non  v'è  nulla,  il 
cielo,  il  mondo,  certo  non  sarà  in  parte  alcuna  [...]  il  mondo  sarà  qualcosa 
che  non  si  trova^-*^. 

Ma  per  essere  più  persuasivo,  Bruno  ridiscute  la  necessaria  esi- 
stenza dell'infinito  da  un  altro  punto  di  vista.  Quello  della  «causa», 
della  divina  entità  che  avrebbe  prodotto  la  realtà  in  cui  viviamo.  E  lo 
fa  riprendendo,  per  rovesciarla,  una  delle  classiche  argomentazioni 
scolastiche  contro  l'infinità  dell'universo:  la  potentia  absoluta  di  Dio, 
che  può  fare  tutto,  non  ha  potuto  creare  un  cosmo  infinito  perché  la 
materia  imperfetta  non  sarebbe  stata  in  grado  di  accogliere  «l'atto  del- 
l'efficiente» («atteso  che  non  ogni  potenza  attiva  si  converte  in  pas- 
siva, ma  quella  sola  la  quale  ha  paziente  proporzionato,  cioè  soggetto 
tale,  che  possa  ricevere  tutto  l'atto  dell'efficiente;  et  in  cotal  modo  non 
ha  corrispondenza  cosa  alcuna  causata  alla  prima  causa  »)^'°.  Questo 
significa,  sul  piano  teologico,  che  Dio  («causa»  infinita)  potrebbe  anche 
produrre  un  «effetto»  finito,  rinunciando  a  comunicare  tutta  la  sua 
infinita  potenza  all'oggetto  della  sua  creazione: 

Ora  per  cominciarla;  per  che  vogliamo  o  possiamo  noi  pensare  che  la 
divina  efficacia  sia  ociosa?  Per  che  vogliamo  dire  che  la  divina  bontà  la 
quale  si  può  communicare  alle  cose  infinite,  e  si  può  infinitamente  diffon- 
dere, che  voglia  essere  scarsa  et  astrengersi  in  niente  (atteso  che  ogni  cosa 
finita  al  riguardo  de  l'infinito  è  niente)?  Perché  volete  che  quel  centro 
della  divinità,  che  può  infinitamente  in  una  sfera  (se  cossi  si  potesse  dire) 
infinita  amplificarse,  come  invidioso,  rimaner  più  tosto  sterile  che  farsi 
comunicabile,  padre  fecondo,  ornato  e  bello?  voler  più  tosto  comunicarsi 
diminutamente  e  (per  dir  meglio)  non  comunicarsi,  che  secondo  la  rag- 
gione  della  gloriosa  potenza  et  esser  suo?^" 

Ridimensionare  gli  «effetti»  significa  ridimensionare  anche  la 
«causa»252  Significa  pregiudicare  «la  eccellenza  della  divina  imagine, 
che  deverebe  più  risplendere  in  un  specchio  incontratto,  e  secondo  il 


249.  Ibidem,  p.  36. 

250.  Ibidem,  p.  146. 

251.  Ibidem,  p.  46. 

252.  Sul  rapporto  tra  potentia  absoluta  e  potentia  ordinata  cfr.  Miguel  An- 
GEL  Granada,  //  rifiuto  della  distinzione  tra  potentia  absoluta  e  potentia  ordi- 
nata di  Dio  e  l'affermazione  dell'universo  infinito  in  Giordano  Bruno,  in  «Rivista 
di  storia  della  filosofia»,  49  (1994),  pp.  495-532. 


INTRODUZIONE  87 

SUO  modo  di  essere,  infinito,  imenso»^'^.  Qui  Bruno  rilancia,  in  un 
contesto  diverso,  alcuni  temi  di  fondo  già  discussi  nel  De  la  causa.  Se 
«atto»  e  «potenza»  coincidono  non  è  possibile  che  una  «causa»  infi- 
nita possa  produrre  un  «effetto»  finito:  «Come  vuoi  tu  che  Dio,  e 
quanto  alla  potenza,  e  quanto  a  l'operazione,  e  quanto  a  l'effetto  (che 
in  lui  son  medesima  cosa),  sia  determinato,  e  come  termino  della  con- 
vessitudine  di  una  sfera:  più  tosto  che  (come  dir  si  può)  termino  inter- 
minato di  cosa  interminata?» ^5-'.  Anche  in  questo  caso,  il  Nolano  uti- 
lizza la  stessa  tecnica  argomentativa.  Parte  dalle  tesi  contrarie,  ne  ado- 
pera il  linguaggio  e  la  specifica  terminologia.  Ma  poi  lentamente  se  ne 
distacca,  riportando  il  discorso  nell'alveo  concettuale  della  sua  «nova 
filosofia».  L'opzione  tra  universo  finito  o  infinito  provoca  le  stesse  con- 
seguenze sul  piano  cosmologico  e  sul  piano  teologico.  Se  dalla  natura 
deir«effetto»  noi  possiamo  risalire  alla  natura  della  «causa»  non  è 
possibile  intravedere  nessuna  utilità  nell'ipotizzare  un  universo  finito. 
Dovremmo  ammettere  che  la  «divinità»  sia  finita  e,  quindi,  non  in 
grado  di  produrre  un  effetto  infinito.  La  sua  straordinaria  eccellenza, 
invece,  si  riflette  solo  e  soltanto  in  una  natura  infinita,  popolata  da 
innumerevoli  mondi: 

Cossi  si  magnifica  l'eccellenza  de  Dio,  si  manifesta  la  grandezza  de  l'im- 
perio suo:  non  si  glorifica  in  uno,  ma  in  soli  innumerabili;  non  in  una 
terra,  un  mondo,  ma  in  diececento  mila,  dico  in  infiniti.  Di  sorte  che  non 
è  vana  questa  potenza  d'intelletto,  che  sempre  vuole  e  puote  aggiungere 
spacio  a  spacio,  mole  a  mole,  unitade  ad  unitade,  numero  a  numero:  per 
quella  scienza  che  ne  discioglie  da  le  catene  di  uno  angustissimo,  e  ne 
promove  alla  libertà  d'un  augustissimo  imperio;  che  ne  toglie  dall'opinata 
povertà  et  angustia,  alle  innumerabili  ricchezze  di  tanto  spacio,  di  sì  di- 
gnissimo  campo,  di  tanti  coltissimi  mondi:  e  non  fa  che  circolo  d'orizonte 
mentito  da  l'occhio  in  terra,  e  finto  da  la  fantasia  nell'etere  spacioso,  ne 
possa  impriggionare  il  spirto,  sotto  la  custodia  d'un  Plutone  e  la  mercé 
d'un  Giove^". 

Alla  luce  di  queste  riflessioni,  la  natura  viene  concepita  come  «uno 
infinito  simulacro»  in  cui  si  esplica  «la  eccellenza  divina  incorporea 
per  modo  corporeo» 2"'.  L'universo  infinito,  insomma,  coincide  con 
Vexplicatio  della  divina  potenza,  diventa  «immagine»  aperta  della  di- 
vina unità  {contractio):  se  Dio  è  «tutto  l'infinito  complicatamente  e  to- 
talmente», l'universo  invece  è  «tutto  in  tutto  [...]  explicatamente,  e 


253.  De  l'infinito,  p.  46. 

254.  Ibidem. 

255.  Ibidem,  p.  27. 

256.  Ibidem,  p.  43. 


88  INTRODUZIONE 

non  totalmente» ^5'.  La  distinzione  non  è  superflua.  Mira  a  spiegare 
ancora  meglio  la  differenza  tra  finito  e  infinito.  L'universo  infinito  è 
composto  da  innumerevoli  aggregati  finiti.  L'infinità,  quindi,  riguarda 
non  le  singole  parti  ma  la  loro  totalità,  cioè  l'universo  in  quanto  in- 
sieme di  infinite  parti  finite.  Ma,  anche  in  questo  caso,  il  dualismo 
(Dio  e  universo)  si  salda:  «complicatio»  ed  «explicatio»,  «causa»  ed 
«effetto»  si  identificano  con  la  forza  vitale  che  anima  tutto  ciò  che 
esiste.  Una  cosa  è  distinguere  concettualmente,  un'altra  cosa  è  consi- 
derare i  processi  nella  loro  attualizzazione.  Nella  Vita  si  concretizza  la 
straordinaria  unione  dell'Uno  e  dell'universo.  Spetta  solo  alla  natura, 
infinita  ed  omogenea,  il  ruolo  di  mediazione  con  la  divina  unità  del 
Tutto.  Per  questo  il  cristianesimo  è  un'impostura:  non  è  il  sacrificio  di 
Cristo  che  ci  mette  in  comunicazione  con  la  «divinità»,  ma  è  la  con- 
templazione dell'universo  infinito  che  può  svelarci  come  la  moltepli- 
cità e  l'unità  siano  indistinte  nella  Vita^^s 

Bisognerà  aspettare  lo  Spaccio  per  capire  sul  piano  religioso  come 
l'identificazione  della  «divinità»  nella  natura  sia  l'unica  via  possibile 
per  ristabilire  una  comunicazione  tra  il  «divino»  e  !'« umano».  Bruno, 
però,  non  esita  anche  nel  De  l'infinito  a  riprendere  la  distinzione  che 
aveva  già  individuato  nella  Cena  e  sviluppato  nel  De  la  causa.  La  re- 
ligione, secondo  questa  prospettiva,  si  occupa  di  istituire  leggi  morali 
per  istruire  gli  ignoranti,  non  di  attivare  processi  di  conoscenza  scien- 
tifica e  filosofica: 


257.  Ibidem,  p.  47.  Qui  il  Nolano  si  serve,  piegandoli  alle  sue  esigenze,  di 
concetti  («explicatio»  e  «complicatio»)  già  utilizzati  da  Cusano  nel  De  docta 
ignorantia  (II,  2  e  3).  Ma  sulle  differenze  e  sulle  analogie  tra  il  pensiero  di  Cu- 
sano e  quello  di  Bnino  si  vedano:  Nicola  Badaloni,  La  filosofia  di  Giordano 
Bruno,  Firenze,  Parenti,  1955,  pp.  53,  71,  74;  Fulvio  Papi,  Antropologia  e  civiltà 
nel  pensiero  di  Giordano  Bruno,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1968,  pp.  25-27;  Al- 
fonso Ingegno,  Cosmologia  e  filosofia  nel  pensiero  di  Giordano  Bruno,  Firenze, 
La  Nuova  Italia,  1978,  p.  97;  Hélène  Vedrine,  L'influence  de  Nicolas  de  Cues 
sur  Giordano  Bruno,  in  Nicolò  Cusano  agli  inizi  del  mondo  moderno.  Atti  del  Con- 
gresso intemazionale  in  occasione  del  V  centenario  della  morte  di  Nicolò  Cu- 
sano (Bressanone,  6-10  settembre  1964),  Firenze,  Sansoni,  1970,  pp.  211-223; 
Hans  Blumenberg,  La  legittimità  dell'età  moderna,  Genova,  Marietti,  1992,  pp. 
493-644;  Rita  Sturlese,  Nicolò  Cusano  e  gli  inizi  della  speculazione  del  Bruno, 
in  Historia  Philosophiae  Medii  Aevi.  Studien  zur  Geschichte  der  Philosophie  des 
Mittelalters,  Festschrift  fiir  Kurt  Flasch  zu  seinem  60.  Geburtstag,  hrsg.  von 
Burkhard  Mojsisch  und  Olaf  Pluta,  Amsterdam-Philadelphia,  Griiner,  1991,  II, 
pp.  953-966;  Angelika  Bònker-Vallon,  Cusanismo  e  atomismo.  La  trasforma- 
zione della  «coincidentia  oppositorum»  nella  teoria  dell'indifferenza  dello  spazio  in 
Giordano  Bruno,  in  Cosmologia,  teologia  y  religión  en  la  obra  y  en  el  proceso  de 
Giordano  Bruno  cit.,  pp.  67-79. 

258.  Su  questi  temi  cfr.  Miguel  Angel  Granada,  Introduction  à  Gior- 
dano Bruno,  De  l'infini,  de  l'univers  et  des  mondes.  (Euvres  complètes.  IV  cit., 
pp.  LVII-LIX. 


INTRODUZIONE  89 

E  facilmente  condonaranno  [alcuni  padri  e  pastori  di  popoli]  a  noi  di 
usar  le  vere  proposizioni,  dalle  quali  non  vogliamo  inferir  altro  che  la 
verità  della  natura  e  dell'eccellenza  de  l'autor  di  quella;  e  le  quali  non  son 
proposte  da  noi  al  volgo,  ma  a  sapienti  soli  che  possono  aver  accesso  al- 
l'intelligenza di  nostri  discorsi.  Da  questo  principio  depende  che  gli  non 
men  dotti  che  religiosi  teologi  giamai  han  pregiudicato  alla  libertà  de  fi- 
losofi; e  gli  veri,  civili  e  bene  accostumati  filosofi  sempre  hanno  faurito  le 
religioni:  perché  gli  uni  e  gli  altri  sanno  che  la  fede  si  richiede  per  l'insti- 
tuzione  di  rozzi  popoli,  che  denno  esser  governati;  e  la  demostrazione  per 
gli  contemplativi,  che  sanno  governar  sé  et  altri ^^9 

Il  Nolano,  insomma,  continua  a  distinguere  i  due  piani:  c'è  chi 
fonda  la  «verità»  «su  la  fede»  e  c'è  chi  invece  la  fa  coincidere  con 
«l'evidenza  di  veri  principii»^^°  Un'opposizione  che  riecheggia  anche 
nelle  parole  di  Fracastoro  quando  ricorda  che  si  può  essere  «dotto  per 
fede  e  non  per  scienza»^^'.  Il  vero  filosofo  però  favorisce  la  religione, 
così  come  il  vero  teologo  non  deve  pregiudicare  «la  libertà  dei  filoso- 
fi». Gli  uni  e  gli  altri  si  rivolgono  a  un  pubblico  diverso:  i  primi  ai 
dotti,  i  secondi  ai  «rozzi  popoli».  Ma,  per  Bruno,  anche  dal  punto  di 
vista  della  teologia,  l'infinità  dell'universo  non  fa  altro  che  esaltare  e 
magnificare  la  potenza  «divina».  In  fondo,  ritoma  il  tema  di  un'antica 
concezione  della  religione  che  vede  Dio  nella  natura.  Ritornano,  come 
abbiamo  già  visto  nella  Cena,  antiche  verità  che  per  secoli  erano  rima- 
ste occulte  e  che  adesso  il  sole  di  una  nuova  filosofia  può  finalmente 
illuminare,  riattualizzandole: 

Sono  amputate  radici  che  germogliano,  son  cose  antique  che  rivegnono, 
son  veritadi  occolte  che  si  scuoprono:  è  un  nuovo  lume  che  dopo  lunga 
notte  spunta  all'orizonte  et  emisfero  della  nostra  cognizione,  et  a  poco  a 
poco  s'avicina  al  meridiano  della  nostra  intelligenza^'^^. 


259.  De  l'infinito,  pp.  51-52.  Sul  carattere  averroista  di  questo  passo  si  veda 
Miguel  Angel  Granada,  «Esser  spogliato  dall'umana  perfezione  e  giustizia». 
Nueva  evidencia  de  la  presencia  de  Averroes  en  la  obra  y  en  el  proceso  de  Giordano 
Bruno,  in  «Bruniana  &  Campanelliana»,  V  (1999),  pp.  309  e  segg.  Sull'averroi- 
smo nei  Furori  cfr.  infra,  p.  131. 

260.  De  l'infinito,  p.  136. 

261.  Ibidem,  p.  113. 

262.  Ibidem,  p.  135. 


90  INTRODUZIONE 

V. 

LA  FILOSOFIA  MORALE  E  LA  RELIGIONE: 
SPACCIO  E  CABALA 


Dopo  aver  mostrato  gli  effetti  nefasti  della  «fede»  e  della  teologia 
sui  piani  interrelati  della  cosmologia  e  della  natura,  con  il  quarto  mo- 
vimento della  «nova  filosofia»  il  Nolano  vuole  riannodare  i  fili,  spez- 
zati da  secoli  di  barbarie,  tra  religione  e  società  civile.  Lo  Spaccio  de  la 
bestia  trionfante  (1584),  infatti,  si  pone  come  allegoria  di  una  riforma 
etica  in  cui  Bruno  espone  «gli  numerati  et  ordinati  semi  della  sua 
moral  filosofia»'^'.  Si  tratta  di  una  tappa  importantissima  nel  progetto 
delle  opere  italiane.  Liberare  la  Terra  dalle  catene  del  geocentrismo  e 
l'universo  dai  confini  che  lo  delimitavano  significava  riawicinare  gli 
infiniti  mondi  al  nostro  pianeta,  la  «divinità»  alla  natura,  la  materia 
«celeste»  a  quella  «terrestre».  Liberare,  adesso,  la  religione  dalla  follia 
distruttrice  dei  pedanti  teologi  significa  religare  l'uomo  all'uomo,  attra- 
verso la  concezione  di  un  culto  che  favorisca  la  coesione  sociale  e  che 
inciti  ad  assumere  comportamenti  «eroici»  nella  vita  civile. 

Il  dialogo,  suddiviso  in  tre  parti,  si  avvale  di  tre  interlocutori:  Sofia 
(mediatrice  tra  gli  dèi  e  gli  uomini),  Saulino  {alter  ego  di  Bruno)  e  Mer- 
curio (messaggero  divino).  La  «riforma»  morale  prende  il  via  dal  «pen- 
timento» di  Giove  che  convoca  un'assemblea  celeste  per  purificare  il 
cielo  dai  vizi  che  imperversano  e  per  ristabilire  le  virtù.  Costellazione 
per  costellazione  -  utilizzando  probabilmente  uno  stratagemma  mne- 
motecnico  già  sperimentato  da  Tommaso  Radini  Tedeschi^^  —  Bruno 
ci  presenta  il  padre  degli  dèi  intento  a  proporre  lo  «spaccio»  (l'espul- 
sione) dei  simboli  negativi  per  assegnare  invece  nuova  dignità  ai  sim- 
boli positivi.  Ma  prima  di  addentrarsi  nel  complesso  labirinto  allego- 


263.  Spaccio,  p.  176. 

264.  Thomae  Radini  Thodischi,  Sideralis  Abyssus.  Luteciae,  Thomae 
Kees,  1514.  Questo  testo,  in  cui  le  costellazioni  vengono  piegate  a  rappresentare 
vizi  e  virtù,  fu  ritenuto  da  Aby  Warburg  la  fonte  dello  Spaccio.  Lo  studioso 
tedesco  ne  parla  più  volte  nel  suo  diario,  ancora  inedito,  a  partire  dal  dicembre 
1928,  quando  Fritz  Saxl  da  Amburgo  gli  invia  il  volume  in  Italia.  Devo  questa 
notizia  a  Nicholas  Mann,  direttore  del  Warburg  Institute,  che  in  una  confe- 
renza tenuta  a  Tokyo  -  nell'ambito  di  un  convegno  su  Bruno  organizzato  nel 
marzo  1998  dal  Centro  Intemazionale  di  Studi  Bruniani,  dal  Warburg  Insti- 
tute e  da  un  gruppo  di  filosofi  giapponesi  -  ha  ricostruito  il  rapporto  tra  War- 
bui^  e  Bruno  proprio  a  partire  da  queste  annotazioni  autobiografiche.  Mi  sem- 
bra importante  ricordare  che  l'autore  del  Sideralis  abyssus  si  sia  distinto  per  un 
feroce  attacco  a  Melantone:  cfr.  Tommaso  Radini  Tedeschi,  Orazione  contro 
Filippo  Melantone,  testo,  traduzione  e  note  di  Flaminio  Ghizzoni,  saggio  di  Giu- 
seppe Berti,  Brescia,  Paideia,  1973. 


INTRODUZIONE  QI 

lieo  dell'opera  è  importante  soffermarci  sul  contesto  in  cui  essa  è  stata 
concepita. 

/  «Mémoires»  di  Michel  de  Castelnau 

Il  Nolano,  come  abbiamo  già  visto,  durante  il  suo  soggiorno  lon- 
dinese è  ospite  dell'ambasciatore  francese,  Michel  de  Castelnau  (1518/ 
i520-i592)2'^5,  a  cui  sono  dedicati  i  primi  tre  dialoghi  italiani  e  VExpli- 
catio  triginta  sigillorum.  Nella  Cena,  l'autore  ringrazia  il  diplomatico 
per  la  sua  generosa  accoglienza  («A  voi  che  con  tanta  munificenza  e 
libertà  avete  accolto  il  Nolano  al  vostro  tetto  e  luogo  più  eminente  di 
vostra  casa») 266^  mentre  nel  De  la  causa  lo  considera  come  protettore 
delle  Muse  («siete  quello  che  medesimo  si  rende  sicuro  e  tranquillo 
porto  alle  vere  muse»)^^^  e,  soprattutto,  come  coraggioso  difensore 
della  «nolana  filosofia »268.  In  effetti  -  le  parole  stesse  di  Bruno  lo  con- 
fermano -  senza  la  presenza  del  Castelnau  le  reazioni  inglesi  suscitate 
dalla  pubblicazione  della  Cena  avrebbero  potuto  produrre  effetti 
molto  spiacevoli  2''''. 


265.  Su  Castelnau  si  vedano:  l'articolo  Michel  de  Castelnau,  in  «Dictionnaire 
de  biographie  frangaise»,  t.  VII,  Paris,  Librairie  Letouyer  et  Ané,  1956,  col. 
1383-84;  M.  Lazard,  L'image  du  Prince  dans  les  Mémoires  de  Michel  de  Castel- 
nau: le  Prince  dans  la  tourmente  des  passions  religieuses  (i520-i5g2),  in  Le  pou- 
voir  monarchique  et  ses  supports  idéologiques  aux  XIV-XVIF  siècles,  Paris,  La 
Sorbonne  Nouvelle,  1990,  p.  91-125  (ma  cfr.  anche  Id.,  Deux  guerriers  pacifistes: 
Michel  de  Castelnau  et  Frangois  de  la  Noue,  in  L'Homme  de  guerre  au  XVF  siede, 
Actes  du  CoUoque  de  l'Association  RHR  [Cannes  1989],  publié  par  Gabriel- 
André  Pérouse,  André  Thierry  et  André  Toumon,  Saint-Etienne,  Université  de 
Saint-Etienne,  1992,  pp.  51-60). 

266.  Cena,  p.  440.  Nelle  pagine  finali  della  Cena  Bruno  non  esita  a  sottoli- 
neare che  la  «nolana  filosofia»  nasce  sotto  gli  «auspicii»  del  Castelnau:  «Ri- 
manti tra  tanto  appo  l'illustrissimo  e  generosissimo  animo  del  signor  di  Mau- 
vissiero  (sotto  l'auspicii  del  quale  cominci  a  publicar  tanto  soUenne  filosofia)» 
{Ibidem,  p.  569). 

267.  De  la  causa,  pp.  595-596. 

268.  «Se  da  l'altro  lato  mi  riduco  a  mente  come  (lasciando  gli  altri  vostri 
onorati  gesti  da  canto)  per  ordinazion  divina,  et  alta  providenza  e  predestina- 
zione, mi  siete  sufficiente  e  saldo  difensore  ne  gl'ingiusti  oltraggi  ch'io  patisco 
(dove  bisognava  che  fusse  un  animo  veramente  eroico  per  non  dismetter  le 
braccia,  desperarsi,  e  darsi  vinto  a  sì  rapido  torrente  di  criminali  imposture, 
con  quali  a  tutta  possa  m'have  fatto  empete  l'invidia  d'ignoranti,  la  presun- 
zion  di  sofisti,  la  detrazzion  di  malevoli,  la  murmurazion  di  servitori,  gli  su- 
surri  di  mercenarii,  le  contradizzioni  di  domestici,  le  suspizioni  di  stupidi,  gli 
scrupoli  di  riportatori,  gli  zeli  d'ipocriti,  gli  odii  di  barbari,  le  furie  di  plebei, 
furori  di  popolari  [...]),  ecco  vi  veggio  qual  saldo,  fermo  e  constante  scoglio,  che 
risorgendo  e  mostrando  il  capo  fuor  di  gonfio  mare,  né  per  irato  cielo,  né  per 
orror  d'inverno,  né  per  violente  scosse  di  tumide  onde,  né  per  stridenti  aerie 
procelle,  né  per  violento  soffio  d'Aquiloni  punto  si  scaglia,  si  muove  o  si 
scuote»  {Ibidem,  pp.  594-595). 

269.  Cfr.  supra,  p.  23. 


92  INTRODUZIONE 

Non  si  tratta  di  elogi  di  circostanza,  quindi,  ma  di  un  legame  più 
profondo,  fondato  soprattutto  sul  riconoscimento  dell'autentico  inte- 
resse che  l'ambasciatore  nutre  per  coloro  che  amano  la  «vera  sa- 
pienza» e  lo  «studio  della  vera  contemplazione»  {De  l'infinitoy^.  Nella 
Ccisa  del  Castelnau,  infatti,  Bruno  afferma  di  aver  vissuto  come  nella 
sua  propria  patria: 

Ipsae  etenim  quibus  omne  solum  patria,  ne  alicubi  haberentur  peregri- 
nae  seque  extraneas  esse  comperirent,  per  Italum  alumnum,  in  seposita 
Britannia,  Gallicum,  ipsumque  regium,  hospitium  repperere.  Vale,  illum- 
que  satis  tibi  alligatum  scias,  cui  Angliam  in  Italiam,  Londinum  in  No- 
lam,  totoque  orbe  seiunctam  domum  in  domesticos  lares  convertisti  2". 

Ma  nonostante  ciò,  il  rapporto  tra  il  Nolano  e  il  Castelnau  non  è 
mai  stato  analizzato  a  fondo,  restando  sempre  confinato  all'analisi  del 
reciproco  scambio  di  attestazioni  di  stima  e  di  amicizia.  La  critica,  con 
scarsi  risultati,  ha  cercato  di  reperire  nella  corrispondenza  del  diplo- 
matico, in  gran  parte  andata  perduta^"-,  tracce  della  presenza  del  filo- 
sofo, trascurando  l'unica  opera  a  noi  pervenuta,  i  Mémoires,  pubblicati 
postumi  nel  1621  dal  figlio  Jacques 2^^.  L'esclusione  di  questa  autobio- 
grafia dall'orizzonte  degli  studi  bruniani  si  fonda  essenzialmente  su  un 
inganno  provocato  dalla  datazione  degli  eventi  che,  volta  per  volta, 
precedono  i  vari  capitoli  presenti  nei  sette  libri:  il  «diario»  si  apre  con 
la  morte  di  Enrico  II  (1559)  e  si  interrompe  con  un'allusione  all'editto 
di  Saint-Germain  (1570).  A  prima  vista,  l'arco  cronologico  ci  induce  a 
considerare  improbabile  un  qualsiasi  rapporto  tra  queste  pagine  e  la 
presenza  di  Bruno  a  Londra  (1583-1585).  Ma  a  una  lettura  attenta,  in- 
vece, i  Mémoires  si  rivelano  di  grande  importanza  per  capire  alcuni 
aspetti  fondamentali  dello  Spaccio. 

Innanzitutto,  bisogna  soffermarsi  sulle  date.  Come  in  ogni  diario,  le 
riflessioni  dell'autore  sono  sempre  precedute  dall'indicazione  tematica 
degli  avvenimenti  di  cui  si  parlerà.  La  centralità  di  quegli  eventi, 
però,  non  impedisce  al  Castelnau  di  abbandonarsi  a  collegamenti  con 
situazioni  e  fatti  degli  anni  ottanta.  Quando  si  parla,  per  esempio,  del- 
l'elezione della  regina  Elisabetta  e  dei  delicati  affari  scozzesi  (1559- 


270.  De  l'infinito,  p.  io. 

271.  G.  Bruno,  Explicatio  triginta  sigillorum,  in  Opp.  lai.  (II,  2),  p.  75.  Qui 
Bruno  riprende  un  tema  a  lui  caro:  «al  vero  filosofo  ogni  terreno  è  patria»  {De 
la  causa,  p.  61). 

272.  Cfr.  G.  HuBAULT,  Ambassade  de  Michel  de  Castelnau  en  Angleterre  (1575- 
1585)  cit,  p.  Vili. 

273.  Cfr.  Michel  de  Castelnau,  Mémoires  cit. 


INTRODUZIONE  93 

1560)  si  fa  allusione  a  decisioni  che  saranno  prese  in  Inghilterra  solo 
nel  1581^^^.  O,  addirittura,  si  ritrovano  qua  e  là  notizie  che  riguardano 
il  definitivo  rientro  del  diplomatico  in  Francia,  nell'autunno  del 
1585^^5  j)i  Bruno  non  si  parla,  è  vero.  Ma  questi  riferimenti  -  confor- 
tati da  altri  indizi  estemi  ^^''  —  ci  fanno  pensare  che  il  Castelnau  scri- 
vesse i  suoi  Mémoires  proprio  quando  il  Nolano  lavorava  alla  defini- 
tiva stesura  dello  Spaccio. 

Si  tratta  di  una  coincidenza  che  non  può  essere  sottovalutata.  In 
fondo,  l'ambasciatore  e  il  filosofo,  sotto  lo  stesso  tetto,  scrivono  due 
opere  che  hanno  un  denominatore  comune:  l'analisi  delle  cause  e  degli 
effetti  delle  guerre  di  religione.  Utilizzano  generi  letterari  diversi  (scrit- 
tura memorialistica  e  dialogo),  è  vero^^^.  Analizzano  i  temi  da  punti  di 
vista  molto  differenti  (racconto  di  eventi  vissuti  e  riflessione  teorica 


274.  «Et  pour  cette  cause  fut  arresté  aux  Estats  tenus  en  Angleterre,  au 
mois  de  mars  1581  [...]»:  Ibidem,  p.  131. 

275.  Castelnau  ricorda  che  i  Guise  fecero  pressione  su  Enrico  III  per  fargli 
togliere  il  beneficio  di  Saint-Dizier,  ottenuto  per  servigi  resi  nel  1568:  «[Leurs 
Majestée]  me  donnerent  le  gouvemement  de  Sainct-Disier,  lequel  depuis,  pen- 
dant mon  sejour  de  dix  ans  que  j'ay  esté  ambassadeur  en  Angleterre,  m'a  esté 
oste  pour  le  bailler  au  due  de  Guise»  {Ibidem,  p.  423). 

276.  Un'altra  testimonianza  proviene  dalla  traduzione  di  un  trattato  di 
Pierre  de  la  Ramée,  effettuata  dal  Castelnau  nel  1559:  Traidé  des  Fagons  et 
Coustumes  des  Anciens  Gaulloys,  traduit  du  latin  de  P.  de  la  Ramée  par  Michel  de 
Castelnau,  Paris,  Chez  André  Wechel,  1559  (Petrus  Ramus,  Liber  de  moribus 
veterum  gallorum,  Parisiis,  apud  A.  Wechelum,  1559).  La  ristampa  di  questa 
traduzione  viene  promossa  nel  1581  da  Bernard  Dupuy,  che  nella  dedica  al 
Castelnau  fa  riferimento  alla  stesura  in  corso  dei  Mémoires:  «lequelle  [livre] 
vous  devroit  donner  courage  au  lieu  et  seiour  de  votre  Ambassade,  d'achever 
les  mémoires  que  vous  avez  commencer  à  taire,  des  choses  que  vous  avez  trait- 
tées  et  maniées  en  vostre  temps»  (Traitté  des  Meurs  et  Fagons  et  des  Anciens 
Gaulloys,  traduit  du  latin  de  P.  de  la  Ramée  par  Michel  de  Castelnau,  A  Paris, 
Chez  Denys  du  Val,  1581,  ce.  3r-3v).  Non  bisogna  dimenticare  che  il  trattato  di 
Pierre  de  la  Ramée  e  la  traduzione  del  Castelnau  sono  entrambi  pubblicati  da 
André  Wechel,  padre  del  Ioannes  presso  cui  a  Francoforte  Bruno  darà  alla 
luce  alcune  sue  opere  latine.  Sulla  datazione  dei  Mémoires  e  sul  milieu  legato  ai 
Wechel  in  Francia  e  in  Germania  cfr.  Nuccio  Ordine,  Introduction  à  Gior- 
dano Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit,  pp.  XIII-XVII.  Nel  corso 
della  stesura  di  questo  paragrafo  riprenderò  alcuni  dei  temi  che  ho  discusso  in 
maniera  più  approfondita  nella  mia  introduzione  all'edizione  Les  Belles  Let- 
tres  dello  Spaccio. 

277.  In  Francia,  si  pensi  ai  celebri  Commentaires  di  Blaise  de  Montine,  nella 
seconda  metà  del  Cinquecento  i  mémoires  godono  di  un  diffuso  interesse.  Sulla 
nascita  e  gli  sviluppi  di  questo  genere  cfr.  Guy  Demerson,  La  riflessione  sulla 
storia  e  i  primi  tentativi  di  una  storia  della  letteratura,  in  Storia  della  letteratura 
francese,  diretta  da  Lionello  Sozzi,  Torino,  Utet,  1993,  v.  I,  pp.  390-394.  Ma  si 
veda  anche  l'importante  contributo  di  Marc  Fumaroli,  Mémoires  et  histoire: 
le  dilemme  de  l'historiographie  humaniste  au  XVF  siede,  in  Les  valeurs  chez  les 
mémorialistes  frangais  du  XVIF  siècles,  par  N.  Hepp  et  J.  Hennequin,  Paris, 
Klincksieck,  1979,  pp.  21-37. 


94  INTRODUZIONE 

sulla  filosofia  morale),  siamo  d'accordo.  Ma  queste  distinzioni  sulla  na- 
tura dei  due  testi  non  impediscono  di  cogliere  la  profonda  solidarietà 
che  li  lega  sul  piano  politico  e  religioso. 

Nei  Mémoires,  considerati  a  giusta  ragione  come  «le  monument  hi- 
storique  le  plus  instructif  de  cette  epoque »2'8,  l'autore  ci  parla  della 
sua  fedeltà  a  Enrico  III,  della  stima  per  la  regina  Elisabetta,  delle  vio- 
lenze perpetrate  in  nome  della  religione  dalle  fazioni  estremiste  dei 
cattolici  e  dei  protestanti,  della  centralità  dello  Stato,  della  vitale  im- 
portanza della  Legge  e  della  Giustizia,  della  necessità  della  pace,  degli 
effetti  catastrofici  provocati  dalle  guerre  civili.  Ci  parla,  insomma,  di 
temi  fortemente  interrelati  con  alcuni  passaggi  dello  Spaccio.  E  la  sua 
posizione  di  diplomatico  e  di  protagonista  di  molte  vicende  legate  ai 
conflitti  tra  gli  Ugonotti  e  i  Guise,  gli  consente  di  smascherare  le  po- 
sizioni strumentali  delle  grandi  famiglie  francesi  che  con  il  pretesto  di 
difendere  la  religione  avevano  finito  per  distruggere  «tonte  religion  et 
piété»: 

Et  le  pis  estoit  qu'en  cette  guerre  les  armes.  que  l'on  avoit  prises  pour 
la  deffence  de  la  religion,  aneantissoient  toute  religion  et  piété,  et  produi- 
soient,  comme  un  corps  pourry  et  gasté  la  vermine  et  pestilence  d'une 
infinite  d'atheistes;  car  les  eglises  estoient  saccagées  et  demolies,  les  an- 
ciens  monasteres  detruits,  les  religieux  chassez  et  les  religieuses  violées;  et 
ce  qui  avoit  esté  basty  en  quatre  cens  ans,  estoit  destruit  en  un  jour,  sans 
pardonner  aux  sepulchres  des  roys  et  de  nos  peres^^'. 

Non  è  possibile  soffermarci  ulteriormente  sui  Mémoires^^°.  Ci 
preme,  invece,  sottolineare  il  ruolo  di  mediatore  che  il  Castelnau 
avrebbe  potuto  svolgere  negli  anni  del  soggiorno  londinese  di  Bruno. 
Tramite  con  il  milieu  inglese,  senza  dubbio,  ma  anche  punto  di  rac- 
cordo tra  gli  eventi  politico-culturali  francesi  e  il  Nolano.  Lavorando 
nello  stesso  momento  su  temi  affini,  è  difficile  immaginare  che  tra  i 
due  non  intercorressero  scambi  di  opinioni  su  una  materia  così  deli- 
cata, e  all'ordine  del  giorno,  come  le  guerre  di  religione.  E  non  è  im- 
possibile ipotizzare  che  il  Castelnau,  per  venire  incontro  agli  interessi 
del  suo  interlocutore,  gli  avesse  messo  sotto  gli  occhi  una  raccolta  di 


278.  M.  Petitot,  Notice  sur  Castelnau  et  sur  ses  mémoires.  in  Michel  de 
Castelnau,  Mémoires  cit,  p.  i6.  Ma  anche  Gustave  Hubault  riconosce  il  va- 
lore dei  Mémoires:  «Rédigés  en  Angleterre,  loin  des  passions  qu'ils  dépeignent, 
ils  sont  empreints  d'une  équité  que  la  distance,  dans  1  "espace  comme  dans  le 
temps,  rend  plus  facile  et  qu'ont  admirée  tous  les  historiens»:  Ambassade  de 
Michel  de  Castelnau  en  Angleterre  (1575-1585)  cit.,  p.  143. 

279.  Michel  de  Castelnau,  Mémoires  cit,  pp.  296-297. 

280.  Per  un'analisi  più  dettagliata  cfr.  Nuccio  Ordine,  Introduction  à 
Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit,  pp.  XVII-XX. 


INTRODUZIONE  95 

versi  militanti  di  Ronsard  —  il  Discours  des  Misères  de  ce  temps:  1567, 
1578,  ma  ristampato  proprio  nel  1584  nell'edizione  delle  opere  com- 
plete-^i  -  in  cui  si  ritrovano  temi  e  immagini  che  presentano  una 
straordinaria  coincidenza  con  alcuni  passaggi  dello  Spaccio  e  con  la 
posizione  stessa  manifestata  nei  suoi  Mémoires  dal  diplomatico  fran- 
cese, amico  di  lunga  data  del  celebre  fondatore  della  Plèiade ^^2 

Ronsard  e  la  religione  come  cemento  sociale 

Ronsard,  nella  polemica  antiprotestante  degli  anni  sessanta,  gioca 
un  ruolo  di  primissimo  piano,  che  resta  vivo  nella  memoria  dei  fran- 
cesi per  alcuni  decenni,  come  testimoniano  le  parole  di  Jacques  Davy 
Du  Perron  pronunciate  il  24  febbraio  del  1586  davanti  al  feretro  del 
poeta,  nella  cappella  del  Collège  de  Boncourt^^'.  A  distanza  di  oltre 
vent'anni,  infatti,  i  versi  del  Vendómois  vengono  ancora  ricordati 
come  esempio  di  letteratura  «engagée».  In  effetti,  la  pubblicazione  del 
Discours  des  Misères  de  ce  temps  ebbe  una  funzione  importantissima 
durante  lo  scoppio  delle  prime  guerre  di  religione:  allo  straordinario 


281.  Sullo  straordinario  successo  editoriale  di  questo  polemico  pamphlet 
ronsardiano  cfr.  Jean  Paul  Barbier,  Bibliographie  des  Discours  politiques  de 
Ronsard,  Genève,  Droz,  1984. 

282.  Al  di  là  dei  versi  di  Ronsard  sul  teatro  del  mondo  recitati  a  Fontai- 
nebleau  dal  Castelnau  nel  1564,  in  occasione  di  un'importante  festa  organiz- 
zata da  Caterina  de'  Medici  (cfr.  supra,  p.  60),  il  poeta  dedica  al  suo  amico  un 
sonetto  pieno  di  lodi:  «Je  n'ayme  point  ces  noms  ambitieux  /  Qui  font  enfler  le 
gros  sourcil  d'un  livre:  /  Apres  ma  mort  le  mien  pourra  revivre  /  Sans  le  sacrer 
aux  princes  ny  aux  dieux.  //  Mais  rencontrant  un  homme  ingenieux  /  Qui 
comme  toy  les  vertus  veut  ensuivre,  /  En  lieu  d'un  marbré  ou  un  pilier  de 
cuivre  /  Je  l'etemize  et  le  mets  dans  le  cieux.  //  Te  voyant  né  d'une  ame  gene- 
reuse,  /  Plein  de  faconde,  et  de  memoire  heureuse,  /  Ayant  la  face  et  le  naturel 
bon,  //  Je  t'ay  donne  ce  livre,  Mauvissiere,  /  Qui,  sans  faveur  d'un  plus  superbe 
nom,  /  Comme  une  Aurore  annonce  ta  lumiere»:  Ronsard,  (Euvres  complètes 
cit,  t.  II,  p.  424.  Qui  Ronsard  «dipinge»  un  ritratto  dell'ambasciatore  francese  a 
Londra  che  trova  riscontri  in  altre  testimonianze.  Per  il  riferimento  alla  por- 
tentosa memoria  del  Castelnau,  cfr.  supra  p.  16.  L'immagine  dell'aurora  evo- 
cata nel  sonetto  sarà  anche  utilizzata  da  Bruno  nel  suo  elogio  di  Copernico: 
«[Copernico]  come  un'aurora,  che  dovea  precedere  l'uscita  di  questo  sole  de 
l'antiqua  vera  filosofìa»  (Cena,  p.  450). 

283.  «Alors  Monsieur  de  Ronsard,  qui  avoit  tousjours  monstre  sa  fermeté 
et  sa  costance,  et  s'estoit  jamais  laissé  enchanter  à  toutes  ces  Sirenes.  ny  n'avoit 
jamais  degenere  de  la  foy  et  de  la  religion  de  ses  predecesseurs,  [...]  s'opposa  de 
telle  sorte  à  toutes  ces  pestes  d'escrivains  [...]  et  les  rendit  si  confus  et  si  emer- 
veillez,  qu'ils  demeurerent  sans  replique,  et  n'eurent  ny  plus  de  voix  ny  de 
langue  pour  abbaier  contre  la  verité.  Dont  oultre  l'obbligation  que  tonte  la 
France  luy  en  eut,  et  l'honner  que  le  roy  et  la  Royne  sa  mere  lui  firent  en  ceste 
consideration  [...]»:  Jacques  Davy  Du  Perron,  Oraison  funebre  sur  la  mort  de 
Monsieur  de  Ronsard,  édition  critique  par  Michel  Simonin,  Genève,  Droz,  1985, 
pp.  88-90. 


96  INTRODUZIONE 

successo  editoriale -**•*  fecero  seguito,  infatti,  numerose  repliche,  sotto 
forma  di  violenti  pamphlet,  pubblicate  anonimamente  da  attivi  soste- 
nitori del  fronte  protestante^**'.  In  questa  raccolta,  il  principe  della 
Plèiade  mostra  una  grande  preoccupazione  per  le  conseguenze  dei  con- 
flitti civili:  la  società  si  disgrega,  le  istituzioni  politiche  crollano  e  le 
lotte  condotte  in  nome  della  religione  finiscono  per  distruggere  qual- 
siasi forma  di  convivenza  sociale  e  di  religiosità.  Tutto  sembra  essere 
in  preda  al  caos  e  la  violenza  spezza  ogni  forma  di  comunicazione  tra 
lo  Stato  e  i  suoi  cittadini,  tra  il  culto  e  i  suoi  fedeli.  Nella  sua  polemica 
antiprotestante  -  va  detto  con  chiarezza  per  sgombrare  il  campo  da 
ogni  possibile  equivoco  -  Ronsard  non  manifesta  alcun  interesse  per 
questioni  di  natura  teologica.  Anzi:  i  suoi  versi  affermano  in  maniera 
evidente  che  la  religione  deve  avere  soprattutto  una  funzione  civile: 

Tout  Sceptre  et  tout  Empire  et  toutes  regions 

Fleurissent  en  grandeur  par  les  religions: 

Par  elles  cu  en  paix  cu  en  guerre  nous  sommes: 

Car  c'est  le  vray  ciment  qui  entretient  les  hommes^**^. 

Anche  nel  Panégyrique  de  la  Renommée,  indirizzato  a  Enrico  III,  la 
parola  «religione»  viene  derivata  etimologicamente  dal  verbo  latino 
religare  («legare»,  «annodare»),  per  evidenziare  con  maggiore  forza  la 
sua  funzione  civile,  il  suo  essere  un  perfetto  collante  sociale 2»'.  Ron- 
sard si  inserisce,  insomma,  in  un  dibattito  di  natura  strettamente  po- 
litica che  da  Machiavelli  a  Bodin  considera  i  differenti  culti  al  servizio 
di  un'unica  missione:  favorire  ed  accrescere  la  coesione  tra  gli  uomi- 


284.  Sulla  fortuna  editoriale  di  questi  versi  di  Ronsard  cfr.  J.-P.  B.arbier, 
Bibliographie  des  discours  politiques  de  Ronsard  cit 

285.  La  polémique  protestante  contre  Ronsard,  édition,  introduction  et  notes 
par  Jacques  Pinaux,  Paris,  Didier,  1973,  2  voli.  Sulla  poesia  protestante  du- 
rante le  guerre  di  religione  cfr.  Jacques  Pineaux.  La  poesie  des  Protestants  de 
langue  frangaise  [...]  (i^^g-i^gS),  Paris,  Klincksieck,  1971.  Sugli  specifici  attac- 
chi dei  riformati  a  Ronsard  si  veda  F.  Charbonnier,  La  poesie  frangaise  et  les 
guerres  de  religions  (1560-15^4).  Paris,  1920  (rist  anast,  Genève,  Slatkine,  1970), 
pp.  57-120  (ma  cfr.  anche  il  catalogo  della  mostra  Ronsard  et  la  Rome  prote- 
stante, Genève,  Bibliothèque  publique  et  universitaire,  1985). 

286.  Discours  des  Misères  de  ce  temps,  in  (Euvres  complètes  cit,  t  II,  w.  385- 
388,  p.  1029.  Sulla  religione  come  cemento  e  sull'importanza  delle  cerimonie, 
Ronsard  si  sofferma  anche  nella  Response  anx  injures:  «Si  tost  quelle  [l'Eglise] 
eut  rangé  les  villes  et  les  Rois  /  Pour  maintenir  le  peuple  elle  ordonna  des 
lois,  /  Et  afin  de  coller  les  provinces  unies  /  Gomme  un  cyment  bien  fort  fit 
des  ceremonies,  /  Sans  lesquelles  long  temps  en  toute  region  /  Ne  se  pourroit 
garder  nulle  religion»  [Ibidem,  t  II,  w.  397-402,  p.  1053). 

287.  «Pour  atteindre  au  sommet  d'une  telle  equité  7  II  faut  la  piété  joincte 
à  la  charité,  /  Et  la  religion  dont  reliez  nous  sommes,  /  Tant  elle  est  agreable  et 
aux  dieux  et  aux  hommes!»:  Panégyrique  de  la  Renommée,  in  (Euvres  complètes, 
w.  95-98,  t.  II,  p.  9. 


INTRODUZIONE  97 

ni^^^.  L'atto  del  religare,  quindi,  non  si  esplica,  come  lo  pretendevano  i 
protestanti,  in  un  «legame»  tra  l'uomo  e  Dio,  attraverso  la  mediazione 
della  fede.  Per  Ronsard,  questo  «nodo»  deve  concretizzarsi  in  un'al- 
leanza tra  uomo  e  uomo,  tra  l'individuo  e  la  comunità  sociale  nella 
quale  egli  vive.  Ecco  perché  la  funzione  della  religione  è  strettamente 
interrelata  alle  funzioni  della  Legge  e  della  Giustizia: 

Doncques  Roy,  si  tu  veux  qua  ton  regne  prospere, 
Il  te  faut  craindre  Dieu:  le  Prince  qui  revere 
Dieu,  Justice,  et  la  Loy,  vit  tousjours  fleurissant. 
Et  tousjours  voit  sous  luy  le  peuple  obeyssant^^^. 

La  distruzione  dei  luoghi  sacri  e  degli  altari,  associata  al  disprezzo 
per  la  legge  e  per  la  giustizia,  provoca  inesorabilmente  la  disintegra- 
zione della  società  civile.  E  proprio  in  difesa  di  quest'ultima  Ronsard 
non  esita  a  schierarsi  con  Caterina  de'  Medici,  mantenendo  un'equidi- 
stanza dalle  posizioni  radicali  sostenute  dalle  opposte  fazioni  in  lotta. 
Combattere  i  fanatismi  religiosi,  siano  essi  espressione  del  partito  pro- 
testante o  di  quello  cattolico  («Mort  sont  ces  mots  Papaux  et  Hugue- 
nots»)^''",  significa  schierarsi  a  favore  della  Corona  e,  di  conseguenza, 
con  tutti  coloro  che  considerano  al  primo  posto  la  solidità  dello  Stato 
e  della  società  civile^^i.  Non  a  caso,  nelle  discussioni  organizzate  da 


288.  Cfr.  Daniel  Ménager.  Religion  et  religions,  in  Ronsard.  Le  Roi,  le  Poète 
et  les  Hommes,  Genève,  Droz,  1979,  pp.  167-181;  ma  si  veda  anche  Isidore  Sil- 
ver, Ronsard's  Philosophic  Thougt,  I,  Genève,  Droz,  1992,  pp.  232-238. 

289.  Ronsard,  Hynne  de  la  Justice,  in  QLuvres  complètes  cit.,  t  II,  w.  503- 
506.  p.  485.  Tutto  l'inno  è  centrato  sul  ruolo  fondamentale  della  Giustizia  e 
della  Legge  (quest'ultima  intesa  anche  nel  senso  di  Legge  divina,  di  religione) 
per  garantire  la  vita  sociale  nella  città  e  la  sicurezza  degli  uomini. 

290.  «De  vostre  grace  un  chacun  vit  en  paix:  /  Pour  le  Laurier  l'Olivier  est 
espais  /  Par  toute  France,  et  d'une  estroitte  corde  /  Avez  serre  les  deux  mains 
de  Discorde.  /  Morts  sont  ces  mots  Papaux  et  Huguenots»:  Le  Bocace  Roy  ale.  II, 
in  (Euvres  complètes,  t  II,  w.  139-143,  p.  96.  Questi  versi,  non  a  caso  dedicati  a 
Caterina  de'  Medici,  si  ricollegano  alla  posizione  che  Ronsard  aveva  già  as- 
sunto nella  Remonstrance  au  peuple  de  France  {Ibidem,  t.  II,  vv.  213-216,  p. 
1025):  «Je  n'aime  point  ces  noms  qui  sont  finis  en  os.  I  Gots,  Cagots,  Austregots, 
Visgots  et  Huguenots:  /  Ils  me  sont  odieux  comme  peste,  et  je  pense  /  Qu'ils 
soni  prodigieux  à  l'empire  de  France».  Il  tema  ritoma  in  un  poemetto  inedito 
(1570)  di  Germain  Audebert:  «On  se  bande,  on  se  ligue  et  menée  on  brasse  / 
Chacun  cherche  son  mieux  et  le  party  ambrasse  /  De  qui  luy  semble  bon  et  ces 
divisions  /  Sont  soubz  pretexte  sainct  de  deux  religions  /  Dont  le  mesme  su- 
bject  de  diverse  doctrine  /  Diversement  mene  cause  notre  mine  /  Et  ces  noms 
factieux  PAPAUX  et  huguenots  /  Trop  malheureusement  nous  comblent  de 
tout  maux»  (Lino  Fertile,  Un  poemetto  inedito  sulle  guerre  di  religione:  «L'eryn- 
ne  franqoise  de  la  France  affligée»  di  Germain  Audebert,  in  «Bibliothèque  d'Hu- 
manisme  et  de  Renaissance»,  XXXVIII.  1976,  p.  309). 

291.  Cfr.  N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète 
triomphante  cit,  pp.  XXXVIII-XXXIX  (ma  cfr.  anche  D.  Ménager,  Religion  et 


98  INTRODUZIONE 

Enrico  III  nell'Académie  du  Palais,  Ronsard  tesserà  le  lodi  della  vita 
attiva  e  dell'etica ^''^.  Senza  la  filosofia  morale,  senza  quelle  virtù  che  si 
traducono  in  positivi  modelli  di  comportamento,  sarà  difficile  sconfig- 
gere l'ignoranza  e  i  mali  che  minacciano  la  vita  degli  uomini  e  delle 
istituzioni  politiche-'-". 

La  riforma  celeste  e  la  Gigantomachia 

La  necessità  di  una  riforma  celeste  nello  Spaccio  parte  proprio  dalla 
coscienza  della  profonda  crisi  che  attanaglia  l'umanità: 

Là  dove  io  avevo  nobilissimi  oracoli,  fani  et  altari,  ora,  essendone 
quelli  gittati  per  terra  et  indegnissimamente  profanati,  in  loco  loro  han 
dirizzate  are  e  statue  a  certi  ch'io  mi  vergogno  nominare,  perché  son  peg- 
gio che  li  nostri  satiri  e  fauni  et  altri  semebestie  [...].  Le  leggi,  statuti,  culti, 
sacrificii  e  ceremonie,  ch'io  già  per  li  miei  Mercurii  ho  donate,  ordinati, 
comandati  et  instituiti,  son  cassi  et  annullati;  et  in  vece  loro  si  trovano  le 
più  sporche  et  indegnissime  poltronarie  che  possa  giamai  questa  cieca  al- 
trimente  fengere:  a  fine  che  come  per  noi  gli  omini  doventavano  eroi, 
adesso  dovegnano  peggio  che  bestie ^^■*. 


religions,  in  Ronsard.  Le  Roi,  le  Poète  et  les  Hommes.  cit.,  p.  172).  La  stessa  posi- 
zione di  equidistanza  dagli  estremi  era  stata  già  teorizzata  da  Michel  de  L'Ho- 
spital: «Ostons  ces  mots  diaboliques,  nomes  de  parts,  factions  et  séditions.  lu- 
thériens,  huguenots,  papistes:  ne  changeons  le  nom  de  chrestien»  (Michel  de 
L'Hospital,  Harangue  prononcée  à  l'ouverture  de  la  session  des  État-Généreaux 
assemblés  à  Orléans  le  ij  décembre  1560.  in  CEuvres  complètes.  précédées  d'un 
essai  sur  sa  vie  et  ses  ouvrages  par  P.  J.  S.  Duféy,  Paris.  A.  Boulland.  1824.  t.  I, 
p.  402:  rist  anast,  Genève,  Slatkine,  1968).  Sull'importante  ruolo  di  de  L'Ho- 
spital durante  le  guerre  civili,  soprattutto  per  la  condanna  dell'uso  della  vio- 
lenza, cfr.  Joseph  Leclerc,  Histoire  de  la  tolérance  aii  siècle  de  la  Ré/orme,  Paris, 
cit,  pp.  430-478  (ma  si  vedano  anche:  Denis  Crouzet,  La  sagesse  et  le  malheur. 
Michel  de  L'Hospital,  chancelier  de  France,  Seysell,  Champ  Vallon,  1998; 
Thierry  Wanegffelen,  Ni  Rome  ni  Genève.  Des  fidèles  entre  deiix  chaires  en 
France  au  XVF  siècle,  Paris,  Champion,  1997,  pp.  209-220).  Ronsard  conosce 
molto  bene  Michel  de  l'Hospital:  gli  dedica  un'ode  nel  1550  {(Eeuvres  complètes 
cit.,  t.  I,  pp.  626-650)  e  neW Insiitution  pour  l'adolescence  du  roy  tres-chrestien 
Charle  IX"  de  ce  nom,  integrata  nella  raccolta  Discours  des  Misères  de  ce  temps. 
tiene  conto  di  un  suo  poema  in  latino  sull'istruzione  del  principe  (De  sacra 
Francisci  II  Galliarum  initiatione,  in  CEuvres  complètes  cit,  t.  Ili,  pp.  353-366). 
Sui  rapporti  tra  Ronsard  e  de  L'Hospital  si  veda  Pierre  Champion,  Cafards  et 
prédicants,  in  Ronsard  et  son  temps,  Paris,  Champion.  1925.  pp.  162-163. 

292.  «[...]  il  vaut  mieulx  choisir  la  meilleure  partie,  la  plus  utille  et  la  plus 
necessaire  et  plus  propre  aux  manimens  des  affaires,  qui  sont  les  vertus  moral- 
les,  qui  nous  rendent  moderés,  bien  conditionnez  et  qui  nous  font  appeler  du 
nom  de  vertueux  et  de  gens  de  bien,  que  nous  amuser  à  la  vanite»:  Ronsard, 
Des  vertus  intellectuelles  et  moralles,  in  CEuvres  complètes,  t  II,  p.  1193. 

293.  Cfr.  N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète 
triomphante  cit,  pp.  XLIV-XLVII. 

294.  Spaccio,  pp.  209-210. 


INTRODUZIONE  99 

Giove  capisce  che  la  profanazione  degli  altari  e  la  degradazione  dei 
culti  spinge  gli  uomini  nel  baratro  della  feritas.  Perdendo  la  loro  natu- 
rale funzione,  gli  «statuti»  divini  non  serviranno  più  a  creare  degli 
eroi  ma  finiranno  per  incoraggiare  comportamenti  e  atteggiamenti  be- 
stiali. Arrestare  questo  degrado  significa  innanzitutto  ripristinare  le 
perdute  virtù  al  posto  dei  diffusi  vizi.  L'uscita  dalle  tenebre  può  essere 
provocata  solo  da  una  profonda  riforma  etica.  Bisogna  iniziare  dal- 
l'alto, con  una  severa  autocritica  che  parta  dagli  stessi  dèi.  In  cielo, 
dipinti  nelle  quarantotto  costellazioni,  si  vedono  apertamente  «gli 
frutti,  le  reliquie,  gli  riporti,  le  voci,  le  scritture,  le  istorie  di  nostri 
adulterii,  incesti,  fornicazioni»  che  hanno  favorito  «i  triomfi  de  vizii» 
e  bandito  «le  virtudi  e  la  giustizia»^^^  Per  questo,  il  re  dell'Olimpo 
convoca  un'assemblea  celeste  in  un  particolare  anniversario,  quello 
della  vittoria  sui  Giganti.  Non  si  tratta  di  un  dettaglio  privo  di  signi- 
ficato. Ieri,  gli  dèi  dovevano  difendere  la  loro  posizione  dal  terribile 
assalto  dei  figli  di  Gaia.  Oggi,  invece,  è  la  loro  dignità  ad  essere  messa 
in  discussione  («quel  timor  di  noi  che  ne  rendea  tanto  gloriosi,  è  spen- 
to») finanche  «da  gli  sorgi  de  la  terra»-''^".  Respingere  i  Giganti  e 
«spacciare»  la  «bestia  trionfante»  richiede  uno  sforzo  enorme.  La 
lotta,  come  sottolinea  Giove,  si  combatte  su  un  doppio  fronte:  quello 
interiore,  in  cui  ciascun  individuo  si  purifica  dichiarando  guerra  a  se 
stesso,  e  quello  esteriore,  in  cui  si  aggrediscono  i  vizi  per  favorire  l'af- 
fermazione sociale  e  politica  delle  virtù. 

In  entrambi  i  casi  siamo  di  fronte  a  una  Gigantomachia.  Una  scelta 
casuale,  quella  di  Giove,  o  un  preciso  messaggio  in  codice?  La  critica 
finora  non  aveva  raccolto  la  sfida.  A  pensarci  bene,  questo  anniversa- 
rio rinvia  a  un  tema  strettamente  legato  alle  vicende  delle  guerre  di 
religione.  Nel  mondo  classico,  infatti,  il  tema  della  Gigantomachia  è 
generalmente  associato  alla  lotta  per  la  conquista  del  potere.  I  Giganti 
sono  percepiti  come  arroganti  ribelli  che  osano  provocare  il  disordine 
e  il  caos 2'^'.  Nella  Teogonia  di  Esiodo,  Zeus  viene  eletto  solo  dopo  la 
loro  disfatta -2'^^.  La  vittoria  degli  dèi  segna  la  nascita  delle  leggi  divine 


295.  Ibidem,  p.  217. 

296.  Ibidem,  p.  216. 

297.  Sul  significato  di  questo  mito  cfr.  Francis  Vian,  La  Guerre  des  Géants. 
Le  mythe  avant  l'epoque  éllenistique,  Paris,  Klincksieck,  1952.  Vian  mostra  come 
la  tradizione  latina  (Virgilio,  Orazio,  Ovidio)  accomuna  Giganti  e  Titani,  an- 
nullando ogni  distinzione  {Ibidem,  pp.  173-174).  Ma  si  veda  anche  F.  Vian 
(avec  la  coUaboration  de  M.  B.  Moore),  Gigantes.  in  L.I.M.E..  Zurigo-Monaco, 
1988  (IV,  i),  pp.  191-196. 

298.  «Così,  dopo  che  gli  dèi  beati  ebbero  compiuto  la  loro  fatica  /  e  coi 
Titani  conclusa  di  forza  la  disputa  per  gli  onori,  /  allora  invitarono  a  prendere 
il  trono  e  il  comando,  /  per  i  consigli  di  Gaia,  l'Olimpo  Zeus  dall'ampio 


lOO  INTRODUZIONE 

istituite  proprio  per  neutralizzare  chi  commette  dei  crimini  e  chi  con- 
testa l'autorità  del  re.  E  ne  Le  opere  e  i  giorni,  il  poeta  greco  definisce 
ancora  meglio  lo  scopo  della  sovranità  di  Giove:  l'Altitonante  si  unisce 
a  Themis  (Legge,  Ordine)  per  generare  Eunomie  (Giustizia),  Dike  (Di- 
ritto) e  Eirene  (Pace)^^''.  Vedremo  in  seguito  come  i  versi  di  Esiodo 
sullo  stretto  rapporto  lavoro-giustizia  e  sulla  necessità  che  il  re  giusto 
sia  allevato  dalle  Muse  trovino  ulteriori  sviluppi  nello  Spaccio. 

Anche  nel  Rinascimento,  all'interno  di  una  forte  ripresa  dei  miti 
pagani,  il  tema  della  Gigantomachia  ritoma  con  insistenza  nella  lette- 
ratura e  nelle  arti  in  generale  per  celebrare  il  potere  regale '°°.  I  Gi- 
ganti rappresentano  l'ambizione  smisurata  di  coloro  che  vogliono  ro- 
vesciare i  legittimi  regnanti  con  la  forza  e  la  dura  risposta  di  Giove, 
che  li  disintegra  con  i  suoi  fulmini,  incarna  la  terribile  punizione  in- 
flitta dalla  giustizia  a  chi  non  rispetta  le  leggi  e  l'autorità  degli  dèi'°'. 
A  partire  dal  1549,  la  guerra  tra  divinità  olimpiche  e  Giganti  assume 
un  ruolo  di  primo  piano  nella  poesia  francese.  Ma  solo  all'inizio  degli 
anni  sessanta,  con  lo  scoppio  delle  guerre  di  religione,  il  mito  acquista 
un  valore  politico  e  morale  specifico.  I  figli  di  Gaia  non  vengono  rico- 
nosciuti più  come  generici  ribelli.  Per  Ronsard  e  per  i  poeti  della 
Plèiade  essi  si  identificano  con  i  protestanti,  con  i  feroci  aggressori 
delle  leggi  e  della  monarchia: 

De  là  toute  heresie  au  monde  prist  naissance. 
De  là  vient  que  l'Eglise  a  perdu  sa  puissance. 
De  là  vient  que  les  Rois  ont  les  sceptre  esbranlé, 
De  là  vient  que  le  foible  est  du  fort  viole. 
De  là  sont  procedez  ces  Geans  qui  eschellent 


sguardo,  /  sugli  immortali;  e  bene  distribuì  a  loro  gli  onori»:  Esiodo,  Teogonia, 
in  Opere,  testi  introdotti,  tradotti  e  commentati  da  Graziano  Arrighetti,  Torino, 
Einaudi,  1998,  w.  881-885,  p.  47. 

299.  «Per  seconda  [Zeus]  poi  sposò  la  splendida  Themis,  che  fu  madre 
delle  Horai,  /  Eunomie,  Dike  e  Eirene  fiorente,  /  che  vegliano  sull'opera  degli 
uomini  mortali»  (Ibidem,  vv.  901-903). 

300.  Per  una  rassegna  del  mito,  con  riferimenti  anche  ai  poeti  italiani  del 
Quattrocento,  cfr.  Fran^^oise  Joukovsky-Micha,  La  guerre  des  dieux  et  des 
Géants  chez  les  poètes  franqais  du  XVF  siècle  (1^00-1585),  in  «Bibliothèque  d'Hu- 
manisme  et  Renaissance»,  XXIX  (1967),  pp.  55-92.  Sulla  fortuna  della  mitogra- 
fia  nel  Rinascimento  cfr.  i  lavori  di  Jean  Seznec  {La  sopravvivenza  degli  antichi 
dei,  Torino,  Boringhieri,  1981)  e  di  Guy  Demerson  (La  mythologie  dassique 
dans  l'ceuvre  de  la  «Plèiade»,  Genève,  Droz,  1972). 

301.  Oltre  ad  un  uso  letterario  (si  pensi  anche  a  Guillaume  Bude  o  a 
Joachim  Du  Bellay),  il  mito  occupa  un  posto  di  rilievo  in  cicli  pittorici  legati 
ai  trionfi  di  Francesco  I  e  di  Carlo  V  (per  quest'ultimo  si  pensi  ai  Gi- 
ganti affrescati  nella  celebre  sala  di  Palazzo  Te  a  Mantova).  Su  questi  temi  cfr. 
N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano  Bruno.  Expulsion  de  la  bète  triomphante 
cit.,  pp.  LXIX-LXXII. 


INTRODUZIONE  IDI 

Le  Ciel,  et  au  combat  les  Dieux  mesmes  appellent: 
De  là  vient  que  le  monde  est  plein  d'iniquité, 
Remply  de  desfiance  et  d'infidélité, 
Ayant  perdu  sa  reigle,  et  sa  forme  ancienne '°^. 

All'interno  di  questo  gioco  allegorico,  il  futuro  Enrico  III  viene  ad 
identificarsi  con  Giove  quando  atterra  i  Giganti-Ugonotti  nelle  batta- 
glie di  Jamac  (13  marzo  1569)  e  di  Montcontour  (30  ottobre  1569)'°^. 
Adesso  la  scelta  di  far  coincidere  la  riforma  celeste  con  l'anniversario 
della  Gigantomachia  appare  molto  più  chiara.  Giove,  infatti,  designa 
con  precisione  i  veri  nemici  della  Giustizia  e  della  Legge,  i  veri  re- 
sponsabili della  guerra  civile  in  Europa: 

Veda  [il  giudizio]  se  mentre  dicono  che  vogliono  riformare  le  diffor- 
mate  leggi  e  religioni,  vegnono  per  certo  a  guastar  tutto  quel  tanto  che  ci  è 
di  buono,  e  confirmar  et  inalzar  a  gli  astri  tutto  quello  che  vi  può  essere  o 
fingere  di  perverso  e  vano.  Veda  se  apportano  altri  frutti  che  di  togliere  le 
conversazioni,  dissipar  le  concordie,  dissolvere  l'unioni,  far  ribellar  gli  figli 
da  padri,  gli  servi  da  padroni,  gli  sudditi  da  superiori,  mettere  scisma  tra 
popoli  e  popoli,  gente  e  gente,  compagni  e  compagni,  fratelli  e  fratelli;  e 
ponere  in  disquarto  le  fameglie,  cittadi,  republiche  e  regni:  et  in  conclu- 
sione se  mentre  salutano  con  la  pace,  portano  ovumque  entrano  il  coltello 
della  divisione  et  il  fuoco  della  dispersione,  togliendo  il  figlio  al  padre,  il 


302.  RoNSARD,  Remonstrance  au  peuple  de  Frutice,  in  (Euvres  complètes,  t.  II, 
w.  331-339,  p.  1028.  È  interessante  notare  che  già  Thomas  More  accusa  Lutero 
di  comportarsi  come  i  Giganti:  «Vides  ergo  lector,  quam  detorte  detraxerit 
scripturam,  hunc  in  locum  Lutherus:  ut  inde  strueret  sibi  fundamentum: 
ex  quo  superstrueret  arcem:  unde  more  gigantum  superos  e  celo  depelleret» 
{Responsio  ad  Lutherum,  II,  15,  in  The  Complete  Works  of  St.  Thomas  More,  edi- 
ted  by  John  M.  Headley,  New  Haven  and  London,  Yale  University  Press,  1969, 
v.  5,  p.  I,  p.  510).  Anche  in  Italia,  i  seguaci  di  Lutero  vengono  già  indicati  come 
Giganti:  Benedictus  Lampridius,  Carmina,  Venetiis,  Apud  G.  lolitum,  1550, 

f.  2IV. 

303.  «Ce  fut  quand  vostre  main  à  craindre  comme  foudre,  /  Fist  à  la  gent 
mutine  ensanglanter  la  poudre:  /  Quand  nos  autels  sacrez  revirent  leurs  bons 
Saincts,  /  Et  quand  mille  estendars  tous  dechirez,  et  teints  /  De  poussiere  et  de 
sang,  pour  immortels  exemples  /  D'un  long  ordre  attachez  pendirent  à  nos 
temples»:  Ronsard,  À  luy  mesmes  [À  Henri  III  Roy  de  France  et  de  Pologne], 
in  (Euvres  complètes  cit,  t  II,  vv.  27-32,  p.  16.  Ma  l'immagine  ritoma  in  altri 
versi:  «Ils  ont  esté  combatus  /  Abbatus,  /  Terracez  dessus  la  poudre,  /  Comme 
chesnes  esbranchez  /  Trebuchez  /  Dessous  l'esclat  d'une  foudre»  (Ronsard, 
Hynne  du  Roy  Henri  IIF,  Roy  de  France  pour  la  victoire  de  Montcontour,  t.  II,  vv. 
43-48,  p.  513).  Le  vittorie  del  giovane  Enrico  vennero  celebrate  da  Remy  Bel- 
leau,  da  Amadis  Jamyn,  da  P.  Le  Loyer,  da  Hesteau  de  Nuysement:  cfr.  F. 
JOUKOVSKV-M1CHA,  La  guerre  des  dieux  et  des  Géants  chez  les  poètes  frangais  du 
XVF  siede  (1500-1585)  cit.,  pp.  72-73  (ma  si  veda  anche  N.  Ordine,  Introduc- 
tion  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit.,  pp.  LXXIII- 
LXXIV). 


102  INTRODUZIONE 

prossimo  al  prossimo,  l'inquilino  a  la  patria,  e  facendo  altri  divorzii  or- 
rendi e  contra  ogni  natura  e  legge'"'*. 

Verità,  Sofia,  Legge  e  Giustizia 

Uscire  dal  caos  significa  innanzitutto  ristabilire  la  Legge.  Ecco 
perché  nella  riforma  celeste  Giove  pone  quest'ultima  accanto  alla  Ve- 
rità e  alla  Sofia  («Alla  Sofia  succede  la  legge  sua  figlia:  e  per  essa  quella 
vuole  oprare,  e  per  questa  lei  vuole  essere  adoperata;  per  questa  gli 
prencipi  regnano,  e  li  regni  e  republiche  si  mantegnono»)'°5.  La  Legge 
divina  (la  religione)  e  la  Legge  civile  devono  perseguire  gli  stessi  obiet- 
tivi. Entrambe  hanno  il  compito  di  offrire  agli  uomini  norme  di  com- 
portamento che  garantiscano  la  pace  e  la  conservazione  della  società- 
Anche  nello  Spaccio,  insomma,  la  «religione»  in  quanto  «legge»  ha 
una  funzione  politica  poiché  Giove  le  «ha  donata  [...]  la  potenza  di 
legare  »'°''.  In  questo  passaggio,  Bruno,  come  Ronsard,  insiste  sull'atto 
del  religare,  sulla  radice  etimologica  di  un  verbo  che  rinvia  alla  forza 
unificatrice  della  religio,  al  suo  ruolo  di  «cemento»  sociale'"^.  Del  re- 
sto, l'Altitonante  lo  ribadisce  più  volte  nel  corso  dei  suoi  interventi:  la 
legge  e  la  religione  sono  state  create  per  favorire  gli  uomini  non  le 
divinità.  Gli  dèi,  infatti,  non  hanno  bisogno  di  essere  onorati  per  ac- 
crescere la  loro  gloria.  I  riti  e  le  cerimonie  servono  all'umanità.  E  sol- 
tanto in  funzione  della  coesione  sociale  saranno  distribuiti  i  meriti  e 
le  condanne.  A  Giove,  insomma,  interessano  soltanto  quegli  atti  e  quei 
gesti  che  favoriscono  le  «republiche»  e  r« umana  conversazione»: 


304.  Spaccio,  pp.  268-269.  La  stessa  immagine  ricorre  più  volte  in  Ronsard 
(«Ce  monstre  arme  le  fils  contre  son  propre  pere,  /  Le  frere  factieux  s'arme 
contre  son  frere,  /  La  soeur  contre  la  soeur,  et  les  cousins  germains  /  Au  sang  de 
leurs  cousins  veulent  tremper  leiirs  mains:  /  Loncie  hait  son  nepveu,  le  servi- 
teur  son  maistre:  /  La  femme  ne  veut  plus  son  mary  recognoistre:  /  Les  enfans 
sans  raison  disputent  de  la  foy  /  Et  tout  à  Tabandon  va  sans  ordre  et  sans 
loy»,  Discours  à  la  Royne,  in  CEuvres  complètes,  t.  II,  vv.  159-166,  p.  995)  e  in 
altri  autori  (Jean  Cochlaeus,  Michel  De  L'Hospital,  Michel  de  Castelnau)  soprat- 
tutto in  una  chiave  antiprotestante.  Già  Esiodo  ne  Le  opere  e  i  giorni  (vv.  180- 
96)  aveva  utilizzato  questo  motivo  in  relazione  al  tema  della  giustizia.  Per 
un'analisi  del  topos  cfr.  N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Expulsion 
de  la  bète  triomphante  cit,  pp.  LXXV-LXXIX. 

305.  Spaccio,  p.  260. 

306.  Ibidem,  p.  261. 

307.  All'interno  di  questa  prospettiva  il  termine  religio  deriverebbe  dal 
verbo  religare  (legare)  piuttosto  che  da  relegere  (riconsiderare  con  cura).  Per  la 
ricostruzione  del  dibattito  sull'etimologia  di  «religione»  cfr.  sub  vocem  il  Dic- 
tionnaire  de  Théologie  Catholique,  Paris,  1937  (XIII/2),  ce.  2182-2184  (ma  per  le 
posizioni  di  Bruno  e  Ronsard  si  veda  N.  Ordine,  Introduction  à  Giordano 
Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit,  pp.  LXXX-LXXXI). 


INTRODUZIONE  IO3 

Che  non  creda  che  in  modo  alcuno  li  dèi  si  senteno  interessati  in 
quelle  cose  nelle  quali  nessuno  uomo  si  sente  interessato:  perché  di  quelle 
cose  solamente  gli  dèi  si  curano  delle  quali  si  possono  curar  gli  uomini,  e 
non  per  cosa  che  vegna  fatta  o  detta  o  pensata  per  essi  si  commuoveno  o 
se  adirano,  se  non  in  quanto  per  quello  venesse  a  perdersi  quel  rispetto 
per  cui  si  mantegnono  le  republiche  [...];  e  però  non  minacciano  castigo  e 
prometteno  premio  per  male  o  bene  che  risulta  in  essi:  ma  per  quello  che 
viene  ad  essere  commesso  nelli  popoli  e  civile  conversazioni,  alle  quali 
hanno  soccorso  con  le  loro  divine  non  bastandogli  le  umane  leggi  e  statuti. 
Per  tanto  è  cosa  indegna,  stolta,  profana  e  biasimevole  pensare  che  gli  Dei 
ricercano  la  riverenza,  il  timore,  l'amore,  il  culto  e  rispetto  da  gli  uomini 
per  altro  buon  fine  et  utilitade  che  de  gli  uomini  medesimi:  atteso  che 
essendo  essi  gloriosissimi  in  sé  [...]  han  fatto  le  leggi  non  tanto  per  ricevere 
gloria,  quanto  per  communicar  la  gloria  a  gli  uomini 'o^. 

Solo  all'interno  di  questo  contesto  è  possibile  capire  fino  in  fondo 
l'elogio  dei  Romani,  l'elogio  di  un  popolo  che  ha  saputo  utilizzare  ce- 
rimonie e  riti  religiosi  per  stimolare  azioni  eroiche  «promovendo  gli 
meritevoli»  e  «abassando  gli  delinquenti »'°''.  Non  è  difficile  ritrovare 
in  questi  giudizi  tracce  di  celebri  pagine  di  Machiavelli.  Nel  Principe,  e 
soprattutto  nei  Discorsi,  il  culto  è  intimamente  legato  alla  vita  civi- 
le ^i°.  La  gloria  della  Roma  repubblicana  sta  proprio  nell'aver  saputo 
stimolare,  attraverso  il  rispetto  divino,  l'amore  per  la  patria  e  per  le 
leggi.  Qui,  più  che  altrove,  la  religio  ha  manifestato  tutta  la  sua  po- 
tenza civile,  tutta  la  sua  capacità  di  religare,  di  tenere  uniti,  di  favorire 
il  «vivere  civile».  Si  tratta  di  temi  ampiamente  discussi  in  Francia  tra 


308.  Spaccio,  p.  264. 

309.  Ibidem,  p.  267. 

310.  «Quegli  prìncipi  o  quelle  republiche  le  quali  si  vogliono  mantenere 
incorrotte,  hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a  mantenere  incorrotte  le  cerimonie 
della  loro  religione,  e  tenerle  sempre  nella  loro  venerazione,  perché  nessuno 
maggiore  indizio  si  puote  avere  della  rovina  d'una  provincia,  che  vedere  di- 
spregiato il  culto  divino»:  NICCOLÒ  MACHIAVELLI,  Discorsi  sopra  la  prima  Deca 
di  Tito  Livio  (I,  12),  a  cura  di  Francesco  Bausi,  Roma,  Salerno  editrice,  2001, 
t.  1,  p.  83.  A  Londra  nel  1584  il  tipografo  John  Wolf  pubblica  i  Discorsi  e  nel 
1588  VAsino  (cfr.:  G.  Aquilecchia,  Schede  bruniane  cit,  pp.  157-207;  Maria 
Grazia  Bellorini,  Le  pubblicazioni  italiane  dell'editore  londinese  John  Wolfe. 
i^So-i^gi,  in  Miscellanea,  a  cura  di  Manlio  Cortelazzo,  Udine,  Arti  Grafiche 
Friulane,  1971,  pp.  31-34).  Per  i  rapporti  Bruno-Machiavelli:  Ferdinando 
D'Amato,  Giordano  Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  XI  {1930), 
p.  92;  Nicola  Badaloni,  Giordano  Bruno.  Tra  cosmologia  ed  etica  cit,  pp.  114- 
115;  Michele  Ciliberto,  La  ruota  del  tempo.  Interpretazione  di  Giordano  Bruno, 
Roma,  Editori  Riuniti,  1986,  pp.  176-178;  Nuccio  Ordine,  La  cabala  dell'asino. 
Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit.,  ad  indicem  (ma  anche  Id.,  Introduc- 
tion  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit.,  pp.  LXXXIV- 
XCIV);  Miguel  Angel  Granada,  Maquiavelo  y  Giordano  Bruno:  religión  civil  y 
crìtica  del  cristianismo,  in  «Bruniana  &  Campanelliana»,  IV  (1998),  pp.  343-368. 
Ma  cfr.  infra,  p.  106. 


104  INTRODUZIONE 

gli  anni  sessanta  e  ottanta  (si  pensi  al  milieu  attorno  a  Enrico  III,  a  Le 
Roy,  a  Bodin,  a  Montaigne)  e  che  hanno  segnato,  in  parte,  anche  l'al- 
terna fortuna  del  Segretario  fiorentino  al  di  là  delle  Alpi'". 

Giove  insiste  a  più  riprese  sulla  necessità  di  stimolare  comporta- 
menti eroici,  di  spingere  gli  uomini  a  compiere  gesti  concreti  al  servi- 
zio dello  Stato.  Vhonos  romano  appare  così  come  praemium  virtutis, 
come  riconoscimento  pubblico  per  un'azione  a  favore  della  comunità 
sociale  e,  nello  stesso  tempo,  come  adesione  personale  a  valori  morali 
ampiamente  condivisi ''2.  Contano  le  opere,  insomma.  Contano  i  frutti 
che  le  opere  producono.  Le  buone  intenzioni,  senza  opere  e  senza 
frutti,  non  meritano  premi  "^.  Così  come  non  merita  ricompense  chi 
«abbia  sanato  un  vile  e  disutil  zoppo»,  ma  chi  invece  «ha  liberata  la 
patria  e  riformato  un  animo  perturbato  »"•'. 

Contro  la  «iustitia  sola  fide» 

In  queste  splendide  pagine.  Bruno  esprime  una  visione  della  reli- 
gione diametralmente  opposta  a  quella  sostenuta  dalla  teologia  prote- 
stante. Per  Lutero  e  Calvino  il  rapporto  tra  uomo  e  Dio  si  materializza 
in  un  legame  individuale  fondato  solo  ed  esclusivamente  sulla  fede.  E 
finanche  le  Leggi,  che  nella  visione  veterotestamentaria  sanzionavano 
il  contratto  tra  humanitas  e  divinitas,  non  garantiscono  più  la  salvezza. 
Tutto  ciò  che  riguarda  l'orizzonte  mondano  viene  escluso,  espunto, 
neutralizzato.  Solo  la  «grazia»  produce  le  opere.  Nel  senso  che  la  «gra- 
zia» non  può  essere  meritata  attraverso  le  opere  e  che  le  nostre  azioni 
non  hanno  nessuna  virtù  salvifica  in  sé.  Il  credente,  insomma,  deve 
sottomettersi  passivamente  alla  volontà  di  Dio.  Qui  la  religio  viene 


311.  Per  questo  aspetto  cfr.  Nuccio  Ordine,  Introduction  à  Giordano 
Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit,  pp.  LXXXVI-XCIV. 

312.  Sul  tema  dell'onore  si  veda  Francesca  Ricotti,  L'onore  degli  onesti, 
Milano,  Feltrinelli,  1998. 

313.  In  chiave  ironica.  Bruno  aveva  già  nel  Candelaio  accennato  al  rap- 
porto tra  leggi  umane  e  divine  in  funzione  dei  meriti:  «Non  possiamo  non  far 
differenza  tra  il  culto  divino  e  quello  di  mortali.  Adoriamo  le  sculture  e  le 
imagini,  et  onoriamo  il  nome  divino  scritto,  drizzando  l'intenzione  a  quel  che 
vive.  Adoramo  et  onoramo  questi  altri  dèi  che  pisciano  e  cacano,  drizzando  la 
intenzione  e  supplice  devozione  alle  lor  imagini  e  sculture,  per  che  mediante 
queste  premiino  i  virtuosi,  inalzino  i  degni,  defendano  gli  oppressi,  dilatino 
i  lor  confini,  conservino  i  suoi,  e  si  faccino  temere  dall'aversarie  forze:  il  re 
dumque  et  imperator  di  carne  et  ossa,  si  non  corre  sculpito,  non  vai  nulla» 

(pp-  347-348). 

314.  Spaccio,  p.  267. 


INTRODUZIONE  IO5 

proiettata  in  un  universo  dove  i  valori  della  fede  vengono  chiara- 
mente separati  da  quelli  morali  e  civili^". 

Bruno  capisce  con  chiarezza  le  conseguenze  funeste  che  la  dottrina 
della  iustitia  sola  fide  può  avere  sulla  società;  svalorizzare  le  opere  e 
l'etica,  ma  anche  la  ragione  e  le  scienze  speculative"*',  non  incoraggia 
certamente  gli  uomini  ad  intraprendere  la  durissima  strada  del  ri- 
scatto dalla  feritas.  Per  questo,  Momo  esprime  parole  durissime  contro 
la  teologia  protestante,  contro  le  sette  di  briganti  che  insanguinano 
l'Europa; 

«Il  peggio  è»  disse  Momo,  «che  ne  infamano  dicendo  che  questa  è  in- 
stituzione  de  superi;  e  con  questo,  che  biasmano  gli  effetti  e  frutti  nomi- 
nandoli ancor  con  titolo  di  defetti  e  vizii;  mentre  nessuno  opera  per  essi, 
et  essi  operano  per  nessuno  (perché  non  fanno  altra  opra  che  dir  male  de 
l'opre),  tra  tanto  vivono  de  l'opre  di  quelli  ch'hanno  operato  per  altri  che 
per  essi,  e  che  per  altri  hanno  instituiti  tempii,  capelle,  xeni,  ospitali,  col- 
legii  et  universitadi:  onde  sono  aperti  ladroni  et  occupatori  di  beni  eredi- 
tarii  d'altri  »"7_ 

Per  Mercurio  la  loro  pericolosità  è  talmente  enorme  che  sarebbe 
«gran  sacrificio  a  gli  dèi  e  beneficio  al  mondo  di  perseguitarli,  ammaz- 
zarle e  spengerli  da  la  terra,  perché  son  peggiori  che  li  bruchi  e  le 
locuste  sterili»"**.  La  teologia  dei  riformati,  infatti,  non  può  che  pro- 
durre effetti  devastanti,  come  testimoniano  le  stesse  immagini  utiliz- 
zate nei  versi  di  Ronsard  in  cui  l'azione  dei  protestanti  viene  parago- 


315.  Per  un'analisi  delle  posizioni  di  Lutero  e  di  Calvino  cfr.  Nuccio  Or- 
dine, Introduction  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit,  pp. 
XCIILCIX.  Suirantiluteranesimo  di  Bruno  cfr.:  Giovanni  Gentile,  E  pensiero 
italiano  del  Rinascimento  [1907],  Firenze,  Sansoni,  1955,  pp.  271-277;  Alfonso 
Ingegno,  La  sommersa  nave  della  religione.  Studio  sulla  polemica  anticristiana 
del  Bruno.  Napoli,  Bibliopolis,  1984;  Michele  Ciliberto,  La  ruota  del  tempo. 
Interpretazione  di  Giordano  Bruno  cit. 

316.  Gli  attacchi  che  Lutero,  Melantone  e  altri  riformati  portarono  a  più 
riprese  alle  teorie  eliocentriche  di  Copernico  ebbero  certamente  un  peso  nella 
posizione  antiriformata  di  Giordano  Bruno:  cfr.  Thomas  S.  Kuhn,  La  rivolu- 
zione copernicana.  L'astronomia  planetaria  nello  sviluppo  del  pensiero  occidentale 
[1957],  Torino,  Einaudi,  cap.  VI,  pp.  245-247  (ma,  per  gli  sviluppi  successivi 
delle  polemiche,  si  veda  anche  Enrico  De  Mas,  L'attesa  del  secolo  aureo  (i6oj- 
1625).  Saggio  di  storia  delle  idee  del  secolo  XVH,  Firenze,  Olschki,  1982,  pp.  57- 
71).  Sul  problema  teologico  dell'eliocentrismo  e  sulla  reazione  dei  capi  della 
Riforma,  con  una  particolare  attenzione  per  le  posizioni  di  Calvino,  cfr.  ora 
Miguel  Angel  Granada,  U  problema  astronomico-cosmologico  dopo  Copernico  e 
le  Sacre  Scritture:  il  ricorso  di  Christoph  Rothmann  alla  teoria  dell'accomodazione, 
in  «Rivista  di  storia  della  filosofia»,  51  (1996),  pp.  789-828. 

317.  Spaccio,  p.  238. 

318.  Ibidem,  pp.  239-240. 


I06  INTRODUZIONE 

nata  a  quella  delle  «chenilles»  (bruchi)  e  delle  «sauterelles»  (cavallet- 
te, locuste) '1". 

L'elogio  della  Fatica  e  delle  mani 

Non  c'è  da  stupirsi,  quindi,  se  nella  riforma  celeste,  disegnata  nello 
Spaccio,  la  Fatica  giochi  un  ruolo  fondamentale.  Di  fronte  alla  piena 
svalutazione  delle  opere,  dei  valori  civili  e  speculativi  il  duro  lavoro 
rappresenta  l'unico  mezzo  per  conquistare  la  civiltà  e  per  intrapren- 
dere il  difficile  cammino  della  conoscenza.  Giove,  infatti,  non  delimita 
il  suo  campo  d'azione,  ma  lascia  libera  la  Fatica  di  raggiungere  ogni 
luogo  e  di  perseguire  ogni  obiettivo  perché  grazie  a  lei  «Perseo  fu  Per- 
seo, et  Ercole  fu  Ercole,  et  ogni  forte  faticoso  è  faticoso  e  forte  w^^o  g 
senza  di  lei  sarebbe  difficilissimo  raggiungere  «il  polo  sublime  della  Ve- 
rità» ^^i,  sarebbe  improbabile  portare  a  termine  un  viaggio  segnato  dalla 
sofferenza,  dal  dolore,  dal  pericolo.  Spetta  alla  Fatica,  quindi,  conqui- 
stare due  obiettivi  che  richiedono  sforzi  sovrumani:  dominare  la  For- 
tuna («apprendi  la  Fortuna  pe'  capelli;  affretta  quando  meglio  ti  pare  il 
corso  della  sua  ruota:  e  quando  ti  sembra  bene,  figigli  il  chiodo,  acciò 
non  scorra») '^2  e  mantenere  unite  le  operazioni  del  corpo  e  della  mente 
(«Non  voglio  che  possi  dividerti:  perché  se  ti  smembrarai,  parte  occu- 
pandoti a  l'opre  de  la  mente  e  parte  a  l'oprazioni  del  corpo,  verrai  ad 
essere  defettuosa  a  l'una  e  l'altra  parte;  [...]  se  tutta  inclinarai  a  cose  ma- 
teriali, nulla  vegni  ad  essere  in  cose  intellettuali,  e  per  l'incontro  »)'^\ 


319.  «L"une  [la  chenille]  monte  en  un  chesne  et  lautre  en  un  ormeau  /  Et 
tousjours  en  mangeant  se  trainent  au  coupeau:  /  Puis  descendent  à  terre,  et 
tellement  se  paissent  /  Qu'une  seule  verdure  en  la  terre  ne  laissent»  (Ronsard. 
Continuation  dii  Discours  à  la  Royne.  in  (Euvres  complètes,  t  II,  w.  345-352,  p. 
1005).  Ma,  proprio  nei  versi  iniziali  di  questa  stessa  poesia,  Ronsard  paragona  i 
protestanti  alle  cavallette  dell'Apocalisse:  «Tandis  vous  exercez  vos  malices 
cruelles,  /  Et  de  l'Apocalypse  estes  les  sauterelles,  /  Lesquelles  aussi  tost  que  le 
puis  fut  ouvert  /  D'Enfer,  par  qui  le  Ciel  de  nues  fut  couvert,  /  Avecque  la 
fumèe  en  la  terre  sortirent  /  Et  des  fiers  scorpions  la  puissance  vestirent  /  (...] 
Ainsi  qu'ardentement  vous  courez  aux  combas.  /  Et  villes  et  chasteaux  vous 
renversez  à  bas»  {Ibidem,  w.  71-76  e  w.  81-82,  pp.  998-999). 

320.  Spaccio,  p.  307. 

321.  Ibidem,  p.  308. 

322.  Ibidem.  Questo  passaggio  sembra  richiamare  l'invito  di  Machiavelli  a 
«battere»  la  Fortuna:  «Io  iudico  bene  questo:  che  sia  meglio  essere  impetuoso 
che  respettivo;  perché  la  fortuna  è  donna,  ed  è  necessario,  volendola  tenere  sotto, 
batterla  e  urtarla.  E  si  vede  che  la  si  lascia  più  vincere  da  questi,  che  da  quelli 
che  freddamente  procedano»:  Niccolò  Machiavelli,  Il  Principe,  in  Tutte  le  ope- 
re, a  cura  di  Mario  Martelli,  Firenze,  Sansoni,  1993  (cap.  25),  p.  296.  Sui  rapporti 
Bruno-Machiavelli  cfr.  supra.  pp.  103-104. 

323.  Spaccio,  p.  309. 


INTRODUZIONE  IO7 

I  compiti  che  Giove  assegna  alla  Fatica  mirano  a  favorire  le  azioni 
eroiche  per  riscattare  l'umanità  dalla  feritas.  Ecco  perché  l'elogio  del 
lavoro  si  lega  direttamente  all'elogio  delle  mani,  all'elogio  di  uno  stru- 
mento indispensabile  per  trasformare  l'uomo  in  un  dio  capace  di 
creare,  di  modificare,  di  dominare  gli  altri  animali  e  la  natura: 

E  soggionse  che  gli  dèi  aveano  donato  a  l'uomo  l'intelletto  e  le  mani,  e 
l'aveano  fatto  simile  a  loro  donandogli  facultà  sopra  gli  altri  animali;  la 
qual  consiste  non  solo  in  poter  operar  secondo  la  natura  et  ordinario,  ma 
et  oltre  fuor  le  leggi  di  quella:  acciò  (formando  o  possendo  formar  altre 
nature,  altri  corsi,  altri  ordini  con  l'ingegno,  con  quella  libertade  senza  la 
quale  non  arrebe  detta  similitudine)  venesse  ad  serbarsi  dio  de  la  terra^^''. 

La  «divinità»  non  deriva  da  astruse  pratiche  magiche,  né  si  riceve 
in  dono  dagli  dèi.  La  «divinità»  si  conquista  con  il  proprio  lavoro,  con 
il  sacrificio,  con  l'azione  quotidiana.  Senza  sforzo  e  senza  impegno  non 
c'è  civiltà,  non  c'è  conoscenza.  Nelle  critiche  che  l'Ozio  avanza  alla 
Fatica,  Bruno  concentra  una  serie  di  luoghi  comuni  che  dietro  la  loro 
apparente  semplicità  nascondono  una  pericolosa  Weltanschauung. 

-  Chi  è  quello,  o  Dei,  che  ha  serbata  la  tanto  lodata  età  de  l'oro,  chi 
l'ha  instituta,  chi  l'ha  mantenuta,  altro  che  la  legge  de  l'Ocio,  la  legge  della 
natura?  Chi  l'ha  tolta  via?  chi  l'ha  spinta  quasi  irrevocabilmente  dal 
mondo,  altro  che  l'ambiziosa  Sollecitudine,  la  curiosa  Fatica?  Non  è  que- 
sta quella  ch'ha  perturbato  gli  secoli,  ha  messo  in  scisma  il  mondo,  e  l'ha 
condotto  ad  una  etade  ferrigna  e  lutosa  et  argillosa,  avendo  posti  gli  po- 
poli in  ruota  et  in  certa  vertigine  e  precipizio  dopo  che  l'ha  sullevati  in 
superbia  et  amor  di  novità,  e  libidine  de  l'onore  e  gloria  d'un  partico- 
lare?'^5 


L'età  dell'oro  e  il  topos  del  «tuo»  e  del  «mio» 

L'esaltazione  dell'età  dell'oro  implica  un  rovesciamento  dei  valori. 
L'onore  e  la  gloria,  per  fare  un  esempio,  vengono  presentati  come  per- 
turbatori della  pace  e  della  tranquillità  dei  popoli,  mentre  la  Fatica 
viene  vista  come  una  minaccia  per  la  «legge  della  natura».  Bruno,  at- 
traverso le  parole  dell'Ozio,  ci  mostra  come  la  ripresa  di  questa  fabula 


324.  Ibidem,  pp.  323-324.  Nella  Cabala  del  cavallo  pegaseo  (cfr.  infra,  p.  119) 
Bruno  assegna  alla  mano  un  ruolo  ancora  più  importante  nel  passaggio  dalla 
natura  alla  cultura.  Su  questo  aspetto  rinviamo  alle  interessanti  osservazioni 
di  Fulvio  Papi,  Antropologia  e  civiltà  nel  pensiero  di  Giordano  Bruno,  Firenze, 
La  Nuova  Italia,  1968,  pp.  237-247  (ma  cfr.  anche:  Nuccio  Ordine,  La  cabala 
dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  45-50;  Michele  Cili- 
berto, La  ruota  del  tempo.  Interpretazione  di  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  79-83). 

325.  Spaccio,  p.  318. 


1 

lOO  INTRODUZIONE  I 

pagana  si  accompagni  a  un  recupero  del  paradiso  terrestre  di  tradi- 
zione cristiana:  Adamo  ed  Eva,  assieme  ai  primitivi  dell'età  aurea,  di- 
ventano simbolo  di  una  humanitas  che  vive  nell'immobilismo,  all'in- 
terno di  uno  splendido  locus  amoenus,  senza  conoscere  il  sudore  e  la 
pena  dell'attività.  Mito  classico  e  racconto  biblico  convergono  nel  con- 
siderare il  lavoro  una  punizione  divina,  una  violenta  sciagura  che  tra- 
sforma la  vita  edenica  in  un  inferno  caratterizzato  dal  dolore  e  dalle 
privazioni.  Mangiare  il  frutto  proibito  e  intraprendere  il  cammino 
della  civiltà  comportano  l'infelicità  dell'uomo.  Così  come  la  nascita 
della  proprietà,  del  «tuo»  e  del  «mio»,  segna  l'inizio  di  una  serie  di 
lotte  fratricide,  di  guerre,  di  sciagure  senza  fine: 

quai  sono  le  aperte  ribaldarie  e  stoltizie  e  malignitadi  di  leggi  usurpa- 
tive e  proprietarie  del  mio  e  tuo;  e  del  più  giusto,  che  fu  più  forte  posses- 
sore; e  di  quel  più  degno,  che  è  stato  più  sollecito  e  più  industrioso  e  pri- 
miero occupatore  di  que'  doni  e  membri  de  la  terra,  che  la  natura  e  per 
conseguenza  Dio  indifferentemente  donano  a  tutti  ^^^ 

Bruno  intuisce  immediatamente  la  posta  in  gioco.  Capisce  perfetta- 
mente la  forza  pericolosa  di  queste  ideologie.  E  nello  Spaccio  mira  a 
fare  chiarezza,  a  mostrare  che  non  ci  può  essere  virtù  laddove  gli  es- 
seri umani  vivono  nell'inerzia  e  nell'ignoranza.  Certo,  il  cammino 
della  civiltà  porta  con  sé  delle  contraddizioni  che  possono  essere  però 
sanate  e  risolte  dalla  ragione  e  da  un  uso  controllato  delle  passioni 
(«De  le  ingiustizie  e  malizie  che  crescono  insieme  con  le  industrie  non 
ti  devi  maravigliare») ^2^.  Giove,  insomma,  si  sforza  di  eliminare  ogni 
possibile  ambiguità:  gli  uomini  dell'età  di  Saturno  erano  bestie  e  in 
quanto  tali  non  possono  rappresentare  un  positivo  modello  di  com- 
portamento. Così  come  non  bisogna  confondere  il  ritomo  della  Giusti- 
zia e  delle  Virtù  con  il  ritomo  dell'età  dell'oro  ^'^.  In  molti  autori  rina- 


326.  Ibidem,  p.  320.  Sul  topos  del  «tuo»  e  del  «mio»  —  utilizzato  da  tantis- 
simi autori  nei  contesti  più  diversi:  da  Pietro  Martire  a  Giovan  Battista  Celli, 
da  Anton  Francesco  Doni  a  Guy  de  Brués,  da  Ronsard  a  Tommaso  Campa- 
nella, da  Jean  Bodin  a  Etienne  Pasquier  -  si  veda,  anche  per  i  rimandi  biblio- 
grafici, N.  Ordine,  Introduciion  à  Giordano  Bruno,  Expulsion-  de  la  bète  triom- 
phante  cit,  pp.  CXV-CXXXII. 

327.  Spaccio,  p.  324. 

328.  Nel  Balet  comique  de  la  Royne,  allestito  a  Parigi  nel  1582.  si  allude 
chiaramente  all'annuncio  del  secolo  aureo:  «Les  Deesse  des  eaux  ont  voulu 
prevenir  /  Naguere  le  Destin,  et  taire  revenir  /  En  France  l'àge  d'or,  où  desjà 
i'edifice  /  D'un  grand  tempie  de  marbré  on  batist  à  Justice»  (Baltasar  de 
Beaujoyeulx,  Balet  comique  de  la  Royne  [Paris,  1582],  in  Ballets  et  Mascarades 
de  cour  de  Henri  III  à  Louis  XIV  (1581-1652)  cit,  1 1,  p.  51).  L'avvento  di  Enrico 
III,  «Jupiter  de  France»,  ha  creato  le  condizioni  favorevoli  per  la  riafferma- 
zione   della   Giustizia.    Ma   questa    restaurazione    dell'età    dell'oro   si    fonda 


INTRODUZIONE  lOQ 

scimentali,  infatti,  il  tema  dell'età  aurea  si  associa  a  quello  del  rientro 
di  Astrea  (la  Vergine-Giustizia)  sulla  terra '2''.  Bruno  separa  i  due 
aspetti  del  mito:  il  ritomo  della  Giustizia  è  una  cosa,  la  condanna 
delle  opere  è  un'altra  cosa  ancora.  Per  il  Nolano  non  c'è  altra  strada:  il 
lavoro  -  la  dura  lotta  per  il  lavoro  -  è  l'unica  soluzione  per  essere 
giusti.  Fatica  e  Giustizia  si  amalgamano  fino  ad  identificarsi  in 
un'unica  e  sola  immagine  simbolica^^°. 

«Pirati»  all'assalto  del  Nuovo  Mondo 

Bruno  sa  che  la  scoperta  del  Nuovo  Mondo  ha  giocato  un  ruolo 
importantissimo  nella  ripresa  letteraria  del  mito  dell'età  dell'oro.  Ma 
anche  in  questo  caso  il  filosofo  non  esita  a  fare  chiarezza;  l'approdo 
nelle  Americhe  ha  rivelato  in  maniera  drammatica  il  vero  volto  dei 
conquistadores.  Non  si  è  trattato  di  un  viaggio  ispirato  dal  bisogno  di 
conoscere  e  scoprire,  ma  di  un  vero  e  proprio  atto  di  pirateria  consu- 
mato ai  danni  di  popolazioni  inermi  e  pacifiche.  In  nome  della  «civil- 
tà», infatti,  sono  state  operate  rapine  e  violenze,  sono  state  disseminate 
follie  e  ribellioni.  Per  riparare  queste  grandi  ingiustizie,  il  parlamento 
degli  dèi  decide  di  scacciare  dal  cielo  la  «Nave  di  Argo  nella  quale 
sono  inchiodate  quarantacinque  risplendenti  stelle»,  simbolo  dei  «pri- 
mi pirati»,  dei  primi  «solleciti  predatori»  del  mare^^h 


esclusivamente  su  valori  civili:  ricomposizione  dei  dissidi,  pacificazione  dei 
conflitti  sociali,  affermazione  della  pace.  Tutti  gli  altri  elementi  del  mito  ven- 
gono evocati  solo  in  una  chiave  negativa.  Giove  -  oltre  a  sconfiggere  Circe, 
nemica  delle  Virtù  -  provvede  soprattutto  a  far  uscire  gli  uomini  dall'oziosa 
condizione  bestiale  in  cui  essi  vivevano  durante  il  regno  di  Saturno:  «Le  peu- 
ple  vagabond,  poussé  de  la  nature  /  Gomme  les  bestes  sont,  prenoit  sa  nourri- 
ture  /  Des  fruits  sans  cultiver  que  produisent  les  bois,  /  Et  n'avoit  que  ses 
moers  pour  police  et  lois;  /  Mais  Jupiter  chassa  ceste  mome  paresse,  /  Des  hom- 
mes  domestiques,  et  logea  la  finesse  /  Dans  leurs  àmes  grossieres,  afin  de  l'ai- 
guiser  /  De  soin  et  de  labeur  [...]»  (Ibidem,  p.  49).  Su  questo  tema  cfr.  N.  Or- 
dine, Introdudion  à  Giordano  Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triomphante  cit., 
pp.  LI-LIV. 

329.  Per  un'analisi  del  mito,  soprattutto  in  relazione  al  dibattito  inglese 
intomo  alla  figura  di  Elisabetta-Astrea,  cfr.  Frances  A.  Yates,  Astrea.  L'idea 
di  impero  nel  Cinquecento,  Torino,  Einaudi,  1990,  2^  edizione  accresciuta. 

330.  Esiodo  nell'incipit  de  Le  opere  e  i  giorni  distingue  con  chiarezza  due 
tipi  di  «contesa»,  quella  negativa  che  provoca  le  guerre  e  quella  positiva  che 
spinge  gli  esseri  umani  a  lavorare  con  entusiasmo  per  conquistare  sempre 
nuove  mete:  «Non  v'è  dunque  un  solo  tipo  di  contesa,  ma  sulla  terra  /  ne 
esistono  due:  una  da  chi  la  intenda  sarà  lodata,  /  l'altra  è  da  biasimare:  i  loro 
cuori  sono  ben  separati»  (Esiodo,  Le  opere  e  i  giorni,  testo  greco  a  fronte,  nota 
al  testo,  traduzione  e  note  di  Virgilio  Costa,  introduzione  di  Federica  Cordano, 
Pordenone,  Studio  Tesi,  1994,  w.  11-13,  p.  3). 

331.  Spaccio,  p.  225. 


no  INTRODUZIONE 

E  non  si  tosto  ebbe  chiusa  la  bocca  la  dea  di  Pafo,  che  Minerva  l'aperse 
dicendo:  «Or  a  che  fine  destinate  la  mia  bella  manifattura:  quel  palaggio 
vagabondo,  quella  stanza  mobile,  quella  bottega  e  quella  fiera  errante, 
quella  vera  balena  che  gli  traghiuttiti  corpi  vivi  e  sani  le  va  a  vomire  ne 
gli  estremi  lidi  de  le  opposte,  contrarie  e  diverse  margini  del  mare?»;  «Va- 
da» risposero  molti  dèi,  «con  l'abominevole  Avarizia,  con  la  vile  e  preci- 
pitosa Mercatura,  col  desperato  Piratismo,  Predazione,  Inganno,  Usura,  et 
altre  scelerate  serve,  ministre  e  circonstanti  di  costoro.  Et  ivi  risieda  la 
Liberalità,  la  Munificenza,  la  Nobiltà  di  spirito,  la  Comunicazione,  Officio, 
et  altri  degni  ministri  e  servi  loro»"-. 

L'aperta  condanna  della  spregiudicata  «Mercatura»,  già  anticipata 
in  un  polemico  passaggio  della  Cena  dedicato  alla  famosa  spedizione 
di  Colombo^",  vuole  essere  una  ferma  protesta  contro  una  «conqui- 
sta» mascherata  da  «scoperta».  Quelle  popolazioni  avevano  una  loro 
cultura,  una  loro  lingua,  una  loro  religione.  Avevano  insomma  il  di- 
ritto di  vivere  in  pace  secondo  le  loro  leggi  e  i  loro  costumi.  Ma  la 
brama  spregiudicata  del  profitto  ha  trasformato  presunti  marinai  ani- 
mati dal  desiderio  di  conoscenza  in  vili  pirati  assetati  di  oro  e  argento. 
Parole  forti,  che  si  uniscono  alle  poche  voci  coraggiose  di  denuncia.  Si 
pensi  alla  Brevissima  relazione  sulla  distruzione  delle  Indie  di  Bartolomé 
de  Las  Casas,  apparsa  proprio  nel  1582  in  traduzione  francese  per  i 
tipi  di  Julian,  il  libraio  parigino  che  nello  stesso  anno  darà  alle  stampe 
il  Candelaio^^-*. 


332.  Ibidem,  p.  392. 

333.  «Gli  Tifi  han  ritrovato  il  modo  di  perturbar  la  pace  altrui,  violar  i 
patrii  genii  de  le  reggioni,  di  confondere  quel  che  la  provida  natura  distinse, 
per  il  commerzio  radoppiar  i  diffetti  e  gionger  vizii  a  vizii  de  l'una  e  l'altra 
generazione,  con  violenza  propagar  nove  follie  e  piantar  l'inaudite  pazzie  ove 
non  sono,  conchiudendosi  al  fin  più  saggio  quel  che  è  più  forte;  mostrar  novi 
studi,  instrumenti,  et  arte  de  tirannizar  e  sassinar  l'un  l'altro:  per  mercé  de 
quai  gesti,  tempo  verrà  ch'avendono  quelli  a  sue  male  spese  imparato,  per 
forza  de  la  vicissitudine  de  le  cose,  sapranno  e  potranno  renderci  simili  e  peg- 
gior  frutti  de  sì  perniciose  invenzioni»  {Cena,  p.  452). 

334.  Assieme  alla  Brevissima  relazione  sulla  distruzione  delle  Indie  di  Barto- 
lomé de  Las  Casas,  presentata  a  Carlo  V  nel  1542  e  pubblicata  a  Siviglia  nel 
1552  presso  Sebastiàn  Trujillo,  bisogna  anche  ricordare  La  Historia  del  Mondo 
Nuovo  di  Girolamo  Benzeni  (Venezia,  1565).  La  traduzione  francese  del  testo  di 
Las  Casas  apparirà  con  il  titolo  Tyrannies  et  cruautez  des  Espagnols,  pefpetrées 
en  Indes  Occidentales  [...]  traduites  par  Jacques  de  Migroddes,  Paris,  par  Guil- 
laume Julian,  1582.  Per  un'analisi  più  dettagliata  della  posizione  bruniana  rin- 
viamo a:  Giovanni  Aquilecchia,  Bruno  e  il  «Nuovo  Mondo»  [1955],  in  Schede 
bruniane  (ig^o-iggi)  cit.,  pp.  97-99;  F.  Papi,  Antropologia  e  civiltà  nel  pensiero  di 
Giordano  Bruno  cit,  pp.  341-358;  Miguel  Angel  Granada,  Giordano  Bruno  y 
America.  De  la  critica  de  la  colonización  a  la  crìtica  del  cristianismo,  Barcellonji, 
1990.  Sulla  scoperta  del  Nuovo  Mondo  cfr.  Rosario  Romeo,  Le  scoperte  ame- 
ricane nella  coscienza  italiana  del  Cinquecento,  prefazione  di  Rosario  Villari, 
Roma-Bari,  Laterza,  1989  [1971]. 


INTRODUZIONE  III 

Si  tratta,  certamente,  di  riflessioni  che  si  inscrivono  in  un  delicato 
periodo  di  transizione.  Sempre  di  più,  a  partire  dall'inizio  del  Cinque- 
cento, il  dibattito  sull'età  dell'oro  e  sulle  «scoperte»  si  legherà  alle  pro- 
fezie, alle  previsioni  apocalittiche,  alle  promesse  di  renovatio^"'^ .  La  ne- 
cessità di  superare  l'età  del  ferro  e  le  lotte  fratricide  finisce  per  alimen- 
tare un  disperato  bisogno  di  segni  -  sul  piano  politico  e  teologico, 
magico  e  astrologico  -  che  annuncino  il  ritorno  della  pace  e  dell'età  di 
Saturno. 

«Natura  est  deus  in  rebus»:  l'esempio  degli  Egizi 

Anche  su  questo  piano  la  risposta  di  Bruno  è  chiara:  le  grandi  tra- 
sformazioni storiche  non  si  producono  con  i  miracoli,  né  si  realizzano 
per  volontà  degli  astri.  Esse  sono  piuttosto  il  frutto  dell'umile  lavoro 
degli  uomini,  della  loro  capacità  di  utilizzare  assieme  le  mani  e  l'in- 
telletto. Chi  promette  cambiamenti  dall'alto,  per  opera  di  incanta- 
menti, è  un  falso  Mercurio,  un  mago  ingannatore.  Si  comporta  come 
rOrione-Cristo  che  nello  Spaccio  vuole  far  credere  agli  uomini  che  dio 
non  apprezza  le  opere  umane  ma  le  azioni  soprannaturali  (come 
quelle  di  «saltar  sopra  l'acqui,  di  far  ballare  i  granchi,  di  far  fare  ca- 
priole a'  zoppi,  far  veder  le  talpe  senza  occhiali»)^"'  e  che  «la  natura  è 
una  puttana  bagassa»  che  non  può  «concorrere  in  un  medesimo 
buono  fine»  con  la  divinità^".  Per  queste  concrete  ragioni,  il  cristia- 
nesimo non  potrà  mai  favorire  il  ritomo  della  Giustizia  e  della  pace. 
Cancellare  l'importanza  delle  opere,  devalorizzare  la  vita  terrena,  sepa- 
rare dio  dalla  natura  significa  distruggere  la  funzione  essenziale  della 
religione,  la  sua  forza  di  coesione  civile.  La  divinità,  come  insegna 
l'antica  sapienza  egiziana,  non  si  cerca  nelle  reliquie  («ne  gli  escre- 
menti di  cose  morte  et  inanimate  »)^'^  ma  nelle  cose  e  nella  natura: 

Conoscevano  que'  savii  Dio  essere  nelle  cose,  e  la  divinità,  latente  nella 
natura,  oprandosi  e  scintillando  diversamente  in  diversi  suggetti,  e  per  di- 
verse forme  fisiche  con  certi  ordini  venir  a  far  partecipi  di  sé,  dico  de 


335.  Un'utilissima  rassegna  delle  varie  posizioni  è  ora  in  Enrico  De  Mas, 
L'attesa  del  secolo  aureo  (1603-1623)-  Saggio  di  storia  delle  idee  del  secolo  XVII  cit. 
(ma  si  veda  anche  il  recente  volume  collattaneo  Tommaso  Campanella  e  l'attesa 
del  secolo  aureo,  Firenze,  Olschki,  1998).  Sull'accesa  polemica  bruniana  contro 
visioni  apocalittiche  ed  escatologiche  si  veda  Miguel  Angel  Granada,  Càlcu- 
los  cronológicos,  novedades  cosmológicas  y  exspectativas  escatológicas  en  la  Europa 
del  siglo  XVI,  in  «Rinascimento»,  37  (1997),  pp.  357-435. 

336.  Spaccio,  p.  381. 

337.  Ibidem. 

338.  Ibidem,  p.  356.  Si  veda  supra  (p.  54),  in  un  passaggio  del  Candelaio, 
l'attacco  ai  cristiani  che  adorano  la  coda  dell'asino. 


112  INTRODUZIONE 

l'essere,  della  vita  et  intelletto  [...].  Ecco  dumque  come  mai  furono  adorati 
crocodilli,  galli,  cipolle  e  rape;  ma  gli  Dei  e  la  divinità  in  crocodilli,  galli  et 
altri:  la  quale  in  certi  tempi  e  tempi,  luoghi  e  luoghi,  successivamente  et 
insieme  insieme,  si  trovò,  si  trova  e  si  trovarà  in  diversi  suggetti  quantum- 
que  siano  mortali""^. 

Solo  all'interno  di  questo  orizzonte  naturale  si  può  parlare  di  «ma- 
gia», di  un  originale  incontro  fra  tradizione  ermetica  (filtrata  dal  neo- 
platonismo) e  tradizione  storica  (in  cui  l'egizianesimo  viene  elevato  a 
modello  di  altissima  civiltà) '^°.  Il  «mago»  bruniano  ascolta  la  natura, 
ne  raccoglie  le  vibrazioni  e  le  regole  più  intime,  ne  indaga  i  segreti,  ne 
anticipa  i  movimenti.  Fuori  della  natura  non  c'è  né  divinità,  né  reli- 
gione, né  magia^'".  Del  resto,  il  pronostico  di  Ermete  Trismegisto,  tra- 
smesso dall' Asclepius,  lo  conferma:  la  fine  della  religione  naturale  e 
magica  degli  Egiziani  coinciderà  con  una  serie  di  eventi  negativi  in 
cui  «le  tenebre  si  preponeranno  alla  luce»  e  «nulla  si  trovarà  di  santo, 
nulla  di  relligioso»^''^. 

E  discorso  della  Fortuna 

Bruno  sa  che  l'ordine  vicissitudinale  dell'universo  vuole  che  alle 
tenebre  succedano  la  luce,  alla  notte  il  giorno,  al  male  il  bene,  alla 
morte  la  vita.  Ma  la  legge  dell'alternanza  non  esclude  l'intervento  del- 
l'uomo nelle  cose.  Lo  abbiamo  visto  con  l'elogio  della  Fatica.  E  lo  ve- 
dremo ancora  una  volta  con  il  discorso  della  Fortuna.  Nessuna  divi- 
nità meglio  di  quest'ultima  può  esprimere  il  rapporto  dialettico  che 
esiste  tra  l'ineluttabilità  della  mutazione  e  l'intervento  umano,  tra  il 
caso  e  la  necessità.  La  dea  bendata,  a  cui  Giove  assegna  non  uno  spa- 
zio preciso  ma  l'intero  universo,  si  difende  dalle  accuse  con  grande 
eloquenza.  Se  dall'urna,  in  cui  ogni  schedula  è  uguale  all'altra  («Non 
veggio  mitre,  toghe,  corone,  arti,  [...]  acciò  che  in  questo  modo  io  vegna 
a   trattar   tutti    equalmente,    e   senza   differenza   alcuna»)^''',   viene 


339.  Spaccio,  pp.  357-360. 

340.  Il  mito  di  Iside  e  Osiride  è  ricordato,  in  un  contesto  neoplatonico,  da 
Amadis  Jamyn,  De  la  vérité  et  du  mensonge,  in  É.  Fremy,  UAcadémie  des  der- 
niers  Valois  cit,  pp.  364-365.  Per  un'analisi  dei  temi  ermetici  e  della  ripresa 
dell'egizianesimo  in  queste  pagine  bnmiane:  cfr.  Fulvio  Papi,  Antropologia  e 
civiltà  nel  pensiero  di  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  314-315;  Michele  Ciliberto,  La 
ruota  del  tempo.  Interpretazione  di  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  159-176;  Nicola  Ba- 
daloni, Giordano  Bruno.  Tra  cosmologia  ed  etica  cit.,  pp.  11-21. 

341.  Già  nel  Candelaio  Bruno  aveva  ridicolizzato  le  pratiche  magiche  di 
Scaramuré  e  le  pratiche  alchemiche  di  Cencio  (cfr.  supra,  p.  56). 

342.  Spaccio,  p.  364. 

343.  Ibidem,  p.  291. 


INTRODUZIONE  II 3 

estratto  un  uomo  inabile  a  governare  la  colpa  non  è  del  fato,  ma  della 
Virtù  che  in  quell'urna  ha  inserito  un  nome  solo  o  della  Sapienza  che 
ne  ha  introdotto  uno  o  due.  Di  fronte  a  una  massa  indistinta  di  inetti 
e  viziosi,  quale  mano  potrebbe  pescare  quei  pochi  all'altezza  di  svol- 
gere brillantemente  quel  compito  o  quella  missione?  L'ingiustizia  non 
sta  nel  fatto  che  sia  solo  uno  a  governare.  Ma  che  quell'uno  non  sia 
capace,  non  abbia  le  giuste  qualità  per  farlo  («Non  è  errore  che  sia 
fatto  un  prencipe:  ma  che  sia  fatto  prencipe  un  forfante»)^-'''.  E  questo 
non  dipende  dalla  Fortuna: 

Per  voi  [Bontade,  Sapienza,  Temperanza,  Veritade]  aviene  che  quando 
la  mia  mano  cava  le  sorti,  occorrano  più  frequentemente,  non  solo  al 
male,  ma  ancora  al  bene,  non  solo  a  gl'infortunii,  ma  ancora  a  le  fortune, 
più  per  l'ordinario  gli  scelerati  che  gli  buoni,  più  gl'insipidi  che  gli  sa- 
pienti, più  gli  falsi  che  gli  veraci.  Perché  questo?  perché?  Viene  la  Pru- 
denza e  getta  ne  l'urna  non  più  che  doi  o  tre  nomi;  viene  la  Sofia  e  non  ve 
ne  mette  più  che  quattro  o  cinque;  viene  la  Verità  e  non  ve  ne  lascia  più 
che  uno,  e  meno  se  meno  si  potesse:  e  poi  di  cento  millenarii  che  son 
versati  ne  l'urna,  volete  che  alla  sortilega  mano  più  presto  occorra  uno  di 
questi  otto  o  nove,  che  di  otto  o  novecento  mila.  Or  fate  voi  il  contrario:  fa 
dico  tu  Virtù  che  gli  virtuosi  sieno  più  che  gli  viziosi,  fa  tu  Sapienza  che  il 
numero  de  savii  sia  più  grande  che  quello  de  stolti,  fa  tu  Verità  che  vegni 
aperta  e  manifesta  a  la  più  gran  parte  [...]'"*'. 

La  Fortuna  riconosce  all'umanità  la  possibilità  di  condizionare  in 
senso  positivo  gli  eventi.  Se  la  necessità  impone  leggi  irreversibili,  la 
libertà  di  agire  dell'uomo  e  la  sua  capacità  di  compiere  qualsiasi  ope- 
razione consentono  di  modificare  il  corso  delle  cose.  L'esempio  del 
principato  è  simbolicamente  eloquente:  ci  permette  con  chiarezza  di 
tracciare  i  confini  tra  ciò  che  deve  essere  e  ciò  che  può  essere.  All'uomo 
non  è  dato  operare  nella  sfera  della  necessità.  Il  suo  terreno  d'interven- 
to, invece,  riguarda  il  dominio  del  modificabile.  La  necessità  impone 
che  non  tutti  possano  governare.  Ma  che  quei  pochi  che  siano  destinati 
al  governo  debbano  essere  virtuosi  e  non  furfanti  questo  può  dipendere 
dalla  volontà  degli  uomini,  dalla  loro  capacità  di  sconfiggere  il  vizio  e 
l'ignoranza.  Il  movimento  circolare  della  ruota,  che  aveva  tanto  terro- 
rizzato l'uomo  medievale,  deve  tener  conto  anche  della  volontà  di  ope- 
rare e  di  fare  di  ogni  singolo  individuo.  Giove  -  ci  siamo  già  soffermati 
su  questo  passo  -  riconosce  solo  alla  Fatica  l'abilità  di  prendere  «la 
Fortuna  pe'  capelli»  e  di  agire  sul  corso  della  ruota. 


344.  Ibidem,  p.  293. 

345.  Ibidem. 


114  INTRODUZIONE 

Enrico  IH  e  l'Idra  di  Lerne 

Nella  riforma  dello  Spaccio  Giove  lascia  in  cielo  la  Corona  Boreale 
riservandosi  di  darla  «in  premio  a  quel  futuro  invitto  braccio,  che  con 
la  mazza  et  il  fuoco  riportare  la  tanto  bramata  quiete  alla  misera  et 
infelice  Europa:  fiaccando  gli  tanti  capi  di  questo  peggio  che  Lemeo 
mostro,  che  con  moltiforme  eresia  sparge  il  fatai  veleno »^''^.  Si  tratta 
di  un  augurio,  di  una  speranza.  Ma  a  chi  spetterà  questo  dono? 

Prima  di  rispondere,  bisogna  dare  un  volto  preciso  al  mitologico 
serpente  ricorrendo  ancora  una  volta  al  milieu  francese.  '^eWHydre  de- 
sfaict  cu  la  louange  de  Monsegneur  le  due  d'Anjou,  frere  du  Roy,  à  present 
Roy  de  France,  Ronsard  tesse  le  lodi  del  giovane  Enrico  che  nel  1569 
sbaraglia  i  protestanti,  assimilati  alla  terribile  Idra  di  Lerne: 

Or  ce  Henry  a  fait  chose  impossible, 
Tuant  un  Hydre  au  combat  invincible: 
Et  Seul  de  tous  par  armes  a  desfait 
Ainsi  qu'Hercule  un  Serpent  contrefait '•'''. 

Enrico  III,  dunque,  nelle  vesti  di  Ercole  vince  la  mostruosa  creatu- 
ra ^•^^.  E  proprio  all'eroe  greco,  Giove  assegna  nello  Spaccio  il  ruolo  di 
suo  «luogotenente  e  ministro»,  inviandolo  sulla  terra  per  verificare  «se 
quell'idra,  quella  peste  di  Lerne,  sia  risuscitata  a  prendere  le  sue  teste 
rigermoglianti»^-''^.  Sconfiggere  l'orribile  serpente  significa  sconfiggere 
l'odio,  le  guerre  civili,  le  divisioni,  il  degrado  della  società  e  delle 
scienze.  Favorire  la  pace  e  la  coesione  sociale  vuol  dire  creare  le  pre- 
messe per  far  uscire  l'umanità  dalle  tenebre  della  morte.  Ecco  perché 


346.  Ibidem,  p.  237. 

347.  Ronsard,  Discours  des  Misères  de  ce  temps.  in  (Euvres  complètes,  t.  II, 
w.  91-94,  p.  1075  (ma  cfr.  anche  un  altro  poema  contemporaneo  intitolato  Les 
Elements  ennemis  de  L'Hydre,  ibidem,  pp.  1078-1080).  Sull'Idra  come  simbolo 
dell'eresia  si  veda  C.  Lenient,  La  satire  en  France  ou  la  littérature  militante  au 
XVr  siede,  Paris,  Librairie  Hachette,  1886,  t  II  (ristampa  anastatica  Genève, 
Slatkine,  1970),  pp.  339-340. 

348.  «Car  que  fit-il  [Hercule]  jamais  de  plus  grand  que  d'avoir  combatu  et 
desfaict  le  serpent  Hydra?  [...]  Et  quel  monstre  estoit  cestuy-là,  compare  à  ce- 
luy  que  vous  avez  [...]  si  hardimen  assaylli  [...].  C'est  donc  a  bon  droict.  Sire, 
que  vous  estes  aujourd'huy  comma  Hercules,  recue  au  nombre  des  Dieux:  c'est- 
à-dire  au  nombre  des  Roys»:  Harangue  de  Louis  Aleaume,  in  Nicolas  Rous- 
seau, Discours  de  l'entrée  du  Roy  de  Pologne  faicte  à  Orléans,  Orléans,  E.  Gibier, 
1573,  p.  30  e  segg.;  cit  da  Marc-René  Jung,  Hercule  dans  la  littérature  franca ise 
du  XVr  siede,  Genève,  Droz,  1966,  p.  168.  Ma  anche  Audebert  che  pochi  versi 
prima  aveva  definito  i  protestanti  invincibili  come  Anteo,  loda  il  vincitore  di 
Montcontour,  novello  Ercole,  come  colui  che  ha  «vaincu  l'invincible  puis- 
sance»  (Lino  Fertile,  Un  poemetto  inedito  sulle  guerre  di  religione:  «L'erynne 
franqoise  de  la  France  affligée»  di  Germain  Audebert  cit,  p.  313). 

349.  Spaccio,  p.  244. 


INTRODUZIONE  II5 

nelle  pagine  finali  del  dialogo  bruniano  la  corona  celeste  sarà  asse- 
gnata al  novello  Ercole,  Enrico  III: 

-  Qua  propose  Apolline:  «Che  sarà  di  quella  Tiara?  a  che  è  destinata 
quella  Corona?  che  vogliamo  far  di  essa?»;  «Questa,  questa,»  rispose  Giove, 
«è  quella  corona  la  quale  non  senza  alta  disposizion  del  fato,  non  senza 
instinto  de  divino  spirito,  e  non  senza  merito  grandissimo,  aspetta  l'invit- 
tissimo Enrico  terzo.  Re  della  magnanima,  potente  e  bellicosa  Francia;  che 
dopo  questa,  e  quella  di  Polonia,  si  promette,  come  nel  principio  del  suo 
regno  ha  testificato,  ordinando  quella  sua  tanto  celebrata  impresa:  a  cui 
facendo  corpo  le  due  basse  corone  con  un'altra  più  eminente  e  bella,  s'ag- 
giongesse  per  anima  il  motto:  Tertia  coelo  manet.  [...].  Ama  la  pace,  conserva 
quanto  si  può  in  tranquillitade  e  devozione  il  suo  popolo  diletto;  non  gli 
piacene  gli  rumori,  strepiti  e  fragori  d'instrumenti  marziali,  che  admi- 
nistrano  al  cieco  acquisto  d'instabili  tirannie  e  prencipati  de  la  terra: 
ma  tutte  le  giustizie  e  santitadi  che  mostrano  il  diritto  camino  al  regno 
etemo  "°. 

Il  re  di  Francia  incarna  questo  augurio,  diventando  egli  stesso  sim- 
bolo della  tanto  attesa  renovatio^^K  La  sua  luce  può  dissipare  l'oscurità 
dell'ignoranza  che  avvolge  il  mondo.  Lo  Spaccio,  insomma,  si  apre  con 
l'immagine  del  sole  e  si  chiude  con  la  luce  della  speranza,  coinvol- 
gendo simbolicamente  anche  l'etica  e  la  politica  in  quella  rivoluzione 
eliocentrica  che  partita  dalla  cosmologia  lentamente  pervade  ogni 
sfera  del  sapere. 

La  «Cabala»  e  le  due  asinità 

Molte  questioni  sollevate  nello  Spaccio  vengono  riprese  e  ridiscusse 
nella  Cabala  del  cavallo  pegaseo  (1585).  Questa  operetta,  derivata  da  un 
«cartaccio»,  si  articola  in  tre  dialoghi  e  contiene  al  suo  intemo  un 
altro  dialogo,  intitolato  VAsino  cillenico.  Solo  Saulino  {alter  ego  di 
Bruno)  compare  in  tutti  e  tre  i  dialoghi:  Sebasto  (con  il  compito  di 


350.  Ibidem,  p.  400. 

351.  La  notizia  dell'elezione  di  Enrico  III  al  trono  di  Francia  viene  salu- 
tata a  Venezia  come  simbolo  della  renovatio:  in  diverse  cronache  del  tempo, 
infatti,  questo  avvenimento  viene  considerato  un  segno  eloquente  del  passag- 
gio dalle  tenebre  alla  luce  (cfr  Fulvio  Papi,  Antropologia  e  civiltà  nel  pensiero  di 
Giordano  Bruno  cit.,  pp.  317-318).  Sui  diversi  aspetti  del  concetto  di  renovatio  si 
veda  Franco  Simone,  La  coscienza  della  rinascita  negli  umanisti  francesi,  Roma, 
Edizioni  di  Storia  e  Letteratura,  1949.  Per  l'analisi  del  dibattito  sulle  implica- 
zioni politiche  della  renovatio  durante  il  regno  di  Enrico  IV  rinviamo  a  Cor- 
rado ViVANTi,  Il  mito  dell'Ercole  Gallico  e  gli  ideali  monarchici  di  renovatio,  in 
Lotta  politica  e  pace  religiosa  in  Francia  fra  Cinque  e  Seicento,  Torino,  Einaudi, 
1974.  PP-  74-131- 


Il6  INTRODUZIONE 

stimolare  il  dibattito)  e  Coribante  (il  pedante)  partecipano  al  primo  e 
al  secondo,  mentre  Onorio  («asino  malvagio»,  incarnazione  di  Aristo- 
tele) interviene  solo  nel  secondo  e  Alvaro  (servitore  di  Sebaste)  fa  una 
fugacissima  apparizione  nel  brevissimo  terzo  dialogo,  per  annunciare 
che  i  tre  interlocutori  (Sebasto,  Coribante  e  Onorio)  non  verranno  al- 
l'appuntamento per  una  serie  di  improvvisi  impedimenti.  E  Saulino, 
rimasto  solo  sulla  scena,  per  ingannare  il  tempo  decide  di  leggere  un 
altro  dialogo,  i  cui  protagonisti  sono  l'Asino  cillenico  (asino-sapiente, 
con  le  qualità  di  Mercurio),  Micco  pitagorico  («piccola  scimmia»,  pre- 
sidente dell'accademia)  e  il  messaggero  degli  dèi,  Mercurio. 

In  questo  penultimo  movimento  della  «nolana  filosofia».  Bruno 
rende  ancora  più  espliciti,  radicalizzandoli,  alcuni  temi  del  dialogo 
precedente.  Innanzitutto,  nella  Cabala  si  compie  l'ultimo  atto  della  ri- 
forma iniziata  nello  Sfaccio^^^,  con  l'assegnazione  delle  «sedie»  più 
eminenti  del  cielo  (fiume  Eridano  e  dell'Orsa  maggiore)  ai  due  tipi  di 
Asinità: 

Bene;  dumque  perché  non  più  vi  tormentiate  su  l'aspettar  della  risolu- 
zione, sappiate  che  nella  sedia  prossima,  immediata  e  gionta  al  luogo  dove 
era  l'Orsa  minore,  e  nel  quale  sapete  essere  exaitata  la  Veritade,  essendone 
tolta  via  l'Orsa  maggiore  nella  forma  ch'avete  inteso,  per  previdenza  del 
prefato  consiglio  vi  ha  succeduto  l'Asinità  in  abstratto:  e  là  dove  ancora 
vedete  in  fantasia  il  fiume  Eridano,  piace  a  gli  medesimi  che  vi  si  trove 
l'Asinità  in  concreto,  a  fine  che  da  tutte  tre  le  celesti  reggioni  possiamo 
contemplare  l'Asinità,  la  quale  in  due  facelle  era  come  occolta  nella  via 
de'  pianeti,  dov'è  la  coccia  del  Cancro^''. 

Alla  collocazione  in  cielo  dell'asinità  positiva,  su  cui  ritorneremo 
tra  poco,  corrisponde  invece  una  spietata  condanna  dell'asinità  nega- 
tiva. Qui  Bruno  ne  traccia  una  mappa  dettagliata,  seguendo  con  cura  i 
molteplici  percorsi  della  pedanteria  e  dell'ignoranza.  All'interno  di 
questo  ampio  fronte,  infatti,  si  collocano  diversi  filoni.  Un  posto  im- 
portante spetta  ai  falsi  filosofi:  agli  aristotelici  che  credono  di  sapere 
tutto  e  agli  scettici  che  credono  che  nulla  si  possa  sapere.  Si  tratta  di 
posizioni  che,  per  eccesso  e  per  difetto,  negano  i  processi  dinamici 
della  conoscenza.  Gli  scettici  per  «parer  più  savii  che  gli  altri»,  «con 
minor  fatica  et  intelletto»,  sostengono  che  «nulla  si  può  determinare, 


352.  «Sia  dumque  l'Eridano  in  cielo,  ma  non  altrimente  che  per  credito  et 
imaginazione:  là  onde  non  impedisca  che  in  quel  medesimo  luogo  veramente 
vi  possa  essere  qualch'altra  cosa  di  cui  in  un  altro  di  questi  prossimi  giorni  defi- 
niremo: perché  bisogna  pensare  sopra  di  questa  sedia  come  sopra  quella  de 
l'Orsa  maggiore»  {Spaccio,  p.  385).  Il  corsivo  è  nostro. 

353.  Cabala,  p.  433. 


INTRODUZIONE  II7 

perché  nulla  si  conosce»''"'.  Mentre  Aristotele  dichiara  apertamente  la 
sua  presunzione  attraverso  le  parole  di  Onorio,  asino  pegaseo,  che  ri- 
corda di  essersi  «incarnato»,  a  causa  della  trasmigrazione  delle  anime, 
proprio  nel  corpo  dello  Stagirita: 

Mi  dissi  principe  de'  Peripatetici,  insegnai  in  Atene  nel  sottoportico  Li- 
ceo: dove  secondo  il  lume  e  per  dir  il  vero  secondo  le  tenebre  che  regna- 
vano in  me,  intesi  et  insegnai  perversamente  circa  la  natura  de  li  principii 
e  sustanza  delle  cose,  delirai  più  che  l'istessa  delirazione  circa  l'essenza  de 
l'anima,  nulla  possevi  comprendere  per  dritto  circa  la  natura  del  moto  e 
de  l'universo;  et  in  conclusione  son  fatto  quello  per  cui  la  scienza  naturale 
e  divina  è  stinta  nel  bassissimo  della  ruota,  come  in  tempo  de  gli  Caldei  e 
Pitagorici  è  stata  in  exaltazione'''. 

L'autocritica  di  Onorio-Aristotele,  dalla  cosmologia  alla  filosofia 
della  natura,  investe  la  struttura  stessa  di  un  sapere  chiuso,  immobile, 
tautologico,  incapace  di  aprirsi  alla  molteplicità  e  alla  mutazione.  Un 
sapere  in  perfetta  sintonia  con  la  «santa  ignoranza»  teorizzata  dal  cri- 
stianesimo: 

O  sant'asinità,  sant'ignoranza, 
santa  stolticia  e  pia  divozione, 
qual  sola  puoi  far  l'anime  sì  buone, 
ch'uman  ingegno  e  studio  non  l'avanza: 

non  gionge  faticosa  vigilanza 
d'arte  qualumque  sia,  o  'nvenzione, 
né  de  sofossi  contemplazione, 
al  ciel  dove  t'edifichi  la  stanza. 

Che  vi  vai,  curiosi,  il  studiare, 
voler  saper  quel  che  fa  la  natura, 
se  gli  astri  son  pur  terra,  fuoco  e  mare? 

La  santa  asinità  di  ciò  non  cura; 
ma  con  man  gionte  e  'n  ginocchion  vuol  stare 
aspettando  da  Dio  la  sua  ventura. 

Nessuna  cosa  dura, 
eccetto  il  frutto  de  l'eterna  requie, 
la  qual  ne  done  Dio  dopo  l'essequie  "'^. 

Ritornano  con  insistenza,  in  questo  sonetto  «In  lode  dell'asino»,  i 
termini  della  contrapposizione:  da  una  parte  la  «sant'asinità»,  che  non 
avendo  nessun  interesse  per  lo  studio  e  per  la  natura,  invita  gli  uo- 
mini a  vivere  «con  man  gionte  e  'n  ginocchion»;  dall'altra  parte,  in- 


354.  Ibidem,  p.  469. 

355.  Ibidem,  pp.  459-460. 

356.  Ibidem,  p.  415. 


Il8  INTRODUZIONE 

vece,  r« umano  ingegno»  che  spinto  dalla  curiositas  vuole  conoscere  i 
segreti  del  cosmo  e  della  vita  '^7.  H  Cristo-Orione  dello  Spaccio  si  river- 
bera neU'Onorio-Aristotele  della  Cabala:  entrambi,  al  di  là  di  un  pos- 
sibile richiamo  anagrammatico  Orione-Onorio,  rinviano  su  piani  di- 
versi a  uno  stesso  atteggiamento.  I  miracoli  di  Orione-Cristo  e  gli  im- 
brogli di  Onorio-Aristotele  producono  i  medesimi  effetti:  la  distruzione 
di  ogni  possibile  rapporto  tra  uomo  e  natura,  tra  vita  e  conoscenza. 
Asini  sono  i  falsi  filosofi  ed  asini  sono  i  proseliti  del  cristianesimo  a 
cui  spetta  il  regno  dei  cieli.  La  polemica  antiprotestante  e  anticristiana 
si  intreccia  con  la  polemica  contro  i  detrattori  del  sapere: 

Stolti  del  mondo  son  stati  quelli  ch'han  formata  la  religione,  gli  cere- 
moni,  la  legge,  la  fede,  la  regola  di  vita;  gli  maggiori  asini  del  mondo  (che 
son  quei  che  privi  d'ogn'altro  senso  e  dottrina,  e  voti  d'ogni  vita  e  costume 
civile,  marciti  sono  nella  perpetua  pedantaria)  son  quelli  che  per  grazia 
del  cielo  riformano  la  temerata  e  corrotta  fede,  medicano  le  ferite  de  l'im- 
piagata religione,  e  togliendo  gli  abusi  de  le  superstizioni,  risaldano  le  scis- 
sure della  sua  veste;  non  son  quelli  che  con  empia  curiosità  vanno  o  pur 
mai  andaro  perseguitando  gli  arcani  della  natura,  computare  le  vicissitu- 
dini de  le  stelle.  Vedete  se  sono  o  furon  giamai  solleciti  circa  le  cause  se- 
crete  de  le  cose;  se  perdonano  a  dissipazion  qualumque  de  regni,  disper- 
sion  de  popoli,  incendii,  sangui,  mine  et  esterminii;  se  curano  che  perisca 
il  mondo  tutto  per  essi  loro:  purché  la  povera  anima  sia  salva,  purché  si 
faccia  l'edificio  in  cielo  [...]"*. 

Il  fronte  dell'asinità  negativa,  insomma,  non  può  generare  né  cono- 
scenza, né  civiltà.  Nell'esaltazione  dell'età  dell'oro,  in  una  prospettiva 
già  anticipata  nello  Spaccio,  si  traduce  l'esaltazione  di  un'epoca  in  cui 
«gli  uomini  erano  asini»  e  vivevano  «come  fan  le  bestie» '5'^.  Nella  Ca- 
bala si  ribadisce  con  chiarezza  che  solo  nel  passaggio  dalla  natura  alla 
cultura  l'uomo  può  conquistare  la  divinitas.  La  differenza,  infatti,  tra 
l'uomo  e  l'animale  non  risiede  in  astratte  gerarchie  ontologiche,  ma  è 
data  dalla  pura  materialità  delle  cose,  dalla  costituzione  diversa  dei 


357.  Sulla  nozione  di  curiositas  («sete  illimitata  di  sapere»)  come  segno 
distintivo  dell'età  moderna  si  veda  Hans  Blumenberg,  La  legittimità  dell'età 
moderna  cit,  pp.  242-489.  Per  un'analisi  della  fortuna  del  concetto  nel  Rinasci- 
mento rinviamo  ai  saggi  raccolti  in  La  curiosité  à  la  Renaissance,  Actes  réunis 
par  Jean  Céard,  SEDES,  Paris,  1986.  La  doppia  connotazione,  negativa  e  posi- 
tiva, del  termine  in  Bruno  è  indagata  da  Simona  Nucciarelli,  «Curiosus...  in 
bonam  et  in  malam  parte  sumitur»:  la  «curiositade»  nei  Dialoghi  italiani  di  Gior- 
dano Bruno,  in  «Nouvelles  de  la  République  des  Lettres»,  II  (1998),  pp.  85-108 
(purtroppo  questi  importanti  versi  della  Cabala  non  figurano  nell'utile  rasse- 
gna della  Nucciarelli). 

358.  Cabala,  pp.  423-424. 

359.  Ibidem,  p.  427. 


INTRODUZIONE  II9 

corpi.  L'anima  dell'uomo,  in  coerenza  con  quanto  sostenuto  nel  De  la 
causa,  «è  medesima  in  essenza  specifica  e  generica  con  quella  de  le 
mosche,  ostreche  marine  e  piante,  e  di  qualsivoglia  cosa  che  si  trova 
animata  o  abbia  anima  «"'O.  La  base  di  ogni  aggregato  vivente,  infatti, 
è  composta  dalla  stessa  «materia  corporale»  e  dalla  stessa  «materia 
spirituale». 

Di  conseguenza,  il  rapporto  con  la  natura  è  fortemente  condizio- 
nato dalla  propria  «complessione»  corporea.  Attraverso  l'uso  del 
corpo,  infatti,  ogni  specie  crea  le  modalità  migliori  per  mantenersi  in 
vita,  scegliendo  quel  tipo  di  operazione  adatta  alla  propria  corporeità. 
Se  un  serpente  assumesse  il  corpo  di  un  uomo  «intenderebbe,  appari- 
rebbe, spirarebbe,  parlarebbe,  oprarebbe,  caminarebbe  non  altrimente 
che  l'uomo;  perché  non  sarrebbe  altro  che  uomo»^^^  Alla  stessa  ma- 
niera, se  un  uomo  assumesse  il  corpo  di  un  serpente  «non  sarebbe  al- 
tro che  serpente»  e  quindi  «in  luogo  di  caminare  serperebbe,  in  luogo 
d'edificarsi  palaggio  si  cavarebbe  un  pertuggio,  e  non  gli  converrebbe 
la  stanza,  ma  la  buca»^^'^.  Solo  su  basi  naturali,  allora,  si  decreta  la 
superiorità  dell'uomo  sugli  altri  esseri  viventi.  La  sua  particolare  con- 
formazione corporea  gli  consente  di  avere  la  mano,  «organo  de  gli  or- 
gani», e  quindi  gli  permette  di  poter  compiere  operazioni  che  nessuna 
altra  specie  può  compiere:  senza  le  mani  non  avrebbe  mai  potuto 
creare  «le  instituzioni  de  dottrine,  le  invenzioni  de  discipline,  le  con- 
gregazioni de  cittadini,  le  strutture  de  gli  edificii,  et  altre  cose  assai  che 
significano  la  grandezza  et  eccellenza  umana» ^6^. 


360.  Ibidem,  p.  452. 

361.  Ibidem,  p.  453. 

362.  Ibidem. 

363.  Ibidem,  p.  454.  Anche  su  questo  tema,  la  posizione  di  Bruno  espressa 
nella  Cabala  non  sembra  essere  molto  lontana  da  quella  sostenuta  da  Ronsard 
in  Paradoxe  (CEuvres  complètes,  t.  II,  pp.  841-843),  interamente  dedicato  alla 
lode  della  mano.  Qui  il  Vendòmois  identifica  con  questo  specifico  organo  la 
natura  stessa  dell'uomo  («Les  Mains  font  l'homme,  et  le  font  de  la  beste  /  Estre 
veincueur,  non  les  pieds,  ny  la  teste»,  vv.  55-56,  p.  842),  facendone  uno  stru- 
mento essenziale  per  raggiungere  le  vette  più  alte  («Qui  peut  son  oeuvre  aux 
estoiles  pousser,  /  Royne  des  arts,  ministre  du  penser»,  vv.  53-54,  p.  842)  e 
senza  il  quale  la  mente  non  può  realizzare  i  suoi  disegni:  «Si  la  raison  n'en  est 
accompaignée,  /  Ce  n'est  que  vent:  d'autant  qu'elle  ne  peut  /  Parachever  les 
desseins  qu'elle  veut»  (vv.  68-70,  p.  842).  Del  resto,  solo  la  mano  aiuta  a  con- 
quistare gli  onori,  come  testimoniano  le  gloriose  battaglie  contro  i  protestanti 
combattute  a  Dreux  e  a  Saint-Denis:  «Par  les  cinq  doigts  les  honneurs  se  font 
preux.  /  Que  diray  plus?  la  bataille  de  Dreux,  /  De  sainct  Denis  par  la  Main  fut 
gaignée»  (w.  65-67,  p.  842).  Spetta  a  Fulvio  Papi  il  merito  di  aver  segnalato 
per  primo  questi  versi  di  Ronsard  in  relazione  ai  passaggi  bruniani  sulla  mano 
(Fulvio  Papi,  Antropologia  e  civiltà  nel  pensiero  di  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  244- 
245)- 


120  INTRODUZIONE 

Il  naturalismo  bruniano  rovescia  la  concezione  finalistica  dell'elo- 
gio della  mano  sostenuta  da  Aristotele:  per  lo  Stagirita  l'uomo  ha  la 
mano  perché  è  l'animale  ontologicamente  più  nobile,  quindi  ha  in 
dote  lo  strumento  più  nobile.  Per  il  Nolano,  in  forte  sintonia  con  Lu- 
crezio, l'uomo  domina  le  altre  specie  perché  possiede  un  organo  che  le 
altre  specie  non  hanno '''^.  Con  la  forza  della  mano,  dunque,  si  costrui- 
sce la  civiltà.  Qui  ritroviamo  i  nuclei  centrali  dell'asinità  positiva:  fa- 
tica da  una  parte  e  «sapere  di  non  sapere»  dall'altra,  predisposizione 
al  durissimo  lavoro  e  consapevolezza  della  propria  ignoranza.  Senza 
«sudore»,  senza  la  coscienza  che  i  processi  di  conoscenza  non  appro- 
deranno mai  a  un  punto  di  arrivo  finale,  non  sarà  possibile  riscattare 
l'uomo  dalla  sua  condizione  ferina. 

Il  simbolo  dell'asino  -  che  nel  Rinascimento  aveva  avuto  un 
grande  successo  da  Agrippa  a  Machiavelli,  da  Brant  a  Rabelais  - 
trova  nello  Spaccio  e  nella  Cabala  la  sua  espressione  più  alta.  Qui, 
come  testimonia  l'Asino  cillenico,  la  «bestia  negativa»  presenta  anche 
un  polo  positivo  dove  convergono  le  qualità  ambivalenti  di  Mercurio, 
dio  degli  scambi,  degli  incroci,  delle  interferenze^^'. 


VI. 

LA  FILOSOFIA  CONTEMPLATIVA:  I  FURORI 

Con  il  De  gli  eroici  furori  (1585),  Bruno  prende  congedo  non  solo 
dall'Inghilterra  ma  anche  dalla  lingua  italiana.  Chiude,  infatti,  la 
grande  stagione  delle  opere  in  volgare,  per  aprire  un  nuovo  ciclo  se- 
gnato esclusivamente  dal  latino.  Un  doppio  «congedo»,  quindi,  che 
assegna  maggiore  solennità  a  questo  ultimo  movimento  della  «nolana 
filosofia».  Dopo  aver  «riscritto»  in  nome  dell'infinito  i  rapporti  tra 
uomo  e  cosmo,  tra  uomo  e  materia,  tra  uomo  e  natura,  tra  uomo  ed 


364.  «ni!  ideo  quoniam  natumst  in  corpore  uti  /  possemus,  sed  quod  natu- 
mst  id  procreat  usum»  [«nessun  organo  del  nostro  corpo  è  stato  creato  per 
nostro  uso;  ma  è  l'organo  che  crea  l'uso»]:  Lucrezio.  La  natura,  introduzione, 
traduzione  e  note  di  Olimpio  Cescatti,  con  una  lettura  critica  di  Alessandro 
Ronconi,  Milano,  Garzanti,  1975  (IV,  834-835),  pp.  288-289. 

365.  Per  una  ricostruzione  dell'ambivalente  presenza  dell'asino  nella  lette- 
ratura del  Rinascimento  e  nel  pensiero  di  Bruno  mi  permetto  di  rinviare  al 
mio  volume  La  cabala  dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit.  Per 
un'analisi  del  topos  asinino  all'interno  di  una  concezione  esclusivamente  «ne- 
gativa» del  simbolo  cfr.  M.  Ciliberto.  La  ruota  del  tempo.  Interpretazioni  di 
Giordano  Bruno  cit. 


INTRODUZIONE  121 

etica,  adesso  il  Nolano  si  accinge  a  «riscrivere»  il  rappoiio  tra  uomo  e 
conoscenza.  E  lo  fa,  ancora  una  volta,  cercando  di  spezzare  le  muraglie 
e  i  limiti  entro  cui  la  ricerca  del  sapere  era  stata  circoscritta. 

Il  dialogo  diventa  teatro  di  una  quète  senza  fine,  in  cui  l'amore  per 
la  conoscenza  guida  il  filosofo  a  compiere  un'esperienza  eccezionale, 
un  percorso  straordinario  tutto  teso  verso  l'unione  con  la  natura  uni- 
genita, verso  l'abbraccio  «impossibile»  con  l'infinito. 

I  Furori  si  reggono  su  una  complessa  architettura,  suddivisa  in  due 
parti,  al  cui  intemo  si  susseguono  dieci  dialoghi:  i  primi  cinque  (che 
segnano  la  prima  parte)  sono  animati  dal  poeta  venosino  Luigi  Tan- 
sillo  e  da  Cicada,  probabilmente  Odoardo  Cicala,  uomo  d'arme  amico 
del  padre  di  Bruno  "^'';  nella  seconda  parte,  invece,  si  alternano  quattro 
coppie  di  interlocutori,  che  Spampanato  farebbe  risalire  ad  amici  e 
conoscenti  del  milieu  nolano  ^*'^:  Maricondo  e  Cesarino  nei  primi  due 
dialoghi,  Liberio  e  Laodonio  nel  terzo,  Severino  e  Minutolo  nel  quarto, 
Giulia  e  Laodomia  nel  quinto  ed  ultimo. 

La  poesia  d'amore 

Come  aveva  già  fatto  in  altre  precedenti  occasioni  -  si  pensi  all'uso 
della  cosmologia  tradizionale  nello  Spaccio,  attraverso  la  messa  in 
scena  delle  costellazioni  ^^^  —,  il  Nolano  anche  in  questo  caso  parte  dal 
già  noto  per  mutarne  il  segno.  Compie,  con  grande  consapevolezza, 
un'operazione  eversiva:  si  «impadronisce»  di  quel  codice  specifico  ra- 
dicato nella  cultura  del  tempo  per  stravolgerne  ogni  singolo  elemento, 
per  piegarlo  a  funzioni  che  si  pongono  in  netta  contrapposizione  con 
quelle  tradizionali.  Nei  Furori,  come  vedremo  tra  poco,  il  disegno  si 
concretizza  in  funambolismi  di  ogni  sorta:  sul  piano  dei  contenuti,  sul 


366.  Cfr.  infra  De  gli  eroici  furori,  p.  525,  n.  i. 

367.  Vincenzo  Spampanato,  Vita  di  Giordano  Bruno  cit,  pp.  64-65. 

368.  Cfr.  N.  Ordine,  Introdudion  à  G.  Bruno,  Expulsion  de  la  bète  triom- 
phante  cit.,  pp.  CLXXIX-CLXXX.  Ma  anche  nei  Furori  Bnino  si  avvale  più 
volte  nei  componimenti  di  una  serie  di  immagini  che  rinviano  alla  cosmologia 
tradizionale  (movimento  del  cielo  e  del  sole  o  l'esistenza  di  una  sfera  che  con- 
tiene le  stelle  fisse):  ma  si  tratta  di  un  uso  allegorico  che  non  ha  niente  a  che 
fare  con  questioni  di  natura  cosmologica.  In  altri  passaggi  di  questo  dialogo, 
infatti,  non  mancano  significative  riprese  di  alcuni  punti  fermi  della  conce- 
zione bruniana  dell'universo:  si  critica  l'esistenza  delle  nove  sfere  («atteso  che 
secondo  la  volgare  imaginazione  delle  nove  sfere»,  p.  41)  e  si  ribadisce  con 
chiarezza  l'infinità  e  l'omogeneità  del  cosmo  («atteso  poi  che  quello  che  vedi 
alto  o  basso,  o  in  circa  (come  ti  piace  dire)  de  gli  astri,  son  corpi,  son  fatture 
simili  a  questo  globo  in  cui  siamo  noi,  e  nelli  quali  non  più  né  meno  è  la 
divinità  presente  che  in  questo  nostro,  o  in  noi  medesimi»,  p.  317).  Su  questo 
tema  cfr.  Miguel  Angel  Granada,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Les  fu- 
reurs  héroiques  cit,  pp.  72-73  e  pp.  99-100. 


122  INTRODUZIONE 

piano  del  lessico,  sul  piano  della  lingua,  sul  piano  dei  generi,  sul  piano 
della  metrica.  Bruno,  infatti,  sceglie  di  «appropriarsi»  dei  temi  del  pe- 
trarchismo e  della  trattatistica  sull'amore  per  mettere  in  scena  l'eroico 
e  difficile  percorso  della  «milizia  amorosa»  del  furioso^^^. 

Il  Nolano  naturalmente  conosce  a  perfezione  gli  schemi  dominanti 
del  linguaggio  d'amore  della  tradizione  lirica  romanza.  Sa  che  la  rela- 
zione amorosa  si  traduce  in  un  desiderio  che  non  sarà  mai  appagato, 
in  un  inseguimento  senza  fine  caratterizzato  da  un  amante  che  cerca 
disperatamente  di  abbracciare  l'amata  che  sfugge.  Sa  che  l'amore,  al- 
l'interno di  questo  orizzonte,  può  produrre  solo  passioni  frustrate  in 
quanto  si  dà  esso  stesso  come  frutto  di  un'impossibilità.  Sa  che  la  ten- 
sione poetica  trova  alimento  proprio  in  questo  processo  di  negazione, 
in  questa  predeterminata  inafferrabilità  dell'oggetto  desiderato  ^^°. 

Sa,  in  particolar  modo,  che  questi  schemi  si  fissano  in  un  linguag- 
gio ossessivo,  ripetitivo.  In  una  serie  di  immagini  che  traducono  in 
maniera  drammatica  la  tensione  che  anima  l'innamorato:  agitato  da 
opposte  passioni  (gioia  e  dolore,  speranza  e  timore),  chi  ama  finisce  per 
essere  preda  di  sentimenti  e  sensazioni  contrastanti  (caldo  e  freddo, 
luce  e  tenebre,  sorriso  e  pianto),  finisce  per  perdere  il  controllo  di  un 
«io»  sempre  più  frammentato.  Sa,  inoltre,  che  gli  occhi  e  la  visione 
giocano  un  ruolo  determinante.  E  che  senza  di  loro  non  sarebbe  pos- 
sibile cogliere,  in  maniera  immediata,  in  quel  preciso  istante,  la  supe- 
riorità dell'oggetto  amoroso  su  tutto  ciò  che  gli  sta  intomo.  Sa,  infine, 
che  tutte  queste  immagini  si  articolano  sul  piano  sintattico  in  paral- 
lelismi e  simmetrie,  in  coppie  antitetiche,  in  un  fitto  gioco  di  richiami 
e  corrispondenze. 

Ma  —  e  questo  mi  pare  un  punto  decisivo  su  cui  ci  soffermeremo 
più  avanti  -  Bruno  sa  anche  che  il  petrarchismo  cinquecentesco  si 
fonda  essenzialmente  su  un  linguaggio  convenzionale  che  rinvia  a  se 
stesso,  su  un  codice  autoreferenziale  e  autosufficiente,  su  un  complesso 
sistema  di  gesti,  di  simboli,  di  colori,  di  parole,  di  immagini  comple- 
tamente legato  al  chiuso  orizzonte  cortigiano.  Un  linguaggio  d'amore, 
insomma,  capace  soltanto  di  affermare  la  propria  esistenza,  di  presen- 
tarsi come  puro  strumento  di  intrattenimento  sociale,  di  comunica- 
zione tra  gentiluomini.  Dietro  un'apparente  pluralità,  ogni  cosa  trova 


369.  Un'attenta  lettura  dell'uso  bruniano  del  linguaggio  petrarchesco  è  in 
Patrizia  Farinelli,  //  furioso  nel  labirinto.  Studio  su  De  gli  eroici  furori  di 
Giordano  Bruno,  Bari,  Adriatica,  2000. 

370.  Sull'amore  come  desiderio  frustrato  nella  tradizione  poetica  si  veda 
Marco  Santagata,  Pene  e  torture  d'amore,  in  Id.,  Amate  e  amanti.  Figure  della 
lirica  amorosa  fra  Dante  e  Petrarca,  Bologna,  il  Mulino,  1999,  pp.  141-172. 


INTRODUZIONE  123 

posto  in  un  contenitore  fatto  di  griglie  prefabbricate,  in  cui  finanche  il 
lessico  platonicheggiante  o  più  specificamente  filosofico  viene  tradotto 
in  formule  svuotate  di  ogni  reale  contenuto^''.  Si  pensi  agli  Asolarti 
(1505)  di  Pietro  Bembo  che  inaugurano  nel  Cinquecento  la  trattati- 
stica in  volgare  sull'amore:  la  fusione  tra  prosa  e  poesia,  tra  platoni- 
smo e  cristianesimo,  tra  petrarchismo  e  corte  avviene  all'intèrno  di 
una  struttura  dialogica  in  cui  la  verità  viene  data  sin  dall'inizio, 
perché  ciò  che  conta  non  è  tanto  la  conversazione  in  sé  ma  la  «scena» 
mondana  entro  cui  gli  interlocutori  agiscono  con  gesti  e  parole.  Il  dia- 
logo -  fondato  sull'omogeneità  tra  luoghi,  personaggi  e  circostanze  — 
si  offre  così  come  modello  di  comportamento  per  un  pubblico  corti- 
giano, pronto  ad  assumere  quei  gesti  e  quelle  parole  a  prescindere  da 
un'autentica  riflessione  sui  contenuti  "2. 

La  scelta  di  Bruno  non  è  dunque  casuale.  Così  come  non  è  casuale 
il  ricorso  ad  un  altro  genere  alla  moda,  l'emblematica,  strettamente 
legato  alla  lirica  petrarchista  e  al  suo  orizzonte  cortigiano.  Anche  qui, 
l'intreccio  tra  parola  e  immagine,  tra  «anima»  e  «corpo»  finisce  per 
essere  fissato  in  una  serie  di  repertori,  in  modelli  rigidi  pronti  per  l'uso 
nei  rituali  di  scambio  sociale  tra  signori  e  gentiluomini,  dame  e  cava- 
lieri, poeti  e  poetesse. 

Un'opera  di  «invenzione»  non  di  «imitazione» 

Il  Nolano,  come  dicevamo,  utilizza  questi  schemi  di  ampia  diffu- 
sione per  piegarli  agli  «eroici»  obiettivi  della  sua  filosofia  Trasforma 
un  linguaggio  asfittico,  svuotato  di  ogni  rapporto  con  il  mondo,  in  un 
universo  aperto  in  cui  la  parola  ritrova  tutta  la  sua  vitale  energia. 
Restituisce,  insomma,  alla  poesia  e  alle  immagini  la  loro  funzione  gno- 
seologica. Riannoda,  con  il  suo  canzoniere,  i  legami  tra  letteratura  e 
vita,  poesia  e  filosofia.  Riassegna  alle  «pitture  parlanti»  un  ruolo  fon- 
damentale nei  complessi  percorsi  della  conoscenza.  E  persegue  questi 
obiettivi,  ancora  una  volta,  compiendo  un'operazione  eversiva  non 
solo  sul  piano  dei  contenuti.  Lavora,  come  al  solito,  con  grande  atten- 
zione sulla  lingua,  liberando  il  lessico  petrarchesco  dalle  astratte  for- 
mule autoreferenziali  in  cui  era  stato  rinchiuso  per  farlo  interagire  con 


371.  Su  questi  temi  cfr.  V Introduzione  di  Giulio  Ferroni  a  Poesia  italiana.  Il 
Cinquecento,  Milano,  Garzanti,  1978,  pp.  VII-XXVI.  Sulla  tradizione  della  lirica 
petrarchista  si  vedano  i  saggi  di  Amedeo  Quondam,  Il  Naso  di  Laura.  Lingua 
e  poesia  nella  tradizione  del  Classicismo,  Modena,  Franco  Cosimo  Panini,  1991 
(ma  cfr.  anche  la  nota  introduttiva  di  Marco  Ariani  alla  sezione  dedicata  a 
Petrarchisti  e  marinisti  in  Antologia  della  poesia  italiana.  Il  Cinquecento,  diretta 
da  Cesare  Segre  e  Carlo  Ossola,  Torino,  Einaudi,  2001,  pp.  208-212). 

372.  Sull'uso  del  dialogo  negli  Asolani  e  nel  Cortegiano  cfr.  supra,  pp.  27-28. 


124  INTRODUZIONE 

un  lessico  colto,  denso  di  significati  filosofici,  e  con  un  lessico  aperta- 
mente burlesco.  Logora,  con  grande  abilità,  le  strutture  metriche  del 
sonetto  fino  a  sperimentare  percorsi  inusuali,  non  certamente  radicati 
nella  tradizione  lirica  italiana:  sottopone  il  metro  più  popolare  del  pe- 
trarchismo alle  pili  svariate  torsioni,  fino  a  trasformarlo  in  un  assem- 
blaggio di  altri  metri,  in  cui  trova  soprattutto  posto  un'originale  com- 
binazione tra  l'ottava  e  il  madrigale''^. 

Usa  con  disinvoltura  gli  schemi  dell'impresa  (composta  da  una  fi- 
gura e  da  un  motto)  e  dell'emblema  (formato  da  una  figura,  da  un 
motto  e  da  un  breve  componimento  in  versi,  in  genere  un  epigram- 
ma), articolandoli  in  una  serie  di  combinazioni  dove  l'identità  speci- 
fica rimane  quasi  sempre  sospesa.  In  alcuni  casi,  per  esempio,  i  versi 
sembrano  legarsi  alla  figura  e  al  motto,  mentre  in  altri  casi  la  loro 
presenza  non  è  direttamente  riconducibile  alle  altre  due  componenti. 
Alla  stessa  maniera,  l'impresa,  considerata  come  un  simbolo  stretta- 
mente personale,  viene  dilatata  ad  esprimere  concetti  universali,  in 
cui  si  perde  quella  particolare  carica  di  individualità^'-^.  Bruno,  in- 
somma, si  muove  liberamente,  senza  tener  conto  dei  vincoli  prescrit- 
tivi fissati  dalla  trattatistica  e  dalle  convenzioni  letterarie. 

In  piena  sintonia  con  il  suo  progetto  «eversivo»,  arriva  perfino  a 
stravolgere,  in  maniera  più  radicale  rispetto  alle  opere  precedenti, 
l'identità  del  genere  dialogo:  fonde  prosa  e  poesia,  versi  e  commento, 
immagini  e  parole.  Si  tratta  di  un  dialogo,  è  vero.  Ma  non  bisogna 
dimenticare  che  potrebbe  anche  trattarsi  di  un  libro  di  imprese,  di  un 
canzoniere  o  di  un  commento  filosofico  (sono  del  tutto  assenti  annota- 
zioni di  natura  strettamente  letteraria)  a  un  canzoniere ^^5.  Siamo  di 


373.  Sulle  scelte  metriche  bruniane  si  veda  l'appendice  di  Zaira  Borrenti 
(infra,  t.  II,  pp.  771  e  segg.),  in  cui  la  curatrice  anticipa  parzialmente  i  risultati 
di  un  lavoro  dedicato  ai  componimenti  presenti  nelle  opere  italiane  del  No- 
lano. 

374.  Cfr.  la  sezione  dedicata  alle  imprese  {infra,  t  II,  pp.  835  e  segg.)  a  cura 
di  Donato  Mansueto. 

375.  Tra  i  precedenti  del  commento  filosofico  a  testi  poetici  vanno  almeno 
ricordati  il  Convivio  (1300-1308)  di  Dante  e  il  Commento  alla  canzone  d'amore 
del  fiorentino  Girolamo  Benivieni  di  Pico  della  Mirandola  (i486).  Sull'uso  del 
commento  si  vedano:  Jean  Céard,  Les  transformations  du  genre  commentaire,  in 
L'Automne  de  la  Renaissance,  Paris.  Vrin,  1988,  pp.  101-115;  Les  Commentaires  et 
la  naissance  de  la  critique  littéraire.  France  /  Italie,  Acte  du  Colloque  intematio- 
nal  sur  le  Commentaire  (Paris,  mai  1998),  textes  réunis  et  présentés  par  Gisèle 
Mathieu-Castellani  et  Michel  Plaisance,  Paris,  Aux  amateurs  de  livres,  1990;  Le 
commentaire  entre  tradition  et  innovation.  Acte  du  colloque  International  de  l'In- 
stitut  des  traditions  textuelles  (Paris  et  Villejuif,  22-25  septembre  1999),  pu- 
bliés  sous  la  direction  de  Marie-Odile  Goulet-Cazé.  Paris.  Vrin,  2000;  IVIassimo 
Fusillo,  Commentare,  in  II  testo  letterario.  Istruzioni  per  l'uso,  a  cura  di  Mario 
Lavagetto,  Roma-Bari,  Laterza,  1996,  pp.  31-56. 


INTRODUZIONE  125 

fronte  a  una  complessa  architettura  che  sfugge  a  ogni  precisa  etichetta, 
che  si  sottrae  a  ogni  canone  tradizionale.  Per  questo  rimane  difficile 
separare  gli  elementi  che  apparentemente  sembrano  eterogenei:  né  i 
versi  (si  pensi  a  un  possibile  stralcio  dell'intero  canzoniere,  composto 
da  ben  settantadue  componimenti  tra  «primari»  e  «  secondari  »)"^  né 
le  imprese  (di  cui  abbiamo  esclusivamente  una  descrizione  verbale 
delle  immagini)  potrebbero  avere  una  vita  autonoma  al  di  fuori  di 
quel  preciso  contesto. 

Lo  stesso  discorso  vale  per  il  commento:  sarebbe  fortemente  ridut- 
tivo considerarlo  come  un  testo  autosufficiente,  capace  di  esprimere  da 
solo  la  complessità  del  discorso  bruniano,  o  al  contrario  come  un  testo 
destinato  a  un'esclusiva  funzione  di  «supporto».  L'autore  se  ne  serve, 
proponendo  un  modello  che  non  tiene  conto  né  del  commentane  tipico 
dei  testi  sacri  (in  cui,  secondo  il  motto  Verbum  dei  sufficit,  il  ruolo  del 
metatesto  è  puramente  secondario,  parassitario,  di  umile  invito  alla 
lettura  della  parola  divina  che  non  ha  bisogno  di  essere  spiegata)"^, 
né  del  commentaire  «didattico»  (in  cui  tutte  le  possibilità  interpreta- 


376.  Raramente  i  versi  dei  Furori  sono  stati  proposti  autonomamente  in 
antologie  della  poesia  cinquecentesca.  Se  Giulio  Ferroni  inserisce  undici  com- 
ponimenti nella  Poesia  italiana.  B  Cinquecento  cit.  (pp.  398-406),  il  Nolano  è  del 
tutto  assente  nella  recente  einaudiana  Antologia  della  poesia  italiana.  Il  Cinque- 
cento a  cura  di  Carlo  Ossola  e  Cesare  Segre,  cit.  La  distinzione  tra  componi- 
menti «primari»  e  «secondari»,  resa  in  questa  edizione  con  gli  asterischi  appo- 
sti in  apertura  e  chiusura  di  ogni  poesia,  è  opportunamente  indicata  da  Gio- 
vanni Aquilecchia  per  segnalare  al  lettore  la  presenza  nella  princeps  di  fregi 
utilizzati  da  Bruno  per  delimitare  all'inizio  e  alla  fine  alcune  liriche.  Aquilec- 
chia spiega  con  chiarezza  la  sua  posizione  nel  saggio  Sirma  a  «una  polemica  tra 
brunisti»  (in  «Filologia  e  critica»,  i,  2001,  pp.  132-142),  replicando  alla  debole 
autodifesa  di  Michele  Ciliberto  (Il  testo  rapito.  Una  polemica  tra  brunisti,  in  «Ri- 
vista di  storia  della  filosofia»,  2,  2000,  p.  243)  che,  pur  accettando  la  distinzione 
tra  componimenti  commentati  e  non,  confermava  comunque  la  sua  decisione 
di  non  tener  conto  dei  fregi  nel  testo  dei  Furori,  pubblicato  nel  Meridiano 
Mondadori  (G.  Bruno,  Dialoghi  filosofici  italiani,  Milano,  2000).  Ma  la  tesi  di 
Aquilecchia  viene  ancor  più  avvalorata  dall'analisi  diretta  dei  componimenti 
effettuata  da  Zaira  Sorrenti  nell'appendice:  solo  sette  testi  poetici  non  figurano 
tra  i  fregi  tipografici.  Si  tratta,  infatti,  di  componimenti  che  Bruno  doveva  con- 
siderare «secondari»  per  un  doppio  ordine  di  ragioni:  per  la  funzione  di  «ser- 
vizio», innanzitutto  (non  sono  oggetto  di  commento  come  gli  altri,  ma  essi 
stessi  si  presentano  come  un  commento  in  versi  dei  componimenti  «primari»); 
e,  probabilmente,  anche  per  la  loro  «non  originalità»:  o  perché  già  editi  (i  versi 
ripresi  dal  De  la  causa),  o  perché  non  appartenenti  all'autore  (i  quattro  compo- 
nimenti del  Tansillo)  o  perché  non  innovativi  sul  piano  metrico  rispetto  a 
quegli  altri  inseriti  tra  le  decorazioni  tipografiche  (l'ottava  e  il  madrigale,  che 
isolati  non  esprimono  le  torsioni  a  cui  viene  invece  sottoposto  il  «sonetto»  in 
seguito  alla  loro  fusione). 

377.  Francois  Rigolot,  Introduction  à  l'étude  du  «commentaire».  L'exemple 
de  la  Renaissance,  in  Les  Commentaires  et  la  naissance  de  la  critique  littéraire. 
France/Iialie  cit,  pp.  51-62. 


126  INTRODUZIONE 

tive  trovjino  pieno  compimento  nel  discorso  esegetico).  Qui  il  Nolano, 
in  coerenza  con  i  suoi  princìpi,  «svela»  solo  in  parte  i  «tesori»  conte- 
nuti nei  componimenti,  attivando  un  percorso  ermeneutico  in  cui  il 
pubblico  viene  chiamato  a  collaborare  alla  costruzione  del  senso"**.  Il 
lettore  viene  motivato,  stimolato,  assistito  in  alcuni  passaggi,  condotto 
per  mano  lungo  certi  sentieri,  posto  talvolta  di  fronte  a  soluzioni  che 
sembrano  eliminare  ogni  ambiguità:  ma  l'invito  alla  quète  -  in  cui 
testo  e  metatesto,  versi  e  commento  si  presentano  come  un  vasto  ter- 
reno di  «caccia»  -  finisce  per  diventare  l'elemento  propulsore  del  pro- 
cesso interpretativo  ^^9. 

In  effetti,  proprio  la  necessaria  compresenza  di  elementi  eterogenei 
ma  fortemente  interrelati,  permette  al  Nolano  di  saldare  il  legame  tra 
letteratura  e  filosofia,  consentendogli  così  di  chiudere  a  Londra,  con  i 
Furori,  quel  cerchio  che  aveva  già  iniziato  a  tracciare  a  Parigi  con  il 
Candelaio.  Un  itinerario,  questo  della  «nolana  filosofia»,  che  sin  dal- 
l'inizio si  apre  all'insegna  dell'originalità.  Di  un'originalità  che  assume 
particolare  rilievo  soprattutto  in  questa  sua  ultima  opera  in  volgare, 
in  cui  è  detto  in  maniera  esplicita  che  essa  «più  riluce  d'invenzione 
che  d'imitazione  »^*l  Qui  Bruno  allude  a  un  preciso  dibattito  teorico, 
su  cui  ci  soffermeremo  più  avanti  in  un  paragrafo  dedicato  alle  que- 
stioni di  poetica.  Per  il  momento,  rimane  evidente  la  programmatica 
consapevolezza  di  muoversi  sul  piano  dell'» invenzione»  e  non  su 
quello  deir« imitazione».  Di  compiere,  insomma,  un'operazione  sostan- 
zialmente eversiva.  Lo  abbiamo  in  parte  già  visto,  ma  lo  vedremo  an- 
cora meglio  tra  poco. 

Sì  è  vero:  i  Furori  prendono  le  distanze  dal  petrarchismo  cinque- 
centesco^**'. Ed  è  anche  vero  che  nella  sua  esperienza  di  scrittura 


378.  Su  questa  tipologia  di  commento  cfr.  Michel  Jeanneret,  Préface, 
commentaires  et  programmation  de  la  lecture.  L'exemple  des  Métamorphoses,  Ibi- 
dem, pp.  31-39. 

379.  In  questo  scambio  di  battute  tra  Cicada  e  Tansillo,  posto  in  chiusura 
dell'ultimo  dialogo  della  prima  parte,  la  ricerca  del  senso  resta  sospesa  e  affi- 
data al  lettore:  «Tansillo.  [...]  Questo  mi  par  più  presto  enigma  che  altro,  però 
non  mi  confido  d'esplicarlo  a  fatto  [...].  Ma  questo  mi  par  che  richieda  più 
lunga  e  distinta  considerazione.  Cicada.  Un'altra  volta.  Leggete  la  rima  [seguo- 
no i  versi].  Andiamone,  perché  per  il  camino  vedremo  di  snodar  questo  intrico, 
se  si  può.  Tansillo.  Bene»  (Furori,  pp.  640-641).  Su  questo  passaggio  cfr.  Ma- 
ria Pia  Ellero,  Allegorie,  modelli  formali  e  modelli  tematici  negli  Eroici  furori  di 
Giordano  Bruno,  in  «La  Rassegna  della  letteratura  italiana»,  XCVIII  (1994),  p. 
43,  nota  IO. 

380.  Furori,  p.  527. 

381.  Per  un'ampia  rassegna  degli  studi  sulla  lirica  cinquecentesca  si  veda; 
Giorgio  Forni,  Rassegna  di  studi  sulla  lirica  del  Cinquecento  (igSg-iggg).  Dal 
Bembo  al  Casa,  in  «Lettere  italiane»,  LII  (2000),  pp.  100-140;  Id.,  Rassegna  di 
studi  sulla  lirica  del  Cinquecento  (ig8g-2000).  Dal  Tansillo  al  Tasso,  in  «Lettere 


INTRODUZIONE  127 

Bruno  attinge  al  variegato  fonte  dell'antipetrarchismo,  sotto  la  cui  eti- 
chetta convivono  autori  e  percorsi  letterari  estremamente  eteroge- 
nei'**2.  Ma  in  entrambi  i  casi  -  e  questo  è  un  punto  di  fondamentale 
importanza  -  la  poesia  rimane  sacrificata  all'interno  di  un  orizzonte 
esclusivamente  letterario.  L'esperienza  poetica  resta  imbrigliata  nelle 
maglie  di  un  gioco,  in  cui  modelli  e  antimodelli  si  avvitano  su  se 
stessi,  mostrando  apertamente  come  gli  opposti  possano  rivelarsi  com- 
plementari. Certo,  al  Nolano  non  sfuggono  le  trasgressioni  che  ven- 
gono operate  da  autori  a  lui  molto  cari  sul  piano  della  lingua,  della 
metrica  e  in  taluni  casi,  molto  più  rari,  sul  piano  dei  contenuti.  Tutto 
ciò  però  non  basta  per  coniugare  assieme  poesia  e  vita,  letteratura  e 
filosofia. 

Un'opera  di  filosofia,  non  di  teologia 

In  questo  senso,  Bruno  ha  coscienza  di  intraprendere  un'avventura 
straordinaria.  Ne  conosce  perfettamente  i  rischi.  Sa  che  liberare  la  poe- 
sia d'amore  dalle  sterili  griglie  del  petrarchismo  non  serve  a  nulla 
senza  disfarsi,  nello  stesso  tempo,  di  una  tradizione  fondata  su  astratti 
misticismi,  su  fantomatiche  «unioni»  ultraterrene  tra  l'uomo  e  la  di- 
vinità, su  ridicole  promesse  (indipendenti  dai  meriti  individuali)  di 
una  «felicità»  e  di  una  «perfezione»  raggiungibili  solo  in  un'altra  vita 
soprannaturale.  In  effetti,  anche  in  un  ambito  più  specificamente  filo- 
sofico il  Nolano  compie  un'operazione  di  «riscrittura»  di  temi  plato- 


italiane»,  LUI  (2001),  pp.  422-461.  Benché  in  alcuni  di  questi  recenti  saggi  si 
mostrino  prospettive  che  in  parte  complicano  la  visione  di  un  petrarchismo 
«compatto  ed  univoco»,  non  mi  sembra  però  che  le  singole  esperienze  di  qual- 
che autore  abbiano  lasciato  tracce  forti  di  questi  presunti  «scarti»  innovativi. 
In  fondo,  il  giudizio  di  Bruno,  indipendentemente  da  qualche  isolato  «speri- 
mentalismo», si  pone  come  un  prezioso  punto  di  vista  sull'uso  cortigiano  e 
mondano  di  questo  tipo  di  poesia.  Del  resto,  come  nota  con  finezza  Marco 
Ariani,  anche  la  versione  più  estremistica  del  petrarchismo  manierista  è  in- 
scritta «all'interno  dell'ars  combinatoria  escogitata  dal  Bembo»,  perché  «la 
"maniera"  è  implicita  nel  ludus  imitativo  stesso,  un  gioco  tendenzialmente 
autoreferenziale,  indifferente,  cioè,  ad  una  vera  responsabilità  semantica  che 
non  sia  il  meccanismo,  spesso  meramente  automatico,  dell'aggregazione  e  inca- 
stro di  tessere  e  formule  date»  {Antologia  della  poesia  italiana.  Il  Cinquecento  cit., 
p.  210). 

382.  Su  questi  temi  restano  ancora  un  importante  punto  di  riferimento  i 
saggi  di  Giorgio  Barberi  Squarotti:  L'esperienza  stilistica  del  Bruno  fra  Rina- 
scimento e  Barocco,  in  La  critica  stilistica  e  il  barocco  letterario.  Atti  del  secondo 
congresso  di  studi  italiani,  Firenze,  Le  Monnier,  1958,  pp.  154-169;  Bruno  e  Fo- 
lengo, in  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana»,  CXXXV  (1958),  pp.  51-60; 
Alcuni  temi  di  un  saggio  su  Giordano  Bruno,  in  «Il  Verri»,  II  (1958),  pp.  92-98; 
Parodia  e  pensiero:  Giordano  Bruno,  Milano,  Greco  &  Greco  Editori,  1997. 


128  INTRODUZIONE 

nici  e  neoplatonici:  si  serve,  tra  l'altro,  del  lessico  ficiniano'^'  -  in  cui 
non  mancano  echi  diretti  di  Plotino,  dello  pseudo  Dionigi  l'Areopa- 
gita,  di  Proclo,  di  Giamblico  -  piegandolo  però  al  suo  particolare  iti- 
nerario gnoseologico,  completamente  immerso  nello  sforzo  naturale 
che  il  filosofo  compie  verso  la  sapientia^^.  Lo  stesso  discorso  potrebbe 
valere  anche  per  le  allusioni  all'immaginario  erotico  della  tradizione 
cabalistica,  filtrato  attraverso  la  mediazione  dei  Dialoghi  d'amore  di 
Leone  Ebreo  ^*'. 

Ma  la  singolare  esperienza  dei  Furori  potrebbe  essere  soprattutto 
accostata  alVHypnerotomachia  Poliphili  di  Francesco  Colonna  (1499). 
Due  testi  molto  diversi  e  lontani  nel  tempo,  è  vero.  Eppure,  al  di  là  di 
tutte  le  differenze  possibili,  una  lettura  attenta  delle  due  opere  po- 
trebbe individuare  una  serie  di  legami  concettuali  a  partire  proprio  da 
una  sorprendente  «coincidenza»:  la  venatio  sapientiae,  nel  simbolico 
viaggio  che  Polifilo  compie  verso  l'unione  con  Polla  («diva  um- 
bra»)^*^  si  realizza  solo  e  soltanto  all'interno  della  «parente  natu- 
ra»^*''. La  visio  in  somniis  del  protagonista  non  avviene,  come  potrebbe 
apparire  in  un  primo  momento,  all'interno  di  un'esperienza  irrazio- 
nale, ma  si  concretizza  in  un  esercizio  razionale,  in  cui  Ragione  e  Vo- 


383.  Sull'uso,  anche  polemico,  che  Bruno  fa  di  Ficino  si  vedano:  Alfonso 
Ingegno,  H  primo  Bruno  e  l'influenza  di  Marsilio  Ficino,  in  «Rivista  critica  di 
storia  della  filosofia»,  23  (1968),  pp.  149-170;  Rita  Sturlese.  Le  fonti  del  Sigil- 
lus  sigillorum  del  Bruno,  ossia:  il  confronto  con  Ficino  a  Oxford  sull'anima 
umana,  in  «Nouvelle  de  la  République  des  Lettres»,  12  (1993),  pp.  89-167;  Mi- 
guel Angel  Granada,  Digges,  Bruno  e  il  copernicanesimo  in  Inghilterra,  in 
Giordano  Bruno  1583-1585.  The  English  Experience  /  L'esperienza  inglese.  Atti  del 
convegno  (Londra,  3-4  giugno  1994),  a  cura  di  Michele  Ciliberto  e  Nicholas 
Mann,  Firenze,  Olschki,  1997,  pp.  140-154. 

384.  Su  questo  aspetto  insiste  giustamente  Giovanni  Aquilecchia,  Gior- 
dano Bruno  cit,  pp.  54-55. 

385.  Sul  rapporto  Bruno-Leone  Ebreo  sono  importanti  le  osservazioni  di 
Giovanni  Aquilecchia,  Bruno  e  Leone  Ebreo,  in  Giordano  Bruno  nella  cultura 
del  suo  tempo.  Atti  del  convegno  di  Urbino  e  San  Leo  (22-23  settembre  2000),  a 
cura  di  Alfonso  Ingegno  e  Amalia  Perfetti,  in  corso  di  stampa.  Pieni  di  inge- 
nuità e  di  errori  interpretativi  sono  gli  interventi  di  David  Harari,  Leon  l'Hé- 
breux  et  Giordano  Bruno:  leurs  rapports:  solution  des  enigmes,  in  «Revue  des  Étu- 
des  juives»,  CL  (1991),  pp.  305-316  (ma  cfr.  anche  Id.,  Le  tracce  del  quarto  dia- 
logo smarrito  di  Leone  Ebreo  negli  «Eroici  furori»  di  Giordano  Bruno,  in  Italia. 
Studi  e  ricerche  sulla  storia,  la  cultura  e  la  letteratura  degli  ebrei  d'Italia.  VII,  1-2, 
Gerusalemme,  1988,  pp.  93-155)-  Per  un'analisi  approfondita  dell'opera  di 
Leone  Ebreo  rinviamo  a  Marco  .Ari.^ni,  Imago  fabulosa.  Mito  e  allegoria  nei 
«Dialoghi  d'amore»  di  Leone  Ebreo.  Roma,  Bulzoni,  1984. 

386.  Francesco  Colonna,  Hypnerotomachia  Poliphili,  Riproduzione  del- 
l'edizione aldina  del  1499,  introduzione,  traduzione  e  commento  di  Marco 
Ariani  e  Mino  Gabriele,  Milano,  Adelphi,  1998,  p.  465. 

387.  Ibidem,  p.  341.  Su  questo  tema  ha  scritto  pagine  importanti  Marco 
Ariani  nella  sua  introduzione:  cfr  II  sogno  filosofico,  pp.  XXXI-LXI  (p.  XLI  in 
particolare). 


INTRODUZIONE  I29 

lontà  giocano  un  ruolo  importante'^*.  Si  tratta  di  una  philosophia  Ve- 
neris  -  intrisa  di  neoplatonismo  quattrocentesco,  di  materialismo  lu- 
creziano,  di  precetti  fondati  sulla  medietas  aristotelico-ciceroniana  - 
che  si  concretizza  esclusivamente  nella  copulatio  con  la  Natura  Geni- 
trice, in  un  orizzonte  naturale  che  esclude  l'Uno  Ineffabile '*''.  Una  pai- 
deia,  quindi,  interamente  costruita  su  un  indissolubile  intreccio  di  ar- 
chitetture verbali  e  iconografiche,  di  neologismi  linguistici  e  visivi,  di 
sperimentalismi  che  pervadono  ogni  elemento  del  testo,  sia  su  un 
piano  estetico  sia  su  un  piano  specificamente  filosofico ''". 

Invenzione  linguistica  e  immaginazione  creatrice  sono  anche  alla 
base  dei  meccanismi  che  animano  i  Furori.  Così  come  il  sincreti- 
smo assume  un'importanza  capitale  in  un  «canzoniere»  in  cui  ven- 
gono sapientemente  combinati  modelli  sacri  e  profani,  miti  della 
tradizione  pagana  e  immagini  della  tradizione  cristiana,  linguaggi 
e  motivi  dell'ermetismo  e  della  cabala'"''.  Allusioni   al   Cantico  dei 


388.  Per  una  parte  del  suo  viaggio,  Polifilo  sarà  accompagnato  dalle  ninfe 
Logistica  e  Telemia,  cioè  Ragione  e  Volontà:  Francesco  Colonna,  Hypneroto- 
machia  Poliphili  cit.,  p.  122  (cfr.  l'introduzione  di  Mino  Gabriele,  Il  viaggio 
dell'animo  cit.,  p.  XV). 

389.  Cfr.  l'introduzione  di  Marco  Ariani,  Il  sogno  filosofico  cit,  p.  XXXVII. 

390.  Su  questo  aspetto  cfr.  l'introduzione  di  Mino  Gabriele,  //  viaggio  del- 
l'animo cit,  pp.  XXVII-XXIX  (ma  si  veda  anche  Io.,  La  grande  construction 
pyramidale  de  r« Hypnerotomachia  Poliphili»:  reconstruction  et  confrontation  des 
dimensions  architecturales,  in  Le  livre  illustre  italien  au  XVF  siede.  Texte/Image, 
sous  la  direction  de  Michel  Plaisance,  Paris,  Klincksieck,  1999,  pp.  39-50). 

391.  In  un  passaggio  del  De  umbris  idearum  Bruno,  mettendo  in  discus- 
sione la  nozione  assoluta  di  audoritas,  mostra  che  nel  diffìcile  cammino  per  la 
conquista  del  sapere  ci  si  deve  avvalere  di  diverse  filosofie:  «Non  enim  reperi- 
mus  unum  artificem  qui  omnia  uni  necessaria  proferat  Non  idem,  inquam, 
galeam,  scuthum,  ensem,  hastilia,  vexilla,  timpanum,  tubam,  caeteraque  om- 
nia militis  armamenta  conflabit,  atque  periìciet  Ita  maiora,  aliarum  inventio- 
num  tentantibus  opera  non  solius  Aristotelis  Platonisque  solius  officina  suffi- 
ciet.  Quandoque  etiam  -  ipsumque  raro  —  si  non  consuetis  uti  videbimur  ter- 
minis,  illud  ideo  est  quia  non  consuetas  per  eos  explicare  cupimus  intentiones. 
Per  universum  autem  diversis  variorum  philosophorum  studiis  utimur,  quate- 
nus  melius  propositum  inventionis  nostrae  insinuemus»  [«Non  troviamo  in- 
fatti un  unico  artigiano  che  procura  tutto  quanto  è  necessario  ad  un'unica  arte. 
Voglio  dire,  non  è  lo  stesso  artigiano  che  fonde  e  forgia  l'elmo,  lo  scudo,  la 
spada,  le  aste,  i  vessilli,  il  tamburo,  la  tromba  e  tutti  gli  altri  armamenti  del 
soldato.  Ugualmente  anche  a  quanti  cercano  di  compiere  opere  maggiori  muo- 
vendo da  ritrovati  originali  non  sarà  sufficiente  l'officina  del  solo  Platone  o  del 
solo  Aristotele:  se  poi  noi  sembriamo  usare  (anche  se  ciò  accade  raramente)  dei 
termini  non  consueti,  certamente  lo  facciamo  perché  con  essi  vogliamo  espri- 
mere dei  contenuti  non  consueti.  Generalmente  invece  ricorriamo  ai  diversi 
studi  dei  vari  filosofi  per  quanto  ci  serve  a  rendere  più  comprensibile  il  pro- 
posito del  nostro  ritrovato»]:  Giordano  Bruno,  De  umbris  idearum,  ed.  Stur- 
lese,  cit.,  p.  23;  trad.  it:  ID.,  Le  ombre  delle  idee.  Il  canto  di  Circe,  Il  sigillo  dei 
sigilli,  introduzione  di  Michele  Ciliberto,  traduzione  e  note  di  Nicoletta  Tirin- 
nanzi,  Milano,  Rizzoli,  1997,  p.  57. 


130  INTRODUZIONE 

CanticP"^^,  a  Platone,  a  Lucrezio,  ad  Averroè,  al  neoplatonismo,  a  Fi- 
cino,  alle  correnti  mistiche  e  cabalistiche:  ma  tutto  ciò  all'interno  di 
un  disegno  che  riconduce  l'esperienza  del  furioso  in  un  ambito  «natu- 
rale» e  razionale,  in  perfetta  sintonia  con  l'itinerario  della  «nolana  fi- 
losofia» tracciato  nei  precedenti  dialoghi.  Bruno  si  serve  di  un  lessico 
iconologico  e  verbale  diffuso,  consolidato,  nella  consapevolezza  di  po- 
terlo dominare  e  piegare  alla  sua  Weltanschauung.  Sa,  insomma,  di 
compiere  una  difficile  navigazione  tra  Scilla  e  Cariddi,  tra  le  insidie  di 
una  poesia  convenzionale  e  i  pericoli  di  una  falsa  teologia,  tra  le  am- 
biguità di  una  letteratura  mondanizzata  e  l'irrazionalità  di  una  mi- 
stica ultraterrena. 

Basta  rileggere  alcuni  avvertimenti  per  cogliere  fino  in  fondo  la  ne- 
cessità di  fare  chiarezza.  Sin  dall'inizio  si  ribadisce  che  «questi  furori 
eroici  ottegnono  suggetto  et  oggetto  eroico»,  che  non  si  occupano  quin- 
di «d'amori  volgari  e  naturaleschi»'"-'^.  Sarebbe,  infatti,  «vituperoso» 
dedicare  «molto  pensiero,  studio  e  fatica»  ad  imitare  quei  poeti  che 
hanno  cantato  lodi  alle  donne  "■^.  E  non  perché  tra  queste  non  ve  ne 
fossero  degne  di  riceverle  («qua  [non]  voglio  che  sia  tassata  la  dignità  di 
quelle  che  son  state  e  sono  degnamente  lodate  e  lodabili»)  -  come  te- 
stimoniano in  verità  le  dame  che  abitano  «particolarmente  in  questo 
paese  Britannico,  a  cui  doviamo  la  fideltà  et  amore  ospitale  »'95  _  ma 


392.  Bruno,  in  un  primo  momento,  avrebbe  voluto  intitolare  Cantica  i  suoi 
Furori:  «Però  per  liberare  tutti  da  tal  suspizione,  avevo  pensato  prima  di  donar 
a  questo  libro  un  titolo  simile  a  quello  di  Salomone,  il  quale  sotto  la  scorza 
d'amori  et  affetti  ordinarii,  contiene  similmente  divini  et  eroici  furori,  come 
interpretano  gli  mistici  e  cabalisti  dottori:  volevo  (per  dirla)  chiamarlo  Cantica. 
Ma  per  più  caggioni  mi  sono  astenuto  al  fine»  (pp.  494-495).  Sul  carattere  alle- 
gorico di  questo  passaggio  e  dell'intera  struttura  dei  Furori  cfr.  Miguel  Angel 
Granada,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Les  fureurs  héroiques  cit,  pp.  LIX- 
LXII. 

393.  Furori,  pp.  493-494. 

394.  Ibidem,  p.  497. 

395.  Qui  Bnmo,  nel  lodare  le  dame  inglesi,  elogia  in  particolar  modo  la 
regina  Elisabetta,  considerata  come  «unica  Diana»:  «Or  (perché  non  si  faccia 
errore)  qua  [non]  voglio  che  sia  tassata  la  dignità  di  quelle  che  son  state  e  sono 
degnamente  lodate  e  lodabili:  non  quelle  che  possono  essere  e  sono  particolar- 
mente in  questo  paese  Britannico,  a  cui  doviamo  la  fideltà  et  amore  ospitale: 
perché  dove  si  biasimasse  tutto  l'orbe,  non  si  biasima  questo  che  in  tal  propo- 
sito non  è  orbe,  né  parte  d'orbe:  ma  diviso  da  quello  in  tutto,  come  sapete; 
dove  si  raggionasse  de  tutto  il  sesso  femenile,  non  si  deve  né  può  intendere  de 
alcune  vostre,  che  non  denno  esser  stimate  parte  di  quel  sesso:  perché  non  son 
temine,  non  son  donne:  ma  (in  similitudine  di  quelle)  son  nimfe,  son  dive,  son 
di  sustanza  celeste;  tra  le  quali  è  lecito  di  contemplar  quell'unica  Diana,  che  in 
questo  numero  e  proposito  non  voglio  nominare»  (Ibidem,  p.  499).  Sul  tema 
delle  donne  in  Bruno  si  veda  Giovanni  Aquilecchia,  Appunti  su  Giordano 
Bruno  e  le  donne,  in  Donne,  filosofia  e  cultura  nel  Seicento,  a  cura  di  Pina  Todaro, 
Roma,  Consiglio  Nazionale  delle  Ricerche,  1999,  pp.  37-49. 


INTRODUZIONE  I3I 

solo  per  evidenziare  che  qui  la  relazione  amorosa  non  si  identifica  con 
quella  intrecciata  naturalmente  tra  uomini  e  donne. 

Questo  non  significa  però  che  si  tratti  di  amori  mistici,  sopranna- 
turali. Al  contrario:  al  centro  dell'esperienza  poetica  e  gnoseologica  sta 
proprio  lo  sforzo,  tutto  umano,  del  furioso.  In  questo  percorso,  che  si 
caratterizza  per  la  sua  straordinaria  eccezionalità,  è  possibile  rintrac- 
ciare l'esperienza  solitaria  di  chi  vuole  disperatamente  abbracciare  la 
conoscenza  nella  sua  totalità.  L'amore  per  il  sapere  alimenta  questa 
quète  infinita,  questo  inesauribile  bisogno  di  possedere  ciò  che  mai  po- 
tremo possedere  nella  sua  interezza.  Solo  in  questo  senso  è  possibile 
parlare  di  un  itinerario  «sovrumano»  ed  «eroico»,  di  una  tensione  as- 
soluta verso  un  inafferrabile  oggetto  del  desiderio.  Perché  l'amante,  nel 
tentativo  di  avvicinarsi  all'amata,  è  pronto  a  compiere  il  sacrificio 
estremo,  a  disperdere  tutte  le  sue  forze  nell'intento  di  conquistare  ciò 
che  non  potrà  mai  conquistare. 

Niente  confusione,  dunque.  I  Furori  si  occupano  di  filosofia,  non  di 
teologia '^6.  Bruno  lo  ribadisce  più  volte  nel  corso  dell'opera  Ne  parla 
in  prima  persona  neir« Argomento»,  quando  spiega  che  il  suo  discorso 
è  solo  «naturale  e  fisico» '^~,  e  non  manca  di  sottolinearlo  ancora  una 
volta  attraverso  le  parole  di  Maricondo  («Sappiamo  che  non  fate  il 
teologo  ma  filosofo  e  che  trattate  filosofia  non  teologia»),  immediata- 
mente confermate  dallo  stesso  Cesarino  («Cossi  è»)'''^.  In  fondo,  questi 
passaggi  ribadiscono  princìpi  che  sin  dalla  Cena  si  erano  configurati 
come  un  punto  fermo  della  «nolana  filosofia»:  da  una  parte,  quindi, 
«gli  teologi  e  color  che  versano  su  le  leggi  et  instituzioni  de  popoli», 
dall'altra  parte  i  filosofi  che  «parlano  secondo  la  raggion  naturale»''*''. 

Alla  luce  di  queste  premesse,  sarà  più  facile  seguire  alcune  vicende 
principali  deir« amorosa  milizia»  del  furioso,  del  suo  straordinario 
percorso  verso  la  «somma  felicità»  che  può  compiersi,  come  suggerito 
da  Averroè,  solo  nel  raggiungimento  della  «perfezzione  per  le  scienze 
speculative  «'•"o. 


396.  Qui  teologia  assume  il  significato  di  «teologia  soprannaturale»,  scienza 
«pratica»,  che  desume  i  suoi  princìpi  dalla  rivelazione  e  si  pone  come  guida 
dei  fedeli  invitandoli  ad  agire  per  la  loro  salvezza.  Ben  altra  cosa  è  la  teologia 
nel  senso  aristotelico  di  metafisica. 

397.  Furori  p.  495- 

398.  Ibidem,  p.  646.  Ma  anche  nel  dialogo  terzo  della  seconda  parte  si  fa 
riferimento  al  fatto  che  sotto  «queste  sentenze  la  filosofia  naturale  ed  etica  [...] 
vi  sta  occolta»:  Ibidem,  p.  708. 

399.  Ibidem,  p.  514. 

400.  Ibidem,  p.  567.  Bruno  nel  processo  di  ascensione  verso  la  «divinità» 
combina  nei  Furori  temi  del  platonismo  e  dell'averroismo,  senza  risparmiare 
però  critiche  alle  posizioni  cosmologiche  espresse  dai  due  filosofi:  cfr.  Miguel 


132  INTRODUZIONE  _ 

1 

/  «furori»  come  «impeto  razionale» 

Ma  in  cosa  consistono  questi  «furori»?  Nel  rispondere  alla  do- 
manda. Bruno  sgombra  ancora  una  volta  il  campo  da  qualsiasi  ambi- 
guità: si  tratta  esclusivamente  di  un  «impeto  razionale»,  di  un  pro- 
cesso che  riguarda  «l'apprension  intellettuale »-'°'.  Niente  a  che  fare, 
dunque,  con  «ferine  affezzioni»  o  comportamenti  irrazionali ""o^:  «Que- 
sti furori  de  quali  noi  raggioniamo,  e  che  veggiamo  messi  in  execu- 
zione  in  queste  sentenze,  non  son  oblio,  ma  una  memoria;  non  son 
negligenze  di  se  stesso,  ma  amori  e  brame  del  bello  e  buono  con  cui  si 
procure  farsi  perfetto  con  transformarsi  et  assomigliarsi  a  quello  »-*°'. 

La  distinzione  si  rende  necessaria.  Non  esiste,  infatti,  un  solo  tipo 
di  «furore».  Abbiamo  i  furori  che  manifestano  una  certa  «cecità,  stu- 
pidità et  impeto  irrazionale,  che  tende  al  ferino  insensato».  E  abbiamo 
furori  che  consistono  «in  certa  divina  abstrazzione  per  cui  dovegnono 
alcuni  megliori  in  fatto  che  uomini  ordinarii».  Ma  tra  questi  furori 
«positivi»,  Bruno  pone  ancora  una  radicale  differenza; 

E  questi  sono  de  due  specie  perché:  altri  per  essemo  fatti  stanza  de  dèi 
o  spiriti  divini,  dicono  et  operano  cose  mirabile  senza  che  di  quelle  essi 
o  altri  intendano  la  raggione;  e  tali  per  l'ordinario  sono  promossi  a 
questo  da  l'esser  stati  prima  indisciplinati  et  ignoranti,  nelli  quali  come 
vóti  di  proprio  spirito  e  senso,  come  in  una  stanza  purgata,  s'intrude  il 
senso  e  spirto  divino;  il  qual  meno  può  aver  luogo  e  mostrarsi  in  quei 
che  son  colmi  de  propria  raggione  e  senso,  perché  tal  volta  vuole  ch'il 
mondo  sappia  certo  che  se  quei  non  parlano  per  proprio  studio  et 
esperienza  come  è  manifesto,  seguite  che  parlino  et  oprino  per  intelligenza 
superiore  [...].  Altri,  per  essere  avezzi  o  abili  alla  contemplazione,  e  per 
aver  innato  un  spirito  lucido  et  intellettuale,  da  uno  intemo  stimolo  e 
fervor  naturale  suscitato  da  l'amor  della  divinitate,  della  giustizia,  della 
veritade,  della  gloria,  dal  fuoco  del  desio  e  soffio  dell'intenzione  acuiscono 
gli  sensi,  e  nel  solfro  della  cogitativa  facultade  accendono  il  lume  razio- 
nale con  cui  veggono  più  che  ordinariamente:  e  questi  non  vegnono  al  fine 


Angel  Granada,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Les  fureurs  héroiques  cit, 
pp.  LXXIII-XC  (ma  anche  Id.,  «Essere  spogliato  dall'umana  perfezione  e  giusti- 
zia». Nueva  evidencia  de  la  presencia  de  Averroes  en  la  obra  y  en  el  proceso  de 
Giordano  Bruno  cit).  Si  veda  inoltre  l'importante  saggio  di  Rita  Sturlese, 
«Averroe  quanlumque  arabo  et  ignorante  di  lingua  greca...».  Note  sull'averroismo  di 
Giordano  Bruno,  in  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  71  (1992),  pp.  248- 
275.  Sulla  concezione  averroista  del  sapere  cfr.  Luca  Bianchi,  Filosofi,  uomini  e 
bruti.  Note  per  una  antropologia  averroista,  in  «Rinascimento»,  32,  1992,  pp.  185- 
201  e  Alain  De  Libera,  La  philosophie  medievale,  Paris,  Puf,  1993,  pp.  161-183; 
trad.  it  Bologna,  il  Mulino,  1999. 

401.  Furori,  p.  556. 

402.  Ibidem. 

403.  Ibidem,  pp.  555-556. 


INTRODUZIONE  I33 

a  parlar  et  operar  come  vasi  et  instrumenti,  ma  come  principali  artefici  et 
efficienti-"". 

I  Furori,  insomma,  non  si  occupano  di  uomini  ignoranti  che  sono 
toccati  dalla  divinità  proprio  perché  non  parlano  «per  proprio  studio 
et  esperienza».  Questi  «prescelti»  finiscono  per  essere  considerati  «co- 
me l'asino  che  porta  li  sacramenti»""^',  come  puri  veicoli  di  una  parola 
e  di  un'esperienza  che  non  gli  appartiene.  In  questo  dialogo,  invece, 
Bruno  ci  parla  di  quel  furioso  in  cui  «si  considera  e  vede  l'eccellenza 
della  propria  umanitade»''"^.  Nessuna  «divinità»  dall'esterno  lo  elegge, 
prendendolo  per  mano.  Ma  guidato  dai  propri  «sensi»,  dalla  «cogitati- 
va facultade»,  dal  suo  «lume  razionale»,  dall'amore  infinito  per  la  co- 
noscenza può  egli  stesso  elevarsi  alla  «divinità»,  può  egli  stesso  com- 
piere un  percorso  eccezionale,  raro,  eroico,  capace  di  liberarlo  dalle 
catene  della  condizione  umana,  dai  vincoli  della  finitudine,  per  proiet- 
tarlo in  un  abbraccio  filosofico  con  l'universo  infinito. 

L'energia  che  muove  questa  quète,  che  tiene  viva  la  passione  del 
furioso,  è  determinata  dall'Amore,  i  cui  effetti  non  producono  gli  stessi 
risultati  in  tutti  coloro  che  si  infiammano.  Il  «Putto  irrazionale», 
come  spiega  Tansillo,  non  è  definito  così  perché  «egli  per  sé  sia  tale», 
ma  perché  alcuni  non  sono  in  grado  di  riceverne  le  fiamme  in  posi- 
tivo. Per  l'animo  «intellettuale  e  speculativo»,  questa  spinta  straordi- 
naria «inalza  più  l'ingegno  e  più  purifica  l'intelletto  facendolo  sve- 
gliato, studioso  e  circonspetto,  promuovendolo  ad  un'animositate 
eroica  et  emulazion  di  virtudi  e  grandezza:  per  il  desio  di  piacere  e 
farsi  degno  della  cosa  amata».  Nella  maggior  parte  dei  casi,  invece, 
l'Amore,  nell'incontro  con  l'uomo  comune,  finisce  per  renderlo  «pazzo 
e  stolto»,  facendolo  «uscir  de  proprii  sentimenti »''°^. 

L'infinito  desiderio  dell'infinito 

Avremo,  quindi,  furori  «divini»  e  furori  «bestiali»,  amori  «raziona- 
li» e  amori  «ferini».  Naturalmente  non  si  tratta  di  concetti  che  pos- 


404.  Ibidem,  pp.  554-555- 

405.  Ibidem,  p.  555.  Sull'immagine  deìVAsinus  portans  mysteria  -  usata  da 
Aristofane,  Alciato,  Agrippa  di  Nettesheim,  Erasmo,  Spenser  —  si  veda  N.  Or- 
dine, La  cabala  dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit.,  p.  86.  Qui 
Bruno  allude,  in  sintonia  con  l'emblema  di  Alciato  Non  Ubi,  sed  religioni,  al 
povero  asino  che,  trasportando  la  statua  di  Iside,  credeva  che  al  suo  passaggio 
la  gente  rendesse  omaggio  a  lui  e  non  alla  divinità  (cfr.  André  Alciat,  Les 
Emblèmes,  fac-simile  de  l'édition  lyonnaise  Macé-Bonhomme  de  1551,  pré- 
face  de  Pierre  Laurens,  table  de  concordance  de  Florence  Vuilleumier,  Paris, 
Klincksieck,  1997,  p.  13). 

406.  Furori,  p.  555. 

407.  Ibidem,  p.  537. 


134  INTRODUZIONE 

sono  essere  assolutizzati.  Prendiamo  la  delicata  questione  deir«appa- 
gamento»,  del  possesso  di  qualcosa  che  sia  in  grado  di  spegnere  defi- 
nitivamente il  nostro  desiderio:  per  il  furioso  chi  «s'appaga  del  stato 
suo»  è  un  «insensato  e  stolto» 4°^,  mentre  per  la  «moltitudine  igno- 
rante» sarà  l'irrefrenabile  corsa  del  solitario  furioso  a  destare  sospetti 
di  follia.  In  effetti,  l'uomo  eroico  vive  continuamente  «nell'eccesso 
delle  contrarietadi»,  ha  «l'anima  discordevole»:  «triema  nelle  gelate 
speranze,  arde  negli  cuocenti  desiri;  è  per  l'avidità  stridolo,  mutolo  per 
il  timore;  sfavilla  dal  core  per  cura  d'altrui,  e  per  compassion  di  sé 
versa  lacrime  da  gli  occhi;  muore  ne  l'altrui  risa,  vive  ne'  proprii  la- 
menti; e  (come  qualcuno  che  non  è  più  suo)  altri  ama,  odia  se  stes- 
so»''''^. Chi  si  avvia  a  compiere  questa  straordinaria  esperienza,  sa  sin 
dall'inizio  che  il  suo  amore  per  l'oggetto  del  desiderio  non  si  estin- 
guerà mai.  Anzi:  tanto  più  si  pratica  l'inseguimento,  tanto  più  ci  si 
infiamma,  perché  si  tratta  di  un  amore  «che  più  accende,  che  possa 
appagar  il  desio  »'''°. 

Con  questa  immagine  dell'inappagabilità  del  furioso-"'.  Bruno  de- 


408.  Ibidem,  p.  543. 

409.  Ibidem,  pp.  547-548. 

410.  Ibidem,  p.  566. 

411.  In  un  bellissimo  passaggio  del  De  immenso  Bruno  pone  su  un  piano  di 
contiguità  l'insoddisfazione  dell'uomo  nella  ricerca  della  verità  e  l'insoddisfa- 
zione della  materia  nella  ricerca  di  nuove  forme:  «Quoties  enim  aliquam  supe- 
resse  noscendam  veritatem,  et  quandiu  aliquod  superesse  bonum  comparan- 
dum  judicamus,  aliam  semper  inquirimus,  aliud  semper  appetimus.  Non  igitur 
in  veritate  terminum  habente,  et  in  bono  finibus  incluso,  inquisitionis  et  expe- 
tentiae  finis  erit.  Insitus  appetitus  est,  ut  omnia  fiant,  singulis  et  unicuique: 
appetit  semper  esse  quidquid  aliquando  est;  ubique  videre,  quidquid  alicubi 
videt;  universaliter  habere,  quidquid  singulariter  habet;  toto  frui  qui  parte 
fruitur,  omnibus  dominari  tanquam  etiam  possit,  hoc  etiam  quod  omnibus 
subjicitur  appetit;  et  consequutis  non  est  contentum,  ubi  aliquid  ulterius  re- 
manserit  assequendum.  Sic  materia  particularis,  sive  corporea,  sive  incorporea 
ipsa  sit,  expletur  nunquam,  et  consequutis  ab  aetemo  particularibus  formis,  in 
aetemum  nihilominus  consequendas  concupiscens,  non  est  contenta»  [«Ogni 
volta,  infatti,  in  cui  riteniamo  che  rimanga  una  qualche  verità  da  conoscere  e 
un  qualche  bene  da  raggiungere,  noi  sempre  ricerchiamo  un'altra  verità  ed 
aspiriamo  ad  un  altro  bene.  Insomma,  l'indagine  e  la  ricerca  non  si  appaghe- 
ranno nel  conseguimento  di  una  verità  limitata  e  di  un  bene  definito.  E  con- 
naturato in  tutti  gli  uomini  ed  in  ciascuno  il  desiderio  di  abbracciare  la  tota- 
lità: ogni  uomo  desidera  che  sia  sempre  ciò  che  è  talvolta;  vedere  ovunque  ciò 
che  vede  soltanto  in  qualche  luogo;  considerare  nella  sua  universalità  ciò  che 
gli  appare  invece  nella  sua  singolarità;  usufruire  totalmente  ciò  di  cui  usufrui- 
sce solo  in  parte.  Insomma,  convinto  di  riuscirvi,  cerca  di  dominare  anche 
quelle  cose  da  cui  è  dominato;  e  non  è  soddisfatto  dei  risultati  raggiunti, 
quando  si  presenti  ancora  qualcosa  da  poter  conseguire.  Nello  stesso  modo,  la 
materia  particolare,  sia  essa  corporea  o  incorporea,  non  assume  mai  una  strut- 
tura definitiva  e,  non  essendo,  paga  delle  forme  particolari  assunte  in  etemo, 
aspira  nondimeno  in  etemo  al  conseguimento  di  nuove  forme»]:  G.  Bruno, 
Opp.  lai.,  I/I,  pp.  203-204;  trad.  it  p.  420. 


INTRODUZIONE  135 

scrive  la  incommensurabile  sproporzione  che  si  crea  tra  un  essere  fi- 
nito e  un  sapere  infinito.  Riuscire  ad  abbracciare  ciò  che  cerchiamo 
non  significa  abbracciare  la  totalità:  chi  vive  in  questa  «milizia  amo- 
rosa» «vede  che  quel  tutto  che  possiede  è  cosa  misurata»,  che  «non 
può  essere  bastante  per  sé»,  perché  «non  è  l'universo «""i^.  Scopre,  in- 
somma, l'inafferrabilità  di  ciò  che  potrebbe  veramente  soddisfarlo  una 
volta  per  tutte.  Ha  coscienza  del  fatto  «che  non  è  cosa  naturale  né 
conveniente  che  l'infinito  sia  compreso»,  che  possa  «donarsi  finito: 
percioché  non  sarrebe  infinito».  È  persuaso,  infine,  che  sia  «convenien- 
te e  naturale  che  l'infinito  per  essere  infinito  sia  infinitamente  perse- 
guitato»"^". All'interno  di  questa  quète,  in  cui  concorrono  i  sensi  e  l'in- 
telletto, noi  desideriamo  anche  ciò  che  sfugge  alla  «potenza  sensitiva» 
e  che,  quindi,  siamo  costretti  a  vedere  con  gli  occhi  della  mente.  Il 
furioso,  insomma,  si  infiamma  non  solo  per  «le  cose  conosciute  e  vi- 
ste», ma  soprattutto  per  le  «cose  ignote  e  mai  viste»,  perché  queste 
ultime  «se  sono  occolte  quanto  all'esser  particulare,  non  sono  occolte 
quanto  a  l'esser  generale  »''^-^. 

Proprio  in  questo  straordinario  paradosso  si  concretizza  l'espe- 
rienza eroica  del  furioso.  Il  suo  percorso  sarà  segnato  dalla  dramma- 
tica convivenza  tra  la  consapevolezza  della  propria  finitudine  e  la  ne- 
cessità di  rifiutare  ogni  conoscenza  parziale.  In  questa  disperata  ed 
esaltante  ricerca  egli  consuma  la  sua  vita.  O  meglio:  dissipa,  senza  ri- 
guardo, ogni  energia  fisica  e  materiale  per  aprirsi  a  una  nuova  vita, 
tutta  immersa  in  una  dimensione  intellettuale.  Come  la  farfalla,  egli  è 
attratto  dalla  luce,  dalla  fiamma  che  può  togliergli  in  un  momento 
l'esistenza.  Ma  a  differenza  della  farfalla,  che  se  «prevedesse  la  sua 
mina»  farebbe  del  tutto  per  evitare  «di  perder  l'esser  proprio»  in 
«quel  fuoco  nemico »■*'^  il  furioso  desidera  «svanir  nelle  fiamme  de 
l'amoroso  ardore  »-^''^,  come  testimoniano  i  versi  legati  all'impresa  «Ho- 
stis  non  hostis»  («Mai  fia  che  de  l'amor  io  mi  lamente,  /  senza  del  qual 
non  vogli'esser  felice»)''^^  e  il  componimento  primario  Se  la  farfalla  al 
suo  splendor  ameno'^^^. 


412.  Furori,  p.  584. 

413.  Ibidem,  p.  585. 

414.  Ibidem,  p.  589. 

415.  Ibidem,  p.  608. 

416.  Ibidem. 

417.  Ibidem,  p.  607. 

418.  «Se  la  farfalla  al  suo  splendor  ameno  /  vola,  non  sa  ch'è  fiamm'al  fin 
discara;  /  se  quand'il  cervio  per  sete  vien  meno,  /  al  rio  va,  non  sa  della  freccia 
amara;  /  s'il  lioncomo  corre  al  casto  seno,  /  non  vede  il  laccio  che  se  gli  pre- 
para: /  i'  al  lum',  al  font',  al  grembo  del  mio  bene,  /  veggio  le  fiamme,  i  strali  e 
le  catene»  (Ibidem,  p.  559). 


136  INTRODUZIONE 

Atteone:  «'l  gran  cacciator  dovenne  caccia» 


i 


Questo  amore  per  la  sapienza  è  anche  amore  per  la  «divinità».  Ed  è 
l'unica  possibilità  che  è  data  all'uomo  per  trasformarsi  nell'oggetto  del 
desiderio,  per  elevare  se  stesso  a  una  condizione  «divina».  Ma  di  che 
«divinità»  si  tratta?  È  qualcosa  che  si  colloca  al  di  fuori  dell'orizzonte 
«fisico  e  naturale»  di  cui  Bruno  aveva  parlato  all'inizio?  Oppure  si 
tratta  di  quella  «divinità»  che  è  nella  natura,  di  quella  forza  vitale 
che  anima  dall'interno  l'universo  infinito? 

Una  risposta  potrebbe  venire  dalla  significativa  esperienza  di  At- 
teone, che  costituisce  certamente  uno  dei  nodi  centrali  dei  Furori.  Nel 
commento  ai  versi,  collocati  all'inizio  del  dialogo  quarto  della  prima 
parte •'^^,  così  Tansillo  spiega  la  straordinaria  avventura  del  mitico  cac- 
ciatore: 

Atteone  significa  l'intelletto  intento  alla  caccia  della  divina  sapienza, 
all'apprension  della  beltà  divina.  Costui  slaccia  «i  mastini  et  i  veltri»:  de 
quai  questi  son  più  veloci,  quelli  più  forti.  Perché  l'operazion  de  l'intel- 
letto precede  l'operazion  della  voluntade;  ma  questa  è  più  vigorosa  et  effi- 
cace che  quella;  atteso  che  a  l'intelletto  umano  è  più  amabile  che  com- 
prensibile la  bontade  e  bellezza  divina,  oltre  che  l'amore  è  quello  che 
muove  e  spinge  l'intelletto  acciò  che  lo  preceda  come  lanterna.  «Alle  sel- 
ve», luoghi  inculti  e  solitarii,  visitati  e  perlustrati  da  pochissimi,  e  però 
dove  non  son  impresse  l'orme  de  molti  uomini,  «il  giovane»  poco  esperto 
e  prattico,  come  quello  di  cui  la  vita  è  breve  et  instabile  il  furore,  «nel 
dubio  camino»  de  l'incerta  et  ancipite  raggione  et  affetto  designato  nel 
carattere  di  Pitagora,  dove  si  vede  più  spinoso,  inculto  e  deserto  il  destro 
et  arduo  camino,  e  per  dove  costui  slaccia  i  veltri  e  mastini  appo  la  traccia 
di  boscareccie  fiere  che  sono  le  specie  intelligibili  de  concetti  ideali,  che 
sono  occolte,  perseguitate  da  pochi,  visitate  da  rarissimi,  e  che  non  s'of- 
freno  a  tutti  quelli  che  le  cercano'^-". 


La  caccia  della  «divina  sapienza»  è  innanzitutto  un'operazione 
che  si  compie  con  gli  strumenti  «dell'intelletto  umano»  e  con  la  vo- 


419.  «Alle  selve  i  mastini  e  i  veltri  slaccia  /  il  giovan  Atteon,  quand'il 
destino  /  gli  drizz'il  dubio  et  incauto  camino.  /  di  boscareccie  fiere  appo  la 
traccia.  /  Ecco  tra  l'acqui  il  più  bel  busto  e  faccia  /  che  veder  poss'il  mortai 
e  divino,  /  in  ostro  et  alabastro  et  oro  fino  /  vedde:  e  '1  gran  cacciator  doven- 
ne caccia.  /  Il  cervio  ch'a'  più  folti  /  luoghi  drizzav'i  passi  più  leggieri,  /  rat- 
to voraro  i  suoi  gran  cani  e  molti.  /  I'  allargo  i  miei  pensieri  /  ad  alta  preda, 
et  essi  a  me  rivolti  /  morte  mi  dan  con  morsi  crudi  e  fieri»  (Ibidem,  pp.  575- 

576)- 

420.  Ibidem,  pp.  576-577. 


INTRODUZIONE  I37 

lontà-*^'.  Niente  miracoli,  prodigi  o  strane  magie.  Si  tratta  di  uomini 
che  affrontano  un  percorso  solitario,  difficilissimo,  «spinoso»,  «incul- 
to», «deserto».  Di  uomini  rari,  eroici,  capaci  di  arrivare  solo  dove  po- 
chissimi possono  arrivare:  è  vero.  Ma  pur  sempre  protagonisti  di  una 
«venazione»  solo  ed  esclusivamente  umana.  O  meglio:  di  una  «vena- 
zione» che  proprio  per  la  sua  straordinarietà  ci  eleva  a  una  condizione 
«divina»,  eccezionale,  in  grado  di  trasformare  l'uomo  in  un  dio.  At- 
teone  compie  questo  cammino.  Ma  solo  nell'incontro  con  Diana  ri- 
flessa nelle  acque  capisce  che  ciò  che  stava  cercando  è  dentro  di  lui, 
che  la  «divinità»  tanto  bramata  non  è  al  di  fuori  di  chi  la  cerca: 

«Ecco  tra  l'acqui»,  cioè  nel  specchio  de  le  similitudini,  nell'opre  dove 
riluce  l'efficacia  della  boutade  e  splendor  divino  [...];  «vede  il  più  bel  busto 
e  faccia»,  cioè  potenza  et  operazion  estema  che  vedersi  possa  per  abito  et 
atto  di  contemplazione  et  applicazion  di  mente  mortai  o  divina,  d'uomo  o 
dio  alcuno.  [...]  «Vedde  il  gran  cacciator»:  comprese  quanto  è  possibile,  e 
dovenne  caccia:  andava  per  predare  e  rimase  preda,  questo  cacciator,  per 
l'operazion  de  l'intelletto  con  cui  converte  le  cose  apprese  in  sé"'^^. 

Comprendere  significa  trasformarsi  nell'oggetto  della  «venazione». 
Ecco  perché  Atteone  mentre  pensa  di  trovare  «estra  di  sé  il  bene,  la 
sapienza,  la  beltade,  la  fiera  boscareccia»  giunto  in  presenza  della  dea 
si  vede  «convertito  in  quel  che  cercava».  In  un  solo  istante,  insomma, 
si  accorge  che  «de  gli  suoi  cani,  de  gli  suoi  pensieri  egli  medesimo  ve- 
nea  ad  essere  la  bramata  preda,  perché  già  avendola  contratta  in  sé,  non 
era  necessario  di  cercare  fuor  di  sé  la  divinità» ■'2^.  L'incontro  con  Diana 
e  il  «disquarto»  provocato  dai  cani  trasformano  in  maniera  radicale 
l'esistenza  del  mitico  cacciatore,  che  da  «uom  volgare  e  comune,  dovien 
raro  et  eroico».  Proprio  nella  perdita  della  vita  si  configura  la  nascita  a 
una  nuova  vita:  «qua  finisce  la  sua  vita  secondo  il  mondo  pazzo,  sen- 
suale, cieco  e  fantastico»  e  «comincia  a  vivere  intellettualmente»''^"'. 

Diana,  la  «divinità»  nella  natura  infinita 

Ma  cosa  significa  la  visione  di  Diana?  Che  cosa  simbolizza  la  dea 
«boscareccia»?  Bruno  risponde  indirettamente  a  queste  domande  in 


421.  Sul  topos  della  caccia  nella  letteratura  si  veda  ora  l'utile  rassegna  di 
Giovanni  Bàrberi  Squarotti,  Selvaggia  dilettanza.  La  caccia  nella  letteratura 
dalle  origini  a  Marino,  Venezia,  2000  (le  pp.  329-363  sono  dedicate  al  mito  di 
Atteone). 

422.  Furori,  p.  577. 

423.  Ibidem,  p.  578. 

424.  Ibidem,  p.  579. 


138  INTRODUZIONE 

un  luogo  strategico  dei  Furori:  nel  primo  dialogo  della  seconda  parte, 
in  una  posizione  centrale  di  mise  en  abyme.  Diana  viene  a  coincidere 
con  «l'ordine  di  seconde  intelligenze  che  riportano  il  splendor  ricevuto 
dalla  prima» "'2'.  La  «dea  della  contemplazione»,  insomma,  rappresen- 
terebbe la  natura  infinita  attraverso  cui  si  manifesta  la  «divinità»  as- 
soluta, incarnata  nella  luce  di  Apollo-'^'^.  E  soltanto  nell'incontro  con 
Diana,  Atteone  scopre  che  quella  «divinità»  che  è  tutto  in  tutto,  che 
anima  ogni  cosa,  gli  appartiene,  è  parte  di  lui  e  dal  di  dentro  lo  vivi- 
fica, come  dal  di  dentro  vivifica  tutto  ciò  che  esiste.  Dietro  una  termi- 
nologia impregnata  di  neoplatonismo,  il  Nolano  assimila  di  fatto  il 
mondo  intelligibile  all'universo  infinito''^^. 

Ritoma,  con  parole  e  immagini  diverse,  un  concetto  più  volte  riba- 
dito anche  negli  altri  dialoghi  in  volgare.  L'unica  conoscenza  possibile 
per  l'uomo  è  quella  concepita  solo  e  soltanto  nell'orizzonte  umbratile 
della  natura.  Lo  sforzo  di  Atteone,  infatti,  si  risolve  in  una  visione 
straordinaria,  concettuale,  che  permette  a  un  essere  finito,  attraverso 
un  percorso  eroico,  di  contemplare  per  un  momento  l'infinità  dell'uni- 
verso: 

Questa  verità  è  cercata  come  cosa  inaccessibile,  come  oggetto  inobiet- 
tabile,  non  sol  che  incomprensibile:  però  a  nessun  pare  possibile  de  vedere 
il  sole,  l'universale  Apolline  e  luce  absoluta  per  specie  suprema  et  eccel- 
lentissima; ma  sì  bene  la  sua  ombra,  la  sua  Diana,  il  mondo,  l'universo,  la 
natura  che  è  nelle  cose,  la  luce  che  è  nell'opacità  della  materia;  cioè  quella 
in  quanto  splende  nelle  tenebre'^^s 

Si  tratta  di  insegnamenti  che  il  furioso  apprende  nel  corso  della 
sua  «milizia  amorosa»,  perché  «la  lezzion  principale  che  gli  dona 
Amore  è  che  in  ombra  contemple  (quando  non  puote  in  specchio)  la 
divina  beltade»'*^^.  Atteone  e  il  furioso  vivono  la  stessa  esperienza,  si 
tramutano  entrambi  nella  cosa  amata.  Anche  la  fiamma  d'Amore,  in- 
fatti, «converte  ne  l'amante»,  poiché  «il  fuoco  [...]  è  potente  a  conver- 
tere tutti  quell'altri  semplici  e  composti  in  se  stesso  w-*^". 


425.  Ibidem,  p.  671. 

426.  Su  questo  punto  cfr.  Paul-Henri  Michel.  Introdudion  à  Giord.'U>jo 
Bruno,  Des  fureurs  héroiques,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1984,  pp.  61-62. 

427.  Cfr.  Miguel  Angel  Granada,  Introduction  à  Giordano  Bruno,  Les 
fureurs  héroiques  cit,  pp.  CVIII-CIX. 

428.  Furori,  pp.  694-695. 

429.  Ibidem,  p.  558.  Tansillo  spiega  che  «in  questo  stato»  è  possibile  «veder 
Dio  se  non  come  in  ombra  e  specchio»  {Ibidem,  p.  564). 

430.  Ibidem,  p.  534.  Ma  anche  Cicada  afferma  con  chiarezza  che  «lo  amore 
transforma  e  converte  nella  cosa  amata»  (Ibidem,  p.  578). 


INTRODUZIONE  I39 

L'incontro  con  la  «divinità»,  quindi,  provoca  sofferenza,  fa  vivere  il 
furioso  nel  tormento  continuo  di  «contrarii  affetti  «""^^  Il  suo  vivere 
immerso  nella  molteplicità  del  divenire  gli  rende  difficile  l'accesso  alla 
visione  unitaria  della  natura  infinita,  alla  visione  della  umbratile 
Diana.  Ma  proprio  quelle  passioni  contrastanti,  a  cui  fa  allusione  il 
motto  «Ut  robori  robor»,  che  «danno  orrore  a  persone  ordinarie  e  vi- 
li »-*^2  non  sono  avvertite  come  nocive  dal  furioso,  talmente  infiam- 
mato dal  piacere  del  suo  amore  che  «non  è  potente  dispiacere  alcuno 
a  distorlo  o  far  cespitare  in  punto»''^^ 

Bruno-AUeone  e  Diana:  un  percorso  autobiografico 

Il  componimento  primario  Chi  femmi  ad  alt' amor  la  mente  desta  può 
essere  certamente  utile  per  rileggere  l'esperienza  del  furioso  attraverso 
il  percorso  biografico  di  Bruno.  Nelle  prime  due  quartine,  sullo  sfondo 
deir«aura  Campana»,  viene  rievocato  l'incontro  tra  il  filosofo  e  Diana: 

Chi  femmi  ad  alt'amor  la  mente  desta, 
chi  fammi  ogn'altra  diva  e  vile  e  vana, 
in  cui  beltad'e  la  bontà  sovrana 
unicamente  più  si  manifesta; 

quell'è  ch'io  viddi  uscir  da  la  foresta, 
cacciatrice  di  me  la  mia  Diana, 
tra  belle  ninfe  su  l'aura  Campana, 
per  cui  dissi  ad  Amor  «Mi  rendo  a  questa»'"''. 

Nel  commento,  Mariconda  spiega  che  «Diana  splendor  di  specie  in- 
telligibili, è  cacciatrice  di  sé,  perché  con  la  sua  bellezza  e  grazia  l'ha 
ferito  prima,  e  se  l'ha  legato  poi»-*^'  L'interpretazione  lascia  un  mar- 
gine di  ambiguità  che,  in  effetti,  è  possibile  ritrovare  in  altri  luoghi  dei 
Furori.  Qui  Bruno  sembra  essere  «preso»  dalla  dea,  che  viene  presen- 
tata attivamente  nelle  vesti  di  cacciatrice.  Ma  questa  immagine  po- 
trebbe alludere  alla  «passività»  del  soggetto,  in  quanto  «prescelto» 
dalla  divinità,  o  all'istante  dell'incontro  in  cui  il  soggetto  si  trasforma 
in  oggetto?  La  questione  è  delicata  e  tocca  uno  dei  temi  importanti 
dell'intero  dialogo.  Lo  sguardo  dell'amata  è  conditio  sine  qua  non  per 
vederla?''"'  Oppure  traduce  simbolicamente  il  fatto  che  «veder  la  divi- 


431.  Ibidem,  p.  628. 

432.  Ibidem,  p.  625. 

433.  Ibidem,  p.  624. 

434.  Ibidem,  p.  683. 

435.  Ibidem,  p.  684. 

436.  Questa  domanda  ha  suscitato  diverse   risposte.  Ciliberto  {Giordano 
Bruno  cit.),  pur  negando  che  il  percorso  del  furioso  possa  essere  frutto  di  un 


140  INTRODUZIONE 

nità»  e  «l'esser  vista  da  quella»  sono  la  stessa  cosa?''^^  In  altri  termini: 
il  furioso  nella  sua  infinita  ricerca  si  avvale  solo  dei  suoi  strumenti 
umani,  l'intelletto  e  la  volontà,  o  ha  anche  bisogno  di  una  «spinta» 
esteriore? 

Nello  stesso  componimento.  Amore  risponde  a  Bruno,  sottoli- 
neando che  la  «visione»  di  Diana  «ottenesti  per  studio  e  per  sorte »-*^^ 
In  effetti,  qui  entrano  in  gioco  due  componenti:  il  fervore  intellettuale 
dell'individuo  e  la  sorte.  Ma  se  intendessimo  per  sorte  una  «predesti- 
nazione» all'incontro  con  la  «divinità»,  questo  significherebbe  inscri- 
vere l'esperienza  individuale  in  un  «destino»  già  determinato  altrove, 
in  cui  i  meriti  acquisiti  perderebbero  il  loro  peso  effettivo.  Probabil- 
mente, qui  Bruno  vuole  sottolineare  che  i  disegni  individuali,  nel 
complesso  corso  delle  vicissitudini,  devono  anche  fare  i  conti  con  una 
serie  di  eventi  naturali,  difficilmente  controllabili  dal  furioso.  La  sorte 
potrebbe  identificarsi  con  la  «fortuna»,  con  l'incognita,  con  il  caso,  con 
tutti  quegli  elementi  indipendenti  dalla  volontà  umana.  La  sola  deter- 
minazione del  soggetto  non  basta.  L'esito  della  quète  non  può  essere 
predeterminato  soltanto  dalle  nostre  forze. 

Non  a  caso  sono  rarissimi  i  veri  «Atteoni  alli  quali  sia  dato  dal 
destino  di  posser  contemplar  la  Diana  ignuda »''^'^.  Ma,  nella  prospet- 
tiva di  Bruno,  non  è  determinante  raggiungere  l'obiettivo.  Nella  co- 
scienza dell'eccezionalità  di  questa  esperienza  eroica,  sembra  assume- 
re più  importanza  il  comportamento  da  tenere  lungo  il  percorso  che 
il  conseguimento  di  un  reale  risultato:  «Basta  che  tutti  corrano;  as- 


donum  dei  (p.  183),  riconosce  comunque  alla  «divinità»  la  decisione  finale,  il 
«beneplacito»  sull'esito  della  quète  (pp.  191-192).  A  me  pare,  invece,  che  nel 
rileggere  con  attenzione  il  brano  dei  Furori  —  se  si  escludono,  come  Bruno 
stesso  dice  con  chiarezza,  gli  inconsapevoli  «prescelti»  dalla  «divinità  —  questo 
«beneplacito»  finisca  per  assumere  solo  una  funzione  di  «sbarramento»  per  chi 
non  cerca  autenticamente  la  divinità  per  se  stessa,  ma  per  altri  fini:  «Non  è 
differenza  quando  la  divina  mente  per  sua  providenza  viene  a  comunicarsi 
senza  disposizione  del  suggetto:  voglio  dire  quando  si  communica,  perché  ella 
cerca  et  eligge  il  suggetto;  ma  è  gran  differenza  quando  aspetta  e  vuol  essere 
cercata,  e  poi  secondo  il  suo  bene  placito  vuol  farsi  ritrovare.  In  questo  modo 
non  appare  a  tutti,  né  può  apparir  ad  altri  che  a  color  che  la  cercano»  {Furori,  p. 
728).  Questa  specificazione  finale,  che  ho  evidenziato  in  corsivo,  farebbe  pen- 
sare che  la  «divinità»  non  frappone  ostacoli  a  chi  la  cerca,  perché  essa  si  vuol 
far  vedere  solo  da  chi  veramente  vuole  vederla,  come  del  resto  testimonia 
l'esperienza  stessa  di  Atteone.  Perché  la  «divinità»  dovrebbe  negarsi  a  chi  au- 
tenticamente la  cerca?  E  in  base  a  quale  criteri  la  «divinità»  dovrebbe  mo- 
strarsi ad  alcuni  e  negarsi  ad  altri?  E  infine:  come  si  potrebbe  conciliare  questa 
«scelta»  della  divinità  con  l'etica  bruniana  fondata  sui  «meriti»? 

437.  Furori,  p.  663. 

438.  Ibidem,  p.  683. 

439.  Ibidem,  p.  695. 


INTRODUZIONE  I4I 

sai  è  ch'ognun  faccia  il  suo  possibile;  perché  l'eroico  ingegno  si  con- 
tenta più  tosto  di  cascar  o  mancar  degnamente  e  nell'alte  imprese, 
dove  mostre  la  dignità  del  suo  ingegno,  che  riuscir  a  perfezzione  in 
cose  men  nobili  e  basse »"*'*°.  Ciò  che  conta  è  l'esercizio  della  «venazio- 
ne», come  del  resto  riconosceva  Montaigne  in  una  bellissima  pagina 
degli  Essais. 

L'inseguimento  e  la  caccia  sono  il  nostro  vero  scopo;  non  abbiamo 
scuse  se  li  pratichiamo  male  e  senza  la  dovuta  cura.  Fallire  proprio  al 
momento  della  presa  è  un'altra  cosa.  Il  fatto  è  che  noi  siamo  nati  per  an- 
dare in  cerca  della  verità;  possederla  appartiene  a  una  potenza  ben  più 
grande'''*^ 

Su  queste  basi  si  infrange  nei  Furori  la  questione  del  ruolo  giocato 
dalla  «divinità»:  il  valore  del  furioso,  il  suo  eroismo,  non  si  misura 
sull'effettiva  conquista  del  «palio»  ma,  al  di  là  di  ogni  possibile  dibat- 
tito sul  ruolo  del  «bene  placito»  divino,  resta  evidente  che  esso  si  con- 
cretizza essenzialmente  nella  giusta  disposizione  da  tenere  lungo  il 
percorso  che  compiamo  nel  tentativo  di  arrivare  al  traguardo.  Il  fu- 
rioso lo  sa:  tanto  più  ambizioso  è  l'obiettivo,  tanto  più  difficile  ed  in- 
certo sarà  il  cammino  per  poterlo  raggiungere.  In  questa  consapevo- 
lezza di  un  incontro  «impossibile»  con  la  sapienza  infinita,  ma  conti- 
nuamente ricercato,  si  inscrive  la  vita  del  filosofo.  La  coscienza  della 
sua  «cecità»,  come  l'esempio  del  nono  cieco  insegna,  lo  spinge  a  «que- 
sto studio  e  pensiero  d'investigare,  de  sorte  che  non  possa  mai  gionger 
più  alto  che  alla  cognizione  della  sua  cecità  et  ignoranza» '•''2.  Una  cosa 
è,  quindi,  la  consapevole  ignoranza  degli  «asini  positivi»,  la  «dotta 
ignoranza»  per  dirla  in  termini  cusaniani-'-^\  Un'altra  cosa  è  invece 


440.  Ibidem,  p.  568.  In  un  passaggio  della  Cena,  dove  Bruno  insiste  sulla 
priorità  del  comportamento  eroico  più  che  sul  risultato  da  raggiungere,  appare 
chiara  l'identificazione  tra  «sorte»  e  «fortuna»:  «Giungesi  a  questo  che,  quan- 
tumque  non  sia  possibile  arrivar  al  termine  di  guadagnar  il  palio:  correte  pure, 
e  fate  il  vostro  sforzo  in  una  cosa  de  sì  fatta  importanza,  e  resistete  sin  a  l'ul- 
timo spirto.  Non  sol  chi  vence  vien  lodato,  ma  anco  chi  non  muore  da  codardo 
e  poltrone:  questo  rigetta  la  colpa  de  la  sua  perdita  e  morte  in  dosso  de  la  sorte, 
e  mostra  al  mondo  che  non  per  suo  difetto,  ma  per  torto  di  fortuna  è  gionto  a 
termine  tale.  Non  solo  è  degno  di  onore  quell'uno  ch'ha  meritato  il  palio:  ma 
ancor  quello  e  quel  altro,  ch'ha  sì  ben  corso,  ch'è  giudicato  anco  degno  e  suf- 
ficiente de  l'aver  meritato,  ben  che  non  l'abbia  vinto»  (p.  475). 

441.  Montaigne,  L'arte  del  confronto.  (Essais,  III. 8),  introduzione  di  Marc 
Fumaroli,  traduzione  e  note  di  Stefano  U.  Baldassarri,  Napoli,  Liguori,  2000, 

P-39- 

442.  Furori,  p.  441. 

443.  Sul  particolare  uso  che  Bruno  fa  di  alcuni  concetti  cusaniani  si  veda 
la  bibliografia  supra,  nota  257. 


142  INTRODUZIONE 

r«ordinaria  ignoranza»  degli  «asini  negativi»,  che  credendo  di  sapere 
abbandonano  qualsiasi  ricerca  del  sapere: 

e  questa  è  la  differenza  tra  gli  profettivamente  studiosi,  e  gli  ociosi  in- 
sipienti: che  questi  son  sepolti  nel  letargo  della  privazion  del  giudicio  di 
suo  non  vedere,  e  quelli  sono  accorti,  svegliati  e  prudenti  giudici  della  sua 
cecità;  e  però  son  nell'inquisizione,  e  nelle  porte  de  l'acquisizione  della 
luce:  delle  quali  son  lungamente  banditi  gli  altri  •*'♦•'. 

U  sapiente-dio  e  il  filosofo-non  sapiente 

Solo  alla  luce  di  queste  considerazioni  è  possibile  capire  il  rapporto 
che  si  instaura  nei  Furori  tra  il  sapiente  e  il  furioso.  Mentre  il  primo 
«non  si  dismette,  né  si  gonfia  di  spirito»  e  vive  «continente  nell'incli- 
nazioni e  temperato  nelle  voluptadi»  perché  «ha  tutte  le  cose  mutabili 
come  cose  che  non  sono» •♦■^5,  il  secondo  invece  è  continuamente  agi- 
tato dalle  «contrarietadi».  Il  sapiente  possiede  la  sapienza  e  non  ha 
bisogno  di  cercarla.  Il  furioso,  al  contrario,  sa  di  esseme  privo  e  fa  di 
questa  quète  la  sua  ragione  di  vita.  In  effetti,  lo  schema  interpretativo 
proposto  da  Bruno  sembra  rievocare  perfettamente  il  particolare  ruolo 
del  filosofo  disegnato  da  Platone  nel  suo  Simposio.  Il  filosofo,  infatti, 
desidera  la  sapienza  proprio  perché  non  la  possiede.  E  non  a  caso  la 
sua  posizione  viene  accostata  a  quella  di  Amore,  che  ama  la  Bellezza 
perché  ne  è  privo  •^'^^  All'altro  estremo,  invece,  troviamo  il  sapiente, 


444.  Furori,  p.  508. 

445.  Ibidem,  p.  545.  Neir« Argomento»  Bruno  spiega  che  «il  primo  statuto 
del  sapiente  fusse  più  tosto  di  figurar  cose  divine  che  di  presentar  altro»  (Ibi- 
dem, p.  496). 

446.  «"La  cosa  sta  così.  Nessuno  degli  dèi  filosofa  né  desidera  diventare 
sapiente  -  perché  lo  è  già  -  né  chi  altri  è  sapiente  filosofa.  Neppure  gli  igno- 
ranti, d'altra  parte,  filosofano  né  desiderano  diventare  sapienti,  perché  proprio 
questo  ha  di  grave  l'ignoranza,  che  chi  non  è  né  eccellente  né  intelligente  crede 
di  averne  a  sufficienza  E  chi  non  si  considera  bisognoso,  non  desidera  ciò  di 
cui  non  crede  di  avere  bisogno".  "Chi  sono  allora,  Diotima,  quelli  che  filoso- 
fano, se  non  Io  sono  né  i  sapienti  né  gli  ignoranti?».  "È  chiaro  anche  ad  un 
bambino  ormai,  disse,  che  sono  quelli  a  metà  tra  questi  due  e  che  di  essi  fa 
parte  anche  Amore.  La  sapienza,  infatti,  fa  parte  delle  cose  più  belle  e  Amore  è 
amore  del  bello,  sicché  è  necessario  che  Amore  sia  filosofo  e,  in  quanto  filosofo, 
sia  in  mezzo  tra  il  sapiente  e  l'ignorante.  E  anche  di  questo  è  causa  la  sua 
nascita,  perché  è  di  padre  sapiente  e  pieno  di  risorse,  ma  di  madre  priva  di 
sapienza  e  di  risorse  [...]'"»:  Platone,  Simposio,  in  Dialoghi  filosofici  cit.  (204  a), 
t.  II,  p.  126.  Su  questo  tema  si  vedano:  Pierre  Hadot.  La  figure  du  sage  dans 
l'Antiqtiité  greco-latine,  in  Les  sagesses  du  monde,  Colloque  interdisciplinaire  sous 
la  direction  de  Gilbert  Gadoffre,  Paris,  Éditions  Universitaires,  1991,  pp.  11-12 
(ora  in  P.  Hadot,  Etudes  de  philosophie  ancienne.  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1998, 
pp.  235-236);  Platon.  L'amour  du  savoir,  coordonné  par  Michel  Narcy  (in  parti- 
colar  modo  V Introdudion  di  Narcy,  pp.  7-11);  Giovanni  Reale,  Eros  dèmone 


INTRODUZIONE  I43 

assimilato  a  un  dio,  in  quanto  non  ha  bisogno,  come  accade  agli  dèi, 
di  desiderare  ciò  che  già  gli  appartiene. 

In  questa  contrapposizione,  come  Pierre  Hadot  dimostra  in  uno 
splendido  lavoro  sulla  figura  del  sapiente  nel  mondo  classico,  è  possi- 
bile ritrovare  lo  schema  di  fondo  che  accomuna,  al  di  là  delle  diffe- 
renti prospettive  antropologiche  e  ideologiche,  le  posizioni  di  diverse 
scuole  filosofiche:  i  tratti  caratteristici  del  sapiente  corrispondono  a 
quelli  di  dio  e  in  conseguenza  la  descrizione  di  dio  coincide  perfetta- 
mente con  l'idea  che  ciciscuna  scuola  si  è  fatta  del  saggio •^■^^.  Proprio 
nell'opposizione  tra  la  figura  ideale  e  «trascendente»  del  sapiente  e 
quella  tutta  umana  e  contraddittoria  del  filosofo  è  possibile  cogliere  la 
distanza  che  separa  l'umano  dal  divino.  Il  filosofo,  come  Bruno  stesso 
sembra  suggerire,  si  colloca  al  centro  tra  due  estremi:  tra  il  sapiente 
appagato  e  immobile,  che  vive  nella  luce  al  di  fuori  della  dimensione 
del  tempo  e  dello  spazio,  e  il  non-sapiente  che,  indotto  a  credere  dalla 
sua  ignoranza  di  essere  appagato,  rinuncia  a  qualsiasi  forma  di  ricerca. 
In  entrambe  queste  figure,  per  eccesso  e  per  difetto,  non  c'è  tensione 
verso  la  conoscenza.  Il  non-sapiente  filosofo,  invece,  cosciente  della  sua 
ignoranza  e  della  distanza  che  lo  separa  dalla  saggezza  assoluta,  sa  che 
il  suo  compito  è  quello  di  esercitarsi  alla  saggezza,  di  mantenere  sempre 
vivo  l'amore  per  la  sapienza.  In  questo,  sta  l'essenza  della  philo-sophia. 
In  questa  continua  tensione,  sta  il  compito  del  filosofo  che,  nello  sforzo 
di  emulare  il  modello  ideale  del  sapiente,  cerca  eroicamente  di  far  coin- 
cidere la  Ragione  individuale  con  la  Ragione  universale. 

Il  filosofo  sa  che  questa  figura  infallibile  e  libera  del  sapiente,  capace 
di  esercitare  a  perfezione  tutte  le  attività  possibili,  non  potrà  mai  concre- 
tizzarsi in  un  essere  umano "'''^.  Ma,  nello  stesso  tempo,  sa  anche  che  senza 
il  fascino  di  questo  modello  ideale  sarebbe  impossibile  per  l'uomo  eroico 
elevarsi  alla  «perfezione»,  aspirare  a  vivere  meglio,  conquistare  quella 
libertà  interiore,  in  grado  di  liberarlo  dai  capricci  del  desiderio  e  dalle 
costrizioni  della  vita  sociale  e,  soprattutto,  di  aiutarlo  ad  abbattere  le 
muraglie  dello  spazio  e  del  tempo  per  ridurre  l'alterità  ad  unità. 


mediatore.  Il  gioco  delle  maschere  nel  Simposio  di  Platone,  Milano,  Rizzoli,  1997, 
pp.  162-199. 

447.  Pierre  Hadot,  La  figure  du  sage  dans  l'Antiquité  greco-latine  cit.,  p.  12 
(p.  238). 

448.  «Non  seulement  le  sage  est  infaillible,  impeccable,  impassible,  hereux, 
libre,  beau,  riche,  mais  il  est  aussi  le  seul  homme  d'État,  le  seul  législateur,  le 
Seul  general,  le  seul  poète,  le  seul  roi.  [...]  Cette  figure  ideale  du  sage,  le  philosophe 
stoicien  sait  qu'il  ne  pourrat  jamais  la  réaliser,  mais  elle  exerce  sur  lui  son  at- 
trait,  provoque  en  lui  l'enthousiasme  et  l'amour,  lui  fait  entendre  un  appel  à 
vivre  mieux,  à  prendre  conscience  de  la  perfection  qu'il  s'efforce  d'atteindre»: 
Pierre  Hadot,  La  figure  du  sage  dans  l'Antiquité  greco-latine  cit.,  p.  17  (p.  245). 


144  INTRODUZIONE 

I  Furori,  in  effetti,  vogliono  descrivere  il  percorso  attraverso  cui  il 
filosofo  aspira  a  superare  la  sua  individualità  per  cercare  r«  impossibi- 
le» abbraccio  concettuale  con  il  cosmo,  per  dilatare  il  suo  essere  finito 
nello  splendore  dell'infinito,  per  ritrovare  l'unione  con  la  natura  infi- 
nita. Ma  questa  individuale  esperienza  deir« indicibile»  annulla  solo 
apparentemente  il  desiderio  per  la  vita  sociale.  Il  filosofo,  pur  com- 
piendo un  percorso  tutto  solitario,  non  esclude  l'orizzonte  etico  e  poli- 
tico. Anzi:  nella  sua  straordinaria  esperienza,  cerca  disperatamente  di 
tenere  assieme  ciò  che  l'uomo  comune  separa,  saldando  le  esigenze 
della  vita  etica  e  sociale  con  quelle  individuali  della  vita  contempla- 
tiva''''^. La  distinzione  dei  due  piani,  insomma,  è  frutto  di  un'astra- 
zione che  nella  prassi  —  proprio  come  accade  nel  De  la  causa  per  la 
nozione  di  «materia»  e  «forma»  -  non  ha  ragione  di  esistere •"°. 


VII. 

DAL  CANDELAIO  AI  FURORI: 
IL  PITTORE,  IL  FILOSOFO  E  L'OMBRA 

Nei  Furori,  lo  abbiamo  visto  più  volte.  Bruno  si  presenta  nelle  vesti 
di  filosofo-pittore.  Non  solo  perché  l'opera  contiene  al  suo  intemo 
un'intera  sezione  dedicata  alle  imprese,  ma  soprattutto  perché  il  pro- 


449.  «Contrairement  à  une  opinion  très  répandue  et  très  tenace,  le  sage  an- 
tique ne  renonce  pas  à  l'action  politique.  Dans  aucune  école  philosophique  de 
l'Antiquité,  le  sage  n'abandonne  en  effet  le  désir  et  l'espoir  d'exercer  une  action 
sur  les  autres  hommes.  [...]  Elle  [la  figure  du  sage]  est  l'expression  nécessaire  de 
la  tension,  de  la  polarité,  de  la  dualité  qui  est  inhérente  à  la  condition  hu- 
maine.  D'une  part,  en  effet,  l'homme  a  besoin,  pour  supporter  sa  condition,  de 
s'insérer  dans  le  tissu  de  l'organisation  sociale  et  politique  [...].  Mais  cette 
sphère  du  quotidien  ne  le  protège  pas  intièrement:  il  est  confronté  de  manière 
inévitable  à  ce  qu'on  pourrait  appeler  l'indicible,  à  l'énigme  terrifiante  de  son 
étre-là,  ici  et  maintenant,  livré  à  la  mort,  dans  l'immensité  du  cosmos»:  Pier- 
re Hadot,  La  figure  du  sage  dans  l'Antiquité  greco-latine  cit,  pp.  23-24  (pp.  253- 

254)- 

450.  Cfr.  supra,  pp.  80-81.  In  effetti,  anche  nei  Furori  non  mancano  rifles- 
sioni che  riguardano  la  filosofia  morale  e  la  politica.  Al  di  là  della  distinzione 
averroistica  tra  teologia  e  filosofia  (cfr.  supra,  p.  131),  restano  interessanti  i 
brani  in  cui  si  parla  della  naturale  varietà  delle  componenti  sociali  («Bisogna 
che  siano  arteggiani,  meccanici,  agricoltori,  servitori,  pedoni,  ignobili,  vili,  po- 
veri, pedanti  et  altri  simili:  perché  altrimente  non  potrebono  essere  filosofi, 
contemplativi,  coltori  degli  animi,  padroni,  capitani,  nobili  illustri,  ricchi,  sa- 
pienti, et  altri  che  siano  eroici  simili  a  gli  dèi»,  p.  684)  e  in  cui  si  riconosce  un 
primato  alla  poesia  civile  ed  eroica  (cfr  infra,  p.  177).  Sulla  dialettica  dei  ceti 
nella  filosofia  di  Bruno  cfr.  Nicola  Badaloni,  La  filosofia  di  Giordano  Bruno, 
Firenze,  Parenti,  1955,  pp.  211-213. 


INTRODUZIONE  I45 

cesso  stesso  della  conoscenza  non  può  fare  a  meno  delle  immagini.  In 
effetti,  due  interi  dialoghi  (il  quinto  della  prima  pari:e  e  il  primo  della 
seconda  parie,  con  una  coda  di  una  sola  impresa  nel  secondo  della 
seconda  parte)  vengono  dedicati  alla  descrizione  di  ventotto  imma- 
gini, legate  a  un  «motto»  in  latino  e  ad  alcuni  versi  di  commento.  Non 
si  capisce  bene  se  gli  interlocutori  ricavino  le  informazioni  iconografi- 
che dalla  lettura  di  un  libro,  come  spesso  accade  in  altre  opere  bru- 
niane,  o  dall'osservazione  diretta,  in  una  speciale  pinacoteca,  di  imma- 
gini accompagnate  dalle  relative  «  tabelle  «""'^  Attraverso  questa  «mi- 
stura mistica  di  pitture  e  parole»  -  come  sottolinea  Bartolomeo 
Amigio,  membro  autorevole  dell'Accademia  degli  Occulti  di  Brescia 
(1564-1570)  -  l'impresa  si  presenta  come  un  «Sileno  arteficiale»,  il  cui 
significato  sta  proprio  nella  dialettica  tra  Vintus  e  Vextra"*^^. 


Dipingere  con  le  parole:  l'uso  ^eZZ'ekphrasis 

Bruno  «dipinge»  le  imprese,  dunque.  Con  il  suo  particolare  lin- 
guaggio,   sollecita    il    lettore    a    trasformarsi    in    osservatore.    Eleva 


451.  Sia  nel  De  umbris  che  nella  Cabala,  Bruno  immagina  che  il  dialogo 
prosegua  con  la  lettura  di  un  libro.  Per  i  Furori,  Spampanato  ipotizza  che  si 
tratti  piuttosto  di  una  galleria  di  immagini  (V.  Spampanato,  Bruno  e  Nola, 
Castrovillari,  Patitucci,  1899,  p.  69).  Ma  su  questa  questione  e,  più  in  generale, 
sull'uso  bruniano  delle  imprese  si  veda  Patrizia  Farinelli,  B  furioso  nel  labi- 
rinto. Studio  su  De  gli  eroici  furori  di  Giordano  Bruno  cit,  pp.  74-87. 

452.  «Et  perché  l'Impresa,  a  mio  giudicio,  è  una  mistura  mistica  di  pit- 
tura &  parole  rappresentante  in  picciolo  campo  a  qualunque  huomo  di  non 
ottuso  Intelletto  qualche  recondito  senso  d'una  o  di  più  persone  [...].  Et  certo 
panni  convenevole  cosa,  che  qualunque  schiera  o  collegio  di  Virtuosi,  ch'ad 
operationi  rare  di  mano  o  di  lingua  si  disponga,  debba  ancora  con  qualche 
suo  leggiadro  segno  o  simbolo  rappresentar'altrui  l'Instituto,  la  Mente,  lo 
Studio,  overo  Fin  suo.  Perilche  l'Academia  de  gli  Occulti  [...]  ha  eletto 
oltre  molti  d'usare  per  corpo  d'Impresa  l'Imagine  di  Sileno  non  naturale; 
ma,  come  si  soleva  da  gli  antichi  maestrevolmente  formare,  in  guisa, 
ch'aprire  &  chiudere  si  poteva,  perciocché  nel  voto  del  corpo  suo  si  riser- 
bavano rinchiuso  qualche  bellissimo  Idolo  di  Dio  o  di  Dea;  accio  dall'ingiu- 
ria dell'aere,  della  polve,  o  del  luto  non  si  consumasse;  ma  nella  sua  intera 
perfettione  lungo  tempo  durasse  [...].  Sotto'l  velo  del  corpo  di  questo  Sileno 
arteficiale  ascondiamo  l'anima  dell'Impresa,  ch'è  l'intento  primo  di  mantener 
la  parte  nostra  migliore  nella  sua  nativa  forma  &  purissima  luce,  però  v'ag- 
giungiamo, qual  sia  il  fine  nostro  sotto'l  Ietterai  vestimento  del  Motto,  Intus 
non  extra,  cioè,  come  per  entro  al  Sileno,  &  non  per  di  fuori  miravano  gli 
antichi;  così  noi  nell'interna  &  non  nellestema  forma  curiamo  di  porre  ogni 
studio»:  Rime  de  gli  Academici  Occulti  con  le  loro  imprese  et  discorsi,  Brescia, 
appresso  Vincenzo  di  Sabbio,  1568,  ff.  1-2  (cfr  anche  Ercole  Tasso,  Della 
realtà  e  perfettione  delle  Imprese...  con  l'Essamine  di  tutte  le  openioni  infino  a  qui 
scritte  sopra  tal'Arte,  Bergamo,  per  Comino  Ventura,  1612,  pp.  132-134).  Sul 
rapporto  tra  impresa  e  pensiero  si  veda  Robert  Klein,  La  teoria  dell'espres- 
sione figurata  nei  trattati  italiani  sulle  «imprese»  (1555-1612),  in  Io.,  La  forma  e 


146  INTRODUZIONE 

Vekphrasis  a  figura  dominante  nella  sua  concezione  della  letteratura ■*5^. 
Sa  che  la  scrittura  non  può  essere  indifferente  alla  conoscenza  dell'og- 
getto che  descrive.  Ma  innanzitutto  -  e  questo  mi  sembra  un  punto 
decisivo  -  fa  dell'immagine  stessa  un  elemento  essenziale  della  sua 
teoria  della  conoscenza.  Nel  corso  dei  Furori,  infatti,  le  metafore  del 
«simulacro»,  dello  «specchio»,  del  «vestigio»,  dell'» ombra»  esprimono 
l'impossibilità  per  l'uomo  ad  avere  un  accesso  diretto  alle  «idee»,  alla 
conoscenza  suprema  ed  assoluta,  che  può  essere  colta  solo  nel  riflesso 
delle  cose  naturali,  nell'immagine  di  Diana,  nell'universo  infinito: 

perché  veggiamo  non  gli  effetti  veramente,  e  le  vere  specie  de  le  cose,  o 
la  sustanza  de  le  idee,  ma  le  ombre,  i  vestigli  e  simulacri  de  quelle,  come 
color  che  son  dentro  l'antro  et  hanno  da  natività  le  spalli  volte  da  l'en- 
trata della  luce,  e  la  faccia  opposta  al  fondo:  dove  non  vedono  quel  che  è 
veramente,  ma  le  ombre  de  ciò  che  fuor  de  l'antro  sustanzialmente  si 
trova'*''*. 

Non  si  tratta  di  temi  che  Bruno  affronta  per  la  prima  volta  nei 
Furori.  Già  a  Parigi,  in  contesti  legati  alla  mnemotecnica,  questi  deli- 
cati concetti  costituivano  il  nucleo  centrale  di  opere  come  il  De  umbris 
idearum  e  il  Cantus  circaeus^'^^ .  Né  si  pensi  che  la  ripresa  del  celebre 
mito  platonico  della  caverna  possa  essere  considerata  come  fonte 
esclusiva  della  teoria  bruniana  della  conoscenza. 

La  questione  è  complessa  e,  certamente,  non  può  essere  affrontata 
in  questo  contesto.  Resta  indiscutibile,  però,  la  funzione  dell'immagine 


l'intelligibile.  Scritti  sul  Rinascimento  e  l'arte  moderna,  Torino,  Einaudi,  1975, 
pp.  1 19-149.  Per  le  relazioni  tra  imprese  e  poesia  si  veda  da  ultimo  A.  Mag- 
gi, Identità  e  impresa  rinascimentale,  Ravenna,  Longo,  1998. 

453.  Sui  rapporti  tra  letteratura  e  arti  si  vedano  i  saggi  raccolti  in  La  litté- 
rature  et  les  arts  figurés  de  VAntiquité  à  nos  joiirs,  Actes  du  XIV  congrès  de 
l'Association  Guillaume  Bude  (Limoges,  25-28  aoùt  1998),  Paris,  Les  Belles  Let- 
tres.  SnW ekphrasis  cfr.  V Introduzione  di  Sonia  Maffei  a  Luciano  di  Samosata. 
Descrizioni  di  opere  d'arte,  a  cura  di  Sonia  Maffei,  Torino,  Einaudi,  1994,  pp. 
XV-LXXI  (cfr.  anche  David  Rosand,  Ekphrasis  and  the  Renaissance  of  Painting 
Observations  on  Alberti's  Third  Book,  in  Florilegium  Columbianum.  Essays  in  Ho- 
nor  of  Paul  Oskar  Kristeller,  ed.  by  Karl  L.  Selig  and  Robert  Somerville,  New 
York,  Italica  Press,  1987,  pp.  147-163). 

454.  Furori  p.  732- 

455.  Sulla  mnemotecnica  bruniana  e  sulla  nozione  di  «ombra»  si  vedano 
gli  eccellenti  lavori  di  Rita  Sturlese:  Introduzione  a  Giordano  Bruno,  De 
umbris  idearum,  cit;  Per  un'interpretazione  del  De  umbris  idearum  di  Giordano 
Bruno  cit  Importante  il  recente  saggio  di  Nicola  Badaloni,  B,  De  umbris 
idearum  come  discorso  sul  metodo  cit  Sul  duplice  significato  di  graphein  (scrive- 
re e  dipingere)  in  relazione  al  dibattito  sulla  memoria  si  veda  l'ottimo  contri- 
buto di  Jacques  Jouanna,  Graphein.  Écrire  et  peindre:  contribution  à  l'histoire 
de  l'imaginaire  de  la  mémoire  en  Grece  ancienne,  in  La  littérature  et  les  arts  figurés 
de  VAntiquité  à  nos  jours  cit.,  pp.  55-70). 


INTRODUZIONE  I47 

(verbale  e  visiva)  come  elemento  di  mediazione,  come  strumento  per 
rendere  visibile  l'invisibile,  sia  su  un  piano  specificamente  iconogra- 
fico sia  su  un  piano  puramente  linguistico-*'''^.  Proprio  a  partire  da  que- 
sto nodo  centrale  della  «nolana  filosofia»  sarà  utile  interrogarsi  retro- 
spettivamente sul  rapporto  che  si  instaura  tra  filosofia  e  pittura.  Nella 
sezione  dedicata  al  Candelaio  ci  siamo  già  soffermati  sull'uso  metafo- 
rico che  Bruno  fa  del  lessico  pittorico  in  diversi  luoghi  dei  dialoghi 
italiani "*5^.  E  abbiamo  avuto  modo  di  constatare  come  questi  brani  si 
prestino  perfettamente  a  descrivere  per  «immagini»  la  particolare  con- 
cezione del  genere  dialogo  o  la  tecnica  di  indagine  usata  dall'autore. 
Ma  l'analisi  non  può  limitarsi  a  riflessioni  di  natura  generale.  Né  questa 
relazione  può  essere  interpretata  come  un  dovuto  omaggio  alla  moda 
dell'M/  pictura  poesis-*^^.  Non  è  possibile  considerare  come  un  fatto  ca- 
suale che  Bruno  apra  a  Parigi  la  serie  delle  opere  italiane  nelle  vesti  di 
pittore-filosofo,  come  testimonia  Gioan  Bernardo  nel  Candelaio,  e  suc- 
cessivamente la  chiuda  a  Londra,  con  i  Furori,  nel  ruolo  di  filosofo- 
pittore.  Ma  cosa  hanno  veramente  in  comune  il  filosofo  e  il  pittore? 

n  mito  delle  origini  della  pittura 

Una  risposta  potrebbe  venire  dal  mito  delle  origini  della  pittura. 
Plinio,  infatti,  nel  trentacinquesimo  libro  della  sua  Naturalis  historia 
fa  allusione  alle  oscure  circostanze  in  cui  sarebbe  nata  questa  nuova 
arte.  Alla  discordanza  delle  fonti  sul  luogo  dell'evento  e  sulla  paternità 
dell'invenzione,  lo  storico  oppone,  invece,  un  consenso  generale  sulla 
tecnica  che  avrebbe  dato  luogo  alla  prima  pittura:  «omnes  umbra  ho- 
minis  lineis  circumducta»'*'^.  In  effetti,  l'atto  fondatore  sarebbe  consi- 


456.  Il  ruolo  del  pittore  e  del  poeta  è  anche  quello  di  «fingere»:  dare  forma 
all'informe,  imitare,  ma  anche  «former  des  images  mentales»:  cfr.  Anne-Ma- 
rie Lecoq,  «Finxit».  Le  peintre  camme  «fictor»  ati  XVF  siècle,  in  «Bibliothèque 
d'Humanisme  et  de  Renaissance»,  XXXVII  (1975),  pp.  225-243  (p.  229  per  la 
citazione). 

457.  Cfr.  supra,  pp.  66-67. 

458.  Sulla  diffusione  di  questo  tema  nel  Rinascimento  si  veda  R.  W.  Lee, 
Ut  pictura  poesis,  Firenze,  Sansoni,  1974. 

459.  «tutti  comunque  concordano  che  [la  pittura]  nacque  dall'uso  di  trac- 
ciare con  delle  linee  il  contomo  dell'ombra  umana»:  Plinio,  Storia  naturale.  V. 
Mineralogia  e  storia  dell'arte  (Libri  33-37),  edizione  diretta  da  Gian  Biagio  Conte, 
traduzioni  e  note  di  Antonio  Corso,  Rossana  Mugellesi,  Giampiero  Rosati,  To- 
rino, Einaudi,  1988  (XXXV,  5,  15),  pp.  306-307.  Questo  paragrafo  sul  mito  della 
pittura  deve  moltissimo  alla  lettura  dell'appassionante  libro  di  Victor  Stoi- 
CHITA,  Breve  storia  dell'ombra.  Dalle  origini  della  pittura  alla  Pop  Art,  Milano,  Il 
Saggiatore,  2000,  di  cui  mi  sono  servito  trascurando  una  serie  di  questioni  di 
fondo  che  non  rientravano  nell'orizzonte  specifico  dell'analisi  qui  proposta. 


148  INTRODUZIONE 

stito  nel  contornare,  con  linee,  l'ombra  di  un  corpo  umano.  Si  tratta  di 
un  mito  che,  come  vedremo,  non  sarà  ignorato  nel  Rinascimento.  Re- 
sta interessante  per  noi  sapere  che  questa  arte  non  trova  le  sue  origini 
nella  diretta  osservazione  del  modello,  in  questo  caso  il  corpo  umano, 
ma  nella  riproduzione  della  proiezione  del  modello,  cioè  nella  sua 
ombra. 

A  questo  mito  fa  riferimento  anche  Quintiliano,  néìV Institutio  ora- 
toria, in  un  contesto  strettamente  legato  alla  teoria  dell'imitazione.  Qui 
il  retore,  nel  condannare  la  concezione  deìVimitatio  come  mera  ripro- 
duzione passiva  di  un  modello,  si  chiede  quale  destino  avrebbe  avuto 
la  pittura  se  i  pittori  si  fossero  limitati  a  tracciare  meccanicamente  il 
contomo  dell'ombra  proiettata  dai  corpi  esposti  al  sole  («  non  esset  pie- 
tura,  nisi  quae  lineas  modo  extremas  umbrae  quam  corpora  in  sole 
fecissent  circumscriberet»)'^'^"°. 

Plinio  e  Quintiliano,  da  punti  di  vista  diversi,  assegnano  al  contor- 
namento dell'ombra  la  funzione  di  base  da  cui  il  pittore  parte  per  ela- 
borare il  suo  prodotto.  In  entrambi,  implicitamente,  l'ombra  viene 
identificata  non  direttamente  con  il  corpo,  ma  come  immagine  del 
corpo,  come  proiezione  del  modello. 

Ma  l'ombra,  come  abbiamo  già  visto  nell'ultima  citazione  bru- 
niana,  sta  anche  alla  base  di  un  altro  mito  importantissimo:  quello 
della  caverna,  elaborato  da  Platone  nella  Repubblica  (5i4a-5i5c).  Si 
tratta  di  pagine  celebri  che  hanno  scatenato  diverse  interpretazioni-"''. 
Alla  cui  base  però  resta  fermo  un  principio:  nel  processo  gnoseologico 
la  vista  e  le  immagini  giocano  un  ruolo  di  primo  piano'*''^.  Anche  qui 
«conoscere»  significa  «vedere».  E  per  conoscere  e  vedere,  i  prigionieri 
nell'oscura  caverna  devono  intraprendere  un  percorso  faticoso,  incar- 
nato simbolicamente  nelle  catene  da  cui  bisogna  liberarsi  per  capire 
che  le  ombre  proiettate  non  sono  le  cose  in  sé,  ma  un  simulacro  di- 
storto di  quelle  cose.  Poco  più  avanti,  Platone  mette  in  relazione  la 
riproduzione  apparente  di  oggetti,  come  accade  nell'immagine  riflessa 
in  uno  specchio,  e  l'attività  del  pittore:  in  entrambe  le  situazioni 


460.  «non  avremmo  altra  pittura,  se  non  quella  che  ritrae  i  contomi  delle 
ombre  degli  oggetti  esposti  al  sole»:  Marco  Fabio  Quintiliano,  LHstituzione 
oratoria,  a  cura  di  Rino  Faranda  e  Piero  Pecchiura,  Torino,  Utet,  1979,  t.  II  (X, 
2,  7),  pp.  446-447- 

461.  Sull'uso  dei  miti  nei  dialoghi  di  Platone  si  veda  Geneviève  Droz, 
Les  mythes  platoniciens,  Paris,  Éditions  du  Seuil,  1992  (sul  mito  della  caverna 
pp.  88-102). 

462.  Victor  Stoichita,  Breve  storia  dell'ombra.  Dalle  origini  della  pittura 
alla  Pop  Art  cit.,  p.  23. 


INTRODUZIONE  149 

avremo  pura  apparenza,  avremo  non  la  cosa  in  sé,  ma  un'immagine 
«riflessa»  di  quella  cosa-*". 

Ora,  come  ha  mostrato  Victor  Stoichita,  non  può  essere  certamente 
sottovalutato  il  fatto  che  il  mito  dell'origine  della  pittura  (Plinio)  e  il 
mito  dell'origine  della  conoscenza  (Platone)  abbiano  in  comune  la  no- 
zione di  ombra  ■^^.  In  effetti,  indipendentemente  dal  diverso  significato 
dei  due  miti  e  dalla  diversa  concezione  dell'ombra,  non  può  essere  tra- 
scurata sul  piano  ermeneutico  questa  straordinaria  analogia  che  fa 
coincidere  l'essenza  della  pittura  e  della  conoscenza  nella  necessità  di 
superare  la  soglia  dell'ombra""^'.  In  entrambi  i  domini,  il  filosofo  e  il 
pittore  lavorano  sulle  ombre,  costruiscono  i  loro  prodotti  a  partire 
dalle  ombre. 


463.  «-  [...]  se  vuoi  prendere  uno  specchio  e  portarlo  in  giro  da  per  tutto:  in 
men  che  non  si  dica  subito  farai  il  sole  e  tutto  che  sia  nel  cielo,  la  terra,  te 
stesso,  gli  altri  esseri  viventi,  mobili,  piante,  tutti  gli  oggetti  di  cui  sopra  ab- 
biamo parlato.  -  È  vero  -  esclamò  -  Ma  soltanto  oggetti  apparenti  che  tutta- 
via non  hanno  in  sé  alcuna  realtà.  -  Bene  -  affermai  —,  quel  che  dici  calza 
esattamente  con  il  nostro  argomento:  che  fra  questi  artefici  io  penso  vi  sia 
anche  il  pittore,  non  è  vero?  —  Come  no?  -  Credo  però  che  tu  dirai  non  esser 
cose  vere  quelle  che  fa  il  pittore.  Ad  ogni  modo  anch'egli,  in  un  certo  senso,  fa 
un  letto,  non  ti  pare?  -  Sì  -  rispose  -,  anche  lui  un  letto  in  apparenza»:  Pla- 
tone, La  Repubblica,  in  Dialoghi  politici  e  lettere,  a  cura  di  Francesco  Adomo, 
Torino,  Utet,  1970,  t.  I  (5966),  p.  622.  Ma  Platone  in  altri  luoghi  distingue  tra 
«ombra»  e  «specchio»  sul  piano  della  mimesi  (cfr.  V.  Stoichita,  Breve  storia 
dell'ombra.  Dalle  origini  della  pittura  alla  Pop  Art  cit,  pp.  25-29).  Per  un'analisi 
del  topos  dello  specchio,  anche  in  relazione  al  mito  di  Narciso,  si  veda  Andrea 
Tagliapietra,  La  metafora  dello  specchio.  Lineamenti  per  una  storia  simbolica, 
Milano,  Feltrinelli,  1991  (sulla  concezione  del  «miroir»  nell'antichità  cfr.  Bi- 
nar Mar  Jónson,  Le  miroir.  Naissance  d'un  genre  littéraire,  Paris,  I^s  Belles 
Lettres,  1995,  pp.  21-61).  In  maniera  del  tutto  generica,  Platone  {Repubblica, 
50ib)  accosta  il  lavoro  del  filosofo  che  «disegna»  il  nuovo  Stato  a  quello  del 
pittore  intento  a  ritoccare  il  suo  quadro  (cfr  Jacques  Jouanna,  Graphein. 
Écrire  et  peindre:  contribution  à  Vhistoire  de  Vimaginaire  de  la  mémoire  en  Grece 
ancienne,  in  La  littérature  et  les  arts  figurés  de  l'Antiquité  à  nos  jours  cit,  p.  63). 

464.  «Il  mito  pliniano  e  il  mito  platonico  sono  racconti  paralleli  senza  rap- 
porti sul  piano  tematico,  ma  tra  i  quali  è  possibile  stabilirne  a  livello  ermeneu- 
tico. Se  non  sono  mai  stati  studiati/interpretati  insieme,  ciò  è  dovuto  al  carat- 
tere rischioso  dell'iniziativa;  in  effetti,  Plinio  e  Platone  parlano  di  cose  tra  loro 
diverse  e  ne  parlano  in  contesti  diversi.  Parecchi  sono  tuttavia  gli  elementi  che 
giustificano  lo  stabilirsi  di  correlazioni  tra  questi  due  testi:  prima  di  tutto  si 
tratta  di  due  miti  sulle  origini  (origine  dell'arte  in  Plinio,  della  conoscenza  in 
Platone);  in  secondo  luogo  il  mito  degli  inizi  della  rappresentazione  artistica  e 
quello  della  rappresentazione  cognitiva  si  incentrano  su  di  uno  stesso  motivo: 
la  proiezione;  per  finire,  questa  proiezione  originaria  è  una  macchia  in  nega- 
tivo, è  un'ombra»:  V.  Stoichita,  Breve  storia  dell'ombra.  Dalle  origini  della  pit- 
tura alla  Pop  Art  cit,  p.  io. 

465.  Ibidem.  Va  detto  però  che  Stoichita  non  presta  molta  attenzione  al 
fatto  che  per  Platone  l'ombra  assume  soprattutto  una  connotazione  negativa 
(cfr.  infra,  p.  154). 


150  INTRODUZIONE 

Alberti,  Vasari  e  l'ombra  di  Narciso 

Ritornerò  più  avanti  su  questo  punto.  Adesso  mi  sembra  impor- 
tante ricordare  che  il  mito  raccontato  da  Plinio  subisce  nel  Quattro- 
cento una  modificazione  significativa.  Leon  Battista  Alberti,  nel  suo 
De  pictura,  accenna  brevemente  alle  origini  di  quest'arte,  riscrivendo 
l'immagine  evocata  dalle  due  fonti  latine: 

Però  usai  di  dire  tra  i  miei  amici,  secondo  la  sentenza  de'  poeti,  quel 
Narcisso  convertito  in  fiore  essere  della  pittura  stato  inventore;  che  già  ove 
sia  la  pittura  fiore  d'ogni  arte,  ivi  tutta  la  storia  di  Narcisso  viene  a  pro- 
posito. Che  dirai  tu  essere  dipignere  altra  cosa  che  simile  abbracciare  con 
arte  quella  ivi  superficie  del  fonte?  Diceva  Quintiliano  ch'e'  pittori  antichi 
solcano  circonscrivere  l'ombre  al  sole,  e  così  indi  poi  si  trovò  questa  arte 
cresciuta  ■'6^. 

Qui  Alberti  intreccia  il  motivo  dell'ombra,  ricorrente  in  Plinio  e  in 
Quintiliano ■'''^,  con  il  mito  di  Narciso  che  contempla  la  sua  immagine 
in  una  fonte''^^.  L'originale  commistione  fissa  la  nascita  della  pittura 
in  un  atto  erotico  che  si  riflette  sul  soggetto.  Narciso,  infatti,  si  inna- 
mora, senza  saperlo,  della  sua  ombra  proiettata  nell'acqua.  Ma  nello 
stesso  tempo  questa  esperienza  d'amore  finisce  anche  per  segnare  il 
destino  dell'arte  del  dipingere:  proprio  in  quel  rispecchiarsi  del  sé  si  in- 
scrive il  valore  illusorio  della  pittura,  delle  immagini  che  essa  produ- 
ce. L'atto  fondatore,  per  Alberti,  coincide  con  un  gesto  simbolico  ben 
preciso,  con  il  disperato  tentativo  di  «abbracciare  con  arte  quella  [...] 
superficie  del  fonte».  Narciso  e  il  pittore,  come  ha  dimostrato  Giuseppe 


466.  «Quae  cum  ita  sint,  consuevi  Inter  familiares  dicere  picturae  invento- 
rem  fuisse,  poetarum  sententia,  Narcissum  illum  qui  sit  in  florem  versus,  nam 
cum  sit  omnium  artium  flos  pictura,  tum  de  Narcisso  omnis  fabula  pulchre  ad 
rem  ipsam  perapta  erit  Quid  est  enim  aliud  pingere  quam  artem  superficiem 
illam  fontis  amplecti?  Censebat  Quintilianus  priscos  pictores  solitos  umbras  ad 
solem  circumscribere,  demum  additamentis  artem  excrevisse»:  Leon  Battista 
Alberti,  De  pictura,  in  Opere  volgari,  voi.  Ili,  a  cura  di  Cecil  Grayson,  Bari, 
Laterza,  1973,  pp.  46-47. 

467.  Plinio  viene  ricordato  da  Alberti,  sempre  nel  De  pictura,  subito  dopo  il 
brano  dedicato  a  Narciso:  «Ma  qui  non  molto  si  richiede  sapere  quali  prima 
fussero  inventori  dell'arte  o  pittori,  poi  che  non  come  Plinio  recitiamo  storie, 
ma  di  nuovo  fabrichiamo  un'arte  di  pittura  [...]»  [«Sed  non  multum  interest 
aut  primos  pictores  aut  picturae  inventores  tenuisse,  quando  quidem  non  hi- 
storiam  picturae  ut  Plinius  sed  artem  novissime  recenseamus  (...)»]:  Ibidem. 

468.  Non  può  essere  considerato  certo  un  caso  che  Filarete  annoveri  anche 
Narciso  tra  i  pittori:  «Narcisso  gli  era  ancora,  il  quale  la  storia  sua  aveva  di- 
pinta poi  come  quando  si  convertì  in  fiore»  (Antonio  Averlino  detto  il  Fila- 
rete,  Trattato  di  Architettura,  testo  e  cura  di  Anna  Maria  Pinoli  e  Liliana 
Grassi,  introduzione  e  note  di  Liliana  Grassi,  Milano,  il  Polifilo,  1972,  t  2, 
p.  581). 


INTRODUZIONE  I5I 

Barbieri,  si  misurano  con  i  «  riverberi  »-^^''.  La  loro  esperienza  conosci- 
tiva si  svolge  all'interno  di  un  perimetro  «drasticamente  limitato  alle 
apparenze  sensibili,  a  quella  illusoria  verità  che  si  rivela  in  superfi- 
cie»-^''^. La  pittura,  proprio  come  attesta  la  vicenda  vissuta  dal  suo  mi- 
tico fondatore,  si  muove  solo  in  un  orizzonte  dominato  dagli  accidenti, 
dalle  apparenze,  dalle  mutazioni.  Lo  sforzo  di  Narciso  di  afferrare  la 
sua  immagine  e  quello  dell'artista  di  stringere  una  realtà  sfuggente 
fanno  dell'impossibile  «abbraccio»  l'essenza  stessa  di  chi  lavora  con  le 
ombre ''^'.  Ma  su  questi  temi  ritornerò  più  avanti. 

Adesso  mi  preme  sottolineare  che  il  nuovo  modello  albertiano  sem- 
bra coincidere  simbolicamente  con  l'interpretazione  che  Vasari  ci  offre 
del  mito  delle  origini  della  pittura:  l'artista  in  due  affreschi,  dipinti 
rispettivamente  nella  sua  casa  di  Arezzo  nel  1548  e  in  quella  di  Fi- 
renze intomo  al  1570,  disegna  infatti  un  pittore  che  contoma  la  sua 
ombra  proiettata  sul  muro  (fig.  i)-'^^.  La  «riscrittura»  vasariana  pro- 
pone un  modello  alternativo  rispetto  a  quello  offerto  da  Plinio:  mentre 
in  quest'ultimo,  come  testimonia  uno  stupendo  quadro  di  Murillo  con- 
servato a  Bucarest  (fig.  2)"^"^,  contornare  l'ombra  significa  circoscrivere 


469.  Cfr.  Giuseppe  Barbieri,  L'inventore  della  pittura.  Leon  Battista  Alberti  e 
il  mito  della  pittura,  introduzione  di  Giancarlo  Sciolla,  Vicenza,  Terra  Ferma, 
2000,  pp.  145-159. 

470.  Ibidem,  p.  154.  Barbieri  mostra  in  maniera  persuasiva  che  nel  De  pie- 
tura  l'uso  insistito  del  termine  «superficie»  in  diversi  contesti  del  trattato  au- 
torizza una  piena  identificazione  di  questo  concetto  con  quello  di  «pittura». 

471.  Ibidem,  pp.  168-169.  Al  tema  dell'ombra.  Barbieri  dedica  un  intero  ca- 
pitolo: Umbra.  Narciso  dopo  Ovidio  (pp.  1 17-140). 

472.  «Ma,  secondo  che  scrive  Plinio,  questa  arte  venne  in  Egitto  da  Gige 
lidio,  il  quale,  essendo  al  fuoco  e  l'ombra  di  se  medesimo  riguardando,  subito 
con  un  carbone  in  mano  contornò  se  stesso  nel  muro;  e  da  quella  età  per  un 
tempo  le  sole  linee  si  costumò  mettere  in  opera  senza  corpi  di  colore,  sì  come 
afferma  il  medesimo  Plinio»:  Giorgio  Vasari,  Le  vite  de'  più  eccellenti  architetti, 
pittori,  et  scultori  italiani,  da  Cimabue  insino  a'  tempi  nostri  (Edizione  per  i  tipi 
di  Lorenzo  Torrentino,  Firenze,  1550),  a  cura  di  Luciano  Bellosi  e  Aldo  Rossi, 
presentazione  di  Luciano  Previtali,  Torino,  Einaudi,  1986,  p.  91.  Bisogna  ricor- 
dare che  Vasari,  leggendo  male  il  testo  di  Plinio,  attribuisce  erroneamente  a 
Gige  di  Lidia,  inventore  del  gioco  della  palla,  l'origine  della  pittura:  «[...]  pilam 
lusoriam  Gyges  Lydus  [instituit);  picturam  Aegyptii  [...]»  |«Gige  di  Lidia  [fon- 
dò] il  gioco  della  palla;  la  pittura  ebbe  origine  in  Egitto  [...]»]:  Plinio,  Storia 
naturale.  II.  Antropologia  e  zoologia  (Libri  j-ii).  traduzioni  e  note  di  Alberto 
Borghini,  Elena  Giannarelli,  Arnaldo  Marcone,  Giuliano  Ranucci,  Torino,  Ei- 
naudi, 1983,  v.  II  (VII,  205),  pp.  126-127.  Sulla  datazione  dei  due  affreschi  di- 
pinti da  Vasari  nelle  sue  case  di  Arezzo  e  di  Firenze  cfr  Pierre  Georgel- 
Anne  Marie  Lecoq,  La  Pittura  nella  pittura.  Milano,  Mondadori,  1987,  p.  100. 

473.  Una  bellissima  riproduzione  del  quadro  (1660-1665)  —  conosciuto  con 
vari  titoli:  Arte  della  pittura.  L'origine  della  pittura.  Il  quadro  delle  ombre  -  è  nel 
catalogo  Maestra  Picturii  Europene.  Secolele  XV-XVII.  Muzeul  National  de  Artà 
al  Romàniei,  Milano,  Electa,  1998,  pp.  78-79  (cfr  V.  Stoichita,  Breve  storia 
dell'ombra.  Dalle  origini  della  pittura  alla  Pop  Art  cit,  pp.  42-44).  per  Plinio  e 
l'aneddoto  di  Butade,  cfr.  infra  nota  598. 


152  INTRODUZIONE 

la  proiezione  dell'altro,  in  Vasari,  al  contrario,  riprodurre  l'ombra  si- 
gnifica riprodurre  l'immagine  della  propria  ombra.  Nel  primo  caso  il 
pittore  e  il  modello  sono  due  persone  diverse  (Plinio).  Nel  secondo  caso, 
invece,  soggetto  e  oggetto  della  riproduzione  vengono  a  coincidere  nel- 
la figura  dell'artista:  Vasari  incorpora  «lo  stadio  dell'ombra  in  quello 
dello  specchio»,  proponendo  una  rappresentazione  frontale  del  sé-*^-*. 
Ora,  indipendentemente  dalle  due  interpretazioni  del  mito,  tra  Cin- 
que e  Seicento  la  questione  delle  origini  della  pittura  non  viene  igno- 
rata né  sul  piano  teorico,  né  su  quello  specificamente  iconografico.  Al 
centro,  resta  sempre  il  tema  del  «contornamento»  dell'ombra.  Nella 
trattatistica  sulle  arti,  tanto  per  offrire  qualche  significativo  esempio, 
il  mito  viene  rievocato  da  Leonardo  da  Vinci  nel  Trattato  della  Pittura 
(«La  prima  pittura  fu  sol  di  una  linea,  la  quale  circondava  l'ombra 
dell'uomo  fatta  dal  sole  ne'  muri»)-*^^  (j^  Filarete  nel  Trattato  di  Archi- 
tettura («Eragli  ancora  quello  che  Quintiliano  dice  che  ritraeva  da 
l'ombra  del  sole  le  figure,  e  poi  si  venne  assottigliando  a  poco  a  poco 
l'arte »)•*'^  da  Anton  Francesco  Doni  nel  Disegno  («Ma  se  gl'ha  a  ri- 
guardare donde  le  derivano,  non  so  come  l'andrà,  perché  la  pittura 
venne  da  l'ombra  e  la  scoltura  da  gl'idoli »)-^^^,  da  Paolo  Pino  nel  suo 
Dialogo  di  pittura  («Ma  sia  come  si  voglia,  tutti  sono  conformi  nel 
modo  dell'invenzione,  affirmando  che  tal  arte  ebbe  origine  dall'ombra 
dell'uomo  »)^^^,  da  Giovanni  Andrea  Gillo  nel  dialogo  Degli  errori  e  de- 
gli abusi  de'  pittori  («Tutti  però  s'accordano  che  da  l'ombra  de  l'uomo 
origine  avesse,  la  quale  fu  in  quei  principii  grossamente  circoscrit- 
ta w)-^^*^,  da  Giovanni  Paolo  Lomazzo  nel  Libro  dei  sogni  («La  prima  pit- 
tura di  altro  che  di  linee  fatta  non  era,  secundo  il  principio  suo,  che 


474.  Sulla  riscrittura  vasariana  del  mito,  anche  in  relazione  al  modello  di 
Alberti,  cfr.  V.  Stoichita,  Breve  storia  dell'ombra.  Dalle  origini  della  pittura  alla 
Pop  Art  cit,  pp.  38-39. 

475.  Leonardo  da  Vinci,  Trattato  della  Pittura  cit  (§  126),  p.  58.  Una 
buona  sezione  della  quinta  parte  del  trattato  è  dedicata  al  tema  dell'ombra. 

476.  Antonio  Averlino  detto  il  Filarete,  Trattato  di  Architettura  cit,  L  2, 
p.  581. 

477.  Anton  Francesco  Doni,  Disegno  [Venezia  1549],  in  Scritti  d'Arte  del 
Cinquecento,  a  cura  di  Paola  Barocchi,  Milano,  Ricciardi,  1971-1977,  t.  I,  p.  564. 
Qui  l'allusione  di  Doni  cdìafabida  delle  origini  della  pittura  è  certamente  ironica, 

478.  Paolo  Pino,  Dialogo  di  pittura  [Venezia  1548I,  in  Trattati  d'arte  del 
Cinquecento  fra  Manierismo  e  Controriforma,  a  cura  di  Paola  Barocchi,  Bari,  La- 
terza, i960- 1962,  t  I,  p.  123. 

479.  Giovanni  Andrea  Gilio,  De^i  errori  e  degli  abusi  de'  pittori  circa  l'isto- 
rie [Camerino  1564],  in  Trattati  d'arte  del  Cinquecento  fra  Manierismo  e  Contro- 
riforma cii,  t  II,  p.  12.  Dei  dialoghi  del  Gilio  esiste  anche  una  ristampa  ana- 
statica: G.  A.  Gilio,  Due  dialogi,  introduzione  di  Paola  Barocchi,  Firenze, 
S.P.E.S.,  1986. 


INTRODUZIONE  I53 

COSÌ  del  dintorno  a  l'ombra  di  l'uomo  naque»)'*^°,  da  Giovati  Battista 
Armellini  nel  De'  veri  precetti  della  pittura  («Egli  è  opinione  comune 
[...]  che  la  pittura  si  trovasse  da  gli  Eggizzii  e  che  la  sua  origine  si 
sia  cavata  dall'ombra  dell'uomo»)'*^',  da  Raffaello  Borghini  ne  U 
Riposo  («Del  principio  della  pittura  varie  sono  l'opinioni;  [...]  ma 
tutti  s'accordano,  che  circondando  l'ombra  dell'huomo  con  una  sol 
linea  primieramente  si  facesse,  e  poi  aggiungendovi  un  sol  colore,  e 
ponendovi  più  diligenza»)''^^  g  ^a  Antonio  Possevino  nella  Tractatio 
de  Poèsi  et  Pictura  («[...]  nam  cum  picturam  primum  inventam  tra- 
didisset  hominis  umbra  circumducta,  deinde  ostendisset  umbram 
fuisse  coloribus  inductam,  ac  post  modum  linearum  sine  coloribus, 
addidit  [...]»)^**'.  Mentre,  in  un  ambito  legato  alle  immagini,  abbiamo 
le  testimonianze  di  Laurentius  Haechtanus  (fig.  3)  —  che  nel  suo 
Mikrokosmos  (i579)''*'^  inserisce  una  silografia  intitolata  Inventar  pic- 
turae,  poi  ripresa  nel  Gundel  Winckel  di  Joost  van  den  Vondel'^^^  _ 
e  di  un  capolettera,  conservato  in  un  volume  di  Joachim  von  San- 
drart  della  Deutsche  Akademie  di  Norimberga  (1675),  in  cui  è  dise- 


480.  Giovanni  Paolo  Lomazzo,  Libro  dei  sogni  [1563?],  in  Scritti  sulle  arti, 
a  cura  di  Roberto  Paolo  Ciardi,  Firenze,  Marchi  &  Bertolli,  1973,  t.  I,  p.  88. 

481.  GiovAN  Battista  Armenini,  De'  veri  precetti  della  pittura  [Ravenna 
1586],  edizione  a  cura  di  Marina  Gorreri,  prefazione  di  Enrico  Castelnuovo, 
Torino,  Einaudi,  1988,  p.  57.  Poco  più  avanti,  l' Armenini  aggiunge:  «Ma  se- 
condo Plinio  fu  l'inventore  Gige  Lidio  d'Egitto,  il  quale  dice  che,  essendo  al 
fuoco  e  risguardando  la  sua  ombra,  tolse  un  carbone  e  contornò  se  stesso» 
{Ibidem). 

482.  Raffaello  Borghini,  Il  Riposo,  Fiorenza,  Appresso  Giorgio  Mare- 
scotti,  1584,  p.  266  (rist.  anastatica  a  cura  di  Mario  Rosei,  Milano,  Edizioni 
Labor,  1967). 

483.  «Infatti,  dopo  aver  detto  che  la  pittura  fu  scoperta  per  la  prima  volta 
contornando  l'ombra  di  un  uomo,  e  che  poi  la  pittura  era  stata  un'ombra  co- 
perta di  colori  ed  anche  fatta  di  sole  linee  senza  colori,  ha  aggiunto  [...]»:  An- 
tonio Possevino,  Tractatio  de  Paesi  et  Pictura  ethnica,  humana  et  fabulosa  col- 
lata cum  vera,  honesta  et  sacra  [Lugduni,  1595],  in  Scritti  d'Arte  del  Cinquecento 
cit,  voi.  I,  p.  42. 

484.  Laurentius  Haechtanus  [Laurens  van  Haecht  Goidtsenhoven], 
Mikrokosmos.  Parvus  mundus,  Antwerp,  apud  Gerardum  de  lode,  1579,  em- 
blema 72  (su  questo  testo  cfr.  Judith  Dundas,  Emblems  on  the  Art  of  Painting: 
Pictura  and  Purpose,  in  «Glcisgow  Emblem  Studies»,  Nine  Essays  edited  by 
Alison  Adams,  voi.  i,  1996,  pp.  76-77).  Una  ristampa  di  questa  raccolta  viene 
pubblicata  sempre  ad  Anversa  proprio  nel  1584.  L'emblema  raffigura  un  pa- 
store intento  a  contornare  con  un  bastone  l'ombra  proiettata  da  una  pecora.  È 
interessante  notare  che  la  riproduzione  «al  naturale»  della  pecora  ricorda 
l'aneddoto,  raccontato  da  Vasari  nella  vita  di  Giotto,  in  cui  Cimabue  scopre  le 
doti  dell'inconsapevole  giovane  pittore  proprio  mentre  questi  ritrae  il  quadru- 
pede con  un  sasso  appuntito  su  una  lastra  (cfr.  G.  Vasari,  Le  vite  de'  più.  eccel- 
lenti architetti,  pittori,  et  scultori  italiani,  da  Cimabue  insino  a'  tempi  nostri  cit., 
p.  118). 

485.  Joost  van  den  Vondel,  Die  vernieuwde  gunden  winckel  kunstliebende 
Nederlanders...,  Amstelredam,  Dirck  Pietersz,  1622,  emblema  71. 


154  INTRODUZIONE 

gnato  un  pittore  nell'atto  di  circoscrivere  la  sua  ombra  proiettata  su 
un  muro  (fig.  4)"'*^. 

Filosofo  e  pittore:  il  «superamento»  dell'ombra 

Adesso,  su  un  piano  strettamente  simbolico,  non  è  difficile  capire 
cosa  possano  avere  in  comune  il  filosofo  e  il  pittore"**'.  Entrambi  lavo- 
rano con  le  ombre^^,  fabbricano  immagini  a  partire  da  proiezioni,  si 
misurano  continuamente  con  una  realtà  costruita  sul  complesso  rap- 
porto tra  sostanza  e  apparenza.  Del  resto,  è  Bruno  stesso  a  riconoscere 
che  i  pittori  nella  fase  iniziale  si  limitano  a  «imbozzar  certi  occolti  e 
confusi  delineamenti  et  ombre  »"**^.  Pittore  e  filosofo  —  e  questo  mi 
sembra  il  dato  più  significativo  -  si  sforzano  insomma  di  «superare» 
lo  stadio  dell'ombra  per  svolgere  la  loro  professione  ai  livelli  più  alti. 
Ma  questo  «superamento»  non  implica  una  svalutazione  del  potere 
conoscitivo  dell'ombra,  come  accade  nel  mito  evocato  da  Platone'*''*^: 


486.  JOACHIM  VON  Sandrart,  Uacodemia  tedesca  della  architettura,  scultura 
e  pittura,  oder  Teutsche  Akademie....  Niimberg.  J.  Von  Sandrart  1675,  p.  i.  Sem- 
pre all'interno  dello  stesso  in-folio  c'è  una  seconda  parte  che  contiene  due 
incisioni  di  fronte  alla  p.  2,  legate  alla  descrizione  del  mito  delle  origini 
della  pittura:  nella  prima  c'è  un  pastore  che  contoma  con  un  bastone  l'ombra 
proiettata  dal  suo  corpo  e  nella  seconda  si  vede  la  figlia  di  Butade  contornare 
l'ombra  dell'amato  proiettata  su  un  muro.  Su  queste  due  irtimagini  rinviamo  a; 
V.  Stoichit.a,  Breve  storia  dell'ombra  cit,  pp.  116-119;  Édouard  Pommier, 
Théories  du  portrait.  De  la  Renaissance  aux  Lumières,  Paris,  Gallimard,  1998, 
pp.  21-23. 

487.  Leonardo  da  Vinci,  da  altri  punti  di  vista,  allude  più  volte  ai  rapporti 
tra  pittura  e  filosofia;  «La  pittura  si  estende  nelle  superficie,  colori  e  figure  di 
qualunque  cosa  creata  dalla  natura,  e  la  filosofia  penetra  dentro  ai  medesimi 
corpi,  considerando  in  quelli  le  loro  proprie  virtù,  ma  non  rimane  satisfatta 
con  quella  verità  che  fa  il  pittore  che  abbraccia  in  sé  la  prima  verità  di  tali 
corpi,  perché  l'occhio  meno  si  inganna»  (Leonardo  d.a  Vinci,  Trattato  della 
Pittura,  prefazione  di  Marco  Tabarrini.  Roma,  Unione  Cooperativa  Editrice, 
1890,  p.  6).  Poco  più  avanti.  Leonardo  dedica  un  paragrafo  al  tema  «Come  chi 
sprezza  la  pittura  non  ama  la  filosofia,  né  la  natura»,  ricordando  che  tutte  le 
forme  sono  composte  «di  ombra  e  lume»  {Ibidem,  p.  7). 

488.  «Hic  hominum  mores  picturae  gratia  scribit  /  Sic  operi  proprio  scriptu- 
ra  fideliter  baerei  /  Ut  res  pietà  minus  a  vero  deviet  esse.  /  0  nova  picturae  mi- 
racula,  transit  ad  esse  /  Quod  nihil  esse  potesti  picturaque  simia  veri,  /  Arte  nova 
ludens.  in  res  umbracula  rerum  /  Vertit  et  in  verum  mendacia  singula  mutat 
[...]»:  Alanus  de  Insulis,  Anticlaudianus  [\.  L  cap.  IV].  in  Patrologiae  cursus  com- 
pletus.  Lutetiae.  J.-P.  Migne.  1885,  t  CCX,  e.  491.  Sul  legame  pittura-ombra  e 
pittura-scrittura  cfr.  Giuseppe  Barbieri,  L'inventore  della  pittura.  Leon  Battista 
Alberti  e  il  mito  di  Narciso  cit,  pp.  211-212  (ma  si  veda  anche  Rosario  Assunto, 
La  critica  d'arte  nel  pensiero  medievale,  Milano,  il  Saggiatore.  1961,  p.  151). 

489.  Spaccio,  p.  179. 

490.  Sulla  concezione  negativa  dell'ombra  nella  filosofia  di  Platone  cfr. 
Roberto  Casati,  La  scoperta  dell'ombra.  Da  Platone  a  Galileo  la  storia  di  un 
enigma  che  ha  affascinato  le  grandi  menti  dell'umanità.  Milano.  Mondadori,  2001. 


INTRODUZIONE  I55 

dall'ombra  bisogna  comunque  partire  per  conoscere  il  mondo'^'^'. 
Senza  l'ombra,  non  sarebbe  possibile  risalire  alla  consistenza  materiale 
delle  cose''^^.  Il  Nolano,  l'ho  ricordato  più  volte,  apre  la  serie  delle 
opere  italiane  nelle  vesti  di  pittore-filosofo  e  la  chiude  presentandosi 
come  un  filosofo-pittore.  Non  si  tratta  di  una  banale  casualità.  Anzi,  al 
contrario,  questa  convergenza  si  configura  come  un'ulteriore  spia  del- 
l'unità strutturale  che  lega  le  sette  opere  italiane. 

Candelaio  e  Furori,  con  linguaggi  diversi,  insistono  sull'importanza 
del  «vedere».  Costituiscono  l'inizio  e  la  fine  di  un  percorso  circolare,  in 
cui  l'autore,  compiendo  per  tappe  il  suo  viaggio  nell'universo  infinito, 
cerca  di  dipingere  con  gli  occhi  della  mente  ciò  che  pochi  erano  riu- 
sciti a  percepire.  In  questo  consiste  la  filosofia-pittura  di  Bruno:  ren- 
dere visibile  l'invisibile,  spezzando  le  catene  di  una  Weltanschauung 
chiusa  e  limitata.  Tra  l'altro,  a  pensarci  bene,  i  «colori»  caratteristici 
del  ritratto  del  furioso  disegnato  nei  Furori  («Quindi  il  corpo  è  maci- 
lento, mal  nodrito,  estenuato,  ha  difetto  de  sangue,  copia  di  malanco- 
lici  umori  »)■''=''  sembrano  coincidere  perfettamente  con  l'autoritratto 
che  l'autore  ci  aveva  già  offerto  nel  Candelaio'^'^'^ . 

Ma  Candelaio  e  Furori  —  mi  sia  consentita  questa  ipotesi  —  potreb- 
bero anche  prestarsi  a  una  «riscrittura»  in  chiave  filosofica  dei  due 
modelli  del  mito  delle  origini  della  pittura:  descrizione  dell'a/iro  nella 


Casati  ha  il  merito  di  mostrare  come  la  nozione  di  ombra  abbia  giocato 
un  ruolo  positivo  anche  nel  corso  della  storia  della  scienza,  soprattutto  nel- 
l'ambito dell'astronomia  (pp.  67-135). 

491.  Per  il  neoplatonismo,  l'ombra  riflessa  nello  specchio  consente  a  coloro 
che  non  si  lasciano  ingannare  come  Narciso  di  risalire  dal  menzognero  «rifles- 
so» alle  cose  reali:  cfr.  Einar  Mar  Jónson,  Le  miroir.  Naissance  d'un  genre  lit- 
téraire  cit.,  pp.  98-99. 

492.  Non  a  caso  nel  celebre  racconto  di  Adalbert  von  Chamisso  {Meraviglio- 
sa storia  di  Peter  Schlemihl,  1814),  il  protagonista  scopre  l'importanza  della  sua 
ombra  subito  dopo  averla  venduta  al  diavolo:  il  suo  corpo,  senza  la  proiezione 
dell'ombra,  finisce  per  non  avere  più  posto  nella  realtà.  Su  questo  tema,  anche 
in  relazione  alla  concezione  negativa  dell'ombra  in  Platone,  si  veda  Ernst 
GoMBRiCH,  Ombre,  Torino,  Einaudi.  1996,  pp.  13-16. 

493.  Furori,  p.  628.  In  questo  brano  non  è  diffìcile  ritrovare  l'eco  delle  teo- 
rie ficiniane:  «L'animo  dello  amante  è  rapito  inverso  la  immagine  dello  amato, 
che  è  nella  fantasia  scolpita:  e  inverso  la  persona  amata.  Inverso  questa  sono 
tirati  ancora  gli  spiriti,  e  volando  quivi  continuamente  si  consumano  [...].  Di 
qui  il  corpo  si  secca  e  impallidisce:  di  qui  gli  amanti  divengono  malinconici 
perché  l'umore  malinconico  si  moltiplica  per  il  sangue  secco,  grosso  e  nero.  E 
questo  umore  con  i  suoi  vapori  riempie  il  capo,  dissecca  il  cervello,  e  non  resta 
dì  e  notte  di  affliggere  l'Anima  di  immagini  nere  e  spaventevoli»  (Marsilio 
Pigino,  Sopra  lo  Amore,  ovvero  Convito  di  Platone,  a  cura  e  con  uno  scritto  di 
Giuseppe  Renzi,  Milano,  ES,  1992  |VI,  IX|,  p.  105;  ma  del  testo  latino  si  veda 
ora  la  nuova  edizione  curata  da  Pierre  Laurens:  Marsile  Ficin,  Commentaire 
sur  le  Banquet  de  Platon,  par  Pierre  Laurens,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  2002). 

494.  Cfr  supra,  p.  38. 


156  INTRODUZIONE 

commedia,  proiezione  del  sé  nel  dialogo.  In  effetti,  l'esperienza  di  Nar- 
ciso e  quella  di  Atteone  conducono  allo  stesso  risultato:  «vedere»  si- 
gnifica conoscere  (conoscersi),  prendere  coscienza  in  maniera  definitiva 
che  soggetto  e  oggetto  d'amore  coincidono.  Nel  rileggere  la  fonte  ovi- 
diana,  che  sta  alla  base  dei  due  miti,  balza  subito  agli  occhi  una  serie 
di  simboliche  analogie:  Narciso,  cacciatore  di  cervi,  si  avvicina  ad  una 
fonte  incontaminata,  in  un  luogo  dove  non  erano  mai  stati  né  uomini 
né  animali ■*^5;  «mentre  cerca  di  spegnere  la  sua  sete,  un'altra  sete  gli 
cresce »-*^^;  si  invaghisce  della  forma  che  vede  riflessa,  «spera  in  un 
amore  che  non  ha  corpo,  crede  che  sia  un  corpo  quella  che  è  un'om- 
bra w'*^^;  desidera  «senza  saperlo  se  stesso;  elogia  ma  è  lui  l'elogiato,  e 
mentre  brama,  si  brama,  e  insieme  accende  e  arde»"''^^;  tenta  dispera- 
tamente più  volte  di  abbracciare  ciò  che  gli  sfugge  perché  non  sa  che 
«questa  che  scorgi  è  l'ombra,  il  riflesso  della  tua  figura»-*'*'^;  «Né  desi- 
derio di  cibo,  né  desiderio  di  riposo  riesce  invece  a  staccarlo  da  lì»'™; 
si  consuma  irreversibilmente  quando  scopre  di  essersi  innamorato  di 
se  stesso'^'.  Nel  sacrificio  estremo  della  sua  esistenza,  Narciso  compie 
la  profezia  di  Tiresia,  enunciata  sin  dalla  sua  nascita:  vivrà  solo  «Si  se 
non  noverit»,  se  non  conoscerà  se  stesso  5°^. 

Narciso,  Atteone  e  il  «miroèrs  perilleus»:  metamorfosi  e  conoscenza 

Mi  sembra  del  tutto  inutile  ricordare  che  l'enigmatica  figura  di 
Narciso  non  può  essere  circoscritta  a  queste  sole  sequenze  delle  Meta- 
morfosi che  ho,  per  comodità,  selezionato '°^  Resta  però  evidente  che 


495.  «Fons  erat  inlimis,  nitidis  argenteus  undis,  /  quem  ncque  pastores  nc- 
que pastac  monte  capellac  /  contigcrant  aliudve  pecus,  qucm  nulla  volucris  / 
nec  fera  turbarat  nec  lapsus  ab  arbore  ramus»:  Publio  Ovidio  Nasone,  Meta- 
morfosi a  cura  di  Piero  Bernardini  Marzolla,  con  uno  scritto  di  Italo  Calvino, 
Torino,  Einaudi,  1979  (III,  407-10),  pp.  112-113. 

496.  «dumque  sitim  sedare  cupit,  sitis  altera  crevit»:  Ibidem  (III,  415). 

497.  «spem  sine  corpore  amat,  corpus  putat  esse,  quod  umbra  est»:  Ibidem 
(III,  417). 

498.  «Se  cupit  inprudens  et,  qui  probat,  ipse  probatur  /  dumque  petit,  pe- 
titur,  pariterque  accendit  et  ardet»:  Ibidem  (III,  425-426). 

499.  «Ista  repercussae,  quam  cemis,  imaginis  umbra  est»:  Ibidem  (III,  434). 

500.  «Non  illum  Cereris,  non  illum  cura  quietis  /  abstrahere  inde  potest 
[...]»:  Ibidem  (III,  437-438). 

501.  «Uror  amore  mei,  flammas  moveoque  feroque»;  Ibidem  (III,  464),  pp. 
114-115. 

502.  «[...]  de  quo  consultus,  an  esset  /  tempora  maturae  visurus  longa  se- 
nectae,  /  fatidicus  vates  "Si  se  non  noverit"  inquit»:  Ibidem  (III,  346-348),  pp. 
108-109.  Nonostante  il  contesto  sia  ambiguo  -  si  potrebbe  indicare  il  «conoscere» 
anche  nel  senso  di  «riconoscersi»  —  resta  comunque  legittima  l'interpretazione 
che  vede  anche  nell'atto  di  «riconoscersi»  una  maniera  di  «conoscere  se  stesso». 

503.  Per  una  ricostruzione  delle  varie  rielaborazioni  del  mito  fino  al  roman- 


INTRODUZIONE  I57 

in  Ovidio  il  mito  diventa  espressione  degli  inganni  prodotti  dalla  con- 
fusione tra  apparenza  e  realtà.  Nell'esperienza  del  solitario  cacciatore, 
messa  in  scena  nelle  Metamorfosi,  i  temi  dell'errore  e  dell'illusione 
fanno  di  questo  specifico  episodio  quasi  una  mise  en  abyme  dell'intero 
poema'^"*.  Narciso,  infatti,  è  vittima  di  un  duplice  riflesso  illusorio: 
vede  la  sua  immagine  nell'acqua  e  crede  che  si  tratti  di  un'altra  per- 
sona (illusione  ottica);  ascolta  riecheggiare  una  voce  che  non  riconosce 
come  sua  (illusione  acustica).  In  entrambi  i  casi,  Vimago  nella  fonte  e 
Vimago  vocis  si  manifestano  come  se  fossero  realtà  vere  e  autonome, 
mentre  sono  solo  il  «riflesso»,  la  «copia»  del  soggetto  che  le  produce. 
Lo  smarrimento  di  Narciso  -  oltre  a  rivelare  la  «tragicommedia  del- 
l'amore di  sé»,  di  chi  scopre  che  soggetto  e  oggetto  del  rapporto  erotico 
coincidono  —  esemplifica  a  perfezione  il  rapporto  paradossale  che  si 
instaura  tra  l'uomo  e  la  realtà  mutevole  che  lo  circondcL,  tra  lo  stesso 
poema  e  il  mondo: 

Il  paradosso  -  spiega  Gianpiero  Rosati  —  è  una  delle  forme  in  cui  si 
dispiega  lo  spettacolo  del  mondo:  esso  esprime  spesso  nel  modo  più  effi- 
cace l'opposizione  latente  tra  ciò  che  appare  e  ciò  che  è,  rivela  l'intima 
incongruenza  che  si  annida  nelle  cose  e  nel  mondo.  Il  paradosso,  in- 
somma, è  la  figura  che  nasce  dallo  scarto  tra  apparenza  e  realtà,  è  la  se- 
greta verità  di  un  mondo  dagl'incerti  confini.  Nel  poema  delle  forme  in 
movimento,  le  cose  possono  assumere  l'aspetto  più  imprevisto  e  sorpren- 
dente: ciò  che  sembra  reale  e  definitivo  può  di  colpo  rivelare  la  sua  natura 
transitoria,  può  tradire  la  sua  provvisoria  «superficie»  migrando  verso 
un'altra  forma  o  un'altra  dimensione.  I  motivi  dell'inganno,  del  travesti- 
mento, dell'equivoco  fatale,  dell'error  (spesso  inflitto  come  punizione  di- 
vina ai  mortali)  ricorrono  con  straordinaria  frequenza  nelle  Metamorfosi: 
sembrano  illustrare  la  legge  segreta  che  governa  la  scena  del  mondo:  la 
mutevolezza  delle  cose  e  l'illusorietà  delle  apparenze '°'. 

Nel  testo  ovidiano  imago  e  umbra  finiscono  per  diventare  sinonimi: 
l'autore  li  impiega  indistintamente  per  indicare  il  volto  di  Narciso ''^. 
E  nella  lirica  medievale,  alla  luce  della  brillante  analisi  proposta  da 


ticismo  rinviamo  all'ottimo  lavoro  di  Louise  Vince,  The  Narcissus  Theme  in  We- 
stern European  Literature  up  to  the  Early  ig"'  Century,  Land,  Gleerups,  1967. 

504.  Sul  mito  di  Narciso  nelle  Metamorfosi  ha  scritto  pagine  importanti 
Gianpiero  Rosati,  Narciso  e  Pigmaltone.  Illusione  e  spettacolo  nelle  Metamorfosi 
di  Ovidio,  con  un  saggio  di  Antonio  La  Penna,  Firenze,  Sansoni,  1983.  Sui  le- 
gami tematici  tra  l'episodio  del  mitico  cacciatore  e  l'intero  poema  cfr.  Ibidem, 
pp.  44-46. 

505.  Ibidem,  p.  39.  Per  la  «tragicommedia  dell'amore  di  sé»  cfr.  Ibidem, 
p.38. 

506.  Cfr.  Giuseppe  Barbieri,  L'inventore  della  pittura.  Leon  Battista  Alberti  e 
il  mito  della  pittura  cit,  p.  117. 


158  INTRODUZIONE 

Giorgio  Agamben,  il  mito  viene  spesso  assunto  a  paradigma  dell'alle- 
goria d'amore,  «secondo  uno  schema  psicologico  per  cui  ogni  autentico 
innamoramento  è  sempre  un  "amare  per  ombra"  o  per  "figura"»,  come 
«ogni  profonda  intenzione  erotica  è  sempre  rivolta  idolatricamente  a 
un' ymage»^^''.  Lungo  questo  itinerario  esegetico,  Agamben  utilizza  la 
teoria  fantasmatica  averroistica  come  strumento  di  lettura  per  capire 
le  diverse  rappresentazioni  poetiche  dello  sforzo  che  l'innamorato 
compie  nei  ripetuti  tentativi  di  afferrare  un'immagine  sfuggente,  di 
abbracciare  un  fantasma  riflesso  in  un  miroers  perilleus^^^. 

Ma  è  ora  di  rimettere  al  centro  dell'attenzione  i  possibili  legami 
tematici  tra  l'esperienza  di  Narciso  e  quella  di  Atteone.  Entrambi,  cac- 
ciatori di  cervi,  muoiono  per  aver  visto  ciò  che  non  si  sarebbe  dovuto 
vedere:  Atteone  contempla  Diana  nuda  mentre  si  bagna  in  una  fonte  e 
Narciso  la  sua  immagine  riflessa.  In  entrambi  i  casi,  però,  la  visione 
avviene  in  presenza  di  una  imago  riflessa  in  una  fonte'"^.  Lo  specchio 
d'acqua  si  rivela  un  miroers  perilleus,  che  provoca  nei  due  personaggi 
una  profonda  metamorfosi.  Narciso  e  Atteone,  in  tempi  e  modi  diversi, 
scoprono  che  quell'immagine  è  la  propria  e  che,  di  conseguenza,  sog- 


507.  Giorgio  Agamben,  La  parola  e  il  fantasma  nella  cultura  occidentale, 
Torino,  Einaudi,  1977,  p.  98.  Agamben,  tra  gli  altri,  fornisce  due  esempi  poetici 
significativi:  Chiaro  Davanzati  («Come  Narcissi  in  sua  spera  mirando  /  s'ina- 
morao  per  ombra  a  la  fontana»,  in  Poeti  del  Duecento,  a  cura  di  Gianfranco 
Contini,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  i960,  t.  I,  p.  425)  e  Ozil  de  Cadars  («Vos 
amador,  que  amatz  per  figura»,  in  Artur  Langfors,  Le  Troubadour  Ozil  de 
Cadars,  Helsinki,  Suomaleisen  Tiedeakatemian  Kustantama,  1913,  p-  5). 

508.  Giorgio  Ag.amben,  La  parola  e  il  fantasma  nella  cultura  occidentale 
cit,  pp.  73-155.  L'analisi  di  Agamben  della  teoria  del  fantasma  in  Averroè 
-  del  fantasma  concepito  come  punto  di  unione  tra  individuo  e  l'unico  intel- 
letto possibile  -  viene  posta  in  relazione  alle  teorie  dell'amore  nella  lirica  e  nei 
trattati  medievali,  aprendo  prospettive  nuove  ed  interessanti. 

509.  Atteone  vede  Diana  mentre  si  bagna  in  una  fonte,  ma  Ovidio  non 
specifica,  come  farà  invece  Bruno,  che  la  visione  della  dea  avviene  attraverso 
lo  specchio  dell'acqua.  Alla  visione  «riflessa»  allude  anche  Boccaccio:  «Hic 
[Actheon],  ut  ostendit  idem  Ovidius,  venator  fuit,  et  cum  die  quadam  vena- 
tione  fessus  in  valle  Gargaphie  descendisset,  eo  quod  in  ea  fontes  esset  recens 
et  limpidus,  et  ad  eum  forte  potaturus  accederet,  vidit  in  ea  Dianam  nudam  se 
lavantem.  Quod  cum  egre  Diana  tulisset,  sumpta  manibus  aqua,  in  faciem  eius 
proiecit  dicens  "Vade  et  die,  si  potes"»  [Questi  (Atteone),  come  indica  lo  stesso 
Ovidio,  fu  cacciatore.  Un  giorno,  stanco  per  la  caccia,  scese  nella  valle  Garga- 
fia,  perché  in  quella  c'era  un  fonte  fresco  e  limpido.  Si  avvicinò  per  bere  e  vide 
in  esso  Diana  nuda  che  prendeva  il  bagno.  Diana  non  tollerò  il  suo  sguardo  e 
presa  acqua  alle  mani  la  gettò  sulla  sua  faccia  dicendo  «Va  e  parla,  se  puoi»] 
(Giovanni  Boccaccio,  Genealogie  deorum  gentilium.  in  Tutte  le  opere  di  Gio- 
vanni Boccaccio,  a  cura  di  Vittorio  Zaccaria,  Milano,  Mondadori,  1998,  pp.  548- 
549).  Nelle  Metamorfosi  di  Ovidio,  però,  Atteone  ha  la  certezza  di  essere  stato 
trasformato  in  cervo  solo  quando  si  specchia  nell'acqua:  «Ut  vero  vultus  et 
comua  vidit  in  unda»  [«Quando  poi  si  vide  nell'acqua  quel  muso  e  le  coma»]: 
Metamorfosi  cit.  (II,  200),  pp.  102-103. 


INTRODUZIONE  159 

getto  ed  oggetto  della  visione  coincidono  nella  stessa  persona.  Per 
mezzo  delVimago,  insomma,  i  due  cacciatori  sperimentano  l'unione  tra 
chi  vede  e  chi  è  visto,  tra  vedente  e  veduto. 

Non  sarà  un  caso  se  nella  celebre  galleria  di  ritratti  «disegnata»  da 
Filostrato  trovano  posto  Narciso  e  Atteone  (a  quest'ultimo  è  dedicata 
solo  una  citazione),  in  una  prospettiva  che  probabilmente  fonda  pro- 
prio sul  tema  della  «visione»,  e  sulle  «punizioni»  che  da  essa  deri- 
vano, il  filo  rosso  che  guida  lo  spettatore  nella  fantastica  pinacoteca^'". 
E  nelle  Eikones,  tra  l'altro  -  al  di  là  delle  analogie  temiinologiche  che 
avrebbero  potuto  ispirare  il  già  discusso  brano  di  Alberti  sull'inven- 
zione della  pittura'"  -,  si  fa  esplicito  riferimento  al  gioco  degli  in- 
ganni che  l'immagine  proiettata  nello  specchio  d'acqua  produce  nel 
soggetto  che  la  guarda,  facendogli  credere  vero  un  riflesso  falso  "^. 

Per  Plotino,  invece,  l'errore  di  Narciso  e  il  suo  «dissolversi»  nell'ele- 


510.  Pierre  Hadot,  Le  mythe  de  Marcisse  et  son  interprétation  par  Plotìn,  in 
«Nouvelle  Revue  de  Psychanalise»,  13  (1976),  pp.  89-90  (ora  in  P.  Hadot,  Plo- 
tin,  Porphyre.  Études  néoplatoniciennes,  Paris,  Les  Belles  Lettres,  1999,  pp.  231- 
232);  ma  di  Hadot  si  veda  anche  il  bel  saggio  introduttivo,  in  parte  dedicato  al 
ritratto  di  Narciso,  in  Philostrate,  La  galerie  de  tableaux,  traduit  par  Auguste 
Bougot,  revoisé  et  annoté  par  Francois  Lissarague,  préface  de  Pierre  Hadot, 
Paris,  Les  Belles  Lettres,  1991,  pp.  VII-XXH.  Su  Narciso  e  Atteone  cfr.  Her- 
mann Frankel,  Ovid.  A  Poet  between  Two  Worlds,  Berkeley  and  Los  Angeles, 
University  of  California  Press,  1945,  p.  213;  su  Narciso,  pp.  82-85  (m^  si  veda 
anche  G.  Rosati,  Narciso  e  Pigmalione.  Illusione  e  spettacolo  nelle  Metamorfosi  di 
Ovidio  cit,  p.  21).  Il  testo  di  Filostrato  ebbe  una  circolazione  enorme  tra  Quat- 
trocento e  Cinquecento,  come  testimoniano  centinaia  di  manoscritti.  In  Fran- 
cia, e  poi  in  Europa,  giocò  un  ruolo  importantissimo  la  traduzione  di  Blaise  de 
Vigenère  (1578),  concepita  all'interno  del  milieu  dell'Académie  du  Palais,  per 
esaudire  un  desiderio  più  volte  manifestato  da  Enrico  III.  Per  la  fortuna  di 
Filostrato  e  della  traduzione  francese  si  veda  l'ottima  introduzione  di  Fran- 
goise  Oraziani  a  Philostrate,  Les  images  cu  tableaux  de  piatte  peinture.  Traduc- 
tion  et  commentaire  de  Blaise  de  Vigenère  (1578),  presente  et  annoté  par  Fran- 
goise  Oraziani,  Paris,  Honoré  Champion,  1995,  t.  I,  pp.  I-LXVIII  (in  particolare 
le  pp.  XXVII-L). 

511.  Cfr.  Giuseppe  Barbieri,  L'inventore  della  pittura.  Leon  Battista  Alberti  e 
il  mito  della  pittura  cit.,  pp.  84-85. 

512.  Anche  negli  Asolani  di  Bembo  l'immagine  di  Narciso  si  configura  pro- 
prio come  esempio  simbolico  del  rapporto  illusione/realtà:  «0  stolti,  che  vaneg- 
giate? voi  ciechi,  d'intorno  a  quelle  false  bellezze  occupati,  a  guisa  di  Narciso  vi 
pascete  di  vano  disio,  e  non  v'accorgete  che  elle  sono  ombre  della  vera,  che  voi 
abandonate?»  (Pietro  Bembo,  Prose  e  rime,  a  cura  di  Carlo  Dionisotti,  Torino, 
Utet,  1966,  pp.  488-489;  Bembo,  nel  secondo  libro,  ricorderà  anche  la  metamor- 
fosi di  Atteone  come  coincidenza  di  amante  e  amata:  ibidem,  p.  414).  Sullo  stesso 
tema  insiste  Tasso  in  un  passaggio  de  II  Minturno  overo  de  la  bellezza:  «[...]  sciocco 
è  senza  fallo  il  giudicio  di  coloro  i  quali  cercano  la  bellezza  in  queste  membra 
terrene:  e  mi  paiono  simili  a  quelli  che  rimirano  l'imagini  e  l'ombre  ne  l'acque, 
come  si  favoleggia  di  Narcisso,  e  mentre  abbracciano  l'onde  e  i  fuggitivi  simo- 
lacri,  restano  sommersi  senza  avedersene»  (Torquato  Tasso,  Dialoghi,  edizione 
critica  a  cura  di  Ezio  Raimondi,  Firenze,  Sansoni,  1958,  II/II,  p.  938). 


l6o  INTRODUZIONE 

mento  liquido,  cioè  nella  materia,  traducono  in  termini  simbolici  il  non 
aver  saputo  distinguere  tra  ombra  e  realtà,  mondo  visibile  e  idee'^^: 

Perché  chi  vede  la  bellezza  dei  corpi  non  deve  inseguirli,  ma  sapendo 
che  sono  immagini,  tracce  ed  ombre,  deve  fuggire  verso  ciò  di  cui  queste 
sono  immagini.  Se  infatti  qualcuno  corresse  loro  incontro  per  impadronir- 
sene, quasi  fossero  cose  reali,  assomiglierebbe  a  colui  che  volendo  afferrare 
la  bella  immagine  di  sé  che  affiorava  sull'acqua  -  a  questo  sembra  voleva 
alludere  una  favola  -  s'immerse  nella  corrente  profonda  e  scomparve.  Allo 
stesso  modo  chi  rimane  avvinto  dalla  bellezza  dei  corpi  e  non  se  ne  libera, 
sprofonderà  -  e  non  con  il  corpo  ma  con  l'anima  -  negli  abissi  scuri  e 
tristi  per  l'intelletto,  dove  cieco  rimarrà  nell'Ade,  ed  anche  là,  come  qui,  se 
ne  starà  in  compagnia  delle  ombre  "■*. 

Lo  stesso  pericolo  segnala  Ficino  nel  suo  commento  al  Simposio  di 
Platone.  Narciso  e  la  sua  ombra  rappresentano  la  duplice  natura  del- 
l'uomo, il  suo  essere  in  posizione  mediana  tra  spirito  e  materia,  tra  la 
caduca  bellezza  dei  corpi  e  la  vera  bellezza; 

Di  qui  seguita  quel  crudelissimo  fato  di  Narciso  che  canta  Orfeo:  di  qui 
seguita  la  miserabile  calamità  degli  uomini.  Narciso  adolescente,  cioè 
l'anima  dell'uomo  temerario  e  ignorante,  non  guarda  il  volto  suo:  che  si 
intende,  che  egli  non  considera  la  propria  sustanzia  e  virtù  sua;  ma  l'om- 
bra sua  nella  acqua  seguita,  e  sforzasi  d'abbracciarla;  cioè  bada  intomo 
alla  Bellezza  che  vede  nel  corpo  fragile,  corrente,  come  acqua,  la  quale  è 
ombra  dello  Animo:  lascia  la  sua  figura,  e  l'ombra  mai  non  piglia.  Perché 
l'animo  seguitando  il  corpo,  sé  medesimo  disprezza,  e  per  l'uso  corporale 
non  si  empie:  perché  egli  non  appetisce  in  verità  il  corpo:  ma  desidera 
(come  Narciso)  la  sua  spezie  propria,  allettato  dalla  forma  corporale:  la 
quale  è  immagine  della  spezie  sua;  e  perché  non  s'avvede  di  questo  errore, 
desiderando  una  cosa,  e  seguitandone  un'altra,  non  può  mai  empiere  il 
desiderio  suo.  E  però  si  distilla  in  lacrime,  cioè  l'animo  poi  che  è  caduto 
fuori  di  sé  e  tuffato  nel  corpo,  da  mortali  turbazioni  è  tormentato  e  mac- 
chiato dalle  macule  corporali,  quasi  affogci,  e  muore:  perché  già  apparisce 
corpo  piuttosto  che  animo^'^ 

Ma  le  interpretazioni  neoplatoniche  ci  torneranno  utili  più  tardi. 
Restano  evidenti  per  il  momento  -  e  indipendentemente  dalle  letture 
negative  o  positive  delle  vicende  che  riguardano  in  particolare  il  figlio 
di  Lirìope  -  le  analogie  che  collegano  l'esperienza  di  Narciso  e  quella 


513.  Pierre  Hadot,  Le  mythe  de  Marcisse  et  son  interprétation  par  Piotiti  cit., 
p.  244  e  p.  249  (p.  99  e  p.  103). 

514.  Plotino,  Enneadi  cit.  (1.6.8),  p.  201. 

515.  Marsilio  Ficino,  Sopra  lo  Amore,  ovvero  Convito  di  Platone  cit  (VI, 
XVIII),  pp.  127-128. 


INTRODUZIONE  l6l 

di  Atteone:  vedere  ciò  che  non  si  sarebbe  dovuto  vedere  e  scoprire, 
nella  visione,  che  l'oggetto  del  desiderio  coincide  con  se  stessi.  Si  tratta 
di  contiguità  che  potrebbero  trovare  conferma  anche  sul  piano  icono- 
grafico 5'^.  Nel  Thronus  cupidinis,  una  raccolta  di  emblemi  pubblicata 
ad  Amsterdam  nel  1620,  Atteone  e  Narciso  si  ritrovano  affiancati  in . 
una  sezione  dedicata  al  tema  dell'amore:  l'immagine  del  primo,  tra- 
sformato in  cervo  mentre  osserva  Diana  nello  specchio  d'acqua,  è  ac- 
compagnata da  commenti  in  versi  che  indicano  esplicitamente  nel 
«troppo  vedere»  la  causa  della  sua  rovina  (fig.  5)^'^;  la  silografia  del 
secondo,  in  cui  si  mostra  Narciso  specchiarsi  in  una  fonte, 
è  preceduta  da  componimenti  che  rinviano  al  motto  Nosce  te  ipsum 
(fig.  6)518.  La  stessa  iscrizione  delfica  aveva  ispirato  Nikolaus  Reusner 
(1545-1602)  che  nei  suoi  Emblemata,  pubblicati  a  Francoforte  nel  1581, 
colloca  Narciso  nella  sezione  intitolata  Nosce  te  ipsum^^'^. 

Bruno  e  Narciso:  Vimpossibile  abbraccio 

Bruno,  è  vero,  non  parla  esplicitamente  di  Narciso  né  nei  Furori,  né 
negli  altri  dialoghi  italiani.  Però  utilizza  per  ben  due  volte  il  mito 
nelle  opere  latine.  Nel  De  minimo,  per  ricordare  che  il  concetto  di  mi- 
nimo «ha  schivato  gli  sforzi  del  volgo,  come  l'acqua  le  fauci  bruciate 


516.  Vorrei  anche  segnalare  che  il  Filarete,  nel  proporre  una  serie  di  meta- 
morfosi per  ornare  le  facciate  di  un  intemo,  colloca  proprio  l'uno  accanto  al- 
l'altro i  due  miti:  «E  nelle  facciate  da  canto  vorrei  fare  alcune  cose  ch'io  ho 
lette,  cioè  come  Febo  andava  dietro  a  Dapne,  la  quale  si  convertì  in  uno  alloro; 
e  come  Narcisso  diventò  fiore;  e  come  Diana  convertì  Anteon  in  cervio;  e  ancora 
come  Perseo  tagliò  il  capo  a  Medusa;  e  '1  rapimento  di  Prosperpina  da  Pluto;  e 
alcune  altre  ancora»  (Antonio  Averlino  detto  il  Filarete,  Trattato  di  Architet- 
tura cit.,  t.  I,  p.  260;  il  corsivo  è  mio). 

517.  Thronus  cupidinis,  editio  tertia,  Amsterodami,  Apud  Wilhelmum  loan- 
sonium,  1620,  p.  30  (ristampa  anastatica  Amsterdam,  Universiteits-Bibliotheek, 
1968).  Questi  i  versi  che  figurano  sotto  il  titolo  Trop  voire  decoit:  «Si  le  bouillant 
desir  qui  brusle  la  jenesse,  /  Se  pouvoit  moderer  par  sens  et  par  raison,  /  Beau- 
coup,  qui  sur  la  fin  meurent  en  marisson,  /  Pourroient  pour  le  malheur  s'ap- 
proprier  liesse:  /  Car  tei  dresse  ses  yeux  plus  avant  qu'il  ne  doit,  /  Qui  s'en 
repent  bien  tost:  puis  que  trop  voir  decoit».  Le  silografie  dovrebbero  essere 
state  realizzate  da  Crispin  Van  de  Passe  senior  (1565/1570-1637),  autore  delle 
illustrazioni  di  un'edizione  delle  Metamorfosi  di  Ovidio  [Metamorphoseon,  deli- 
neata editi  per  Crispianum  Passaeum  calcographum,  1602]  e  di  un  ritratto  di 
Francis  Walsingham:  cfr.  D.  Franken,  L'OEuvre  grave  des  Van  de  Passe,  Am- 
sterdam, F  Muller,  1881. 

518.  Ibidem,  p.  31. 

519.  NicoLAUS  Reusner,  Emblemata,  Francoforti,  per  Ioannem  Feyera- 
bendt,  1581,  p.  137.  All'immagine  di  Narciso  in  questa  raccolta  di  emblemi  e 
nel  Thronus  cupidinis  accenna  Mario  Domenichelli,  //  limite  dell'ombra.  Le 
figure  della  soglia  nel  teatro  inglese  fra  Cinque  e  Seicento  cit.,  pp.  229-230. 


102  INTRODUZIONE 

di  Tantalo,  come  il  proprio  volto  Narciso,  come  l'ombra  il  proprio  cor- 
po»52o.  E  nel  De  immenso,  in  un  contesto  dominato  dagli  errori  della 
vecchia  cosmologia: 

Tanto  grande  è  la  confusione  che  ne  è  derivata  che  attribuiscono  il 
■  principio  di  questo  moto  apparente  del  mondo,  per  cui  si  scandiscono  le 
ore  del  giorno,  alla  sfera  che  si  eleva  al  di  sopra  di  ogni  cosa  e  non  si 
accorgono  di  possedere  già  ciò  che  ricercano,  ma  fanno  come  l'infelice 
Narciso  che  cerca  di  abbracciare  la  propria  immagine  nell'acqua  in  cui  si 
specchia.  Ma,  essendo  così  vicina,  invano  la  ricerca  lontano  e  quanto  più 
tende  le  braccia  e  quanto  più  le  si  avvicina,  tanto  più  la  vede  allontanarsi. 
Quanto  egli  avanza,  tanto  più  ella  indietreggia.  Intanto  gli  sta  di  fronte, 
sorridendo  a  lui  che  sorride,  scambiando  i  baci  con  i  baci.  Infatti  non  è 
frapposto  nulla  tra  Narciso  e  l'immagine,  se  non  il  piano.  Quando  egli 
cerca  di  abbracciarla  per  appagare  il  proprio  desiderio,  non  fa  altro  che 
sconvolgere  le  acque:  l'immagine  e  la  confusa  speranza  svaniscono,  af- 
finché egli  si  renda  conto  che  finzioni  hanno  costretto  l'uomo  ad  inutile 
fatica;  poiché,  tralasciando  le  cose  più  vicine  per  ricercare  sé  e  ciò  che  gli 
appartiene  fuori  di  sé,  infelice  ed  illuso  erra  tanto  lontano  da  sé  per 
quanto  gli  è  permesso  d'inoltrarsi  sempre  più  nei  templi  spaziosi  del  cielo 
e  di  introdursi  nell'augusta  reggia  degli  Dei^^i. 

Basterebbe  già  questa  lunga  citazione  per  testimoniare  la  cono- 
scenza diretta  della  fonte  ovidiana.  Ma  Bruno  vuole  lasciare  un  segno 
ancora  più  forte:  chiude  il  De  immenso  con  un  verso  «Narcissis  refe- 
ram:  peramarunt  me  quoque  Nymphae»^^^  che  riprende,  con  una  leggera 


520.  «[...]  (conamina  vulgi  /  Namque  olim  ingenti  studio  atque  labore  peti- 
tum  /  Elusit,  velati  fauces  aqua  Tantali  adustas,  /  Narcissum  vultusque  suus, 
sua  corpus  et  umbra)»:  Opp.  lai.,  I/III,  p.  251;  traduzione  italiana,  cit,  p.  195. 

521.  «Istis  nimirum  tanta  est  confusio  aderta,  /  Namque  apparentis  mundi 
vertiginis  hujus,  /  Qua  definitum  est  tempus  generale  diumum,  /  Principium 
tribuunt  huic,  quae  supereminet  omne,  /  Sphaerae  constanten  sibi  nec  adeo 
usque  propinquum  /  Agnoscunt,  velut  infelix  Narcissus  in  undis  /  Subjectis 
speciem  complecti  tendit;  at  illa  /  Proxima  cum  tam  sit,  frustra  tam  quaeritur 
extra:  /  Et  magis  atque  magis  protendens  brachia,  et  ultra  /  Amplius  adprope- 
rans,  tanto  illam  cemit  abire:  /  Quoque  ipse  accedens,  hoc  longius  illa  rece- 
dens.  /  Interea  occurrit,  ridenti  adridet,  et  ore  /  Oscula  quae  hic  parai  concin- 
nat  et  illa  vicissim;  /  Ut  praeter  planum  nihil  hunc  siet  inter  et  illam.  /  Ergo 
ubi  complexu  hic  votum  concludere  tentat,  /  Turbat  aquas:  species,  et  spes 
confusa  recedunt,  /  Ut  tandem  noscat  vanum  simulacra  laborem  /  Injunxisse 
viro,  quia  proxima  praetereundo,  /  Ut  sua  seque  suos  fines  exquireret  ultra,  / 
Devius  infelix  tam  longius  exulat  a  se,  /  Quam  spaciosa  magis  sibi  coeli  tem- 
pia subire  /  Suadet,  et  augustam  divum  pertingere  in  aulam»:  Opp.  lai.,  I/I,  p. 
317;  traduzione  italiana,  cit.,  pp.  512-513. 

522.  «Quod  si  ut  sum  factus,  divùm  prò  munere,  memet  /  Ingerero  rigi- 
dum,  membrisque  viriliter  acrem,  /  Infrenem,  invictum,  sementoseque  sonan- 
tem;  /  Narcissis  referam:  peramarunt  me  quoque  Nymphae»  [«Se  così  son 
fatto,  grazie  agli  Dei,  mi  conserverò  qual  sono,  severo,  virilmente  forte  nelle 


INTRODUZIONE  163 

modificazione,  il  secondo  emistichio  di  un  verso  delle  Metamorfosi 
(«Est  mea  quam  fugias  et  amarunt  me  quoque  nymphae»)^^^.  Qui  l'au- 
tore ci  fornisce  un  «autoritratto»  nei  panni  virili  di  chi,  come  Narciso, 
è  amato  dalle  ninfe.  L'attenzione  dedicata  al  mito  mostra  che  l'inte- 
resse del  Nolano  si  concentra  sull'impossibilità  dell'abbraccio,  sui  rap- 
porto ambiguo  tra  realtà  e  illusione  e,  soprattutto,  sul  fatto  che  non 
bisogna  cercare  le  cose  al  di  fuori  di  sé. 

Senza  questi  riferimenti  alla  figura  di  Narciso  sarebbe  difficile  co- 
gliere il  senso  profondo  dei  versi  del  Tansillo  che  Bruno  utilizza  nella 
Cena  all'interno  del  lungo  passaggio  dedicato  all'elogio  del  Nolano  e 
sfuggirebbero,  inoltre,  anche  alcuni  legami  sotterranei  che  rafforzano 
gli  intrecci  tra  il  De  immenso  e  le  opere  italiane  ^24.  In  un  contesto 


membra,  intrepido,  indomito  e  con  voce  maschile  dirò  ai  Narcisi:  le  Ninfe 
hanno  molto  amato  anche  me»]:  Opp.  lat,  I/II,  p.  318;  trad.  it,  cit,  p.  809.  Una 
probabile  allusione  al  puer  Narciso  potrebbe  essere  in  un  passaggio  iniziale  del 
De  immenso  dedicato  alla  distinzione  tra  luce  e  tenebre,  in  cui,  subito  dopo 
aver  evocato  l'immagine  del  Sileno,  si  cita  un  verso  («O  formose  puer  nimium 
ne  crede  colori»):  «Ad  isthaec,  quaeso  vos,  qualiacunque  primo  videantur  as- 
pectu  (si  iniqui  judicii  titulum  abhorretis)  adtendite:  ut  qui  vobis  insanire  vi- 
detur,  saltem,  quibus  insaniat  rationibus,  cognoscatis:  gratae  sub  echinorum 
asperitate  castaneae  absconduntur,  subque  silenis  preciosissimae  quandoque 
merces  occultantur.  0  formose  puer  nimium  ne  crede  colori.  Est  sententia,  quam 
prima  eminus  fronte  stultam,  et  contradictione  indignam  judicavi,  quae  de 
propinquo  possibilis,  et  de  proximo  vera  comperta  est,  demumque  penitius 
considerata  tum  necessaria  tum  evidentissima  comprobatur»  [«eccellenti  ca- 
stagne si  nascondono  sotto  l'irtosità  dei  ricci,  sostanze  assai  preziose  sotto  i 
sileni:  "0  bel  fanciullo,  non  credere  troppo  all'apparenza".  Sono  parole  che,  ad 
una  prima  considerazione,  ho  giudicato  stolte  ed  indegne  di  obiezione,  ma  da 
vicino  possibili,  dappresso  vere,  e  ora,  finalmente,  più  profondamente  esami- 
nate, appaiono  sia  necessarie  che  oltremodo  evidenti»]  {Opp.  lat..  I/I,  p.  208; 
trad.  it.  cit.,  pp.  424-425).  Qui  Bruno  cita  per  intero  un  verso  della  II  Bucolica 
di  Virgilio  —  «O  formose  puer  ninimium  ne  crede  colori»  [«(...)  O  mio  ragazzo 
bello  /  dell'apparenza  non  fidarti  tanto»]:  Virgilio,  Le  Bucoliche,  prefazione  e 
versione  di  Agostino  Richelmy,  Torino,  Einaudi,  1970,  v.  17,  p.  26  -  con  il 
chiaro  intento  di  alludere  al  tema  dell'apparenza:  in  effetti  il  personaggio  vir- 
giliano Alessi  ricorda  la  bellezza  di  Narciso,  che  nelle  Metamorfosi  viene  per 
ben  sei  volte  evocato  come  puer  (Ovidio,  Metamorfosi,  III,  vv.  352,  379,  413, 
454,  495,  500).  In  maniera  del  tutto  marginale  Narciso,  in  coppia  con  Eco, 
viene  utilizzato  nelle  ruote  del  De  umbris  (ed.  Sturlese,  cit,  p.  117). 

523.  Così  Narciso  parla  alla  sua  ombra:  «Quove  petitus  abis?  certe  nec 
forma  nec  aetas  /  est  mea,  quam  fugias,  et  amarunt  me  quoque  nymphae»  [«Do- 
ve te  ne  vai  mentre  io  ti  desidero?  E  sì  che  la  mia  bellezza  e  la  mia  età  non 
sono  da  disprezzare:  mi  hanno  amato  anche  delle  ninfe»]  (Metamorfosi,  III,  vv. 
455-456,  pp.  114-115;  il  corsivo  è  mio).  Devo  questa  indicazione  all'amico  Mi- 
guel Ange]  Granada  che  nel  rileggere  il  mio  dattiloscritto  e  nel  controllarne  le 
citazioni  ovidiane  mi  ha  segnalato  la  preziosa  ripresa,  sfuggitami  nella  prima 
lettura  delle  Metamorfosi 

524.  Per  le  relazioni  tra  opere  italiane  e  opere  latine  resta  ancora  un  solido 
punto  di  riferimento  il  saggio  di  Felice  Tocco,  Le  opere  latine  di  Giordano 


164  INTRODUZIONE 

strettamente  legato  alle  tesi  di  fondo  della  cosmologia  bruniana,  Teo- 
filo spiega  con  viva  passione  che  in  un  universo  infinito  e  omogeneo 
non  bisogna  «cercar  la  divinità  rimossa  da  noi»  perché  «l'abbiamo 
appresso,  anzi  di  dentro  più  che  noi  medesmi  siamo  dentro  a  noi», 
così  come  «gli  coltori  de  gli  altri  mondi  non  la  denno  cercare  appresso 
di  noi,  l'avendo  appresso  e  dentro  di  sé»  in  ragione  del  fatto  che  «non 
più  la  luna  è  cielo  a  noi,  che  noi  alla  luna»'^?.  Subito  dopo  segue  la 
citazione  di  due  ottave  di  Tansillo,  che  Teofilo  invita  a  rileggere  con 
altri  occhiali  per  tirarne  «certo  meglior  proposito»: 

Se  non  togliete  il  ben  che  v'è  da  presso, 
come  terrete  quel  che  v'è  lontano? 
Spreggiar  il  vostro  mi  par  fallo  espresso, 
e  bramar  quel  che  sta  ne  l'altrui  mano. 
Voi  séte  quel  ch'abandonò  se  stesso, 
la  sua  sembianza  desiando  in  vano; 
voi  séte  il  veltro  che  nel  rio  trabocca, 
mentre  l'ombra  desia  di  quel  ch'ha  in  bocca. 

Lasciate  l'ombre  et  abbracciate  il  vero, 
non  cangiate  il  presente  col  futuro, 
Io  d'aver  dì  meglior  già  non  dispero; 
ma  per  viver  più  lieto  e  più  sicuro, 
godo  il  presente,  e  del  futuro  spero: 
cossi  doppia  dolcezza  mi  procuro '^^ 

Qui  i  versi  del  Vendemmiatore,  riprodotti  con  qualche  variante,  ven- 
gono piegati  a  rappresentare  nuovi  significati.  Da  un  punto  di  vista 
legato  ad  un  generico  appello  edonistico  ai  valori  del  carpe  diem  e  alla 
necessità  di  non  trovare  il  «paradiso»  al  di  fuori  del  proprio  corpo '^7 
si  sposta  l'attenzione  verso  una  più  profonda  prospettiva:  le  strofe  fi- 


Bruno  esposte  e  confrontate  con  le  italiane,  Firenze,  Le  Monnier,  1889  (una  ri- 
stampa anastatica,  con  prefazione  di  Miguel  Angel  Granada,  è  annunciata  da 
Les  Belles  Lettres-Nino  Aragno  Editore). 

525.  Cena,  pp.  455-456. 

526.  Ibidem,  p.  456.  Alla  iìne  della  citazione,  Teofilo  ricorderà  il  ruolo  im- 
portante del  Nolano,  la  sua  straordinaria  capacità  di  vedere  ciò  che  gli  altri 
non  vedono:  «Con  ciò  un  solo,  benché  solo,  può  e  potrà  vencere,  et  al  fine  ara 
vinto  e  triomfarà  contra  l'ignoranza  generale;  e  non  è  dubio,  se  la  cosa  de' 
determinarsi  non  co  la  moltitudine  di  ciechi  e  sordi  testimoni,  di  convizii  e  di 
parole  vane,  ma  co  la  forza  di  regolato  sentimento,  il  qual  bisogna  che  con- 
chiuda al  fine:  perché  in  fatto  tutti  gli  orbi  non  vagliono  per  uno  che  vede,  e 
tutti  i  stolti  non  possono  servire  per  un  savio»  (Ibidem,  p.  456). 

527.  «E  se  quest'orto  in  grembo  vel  tenete,  /  perché  non  vi  pigliate  indi 
diporto?  /  A  che  loco  cercar  da  voi  diviso,  /  se  in  voi  stesse  trovate  il  paradi- 
so?»: Luigi  Tansillo,  Il  Vendemmiatore,  in  Io.,  L'egloga  e  i  poemetti,  con  intro- 
duzione e  note  di  Francesco  Flamini,  Napoli,  1893  (XVH,  w.  5-8),  p.  59. 


INTRODUZIONE  165 

niscono  per  mettere  sotto  gli  occhi  gli  errori  che  scaturiscono  dalla 
folle  scelta  di  perdere  se  stessi  per  inseguire  un'«  ombra  »528^  di  cercare 
altrove  ciò  che  già  possediamo.  Errori  esemplificati  in  due  analoghi 
episodi  letterari:  quello  di  Narciso  («Voi  séte  quel  ch'abandonò  se 
stesso,  /  la  sua  sembianza  desiando  in  vano»)  e  quello  della  cagna  pro- 
tagonista di  una  favola  di  Esopo  («voi  séte  il  veltro  che  nel  rio  tra- 
bocca, /  mentre  l'ombra  desia  di  quel  ch'ha  in  bocca»)529,  di  cui  Bruno 
farà  nuovamente  uso  in  un  importante  brano  dello  Spaccio^^^.  L'acco- 
stamento delle  due  fabulae  ci  autorizza  a  mettere  in  relazione  questi 
versi  con  un  altro  passaggio  del  De  immenso: 

Perché  a  proposito  dell'ordine  degli  elementi,  invece,  celiamo  con  mi- 
steri platonici  e  aristotelici  e  prestiamo  attenzione  a  parole  senza  senso? 
Perché  ci  solleviamo  su  una  scala  di  tal  genere  fino  a  quei  cieli  e  a  quelle 
ombre  celesti  e  fantasie,  con  ali  platoniche,  divine,  matematiche,  astratte, 
effimere,  come  se  non  avessimo  niente  davanti  agli  occhi  che  nobilmente 
ci  muova,  ci  inciti,  ci  renda  più  perfetti  e  ci  adomi?  Perché  lasciamo  le 
vere  specie  delle  cose  per  le  ombre  che  non  hanno  nessuna  consistenza, 


528.  L'allusione  al  perdere  se  stessi  per  inseguire  l'ombra  spiega  anche  ret- 
rospettivamente la  citazione  che  Teofilo  fa  all'inizio  dell'elogio  del  Nolano  {Ce- 
na, p.  453)  dei  versi  del  Furioso  (XXXV,  i,  w.  1-2)  dedicati  al  viaggio  di 
Astolfo  sulla  luna  per  recuperare  il  senno  perduto  di  Orlando;  nella  prima  ot- 
tava del  XXIV  canto,  infatti,  l'Ariosto  individua  con  chiarezza  la  causa  evi- 
dente della  follia:  «E  quale  è  di  pazzia  segno  più  espresso  /  che,  per  altri  voler, 
perder  se  stesso?»  (Ludovico  Ariosto,  Orlando  furioso,  a  cura  di  Lanfranco  Ga- 
retti, Torino,  Einaudi,  1996,  t.  II,  p.  698).  Sui  rapporti  Ariosto-Bruno  vedi  Lina 
Bolzoni,  Note  su  Bruno  e  Ariosto,  in  «Rinascimento»,  40  (2000),  pp.  19-43. 

529.  «Una  cagna  attraversava  un  fiume  con  un  pezzo  di  carne  in  bocca. 
Vide  la  propria  immagine  riflessa  nell'acqua,  credette  che  si  trattasse  di  un'al- 
tra cagna  con  un  pezzo  di  carne  più  grosso,  e,  lasciando  andare  il  suo,  balzò 
giù  per  afferrare  quello  di  quell'altra.  Ecco  come  fu  che  rimase  senza  l'uno  e 
senza  l'altro:  all'uno  non  ci  arrivò  perché  non  c'era;  all'altro  perché  esso  fu 
portato  via  dalla  corrente»  (Esopo,  La  cagna  che  portava  la  carne,  in  Favole, 
introduzione  di  Giorgio  Manganelli,  traduzione  di  Elena  Ceva  Valla,  Rizzoli, 
Milano,  1982  [185],  p.  211).  La  favola  è  ripresa  anche  da  Fedro  che  sintetizza 
già  nel  primo  verso  il  senso  del  racconto:  «Ammitit  merito  proprium  qui  alie- 
num  adpetit»  [«Chi  vuol  togliere  ad  altri  il  suo  può  perdere»]  {È  Cane  che  porta 
carne  pel  fiume,  in  Favole,  a  cura  di  Manlio  Faggella,  Milano,  Feltrinelli,  1982, 

PP-  32-33)- 

530.  «Lasciate  l'ombre  et  abbracciate  il  vero.  /  Non  cangiate  il  presente  col 
futuro.  /  Voi  siete  il  veltro  che  nel  rio  trabocca,  /  mentre  l'ombra  desia  di  quel 
ch'ha  in  bocca.  /  Aviso  non  fu  mai  di  saggio  o  scaltro  /  perder  un  ben  per 
acquistarne  un  altro.  /  A  che  cercate  sì  lungi  diviso  /  se  in  voi  stessi  trovate  il 
paradiso?  //  Anzi  chi  perde  l'un  mentre  è  nel  mondo,  /  non  speri  dopo  morte 
l'altro  bene:  /  per  che  si  sdegna  il  ciel  dar  il  secondo  /  a  chi  il  primero  don  caro 
non  tene;  /  cossi  credendo  alzarvi  gite  al  fondo,  /  et  a  i  piacer  togliendovi,  a  le 
pene  /  vi  condannate:  e  con  inganno  etemo  /  bramando  il  ciel  vi  state  ne 
l'inferno»  (Spaccio,  pp.  321-322).  Qui  Bruno  riscrive  le  strofe  del  Vendemmiatore 
operando  un  collage  di  versi,  leggermente  modificati,  delle  ottave  XVII-XX. 


l66  INTRODUZIONE 

uscendo  da  noi  stessi  non  diversamente  dal  cane  di  Esopo  che,  lasciata  la 
carne  che  aveva  in  bocca,  spinto  dall'avidità  dell'ombra  più  grande  si 
lanciò  precipitosamente  nel  fiume?'" 

L'immagine  del  cane  di  Esopo,  come  giustamente  ha  messo  in  ri- 
lievo Miguel  Angel  Granada,  assume  in  questo  contesto  un  valore  for- 
temente polemico  contro  il  platonismo  ficiniano  e,  in  generale,  contro 
una  Weltanschaimng  misticheggiante  che  finisce  per  togliere  ogni  va- 
lore alla  vita  terrena  in  cambio  della  speranza  di  un'altra  vita  mi- 
gliore in  un  mondo  superiore  5^^.  Per  Bruno  le  cose  stanno  diversa- 
mente: non  bisogna  cercare  altrove  ciò  che  già  in  noi  stessi  posse- 
diamo. 

Dopo  questa  necessaria  digressione,  l'apparente  assenza  di  Narciso 
nelle  opere  italiane  si  trasforma  in  una  significativa  presenza,  almeno 
in  due  luoghi  strategici  della  Cena  e  dello  Spaccio.  Adesso  l'accosta- 
mento alla  metamorfosi  di  Atteone  si  fa  ancora  più  interessante.  Pro- 
prio la  vicenda  di  quest'ultimo,  raccontata  nei  Furori,  potrebbe  coin- 
cidere in  positivo  con  l'esperienza  stessa  di  Narciso  quando,  ormai  li- 
berato dall'illusione,  coglie  la  profonda  unità  che  lega  l'immagine 
riflessa  alla  sua  persona.  Attraverso  il  difficile  percorso  del  cacciatore, 
il  filosofo-pittore  dipinge  il  ritratto  di  se  stesso,  traccia  la  sua  singolare 
esperienza  umana  ed  intellettuale,  disegna  il  faticoso  itinerario  verso 
un  abbraccio  «impossibile»  con  il  sapere  infinito,  mostra  che  cono- 
scere significa  innanzitutto  conoscersi.  Lavora,  insomma,  a  partire 
dalla  sua  ombra  nel  disperato  tentativo  di  «superarla»,  senza  perdere 
mai  di  vista  però  la  consapevolezza  che  l'eroica  avventura  si  svolge  a 
partire  da  noi  stessi,  su  questa  terra,  all'interno  di  un  universo  «fisico 
e  naturale»,  infinito  ed  omogeneo.  In  questo  preciso  contesto.  Bruno, 
probabilmente  ancora  in  polemica  con  le  interpretazioni  neoplatoni- 
che e  ficiniane,  inscrive  il  destino  del  furioso  nell'esperienza  stessa  di 


531.  «Quid  ergo  circa  eum  elementorum  ordinem  platonicis  nugamur  my- 
steriis  et  aristotelicis,  et  verbis  sane  sine  sensu  porrigimus  aures?  quid  ultra  ad 
coelos  illos  et  coelestes  illas  umbras  atque  somnia  istiusmodi  per  scalam,  pla- 
tonicis, divinis,  mathematicis,  abstractis,  evanidisque  sustollimur  alis,  quasi 
nihil  habeamus  ante  oculos  quod  nos  alte  moveat,  incitet,  invitet,  perficiat, 
omet;  quo  relinquimus  veras  rerum  species  umbris  quae  nullam  omnino  ha- 
bent  subsistentiam,  non  alitar  alienati  quam  canis  ille  aesopicus,  qui,  relieta 
carne,  quam  habebat  in  ore,  per  aviditatem  maioris  umbrae,  praecipitem  se 
iecit  in  fluvium?»:  Opp.  lai.,  I/II,  p.  118;  traduzione  italiana  cit,  p.  664.  Il  cor- 
sivo nelle  due  citazioni  è  nostro. 

532.  Miguel  Angel  Granada,  Digges,  Bruno  e  il  copernicanesimo  in  Inghil- 
terra, in  Giordano  Bruno  1582-1^85.  The  English  Experience/L'esperienza  inglese 
cit,  pp.  140-54.  Qui  Granada  rilegge,  attraverso  l'immagine  del  cane  di  Esopo,  i 
brani  della  Cena,  dello  Spaccio  e  del  De  immenso  in  una  chiave  antificiniana. 


INTRODUZIONE  167 

Narciso.  O  meglio:  nell'esperienza  di  un  Narciso  che,  cosciente  dell'im- 
possibile abbraccio  con  se  stesso,  non  può  fare  a  meno  però  di  conti- 
nuare a  desiderarlo  fino  alla  completa  estinzione  di  tutte  le  sue  forze. 
Nella  circolarità  di  questo  rapporto  -  splendidamente  messa  in  rilievo 
da  Caravaggio  nel  suo  Narciso^^^  -  soggetto  e  oggetto  finiscono  per 
costituire  un'unica  e  sola  figura.  Il  pittore  (l'inventore  della  pittura)  e 
il  filosofo,  come  abbiamo  già  visto,  si  occupano  di  «immagini»,  cer- 
cano di  «conoscere  se  stessi».  Hanno  coscienza  di  vivere  in  un  mondo 
dominato  dalle  intermittenze,  dai  fantasmi,  dai  simulacri.  Si  relazio- 
nano con  le  ombre  e  con  le  superfici.  Cercano  di  «abbracciare»  river- 
beri inafferrabili. 

Bisogna  però  operare  un'ulteriore  distinzione  per  evitare  di  restare 
invischiati  nella  rete  abilmente  tesa  dal  Nolano.  Ci  sono  Narcisi  e  Nar- 
cisi: quelli  che  non  distinguono  i  confini  tra  realtà  e  apparenza  e 
quelli  -  più  «virili»,  per  riprendere  il  passaggio  del  De  immenso  -  che, 
pur  avendo  coscienza  di  questa  distinzione,  tentano  disperatamente  di 
«superarla»  nel  desiderio  di  un  simbolico  «abbraccio»  con  la  natura 
infinita  e  unigenita^'-*.  Alla  stessa  maniera  ci  sono  Atteoni  e  Atteoni. 
L'oscillazione  dei  simboli,  si  pensi  al  caso  eclatante  dell'asino,  è  una 
costante  nel  pensiero  di  Bruno.  Basta  riprendere  in  mano  il  Candelaio 
per  averne  ancora  conferma  a  proposito  del  mito  del  cacciatore  tra- 
sformato in  cervo.  Qui  l'autore-pittore  mette  in  scena  l'ignoranza  di  tre 
personaggi  che  incarnano  a  perfezione  la  non  conoscenza  di  sé  (il  nasce 
te  ipsum  al  contrario,  secondo  le  indicazioni  di  Socrate  nel  Filebo), 
affidando  a  Gioan  Bernardo  la  regia  intema  degli  avvenimenti.  Ma 
G.  B.  sulle  orme  dell'albertiano  inventore  della  pittura,  viene  presen- 
tato nella  pièce  nelle  vesti  di  un  artista  che  eccelle  particolarmente 
nella  realizzazione  di  ritratti.  E  il  ritrattista,  come  ricorda  Pontus  de 
Tyard,  è  soprattutto  colui  che  «peint  l'ombre  «'^^  jsjon  a  caso  il  triplice 


533.  Questo  stupendo  quadro  di  Caravaggio  -  che  ha  suscitato  un  acceso 
dibattito,  ancora  aperto,  per  l'attribuzione  —  è  conservato  a  Roma,  nella  galle- 
ria di  Arte  Antica  (Palazzo  Corsini):  cfr.  la  scheda  a  cura  di  Mina  Gregori  in 
Caravaggio  e  il  suo  tempo,  Milano,  Electa  Napoli,  1985,  pp.  265-267. 

534.  Anche  Rosati  individua  nelle  Metamorfosi  di  Ovidio  due  momenti  fon- 
damentali dell'esperienza  di  Narciso:  se  nella  prima  parte  il  personaggio  è  vit- 
tima dell'illusione,  nella  seconda  prende  coscienza  della  natura  fittizia  dell'im- 
magine, riconoscendola  come  una  sua  proiezione  (cfr.  G.  Rosati,  Narciso  e  Pig- 
malione.  Illusione  e  spettacolo  nelle  Metamorfosi  di  Ovidio  cit,  p.  25). 

535.  Pontus  de  Tyard,  legato  al  milieu  di  Enrico  III  (cfr.  supra,  pp.  14-15), 
in  un  componimento  della  raccolta  Erreurs  amoureuses  (1549)  riconosce  che  il 
pittore  può  solo  dipingere  l'ombra  della  donna  amata  dal  poeta:  «Il  [le  Ria- 
manti ne  m'osa  promettre  d'avantage  /  De  retirer  de  ses  beautez  que  l'ombre  / 
Elle  ha  (dit-il)  tant  de  beautez  ensemble,  /  Et  au  soleil  si  luisamment  ressem- 
ble,  /  Qu'elle  esblouit  mes  yeux  de  tous  costez.  /  Puis  ayant  peint  l'ombre,  me 


l68  INTRODUZIONE 

portrait  degli  ignoranti  protagonisti  della  commedia  sarà  destinato  a 
rappresentare  in  chiave  comica  i  falsi  Atteoni'^^:  Bonifacio,  infatti,  il- 
ludendosi di  godersi  Vittoria  «dovenne  a  fatto  cornuto:  figurato  vera- 
mente per  Atteone,  il  quale  andando  a  caccia,  cercava  le  sue  come:  et 
all'or  che  pensò  gioir  de  sua  Diana,  dovenne  cervo»'".  Il  «candelaio», 
per  aver  cercato  altrove  ciò  che  lui  stesso  possedeva  in  casa,  finisce 
insomma  per  perdere  anche  Carubina,  che  da  moglie  «insolita  a  man- 
giar più  d'una  minestra»'^**  viene  iniziata  da  Gioan  Bernardo  air«epi- 
curaica  filosofia»^'''. 

Qui  il  ritratto  è  rappresentazione  àtWaltro,  è  la  spietata  raffigura- 
zione vivente  di  come  la  presunzione  di  sapienza  possa  condurre  a 
un'ingloriosa  perdita  di  se  stesso  e  di  ogni  bene.  Dalla  negazione  del 
nosce  te  ipsum  nel  Candelaio  alla  sua  piena  affermazione  nei  Furori,  la 


dit  ainsi:  /  Contente-toy  seulement  de  ceci,  /  Qui  passe  ancore  toutes  autres 
beautez»  (Pontus  de  Tyard,  CEuvres  poétiques  complètes,  édition  critique  avec 
introduction  et  commentaire  par  John  C.  Lapp,  Paris,  M.  Didier,  1966,  pp.  68- 
69).  Il  tema  del  ritratto  come  ombra,  con  un  accenno  a  questi  versi  di  Pontus 
de  Tyard  e  alla  silografia  del  portrait  di  una  donna  intitolata  L'ombre  apparsa 
nell'edizione  del  1552  della  raccolta  Erreurs  amoureiises.  è  brillantemente  di- 
scusso da  Edouard  Pommier,  Théories  du  portrait.  De  la  Renaissance  aux  Lu- 
mières cit  (in  particolare  i  paragrafi  L'ombre,  la  mort  et  la  mémoire  alle  pp.  18-24 
e  La  poursuite  de  l'ombre  alle  pp.  434-436). 

536.  Bruno  identifica  i  «falsi  Atteoni»  anche  con  gli  ignoranti  teologi:  «Ma 
il  male  è,  che  sovente  accade  che  mentre  questi  Atteoni  vanno  perseguitando 
gli  cervi  del  deserto,  vegnono  dalla  lor  Diana  ad  esser  convertiti  in  cervio 
domestico»  {Spaccio,  p.  390).  Su  questo  tema  cfr.  A.  Ingegno,  Regia  pazzia  cit, 
pp.  69-75. 

537.  Candelaio,  p.  270.  Nella  letteratura  «irregolare»  del  Cinquecento  sono 
molteplici  i  riferimenti  ironici  ad  Atteone,  come  prototipo  del  marito  tradito: 
«né  per  altro  finsero  e  poeti  Atteone  in  cervo  convertito  che  per  darci  ad  in- 
tendere che  per  il  smoderato  studio  del  cacciare  consumando  le  facultà  nostre 
doventiamo  non  solo  bestie,  ma  bestie  cornute,  e  io  ho  conosciuto  più  d'un 
paio  di  temine,  istimate  le  più  savie  e  pudiche  ch'avesse  la  lor  patria,  le  quali 
come  prima  il  marito  s'era  levato  per  far  volare  alla  pianura  il  suo  falcone,  o 
vero  per  dar  la  fuga  a  qualche  timido  animaluzzo,  tantosto  per  non  lasciar 
rafreddare  il  luogo  del  consorte  cogli  amanti  loro  si  coricavano»  (Ortensio 
Landò,  Paradossi,  cioè  sentenze  fuori  del  comun  parere,  a  cura  di  Antonio  Cor- 
saro, Roma,  Edizioni  di  Storia  e  Letteratura,  2000,  p.  91);  Giovan  Battist.a 
Modio,  e  Convito  overo  del  peso  della  moglie  dove  ragionando  si  conchiude  che  non 
può  la  donna  disonesta  far  vergogna  a  l'uomo,  in  Trattati  del  Cinquecento  sulla 
donna,  a  cura  di  G.  Zonta,  Bari,  Laterza,  1913,  pp.  331  e  345;  Giovan  Battista 
Pino,  Ragionamento  sovra  de  l'asino,  a  cura  di  Olga  Casale,  Introduzione  di 
Carlo  Bemari,  Roma,  Salerno  Editrice,  1982,  pp.  59-60.  Anche  a  testi  parados- 
sali, contenuti  nel  secondo  libro  delle  Lettere  facete  e  piacevoli  di  diversi  grandi 
uomini  e  chiari  ingegni  (raccolte  da  Francesco  Turchi,  Venezia,  1575),  fa  riferi- 
mento Eugenio  Garin  in  relazione  all'immagine  bruniana  di  Atteone:  E.  Ga- 
rin, Echi  italiani  di  Erasmo  e  di  Lefèvre  d'Etaples,  «Rivista  critica  di  storia 
della  filosofia»,  XXVI  (1971),  i,  pp.  88-90. 

538.  Candelaio,  p.  269. 

539.  Ibidem. 


INTRODUZIONE  169 

filosofia-pittura  di  Bruno  traccia  un  itinerario  che,  teso  a  superare  la 
soglia  dell'ombra,  si  apre  «in  negativo»  con  i  falsi-Atteoni,  con  i  ciechi 
che  non  sanno  di  non  sapere ^-^o,  con  i  Narcisi  che  cercano  fuori  di  sé 
ciò  che  già  posseggono,  per  concludersi  «in  positivo»  con  l'eccezionale 
esperienza  solitaria  ed  individuale  del  furioso,  tutta  segnata  dalla  con- 
sapevolezza della  propria  cecità,  del  proprio  non-sapere.  Due  modi  di- 
versi di  intendere  la  «venazione».  Ma  anche  due  opposte  concezioni 
dell'amore:  Bonifacio,  Bartolomeo  e  Mamfurio  si  infiammano  per  cose 
futili  e  vane  5"",  mentre  il  furioso  innamorato  della  sapienzcu,  la  inse- 
gue fino  allo  stremo  delle  sue  forze.  Comportamenti  antitetici,  che  ne- 
cessariamente presuppongono  «ricompense»  in  sintonia  con  il  per- 
corso compiuto:  chi  riceve  in  premio  un  bel  paio  di  «coma»,  come  i 
due  mariti  traditi '■^2,  o  una  scarica  di  «spalmate»  come  Mamfurio  e 
chi,  al  contrario,  gode  della  «visione»  di  Diana.  Ma  vedere  la  «natura» 
significa  anche  essere  visti  da  quella;  significa,  come  Atteone  e  Narciso 
hanno  sperimentato,  che  soggetto  e  oggetto  del  desiderio  vengono  a 
coincidere,  che  il  cacciatore  e  la  sua  preda  costituiscono  un'unica  cosa, 
che  l'amante  e  l'amata  hanno  un  identico  volto^-*'.  Quella  visione  però 
non  può  lasciarci  immutati.  Chi  «vede»  subisce  necessariamente  una 
metamorfosi:  in  cervo  (come  Atteone)  o  in  fiore  (come  Narciso),  poco 
importa  Ma  trasformarsi,  in  questi  due  miti,  implica  solo  apparen- 
temente una  «perdita».  A  pensarci  bene,  lo  smarrimento  iniziale  si 
traduce  in  un  grande  «guadagno»,  in  una  straordinaria  esperienza 
gnoseologica  che  conducendoci  all'infuori  di  noi  stessi  apre  la  strada 
all'infinità    della    natura,    alla    percezione    unitaria    del    molteplice. 


540.  Chi  crede  di  sapere  finisce  per  guardare  gli  altri  dall'alto,  consideran- 
doli poveri  infelici,  come  accade  al  pedante  Polihimnio,  sicuro  delle  sue  cono- 
scenze grammaticali:  «Con  questo  triomfa,  si  contenta  di  sé,  gli  piaceno  più 
ch'ogn'altra  cosa  i  fatti  suoi:  è  un  Giove  che  da  l'alta  specula  remira,  e  consi- 
dera la  vita  de  gli  altri  uomini  soggetta  a  tanti  errori,  calamitadi,  miserie,  fa- 
tiche inutili:  solo  lui  è  felice,  lui  solo  vive  vita  celeste,  quando  contempla  la 
sua  divinità  nel  specchio  d'un  spicilegio,  un  dizzionario,  un  calepino,  un 
lexico,  un  cornucopia,  un  Nizzolio.  Con  questa  suflìcienza  dotato,  mentre  cia- 
scuno è  uno,  lui  solo  è  tutto»  {De  la  causa,  p.  637). 

541.  «Bartolomeo  compare  nell'atto  primo.  III  scena,  dove  si  beffa  del- 
l'amor di  Bonifacio:  concludendo  che  l'inamoramento  dell'oro  e  de  l'argento,  e 
perseguire  altre  due  dame,  è  più  a  proposito»  {Candelaio,  p.  270). 

542.  Anche  Bartolomeo,  oltre  a  perdere  tempo  e  danari,  finisce  per  gettare 
la  moglie  nella  braccia  di  altri:  «Nell'atto  secondo,  V  scena,  raggionando  Barro 
con  Lucia,  mostra  parte  del  profìtto  che  facea  Bartolomeo:  cioè  che  mentre  lui 
attendeva  ad  una  alchimia,  la  moglie  Marta  facea  la  bucata  et  insaponava  i 
drappi»  {Ibidem,  p.  271). 

543.  Su  Atteone  vittima  dell'illusione,  della  confusione  tra  realtà  (ciò  che  è) 
e  apparenza  (ciò  che  si  vede)  cfr.  G.  Rosati,  Narciso  e  Pigmalione.  Illusione  e 
spettacolo  nelle  Metamorfosi  di  Ovidio  cit,  pp.  113-114. 


170  INTRODUZIONE 

Quell'extra  che  cercavamo  è  intra.  E  solo  attraverso  questo  necessario 
passaggio  è  possibile  capire  che  noi  siamo  una  minuscola  parte  di  quel 
tutto  infinito.  Conoscere  è  innanzitutto  conoscersi.  Potrà  sembrare  un 
paradosso:  ma  proprio  il  rivolgere  lo  sguardo  in  se  stessi  permette 
di  intraprendere  lo  straordinario  viaggio  al  di  fuori  di  ogni  limite  e  di 
ogni  confine. 

Già  nelVouverture  teatrale,  infatti,  si  concretizza  la  dialettica  luce- 
ombra,  realtà-apparenza,  che  segnerà  l'intero  percorso  bruniano  da  Pa- 
rigi a  Londra.  All'interno  di  questo  contesto,  finanche  il  titolo  della 
commedia  assumerà  un  ruolo  simbolico  ancora  più  forte,  che  va  molto 
al  di  là  del  banale  riferimento  all'omosessualità  di  Bonifacio.  Bruno  fa 
pili  volte  allusione  al  «Candelaio  di  carne  et  ossa»,  è  vero '''■*.  Ma  que- 
sto non  basta  a  spiegare  perché  la  pièce  sarebbe  destinata  a  «chiarir 
alquanto  certe  Ombre  deU'idee»^-*'^.  Il  pittore-filosofo,  invece,  per  mar- 
care con  forza  il  suo  esordio,  non  avrebbe  potuto  trovare  un  titolo  più 
significativo.  Chi  si  occupa  delle  ombre,  da  pittore  e  da  filosofo,  sa  che 
senza  una  fonte  di  luce  esse  non  esisterebbero''^'^.  Basta  prendere  in 
mano  un  disegno  realizzato  nella  scuola  di  Leonardo  da  Vinci,  intito- 
lato Studio  di  proiezioni  d'ombre  (fig.  7)'"*'',  o  due  incisioni  che  raffigu- 
rano alcuni  allievi  dell'Accademia  romana  di  Baccio  Bandinelli  in 
una  stanza  invasa  da  proiezioni  di  ombre,  per  capire  che  senza  la  luce 
di  una  candela  non  sarebbe  possibile  lavorare  sulle  ombre '-"s.  Bruno 
lo  sa.  Ed  è  per  questo  che  accende  sin  dall'inizio  quella  metaforica 


544.  Candelaio,  pp.  263,  296  e  419. 

545.  Ibidem,  p.  262. 

546.  È  interessante  un  emblema,  accompagnato  dal  significativo  motto 
«Umbrae  non  timendae»,  dove  vi  sono  raffigurate  tre  candele  che  proiettano 
ombre:  Juan  de  Borja,  Empresas  tnorales,  Bruselas,  Francisco  Foppens,  1680,  pp. 
330-331;  ristampa  anastatica  a  cura  di  Carmen  Bravo-Villasante,  Madrid,  Fun- 
dación  universitaria  espafiola,  1981  (nella  princeps,  pubblicata  a  Praga  nel  1581, 
non  è  incluso  questo  emblema).  Su  Juan  de  Borja,  diplomatico  presso  la  corte  di 
Rodolfo  II  a  Praga,  si  vedano:  Rafael  Garcia  Mahiques,  Les  Empresas  Morales 
de  Juan  de  Borja,  una  primera  aproximación,  in  «Ullal»,  io  (1986),  pp.  6-21;  Lu- 
BOMIR  KoNECKNY,  La  Hustracìón  de  las  Empresas  Morales  de  Juan  de  Borja:  Era- 
smo Hornich,  in  «Ars  Longa.  Cuardemos  de  Arte»,  3  (1992),  pp.  9-12. 

547.  Scuola  di  Leonardo  da  Vinci,  Studio  di  proiezioni  d'ombre  (dopo  il 
1500),  Codex  Huygens,  fol.  902,  New  York,  The  Pierpont  Morgan  Library  (cfr. 
Erwin  Panofsky,  Le  codex  Huygens  et  la  théorie  de  l'art  de  Léonard  de  Vinci 
[1940],  traduit  de  Tanglais  et  présente  par  Daniel  Arasse,  Paris,  Flammarion, 
1966,  p.  44). 

548.  Agostino  Veneziano,  L'accademia  di  Baccio  Bandinelli  (1531),  New 
York,  Metropolitan  Museum  of  Art  (collezione  Elisha  Whittelsey);  l'altra  inci- 
sione [fig.  8]  è  attribuita  a  Enea  Vico:  cfr.  .'Vdam  Bartash,  Le  peintre  graveur, 
Leipzig,  Chez  J.  A.  Barth,  1867.  voi.  XV,  pp.  305-306.  Sul  disegno  leonardesco  e 
sull'incisione  di  Veneziano,  si  veda  V.  Stoichita,  Breve  storia  dell'ombra  cit, 
PP-  59-63  e  pp.  119-121. 


INTRODUZIONE  I7I 

fiamma  che  lo  accompagnerà  nel  travagliato  e  straordinario  viaggio 
della  «nolana  filosofia». 

Un  percorso,  conviene  ancora  sottolinearlo,  che  dal  Candelaio  con- 
duce sino  ai  Furori,  connotando  in  maniera  particolare  il  legame  che 
si  intreccia  tra  V ouverture  e  l'ultimo  movimento  della  «nova  filosofia». 
La  commedia  e  il  dialogo  si  risolvono  in  un  gioco  fondato  sull'illu- 
sione e  sull'ombra,  sui  travestimenti  e  sulle  finzioni.  In  entrambi  i  te- 
sti, la  «scena»  è  abitata  da  simulacri,  da  immagini,  da  riflessi.  Se  nel- 
l'esperienza teatrale  il  palcoscenico  diventa  la  «soglia  dell'apparire  e 
dello  svanire,  il  luogo  delle  illusioni,  il  vero  luogo  della  caverna  pla- 
tonica, o  dello  specchio  offuscato,  che  è  comunque  l'unico  tramite  del 
conoscere» 5-''^,  nell'esperienza  di  Narciso  la  superficie  della  fonte  e 
l'ombra  che  in  essa  si  riflette  finiscono  per  alludere  al  theatrum  natu- 
rae,  al  regno  delle  metamorfosi  e  dei  riverberi. 


Vili. 

FILOSOFIA,  PITTURA  E  POESIA: 

QUESTIONI  DI  POETICA 

La  questione  del  «superamento»  dello  stadio  dell'ombra  si  pone  na- 
turalmente anche  sul  piano  specifico  dell'estetica.  Sarà  utile,  a  questo 
punto,  rileggere  in  un  contesto  allargato  la  citazione  di  Quintiliano,  su 
cui  mi  sono  soffermato  nel  paragrafo  dedicato  al  mito  delle  origini 
della  pittura: 

Quem  ad  modum  quidam  pictores  in  id  solum  student,  ut  describere 
tabulas  mensuris  ac  lineis  sciant,  turpe  etiam  illud  est,  contentum  esse  id 
consequi  quod  imiteris.  Nam  rursus  quid  erat  futurum,  si  nemo  plus  effe- 
cisset  eo  quem  sequebatur?  [...]  ratibus  adhuc  navigaremus;  non  esset  pie- 
tura,  nisi  quae  lineas  modo  extremas  umbrae  quam  corpora  in  sole  fecis- 
sent  circuniscriberet"°. 


549.  Mario  Domenichelli,  //  limite  delVomhra.  Le  figure  della  soglia  nel  tea- 
tro inglese  fra  Cinque  e  Seicento  cit,  p.  229.  In  questo  bel  volume,  Domenichelli 
ricostruisce  in  maniera  persuasiva  il  fitto  intreccio  che  si  instaura  nel  teatro 
inglese  rinascimentale  tra  tematiche  neoplatoniche  e  il  ricorrente  tema  del- 
l'ombra e  della  soglia  in  alcune  opere  spiccatamente  metateatrali.  Interessanti 
anche  i  passaggi  dedicati  all'identità  tra  «attore»  e  «ombra»  (Ibidem,  pp.  85-86). 

550.  «Come  alcuni  pittori  si  studiano  solo  di  copiare  dei  quadri  servendosi 
di  linee  e  misure,  così  è  ugualmente  indegno  contentarsi  dei  risultati  della  sola 
imitazione.  Che  sarebbe  accaduto,  se  nessuno  avesse  realizzato  qualcosa  in  più 
del  modello  che  imitava?  [...]  navigheremmo  ancora  su  zattere;  non  avremmo 


172  INTRODUZIONE 

Il  pittore  non  può  limitarsi  a  circoscrivere  l'ombra.  A  riprodurre 
meccanicamente  il  modello.  Se  così  fosse  stato,  l'umanità  navighe- 
rebbe ancora  sulle  zattere.  In  realtà,  tutte  le  arti  hanno  avuto  bisogno 
di  «superare»  la  soglia  delle  conoscenze  iniziali,  di  passare  daìVintitatio 
aWinventio,  nella  coscienza  che  senza  questo  sforzo  necessario  non  sa- 
rebbe stato  possibile  conquistare  nuovi  orizzonti  («nihil  autem  crescit 
sola  imitatione»)"!. 

Da/rimitatio  aWinventio:  la  poesìa  non  nasce  dalle  regole 

Bruno,  da  filosofo  e  pittore,  affronta  questo  tema  in  un  significativo 
passaggio  dei  Furori  Si  rende  conto,  infatti,  che  il  suo  particolare 
«canzoniere»  non  poteva  non  essere  preceduto  da  una  riflessione  teo- 
rica sul  ruolo  della  poesia  e  sulla  natura  dell'imitazione  a  partire  da 
un'analisi  della  tradizione  lirica  petrarchista  e  «antipetrarchista» '^2 
Un'occasione  importante  per  spiegare,  retrospettivamente,  anche  al- 
cune scelte  operate  nella  commedia  e  negli  altri  dialoghi  in  volgare. 
Spetta  naturalmente  al  poeta  Tansillo,  nell'esordio  del  primo  dialogo 
della  prima  parte,  introdurre  il  dibattito  sulla  funzione  delle  «regole»: 

CiCADA.  Son  certi  regolisti  de  poesia  che  a  gran  pena  passano  per  poeta 
Omero,  riponendo  Vergilio,  Ovidio,  Marziale,  Exiodo,  Lucrezio  et  altri 
molti  in  numero  de  versificatori,  examinandoli  per  le  regole  de  la  Poetica 
d'Aristotele. 

Tansillo.  Sappi  certo,  fratel  mio,  che  questi  son  vere  bestie:  perché 
non  considerano  quelle  regole  principalmente  servir  per  pittura  dell'ome- 
rica poesia  o  altra  simile  in  particolare;  e  son  per  mostrar  tal  volta  un  poeta 
eroico  tal  qual  fu  Omero,  e  non  per  instituir  altri  che  potrebbero  essere,  con 
altre  vene,  arti  e  furori,  equali,  simili  e  maggiori,  de  diversi  geni. 

CiCADA.  Sì  che  come  Omero  nel  suo  geno  non  fu  poeta  che  pendesse  da 
regole,  ma  è  causa  delle  regole  che  serveno  a  coloro  che  son  più  atti  ad 
imitare  che  ad  inventare;  e  son  state  raccolte  da  colui  che  non  era  poeta  di 
sorte  alcuna,  ma  che  seppe  raccogliere  le  regole  di  quell'una  sorte,  cioè 
dell'omerica  poesia,  in  serviggio  di  qualch'uno  che  volesse  doventar  non 


altra  pittura,  se  non  quella  che  ritrae  i  contomi  delle  ombre  degli  oggetti  espo- 
sti al  sole»:  Marco  Fabio  Quintiliano,  L'istituzione  oratoria  cit.,  t.  II  (X,  2, 
7-8),  pp.  446-447. 

551.  «e  nulla  cresce  con  la  sola  imitazione»:  Ibidem  (X,  2,  8). 

552.  Per  un'analisi  problematica  del  dibattito  sull'imitazione  nel  Rinasci- 
mento si  vedano  da  ultimo  i  saggi  di  Francesco  Bausi  {Poesie  et  imitation  au 
Quattrocento,  pp.  438-462)  e  di  Ferrine  Galand-Hallyn  e  Lue  Deitz  {Poesie 
et  imitation  au  XVF  siede,  pp.  462-488)  contenuti  nel  volume  Poétiques  de  la 
Renaissance.  Le  modèle  italien,  le  monde  franco-bourguignon  et  leur  héritage  en 
France  au  XVF  siede,  sous  la  direction  de  Ferrine  Galand-Hallyn  et  Femand 
Hallyn,  préface  de  Terence  Cave,  Genève,  Droz,  2001. 


INTRODUZIONE  I73 

un  altro  poeta,  ma  un  come  Omero:  non  di  propria  musa,  ma  scimia  de  la 
musa  altrui. 

Tansillo.  Conchiudi  bene,  che  la  poesia  non  nasce  da  le  regole,  se  non 
per  leggerissimo  accidente;  ma  le  regole  derivano  da  le  poesie:  e  però  tanti 
son  geni  e  specie  de  vere  regole,  quanti  son  geni  e  specie  de  veri  poeti '5'. 

Bruno  opera  con  chiarezza  una  distinzione  di  fondo.  Le  regole  del- 
l'aristotelismo cinquecentesco  servono  solo  per  «pittura  dell'omerica 
poesia»,  hanno  cioè  il  compito  di  descrivere  un  modello.  E  pertanto 
non  possono  ridurre  la  poesia  a  una  meccanica  riproduzione  all'infi- 
nito dello  «stesso».  Sarebbe,  per  riadoperare  la  metafora  quintilianea, 
come  limitare  la  pittura  alla  passiva  circoscrizione  delle  ombre.  Delle 
rigide  norme,  infatti,  hanno  bisogno  esclusivamente  «coloro  che  son 
più  atti  ad  imitare  che  ad  inventare».  I  veri  poeti,  facendo  natural- 
mente i  conti  con  la  tradizione,  si  sforzano  di  operare  uno  scarto,  un 
salto,  una  deviazione  nel  tentativo  di  innovare,  allargare  gli  orizzonti, 
promuovere  nuove  prospettive.  La  poesia,  infatti,  «non  nasce  da  le  re- 
gole, se  non  per  leggerissimo  accidente;  ma  le  regole  derivano  da  le 
poesie» 554.  Un'affermazione  che  rielabora  nell'ambito  della  poetica 
una  polemica  formula,  finora  sfuggita  all'attenzione  della  critica  bru- 
niana,  già  usata  da  Cicerone  nel  suo  De  oratore:  «sic  esse  non  eloquen- 
tiam  ex  artificio,  sed  artificium  ex  eloquentia  natum»''?.  In  realtà,  per 
Marco  Tullio  i  precetti  imposti  nelle  scuole  di  retorica,  da  sterili  gram- 
matici intenti  soltanto  a  insegnare  come  si  debba  insegnare,  non  ser- 
vono a  creare  i  buoni  oratori.  Non  bisogna  confondere  il  mezzo  con  lo 
scopo:  prima  di  proferire  parola  il  vero  retore  deve  pensare,  deve  stu- 
diare, deve  impare  a  conoscere  uomini  e  libri,  deve  abbracciare,  in 
maniera  generale,  diversi  domini  del  sapere;  deve  essere,  insomma, 
oratore  e  filosofo  nello  stesso  tempo.  Senza  Vingenium^^'^  personale  V ar- 
tificium non  può  produrre  effetti  eccezionali:  i  grandi  oratori  non  deri- 
vano dal  rispetto  delle  regole,  ma  le  regole  derivano  dall'eloquenza  dei 
grandi  oratori '57. 


553.  Furori,  p.  528. 

554.  Ibidem. 

555.  «Così  possiamo  dire  che  non  è  stata  l'eloquenza  a  nascere  dalla  teoria, 
ma  la  teoria  dall'eloquenza»:  Cicerone,  De  oratore,  in  Opere  retoriche,  a  cura  di 
Giuseppe  Norcio,  Torino,  Utet,  1976  (I,  xxxii,  146),  pp.  160-161. 

556.  La  polisemica  nozione  di  ingenium  avrà  grande  fortuna  tra  la  fine  del 
Cinquecento  e  l'inizio  del  Seicento:  cfr.  La  métaphore  baroque.  D'Aristote  à  Te- 
sauro.  Extraits  du  Cannocchiale  aristotelico,  présentés,  traduits  et  commentés 
par  Yves  Hersant,  Paris,  Seuil,  2001,  pp.  187-190. 

557.  Su  questi  temi  cfr.  V Introduction  di  Edmond  Courbaud  à  Cicéron,  De 
Vorateur,  texte  établi  et  traduit  par  Edmond  Courbaud,  Paris,  Les  Belles  Let- 
tres,  1985  [1922],  t.  I,  pp.  X-XV. 


174  INTRODUZIONE 

Ancora  una  volta  bisogna  ricorrere  a  Narciso.  Lui,  inventore  della 
pittura,  incarna,  secondo  la  prospettiva  teorizzata  da  Alberti,  l'affer- 
mazione «della  libertà  dell'artista  nella  gestazione  creatrice,  nella  crea- 
zione dell'opera «^'s.  Però,  come  sottolinea  giustamente  Barbieri,  soste- 
nere l'autonomia  del  pittore,  la  sua  capacità  di  misurarsi  con  un 
mondo  cangiante  e  mutevole,  non  significa  rivendicare  scelte  e  com- 
portamenti «anarchici».  Con  questo  mito,  l'autore  del  De  pidura  vuole 
simbolicamente  indicare  «il  rifiuto  di  una  concezione  troppo  o  esclu- 
sivamente mimetica  dell'arte  (e  della  pittura  in  particolare) »559.  Del 
resto  -  si  pensi  alla  comparazione  del  Cusano  -  la  stessa  creazione 
operata  da  Dio  è  assimilata  a  quella  del  «pittore  che  mescola  diversi 
colori  per  potersi  ritrarre  e  avere  un'immagine  di  sé  in  cui  la  sua  arte 
trovi  diletto  e  si  acquieti»'''".  Ma  la  figura  di  Narciso,  nella  prospettiva 
indicata  da  Agamben,  si  ricollega  anche  al  ruolo  che  la  fantasia  può 
giocare  in  un'estetica  dominata  da  immagini  e  fantasmi  che  si  riflet- 
tono in  un  miroérs  penlleus''^K 

L'autore,  nelle  sue  vesti  di  artifex,  non  può  muoversi  passivamente 
all'interno  di  un  perimetro  segnato  da  norme  e  modelli  ben  precisi. 
Ecco  perché  nei  Furori,  l'attacco  ai  grammatici,  pur  riprendendo  mo- 
tivi già  ampiamente  sviluppati  in  precedenza,  si  concentra  con  più 
vigore  sull'uso  insensato  delle  regole.  L'ira  del  Nolano,  infatti,  si  sca- 
glia contro  «certi  pedantacci  de  tempi  nostri,  che  excludeno  dal  nu- 
mero de  poeti  alcuni,  o  perché  non  apportino  favole  e  metafore  con- 
formi, o  perché  non  hanno  principii  de  libri  e  canti  conformi  a  quei 
d'Omero  e  Vergilio»  o  «per  mille  altre  maniere  d'examine,  per  censure 
e  regole».  Questi  asini,  credendo  che  la  letteratura  possa  identificarsi 
esclusivamente  con  le  loro  prescrizioni,  finiscono  per  attribuire  solo  a 


558.  G.  Barbieri,  L'inventore  della  pittura.  Leon  Battista  Alberti  e  il  mito 
della  pittura  cit,  pp.  256-257. 

559.  Ibidem,  pp.  213-214. 

560.  Nicolò  Cusano,  La  visione  di  Dio,  in  Opere  filosofiche,  a  cura  di  Gra- 
ziella Federici-Vescovini,  Torino,  Utet,  1972,  p.  603.  Sul  tema  di  Dio  quasi 
pictor,  anche  in  relazione  ai  commenti  al  Timeo  platonico,  si  vedano  le  interes- 
santi osservazioni  di  Barbieri,  L'inventore  della  pittura.  Leon  Battista  Alberti  e 
il  mito  della  pittura  cit.,  pp.  42-50. 

561.  Cfr.  Giorgio  Agamben,  La  parola  e  il  fantasma  nella  cultura  occiden- 
tale cit,  pp.  84-120.  Sullo  specifico  ruolo  delle  immagini,  della  phantasia  e  del- 
Vimaginatio  in  Giordano  Bruno  rinviamo  ai  lavori  di:  Robert  Klein,  L'imma- 
ginazione come  veste  dell'anima  in  Marsilio  Ficino  e  Giordano  Bruno,  in  La  forma 
e  l'intelligibile.  Scritti  sul  Rinascimento  e  l'arie  moderna,  Torino,  Einaudi,  1975, 
pp.  45-74;  Eugenio  Garin,  «Phantasia»  e  «imaginatio»  fra  Ficino  e  Pomponazzi, 
in  Umanisti  Artisti  Scienziati.  Studi  sul  Rinascimento  italiano,  Roma,  Editori 
Riuniti,  1989,  pp.  305-317  (ma  si  veda,  nello  stesso  volume,  anche  il  saggio  II 
termine  «spiritus»  in  alcune  discussioni  fra  Quattrocento  e  Cinquecento,  pp.  295- 
303)- 


INTRODUZIONE  I75 

se  stessi  il  titolo  di  «veri  poeti»,  mentre  in  effetti  «non  son  altro  che 
vermi  che  non  san  fare  cosa  di  buono»  se  non  «rodere,  insporcare  e 
stercorar  gli  altrui  studi  e  fatiche» '''2. 

Il  petrarchismo,  come  abbiamo  visto,  è  il  più  evidente  risultato  di 
questa  follia  normativa.  È  l'eloquente  prodotto  di  una  letteratura  con- 
venzionale, autoreferenziale,  fissata  in  schemi  e  griglie  precostituite. 
Diventa  l'esempio  schiacciante  di  un  linguaggio  vuoto,  capace  di  dire 
se  stesso,  all'interno  di  uno  spazio  mondano  chiuso  e  limitato: 

Ecco  vergato  in  carte,  rinchiuso  in  libri,  messo  avanti  gli  occhi,  et  in- 
tonato a  gli  orecchi  un  rumore,  un  strepito,  un  fracasso  d'insegne,  d'im- 
prese, de  motti,  d'epistole,  de  sonetti,  d'epigrammi,  de  libri,  de  prolissi 
scartafazzi,  de  sudori  estremi,  de  vite  consumate,  con  strida  ch'assordiscon 
gli  astri,  lamenti  che  fanno  ribombar  gli  antri  infernali,  doglie  che  fanno 
stupefar  l'anime  viventi,  suspiri  da  far  exinanire  e  compatir  gli  dèi,  per 
quegli  occhi,  per  quelle  guance,  per  quel  busto,  per  quel  bianco,  per  quel 
vermiglio,  per  quella  lingua  [...];  quel  schifo,  quel  puzzo,  quel  sepolcro, 
quel  cesso,  quel  mestruo,  quella  carogna,  quella  febre  quartana,  quella 
estrema  ingiuria  e  torto  di  natura '6'. 

In  questo  comico  repertorio  di  temi  e  immagini.  Bruno  condensa 
una  tradizione  da  cui  prende  le  distanze  sul  piano  dei  contenuti  e 
dello  stile.  Nei  Furori,  è  vero,  si  parla  di  amore,  si  leggono  e  si  com- 
mentano versi,  si  disegnano  e  si  descrivono  «pitture».  Ma  -  come  ab- 
biamo visto  —  questo  «canzoniere»  si  colloca  in  un  orizzonte  in  cui  la 
poesia  ritrova  il  suo  legame  con  la  filosofia  e  con  la  vita,  mostrando  di 
essere  frutto  di  «invenzione»  più  che  di  «imitazione».  Al  Nolano,  in- 
somma, non  interessa  «rovesciare»  gli  schemi  e  il  lessico  petrarchista 
all'interno  di  un  codice  parodico  dove  il  modello  finisce  per  essere  la 
conditio  sine  qua  non  dell'antimodello.  Non  si  tratta  di  un  gioco  lette- 


562.  Ibidem,  p.  529.  Ma,  oltre  alle  esilaranti  pagine  antipedantesche  del  Can- 
delaio (cfr.  supra,  p.  47),  si  veda  anche  il  celebre  passaggio  del  De  la  causa  {su- 
pra,  p.  76). 

563.  Furori,  pp.  489-490.  Così  Bruno,  nel  «Proprologo»  del  Candelaio,  anti- 
cipa le  vicende  dell'innamorato  Bonifacio,  comico  rappresentante  di  un  uso 
degradato  della  lirica  d'amore:  «Vedrete  in  un  amante  suspir,  lacrime,  sbadac- 
chiamenti,  tremori,  sogni,  rizzamenti,  «e  un  cuor  rostito  nel  fuoco  d'amore»; 
pensamenti,  astrazzioni,  colere,  maninconie,  invidie,  querele,  e  men  sperar  quel 
che  più  si  desia  Qui  trovarrete  a  l'animo  ceppi,  legami,  catene,  cattività,  prig- 
gioni,  eteme  ancor  pene,  martìri  e  morte;  alla  ritretta  del  core,  strali,  dardi, 
saette,  fuochi,  fiamme,  ardori,  gelosie,  suspetti,  dispetti,  ritrosie,  rabbie  et  oblìi, 
piaghe,  ferite,  omei,  folli,  tenaglie,  incudini  e  martelli;  «l'archiero  faretrato, 
cieco  e  ignudo».  L'oggetto  poi  del  core,  un  cuor  mio,  mìo  bene,  mìa  vita,  mia 
dolce  piaga  e  morte,  dio,  nume,  poggio,  riposo,  speranza,  fontana,  spirto,  tra- 
montana stella,  et  un  bel  sol  ch'a  l'alma  mai  tramonta;  et  a  l'incontro  ancora, 
crudo  cuore,  salda  colonna,  dura  pietra,  petto  dì  diamante,  [...]»  (pp.  277-278). 


176  INTRODUZIONE 

rario,  di  un  esercizio  ludico,  di  un  divertissetnent  retorico.  Senza  queste 
premesse,  non  sarebbe  possibile  capire  fino  in  fondo  la  scelta  di  «ria- 
bilitare» il  fronte  eterogeneo  della  poesia  comica  -  di  coloro  che  nel 
passato  «han  parlato  delle  lodi  della  mosca,  del  scarafone,  de  l'asino, 
de  Sileno,  de  Priapo»  e  che  oggi  cantano  «lodi  de  gli  orinali,  de  la 
piva,  della  fava,  del  letto,  delle  bugie,  del  disonore,  del  forno,  del  mar- 
tello, della  caristia,  de  la  peste»  -  fino  a  porlo  sullo  stesso  piano  del 
petrarchismo"^.  In  verità.  Bruno  non  esita  a  riconoscere  dignità  lette- 
raria a  certe  aree  dell'antipetrarchismo,  a  certi  testi  trasgressivi  di  cui 
lui  stesso  si  è  servito  per  arricchire  il  suo  bagaglio  linguistico  e  stili- 
stico. Ma  lo  fa,  nella  consapevolezza  di  un  disegno  che  va  molto  al  di 
là  di  quella  concezione  della  poesia- 
Dei  resto,  nei  Furori  è  detto  con  chiarezza  che  il  genio  poetico  può 
esercitarsi  in  modi  e  maniere  diverse.  Esistono,  infatti,  «più  specie  de 
poeti  e  de  corone»  non  soltanto  per  «quante  son  le  muse,  ma  e  di  gran 
numero  di  vantaggio  »5^5  Bruno,  coerentemente  con  la  sua  aperta  vi- 
sione del  mondo,  proietta  la  letteratura  in  un  universo  ampio  e  varie- 
gato di  forme  e  di  stili,  di  contenuti  e  di  generi.  Promuove  il  comico  a 
un'altissima  dignità,  liberandolo  dal  ruolo  subalterno  in  cui  la  pedan- 
teria dei  grammatici  lo  aveva  racchiuso.  Ricorda,  nello  Spaccio,  che  gli 
dèi  leggono  anche  «la  Pippa,  la  Nanna,  l'Antonia,  il  Burchiello,  l'An- 
croia»  in  ragione  del  fatto  che  «pigliano  piacere  nella  moltiforme  re- 
presentazione di  tutte  cose,  e  frutti  moltiformi  de  tutti  ingegni  »"=^.  Ri- 
fiuta categoricamente  di  legiferare  in  materia  di  poetica,  sostituendo 
regole  con  regole,  schemi  con  schemi,  immagini  con  immagini.  E 
quando  Cicada  chiede  «come  dumque  saranno  conosciuti  gli  vera- 


564.  Furori,  p.  498.  In  chiusura  di  questo  brano.  Bruno  significativamente 
aggiunge:  «le  quaU  [le  cose  futili  cantate  dai  poeti  burleschi]  non  men  forse  sen 
danno  gir  altere  e  superbe  per  la  celebre  bocca  de  canzonieri  suoi,  che  debbano 
e  possano  le  prefate  et  altre  dame  per  gli  suoi»  {Ibidem).  Alle  «cose  basse»  si  fa 
anche  riferimento  in  un  brano  della  versione  primitiva  della  Cena:  «È  lecito,  et 
è  in  potestà  di  principi,  de  essaltar  le  cose  basse:  le  quali  se  essi  farran  tali, 
saran  giudicate  degne,  e  veramente  saran  degne;  et  in  questo  gli  atti  loro  son 
più  illustri  e  notabili,  che  si  aggrandissero  i  grandi  [...].  Or  vedete  con  qual 
similitudine  potrete  intendere  per  che  Teofilo  exaggere  tanto  questa  materia: 
la  qual  quantumque  rozza  vi  paia,  è  pur  altra  cosa  che  esaltar  la  Salza,  VOrti- 
cello,  il  Culice.  la  Mosca,  la  Noce,  e  cose  simili  con  gli  antichi  scrittori;  e  con 
que'  di  nostri  tempi,  il  Palo,  la  Stecca,  il  Ventaglio,  la  Radice,  la  Gniffeguerra,  la 
Candela,  il  Scaldaletto,  il  Fico,  la  Quintana,  il  Circello.  et  altre  cose  che  non  solo 
son  stimate  ignobili,  ma  son  anco  molte  di  quelle  stomacose»  (pp.  579-580). 
Sulla  letteratura  dell'elogio  paradossale  si  veda  da  ultimo  Maria  Cristina 
FiGORiLLi,  L'elogio  paradossale  nel  Cinquecento.  Indagine  su  testi  volgari  in  pro- 
sa cit 

565.  Furori,  p.  528. 

566.  Spaccio,  p.  278. 


INTRODUZIONE  I77 

mente  poeti»,  Tansillo  risponde  con  una  tautologia  che  lascia  indefi- 
nita la  questione:  «Dal  cantar  de  versi» 5^^.  Ma  nonostante  l'avversione 
a  creare  nuove  norme,  Bruno  non  rinuncia  però  a  esprimere  le  sue 
priorità.  Assegna  la  corona  di  mirto  «a  quei  che  cantano  d'amori», 
riservando  la  corona  d'alloro  esclusivamente  a  «quei  che  degnamente 
cantano  cose  eroiche,  instituendo  gli  animi  eroici  per  la  filosofia  spe- 
culativa e  morale,  overamente  celebrandoli  e  mettendoli  per  specchio 
exemplare  a  gli  gesti  politici  e  civili  w^^s. 

Poesia-filosofia  e  poesia-teologia 

Alla  letteratura  e  alla  poesia,  quindi,  viene  riconosciuta  una  impor- 
tantissima funzione  morale  e  sociale.  Devono  servire  innanzitutto  da 
«specchio  exemplare»  per  promuovere  «gesti  politici  e  civili».  Un 
compito  fondamentale  che  richiede  una  specifica  formazione,  che  va 
ben  al  di  là  delle  normali  competenze  attribuite  ai  protagonisti  del- 
l'ampia e  variegata  repubblica  degli  scrittori.  I  veri  poeti  devono  per 
prima  cosa  esercitarsi  «alla  contemplazion,  e  studi  de  filosofia».  Senza 
fervore  intellettuale  e  consuetudine  con  il  sapere,  infatti,  l'impegno  let- 
terario risulterebbe  inefficace,  poiché  le  attività  «cogitative»,  in  qua- 
lità di  «parenti  de  le  Muse» 5^^,  devono  «esser  predecessori  a  quelle »'''°. 
Non  a  caso  nella  Lampas  triginta  statuarum,  Bruno  ricorda  che  i  sa- 
pienti «diventano  poeti  e  filosofi  non  tanto  per  un  dono  gratuito, 
quanto  piuttosto  per  il  loro  zelo  e  impegno»  («qui  non  tantum  ex 
dono  quantum  etiam  ex  industria  quadam  et  studio  fiunt  poetae  et 
philosophi»)'^'. 

Non  c'è  da  meravigliarsi,  dunque,  se  in  un  celebre  passaggio  del- 
VExplicatio  triginta  sigillorum,  opera  di  mnemotecnica  pubblicata  nel 
1583,  il  vero  poeta  viene  associato  al  vero  filosofo  e  al  vero  pittore: 

Idem  ad  utrumque  proximum  est  principium;  ideoque  philosophi  sunt 
quodammodo  pictores  atque  poetae,  poetae  pictores  et  philosophi,  pictores 


567.  Furori,  p.  528. 

568.  Ibidem,  p.  527. 

569.  Sul  rapporto  tra  le  Muse  e  la  «nolana  filosofia»  si  veda  Andrzej 
NowiCKi,  Giordano  Bruno  e  la  filosofia  di  «cultus  musarum»  e  «ardens  erga  reli- 
gio», in  Giordano  Bruno  e  il  Rinascimento  quale  prospettiva  verso  una  cultura 
europea  senza  frontiere.  Atti  del  convegno  di  Bucarest  (3-5  dicembre  2000),  a 
cura  di  Smaranda  Bratu  Elianu  (in  corso  di  stampa). 

570.  Ibidem,  p.  527. 

571.  Giordano  Bruno,  Opere  magiche,  edizione  diretta  da  Michele  Cili- 
berto, a  cura  di  Simonetta  Bassi,  Elisabetta  Scapparone,  Nicoletta  Tirinnanzi, 
Milano,  Adelphi,  2000,  p.  1233. 


178  INTRODUZIONE 

philosophi  et  poètae,  mutuoque  veri  poétae,  veri  pictores  et  veri  philo- 
sophi  se  diligunt  et  admirantur'"^. 

Il  filosofo-pittore-poeta  non  può  trascurare  il  piano  formale.  Sa  che 
un  processo  eversivo  non  riguarda  solo  i  contenuti.  Sa  che  la  lingua,  la 
metrica,  lo  stile  e  la  stessa  scelta  dei  generi  contribuiscono  in  maniera 
importantissima  ad  esprimere  un  pensiero  teso  a  spezzare  catene  di 
ogni  sorta.  Liberare  l'universo  dallo  spazio  angusto  della  vecchia  co- 
smologia, annullare  le  differenze  tra  cielo  e  terra,  riunificare  una  volta 
per  tutte  forma  e  materia,  identificare  la  «divinità»  con  la  forza  vitale 
che  anima  ogni  cosa  dalFintemo,  riassegnare  alla  religione  la  sua  au- 
tentica funzione  di  cemento  sociale,  esaltare  l'infinito  percorso  verso  la 
conoscenza  infinita:  tutto  ciò  non  può  prescindere  da  una  scrittura  ca- 
pace di  farsi  essa  stessa  universo  infinito,  coincidenza  degli  opposti, 
teatro  della  varietà  e  della  contraddizione.  Dal  lessico  alla  sintassi,  dal 
verso  alla  struttura  metrica  ogni  singolo  elemento  espressivo  viene 
piegato  a  questa  eroica  funzione'''.  Lx)  stile  bruniano,  che  per  molto 
tempo  aveva  destato  perplessità  in  filosofi  e  letterati,  solo  negli  ultimi 
decenni  è  stato  oggetto  di  accurate  analisi  che  gli  hanno  procurato 
uno  spazio  di  rilievo  anche  nelle  storie  della  letteratura'"-*. 

Ma  Bruno  è  consapevole  del  fatto  che  la  battaglia  per  liberare  la 
poesia  e  gli  altri  generi  dalle  regole  e  dalle  norme  dei  pedanti  non 
basta.  L'aggressione  alla  concezione  «tolemaica»  della  lingua  e  della 
scrittura  non  può  prescindere  da  un'azione  eversiva  che  sottragga  la 
letteratura  al  dominio  della  teologia'"'.  Bisogna  attivare  anche  sul 
piano  dell'estetica  lo  stesso  processo  di  liberazione  avviato  nelle  sfere 
dell'etica,  della  cosmologia  e  della  gnoseologia.  Anche  in  questo  am- 


572.  Giordano  Bruno,  Opp.  lat.  (II/II),  p.  133.  Del  resto,  la  stessa  arte  della 
memoria  è  una  pittura-scrittura;  Fr.'VNCES  A.  Yates,  Varie  della  memoria  cit, 
pp.  34-41  (ma  cfr.  anche  Lina  Bolzoni,  La  stanza  della  memoria.  Modelli  lette- 
rari e  icotwgrafici  nell'età  della  stampa  cit). 

573.  Su  questi  temi  cfr.  Nuccio  Ordine,  L'entropia  della  scrittura,  in  La 
cabala  dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit,  pp.  143-168. 

574.  Vorrei  almeno  ricordare  l'importante  presenza  di  Giordano  Bruno  ne 
La  letteratura  italiana.  Storia  e  testi  diretta  da  Carlo  Muscetta  (Laterza),  nella 
Storia  della  letteratura  italiana  diretta  da  Emilio  Cecchi  e  Natalino  Sapegno 
(Garzanti),  nella  Storia  della  civiltà  letteraria  italiana  diretta  da  Gioito  Bàrberi 
Squarotti  (Utet)  e  nella  einaudiana  Letteratura  italiana  diretta  da  Alberto  Asor 
Rosa  (in  cui  La  cena  de  le  Ceneri  viene  inserita  nel  «canone»  dei  classici).  Tra  i 
manuali,  la  figura  del  Nolano  occupa  una  spazio  di  particolare  rilievo  nella 
Storia  della  letteratura  italiana  di  Giulio  Terroni  (Einaudi  scuola). 

575.  Per  un'analisi  del  dibattito  in  ambito  umanistico  sui  rapporti  tra  poe- 
sia e  teologia  è  utilissima  la  rassegna  offerta  ora  da  Francesco  Bausi,  Poesie  et 
religion  au  Quattrocento,  in  Poétiques  de  la  Renaissance  cit,  pp.  219-238. 


INTRODUZIONE  I7g 

bito,  l'esercizio  della  pedanteria,  incarnato  nel  radicalismo  riformato  e 
cattolico,  rivela  tutta  la  sua  estrema  pericolosità. 

Calvino,  in  prima  persona,  conduce  la  crociata  contro  i  falsi  e  bu- 
giardi letterati  che  usano  le  immagini  poetiche  per  deviare  e  perver- 
tire i  buoni  cristiani: 

Cette  bende  [ceux  qui  convertissent  à  demi  la  chrétienté  en  philo- 
sophie]  est  quasi  toute  de  gens  des  lettres.  Non  pas  qua  toutes  gens  de 
lettres  en  soient.  Car  i'amerois  mieux  que  toutes  les  sciences  humaines 
fuissent  exterminées  de  la  terre,  que  si  elle  estoyent  cause  de  refroidir  le 
zele  des  chrestiens  et  les  destoumer  de  Dieu'^^\ 

In  questo  brano,  tratto  da  VExcuse  à  Messieurs  les  nicodemites  (1544), 
l'esponente  di  punta  della  Riforma  ginevrina  sancisce  in  maniera 
esplicita  e  violenta  la  rottura  tra  letteratura  e  fede,  tra  la  corrotta  filo- 
sofia e  la  divina  teologia.  Addita,  con  l'indice  teso,  i  princìpi  di  natura 
etica  ed  estetica  da  cui  nessun  buon  cristiano  deve  derogare.  Innanzi- 
tutto, è  necessario  rinunciare  al  fascino  apparente  della  cultura  pa- 
gana, della  mitologia,  della  pura  menzogna,  per  abbracciare  invece  la 
verità  della  fede.  Norme  poetiche  e  morali  ben  precise,  dunque,  che 
durante  le  guerre  di  religione  si  inaspriranno  sempre  più,  fino  a  met- 
tere in  difficoltà  gli  stessi  poeti  cristiani,  incapaci  di  rinunciare  alla 
loro  formazione  umanistica  in  nome  di  un  rispetto  della  parola  sacra 
imposto  con  metodi  coercitivi.  All'interno  di  questo  contesto  però,  di- 
venta sempre  più  difficile  conciliare  la  poesia  pagana  con  il  culto  dei 
testi  sacri.  Basterebbe  rileggere  le  «soglie»  di  alcune  opere  di  Théodore 
de  Bèze,  di  Louis  Des  Masures,  di  Jean  Tagaut,  di  Henri  Hestienne,  di 
Claude  de  Boissière,  di  Jean  Macer,  di  André  de  Rivaudeau  —  fautori 
del  rigore  teologico  -  per  ritrovare,  con  parole  e  argomentazioni  di- 
verse, una  poetica  tutta  proiettata  verso  la  condanna  della  tradizione 
lirica  sia  sul  piano  dei  contenuti  (come  si  possono  invocare  le  Muse  o 
riconoscere  all'Amore  una  forza  divina,  mescolando  sacro  e  profano?) 
che  su  quello  più  specifico  dello  stile  (come  si  possono  forgiare  nuovi 
vocaboli  o,  addirittura,  intrecciare  serio  e  comico?)'''''. 


576.  Jean  Calvin,  Excuse  à  Messieurs  les  nicodemites,  in  Joannis  Calvini 
opera,  ediderunt  Guilielmus  Baum,  Eduardus  Cunitz,  Eduardus  Reuss,  Bruns- 
vigae,  Apud  C.  A.  Schwetschkeet  et  Filium,  1867,  t.  VI,  e.  600  [Corpus  reforma- 
torum,  voi.  XXXIV];  cfr.  Marcel  Raymond,  Uinfluence  de  Ronsard  sur  la  poe- 
sie frangaise  (1550-1585),  Paris,  Champion,  1927,  p.  330. 

577.  Cfr.  Nuccio  Ordine,  Introduction  à  G.  Bruno,  Expulsion  de  la  bète 
triomphante  cit,  pp.  CLXXII-CLXXVIII.  Sulla  nozione  di  «soglia»  testuale  cfr. 
GERARD  Genette,  Soglie.  I  dintorni  del  testo  [1988I,  a  cura  di  Camilla  Maria 
Cedema,  Torino,  Einaudi,  1989. 


l80  INTRODUZIONE 

La  fabula,  i  poeti  e  i  «versificatori» 

Nella  Francia  degli  anni  sessanta,  allo  scoppio  dei  primi  conflitti 
religiosi,  gli  attacchi  sul  piano  estetico  si  concentrano  contro  la 
Plèiade,  che  aveva  fatto  della  mitologia  pagana  e  dell'uso  della  fabula 
uno  dei  punti  forti  della  sua  poetica.  Non  a  caso  la  polemica  di  Ron- 
sard  contro  i  protestanti,  su  cui  mi  sono  soffermato  all'inizio,  investe 
anche  una  serie  di  temi  di  natura  letteraria.  Nel  replicare  agli  anonimi 
pamphlet  -  che  lo  accusavano  di  essere  un  poeta  «innovatore»,  tra- 
sgressivo, epicureo,  dedito  alla  lettura  di  Aretino,  di  Boccaccio  e  di 
antichi  autori  pagani  —  il  Vendòmois  insiste  a  più  riprese  sul  ruolo 
gnoseologico  del  mito:  da  una  parte,  infatti,  esso  aiuta  a  comprendere 
ciò  che  altrimenti  resterebbe  incomprensibile  e  dall'altra,  invece,  copre 
la  verità  con  un  sottile  velo  per  evitare  che  possa  essere  sporcata  dai 
profani.  La.  fabula,  insomma,  «svela»  perché  traduce  in  immagini  con- 
crete le  conoscenze  più  astratte  e,  nello  stesso  tempo,  «vela»  ciò  che 
deve  essere  difeso  dallo  sguardo  superficiale  dell'uomo  comune.  In 
questo  doppio,  e  antitetico,  movimento  sta  l'essenza  della  poesia,  si 
concretizza  Tatto  creativo  del  poeta,  così  come  l'aveva  teorizzato  il 
grande  umanista,  Jean  Dorat: 

M'apprist  la  Poesie,  et  me  monstra  comment 
On  doit  feindre  et  cacher  les  fables  proprement 
Et  à  bien  desguiser  la  verité  des  choses 
D'un  fabuleux  manteau  dont  elles  sont  encloses'^^. 

Anche  per  Ronsard,  dunque,  la  vera  poesia  nasce  come  una  specie 
di  «Theologie  allegorique»  con  la  funzione,  prettamente  filosofica,  di 
suscitare  la  ricerca  della  verità,  di  incitare  a  «superare»  l'ombra, 
perché  «jamais  hommes  ne  congneut  parfaictement  la  cause  des  cho- 
ses, sinon  par  umbre  et  en  nue»^^''.  E  nello  svolgere  il  suo  lavoro,  il 
poeta,  nel  ruolo  di  «Philosophe  bardi  w'**",  si  comporta  spesso  come  il 
pittore  quando  «dipinge»  i  veli  ben  sottili  con  cui  copre  alcuni  detta- 
gli della  sua  operarsi.  Su  queste  basi,  il  principe  della  Plèiade  distin- 


578.  Ronsard,  Hynne  de  l'Autonne,  in  (Euvres  complètes  cit,  t  II  (w.  79-82), 
p.  561. 

579.  Ronsard,  Des  vertues  intelleduelles  et  moralles  {Ibidem,  p.  1193). 

580.  Ronsard,  Hynne  de  l'Hyver,  v.  25  {Ibidem,  p.  571). 

581.  «Fuis  à  fin  que  le  peuple  ignorant  ne  mesprise  /  La  verité  cognue 
apres  l'avoir  apprise,  /  D'un  voile  bien  subtil  (comme  les  peintres  font  /  Aux 
tableaux  bien  portraits)  luy  couvre  tout  le  front,  /  Et  laisse  seulement  tout  au 
travers  du  voile  /  Paroistre  ses  rayons  comme  une  belle  estoile,  /  A  fin  que  le 
vulgaire  ait  desir  de  chercher/La  couverte  beauté  dont  il  n'ose  approcher»: 
Ronsard,  L'Hynne  de  l'Hyver  {Ibidem,  p.  572,  w.  71-78). 


INTRODUZIONE  l8l 

gue  tra  il  poeta  eroico,  che  sempre  con  argomenti  nuovi  si  sforza  di 
mettere  in  comunicazione  gli  uomini  con  gli  dèi,  e  i  banali  «versifica- 
tori», che  credono  di  «avoir  beaucoup  fait  pour  la  Republique,  quand 
ils  ont  compose  de  la  prose  rimée»'^^ 

Sulla  stessa  opposizione  ritoma  più  volte  anche  Bruno  nei  dialoghi 
italiani  e  in  qualche  opera  latina.  Nello  Spaccio,  in  un  contesto  domi- 
nato dall'Ozio,  spetterà  a  Momo  ricordare  quei  «vani  versificatori  ch'ai 
dispetto  del  mondo  si  vogliono  passar  per  poeti  «^^^^  mentre  nei  Furori 
il  termine  «versificatore»  viene  utilizzato  proprio  in  diretto  contreisto 
con  quello  di  poeta '84.  Senza  la  conoscenza  precisa  dei  meccanismi 
che  regolano  la  rappresentazione  del  velo'*^  non  sarà  possibile  utiliz- 
zare in  maniera  consapevole  l'ampio  materiale  mitologico,  né  operare 
scarti  originali  rispetto  alla  tradizione  e  ai  precedenti  modelli.  Del  re- 
sto, la  duplice  funzione  che  la  Sollecitudine  assegna  nello  Spaccio  alla 
Sagacità  la  dice  lunga  sulla  dialettica  nascondere/mostrare  («Fa  ch'il 
mio  lavoro  sia  occolto  e  sia  aperto:  aperto,  acciò  che  non  ogniuno  il 
cerca  et  inquira;  occolto,  acciò  che  non  tutti,  ma  pochissimi  lo  ritrove- 
no»)^^'',  in  cui  è  possibile  riconoscere  i  tratti  essenziali  della  poetica 
del  Sileno. 

Ma  anche  in  presenza  della  fabula  bisogna  fare  attenzione.  I  miti  e 
i  «veli»  si  possono  utilizzare  per  scopi  che  non  hanno  nulla  a  che 
vedere  né  con  la  filosofia  morale,  né  con  quella  contemplativa.  Tanti 
versificatori  ne  fanno  uso,  come  accade  in  certa  lirica  d'amore,  solo  ed 
esclusivamente  all'interno  di  un  codice  puramente  letterario  e  mon- 


582.  RoNSARD,  Au  lecteur  apprentif,  in  Franciade,  t.  I,  p.  11 64. 

583.  Spaccio,  p.  332. 

584.  «Son  certi  regolisti  de  poesia  che  a  gran  pena  passano  per  poeta 
Omero,  riponendo  Vergilio,  Ovidio,  Marziale,  Exiodo,  Lucrezio  et  altri  molti  in 
numero  de  versificatori,  examinandoli  per  le  regole  de  la  Poetica  d'Aristotele»: 
Furori,  p.  528.  Ma  nel  De  umbris  idearum  l'opposizione  è  messa  in  rilievo  in 
maniera  più  esplicita:  «Logifer:  Non  sentis  idem  de  carminilegis  et  versifica- 
toribus  nostris  qui  alienis  inventionibus,  hemiversibus  et  versibus  prò  suis  se 
nobis  venditant  poetis?  Philothimus:  Mitte  poetas.  Sicut  enim  prò  locis  sci- 
mus  longas  regibus  esse  manus,  ita  et  altae  longaeque  prò  locis  atque  tempo- 
ribus poetis  solent  esse  voces.  Logifer:  De  versificatoribus  dixi,  non  poetis» 
[«LOGIFERO.  Non  la  pensi  allo  stesso  modo  dei  nostri  raccoglitori  di  carmi  e 
versificatori,  che  con  gli  altrui  ritrovati,  emiversi  e  versi,  cercano  di  procac- 
ciarsi il  nostro  plauso  come  se  fossero  quei  loro  poeti?  Filotimo.  Lascia  stare  i 
poeti.  Infatti  come  sappiamo  che  in  certi  luoghi  i  re  hanno  le  mani  lunghe, 
così  anche  i  poeti,  in  certi  tempi  e  luoghi,  hanno  di  solito  voci  alte  ed  insi- 
stenti. LoGiFERO.  Ho  detto  dei  versificatori,  non  dei  poeti»):  Giordano  Bruno, 
De  umbris  idearum,  ed.  Sturlese,  pp.  20-21;  trad.  it.,  a  cura  di  N.  Tirinnanzi, 

P-  54)- 

585.  Cfr.  L.  Chines,  /  veli  del  poeta.  Un  percorso  tra  Petrarca  e  Tasso,  Roma, 
Carocci,  2000. 

586.  Spaccio,  p.  310. 


l82  INTRODUZIONE 

dano.  Ai  migliori  si  potrà  assegnare  una  corona  di  mirto.  Mentre 
quella  di  alloro  spetterà  al  poeta-filosofo-pittore  capace  di  impegnarsi 
in  una  poesia  filosofica,  animata  da  una  grande  tensione  etico-civile. 

L'elogio  di  Sidney,  poeta-fUosofo-uomo  d'azione 

Si  tratta  di  una  posizione  teorica  che  potrebbe  trovare  ulteriori 
conferme  nella  scelta  di  dedicare  lo  Spaccio  e  i  Furori  a  sir  Philip 
Sidney.  Bruno,  come  al  solito,  spiega  con  precisione  le  ragioni  del 
«dono»,  evidenziando  le  raffinate  qualità  intellettuali  del  giovane  gen- 
tiluomo inglese,  capace  di  racchiudere  in  sé  il  poeta,  il  filosofo  e 
l'uomo  dotato  di  animo  eroico: 

A  voi  dumque  si  presentano,  perché  l'Italiano  raggioni  con  chi  l'in- 
tende; gli  versi  sien  sotto  la  censura  e  protezzion  d'un  poeta;  la  filosofia 
si  mostre  ignuda  ad  un  sì  terso  ingegno  come  il  vostro;  le  cose  eroiche 
siano  addirizzate  ad  un  eroico  e  generoso  animo,  di  qual  vi  mostrate  do- 
tato's^. 

Un  destinatario,  insomma,  in  grado  di  dominare  con  sicurezza  i 
molteplici  temi  affrontati  da  Bruno  nei  due  dialoghi.  Dalle  dediche, 
infatti,  emergono  tratti  significativi  di  una  personalità  poliedrica,  con- 
fermati anche  da  Fulke  Greville  nella  biografia  dedicata  all'uomo 
d'azione  e  al  poeta-filosofo 5^».  Basta  rileggere,  inoltre,  alcuni  passaggi 
dell'Arcadia,  per  cogliere,  nel  complesso  intreccio  del  romanzo  pasto- 
rale, echi  dei  dibattiti  su  vizi  e  virtù,  sulla  vita  attiva  e  su  quella  con- 
templativa, che  si  andavano  svolgendo  nella  corte  di  Elisabetta'^'*.  Ma 
soprattutto  Sidney  è  autore  di  un  polemico  trattatello,  pubblicato  po- 
stumo nel  1595,  intitolato  VElogio  della  poesià^'^^.  Probabilmente  si 
tratta  di  una  risposta,  elaborata  intomo  al  1581,  a  Stephen  Gosson, 


587.  Furori,  p.  521. 

588.  Cfr.  Fulke  Greville,  Life  of  Sir  Philip  Sidney  [1652],  Oxford,  1907. 

589.  Su  questo  aspetto  cfr.  Nuccio  Ordine,  Introdudion  à  G.  Bruno, 
Expulsion  de  la  bète  trtomphante  cit,  pp.  CLXII-CLXIII.  Ma  si  veda  soprattutto 
il  volume  di  B.  VVorden  {The  Sound  of  Virtue.  Philip  Sidney's  Arcadia  and  Eli- 
zabethan  Politics,  New  Haven-London,  Yale  University  Press,  1997,  capitolo  II), 
in  cui  si  mostra  come  la  concezione  della  virtù  sia  legata  all'azione  e  come 
nelY Arcadia  la  religione  si  fondi  su  princìpi  di  natura  etica  e  non  teologica. 

590.  La  Defence  of  Poetry  ebbe  certamente  una  circolazione  manoscritta  nei 
primi  anni  Ottanta  del  Cinquecento.  Le  posizioni  di  Sidney,  infatti,  influenza- 
rono une  serie  di  trattati  che  in  quegli  anni  affrontavano  questioni  molto  si- 
mili: si  pensi  al  Discourse  of  English  Poesie  di  William  Webbe  (1586)  o  all'Apo- 
logie of  Poetrie  di  sir  John  Harington  (1591).  Su  questo  aspetto  cfr.  Pietro  Spi- 
nucci,  Teatro  elisabettiano  teatro  di  Stato.  La  polemica  dei  puritani  inglesi  contro 
il  teatro  nei  secoli  XVI  e  XVII,  Firenze,  Olschki,  1973,  p.  104. 


INTRODUZIONE  183 

autore  di  un  pamphlet,  The  School  of  Abuse  (1579),  in  cui  si  condanna- 
vano i  poeti,  i  musicisti  e  gli  attori,  accusati  di  distogliere  il  pubblico 
dalle  necessarie  attività  religiose  ^'^i. 

Nelle  argomentazioni  di  Sidney  in  difesa  della  poesia  è  possibile 
trovare  interessanti  indicazioni  per  capire  che  cosa  avesse  spinto 
Bruno  a  dedicare  a  un  protestante  un  violento  dialogo  contro  la  pe- 
danteria dei  riformati  {Spaccio)  e  un  «canzoniere  filosofico»  fortemente 
critico  con  la  tradizione  lirica  petrarchista  e  con  un  uso  futile  dei  temi 
d'Amore  {Furori).  In  effetti,  VElogio  della  poesia  si  configura  come 
un'importante  apologia  delle  funzioni  morali  della  letteratura.  Qui  ab- 
biamo un  protestante  moderato  che  reagisce  con  vigore  all'intolle- 
ranza di  un  puritano  militante  («le  finalità  e  i  metodi  della  Poesia,  se 
correttamente  applicati,  non  meritano  di  essere  banditi  dalla  Chiesa  di 
Dio»),  riconoscendo  alla  poesia  un  ruolo  fondamentale  per  educare  i 
lettori  ai  più  alti  valori  etici.  Il  vero  scrittore,  infatti,  disegna  con  la 
sua  immaginazione  la  figura  di  uomini  eccezionali  in  grado  di  fornire 
modelli  eroici  di  comportamento  utilissimi  alla  vita  civile: 

questo  atto  creativo,  inoltre,  non  è  interamente  frutto  di  immagina- 
zione, come  solitamente  diciamo  di  chi  costruisce  castelli  in  aria,  ma  il 
suo  effetto  è  così  sostanziale  da  creare  non  già  un  solo  Ciro  (il  che  sarebbe 
imitabile  dalla  Natura  stessa),  ma  da  regalare  al  mondo  un  Ciro  capace  di 
generarne  molti  altri,  a  patto  che  ben  s'intenda  come  e  perché  egli  sia 
stato  creato  dal  suo  artefice''*-. 

Sidney,  per  essere  ancora  più  chiaro,  ribadisce  che  il  sapere  su- 
premo risiede  «nella  conoscenza  di  sé  e  nella  riflessione  etica  e  poli- 
tica, con  lo  scopo  non  solo  di  conoscere  ma  anche  di  ben  agire  »5''^.  E 
se  «il  fine  ultimo  di  ogni  umano  sapere  è  l'azione  virtuosa,  tutte  le  arti 
che  maggiormente  servono  a  promuoverla  saranno  le  più  degne  del 
titolo  di  virtù  maestre,  superiori  ad  ogni  altra»'''*-*.  Proprio  per  l'impor- 
tante funzione  di  incoraggiare  «l'uomo  a  mettere  in  pratica  ciò  che  si 


591.  Wladyslaw  Tatarkiewicz,  Storia  delV estetica.  III.  L'estetica  moderna, 
a  cura  di  Giampiero  Cavaglià,  Torino,  Einaudi,  1980,  p.  384.  Al  pamphlet  di 
Gosson,  replicò  immediatamente  nel  1580  lo  scrittore  e  medico  Thomas  Lodge 
con  un  trattato,  intitolato  Defence  of  Poetry  (cfr.  Anna  Anzi,  Storia  del  teatro 
inglese  dalle  origini  al  Seicento,  Torino,  Einaudi,  1997.  pp.  82-83).  Sulle  circo- 
stanze della  pubblicazione  deìVElogio  della  poesia  si  veda  anche  Ronald  Le- 
VAO,  Préface  à  Philip  Sidney,  Éloge  de  la  poesie,  traduction  de  Patrick  Hersant, 
Paris,  Les  Belles  Lettres,  1994,  pp.  IX-XI. 

592.  SiR  Philip  Sidney,  Elogio  della  poesia,  a  cura  di  Marco  Pustianaz,  Ge- 
nova, il  Melangolo,  1989,  pp.  29-30. 

593.  Ibidem,  p.  34. 

594.  Ibidem. 


184  INTRODUZIONE 

apprende» 5^5,  la  poesia  dovrebbe  ottenere  una  posizione  di  grande  ri- 
lievo nella  vita  intellettuale  e  civile. 

Ma  il  giovane  gentiluomo  inglese  sa  che  le  sue  posizioni  trovano 
difficilmente  ascolto  in  un  momento  storico  minacciato  dalla  pedan- 
teria, da  grammatici  sempre  pronti  «a  correggere  il  verbo  prima  di 
comprendere  il  sostantivo,  e  a  confutare  le  nozioni  altrui  prima  di  sa- 
per chiarire  le  proprie» 5'*'^.  A  chi  si  muove  sulla  superficie  delle  parole 
non  è  dato  distinguere  tra  poeta  e  versificatore: 

Ma  sono  i  versi  e  le  rime  ad  offrire  la  maggior  opportunità  al  loro  bef- 
fardo umore.  Si  è  già  detto,  e  penso  giustamente,  che  non  sono  rime  e  versi 
a  fare  la  Poesia:  si  può  essere  poeti  anche  senza  comporre  in  versi  e  versi- 
ficatori senza  essere  poeti ''^. 

Non  basta  scrivere  versi  per  essere  poeta.  Un'affermazione  che,  ol- 
tre a  mettere  in  gioco  diverse  concezioni  della  poesia,  finisce  per  inve- 
stire radicalmente  due  opposte  visioni  della  conoscenza  e  della  vita:  la 
pedanteria  da  una  parte  e  la  poesia-filosofia  dall'altra. 

Scrivere  la  vita  e  vivere  la  filosofia 

Il  mito  di  Narciso,  nella  «rilettura»  proposta  da  Paolo  Pino  nel  suo 
Dialogo  della  pittura,  potrebbe  anche  alludere  al  simbolico  rapporto 
che  l'autore  intrattiene  con  la  sua  opera 5''*^.  Nella  relazione  amorosa 


595.  Ibidem,  p.  43. 

596.  Ibidem,  p.  53. 

597.  Ibidem. 

598.  Maurice  Brock  (Narcisse  ou  l'amour  de  la  peinture:  le  Dialogo  di  pit- 
tura de  Paolo  Pino,  in  «Albertiana»,  IV,  2001,  pp.  189-227)  mostra  come  nel 
dialogo  di  Pino  il  mito  di  Narciso,  superando  l'idea  albertiana  dell'invenzione 
della  pittura,  finisca  per  rappresentare  la  relazione  che  si  instaura  tra  il  pittore 
e  la  sua  arte.  L'amore  visto  come  fonte  dell'invenzione  artistica  è  un  concetto 
che  ritoma  con  insistenza  nel  neoplatonismo  fiorentino:  cfr.  André  Chastel, 
Marsile  Ficin  et  l'art,  préface  de  Jean  Wirth,  Genève,  Droz,  1996,  pp.  130-148 
(trad.  it.  a  cura  di  Ginevra  de  Maio,  Torino,  Nino  Aragno  Editore,  1992).  Del 
resto,  anche  nel  mito  delle  origini  della  coroplastica  (modellazione  in  terracot- 
ta), raccontato  da  Plinio,  la  prima  opera  nasce,  con  l'espediente  del  contomia- 
mento  di  un'ombra  proiettata  a  partire  dal  lume  di  una  lanterna  e  non  dalla 
luce  del  sole  come  racconta  Quintiliano,  per  un  atto  d'amore:  «Fingere  ex  ar- 
gilla similitudines  Butades  Sicyonius  figulus  primus  invenit  Corinthi  filiae 
opera,  quae  capta  amore  iuvenis,  abeunte  ilio  peregre,  umbram  ex  facie  eius  ab 
lucemam  in  pariete  lineis  circumscripsit,  quibus  pater  eius  inpressa  argilla 
typum  fecit  [...]»  [«Butade  Sicionio,  vasaio,  per  primo  trovò  l'arte  di  foggiare 
ritratti  in  argilla,  e  questo  a  Corinto,  per  merito  della  figlia  che,  presa  d'amore 
per  un  giovane,  dovendo  quello  andare  via,  tratteggiò  i  contomi  della  sua  om- 
bra, proiettata  sulla  parete  dal  lume  di  una  lanterna;  su  queste  linee  il  padre 
impresse  l'argilla  riproducendone  il  volto»]:  Gaio  Plinio  Secondo,  Storia  na- 


INTRODUZIONE  185 

con  se  stesso  è  possibile,  infatti,  ritrovare  i  tratti  significativi  del- 
l'amore che  lega  l'artista  al  suo  prodotto.  Un  legame  che  si  caratterizza 
innanzitutto  per  la  sua  natura  materiale,  fisica:  l'ombra  che  Narciso 
cerca  di  abbracciare  gli  appartiene,  è  parte  di  lui,  è  la  proiezione  del 
suo  corpo  5'''^.  In  sostanza,  dipingere  significa  anche  dipingere  se  stessi, 
compiere  un  gesto  di  «  autocontemplazione  »^°°.  Pittore  e  quadro,  in- 
somma, finiscono  paradossalmente  per  diventare  un'unica  cosa,  per  es- 
sere l'uno  lo  specchio  dell'altro. 

Un'immagine,  forse,  troppo  generica.  Ma  che  può  aiutarci  a  capire 
meglio  come  per  Bruno  scrivere  significhi  anche  scrivere  la  propria 
vita.  Nelle  opere  italiane,  infatti,  ogni  parola,  ogni  grafema  tracciato, 
contribuisce  in  maniera  indiscutibile  a  costruire  l'immagine  di  un 
universo  in  cui  vita  e  filosofia,  biografia  e  letteratura  si  identificano 
fino  a  fondersi  l'una  nell'altra'''^'.  Proprio  la  radicalizzazione  di  questa 
«identità»  spinge  il  Nolano  al  punto  «da  scrivere  in  linguaggio  filoso- 
fico la  propria  vita,  da  diventare  lui,  come  tale,  materia  filosofica»^"^. 


turale.  V.  Mineralogia  e  storia  dell'arte  (Libri  33-37),  cit.  (XXXV.  43,  151),  pp. 
306-307  (cfr.  Victor  Stoichita,  Breve  storia  dell'ombra.  Dalle  origini  della  pit- 
tura alla  Pop  Art  cit.,  pp.  13-22).  Questo  aneddoto  pliniano  sarà  ripreso  da 
Charles  Perrault  per  testimoniare  che  Amore  ha  fatto  nascere  la  pittura  dal 
contornamento  dell'ombra;  «Sur  le  mur  oppose  la  lamp  en  ce  moment  /  Mar- 
quoit,  du  beau  gargon  le  visage  charmant,  /  L'éblouìssant  rayon  de  sa  vive 
lumiere  /  Serrant  de  tonte  parts  l'ombre  épaisse  &  grossiere,  /  Dans  le  juste 
contour  d'un  trait  clair,  &  subtil  /  En  avoit  nettement  designé  le  profil»  (Ch. 
Perrault,  La  Peinture,  Edition  présentée,  établie  et  annotée  par  Jean-Luc 
Gautier-Gentès,  Genève,  Droz,  1992  [vv.  627-631],  p.  137).  Il  topos  del  rapporto 
amante-ritratto  è  ricostruito  da  Maurizio  Bettini,  Il  ritratto  dell'amante,  To- 
rino, Einaudi,  1992  (si  vedano,  in  particolare,  i  capitoli  II  e  IX  dedicati,  rispet- 
tivamente, a  Butade  e  a  Narciso). 

599.  Su  questo  legame  «materiale»  tra  Narciso  e  la  sua  ombra  insiste  giu- 
stamente Hubert  Damisch,  L'inventeur  de  la  peinture,  in  «Albertiana»,  IV 
(2001),  p.  181. 

600.  Maurice  Brock,  Marcisse  ou  l'amour  de  la  peinture:  le  Dialogo  di  pit- 
tura de  Paolo  Pino  cit.,  p.  206. 

601.  Mi  sembra  inutile  specificare  che  questa  lettura  del  rapporto  tra  bio- 
grafia e  opere  si  colloca  al  di  là  delle  estreme  posizioni  teorizzate  dal  «biogra- 
fismo» di  stampo  positivistico  (ridurre  le  opere  a  mero  supporto  della  biogra- 
fia) e  da  alcune  correnti  del  formalismo  (separare  le  opere  dalla  vita,  in  nome 
dell'autoreferenzialità  linguistica  dei  testi).  I  limiti  di  questi  due  opposti  atteg- 
giamenti sono  stati  oggetto  di  un  vasto  dibattito  che  sarebbe  impossibile  qui 
rievocare.  Nel  caso  specifico  di  Bruno  mi  pare  che  la  solidarietà  tra  vita  e 
filosofia  sia  mantenuta  salda,  nonostante  la  frammentarietà  e  le  contraddizioni 
che  caratterizzano  alcuni  aspetti  dell'una  e  dell'altra.  Naturalmente,  neH'acco- 
stare  vita  e  filosofia  bisogna  tener  conto  anche  di  quelle  inevitabili  incon- 
gruenze che  non  permettono  di  stabilire  facili  equazioni  in  tutti  i  casi:  su  que- 
sta questione  cfr  ora  Richard  Shusterman,  Vivre  la  philosophie.  Pragmatisme 
et  art  de  vivre,  Paris,  Klincksieck,  2001. 

602.  Biagio  de  Giovanni,  Lo  spazio  della  vita  fra  G.  Bruno  e  T.  Campanella, 
in  «il  Centauro»,  n.  11-12  (1984),  p.  14.  Sui  rapporti  tra  biografia  e  filosofia  mi 


l86  INTRODUZIONE 

In  questo  senso,  come  abbiamo  visto,  la  scritturci,  la  «pittura  parlante» 
messa  in  scena  nella  commedia  e  nei  dialoghi,  traduce  sulla  pagina  la 
quète  gnoseologica  di  Bruno:  parola  e  pensiero  percorrono  assieme 
strade  mai  battute,  aprendo  la  via  a  una  diversa  concezione  della  vita 
e  del  sapere. 

I  segni  vergati  sulla  carta  e  i  segni  impressi  nella  realtà  con  le  pro- 
prie azioni  quotidiane  parlano  lo  stesso  linguaggio:  esprimono  il  mo- 
vimento, l'incertezza,  lo  scarto,  l'insoddisfazione,  lo  sforzo,  l'entusia- 
smo, il  bisogno  di  andare  sempre  al  di  là  di  ogni  possibile  confine,  di 
ogni  invalicabile  barriera,  di  ogni  indiscutibile  frontiera.  Qui  la  parola 
si  fa  vita  e  la  vita  si  fa  parola.  Bruno  scrive  le  sue  opere.  Ma  nello 
stesso  tempo  quelle  opere  scrivono  la  sua  esistenza,  ne  segnano  il  per- 
corso, ne  condizionano  la  traiettoria,  ne  favoriscono  gli  esiti  positivi  e 
negativi.  Nessuna  meraviglia,  quindi,  se  proprio  questi  testi  diventano 
espressione  eloquente  di  una  forte  presenza  Si  tratta  di  opere  viventi, 
che  testimoniano  in  ogni  pagina  il  bisogno  di  superare  la  frattura  tra 
la  filosofia  come  discorso  filosofico  (il  sapere  che  costruisce  un  sistema) 
e  la  filosofia  come  esperienza  vissuta^°^.  La  visione  teorica  non  si  con- 
figura come  fine  a  se  stessa,  come  una  formula  astratta  che  domanda 
solo  un'adesione  intellettuale.  La  scelta  consapevole  di  una  filosofia 
dell'infinito  richiede  una  partecipazione  totale  che  comporta  necessa- 
riamente una  modifica  della  propria  vita,  una  metamorfosi.  L'ardua 
concezione  di  un  cosmo  senza  limiti  e  la  gioia  di  percorrerlo  in  lungo 
e  in  largo  in  tutta  la  sua  meravigliosa  infinità  producono  necessaria- 
mente una  trasformazione  dell'io:  la  coscienza  si  dilata  a  tal  punto  da 
proiettare  l'individuo  oltre  se  stesso.  Pensare  l'infinito  significa,  in  par- 
ticolar  modo,  pensarsi  come  minuscola  parte  di  un  Tutto,  significa 
manifestare  con  entusiasmo  la  certezza  che  anche  la  propria  vita  par- 
tecipa, in  proporzione,  all'incessante  movimento  dell'Universo.  In  que- 
sta concezione  della  filosofia  come  permanente  esercizio  della  quète,  in 
questo  ritrovarsi  in  sintonia  con  una  realtà  nel  suo  farsi  continuo. 
Bruno  afferma  il  valore  infinito  della  vita. 

Nella  singolare  autenticità  di  questa  esperienza  si  concretizza  la 
consapevolezza  che  l'avventura  della  conoscenza  e  l'avventura  della 
vita  sembrano  correre  parallele  lungo  lo  stesso  binario.  Entrambe  ne- 


permetto  di  rinviare  alla  mia  Préface  à  Vincenzo  Spampanato,  Vita  di  Gior- 
dano Bruno,  cit.,  pp.  [VII-XXV].  Si  veda  anche  Michele  Ciliberto,  Umbra 
profunda.  Saggi  su  Giordano  Bruno  cit.,  pp.  35-95. 

603.  Sull'opposizione  tra  discorso  filosofico  e  filosofia  come  maniera  di  vi- 
vere si  vedano  le  affascinanti  riflessioni  di  Hadot  in  Pierre  Hadot,  La  phi- 
losophie  camme  manière  de  vivre.  Eniretiens  avec  Jeannie  Carlier  et  Arnold  I.  Da- 
vidson, Paris,  Albin  Michel,  2001. 


INTRODUZIONE  187 

gano  la  stasi,  aprendosi  all'infinità  dell'universo.  Il  duro  percorso 
verso  la  domus  sapientiae,  sebbene  si  collochi  all'interno  di  una  dimen- 
sione universale,  non  può  non  segnare  il  nostro  cammino  nel  mondo, 
non  può  non  essere  considerato  parte  integrante  della  nostra  prassi 
quotidiana,  anche  nelle  azioni  e  nei  gesti  più  umili.  Vivere  la  cono- 
scenza e  scrivere  la  conoscenza  equivale  a  scrivere  la  propria  vita; 

Venni  tra  gli  altri  io,  attratto  dal  desiderio  di  visitare  la  casa  della 
sapienza,  ardente  di  contemplare  codesto  Palladio,  onde  non  mi  vergogno 
d'aver  sopportato  la  povertà,  la  malevolenza  e  l'odio  dei  miei,  le  esecra- 
zioni, le  ingratitudini  di  coloro  ai  quali  volli  giovare  e  giovai,  gli  effetti  di 
un'estrema  barbarie  e  d'una  avarizia  sordidissima;  [...].  Per  il  che  non  mi 
duole  d'esser  incorso  in  fatiche,  dolori,  esilio:  che  faticando  profittai,  sof- 
frendo feci  esperienza,  vivendo  esule  imparai:  che  trovai  in  breve  fatica 
lunga  quiete,  in  leggera  sofferenza  gaudio  immenso,  in  un  angusto  esilio 
una  patria  grandissima^"^. 

Senza  cogliere  questo  nesso  tra  biografia  e  pensiero,  tra  vita  e  lette- 
ratura, sarebbe  difficile  afferrare  il  senso  profondo  della  tragica  morte 
del  Nolano.  Chi  osa  sostenere  e  diffondere  idee  che  mettono  in  discus- 
sione dogmi  religiosi  e  cosmologici,  etici  e  letterari,  politici  ed  estetici 
non  è  destinato  all'ascolto  ma  all'emarginazione  e,  nei  casi  più 
estremi,  alla  persecuzione  e  al  sacrificio  della  vita.  Non  a  caso  il  filo- 
sofo infiammato  dall'amore  per  la  conoscenza  conclude  la  sua  esi- 
stenza, come  la  farfalla  dei  Furori,  nella  luce  di  un  rogo.  Ma  proprio 
tra  quelle  fiamme,  alimentate  da  una  feroce  intolleranza.  Bruno  scrive 
una  delle  pagine  più  eloquenti  della  sua  filosofia:  si  possono  ridurre  in 
cenere  uomini  e  libri,  senza  impedire  però  che  il  pensiero  continui  a 
circolare,  che  le  parole  possano  trasudare  entusiasmo  e  trasmettere 
pcissione.  In  altri  termini:  se  biografia  e  filosofia  coincidono,  la  vita 
non  sarà  sconfitta  dalla  morte.  Anzi,  la  morte  potrebbe  diventare 


604.  «Veni  Inter  alios  ego  istius  domus  sapientiae  visendae  amore  concita- 
tus,  flagrans  spectandi  Palladii  istius  ardore,  prò  quo  me  subisse  non  pudet 
paupertatem,  invidiam  et  odium  meorum.  execrationes,  ingratitudines  eorum, 
quibus  prodesse  volai,  atque  profui,  extremae  barbariei  et  avaritiae  sordidissi- 
raae  effectus:  ab  iis,  qui  mihi  amorem,  servitium  et  honorem  debebant,  convi- 
tia,  calumnias,  iniurias,  etiam  infamias.  Neque  pudet  expertum  esse  irrisiones, 
contemptus  ignobilium  atque  stultorum,  quorumdam  qui  piane  bestiae  cum 
sint,  cultu  atque  fortuna  sub  imagine  et  similitudine  hominum,  temeraria  su- 
perbiunt  arrogantia.  Pro  quo  incurrisse  non  piget  labores,  dolores,  exilium: 
quia  laborando  profeci,  dolendo  sum  expertus,  exulando  didici:  quia  inveni  in 
brevi  labore  diutumam  requiem,  in  levi  dolore  immensum  gaudium,  in  angu- 
sto exilio  patriam  amplissimam»:  Opp.  lat.,  I/I,  pp.  21-22  (traduzione  italiana: 
Giordano  Bruno,  Oraiio  valedictoria,  in  Giordano  Bruno  e  Tommaso  Cam- 
panella, Opere,  a  cura  di  Augusto  Guzzo  e  Romano  Amerio,  Milano-Napoli, 
Ricciardi,  1956,  p.  687). 


l88  INTRODUZIONE 

espressione  di  un  amore  infinito  per  la  filosofia  e  per  quella  vita  che  di 
questa  filosofia  è  viva  testimonianza. 

Purtroppo,  però,  la  «fortuna»  del  Nolano  ha  conosciuto  momenti 
alterni,  spesso  fondati  più  su  un  uso  improprio  della  sua  biografia  che 
su  una  consapevole  lettura  delle  sue  opere.  Proprio  a  partire  da  quel- 
l'ultima pagina,  «scritta»  col  sangue  in  Campo  de'  Fiori,  sono  fioriti 
«miti»  che  hanno  segnato  un  uso  strumentale  della  figura  di  Bruno 
nelle  direzioni  più  diverse"^'.  Conteso  da  movimenti  e  sette,  utilizzato 
in  riti  segreti  e  in  lotte  di  piazza,  la  poliedrica  immagine  del  filosofo  è 
riuscita  comunque  a  sfuggire  a  ogni  tentativo  di  cristallizzare  il  suo 
pensiero  in  una  formula  valida  una  volta  per  tutte.  L'appassionato  so- 
stenitore dell'universo  infinito  non  avrebbe  potuto  lasciarsi  racchiu- 
dere in  un  solo  «luogo»:  il  suo  essere  atopos^^,  pur  utilizzando  il  topo- 
nimo di  Nolano,  si  manifesta  in  maniera  coerente  sia  sul  piano  della 
filosofia  (caratterizzato  da  un  pensiero  mobile  in  grado  di  attraversare 
saperi  e  metodi  più  diversi)  sia  su  quello  della  biografia  (segnato  da 
continui  spostamenti  nell'ampio  perimetro  europeo). 

Non  c'è  da  meravigliarsi,  quindi,  se  del  Nolano  nel  corso  dei  secoli 
è  stato  detto  tutto  e  il  contrario  di  tutto.  Campione  della  magia  e  del- 
l'esoterismo, per  alcuni.  Precursore  della  scienza  moderna,  per  altri. 
Fautore  dell'oscurantismo  o  sostenitore  dei  grandi  temi  della  moder- 
nità (tolleranza,  unità  dei  saperi,  relativismo,  dialogo,  infinitismo)^'^. 
Un  pensiero,  insomma,  che  per  la  sua  complessità  e  per  la  sua  capa- 
cità di  usare  consapevolmente  in  maniera  «impropria»  culture  e  filo- 
sofie, spostando  continuamente  i  concetti  in  un  ambito  «estraneo»  alla 
loro  tradizionale  appartenenza,  ha  finito  per  incora^are  sempre 
nuove  letture  e  nuovi  cicli  interpretativi,  non  senza  però  attirare  su  di 
sé  anche  insofferenze  e  antipatie: 

Albertino.  -  Gran  mercé  alla  vostra  cortesia,  poi  che  pretendete 
d'avanzarmi  e  pormi  in  exaltazione,  con  farmi  auditore  di  questo  trava- 
gliato [Filoteo],  ch'ogni  un  sa  quanto  sia  odiato  nell'academie,  quanto  è 


605.  Cfr.  Maria  Luisa  Barbera,  La  Bruno-mania,  in  «Giornale  critico  della 
filosofia  italiana»,  LIX  (1980),  pp.  103-140. 

606.  Sulle  caratteristiche  del  filosofo  aiopos  cfr.  Pierre  Hadot,  La  philo- 
sophie  camme  manière  de  vivre  cit,  p.  162. 

607.  Sul  tema  dell'unità  dei  saperi  in  Bruno  si  veda  N.  Ordine,  Scienze 
della  natura  e  scienze  delVuomo:  una  «nouvelle  alliance»,  in  La  cabala  dell'asino. 
Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno  cit,  pp.  169-179.  Preziose  osservazioni 
sulla  modernità  di  alcune  concezioni  della  fisica  bruniana  sono  in  Ilya  Pri- 
gogine, Pensare  l'incerto,  in  «Campus  Calabria»,  1-2  (1998),  pp.  11-18  (per  la 
nozione  di  «nouvelle  alliance»  è  fondamentale  Ily.-v  Prigogine-Isabelle 
Stengers,  La  nuova  alleanza.  Metamorfosi  della  scienza,  edizione  italiana  a  cura 
di  Pier  Daniele  Napolitani,  Torino,  Einaudi,  1981). 


INTRODUZIONE  189 

aversario  delle  dottrine  comuni,  lodato  da  pochi,  approvato  da  nessuno, 
perseguitato  da  tutti. 

Elpino.  —  Da  tutti  sì,  ma  tali  e  quali;  da  pochi  sì,  ma  ottimi  et  eroi. 
Aversario  de  dottrine  comuni,  non  per  esser  dottrine  o  per  esser  comuni, 
ma  perché  false.  Dall'academie  odiato,  perché  dove  è  dissimilitudine  non  è 
amore.  Travagliato,  perché  la  moltitudine  è  contraria  a  chi  si  fa  fuor  di 
quella;  e  chi  si  pone  in  alto,  si  fa  versaglio  a  molti  ^*. 

Un  pensiero  che  ha  fatto  della  dialogicità,  della  plurivocità,  del- 
rascolto,  soprattutto  una  questione  di  metodo ^°^,  «per  che  il  suo  desio 
consiste  più  in  imparare  che  in  insegnare,  e  si  stima  più  atto  a  quello 
ch'a  questo»'^'".  Non  a  caso  Bruno  cerca  di  esprimersi  su  un  piano 
concettuale  quasi  sempre  usando  il  plurale:  non  parla  della  filosofia 
ma  delle  filosofie ''^^  non  parla  della  lingua  ma  delle  lingue,  non  parla 
della  religione  ma  delle  religioni. 


608.  De  l'infinito,  p.  139. 

609.  «Qui  philosophari  concupiscit  de  omnibus  principio  dubitans,  non 
prius  de  altera  contradictionis  parte  definiat  quam  altercantes  audierit,  et  ra- 
tionibus  bene  perspectis  atque  coUatis  non  ex  auditu,  fama,  multitudine,  lon- 
gaevitate,  titulis  et  omatu,  sed  de  constantis  sibi  atque  rebus  doctrinae  vigore, 
sed  de  rationis  lumina  veritate  inspicua  iudicet  et  definiat»  [«Chi  desidera  fi- 
losofare, dubitando  all'inizio  di  tutte  le  cose,  non  assuma  alcuna  posizione  in 
un  dibattito  prima  di  aver  ascoltato  le  parti  in  contrasto  e  dopo  aver  bene 
considerato  e  confrontato  il  prò  e  il  contro,  giudichi  e  prenda  posizione  non 
per  sentito  dire,  secondo  le  opinioni  dei  più.  l'età,  i  meriti  e  il  prestigio,  ma 
sulla  base  della  persuasività  di  una  dottrina  organica  e  aderente  alla  realtà, 
nonché  di  una  verità  che  si  comprenda  alla  luce  della  ragione»]:  Giordano 
Bruno.  De  minimo,  in  Opp.  lai..  I/III.  p.  137  (trad.  it.  p.  94).  Nella  Cena  Teofilo 
ricorda  che  per  imparare  bisogna  farsi  «uditori»  perché  «non  è  possibile  sap)er, 
circa  una  arte  o  scienza,  dubitar  et  interrogar  a  proposito,  e  co  gli  ordini  che  si 
convengono,  se  non  ha  udito  prima»  (p.  463). 

610.  «E  per  descrivervi  l'animo  suo  quanto  al  fatto  del  trattar  cose  specu- 
lative, vi  dico  che  non  è  tanto  curioso  d'insegnare,  quanto  d'intendere;  e  che 
lui  udirà  meglior  nova,  e  prenderà  maggior  piacere,  quando  sentirà  che  vo- 
gliate insegnarlo  (pur  ch'abbia  speranza  de  l'effetto),  che  se  gli  diceste  che  vo- 
lete essere  insegnato  da  lui:  per  che  il  suo  desio  consiste  più  in  imparare  che  in 
insegnare,  e  si  stima  più  atto  a  quello  ch'a  questo»:  De  l'infinito,  pp.  139-140. 
Teofilo  ricorda  che  il  Nolano  «non  era  andato  [a  quella  cena]  per  leggere  né 
per  insegnare,  ma  per  rispondere»  {Cena,  p.  530). 

611.  Sulla  pluralità  dei  metodi  e  delle  filosofie  Bruno  ritoma  più  volte.  Ol- 
tre al  brano  del  De  umbris  (cfr.  supra,  p.  129),  è  molto  eloquente  anche  questo 
passaggio  del  De  la  causa:  «Non  mi  parrà  però  quella  filosofia  degna  di  essere 
rigettata,  massime  quando  sopra  a  qualsivoglia  fundamento  che  ella  presup- 
pona,  o  forma  d'edificio  che  si  propona,  venga  ad  effettuare  la  perfezzione  della 
scienzia  speculativa  e  cognizione  di  cose  naturali,  come  in  vero  è  stato  fatto  da 
molti  più  antichi  filosofi.  Perché  è  cosa  da  ambizioso,  e  cervello  presuntuoso, 
vano  et  individioso.  voler  persuadere  ad  altri,  che  non  sia  che  una  sola  via  di 
investigare,  e  venire  alla  cognizione  della  natura:  et  è  cosa  da  pazzo  et  uomo 
senza  discorso  donarlo  ad  intendere  a  se  medesimo.  Benché  dumque  la  via  più 
costante  e  ferma,  e  più  contemplativa  e  distinta,  et  il  modo  di  considerar  più 
alto  deve  sempre  esser  preferito,  onorato  e  procurato  più,  non  per  tanto  è  da 


igO  INTRODUZIONE 

Resta  però  un  punto  fermo  nel  rapporto  tra  biografia  e  sapere.  Per 
Bruno,  separare  la  vita  dalla  filosofia  e  la  filosofia  dalla  vita  significhe- 
rebbe ridurre  la  filosofia  a  un  vile  mestiere  e  la  vita  a  una  banale 
rincorsa  di  falsi  valori: 

La  sapienza  e  la  giustizia  cominciarono  ad  abbandonare  la  Terra  allor- 
quando i  dotti,  organizzati  in  sette,  cominciarono  ad  usare  la  loro  dottrina 
a  scopo  di  lucro.  Indi  ne  derivò  che,  come  si  trattasse  della  propria  vita  e 
di  quella  dei  figli,  combattessero  fino  all'annientamento  degli  avversari 
per  un  semplice  amor  di  parte.  Sia  la  religione  che  la  filosofia  giacciono 
annullate  da  simili  atteggiamenti,  sia  gli  Stati,  i  regni  e  gli  imperi  sono 
sconvolti,  rovinati,  banditi  assieme  ai  saggi,  ai  principi  e  ai  popoli'''^. 

In  un'epoca  come  la  nostra,  dove  il  sapere  scientifico  ed  umanistico 
rischiano  sempre  più  di  essere  al  servizio  del  profitto  e  del  mercato  o 
al  servizio  di  un  vano  esercizio  di  potere  accademico,  l'esperienza 
umana  e  intellettuale  di  Bruno  si  pone  come  un  faro  morale,  come  un 
edificante  messaggio  di  speranza  per  le  giovani  generazioni  del  nuovo 
millennio.  Non  ci  può  essere  conoscenza  senza  l'amore  disinteressato 
per  la  conoscenza,  senza  la  consapevolezza  che  l'acquisizione  del  sa- 
pere non  è  un  dono,  ma  il  frutto  di  una  faticosa  conquista. 


biasimar  quell'altro  modo,  il  quale  non  è  senza  buon  frutto,  ben  che  quello 
non  sia  il  medesmo  arbore»  (p.  688). 

612.  «Sapientia  atque  justitia  tum  primum  terras  deserere  incoepit,  ubi  ex 
opinionibus,  sectae  quaestum  tacere  coeperunt  Inde  quippe  ortum  est  ut  tan- 
quam  ad  propriam  atque  liberorum  vitam  prò  partis  opinionibus  ad  adversa- 
riorum  usque  ultimam  intemecionem  propugnarent  Ejusmodi  auspiciis  tum 
religio  atque  philosophia  interempta  jacet,  tum  respublicae,  regna,  atque  impe- 
ria, cum  sapientibus,  principibus,  atque  populis  turbantur,  perduntur,  extermi- 
nantur»:  De  immenso,  in  Opp.  lai.,  I-I,  p.  208;  traduzione  italiana,  p.  425.  Già  nel 
Candelaio  Bruno  aveva  mostrato  la  corruzione  operata  nella  società  dall'oro  e 
dall'argento:  «Li  metalli,  come  oro  et  argento,  sono  il  fonte  de  ogni  cosa:  questi, 
questi  apportano  parole,  erbe,  pietre,  lino,  lana,  seta,  frutti,  frumento,  vino, 
oglio:  et  ogni  cosa  sopra  la  terra  desiderabile,  da  questi  si  cava:  questi  dico 
talmente  necessarii  che,  senza  essi,  cosa  nisciuna  di  quelle  si  accapa  o  si  pos- 
sedè» (p.  323).  Anche  Alberti  considera  la  pittura  come  un  esercizio  che  non 
può  essere  inquinato  dalla  sete  del  guadagno:  «Raro  potrà  acquistare  nome 
animo  alcuno  che  sia  dato  al  guadagno.  Vidi  io  molti  quasi  nel  primo  fiore 
d'imparare,  subito  caduti  al  guadagno,  indi  acquistare  né  ricchezze,  né  lode, 
quali  certo  se  avessero  acresciuto  suo  ingegno  con  studio,  facile  sarebbono  sa- 
liti in  molta  lode  e  ivi  arebbono  acquistato  ricchezze  e  piacere  assai»  [Quaestui 
enim  intentus  animus  raro  posteritatis  fructum  assequetur.  Vidi  ego  plerosque 
in  ipso  quasi  flore  perdiscendi  illieo  decidisse  ad  quaestum  et  nec  divitias  nec 
laudem  ullam  inde  fuisse  adeptos,  qui  si  ingenium  studio  auxissent,  in  laude 
facile  conscendissent,  quo  in  loco  et  divitias  et  voluptatem  nominis  accepis- 
sent]  (Leon  Battist.a.  Alberti,  De  pictura  Vi  29]  cit,  pp.  52-53). 


NOTA  BIOGRAFICA 

di 
Maria  Pia  Ellero 


1548  Nasce  a  Nola,  da  Fraulisa  Savolino  e  Giovanni  Bruno,  uomo 
d'arme  di  modesta  condizione;  è  battezzato  con  il  nome  di  Fi- 
lippo. A  Nola,  Filippo  trascorre  l'infanzia  e  riceve  l'insegna- 
mento elementare. 

1562  Allo  Studio  di  Napoli,  dove  si  è  trasferito  per  continuare  gli 
studi,  segue  il  corso  di  dialettica  tenuto  dal  filosofo  averroista 
Giovan  Vincenzo  Colle,  detto  il  Samese,  e  studia  privatamente 
logica  con  il  frate  agostiniano  Teofilo  da  Vairano.  Negli  stessi 
anni,  comincia  ad  occuparsi  di  arte  della  memoria,  leggendo  le 
opere  di  Pietro  da  Ravenna. 

1565  Entra  nell'ordine  domenicano,  prendendo  il  nome  di  Giordano. 
All'anno  successivo  risale  il  suo  primo  incidente  con  le  autorità 
ecclesiastiche,  quando  viene  denunciato  da  fra'  Eugenio  Ga- 
gliardo, maestro  dei  novizi,  per  due  diversi  episodi  di  vita  con- 
ventuale, che  apparivano  come  una  profanazione  del  culto  di 
Maria  e  dei  santi. 

1575  Dopo  aver  seguito  il  regolare  corso  di  studi  presso  il  convento  di 
san  Domenico  Maggiore,  si  addottora  in  teologia  discutendo  una 
tesi  su  san  Tommaso. 

1576  Nel  primissimi  mesi  dell'anno,  lascia  Napoli  per  sfuggire  a  un 
processo  in  cui  è  accusato  di  avere  espresso  dubbi  sulla  Trinità. 
In  quella  occasione  vengono  ritrovate  tra  le  sue  cose  le  opere  di 
san  Girolamo  con  gli  scoli  di  Erasmo  (la  lettura  delle  opere  di 
Erasmo  era  stata  vietata  ai  frati  nel  capitolo  generale  del  1569). 
Bruno  raggiunge  Roma  e  prende  alloggio  nel  convento  di  Santa 
Maria  sopra  Minerva,  ma  lascia  prestissimo  la  città  perché  accu- 
sato ingiustamente  di  essere  coinvolto  in  un  omicidio  commesso 
da  un  confratello.  Nel  lasciare  Roma,  Bruno  depone  l'abito  e  ab- 
bandona la  condizione  di  religioso. 

1577  Dopo  un  breve  passaggio  per  Genova,  si  ferma  a  Noli  dove  inse- 
gna grammatica  agli  studenti  più  giovani  e  legge  la  Sfera  di  Gio- 
vanni Sacrobosco  ad   alcuni  gentiluomini   per  qualche  mese. 


igZ  NOTA  BIOGRAFICA 

Nello  stesso  anno,  si  sposta  a  Savona,  poi  a  Torino  e  ancora  a 
Venezia,  dove  fa  stampare  il  perduto  De'  segni  de'  tempi. 
Tra  la  fine  dell'anno  e  quello  successivo,  viaggia  ancora  tra  Pa- 
dova, Bergamo,  Brescia,  Milano,  Chambéry,  Lione. 
1578  È  a  Ginevra,  dove  il  marchese  napoletano  Gian  Galeazzo  di 
Vico,  esponente  di  spicco  della  comunità  evangelica  italiana,  lo 
soccorre  nelle  prime  necessità  materiali.  Qui  Bruno  pratica  la 
religione  calvinista,  probabilmente  al  fine  di  essere  ammesso 
alla  locale  Accademia,  e  vive  lavorando  come  correttore  di 
bozze.  Ma,  avendo  fatto  stampare  un  elenco  di  venti  errori  con- 
tenuti in  una  delle  lezioni  del  titolare  della  cattedra  di  filosofia 
allo  Studio  di  Ginevra,  viene  processato  per  diffamazione  ed 
inoltre  escluso  dalla  Cena  eucaristica  per  aver  chiamato  pedanti 
i  ministri  della  chiesa  calvinista.  In  seguito  a  questi  fatti,  lascia 
la  città  per  Lione  e  poi  per  Tolosa.  Qui  insegna  per  due  anni 
come  lettore  ordinario  di  filosofia,  leggendo  la  Sfera  del  Sacrobo- 
sco e  il  De  anima  di  Aristotele.  In  questo  periodo  scrive  la  Clavis 
magna,  oggi  perduto. 

1581  Lascia  Tolosa  a  causa  del  protrarsi,  anche  dopo  la  conclusione 
della  pace  di  Fleix,  dei  conflitti  tra  cattolici  e  ugonotti.  A  Parigi 
tiene  un  corso  di  trenta  lezioni  sugli  attributi  di  Dio  secondo 
san  Tommaso.  Il  corso  ha  un  tale  successo  che  procura  all'ora- 
tore un  posto  di  lettore  ordinario  presso  lo  Studio  parigino; 
Bruno  tuttavia  non  può  accettarlo  perché,  scomunicato  e  apo- 
stata, non  può  assumersi  l'obbligo  di  sentir  messa  che  la  carica 
comporterebbe.  Sull'onda  della  fama  acquistata  con  le  lezioni,  il 
filosofo  viene  chiamato  a  corte  per  dare  al  re,  Enrico  III,  prova 
della  sua  straordinaria  memoria 

1582  Esce  a  Parigi,  per  i  tipi  di  Gourbin,  il  De  umbris  idearum,  dedi- 
cato a  Enrico  III,  che  lo  nomina  ledeur  royal.  Seguono  a  questa 
prima  pubblicazione  parigina  il  Cantus  Circaeus,  il  De  compen- 
diosa architectura  et  complemento  Artis  Lullii  e  la  commedia  Can- 
delaio. 

1583  Passa  in  Inghilterra  al  seguito  dell'ambasciatore  francese  Michel 
de  Castelnau.  In  giugno,  si  trova  a  Oxford  in  occasione  della  vi- 
sita alla  celebre  università  del  principe  polacco  Alberto  Laski. 
Qui  disputa  pubblicamente  di  teologia  e  filosofia  con  i  professori 
oxoniensi;  durante  l'estate  vi  ritoma  per  tenere  una  serie  di  con- 
ferenze de  quintuplici  sphaera  e  de  immortalitate  animae,  che  fu 
però  costretto  a  interrompere  sotto  l'accusa  di  aver  plagiato  al- 
cune opere  di  Ficino. 


NOTA  BIOGRAFICA  ig3 

Nello  stesso  anno  pubblica  VArs  reminiscendi,  VExplicatio  triginta 
sigillorum  e  il  Sigillus  sigillorum. 

1584  Fa  stampare  presso  John  Charlwood  la  Cena  de  le  Ceneri,  il  De  la 
causa,  principio  et  uno,  il  De  l'infinito,  universo  e  mondi  e  lo  Spac- 
cio della  bestia  trionfante.  Bruno  è  in  contatto  con  gli  esponenti 
più  colti  e  influenti  della  corte  elisabettiana,  quali  William  Ce- 
cil,  Francis  Walsingham  e  Philip  Sidney;  entra  inoltre  a  far 
parte  del  circolo  di  intellettuali,  vicino  a  Robert  Dudley,  cancel- 
liere dell'Università  di  Oxford,  che  opera  in  polemica  con  l'indi- 
rizzo grammaticale  dell'accademia:  di  questo  gruppo  fa  parte 
anche  Thomas  Digges,  sostenitore  della  teoria  copernicana. 

1585  Pubblica  la  Cabala  del  cavallo  pegaseo  e  gli  Eroici  furori.  Nello 
stesso  anno,  segue  a  Parigi  l'ambasciatore  francese,  richiamato  a 
corte.  La  situazione  politica  è  molto  cambiata:  la  città  è  control- 
lata dagli  estremisti  cattolici  e  il  rinnovato  zelo  nella  lotta  al- 
l'eresia rende  incerta  la  condizione  di  Bruno,  apostata  e  scomu- 
nicato. Il  Nolano  tenta  dapprima  di  essere  riammesso  nella 
Chiesa,  poi,  con  l'appoggio  di  alcuni  esponenti  politiques  di  riac- 
quistare la  protezione  di  Enrico  III  e  della  Corte. 

1586  Scrive  e  pubblica  i  due  dialoghi  sul  compasso  di  Fabrizio  Mor- 
dente e  la  Figuratio  aristotelici  physici  auditus;  stringe  inoltre 
amicizia  con  alcuni  italiani  in  vista  negli  ambienti  di  corte, 
come  Del  Bene  e  Corbinelli;  a  questo  gruppo  è  legato  anche 
Giovanni  Boterò,  che  Bruno  ha  forse  occasione  di  incontra- 
re. Durante  l'estate,  fa  stampare  altri  due  dialoghi,  questa  vol- 
ta polemici,  su  Mordente:  la  polemica  ha  il  valore  di  un  pic- 
colo incidente  diplomatico,  perché  Mordente  è  legato  al  partito 
dei  Guisa.  La  situazione  si  fa  insostenibile  in  seguito  a  una 
tumultuosa  disputa  tenuta  da  Bruno  alla  presenza  dei  lecteurs 
royaux  su  Centum  et  viginti  articuli  de  natura  et  mundo  adver- 
sus  peripateticos.  Il  filosofo  passa  in  Germania,  fermandosi, 
dopo  varie  peregrinazioni,  a  Wittenberg,  dove  riannoda  i  rap- 
porti con  il  giurista  Alberigo  Gentili,  conosciuto  a  Londra,  e  ot- 
tiene una  lettura  sull'Organon  di  Aristotele,  che  tiene  per  due 
anni. 

1587  Fa  stampare  il  De  lampade  combinatoria  tulliana  e  il  De  progressu 
et  lampade  venatoria  logicorum;  compone  la  Lampas  triginta  sta- 
tuarum,  che  sarà  stampato  postumo.  Tiene  privatamente  un 
corso  di  retorica,  anch'esso  pubblicato  postumo  con  il  titolo  di 
Artificium  perorandi. 

1588  Sotto  il  nuovo  titolo  di  Camoeracensis  acrotismus,  dà  alle  stampe 
i  Centum  viginti  articuli,  oggetto  della  disputa  parigina  di  due 


194  NOTA  BIOGRAFICA 

anni  prima;  compone  inoltre  un  commento  alla  Fisica  di  Aristo- 
tele (noto  oggi  come  Libri  physicorum  Aristotelis  explanati). 
Nella  primavera  lascia  la  città,  per  il  clima  di  intransigenza  in 
materia  confessionale  che  vi  si  era  instaurato.  Per  qualche  mese 
si  trattiene  a  Praga,  dove  spera,  probabilmente,  di  ricevere  un 
incarico  da  Rodolfo  II,  ricavandone  invece  soltanto  la  somma, 
seppur  ragguardevole,  di  300  talleri,  come  segno  di  gratitudine 
per  gli  Articuli  sexaginta  adversus  huius  tempestatis  mathematicos, 
dedicati  alla  persona  dell'imperatore.  Al  principio  dell'autunno. 
Bruno  si  trova  a  Helmstedt,  dove  riscuote  il  favore  del  duca  En- 
rico Giulio  e  degli  intellettuali  della  Academia  lulia,  fondata  dal 
padre  del  duca.  Nello  stesso  periodo,  il  Nolano  viene  escluso 
dalla  Cena  dal  sovrintendente  della  Chiesa  luterana  In  questo 
periodo,  compone  il  trattatello  De  rerum  principiis  e  la  serie  dei 
trattati  sulle  arti  magiche:  il  De  magia,  il  De  magia  mathematica, 
le  Theses  de  magia. 

1590-gi  Pubblica  a  Francoforte,  presso  Wechel,  la  trilogia  dei  poemi 
filosofici:  De  triplici  minimo  et  mensura.  De  monade,  numero  et  fi- 
gura, De  innumerabilibus,  immenso  et  infigurabili,  per  i  quali  inta- 
glia anche  i  legni  per  le  figure. 

Da  Francoforte  è  costretto  ad  allontanarsi  improvvisamente,  a 
causa  di  un  ordine  di  estradizione  del  senato  della  città;  a  Zu- 
rigo, dove  si  reca,  legge  filosofia  scolastica  per  qualche  tempo 
(queste  lezioni  saranno  pubblicate  postume  da  Raphael  Egly, 
con  il  titolo  di  Summa  terminorum  metaphysicorum),  poi  si  sposta 
di  nuovo  a  Francoforte  per  pubblicare  il  De  imaginum,  signorum 
et  ideanim  compositione,  l'ultima  opera  della  cui  stampa  potrà 
occuparsi  personalmente.  Qui,  lo  raggiunge  l'invito  di  Giovanni 
Mocenigo,  patrizio  veneziano,  che  lo  prega  di  insegnargli  l'arte 
della  memoria. 

Bruno  si  reca  dunque  a  Venezia,  poi  a  Padova,  dove  forse  spera 
di  ottenere  la  cattedra  di  matematica,  vacante  dal  1588;  priva- 
tamente, impartisce  lezioni  ad  alcuni  studenti  tedeschi,  rivede  e 
fa  trascrivere  dal  suo  allievo,  Hieronymus  Besler,  il  De  vinculis, 
che  aveva  già  abbozzato  a  Francoforte. 

1592  Si  trasferisce  a  Venezia,  accettando  infine  l'invito  di  Mocenigo; 
frequenta  il  ridotto  Morosini,  dove  ha  forse  occasione  di  cono- 
scere Sarpi,  ed  entra  in  contatto  con  i  membri  del  patriziato  ve- 
neziano. In  maggio,  vuol  prendere  congedo  dal  suo  ospite  per 
raggiungere  Francoforte,  dove  intende  stampare  alcune  sue 
opere:  Mocenigo  lo  fa  rinchiudere  nella  sua  camera  e  lo  denun- 
cia all'Inquisizione.  Bruno  viene  arrestato.  Durante  il  processo  si 


NOTA  BIOGRAFICA  I95 

difende  abilmente;  gli  inquisitori  veneti,  del  resto,  non  sono  in 
possesso  delle  sue  opere  più  compromettenti.  La  vicenda  si  con- 
clude con  un  parziale  riconoscimento  da  parte  di  Bruno  di  er- 
rori marginali  e  con  la  sua  sottomissione  incondizionata.  In 
questa  situazione,  egli  non  rischia  condanne  gravi,  non  essendo 
un  relapsus. 

L'Inquisizione  romana  chiede  e  ottiene  l'estradizione. 
1593    È  imprigionato  nel  carcere  del  Sant'Uffizio  di  Roma,  dove,  in 
quegli   stessi  anni,  si  troveranno   Francesco   Pucci,  Tommaso 
Campanella,  Cola  Antonio  Sfigliola. 

1599  Dopo  alterne  vicende  processuali,  il  12  gennaio,  il  cardinale  Bel- 
larmino chiede  che  vengano  sottoposte  a  Bruno  otto  proposi- 
zioni eretiche  ricavate  dagli  atti  del  processo  e  dai  suoi  scritti, 
perché  le  abiuri;  con  quest'atto,  egli  potrebbe  ancora  salvarsi  la 
vita.  Il  25  gennaio  Bruno  si  mostra  disposto  all'abiura,  purché  i 
suoi  errori  siano  definiti  per  tali  dalla  Chiesa  e  dal  Papa  ex  nunc, 
e  tenta  di  difendersi  con  memoriali  indirizzati  ai  giudici  e  al 
papa,  Clemente  Vili.  Viene  invitato  ad  abiurare  senza  condi- 
zioni, ma  Bruno  cerca  ancora  di  trattare  fino  al  29  dicembre, 
data  dell'ultimo  costituto,  quando  dichiara  di  non  essere  dispo- 
sto a  pentirsi  e  di  non  aver  niente  di  cui  pentirsi. 

1600  Bruno  respinge  un'ultima  proposta  di  abiura  il  20  di  gennaio. 
La  sentenza  che  lo  dichiara  eretico  formale  e  impenitente  e  lo 
consegna  al  braccio  secolare  gli  sarà  comunicata  l'S  di  febbraio: 
Bruno  la  ascolta  con  grandissima  dignità  e  fermezza.  Il  17  feb- 
braio, in  Campo  dei  Fiori,  nudo,  la  lingua  in  una  morsa  di  le- 
gno, perché  non  potesse  parlare,  viene  arso  vivo. 


NOTA  BIBLIOGRAFICA 

di 
Maria  Cristina  Figorilli 


La  prima  edizione  delle  opere  italiane  -  che  ebbe  il  merito,  mal- 
grado i  limiti  ecdotici,  di  diffondere  i  testi  bruniani  in  Europa  per 
gran  parte  del  XIX  secolo  —  è  quella  lipsiense  del  1830:  Opere  di  Gior- 
dano Bruno  Nolano  ora  per  la  prima  volta  raccolte  e  pubblicate  da  A. 
Wagner,  2  voli,  Leipzig,  Weidmann,  1830.  Sempre  in  area  tedesca  sul 
finire  del  secolo  venne  allestita  con  metodi  decisamente  più  rigorosi 
una  nuova  edizione  delle  opere  italiane:  Le  opere  italiane  di  Giordano 
Bruno  ristampate  da  P.  de  Lagarde  [Paul  Anton  Bòtticher],  2  voli., 
Gòttingen,  Dieterische  Universitàtsbuchhandlung,  1888  [1889].  La  sto- 
ria editoriale  delle  opere  italiane  di  Bruno  continua  nel  primo  Nove- 
cento con  l'edizione  Opere  italiane,  I:  Dialoghi  metafisici  [II:  Dialoghi 
morali].  Nuovamente  ristampati  con  note  da  G.  Gentile,  Bari,  La- 
terza, 1907  [-1908]  (2^  ed.  riveduta  e  accresciuta,  1925;  ora  Dialoghi 
italiani,  3"^  ed.,  a  cura  di  G.  Aquilecchia,  Firenze,  Sansoni,  1958). 

Si  dispone  anche  di  una  ristampa  anastatica  delle  prime  stampe 
delle  opere  italiane:  Opere  italiane,  Ristampa  anastatica  delle  cinque- 
centine, a  cura  di  E.  Canone,  4  voli.,  Firenze,  Olschki,  1999. 

Oggi  l'edizione  di  riferimento  per  le  opere  italiane  è  l'edizione  cri- 
tica approntata  da  G.  Aquilecchia  nella  collana  bilingue  delle  (Eu- 
vres  complètes,  pubblicata  da  Les  Belles  Lettres  di  Parigi  con  il  patro- 
cinio dell'Istituto  Italiano  per  gli  Studi  Filosofici  e  del  Centro  Intema- 
zionale di  Studi  Bruniani  e  diretta  da  Y.  Hersant  e  N.  Ordine:  I: 
Chandelier,  Introduction  philologique  de  G.  Aquilecchia,  Texte  établi 
par  G.  Aquilecchia,  Préface  et  notes  de  G.  Bàrberi  Squarotti,  Tra- 
duction  de  Y.  Hersant  (1993);  II:  Le  souper  des  cendres,  Texte  établi 
par  G.  Aquilecchia,  Notes  de  G.  Aquilecchia,  Préface  de  A.  Ophir, 
Traduction  de  Y.  Hersant  (1994);  III:  De  la  cause,  du  principe  et  de 
l'un,  Texte  établi  par  G.  Aquilecchia,  Notes  de  G.  Aquilecchia,  In- 
troduction de  M.  Ciliberto,  Traduction  de  L.  Hersant  (1996);  IV:  De 
l'infini,  de  l'univers  et  des  mondes,  Texte  établi  par  G.  Aquilecchia, 
Notes  de  J.  Seidengart,  Introduction  de  M.  A.  Granada,  Traduction 
de  J.-P.  Cavaillé  (1995);  V:  Expulsion  de  la  bète  triomphante,  Texte 
établi  par  G.  Aquilecchia,  Notes  de  M.  P.  Ellero,  Introduction  de 


igS  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

N.  Ordine,  Traduction  de  J.  Balsamo  (1999);  VI:  Cabale  du  cheval  pé- 
gaséen,  Texte  établi  par  G.  Aquilecchia,  Préface  et  notes  de  N.  Bada- 
loni, Traduction  de  T.  Dacron  (1994);  VII:  Des  fureurs  héroiques, 
Texte  établi  par  G.  Aquilecchla,  Introduction  et  notes  de  M.  A.  Gra- 
NADA,  Traduction  de  P.-H.  Michel  revue  par  Y.  Hersant  (1999).  Si 
tratta  della  prima  edizione  critica  moderna,  fondata  sulla  collazione 
di  un  gran  numero  di  esemplari  della  stessa  princeps,  in  sintonia  con  i 
più  recenti  orientamenti  della  filologia  dei  testi  a  stampa 

A  partire  dai  testi  critici  stabiliti  da  Aquilecchia  per  Les  Belles  Let- 
tres,  con  il  patrocinio  dell'Istituto  Italiano  per  gli  Studi  Filosofici  e  del 
Centro  Intemazionale  di  Studi  Bruniani,  si  è  avviato  un  progetto  di 
traduzione  dell'opera  bruniana  in  giapponese,  in  cinese,  in  danese,  in 
rumeno.  Ad  oggi  sono  state  pubblicate  la  traduzione  giapponese  del 
De  la  causa  principio  et  uno  (Introduzione,  traduzione  e  note  di  M. 
Kato,  Tokio,  Toshindo  Publishing  Co.,  1998);  la  traduzione  cinese  del 
Candelaio  (Introduzione  di  N.  Ordine,  traduzione  di  L.  He,  Pechino, 
China  Social  Science  Documentation  Publishing  House,  1999);  la  tra- 
duzione rumena  del  Candelaio  [Lumànàriil,  Prefata  de  N.  Ordine,  tra- 
ducere din  limba  italiana,  note  si  adaptare  pentru  scena  de  S.  Bratu 
Elian,  Bucuresti,  Editura  Fundatiei  Culturale  Romàne,  2000);  la  tra- 
duzione danese  del  De  la  causa,  principio  et  uno  (Om  àrsagen,  princippet 
og  enheden,  i  oversaettelse  ved  O.  Jorn  og  med  indledning  af  A.  Haa- 
NING,  Kobenhavn,  Reitzel,  2000).  Tra  le  iniziative  precedenti,  da  ricor- 
dare la  meritoria  attività  di  traduzione  e  commento  svolta  da  M.  A. 
Granada  per  Alianza  Editorial  di  Madrid,  col  patrocinio  dell'Istituto 
Italiano  per  gli  Studi  Filosofici:  La  cena  de  las  cenizas  (1984);  Expulsión 
de  la  bestia  triunfante  (1989);  Càbala  del  Caballo  Pegaso  (1990);  Del  infi- 
nito: el  universo  y  los  mundos  (1993). 

L'edizione  critica  delle  opere  italiane  allestita  da  Aquilecchia  e 
pubblicata  dall'editore  Les  Belles  Lettres  è  consultabile  anche  nel  CD- 
Rom  delle  opere  complete,  a  cura  di  N.  Ordine,  Roma-Torino,  Lexis- 
Nino  Aragno  Editore,  1999  (segnalo  che  il  testo  del  CD-Rom  è  provvi- 
sto dell'assai  utile  «riferimento  topografico»,  ossia  dell'indicazione 
delle  pagine  dell'edizione  Aquilecchia). 

Nel  2000  sono  stati  pubblicati  nella  collana  «1  Meridiani»  i  Dialo- 
ghi filosofici  italiani,  a  cura  e  con  un  saggio  introduttivo  di  M.  Cili- 
berto, Milano,  Mondadori.  Questa  iniziativa  editoriale  ha  suscitato 
durissime  polemiche  poiché  nella  Nota  sta  testi  si  dichiara  sommaria- 
mente che  l'edizione  di  riferimento,  cioè  l'edizione  curata  da  Aquilec- 
chia per  Les  Belles  Lettres,  è  stata  migliorata  con  correzioni  di  refusi  e 
imperfezioni,  senza  però  fornire  la  lista  degli  interventi  effettuati  dal 
«curatore».  Aquilecchia,  dopo  aver  comparato  parola  per  parola  i  testi 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  I99 

Mondadori  e  quelli  Les  Belles  Lettres,  è  intervenuto  con  un  articolo  in 
cui  ha  mostrato  come  la  maggior  parte  dei  cambiamenti  introdotti  nel 
«Meridiano»  siano  «erronei  o  ingiustificati»  (7  dialoghi  bruniani  «a 
cura»  (o  sinecura?)  di  Michele  Ciliberto,  «Giornale  storico  della  lettera- 
tura italiana»,  CLXXVII  [2000],  579,  pp.  422-439).  A  sua  volta  anche 
M.  Ciliberto  ha  dedicato  alcune  pagine  alla  questione:  Il  testo  rapito. 
Una  polemica  tra  brunisti,  «Rivista  di  storia  della  filosofia»,  n.  s.,  LV 
(2000),  2,  pp.  235-252.  La  risposta  di  G.  Aquilecchia,  Sirma  a  «Una 
polemica  tra  brunisti»,  è  stata  pubblicata  postuma  su  «Filologia  e  Cri- 
tica», XXVI  (2001),  I,  pp.  132-142.  Diversi  sono  stati  gli  studiosi  inter- 
venuti nella  querelle,  che  ha  riguardato  non  solo  questioni  filologiche 
ma  anche  aspetti  etici  e  deontologici:  si  vedano,  oltre  al  saggio  del 
direttore  generale  della  casa  editrice  Les  Belles  Lettres  (A.  Segonds,  TZ 
«Meridiano»  Giordano  Bruno,  «Belfagor»,  LV  [2000],  4,  pp.  467-472),  la 
recensione  al  volume  mondadoriano  di  B.  Basile  apparsa  negli  «Stu- 
di e  problemi  di  critica  testuale»,  61  (2000),  pp.  228-231,  e  la  nota  di 
U.  Dotti,  Il  Bruno  rapito,  «la  Rivista  dei  Libri»,  X  (novembre  2000), 
II,  pp.  9-10.  Per  gli  interventi  apparsi  sui  diversi  quotidiani  («la  Re- 
pubblica», «Corriere  della  Sera»,  «il  Manifesto»)  rimando  alla  rassegna 
stampa  consultabile  nel  sito  Internet  allestito  dal  Centro  Intemazio- 
nale di  Studi  Bruniani  www.giordanobruno.it 

Per  gli  autografi  si  vedano  G.  Aquilecchia,  Un  autografo  scono- 
sciuto di  Giordano  Bruno,  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana», 
CXXXIV  (1957),  406-407,  pp.  333-338  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane 
(igSO-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp.  101-106);  Id.,  Pre- 
sunti autografi  bruniani,  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana», 
CXL  (1963),  429,  pp.  148-15 1  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit,  pp.  237- 
241);  A.  NowiCKY,  Un  autografo  inedito  di  Giordano  Bruno  in  Polonia, 
«Atti  dell'Accademia  di  Scienze  Morali  e  Politiche»  della  Società  Na- 
zionale di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Napoli,  LXXVIII  (1967),  pp.  262- 
268;  I.  KoRZAN,  Praski  krqg  humanistów  wokói  Giordana  Bruna,  «Euhe- 
mer»,  LXXI-LXXII  (1969),  1-2,  pp.  81-93;  M.  R.  Pagnoni  Sturlese, 
Su  Bruno  e  Tycho  Brahe,  «Rinascimento»,  XXV  (1985),  pp.  309-333; 
E  AD.,  Un  nuovo  autografo  del  Bruno,  con  una  postilla  sul  «De  umbra  ra- 
tionis»  di  A.  Dickson,  ivi,  XXVII  (1987),  pp.  387-391. 

Prezioso  strumento  per  la  ricognizione  delle  prime  stampe  è  R. 
Sturlese,  Bibliografia,  censimento  e  storia  delle  antiche  stampe  di  Gior- 
dano Bruno,  Firenze,  Olschki,  1987.  Al  riguardo  segnalo  che  la  Biblio- 
teca del  Centro  Intemazionale  di  Studi  Bruniani  (CISB),  istituito 
presso  l'Istituto  Italiano  per  gli  Studi  Filosofici  di  Napoli,  dispone  di 
circa  seicento  microfilm  di  antiche  stampe  bruniane. 


200  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

È  da  segnalare  anche  il  lessico  del  Bruno  italiano  di  M.  Ciliberto, 
Lessico  di  Giordano  Bruno,  2  voli.,  Roma,  Edizioni  dell'Ateneo  &  Biz- 
zarri, 1979. 

Per  una  ricognizione  storica  e  documentaria  vedi  Giordano  Bruno 
1548-1600,  Mostra  storico  documentaria  (Roma,  Biblioteca  Casana- 
tense,  7  giugno-30  settembre  2000),  Firenze,  Olschki,  2000. 

Nel  1995  è  uscito  il  primo  numero  di  una  nuova  rivista,  «Bruniana 
&  Campanelliana»  (con  uscita  semestrale,  eccetto  i  primi  due  numeri 
doppi),  diretta  da  E.  Canone  e  G.  Ernst:  segnalo  che  nel  secondo 
fascicolo  del  2000  (alle  pp.  323-535)  si  possono  leggere,  a  cura  di  E. 
Canone,  gli  Atti  del  quarto  incontro  delle  Letture  Bruniane  del  Les- 
sico Intellettuale  Europeo-Centro  di  Studio  del  CNR  (Roma,  22-23  ot- 
tobre 1999),  dal  titolo  L'individualità  tra  divino  e  umano. 

Per  gli  strumenti  bibliografici  fondamentale  V.  Salvestrini,  Bi- 
bliografia di  Giordano  Bruno  (i582-ig§o),  Seconda  edizione  postuma  a 
cura  di  L.  Firpo,  Firenze,  Sansoni  Antiquariato,  1958.  Per  gli  anni 
1950-1972  utile  la  bibliografia  di  A.  NowiCKi,  Giordano  Bruno  nella 
cultura  contemporanea  (In  appendice  la  continuazione  della  Bibliografia  di 
Salvestrini),  «Atti  dell'Accademia  di  Scienze  Morali  e  Politiche»  della 
Società  Nazionale  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Napoli,  LXXXIII 
(1972),  pp.  391-450.  Per  altre  integrazioni  alla  bibliografia  del  Salve- 
strini si  vedano,  sempre  di  NowiCKi:  Intorno  alla  presenza  di  Giordano 
Bruno  nella  cultura  del  Cinquecento  e  Seicento:  aggiunte  alla  bibliografia  del 
Salvestrini,  ivi,  LXXIX  (1968),  pp.  505-526;  La  presenza  di  G.  Bruno  nel 
Cinque,  Sei  e  Settecento  (aggiunte  ulteriori  alla  Bibliografia.  Bruniana  del 
Salvestrini),  ivi,  LXXXI  (1970),  pp.  325-344.  Ulteriori  integrazioni  alla 
bibliografia  del  Salvestrini  in  J.  G.  Fucilla,  Aggiunte  alVultima  biblio- 
grafia bruniana,  «Filologia  Romanza»,  VI  (1959),  3,  pp.  333-336.  Utili 
rassegne  bibliografiche  in  G.  Barberi  Squarotti,  Rassegna  bruniana, 
«Lettere  Italiane»,  X  (1958),  4,  pp.  493-501  e  G.  Aquilecchla,  Note  di 
bibliografia  bruniana,  ivi,  XII  (i960),  3,  pp.  322-325  (ora  in  Id.,  Schede 
bruniane  (ig^o-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp.  209-212). 
Si  veda  anche  la  recensione  di  R.  TissoNi  alla  Bibliografia  di  Salvestrini, 
sul  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana»,  CXXXVI  (1959),  415, 
pp.  489-494.  Ma  per  un  regesto  complessivo  della  bibliografia  critica  si 
veda  da  ultimo  M.  C.  Figorilli,  Per  una  bibliografia  di  Giordano  Bruno 
(1800-iggg),  Torino,  Nino  Aragno  Editore,  2002. 

Per  la  biografia,  ancora  essenziali  V.  Spampanato,  Vita  di  Giordano 
Bruno  con  documenti  editi  ed  inediti,  Messina,  Principato,  1921  (se  ne 
veda  la  ristampa  anastatica  con  Préface  di  N.  Ordine,  Paris-Torino, 
Les  Belles  Lettres-Nino  Aragno  Editore,  2000)  e  Id.,  Documenti  della 
vita  di  Giordano  Bruno,  Firenze,  Olschki.  1933.  La  biografia  che  G. 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  201 

Aquilecchia  pubblicò  nel  1971  nella  collana  «Bibliotheca  Biogra- 
phica»  dell'Istituto  della  Enciclopedia  Italiana,  ha  ora  una  nuova  edi- 
zione, aggiornata  e  ampliata:  G.  Aquilecchia,  Giordano  Bruno,  To- 
rino, Nino  Aragno  Editore,  2001.  Ma  ora  si  veda  anche  S.  Ricci,  Gior- 
dano Bruno  nell'Europa  del  Cinquecento,  Roma,  Salerno  Editrice,  2000. 
Assai  utile  anche  il  volume  miscellaneo  Giordano  Bruno.  Gli  anni  na- 
poletani e  la  'peregrinano'  europea.  Immagini.  Testi.  Documenti,  a  cura  di 
E.  Canone,  Cassino,  Università  degli  Studi,  1992.  Per  momenti  parti- 
colari della  vicenda  biografica  bruniana  (indagata  con  maggiore  atten- 
zione relativamente  agli  anni  inglesi)  si  segnala  inoltre  F.  A.  Yates, 
Giordano  Bruno,  Some  New  Documents,  «Revue  intemationale  de  phi- 
losophie»,  XVI  (1951),  2,  pp.  174-199  (ora  in  Ead.,  Giordano  Bruno  e  la 
cultura  europea  del  Rinascimento,  Introduzione  di  E.  Garin,  Roma- 
Bari,  Laterza,  1988,  pp.  117-136);  F.  Lombardi,  Una  nota  sul  soggiorno 
di  Giordano  Bruno  in  Francoforte  sul  Meno,  in  Medioevo  e  Rinascimento. 
Studi  in  onore  di  Bruno  Nardi,  2  voli.,  Firenze,  Sansoni,  1955,  II,  pp. 
467-473;  L.  Grosso,  Giordano  Bruno  «capitanio»  del  re  di  Navarra, 
«Nuova  Antologia»,  468  (1956),  1871,  pp.  355-362;  R.  McNulty,  Bruno 
at  Oxford,  «Renaissance  News»,  XIII  (i960),  4,  pp.  300-305;  G.  Aqui- 
lecchia, Ancora  su  Giordano  Bruno  ad  Oxford  (in  margine  ad  una  re- 
cente segnalazione),  «Studi  secenteschi»,  IV  (1963),  pp.  3-13  (ora  in  Id., 
Schede  bruniane  (ig^o-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp. 
243-252);  J.  BOSSY,  Giordano  Bruno  e  il  mistero  dell'ambasciata,  trad.  it. 
Milano,  Garzanti,  1992  (ed.  or.  New  Haven,  Yale  University  Press, 
1991);  G.  Aquilecchia,  Tre  schede  su  Bruno  e  Oxford,  «Giornale  critico 
della  filosofia  italiana»,  LXXII  (1993),  3,  pp.  376-393;  Id.,  Giordano 
Bruno  in  Inghilterra  (1583-138^).  Documenti  e  testimonianze,  «Bruniana 
&  Campanelliana»,  I  (1995),  1-2,  pp.  21-42  (raccolta  di  tutte  le  testimo- 
nianze, trascritte  dalle  fonti  originarie,  sul  soggiorno  inglese  di  Bruno); 
M.  Miele,  Indagini  sulla  comunità  conventuale  di  Giordano  Bruno 
(1556-1526),  ivi,  pp.  157-203;  G.  Aquilecchia,  Paralipomeno  nella  docu- 
mentazione su  Bruno  in  Inghilterra,  ivi,  II  (1996),  1-2,  pp.  359-360;  T. 
Prowidera,  On  the  Printer  of  Giordano  Bruno's  London  Works,  ivi,  pp. 
361-367;  Giordano  Bruno  1583-1585.  The  English  Experience.  L'espe- 
rienza inglese.  Atti  del  convegno  (Londra,  3-4  giugno  1994),  a  cura  di 
M.  Ciliberto  e  N.  Mann,  Firenze,  Olschki,  1997;  A.  Gorfunkel,  No- 
tizie bruniane  I:  «Et  partito  de  Paris  per  causa  di  tumulti,  me  ne  andai  in 
Germania»;  II:  «Giordano  Bruno  e  il  mistero  dell'ambasciata»,  «Rivista 
di  storia  della  filosofia»,  n.  s.,  LII  (1997),  4,  pp.  747-761. 

Sul  processo  si  vedano  A.  Mercati,  Il  sommario  del  processo  di  Gior- 
dano Bruno,  con  appendice  di  documenti  sull'eresia  e  l'Inquisizione  a  Mo- 
dena nel  secolo  XVI,  Città  del  Vaticano,  Biblioteca  Apostolica  Vaticana, 


202  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

1942  (risi  anast.  Roma,  Multigrafica,  1972);  L.  Firpo,  Il  processo  di 
Giordano  Bruno,  «Rivista  storica  italiana»,  LX  (1948),  pp.  542-597  e 
LXI  (1949),  pp.  5-59  (da  consultare  nell'edizione  curata  da  D.  QuA- 
GLIONI,  Roma,  Salerno  Editrice,  1993;  ora  in  trad.  francese  e  con  note 
di  A.  Ph.  Segonds,  Paris,  Les  Belles  Lettres.  2000);  G.  Aquilecchia, 
Un  nuovo  documento  del  processo  di  Giordano  Bruno,  «Giornale  storico 
della  letteratura  italiana»,  CXXXVI  (1959),  413,  pp.  91-96  (ora  in  Id., 
Schede  bruniane  (ig^o-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp. 
151-156);  C.  DE  Prede.  L'estradizione  di  Giordano  Bruno  da  Venezia 
(agosto  i^g2  -febbraio  isgj),  «Archivio  Storico  per  le  Province  Napole- 
tane», CXII  (1994),  pp.  57-101;  L.  Spruit,  Due  documenti  noti  e  due  do- 
cumenti sconosciuti  sul  processo  di  Bruno  nelVArchivio  del  Sant'Uffizio, 
«Bruniana  &  Campanelliana»,  IV  (1998),  2,  pp.  469-473;  D.  Qua- 
GLIONI,  «Ex  his  quae  deponet  iudicetur».  L'autodifesa  di  Bruno,  ivi,  VI 
(2000),  2,  pp.  299-319. 

Qui  di  seguito  verrà  fornita  solo  una  selezione  della  vasta  produ- 
zione critica  intomo  a  Bruno,  a  partire  dal  1950:  rinviamo  per  una 
ricognizione  più  dettagliata  agli  strumenti  bibliografici  sopra  indicati. 

Tra  gli  studi  critici  di  carattere  generale  si  vedano  E.  Troilo,  Pro- 
spetto, sintesi  e  commentario  della  filosofia  di  Giordano  Bruno,  «Atti  e 
Memorie  della  Accademia  Nazionale  dei  Lincei,  classe  di  scienze  mo- 
rali», s.  Vili,  III  (1951),  9,  pp.  543-607;  N.  Badaloni,  La  filosofia  di 
Giordano  Bruno,  Firenze,  Parenti,  1955;  A.  Renaudet,  Humanisme  et 
Renaissance.  Dante,  Pétrarque,  Standonck,  Erasme,  Lefèvre  d'Etaples, 
Marguerite  de  Navarre,  Rabelais,  Guichardin,  Giordano  Bruno,  Genève, 
Droz,  1958;  G.  Aquilecchia,  Giordano  Bruno,  in  Encyclopaedia  Britan- 
nica, IV.  Chicago-London-Toronto,  1959,  p.  308;  A.  Guzzo,  Giordano 
Bruno,  Torino,  Edizioni  di  «Filosofia»,  i960;  A.  NowiCKi,  Centralne  ka- 
tegorie  filozofii  Giordana  Bruna,  Warszawa,  Pànstwowe  Wydawnictwo 
Naukowe,  1962;  P.  O.  Kristeller,  Bruno,  in  Id.,  Eight  Philosophers  of 
the  Italian  Renaissance,  Stanford  (Cai.),  Stanford  University  Press, 
1964,  pp.  127-144  (trad.  it  di  R.  Federici,  Milano-Napoli,  Ricciardi, 
1970);  F.  A.  Yates,  Giordano  Bruno  and  the  Hermetic  Tradition,  Lon- 
don, Routledge  and  Kegan  Paul,  1964  (trad.  it.  di  R.  Pecchioli,  Ro- 
ma-Bari, Laterza,  1969);  E.  Garin,  Bruno,  Roma-Milano,  CEI,  1966; 
F.  Papi,  Antropologia  e  civiltà  nel  pensiero  di  Giordano  Bruno,  Firenze, 
La  Nuova  Italia,  1968;  N.  Badaloni,  L'arte  e  il  pensiero  di  Giordano 
Bruno,  in  La  letteratura  italiana.  Storia  e  testi,  IV/ii:  Il  Cinquecento.  Dal 
Rinascimento  alla  Controriforma,  Roma-Bari,  Laterza,  1973,  pp.  426-448 
(risi  in  Id.,  R.  Barilli  e  W.  Moretti,  Cultura  e  vita  civile  tra  Riforma 
e  Controriforma,  Roma-Bari,  Laterza  [LIL],  1982,  pp.  56-78);  G.  Galli, 
La  vita  e  il  pensiero  di  Giordano  Bruno,  Milano,  Marzorati,  1973;  G. 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  203 

Aquilecchia,  Giordano  Bruno,  in  The  New  Encyclopaedia  Britannica, 
Macropaedia,  III,  Chicago,  1974,  pp.  345-347;  H.  Blumenberg,  Die  Ge- 
nesis  der  Kopernikanischen  Welt,  Frankfurt  a.  M.,  Suhrkamp,  1975;  Id., 
Aspekte  der  Epochenschwelle.  Cusaner  und  Nolaner,  ivi,  1976  (ora  in  Id., 
La  legittimità  dell'età  moderna,  trad.  it.  di  C.  Marelli,  Genova,  Marietti, 
1992,  pp.  493-644);  F.  B.  Stern,  Giordano  Bruno.  Vision  einer  Weltsicht, 
Meisenheim  am  Gian,  Anton  Hain,  1977;  A.  Ingegno,  Cosmologia  e  fi- 
losofia nel  pensiero  di  Giordano  Bruno,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1978; 
F.  A.  Yates,  Lull  &  Bruno.  Collected  Essays,  1,  London,  Boston  and 
Henley,  Routledge  &  Kegan  Paul,  1982;  B.  De  Giovanni,  Lo  spazio 
della  vita  fra  G.  Bruno  e  T.  Campanella,  «il  Centauro»,  11-12  (1984),  pp. 
3-32;  G.  Barberi  Squarotti,  Giordano  Bruno,  in  Grande  Dizionario  En- 
ciclopedico, Torino,  Utet,  1985"*,  III,  pp.  765-768;  M.  Ciliberto,  La 
ruota  del  tempo.  Interpretazione  di  Giordano  Bruno,  Roma,  Editori  Riu- 
niti, 1986;  B.  De  Giovanni,  L'infinito  di  Bruno,  «il  Centauro»,  16 
(1986),  pp.  3-21;  N.  Ordine,  La  cabala  dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in 
Giordano  Bruno,  Napoli,  Liguori,  1987  (2''  ed.  con  Prefazione  di  E.  Ga- 
rin, ivi,  1996);  N.  Badaloni,  Giordano  Bruno.  Tra  cosmologia  ed  etica, 
Bari-Roma,  De  Donato,  1988;  B.  Hentschel,  Die  Philosophie  Giordano 
Brunos.  Chaos  oder  Kosmos?  Frankfurt  am  Main-Bem-New-Jork,  Lang, 
1988;  L.  Spruit,  ti  problema  della  conoscenza  in  Giordano  Bruno,  Napoli, 
Bibliopolis,  1988;  F.  A.  Yates,  Giordano  Bruno  e  la  cultura  europea  del 
Rinascimento,  Introduzione  di  E.  Garin,  trad.  it.  di  M.  De  Martini 
Griffin  e  A.  Rojec,  Roma-Bari,  Laterza,  1988;  M.  Ciliberto,  Gior- 
dano Bruno,  Roma-Bari,  Laterza,  1990;  J.  Seidengart,  Giordano  Bruno, 
in  Encyclopaedia  Universalis,  IV,  Paris,  Encyclopaedia  Universalis 
France,  1990,  pp.  602-604;  G.  Ferroni,  La  nuova  filosofia,  in  Id.,  Storia 
della  letteratura  italiana,  II:  Dal  Cinquecento  al  Settecento,  Milano,  Ei- 
naudi Scuola,  1991,  pp.  297-317  (301-310);  M.  Frigerio,  Invito  al  pen- 
siero di  Bruno,  Milano,  Mursia,  1991;  G.  Aquilecchia,  Schede  bruniane 
(igso-iggi),  Manziana  (RM),  Vecchiarelli,  1993;  E.  Garin,  Attualità  di 
Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXXII  (1993),  3,  pp. 
394-404;  Fonti  e  motivi  dell'opera  di  Giordano  Bruno,  «Nouvelles  de  la 
République  des  Lettres»,  1994,  2  (Atti  del  convegno  [Cassino,  11-12 
dicembre  1992]);  G.  Conforto,  Giordano  Bruno  e  la  scienza  odierna, 
Roma,  Noesis,  1995;  B.  Levergeois,  Giordano  Bruno,  Paris,  Fayard, 
1995;  M.  Ciliberto,  Introduzione  a  Bruno,  Roma-Bari,  Laterza,  1996; 
Giordano  Bruno.  Note  filologiche  e  storiografiche,  I  giornata  Luigi  Firpo 
(Torino,  3  marzo  1994),  Firenze,  Olschki,  1996;  G.  Aquilecchia,  Gior- 
dano Bruno,  in  Storia  della  Letteratura  Italiana,  diretta  da  E.  Malato, 
V:  La  fine  del  Cinquecento  e  il  Seicento,  Roma,  Salerno  Editrice,  1997, 
pp.  325-368;  A.  FoA,  Giordano  Bruno,  Bologna,  il  Mulino,  1998;  P.  R. 


204  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

Blum,  Giordano  Bruno,  Mùnchen,  Beck,  1999;  M.  Ciliberto,  Umbra 
profunda.  Studi  su  Giordano  Bruno,  Roma,  Edizioni  di  Storia  e  Lettera- 
tura, 1999;  G.  Vehr,  Giordano  Bruno,  Miinchen,  Deutscher  Taschen- 
buch  Verlag,  1999;  A.  Verrecchia,  Giordano  Bruno.  Nachtfalter  des 
Geistes,  Wien,  Bòhlau,  1999  (trad.  it.  Roma,  Donzelli,  2002);  J.  Winter, 
Giordano  Bruno.  Eine  Einfiihrung,  Dusseldorf,  Parerga,  1999. 

Per  gli  aspetti  ecdotici  si  vedano  G.  Aquilecchia,  La  lezione  defini- 
tiva della  «Cena  de  le  Ceneri»  di  Giordano  Bruno,  «Atti  dell'Accademia 
nazionale  dei  Lincei».  Memorie.  Classe  di  Scienze  morali,  storiche  e 
filologiche»,  s.  Vili,  III  (1950),  4,  pp.  207-243  (ora  in  Id.,  Schede  bru- 
niane  (ig^o-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp.  1-40);  Id., 
Dieci  postille  ai  dialoghi  «De  la  causa»,  «Il  Verri»,  II  (1958),  2,  pp.  205- 
217  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit,  pp.  133-142);  L.  Firpo,  Per  l'edi- 
zione critica  dei  dialoghi  italiani  di  Giordano  Bruno,  «Giornale  storico 
della  letteratura  italiana,  CXXXV  (1958),  412,  pp.  587-606;  R.  TissoNi, 
Sulla  redazione  definitiva  della  «Cena  de  le  ceneri»,  ivi,  CXXXVI  (1959), 
416,  pp.  558-563;  G.  Aquilecchia,  Lo  stampatore  londinese  di  Giordano 
Bruno  e  altre  note  per  l'edizione  della  «Cena»,  «Studi  di  filologia  italia- 
na», XVIII  (i960),  pp.  101-162  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit,  pp.  157- 
207);  Id.,  Lezioni  inedite  di  Giordano  Bruno  in  un  codice  della  Biblioteca 
Universitaria  di  Jena,  «Accademia  Nazionale  dei  Lincei,  Rendiconti 
della  Classe  di  Scienze  morali,  storiche  e  filologiche»,  s.  Vili,  XVII 
(1962),  7-12,  pp.  463-485  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit,  pp.  213-236); 
Id.,  «Redazioni  a  stampa»  originarie  e  seriori  (Considerazioni  di  un  edi- 
tore di  testi  cinquecenteschi),  in  La  critica  del  testo.  Problemi  di  metodo  ed 
esperienze  di  lavoro.  Atti  del  Convegno  (Lecce,  22-26  ottobre  1984), 
Roma,  Salerno  Editrice,  1985,  pp.  67-80;  Id.,  Le  opere  italiane  di  Gior- 
dano Bruno.  Critica  testuale  e  oltre,  Napoli,  Bibliopolis,  1991;  Id.,  L'ecdo- 
tica ottocentesca  delle  opere  italiane  di  Bruno,  in  Brunus  Redivivus.  Mo- 
menti della  fortuna  di  Giordano  Bruno  nel  XIX  secolo,  a  cura  di  E.  Ca- 
none, Pisa-Roma,  Istituti  Editoriali  e  Poligrafici  Intemazionali,  1998, 
pp.  1-17. 

Sulla  fortuna  si  veda,  per  una  sintesi,  G.  Radetti,  Bruno,  in  Que- 
stioni di  storiografia  filosofica,  II,  a  cura  di  V.  Mathieu,  Brescia,  La 
Scuola,  1974,  pp.  97-182.  Si  vedano  poi,  per  ambiti  particolari,  G. 
Aquilecchia,  Nota  su  John  Toland  traduttore  di  Giordano  Bruno,  «En- 
glish  Miscellany»,  9  (1958),  pp.  77-86  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane  (igso- 
iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp.  143-150);  N.  Badaloni, 
Appunti  intorno  alla  fama  del  Bruno  nei  secoli  XVII  e  XVIII,  «Società», 
XIV  (1958),  3,  pp.  487-519;  A.  Gorfunkel',  Giordano  Bruno  in  Russia, 
«Rivista  di  Filosofia»,  LII  (1961),  4,  pp.  461-476;  A.  NowiCKl,  Bruno 
nel  Settecento,  «Atti  dell'Accademia  di  Scienze  Morali  e  Politiche»  della 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  205 

Società  Nazionale  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Napoli,  LXXX  (1969), 
pp.  199-230;  J.  L.  Vieillard-Baron,  De  la  connaissance  de  Giordano 
Bruno  à  V epoque  de  V<<idéalisme  allemand»,  «Revue  de  Métaphysique  et 
de  Morale»,  LXXVI  (1971),  4,  pp.  406-423;  A.  NowiCKi,  Giordano 
Bruno  nella  patria  di  Copernico,  Wroclaw,  Zaklad  Narodowi  Imienia 
Ossolinskich-Wydawnictwo  Polskiej  Akademii  Nauk,  1972;  G.  Aqui- 
lecchia,  Scheda  bruniana:  la  traduzione  'tolandiana'  dello  «Spaccio», 
«Giornale  storico  della  letteratura  italiana»,  CLII  (1975),  478,  pp.  311- 
313  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit,  pp.  279-280);  Id.,  Un  documento 
bruniano  recuperato:  l'«Artificium  Aristotelico-Lullio-Rameum»  di  Hans 
von  Nostitz,  «Studi  secenteschi»,  XVII  (1976),  pp.  155-159  (ora  in  Id., 
Schede  bruniane,  cit,  pp.  281-285);  D.  Massa,  Giordano  Bruno's  Ideas  in 
Seventeenth-Century  England,  «Journal  of  the  History  of  Ideas», 
XXXVIII  (1977),  2,  pp.  227-242;  M.  L.  Barbera,  La  Brunomania, 
«Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LIX  (1980),  1-4,  pp.  103-140; 
G.  Cacciatore,  Note  sulla  recezione  di  G.  Bruno  nella  filosofia  italiana 
della  seconda  metà  dell'Ottocento,  «Atti  dell'Accademia  di  Scienze  Morali 
e  Politiche»  della  Società  Nazionale  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Na- 
poli, XCV  (1984),  pp.  295-313;  H.  Gatti,  Minimum  and  Maximum,  Fi- 
nite and  Infinite:  Bruno  and  the  Northumberland  Circle,  «Journal  of  the 
Warburg  and  Courtauld  Institutes»,  XLVIII  (1985),  pp.  144-163;  S. 
Ricci,  Un  commento  secentesco  al  «De  immenso»  di  Bruno:  «Oculus  Side- 
reus»  di  Abraham  von  Franckenberg,  «Nouvelles  de  la  République  des 
Lettres»,  1985,  i,  pp.  49-65;  M.  R.  Pagnone  Sturlese,  Postille  auto- 
grafe di  John  Toland  allo  «Spaccio»  del  Bruno,  «Giornale  critico  della 
filosofia  italiana»,  LXV  (1986),  i,  pp.  27-41;  Ead.,  «Et  Nolanus  vivai, 
recipiatur,  adoretur».  Le  note  del  «Postillatore  napoletano»  al  dialogo  «De 
l'infinito»  di  Giordano  Bruno,  in  Scritti  in  onore  di  Eugenio  Garin,  Pisa, 
Scuola  Normale  Superiore,  1987,  pp.  1 17-128;  A.  Savorelli,  Bruno 
«lullìano»  nell'idealismo  italiano  dell'Ottocento  (con  un  inedito  di  Ber- 
trando Spaventa),  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXVIII 
(1989),  I,  pp.  45-77;  S.  Ricci,  La  fortuna  del  pensiero  di  Giordano  Bruno 
(1600-iy^o),  Prefazione  di  E.  Garin,  Firenze,  Le  Lettere,  1990;  G.  Sa- 
cerdoti, Nuovo  cielo,  nuova  terra.  La  rivelazione  copernicana  di  «Anto- 
nio e  Cleopatra»  di  Shakespeare,  Bologna,  il  Mulino,  1990;  S.  Ricci,  La 
ricezione  del  pensiero  di  Giordano  Bruno  in  Francia  e  in  Germania.  Da 
Diderot  a  Schelling,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXX 
(1991),  3,  pp.  431-465;  R.  Sturlese,  L'arte  della  memoria  tra  Bruno  e 
Leibniz.  Gli  scritti  di  mnemotecnica  del  medico  paracelsiano  Adam  Bru- 
xius,  ivi,  pp.  379-408;  Giordano  Bruno.  Tragik  eines  Unzeitgemàssen,  Atti 
del  Colloquio  italo-tedesco  (Bonn,  4  giugno  1991),  hrsg.  von  W.  HiRDT, 
Tùbingen,  Stauffenburg,  1993;  A.  Preda,  Fra  libertà  e  libertinismo:  tra- 


206  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

duzioni  francesi  del  «Candelaio»  di  Giordano  Bruno,  «Franco-Italica». 
Serie  storico-letteraria  /  Serie  contemporanea,  II  (1993),  3,  pp.  9-26;  N. 
Badaloni,  Ludovico  Feuerbach  interprete  di  Giordano  Bruno  e  di  Tom- 
maso Campanella,  «Studi  Storici»,  XXXV  (1994),  2,  pp.  309-326;  S. 
Bassi,  L'officina  del  filosofo.  Tocco  e  l'edizione  delle  opere  di  Bruno,  «  Ri- 
neiscimento»,  XXXIV  (1994),  pp.  389-401;  G.  Aquilecchia,  Possible 
Brunian  Echoes  in  Galileo,  «Nouvelles  de  la  République  des  Lettres», 
1995,  I,  pp.  11-17;  S.  Bassi,  Bruno  secondo  Bruno:  le  ricerche  di  Ludovico 
Limentani,  «Rivista  di  storia  della  filosofia»,  L  (1995),  3,  pp.  617-644; 
E.  Canone,  L'editto  di  proibizione  delle  opere  di  Bruno  e  Campanella, 
«Bruniana  &  Campanelliana»,  I  (1995),  1-2,  pp.  43-61;  Immagini  di 
Giordano  Bruno  lóoo-iys^,  a  cura  e  con  un'introduzione  di  S.  Bassi, 
Prefazione  di  M.  Ciliberto,  Napoli,  Procaccini,  1996;  J.  Seidengart, 
L'heroisme  philosophique  de  Giordano  Bruno  à  Vapogée  de  la  Renaissance 
d'après  Cassirer,  in  Ernst  Cassirer  ig4yigg^.  Sciences  et  culture,  èdite 
par  N.  Janz,  «Etudes  de  Lettres»,  1997,  1-2,  pp.  115-142;  P.  R.  Blum, 
Der  Heros  des  Urspriinglichen.  Ernesto  Grassi  iiber  Giordano  Bruno, 
«Bruniana  &  Campanelliana»,  IV  (1998),  i,  pp.  107-121;  Brunus  redivi- 
vus.  Momenti  della  fortuna  di  Giordano  Bruno  nel  XIX  secolo,  a  cura  di 
E.  Canone,  Pisa-Roma,  Istituti  Editoriali  e  Poligrafici  Intemazionali, 
1998;  A.  Del  Prete,  Appunti  sulla  diffusione  della  filosofia  di  Bruno 
nell'Olanda  secentesca,  «Bruniana  &  Campanelliana»,  IV  (1998),  2,  pp. 
273-300;  G.  Frank,  Hans  Blumenbergs  Bruno-Relektiire.  Geschichtsphilo- 
sophische  tJberlegungen  zur  Legitimitàt  der  Neuzeit,  ivi,  IV  (1998),  i,  pp. 
123-139;  H.  Gatti,  Il  teatro  della  coscienza.  Giordano  Bruno  e  «Amleto», 
Roma,  Bulzoni,  1998;  M.  Mvlik,  Nota  sulla  ricezione  di  Giordano  Bruno 
in  Polonia,  «Bruniana  &  Campanelliana»,  IV  (1998),  2,  pp.  427-435;  T. 
Prowidera,  Essex  e  il  'Nolanus'.  Un  nuovo  documento  inglese  su  Bruno, 
ivi,  pp.  437-448;  P.  T0TAR0,  Un  documento  trascurato  sulla  fortuna  di 
Bruno  in  Italia,  ivi,  IV  (1998),  i,  pp.  213-222;  C.  Buccolini,  Una 
«Quaestio»  inedita  di  Mersenne  contro  il  «De  immenso»,  ivi,  V  (1999),  i, 
pp.  165-175;  M.  Palumbo,  Le  edizioni  di  Bruno  e  Campanella  nella  bi- 
blioteca privata  leibniziana,  ivi,  V  (1999),  2,  pp.  499-511;  C.  LÙTHV-W. 
R.  Newman,  Daniel  Sennert's  earliest  writings  (i^gg-1600)  and  their  debt 
to  Giordano  Bruno,  ivi,  VI  (2000),  2,  pp.  261-279. 

Tra  gli  studi  più  specificamente  cosmologici  cfr.  A.  Koyré,  From  the 
Closed  World  to  the  Infinite  Universe,  Baltimore,  The  Johns  Hopkins 
Press,  1957  (trad.  it.  di  L  Cafiero,  Milano,  Feltrinelli,  1970);  E.  Na- 
MER,  La  pensée  de  Giordano  Bruno  et  sa  signification  dans  la  nouvelle 
image  du  monde,  Paris,  Centre  de  Documentation  Universitaire,  1959; 
P.-H.  Michel,  La  cosmologie  de  Giordano  Bruno,  Paris,  Hermann,  1962; 
M.  Dynnik,  L'homme,  le  soleil  et  le  cosmos  dans  la  philosophie  de  Gior- 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  207 

dano  Bruno,  in  Le  soleil  à  la  Renaissance.  Sciences  et  mythes,  CoUoque 
intemational  (avril  1963),  Bruxelles-Paris,  Presses  Universitaires  de 
Bruxelles-Presses  Universitaires  de  France,  1965,  pp.  415-431;  P.-H. 
Michel,  Le  soleil,  le  temps,  et  Vespace;  intuitions  cosmologiques  et  images 
poétiques  de  Giordano  Bruno,  ivi,  pp.  397-414;  E.  Fink,  Die  Exposition 
des  Weltproblems  bei  Giordano  Bruno,  in  Der  Idealismus  und  scine  Ge- 
genwart.  Festschrift  fiir  Werner  Marx  zum  65.  Geburtstag,  hrsg.  von  U. 
GuzzoNi,  B.  Rang  und  L.  Siep,  Hamburg,  Meiner,  1976,  pp.  127-132; 
A.  NowiCKi,  n  policentrismo  della  cosmologia  di  Giordano  Bruno  come 
fondamento  della  sua  filosofia  policentrica  della  cultura,  «Misure  criti- 
che», VI  (1976),  pp.  57-72;  A.  Ingegno,  Cosmologia  e  filosofia  nel  pen- 
siero di  Giordano  Bruno,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1978;  A.  Deregibus, 
Bruno  e  Spinoza.  La  realtà  dell'infinito  e  il  problema  della  sua  unità,  2 
voli.,  I:  n  concetto  dell'infinito  nel  pensiero  filosofico  di  Bruno,  Torino, 
Giappichelli,  1981;  A.  Rossi,  Giordano  Bruno  e  l'eredità  copernicana, 
Wroclaw,  Zaklad  Narodowy  im.  Ossolinskich,  1981;  M.  A.  Granada, 
La  adopción  y  desarrollo  del  copernicanismo  en  Giordano  Bruno:  Cosmo- 
logia, religión,  historia,  in  Estudios  sobre  historia  de  la  ciencia  y  de  la 
tecnica,  IV  Congreso  de  la  Sociedad  Espanola  de  Historia  de  las  Cien- 
cias  y  de  las  Técnicas  (Valladolid,  22-27  septiembre  de  1986),  Vallado- 
lid,  Junta  de  Castilla  y  Leon,  Consejeria  de  Cultura  y  Bienestar  Social, 
1988,  I,  pp.  31-48;  J.  Seidengart,  La  cosmologie  infinitiste  de  Giordano 
Bruno,  in  Infini  des  mathématiciens,  Infini  des  philosophes,  sous  la  dir.  de 
F.  Monnoyeur,  Préf.  de  J.  Dieudonné,  Postf.  de  H.  Sinaceur,  Paris, 
Belin,  1992,  pp.  59-82;  M.  A.  Granada,  LI  rifiuto  della  distinzione  fra 
'potentia  absoluta'  e  'potentia  ordinata'  di  Dio  e  l'affermazione  dell'uni- 
verso infinito  in  Giordano  Bruno,  «Rivista  di  storia  della  filosofia»,  n.  s., 
XLIX  (1994),  3,  pp.  495-532;  Id.,  Thomas  Digges,  Giordano  Bruno  y  el 
desarrollo  del  copernicanismo  en  Inglaterra,  «Endoxa:  series  filosóficas»,  4 
(1994),  pp.  7-42;  R.  G.  Mendoza,  The  Acentric  Labyrinth:  Giordano  Bru- 
no's  Prelude  to  Contemporary  Cosmology,  Shaftesbury-Rockport-Bri- 
sbane,  Element  Books,  1995;  M.  A.  Granada,  El  debate  cosmològico  en 
1588.  Bruno,  Brahe,  Rothmann,  Ursus,  Róslin,  Napoli,  Bibliopolis,  1996; 
Id.,  Càlculos  cronológicos,  novedades  cosmológicas  y  expectativas  escatológi- 
cas  en  la  Europa  del  Siglo  XVI,  «Rinascimento»,  XXXVII  (1997),  pp. 
357-435;  G.  Candela,  An  Overview  of  the  Cosmology,  Religión  and  Phi- 
losophical  Universe  of  Giordano  Bruno,  «Italica»,  LXXV  (1998),  3,  pp. 
348-364;  A.  Del  Prete,  Universo  infinito  e  pluralità  dei  mondi.  Teorie 
cosmologiche  in  età  moderna,  Napoli,  La  Città  del  Sole,  1998;  M.  A.  Gra- 
nada, L'infinite  de  l'univers  et  la  conception  du  sy stèrne  solaire  chez  Gior- 
dano Bruno,  «Revue  des  Sciences  Philosophiques  et  Théologiques», 
LXXXII  (1998),  pp.  243-275;  M.  Picardi,  La  nozione  di  spazio  nella  ri- 


208  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

flessione  cosmologica  di  Giordano  Bruno  (i 584-1  ^gi),  «Studi  Filosofici», 
XXI  (1998),  pp.  49-94;  W.  WiLDGEN,  Das  kosmische  Gedàchtnis:  Kosmo- 
logie,  Semiotik  und  Geddchtnistheorie  im  Werke  Giordano  Brunos  (1548- 
1600),  Frankfurt  a.  M.-Berlin-Bem-New  York-Paris- Wien,  Lang,  1998; 
M.  Picardi,  Il  lemma  "spazio"  nella  cosmologia  di  Giordano  Bruno,  «Stu- 
di Filosofici»,  XXII  (1999),  pp.  47-97;  H.  Gatti,  Giordano  Bruno  e  la 
scienza  del  Rinascimento,  Milano,  Cortina,  2001  (ed.  or.  Ithaca  and  Lon- 
don, Cornell  University  Press,  1999). 

Per  le  fonti  e  più  genericamente  per  il  rapporto  con  altri  autori  si 
vedano  A.  Nowicki,  Sviluppo  di  tre  motivi  pichiani  nelle  opere  di  Gior- 
dano Bruno,  in  L'opera  e  il  pensiero  di  Giovanni  Pico  della  Mirandola 
nella  storia  dell'Umanesimo,  Convegno  intemazionale  (Mirandola,  15-18 
settembre  1963),  2  voli.,  Firenze,  Istituto  Nazionale  di  Studi  sul  Rina- 
scimento, 1965,  II,  pp.  357-362;  A.  Ingegno,  E  primo  Bruno  e  l'in- 
fluenza di  Marsilio  Ficino,  «Rivista  critica  di  storia  della  filosofia», 
XXIII  (1968),  2,  pp.  149-170;  H.  VÉDRINE,  L'influence  de  Nicolas  de 
Cues  sur  Giordano  Bruno,  in  Nicolò  Cusano  agli  inizi  del  mondo  moderno, 
Atti  del  Congresso  intemazionale  in  occasione  del  V  centenario  della 
morte  di  Nicolò  Cusano  (Bressanone,  6-10  settembre  1964),  Firenze, 
Sansoni,  1970,  pp.  211-223;  E.  Garin,  Reminiscenze  albertiane,  «Rivista 
critica  di  storia  della  filosofia»,  XXVII  (1972),  2,  pp.  222-223;  P-  R- 
Blum,  Aristoteles  bei  Giordano  Bruno.  Studien  zur  philosophischen  Rezep- 
tion,  Miinchen,  Fink,  1980;  G.  Papuli,  Qualche  osservazione  su  Giordano 
Bruno  e  l'aristotelismo,  «Quaderno  filosofico  del  Dipartimento  di  Filo- 
sofia dell'Università  di  Lecce»,  IX  (1984),  lo-ii,  pp.  201-228;  H.  VÉ- 
DRINE,  Della  Porta  e  Bruno:  natura  e  magia,  «Giornale  critico  della  fi- 
losofia italiana»,  LXV  (1986),  3,  pp.  297-309;  A.  Ingegno,  Regia  pazzia. 
Bruno  lettore  di  Calvino,  Urbino,  Quattro  Venti,  1987;  E.  McMullin, 
Bruno  and  Copernicus,  «Isis»,  LXXVIIII  (1987),  pp.  55-74;  G.  Aquilec- 
CHIA,  Ramo,  Patrizi  e  Telesio  nella  prospettiva  di  Giordano  Bruno,  «Di- 
scorsi», IX  (1989),  I,  pp.  27-40  (poi  in  Atti  del  Convegno  internazionale  di 
studi  su  Bernardino  Telesio  [Cosenza,  12-13  "faggio  1989],  Cosenza,  Ac- 
cademia Cosentina,  1990,  pp.  181-191;  ora  in  Id.,  Schede  bruniane 
(igso-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp.  293-301);  M.  A. 
Granada,  Epicuro  y  Giordano  Bruno:  descubrimiento  de  la  naturaleza  y 
liberación  moral.  Una  confrontación  a  través  de  Lucrecio,  in  Historia,  Len- 
guaj'e,  Sociedad.  Homenaje  a  Emilio  Lledó,  a  cura  di  M.  Cruz,  M.  A. 
Granada  e  A.  Papiol,  Barcelona,  Critica,  1989,  pp.  125-141;  L.  Spruit, 
Motivi  peripatetici  nella  gnoseologia  bruniana  dei  dialoghi  italiani,  «Veri- 
fiche», XVIII  (1989),  4,  pp.  367-399;  M.  A.  Granada,  L'interpretazione 
bruniana  di  Copernico  e  la  «Narratio  prima»  di  Rheticus,  «Rinascimen- 
to», XXX  (1990),  pp.  343-365;  H.  VÉDRINE,  Della  Porta  et  Bruno  sur  la 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  2O9 

Nature  et  la  Magie,  in  Giovati  Battista  Della  Porta  nell'Europa  del  suo 
tempo,  Prefazione  di  E.  Garin,  Atti  del  Convegno  (Vico  Equense-Ca- 
stello  Giusso,  29  settembre-3  ottobre  1986),  Napoli,  Guida,  1990,  pp. 
243-260;  Die  Frankfurter  Schriften  Giordano  Brunos  und  ihre  Voraus- 
setzungen,  hrsg.  von  K.  Heipke,  W.  Neuser,  E.  Wicke,  Weinheim, 
VCH  Verlagsgesellschaft,  1991;  R.  Sturlese,  Nicolò  Cusano  e  gli  inizi 
della  speculazione  del  Bruno,  in  Historia  Philosophiae  Medii  Aevi.  Stu- 
dien  zur  Geschichte  der  Philosophie  des  Mittelalters.  Festschrift  fiir  Kurt 
Flasch,  hrsg.  von  B.  MojsiscH  und  O.  Pluta,  Amsterdam-Philadel- 
phia,  B.  R.  Griiner,  1991,  II,  pp.  953-966;  G.  Aquilecchia,  Ancora  su 
Bruno  e  Telesio,  in  Bernardino  Telesio  e  la  cultura  napoletana,  Atti  del 
Convegno  (Napoli,  15-17  dicembre  1989),  a  cura  di  R.  Sirri  e  M.  ToR- 
RiNi,  Introduzione  di  G.  Galasso,  Napoli,  Guida,  1992,  pp.  191-202 
(ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit.,  pp.  303-310);  R.  Sturlese,  «Averroe 
quantumque  arabo  et  ignorante  di  lingua  greca...».  Note  sull'averroismo  di 
Giordano  Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXXI 
(1992),  2,  pp.  248-275;  M.  A.  Granada,  Giordano  Bruno  e  l'interpreta- 
zione della  tradizione  filosofica:  l'aristotelismo  e  il  cristianesimo  di  fronte 
all'«antiqua  vera  filosofia»,  in  L'interpretazione  nei  secoli  XVI  e  XVII, 
Atti  del  Convegno  intemazionale  di  studi  (Milano,  18-20  novembre 
1991,  Parigi,  6-8  dicembre  1991),  a  cura  di  G.  Canziani,  Y.  C.  Zarka, 
Milano,  FrancoAngeli,  1993,  pp.  59-82;  V.  Reinecke,  Blaise  Pascal  und 
Giordano  Bruno,  «Sinn  und  Form»,  XLV  (1993),  5,  pp.  742-756;  Fonti  e 
motivi  dell'opera  di  Giordano  Bruno,  «Nouvelles  de  la  République  des 
Lettres»,  1994,  2  (Atti  del  convegno  di  Cassino,  11-12  dicembre  1992); 
H.  Gatti,  Telesio,  Giordano  Bruno  e  Thomas  Hariot,  in  Atti  iggi-igg4, 
Cosenza,  Accademia  Cosentina,  1994,  pp.  63-74;  M-  ^-  Granada,  Bruno 
et  la  Stoa.  Une  présence  non  reconnue  de  thèmes  stoiciens?,  in  Le  Stoicisme 
aux  XVr  et  XVIF  siècles,  Actes  du  coUoque  CERPHI  (4-5  juin  1993), 
publiés  sous  la  dir.  de  J.  Lagrée,  Caen,  Université  de  Caen,  1994,  pp. 
53-80  (sp.  Giordano  Bruno  y  la  Stoa:  ^una  presencia  no  reconocida  de 
motivos  estoicos?,  «Nouvelles  de  la  République  des  Lettres»,  1994,  i,  pp. 
123-151);  R.  Sturlese,  Le  fonti  del  «Sigillus  sigillorum»  del  Bruno,  ossia: 
il  confronto  con  Ficino  a  Oxford  sull'anima  umana,  «Giornale  critico 
della  filosofia  italiana»,  LXXIII  (1994),  i,  pp.  33-72;  P.  Zambelli,  Il 
«De  auditu  Kabbalistico»  e  la  tradizione  tulliana  nel  Rinascimento  (1965), 
in  Ead.,  L'apprendista  stregone.  Astrologia,  cabala  e  arte  tulliana  in  Pico 
della  Mirandola  e  seguaci,  Venezia,  Marsilio,  1995,  pp.  55-172;  F.  Cen- 
TAMORE,  «Omnia  mutantur,  nihil  interit»:  il  pitagorismo  delle  «Metamor- 
fosi» nell'idea  di  natura  di  Bruno,  «Bruniana  &  Campanelliana»,  III 
(1997),  2,  pp.  231-243;  M.  A.  Granada,  Giordano  Bruno  et  «le  banquet  de 
Zeus  chez  les  Éthiopiens»:  la  transformation  de  la  doctrine  stotcienne  des 


210  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

exhalaisons  humides  de  la  terre,  ivi,  pp.  185-207;  Id.,  Maquiavelo  y  Gior- 
dano Bruno:  religión  civil  y  critica  del  Cristianismo,  ivi,  IV  (1998),  2,  pp. 
343-368;  Id.,  «Esser  spogliato  dall'umana  perfezione  e  giustizia».  Nueva 
evidencia  de  la  presencia  de  Averroes  en  la  obra  y  en  el  proceso  de  Gior- 
dano Bruno,  ivi,  V  (1999),  2,  pp.  305-331;  D.  Knox,  Ficino,  Copernicus 
and  Bruno  on  the  Motion  of  the  Earth,  ivi,  pp.  333-366;  D.  Tessicini, 
«Attoniti...  quia  sic  Stagyrita  docebat».  Bruno  in  polemica  con  Digges,  ivi, 
pp.  521-526;  D.  GiovANNOZzi,  «Porphyrius,  Plotinus  et  alii  Platonici». 
Echi  neoplatonici  nella  demonologia  bruniana,  ivi,  VI  (2000),  i,  pp.  79- 
103. 

Sulla  mnemotecnica  si  vedano  C.  Vasoli,  Umanesimo  e  simbologia 
nei  primi  scritti  tulliani  e  mnemotecnici  del  Bruno,  in  Umanesimo  e  sim- 
bolismo, «Archivio  di  Filosofia»,  1958,  2-3,  pp.  251-304  (ristampato,  con 
titolo  lievemente  diverso,  in  Io.,  Studi  sulla  cultura  del  Rinascimento, 
Manduria,  Lacaita,  1968,  pp.  345-426);  P.  Rossi,  Studi  sul  lullismo  e  sul- 
l'arte della  memoria  nel  Rinascimento:  i  teatri  del  mondo  e  il  lullismo  di 
Giordano  Bruno,  «Rivista  critica  di  storia  della  filosofia»,  XIV  (1959), 
I,  pp.  28-59;  Id.,  La  logica  fantastica  di  Giordano  Bruno,  in  Id.,  Clavis 
universalis.  Arti  mnemoniche  e  logica  combinatoria  da  Lullo  a  Leibniz, 
Milano-Napoli,  Ricciardi,  i960,  pp.  109-134  (2*  ed.,  con  titolo  Clavis 
universalis.  Arti  della  memoria...,  Bologna,  il  Mulino,  1983,  pp.  131-154); 
F.  A.  Yates,  The  Art  of  Memory,  London,  Routledge  and  Kegan  Paul, 
1966  (trad.  it.  di  A.  Biondi,  Torino,  Einaudi,  1972);  A.  Noferi,  Gior- 
dano Bruno:  ombre,  segni,  simulacri  e  la  funzione  della  grafìa,  in  Ead.,  B 
gioco  delle  tracce.  Studi  su  Dante,  Petrarca,  Bruno,  il  Neo-classicismo,  Leo- 
pardi, l'Informale,  Firenze,  La  Nuova  Italia,  1979,  pp.  69-209;  M. 
Cambi,  Giordano  Bruno  tra  mnemotecnica  ed  esigenza  pansofica.  Nota 
sulla  «Explicatio  triginta  sigillorum»,  «Discorsi»,  IV  (1984),  i,  pp.  29-62; 
S.  Jannelli,  Appunti  suir«Ars  Reminiscendi»  di  Giordano  Bruno, 
«AION».  Annali  dell'Istituto  Universitario  Orientale  di  Napoli,  Sez. 
Romanza,  XXVII  (1985),  2,  pp.  437-453;  R.  Sturlese,  Il  «De  imagi- 
num,  signorum  et  idearum  compositione»  di  Giordano  Bruno,  ed  il  signifi- 
cato filosofico  dell'arte  della  memoria,  «Giornale  critico  della  filosofia  ita- 
liana», LXIX  (1990),  2,  pp.  182-203;  G.  De  Rosa,  Giordano  Bruno:  il 
linguaggio  delle  ombre,  «Atti  dell'Accademia  Nazionale  di  Scienze  Mo- 
rali e  Politiche»  della  Società  Nazionale  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  in 
Napoli,  GII  (1991),  pp.  67-86;  R.  Sturlese,  Per  una  interpretazione  del 
«De  umbris  idearum»  di  Giordano  Bruno,  «Annali  della  Scuola  Normale 
Superiore  di  Pisa  Classe  di  Lettere  e  Filosofia»,  s.  Ili,  XXII  (1992),  3, 
pp.  943-968;  U.  Eco,  Giordano  Bruno:  combinatoria  e  mondi  infiniti,  in 
Id.,  La  ricerca  della  lingua  perfetta  nella  cultura  europea,  Roma-Bari,  La- 
terza, 1993,  pp.  145-151;  F.  Torchia,  La  chiave  delle  ombre,  «Intersezio- 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  211 

ni»,  XVII  (1997),  I,  pp.  131-151;  W.  WiLDGEN,  Das  kosmische  Gedàcht- 
nis:  Kosmologie,  Semiotik  und  Geddchtnistheorie  im  Werke  Giordano  Bru- 
nos  (1348-1600),  Frankfurt  a.  M.-Berlin-Bem-New  York-Paris-Wien, 
Lang,  1998. 

Tra  i  contributi  più  attenti  agli  aspetti  letterari  e  linguistici  nonché 
per  la  poetica  e  l'estetica  si  vedano  G.  Aquilecchia,  L'adozione  del 
volgare  nei  dialoghi  londinesi  di  Giordano  Bruno,  «Cultura  Neolatina», 
XIII  (1953),  2-3,  pp.  165-189  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane  (ig^o-iggi), 
Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp.  41-63);  F.  Puglisi,  Dell'estetica 
di  Giordano  Bruno,  «Sophia»,  XXI  (1953),  i,  pp.  36-43;  G.  Barberi 
Squarotti,  Alcuni  temi  di  un  saggio  su  Giordano  Bruno,  «Il  Verri»,  II 
(1958),  2,  pp.  76-100;  Id.,  Bruno  e  Folengo,  «Giornale  storico  della  lette- 
ratura italiana»,  CXXXV  (1958),  409,  pp.  51-60;  Id.,  L'esperienza  stili- 
stica del  Bruno  fra  Rinascimento  e  Barocco,  in  La  critica  stilistica  e  il 
barocco  letterario.  Atti  del  secondo  Congresso  Intemazionale  di  Studi 
Italiani,  a  cura  della  Associazione  Intemazionale  per  gli  Studi  di  Lin- 
gua e  Letteratura  Italiana,  Firenze,  Le  Monnier,  1958,  pp.  154-169;  Id., 
Per  una  descrizione  e  interpretazione  della  poetica  di  Giordano  Bruno, 
«Studi  secenteschi»,  I  (i960),  pp.  39-59;  E.  Hatzantonis,  Il  potere  me- 
tamorfico di  Circe  quale  motivo  satirico  in  Machiavelli,  Gelli  e  Bruno, 
«Italica»,  XXXVII  (i960),  4,  pp.  257-267;  R.  Tissoni,  Saggio  di  com- 
mento stilistico  al  «Candelaio».  Dedicatoria  alla  Signora  Morgana,  «Gior- 
nale storico  della  letteratura  italiana»,  CXXXVII  (i960),  417,  pp.  41- 
60;  Id.,  Appunti  per  uno  studio  sulla  prosa  della  dimostrazione  scientifica 
nella  «Cena  de  le  ceneri»  di  Giordano  Bruno,  «Romanische  Forschun- 
gen»,  LXXIII  (1961),  3-4,  pp.  347-388;  Id.,  La  correlazione  in  Giordano 
Bruno,  in  Petrarca  e  il  Petrarchismo.  Atti  del  III  Congresso  dell'Associa- 
zione Intemazionale  per  gli  Studi  di  Lingua  e  Letteratura  Italiana,  Bo- 
logna, 1961,  pp.  395-396;  V.  Zanone,  L'estetica  di  Giordano  Bruno,  «Ri- 
vista di  Estetica»,  XII  (1967),  3,  pp.  388-398;  M.  Agrimi,  Giordano 
Bruno,  filosofo  del  linguaggio,  «Studi  filosofici»,  II  (1979),  pp.  105-153;  G. 
Aquilecchia,  Da  Bruno  a  Marino.  Postilla  air« Adone»,  X  45,  «Studi 
secenteschi»,  XX  (1979),  pp.  89-95  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  cit,  pp. 
287-292);  P.  Bertini  Malgarini,  Giordano  Bruno  linguista,  «Critica 
letteraria»,  Vili  (1980),  4,  pp.  681-716;  C.  Borrelli,  Spoglio  linguistico 
del  «Candelaio»  di  Giordano  Bruno,  «Misure  critiche»,  X  (1980),  35-36, 
pp.  25-67;  F.  Puglisi,  Dei  caratteri  dell'arte  bruniana,  «Quaderno  filoso- 
fico del  Dipartimento  di  Filosofia  dell'Università  di  Lecce»,  V  (1980), 
3,  pp.  19-37;  A.  Gareffi,  Giordano  Bruno  e  Giulio  Camillo  Delminio.  Lo 
specchio  manieristico  degli  opposti,  l'ombra  che  assorbe  l'eco,  in  Id.,  Le  voci 
dipinte.  Figura  e  parola  nel  Manierismo  italiano,  Roma,  Bulzoni,  1981, 
pp.  147-170;  G.  Ferroni,  Frammenti  di  discorsi  sul  comico,  in  Ambiguità 


212  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

del  comico,  a  cura  di  G.  Ferroni,  Palermo,  Sellerie,  1983,  pp.  17-79;  '^• 
Mariani,  La  negazione  bruniana  dell'estetica,  «Rinascimento»,  XXIII 
(1983),  pp.  303-327;  F.  PuGLisi,  Del  linguaggio  antiaccademico  del  Bruno, 
«Cultura  e  scuola»,  XXII  (1983),  85,  pp.  17-22;  A.  Gareffi,  Anteriorità 
della  memoria  e  scrittura  mitologica  di  Giordano  Bruno,  in  Id.,  La  filosofia 
del  Manierismo.  La  scena  mitologica  della  scrittura  in  Della  Porta,  Bruno, 
Campanella,  Napoli,  Liguori,  1984,  pp.  73-104;  N.  Ordine,  Raccontare 
l'uomo,  raccontare  la  natura:  l'eterna  ricerca  nei  dialoghi  di  Bruno,  in 
Modi  di  raccontare,  a  cura  di  G.  Ferroni,  Palermo,  Sellerio,  1987,  pp. 
60-68;  V.  M.  Cancelliere,  Un  pedante  viene  battuto.  Analisi  del  discorso 
bruniano  nel  «Candelaio»  e  nella  «Cena  de  le  ceneri»,  Beme-Francfort  s. 
Main-New  York-Paris,  Lang,  1988;  N.  Ordine,  E  dialogo  cinquecentesco 
italiano  tra  diegesi  e  mimesi,  «Studi  e  Problemi  di  Critica  Testuale»,  37 
(1988),  pp.  155-179;  F.  PuGLisi,  La  rivoluzione  artisticofilosofi^a  di  Gior- 
dano Bruno,  Roma,  Bulzoni,  1989;  G.  Barberi  Squarotti,  Pensiero  e 
poesia  di  Giordano  Bruno,  «Testo»,  19  (1990),  pp.  29-69  (Atti  del  conve- 
gno su  «Poesia  e  filosofia  nella  letteratura  italiana  dal  Tasso  ai  con- 
temporanei» [Brescia,  28-31  ottobre  1989]);  N.  Ordine,  Teoria  e  «situa- 
zione» del  dialogo  nel  Cinquecento  italiano,  in  //  dialogo  filosofico  nel  '300 
europeo.  Atti  del  convegno  intemazionale  di  studi  (Milano,  28-30  mag- 
gio 1987),  a  cura  di  D.  Bigalli  e  G.  Canziani,  Milano,  FrancoAngeli, 
1990,  pp.  13-33;  D.  Quarta,  «De  umbris  idearum»,  «Candelaio»,  «Cena 
delle  ceneri»:  considerazioni  e  osservazioni  sulle  strutture  comunicative  dei 
primi  dialoghi  bruniani,  ivi,  pp.  35-57;  M.  Untersteiner,  Incontri.  Con 
un  saggio  sull'estetica  di  Giordano  Bruno  [1922]  e  una  bibliografia  o-ggior- 
nata  degli  scritti  dell'autore,  a  cura  di  R.  Maroni  e  L.  Untersteiner 
Candia,  Milano,  Guerini  e  Associati,  1990;  C.  Ossola,  Dei  legami  di 
senso  e  dell'analogia  in  Giordano  Bruno:  studi  recenti,  «Lettere  Italiane», 
XLIII  (1991),  2,  pp.  244-249;  G.  Delli  Santi,  La  perversione  ellittica  nel 
linguaggio  di  Giordano  Bruno,  «Kiliagono»,  1992,  pp.  36-48;  L.  Bol- 
zoni, Sapienza  e  natura:  Telesio,  Bruno  e  Campanella,  in  L'Italia  e  la 
formazione  della  civiltà  europea,  I:  La  cultura  civile,  a  cura  di  N.  Mat- 
TEUCCi,  Torino,  Utet,  1993,  pp.  141-170;  P.  Sabbatino,  Giordano  Bruno 
e  la  «mutazione»  del  Rinascimento,  Firenze,  Olschki,  1993;  G.  Aquilec- 
CHIA,  Dialoghi  tassiani  e  dialoghi  bruniani:  per  una  comparazione  delle 
fonti,  in  Id.,  Nuove  schede  di  italianistica,  Roma,  Salerno  Editrice,  1994, 
pp.  226-239;  M.  Baschera,  Giordano  Bruno  e  il  «dialogo  metafisico», 
«Cenobio»,  XLIII  (1994),  4,  pp.  319-325;  A.  Buono  Hodgart,  Prologhi 
bruniani  e  prologhi  classici,  «Atti  della  Accademia  Pontaniana»,  n.  s., 
XLIII  (1994),  pp.  97-107;  G.  Aquilecchia,  Sonetti  bruniani  e  sonetti  eli- 
sabettiani (per  una  comparazione  metrico-tematica),  «Filologia  Antica  e 
Moderna»,  11  (1996),  pp.  27-34;  C.  Matano,  Filosofia  e  linguaggio  in 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  213 

Giordano  Bruno,  «Itinerari»,  XXXV  (1996),  2-3,  pp.  75-102;  S.  Zatti, 
Nuove  terre,  nuova  scienza,  nuova  poesia:  la  profezia  epica  delle  scoperte, 
in  Id.,  L'ombra  del  Tasso.  Epica  e  romanzo  nel  Cinquecento,  Milano, 
Bruno  Mondadori,  1996,  pp.  146-207;  G.  Barberi  Squarotti,  Parodia 
e  pensiero:  Giordano  Bruno,  Milano,  Greco  &  Greco,  1997^;  G.  Aquilec- 
CHIA,  Aspetti  della  'poetica'  bruniana,  «Nouvelles  de  la  République  des 
Lettres»,  1998,  2,  pp.  7-20;  Id.,  Componenti  teatrali  nei  dialoghi  italiani 
di  Giordano  Bruno,  «Bruniana  &  Campanelliana»,  V  (1999),  2,  pp.  265- 
276;  Id.,  Yet  another  aspect  of  Bruno' s  «poetics»:  the  conception  ofthe  'poe- 
tica impresa',  in  Reflexivity:  criticai  themes  in  the  Italian  cultural  tradi- 
tion.  Essays  by  members  of  the  Department  of  Italian  at  University  College 
London,  ed.  by  P.  Shaw  and  J.  Took,  Ravenna,  Longo,  2000,  pp.  177- 
181;  L.  Bolzoni,  Note  su  Bruno  e  Ariosto,  «Rinascimento»,  XL  (2000), 
pp.  19-43;  P.  Farinelli,  E  furioso  nel  labirinto.  Studio  su  «De  gli  eroici 
furori»  di  Giordano  Bruno,  Bari,  Adriatica  Editrice,  2000. 

Per  le  teorie  matematiche  si  vedano  G.  Aquilecchia,  Bruno  e  la 
matematica  a  lui  contemporanea.  In  margine  al  «De  Minimo»,  «Giornale 
critico  della  filosofia  italiana»,  LXIX  (1990),  2,  pp.  151-159  (ora  in  Id., 
Schede  bruniane  (ig^o-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli,  1993,  pp. 
311-317);  Id.,  n  dilemma  matematico  di  Bruno  tra  atomismo  e  infinitismo, 
Napoli,  Istituto  Suor  Orsola  Benincasa,  1992  (ora  in  Id.,  Schede  bru- 
niane, cit,  pp.  319-326);  A.  Bònker-Vallon,  Metaphysik  und  Mathema- 
tik  bei  Giordano  Bruno,  Berlin,  Akademie  Verlag,  1995;  Ead.,  Giordano 
Bruno  e  la  matematica,  «Rinascimento»,  XXXIX  (1999),  pp.  67-93. 

Su  aspetti  e  problemi  specifici  si  vedano  S.  Caramella,  «Ragion  di 
stato»  in  Giordano  Bruno,  in  Cristianesimo  e  Ragion  di  Stato,  Atti  del  II 
Congresso  Intemazionale  di  Studi  Umanistici  (Roma,  1952),  a  cura  di 
E.  Castelli,  Milano,  Fratelli  Bocca,  1953,  pp.  11-20;  F.  A.  Yates,  Con- 
sidérations  de  Bruno  et  de  Campanella  sur  la  monarchie  frangaise,  in 
L'art  et  la  pensée  de  Léonard  de  Vinci,  Comunication  du  Congrès  Inter- 
national (Val  de  Loire,  7-12  juillet  1952),  Paris-Algiers,  1954,  pp.  409- 
422  (ora  in  Ead.,  Giordano  Bruno  e  la  cultura  europea  del  Rinascimento, 
Introduzione  di  E.  Garin,  Roma-Bari,  Laterza,  1988,  pp.  137-145);  G. 
Aquilecchia,  Bruno  e  il  «Nuovo  Mondo»,  «Rinascimento»,  VI  (1955), 
I,  pp.  168-170  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane  (ig$o-iggi),  Manziana  [RM], 
Vecchiarelli,  1993,  pp.  97-99);  A.  Corsano,  Arte  e  natura  nella  specula- 
zione pedagogica  del  Bruno,  in  Medioevo  e  Rinascimento.  Studi  in  onore  di 
Bruno  Nardi,  2  voli.,  Firenze,  Sansoni,  1955,  I,  pp.  116-126;  R.  Klein, 
L'imagination  comme  vétement  de  l'àme  chez  Marsile  Ficin  et  Giordano 
Bruno,  «Revue  de  Métaphysique  et  de  Morale»,  LXI  (1956),  i,  pp. 
18-38  (ora  in  Id.,  La  forma  e  l'intelligibile.  Scritti  sul  Rinascimento  e 
l'arte  moderna.  Prefazione  di  A.  Chastel,  Torino,  Einaudi,  1975,  pp. 


214  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

45-74);  P.-H.  Michel,  L'atomisme  de  Giordano  Bruno,  in  La  science  au 
seizième  siede,  Colloque  International  (Royaumont,  1-4  juillet  1957), 
Paris  s.  d.,  pp.  251-263;  J.  Ch.  Nelson,  Renaissance  Theory  of  Love.  The 
Context  of  Giordano  Bruno's  «Eroici  Furori»,  New  York,  Columbia  Uni- 
versity Press,  1958  (e  London,  Oxford  University  Press,  1958);  H.  B. 
White,  Bacon,  Bruno  and  the  Eternai  Recurrence,  «Social  Research», 
XXV  {1958),  4,  pp.  449-468;  E.  Namer,  La  nature  chez  Giordano  Bruno, 
in  Atti  del  XII  Congresso  intemazionale  di  filosofia  (Venezia,  12-18 
settembre  1958),  12  voli.,  XII:  Storia  della  filosofia  moderna  e  contempo- 
ranea, Firenze,  Sansoni,  1961,  pp.  345-351;  G.  Calogero,  La  professione 
di  fede  di  Giordano  Bruno  (e  una  lettera  di  Bruno  all'imperatore  Ro- 
dolfo, tradotta  da  G.  Radetti),  «La  Cultura»,  I  (1963),  i,  pp.  64-77; 
P.-H.  Michel,  Les  notions  de  contimi  et  de  discontinu  dans  les  systèmes 
physiques  de  Bruno  et  de  Galilée,  in  Mélanges  Alexandre  Koyré,  Paris, 
Hermann,  1964,  II,  pp.  345-359;  H.  Védrine,  La  conception  de  la  nature 
chez  Giordano  Bruno,  Paris,  Vrin,  1967;  H.  U.  Schmidt,  Zum  Problem 
des  Heros  bei  Giordano  Bruno,  Bonn,  Bouvier,  1968;  H.  Grunewald, 
Die  Religionsphilosophie  des  Nikolaus  Cusanus  und  die  Konzeption  einer 
Religionsphilosophie  bei  Giordano  Bruno,  Marburg,  Elwert,  1970  (2*  ed. 
Hildesheim,  Gerstenberg,  1977);  E.  Namer,  L'univers  de  Giordano 
Bruno  et  la  destinée  humaine,  in  L'univers  à  la  Renaissance:  microcosme 
et  macrocosme,  Colloque  International  (ottobre  1968),  Bruxelles-Paris, 
Presses  Universitaires  de  Bruxelles-Presses  Universitaires  de  France, 
1970,  pp.  89- 120;  Id.,  Les  conséquences  religieuses  et  morales  du  système 
de  Copernic.  La  place  de  l'homme  dans  l'univers  infini  de  G.  Bruno,  «Stu- 
di intemazionali  di  filosofia»,  V  (1973),  pp.  85-96;  A.  NowiCKl,  La  na- 
tura nella  filosofia  di  Giordano  Bruno,  «Bollettino  di  Storia  della  Filoso- 
fia» dell'Università  degli  Studi  di  Lecce,  I  (1973).  pp.  70-87;  A.  Inge- 
gno, Per  uno  studio  dei  rapporti  tra  il  pensiero  di  Giordano  Bruno  e  la 
Riforma,  in  Magia,  astrologia  e  religione  nel  Rinascimento,  Atti  del  Con- 
vegno polacco-italiano  (Varsavia,  25-27  settembre  1972),  Wroclaw,  Os- 
solineum,  1974,  pp.  130-147;  A.  Noferi,  Caos.  Simulacro  e  scrittura 
nella  teoria  bruniana  dell'immaginazione,  in  Letteratura  e  critica.  Studi  in 
onore  di  Natalino  Sapegno,  a  cura  di  W.  Binni  et  alii,  I,  Roma,  Bulzoni, 
1974,  pp.  361-408;  W.  Beierwaltes,  Actaeon.  Zu  einem  mythologischen 
Symbol  Giordano  Brunos,  «Zeitschrift  fiir  philosophische  Forschung», 
XXXII  (1978),  3,  pp.  345-354  (poi  in  Id.,  Denken  des  Einen,  Frankfurt, 
Klostermann,  1985,  pp.  424-435;  trad.  it.  Milano,  Vita  e  Pensiero,  1991); 
J.  Brockmeier,  Die  Naturtheorie  Giordano  Brunos.  Erkenntnistheoreti- 
sche  und  naturphilophische  Voraussetzungen  des  friihbiirgerlichen  Materia- 
lismus,  Frankfurt-New  York,  Campus,  1980;  M.  Campanini,  L'infinito  e 
la  filosofìa  naturale  di  Giordano  Bruno,  «ACME»,  XXXIII  (1980),  3,  pp. 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  215 

339-369;  N.  Ordine,  Simbologia  delVasino.  A  proposito  di  due  recenti  edi- 
zioni, «Giornale  storico  della  letteratura  italiana»,  CLXI  (1984),  513, 
pp.  116-130;  M.  Sladek,  Fragmente  der  hermetischen  Philosophie  in  der 
Naturphilosophie  der  Neuzeit,  Frankfurt  a.  M.-Bem-New  York,  Lang, 
1984;  E.  Garin,  «Phantasia»  e  «imaginatio»  fra  Marsilio  Ficino  e  Pietro 
Pomponazzi,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXIV  (1985),  3, 
pp.  349-361  (anche  in  Phantasia-Imaginatio,  Atti  del  V  Colloquio  inter- 
nazionale del  lessico  intellettuale  europeo  [Roma,  9-1 1  gennaio  1986], 
a  cura  di  M.  Fattori  e  M.  Bianchi,  Roma,  Edizioni  dell'Ateneo, 
1988,  pp.  3-20);  A.  Ingegno,  La  sommersa  nave  della  religione.  Studio 
sulla  polemica  anticristiana  del  Bruno,  Napoli,  Bibliopolis,  1985;  L.  De 
Bernart,  Immaginazione  e  scienza  di  Giordano  Bruno:  l'infinito  nelle 
forme  dell'esperienza,  Pisa,  ETS,  1986;  A.  Ingegno,  Vita  civile,  raziona- 
lità dell'uomo,  perfezione  del  filosofo:  Cardano  e  Bruno,  in  Ragione  e  «civi- 
litas».  Figure  del  vivere  associato  nella  cultura  del  '500  europeo,  Atti  del 
Convegno  di  Studio  (Diamante,  7-9  novembre  1984),  a  cura  di  D.  Bi- 
galli,  Milano,  FrancoAngeli,  1986,  pp.  179-196;  L.  Spruit,  Magia:  so- 
cia naturae.  Questioni  teoriche  nelle  opere  magiche  di  Giordano  Bruno,  «il 
Centauro»,  17-18  (1986),  pp.  146-169;  N.  Ordine,  La  cabala  dell'asino. 
Asinità  e  conoscenza  in  Giordano  Bruno,  Napoli,  Liguori,  1987  {2^  ed. 
con  Prefazione  di  E.  Garin,  ivi,  1996);  Id.,  Giordano  Bruno  et  Vane:  une 
satire  philosophique  à  doublé  face,  in  La  satire  au  temps  de  la  Renais- 
sance, Actes  du  XP  colloque  du  Centre  de  recerches  sur  la  Renaissance 
(15-16  novembre  1985  et  14-15  mars  1986),  pubi,  sous  la  dir.  de  M.  T. 
Jones-Davies,  Paris,  Touzot,  1987,  pp.  203-221  (ora  in  Id.,  Le  rendez- 
vous  des  savoirs.  Littérature,  philosophie  et  diplomatie  à  la  Renaissance, 
Préface  de  M.  Simonin,  Paris,  Klincksieck,  1999,  pp.  43-53);  H.  Gatti, 
The  Renaissance  Drama  of  Knowledge:  Giordano  Bruno  in  England,  Lon- 
don-New York,  Routledge,  1989;  G.  Barberi  Squarotti,  Giordano 
Bruno:  l'utopia  del  cielo  liberato  dai  mostri,  in  /  mondi  impossibili:  l'uto- 
pia, a  cura  di  G.  Barberi  Squarotti,  Torino,  Tirrenia  Stampatori, 
1990,  pp.  139-164;  N.  Petruzzellis,  La  libertà  e  il  panteismo  nel  pen- 
siero di  Giordano  Bruno,  in  U  tema  della  Fortuna  nella  letteratura  fran- 
cese e  italiana  del  Rinascimento.  Studi  in  memoria  di  Enzo  Giudici,  Fi- 
renze, Olschki,  1990,  pp.  355-362;  S.  Ricci,  Infiniti  mondi  e  mondo 
nuovo.  Conquista  dell'America  e  critica  della  civiltà  europea  in  Giordano 
Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXIX  (1990),  2,  pp. 
204-221;  N.  Badaloni,  L'impulso  del  negativo:  la  «vanitas»  in  Giordano 
Bruno,  in  Filosofia  e  cultura.  Per  Eugenio  Garin,  a  cura  di  M.  Ciliberto 
e  C.  Vasoli,  2  voli,  Roma,  Editori  Riuniti,  1991,  l,  pp.  309-326;  M.  A. 
Granada,  Giordano  Bruno  y  America.  De  la  critica  de  la  colonización  a 
la  critica  del  cristianismo,  Barcelona,  Universitat  de  Barcelona,  1991 


2l6  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

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55-59;  G.  Ferroni,  L'Europe  de  Giordano  Bruno:  France,  Angleterre,  Al- 
lemagne,  in  L'image  de  l'autre  européen:  XV-XVIF  siècles,  Actes  du  Col- 
loque  International  (Université  de  la  Sorbonne  Nouvelle,  23-25  mai 
1991),  publiés  par  J.  Dufournet,  A.  Ch.  Fiorato,  A.  Redondo,  Paris, 
Presses  de  la  Sorbonne  Nouvelle,  1992,  pp.  241-249;  M.  A.  Granada, 
De  Erasmo  a  Bruno:  caza,  sacrificio  y  metamórfosis  en  la  divinidad,  «La 
balsa  de  la  medusa»,  XXIII  (1992),  pp.  95-114;  In.,  Giordano  Bruno  et 
la  «dignitas  hominis»:  présence  et  modification  d'un  motifdu  platonisme  de 
la  Renaissance,  «Nouvelles  de  la  République  des  Lettres»,  1993,  i,  pp. 
35-89;  H.  VÉDRINE,  Alchimie,  hermétisme  et  philosophie  chez  Giordano 
Bruno,  in  Alchimie  et  philosophie  à  la  Renaissance,  Actes  du  coUoque 
intemational  de  Tours  (4-7  décembre  1991),  Réunis  sous  la  direction 
de  J.-C.  Margolin  et  S.  Matton,  Paris,  Vrin,  1993,  pp.  355-363;  J. 
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contexte  éditorial,  «Filologia  Antica  e  Moderna»,  5-6  (1994),  pp.  87-105; 
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Giordano  Bruno  ou  la  varietas,  in  (N)ombres,  Actes  des  cycles  de  confé- 
rences  publiques  sur  le  baroque  et  la  modemité.  Le  Mans,  Beaux-Arts, 
1995,  pp.  6i-6g;  R  Sturlese,  La  nuova  edizione  del  Bruno  latino,  «Ri- 
nascimento», XXXV  (1995),  pp.  373-395;  H.  Gatti,  L'idea  di  riforma 
nei  dialoghi  italiani  di  Giordano  Bruno.  «Nouvelles  de  la  République 
des  Lettres»,  1996,  2  (Atti  del  convegno  su  Riforma  e  renovatio  nel  Cin- 
quecento europeo  [Roma,  23-25  ottobre  1995]),  pp.  61-81;  Giordano 
Bruno:  testi  e  traduzioni,  Atti  della  giornata  di  studio  (Firenze,  3  otto- 
bre 1994),  Roma,  1996;  B.  Amato,  La  nozione  di  'vuoto'  in  Giordano 
Bruno,  «Bruniana  &  Campanelliana»,  III  (1997),  2,  pp.  209-229;  N.  Ba- 
daloni, Sulla  struttura  del  tempo  in  Bruno,  ivi.  III  (1997),  i,  pp.  11-45: 
S.  Bassi,  Editoria  e  filosofia  nella  seconda  metà  del  '500:  Giordano  Bruno 
e  i  tipografi  londinesi,  «Rinascimento»,  XXXVII  (1997),  pp.  437-458;  K 
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cians,  and  Rabbis,  New  Haven-London,  Yale  University  Press,  1997;  G. 
De  Rosa,  LI  concetto  di  immaginazione  nel  pensiero  di  Giordano  Bruno, 
Napoli,  La  Città  del  Sole,  1997;  N.  Ordine,  Giordano  Bruno:  che  sinos- 
si!, «Belfagor»,  LII  (1997),  2,  pp.  219-223;  F.  Raimondi,  L'immagina- 
zione politica  di  Giordano  Bruno,  «Filosofia  Politica»,  XI  (1997),  2,  pp. 
239-259;  M.  J.  Soto  Bruna,  La  metafisica  del  infinito  en  Giordano 
Bruno,  Pamplona,  Publicaciones  de  la  Universidad  de  Navarra,  1997; 
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NOTA  BIBLIOGRAFICA  217 

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D'Ascia,  Fra  piacevolezza  letteraria  e  riforma  religiosa:  Erasmo  e  Bruno, 
ivi,  IV  (1998),  2,  pp.  255-272;  C.  LuTHY,  Bruno's  «Area  Democriti»  and 
the  origins  of  atomist  imagery,  ivi,  IV  (1998),  i,  pp.  59-92;  S.  NucciA- 
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nei  «Dialoghi  italiani»  di  Giordano  Bruno,  «Nouvelles  de  la  République 
des  Lettres»,  1998,  2,  pp.  85-108;  S.  Simoncini,  L'avventura  di  Momo 
nel  Rinascimento.  H  nume  della  critica  tra  Leon  Battista  Alberti  e  Gior- 
dano Bruno,  «Rinascimento»,  XXXVIII  (1998),  pp.  405-454;  G.  Aqui- 
LECCHIA,  Appunti  su  Giordano  Bruno  e  le  donne,  in  Donne,  filosofia  e 
cultura  nel  Seicento,  a  cura  di  P.  Totaro,  Roma,  CNR,  1999,  pp.  37-49; 
T.  Dacron,  Unite  de  l'ètre  et  dialectique:  l'idée  de  philosophie  naturelle 
chez  Giordano  Bruno,  Paris,  Vrin,  1999;  J.  Jiménez  Heffernan,  Infi- 
nity:  a  Rhetorical  Insight  into  Cosmological  Revolution,  «Lingua  e  stile», 
XXXIV  (1999),  I,  pp.  89-107;  F.  Raimondi,  //  Sigillo  della  vicissitudine. 
Giordano  Bruno  e  la  liberazione  della  potenza,  Padova,  Unipress,  1999; 
N.  TlRlNNANZi,  Umbra  naturae:  l'immaginazione  da  Ficino  a  Bruno, 
Roma,  Edizioni  di  Storia  e  Letteratura,  2000. 

Su  singole  opere  si  vedano  G.  Saitta,  Qualche  considerazione  sul 
«Candelaio»  di  Giordano  Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italia- 
na», XXXI  (1952),  I,  pp.  70-77;  R.  TissoNi,  Saggio  di  commento  stilistico 
al  «Candelaio».  Dedicatoria  alla  Signora  Morgana,  «Giornale  storico 
della  letteratura  italiana»,  CXXXVII  (i960),  417,  pp.  41-60;  Id.,  Ap- 
punti per  uno  studio  sulla  prosa  della  dimostrazione  scientifica  nella  «Ce- 
na de  le  ceneri»  di  Giordano  Bruno,  «Romanische  Forschungen», 
LXXIII  (1961),  3-4,  pp.  347-388;  P.  E.  Memmo,  Jr.,  Giordano  Bruno's 
«De  gli  Eroici  Furori»  and  the  Emblematic  Tradition,  «The  Romanie  Re- 
view»,  LV  (1964),  I,  pp.  3-15;  E.  Namer,  Giordano  Bruno  et  le  langage 
néo-platonicien.  L'importance  du  langage  dans  l'interprétation  néo-platoni- 
cienne  des  «Fureurs  héro'iques»,  in  Le  langage,  Actes  du  XIII  Congrès  des 
Sociétés  de  philosophie  de  langue  frangaise,  I,  Neuchàtel,  1966,  pp. 
128-13 1;  ^-  Ingegno,  Ermetismo  e  oroscopo  delle  religioni  nello  «Spaccio» 
bruniano,  «Rinascimento»,  VII  (1967),  pp.  157-174;  S.  Ferrone,  Il 
«Candelaio»:  scienza  e  letteratura,  «Italianistica»,  II  (1973),  3,  pp.  518- 
543;  N.  Borsellino,  Necrologio  della  pazzia,  in  Id.,  Rozzi  e  Intronati 
Esperienze  e  forme  di  teatro  dal  «Decameron»  al  «Candelaio»,  Roma,  Bul- 
zoni, 1974,  pp.  199-209;  A.  Buono  Hodgart,  «Love's  Labour's  Lost»  di 
William  Shakespeare  e  il  «Candelaio»  di  Giordano  Bruno,  «Studi  secen- 
teschi», XIX  (1978),  pp.  3-21;  C.  BoRRELLi,  spoglio  linguistico  del  «Can- 
delaio» di  Giordano  Bruno,  «Misure  critiche»,  X  (1980),  35-36,  pp.  25-67; 
L.  Manco,  E  «Candelaio»  di  Giordano  Bruno.  L'estremo  limite  della  con- 


2l8  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

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Eroici  Furori»  and  Fulke  Greville's  «Gaelica»,  «Renaissance  Studies»,  IV 
(1990),  2,  pp.  201-227;  R-  Sturlese,  H  «De  imaginum,  signorum  et  idea- 
rum  compositione»  di  Giordano  Bruno,  ed  il  significato  filosofico  dell'arte 
della  memoria,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  LXIX  (1990), 
2,  pp.  182-203;  G.  Aquilecchia,  Saggio  di  un  commento  letterale  al  testo 
critico  del  «Candelaio»,  «Filologia  e  Critica»,  XVI  (1991),  i,  pp.  91-126 
(ora  in  Id.,  Schede  bruniane  (ig^o-iggi),  Manziana  [RM],  Vecchiarelli, 
1993,  pp.  327-366);  S.  Clucas,  «The  Furye  from  Above»:  Giordano  Bru- 
no's «De  gli  Eroici  Furori»,  George  Chapman  and  the  Northumberland  Cir- 
cle,  «Discorsi»,  XI  (1991),  i,  pp.  7-37;  J.  A.  Cavallo,  Bruno's  «Cande- 
laio»: a  Hermetic  Puzzle,  «Canadian  Journal  of  Italian  Studies»,  XV 
(1992),  44,  pp.  47-55;  S.  Clucas,  Giordano  Bruno's  «Degli  eroici  furori» 
and  the  emblem  tradition,  in  The  Emblem  in  Renaissance  and  Baroque 
Europe:  Tradition  and  Variety,  Selected  Papers  of  the  Glasgow  Interna- 
tional Emblem  Conference  (13-17  August  1990),  ed.  by  A.  Adams  and 
A.  J.  Harper,  Leiden-New  York,  E.  J.  Brill,  1992,  pp.  33-44;  D.  Farley- 
Hills,  The  "Argomento'  of  Bruno's  «De  gli  Eroici  Furori»  and  Sidney's 
«Astrophil  and  Stella»,  «The  Modem  Language  Review»,  LXXXVII 
(1992),  I,  pp.  1-17;  R.  Sturlese,  Per  una  interpretazione  del  «De  umbris 
idearum»  di  Giordano  Bruno,  «Annali  della  Scuola  Normale  Superiore 
di  Pisa.  Classe  di  Lettere  e  Filosofia»,  s.  Ili,  XXII  (1992),  3,  pp.  943-968; 
G.  Aquilecchia,  «La  cena  de  le  ceneri»  di  Giordano  Bruno,  in  Lettera- 
tura italiana.  Le  Opere,  dir.  A.  AsOR  Rosa,  II:  Dal  Cinquecento  al  Sette- 
cento, Torino,  Einaudi,  1993,  pp.  665-703;  G.  Barberi  Squarotti,  La 
struttura  del  «Candelaio»,  «Ariel»,  Vili  (1993),  i,  pp.  51-66;  D.  Bremer, 
Don  Juan  und  Faust:  Mythische  Figurationen  neuzeitlichen  Bewusstseins 
im  Licht  der  «Heroischen  Leidenschaften»  von  Giordano  Bruno,  «Arca- 
dia», XXVIII  (1993),  I,  pp.  1-23;  M.  Cambi,  Il  «De  Magia»  e  il  recupero 
della  sapienza  originaria.  Scrittura  e  voce  nelle  strategie  magiche  di  Gior- 
dano Bruno,  «Archivio  di  Storia  della  Cultura»,  VI  (1993),  pp.  9-33;  M. 
Dona,  La  divina  individualità.  Annotazioni  sul  «De  la  causa,  principio  e 
uno»  di  G.  Bruno,  «Teoria»,  n.  s.,  III  (1993),  i,  pp.  107-115;  A.  Mon- 
tano, Una  stranissima  variante  di  commedia  cinquecentesca.  Il  «Cande- 
laio» di  Giordano  Bruno,  «Criterio»,  XII  (1993),  2-3,  pp.  12-34;  ^-  P- 
Ellero,  Allegorie,  modelli  formali  e  modelli  tematici  negli  «Eroici  furori» 
di  Giordano  Bruno,  «La  Rassegna  della  letteratura  italiana»,  XCVIII 
(1994),  3,  pp.  38-52;  G.  Aquilecchia,  I  «Massimi  Sistemi»  di  Galileo  e  la 
«Cena»  di  Bruno  (per  una  comparazione  tematica-strutturale),  «Nuncius», 
X  (1995),  2,  pp.  485-496;  N.  Badaloni,  Note  sul  bruniano  «De  gli  eroici 
furori»,  in  Scienza  e  filosofia:  problemi  teorici  e  di  storia  del  pensiero  scien- 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  2I9 

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Giardini,  1995,  pp.  175-198;  W.  Hirdt,  Naples  «théàtre  du  monde».  Re- 
marques  sur  la  comédie  de  Giordano  Bruno  «Il  Candelaio»,  «Travaux  de 
Linguistique  et  de  Philologie»,  XXXIII-XXXIV  (1995-1996),  pp.  161- 
171;  N.  Borsellino,  Tra  testo  e  gesto.  Drammaturgie  di  fine  Cinquecento, 
in  Origini  della  Commedia  Improvvisa  0  delVarte,  Atti  del  XIX  Conve- 
gno Intemazionale  del  Centro  Studi  sul  teatro  medioevale  e  rinasci- 
mentale (Roma,  12-14  ottobre  1995;  Anagni,  15  ottobre  1995),  a  cura  di 
M.  Chiabò  e  F.  Doglio,  Roma,  Edizioni  Torre  d'Orfeo,  1996,  pp.  13-22; 
J.  JiMÉNEZ  Heffernan,  La  «Cena  delle  Ceneri».  Verso  una  conoscenza 
immaginativa,  «Intersezioni»,  XVI  (1996),  3,  pp.  429-451;  G.  Padoan, 
L'estremo  capolavoro:  «B  Candelaio»  di  Giordano  Bruno,  in  Id.,  L'avven- 
tura della  commedia  rinascimentale,  Padova,  Piccin-Vallardi,  1996,  pp. 
172-177;  M.  Picardi,  Temi  etico-religiosi  nel  «Candelaio»  di  Giordano 
Bruno,  «Studi  Filosofici»,  XIX  (1996),  pp.  153-175;  F.  Tomizza,  Quattro 
varianti  significative  nel  dialogo  I  della  «Cena  de  le  Ceneri»  di  Giordano 
Bruno,  «Rinascimento»,  XXXVI  (1996),  pp.  431-456;  G.  Aquilecchia, 
Astri,  plebe  e  principi  nella  «Cena»  di  Bruno,  in  Sguardi  suUTtalia.  Mi- 
scellanea dedicata  a  Francesco  Villari  dalla  Society  for  Italian  Stiidies,  a 
cura  di  G.  Bedani,  Z.  Baranski,  A.  L.  Lepschy,  B.  Richardson, 
Leeds,  The  Society  for  Italian  Studies,  1997,  pp.  146-157;  A.  Buono 
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ter,  The  Edwin  Mellen  Press,  1997;  H.  Gatti,  Giordano  Bruno' s  «Ash 
Wednesday  Supper»  and  Galileo's  «Dialogue  of  the  two  Major  World  Sy- 
stems», «Bruniana  &  Campanelliana»,  III  (1997),  2,  pp.  283-300;  E. 
Se  affarone  e  N.  Tirinnanzi,  Giordano  Bruno  e  la  composizione  del 
«De  vinculis»,  «Rineiscimento»,  XXXVII  (1997),  pp.  155-231;  M.  Ca- 
nova, E  caos  come  metamorfosi  nel  «Candelaio»  di  Giordano  Bruno, 
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luoghi  di  Circe.  L'« Asino»  di  Machiavelli  e  il  «Cantus  Circaeus»  di  Bruno, 
in  Cultura  e  scrittura  di  Machiavelli,  Atti  del  Convegno  (Firenze-Pisa, 
27-30  ottobre  1997),  Roma,  Salerno  Editrice,  1998,  pp.  553-596;  D.  Tes- 
SICINI,  Bruno  e  Roeslin.  Sulla  presenza  della  «Theoria  nova  coelestium 
METEQPQN»  nel  «De  immenso»,  «Bruniana  &  Campanelliana»,  IV 
(1998),  2,  pp.  475-487;  S.  Otto,  Gli  occhi  e  il  cuore.  H  pensiero  filosofico  in 
base  alle  'regole'  e  alle  'leggi'  della  sua  presentazione  figurale  negli  «Eroici 
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esemplare  del  «De  monade»  (1614),  ivi,  V  (1999),  2,  pp.  513-519;  C.  Pe- 
SCA-Cupolo,  Oltre  la  scena  comica:  la  dimensione  teatrale  bruniana  e 
l'ambientazione  napoletana  del  «Candelaio»,  «Italica»,  LXXVI  (1999),  i, 
pp.  1-17;  P.  Sabbatino,  «Scuoprir  quel  ch'è  ascosto  sotto  questi  sileni».  La 


220  NOTA  BIBLIOGRAFICA 

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(1999),  2,  pp.  367-380;  M.  Spang,  Brunos  «De  monade,  numero  et  figura» 
und  christliche  Kabbala,  ivi,  V  (1999),  i,  pp.  67-94;  A.  Bònker-Vallon, 
L'unità  del  metodo  e  lo  sviluppo  di  una  nuova  fisica.  Considerazioni  sul 
significato  del  «De  l'infinito,  universo  e  mondi»  di  Giordano  Bruno  per  la 
scienza  moderna,  ivi,  VI  (2000),  i,  pp.  35-56;  L.  Catana,  Bruno's  «Spac- 
cio» and  Hyginus'  «Poetica  astronomica»,  ivi,  pp.  57-77;  A.  Maggi,  The 
language  of  the  visible:  the  «Eroici  furori»  and  the  Renaissance  philosophy 
of  «imprese»,  ivi,  pp.  1 15-142;  V.  Perrone  Compagni,  «Minime  occul- 
tum  chaos».  La  magia  riordinatrice  del  «Cantus  Circaeus»,  ivi,  VI  (2000), 
2,  pp.  281-297. 


La  presente  edizione 

Si  riproduce  qui  il  testo  dell'edizione  critica  delle  opere  italiane  di 
Giordano  Bruno  che  Giovanni  Aquilecchia  ha  stabilito  per  Les  Belles 
Lettres  di  Parigi  (1993-1999),  nella  collana  delle  «CEuvres  complètes» 
diretta  da  Y.  Hersant  e  N.  Ordine  avvalendosi  dei  testi  di  base  che, 
a  partire  dal  1966,  stava  predisponendo  per  l'Utet.  All'edizione  fran- 
cese -  le  cui  pagine  sono  segnalate  a  margine  fra  parentesi  quadre  - 
si  rinvia  per  le  note  filologiche  ai  singoli  testi  e  per  le  relative  va- 
rianti. Naturalmente  si  è  tenuto  conto  delle  correzioni  segnalate  dallo 
stesso  Aquilecchia  nel  suo  saggio  I  dialoghi  bruniani  «a  cura»  (0  sine- 
cura?) di  Michele  Ciliberto,  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana», 
CLXXVII  (2000)  pp.  422-439.  Entrambe  le  edizioni  (Les  Belles  Lettres 
e  Utet)  appaiono  con  il  patrocinio  dell'Istituto  Italiano  per  gli  Studi 
Filosofici  e  del  Centro  Intemazionale  di  Studi  Bruniani. 

Questo  è  l'elenco  dei  testi  dell'edizione  critica  Les  Belles  Lettres: 
Chandelier,  Texte  établi  par  Giovanni  Aquilecchia.  Traduction  de  Yves 
Hersant.  Introduction  et  notes  par  Giorgio  Bàrberi  Squarotti.  Intro- 
duction  philologique  generale  par  Giovanni  Aquilecchia,  1993. 
Le  souper  des  Cendres,  Texte  établi  par  Giovanni  Aquilecchia  Traduc- 
tion de  Yves  Hersani  Introduction  par  Adi  Ophir.  Notes  par  Gio- 
vanni Aquilecchia,  1994. 
De  la  cause,  du  principe  et  de  l'un,  Texte  établi  par  Giovanni  Aquilec- 
chia. Traduction  de  Lue  Hersant.  Introduction  par  Michele  Cili- 
berto. Notes  par  Giovanni  Aquilecchia,  1996. 
De  l'infini,  de  l'univers  et  des  mondes,  Texte  établi  par  Giovanni  Aqui- 
lecchia. Traduction  de  Jean-Pierre  Cavaillé.  Introduction  par  Mi- 
guel Angel  Granada.  Notes  par  Jean  Seidengart,  1995. 


NOTA  BIBLIOGRAFICA  221 

Expulsion  de  la  bète  triomphante,  Texte  établi  par  Giovanni  Aquilec- 
chia.  Traduction  de  Jean  Balsamo.  Introduction  par  Nuccio  Ordine. 
Notes  par  Maria  Pia  Ellero,  1999. 

Cabale  du  cheval  pégaséen,  Texte  établi  par  Giovanni  Aquilecchia.  Tra- 
duction de  Tristan  Dagron.  Introduction  et  notes  par  Nicola  Bada- 
loni, 1994. 

Des  fureurs  héroìques,  Texte  établi  par  Giovanni  Aquilecchia.  Traduc- 
tion de  Paul-Henri  Michel  (revue  par  Yves  Hersant).  Introduction 
et  notes  par  Miguel  Angel  Granada,  1999. 


NOTA  FILOLOGICA* 

di 
Giovanni  Aquilecchia 


Ritengo  inevitabile,  quando  ci  si  accinga  a  presentare  il  risultato  di 
un  lavoro  che,  con  interruzioni  più  o  meno  prolungate,  ha  occupato 
oltre  quarant'anni  di  vita,  rifarsi  con  il  pensiero  all'epoca  e  alle  circo- 
stanze in  cui  questo  lavoro  è  nato.  L'epoca  è  l'indomani  della  seconda 
guerra  mondiale.  Nell'Italia  di  quegli  anni,  mentre  si  sviluppavano  in 
letteratura  una  corrente  di  poesia  impegnata  e  una  forma  di  racconto 
neo-realista,  si  assisteva  sul  piano  della  critica  a  una  reazione  contro  il 
neo-idealismo  di  Benedetto  Croce,  che  si  tradusse  o  in  uno  storicismo 
di  origine  marxista,  nei  casi  più  estremi  (tale  fu  la  svolta  critica  del 
mio  maestro,  Natalino  Sapegno),  o  in  un  filologismo  tecnico  e  tuttavia 
sollecito  di  risultati  storicamente  probanti.  Questa  seconda  fu  la  mia 
opzione. 

Attratto  dalla  prosa  della  fine  del  XVI  secolo,  in  cui  vedevo  il  ri- 
flesso cangiante  di  un  periodo  di  crisi  europea,  avevo  allora  come  pro- 
getto di  comparare  da  un  punto  di  vista  stilistico  —  senza  tuttavia 
perdere  di  vista  le  differenze  ideologiche  tra  i  due  autori  -  Bruno  a  un 
suo  contemporaneo,  il  Tasso.  Ma,  nel  caso  del  filosofo,  una  condizione 
si  imponeva:  occorreva  indagare  sulla  validità  del  testo  delle  opere  di- 
sponibili, prima  di  tentarne  l'esame  stilistico  propriamente  detto.  Que- 
sto esame,  mi  auguro  oggi  che  altri  possano  approfondirlo,  sulla  base 
del  testo  critico  qui  presentato. 

Le  edizioni  del  XIX  secolo:  Wagner  e  Lagarde 

Dell'opera  di  Bruno  in  italiano  ci  resta  una  commedia,  pubblicata 
a  Parigi  nel  1582,  e  sei  dialoghi  filosofici  pubblicati  a  Londra  nel  1584- 
85.  Si  deve  collocare  anteriormente  alla  prima  di  queste  date  un  libro 
perduto,  incentrato  su  un  soggetto  morale  e  dedicato  dall'autore  al 
papa  Pio  V,  L'Arca  di  Noè,  mentre  un  piccolo  libro,  forse  astrologico. 
De'  segni  de'  tempi,  anch'esso  perduto,  fu  stampato  a  Venezia  tra  il 


Traduzione  dal  francese  di  Anna  Chiara  Peduzzi. 


224  NOTA  FILOLOGICA 

1577  e  il  1578.  La  parte  conservata  dell'opera  latina,  stampata  o  non, 
supera  in  quantità  la  parte  italiana  e  si  colloca  interamente  nel  decen- 
nio che  va  dal  1582  (anno  delle  prime  opere  mnemotecniche  parigine) 
al  1591  (anno  dei  grandi  poemi  pubblicati  a  Francoforte).  Di  una  tale 
produzione,  nonostante  l'esistenza  della  monumentale  edizione  del 
XIX  secolo  -  Jordani  Bruni  Nolani  Opera  latine  conscripta,  publicis 
sumptibus  edita,  recensebat  F.  Fiorentino  (F.  Tocco,  G.  Vitelli,  V.  Im- 
briani,  C.  M.  Tallarigo)  I-III,  Neapoli-Florentiae  1879-1891  -  non  si 
può  dire  esista  tuttora  un  testo  propriamente  critico,  fatta  eccezione 
per  i  quattro  Dialoghi  parigini  sul  compasso  di  Fabrizio  Mordente,  che 
ho  pubblicato  nel  1957  presso  le  Edizioni  di  Storia  e  Letteratura  di 
Roma  sotto  il  titolo  Due  dialoghi  sconosciuti  e  due  dialoghi  noti  (con 
Erratum-corrige  stampato  a  parte),  così  come  per  le  ultime  lezioni  pa- 
dovane, Praelectiones  geometricae  e  Ars  deformationum,  che  erano  rima- 
ste sconosciute  quanto  inedite  e  che  ho  pubblicato  nel  1964,  presso  lo 
stesso  editore  romano.  Più  recente  è  l'eccellente  edizione  storico-critica 
del  De  umhris  idearum  fornita  da  Rita  Sturlese  (Firenze,  Olschki,  1991); 
attendiamo  ora  l'edizione  critica  delle  opere  latine  che  questa  specia- 
lista ha  in  preparazione  per  le  Belles  Lettres. 

L'edizione  corrente  delle  opere  italiane,  all'epoca  delle  mie  prime 
ricerche  su  Bruno,  era  la  seconda  edizione  delle  Opere  italiane,  pubbli- 
cate a  Bari  da  Laterza;  Giovanni  Gentile  si  era  incaricato  dei  sei  dia- 
loghi (in  due  volumi,  1925  e  1927)  e  Vincenzo  Spampanato  della  com- 
media (1923).  Il  corpus  italiano  di  Bruno  aveva  conosciuto  precedente- 
mente -  dopo  le  edizioni  del  XVI  secolo  e  anteriormente  alla  prima 
edizione  Laterza,  di  cui  riparlerò  più  avanti  -  due  riprese  nel  XIX 
secolo,  entrambe  in  Germania:  la  prima  nel  1830,  a  Lipsia,  in  due  vo- 
lumi dovuti  a  Adolph  Wagner,  la  seconda  datata  del  1888  ma  in 
realtà  pubblicata  nel  1889  a  Gottinga,  in  due  volumi  stabiliti  da  Paul 
de  Lagarde  (vale  a  dire  dall'orientalista  tedesco  Paul  Anton  Bòtticher). 
Quanto  all'edizione  del  1830,  il  suo  editore  specificava  che,  per  stabi- 
lire i  testi,  aveva  fatto  copiare  quelli  che  gli  «erano  stati  assai  cortese- 
mente trasmessi  dal  dottissimo  Ebert,  bibliotecario  di  Dresda»  e  che  li 
aveva  «comparati  quando  necessario  con  quelli  delle  biblioteche  di  Got- 
tinga e  di  Vienna»,  disponendoli  nell'ordine  cronologico  tratto  dalla  bio- 
grafia dell'autore  o  dalle  indicazioni  inteme  fomite  dall'opera.  È  infatti 
uno  dei  meriti  di  Wagner  avere  fissato  l'ordine  cronologico  delle  opere 
italiane  in  modo  del  tutto  convincente.  La  lista  è  la  seguente: 

1.  Candelaio  (datato:  Parigi  1582); 

2.  La  cena  de  le  Ceneri  (datato  del  1584,  senza  indicazione  del 
luogo  di  stampa); 


NOTA  FILOLOGICA  225 

3.  De  la  causa,  principio  et  uno  (datato  del   1584,  con  Venezia 
come  luogo  di  stampa  fittizio); 

4.  De  l'infinito,  universo  e  mondi  (datato  del  1584,  con  Venezia 
come  luogo  di  stampa  fittizio); 

5.  Spaccio  de  la  bestia  trionfante  (datato  del  1584,  con  Parigi  come 
luogo  di  stampa  fittizio); 

6.  Cabala  del  cavallo  pegaseo,  con  l'aggiunta  dell'Asino  cillenico  (da- 
tato del  1585,  con  Parigi  come  luogo  di  stampa  fittizio); 

7.  De  gli  eroici  furori  (datato  del  1585,  con  Parigi  come  luogo  di 
stampa  fittizio). 

Sorge  qualche  esitazione,  invece,  sulle  edizioni  del  XVI  secolo  uti- 
lizzate direttamente  o  indirettamente  da  Wagner.  Il  bibliotecario  di 
Dresda,  infatti,  non  potè  fornirgli  la  Cabala,  di  cui  la  Sàchsische  Lan- 
desbibliothek  non  possedeva,  allora  come  oggi,  nessun  esemplare;  è 
quanto  risulta  dal  lavoro  di  Rita  Sturlese,  Bibliografìa,  censimento  e  sto- 
ria delle  antiche  stampe  di  Giordano  Bruno  (Firenze,  Olschki,  1987), 
dove  si  apprende  inoltre  che  gli  esemplari  del  Candelaio,  della  Cena, 
dell'Infinito  e  dei  Furori  un  tempo  in  possesso  di  questa  biblioteca  fu- 
rono distrutti  durante  la  seconda  guerra  mondiale.  Tra  le  localizza- 
zioni citate  da  Wagner,  solo  la  Kaiserliche  Kònigliche  Hofbibliothek 
di  Vienna  (divenuta  poi  Oesterreichisch  Nationalbibliothek)  posse- 
deva la  serie  completa  delle  opere  italiane  di  Bruno;  non  risulta  infatti 
che  la  Niedersàchsische  Staats-  und  Universitàtbibliothek  di  Gottinga 
abbia  mai  custodito  copie  della  Cena,  dello  Spaccio  e  della  Cabala.  Per 
la  grafia  adottata  nella  riproduzione  dei  testi,  Wagner  si  limitò  a  for- 
nire qualche  esempio  delle  modernizzazioni  che  aveva  operato,  am- 
mettendo altresì  una  certa  «incoerenza»;  per  la  punteggiatura,  pur  ri- 
conoscendo la  sua  importanza  nell'interpretcìzione  dei  testi,  confessava 
in  fin  dei  conti,  con  una  notevole  ingenuità,  di  averla  modificata  di 
modo  che  le  frasi  non  fossero  né  troppo  lunghe  né  troppo  corte. 
Quanto  al  resto,  corresse  la  lingua  dell'autore  «talvolta  senza  nem- 
meno avvisare  il  lettore».  Queste  le  ragioni  che  dovevano  in  seguito 
rendere  criticabile  e  poco  raccomandabile  l'edizione  di  Lipsia,  il  cui 
grande  merito  fu  tuttavia  quello  di  rimettere  in  circolazione  il  corpus 
italiano  di  Bruno  nella  sua  interezza. 

Se  si  eccettua  un'edizione  del  Candelaio  indipendente  dal  testo  di 
Wagner  (il  cui  editore  è  anonimo),  così  come  altre  edizioni  della  stessa 
commedia  che  dipendono,  invece,  dal  testo  di  Wagner  (salvo  quella  di 
Imbriani-Tria  su  cui  si  fonda  largamente  l'edizione  Sicardi),  esclu- 
dendo le  ristampe  della  commedia  e  dei  dialoghi  che,  a  eccezione  della 
Causa  e  dell'Infinito  nell'edizione  Daelli  (Milano  1863-1864),  dipendono 
tutte  dal  testo  di  Wagner,  bisogna  arrivare  alla  già  citata  edizione  di 


226  NOTA  FILOLOGICA 

Paul  de  Lagarde  datata  Gottinga,  1888  (Dieterichsche  Universitàts- 
buchhandlung),  per  fissare  il  vero  e  proprio  inizio  della  storia  delle 
edizioni  di  Bruno. 

Pur  con  l'intenzione  di  riprodurre  fedelmente  la  grafia  e  la  punteg- 
giatura delle  edizioni  originali,  questa  edizione  si  autorizzò  a  emen- 
darle (con  avvertimento  in  nota),  incorrendo  talvolta  in  errori  dovuti 
a  incomprensioni.  Benché  non  si  trattasse  di  un'edizione  propriamente 
diplomatica,  essa  ha  consentito  in  gran  parte  di  assicurare  il  difficile 
reperimento  delle  edizioni  originali.  Nella  sua  nota  finale,  l'editore  for- 
nisce informazioni  poco  esplicite  quanto  alle  copie  delle  prime  stampe 
sulle  quali  il  suo  lavoro  si  fonda;  gli  capita  di  riferire  dei  particolari 
aneddotici  che  non  sempre  appaiono  convincenti.  Per  essere  precisi, 
dichiara  di  avere  utilizzato  l'esemplare  di  Gottinga  solo  nel  caso  del 
Candelaio;  per  lo  Spaccio  non  precisa  la  localizzazione  dell'esemplare 
utilizzato,  ma  segnala  l'assenza  delle  prime  trentatré  pagine,  fomite  da 
un'inglese  che  le  aveva  copiate  dall'esemplare  del  British  Museum. 
L'intero  testo  della  Cabala  gli  fu  consegnato  in  condizioni  analoghe 
(solo  in  seguito  potè  confrontare  la  sua  copia  con  l'esemplare  britan- 
nico; rimanda  anche  a  una  copia  effettuata  a  Monaco  che  assicura  di 
avere  consultato,  ma  non  risulta  che  Monaco  disponga  del  minimo 
esemplare  della  Cabala).  Solo  un'induzione  permette  di  pensare  che 
Lagarde  abbia  utilizzato  l'esemplare  di  Berlino  per  il  testo  della  Causa, 
mentre  un  esemplare  di  questo  dialogo  si  trovava  già  nella  biblioteca 
di  Gottinga.  Quanto  all' Infinito  e  ai  Furori,  si  può  dedurre  dal  mutismo 
dell'editore  che  egli  abbia  utilizzato  gli  esemplari  della  stessa  biblio- 
teca, che  tuttavia  non  possedeva  nessuna  copia  della  Cena;  questo  si- 
lenzio ha  potuto  indurre  in  errore  gli  editori  posteriori  del  dialogo. 

L'edizione  Gentile 

Il  testo  di  Lagarde  è  servito  come  base,  almeno  per  quanto  riguarda 
i  sei  dialoghi,  alla  prima  edizione  del  nostro  secolo  delle  Opere  italiane 
pubblicate  da  Laterza  (Bari).  Il  primo  e  il  secondo  volume,  che  conten- 
gono appunto  i  dialoghi,  apparvero  rispettivamente  nel  1907  e  nel 
igoS  grazie  a  Giovanni  Gentile:  sotto  il  titolo  generale  di  Dialoghi  me- 
tafisici, il  primo  volume  comprendeva  la  Cena,  la  Causa  e  Vlnfinito 
(dialoghi  che  critici  più  recenti  hanno  preferito  definire  «dialoghi  co- 
smologici»); sotto  il  titolo  di  Dialoghi  morali,  anch'esso  imposto  da 
Gentile,  il  secondo  riuniva  lo  Spaccio,  la  Cabala  e  i  Furori.  Nel  terzo 
volume,  pubblicato  nel  1909,  si  trovava  il  Candelaio,  affidato  a  'V^in- 
cenzo  Spampanato;  questa  edizione,  pur  dichiarandosi  condotta  «con 
l'Edizione  del  Giuliano  [cioè  Guillaume  Julian]  sempre  sott'occhio». 


NOTA  FILOLOGICA  227 

non  precisa  quale  sia  stato  l'esemplare  comparato,  probabilmente,  con 
il  testo  stabilito  da  Lagarde.  La  prefazione  di  Gentile  al  primo  volume 
ometteva  anch'essa  la  designazione  esplicita  della  base  testuale  del- 
l'edizione: se  ne  poteva  nondimeno  inferire  che,  per  la  Causa  e  Vlnfi- 
nito.  Gentile  avesse  utilizzato  il  testo  di  Lagarde,  confrontandolo  con 
le  edizioni  originali  conservate  a  Gottinga.  In  mancanza  di  precisa- 
zioni sulla  Cena,  si  può  ritenere  che  anche  per  questo  dialogo  si  sia 
servito  del  testo  di  Lagarde,  ma  senza  confrontarlo  con  nessun  esem- 
plare del  XVI  secolo.  Quanto  ai  criteri  di  trascrizione.  Gentile  optò  per 
una  modernizzazione  dell'ortografìa  e  della  punteggiatura,  di  cui  rico- 
nosceva lui  stesso  gli  eccessi.  «Ma  a  noi  -  sottolineava  -  preparando 
una  nuova  ristampa  delle  opere  italiane  del  Bruno  per  una  collezione 
di  filosofi,  è  parso  che  egli  debba  essere  e  sia  letto  da  assai  più  che  non 
potranno  essere  mai  gli  studiosi  della  sua  grammatica,  della  sua  grafia 
e  punteggiatura»;  optava  così  per  una  «forma  graficamente  moderna  e 
nostra,  foneticamente  antica  e  bruniana».  Per  lo  Spaccio  e  i  Furori 
(pubblicati  nel  1908  nel  secondo  volume),  Gentile  potè  collazionare  il 
testo  di  Lagarde  con  le  copie  di  questi  due  dialoghi  che  la  Biblioteca 
Nazionale  di  Napoli  aveva  acquisito  nel  1907  dalla  libreria  di  Tamaro 
de  Marinis,  senza  modificare,  ovviamente,  i  suoi  criteri  di  trascrizione. 
Quanto  al  testo  della  Cabala,  fu  copiato  da  quello  di  Lagarde  senza 
altro  controllo. 

Nel  1907,  la  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli  aveva  acquisito  anche 
una  copia  deìVInfinito  e  una  della  Cena  (rilegata  con  lo  Spaccio),  troppo 
tardi  tuttavia  perché  Gentile  potesse  tenerne  conto  nella  sua  edizione 
dei  Dialoghi  metafisici.  Nondimeno  la  prefazione  ai  Dialoghi  morali  gli 
fornì  l'occasione  di  recensire  le  particolarità  della  copia  napoletana 
della  Cena;  cosicché  a  lui  si  deve  il  principale  contributo  alla  critica 
testuale  di  Bruno,  prima  delle  scoperte  che  dovevano  compiersi  qua- 
rant'anni  più  tardi.  Pur  dicendo  di  aver  preso  per  errore  come  termine 
di  comparazione  un  «esemplare  di  Gottinga»  che,  come  si  è  detto,  non 
è  mai  stato  ritrovato  nelle  collezioni  della  Niedersàchsische  Staats- 
und-Universitàtbibliothek  (la  comparazione  è  stata  compiuta  più  pro- 
babilmente con  il  testo  dell'edizione  Lagarde),  Gentile  notava  che 
dopo  il  primo  folio  (A)  l'esemplare  napoletano  contiene  quattro  pagine 
fino  a  quel  momento  «sconosciute  ai  bibliofili  e  agli  studiosi  di 
Bruno»  (come  mi  è  stato  gentilmente  segnalato  da  Giorgio  Fulco,  esse 
erano  state  tuttavia  indicate,  benché  in  modo  impreciso,  nel  Catalogne 
de  la  Bihliothèque  du  feu  M.  Benedetto  Maglione  de  Naples,  Prima  parte, 
Parigi,  1894,  pp.  46-47).  Alle  pagine  XVI-XIX  dei  Dialoghi  morali,  l'edi- 
tore riproduceva  queste  quattro  pagine,  riconoscendovi  una  redazione 
primitiva  dell'inizio  del  primo  dialogo;  spiegava  che  la  redazione  defi- 


228  NOTA  FILOLOGICA 

nitiva  di  questo  inizio  veniva  a  occupare  le  ultime  cinque  pagine  del 
primo  folio  (stampato  per  ultimo  e  le  cui  ultime  cinque  pagine  dove- 
vano essere  rimaste  bianche).  Gentile  osservava  anche,  senza  maggiori 
precisazioni,  che  se  Bruno  aveva  prodotto  una  variante  di  questo 
brano  aumentandolo  da  quattro  a  cinque  pagine,  era  stato  per  ragioni 
di  convenienza  personale  o  di  natura  artistica,  a  meno  che  non  fosse 
stato  per  puro  «capriccio».  Prima  di  continuare  il  nostro  excursus  nella 
storia  delle  edizioni  di  Bruno,  conviene  chiarire  meglio  le  ragioni  e  le 
circostanze  di  un  siffatto  rimaneggiamento,  il  che  implica  un  breve 
richiamo  delle  vicissitudini  che  condussero  Bruno  a  Londra  e  alla  re- 
dazione della  Cena. 

Breve  digressione  biografica 

Verso  il  1562,  Bruno  aveva  lasciato  il  borgo  di  Nola,  nel  viceregno 
di  Napoli,  dove  era  nato  nel  gennaio  o  febbraio  del  1548;  studiando 
nella  capitale  la  logica  e  la  dialettica,  aveva  subito  il  fascino  delle  cor- 
renti speculative  (l'averroismo  anti-umanistico,  l'immanentismo)  e 
delle  tradizioni  metodologiche,  come  la  mnemotecnica,  che  dovevano 
successivamente  caratterizzare  le  sue  ricerche  filosofiche.  Ci  si  può 
dunque  stupire  di  vederlo  entrare  nell'ordine  dei  Domenicani  nel 
1565,  presso  il  convento  napoletano  di  San  Domenico  Maggiore.  Nono- 
stante un  primo  incidente  nella  sua  vita  conventuale  (tra  il  1566  e  il 
1567),  è  ordinato  prete  nel  1572  e  nel  1575  supera  gli  esami  di  laurea 
in  teologia.  Ma  la  lettura  dei  commenti  erasmiani  gli  procura  ben  pre- 
sto un  veto  ecclesiastico,  così  come  i  suoi  dubbi  sulla  Trinità  lo  fanno 
sospettare  di  eresia,  a  tal  punto  che  un  processo  a  suo  carico  viene 
istruito  da  parte  del  Padre  provinciale.  Di  qui  la  sua  decisione  di  re- 
carsi a  Roma  nel  febbraio  1576,  dove  risiederà  non  oltre  marzo,  es- 
sendo venuto  a  sapere  che  le  edizioni  di  Erasmo  che  gli  erano  appar- 
tenute erano  state  ritrovate  a  Napoli  (un  secondo  processo  fu  istruito 
dall'ordine  dei  Predicatori  nel  1576).  Spretato,  si  reca  in  Liguria  e  si 
stabilisce  a  Noli  fino  all'inizio  del  1577,  insegnando  il  latino  e  com- 
mentando la  Sfera  (si  ignora  se  seguisse  il  sistema  tolemaico  o  quello 
copernicano).  Di  qui,  dopo  una  breve  sosta  in  Piemonte,  prosegue 
verso  Venezia,  dove  fa  stampare  l'opuscolo  De'  segni  de'  tempi  di  cui  si 
è  detto  sopra.  Giunto  a  Milano  nel  1578,  si  reca  quello  stesso  anno  a 
Ginevra,  dove  nel  1552  il  marchese  Gian  Galeazzo  di  Vico  aveva  fon- 
dato la  comunità  evangelica  italiana.  Gli  esuli  italiani  gli  procurano 
un  posto  di  correttore  di  bozze  in  una  tipografia,  attività  che  esercita 
per  circa  due  mesi  e  che,  successivamente,  gli  tornerà  assai  utile  per 
l'edizione  delle  sue  opere.  A  Ginevra,  non  foss'altro  che  per  ragioni  di 


NOTA  FILOLOGICA  229 

convenienza  personale,  Bruno  aderisce  al  calvinismo,  come  prova  non 
tanto  la  sua  iscrizione  autografa  all'Università  (in  data  20  maggio 
1579)  quanto  un  processo  per  diffamazione  nei  confronti  del  profes- 
sore titolare  di  filosofia,  Antoine  La  Faye,  istruito  contro  di  lui  dal 
concistoro  nel  mese  di  agosto  di  quello  stesso  anno.  Scomunicato  dalla 
Chiesa  di  Ginevra,  poi  reintegrato  dopo  abiura,  abbandona  la  città  con 
un  sentimento  di  rancore  che  si  tradurrà  più  tardi  nella  polemica  an- 
ti-calvinista:  ricorrente  nelle  sue  opere,  essa  deve  essere  messa  a  con- 
fronto con  le  simpatie  politiche  che  Bruno  manifestò  durante  i  suoi 
soggiorni  successivi  in  Francia  e  in  Inghilterra,  se  si  vogliono  com- 
prendere meglio  le  varianti  del  testo  stampato  da  cui  ha  preso  le 
mosse  la  presente  digressione.  Dopo  un  soggiorno  di  un  mese  a  Lione, 
il  filosofo  si  reca  a  Tolosa,  che  era  all'epoca  uno  dei  baluardi  dell'orto- 
dossia cattolica:  nonostante  la  sua  condizione  di  apostata,  viene  invi- 
tato a  insegnare  in  particolare  la  Sfera.  Diventato  magister  artium,  ot- 
tiene per  concorso  un  posto  di  lettore  titolare  di  filosofia,  che  occupa 
per  circa  due  anni.  Essendosi  fatta  più  precisa  durante  il  1581  la  mi- 
naccia di  una  ripresa  della  lotta  tra  cattolici  e  ugonotti,  lascia  Tolosa 
per  Parigi,  dove  tiene  un  corso  sugli  attributi  divini  nell'opera  di  san 
Tommaso.  Ma  se  attira  l'attenzione  della  corte  di  Enrico  III,  è  soprat- 
tutto grazie  alla  notorietà  che  gli  avevano  procurato  il  suo  insegna- 
mento e  la  sua  pratica  della  mnemotecnica  di  origine  lulliana:  il  re  lo 
invita  a  offrire  una  dimostrazione  della  sua  arte.  Non  c'è  di  che  stu- 
pirsi, se  si  pensa  all'interesse  che  nutrivano  per  il  sapere  enciclopedico 
e  per  le  arti  mnemoniche  a  questo  connesse  i  circoli  intellettuali  della 
corte,  dove  si  sviluppavano  ambiziosi  progetti  di  riforma  culturale  con 
uomini  come  J.  D.  du  Perron,  il  futuro  cardinale,  e  il  vescovo  di  Chà- 
lons-sur-Saòne,  Pontus  de  Tyard.  D'altra  parte,  mantenendosi  equidi- 
stante tra  il  rigorismo  cattolico  e  protestante.  Bruno  si  trovava  giusto 
nella  linea  politico-religiosa  di  una  corte  opposta  all'estremismo  dei 
membri  della  Lega  guidati  dal  duca  di  Guisa  e  piuttosto  tollerante,  per 
converso,  verso  i  protestanti  sostenuti  dal  re  di  Navarra. 

È  al  re  di  Francia  che  Bruno  ha  dedicato  la  prima  delle  sue  opere 
pervenutaci,  il  De  umbris  idearum,  stampata  da  G.  Gourbin  nel  1582 
con  l'Ars  memoriae.  Enrico  III  colse  quest'occasione  per  includere  il 
filosofo  nel  novero  dei  lettori  reali  sovvenzionati,  che  insegnavano  al 
di  fuori  della  Sorbona  e  attaccavano  il  suo  conformismo  aristotelico. 
Seguì  la  pubblicazione  del  Cantus  circaeus,  piccola  opera  mnemotec- 
nica in  forma  di  dialogo,  stampata  nello  stesso  anno  da  E.  Gilles;  la 
dedica  a  Enrico  di  Angouléme,  fratello  naturale  del  re,  fu  scritta  dal 
segretario  J.  Régnault,  essendo  Bruno  occupato  da  grauioribus  negociis 
di  cui  non  si  sa  nulla.  Data  dello  stesso  anno  1582  il  De  compendiosa 


230  NOTA  FILOLOGICA 

architedura  et  complemento  Artis  Lullii,  stampato  da  Gourbin  con  una 
dedica  dello  stesso  Bruno  all'ambasciatore  veneziano  Giovanni  Moro. 
Negli  ultimi  mesi  del  1582  (dopo  la  pubblicazione  dei  primi  due  trat- 
tati mnemonico-lulliani,  ma  forse  prima  della  pubblicazione  del  De 
compendiosa  architectura),  vedeva  la  luce  a  Parigi  il  Candelaio,  nella  ti- 
pografia di  Guillaume  Julian  figlio;  completata  in  agosto,  la  redazione 
probabilmente  era  stata  intrapresa  da  Bruno  prima  della  sua  partenza 
dall'Italia.  Scritta  in  un  italiano  popolare  che  conserva,  nel  lessico 
come  nella  morfologia,  notevoli  caratteristiche  del  dialetto  napoletano, 
questa  commedia  testimonia  in  modo  esplicito,  per  la  prima  volta,  del 
rigetto  della  società  e  della  cultura  contemporanee  che  aveva  indotto 
Bruno  a  rompere  con  l'Ordine  e  poi  a  esiliarsi. 

In  mancanza  di  autografi  e  di  manoscritti,  la  critica  testuale  delle 
opere  italiane  di  Bruno  deve  sottoporre  a  rigorosa  disamina  le  prime 
edizioni  (quella  parigina  del  1582  per  la  commedia,  quelle  londinesi 
del  1584-1585  per  i  dialoghi);  esse  assumono  un  valore  di  archetipi,  o 
addirittura  di  originali  —  in  quanto  edizioni  d'autore  —,  se  si  tiene 
presente  che  il  filosofo  era  un  esperto  correttore  di  bozze.  Per  il  pe- 
riodo anteriore  all'edizione  della  commedia  e  dei  dialoghi,  ho  già  detto 
del  suo  mestiere  di  correttore  a  Ginevra  (cfr.  V.  Spampanato,  Docu- 
menti della  vita  di  G.  Bruno,  Firenze,  1933,  p.  83);  per  il  periodo  poste- 
riore, sappiamo  da  una  richiesta  rivolta  al  Senato  di  Francoforte  nel 
luglio  1590  che  Bruno  intendeva  alloggiare  presso  lo  stampatore  We- 
chel  per  controllare  la  stampa  dei  suoi  poemi  latini  (Documenti  tedeschi 
IX:  ibidem,  p.  55).  Nella  sua  lettera  di  dedica  al  De  minimo,  Wechel 
stesso  si  riferiva  alla  correzione  di  Bruno  dei  fogli  stampati  del  poema, 
così  come  al  suo  ruolo  nell'incisione  delle  illustrazioni  (Opera  latine 
conscripta,  I,  3,  p.  123);  non  va  nemmeno  dimenticato  che,  per  almeno 
uno  dei  dialoghi  italiani,  egli  procedette  a  correzioni  d'autore  sul  testo 
in  corso  di  stampa.  Ciò  che  altresì  conferma  il  valore  di  archetipi  o 
addirittura  di  originali  delle  prime  edizioni  è  il  fatto  che  lo  stampa- 
tore dei  dialoghi  di  Londra  non  era  affatto  abituato  ai  testi  in  italiano; 
allo  stato  attuale  della  ricerca,  niente  prova  che  lo  stampatore  della 
commedia  ne  avesse  maggiore  esperienza.  Per  quanto  riguarda  il  Can- 
delaio e  il  suo  stampatore,  devo  precisare  che  la  monumentale  edizione 
postuma  degli  Imprimeurs  et  Libraires  Parisiens  du  XVI  siede  di  Phi- 
lippe Renouard,  che  comprende  a  tutt'oggi  solo  i  primi  tre  tomi  (Pari- 
gi, 1964-1979),  seguiti  dal  Fascicule  Breyer  (1982),  dal  Fascicule  Brumen 
(1984)  e  dal  Fascicule  Cavellat,  Marnef/Cavellat  (1986),  recensisce  i  nomi 
Abada-Billon;  si  è  dunque  ancora  lontani  dalla  lettera  J.  Disponiamo 
tuttavia,  anche  se  questo  supporto  è  parziale,  à.Q\V Index  of  Printers  and 
Publishers  del  Sort-title  Catalogne  of  Books  printed  in  France...  from  1470 


NOTA  FILOLOGICA  23 1 

to  1600  now  in  the  Brìtish  Library,  Supplement  (1986),  pp.  89-286,  dove 
si  apprende  che  l'officina  di  Guillaume  Julian,  rappresentata  da  edi- 
zioni che  datano  dal  1552  al  1589,  produsse  prima  del  1582,  anno 
della  pubblicazione  del  Candelaio,  quattordici  libri  in  latino  e  quattro 
in  francese;  nello  stesso  anno  1582  apparvero  un'opera  in  francese  e 
una  in  spagnolo.  Dai  Documents  sur  les  Imprimeurs,  Libraires...  ayant 
exercé  à  Paris  de  1450  à  1600  dello  stesso  Renouard  (Parigi,  1901), 
emerge  che  lo  stampatore  di  Bruno  era  (all'età  di  ventidue  anni  e  sotto 
tutela)  succeduto  nell'ottobre  1581  a  suo  padre  Guillaume  Julian,  di 
cui  era  omonimo.  Né  il  padre  né  il  figlio  sembrano  avere  avuto  la 
minima  esperienza  di  un  libro  italiano  prima  del  Candelaio.  Tutte  que- 
ste circostanze  inducono  a  pensare  che  la  stampa  fu  controllata  dal- 
l'autore; la  confusione  particolare  che  regna  nella  numerazione  delle 
scene  della  commedia  potrebbe  allora  essere  imputata  alle  circostanze 
della  sua  composizione. 

Comunque  sia,  il  28  marzo  1583,  l'ambasciatore  d'Inghilterra  a  Pa- 
rigi, H.  Cobham,  inviava  al  primo  segretario  del  regno  un  messaggio 
che  lo  informava  dell'intenzione  di  Bruno  di  attraversare  la  Manica; 
precisava  che  la  fede  del  filosofo  lasciava  piuttosto  a  desiderare.  L'ar- 
rivo di  Bruno  in  Inghilterra  deve  collocarsi  nell'aprile  del  1583.  Non  è 
possibile  stabilire  con  certezza  i  motivi  che  lo  indussero  a  interrom- 
pere il  suo  soggiorno  in  Francia;  se  ci  si  attiene  alle  dichiarazioni  rese 
nel  corso  del  suo  processo,  si  sarebbe  allontanato  da  Parigi  «per  li  tu- 
multi che  nacquero»:  {Documenti  veneti,  IX).  In  realtà,  non  si  trattava 
di  sommosse  in  senso  stretto,  ma  di  una  nuova  situazione  politica  che 
andava  allora  configurandosi  in  Francia,  quella  stessa  che,  due  anni 
più  tardi,  doveva  indurre  il  re  a  revocare  gli  editti  di  tolleranza.  In 
questo  contesto,  la  presenza  dell'apostata  Bruno,  compromesso  con  il 
calvinismo  ginevrino,  non  poteva  non  infastidire  la  corte  di  Enri- 
co III.  Quest'ultimo,  tuttavia,  non  mancò  di  raccomandare  l'esule  ita- 
liano all'ambasciatore  di  Francia  a  landra,  Michel  de  Castelnau,  si- 
gnore di  Mauvissière,  presso  il  quale  il  filosofo  fu  ospitato  durante  il 
suo  soggiorno  londinese.  Da  Londra,  Bruno  si  recò  una  prima  volta  a 
Oxford  al  seguito  del  conte  palatino-polacco  Albert  Laski,  che  visitò 
questa  università  dal  io  al  13  giugno  1583.  In  questa  occasione,  il  fi- 
losofo partecipò  a  un  dibattito  e  corona  con  il  teologo  di  Oxford  John 
Underhill  (che  doveva  diventare  vice-cancelliere  dell'Università 
l'anno  successivo),  richiamandosi  alla  logica  aristotelica  contro  le  po- 
sizioni ramiste  del  suo  avversario.  Fu  forse  dopo  il  suo  ritomo  a  Lon- 
dra che  inviò  la  pomposa  lettera  Ad  excellentissimum  Oxoniensis  Acade- 
miae  Procancellarium,  unita  a  alcuni  esemplari  dell' Explicatio  triginta 
sigillorum  (e,  come  quest'ultima  opera,  stampata  nella  capitale  da  John 


232  NOTA  FILOLOGICA 

Charlewood,  di  cui  si  riparlerà  a  proposito  dei  dialoghi  londinesi).  Du- 
rante l'estate  dello  stesso  anno,  Bruno  ritornò  a  Oxford  e  tenne  una 
serie  di  lezioni  pubbliche;  sostenne  la  teoria  copernicana,  ma  esten- 
dendola alla  propria  concezione  dell'infinito,  senza  esitare  a  ricorrere 
alla  definizione  ermetica  di  Dio.  Per  trattare  dell'immortalità  del- 
l'anima, fece  un  uso  puramente  strumentale  della  terminologia  neo- 
platonica derivata  da  Ficino.  C'era  di  che  scandalizzare  il  suo  pub- 
blico oxoniense,  che  lo  costrinse  a  interrompere  le  sue  lezioni,  in  modo 
scortese,  a  quanto  dice  Bruno  stesso  nel  quarto  dialogo  della  Cena;  in 
modo  diplomatico,  secondo  il  polemista  George  Abbot,  futuro  arcive- 
scovo di  Canterbury,  in  The  reasons  that  Doctor  Hill  hath  brought,  1604. 
Occorre  tenere  conto  di  questo  episodio  per  capire  meglio,  nelle  prime 
redazioni  di  alcuni  brani  della  Cena,  la  violenta  polemica  contro 
Oxford  e  i  protestanti.  Di  ritomo  a  Londra,  pur  continuando  a  allog- 
giare presso  l'ambasciatore  di  Francia,  Bruno  confermò  nettamente  la 
sua  posizione  anti-accademica  (insieme  anti-aristotelica  e  anti-umani- 
stica), tanto  oralmente  quanto  per  iscritto.  La  sua  prima  opera  pubbli- 
cata in  Inghilterra  è  un  piccolo  volume,  stampato  senza  indicazione 
del  luogo  né  della  data  ma  certamente  apparso  a  Londra  nel  1583,  che 
raccoglie  alcuni  dei  suoi  testi  sull'arte  della  memoria;  più  che  gli 
scritti  lulliani  sulla  mnemotecnica  pubblicati  a  Parigi,  l'opera  svi- 
luppa una  teoria  della  conoscenza  e  prepara  la  via  alle  formulazioni 
filosofiche  dei  futuri  dialoghi  italiani.  Il  volume  comprende  l'Ars  remi- 
niscendi,  VExplicatio  triginta  sigillorum  (preceduta,  in  alcune  copie, 
dalla  succitata  lettera  al  vice-cancelliere  dell'Università  di  Oxford)  e  il 
Sigillus  sigillorum.  È  solo  a  proposito  della  lettera  e  delV Explicatio  che 
si  può  affermare  con  certezza  che  lo  stampatore  fu  John  Charlewood. 
Ma  prima  di  parlare  di  quest'ultimo  e  della  sua  responsabilità  nella 
stampa  dei  sei  dialoghi  italiani,  è  opportuno  riprendere  il  nostro  di- 
scorso interrotto  sulle  varianti  della  Cena,  offrendo  nel  contempo  un 
esempio  del  sostegno  che  la  bibliografia  materiale  e  la  critica  testuale 
possono  fornire  tanto  alla  ricostituzione  biografica  quanto  a  quella  del 
contesto  ambientale. 

La  Cena  de  le  ceneri  e  le  sue  varianti 

Occorre  anzitutto  escludere  che  l'opera  abbia  potuto  essere  riveduta 
per  «capriccio»,  tanto  è  difficile  per  chi  sia  in  esilio  mostrarsi  capric- 
cioso. D'altra  parte,  le  cinque  pagine  bianche  che  seguivano  la  Proe- 
miale epistola,  alla  fine  del  primo  folio  (A),  non  possono  essere  spiegate 
con  un  errore  dell'autore  e  dello  stampatore:  secondo  questa  ipotesi, 
essi  si  sarebbero  sbagliati  di  due  fogli  e  mezzo,  cioè  cinque  pagine,  nel 


NOTA  FILOLOGICA  233 

calibrare  la  lettera  di  introduzione,  che  occupa  invece  solo  quattro  fo- 
gli e  mezzo,  cioè  la  metà  degli  otto  che  costituiscono  il  folio  (il  primo 
reca  infatti  sul  recto  il  frontespizio  e  sul  verso  il  sonetto  Al  malconten- 
to). Sottolineamo  che  nella  Causa,  stampata  immediatamente  dopo  la 
Cena,  dopo  la  lettera  introduttiva  -  la  quale,  a  esclusione  del  primo 
foglio  (II)  che  contiene  il  frontespizio  e  che  è  bianco  sul  verso,  occupa 
anche,  oltre  al  resto  del  folio  (I2-8),  il  primo  foglio  del  seguente  se- 
condo folio  (2Ì[4)  -  viene  una  serie  di  cinque  poemi  (tre  in  latino  e 
due  in  italiano)  che  occupano  altrettante  pagine  e  lasciano  in  bianco 
solo  il  verso  dell'ultimo  foglio  del  mezzo-folio,  di  fronte  al  foglio  Ai 
recto  dove  comincia  il  dialogo  propriamente  detto.  Piuttosto  che  attri- 
buire all'autore  e  allo  stampatore  un  grossolano  errore  di  calcolo,  sarei 
incline  a  credere  che  entrambi  avessero  riservato  queste  cinque  pa- 
gine, o  almeno  le  prime  quattro,  per  altrettanti  poemi:  forse  i  quattro 
che  in  seguito  furono  collocati  all'inizio  dei  dialoghi  della  Causa,  a 
prescindere  dal  sonetto  Causa,  principio  e  uno  eterno.  Il  cambiamento 
di  programma  potè  essere  determinato,  nell'autore  e  per  contraccolpo 
nello  stampatore,  da  seri  motivi  di  convenienza  personale,  motivi  che 
Gentile,  come  ho  ricordato,  non  ha  mancato  di  citare,  senza  tuttavia 
cercare  di  identificarli  e  di  spiegarli.  Per  parte  mia,  sostengo  che,  es- 
sendo stato  il  primo  folio  composto  per  ultimo,  il  contenuto  dei  folio 
successivi  -  comprendenti  la  polemica  sarcastica  di  Bruno  contro 
l'orientamento  aristotelico  e  grammaticale  dell'università  di  Oxford, 
ma  anche,  con  prevedibili  eccezioni,  contro  la  stessa  società  londine- 
se —  era  venuto  nel  frattempo  a  conoscenza  degli  ambienti  intellet- 
tuali e  della  corte,  tanto  da  suscitare  il  risentimento  espresso  da  Bruno 
nella  sua  lettera  di  introduzione  al  primo  dialogo  della  Causa,  dove  si 
dichiara  disposto  a  sopprimere  puramente  e  semplicemente  l'edizione 
della  Cena.  Comunque  sia,  è  concesso  supporre  che  il  contenuto  di 
questi  folio  già  stampati  fosse  noto  agli  amici  e  ai  protettori  di  Bruno 
citati  nell'esordio  del  primo  dialogo;  come  suggeriscono  alcune  dichia- 
razioni ulteriori  dello  stesso  autore,  questi  amici  non  apprezzarono 
forse  che  il  loro  nome  fosse  citato,  ancorché  in  modo  lusinghiero,  in 
un  contesto  fortemente  polemico  verso  la  cultura  e  la  società  inglesi.  Il 
tenore  dell'opera  fu  certamente  noto  a  John  Florio  (rappresentante 
della  cultura  italiana  a  Londra,  autore  di  dizionari  anglo-italiani  e, 
pare,  amico  di  Shakespeare)  che  risiedeva  come  Bruno  presso  l'amba- 
sciatore di  Francia,  in  qualità  di  tutore  delle  giovanissime  figlie  di 
quest'ultimo.  Era  ormai  impossibile,  e  troppo  costoso,  ricomporre  i  fo- 
lio già  stampati;  Bruno,  del  resto,  non  desiderava  certamente  rinun- 
ciare alla  sua  polemica,  ma  riuscì  ad  approfittare  delle  cinque  pagine 
bianche  del  primo  folio  per  rimediare,  quanto  meno,  alle  imprudenti 


234  NOTA  FILOLOGICA 

citazioni  contenute  nell'inizio  del  dialogo  I.  Prima  variante  riguar- 
dante i  nomi  propri:  la  soppressione  del  qualificativo  «studioso  gen- 
til'huomo»  applicato  all'interlocutore  «Smitho»,  vale  a  dire  a  uno 
Smith  che  oggi  non  è  possibile  identificare  tra  gli  omonimi  contempo- 
ranei di  Bruno,  ma  che  allora,  grazie  a  questo  qualificativo,  doveva 
essere  più  facilmente  riconoscibile.  Poiché  questo  interlocutore  ha  la 
funzione,  nel  dialogo,  di  spalleggiare  «Theophilo»  (cioè  Bruno  stesso), 
la  sua  identificazione  avrebbe  potuto  rivelarsi  imbarazzante  nel  con- 
testo che  abbiamo  illustrato.  È  significativo,  a  questo  proposito,  che 
l'altro  interlocutore  di  cui  Bruno  modifica  la  definizione  sia  «Frulla»: 
qualificato  come  «servitor  di  Smitho»  nella  redazione  primitiva,  non  è 
più  definito  nella  seconda.  Avendo  questo  domestico  la  funzione,  se- 
condo l'uso  della  commedia  italiana,  di  mettere  in  evidenza  la  sempli- 
cità e  l'ignoranza  di  «Prudentio  Pedante»  (non  si  deve  dimenticare 
che  «Prudentio»,  nel  dialogo,  rappresenta  l'orientamento  aristotelico  e 
grammaticale  dell'università  di  Oxford  a  quell'epoca),  Bruno  dovette 
evitare  anche  in  questo  caso  di  mettere  troppo  esplicitamente  in  causa 
quegli  inglesi  il  cui  circolo  probabilmente  frequentava.  In  compenso, 
le  definizioni  dei  personaggi  «Theophilo»  e  «Prudentio»  come  «Philo- 
sopho»  e  «Pedante»  rimangono  immutate;  «Prudentio»,  il  cui  nome 
sembra  in  certo  modo  anticipare  quello  di  «Simplicio»,  di  galileiana 
memoria,  è  infatti  l'unico  interlocutore  opposto  alle  teorie  di  Coper- 
nico e  di  Bruno.  Viene  eliminata  qualunque  allusione  alla  «casa  del- 
l'illustrissimo ambasciatore  di  Francia»,  dove  risiedeva  il  filosofo; 
viene  eliminato  anche  il  riferimento  al  luogo  in  cui  «messer  Florio»  e 
«maestro  Guin»  (il  gallese  Matthew  Gwinne)  si  erano  recati  per  invi- 
tarlo a  esporre  le  sue  teorie  a  un  personaggio  della  corte,  non  nomi- 
nato nella  prima  e  nella  seconda  edizione  di  questo  inizio,  ma  inden- 
tificato  da  un  brano  difficile  della  Proemiale  epistola  come  Fulke  Gre- 
ville,  amico  e  biografo  di  Philip  Sidney  e  anch'egli  poeta. 

Per  ben  comprendere  la  prudenza  che  impose  queste  diverse  mo- 
difiche, bisogna  tenere  presente  quanto  ho  già  detto  a  proposito 
delle  circostanze  del  trasferimento  di  Bruno  in  Inghilterra  e  delle 
sue  prime  esperienze  inglesi.  Quanto  alle  mie  osservazioni  sulle  va- 
rianti subite  dai  nomi  propri  (osservazioni  precedentemente  esposte 
in  una  serie  di  lezioni  di  critica  testuale  bruniana  tenute  nel  1988 
alla  Scuola  di  Studi  Superiori  dell'Istituto  Italiano  per  gli  Studi 
Filosofici  di  Napoli),  vorrei  integrarle  oggi  in  riferimento  a  un'opera 
recente  di  Michele  Ciliberto  che,  nel  suo  Giordano  Bruno  (Roma-Bari, 
Laterza,  1990,  pp.  56-58),  si  interroga  sulla  seconda  redazione  del- 
l'inizio del  primo  dialogo  e  tenta  di  precisarne  la  funzione.  Ecco  di 


NOTA  FILOLOGICA 


235 


seguito  alcuni  brani  utili  alla  dimostrazione,  a  cominciare  dalle  re- 
pliche in  cui  si  rivela  l'appartenenza  all'ambiente  universitario  dei 
due  avversari  del  «Nolano»,  all'epoca  della  discussione  che  ebbe 
luogo  il  mercoledì  delle  Ceneri  1584: 


Biw 

Smitho.  Dottori  anch'essi? 
Frulla.  Messer  si,  Madonna  sì, 
padre    sì,    madesì,    dottori    an- 
ch'essi, et  bisognava  che  fussero 
personaggi  d'importanza 


Smitho.  Dottori? 

Theofilo.    Messer   sì,   Padre   sì, 

Madonnasì,     Madesì;     credo     da 

Oxonia. 


Come  nota  M.  Ciliberto,  Bruno  intende  sottolineare  «che  è  contro 
l'ambiente  oxoniense  che  si  rivolge  la  sua  critica,  non  contro  tutta  la 
cultura  inglese».  Ugualmente,  attenuando  il  tono  della  sua  polemica 
anti-cristiana,  il  filosofo  si  sforza  di  rendere  accettabile  alla  società  in- 
glese un  testo  il  cui  scopo  principale  è  quello  di  enunciare  una  nuova 
cosmologia: 


A  yv 

Doi  furono  le  misteriose  cavalca- 
ture del  nostro  Redentore,  che  si- 
gnificano il  suo  antico  credente 
Hebreo  et  il  novello  Gentile... 


Bi  r-i» 

Il  nostro  redentore  nacque  in 
mezzo  di  due  animali  l'cisino  et  il 
bue.  Trionfò  sopra  due  montature 
l'asina  et  il  pullo,  che  come  di- 
cono i  santi  dottori  significano  il 
popolo  hebreo  et  il  gentile,  che 
erano  per  credergli.  Visse  tra  due 
generationi,  Giudei  et  Samaritani. 
Morse  tra  due  villani  Dimas,  et 
Gestas,  et  cossi  discorrendo  per 
scala  del  binario  fino  a  I'Ite  et  il 
Venite  del  giorno  del  giuditio... 


Più  avanti,  Ciliberto  nota  una  variante  a  proposito  di  Copernico. 
Se,  da  un  lato,  l'astronomo  appare  in  primo  piano,  dall'altro  viene  re- 
lativizzato rispetto  al  filosofo,  i  cui  «paradossi»  consistono  nel  ripristi- 
nare l'antica  sapienza: 


B2W 

Sono  già  circa  quindeci  giorni 
passati  che  essendo  il  Nolano  in 
casa  dell'illustrissimo  ambascia- 
tor  di  Francia:  li  venne  messer 
Florio  insieme  con  maestro  Guin 


A8  V 

Ai  dì  passati  vennero  doi  al  No- 
lano da  parte  d'un  regio  scudie- 
ro facendogl'intendere  qualmente 
colui  bramava  sua  conversazione 
per  intender  il  suo  Copernico  et 


236  NOTA  FILOLOGICA 

da  parte  d'un  gentiruomo  regio  altri  paradossi  di  sua  nova  filoso- 
scudiero  (...)  e  gli  dissero  qual-  fia. 
mente  colui  era  desideroso  de  la 
sua  conversazione,  specialmente 
per  brama  che  egli  aveva  de  in- 
tendere le  raggioni  del  moto  de  la 
terra,  et  altri  paradossi  che  costui 
fermamente  approvava;  gion- 
gendo  a  questo,  che  quello  era 
molto  cupido  d'intendere  i  con- 
cetti del  Copernico. 

Riferendomi  al  secondo  brano  citato,  vorrei  far  osservare  che  se 
l'attenuazione  della  polemica  anti-cristiana  è  evidente,  questa  pru- 
denza sembra  applicarsi  all'ambiente  cattolico  dell'ambasciata  di 
Francia,  di  cui  il  filosofo  era  ospite,  piuttosto  che  all'ambiente  prote- 
stante dell'università  o  della  corte.  Il  motivo  dell'asino,  infatti,  che 
nella  Cena  prelude  alla  satira  anti-pedante  (anti-umanistica,  anti-teo- 
logica e,  nel  caso  specifico,  anti-protestante),  si  amplia  in  seguito  nella 
nuova  redazione.  Quest'ultima,  di  conseguenza,  ha  dovuto  seguire  di 
poco  la  precedente:  non  essendo  ancora  entrato  in  contatto  diretto  con 
personaggi  della  corte  elisabettiana.  Bruno  non  si  sentiva  tenuto  a  mo- 
derare la  sua  satira  anti-protestante.  Altra  variante,  resa  possibile 
dallo  spazio  supplementare  disponibile:  inserire  una  lunga  invoca- 
zione alle  Muse,  nella  fattispecie  quelle  giovani  inglesi  alle  quali  l'au- 
tore dichiara  la  sua  passione  attraverso  trasparenti  metafore  sessuali 
tratte  in  parte  da  Tansillo  e  dalla  Priapea  di  Nicolò  Franco. 

In  occasione  della  seconda  edizione  delle  Opere  italiane.  Gentile 
non  mancò  di  pubblicare,  allegata  al  primo  volume  (1925),  la  Prima 
redazione  del  principio  della  Cena  de  le  ceneri;  nella  prefazione,  ringra- 
ziava Luigi  Russo  e  «il  doti  Angelo  Bruschi»  di  avere  collazionato  per 
lui  la  copia  Guicciardini  della  Causa  (Biblioteca  Nazionale  Centrale  di 
Firenze),  mentre  «la  Cena  e  il  De  Vinfinito  sono  stati  rivisti  sugli  arche- 
tipi della  Nazionale  di  Napoli»  (p.  XXII).  Quanto  ai  Dialoghi  morali, 
ringraziava  Vincenzo  Spampanato  della  «più  rigorosa  revisione  del  te- 
sto, accuratamente  riscontrato  con  le  stampe  originali.  Poiché  oltre  le 
edizioni  del  1584  e  del  1585  dello  Spaccio  e  degli  Eroici  furori,  posse- 
dute dalla  Biblioteca  nazionale  di  Napoli,  si  è  potuta  questa  volta  te- 
ner presente  una  riproduzione  fotografica  della  Cabala,  tratta  dal- 
l'esemplare che  si  conserva  nella  Biblioteca  Centrale  di  Zurigo»  (p. 
XIV).  Spampanato,  infine,  nell'introduzione  alla  seconda  edizione  del 
Candelaio,  dichiarava:  «un'oculata  collazione  con  le  vecchie  stampe  mi 


NOTA  FILOLOGICA  237 

ha  porta  l'occasione  di  scoprire  nuove  piccole  mende  sfuggitemi  nel 
1909,  e  di  emendarie»  (p.  XXVI);  indicava  anche  la  segnatura  di  tre 
esemplari  napoletani,  conservati  rispettivamente  nelle  biblioteche 
Universitaria,  Nazionale  e  Lucchesiana  (p.  XI). 

L'annuncio  della  scoperta  di  Gentile  —  l'inizio  del  primo  dialogo 
della  Cena  —  data  del  1908,  come  si  è  detto.  Bisogna  in  seguito  atten- 
dere il  1950  per  sentir  parlare  di  altre  varianti  nelle  opere  di  Bruno. 
Nel  frattempo,  i  ricercatori  sono  rimasti  sulle  generali;  Leonardo  01- 
schki,  per  esempio,  nota  che  «gli  esemplari  conservatici  hanno  l'im- 
portanza di  veri  e  proprii  codici»  e  che  «Bruno,  dopo  di  aver  improv- 
visati i  suoi  dialoghi  colla  fretta  che  gli  era  abituale,  vi  trovava  ancora 
qualche  cosa  da  mutare  a  stampa  compiuta».  Aggiunge  che  «opportu- 
namente dunque  la  biblioteca  universitaria  di  Heidelberg  conserva  gli 
archetipi  bruniani  nel  fondo  de'  manoscritti»  (La  Bibliofilia,  XXVI, 
1925,  pp.  372-374).  Due  anni  più  tardi,  in  una  recensione  della  Biblio- 
grafici di  Bruno  a  opera  di  Virgilio  Salvestrini  (Pisa,  1926)  -  primo 
tentativo  di  localizzazione  delle  prime  edizioni  di  Bruno  che  ci  riman- 
gono —,  Antonio  Bruers  segnalava  che  il  suo  «amico  Angelo  Marzorati 
di  Roma,  uno  dei  più  esperti  bibliofili  d'Italia  e  grande  ammiratore 
del  Bruno»,  era  riuscito  a  raccogliere  numerose  edizioni  originali  delle 
opere  italiane  e  latine  di  questo  autore  (cfr.  il  Giornale  Storico  della 
letteratura  italiana,  XC,  2°  semestre  1927,  pp.  181- 183).  Marzorati  mori 
nel  1931;  l'anno  successivo  fu  pubblicata  a  Bologna  dalle  Librerie  Ita- 
liane Riunite,  con  una  prefazione  di  Bruers,  La  Biblioteca  Marzorati, 
cioè  un  catalogo  degli  esemplari  appartenuti  al  bibliofilo  che,  quel- 
l'anno, venivano  messi  in  vendita.  Fu  allora  che  Bruers  riuscì,  con  il 
sostegno  di  Giovanni  Gentile,  a  far  acquisire  dal  ministero  compe- 
tente, a  beneficio  della  Biblioteca  Nazionale  Centrale  di  Roma,  le 
prime  edizioni  delle  opere  italiane  di  Bruno  iscritte  in  quel  catalogo:  il 
Candelaio,  la  Cena,  l'Infinito  e  i  Furori.  È  curioso  notare  che  né  Marzo- 
rati  né  Bruers  né  Gentile  si  accorsero  che  almeno  uno  degli  esemplari 
in  questione  conteneva  delle  varianti  d'autore.  Nella  prefazione  prece- 
dentemente citata,  Bruers  aveva  osservato  tutt'al  più  —  il  che  è  piut- 
tosto comico  -  che  sul  frontespizio  dei  Furori  «  il  nome  di  Sidneo,  Phil- 
lippo,  nell'esemplare  collazionato,  è  corretto  in  Philippo  e  che  non  vi  è 
tra  la  parola  Anno  e  la  data  158$  il  punto  che  si  vede  nella  copia 
riprodotta  da  Silvestrini».  Ma,  se  si  era  accorto  dell'assenza  di  questo 
punto,  non  aveva  notato  che  l'esemplare  della  Cena  acquisito  per  la 
Biblioteca  Nazionale  di  Roma  conteneva  enormi  varianti  d'autore. 

Per  parte  mia,  sotto  il  titolo  «La  lezione  definitiva  della  Cena  de  le 
Ceneri  di  Giordano  Bruno»,  ho  pubblicato  nel  1950  negli  Atti  dell'Ac- 
cademia Nazionale  dei  Lincei  (Claisse  di  Scienze  morali,  storiche  e  filo- 


238  NOTA  FILOLOGICA 

logiche,  serie  Vili,  voi.  Ili,  fase.  4)  una  comunicazione  che  doveva  ser- 
vire da  base,  cinque  anni  più  tardi,  alla  mia  edizione  della  Cena  (To- 
rino, Einaudi,  1955).  Questa  edizione,  «critica»  per  l'epoca,  aveva 
potuto  avvalersi  di  ricerche  condotte  a  Parigi  e  a  Londra  sotto  la  di- 
rezione rispettivamente  di  Augustin  Renaudet  e  di  Frances  A.  Yates; 
essa  si  fondava  essenzialmente  sul  volume  romano  stampato  e  mano- 
scritto con  segnatura  71.11.A.17.  Oltre  al  testo  stampato  del  folio  D 
(corrispondente  all'incirca  al  secondo  dialogo  e  all'inizio  del  terzo), 
questo  esemplare  ci  restituisce  manoscritta  una  seconda  redazione,  co- 
piata da  un  esemplare  stampato  che  era  appartenuto  al  bibliofilo  scoz- 
zese Thomas  Rawlinson  (1681-1725).  La  trascrizione  manoscritta  di 
questa  nuova  redazione,  così  come  le  varianti  rispetto  allo  stampato, 
datano  del  XVIII  secolo.  All'epoca  della  mia  edizione,  non  era  ancora 
stato  ritrovato  nessun  esemplare  che  presentasse,  sotto  forma  stam- 
pata, i  brani  manoscritti  dell'esemplare  romano.  Spetta  a  Roberto  Tis- 
soni  il  merito  di  avere  segnalato,  in  una  prima  comunicazione  su  «Lo 
sconosciuto  fondo  bruniano  della  Trivulziana»  (pubblicata  negli  Atti 
della  Accademia  delle  Scienze  di  Torino,  classe  di  scienze  morali  ecc., 
xeni,  1958-1959,  pp.  459-468,  poi  precisata  in  un  altro  articolo,  «Sulla 
redazione  definitiva  della  Cena  de  le  ceneri»  pubblicato  nel  Giornale 
storico  della  letteratura  italiana,  CXXXVI,  1959,  pp.  558-563),  l'esistenza 
di  un  tale  esemplare  nella  Biblioteca  Trivulziana  di  Milano  (Triv.  L. 
594),  l'unico  noto  fino  a  oggi;  sempre  Tissoni  ha  indicato  alcune  diver- 
genze, per  quanto  riguarda  la  nuova  redazione  del  folio  D,  rispetto  alla 
trascrizione  del  XVIII  secolo  del  volume  romano,  a  cui  si  deve  ormai 
applicare  il  criterio  delV eliminatio  codicum  descriptorum.  Per  la  prima 
volta  dopo  il  1584,  si  troverà  nella  presente  edizione  il  testo  della  Cena 
riprodotto  direttamente  sulla  base  della  stampa  che  Bruno  in  persona 
aveva  sottoposto  a  revisione. 

La  seconda  redazione  dell'inizio  del  dialogo  I,  come  si  è  visto,  indi- 
cava che  era  tréiscorso  un  breve  lasso  di  tempo  dalla  redazione  primi- 
tiva. Più  significative  sono  le  modifiche  apportate  dalla  revisione  del 
secondo  dialogo  e  dell'inizio  del  terzo:  a  parte  alcune  varianti  di  por- 
tata stilistica  o  retorica  (come  la  citazione  del  libro  I  delle  Georgiche  di 
Virgilio,  vv.  197-203,  con  tuttavia  l'omissione  del  secondo  emistichio 
del  secondo  verso  e  dell'intero  terzo  verso  e  l'alterazione  non  solo  sin- 
tattica ma  anche  semantica  che  ne  risulta),  queste  modifiche  ci  forni- 
scono degli  elementi  sulla  posizione  ideologica  di  Bruno  in  Inghilterra. 
Eccone  alcuni: 

-  dalla  riga  30  della  pagina  33  alla  riga  13  della  pagina  35,  nella 
redazione  stampata  primitiva,  è  stata  eliminata  una  critica  dell'atteg- 
giamento politico  dei  prìncipi  verso  i  loro  sudditi.  Benché  compensata 


NOTA  FILOLOGICA  239 

dal  brano  compreso  tra  le  righe  da  6  a  20  della  pagina  34  nella  nuova 
edizione  stampata,  che  è  di  carattere  discorsivo  e  comico,  questa  eli- 
minazione ha  anche  come  effetto  di  sacrificare  la  critica  di  Bruno  nei 
confronti  dei  contenuti  bassi  del  genere  classico,  di  cui  forniva  esempi 
tratti  dal  Moretum  e  dal  Culex  pseudo-virgiliani  così  come  dalla  Nux 
elegeia;  risultava  sacrificata  anche  la  critica  del  genere  bernesco  a  cui 
Bruno  stesso  non  aveva  tuttavia  mancato  di  ricorrere.  Questa  modifica 
permette  già  di  supporre  che  al  momento  della  revisione  Bruno  si 
fosse  maggiormente  rivolto  verso  gli  ambienti  aristocratici  della  corte, 
il  che  rendeva  ormai  inopportuna  la  critica  dei  principi. 

-  Fu  eliminato  anche  un  brano  in  cui  i  futuri  avversari  del  filo- 
sofo, chiamati  più  avanti  «Nundinio»  e  «Torquato»,  erano  paragonati 
agli  asini  della  Bibbia.  Se  è  vero  che  la  metafora  asinina  permette  qui 
di  designare  dei  rappresentanti  della  religione  riformata,  è  forse  che 
alla  corte  di  Elisabetta  Bruno  frequentava  sempre  più  i  circoli  puri- 
tani e  protestanti  (come  sottolinea  Michele  Ciliberto  ne  La  ruota  del 
tempo,  Roma,  Editori  Riuniti,  1986);  questo  punto  apparirà  più  chiara- 
mente in  altre  varianti. 

-  Se  si  notano  dalla  pagina  35  (riga  13)  alla  pagina  36  (riga  12) 
delle  varianti  espressive  e  discorsive  senza  importanza,  è  dalla  riga  13 
della  pagina  36  alla  riga  23  della  stessa  pagina  (sempre  riferendosi  alla 
stampa  primitiva  del  folio  D)  che  si  trova  la  variante  più  notevole, 
che  dovette  indurre  per  estensione  alla  revisione  di  tutto  il  folio.  La 
redazione  primitiva  presentava  il  testo  che  segue: 

Quivi  (bench'io  come  particolare  non  le  conosca,  né  abbia  pensiero  di 
conoscerli)  odo  tanto  nominar  gl'illustrissimi  et  eccellentissimi  cavallieri, 
un  gran  tesorier  del  regno,  e  Roberto  Dudleo,  conte  di  Licestra,  la  genero- 
sissima umanità  di  quali  è  tanto  conosciuta  dal  mondo,  nominata  insieme 
con  la  fama  della  Regina  e  regno,  tanto  predicata  ne  le  vicine  provinzie, 
come  quella  ch'accoglie  con  particolar  favore  ogni  sorta  di  forastiero,  che 
non  si  rende  al  tutto  incapace  di  grazia  et  ossequio. 

L'espressione  «un  grand  tesorier  del  regno»  indica  il  lord  treasurer, 
William  Cecil,  barone  Burghley  dal  1572;  l'altro  personaggio  è  Robert 
Dudley,  conte  di  Leicester,  favorito  della  regina.  Fondandomi  sui  dati 
della  storiografia  inglese,  credo  possibile  affermare  che  se  Cecil  non  si 
era  mostrato  contrario  alla  regina  nel  suo  tentativo  di  servirsi  a  suo 
vantaggio  dell'influenza  francese  nei  Paesi  Bassi,  intraprendendo  delle 
trattative  matrimoniali  con  il  duca  di  Anjou,  fu  la  corrente  puritana, 
di  cui  Leicester  era  il  principale  rappresentante  a  corte,  che  impedì  la 
riuscita  di  tali  negoziati.  D'altra  parte,  Cecil  non  poteva  permettersi  di 
indebolire  il  movimento  puritano  militante  di  fronte  all'atteggiamento 
aggressivo  dei  cattolici.  Fu  proprio  nel  1584  che  Guglielmo  d'Orange 


240  NOTA  FILOLOGICA 

doveva  essere  assassinato  e  solo  l'anno  successivo  Cecil  si  decise  a  so- 
stenere la  spedizione  di  Leicester  nei  Paesi  Bassi.  Ma  il  1584  fu  anche 
l'anno  dell'apparizione  dell'opuscolo  noto  sotto  il  titolo  di  Leicester's 
Commonwealth,  dovuto  forse  alla  penna  di  un  polemista  cattolico,  ma 
che  non  è  da  escludersi  fosse  stato  ispirato  da  Cecil  stesso.  Leicester, 
membro  della  setta  puritana,  era  diventato  il  capo  di  quei  protestanti 
che,  in  materia  di  politica  estera,  avrebbero  preferito  un'azione  ener- 
gica nei  confronti  della  Spagna  e  che,  in  politica  intema,  erano  parti- 
giani della  repressione  anti-cattolica  (tuttavia,  proprio  a  quell'epoca, 
non  mancò  di  esercitare  lui  stesso  un'influenza  moderatrice  di  fronte 
al  puritanesimo  radicale,  come  sembra  indicare  la  documentazione 
raccolta  da  Patrick  Collinson  in  The  Elizabethan  Puntati  Movement, 
Londra,  Jonathan  Cape,  1967).  La  redazione  originale  del  brano  riflette 
l'equidistanza  diplomatica  di  Bruno  tra  due  correnti  politico-corti- 
giane di  cui  non  aveva  ancora,  a  suo  dire,  incontrato  di  persona  i 
principali  rappresentanti.  Tra  le  due,  lo  si  sarebbe  potuto  supporre 
portato  piuttosto  verso  quella  di  cui  Cecil  era  il  capo  e  la  cui  linea 
moderata  si  traduceva,  in  politica  estera,  in  una  certa  francofilia.  Tut- 
tavici,  la  redazione  definitiva  ha  modificato  il  brano  come  segue: 

Non  te  si  offre  occasione  di  parlar  de  la  generosissima  umanità  de  l'il- 
lustrissimo monsignor  conte  Roberto  Dudleo,  conte  di  Licestra  etc,  tanto 
conosciuta  dal  mondo,  nominata  insieme  con  la  fama  del  regno  e  la  regina 
d'Inghilterra  ne'  circostanti  regni;  tanto  predicata  da  i  cuori  di  generosi 
spirti  italiani  quali  specialmente  da  lui  con  particolar  favore  (accompa- 
gnando quello  de  la  sua  signora)  son  stati  e  son  sempre  accarezzati. 

L'eliminazione  totale  del  riferimento  a  William  Cecil,  insieme  alla 
rivelazione  dell'ospitalità  ricevuta  dal  filosofo  presso  il  conte  di  Leice- 
ster (suggerita  dal  riferimento  alla  moglie  di  quest'ultimo)  costituisce, 
a  tutt'oggi,  l'unico  indizio  di  un  eventuale  impegno  politico-religioso 
di  Bruno  in  Inghilterra  o,  quanto  meno,  di  una  presa  di  posizione  tat- 
tica. Subito  dopo  il  brano  riportato  sopra,  invece,  rimane  invariata  la 
citazione  deir« eccellentissimo  signor  Francesco  Walsingame,  gran  se- 
cretario  del  regio  Conseglio».  Benché  puritano  convinto  e  organizza- 
tore di  operazioni  poliziesche,  tra  cui  la  sorveglianza  degli  stranieri 
presenti  sull'isola,  applicò  le  decisioni  della  regina  anche  quando  non 
coincidevano  con  il  suo  protestantesimo  radicale.  Per  tacere  delle  ra- 
gioni comprensibili  che  indussero  Bruno  alla  prudenza,  il  manteni- 
mento della  citazione  di  questo  personaggio  nell'ultima  redazione 
sembrerebbe  confermare,  dopo  il  riferimento  ampliato  e  particolareg- 
giato a  Leicester,  una  svolta  filo-protestante  da  parte  di  Bruno,  almeno 
a  questo  stadio  del  suo  soggiorno  inglese.  Non  è  un  caso  che  venga 


NOTA  FILOLOGICA  24I 

mantenuto,  in  quanto  segue,  il  riferimento  a  Philip  Sidney:  nipote  di 
Leicester,  nel  1583  era  diventato  genero  di  Walsingham  e  la  sua  fede 
calvinista  era  ben  nota,  anche  se  esaltando  soprattutto  lo  «spirito»  e  le 
«maniere»  del  giovane  cortigiano  Bruno  sembrava  alludere  piuttosto 
al  suo  gusto  per  l'attività  letteraria  Così  stando  le  cose,  se  i  nomi  di 
Leicester  e  di  Walsingham  non  saranno  più  ripetuti  nell'opera  di 
Bruno,  Sidney  riapparirà  invece  come  destinatario  della  dedica  dei 
due  dialoghi  successivi  di  Bruno,  lo  Spaccio  (1584)  e  i  Furori.  (1585).  È 
tuttavia  proprio  la  sparizione  di  questi  due  nomi  a  convalidare  l'ipo- 
tesi di  Ciliberto,  secondo  la  quale  Bruno  nutrì  per  un  periodo  l'illu- 
sione (riflessa  dalla  versione  tardiva  del  folio  D  della  Cena)  di  un  pos- 
sibile «terreno  di  compromesso»  con  l'ambiente  puritano,  «cercando, 
anzi,  di  mettersi  sotto  la  protezione  di  Robert  Dudley,  conte  di  Leice- 
ster» {La  ruota  del  tempo,  cit,  p.  50).  Le  altre  varianti,  nel  folio  D  della 
Cena,  tendono  anch'esse  a  smussare  le  punte  polemiche  contro  la  reli- 
gione riformata  -  il  che,  nonostante  l'ambigua  apologia  contenuta  nel 
primo  dialogo  della  Causa,  non  ha  affatto  impedito  a  Bruno  di  ripren- 
dere ulteriormente  i  suoi  attacchi,  soprattutto  nello  Spaccio  e  nella 
Cabala. 

Nel  lungo  brano  che  segue  il  riferimento  a  Sidney,  cioè  dalla  pa- 
gina 37,  riga  IO,  alla  pagina  43,  riga  26  delle  copie  che  offrono  la  re- 
dazione divulgata,  si  trovano  soprattutto  varianti  e  sostituzioni  pura- 
mente formali  e  stilistiche.  Tuttavia,  almeno  quattro  interventi  vanno 
nel  senso  del  «compromesso»  di  cui  ho  parlato: 

-  pagina  40,  riga  27  del  folio  originale,  sono  eliminate  le  parole  In 
Roma  al  Campo  di  Flora  (senza  che  sia  modificata  l'economia  della  pa- 
gina). Si  trattava  dell'ultima  di  una  serie  di  indicazioni  di  luoghi  dove 
potevano  incontrarsi  gli  sfaccendati  in  alcune  grandi  città  europee  del 
tempo  (Londra,  Parigi,  Napoli  e  Venezia).  Eliminare  il  riferimento  al 
Campo  dei  Fiori  (proprio  la  piazza  dove,  come  è  noto,  sedici  anni  più 
tardi  Bruno  doveva  subire  il  suo  orrendo  supplizio),  era  forse,  anche  in 
questo  caso,  un  modo  di  non  urtare  la  suscettibilità  puritana  inglese, 
che  poteva  essere  irritata  da  una  semplice  allusione  a  Roma. 

-  Nel  mio  commento  alla  Cena  (1955),  esitavo  ancora  sul  caso  di  M. 
Alessandro  Citolino  (pagina  42,  righe  365  della  redazione  primitiva  del 
folio  D).  Esule  italiano  in  Inghilterra,  autore  di  opere  mnemotecniche 
e  di  una  grammatica  italiana,  nato  all'incirca  nel  1500  a  Serravalle 
delle  Alpi  (oggi  Città  Vittorio),  Citolino  era  stato  raccomandato  a  al- 
cuni personaggi  della  corte  elisabettiana,  così  come  alla  stessa  regina, 
tra  il  1565  e  il  1568,  da  Johan  Sturm  di  Strasburgo,  e  in  numerose 
occasioni  incaricato  dalla  corte  di  Inghilterra  di  delicate  missioni  di- 
plomatiche. Le  ultime  informazioni  che  possediamo  di  lui  sono  prò- 


242  NOTA  FILOLOGICA 

prie  quelle  fomite  da  Bruno  in  questa  pagina  della  Cena.  A  proposito 
della  violenza  della  plebe  londinese  verso  gli  stranieri  -  soprattutto, 
possiamo  supporre,  se  di  tipo  meridionale  -,  Bruno  riferisce  un  episo- 
dio che  dovette  svolgersi  nel  1583:  «ad  un  povero  messer  Alessandro 
Citolino»,  scrive  nella  prima  versione,  «con  riso  e  piacer  di  tutta  la 
piazza,  fu  rotto  e  fracassato  un  braccio».  La  nuova  redazione  racconta, 
in  modo  anonimo,  come  «un  povero  gentil'  uomo  italiano»  ebbe  la 
gamba  rotta.  All'epoca  del  mio  primo  commento  della  Cena  de  le  Ce- 
neri, queste  varianti  mi  sembravano  riflettere  uno  scrupolo:  Bruno 
avrebbe  esitato  a  inserire  in  un  brano  tragi-comico  il  nome  di  un  com- 
pagno di  esilio  che,  a  oltre  ottant'anni  e  con  un  braccio  rotto  -  senza 
contare  che  era  letteralmente  «povero»,  come  indicano  due  lettere  da- 
tate del  1573  e  1574,  di  cui  la  seconda  è  rivolta  alla  regina  Elisabetta 
in  persona  -,  avrebbe  potuto  non  sopravvivere  alla  sua  disavventura. 
Benché  non  si  possiedano  ulteriori  informazioni  sul  suo  conto  (il  che 
potrebbe  confermare  quest'ultimo  punto),  sarei  oggi  incline  a  credere 
che  simili  varianti,  dissimulando  l'identità  della  vittima,  vadano  nello 
stesso  senso  delle  precedenti,  ovvero  evitino  di  offendere  la  suscettibi- 
lità di  personaggi  di  spicco  della  corrente  riformata  in  Inghilterra. 
Non  si  può  escludere  neppure  che  Citolino,  se  era  ancora  in  vita  tra  la 
prima  e  la  seconda  redazione,  si  sia  lagnato  di  vedere  il  suo  nome 
usato  in  una  satira  della  società  che  lo  accoglieva  e  di  cui  condivideva 
le  idee,  sia  religiose  sia  politiche. 

-  Dalla  pagina  42,  riga  15,  alla  pagina  43,  riga  16  della  versione 
originale,  la  metafora  asinina  è  stata  sostituita  da  un  brano  umori- 
stico, che  prosegue  la  descrizione  della  traversata  notturna  di  landra 
da  parte  del  «Nolano»  e  dei  suoi  compagni.  Nuovo  esempio  di  auto- 
censura: durante  la  fase  ottimistica  della  sua  esperienza  inglese,  pro- 
prio dopo  la  redazione  primitiva  del  secondo  dialogo  della  Cena, 
Bruno  intendeva  rimediare  agli  eccessi  della  sua  polemica  contro  la 
Riforma. 

—  La  sua  intenzione  appare  ancora  più  evidente  laddove  sopprime 
(dalla  pagina  44,  riga  24  alla  pagina  45,  riga  27)  il  brano  che  contiene 
la  descrizione  realistica,  se  non  addirittura  ripugnante,  di  quel  «cere- 
monio  di  quell'urciuolo,  o  becchieri,  che  suole  passar  per  la  tavola,  a 
mano  a  mano,  da  alto  a  basso,  da  sinistra  a  destra,  et  altri  lati,  senza 
altro  ordine  che  di  conoscenza  e  cortesia  da  montagne»»  Descrivere 
questo  «ceremonio»,  come  ha  suggerito  F.  Yates,  significava  criticare  il 
rito  eucaristico  protestante  così  come  era  praticato  «negli  ambienti  più 
bassi»  (nozione  che  sembra  anticipare  quella  di  una  «low  church»,  più 
rigorosamente  protestante  di  una  «high  church»  non  troppo  lontana 
dal  rituale  e  dalla  gerarchia  cattolici). 


NOTA  FILOLOGICA  243 

—  Alla  fine  del  secondo  e  all'inizio  del  terzo  dialogo,  altre  varianti 
sembrano  prive  di  implicazioni  politico-religiose,  salvo  che  le  repliche 
finali,  dopo  le  modifiche,  insistono  sul  fatto  che  il  dibattito  del  merco- 
ledì delle  Ceneri  abbia  luogo  presso  un  alto  personaggio  inglese  (ulte- 
riore alibi,  forse,  destinato  a  coprire  con  diplomazia  l'ambasciatore  di 
Francia  di  cui  Bruno  era  ospite). 

Gli  altri  dialoghi 

Per  la  terza  edizione  dei  «dialoghi  metafisici»  e  dei  «dialoghi  mo- 
rali» di  Gentile,  sotto  il  nuovo  titolo  generale  di  Dialoghi  italiani  (San- 
soni, Firenze,  1958),  ho  potuto  avvalermi  delle  nuove  informazioni  ap- 
portate dopo  la  seconda  edizione,  così  come  della  verifica  delle  fonti. 
Prima  di  questa  data,  un  unico  dialogo  era  stato  pubblicato  indipen- 
dentemente dai  testi  di  Lagarde  e  di  Gentile:  De  gl'heroici  furori  {Des 
fureurs  héroiques),  testo  stabilito  e  tradotto  da  Paul-Henri  Michel,  Pa- 
rigi, Les  Belles  Lettres,  1954.  Questa  edizione  sembra  avere  tenuto 
conto  di  almeno  due  degli  esemplari  dell'edizione  originale  dell'opera, 
conservati  rispettivamente  a  Parigi  alla  Bibliothèque  Mazarine  e  alla 
Bibliothèque  Nationale.  Michel  adotta  criteri  di  trascrizione  differenti 
e  alcune  soluzioni  che  si  allontanano  da  quelle  delle  edizioni  prece- 
denti, anche  se  nel  testo  da  lui  stabilito  non  si  riscontrano  varianti 
rispetto  al  testo  noto.  Fu  invece  una  ricerca  sul  corpus  latino  di  Bruno 
a  indurre  il  sottoscritto,  prima  del  1958,  alla  scoperta  di  due  dialoghi: 
l'Idiota  triumphans  e  il  De  somnii  interpretatione,  il  cui  testo  era  rimasto 
virtualmente  sconosciuto  nell'unico  esemplare  rimanente  dell'edizione 
parigina  del  1586,  alla  Bibliothèque  Nationale  di  Parigi.  Questi  dialo- 
ghi (Due  dialoghi  sconosciuti  e  due  dialoghi  noti:  Idiota  triumphans.  De 
somnii  interpretatione,  Mordentius,  De  Mordentii  circino,  Roma,  Edizioni 
di  Storia  e  Letteratura,  1957)  escono  dai  limiti  della  presente  introdu- 
zione. Ma  gli  altri  due,  già  noti  attraverso  un  esemplare  conservato 
alla  Biblioteca  Nazionale  di  Torino,  permettono  di  notare  due  varianti 
d'autore.  L'una  si  trova  nel  testo  stesso,  l'altra  in  una  figura  geome- 
trica. Esse  confermano,  in  tutt'altro  contesto,  che  Bruno  aveva  l'abitu- 
dine non  solo  di  controllare  la  stampa  delle  sue  opere,  ma  anche  di 
introdurvi  delle  modifiche,  persino  durante  la  tiratura  di  un  folio.  È 
invece  inutile  attardarci  sul  secondo  recupero  di  un'opera  latina,  da 
me  pubblicata  (dopo  una  relazione  all'Accademia  dei  Lincei  nel  1962, 
intitolata  « Praelectiones  geometricae»  e  «Ars  deformationum»)  nel  1964 
presso  lo  stesso  editore:  oltre  a  esulare  dal  corpus  italiano  di  Bruno, 
quest'opera  ci  è  trasmessa  da  un  manoscritto  del  XVII  secolo. 

Essenzialmente  cosmografica,  la  Cena  de  le  Ceneri  non  si  oppone 


244  NOTA  FILOLOGICA 

soltanto  al  geocentrismo  aristotelico-tolemaico,  ma  supera  lo  stesso 
eliocentrismo  copernicano  affermando  la  pluralità  dei  mondi  e  l'infi- 
nità dell'universo.  Fin  dal  principio,  il  sonetto  Al  malcontento  rivela  la 
natura  polemica  di  un'opera  che,  con  i  suoi  attacchi  contro  l'Univer- 
sità di  Oxford  e  la  sua  critica  dei  costumi  londinesi,  suscita  una  vio- 
lenta reazione  degli  ambienti  universitari  e  cittadini:  se  si  presta  fede 
alla  lettera  di  introduzione  e  al  primo  dei  cinque  dialoghi  della  Causa 

—  pubblicata  subito  dopo  la  Cena  -,  Bruno  divenne  l'oggetto  di  una 
persecuzione  in  piena  regola.  Senza  spingersi  fino  a  affermare,  con 
Gentile,  che  il  filosofo  fu  gettato  in  prigione,  si  noterà  che  nello  stesso 
periodo  alcuni  partigiani  fanatici  della  politica  anti-cattolica  si  abban- 
donarono a  una  serie  di  violenze  contro  il  personale  e  la  sede  stessa 
dell'ambasciata  di  Francia.  A  seguito  di  una  protesta  di  Castelnau 
presso  Walsingham,  si  può  ritenere  che  gli  impiegati  dell'ambasciata 

-  nel  cui  novero  doveva  figurare  anche  Bruno  in  qualità  di  «gentil' 
uomo»  dell'ambasciatore  -  poterono  vedere  ristabilita  la  loro  immu- 
nità diplomatica.  Questo  è  il  contesto,  a  mio  avviso,  che  chiarisce  la 
dichiarazione  di  Bruno  a  Castelnau,  nella  Proemiale  epistola  della 
Causa:  «io  per  tale  tanto  favore  da  voi  già  ricettato,  nodrito,  difeso, 
liberato,  ritenuto  in  salvo,  mantenuto  in  porto;  come  scampato  per  voi 
da  perigliosa  e  gran  tempesta».  Su  di  un  piano  piiì  personale,  la  pub- 
blicazione della  Cena  dovette  far  perdere  a  Bruno  molte  delle  simpatie 
che  era  riuscito  a  attirarsi  a  Londra.  Greville  dovette  mostrarsi  parti- 
colarmente scontento  di  essere  accusato,  nel  quarto  dialogo,  del  fatto 
che  «non  avea  fatto  provisione  de  meglior  suppositi».  Del  raffredda- 
mento nei  suoi  confronti.  Bruno  prenderà  atto  neìVEpistola  esplicatoria 
dello  Spaccio.  Tuttavia,  lo  scandalo  suscitato  dalla  pubblicazione  della 
Cena  lo  indusse  a  far  precedere  un  dialogo  a  tratti  apologetico  agli 
altri  quattro  già  composti  per  la  Causa,  ma  non  ancora  stampati:  in 
esso  Bruno  riprende  i  suoi  precedenti  attacchi  contro  l'orientamento 
grammaticale  e  il  conformismo  aristotelico  che  regnavano  nelle  uni- 
versità inglesi,  pur  ammettendo,  questa  volta,  alcune  eccezioni  e  di- 
chiarando di  ammirare  la  tradizione  di  Oxford  prima  della  Riforma.  Il 
primo  dialogo  della  Causa  si  distingue  dagli  altri  quattro  tanto  per  il 
suo  soggetto  e  il  suo  tono  stilistico  quanto  per  l'apparizione  di  nuovi 
interlocutori:  «Elitropio»  deve  essere  identificato  con  John  Florio, 
mentre  «Annesso»  potrebbe  indicare  il  gallese  Matthew  Gwinne.  Inol- 
tre, il  discepolo  londinese  di  Bruno,  lo  scozzese  Alexander  Dicson,  per- 
mette di  allargare  la  polemica  contro  la  cultura  accademica  inglese:  il 
filosofo  non  attacca  più  solo  Oxford,  come  nella  Cena,  ma  anche  Cam- 
bridge, almeno  implicitamente.  Questo  personaggio  che  Bruno  chia- 
ma «Arelio»  (e  che  si  designava  come  Arelius  nei  frontespizi  delle  sue 


NOTA  FILOLOGICA  245 

opere)  era  nato  nel  1558  nel  villaggio  di  Errol;  prima  di  recarsi  a  Lon- 
dra, dove  si  trovava  nel  1583  quando  Bruno  arrivò  in  Inghilterra,  era 
stato  scholar  —  noi  oggi  diremmo  «borsista»  —  di  Maria  di  Scozia  a 
Parigi.  Alla  corte  godette  anch'egli  del  patrocinio  di  Sidney  e  di  Leice- 
ster, ai  quali  dedicò  il  De  umbra  rationis  (pubblicato  con  la  data  del 
1583,  cioè  1584  in  stile  moderno),  opera  mnemotecnica  ispirata  al  De 
umbris  idearum  di  Bruno.  La  reazione  che  fece  seguito  alla  pubblica- 
zione del  De  umbra  non  mancò  di  mettere  in  discussione  le  prese  di 
posizione  metodologiche  dello  stesso  Bruno:  VAntidicsonus  (1584)  del 
teologo  puritano  William  Perkins,  ramista  di  Cambridge,  associa 
Bruno  e  Dicson  in  una  stessa  critica  del  metodo  mnemotecnico  clas- 
sico adottato,  nei  suoi  elementi  essenziali,  dai  suoi  due  avversari  e  op- 
posto al  metodo  logico  ramista.  Questa  polemica,  che  si  ampliò  con 
una  Defensio  di  Dicson  sotto  lo  pseudonimo  di  Heius  Scepsius,  seguita 
da  un  Libellus  de  memoria  di  Perkins,  testimonia  ulteriormente  dell'an- 
tiramismo  di  Bruno:  nel  terzo  dialogo  della  Causa,  questi  aveva  già 
trattato  Ramo  da  «francese  arcipedante». 

Sul  piano  politico-religioso,  non  bisogna  dimenticare  che  Dicson, 
anche  se  tardivamente,  svolse  un  ruolo  pratico  nelle  trattative  anglo- 
francesi a  proposito  del  matrimonio  della  regina  Elisabetta  e  del  duca 
di  Alengon:  partecipava  al  programma  dei  «politici»,  aperto  forse  alle 
aspirazioni  conciliatrici  dello  stesso  Bruno. 

Senza  entrare  nei  particolari,  poiché  ciascuna  delle  opere  italiane 
contenute  in  questa  edizione  è  preceduta  da  un'introduzione  specifica, 
si  può  dire  che  i  quattro  dialoghi  più  propriamente  speculativi  della 
Causa  hanno  per  oggetto  la  definizione  dei  tre  termini  del  titolo:  causa 
e  principio  si  intendono  analogicamente  come  la  «forma»  (o  «anima») 
e  la  «materia»  che,  indissolubilmente  unite,  formano  Vuno,  che  è  il 
«tutto».  Al  di  là  della  polemica  anti-aristotelica  e  del  ricorso,  soprat- 
tutto terminologico,  alla  tradizione  neoplatonica.  Bruno  riesce  a  for- 
nire una  base  teorica  originale  alla  cosmologia  che  aveva  già  enun- 
ciato, in  modo  drammatico,  nella  Cena  e  elaborato  poco  tempo  dopo 
ntW Infinito.  Quanto  alla  satira  anti-pedantesca,  essa  stavolta  prende  di 
mira  in  particolare  il  rigorismo  teologico  dei  riformati,  non  meno  del 
rigorismo  grammaticale  allora  dominante  a  Cambridge  come  a  Oxford. 
Composto  con  maggior  rigore  rispetto  alla  Cena,  il  dialogo  De  l'infinito, 
universo  et  mondi  (1584)  annuncia  la  polemica  che  Bruno  condurrà  in 
seguito  contro  i  matematici  suoi  contemporanei  (nelle  opere  latine  che 
vanno  dai  Dialogi  duo,  1586,  al  De  minimo,  1591).  Respingendo  la  teo- 
ria della  divisibilità  all'infinito,  egli  salvaguarda  la  concezione  atomi- 
sta; ma  sostenendo  contemporaneamente  l'infinità  dell'universo  e  la 
pluralità  dei  mondi,  cade  in  un  dilemma  matematico  che  emetterà 


246  NOTA  FILOLOGICA 

pienamente  nel  De  minimo.  D'altra  parte,  con  la  tesi  dell'infinito, 
Bruno  arriva  a  sviluppare  i  presupposti  cosmologici  e  teorici  annun- 
ciati nella  Cena,  dove  il  superamento  intuitivo  dell'eliocentrismo  co- 
pernicano aveva  già  trovato  come  alleato,  sul  piano  speculativo,  il 
concetto  di  infinito  elaborato  da  Niccolò  di  Cusa.  Aggiungendo  argo- 
menti teologici  agli  argomenti  logici.  Bruno  insiste  sul  principio  se- 
condo cui  una  causa  infinita  non  può  che  avere  un  effetto  infinito 
(vana  precauzione:  la  censura  ecclesiastica  vedrà  in  ciò  una  condizione 
di  natura  necessaria  nella  creazione  divina).  Non  è  un  caso  se  proprio 
in  quest'opera  si  trova  esplicitamente  formulato,  in  accordo  con  la  teo- 
ria averroista  esposta  da  Pomponazzi,  il  pensiero  di  Bruno  sul  rap- 
porto tra  la  filosofia  e  la  religione:  «(...)  da  questo  principio  depende 
che  gli  non  men  dotti  che  religiosi  teologi  giamai  han  pregiudicato 
alla  libertà  de'  filosofi;  e  gli  veri,  civili  e  bene  accostumati  filosofi  sem- 
pre hanno  faurito  le  religioni:  perché  gli  uni  e  gli  altri  sanno  che  la 
fede  si  richiede  per  l'instituzione  di  rozzi  popoli,  che  denno  esser  go- 
vernati; e  la  demostrazione  per  gli  comtemplativi,  che  sanno  governar 
sé  et  altri»  (primo  dialogo).  Bruno  continuerà  a  sostenere  la  tesi  del- 
l'infinito in  opere  più  tardive,  in  particolare  nel  poema  latino  De  im- 
menso, in  cui  risuonano  ancora  gli  echi  dei  primi  dialoghi  londinesi. 

Tra  gli  interlocutori  àeWInfinito  compare  l'astronomo  e  filosofo  ve- 
ronese Girolamo  Fracastoro,  le  cui  teorie  appaiono  sullo  sfondo  nel 
terzo  dialogo.  L'identificazione,  invece,  di  «Albertino»  con  il  giurista 
Alberigo  Gentili  resta  discutibile,  anche  se  Bruno  l'ha  certamente  in- 
contrato a  Oxford.  Secondo  Spampanato  e  Gentile,  si  tratterebbe  piut- 
tosto di  un  membro  della  famiglia  Albertini  di  Nola. 

La  pubblicazione  dello  Spaccio  della  bestia  trionfante  segue  di  poco, 
sempre  nel  1584,  quella  delle  tre  opere  cosmologiche:  questo  ritmo  pre- 
cipitato si  spiega  solo  se  si  considera  che  Bruno,  fin  dall'estate  1583, 
cioè  all'epoca  delle  lezioni  di  Oxford,  aveva  dovuto  elaborare  il  mate- 
riale utilizzato  in  seguito  nelle  prime  tre  opere  italiane.  Se  Ylnfinito 
portava  ancora  la  dedica  a  Mauvissière,  lo  Spaccio  è  dedicato  a  Sidney, 
di  cui  Bruno  celebra  i  meriti.  «Vi  siete  scuoperto  a  me  nel  primo  prin- 
cipio ch'io  giunsi  a  l'isola  Britannica»,  dichiara  nella  sua  epistola 
esplicatoria;  ecco  un  elemento  che  potrebbe  indicare  che,  nei  primi 
rapporti  di  Bruno  con  la  corte,  gli  interessi  culturali  prevalevano  su 
politica  e  religione.  La  dedica  a  Sidney  suggerisce,  proprio  nel  mo- 
mento in  cui  sparisce  qualsiasi  riferimento  a  Leicester,  che  questi  rap- 
porti poterono  continuare  anche  dopo  lo  scandalo  sollevato  dalla 
Cena.  Ciò  che  caratterizza  lo  Spaccio  (il  cui  tono  satirico  ricorda,  sul 
piano  letterario,  i  dialoghi  «piacevoli»  di  Nicolò  Franco  e,  ben  prima, 
di  Luciano),  è  la  trasposizione  sul  piano  etico  della  nuova  concezione 


NOTA  FILOLOGICA  247 

dell'universo,  così  come  la  esponevano  i  dialoghi  cosmologici.  Nel  suo 
piano  di  riforma  morale,  l'opera  critica  implicitamente  l'etica  cri- 
stiana, in  particolare  il  principio  calvinista  della  salvezza  per  la  sola 
fede;  Bruno  si  esprime  in  nome  di  un  attivismo  umanistico,  ben  di- 
stinto dall'umanismo  retorico  e  misticheggiante  che  le  ideologie  cri- 
stiane dominanti  avevano  già  assorbito.  Se  abbozza  una  critica  della 
duplice  natura  del  Cristo,  non  è  a  motivo  di  un  interesse  per  le  que- 
stioni teologiche,  ma  piuttosto  perché  la  sua  etica  è  fondamentalmente 
estranea  al  cristianesimo.  Quanto  alle  allusioni  politiche,  esse  confer- 
mano gli  orientamenti  precedenti  di  Bruno,  quali  si  erano  già  manife- 
stati in  Francia:  egli  tendeva  a  conciliare  le  diverse  confessioni  e  que- 
sta conciliazione  gli  sembrava  possibile  se  il  cattolicesimo  laico  e  tol- 
lerante della  monarchia  francese  fosse  riuscito  a  imporsi  contro 
l'estremismo  protestante  da  una  parte  e  contro  l'irrigidimento  politico- 
religioso  della  Spagna  e  del  papa  dall'altra. 

Allo  Spaccio  fa  seguito  la  Cabala  del  cavallo  pegaseo,  con  l'aggiunta 
dell'Asino  cillenico,  pubblicata  nel  1585.  Dal  punto  di  vista  tematico, 
questo  elogio  metà  serio  e  metà  ironico  dell'asino  si  inserisce  nella  let- 
teratura «asinina»  del  Rinascimento,  essa  stessa  dipendente  dai  mo- 
delli classici  dello  pseudo-Luciano  e  di  Apuleio.  Quanto  alla  satira  mo- 
rale. Bruno  distingue,  come  ha  mostrato  Nuccio  Ordine  nel  suo  libro 
La  cabala  dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  G.  Bruno,  Napoli,  Liguori 
editore,  1987,  una  asinità  «positiva»  (resistenza,  umiltà,  tolleranza)  e 
una  asinità  «negativa»  (ozio,  arroganza,  unidimensionalità),  impli- 
cante la  «santa  ignoranza»  e,  almeno  per  questa  ragione,  riferita  alla 
concezione  cristiana  della  vita.  È  tuttavia  l'asinità  negativa  a  essere 
presentata  come  la  «bestia  trionfante  viva»:  su  questa  apparente  con- 
traddizione con  l'espulsione  dei  vizi  operata  nel  dialogo  precedente,  si 
veda  il  mio  Giordano  Bruno,  Roma,  Istituto  per  l'Enciclopedia  Ita- 
liana, 1971,  di  cui  riprendo  parzialmente  l'esposizione.  Per  spiegare 
questa  apparente  contraddizione,  che  è  stata  la  prima  a  notare,  F. 
Yates  avanza  un'ipotesi:  la  Cabala  sarebbe  posteriore  al  21  settembre 
1585,  data  di  pubblicazione  della  bolla  di  Sisto  V  che,  scomunicando 
il  re  di  Navarra,  dissolve  le  speranze  conciliatrici  dei  partigiani  di  En- 
rico III.  Ma  la  pubblicazione  della  Cabala  è  precedente  a  quella  dei 
Furori  e,  fin  dal  mese  di  ottobre.  Bruno  era  rientrato  in  Francia  con 
l'ambasciatore.  Nella  sua  pregevole  edizione  spagnola  della  Cabala 
(Madrid,  Alianza  Editorial,  1991),  Miguel  A.  Granada  ha  ripreso  la 
questione  e  ha  saputo  risolverla  in  modo  convincente,  segnalando  che 
per  «bestia  trionfante  viva»  Bruno  intende  l'asinità  cristiana  messa  a 
nudo  (ma  aggiunge  nella  medesima  pagina  di  non  vedere  l'apparente 
contraddizione  che  segnalavo  seguendo  F.  Yates,  e  preferisce  parlare  di 


248  NOTA  FILOLOGICA 

«inexistente  incoherencia»,  il  che  mi  sembra  ridursi  al  mio  stesso  si- 
gnificato). Nel  De  imaginum  compositione  (1591),  Bruno  dichiara  che  la 
Cabala  «fu  eliminata  perché  spiacque  al  volgo  e  non  piacque  ai  sa- 
pienti a  causa  del  suo  sinistro  significato»  («quia  vulgo  displicuit  et 
sapientibus  propter  sinistrum  sensum  non  placuit,  opus  est  suppres- 
sum»,  in  Opera  latine  conscripta,  II,  3,  p.  237);  in  effetti,  è  la  più  rara 
delle  opere  di  Bruno  in  italiano.  Forse,  per  interpretare  corettamente 
l'affermazione  di  Bruno,  bisogna  reinserirla  in  un  contesto  storico  pre- 
ciso: quello  della  campagna  condotta  da  Sisto  V  contro  l'astrologia 
giudiziale,  che  culmina  con  la  Constitutio  del  9  gennaio  1586  contro  le 
arti  divinatorie.  Questo  accostamento,  che  non  convince  Granada  (il 
critico  preferisce  prendere  alla  lettera  la  dichiarazione  di  Bruno:  come 
se,  pubblicando  la  sua  satira  sull'asinaggine,  il  filosofo  avesse  potuto 
aspettarsi  un'accoglienza  favorevole  da  parte  del  volgo  e  dei  pedanti), 
si  trova  invece  implicitamente  rafforzato  da  Ciliberto;  in  La  ruota  del 
tempo  (cit,  p.  45),  egli  mette  bene  in  evidenza  il  fatto  che  Bruno  con- 
futò pubblicamente  la  Cabala  «quando,  nel  1591,  decide  di  tornare  in 
Italia»,  senza  per  questo  rinunciare,  come  riveleranno  le  deposizioni 
dei  testimoni  a  carico  durante  il  processo,  alla  metafora  dell'asino 
nella  sua  polemica  anti-pedante  e  anti-cristiana 

Con  il  De  gli  eroici  furori,  pubblicati  anch'essi  nel  1585.  Bruno  con- 
cluse degnamente  la  serie  dei  suoi  dialoghi  in  lingua  italiana  trat- 
tando più  direttamente,  e  in  modo  meno  satirico,  della  fusione  dello 
spirito  umano  con  l'Uno,  che  è  il  Tutto.  Sotto  questo  profilo,  l'opera 
supera  le  speculazioni  cosmologiche,  gnoseologiche  e  morali  dei  prece- 
denti dialoghi.  In  uno  stile  complesso  che,  pur  servendosene,  sovverte 
il  petrarchismo  così  come  la  terminologia  neo-platonica  -  e  di  cui 
Y Argomento  sottolinea  il  carattere  «naturale  e  fisico»  -,  i  Furori  espri- 
mono anche  una  poetica;  rifiutando  quelle  troppo  marcate  dall'aristo- 
telismo, e  accettando  provvisoriamente  il  delectare  e  il  prodesse  di  Ora- 
zio, Bruno  attribuisce  in  fin  dei  conti  alla  poesia  la  funzione  di  enun- 
ciare la  «verità». 

Lo  stampatore  londinese 

Tutti  i  dialoghi  londinesi  di  Bruno,  è  stato  detto,  sono  usciti  da 
una  stessa  tipografia.  Ma  chi  era  lo  stampatore?  La  risposta  è  stata 
fornita  nel  1924  da  Harry  Sellers,  in  una  comunicazione  alla  «Biblio- 
graphical  Society»  pubblicata  nello  stesso  anno  da  Tìie  Library,  IV  s., 
V  2:  criticando  una  tradizione  fondata  su  un  aneddoto,  secondo  la 
quale  lo  stampatore  sarebbe  stato  Thomas  VautroUier,  ugonotto  fran- 
cese esiliato  in  Inghilterra,  Sellers  ha  fornito  la  prova  tipografica  che  i 


NOTA  FILOLOGICA 


249 


sei  volumi  di  Bruno  (pubblicati  senza  privilegio)  furono  stampati  dal 
londinese  John  Charlewood.  A  sostegno  della  sua  dimostrazione,  Sel- 
lers  fa  valere  il  fatto  che  i  medesimi  caratteri  di  stampa  sono  stati 
usati  per  i  sei  volumi,  che  presentano  le  stesse  iniziali  e  gli  stessi  or- 
namenti nei  culs-de-lampe,  in  particolare  una  rosa  sormontata  da  una 
corona,  affiancata  da  due  cesti  di  frutta,  e  un'aquila  tra  due  cervi.  Fre- 
quenti nei  libri  stampati  da  Charlewood,  questi  culs-de-lampe  non  si 
ritrovano  altrove.  Facendo  lo  spoglio  del  Short-title  Catalogne  of  Books 
printed  in  Italy  and  of  Italian  Books  printed  in  other  Countries  front  1463 
to  1600  now  in  the  British  Museum  (Londra,  1958),  si  constata  che,  ec- 
cettuati i  sei  dialoghi  di  Bruno  prodotti  dal  1584  al  1585,  nessun  altro 
volume  in  lingua  italiana  è  uscito  dalla  tipografia,  né  prima  di  questa 
data  né  dopo,  e  che  lo  stampatore  non  aveva  nessun  progetto  di  col- 
lana italiana.  Nella  sua  produzione,  i  dialoghi  di  Bruno  rimangono 
un'eccezione.  Quanto  alle  opere  in  latino,  a  parte  V Explicatio  Triginta 
Sigillorum  (1583)  di  Bruno,  l'esperienza  di  Charlewood  fu  minima,  per 
non  dire  nulla,  prima  della  stampa  dei  dialoghi  così  come  a  seguito  di 
questa.  Per  quanto  riguarda  le  traduzioni  dall'italiano,  l'indagine  può 
permettere  di  circoscrivere  la  cultura  dello  stampatore,  ma  non  può 
servire  a  determinare  la  sua  pratica  editoriale.  Dai  repertori  bibliogra- 
fici, risulta  che  prima  dei  dialoghi  bruniani  Charlewood  stampò  nel 
1576,  in  una  traduzione  inglese  in  versi  dovuta  a  Thomas  Achelley,  la 
storia  di  Violenta  and  Didaco  tratta  dalla  novella  I,  42  di  Matteo  Ban- 
dello,  per  altro  tradotta  in  prosa  inglese  fin  dal  1566;  la  stampa  fu 
compiuta  «for  Thomas  Butter»  che  bisogna  considerare  come  l'editore, 
distinto  dallo  stampatore.  Nella  stessa  epoca  in  cui  stampava  le  opere 
di  Bruno,  Charlewood  produsse  in  proprio  A  letter  lately  written  from 
Rome,  tradotta  da  John  Florio  (1585);  questa  Letter  anonima  e  abba- 
stanza corta,  che  partecipa  di  quella  che  potremmo  definire  come  la 
produzione  giornalistica  dell'epoca,  è  l'unica  pubblicazione  di  Florio 
durante  il  suo  soggiorno  all'ambasciata  di  Francia  (dove,  come  si  è 
detto,  alloggiava  anche  Bruno,  al  servizio  di  Michel  de  Castelnau).  È 
anche  la  sola  traduzione  dall'italiano  pubblicata  in  proprio  da  Char- 
lewood: lo  stampatore  era  infatti  noto  soprattutto  per  la  sua  vasta  pro- 
duzione di  ballate  inglesi  e  di  altri  opuscoli  di  letteratura  popolare. 
Ciò  nonostante,  all'edizione  londinese  dei  dialoghi  fu  apportata  una 
cura  eccezionale:  impressionante  è  il  contrasto  tra  l'inesperienza  di 
Charlewood  nel  campo  dell'italiano  e  del  latino  e  la  relativa  perfezione 
dei  volumi  di  Bruno  usciti  dalla  sua  tipografia.  Ed  è  proprio  questo 
che  impone  alla  critica  testuale  di  valutare  l'intervento  costante,  mi- 
nuzioso ed  esclusivo  dell'autore  stesso:  durante  la  stampa  dei  suoi  te- 
sti, fu  forse  l'unico  responsabile  e  dovette  mettere  a  frutto  l'esperienza 


250  NOTA  FILOLOGICA 

di  correttore  di  bozze  che  aveva  acquisito  a  Ginevra  e  di  cui  doveva 
ancora  avvalersi,  quasi  alla  vigilia  della  sua  incarcerazione.  È  dunque 
opportuno  riconoscere  ai  testi  italiani  di  Bruno  trasmessi  attraverso  le 
edizioni  londonesi  -  così  come  alla  versione  del  Candelaio  stampata  a 
Parigi  da  Guillaume  Julian  figlio  nel  1582  -  un  valore  assoluto  per 
determinare  le  caratteristiche  dell'ortografia  di  Bruno,  il  suo  usus  scri- 
bendi  et  punctuandi,  con  tutte  le  implicazioni  fono-morfologiche  e  sti- 
listiche che  questi  usi  comportano  agli  occhi  del  critico  moderno.  È 
infatti  innegabile  che  l'ortografia  di  Bruno  traspare  in  modo  «autogra- 
fo», in  quei  tratti  che  sono  già  allora  caratteristici  rispetto  agli  usi  del- 
l'epoca, se  si  osservano  le  pagine  qua  e  là  abbozzate  della  stampa  pa- 
rigina della  commedia  o  quelle,  più  disciplinate,  delle  stampe  londi- 
nesi dei  dialoghi.  Basti  ricordare  l'uso  del  gruppo  gì  non  seguito  da  i 
per  notare  il  suono  palatale  davanti  a  a,  e,  0,  u;  altrettanto  costante  è 
l'uso  di  s  doppio  in  cossi  (fenomeno  che,  come  altri,  è  insieme  fonetico 
e  grafico),  o  quello  di  m  al  posto  di  n  in  dumque.  per  non  dire  della 
distinzione  tra  i  latinismi  del  tipo  di  vitio  e  quelli  del  tipo  di  perfet- 
tione  (perfectione),  cornittione  (corruptione).  I  linguisti  ci  insegnano  che 
questa  distinzione  corrisponde  a  una  differenza  fonetica  che  comin- 
ciava a  scomparire  a  Firenze  nella  seconda  metà  del  XVI  secolo, 
benché  sopravviva  ancora  oggi  nell'Italia  meridionale.  Anche  per 
quanto  riguarda  la  punteggiatura,  bisogna  escludere  che  lo  stampatore 
londinese  abbia  potuto  applicare  ai  dialoghi  delle  norme  tipografiche. 
Nel  mio  saggio  su  Lo  stampatore  londinese  di  G.  Bruno,  osservavo  che  le 
stampe  inglesi  di  Charlewood  differiscono  da  quelle  delle  opere  di 
Bruno,  non  solo  per  un  impiego  minimo  dei  segni  che  possiedono  in 
comune,  ma  anche  per  la  limitata  varietà  dei  simboli.  Per  esempio,  le 
stampe  di  testi  inglesi  ignorano  il  punto  finale  seguito  da  una  minu- 
scola, il  punto  finale  seguito  da  un  doppio  spazio  lasciato  in  bianco  e 
in  generale  il  punto  e  virgola.  Da  una  comparazione  dei  segni  di  pun- 
teggiatura usati  da  Bruno  nelle  pagine  non  dialogate  della  Cena  de  le 
Ceneri  (1584),  cioè  la  Proemiale  Epistola  (f.  A2r-A6r),  con  quelli  usati  da 
Florio  l'anno  successivo  nella  sua  traduzione  di  A  letter  lately  written 
from  Rome  (f.  2Air-2A8i^),  senza  tener  conto  delle  virgole  né  pretendere 
un  risultato  matematicamente  esatto  (a  causa  della  differenza  di  corpo 
tra  un'edizione  e  l'altra),  ho  tratto  le  due  conclusioni  seguenti.  Si  con- 
stata non  solo  un  enorme  squilibrio  a  favore  di  Bruno  per  quanto  at- 
tiene ai  segni  comuni,  ma  anche,  nelle  pagine  di  Florio,  l'assenza  com- 
pleta di  certi  segni  e  simboli  di  punteggiatura,  come  il  punto  e  virgola 
seguito  da  una  minuscola  o  lo  stesso  punto  e  virgola  seguito  da  una 
maiuscola,  il  punto  interrogativo  seguito  da  una  maiuscola,  il  punto 
finale  seguito  da  una  minuscola  e  lo  stesso  punto  finale  seguito  da  un 


NOTA  FILOLOGICA  25 1 

doppio  spazio,  tutti  segni  frequenti  nelle  pagine  di  Bruno.  Se  questo 
risultato  conferma  l'autonomia  della  punteggiatura  di  Bruno,  rivela 
altresì  che  Florio  non  ha  collaborato  alla  stampa  dei  testi  di  un  autore 
che  tuttavia  viveva  allora  sotto  il  suo  stesso  tetto. 

Norme  adottate  nella  presente  edizione 

Quanto  precede  giustifica  il  criterio  piuttosto  conservatore  qui 
adottato;  si  trattava  di  preservare  i  caratteri  fono-morfologici  e  stili- 
stici dell'ortografia  di  Bruno,  così  come  il  ritmo  musicale  e  recitativo 
della  sua  lingua.  Una  modernizzazione,  vale  a  dire  una  sostituzione  di 
segni  grafici  o  di  punteggiatura,  è  tuttavia  stata  compiuta  nei  seguenti 
casi  (senza  tenere  conto  di  alcune  scelte  specifiche  per  ciascuna  opera, 
che  saranno  segnalate  in  nota): 

a)  Si  è  eliminato  Vh  etimologico  laddove  non  ha  funzione  dia- 
critica conforme  all'uso  moderno;  è  stato  tuttavia  mantenuto  in  po- 
sizione intervocalica  qualora  la  sua  eliminazione  avesse  provocato 
l'incontro  di  due  vocali  uguali.  L'uso  di  h  nelle  interiezioni  è  stato 
regolarizzato  ogni  volta  che  bisognava  aggiungerlo  a  a  e  a  o.  L'oscil- 
lazione tra  0  e  oh  è  stata  risolta  tramite  una  distinzione  tra  o  vocativo 
e  oh  interiettivo  o  esclamativo  con  valore  enfatico  (nei  casi  ambigui  è 
stata  mantenuta  l'ortografia  originale).  Le  oscillazioni  tra  ch'hai  {ha, 
hanno)  /  chai  {ha,  hanno)  sono  state  risolte  a  vantaggio  della  trascri- 
zione con  h. 

b)  La  grafia  etimologizzante  -ti-  +  vocale  è  stata  resa  con  -zi-  (an- 
che nelle  terminazioni  -antia  e  -entia);  -tti-  +  vocale  con  -zzi  -,  dato  che, 
come  già  si  è  detto,  essa  riflette  una  differenza  non  solo  etimologica 
ma  anche  fonetica  ancora  oggi  presente  nel  parlato  dell'Italia  meridio- 
nale. I  gruppi  latinizzanti  occasionali  -cti-  e  -fti-  hanno  un  carattere 
soprattutto  parodico;  sono  anch'essi  stati  mantenuti,  unificando  la  tra- 
scrizione sul  modello  di  -ti-  >  -zi-.  Si  è  conservata  la  grafia  -ci-  del  tipo 
odo  anche  quando  ci  sia  esitazione  con  la  grafia  -ti-  >  -zi-. 

e)  La  /  palatale,  normalmente  trascritta  nei  testi  di  Bruno,  come 
si  è  detto,  gì  davanti  a  a,  e,  o,  u,  è  resa  con  gli;  gV  è  mantenuto  davanti 
a  una  parola  cominciante  per  i,  ma  i  rari  casi  di  gli  +  i  sono  stati 
rispettati. 

d)  Ijì.  grafia  arcaica  -ngn-  è  stata  resa  con  -gn-,  ma  è  stata  mante- 
nuta la  grafia  occasionale  con  apostrofo  ogn' altro,  ogn' altra,  ognun(o). 

e)  La  grafia  colta  y  è  stata  modernizzata  in  i;  le  terminazioni  in 
-ij-  e  -ii  afone  sono  state  unificate  sul  modello  -ii.  Quanto  ai  plurali  che 
potrebbero  essere  ambigui  {principi  per  esempio),  un  accento  è  stato 
messo  sulla  vocale  tonica  delle  parole  proparossitone. 


252  NOTA  FILOLOGICA 

fi  La.  i  diacritica  è  stata  mantenuta  per  indicare  il  suono  palatale 
di  e,  g  e  se  anche  davanti  a  e  (per  esempio  goccie,  leggiero,  lascierù);  è 
stata  rispettata  l'alternanza  di  superficie  e  di  superflue. 

g)  Le  grafie  eh,  gh  sono  state  conservate  solo  nei  limiti  dell'uso 
diacritico  moderno;  ph  e  th  sono  state  rese  con  fet  (sono  state  tuttavia 
conservate  le  grafie  originali  dei  nomi  propri  stranieri,  anche  quando 
le  loro  terminazioni  sono  italianiazzate,  per  esempio  Smitho,  Mattheo, 
Machometto,  Alchazele,  o  ancora  Beuckurst  e  Thalmutisti).  Il  gruppo 
■^mph-  è  stato  reso  con  -mf-,  grafia  attestata  nei  testi  del  XVI  secolo. 

h)  Sono  state  mantenute  le  grafie  latinizzanti  -mn-  (per  esempio 
omnipotente),  in  +  labiale  (per  esempio  inpiaga,  inpiceato  e,  per  esten- 
sione, ingonbrato),  in  +  m  (per  esempio  inmaturo),  m  +  q  (per  esempio 
dumque,  forma  costante  in  Bruno  e  in  cui  si  sviluppa  l'abbreviazione 
duq  >  dumque,  così  come  qualuq  >  qualumque,  m  +  d  (etiamdio  >  eziam- 
dio). 

t)  La  5'  di  eloqutione  e  di  iniqus  è  stata  resa  con  e. 

j)  è  stato  mantenuto  ad  etimologico  +  consonante  (del  tipo  adve- 
nire),  così  come  ad  preposizione,  anche  davanti  a  iniziale  consonan- 
tica, conformemente  all'uso  latineggiante  come  al  napoletano  antico. 

k)  è  stata  mantenuta  la  x  iniziale  o  intervocalica. 

l)  Quanto  alle  consonanti  semplici  o  doppie,  un  criterio  ortofo- 
nico si  sarebbe  rivelato  arbitrario,  soprattutto  nel  caso  di  un  autore 
che  non  è  toscano.  Senza  voler  ricondurre  assolutamente  le  forme  ori- 
ginali a  un  sistema  fonologico  che  si  applica  al  napoletano  (quando 
certi  fenomeni  grafici  potrebbero  invece  intendersi  come  segni  di  iper- 
correzione)  e  senza  voler  necessariamente  interpretarle  come  un  ri- 
flesso della  pronuncia  di  Bruno,  si  è  pensato,  tenuto  conto  della  gran 
parte  di  autenticità  formale  che  occorre  riconoscere  ai  testi  qui  ripro- 
dotti, che  si  dovesse  mantenerle,  anche  quando  sono  esitanti,  evitando 
di  normalizzarle  secondo  le  soluzioni  correnti  o  le  più  frequenti.  Sono 
tuttavia  stati  corretti  i  probabili  errori  di  stampa,  così  come  alcune 
grafie  anormali.  Ma  si  è  mantenuta  la  lettera  raddoppiata  in  Appollini 
e  diffetti  (forma  quest'ultima  che  si  trova  anche  in  Castiglione,  Corte- 
giano,  I,  8)  e  si  sono  conservate  forme  come  pappa,  quatro  (cfr.  il  napo- 
letano), adesso,  bizarro  e,  ovviamente,  le  esitazioni  come  mezo  I  mezzo, 
mezogiorno  I  mezzogiorno,  come  anche,  al  futuro  e  al  condizionale,  le 
diverse  alterazioni  dovute  a  combinazioni  con  il  tema  verbale,  com- 
presa l'estensione  analogica  di  -rr-.  Ma  per  evitare  l'ambiguità  seman- 
tica, si  è  trascritto  eappelli  con  una  sola  p  ogni  volta  che  la  parola 
designava  i  capelli. 

m)  La  separazione  tra  le  parole  è  stata  ristabilita  ogni  volta  che 
la  sua  soppressione  sembrava  imputabile  a  un  errore  tipografico.  In- 


NOTA  FILOLOGICA  253 

versamente,  è  con  la  massima  prudenza  che  sono  state  riunite,  per  se- 
guire l'uso  moderno,  parole  che  il  testo  stampato  separa;  ci  si  è  guar- 
dati da  qualsiasi  intervento  suscettibile  di  indebolire  la  fonosintassi. 
Quanto  alle  preposizioni  articolate,  si  è  mantenuta  la  separazione 
nella  serie  a,  da,  de,  co,  ne,  su  +  i  /  gli.  Si  è  compiuta  la  separazione 
nelle  rare  occorrenze  di  dela,  nela,  nele.  Non  si  è  alterata  la  grafia  di 
quel  altro  (trattandosi  del  tipo  normale  con  apocope  sillabica  davanti  a 
una  parola  che  comincia  per  una  vocale;  ma  il  tipo  quell  altro  ha  rice- 
vuto l'apostrofo).  Si  sono  mantenute  le  esitazioni  perche  I  per  che,  poi- 
che  I  poi  che,  benché  I  ben  che,  perdo  /  per  do  (ma  si  è  staccato  perilche 
in  per  il  che).  Si  è  mantenuta  l'esitazione  benvenuto  I  ben  venuto,  mal- 
viaggio  /mal  viaggio,  poverh  (u)omo  (-homini)  I  pover  h  (u)omo  (homini), 
quantosivoglia  I  quanto  si  voglia  (scegliendo  di  unificare  tutti  i  casi 
dubbi;  ma  se  si  è  proceduto  al  legame  per  la  forma  qual  sivoglia,  la 
separazione  si  è  imposta  nel  caso  di  ouesiuoglia  >  ove  si  voglia,  chesiuo- 
glia  >  che  si  voglia).  Tra  altretanto  e  altre  tanto,  si  è  scelta  la  prima 
forma  piuttosto  che  trascrivere  altr'e  tanto,  ma  si  è  mantenuto  altri 
tanti  (agg.).  Quanto  ai  gruppi  pronominali,  si  è  mantenuta  la  separa- 
zione di  gli  le,  gli  ne  e  l'esitazione  esso  lui  I  essolui.  Si  è  compiuto  il 
legame  in  d'esso  {desso),  ma  si  è  invece  tagliato  sene  e  la  congiunzione 
senon.  Per  quanto  riguarda  gli  avverbi,  si  è  mantenuta  l'esitazione  alfin 
(e)  I  al  fin  (e),  appresso  I  a  presso;  si  sono  riuniti  i  due  elementi  di  nullu 
I  di  meno  quando  sono  divisi  tra  due  righe.  Si  sono  unite  le  forme  de 
pò  >  depo',  do  pò  >  dopo,  do  pò  >  dopò,  do  poi  >  dopoi,  così  come  a 
dumque,  al  quanto,  in  sieme,  tutta  via.  In  compenso,  si  sono  tagliate  le 
grafie  ouesiuogla  >  ove  si  voglia,  pertutto  >  per  tutto;  è  stata  conservata 
l'esitazione  tra  già  mai  e  giamai.  Per  le  esclamazioni  e  le  interiezioni,  si 
è  mantenuta  l'esitazione  ola  I  o  la,  orsù  I  or  su,  ordumque  I  or  dumque. 
Per  le  parole  latine,  si  è  conservata  la  separazione  in  in  cassum,  ut  potè, 
ut  pula,  haud  quaquam,  non  ne,  per  parvum,  quando  quidem;  è  stata 
mantenuta  l'esitazione  tra  id  est  e  idest  (avverbio  dichiarativo);  si  è 
proceduto  al  legame  in  ad  mixtum,  per  perdentibus,  multi  modis. 

n)  In  generale,  la  grafia  originale  delle  parole  latine  è  stata  con- 
servata. Quanto  alla  dittongazione,  la  si  è  eliminata  nei  rari  casi  in  cui 
si  produceva  nelle  parole  italiane  derivate  dal  latino  {Caesare,  Aeneide), 
mentre  si  è  mantenuta  l'alternanza  bruniana  tra  ae  e  oe.  Si  sono  elimi- 
nati i  casi  di  iperdittongazione,  ma  mantenuta  la  vocale  semplice,  ec- 
cetto nelle  desinenze  e  nei  casi  in  cui  l'assenza  di  dittongazione 
avrebbe  potuto  dare  luogo  a  un'ambiguità  etimologica  e  grammaticale. 
La  sigla  &  e.  in  contesto  italiano  è  stata  resa  con  et  celerà  quando  ha 
valore  di  allusione  o  di  eufemismo  per  omissione;  la  si  è  invece  resa 


254  NOTA  FILOLOGICA 

con  l'abbreviazione  etc.  se  è  aggiunta  ai  titoli  dei  personaggi  o  se  as- 
sume un  valore  generico  alla  fine  della  frase. 

o)  La  congiunzione  et  (resa  anche  con  &  nell'originale)  è  stata  ri- 
dotta a  e  davanti  a  una  consonante;  ma  la  si  è  conservata  davanti  alle 
vocali,  salvo  nei  testi  poetici  dove  è  rilevante  per  la  misura  del  verso 
(questo  è,  del  resto,  l'uso  generalmente  rispettato  da  Bruno  stesso). 

P)  Le  parole  abbreviate,  compresi  i  nomi  propri,  sono  state  tra- 
scritte nella  loro  forma  completa  in  assenza  di  elementi  di  ambiguità. 
Laddove  la  risoluzione  delle  abbreviazioni  poteva  creare  dei  dubbi,  la 
parte  finale  della  parola  è  stata  messa  tra  parentesi.  A  questo  propo- 
sito, occorre  osservare  in  Bruno  un'esitazione  tra  forme  elise  e  non 
elise  in  parole  come  (mon)  signor  I  signore,  messer  I  messere,  soprattutto 
in  posizione  vocativa,  ma  talvolta  anche  davanti  a  nomi  propri,  qua- 
lunque sia  l'iniziale.  Per  non  appesantire  l'apparato  critico,  è  stato  se- 
gnalato lo  sviluppo  di  queste  parole  solo  in  posizione  vocativa. 

q)  Quanto  ai  numerali  espressi  in  cifre,  i  testi  esitano  tra  cifre 
arabe  e  romane.  Sono  stati  distinti  usando  le  cifre  arabe  per  gli  agget- 
tivi cardinali,  le  romane  per  gli  ordinali.  Nei  numeri  espressi  in  let- 
tere, l'eventuale  separazione  delle  migliaia,  delle  centinaia  e  delle  doz- 
zine è  stata  conservata. 

r)  L'uso  delle  maiuscole  iniziali  è  stato  unificato  conformemente 
ai  criteri  moderni.  È  stato  tuttavia  conservato  e  esteso  l'uso  delle 
maiuscole  nei  titoli  dei  destinatari  delle  dediche  {Signor,  Capitano,  Go- 
vernatore, ecc.).  Sono  state  invece  eliminate  all'inizio  dei  versi  le  maiu- 
scole non  rese  necessarie  dalla  sintassi. 

s)  Ci  si  è  sforzati  di  rispettare  gli  schemi  ritmici  della  lingua  di 
Bruno,  pur  modernizzando  la  punteggiatura  secondo  le  esigenze  della 
logica  o  della  sintassi  e  sostituendo  i  segni  tipici  della  fine  del  XVI 
secolo  con  i  loro  equivalenti  moderni.  La  virgola  è  stata  generalmente 
soppressa  quando  non  aveva  valore  di  pausa:  per  esempio  davanti  a 
e(t)  congiunzione  in  una  serie  di  termini.  Sono  stati  collocati  tra  virgo- 
lette ad  angolo  («  »)  i  brani  o  i  discorsi  citati  nel  testo;  tra  virgolette 
doppie  alte  ("  ")  le  citazioni  di  frasi  o  le  parole  isolate,  così  come  i 
versi  in  un  brano  in  prosa,  quando  siano  isolati  tra  due  punti  nell'ori- 
ginale (.  .)  e  abbiano  una  iniziale  maiuscola.  Si  sono  collocati  tra  virgo- 
lette semplici  e  ')  i  titoli  latini  inseriti  in  un  contesto  latino  (anch'esso 
trascritto  in  corsivo)  e  ugualmente  si  è  stampato  in  corsivo  il  titolo  delle 
opere  letterarie  in  qualunque  lingua  siano,  le  parole  isolate  in  latino  o 
in  lingue  straniere  così  come  le  espressioni  onomatopeiche  senza  valore 
interiettivo.  Sono  state  indicate  tra  parentesi  quadre  ([  ])  le  aggiunte  di 
parole  intere;  per  ogni  opera,  si  segnaleranno  in  una  nota  specifica  le 
aggiunte  parziali,  le  soppressioni,  le  precisazioni  critiche. 


NOTA  FILOLOGICA  255 

Nello  stabilire  i  testi,  ho  tenuto  conto  delle  indicazioni  fomite  dalle 

seguenti  opere: 

H.  M.  Adams,  Catalogue  of  books  printed  on  the  Continent  of  Europe, 
1^01-1600,  in  Cambridge  Libraries,  voi.  I  (1967),  p.  202. 

Giovanni  Aquilecchia,  «La  lezione  definitiva  della  Cena  de  le  Cancri 
di  Giordano  Bruno»,  Atti  della  Accademia  Nazionale  dei  Lincei,  anno 
CCCXLVII;  Memorie,  Classe  di  Scienze  morali,  storiche  e  filologiche,  sè- 
rie Vili  -  voi.  Ili  (1950).  fase.  4,  pp.  209-243. 

—  «Note  di  bibliografia  bruniana»,  Lettere  Italiane,  XII  anno  (i960), 
pp.  322-325. 

—  Le  opere  italiane  di  Giordano  Bruno.  Critica  testuale  e  oltre,  Napoli, 
Bibliopolis,  1991. 

—  «Saggio  di  un  commento  letterale  al  testo  critico  del  Candelaio», 
Filologia  e  critica,  XVI  (1991),  pp.  91-126. 

Giordano  Bruno,  La  cena  de  le  Ceneri,  a  cura  di  Giovanni  Aquilec- 
chia, Torino,  Giulio  Einaudi  Editore,  1955,  pp.  237-239,  274. 

—  Dialoghi  italiani,  a  cura  di  Gentile-Aquilecchia,  Firenze,  Sansoni, 
1958,  pp.  V-LXII. 

—  De  la  causa,  principio  et  uno,  a  cura  di  Giovanni  Aquilecchia,  To- 
rino, Giulio  Einaudi  Editore,  1973,  pp.  166-172. 

Hilary  Gatti,  «Giordano  Bruno:  the  texts  in  the  Library  of  the  ninth 
Earl  of  Northumberland»,  Journal  of  the  Warburg  and  courtauld  In- 
stitutes,  voi.  46  (1983),  pp.  63-77. 

—  «Mimimum  and  maximum,  finite  and  infinite.  Bruno  and  the  Nor- 
thumberland circle».  Journal  of  the  Warburg  and  Courtauld  Institu- 
tes,  voi.  48  (1985),  pp.  144-163. 

A.  Ch.  Gorfunkel,  «Pervye  izdanija  proizvedenij  Diordano  Bruno  v 
Bibliotekach  Leningrada»,  in  Kniga  Issledovania  i  materiali,  III 
(i960),  pp.  432-436. 

John  Hayward,  «The  location  of  copies  of  the  first  editions  of  Gior- 
dano Bruno»,  Tlie  Book  Collector,  voi.  5  (1956),  pp.  152-157. 

—  «First  editions  of  Giordano  Bruno:  location  of  additional  copies», 
ibid.,  pp.  381-382. 

Index  Aureliensis,  Catalogus  librorum  sedecimo  saeculo  im- 

pressonum.  Prima  Pars,  tomus  V,  Aureliae  Aquensis,  1974,  pp.  370- 

371- 
Istituto  Centrale  per  il  Catalogo  unico  delle  Biblioteche  italiane  e  per 

le  Informazioni  bibliografiche.  Le  edizioni  italiane  del  XVI  secolo. 

Censimento  nazionale,  volume  II  (B),  Roma,  1989. 
Iwo   Korzan,  «Praski  krag  Humanistów  wokól   Giordana  Bruna», 

Euhemer,  voli.  71-72  (1969),  pp.  81-93. 
The  National  Union  Catalogne,  Pre-ig^ó  Imprints:  A  cumulative  author 

list  representing  Library  of  Congresss  printed  cards  and  titles  reported 


256  NOTA  FILOLOGICA 

by  other  American  Libraries  (...),  voi.  81,  Londra,  Mansell  Infoma- 
tion/publishing  Ltd.,  1970,  pp.  32.-37. 
Andrzej  Nowicki,  «Egzemplarze  pierwszych  wydan  dziel  Giordana 
Bruna  w  bibliotekach  polskich»,  Euhemer,  voi.  34  (1963)  pp.  20-31. 

—  «Intorno  alla  presenza  di  Giordano  Bruno  nella  cultura  del  cinque- 
cento e  seicento.  Aggiunte  alla  bibliografia  di  Salvestrini»,  Atti  del- 
l'Accademia di  Scienze  morali  e  politiche  della  Società  Nazionale  di 
Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Napoli,  voi.  LXXIX  (1968),  pp.  505-526. 

—  Giordano  Bruno  nella  patria  di  Copernico,  Accademia  Polacca  delle 
Scienze,  Bibioteca  e  Centro  Studi,  Roma  (Conferenze,  fascicolo  54), 
1972. 

Printed  Books  (...),  The  Property  of  the  loth  Duke  od  Deconshire's  Chari- 
table  Trust,  which  will  be  sold  at  Chtistie's  Great  Rooms,  Wednesday 
30  September  igSi,  AH:  lots  1-236  (...)  this  sale  should  be  referred 
to  as  Chatsworth  (...),  Londra,  Christie,  Manson  &  Woods  Ltd.,  1981, 
n.  64-68. 

Virgilio  Salvestrini,  Bibliografia  di  Giordano  Bruno  (1582-1950), 
2"*  ed.  (postuma),  a  cura  di  Luigi  Firpo,  Firenze,  Sansoni,  1958. 

Rita  Sturlese,  Bibliografia,  censimento  e  storia  delle  antiche  stampe  di 
Giordano  Bruno,  Firenze,  Sansoni,  1987. 

—  «Censimento  e  Storia  delle  antiche  stampe  di  Giordano  Bruno  con- 
servate nelle  biblioteche  d'Europa,  i.  Austria,  Germania,  Svizzerei, 
Scandinavia»,  Rinascimento,  2"^  serie,  voi.  XXIV  (1984),  pp.  289-346. 

Roberto  Tissoni,  «Lo  sconosciuto  fondo  bruniano  della  Trivulzia- 
na».  Atti  della  Accademia  delle  Scienze  di  Torino,  voi.  93  (1958-1959), 
pp.  431-472. 

—  «Sulla  redazione  definitiva  della  Cena  de  le  Ceneri»,  Giornale  Storico 
della  Letteratura  Italiana,  voi.  CXXXVI  (1959),  pp.  558-563. 

Denis  B.  Woodfield,  Surreptitious  Printing  in  England  ig^o-1640, 
New  York,  Bibliographical  Society  of  America,  1973. 

In  conclusione,  spero  che  la  cura  apportata  nello  stabilire  i  testi 
non  venga  giudicata  eccessiva.  Questa  minuzia  costituisce  infatti 
l'unico  mezzo  per  preservare  il  significato  logico  dell'opera;  l'unico  an- 
che per  rivelare  il  funzionamento  di  una  prosa  che,  mescolando  alla 
letteratura  anticonformista  le  parodie  della  retorica  antica  o  dell'arte 
oratoria  ecclesiastica  e  a  formulazioni  scientifiche  talvolta  immature 
l'esaltazione  ditirambica  delle  scoperte  intuitive  dello  spirito,  rappre- 
senta uno  dei  documenti  letterari  più  stimolanti  del  tardo  Rinasci- 
mento europeo. 

University  College  London 
marzo  199 1 


I 

CANDELAIO 

commento  di 
Giorgio  Barberi  Squarotti 


IL  LIBRO 

A  GLI  ABBEVERATI 

NEL  FONTE  CABALLINO' 


Voi  che  tettate  di  muse  da  mamma^, 
e  che  natate'  su  lor  grassa  broda 
col  musso  ■*,  l'eccellenza  vostra  m'oda, 
si  fed'e  caritad'  il  cuor  v'infiamma. 

Piango,  chiedo,  mendico  un  epigramma, 
un  sonett',  un  encomio,  un  inno,  un'oda 
che  mi  sii  post'  in  poppa  over  in  proda^, 
per  farmene  gir  lieto  a  tata''  e  mamma. 

Ehimè  ch'in  van  d'andar  vestito  bramo, 
oimè  ch'i'  men  vo  nudo  com'un  Bia''; 
e  peggio:  converrà  fors'  a  me  gramo  ^ 

monstrar  scuopert'  alla  signora  mia 
il  zero^  e  menchia^"  com'il  padr'  Adamo  i\ 
quand'era  buono  dentro  sua  badia.  [5] 


1.  Il  fonte  di  Ippocrene,  fatto  scaturire  con  un  calcio,  secondo  il  mito,  dal 
cavallo  alato  Pegaso,  ai  piedi  dell'Elicona,  il  monte  sacro  alle  Muse;  le  sue 
acque  davano  l'ispirazione  poetica.  Gli  abbeverati  al  fonte  caballino  sono, 
quindi,  i  poeti. 

2.  Succhiate  il  latte  dalle  mammelle  delle  Muse. 

3.  Nuotate.  Il  Bruno  cita  qui  l'invocazione  del  Folengo  alle  «grasis  Camoe- 
nis»  del  suo  poema  Baldus  (I,  2). 

4.  Labbro.  Tutti  questi  primi  tre  versi  contengono  scherzose  circonlocu- 
zioni per  indicare  i  poeti. 

5.  Davanti  o  dietro,  cioè  all'inizio  o  alla  fine  della  commedia. 

6.  Babbo  (napoletano). 

7.  Biante,  uno  dei  sette  savi  dell'antica  Grecia,  che  andava  in  giro  nudo 
dicendo  «Omnia  mea  mecum  porto». 

8.  Infelice. 

9.  Deretano. 

10.  Il  membro  virile. 

11.  La  citazione  della  Genesi  è  parodica. 


200  CANDELAIO 

Una  pezzentaria 

di  braghe  mentre  chiedo,  da  le  valli 

[7I  veggio  montar  ^an  furia  di  cavalli  1^. 


12.  Il  cavallo  era  una  punizione  corporale  in  uso  nelle  scuole,  consistente 
nello  sferzare  i  ragazzi  fatti  spogliare  nudi  e  posti  a  cavalcioni  di  un  compa- 
gno. L'intero  sonetto  è  una  scherzosa  invocazione  ai  poeti,  da  parte  dell'opera 
che  parla  in  proprio,  di  darle  una  presentazione  autorevole  e  di  non  lasciarla 
oscenamente  andare  in  giro  nuda,  tanto  più  che,  in  un  tempo  dominato  dai 
pedanti,  c'è  il  pericolo  di  subire  qualche  punizione  corporale  (qualche  critica 
ingiusta  e  troppo  severa). 


ALLA  SIGNORA  MORGANA  B.  ^ 
SUA  SIGNORA  SEMPRE  ONORANDA 


Et  io  a  chi  dedicarrò  il  mio  Candelaio}^  A  chi,  o  gran  destino, 
ti  piace  ch'io  intitoli^  il  mio  bel  paranirafo"*,  il  mio  bon  cori- 
feo? '  A  chi  inviarrò  quel  che  dal  sirio^  influsso  celeste,  in  questi 
più  cuocenti  giorni,  et  ore  più  lambiccanti^,  che  dicon  canicu- 
lari,  mi  han  fatto  piovere  nel  cervello  le  stelle  fisse  ^,  le  vaghe 
lucciole^  del  firmamento  mi  han  crivellato  soprano,  il  decano  de 
dudici  segnici  m'ha  balestrato  in  capo '2,  e  ne  l'orecchie  inter- 
ne '^  m'han  soffiato  i  sette  lumi  erranti?  i"*  A  chi  s'è  voltato,  dico 


1.  Forse  una  donna  di  Nola,  conosciuta  dal  Bruno  negli  anni  giovanili.  An- 
che la  citazione  della  Signora  Morgana  B.  è  parodica,  facendo  riferimento  a 
una  prostituta  mascherata  da  celebrazioni  roboanti. 

2.  Gioco  di  parola  equivoca,  poiché  il  «candeliere»  che  il  Candelaio  pos- 
siede è,  sì,  il  portatore  di  luce  del  vero,  ma  significa  anche  omosessuale,  poiché 
«candela»  vale  «sesso  maschile»  nella  pederastia  attiva. 

3.  Dedichi. 

4.  Ruffiano  (perché  dovrà  servire  ad  acquistare  al  Bruno  le  grazie  della 
signora  Morgana). 

5.  Propriamente,  colui  che  guidava  il  coro  dell'antica  tragedia  greca;  qui,  in 
senso  figurato,  significa  l'opera  che  porta  i  complimenti  e  le  lodi  del  Bruno  alla 
signora  Morgana. 

6.  Sirio  è  la  stella  principale  della  costellazione  del  Cane  maggiore,  in  cui  il 
sole  resta  dal  24  luglio  al  26  agosto  (qui  la  parola  è  usata  come  aggettivo:  sirio 
influsso,  l'influsso  che  viene  dalla  stella  Sirio).  La  lettera  dedicatoria  è  stata 
scritta,  evidentemente,  fra  luglio  e  agosto  (nel  1582). 

7.  Che  fanno  sudare  copiosamente  («lambiccare»,  propriamente,  vale  distil- 
lare attraverso  l'alambicco). 

8.  Secondo  il  sistema  tolemaico,  le  stelle  erano  fisse  nel  cielo. 

9.  I  corpi  celesti  (come  le  comete)  mobili  per  il  cielo. 

10.  «Crivellare»  vuol  dire,  propriamente,  passare  al  crivello,  setacciare  la 
farina,  separandone  il  fiore  dalla  crusca;  qui  l'espressione  del  Bruno  significa, 
quindi,  che  gli  astri  gli  hanno  inviato  preziosi,  rarissimi  influssi  celesti. 

11.  Secondo  gli  astrologi,  i  decani  erano  le  tre  parti  in  cui  era  diviso  cia- 
scuno dei  dodici  segni  dello  Zodiaco  (e  a  ogni  decano  era  preposta  una  di- 
vinità). 

12.  Messo  in  capo,  ispirato. 

13.  Quelle  dell'anima  a  cui  è  rivolta  l'ispirazione  (il  «soffio»). 

14.  I  sette  pianeti,  che  nell'astronomia  tolemaica  giravano  intomo  alla 
terra,  ciascuno  col  suo  cielo. 


202  CANDELAIO 

(9]  io?  a  chi  riguarda?  a  chi  prende  la  mira?  A  sua  Santità?  no. 
A  sua  Maestà  Cesarea?  no.  A  sua  Serenità?  no.  A  sua  Altezza, 
Signoria  illustrissima  e  reverendissima?  non,  no.  Per  mia  fé  non 
è  prencipe  o  cardinale,  re,  imperadore  o  pappa '^  che  mi  levarrà 
questa  candela ^^  di  mano  in  questo  sollennissimo  offertorio'^. 
A  voi  tocca,  a  voi  si  dona;  e  voi  o  l'attaccarrete  al  vostro  cabi- 
netto  1^,  o  la  ficcarrete  al  vostro  candeliero:  in  superlativo  dotta, 
saggia,  bella  e  generosa  mia  signora  Morgana;  voi  coltivatrice 
del  campo  dell'animo  mio:  che  dopo  aver  attrite  le  glebe  ''*  della 
sua  durezza  e  assottigliatogl'  il  stile 2*^,  acciò  che  la  polverosa 
nebbia  sullevata  dal  vento  della  leggerezza  non  offendesse  gli 
occhi  di  questo  e  quello,  con  acqua  divina,  che  dal  fonte  del 
vostro  spirto  deriva,  m'abbeveraste  l'intelleto.  Però,  a  tempo  che 
ne  posseamo  toccar  la  mano,  per  la  prima  vi  indrizzai  Gli  pen- 
sier  gai;  apresso,  U  tronco  d'acqua  viva^K  Adesso  che  tra  voi  che 
godete  al  seno  d'Abraamo^^,  e  me  che  senza  aspettar  quel  tuo 
soccorso  che  solea  rifrigerarmi  la  lingua,  desperatamente  ardo  e 
sfavillo,  intermezza  un  gran  caos,  pur  tropp'  invidioso  del  mio 
bene:  per  farvi  vedere  che  non  può  far,  quel  medesmo  caos,  che 
il  mio  amore,  con  qualche  proprio  ostaggio^'  e  material  presen- 
te^"",  non  passe  al  suo  marcio  dispetto^'^  eccovi  la  candela  che 
vi  vien  porgiuta  per  questo  Candelaio  che  da  me  si  parte,  la 
[11]  qual  in  questo  paese^^  ove  mi  trovo  potrà  chiarir  alquanto  certe 
Ombre  dell'idee^''  le  quali  in  vero  spaventano  le  bestie,  e  come 

15.  Papa. 

16.  Bruno  gioca  sul  titolo  della  commedia  con  intenzione  oscena. 

17.  Allusione  blasfema  alla  liturgia  della  Messa. 

18.  Stanza  riservata,  intima;  ma  vale,  per  metafora  oscena,  per  vulva 

19.  Sminuzzate  le  zolle  (per  rendere  possibile  la  coltivazione). 

20.  Manico  della  falce  e,  per  sineddoche,  falce. 

21.  Forse  componimenti  poetici  giovanili  del  Bruno,  oggi  perduti.  Toccar  la 
mano,  così  come  rifrigerarmi  la  lingua  poco  più  sotto,  sono  allusioni  erotiche. 

22.  Allusione  irriverente,  alla  parabola  di  Lazzaro  che  dal  paradiso  (nel  lin- 
guaggio biblico,  il  seno  d'Abramo)  vede  il  ricco  Epulone  che  si  torce  nelle 
fiamme  e  chiede  a  lui  una  goccia  di  refrigerio. 

23.  Pegno. 

24.  Dono. 

25.  Il  Bruno  è  esule  e  lontano,  ma  il  suo  amore  supera  ogni  difficoltà  e 
distanza  (il  caos). 

26.  Il  Bruno  era  in  Francia,  a  Parigi. 

27.  De  umbris  idearum  è  il  titolo  dell'opera  mnemonica  in  latino  del  Bruno, 
uscita  a  Parigi  nel  1582. 


ALLA  SIGNORA  MORGANA  B.  263 

f ussero  diavoli  danteschi  2^,  fan  rimaner  gli  asini  lungi  a  dietro; 
et  in  cotesta  patria  ove  voi  siete,  potrà  far  contemplar  l'animo 
mio  a  molti,  e  fargli  vedere  che  non  è  al  tutto  smesso ^^.  —  Sa- 
lutate da  mia  parte  quell'altro  Candelaio  di  carne  et  ossa'", 
delle  quali  è  detto  che  «Regnum  Dei  non  possidebunt»^^;  e  ditegli 
che  non  goda  tanto  che  costì  si  dica  la  mia  memoria  esser  stata 
strapazzata  a  forza  di  pie  di  porci  e  calci  d'asini:  per  che  a  que- 
st'ora a  gli  asini  son  mozze  l'orecchie,  et  i  porci  qualche  decem- 
bre  me  la  pagarranno.  E  che  non  goda  tanto  con  quel  detto 
«Abiit  in  regionem  longinquam»^^;  per  che  si  avverrà  giamai  ch'i 
cieli  mi  concedano  ch'io  effettualmente  possi  dire  «Surgam  et 
ibo»^^,  cotesto  vitello  saginato^'*  senza  dubbio  sarrà  parte  della 
nostra  festa.  Tra  tanto  viva  e  si  goveme,  et  attenda  a  farsi  più 
grasso  che  non  è;  perché  dall'altro  canto  io  spero  di  ricovrare  il 
lardo,  dove  ho  persa  l'erba:  si  non  sott'un  mantello,  sotto  un 
altro;  si  non  in  una,  in  un'altra  vita'^.  Ricordatevi,  signora,  di 
quel  che  credo  che  non  bisogna  insegnarvi:  —  Il  tempo '^  tutto 
toglie  e  tutto  dà;  ogni  cosa  si  muta,  nulla  s'annihila;  è  un  solo" 
che  non  può  mutarsi,  un  solo  è  etemo,  e  può  perseverare  eter-  [13] 
namente  uno,  simile  e  medesmo.  —  Con  questa  filosofia  l'animo 
mi  s'aggrandisse'^,  e  me  si  magnifica  l'intelletto.  Però  qualum- 

28.  Allusione  ai  diavoli  di  Dante,  Inferno,  XXI,  dai  quali  cercano  di  na- 
scondersi i  barattieri  immersi  nella  pece  bollente;  allo  stesso  modo  gli  igno- 
ranti e  i  pedanti  tentano  di  nascondersi  dalla  verità  esposta  dal  Bruno  nel  suo 
libro. 

29.  Decaduto. 

30.  È  il  personaggio  reale  che  ha  ispirato  il  protagonista  della  commedia: 
forse  un  confratello  del  Bruno  nel  convento  di  San  Domenico  Maggiore  a  Na- 
poli, certamente  omosessuale. 

31.  «Non  erediteranno  il  regno  dei  cieli»:  S.  Paolo,  /  Corinzi,  VI,  9. 

32.  «Se  ne  andò  in  una  regione  lontana»:  citazione  di  Luca,  XV,  13  (nella 
parabola  del  figliuol  prodigo  che  lascia  la  casa  patema). 

33.  «Mi  alzerò  e  andrò»:  citazione  di  Luca,  XV,  18  (nella  stessa  parabo- 
la, sono  le  parole  che  il  figliuol  prodigo  dice  quando  decide  di  ritornare  dal 
padre). 

34.  Ingrassato  (in  Luca,  XV,  23  il  vitello  saginato  è  fatto  uccidere  dal  padre 
nel  banchetto  per  il  ritomo  del  figliuol  prodigo). 

35.  Allusione  alla  metempsicosi,  in  cui  il  Bruno  credeva:  il  Bruno  spera  di 
recuperare  (ricovrare)  con  guadagno  (il  lardo)  quello  che  ha  perduto,  anche  in 
un'altra  forma  (sotto  un  altro  mantello)  o  in  un'altra  vita. 

36.  Di  colpo,  scritta  a  questo  punto  la  rapida  quanto  essenziale  sentenza 
filosofica,  poi  svolta  in  più  passi  dei  Dialoghi. 

37.  Dio. 

38.  Ingrandisce,  esalta. 


264  CANDELAIO 

que  sii  il  punto  di  questa  sera  ch'aspetto,  si  la  mutazione  è  vera, 
io  che  son  ne  la  notte,  aspetto  il  giorno,  e  quei  che  son  nel 
giorno,  aspettano  la  notte.  Tutto  quel  ch'è,  o  è  equa  o  Uà,  o  vi- 
cino o  lungi,  o  adesso  o  poi,  o  presto  o  tardi.  Godete  dumque,  e 
[15]  si  possete  state  sana,  et  amate  chi  v'ama. 


ARGUMENTO  ET  ORDINE 
DELLA  COMEDIA 


Son  tre  materie  principali  intessute  insieme  ne  la  presente 
comedia:  l'amor  di  Bonifacio,  l'alchimia  di  Bartolomeo  e  la  pe- 
dantaria  di  Mamfurio.  Però  per  la  cognizion  distinta  de  sug- 
getti,  raggion  dell'ordine  et  evidenza  dell'artificiosa  testura  i, 
rapportiamo  prima  da  per  lui  l'insipido  amante,  secondo  il  sor- 
dido avaro,  terzo  il  goffo  pedante:  de  quali  l'insipido  non  è 
senza  goffaria  e  sordidezza;  il  sordido  è  parimente  insipido  e 
goffo;  et  il  goffo  non  è  men  sordido  et  insipido  che  goffo. 

BONIFACIO  dumque 

nell'atto  primo,  scena  prima,  inamorato  della  signora  Vittoria^, 
et  accorgendosi  che  non  possea  reciprocarsi  l'amore^  (del  che 
era  la  caggione  che  quella  er'amica,  come  si  dice,  di  fiori  di 
barbe  e  frutti  di  borse *♦,  e  lui  non  era  giovane  né  liberale),  pone 
la  sua  speranza  nella  vanità  de  le  magiche  superstizioni,  per 
venire  a  gli  amorosi  effetti;  e  per  questo  manda  il  suo  servitore 
a  trovar  Scaramuré  che  gli  era  stato  descritto  efficace  mago. 
.II.  scena.  Avendo  inviato  Ascanio,  discorre  tra  se  medesmo  ri- 
ducendosi a  mente  il  valor  di  quell'arte,  .iii.  scena.  Gli  sopra- 
gionge  Bartolomeo  che  con  certo  mezzo  artificio  gli  fa  vomitare 
il  suo  secreto;  e  mostra  la  differenza  dell'ogetto  dell'amor  suo. 
.IV.  scena.  Sanguino  padre  e  pastor  di  marioli,  et  un  scolare  che 
studiava  sotto  Mamfurio,  che  da  parte  aveano  uditi  questi  rag- 
gionamenti,  discorreno  sopra  quel  fatto;  e  Sanguino  particular- 


1.  Intreccio  complesso. 

2.  Il  titolo  di  signora,  come  già  per  Morgana,  allude  alla  condizione  di  pro- 
stituta (di  alto  livello). 

3.  Ottenere  di  essere  riamato. 

4.  Gioventù  e  denaro. 


206  CANDELAIO 

mente  comincia  a  prender  il  capo  per  ordir  qualche  tela^  verso 
di  Bonifacio,  .vi.  scena.  Compare  Lucia  ruffiana  con  un  presen- 
tuccio  che  Bonifacio  mandava,  e  ne  fa  notomia^  e  si  dispone  a 
prenderne  la  decima^,  e  poco  mancò  che  non  vi  fusse  sopra- 
giunta da  lui.  .VII.  scena.  Bonifacio  se  ne  viene  tutto  glorioso  per 
certo  suo  poema  di  nova  cola*  in  onor  e  gloria  della  sua  dama; 
nella  qual  festa  (.vili,  scena)  fu  ritrovato  da  Gioan  Bernardo  pit- 
tore, al  quale  arrebbe  discoperto  il  suo  nuovo  poetico  furore:  ma 
lo  distrasse  il  pensier  del  ritratto,  et  il  pensiero  sopra  un  dubbio 
che  gli  lasciò  Gioan  Bernardo  nella  mente;  e  (.ix.  scena)  rimane 
perplesso  su  l'enigma:  per  che  o  più  o  meno  intende  il  termino 
«candelaio»,  ma  non  molto  può  capir  che  voglia  dir  «orefice»''. 
Mentre  dimora  in  questo  pensiero,  ecco  (.x.  scena)  riviene  Asca- 
nio  col  mago:  il  quale  dopo  avergli  fatte  capir  alcune  pappola- 
te i°,  lo  lascia  in  speranza  d'accaparri  jj  tutto. 

Nell'atto  secondo,  .11.  scena,  si  monstrano  la  signora  Vittoria 
e  Lucia  entrate  in  speranza  di  premer  vino  da  questa  pumice  e 
cavar  oglio  da  questo  subere  ^^:  e  sperano  col  seminar  speranze 
nell'orto  di  Bonifacio,  di  tirar  mèsse  di  scudi  nel  proprio  ma- 
gazzino; ma  s'ingannavano  le  meschine  pensando  che  l'amor  gli 
avesse  tanto  tolto  l'intelletto  che  non  avesse  sempre  avanti  gli 
occhi  della  mente  il  proverbio  che  gli  udirrete  dire  nel  princi- 
[19]  pio  della  sesta  scena  nell'atto  quarto.  .111.  scena:  rimasta  la  si- 
gnora Vittoria  sola,  fa  di  bei  castelli  in  aria  presupponendo  che 
questa  fiamma  d'amor  facesse  colar  e  fonder  metalli;  e  che  que- 
sto martello  di  Cupido  co  l'incudine  del  cuor  di  Bonifacio  stam- 
par potesse  al  men  tanta  moneta,  che  fallendo'^  col  tempo  l'arte 

5.  Preparare  qualche  inganno,  qualche  imbroglio. 

6.  Anatomia  (cioè  esamina  minuziosamente  il  regalo  di  Bonifacio). 

7.  Sottrarre  per  sé  una  parte. 

8.  Di  nuova  invenzione.  Credo  che  il  termine  alluda  al  ritmo  del  verso,  in 
latino. 

9.  Contrapposto  a  candelaio,  vale  l'essere  attratto  dal  sesso  femminile.  Si 
comprende,  qui  e  dopo,  il  fatto  che  Bonifacio  è  sì  omosessuale,  ma  nel  senso 
che,  con  la  moglie,  opera  soltanto  in  modo  sodomitico. 

10.  Discorsi  sciocchi. 

11.  Conseguire. 

12.  Le  due  donne  sperano  di  riuscire  a  ottenere  denaro  e  doni  dall'avaris- 
simo  Bonifacio  (paragonato  all'aridissima  pomice  e  al  non  meno  arido  subere: 
sughero). 

13.  Venendo  meno. 


ARGUMENTO  ET  ORDINE  DELLA  COMEDIA  267 

sua,  non  gli  fusse  necessario  di  incantar'-*  quella  di  Lucia,  iuxta 
illud:  «Et  iam  fada  vetus,  fit  rofiana  Venus»^''.  Mentre  dumque  si 
pasce  di  que'  venticelli  che  gonfiano  la  panza  e  non  nutriscono, 
(.IV.  scena)  sopraviene  Sanguino,  che  per  quel  ch'avea  udito 
dalla  propria  bocca  di  Bonifacio  comincia  ad  tramar  qualche 
bella  impresa,  e  si  retira  con  lei  per  discorrere  come  si  doves- 
sero governar  col  fatto  suo. 

Nell'atto  terzo,  .11.  scena,  viene  Bonifacio  con  Lucia  che  lo 
constrista  tentandolo  di  pacienza  per  la  borsa:  or  mentre  masti- 
cava come  avesse  in  bocca  il  panferlich'^,  gli  cascò  il  lasagno 
dentr'al  formaggio  1^,  idest  ebbe  occasion  di  levarsela  d'avanti 
per  quella  volta,  per  dover  trattar  cose  importanti  con  dui  che 
sopragiunsero.  .111.  scena:  questi  erano  Scaramuré  et  Ascanio,  co 
i  quali  si  tratta  come  si  dovesse  governare  ne'  magichi  cerimo- 
ni;  dona  parte  del  suo  conto  al  mago,  e  se  ne  va.  .iv.  scena:  ri- 
mane, beffandosi  de  la  smania  di  costui,  Scaramuré;  e  (.v.  scena) 
ritoma  Lucia  che  pensava  che  Bonifacio  l'aspettasse:  e  costui 
la  rende  certa  che  la  speranza  era  vana  e  la  fatica  persa;  e 
con  ciò  vanno  alla  signora  Vittoria  per  chiarirla  del  tutto:  il 
che  fece  costui  a  fin  che  col  fingere  di  quella'^  potesse  graffar'''  [21] 
qualch'altra  somma  da  Bonifacio,  .ix.  scena:  compaiono  San- 
guino e  Scaramuré  come  quei  ch'aveano  appuntato  qualche 
cosa  con  la  signora  Vittoria  e  messer  Gioan  Bernardo;  e  questi 
dui  con  dui  altri  venturieri  ^°  sotto  la  bandiera  di  Sanguino, 
trattano  di  negociare  alcuni  fatti  con  stravestirsi  da  capitano  e 
birri:  del  qual  partito  (nella  .xiii.  scena)  si  contentano  molto. 

Nell'atto  quarto,  .1.  scena,  la  signora  Vittoria  vien  fuori  fasti- 
dita per  molto  aspettare;  discorre  sopra  l'avaro  amor  di  Bonifa- 
cio e  sua  vana  speranza;  mostra  d'esser  inanimataci  a  fargli 
qualch'insapore^c^  insieme  col  finto  capitano,  birri  e  Gioan  Ber- 
nardo. Tra  tanto  venne  Lucia  (.11.  scena)  che  mostra  di  non  aver 

14.  Mettere  all'asta. 

15.  Secondo  il  celebre  verso  «E  ormai  invecchiata,  Venere  diventa  ruffia- 
na». E  una  citazione  di  T.  Folengo,  Moscheidos,  libro  III,  8. 

16.  Dolce  popolare  napoletano  sotto  forma  di  bastone  di  zucchero  filato. 

17.  Gli  venne  un'occasione  estremamente  favorevole. 

18.  Fingendo  che  quella  fosse  a  sua  volta  innamorata  di  Bonifacio. 

19.  Arraffare,  sottrarre. 

20.  Gente  di  malaffare. 

21.  Ben  decisa. 

22.  Dispetto,  dispiacere. 


268  CANDELAIO 

perso  il  tempo,  e  [non  esser  stata]  vana  la  fatica:  espone  come 
abbia  informata  et  instrutta^^  Carubina  moglie  di  Bonifacio; 
e  (scena  .ni.)  sopragionte  da  Bartolomeo,  sdegnate  si  parteno. 
.IV.  scena:  rimane  Bartolomeo  discorrendo  sopra  la  sua  materia; 
et  ecco  (.V.  scena)  gli  occorre  Bonifacio,  e  raggionano  un  pezzo 
insieme  burlandosi  l'un  de  l'altro.  Tra  tanto  Lucia  che  non  dor- 
meva  sopra  il  fatto  suo,  (.vi.  scena)  trova  messer  Bonifacio  il 
quale,  disciolto  da  Bartolomeo,  vien  ad  esser  molto  persuaso 
dall'estreme  novelle  che  quella  gli  disse:  cioè  che  per  il  meno  la 
signora  Vittoria  gli  arrebbe  donato  tutt'il  suo;  con  questo,  che  la 
andasse  a  chiavar^''  per  quella  sera:  ch'altrimente  moreva;  il 
che  per  le  cose  che  erano  passate  della  magica  fattura ^^^  non  fu 
difficile  a  donarglielo  ad  intendere:  prese  ordine  di  stravestirsi 
lui  come  Gioan  Bernardo.  Lucia  si  parte  co  le  vesti  di  Vittoria  a 
mascherar  Carubina.  .vii.  scena:  rimane  Bonifacio  facendo  tra 
se  medesmo  festa  dell'effetto  che  vede  del  suo  incantesimo; 
apresso  (.vili,  scena)  si  berteggia ^^^  insieme  con  Marta,  moglie 
[23]  di  Bartolomeo,  per  un  pezzo;  e  poi  è  verisimile  ch'andasse  sub- 
bito  al  mascherarci^  per  accomodarsi  come  san  Cresconio^^. 
.xii.  scena:  ecco  Carubina  stravestita  et  istrutta  da  Lucia:  fa  in- 
tendere i  belli  allisciamenti^''  e  vezzi  che  questa  sofistica  Vitto- 
ria dovea  far  al  suo  alchimico  inamorato;  e  prende  il  camin 
verso  la  stanza  di  Vittoria;  e  (.xiii.  scena)  rimane  Lucia  con  de- 
terminazione d'andar  a  trovar  Gioan  Bernardo:  ma  ecco  che 
(.xrv.  scena)  colui  viene  a  tempo  per  che  non  vegliava  meno 
sopra  il  proprio  negocio,  che  Lucia  sopra  l'altrui;  equa  si  deter- 
mina de  le  occasione  che  dovean  prendere,  come  le  persone  si 
doveano  disporre  al  loco  e  tempo;  e  poi  Lucia  va  a  trovar  Bo- 
nifacio, e  Gioan  Bernardo  a  dar  ordine  all'altre  cose. 

Nell'atto  quinto,  scena  .1.,  eccoti  Bonifacio  in  abito  di  Gioan 
Bernardo,  che  spirava  amor  dal  culo'"  e  tutti  gli  altri  buchi 

23.  Ammaestrata 

24.  Fottere. 

25.  Incanto,  incantesimo. 

26.  Scherza. 

27.  Colui  che  affittava  le  maschere. 

28.  Santo  venerato  a  Napoli,  la  cui  statua  lo  mostrava  avvolto  in  panni 
sgargianti  e  con  una  spessa  barba. 

29.  Blandimenti,  carezze. 

30.  Citazioni  di  F.  Berni,  Sonetto  al  Divizio,  v.  14. 


ARGUMENTO  ET  ORDINE  DELLA  COMEDIA  269 

della  persona;  e  con  Lucia,  dopo  aver  discorso  un  poco,  sen  va 
alla  bramata  stanza.  Tra  tanto  Gioan  Bernardo  teneva  il  ba- 
stonai dritto,  pensando  a  Carubina:  et  aspettò  un  gran  pezzo 
facendo  la  sentinella,  mentre  Sanguino  mariolava^^  e  Bonifacio 
prendev'  i  suoi  disgusti^';  sin  tanto  che,  (.ix.  scena)  venendo 
fuori  Bonifacio  confusissimo  con  l'ancor  sdegnatissima  Caru- 
bina, a  l'impensata  de  l'uno  e  l'altra,  trovomo  un  altro  osso  da 
rodere  e  gruppo  da  scardare^-*:  cioè  si  trovomo  rincontrati  con 
Gioan  Bernardo;  quindi  nacquero  molti  dibatti  ^^  (jj  paroli,  et 
essendono  prossimi  a  toccarsi  co  le  mani,  (.x.  scena)  sopravien 
Sanguino  stravestito  da  capitan  Palma  con  sui  compagni  stra- 
vestiti da  birri;  e  per  ordinario  ^^  della  corte  et  instanza  di 
Gioan  Bernardo  menomo  Bonifacio  in  una  stanza  vicina,  fin- 
gendo intenzione  di  condurlo,  dopo  spediti'^  altri  negocii,  in 
Vicaria.  Con  questo,  (.xi.  scena)  Carubina  rimane  nelle  griffe  ^^ 
di  Gioan  Bernardo,  il  quale  (come  è  costume  di  que'  che  arden-  [25] 
temente  amano)  con  tutte  sottigliezze  d'epicuraica  filosofia 
(Amor  fiacca  il  timor  d'omini  e  numi)  cerca  di  troncare  il  le- 
game del  scrupolo  che  Carubina,  insolita  a  mangiar  più  d'una 
minestra'^,  avesse  possuto  avere:  della  quale  è  pur  da  pensare 
che  desiderasse  più  d'esser  vinta,  che  di  vencere;  però  gli  piac- 
que di  andar  a  disputar  in  luoco  più  remoto.  Tra  tanto  che  pas- 
savano questi  negocii,  Scaramuré  ch'avea  l'orloggio^'^  nel  sto- 
maco e  nel  cervello,  [(.xrv.  scena)]  andò  con  specie -^^  di  sovve- 
nire a  Bonifacio;  e  (.xv.  scena)  trova  Sanguino  co  i  compagni  et 
impetrò  licenza  di  parlar  a  Bonifacio;  et  avendola  impetrata, 
con  certe  mariolesche  circostanze  (.xvi.  scena),  viene  (.xvii. 
scena)  a  persuadere  a  Bonifacio  che  l'incanto  avea,  per  fallo  di 
esso  Bonifacio,  avuto  confuso  effetto;  e  dice  di  voler  negociar 
per  il  presente  la  sua  libertà.  Il  che  facendo  (.xviii.  scena)  con 

31.  Metafora  oscena  per  membro  virile. 

32.  Compiva  le  sue  imprese  furfantesche. 

33.  Rimbrotti. 

34.  Nodo,  difficoltà  da  sciogliere. 

35.  Dibattiti,  contrasti. 

36.  Ordine. 

37.  Compiuti. 

38.  Grinfie,  mani. 

39.  Carubina  era  sempre  rimasta  fedele  al  marito. 

40.  Orologio. 

41.  Pretesto. 


270  CANDELAIO 

offrire  qualche  sottomano-^-  al  capitano,  ricevè  da  quel,  che  non 
era  novizio"*^  nell'arte  sua,  una  asprissima  risoluzione  la  quale 
da  dovero  mosse  Bonifacio  e  Scaramuré,  in  quel  modo  che  pos- 
seva,  a  ingenocchiarsi  in  terra  e  chieder  grazia  e  mercé:  sin 
tanto  ch'impetromo  da  lui  che  si  contentasse  di  farli  grazia.  La 
qual  gli  fu  concessa  con  questa  condizione,  che  Scaramuré  fa- 
cesse di  modo  che  venessero  la  moglie  Carubina  e  Gioan  Ber- 
nardo a  rimettergli  l'offesa.  Cossi  questo  accordo  si  venne  a  trat- 
tar con  molte  apparenti  difficultà  (.xxi.  e  .xxii.  scena);  sin  tanto 
che  (.XXIII.  scena),  dopo  aver  chiesa  perdonanza  in  ginocchioni 
a  Gioan  Bernardo  e  la  moglie,  e  ringraziato  Sanguino  e  Scara- 
muré, et  onta  la  mano"*-^  del  capitano  e  birri,  fu  liberato  per 
grazia  del  signor  Dio  e  della  Madonna:  dopo'  la  cui  partita, 
(.XXIV.  scena)  Sanguino  et  Ascanio  fanno  un  poco  di  considera- 
[27]  zione  sopra  il  fatto  suo.  Considerate  dumque  come  il  suo  ina- 
morarsi  della  signora  Vittoria  l'inclinò  a  posser  esser  cornuto,  e 
quando  si  pensò  di  fruirsi  di  quella,  dovenne  a  fatto  cornuto: 
figurato  veramente  per  Atteone-'^,  il  quale  andando  a  caccia, 
cercava  le  sue  come:  et  all'or  che  pensò  gioir  de  sua  Diana,  do- 
venne cervo.  Però  non  è  maraviglia  si  è  sbranato  e  stracciato 
costui  da  questi  cani  marioli. 

B.A.RTOLOMEO  compare 

nell'atto  primo,  .111.  scena,  dove  si  beffa  dell'amor  di  Bonifacio: 
concludendo  che  l'inamoramento  dell'oro  e  de  l'argento,  e  per- 
seguire altre  due  dame-^%  è  più  a  proposito.  Et  è  verisimile  che 
quindi  partito,  fusse  andato  a  far  l'alchimia  nella  quale  studia- 
va sotto  la  dottrima  di  Cencio:  il  quale  Cencio  nella  .xi.  scena  si 
discuopre  barro-*"  secondo  il  giudizio  di  Gioan  Bernardo;  e  poi 
nella  .xii.  scena  egli  medesmo  si  mostra  a  fatto  truffatore.  Viene 

42.  Mancia,  donativo  fatto  di  nascosto  per  comprare  il  falso  sbirro. 

43.  Novellino,  principiante. 

44.  Dato  denaro,  corrotto  con  denaro. 

45.  Mitico  cacciatore  emulo  di  Artemide,  che  fu  mutato  in  cervo  dalla  dea, 
sdegnata  per  essere  stata  sorpresa  da  lui  mentre  si  bagnava,  e  venne  sbranato 
dai  suoi  stessi  cani.  Il  mito  è  sviluppato  dal  Bruno  negli  Eroici  furori,  ma  ha 
significativi  riferimenti  classici  e,  dopo,  nel  Petrarca  (cfr.  Giovanni  Barberi 
Squarotti,  Selvaggia  dilettanza,  Venezia,  2000). 

46.  L'oro  e  l'argento,  che  sono  gli  amori  di  Bartolomeo. 

47.  Truffatore. 


ARGUMENTO  ET  ORDINE  DELLA  COMEDIA  27 1 

Marta  sua  moglie  nella  .xiii.  scena,  e  discorre  sopra  l'opra  del 
marito;  e  nella  .xiv.  scena  è  sopragionta  da  Sanguino  che  si  bur- 
lava di  lui  e  lei. 

Nell'atto  secondo,  .v.  scena,  raggionando  Barro  con  Lucia, 
mostra  parte  del  profitto  che  facea  Bartolomeo:  cioè  che  mentre 
lui  attendeva  ad  una  alchimia,  la  moglie  Marta  facea  la  bucata 
et  insaponava  i  drappi  ■^^. 

Nell'atto  terzo,  .i.  scena,  Bartolomeo  discorre  sopra  la  nobi- 
lita della  sua  nuova  professione:  e  mostra  con  sue  raggioni  che 
non  v'è  meglior  studio  e  dottrina  de  quello  de  minerabilibus'^^;  e   [29] 
con  questo,  ricordato  del  suo  esercizio,  si  parte. 

Nell'atto  quarto,  .111.  scena,  va  Bartolomeo  aspettando  il  ser- 
vitore ch'avea  inviato  per  il  pulvis  ChristP^;  e  (.iv.  scena)  di- 
scorre sopra  quel  detto  «Onus  leve»^\  assomigliando  l'oro  alle 
piume,  .vili,  scena:  la  sua  moglie  dimostra  quanto  fusse  onesta 
matrona  nel  raggionar  che  fa  con  messer  Bonifacio;  mostra 
quanto  lei  fusse  più  esperta  nell'arte  del  giostrare ^^  ch'il  suo 
marito  in  far  alchimia;  e  nella  .ix.  scena  dona  ad  intendere  ciò 
non  esser  maraviglia,  perché  a  quella  disciplina  fu  introdotta 
nella  età  di  dodici  anni;  e  donando  più  vivi  segnali  della  sua 
dottrina  da  cavalcare^',  fa  una  lamentevole  e  pia  digressione 
circa  quel  studio  di  suo  marito,  che  l'avea  distratto  da  sue  oc- 
cupazioni megliori.  Mostra  anco  la  diligenza  che  teneva  in  sol- 
licitar  gli  suo'  dèi  a  fin  che  gli  restituissero  il  suo  marito  nel 
grado  di  prima.  Con  questo,  (.x.  scena)  comincia  ad  veder  effetto 
di  sue  orazioni:  per  essere  l'alchimia  tutta  andata  in  chiasso''' 
per  un  certo  pulvis  Christi  che  non  si  trovava  altrimente  che 
facendolo  Bartolomeo  medesmo;  il  quale  de  cinque  talenti  gli 
arrebbe  reso  talenti  cinque.  Or  l'uomo  [per]  informarsi  meglio 
va  col  suo  Mochione  ad  ritrovar  Consalvo. 

Nell'atto  quinto,  .11.  scena,  vengono  Consalvo  e  Bartolomeo 
che  si  lamentava  di  lui  come  consapevole  e  complice  della 

48.  Metafora  oscena. 

49.  «Intorno  ai  minerali». 

50.  Polvere  alchimistica  dotata  del  potere  di  trasformare  le  sostanze  vili  in 
oro. 

51.  «Peso  leggero»  (cfr.  Matteo,  XI,  30). 

52.  L'arte  di  amare. 

53.  Altra  metafora  oscena  per  indicare  le  arti  erotiche. 

54.  Andata  in  fumo,  finita  in  niente  (propriamente,  in  postribolo). 


272  CANDELAIO 

burla  fattagli  da  Cencio;  e  cossi  dalle  pareli  venuti  a'  pugni, 
(.III.  scena)  fumo  sopragionti  da  Sanguino  e  compagni  in  gui- 
sa55  di  capitano  e  birri:  li  quali  sotto  specie  di  volerle  menare 
in  priggione,  le^^  legarono  co  le  mani  a  dietro;  et  avendole  me- 
[31]  nati  a  parte  più  remota,  gionsero  le  mani  dell'uno  alle  mani 
dell'altro  a  schena  a  schena:  e  cossi  gli  levomo  le  borse  e  vesti- 
menti, come  si  vede  nel  discorso  delle  .rv.,  .v.,  .vi.,  .vii.,  .viii. 
scene;  e  poi  nella  .xii.  scena,  avendone  caminato  per  fianco  e 
fianco  per  incontrarsi  con  alcuno  che  le  slegasse,  giunsero  al 
fine  dov'era  Gioan  Bernardo  e  Carubina  che  andavano  oltre:  i 
quali  volendo  arrivare 5'^,  Consalvo  con  affrettar  troppo  il  passo 
fé'  cascar  Bartolomeo  che  si  tirò  lui  appresso;  e  rimasero  cossi, 
sin  che  (.xiii.  scena)  sopravenne  Scaramuré  e  le  sciolse,  e  le 
mandò  per  diversi  camini  a  proprie  case. 

MAMFURIO 

nell'atto  primo,  .v.  scena,  comincia  ad  altitonare^^;  e  viene  ad 
esser  conosciuto  da  Sanguino  per  pecora  da  pastura^'':  cioè  ch'i 
marioli  cominciomo  a  formar  dissegno  sopra  il  fatto  suo^°. 

Nell'atto  secondo,  prima  scena,  vien  burlato  dal  signor  Otta- 
viano, che  prima  monstrava  maravigliarsi  di  sui  bei  discorsi; 
appresso  de  far  poco  conto  di  suoi  poemi:  per  conoscere  come  si 
portava  quando  era  lodato,  e  come  quando  era  o  meno  o  più  bia- 
simato. E  partitosi  il  signor  Ottaviano,  porge  Mamfurio  una  let- 
tera amatoria  al  suo  Pollula  inviandola  a  messer  Bonifacio,  per 
il  cui  servizio  l'avea  composta:  la  quale  epistola  poi  nella  .vii.  sce- 
na viene  ad  essere  letta  e  considerata  da  Sanguino  e  Pollula. 

Nell'atto  terzo,  sguaina  un  poema  contra  il  signor  Ottaviano, 

in  vendetta  della  poca  stima  che  fece  di  sui  versi;  sopra  i  quali 

mentre  discorre  con  il  suo  Pollula,  sopraviene  messer  Gioan 

Bernardo  (scena  .vii.),  col  qual  discorse  sin  tanto  che  gli  cascò 

I33]   la  pazienza.  Ritoma  nella  .xi.  scena:  appare  con  Corcovizzo  che 

55.  Negli  abiti,  nel  travestimento. 

56.  Li. 

57.  Raggiungere. 

58.  Parlare  con  molta  presunzione. 

59.  Uomo  sciocco. 

60.  I  suoi  denari. 


ARGUMENTO  ET  ORDINE  DELLA  COMEDIA  273 

fé'  di  modo  che  gli  tols'  i  scudi  de  mano.  Or  mentre  di  ciò 
(.XII.  scena)  si  lagna  e  fa  strepito,  gli  occorreno  Barra  e  Marca  e 
(.XIII.  scena)  Sanguino:  i  quali  ponendolo  in  speranza  di  ritrovar 
il  furbo  ^'  e  ricovrare  il  furto ^^,  li  femo  cangiar  le  vesti  e  lo  me- 
nomo via. 

Nell'atto  quarto,  .xi.  scena,  riviene  cossi  mal  vestito  com'era, 
lamentandosi  che  gli  secondi  marioli  gli  aveano  tolte  le  vesti- 
menta  talari  ^^  e  pileo'^''  prezioso:  facendolo  rimaner  solo  nel 
passar  di  certa  stanza;  e  con  questo  avea  vergogna  di  ritornar  a 
casa:  aspetta  il  più  tardi  retirandosi  in  un  cantoncello;  sin  tanto 
che  nella  .xv.  scena  si  fa  in  mezzo  spasseggiando  e  discorrendo 
circa  quel  che  ivi  avea  udito  e  visto.  Tra  tanto  (.xvi.  scena) 
viene  Sanguino,  Marca  et  altri  in  forma  di  birri;  e  volendosi 
Mamfurio  ritirar  in  secreto,  con  quella  et  altre  specie ^^  io  pre- 
sero priggione  e  lo  depositomo  nella  prossima  stanza. 

Nell'atto  quinto,  penultima  scena,  gli  vien  proposto  che  fac- 
cia elezzione'^''  de  una  di  tre  cose  per  non  andar  priggione:  o  di 
pagar  la  bona  sfrena'^''  a  gli  birri  e  capitano,  o  di  aver  diece 
spalmate  6^,  o  ver  cinquanta  staffilate  a  brache  calate.  Lui  ar- 
rebbe  accettata  ogni  altra  cosa  più  tosto  che  andar  con  quel 
modo  priggione;  però  delle  tre  elegge  le  diece  spalmate;  ma 
quando  fu  alla  terza,  disse:  «Più  tosto  cinquanta  staffilate  alle 
natiche»;  de  quali  avendone  molte  ricevute,  e  confondendosi  il 
numero  or  per  una  or  per  un'altra  causa,  avvenne  che  ebbe 
spalmate,  staffilate,  e  pagò  quanti  scudi  gli  erano  rimasti  alla 
giomea^^:  e  vi  lasciò  il  mantello  che  non  era  suo.  E  fatto  tutto 
questo,  posto  in  arnese  come  don  Paulino^°,  nella  scena  ultima 
fa  e  dona  il  plaudite'^^.  [35] 


61.  Ladro. 

62.  Recuperare  la  refurtiva. 

63.  L'abito  lungo  fino  ai  piedi,  proprio  di  chi  esercitava  professioni  liberali. 

64.  Il  cappello  dottorale. 

65.  Pretesto. 

66.  Scelta. 

67.  Mancia. 

68.  Punizione  corporale  in  uso  nelle  scuole,  consistente  nel  colpire  il  ra- 
gazzo punito  sulla  mano  aperta  con  una  bacchetta. 

69.  Borsa  per  tenervi  i  denari. 

70.  Modo  di  dire  proverbiale,  che  vale  «deluso  e  beffato». 

71.  Parola  latina,  che  significa  «applaudite»  e  con  cui  l'attore  della  comme- 
dia romana  annunciava  la  fine  dello  spettacolo,  invitando  gli  spettatori  all'ap- 
plauso. 


ANTIPROLOGO 

Messer  sì:  ben  considerato;  bene  appuntato;  bene  ordinato. 
Forse  che  non  ho  profetato,  che  questa  comedia  non  si  sarrebbe 
fatta  questa  sera?  Quella  bagassa'  che  è  ordinata^  per  rapresen- 
tar  Vittoria  e  Carubina,  have  non  so  che  mal  di  madre  ^.  Colui 
che  ha  da  rapresentar  il  Bonifacio,  è  imbriaco  che  non  vede  ciel 
né  terra  da  mezzo  dì  in  qua;  e  come  non  avesse  da  far  nulla, 
non  si  vuol  alzar  di  letto;  dice:  «Lasciatemi  lasciatemi,  che  in 
tre  giorni  e  mezzo  e  sette  sere,  con  quatro  o  dui  rimieri"*,  sarrò 
tra  parpaglioni  5  e  pipistregli:  sia,  voga;  voga,  sia»^.  A  me  è  stato 
commesso  il  prologo;  e  vi  giuro  ch'è  tanto  intricato  et  indiavo- 
lato^, che  son  quattro  giorni  che  vi  ho  sudato  sopra  e  dì  e  notte: 
che  non  bastan  tutti  trombetti*  e  tamburini  delle  Muse  puttane 
d'Elicona''  a  ficcarmen'  una  pagliusca^"  dentro  la  memoria.  Or 
va  fa  il  prologo:  sii  battello  di  questo  barconaccio  dismesso", 
scasciato'2,  rotto,  mal  impeciato '';  che  par  che  co  crocchi*'', 
rampini  et  arpagini^^,  sii  stato  per  forza  tirato  dal  profondo 


1.  Bagascia,  prostituta. 

2.  Incaricata. 

3.  Malattia  dell'utero. 

4.  Rematori,  battellieri. 

5.  Farfalle  notturne. 

6.  «Siare»  significa  spingere  indietro  e  «vogare»  spingere  avanti  la  barca. 
Tutte  le  parole  riferite  dell'attore  ubriaco  vogliono  significare  il  suo  stato  di 
completa  dissoluzione  mentale  in  mezzo  ai  fumi  del  vino. 

7.  Complicato  e  difficile,  come  se  a  renderlo  oscuro  avesse  dato  una  mano 
il  diavolo. 

8.  Suonatori  di  tromba,  araldi. 

9.  Il  monte  della  Beozia  sede  mitica  delle  Muse. 

10.  Una  briciola,  una  quantità  minima. 

11.  Fuori  uso. 

12.  Sconnesso. 

13.  Male  spalmato  di  pece. 

14.  Ganci,  uncini. 

15.  Arpioni. 


ANTIPROLOGO  275 

abisso;  da  molti  canti  gli  entra  l'acqua  dentro,  non  è  punto 
spalmato '^-  e  vuole  uscire,  e  vuol  fars'in  alto  mare?  lasciar  que-  [37] 
sto  sicuro  porto  del  Mantracchio?  '  ■'  far  partita  dal  Molo  del  si- 
lenzio?'^. L'autore,  si  voi  lo  conosceste,  dirreste  ch'have  una  fi- 
sionomia smarrita:  par  che  sempre  sii  in  contemplazione  delle 
pene  dell'inferno;  par  sii  stato  alla  pressa  come  le  barrette  1^:  un 
che  ride  sol  per  far  comme  fan  gli  altri;  per  il  più  lo  vedrete 
fastidito  2°,  restio  e  bizarro:  non  si  contenta  di  nulla,  ritroso 
come  un  vecchio  d'ottant'anni,  fantastico  com'un  cane  ch'ha  ri- 
cevute mille  spellicciate^\  pasciuto  di  cipolla^^.  Al  sangue^', 
non  voglio  dir  de  chi,  lui  e  tuti  quest'altri  filosofi,  poeti  e  pe- 
danti, la  più  gran  nemica  che  abbino  è  la  richezza  e  beni:  de 
quali  mentre  col  lor  cervello  fanno  notomia,  per  tema  di  non 
essere  da  costoro  da  dovero  sbranate,  squartate  e  dissipate,  le 
fuggono  come  centomila  diavoli,  e  vanno  a  ritrovar  quelli  che 
le  mantengono  sane  et  in  conserva.  Tanto  che  io  con  servir  si- 
mil  canaglia,  ho  tanta  de  la  fame,  tanta  de  la  fame,  che  si  me 
bisognasse  vomire^'',  non  potrei  vomir  altro  ch'il  spirto;  si  me 
fusse  forza  di  cacare,  non  potrei  cacar  altro  che  l'anima  com'un 
appiccato 25.  In  conclusione  io  voglio  andar  a  farmi  frate,  e  chi 
vuol  far  il  prologo  sei  faccia.  [39] 


16.  Di  pece. 

17.  Porto  minore  di  Napoli. 

18.  Porto  maggiore  di  Napoli.  Tutte  queste  metafore  si  riferiscono  alla  com- 
media che  sta  per  avere  inizio. 

19.  Il  feltro  con  cui  vengono  fatti  i  cappelli  è  sottoposto  all'operazione  di 
pressa  o  follatura,  che  consiste  nel  far  bollire  in  un'acqua  appositamente  pre- 
parata e  nel  premere  e  rassodare  successivamente  il  feltro  stesso. 

20.  Pieno  di  noia,  di  fastidio,  dalla  stoltezza  e  dalla  banalità  degli  uomini 
normali.  Il  Bruno  sembra  alludere,  qui  come  successivamente,  a  sé  come 
l'uomo  superiore,  il  filosofo,  che,  per  antifrasi,  sembra  misero  e  mal  ridotto, 
cupo  e  malinconico,  là  dove  in  questo  modo  è  davvero  sublime  nella  sua  con- 
templazione e  celebrazione  del  vero.  C'è  certamente  un'allusione  zWEncomium 
moriae  di  Erasmo. 

21.  Bastonate  che  gli  hanno  levato  il  pelo. 

22.  La  cipolla,  notoriamente,  fa  piangere. 

23.  Imprecazione. 

24.  Vomitare. 

25.  Impiccato. 


PROPROLOGO 


Dove  è  ito  quel  farfante',  schena  da  bastonate,  che  dovea  far 
il  prologo?  Signori,  la  comedia  sarrà  senza  prologo:  e  non  im- 
porta; per  che  non  è  necessario  che  vi  sii:  la  materia,  il  suggetto, 
il  modo  et  ordine  e  circonstanze  di  quella,  vi  dico  che  vi  si 
farran  presenti  per  ordine,  e  vi  sarran  poste  avanti  a  gli  occhi 
per  ordine;  il  che  è  molto  meglio  che  si  per  ordine  vi  fussero 
narrati:  questa  è  una  specie  di  tela,  ch'ha  l'ordimento  e  tessitura 
insieme;  chi  la  può  capir,  la  capisca;  chi  la  vuol  intendere,  l'in- 
tenda. Ma  non  lascierò  per  questo  di  avertirvi  che  dovete  pen- 
sare di  essere  nella  regalissima  città  di  Napoli,  vicino  al  seggio 
di  Nilo  2.  Questa  casa  che  vedete  equa  formata,  per  questa  notte 
servirrà  per  certi  barri  ^,  furbi  e  marioli  (guardatevi  pur  voi  che 
non  vi  faccian  vedovi  di  qualche  cosa  che  portate  adosso);  equa 
costoro  stenderranno  le  sue  rete"*:  e  zara  a  chi  tocca 5.  Da  questa 
parte  si  va  alla  stanza  del  Candelaio,  id  est  messer  Bonifacio,  e 
Carubina  moglie,  e  quella  di  messer  Bartolomeo.  Da  quest'altra 
si  va  a  quella  della  signora  Vittoria,  e  di  Gioan  Bernardo  pit- 
tore e  Scaramuré  che  fa  del  necromanto  ^.  Per  questi  contomi, 
non  so  per  qual'occasioni,  molto  spesso  si  va  rimenando  un  sol- 
[41]  lennissimo  pedante  detto  Mamfurio.  Io  mi  assicuro  che  le  ve- 
drete tutti.  E  la  ruffiana  Lucia  per  le  molte  facende  bisogna  che 
non  poche  volte  vada  e  vegna;  vedrete  Pollula  col  suo  magister'' 


1.  Furfante. 

2.  Uno  dei  cinque  quartieri  in  cui  era  divisa  Napoli  (o  Nido). 

3.  Furfanti. 

4.  Plurale,  per  «reti». 

5.  A  chi  tocca,  suo  danno. 

6.  Negromante,  mago. 

7.  «Maestro». 


PROPROLOGO  277 

per  il  più:  quest'è  un  scolare  da  inchiostro  nero  e  bianco^;  ve- 
drete il  paggio  di  Bonifacio  Ascanio:  un  servitor  da  sole  e  da 
candela^.  Mochione,  garzone  di  Bartolomeo,  non  è  caldo  né 
freddo,  non  odora  né  puzza.  In  Sanguino,  Barra,  Marca  e  Coreo- 
vizzo  contemplarrete  in  parte  la  destrezza  della  mariolesca  di- 
sciplinalo. Conoscerrete  la  forma  dell'alchimicii'  barrarle  ^^  in 
Cencio.  E  per  un  passatempo  vi  si  farrà  presente  Consalvo  spe- 
ciale, Marta  moglie  di  Bartolomeo,  et  il  facetissimo  signor  Otta- 
viano. Considerate  chi  va  chi  viene,  che  si  fa  che  si  dice,  come 
s'intende  come  si  può  intendere:  che  certo  contemplando  que- 
st'azzioni  e  discorsi  umani  col  senso  d'Eraclito  o  di  Democri- 
to 1^,  arrete  occasion  di  molto  o  ridere  o  piangere. 

Eccovi  avanti  gli  occhii:  ociosi  principii,  debili  orditure  i'^, 
vani  pensieri,  frivole  speranze,  scoppiamenti  di  petto  ^5,  scover- 
ture  di  corde  "^,  falsi  presuppositi  ^~',  alienazion  di  mente,  poetici 
furori,  offuscamento  di  sensi,  turbazion  di  fantasia,  smarito  pe- 
regrinaggio  d'intelletto;  fede  sfrenate,  cure  insensate,  studi  in- 
certi, somenzei^  intempestive,  e  gloriosi  frutti  di  pazzia. 

Vedrete  in  un  amante  suspir,  lacrime,  sbadacchiamenti  ^^, 
tremori,  sogni,  rizzamenti^o,  «e  un  cuor  rostito  nel  fuoco  d'amo- 
re»; pensamenti,  astrazzioni,  colere^',  maninconie,  invidie,  que-  [43] 
relè,  e  men  sperar  quel  che  più  si  desia.  Qui  trovarrete  a  l'animo 
ceppi,  legami,  catene,  cattività,  priggioni,  eteme  ancor  pene, 
martiri  e  morte;  alla  ritretta^^  del  core,  strali,  dardi,  saette,  fuo- 
chi, fiamme,  ardori,  gelosie,  suspetti,  dispetti,  ritrosie,  rabbie  et 

8.  Allusione  oscena  alla  pederastia  tradizionale  di  cui  sono  accusati  i  pe- 
danti nei  confronti  dei  loro  scolari. 

9.  Altra  allusione  oscena,  questa  volta  alla  pederastia  di  Bonifacio. 

10.  Il  mondo  dei  furfanti. 

11.  Plurale  femminile. 

12.  Truffe,  imbrogli. 

13.  Secondo  la  tradizionale  distinzione  tra  i  due  antichi  filosofi  greci, 
Eraclito  sarebbe  stato  il  pessimista  assoluto,  Democrito  l'ottimista  convinto. 

14.  Piani,  disegni. 

15.  Esplosioni  d'amore. 

16.  Rivelazioni  di  sentimenti  (propriamente,  budella). 

17.  Supposizioni. 

18.  Semi,  inizi  (di  pazzia). 

19.  Sbadigli. 

20.  Erezioni  sessuali  (ma  il  termine  è  ambiguo  con  innalzamenti,  subli- 
mazioni). 

21.  Collere. 

22.  Al  rifugio. 


278  CANDELAIO 

oblii,  piaghe,  ferite,  omei^',  folli 2-^,  tenaglie,  incudini  e  martelli; 
«l'archiero  faretrato,  cieco  e  ignudo» 2'.  L'oggetto  poi  del  core, 
un  cuor  mio,  mio  bene,  mia  vita,  mia  dolce  piaga  e  morte,  dio, 
nume,  poggio,  riposo,  speranza,  fontana,  spirto,  tramontana 
stella,  et  un  bel  sol  ch'a  l'alma  mai  tramonta;  et  a  l'incontro 
ancora,  crudo  cuore,  salda  colonna,  dura  pietra,  petto  di  dia- 
mante, e  cruda  man  ch'ha  chiavi  del  mio  cuore,  e  mia  nemica, 
e  mia  dolce  guerriera,  versaglio-"^  sol  di  tutti  miei  pensieri,  «e 
bei  son  gli  amor  miei  non  quei  d'altrui  »^^.  Vedrete  in  una  di 
queste  femine  sguardi  celesti,  suspiri  infocati,  acquosi  pensa- 
menti, terestri  desiri  e  aerei  fottimenti:  co  riverenza  de  le  caste 
orecchie,  è  una  che  sei  prende  con  pezza  bianca  e  netta  di  bu- 
cata^s.  La  vedrete  assalita  da  un  amante  armato  di  voglia  che 
scalda,  desir  che  cuoce,  carità  ch'accende,  amor  ch'infiamma, 
brama  ch'avvampa,  e  avidità  ch'ai  ciel  mica^^  e  sfavilla.  Ve- 
drete ancora  (a  fin  che  non  temiate  diluvio  universale) '°  l'arco 
[45]  d'amore ^1  il  quale  è  simile  a  l'arco  del  sole,  che  non  è  visto  da 
chi  vi  sta  sotto,  ma  da  chi  n'è  di  fuori:  perché  de  gli  amanti 
l'uno  vede  la  pazzia  dell'altro  e  nisciun  vede  la  sua.  Vedrete 
un'altra  di  queste  femine,  priora  delle  Repentite '^  per  l'ommis- 
sione  di  peccati  che  non  fece  a  tempo  ch'era  verde:  adesso  do- 
lente come  l'asino  che  porta  il  vino^';  ma  che?  un'angela, 
un'ambasciadora,  secretaria,  consigliera,  referendaria '•♦,  novelle- 
rà'^; venditrice,  tessitrice,  fattrice'^,  negociante  e  guida;  mer- 
cantessa di  cuori,  e  ragattiera  che  le  compra  e  vende  a  peso, 

23.  Lamenti. 

24.  Mantici. 

25.  Cupido,  il  dio  Amore. 

26.  Bersaglio. 

27.  In  tutto  questo  passo  il  Bruno  raccoglie  satiricamente  un  catalogo  di 
formule  e  frasi  del  Petrarca  e  del  petrarchismo  contemporaneo. 

28.  L'espressione  significa  che  la  donna  non  è  vergine,  anzi  è  una  prostituta 
lurida. 

29.  Scintilla. 

30.  Allusione  al  mito  biblico  e  all'arcobaleno  con  cui  Dio  promette  a  Noè 
che  non  si  avranno  più  flagelli  del  genere. 

31.  Quello  di  Cupido,  che  ferisce  le  loro  vittime  facendole  innamorare  (non 
senza  un'allusione  erotica). 

32.  Convertite  (con  allusione  ai  monasteri  dove  venivano  accolte  le  donne 
traviate  che  si  erano  pentite). 

33.  Allusione  al  proverbio  dell'asino  che  trasporta  il  vino  e  beve  l'acqua. 

34.  Relatrice. 

35.  Narratrice. 

36.  Chi  provvede  a  tutto. 


PROPROLOGO  279 

misura  e  conto:  quella  ch'intrica  e  strica^^,  fa  lieto  e  gramo, 
inpiaga  e  sana,  sconforta  e  riconforta,  quando  ti  porta  o  buona 
nova  o  ria,  quando  porta  de  polli  magri  o  grassi;  advocata,  in- 
tercessora,  mantello,  rimedio,  speranza,  mediatrice,  via  e  porta: 
quella  che  volta ^^  l'arco  di  Cupido,  conduttrice  del  strai  del  dio 
d'amore;  nodo  che  lega,  vischio  ch'attacca,  chiodo  ch'accoppia, 
orizonte  che  gionge  gli  emisferi".  Il  che  tutto  viene  a  effettuare 
mediantihus  fìnte  bazzane^*",  grosse  panzanate"'^  suspiri  a  posta, 
lacrime  a  comandamento,  pianti  a  piggione,  singulti  che  si 
muoiono  di  freddo"*^;  berte^^  masculine,  baie  illuminate''-*,  lu- 
singhe affamate,  scuse  volpine ■*',  accuse  lupine""^,  e  giuramenti 
che  muion'*^  di  fame,  lodar  presenti  biasmar  assenti,  servir  tutti 
amar  nisciuno:  «t'aguza  l'apetito,  e  poi  digiuni».  ■  [47] 

Vedrete  ancor  la  prosopopeia  e  maestà  d'un  omo  masculini 
generis'^^.  Un  che  vi  porta  certi  suavioli"''^  da  far  sdegnar  un  sto- 
maco di  porco  o  di  gallina:  un  instaurator  di  quel  lazio^"  anti- 
quo, un  emulator  demostenico'';  un  che  ti  suscita  Tullio  dal 
più  profondo  e  tenebroso  centro;  concinitor^^  di  gesti  de  gli  eroi. 
Eccovi  presente  un'acutezza  da  far  lacrimar  gli  occhi,  gricciar^^ 
i  capelli,  stuppefar  i  denti;  petar,  rizzar,  tussir  e  starnutare.  Ec- 
covi un  di  compositor  di  libri  bene  meriti  di  republica,  postil- 

37.  Districa. 

38.  Dirige. 

39.  Propriamente,  il  cerchio  metallico  che  univa,  negli  antichi  mappa- 
mondi in  uso  al  tempo  del  Bruno,  circondati  dai  cieli  secondo  l'astronomia 
tolemaica,  i  due  emisferi  celesti  (e,  nell'immagine,  allude  all'opera  della  ruf- 
fiana). 

40.  La  bazzana  era  una  pelle  di  capretto  usata  per  rilegare  libri;  qui  vuol 
significare  scritto,  messaggio.  Mediantihus  vale  mediamente  in  lessico  pedan- 
tesco. 

41.  Bugie,  fandonie. 

42.  Perché  sono  falsi,  non  nascono  da  autentico  dolore  e  sentimento. 

43.  Beffe,  inganni  (ma  unite  con  masculine  è  gioco  di  parole  col  nome  pro- 
prio femminile  Berta,  con  l'ambiguità  del  rapporto  sessuale). 

44.  Beffe  geniali  (una  baia  vale  pure  come  una  pezza  di  stoffa  scura:  ripu- 
lita, di  conseguenza,  dalle  macchie  dell'uso  nel  fottere). 

45.  Abili,  astute. 

46.  Furiose,  accanite  (di  lupi). 

47.  Muoiono. 

48.  «Di  genere  maschile». 

49.  Baci. 

50.  Latino. 

51.  Emulo  di  Demostene,  il  celebre  autore  greco. 

52.  Cantore. 

53.  Arricciare. 


28o  CANDELAIO 

latori,  gì  osatoli,  construttori,  metodici,  additori^^,  scoliatori '5, 
traduttori,  interpreti,  compendiarli  ^6,  dialetticarii  ^^  novelli,  ap- 
paritori^s  con  una  grammatica  nova,  un  dizzionario  novo,  un 
lexicon^'^,  una  varia  lectio^^,  un  approvator  d'autori,  un  appro- 
vato autentico,  con  epigrammi  greci,  ebrei,  latini,  italiani,  spa- 
gnoli, francesi  posti  in  fronte  libri^K  Onde  l'uno  e  l'altro,  e  l'altro 
e  l'uno,  vengono  consecrati  all'immortalità,  come  benefattori 
del  presente  seculo  e  futuri,  obligati  per  questo  a  dedicarli  sta- 
tue e  colossi  ne'  mediterranei  mari  e  nell'oceano,  et  altri  luochi 
inabitabili  de  la  terra.  La  lux  perpetua  vien  a  fargli  di  sberret- 
tate; e  con  profonda  riverenza  se  gl'inchina  il  secula  seculorum^^; 
ubligata  la  fama  di  fame  sentir  le  voci  a  l'uno  e  l'altro  polo,  e 
d'assordir  co  i  cridi,  strepiti  e  schiassi  ^^  il  Borea  e  l'Austro,  et  il 
mar  Indo  e  Mauro.  Quanto  campeggia  bene  (mi  par  veder  tante 
perle  e  margarite^  in  campo  d'oro)  un  discorso  latino  in  mezzo 
l'italiano,  un  discorso  greco  [in]  mezzo  del  latino;  e  non  lasciar 
[49]  passar  un  foglio  di  carta  dove  non  appaia  al  meno  una  dizzio- 
netta,  un  versetto,  un  concetto  d'un  peregrino  carattere  et 
idioma.  Oimè  che  mi  danno  la  vita,  quando  o  a  forza  o  a  buona 
voglia,  e  parlando  e  scrivendo,  fanno  venir  a  proposito  un  ver- 
setto d'Omero,  d'Esiodo,  un  stracciolin  di  Plato  o  Demosthenes 
greco.  Quanto  ben  dimostrano  che  essi  son  quelli  soli  a  quai 
Saturno  ha  pisciato  il  giudizio  in  testa,  le  nove  damigelle  di 
Pallade^'  un  comucopia^^^  di  vocaboli  gli  han  scarcato  tra  la 
pia  e  dura  matre"^":  e  però  è  ben  conveniente  che  sen  vadino 
con  quella  sua  prosopopeia,  con  quell'incesso  gravigrado^^,  bu- 

54.  Coloro  che  compiono  aggiunte  e  chiarimenti  a  un  testo. 

55.  Commentatori. 

56.  Autori  di  compendi,  di  riassunti. 

57.  Dialettici. 

58.  Imbonitori,  banditori. 

59.  Dizionario. 

60.  «Variante»  (nel  linguaggio  filologico). 

61.  Nel  frontespizio. 

62.  L'allusione  alla  lux  perpetua  e  ai  saecula  saeculorum  che  vengono  a  pro- 
sternarsi al  pedante  vuole  significare  che,  con  tutta  la  sua  inutile  dottrina,  è 
un  morto,  non  un  vivo. 

63.  Rumore,  chiasso. 

64.  Perle. 

65.  Le  Muse. 

66.  Un'immensa  abbondanza. 

67.  Le  due  membrane  che  avvolgono  il  cervello  e  il  midollo  spinale. 

68.  A  passi  lenti,  misurati. 


PROPROLOGO  281 

sto  ritto,  testa  salda  et  occhii  in  atto  di  una  modesta  altiera 
circumspeczione^^.  Voi  vedrete  un  di  questi  che  mastica  dot- 
trina, olface^o  opinioni,  sputa  sentenze,  minge  autoritadi,  eructa 
arcani,  exuda  chiari  e  lunatici''  inchiostri,  semina  ambrosia  e 
nectar  di  giudicii,  da  fame  la  credenza^^  a  Ganimende  e  poi  un 
brindes  al  fulgorante  Giove.  Vedrete  un  pubercola'^  sinonimico, 
epitetico,  appositorio,  suppositorio  ^'':  bidello  di  Minerva,  amo- 
stante ''^  di  Pallade,  tromba  di  Mercurio,  patriarca  di  Muse,  e 
dolfino'"^  del  regno  apollinesco  (poco  mancò  ch'io  non  dicesse 
«polledresco»^^). 

Vedrete  ancor  in  confuso  tratti  di  marioli,  statagemme  di 
barri,  imprese  di  furfanti;  oltre,  dolci  disgusti,  piaceri  amari,  de- 
terminazion  folle,  fede  fallite,  zoppe  speranze,  e  caritadi  scarse; 
giudicii  grandi  e  gravi  in  fatti  altrui,  poco  sentimento  ne'  pro- 
pri; f emine  virile,  effeminati  maschii;  «tante  voci  di  testa  e  non 
di  petto »^^:  «chi  più  di  tutti  crede  più  s'inganna»;  «e  di  scudi 
l'amor  universale».  Quindi  procedeno  febbre  quartane,  cancheri 
spirituali,  pensieri  manco  di  peso,  sciocchezze  traboccanti,  in-  [51] 
toppi  baccellieri"^^,  granchiate^"  maestre,  e  sdrucciolate  da  fiac- 
cars'  il  collo;  oltre,  il  voler  che  spinge,  il  saper  ch'appressa,  il  far 
che  frutta;  «e  diligenza  madre  de  gli  effetti».  In  conclusione  ve- 
drete in  tutto  non  esser  cosa  di  sicuro:  ma  assai  di  negocio,  di- 
fetto a  bastanza,  poco  di  bello,  e  nulla  di  buono.  —  Mi  par  udir 
i  personaggi;  a  dio.  [53] 


69.  Scardo  dato  all'intorno,  dairalto  al  basso. 

70.  Odora,  fiuta. 

71.  Sublimi. 

72.  Assaggiare  i  cibi  e  le  bevande  da  parte  dei  coppieri  e  degli  scalchi 
prima  che  fossero  date  al  signore,  per  assicurarsi  che  non  fossero  avvelenate. 

73.  Educatore  di  ragazzi. 

74.  Voci  derivate  da  categorie  grammaticali,  che  alludono  alla  pedanteria 
scolastica  di  Mamfurio. 

75.  Titolo  di  governatore  presso  gli  Arabi. 

76.  Delfino,  principe  ereditario. 
yy.  Cioè  degli  animali. 

78.  Parole  insincere,  ingannevoli. 

79.  Aggettivo  scherzosamente  equivoco,  che  può  derivare  sia  da  baccello  = 
sciocco,  sia  dal  grado  accademico,  a  precisare  di  quale  genere  siano  gli  spropo- 
siti (intoppi). 

80.  Granchi,  svarioni,  errori  madornali. 


BIDELLO 


Prima  ch'i'  parie,  bisogna  ch'i'  m'iscuse.  Io  credo  che  si  non 
tutti,  la  maggior  parte  al  meno  mi  dirranno:  «Cancaro  vi  man- 
gia il  naso:  dove  mai  vedeste  comedia  uscir  col  bidello?».  Et  io 
vi  rispondo:  il  mal  an  ■  che  Dio  vi  dia,  prima  che  fussero  come- 
die,  dove  mai  furon  viste  comedie?  e  dove  mai  fuste  visti  prima 
che  voi  fuste?  E  pare  ad  voi  ch'un  suggetto  come  questo  che  vi 
si  fa  presente  questa  sera,  non  deve  venir  fuori  e  comparire  con 
qualche  privileggiata  particularità?  Un  eteroclito  ^  babbuino,  un 
naturai  coglione,  un  moral  menchione,  una  bestia  tropologica, 
un  asino  anagogico'  come  questo-^,  vel  farro  degno  d'un  conne- 
stable^,  si  non  mei  fate  degno  d'un  bidello.  Volete  ch'io  vi  dica 
chi  è  lui?  voletelo  sapere?  desiderate  ch'io  vel  faccia  intendere? 
Costui  è  (vel  dirrò  piano):  il  Candelaio.  Volete  ch'io  vel  dimo- 
stri? desirate  vederlo?  Eccolo.  Fate  piazza;  date  luoco;  retiratevi 
dalle  bande,  si  non  volete  che  quelle  coma  vi  faccian  male,  che 
[55]  fan  fuggir  le  genti  oltre  gli  monti  ^ 


1.  Malanno. 

2.  Strano,  straordinario. 

3.  Allusione  ironica  alla  tropologia  e  all'analogia,  due  sensi  morali  o  tipi  di 
allegoria. 

4.  Come  il  Candelaio. 

5.  Alto  grado  militare  nelle  antiche  monarchie  (in  particolare,  Normanni, 
Angioini.  Francesi). 

6.  Allusione  a  Matteo,  XXIV,  16,  che  descrive  le  tribolazioni  prossime  nella 
Giudea  (chi  è  nelle  pianure  fugga  sui  monti). 


ATTO  PRIMO 

SCENA  PRIMA 

Bonifacio,  Ascanio 

Bonifacio.  -  Va  lo  ritrova  adesso  adesso;  e  forzati  di  me- 
narlo equa.  Va  fa,  e  vieni  presto. 

Ascanio.  —  Mi  forzarrò  di  far  presto  e  bene.  Meglio  un  poco 
tardi,  che  un  poco  male:  sat  cito,  si  sat  bene^. 

Bonifacio.  —  Lodato  sii  Idio:  pensavo  d'aver  un  servitore 
solamente,  et  ho  servitore,  mastro  di  casa,  satrapo,  dottore  e 
consigliero;  e  dicon  poi  ch'io  son  povero  gentil  omo.  Io  ti  dico 
in  nome  della  benedetta  coda  de  l'asino  ch'adorano  a  Castello  i 
Genoesi^:  fa  presto,  tristo,  e  mal  volentieri;  e  guardati  di  entrare 
in  casa,  intendi  tu?  chiamalo  che  si  faccia  alla  fenestra,  e  gli 
dirrai  come  ti  ho  detto.  Intendi  tu? 

Ascanio.  -  Signor  sì;  io  vo.  [57] 

scena  II 
Bonifacio  solo 

L'arte  supplisce  al  difetto  della  natura,  Bonifacio.  Or  poi  ch'a 
la  mal'ora  non  posso  far  che  questa  traditora  m'ame,  o  che  al 
meno  mi  remiri  con  un  simulato  amorevole  sguardo  d'occhio, 
chi  sa?  forse  quella  che  non  han  mossa  le  paroli  di  Bonifacio, 
l'amor  di  Bonifacio,  il  veder  spasmare  Bonifacio,  potrà  esser 
forzata  con  questa  occolta  filosofia.  Si  dice  che  l'arte  magica  è  di 
tanta  importanza  che  contra  natura  fa  ritornar  gli  fiumi  a  die- 


1.  Motto  di  Catone:  «Abbastanza  in  fretta  se  abbastanza  bene». 

2.  Allusione  alla  reliquia  venerata  a  Genova,  che  si  diceva  essere  dell'asina 
con  cui  Gesù  fece  il  suo  ingresso  in  Gerusalemme. 


284  CANDELAIO 

tro,  fissar  il  mare,  muggire  i  monti,  intonar'  l'abisso,  proibir^  il 
sole,  despiccar^  la  luna,  sveller  le  stelle,  toglier  il  giorno  e  far 
fermar  la  notte;  però  l'Academico  di  nulla  Academia-*,  in  quel- 
l'odioso titolo  e  poema  smarrito,  disse: 

Don'a'  rapidi  fiumi  in  su  ritomo, 
smuove  de  l'alto  ciel  l'aurate  stelle, 
fa  sii  giorno  la  notte,  e  nott'il  giorno. 
E  la  luna  da  l'orbe  proprio  svelle 
e  gli  cangia  in  sinistro  il  destro  corno, 
e  del  mar  l'onde  ingonfia  e  fissa  quelle. 
Terr',  acqua,  fuoco  et  aria  despiuma^, 
et  al  voler  uman  fa  cangiar  piuma. 

Di  tutto  si  potrebbe  dubitare:  ma  circa  quel  ch'ultimamente 
dice  quanto  all'affetto  d'amore,  ne  veggiamo  l'esperienza  d'ogni 
giorno.  Lascio  che  del  magistero  di  questo  Scaramuré  sento  dir 
cose  maravigliose  a  fatto.  Ecco:  vedo  un  di  quei  che  rubbano  la 
vacca  e  poi  donano  le  coma^  per  l'amor  di  Dio,  veggiamo  che 
porta  di  bel  novo. 

SCENA  III 

Messer  Bonifacio,  messer  Bartolomeo  raggionano; 
Pollula  e  Sanguino  accolti  ascoltano 

Bartolomeo.  -  Crudo  amore,  essendo  tanto  ingiusto  e  tanto 
violento  il  regno  tuo,  che  vói  dir  che  perpetua  tanto?  per  che  fai 
che  mi  fugga  quella  ch'io  stimo  e  adoro?  per  che  non  è  lei  ad  me, 
come  io  son  cossi  strettissimamente  a  lei  legato?  si  può  imaginar 
questo?  et  è  pur  vero.  Che  sorte  di  laccio  è  questa?  di  dui  fa  l'un 
incatenato  a  l'altro,  e  l'altro  più  che  vento  libero  e  sciolto. 


1.  Parlare. 

2.  Fermare. 

3.  Staccare  dal  cielo,  far  scendere  dal  cielo. 

4.  Titolo  con  cui  il  Bruno  indica  se  stesso,  proclamando  la  volontà  di  es- 
sere libero  da  condizionamenti  di  corti,  obblighi  accademici,  conformismi  filo- 
sofici, politici,  letterari  ecc. 

5.  In  senso  figurato,  cambiare,  mutare. 

6.  Vedo  uno  che  ha  fama  di  adultero.  La  vacca  è  la  donna  di  facili  costumi. 


ATTO  PRIMO  285 

Bonifacio.  —  Forse  ch'io  son  solo?  uh,  uh,  uh... 

Bartolomeo.  —  Che  cosa  avete,  messer  Bonifacio  mio?  pian- 
gete la  mia  pena? 

Bonifacio.  —  Et  il  mio  martire  ancora.  Veggo  ben  che  séte 
percosso,  vi  veggio  cangiato  di  colore,  vi  ho  udito  adesso  lamen- 
tare, intendo  il  vostro  male:  e  come  partecipe  di  medesma  pas- 
sione e  forse  peggior,  vi  compatisco.  Molti  sono  de  giorni  che  ti 
ho  visto  andar  pensoso  et  astratto,  attonito,  smarrito  (come 
credo  ch'altri  mi  veggano),  scoppiar  profondi  suspir  dal  petto, 
co  gli  occhi  molli.  «Diavolo»  dicevo  io,  «a  costui  non  è  morto 
qualche  propinquo  1,  familiare  e  benefattore;  non  ha  lite  in  cor- 
te^; ha  tutto  il  suo  bisogno,  non  se  gli  minaccia  male,  ogni  cosa  [61] 
gli  va  bene;  io  so  che  non  fa  troppo  conto  di  soi  peccati;  et  ecco 
che  piange  e  plora,  il  cervello  par  che  gli  stii  in  cimbalis  male 
sonantibus^:  dumque  è  inamorato,  dumque  qualch'  umore  flem- 
matico, o  colerico,  o  sanguigno,  o  melancolico  (non  so  qual  sii 
questo  umor  cupidinesco"^),  gli  è  montato  su  la  testa».  Adesso  ti 
sento  proferir  queste  dolce  parole:  conchiudo  più  fermamente 
che  di  quel  tossicoso^  mèle  abbi  il  stomaco  ripieno. 

Bartolomeo.  —  Oimè  ch'io  son  troppo  crudamente  preso  da 
suoi  sguardi.  Ma  di  voi  mi  maraviglio,  messer  Bonifacio,  non  di 
me,  che  son  di  dui  o  tre  anni  più  giovane;  et  ho  per  moglie  una 
vecchia  sgrignuta"^  che  m'avanza  di  più  d'otto  anni.  Voi  avete 
una  bellissima  mogliera,  giovane  di  venticinque  anni,  più  bella 
della  quale  non  è  facile  trovar  in  Napoli;  e  séte  inamorato? 

Bonifacio.  -  Per  le  paroli  che  adesso  voi  avete  detto,  credo 
che  sappiate  quanto  sii  imbrogliato  e  spropositato  il  regno 
d'amore:  si  volete  saper  l'ordine,  o  disordine,  di  miei  amori, 
ascoltatemi  vi  priego. 

Bartolomeo.  -  Dite,  messer  Bonifacio,  che  non  siamo  come 
le  bestie  ch'hanno  il  coito  servile  solamente  per  l'atto  della  ge- 
nerazione: però  hanno  determinata  legge  del  tempo  e  loco;  come 


1.  Parente. 

2.  Tribunale. 

3.  «Nei  cembali  che  suonano  male»:  parodia  del  Salmo  CL,  5:  «in  cymbalis 
bene  sonantibus». 

4.  Amoroso. 

5.  Velenoso. 

6.  Gobba. 


286  CANDELAIO 

gli  asini  a  i  quali  il  sole,  particulare  o  principalemente  il  mag- 
gio, scalda  la  schena,  et  in  climi  caldi  e  temperati  generano:  e 
[63]  non  in  freddi,  come  nel  settimo  clima  et  altre  parti  più  vicine 
al  polo;  noi  altri  in  ogni  tempo  e  loco. 

Bonifacio.  -  Io  ho  vissuto  da  42  anni  al  mondo  talmente 
che  con  mulieribus  non  sum  coinquinato  ^.  Gionto  che  fui  a  que- 
sta etade  nella  quale  cominciavo  ad  aver  qualche  pelo  bianco 
in  testa,  e  nella  quale  per  l'ordinario  suol  infreddarsi  l'amore  e 
cominciar  a  venir  meno... 

Bartolomeo.  -  In  altri  cessa,  in  altri  si  cangia. 

Bonifacio.  —  ...  suol  cominciar  a  venir  meno  com'il  caldo  al 
tempo  de  l'autunno:  all'ora  fui  preso  da  l'amor  di  Carubina. 
Questa  mi  parve  tra  tutte  l'altre  belle  bellissima;  questa  mi 
scaldò,  questa  m'accese  in  fiamma  talmente,  che  mi  bruggiò  di 
sorte,  che  son  dovenuto  esca.  Or  per  la  consuetudine  et  uso  con- 
tinuo tra  me  e  lei,  quella  prima  fiamma  essendo  estinta,  il  cuor 
mio  è  rimasto  facile  ad  esser  acceso  da  nuovi  fuochi... 

Bartolomeo.  —  S'il  fuoco  fusse  stato  di  meglior  tempra,  non 
t'arrebbe  fatto  esca,  ma  cenere:  e  s'io  fusse  stato  in  luoco  di  vo- 
stra moglie,  arrei  fatto  cossi. 

Bonifacio.  —  Fate  ch'io  finisca  il  mio  discorso;  e  poi  dite 
quel  che  vi  piace. 

Bartolomeo.  -  Seguite  quella  bella  similitudine. 

Bonifacio.  -  Or  essendo  nel  mio  cor  cessata  quella  fiamma 
che  l'ha  temprato  in  esca,  facilmente  fui  questo  aprile  da  un'al- 
tra fiamma  acceso... 

Bartolomeo.  -  In  questo  tempo  s'inamorò  il  Petrarca^  e  gli 
asini  anch'essi  cominciano  a  rizzar  la  coda. 

Bonifacio.  -  Come  avete  detto? 

Bartolomeo.  -  Ho  detto  che  in  questo  tempo  s'inamorò  il 
I65I  Petrarca;  e  gli  animi,  anch'essi  si  drizzano  alla  contemplazione: 
per  che  i  spirti  ne  l'inverno  son  contratti  per  il  freddo;  ne 
l'estade  per  il  caldo  son  dispersi;  la  primavera  sono  in  una  me- 
diocre e  quieta  tempratura:  onde  l'animo  è  più  atto  alla  con- 

7.  «Non  mi  sono  imbrattato  con  donne»  (citazione  deW Apocalisse,  XIV,  4). 

8.  In  primavera,  nel  giorno  di  Pasqua,  secondo  quanto  il  poeta  confessa.  La 
congiunzione  della  sublimità  poetica  del  Petrarca  con  l'oscenità  degli  asini  che 
fanno  rizzar  la  coda  è  fortemente  parodica  e  riprende  quanto  il  Bruno  dice  nel 
Prologo. 


ATTO  PRIMO  287 

templazione  per  la  tranquillità  della  disposizion  del  corpo,  che 
lo  lascia  libero  alle  sue  proprie  operazioni. 

Bonifacio.  -  Lasciamo  queste  fìlastroccole,  venemo  a  pro- 
posizio.  All'ora  essendo  io  ito  a  spasso  a  Pusilipo^,  da  gli 
sguardi  della  signora  Vittoria  fui  sì  profondamente  saettato,  e 
tanto  arso  da  suoi  lumi,  e  talmente  legato  da  sue  catene,  che 
oimè. 

Bartolomeo.  -  Questo  animale  che  chiamano  amore,  per  il 
più  suole  assalir  colui  ch'ha  poco  da  pensare  e  manco  da  fare: 
non  eravate  voi  andato  a  spasso? 

Bonifacio.  -  Or  voi  fatemi  intendere  il  versaglio^"  del- 
l'amor vostro,  poi  che  m'avete  donata  occasion  di  discuoprirvi 
il  mio;  penso  che  voi  ancora  doviate  prendere  non  poco  refrige- 
rio confabulando  con  quelli  che  patiscono  del  medesmo  male:  si 
pur  male  si  può  dir  l'amare. 

Bartolomeo.  -  Nominativo:  la  signora  Argenteria  m'af- 
fligge; la  signora  Orelia'^  m'accora. 

Bonifacio.  -  Il  mal  an  che  Dio  dia  a  te  et  a  lei  et  a  lei. 

Bartolomeo.  —  Genitivo:  della  signora  Argenteria  ho  cura; 
della  signora  Orelia  tengo  pensiero. 

Bonifacio.  —  Del  cancaro  che  mange  Bartolomeo,  Aurelia  et 
Argentina. 

Bartolomeo.  —  Dativo:  alla  signora  Argenteria  porto  amore; 
alla  signora  Orelia  suspiro.  Alla  signora  Argenteria  et  Orelia  co- 
munmente  mi  raccomando. 

Bonifacio.  —  Vorrei  saper  che  diavolo  ha  preso  costui. 

Bartolomeo.  -  Vocativo:  o  signora  Argenteria,  per  che  mi 
lasci?  o  signora  Orelia,  per  che  mi  fuggi? 

Bonifacio.  -  Fuggir  ti  possano  tanto,  che  non  possi  aver 
mai  bene.  Va  col  diavolo:  tu  sei  venuto  per  burlarti  di  me. 

Bartolomeo.  —  E  tu  resta  con  quel  dio  che  t'ha  tolto  il  cer- 
vello, se  pur  è  vero  che  n'avesti  giamai:  io  vo  a  negociar'^,  per 
le  mie  padrone. 

9.  Posillipo. 

10.  Bersaglio. 

11.  Allusione  scherzosa  all'argento  e  alloro,  che  costituiscono  gli  oggetti 
dell'amore  di  Bartolomeo  (detti  poi  le  mie  padrone). 

12.  Avere  rapporti,  in  senso  sessuale,  ma  metaforicamente,  trattandosi  di 
metalli  preziosi. 


[67] 


288  CANDELAIO 

Bonifacio.  -  Guarda  guarda  con  qual  tiro  e  con  quanta  fa- 
cilità questo  scelerato  me  si  ha  fatto  dir  quello  che  meglio  sar- 
rebbe  stato  dirlo  a  cinquant'altri.  Io  dubito  con  questo  amore  di 
aver  sin  ora  raccolte  le  primizie  della  pazzia.  Or  alla  mal'ora 
voglio  andar  in  casa  ad  ispedir  Lucia.  Veggo  certi  furfanti  che 
ridono:  suspico  ch'arrano  udito  questo  diavol  de  dialogo  an- 
ch'essi. Amor  et  ira  non  si  puot'ascondere. 

SCENA  IV 

[Sanguino,  Pollula] 

Sanguino.  -  Ah!  ah!  ah!  ah!  oh,  che  li  sii  donato  il  pan  co  la 
balestra  ^  buffalo  d'India,  asino  di  Terra  d'Otranto,  menchione 
[69]  d'Avella,  pecora  d'Arpaia^:  forse  che  ci  ha  bisognato  molto  per 
fargli  confessare  ogni  cosa  senza  corda?  Ah!  ah!  ah!  quell'altro 
fanfalucco^  vedi  con  qual  proloquio  l'ha  saputo  tirare  a  farsi 
dire  che  è  inamorato,  e  chi  è  la  sua  dea,  et  il  mal  an  che  Dio  li 
dia,  e  come  e  quando  e  dove. 

Pollula.  —  Vi  prometto  che  costui,  quando  dice  l'officio  di 
nostra  Donna,  non  ha  bisogno  di  pregar  Dio  col  dire  «Domine, 
labia  mea  aperies»"^. 

Sanguino.  —  Che  vuol  dire  «Domino  lampia  mem  periens»? 

Pollula.  -  «Signore,  aprime  la  bocca,  a  fin  ch'io  possa  di- 
re». Et  io  dico  che  quest'orazione  non  fa  per  quelli  che  son 
pronti  a  dir  i  fatti  suoi  a  chi  le  vuol  sapere. 

Sanguino.  —  Sì:  ma  non  vedi  che  al  fine  s'è  repentito  d'aver 
detto?  però  non  gli  ne  potrà  succeder  male,  per  che  dice  la  Scrit- 
tura in  un  certo  loco:  «Chi  pecca  et  emenda,  salvo  este»^. 

Pollula.  -  Or  ecco  il  mastro:  dimoraremo  equa  tutt'oggi,  in 
[71 1   nome  del  diavolo  che  gli  rompa  il  collo. 


1.  Imprecazione,  che  significa  «sia  trattato  male,  vada  in  malora». 

2.  Ingiurie  popolaresche;  gli  asini  della  terra  di  Otranto  erano  famosi;  gli 
abitanti  di  Avella  e  Arpaia,  villaggi  presso  Nola,  erano  proverbialmente  derisi 
per  la  loro  semplicità. 

3.  Bugiardo,  inventore  di  menzogne,  di  fole. 

4.  «Signore,  aprimi  le  labbra»,  è  la  preghiera  con  cui  il  sacerdote  dà  inizio 
alla  recita  del  breviario.  Sanguino,  poi,  deforma  il  latino  ecclesiastico,  che  non 
capisce. 

5.  Deformazione  di  latino  pseudobiblico  (la  frase  non  si  trova  nella  Scrit- 
tura). 


ATTO  PRIMO  289 

SCENA  V 

Mamfurio,  Pollula,  Sanguino 

Mamfurio.  —  Bene  repperiaris,  bonae,  melioris,  optimaeque  in- 
dolis  adolescentule:  quomodo  tecum  agitur?  ut  vales?^ 

Pollula.  -  Bene. 

Mamfurio.  —  Gaudeo  sane  gratulorque  satis;  si  vales  bene  est, 
ego  quidem  valeo^:  marcitulliana^  eleganza  in  quasi  tutte  le  sue 
familiari  missorie  servata. 

Pollula.  -  Comandate  altro,  domine  Magisteri  Io  vo  oltre 
per  compir  un  negocio  con  Sanguino,  e  non  posso  induggiar  con 
voi. 

Mamfurio.  —  Oh  buttati  in  damo  i  miei  dictati,  li  quali  nel 
mio  almo  minervale  gimnasio  (excerpendoli^  dall'acumine^  del 
mio  Marte ^)  ti  ho  fatti  nelle  candide  pagine  col  calamo  di  negro 
attramento  intincto  exarareV  buttati  dico  in  cassum^,  cum  sit 
che  a  tempo  e  loco,  eorum  servata  ratione'^,  servirtene  non  sai. 
Mentre  il  tuo  preceptore,  con  quel  celeberrimo  apud  omnes 
(etiam  barbaras)  nationes^^  idioma  lazio,  ti  sciscita^',  tu  etiam  [73] 
dum^^  persistendo  nel  commercio  bestiis  similitudinario^^  del 
volgo  ignaro,  abdicaris  a  theatro  literarum^'*,  dandomi  responso 
composto  di  verbi  quali  dalla  baila ^^  gf  obstetrice  in  incunabulis^^ 


1.  «Ben  trovato,  giovane  di  buona,  migliore,  ottima  indole:  come  va?,  come 
stai?». 

2.  «Ne  sono  molto  lieto  e  mi  rallegro  vivamente,  se  tu  stai  bene  anch'io  sto 
bene». 

3.  Di  Marco  Tullio  Cicerone,  he  familiari  missorie  sono  le  Epistulae  familia- 
res  appunto  di  Cicerone. 

4.  Traendoli  fuori. 

5.  Acutezza. 

6.  Forza,  capacità. 

7.  «Scrivere»  (attramento:  «inchiostro»). 

8.  «Invano». 

9.  «Messo  in  serbo  il  loro  senso». 

10.  «Presso  tutti  i  popoli,  anche  barbari». 

11.  Interroga. 

12.  «Ancor  ora». 

13.  «Pratica  da  bestie». 

14.  «Rinunci  al  mondo  delle  lettere». 

15.  Balia. 

16.  «E  dall'ostetrica  nella  culla». 


290  CANDELAIO 

hai  susceputi'^  vel  (ut  melius  dicam)^^  suscepti.  Dimmi,  sciocco, 
quando  vuoi  dispuerascereì  ^"^ 

Sanguino.  -  Mastro,  con  questo  diavolo  di  parlare  per  gram- 
muffo^°,  o  catacunibaro^\  o  delegante  e  latrinesco^^,  amorbate  il 
cielo,  e  tutt'il  mondo  vi  burla. 

Mamfurio.  —  Sì,  se  questo  megalocosmo^^  e  machina  mundia- 
le,  o  scelesto^-*  et  inurbano,  fusse  di  tuoi  pari  referto  e  confarcito ^5. 

Sanguino.  -  Che  dite  voi  di  Cosmo  celeste  e  de  Urbano?^^ 
parlatemi  che  io  v'intenda,  che  vi  responderò. 

Mamfurio.  —  Vade  ergo  in  infaustam  nefastamque  crucem,  si- 
nistroque  Hercule^'^:  si  dedignano^^  le  Muse  di  subire  il  porcile 
del  contubernio  2^  vostro,  vel  haram  colloquii  vestrP^.  —  Che  giu- 
dicio  fai  tu  di  questo  scelesto'\  o  Pollula?  Pollula,  appositorie 
[75]  frudus  eruditionum  mearum^^,  receptaculo  del  mio  dottrinai 
seme,  ne  te  moveant  modo  a  nohis  dicta^^,  perché,  quia,  namque, 
quandoquidem  {particulae  causae  redditivae)  '-^  ho  voluto  farti  par- 
tecipe di  quella  frase  con  la  quale  lepidissime  eloquentissime- 
que^^  facciamo  le  obiurgazioni ''^,  le  quali  voi  post  hac,  deinceps^^ 
(si  li  cellcoli  ^^  vi  elargiranno  quel  ch'hanno  a  noi  concesso),  al- 
l'inverso de  vostri  erudiendi''^  descepoli,  imitar  potrete. 

Pollula.  —  Bene:  ma  bisogna  farle  con  proposito  et  occasione. 

17.  Hai  ricevuto. 

18.  «0,  per  meglio  dire». 

19.  Neologismo  latino  coniato  dal  Bruno:  uscire  dalla  fanciullezza,  cessare 
d'essere  fanciullo  (ma  ce  l'allusione  a  S.  Paolo,  /  Corinzi,  XIII,  11). 

20.  Grammatica,  per  deformazione  scherzosa. 

21.  Oscuro,  come  sono  le  catacombe. 

22.  Deformazione  scherzosa  di  «elegante  e  latinesco». 

23.  L'universo. 

24.  Scellerato. 

25.  Ricolmo  e  ripieno. 

26.  Sanguino  equivoca  sulle  parole  dotte  pronunciate  da  Mamfurio. 

27.  «Va'  dunque  sull'infausta  e  nefasta  croce»,  in  malora. 

28.  Disdegnano. 

29.  Compagnia. 

30.  «Ovvero  porcile  della  vostra  compagnia». 

31.  Malvagio. 

32.  «Per  modo  di  apposizione,  frutto  delle  mie  erudizioni». 

33.  «Non  ti  turbino  dunque  le  parole  che  ho  detto». 

34.  «Particelle  causali». 

35.  «Con  estrema  eleganza  ed  eloquenza». 

36.  Rimproveri. 

37.  «In  seguito». 

38.  Gli  dèi. 

39.  Che  devono  essere  ammaestrati. 


ATTO  PRIMO  291 

Mamfurio.  -  La  causa  della  mia  excandescentia'^^  è  stata  il 
vostro  dire  «Non  posso  induggiar  con  voi»;  debuisses  dicere,  vel 
elegantius  (infinitivo  antecedente  subiunctivum)  dicere  debuisses: 
«Excellentia  tua,  erudizione  tua,  non  datur,  non  conceditur  mihi 
cum  tuis  dulcissimis  musis  ocium»'*K  Poscia  quel  din  «con  voi», 
vel  ethruscius'^^  «vosco»,  nec  bene  dicitur  latine  respectu  unius,  nec 
urbane'*^  inverso  di  togati  e  gimnasiarchi-^-^. 

Sanguino.  —  Vedete  vedete  come  va  el  mondo:  voi  siete  ac- 
cordati, et  io  rimagno  fuori  come  catenaccio  ■♦5.  Di  grazia,  domine 
magister,  siamo  amici  ancora  noi:  perché,  ben  che  io  non  sii  atto   [77] 
di  essere  soggetto  alla  vostra  verga,  idest  esservi  discepolo,  potrò 
forse  servirvi  in  altro. 

Mamfurio.  —  Nil  mihi  vobiscum'^^. 

Sanguino.  -  Et  con  spiritu  to-*^. 

Mamfurio.  —  Ah!  ah!  ah!  Come  sei,  Pollula,  adiunto  socio  a 
questo  bruto? 

Sanguino.  —  Brutto -^^  o  bello,  al  servizio  di  vostra  Maestà, 
onorabilissimo  signor  mio. 

Mamfurio.  —  Questo  mi  par  molto  disciplinabile  "'^  e  non 
cossi  inmorigerato  5°  come  da  principio  si  monstrava,  per  che 
mi  dà  epiteti  molto  urbani  et  appropriati. 

Pollula.  —  Sed  a  principio  videbatur  libi  homo  nequam^^. 

Mamfurio.  —  Togli  via  quel  «nequam»:  quantumque  sii  as- 
sumpto  nelle  sacre  pagine^^,  non  è  però  dictio  ciceroniana^^  «Tu 

40.  Escandescenza,  ira. 

41.  «Avresti  dovuto  dire,  o,  per  esprimermi  con  maggior  eleganza  —  fa- 
cendo precedere  l'infinito  al  congiuntivo  —  dire  avresti  dovuto:  "Dalla  tua  ec- 
cellenza, dalla  tua  erudizione,  non  è  dato,  non  è  concesso  indugiarmi  con  le  tre 
dolcissime  muse"». 

42.  «O  in  modo  più  toscano». 

43.  «Non  è  ben  detto  in  latino  quando  è  riferito  a  una  sola  persona,  né  in 
modo  gentile». 

44.  Maestri  di  scuola. 

45.  Sono  escluso  dalla  conversazione. 

46.  «Non  ho  nulla  a  che  fare  con  voi». 

47.  Sanguino  equivoca  sulle  parole  di  Mamfurio,  e  riconoscendo  in  esse 
qualcosa  della  formula  liturgica  Dominus  vobiscum,  dà,  con  popolaresca  defor- 
mazione, la  rispósta  consueta  nella  liturgia. 

Altro  equivoco  di  Sanguino. 


Che  può  essere  educato,  ammaestrato. 

Rozzo,  grossolano. 

«Eppure  al  principio  ti  sembrava  uomo  malvagio». 

La  Bibbia. 

«Espressione  ciceroniana». 


292  CANDELAIO 

vivendo  bonos,  scribendo  sequare  peritos»^'^,  disse  il  ninivita  Gio. 
Dispauterio55  seguito  dal  mio  preceptore  Aloisio  Antonio  Side- 
cino  Sarmento  Salano  successor  di  Lucio  Gio.  Scoppa '^  ex  vo- 
luntate  heredis^''.  Dicas  igitur  «non  aequum»,  prima  dictionis  litera 
diphtongata^^,  ad  dijferentiam  della  quadrupede  substantia  ani- 
mata sensitiva,  quae  dìpthongum  non  admittit  in  principio. 

Sanguino.  -  Dottissimo  signor  maester,  è  forza  che  vi  chie- 
diamo licenza,  per  che  ne  bisogna  al  più  tosto  esser  con  messer 
Gioan  Bernardo  pittore.  A  dio. 

Mamfurio.  -  Itene  dumque  co  i  fausti  volatili  5^.  -  Ma  chi  è 
questa  che  con  quel  calatho  in  brachiis^"  me  si  fa  obviaì^^  È  una 
mulierciila,  quod  est  per  ethimologiam  «mollis  Hercules»,  apposita 
iuxta  se  posita^^:  sexo  molle,  mobile,  fragile  et  inconstante,  al 
contrario  di  Ercole.  O  bella  etimologia:  è  di  mio  proprio  Marte^' 
or  ora  deprompta^.  Or  dumque  quindi  propriam  versus  [do- 
mum]^^  movo  il  gresso^^,  per  che  voglio  notarla  maioribus  lite- 
ris^^  nel  mio  propriarum  elucubrationum  libro^^.  Nulla  dies  sine 
linea^'^. 


54.  «Nella  vita  segui  i  buoni,  nello  scrivere  gli  esperti». 

55.  Jean  Despautères  o  Van  Pauteren,  grammatico  belga,  nato  a  Ninove  nel 
Brabante  (da  cui  l'altro  nome,  con  cui  è  noto,  di  Jean  le  Ninivite:  il  Ninivita) 
nel  1460  e  morto  nel  1520  a  Comines,  autore  dei  Commentarii  grammatici; 
Mamfurio  confonde  e  storpia  i  nomi  di  due  grammatici  napoletani,  Luigi  An- 
tonio Sompano  (detto  Sidecino  o  Sedecino,  cioè  «Sedere»  per  un  gioco  equi- 
voco di  parole  derivato  da  un'infelice  frase  contenuta  in  un  suo  scritto),  e  Ser- 
gio Sarmento  Solano,  che  scrissero  varie  opere  in  collaborazione. 

56.  Lucio  Giovanni  Scoppa,  altro  grammatico  napoletano,  morto  nel  1549. 

57.  «Per  la  volontà  degli  eredi»  dello  Scoppa,  che  cedettero  probabilmente 
i  locali  del  maestro  defunto  al  celebre  Sompano. 

58.  «Dirai  infatti:  "Non  è  giusto"  con  la  prima  sillaba  della  parola  ditton- 
gata, a  differenza  della  quadrupede  sostanza  animale  sensitiva,  che  non  con- 
tiene un  dittongo  all'inizio»  (cioè  il  «cavallo»,  in  latino  equus). 

59.  Traduce  la  formula  latina  di  saluto  Ite  bonis  avibtis,  ma  la  traduzione 
nel  linguaggio  pedantesco  ha  un  effetto  irresistibilmente  comico. 

60.  «Canestro  al  braccio». 

61.  «Incontro». 

62.  «Una  donnetta,  cioè,  secondo  l'etimologia,  un  molle  Ercole,  mettendo 
insieme  gli  opposti». 

63.  Dal  mio  ingegno. 

64.  «Cavata  fuori». 

65.  «Verso  la  mia  casa». 

66.  Passo. 

67.  «A  grandi  lettere». 

68.  «Il  libro  dei  miei  pensieri  originali». 

69.  «Non  un  giorno  senza  una  linea»:  è  il  celebre  motto  che  Plinio  riferisce 
essere  stato  di  Apelle. 


ATTO  PRIMO  293 

SCENA  VI 

Lucia  sola 

Oimè  son  stanca,  voglio  riposarmi  equa:  tutta  questa  notte 
(non  la  voglio  maldire)  son  stata  a  far  la  guarda  in  piedi  e  pa- 
scermi di  fumo  di  rosto  et  odor  di  pignata^  grassa;  et  io  sono 
come  il  rognone,  misera  me,  magra  in  mezzo  al  sevo^.  Or  pen- 
siamo ad  altro,  Lucia;  poi  che  sono  in  loco  dove  non  mi  vede 
alcuno,  voglio  contemplar  che  cose  son  queste  che  messer  Boni- 
facio manda  alla  signora  Vittoria:  qua  son  de  gravioli^,  targhe 
di  zuccaro"",  mustaccioli  di  San  Bastiano  5;  vi  son  più  basso  più 
sorte  di  confetture;  vi  è  al  fondo  una  pòlicia"^:  e  son  versi  in 
fede  mia.  Per  mia  fé,  costui  è  doventato  poeta.  Or  leggiamo: 

Ferito  m'hai  o  gentil  signora  il  mio  core 
e  me  hai  impresso  all'alma  gran  dolore 
e  si  non  mei  credi  guarda  al  mio  colore 
che  si  non  fusse  ch'io  ti  porto  tanto  amore 
quanto  altri  amanti  mai  che  sian  d'onore 
hanno  portato  alle  loro  amate  signore 
cose  farrei  assai  di  proposito  fore 
però  ho  voluto  essere  della  presente  autore 
spento  7  di  tue  bellezze  dal  gran  splendore 
acciò  comprendi  per  di  questa  il  tenore 
che  si  non  soccorri  al  tuo  Benefacio,  more. 
Di  dormire,  mangiar,  bere,  non  prende  sapore 
non  pensando  ad  altro  ch'a  te  tutte  l'ore 
smenticato^  di  padre  madre  fratelli  e  sore^. 


1.  Minestra  di  cavoli  condita  con  prosciutto  e  lardo  (poi  la  pentola  in  cui 
veniva  cotta:  pignatta). 

2.  Il  rene  è  avvolto  da  un  involucro  di  grasso. 

3.  Forme  di  pan  di  Spagna  ripiene. 

4.  Pani  di  zucchero  caramellato. 

5.  Pasta  di  farina,  zucchero,  mandorle,  di  cui  avevano  la  specialità  le  mo- 
nache di  San  Bastiano. 

6.  Polizza,  biglietto. 

7.  Spinto. 

8.  Dimentico. 

9.  Sorelle. 


294  CANDELAIO 

O  bella  conclusione,  belli  propositi,  a  punto  suttili  come  lui:  io 
[83]  per  me  di  rima  non  m'intendo;  pure,  s'io  posso  fame  giudicio, 
dico  due  cose:  l'uno,  ch'i  versi  son  più  grandi  che  gli  ordinarti; 
l'altra,  che  son  fatti  a  suon  di  campana  e  canto  asinino,  li  quali 
sempre  toccano  alla  medesima  consonanza.  Ma  voglio  partirmi 
di  qua,  per  trovar  più  comodo  luoco,  dove  io  possa  prender  la 
decima  di  questo  presente '°:  che  in  fine  bisogna  ch'ancor  io  fia 
partecipe  de"  frutti  della  pazzia  di  costui. 

SCENA  VII 

Bonifacio  solo 

Grande  è  la  virtù  dell'amore.  Da  onde,  o  Muse,  mi  è  scorsa 
tanta  vena  et  efficacia  in  far  versi,  senza  che  maestro  alcuno 
m'abbia  insegnato?  Dove  mai  è  stato  composto  un  simile  so- 
netto? Tutti  versi  dal  primo  a  l'ultimo  finiscono  con  desinenzia 
della  medesma  voce:  leggi  il  Petrarca  tutto  intiero,  discorri  tutto 
l'Ariosto,  non  trovarai  un  simile.  Traditora  traditora,  dolce  mia 
nemica,  credo  ch'a  quest'ora  l'abbi  letto  e  penetrato;  e  si  l'animo 
tuo  non  è  più  alpestre  che  d'una  tigre,  son  certo  che  non  farai 
oltre  poco  caso  del  tuo  Bonifacio.  -  Oh,  ecco  Gioan  Bernardo. 

SCENA  vili 
Gioan  Bernardo,  Bonifacio 

Gioan  Bernardo.  -  Bondì  e  bon  anno  a  voi,  misser  Bonifa- 
cio: avete  fatta  alcuna  buona  fazzione^  oggi? 

Bonifacio.  -  Che  dite  voi?  Oggi  ho  fatta  cosa  che  giamai 
[85]  feci  in  tutto  tempo  di  mia  vita. 

Gioan  Bernardo.  -  Voi  dite  di  gran  cose:  è  possibile  che 
quello  che  hai  fatto  oggi  abbi  possuto  far  iert  o  altro  giorno,  o 
voi  o  altro  che  sii?  o  che  per  tutto  tempo  di  vostra  vita  possiate 
fare  quel  che  una  volta  è  fatto?  Cossi  quel  che  facesti  iert  non  lo 
farai  mai  più;  et  io  mai  feci  quel  rttratto  ch'ho  fatto  oggi,  né 

IO.  La  parte  adeguata  che  mi  spetta  per  il  servizio  fatto  (consegnando  i 
versi  sgrammaticati  di  Bonifacio  alla  signora  Vittoria).  L'espressione  rinvia 
alle  decime  ecclesiastiche,  cioè  alle  tasse  della  terra  imposte  dalla  Chiesa  per  la 
propria  necessità 

I.  Lavoro,  azione. 


ATTO  PRIMO  295 

manco  è  possibile  ch'io  possa  farlo  più:  questo  sì  2,  che  potrò 
fame  un  altro. 

Bonifacio.  -  Or  lasciamo  queste  vostre  sofisticarle;  mi  avete 
fatto  sovvenire  del  ritratto:  hai  visto  quel  che  mi  ho  fatto  fare? 

GiOAN  Bernardo.  -  L'ho  visto  e  revisto. 

Bonifacio.  -  Che  ne  giudicate? 

GiOAN  Bernardo.  -  È  buono:  assomiglia  assai  più  a  voi  che 
a  me. 

Bonifacio.  —  Sii  come  si  vuole,  ne  voglio  un  altro  di  vostra 
mano. 

Gioan  Bernardo.  -  Che,  lo  volete  donare  a  qualche  vostra 
signora  per  memoria  di  voi? 

Bonifacio.  -  Basta:  son  altre  cose  che  mi  vanno  per  la 
mente. 

Gioan  Bernardo.  —  È  buon  segno  quando  le  cose  vanno 
per  la  mente;  guardati^  che  la  mente  non  vadi  essa  per  le  cose: 
per  che  potrebbe  rimaner  attaccata  con  qualch'  una  di  quelle, 
et  il  cervello  la  sera  in  damo  l'aspettarebbe  a  cena;  e  poi  biso- 
gnasse "•  far  come  la  matre  di  fameglia  ch'andava  cercando  lo 
intellecto  co  la  lanterna.  —  Quanto  al  ritratto,  io  lo  farò  quanto 
prima. 

Bonifacio.  —  Sì:  ma  per  vita  vostra  fatemi  bello. 

Gioan  Bernardo.  -  Non  comandate  tanto,  si  volete  esser  [87] 
servito:  si  desiderate  che  io  vi  faccia  bello,  è  una;  si  volete  ch'io 
vi  ritragga,  è  un'altra. 

Bonifacio.  -  Di  grazia  lasciamo  le  burle:  attendete  a  far 
cosa  buona,  che  io  per  questo  verrò  a  ritrovarvi  in  casa. 

Gioan  Bernardo  -  Venite  pur  quando  vi  piace;  e  non  du- 
bitate di  cosa  buona  dal  canto  mio:  attendete  pur  voi  a  far  bene 
dal  canto  vostro;  perché... 

Bonifacio.  —  Che  vuol  dir  «per  che»? 

Gioan  Bernardo.  —  ...  lasciate  l'arte  antica. 

Bonifacio.  —  Come?  non  v'intenderebbe  il  diavolo. 

2.  È  possibile. 

3.  In  modo  pittorescamente  parodico  Gioan  Bernardo  vuole  prendersi  beffa 
della  probabile  perdita  della  ragione  in  Bonifacio  innamorato. 

4.  Bisognerebbe. 


296  CANDELAIO 

GiOAN  Bernardo.  —  Da  candelaio  volete  doventar  orefice '. 
Bonifacio.  -  Come  orifice?  come  candelaio? 
GiOAN  Bernardo.  -  Basta,  me  vi  racomando. 
Bonifacio.  -  Dio  vi  dia  quel  che  desiderate. 
GiOAN  Bernardo.  -  Et  a  voi  quel  che  vi  manca. 

SCENA  IX 

Bonifacio  solo 

«Da  candelaio  volete  doventar  orefice»:  è  pur  gran  cosa  il 
fatto  mio.  Tutti,  chi  da  equa  chi  da  Uà,  mi  motteggiano:  ecco 
costui  non  so  che  diavolo  voglia  intendere  per  l'orefice.  Lo  es- 
sere orefice  non  è  male:  non  ha  egli  altro  di  brutto  che  quel 
[89]  guazzarsi  1  le  mani  dentro  l'urina  dove  tal  volta  pone  in  infu- 
sione la  materia  dell'arte  sua,  oro,  argento  et  altre  cose  preciose: 
pur  queste  parabole ^  qualche  dì  l'intenderemo.  -  Ecco  mi  par 
veder  Ascanio  con  Scaramuré. 

SCENA  X 

Scaramuré,  Bonifacio,  Ascanio 

Scaramuré.  -  Ben  trovato,  messer  Bonifacio. 

Bonifacio.  -  Siate  il  molto  ben  venuto,  signor  Scaramuré, 
speranza  della  mia  vita  appassionata. 

Scaramuré.  —  Signum  affedi  animìK 

Bonifacio.  -  Si  vostra  Signoria  non  rimedia  al  mio  male,  io 
son  morto. 

Scaramuré.  -  Sì  come  io  vedo,  voi  séte  inamorato. 

Bonifacio.  —  Cossi  è:  non  bisogna  ch'io  vi  dica  più. 

Scaramuré.  -  Come  mi  fa  conoscere  la  vostra  fisionomia,  il 
computo  di  vostro  nome,  di  vostri  parenti  o  progenitori,  la  si- 
gnora della  vostra  natività  fu  Vemis  retrograda  in  signo  mascii- 
lino;  et  hoc  fortasse  in  Geminibus  vigesimo  septimo  gradu^:  che  si- 

5.  L'espressione  significa  che  Bonifacio  ha  abbandonato  l'omosessualità  per 
l'amore  della  donna. 

1.  Mettere  a  bagno,  per  nettare  da  impurità  oro,  argento  e  gemme  preziose. 

2.  Allusioni. 

1.  «Indizi  del  turbamento  dell'animo». 

2.  «Venere  retrograda  nel  segno  maschile;  e  questo  forse  nei  Gemelli  nel 


ATTO  PRIMO  297 

gnifica  certa  mutazione  e  conversione  nell'età  di  46  anni  nella 
quale  al  presente  vi  ritrovate.  [91] 

Bonifacio.  —  A  punto,  io  non  mi  ricordo  quando  nacqui: 
ma  per  quello  che  da  altri  ho  udito  dire,  mi  trovo  da  45  anni  in 
circa. 

ScARAMURÉ.  -  Gli  mesi,  giorni  et  ore  computare  ben  io  più 
distintamente,  quando  col  compasso  arò  presa  la  proporzione 
dalla  latitudine  dell'unghia  maggiore  alla  linea  vitale,  e  di- 
stanza dalla  summità  dell'annulare  a  quel  termine  del  centro 
della  mano,  ove  è  designato  il  spacio  di  Marte;  ma  basta  per  ora 
aver  fatto  giudicio  cossi  universale  et  in  comuni^.  Ditemi: 
quando  fustivo"^  punto  dall'amor  di  colei  per  averla  guardato,  a 
che  sito  ti  stava  ella?  a  destra  o  a  sinistra? 

Bonifacio.  -  A  sinistra. 

ScARAMURÉ.  —  Arduo  opere  nanciscenda^.  Verso  mezzogiorno 
o  settentrione,  oriente  o  occidente,  o  altri  luochi  intra  questi? 

Bonifacio.  —  Verso  mezogiomo. 

SCARAMURÉ.  -  Oportet  advocare  spetentrionales'^.  —  Basta  ba- 
sta: equi  non  bisogna  altro;  voglio  effectuare  il  tuo  negocio  con 
magia  naturale,  lasciando  a  maggior  opportunità  le  supersti- 
zioni d'arte  più  profonda. 

Bonifacio.  —  Fate  di  sorte  ch'io  accape  il  negocio^,  e  sii 
come  si  voglia. 

ScARAMURÉ.  —  Non  vi  date  impaccio:  lasciate  la  cura  ad  me. 
La  cosa  già  fu  per  fascinazione?^ 

Bonifacio.  —  Come  per  fascinazione?  io  non  intendo. 

SCARAMURÉ.  —  Id  est,  per  averla  guardata  guardando  lei  anco 

voi.  [93] 

Bonifacio.  —  Sì,  signor  sì,  per  fascinazione. 

ScARAMURÉ.  -  Fascinazione  si  fa  per  la  virtù  di  un  spirito 
lucido  e  sottile,  dal  calor  del  core  generato  di  sangue  più  puro, 
il  quale  a  guisa  di  raggi  mandato  fuor  de  gli  occhi  aperti,  che 

grado  ventisettesimo».  Scaramuré  parla  un  linguaggio  astrologico  pieno  di  er- 
rori e  svarioni  (Geniinibus  per  Geminis)  e  privo  di  senso. 

3.  «In  generale». 

4.  Voi  foste. 

5.  «Difficile  da  trovare». 

6.  «Bisogna  invocare  gli  spiriti  settentrionali». 

7.  Raggiunga  lo  scopo. 

8.  L'ammaliare  con  la  forza  degli  occhi,  per  maleficio. 


298  CANDELAIO 

con  forte  imaginazion  gardando  vengono  a  ferir  la  cosa  guar- 
data, toccano  il  core  e  sen  vanno  ad  afficere^^  l'altrui  corpo  e 
spirto:  o  di  affetto  di  amore,  o  di  odio,  o  di  invidia,  o  di  manin- 
conia,  o  altro  simile  geno  ^"  di  passibili  qualità.  L'esser  fascinato 
d'amore  adviene  quando  con  frequentissimo  o  ver  (benché 
istantaneo)  intenso  sguardo,  un  occhio  con  l'altro,  e  reciproca- 
mente un  raggio  visual  con  l'altro,  si  rincontra,  e  lume  con 
lume  si  accopula".  All'ora  si  gionge  spirto  a  spirto;  et  il  lume 
superiore  inculcando  l'inferiore,  vengono  a  scintillar  per  gli  oc- 
chi, correndo  e  penetrando  al  spirto  intemo  che  sta  radicato  al 
cuore:  e  cossi  commuoveno  amatorio  incendio.  Però  chi  non 
vuol  esser  fascinato  deve  star  massimamente  cauto  e  far  buona 
guardia  ne  gli  occhii,  li  quali  in  atto  d'amore  principalmente 
son  fenestre  dell'anima;  onde  quel  detto:  «Averte,  averte  ocidos 
tuos»^^.  —  Questo  per  il  presente  basti;  noi  ci  revedremo  a  più 
bell'aggio,  provedendo  alle  cose  necessarie. 

Bonifacio.  -  Signor,  si  questa  cosa  farete  venire  al  butto  1^, 
vi  accorgerete  di  non  aver  fatto  servizio  a  persona  ingrata. 

ScARAMURÉ.  -  Misser  Bonifacio,  vi  fo  intender  questo:  che 
voglio  io  prima  esser  grato  a  voi;  e  poi  son  certo,  si  non  mi 
[95]  sarete  grato,  mi  doverete  essere. 

Bonifacio.  -  Comandatemi;  che  vi  sono  affezzionatissimo, 
et  ho  gran  speranza  nella  prudenza  vostra. 

ASCANIO.  -  Orsù,  a  rivederci  tutti.  A  dio. 

Bonifacio.  -  Andiamo,  ch'io  veggio  venir  l'uomo  più  mole- 
sto a  me,  ch'abbia  possuto  produre  la  natura:  non  voglio  aver 
occasion  di  parlargli;  verrò  a  voi,  signor  Scaramuré. 

SCARAMURÉ.  -  Venite,  che  vi  aspetto.  A  dio. 


9.  «Perturbare». 

10.  Genere. 

11.  Unisce. 

12.  «Distogli,  distogli  i  tuoi  occhi».  È  citazione  del  Cantico  dei  Cantici,  VI,  5. 

13.  Scopo. 


ATTO  PRIMO  299 

SCENA  XI 

Cencio,  Gioan  Bernardo 

Cencio.  -  Cossi  bisogna  guidar  quest'opra,  per  la  doctrina  di 
Ermete'  e  di  Geber^.  La  materia  di  tutti  metalli  è  Mercurio:  a 
Saturno  appartiene  il  piombo,  a  Giove  il  stagno,  a  Marte  il 
ferro,  al  sole  l'oro,  a  Venere  il  bronzo,  alla  luna  l'argento.  Lo 
argento  vivo  si  attribuisce  ad  Mercurio  particularmente,  e  si 
trova  nella  sustanza  di  tutti  gli  altri  metalli:  però  si  dice  nuncio 
di  dèi,  maschio  co  maschii,  e  femina  co  temine.  Di  questi  me- 
talli Mercurio  Trimegisto  chiamò  il  cielo  padre,  e  la  terra  ma- 
dre; e  disse  che  questa  madre  ora  è  impregnata  ne'  monti,  or 
nelle  valli,  or  nelle  campagne,  or  nel  mare,  or  ne  gli  abissi  et  [97] 
antri:  il  quale  enigma  ti  ho  detto  che  cosa  significa.  Nel  grembo 
de  la  terra  la  materia  di  tutti  metalli  afferma  esser  questa  in- 
sieme col  solfro'  il  dottissimo  Avicenna-*,  nell'epistola  scritta  ad 
Hazez^:  alla  quale  opinione  postpongo  quella  di  Ermete,  che 
vuole  la  materia  di  metalli  essemo  gli  elementi  tutti;  et  insieme 
con  Alberto  Magno''  chiamo  ridicula  la  sentenza  attribuita  a 
Democrito  da  gli  alchimisti,  che  la  calcina  e  lisciva  (per  la 
quale  intendono  l'acqua  forte^)  siino  materia  di  metalli  tutti. 
Né  tampoco  posso  approvar  la  sentenza  di  Gilgile^,  nel  suo  li- 
bro De'  secreti  dove  vuole  «  metallorum  materiam  esse  cinerem  in- 
fusum»'^,  per  che  vedeva  che  «cinis  liquatur  in  vitrum  et  congela- 
tur  frigido»  ^^■.  al  quale  errore  suttilmente  va  obviando  il  pren- 
cipe  Alberto... 

GiOAN  Bernardo.  -  Queste  diavolo  de  raggioni  no  mi  toc- 


1.  Ermete  detto  Trismegisto,  mitico  personaggio,  a  cui  si  attribuirono  nel 
Medio  Evo  opere  di  magia  e  di  occultismo. 

2.  Geber  o  Giaber  o  Gebber,  il  cui  nome  fu  Abu  Mussah  Djafar  al-Sofi,  fu 
un  alchimista  arabo  del  VII  secolo,  autore  di  un  gran  numero  di  opere  ma- 
giche. 

3.  Zolfo. 

4.  Il  celebre  medico  e  filosofo  arabo,  vissuto  fra  il  980  e  il  1037. 

5.  Hazen  o  Hazem,  cioè  Abu  Ali  al-Hassanben,  matematico  arabo,  morto 
nel  1038. 

6.  Il  grande  filosofo  e  scienziato  domenicano,  maestro  di  Tommaso 
d'Aquino,  nato  alla  fine  del  XII  secolo,  morto  a  Colonia  nel  1280. 

7.  Acido  nitrico. 

8.  Un  alchimista  citato  da  Alberto  Magno  nel  Liber  animalìum. 

9.  «La  sostanza  dei  metalli  è  la  cenere  infusa  dentro  di  essi». 

10.  «La  cenere  si  scioglie  in  vetro  e  viene  congelata  dal  freddo». 


300  CANDELAIO 

cano  punto  l'intellecto.  Io  vorrei  veder  Toro  fatto  e  voi  meglior 
vestito'^  che  non  andiate:  penso  ben  che  si  tu  sapessi  far  oro 
non  venderesti  la  ricetta  da  far  oro,  ma  con  essa  lo  faresti;  e 
mentre  fai  oro  per  un  altro  per  fargli  vedere  la  esperienza,  lo 
[99]  faresti  per  te  a  fin  di  non  aver  bisogno  di  vendere  il  secreto. 

Cencio.  -  Voi  mi  avete  interrotto  il  discorso.  Pensate  voi 
solo  di  aver  giudicio,  e  di  aver  apportato  un  grandissimo  argo- 
mento: per  le  cautele  che  have  usate  meco  messer  Bartolomeo, 
dimostra  esser  assai  più  cauto  che  voi  non  vi  stimate  d'essere.  E 
sa  lui  che  io  son  stato  rubbato  e  sassinato  al  bosco  di  Cancello 
venendo  da  Airola...  ^^ 

GiOAN  Bernardo.  -  Credo  ch'il  sappia  più  per  vostro  che 
per  mio  dire. 

Cencio.  —  ...  e  però  io,  non  avendo  il  modo  di  comprar  gli 
semplici  1^  e  minerali  che  si  richiedono  a  tal  opra,  ho  fatto  come 
sapete. 

Gioan  Bernardo.  —  Dovevi  ponerti  in  pegno  e  securtà'^,  e 
dire:  «Mess(ere),  avanzare  oro  per  me  e  per  te»;  che  certo  tanto 
lui  quanto  altro  ti  arebbe  niente  manco  soccorso:  e  quell'oro  che 
cerchi  dalle  borse,  l'aresti  con  tua  meglior  riputazione  et  onore 
sfornato  dalla  tua  fornace. 

Cencio.  —  Mi  ha  piaciuto  far  cossi:  quando  io  sarò  morto, 
che  mi  fa  che  tutto  il  mondo  sappia  far  oro?  che  mi  fa  che  tutto 
il  mondo  sii  pieno  d'oro? 

Gioan  Bernardo.  -  Io  mi  dubito  che  l'argento  et  il  stagno 
valerà  più  caro  oggimai,  che  l'oro. 

Cencio.  -  Dovete  saper  per  la  prima  che  messer  Bartolomeo, 
lui  ebbe  tutta  la  ricetta  in  mano,  dove  si  contiene  et  il  modo  di 
operare  e  le  cose  che  vi  concorreno.  Lui  mandava  al  speciale '', 
per  le  cose  che  bisognano,  il  suo  putto  ^<^;  lui  è  stato  presente  al 
tutto  che  si  faceva;  lui  faceva  tutto:  e  da  me  non  volea  altro  che 
[101]  la  dechiarazione,  con  dirgli  «Fa  in  questo  modo,  fa  in  quello, 
non  far  cossi,  fa  colà,  or  applica  questo,  or  togli  quello»;  di  sorte 

11.  Vestito  meglio. 

12.  Località  fra  Nola  e  Napoli. 

13.  Neirantica  medicina,  le  erbe  medicinali. 

14.  Dovevi  prenderti  garanzie. 

15.  Speziale,  farmacista. 

16.  Ragazzo,  servo. 


ATTO  PRIMO  301 

ch'ai  fine  con  allegrezza  grande  ha  ritrovato  l'oro  purissimo  e 
probatissimo  al  fondo  della  vitrea  cucurbita  ^^,  risaldata  luto  sa- 
pientiae...  ^^ 

GiOAN  Bernardo.  -  Luto'''  della  polvere  delle  potte  sudate 
al  viaggio  di  Piedigrotta^^. 

Cencio.  —  ...  e  cossi,  assicuratissimo,  mi  ha  pagato  seicento 
scudi  per  il  secreto  che  gli  ho  donato,  secondo  le  nostre  conven- 
zioni. 

GiOAN  Bernardo.  —  Or  poi  che  avete  fatta  una  cosa,  fatene 
un'altra:  e  sarà  compito  tutto  il  negocio  a  non  mancarvi  nulla. 

Cencio.  —  Che  volete  che  noi  facciamo? 

Gioan  Bernardo.  —  Lui  essendo  nella  miseria  che  eravate 
voi,  con  aver  seicento  scudi  meno,  e  voi  essendo  nella  comodità 
nella  quale  era  lui,  con  aver  oltre  seicento  scudi:  però  come 
avete  cambiata  fortuna,  cambiatevi  ancora  gli  mantelli  e  le  ba- 
rette^i.  Ch'alfine  non  conviene  ch'egli  vada  in  quello  abito,  e  tu 
in  questo. 

Cencio.  -  Oh,  voi  sempre  burlate. 

Gioan  Bernardo.  -  Sì  sì,  burlo:  la  prima  volta  che  vi  vedrò 
insieme  dirò  «Ecco  qui  la  tua  cappa.  Cencio;  ecco  qui  la  tua 
cappa,  Bartolomeo».  Ma  dimmi  da  galant'omo  (parliamo  da  do- 
vero):  non  l'hai  tu  attacata^^  a  costui  come  l'attaccò  il  Gigio  al 
Perrotino?^^  [103] 

Cencio.  -  E  che  fec'egli? 

Gioan  Bernardo.  -  Non  sai  quel  che  fece?  io  tei  saprò  dire: 
-  Costui  cavò  un  pezzo  di  legno:  vi  inserrò  l'oro  dentro,  poi  lo 
bruggiò  fuori  facendolo  a  guisa  de  gli  altri  carboni;  et  al  suo 
tempo  con  una  bella  destrezza  sei  tolse  dalla  saccoccia,  e  po- 
nendo mani  ad  dui  altri  carboni  ch'erano  presso  la  fornace,  fece 
venir  a  proposito  di  ponere  quel  carbone  pregnante^-*:  dove  pre- 

17.  Un  tipo  di  alambicco. 

18.  «Con  l'argilla  della  sapienza». 

19.  Fango. 

20.  La  celebre  località  presso  Napoli  (oggi  in  città)  dove  si  trovava  un  san- 
tuario alla  Vergine  meta  di  pellegrinaggi  l'S  settembre. 

21.  Berrette. 

22.  L'hai  ingannato. 

23.  Il  Perrotino  è  soprannome  di  Pietro  Pomponazzi;  il  sommo  filologo  ari- 
stotelico della  prima  metà  del  Cinquecento  (Mantova,  1462-Bologna,  1525),  og- 
getto di  beffe  perché  piccolo  di  statura. 

24.  Pieno  d'oro. 


302  CANDELAIO 

sto,  per  la  forza  del  fuoco  incinerito,  stillò  l'oro  impolverato  per 
gli  buchi  a  basso. 

Cencio.  —  Oh  vagliarne  Dio:  mai  arei  possuto  imaginarmi 
una  sì  fatta  gaglioffaria.  Ingannar  io?  fars'ingannar  messer  Bar- 
tolomeo? Or  credo  che  di  questo  tratto  lui  ne  sii  stato  infor- 
mato. Egli  non  solo  non  ha  voluto  ch'io  tocasse  cosa  alcuna;  ma 
anco  mi  ha  fatto  seder  sei  passi  lungi  dalla  fornace,  la  prima 
volta  che  si  oprò  in  mia  presenza  per  la  dechiarazion  della 
prattica  della  ricetta;  e  nella  seconda  volta  ha  voluto  esser  solo, 
con  farmene  essere  al  tutto  absente,  avendo  solo  la  mia  ricetta 
per  guida.  Di  sorte  che  dopo  che  la  esperienza  è  fatta  due  volte 
in  poca  materia  e  pochissima  spesa,  or  vi  si  è  risoluto  a  tutta 
passata^',  g  come  vi  ho  detto,  fa  gran  seminata  per  racogliere 
gran  frutto. 

GiOAN  Bernardo.  -  Come,  have  egli  aumentate  le  dose? 

Cencio.  —  Tanto  che  in  questa  prima  posata  tirarà  cinque- 
cento scudi  come  cinquanta  soldi. 

GiOAN  Bernardo.  -  Credo  più  presto  come  cinquanta  soldi, 
che  come  cinquant'altri  scudi:  ora  sì  che  hai  profetato  meglio 
ch'un  Caifasso^^  Or  aspettiamo  il  parto,  che  allora  vedremo  si 
[105]   l'è  maschio  o  femina.  A  dio. 

Cencio.  —  A  dio,  adio:  assai  è  che  crediate  gli  articoli  di  fede. 

[scena  xii] 
Cencio  solo 

In  vero  si  Bartolomeo  avesse  il  cervello  di  costui,  e  che  tutti 
fussero  cossi  male  avisati,  in  damo  arei  stesa  la  rete  in  questa 
terra.  Or  facciamo  di  bon  modo,  poi  che  l'ucello  è  dentro:  che 
non  siamo  come  quello  che  sei  fé'  venire  a  la  rete,  e  poi  sei  fé' 
fuggir  dalla  mano.  Mai  mi  stimare  possessor  di  questi  scudi,  né 
le  chiamarò  miei,  sin  tanto  che  non  sarò  fuor  del  Regno'.  Ho 
dato  ordine  alla  posta,  et  or  ora  vo  a  montarvi  su;  non  mi  fia 
mistiero  d'andar  a  prendere  altre  bagaglie:  quando  l'oste  aprirà 

25.  Del  tutto,  completamente. 

26.  Allusione  a  quanto  dice  di  Caifa  Giovanni,  XI,  51-52. 

I.  Di  Napoli. 


ATTO  PRIMO  303 

la  balice^  che  ha  nelle  mani,  la  trovarà  piena  di  sassi,  e  che 
vale  più  quel  che  è  di  fuori  che  quel  che  è  di  dentro;  credo  che 
non  dimorarà  troppo  a  veder  il  conto  suo  anche  lui.  Non  biso- 
gna ch'io  mi  fermi  equi  sino  al  tempo  che  potrà  essere  che  Bar- 
tolomeo manda  per  trovare  il  pulvis  Christi^.  Mi  par  veder  la 
moglie:  non  voglio  che  mi  veda  cossi  imbottato''. 

[SCENA  XIII] 

Marta  sola 

Credo  che  Sautanasso,  Barsabucco^  e  tutti  quelli  che  squa- 
gliano^,  sei  prenderanno  per  compagno;  per  che  saprà  egli  attiz- 
zar il  fuoco  dell'inferno  per  suffriggere  e  rostire  l'anime  dan-  [107] 
nate.  La  faccia  di  mio  marito  assomiglia  ad  uno  il  quale  è  stato 
trent'anni  a  far  carboni  alla  montagna  di  Scarvaita,  che  sta  da 
là  del  monte  de  Cicala^.  Non  sta  cossi  volentieri  pesce  in  acqua, 
come  lui  presso  que'  carboni  vivi  a  fumegarse  tutto  il  giorno 
(non  voglio  maldirlo):  poi  mi  viene  avanti  con  quelli  occhi  rossi 
et  arsi  di  sorte  che  rassomiglia  a  Luciferre"*.  In  fine  non  è  fatica 
tanto  grave  che  l'amore  non  faccia  non  solamente  lieve,  ma  pia- 
cevole. Ecco  costui  per  essergli  ficcato  nel  cervello  la  speranza 
di  far  la  pietra  filosofale,  è  dovenuto  a  tale  che  il  suo  fastidio  è 
il  mangiare,  la  sua  inquietitudine  è  il  trovarsi  a  letto,  la  notte 
sempre  gli  par  lunga  come  a  putti  che  hanno  qualche  abito 
nuovo  da  vestirsi.  Ogni  cosa  gli  dà  noia,  ogni  altro  tempo  gli  è 
amaro:  e  solo  il  suo  paradiso  è  la  fornace.  Le  sue  gemme  e  pietre 
preciose  son  gli  carboni,  gli  angeli  son  le  bozzole^  che  sono  at- 
taccate in  ordinanza  ne'  fornelli  con  que'  nasi  di  vetro  da  equa; 
e  da  Uà  tanti  lambicchi  di  ferro,  e  de  più  grandi  e  de  più  piccoli 
e  di  mezzani.  E  che  salta,  e  che  balla,  e  che  canta  quel  sciagu- 

2.  Valigia. 

3.  La  polvere  che  avrebbe  dovuto  mutare  i  metalli  vili  in  oro. 

4.  Con  gli  stivali  per  il  viaggio. 

1.  Deformazioni  popolaresche  di  Satanasso,  Beelzebub. 

2.  Quelli  che  spariscono  prodigiosamente  sono  i  diavoli. 

3.  Località  presso  Nola. 

4.  Altra  deformazione  popolaresca  per  Lucifero. 

5.  Storte. 


304  CANDELAIO 

rato  che  mi  fa  sovvenire  dell'asino^.  Poco  fa,  per  veder  che  cosa 
facess'egli,  ho  posto  l'occhio  ad  una  rima'  de  la  porta,  e  l'ho 
veduto  assiso  sopra  la  sedia  a  modo  di  catedrante,  con  una 
gamba  distesa  da  equa  et  un'altra  distesa  da  Uà,  guardando  gli 
travi  della  intempiatura^  della  camera;  a'  quali,  dopo  aver  cen- 
nato  tre  volte  co  la  testa,  disse:  «Voi,  voi  impiastrare  di  stelle 
fatte  di  oro  massiccio».  Poi  non  so  che  si  borbottasse  guardando 
le  casce ^  e  voltando  il  viso  a'  scrigni.  «Mia  fé»  dissi  io,  «penso 
[109]  che  questi  presto  saranno  pieni  di  doppioni  »'o.  -  Oh,  ecco  San- 
guino. 

[SCENA  xrv] 
Sanguino,  Marta 

Sanguino.  —  (cantando).  Chi  vooo  spazzacamin?  Chi  vói  con- 
ciare stagni,  candelier,  conche,  caldare?' 

Marta.  -  Che  buon'ora  è,  Sanguino?  è  egli  cosa  nuova  che  tu 
sei  pazzo?  che  canti  per  mezzo  le  strade?  quale  delle  due  è  l'arte 
tua? 

Sanguino.  -  Non  so:  o  l'una  o  l'altra.  E  voi  non  sapete? 

Marta.  -  Se  non  me  dite,  non  so  altro. 

Sanguino.  -  Son  servitor,  discepolo  e  compagno  di  vostro 
marito,  il  quale  o  è  un  spazza-camino,  o  ver  ripezza-stagni,  tac- 
coneggia-padelle^  o  risalda-frissore'.  Si  non  mei  credi,  guardagli 
il  viso  e  miragli  le  mani.  Che  diavolo  fa  egli?  Tenetelo  forse 
appeso  al  fumo  come  le  salciche"*,  e  come  mesesca  di  botracone^ 
in  Puglia? 

Marta.  -  Ahi  me  lassa:  per  lui  sarò  mostrata  a  dito;  ogni 
poltrone  me  darrà  la  baia.  Intendi,  Sanguino?  questo  va  a  dirlo 
a  lui,  e  non  a  me. 

6.  Allusione  al  proverbio  «Asinus  ad  lyram,  ad  tibiam»,  contenuto  negli 
Adagi  di  Erasmo. 

7.  Fessura. 

8.  Volta,  soffitto. 

9.  Casse. 

10.  Monete  d'oro  spagnole. 

1.  Caldaie. 

2.  Racconcia,  aggiusta,  mette  pezze. 

3.  Padelle. 

4.  Salsicce. 

5.  Carne  affumicata  di  grossa  pecora  o  castrato. 


ATTO  PRIMO  305 

Sanguino.  —  Se  dice  che  nostro  Signore  sanò  tutte  altre  sorte 
de  infirmità,  ma  che  giamai  volse  accostarsi  ad  pazzi.  [m] 

Marta.  -  E  però  va  via,  ch'io  non  voglio  accostarmi  a  te, 
pazzacone. 

Sanguino.  —  Va  pure  accostati  a  lui,  madonna  cara:  e  guar- 
dati di  porgerli  la  lingua,  che  la  minestra  ti  saprà  di  fumo^. 

Fine  dell'atto  primo  [113] 


6.  Allusione  oscena. 


ATTO  SECONDO 

SCENA  PRIMA 

Messer  Ottaviano,  Mamfurio,  Pollula 

Ottaviano.  —  Maestro,  che  nome  è  il  vostro? 

Mamfurio.  -  Mamphurius. 

Ottaviano.  -  Quale  è  vostra  professione? 

Mamfurio.  -  Magister  artium,  moderator  di  pueruli,  di  te- 
neri unguicoli,  lenium  malarum,  puberum,  adolescentulorum:  eo- 
rum  qui  adhuc  in  virga  in  omnem  valent  erigi,  flecti,  atque  duci 
partem;  primae  vocis,  apti  al  soprano,  irrosorum  denticulorum,  suc- 
ciplenularum  carnium,  recentis  naturae,  nullius  rugae,  lactei  hali- 
tus,  roseorum  lahellulorum,  lingulae  hlandulae,  mellitae  simplicita- 
tis,  in  flore,  non  in  semine  degentium,  claros  hahentium  ocellos, 
puellis  adiaphoronK 

Ottaviano.  -  Oh  maestro  gentile,  attillato,  eloquentissimo, 
I115J  galantissimo  architriclino'  e  pincema^  delle  Muse... 

Mamfurio.  —  O  bella  apposizione. 

Ottaviano.  —  ...  patriarca  del  coro  apolinesco..."' 

Mamfurio.  —  Melius  diceretur^  «apollineo». 

Ottaviano.  -  ...  tromba  di  Febo,  lascia  ch'io  te  dia  un  bacio 


1.  «Insegnante  delle  arti  liberali,  educatore  di  fanciulli,  di  teneri  possessori 
di  piccole  unghie,  di  guance  lisce,  di  puberi,  di  ragazzini;  di  coloro  che,  essendo 
ancora  in  stelo,  possono  essere  fatti  crescere,  piegati  e  guidati  dove  si  vuole, 
che  hanno  la  prima  voce  infantile,  adatti  al  soprano,  con  i  dentini  non  ancora 
limati,  con  le  carni  ritondette,  di  giovane  natura,  privi  di  rughe,  con  l'alito  che 
sa  di  latte,  con  le  labbruzze  rosse,  con  le  carezzevoli  linguette,  ingenui  in  modo 
dolce  come  il  miele,  che  sono  in  fiore,  non  in  seme,  che  hanno  gli  occhietti 
chiari,  non  differenti  dalle  fanciulle». 

2.  Maggiordomo. 

3.  Coppiere. 

4.  Il  coro  delle  Muse. 

5.  «Si  potrebbe  dir  meglio». 


ATTO  SECONDO  3O7 

nella  guancia  sinestra:   che   non   mi   reputo   degno   di   baciar 
quella  dolcissima  bocca... 

Mamfurio.  -  «Ch'ambrosia  e  nectar  non  invidio  a  Giove »^. 

Ottaviano.  —  ...  quella  bocca  dico,  che  spira  sì  varie  e  bellis- 
sime sentenze  et  inaudite  frase. 

Mamfurio.  -  Addam  et  plura:  in  ipso  aetatis  limine,  ipsis  in 
vitae  primordiis,  in  ipsis  negociorum  huius  mundialis  seu  cosmicae 
architecturae  rudimentis,  ex  ipso  vestibulo,  in  ipso  aetatis  vere,  ut 
qui  adnuptunanf ,  ne  in  apiis  quidem...^ 

Ottaviano.  —  O  maestro,  fonte  caballino,  di  grazia  non  mi 
fate  morir  di  dolcezza,  prima  ch'io  dichi  la  mia  colpa;  non  par- 
late più,  vi  priego,  per  che  mi  fate  spasimare. 

Mamfurio.  —  Silebo  igitur,  quia  opprimitur  a  gloria  maiesta- 
tis'^,  come  accadde  a  quella  meschina  i°  di  cui  Ovidio  nella  Me- 
tamorphosi  fa  menzione:  a  cui  le  Parche  avare  troncomo  il  filo,   [117] 
vedendo,  lei,  nella  propria  maiestade  il  folgorante  Giove. 

Ottaviano.  —  Di  grazia,  vi  supplico  per  quel  dio  Mercurio 
che  vi  ha  indiluviato  di  eloquenzia... 

Mamfurio.  -  Cogor  morem  gerere^^. 

Ottaviano.  —  ...  abbiate  pietà  di  me,  e  non  mi  lanciate  più 
cotesti  dardi,  che  mi  fanno  andar  fuor  di  me. 

Mamfurio.  —  In  echstasim  profunda  trahit  ipsum  admiratio. 
Tacebo  igitìir,  de  iis  hactenus,  nil  addam,  muti  pisces,  tantum  effa- 
tus,  vox  faucibus  haesit^^. 

Ottaviano.  —  Misser  Mamfurio,  amenissimo  fiume  di  elo- 
quenza, serenissimo  mare  di  dottrina,  ... 


6.  Citazione  di  F.  Petrarca,  Rime,  CXCIII,  2. 

7.  «Aggiungerò  molte  altre  cose  ancora:  proprio  sulla  soglia  della  vita,  pro- 
prio all'inizio  dell'esistenza,  proprio  nei  primi  rudimenti  delle  esperienze  di 
questo  congegno  dell'universo,  nell'atrio,  nella  primavera  della  vita,  come  co- 
loro che  aspirano  alle  nozze». 

8.  Espressione  oscura. 

9.  «Tacerò  dunque,  perché  si  resta  oppressi  dalla  gloria  della  maestà». 

10.  Semele,  che  per  aver  voluto  vedere  Giove  nella  sua  potenza,  ne  rimase 
incenerita. 

11.  «Sono  costretto  a  fare  a  modo  vostro». 

12.  «L'ammirazione  profonda  lo  conduce  all'estasi.  Tacerò  dunque  di  que- 
ste cose  a  questo  punto,  non  aggiungerò  nulla,  sarò  come  i  muti  pesci,  tanto 
avendo  parlato,  la  voce  si  spense  nella  gola».  L'ultima  espressione  (vox  faucibus 
haesit)  è  citazione  di  Virgilio,  Aen.,  Ili,  48. 


308  CANDELAIO 

Mam FURIO.  —  Tranquillitas  maris,  serenitas  aeris^^. 

Ottaviano.  —  ...  avete  qualche  bella  vostra  di  composizione? 
per  che  ho  gran  desiderio  aver  copia  di  vostre  doctissime  carte. 

Mamfurio.  —  Credo,  signor,  che  in  toto  vitae  curricido^'^  e  di- 
scorso di  diverse  e  varie  pagine  non  ve  siino  occorsi  carmini  ^^ 
di  calisimetria ''^,  idest^^  cossi  bene  adaptati,  come  questi  che  al 
presente  io  son  per  dimostrarvi  equi  exarati^^. 
[119]        Ottaviano.  —  Che  è  la  materia  di  vostri  versi? 

Mamfurio.  Litterae,  syllabae,  dictio  et  oratio,  partes  propinquae 
et  remotae^'^. 

Ottaviano.  -  Io  dico,  quale  è  il  suggetto  et  il  proposito. 

Mamfurio.  -  Volete  dire  de  quo  agitur?  materia  de  qua}  circa 
quam?^°  È  la  gola,  ingluvie^'  e  gastrimargia^^  di  quel  lurcone^^ 
Sanguino  (viva  effigie  di  Filoxeno  ^'♦j  qui  collum  gruis  exoptabat^'^) 
con  altri  suoi  pari,  socii^^,  aderenti,  simili  e  collaterali. 

Ottaviano.  —  Piacciavi  di  farmeli  udire. 

Mamfurio.  —  Lubentissime.  Eruditis  non  sunt  operienda  ar- 
cana: ecco,  io  explico  papirum  propriis  elaboratum  et  lineatum  di- 
gitisi'. Ma  voglio  che  pemotiate'^  che  il  sulmonense  Ovidio 
{«Sulmo  mihi  patria  est»^'^),  nel  suo  libro  Metamorphoseon  octavo, 

13.  «La  tranquillità  è  del  mare,  la  serenità  è  dell'aria»:  Mamfurio  pedante- 
scamente corregge  le  espressioni  di  Ottaviano. 

14.  «In  tutto  il  corso  della  vita». 

15.  Composizioni  poetiche. 

16.  Bella  simmetria. 

17.  «Cioè». 

18.  «Cavati  fuori». 

19.  «Lettere,  sillabe,  espressione,  colorito  retorico,  parti  vicine  e  remote». 
Mamfurio  prende  con  pedantesca  stoltezza  alla  lettera  le  domande  di  Otta- 
viano e  gli  espone  le  parti  materiali  e  grammaticali  di  cui  constano  i  versi, 
invece  dell'argomento. 

20.  «Di  che  si  tratta?  di  quale  argomento?  intomo  a  che  cosa?». 

21.  Ingordigia. 

22.  Immensità  del  ventre. 

23.  Ghiottone. 

24.  Poeta  greco  del  IV  secolo  a.  C,  autore  di  ditirambi  in  cui  celebrava  i 
piaceri  della  mensa. 

25.  «Che  bramava  avere  il  collo  della  gru»  (per  poter  assaporare  più  a 
lungo  il  cibo). 

26.  Amici. 

27.  «Molto  volentieri.  Non  bisogna  nascondere  i  segreti  ai  dotti:  ecco,  io 
apro  il  foglio  scritto  secondo  le  regole  dell'arte  proprio  con  le  mie  mani». 

28.  Notiate  con  cura  (seguo  qui  la  lezione  della  prima  edizione,  rifiutando 
come  non  necessaria  la  correzione  prenotiate  proposta  dallo  Spampanato). 

29.  «Sulmona  è  la  mia  patria»  (Ovidio,  Trist,  IV,  io,  3). 


ATTO  SECONDO  3O9 

con  molti  epiteti  l'apro  calidonio^°  descrisse:  alla  cui  imitazione 

io  questo  domestico  porco  vo  delineando. 

Ottaviano.  —  Di  grazia  leggetele  presto.  [121I 

Mamfurio.  —  Fiat.  Qui  cito  dat,  bis  dat.  Exordium  ab  admiran- 

tis  affectu^^. 

O  porco  sporco,  vii,  vita  disutile: 
ch'altro  non  hai  che  quel  gruito^^  fatuo 
col  quale  il  cibo  tu  ti  pensi  acquirere^^; 
gola  quadruplicata  da  Vaxungia^'^ 
dall'anteposto  absorpta^^  brodulario^^ 
che  ti  prepara  il  sozzo  coquinario^^ 
per  canal  emissario ^^: 
per  pinguefarti^^  più,  vase  d'ingluvie, 
in  cotesto  porcil  t'intromettesti 
u'  ad  altro  obiecto  non  guardi  ch'ai  pascolo; 
e  privo  d'exercizio, 
per  inopia  e  penuria 
di  meglior  letto  e  di  meglior  cubiculo '*°, 
altro  non  fai  ch'ai  sterco  e  fango  involverti. 

Post  haec^h 

Ad  nullo  sozzo  volutabro^^  inabile, 
di  gola  e  luxo  infìrmità  incurabile, 
ventre  che  sembra  di  Pleiade  il  puteo"*', 

30.  Il  cinghiale  calidonio,  il  mostruoso  animale  mitico  che  Artemide  inviò 
a  devastare  il  territorio  di  Calidone  e  che  fu  ucciso  da  Meleagro  con  l'aiuto  di 
numerosi  eroi  e  semidei. 

31.  «Sia  fatto.  Chi  dà  presto,  dà  due  volte.  L'inizio  dipende  dalla  disposi- 
zione di  chi  ascolta». 

32.  Grugnito. 

33.  Procacciarti. 

34.  Grasso. 

35.  Inghiottita. 

36.  Truogolo. 

37.  Cuoco. 

38.  Esofago. 

39.  Ingrassarti. 

40.  Stanza. 

41.  «Dopo  questi  versi». 

42.  Voltolamento. 

43.  Il  pozzo  delle  Pleiadi,  figlie  di  Atlante,  che,  secondo  il  mito,  morirono 
struggendosi  in  lacrime  per  il  dolore  della  morte  delle  sorelle  ladi. 


310  CANDELAIO 

abitator  di  fango,  incola  luteo''''; 
fauce  indefessa,  assai  vorante  gutture-'^; 
[123]  ingordissima  arpia,  di  Tizio  vulture-'^ 

terra  mai  sazia,  fuoco  e  vulva  cupida"*^; 
orificio  pretenso ■'^  nare  putida-^''; 
nemico  al  cielo,  speculator  terreo  ^o, 
mano  e  pie  infermo,  bocca  e  dente  ferreo; 
l'anima  ti  fu  data  sol  per  sale 
a  fin  che  non  putissi^i;  dico  male? 

Che  vi  par  di  questi  versi?  Che,  ne  comprendete  col  di  vostro 
ingegno  il  metro? 

Ottaviano.  -  Certo,  per  esser  cosa  d'uno  della  profession  vo- 
stra, non  sono  senza  bella  considerazione. 

Mamfurio.  -  Sine  conditione  et  absolute^^  denno  esser  giudi- 
cati di  profonda  perscrutazion^^  degni  questi  frutti  raccolti 
dalle  meglior  piante  che  mai  producesse  l'eliconio  monte  ^'♦,  ir- 
rigate ancor  dal  parnasio  fonte'',  temprate  dal  biondo  Apolline 
e  dalle  sacrate  Muse  coltivato.  E  che  ti  par  di  questo  bel  di- 
scorso? Non  vi  admirate  addesso  come  pria  già? 

Ottaviano.  —  Bellissimo  e  sottil  concepto.  Ma  ditemi,  vi 
priego,  avete  speso  molto  tempo  in  ordinar  questi  versi? 

Mamfurio.  -  Non. 

Ottaviano.  -  Sietevi  affatigato  in  farli? 

Mamfurio.  -  Minime^''. 
[125]        Ottaviano.  -  Avetevi  speso  gran  cura  e  pensiero? 

44.  Abitatore  del  fango. 

45.  Gola. 

46.  Secondo  il  mito,  il  gigante  Tizio,  per  aver  cercato  di  violentare  Latona, 
fu  ucciso  da  Artemide  e  Apollo,  e,  nel  Tartaro,  sta  inchiodato  al  suolo  mentre 
un  avvoltoio  gli  rode  il  cuore  che  continuamente  ricresce. 

47.  Allusione  al  passo  dei  Proverbi,  in  cui  si  parla  delle  quattro  cose  che 
non  dicono  mai  «basta». 

48.  Orificio,  bocca  protesa. 

49.  Puzzolente. 

50.  Che  guarda  sempre  a  terra. 

51.  Motto  del  filosofo  stoico  Crisippo  (citato  da  Cicerone),  secondo  il  quale 
l'animo,  nello  sciocco,  è  soltanto  il  sale  per  conservare  il  corpo. 

52.  «Senza  condizione  e  assolutamente». 

53.  Investigazione  accurata. 

54.  L'Elicona,  la  sede  delle  Muse. 

55.  La  fonte  d'Ippocrene. 

56.  «Per  nulla». 


ATTO  SECONDO  3II 

Mamfurio.  -  Nequaquam^'' . 

Ottaviano.  -  Avetele  fatti  e  rifatti? 

Mamfurio.  -  Haud  quaquam^^. 

Ottaviano.  -  Avetele  corretti? 

Mamfurio.  —  Minime  gentium:  non  opus  eraP'^. 

Ottaviano.  -  Avetene  destramente  presi,  per  non  dir  marie- 
lati  <^°,  a  qualche  autore? 

Mamfurio.  -  Neutiquam,  absit  verbo  invidia,  dii  avertant,  ne 
faxint  ista  superi'^K  Voi  troppo  volete  veder  di  mia  erudizione: 
credetemi  che  non  ho  poco  io  del  fonte  caballino  absorpto;  né 
poco  liquor  mi  have  infuso  la  de  cerebro  nata  lovis^^:  dico  la 
casta  Minerva,  alla  quale  è  attribuita  la  sapienza.  Credete  ch'io 
non  sarei  minus  foeliciter^^  risoluto,  quando  fusse*^"*  stato  provo- 
cato ad  explicandas  notas  ajfirmantis  vel  asserentis^^ .  Non  hanno 
destituita  la  mia  memoria:  sic,  ita,  etiam,  sane,  profedo,  palam, 
verum,  certe,  proculdubio,  maxime,  cui  dubium?,  utique,  quidni?, 
mehercle,  aedepol,  mediusfidius  et  caetera^^. 

Ottaviano.  -  Di  grazia,  in  luoco  di  queWet  caetera,  ditemi 
un'altra  negazione.  [127] 

Mamfurio.  —  Questo  cacocephaton^'^ ,  idest  prava  elocuzione, 
non  farò  io:  per  che  factae  enumerationis  clausulae  non  est  adpo- 
nenda  unitas'^^. 

Ottaviano.  -  Di  tutte  queste  particule  affirmative,  quale  vi 
piace  più  de  l'altre? 

Mamfurio.  —  QneW «utique»  assai  mi  cale,  eleganza  in  lingua 
aethrusca  vel  tuscia,  meaeque  inhaeret  menti^^:  eleganza  di  più 
profondo  idioma. 

57.  «Niente  affatto». 

58.  Per  nulla. 

59.  «Niente  affatto,  non  era  necessario». 

60.  Rubati. 

61.  «Certo  che  no,  sia  detto  senza  offendere  alcuno,  che  gli  dèi  liberino  da 
una  tal  cosa,  che  i  Superi  non  lo  permettano». 

62.  «Nata  dal  cervello  di  Giove». 

63.  «Meno  felicemente». 

64.  Fossi. 

65.  «A  fare  il  catalogo  delle  particelle  affermative». 

66.  Mamfurio  fa  un  ricco  elenco  degli  avverbi  affermativi  in  latino. 

67.  Deformazione  di  cacophaton  o  cacepheton,  termine  grammaticale,  che 
Mamfurio  stesso  spiega  con  prava  elocuzione. 

68.  «Una  volta  conclusa  l'enumerazione  non  bisogna  farvi  neppure  un'ag- 
giunta». 

69.  «Nella  lingua  etnisca  o  toscana,  e  mi  sta  infìsso  in  mente». 


312  CANDELAIO 

Ottaviano.  —  Delle  negative,  qua!  vi  piace  più? 

Mamfurio.  -  Quel  «nequaquam»  est  mihi  cordP^,  e  mi  sodisfa. 

Ottaviano.  -  Or  dimandatemi  voi  adesso. 

Mamfurio.  -  Ditemi,  signor  Ottaviano,  piacenvi  gli  nostri 
versi? 

Ottaviano.  -  Nequaquam. 

Mamfurio.  —  Come  nequaquam:  non  sono  elli  optimi} 

Ottaviano.  —  Nequaquam. 

Mamfurio.  -  Duae  negationes  affìrmant''^:  volete  dir  dumque 
che  son  buoni. 

Ottaviano.  -  Nequaquam. 

Mamfurio.  -  Burlate? 
[129]        Ottaviano.  -  Nequaquam. 

Mamfurio.  -  Sì  che  dite  da  senno? 

Ottaviano.  -  JJtique. 

Mamfurio.  —  Dumque  poca  stima  fate  di  mio  Marte  e  di 
mia  Minerva? '2 

Ottaviano.  -  JJtique. 

Mamfurio.  —  Voi  mi  siete  nemico  e  mi  portate  invidia: 
da  principio  vi  admiravate  della  nostra  dicendi  copia^^;  adesso, 
ipso  lectionis  progressu^-^,  la  admirazione  è  metamorfita'^  in  in- 
vidia? 

Ottaviano.  -  Nequaquam:  come  invidia?  come  nemico?  non 
mi  avete  detto  che  queste  diczioni  vi  piaceno? 

Mamfurio.  -  Voi  dumque  burlate,  e  dite  exercitationis  gra- 
tiaì'^' 

Ottaviano.  -  Nequaquam. 

Mamfurio.  —  Dicas  igitur  sine  simulatione  et  fuco'''':  hanno 
enormità,  crassizie''^  e  rudità^'^^  gli  miei  numeri?  ^° 


«Mi  piace». 

«Due  negazioni  affermano»  (in  latino). 

Delle  mie  forze  e  del  mio  ingegno. 

«Nostra  eloquenza». 

«Nello  svolgimento  del  discorso». 

Mutata,  trasformata 

«A  scopo  di  esercizio». 

«Parla  dunque,  senza  infingimenti  e  trucco 

Grossolanità. 

Ignoranza. 

Versi. 


ATTO  SECONDO  3I3 

Ottaviano.  -  Utique. 

Mamfurio.  —  Cossi  credete  a  punto? 

Ottaviano.  -  Utique,  sane,  certe,  equidem,  utique,  utique. 

Mamfurio.  -  Non  voglio  più  parlar  con  voi. 

Ottaviano.  —  Si  non  volete  resistere  a  udir  quel  che  dite  che 
vi  piace,  che  sarrebbe  s'io  vi  dicesse  cosa  che  vi  dispiace?  A  dio.  [131] 

Mamfurio.  —  Vade,  vade.  Adesdum^^,  Pollula:  hai  considera- 
ta la  proprietà  di  questo  uomo,  il  quale  or  ora  è  da  noi  absen- 
tato?82 

Pollula.  -  Costui  da  principio  si  burlava  di  voi  di  una 
sorte;  al  fine  vi  dava  la  baia  d'un'altra  sorte. 

Mamfurio.  -  Non  pensi  tutto  ciò  esser  per  invidia  che  gli 
inepti  portano  ad  altri  {melius  diceretur  «alii»,  differentia  /adente 
«aliud»)^^  eruditi? 

Pollula.  —  Tutto  vi  credo,  essendo  voi  mio  maestro,  e  per 
farvi  piacere. 

Mamfurio.  —  De  iis  hactenus,  missa  faciamus  haec^.  Or  ora 
voglio  gire  a  ispedir  le  muse  centra  questo  Ottaviano:  e  come 
gli  ho  fatti  udire,  in  proposito  di  altro,  gli  porcini  epiteti,  post- 
hac  in  suo  proposito  voglio  che  odi  quelli  di  uno  inepto  giudi- 
cator  della  doctrina  altrui.  Ecco,  vi  porgo  una  epistola  amatoria 
fatta  ad  istanzia  di  messer  Bonifacio:  il  quale,  per  gratificare 
alla  sua  amasia ^^^  mi  ha  richiesto  che  gli  componesse  questa 
lectera  incentiva ^'^.  Andate,  e  gli  la  darrete  secretamente  da  mia 
parte  in  mano,  dicendogli  che  io  sono  implicito  ^^  in  altri  nego- 
cii  circa  il  mio  ludo  literario^^  —  Ego  quoque  hinc  pedem  refe- 
ram^'^,  perché  veggio  due  femine  appropiare^",  de  quibus  illud 
«Longe  fac  a  me»'^K 


81.  «Va',  va'.  Orsù,  vieni». 

82.  Allontanato. 

83.  «Meglio  che  altri  si  direbbe  alii,  perché  alti  significa  una  differenza 
qualitativa  fra  soggetti  della  stessa  specie». 

84.  «Basta  così,  lasciamo  perdere  queste  cose». 

85.  La  donna  amata. 

86.  Introduttiva  all'incontro  amoroso. 

87.  Occupato. 

88.  La  scuola. 

89.  «Anch'io  di  qui  mi  allontanerò». 

90.  Avvicinarsi. 

91.  «Alle  quali  si  riferisce  quel  detto:  "Allontanale  da  me"»  (citazione  dei 
Proverbi,  V,  8,  in  cui  si  descrivono  le  arti  delle  meretrici). 


314  CANDELAIO 

POLLULA.  —  Salve,  domine  praeceptor'^^. 
[133]        Mamfurio.  —  Faustum  iter  dicitur  «vale»^^. 

SCENA  II 

Signora  Vittoria,  Lucia 

Signora  Vittoria.  -  La  gran  pecoragine  che  io  scorgo  in  lui 
mi  fa  inamorar  di  quest'uomo;  la  bestialità  sua  mi  fa  argumen- 
tare  che  non  perderemo  per  averlo  per  amante;  e  per  essere  un 
Bonifacio  come  vedete,  non  ne  potrà  far  altro  che  bene. 

Lucia.  —  Costui  non  è  di  que'  matti  ch'han  troppo  secco  il 
cervello,  ma  di  quei  che  l'han  tropp'umido:  però  è  necessario 
che  dii  di  botto  ^  al  troppo  grosso  e  dolce  umore^,  più  che  al 
troppo  suttile,  fastidioso,  colerico  e  bizarro. 

Signora  Vittoria.  -  Or  andiate  e  ringraziatelo  da  mia 
parte;  e  ditegli  ch'io  non  posso  vedermi  sazia  di  leggere  la  sua 
carta,  e  che  in  poco  tempo  che  siate  stata  presso  di  me,  diece 
volte  me  l'avete  veduta  cacciar  e  rimettere  nel  petto:  dategli 
quante  panzanate  voi  possete,  per  fargl'intendere  ch'io  li  porto 
grand'amore. 

Lucia.  —  Lascia  la  cura  ad  me  (disse  Gradasso)^.  Cossi  po- 
tesse io  guidar  il  re  o  l'imperadore,  come  potrò  maneggiar  co- 
stui. Rimanete  sana. 

Signora  Vittoria.  -  Andate.  Fate  come  vi  dettarà  la  pru- 
I135I  denza  vostra.  Lucia  mia. 

SCENA  HI 

Signora  Vittoria  sola 

L'amore  si  depinge  giovane  e  putto  per  due  cause:  l'una,  per 
che  par  che  non  stia  bene  a'  vecchi;  l'altra,  per  che  fa  l'uomo  di 
leggiero  e  men  grave  sentimento,  come  fanciulli.  Né  per  l'una 
né  per  l'altra  via  è  entrato  amor  in  costui.  Non  dico  per  che  gli 

92.  «Salve,  signor  professore». 

93.  «Buon  viaggio  si  augura  con  vale».  È  un'altra  pedanteria  di  Mamfurio. 

1.  Dia  sfogo. 

2.  Carattere  zotico  e  sciocco. 

3.  Allusione  a  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XXVII,  66. 


ATTO  SECONDO  315 

stesse  bene:  atteso  che  non  paiono  buone  a  lui  simili  giostre';  né 
per  che  gli  avesse  a  togliere  l'intelletto:  per  che  nisciuno  può 
essere  privato  di  quel  che  non  ha.  -  Ma  non  ho  tanto  da  guar- 
dar a  lui,  quanto  debbo  aver  pensiero  de  fatti  miei.  Considero, 
che,  come  di  vergini,  altre  son  dette  sciocche,  altre  prudenti  2; 
cossi  anco  de  noi  altre  che  gustiamo  de  meglior  frutti  che  pro- 
duce il  mondo,  pazze  son  quelle  ch'amano  sol  per  fine  di  quel 
piacer  che  passa,  e  non  pensano  alla  vecchiaia  che  si  accosta 
ratto  senza  ch'altri  la  vegga  o  senta,  insieme  insieme'  facen- 
do discostar  gli  amici.  Mentre  quella  increspa  la  faccia,  questi 
chiudono  le  borse;  quella  consuma  l'umor  di  dentro,  e  [questi 
scemano]  l'amor  di  fuori;  quella  percuote  da  vicino,  e  questi 
salutano  da  lontano''.  Però  fa  di  mestiero  di  ben  risolversi  a 
tempo.  Chi  tempo  aspetta,  tempo  perdei  S'io  aspetto  il  tem- 
po, il  tempo  non  aspettare  me.  Bisogna  che  ci  serviamo  di  fatti 
altrui,  mentre  par  che  quelli  abbian  bisogno  di  noi.  Piglia  la 
caccia"^  mentre  ti  siegue,  e  non  aspettar  che  ella  ti  fugga.  Mal 
potrà  prendere  l'ucel  che  vola,  chi  non  sa  mantener  quello 
ch'ha  in  gabbia.  Ben  che  costui  abbia  poco  cervello  e  mala  [137] 
schena^,  ha  però  la  buona  borsa:  del  primo,  suo  danno ^;  del 
secondo,  mal  non  m'accade;  del  terzo  se  ne  de'  far  conto.  I  sa- 
vi vivono  per  i  pazzi,  et  i  pazzi  per  i  savii'^.  Si  tutti  f ussero 
signori,  non  sarebbono  signori:  cossi,  se  tutti  saggi,  non  sareb- 
bono  saggi;  e  se  tutti  pazzi,  non  sarebbono  pazzi.  Il  mondo  sta 
bene  come  sta.  -  Or  torniamo  a  proposito,  Porzia '°:  conviene  a 


1.  Rapporti  sessuali. 

2.  Allusione  blasfema  alla  parabola  delle  vergini  in  Matteo,  XXV,  1-13. 

3.  Subito. 

4.  Nella  vecchiaia,  mentre  il  volto  femminile  si  riempie  di  rughe,  il  marito 
o  l'amante  non  lo  curano  più  e  non  danno  più  doni  e  denari;  Vumor  di  dentro  si 
riferisce  al  disseccarsi  della  pelle  e  del  corpo,  ormai  non  più  gradevole  e  affa- 
scinante; Yamor  di  dentro  è  quello  degli  uomini  che  più  non  curano  le  donne 
invecchiate;  quella  è  la  donna  che  insiste  per  avere  denaro  e  affetto,  mentre 
questi  è  l'uomo  che  se  ne  tiene  ben  lontano. 

5.  La  signora  Vittoria  procede  nel  suo  monologo  per  sentenze  popolaresche. 

6.  Selvaggina. 

7.  Sessualmente  debole,  quasi  impotente. 

8.  Peggio  per  lui. 

9.  Le  sentenze  della  signora  Vittoria  si  fanno  a  questo  punto  serie,  met- 
tendo a  confronto  la  saviezza  e  la  pazzia  del  mondo,  alterne  e  opposte  nel 
mondo.  Il  Bruno  implicitamente  ricorda  l'Ariosto  nella  rappresentazione  della 
follia  del  mondo  neWOrlando. 

10.  Secondo  nome  della  signora  Vittoria. 


3l6  CANDELAIO 

chi  è  bella  per  la  gioventù,  che  sii  saggia  per  la  vecchiaia.  Altro 
n'abbiamo^'  l'inverno  che  quel  che  raccolsemo  l'estate.  Or  fac- 
ciamo di  modo  che  quest'ucello  con  sue  piume  oltre  non  passa. 
-  Ecco  Sanguino. 

SCENA  IV 

Sanguino,  signora  Vittoria 

Sanguino.  —  Bàsovi'  quelle  bellissime  ginocchia  e  piedi,  si- 
gnora Porzia  mia  dolcissima,  saporitissima  più  che  zucchero, 
cannella  e  senzeverata^.  O  ben  mio,  si  non  fussemo  in  piazza, 
non  mi  terrebono  le  catene  di  santo  Leonardo^  ch'io  non  ti 
piantasse  un  bacio  a  quelle  labbra  che  mi  fan  morire. 

Signora  Vittoria.  -  Che  portate  di  novo.  Sanguino? 

Sanguino.  -  Messer  Bonifacio  ve  si  raccomanda;  et  io  vel 

[139]   racomando  cossi  come  i  buoni  padri  raccomandano  i  lor  putti 

a'  maestri:  idest  che  se  egli  non  è  saggio,  lo  castigate  ben  bene;  e 

se  volete  uno  che  sappia  e  possa  tenerlo  a  cavallo,  servitevi  di 

me. 

Signora  Vittoria.  -  Ah!  ah!  ah!  che  volete  dir  per  questo? 

Sanguino.  —  Non  l'intendete?  non  sapete  quel  ch'io  voglio 
dire?  Siete  tanto  semplicetta  voi? 

Signora  Vittoria.  -  Io  non  ho  queste  malizie  che  voi  avete. 

Sanguino.  -  Se  non  avete  di  queste  malizie,  avete  di  quelle, 
e  di  quelle,  e  di  quell'altre;  e  se  non  séte  fina  come  posso  esser 
io,  séte  come  può  essere  un  altro.  Or  lasciamo  queste  parole  da 
vento:  vengamo  al  fatto  nostro.  —  Era  un  tempo  che  il  leone  e 
l'asino  erano  compagni;  et  andando  insieme  in  peregrinaggio 
convennero  che  al  passar  de  fiumi  si  franassero  a  vicenna"*: 
com'è  dire,  che  una  volta  l'asino  portasse  sopra  il  leone,  et 
un'altra  volta  il  leone  portasse  l'asino.  Avendono  dumque  ad 

II.  Non  abbiamo. 

1.  Vi  bacio. 

2.  Sorta  di  dolce  fatto  con  farina  e  melassa,  e  contenente  molto  zenzero. 

3.  Santo  eremita  vissuto  nella  prima  metà  del  VI  secolo,  invocato  per  la 
liberazione  dei  prigionieri. 

4.  Si  trasportassero  vicendevolmente  a  nuoto.  Sanguino  racconta  qui  una 
parabola  fra  il  comico  e  l'osceno,  di  argomento  animalesco  e  popolaresco. 


ATTO  SECONDO  3I7 

andar  a  Roma,  e  non  essendo  a  lor  serviggio  né  scafa  ^  né  ponte, 
gionti  al  fiume  Garigliano,  l'asino  si  tolse  il  leone  sopra:  il  quale 
natando  verso  l'altra  riva,  il  leon,  per  tema  di  cascare,  sempre 
più  e  più  gli  piantava  l'unghie  ne  la  pelle  di  sorte  che  a  quel 
povero  animale  gli  penetromo  in  sin  all'ossa.  Et  il  miserello  (co- 
me quel  che  fa  professione  di  pazienza)  passò  al  meglio  che  potè 
senza  far  motto.  Se  non  che  gionti  a  salvamento  fuor  de  l'acqua, 
si  scrollò  un  poco  il  dorso,  e  si  svoltò  la  schena  tre  o  quattro 
volte  per  l'arena  calda:  e  passoron  oltre.  Otto  giorni  dopo,  al 
ritornare  che  fecero,  era  il  dovero  che  il  leone  portasse  l'asino. 
Il  quale  essendogli  sopra,  per  non  cascar  ne  l'acqua,  co  i  den- 
ti afferrò  la  cervice  del  leone:  e  ciò  non  bastando  per  tenerlo 
su,  gli  cacciò  il  suo  strumento  (o  come  vogliam  dire,  il  tu-m'in-  [141] 
tendi),  per  parlar  onestamente,  al  vacuo  sotto  la  coda,  dove 
manca  la  pelle:  di  maniera  ch'il  leone  sentì  maggior  angoscia 
che  sentir  possa  donna  che  sia  nelle  pene  del  parto,  gridando 
«Olà,  olà,  oi,  oi,  oi,  oimè!  olà  traditore!».  A  cui  rispose  l'asino 
in  volto  severo  e  grave  tuono:  «Pazienza,  fratel  mio:  vedi  ch'io 
non  ho  altr'unghia  che  questa  d'attaccarmi».  E  cossi  fu  neces- 
sario ch'il  leone  suff risse  et  indurasse^  sin  che  fusse  passato  il 
fiume.  A  proposito,  «Omnio  rero  vecissitudo  este»'':  e  nisciuno  è 
tanto  grosso  asino,  che  qualche  volta  venendogli  a  proposito, 
non  si  serva,  de  l'occasione.  Alcuni  giorni  fa  messer  Bonifa- 
cio rimase  contristato  di  certo  tratto  ch'io  gli  feci;  oggi,  all'ora 
ch'io  credevo  che  si  fusse  desmenticato,  me  l'ha  fatta  peggio  che 
non  la  fece  l'asino  al  lione:  ma  io  non  voglio  che  la  cosa  rima- 
gna equa. 

Signora  Vittoria.  -  Che  vi  ha  egli  fatto?  che  volete  voi 
fargli? 

Sanguino.  —  Ve  dirò...  Oh,  veggio  compagni  che  vengono:  re- 
tiriamoci e  parlaremo  a  bell'aggio. 

Signora  Vittoria.  —  Voi  dite  bene:  andiamo  in  nostra  casa, 
che  voglio  saper  de  cose  da  voi. 

Sanguino.  —  Andiamo,  andiamo. 

5.  Barca. 

6.  Pazientasse. 

7.  Sanguino  deforma  il  proverbio  latino  «Omnium  rerum  vicissitudo  est»: 
«C'è  continuo  mutamento  nelle  cose». 


3l8  CANDELAIO 

SCENA  V 

Lucia,  Barra 

Lucia.  -  Starnuti  di  cornacchia,  pie  d'ostreca  et  ova  di  liom- 
pardo^ 
[143]        Barra.  -  Ah!  ah!  ah!  il  suo  marito  era  dentro  ad  attizzar  la 
fornace,  a  lavorar  più  dentro;  et  io  lavoravo  co  lei  a  la  prima 
camera.... 

Lucia.  -  Che  lavore,  il  vostro? 

Barra.  -  Il  giuoco  de  zingani^:  e  che  l'è  fuori  e  che  l'è  den- 
tro; e  se  volete  intendere  il  successo  per  ordine,  credo  che  ride- 
rete. 

Lucia.  -  Di  grazia  fatemi  ridere,  ch'io  n'ho  gran  voglia. 

Barra.  —  Questa  vecchiazza  barba-di-cocchiara^,  richiesta  da 
me  si  me  voleva  fare  quel  piacere,  mi  rispose  «No  no  no  no...» 

Lucia.  -  0  gaglioffo,  dumque  tu  vai  subvertendo-'  le  povere 
donnecciole  e  svergognando  i  parentadi? 

Barra.  -  Tu  hai  il  diavolo  in  testa:  chi  ti  parla  di  questo?  è 
forse  una  sorte  '  di  piacere  che  possono  far  le  donne  a  gli  uo- 
mini? 

Lucia.  —  Or  séquita. 

Barra.  -  Si  lei  avesse  detto  una  volta  «No»,  io  non  arrei  più 
parlato  facendo  rimaner  la  cosa  cossi  Ili;  ma  per  che  disse  più 
de  dodici  volte  «No,  no  no,  non  non,  non,  none,  none,  none, 
nani,  nani,  none»:  «Cazzo,»  dissi  intra  di  me,  «costei  ne  vuole: 
al  sangue  de  suberi^  di  pianelle  vecchissime^,  che  in  questo 
viaggio  passaremo  qualche  fiume»®.  Poi  riprendo  idest  ripiglio  il 
sermone,  facendomegli  udire  in  questa  foggia:  «O  faccia  di  oro 
fino,  et  occhii  di  diamante,  tu  vuoi  farmi  morire,  an?» 


1.  Leopardo.  La  battuta  è  marcatamente  beffarda  e  allusiva,  fantastica,  sur- 
reale, sul  modello  del  Burchiello. 

2.  Zingari.  La  battuta  è  fortemente  oscena,  e  parte  dai  giochi  di  prestigita- 
zione  degli  zingari. 

3.  Cucchiaio;  ma  qui  allude  al  mento  sporgente,  alla  bazza. 

4.  Corrompendo. 

5.  Una  sola  sorte. 

6.  Sugheri. 

7.  Imprecazione. 

8.  Allusione  oscena 


ATTO  SECONDO  3X9 

Lucia.  —  E  poi  dice  la  bestia  che  non  intendeva  di  quella 
facenda. 

Barra.  -  Tu,  Lucia,  mi  vuoi  far  rinegare:  non  ti  puoi  imagi-   [145] 
nare  più  di  una  sorte  con  la  quale  le  donne  possono  far  morire 
gli  uomini? 

Lucia.  —  Passa  oltre:  ella  che  rispose  a  questo? 

Barra.  —  Et  ella  rispose:  «Va  via,  va  via,  via,  via,  via,  via, 
via,  via,  via,  mal  uomo».  Si  lei  avesse  detto  una  volta  «Va  via», 
forse  io  arei  smaltito  di  quella  sicurtà  che  gli  tanti  «non,  non» 
mi  aveano  data:  ma  per  che,  ripigliando  due  volte  il  fiato,  disse 
più  di  quindeci  volte  «Via,  via»,  et  io  ho  udito  dire  da  mastro 
Mamfurio  che  le  due  negazione  affermano,  e  molto  più  le  tre 
come  veggiamo  per  isperienza:  «Dumque»  dissi  io  intra  me 
stesso,  «costei  vuol  dansare  a  tre  pie'';  e  torsi  che  io  gli  piantare 
un'altra  gamba  tra  le  due,  acciò  possa  ancor  meglio  correre». 

Lucia.  —  Or  adesso  ti  ho. 

Barra.  —  Hai  il  mal-an-che-Dio-ti-dia  (perdonami  si  t'offen- 
do): s'io  te  dico  che  non  vuoi  pigliar  si  non  a  mala  parte  quel 
che  ti  dico! 

Lucia.  -  Ah!  ah!  ah!  séquita,  ch'io  voglio  tacere  sin  a  l'ultima 
conclusione:  e  tu  che  gli  dicesti? 

Barra.  —  All'or  io  con  una  bocca  piccolina  me  gli  feci  udire 
in  questo  tenore:  «Dumque,  cor  mio,  tu  vuoi  ch'io  mora?  e  per 
che  vuoi  ch'io  mora:  per  che  ti  amo?  che  farai  dumque  ad  un 
che  t'odia,  o  vita  mia?  Eccoti  il  coltello:  uccidemi  con  tua 
mano,  che  certo  certo  morirò  contento». 

Lucia.  -  Ah!  oh!  ah!  e  lei? 

Barra.  —  «Gaglioffo,  disonesto,  ricercatore'",  cubiculario": 
dirò  al  padre  mio  spirituale,  che  tu  mi  hai  fascinata;  ma  tu  con 
tutte  le  tue  paroli  non  bastarai  giamai  di  farmeti  consentire;  né 
con  tutte  tue  forze  giamai  verrai  a  quell'effetto  che  ti  pensi:  e  [147] 
s'il  provassi,  tei  farei  vedere  certissimo.  Credi  tu,  per  esser  ma- 
schio, di  aver  più  forza  di  me?  Cagnazzo  traditore,  s'io  avesse 
un  pugnale,  adesso  ti  ucciderei,  che  non  vi  è  testimonio  alcuno, 
né  persona  che  ci  vegga».  S'io  avesse  avuta  la  testa  più  grossa  di 

9.  Immagine  oscena. 

10.  Tentatore,  corruttore. 

11.  Adultero. 


320  CANDELAIO 

quella  di  san  Sparagorio'^,  o  s'io  fusse  stato  il  più  gran  tam- 
burro  del  mondo,  la  dovevo  intendere:  il  tamburro  pure, 
quando  è  toccato,  suona. 

Lucia.  —  Or  dumque  che  suono  facesti  tu? 

Barra.  —  Andiamo  dentro  che  tei  farò  vedere. 

Lucia.  —  Dite  dite  pure,  perché  dentro  non  si  vede. 

Barra.  Andiamo  andiamo,  che  batteremo  tanto  il  fucile  i', 
che  allumaremo  questa  candela,  che  sempre  porto  dentro  le 
brache  per  le  occorrenze. 

Lucia.  -  Allumar  la  possa  il  fuoco  di  santo  Antonio  '■♦. 

Barra.  —  È  da  temer  più  di  deluvio'^  d'acqua,  che  di  fuoco. 

Lucia.  —  Lasciamo  questi  propositi:  ella  che  si  monstrava 
tanto  ritrosa  e  tanto  gagliarda,  che  fece?  come  ve  ha  resistito? 

Barra.  -  Oimè,  ch'a  la  poverina  tutta  la  forza  gli  andò  a 
[149]  dietrovia'^.  Parsemi  veder  la  mula  d'Alciono'^,  che  s'ell'avesse 
avuto  al  cui  la  briglia,  arebbe  fatto  il  giorno  cento  miglia.  Il 
conto  di  costei  mi  par  simile  a  quel  d'un'altra  che  spunzona- 
va ^'^  don  Nicola,  alla  quale  don  Nicola  disse:  «Si  tu  mi  sponto- 
neggi^^  un'altra  volta,  tei  farò»;  et  ella:  «Ecco  ti  spontoneggio 
un'altra  volta:  or  che  potrai  far  tu?  che  pensi  far  adesso,  don 
Nicola?  chi  è  uomo  da  nulla  più  di  te?  Ecco  ti  spontoneggio 
un'altra  volta:  or  che  mi  farai  tu?  0  caro  don  Nicola,  non  potrai 
muovere  un  sassolino,  s'io  non  voglio».  Or  dimmi,  Lucia,  che 
dovea  far  quel  povero  don  Nicola  che  molti  giorni  fa  non  avea 
celebrato?2°  Il  buon  omo  di  don  Nicola  dovenne  a  tale,  che  non 
so  che  vena  se  gli  ruppe. 

Lucia.  —  Ah!  ah!  voi  siete  fino.  Lasciatemi  andar  a  rendere 


12.  San  Paragorio,  rappresentato  come  un  gigante  nell'iconografia  popolare. 
Il  Bruno  dovette  vedere  la  chiesa  di  S.  Paragorio  con  l'immagine  a  Noli  dove 
passò. 

13.  Fucile  è  propriamente  l'esca:  serve  ad  accendere  la  polvere  delle  armi 
da  fuoco.  Tutta  la  frase  è  oscena. 

14.  Herpes  zoster,  erisipela. 

15.  Diluvio,  in  senso  osceno,  per  alludere  allo  sperma. 

16.  Dietro. 

17.  L'Alcionio,  nato  a  Venezia  alla  fine  del  secolo  XV  e  morto  nel  sacco  di 
Roma,  fu  prima  correttore  di  stampa  presso  Aldo  Manuzio,  poi  insegnò  greco 
allo  Studio  fiorentino.  Fu  molto  fedele  ad  Aristotele:  di  qui  il  disprezzo  del 
Bruno.  L'allusione  alla  mula  d'Alcionio  dipende  da  un  sonetto  del  Bemi:  è 
oscena  sia  come  metafora  della  mula,  sia  per  intendere  rapporti  sodomitici. 

18.  Stuzzicava, 
ig.  Ecciti. 

20.  Allusione  oscena. 


ATTO  SECONDO  321 

certa  risposta  a  misser  Bonifacio,  che  son  pur  troppo  dimorata 
a  sentir  le  tue  ciancie. 

Barra.  -  Andate  via,  ch'io  ancor  ho  da  parlar  con  questo 
giovane  che  viene. 

SCENA  VI 

Pollula,  Barra 

POLLULA.  -  A  dio,  messer  Barra. 

Barra.  —  Ben  venuto,  cor  mio:  onde  venite,  dov'andate? 

Pollula.  -  Vo  cercando  messer  Bonifacio  per  donargli  que- 
sta carta.  [151] 

Barra.  -  Che  cosa  l'è,  si  può  vedere? 

Pollula.  —  Non  è  cosa  ch'io  possa  tener  ascosta  a  voi.  È  una 
epistola  amatoria,  la  quale  maestro  Mamfurio  gli  ha  composta, 
che  lui  vuole  inviare  non  so  a  chi  sua  inamorata. 

Barra.  -  Ah!  ah!  ah!  alla  signora  Vittoria:  veggiamo  che  cosa 
contiene. 

Pollula.  -  Legete  voi,  to'. 

Barra.  —  «Bonifacius  Luccus^  D.  Vittoriae  Blancae  S.  P.  D.^ 
Quando  il  rutilante  Febo  scuote  dall'oriente  il  radiante  capo, 
non  sì  bello  in  questo  superno  emisfero  appare,  come  alla  mia 
concupiscibile'  il  tuo  exilarante''  volto,  tra  tutte  l'altre  belle, 
pulcherrima  signora  Vittoria...».  —  Che  ti  ho  detto  io?  non  ho  io 
divinato? 

Pollula.  -  Leggete  pur  oltre. 

Barra.  —  «...  Laonde  maraviglia  non  fìa,  né  sii  anco  ver  uno 
eh'  inarcando  le  ciglia,  la  rugosa  fronte  increspi,  nemo  scilicet 
miretur,  nemini  dubium  sìL.»^.  —  Che  diavolo  di  modo  di  parlar 
a  donne  è  questo?  lei  non  intende  parole  per  gramatico'',  ah!  ah! 

Pollula.  -  Eh  di  grazia  sequite. 

Barra.  —  «...  nemini  dubium  sit,  si  l'arcifero  puerulo'  con 


1.  Allocco  (con  gioco  scherzoso  al  cognome  di  Bonifacio). 

2.  Salutem  pluritnan  dicit  «Invia  molti  saluti». 

3.  L'anima  concupiscibile  degli  aristotelici. 

4.  Che  rallegra,  che  dà  gioia. 

5.  «Nessuno  certo  si  meraviglierebbe,  nessuno  dubiterebbe». 

6.  In  latino. 

7.  Cupido. 


322  CANDELAIO 

quell'arco  medesmo,  la  di  cui  piaga  ha  sentito  lo  in  varie  forme 
cangiato  gran  monarca  Giove,  divum  pater  atque  hominum  rex^, 
[153]  hammi  negli  precordi!  penetrato  con  del  suo  quadrello^  la 
punta,  il  vostro  gentilissimo  nome  indelebilmente  con  quella 
sculpendovi.  Però  per  le  onde  stigie  (giuramento  a  i  cellcoli  in- 
violando'°)...».  —  Vada  in  bordello  questo  becco  pedante,  con  le 
sue  cifre  ^^;  e  questo  grosso  modorro'^  che  potrà  donar  ad  inten- 
dere con  questa  lettera?  Bonifacio  vuol  far  del  dotto:  e  lei  non 
crederà  che  sii  cosa  sua.  Oltre  che  mi  par  una  dotta  coglioneria 
quel  che  equi  si  contiene.  To',  io  ne  ho  letto  pur  troppo,  non  ne 
voglio  veder  più.  Si  costui  non  have  altro  batti-porta'^  che  que- 
sta pistola,  non  ce  l'attacca  questa  settimana. 

PoLLULA.  -  Cossi  credo  io:  le  donne  voglion  lettere  rotonde. 

Barra.  -  Meste  de  gli  carlini '-'•,  e  vogliono  il  ritratto  de  lo 
re  15.  Andiamo  avanti,  che  voglio  dirti  un  poco  a  lungo;  e  questo 
negocio  lo  farai  dopoi. 

PoLLULA.  -  Andiamo. 

[155]  [Fine  dell'atto  secondo] 


8.  «Padre  degli  dèi  e  re  degli  uomini». 

9.  Freccia. 

10.  Inviolabile. 

11.  Espressioni  incomprensibili. 

12.  Sciocco,  stolto. 

13.  Mezzo  per  ingraziarsi  la  donna. 

14.  Monete  d'argento. 

15.  Sulle  monete  d'argento  era  impresso  il  ritratto  di  Filippo  IL 


ATTO  TERZO 

SCENA  I 

Messer  Bartolomeo  solo 

Chi  è  stato  quel  gran  bestia-da-campana  ^  che  si  tira  a  presso 
un  armento  cossi  grande?  Mentre  comunmente  si  va  conside- 
rando dove  consista  la  virtù  ^  delle  cose,  fanno  quella  divisione 
«in  verbis,  in  herbis  et  in  lapidibus»^.  Oh  che  gli  vada  il  mal  di 
san  Lazaro"",  e  tutto  quello  che  non  vorei  per  me!  Per  che, 
prima  che  dichino  queste  tre  cosacele,  non  dicono  «i  metalli»? 
Li  metalli,  come  oro  et  argento,  sono  il  fonte  de  ogni  cosa:  que- 
sti, questi  apportano  parole,  erbe,  pietre,  lino,  lana,  seta,  frutti, 
frumento,  vino,  oglio;  et  ogni  cosa  sopra  la  terra  desiderabile,  da 
questi  si  cava:  questi  dico  talmente  necessarii  che,  senza  essi, 
cosa  nisciuna  di  quelle  si  accapa^  o  si  possedè.  Però  l'oro  è  detto 
materia  del  sole,  e  l'argento  la  luna:  per  che,  togli  questi  dui 
pianeti  dal  cielo,  dove  è  la  generazione  delle  cose?  dove  è  il 
lume  dell'universo?  Togli  questi  dui  de  la  terra,  dove  è  la  par- 
ticipazione,  possessione  e  fruizione  di  quelle?  Però  quanto 
arebbe  meglio  fatto  quel  primo  animale,  di  porre  in  bocca  al  [157] 
volgo  quell'un  solo  soggetto  di  virtù,  che  tutti  quelli  altri  tre 
senza  quest'uno:  se  per  ciò  non  è  stato  introdutto^,  a  fin  che 
non  tutti  intendano  e  possedano  quel  che  io  intendo  e  possedo. 
Erbe,  parole  e  pietre  son  materia  di  virtù  a  presso  certi  filosofi 
matti  et  insensati;  li  quali  odiati  da  Dio,  dalla  natura  e  dalla 
fortuna,  si  vedono  morir  di  fame,  lagnarsi  senza  un  poverello 


1.  Capo  dell'armento. 

2.  Virtù  magica. 

3.  «Nelle  parole,  nelle  erbe  e  nelle  pietre». 

4.  Lebbra. 

5.  Si  porta  a  compimento. 

6.  Tranne  che  non  sia  stato  introdotto. 


324  CANDELAIO 

quattrino  in  borsa:  per  temprar  il  tossico  dell'invidia  ch'hanno 
verso  pecuniosi^,  biasmano  l'oro,  argento  e  possessori  di  quello. 
Poi  quando  mi  accorgo,  ecco  che  tutti  questi  vanno  come  ca- 
gnoli  per  le  tavole  de  ricchi:  veramente  cani  che  non  sanno  con 
altro  che  col  baiare^  acquistars'il  pane.  Dove?  a  tavole  di  ricchi, 
di  que'  stolti,  dico,  che  per  quattro  paroli  a  sproposito  da  quelli 
dette  con  certe  ciglia  irsute,  occhi  attoniti  et  atto  di  maraviglia, 
si  fanno  cavar  il  pan  di  cascia'',  e  danari  dalle  borse:  e  gli  fanno 
conchiudere  con  verità  che  «in  verbis  sunt  virtutes»^^.  Ma  stare- 
bon  ben  freschi,  si  dal  canto  mio  aspectassero  effetto  de  le  lor 
ciancie:  atteso  che  non  so  ripascere  d'altro  che  di  quelle  mede- 
sme,  chi  mi  pasce  di  parole.  Or  facciano  conto  di  erbe  le  bestie, 
di  pietre  gli  matti,  e  di  paroli  gli  salta-in-banco:  ch'io  per  me 
non  fo  conto  d'altro,  che  di  quello  per  cui  si  fa  conto  d'ogni 
cosa.  Il  danaio  contiene  tutte  l'altre  quattro  i':  a  chi  manca  il 
danaio,  non  solo  mancano  pietre,  erbe  e  parole,  ma  l'aria,  la 
terra,  l'acqua,  il  fuoco  e  la  vita  istessa.  Questo  dà  la  vita  tempo- 
rale; e  la  etema  ancora,  sapendosene  servire,  con  fame  limosina: 
la  qual  pure  si  deve  far  con  gran  discrezzione;  e  non  senza  sa- 
[159]  per  il  conto  tuo  devi  privar  la  borsa  dell'anima  sua'^:  però  dice 
il  saggio,  «  Si  bene  feceris,  vide  cui»  ^^.  Ma  in  questa  teorica  non 
vi  è  guadagno.  -  Ho  inteso  che  è  ordine  nel  Regno  che  gli  car- 
lini di  vint'uno  non  vagliano  più  di  vinti  tomesi^'':  io  voglio 
andar  prima  che  si  publichi  l'editto  a  cambiar  i  tre  che  mi 
trovo;  interim  ^^  il  mio  garzone  tomarà  da  prendere  il  pulvis 
Christi. 


7.  Ricchi.  Ritoma  qui  antifrasticamente  la  proclamazione,  in  bocca  a  Bar- 
tolomeo, della  follia  e  della  miseria  dei  filosofi  in  contrapposizione  ai  ricchi, 
dediti  all'oro  e  al  guadagno. 

8.  Abbaiare.  L'allusione  ai  cagnoli  per  le  tavole  de  ricchi  dipende  all'apologo 
evangelico  di  Lazzaro  (già  prima  citato  dal  Bruno),  miserabile  e  affamato,  che 
raccoglie  le  briciole  di  pane  cadute  dalla  tavola  del  ricco  Epulone,  Luca,  16,  19. 

9.  Madia. 

10.  «Le  virtù  magiche  sono  nelle  parole». 

11.  I  quattro  elementi  (acqua,  terra,  fuoco,  aria). 

12.  L'anima  della  borsa  è  il  denaro. 

13.  «Se  vorrai  fare  del  bene,  bada  a  chi  lo  farai».  È  una  delle  sentenze 
attribuite  a  Catone  il  Vecchio. 

14.  Moneta  francese.  Al  carlino,  moneta  spagnola,  era  imposto,  a  Napoli,  un 
cambio  forzoso  con  il  tomese,  moneta  francese. 

15.  «Frattanto». 


ATTO  TERZO  325 

SCENA  II 

Messer  Bonifacio,  messer  Bartolomeo,  Lucia 

Bonifacio.  —  Olà  messer  Bartolomeo,  ascolta  due  paroli: 
dove  in  fretta?  mi  fuggi,  ah? 

Bartolomeo.  -  Adio,  adio,  messer  poco-pensiero:  ho  assai 
meglio  da  far,  che  di  cianciar  co  gli  vostri  amori. 

Bonifacio.  —  Ah!  ah!  ah!  andate  dumque  procuriate  per 
quell'altra  vostra,  che  vi  fa  morire. 

Lucia.  -  Che  motteggiamenti  son  questi  vostri?  sa  egli  che 
siete  inamorato? 

Bonifacio.  -  Sa  il  mal-an-che-Dio-li-dia:  è  per  che  mi  vede 
conversar  con  voi.  Or  al  fatto  nostro:  che  cosa  dice  la  mia  dol- 
cissima signora  Vittoria? 

Lucia.  —  La  povera  signora,  per  necessità  nella  quale  si 
trova,  have  impegnato  un  diamante  e  quel  suo  bel  smeraldo. 

Bonifacio.  -  O  diavolo,  oh  che  fortuna! 

Lucia.  —  Credo  che  li  sarebbe  cosa  gratissima,  si  gli  le  faces-  [i6i] 
sivo  ricuperare:  non  stanno  per  più  che  per  diece  scudi. 

Bonifacio.  —  Basta  basta:  farò  farò. 

Lucia.  —  Il  presto  è  il  meglio. 

Bonifacio.  —  Oh!  oh!  perdonami,  Lucia,  a  rivederci;  non 
posso  darvi  risoluzione  alcuna  adesso:  ecco  un  mio  amico  col 
quale  ho  da  negociar  cose  d'importanza.  A  dio,  a  dio. 

Lucia.  -  A  dio. 

SCENA  III 

Ascanio,  Scaramuré,  Bonifacio 

AscANio.  —  Oh,  ecco  messer  Bonifacio  mio  padrone.  Misser, 
siamo  equi  con  il  signor  eccellentissimo  e  dottissimo  il  signor 
Scaramuré. 

Bonifacio.  —  Ben  venuti:  avete  dato  ordine  alla  cosa?  è 
tempo  di  far  nulla? 

Scaramuré.  —  Come  nulla?  ecco  equi  la  imagine  di  cera  ver- 
gine, fatta  in  suo  nome;  ecco  equi  le  cinque  aguglie'  che  gli 

I.  Aghi. 


326  CANDELAIO 

devi  piantar  in  cinque  parti  della  persona.  Questa  particulare 
più  grande  che  le  altre,  li  pungerà  la  sinistra  mammella:  guarda 
di  profondare  troppo  dentro,  per  che  fareste  morir  la  paziente. 

Bonifacio.  —  Me  ne  guardare  bene. 

ScARAMURÉ.  -  Ecco  ve  la  dono  in  mano:  non  fate  che  da  ora 
avanti  la  tenga  altro  che  voi.  Voi  Ascanio  siate  secreto;  non  fate 
che  altra  persona  sappia  questi  negocii. 

Bonifacio.  -  Io  non  dubito  di  lui:  tra  noi  passano  negocii 
[163]   più  secreti  di  questo. 

SCARAMURÉ.  —  Sta  bene.  Farete  dumque  far  il  fuoco  ad  Asca- 
nio di  legne  di  pigna,  o  di  oliva,  o  di  lauro,  si  non  possete  farlo 
di  tutte  tre  materie  insieme.  Poi^  arrete  d'incenso  alcunamente 
esorcizato  o  incantato,  co  la  destra  mano  lo  gettarete  al  fuoco; 
direte  tre  volte:  «Aurum  thus»'';  e  cossi  verrete  ad  incensare  e 
fumigare  la  presente  imagine,  la  qual  prendendo  in  mano,  di- 
rete tre  volte:  «Sine  quo  nihil»'*;  oscitarete^  tre  volte  co  gli  occhii 
chiusi,  e  poi  a  poco  a  poco  svoltando  verso  il  caldo  del  fuoco  la 
presente  imagine  (guarda  che  non  si  liquefaccia,  per  che  mor- 
rebbe la  paziente)... 

Bonifacio.  —  Me  ne  guardare  bene. 

ScARAMURÉ.  -  ...  la  farrete  tornare  al  medesmo  lato  tre  volte, 
insieme  insieme  tre  volte  dicendo:  «Zalarath  Zhalaphar  nectere 
vincula:  Caphure,  Mirion,  Sarcha  Vittoriae»^,  come  sta  notato  in 
questa  cartolina^.  Poi  mettendovi  al  contrario  sito  del  fuoco 
verso  l'occidente,  svoltando  la  imagine  con  la  medesma  forma 
quale  è  detta,  dirrete  pian  piano:  «Felapthon  disamis  festino  ba- 
rocco daraphti.  Celantes  dabitis  fapesmo  frises  omorum»^.  Il  che 
tutto  avendo  fatto  e  detto,  lasciate  ch'il  fuoco  si  estingua  da  per 
lui;  e  locarrete'^  la  figura  in  luoco  secreto,  e  che  non  sii  sordido, 
ma  onorevole  et  odorifero. 


2.  Poiché. 

3.  «Oro  incenso»  (allusione  a  Matteo,  II,  11,  dove  sono  descritti  i  doni  dei 
Magi  a  Gesù). 

4.  «Senza  il  quale  nulla»  (ed  è  part;e  di  formula  liturgica). 

5.  Sbadiglierete. 

6.  Insieme  di  parole  magiche,  ebraiche,  greche,  latine,  che  vorrebbe  dire:  «O 
potenza,  o  potenza  che  stringi  i  lacci,  capta  per  me  il  gran  corpo  di  Vittoria». 

7.  Biglietto. 

8.  Sono  le  formule  mnemoniche  dei  vari  tipi  di  sillogismo,  variamente  de- 
formate. 

9.  Porrete. 


ATTO  TERZO  327 

Bonifacio.  —  Farro  cossi  a  punto.  [165] 

ScARAMURÉ.  —  Sì,  ma  bisogna  ricordarsi  ch'ho  spesi  cinque 
scudi  alle  cose  che  concorreno  al  far  della  imagine. 

Bonifacio.  -  Oh,  ecco  li  sborso:  avete  speso  troppo. 

ScARAMURÉ.  —  E  bisogna  ricordarvi  di  me. 

Bonifacio.  -  Eccovi  questo  per  ora;  e  poi  farò  di  vantaggio 
assai,  si  questa  cosa  verrà  a  perfeczione. 

SCARAMURÉ.  —  Pazienza.  Avertite,  messer  Bonifacio,  che  si 
voi  non  la  spalmarete  bene^'',  la  barca  correrà  malamente. 

Bonifacio.  -  Non  intendo. 

SCARAMURÉ.  -  Vuol  dire  che  bisogna  onger"  ben  bene  la 
mano:  non  sapete? 

Bonifacio.  —  In  nome  del  diavolo:  io  procedo  per  via  d'in- 
canti, per  non  aver  occasione  di  pagar  troppo.  Incanti  e  con- 
tanti... 

ScARAMURÉ.  —  Non  induggiate.  Andate  presto  a  far  quel  che 
vi  è  ordinato,  per  che  Venere  è  circa  l'ultimo  grado  di  Pesci. 
Fate  che  non  scorra  mezza  ora,  che  son  trenta  minuti  di  Ariete. 

Bonifacio.  —  Adio  dumque.  Andiamo,  Ascanio.  Cancaro  a 
Venere  12,  e... 

ScARAMURÉ.  -  Presto;  a  la  buon'ora:  caldamente.  [167] 

[SCENA  IV] 

Scaramuré  solo 

Assai  è  di  aver  cavati  sette  scudi  da  le  mani  di  questa  piat- 
tola: sempre  si  deve  da  simil  gente  cavar  il  conto  suo  col  prete- 
sto della  spesa  che  concorre  nella  confezzione  del  secreto.  Ecco 
che,  per  mia  fatica,  non  m'arrebbe  dato  più  d'un  par  di  scudi 
per  adesso;  a  complir  poi  del  resto  \  nel  giorno  di  Santa  Maria 
delle  Catenelle^,  la  quale  sarà  l'ottava  del  giorno  del  Giudizio^. 

10.  Non  darete  abbondantemente  la  pece  sul  fondo  della  barca,  cioè  non 
darete  un  bel  po'  di  denaro  come  mancia. 

11.  Ungere  (la  mano,  nel  senso  di  dare  un  bel  po'  di  denaro  come  mancia). 

12.  Imprecazione. 

1.  A  soddisfarmi  poi  del  resto. 

2.  Una  Santa  Maria  della  Catena  aveva  una  chiesa  a  Napoli. 

3.  Cioè  un  giorno  che  non  verrà  mai. 


328  CANDELAIO 

SCENA  V 

Lucia,  Scaramuré 

Lucia.  -  Dove  malviaggio  è  andato  costui?  Mi  castroneggia 
un  castrone':  aspettavo  da  lui  una  certa  risoluzione. 

Scaramuré.  -  Oh,  adio  Lucia,  dove  dove? 

Lucia.  —  Cerco  messer  Bonifacio,  che  ora  ho  lasciato  con  voi: 
credevo  che  mi  aspettasse  equa. 

Scaramuré.  -  Che  volete  da  lui? 

Lucia.  —  Per  dirvela  come  ad  amico,  la  signora  Vittoria  gli 
manda  a  chieder  di  danari. 

Scaramuré.  -  Ah,  ah,  io  so,  io  so:  adesso  la  scaldarà  e  gli 
darrà  de  l'incenso^:  de  danari  ne  ha  dati  ad  me  per  non  aver 
occasione  di  dame  a  lei. 
[169]        Lucia.  —  Come  diavolo  può  esser  questo? 

Scaramuré.  -  La  signora  Vittoria  dimanda  troppo:  e  lui  con 
mezza  duzena  di  scudi,  se  la  vuole  attaccare  a  chiave  et  a  ca- 
tene \ 

Lucia.  —  Ditemi  come  passa  la  cosa. 

Scaramuré.  -  Andiamo  insieme  a  trovar  la  signora  Vittoria; 
e  raggionaremo  con  lei  et  ordinaremo  qualche  bella  matassa,  a 
fin  che  io  rimanghi  col  credito  con  questo  babuino"*:  e  facciamo 
qualche  bella  comedia. 

Lucia.  —  Voi  dite  bene;  massime  che  non  è  bene  di  raggionar 
equi:  veggo  venir  di  gente. 

Scaramuré.  —  Ecco  il  magister.  leviamoci  da  equa. 

SCENA  VI 

Mamfurio,  Scaramuré,  Pollula 

Mamfurio.  —  Adesdum,  paucis  te  volo\  domine  Scaramuree. 
Scaramuré.   -   Dictum  putah   a   rivederci   un'altra   volta, 
quando  arrò  poche  facende. 


1.  Mi  lascio  gabbare  da  uno  sciocco. 

2.  La  frase  è  oscena. 

3.  È  un'altra  battuta  oscena,  analoga  alla  precedente. 

4.  Stolto. 

1.  «Vieni,  ti  voglio  dire  due  parole»  (citazione  di  Terenzio,  Andr.,  I,  i  e  2), 

2.  «Tientelo  per  detto». 


ATTO  TERZO  329 

Mamfurio.  -  Oh  bel  responso!  Or,  mio  Pollula,  ut  eo  redeat 
unde  egressa  est  oratio^,  ti  stupirrai,  uhi! 

Pollula.  -  Volete  che  le  legga  io? 

Mamfurio.  -  Minime,  per  che  non  facendo  il  punto  secondo 
la  raggione"*  de  periodi,  e  non  proferendoli  con  quella  energia 
che  requireno,  verrete  a  digradirli  '  dalla  sua  maestà  e  gran- 
dezza: per  il  che  disse  il  prencipe  di  greci  oratori  Demostene,  la  [171] 
precipua  parte  dell'oratore  essere  la  pronunciazione.  Or  odi;  ar- 
rige  aures,  Pamphile^: 

Uomo  di  rude  e  di  crassa  Minerva'', 
mente  offuscata,  ignoranza  proterva; 
di  nulla  leczion,  di  nulla  fruge^ 
in  cui  Pallad'et  ogni  Musa  lugge'*; 
lusco^°  intellecto  et  obcecato"  ingegno, 
bacellone  di  cinque '^^  uomo  di  legno; 
tronco  discorso  '^,  industria  tenebrosa, 
volatile  noctuma,  a  tutti  exosa'"*: 
per  che  non  vait'a  ascondere, 
o  della  terra  madre  inutil  pondereP^^ 

Giudizio  inepto,  perturbato  senso, 
tenebra  obscura  e  lusca,  Èrebo  denso  ^^ 
ascilo'^  auriculato'^,  indocto  al  tutto, 
in  nullo  ludo  litterario  instructo; 
di  fave  cocchiaron ''',  gran  maccarone^" 

3.  «Affinché  il  discorso  ritomi  là  donde  è  pariiito». 

4.  Ritmo. 

5.  Degradarli,  abbassarli. 

6.  «Drizza  le  orecchie,  Panfilo»  (citazione  di  Terenzio,  Andr.,  V,  4,  30). 

7.  Di  tardo  e  grosso  ingegno. 

8.  Utilità. 

9.  Sta  in  gramaglie,  è  in  lutto. 

10.  Orbo. 

11.  Cieco. 

12.  Grosso  sciocco. 

13.  Lo  stolto  non  sa  parlare  a  lungo. 

14.  Odioso. 

15.  Peso. 

16.  L'Èrebo  è  l'inferno  pagano,  quindi  la  metafora  significa  «oscurità  pro- 
fonda». 

17.  Asinelio. 

18.  Dalle  lunghe  orecchie. 

19.  Grande  mangiatore. 

20.  Sciocco. 


330  CANDELAIO 

ch'a  Foglio  fusti  posto  a  infusione; 
cogitato  disperso^',  astimo  losco^^, 
absorpto  fium  leteo^^,  Avemo  fosco  2^: 
tu  di  tenelli  unguicoli  e  incunabili^' 
l'inepzia-'"  hai  protracta  insin  al  senio^^. 

Inmaturo  pensier,  fantasia  perdita^^, 
intender  vacillant',  attenzion  sperdita 2''; 
illiterato  et  indisciplinato, 
in  cecità  educato, 

privo  di  proprio  Marte,  inerudito'", 
[173]  di  crassizie  imbibito '', 

senza  veder,  di  nulla  apprensione, 
bestia  irrazionai,  grosso  mandrone'^, 
d'ogni  lum  privo,  d'ignoranza  figlio, 
povero  d'argumento  e  di  consiglio. 

Vedeste  simili  decade"  giamai?  Altri  fan  di  quattrini ^■^,  altri  di 
sextine,  altri  di  octave;  mio  è  il  numero  perfecto,  idest,  videlicet, 
scilicet,  nempe,  utpote,  ut  puta^'^,  denario:  authore  Pythagora, 
atque  Platone.  —  Ma  chi  è  cotesto  vel  cotello^*'  properante ''^  vèr 
noi? 

PoLLULA.  -  Gioan  Bernardo  pittore. 


21.  Pensiero  svagato. 

22.  Giudizio  cieco,  erroneo. 

23.  Il  Lete  è  il  fiume  infernale  le  cui  acque  davano  l'oblio,  quindi  la  meta- 
fora significa  «persona  che  ha  bevuto  tutta  l'acqua  del  Lete,  che  non  ricorda 
nulla». 

24.  L'Avemo  è  altro  nome  dell'inferno  pagano  e  la  metafora  ha  lo  stesso 
significato  di  «Èrebo  denso». 

25.  Teneri  fanciulli  ancora  nella  culla,  che  hanno  le  unghie  piccole. 

26.  La  semplicità. 

27.  La  vecchiaia. 

28.  Depravata. 

29.  Vacillante,  sperduta. 

30.  Ignorante. 

31.  Imbevuto,  ripieno. 

32.  Montone. 

33.  Le  strofe  di  Mamfurio  sono  di  dieci  versi. 

34.  Quartine. 

35.  Tutte  particelle  che  significano  «cioè». 

36.  Colui. 

37.  Che  si  affretta. 


ATTO  TERZO  331 

SCENA  VII 

Mamfurio,  Gioan  Bernardo,  Pollula 

Mamfurio.  -  Bene  veniat  ille^  a  cui  non  men  convien  no- 
menclatura della  ribombante  fama  dalla  tromba,  che  a  Zeusi, 
Apelle,  Fidia,  Timagora  e  Polignoto^. 

Gioan  Bernardo.  -  Di  quanto  avete  proferito,  non  intendo 
altro  che  quel  «pignato»'  ch'avete  detto  al  fine.  Credo  che  que- 
sto insieme  col  bocalc*  vi  fa  parlar  di  varie  lingue  5.  S'io  avesse 
cenato  ti  risponderei. 

Mamfurio.  -  Il  vino  exilara  et  il  pane  confirma-  [175] 

Bacchus  et  alma  Ceres,  vestro  si  munere  tellus 
chaoniam  pingui  glandem  mutavit  arista^, 

disse  Publio  Virgilio  Marone,  poeta  mantuano,  nel  suo  libro 
della  Georgica  primo,  verso  il  principio,  facendo  more  poetico''  la 
invoccLzione:  dove  imita  Exiodo,  attico  poeta  e  vate. 

Gioan  Bernardo.  -  Sapete,  domine  magister..? 

Mamfurio.  -  Hoc  est  «magis  ter»,  tre  volte  maggiore^: 

Palici,  quos  aequus  amavit 
luppiter,  aut  ardens  evexit  in  aethera  virtus'^. 

Gioan  Bernardo.  -  Quello  che  voglio  dir  è  questo:  vorrei 
sapere  da  voi  che  vuol  dir  «pedante». 

Mamfurio.  -  Lubentissime^^  voglio  dirvelo,  insegnarvelo,  de- 


1.  «Ben  venuto». 

2.  Mamfurio  fa  un  elenco  di  celebri  pittori  greci,  ma  fa  confusione  fra  Ti- 
magora, uomo  politico  ateniese,  e  il  pittore  di  nome  Timante. 

3.  Zuppa  grassa.  Gioan  Bernardo  equivoca  con  Polignoto. 

4.  Di  vino. 

5.  Allusione  irriverente  all'episodio  della  capacità  di  parlare  in  varie  lingue 
per  dono  dello  Spirito  Santo  narrato  negli  Atti  degli  Apostoli,  II,  4. 

6.  «Tu  Bacco  e  alma  Cerere,  se  per  grazia  vostra  la  terra  passò  dalla 
ghianda  caonia  alla  pingue  spiga»  (citazione  di  Virgilio,  Georg.,  l,  7-8). 

7.  «Secondo  la  consuetudine  poetica». 

8.  Una  delle  assurde  e  ridicole  etimologie  di  Mamfurio. 

9.  «I  pochi,  che  il  giusto  Giove  amò,  o  che  l'ardente  virtù  innalzò  il  cielo» 
(citazione  di  Virgilio,  Aen.,  VI,  129-130). 

10.  «Molto  volentieri». 


332  CANDELAIO 

clararvelo,  exporvelo,  propalarvelo,  palam  farvelo",  insinuar- 
velo  et  {particula  coniunctiva  in  ultima  dictione  apposita^^)  enu- 
clearvelo'^;  sicut,  ut,  velut,  valuti,  quemadmodum  «Nucetn»  ovidia- 
nam  meis  coram  discipulis  (quo  melius  nucleum  eius  edere  possint) 
[177]  enucleavi^'*.  «Pedante»  vuol  dire  quasi  «pede  ante»:  utpote  quia 
have  lo  incesso  prosequitivo^^  col  quale  fa  andare  avanti  gli 
erudiendi  puberi;  vel  per  strictiorem  arctioremque  aethymologiam: 
pe,  «perfectos»;  dan,  «dans»;  te,  «thesauros»^^.  Or  che  dite  de  le 
ambedue? 

GiOAN  Bernardo.  —  Son  buone:  ma  a  me  non  piace  né  l'una 
né  l'altra;  né  mi  par  a  proposito. 

Mamfurio.  —  Cotesto  vi  è  a  dirlo  lecito,  alia  meliore  in  me- 
dium prolata  ' ',  idest  quando  arrete  apportatane  un'altra  vie  più 
degna. 

GiOAN  Bernardo.  —  Ecco  vela:  pe,  «pecorone»;  dan,  «da  nul- 
la»; te,  «testa  d'asino». 

Mamfurio.  —  Disse  Catone  seniore:  «Nil  mentire,  et  nihil  te- 
mere credideris»^^. 

GiOAN  Bernardo.  -  Hoc  est,  id  est,  chi  dice  il  contrario  ne 
mente  per  la  gola. 

Mamfurio.  -  Vade,  vade: 

Cantra  verbosos,  verbis  contendere  noli^"^. 
Verbosos  cantra,  noli  contendere  verbis. 
[179]  Verbis  verbosos  noli  contendere  contra. 

GiOAN  Bernardo.  —  Io  dono  al  diavolo  quanti  pedanti  sono! 
-  Resta  con  cento  mila  di  quelli  angeli  de  la  faccia  cotta-°. 

11.  Rivelarvelo. 

12.  «Posta  la  congiunzione  accanto  all'ultima  parola». 

13.  Sviscerarvelo. 

14.  «Come,  a  quel  modo  che  sviscerai  per  filo  e  per  segno  la  "Noce"  ovi- 
diana  davanti  ai  miei  scolari,  affinché  possano  più  facilmente  mangiarne  il 
nocciolo».  Il  Liber  nucis  è  un'operetta  pseudo-ovidiana. 

15.  Passo  che  fa  progredire. 

16.  «O  secondo  un'etimologia  più  concisa  e  profonda;  Pe,  perfetti,  dan, 
dante,  te,  tesori». 

17.  «Quando  avrete  apportato  un'altra  etimologia  migliore». 

18.  «Non  mentire  e  non  credere  alla  leggera». 

19.  «Non  contendere  a  parole  contro  i  chiacchieroni»  (è  un'altra  massima 
catoniana). 

20.  Sono  i  diavoli. 


ATTO  TERZO  333 

Mamfurio.  -  Menateli  pur,  come  socii  vostri,  vescovi.  -  U' 
siete  voi  Pollula?  Pollula  che  dite?  vedete  che  nefando,  abomi- 
nando, turbulento  e  portentoso  seculo? 

Questo  secol  noioso  in  cui  mi  trovo, 
Vóto  è  d'ogni  valor,  pien  d'ogni  orgoglio 22. 

Ma  properiamo 25  verso  il  domicilio,  poscia  che  voglio  oltre 
exercitarvi  in  que'  adverbii  locali,  motu  de  loco,  ad  locum  et  per 
locum:  «ad,  apud  ante,  adversum  vel  adversus,  cis,  citra,  contra, 
erga,  infra,  in  retro,  ante,  coram,  a  tergo,  intus  et  extra». 

Pollula.  —  Io  le  so  tutti,  e  li  tegno  ne  la  mente. 

Mamfurio.  -  Questa  leczione  bisogna  saepius  reiterarla  et  in 
memoriam  revocarla;  lectio  repetita  placebit^'^: 

Gutta  cavai  lapidem  non  bis  sed  saepe  cadendo: 
sic  homo  fit  sapiens  bis  non,  sed  saepe  legendo^^. 

Pollula.  -  Vostra  Excellenzia  vada  avanti,  ch'io  vi  seguirrò 
a  presso.  [181] 

Mamfurio.  —  Cossi  si  fa  in  foro  et  in  platea^^:  quando  siamo 
in  privatis  aedibus^^,  queste  urbanità,  observanze  e  cerimonie 
non  bisognano. 

SCENA  vili 

Barra,  Marca 

Marca.  —  Oh,  vedi  il  mastro  Mamfurio  che  sen  va? 
Barra.  —  Lascialo  col  diavolo:  seguita  il  proposito  incomin- 
ciato; fermiamoci  equa. 

21.  Con  voi. 

22.  Citazione  di  F.  Petrarca,  Trionfo  d'Amore,  I,  17-18. 

23.  Affrettiamoci. 

24.  «La  lettura  ripetuta  piacerà»  (citazione  di  Orazio,  Ars  poet.,  365);  ma 
qui  Mamfurio  vuol  dire  che  la  lezione  ripetuta  sarà  di  vantaggio  al  suo  scolaro. 

25.  «La  goccia  scava  la  pietra  cadendo  non  una  o  due,  ma  infinite  volte; 
allo  stesso  modo  l'uomo  diviene  dotto  facendo  non  una  o  due,  ma  infinite 
letture».  Il  primo  emistichio  è  ricavato  da  Ovidio,  Ex  Ponto,  IV,  io,  5;  il  resto 
è  un'aggiunta  medievale. 

26.  «Per  le  piazze». 

27.  «In  casa  privata». 


334  CANDELAIO 

Marca.  -  Ordumque  iersera  all'osteria  del  CerriglioS  dopo 
che  ebbemo  benissimo  mangiato,  sin  tanto  che  non  avendo  lo 
tavernaio  del  bisogno,  lo  mandaimo  ad  procacciare  altrove  per 
fusticelli^,  cocozzate',  cotugnate-*  et  altre  bagattelle  da  passar  il 
tempo;  dopo'  che  non  sapevamo  che  più  dimandare,  un  di  no- 
stri compagni  finse  non  so  che  debilità^;  e  l'oste  essendo  corso 
con  l'aceto,  io  dissi:  «Non  ti  vergogni,  uomo  da  poco?  camina 
prendi  dell'acqua  namfa^  di  fiori  di  cetrangoli',  e  porta  della 
malvasìa  di  Candia^».  All'ora  il  tavernaio  non  so  che  si  rinegas- 
se^  egli;  e  poi  comincia  ad  cridare,  dicendo:  «In  nome  del  dia- 
volo, séte  voi  marchesi  o  duchi?  Séte  voi  persone  di  aver  speso 
quel  che  avete  speso?  Non  so  come  la  farremo  al  far  del  conto: 
questo  che  dimandate  non  è  cosa  da  osteria»;  «Furfante,  ladro, 
mariolo»  dissi  io,  «pensi  ad  aver  a  far  con  pari  tuoi?  tu  sei  un 
[183]  becco,  cornuto,  svergognato»;  «Hai  mentito  per  cento  canne», 
disse  lui.  All'ora  tutti  insieme  per  nostro  onore  ci  alzaimo  di 
tavola,  et  acciaffaimo '"  ciascuno  un  spedo  di  que'  più  grandi, 
lunghi  da  diece  palmi... 

Barra.  -  Buon  principio,  messere. 

Marca.  -  ...  li  quali  ancor  aveano  la  provisione  ^^  infilzata;  et 
il  tavernaio  corre  ad  prendere  un  partesanone  1^;  e  dui  di  suoi 
servitori  due  spadi  rugginenti  ^^.  Noi  ben  che  fussimo  sei  con  sei 
spedi  più  grandi  che  non  era  la  partesana,  presimo  delle  caldaia 
per  servirne  per  scudi  e  rotelle... 

Barra.  -  Saviamente. 

Marca.  —  Alcuni  si  puosero  certi  lavezzi  '•*  di  bronzo  in  testa 
per  elmetto  over  celata... 


1.  Osteria  di  Napoli,  frequentata,  a  quanto  appare  da  testimonianze  con- 
temporanee, da  cortigiane,  mercanti,  soldati,  malfattori  ecc. 

2.  Chiodi  di  garofano. 

3.  Zucche  condite. 

4.  Marmellata  di  cotogne. 

5.  Deliquio. 

6.  Essenza  odorosa  distillata  di  fiori  d'arancio. 

7.  Melarance. 

8.  Vino  dolce  di  Creta. 

9.  Bestemmiasse. 

10.  Afferrammo. 

11.  Il  cibo. 

12.  Grossa  picca. 

13.  Rugginose. 

14.  Laveggi,  conche. 


ATTO  TERZO  335 

Barra.  —  Questa  fu  certo  qualche  costellazione  che  puose  in 
esaltazione  i  lavezzi,  padelle  e  le  caldaie  ^5. 

Marca.  -  È  cossi  bene  armati  reculando,  ne  andavamo  de- 
fendendo e  retirandoci  per  le  scale  in  giù,  verso  la  porta,  benché 
facessimo  finta  di  farci  avanti... 

Barra.  —  Bel  combattere:  un  passo  avanti  e  dui  a  dietro,  un 
passo  avanti  e  dui  a  dietro  (disse  il  signor  Cesare  da  Siena '^). 

Marca.  -  Il  tavernaio  quando  ci  vedde  molto  più  forti,  e 
timidi  più  del  dovero,  in  loco  di  gloriarsi  come  quel  che  si  por- 
tava valentemente,  entrò  in  non  so  che  suspizione... 

Barra.  -  Ci  sarrebbe  entrato  Scazzolla*^.  [185] 

Marca.  -  ...  per  il  che  buttata  la  partesana  in  terra,  comandò 
a  sua  servitori  che  si  retirassero,  che  non  volea  di  noi  vendetta 
alcuna... 

Barra.  —  Buon'anima  da  canonizzare. 

Marca.  -  E  voltato  a  noi  disse:  «Signori  gentil'omini,  perdo- 
natime;  io  non  voglio  offendervi  da  dovero:  di  grazia  pagatemi 
et  andiate  con  Dio». 

Barra.  -  All'or  sarrebe  stata  bene  qualche  penitenza  con 
l'assoluzione. 

Marca.  -  «Tu  ci  vói  uccidere,  traditore»,  dissi  io;  e  con  que- 
sto puosemo  i  piedi  fuor  de  la  porta.  All'ora  l'oste  desperato, 
accorgendosi  che  non  accettavamo  la  sua  cortesia  e  devozione, 
riprese  il  partesanone  chiamando  aggiuto^^  di  servi,  figli  e  mo- 
glie. Bel  sentire:  l'oste  cridava  «Pagatemi  pagatemi»;  gli  altri 
stridevano:  «A'  marioli,  a  i  marioli!  ah,  ladri  traditori!».  Con 
tutto  ciò  nisciun  fu  tanto  pazzo  che  ne  corresse  a  dietro,  per  che 
l'oscurità  della  notte  fauriva  più  noi  che  altro.  Noi  dumque  te- 
mendo il  sdegno  ostile,  idest  de  l'oste,  fuggivimo^^  ad  una 
stanza  apresso  li  Carminilo;  dove,  per  conto  fatto,  abbiamo  an- 
cor da  fame  le  spese  per  tre  giorni. 

Barra.  -  Far  burla  ad  osti,  è  far  sacrificio  ad  nostro  Signore; 
rubbare  un  tavernaio,  è  far  una  limosina:  in  batterlo  bene  con- 

15.  Qualche  influsso  celeste  vi  fece  mobilitare  gli  arnesi  di  cucina. 

16.  Persona  non  altrimenti  nota. 

17.  Altra  persona  ignota. 

18.  Aiuto. 

19.  Fuggimmo. 

20.  Contrada  della  parte  orientale  di  Napoli,  dove  era  il  convento  e  la 
chiesa  dei  Carmelitani. 


336  CANDELAIO 

siste  il  merito  di  cavar  un'anima  di  purgatorio.  Dimmi,  avete 
saputo  poi  quel  che  seguitò  nell'ostaria? 

Marca.  -  Concorsero  molti:  de  quali,  altri  pigliandosi  spasso 

[187I  altri  attristandosi,  altri  piangendo  altri  ridendo,  questi  consi- 
gliando quelli  sperando,  altri  facendo  un  viso  altri  un  altro,  al- 
tri questo  linguaggio  et  altri  quello,  era  veder  insieme  comedia 
e  tragedia,  e  chi  sonava  a  gloria  e  chi  a  mortoro.  Di  sorte  che, 
chi  volesse  vedere  come  sta  fatto  il  mondo,  derebbe  desiderare 
d'esservi  stato  presente. 

Barra.  -  Veramente  la  fu  buona.  Ma  io  che  non  so  tanto  di 
rettorica,  «solo  soletto  senza  compagnia»,  l'altr'ieri  venendo  da 
Nola  per  Pumigliano^^  dopoi  ch'ebbi  mangiato  non  avendo 
tropo  buona  fantasia  di  pagare,  dissi  al  tavernaio:  «Messer  osto, 
vorrei  giocare»;  «A  qual  gioco»  disse  lui,  «volemo  giocare?  equa 
ho  de  tarocchi»;  risposi:  «A  questo  maldetto  gioco  non  posso 
vencere,  perché  ho  una  pessima  memoria»;  disse  lui:  «Ho  di 
carte  ordinarie»;  risposi:  «Saranno  forse  segnate,  che  voi  le  co- 
noscerete; avetele  che  non  siino  state  ancor  adoperate?»;  lui  ri- 
spose de  non.  «Dumque  pensiamo  ad  altro  gioco»;  «Ho  le  tavo- 
le ^2,  sai?»;  «Di  queste  non  so  nulla»;  «Ho  de  scacchi,  sai?»; 
«Questo  gioco  mi  farebbe  rinegar  Cristo».  All'ora  gli  venne  il 
senapo  in  testa^^:  «A  qual  dumque  diavolo  di  gioco  vorai  giocar 
tu?  proponi»;  dico  io:  «A  stracquare^'^  a  pall'e  maglio ^5»;  disse 
egli:  «Come  a  pall'e  maglio?  vedi  tu  equa  tali  ordegni?  vedi 
luoco  da  posservi  giocare?».  Dissi:  «A  la  mirella?»^'';  «Questo  è 
gioco  da  f achini,  bifolchi  e  guarda-porci».  «A  cinque  dadi?»^^; 
«Che  diavolo  di  cinque  dadi?  mai  udivi  di  tal  gioco.  Si  vuoi, 

[189]  giocamo  a  tre  dadi» 2*;  io  gli  dissi  che  a  tre  dadi  non  posso  aver 
sorte.  «Al  nome  di  cinquantamila  diavoli»  disse  lui,  «si  vuoi 
giocare,  proponi  un  gioco  che  possiamo  farlo  e  voi  et  io».  Gli 

21.  Pomigliano  d'Arco,  oggi  grosso  comune  a  mezza  strada  fra  Napoli  e 
Nola. 

22.  Gioco  che  si  fa  su  una  scacchiera  con  dadi  e  pedine  per  la  dama  (detto 
anche  tric-trac  o  sbaraglino). 

23.  Gli  venne  la  mosca  al  naso,  montò  su  tutte  le  furie. 

24.  Faticare,  sudare. 

25.  Pallamaglio,  gioco  che  si  faceva  con  una  palla  di  legno,  spinta  con  un 
maglio  (analogo  al  cricket). 

26.  Tipo  di  lotta  popolare  (a  Roma). 

27.  Allusione  oscena. 

28.  Zara. 


ATTO  TERZO  337 

dissi:  «Giocamo  a  spaccastrommola»^^;  «Va»  disse  lui,  «che  tu 
mi  dai  la  baia:  questo  è  gioco  da  putti,  non  ti  vergogni?».  «Or  su 
dumque»  dissi,  «giocamo  a  correre»;  «Or  questa  è  falsa»,  disse 
lui;  et  io  soggionsi:  «Al  sangue  dell'Intemerata^",  che  giocarai». 
«Vuoi  far  bene?»  disse,  «pagami;  e  si  non  vuoi  andar  con  Dio, 
va  col  prior  de'  diavoli».  Io  dissi:  «Al  sangue  delle  scrofole,  che 
giocarai»;  «E  che'^  non  gioco!»,  diceva;  «E  che  giochi!»,  dicevo; 
«E  che  mai  mai  vi  giocai!»;  «E  che  vi  giocarrai  adesso!»;  «E  che 
non  voglio!»;  «E  che  vorrai!».  In  conclusione  comincio  io  a  pa- 
garlo co  le  calcagne,  ideste  a  correre.  Et  ecco  quel  porco  che 
poco  fa  diceva  che  non  volea  giocare,  e  giurò  che  non  volea 
giocare,  e  giurò  che  non  volea  giocare:  e  giocò  lui,  e  giocomo 
dui  altri  suoi  guattari^^;  di  sorte  che  per  un  pezzo  correndomi  a 
presso,  mi  arrivomo  e  giunsero,  co  le  voci.  Poi  ti  giuro  per  la 
tremenda  piaga  di  san  Rocco '^,  che  né  io  l'ho  più  uditi,  né  essi 
mi  hanno  più  visto. 

Marca.  -  Veggio  venir  Sanguino  e  messer  Scaramuré.  [191] 

SCENA  IX 

Sanguino,  Barra,  Marca,  Scaramuré 

Sanguino.  —  A  punto  voi  io  andavo  cercando:  siamo  pe  far 
di  bei  tratti  questa  sera,  e  non  saranno  senza  qualche  nostro 
profitto,  o  spasso  almeno.  Io  mi  voglio  vestire  da  capitan 
Palma;  voi  insieme  con  Corcovizzo  mostrarete  di  esser  birri:  sta- 
remo alla  posta  equi  vicino,  che  spero  che  questa  sera  attra- 
paremo^  messer  Bonifacio  all'uscita  o  entrata  che  farà  dalla 
stanza  della  signora  Vittoria;  e  faremo  piacere  alla  signora,  et 
utile  a  noi. 

Barra.  —  E  ci  prenderemo  mille  spassi. 

Marca.  -  Sì  alla  fé:  e  può  essere  che  ci  possano  occorrere 
altre  belle  occasioni. 


29.  Gioco  fanciullesco,  che  si  faceva  con  la  trottola. 

30.  Imprecazione  alla  Madonna. 

31.  E  se. 

32.  Sguatteri. 

33.  San  Rocco  è  rappresentato,  nell'iconografia,  con  una  profonda  piaga 
sulla  coscia  per  la  lebbra. 

I.  Ghermiremo,  afferreremo. 


338  CANDELAIO 

Barra.  —  Facende  non  ci  mancaranno. 

ScARAMURÉ.  —  Quanto  al  fatto  di  messer  Bonifacio,  sarrò  io 
che  verrò  come  a  caso  ad  accomodarlo  con  far  che  vi  doni  qual- 
che cortesia,  a  fin  che  lo  lasciate:  e  non  menarlo  in  Vicaria^ 
priggione  \ 

Sanguino.  -  Questo  pensiero  non  è  de'  peggiori  del  mondo. 
Venete  dumque  quanto  prima:  per  che  daremo  una  volta"^  e  vi 
aspettaremo,  in  casa  della  signora  Vittoria. 
[193]        Barra.  -  Andate  in  buon'ora. 

SCENA  X 

Barra,  Marca 

Barra.  -  Ai  sangue  de  mi...  ^  che  non  è  poca  comodità  di 
venir  a  qualche  dissegno  ^,  il  mostrar  di  essere  birri  di  notte: 
saremo  tre  o  quattro,  portaremo  la  insegna  della  birraria,  ideste 
le  verghette  in  mano;  e  quando  vedremo  la  nostra^  farremo. 

Marca.  —  Ah,  per  san  Quintino!  ecco  a  punto  Corcovizzo  che 
viene. 

Barra.  -  Ma  chi  è  quel  che  va  con  lui? 

Marca.  -  Mi  par  mastro  Mamfurio. 

Barra.  —  Egli  è  desso;  presto,  discostiamoci  un  po'  da  equi, 
che  Corcovizzo  ne  fa  segno:  credo  che  stia  un  procinto  di  fargli 
qualche  burla. 

Marca.  —  Andiamo  qui  dietro,  che  non  siam  veduti. 

SCENA  XI 

Corcovizzo,  Mamfurio 

Corcovizzo.  -  Voi  lo  sapete  ben,  che  egli  è  inamorato? 
Mamfurio.  -  Oh,  benissimo;  il  suo  amor  passa  per  le  mie 
mani:  gli  ho  composta  una  epistola  amatoria,  della  quale  come 

2.  Il  Tribunale. 

3.  Prigioniero. 

4.  Faremo  un  giro. 

1.  Imprecazione  interrotta,  perché,  essendo  travestito  da  birro,  ricorda  che 
deve  far  osservare  le  leggi  contro  i  bestemmiatori. 

2.  Venire  a  capo  di  qualche  piano. 

3.  Occasione. 


ATTO  TERZO  339 

sua  si  debba  servire,  per  essere  dalla  sua  amasia  admirato  e  più 
istimato.  [195] 

CoRCOVizzo.  —  Or  egli  ieri,  come  fusse  un  giovane  di  25  anni, 
andò  a  proponere  a  mastro  Luca  che  per  oggi  gli  avesse  fatto  un 
par  di  stivaletti  di  marrocchino  di  Spagna,  buoni  a  passeggiar 
per  la  città:  il  che  avendo  udito  il  mariolo,  è  stato  oggi  a  la 
mirai  quando  messer  Bonifacio  veneva  ad  calzarsi.  Or  veggen- 
dolo  spuntar  da  Nilo  verso  la  bottega,  pian  piano  se  gli  accostò 
senza  mantello,  sin  che  con  essolui  si  fece  dentro  la  bottega.  Il 
quale,  per  essere  venuto  gionto  a  messer  Bonifacio,  fu  stimato 
servitor  suo  dal  mastro;  e  per  che  era  senza  mantello,  mezzo 
sbracciato,  fu  stimato  da  messer  Bonifacio  lavorante  di  bottega. 
Per  il  che,  avendosi  da  calzar,  quel  povero  messere  senza  dub- 
bito^  alcuno  si  lasciò  prendere  la  cappa,  fasciata  di  veluto  et 
inbottonata  d'oro ^,  da  colui;  il  quale  avendosela  posta  su  le  due 
braccia,  o  come  buon  valetto  di  camera,  o  com'  un  de'  lavoranti 
a  cui  appartenga  la  sfrena'*,  mentre  mastro  Luca  era  occupato 
ad  assestare  l'opra  sua^,  e  messer  Bonifacio  curvo  su  le  gambe  a 
farsi  ben  servire,  costui  con  una  bella  continenza,  or  guardando 
i  travi  della  bottega,  or  chi  passava,  chi  andava,  chi  veneva,  or 
dava  una  volta  e  giravasi:  sin  tanto  che  vedendo  la  sua,  puose 
un  pie  fuor  de  la  porta.  In  conclusione:  «cappa»  cuius  generis? 
Ablativi^. 

Mamfurio.  —  Ah!  ah!  ah!  dativus  a  dando,  ablativus  ab  aufe- 
rendo'^:  si  voi  avessivo^  studiato,  e  non  fussivo^  idiota 'o,  arestivo 
un  bell'ingenio:  credo  che  avevate  Minerva  in  ascendente ''.  [197] 

CORCOVizzo.  -  Per  tornare  al  proposito:  accomodato  che  fu 
messer  Bonifacio,  et  avendoli  menato  la  scopetta  ^^  per  il  dorso 


1.  Appostato,  in  agguato. 

2.  Sospetto. 

3.  Fornita  di  bottoni,  di  fibbie  d'oro. 

4.  Mancia. 

5.  Il  momento  propizio. 

6.  «La  cappa  a  quale  genere  appartiene?  All'ablativo». 

7.  «Dativo  del  dare,  ablativo  del  portar  via». 

8.  Aveste  voi. 

9.  Foste  voi;  arestivo,  avreste  voi. 

10.  Incolto,  privo  di  studi. 

11.  Quando  un  pianeta  è  in  ascendente,  allora  il  suo  influsso  è  massimo. 
Minerva  è  la  dea  latina  della  cultura. 

12.  Spazzola. 


340  CANDELAIO 

mastro  Luca,  scuotendosi  le  mani  dimanda  la  cappa.  Risponde 
mastro  Luca:  «Il  vostro  servitor  la  tiene;  o  là,  dove  sei  tu?  S'è 
fatto  fuori  per  badare»;  «Non  ho  bisogno  di  cotesti  onori  e  ca- 
stella» ^^  disse  messer  Bonifacio,  «dite  pur  che  è  vostro  lavoran- 
te»; «Per  santa  Maria  del  Carmelo  che  mai  lo  viddi»,  disse  ma- 
stro Luca;  e  che  è  cossi,  e  che  è  colà.  Considerate  che  bel  vedere 
è  stato  di  messer  Bonifacio,  co  i  stivaletti  nuovi,  che  s'ha  fatto 
rubbar  la  bella  cappa.  Or  mai  non  si  può  più  vivere  per'"»  tanti 
poltroni  marioli  tagliaborse. 

Mamfurio.  —  Gran  miseria  et  infelice  condizione  sotto  que- 
sto campano  clima,  il  cui  celeste  periodo  subest  Mercurio^^;  il 
qual  è  detto  nume  e  dio  de  furi^*':  però,  amico  mio,  sta  in  cer- 
vello per  la  borsa. 

CoRCOVizzo.  —  Io  per  me  porto  i  danari  equi  sotto  l'ascella, 
vedete. 

Mamfurio.  -  Et  io  la  mia  giornea  ^^  non  la  porto  a  la  schena 
né  al  fianco,  ma  sopra  l'inguine  o  ver  sotto  il  pectine"^,  poscia'*^ 
cossi  si  fa  in  terra  di  ladri. 

CoRCOVizzo.  -  Domino  magister,  ben  veggio  che  siete  sapien- 
tissimo: e  non  senza  gran  profitto  avete  studiato. 

Mamfurio.  —  Hoc  non  latet  il  mio  Mecenate,  di  cui  li  pueruli 
199]  ego  erudio,  idest  extra  ruditatem  facio,  vel  e  ruditate  eruo^^.  M'ha 
egli  imposto  ch'io  vadi  a  decemere^i  del  preggio  della  materia  e 
della  structura  de  gli  indumenti  di  quelli,  e  liberar  la  elargienda 
pecunia^^:  la  quale  come  buono^^  economico  {Oeconomia  est  do- 
mestica gubernatio^'^)  in  questa  coriacea  e  vellutacea^^  giornea 
riserbo  2^ 


13.  Di  questi  lussi,  di  questo  fasto. 

14.  A  causa  di. 

15.  «È  sottoposto  a  Mercurio». 

16.  Ladri. 

17.  Borsa. 

18.  Pube. 

19.  Poiché. 

20.  «Ciò  non  è  nascosto  al  mio  Mecenate,  i  cui  figlioletti  io  erudisco,  ovvero 
pongo  fuori  dell'ignoranza,  ossia  traggo  fuori  dall'ignoranza». 

21.  Riconoscere. 

22.  Pagare  il  prezzo  dovuto. 

23.  Bene. 

24.  «L'economia  è  governo  della  casa». 

25.  Di  cuoio  e  di  velluto. 

26.  Custodisco. 


ATTO  TERZO  34I 

CoRCOVizzo.  -  Oh  lodato  sia  Dio,  signor  eccellente  maestro: 
ho  imparato  da  voi  belli  consegli  e  modi  di  vivere.  Fatemi  di 
grazia  un  altro  favore  d'agiutarmi,  ch'io  non  abbia  pensiero  di 
andar  a  cambiar  sei  doppioni 2''  sino  a'  banchi ^^:  si  voi  avete 
scudi  o  altra  moneta,  io  ve  li  lasciare.  Io  sparmiarò^^  la  fatica 
del  camino,  e  voi  guadagnarete  sei  granilo. 

Mamfurio.  —  Io  non  il  fo  lucri  causa,  iuxta  illud:  «Nihil  inde 
sperando»;  sed,  ma,  ex  humanitate  et  officio;  mitto  quod  eziamdio 
ego  minus  oneratus  abibo^K  Ecco,  li  numero:  tre,  dui  son  cinque; 
sette  e  quattro  fanno  undeci,  cinque  e  quattro  son  nove,  fan 
vinti  carlini;  tre,  tre,  sei,  e  dui,  son  otto  cianfroni'^^  fan  sei  du- 
cati; cinque  aurei  di  Francia  ^^.  Ne  bisogna  suttrarre  alquanto.   [201] 

SCENA  [xii] 
Mamfurio,  Barra,  Marca 

Mamfurio.  -  Olà,  Olà,  equa  equa,  aggiuto,  agiuto!  Tenetelo, 
tenetelo!  A  l'involatore,  al  surreptore^,  al  surreptore,  al  fure,  am- 
putator  di  marsupii  et  incisor  di  crumene!^  Tenetelo,  tenetelo, 
che  ne  porta  via  gli  miei  aurei  solari^  con  gli  argentei! 

Barra.  -  Che  cosa,  che  cosa  v'ha  egli  fatto? 

Mamfurio.  -  Per  che  lo  avete  lasciato  andare? 

Barra.  —  Diceva  il  poverello:  «Mi  vuol  battere  il  mio  pa- 
drone, a  me  povero  innocente»;  però  l'abbiam  lasciato:  acciò 
che  vi  facciate  passar  la  còlerà  prima,  per  che  poi  lo  potrete 
castigar  a  bell'agio  in  casa. 

Marca.  —  Signor  sì,  bisogna  perdonar  qualche  volta  a'  servi- 
tori, e  non  usar  sempre  de  rigore. 

27.  Moneta  d'oro  spagnola,  del  valore  di  due  doppie. 

28.  I  banchi  dei  cambiavalute  e  la  strada  dove  si  trovano. 

29.  Risparmierò. 

30.  Moneta  d'oro,  sottomultiplo  della  doppia. 

31.  «Per  guadagno,  secondo  quel  precetto:  "Date  a  prestito  senza  aspettarne 
interesse",  ma  per  gentilezza  e  cortesia;  tralascio  che,  inoltre,  me  ne  andrò  di 
qui  più  leggiero».  Il  precetto  è  evangelico:  Luca,  VI,  35. 

32.  Moneta  d'argento  che  valeva  cinque  carlini,  cioè  mezzo  ducato. 

33.  Mezzo  scudo  d'oro  di  Francia. 

1.  Al  ladro,  al  rapinatore. 

2.  Strappatore  di  borse  e  rapitore  di  portafogli. 

3.  II  mezzo  scudo  d'oro  di  Francia  era  chiamato  demi  écu  au  soleil  perché 
aveva  sopra  la  figura  del  sole. 


342  CANDELAIO 

Mamfurio.  -  Oh,  che  non  è  punto  mio  servo  né  familiare: 
ma  un  ladro  che  mi  ha  rubbati  diece  scudi  di  mano. 

Barra.  -  Può  far  l'Intemerata''...  E  voi  perché  non  Gridavate 
«il  mariolo,  al  mariolo»?  che  non  so  che  diavolo  de  linguaggio 
avete  usato. 

Mamfurio.  -  Questo  vocabulo  che  voi  dite,  non  è  latino  né 
etrusco 5:  e  però  non  lo  proferiscono  di  miei  pari. 
[203]        Barra.  —  Per  che  non  cridavate  «al  ladro»? 

Mamfurio.  —  «Latro»  è  sassinator  di  strada,  in  qua  vel  ad 
quam  latet^.  «Fur»  qui  furtim  et  subdole  come  costui  mi  ha  fatto: 
qui  et  «subreptor»  dicitur  a  subtus  rapiendo,  vel  quasi  rependo'', 
per  che  sotto  specimine^  di  uomo  da  bene,  mi  ha  decepto^. 
Oimè,  i  scudi. 

Barra.  -  Or  vedete  che  avete  avanzate  co  le  vostre  lettere,  a 
non  voler  parlar  per  volgare:  ma,  col  vostro  latrino  e  trusco^°, 
credevamo  che  parlassivo'^  con  esso  lui  più  che  con  noi. 

Mamfurio.  -  O  fure,  degna  pastura  d'avoltori. 

Marca.  —  Dite,  per  che  non  correvate  appresso  lui? 

Mamfurio.  —  Volete  voi  ch'un  grave  moderator  di  ludo 
literario,  e  togato,  avesse  per  publica  platea  accelerato  il  gres- 
so?  '^  A  miei  pari  convien  quel  adagio  {si  proprie  adagium  licet 
dicere)  «Festina  lente»;  item  et  illud  «Gradatim,  paulatim,  pede- 
tentim»^^. 

Barra.  -  Avete  raggione,  signor  dottore,  d'aver  sempre  risguar- 
do al  vostro  onore,  et  alla  maestà  del  vostro  andare. 

Mamfurio.  —  O  fure  le  cui  ossa  vorei  vedere  sovra  una  ruo- 


4.  Madonna  Immacolata. 

5.  Lingua  fiorentina,  italiano. 

6.  «Latro  è  assassino  di  strada,  nella  quale  ovvero  presso  la  quale  sta  in 
agguato». 

7.  «Furo  è  chi  opera  furtivamente  e  subdolamente  ...  e  si  chiama  anche 
rapinatore  dal  fatto  che  rapisce  dal  di  sotto  o  forse  dal  fatto  che  va  quasi 
strisciando». 

8.  Apparenza. 

9.  Ingannato. 

10.  Equivoco  scherzoso  di  Marca  sulle  parole  «latino  ed  etrusco»  dette  da 
Mamfurio. 

11.  Parlaste  voi. 

12.  Passo. 

13.  «Se  è  esatto  chiamarlo  adagio:  "Affrettati  lentamente",  e  ugualmente 
anche  quell'altro:  "A  grado  a  grado,  a  poco  a  poco,  a  passo  a  passo"». 


ATTO  TERZO  343 

ta'-'  attrite!  1'  Oimè,  forse  che  non  me  gli  ha  tutti  involati?  ^^  Or  [205] 
che  dirà  il  mio  Mecena?^^  Io  gli  risponderò  con  l'autorità  del 
prencipe  di   Peripatetici  Aristotele,  secundo  «Physicorum»,  vel 
«Periacroaseos»:  «Casus  est  eorum  quae  eveniunt  in  minori  parte,  et 
praeter  intentionem»^^. 

Barra.  —  Io  credo  che  si  contenterà. 

Mamfurio.  -  0  ingiusti  moderatori  di  giustizia'^,  si  voi  fa- 
cessivo  il  vostro  debito,  non  sarebbe  tanta  copia  di  malfattori. 
Forse  che  non  l'ha  tutti  presi?  Oh,  sceleratissimo. 

SCENA  XIII 

Sanguino,  Barra,  Mamfurio,  Marca 

Sanguino.  -  0  là  uomini  da  bene:  per  che  è  fuggito  colui? 
che  ha  egli  fatto,  quel  ribaldo? 

Barra.  —  Siate  ben  venuto,  messer  mio.  Noi  siamo  ne  la 
maggior  angoscia  del  mondo:  abbiamo  avuto  quel  ladro  (o  non 
so  come  vuol  che  sì  chiama  il  signor  magister)  intra  le  mani;  e 
perché  non  sappiamo  di  lettera  ^  è  scappato  al  diavolo. 

Sanguino.  —  Non  so  che  raggioni  son  queste  vostre:  io  ve 
dimando  per  che  è  fuggito. 

Mamfurio.  -  Mi  ha  involati ^  diece  scudi. 

Sanguino.  -  Come  diavolo  han  volato  diece  scudi?  [207] 

Marca.  —  Ben  si  vede  che  mai  andaste  a  scola. 

Sanguino.  —  Subito  ch'io  ebbi  imparata  la  b  a,  ba,  mio  pa- 
dre me  die  per  ragazzo  al  capitan  Mancino^. 

Mamfurio.  —  Veniamus  ad  rem"^:  mi  ha  egli  rubbati  diece 
scudi. 


14.  Della  tortura. 

15.  Schiacciate,  pestate. 

16.  Rubati. 

17.  Mamfurio  chiama  «suo  Mecenate»  il  gentiluomo  dei  cui  figli  è  precet- 
tore. 

18.  «Nel  secondo  libro  della  Fisica,  ovvero  Intorno  all'udito:  "Il  caso  si  ri- 
ferisce a  quegli  eventi  che  accadono  in  casi  eccezionali,  e  al  di  fuori  di  ogni 
intenzionalità"». 

19.  I  birri,  nel  linguaggio  pedantesco  di  Mamfurio. 

1.  Siamo  ignoranti,  non  sappiamo  di  letteratura. 

2.  Rubato,  portato  via.  Volato:  Sanguino  equivoca  sulla  parola  dotta  di 
Mamfurio. 

3.  Celebre  capo  di  birri. 

4.  «Veniamo  al  fatto». 


344  CANDELAIO 

Sanguino.  —  Rubbato?  rubbato?  a  voi  domineì  a  voi  domine 
magisteri  Bàsovi  le  mani,  non  mi  conoscete? 

Mamfurio.  —  Io  vi  ho,  alcune  ore  fa,  quando  eravate  con  il 
mio  discepolo  Pollula. 

Sanguino.  —  Io  son  quello,  signor  domino  magister.  Sappiate 
ch'io  vi  son  servitor,  et  ho  gran  voglia  di  farvi  piacere;  e  per  ora 
sappiate  che  vostri  scudi  son  recuperati. 

Mamfurio.  —  Dii  velini,  faxint  ista  superi,  o  utinaml^ 

Barra.  —  Oh,  si  farete  tanto  bene  a  questo  gentil  omo,  mai 
facestivo  meglior  e  più  degna  opra:  et  egli  non  vi  sarà  ingrato, 
et  io  da  parte  mia  vi  donare  un  scudo. 

Sanguino.  -  Son  ricuperati  dico. 

Marca.  -  L'avete  voi? 

Sanguino.  —  Non,  ma  cossi  come  l'avesse  nelle  mani  il  si- 
gnor magister. 

Barra.  -  Conoscete  voi  colui? 

Sanguino.  -  Conosco. 
[209]        Barra.  —  Sapete  dove  dimora? 

Sanguino.  -  So. 

Mamfurio.  —  O  superi,  0  celicoli  diique  deaeque  omnes! 

Marca.  —  Noi  siamo  a  cavallo. 

Barra.  —  Bisogna  soccorrere  al  negocio  di  questo  monsi- 
gnore, per  amor  et  obligo  ch'abbiamo  alle  lettere  et  a'ietterati. 

Mamfurio.  —  Me  vobis  comendo:  mi  raccomando  alle  vostre 
cortisie. 

Marca.  -  Non  dubitate,  signore. 

Sanguino.  -  Andiamo  tutti  insieme,  per  che  lo  trovaremo: 
io  so  certissimo  il  loco  dove  va  ad  annidarsi  costui;  di  averlo  in 
mano  non  è  dubbio  alcuno.  Non  potrà  negar  il  furto,  per  che 
benché  lui  non  mi  abbia  visto,  io  ho  veduto  lui  fuggire. 

Marca.  -  E  noi  l'abbiamo  veduto  fuggire  dalle  mani  del  si- 
gnor maestro. 

Mamfurio.  —  Vos  fidelissimi  testes^. 

Sanguino.  —  Non  bisogna  rompersi  la  testa:  o  ne  darà  gli 
scudi  o  lo  daremo  in  mano  della  giustizia. 

5.  «Lo  vogliano  gli  dèi,  che  i  Superi  me  lo  concedano,  voglia  il  cielo!». 
L'esclamazione  è  ripetuta  in  modo  quasi  analogo  subito  dopo  da  Mamfurio. 

6.  «Voi  siete  fidatissimi  testimoni». 


ATTO  TERZO  345 

Mamfurio.  —  Ita,  ita,  nil  melius^:  voi  dite  benissimo. 

Sanguino.  -  Signor  magister,  bisogna  che  voi  siate  presente. 

Mamfurio.  —  Optime.  «Urget  praesentia  Turni^».  [211] 

Sanguino.  —  Però,  andando  noi  tutti  quattro  insieme,  al  bat- 
ter che  faremo  de  la  porta,  potrà  essere  che  quella  puttana  con 
la  quale  egli  dimora,  consapevole  del  negocio,  o  perché  lui  per 
qualche  rima^  ne  vegga,  non  venghino  ad  concederne  l'entrata; 
o  che  quell'uomo  fugga,  o  si  asconda  ad  altra  parte:  ma  non 
essendo  voi  conosciuto,  son  certo  che  lo  tirarò  a  raggionar  meco 
per  ogni  modo  sotto  certe  specie  di  cose  che  passano.  Però  sarà 
bene,  anzi  necessario,  che  cangiate  vestimenta,  mostrandovi  di 
robba  corta  ^'^.  Voi  altro,  messer,  quale  è  vostro  nome,  si  ve 
piace  dirlo? 

Barra.  -  Coppino  al  servizio  vostro. 

Sanguino.  -  Voi  messer  Coppino,  farete  questo  piacere  a  me 
et  al  signor  magister,  il  quale  vi  potrà  far  di  favori  assai... 

Mamfurio.  -  Me  tibi  offero^K 

Sanguino.  —  ...  imprestategli  lo  vostro  mantello,  e  voi  vi  co- 
prirete di  sua  toga:  che  per  esser  voi  più  corto  di  persona,  par- 
rete un  altro.  E  per  meglio  compartire,  date,  signor  magister,  il 
cappello  a  questo  altro  compagno,  e  voi  prendete  la  sua  baretta; 
et  andiamo. 

Mamfurio.  —  Nisi  urgente  necessitate,  nefas  esset  habitum  pro- 
prium  dimictere;  tamen,  nihilominus^^,  nulla  di  meno,  quia  ita 
videtur^^,  ad  imitazion  di  Patroclo  che  co  le  vesti  cangiate  si 
finse  Achille'^,  e  di  Corebo'^  che  apparve  in  abito  di  Androgeo, 
e  del  gran  Giove  {poetarum  testimonio)  ^'^  per  suoi  dissegni  in   [213] 

7.  «Sì,  sì,  non  c'è  nulla  di  meglio». 

8.  «Urge  la  presenza  di  Turno»  (citazione  di  Virgilio,  Aen.,  II,  73). 

9.  Fessura. 

10.  Vestito  corto,  non  l'abito  talare  tipico  dei  professori  (e  di  Mamfurio). 

11.  «Mi  metto  a  tua  disposizione». 

12.  «Tranne  il  caso  di  urgente  necessità,  non  è  bene  lasciare  il  proprio 
abito;  tuttavia,  ciononostante». 

13.  «Poiché  così  par  bene». 

14.  Allude  al  celebre  episodio  deWIliade,  quando  Patroclo  ottiene  le  armi 
da  Achille  per  rianimare  i  Greci  sconfitti  e  spaventare  i  Troiani,  dando  a  cre- 
dere che  Achille  stesso  sia  ritornato  a  combattere. 

15.  Allusione  a  un  episodio  delVEneide,  quando,  durante  l'ultima  notte  di 
Troia,  il  troiano  Corebo  veste  le  armi  del  greco  Androgeo  appena  ucciso,  spe- 
rando così  di  portare  confusione  negli  assalitori  e  fame  strage. 

16.  «Per  testimonianza  dei  poeti». 


346  CANDELAIO 

tante  forme  cangiato,  deponendo  talvolta  la  più  sublime  forma, 
non  mi  dedignarrò'^  deporre  la  mia  toga  literaria:  optimo  mihi 
proposito  fine^^,  di  animadvertere  contra''-*  questo  criminoso  abo- 
minando. 

Barra.  —  Ma  ricordatevi,  signor  mastro,  di  riconoscere  la 
cortesia  di  questi  galant'ommi,  che  per  me  non  ve  dimando 
nulla. 

Mamfurio.  -  A  voi  in  comuni  destino  la  terza  parte  de  gli 
ricovrati  2°  scudi. 

Sanguino.  —  Gran  mercé  alla  vostra  liberalità. 

Barra.  —  Or  su  andiamo  andiamo. 

Mamfurio.  —  Eamus  dextro  Hercule^K 

Sanguino,  Marca.  -  Andiamo. 

[215]  [Fine  dell'atto  terzo] 


17.  Rifiuterò. 

18.  «Proponendomi  rottimo  fine». 

19.  Punire. 

20.  Recuperati. 

21.  «Andiamo  col  favore  di  Ercole». 


ATTO  QUARTO 

SCENA  I 

Signora  Vittoria  sola 

Aspettare  e  non  venire,  è  cosa  da  morire.  Si  se  farà  troppo 
tardi  non  si  potrà  far  nulla  per  questa  volta:  e  non  so  si  se  potrà 
di  bel  nuovo  offrirsi  tale  occasione,  come  si  presenta  questa 
sera,  di  far  che  questa  pecoraccia  raccoglia  i  frutti  degni  del  suo 
amore.  Quando  mi  credevo  di  guadagnar  una  dote  co  l'amor  di 
costui,  sento  dir  che  cerca  d'affatturarmi  ^  con  l'avermisi  for- 
mata in  cera.  E  potrebbe  giamai  l'unita  forza  fatta  del  profondo 
inferno,  gionta  alla  efficacia  che  si  trova  ne'  spirti  de  l'aria  e 
l'acqui,  far  ch'io  possa  amar  un  che  non  è  soggetto  amoroso?  Si 
fusse  il  dio  d'amore  istesso,  bello  quanto  si  voglia,  si  sarà  egli 
povero  o  ver  (che  tutto  viene  ad  uno)  avaro,  ecco  lui  morto  di 
freddo;  e  tutto  il  mondo  agghiacciato  per  lui.  Certo  quel  dir 
«povero,  over  avaro»,  è  un  miserabile  e  svergognatissimo  epi- 
teto, che  fa  parer  brutti  i  belli,  ignobili  i  nobili,  ignoranti  i  savii, 
et  impotenti  i  forti.  Tra  noi  che  si  può  dir  più  che  reggi,  monar- 
chi et  imperadori?  questi  pure,  si  non  arran  de  quibus^,  si  non 
farran  cerere  gli  de  quibus,  saran  come  statue  vecchie  d'altari 
sparati',  a'  quali  non  è  chi  faccia  riverenza.  Non  possiamo  non  [217] 
far  differenza  tra  il  culto  divino  e  quello  di  mortali.  Adoriamo 
le  sculture  e  le  imagini,  et  onoriamo  il  nome  divino  scritto, 
drizzando  l'intenzione  a  quel  che  vive.  Adoramo  et  onoramo 
questi  altri  dèi  che  pisciano  e  cacano**,  drizzando  la  intenzione 
e  supplice  devozione  alle  lor  imagini  e  sculture,  per  che  me- 


1.  Farmi  il  maleficio,  conquistarmi  per  forza  di  magia. 

2.  Il  denaro. 

3.  Senza  parati,  senza  ornamenti. 

4.  La  signora  Vittoria  allude  con  disprezzo  a  re  e  prìncipi,  in  contrapposi- 
zione, in  quanto  uomini,  agli  dèi  del  Cielo. 


348  CANDELAIO 

diante  queste  premiino  i  virtuosi,  inalzino  i  degni,  defendano 
gli  oppressi,  dilatino ^  i  lor  confini,  conservino  i  suoi,  e  si  fac- 
cino temere  dall'aversarie  forze:  il  re  dumque  et  imperator  di 
carne  et  ossa,  si  non  corre  sculpito,  non  vai  nulla.  Or  che 
dumque  sarà  di  Bonifacio  che,  come  non  si  trovassero  uomini 
al  mondo,  pensa  d'essere  amato  per  gli  belli  occhii  suoi?  Vedete 
quanto  può  la  pazzia.  Questa  sera  intenderà  che  possan  far  con- 
tanti; questa  sera  spero  che  vedrà  l'effetto  della  sua  incanta- 
zione. —  Ma  questa  faccia  di  strega  che  fa  tanto  che  non  viene? 
Oh,  la  veggo  in  fine. 

SCENA  II 

Lucia,  signora  Vittoria 

Lucia.  —  Voi  siete  equa,  signora? 

Signora  Vittoria.  -  Non  possevo  resister  dentro  col  tanto 
aspectarti:  vedi  che  passarà  la  comodità',  che  questa  sera  ab- 
biamo per  questi  uomini.  Avete  parlato  a  la  moglie  di  Boni- 
facio? 

Lucia.  —  Io  gli  ho  tutta  la  verità  narrata,  et  oltre  di  gran 
punti  d'avantaggio^:  di  sorte  che  ella  tutta  s'infiamma  et  arde 
[219]  di  convencere  suo  marito  in  questo  fatto.  Anzi  lei  ha  pensato 
un'altra  cosa  che  molto  mi  piace,  ciò  è  che  gli  improntiate'  vo- 
stra gonnella  e  manto,  per  dui  serviggi:  et  a  fin  che  non  sii  co- 
nosciuta al  venir  et  all'entrar  et  uscir  di  casa  vostra;  et  anco  per 
che,  negli  abbracciari  che  gli  faremo  far  al  buio,  venghi  a  cono- 
scerla per  signora  Vittoria  in  tutte  l'altre  parte  fuor  ch'il  volto, 
il  qual  per  il  camino  portarà  amantato  secondo  la  vostra  con- 
suetudine"*: e  poi  dentro  la  camera  per  un  pezzo  gli  faremo 
aspettar  il  lume,  tanto  che  possan  far^  per  una  volta. 

Signora  Vittoria.  -  Sì,  ma  bisognarà  pure  che  lei  lo  risa- 

5.  Ampliano,  con  la  loro  conquista.  Tutto  il  monologo  della  signora  Vitto- 
ria è  investito  dalla  violenta  polemica  del  Bruno  contro  la  religione  e  contro  i 
potenti  e  i  sovrani. 

1.  Occasione. 

2.  Molto  di  più. 

3.  Imprestiate. 

4.  Alle  meretrici  erano  imposti  particolari  segni  che  le  distinguessero;  a  Na- 
poli, evidentemente,  dovevano  andare  col  volto  coperto. 

5.  In  senso  osceno. 


ATTO  QUARTO  349 

luti  e  gli  risponda  qualche  parola:  e  sarà  difficile  che  non  la 
venghi  a  conoscere  nella  voce. 

Lucia.  -  Oh,  provedere  a  questo  è  la  più  facil  cosa  del 
mondo:  io  gli  dirò  che  parli  piano  e  sotto  voce,  per  che  gionte  a 
muro  a  muro  son  de  vicine  che  odono  tutto  quel  che  si  dice  Ili 
dentro. 

Signora  Vittoria.  —  Voi  dite  assai  bene:  lei  farà  finta  de 
temer  d'essere  udita  da  gli  altri  di  casa  e  da'  vicini.  —  Chi  è  che 
viene? 

Lucia.  —  Messer  Bartolomeo. 

SCENA  III 

Signora  Vittoria,  messer  Bartolomeo,  Lucia 

Signora  Vittoria.  —  Dove  va,  messer  Bartolomeo? 

Bartolomeo.  -  Vo  al  diavolo.  [221] 

Lucia.  —  Più  presto  trovarai  costui  che  l'angelo  Gabriello. 

Bartolomeo.  —  Madonna  portano  velie,  accordaliuto':  per 
che  gli  angeli  non  sono  cossi  affabili  come  diavoli,  lo  mondo 
vien  prò  vesto  di  te  e  di  tue  pari  per  scusar  quelli^. 

Signora  Vittoria.  -  Forse  che  ci  va  troppo  per  farti  montar 
il  senapo:  il  molto  frequentar  e  prossimarti  al  fuoco  t'ha  disec- 
cato, tanto  che  facilmente  la  rabbia  ti  predomina,  dai  dentro  a 
l'ingiurie  senz'esser  provocato. 

Bartolomeo.  —  Non  dico  a  voi  signora  Vittoria,  che  vi 
porto  ogni  rispetto  et  onore. 

Signora  Vittoria.  —  Come  non  dite  ad  me?  vi  par  che  que- 
sta ingiuria  che  dite  a  lei  non  resulti  criminalmente^  in  mia 
persona?  Andiamone,  Lucia. 

Bartolomeo.  -  Non  cossi  in  furia,  signora:  io  burlo  con  Lu- 
cia che  più  mi  tenta,  si  più  mi  vede  fastidito. 

Lucia.  —  Sì,  sì,  messer  sì,  in  tutto  Napoli  non  è  peggio  lingua 
che  la  tua,  che  ti  sii  mozza,  lingua  da  risse  e  da  discordia. 

Bartolomeo.  -  Al  contrario  di  cotesta  tua,  di  concordia, 
pace  et  unione. 


1.  Allusione  al  fatto  che  Lucia  fa  la  ruffiana. 

2.  Gli  angeli  (che  non  sono  affabili  con  gli  uomini  perché  il  mondo  è  pieno 
di  persone  come  Lucia). 

3.  Da  essere  denunciato  come  un  delitto. 


350  CANDELAIO 

SCENA  IV 

Bartolomeo  solo 

Cancaro  se  mangi  quante  ruffiane  e  puttane  sono  al  mondo: 
[223]  starebbono  fresche  le  potte  s'aspettassero  la  nostra  rendita,  idest 
l'entrata;  per  me  tanto,  sicuramente  l'aragne'  vi  potran  far  la 
tela.  —  Di  metalli  dicono  che  il  più  grave  è  l'oro:  e  tutta  via 
nulla  cosa  fa  andar  l'uomo  più  sciolto,  leggiero  et  isnello  che 
questo:  non  ogni  peso  et  ogni  cosa  che  ne  s'aggionge,  ne  ag- 
grava; ma  se  ne  trova  una  tale  che  è  tanto  lieve  che,  quanto  è 
più  grande,  fa  più  ispedito^  e  destro.  L'uomo  senza  l'argento  et 
oro,  è  come  ucello  senza  piume:  che  chi  lo  vuol  prendere,  sei 
prende,  chi  sei  vuol  mangiar,  sei  mangia;  il  qual  però,  s'ha 
quelle,  vola,  e  se  n'ha  tante  più,  tanto  più  vola,  e  più  s'appliglia 
ad  alto.  Messer  Bonifacio  quando  s'arrà  scrollata  la  borsa  e  la 
schena^,  si  sentirà  più  grave-*,  al  dispetto  di  tutti  suoi  nemici.  - 
Ma  ecco  a  tempo  quel  bel  paranimfo'  inamorato;  non  porta  più 
la  bella  cappa:  bendette  siino  le  mani  a  quel  mariolo;  adesso 
corre  all'odore  ^ 

SCENA  V 

Messer  Bartolomeo,  messer  Bonifacio 

Bartolomeo.  —  Affrettati,  affretta  un  po'  più,  messer  Boni- 
facio: poco  fa  ho  veduto  passar  il  tuo  core,  la  tua  anima  per 
equa;  ti  giuro  che  adesso  veggendola  mi  son  ricordato  di  tuoi 
amori:  e  per  ciò  considerandola  un  poco  più  attentamente,  mi 
ha  parsa  cossi  bella,  che  mi  s'è  tanto  gonfiata  la  vena  maestra, 
che  non  posso  più  dimorar  dentro  le  brache'. 

Bonifacio.  -  Basta:  mi  doni  la  baia,  messer  Bartolomeo.  Io 


1.  Ragni. 

2.  Rapido,  leggero. 

3.  Avrà  vuotato  il  portafoglio  e,  per  metafora,  i  testicoli  e  la  schiena  dopo 
aver  posseduto  la  donna  amata. 

4.  Malcontento. 

5.  Ruffiano. 

6.  A  cercare  di  recuperare  la  cappa  che  gli  è  stata  portata  via. 

I.  Allusioni  oscene. 


ATTO  QUARTO  35 1 

sono  inamorato,  io  sono  incatenato:  voi  fate  per  li  nominativi  2, 
et  io  per  li  aggetivi;  voi  co  la  vostra  alchimia,  et  io  co  la  mia; 
voi  al  vostro  fuoco,  et  io  al  mio. 

Bartolomeo.  —  Io  al  fuoco  di  Vulcano,  e  voi  a  quel  di  Cu- 
pido. [225] 

Bonifacio.  -  Vedremo  chi  di  noi  farà  meglior  riuscita. 

Bartolomeo.  -  Vulcano  è  un  uomo  raggionevole,  discreto  e 
da  bene;  quest'altro  è  un  putto  senza  raggion,  bardaselo  sfonda- 
to^: il  quale  a  chi  non  fa  disonore,  fa  danno;  et  a  chi  non  fa 
l'uno,  fa  l'uno  e  l'altro. 

Bonifacio.  -  Beato  voi  s'arete  cossi  buona  riuscita,  come 
avete  buon  conseglio. 

Bartolomeo.  -  Sfortunato  voi  si  la  madre  di  pazzi  non  vi 
aggiuta-^. 

Bonifacio.  -  Volete  dir  la  sorte.  Ve  dirrò,  messer  Bartolo- 
meo: alle  buone  riuscite  ogn'un  sa  trovar  quella  raggione  che 
già  mai  vi  fu;  ancor  ch'io  maneggi  miei  affari  con  furia  di  porco 
salvatico^,  e  mi  succedon  bene,  ogn'un  dirà:  «Costui  ha  bel  di- 
scorso, ha  saputo  prender  il  capo  del  negocio  cossi  e  cossi,  et  ha 
ben  fatto».  Per  il  contrario,  dopo'  ch'io  arrò  compassato*^  i  miei 
negocii  con  quante  filosofie  giamai  abbiano  avuto  que'  barbife- 
ri''  mascalzone  di  Grecia  e  de  l'Egitto,  si  per  disgrazia  la  cosa 
non  accade  a  proposito,  ogn'  un  mi  chiamarà  balordo.  Si  la  cosa 
passa  bene,  «Chi  l'ha  fatto,  chi  l'ha  fatto?»:  «Il  gran  consiglio 
pariggino^»;  si  la  va  male,  «Chi  l'ha  fatto,  chi  l'ha  fatto?»:  «La 
furia  francesa»^o.  Oltre,  «Per  che  questo,  per  che?»:  «Per  conse- 
glio di  Spagna» '1;  «Perché,  perché?»:  «Per  l'alta  e  lunga  spagno- 

2.  Nomi  (tutta  la  frase  vuol  dire  che  diversi  sono  gli  oggetti  delle  passioni 
che  infiammano  i  due  personaggi). 

3.  Bardassa,  effeminato,  che  si  dà  a  tutti. 

4.  Allusione  a  Venere,  madre  di  Cupido;  pazzi  sono  gli  innamorati;  aggiu- 
ta:  aiuto. 

5.  Cinghiale. 

6.  Concluso. 

7.  Barbuti,  pieni  di  saggezza  e  di  sapienza,  perché  barbuti  sono  per  antono- 
masia i  filosofi. 

8.  Malandrino,  masnadiero. 

9.  La  saggezza  francese. 

10.  L'impeto  cieco  e  non  sempre  ragionevole  dei  Francesi. 

11.  Gli  Spagnoli  avevano  fama  di  abilità  diplomatica  e  di  grande  prudenza 
politica. 


352  CANDELAIO 

la»^^.  «Chi  ha  guadagnato  e  mantiene  tanti  bei  paesi  ne  l'Istria, 
Dalmazia,  Grecia,  nel  Adriatico  mare  e  Gallia  Cisalpina?  chi 
orna  Italia,  l'Europa  et  il  mondo  tutto  di  una  tanta  Republica  a 
[227]  nisciun  tempo  et  a  nisciun  modo  serva?»:  «Il  maturo  conseglio 
vineziano»!^;  «Chi  ha  perso  Cipri'",  chi  l'ha  perso?»:  «La  coglio- 
neria di  que'  magnifici '5,  la  avarizia  di  que'  messeri  Pantalo- 
ni»'^. All'ora  dumque  si  fa  conto  del  giudizio,  et  è  lodato, 
quando  la  sorte  et  il  successo  è  buono. 

Bartolomeo.  -  Tanto  che  volete  dir  a  nostro  proposito: 
«Ventura  dio,  niente  senno  basta»'".  —  Veggio  venir  Lucia:  io  ve 
la  lascio.  Ho  inviato  alla  botteca  di  Consalvo  il  mio  garzone  per 
certa  polvere,  e  non  vede  ora  di  venire:  bisogna  ch'io  vi  vadi. 
[Bonifacio.]  -  Andate:  ch'io  ho  da  raggionar  con  costei  per 
altri  affari,  che  per  quei  che  voi  credete. 

SCENA  VI 

Bonifacio,  Lucia 

[Bonifacio.]  -  Costei  per  la  prima  mi  chiederà  de  danari: 
son  certo  che  sarà  questo  il  proemio;  e  la  mia  risoluzion  sarà 
«cazzo  in  potta,  e  danari  in  mano»:  ch'a  la  fine  non  voglio  che 
femine  sappiano  più  di  me.  -  Ben  venga  Lucia;  che  mi  porti  di 
nuovo? 

Lucia.  —  Oh,  misser  Bonifacio  dolce,  io  non  ho  tempo  di  sa- 
lutarti, per  che  vi  bisogna  parlar  di  soccorrer  presto  al  fatto  di 
[229]   questa  signora  infelicissima. 


12.  Allusione  all'alterezza  e  alla  boria  spagnola. 

13.  Anche  Venezia  aveva  nome  di  consumata  abilità  diplomtica  e  di 
grande  astuzia  politica.  Gallia  Cisalpina  è  la  Lombardia  orientale  e  il  Veneto, 
conquistati  dai  Veneziani  e  diventati  per  antonomasia  il  dominio  «di  Terra». 
Il  nome  è  di  origine  latina,  e  si  riferisce  all'Italia  settentrionale  che  era  stan- 
ziata dai  Galli,  in  contrapposizione  alla  Gallia  al  di  là  delle  Alpi,  nell'attuale 
Francia. 

14.  Cipro  era  stata  conquistata  dai  Turchi  nel  1573  (e  l'episodio  fu  conside- 
rato un  segno  di  decadenza  di  Venezia). 

15.  Patrizi  veneziani. 

16.  Soprannome  dei  Veneziani,  dal  nome  della  loro  maschera. 

17.  Se  si  ha  la  fortuna  favorevole,  non  è  necessaria  nessuna  abilità  o  sag- 
gezza. 


ATTO  QUARTO  353 

Bonifacio.  —  Fate  buone  premisse,  se  volete  buona  conclu- 
sione. -  Il  mal  de  la  borsa  i. 

Lucia.  -  La  si  muore... 

Bonifacio.  —  Quando  sarà  morta  la  faremo  sepelire,  disse  un 
santo  Padre  ^. 

Lucia.  -  Io  dico  che  la  nostra  signora  Vittoria  si  muore  per 
voi  crudele.  Questa  è  la  vita  che  possete  donargli,  e  che  gli  pro- 
mettete? voi  menate  passatempi,  e  quella  povera  gentil  donna  si 
risolve  tutta  in  suspiri  e  lacrime:  che  si  voi  la  vedrete  non  la 
conoscerete  più,  non  vi  parrà  forse  bella  come  vi  solca  parere; 
non  so  si  in  voi  potrà  tanto  l'amore  quanto  la  compassion  di 
lei. 

Bonifacio.  —  Che,  ha  bisogno  di  danari? 

Lucia.  —  Che  vói  dir  danari?  che  vuol  dir  danari?  vadano  in 
mal'ora^  quanti  ne  sono  al  mondo:  si  voi  ne  volete  da  lei,  la  ve 
ne  darrà. 

Bonifacio.  —  Or  questo  non...,  ah!  ah!  ah!  questo  non  crederò 
io,  ah!  ah!  ah!  ah! 

Lucia.  -  Dumque  non  lo  credete,  crudelaccio,  senza  pietà, 
uh,  uh,  uh,  uh... 

Bonifacio.  -  Voi  piangete? 

Lucia.  —  Piango  la  crudeltà  vostra,  e  la  infelicità  di  quella 
signora...  uh  uh,  misera  me,  meschina  me,  che  mal'ora  t'ha 
presa  adesso?  mai  viddi  né  udivi  "•  amor  posser  tanto  in  petto  di 
femina:  sin  al  giorno  d'oggi  la  vi  amava  certo...  uh  uh  uh...  da 
alcune  ore  in  equa  non  so  che  fantasia  l'abbia  presa,  che  non  ha  [231] 
altro  in  bocca  che  «Messer  Bonifacio  mio,  cor  mio,  viscere  del- 
l'anima mia,  mio  fuoco,  mio  amore,  mia  fiamma,  mio  ardore». 
Vi  giuro  che  son  quindici  anni  ch'io  la  conosco,  tanto  piccolina, 
sempre  l'ho  veduta  d'un  medesmo  volto,  nell'amor  freddissima; 
adesso  si  voi  verrete  la  trovarrete  poggiata  sopra  il  letto,  col 
viso  in  giù  sopra  un  coscino^  che  tiene  abbracciato  con  ambe  le 
braccia,  e  dire  (che  me  ne  vien  rossore  e  pietà):  «Ahi,  messer 


1.  La  brama  del  denaro  (e  ce  anche  un'allusione  oscena). 

2.  È  una  battuta  scherzosa  di  Bonifacio,  che  attribuisce  a  un'autorità  una 
massina  lapalissiana,  cioè  a  un  papa. 

3.  Sventura. 

4.  Udii. 

5.  Cuscino. 


354  CANDELAIO 

Bonifacio  mio,  chi  me  ti  toglie?  Ahi,  mia  cruda  fortuna:  quando 
m'ha  egli  voluta,  me  gli  hai  negata;  son  certa,  adesso  che  io  lo 
bramo  e  per  lui  mi  consumo,  che  me  lo  negarai.  Ahi,  cuor  mio 
impiagato  »^ 

Bonifacio.  -  È  possibile?  può  esser  che  lei  dica  questo?  pos- 
sono essere  tante  cose? 

Lucia.  -  Voi,  voi  Bonifacio,  mi  farete  far  cosa,  che  già  mai 
feci  in  vita  mia:  voi  mi  farete  rinegare...  uh,  uh,  uh,  uh,  uh... 
povera  signora  Vittoria  mia,  che  pessima  sorte  tua;  in  mano  di 
chi  sei  incappata...  uh,  uh,  uh...  Ora,  ora,  adesso  m'accorgo  che 
voi  mai  la  amasti vo'';  e  che  in  tutto  Napoli  non  è  uomo  più 
finto  di  te...  uh,  uh  uh  uh  uh,  oimè,  desolata  me:  che  rimedio 
potrò  porgerti,  poverina? 

Bonifacio.  -  Uh  uh,  ti  credo,  ti  credo.  Lucia  mia:  non  più 
piangere.  Non  è  ch'io  non  credesse  quel  che  voi  dite,  ma  mi 
maravigliavo:  che  influenza  nova  del  cielo  può  esser  questa  che 
mi  voglia  faurir  tanto,  che  quella  mia  signora  la  qual  (mercé 
del  mio  intenso  amore)  sempre  me  si  ha  mostrata  non  manco 
cruda  che  bella,  quel  petto  di  diamante  sii  cangiato? 

Lucia.  -  Cangiata?  cangiata?  s'io  non  l'avesse  reprimuta*, 
volea  venire  a  ritrovarvi  in  casa  vostra.  Io  li  dissi:  «Folla^  che 
[233]  voi  siete;  voi  gli  farete  dispiacere:  che  dirà  sua  moglie?  che  dirà 
tutto  il  mondo  che  vi  vedrà.  Ogn'un  dirà:  "Che  novità  è  questa? 
è  impazzata  costei?".  Non  sapete  voi  ch'egli  vi  ama?  avete  voi 
persa  la  memoria  de  sui  trattamenti  insin  al  giorno  d'oggi?  Siete 
ben  cieca  e  forsennata,  se  non  credete  ch'egli  si  stimarà  beatis- 
simo, quando  me  si  udirà  dire  che  voi  desiderate  che  egli  venga 
a  voi»... 

Bonifacio.  -  E  chi  ne  dubita?  avete  detto  l'evangelio'". 

Lucia.  -  ...  All'ora  quell'afflitt'alma  (come  dismenticata  di 
tanti  segni  d'amore  che  voi  gli  avete  mostrati  et  io  gli  ho  donati 
ad  intendere)  disse:  «È  possibile,  o  cielo,  cielo  a  me  sola  crudele, 
che  possa  lui  venir  ad  me  quel  bene,  che  non  fai  che  mi  sia 
lecito  di  cercarlo?» 


6.  La  piaga  d'amore  è  metafora  tipica  del  linguaggio  petrarchesco. 

7.  Amaste  voi. 

8.  Trattenuta. 

9.  Pazza. 

10.  Una  verità  indiscutibile. 


ATTO  QUARTO  355 

Bonifacio.  —  Uh,  uh,  uh,  dubita  dumque  la  vita  mia  del- 
l'amor mio? 

Lucia.  —  Voi  sapete  che  dove  troppo  cresce  il  desio,  suol  al- 
tretanto  indebolirsi  la  speranza;  e  forse  ancora  la  gran  novità  e 
mutazione  che  vede  in  se  medesma,  gli  fa  per  il  simile  suspettar 
mutazion  dal  canto  vostro.  Chi  vede  un  miracolo,  facilmente  ne 
crede  un  altro. 

Bonifacio.  —  Più  presto  persequitaranno  i  lepri  le  balene,  i 
diavoli  se  farann'  il  segno  de  la  santa  croce,  sarrà  più  presto  un 
bresciano  uomo  cortese  ^^  più  presto  Satanasso  dirrà  un  Pater  et 
Ave  Maria  per  le  anime  che  sono  in  purgatorio,  che  io  esser 
possa  giamai  senza  l'amor  della  mia  tanto  amata  e  desiderata 
signora.  Or  dumque  senza  più  parole,  dove  andiate  cossi  carga- 
ta^^  voi?  [235] 

Lucia.  —  Ad  una  vicina  per  restituirgli  questi  drappi  co  i 
quali,  facendo  io  una  via  e  dui  serviggi,  venevo  per  ritrovarvi 
in  vostra  casa;  ma  la  buona  fortuna  me  vi  ha  fatto  rincontrar 
qua.  Che  risoluzione  vogliam  prendere?  Bisogna,  spedito  ch'arrò 
questa  facendola  i^,  ritornar  presto  subbito  subito  ad  solaggiar'"" 
quella  meschina,  dicendogli  che  vi  ho  visto  e  parlato,  e  che  sar- 
rete  tosto  a  lei. 

Bonifacio.  -  Promettetegli  di  certo,  e  ditegli  che  questo  è  il 
più  felice  giorno  ch'io  abbia  veduto  in  tutta  mia  vita:  che  mi 
vien  concesso  di  baciar  quel  bellissimo  volto  ch'io  tanto  adoro, 
che  tien  le  chiavi  di  questo  afflitto  core. 

Lucia.  -  Afflitto  core  è  il  suo:  bisogna  non  mancar  que- 
sta sera,  atteso  che  lei  non  è  per  mangiare  né  per  dormire  né 
per  riposare  alcunamente;  più  tosto  per  morire,  si  non  ve  si 
vede  a  presso:  non  la  fate  più  lagnar,  vi  priego  (si  pietà  giamai 
avesti  al  core),  che  la  veggio  consumar  com'una  candela  ar- 
dente. 

Bonifacio.  -  Adesso  adesso  vo  ad  ispedir  un  negocio;  e  poi 
o  veramente  mi  verrete,  o  vi  verrò  ad  ritrovare. 

11.  Il  Bruno  era  stato  a  Brescia,  e  forse  questa  battuta  nasce  da  un  ricordo 
autobiografico. 

12.  Carica. 

13.  Faccenduola. 

14.  Consolare,  sollevare. 


356  CANDELAIO 

Lucia.  —  Sapete  quale  è  il  negocio  che  dovete  fare?  Per  suo  e 
vostro  onore  bisogna  riparare  alla  suspizion  delle  persone  del 
mondo,  si  fusti  veduto  uscire  o  entrare  in  sua  casa:  voi  sapete 
che  le  vicine,  sino  e  mezza  notte,  son  sempre  alle  fenestre;  e  chi 
va  e  chi  viene.  È  dumque  necessario  stravestirvi,  con  accomo- 
darvi di  una  biscappa^^  simile  a  quella  di  messer  Gioan  Ber- 
nardo, il  qual  senza  suspizione  alcuna  suole  entrar  in  questa 
casa;  e  non  sarà  fuor  di  proposito,  si  per  sorte  fussivo  guardato 
più  da  presso,  di  portar  una  barba  negra  posticcia  simile  alla 
sua:  per  che  a  tal  guisa  potremo  andar  insieme,  et  io  v'intro- 
durrò dentro  la  stanza.  Cossi  farrete  la  cosa  con  più  satisfaz- 
zione  della  signora,  che  con  questo  si  persuaderà  che  voi  amate 
ancora  il  suo  onore. 

Bonifacio.  -  Voi  avete  benissimo  pensato:  io  ho  la  persona 
né  più  né  meno  grande  di  quella  di  messer  Gioan  Bernardo; 
una  biscappa  simile  alla  sua  non  bisogna  ch'io  la  vadi  cer- 
cando, per  che  penso  averne  una  intra  le  mani.  Adesso  con  que- 
sto medesmo  passo  me  ne  vo  a  Pellegrino  mascherare'^:  e  mi 
farò  accomodare  una  barba  posticcia  che  sii  a  proposito. 

Lucia.  —  Andate  dumque  vi  priego,  e  speditevi  presto.  A  dio, 
che  vo  a  levarmi  questa  soma  da  le  spalli. 

Bonifacio.  -  Va  in  buona  ora. 

SCENA  VII 

Bonifacio  solo 

Per  quel  che  costei  me  dice,  io  credo  di  aver  approssimata  la 
imagine  tanto  presso  al  fuoco  che  quasi  si  sarebbe  liquefatta: 
penso  d'averla  troppo  scaldata;  guarda  come  la  povera  donna 
viene  tormentata  dall'amore:  per  mia  fé  che  non  ho  possuto 
contener  le  lacrime.  Si  messer  Scaramuré  (che  Dio  li  dia  il  bon- 
giomo  e  la  buona  sera:  che  adesso  conosco  per  propria  espe- 
rienza che  è  un  galantissimo  uomo)  non  mi  avesse  avertito  con 
dirmi  «Guarda  che  non  si  liquefacela»,  io  certamente  arrei  fatta 
qualche  pazzia  ch'io  non  ardisco  tra  me  stesso  dirla.  Or  va  nu- 
mera l'arte  maggica  tra  le  scienze  vane. 


15.  Cappa  molto  ampia. 

16.  Venditore  o  affittatore  di  maschere. 


ATTO  QUARTO  357 

SCENA  Vili 

Marta,  Bonifacio 

Marta.  —  Ecco  equa  quel  pezzo  d'asino,  il  quale  volesse  Dio 
che  fusse  un  asino  intiero,  che  potrebbe  servire  a  qualche  cosa. 
-  Bonasera,  messer  Buon-in-faccia^. 

Bonifacio.  —  Ben  venga  la  cara  madonna  Marta.  Vostro  ma- 
rito è  filosofo,  bisogna  che  voi  siate  filosofessa;  però  non  è  mara- 
viglia se  fate  notomia^  de  vocaboli:  che  cosa  intendete  per  quel 
«Buon  in  faccia»?  Non  credete  ch'io  ve  sia  amico  alle  spalli  et  in 
assenzia,  come  in  presenzia?  Avete  torto  a  darmi  la  berta. 

Marta.  —  Come  vi  sta  la  borsa?  ^ 

Bonifacio.  -  Come  il  cervello  di  vostro  Martino'»  (volsi  dir 
marito),  quando  la  non  ha  carlini  dentro. 

Marta.  —  Io  dico  di  quella  di  sotto. 

Bonifacio.  —  Gran  mercé  a  vostra  cortesia.  Voi  andate  cer- 
cando il  male  come  i  medici:  si  voi  vi  potessivo  remediare,  vi 
farei  intendere  il  come  e  quale;  si  volete  della  broda,  andate  a 
Santa  Maria  della  Nova^.  [241] 

Marta.  —  Volete  dir  ch'io  son  cosa  da  frati  ^,  ser  coglione? 

Bonifacio.  —  Io  ve  dirrò  d'avantaggio:  voi  siete  cosa  da  ce- 
miterio^,  per  che  una  femina  che  passa  trenta  cinque  anni,  deve 
andar  in  pace,  ideste  in  purgatorio  ad  pregar  Dio  per  i  vivi. 

Marta.  —  Questo  niente  manco  doviamo  dir  noi  femine  di 
voi  altri  mariti. 

Bonifacio.  -  Dominedio  non  ha  cossi  ordinato,  perché  ha 
fatto  le  femine  per  gli  omini  e  non  gli  uomini  per  le  femine;  e 
son  state  fatte  per  quel  servizio:  e  quando  non  son  buone  a 
quello,  fàccisen  presente  al  povero  diavolo,  per  eh'  il  mondo 


1.  Gioco  di  parole  di  Marta  col  nome  Bonifacio,  il  quale  ribatte  con  qual- 
che asprezza,  sospettando  che  Marta  voglia  beffarlo. 

2.  Anatomia. 

3.  Gioco  di  parole  osceno. 

4.  Così  Bonifacio  chiama  Bartolomeo  per  la  sua  scempiaggine,  popolar- 
mente allusiva  col  nome  proprio  di  Martino. 

5.  I  frati  di  Santa  Maria  Nova  distribuivano  giornalmente  la  minestra  ai 
poveri.  Ma  qui  tutto  il  discorso  è  osceno. 

6.  Proverbialmente,  i  frati  erano  detti  di  gusti  grossolani  in  fatto  di  amori. 

7.  Donna  decrepitai,  sul  punto  di  morire. 


358  CANDELAIO 

non  le  vuole.  Ad  altare  scarrupato^  non  s'accende  candela;  a 
scrigno  sgangherato  non  si  scrolla  sacco '^. 

Marta.  -  Non  è  vergogna  ad  un  uomo  attempato  qual  voi 
siete,  di  farsi  sentir  parlare  in  questa  foggia?  A  i  giovanetti  le 
giovanette,  a  giovani  le  giovane,  e  più  vecchi  si  denno  conten- 
tar delle  più  stanti  ve'". 

Bonifacio.  -  E  si  non,  va  le  apicchi '^  al  fumo  e  falle  staso- 
nar'2  dentro  un  camino.  Non  è  questa  la  ricetta  che  ferono  i 
medici  al  patriarca  Davitte'^,  e  poco  fa  ad  un  certo  Padre  san- 
to'■*,  il  qual  morse '5  dicendo  «Mene,  mene:  non  più  baser»;  ma 
costui  scaldò  troppo,  e  lui  dovea  esser  tettato  '^  e  tettava;  e  però 
[243]  non  è  maraviglia,  se... 

Marta.  —  È  per  che  puose  troppo  pepe  al  cardo '^. 

Bonifacio.  -  In  conclusione,  madonna  cara:  a  gatto  vecchio 
sorece'^  tenerello. 

Marta.  -  Questo,  come  intendete  per  i  vecchii,  perché  non 
intendete  per  le  vecchie? 

Bonifacio.  -  Per  che  le  donne  son  per  gli  uomini,  no  gli 
omini  per  le  donne. 

Marta.  -  Pur  Uà:  il  mal  è  per  che  voi  uomini  siete  giodici  e 
parte;  ma  pazze  son  de  noi  altre  quelle  che... 

Bonifacio.  —  Quelle  che  si  lasciano  patire'^. 

Marta.  —  Non  voglio  dir  questo  io,  ma  qualche  vostro  degno 
castigo  e  contra  cambio. 

Bonifacio.  -  Meste  essi  ad  altre,  et  esse  ad  altri. 

Marta.  -  Ih,  ih,  ih,  ih. 

8.  Rovinato,  diroccato. 

9.  Metafora  oscena. 

10.  Attempate. 

11.  Valle  ad  appendere. 

12.  Stagionare. 

13.  Secondo  il  racconto  biblico  (7  Re,  I,  1-4)  il  re  Davide,  in  vecchiaia,  per 
scaldarsi  dormiva  con  una  fanciulla. 

14.  Secondo  un  racconto  molto  diffuso,  papa  Innocenzo  Vili  sarebbe  vis- 
suto gli  ultimi  mesi  nutrendosi  solo  di  latte  di  donna  II  fatto  è  qui  interpre- 
tato in  senso  osceno,  come  appare  dalle  parole  fatte  dire  al  papa  in  dialetto 
franco-italiano,  e  dal  successivo  commento. 

15.  Morì. 

16.  Essere  toccato  sessualmente. 

17.  Altra  allusione  oscena. 

18.  Sorcio,  topo.  È  proverbio  napoletano  che  allude  alla  preferenza  per  le 
ragazze  giovani  da  parte  degli  uomini  anziani. 

19.  In  senso  osceno. 


ATTO  QUARTO  359 

Bonifacio.  -  Ah,  ah,  ah,  ah,  ah,  ah,  ah. 

Marta.  —  Come  trattate  la  vostra  moglie?  credo  che  la  la- 
sciate morir  di  sete.  È  pur  lei  giovane  e  bella:  ma  che?  sii  buona 
la  vianda^o  quanto  si  voglia,  l'appetito  si  sdegna  si  non  si  varia, 
ancor  che  si  dia  di  botto  a  cose  peggiori;  non  è  vero? 

Bonifacio.  —  Non  è  vero,  voi?  Voi  non  sapete  quel  che  vo- 
lete dire:  parlate  per  udir  dire,  voi?  Or  lasciamo  le  burle,  ma- 
donna Marta  mia.  Io  so  che  voi  sapete  di  molti  secreti:  vorrei 
che  m'agiutassi  ad  farmi  vittorioso.  Io  gioco  con  mia  moglie 
questa  notte  di  qualche  cosa,  che  farro  più  di  quattro  poste:  in-  [245] 
segnatemi  di  grazia  qualche  droga  o  pozione,  per  che  mi  man- 
tegna  dritto  sul  destriero ^1. 

Marta.  —  Recipe  acqua  di  rene,  oglio  di  schene,  colatura  di 
verga  e  manna  di  coglioni;  ad  guantoni  suffrica,  mesceta  et  fiat 
potum^^;  e  poi  vi  governarete  in  questa  foggia:  videlicet,  statevi 
su  le  staffe,  a  fin  che,  galoppando  galoppando,  l'arcione  de  la 
sella  non  vi  rompa  il  culo^^. 

Bonifacio.  -  Per  san  Fregonio^^  voi  siete  una  matricolata 
maestra.  Son  costretto  a  lasciarvi  per  alcun  necessario  affare.  A 
dio,  m'avete  satisfatto. 

Marta.  -  Adio.  Si  vedete  quell'affumato  di  mio  marito,  di- 
tegli ch'io  l'ho  mandato  ad  cercare,  e  ch'il  cerco  per  cosa  che 
importa. 

SCENA  IX 

Marta  sola 

Nez  couppé  n'ha  fante  de  lunettes^,  solea  dir  quel  buon  compa- 
gno Gianni  di  Brettagna^  (benedetta  sia  l'anima  sua  che  mi 
puose  la  lingua  francesa  in  bocca,  ch'ancora  non  avevo  dodieci 

20.  Carne. 

21.  Allusione  oscena. 

22.  Nel  latino  alquanto  approssimato  di  Marta,  vuol  dire:  «Frega  quanto 
basta,  mescola  e  fanne  una  pozione». 

23.  Tutto  questo  discorso  è  osceno. 

24.  Parola  oscena  personificata. 

1.  Proverbio  francese  che  significa:  «A  naso  mozzo  non  sono  necessari  oc- 
chiali». 

2.  Nome  proprio  di  persona  che  Marta  conobbe  (sessualmente)  da  ragazzina. 


360  CANDELAIO 

anni  e  mezzo'):  voleva  egli  inferire  a  proposito  che  quanto  lui 
era  più  povero  ch'il  re  di  Francia,  tanto  il  re  di  Francia  è  più 
bisognoso  di  lui.  Chi  più  ha,  più  pensa,  più  richiede,  e  manco 
[247]  gode.  Il  prencipe  di  Conca^  mantiene  il  suo  principato  con  rice- 
verne un  scudo  e  mezzo  il  giorno;  il  re  di  Francia  a  pena  può 
mantener  il  suo  regno  con  spenderne  tal  volta  diecemilia  il 
giorno.  Pensa  dumque  chi  di  questi  dui  è  più  ricco,  e  chi  deve 
essere  più  contento:  quello  che  ha  un  poco  da  ricevere,  o  quello 
che  ha  molto  da  dare?  Quando  fu  la  rotta  di  Pavia^,  udivi  dire 
«Al  re  di  Francia  bisognano  più  di  otto  conti  d'oro "^«i  il  pren- 
cipe di  Conca  quando  mai  ebbe  bisogno  più  che  de  venti  o 
venti  cinque  scudi?  quando  mai  sarà  possibile,  che  gli  ne  biso- 
gnano d'avantaggio?  Or  vedi  chi  di  questi  dui  prencipi  è  manco 
bisognoso.  Meschina  me:  io  lo  dico,  io  lo  so,  io  l'esperimento. 
Ero  più  contenta,  quando  questo  zarrabuino^  di  mio  marito 
non  avea  tanto  da  spendere,  che  non  potrei  essere  al  dì  d'oggi. 
All'ora  giocavamo  a  gamba-a-collo,  alla  strettola,  a  infilare,  a 
spaccafico,  al  sorecillo,  alla  zoppa,  alla  sciancata,  a  retoncunno, 
a  spacciansieme,  a  quattro-spinte,  quattrobotte,  trepertosa,  et  un 
buchetto^.  Con  queste  et  altre  devozioni  passavamo  la  notte  e 
parte  del  giorno.  Adesso  perché  ha  scudi  di  vantaggio  per  la 
eredità  di  Pucciolo  (che  gli  sii  maldetta  l'anima  anco  si  fusse  in 
seno  di  Abramma)*^,  ecco  lui  posto  in  pensiero,  angosce,  trava- 
gli, tema  di  fallire,  suspicion  d'esser  rubbato,  ansia  di  non  essere 
ingannato  da  questo,  assassinato  da  quell'altro;  e  va  e  viene,  e 
trotta  e  discorre,  e  sbozza  et  imbozza,  e  macina  e  cola  ^°,  e  soffia 

3.  Marta  allude  al  primo  rapporto  che  ella  ebbe  con  Gianni,  che  la  baciò, 
secondo  il  costume  francese,  mettendole  la  lingua  in  bocca. 

4.  Giulio  Cesare  di  Capua  fu  il  primo  principe  di  Conca,  al  tempo  del 
Bruno,  ed  ebbe  fama  di  grande  parsimonia.  Conca  è  una  località  in  provincia 
di  Caserta. 

5.  Nel  1525  l'esercito  francese,  guidato  da  Francesco  I,  fu  sconfitto  dagli 
Spagnoli  guidati  dal  marchese  Ferdinando  Francesco  d'Avalos,  e  il  re  stesso  fu 
catturato  e  imprigionato  in  Spagna.  Marta  allude  al  riscatto  che  Francesco  I  fu 
costretto  a  pagare  agli  Spagnoli  per  essere  liberato  e  ritornare  in  patria. 

6.  Dallo  spagnolo  cuenio,  che  significa  «milione». 

7.  Babbuino,  sciocco. 

8.  Sono  tutte  allusioni  alle  pratiche  erotiche  di  cui  Marta  era  maestra  {sore- 
cillo: propriamente  «topolino»;  pertosa:  «pertugi»). 

9.  Nel  seno  di  Abramo  riposano  le  anime  dei  giusti  secondo  la  concezione 
ebraica. 

10.  Allude  al  gran  darsi  da  fare  di  Bartolomeo  coi  suoi  alambicchi. 


ATTO  QUARTO  361 

vintiquattro  ore  del  giorno.  Tra  tanto  oggi  gran  mercé  a  Barra: 
che  se  lui  non  fusse,  potrei  giurare,  che  più  di  sette  mesi  sono,  [249] 
che  non  me  ci  ha  piovuto  i'.  Ieri  feci  dir  la  messa  di  sant'Elia 
contra  la  siccità '2;  questa  mattina  ho  speso  cinque  altre  grana'' 
de  limosina  per  far  celebrar  quella  di  san  Gioachimo  et  Anna'-^, 
la  quale  è  miracolosissima  ad  riunir  il  marito  co  la  moglie.  Si 
non  è  difetto  di  devozione  dal  canto  del  prete,  io  spero  di  rice- 
vere la  grazia;  benché  ne  veggo  mala  vegilia:  che  in  loco  di  la- 
sciar la  fornace  e  venirme  in  camera,  oggi  è  uscito  più  del  dover 
di  casa,  che  mi  bisogna  a  questa  ora  di  andarlo  cercando.  Pure 
quando  men  la  persona  si  pensa,  le  gracie  si  adempiscono.  — 
Oh,  mi  pare  udirlo. 

SCENA  X 
Messer  Bartolomeo,  Marta,  Mochione 

Bartolomeo.  —  O  misero,  sfortunato  e  desolato  me... 

Marta.  -  Ahi  lassa,  che  lamenti  son  questi? 

Bartolomeo.  —  ...  Oimè,  sì,  questo  è  cossi:  io  ho  perso  peggio 
che  Foglio  et  il  sonno.  Dimmi,  poltroncello,  t'ha  egli  detto  cossi 
a  punto?  guarda  bene. 

Mochione.  —  Signor  sì;  dice:  «Alla  fine  io  non  ho  di  questa 
polvere,  e  non  so  si  se  ne  ritrova»,  e  che  la  li  fu  data  da  messer 
Cencio,  e  dice  che  lui  non  sa  che  cosa  sii  il  pulvis  Christi.  [251] 

Bartolomeo.  -  0  sconfitto  Bartolomeo! 

Marta.  —  lesus,  santa  Maria  di  Piedigrotta,  vergine  Maria 
del  rosario,  nostra  Donna  di  Monte,  santa  Maria  Appareta', 
advocata  nostra  di  Scafata! ^  Alleluia,  alleluia,  ogni  male  fuia^. 

11.  Allusione  oscena. 

12.  Il  profeta  Elia  annunciò  la  pioggia  dopo  il  flagello  della  siccità  durato 
tre  anni  (7  Re,  XVIII).  Marta  continua  la  metafora  oscena. 

13.  Moneta  di  piccolissimo  valore  (lo  stesso  che  grano). 

14.  I  genitori  di  Maria  Vergine. 

1.  Santa  Maria  a  Parete,  venerata  in  santuario  presso  Nola.  Marta  si  rivolge 
ad  altri  santuari  della  Madonna  venerati  nei  dintorni  di  Napoli  e  della  provin- 
cia per  rendere  grazie  del  fatto  che  il  marito  è  stato  beffato  e  ingannato  dalla 
sua  illusione  di  trasformare  in  oro  la  materia  vile  per  forza  di  alchimia. 

2.  Scafati,  grosso  paese  in  provincia  di  Salerno.  Advocata  è  il  nome  con  cui 
la  Madonna  è  invocata  nel  Salve  Regina,  la  preghiera  attribuita  a  san  Tom- 
maso. 

3-  Fugga. 


362  CANDELAIO 

Per  san  Cosmo  e  Giuliano,  ogni  male  fia  lontano.  Male  male, 
sfiglia  sfiglia'*,  va  lontano  mille  miglia.  —  Che  cosa  avete,  Barto- 
lomeo mio? 

Bartolomeo.  -  E  tu  sei  equa  a  questa  ora,  alla  mal'ora?  va 
col  tuo  diavolo  in  casa,  ch'io  voglio  andar  a  risolvermi,  si  me 
debbo  venir  ad  apiccar  o  non.  Andiamo,  Mochione,  ad  ritrovar 
costui:  lo  hai  lasciato  in  bottega? 

Mochione.  -  Signor  sì.  Il  camin  più  più  corto  è  questo. 

Marta.  -  Amara  me:  voglio  tornar  in  casa  ad  aspettar  la 
nova.  Temo  di  esser  stata  esaudita  mal  per  me:  io  non  ho  core 
di  dire  quel  che  penso.  Salve,  regina,  guardane  da  mina.  Giesu 
auto  et  transi  per  medio  milloro  mibatte^.  —  Costui  che  mi  vien 
dietro  cossi  pian  piano,  certo  deve  essere  qualche  spia  di  ma- 
rioli: è  bene  ch'io  m'affretti. 

SCENA  XI 

Mamfurio  solo 

Ne  gli  adagiani'  Erasmi,  dico  ne  gli  Erasmi  adagiani  (io 
sono  allucinato),  voglio  dire  ne  gli  erasmiani  Adagii,  ve  n'è 
uno  tra  gli  altri  il  qual  dice:  «A  toga  ad  pallium^».  Questo 
adimpiendosi  in  me  ipso^,  mi  fa  che  questo  giorno  sii  nigro 
signandus  lapillo'*.  0  caelum,  0  terras,  0  maria  Neptuni^:  dopo 
essermi  stati  tolti  di  mano  i  danaii  da  un  vilissimo  ture,  sotto 
pretesto  di  volermi  essere  ufficiosi*^  tre  altri  me  si  sono  offerti 
e  presentati;  li  quai,  non  inquam  dexteritate,  sed  sinisteritate 
quadam'^,  lasciandomi  sovr'il  dorso  un  depilato^  palliolo^,  pro- 

4.  Cammina 

5.  Corruzione  popolaresca  di  un  passo  di  Luca,  IV,  30:  «Ipse  autem,  tran- 
siens  per  medium  illorum,  ibat»  («Ma  egli,  passando  in  mezzo  a  loro,  se  ne  an- 
dava»). 

1.  Sono  un'opera  di  Erasmo  da  Rotterdam  (adagiani:  sentenze). 

2.  «Dalla  toga  al  mantello»  (e  il  proverbio  indicava  il  passaggio  da  una 
condizione  superiore  a  una  inferiore). 

3.  «Proprio  in  me». 

4.  «Da  segnarsi  con  una  pietruzza  nera»  (a  indicare  che  è  giorno  sfortu- 
nato). 

5.  «0  cielo,  o  terra,  o  mari  di  Nettuno!». 

6.  Cortesi. 

7.  «Non  dico  con  atto  destro,  ma  con  atto  sinistro». 

8.  Spelacchiato. 

9.  Mantello  corto  e  di  poco  valore. 


ATTO  QUARTO  363 

que  capitis  operculo^^  un  capiziolo'^  vetusto  (che  versus  centrum 
et  in  medio,  prue  nimii  sudoris  densitudine^^  appare  incerato,  vel 
inpiceato^^,  vel  coriceato^'',  vel  coriaceo,  seu  di  cuoio),  con  il 
mio  pileo^^,  la  mia  toga  magisterial  han  toltami.  Proh  deùm 
atque  hominum  fidem^^,  eccome  delapso  a  patella  ad  prunas^'^. 
Mi  han  persuaso  con  il  dire  «Venite  nosco  ^^,  che  vi  farrem 
trovare  il  fure»:  sono  con  essi  loro  bona  fide^'^  andato,  sin  [255] 
quando  gionti  ad  di  certe  {ut  facile  crediderimy^  meretricule  il 
domicilio,  dove  entrati  mi  fecero  rimaner  nell'atrio  inferior  di- 
cendomi «E  ben  che  noi  prima  entriamo  ad  prevenirlo,  a  fin 
che  non  paia  che  ex  abrupto  con  la  tua  presenza  vogliamo 
confonderlo:  però  aspettate  equi,  che  tosto  da  alcun  di  noi  sar- 
rete  chiamato  per  decemere  co  la  minor  excandescentia^^  che  si 
potrà  quod  ad  restitutionem  attinet^^»;  or  avendo  io  per  un 
grand'intervallo  di  tempo  aspetato  deambulando^^,  pensando  a 
gli  argumenti  coi  quali  io  dovevo  confonder  costui,  tandem^'^ 
non  essendo  ver'un  che  mi  chiamasse,  per  certe  scale  asceso  in 
alto,  toccai  del  primo  cubiculo  ^5  porta:  dove  mi  fu  risposto 
che  andasse  oltre,  perché  ivi  non  era,  né  vi  era  stato  altro  che 
que'  domestici  presenti.  Aliquantolum  progressus^^,  batto  l'uscio 
di  un  altro  abitaculo^^  il  qual  era  nella  medesma  stanza^^: 
dove  mi  fu  parimente  risposto  da  una  vetula^"^  dicendomi  s'io 
volevo  far  ivi  ingresso,  che  altro  non  v'era  che  certe  minime 

10.  «E  per  coprire  il  capo». 

11.  Piccolo  copricapo. 

12.  «Verso  il  centro  e  nel  mezzo,  per  lo  spessore  del  troppo  sudore». 

13.  Come  se  si  fosse  attaccata  pece. 

14.  Divenuto  spesso  e  duro  come  cuoio. 

15.  Berretto. 

16.  «O  fede  degli  dèi  e  degli  uomini». 

17.  «Dalla  padella  nella  brace». 

18.  Con  noi. 

19.  «In  buona  fede». 

20.  «Facile  supposizione». 

21.  Scandalo,  clamore. 

22.  «Ciò  che  si  riferisce  alla  restituzione». 

23.  «Passeggiando». 

24.  «Infine». 

25.  Stanza. 

26.  «Andato  un  poco  avanti». 

27.  Abitazione. 

28.  Edificio. 

29.  Vecchietta. 


364  CANDELAIO 

contemnendae  iuvenculae^'^;  a  cui  dicendo  che  di  altro  fantasma 
avevo  ingonbrato  il  cerebro,  ulterius  progressus^^  mi  ritrovo 
fuor  delia  casa  che  avea  l'altra  uscita  in  un'altra  platea^^.  Al- 
l'or de  necessitate  consequentiae^''  io  conclusi:  «Ergo  forte'''*  sono 
[257]  eziamdio  stato  da  costoro  deceputo",  conciossia  cosa  che  do- 
mus  ista  duplici  constai  exitu  et  ingressu»^^;  e  di  bel  nuovo  ri- 
tornato dentro,  percunctatus  sum^'',  si  ivi  dentro  fusse  altro  re- 
ceptaculo^^  in  cui  quei  potessero  esser  congregati''';  mi  fu  in 
forma  conclusionis  detto:  «Amico  mio,  si  sono  entrati  per  quel- 
la porta,  son  usciti  per  questa;  si  son  entrati  per  questa,  sono 
usciti  per  quella».  Tunc  statini-*^  temendo  qualch'altro  soccorso 
o  consiglio  simile  a  i  preteriti ^^  mi  sono  indi  absentato,  e 
{iuxta  del  pitagorico  simbolo  la  sentenza) ■'^  le  vie  populari  fug- 
gendo e  per  i  diverticoli-"  andando,  aspetto  il  tempo  da  tornar 
in  casa:  quandoquidem'*-*  adesso,  per  de  gli  eunti  e  redeunti'^^  la 
frequenza,  temo  (con  di  mia  reputazione  il  preiudicio)  incide- 
re-*^ in  qualch'un  che  mi  conosca  in  questo  indecentissimo 
abito.  -  Expedit  che  in  istum  angulum'*'^  mi  retiri  in  questo 
mentre,  che  veggio  appropiar  un  paio  di  muliercule''^. 


30.  «Ragazzine  per  nulla  da  disprezzare». 

31.  «Andato  ancora  oltre». 

32.  Piazza. 

33.  «Necessariamente  dall'effetto». 

34.  «Dunque  forse». 

35.  Ingannato. 

36.  «Questa  casa  possiede  due  uscite  ed  entrate». 

37.  «Ho  indugiato». 

38.  Nascondiglio. 

39.  Riuniti. 

40.  «Allora,  subito». 

41.  Precedenti. 

42.  Allude  a  quattro  versi  del  Carme  aureo  attribuito  a  Pitagora,  nei  quali 
si  consiglia  di  sopportare  con  animo  tranquillo  le  disgrazie,  pur  cercando  un 
rimedio  contro  di  esse. 

43.  Viuzze  laterali. 

44.  «Poiché». 

45.  La  gente  che  va  e  viene. 

46.  «Imbattermi». 

47.  «È  bene  che  in  questo  angolo». 

48.  Donnicciole. 


ATTO  QUARTO  365 

SCENA  XII 

Carubina,  Lucia 

Carubina.  —  Al  nome  sia  di  santa  Raccasella 

Lucia.  —  Advocata  nostra.  [259] 

Carubina.  —  Vi  par  che  ne'  gesti  e  la  persona  vi  rapresenti  la 
signora  Vittoria? 

Lucia.  -  Vi  giuro  per  i  quindici  misterii  del  rosario  (che  ho 
finiti  de  dire  adesso)  che  io  medesima,  al  presente,  mi  penso 
essere  con  essa  lei.  Sin  alla  voce  e  le  paroli  vi  sono  accomoda- 
tissime.  Pur  farrete  bene  ad  parlargli  sempre  basso  sotto  voce, 
con  essortarlo  al  simile,  fingendo  téma  di  essere  udita  da  vicine, 
e  dall'altre  genti  di  casa  che  son  gionte  a  muro  e  muro.  Quanto 
al  toccarvi  de  la  faccia,  voi  l'avete  cossi  verde  ^  morbida  e  piena 
come  la  signora  Vittoria,  si  non  alquanto  megliore. 

Carubina.  -  Voi  farrete  che  lume  non  venghi  in  camera,  sin 
tanto  che  da  me  non  vi  si  farrà  segno,  per  che  voglio  conven- 
cere  costui  d'intenzione  e  fatto. 

Lucia.  -  Oltre  che  sarrà  bene  di  dar  qualche  sollazzo  alla 
povera  bestia,  prima  che  tormentarla:  fate  che  scarghe  al  meno 
una  volta  la  bisaccia^,  per  veder  con  quanta  devozione  si  ma- 
neggi. 

Carubina.  -  Oh,  quanto  a  questo  voglio  ch'il  spasso  sii  più 
vostro  che  suo.  Io  me  gli  mostrarrò  tutta  infiammata  d'amore:  e 
con  questo  gli  piantarrò  de  baci  di  orso,  lo  morsicarrò  su  le 
guance,  e  gli  strengerrò  le  labbra  co'  denti,  di  sorte  che  sii  for- 
zato ad  farvi  udir  le  strida  e  gustar  de  la  comedia^.  All'ora 
dirrò:  «Cor  mio,  vita  mia,  non  cridate,  che  sarremo  uditi;  perdo- 
nami, cor  mio,  che  questo  è  per  troppo  amore...». 

Lucia.  —  Il  crederrà  per  la  virtù  e  forza  de  l'incanto. 

Carubina.  -  «...  Io  mi  liquefacelo  tanto,  che  ti  sorbirrei  tutto 
in  sin  a  l'ossa».  [261] 

Lucia.  -  Amor  di  vipera. 

Carubina.  -  Oh,  questo  non  basta.  Poi  farro  di  modo  che  mi 


1.  Fresca,  giovane. 

2.  Metafora  oscena. 

3.  La  scena  che  Carubina  metta  in  opera  per  farsi  beffe  e  vendicarsi  del 
marito. 


366  CANDELAIO 

porga  la  lingua:  e  quella  voglio  premere  tanto  forte  co  gli  denti, 
che  non  la  potrà  ritrare  a  suo  bel  piacere;  e  non  la  voglio  lasciar 
sin  tanto  che  non  abbia  gittati  tre  o  quattro  strida. 

Lucia.  -  Ah!  ah!  ah!  ih!  ih!  ih!  ah!  Dirrò  alla  signora  Vittoria: 
«Questa  è  la  lingua».  Potrà  egli  ben  cridare,  ma  parlar  non: 
questa  è  alquanto  troppo  dura,  e  da  fargli  uscir  l'amor  dal  culo. 

Carubina.  —  All'or  dirrò:  «Cor  mio  bello,  mia  dolce  piaga, 
anima  del  mio  core,  comportami  (ti  priego)  questo  eccesso:  il 
mio  troppo  amare,  il  mio  esser  troppo  scaldata  n'è  caggione, 
questo  mi  fa  freneticare». 

Lucia.  -  Per  santa  Pollonia-*  ch'avete  di  bei  tiri;  dirrà  egli 
tra  sé:  «Che  canino ^  amor  è  di  costei?». 

Carubina.  —  Fatto  questo  secondo  atto,  mostrarrò  di  volergli 
concedere  l'entrata  maestra  per  una  volta,  prima  che  ci  col- 
chiamo  al  letto.  M'acconciarrò  in  atto  da  chiavare:  e  tosto  che 
lui  arra  cacciato  il  suo  cotale^,  farro  bene  che  venghi  aìVattollite 
porta;  ma  prima  che  gionga  zìVintroibi  re  gloria'^,  voglio  appren- 
dergli i  testicoli  e  la  verga  con  due  mani,  e  dirgli:  «O  ben  mio 
mio  tanto  desiderato,  o  speranza  di  quest'anima  infiammata, 
prima  mi  sarran  le  mani  tolte,  che  tu  mi  sii  tolto  da  le  mani  »;  e 
[263]  con  questo  le  voglio  premere  tanto  forte,  e  torcergli  come  tor- 
cesse^ drappi  bagnati  di  bucata.  Son  certa  che  le  sue  mani  in 
questo  caso  non  gli  serveranno  per  defendersi. 

Lucia.  —  Ih!  ih!  ih!  ah!  ah!  certo  quel  dolore  farrebbe  perdere 
la  forza  ad  Erculesso^:  oltre  che  è  certo,  che  in  ogni  modo  voi 
séte  più  forte  che  lui. 

Carubina.  -  All'ora  siate  certa  che  cridarrà  tanto,  che  le 
strida  si  sentiranno  a  nostra  casa;  e  peggio  per  lui  si  non  cri- 
darrà bene:  per  che  tanto  più  fortemente  sarrà  strento^"  e  tor- 
ciuto.  Quando  saranno  queste  più  solenne  terze  strida,  correrete 
voi  di  casa  con  i  lumi:  e  cossi  tutti  insieme  ne  conosceremo  alla 


4.  Apollonia. 

5.  Crudele,  feroce,  da  cane  rabbioso. 

6.  Il  membro  virile. 

7.  Carubina  storpia,  recandole  a  senso  osceno,  le  parole  dell'officio  nella 
prima  domenica  d'Avvento:  «Tollite  portas,  principes,  vestras  et  introibit  rex 
gloriae»  («Aprite  le  vostre  porte,  o  prìncipi,  ed  entrerà  il  re  della  gloria»). 

8.  Torcessi. 

9.  Ercole. 

10.  Stretto. 


ATTO  QUARTO  367 

luce,  con  la  grazia  di  santa  Lucia  ^^  De  l'altro  che  sarrà  ap- 
presso, vederremo. 

Lucia.  —  Tutto  è  bene  appuntato.  Andate  dumque  in  casa 
della  signora;  caminate  come  sapete;  mantenetevi  il  viso  co- 
perto con  il  manto.  Si  l'incontrarete  per  il  camino,  lui  non  vi 
parlarà,  per  che  non  è  onesto  per  le  strade:  fategli  una  profonda 
riverenza,  e  quando  sarrete  un  po'  oltre,  fatevi  cascar  un  focoso 
suspiro,  e  prendete  il  camino  verso  la  nostra  porta  che  trovarete 
aperta.  Tra  tanto  io  darrò  una  volta  per  certo  altro  affare;  e  poi 
cercarrò  lui  e  lo  menarrò  in  casa.  Governatevi  bene.  A  dio. 

Carubina.  -  A  dio,  a  rivederci  presto.  [265] 

SCENA  XIII 

Lucia  sola 

Dice  bene  il  proverbio:  «Chi  vuole  che  la  quatragesima '  gli 
paia  corta,  si  faccia  debito  per  pagare  a  Pasca» 2.  Tutto  oggi  non 
mi  ha  parso  un'ora  per  il  pensiero  ch'ho  avuto,  di  far  schiudere 
queste  uova^  in  questa  sera.  Ogni  cosa  va  bene.  Resta  sol  ch'io 
faccia  avisato  messer  Gioan  Bernardo,  che  si  trovi  a  tempo,  e 
faccia  che  gli  altri  si  trovino  a  tempo:  bisogna  martellare  a  mi- 
sura, quando  son  più  che  uno  a  battere  un  ferro.  —  A  fé  di  santa 
Temporina"*  che  mi  par  lui  costui. 

SCENA  XIV 

Lucia,  messer  Gioan  Bernardo 

Lucia.  -  A  punto  siete  venuto  a  proposito. 

Gioan  Bernardo.  -  Che  hai  fatto,  Lucia  mia? 

Lucia.  —  Tutto.  Messer  Bonefacio  è  andato  a  stravestirsi,  et 
accomodarsi  una  barba  simile  alla  vostra.  Sua  moglie  adesso  in 
abito  della  signora  Vittoria  se  n'è  entrata.  Sanguino  vestito  da 

II.  Che  è  invocata  dal  popolo  come  protettrice  della  vista. 

1.  Quaresima. 

2.  Pasqua. 

3.  Far  riuscire  bene  la  beffa  (ma  c'è  anche  un'allusione  oscena). 

4.  Esclamazione  popolaresca  per  dire  che  si  incontra  proprio  la  persona 
che  si  cerca. 


368  CANDELAIO 

capitan  Palma  in  barba  lunga  e  bianca.  Marca,  Floro,  Barra, 
Corcovizzo  sono  accomodati  da  birri. 

GiOAN  Bernardo.  -  Io  le'  ho  veduti  or  ora,  ho  parlato  con 
essi.  Le  ho  lasciati  equi  vicino  in  bottega  di  un  cimatore.  Io 
starrò  in  cervello  che  non  mi  farro  scappare  questo  morsello  ^  di 
[267]  bocca.  Hai  parlato  del  fatto  mio  ad  madonna  Carubina? 

Lucia.  —  Liberamus  domino^.  Credete  ch'io  sii  tanto  poco  ac- 
corta? 

GiOAN  Bernardo.  -  Hai  fatto  saggiamente;  voglio  darti  per 
beveraggio  un  bacio:  'bà. 

Lucia.  —  Gran  mercé:  io  ho  bisogno  d'altro  che  di  questo. 

GiOAN  Bernardo.  -  Questo  è  sol  un  pegno.  Lucia  mia,  è 
impossibile  di  trovar  una  donna  da  maneggi*^  simile  a  voi. 

Lucia.  —  Si  voi  sapeste  quanto  mi  ha  bisognato  di  spirto,  per 
far  capire  a  messer  Bonifacio  l'amor  novello  della  signora  Vit- 
toria, e  persuadergli  che  si  stravesta  cossi,  et  anco  per  ridurre 
madonna  Carubina  a  quel  ch'è  ridutta:  vi  maravigliareste  assai. 

GiOAN  Bernardo.  -  Son  certo  che  sapete  cacciar  le  mani  da 
cose  vie  più  importanti  che  questa.  Or  è  bene  che  io  mi  parti  da 
equa,  che  non  è  più  tempo  di  consegli.  Si  venisse  ora  e  ne  ve- 
desse messer  Bonifacio,  guastarebbe  la  minestra  il  troppo  sale\ 
Adio. 

Lucia.  -  Andate  accomodatevi  voi  altri:  perché  lui  lo  acco- 
modarrò  io. 

scena  XV 
Mamfurio  solo 

Poi  che  costoro  sono  absentati,  voglio  rimenarmi  un  poco 
per  questo  piccolo  deambulario'.  Ho  veduto  due  muliercule 
raggionar  insieme,  e  poi  una  di  quelle  è  rimasta  a  confabular 
con  quel  pletore.  La  giovane  deve  esser  qualche  lupa^,  unde  de- 


1.  Li. 

2.  Boccone. 

3.  Corruzione  popolaresca  della  litania  Libera  nos.  Domine. 

4.  Ruffiana. 

5.  La  beffa  sarebbe  eccessivamente  saporosa 

1.  Strada. 

2.  «Prostituta». 


ATTO  QUARTO  369 

rivatur  lupanare  la  vetula  senza  dubio  è  una  lena'*.  Quel  modo  [269] 
di  colloquio  habet  lenodnii  specimen^.  Io  istimo  questo  pictore 
aliquantolum  fomicario^  Ergo...  sequitur  conclusio''.  —  Veggo  una 
caterva  che  appropera^:  voglio  iterum^  retirarmi. 

SCENA  XVI 

[Mamfurio,]  Sanguino  stravestito  da  capitan  Palma; 
Marca,  Barra,  Corcovizzo,  da  birri 

Sanguino.  -  Senza  dubio  costui  che  fugge  e  si  asconde  è  qual- 
che povera  anima  da  menarla  in  purgatorio;  per  certo  è  qualche 
lesa  conscienzia:  prendetelo. 

Barra.  -  Alto:  la  corte!  1  Chi  è  Uà? 

Mamfurio.  -  Mamphurius  artium  magister.  Non  sum  mal- 
factore,  non  fur,  non  mechus,  non  testis  inicus;  alterius  nuptam, 
nec  rem  cupiens  alienami. 

Sanguino.  —  Che  ore^  son  queste  che  voi  dite,  compieta  o 
matutino? 

Marca.  -  Settenzalmo,  o  officio  defontoroì'* 

Sanguino.  —  Che  ufficio  è  il  vostro?  Costui  per  certo  vorrà 
far  del  clerico.  [271] 

Mamfurio.  —  Sum  gymnasiarcha. 

Sanguino.  —  Che  vuol  dir  «asinarca»?  Legatelo  presto,  che  si 
meni  priggione. 

Corcovizzo.  —  Toccatemi  la  mano,  messer  pecora-smarrita. 
Venete,  che  vi  vogliamo  donar  allogiamento  questa  sera:  dimo- 
rarrete  in  casa  reggia^. 

Mamfurio.  -  Domini,  io  sono  un  maestro  di  scola:  a  cui  in 

3.  «Lupanare». 

4.  «Ruffiana». 

5.  «Ha  l'aspetto  del  lenocinio». 

6.  Frequentatore  di  meretrici. 

7.  «Quindi,  deriva  la  conclusione». 

8.  Gruppo  di  persone  che  si  avvicina. 

9.  «Di  nuovo». 

1.  La  polizia. 

2.  «Mamfurio,  professore.  Non  sono  un  malfattore,  non  un  ladro,  non  un 
adultero,  non  un  falso  testimone:  non  desidero  la  donna  né  la  roba  di  altri». 

3.  Le  varie  parti  in  cui  è  diviso  l'ufficio  divino  che  deve  essere  recitato  dai 
sacerdoti. 

4.  I  sette  salmi,  o  l'ufficio  dei  defunti. 

5.  La  prigione,  che  è  «casa  del  re»  in  quanto  edificio  dello  stato. 


370  CANDELAIO 

queste  ore  prossime  son  stati  da  certi  furbi  rubbati  i  scudi,  et 
involate  le  vesti. 

Sanguino.  -  Perché  dumque  fuggi  la  corte?  Tu  sei  un  ladro 
nemico  de  la  giustizia  (zò,  zò,  zò). 

Mamfurio.  -  Queso*^  non  mi  verberate':  perché  io  fuggiva  di 
esser  veduto  in  questo  abito,  il  quale  non  è  mio  proprio. 

Sanguino.  -  Olà  famegli*^:  non  vi  accorgete  di  questo  ma- 
riolo? non  vedete  questo  mantello  che  porta,  è  stato  rubbato  ad 
Tiburolo  nella  Dogana? 

CoRCOVizzo.  -  Perdonatime,  signor  capitano,  vostra  Signoria 
se  inganna:  perché  quel  mantello  aveva  passamani  gialli  nel 
collaio^. 

Sanguino.  —  E  non  le  vedi?  sei  cieco?  Non  son  passamani 
questi?  non  son  gialli? 

CORCOVizzo.  -  Pò  san  Manganello '°  che  l'è  vero. 

Marca.  -  Al  corpo  della  nostra...  costui  è  un  solenne  mariolo 
{zò,  zò,  zò,  zò). 

Mamfurio.  -  Oimè,  voi  perché  mi  bussate  pure?  Io  vi  ho 
[273]  detto  che  mi  è  stato  elargito  in  vece  della  mia  toga  da  alcuni 
scelesti ^1  furi,  e  (ut  more  vestro  loqiiar)^-  marioli. 

Sanguino.  -  Sin  ora  sappiamo  che  tu  sei  nostro  fuggitivo; 
che  questo  mantello  è  stato  rubbato:  va  priggione,  che  si  vedrà 
chi  è  stato  il  mariolo. 

Mamfurio.  -  Menatemi  in  casa  del  mio  ospite,  presso  gli 
Vergini  1^,  che  vi  provarrò  che  non  son  malfattore. 

Sanguino.  —  Non  prendemo  le  persone  per  menarle  in  casa 
sua,  noi;  {zò,  zò)  andate  in  Vicariai-*,  ^he  dirrete  vostre  raggioni 
ad  altro  che  a  birri. 


6.  «Per  favore». 

7.  Picchiate. 

8.  Sergenti,  sbirri. 

9.  Collare. 

10.  Esclamazione  scherzosa  con  personificazione  e  canonizzazione  popola- 
resca del  bastone. 

11.  Malvagi. 

12.  «Per  parlare  secondo  il  vostro  costume». 

13.  Borgo  di  Napoli,  che  prendeva  nome  dalla  chiesa  di  Santa  Maria  dei 
Vergini. 

14.  Il  centro  di  polizia. 


ATTO  QUARTO  371 

Mamfurio.  -  Oimè,  cossi  trattate  gli  eruditi  maestri?  dum- 
que  di  tanto  improperio  mi  volete  afficereì^^ 

Marca.  -  Parla  italiano,  parla  cristiano,  in  nome  del  tuo 
diavolo,  che  ti  intendiamo. 

Barra.  —  Lui  parla  bon  cristiano,  perché  parla  come  si  parla 
quando  si  dice  la  messa. 

Marca.  -  Io  dubito  che  costui  non  sia  qualche  monaco  stra- 
vestito. 

CORCOVizzo.  —  Cossi  credo  io.  Domine  abhas,  volimus  comedere 
fabbasì  ^^  [275] 

Barra.  -  Et  si  fabba  non  habbemo,  quii  comederemo? 

Mamfurio.  -  Non  sum  homo  ecclesiasticus^''. 

Sanguino.  -  Vedete  che  porta  chierica?  porta  la  forma  de 
l'ostia  in  testa? 

Mamfurio.  -  Hoc  est  calvitium^^. 

Barra.  —  Per  questo  vizio  farrai  la  penitenza,  scomunicato 
{zò,  zò,  zò,  zò). 

Mamfurio.  —  Dixi  «calvitium»,  quasi  calvae  vitium^"^.  E  non 
mi  bussate,  quia  conquerar^^:  cossi  si  trattano  uomini  di  dot- 
trina et  eruditi  maestri? 

Sanguino.  —  Tu  hai  mentito:  non  hai  forma  né  similitudine 
di  maestro  {zò,  zò). 

Mamfurio.  -  Vi  recitarrò  cento  versi  del  poeta  Virgilio;  aut, 
per  cafita^^,  tutta  quanta  la  Eneide.  Il  primo  libro  secondo  al- 
cuni comincia:  «Eie  ego  qui  quondam»;  secondo  altri  che  dicono 
quei  versi  di  Varo^^,  comincia:  «Arma  virumque  cano»;  il  .IL: 
«Conticuere  omnes»^^;  il  .III.:  «Postquam  res  Asiae»;  il  .IV.:  «At  [277] 
regina  gravi»;  il  .V.:  «Tu  quoque  littoribus  nostris»;  il  .VI.:  «Conti- 
cuere omnes»... 


15.  «Colpire». 

16.  «Vogliamo  mangiare  le  fave»;  la  frase  scherzosa  ha  senso  osceno. 

17.  «Non  sono  sacerdote». 

18.  «È  la  calvizie». 

19.  «Ho  detto  calvizie,  quasi  vizio  del  cranio».  È  un'altra  delle  assurde  eti- 
mologie di  Mamfurio. 

20.  «Perché  mi  lamenterò». 

21.  «O  per  i  versi  iniziali». 

22.  Secondo  alcuni  critici  antichi  i  primi  versi  dell'Eneide,  con  l'esposizione 
sintetica  del  tema  del  poema,  non  sarebbero  opera  di  Virgilio,  ma  dell'amico 
Varo,  che  curò,  con  Tucca,  la  prima  edizione  dell'opera. 

23.  In  realtà  Mamfurio  fa  un  po'  di  confusione,  sbagliando  l'inizio  del 
quinto  e  del  sesto  libro  delVEneide. 


372  CANDELAIO 

Sanguino.  -  Non  ci  ingannarrai,  poltrone,  con  queste  parole 
latine,  imparate  per  il  bisogno.  Tu  sei  qualche  ignorante:  si  fussi 
dotto  non  sarreste  mariolo. 

Mamfurio.  -  Venghi  dumque  qualche  erudito,  e  disputarrò 
con  esso  lui. 

Sanguino.  -  Cennera  nomino  quatta  suni?^'* 

Mamfurio.  -  Questa  è  interrogazione  di  principianti,  tirum- 
culi^^,  isagogici  ^^\  et  primis  attingentium  labellis^'':  a  quai  si  de- 
clara  «masculeum»  idest  masculino,  «faemineum»  il  feminile, 
«neutrum»  quel  che  non  è  l'uno  né  l'altro,  «comune»  quel  che  è 
l'uno  et  altro... 

Barra.  -  Mascolo  e  femina. 

Mamfurio.  -  ...  «epicenum»,  quel  che  non  distingue  l'un  sexo 
da  l'altro. 

Sanguino.  -  Quale  di  tutti  questi  séte  voi?  séte  forse  epi- 
ceno? 

Mamfurio.  —  Quae  non  distinguunt  sexum,  dicas  epicena^^. 

Sanguino.  -  Dimmi,  si  séte  magister.  che  cosa  per  la  prima 
insegnate  a  putti? 

Mamfurio.  -  Nella  dispauteriana  grammatica,  è  quel  verso: 
«Omne  viro  soli  quod  convenit,  esto  virile». 

Sanguino.  -  Declara. 

Mamfurio.  —  «Omne»  idest  totum,  quidquid,  quidlibet,  quod- 
cumque  universum;  «quod  convenit»,  quadrai,  congruit,  adest;  «viro 
soli»,  soli,  duntaxat,  tantummodo,  solummodo  viro,  vel  fertur  a  viro; 
«esto»  idest  sit,  vel  dicatur,  vel  habeatur  «virile»:  idest  quel  che 
convien  a  l'uomo  solamente,  è  virile. 

Sanguino.  -  Che  diavolo  di  propositi  insegnano  a  putti  per 
la  prima  costoro!  Quel  che  gli  uomini  soli  hanno,  e  manca  a  le 
donne,  hoc  este,  ideste  chiamisi,  dichisi  il  virile,  il  membro  virile. 

Barra.  —  Questa  é  una  bella  lezzione,  in  fé  di  Cristo. 

Mamfurio.  -  Nego,  nego:  io  non  dico  quel  che  voi  pensate 

24.  Deformazione  popolaresca  della  domanda  grammaticale:  «Genera  nomi- 
num  quot  sunt»  («quanti  sono  i  generi  dei  nomi»). 

25.  Ragazzini  inesperti. 

26.  Alunni  principianti. 

27.  «E  di  coloro  che  bevono  con  le  labbra  appena  i  primi  rudimenti». 

28.  «Quelle  cose  che  non  possono  essere  maschili  o  femminili  si  chiamano 


ATTO  QUARTO  373 

(vedete  che  importa  parlar  con  ineruditi);  io  dico  del  geno^*^  che 
conviene  a  maschi. 

Sanguino.  —  {Zò,  zò,  zó);  questo  è  cosa  da  femine,  scelerato 
vegliacco. 

Mamfurio.  —  Quello  che  voi  pensate  è  di  maschii  proprie  et 
ut  pars^^,  et  è  di  femine  ut  portio,  et  attributive  vel  applicative"^^.    [281] 

Sanguino.  -  Presto,  presto,  depositatelo  in  questa  stanza, 
che  poi  lo  menaremo  in  Vicaria:  vuol  mostrarsi  dottore,  e  ci  fa 
intendere  che  è  de  l'arte  da  spellechiar  capretti  ^^. 

Mamfurio.  —  0  me  miserum:  verba  nihil  prosunt.  0  diem  in- 
faustum  atque  noctemP^ 

[Fine  dell'atto  quarto]  [283] 


29.  Genere. 

30.  «In  modo  specifico  e  come  parte». 

31.  «Come  una  relazione,  come  qualcosa  che  si  attribuisce  e  si  applica 
loro». 

32.  Metafora  oscena  con  cui  si  allude  alla  pederastia. 

33.  «0  me  infelice!  le  parole  non  servono  a  nulla.  O  giorno  e  notte  in- 
fausta!». 


ATTO  QUINTO 

SCENA  I 

Bonifacio,  Lucia 

Bonifacio.  -  ...o-o-o-o-o...  ' 

Lucia.  —  Sì  che  messer  Gioan  Bernardo  mio... 

Bonifacio.  —  Ricordatevi  ch'io  son  Bonifacio  ...o-o-o-o-o... 

Lucia.  -  Vi  giuro  ch'io  mi  dismentico  di  esser  con  voi:  tanto 
séte  accommodato  bene,  che  par  che  non  vi  manchi  il  nome  di 
Gioan  Bernardo. 

Bonifacio.  -  ...o-o-o-o...  Sarrà  pur  bene  di  chiamarmi  cossi: 
per  che  si  alcuno  vi  udisse  parlare  ...e-e-e-e-e-e...  sarrà  bene  che 
vi  senta  chiamarmi  cossi  ...ii-i-ii... 

Lucia.  —  Voi  tremate:  che  cosa  avete? 

Bonifacio.  —  Niente  ...e-e-e-e...  Averstisci,  Lucia,  che  si  al- 
cuno pensando  ch'io  sii  Gioan  Bernardo  ...o-o-o-o-o...  mi  volesse 
parlare,  rispondete  voi  ...i-i-i-i-i...  (che  io  bisogna  che  mi  finga 
andar  in  còlerà  ...a-a-a...  e  passar  oltre  ...e-e-e...):  voi  dirrete  che 
mi  lasciano  ...o-o-o-o-o...  che  vo  fantastico  per  alcune  cose  che 
passano  2  ...o-o-o-o... 
[285]        Lucia.  —  Voi  dite  bene:  non  farro  altrimente  errore. 

Bonifacio.  -  ...0-0-0-0-0-0... 

Lucia.  -  Vorrei  sapere  per  che  tremate.  Ditemi,  tremate  per 
freddo  o  per  paura?  che  cosa  avete? 

Bonifacio.  -  Cara  mia  Lucia,  io  ho  ...0-0-0...  il  tremore  de 
l'amore,  pensando  che  adesso  adesso,  ho  da  esser  gionto  al  mio 
bene  ...e-e-e-e-e-e-e-e-e... 

Lucia.  —  Oh  sì  sì,  io  so  adesso  qual  sii  questo  tremore:  cossi 
trema  quando  uno  si  trova  con  qualche  bona  robba  molto  de- 


1.  Oh! 

2.  Accadono. 


ATTO  QUINTO  375 

siderata:  voi  fate  conto  di  esser  con  lei  per  che  la  non  vi  è 
troppo  lontano. 

Bonifacio.  —  O  ...o-o-o-o...  signora  Vittoria  mia  ...a-a-a-a...  o 
mio  bene,  quel  petto  di  diamante,  che  mi  facea  morire  ...e-e-e-e- 
e... 

Lucia.  —  Voi  suo  bene,  e  lei  vostro  bene.  Giuro  per  quel 
santo  che  die  la  mittà^  della  sua  cappa  per  l'amor  de  Dio'',  che 
da  dovero  ramollareste  un  diamante,  tanto  avete  il  sangue 
dolce.  Oggi  mi  parete  più  bello  che  mai:  io  non  so  se  questo 
procede  da  l'amore,  o  da  altro. 

Bonifacio.  -  ...o-o-o-o-o...  Andiamo  presto  per  che  mi  scappa 

Lucia.  -  Non  la  fate  andar  a  terra,  si  non  volete  la  maldiz- 
zion  de  Dio  5;  ah!  ah!  ah!  mi  fate  venir  la  risa.  Se  vi  scappa  que- 
sto, scrollandovi  farrete  dell'altro.  [287] 

BoNiFicio.  -  È  la  verità;  ma  ...a-a-a-a-a-a... 

Lucia.  —  Via  dumque. 

SCENA  II 

Bartolomeo,  Consalvo,  Mochione 

Bartolomeo.  -  O  traditor,  o  ladro,  o  sassino:  dumque  non 
avete  il  pulvis  Christi,  el  pulvis  del  diavolo?  Oimè,  ahi  lasso,  o 
me  disfatto,  vituperato!  Tu  me  la  pagherrai. 

Consalvo.  —  Meglio  farrai  tacendo,  pover  omo,  altrimente 
tutti  ti  stimaranno  pazzo:  sarrai  la  favola  de  tutto  Napoli;  sino 
a'  putti  faranno  comedia  di  fatti  tuoi:  e  non  avanzarrai  altro. 

Bartolomeo.  —  Con  questa  persuasione  pensi  di  farmi  ta- 
cere? 

[Consalvo.]  —  Si  non  vuoi  tacere,  crida  tanto  che  ti  schiat- 
tino i  pulmoni:  che  volevi  tu  ch'io  sappesse  di  questo  vostro 
negocio?  Un  mese  fa,  venne  questo  vostro  Cencio,  e  mi  dimandò 
s'io  avevo  litargirio^  alume,  argento  vivo,  solfro  rosso,  verde  [289] 

3.  Metà. 

4.  San  Martino,  che  in  un  giorno  di  gran  gelo  divise  a  metà  il  suo  mantello 
con  un  mendico  seminudo. 

5.  Allusione  alla  vicenda  di  Onan,  maledetto  da  Dio  (Genesi,  XXXVIII,  9) 
perché  «semen  fundebat  in  terram».  Per  la  gioia  Bonifacio  sta  per  eiaculare. 

I.  Ossido  di  piombo. 


376  CANDELAIO 

rame,  sale  armoniaco^  et  altre  cose  ordinarie;  io  li  risposi  che  sì; 
e  lui  soggionse:  «Or  dumque  voi  sarrete  il  mio  ordinario^,  per 
certa  opera  che  debbo  fare.  Tenete  ancora  a  presso  di  voi  questa 
polvere,  che  si  chiama  pulvis  Christi:  della  quale  mi  mandarrete 
secondo  la  quantità  che  vi  sarrà  dimandata;  abbiate  ancora  a 
presso  voi  questo  mio  scrigno,  dove  sono  le  mie  più  cose  care 
ch'io  abbia». 

Bartolomeo.  —  Queste  cose  se  l'ha  prese? 

Consalvo.  —  Non;  e  però  tacete:  che  si  lui  verrà  per  quelle, 
non  uscirrà  da  mia  casa  come  si  pensa"*. 

Bartolomeo.  -  Voi  dite  bene  si  non  se  ne  fusse  andato  per 
la  posta:  non  l'hai  udito  tu  adesso  adesso,  Mochione? 

MoCHiONE.  -  Da  tutte  bande  ^  si  dice. 

Consalvo.  -  Or  che  devevo  far  io?  Voi  lo  dovevate  cono- 
scere che  lavorava  in  vostra  casa;  et  ha  più  de  quindeci  giorni 
dimorato  con  voi:  e  poi  non  so  dove  sii  alloggiato  in  sino  ad 
questo  tempo.  Voi  di  vostra  mano  mi  avete  mandato  ad  diman- 
dar or  questa,  or  quella  cosa;  e  quanto  al  pulvis  Christi  (come 
voi  lo  chiamate),  mi  dimandaste  la  prima  volta  tanto,  che  era 
la  mittà;  e  la  seconda  volta  altretanto,  che  fu  tutto  il  resto.  Oggi 
quando  me  hai  mandato  ad  dimandar  tanto,  che  tutto  quel 
ch'ebbi  non  farrebbe  per  la  decima  parte,  mi  son  maraviglia- 
to, e  ti  ho  mandato  ad  dire,  che  l'alchimista  Cencio  non  me  ne 
die  più. 

Bartolomeo.  -  Io  non  dubito  che  lui  e  tu  mi  avete  piantato 
il  porro  dietro  ^ 

Consalvo.  -  Si  tu  pensi  mal  dal  canto  mio,  tu  pensi  una 
gran  mentita^,  pazzo  da  catena  insensato:  ha  ben  bastato  lui 
solo  per  burlarti;  che  volevi  tu  che  io  sapesse  di  fatti  tuoi,  che 
son  diece  anni  che  non  ti  ho  parlato?  Avete  mandato  per  cose 
di  mia  bottega,  et  io  ti  ho  mandato  quel  che  avevo. 

Bartolomeo.  -  Oimè:  questo  pulvis  del  diavolo  era  oro  me- 
schiato  e  posto  in  polvere,  con  qualche  altra  maldezzione,  che 

2.  Cloruro  di  ammonio. 

3.  Fornitore. 

4.  Come  egli  immagina. 

5.  Da  tutte  le  parti,  ovunque. 

6.  Metafora  oscena  (e  vale,  genericamente  e  volgarmente,  mi  avete  ingan- 
nato). 

7.  Menzogna. 


ATTO  QUINTO  377 

non  lo  facea  conoscere.  Ben  vedevo  io  che  gravava  più  ch'altra 
polvere:  da  equa  procedevano  le  verghette  d'oro.  Oh,  maldetto  '1 
giorno  che  lo  viddi:  io  mi  appiccarrò^.  [291] 

Consalvo.  -  Va  pure  e  fa  presto. 

Bartolomeo.  -  Mi  appiccarrò,  dopo  aver  fatto  appiccar  te, 
barro ^  traditore. 

Consalvo.  -  Hai  mentito  cento  volte  per  la  gola:  va  mi  fa  il 
peggio  che  tu  puoi,  ch'io  non  ti  stimo  un  danaio.  Va,  pazzo, 
pover  pazzo,  cerca  il  pulvis  Christi. 

Bartolomeo.  —  Oimè  che  farro  io?  come  ricuperarrò  li  miei 
scudi  io? 

Consalvo.  -  Fate  come  ha  fatto  lui,  si  possete  trovar  un  al- 
tro ch'abbia  il  cervello  come  voi,  e  la  borsa  come  la  vostra. 

Bartolomeo.  -  Vegliacco:  questo  è  ufficio  di  pari  tuoi. 

Consalvo.  -  Aspetta  un  poco,  che  voglio  farti  uscir  la  paz- 
zia o  '1  vino  dal  naso:  to',  to',  spacca-tornese  1°. 

Bartolomeo.  -  Questo  di  più,  an?  O  cornuto  disonorato 
{zò,  zò). 

Consalvo.  -  Gusta  di  questi  altri,  che  son  più  calzanti  {zò, 
zò,  zò). 

Bartolomeo.  -  Oi  oi,  oimè,  traditor  sassino!  aggiuto  aggiuto! 

MocHiONE.  -  Aggiuto!  aggiuto!  aggiuto!  che  uccide  mio  pa- 
dron  co'  pugni. 

Consalvo.  -  Lascia,  che  ti  voglio  aggiutar  io  a  levarti  la 
pazzia  di  capo  {zò,  zò,  zò,  zò). 

Bartolomeo.  -  Oh,  per  amor  de  Dio,  ch'io  sono  assasinato: 
aggiuto  aggiuto!  [293] 

scena  III 
Sanguino  da  capitan  Palma;  Corcovizzo,  Barra, 
Marca  da  birri;  Bartolomeo,  Consalvo,  Mochione 

Sanguino.  -  Alto:  la  corte!  Che  rumore  è  questo? 
Bartolomeo.  —  Questo  sassino  mi  ha  sassinato  nelle  facultà; 
adesso  mi  assassina  ne  la  persona,  come  vedete. 

8.  Impiccherò. 

9.  Truffatore. 

10.  Spilorcio,  avaraccio. 


378  CANDELAIO 

Sanguino.  -  Legatele  insieme,  e  menatele  priggioni. 

Consalvo.  -  Signor  capitano:  costui  me  vuole  imponere  cose, 
che  sono  aliene  da  uomini  da  bene  come  sono  conosciuto  io. 

Bartolomeo.  -  Andiamo  in  Vicaria,  perché  la  giustizia 
farrà  il  suo  dovere. 

Barra.  -  Caminate  via  presto,  per  che  è  notte. 

Sanguino.  -  Strengile  bene,  che  non  scappino. 

CORCOVizzo.  -  Si  me  scappano,  dite  che  le  ho  liberati  io. 

Sanguino.  -  Strengile  bene  co  la  corda.  Via  via,  andiamo. 

Bartolomeo.  -  Oh,  meschino  me:  e  questo  di  più.  Mo- 
chione,  va  a  Marta,  e  digli  che  doman  mattina  per  tempo  ven- 
ghi  a  trovarmi  in  Vicaria. 

Mochione.  -  Io  vo 
[295]        Sanguino.  -  Caminate  via  in  vostra  mal'ora,  presto. 

scena  IV 
Mochione  solo 

Come  un  «autem  genuit»  tira  l'altro,  e  l'altro  l'altro,  a  l'altro 
l'altro;  e  come  uno  «ex  tribù  et  millia  signati^»,  per  certo  filo 
procede  dall'altro;  e  come  una  cereggia^  tira  l'altra;  cossi  so- 
gliono far  il  più  delle  volte  i  guai  e  gli  inconvenienti,  che  a 
presso  l'uno  viene  l'altro.  Et  è  proverbio  universale  che  le  scia- 
gure mai  vengon  sole.  Mio  padrone,  per  primo  male,  conobbe 
Cencio;  per  il  secondo,  vi  ha  lasciato  seicento  scudi;  per  il  terzo, 
ha  tanto  speso  in  far  provisione  di  bozzole',  fornelli,  carboni  et 
altre  cose  che  concorreno  a  quella  follia;  ha,  per  il  quarto,  perso 
tanto  tempo;  per  il  quinto,  la  fatica;  per  il  sesto,  ha  fatto  que- 
stione, e  farrà,  con  questo  speciale-*;  per  il  septimo,  ha  avanzate 
sin  a  dodici  pugni  fermi  da  bastaggio^;  per  l'ottavo,  è  andato 
priggione;  per  il  nono,  sarrà  qualch'altra  mal'ora  prima  che  esca 
di  carcere,  e  ci  varrà  di  tempo  e  moneta;  per  l'ultimo,  sarrà  di 


1.  Allusione  alla  genealogia  di  Cristo  (Matteo,  I,  1-16)  che  il  sacerdote  legge 
nella  Messa  alla  vigilia  della  festa  dell'Immacolata  Concezione,  e  a  un  passo 
dell'Apocalisse,  VII,  4-8,  che  viene  letto  nella  Messa  della  festa  di  Tutti  i  Santi. 

2.  Ciliegia. 

3.  Stort;e. 

4.  Speziale. 

5.  Facchino. 


ATTO  QUINTO  379 

lui  fatta  comedia  per  questo  maldetto  pulvis  Christi.  —  Mi  par 
veder  messer  Gioan  Bernardo;  costui  deve  aver  intesa  qualche 
cosa:  voglio  udirlo,  che  va  borbottando  da  per  lui.  [297] 

SCENA  V 

Messer  Gioan  Bernardo,  Mochione 

Gioan  Bernardo.  -  Dubito  che  questi  marranchini  1  co  le 
lor  frascherie  sarranno  attenti  a  far  qualch'altro  negocio;  e  non 
farranno  venir  ad  effetto  questo  principale,  se  pur  ne  farranno 
uno  degli  dui:  per  certo  credo  che  la  strappazzarranno.  Olà,  olà 
bel  figlio! 

Mochione.  -  Che  comandate,  messer  Gioan  Bernardo? 

Gioan  Bernardo.  -  Avete  vedute  alcune  persone  equa? 

Mochione.  -  Ne  ho  viste  pur  troppo  alla  mal'ora. 

Gioan  Bernardo.  -  Che  gente  l'era? 

Mochione.  —  Il  capitanio  di  agozzini,  con  tre  zaffi ^  che  han 
menato  mio  padrone  priggione,  insieme  con  Consalvo  speciale: 
per  che  l'han  qui  trovati  a  donarsi  de  pugni,  le  menano  stretta- 
mente legati  in  Vicaria. 

Gioan  Bernardo.  -  Chi  è  vostro  padrone? 

Mochione.  -  Messer  Bartolomeo. 

Gioan  Bernardo.  -  Dumque  è  andato  priggione  messer 
Bartolomeo?  che  disgrazia!  Mio  figlio,  dimmi  un'altra  cosa: 
perché  si  batteva  insieme  col  Consalvo? 

Mochione.  -  Signor,  io  non  so;  vostra  Signoria  mi  perdoni, 
che  io  ho  fretta  di  andar  in  casa. 

Gioan  Bernardo.  -  Or  andate  con  Dio.  [299] 

scena  vi 
Gioan  Bernardo  solo 

Burla  burlando,  questo  frappone'  di  Sanguino  starrà  occu- 
pato per  far  qualche  mariolaria  con  questi  altri  cappeggianti^;  e 


1.  Diminutivo  (con  intenzione  spregiativa)  di  marrani. 

2.  Guardie. 

1.  Ciurmatore,  ingannatore. 

2.  Mariuoli. 


380  CANDELAIO 

tra  tanto  Bonifacio  co  la  moglie  uscirranno  di  casa  de  la  si- 
gnora: et  io  solo  non  potrò  far  cosa  che  vaglia.  Oh,  che  mal 
viaggio  facciano!  Bisognarrà,  a  l'uscita  di  costoro,  che  io  abbia 
modo  de  intrattenergli:  sin  che  possano  costoro,  in  qualche  can- 
tone dove  l'arran  ridutti,  aver  spedito  V«Ave  Maria,  questa 
borsa  è  la  mia;  Ave  Maria,  questa  cappa  è  la  mia»  -  Piaccia  a 
Dio  che  questi  che  veggo  venir  siino  essi'. 

SCENA  VII 

Sanguino,  Barra,  Marca,  Corcovizzo 

Sanguino.  —  Ah!  ah!  ah!  il  fatto  di  costoro  è  come  quel  di 
Cola  Perilloi,  che  si  sentea  male  e  non  sapeva  in  qual  parte  de 
la  persona  si  fusse  il  dolore.  Il  medico  gli  toccava  il  petto  e 
diceva:  «Vi  duol  equa?»;  «Non».  Poi  li  tocca  la  schena:  «Vi  duol 
equa?»;  «Non».  Poi  ne  gli  reni:  «Vi  duol  equa?»;  Non».  Poi  li 
tocca  il  stomaco:  «Vi  duol  equa?»;  «Non».  Al  ventre:  «Vi  duol 
equa?»;  «Non».  A'  coglioni:  «Vi  duolen  forse  questi?»;  «Non».  Il 
medico  disse:  «È  forse  a  questa  gamba?»;  «Signor  non»;  «Vedi 
[301]   di  grazia  che  non  fusse  a  quell'altra». 

Barra.  -  Ah!  ah!  ah! 

Sanguino.  -  Cossi  questi  pover'omini,  essendo  in  nostre 
mani,  si  senteano  male;  e  non  sapeano  dove  lo  si  consistesse. 

Corcovizzo.  -  Quando  messer  Bartolomeo  me  si  sentì  poner 
mano  alla  borsa,  disse:  «Cossi  siete  voi  birri  et  io  priggione  da 
Vicaria,  come  voi  séte  cardinali  et  io  papa.  Prendete  prendete,  e 
buon  prò'  vi  faccia:  per  che  tutto  cavarrò  io  da  questo  mio  so- 
cio». —  «Sì,  sì»  disse  quell'altro,  «cappello  paga  tutto»^. 

Sanguino.  -  E  quell'altro,  quando  gli  toglieste  la  sua,  che 
disse? 

Corcovizzo.  —  Ah!  ah!  ah!  «Corpo  di  nostra  Donna,  la  sen- 
tenza è  data:  ecco  noi  arrivati  in  Vicaria,  eccone  spediti.  Per  la 
grazia  di  santo  Lonardo^  che  gli  voglio  offrire  una  messa  con 

3.  Giovan  Bernardo  interrompe  il  monologo  udendo  avvicinarsi  un  gruppo 
di  persone  in  cui  non  ha  ancora  riconosciuto  Sanguino  e  i  compagni. 

1.  Nome  proverbiale  di  napoletano  sciocco. 

2.  Proverbio  che  significa:  tocca  a  me  pagare. 

3.  Leonardo. 


ATTO  QUINTO  381 

un  collaio  di  ferro:  noi  abbiamo  fatto  il  peccato  e  le  borse  ne 
fanno  la  penitenza». 

Sanguino.  —  E  tu  che  gli  dicesti?  non  parlavi? 

[CoRCOVizzo.]  —  «Noi»  li  dissi,  «per  questa  volta  vi  perdo- 
niamo, e  non  vogliamo  menarvi  in  priggione:  et  acciò  non  vi 
facciate  male  col  battervi,  vogliamo  lasciarvi  equi  legati,  a  fin 
che  non  possiate  darvi  di  pugni  senza  un  terzo;  e  per  che  non  è 
onesto  che  in  questo  bene  che  io  fo  venghi  a  perdere  mia  fatica, 
tempo  et  un  passo  e  mezzo  di  fune"*,  voglio  pagarmi:  e  per  che 
equa  non  è  lume,  aspettatemi  ch'io  venghi  a  ritornarvi  il  re- 
stante». [303] 

SCENA  Vili 

Esce  Gioan  Bernardo 

GiOAN  Bernardo.  -  Ah!  ah!  ah!  che  avete  fatto? 

Sanguino.  —  Abbiamo  castigati  dui  mal  fattori. 

Gioan  Bernardo.  -  Fate  la  giustizia,  che  Dio  vi  agiutarrà. 

Sanguino.  —  Come  quella  d'un  certo  papa  (non  so  se  fusse 
stato  papa  Adriano)  \  che  vendeva  i  beneficii  più  presto  facen- 
done buon  mercato  che  credenza^:  il  quale  era  tutto  il  dì  co  le 
bilancie  in  mano  per  veder  se  i  scudi  erano  di  peso.  Cossi  far- 
remo  noi,  e  vedremo  quanto  ne  viene  a  ciascuno. 

Gioan  Bernardo.  —  Come  le  avete  lasciati  priggioni? 

Sanguino.  -  Con  sicurtà  che  non  si  diano  di  pugni  mentre 
sarran  dui. 

Gioan  Bernardo.  —  Olà  olà,  retiratevi  retiratevi,  che  credo 
che  messer  Bonifacio  viene. 

Sanguino.  -  Olà  Barra,  Marca,  Corcovizzo,  a  dietro,  a  dietro: 
lasciamo  che  prima  raggionino  con  messer  Gioan  Bernardo. 

Gioan  Bernardo.  -  Andate,  che  io  le  aspettarrò  equa  al 
passo.  [305] 

4.  Con  la  fune  venivano  sospesi  per  punizione  e  fatti  cadere  a  terra  con 
violenza  i  malfattori. 

1.  Adriano  VI,  che  fu  papa  dal  1521  al  1524,  olandese,  famoso  per  l'auste- 
rità dei  costumi. 

2.  A  basso  prezzo  piuttosto  che  a  credito.  Si  allude  qui  a  una  delle  molte 
maldicenze  sorte  intomo  al  rigido  pontefice,  poco  amato  dalla  corte  romana 
dopo  gli  splendori  di  Leone  X. 


382  CANDELAIO 

SCENA  IX 

Messer  Bonifacio,  Carubina, 
messer  Gioan  Bernardo 

Bonifacio.  -  Tutto  questo  male  l'ha  fatto  questa  ruffiana 
strega  di  Lucia,  e  quest'altra  puttana  vacca  di  sua  padrona. 
S'hanno  voluto  giocar  di  fatti  miei:  mai  mai  più  voglio  credere 
a  temine:  si  venesse  la  Vergine...  poco  ha  mancato  ch'io  non  di- 
cesse qualche  biastema. 

Carubina.  —  Togli  via  queste  iscusazioni,  scelerato,  che  io  ti 
conosco,  e  le  conosco.  -  Chi  è  costui  che  cossi  dritto  dritto  se  ne 
viene  verso  noi? 

Bonifacio.  -  Questa  è  qualch'altra  diavolo  di  matassa: 
credo  che  questa  ruffianacela  me  ne  abbia  fatte  più  di  quattro 
insieme. 

Gioan  Bernardo.  -  O  io  sono  io,  o  costui  è  io. 

Bonifacio.  -  Questo  è  un  altro  diavolo  più  grande  e  più 
grosso:  non  te  l'ho  detto? 

Gioan  Bernardo.  -  Olà  messer  uomo-da-bene... 

Bonifacio.  -  Questo  ci  mancava  per  la  giunta  di  una  mezza 
libra. 

Gioan  Bernardo.  -  O  là  messer-de-la-negra-barba,  dimmi 
chi  di  noi  dui  è  io:  io  o  tu?  Non  rispondi? 

Bonifacio.  -  Voi  séte  voi,  et  io  sono  io. 

Gioan  Bernardo.  -  Come  «io  sono  io»?  Non  hai  tu,  ladro, 
rubbata  la  mia  persona,  e  sotto  questo  abito  et  apparenzia  vai 
commettendo  di  ribalderie?  come  sei  equa  tu?  che  fai  con  la 
[307I  signora  Vittoria? 

Carubina.  —  Io  son  sua  moglie,  messer  Gioan  Bernardo,  che 
son  venuta  cossi,  per  grazia  che  mi  ha  fatta  una  signora  per 
farmi  convencere  questo  ribaldo. 

Gioan  Bernardo.  -  Dumque  voi  séte  madonna  Carubina, 
voi?  e  costui  come  è  fatto  Gioan  Bernardo? 

Carubina.  —  Io  non  so:  dicalo  lui  che  sa  parlare  et  have  l'età. 

Bonifacio.  -  Et  io  ho  mutato  abito,  per  conoscere'  mia  mo- 
glie. 

I.  Possedere  carnalmente. 


ATTO  QUINTO  383 

Carubina.  -  Tu  hai  mentito,  traditore:  ancora  ardisci  in  mia 
presenza  negare? 

GiOAN  Bernardo.  -  Furfantone,  in  questo  modo  tradisci 
tua  donna,  la  quale  conosco  onoratissima? 

Bonifacio.  -  Di  grazia,  messer  Gioan  Bernardo,  non  ve- 
nemo  a  termini  de  ingiurie:  lasciami  che  io  faccia  i  miei  negocii 
con  mia  moglie. 

Gioan  Bernardo.  -  Come,  ribaldo,  pensi  tu  scappar  dalle 
mie  mani  cossi?  Voglio  veder  conto  e  raggione  di  questo  abito; 
voglio  saper  come  abusate  di  mia  persona.  Tu  puoi  aver  fatte  in 
questa  foggia  mille  ribaldarie,  le  quali  sarranno  attribuite  ad 
me,  si  non  starrò  in  cervello. 

Bonifacio.  -  Io  vi  priego,  perdonatime;  perché  non  ho  fatto 
altro  fallo...  che  con  mia  moglie:  il  quale  non  è  cognito  ad  altro 
che  alla  signora  Vittoria,  e  quei  di  sua  casa,  che  hanno  cono- 
sciuto che  sono  io. 

Carubina.  -  Fatelo  per  amor  mio,  messer  Gioan  Bernardo: 
non  fate  che  questo  passe  oltre.  [309] 

Gioan  Bernardo.  —  Perdonatemi,  madonna,  che  è  impossi- 
bile che  io  faccia  passar  questa  cosa  cossi  di  leggiero.  Io  non  so 
che  cosa  abbia  egli  fatto:  però  non  so  che  cosa  io  gli  debbia 
perdonare. 

Bonifacio.  -  Andiamo,  andiamo,  Carubina. 

Gioan  Bernardo.  -  Ferma,  ferma,  barro:  che  tu  non,  non 
mi  scapparrai. 

Bonifacio.  —  Lasciami,  ti  priego,  si  non  vogliamo  venire  a  i 
denti  et  a  le  mani. 

Carubina.  -  Misser  Gioan  Bernardo  mio,  ti  priego  per  l'onor 
mio. 

Gioan  Bernardo.  -  Signora,  sarrà  intiero  l'onor  vostro,  per 
che  non  può  esser  male  quel  che  voi  avete  fatto:  ma  io  voglio 
veder  del  torto  che  costui  ha  fatto  a  voi  et  ad  me. 

Bonifacio.  -  Tu  non  m'impedirrai. 

Gioan  Bernardo.  -  Tu  non  mi  scapparrai. 


384  CANDELAIO 

SCENA  X 

Sanguino,  Barra,  Marca,  Corcovizzo, 
Gioan  Bernardo,  Carubina,  Bonifacio 

Sanguino.  -  Olà,  olà,  alto:  la  corte!  Che  rumori  son  questi? 

Bonifacio.  -  A  l'altra!  -  Siate  li  ben  venuti,  signori;  vedete 
che  io  mi  sono  incontrato  con  quest'uomo  vestito  di  mia  foggia, 
caminando  con  mia  moglie:  viene  a  fame  violenza.  Io  mi  que- 
relo di  lui. 

Gioan  Bernardo.  -  Tu  hai  mentito,  scelerato;  e  ti  provarrò 
[311]   per  questo  vestimento  che  porti,  che  tu  sei  un  falso. 

Sanguino.  -  Che  diavolo:  son  dui  gemini  ^  che  fanno  a  que- 
stione. 

Barra.  —  Questi  tre,  insieme  con  la  femina,  faranno  dui  in 
carne  una-. 

Marca.  —  Credo  che  cercano  chi  de  lor  dui  è  esso,  per  essere 
il  marito  de  la  femina. 

Sanguino.  -  Questa  deve  essere  qualche  sollenne  imbroglia: 
menatele  priggioni  tutti,  tutti. 

Gioan  Bernardo.  -  Signore,  non  dovete  menar  in  priggione 
altro  che  costui,  non  me. 

Sanguino.  -  Via,  via,  sciagurato,  tu  sarrai  il  primo. 

Gioan  Bernardo.  -  Di  grazia,  signor  Palma,  non  mi  fate 
questo  torto,  perché  son  persona  onorata:  io  son  Gioan  Ber- 
nardo pittore,  omo  da  bene. 

Corcovizzo.  -  Signor  capitano,  vedete  che  non  mostra  diffe- 
renza l'uno  dall'altro. 

Carubina.  -  Signor  capitan  Palma,  viva  la  verità:  questo 
stravestito  è  mio  marito  messer  Bonifacio;  quest'altro  è  messer 
Gioan  Bernardo.  Questa  è  la  verità  che  non  si  può  ascondere. 

Gioan  Bernardo.  -  E  per  confirmazione,  vedete  si  quella 
barba  è  la  sua. 

Bonifacio.  -  Io  confesso  che  è  posticcia;  ma  lo  ho  fatto  per 
certo  disegno  per  cose  che  passano  tra  me  e  mia  moglie. 


1.  Gemelli. 

2.  Battuta  oscena,  con  allusione  alla  Genesi,  II,  24:  «Erunt  duo  in  carne 
una»  («Saranno  due  in  una  sola  carne»). 


ATTO  QUINTO  385 

CORCOVizzo.  —  Ecco  la  barba  equa  di  questo  uomo  da  bene 
nelle  mie  mani.  [313] 

Sanguino.  —  Dimmi,  uomo  da  bene,  è  la  barba  tua  questa? 

Barra.  —  Signor  sì,  è  la  sua:  per  che  l'have  comprata. 

Sanguino.  —  Adesso  conoscemo  che  costui  è  falso:  menate 
dumque  lui  preggione  con  la  femina.  Et  a  voi,  messer  Gioan 
Bernardo,  da  parte  della  Gran  Corte  de  la  Vicaria  comandiamo 
che  domani,  ad  ore  quattordici',  doviate  trovarvi  avante  il  gio- 
dice  ordinario  per  la  informazione  di  questo  fatto:  sotto  pena  di 
cento  cinquanta  scudi. 

Gioan  Bernardo.  —  Io  non  mancarrò,  signore  Palma:  sa  vo- 
stra Signoria  che  questo  non  lo  deve  nisciuno  cercare  più  di  me, 
al  quale  è  fatta  ingiuria;  e  mi  protesto  "•  per  le  ribalderie  che  può 
aver  commesse  costui  sotto  questo  abito. 

Sanguino.  -  La  giustizia  non  mancarrà. 

Carubina.  —  Et  io  misera  ancora  debbo  esser  vituperata  et 
andar  priggione,  per  aver  voluto  apprendere  ^  questo  scelerato 
di  mio  marito? 

Gioan  Bernardo.  —  Signore  capitano:  io  risponderrò,  e  vi 
dono  assicuranza  per  questa  madonna,  la  quale  conosco  onora- 
tissima,  benché  sii  sua  moglie;  e  lei  non  è  partecipe  in  questo 
fatto. 

Sanguino.  —  Voi  vi  dovereste  contentare  che  lasciamo  vo- 
stra persona.  Costei  non  andava  insieme  con  suo  marito?... 

Gioan  Bernardo.  -  Signor  sì. 

Sanguino.  —  ...  dumque  verrà  insieme  con  lui.  [315] 

Carubina.  —  Ma  io  non  ero  consapevole:  io  lo  ho  cercato  e 
ritrovato  in  fallo;  et  ora  me  ne  venevo  dalla  casa  della  signora 
Vittoria,  riprendendolo  per  questo  maldetto  fatto;  e  si  ve  piace, 
sarrà  equi  tutto  il  mondo  che  non  vi  dirrà  cosa  che  m'incolpi: 
andiamo  dalla  signora  Vittoria,  e  gli  altri  di  sua  casa. 

Gioan  Bernardo.  -  Vi  assicuro,  signor,  che  non  è  errore  dal 
canto  di  madonna;  e  si  vi  fusse,  io  mi  dono  ubligato  ad  ogni 
satisfazzione  per  lei.  A  me  basta  solo,  e  fo  instanzia,  che  costui 

3.  L'azione  della  commedia  si  immagina  avvenire  verso  la  metà  di  aprile, 
quindi  le  ore  quattordici  corrispondono  alle  nove  del  mattino,  poiché  le  ore  si 
contavano,  al  tempo  del  Bruno,  da  un  tramonto  all'altro. 

4.  Mi  querelo  in  giudizio. 

5.  Sorprendere. 


386  CANDELAIO 

vada  in  preggione  solamente:  e  da  madonna  Carubina  io  non 
pretendo  altro;  e  di  nuovo  vi  priego  che  la  lasciate  andare. 

Sanguino.  -  Par  che  apertamente  non  costa  delitto  dal 
canto  suo:  la  rimetto  a  vostra  preciaria'',  con  questo,  che  ad  voi 
...  come  vi  chiamate? 

Carubina.  -  Carubina,  al  servizio  di  vostra  Signoria. 

Sanguino.  -  ...  a  voi  madonna  Carubina,  da  parte  della 
Gran  Corte  della  Vicaria  facciamo  comandamento  che  domani, 
ad  ore  quattordeci,  vi  doviate  trovare  avant'il  giodice  ordinario 
per  la  informazione  di  questo  fatto:  sotto  pena  di  sessanta  scudi. 

Carubina.  -  Sarrò  ubedientissima,  secondo  il  mio  devere. 

Bonifacio.  -  Vi  accorgerrete,  messer  Gioan  Bernardo,  che  io 
non  vi  ho  tanto  offeso,  quanto  vi  pensate. 

Gioan  Bernardo.  -  Tutto  se  vedrà. 

Sanguino.  -  Or  su  andiamo,  non  più  dimora;  videte  che 
non  fugga;  depositatelo  con  quel  mastro  di  scola:  per  che  poi  le 
menarremo  in  corte. 

Bonifacio.  -  Di  grazia  legatemi:  fate  ancor  questo  piacere  a 
mia  moglie  et  ad  messer  Gioan  Bernardo. 

Sanguino.  —  Fate  pur  che  non  fugga.  Via,  bona  notte. 

Gioan  Bernardo.  -  Buona  notte  e  buon  anno  a  vostra  Si- 
gnoria, signore  capitano,  e  la  compagnia. 

SCENA  XI 

Gioan  Bernardo,  Carubina 

Gioan  Bernardo.  -  Vedi,  ben  mio,  che  gran  torto  fa  questo 
pazzacone  a  vostre  divine  bellezze:  non  vi  par  giusto  che  egli  sii 
pagato  della  medesma  moneta? 

Carubina.  -  Si  lui  non  fa  quel  che  gli  conviene,  io  non 
debbo  far  il  simile. 

Gioan  Bernardo.  -  Parrete,  cor  mio,  quel  che  conviene, 
quando  non  farrete  altro  che  quello  che  farrebbe  ogni  persona 
di  giudicio  e  sentimento  che  vive  in  terra.  Voglio,  ben  mio,  che 
sappiate  che  questi  che  lo  tengono  non  sono  birri,  ma  certi 
compagnoni  galant'omini  miei  amici:  per  li  quali  lo  farremo 
trattare  come  a  noi  piace.  Ora  dimorarrà  Uà;  e  tra  tanto  che 

6.  Garanzia. 


ATTO  QUINTO  387 

questi  fingono  altri  negocii,  prima  che  menario  in  Vicaria,  an- 
darrà  un  ceri;o  messer  Scaramuré,  il  quale  fingerrà  di  acordar  ^ 
questa  cosa:  con  questo,  che  si  umilii  a  noi,  che  siamo  stati  da 
lui  offesi,  e  che  doni  qualche  cortesia  a  questi  compagni;  non 
perché  loro  si  curino  di  questo,  ma  per  far  la  cosa  più  verisi- 
mile: e  vostra  Signoria  non  verrà  a  perdere  cosa  alcuna. 

Carubina.  -  Io  mi  accorgo  che  voi  siete  troppo  scaltrito,  che 
avete  saputo  tessere  tutta  questa  tela:  io  comprendo  adesso 
molte  cose.  [319] 

GiOAN  Bernardo.  —  Vita  mia,  io  son  tale  che  per  vostro  ser- 
vicio  mi  gettarrei  in  mille  precipicii.  Or  poi  che  mia  fortuna  e 
bona  sorte  (la  quale  piaccia  a  gli  dèi  che  voi  la  confirmiate)  ha 
permesso  ch'io  vi  sii  cossi  a  presso  come  vi  sono,  vi  priego  per  il 
fervente  amore,  che  sempre  vi  ho  portato  e  porto,  che  abbiate 
pietà  di  questo  mio  core  tanto  profonda  et  altamente  impiagato 
da  vostri  occhii  divini.  Io  son  quello  che  vi  amo,  io  son  quello 
che  vi  adoro:  che  si  m'avessero  concesso  gli  cieli  quello  che  a 
questo  sconoscente  e  sciocco  (che  non  stima  le  mirabile  vostre 
bellezze)  han  conceduto,  giamai  nel  petto  mio  scintilla  d'altro 
amore  arrebe  avuto  luoco,  come  anche  non  ha. 

Carubina.  —  Oimè,  che  cose  io  veggio  e  sento?  a  che  son  io 
ridutta? 

GiOAN  Bernardo.  —  Priegovi,  dolce  mia  diva,  si  mai 
fiamma  d'amor  provaste  (la  quale  in  petti  più  nobili,  generosi  et 
umani  suol  sempre  avere  più  loco),  che  non  prendiate  a  mala 
parte  quel  che  dico;  e  non  credete,  né  caschi  già  mai  nella 
mente  vostra,  che  per  poco  conto  ch'io  faccia  del  vostro  onore 
(per  cui  spargerrei  mille  volte  il  sangue  tutto)  cerchi  quel  che 
cerco  da  voi:  ma  per  appagar  l'intenso  ardore  che  mi  consuma, 
il  qual  però  né  per  essa  morte  ^  posso  credere  che  giamai  si 
possa  sminuire. 

Carubina.  -  Oimè,  messer  Gioan  Bernardo,  io  ho  ben  tenero 
il  core:  facilmente  credo  quel  che  dite,  benché  siino  in  prover- 
bio le  lusinghe  d'amanti;  però  desidero  ogni  consolazion  vostra: 
ma  dal  canto  mio  non  è  possibile  senza  pregiudizio  del  mio 
onore. 


1.  Sistemare. 

2.  Per  la  morte  stessa. 


388  CANDELAIO 

GiOAN  Bernardo.  -  Vita  della  mia  vita,  credo  ben  che  sap- 
[321]  piate  che  cosa  è  onore,  e  che  cosa  anco  sii  disonore.  Onore  non  è 
altro  che  una  stima,  una  riputazione:  però  sta  semper  intatto 
ronore,  quando  la  stima  e  riputazione  persevera  la  medesma. 
Onore  è  la  buona  opinione  che  altri  abbiano  di  noi:  mentre  per- 
severa questa,  persevera  l'onore.  E  non  è  quel  che  noi  siamo  e 
quel  [che]  noi  facciamo,  che  ne  rendi  onorati  o  disonorati,  ma  sì 
ben  quel  che  altri  stimano  e  pensano  di  noi. 

Carubina.  -  Sii  che  si  vogli  de  gli  omini,  che  dirrete  in  con- 
spetto de  gli  angeli  e  de'  santi,  che  vedeno  il  tutto,  e  ne  giudi- 
cano? 

GiOAN  Bernardo.  -  Questi  non  vogliono  esser  veduti  più  di 
quel  che  si  fan  vedere;  non  vogliono  esser  temuti  più  di  quel 
che  si  fan  temere;  non  vogliono  esser  conosciuti  più  di  quel  che 
si  fan  conoscere. 

Carubina.  -  Io  non  so  quel  che  vogliate  dir  per  questo;  que- 
ste paroli  io  non  so  come  approvarle,  né  come  riprovarle:  pur 
hanno  un  certo  che  d'impietà. 

GiOAN  Bernardo.  -  Lasciamo  le  dispute,  speranza  del- 
l'anima mia.  Fate  (vi  priego)  che  non  in  vano  v'abbia  prodotta 
cossi  bella  il  cielo:  il  quale,  benché  di  tante  fattezze  e  grazie  vi 
sii  stato  liberale  e  largo,  è  stato  però  dall'altro  canto  a  voi 
avaro,  con  non  giongervi  ad  uomo  che  facesse  caso  di  quelle;  et 
ad  me  crudele,  col  farmi  per  esse  spasimare,  e  mille  volte  il 
giorno  morire.  Or,  mia  vita,  più  dovete  curare  di  non  farmi  mo- 
rire, che  temer  in  punto  alcuno,  che  si  scemi  tantillo^  del  vostro 
onore.  Io  liberamente  mi  ucciderrò  (si  non  sarrà  potente  il  do- 
lore a  farmi  morire)  si  avendovi  avuta,  come  vi  ho,  comoda  e 
tanto  presso,  di  quel  che  mi  è  più  caro  che  la  vita  dalla  crudel 
fortuna  rimagno  defraudato.  Vita  di  questa  alma  afflitta,  non 
[323]  sarrà  possibile  che  sia  in  punto  leso  il  vostro  onore,  degnandovi 
di  darmi  vita:  ma  sì  ben  necessario  ch'io  muoia,  essendomi  voi 
crudele. 

Carubina.  —  Di  grazia  andiamo  in  luoco  più  remoto,  e  non 
parliamo  equi  di  queste  cose. 

GiOAN  Bernardo.  -  Andiamo,  dolcezza  mia,  che  vengono  di 
persone. 

3.  Un  pochetto. 


ATTO  QUINTO  389 

SCENA  XII 

Consalvo  e  Bartolomeo 
attaccati  insieme  con  le  mani  dietro 

Consalvo.  —  Camina  in  tua  mal'ora,  becco  cornuto:  arri- 
viamo queste  gente  che  ne  sciolgano. 

Bartolomeo.  —  Oh,  che  ti  venga  il  cancaro,  castronaccio  pa- 
dre de  becchi:  mi  hai  fatto  cadere. 

Consalvo.  -  Oimè,  la  coscia. 

Bartolomeo.  -  Vorrei  che  t'avessi  rotto  il  collo;  ecco  siamo 
caduti:  or  alzati  adesso. 

Consalvo.  -  Alziamoci. 

Bartolomeo.  —  Al  tuo  dispetto,  voglio  star  cossi  tutta  que- 
sta notte:  testa  di  cervo. 

Consalvo.  —  Alziamoci,  che  non  possi  alzarti  né  mo'^  né 
mai. 

Bartolomeo.  -  Or  dormi,  perché  sei  colcato.  Vedi,  poltrone, 
quanto  per  te  ho  patito,  e  patisco. 

Consalvo.  -  E  patirrai. 

Bartolomeo.  -  Cornuto  coteconaccio^,  fuuuh!  [325 1 

Consalvo.  -  Oimè,  mi  mordi,  an?  Giuro  per  san  Cuccufato^, 
che  si  tu  vuoi  giocare  a  mordere,  ti  strepparò  il  naso  di  faccia,  o 
ver  un'orecchia  di  testa. 

scena  XIII 

Scaramuré,  Consalvo,  Bartolomeo 

Scaramuré.  -  Vorrei  sapere  che  uomini  son  questi,  che  cossi 
colcati  fanno  a  questione. 

Consalvo.  -  Alziamoci,  porco:  sarremo  peggio  svergognati  si 
sarremo  trovati  cossi. 

Bartolomeo.  —  Quasi  che  fai  gran  conto  di  essere  svergo- 
gnato. I  travi  non  ti  danno  fastidio,  ma  sì  ben  il  pelo'. 


1.  Ora. 

2.  Villano  ostinato. 

3.  Santo  spagnolo,  entrato  nelle  esclamazioni  popolari  per  la  bizzarria  del 
nome. 

I.  Allusione  al  detto  evangelico  del  trave  dell'occhio  proprio  non  visto  da 
chi  vede  il  fuscello  nell'occhio  altrui  (Matteo,  VII,  3). 


390  CANDELAIO 

Consalvo.  -  S'io  avesse  le  mani  libere,  ti  farrei  cridare  ag- 
giuto  di  altra  sorte,  che  non  cridaste  un'altra  volta.  Non  ti  vói 
alzare? 

Bartolomeo.  —  Io  ti  ho  detto  che  voglio  dimorar  tutta  que- 
sta notte  cossi. 

ScARAMURÉ.  -  Ah!  ah!  ah!  questi  certo  sono  stati  attaccati 
insieme,  co  le  mani  ad  dietro:  l'uno  si  vuol  alzare  e  l'altro  non. 
Uno  de  dui  mi  par  tutto  messer  Bartolomeo  alla  voce:  ma  è 
impossibile,  perché  veggo  che  son  mascalzoni  in  camiso^.  Olà 
imbreachi!^  che  avete,  che  fate  cossi  Uà? 

Consalvo.  -  0  messer  gentil  omo,  vi  priego,  venete  a 
[327]  sciòme.  O  messer  Scaramuré,  séte  voi? 

Bartolomeo.  -  Io  vi  priego,  lasciatene  cossi. 

Scaramuré.  -  O  là  messer  Bartolomeo,  e  voi  messer  Con- 
salvo, non  mi  possevo  imaginar  che  voi  fuste:  che  caso  strano  é 
questo?  dui  uomini  saggi  in  questo  modo?  state  e  perfidiate''  in 
questa  foggia?  siete  impazziti? 

Bartolomeo.  -  Peggio  dirrete  quando  saprete  che  mi  sono 
appiccato:  di  grazia  non  ne  sciogliete. 

Scaramuré.  -  Lascia  lascia  far  ad  me.  Come  passa  questo 
negocio? 

Consalvo.  —  Io  avevo  paroli  con  costui:  siamo  venuti  a  pu- 
gni. Corsero  certi  marioli  in  fazzone^  di  birri  al  rumore;  ne  le- 
gomo  come  ne  volessero  menar  in  Vicaria;  quando  fummo  ad 
Maiella*^,  ne  svoltomo^  l'altre  mani  a  dietro  in  questa  forma 
che  vedete,  a  culo  a  culo;  e  per  la  prima,  ne  levomo  le  borse  e  si 
partimo;  poi  ricordatosi  meglio,  ritomomo  dui  di  essi,  e  ne  le- 
vomo i  mantelli  e  le  berrete;  e  ne  hanno  scuciti  gli  panni  di 
sopra  con  un  rasoio.  Dopo'  siamo  noi  partiti,  et  abbiamo  di- 
scorso sin  tanto  che  viddi  un  omo  et  una  donna  in  questo  loco. 
Volsi  affrettarmi  per  chiamarli  o  giongerli;  et  al  tirar  che  feci  di 
questo  buon  omo,  ... 

Bartolomeo.  -  E  tu  sei  una  buona  bestia,  un  buon  bue. 


2.  Camicia. 

3.  Ubriachi. 

4.  Spergiurate. 

5.  Veste,  aspetto. 

6.  La  chiesa  e  il  convento  di  San  Pietro  a  Maiella. 

7.  Legarono  dietro. 


ATTO  QUINTO  39I 

ScARAMURÉ.  -  Avete  torto  ad  ingiuriarvi  cossi. 

Consalvo.  —  ...  al  tirar  che  feci  di  costui,  cascò  come  un 
asino  che  porta  troppo  gran  soma:  et  ha  fatto  cascar  ancora  me;  [329] 
e  per  perfìdia  non  si  vuole  alzare. 

ScARAMURÉ.  -  Alzatevi  adesso,  che  séte  sciolti.  La  troppo  cò- 
lerà fa  l'uomo  pazzo  e  furioso.  Or  su,  non  voglio  saper  più  di 
vostre  raggioni,  perché  é  notte.  Guardate  di  battervi:  perché  il 
primo  di  voi  che  si  moverrà,  ne  arra  dui  centra.  Voi  messer 
Consalvo,  prendete  quel  camino;  e  voi  messer  Bartolomeo,  que- 
st'altro. 

Bartolomeo.  -  Sì,  sì,  passarrà  questa  notte:  domani  ci  reve- 
derremo  con  questo  amico. 

Consalvo.  -  A  rivederci  da  ora  a  cent'anni.  Bona  notte  a 
voi,  messer  Scaramuré. 

SCARAMURÉ.  -  A  dio,  andate. 

Bartolomeo.  -  Adio.  —  O  povero  Bartolomeo,  quando  sarrò 
appiccato,  son  certo  che  sarrò  libero:  che  più  disastri  non  me  si 
aggiongerranno. 

SCENA  XIV 

Scaramuré  solo 

Questo  diavolo  di  Sanguino  è  conosciuto  come  la  falsa  mo- 
neta: e  con  tutto  ciò  si  sa  maneggiare  ^  di  tal  sorte,  che  in  certo 
modo  il  capitan  Palma  medesmo  non  si  saprebbe  rapresentar 
meglio  che  come  lo  rapresenta  lui.  Guarda  guarda  come  tratta 
queste  povere  bestie.  Or  mentre  messer  Gioan  Bernardo  negocia 
lui  da  un  canto,  io  voglio  far  di  modo  che  questo  buon  cristiano 
non  solo  non  si  lamenti  di  me,  ma  che  me  si  tenga  ubligato. 
Ecco  qua  la  porta  della  academia  di  marioli.  {Tò,  tò,  tò).  [331] 

SCENA  XV 

Corcovizzo,  Scaramuré,  Sanguino,  messer  Bonifacio 

CORCOVizzo.  -  Chi  è  alla,  chi  è? 

Scaramuré.  —  Sono  Scaramuré,  al  vostro  servizio. 

I.  Fare,  combinare  maneggi,  affari  complicati. 


392  CANDELAIO 

CoRCOVizzo.  -  Che  Scaramuré?  che  nome  di  Zingano!  ^  che 
volete?  che  séte  voi? 

Scaramuré.  -  VogHo  dir  una  parola  al  signor  capitan 
Palma. 

CoRCOVizzo.  -  È  occuppato:  pur  aspetta  un  poco,  che  li  dirrò 
si  ve  vuole  udire. 

Scaramuré.  -  Ah!  ah!  ah!  come  son  prattichi  della  sua  arte 
costoro:  l'arte  di  mariolare  have  li  suoi  termini  e  regole  come 
tutte  l'altre. 

Sanguino.  -  Chi  è?  olà. 

Scaramuré.  -  Amico. 

Sanguino.  -  O  amico,  o  parente,  o  creato,  o  paesano,  vieni 
domani  in  Vicaria. 

Scaramuré.  -  Di  grazia  uditemi,  per  che  è  necessario  ch'io 
vi  parli  per  questa  sera. 

Sanguino.  -  Chi  séte  voi? 

Scaramuré.  -  Son  Scaramuré. 

Sanguino.  —  Non  vi  conosco:  pure,  che  cercate? 

Scaramuré.  —  Vorrei  pregarvi  di  una  cosa  che  importa. 

Sanguino.  -  Aspettate  che  da  equa  ad  un'ora  voglio  con- 
[333]   dure  certi  priggioni  in  Vicaria,  e  mi  parlarrai  per  il  camino. 

Scaramuré.  -  Io  vi  supplico,  si  é  possibile  venete  qui:  che 
voglio  dirvi  cose  d'importanza,  che  non  vi  dispiacerrà  saperle. 

Sanguino.  —  Voi  séte  troppo  fastidioso.  Aspettate  che  de- 
scenderrò. 

Scaramuré.  —  Ah!  ah!  ah!  gli  altri  son  professi  o  baccalau- 
rei^:  costui  é  dottore  e  maestro;  credo  che...  -  Oh,  veggo  messer 
Bonifacio  alla  fenestra. 

Bonifacio.  -  Eh,  messer  Scaramuré,  vedete  dove  sono  io? 
Voi  sapete  quel  che  voglio  dire. 

Scaramuré.  -  Non  più,  non  più:  questa  é  la  causa  che  mi  ha 
fatto  venir  equa. 

Sanguino.  -  Levati  via  da  quella  fenestra  in  tua  mal'ora, 
porco  presuntuoso:  chi  ti  ha  data  licenzia  di  accostarti  alla  fe- 
nestra e  parlare? 


1.  Zingaro. 

2.  Professo  è  chi  ha  fatto  professione  dei  voti  religiosi;  baccalaureo  è  il  bac- 
celliere, lo  scolaro  che  ha  raggiunto  il  primo  grado  universitario. 


ATTO  QUINTO  393 

Bonifacio.  -  Signor  capitano,  vostra  Signoria  mi  perdona, 
io  me  ritiro. 

ScARAMURÉ.  —  Ah!  ah!  ah!  ah!  voi  séte  tanti  diavoli.  Io  adesso 
ho  sciolti  messer  Bartolomeo  e  Consalvo,  che  non  si  possevano 
alzar  da  terra,  si  mordevano,  arrabiavano,  si  davano  del  becco 
cornuto... 

Sanguino.  -  Ah!  ah!  ah!  e  si  sapessi  gli  altri  propositi  che 
passamo  con  messer  Bonifacio  et  il  pedante,  rideresti  altri- 
mente. 

SCARAMURÉ.  -  La  vostra  comedia  è  bella:  ma  in  fatti  di  co- 
storo, è  una  troppo  fastidiosa  tragedia. 

Sanguino.  —  In  conclusione  ne  vogliamo  mandare  il  pe- 
dante de  po'^  avergli  graffati*^  quelli  altri  scudi  che  gli  son  ri- 
masti dentro  la  giornea.  Or  parlate  a  Bonifacio  et  accomodatelo 
con  noi.  [335] 

Scaramuré.  —  Farro  prima  certe  scuse  con  esso  lui.  Farro  che 
lui  mi  mandi  a  pregar  messer  Gioan  Bernardo  che  gli  perdoni; 
e  lo  farro  venire,  e  dimandar  perdono  a  lui  et  a  lei;  e  tutti  in- 
sieme dimandaremo  a  voi  grazia  di  Icisciarlo  libero:  e  credo  che 
vi  farrà  ogni  partito^,  per  téma  che  non  lo  menate  in  Vicaria. 

Sanguino.  —  Or  su,  non  si  perda  tempo.  Io  lo  farro  venire 
cossi  legato  a  basso;  e  vi  darrò  comodità  di  parlargli  come  in 
secreto. 

Scaramuré.  -  Fate,  ch'io  aspetto. 

SCENA  XVI 

Sanguino,  Barra,  Marca,  Bonifacio,  Scaramuré 

Sanguino.  —  Olà  Coppino':  sta  in  cervello,  che  costui  non 
fugga. 

Barra.  -  Non  dubitate,  signore. 

Sanguino.  -  E  voi  Panzuottolo^,  guardate  da  quell'altro 
passo. 

3.  Dopo. 

4.  Sottratti,  portati  via 

5.  Si  adatterà  a  ogni  soluzione. 

1.  Finto  nome  di  Barra. 

2.  Finto  nome  di  Marca. 


394  CANDELAIO 

Marca.  -  Cossi  fo. 

Sanguino.  -  Discostatevi  un  poco,  fate  che  possa  parlar  co- 
stui con  questo  uomo  da  bene  a  suo  bel  comodo.  Voi  altro,  mes- 
ser...  non  posso  retenir  il  vostro  nome... 

ScARAMURÉ.  —  Scaramuré,  al  servicio  di  vostra  Signoria. 

Sanguino.  -  ...  voi  messer  Scaramuré,  parlate  a  costui  in 
questo  angolo,  remoti. 

Scaramuré.  -  Ringrazio  vostra  Signoria  per  infinite  volte. 

Sanguino.  -  Mi  basta  una  grazia  per  una  volta. 

Scaramuré.  -  Che  ha  detto  vostra  Signoria? 

Sanguino.  -  Basta  basta. 

scena  xvii 
Scaramuré,  messer  Bonifacio 

Scaramuré.  -  Messer  Bonifacio,  accostatevi. 

Bonifacio.  -  Uh,  uh,  uh,  misero  me,  quante  confusioni  oggi: 
vedete  che  frutti  raccolgo  di  miei  amori  e  di  vostri  consegli, 
messer  Scaramuré. 

Scaramuré.  -  Oh,  reniego'...  che  mi  vien  voglia  di  toccar  un 
de  santi  più  grandi  di  paradiso. 

Bonifacio.  -  Chi,  san  Cristoforo?^  uh,  uh,  uh... 

Scaramuré.  -  Io  dico  non  il  più  grande  e  grosso,  ma  un  di 
que'  baroni';  ma  basta  la  litania  de  santi  che  ho  detta  all'ora, 
subbito  che  seppi  questa  cosa:  ma  in  luoco  di  dire  «  Ora  prò  no- 
his»,  io  li  ho  mandate  tante  blasfeme  a  tutti  (fuor  ch'a  san  Leo- 
nardo, della  cui  grazia  al  presente  abbiam  bisogno)  che  si  per 
ogni  peccato  io  debbo  star  sette  anni  in  purgatorio,  solo  per  i 
peccati  miei  da  due  ore  in  equa,  bisogna  ch'il  giorno  del  Giudi- 
ciò  aspetti  più  di  diece  milia  anni,  prima  che  venga. 

Bonifacio.  -  Fate  errore  a  blasfemare. 

Scaramuré.  -  Che  volete  ch'io  facesse  considerando  il  vo- 
stro danno  e  disonore,  e  che  par  ch'io  vi  abbia  affrontato'',  e  che 


1.  Bestemmia  interrotta. 

2.  Che  è  rappresentato  di  statura  gigantesca. 

3.  I  santi  principali,  più  importanti. 

4.  Offeso. 


ATTO  QUINTO  395 

si  questa  cosa  va  avanti,  possemo  venire  a  termine  di  essere 
minati  voi  et  io. 

Bonifacio.  —  Come  lo  avete  saputo? 

ScARAMURÉ.  —  Come  sapea  le  cose  lontane  Apollonio ',  Mer- 
lino e  Malaggigi?"^ 

Bonifacio.  -  Io  vi  intendo.  Piaccia  al  cielo  che  con  questa 
arte  mi  possi  liberare  da  le  mani  di  costoro. 

Scaramuré.  -  Lasciami  fare,  ch'io  non  son  venuto  per  altro 
che  per  rimediare  a  questo.  Ma  ditemi  prima  un  poco  le  vostre 
cose.  Pensate  voi  che  senza  arte  ho  ridutto  costui  a  donarmi 
facultate  di  parlarti  cossi  come  ti  parlo  in  secreto,  che  essi  ne 
guardino  solamente  di  lontano?  sai  che  non  sogliono  simil 
gente  concedere  anco  a  quelli  che  conoscono  et  hanno  per 
amici? 

Bonifacio.  —  Per  certo  che  io  ne  ho  avuto  un  poco  di  mara- 
viglia. 

Scaramuré.  —  Ho  proceduto  con  umiltà,  preghiere  e  scon- 
giuri, et  un  scudo.  Ma  prima  che  procediamo  ad  altro,  ditemi,  vi 
priego,  vostri  affari. 

Bonifacio.  —  Che  volete  ch'io  vi  dichi?  Ecco  (sfortunato  me) 
che  mi  han  fatto  i  vostri  rimedii  e  ricette.  Ecco  l'amor  di  quella 
puttana,  ecco  la  malignità  di  quella  ruffianacela  di  Lucia,  che  [341] 
mi  ha  fatto  credere  cose  che  non  mi  arrebbe  possute  dare  ad 
intendere  anco  il  patriarca  del  concistoro  de  diavoli:  io  voglio 
spendere  vinticinque  scudi  a  fargli  marcare  il  volto  ^. 

Scaramuré.  —  Guarda  bene  che  non  è  stata  la  colpa  di  co- 
stei, né  della  signora  Vittoria,  né  mia  (per  che  credo  che  pensi 
peggio  di  me  che  de  gli  altri,  benché  non  vogli  dirlo),  ma  la 
vostra  forse. 

Bonifacio.  —  Di  grazia  vedete  si  possete  persuadermi  questo. 

Scaramuré.  —  Séte  voi  certo  che  quei  capelli  ch'io  vi  diman- 
dai per  porgli  alla  testa  dell'imagine,  erano  della  signora  Vitto- 
ria? 

Bonifacio.  -  Son  certo  del  cancaro  che  si  mangi  quella  ba- 
gassa di  mia  fortuna:  i  capelli  son  di  mia  mogliera  (che  gli  va- 

5.  Di  Tiana;  vissuto  nel  I  secolo  d.  C,  ebbe  fama  di  mago. 

6.  Sono  i  celebri  maghi  dei  poemi  cavallereschi. 

7.  La  pena  dei  ruffiani  era  il  marchio  di  fuoco  sul  volto. 


396  CANDELAIO 

dano  mille  mal'  anni,  a  compartirseli  con  colui  che  pensò  di 
darmela,  con  quel  che  mi  portò  la  prima  nova,  e  quel  prete 
schiricato^  che  la  sposò);  quelli  raccolsi  io  destramente  sabbato 
a  sera,  quando  si  pettinava. 

ScARAMURÉ.  -  Or  ecco  come  io  ho  intesa  la  verità. 

Bonifacio.  -  Da  chi? 

SCARAMURÉ.  -  Da  chi  la  sa,  et  ha  possuto  dirmela:  ho  di- 
mandato capelli  di  vostra  moglie  io? 

Bonifacio.  -  Signor  non;  ma  mi  dimandaste  i  capelli  di 
donna. 

ScARAMURÉ.  -  Io  vi  dissi,  in  nome  del  diavolo,  i  capelli  de  la 
[343]  donna,  e  non  i  capelli  di  donna  indifferentemente:  eravamo 
forse  in  proposito  di  far  qualche  pippata''  per  le  bambine? 

Bonifacio.  -  E  qual  differenza  fate  voi  tra  i  capelli  di 
donna  et  i  capelli  de  la  donna? 

SCARAMURÉ.  -  Quella  che  saprebbono  far  i  putti  quando  co- 
minciano ad  aver  l'uso  di  raggione:  non  eravamo  noi  in  propo- 
sito di  far  la  imagine  in  suo  nome? 

Bonifacio.  -  Per  dir  la  verità,  non  posso  io  avere  quella 
capacità  che  avete  voi.  Talvolta  voi  pensate  di  dar  a  bastanza 
ad  intendere  la  cosa  ad  un  altro  per  che  la  intendete  voi:  e  non 
è  sempre  cossi. 

ScARAMURÉ.  -  Or  ecco  la  maldetta  causa  ch'have  imbro- 
gliato l'effetto  de  l'incanto:  la  cera  è  stata  scelta  et  incantata  in 
nome  di  Vittoria;  la  imagine  è  stata  formata  in  suo  nome;  i  ca- 
pelli poi  erano  di  tua  moglie:  da  equa  è  avenuta  questa  confu- 
sione. Tua  moglie  in  casa  di  Vittoria:  tua  moglie  è  stata  tirata  ^°; 
Vittoria  è  stata  inamorata.  Tua  moglie  co  i  vestimenti  di  Vitto- 
ria; Vittoria  senza  i  suo'  vestimenti.  Tua  moglie  in  loco  de  Vit- 
toria, in  casa  de  Vittoria,  in  letto  di  Vittoria,  in  veste  di  Vitto- 
ria; Vittoria  solamente  si  bruggia  et  arde  per  voi:  e  per  sola  vo- 
stra esistimazione  è  stata  gionta  con  voi.  E  Vittoria  e  Lucia,  e 
quella  tua  moglie,  tutti  stanno  estremamente  maravigliate.  Lu- 
cia se  ricorda  di  avere  portato  a  tua  moglie  li  vestimenti  della 
signora  Vittoria,  e  non  se  ricorda  come,  e  non  sa  dire  che  cosa 

8.  Spretato. 

9.  Bambola 

10.  Trascinata  a  forza  per  opera  di  magia. 


ATTO  QUINTO  397 

l'ha  spinta  ad  farlo.  La  signora  Vittoria  è  estremamente  stupita, 
come  voi  vestito  da  messer  Gioan  Bernardo,  con  vostra  moglie 
vestita  di  sue  vesti,  e  con  lei  vi  siate  trovati  in  suo  letto;  come  a 
quell'ora  si  son  trovate  tutte  le  porte  aperte  per  voi  e  vostra 
moglie,  e  Lucia  stordita  a  condur  lei  e  voi;  e  lei  con  altre  fante 
e  garzoni  trovarsi  occupata  dentro  la  sala,  che  non  s'arrebbe  [345] 
possuto  partire  insino  a  certo  termine.  Vostra  moglie  ancora  ve- 
derete  che  è  rimasta  attonita:  che  non  sa  la  raggione  di  quel 
ch'ha  fatto  circa  il  vestirse  di  quell'abito,  et  essersi  menata  in 
quella  stanza. 

Bonifacio.  -  Questo  è  uno  intrecciamento  troppo  grande. 

ScARAMURÉ.  -  Tutto  quel  che  ha  causato  questa  confusione, 
più  destintamente  l'intenderete  quando  sarremo  fuor  di  questi 
intrichi. 

Bonifacio.  -  Mi  maraveglio;  ma  un  dubio  mi  resta:  per  che 
mia  moglie,  come  è  venuta  in  loco  della  signora  Vittoria  per  lo 
effetto  che  se  è  adimpito  in  lei  e  non  in  quella,  in  causa  che  mi 
doveva  amare,  mi  ha  fatti  di  strazii  che  non  si  derrebono  aver 
fatti  ad  un  cane? 

ScARAMURÉ.  -  Non  vi  ho  detto  che  tua  moglie,  in  virtù  de 
gli  capelli  ch'eran  sui,  è  stata  solamente  attirata  in  quella 
stanza;  ma  non  posseva  essere  inamorata,  perché  la  cera  non  è 
stata  scelta,  formata,  puntata  e  scaldata  in  suo  nome? 

Bonifacio.  -  Adesso  son  capace  del  tuttofi:  prima  non 
avevo  bene  inteso. 

SCARAMURÉ.  —  Or  su,  basta:  abbiamo  troppo  discorso  circa 
questo  negocio.  Veggiamo  di  far  di  modo  di  donar  qualche  cosa 
a  costoro  et  uscirgli  da  le  mani;  che  fingano  che  séte  fuggito  o 
qualch'altro  partito  prendano:  per  che  l'altre  cose  poi  facilissi- 
mamente potranno  accomodarsi. 

Bonifacio.  —  Io  non  mi  ritrovo  più  di  otto  scudi  sopra '^;  e  li 
ne  prometterrò,  si  sarrà  duro'^  a  volerne,  di  vantaggio.  [347] 

ScARAMURÉ.  -  Oh,  non  vi  credeno^''  per  all'ora  che  gli  sar- 
rete  uscito  da  le  mani. 

Bonifacio.  —  Gli  lasciarrò,  oltre,  il  mantello  e  le  anella  che 

11.  Ho  capito  tutto  l'accaduto. 

12.  Addosso. 

13.  Insistente. 

14.  Fanno  credito. 


398  CANDELAIO 

ho  nelle  dita.  E  credo  che  col  vostro  dire  farran  per  meno:  per- 
ché costoro  per  un  scudo  rinegarebono  Cristo  e  la  madre,  e  la 
madre  della  madre. 

SCARAMURÉ.  —  Voi  non  conoscete  il  capitan  Palma. 

SCENA  XVIII 

Sanguino,  Scaramuré,  Bonifacio,  [Marca],  [Barra] 

Sanguino.  -  Vorrei  sapere  quando  sarran  finiti  questi  vostri 
raggionamenti:  abbiamo  da  star  ad  aspettar  voi  tutta  questa 
notte  equa? 

Scaramuré.  —  Vostra  Signoria  ne  perdoni  si  l'abbiamo  dato 
troppo  fastidio,  facendola  tanto  aspettare.  Or  poi  che  si  è  de- 
gnata di  farci  tanto  di  favore,  la  supplicamo  che  ne  ascolta  una 
parola. 

Sanguino.  —  Non  più,  non  più:  è  ora  d'andare  in  Vicaria; 
domani  potremo  parlar  a  bell'aggio.  Andiamo  andiamo:  olà 
Panzuottolo,  Coppino. 

Bonifacio.  -  Oimè,  Dio  aggiutami,  santo  Leonardo  glorioso. 

Scaramuré.  -  Fatene  questa  grazia  per  amor  de  Dio,  signor 
capitano. 

Bonifacio.  -  Et  io  ve  ne  prego  co  le  braccia  in  croce. 

Sanguino.  -  Or  su,  ho  comportato  tanto:  posso  comportar 
un  altro  poco. 

Scaramuré.  —  Signor  mio,  quel  tanto  che  noi  vogliamo  farvi 
intendere  è  questo:  che  a  vostra  Signoria  non  può  rendere  gio- 
vamento alcuno  la  confusione  di  questo  povero  gentil  uomo; 
ma  sì  ben  si  farrà  un  perpetuo  e  servitore  e  schiavo,  tanto  me 
quanto  lui,  si  accettando  una  piccola  offerta  ne  farrà  grazia  di 
donargli  libertà  che  si  parta. 

Sanguino.  —  Io  me  imaginavo  bene  che  tu  eri  venuto  per 
questa  prattica,  con  speranza  di  subornare  la  giustizia:  mi  ma- 
raviglio assai  della  tua  temerità,  uomo  di  pochissima  con- 
scienza, in  sperare  di  farmi  uscir  di  mano  un  priggione  di 
quella  importanza  che  può  esser  questo  uomo.  Forse  che  non 
l'ho  detto  a  questi  miei  famigli?  Però  io  ti  ho  data  questa  bal- 
danza e  ti  ho  sentito  parlare:  per  aver  occasione  di  castigarti  del 
tuo  fallo,  e  farti  essere  essempio  a  gli  altri;  et  acciò  ne  sii  più 


ATTO  QUINTO  399 

certo,  verrai  priggione  insieme  con  lui  a  mano  a  mano.  Olà  Cep- 
pino. 

Barra.  —  Signore,  che  comandate? 

Sanguino.  —  Porta  equa  per  legar  quest'altro  uomo  da  bene. 

ScARAMURÉ.  —  Di  grazia  signor  Palma,  vostra  Signoria  mi 
ascolti  prima. 

Bonifacio.  —  Signor  mio,  per  amor  de  Dio,  per  tutti  li  cori 
de  li  angeli,  per  la  intemerata  Vergine,  per  tutta  la  corte  cele- 
stiale io  vi  priego... 

Sanguino.  —  Alzati  via,  ch'io  non  voglio  essere  adorato:  non 
son  io  re  di  Spagna,  né  gran  Turco. 

Bonifacio.  —  ...  io  vi  priego,  abbiate  compassion  di  me  e  non 
entriate  in  còlerà;  e  ricordatevi  che  tutti  siamo  peccatori  et 
avemo  bisogno  della  misericordia  di  Dio,  il  quale  ne  promette   [351] 
tante  misericordie  quante  noi  ne  facciamo  ad  altri. 

Sanguino.  —  Un  scelerato  come  costui  sarrebbe  un  predica- 
tore si  avesse  studiato.  -  Li  errori  bisogna  che  si  castighino,  sai 
tu? 

Bonifacio.  —  Si  tutti  li  errori  si  castigassero,  in  che  consi- 
sterrebbe  la  misericordia? 

Sanguino.  —  Va  in  mal'ora,  che  io  ho  altro  da  fare  che  di 
disputare. 

SCARAMURÉ.  —  Tacete  voi  messer  Bonifacio:  lasciate  dir  a 
me.  —  Signor  Palma,  non  abbia  giamai  permettuto  Dio,  che  io 
avesse  voluto  tentar  questo  con  pregiudicio  della  giustizia,  e  di- 
sonor  di  vostra  Signoria:  la  quale,  circa  le  cose  che  apparten- 
gono alla  giustizia,  è  conosciuta  sincerissima  da  tutto  Napoli. 

Sanguino.  —  Lasciamo  da  canto  queste  adulazioni:  non  sono 
io  che  fo  misericordia  o  rigore,  giustizia  o  ingiustizia,  ma  gli 
miei  superiori.  Sai  bene  che  il  mio  ufficio  è  solo  di  far  condurre 
priggione  i  mal  fattori,  over  i  pretenduti  mal  fattori;  del  resto  io 
non  posso  impacciarmi. 

Bonifacio.  -  Oimè  povero  me. 

SCARAMURÉ.  -  Signormo\  si  vostra  Signoria  ascolta,  spero 
che  mi  essaudirrà. 

Sanguino.  -  Io  non  mi  prendo  còlerà  e  fantasia  per  passa- 

I.  Signor  mio. 


400  CANDELAIO 

tempo;  abbiate  dumque  buone  raggioni  come  mi  promettete:  al- 
trimente  non  dormirrete  in  vostro  letto  questa  notte. 

Bonifacio.  -  O  Cristo,  aggiutami. 

ScARAMURÉ.  —  Vostra  Signoria  sa  che  in  Italia  non  è  come  in 
[353]  certi  paesi  oltramontani  dove  (o  sii  per  la  freddezza  di  quelli,  o 
sii  per  gran  zelo  delle  povere  anime,  o  per  sordida  avarizia  di 
quei  che  administrano  la  giustizia)  sono  perseguitati  que'  che 
vanno  a  cortiggiane.  Cqua,  come  in  Napoli,  Roma  e  Venezia, 
che  di  tutte  sorte  di  nobilita  son  fonte  e  specchio  al  mondo 
tuto,  non  solamente  son  permesse  le  puttane,  o  corteggiane 
come  vogliam  dire... 

Sanguino.  —  Mi  par  vedere  che  costui  loda  le  tre  città  per 
esservi  bordelli  et  essemo  copiose  di  puttane:  questo  paradosso 
non  è  de  gli  ultimi. 

ScARAMURÉ.  —  La  priego  che  mi  ascolti.  Non  solamente,  dico, 
son  permesse,  tanto  secondo  le  leggi  civili  e  monicipali,  ma 
ancora  sono  instituiti  i  bordelli,  come  fussero  claustri^  di  pro- 
fesse^. 

Sanguino.  —  Ah!  ah!  ah!  ah!  questa  è  bella:  or  mai  vorrà  co- 
stui che  sii  uno  degli  400  maggiori,  o  degli  quattro  Ordini  mi- 
nori ■*;  e  per  un  bisogno,  vi  instituirrà  la  abbatessa,  ah!  ah! 

ScARAMURÉ.  —  Di  grazia  ascoltatemi:  equi  in  Napoli  ab- 
biamo la  Piazetta,  il  Fundaco  del  Cetrangolo,  il  Borgo  di  Santo 
Antonio,  una  contrada  presso  Santa  Maria  del  Carmino'.  In 
Roma,  perché  erano  disperse,  nell'anno  1569^  sua  Santità  or- 
[355]  dinò  che  tutte  si  riducessero  in  uno,  sotto  pena  della  frusta:  e  li 
destinò  una  contrada  determinata,  la  quale  di  notte  si  fermava 
a  chiave";  il  che  fece  non  già  per  vedere  il  conto  suo  circa  quel 
eh'  appartiene  alla  gabella^,  ma  acciò  si  potessero  distinguere 
dalle  donne  oneste,  e  non  venessero  ad  contaminarle.  Di  Vene- 
zia non  parlo:  dove  per  magnanimità  e  liberalità  della  illustris- 

2.  Chiostri. 

3.  Religiose,  monache. 

4.  Sanguino  fa  una  gran  confusione  fra  ordini  religiosi  e  il  sacramento  del- 
l'ordine, e,  naturalmente,  esagera  iperbolicamente  sul  numero  degli  ordini  esi- 
stenti. 

5.  Scaramuré  elenca  i  quartieri  di  Napoli  dove  abitavano  le  meretrici. 

6.  In  realtà,  il  provvedimento  di  Pio  V  fu  preso  nel  1566. 

7.  Si  chiudeva. 

8.  Ufficio  a  cui  dovevano  essere  iscritte  le  meretrici,  pagavano  una  tassa 
mensile  e  potevano  deferire  le  loro  questioni. 


ATTO  QUINTO  4OI 

sima  Republica  (sii  che  si  voglia  di  alcuni  particulari  messeri 
arcinf anf ali  ^  clarissimi,  che  per  un  bezzo ''^  si  farrebbono  ca- 
strare, per  parlar  onestamente)  ivi  le  puttane  sono  esempte  ^  '  da 
ogni  aggravio;  e  son  manco  soggette  a  leggi  che  gli  altri:  quan- 
tumque  ve  ne  siino  tante  (per  che  le  cittadi  più  grandi  e  più 
illustre  più  ne  abondano)  che  bastarebbono  in  poco  anni,  pa- 
gando un  poco  di  gabella,  ad  far  un  altro  tesoro  in  Venezia 
forse  come  l'altro.  Certo  se  il  Senato  volesse  umiliarsi  un  poco  a 
far  come  gli  altri,  si  farrebbe  non  poco  più  ricco  di  quel  ch'è: 
ma  per  che  è  detto  «in  sudore  vultui  ti»'^^,  e  non  «in  sudore  delle 
povere  potte»,  si  astengono  di  farlo.  Oltre  che,  alle  prefate '^  put- 
tane portano  grandissimo  rispetto,  come  appare  per  certa  ordi- 
nanza novamente  fatta  sotto  grave  pena,  che  non  sii  persona 
nobile  o  ignobile,  di  qualunche  grado  e  condizion  ch'ella  sii, 
ch'abbia  ardire  di  ingiuriarle  e  dirgli  improperii  e  villanie:  il 
che  mai  si  fé'  per  altra  sorte  di  donne... 

Sanguino.  -  Ah!  ah!  ah!  non  viddi  più  bel  sofista  di  costui.  [357] 
—  Tu  me  la  prendi  troppo  larga  e  lunga;  e  mi  pare  che  ti  burli 
di  me  e  di  questo  povero  omo  ch'aspetta  il  frutto  della  tua  ora- 
zione, o  leggenda,  o  cronica  (non  so  che  diavolo  la  sii):  ma  pur 
concludi  presto,  ch'io  ti  supportarrò  un  altro  poco. 

Bonifacio.  -  Ti  priego,  parla  a  mio  proposito:  che  hai  da  far 
di  Venezia,  Roma  e  Napoli? 

ScARAMURÉ.  -  Concludo,  signor,  che  in  queste  tre  città  con- 
siste la  vera  grandezza  di  tutta  Italia:  per  che  la  prima  di  quel- 
l'altre tutte  che  restano,  è  di  gran  lunga  inferiore  a  l'ultima  di 
queste. 

Bonifacio.  -  Oimè  che  mi  vien  voluntà  di  cacare. 

Sanguino.  -  Ah!  ah!  aspetta,  buon  omo,  veggiamo  dove  va  a 
calar  costui  al  fine. 

Scaramuré.  -  La  conclusione  è  che  le  puttane  in  Napoli, 
Venezia  e  Roma,  ideste  in  tutta  Italia,  son  permesse,  faurite^'^, 
han  sui  statuti,  sue  leggi,  sue  imposizioni,  et  ancora  privileggii... 

9.  Persona  presuntuosa  e  ignorante. 

10.  Moneta  veneziana  di  poco  valore. 

11.  Esenti. 

12.  Scaramuré  storpia  le  parole  della  Genesi,  III,  19:  «In  sudore  vultus  lui 
vesceris»  («Ti  nutrirai  col  sudore  della  tua  fronte»). 

13.  Nominate  prima,  citate  più  sopra. 

14.  Favorite. 


402  CANDELAIO 

Sanguino.  —  Devi  dire  «come  privileggii». 

ScARAMURÉ.  -  E  però  consequentemente  non  si  toglie  fa- 
cultà  a  persone  di  andar  a  corteggiane,  e  non  son  persequitate 
dalla  giustizia... 

Sanguino.  —  Io  comincio  ad  intendere  costui. 

Bonifacio.  —  Et  io:  si  va  accostandola^  laude  e  gloria  a  no- 
stra Donna  di  Loreto '^ 

SCARAMURÉ.  —  ...  e  non  solamente  questo;  ma  ancora  gelosis- 
[359]  simamente  la  giustizia  si  astiene  di  procedere,  perseguitare  e 
comprendere  ^''  quelli  che  vanno  a  donne  di  onore:  per  che  con- 
siderano i  nostri  principi  esser  cosa  da  barbari  di  prendere  le 
coma  che  un  gentil  omo,  un  di  stima  e  di  qualche  riputazione 
abbia  in  petto,  et  attaccarglile  nella  fronte.  Però,  sii  l'atto  noto- 
rio quanto  si  voglia,  non  si  suol  procedere  contra:  eccetto 
quando  la  parte  (la  qual  semper  suol  essere  di  vilissima  condi- 
zione) non  si  vergogna  di  fame  instanzia.  Quanto  alle  parte 
onorate,  la  giustizia  verrebbe  a  farli  grandissimo  torto  et  ingiu- 
ria; per  che  non  contrapesa  il  castigo  che  si  dà  a  colui  che 
pianta  le  coma,  et  il  vituperio  che  viene  a  fare  ad  un  personag- 
gio, facendo  la  sua  vergogna  publica  e  notoria  a  gli  occhi  di 
tutto  il  mondo:  sì  che  è  maggior  l'offesa  che  patisce  da  la  giu- 
stizia, che  del  delinquente;  e  ben  che  nientemanco  il  mondo 
tutto  lo  sapesse,  tutta  via  sempre  le  coma  con  l'atto  de  la  giu- 
stizia dovengono  più  sollenne  e  gloriose.  Ogn'uomo  dumque  ca- 
pace di  giudicio  considera  che  questo  dissimular  che  fa  la  giu- 
stizia, impedisce  molti  inconvenienti:  per  che  un  cornuto  e 
svergognato  coperto  (se  pur  un  tale  può  esser  ditto  cornuto  o 
svergognato,  di  cui  l'esistimazione  non  è  corrotta),  per  téma  di 
non  essere  discoperto,  o  per  minor  cura  ch'abbia  di  quelle  coma 
che  nisciun  le  vede  (le  quali  in  fatto  son  nulla),  si  astiene  di  far 
quella  vendetta:  la  quale  sarrebbe  ubligato  secondo  il  mondo 
di  fare,  quando  il  caso  a  molti  è  manifesto.  La  consuetudine 
dumque  d'Italia  et  altri  non  barbari  paesi,  dove  le  coma  non 
vanno  a  buon  mercato,  non  solamente  comporta  e  dissimula 
tali  eccessi,  ma  anco  si  forza  di  coprirli:  onde  in  certo  modo  son 

15.  Al  problema,  alla  questione  principale. 

16.  La  santa  casa  della  Madonna,  miracolosamente  trasportata  a  Loreto. 

17.  Arrestare. 


ATTO  QUINTO  4O3 

da  lodare  quei  che  permettono  i  bordelli,  per  li  quali  si  ripara  a 
massimi  inconvenienti,  che  possono  accadere  in  nostre  parti... 

Sanguino.  —  Concludi  presto,  vi  dico.  [361] 

Bonifacio.  -  Oimè,  mi  fa  morir  di  sete;  mi  viene  il  parasi- 
simo^^. 

ScARAMURÉ.  -  Finalmente,  dico  a  vostra  Signoria  che  l'ec- 
cesso di  messer  Bonifacio  è  stato  per  conto  di  donna:  la  quale,  o 
sii  puttana,  o  sii  d'onore,  non  deve  esser  caggione  che  lui,  che  è 
uomo  di  qualche  stima  e  nobile... 

Bonifacio.  —  Io  so^*^,  mi  par,  gentil  omo  del  seggiolo  di  San 
Paulo. 

ScARAMURÉ.  —  ...  sii  visto  priggione  et  celerà:  onde  potrebono 
ancor  altri  venir  ad  essere  gravemente  vituperati.  A  vostra  Si- 
gnoria che  è  persona  discreta,  credo  che  basti  d'aver  udito  que- 
sto, per  intendere  tutto  il  caso. 

Sanguino.  -  Si  questo  è  per  causa  di  donne,  io  son  molto 
mal  contento  che  costui  mi  sii  venuto  nelle  mani:  e  mi  scuso 
avanti  a  Dio  et  il  mondo,  che  non  è  mia  intenzione  di  ponere  in 
compromisso  l'onor  di  persona  vivente.  Ma  voglio  che  sappi  tu, 
e  lui  medesmo  mi  può  esser  testimonio  e  la  compagnia  pre- 
sente, che  a  questa  cosa  non  posso  riparare  io.  Costui  mi  è  stato 
posto  nelle  mani  da  un  certo  messer  Gioan  Bernardo  pittore,  il 
quale  lui  contrafacea  con  una  barba  posticia,  et  ancora  contrafà 
con  la  biscappa  che  gli  vedi;  e  la  barba  è  equa  in  mano  di  no- 
stri famegli:  la  quale  si  volete  vedere  come  gli  sta  bene,  verrete 
domani  a  14  ore  in  Vicaria,  che  potrete  ridere  quando  le  con- 
frontarremo  insieme  co  le  barbe.  [363] 

Bonifacio.  —  O  povero  me:  eh,  per  amor  de  Dio  agiutatemi. 

Sanguino.  —  Or  quel  pover  omo  da  bene  fa  istanzia  alla  giu- 
stizia, per  eccessi  che  costui  può  aver  fatti  e  pretenduti  di  fare 
in  forma  e  specie  di  sua  persona:  onde  possa  per  l'avenire  aversi 
qualche  pretensione  contra  colui,  da  qualche  parte  lesa,  per  ec- 
cessi che  abbia  commesi  costui. 

Bonifacio.  -  Signor,  di  questo  non  è  da  dubitare. 

Sanguino.  —  Omo  da  bene,  non  sono  io  che  dubito:  sì  che 

18.  Il  parossismo,  un  attacco  di  nervi. 

19.  Io  sono. 

20.  Quartiere. 


404  CANDELAIO 

comprendete  voi,  e  sappia  ogn'uno,  ch'io  non  lo  tengo  e  meno 
in  Vicaria  per  mio  bel  piacere,  ma  per  che  ne  ho  da  render 
conto;  e  colui  è  molto  scalfato^'  contra  di  questo:  et  è  appare- 
chiato  doman  mattina  di  far  gli  suoi  atti  contra  il  presente;  ol- 
tre, la  sua  femina  anco  si  lamenta;  e  messer  Gioan  Bernardo  e 
la  donna  mi  potrebbono  dare  gran  fastidio. 

SCARAMURÉ.  —  Della  donna  non  si  dubita. 

Sanguino.  —  Anzi  di  quella  io  dubito  più:  queste  per  gelosia 
sogliono  strapazzar  la  vita  et  onor  proprio  e  di  mariti.  Or  dum- 
que  considerate  voi  messeri,  che  cosa  posso  far  io  per  voi:  posso 
aver  compassion  de  lui,  ma  non  agiutarlo. 

ScARAMURÉ.  -  Signor  capitano,  vostra  Signoria  parla  come 
un  angelo. 

Bonifacio.  —  Come  un  evangelista:  non  si  può  dir  meglio; 
santamente. 

Sanguino.  —  Or  su  dumque  andiamo.  Panzuottolo,  fa  che 
[365]  venghi  abasso  quel  magister,  e  spediamoci. 

ScARAMURÉ.  —  Signor  capitanio,  io  dono  una  nova  a  vostra 
Signoria. 

Sanguino.  -  Che  nova? 

SCARAMURÉ.  —  Io  mi  confido  di  far  di  modo  (si  ne  vuol  far 
tanto  di  grazia  di  aspettar  un  mezzo  quarto  d'ora)  di  riconci- 
liare quel  messer  Gioan  Bernardo  con  messer  Bonifacio. 

Bonifacio.  —  Oh,  che  piacesse  a  Dio,  e  potessi  far  questo. 

Sanguino.  -  Voi  ne  date  la  berta:  questo  è  impossibile. 

SCARAMURÉ.  —  Anzi  è  necessario:  quando  lui  saprà  come  la 
cosa  passa,  io  credo  che  et  cetera.  Io  li  son  tanto  amico  che,  si  l'è 
colcato^^^  lo  farro  levare  e  lo  farro  venir  equa,  e  farro  de  modo 
che  si  accordino  insieme;  ma  bisogna  che  voi  messer  Bonifacio 
li  chiedete  perdono,  e  gli  facciate  qualche  degna  satisfazzione  di 
parole  et  atti  d'umiltà:  per  che  veramente  lui  può  presumere 
che  l'abbiate  molto  offeso. 

Bonifacio.  —  Cossi  è;  io  mi  offero  di  baciargli  i  piedi  et  es- 
sergli amico  et  ubligato  in  perpetuo,  si  me  perdona  questo  fallo 
e  non  mi  espone  alla  vergogna:  non  solamente  a  lui...  uh,  uh, 

21.  Scaldato,  irritato. 

22.  Coricato. 


ATTO  QUINTO  405 

uh...  ma  ancora  a  vostra  Signoria,  signor  capitanio  mio,  uh,  uh, 
uh... 

Sanguino.  —  Alzati,  non,  non  mi  baciar  i  piedi  sin  tanto 
ch'io  non  sii  papa. 

Bonifacio.  —  ...  a  vostra  Signoria  sarrò  ubligato  si  in  questo 
fatto  mi  aggiutarrà  dandone  comodità  per  un  poco  di  tempo  di 
trattar  questo  accordo.  Et  a  voi  messer  Scaramuré,  vi  priego  co 
le  viscere  del  core  et  anima  mia,  trattate  questo  negocio  calda- 
mente, che  la  vita  mia  vi  sarrà  in  perpetuo  ubligatissima.  [367] 

Scaramuré.  -  Io  mi  confido  assai,  almeno  di  condurlo  sotto 
qualche  pretesto  sin  equa:  e  quando  vi  sarrà,  farremo  tanto  co 
la  vostra  umiltà  et  intercessione  del  signor  capitanio  (si  ne  vuol 
tanto  faurire)  e  mie  persuasioni,  che  la  cosa  non  passarrà 
avanti;  et  è  anco  necessario  che  non  sii  ingrato  alla  generosità 
del  signor  capitano. 

Sanguino.  —  Oh,  io  non  mi  curo  di  questo  quanto  a  me:  bi- 
sognarà  sì  ben  far  qualche  buona  cortisia  a  questi  mei  famegli, 
al  meno  per  chiudergli  la  bocca.  Oltre  che,  non  mi  basta  questo: 
voglio  che  si  riconcilii  ancora  con  la  sua  femina,  e  che  dimanda 
mercé  a  lei  cossi  bene  come  a  quell'altro;  e  quando  vedrò  quelli 
dui  contenti  e  satisfatti,  io  non  procederrò  oltre:  per  che  non 
posso  far  di  non  aver  compassione  ancor  io  di  questo  povero 
messer  Bonifacio. 

Bonifacio.  —  Signor  mio,  eccome  equa  tutto  in  anima  e 
corpo  al  servizio  vostro;  per  li  compagni,  dico  per  questi  fame- 
gli, ecco  equa  le  anella,  tutto  quel  ch'ho  dentro  questa  borsa,  e 
questa  maldetta  biscappa,  che  per  ogni  modo  me  la  voglio  levar 
di  sopra. 

Sanguino.  -  Basta  basta,  voi  fate  il  conto  senza  l'oste  (come 
se  dice):  di  tutto  questo  non  sarrà  nulla,  si  vostra  mogliera  e 
messer  Gioan  Bernardo  non  si  contentano. 

Bonifacio.  -  Io  spero  che  si  contentarranno.  Andate,  vi 
priego,  messer  Scaramuré  mio. 

Scaramuré.  -  Io  lo  guidarrò  sin  equa  sotto  qualch'altro  pre- 
testo che  non  potrà  mancare.  Vostra  moglie  son  certo  che  per 
suo  onore  ancora  non  mancarrà  di  venire. 

Sanguino.  -  Andate  e  fate  presto,  si  volete  che  vi  aspet- 
tiamo. [369] 


406  CANDELAIO 

SCARAMURÉ.  -  Signor,  non  è  troppo  lontano  da  equa  l'uno  e 
l'altra.  Io  verrò  quanto  prima. 

Sanguino.  -  Fate  che  siamo  presto  risoluti  del  sì  o  '1  non:  e 
non  mi  fate  aspettare  in  vano. 

SCARAMURÉ.  -  Vostra  Signoria  non  dubiti. 

Bonifacio.  —  O  santo  Leonardo  glorioso,  agiutami. 

Sanguino.  —  Andiamo,  ritorniamo  dentro,  ch'aspettarremo 
un  poco  Uà. 

scena  XIX 

Gioan  Bernardo,  Ascanio 

GiOAN  Bernardo.  -  Tanto  che,  figliol  mio,  tornando  al  pro- 
posito, è  opinion  comone,  che  le  cose  son  talmente  ordinate,  che 
la  natura  non  manca  nel  necessario,  e  non  abonda  in  soverchio. 
Le  ostreche  non  han  piedi:  per  che  in  qual  si  voglia  parte  del 
mar  che  si  trovino,  han  tutto  quel  che  basta  a  lor  sustenta- 
mento;  per  che  d'acqua  sola,  e  del  caldo  del  sole  (la  cui  virtute 
penetra  in  sino  al  profondo  del  mare),  si  mantengono.  Le  talpe 
ancora  non  hann'occhii;  perché  la  lor  vita  consiste  sotto  terra,  e 
non  vivono  d'altro  che  di  terra,  e  non  posson  perderla.  A  chi 
non  have  arte,  non  si  danno  ordegni. 

Ascanio.  -  Cossi  è  certissimo.  Ho  udito  dire  che  un  certo 
censore  dell'opre  di  Giove  che  si  chiama  Momo'  (per  che  son 
[371]  per  tutto  necessarii  questi  che  parlan  liberamente:  prima, 
perché  i  principi  e  giodici  s'accorgano  de  gli  errori  che  fanno, 
e  non  conoscono  mercé  di  poltroni  e  vilissimi  adulatori;  se- 
condo, perché  temino  di  far  una  cosa  più  ch'un'altra;  terzo, 
perché  la  bontà  e  virtù,  quando  ha  contrario,  si  fa  più  bella, 
manifesta  e  chiara,  e  si  confirma  e  si  rinforza),  questo  censor 
dumque  di  Giove... 

Gioan  Bernardo.  -  Costui  non  è  nominato  per  un  de  primi 
e  meglior  dèi  del  cielo:  per  che  questi  che  han  più  corte  le  brac- 
cia, per  l'ordinario  han  la  lingua  più  lunga. 

Ascanio.  -  ...  questo  censor  di  Giove,  in  quel  tempo  dispu- 
tando con  Mercurio  (il  quale  è  stato  ordinato  interprete  e  cau- 


I.  Dio  del  riso  e  dei  motteggi,  che  personificava,  nella  mitologia  greca,  lo 
scherzo  e  la  satira. 


ATTO  QUINTO  4O7 

sidico^  di  dèi),  venne  ad  interrogarlo  in  questa  foggia:  «O  Mer- 
curio, più  ch'ogni  altro  sofista,  falso  persuasore  e  ruffiano  de 
l'Altitonante:  essendo  bene  secondo  le  occasioni  et  esigenze  di 
venti  che  soffiano,  o  più  o  meno  frenar,  allentar,  alzar  e  stender 
vela,  onde  avviene  che  quest'arbore  di  nave  non  ha  scotta?^  Il 
dirrò  più  per  volgare:  perché  la  potta  (parlando  con  onore  del- 
l'oneste orecchie)  non  ha  bottoni?»;  a  cui  rispose  Mercurio:  «Per- 
ché (parlando  co  riverenza)  il  cazzo  non  have  unghie  da  spun- 
tarla'»». 

GiOAN  Bernardo.  -  Ah!  ah!  ah!  che  debberò  dir  gli  altri  dèi 
all'ora? 

AsCANio.  -  La  casta  Diana  e  pudica  Minerva  voltomo  la 
schena,  e  se  n'andaron  via;  et  un  de  disputanti  disse:  «Vadano 
in  bordello»;  arrebbe  detto  «Vadano  al  diavolo»,  ma  in  quel  [373] 
tempo  non  era  ancor  memoria  di  quest'uomo  da  bene.  —  Sì  che, 
a  confirmazion  di  quel  che  voi  dite,  quantumque  costui  ha 
mosse,  muove  e  moverrà  (come  è  stato  per  il  passato,  et  è  al 
presente,  e  sarrà  per  l'avenire)  tante  questioni,  già  mai  potrà 
provare  errore  nelle  cose  ordinate  da  natura  et  intellecto,  si  non 
che  in  apparenza. 

GiOAN  Bernardo.  -  Voi  la  intendete  bene.  Tutti  gli  errori 
che  accadeno,  son  per  questa  fortuna  traditora:  quella  ch'ha 
dato  tanto  bene  al  tuo  padrone  Malefacio^,  e  me  l'ha  tolto.  Que- 
sta fa  onorato  chi  non  merita,  dà  buon  campo  a  chi  noi  semina, 
buon  orto  a  chi  noi  pianta,  molti  scudi  a  chi  non  le  sa  spendere, 
molti  figli  a  chi  non  può  allevarli,  buon  appetito  a  chi  non  ha 
che  mangiare,  biscotti  a  chi  non  ha  denti.  Ma  che  dico  io?  deve 
esser  iscusata  la  poverina  per  che  è  cieca,  e  cercando  per  donar 
gli  beni  ch'have  intra  le  mani,  camina  a  tastoni;  e  per  il  più 
s'abbatte  a  sciocchi,  insensati  e  furfanti:  de  quali  il  mondo  tutto 
è  pieno.  Gran  caso  è  quando  tocca  di  persone  degne  che  son 
poche;  più  grande  si  tocca  una  de  più  degne  che  son  più  poche; 

2.  Avvocato. 

3.  La  manovra  corrente  o  fune  che  serve  per  spiegare  e  distendere  le  vele 
(ma  tutta  la  battuta  di  Momo  è  oscena:  quest'arbore  di  nave  è,  naturalmente,  il 
membro  virile). 

4.  Sbottonarla. 

5.  Gioan  Bernardo  ironizza  sul  nome  di  Bonifacio,  or  che  tanti  guai  ha 
combinato. 


408  CANDELAIO 

grandissimo  et  estra  ogni  ordinario,  tanto  ch'abbi  tastato^, 
quanto  ch'abbia  a  tastare  un  de  dignissimi  che  son  pochissimi. 
Dumque  si  non  è  colpa  sua,  è  colpa  de  chi  l'ha  fatta.  Giove 
niega  d'averla  fatta:  però  o  fatta  o  non  fatta  ch'ella  sii,  o  non  ha 
colpa  o  non  si  trova  chi  l'abbia. 

AsCANiO.  —  E  per  tanto,  incolpar  ella  o  altro  è  cosa  ingiusta  e 
vana.  Anzi  alcuni  provano  che  sii  non  solo  conveniente  ma  ne- 

(375I  cessaria:  per  che  ogni  virtute  è  vana  senza  l'esercizio  et  atto  suo; 
e  non  è  virtù,  ma  cosa  ociosa  e  vana''.  A  chi  è  dato  di  posserla 
cercare,  e  trovarla,  non  è  degno  che  stia  ad  aspettarla.  Vogliono 
i  dèi,  che  la  sollicitudine  discaccie  la  mala  ventura  e  faccia  ac- 
quistar le  cose  desiderate:  come  è  avvenuto  in  proposito  vostro. 
È  forza  che  gli  doni  e  grazie  sien  divisi,  a  fin  che  l'uno  abbi 
bisogno  dell'altro,  e  per  consequenza  l'uno  ami  l'altro.  A  chi  è 
concesso  il  meritare,  sii  negato  l'avere;  a  chi  è  concesso  l'avere, 
sii  negato  il  meritare. 

GiOAN  Bernardo.  -  O  figlio  mio,  quanto  parli  bene,  quanto 
il  tuo  sentimento  avanza  l'età  tua:  questo  che  dici  è  vero,  et  al 
presente  l'ho  io  isperimentato.  Quantumque  questo  bene  ch'ho 
posseduto  questa  sera,  non  mi  sii  stato  concesso  da  dèi  e  la  na- 
tura; benché  mi  sii  stato  negato  dalla  fortuna:  il  giudizio  mi  ha 
mostrata  l'occasione;  la  diligenza  me  l'ha  fatta  apprendere®  pe' 
capelli;  e  la  perseveranza  ritenirla.  In  tutti  negocii  la  difficultà 
consiste  che  passi  la  testa:  perché  a  quella  facilmente  il  busto  et 
il  corpo  tutto  succede 9.  Per  l'avenire  tra  me  e  madonna  Caru- 
bina  son  certo  che  non  bisognarranno  tanti  studi,  proemii,  di- 
scorsi, raggioni  et  argumenti. 

AscANio.  -  È  vero,  perché  basta  esservi  una  volta  abboccati 
insieme,  e  lei  aver  appreso  il  vostro,  e  voi  il  suo  linguaggio:  oc- 
chii  si  vedeno,  lingue  si  parlano,  cuori  s'intendeno.  Tal  volta 
quel  che  si  concepe  in  un  momento  si  retien  per  sempre.  A  don 

[377]   Paulino  curato  di  Santa  Primma,  che  è  in  un  villaggio  presso 

6.  Conosciuto,  scoperto. 

7.  Allusione  bruniana  sia  al  canto  VII  deWInferno  di  Dante,  sia  al  Principe 
del  Machiavelli  e,  in  genere,  al  concetto  della  Fortuna  nella  filosofia  politica 
del  Quattrocento  e  del  Cinquecento  fino  al  Guicciardini. 

8.  Afferrare. 

9.  Tiene  dietro.  Tutta  l'espressione  significa  che  solo  gli  inizi  sono  difficili, 
poi  le  cose  vanno  avanti  da  sole,  con  maggiore  agevolezza. 


ATTO  QUINTO  4O9 

Nola,  Sipion  Savolino^"  un  vener'^  santo  confessò  tutti  suoi 
peccati:  da  quali,  quantumque  grandi  e  molti,  per  essergli  com- 
pare, senza  troppo  difficultà  fu  assoluto.  Questo  bastò  per  una 
volta:  per  che  ne  gli  anni  seguenti  poi  senza  tante  paroli  e  cir- 
constanze diceva  Sipione  a  don  Paulino:  «Padre  mio,  gli  peccati 
di  oggi  fa  l'anno  voi  le  sapete»;  e  don  Paulino  rispondeva  a 
Sipione:  «Figlio,  tu  sai  l'assoluzione  d'oggi  fa  l'anno:  vadde  in 
pacio  et  non  amplio  peccare»  ^^. 

GiOAN  Bernardo.  -  Ah!  ah!  ah!  Noi  abbiam  molto  discorso 
sopra  di  ciò:  vedi  questa  porta? 

AscANio.  -  Signor  sì. 

GiOAN  Bernardo.  —  Questo  è  il  luoco  dove  l'han  posto;  non 
bisogna  toccar  questa  porta,  sin  tanto  ch'io  non  sii  risoluto  ^^  da 
messer  Scaramuré:  credo  che  lui  a  quest'ora  abbia  tutto  fatto,  e 
che  mi  vadi  cercando.  Andate  voi  tra  tanto,  e  fate  che  madonna 
Carubina  venghi  presto. 

Ascanio.  -  Cossi  farro.  Credo  che  vi  trovvarremo  equa? 

GiOAN  Bernardo.  -  Certissimo,  che  non  tardarrò  troppo  ad 
esser  con  messer  Scaramuré.  Andate.  [379] 

scena  XX 
Messer  Gioan  Bernardo  solo 

Scrisse  un  epitafìo,  sopra  la  sepoltura  di  Giacopon  Tansillo^, 
il  Fastidito^;  che  sonava  in  questa  foggia: 

Chi  falla  in  appuntar^  primo  bottone, 
né  mezzani  né  l'ultimo  indovina: 
però  mia  sorte  canobbi  a  mattina, 
io  che  riposo  morto  Giacopone. 


10.  Zio  materno  del  Bruno. 

11.  Venerdì. 

12.  Ascanio  storpia  le  parole  di  Luca,  VII,  50  e  Giovanni,  Vili,  11:  «Vade  in 
pace  et  noli  amplius  peccare»  («Va  in  pace  e  non  peccare  più»). 

13.  Non  mi  sia  data  via  libera. 

1.  Pare  che  si  tratti  di  un  nolano,  morto  assassinato. 

2.  Il  Bruno. 

3.  Attaccare. 


410  CANDELAIO 

Il  primo  bottone  che  appuntò  messer  Bonifacio  fuor  della  sua 
greffa-*,  fu  l'inamorarsi  di  Vittoria;  il  .IL  fu  l'averse  fatto  dar  ad 
intendere  che  messer  Scaramuré,  co  l'arte  magica,  facesse  uscire 
Satanasso  da  catene,  venir  le  donne  per  l'aria  volando  Uà  dove 
piacesse  a  lui,  et  altre  cose  assai  fuor  dell'ordinario  corso  natu- 
rale. Da  equa  tutti  gli  altri  svariamenti  sono  accaduti  l'uno 
dopo  l'altro,  come  figli  e  figli  de  figli,  nipoti  e  nipoti  di  nipoti. 
Altro  non  manca  adesso  ch'appuntar  la  stringa  et  assestar  la 
bracchetta^  col  gippone^:  il  che  si  farrà,  chiedendo  lui  mercé  e 
misericordia  per  l'offesa  fatta  a  noi  poveri  innocenti. 

SCENA  XXI 

Gioan  Bernardo,  Ascanio,  Scaramuré,  Carubina 

[381]        Gioan  Bernardo.  -  Voi  dumque  siete  presto  ritornati. 

Ascanio.  —  Io  le  ho  rancontrati  che  veneano. 

Scaramuré.  -  Ecco  equa,  siamo  tutti  per  liberar  questa  po- 
vera anima  dal  purgatorio. 

Carubina.  -  Piacess'a  Dio  che  da  senno  vi  fusse  talmente 
che  non  mi  bisognasse  di  vederlo  più. 

Ascanio.  -  A  chi  vuole,  non  è  cosa  che  sii  dificile. 

Scaramuré.  -  Io  per  non  avervi  trovato  in  casa  vostra,  son 
stato  a  quella  della  signora  Vittoria  credendo  che  vi  fussi;  poi 
ho  inviata  Lucia  che  vi  cercasse  e  vi  menasse  equa. 

Gioan  Bernardo.  -  Noi  siamo  tutte  le  persone  necessarie. 
Voi  madonna  Carubina  con  Ascanio  fate  sembiante  di  venir  da 
per  voi;  lasciate  prima  che  io  e  messer  Scaramuré  negoziamo 
con  Sanguino  e  quest'altri:  voi  in  questo  mentre  vi  potrete  reti- 
rare, e  dimorar  un  poco  equa  dietro  questo  angulo. 

Carubina.  —  Voi  pensate  benissimo.  Andiamo,  Ascanio. 

Ascanio.  —  Ritiriamoci  equa,  madonna:  perché  potremo 
Eiscoltar  quel  che  si  dice,  e  scegliere  il  tempo  più  comodo  per 
sopragiongere. 

Carubina.  -  Ben,  bene. 


4.  Occhiello. 

5.  Parte  anteriore  dei  calzoni. 

6.  Giubbone.  Tutta  la  frase  vuol  dire  che  non  resta  ormai  che  sistemare  le 
cose  per  il  meglio. 


ATTO  QUINTO  4II 

SCENA  XXII 

Messeri  Scaramuré,  Gioan  Bernardo,  Corcovizzo, 
Ascanio,  Sanguino,  [Barra] 

Scaramuré.  -  Toccamo  la  porta  (tó,  tò,  tò). 

Corcovizzo.  -  Chi  è  là? 

Scaramuré.  -  Amici.  Avisate  il  signor  capitano  che  noi 
siamo  equa.  [383] 

Corcovizzo.  -  Or  ora,  messer  mio. 

Scaramuré.  -  Questo  è  Corcovizzo:  adesso  mi  par  che  si  fac- 
cia chiamar  non  so  se  Cappino  o  che  diavolo  d'altro  nome.  Io 
ho  udito  chiamar  Panzuottolo  o  quell'atro  ^  o  costui. 

Gioan  Bernardo.  -  Ah!  ah!  ad  un  bisogno  il  pedante  e  mes- 
ser Bonifacio  le  sapranno  conoscere:  son  mascherati  di  barba 
anch'essi? 

Scaramuré.  -  Tutti:  che  in  vero  questa  mi  par  essere  una 
comedia  vera.  Al  pedante  non  manca  altro  che  la  barba;  messer 
Bonifacio,  si  se  la  vuole  attaccare,  l'ha.  Questi  dui  si  conoscono 
tra  loro,  ma  non  sanno  che  gli  altri  ancora  sono  mascherati. 

Ascanio.  -  Manca  sol  che  madonna  Carubina  porti  la  sua 
maschera. 

Sanguino.  -  Voi  siete  equa?  la  moglie  non  l'avete  condotta? 
Avertite  che  senza  lei  non  si  farrà  nulla. 

Scaramuré.  —  Signor,  la  è  in  camino,  viene:  adesso  adesso 
sarrà  presente. 

Sanguino.  -  Aspettate  dumque,  che  verremo  con  que- 
st'uomo a  basso. 

Scaramuré.  -  Tenetevi  su  la  vostra  per  un  poco  di  tempo. 

Gioan  Bernardo.  -  Lascia  guidar  il  fatto  mio  ad  me. 

Sanguino.  -  Siate  il  benvenuto,  messer  Gioan  Bernardo. 

[Gioan  Bernardo.]  -  Vostra  Signoria  sia  il  molto  ben  tro- 
vato: subito  che  ho  inteso  da  messer  Scaramuré  che  vostra  Si- 
gnoria mi  dimandava,  mi  son  alzato  di  letto,  e  venuto  come  di   [385] 
posta,  dubitando  che  non  si  fusse  scoperta  qualche  cosa  che 
quel  malfattore  sotto  la  mia  forma  abbia  commessa. 

Sanguino.  -  Il  malfattore,  il  Malefacio,  eccolo  equa  presente. 


I.  Quell'altro  (ma  Scaramuré  fa  un  gioco  di  parole  con  latro  che  significa 
ladro). 


412  CANDELAIO 

Ma  in  nome  del  diavolo,  io  non  vi  ho  mandato  a  chiamare;  ma 
questo  messer  Scaramuré  lui  ha  tanto  pregato  ch'io  aspettasse 
un  poco  da  menar  costui  priggione  in  Vicaria,  e  che  questo  sap- 
rebbe stato  di  vostra  satisfazzione,  sapendo  altre  cose  che  pas- 
sano circa  il  negocio  del  stravestimento  di  costui.  Io  sì  per  farvi 
piacere,  sì  anco  mosso  dalle  preghiere  di  messer  Scaramuré,  ol- 
tre dalle  lacrime  e  contrizzione  di  questo  povero  peccatore,  vi 
ho  aspettato;  ma  non  vi  ho  mandato  a  chiamare. 

Bonifacio.  -  Misericordia  per  amor  de  Dio! 

GiOAN  Bernardo.  —  Messer  Scaramuré,  voi  non  m'avete 
chiamato  da  parte  del  signor  capitano,  con  dirmi  che  mi  di- 
manda per  cose  che  molto  importano  circa  il  nostro  negocio, 
che  mi  avete  fatto  montar  la  pagura^  da  le  calcagne?  Come  mi 
fate  questi  tradimenti?  è  questa  l'amicizia?  è  questo  il  zelo 
ch'avete  dell'amor  mio?  Avete  studiato  e,  come  mi  par,  studiate 
di  faurire  et  aggiutare  con  mio  pregiudizio  questa  pessima  con- 
scienza di  omo.  Signor  capitano,  io  mi  querelo  ancor  di  costui, 
che  ha  abusato  del  mio  nome  et  intenzione  parlando  con  vostra 
Signoria;  et  bave  abusato  dell'autorità  e  nome  di  vostra  Signo- 
ria facendomi  aver  questo  disaggio  di  venir  sin  equa  e  fastidir 
tante  persone. 

Bonifacio.  -  Misericordia  per  l'onor  de  Dio  e  di  nostra 
Donna! 

Sanguino.  —  Piano,  piano:  veggiamo  si  questa  cosa  si  può 
[387]  accomodare;  veggiamo  si  l'è  tanto  criminale.  Poi  che  voi  siate 
equa,  pensate  bene  a  quel  che  fate,  non  vi  lasciate  trasportar 
dalla  còlerà. 

GiOAN  Bernardo.  -  La  cosa  non  si  potrà  acomodar  giamai 
dal  canto  mio;  anzi,  dopo'  che  la  giustizia  arra  fatto  il  suo  corso, 
credo  che  la  cosa  non  sarrà  finita  tra  me  e  lui. 

Scaramuré.  —  Messer  Gioan  Bernardo  mio,  quello  che  io  ho 
fatto  e  fo,  non  credo  che  sia  con  interesso'  de  l'onor  vostro: 
tutte  volte  che  si  trovarrà  errore  che  di  notte  sii  stato  commesso 
come  in  persona  vostra,  siamo  equa  tanti  testimonii  per  farli 
cascare  sopra  messer  Bonifacio;  ma  non  essendovi  passate  altro 

2.  Paura. 

3.  Interesse. 


ATTO  QUINTO  413 

che  certe  levità,  non  so  per  che  causa  che  passa  tra  lui  e  sua 
moglie,  dovete  quietarvi. 

GiOAN  Bernardo.  —  Si  è  dumque  stravestito  per  farmi  esser 
stimato  ch'io  fusse  insieme  con  sua  moglie,  per  confondere  lei  e 
me:  per  ponerci  in  pena"^  della  vita.  Non  sapete  voi  che  cerca  di 
cangiarla^,  et  ad  me  di  farmi  il  peggio  che  puote? 

Bonifacio.  -  Non  piaccia  a  Dio:  e  perché  questo  a  voi,  mes- 
ser  Gioan  Bernardo  mio?  Perdonatime,  vi  priego:  misericordia 
per  le  cinque  piaghe  di  nostro  Signore. 

Gioan  Bernardo.  —  Non  tanti  baciamenti  di  piedi,  vi 
priego. 

Barra.  —  Tutto  il  mondo  è  re  e  papa  alla  devozion  di  costui 
solamente  in  questa  occasione:  si  Dio  li  farrà  grazia,  apresso 
farrà  un  casocavallo''  a  tutti.  [389] 

Sanguino.  -  Su  su,  abbiate  pietà  al  meno  sin  tanto  che  non 
costi  che  lui  non  abbia  fatto  altro  errore  che  questo.  Vedi  che 
deve  esser  stato  qualch'altro  intrico:  sua  moglie  ancora  era  stra- 
vestita da  un'altra;  non  era  in  suo  proprio  abito,  come  mi  dice 
costui:  però  non  è  verisimile  che  per  quel  mezzo  vi  volesse  con- 
fondere. 

ScARAMURÉ.  —  Oltre  che,  era  sua  moglie  in  abito  di  una 
donna  la  qual  senza  suspizione  alcuna  sempre  prattica  con 
messer  Gioan  Bernardo.  Su  su,  messer  Gioan  Bernardo  mio:  io 
ancor  vi  priego  che  abbiate  la  misericordia  de  Dio  avanti  gli 
occhii.  Io  sapevo  bene  che  voi  non  sareste  venuto  sin  equa  s'io 
non  vi  parlavo  in  quel  modo;  ancora  ho  eccesso^  a  riguardo  del 
signor  capitano:  stimando  certo  che  non  me  ne  sarreste  nemici, 
essendo  che  è  per  far  misericordia  e  carità  ad  uno,  senza  far 
torto  ad  un  altro. 

Bonifacio.  —  Messer  Gioan  Bernardo  mio,  io  mi  offero^  obli- 
gato  a  tutte  pretensione  et  interessi,  che  vi  si  potessero  avve- 
nire. Messer  Gioan  Bernardo,  obligatevi,  vi  priego,  questa  po- 

4.  In  pericolo. 

5.  Ingannarla. 

6.  Formaggio  tipico  dell'Italia  meridionale,  foggiato  a  forma  di  fiaschette 
che  a  coppie  vengono  sospese  per  mezzo  dì  una  funicella  a  cavallo  di  un  ba- 
stone. Metaforicamente,  Barra  allude,  per  la  forma  di  tale  formaggio,  all'intento 
di  mandare  a  impiccare  coloro  di  cui  non  si  abbia  più  bisogno. 

7.  Ecceduto. 

8.  Offro. 


414  CANDELAIO 

vera  anima  di  Bonifacio:  il  quale  si  voi  volete  sarrà  svergogna- 
tissimo.  L'onor  mio  è  in  vostra  mano;  non  potrò  negar  giamai 
che  per  vostra  mercé  io  ho  il  mio  onore:  si  me  fate  questa  gra- 
zia... uh,  uh,  uh,  uh... 
[391]        Sanguino.  -  Oh  ben,  bene:  eccola  sua  moglie. 

SCENA  XXIII 

Carubina,  Sanguino,  Scaramuré,  Gioan  Bernardo, 
Bonifacio,  Barra,  Corcovizzo,  Ascanio,  Marca 

Carubina.  -  Ancora  è  equa  questo  concubinaro  di  sua  mo- 
glie. 

Sanguino.  -  È  gran  cosa  nova  questa:  credo  che  questi  che 
fan  professione  di  casi  di  conscienza  non  si  abbiano  ancora 
imaginato  come  uno  può  essere  fornicano,  o  concubinario,  chia- 
vando sua  propria  e  legitima  moglie. 

Scaramuré.  —  Orsù  lasciamo  queste  ironie  e  queste  colere: 
bisogna  risolvere  questa  cosa  equa  tra  noi  (poi  che  il  signor  ca- 
pitan Palma  ne  fa  tanto  di  favore,  di  fame  consultar  dell'onor 
vostro,  madonna  Carubina),  atteso  che  la  vergogna  di  vostro 
marito  non  può  risultar  in  vostro  onore;  né  manco  in  utilità 
vostra,  messer  Gioan  Bernardo. 

Bonifacio.  -  Cossi  è  certissimo.  Misericordia,  pietà,  compas- 
sione, carità  per  amor  de  Dio:  messer  Gioan  Bernardo  mio,  e 
moglie  mia,  perdonatime,  vi  priego,  per  questa  prima  volta. 

Barra.  -  È  gran  cosa  il  mondo:  altri  sempre  fanno  errori  e 
mai  fanno  la  penitenza,  per  quel  che  si  vede;  altri  la  hanno 
dopo  molti  errori;  altri  vi  accappano'  nel  primo;  altri  ancor 
non  han  peccato,  che  ne  portano  la  pena;  altri  suffriscono  senza 
peccato;  altri  la  portano  per  gli  peccati  altrui.  In  quest'uomo,  si 
ben  si  considera,  tutte  queste  specie  sono  congionte  insieme. 

Bonifacio.  -  Io  vi  dimando  mercé  e  grazia:  la  vi  supplico 
che  mi  concediate  come  il  signor  nostro  Giesu  Cristo  al  bon  la- 
[393]  trone,  alla  Madalena. 

Barra.  -  Cazzo,  che  buon  latrone  è  costui:  quando  voi  sarrete 
buon  latrone  come  colui  che  rubbò  il  paradiso,  come  da  nostro 

I.  Incappano. 


ATTO  QUINTO  415 

Signore  vi  si  farrà  misericordia.  Voi  siete  un  ladro  che  togliete 
quel  che  è  di  vostra  moglie,  e  lo  donate  ad  altre:  il  suo  latte,  il  suo 
liquore,  la  sua  manna,  la  sua  sustanza  et  il  suo  bene. 

GiOAN  Bernardo.  —  E  la  mia  persona,  e  la  mia  barba,  e  la 
mia  biscappa,  e  forse  il  mio  onore  per  quel  che  può  aver  fatto. 

Barra.  —  Però  non  se  gli  de'  perdonare  comò  a  buon  latrone: 
più  tosto  come  alla  Madalena. 

CORCOVizzo.  -  Vedete  che  gentil  Madalena:  che  gli  vada  il 
cancaro  a  lui  e  le  quattrocento  piattole  che  deve  aver  nel  bosco 
dell'una  e  l'altra  barba.  Vedete  che  precioso  unguento  va  spar- 
gendo costui:  per  mia  fé  non  gli  manc'altro  che  la  gonna,  per 
farlo  Madalena.  Io  dico  che  se  gli  de'  perdonare  come  i  Giudei 
perdonomo  a  Barrabam. 

Sanguino.  —  Bel  modo  di  aggiutar  un  poveruomo;  bella 
forma  di  consolar  un  afflitto:  tacete  tacete  voi;  non  v'impacciate 
a  questo,  attendete  a  far  quel  che  vi  si  comanda. 

SCARAMURÉ.  -  Io  vi  priego  che  gli  perdonate;  e  lui  vi  priega 
ancora,  come  vedete,  in  ginocchioni:  o  sia  in  nome  de  Dio  o  in 
nome  del  diavolo;  o  come  a  Barrabam ^  o  come  a  Dimas^. 

Sanguino.  —  Cossi,  cossi  bisogna  et  è  ben  che  se  gli  faccia 
misericordia.  [395] 

GiOAN  Bernardo.  -  Che  dite  voi  madonna  Carubina? 

Carubina.  —  Io  per  questa  volta  gli  rimetto:  ma  che  stii  in 
cervello  per  l'avenire,  che  gli  farro  pagare  e  questo  e  quello. 

Bonifacio.  -  Certissima  vi  fo,  Carubina  mia... 

Carubina.  -  Io  son  vostra,  ma  voi  della  signora  Vittoria. 

Bonifacio.  —  ...  che  mai,  mai  più  mi  trovarrete  in  fallo. 

Carubina.  —  Per  che  adesso  hai  imparato  di  farlo  più  accor- 
tamente. 

GiOAN  Bernardo.  -  Voi  l'intendete. 

Bonifacio.  —  Io  dico  che  non  mi  trovarrete  in  fallo  per  che 
io  non  farro  fallo. 

Barra.  -  Le  donne  quando  sono  a  i  dolori  del  parto,  dicono: 
«Mai  mai  mai  più;  adesso  vi  fermo  a  chiave:  marito  traditore,  si 
me  ti  accostarrai,  t'ucciderrò;  certissimo  ti  stracciarrò  co  i  den- 
ti». Non  tanto  presto  poi  ch'è  uscita  quella  creatura,  per  non 

2.  Barabba. 

3.  Il  nome  del  buon  ladrone  della  Passione  del  Cristo. 


4l6  CANDELAIO 

dar  vacuo  in  natura "",  vuoleno  per  ogni  modo  che  v'entri  l'altra. 
Ecco  equa  il  pentimento  di  donna  quando  figlia,  ecco  il  propo- 
nimento di  donna  quando  infanta^. 

Sanguino.  -  O  bel  vedere:  quando  altri  piange,  altri  sta  in 
còlerà;  voi  fate  de  i  tiri,  e  prendete  passatempi.  Tacete,  tacete. 

Carubina.  -  Io  non  solamente  vi  perdono,  ma  per  farti  più 
grazia  e  per  l'onor  mio  che  vi  va  per  mezzo,  ancor  supplico 
messer  Gioan  Bernardo  che  si  contenti  farvi  donar  libertà  al 
signor  capitano. 
[397]  Bonifacio.  -  Io  vi  ringrazio,  moglie  mia  cara.  Sino  ad  oggi 
vi  ho  amato  per  un  rispetto  e  dui  doveri:  da  oggi  avanti  vi 
amarrò  per  tutti  doveri  e  tutti  rispetti. 

Gioan  Bernardo.  -  Messer  Bonifacio,  io  son  cristiano,  e  fo 
professione  di  buon  catolico.  Io  mi  confesso  generalmente,  e  co- 
munico tutte  le  feste  principali  dell'anno.  La  mia  arte  è  di  de- 
pengere,  e  donar  a  gli  occhii  de  mundani^  la  imagine  di  nostro 
Signore,  di  nostra  Madonna,  e  d'altri  santi  di  paradiso.  Però  il 
core  non  mi  comporta,  vedendoti  mosso  a  penitenzia,  di  non 
perdonarti,  e  farti  quella  rimessione  che  ogni  pio  e  buon  cri- 
stiano è  ubligato  di  fare  in  casi  simili:  per  tanto  Iddio  ti  per- 
doni in  cielo,  et  io  ti  perdono  in  terra.  Una  cosa  solamente  mi 
riservo  (per  che  è  scritto  «Honore  meom  nemini  tabbo»''):  che  si 
sotto  questo  abito  avessi  commesso  altro  delitto,  che  vi  appare- 
chiate  ad  fame  tutte  reparazione;  e  questo  lo  promettete  al  si- 
gnor capitano  come  ministro  della  giustizia,  ad  me  avanti  vo- 
stra moglie,  messer  Scaramuré  e  questi  altri  compagni. 

Sanguino.  -  Non  promettete  cossi? 

Bonifacio.  -  Lo  prometto  e  riprometto,  affirmo  e  confirmo; 
et  oltre  di  ciò  io  giuro  con  ambe  le  mani  alzate  al  cielo,  ch'io 
non  ho  comesso  altro  errore  per  il  quale  possa  e  debba  contri- 
starsi messer  Gioan  Bernardo,  che  di  essermi  contrafatto  a  lui, 

4.  La  natura  non  ammette  il  vuoto;  ed  è  proposizione  filosofica  diffusa 
nelle  scuole. 

5.  Partorisce. 

6.  Uomini. 

7.  Gioan  Bernardo  storpia  il  proverbio  «Honorem  meum  nemini  dabo» 
(«Non  cederò  a  nessuno  il  mio  onore»).  Tutta  la  scena  fra  Gioan  Bernardo, 
Bonifacio  e  Carubina,  con  l'ambigua  pacificazione  fra  i  due  e  le  allusioni  ero- 
tiche fra  il  pittore  e  la  moglie  del  «candelaio»,  ripropone  le  scene  conclusive 
della  Mandragola  machiavelliana. 


ATTO  QUINTO  417 

per  non  esser  conosciuto,  entrando  e  sortendo  dalla  stanza  della 
signora  Vittoria:  nella  quale  esso  messer  Gioan  Bernardo  non 
può  esser  veduto  con  scandalo  o  mala  suspizione  per  essere 
quella  sua,  che  questa  donna  tiene  a  piggione. 

Sanguino.  -  Per  mia  fé  si  questo  è  errore,  non  è  grande  er-   [399] 
rore.  Orsìi  alzatevi  in  piedi,  messer  Bonifacio:  abbracciatevi  in- 
sieme con  messer  Gioan  Bernardo;  siate  meglio  amici  per  l'ave- 
nire  che  per  il  passato,  cercate  l'un  di  far  serviggio  a  l'altro, 
visitate  l'un  l'altro,  aggiutate  l'un  l'altro. 

Gioan  Bernardo.  —  Cossi  farremo  si  sarrà  come  deve  essere; 
e  con  questo  vi  abbraccio  et  accetto  per  amico. 

Bonifacio.  -  Io  vi  sarrò  sempre  amico  e  servitore. 

Barra.  -  Siate  buoni  compagni. 

Sanguino.  -  Che  fate?  abbracciate,  baciate  vostra  moglie. 

Carubina.  —  Questo  non  importa  tra  noi:  la  pace  è  fatta. 

Marca.  -  In  casa,  in  casa.  Trattate  bene  vostra  moglie,  mes- 
ser Bonifacio:  altrimente  vi  castigarrà  lei  insieme  con  messer 
Gioan  Bernardo. 

Sanguino.  -  Orsù  andiate  tutti  con  Dio:  passate  per  dentro 
questa  stanza,  per  che  uscirrete  per  quell'altra  porta;  e  voi  mes- 
ser Bonifacio,  lasciarrete  quella  offerta  che  avete  promessa  a 
questi  compagni  per  il  disaggio  che  abbiamo  avuto  per  voi. 

Bonifacio.  -  Molto  di  bona  voglia,  signor  mio. 

Scaramuré.  -  Andiamo;  che  sia  lodato  Idio,  ch'ha  fatta  que- 
sta pace  et  unione  di  messer  Bonifacio,  madonna  Carubina  e  di 
messer  Gioan  Bernardo:  tre  in  uno. 

Bonifacio.  —  Amen  amen. 

Carubina.  -  Passate  voi,  messer  Gioan  Bernardo. 

Gioan  Bernardo.  -  Non  lo  farro  mai,  signora:  vostra  Signo- 
ria vadi  avanti. 

Carubina.  -  Bisogna  che  sia  cossi.  [401] 

Gioan  Bernardo.  -  Tocca  a  voi,  madonna. 

Carubina.  -  Io  dumque  vo  per  farvi  servizio  et  ubedirvi. 

Gioan  Bernardo.  -  Seguitemi,  messer  Bonifacio:  tenetevi  a 
me  et  appigliatevi  alla  mia  cappa,  e  guardate  di  non  cascare. 

Bonifacio.  -  Io  me  guardarrò  bene. 

Sanguino.  -  Aspetta  un  poco  equa  con  me  tu,  figlio  mio,  per 
che  starremo  insieme  mentre  costoro  si  spediscono  de  lì  dentro. 

AsCANio.  -  Cossi  farro  come  vostra  Signoria  comanda. 


4l8  CANDELAIO 

SCENA  XXIV 

Sanguino,  Ascanio 

Sanguino.  -  Or  che  vi  par  del  padron  vostro  messer  Bo- 
nifacio? 

Ascanio.  -  Quel  che  ne  vedo,  bene. 

Sanguino.  -  Non  è  lui  galant'uomo,  saggio,  accorto,  di  va- 
lore, d'ogni  stima  degno? 

Ascanio.  -  Quant'ogni  par  suo. 

Sanguino.  -  Chi  vi  par  suo  pare? 

Ascanio.  -  Chi  non  sa  e  conosce  più  né  men  che  lui,  e  chi 
non  vale  più  né  men  che  lui. 

Sanguino.  —  Essendono  molte  le  specie  della  pazzia,  in 
quale  pensate  voi  che  lavori  costui? 

Ascanio.  —  Le  specie  della  pazzia  le  possiamo  prender  da 
più  capi;  ma  prendendole  da  questo,  che  di  pazzi  altri  sono  in- 
differenti, altri  son  tristi,  altri  son  buoni,  costui  viene  ad  essere 
[403]  di  tutte  tre  le  cotte:  addormito  è  indifferente,  desto  è  tristo, 
morto  è  buono. 

Sanguino.  -  Per  che  l'ha  preso  madonna  Carubina? 

Ascanio.  -  Per  che  è  pazzo. 

Sanguino.  -  Vi  par  ch'ell'abbi  fatto  bene? 

Ascanio.  -  Secondo  il  conseglio  del  mustaccio'  della  barba 
di  quella  vecchia  lanuta  di  madonna  Angela,  ha  fatto  più  che 
bene:  ideste  benissimo.  Quella  è  stata  la  sua  consegliera:  quella  è 
la  pastora  di  tutte  belle  figlie  di  Napoli.  Chi  vuol  agnusdei^;  chi 
vuol  granelli  benedetti;  chi  vuol  acqua  di  san  Pietro  Martire', 
la  semenza  di  san  Gianni,  la  manna  di  sant'Andrea-*,  l'oglio 
dello  grasso  della  midolla  de  le  canne  dell'ossa  del  corpo  di  san 
Piantorio^;  chi  vuol  attaccar  un  voto  per  aver  buona  ventura: 
vada  a  trovar  madonna  Angela  Spigna.  A  costei  venne  ma- 
donna Carubina  e  disse:  «Madre  mia,  voglion  darmi  marito:  me 


1.  Propriamente  volto,  qui  pelo. 

2.  Immagine  benedetta,  raffigurante  l'Agnello  di  Dio. 

3.  Il  pozzo  della  chiesa  e  convento  domenicano  di  San  Pietro  Martire  a 
Napoli  era  celebre  per  l'acqua  limpida  e  fresca. 

4.  Allusioni  irriverenti  a  reliquie  che  erano  venerate  in  chiese  napoletane. 
Ma  tutte  le  esclamazioni,  fin  dai  granelli  benedetti,  sono  allusioni  oscene. 

5.  Metafora  oscena. 


ATTO  QUINTO  4I9 

si  presenta  Bonifacio  Trucco,  il  quale  ha  di  che  e  di  modo»; 
rispose  la  vecchia:  «Prendilo»;  «Sì,  ma  è  troppo  attempato», 
disse  Carubina;  respose  la  vecchia:  «Figlia,  non  lo  prendere»;  «I 
miei  parenti  mi  consegliano  di  prenderlo»;  rispose:  «Prendilo»; 
Ma  a  me  non  piace  troppo»,  disse  Carubina;  «Dumque  non  lo 
prendere»,  rispose.  Carubina  soggionse:  «Io  lo  conosco  di  buon 
parentado»;  «Prendilo»,  disse  la  vecchia;  «Ma  intendo  che  dà  [405] 
tre  morsi  ad  un  faggiuolo»'';  rispose:  «Non  lo  prendere»;  «Sono 
informata»  disse  Carubina,  «ch'have  un  levrier  di  buona  raz- 
za»^; «Prendilo»,  rispose  la  vecchia  madonn'  Angela;  «Ma 
ehimè»  disse,  «ho  udito  dir  ch'è  candelaio»^;  «Non  lo  prende- 
re», rispose.  Disse  Carubina:  «Lo  stiman  tutti  pazzo»;  «Prendilo, 
prendilo,  prendilo,  prendilo,  prendilo,  prendilo,  prendilo»  sette 
volte  disse  la  vecchia,  «non  importa  che  sii  candelaio,  non  ti 
curar  che  dii  tre  morsi  ad  un  faggiuole,  non  ti  fa  nulla  che  non 
piace  troppo,  non  ti  curar  che  sii  troppo  attempato;  prendilo 
prendilo,  perché  è  pazzo:  ma  guarda  che  non  sii  di  que'  riggidi, 
amari,  agresti»^;  «Son  certa  che  non  è  di  quelli»,  disse  Ca- 
rubina; «Prendilo  dumque»  disse  madonna  Angela,  «prendilo». 
—  Oh,  ecco  equa  i  compagni. 

SCENA  XXV 

Barra,  Marca,  Corcovizzo,  Mamfurio, 
Sanguino,  Ascanio 

Barra.  -  Quell'altro  è  ispedito:  che  vogliam  far  di  costui,  del 
domino  magisteri 

Sanguino.  —  Questo  porta  sua  colpa  su  la  fronte:  non  vedi 
ch'è  stravestito?  non  vedi  che  quel  mantello  è  stato  rubbato  a 
Tiburolo?  non  l'hai  visto  che  fugge  la  corte? 

Marca.  -  È  vero;  ma  apporta  certe  cause  verisimile.  [407] 

Barra.  —  Per  ciò  non  deve  dubitare  d'andar  priggione. 

Mamfurio.  —  Verum;  ma  cascarrò  in  derisione  appo  miei 
scolastici  e  di  altri  per  i  casi  che  me  si  sono  aventati  al  dorso. 

Sanguino.  -  Intendete  quel  che  vuol  dir  costui? 

6.  È  avarissimo. 

7.  Metafora  oscena. 

8.  Sodomita. 

9.  Di  carattere  acido,  bisbetico. 


420  CANDELAIO 

CoRCOVizzo.  —  Non  l'intenderebbe  Sansone'. 

Sanguino.  —  Or  su,  per  abbreviarla  vedi  magister  a  che  cosa 
ti  vuoi  resolvere:  si  volete  voi  venir  priggione,  over  donar  la 
bona  mano^  alla  compagnia  di  que'  scudi  che  ti  son  rimasti 
dentro  la  giornea,  perché  (come  dici)  il  mariolo  ti  tolse  sol 
quelli  ch'avevi  in  mano  per  cambiarli. 

Mamfurio.  -  Minime^,  io  non  ho  altrimente  veruno:  quelli 
che  avevo  tutti  mi  furon  tolti:  ita  mehercle,  per  lovem,  per  Altito- 
nantem,  vos  sidera  testar"^. 

Sanguino.  -  Intendi  quel  che  ti  dico;  si  non  vói  provar  il 
stretto  della  Vicaria,  e  non  hai  moneta,  fa  elezione  d'una  de  le 
altre  due:  o  prendi  diece  spalmate  con  questo  ferro  di  correggia 
che  vedi,  o  ver  a  brache  calate  arrai  un  cavallo  de  cinquanta 
staffilate:  che  per  ogni  modo  tu  non  ti  partirrai  da  noi  senza 
penitenza  di  tui  falli. 
[409]  Mamfurio.  —  «Diwbus  proposìtis  malis  minus  est  tolerandwn: 
sicut  duobus  proposìtis  bonis  melius  est  eligendum»,  dicit  Peripate- 
ticorum  princeps^. 

AscANio.  -  Maestro,  parlate  che  siate  inteso,  per  che  queste 
son  gente  sospette^. 

Barra.  —  Può  essere  che  dica  bene  costui  all'or  che  non  vuol 
esser  inteso? 

Mamfurio.  —  Nil  mali  vobis  imprecar,  io  non  vi  impreco 
male. 

Sanguino.  -  Pregatene  ben  quanto  volete,  che  da  noi  non 
sarrete  essaudito. 

CORCOVizzo.  —  Elegetevi  presto  quel  che  vi  piace,  o  vi  legar- 
remo  meglio  e  vi  menarremo. 


1.  Proverbialmente  citato  per  la  sua  abilità  nell'interpretare  enigmi  (con 
riferimento  a  Giudici,  XVI,  12  e  segg.). 

2.  Mancia 

3.  «Niente  affatto». 

4.  «Così,  per  Ercole,  per  Giove,  per  l'Altitonante,  vi  giuro,  vi  chiamo  in 
testimonio,  o  stelle». 

5.  «Di  due  mali  proposti  deve  essere  sopportato  il  minore,  come  di  due 
beni  si  deve  scegliere  il  migliore,  dice  il  principe  dei  Peripatetici»  (cioè  Ari- 
stotele, Rhetor,  i,  6,  5). 

6.  Sospettose. 


ATTO  QUINTO  421 

Mamfurio.  —  Minus  pudendum  erit  palma  feriri,  quam  quod 
congerant  in  veteres  flagella  nates:  id  enim  puerile  esf. 

Sanguino.  -  Che  dite  voi,  che  dite  in  vostra  mal'ora? 

Mamfurio.  -  Vi  offro  la  palma. 

Sanguino.  —  Tocca  Uà,  Corcovizzo:  dà  fermo. 

CoRCOVizzo.  -  Io  do  {taf):  una... 

Mamfurio.  -  Oimmè,  lesus,  of! 

Corcovizzo.  -  Apri  bene  l'altra  mano  {taf):  e  due... 

Mamfurio.  -  Of  Of,  lesus  Maria.  [411] 

Corcovizzo.  -  Stendi  ben  la  mano,  ti  dico;  tienla  dritta  cossi 
{taf):  e  tre... 

Mamfurio.  -  Oi  oi  oimè,  uf  of  of...  of...  per  amor  della  pas- 
sion  del  nostro  signor  lesusr.  potius  fatemi  alzar  a  cavallo,  per 
che  tanto  dolor  suffrir  non  posso  nelle  mani. 

Sanguino.  —  Orsù  dumque  Barra,  prendilo  su  le  spalli;  tu 
Marca,  tienlo  fermo  per  i  piedi  che  non  si  possa  movere;  tu  Cor- 
covizzo, spuntagli^  le  brache  e  tienle  calate  ben  bene  a  basso:  e 
lasciatelo  strigliar  ad  me;  e  tu  maestro,  conta  le  staffilate  ad  una 
ad  una,  ch'io  t'intenda;  e  guarda  ben,  che  si  farrai  errore  nel 
contare,  che  sarrà  bisogno  di  ricominciare;  voi  Ascanio,  vedete  e 
giudicate. 

Marca.  —  Tutto  sta  bene:  cominciatelo  a  spolverare,  e  guar- 
datevi di  far  male  a  i  drappi  che  non  han  colpa. 

Sanguino.  —  Al  nome  di  santa  Scoppettella'^,  conta  {toff). 

Mamfurio.  -  {Tof)  una;  {tof)  oh  tre;  {tof)  oh  oi,  quattro;  {toff) 
oimè  oimè...;  {tof)  oi  i  oimè...;  {tof)  oh,  per  amor  de  Dio,  sette! 

Sanguino.  -  Cominciamo  da  principio  un'altra  volta;  vedete 
si  dopo  quattro  son  sette:  dovevi  dir  cinque. 

Mamfurio.  -  Oimè  che  farro  io?  erano  in  rei  veritate^^  sette. 

Sanguino.  —  Dovevi  contarle  ad  una  ad  una.  Or  su  via  [di] 
novo  {toff). 

Mamfurio.  -  {Toff  una;  {toff  una;  {toff  oimè,  due;  {toff,  toff 
toff  tre,  quattro;  {toff  toff  cinque,  oimè;  {toff,  toff  sei.  Oh,  per 

7.  «È  meno  vergognoso  essere  colpito  sulla  mano  che  lasciarsi  accumulare 
frustate  sulle  vecchie  natiche:  questa  non  è  cosa  da  bambini». 

8.  Sbottonagli,  slegagli. 

9.  Scherzosa  canonizzazione  dei  birri  del  tribunale  ecclesiastico  o,  più  pro- 
babilmente, delle  frustate. 

10.  «In  verità». 


422  CANDELAIO 

[413]  l'onor  di  Dio  {tojf)  non  più  (toff,  toff)  non  più  che  vogliamo  {toff^ 
toff)  veder  nella  giornea  {toff)  che  vi  sarran  alquanti  scudi. 

Sanguino.  —  Bisogna  contar  da  capo,  che  ne  ha  lasciate 
molte,  che  non  ha  contate. 

Barra..  —  Perdonategli  di  grazia  signor  capitano,  per  che 
vuol  far  quell'altra  elezzione  di  pagar  la  strena". 

Sanguino.  -  Lui  non  ha  nulla. 

Mamfurio.  -  Ita,  ita,  che  adesso  mi  ricordo  aver  più  di 
quattro  scudi. 

Sanguino.  -  Ponetelo  abasso  dumque:  vedete  che  cosa  vi  è 
dentro  la  giornea. 

Barra.  —  Sangue  di...  che  vi  son  più  di  sette  de  scudi. 

Sanguino.  —  Alzatelo,  alzatelo  di  bel  novo  a  cavallo,  per  la 
mentita  eh'  ha  detta,  e  falsi  giuramenti  eh'  ha  fatti:  bisogna 
contarle,  fargli  contar  settanta. 

Mamfurio.  -  Misericordia:  prendetevi  gli  scudi,  la  giornea,  e 
tutto  quanto  quel  che  volete,  dimittam  vobis^^. 

Sanguino.  —  Or  su  pigliate  quel  che  vi  dona,  e  quel  mantello 
ancora,  che  è  giusto  che  sii  restituito  al  povero  padrone.  Andia- 
mone noi  tutti:  bona  notte  a  voi,  Ascanio  mio. 

Ascanio.  —  Bona  notte  e  mille  bon'anni  a  vostra  Signoria, 
[415]  signor  capitanio,  e  buon  prò'  faccia  al  mastro. 

scena  xxvi 
Mamfurio,  Ascanio 

Mamfurio.  —  Ecquis  erit  modus?^ 

Ascanio.  -  O  là  mastro  Mamfurio,  mastro  Mamfurio. 

Mamfurio.  -  Chi  è  chi  mi  conosce?  chi  in  questo  abito  e 
fortuna  mi  distingue?  chi  per  nome  mio  proprio  m'appella? 

Ascanio.  -  Non  ti  curar  di  questo,  che  t'importa  o  poco  o 
nulla:  apri  gli  occhi,  e  guarda  dove  sei;  mira  ove  ti  trovi. 

Mamfurio.  —  Quo  melius  videam^,  per  corroborar  l'intuito*  e 

11.  Mancia. 

12.  «Lascerò  a  voi». 

1.  «Quale  sarà  mai  il  termine  dei  miei  guai?». 

2.  «Per  veder  meglio». 

3.  Vista 


ATTO  QUINTO  423 

firmar''  l'acto  della  potenza  visiva,  acciò  l'acie'  de  la  pupilla 
più  efficacemente  per  la  linea  visuale  emittendo  il  radio  <^  a 
l'obiecto  visibile,  venghi  ad  introdur  la  specie^  di  quello  nel 
senso  interiore,  idest  mediante  il  senso  comone  collocarla  nella 
cellula  de  la  fantastica  facultade,  voglio  applicarmi  gli  oculari^ 
al  naso.  Oh,  veggio  di  molti  spectatori  la  corona. 

AscANio.  -  Non  vi  par  esser  entro  una  comedia? 

Mamfurio.  -  Ita  sane'^. 

AsCANio.  —  Non  credete  d'esser  in  scena? 

Mamfurio.  -  Omni  procul  dubio^^. 

AsCANio.  —  A  che  termine  vorreste  che  fusse  la  comedia?         [417] 

Mamfurio.  —  In  calce,  in  fine:  ncque  enim  et  ego  risu  ilia 
tendo^^. 

AsCANio.  —  Or  dumque  fate  e  donate  il  plaudite^^. 

Mamfurio.  - 

Quam  male  possum  plaudere, 

tentatus  pacientia: 

nam  plausus  per  me  factus  est 

iam  dudum  miserabilis, 

et  natibus  et  manibus 

et  aureorum  sonitu.  Amen^^. 

AsCANio.  —  Donate  dico  il  plaudite;  e  forzatevi  di  farlo  an- 
cora voi,  e  fate  il  tutto  bene  da  maestro  et  uomo  di  lettere  che 
voi  siete:  altrimente  tomarrà  gente  in  scena  mal  per  voi. 

Mamfurio.  -  Hilari  efficiam  animo,  forma  quae  sequitur^'^: 
—  Sì  come  i  marinali,  bench'  abbin  l'arbor  tronco,  persa  la  vela, 

4.  Rendere  più  forte. 

5.  Acutezza. 

6 

Immagine. 
Occhiali. 
«Proprio  così». 

10.  «Senza  nessun  dubbio». 

11.  «Alla  conclusione,  alla  fine:  infatti,  io  non  tendo  per  il  riso  i  fianchi» 
(ed  è  rifacimento  scherzoso  di  un  verso  di  Virgilio,  Georg.,  Ili,  506-507). 

12.  Il  segnale  degli  applausi  finali. 

13.  «Troppo  male  posso  applaudire,  provato  nella  mia  sopportazione;  l'ap- 
plauso infatti  mi  è  diventato  da  tempo  ragione  di  pianto,  a  cagione  delle  na- 
tiche e  delle  mani  e  del  suono  dei  quattrini.  Così  sia». 

14.  «Mi  proverò  con  animo  lieto,  nel  modo  seguente». 


424  CANDELAIO 

rotte  le  sarte,  e  smarrito  il  temone  per  la  turbida  tempesta,  so- 
glion  nulla  di  meno,  per  esser  gionti  al  porto,  plaudere;  et  iuxta 
la  maroniana  sentenza: 

Votaque  servati  solvent  in  littore  nautae 
Glauco,  et  Panopeae,  et  Inoo  Melicertae^^; 

parimente  ego  Mamphurius,  graecarum,  latinarum  vulgariumque 
literarum,  non  inquam  regius,  nec  gregius,  sed  egregius  (quod  est  per 
aethimologiam  «e  grege  assumptus»)  professor;  nec  non  philosophiae, 
medicinae,  et  iuris  utriusque,  et  theologiae  doctor,  si  voluissem^^: 
per  esser  gionto  al  porto  di  miei  erumnosi  ^^  e  calamitosi  succes- 
si'^, post  hac  vota  soluturus,  plaudo^'^.  Proinde^^  dico  a  voi,  nobi- 
lissimi spectatori  {quorum  omnium  ora  atque  oculos  in  me  video 
esse  coniectosY^,  sì  come  io  per  ritrovarm'al  fine  del  mio  esser 
tragico  supposito^^,  si  non  co  le  mani,  giornea  e  vesti,  corde  lu- 
men, et  animo  plaudo^^;  cossi  e  megliormente  voi,  meliori  hacte- 
nus  adi  fortuna^'^,  che  di  nostri  fastidiosi  et  importuni  casi  siete 
stati  gioiosi  e  lieti  spectatori.  Valete  et  Plaudite. 

[Fine  dell'atto  quinto] 


15.  Citazione  di  Virgilio,  Georg.,  I,  436-437:  «E  tratti  a  salvamento  i  mari- 
nai scioglieranno  i  voti  sul  lido  a  Glauco,  Panopea  e  a  Melicerta  figlio  di  Ino». 

16.  «Io,  Mamfurio,  non  dico  regio,  né  di  gregge,  ma  egregio,  cioè,  etimologi- 
camente, scelto  dal  gregge,  professore  di  lettere  greche,  latine  e  volgari,  nonché 
dottore  in  filosofia,  medicina  e  diritto  civile  e  penale  e  teologia,  purché  avessi 
voluto». 

17.  Pieni  di  travagli,  di  affanni. 

18.  Vicende. 

19.  «Poi,  sul  punto  di  adempiere  i  voti,  do  il  segnale  degli  applausi». 

20.  «Perciò». 

21.  «I  cui  volti  e  sguardi  vedo  in  me  rivolti». 

22.  Soggetto,  materia. 

23.  «Col  cuore,  tuttavia,  e  con  l'animo  do  il  segnale  degli  applausi». 

24.  «Guidati  fin  qui  da  migliore  fortuna». 


II 

LA  CENA  DE  LE  CENERI 

commento  di 
Giovanni  Aquilecchia 


Traduzione  italiana  e  adattamento  delle  note  a  cura  di  Filiberto  Wal- 
ter Lupi. 


LA  CENA  DE  LE  CENERI 

DESCRITTA  IN  CINQUE  DIALOGI 

PER  QUATTRO  INTERLOCUTORI 

CON  TRE  CONSIDERAZIONI 

CIRCA  DOI  SUGGETTI 


All'unico  refugio  de  le  Muse: 

l'illustrissimo  Michel  di  Castelnovo, 

Signor  di  Mauvissier,  Concressalto  e  di  lonvilla, 

Cavalier  del  ordine  del  Re  Cristianissimo 

e  Conseglier  nel  suo  privato  Conseglio; 

Capitano  di  50  uomini  d'arme, 

Govemator  e  Capitano  di  San  Desiderio, 

et  Ambasciator  alla  serenissima  Regina  d'Inghilterra. 

L'universale  intenzione  è  dechiarata  nel  proemio. 
1584 


AL  MAL  CONTENTO  ' 


Se  dal  cinico  2  dente  sei  trafitto, 
lamentati  di  te  barbaro  perro^: 
ch'in  van  mi  mostri  il  tuo  baston  e  ferro, 
se  non  ti  guardi  da  farmi  despitto"^. 

Per  che  col  torto  mi  venesti  a  dritto ', 
però  tua  pelle  straccio  e  ti  disserro: 
e  s'indi  accade  ch'il  mio  corpo  atterro, 
tuo  vituperio  è  nel  diamante  scritto. 

Non  andar  nudo  a  tórre  a  l'api  il  mèle. 
Non  morder  se  non  sai  s'è  pietra  o  pane. 
Non  gir  discalzo  a  seminar  le  spine. 

Non  spreggiar,  mosca,  d'aragne  le  tele. 
Se  sorce  sei,  non  seguitar  le  rane^; 
fuggi  le  volpi,  o  sangue  di  galline. 

E  credi  a  l'Evangelo^, 
che  dice  di  buon  zelo: 
dal  nostro  campo  miete  penitenza, 
chi  vi  gittò  d'errori  la  semenza.  [5] 


1.  Il  sonetto  prende  di  mira  l'avversario  che  Bruno  fu  costretto  ad  affron- 
tare il  mercoledì  delle  Ceneri,  nello  svolgimento  della  cena  che  sta  per  narrare. 
L'inglese  malcontent,  agg.  e  sost.,  è  ricorrente  nel  dramma  elisabettiano  (in  Mar- 
ston  e  Webster,  ad  esempio). 

2.  Nel  senso  etimologico  dal  greco  xuvixóg  («canino»). 

3.  Ferro  («cane»)  è  parola  spagnola  entrata  nel  dialetto  napoletano  del- 
l'epoca. 

4.  «Despitto»  è  forma  arcaica  (utilizzata  da  Petrarca)  di  «dispetto». 

5.  Non  sfugga  il  giuoco  di  parole  «  torto  »/«  dritto». 

6.  Allusione  alla  Batracomiomachia  (La  battaglia  dei  topi  e  delle  rane,  poe- 
metto falsamente  attribuito  a  Omero  e  adattato  in  italiano  da  Lodovico  Dolce 
nel  1573). 

7.  Parafrasi  ironica  di  Proverbi,  XXH,  8;  Giobbe,  IV,  8;  Ecclesiaste,  VII,  3. 


PROEMIALE  EPISTOLA 


scritta 
all'illustrissimo  et  eccellentissimo 


SIGNOR  DI  MAUVISSIERO 

Cavalier  de  l'Ordine  del  Re^, 

e  Conseglier  del  suo  privato  Conseglio, 

Capitano  di  cinquant'uomini  d'arma, 

Govemator  generale  di  San  Desiderio, 

et  Ambasciator  di  Francia  in  Inghilterra^. 

Or  eccovi,  signor,  presente,  non  un  convito  nettareo  de  l'Al- 
titonante, per  una  maestà;  non  un   protoplastico  i°,  per  una 

8.  Probabilmente,  l'Ordre  du  Saint-Esprit. 

9.  Michel  de  Castelnau  a  cui  Bruno  dedica  pure  l'opuscolo  Triginta  sigillo- 
rum  explicatio  e  i  dialoghi  De  la  causa  e  De  l'infinito,  era  dal  1574  ambasciatore 
di  Enrico  III,  re  di  Francia,  presso  Elisabetta  d'Inghilterra.  Nato  a  Mauvissière 
in  Turenna  verso  il  1520,  morì  a  Joinville  nel  1592.  Dopo  due  soggiorni  in 
Italia,  al  tempo  della  giovinezza,  intraprese  la  carriera  militare  e  diplomatica 
che  lo  condusse  in  Scozia  (presso  Maria  Stuart),  in  Inghilterra  (presso  Elisa- 
betta, in  occasione  dei  negoziati  per  Calais),  poi,  in  qualità  di  ambasciatore,  in 
Germania,  in  Savoia  ed  a  Roma  (presso  Paolo  IV).  Alla  morte  di  Francesco  II, 
nel  dicembre  1560,  Castelnau  aveva  riaccompagnato  Maria  Stuart  in  Scozia, 
soggiornandovi  per  circa  un  anno.  Tornato  in  Francia,  prese  parte  alle  guerre 
di  religione  e  cadde  prigioniero  degli  Ugonotti.  Nominato  ambasciatore  in  In- 
ghilterra, vi  rivestì  questa  carica  fino  all'ottobre  1585;  Bruno  che  aveva  abitato 
in  casa  sua  nel  periodo  inglese,  lo  seguì  al  momento  del  suo  rientro  a  Parigi 
(cfr.  L.  Firpo,  //  processo  di  G.  Bruno,  a  cura  di  D.  Quaglioni,  Roma,  1993, 
p.  162).  Una  parte  della  sua  vita  (gli  anni  dal  1559  al  1570)  ci  è  nota  grazie  ai 
Mémoires,  Paris,  162 1  (e  Bruxelles,  1731),  redatti  in  Inghilterra  e  dedicati  al 
figlio.  Si  veda  G.  Hubault,  Michel  de  Castelnau,  ambassadeur  en  Angleterre, 
1575-1585,  Paris,  1859  [risi  anastatica,  Genève,  1970];  J.  Bossy,  G.  Bruno  and 
the  Embassy  Affair,  New  Haven-London,  1991  (traduz.  di  L.  Salerno,  Milano, 
1992). 

10.  L'aggettivo  «protoplastico»,  dal  greco  nQoxon'kaazòc,  («primo  creato») 


432  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

umana  desolazione;  non  quel  d'Assuero,  per  un  misterio";  non 
di  Lucullo,  per  una  ricchezza;  non  di  Licaone,  per  un  sacrile- 
gio'2;  non  di  Tieste,  per  una  tragedia'^;  non  di  Tantalo,  per  un 
supplicio;  non  di  Platone,  per  una  filosofia;  non  di  Diogene,  per 
una  miseria;  non  de  le  sanguisughe,  per  una  bagattella;  non 
d'un  arciprete  di  Fogliano,  per  una  bernesca'-*;  non  d'un  Boni- 
facio Candelaio,  per  una  comedia''.  Ma  un  convito  sì  grande,  sì 
picciolo;  sì  maestrale,  sì  disciplinale;  sì  sacrilego,  sì  religioso; 
sì  allegro,  sì  colerico;  sì  aspro,  sì  giocondo;  sì  magro  fiorentino, 
sì  grasso  bolognese"^;  sì  cinico,  sì  sardanapalesco;  sì  bagattel- 
[7]  liero,  sì  serioso;  sì  grave,  sì  mattacinesco'^;  sì  tragico,  sì  comico: 
che  certo  credo  che  non  vi  sarà  poco  occasione  da  dovenir 
eroico,  dismesso;  maestro,  discepolo;  credente,  mescredente; 
gaio,  triste;  saturnino,  gioviale;  leggiero,  ponderoso;  canino,  libe- 
rale; simico,  consulare;  sofista  con  Aristotele,  filosofo  con  Pita- 
gora; ridente  con  Democrito,  piangente  con  Eraclito'^.  Voglio 
dire:  dopo  ch'arrete  odorato  con  i  Peripatetici,  mangiato  con  i 
Pitagorici,  bevuto  con  Stoici,  potrete  aver  ancora  da  succhiare 
con  quello  che  mostrando  i  denti  avea  un  riso  sì  gentile,  che 
con  la  bocca  toccava  l'una  e  l'altra  orecchia'^.  Perché  rompendo 

designa  Adamo.  Tale  allusione  al  peccato  originale  è  ironica,  poiché  Bruno 
ammette  l'esistenza  dei  «preadamiti»  e  soprattutto  l'origine  naturale  e  polige- 
netica  degli  esseri  umani. 

11.  Banchetto  al  quale  Ester  aveva  invitato  Assuero  ed  Aman  e  che 
avrebbe  causato  il  capovolgimento  delle  sorti  ebraiche  in  Persia;  il  «misterio» 
è  forse  un'allusione  ai  Purim  israelitici,  poiché  tale  festa  non  è  priva  di  una 
componente  teatrale. 

12.  Banchetto  durante  il  quale  Licaone  servì  carne  umana  a  Zeus,  suo 
ospite  (cfr.  Ovidio,  Metam.,  I,  216-231). 

13.  Banchetto  durante  il  quale  Tieste  mangiò,  senza  saperlo,  le  carni  dei 
propri  figli,  assassinati  da  suo  fratello  Atreo  (cfr.  la  tragedia  di  Seneca  Thiestes). 

14.  Allusione  all'ignobile  accoglienza  descritta  nel  Capitolo  del  prete  di  Po- 
vigliano  a  messer  leronimo  Fracastoro.  di  Francesco  Bemi  (1497-1535). 

15.  Allusione  al  protagonista  della  commedia  bruniana  Candelaio. 

16.  Bologna  la  grassa  era  un'espressione  divenuta  proverbiale  (cfr.  J.  Flo- 
rio, Second  Fruites,  London,  1591,  pp.  106  e  108). 

17.  «Mattacinesco»  da  mattacino,  parola  esemplata  sullo  spagnolo  matachin, 
buffone  danzatore  che  si  esibiva  nel  corso  delle  feste. 

18.  Tema  classico  (cfr.  Seneca,  De  ira,  II,  io,  2;  Giovenale,  Satyrae,  X, 
28-30;  Luciano,  Vitanim  audio,  XIII,  553),  ripreso  dalla  cultura  umanistica: 
cfr.  L.  Carbone,  Facezie,  XXXI:  Erasmo  da  Rotterdam,  Elogio  della  follia. 
Prefazione;  A.  Fregoso,  Riso  de  Democrito  et  pianto  de  Heraclito  (1506),  più 
volte  ristampato  nel  corso  del  XVI  secolo.  Si  veda  inoltre  N.  Ordine,  La  ca- 
bala dell'asino.  Asinità  e  conoscenza  in  G.  Bruno,  Napoli,  1996^,  pp.  115-116. 

19.  Cfr.,  al  principio  del  Dialogo  terzo,  la  descrizione  del  dottor  Nundinio, 
primo  oppositore  di  Bruno  nella  discussione  del  mercoledì  delle  Ceneri. 


PROEMIALE  EPISTOLA  433 

l'ossa  e  cavandone  le  midolla,  trovarete  cosa  da  far  dissoluto 
san  Colombino  patriarca  de  gli  Gesuati^*';  far  impetrar  qualsi- 
voglia mercato,  smascellar  le  simie,  e  romper  silenzio  a  qualsi- 
voglia cemiterio.  Mi  dimanderete:  che  simposio,  che  convito  è 
questo?  È  una  cena.  Che  cena?  De  le  ceneri.  Che  vuol  dir  cena 
de  le  ceneri?  fu  vi  posto  forse  questo  pasto  innante?  potrassi 
forse  dir  qua  cinerem  tamquam  panem  manducabamì^^  Non;  ma 
è  un  convito,  fatto  dopo  il  tramontar  del  sole,  nel  primo  giorno 
de  la  quarantana,  detto  da  nostri  preti  dies  cinerum^^,  e  talvolta 
«giorno  del  memento»^^.  In  che  versa  questo  convito,  questa 
cena?  Non  già  in  considerar  l'animo  et  effetti  del  molto  nobile  e 
ben  creato  signor  Folco  Crivello ^•^,  alla  cui  onorata  stanza  si 
convenne.  Non  circa  gli  onorati  costumi  di  que'  signori  civilis- 
simi, che  per  esser  spettatori  et  auditori,  vi  furono  presenti.  Ma 


20.  Il  senese  Giovanni  Colombini  (1304-1367),  convertitosi  nel  1355,  fonda- 
tore dell'ordine  laico  dei  Gesuati,  aveva  persuaso  sua  moglie  ad  osservare  il 
voto  di  castità. 

21.  Salmi,  CII,  IO:  «Mangio  la  cenere  quasi  fosse  pane»  (i  testi  scritturali 
sono  citati  da  La  Sacra  Bibbia,  tradotta  dai  testi  originali  e  commentata,  a  cura  di 
E.  Galbiati,  A.  Penna  e  P.  Rossano,  Torino,  1973^,  3  voli.). 

22.  «Il  giorno  delle  Ceneri».  Bruno  spiega  allo  stesso  modo  il  titolo  di 
quest'opera  al  tribunale  dell'Inquisizione  di  Venezia,  il  3  giugno  1592  (cfr. 
L.  Firpo,  E  processo  cit,  p.  188).  Il  giorno  delle  Ceneri  cadeva,  nel  1584,  il  15 
febbraio  (ma  cfr  Dialogo  secondo,  p.  466,  nota  2).  F.  A.  Yates  ha  osservato  che 
Cène  è  il  termine  usato  dalla  Riforma  in  Francia  per  indicare  la  mensa  euca- 
ristica e  che  la  disputa  sulla  teoria  copernicana  (in  particolare  sulla  questione 
del  moto  reale  della  Terra),  sulla  quale  Bruno  si  soffermerà  in  quest'opera,  po- 
trebbe essere  interpretata  anche  come  una  disputa  sulla  presenza  reale  di  Cri- 
sto nell'ostia  consacrata.  Cfr.  The  French  Academies  of  the  Sixteenth  Century, 
London,  1947,  p.  228  e  The  Religious  Policy  of  G.  Bruno,  «Journal  of  the  War- 
burg  and  Courtauld  Institute»  [London],  III,  1939-1940,  pp.  181-207  (traduz.  in 
G.  Bruno  e  la  cultura  europea  del  Rinascimento,  introd.  di  E.  Garin,  Roma-Bari, 
1988,  pp.  29-57). 

23.  «Ricordati». 

24.  Sir  Fulke  Greville  (1554-1628),  amico  e  biografo  di  Philip  Sidney  e 
poeta  egli  stesso  (cfr.  J.  Rees,  Fulke  Greville:  A  Criticai  Biography,  London, 
1971)  protesse  Bruno  all'inizio  del  suo  soggiorno  in  Inghilterra,  ma  finì  per 
negargli  la  propria  amicizia:  sia  perché  fu  influenzato  da  alcune  calunnie  in 
merito  alla  persona  di  Bruno  (è  la  spiegazione  avanzata  da  quest'ultimo  nel- 
l'Epistola esplicatoria  dello  Spaccio,  p.  172),  sia  perché  dovette  spiacergli  l'aspra 
satira  della  Cena  sulla  società  e  la  cultura  accademica  inglese.  Si  ritiene  che  la 
discussione  riportata  nella  Cena  abbia  avuto  luogo  nella  «stanza»  di  Greville 
(non  nella  sua  residenza  personale  di  Brooke  Street,  a  Holbom,  ma  nei  suoi 
appartamenti  a  corte,  nei  pressi  di  Whitehall  o  all'interno  della  stessa  Whi- 
tehall  che  è  la  destinazione  finale  dell'itinerario  descritto  nel  Dialogo  secondo). 
Nel  costituto  del  3  giugno  1592  (cfr.  L.  Firpo,  loc.  cit.).  Bruno  situa  la  cena 
nella  «casa  dell'Ambasciator  di  Francia»,  avendo  creduto  forse  più  opportuno 
menzionare  l'ambasciata  di  un  paese  cattolico  piuttosto  che  la  dimora  di  un 
protestante. 


434  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

circa  un  voler  veder  quantumque  può  natura  in  far  due  fanta- 
stiche befane,  doi  sogni,  due  ombre  e  due  febbri  quartane-':  del 
I9I  che  mentre  si  va  crivellando  il  senso  istoriale,  e  poi  si  gusta  e 
mastica,  si  tirano  a  proposito  topografie,  altre  geografice,  altre 
raziocinali,  altre  morali;  speculazioni  ancora,  altre  metafisiche, 
altre  matematiche,  altre  naturali. 

ARGOMENTO  DEL  PRIMO  DIALOGO 

Onde  vedrete  nel  primo  dialogo  proposti  in  campo  doi  sug- 
getti  con  la  raggion  di  nomi  loro,  se  la  vorrete  capire 2^:  secondo, 
in  grazia  loro  celebrata  la  scala  del  numero  binario;  terzo,  ap- 
portate le  condizioni  lodabili  della  ritrovata  e  riparata  filosofia; 
quarto,  mostrato  di  quante  lodi  sia  capace  il  Copernico;  quinto, 
postiv'avanti  gli  frutti  de  la  nolana  filosofia:  con  la  differenza 
tra  questo  e  gli  altri  modi  di  filosofare. 

ARGOMENTO  DEL  SECONDO  DIALOGO 

Vedrete  nel  secondo  dialogo:  prima  la  causa  originale  de  la 
cena;  secondo,  una  descrizzion  di  passi  e  di  passaggi,  che  più 
poetica  e  tropologica-'  forse,  che  istoriale  sarà  da  tutti  giudi- 
cata; terzo,  come  confusamente  si  precipita  in  una  topografia 

25.  Parafrasi  di  F.  Berni.  Sonetto  in  descrizion  dell'arcivescovo  di  Firenze,  w. 
1-3:  «Chi  vuol  veder  quantunque  pò  natura  /  in  far  una  fantastica  befana,  / 
un'ombra,  un  sogno,  una  febbre  quartana»  (Rime,  LXI,  a  cura  di  G.  Bàrberi 
Squarotti,  Torino,  1969,  pp.  174-176). 

26.  Dei  due  avversari  affrontati  dal  Nolano  ad  Oxford  il  primo,  Torquato 
(nome  derivato  dal  latino  torques.  «collana»)  «avea  due  catene  d'oro  lucente  al 
collo»  (cfr.  infra,  p.  441):  il  secondo,  Nundinio  (nome  derivato  dal  latino  nun- 
dinae.  «mercato»:  i  mercanti  si  riconoscevano  dai  loro  anelli),  «con  quella  pre- 
ziosa mano  (che  contenea  dodeci  anella  in  due  dita)»  (cfr.  infra,  pp.  441-442). 

27.  «Tropologico»  vuol  dire  secondo  il  «senso  figurato»,  rivolto  air«edifica- 
zione  dei  costumi»,  a  ciò  che  può  essere  interpretato  in  senso  morale  (uno  dei 
quattro  sensi  della  Scrittura):  si  veda  H.  De  Lubac,  Esegesi  medievale,  traduz. 
di  G.  Auletta,  Roma,  1962.  pp.  192-207  e  983-998.  Per  G.  Gentile,  in  G.  Bruno. 
Dialoghi  italiani.  Firenze,  1958^.  voi.  I,  p.  58,  nota  2.  la  spedizione  notturna, 
attraverso  Londra,  descritta  nel  Dialogo  secondo,  simboleggia  l'obbligo  in  cui 
Bruno  si  sarebbe  trovato  di  attraversare  la  scienza  delle  scuole  del  tempo,  per 
raggiungere  la  sua  propria  scienza,  esposta  e  difesa  nella  «stanza»  di  Greville. 
Rimane  il  fatto  che  la  conformità  della  descrizione  del  Dialogo  secondo  con  la 
topografia  di  Londra  non  può  che  accentuare  il  suo  significato  di  esperienza, 
assieme,  vissuta  e  letteraria,  sul  quale  Bruno,  del  resto,  non  ha  mancato  di 
attirare  l'attenzione. 


PROEMIALE  EPISTOLA  435 

morale:  dove  par  che  con  gli  occhi  di  Linceo  ^^  quinci  e  quindi 
guardando  (non  troppo  fermandosi)  cosa  per  cosa,  mentre  fa  il 
suo  camino,  oltre  che  contempla  le  gran  machine,  mi  par  che 
non  sia  minuzzarla,  né  petruccia,  né  sassetto^^,  che  non  vi  vada  [n] 
ad  intoppare.  Et  in  ciò  fa  giusto  com'un  pittore^";  al  qual  non 
basta  far  il  semplice  ritratto  de  l'istoria:  ma  anco,  per  empir  il 
quadro,  e  conformarsi  con  l'arte  a  la  natura,  vi  depinge  de  le 
pietre,  di  monti,  de  gli  arbori,  di  fonti,  di  fiumi,  di  colline;  e  vi 
fa  veder  qua  un  regio  palaggio,  ivi  una  selva,  là  un  straccio  di 
cielo,  in  quel  canto  un  mezo  sol  che  nasce,  e  da  passo  in  passo 
un  ucello,  un  porco,  un  cervio,  un  asino,  un  cavallo:  mentre 
basta  di  questo  far  veder  una  testa,  di  quello  un  corno,  de  l'al- 
tro un  quarto  di  dietro,  di  costui  l'orecchie,  di  colui  l'intiera 
descrizzione;  questo  con  un  gesto  et  una  mina^',  che  non  tiene 
quello  e  quell'altro:  di  sorte  che  con  maggior  satisfazzione  di  chi 
remira  e  giudica,  viene  ad  istoriar  (come  dicono)  la  figura.  Cossi 
al  proposito,  leggete,  e  vedrete  quel  che  voglio  dire.  Ultimo,  si 
conclude  quel  benedetto  dialogo  con  l'esser  gionto  a  la  stanza, 
esser  graziosamente  accolto,  e  cerimoniosamente  assiso  a  tavola. 

ARGOMENTO  DEL  TERZO  DIALOGO 

Vedrete  il  terzo  dialogo  (secondo  il  numero  de  le  proposte 
del  dottor  Nundinio)  diviso  in  cinque  parti.  De  quali  la  prima 
versa  circa  la  necessità  de  l'una  e  de  l'altra  lingua.  La  seconda 
esplica  l'intenzione  del  Copernico;  dona  risoluzione  d'un  dubio 
importantissimo  circa  le  fenomie  celesti;  mostra  la  vanità  del 
studio  di  perspettivi  et  optici,  circa  la  determinazione  della 
quantità  di  corpi  luminosi;  e  porge,  circa  questo,  nuova,  risoluta  [13] 
e  certissima  dottrina.  La  terza  mostra  il  modo  della  consistenza 
di  corpi  mondani,  e  dechiara  essere  infinita  la  mole  de  l'uni- 

28.  Linceo,  quello  degli  Argonauti  dotato  di  vista  eccezionalmente  pene- 
trante. Cfr.  Orazio,  Sat..  I,  2,  90;  Seneca,  Medea.  231-232. 

29.  «Né  petruccia,  né  sassetto»  sono  allusioni  a  Petruccio  Ubaldini  ed  a 
Tommaso  Sassetto,  menzionati  qualche  pagina  più  sotto. 

30.  Cfr.  G.  Bruno,  Ars  reminiscendi  (Opera  latine  conscripta  [=  Op.  lai.].  Na- 
poli-Firenze, 1879-1891,  II,  2,  p.  133):  «Non  est  enim  philosophus  nisi  qui  fingit 
et  pingit»  («Il  filosofo  infatti  altri  non  è  che  un  uomo  che  dà  una  forma  e 
dipinge»). 

31.  «Mina»,  dal  francese  mine,  aspetto,  espressione  del  viso. 


436  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

verso;  e  che  in  vano  si  cerca  il  centro  o  la  circonferenza  del 
mondo  universale  ^2,  come  fusse  un  de  corpi  particulari.  La 
quarta  afferma  esser  conformi  in  materia  questo  mondo  nostro 
ch'è  detto  globo  della  terra,  con  gli  mondi  che  son  gli  corpi  de 
gli  altri  astri;  e  che  è  cosa  da  fanciulli  aver  creduto  e  credere 
altrimente;  e  che  quei  son  tanti  animali  intellettuali:  e  che  non 
meno  in  quelli  vegetano  et  intendono  molti  et  innumerabili  in- 
dividui semplici  e  composti,  che  veggiamo  vivere  e  vegetar  nel 
dorso  di  questo.  La  quinta,  per  occasion  d'un  argomento  ch'ap- 
portò Nundinio  al  fine,  mostra  la  vanità  di  due  grandi  persua- 
sioni con  le  quali,  e  simili,  Aristotele  et  altri  son  stati  acciecati 
sì,  che  non  veddero  esser  vero  e  necessario  il  moto  de  la  terra;  e 
son  stati  sì  impediti,  che  non  han  possuto  credere  quello  esser 
possibile:  il  che  facendosi,  vengono  discoperti  molti  secreti  de  la 
natura  sin  al  presente  occolti. 

ARGOMENTO  DEL  QUARTO  DIALOGO 

Avete  nel  principio  del  quarto  dialogo  mezzo  per  rispondere 
a  tutte  raggioni  et  inconvenienti  teologali:  e  per  mostrar  questa 
filosofia  esser  conforme  alla  vera  teologia,  e  degna  d'esser  fau- 
rita  da  le  vere  religioni.  Nel  resto  vi  se  pone  avanti  uno,  che 
non  sapea  né  disputar,  né  dimandar  a  proposito  —  il  quale  per 
[15I  esser  più  impudente  et  arrogante,  pareva  a  gli  più  ignoranti  più 
dotto  ch'il  dottor  Nundinio:  ma  vedrete  che  non  bastarebbono 
tutte  le  presse  del  mondo,  per  cavar  una  stilla  di  succhio  dal 
suo  dire  —  per  prender  materia  da  far  dimandar  Smitho,  e  ri- 

32.  Eco  diretta  della  formula,  attribuita  ad  Ermete  Trismegisto,  secondo 
cui  il  centro  del  mondo  è  dappertutto  e  la  circonferenza  in  nessun  luogo. 
Bruno  ha  potuto  leggerla,  in  questa  accezione  propriamente  cosmologica,  in 
N,  Cusano,  De  docta  ignorantia,  II,  11  e  12  (traduz.  in  Opere  filosofiche,  a  cura  di 
G.  Federici-Vescovini,  Torino,  1972,  pp.  144  e  147).  Essa  s'incontra  spesso  nelle 
pagine  del  Nolano,  come  ricorda  G.  Àquilecchia,  a  proposito  della  famosa  te- 
stimonianza di  George  Abbot  sul  modo  in  cui  Bruno  pronunciava  chentrum  & 
chircolus  &  circumferenchia  (cfr.  he  opere  italiane  di  G.  Bruna  Critica  testuale  e 
oltre.  Napoli,  1991,  pp-  84-85  ed  infra.  Dialogo  quarto,  p.  534,  nota  44).  Sul 
tema,  si  veda  D.  Mahnke,  Unendliche  Sphàre  und  Allmittelpunkt,  Stuttgart, 
1966,  pp.  76  e  segg.,  nonché  S.  Meier-Oeser,  Die  Prdsenz  des  Vergessenen.  Zur 
Rezeption  der  Philosophie  des  Nicolaus  Cusanus  vom  75.  bis  zum  18.  Jahrhundert, 
Munster,  1989,  pp.  225  e  segg.  e  R.  Sturlese,  Nicolò  Cusano  e  gli  inizi  della  spe- 
culazione del  Bruno,  in:  Historia  Philosophiae  Medii  Aevi.  Studien  zur  Geschich- 
te  der  Philosophie  des  Mittelalters,  Amsterdam-Philadelphia.  1991,  pp.  953-966. 


PROEMIALE  EPISTOLA  437 

Spendere  il  Teofilo;  ma  è  a  fatto  soggetto  de  le  spampanate  di 
Prudenzio  e  di  rovesci  di  Frulla^'.  E  certo  mi  rincresse^"*  che 
quella  parte  ve  si  trove. 

ARGOMENTO  DEL  QUINTO  DIALOGO 

S'aggionge  il  quinto  dialogo  (vi  giuro)  non  per  altro  rispetto, 
eccetto  che  per  non  conchiudere  sì  sterilmente  la  nostra  cena. 
Ivi  primamente  s'apporta  la  convenientissima  disposizione  di 
corpi  nell'eterea  reggione,  mostrando  che  quello,  che  si  dice  «ot- 
tava sfera»,  «cielo  de  le  fisse»,  non  è  sì  fattamente  un  cielo,  che 
que'  corpi  ch'appaiono  lucidi  siano  equidistanti  dal  mezzo:  ma 
che  tali  appaiono  vicini,  che  son  distanti  di  longhezza  e  latitu- 
dine l'uno  da  l'altro,  più  che  non  possa  essere  l'uno  e  l'altro  dal 
sole  e  da  la  terra.  Secondo,  che  non  sono  sette  erranti  corpi  so- 
lamente, per  tal  caggione  che  sette  n'abbiamo  compresi  per  tali: 
ma  che  per  la  medesima  raggione  sono  altri  innumerabili;  quali 
da  gli  antichi  e  veri  filosofi,  non  senza  causa,  son  stati  nomati 
aethera,  che  vuol  dire  corridori '5.  per  che  essi  son  que'  corpi, 
che  veramente  si  muovono,  e  non  l'imaginate  sfere.  Terzo,  che 
cotal  moto  procede  da  principio  intemo  necessariamente  come 
da  propria  natura  et  anima ^<^:  con  la  qual  verità  si  destruggono 
molti  sogni,  tanto  circa  il  moto  attivo  della  luna  sopra  l'acqui'^  [17] 
et  altre  sorte  d'umori,  quanto  circa  l'altre  cose  naturali,  che  par 
che  conoscano  il  principio  de  lor  moto  da  efficiente  esteriore. 
Quarto,  determina  contra  que'  dubii  che  procedeno  con  la  stol- 
tissima raggione  della  gravità  e  levità  di  corpi:  e  dimostra  ogni 
moto  naturale  accostarsi  al  circolare,  o  circa  il  proprio  centro,  o 
circa  qualch'altro  mezzo.  Quinto,  fa  vedere  quanto  sia  necessa- 
rio che  questa  terra  et  altri  simili  corpi  si  muovano  non  con 

33.  Smitho,  Teofilo,  Prudenzio  e  Frulla  sono  i  quattro  interlocutori  della 
Cena,  cfr.  infra,  p.  441. 

34.  «Rincresse»  per  rincresce  è  assimilazione  caratteristica  dei  dialetti  del- 
l'Italia settentrionale,  ma  osservata  pure  in  quelli  del  meridione. 

35.  Etimologia  erronea  proposta  da  Platone,  Cratylus,  410  b  e  ribadita  da 
Aristotele,  De  caelo,  I,  3,  270  b  22-23. 

36.  Per  Platone,  l'anima  (ipuxTi;  cfr.  Phaedrus,  245  e)  è  il  principio  del  mo- 
vimento; per  Aristotele  è  la  natura  (cpùoi?)  ad  avere  questa  funzione  (cfr.  Phys. 
Auscultai.,  II,  i). 

37.  «Acqui»:  le  parole  dal  singolare  in  -a  e  dal  plurale  in  -i  sono  caratteri- 
stiche dell'italiano  antico  (in  Boccaccio,  ad  esempio,  abbiamo  le  «porti»). 


438  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

una,  ma  con  più  differenze  di  moti;  e  che  quelli  non  denno  es- 
ser più,  né  meno  di  quattro  semplici,  ben  che  concorrano  in  un 
composto:  e  dice  quali  siano  questi  moti  ne  la  terra.  Ultimo, 
promette  di  aggiongere  per  altri  dialogi  quel  che  par  che  manca 
al  compimento  di  questa  filosofia;  e  conchiude  con  una  adiura- 
zione  di  Prudenzio. 

Restarete  maravigliato  come  con  tanta  brevità  e  sufficienza 
s'espediscano  sì  gran  cose.  Or  qua  se  vedrete  talvolta  certi  men 
gravi  propositi,  che  par  che  debbano  temere  di  farsi  innante 
alla  superciliosa  censura  di  Catone,  non  dubitate:  perché  questi 
Catoni  saranno  molto  ciechi  e  pazzi,  se  non  sapran  scuoprir 
quel  ch'è  ascosto  sotto  questi  Sileni 's.  Se  vi  occoreno  tanti  e 
diversi  propositi  attaccati  insieme,  che  non  par  che  qua  sia  una 
scienza,  ma  dove  sa  di  dialogo,  dove  di  comedia,  dove  di  trage- 
dia, dove  di  poesia,  dove  d'oratoria,  dove  lauda,  dove  vitupera, 
dove  dimostra  et  insegna,  dove  ha  or  del  fisico,  or  del  matema- 
tico, or  del  morale,  or  del  logico;  in  conclusione  non  è  sorte  di 
scienza  che  non  v'abbia  di  suoi  stracci:  considerate,  signore,  che 
[19]  il  dialogo  è  istoriale;  dove  mentre  si  riferiscono  l'occasioni,  i 
moti,  i  passaggi,  i  rancontri,  i  gesti,  gli  affetti,  i  discorsi,  le  pro- 
poste, le  risposte,  i  propositi  et  i  spropositi,  remettendo  tutto 
sotto  il  rigore  del  giudizio  di  que'  quattro,  non  è  cosa  che  non 
vi  possa  venir  a  proposito  con  qualche  raggione.  Considerate 
ancora  che  non  v'è  parola  ociosa:  per  che  in  tutte  parti  è  da 
mietere,  e  da  disotterrar  cose  di  non  mediocre  importanza,  e 
forse  più  là  dove  meno  appare.  Quanto  a  quello  che  nella  super- 
ficie si  presenta,  quelli  che  n'han  donato  occasione  di  far  il  dia- 
logo, e  forse  una  satira  e  comedia,  han  modo  di  dovenir  più 
circonspetti,  quando  misurano  gli  uomini  con  quella  verga  con 
la  quale  si  misura  il  velluto,  e  con  la  lance  di  metalli  bilan- 
ciano gli  animi.  Quelli  che  sarrano  spettatori  o  lettori,  e  che 

38.  È  il  tema  platonico  (cfr.  Symp.,  215  a)  della  verità  e  del  valore  che  si 
celano  dietro  l'immagine  deforme  del  Sileno,  ripreso  da  Cusano,  da  Pico,  da 
Rabelais  {Gargantua,  prologo),  da  Tasso  (Gerusalemme  liberata,  XVIII,  30.  1-2), 
chiarito  da  Erasmo,  Adagia,  III,  3,  i  (cfr.  Erasmo,  /  Sileni  di  Alcibiade,  introd.  e 
note  di  Jean-Claude  Margolin,  traduz.  di  Stefano  U.  Baldassarri.  Napoli,  2002); 
ricorrente  in  Bruno  (Spaccio,  p.  173  n.  5;  Acrotismus,  Op.  lai.,  I,  i,  p.  62  e  De 
immenso,  I,  2,  ivi,  p.  208  e  traduz.  in  Opere  latine,  a  cura  di  C.  Monti,  Torino, 
1980,  p.  424).  Cfr.  anche  N.  Ordine.  La  cabala  dell'asino  cit.,  pp.  109-118. 


PROEMIALE  EPISTOLA  439 

vedranno  il  modo  con  cui  altri  son  tocchi,  hanno  per  farsi  ac- 
corti et  imparar  a  l'altrui  spese.  Que'  che  son  feriti  o  punti,  apri- 
ranno forse  gli  occhi,  e  vedendo  la  sua  povertà,  nudità,  indi- 
gnità, se  non  per  amore,  per  vergogna  al  meno  si  potran  correg- 
gere o  cuoprire,  se  non  vogliono  confessare. 

Se  vi  par  il  nostro  Teofìlo  e  Frulla  troppo  grave  e  rigidamen- 
te^^ toccare  il  dorso  d'alcuni  suppositi,  considerate,  signor,  che 
questi  animali  non  han  sì  tenero  il  cuoio:  che  se  le  scosse  fus- 
sero  a  cento  doppia  maggiori,  non  le  stimarebono  punto,  o  sen- 
tirebbono  più  che  se  fussero  palpate  d'una  fanciulla.  Né  vorrei 
che  mi  stimate  degno  di  riprensione,  per  quel  che  sopra  sì  fatte 
inepzie  e  tanto  indegno  campo  che  n'han  porgiuto  questi  dot- 
tori, abbiamo  voluto  exaggerar  sì  gravi  e  sì  degni  propositi:  per 
che  son  certo  che  sappiate  esser  differenza  da  togliere  una  cosa  [21] 
per  fondamento,  e  prenderla  per  occasione.  I  fondamenti  in 
vero  denno  esser  propozionati  alla  grandezza,  condizione  e  no- 
biltà de  l'edificio.  Ma  le  occasioni  possono  essere  di  tutte  sorte, 
per  tutti  effetti:  per  che  cose  minime  e  sordide  son  semi  di  cose 
grande  et  eccellenti.  Sciocchezze  e  pazzie  sogliono  provocar 
gran  consegli,  giudizii  et  invenzioni;  lascio  ch'è  manifesto  che 
gli  errori  e  delitti  han  molte  volte  porgiuta  occasione  a  grandis- 
sime regole  di  giustizia  e  di  boutade. 

Se  nel  ritrare  vi  par  che  i  colori  non  rispondano  perfettamente 
al  vivo,  e  gli  delineamenti  non  vi  parranno  al  tutto  proprii,  sap- 
piate ch'il  difetto  è  provenuto  da  questo,  che  il  pittore  non  ha 
possuto  essaminar  il  ritratto  con  que'  spacii  e  distanze,  che  so- 
glion  prendere  i  maestri  de  l'arte:  perché  oltre  che  la  tavola  o  il 
campo  era  troppo  vicino  al  volto  e  gli  occhi,  non  si  possea  retirar 
un  minimo  passo  a  dietro  o  discostar  da  l'uno  e  l'altro  canto, 
senza  timor  di  far  quel  salto,  che  feo  il  figlio  del  famoso  defensor 
di  Troia""".  Pur  tal  qual'è,  prendete  questo  ritratto  ove  son  que' 
doi,  que'  cento,  que'  mille,  que'  tutti;  atteso  che  non  vi  si  manda 
per  informarvi  di  quel  che  sapete,  né  per  gionger  acqua  al  rapido 
fiume  del  vostro  giudizio  et  ingegno:  ma  perché  so  che  secondo 

39.  «Grave  e  rigidamente»:  coppia  aplologica.  Porre  sotto  un  unico  suffisso 
avverbiale  uno  o  più  aggettivi  che  si  susseguono  è  uso  abbastanza  frequente 
dell'italiano  antico. 

40.  Allusione  alla  fine  tragica  di  Astianatte,  figlio  di  Ettore,  gettato  giù  dai 
bastioni  di  Troia  dagli  Achei  vittoriosi  (cfr.  Seneca,  Troades,  1063,  11 18). 


440  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

l'ordinario,  benché  conosciamo  le  cose  più  perfettamente  al  vivo, 
non  sogliamo  però  dispreggiar  il  ritratto  e  la  rapresentazion  di 
quelle.  Oltre  che  son  certo  ch'il  generoso  animo  vostro  drizzarà 
l'occhio  della  considerazion  più  alla  gratitudine  dell'affetto  con 
[23]  cui  si  dona,  che  al  presente  della  mano  che  vi  porge.  Questo  s'è 
drizzato  a  voi,  che  siete  più  vicino,  e  vi  mostrate  più  propizio  e 
più  faurevole  al  nostro  Nolano:  e  però  vi  siete  reso  più  degno 
supposito  di  nostri  ossequii  in  questo  clima  dove  i  mercanti  sen- 
za conscienza  e  fede,  son  facilmente  Cresi;  e  gli  virtuosi  senz'oro, 
non  son  difficilmente  Diogeni.  A  voi  che  con  tanta  munificenza 
e  libertà  avete  accolto  il  Nolano  al  vostro  tetto  e  luogo  più  emi- 
nente di  vostra  casa-^';  dove  se  questo  terreno  in  vece  che  manda 
fuori  mille  torvi  gigantoni,  producesse  altri  tanti  Alessandri  Ma- 
gni, vedreste  più  di  cinquecento  venir  a  corteggiar  questo  Dioge- 
ne, il  qual  per  grazia  de  le  stelle  non  hav'altro  che  voi  che  gli 
venga  a  levar  il  sole''^^  se  pur  (per  non  farlo  più  povero  di  quel 
cinico  mascalzone)  manda  qualche  diretto  o  reflesso  raggio  den- 
tro quella  buca  che  sapete.  A  voi  si  consacra,  che  in  questa  Bri- 
tannia  rapresentate  l'altezza  di  sì  magnanimo,  sì  grande  e  sì  po- 
tente re-^',  che  dal  generosissimo  petto  de  l'Europa,  con  la  voce  de 
la  sua  fama  fa  rintronar  gli  estremi  cardini  de  la  terra.  Quello  che 
quando  irato  freme,  come  leon  da  l'alta  spelonca,  dona  spaventi 
et  orror  mortali  a  gli  altri,  predatori  potenti  di  queste  selve;  et 
quando  si  riposa  e  si  quieta,  manda  tal  vampo  di  liberale  e  di 
cortese  amore,  ch'infiamma  il  tropico  vicino,  scalda  l'Orsa  gelata, 
e  dissolve  il  rigor  de  l'artico  deserto,  che  sotto  l'eterna  custodia 
del  fiero  Boote  si  raggira''''. 

[25]  Vale  45 

41.  Nel  costituto  del  30  maggio  1592  (cfr.  L.  Firpo,  77  processo  cit.,  p.  162), 
Bruno  dichiara  che  durante  il  suo  soggiorno  londinese  era  alloggiato  presso  la 
residenza  dell'ambasciatore  Michel  de  Castelnau;  forse  a  Butcher  Row  (via  nei 
pressi  della  chiesa  di  Saint  Clemens  Danes,  fra  Tempie  Bar  e  lo  Strand,  oggi 
non  più  esistente),  secondo  W.  Boulting  (G.  Bruno,  London,  1914,  p.  89),  oppure 
a  Salisbury  Court,  secondo  J.  Bossy  (traduz.  cit,  pp.  293-297). 

42.  Cfr.  Diogene  Laerzio,  VI,  38. 

43.  Enrico  III,  il  sovrano  che  aveva  ricevuto  a  corte  Bruno,  durante  il 
primo  soggiorno  parigino  di  questi,  nel  1581-1583,  nominandolo  Lecteur  royal. 
Bruno  gli  aveva  dedicato  il  De  unibris  idearum. 

44.  La  stessa  immagine  in  Seneca,  Octauia,  236-239  e  Medea,  314-317.  Si 
veda  anche,  di  Bruno,  VOratio  valedidoria,  Op.  lat,  I,  i,  p.  24. 

45.  «Addio». 


DIALOGO  PRIMO 

Interlocutori  ^ 

Smitho,  Teofilo  filosofo,  Prudenzio  pedante, 
Frulla 

[Smitho.]  -  Parlavan  ben  latino? 

Teofilo.  -  Sì. 

Smitho.  -  Galant'uomini? 

Teofilo.  -  Sì. 

Smitho.  -  Di  buona  riputazione? 

Teofilo.  -  Sì. 

Smitho.  -  Dotti? 

Teofilo.  -  Assai  competentemente. 

Smitho.  —  Ben  creati,  cortesi,  civili? 

Teofilo.  -  Troppo  mediocremente. 

Smitho.  -  Dottori? 

Teofilo.  —  Messer  sì,  padre  sì,  madonnasì,  madesì:  credo  da 
Oxonia. 

Smitho.  -  Qualificati? 

Teofilo.  -  Come  non?  uomini  da  scelta,  di  robba  lunga,  ve- 
stiti di  velluto:  un  de  quali  avea  due  catene  d'oro  lucente  al 
collo;  e  l'altro  (per  Dio)  con  quella  preziosa  mano  (che  contenea  [27] 


I.  Teofilo  è  il  portavoce  del  Nolano.  -  Smitho  deve  probabilmente  il  suo 
nome  a  John  Smith,  a  cui  Claudius  Hollyband  dedicò  (col  suo  vero  nome,  De- 
sainliens)  The  Italian  Schoole-master,  London,  1597,  un  manuale  per  l'insegna- 
mento della  lingua  italiana.  -  «Frulla»  vuol  dire,  alla  lettera,  «cosa  di  poco 
valore»:  è  il  nome  di  uno  degli  ospiti  della  commedia  Gli  ingannati  (1532),  III, 
2.  —  Prudenzio  è  il  nome  dato  al  protagonista  de  H  pedante,  commedia  di  Fran- 
cesco Belo  la  cui  prima  edizione  conosciuta  è  del  1538.  Sui  cambiamenti  inter- 
venuti nella  presentazione  dei  personaggi  fra  la  prima  e  la  seconda  redazione  e 
sulle  differenze  tra  le  due  redazioni  del  Dialogo  primo,  si  veda  la  Nota  filologica 
di  Giovanni  Aquilecchia  in  questo  volume  alle  pp.  238-243  e  l'Appendice  I  alle 
PP-  575-578. 


442  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

dodeci  anella  in  due  dita)  sembrava  uno  ricchissimo  gioielliero, 
che  ti  cavava  gli  occhii  et  il  core,  quando  la  vagheggiava. 

Smitho.  -  Mostravano  saper^  di  greco? 

Teofilo.  -  e  di  birra  eziamdio. 

Prudenzio.  -  Togli  via  queir« eziamdio»,  poscia  è  una  abso- 
leta  et  antiquata  diczione. 

Frulla.  —  Tacete  maestro,  che  non  parla  con  voi. 

Smitho.  —  Come  eran  fatti? 

Teofilo.  -  L'uno  parea  il  connestabile  della  gigantessa  e 
l'orco;  l'altro  l'amostante  della  dea  de  la  riputazione. 

Smitho.  -  Sì  che  eran  doi? 

Teofilo.  —  Sì  per  esser  questo  un  numero  misterioso^. 

Prudenzio.  —  Ut  essent  duo  testes'^. 

Frulla.  —  Che  intendete  per  quel  «testes»?^ 

Prudenzio.  —  Testimoni,  essaminatori  della  nolana  sufficien- 
za: ai  me  hercle^  per  che  avete  detto,  Teofilo,  che  il  numero  bi- 
nario è  misterioso? 

Teofilo.  —  Perché  due  sono  le  prime  coordinazioni,  come 
dice  Pitagora:  finito  et  infinito,  curvo  e  retto,  destro  e  sinistro,  e 
va  discorrendo.  Due  sono  le  spezie  di  numeri:  pare  et  impare,  de 
quali  l'una  è  maschio,  l'altra  è  femina.  Doi  sono  gli  Cupidi^: 
superiore  e  divino,  inferiore  e  volgare.  Doi  sono  gli  atti  de  la 
vita^:  cognizione  et  affetto.  Doi  sono  gli  oggetti  di  quelli:  il  vero 
et  il  bene.  Due  sono  le  specie  di  moti:  retto  con  il  quale  i  corpi 

2.  L'ambiguità  della  frase  è  determinata  giocando  (come  sta  per  fare  Teo- 
filo) sul  doppio  senso  del  verbo  sapere,  che  significa  sia  «conoscere  [il  greco]» 
sia  «puzzare  [di  birra]». 

3.  Cfr.  G.  Bruno,  De  monade.  III,  Diadis  figura  digonus,  Op.  lai.,  I,  2,  pp.  349 
e  segg.  (traduz.  in  G.  Bruno,  Opere  latine,  a  cura  di  C.  Monti,  Torino,  1980, 
pp.  317-325).  Nei  secoli  XVI  e  XVII  i  numeri  erano  spesso  ritenuti,  giusta  la 
tradizione  platonico-cristiana,  simboli  misteriosi  della  divinità. 

4.  «Purché  vi  siano  due  testimoni». 

5.  Allusione  oscena  al  doppio  senso  del  latino  tesiis:  «testimone»  e  «testico- 
lo». Cfr.  NizOLius,  Lyon,  1583,  p.  142:  «Testes:  verbum  honestum  in  judiciis: 
alias  turpe»  {«Testes:  parola  onesta  in  un  contesto  giudiziario;  osceno  negli  al- 
tri»). 

6.  «Ma,  per  Ercole...». 

7.  Derivata  da  Platone,  Symp.,  181  b  e  segg.,  la  distinzione  tra  i  due 
Amori  è  successivamente  passata  nella  teologia  neoplatonica  (cfr.,  tra  gli  altri, 
Proclo,  In  Ale,  30,  8  e  segg.,  sezione  tradotta  da  Marsilio  Ficino). 

8.  Teofilo  riprende  fedelmente  la  terminologia  della  tradizione  pitagorica. 
Per  un  esame  preciso  del  significato  dei  numeri  da  i  a  io,  si  veda  il  De  mo- 
nade, Op.  lat,  I,  2,  pp.  319-384  (ed  in  particolare  sulla  dualità,  le  pp.  353-357)- 
Cfr.  ed.  Monti  cit,  pp.  293-413  (318-320). 


DIALOGO  PRIMO  443 

tendeno  alla  conservazione,  e  circulare  col  quale  si  conservano.  [29] 
Doi  son  gli  principii  essenziali  de  le  cose:  la  materia  e  la  forma. 
Due  le  specifiche  differenze  della  sustanza:  raro  e  denso,  sem- 
plice e  misto.  Doi  primi  contrarii  et  attivi  principii:  il  caldo  et  il 
freddo.  Doi  primi  parenti  de  le  cose  naturali:  il  sole  e  la  terra ^. 
Frulla.  —  Conforme  al  proposito  di  que'  prefati  doi,  farò 
un'altra  scala  del  binario  1°.  Le  bestie  entromo  ne  l'arca  a  due  a 
due;  ne  uscirono  ancora  a  due  a  due^i.  Doi  sono  i  corifei  di 
segni  celesti:  Aries  e  Taurus^^.  Due  sono  le  specie  di  nolite  fieri^^: 
cavallo  e  mulo.  Doi  son  gli  animali  ad  imagine  [e]  similitudine 
de  l'uomo:  la  scimia  in  terra,  el  barbagianni  in  cielo.  Due  sono 
le  false  et  onorate  reliquie  di  Firenze  in  questa  patria:  i  denti  di 
Sassetto''',  e  la  barba  di  Pietruccia''.  Doi  sono  gli  animali  che 

9.  Si  tratta  di  termini  che  derivano  dalla  fìsica  qualitativa  di  Platone  e  di 
Aristotele,  passando  attraverso  il  Medio  Evo  latino  (cfr.  L.  Cozzi,  //  lessico 
scientifico  nel  dialogo  del  Rinascimento,  in:  H  dialogo  filosofico  nel  '§00  europeo,  a 
cura  di  D.  Bigalli  e  G.  Canziani,  Milano,  1990.  p.  71).  -  Riferendosi  in  partico- 
lare agli  «attivi  principii:  il  caldo  et  il  freddo»,  H.  Gatti,  Telesio,  G.  Bruno  e 
Thomas  Harriot  (relazione  letta  il  16  ottobre  1992  all'Accademia  Cosentina  in 
occasione  della  giornata  di  studio  su  La  filosofia  naturale  del  Rinascimento  me- 
ridionale) ha  segnalato  la  fonte  telesiana  della  «scala  del  binario»  presentata 
qui  da  Teofilo  (cfr.  G.  Aquilecchia,  «La  cena  de  le  ceneri»,  in:  Letteratura  ita- 
liana. Le  opere,  Torino,  voi.  II,  1993,  p.  702). 

10.  Frulla  inizia  a  parodiare  i  temi  della  dottrina  cristiana,  ricollegandoli 
alla  tradizione  pagana.  Si  veda  la  citazione  del  De  civitate  Dei  di  Agostino  data 
da  Pietro  Bongo  nei  suoi  Numerorum  mysteria,  Bergamo,  1583-1584  (ediz.  Paris, 
1618,  pp.  69-72).  E  cfr.  B.  Croce,  Libri  secenteschi  sui  misteri  dei  numeri,  «La 
Critica»  [Bari],  XIX,  1921,  pp.  251-256. 

11.  Cfr.  Genesi,  VI,  19  e  Vili,  16. 

12.  L'Ariete  e  il  Toro  sono  detti  «corifei»  perché  occupano  le  prime  due 
case  dello  Zodiaco  all'equinozio;  cfr.  Appendice,  II,  p.  587. 

13.  Cfr.  Salmi.  XXXII,  9:  «Non  essere  come  un  cavallo,  un  mulo  senza  in- 
telligenza». 

14.  Il  toscano  Tommaso  di  Vincenzio  Sassetto,  già  capitano  in  Francia, 
passò  in  seguito  al  servizio  della  regina  d'Inghilterra  e  mori  nel  1593  (cfr. 
V.  Spampanato,  Postille  storico-letterarie  alle  opere  italiane  di  G.  Bruno,  «La  Cri- 
tica» [Bari],  IX,  191 1,  p.  468).  Nelle  Hatfield  Papers,  una  lettera  di  delazione 
indirizzata  a  Elisabetta  e  datata  1577  (ma  1578)  lo  presenta  come  uomo  di 
fiducia  di  Robert  Dudley,  conte  di  Leicester,  che  l'avrebbe  salvato  nel  mo- 
mento in  cui  l'italiano  correva  il  rischio  di  essere  impiccato  per  omicidio  (cfr. 
H.  Walpole,  Anedoctes  of  Painting  in  England  with  some  Account  of  the  Princi- 
pals  Artists,  London,  1888,  I,  p.  169). 

15.  Il  toscano  Pietruccio  Ubaldini  era  arrivato  in  Inghilterra  nel  1545  e 
aveva  preso  parte  alle  guerre  di  Enrico  Vili  e  di  Edoardo  VI.  Era  apprezzato 
soprattutto  come  miniatore  di  codici  e  uomo  di  lettere,  godendo  della  simpatia 
della  regina  Elisabetta.  Cfr.  G.  Pellegrini,  Un  fiorentino  alla  corte  d'Inghilterra 
nel  Cinquecento:  P.  Ubaldini,  Torino,  1967  (in  appendice:  La  relazione  dlnghilter- 
ra);  A.  M.  Crinò,  Avvisi  di  Londra  di  P.  Ubaldini  fiorentino,  relativi  agli  anni 
^579'^594^  con  notizie  sulla  guerra  di  Fiandra,  «Archivio  storico  italiano»  [Fi- 


444  ^^  CENA  DE  LE  CENERI 

disse  il  profeta  1^  aver  più  intelletto  ch'il  popolo  d'Israele:  il 
bove,  perché  conosce  il  suo  possessore,  e  l'asino,  perché  sa  tro- 
var il  presepio  del  padrone.  Doi  furono  le  misteriose  cavalca- 
ture del  nostro  redentore,  che  significano  il  suo  antico  credente 
ebreo,  et  il  novello  gentile:  l'asina  et  il  pullo  ^ '.  Doi  sono  da  que- 
sti li  nomi  derivativi  ch'han  formate  le  dizzioni  titulari  al  se- 
cretario  d'Augusto:  Asinio  e  Pullione^^  Doi  sono  i  geni  de  gli 
asini:  domestico  e  salvatico.  Doi  i  lor  più  ordinarii  colori:  biggio 
e  morello.  Due  sono  le  piramidi  nelle  quali  denno  esser  scritti  e 
dedicati  all'eternità  i  nomi  di  questi  doi  et  altri  simili  dottori: 
la  destra  orecchia  del  cavai  di  Sileno,  e  la  sinistra  de  Fantigoni- 
sta  del  dio  de  gli  orti^^. 

Prudenzio.  -  Optimae  indolis  ingenium,  enumeratio  minime 
[31]   contemnenda~^\ 

Frulla.  -  Io  mi  glorio,  messer  Prudenzio  mio,  per  che  voi 

renze],  CXXVII,  1969  (1970),  pp.  461-581  e  Come  P.  Ubaldini  vede  lo  scisma 
d'Inghilterra  in  un  suo  manoscritto  consertato  all'Archivio  di  Stato  di  Firenze,  in: 
Studi  offerti  a  R.  Ridolfi,  Firenze,  1973.  pp.  223-236;  su  Ubaldini  come  «curato- 
re» delle  opere  italiane  stampate  da  John  Wolf  a  Londra,  si  veda  N.  Orsini, 
Studi  sul  Risorgimento  italiano  in  Inghilterra,  Firenze,  1937  {Le  traduzioni  elisa- 
bettiane inedite  di  Machiavelli);  per  un  elenco  delle  opere  di  Ubaldini,  tutte 
edite  a  Londra,  cfr.  H.  Sellers,  Italian  Books  printed  in  England  before  1640, 
London,  1924.  Secondo  D.  Zancani,  Anglicismi  nella  «Relazione  d'Inghilterra»  e 
nella  «Descrittione  del  Regno  di  Scotia»  di  P.  Ubaldini.  «Lingua  nostra»  [Firen- 
ze], XXXVI,  1975,  pp.  53-58,  «sembra  certo  che  abbia  tradotto  dall'inglese 
l'opuscolo  ...  The  Execution  of  Justice  in  England,  del  1584»,  commissionato  da 
William  Cecil.  Lord  Bui^hley.  contro  Leicester  se  ciò  fosse  vero,  si  compren- 
derebbe meglio  il  carattere  satirico  dell'allusione  al  personaggio.  Quanto  alla 
«barba»  è  un'indicazione  di  Bruno  che  potrebbe  contribuire  a  far  identifica- 
re come  Petruccio  Ubaldini  il  «Barbagrigia  stampatore»  (in  realtà  «curatore» 
per  conto  di  John  Wolf)  che  ha  edito  i  Ragionamenti  dell'Aretino,  Londra, 
1584,  e  redatto  la  lettera  dello  stampatore  (cfr.  P.  Aretino,  Sei  giornate,  a  cura 
di  G.  Aquilecchia,  Bari,  1969,  p.  400,  nota  i).  Più  recentemente,  si  è  voluto 
indicare  in  Giacomo  Castel  vetro  il  vero  «curatore»  delle  edizioni  italiane  di 
Wolf:  cfr.  P.  Ottolenghi,  Giacopo  Castelvetro,  esule  modenese  nell'Inghilterra  di 
Shakespeare,  Pisa,  1982. 

16.  Cfr.  Isaia,  l,  3. 

17.  Cfr.  Zaccaria,  IX.  9  e  Matteo,  XXI,  6-7.  Si  guardi  all'uso  che  T.  Folengo 
fa  di  queste  citazioni  bibliche  nel  Caos  del  Triperunc,  selva  II  (Opere  italiane,  a 
cura  di  U.  Renda,  Bari,  voi.  L  1911,  p.  323). 

18.  Un'analoga  osservazione  in  F.  TvRCHi,  Lettere  facete,  Venezia,  1575.  IL 
pp.  424-425. 

19.  Si  tratta  dell'asino,  «antagonista»  di  Priapo.  dio  degli  orti,  perché  i  suoi 
ragli  avevano  svegliato  la  ninfa  Lotis.  insidiata  dal  dio  (cfr.  Ovidio,  Fasti,  I, 
415  e  segg.).  Frulla  vuol  dunque  dire  che  i  due  dottori  meriterebbero  un  mo- 
numento composto  da  due  orecchie  d'asino. 

20.  «Che  ingegno  di  buona  temprai  Che  enumerazione  degna  della  mas- 
sima considerazione!». 


DIALOGO  PRIMO  445 

approvate  il  mio  discorso,  che  séte  più  prudente  che  l'istessa 
prudenzia,  perciò  che  séte  la  prudenzia  masculini  generis^K 

Prudenzio.  —  Ncque  id  sine  lepore  et  gratia^^.  Orsù  isthaec  mit- 
tamus  encomia.  Sedeamus  quia,  ut  ait  Peripateticorum  princeps,  se- 
dendo et  quiescendo  sapimus^^:  e  cossi  insino  al  tramontar  del 
sole  protelaremo  il  nostro  tetralogo,  circa  il  successo  del  collo- 
quio del  Nolano  col  dottor  Torquato  et  il  dottor  Nundinio. 

Frulla.  —  Vorrei  sapere  quel  che  volete  intendere  per  quel 
«tretalogo». 

Prudenzio.  —  «Tetralogo»  dissi  io,  id  est  quatuorum  sermo, 
come  «dialogo»  vuol  dire  duorum  sermo,  «trilogo»  trium  sermo;  e 
cossi  oltre,  de  «pentalogo»,  «eptalogo»  et  altri,  che  abusiva- 
mente si  chiamano  «dialogi»,  come  dicono  alcuni,  quasi  diver- 
sorum  logi:  ma  non  é  verisimile  che  gli  Greci  inventori  di  questo 
nome,  abbino  quella  prima  sillaba  «di»  prò  capite  illius  latinae 
dictionis  «diversum»^'^. 

Smitho.  —  Di  grazia,  signor  maestro,  lasciamo  questi  rigori 
di  gramatica,  e  venemo  al  nostro  proposito. 

Prudenzio.  —  0  seclum^^,  voi  mi  parete  far  poco  conto  delle 
buone  lettere.  Come  potremo  far  un  buon  tetralogo,  se  non  sap- 
piamo che  significhi  questa  dizzione  «tetralogo»?  e  quod  peius 
est^^,  pensaremo  che  sia  un  dialogo?  non  ne  a  definitione  et  a 
nominis  explicatione  exordiendum^'' ,  come  il  nostro  Arpinate  ne 
insegna?  2^ 

Teofilo.  —  Voi,  messer  Prudenzio,  séte  troppo  prudente:  la-   [33] 
sciamo,  vi  priego,  questi  discorsi  grammaticali,  e  fate  conto  che 

21.  È  come  se  dicesse  la  prudenza  «fatta  uomo». 

22.  «Peraltro  non  priva  di  fascino  e  di  grazia». 

23.  «Basta  con  questi  elogi.  Sediamo  dunque  perché,  come  dice  il  principe 
dei  Peripatetici,  è  restando  seduti  ed  a  riposo  che  si  apprende».  Cfr.  Aristo- 
tele, Phys.  Auscultai,  VII,  3,  247  b  io;  Tommaso  d'Aquino,  Comm.  Phys.,  I, 
VII,  lect.  6;  Dante,  De  Monarchia,  I,  4,  2. 

24.  Id  est  ...  sermo:  «vale  a  dire,  discorso  a  quattro».  —  Duorum  sermo:  «un 
discorso  a  due».  -  Trium  sermo:  «un  discorso  a  tre».  -  Diversorum  logi:  «ragio- 
namenti fatti  tra  persone  diverse».  —  «di»  ...  «diversum»:  «[La  prima  sillaba] 
"di"  come  principio  della  parola  latina  "diversum"».  Tutte  le  etimologie  pro- 
poste, così  come  quella  rifiutata,  sono  false. 

25.  «O  secolo!». 

26.  «Ciò  che  è  peggio». 

27.  «Forse  che  non  si  deve  cominciare  con  una  definizione  ed  una  spiega- 
zione del  nome?». 

28.  L' Arpinate  è,  ovviamente,  Cicerone,  di  cui  si  parafrasa  qui  De  officiis,  1, 
2,7- 


446  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

questo  nostro  raggionamento  sia  un  dialogo;  atteso  che  benché 
siamo  quattro  in  persona,  saremo  dui  in  officio:  di  proponere  e 
rispondere,  di  raggionare  et  ascoltare.  Or  per  dar  principio  e  re- 
portar il  negocio  da  capo  -  venite  ad  inspirarmi,  o  Muse;  non 
dico  a  voi  che  parlate  per  gonfio  e  superbo  verso  in  Elicona^'': 
per  che  dubito  che  forse  non  vi  lamentiate  di  me  al  fine, 
quando  dopo  aver  fatto  sì  lungo  e  fastidioso  peregrinaggio,  var- 
cati sì  perigliosi  mari,  gustati  sì  fieri  costumi,  vi  bisognasse  di- 
scalze e  nude  tosto  repatriare,  perché  qua  non  son  pesci  per 
Lombardi'".  Lascio  che  non  solo  siete  straniere,  ma  siete  ancor 
di  quella  razza  per  cui  disse  un  poeta: 

Non  fu  mai  greco  di  malizia  netto '^ 

Oltre  che  non  posso  inamorarmi  di  cosa  ch'io  non  vegga.  Altre, 
altre  sono  che  m'hanno  incatenata  l'alma'^  a  voi  altre  dumque 
dico,  graziose,  gentili,  pastose,  morbide,  gioveni,  belle,  delicate, 
biondi  capelli,  bianche  guance,  vermiglie  gote,  labra  succhiose, 
occhi  divini,  petti  di  smalto  e  cuori  di  diamante '':  per  le  quali 
tanti  pensieri  fabrico  ne  la  mente,  tanti  affetti  accolgo  nel 
spirto,  tante  passioni  concepo  nella  vita,  tante  lacrime  verso  da 
gli  occhi,  tanti  suspiri  sgombro  dal  petto,  e  dal  cor  sfavillo  tante 
fiamme;  a  voi  Muse  d'Inghilterra  dico,  inspiratemi,  suffiatemi, 
scaldatemi,  accendetemi,  lambiccatemi,  e  risolvetemi  in  liquore, 

29.  Cfr.  G.  Bruno,  Be  la  causa.  Dialogo  primo,  p.  617:  «Non  raggionarò 
come  ...  gonfiato  di  vento  da  le  puttane  muse  di  Parnaso». 

30.  La  frase,  che  riproduce  l'ultimo  verso  di  un  sonetto  del  Burchiello  (La 
gloriosa  fama  de  i  Dauitti.  in  Rime  del  Burchiello  cementate  dal  Doni,  Venezia, 
1553,  pp.  17-19),  conclude  una  dichiarazione  di  poetica  anti-classica. 

31.  Bruno  condensa  qui  due  versi  di  L.  Pulci:  «Non  vi  fu  mai  guercio  di 
malizia  netto»  (cfr.  Morgante.  XXI,  138,  7)  e  «Odi  ribaldo!  odi  malizia  greca» 
(ivi.  XVIII,  75,  5).  Dal  XIV  al  XVI  secolo,  la  «malizia  greca»  era  divenuta 
proverbiale  nella  letteratura  italiana  (cfr.  G.  \ìllani.  Cronica,  XII,  8;  T.  Tasso, 
Gerusalemme  liberata,  II,  72,  i). 

32.  Cfr.  l'Argomento  sopra  gli  Eroici  Furori,  p.  487,  in  cui,  dopo  aver  consi- 
derato la  donna  come  soggetto  poetico,  alla  stregua  dei  più  bassi  e  triviali, 
propone  un'eccezione  «per  quelle  che  possono  essere  e  sono  particolarmente  in 
questo  paese  Britannico  ...  perché  ...  dove  si  ragionasse  de  tutto  il  sesso  feme- 
nile,  non  si  deve  né  può  intendere  de  alcune  vostre,  che  ...  non  son  femine,  non 
son  donne,  ma,  in  similitudine  di  quelle,  son  nimfe,  son  dive,  son  di  sustanza 
celeste»  e  ivi,  p.  498-499,  il  sonetto  Iscusation  del  Nolano  alle  più  virtuose  e  leg- 
giadre dame. 

33.  Espressioni  caratteristiche  dello  stile  di  Petrarca  e  della  tradizione  pe- 
trarchista. 


DIALOGO  PRIMO  447 

datemi  in  succhio^'',  e  fatemi  comparir  non  con  un  picciolo,  de- 
licato, stretto,  corto  e  succinto  epigramma:  ma  con  una  copiosa 
e  larga  vena  di  prosa  lunga,  corrente,  grande  e  soda;  onde  non  [35] 
come  da  un  arto  calamo,  ma  come  da  un  largo  canale  mande  i 
rivi  miei.  E  tu,  Mnemosine  mia,  ascosa  sotto  trenta  sigilli,  e  rin- 
chiusa nel  tetro  carcere  dell'ombre  de  le  idee '5,  intonami  un 
poco  ne  l'orecchio.  —  A  i  dì  passati  vennero  doi^*^  al  Nolano  da 
parte  d'un  regio  scudiero^'',  facendogl'intendere  qualmente  co- 
lui bramava  sua  conversazione  per  intender  il  suo  Copernico  et 
altri  paradossi  di  sua  nova  filosofia ^^.  Al  che  rispose  il  Nolano, 
che  lui  non  vedea  per  gli  occhi  di  Copernico,  né  di  Ptolomeo; 
ma  per  i  proprii  quanto  al  giudizio  e  la  determinazione;  benché 
quanto  alle  osservazioni  stima  dover  molto  a  questi  et  altri  sol- 
leciti matematici,  che  successivamente  a  tempi  e  tempi,  gion- 
gendo  lume  a  lume,  ne  han  donati  principii  sufficenti  per  i 
quali  siamo  ridutti  a  tal  giudici©,  quale  non  possea  se  non  dopo 
molte  non  ociose  etadi  esser  parturito.  Giongendo  che  costoro  in 
effetto  son  come  quelli  interpreti  che  traducono  da  uno  idioma 
a  l'altro  le  paroli:  ma  sono  gli  altri  poi  che  profondano  ne'  sen- 
timenti, e  non  essi  medesimi'^.  E  son  simili  a  que'  rustici  che 
rapportano  gli  affetti  e  la  forma  d'un  conflitto  a  un  capitano 
absente;  et  essi  non  intendono  il  negocio,  le  raggioni  e  l'arte,  co 

34.  Questa  prolungata  metafora  erotica  trova  i  suoi  precedenti  letterari  non 
solamente  in  N.  Franco,  Priapea  (sonetti  Nell'opra,  ch'ora  io  tesso  al  chiaro 
onore,  0  Polimnia,  io  prego  che  m'aiti,  Donne,  saper  dovete,  ch'acqua  rosa),  ma 
altresì  nei  Capitoli  di  L.  Tansillo.  Le  espressioni  di  Bruno  sono  più  complesse  e 
più  ambigue,  ma  la  situazione  è  analoga:  si  tratta  di  rifiutare  l'aiuto  delle  Muse 
della  mitologia  classica,  per  rivolgersi  a  donne  in  carne  ed  ossa. 

35.  Allusione  alla  Triginta  sigillorum  explicatio  ed  al  De  umbris  idearum, 
dove  Bruno  espone  la  sua  arte  della  memoria. 

36.  John  Florio  e  Matthew  Gwinne,  i  cui  nomi  apparivano  nella  redazione 
primitiva  del  principio  di  questo  Dialogo:  cfr.  Appendice  I,  p.  578  e  Dialogo 
secondo,  p.  467,  nota  6. 

37.  Sir  Fulke  Greville. 

38.  Copernico  aveva  egli  stesso  sottolineato  il  carattere  «paradossale»  e 
«assurdo»  dell'eliocentrismo,  che  colpì  in  effetti  i  primi  lettori  del  De  revolutio- 
nibus. 

39.  Bruno  ha  sviluppato  la  sua  concezione  della  traduzione  nel  De  la 
causa.  Dialogo  terzo.  Ad  Oxford,  l'anno  precedente,  aveva  parlato  della  neces- 
sità delle  traduzioni,  com'è  attestato  da  N[icholas?]  W[hithalk?],  nella  sua  pre- 
fazione alla  versione  inglese  delle  Imprese  di  Paolo  Giovio  apprestata  da  Sa- 
muel Daniel,  London,  1585.  Si  veda  inoltre  J.  Florio,  prefazione  To  the  cur- 
teous  Reader,  alla  sua  traduzione  degli  Essays  di  Montaigne,  London,  1603  (cfr. 
G.  Aquilecchia,  G.  Bruno  in  Inghilterra  (1583-1585).  Documenti  e  testimonianze, 
«Bruniana  &  Campanelliana»  [Pisa-Roma],  L  1995.  PP-  28-31). 


448  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

la  quale  questi  son  stati  vittoriosi:  ma  colui  che  ha  esperienza  e 
meglior  giudicio  ne  l'arte  militare.  Cossi  a  la  tebana  Manto,  che 
vedeva  ma  non  intendeva,  Tiresia  cieco,  ma  divino  interprete, 
diceva: 

Visti  carentem  magna  pars  veri  latet, 
sed  quo  vocat  me  patria,  quo  Phoebus  sequar: 
tu  lucis  inopem  gnata  genitorem  regens, 
[37]  manifesta  sacri  signa  fatidici  refer'*^. 

Similmente  che  potreimo  giudicar  noi,  si  le  molte  e  diverse  ve- 
rificazioni de  l'apparenze  de  corpi  superiori  o  circostanti  non  ne 
fussero  state  dechiarate  e  poste  avanti  gli  occhi  de  la  raggione? 
Certo  nulla.  Tutta  via  dopo  aver  rese  le  grazie  a  gli  dèi  distri- 
butori de  doni  che  procedono  dal  primo  et  infinito  omnipotente 
lume,  et  aver  magnificato  il  studio  di  questi  generosi  spirti,  co- 
noscerne apertissimamente  che  doviamo  aprir  gli  occhi  a  quello 
ch'hanno  osservato  e  visto:  e  non  porgere  il  consentimento  a 
quel  ch'hanno  conceputo,  inteso  e  determinato. 

Smitho.  -  Di  grazia  fatemi  intendere  che  opinione  avete  del 
Copernico. 

Teofilo.  -  Lui  avea  un  grave,  elaborato,  sollecito  e  maturo 
ingegno-*!:  uomo  che  non  è  inferiore  a  nessuno  astronomo  che 
sii  stato  avanti  lui,  se  non  per  luogo  di  successione  e  tempo; 
uomo  che  quanto  al  giudizio  naturale  è  stato  molto  superiore  a 
Tolomeo,  Ipparco,  Eudoxo'*^,  e  tutti  gli  altri  ch'han  caminato 
appo  i  vestigli  di  questi:  al  che  è  dovenuto  per  essersi  liberato 
da  alcuni  presuppositi  falsi  de  la  comone  e  volgar  filosofia,  non 

40.  Seneca,  Oedipus,  295-296  e  301-302,  traduz.  in  Tragedie,  a  cura  di 
C.  Giardina  con  la  collaborazione  di  R.  Cuccioli  Melloni,  Torino,  1987,  p.  435: 
«A  chi  è  privo  della  vista  una  gran  parte  della  verità  resta  oscura.  Ma  andrò 
per  la  via  a  cui  mi  chiama  la  patria  e  Febo»;  «Tu,  figlia,  che  guidi  il  padre 
privo  della  luce,  riferiscigli  i  segni  manifesti  del  sacrificio  che  deve  annunciare 
il  nostro  destino». 

41.  Copernico  è  lodato  più  ampiamente  nel  De  immenso.  III,  9.  De  lumine 
Nicolai  Copernici,  Op.  lai,  I,  i.  pp.  38  e  segg.  (ed.  Monti  cit.,  pp.  563-570). 

42.  Sono,  in  ordine  cronologico  inverso,  i  principali  sostenitori  della  teoria 
geocentrica;  Eudosso  di  Cnido  (408-355  a.  C),  fondatore  della  scuola  di  Cizico; 
Ipparco  di  Nicea  (attivo  tra  il  161  e  il  126  a.  C),  autore  del  primo  vero  catalogo 
di  stelle;  Claudio  Tolomeo  (100-175?  d.  C),  autore  àtW Almagestum.  Si  veda,  a 
riguardo,  O.  Neugebauer,  A  History  of  Ancient  Mathematical  Astronomy,  Ber- 
lin-Heidelberg-New York,  1975,  3  voli.:  I,  pp.  21-261,  274-343;  II,  pp.  675-689. 


DIALOGO  PRIMO  449 

voglio  dir  cecità.  Ma  però  non  se  n'è  molto  allontanato:  per  che 
lui  più  studioso  de  la  matematica  che  de  la  natura''',  non  ha 
possuto  profondar  e  penetrar  sin  tanto  che  potesse  a  fatto  to- 
glier via  le  radici  de  inconvenienti  e  vani  principii,  onde  per- 
fettamente sciogliesse  tutte  le  contrarie  difficultà,  e  venesse  a 
liberar  e  sé  et  altri  da  tante  vane  inquisizioni,  e  fermar  la  con- 
templazione ne  le  cose  costante  et  certe.  Con  tutto  ciò  chi  potrà 
a  pieno  lodar  la  magnanimità  di  questo  germano,  il  quale  [39] 
avendo  poco  riguardo  a  la  stolta  moltitudine,  è  stato  sì  saldo 
contra  il  torrente  de  la  contraria  fede?  e  benché  quasi  inerme  di 
vive  raggioni,  ripigliando  quelli  abietti  e  rugginosi  fragmenti 
ch'ha  possuto  aver  per  le  mani  da  la  antiquità,  le  ha  ripoliti, 
accozzati  e  risaldati  in  tanto  con  quel  suo  più  matematico  che 
naturai  discorso,  ch'ha  resa  la  causa  già  ridicola,  abietta  e  vili- 
pesa, onorata,  preggiata,  più  verisimile  che  la  contraria;  e  certis- 
simamente più  comoda  et  ispedita  per  la  teorica  e  raggione  cal- 
culatoria.  Cossi  questo  alemano^"*  benché  non  abbi  avuti  suffi- 

43.  Secondo  M.  A.  Granada,  L'interpretazione  hruniana  di  Copernico  e  la 
«Narratio  prima»  di  Rheticus,  «Rinascimento»  [Firenze],  2'^  serie,  XXX,  1990, 
pp.  343-365,  si  può  ritenere  che  la  Narratio  prima,  dove  Copernico  è  presentato 
come  un  matematico  ispirato  dalla  divinità  finanche  nel  suo  stesso  brancolare 
nel  buio,  abbia  suggerito  a  Bruno  l'idea  di  Copernico  che  egli  propone:  un  ma- 
tematico «cieco»,  sprovvisto  di  «vive  raggioni»,  le  cui  teorie  hanno  bisogno  di 
essere  interpretate  dal  Nolano.  L'interesse  di  quest'ultimo  per  la  filosofia  natu- 
rale lo  spingeva  a  sottovalutare  l'importanza  della  matematica,  anche  quando 
era  messa  al  servizio  dell'astronomia,  come  era  avvenuto  con  Copernico.  Cfr. 
G.  Aquilecchia,  Bruno  e  la  matematica  a  lui  contemporanea:  in  margine  al  «De 
minimo»,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  LXIX,  1990,  pp. 
151-159,  ristampato  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana  (Roma),  1993,  pp.  317- 
318;  sul  rapporto  tra  filosofi  e  «matematici»  nel  Rinascimento,  cfr.  I.  Pantin 
nell'ed.  e  traduz.  francese  di  G.  Galilée,  Sidereus  nuncius.  Le  Messager  celeste, 
Paris,  1992,  p.  49,  nota  2.  -  Copernico  sarà  allo  stesso  modo  definito  «mathe- 
maticus»  nel  De  immenso,  III,  io,  Op.  lat.,  I,  i,  p.  395  (ed.  Monti  cit,  p.  575); 
questa  critica  di  Bruno  è  da  accostare  a  quella  che  egli  fa  dell'ottica  geome- 
trica euclidea. 

44.  Pur  essendo  suo  padre  originario  di  Cracovia,  Copernico  era  nato  nel 
1473  a  Thom,  nella  parte  di  Prussia  occidentale  a  quel  tempo  sotto  la  sovra- 
nità del  re  di  Polonia.  E.  Rosen  lo  ha  definito  un  «Polacco  di  lingua  tedesca», 
ma  come  i  suoi  confratelli  del  capitolo  di  Frauenburg,  Copernico  difese  la  sua 
terra  natale  contro  gli  attacchi  dei  Cavalieri  Teutonici.  Capitava  spesso,  nella 
seconda  metà  del  XVI  secolo,  e  ancora  nel  XVII,  che  Copernico  venisse  consi- 
derato un  germanusr.  si  veda,  ad  esempio,  T.  Campanella,  Apologia  prò  Galileo, 
Francofurti,  1622  (ed.  a  cura  di  L.  Firpo,  Torino,  1969,  p.  138:  a  definirlo  così  è 
il  luterano  Tobia  Adami;  di  questo  testo  campanelliano  si  veda  ora  l'ottima 
edizione  bilingue:  T.  Campanella,  Apologia  prò  Galileo,  testo,  traduzione  e 
note  di  Michel  Pierre  Lemer,  Paris,  2001);  G.  Galilei,  Lettera  a  Madama  Cri- 
stina di  Lorena,  in  Opere,  a  cura  di  F.  Brunetti,  Torino,  voi.  I,  1980"^,  p.  554: 


450  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

cienti  modi  per  i  quali,  oltre  il  resistere,  potesse  a  bastanza 
vencere,  debellare  e  supprimere  la  falsità,  ha  pure  fissato  il 
piede  in  determinare  ne  l'animo  suo,  et  apertissimamente  con- 
fessare, ch'ai  fine  si  debba  conchiudere  necessariamente  che  più 
tosto  questo  globo  si  muova  a  l'aspetto  de  l'universo,  che  sii 
possibile  che  la  generalità  di  tanti  corpi  innumerabili,  de  quali 
molti  son  conosciuti  più  magnifici  e  più  grandi,  abbia  al  di- 
spetto della  natura  e  raggioni,  che  con  sensibilissimi  moti  cri- 
dano  il  contrario,  conoscere  questo  per  mezzo  e  base  de  suoi  giri 
et  influssi.  Chi  dumque  sarà  sì  villano  e  discortese  verso  il  stu- 
dio di  quest'uomo,  ch'avendo  posto  in  oblio  quel  tanto  che  ha 
fatto  con  esser  ordinato  da  gli  dèi  come  una  aurora,  che  dovea 
precedere  l'uscita  di  questo  sole  de  l'antiqua  vera  filosofia,  per 
tanti  secoli  sepolta  nelle  tenebrose  caverne  de  la  cieca,  maligna, 
proterva  et  invida  ignoranza-"',  vogli,  notandolo  per  quel  che 
non  ha  possuto  fare,  metterlo  nel  medesmo  numero  della  grega- 
ria moltitudine  che  discorre,  si  guida  e  si  precipita  più  per  il 
[41J  senso  de  l'orechio  d'una  brutale  et  ignobil  fede:  che  vogli  com- 
putarlo tra  quei  che  col  felice  ingegno  s'han  possuto  drizzare,  et 
inalzarsi  per  la  fidissima  scorta  del  occhio  della  divina  intelli- 
genza? —  Or  che  dirrò  io  del  Nolano?  Forse  per  essermi  tanto 

Copernico  fu  chiamato  a  Roma  «sin  dall'ultime  parti  di  Germania»,  per  la 
riforma  del  calendario.  Cfr.  E.  Rosen,  Biography  of  Copernicus,  in  Three  Coper- 
nican  Treatìses,  New  York,  1971^,  pp.  313-318,  nonché  N.  Swerdlow-0.  Neu- 
GEBAUER,  Mathematical  Astronomy  in  Copernicus's  «De  revolutionibus»,  New 
York-Berlin,  1984,  pp.  10-14. 

45.  Secondo  Bruno  (cfr.  i  Dialoghi  terzo  e  quarto),  tanta  ignoranza  è  frutto 
dell'adesione  alle  teorie  geocentriche  e  geostatiche  di  Aristotele  e  Tolomeo, 
mentre  «l'antiqua  vera  filosofia»  include,  com'è  noto,  Pitagora,  le  cui  teorie 
non  erano  geocentriche.  Ma  P.-H.  Michel  {G.  Bruno  et  le  système  de  Copernic 
d'après  la  «Cène  des  Cendres»,  in:  Pensée  humaniste  et  tradttion  chrétienne  aux 
XV^  et  XVF  siècles.  Notes,  essais  et  documents  publiés  sous  la  direction  de  H.  Bé- 
darida,  Paris,  1950,  pp.  313-331;  cfr.  anche,  dello  stesso.  La  cosmologie  de  G. 
Bruno,  Paris,  1962,  pp.  212-215)  ha  fatto  notare  quanto  sia  approssimativa  la 
conoscenza  che  Bruno  ha  delle  teorie  pitagoriche,  le  quali,  in  effetti,  lasciano 
che  il  sole  stesso  graviti  intorno  a  un  fuoco  situato  al  centro  dell'universo.  Il 
tema  della  sepulta  veritas  che  Copernico  riporta  alla  luce  si  ritroverà,  ad  esem- 
pio, in  P.  A.  FoscARiNL  Lettera  sopra  l'opinione  de'  Pittagorici,  e  del  Copernico, 
Napoli,  1615  (ed.  anastatica  a  cura  di  L.  Romeo,  Montalto  Uffugo,  1992,  p.  3)  ed 
in  T.  Campanella,  Apologia  prò  Galileo  cit,  pp.  144-145.  Quanto  al  tema  del 
sole  della  verità  che  fuga  le  tenebre  dell'ignoranza,  lo  si  ritrova  infra,  p.  461 
e  nella  prefazione  degli  Articuli  adversus  mathematicos,  pubblicati  nel  1588, 
Op.  lat.,  I,  3,  pp.  3-7.  Su  questo  punto  cfr.,  inoltre,  le  osservazioni  di  I.  Pantin 
nella  sua  ed.  e  traduz.  francese  di  J.  BLepler,  Discussion  avec  le  messager  celeste. 
Rapport  sur  l'obsen^ation  des  satellites  de  Jupiter,  Paris,  1993,  pp.  66-67,  nota  61; 
pp.  126-127,  note  241  e  242. 


DIALOGO  PRIMO  451 

prossimo  quanto  io  medesmo  a  me  stesso,  non  mi  converrà  lo- 
darlo? Certamente  uomo  raggionevole  non  sarà  che  mi  riprenda 
in  ciò:  atteso  che  questo  talvolta  non  solamente  conviene,  ma  è 
anco  necessario,  come  bene  espresse  quel  terso  e  colto  Tansillo: 

Bench'ad  un  uom,  che  preggio  et  onor  brama, 
di  se  stesso  parlar  molto  sconvegna, 
per  che  la  lingua,  ov'il  cor  teme  et  ama, 
non  è  nel  suo  parlar  di  fede  degna; 
l'esser  altrui  precon  de  la  sua  fama 
pur  qualche  volta  par  che  si  convegna, 
quando  vien  a  parlar  per  un  di  dui: 
per  fuggir  biasmo,  o  per  giovar  altrui ■*'^. 

Pure,  se  sarà  un  tanto  supercilioso  che  non  vogli  a  proposito 
alcuno  patir  la  lode  propria  o  come  propria,  sappia  che  quella 
talvolta  non  si  può  dividere  da  sui  presenti  e  riportati  effetti. 
Chi  riprenderà  Apelle  che  presentando  l'opra,  a  chi  lo  vuol  sa- 
pere, dice  quella  esser  sua  manifattura?  chi  biasimarà  Fidia  s'a 
un  che  dimanda  l'autore  di  questa  magnifica  scoltura,  risponda 
esser  stato  lui?  Or  dumque  a  fin  ch'intendiate  il  negocio  pre- 
sente e  l'importanza  sua,  vi  propono  per  una  conclusione  che 
ben  presto,  facile  e  chiarissimamente  vi  si  provarà:  che  se  vien 
lodato  lo  antico  Tifi  per  avere  ritrovata  la  prima  nave  e  co  gli 
Argonauti  trapassato  il  mare: 

Audax  nimium,  qui  freta  primus 

rate  tam  fragili  perfida  rupit;  [43] 

terrasque  suas  post  terga  videns, 

animam  levibus  credidit  auris'^'^; 

se  a'  nostri  tempi  vien  magnificato  il  Colombo,  per  esser  colui, 
de  chi  tanto  tempo  prima  fu  pronosticato: 

Venient  annis 
secula  seris,  quibus  Oceanus 

46.  L.  Tansillo,  Vendemmiatore,  st.  XXIX. 

47.  Seneca,  Medea,  301-304,  traduz.  in  Tragedie  cit,  p.  297:  «Troppo  teme- 
rario fu  colui  che  attraversò  con  una  nave  tanto  fragile  le  ingannevoli  onde  del 
mare  e  vedendo  la  sua  terra  dietro  le  spalle  affidò  la  vita  alle  brezze  leggere». 


452  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

vincula  rerum  laxet,  et  ingens 
pateat  tellus,  Tiphysque  novos 
detegat  orbes,  nec  sit  terris 
ultima  Thule'*^; 

che  de'  farsi  di  questo  che  ha  ritrovato  il  modo  di  montare  al 
cielo,  discorrere  la  circonferenza  de  le  stelle,  lasciarsi  a  le  spalli 
la  convessa  superficie  del  firmamento? -^^  Gli  Tifi  han  ritrovato 
il  modo  di  perturbar  la  pace  altrui,  violar  i  patrii  genii  de  le 
reggioni,  di  confondere  quel  che  la  provida  natura  distinse,  per 
il  commerzio  radoppiar  i  diffetti  e  gionger  vizii  a  vizii  de  l'una 
e  l'altra  generazione,  con  violenza  propagar  nove  follie  e  pian- 
tar l'inaudite  pazzie  ove  non  sono,  conchiudendosi  al  fin  più 
saggio  quel  che  è  più  forte;  mostrar  novi  studi,  instrumenti,  et 
arte  de  tirannizar  e  sassinar  l'un  l'altro  5°:  per  mercé  de  quai 
gesti,  tempo  verrà  ch'avendono^i  quelli  a  sue  male  spese  impa- 
rato, per  forza  de  la  vicissitudine  de  le  cose,  sapranno  e  po- 
tranno renderci  simili  e  peggior  frutti  de  sì  perniciose  inven- 
zioni: 

Candida  nostri  secula  patres 

videre  procul  fraude  remota: 

sua  quisque  piger  littora  tangens, 

patrioque  senex  fractus  in  amo 

parvo  dives,  nisi  quas  tulerat 
[45]  natale  solum  non  norat  opes. 

48.  Ivi,  375-379,  traduz.  (con  modifiche)  in  Tragedie  cit,  p.  301:  «Verranno 
anni,  nei  tempi  più  tardi,  in  cui  l'Oceano  allenterà  i  vincoli  degli  elementi  e  si 
dispiegherà  una  immensa  terra  e  Tifi  metterà  a  nudo  nuovi  mondi  e  fra  le 
terre  Tuie  non  sarà  più  l'estrema». 

49.  Elogio  simile  a  quello  che  Lucrezio  fa  di  Epicuro  nel  De  rerum  natura, 
I,  72  e  segg. 

50.  Dopo  Gerolamo  Benzoni  {La  Historia  del  Mondo  Nuovo,  Venezia,  1565), 
Bruno  è  uno  dei  rari  autori  italiani  che  abbia  denunciato  i  metodi  tristemente 
famosi  usati  soprattutto  dagli  Spagnoli  per  la  conquista  dell'America.  Su  que- 
sto passo,  cfr.  in  particolare  G.  Aquilecchia,  Bruno  e  il  Nuovo  Mondo,  «Rina- 
scimento» [Firenze],  VI,  1955,  pp.  168-170,  ora  in  Io.,  Schede  bruniane  cit,  pp. 
97-99;  S.  Ricci,  Infiniti  mondi  e  Mondo  Nuovo.  Conquista  dell'America  e  critica 
della  civiltà  europea  in  G.  Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Fi- 
renze], LXIX,  1990,  pp.  204-221;  M.  A.  Granada,  G.  Bruno  y  America.  De  la 
critica  de  la  colonización  a  la  critica  del  cristianismo,  «Geocritica.  Cuademos  cri- 
ticos  de  Geografia  Humana»  [Barcelona],  90,  1990,  pp.  44-56. 

51.  Avendone  è  una  forma  di  gerundio  plurale  coniugato  (con  desinenza 
«-mo»  alla  prima  e  «-no»  alla  terza  persona)  che  ha  resistito,  negli  autori  na- 
poletani, almeno  fino  a  Vico. 


DIALOGO  PRIMO  453 

Bene  dissepti  faedera  mundi 
traxit  in  unum  thessala  pinus, 
iussitque  pati  verterà  pontum, 
partemque  metus  fieri  nostri 
mare  sepositum^^. 

Il  Nolano  55,  per  caggionar  effetti  al  tutto  contrarii,  ha  disciolto 
l'animo  umano  e  la  cognizione  che  era  rinchiusa  ne  Partissimo 
carcere  de  l'aria  turbulento'-^,  onde  a  pena  come  per  certi  buchi 
avea  facultà  de  remirar  le  lontanissime  stelle,  e  gli  erano  mozze 
l'ali,  a  fin  che  non  volasse  ad  aprir  il  velame  di  queste  nuvole  e 
veder  quello  che  veramente  là  su  si  ritrovasse,  e  liberarse  da  le 
chimere  di  quei  che  essendo  usciti  dal  fango  e  caverne  de  la  terra, 
quasi  Mercuri  et  Appollini  discesi  dal  cielo,  con  moltiforme  im- 
postura han  ripieno  il  mondo  tutto  d'infinite  pazzie,  bestialità  e 
vizii,  come  di  tante  vertù,  divinità  e  discipline:  smorzando  quel 
lume  che  rendea  divini  et  eroichi  gli  animi  di  nostri  antichi 
padri,  approvando  e  confirmando  le  tenebre  caliginose ^^  de  so- 
fisti et  asini.  Per  il  che  già  tanto  tempo  l'umana  raggione  op- 
pressa, tal  volta  nel  suo  lucido  intervallo  piangendo  la  sua  sì 
bassa  condizione,  alla  divina  e  provida  mente,  che  sempre  ne 
l'interno  orecchio  li  susurra,  si  rivolge  con  simili  accenti: 

Chi  salirà  per  me,  madonna,  in  cielo, 
a  riportarne  il  mio  perduto  ingegnoP^^ 


52.  Seneca,  Medea,  329-339,  traduz.  in  Tragedie  cit,  pp.  297-299:  «I  nostri 
antenati  videro  una  candida  era,  quando  l'inganno  era  lontano:  ciascuno  pi- 
gramente toccando  la  sua  propria  spiaggia  e  diventando  vecchio  nella  campa- 
gna patema,  ricco  del  poco,  non  conosceva  altre  risorse  da  quelle  che  produ- 
ceva il  suolo  natio.  Le  parti  in  cui  secondo  una  saggia  regola  era  stato  diviso  il 
mondo  furono  riunite  in  un  solo  insieme  dalla  nave  Tessala,  che  costrinse  il 
mare  a  sopportare  l'urto  dei  remi  e  un  mare  lontano  a  divenire  parte  delle 
nostre  paure». 

53.  Si  veda  l'elogio  che  Bruno  fa  di  se  stesso  nelV Acrotismus  (Op.  lai.,  I, 
I,  pp.  66-67)  ^  nel  De  immenso,  IV,  i  {Op.  lai.,  I,  2,  pp.  2-3;  ed.  Monti  cit., 

PP-  578-579)-,  . 

54.  Aria  è  il  più  delle  volte  maschile,  in  Bruno. 

55.  Come  ha  notato  M.  A.  Granada  nella  sua  traduzione  spagnola  della 
Cena  (Madrid,  1994^,  p.  70,  nota  23),  Bruno  ritiene  che  Cristo  sia,  appunto,  uno 
di  questi  profeti  delle  tenebre  (cfr.  il  Dialogo  terzo  dello  Spaccio,  pp.  379-384)  e 
che  il  cristianesimo  sia  alleato  con  la  pseudo-filosofia  volgare,  sensuale  e  pe- 
dante di  Aristotele  (si  guardi  alla  coppia  Aristotele-asino,  nel  Dialogo  secondo 
della  Cabala  del  cavallo  pegaseo,  pp.  458-463). 

56.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XXXV,  I,  1-2;  ma  qui  l'allusione  al  poema 


454  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Or  ecco  quello  ch'ha  varcato  l'aria ''',  penetrato  il  cielo,  discorse 
le  stelle,  trapassati  gli  margini  del  mondo,  fatte  svanir  le  fanta- 
stiche muraglia  de  le  prime,  ottave,  none,  decime,  et  altre  che  vi 
s'avesser  potute  aggiongere  sfere  per  relazione  de  vani  matema- 
[47]  tici  e  cieco  veder  di  filosofi  volgari 's.  Cossi  al  cospetto  d'ogni 
senso  e  raggione,  co  la  chiave  di  solertissima  inquisizione  aperti 
que'  chiostri  de  la  verità  che  da  noi  aprir  si  posseano,  nudata  la 
ricoperta  e  velata  natura:  ha  donati  gli  occhi  a  le  talpe,  illumi- 
nati i  ciechi  che  non  possean  fissar  gli  ochi  e  mirar  l'imagin  sua 
in  tanti  specchi  che  da  ogni  lato  gli  s'opponeno.  Sciolta  la  lin- 
gua a  muti,  che  non  sapeano  e  non  ardivano  esplicar  gl'intricati 
sentimenti;  risaldati  i  zoppi  che  non  valean  far  quel  progresso 
col  spirto,  che  non  può  far  l'ignobile  e  dissolubile  composto:  le 
rende  non  men  presenti,  che  si  fussero  proprii  abitatori  del  sole, 
de  la  luna,  et  altri  nomati  astri.  Dimostra  quanto  siino  simili  o 
dissimili,  maggiori  o  peggiori,  que'  corpi  che  veggiamo  lontano, 
a  quello  che  n'è  appresso  et  a  cui  siamo  uniti;  e  n'apre  gli  occhii 
ad  veder  questo  nume,  questa  nostra  madre,  che  nel  suo  dorso 
ne  alimenta  e  ne  nutrisce,  dopo  averne  produtti  dal  suo  grembo 
al  qual  di  nuovo  sempre  ne  riaccoglie;  e  non  pensar  oltre,  lei 
essere  un  corpo  senza  alma  e  vita,  et  anche  feccia  tra  le  su- 

ariostesco  è  palese  già  qualche  riga  più  in  alto,  nell'espressione  «lucido  interval- 
lo» (cfr.  «Or  che  di  mente  ho  lucido  intervallo»,  Orlando  furioso.  XXIV,  III,  4)  che 
rinvia  ad  un  aneddoto  del  Chronicon  di  san  Gerolamo,  secondo  il  quale  Lucrezio 
avrebbe  composto  il  De  rerum  natura  «per  intervalla  insaniae». 

57.  Si  veda  il  già  citato  elogio  che  Lucrezio  fa  di  Epicuro  nel  De  rerum 
natura.  I,  72  e  segg.,  così  come  il  De  immenso.  Op.  lat.  I,  i,  p.  201  (ed.  Monti  cit, 
p.  418)  e  la  fine  della  Proemiale  epistola  àeW Infinito,  universo  e  mondi. 

58.  Un  luogo  parallelo  neW Acrotismus,  Op.  lat..  I,  i,  pp.  67-68:  «Caelum  pe- 
netrai stellas  discurrit...».  Nel  suo  In  Sphaeram  Ioannis  de  Sacro  Bosco  commen- 
iarius  (nella  prima  ed.  del  1570  e  fino  all'ed.  del  1593)  il  gesuita  Cristoforo 
Clavio  proponeva  un  «systema  mundi»  con  dieci  cieli  (o  sfere)  mobili:  l'ottavo 
è  il  cielo  delle  stelle  fisse,  il  nono  che  «a  nonnullis  theologis  dici  solet  caelum 
glaciale,  seu  aqueum.  Et  ab  aliis  Chrystallinum»  e  il  decimo  il  «primum  mo- 
bile». A  partire  dal  1593  (aderendo  al  modello  di  Magini),  Clavio  aggiungerà 
un  undicesimo  cielo  mobile.  Ma  questo  numero  era  già  stato  rciggiunto  da 
Johannes  Werner  nel  suo  De  motti  octavae  spherae.  Nuremberg,  1522,  contro  cui 
Copernico  aveva  composto,  nel  1534,  una  Epistola  (rimasta  inedita  lui  vivente). 
A  tutti  questi  cieli  doveva  aggiungersene  un  dodicesimo,  il  cielo  empireo  im- 
mobile dei  teologi,  l'esistenza  del  quale  era  stata  accettata  da  astronomi  e  filo- 
sofi. Osserviamo,  a  riguardo,  che  nel  De  immenso.  III,  i,  Op.  lat.  I,  i,  pp.  316-317 
(ed.  Monti  cit,  p.  512),  Bruno  evoca  l'aggiunta  «recente»  di  una  undicesima 
sfera,  precisando  che  pure  la  dodicesima  comincia  a  sollevare  la  testa;  segue 
un'allusione  alla  follia  di  Fracastoro,  che  postula  sfere  innumerevoli  e  concen- 
triche (e,  per  un'ulteriore  denuncia  di  questa  fuga  in  avanti,  cfr.  ivi,  III,  6,  Op. 
lat,  I,  I,  pp.  364-366;  ed.  Monti  cit,  p.  550). 


DIALOGO  PRIMO  455 

stanze  corporali  ^9.  A  questo  modo  sappiamo  che  si  noi  fussimo 
ne  la  luna  o  in  altre  stelle,  non  sarreimo  in  loco  molto  dissimile 
a  questo,  e  forse  in  peggiore:  come  possono  esser  altri  corpi  cossi 
buoni,  et  anco  megliori  per  se  stessi  e  per  la  maggior  felicità  de 
propri  animali '^'^.  Cossi  conoscemo  tante  stelle,  tanti  astri,  tanti 
numi,  che  son  quelle  tante  centenaia  de  migliaia  ch'assistono  al 
ministerio  e  contemplazione  del  primo,  universale,  infinito  et 
etemo  efficiente.  Non  è  più  impriggionata  la  nostra  raggione  co 
i  ceppi  de  fantastici  mobili  e  motori  otto,  nove  e  diece.  Cono-  [49] 
scemo  che  non  è  ch'un  cielo,  un'eterea  reggione  inmensa,  dove 
questi  magnifici  lumi  serbano  le  proprie  distanze,  per  comodità 
de  la  participazione  de  la  perpetua  vita.  Questi  fiammeggianti 
corpi  son  que'  ambasciatori,  che  annunziano  l'eccellenza  de  la 
gloria  e  maestà  de  Dio^'.  Cossi  siamo  promossi  a  scuoprire  l'in- 
finito effetto  dell'infinita  causa ^2,  il  vero  e  vivo  vestigio  de  l'in- 
finito vigore.  Et  abbiamo  dottrina  di  non  cercar  la  divinità  ri- 

59.  Cfr.  G.  Galilei,  Sidereus  nuncius,  traduz.  di  M.  Timpanaro  Cardini,  in 
Opere,  ed.  Brunetti  cit.,  voi.  I,  p.  294:  «Si  dimostra  validissima  la  riflessione 
solare  operata  dalla  Terra,  a  coloro  che  vanno  proclamando  doversi  questa 
escludere  dal  giro  danzante  delle  Stelle  ...  perché  noi  la  dimostreremo  errante  e 
superante  in  splendore  la  Luna,  e  non  già  sentina  di  sordidezze  e  terrene  brut- 
ture». Come  rammenta  I.  Pantin,  nell'ed.  francese  di  quest'opera,  loc.  cit,  nota 
85,  «si  dava  per  acquisito  dai  tempi  di  Aristotele  che,  in  una  sfera,  il  centro 
fosse  la  posizione  più  bassa  e  che  la  Terra  fosse  il  più  vile  degli  elementi.  Tut- 
tavia le  imprecazioni  contro  la  "sentina"  erano  piuttosto  un  espediente  per  i 
predicatori  o  energiche  meditazioni  sulla  miseria  hominis  ...  I  partigiani  della 
riabilitazione  della  Terra,  come  Nicolò  Cusano  (De  dada  ignorantia,  II,  12,  in 
Opere  filosofiche,  a  cura  di  G.  Federici- Vescovini,  Torino,  1972,  pp.  147-154)  e 
dopo  di  lui  Leonardo  da  Vinci  ...  cercarono  innanzitutto  di  renderla  una  stella 
ed  a  trovarne  l'irradiamento».  —  Cfr.  R.  Brague,  La  géocentrisme  camme  hiimi- 
liation  de  Vhomme,  in:  Hermeneutique  et  ontologie.  Hommage  à  P.  Aubenque,  Paris, 
1990,  pp.  203-223. 

60.  L'idea  di  un  adattamento  delle  creature  viventi  al  loro  pianeta  -  all'oc- 
correnza la  luna  -  si  trova  già  nel  De  placitis  dello  pseudo-Plutarco.  «Gio- 
cando» a  sua  volta  con  questa  idea,  Keplero  darà  un  formidabile  contributo 
alla  speculazione  sugli  esseri  extraterrestri  (cfr.  J.  Kepler,  Dissertatio  cum 
Nuncio  Sidereo  accedit  Narratio  de  quattuor  lovis  satellitibus,  a  cura  di  E.  Pascli  e 
G.  Tabarroni,  Torino,  1972,  pp.  44-45  e  nota  107). 

61.  Cfr.  Salmi,  XIX,  2:  «I  cieli  celebrano  la  gloria  di  Dio,  /  il  firmamento 
proclama  l'opera  delle  sue  mani». 

62.  Su  questa  visione  unitaria  di  un  universo  infinito  ed  omogeneo,  ani- 
mato da  innumerevoli  mondi  simili  al  nostro,  che  Bruno  difenderà  con  espres- 
sioni identiche  innanzi  ai  suoi  giudici  (cfr.  L.  Firpo,  E  processo  di  G.  Bruno,  a 
cura  di  D.  Quaglioni,  Roma,  1993,  pp.  267-271),  si  veda  M.  A.  Granada,  Bruno, 
Digges,  Palingenio.  Omogeneità  ed  eterogeneità  nella  concezione  dell'universo  infi- 
nito, «Rivista  di  storia  della  filosofia»  (Milano],  XLVII,  1992,  pp.  47-73.  Sul- 
l'immanenza di  Dio  nella  natura  cfr.  Lampas  triginta  statuarum,  nn.  12,  18,  29 
{Op.  lai.,  pp.  41,  50,  53)  e  F.  Tocco,  Le  opere  inedite  di  G.  Bruno,  Napoli,  1899, 
p.  47,  nota  I. 


456  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

mossa  da  noi:  se  l'abbiamo  appresso,  anzi  di  dentro  più  che  noi 
medesmi  siamo  dentro  a  noi.  Non  meno  che  gli  coltori  de  gli 
altri  mondi  non  la  denno  cercare  appresso  di  noi,  l'avendo  ap- 
presso e  dentro  di  sé.  Atteso  che  non  più  la  luna  è  cielo  a  noi, 
che  noi  alla  luna.  Cossi  si  può  tirar  a  certo  meglior  proposito 
quel  che  disse  il  Tansillo  quasi  per  certo  gioco ^^: 

Se  non  togliete  il  ben  che  v'è  da  presso, 

come  torrete  quel  che  v'è  lontano? 

Spreggiar  il  vostro  mi  par  fallo  espresso, 

e  bramar  quel  che  sta  ne  l'altrui  mano. 

Voi  séte  quel  ch'abandonò  se  stesso, 

la  sua  sembianza  desiando  in  vano; 

voi  séte  il  veltro  che  nel  rio  trabocca, 

mentre  l'ombra  desia  di  quel  ch'ha  in  bocca- 
Lasciate  l'ombre  et  abbracciate  il  vero, 

non  cangiate  il  presente  col  futuro. 

Io  d'aver  dì  meglior  già  non  dispero; 

ma  per  viver  più  lieto  e  più  sicuro, 

godo  il  presente,  e  del  futuro  spero: 

cossi  doppia  dolcezza  mi  procuro. 

Con  ciò  un  solo,  benché  solo,  può  e  potrà  vencere,  et  al  fine  ara 
vinto  e  triomfarà  contra  l'ignoranza  generale;  e  non  è  dubio,  se 
[51]  la  cosa  de'  determinarsi  non  co  la  moltitudine  di  ciechi  e  sordi 
testimoni,  di  convizii  e  di  parole  vane,  ma  co  la  forza  di  rego- 
lato sentimento,  il  qual  bisogna  che  conchiuda  al  fine:  perché  in 
fatto  tutti  gli  orbi  non  vagliono  per  uno  che  vede,  e  tutti  i  stolti 
non  possono  servire  per  un  savio  ^. 


63.  Cfr.  in  L.  Tansillo,  Vendemmiatore,  XVIII  e  XIX,  w.  1-6  (con  una  va- 
riante, al  terzo  verso  della  seconda  stanza  cit.,  probabilmente  dovuta  allo 
stesso  Bruno).  Nel  loro  contesto  originario,  le  parole  di  Tansillo  sembrano  piut- 
tosto un'esortazione  edonista;  ma  si  sa  che  Bruno  è  solito  far  esprimere  alla 
poesia  italiana,  tanto  petrarchista,  quanto  realistico-erotica,  le  sue  personali 
concezioni  morali  e  filosofiche. 

64.  Cfr.  Eraclito,  fragm.  B  49,  in  H.  Diels,  Die  Fragmente  der  Vorsokratiker, 
Berlin,  1903  (e  cfr.  I  Presocratici.  Testimonianze  e  frammenti,  a  cura  di  G.  Gian- 
nantoni,  Bari,  1969,  I,  p.  207).  Cfr.  altresì  G.  Bruno,  Acrotismus,  toc.  cit.,  p.  69. 


DIALOGO  PRIMO  457 

Prudenzio.  - 

Rebus  et  in  sensu,  si  non  est  quod  fuit  ante, 
fac  vivas  contentus  eo  quod  tempora  praebent. 
ludicium  populi  nunquam  contempseris  unus, 
ne  nulli  placeas  dum  vis  contemnere  multos^^. 

Teofilo.  -  Questo  è  prudentissimamente  detto  in  proposito 
del  convitto  e  regimento  comone,  e  prattica  de  la  civile  conver- 
sazione: ma  non  già  in  proposito  de  la  cognizione  de  la  verità,  e 
regola  di  contemplazione,  per  cui  disse  il  medesmo  saggio: 

Disce,  sed  a  doctis;  indoctos  ipse  doceto^. 

È  anco,  quel  che  tu  dici,  in  proposito  di  dottrina  espediente  a 
molti,  e  però  è  conseglio  che  riguarda  la  moltitudine,  per  che 
non  fa  per  le  spalli  di  qualsivoglia  questa  soma,  ma  per  quelli 
che  possono  portarla,  come  il  Nolano;  o  almeno  muoverla  verso 
il  suo  termine  senza  incorrere  difficoltà  disconveniente,  come  il 
Copernico  ha  possuto  fare.  Oltre,  color  ch'hanno  la  possessione 
di  questa  verità  non  denno  ad  ogni  sorte  di  persona  comuni- 
carla, si  non  vogliono  lavar  (come  se  dice)  il  capo  a  l'asino,  se 
non  vuolen  vedere  quel  che  san  far  i  porci  a  le  perle '^'',  e  racco- 
gliere que'  frutti  del  suo  studio  e  fatica,  che  suole  produrre  la 
temeraria  e  sciocca  ignoranza,  insieme  co  la  presunzione  et  in- 
civiltà, la  quale  è  sua  perpetua  e  fida  compagnia.  Di  que'  dum- 
que  indotti  possiamo  esser  maestri,  e  di  quei  ciechi  illumina-  [53] 
tori,  che  non  per  inabilità  di  naturale  impotenza,  o  per  priva- 
zion  d'ingegno  e  disciplina,  ma  sol  per  non  avvertire  e  non 
considerare,  son  chiamati  orbi:  il  che  avviene  per  la  privazion 
de  l'atto  solo,  e  non  de  la  facultà  ancora.  Di  questi  sono  alcuni 
tanto  maligni  e  scelerati,  che  per  una  certa  neghittosa  invidia  si 

65.  Disticha  Catonis,  III,  11  e  II,  29  («Se  nei  beni  e  nel  (sentimento)  non  c'è 
quel  che  c'era  prima,  fa  di  vivere  contento  di  ciò  che  offrono  i  tempi;  non 
essere  mai  solo  a  spregiare  il  giudizio  popolare,  se  non  vuoi  spiacere  a  tutti 
disprezzando  la  maggioranza»).  L'edizione  del  1584  presenta  al  primo  verso  la 
variante  in  sensu  (attestata  da  alcuni  mss.),  al  posto  dell'jM  censu  della  vulgata 

66.  «Impara,  ma  dai  dotti;  agli  ignoranti  sii  tu  stesso  ad  insegnare». 

67.  Per  il  «lavar  il  capo  all'asino»  cfr.  Erasmo  da  Rotterdam,  Adagia,  III, 
3,  39  e  per  «quel  che  san  far  i  porci  a  le  perle»,  Matteo,  VII,  6. 


458  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

adirano  et  inorgogliano  centra  colui  che  par  loro  voglia  inse- 
gnare -  essendo,  come  son  creduti  e  (quel  ch'è  peggio)  si  cre- 
deno,  dotti  e  dottori;  -  ardisca  mostrar  saper  quel  che  essi  non 
sanno:  qua  le  vederete  infocar  e  rabbiarsi. 

Frulla.  —  Come  avvenne  a  que'  doi  dottori  barbareschi,  de 
quali  parlaremo,  l'un  de  quali  non  sapendo  più  che  si  rispon- 
dere e  che  argumentare,  s'alza  in  piedi  in  atto  di  volerla  finir 
con  una  provisione  di  adagii  d'Erasmo,  o  ver  co  i  pugni,  cridò: 
«  Quid?  non  ne  Anticyram  navigas?  Tu  ille  philosophorum  protopla- 
stes,  qui  nec  Ptolomeo,  nec  tot  tantorumque  philosophorum  et  astro- 
nomorum  maiestati  quippiam  concedis?  Tu  ne  nodum  in  scirpo 
quaeritas?»^^;  et  altri  propositi,  degni  d'essergli  decisi  a  dosso 
con  quelle  verghe  doppie  (chiamate  bastoni)  co  le  quale  i  fac- 
chini soglion  prender  la  misura  per  far  i  gipponi  a  gli  asini. 

Teofilo.  -  Lasciamo  questi  propositi  per  ora.  Sono  alcuni 
altri  che  per  qualche  credula  pazzia,  temendo  che  per  vedere 
non  se  guastino,  vogliono  ostinatamente  perseverare  ne  le  tene- 
bre di  quello  ch'hanno  una  volta  malamente  appreso.  Altri  poi 
sono  i  felici  e  ben  nati  ingegni,  verso  gli  quali  nisciuno  onorato 
[55]  studio  è  perso,  temerariamente  non  giudicano,  hanno  libero 
l'intelletto,  terso  il  vedere,  e  son  prodotti  dal  cielo,  si  non  inven- 
tori, degni  però  esaminatori,  scrutatori,  giodici  e  testimoni  de  la 
verità.  Di  questi  ha  guadagnato  guadagna  e  guadagnare  l'as- 
senso e  l'amore  il  Nolano.  Questi  son  que'  nobilissimi  ingegni 
che  son  capaci  d'udirlo  e  disputar  co  lui.  Per  che  in  vero  ni- 
sciuno è  degno  di  contrastarli  circa  queste  materie:  che  si  non 
vien  contento  di  consentirgli  a  fatto,  per  non  esser  tanto  capace, 
non  gli  sotto  scriva  al  meno  ne  le  cose  molte,  maggiori  e  prin- 
cipali; e  confesse  che  quello  che  non  può  conoscere  per  più 
vero,  è  certo  che  sii  più  verisimile. 

Prudenzio.  -  Sii  come  la  si  vuole,  io  non  voglio  discostarmi 

68.  «E  che!  Stai  salpando  per  Anticira?  Ti  credi  l'antesignano  dei  filosofi 
per  non  concedere  nulla  a  Tolomeo  ed  all'autorità  di  tanti  e  tali  filosofi  ed 
astronomi?  Non  vorrai  spaccare  un  capello  in  quattro?».  Anticira  era  il  nome 
di  tre  città  rinomate  per  la  coltivazione  deirelleboro,  pianta  che  si  considerava 
un  toccasana  nella  cura  della  follia;  Anticyram  navigare  significa  dunque  «dare 
dei  segni  di  pazzia.».  D'altra  parte,  nodum  in  scirpo  quaerere  vuol  dire,  alla  let- 
tera, «cercare  un  nodo  sopra  un  giunco",  cioè  delle  difficoltà  dove  non  esi- 
stono. Queste  due  espressioni,  rispettivamente  attestate  in  Orazio  (Satyrae,  II,  3, 
83)  ed  in  Plauto  {Menaechmi,  247),  sono  commentate  da  Erasmo  negli  Adagia,  I, 
8,  52  e  II,  4,  76. 


DIALOGO  PRIMO  459 

dal  parer  de  gli  antichi,  per  che  dice  il  saggio:  «Ne  l'antiquità  è 
la  sapienza  M*^^. 

Teofilo.  -  E  soggionge:  «...  in  molti  anni  la  prudenza »~°.  Si 
voi  intendreste  bene  quel  che  dite,  vedreste  che  dal  vostro  fon- 
damento s'inferisce  il  contrario  di  quel  che  pensate:  voglio  dire 
che  noi  siamo  più  vecchi  et  abbiamo  più  lunga  età  che  i  nostri 
predecessori '1;  intendo  per  quel  che  appartiene  in  certi  giudizii, 
come  in  proposito.  Non  ha  possuto  essere  sì  maturo  il  giodi- 
cio  d'Eudosso  che  visse  poco  dopo  la  rinascente  astronomia,  se 
pur  in  esso  non  rinacque,  come  quello  di  Calippo  che  visse 
trent'anni  dopo  la  morte  d'Alessandro  Magno:  il  quale  come 
giunse  anni  ad  anni,  possea  giongere  ancora  osservanze  ad  os- 
servanze. Ipparco,  per  la  medesma  raggione,  dovea  saperne  più 
di  Calippo,  per  che  vedde  la  mutazione  fatta  sino  a  centono- 
nantasei  anni  dopo  la  morte  d'Alessandro.  Menelao  Romano  [57] 
geometra,  per  che  vedde  la  differenza  de  moto  quatrocento  ses- 
santa dui  anni  dopo  Alessandro  morto,  è  raggione  che  n'inten- 
desse più  ch'Ipparco.  Più  ne  dovea  vedere  Machometto  Ara- 
cense  mille  ducente  e  dui  anni  dopo  quella.  Più  n'ha  veduto  il 

69.  Cfr.  Giobbe.  XII,  12. 

70.  Ivi. 

71.  G.  Gentile,  Il  pensiero  italiano  del  Rinascimento,  Firenze,  1940,  pp.  131 
e  segg..  ha  visto  all'opera  in  questo  passo  il  principio  della  veritas  filia  temporis. 
ma  si  noti  che  Bruno  precisa:  «intendo  per  quel  che  appartiene  in  certi  giudi- 
zii», limitando  la  portata  delle  sue  riflessioni  sul  progresso  delle  conoscenze 
alle  osservazioni  astronomiche  che  elenca.  Cfr.  anche  F.  Simone,  «Veritas  filia 
temporis».  A  proposito  di  un  testo  di  G.  Bruno,  «Revue  de  littérature  comparée» 
[Paris],  22,  1948.  pp.  508-521  e  le  osservazioni  di  I.  Pantin,  nell'ed.  francese  di 
J.  Kepler,  Discussion  cit.  pp.  iio-iii,  nota  197;  pp.  111-112,  nota  203  e  p.  133, 
nota  5.  -  Su  Eudosso,  cfr.  supra.  nota  42.  -  Calippo  è  Callippo  di  Cizico,  allievo 
di  Polemarco  (un  sodale  di  Eudosso),  attivo  verso  la  fine  del  IV  secolo  a.  C.  e 
noto  per  aver  ripreso  e  corretto  il  sistema  delle  sfere  concentriche  di  Eudosso 
(cfr.  Aristotele,  Metaph..  XII,  8.  1073  b  15-35):  né  l'uno,  né  l'altro  hanno  la- 
sciato le  loro  osservazioni  ai  posteri.  Il  ciclo  che  viene  attribuito  a  Callippo 
comprende  76  anni;  il  primo  anno  risalirebbe  al  330  a.  C.  L'aver  associato  il 
nome  di  Eudosso  alla  «rinascita»  dell'astronomia  è  forse  dovuto  a  Pierre  de  la 
Ramée  (cui  Bruno,  in  De  la  causa,  dà  la  qualifica  di  «arcipedante»).  -  Ipparco: 
cfr.  supra,  nota  42.  -  Menelao  è  Menelao  di  Alessandria,  definito  «romano» 
pure  da  Copernico,  perché  fu  attivo  a  Roma  nel  98  d.  C.  -  Machometto  è 
Muhammed  Al-Battàni  (858P-929?),  le  cui  opere  astronomiche  furono  pubbli- 
cate in  latino  per  la  prima  volta  a  Nuremberg  nel  1537;  l'aggettivo  «Aracense» 
deriva  da  «ar-Raqqah»,  luogo  di  nascita  del  filosofo.  —  A  proposito  di  Coper- 
nico. Bruno  qui  s'allontana  alquanto  dal  De  revolutionibus.  III,  2.  Copernico 
dice  che  Menelao  fece  le  sue  osservazioni  422  anni  (e  non  462)  dopo  la  morte 
di  Alessandro  Magno.  Le  notizie  riguardanti  Maometto  Aracense  e  Copernico 
sono,  per  contro,  riportate  correttamente. 


460  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Copernico  quasi  a'  nostri  tempi  appresso  la  medesma  anni 
mille  ottocento  quarantanove.  Ma  che  di  questi  alcuni  che  son 
stati  appresso,  non  siino  però  stati  più  accorti  che  quei  che  fu- 
ron  prima,  e  che  la  moltitudine  di  que'  che  sono  a  nostri  tempi 
non  ha  però  più  sale,  questo  accade  per  ciò  che  quelli  non  vis- 
sero e  questi  non  vivono  gli  anni  altrui,  e  (quel  che  è  peggio) 
vissero  morti  quelli  e  questi  ne  gli  anni  proprii. 

Prudenzio.  -  Dite  quel  che  vi  piace,  tiratela  a  vostro  bel 
piacer  dove  vi  pare,  io  sono  amico  de  l'antiquità;  e  quanto  ap- 
partiene a  le  vostre  opinioni  o  paradossi,  non  credo  che  sì  molti 
e  sì  saggi  sien  stati  ignoranti  come  pensate  voi  et  altri  amici  di 
novità. 

Teofilo.  —  Bene,  maestro  Prudenzio,  si  questa  volgare  e  vo- 
stra opinione  per  tanto  è  vera,  in  quanto  che  è  antica,  certo  era 
falsa  quando  la  fu  nova.  Prima  che  fusse  questa  filosofìa  con- 
forme al  vostro  cervello,  fu  quella  de  gli  Caldei,  Egizzii,  Maghi, 
Orfici,  Pitagorici  ^2  et  altri  di  prima  memoria,  conforme  al  no- 
stro capo:  da  quali  prima  si  ribbellomo  questi  insensati  e  vani 
logici  e  matematici,  nemici  non  tanto  de  la  antiquità  quanto 
alieni  da  la  verità.  Poniamo  dumque  da  canto  la  raggione  de 
l'antico  e  novo:  atteso  che  non  è  cosa  nova,  che  non  possa  esser 
vecchia;  e  non  è  cosa  vecchia,  che  non  sii  stata  nova:  come  ben 
[59]   notò  il  vostro  Aristotele  ^\ 

Frulla.  -  S'io  non  parlo  scoppiarò,  creparò  certo.  Avete 
detto  «il  vostro  Aristotele»,  parlando  a  mastro  Prudenzio:  sa- 
pete come  intendo  che  Aristotele  sii  suo,  idest  lui  sii  peripate- 
tico? (di  grazia  facciamo  questo  poco  di  digressione  per  modo  di 
parentesi)  come  di  dui  ciechi  mendichi  a  la  porta  de  l'arcivesco- 

72.  Tutti  rappresentanti  «de  l'antiqua  vera  filosofia».  Cfr.  D.  P.  Walker, 
The  Ancient  Theology.  Studies  in  Christian  Platonism  front  the  Fifteenth  to  the 
Eighteenth  Century,  London,  1972;  L  Klutstein,  Marsilio  Ficino  et  la  théologie 
ancienne:  Oracles  Chaldaìques,  Hymnes  Orphiques,  Hymnes  de  Proclus,  Firenze, 
1987;  F.  A.  Yates,  G.  Bruno  e  la  tradizione  ermetica,  traduz.  di  B.  Pecchioli, 
Roma-Bari,  2002^  (ma  si  veda  infra.  Dialogo  quarto,  p.  527,  nota  17). 

73.  Cfr.  Aristotele,  Meteor.,  I,  3,  339  b  27-29,  traduz.  di  L  Pepe,  Napoli, 
1982,  p.  41:  «noi  diciamo  che  le  stesse  opinioni  ricorrono  fra  gli  uomini  non 
una  o  due  o  più  volte,  ma  in  etemo  ciclo»;  si  veda  inoltre  De  caelo,  I,  3,  270  b 
19  (e  la  nota  12  di  Pepe,  loc.  cit.).  -  Su  questo  tema,  cfr.  R.  Sorabji,  Time, 
Creation  and  the  Continuum.  Theories  in  Antiquity  and  the  early  Middle  Ages, 
London,  1983,  pp.  182-190. 


DIALOGO  PRIMO  461 

vate  di  Napoli:  l'uno  se  diceva  guelfo  e  l'altro  ghibellino '^'^;  e 
con  questo  si  cominciomo  sì  crudamente  a  toccar  l'un  l'altro 
con  que'  bastoni  ch'aveano,  che  si  non  fussero  stati  divisi,  non 
so  come  sarebbe  passato  il  negozio.  In  questo  se  gli  accosta  un 
uom  da  bene,  e  li  disse:  «Venite  qua,  tu  e  tu,  orbo  mascalzone: 
che  cosa  è  guelfo?  che  cosa  è  ghibellino?  che  vuol  dir  esser 
guelfo  et  esser  ghibellino?».  In  verità  l'uno  non  seppe  punto  che 
rispondere  né  che  dire.  L'altro  si  risolse  dicendo:  «Il  signor  Pie- 
tro Costanzo  ^5  che  è  mio  padrone,  et  al  quale  io  voglio  molto 
bene,  è  gibellino».  Cossi  a  punto  molti  sono  Peripatetici  che  si 
adirano,  se  scaldano  e  s'imbraggiano  per  Aristotele,  voglion  de- 
fendere la  dottrina  d'Aristotele,  son  inimici  de  que'  che  non 
sono  amici  d'Aristotele,  voglion  vivere  e  morire  per  Aristotele:  i 
quali  non  intendono  né  anche  quel  che  significano  i  titoli  de 
libri  d'Aristotele.  Se  volete  ch'io  ve  ne  dimostri  uno:  ecco  costui 
al  quale  avete  detto  «il  vostro  Aristotele»,  e  che  a  volte  a  volte 
ti  sfodra  un  Aristoteles  noster  Peripateticorum  princeps,  un  Plato 
noster,  et  ultra'' ^. 

Prudenzio.  —  Io  fo  poco  conto  del  vostro  conto,  niente 
istimo  la  vostra  stima. 

Teofilo.  —  Di  grazia  non  interrompete  più  il  nostro  discorso.  [6i] 

Smitho.  —  Seguite,  signor  Teofilo. 

Teofilo.  —  Notò,  dico,  il  vostro  Aristotele  che  come  è  la  vi- 
cissitudine de  l'altre  cose,  cossi  non  meno  de  le  opinioni  et  ef- 
fetti diversi  ^^:  però  tanto  è  aver  riguardo  alle  filosofie  per  le  loro 
antiquità,  quanto  voler  decidere  se  fu  prima  il  giorno  o  la  notte. 
Quello  dumque  al  che  doviamo  fissar  l'occhio  de  la  considera- 
zione, è  si  noi  siamo  nel  giorno,  e  la  luce  de  la  verità  è  sopra  il 
nostro  orizonte,  overo  in  quello  de  gli  aversarii  nostri  antipodi; 
si  siamo  noi  in  tenebre,  o  ver  essi;  et  in  conclusione  si  noi  che 
damo  principio  a  rinovar  l'antica  filosofia,  siamo  ne  la  mattina 

74.  Questi  termini  sono  stati  utilizzati  in  Italia  fino  al  XVII  secolo,  per 
designare  fazioni  politiche  e  consorterie  familiari,  ma  già  Aretino,  nelle  Sei 
giornate,  se  ne  faceva  beffe. 

75.  Pietro  Costanzo  era  probabilmente  un  compagno  d'armi  del  padre  di 
Bruno,  secondo  V.  Spampanato,  Vita  di  G.  Bruno  con  documenti  editi  ed  inediti, 
Messina,  192 1  (risi  anastatica  con  una  postfazione  di  N.  Ordine,  Roma,  1988,  p. 

39)' 

76.  «Aristotele  nostro,  principe  dei  Peripatetici,  Platone  nostro  e  così  via». 

77.  Cfr.  ancora  Aristotele,  Metaph.,  XII,  8,  1074  b  10-14;  Analytica  Post.,  I, 
33.  89  a  5. 


462  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

per  dar  fine  a  la  notte,  o  pur  ne  la  sera  per  donar  fine  al  giorno: 
e  questo  certamente  non  è  difficile  a  determinarsi,  anco  giudi- 
cando a  la  grossa  da  frutti  de  l'una  e  l'altra  specie  di  contem- 
plazione. —  Or  veggiamo  la  differenza  tra  quelli  e  questi.  Quelli, 
nel  viver,  temperati;  ne  la  medicina,  esperti;  ne  la  contempla- 
zione, giudiziosi;  ne  la  divinazione,  singolari;  ne  la  magia,  mira- 
colosi; ne  le  superstizioni,  providi;  ne  le  leggi,  osservanti;  ne  la 
moralità,  irreprensibili;  ne  la  teologia,  divini;  in  tutti  effetti, 
eroici:  come  ne  mostrano  lor  prolongate  vite,  i  meno  infermi 
corpi,  l'invenzioni  altissime,  le  adempite  pronosticazioni,  le  su- 
stanze  per  lor  opra  transformate,  il  convitto  pacifico  de  que'  po- 
poli, gli  lor  sacramenti  inviolabili,  l'essecuzioni  giustissime,  la 
familiarità  de  buone  e  protettrici  intelligenze,  et  i  vestigli 
(ch'ancora  durano)  de  lor  maravigliose  prodezze.  Questi  altri 
contrarii  lascio  essaminargli  al  giudizio  de  chi  n'ha. 

Smitho.  —  Or  che  direte  se  la  maggior  parte  di  nostri  tempi 
pensa  tutto  il  contrario,  e  spezialmente  quanto  a  la  dottrina? 

Teofilo.  —  Non  mi  maraviglio,  per  che  (come  è  ordinario) 
quei  che  manco  intendeno,  credono  saper  più:  e  quei  che  sono 
al  tutto  pazzi,  pensano  saper  tutto. 

Smitho.  —  Dimmi:  in  che  modo  si  potran  corregger  questi? 

Frulla.  —  Con  toglierli  via  quel  capo,  e  piantargline  un  altro. 

Teofilo.  —  Con  toglierli  via  in  qualche  modo  d'argumenta- 
zione  quella  esistimazion  di  sapere;  e  con  argute  persuasioni 
spogliarle  quanto  si  può  di  quella  stolta  opinione,  a  fin  che  si 
rendano  uditori:  avendo  prima  avvertito,  quel  che  insegna,  che 
siino  ingegni  capaci  et  abili.  Questi  (secondo  l'uso  de  la  scuola 
pitagorica^^  e  nostra)  non  voglio  ch'abbino  facultà  di  esercitar 
atti  de  interrogatore  o  disputante,  prima  ch'abbino  udito  tutto 
il  corso  de  la  filosofia:  per  che  all'ora  se  la  dottrina  è  perfetta  in 
sé,  e  da  quelli  è  stata  perfettamente  intesa,  purga  tutti  i  dubii,  e 
toglie  via  tutte  le  contradizzioni.  Oltre,  s'avviene  che  ritrove  un 
più  polito  ingegno,  all'ora  quel  potrà  vedere  il  tanto  che  vi  si 
può  aggiongere,  togliere,  correggere  e  mutare.  All'ora  potrà  con- 
ferire questi  principii  e  queste  conclusioni,  a  quelli  altri  contra- 
rii principii  e  conclusioni;  e  cossi  raggionevolmente  consentire 

78.  Sul  «corso  de  la  filosofia»  nella  scuola  pitagorica,  cfr.  la  Cabala  del  ca- 
vallo pegaseo  e  L'asino  etilenico  di  Bruno,  pp.  477-484. 


DIALOGO  PRIMO  463 

o  dissentire,  interrogare  e  rispondere:  per  che  altrimente  non  è 
possibile  saper,  circa  una  arte  o  scienza,  dubitar  et  interrogar  a 
proposito,  e  co  gli  ordini  che  si  convengono,  se  non  ha  udito 
prima.  Non  potrà  mai  esser  buono  inquisitore  e  giodice  del  [65] 
caso,  se  prima  non  s'è  informato  del  negocio.  Però  dove  la  dot- 
trina va  per  i  suoi  gradi,  procedendo  da  posti  e  confirmati  prin- 
cipii  e  fondamenti  a  l'edificio  e  perfezzione  de  cose  che  per 
quella  si  possono  ritrovare,  l'auditore  deve  essere  taciturno,  e 
prima  d'aver  tutto  udito  et  inteso,  credere  che  con  il  progresso 
de  la  dottrina  cessarranno  tutte  difficultadi.  Altra  consuetudine 
hanno  gli  Efettici^^  e  Pirroni:  i  quali  facendo  professione  che  co- 
sa alcuna  non  si  possa  sapere,  sempre  vanno  dimandando  e  cer- 
cando, per  non  ritrovar  giamai.  Non  meno  infelici  ingegni  son 
quei,  che  anco  di  cose  chiarissime  vogliono  disputare,  facendo  la 
maggior  perdita  di  tempo  che  imaginar  si  possa;  e  quei  che  per 
parer  dotti,  e  per  altre  indegne  occasioni,  non  vogliono  insegnare 
né  imparare:  ma  solamente  contendere  et  oppugnar  il  vero. 

Smitho.  —  Mi  occorre  un  scrupolo  circa  quel  ch'avete  detto: 
che  essendo  una  innumerabil  moltitudine  di  quei  che  presu- 
meno  di  sapere,  e  se  stimano  degni  d'essere  costantemente  uditi, 

-  come  vedete  che  per  tutto  le  università  et  academie  so'^° 
piene  di  questi  Aristarchi  ^i,  che  non  cederebbono  un  zero  a  l'al- 
titonante Giove,  sotto  i  quali  quei  che  studiano  non  aranno  al 
fine  guadagnato  altro,  che  esser  promossi  da  non  sapere  (che  è 
una  privazione  de  la  verità)  a  pensarsi  e  credersi  di  sapere,  che 
è  una  pazzia  et  abito  di  falsità;  vedi  dumque  che  cosa  han  gua- 
dagnato questi  uditori:  tolti  da  la  ignoranza  di  semplice  nega- 
zione, son  messi  in  quella  di  mala  disposizione,  come  la  dicono, 

—  ora  chi  me  farà  sicuro,  che  facendo  io  tanto  dispendio  di 
tempo  e  di  fatica,  e  d'occasione  di  meglior  studi  et  occupazioni,   [67] 

79.  Efettici,  dal  greco  ècpextixoi,  «coloro  i  quali  praticano  la  sospensione  del 
giudizio».  Si  tratta  dei  discepoli  di  Pirrone  di  Elide  {365?-275?  a.  C).  Si  veda  la 
Cabala  cit,  pp.  468-470. 

80.  Sd  per  «sono»  è  una  forma  di  prima  persona  al  singolare  e  di  terza 
persona  al  plurale,  diffusa  nell'italiano  antico  e  nel  napoletano. 

81.  Aristarco  di  Samotracia,  il  grammatico  greco  del  II  secolo  a.  C.  reso 
celebre  dai  suoi  lavori  critici  su  Omero  e  ritenuto  autore  del  «canone  alessan- 
drino». Agli  occhi  di  Cicerone  (Ad  Atl,  I,  14,  3)  o  di  Orazio  (Ars  poet,  450)  egli 
rappresentava  il  critico  par  excellence.  Su  di  lui,  cfr.  R.  Pfeiffer,  History  of 
Classical  Scholarship.  Front  the  Beginnings  to  the  End  of  the  Hellenistic  Age, 
Oxford,  1968,  pp.  210-233. 


464  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

non  mi  avvenga  quel  ch'a  la  massima  parte  suole  accadere:  che 
in  luogo  d'aver  comprata  la  dottrina,  non  m'abbi  infettata  la 
mente  di  pemiziose  pazzie?  Come  io  che  non  so  nulla  potrò  co- 
noscere la  differenza  de  dignità  et  indignità,  de  la  povertà  e  ric- 
chezza, di  que'  che  si  stimano  e  son  stimati  savi?  Vedo  bene  che 
tutti  nascemo  ignoranti,  credemo  facilmente  d'essere  ignoranti, 
crescemo  e  siamo  allevati  co  la  disciplina  et  consuetudine  di 
nostra  casa:  e  non  meno  noi  udiamo  biasimare  le  leggi,  gli  riti, 
le  fede  e  gli  costumi  de  nostri  adversarii  et  alieni  da  noi,  che 
quelli  de  noi  e  di  cose  nostre.  Non  meno  in  noi  si  piantano  per 
forza  di  certa  naturale  nutritura  le  radici  del  zelo  di  cose  nostre, 
che  in  quelli  altri  molti  e  diversi  de  le  sue.  Quindi  facilmente 
ha  possuto  porsi  in  consuetudine,  che  i  nostri  stimino  far  un 
sacrificio  a  gli  dèi,  quando  arranno  oppressi,  uccisi,  debellati  e 
sassinati  gli  nemici  de  la  fé  nostra:  non  meno  che  quelli  altri 
tutti  quando  arran  fatto  il  simile  a  noi.  E  non  con  minor  fer- 
vore e  persuasione  di  certezza  quelli  ringraziano  Idio  d'aver 
quel  lume  per  il  quale  si  prometteno  etema  vita,  che  noi  ren- 
diamo grazie  di  non  essere  in  quella  cecità  e  tenebre  ch'essi 
sono.  A  queste  persuasioni  di  religione  e  fede,  s'aggiongono  le 
persuasioni  de  scienze.  Io  o  per  elezzione  di  quei  che  me  gover- 
naro,  padri  e  pedagogi,  o  per  mio  capriccio  e  fantasia,  o  per 
fama  d'un  dottore,  non  men  con  satisfazzione  de  l'animo  mio 
mi  stimare  aver  guadagnato  sotto  l'arrogante  e  fortunata  igno- 
ranza d'un  cavallo,  che  qualsivoglia  altro  sotto  un  meno  igno- 
rante o  pur  dotto.  Non  sai  quanta  forza  abbia  la  consuetudine 
[69]  di  credere,  et  esser  nodrito  da  fanciullezza  in  certe  persuasioni, 
ad  impedirne  da  l'intelligenza  de  cose  manifestissime?  non  al- 
trimente  ch'accader  suole  a  quei  che  sono  avezzati  a  mangiar  ve- 
leno, la  complession  de  quali  al  fine  non  solamente  non  ne  sente 
oltraggio,  ma  ancora  se  l'ha  convertito  in  nutrimento  naturale:  di 
sorte  che  l'antidoto  istesso  gli  è  dovenuto  mortifero.  Or  dimmi: 
con  quale  arte  ti  conciliarai  queste  orecchie  più  tosto  tu  ch'un 
altro,  essendo  che  ne  l'animo  di  quello  è  forse  meno  inclinazione 
ad  attendere  le  tue  proposizioni,  che  quelle  di  mill'altri  diverse? 
Teofilo.  —  Questo  è  dono  de  gli  dèi,  se  ti  guidano  e  dispen- 
sano le  sorte  da  farte  venir  a  l'incontro  un  uomo  che  non  tanto 
abbia  l'esistimazion  di  vera  guida,  quanto  in  verità  sii  tale,  et 


DIALOGO  PRIMO  465 

illuminano  l'interno  tuo  spirto  al  far  elezzione  de  quel  ch'è  me- 
gliore. 

Smitho.  —  Però  comunemente  si  va  appresso  al  giudizio  co- 
mone,  a  fin  che  se  si  fa  errore,  quello  non  sarà  senza  gran  favore 
e  compagnia. 

Teofilo.  -  Pensiero  indegnissimo  d'un  uomo:  per  questo  gli 
uomini  savii  e  divini  son  assai  pochi;  e  la  volontà  di  dèi  è  que- 
sta, atteso  che  non  è  stimato  né  prezioso  quel  tanto  ch'è  comone 
e  generale. 

Smitho.  —  Credo  bene  che  la  verità  è  conosciuta  da  pochi,  e 
le  cose  preggiate  son  possedute  da  pochissimi:  ma  mi  confonde 
che  molte  cose  son  poche,  tra  pochi,  e  forse  appresso  un  solo, 
che  non  denno  esser  stimate,  non  vaglion  nulla,  e  possono  esser 
maggior  pazzie  e  vizii. 

Teofilo.  —  Bene,  ma  in  fine  è  più  sicuro  cercar  il  vero  e 
conveniente  fuor  de  la  moltitudine:  perché  questa  mai  apportò  [71] 
cosa  preziosa  e  degna;  e  sempre  tra  pochi  si  trovomo  le  cose  di 
perfezzione  e  preggio;  le  quali,  se  fusser  sole  ad  esser  rare  et  ap- 
presso rari,  ogn'uno,  ben  che  non  le  sapesse  ritrovare,  al  meno 
le  potrebbe  conoscere:  e  cossi  non  sarebbono  tanto  preziose  per 
via  di  cognizione,  ma  di  possessione  solamente. 

Smitho.  —  Lasciamo  dumque  questi  discorsi,  e  stiamo  un 
poco  ad  udire  et  osservare  i  pensieri  del  Nolano.  È  pure  assai 
che  sin  ora  s'abbia  conciliato  tanta  fede,  ch'è  stimato  degno 
d'essere  udito. 

Teofilo.  —  A  lui  basta  ben  questo.  Or  attendete  quanto  la  sua 
filosofia  sii  forte  a  conservarsi,  defendersi,  scuoprir  la  vanità,  e 
far  aperte  le  fallacie  de  sofisti  e  cecità  del  volgo  e  volgar  filosofia. 

Smitho.  —  A  questo  fine  (per  esser  ora  notte)  tomaremo  do- 
mani qua  a  l'ora  medesma,  e  faremo  considerazione  sopra  gli 
rancontri  e  dottrina  del  Nolano. 

Prudenzio.  —  Sat  prata  biberunt:  nam  iam  nox  humida  cacio 
praecipitat^^ . 

Fine  del  primo  dialogo  [73] 

82.  La  citazione  fonde  versi  da  due  opere  di  Virgilio,  Bue,  III,  iii  («Sat 
prata  biberunt»:  «abbastanza  i  prati  han  bevuto»)  ed  Aen.,  II,  8-9  («[Nam]  iam 
nox  humida  caelo  /  praecipitat»:  «[infatti]  già  la  notte  umida  dal  cielo  preci- 
pita»). Cfr.  Virgilio,  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  Torino,  1971,  pp.  97  e  337. 


DIALOGO  SECONDO 

Teofilo.  -  All'ora  gli  disse  il  signor  Folco  Crivello  ^:  «Di 
grazia,  signor  Nolano,  fatemi  intendere  le  raggioni  per  le  quali 
stimate  la  terra  muoversi».  A  cui  rispose,  che  lui  non  gli  arebbe 
possuto  donar  raggione  alcuna,  non  conoscendo  la  sua  capacità: 
e  non  sapendo  come  potesse  da  lui  essere  inteso,  temerebbe  far 
come  quei  che  dicono  le  sue  raggioni  a  le  statue  et  andane  a 
parlare  co  gli  morti.  Per  tanto  gli  piaccia  prima  farsi  conoscere 
con  proponere  quelle  raggioni,  che  gli  persuadeno  il  contrario: 
per  che  secondo  il  lume  e  forza  de  l'ingegno  che  lui  dimostrarà 
apportando  quelle,  gli  potranno  esser  date  risoluzioni.  Aggiunse 
a  questo,  che  per  desiderio  che  tiene  di  mostrar  la  imbecillità  di 
contrari  pareri  per  i  medesmi  principii  co  quali  pensano  esser 
conlìrmati,  se  gli  farebbe  non  mediocre  piacere  di  ritrovar  per- 
sone, le  quali  fussero  giudicate  sufficiente  a  questa  impresa;  e 
lui  sarebbe  sempre  apparecchiato  e  pronto  al  rispondere;  con 
questo  modo  si  potesse  veder  la  virtù  de  fondamenti  di  questa 
sua  filosofia  contra  la  volgare,  tanto  megliormente,  quanto  mag- 
gior occasione  gli  verrebe  presentata  di  rispondere  e  dechiarare. 
Molto  piacque  al  signor  Folco  questa  risposta;  disse:  «Voi  mi 
[75]  fate  gratissimo  officio;  accetto  la  vostra  proposta,  e  voglio  deter- 
minare un  giorno,  nel  quale  ve  si  opporranno  persone,  che  forse 
non  vi  faran  mancar  materia  di  produr  le  vostre  cose  in  campo. 
Mercoldì  ad  otto  giorni  che  sarà  de  le  ceneri  2,  sarete  convitato 
con  molti  gentil'omini  e  dotti  personaggi,  a  fin  che  dopo  man- 
giare si  faccia  discussione  di  belle  e  varie  cose;  «Vi  prometto» 


1.  Il  dialogo  è  ambientato,  adesso,  a  casa  di  Greville. 

2.  Il  15  febbraio  1584.  Per  la  cronologia  della  Cena  (in  funzione  del  calen- 
dario gregoriano  e  di  quello  giuliano,  in  uso  in  Inghilterra  fino  al  XVIII  seco- 
lo), cfr.  J.  BossY,  G.  Bruno  e  il  mistero  dell'ambasciata,  traduz.  di  L.  Salerno, 
Milano,  1992,  pp.  13-14  e  132-133. 


DIALOGO  SECONDO  467 

disse  il  Nolano,  «ch'io  non  mancarò  d'esser  presente  all'ora  e 
tutte  volte  che  si  presentare  simile  occasione:  per  che  non  è 
gran  cosa  sotto  la  mia  elezzione,  che  mi  ritarde  dal  studio  di 
voler  intendere  e  sapere.  Ma  vi  priego  che  non  mi  fate  venir 
innanzi  persone  ignobili,  mal  create  e  poco  intendenti  in  simile 
speculazioni»  (e  certo  ebbe  raggione  di  dubitare,  per  che  molti 
dottori  di  questa  patria  co  i  quali  ha  raggionato  di  lettere,  ha 
trovato  nel  modo  di  procedere  aver  più  del  bifolco,  che  d'altro 
che  si  potesse  desiderare).  Rispose  il  signor  Folco,  che  non  du- 
bitasse, perché  quelli  che  lui  propone,  son  morigeratissimi  e 
dottissimi.  Cossi  fu  conchiuso.  Or  essendo  venuto  il  giorno  de- 
terminato —  aggiutatemi  Muse  a  racontare  — ... 

Prudenzio.  —  Apostrophe,  pathos,  invocatio  poetarum  more^. 

Smitho.  —  Ascoltate,  vi  priego,  maestro  Prudenzio. 

Prudenzio.  -  Lubentissime-^. 

Teofilo.  -  ...  il  Nolano  avendo  aspettato  sin  dopo  pranso,  e 
non  avendo  nuova  alcuna,  stimò  quello  gentil'uomo  per  altre 
occupazioni  aver  posto  in  oblio,  o  men  possuto  proveder  al  ne- 
gocio:  e  sciolto  da  quel  pensiero,  andò  a  rimenarsi,  e  visitar  al- 
cuni amici  italiani;  e  ritornando  al  tardi  dopo  il  tramontar  del 
sole...  [77] 

Prudenzio.  -  Già  il  rutilante  Febo  avendo  volto  al  nostro 
emisfero  il  tergo,  con  il  radiante  capo  ad  illustrar  gli  antipodi 
sen  giva^. 

Frulla.  —  Di  grazia,  magister,  raccontate  voi,  per  che  il  vo- 
stro modo  di  recitare  mi  sodisfa  mirabilmente. 

Prudenzio.  —  Oh  s'io  sapesse  l'istoria. 

Frulla.  —  Or  tacete  dumque  in  nome  del  vostro  diavolo. 

Teofilo.  -  ...  la  sera  al  tardi  gionto  a  casa,  ritrova  avanti  la 
porta  messer  Florio  e  maestro  Guin'^%  i  quali  s'erano  molto  tra- 

3.  «Apostrofe,  pathos,  invocazione  alla  maniera  dei  poeti». 

4.  «Assai  volentieri». 

5.  Si  ricordi  il  modo  di  parlare  del  pedante  Mamfurio,  in  Candelaio,  II,  6. 

6.  John  Florio  (1553-1625),  nato  da  padre  toscano  a  Londra,  città  dove  si 
era  consacrato  all'insegnamento  dell'italiano.  Ha  pubblicato  alcuni  manuali 
per  l'apprendimento  della  lingua,  dei  dizionari  (A  Worlde  of  Wordes  nel  1598  e 
A  New  World  of  Words,  nel  1611)  e  la  già  menzionata  traduzione  degli  Essais  di 
Montaigne  (con  un'epistola  dedicatoria  che  dimostra  la  sua  amicizia  per  il  gal- 
lese Matthew  Gwinne).  Nel  1581,  egli  era  al  Magdalen  College  di  Oxford;  nel 
1584,  al  momento  della  pubblicazione  della  Cena,  era  precettore  della  figlia 
dell'ambasciatore  francese  Michel  de  Castelnau,  che  l'ospitava.  Sulla  vita  e 


468  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

vagliati  in  cercarlo;  e  quando  il  veddero  venire:  «O  di  grazia» 
dissero,  «presto  senza  dimora  andiamo,  che  vi  aspettano  tanti 
cavallieri,  gentil'omini  e  dottori,  e  tra  gli  altri  ve  n'è  un  di 
quelli  ch'hanno  a  disputare,  il  quale  è  di  vostro  cognome»^; 
«Noi  dumque»  disse  il  Nolano,  «non  ne  potremo  far  male:  sin 
adesso  una  cosa  m'è  venuta  in  fallo,  ch'io  sperava  di  far  questo 
negocio  a  lume  di  sole:  e  veggio  che  si  disputare  a  lume  di  can- 
dela». Iscusò  maestro  Guin  per  alcuni  cavallieri,  che  desidera- 
vano esser  presenti,  «non  han  possuto  essere  al  desinare,  e  son 
venuti  a  la  cena».  «Orsù»  disse  il  Nolano,  «andiamo  e  pre- 
ghiamo Dio  che  ne  faccia  accompagnare  in  questa  sera  oscura, 
a  sì  lungo  camino,  per  sì  poco  sicure  strade».  -  Or  benché  fus- 
semo  ne  la  strada  diritta*',  pensando  di  far  meglio,  per  accortar 
il  camino,  divertimmo  verso  il  fiume  Tamesi'^  per  ritrovar  un 
battello  1°,  che  ne  conducesse  verso  il  Palazzo '^  Giunsemo  al 
ponte  de  palazzo  del  milord  Beuckhurst^^:  e  quinci  Gridando  e 
[79]  chiamando  «oares»,  idest  gondolieri,  passammo  tanto  tempo, 
quanto  arrebe  bastato  a  bell'agio  di  condurne  per  terra  al  loco 

l'opera  di  Florio,  cfr.  F.  A.  Yates.  The  Life  of  an  Italian  in  Shakespeare's  En- 
gland,  Cambridge,  1934;  S.  Policardi,  /.  Florio  e  le  relazioni  culturali  anglo-ita- 
liane agli  albori  del  XVII  secolo,  Venezia.  1947;  D.  O'Connor,  /.  Florio's  Contri- 
bntion  io  Italian-English  Lexicography,  «Italica»  [New  York],  XLI,  1972,  pp.  49- 
67;  L.  Gallesi,  Nota  introduttiva  a  J.  Florio,  Giardino  di  Ricreazione,  Milano, 
1993,  pp.  9-35.  -  Matthew  Gwinne  (i558?-i627),  medico,  poeta  e  filosofo  amico 
di  Florio.  Su  di  lui,  cfr.  V Introduction  di  A.  Cizek  a  M.  Gwinne,  Vertumnus  sive 
annus  recurrens,  New  York.  1983. 

7.  Probabilmente  un  non  meglio  identificato  «Brown»  (equivalente  inglese 
di  Bruno). 

8.  Lo  Strand,  che  correva  parallelo  al  Tamigi  e  conduceva  direttamente  da 
Tempie  Bar  (che  delimitava  il  territorio  tra  la  City  di  Londra  e  la  City  di 
Westminster)  a  Charing  Cross,  da  dove  ci  si  portava  a  Withehall,  sede  della 
Corte.  Nella  sua  qualità  di  scudiero  della  regina,  Fulke  Greville  vi  aveva  suoi 
appartamenti,  anche  se  la  sua  residenza  personale  era  situata  in  un  altro  quar- 
tiere della  città. 

9.  Svoltarono  evidentemente  a  sinistra,  lungo  una  delle  stradine  che  colle- 
gavano lo  Strand  con  il  Tamigi. 

10.  Le  vie  fluviali  erano  assai  utilizzate  nella  Londra  del  XVI  secolo. 

11.  Il  palazzo  reale  di  Withehall. 

12.  Thomas  Sackville.  Lord  Buckhurst  (1536-1608),  personaggio  impiortante 
nella  vita  culturale  e  politica  inglese.  Cfr.  P.  Bacquet,  Un  contemporain  d'Eli- 
zabeth I:  Thomas  Sackville.  L'homme  et  l'oeuvre,  Genève.  1966  e  N.  Berlin, 
T  Sackville,  New  York,  1974.  My  Lord  era  il  titolo  accordato  ai  cadetti  delle 
famiglie  nobili  inglesi  (cfr.  G.  Rando,  Voci  inglesi  nelle  «Relazioni»  cinquecente- 
sche degli  ambasciatori  veneti  in  Inghilterra,  «Lingua  nostra»  (Firenze),  XXXI, 
1970,  p.  108);  ma  dal  XVI  secolo.  Francesi  ed  Italiani  usavano  il  termine  per 
indicare  i  gentiluomini  inglesi  in  generale. 


DIALOGO  SECONDO  469 

determinato,  et  avere  spedito  ancora  qualche  piccolo  negozio. 
Risposero  al  fine  da  lungi  dui  barcaroli;  e  pian  pianino,  come 
venessero  ad  appiccarsi,  giunsero  a  la  riva:  dove  dopo  molte  in- 
terrogazioni e  risposte  del  d'onde,  dove,  e  perché,  e  come,  e 
quanto,  approssimomo  la  proda  a  l'ultimo  scalino  del  ponte;  et 
ecco,  di  dui  che  v'erano,  un  che  pareva  il  nocchier  antico  del 
tartareo  regno,  porse  la  mano  al  Nolano;  et  un  altro  che  penso 
ch'era  il  figlio  di  quello,  benché  fusse  uomo  de  sessantacinque 
anni  in  circa,  accolse  noi  altri  appresso:  et  ecco  che  senza  che 
qui  fusse  entrato  un  Ercole,  un  Enea,  o  ver  un  re  di  Sarza  Ro- 
domonte i^, 

gemuti  sub  pondere  cimba 
sutilis,  et  multam  accepit  limosa  paludem^'^. 

Udendo  questa  musica  il  Nolano:  «Piaccia  a  Dio»  disse,  «che 
questo  non  sii  Caronte:  credo  che  questa  è  quella  barca  chia- 
mata l'emula  de  la  lux  perpetua^^;  questa  può  sicuramente  com- 
petere in  antiquità  co  l'arca  di  Noè:  e  per  mia  fé,  per  certo  par 
una  de  le  reliquie  del  diluvio».  Le  parti  di  questa  barca  ti  re- 
spondevano  ovomque  la  toccassi,  e  per  ogni  minimo  moto  ri- 
suonavano per  tutto.  «Or  credo»  disse  il  Nolano,  «non  esser 
favola  che  le  muraglia  (si  ben  mi  ricordo)  di  Tebe  erano 
vocali,  e  che  talvolta  cantavano  a  raggion  di  musica'"^:  si  noi 
credete,  ascoltate  gli  accenti  di  questa  barca;  che  ne  sembra 
tanti  pifferi  con  que'  fischi,  che  fanno  udir  le  onde  quando 


13.  Cfr.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XLVI,  105,  3  e  XXVIII,  85-91. 

14.  Virgilio,  Aen.,  VI,  412-413,  traduz.  in  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  To- 
rino, 1971,  p.  551:  «Gemettero  sotto  il  peso  le  connessure  del  guscio  e  molto 
imbarcò,  per  le  fessure,  di  fango»  (da  notare  al  v.  2  la  variante  limosa  per  n- 
mosa).  Come  ha  osservato  M.  A.  Granada  nella  sua  traduzione  della  Cena  (Ma- 
drid, 1994^,  p.  85,  nota  6),  sotto  l'effetto  delle  ripetute  citazioni  del  Libro  VI 
deìVEneide,  la  spedizione  del  Nolano  finisce  per  rassomigliare  alla  discesa  di 
Enea  agli  Inferi. 

15.  Allusione  all'O^iMW  defunctorum:  i  cristiani  raggiungono  l'aldilà  ac- 
compagnati dal  Requiem,  nello  stesso  modo  in  cui  i  defunti  pagani  erano  cari- 
cati sulla  barca  di  Caronte. 

16.  Secondo  la  leggenda,  Amfione  avrebbe  edificato  le  mura  di  Tebe  suo- 
nando la  lira,  ed  esse  avrebbero  mantenuto  una  certa  virtù  musicale  (cfr.  Sta- 
zio, Thebaidos,  I,  9-10). 


470  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

entrano  per  le  sue  fessure  e  rime  d'ogni  canto».  Noi  rìsemo. 
[8ij   ma  Dio  sa  come: 

...  Annibal  quand'a  Timperio  afflitto 
vedde  farsi  fortuna  sì  molesta, 
rise  tra  gente  lacrimosa  e  mesta'". 

Prudenzio.  -  Risus  sardonicus^^. 

Teofilo.  -  Noi  invitati  sì  da  quella  dolce  armonia,  come  da 
amor  gli  sdegni,  i  tempi  e  le  staggioni,  accompagnammo  i  suoni 
con  i  canti.  Messer  Florio  (come  ricordandosi  de  suoi  amori) 
cantava  il  «Dove  senza  me  dolce  mia  vita»'^.  Il  Nolano  ripi- 
gliava: «Il  saracin  dolente,  o  femenil  ingegno »^°,  e  va  discor- 
rendo. Cossi  a  poco  a  poco,  per  quanto  ne  permettea  la  barca: 
che  (benché  da  le  farle  et  il  tempo  fusse  ridutta  a  tale  ch'arrebe 
possuto  servir  per  subero)  parca  col  suo  festina  lente^^  tutta  di 
piombo,  e  le  braccia  di  que'  dua  vecchi,  rotte;  i  quali  benché  col 
rimenar  de  la  persona  mostrassero  la  misura  lunga,  nuUadi- 
meno  co  i  remi  faceano  i  passi  corti. 

Prudenzio.  —  Optinie  discriptum^-  illud  «festina»,  con  il  dorso 
frettoloso  di  marinali;  «lente»,  col  profitto  de  remi:  qual  mali 
operarii  del  dio  de  gli  orti. 

Teofilo.  —  A  questo  modo  avanzando  molto  di  tempo  e 
poco  di  camino,  non  avendo  già  fatta  la  terza  parte  del  viaggio, 
poco  oltre  il  loco  che  si  chiama  «il  Tempio »^\  ecco  che  i  nostri 
patrini,  in  vece  d'affrettarsi,  accostano  la  proda  verso  il  lido. 
Dimanda  il  Nolano:  «Che  voglion  far  costoro?  voglion  forse  ri- 

17.  F.  Petr.\rc.\,  sonetto  Cesare,  poi  ch'el  traditor  d'Egitto  (Canzoniere,  CU), 
w.  5-7. 

18.  «Riso  sardonico»  (per  il  quale  cfr.  Erasmo  da  Rotterdam,  Adagia,  III, 

5>i)- 

19.  Cfr.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso.  Vili,  76,  1-2  («Deh!  dove  senza  me, 
dolce  mia  vita,  /  Rimassa  sei  sì  giovane  e  sì  bella?»). 

20.  Ivi.  XXVII,  117,  1-2  («Di  cocenti  sospir  l'aria  accendea  /  Dovunque  an- 
dava il  Saracin  dolente»)  e  5-6  («Oh  feminile  ingegno,  egli  dicea,  /  Come  ti 
volgi  e  muti  facilmente»).  Si  era  soliti,  nel  XVI  secolo,  cantare  i  versi  dei  poeti 
più  popolari. 

21.  Festina  lente.  «Affrettati  con  calma»;  traduzione  latina  di  'Ejteùòe 
PpcóÉcoc!  motto  caro  ad  Augusto  (cfr.  Svetonio,  De  vita  Caesarum,  II,  25).  È  il 
primo  degli  Adagia  di  Erasmo  (II,  2,  i);  celeberrimo,  dal  momento  che  Aldo 
Manuzio  Taveva  scelto  come  marca  tipografica. 

22.  «Ottima  descrizione». 

23.  Perché  era  stata  la  sede  dei  Templari,  a  Fleet  Street 


DIALOGO  SECONDO  4/1 

prendere  un  po'  di  fiato?»;  e  gli  venne  interpretato ^^  che  quei 
non  erano  per  passar  oltre:  perché  quivi  era  la  lor  stanza.  Priega 
e  ripriega,  ma  tanto  peggio:  per  che  questa  è  una  specie  de  ru- 
stici, nel  petto  de  quali  spunta  tutti  i  sui  strali  il  dio  d'amor  del 
popolo  villano25_  [83] 

Prudenzio.  —  Principio  omni  rusticorum  generi,  hoc  est  a  na- 
tura tributum,  ut  nihil  virtutis  amore  faciant;  et  vix  quicquam  for- 
midine  poenae^'\ 

Frulla.  -  È  un  altro  proverbio  anco  in  proposito  di  ciasche- 
dun  villano: 

Rogatus  tumet, 

pulsatus  rogai, 

pugnis  concisus  adorai^''. 

Teofilo.  —  In  conclusione,  ne  gittarono  là;  et  dopo  pagategli 
e  resegli  le  grazie  (per  che  in  questo  loco  non  si  può  far  altro, 
quando  se  riceve  un  torto  da  simil  canaglia),  ne  mostromo  il 
diritto  camino  per  uscire  a  la  strada.  —  Or  qua  te  voglio  dolce 
Maf elina,  che  sei  la  musa  di  Merlin  Cocaio^».  -  Questo  era  un 
camino  che  cominciò  da  una  buazza^^  la  quale  né  per  ordina- 
rio, né  per  fortuna,  avea  divertiglio.  Il  Nolano  il  quale  ha  stu- 
diato et  ha  pratticato  ne  le  scuole  più  che  noi,  disse:  «Mi  par 
veder  un  porco  passaggio,  però  seguitate  a  me»;  et  ecco  non 
avea  finito  quel  dire,  che  vien  piantato  lui  in  quella  fanga  di 
sorte  che  non  possea  ritrame  fuora  le  gambe;  e  cossi  aggiutando 

24.  Come  apprenderemo  dalle  prime  battute  del  Dialogo  terzo,  il  Nolano 
non  capisce  l'inglese,  benché  si  trovi  nell'isola  da  un  anno. 

25.  V'era  tutta  una  letteratura  satirica  che  attaccava  i  villani.  Cfr.  gli 
esempi  raccolti  da  E.  Sereni,  La  satira  contro  il  villano,  in:  Storia  d'Italia,  To- 
rino, voi.  I,  1972,  pp.  193-196. 

26.  «La  natura  ha  stabilito  in  principio  che  i  villani  di  ogni  genere  nulla 
facciano  per  amore  della  virtù,  e  qualcosa  appena  per  timore  del  castigo». 

27.  «Pregato  si  gonfia,  /  picchiato  prega  /colpito  con  pugni  adora»,  mas- 
sima tratta  da  Giovenale,  Sat.,  Ili,  vv.  293  e  300  (cfr.  inoltre  J.  Florio,  Giar- 
dino di  Ricreazione  cit.,  pp.  68  e  74). 

28.  Cfr.  T.  Folengo,  Baldus,  I,  14,  ed.  a  cura  di  M.  Chiesa,  Torino,  voi.  I, 
1997,  pp.  68-69  (si  veda  la  nota,  loc.  cit.,  «Cosa,  Comina,  Mafelina,  Togna,  Striax 
sono,  nell'ordine,  le  [muse]  ispiratrici  ognuna  di  un  gruppo  di  cinque  libri  del 
Baldus,  invocate  all'inizio  della  cinquina  e  congedate  alla  fine».  Si  veda,  inol- 
tre, ivi,  XI,  16,  pp.  484-485  e  Vindice  dei  nomi,  voi.  Il,  p.  1091). 

29.  Cfr.  il  francese  bone.  Secondo  Gentile,  «intese  l'autore  raffigurare  in  que- 
sti pantani  la  scienza  delle  scuole  del  tempo,  attraverso  la  quale  anche  a  lui 
era  convenuto  passare  per  raggiungere  quella  che  da  lui  verrà  esposta  e  difesa 
in  casa  del  Greville»  (G.  Bruno,  Dialoghi  italiani,  Firenze,  1958^,  p.  58,  nota  2). 


472  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

l'un  l'altro,  vi  dammo  per  mezzo,  sperando  che  questo  purgato- 
rio durasse  poco:  ma  ecco  che  per  sorte  iniqua  e  dura,  lui  e  noi, 
noi  e  lui  ne  ritrovammo  ingolfati  dentro  un  limoso  varco  il 
qual  come  fusse  l'orto  de  la  gelosia,  o  il  giardin  de  le  delizie,  era 
terminato  quinci  e  quindi  da  buone  muraglia;  e  perché  non  era 
luce  alcuna  che  ne  guidasse,  non  sapeamo  far  differenza  dal  ca- 
mino ch'aveam  fatto  e  quello  che  doveam  fare,  sperando  ad 
ogni  passo  il  fine:  sempre  spaccando  il  liquido  limo,  penetra- 
tasi vamo  sin  alla  misura  delle  ginocchia  verso  il  profondo  e  tene- 
broso avemo.  Qua  l'uno  non  possea  dar  conseglio  a  l'altro,  non 
sapevam  che  dire,  ma  con  un  muto  silenzio  chi  sibilava  per 
rabbia,  chi  faceva  un  bisbiglio,  chi  sbruffava  co  le  labbia,  chi  git- 
tava  un  suspiro  e  si  fermava  un  poco,  chi  sotto  lengua  bestemmia- 
va; e  per  che  gli  occhi  non  ne  serveano,  i  piedi  faceano  la  scorta  a 
i  piedi,  un  cieco  era  confuso  in  far  più  guida  a  l'altro ^°.  Tanto  che, 

Qual  uom  che  giace  e  piange  lungamente 
sul  duro  letto  il  pigro  andar  de  l'ore, 
or  pietre,  or  carme,  or  polve,  et  or  liquore 
spera  ch'uccida  il  grave  mal  che  sente: 

ma  poi  ch'a  lungo  andar  vede  il  dolente 
ch'ogni  rimedio  è  vinto  dal  dolore, 
desperando  s'acqueta;  e  se  ben  more, 
sdegna  ch'a  sua  salute  altro  si  tente^'; 

cossi  noi  dopo  aver  tentato  e  ritentato,  e  non  vedendo  rimedio 
al  nostro  male,  desperati,  senza  più  studiar  e  beccarsi  il  cervello 
in  vano,  risoluti  ne  andavamo  a  guazzo  a  guazzo  per  l'alto  mar 
di  quella  liquida  bua,  che  col  suo  lento  flusso  andava  del  pro- 
fondo Tamesi  a  le  sponde... 

Prudenzio.  -  O  bella  clausula. 

Teofilo.  —  ...  tolta  ciascun  di  noi  la  risoluzione  del  tragico 
cieco  d'Epicuro: 

Dov'il  fatai  destin,  mia  guida  cieco, 
lasciami  andar  e  dove  il  pie  mi  porta; 
né  per  pietà  di  me  venir  più  meco. 

30.  Erasmo  da  Rotterdam,  Adagia,  I,  8,  40. 

31.  L.  Tansillo,  sonetto  Qual  uom  che  giace,  e  piange  lungamente,  w.  1-8. 


DIALOGO  SECONDO  473 

Trovarò  forse  un  fosso,  un  speco,  un  sasso 
piatoso  a  traimi  fuor  di  tanta  guerra, 
precipitando  in  loco  cavo  e  basso  ^2.  [87] 

Ma  per  la  grazia  de  gli  dèi  (per  che,  come  dice  Aristotele,  non 
datur  infinitum  in  actu)^^,  senza  incorrer  peggior  male,  ne  ritro- 
vammo al  fine  ad  un  pantano:  il  quale  benché  ancor  lui  fusse 
avaro  d'un  poco  di  margine  pe  dame  la  strada,  pure  ne  relevò 
con  trattarci  più  cortesemente,  non  inceppando  oltre  i  nostri 
piedi;  sin  tanto  che  (montando  noi  più  alto  per  il  sentiero)  ne 
rese  a  la  cortesia  d'una  lava  la  quale  da  un  canto  lasciava  un  sì 
petroso  spazio  per  porre  i  piedi  in  secco,  che  passo  passo  ne  fé' 
cespitar  come  ubriachi,  non  senza  pericolo  di  romperne  qualche 
testa  o  gamba. 

Prudenzio.  —  Condusio,  conclusio^'*. 

Teofilo.  -  In  conclusione,  tandem  laeta  arva  tenemus^^:  ne 
parve  essere  a  i  campi  Elisii,  essendo  arrivati  a  la  grande  et 
ordinaria  strada ^^;  e  quivi  da  la  forma  del  sito  considerando 
dove  ne  avesse  condotti  quel  maladetto  divertiglio,  ecco  che  ne 
ritrovammo  poco  più  o  meno  di  vintidui  passi  discosti  da  onde 
eravamo  partiti  per  ritrovar  gli  barcaroli,  e  vicino  a  la  stanza 
del  Nolano^^.  O  varie  dialettiche,  o  nodosi  dubii,  o  importuni 
sofismi,  o  cavillose  capzioni,  o  scuri  enigmi,  o  intricati  laberinti, 
o  indiavolate  sfinge  risolvetevi,  o  fatevi  risolvere: 

In  questo  bivio,  in  questo  dubbio  passo, 
che  debo  far?  che  debbo  dir,  ahi  lasso? ^^ 

Da  qua  ne  richiamava  il  nostro  allogiamento:  per  che  ne  avea  sì 

32.  M.  A.  Epicuro,  Cecaria,  terzine  I  e  III  (al  verso  i,  la  variante:  mi  guida, 
ed  all'ultimo  verso  la  variante:  oscuro  e  basso). 

33.  Aristotele,  Phys.  Auscultai,  III,  5,  204  a  20:  «Non  si  dà  infinito  in 
atto». 

34.  «Conclusione!  conclusione!». 

35.  «Alla  fine  nei  lieti  campi  ci  arrestiamo»  (citazione  approssimativa  di 
Virgilio,  Aen.,  VI,  744,  ed.  Carena  cit.,  pp.  568-569). 

36.  Lo  Strand. 

37.  Nella  vicina  residenza  dell'ambasciatore  di  Francia  a  Butcher  Row  op- 
pure a  Salisbury  Court  (cfr.  Proemiale  epistola,  p.  440,  nota  41). 

38.  Cfr.  F.  Petrarca,  canzone  Che  debb'io  far  (Canzoniere,  CCLXVIII). 


474  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

fattamente  imbottati  ^'^  maestro  Buazzo  e  maestro  Pantano,  ch'a 
pena  posseamo  movere  le  gambe.  Oltre,  la  regola  de  la  odoman- 
zia"*"  e  Tordinario  de  gli  augurii  importunamente  ne  conseglia- 

[89]  vano  a  non  seguitar  quel  viaggio.  Li  astri  per  essemo""  tutti 
ricoperti  sotto  l'oscuro  e  tenebroso  manto,  e  lasciandoci  l'aria 
caliginoso,  ne  forzavano  al  ritomo.  Il  tempo  ne  dissuadeva  l'an- 
dar sì  lungi  avante,  et  essortava  a  tornar  quel  pochettino  a  die- 
tro. Il  loco  vicino  applaudeva  benignamente.  L'occasione  la 
quale  con  una  mano  ci  avea  risospinti  sin  qua,  adesso  con  dui 
più  forti  pulsi  facea  il  maggior  empito  del  mondo.  La  stan- 
chezza al  fine  (non  meno  ch'una  pietra  dal  intrinseco  principio 
e  natura  è  mossa  verso  il  centro)  ne  mostrava  il  medesmo  ca- 
mino, e  ne  fea  inchinar  verso  la  destra.  Da  l'altro  canto  ne  chia- 
mavano le  tante  fatiche,  travagli  e  disaggi  i  quali  sarrebono 
stati  spesi  in  vano;  ma  il  vermine  de  la  conscienza  diceva:  «Se 
questo  poco  di  camino  n'ha  costato  tanto,  che  non  è  vinticin- 
que  passi,  che  sarà  di  tanta  strada  che  ne  resta?  Meior  es  perdere, 
che  mas  perdere»-^-.  Da  là  ne  invitava  il  desio  comone  ch'aveamo 
di  non  defraudar  la  espettazione  di  que'  cavallieri  e  nobili  per- 
sonaggi; dall'altro  canto  rispondeva  il  crudo  rimorso,  che  quelli 
non  avendo  avuto  cura  né  pensiero  di  mandar  cavallo  o  bat- 
tello a  gentil'uomini  in  questo  tempo,  ora  et  occasione,  non  fa- 
rebbono  ancora  scrupolo  del  nostro  non  andare.  Da  là  eravamo 
accusati  per  poco  cortesi  al  fine,  o  per  uomini  che  van  troppo 
sul  pontiglio,  che  misurano  le  cose  da  i  meriti  et  uffici,  e  fan 
professione  più  di  ricever  cortesia,  che  di  fame:  e  come  villani 
et  ignobili,  voler  più  tosto  esser  vinti  in  quella,  che  vencere.  Da 
qua  eravamo  iscusati  che  dove  è  forza,  non  è  raggione.  Da  là  ne 
attraea  il  particolar  interesse  del  Nolano  ch'avea  promesso,  e 
che  gli  arrebono  possuto  attaccar  a  dosso  un  non  so  che.  Oltre 

[91]  ch'ha  lui  gran  desio  che  se  gli  offra  occasione  di  veder  costumi, 
conoscere  gl'ingegni,  accorgersi,  si  sia  possibile,  di  qualche  nova 
verità,  confirmar  il  buono  abito  de  la  cognizione,  accorgersi  di 

39.  Imbottati:  cfr.  il  francese  «botte»  e  lo  spagnolo  «bota». 

40.  L'arte  di  divinare  il  cammino  da  seguire. 

41.  «Essemo»  è  forma  d'infinito  coniugato  (cfr.  stipra,  p.  452.  nota  51). 

42.  «È  meglio  perdere  che  perdere  di  più»,  proverbio  spagnolo.  Cfr.  P.  Are- 
tino, Cortigiana,  prima  redazione,  III,  7:  «Disse  lo  Spagnolo  che  gli  è  meglio 
perdere  che  masperdere»  (ed.  a  cura  di  A.  Romano,  Milano,  1989,  p.  115). 


DIALOGO  SECONDO  475 

cosa  che  gli  manca.  Da  qua  èramo  ritardati  dal  tedio  comone,  e 
da  non  so  che  spirto  che  diceva  certe  raggioni  più  vere  che  de- 
gne a  referire.  A  chi  tocca  determinar  questa  contradizzione? 
chi  ha  da  trionfar  di  questo  libero  arbitrio?  a  chi  consentisce  la 
raggione?  che  ha  determinato  il  fato?  Ecco  questo  fato,  per 
mezzo  de  la  raggione,  aprendo  la  porta  de  l'intelletto,  si  fa  den- 
tro, e  comanda  a  l'elezzione,  che  ispedisca  il  consentimento  di 
continuar  il  viaggio:  «0  passi  graviora»-^^  ne  vien  detto,  «o  pu- 
sillanimi, o  leggieri,  incostanti  et  uomini  di  poco  spirto...». 

Prudenzio.  —  Exaggeratio  concinna-^^. 

Teofilo.  —  «...  non  è,  non  è  impossibile,  benché  sii  diffìcile, 
questa  impresa;  la  difficoltà  è  quella  ch'è  ordinata  a  far  star  a 
dietro  gli  poltroni.  Le  cose  ordinarie  e  facili  son  per  il  volgo  et 
ordinaria  gente.  Gli  uomini  rari,  eroichi  e  divini  passano  per 
questo  camino  de  la  difficoltà,  a  fine  che  sii  costretta  la  neces- 
sità a  concedergli  la  palma  de  la  immortalità.  Giungesi  a  questo 
che,  quantumque  non  sia  possibile  arrivar  al  termine  di  guada- 
gnar il  palio:  correte  pure,  e  fate  il  vostro  sforzo  in  una  cosa  de 
sì  fatta  importanza,  e  resistete  sin  a  l'ultimo  spirto  "^5.  Non  sol 
chi  vence  vien  lodato,  ma  anco  chi  non  muore  da  codardo  e 
poltrone:  questo  rigetta  la  colpa  de  la  sua  perdita  e  morte  in 
dosso  de  la  sorte,  e  mostra  al  mondo  che  non  per  suo  difetto, 
ma  per  torto  di  fortuna"*^  è  gionto  a  termine  tale.  Non  solo  è 
degno  di  onore  quell'uno  ch'ha  meritato  il  palio:  ma  ancor  [93] 
quello  e  quel  altro,  ch'ha  sì  ben  corso,  ch'è  giudicato  anco  de- 
gno e  sufficiente  de  l'aver  meritato,  ben  che  non  l'abbia  vinto;  e 
son  vituperosi  quelli  ch'ai  mezzo  de  la  carriera  desperati  si  fer- 
mano, e  non  vanno  (ancor  che  ultimi)  a  toccar  il  termine  con 
quella  lena  e  vigor,  che  gli  è  possibile: 

Vidi  ego  leda  din  et  multo  spedata  labore 
degenerare  tanten,  ni  vis.  Sic  omnia  fatis 
in  peius  mere,  ac  retro  sublata  referri: 

43.  Virgilio,  Aen.,  I,  199.  ed.  Carena  cit.,  p.  303:  «O  voi  che  avete  sofferto 
[sventure]  più  gravi». 

44.  «Bella  amplificazione  retorica!». 

45.  Cfr.  Ovidio,  Pontica,  III,  4,  79;  G.  Bruno,  De  monade,  VII,  Op.  lai.,  l,  2,  pp. 
424-425  (traduz.  in  Opere  latine,  a  cura  di  C.  Monti,  Torino,  1980,  pp.  376-377). 

46.  Qui  inizia  il  foglio  D  deWediiio  princeps  della  Cena.  Si  veda  V Appendi- 
ce Il  p.  579. 


476  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

non  aliter  quam  qui  adverso  vix  flumine  lembum 

remigiis  subigit,  si  brachia  forte  remisit 

atqiie  illum  in  preceps  prono  rapii  alveus  amne'^''. 

Venca  dumque  la  perseveranza:  per  che  se  la  fatica  è  tanta,  il 
premio  non  sarà  mediocre.  Tutte  cose  preziose  son  poste  nel  dif- 
ficile; stretta  e  spinosa  è  la  via  de  la  beatitudine;  gran  cosa  forse 
ne  promette  il  cielo,  per  il  che  dice  il  poeta: 

Pater  ipse  colendi 
haud  facilem  esse  viam  voluit,  primusque  per  artem 
movit  agros:  curis  acuens  mortalia  corda, 
nec  torpere  gravi  passus  sua  regna  vetertW^^. 

Prudenzio.  —  Questo  è  un  molto  emfatico  progresso,  che 
converrebe  a  una  materia  di  più  grande  importanza. 

Frulla.  —  È  lecito,  et  è  in  potestà  di  principi,  de  essaltar  le 
cose  basse:  le  quali  se  essi  farran  degne,  saran  giudicate  degne,  e 
veramente  saran  degne;  et  in  questo  gli  atti  loro  son  più  illustri 
e  notabili,  che  si  aggrandissero  i  grandi;  i  quali  non  è  cosa  che 
non  credeno  meritar  per  la  sua  grandezza,  o  vero  che  si  mante- 
[95]  nessero  i  superiori  ne  la  sua  superiorità,  i  quali  diranno  quello 
convenirgli  non  per  grazia,  cortesia  e  magnanimità  di  principe, 
ma  per  giusticia  e  raggione.  Or  applica  a  proposito  del  discorso 
del  nostro  Teofilo.  Pure,  maestro  Prudenzio,  se  vi  par  ancor 
aspro,  distaccalo  da  questa  materia,  et  attacalo  ad  un'altra. 

Prudenzio.  -  Io  non  dissi  altro,  eccetto  che  il  progresso  pa- 
rca molto  emfatico  per  questa  materia,  che  s'offre  al  presente. 

Frulla.  —  Volevo  io  ancor  dire  che  Teofilo  par  ch'abbia  un 
poco  del  Prudenzio:  ma  perdonategli,  per  che  (come  mi  pare) 

47.  Virgilio,  Georg.,  I,  197-203,  ed.  Carena  cit,  p.  165:  «Io  vidi  semi  selezio- 
nati a  lungo  ed  esaminati  con  molta  cura  però  poi  tralignare,  se  l'attività  vi- 
gorosa [dell'uomo  ogni  anno  i  più  grossi  via  via  non  sceglieva].  Così  tutto  è 
destino  che  in  peggio  precipiti  e  vacillando  retroceda,  al  modo  di  chi  a  stento 
contro  la  corrente  una  barca  coi  remi  sospinge,  se  le  braccia  per  caso  allenta, 
ma  lui  a  precipizio  nell'alveo  travolge  la  rapida  del  fiume».  Bruno  ha  intro- 
dotto Ego  nel  primo  verso  e  omesso  nel  secondo,  tra  «ni  vis»  e  «Sic»,  le  parole 
«humana  quotannis  /  maxima  quaeque  manu  legeret». 

48.  Ivi  I.  121-124,  ed.  cit,  p.  161:  «Il  Padre  lui  stesso  volle  che  non  fosse 
facile  la  coltivazione,  e  lui  per  prima  con  arte  fece  rinnovare  i  campi,  con  le 
loro  cure  aguzzando  gli  ingegni  umani,  anziché  lasciare  che  intorpidisse  il  suo 
regno  in  pesante  letargo». 


DIALOGO  SECONDO  477 

questa  vostra  infirmità  è  contagiosa.  E  non  dubitate,  per  che 
Teofilo  sa  far  de  necessità  vertù;  e  de  infirmità  cautela,  preser- 
vazione e  sanità.  Seguite,  Teofìlo,  il  vostro  discorso. 

Prudenzio.  -  Ultra,  domine-*"^. 

Smitho.  -  Via  su  affrettiamoci  a  fin  ch'il  tempo  non  ci  ve- 
gna  meno. 

Teofìlo.  —  Or  alza  i  vanni,  Teofilo,  e  ponti  in  ordine,  e  sappi 
ch'ai  presente  non  s'offre  occasione  di  apportar  de  le  più  alte 
cose  del  mondo.  Non  hai  qua  materia  di  parlar  di  quel  nume  de 
la  terra,  di  quella  singolare  e  rarissima  dama,  che  da  questo 
freddo  cielo,  vicino  a  l'arctico  parallelo,  a  tutto  il  terreste  globo 
rende  sì  chiaro  lume:  Elizabetta  dico,  che  per  titolo  e  dignità 
regia,  non  è  inferiore  a  qualsivoglia  re,  che  sii  nel  mondo ^o.  Per 
il  giodicio,  saggezza,  conseglio  e  governo,  non  è  seconda  a  nes- 
sun che  porti  scettro  in  terra.  Ne  la  cognizione  de  le  arti,  notizia 
de  le  scienze,  intelligenza  e  prattica  de  tutte  lingue,  che  da  per- 
sone popolari  e  dotte  possono  in  Europa  udirseli,  senza  contra- 
dizzione  alcuna  è  a  tutti  gli  altri  prencipi  superiore;  e  trionfa-  [97] 
trice  di  tal  sorte,  che  se  l'imperio  de  la  fortuna  corrispondesse  e 
fusse  agguagliato  a  l'imperio  del  generosissimo  spirto  et  inge- 
gno, sarebbe  l'unica  imperatrice  di  questa  terreste  sfera:  e  con 

49.  «Andate  oltre,  signore». 

50.  Per  un  giudizio  e  un  elogio  più  approfonditi  nei  riguardi  della  regina, 
cfr.  De  la  causa,  Dialogo  primo,  p.  643.  Nel  costituto  veneto  del  3  giugno  1592, 
Bruno  ammette  di  aver  dato  a  Elisabetta  il  titolo  di  «diva»,  ma  aggiunge  che, 
avendola  conosciuta  personalmente  -  poiché  faceva  parte  del  seguito  dell'am- 
basciatore francese  e  aveva  dovuto  recarsi  spesso  a  Corte  —,  era  tanto  più  ob- 
bligato a  uniformarsi  all'usanza  inglese  che  prescriveva  di  elogiare  Elisabetta 
(cfr.  L.  Firpo,  //  processo  di  G.  Bruno,  a  cura  di  D.  Quaglioni,  Roma,  1993, 
p.  189).  Sul  mito  della  regina  Elisabetta,  si  vedano  i  saggi  di  F.  A.  Yates, 
Queen  Elizabeth  as  Asiraea  (1947)  e  Allegorical  Portraits  of  Queen  Elizabeth  I  ai 
Hatfield  (1952),  ora  in  Astraea.  The  Imperiai  Theme  in  the  Sixteenth  Century,  Lon- 
don, 1975,  pp.  39-104  e  251-255  (traduz.  di  E.  Basaglia,  Torino,  1978).  Infatti, 
come  ha  indicato  la  stessa  Yates  {La  politica  religiosa  di  G.  Bruno,  traduz.  in  G. 
Bruno  e  la  cultura  europea  del  Rinascimento,  introd.  di  E.  Garin,  Roma-Bari, 
1988,  pp.  42-43),  il  protestantesimo  moderato  di  Elisabetta  ed  il  cattolicesimo 
moderato  di  Enrico  III  hanno  probabilmente  condotto  Bruno  a  concepire  la 
possibilità  di  un  avvicinamento  fra  le  due  nazioni  (Scozia  e  Navarra  compre- 
se), in  vista  di  una  distensione  politico-religiosa  in  Europa. 

51.  Era  noto  che  Elisabetta  parlava  italiano,  ed  anche  assai  bene;  collo- 
quiando con  italiani,  non  utilizzava  altra  lingua.  Cfr.  la  Relazione  d'Inghilterra 
(1554)  dell'ambasciatore  veneziano  Giacomo  Soranzo,  in:  Relazioni  degli  amba- 
sciatori veneti  al  Senato  durante  il  secolo  decimosesto,  raccolte  ed  illustrate  da 
E.  Alberi,  s.  I,  Firenze,  voi.  Ili,  1853,  p.  43,  nonché  Ambasciatori  veneti  in  Inghil- 
terra, a  cura  di  L.  Firpo,  Torino,  1978,  p.  74  (Giovan  Carlo  Scaramelli  al  doge 
Marino  Grimani,  Londra,  19  febbraio  1603). 


478  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

più  piena  significazione  quella  sua  divina  mano  sustentarebbe 
il  globo  di  questa  universale  monarchia.  —  Non  hai  materia  di 
parlar  di  quell'animo  tanto  eroico,  che  già  vinticinque  anni  e 
più  52^  col  cenno  de  gli  occhi  sui,  nel  centro  de  le  borasche  d'un 
mare  d'adversità,  ha  fatto  trionfar  la  pace  e  la  quiete;  mantenu- 
tasi salda  in  mezzo  di  tanto  gagliardi  flutti  e  tumide  onde  di  sì 
varie  tempeste:  co  le  quali  a  tutta  possa  gli  ha  fatto  empito  que- 
sto orgoglioso  e  pazzo  Oceano,  che  da  tutti  contomi  la  circonda. 
Non  hai  qua  materia  di  far  discorso  di  colei,  la  quale  se  volessi 
assomigliar  a  regina  di  memoria  di  passati  tempi,  profanareste 
la  dignità  del  suo  essere  singolare  e  sola;  perché  di  gran  lunga 
avanza  tutte:  altre  in  grandezza  de  l'autorità,  altre  ne  la  perse- 
veranza del  lungo,  intiero  e  non  ancora  abbreviato  governo; 
tutte  poi  ne  la  sobrietà,  pudicizia^^,  ingegno  e  cognizione;  tutte 
ne  l'ospitalità  e  cortesia,  co  la  quale  accoglie  ogni  sorte  di  fo- 
rastiero,  che  non  si  rende  al  tutto  incapace  di  grazia  e  favore. 
-  Non  te  si  offre  occasione  di  parlar  de  la  generosissima  uma- 
nità de  l'illustrissimo  monsignor  conte  Roberto  Dudleo,  conte 
di  Licestra'-*  etc,  tanto  conosciuta  dal  mondo,  nominata  in- 
sieme con  la  fama  del  regno  e  la  regina  d'Inghilterra  ne'  circo- 
stanti regni;  tanto  predicata  da  i  cuori  di  generosi  spirti  italiani 
quali  specialmente  da  lui  con  particolar  favore  (accompagnan- 
[99]   do  quello  de  la  sua  signora)  5'  son  stati  e  son  sempre  accarezzati. 

52.  Elisabetta  successe  alla  sorella  Maria  il  17  novembre  1558  e  fu  incoro- 
nata il  1°  gennaio  1559.  La  Cena  fu  composta  dopo  il  15  febbraio  1584. 

53.  Cfr.  negli  Eroici  furori.  V Argomento  e  Vlscusazion  del  Nolano  alle  più  vir- 
tuose e  leggiadre  dame,  pp.  499  e  524,  dove  Bruno  difende  implicitamente  la 
regina  dalle  correnti  accuse  di  avarizia  e  di  lussuria. 

54.  Robert  Dudley  (1532-1588).  Earl  of  Leicester,  favorito  della  regina,  can- 
celliere deirUniversità  di  Oxford,  rappresentante  della  corrente  puritana  a 
Corte.  a\'versario  del  protestantesimo  moderato  di  William  Cecil,  Lord  Bui^h- 
ley,  il  cui  nome  è  scomparso  nella  seconda  redazione  del  Dialogo  secondo  della 
Cena,  al  pari  di  certe  pointes  antipuritane  (per  esempio,  contro  il  rito  eucari- 
stico tipico  della  Low  Church:  cfr.  Appendice  II.  p.  588).  Gli  è  che  nel  frattempo 
Bruno  ha  conosciuto  Leicester  e  conta  sui  puritani  per  sostenere  le  proprie 
teorie  (illusione  di  corta  durata,  come  provano  la  ripresa  dei  suoi  attacchi  an- 
tiprotestajiti  nello  Spaccio  ed  una  sprezzante  allusione  a  Leicester  nello  stesso 
dialogo).  Cfr.  M.  Ciliberto,  La  ruota  del  tempo.  Interpretazione  di  G.  Bruno. 
Roma,  1992^,  p.  50;  G.  Aquilecchia,  Tre  schede  su  Bruno  e  Oxford.  «Giornale 
critico  della  filosofìa  italiana»  (Firenze],  LXXIL  1993,  pp.  376-393;  Io.,  Bruno 
at  Oxford  between  Aristotle  and  Copernicus,  in:  Giordano  Bruno  1583-1585.  The 
English  Experience/L esperienza  inglese.  Firenze,  1997.  pp.  1 17-124. 

55.  Lettice  KnoUis,  contessa  di  Essex,  seconda  moglie  di  Leicester  (una 
volta  che  questi  ebbe  messo  da  parte  ogni  speranza  di  sposare  la  regina). 


DIALOGO  SECONDO  479 

Questo  insieme  co  l'eccellentissimo  signor  Francesco  Walsinga- 
me56,  gran  secretano  del  regio  Conseglio,  come  quelli  che  sie- 
deno  vicini  al  sole  del  regio  splendore,  con  la  luce  de  la  lor  gran 
nobiltade  son  sufficienti  a  spengere  et  annullar  l'oscurità:  e  con 
il  caldo  de  l'amorevol  cortisia  disrozzir  e  purgare  qualsivoglia 
rudezza  e  rusticità,  che  ritrovar  si  possa  non  solo  tra  Brittanni, 
ma  anco  tra  Sciti,  Arabi,  Tartari,  Canibali  et  Antropofagi.  Non 
ti  viene  a  proposito  di  referire  l'onesta  conversazione,  civilità  e 
buona  creanza  di  molti  cavallieri  e  molto  nobili  personaggi  in- 
ghilesi,  tra  quali  è  tanto  conosciuto,  et  a  noi  particolarissima- 
mente,  per  fama  prima,  quando  eravamo  in  Milano  ^^  et  in 
Francia^s,  e  poi  per  esperienza,  or  che  siamo  ne  la  sua  patria, 
manifesto,  il  molto  illustre  et  eccellente  cavalliero,  signor  Fil- 
lippo  Sidneo^^:  di  cui  il  tersissimo  ingegno  (oltre  i  lodatissimi 
costumi)  è  sì  raro  e  singolare,  che  difficilmente  tra  singolaris- 
simi e  rarissimi,  tanto  fuori  quanto  dentro  Italia,  ne  trovarete 
un  simile.  —  Tolto  ne  è  a  fatto  materia  di  lode;  ma  importunis- 
simamente, a  dispetto  del  mondo  ne  viene  a  proposito  una 
plebe,  la  quale  in  esser  plebe  non  è  inferiore  a  plebe  alcuna,  che 
pasca  nel  suo  seno  la  pur  troppo  prodiga  terra:  perché  questa 
veramente  dà  saggio  di  plebe  de  tutte  le  plebe  che  io  possa  aver 
sin  ora  conosciute  irrevente,  irrespettevole,  di  nulla  civilità, 
male  allevate.  Quando  vede  un  forastiero,  sembra  (per  dio)  tanti 
lupi,  tanti  orsi:  e  con  il  suo  torvo  aspetto  gli  fanno  quel  viso, 

56.  Sir  Francis  Walsingham  (i532?-i59o),  primo  segretario  della  regina  dal 
1573,  era,  con  il  Lord  tesoriere  Burghley,  il  più  alto  responsabile  dell'ammini- 
strazione del  regno:  era  incaricato  dello  spionaggio  ed  è  lui  che,  il  28  marzo 
1583,  l'ambasciatore  di  Francia  Henry  Cobham  informa  dell'arrivo  imminente 
di  Bruno  in  Inghilterra,  pronunciando  riserve  sulla  «religion»  del  soggetto  (cfr. 
O.  Elton,  Modem  Studies,  London,  1907,  p.  334;  G.  Aquilecchia,  «La  cena  de 
le  ceneri»,  in:  Letteratura  italiana.  Le  opere,  Torino,  voi.  O,  1993,  p.  665).  Man- 
cando totalmente  di  prove  documentarie,  appare  infondata  la  congettura  di 
J.  BossY,  G.  Bruno  e  il  mistero  dell'ambasciata  cit.,  pp.  203-204  e  passim,  secondo 
cui  Bruno  avrebbe  agito  come  spia  di  Walsingham  presso  Castelnau. 

57.  È  l'unico  accenno  mai  fatto  da  Bruno  a  un  suo  soggiorno  a  Milano 
(avvenuto  probabilmente  nel  1578). 

58.  Bruno  ha  vissuto  a  Lione  (settembre-ottobre  1579).  ^  Tolosa  e  poi  a 
Parigi  (autunno  1581-marzo  1583).  Cfr.  L.  Firpo,  //  processo  cit,  p.  161. 

59.  Celebre  poeta  e  critico  inglese  (1554-1586),  autore  di  un'Arcadia  e  di  The 
Defence  of  Poesie,  pubblicata  nel  1595  (ed.  it.  a  cura  di  G.  Del  Re  e  A.  R.  Parrà, 
Pisa,  1997),  nipote  di  Dudley,  genero  di  Walsingham  e  amico  di  F.  Greville, 
che  sarebbe  diventato  suo  biografo.  Tra  il  1572  e  il  1575,  aveva  risieduto  in 
continente  (segnatamente,  in  Francia  ed  in  Italia,  dalla  fine  del  1573  al  luglio 
1574).  Bruno  gli  ha  dedicato  lo  Spaccio  e  gli  Eroici  furori. 


480  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

che  saprebbe  far  un  porco  ad  un  che  venesse  a  torgli  il  tino 
d'avanti '^°.  Questa  ignobilissima  plebe,  per  quanto  appartiene  al 
proposito,  è  divisa  in  due  parti... 

Prudenzio.  -  Omnis  divisto  debet  esse  himembris,  vel  reducibi- 
lis  ad  bimembrem^K 

Teofilo.  -  ...  de  quali  l'una  è  de  arteggiani  e  bottegari,  i 
quali  conoscendoti  in  qualche  foggia  forastiero,  ti  torceno  il 
musso,  ti  ridono,  ti  ghignano,  ti  petteggiano  co  la  bocca,  ti  chia- 
mano in  suo  lenguaggio  «cane»,  «traditore»,  «strangiero»:  e 
questo  appresso  loro  è  un  titolo  ingiuriosissimo,  e  che  rende  il 
supposito  capace  ad  ricevere  tutti  i  torti  del  mondo,  sii  pur 
quantosivoglia  uomo  giovane  o  vecchio,  togato  o  armato,  nobile 
o  gentil  uomo ''2.  Al  che  son  mossi  dal  desio  di  aver  occasione  di 
far  a  questione  con  un  forastiero:  et  in  questo  le  assicura  che 
non  come  in  Italia,  s'avviene  ch'un  rompa  il  capo  ad  un  de 
simil  canaglia,  si  staranno  tutti  ad  vedere  se  per  sorte  viene 
qualche  zaffo  ufficiale  ch'il  prenda;  e  se  pur  è  alcuno  che  si 
muova,  lo  fa  per  dividere  et  appacare,  aggiutare  l'impotente,  e 
prendere  specialmente  la  causa  d'un  forastiero:  e  nisciuno  che 
non  è  ufficiai  di  corte,  o  ministro  de  la  giustizia  id  est  birro, 
have  ardire  né  autorità  di  por  mano  sopra  il  delinquente;  e  se 
pur  quello  non  sarà  potente  a  prenderlo,  si  vergognarà  ogn'uno 
di  aggiutarlo  in  simile  ufficio:  e  cossi  il  birro,  e  tal  volta  i  birri, 

60.  La  xenofobia  dei  londinesi  è  confermata  da  molteplici  testimonianze 
d'epoca;  a  metà  Cinquecento,  gli  artigiani  stranieri  costituivano  ancora  un 
terzo  della  popolazione  cittadina,  ma  dovevano  scontrarsi  con  una  borghesia 
locale  in  rapida  espansione.  Cfr.  H.  KOHN,  The  Genesis  and  Character  of  English 
Nationalism,  «Journal  of  the  History  of  Ideas»  [New  York-Lancaster  Pa],  I, 
1940,  p.  73. 

61.  «Ogni  divisione  dev'essere  un  raddoppiamento  o  deve  potersi  ridurre  a 
un  raddoppiamento».  Allusione  al  principio  delle  divisioni  dicotomiche  della 
logica  di  Pierre  de  la  Ramée,  logica  che,  all'epoca,  si  stava  diffondendo  in  tutte 
le  università  inglesi  (cfr.  M.  Feingold,  The  Mathematicians'  Apprendiceship. 
Science,  Universities  and  Society  in  England,  1560-1640,  Cambridge,  1984,  pas- 
sim; G.  Oldrini,  Le  particolarità  del  ramismo  inglese,  «Rinascimento»  [Firenze], 
s.  II,  XXV,  1985,  pp.  19-80;  G.  Aquilecchia,  Ramo,  Patrizi  e  Telesio  nella  pro- 
spettiva di  G.  Bruno,  ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana  (Roma),  1993,  pp. 
293-302;  M.  FiNTONi,  Mnemosine:  dal  «Sigillus  sigillorum»  ai  «Dialoghi  italiani», 
in:  Giordano  Bruno  1583-1585.  The  English  Experience  cit.,  pp.  23-35). 

62.  Cfr.  G.  SORANZO,  Relazione  d'Inghilterra  cit,  p.  52:  «Li  nobili  per  loro 
natura  sono  molto  cortesi,  e  massime  colli  forestieri,  ma  i  popoli  sono  super- 
bissimi ed  inimicissimi  coi  forestieri,  parendo  loro  che  quella  utilità  che  ca- 
vano li  mercanti  di  fuori  del  regno  sia  loro  tolta,  e  immaginando  che  senza  il 
commercio  di  altri  da  per  loro  potrebbero  vivere». 


DIALOGO  SECONDO  40I 

perdeno  la  caccia.  Ma  qua  se  per  mala  sorte  ti  vien  fatto,  che 
prendi  occasione  di  toccarne  uno,  o  porre  mano  a  l'armi,  ecco 
in  un  punto  ti  vedrai,  quanto  è  lunga  la  strada,  in  mezzo  d'uno 
esercito  di  coteconi  i  quali,  più  di  repente  che  (come  fingono  i 
poeti) ^^  da'  denti  del  drago  seminati  da  lasone  risorsero  tanti 
uomini  armati,  par  che  sbuchino  da  la  terra:  ma  certissima- 
mente sorteno  da  le  botteghe;  e  facendo  una  onoratissima  e  gen- 
tilissima prospettiva  de  una  selva  de  bastoni,  di  pertiche  lun-  [103] 
ghe,  alebarde,  partesane  e  forche  rugginenti,  le  quali  per  queste 
e  simile  occasioni  han  sempre  apparecchiate  e  pronte:  benché  a 
meglior  uso  gli  siino  state  concesse  dal  prencipe.  Cossi  con  una 
rustica  furia  te  le  vedrai  avventar  sopra,  senza  guardare  a  chi, 
perché,  dove  e  come,  senza  ch'un  se  ne  referisca  a  l'altro: 
ogn'uno  sfogando  quel  sdegno  naturale  ch'ha  contra  il  fora- 
stiero,  ti  verrà  di  sua  propria  mano  (se  non  sarà  impedito  da  la 
calca  de  gli  altri  che  poneno  in  effetto  simil  pensiero)  e  con  la 
sua  propria  verga  a  prendere  la  misura  del  saio;  e  se  non  sarai 
cauto,  a  saldarti  ancora  il  cappello  in  testa.  E  se  per  caso  vi 
fusse  presente  qualch'uomo  da  bene  o  gentil'uomo,  al  quale  si- 
mil villania  dispiaccia,  quello  (ancor  che  fusse  il  conte  o  il 
duca)  dubitando  con  suo  danno,  senza  tuo  profitto,  d'esserti 
compagno  (per  che  questi  non  hanno  rispetto  a  persona,  quan- 
do si  veggono  in  questa  foggia  armati),  sarà  forzato  a  rodersi 
dentro  et  aspettar,  stando  discosto,  il  fine.  Or  al  tandem^  quan- 
do pensi  che  ti  sii  lecito  d'andar  a  trovar  il  barbiere''',  e  riposar 
il  stanco  e  mal  trattato  busto,  ecco  che  trovarai  quelli  medesmi 
esser  tanti  birri  e  zaffi,  i  quali  se  potran  fengere  che  tu  abbi 
tocco  alcuno,  potreste  aver  la  schena  e  gambe  quantosivoglia 
rotte,  come  avessi  gli  talari  di  Mercurio,  o  fussi  montato  sopra  il 
cavallo  Pegaseo^^,  o  premessi  la  schena  al  destrier  di  Perseo  ^^,  o 

63.  Cfr.  Ovidio,  Metam.,  VII,  121  e  segg. 

64.  «Infine». 

65.  Si  ricordi  la  Barber-Surgeons  Company,  attiva  ai  tempi  di  Bruno. 

66.  Fu  l'impresa  di  Bellerofonte.  Cfr.  G.  Boccaccio,  Genealogie,  X,  27  {De 
Pegaso),  ed.  a  cura  di  V.  Romano,  Bari,  1951,  voi.  II,  p.  508. 

67.  Nella  mitologia  classica,  Perseo  si  solleva  infatti  nell'aria  grazie  a  dei 
sandali  alati;  è  probabilmente  a  partire  da  Lattanzio  che  si  verifica  una  conta- 
minazione (per  esempio  nello  Spaccio,  pp.  221-223)  fra  il  mito  di  Bellerofonte 
e  Pegaso  da  un  lato  e,  dall'altro,  quello  di  Perseo  (cfr.  G.  Boccaccio,  op.  cit, 
pp.  509  e  594-595)- 


482  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

cavalcassi  l'ipogriffo  d'Astolfo  ^^  o  ti  menasse  il  dromedario  de 
Madian'^'-',  o  ti  trottasse  sotto  una  de  le  ciraffe  de  gli  tre  Magi:  a 
forza  di  bussate  ti  faran  correre,  aggiutandoti  ad  andar  avanti 
[105]  con  que'  fieri  pugni,  che  meglio  sarrebe  per  te  fussero  tanti  calci 
di  bue,  d'asino  o  di  mulo;  non  ti  lasciaranno  mai,  sin  tanto  che 
non  t'abbiano  ficcato  dentro  una  priggione:  e  qua  me  libi  co- 
ntendo'''^. 

Prudenzio.  —  A  fulgore  et  tempestate,  ab  ira  et  indignatione, 
malitia,  tentatione  et  furia  rusticorum... 

Frulla.  —  ...  libera  nos  domine^^. 

Teofilo.  -  Oltre  a  questi  s'aggionge  l'ordine  di  servitori;  non 
parlo  de  quelli  de  la  prima  cotta,  i  quali  son  gentil'uomini  de 
baroni,  e  per  ordinario  non  portano  impresa  o  marca  se  non  o 
per  troppo  ambizione  de  gli  uni  o  per  soverchia  adulazion  de 
gli  altri:  tra  questi  se  ritrova  civilità. 

Prudenzio.  -  Omnis  regula  exceptionem  patitur^^. 

Teofilo.  -  Ma  parlo  de  la  altre  specie  di  servitori;  de  quali, 
altri  sono  de  la  seconda  cotta:  e  questi  tutti  portano  la  marca 
affibbiata  a  dosso.  Altri  sono  de  la  terza  cotta:  li  padroni  de 
quali  non  son  tanto  grandi  che  li  convegna  dar  marca  a'  servi- 
tori; o  pur  essi  son  stimati  indegni  et  incapaci  di  portarla.  Altri 
sono  de  la  quarta  cotta,  e  questi  siegueno  gli  marcati  e  non 
marcati:  e  son  servi  de  servi. 

Prudenzio.  —  Servus  servorum  non  est  malus  titulus  usque- 
quaque''^. 

Teofilo.  -  Quelli  de  la  prima  cotta  son  i  poveri  e  bisognosi 
gentil'uomini,  li  quali  per  dissegno  di  robba  o  di  favore,  se  ri- 
ducono sotto  l'ali  di  maggiori:  e  questi  per  il  più  non  son  tolti 
da  sua  casa,  e  senza  indignità  seguitano  i  sui  milordi,  son  sti- 

68.  Cfr.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XXIII,  16  e  segg. 

69.  Cfr.  Isaia.  LX,  6. 

70.  «A  te  mi  affido»  (cfr.  Luca,  XXIII,  46:  «Pater,  in  manus  tuas  commendo 
spiritum  meum»). 

71.  «Dalla  folgore  e  dalla  bufera,  dall'ira  e  dallo  sdegno,  dalla  malizici, 
dalla  tentazione  e  dalla  furia  dei  villani...  liberaci.  Signore»:  parodia  della  Li- 
tania prò  rogationibus. 

72.  «Non  v'è  regola  che  non  subisca  eccezione».  Cfr.  P.  Aretino,  Mare- 
scalco, IV,  5:  «Omnis  regula  patitur  exceptionem,  latine  loquendo». 

73.  «Non  è  mai  un  cattivo  incarico  essere  servo  dei  servitori»:  allusione  al 
titolo  di  servus  servorum  Dei,  posseduto  dal  Papa.  Cfr.  anche  Genesi,  IX,  25 
(«Sia  maledetto  Canaan!  /  sarà  schiavo  degli  schiavi  dei  fratelli  suoi!»). 


DIALOGO  SECONDO  483 

mati  e  fauriti  da  quelli.  Quelli  de  la  seconda  cotta  sono  de'  mer- 
cantuzzi  falliti,  o  arteggiani,  o  quelli  che  senza  profitto  han  stu-  [107] 
diato  a  leggere  o  qualch'arte:  e  questi  son  tolti  o  fuggiti  da  qual- 
che scuola,  fundaco  o  bottega.  Quelli  de  la  terza  cotta  son  que' 
poltroni  che,  per  fuggir  maggior  fatica,  han  lasciato  più  libero 
mestiero:  e  questi  o  son  poltroni  acquatici,  tolti  da  battelli,  o 
son  poltroni  terrestri,  tolti  da  gli  aratri.  Gli  ultimi  de  la  quarta 
cotta  sono  una  mescuglia  di  desperati,  di  disgraziati  da  lor  pa- 
droni, de  fuor  usciti  da  tempeste,  de  pelegrini,  de  disutili  et 
inerti,  di  que'  che  non  han  più  comodità  di  rubbare,  di  que'  che 
frescamente  son  scampati  di  priggione,  di  quelli  che  han  dise- 
gno d'ingannar  qualcuno  che  le  viene  a  tórre  da  là:  e  questi  son 
tolti  da  le  colonne  de  la  Borsa'-^  e  da  la  porta  di  San  Paolo'^. 
De  simili  se  ne  vuoi  a  Parigi,  ne  trovarai  quanti  ne  vuoi  a  la 
porta  del  Palazzo  ^^;  in  Napoli,  a  le  grade  di  San  Paolo  ^';  in  Ve- 
nezia, a  Rialto  ^^.  —  De  le  tre  ultime  specie  sono  quei  che  per 
mostrar  quanto  siino  potenti  in  casa  sua,  e  che  sono  persone  di 
buon  stomaco,  son  buoni  soldati  et  hanno  a  dispreggio  il 
mondo  tutto:  ad  uno  che  non  fa  mina  di  volergli  dar  la  piazza 
larga,  gli  donaranno  co  la  spalla,  come  con  un  sprone  di  galera, 
una  spinta,  che  lo  faran  voltar  tutto  ritondo,  facendogli  veder 
quanto  siino  forti,  robusti  e  possenti,  et  ad  un  bisogno  buoni 
per  rompere  un'armata.  E  se  costui  che  se  farà  incontro  sarà  un 
forastiero,  donigli  pur  quanto  si  voglia  di  piazza,  che  vuole  per 
ogni  modo  che  sappia  quanto  san  far  il  Cesare,  l'Anniballe,  l'Et- 
torre,  et  un  bue  che  urta  ancora.  Non  fanno  solamente  come 
l'asino  il  quale  (massimamente  quando  è  carco)  si  contenta  del 
suo  diritto  camino  per  il  filo,  d'onde  se  tu  non  ti  muovi,  non  si 
moverà  anco  lui,  et  converrà  che  o  tu  a  esso,  o  esso  a  te  doni  la  [109] 
scossa:  ma  fanno  cossi  questi  che  portan  l'acqua,  che  se  tu  non 

74.  VExchange,  costruito  nel  1566  da  Thomas  Gresham,  chiamato  Royal 
Exchange  dopo  la  visita  della  regina  nel  1570,  distrutto  nel  grande  incendio  di 
Londra  nel  1666. 

75.  La  cattedrale  di  San  Paolo,  distrutta  anch'essa  nell'incendio  del  1666. 

76.  Lo  Chàtelet,  sede  dei  tribunali  (cfr.  J.-J.  Bouchard,  Journal,  a  cura  di 
E.  Kanceff,  Torino,  voi.  Il,  1977,  p.  250). 

77.  San  Paolo  Maggiore,  antica  cattedrale  di  Napoli  (cfr.  G.  C.  Capaccio,  Il 
forastiero,  giom.  IX,  Napoli,  1634,  pp.  866-867). 

78.  Il  ponte  di  Rialto,  in  legno  fino  al  1587  (cfr.  J.  Florio,  A  New  Wnrld  of 
Words  cit.,  p.  432:  «...  an  eminent  place  in  Venice  where  Marchants  commonly 
meete,  as  on  Exchange  at  London»). 


484  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

stai  in  cervello,  ti  farran  sentir  la  punta  di  quel  naso  di  ferro 
che  sta  a  la  bocca  de  la  giarra.  Cossi  fanno  ancora  color  che 
portan  birra  et  ala^'^:  i  quali  facendo  il  corso  suo,  se  per  tua 
inavertenza  te  si  avventaranno  sopra,  te  faran  sentir  l'empito 
de  la  carca  che  portan  sopra;  e  che  non  solamente  son  possenti 
a  portar  su  le  spalli,  ma  ancora  a  buttar  una  cosa  innante,  e 
tirar  se  fusse  un  carro  ancora.  Questi  particolari,  per  l'autorità 
che  tegnono  in  quel  caso  che  portano  la  soma,  son  degni  d'escu- 
sazione,  per  che  hanno  più  del  cavallo,  mulo  et  asino,  che  de 
l'uomo;  ma  accuso  tutti  gli  altri  li  quali  hanno  un  pochettino 
del  razionale,  e  sono  più  che  questi  altri  ad  imagine  e  similitu- 
dine de  l'uomo:  et  in  luoco  di  donarte  il  buon  giorno  o  buona 
sera,  dopo  averti  fatto  un  grazioso  volto,  come  ti  conoscessero  e 
ti  volessero  salutare,  ti  verranno  a  donar  una  scossa  bestiale  ^°. 
Accuso,  dico,  quell'altri  i  quali  tal  volta  fìngendo  di  fuggire,  o 
voler  perseguitare  alcuno,  o  correre  a  qualche  negocio  necessa- 
rio, se  spiccano  da  dentro  una  bottega:  e  con  quella  furia  ti  ver- 
ranno da  dietro  o  da  costa,  a  donar  quella  spinta  che  può  donar 
un  toro  quando  è  stizzato;  come  pochi  mesi  fa  accadde  ad  un 
povero  gentil'uomo  italiano,  al  quale  in  cotal  modo,  con  riso  e 
piacer  di  tutta  la  piazza,  fu  rotta  e  fracassata  una  gamba^':  al 
che  volendo  poi  provedere  il  magistrato,  non  si  trovò  manco 
che  tal  cosa  avesse  possuto  accadere  in  quella  piazza ^^.  Sì  che 

79.  Vale  è  una  birra  forte.  Cfr.  G.  Rando,  Voci  inglesi  cit,  p.  106. 

80.  Cfr.  Giovenale,  Satyrae,  III,  243-248. 

81.  La  prima  redazione  del  Dialogo  secondo  specificava:  «un  povero  messer 
Alessandro  Citolino,  al  quale  ...  fu  rotto  e  fracassato  un  braccio»  (cfr.  Appendi- 
ce II,  p.  586).  La  versione  definitiva  si  spiega  forse  con  la  preoccupazione  di 
non  mettere  in  imbarazzo  un  protestante  italiano,  bene  o  male  inserito  nella 
società  londinese.  Su  questo  grammatico  friulano,  esule  per  motivi  religiosi  in 
Svizzera  e  poi,  dal  1566,  in  Inghilterra,  autore  di  una  Lettera  in  difesa  della 
lingua  volgare,  Venezia,  1540,  della  Tipocosmia,  Venezia,  1561  e  di  una  Gram- 
matica manoscritta  conservata  alla  British  Library,  si  veda  la  voce  di  M.  Firpo 
nel  Dizionario  Biografico  degli  Italiani,  Roma,  voi.  XXVI,  1982,  pp.  39-46  (ed  ora 
l'ipotesi  di  M.  FiNTONi,  Mnemosine  cit.,  p.  31).  Bruno,  tuttavia,  sembra  essere 
l'ultimo  ad  evocare  questo  personaggio  quando  è  ancora  vivente.  Può  darsi  che 
la  sua  morte  sia  intervenuta  nel  periodo  intercorso  tra  la  prima  e  la  seconda 
redazione.  La  soppressione  del  suo  nome  si  potrebbe  spiegare  allora  col  rispetto 
delle  convenienze,  in  merito  a  un  defunto. 

82.  Cfr.  G.  Micheli,  in:  Relazioni  degli  ambasciatori  veneti  al  Senato,  ed.  Alberi 
cit,  voi.  II,  p.  346,  sui  rapporti  tra  gli  Inglesi  e  gli  stranieri  della  corte  di  Fi- 
lippo II,  marito  di  Maria  Tudon  «Quando  occorre  disparere  tra  alcuno  Inglese 
ed  uno  di  questi,  la  giustizia  non  procede  in  quel  modo  che  dovria;  che  come 
va  tra  forestieri  e  Inglesi,  sono  tante  le  cavillazioni,  le  lunghezze  e  le  spese 


DIALOGO  SECONDO  485 

quando  ti  piace  uscir  di  casa,  guarda  prima  di  farlo  senza  ur- 
gente occasione,  che  non  pensassi  come  di  voler  andar  per  la  [m] 
città  a  spasso;  poi  segnati  col  segno  de  la  santa  croce,  armati  di 
una  corrazza  di  pazienza  che  possa  star  a  prova  d'archibugio;  e 
disponeti  sempre  a  comportar  il  manco  male  liberamente,  se 
non  vuoi  comportar  il  peggio  per  forza.  Pòrtati  prudentemente, 
e  pensa  che  non  hai  a  far  mai  con  un  solo,  né  con  doi  o  cin- 
quanta: ma  con  tutta  la  republica  e  la  patria  plebesca,  per  la 
quale  o  a  dritto  o  a  torto  ogn'uno  è  ubligato  di  ponere  sin  a  la 
vita.  Però,  fratello,  quando  ti  sentirai  toccare  in  questo  modo, 
poni  mano  al  tuo  cappello,  saluta  il  tuo  antigonista,  e  fa  conto 
che  quello  abbia  fatto  come  si  suol  fare  tra  compagni  et  amici; 
o  pure,  se  la  ti  parrà  troppo  dura,  dimandagli  perdono  a  fin  che 
non  ritomi  a  farti  peggio:  con  provocarti,  fingendo  che  tu  l'hai 
spento,  o  l'hai  voluto  spengere.  -  Or  ecco  quel  tempo,  quell'oc- 
casione, ne  la  quale  meglio  che  mai  le  potrai  conoscere.  Dice  il 
Nolano  che  in  diece  mesi  ch'ha  soggiornato  in  Inghilterra^^, 
non  ha  profittato  quanto  questa  una  sera  in  far  penitenze  e 
guadagnar  perdoni.  Questa  sera  gli  fu  bene  accomodata  ad  esser 
principio,  mezzo,  e  fine  de  la  quarantana.  «Questa  sera»  disse, 
«voglio  che  vaglia  per  la  penitenza  ch'arrei  fatta  diggiunando 
quaranta  giorni  benedetti  e  quaranta  notte  ancora.  Questa  sera 
son  stato  nel  deserto:  dove  non  per  una,  o  tre,  ma  per  quaranta 
tentazioni  ho  guadagnato  quarantamilia  anni  d'indulgenzia 
plenaria...  w^"*. 

Prudenzio.  —  Per  modum  suffraggii^^. 

Teofilo.  —  «...  tanto  che,  per  buona  fede,  credo  averne  non 
solo  per  i  peccati  ch'ho  fatti,  ma  anco  per  molti  altri  che  oltre 
potrei  fare».  [113] 

senza  fine  di  quelli  loro  giudizj,  che  a  torto  o  a  diritto  conviene  che  il  fore- 
stiero soccomba». 

83.  Se  si  data  alla  seconda  metà  del  mese  di  febbraio  1584  la  composizione 
ed  il  rimaneggiamento  del  Dialogo,  l'arrivo  di  Bruno  in  Inghilterra  rimonte- 
rebbe all'aprile  1583,  cosa  che  sarebbe  compatibile  col  dispaccio  citato  di 
Cobham  a  Walshingham  (28  marzo  1583).  J.  BossY.  G.  Bruno  e  il  mistero  del- 
l'ambasciata cit,  p.  135,  calcola  però  che  Bruno  abbia  scritto  la  Cena  tra  la 
Pasqua  secondo  il  nuovo  Stile  (22  marzo)  e  la  Pasqua  secondo  il  vecchio  Stile 
(19  aprile  1584). 

84.  Allusione  ironica  alle  tentazioni  di  Cristo  ed  alla  dottrina  delle  indul- 
genze (cfr.  M.  A.  Granada,  traduz.  cit.,  p.  loi,  nota  44). 

85.  Prudenzio  vuol  dire  che  il  Nolano  sta  esagerando. 


486  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Prudenzio.  -  Supererogatone^^\ 

Frulla.  —  Vorrei  sapere  se  egli  numerò  questi  rintuzzi  et 
urti  salvaticini  che  dici  esserne  stati  quaranta.  Mi  fate  venir  a 
memoria  mastro  Mamfurio,  al  quale  certi  marranchini  ne  femo 
contare  non  so  quante  *^^. 

Teofilo.  —  Se  costui  avesse  saputo  che  ne  dovea  portar 
tanti,  forse  sarebbe  stato  curioso  in  contarle:  ma  lui  sempre  sti- 
mava che  ogn'uno  dovesse  essere  l'ultimo;  ma  era  ben  ultimo  a 
rispetto  de  quelli  ch'erano  passati.  In  questo  che  lui  dice  es- 
serno  stati,  gli  urti,  quaranta,  forse  fa  com'un  devoto  peccatore; 
il  quale  dovendo  rispondere  al  padre  confessore  del  quoties,  cioè 
quante  volte,  e  non  se  ricordando  a  punto  il  numero,  se  teneva 
a  l'alto  più  tosto  che  al  basso:  dubitando  che  per  dir  meno  più 
presto  che  d'avantaggio,  qualche  peccato  ne  rimanesse  di  fuori, 
in  loco  che  più  tosto  alcuno  vi  arrebbe  rimaner  dentro  la  mano 
del  prete  che  l'assolve.  E  lascio  che  nel  ricevere  di  queste  spinte, 
urti  e  ferute,  non  si  prende  quel  piacere  che  l'uomo  può  avere 
in  racontarle:  perché  in  corpo  non  si  senteno  senza  dolore  o  cor- 
doglio; e  da  la  bocca  escono  con  quella  medesima  facilità  le 
due,  che  le  dodici,  che  le  quaranta,  che  le  cento,  che  le  mille.  Ma 
siino  quante  si  vogliano:  io  non  ho  possute  contar  le  sue,  ma 
ben  le  mie.  Egli  si  teneva  a  dietro  come  soglion  far  quei  ch'ai 
mal  passo  onorano  il  compagno  ^^;  ma  lui  s'ingannava:  per  che 
le  battarie  non  meno  occorrevano  dalle  spalli  per  quei  che  ne 
seguivano,  che  da  la  fronte  per  quei  che  ne  venevano  a  l'incon- 
[115]  tro.  Nondimeno  lui  per  manco  male  faceva  com'un  priore  che 
seguita  il  suo  convento,  o  pur  come  si  fa  in  forma  quando  si  va 
a  combattere  (ove  al  presente  si  imaginava  d'essere  col  sentirse 
adosso  tanti  rincontri  di  lance  spezzate);  facendosi  riparo  di  noi 
altri  se  teneva  a  dietro  come  buon  capitano,  che  per  salute  del 
suo  esercito,  la  quale  con  la  sua  morte  perirebbe,  se  tiene  a  die- 
tro in  conserva  al  sicuro  et  al  largo '^'^  onde  poi  ad  un  bisogno 

86.  «Pagata  fin  troppo  bene». 

87.  Allusione  a  Candelaio,  atto  V,  scena  25,  p.  421-422,  dove  il  pedante 
Mamfurio  è  preso  a  staffilate.  -  Marranchini,  per  «marioli»,  è  una  parola  na- 
poletana che  fa  il  paio  con  lo  spagnolo  «marrancho». 

88.  Cfr.  J.  Florio-G.  Torriano,  Vocabolario  italiano  e  inglese,  London,  1659, 
p.  104:  «Dir  come  disse  Merlin  Coccaia,  i.e.  ad  malos  passos  honora  compagnos»; 
e  si  veda  G.  Aquilecchia,  «La  cena  de  le  ceneri»  cit,  p.  697. 

89.  Cfr.  N.  Secchi,  Gl'Inganni,  atto  IV,  io. 


DIALOGO  SECONDO  487 

possa  correre  a  comandar  ad  altre  genti  che  vengano  al  soc- 
corso, o  ver  essere  lui  medesmo  l'ambasciator  de  la  desgrazia. 
Lui  dumque  caminando  in  questo  ordine,  non  possea  esser  ve- 
duto da  noi,  i  quali  medesmamente  essendo  occupati  in  casi 
nostri  non  aveamo  aggio  di  rivoltarci  a  dietro,  e  far  que'  gesti 
per  manco  dissimular,  più  criminali. 

Prudenzio.  —  Optime  consultum'^^. 

Teofilo.  —  Pure  particolarmente  quando  fummo  a  la  pira- 
mide ^^  vicina  al  Palazzo '^^,  in  mezzo  di  tre  strade... 

Prudenzio.  -  In  trivio'^"'. 

Teofilo.  -  ...  quivi  ne  se  femo  incontro  sei  galant'omini  che 
aveano  avanti  un  putto  con  una  lanterna:  e  de  questi  uno  dà 
una  scossa  a  me  che  mi  fé'  voltar  a  veder  un  altro  che  ne  die' 
un'altra  doppia  al  Nolano,  la  quale  fu  sì  gentile  e  gorda,  che 
sola  possea  passar  per  diece;  e  gli  ne  fé'  donar  un'altra  al  muro, 
che  possea  quella  anco  passar  per  altre  diece. 

Prudenzio.  —  In  silentio  et  spe  erit  fortitudo  vestra.  Si  quis  de- 
derit  Uhi  alapam,  tribue  illi  et  alter am'^'^.  [117] 

Teofilo.  —  Questa  fu  l'ultima  borasca;  per  che  poco  oltre  per 
la  grazia  di  san  Fortunio,  dopo  aver  discorsi  mal  triti  sentieri, 
pcLssati  dubbiosi  divertigli,  varcati  rapidi  fiumi,  tralasciati  are- 
nosi lidi,  superati  limosi  fanghi,  spaccati  turbidi  pantani,  vesti- 
gate  pietrose  lave,  lustrati  salvatichi  incontri,  trascorse  lubriche 
strade,  intoppato  in  ruvidi  sassi,  urtato  in  perigliosi  scogli,  gion- 
semo  per  grazia  del  cielo  vivi  al  porto,  idest  a  la  porta:  la  quale 
subito  toccata  ne  fu  aperta.  Entrammo,  trovammo  a  basso  de 
molti  e  diversi  personaggi,  diversi  e  molti  servitori:  i  quali 
senza  cessar,  senza  chinar  la  testa,  e  senza  segno  alcun  di  rive- 

90.  «Ottima  decisione». 

91.  La  parola  inglese  «pyramis»  serviva  a  designare  diverse  costruzioni  di 
forma  piramidale,  in  particolare  obelischi,  guglie  ecc.  Qui  si  sta  parlando  del 
monumento  di  Charing  Cross,  edificato  da  Edoardo  I  in  memoria  della  moglie 
Eleonora  (una  sua  riproduzione  è  visibile  nello  yard  di  Charing  Cross  Station). 
Su  questo  sito  è  stata  successivamente  innalzata  la  statua  equestre  di  Carlo  I, 
davanti  alla  colonna  di  Nelson,  all'imbocco  di  Withehall. 

92.  La  residenza  reale  di  Withehall. 

93.  «All'incrocio».  Laddove  lo  Strand  si  apre  su  Charing  Cross  confluivano 
Hay  Market,  a  nord,  e  la  via  che  portava  a  Withehall  ed  al  Tamigi,  a  sud. 

94.  «Nel  silenzio  e  nella  speranza  sarà  la  vostra  forza.  Se  qualcuno  ti  dà 
uno  schiaffo,  rendigliene  un  altro»:  palese  rovesciamento  della  massima  evan- 
gelica (cfr.  Isaia,  XXX,  15  e  Matteo,  V,  39). 


400  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

renza,  mostrandone  spreggiar  co  la  sua  gesta ''5,  ne  femo  questo 
favor,  de  monstrame  la  porta.  Andiamo  dentro,  montamo  su, 
trovamo  che  dopo  averci  molto  aspettato,  desperatamente 
s'erano  posti  a  tavola  a  sedere.  Dopo  fatti  i  saluti  et  i  resa- 
luti... 

Prudenzio.  -  Salutazioni. 

Teofilo.  —  ...  et  alcuni  altri  piccoli  ceremoni  (tra  quali  ve  fu 
questo  da  ridere,  che  ad  un  de  nostri  essendo  presentato  l'ul- 
timo loco,  idest  la  coda  de  la  tavola,  e  lui  pensando  che  là  fusse 
il  capo,  per  umiltà  voleva  andar  a  seder  dove  sedeva  il  primo;  e 
qua  si  fu  un  piccol  pezzo  di  tempo  in  contrasto  tra  quelli  che 
per  cortesia  lo  voleano  far  sedere  ultimo,  e  colui  che  per  umiltà 
volea  seder  il  primo),  in  conclusione:  messer  Florio  sedde  a  viso 
d'un  cavalliero,  che  sedeva  al  capo  de  la  tavola ^^;  il  signor 
Folco,  a  destra  de  messer  Florio;  io  et  il  Nolano  a  sinistra  de 
messer  Florio;  il  dottor  Torquato  a  sinistra  del  Nolano;  il  dottor 
Nundinio  a  viso  a  viso  del  Nolano. 

Smitho.  —  Or  su  lasciamo  cenar  costoro,  lasciamole  a  tavola 
ripossar  sin  a  domani. 

Frulla.  —  Son  certo  che  non  prenderanno  tanti"  bocconi, 
quanto  han  fatto  de  passi. 

Smitho.  Suppliranno  le  paroli.  A  rivederci. 

Teofilo.  -  A  dio. 

Prudenzio.  -  Valete^''. 

Fine  del  secondo  dialogo 


95.  La  stessa  descrizione  in  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XLVI,  104,  1-3: 
«Senza  smontar,  senza  chinar  la  testa,  /  e  senza  segno  alcun  di  reverenzia,  / 
mostra  Carlo  sprezzar  con  la  sua  gesta,  /  e  de  tanti  signor  Talta  presenzia». 

96.  Potrebbe  trattarsi  del  Brown  o  Browne  menzionato  più  sopra,  ma  per 
L  Firpo  (Il  processo  di  G.  Bruno  cit.)  «è  più  probabile  che  quel  posto  d'onore 
toccasse  al  padron  di  casa,  il  Castelnau,  che  non  vien  nominato  perché  il 
Bruno  vuol  far  credere  che  il  convito  si  svolgesse  in  casa  del  Greville».  -  Sa- 
rebbe da  supporre  che  Bruno,  dichiarando  nel  corso  del  suo  processo  che  la 
cena  si  è  svolta  presso  l'ambasciatore,  non  abbia  cercato  di  nascondere  che 
essa  si  era  effettivamente  tenuta  presso  Greville. 

97.  «Addio». 


DIALOGO  TERZO 

Teofilo.  -  Or  il  dottor  Nundinio,  dopo  essersi  posto  in 
punto  de  la  persona,  scrollato  un  poco  il  dorso,  poste  le  due 
mani  su  la  tavola,  riguardatosi  un  poco  circum  circa\  accomo- 
datosi alquanto  la  lingua  in  bocca,  rasserenati  gli  occhi  al  cielo, 
spiccato  da  la  bocca  un  delicato  risetto,  e  sputato  una  volta, 
comincia  in  questo  modo:  ... 

Prudenzio.  —  In  haec  verba,  in  hosce  prorupit  sensus^. 

Prima  proposta  di  Nundinio 

Teofilo.  —  ...  «IntelUgis  domine  quae  diximus?»"";  e  gli  di- 
manda s'intendea  la  lingua  inglesa.  Il  Nolano  rispose  che  non,  e 
disse  il  vero. 

Frulla.  -  Meglio  per  lui:  per  che  intenderrebe  più  cose  di- 
spiacevoli et  indegne,  che  contrarie  a  queste.  Molto  giova  esser 
sordo  per  necessità,  dove  la  persona  non  sarebbe  sordo  per  elez- 
zione.  Ma  facilmente  mi  persuaderei  che  lui  la  intenda;  ma  per 
non  togliere  tutte  l'occasioni  che  se  gli  porgeno  per  la  moltitu- 
dine de  gli  incivili  rancontri,  e  per  posser  meglio  filosofare  circa 
i  costumi  di  quei  che  gli  se  fanno  innanzi,  finga  di  non  inten- 
dere. [123] 

Prudenzio.  -  Surdorum,  ahi  natura,  alti  physico  accidente, 
aia  rationali  voluntate^. 

Teofilo.  —  Questo  non  v'imaginate  de  lui:  perché,  benché  sii 


1.  «Tutti  intomo  a  lui». 

2.  «Se  ne  uscì  con  queste  parole,  proprio  con  questo  discorso». 

3.  «Capisci,  signore,  ciò  che  abbiamo  detto?». 

4.  «Tra  i  sordi  (ce  ne  sono]  certi  per  natura,  certi  per  un  accidente  fisico, 
certi  altri  ancora  per  scelta  razionale». 


490  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

appresso  un  anno  che  ha  pratticato  in  questo  paese',  non  in- 
tende più  che  due  o  tre  ordinariissime  paroli;  le  quali  sa  che 
sono  salutazioni,  ma  non  già  particolarmente  quel  che  voglian 
dire;  e  di  quelle,  se  lui  ne  volesse  proferire  una,  non  potrebbe. 

Smitho.  -  Che  vói  dire  ch'ha  sì  poco  pensiero  d'intendere 
nostra  lingua? 

Teofilo.  -  Non  è  cosa  che  lo  costringa,  o  che  l'inclini  a  que- 
sto: perché  coloro  che  son  onorati  e  gentil  uomini,  co  li  quali  lui 
suol  conversare,  tutti  san  parlare  o  latino,  o  francese,  o  spa- 
gnolo, o  italiano^;  i  quali  sapendo  che  la  lingua  inglesa  non 
viene  in  uso  se  non  dentro  quest'isola^,  se  stimarebbono  salva- 
tici, non  sapendo  altra  lingua  che  la  propria  naturale. 

Smitho.  -  Questo  è  vero  per  tutto,  ch'è  cosa  indegna  non 
solo  ad  un  ben  nato  inglese,  ma  ancora  di  qualsivogli'altra  ge- 
nerazione, non  saper  parlare  più  che  d'una  lingua:  pure  in  In- 
ghilterra (come  son  certo  che  anco  in  Italia  e  Francia)  son  molti 
gentil'omini  di  questa  condizione,  co  i  quali,  chi  non  ha  la  lin- 
gua del  paese,  non  può  conversare  senza  quella  angoscia  che 
sente  un  che  si  fa  et  a  cui  è  fatto  interpretare. 

Teofilo.  —  È  vero  che  ancora  son  molti  che  non  son  gen- 
til'omini d'altro  che  di  razza,  i  quali  per  più  loro  e  nostro  espe- 
[125]  diente,  è  bene  che  non  siino  intesi,  né  visti  ancora. 

De  la  seconda  proposta  di  Nundinio 

Smitho.  -  Che  soggionse  il  dottor  Nundinio? 

Teofilo.  —  «Io  dumque»  disse  in  latino,  «voglio  interpre- 

5.  Cfr.  Dialogo  secondo,  p.  485,  nota  83. 

6.  Sulla  diffusione  dell'italiano  in  Inghilterra  nell'età  elisabettiana,  in  par- 
ticolare fra  gli  aristocratici  ed  a  Corte,  e  sull'effetto  che  ha  potuto  avere  tale 
diffusione  sulla  decisione  di  Bruno  di  scrivere  i  suoi  dialoghi  londinesi  in  ita- 
liano piuttosto  che  in  latino,  cfr.  G.  Aquilecchla,  L'adozione  del  volgare  nei 
dialoghi  londinesi  di  G.  Bruno.  «Cultura  neolatina»  [Roma-Modena],  XIII,  pp. 
165-189,  ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana  (Roma),  1993,  pp.  41-63.  In  par- 
ticolare, sugli  ambienti  di  Corte,  cfr.  Ambasciatori  veneti  in  Inghilterra,  a  cura  di 
L.  Firpo,  Torino,  1978,  p.  64,  dove  Giovanni  Fallerò,  nell'inverno  1576,  riferisce 
al  Senato  veneto  di  un  pranzo  con  Lord  Burghley  e  gli  altri  membri  del  regio 
Consiglio,  «tutti  signori  principalissimi  ...  parlando  quasi  tutti  la  lingua  nostra 
italiana,  almeno  intendendola  tutti». 

7.  Si  veda  la  testimonianza  di  J.  Florio,  Second  Fruites,  London,  1591,  p. 
50,  sull'inglese  che  «è  una  lingua  che  vi  farà  bene  in  Inghilterra,  ma  passate 
Dover,  la  non  vai  niente». 


DIALOGO  TERZO  49 1 

tarvi  quello  che  noi  dicevamo:  che  è  da  credere  il  Copernico 
non  esser  stato  d'opinione  che  la  terra  si  movesse,  per  che  que- 
sta è  una  cosa  inconveniente  et  impossibile;  ma  che  lui  abbia 
attribuito  il  moto  a  quella  più  tosto  che  al  cielo  ottavo,  per  la 
comodità  de  le  supputazioni».  Il  Nolano  disse  che  se  Copernico 
per  questa  causa  sola  disse  la  terra  moversi,  e  non  ancora  per 
quell'altra,  lui  ne  intese  poco,  e  non  assai  ^.  Ma  è  certo  che  il 
Copernico  la  intese  come  la  disse,  e  con  tutto  suo  sforzo  la 
provò. 

Smitho.  —  Che  vói  dir  che  costoro  sì  vanamente  buttomo 
quella  sentenza  su  l'opinione  di  Copernico,  se  non  la  possono 
raccogliere  da  qualche  sua  proposizione? 

Teofilo.  -  Sappi  che  questo  dire  nacque  dal  dottor  Tor- 
quato, il  quale  di  tutto  il  Copernico  (benché  posso  credere  che 
l'avesse  tutto  voltato)  ne  avea  retenuto  il  nome  de  l'autore,  del 
libro,  del  stampatore,  del  loco  ove  fu  impresso,  de  l'anno,  il  nu- 
mero de'  quinterni  e  de  le  carte;  e  per  non  essere  ignorante  in 
gramatica,  avea  intesa  certa  epistola  superliminare  attaccata 
non  so  da  chi  asino  ignorante  e  presuntuoso'',  il  quale  (come 

8.  Si  trova  qui  un  riassunto  delle  due  interpretazioni  possibili  dell'ipotesi 
eliocentrica:  «finzione»  comoda,  destinata  a  spiegare  più  agevolmente  i  feno- 
meni celesti  (come  suggerisce  la  premessa  anonima  che  apre  l'edizione  Petreius 
del  De  revoliiHonibus),  ma  anche  tesi  cosmologica  che  pretende  di  descrivere  la 
struttura  reale  dell'universo  (come  dichiara  Copernico  nella  sua  opera,  in  par- 
ticolare nella  lettera  a  Paolo  III).  La  prima  interpretazione  era  stata  sostenuta 
ad  Oxford  da  Henry  Savile,  nelle  sue  lezioni  del  1573  (cfr.  G.  Aquilecchia, 
Tre  schede  su  Bruno  e  Oxford,  «Giornale  critico  della  filosofìa  italiana»  [Firen- 
ze], LXXII,  1993,  pp.  378-382). 

9.  Si  tratta  della  premessa  citata  al  De  revolutionibiis,  dovuta  al  teologo  lu- 
terano Andreas  Osiander  (1498-1552),  che  l'aveva  sostituita  all'introduzione 
inizialmente  prevista  da  Copernico  (cfr.  G.  Seebass,  Das  reformatorische  Werk 
des  And.  Osiander,  Nuremberg,  1967).  Già  nella  sua  lettera  del  1543  a  G.  loachi- 
nus  Rheticus,  Tiedemann  Giese  aveva  deplorato  il  falso  perpetrato  con  l'inse- 
rimento di  questo  scritto  nel  corpo  del  De  revolutionibus.  Scrivendo  allo  stesso 
Rheticus,  nel  1563,  Pierre  de  la  Ramée  sembra  attribuirgli  la  paternità  della 
premessa,  negandola  implicitamente  a  Copernico.  Ma  fu  Kepler  il  primo  a  ri- 
velame, in  un  libro  a  stampa,  il  vero  nome  dell'autore;  nella  sua  Astronomia 
nova,  Praha,  1609  (Gesammelte  Werke,  Miinchen,  voi.  Ili,  1937,  p.  6),  riecheg- 
giando probabilmente  Bruno,  egli  aggiunse  che  la  prefazione  di  Osiander 
«è  stata  scritta  da  un  asino  che  si  rivolgeva  ad  altri  asini».  Cfr.  Y Introduzione  di 
F.  Barone  alla  traduzione  della  Rivoluzione  delle  sfere  celesti,  in  N.  Copernico, 
Opere,  Torino,  1979,  pp.  156-161  (qui  pure  la  lettera  di  Giese  a  Rheticus,  pp. 
846-848).  Si  veda  anche  U.  Forti,  Precursori  e  compagni  di  Copernico  e  Galileo, 
«Cultura  e  scuola»  [Roma],  III,  1964,  pp.  277-286  e  B.  Wrightsman,  Andreas 
Osiander's  Contribution  to  the  Copernican  Achievement,  in:  The  Copernican  Achie- 
vement,  a  cura  di  R.  S.  Westman,  Berkeley-Los  Angeles,  1975,  pp.  213-243. 


492  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

volesse  iscusando  faurir  l'autore,  o  pur  a  fine  che  anco  in  questo 
libro  gli  altri  asini,  trovando  ancora  le  sue  lattuche  e  frutticelli, 
avessero  occasione  di  non  partirsene  a  fatto  deggiuni)  in  questo 
[127]  modo  le  awertisce  avanti  che  cominciano  ad  leggere  il  libro  e 
considerar  le  sue  sentenze  1°:  «Non  dubito  che  alcuni  eruditi» 
(ben  disse  «alcuni»,  de  quali  lui  può  esser  uno)  «essendo  già 
divolgata  la  fama  de  le  nove  supposizioni  di  questa  opera '\  che 
vuole  la  terra  esser  mobile  et  il  sole  starsi  saldo  e  fisso  in  mezzo 
del  universo,  non  si  sentano  fortemente  offesi,  stimando  che 
questo  sia  un  principio  per  ponere  in  confusione  l'arte  liberali 
già  tanto  bene  et  in  tanto  tempo  poste  in  ordine.  Ma  se  costoro 
vogliono  meglio  considerar  la  cosa,  trovaranno  che  questo  au- 
tore non  è  degno  di  riprensione,  perché  è  proprio  a  gli  astro- 
nomi raccòrre  diligente  et  artificiosamente  l'istoria  di  moti  ce- 
lesti: non  possendo  poi  per  raggione  alcune  trovar  le  vere  cause 
di  quelli,  gli  è  lecito  di  fengersene  e  formarsene  a  sua  posta  per 
principii  di  geometria,  mediante  i  quali  tanto  per  il  passato, 
quanto  per  avenire  si  possano  calculare:  onde  non  solamente 
non  è  necessario  che  le  supposizioni  siino  vere,  ma  né  anco  ve- 
risimile Tali  denno  esser  stimate  l'ipotesi  di  questo  uomo,  ec- 
cetto se  fusse  qualch'uno  tanto  ignorante  de  l'optica  e  geome- 
tria, che  creda  che  la  distanza  di  quaranta  gradi  e  più,  la  quale 
acquista  Venere  discostandosi  dal  sole  or  da  l'una  or  da  l'altra 
parte,  sii  caggionata  dal  movimento  suo  ne  l'epiciclo.  Il  che  se 
fusse  vero,  chi  è  sì  cieco  che  non  veda  quel  che  ne  seguirebbe 

10.  Il  testo  che  segue  è  la  «traduzione»  eseguita  da  Bruno  -  probabilmente 
la  prima  in  lingua  volgare  -  di  larghi  estratti  della  premessa  di  Osiander.  Il 
filosofo  ha  dovuto  avere  sotto  gli  occhi  il  libro  di  Copernico,  sia  nell'edizione 
del  1543.  sia  in  quella  del  1566.  Di  recente,  si  è  creduto  di  poter  identificare 
come  appartenente  a  Bruno  un  esemplare  di  quest'ultima  edizione,  oggi  con- 
servato alla  Biblioteca  Casanatense  di  Roma  (segnatura;  I.I.XII.65):  cfr.  E.  Me 
MuLLiN,  Bruno  and  Copernicus.  «Isis»  [Cambridge,  Mass.],  LXXVIII,  1987, 
p.  59,  che  deve  quest'informazione  a  O.  Gingerich  (di  quest'ultimo,  si  veda  il 
recente  The  Eye  of  Heavens,  Ptolemy,  Copernicus,  Kepler,  New  York,  1993, 
p.  266).  La  notizia,  basata  sopra  il  reperimento  del  nome  Brunus  vergato  sul 
foglio  di  guardia  anteriore  dell'esemplare  suddetto,  appare  poco  fondata:  a 
parte  il  fatto  che  la  calligrafia  non  ha  nulla  in  comune  con  la  caratteristica 
mano  bruniana,  eccezionale  sarebbe  l'uso  del  cognome  non  preceduto  da  lor- 
danus  (e  per  lo  più  seguito  da  Nolanus);  inoltre  il  nominativo  indicherebbe 
pertinenza^  anziché  appartenenza,  del  libro  al  personaggio  nominato.  Il  foglio 
di  guardia  col  nome  Brunus  è  ora  riprodotto  in:  Giordano  Bruno.  Gli  anni  na- 
poletani e  la  «peregrinano»  europea.  Immagini,  testi,  documenti,  a  cura  di  E.  Ca- 
none, Cassino,  1992,  p.  93. 

11.  Qui  termina  il  foglio  D  deìVeditio  princeps. 


DIALOGO  TERZO  493 

centra  ogni  esperienza:  che  il  diametro  de  la  stella  apparirebbe 
quattro  volte,  et  il  corpo  de  la  stella  più  di  sedeci  volte  più 
grande  quando  è  vicinissima  nel  opposito  de  l'auge  i^,  che 
quando  è  lontanissima,  dove  se  dice  essere  in  auge?  Vi  sono 
ancora  de  altre  supposizioni  non  meno  inconvenienti  che  que-  [129] 
sta,  quali  non  è  necessario  riferire».  -  E  conclude  al  fine:  «La- 
sciamoci dumque  prendere  il  tesoro  di  queste  supposizioni,  so- 
lamente per  la  facilità  mirabile  et  artificiosa  del  computo:  per 
che  se  alcuno  queste  cose  sente  prenderà  per  vere,  uscirrà  più 
stolto  da  questa  disciplina,  che  non  v'è  entrato»'^. 

Or  vedete  che  bel  portinaio:  considerate  quanto  bene  v'apra 
la  porta  per  farvi  entrar  dentro  alla  participazion  di  quella  ono- 
ratissima  cognizione,  senza  la  quale  il  saper  computare  e  misu- 
rare e  geometrare  e  perspettivare,  non  è  altro  che  un  passa- 
tempo da  pazzi  ingeniosi.  Considerate  come  fidelmente  serve  al 
padron  di  casa.  —  Al  Copernico  non  ha  bastato  dire  solamente 
che  la  terra  si  move;  ma  ancora  protesta  e  conferma  quello,  scri- 
vendo al  papai''  e  dicendo,  che  le  opinioni  di  filosofi  son  molto 
lontane  da  quelle  del  volgo  indegne  d'essere  seguitate,  degnis- 
sime d'esser  fugite:  come  contrarie  al  vero  e  dirittura.  Et  altri 
molti  espressi  indizii  porge  de  la  sua  sentenza;  non  ostante  ch'ai 
fine  par  ch'in  certo  modo  vuole  a  comun  giudizio  tanto  di 
quelli  che  intendeno  questa  filosofia,  quanto  de  gli  altri  che  son 
puri  matematici,  che  se  per  gli  apparenti  inconvenienti  non 
piacesse  tal  supposizione,  conviene  ch'anco  a  lui  sii  concessa 
libertà  di  ponere  il  moto  de  la  terra  per  far  demostrazioni  più 
ferme  di  quelle  ch'han  fatte  gli  antichi:  i  quali  fumo  liberi  nel 

12.  In  modo  singolare.  Bruno  riprende  la  terminologia  medievale,  parlando 
di  aux  ed  oppositum  augis,  memore  probabilmente  dei  suoi  corsi  di  cosmologia, 
mentre  Copernico  ritoma  di  proposito  al  vocabolario  di  Tolomeo  (e  reca  apo- 
gaeus  e  perigaeus),  seguito  da  Osiander. 

13.  Un  confronto  del  testo  latino  con  l'adattamento  di  Bnmo  dimostra 
come  quest'ultimo  si  sia  preoccupato  di  eliminare  i  passaggi  in  cui  Osiander 
sottolineava  il  carattere  essenzialmente  ipotetico  dell'astronomia,  incapace  di 
farci  conoscere  la  vera  struttura  del  mondo. 

14.  Papa  Paolo  III.  Cfr.  la  lettera  Ad  Sanctissintum  Dominum  Paulum  III 
Pontifkem  Maximum,  Nicolai  Copernici  Praefatio  in  libros  Reuolutionum,  in  De 
revolutionibus  orbium  coelestium  libri  sex,  Nuremberg,  1543,  ff.  ii'^-iv^  (traduz.  in 
N.  Copernico,  Opere  cit,  pp.  168-178).  Nel  De  immenso.  III,  9,  Op.  lai.,  I,  i,  pp. 
381-388,  Bruno  riprodurrà  integralmente  questa  prefazione,  seguita  dal  testo 
del  capitolo  II  del  copernicano  Libro  I,  intitolato  Definitio  triplicis  Terrae  motus 
per  Copernicum  (ivi,  pp.  385-389,  traduz.  in  Opere  latine,  a  cura  di  C.  Monti, 
Torino,  1980,  pp.  563-570). 


494  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

fengere  tante  sorte  e  modelli  di  circoli,  per  dimostrar  gli  feno- 
meni de  gli  astri.  Da  le  quale  paroli  non  si  può  raccòrre  che  lui 
dubiti  di  quello  che  sì  constantemente  ha  confessato,  e  provarà 
[131]  nel  primo  libro  sufficientemente  respondendo  ad  alcuni  argo- 
menti di  quei  che  stimano  il  contrario:  dove  non  solo  fa  ufficio 
di  matematico  che  suppone,  ma  anco  de  fisico  che  dimostra  il 
moto  de  la  terra.  -  Ma  certamente  al  Nolano  poco  se  aggionge 
che  il  Copernico,  Niceta  Siracusano  Pitagorico,  Filolao,  Eraclide 
di  Ponto,  Ecfanto  Pitagorico'',  Platone  nel  Timeo  (benché  ti- 
mida et  inconstantemente,  per  che  l'avea  più  per  fede  che  per 
scienza)  1^  et  il  divino  Cusano  nel  secondo  suo  libro  De  la  dotta 
ignoranza^'',  et  altri  in  ogni  modo  rari  soggetti,  l'abbino  detto, 
insegnato  e  confìrmato  prima  "^:  perché  lui  lo  tiene  per  altri  pro- 

15.  Niceta  -  o  piuttosto  Hiceta  -  di  Siracusa  considerava  la  Terra  come  il 
solo  corpo  mobile  dell'universo  (cfr.  Cicerone.  Acad.  Prior.  I,  123).  -  Su  Filo- 
lao di  Crotone  (V  secolo  a.  C),  si  veda  Diogene  Laerzio,  Vili,  85;  Copernico 
cita  «Filolao  Pitagorico»  come  uno  dei  suoi  principali  precursori  (La  rivolu- 
zione. Dedica  a  Paolo  III,  ed.  Barone  cit,  p.  174).  -  Eraclide  Pontico  (attivo 
verso  il  360  a.  C.)  era  discepolo  di  Platone  (cfr.  Diogene  Laerzio,  V,  86-93);  nel 
sistema  che  gli  è  stato  a  lungo  attribuito,  il  sole  era  al  centro  dei  moti  di  Venere 
e  Mercurio  (cfr.  P.  Duhem,  Le  système  du  monde,  Paris,  voi.  I,  1913,  pp.  406-410, 
ma  sulla  questione  si  veda  la  messa  a  punto  di  B.  S.  Eastvvood,  Heraclides  and 
Heliocentrism.  Texts,  Diagrams  and  Interpretations,  «Journal  for  the  History  of 
Astronomy»  [Cambridge],  23,  1992,  pp.  233-260).  -  Ecfanto:  scienziato  siracusa- 
no che  sviluppò  la  teoria  di  Filolao,  sostenendo  la  rotazione  della  Terra  intomo 
al  suo  proprio  centro,  da  occidente  a  oriente.  Su  questi  filosofi,  si  veda  G.  V. 
Schi.'^p.'VRELLI,  I  precursori  di  Copernico  nell'antichità.  Milano,  1873  e  VV.  BuR- 
KERT,  Lore  and  Science  in  Ancient  Pythagoreanism.  Cambridge  (Mass.),  1972. 

16.  Secondo  Aristotele,  De  caelo.  II,  13,  239  b  30-32,  ed.  a  cura  di 
0.  Longo,  Firenze,  1961,  pp.  166-167,  «alcuni  dicono  che  la  Terra  è  posta  al 
centro,  e  si  muove  rivolgendosi  intomo  al  "polo  teso  attraverso  al  Tutto", 
com'è  scritto  nel  Timeo».  Il  testo  di  Platone  (Timaeus,  40  b-c)  pone  un  pro- 
blema di  lettura  e  può  essere  interpretato  nel  senso  di  una  Terra  che  resta  fissa 
al  centro  dell'universo  (cfr.  Platone,  Dialoghi  politici,  a  cura  di  F.  Adomo, 
Torino,  voi.  I,  1988^,  pp.  758-759,  nota  7.  Si  veda,  inoltre,  H.  Cherniss,  Ari- 
stotle's  Criticism  of  Plato  and  the  Academy,  New  York,  voi.  I,  1972,  App.  VIII, 
pp.  545  e  segg.). 

17.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  II,  12  (traduz.  in  Opere  filosofiche,  a 
cura  G.  Federici-Vescovini,  Torino,  1972,  pp.  147-154);  Bruno,  De  immenso.  III, 
9,  Op.  lai..  I,  I,  p.  381  (ed.  Monti  cit,  p.  563). 

18.  In  questo  elenco,  sembra  che  Bruno  —  a  differenza  di  Copernico,  De 
revolutionibus  —  non  faccia  distinzione  fra  gli  autori  che  hanno  ipotizzato  e 
quelli  che  non  hanno  ipotizzato  un  moto  di  rivoluzione  della  Terra  intomo  al 
Sole:  nella  seconda  categoria  si  collocano,  senza  dubbio,  Platone  e  Nicolò  Cu- 
sano. Contrariamente  a  ciò  che  è  stato  frequentemente  detto  e  ripetuto,  le  ana- 
lisi di  S.  Meier-Oeser,  Die  Pràsenz  des  Vergessenen,  Miinster,  1989,  pp.  190-21 1, 
indicano  che  il  cardinale  di  Cusa  non  è  un  «precursore»  di  Copernico  nell'am- 
bito scientifico  (nondimeno,  la  sua  concezione  potrebbe  esseme  considerata  un 
antecedente  metafisico). 


DIALOGO  TERZO  495 

prii  e  più  saldi  principii,  per  i  quali  non  per  autoritate,  ma  per 
vivo  senso  e  raggione,  ha  cossi  certo  questo,  come  ogn'altra  cosa 
che  possa  aver  per  certa  i*^. 

Smitho.  —  Questo  è  bene;  ma  di  grazia  che  argumento  è 
quello  che  apporta  questo  superliminario  del  Copernico:  per  che 
gli  pare  ch'abbia  più  che  qualche  verisimilitudine  (se  pur  non  è 
vero)  che  la  stella  di  Venere  debba  aver  tanta  varietà  di  gran- 
dezza, quanta  n'ha  di  distanza? 

Teofilo.  —  Questo  pazzo  il  quale  teme  et  ha  zelo  che  alcuni 
impazzano  con  la  dottrina  del  Copernico,  non  so  se  ad  un  biso- 
gno avrebe  possuto  portar  più  inconvenienti  di  quello 2°:  che, 
per  aver  apportato  con  tanto  sollennità,  stima  sufficiente  ad  di- 
mostrar che  pensar  quello  sii  cosa  da  un  troppo  ignorante  d'op- 
tica  e  geometria.  Vorrei  sapere  de  quale  optica  e  geometria  in- 
tende questa  bestia,  che  mostra  pur  troppo  quanto  sii  ignorante 
de  la  vera  optica  e  geometria  lui  e  quelli  da  quali  have  imparato. 
Vorrei  sapere  come  da  la  grandezza  de  corpi  luminosi  si  può  in-  [133] 
ferir  la  raggione  de  la  propinquità  e  lontananza  di  quelli;  e  per 
il  contrario,  come  da  la  distanza  e  propinquità  di  corpi  simili  si 
può  inferire  qualche  proporzionale  varietà  di  grandezza^^  Vor- 

19.  Più  sotto,  nella  Quarta  proposta  del  Nundinio,  Bruno  allude  alla  sua 
concezione  della  Terra  grande  animale,  al  pari  degli  altri  corpi  celesti:  è  questo 
uno  dei  princìpi  più  caratteristici  del  Nolano,  che  gli  impongono  di  sostenere 
la  mobilità  della  Terra. 

20.  Infatti,  l'argomento  di  Osiander  prende  di  mira  una  conseguenza  della 
rappresentazione  tolemaica  di  Venere,  che  dota  questo  pianeta  di  un  epiciclo 
enorme  rispetto  alla  dimensione  del  suo  deferente.  Si  tratta,  per  il  prefatore  di 
Copernico,  di  denunciare  l'assurdità  fisica  di  tale  ipotesi.  In  Copernico,  che  fa 
girare  Venere  attorno  al  Sole,  questo  epiciclo  sproporzionato  sparisce.  Galilei  si 
rifarà,  a  sua  volta,  a  questo  passaggio  della  premessa  di  Osiander  per  dimo- 
strare che  le  sue  conclusioni  non  contrastano  minimamente  con  quelle  di 
Copernico  (cfr.  Considerazioni  circa  l'opinione  copernicana,  in  G.  Galilei,  Opere, 
ed.  nazionale  a  cura  di  A.  Favaro,  20  voli,  Firenze,  1890-1909,  voi.  V,  1895,  pp. 
360-363). 

21.  G.  Galilei,  ivi,  p.  362,  suggerirà  che  «per  levar  ogn'ombra  di  dubitare, 
quando  il  non  apparire  al  senso  così  gran  diversità  nelle  grandezze  apparenti 
del  corpo  di  Venere  avesse  a  revocare  in  dubbio  la  sua  circolar  conversione 
intomo  al  Sole,  conforme  al  sistema  Copernicano,  facciasi  diligente  osserva- 
zione con  stromento  idoneo,  cioè  con  un  perfetto  telescopio,  e  troverassi  pun- 
tualmente rispondere  il  tutto  in  effetto  ed  in  esperienza;  cioè  si  vedrà  Venere, 
quando  è  vicinissima  alla  Terra,  falcata,  e  di  diametro  ben  6  volte  maggiore 
che  quando  è  nella  sua  massima  lontananza,  cioè  sopra  '1  Sole,  dove  si  scorge 
rotonda  e  piccolissima:  e  come  dal  non  discemer  tal  diversità  con  la  semplice 
vista  ...  parerà  che  si  potesse  ragionevolmente  negar  tal  posizione,  così  ora  dal 
vederne  esattissimo  riscontro  in  questa  ed  in  ogn'altra  particolarità,  rimovasi 
ogni  dubbio,  e  si  reputi  per  vera  e  reale». 


496  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

rei  sapere  con  qual  principio  di  prospettiva  o  di  optica,  noi  da 
ogni  varietà  di  diametro  possiamo  definitamente  conchiudere 
la  giusta  distanza  o  la  magior  e  minor  differenza.  Desiderarei 
intendere  si  noi  facciamo  errore,  che  poniamo  questa  conclu- 
sione: —  Da  l'apparenza  de  la  quantità  del  corpo  luminoso,  non 
possiamo  inferire  la  verità  de  la  sua  grandezza,  né  di  sua  di- 
stanza; per  che  sicome  non  è  medesma  raggione  del  corpo  opaco 
e  corpo  luminoso,  cossi  non  è  medesma  raggione  d'un  corpo 
men  luminoso  et  altro  più  luminoso  et  altro  luminosissimo, 
acciò  possiamo  giudicare  la  grandezza  o  ver  la  distanza  loro^^. 
La  mole  d'una  testa  d'uomo  a  due  miglia  non  si  vede;  quella 
molto  più  piccola  de  una  lucerna,  o  altra  cosa  simile  di  fiamma, 
si  vedrà  senza  molta  differenza  (se  pur  con  differenza)  discosta 
sessanta  miglia:  come  da  Otranto  di  Puglia  si  veggono  al  spesso 
le  candele  d'Avellona^',  tra'  quai  paesi  tramezza  gran  tratto  del 
mare  Ionio.  Ogn'uno  che  ha  senso  e  raggione,  sa  che  se  le  lu- 
cerne fussero  di  lume  più  perspicuo  a  doppia  proporzione,  come 
ora  son  viste  ne  la  distanza  di  settanta  miglia,  senza  variar 
grandezza,  si  vedrebbono  ne  la  distanza  di  cento  quaranta  mi- 
glia; ad  tripla,  di  ducento  e  diece;  ad  quatrupla,  di  ducento  ot- 
tanta; medesmamente  sempre  giudicando  ne  l'altre  addizioni  di 
proporzioni  e  gradi:  perché  più  presto  da  la  qualità  et  intensa 
virtù  de  la  luce,  che  da  la  quantità  del  corpo  acceso,  suole  man- 
[135]  tenersi  la  raggione  del  medesmo  diametro  e  mole  di  corpo.  Vo- 
lete dumque,  o  saggi  optici  et  accorti  perspettivi,  che  se  io  veggo 
un  lume  distante  cento  stadii  aver  quattro  dita  di  diametro, 
sarà  raggione  che,  distante  cinquanta  stadii,  debbia  averne  otto; 
a  la  distanza  di  vinticinque,  sedeci;  di  dodici  e  mezzo,  trenta 

22.  Bruno  rifiuta  la  concezione  euclidea  generalmente  accettata,  secondo  la 
quale  la  distanza  e/o  la  grandezza  di  un  corpo  si  misurano  grazie  al  triangolo 
visivo  il  cui  vertice  è  posto  nell'occhio  dell'osservatore  e  la  base  sull'oggetto, 
utilizzando  il  principio  di  congruenza  dei  triangoli.  Secondo  il  Nolano,  invece, 
per  i  corpi  luminosi,  la  base  del  triangolo  (vale  a  dire  il  diametro  apparente 
dell'oggetto)  è  indeterminabile:  l'immagine  che  i  nostri  occhi  ne  ricevono  di- 
pende dalla  sua  luminosità  più  o  meno  intensa.  Poco  più  sotto.  Bruno  fa  rife- 
rimento alla  teoria  epicurea  riportata  da  Lucrezio,  ma  si  deve  osservare  che 
essa  differisce  alquanto  dalla  sua.  Sulla  stima  delle  distanze  nell'ottica  tradi- 
zionale, si  veda  G.  Simon,  Le  regard.  Tètre  et  Vapparence.  Paris,  1988,  ed  il  com- 
mento di  I.  Pantin  nella  sua  ed.  e  traduz.  francese  di  J.  Kepler,  Discussion  avec 
le  messager  celeste,  Paris,  1993,  pp.  58-59,  nota  40. 

23.  E  probabilmente  Valona,  in  Albania. 


DIALOGO  TERZO  497 

due;  e  cossi  va  discorrendo:  sin  tanto  che,  vicinissimo,  venghi 
ad  essere  di  quella  grandezza  che  pensate? 

Smitho.  -  Tanto  che,  secondo  il  vostro  dire,  benché  sii 
falsa,  non  però  potrà  essere  improbata  per  le  raggioni  geome- 
trice  la  opinione  di  Eraclito  Efesio^"*  che  disse  il  sole  essere  di 
quella  grandezza  che  s'offre  a  gli  occhi;  al  quale  sottoscrisse 
Epicuro,  come  appare  ne  la  sua  Epistola  a  Sofocle^^  e  ne  l'un- 
decimo  libro  De  natura  (come  referisce  Diogene  Laerzio):  dice 
che,  per  quanto  lui  può  giudicare,  «la  grandezza  del  sole,  de 
la  luna  e  d'altre  stelle  è  tanta,  quanta  a'  nostri  sensi  appare»; 
«perché»  dice,  «se  per  la  distanza  perdessero  la  grandezza,  ad 
più  raggione  perderebbono  il  colore»;  «e  certo»  dice,  «non 
altrimente  doviamo  giudicar  di  que'  lumi,  che  di  questi  che 
sono  appresso  noi»^^ 

Prudenzio.  —  Illud  quoque  epicureus  Lucretius  testatur  quinto 
«De  natura»  libro: 

Nec  nimio  solis  maior  rota,  nec  minor  ardor 

esse  potest,  nostris  quam  sensibus  esse  videtur. 

Nam  quihus  e  spaciis  cumque  ignes  lumina  possunt 

adiicere  et  calidum  membris  adflare  vaporem, 

illa  ipsa  intervalla  nihil  de  corpore  limant 

flammarum,  nihilo  ad  speciem  est  contractior  ignis. 

Luna  quoque  sive  notho  fertur,  sive  lumine  lustrans, 

sive  suam  proprio  iactat  de  corpore  lucem,  [137] 

quicquid  id  est,  nihilo  fertur  maiore  figura. 

Postremo  quoscunque  vides  hinc  aetheris  ignes, 

dum  tremar  est  clarus,  dum  cernitur  ardor  eorum, 

scire  licet  perquam  pauxillo  posse  minores 

esse,  vel  exigua  maiores  parte  brevique, 

quando  quidem  quoscunque  in  terris  cernimus  ignes, 

perparvum  quiddam  interdum  mutare  videntur, 

alterutram  in  partem  filum,  cum  longius  absint^''. 

24.  Cfr.  Diogene  Laerzio,  IX,  7  (H.  Diels,  Die  Fragmente  der  Vorsokratiker, 
Berlin,  1903,  22A,  I,  p.  141,  11  e  segg.). 

25.  Si  tratta,  in  realtà,  della  Epistola  a  Pitocle.  Cfr.  Diogene  Laerzio,  X,  91 
(in  Epicuro,  Opere,  a  cura  di  M.  Isnardi  Parente,  Torino,  1983^,  pp.  182-183). 

26.  Ivi 

27.  «Questo  è  anche  attestato  dall'epicureo  Lucrezio  nel  quinto  libro  Sulla 
natura:  "Né  la  ruota  del  sole  né  il  suo  calore  possono  essere  molto  maggiori  o 
minori  di  quel  che  appare  ai  nostri  sensi.  Qualunque  sia  la  distanza  dalla 


498  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Teofilo.  -  Certo  voi  dite  bene,  che  con  l'ordinarie  e  proprie 
raggioni  in  vano  verranno  i  perspettivi  e  geometri  a  disputar 
con  Epicurei:  non  dico  gli  pazzi  quale  è  questo  liminare  del 
libro  di  Copernico,  ma  di  quelli  più  saggi  ancora;  e  veggiamo 
come  potran  concludere  che  a  tanta  distanza  quanta  è  il  diame- 
tro de  l'epiciclo  di  Venere,  si  possa  inferir  raggione  di  tanto  dia- 
metro del  corpo  del  pianeta,  et  altre  cose  simili.  -  Anzi  voglio 
avertirvi  d'un'altra  cosa.  Vedete  quanto  è  grande  il  corpo  de  la 
terra?  sapete  che  di  quello  non  possiamo  veder  se  non  quanto  è 
l'orizonte  artificiale?^^ 

Smitho.  -  Cossi  è. 

Teofilo.  —  Or  credete  voi  che  se  vi  fusse  possibile  di  reti- 
rarvi fuor  de  l'universo  globo  de  la  terra  in  qualche  punto  de 
l'eterea  regione  (sii  dove  si  vuole),  che  mai  avverrebbe  che  la 
terra  vi  paia  più  grande? 

Smitho.  -  Penso  di  non,  per  che  non  è  raggione  alcuna  per 
la  quale  de  la  mia  vista  la  linea  visuale  debba  esser  forte  più,  et 
allungar  il  semidiametro  suo,  che  misura  il  diametro  de  l'ori- 
zonte. 

Teofilo.  -  Bene  giudicate.  Però  è  da  credere  che  discostan- 
dosi più  l'orizonte  sempre  si  disminuisca.  Ma  con  questa  dimi- 

quale  i  fuochi  possono  gettare  la  luce  e  alitar  sulle  membra  un  caldo  soffio, 
questi  stessi  intervalli  non  sottraggono  nulla  di  quanto  appartiene  al  corpo 
delle  fiamme,  il  fuoco  non  è  per  nulla  ridotto  allo  sguardo  ...  E  la  luna,  sia  che 
ruoti  con  luce  non  sua  illuminando  la  terra,  sia  che  irraggi  dal  proprio  corpo 
la  sua  luce,  come  di  ciò  sia,  si  muove  con  una  forma  per  nulla  maggiore  |di 
quella  con  cui  appare  ai  nostri  occhi]  ...  Infine  tutti  i  fuochi  dell'etere  che  di 
quaggiù  vedi,  finché  se  ne  distingue  il  palpito  e  la  chiara  fiamma,  certo  in 
piccolissima  misura  possono  essere  minori,  o  di  ben  poco  maggiori  di  quel  che 
ci  appaiono,  siccome  tutti  i  fuochi  che  scorgiamo  sulla  terra,  di  lieve  misura  si 
vedono  talvolta  mutare  in  più  o  meno  la  loro  grandezza,  secondo  che  sono 
lontani"»  (cfr.  Lucrezio,  De  rerum  natura,  V,  564-569;  575-578;  585-[595],  ed.  a 
cura  di  A.  Fellin,  Torino,  1997-',  pp.  366-367.  Questa,  e  le  altre  edizioni  mo- 
derne, danno  i  versi  lucreziani  in  un  ordine  leggermente  diverso  e  con  varianti 
che  tuttavia  non  mutano  il  significato  complessivo  della  citazione). 

28.  Suir« orizzonte  artificiale»  si  veda  Clavius,  In  sphaeram,  Lugduni, 
1593,  pp.  340-341,  dove  leggiamo:  «Proclus,  Albertus  Magnus  et  plerique  alii 
scriptores  duplicem  horizontem  constituunt.  Dicunt  enim  unum  esse  ratione 
perceptum,  quem  appellant  Rationalem,  Naturalemve.  Altenim  sensu  esse  per- 
ceptum,  quem  vocant  sensibilem  apparentemve.  Rationalis  est,  qui  dividit  to- 
tum  caelum  in  duo  hemisphaeria  aequalia,  segregatque  partem  visam  a  non 
visa».  Clavius  precisa  che  questo  orizzonte,  passando  dal  centro  della  Terra  (a 
differenza  dell'orizzonte  sensibile  determinato  da  un  piano  parallelo  al  primo, 
ma  tangente  la  superficie  del  globo)  è  chiamato  da  alcuni  «Artificialis,  eo  quod 
beneficio  artis  Astronomicae  sit  inventus». 


DIALOGO  TERZO 


499 


nuzione  de  l'orizonte  notate  che  ne  si  viene  ad  aggiongere  la 
confusa  vista  di  quello  che  è  oltre  il  già  compreso  orizonte,  [139] 
come  si  può  mostrare  nella  presente  figura:  dove  l'orizonte  arti- 
ficiale è  I-I,  al  quale  risponde  l'arco  del  globo  A-A;  l'orizonte  de 


f 


[FlG.  l] 


la  prima  diminuzione  è  2-2,  al  quale  risponde  l'arco  del  globo  [141] 
B-B;  l'orizonte  de  la  terza^'^  diminuzione  è  3-3,  al  quale  ri- 


29.  In  realtà,  della  seconda.  Cfr.  De  immenso.  III,  2,  Op.  laL,  I,  i,  pp.  327-329, 
dove  troviamo  riprodotta  la  stessa  figura  (e  cfr.  l'ed.  Monti  cit.,  p.  520).  Alla  riga 
seguente,  «quarta»  è  da  correggersi  in  «terza»  diminuzione. 


500  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

sponde  l'arco  C-C;  l'orizonte  de  la  quarta  diminuzione  è  4-4,  al 
quale  risponde  l'arco  D-D^^\  e  cossi  oltre  attenuandosi  l'ori- 
zonte, sempre  crescerà  la  comprehensione  de  l'arco,  insino  alla 
linea  emisferica  et  oltre.  Alla  quale  distanza  o  circa  quale  posti, 
vedreimo  la  terra  con  quelli  medesmi  accidenti  co  i  quali  veg- 
giamo  la  luna  aver  le  parti  lucide  et  oscure  secondo  che  la  sua 
superficie  è  aquea  e  terrestre 'i.  Tanto  che,  quanto  più  se  strenge 
l'angolo  visuale,  tanto  la  base  maggiore  si  comprende  de  l'arco 
emisferico,  e  tanto  ancora  in  minor  quantità  appare  l'orizonte: 
il  qual  vogliamo  che  tutta  via  perseveri  a  chiamarsi  orizonte, 
benché  secondo  la  consuetudine  abbia  una  sola  propria  signifi- 
cazione. Allontanandoci  dumque,  cresce  sempre  la  comprehen- 
sione de  l'emisfero  et  il  lume:  il  quale  quanto  più  il  diametro  si 
disminuisce,  tanto  d'avantaggio  si  viene  ad  riunire;  di  sorte  che 
se  noi  fussemo  più  discosti  da  la  luna,  le  sue  macchie  sarrebono 
sempre  minori,  sin  alla  vista  d'un  corpo  piccolo  e  lucido  sola- 
mente. 

Smitho.  -  Mi  par  aver  intesa  cosa  non  volgare,  e  non  di  poca 
importanza.  Ma  di  grazia  vengamo  al  proposito  de  l'opinion  di 
Eraclito  et  Epicuro:  la  qual  dite  che  può  star  costante  contra  le 
raggioni  perspettive,  per  il  difetto  de  principii  già  posti  in  que- 
sta scienza.  Or  per  scuoprir  questi  difetti,  e  veder  qualche  frut- 
to de  la  vostra  invenzione,  vorrei  intendere  la  risoluzione  di 
quella  raggione,  co  la  quale  molto  demostrativamente  si  pro- 
va ch'[il]  sole  non  solo  è  grande,  ma  anco  più  grande  che  la 
[143]  terra.  Il  principio  della  qual  raggione  è  che  il  corpo  luminoso 
maggiore  spargendo  il  suo  lume  in  un  corpo  opaco  minore,  de 
l'ombra  conoidale  produce  la  base  in  esso  corpo  opaco,  et  il 
cono  oltre  quello  ne  la  parte  opposita:  come  ne  la  seguente  fi- 


30.  Le  cifre  4-4  e  le  lettere  D-D  non  appaiono  nella  xilografia  originale. 

31.  Nel  Sidereus  nuncius  del  1610,  Galilei  scriverà:  «Avendo  io  sempre  rite- 
nuto per  certo  che  del  globo  terrestre,  veduto  da  lontano  quando  sia  illumi- 
nato dai  raggi  solari,  le  terre  emerse  si  mostrerebbero  più  luminose,  le  acque 
invece  più  oscure»  (traduz.  in  Opere,  a  cura  di  F.  Brunetti,  Torino,  voi.  I,  1980^, 
p.  184).  Siffatta  posizione  è  opposta  a  quella  che  Bruno  qui  difende,  ispirata 
verosimilmente  da  Plutarco,  De  facie  quae  in  orbe  lunae  apparet  (ed.  a  cura  di 
D.  Del  Como-L.  Lehnus,  Milano,  1991),  e  che  era  condivisa  da  Leonardo  così 
come  da  Kepler  prima  del  1610. 


DIALOGO  TERZO 


501 


gura^^,  M  corpo  lucido  dalla  base  di  C,  la  quale  è  terminata  per 
HI,  manda  il  cono  de  l'ombra  ad  A'^  punto.  Il  corpo  luminoso 
minore  avendo  formato  il  cono  nel  corpo  opaco  maggiore,  non 
conoscerà  determinato  loco,  ove  raggionevolmente  possa  desi- 


gnarsi  la  linea  de  la  sua  base;  e  par  che  vada  a  formar  una 
conoidale  infinita,  come  quella  medesma  figura  A  corpo  lucido, 
dal  cono  de  l'ombra  ch'è  in  C  corpo  opaco,  manda  quelle  due 
linee  CD  C-E,  le  quali  sempre  più  e  più  dilatando  la  ombrosa 
conoidale,  più  tosto  correno  in  infinito  che  possino  trovar  la  [145] 
base  che  le  termini.  La  conclusione  di  questa  raggione  è  che  il 
sole  è  corpo  più  grande  che  la  terra,  per  che  manda  il  cono  de 
l'ombra  di  quella  sin  appresso  alla  sfera  di  Mercurio,  e  non 
passa  oltre";  che  se  il  sole  fusse  corpo  lucido  minore,  bisogna- 


32.  Cfr.  la  figura  2.  Le  lettere  del  testo  non  corrispondono  a  quelle  indica- 
te nella  figura:  M  (testo)  =  A  (figura);  A  (testo)  =  B  (figura);  A^  (testo)  =  /  (figura); 
H  (testo)  indica  il  punto  d'intersezione  delle  rette  FN  (testo)  ed  AE  (testo)  o 
delle  rette  IF  (figura)  ed  EB  (figura). 

33.  La  lunghezza  dell'ombra  della  Terra,  misurata  in  raggi  terrestri  (rt),  è, 
approssimativamente,  la  stessa  di  Tolomeo  (268  rt)  e  di  Copernico  (265  rt).  Nel 


502  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

rebbe  giudicare  altrimente:  onde  seguitarebbe  che  trovandosi 
questo  luminoso  corpo  ne  Temisfero  inferiore,  verrebbe  oscurato 
il  nostro  cielo  in  più  gran  parte  che  illustrato:  essendo  dato  o 
concesso,  che  tutte  le  stelle  prendeno  lume  da  quello'-^. 

[Teofilo].  -  Or  vedete  come  un  corpo  luminoso  minore  può 
illuminare  più  della  mittà  d'un  corpo  opaco  più  grande.  Dovete 
avvertire  quel  che  veggiamo  per  esperienza.  Posti  dui  corpi,  de 
quali  l'uno  è  opaco  e  grande  come  A,  l'altro  piccolo  lucido  come 
N^^,  se  sarà  messo  il  corpo  lucido  nella  minima  e  prima  di- 
stanza, come  è  notato  nella  seguente  figura,  verrà  ad  illuminare 
secondo  la  raggione  de  l'arco  piccolo  C-D,  stendendo  la  linea  B^. 
Se  sarà  messo  nella  seconda  distanza  maggiore,  verrà  ad  illumi- 
nare secondo  la  raggione  de  l'arco  maggiore  E-F,  stendendo  la 
linea  B^.  Se  sarà  nella  terza  e  maggior  distanza,  terminarà  se- 
condo la  raggione  de  l'arco  più  grande  G-H,  terminato  da  la 
linea  B^.  Dal  che  si  conchiude  che  può  avvenire  che  il  corpo 
lucido  B,  servando  il  vigore  di  tanta  lucidezza  che  possa  pene- 
trare tanto  spacio  quanto  a  simile  effetto  si  richiede,  potrà,  col 
molto  discostarsi,  comprendere  al  fine  arco  maggior  che  il  semi- 
circolo: atteso  che  non  è  raggione  che  quella  lontananza  ch'ha 
ridutto  a  tale  il  corpo  lucido  che  comprenda  il  semicircolo,  non 
[147]  possa  oltre  promoverlo  a  comprendere  di  vantaggio  ^<'.  Anzi  vi 
dico  de  più,  che  essendo  ch'il  corpo  lucido  non  perde  il  suo  dia- 
metro se  non  tardissima  e  difficilissimamente,  et  il  corpo  opaco 
(per  grande  che  sia)  facilissimamente  et  improporzionalmente  il 

sistema  tolemaico,  la  sfera  di  Mercurio  è  situata  tra  64  e  166  rt  (valori  che 
corrispondono  al  perigeo  e  all'apogeo  di  questo  pianeta).  In  Copernico,  Mercu- 
rio è  ad  una  distanza  media  di  710  rt  dalla  Terra.  Sia  in  un  caso  sia  nell'altro, 
l'affermazione  di  Bruno  è  del  tutto  fittizia,  sia  per  eccesso,  sia  per  difetto.  È 
poco  probabile  che  abbia  effettuato  egli  stesso  un  calcolo  per  il  quale  non  pos- 
sedeva le  basi,  ma  allora  qual  è  stata  la  sua  fonte? 

34.  Cfr.  J.  Kepler,  Dissertano  cum  Nuncio  Sidereo,  a  cura  di  E.  Fasoli  e 
G.  Tabarroni.  Torino.  1972,  pp.  52-57,  70-73  e  note.  L"idea  che  le  stelle  riceves- 
sero la  loro  luce  dal  Sole  non  era  affatto  condivisa  da  tutti. 

35.  La  figura  originale  (n.  3)  è  incomprensibile,  a  causa  dell'assenza  della 
lettera  N  e  degli  esponenti  che  le  corrispondono. 

36.  Non  v"è  alcuna  distanza,  per  quanto  grande  possa  essere,  da  dove  N 
riuscirebbe  a  illuminare  la  metà  dell'emisfero  opaco.  Secondo  Amerio  (in  Opere 
di  G.  Bruno  e  T.  Campanella.  Milano-Napoli.  1956)  questa  «affermazione  para- 
dossa, su  cui  trasvolano  i  commentatori,  riceve  qualche  senso  plausibile  se  la 
si  connetta  non  con  la  fisica,  ma  colla  metafisica  bruniana  dell'infinito.  All'in- 
finito, infatti,  il  punto  luminoso  non  pure  è  presente  a  una  parte,  ma  a  tutte  le 
parti  ». 


DIALOGO  TERZO 


503 


perde,  però  sì  come  per  progresso  de  distanza  dalla  corda  mi- 
nore C-D  è  andato  a  terminare  la  corda  maggiore  E-F  e  poi  la 
massima  G-H,  la  quale  è  diametro":  cossi  crescendo  più  e  più 
la  distanza,  terminarà  l'altre  corde  minori  oltre  il  diametro,  sin 


[149] 


[FiG.  3] 

tanto  ch'il  corpo  opaco  tramezzante  non  impedisca  la  reciproca 
vista  de  gli  corpi  diametralmente  opposti.  E  la  causa  di  questo 
è  che  l'impedimento  che  dal  diametro  procede,  sempre  con  esso 
diametro  si  va  disminuendo  più  e  più,  quanto  l'angolo  B  si 
rende  più  acuto.  Et  è  necessario  al  fine  che  l'angolo  sii  fatto 
tanto  acuto  (per  che  nella  fisica  divisione  d'un  corpo  finito  è 


37.  Sulla  figura  3,  il  diametro  è  indicato  con  la  linea  i-k. 


504  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

pazzo  chi  crede  farsi  progresso  in  infinito,  o  l'intenda  in  atto  o 
in  potenza)^^  che  non  sii  più  angolo,  ma  una  linea,  per  la  quale 
dui  corpi  visibili  oppositi  possono  essere  alla  vista  l'un  de  l'al- 
tro, senza  che  in  punto  alcuno,  quel  ch'è  in  mezzo,  vaglia  impe- 
dire: essendo  che  questo  ha  persa  ogni  proporzionalità  e  diffe- 
[151]  renza  diametrale,  la  quale  ne  i  corpi  lucidi  persevera.  Però  si 
richiede  che  il  corpo  opaco  che  tramezza,  ritegna  tanta  distanza 
da  l'un  e  l'altro,  per  quanta  possa  aver  persa  la  detta  propor- 
zione e  differenza  del  suo  diametro:  come  si  vede  et  è  osservato 
nella  terra;  il  cui  diametro  non  impedisce  che  due  stelle  diame- 
tralmente opposte  si  veggano  l'una  l'altra,  cossi  come  l'occhio 
senza  differenza  alcuna  può  veder  l'una  e  l'altra  dal  centro  emi- 
sferico A'^  e  dalli  punti  de  la  circonferenza  ANO  (avendoti  ima- 
ginato  in  tal  bisogno,  che  la  terra  per  il  centro  sii  divisa  in  due 
parte  uguali  a  fin  ch'ogni  linea  perspettivale  abbia  il  suo  loco). 
Questo  si  fa  manifesto  facilmente  ne  la  presente  figura ^^.  Dove, 
per  quella  raggione  che  la  linea  ^-A^,  essendo  diametro,  fa  l'an- 
golo retto  ne  la  circonferenza;  dove  è  il  secondo  loco,  lo  fa 
acuto;  nel  terzo  più  acuto:  bisogna  ch'ai  fine  dovenghi  a  l'acu- 
tissimo, et  al  fine  a  quel  termine  che  non  appaia  più  angolo,  ma 
linea;  e  per  conseguenza  è  destrutta  la  relazione  e  differenza  del 
semidiametro;  e  per  medesma  raggione,  la  differenza  del  diame- 
tro intiera  A-0  si  destruggerà.  Là  onde  al  fine  è  necessario  che 
dui  corpi  più  luminosi,  i  quali  non  sì  tosto  perdeno  il  diametro, 
non  saranno  impediti  per  non  vedersi  reciprocamente:  non  es- 
sendo il  lor  diametro  svanito,  come  quello  di  non  lucido  o  men 
luminoso  corpo  tramezzante.  —  Concludasi  dumque  che  un 
corpo  maggiore  il  quale  è  più  atto  a  perdere  il  suo  diametro, 
benché  stia  per  linea  rettissima  al  mezzo,  non  impedirà  la  pro- 

38.  Nel  Libro  III  di  Phys.  Auscultai.,  Aristotele  dimostrava  l'impossibilità  di 
un  infinito  in  atto  ed  «esaminava  due  casi  di  infinito  in  potenza;  quello  nu- 
merico, per  il  quale  si  ha  un  limite  inferiore  (l'unità),  ma  non  un  limite  supe- 
riore, e  quello  delle  grandezze,  in  teoria  divisibili  all'infinito  ma  che  non  pos- 
sono essere  accresciute  senza  limite»  (I.  Pantin,  in  J.  Kepler,  Discussion  cit.,  p. 
123,  nota  238).  Sulle  posizioni  bruniane,  cfr.  il  De  minimo,  I,  6-7,  dove  vengono 
attaccati  i  matematici  che  credono  il  continuo  divisibile  all'infinito.  Si  veda  G. 
Aquilecchia,  Bruno  e  la  matematica  a  lui  contemporanea:  in  margine  al  «De 
minimo»,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  LXIX,  1990,  pp, 
151-159,  nonché  Id.,  B  dilemma  matematico  di  Bruno  fra  atomismo  e  injìnitismo, 
Napoli,  1992  (ora  tutt'e  due  in  Schede  bruniane  cit.,  pp.  311-317,  319-326). 

39.  Si  veda  la  figura  4,  riusata  da  Bruno  nel  De  immenso,  V,  5,  Op.  lat.,  I,  2, 
p.  133  (ed.  Monti  cit,  p.  675). 


DIALOGO  TEBIZO 


505 


spettiva  di  dui  corpi  quantosivoglia  minori,  pur  che  serbino  il 
diametro  della  sua  visibilità,  il  quale  nel  più  gran  corpo  è  per- 
so "^o.  Qua  per  disrozzir  uno  ingegno  non  troppo  suUevato,  a  fin 
che  possa  facilmente  introdurse  a  comprendere  la  apportata 


[153] 


[FiG.  4] 

raggione,  e  per  ammollar  al  possibile  la  dura  apprensione,  fate- 
gli esperimentare  ch'avendosi  posto  un  stecco  vicino  a  l'occhio, 
la  sua  vista  sarà  di  tutto  impedita  a  veder  il  lume  de  la  candela 
posta  in  certa  distanza:  al  qual  lume  quanto  più  si  viene  acco- 
stando il  stecco,  allontanandosi  da  l'occhio,  tanto  meno  impe- 
dirà detta  veduta;  sin  tanto  che  essendo  sì  vicino  e  gionto  al 
lume,  come  prima  già  era  vicino  e  gionto  a  l'occhio,  non  impe- 
dirà forse  tanto,  quanto  il  stecco  è  largo.  Or  giongi  a  questo  che 
ivi  rimagna  il  stecco,  et  il  lume  altretanto  si  discoste:  verrà  il 
stecco  ad  impedir  molto  meno.  Cossi  più  e  più  aumentando 
l'equidistanza  de  l'occhio  e  del  lume  dal  stecco:  al  fine  senza 


40.  Secondo  F.  Tocco,  Le  opere  latine  di  G.  Bruno  esposte  e  confrontate  con  le 
italiane,  Firenze,  1889,  p.  272,  Bruno  ha  «giustamente  notato,  che  talvolta  un 
corpo  opaco  non  impedisce  la  vista  del  corpo  luminoso,  quando  questo  sia 
posto  a  tale  distanza,  che  il  corpo  opaco  non  si  vegga  più.  Erra  solo  nelFaffer- 
mare  che  a  grandissima  distanza  il  corpo  opaco  non  impedisca  la  vista  del 
luminoso  anche  quando  sia  d'esso  maggiore.  L'esempio  portato  dal  Bruno  è 
giustissimo,  ma  soltanto  nel  caso  che  il  corpo  luminoso  sia  più  grande  del- 
l'opaco». 


506  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

sensibilità  alcuna  del  stecco,  vedrai  il  lume  solo.  Considerato 
questo,  facilmente  quantosivoglia  grosso  intelletto  potrà  essere 
introdutto  ad  intendere  quel  che  poco  avanti  è  detto. 

Smitho.  —  Mi  par,  quanto  al  proposito,  mi  debba  molto  es- 
sere satisfatto;  ma  mi  rimane  ancora  una  confusione  nella 
mente  quanto  a  quel  che  prima  dicesti:  come  noi  alzandoci  da 
la  terra  e  perdendo  la  vista  de  l'orizonte  di  cui  il  diametro  sem- 
pre più  e  più  si  va  attenuando,  vedreimo  questo  corpo  essere 
una  stella''^  Vorrei  che  a  quel  tanto  ch'avete  detto  aggiongessi- 
vo-^2  qualche  cosa  circa  questo,  essendo  che  stimate  molte  essere 
terre  simili  a  questa,  anzi  innumerabili;  e  mi  ricordo  de  aver 
visto  il  Cusano-^^  di  cui  il  giodizio  so  che  non  riprovate,  il 
quale  vuole  che  anco  il  sole  abbia  parti  dissimilari  come  la 
luna  e  la  terra:  per  il  che  dice,  che  se  attentamente  fissaremo 
[155]  l'occhio  al  corpo  di  quello,  vedremo  in  mezzo  di  quel  splendore 
più  circonferenziale  che  altrimente,  aver  notabilissima  opacità. 

Teofilo.  -  Da  lui  divinamente  detto  et  inteso,  e  da  voi  assai 
lodabilmente  applicato.  Se  mi  recordo,  io  ancor  poco  fa  dissi 
che  (per  tanto  che  il  corpo  opaco  perde  facilmente  il  diametro, 
il  lucido  difficilmente)  avviene  che  per  la  lontananza  s'annulla 
e  svanisce  l'apparenza  de  l'oscuro;  e  quella  del  illuminato  dia- 
fano o  d'altra  maniera  lucido,  si  va  come  ad  unire:  e  di  quelle 
parti  lucide  disperse  si  forma  una  visibile  continua  luce.  Però  se 
la  luna  fusse  più  lontana,  non  eclissarebbe  il  sole;  e  facilmente 
potrà  ogni  uomo  che  sa  considerare  in  queste  cose  [comprende- 

41.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  II,  17,  ed.  Federici-Vescovini  cit., 
pp.  148-149:  «Se  un  uomo  si  trovasse  al  di  fuori  della  regione  del  fuoco,  la 
nostra  terra  vista  attraverso  il  fuoco  gli  apparirebbe  come  una  stella  luminosa 
sulla  circonferenza  della  sua  regione  ...  La  terra  è,  dunque,  una  stella  nobile». 
Si  veda,  inoltre,  G.  Bruno,  De  l'infinito.  Dialogo  terzo,  p.  94;  De  immenso,  IV,  8, 
Op.  lai.,  I,  2,  p.  40  (ed.  Monti  cit,  pp.  609-610). 

42.  «Aggiongessivo»  cioè  «aggiungeste».  Spesso,  in  napoletano,  le  forme 
plurali  dei  verbi  si  ottengono  aggiungendo  i  suffissi  del  plurale  alle  forme  del 
singolare. 

43.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  II,  12,  ed.  Federici-Vescovini  cit,  p.  148: 
«Se  si  considera  il  corpo  del  sole  e,  all'estremità  della  circonferenza,  un  ba- 
gliore luminoso  come  di  fuoco;  in  mezzo,  quasi,  una  nube  di  acqua  e  di  aria 
più  chiara.  La  terra  ha  gli  stessi  elementi».  L'affermazione  è  teorica;  Cusano, 
contrariamente  a  quanto  ha  scritto  Bruno,  non  si  richiama  all'osservazione 
diretta  del  corpo  solare.  Secondo  F.  Tocco,  Le  fonti  piti  recenti  della  filosofia  di 
Bruno,  «Rendiconti  della  R.  Accademia  dei  Lincei»  [Roma],  CI.  di  Scienze  mo- 
rali, storiche  e  filologiche,  s.  V,  I,  1892,  p.  611,  «a  questa  magnifica  divinazione 
della  teorica  delle  macchie  solari,  che  il  Galileo  molto  piìi  tardi  scopri,  il 
Bruno  applaude  senza  riserva». 


DIALOGO  TERZO  507 

re]  che  quella  più  lontana  sarebbe  anco  più  luminosa"'':  nella 
quale  se  noi  fussemo,  non  sarrebe  più  luminosa  a  gli  occhi  no- 
stri; come  essendo  in  questa  terra,  non  veggiamo  quel  suo  lume 
che  porge  a  quei  che  sono  ne  la  luna-'',  ij  quale  forse  è  maggior 
di  quello  che  lei  ne  rende  per  i  raggi  del  sole  nel  suo  liquido 
cristallo  diffusi.  Della  luce  particolare  del  sole  non  so  per  il  pre- 
sente se  si  debba  giudicar  secondo  il  medesmo  modo,  o  altro.  Or 
vedete  sin  quanto  siamo  trascorsi  da  quella  occasione:  mi  par 
tempo  di  rivenire  all'altre  parti  del  nostro  proposito. 

Smitho.  —  Sarà  bene  de  intendere  l'altre  pretensioni,  le  quali 
lui  ha  possute  apportare. 

La  terza  proposta  del  dottor  Nundinio 

Teofilo.  —  Disse  appresso  Nundinio  che  non  può  essere  ve- 
risimile che  la  terra  si  muove,  essendo  quella  il  mezzo  e  centro  [157] 
de  l'universo,  al  quale  tocca  essere  fisso  e  costante  fundamento 
d'ogni  moto''*'.  Rispose  il  Nolano,  che  questo  medesmo  può  dir 
colui  che  tiene  il  sole  essere  nel  mezzo  de  l'universo,  e  per  tanto 
inmobile  e  fisso,  come  intese  il  Copernico  et  altri  molti  che 
hanno  donato  termine  circonferenziale  a  l'universo:  di  sorte  che 
questa  sua  raggione  (se  pur  è  raggione)  è  nulla  centra  quelli,  e 
suppone  i  proprii  principii.  E  nulla  anco  contra  il  Nolano  il 
quale  vuole  il  mondo  essere  infinito,  e  però  non  esser  corpo  al- 
cuno in  quello  al  quale  simplicimente  convegna  essere  nel 
mezzo,  o  nell'estremo,  o  tra  que'  dua  termini:  ma  per  certe  rela- 
zioni ad  altri  corpi  e  termini  intenzionalmente  appresi  "'^. 

Smitho.  -  Che  vi  par  di  questo? 

Teofilo.  —  Altissimamente  detto;  per  che  come  di  corpi  na- 

44.  Bruno  ha,  nello  stesso  tempo,  ragione  e  torto:  ragione  perché  una  Luna 
più  lontana  non  eclisserebbe  il  Sole,  più  di  quanto  non  avvenga  con  Venere  e 
Mercurio,  fin  tanto  che  si  possono  osservare  ad  occhio  nudo;  d'altro  canto,  non 
si  capisce  come  essa  potrebbe  diventare  più  luminosa  in  modo  proporzionale 
alla  sua  distanza. 

45.  Cfr.  De  immenso,  I,  2  e  4,  Op.  lai.,  I,  i,  pp.  328,  341  (ed.  Monti  cit.,  pp. 
422-425  e  429-433).  -  Bruno  continua  a  seguire  Cusano  (De  docta  ignorantia,  II, 
12),  quando  è  questione  di  credere  che,  al  pari  della  Terra,  Sole  ed  astri  sono 
abitati. 

46.  Cfr.  Aristotele,  De  caelo,  segnatamente  II,  14,  296  b  21-26. 

47.  L'idea  era  stata  esposta  con  chiarezza  da  N.  Cusano,  De  docta  ignoran- 
tia,  II,  11-12  (ed.  Federici-Vescovini  cit.,  pp.  145-147).  Il  passo  che  segue  è  ispi- 
rato direttamente  da  Cusano. 


508  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

turali  nessuno  si  è  verificato  semplicemente  rotondo,  e  per  con- 
seguenza aver  semplicemente  centro,  cossi  anco  de  moti  che  noi 
veggiamo  sensibile  e  fisicamente  ne'  corpi  naturali,  non  è  al- 
cuno che  di  gran  lunga  non  differisca  dal  semplicemente  circu- 
lare  e  regolare  circa  qualche  centro:  fòrzensi  quantosivoglia  co- 
lor che  fingono  queste  borre  et  empiture  de  orbi  disuguali,  di 
diversità  de  diametri,  et  altri  empiastri  e  recettarii  per  medicar 
la  natura  sin  tanto  che  venga  al  servizio  di  maestro  Aristotele, 
o  d'altro,  a  conchiudere  che  ogni  moto  è  continuo  e  regolare 
circa  il  centro-**^.  Ma  noi  che  guardamo  non  a  le  ombre  fantasti- 
che, ma  a  le  cose  medesme;  noi  che  veggiamo  un  corpo  aereo, 
[159]  etereo,  spirituale,  liquido,  capace  loco  di  moto  e  di  quiete,  sino 
immenso  et  infinito  (il  che  dovamo  affermare  al  meno  perché 
non  veggiamo  fine  alcuno  sensibilmente,  né  razionalmente),  e 
sappiamo  certo  che  essendo  effetto  e  principiato  da  una  causa 
infinita  e  principio  infinito,  deve  secondo  la  capacità  sua  corpo- 
rale e  modo  suo  essere  infinitamente  infinito"**^.  E  son  certo  che 
non  solamente  a  Nundinio,  ma  ancora  a  tutti  i  quali  sono  pro- 
fessori de  l'intendere,  non  è  possibile  giamai  di  trovar  raggione 
semiprobabile  per  la  quale  sia  margine  di  questo  universo  cor- 
porale; e  per  conseguenza  ancora  li  astri  che  nel  suo  spacio  si 
contengono,  siino  di  numero  finito;  et  oltre  essere  naturalmente 
determinato  cento  e  mezzo  di  quello. 

Smitho.  —  Or  Nundinio  aggiunse  qualche  cosa  a  questo?  ap- 
portò qualche  argomento,  o  verisimilitudine,  per  inferire  che 
l'universo  prima  sii  finito;  secondo,  che  abbia  la  terra  per  suo 
mezzo;  terzo,  che  questo  mezzo  sii  in  tutto  e  per  tutto  inmobile 
di  moto  locale? 

Teofilo.  -  Nundinio,  come  colui  che  quello  che  dice,  lo  dice 
per  una  fede  e  per  una  consuetudine,  e  quello  che  niega,  lo 
niega  per  una  dissuetudine  e  novità,  come  è  ordinario  di  que' 
che  poco  considerano  e  non  sono  superiori  alle  proprie  azzioni, 
tanto  razionali  quanto  naturali,  rimase  stupido  et  attonito: 
come  quello  a  cui  di  repente  appare  nuovo  fantasma.  Come 
quello  poi  che  era  alquanto  più  discreto  e  men  borioso  e  mali- 

48.  Allusione  critica  all'assioma  del  moto  circolare  uniforme,  sul  quale  To- 
lomeo, al  pari  di  Copernico,  fonda  la  scienza  astronomica.  Una  critica  analoga 
si  trovava  già  in  Cusano. 

49.  Il  tema  è  abbondantemente  sviluppato  nei  dialoghi  De  l'infinito. 


DIALOGO  TERZO  50g 

gno  ch'il  suo  compagno,  tacque  e  non  aggiunse  paroli  ove  non 
posseva  aggiongere  raggioni. 

Frulla.  —  Non  è  cossi  il  dottor  Torquato:  il  quale  o  a  torto  o 
a  raggione,  o  per  Dio  o  per  il  diavolo,  la  vuol  sempre  combat-  [i6i] 
tere;  quando  ha  perso  il  scudo  da  defendersi  e  la  spada  da  of- 
fendere, dico  quando  non  ha  più  risposta  né  argumento,  salta 
ne'  calci  de  la  rabbia,  acuisce  l'unghie  de  la  detrazzione,  ghigna 
i  denti  delle  ingiurie,  spalanca  la  gorgia  de  i  clamori:  a  fin  che 
non  lascie  dire  le  raggioni  contrarie,  e  quelle  non  pervengano  a 
l'orecchie  de  circostanti,  come  ho  udito  dire. 

Smitho.  -  Dumque  non  disse  altro. 

Teofilo.  -  Non  disse  altro  a  questo  proposito,  ma  entrò  in 
un'altra  proposta. 

Quarta  proposta  del  Nundinio 

Per  che  il  Nolano  per  modo  di  passaggio  disse  essere  terre 
innumerabili  simile  a  questa,  or  il  dottor  Nundinio,  come  bon 
disputante,  non  avendo  che  cosa  aggiongere  al  proposito,  co- 
mincia a  dimandar  fuor  di  proposito;  e  da  quel  che  diceamo 
della  mobilità  o  immobilità  di  questo  globo,  interroga  della 
qualità  de  gli  altri  globi,  e  vuol  sapere  di  che  materia  fusser 
quelli  corpi  che  son  stimati  di  quinta  essenzia:  d'una  ma- 
teria inalterabile  et  incorrottibile,  di  cui  le  parti  più  dense  son 
le  stelle  50. 

Frulla.  —  Questa  interrogazione  mi  par  fuor  di  proposizio^', 
benché  io  non  m'intendo  di  logica. 

Teofilo.  -  Il  Nolano  per  cortesia  non  gli  volse  improperar 
questo;  ma  dopo  avergli  detto  che  gli  arebbe  piaciuto  che  Nun- 
dinio seguitasse  la  materia  principale,  o  che  interrogasse  circa 
quella,  gli  rispose  che  li  altri  globi  che  son  terre,  non  sono  in   [163] 

50.  I  naturales  medievali,  ed  anche  altri  autori  del  XVI  secolo,  credevano, 
in  effetti,  che  i  pianeti  (e  le  stelle)  fossero  parti  più  dense  del  resto  della  loro 
orbita  o  sfera.  Si  veda,  ad  esempio,  Tommaso  d'Aquino,  In  Aristotelis  libros  de 
Coelo  et  Mundo,  lib.  II,  lect.  io:  «Rarum  et  densum  invenitur  in  corporibus 
caelestibus,  secundum  quod  astra  sunt  spissiora  ...  quam  sphaerae  eorum». 
-  Sulla  «quinta  essenzia»  (termine  che  non  appartiene  al  vocabolario  di  Ari- 
stotele, che  parla  piuttosto  di  «primo  corpo»  e  di  «etere»),  cfr.  Aristotele, 
De  caelo,  I,  3. 

51.  Nel  linguaggio  maccheronico  di  Frulla  «proposizio»  sta  per  «pro- 
posito». 


510  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

punto  alcuno  differenti  da  questo  in  specie:  solo  in  esser  più 
grandi  e  piccioli,  come  ne  le  altre  specie  d'animali  per  le  diffe- 
renze individuali  accade  inequalità;  ma  quelle  sfere  che  son 
foco  come  è  il  sole,  per  ora  crede  che  differiscono  in  specie  come 
il  caldo  e  freddo:  lucido  per  sé  e  lucido  per  altro. 

Smitho.  -  Perché  disse  creder  questo  per  ora,  e  non  lo  af- 
finilo assolutamente? 

Teofilo.  -  Temendo  che  Nundinio  lasciasse  ancora  la  que- 
stione che  novamente  aveva  tolta,  e  si  afferasse  et  attaccasse  a 
questa.  Lascio  che  essendo  la  terra  un  animale  5^,  e  per  conse- 
guenza un  corpo  dissimilare,  non  deve  esser  stimata  un  corpo 
freddo  per  alcune  parti  massimamente  esteme  eventilate  da 
l'aria,  che  per  altri  membri,  che  son  gli  più  di  numero  e  di 
grandezza,  debba  esser  creduta  e  calda  e  caldissima.  Lascio  an- 
cora che  disputando  con  supponere  in  parte  i  principii  de 
l'adversario  il  quale  vuol  essere  stimato  e  fa  professione  di  pe- 
ripatetico, et  in  un'altra  parte  i  principii  proprii,  e  gli  quali  non 
son  concessi  ma  provati,  la  terra  verrebbe  ad  esser  cossi  calda 
come  il  sole  in  qualche  comparazione. 

Smitho.  -  Come  questo? 

Teofilo.  —  Per  che  (per  quel  che  abbiamo  detto)  dal  svani- 
mento delle  parti  oscure  et  opache  del  globo,  e  dalla  unione 
delle  parti  cristalline  e  lucide,  si  viene  sempre  alle  reggioni  più 
e  più  distante  a  diffondersi  più  e  più  di  lume.  Or  se  il  lume  è 
causa  del  calore  (come,  con  esso  Aristotele 5',  molti  altri  affer- 


52.  Cfr.  De  la  causa.  Dialogo  secondo,  p.  649,  dove  gli  astri  sono  chiamati 
«grandi  animali».  Come  ha  osservato  P.  H.  Michel,  «già  Leonardo  da  Vinci 
aveva  affermato  che  la  Terra  era  un  animale»  (G.  Bruno  et  le  système  de  Coper- 
nic  d'après  la  «Cène  des  Cendres».  in:  Pensée  humaniste  et  tradition  chrétienne  aux 
XV  et  XVr  siècles,  Paris,  1950,  p.  327  e  Io.,  La  cosmologie  de  Bruno,  Paris,  1962, 
pp.  286  e  segg.).  Ma  molti  altri  autori  come  Ficino  e  Fracastoro  condividevano 
l'idea. 

53.  Infatti,  Aristotele  crede  che  il  calore  e  la  luce  provenienti  dal  cielo  (in 
particolar  misura  dal  Sole,  di  per  sé  privo  di  calore  «per  natura»)  siano  dovuti 
all'attrito  con  l'aria  della  sfera  che  trasporta  il  Sole:  cfr.  De  caelo,  II,  7,  289  a  19 
e  segg.;  MeteoroL,  I,  3,  341  a  17  e  segg.  Siffatta  spiegazione  ha  messo  assai  presto 
in  difficoltà  commentatori  quali  Simplicio  e  Averroé.  Quest'ultimo  scrive,  ad 
esempio,  nel  Sermo  de  siibstantia  orbis.  cap.  2:  «Et  expositores  ...  dicunt  quod 
lux,  in  eo  quod  lux,  videtur  calefacere  quando  reflectitur»  (cfr.  Aristotelis  opera 
cum  Averrois  commentariis,  Venetiis,  1562  [rist.  anastatica,  Frankfurt  a.  M.,  voi. 
9,  1962,  fol.  8A]),  ma  aggiunge  di  non  condividere  questa  tesi.  La  dottrina  se- 
condo la  quale  la  luce  è  causa  del  calore  sarà  infatti  difesa  da  commentatori 
«infedeli»  al  pensiero  di  Aristotele  o  apertamente  anti-aristotelici,  come  Pa- 


DIALOGO  TERZO  5II 

mano  i  quali  vogliono  che  anco  la  luna  et  altre  stelle  per  mag- 
gior e  minor  participazione  di  luce  son  più  e  meno  calde:  onde 
quando  alcuni  pianeti  son  chiamati  freddi,  vogliono  che  se  in-  [165] 
tenda  per  certa  comparazione  e  rispetto)^'',  avverrà  che  la  terra 
co  gli  raggi  che  ella  manda  alle  lontane  parti  de  l'eterea  reg- 
gione,  secondo  la  virtù  della  luce,  venghi  a  comunicar  altre- 
tanto  di  virtù  di  calore.  Ma  a  noi  non  costa  che  una  cosa  per 
tanto  che  è  lucida,  sii  calda:  per  che  veggiamo  appresso  di  noi 
molte  cose  lucide  ma  non  calde.  Or  per  tornare  a  Nundinio: 
ecco  che  comincia  a  mostrar  i  denti,  allargar  le  mascelle,  stren- 
ger  gli  occhi,  rugar  le  ciglia,  aprir  le  narici,  e  mandar  un  crocito 
di  cappone  per  la  canna  del  polmone;  acciò  che  con  questo  riso 
gli  circostanti  stimassero  che  lui  la  intendeva  bene,  lui  avea 
raggione:  e  quell'altro  dicea  cose  ridicole. 

Frulla.  —  E  che  sia  il  vero,  vedete  come  lui  se  ne  rideva? 

Teofilo.  -  Questo  accade  a  quello  che  dona  confetti  a  porci. 
Dimandato  perché  ridesse,  rispose  che  questo  dire  et  imaginarsi 
che  siino  altre  terre,  che  abbino  medesme  proprietà  et  accidenti, 
è  stato  tolto  dalle  Vere  narrazioni  di  Luciano.  Rispose  il  Nolano 
che  se  quando  Luciano  disse  la  luna  essere  un'altra  terra  cossi 
abitata  e  colta  come  questa,  venne  a  dirlo  per  burlarsi  di  que' 
filosofi  che  affermomo  essere  molte  terre  (e  particolarmente  la 
luna,  la  cui  similitudine  con  questo  nostro  globo  è  tanto  più 
sensibile,  quanto  è  più  vicina  a  noi),  lui  non  ebbe  raggione;  ma 
mostrò  essere  nella  comone  ignoranza  e  cecità''':  per  che  se  ben 
consideriamo  trovarremo  la  terra  e  tanti  altri  corpi  che  son 
chiamati  astri,  membri  principali  de  l'universo,  come  danno  la 

trizi,  Telesio  o  Campanella  che  —  negando  la  quinta  essenza  —  restituivano  al 
cielo  (ed  agli  astri)  luce  e  calore  (sul  problema,  cfr.  ora  L.  De  Franco,  La  teoria 
della  luce  di  B.  Telesio,  in:  Bernardino  Telesio  e  la  cultura  napoletana,  Napoli, 
1992,  pp.  53-77). 

54.  Sono  soprattutto  gli  astrologi  che,  prestando  qualità  terrestri  ai  pianeti, 
hanno  dovuto  escogitare  una  terminologia  che  preservasse  il  dogma  dell'etere, 
pur  smentendolo  nella  pratica:  cfr.  H.  Bouché-Leclerq,  L'astrologie  grecque 
(1899),  rist.  Bruxelles,  1963,  pp.  25-27. 

55.  Di  fatto,  Luciano  stesso  aveva  esplicitamente  dichiarato  l'intento  paro- 
dico delle  sue  teorie  (Historia  vera,  I,  2);  sul  modo  usato  da  Bnmo  per  interpre- 
tare Luciano,  cfr.  Acrotismus,  Op.  lat.,  I,  i,  p.  63.  Sulla  Historia  lucianea  e  la  sua 
fortuna,  fino  al  XVII  secolo,  si  veda  M.  H.  Nicolson,  Voyages  to  the  Moon,  New 
York,  1948.  Per  il  titolo  di  Vere  narrazioni,  cfr.  la  versione  di  Nicolò  da  Lo- 
NIGO,  /  L)ialoghi  piacevoli,  le  vere  narrationi,  le  facete  epistole  di  Luciano  philo- 
sopko,  in  Venetia,  1541. 


512  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

[167]  vita  e  nutrimento  alle  cose,  che  da  quelli  toglieno  la  materia  et 
a'  medesmi  la  restituiscano,  cossi  e  molto  maggiormente  hanno 
la  vita  in  sé:  per  la  quale,  con  una  ordinata  e  naturai  volontà, 
da  intrinseco  principio  se  muoveno  alle  cose  e  per  gli  spacii 
convenienti  ad  essi"'.  E  non  sono  altri  motori  estrinseci  che  col 
movere  fantastiche  sfere  vengano  a  trasportar  questi  corpi  come 
inchiodati  in  quelle:  il  che  se  fusse  vero,  il  moto  sarrebe  vio- 
lento fuor  de  la  natura  del  mobile,  il  motore  più  imperfetto,  il 
moto  et  il  motore  solleciti  e  laboriosi;  et  altri  molti  inconve- 
nienti s'aggiongerebbeno57.  Consideresi  dumque  che  come  il 
maschio  se  muove  alla  femina,  e  la  femina  al  maschio,  ogni 
erba  et  animale,  qual  piii  e  qual  meno  espressamente,  si  muove 
al  suo  principio  vitale,  come  al  sole  et  altri  astri;  la  calamita  se 
muove  al  ferro,  la  paglia  a  l'ambra,  e  finalmente  ogni  cosa  va  a 
trovar  il  simile,  e  fugge  il  contrario:  tutto  avviene  dal  suffi- 
ciente principio  interiore  per  il  quale  naturalmente  viene  ad 
esagitarse,  e  non  da  principio  esteriore  come  veggiamo  sempre 
accadere  a  quelle  cose  che  son  mosse  o  contra  o  extra  la  propria 
natura.  Muovensi  dumque  la  terra  e  gli  altri  astri  secondo  le 
proprie  differenze  locali  dal  principio  intrinseco  che  è  l'anima 
propria 58.  «Credete»  disse  Nundinio,  «che  sii  sensitiva  questa 
anima?»;  «Non  solo  sensitiva»  rispose  il  Nolano,  «ma  anco  in- 
tellettiva; non  solo  intellettiva  come  la  nostra,  ma  forse  anco 
più».  Qua  tacque  Nundinio  e  non  rise^^. 

Prudenzio.  —  Mi  par  che  la  terra  essendo  animata  deve  non 

56.  Su  questo  tema,  si  vedano  anche  i  numerosi  passaggi  del  De  immenso 
citati  e  commentati  da  P.  H.  Michel,  La  cosmologie  cit,  pp.  285-296. 

57.  Allusione  critica  alla  dottrina  aristotelica  delle  sfere  e  dei  loro  motori 
separati,  come  è  esposta  nel  Libro  XII,  cap.  8  della  Metaphysica.  Più  in  gene- 
rale, Bruno  rigetta,  nelle  righe  che  seguono,  il  principio  secondo  il  quale  «ora- 
ne quod  movetur  ab  aliquo  movetur».  —  Sull'immagine  dei  «corpi  come  in- 
chiodati» (o  altrimenti,  del  «nodo»),  cfr.  M.-P.  Lerner,  «Sicut  nodus  in  tabula». 
De  la  rotation  propre  du  soleil  an  XVF  siede,  «Journal  for  the  History  of  Astro- 
nomy»  [Cambridge],  11,  1980,  pp.  114-129. 

58.  Cfr.  De  l'infinito,  Dialogo  primo,  p.  54:  «essendo  infiniti  gli  mondi  ... 
quali  sono  le  terre,  li  fuochi  et  altre  specie  di  corpi  chiamati  astri,  tutti  se 
muoveno  dal  principio  intemo,  che  è  la  propria  anima  ...  e  però  è  vano  andar 
investigando  il  lor  motore  estrinseco».  Si  veda,  inoltre,  G.  Bruno,  Acrotismus, 
Op.  lai.,  l,  I,  p.  68;  De  immenso,  VI,  5,  Op.  lat.,  I,  2,  pp.  177-178  (ed.  Monti  cit, 
pp.  707-709).  M.  A.  Granada,  nella  sua  traduzione  della  Cena  (Madrid,  1994^, 
p.  39),  rimanda  qui  ad  Aristotele,  Phys.  Auscultat.,  192  b  21-23  ed  a  Pla- 
tone, Phaedrus,  245  e. 

59.  Nundinio  ammira  l'altezza  della  speculazione  bruniana  o  è  spaventato 
dal  suo  aspetto  eretico? 


DIALOGO  TERZO  513 

aver  piacere  quando  se  gli  fanno  queste  grotte  e  caverne  nel 
dorso,  come  a  noi  viene  dolor  e  dispiacere  quando  ne  si  pianta 
qualche  dente  là  o  ne  si  fora  la  carne.  [169] 

Teofilo.  -  Nundinio  non  ebbe  tanto  del  Prudenzio  che  po- 
tesse stimar  questo  argomento  degno  di  produrlo,  benché  gli 
fusse  occorso:  per  che  non  è  tanto  ignorante  filosofo,  che  non 
sappia  che  se  ella  ha  senso,  non  l'ha  simile  al  nostro;  se  quella 
ha  le  membra,  non  le  ha  simile  a  le  nostre;  se  ha  carne,  sangue, 
nervi,  ossa  e  vene,  non  son  simili  a  le  nostre;  se  ha  il  core,  non 
l'ha  simile  al  nostro:  cossi  de  tutte  l'altre  parti,  le  quali  hanno 
proporzione  a  gli  membri  de  l'altri  et  altri  che  noi  chiamiamo 
animali,  e  comunmente  son  stimati  solo  animali.  Non  è  tanto 
buono  Prudenzio  e  mal  medico  ^°  che  non  sappia  che  alla  gran 
mole  de  la  terra,  questi  sono  insensibilissimi  accidenti,  li  quali 
a  la  nostra  imbecillità  sono  tanto  sensibili.  E  credo  che  intenda 
che  non  altrimente  che  ne  gli  animali  quali  noi  conoscemo  per 
animali,  le  loro  parti  sono  in  continua  alterazione  e  moto,  et 
hanno  un  certo  flusso  e  reflusso,  dentro  accogliendo  sempre 
qualche  cosa  dall'estrinseco,  et  mandando  fuori  qualche  cosa  da 
l'intrinseco:  onde  s'allungano  l'unghie;  se  nutriscono  i  peli,  le 
lane  et  i  capelli;  se  risaldano  le  pelle,  s'induriscono  i  cuoii:  cossi 
la  terra  riceve  l'efflusso  et  influsso  delle  parti,  per  quali  molti 
animali  (a  noi  manifesti  per  tali)  ne  fan  vedere  espressamente 
la  lor  vita.  Come  è  più  che  verisimile  (essendo  che  ogni  cosa 
participa  de  vita),  molti  et  innumerabili  individui  vivono  non 
solamente  in  noi,  ma  in  tutte  le  cose  composte;  e  quando  veg- 
giamo  alcuna  cosa  che  se  dice  morire,  non  doviamo  tanto  cre- 
dere quella  morire,  quanto  che  la  si  muta,  e  cessa  quella  acci- 
dentale composizione  e  concordia,  rimanendono,  le  cose  che 
quella  incorreno,  sempre  inmortali:  più  quelle  che  son  dette  spi-  [171] 
rituali,  che  quelle  dette  corporali  e  materiali,  come  altre  volte 

60.  I  due  dottori  di  Oxford  con  cui  Bruno  si  trovò  a  disputare  erano,  con 
tutta  probabilità,  laureati  in  medicina:  prima  del  1619,  la  Facoltà  di  Medicina 
era  infatti  la  sola  facoltà  di  Oxford  che  assicurasse  un  insegnamento  superio- 
re di  astronomia  (cfr.  F.  R.  Johnson,  Astronomical  Thought  in  Renaissance 
England,  Baltimore,  1937,  pp.  11-12);  per  di  più  Bruno  stesso  aveva  dichia- 
rato, nel  costituto  del  3  giugno  1592,  che  la  disputa  si  era  svolta  «il  giorno 
delle  Ceneri,  con  dei  medici»  (cfr.  L.  Firpo,  E  processo  di  G.  Bruno,  a  cura  di 
D.  Quaglioni,  Roma,  1993,  p.  188). 


514  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

mostraremo^'.  Or  per  venire  al  Nolano,  quando  vedde  Nundi- 
nio  tacere,  per  risentirse  a  tempo  di  quella  derisione  nundinica, 
che  comparava  le  posizioni  del  Nolano  a  le  Vere  narrazioni  di 
Luciano,  espresse  un  poco  di  fiele,  e  li  disse  che  disputando  one- 
stamente non  dovea  riderse  e  burlarse  di  quello  che  non  può 
capire:  «che  se  io»  disse  il  Nolano,  «non  rido  per  le  vostre  fan- 
tasie, né  voi  dovete  per  le  mie  sentenze;  se  io  con  voi  disputo 
con  civilità  e  rispetto,  almeno  altretanto  dovete  far  voi  a  me:  il 
quale  vi  conosco  di  tanto  ingegno,  che  se  io  volesse  defendere 
per  verità  le  dette  narrazioni  di  Luciano,  non  sareste  sufficiente 
a  destruggerle».  Et  in  questo  modo  con  alquanto  di  còlerà  ri- 
spose al  riso:  dopo  aver  risposto  con  più  raggioni  alla  dimanda. 

Quinta  proposta  di  Nundinio 

Importunato  Nundinio  sì  dal  Nolano,  come  da  gli  altri,  che 
lasciando  le  questioni  del  perché,  e  come,  e  quale,  facesse  qual- 
che argomento... 

Prudenzio.  —  Per  quomodo  et  quare,  quilibet  asinus  novit  di- 
sputare^^. 

Teofilo.  —  ...  al  fine  fé'  questo  del  quale  ne  son  pieni  tutti 
cartoccini:  che  se  fusse  vero  la  terra  muoversi  verso  il  lato  che 
chiamiamo  oriente,  necessario  sarrebbe  che  le  nuvole  del  aria 
sempre  apparissero  discorrere  verso  l'occidente,  per  raggione  del 
velocissimo  e  rapidissimo  moto  di  questo  globo,  che  in  spacio 
[173]  di  vintiquattro  ore  deve  aver  compito  sì  gran  giro^^.  A  questo 
rispose  il  Nolano  che  questo  aere  per  il  quale  discorrono  le  nu- 
vole e  gli  venti,  è  parte  de  la  terra:  per  che  sotto  nome  di  terra 
vuol  lui  (e  deve  essere  cossi  al  proposito)  che  se  intenda  tutta  la 
machina  e  tutto  l'animale  intiero  che  costa  di  sue  parti  dissimi- 
lari: onde  gli  fiumi,  gli  sassi,  gli  mari,  tutto  l'aria  vaporoso  e 
turbulento  il  quale  è  rinchiuso  ne  gli  altissimi  monti,  appar- 
tiene a  la  terra  come  membro  di  quella,  o  pur  come  l'aria  ch'è 

61.  Niente  perisce,  tutto  si  trasforma.  Si  veda,  ad  esempio.  De  la  causa.  Dia- 
logo secondo,  p.  665  che  si  rifa  ad  Ecclesiaste,  I,  9:  «Quanto  è  stato,  sarà;  / 
quanto  si  è  fatto  si  rifarà;  /  non  ce  nulla  di  nuovo  sotto  il  sole». 

62.  «A  forza  di  quomodo  e  di  qua  re,  qualsiasi  asino  sa  disputare». 

63.  La  difficoltà  era  stata  sottolineata  (e  respinta)  da  Copernico  in  De  revo- 
luHonibus,  I,  7  e  8,  ed.  Barone  cit,  pp.  196-198,  dove  sono  citati  Aristotele  e 
Tolomeo. 


DIALOGO  TERZO  5 15 

nel  pulmone  et  altre  cavità  de  gli  animali,  per  cui  respirano,  se 
dilatano  le  arterie,  et  altri  effetti  necessari!  a  la  vita  s'adempi- 
scono. Le  nuvole  dumque  da  gli  accidenti  che  son  nel  corpo  de 
la  terra,  si  muoveno  e  son  come  nelle  viscere  de  quella,  cossi 
come  le  acqui.  Questo  lo  intese  Aristotele  nel  primo  de  la  Me- 
teora, dove  dice  che  «questo  aere  che  è  circa  la  terra  umido  e 
caldo  per  le  exalazioni  di  quella,  ha  sopra  di  sé  un  altro  aere,  il 
quale  è  caldo  e  secco,  et  ivi  non  si  trovan  nuvole:  e  questo  aere 
è  fuori  della  circonferenza  de  la  terra,  e  di  quella  superfice  che 
la  definisce  a  fin  che  venga  ad  essere  perfettamente  rotonda;  e 
che  la  generazion  de  venti  non  si  fa  se  non  nelle  viscere  e  luo- 
chi  de  la  terra;  però  sopra  gli  alti  monti,  né  nuvole,  né  venti 
appaiono;  et  ivi  l'aria  si  muove  regolatamente  in  circolo,  come 
l'universo  corpo  m*^^.  Questo  forse  intese  Platone  all'or  che  disse 
noi  abitare  nelle  concavità  e  parte  oscure  de  la  terra;  e  che 
quella  proporzione  abbiamo  a  gli  animali  che  vivono  sopra  la 
terra,  la  quale  hanno  gli  pesci  a  noi  abitanti  in  un  umido  più 
grosso ''5.  Vuol  dire  che  in  certo  modo  questo  aria  vaporoso  è 
acqua;  et  il  puro  aria  che  contiene  più  felici  animali  è  sopra  la 
terra:  dove,  come  questo  Amfitrite^*^  è  acqua  a  noi,  cossi  questo  [175] 
nostro  aere  è  acqua  a  quelli.  Ecco  dumque  onde  si  può  rispon- 
dere a  l'argomento  referito  dal  Nundinio:  per  che  cossi  il  mare 
non  è  nella  superficie,  ma  nelle  viscere  de  la  terra,  come  l'epate 
fonte  de  gli  umori  è  [in]  noi;  questo  aria  turbolento  non  è  fuori 
ma  è  come  nel  polmone  de  gli  animali. 

Smitho.  -  Or  onde  avviene  che  noi  veggiamo  l'emisfero  in- 
tiero, essendo  che  abitiamo  ne  le  viscere  de  la  terra? 

Teofilo.  —  Da  la  mole  de  la  terra  globosa  non  solo  nella 
ultima  superficie,  ma  anco  in  quelle  che  sono  interiori,  accade 
che  alla  vista  de  l'orizonte  cossi  una  convessitudine  doni  loco  a 
l'altra '^^,  che  non  può  avvenire  quello  impedimento  qual  veg- 

64.  Cfr.  Aristotele,  MeteoroL,  340  b  25-341  a  1. 

65.  Cfr.  Platone,  Phaedo,  109  b-e. 

66.  Il  mare  (dal  nome  della  ninfa  marina,  figlia  di  Oceano  e  Teti,  sposa  di 
Nettuno). 

67.  «Bruno  vuol  dire  in  sostanza  che  le  depressioni  terrestri,  quando  sono 
profonde,  sono  solitamente  anche  molto  vaste,  e  chi  si  trova  in  esse  non  perde 
la  visione  dell'intero  emisfero  celeste,  perché  le  alture  circostanti,  per  la  curva- 
tura terrestre,  non  recano  impedimento.  Ciò  entro  certi  limiti  può  essere  vero, 
ma  non  ha  alcun  carattere  di  rigorosa  generalità»:  L.  Firpo,  Scritti  scelti  di 


5i6 


LA  CENA  DE  LE  CENERI 


giamo  quando  tra  gli  occhi  nostri  et  una  part;e  del  cielo  se  in- 
terpone un  monte,  che  per  esseme  vicino  ne  può  togliere  la  per- 
fetta vista  del  circolo  de  l'orizonte.  La  distanza  dumque  di  cotai 
monti  i  quali  siegueno  la  convessitudine  de  la  terra,  la  quale 
non  è  piana  ma  orbicolare,  fa  che  non  ne  sii  sensibile  l'essere 
entro  le  viscere  de  la  terra;  come  si  può  alquanto  considerare 
nella  presente  figura ^^  dove  la  vera  superficie  de  la  terra  è  ABC, 


[FiG.  5] 

entro  la  quale  superficie  vi  sono  molte  particolari  del  mare  et 
altri  continenti:  come  per  essempio  M,  dal  cui  punto  non  meno 
veggiamo  l'intiero  emisfero,  che  dal  punto  A  et  altri  de  l'ultima 
superficie.  Del  che  la  raggione  è  da  dui  capi:  e  dalla  grandezza 
de  la  terra,  e  dalla  convessitudine  circunferenziale  di  quella;  per 
il  che  M  punto  non  è  in  tanto  impedito  che  non  possa  vedere 
[177]  l'emisfero:  perché  gli  altissimi  monti  non  si  vengono  ad  inter- 
porre al  punto  M  come  la  linea  M-B  (il  che  credo  accaderebbe 


G.  Bruno  e  di  T.  Campanella,  Torino,  1949,  p.  118,  nota  28.  -  «Globosa»:  latini- 
smo formato  a  partire  dal  vocabolario  di  Copernico. 

68.  Si  veda  la  figura  5.  La  linea  M-D  non  è  tracciata  correttamente  sulla 
figura  originale. 


DIALOGO  TERZO  517 

quando  la  superficie  della  terra  fusse  piana),  ma  come  la  linea 
M-C,  M-D.  la  quale  non  viene  a  caggionar  tale  impedimento, 
come  si  vede  in  virtù  de  l'arco  circonferenziale;  e  nota  d'avan- 
taggio  che  sì  come  si  referisce  M  ad  C  et  M  ad  D,  cossi  anco  K  si 
referisce  ad  M:  onde  non  deve  esser  stimato  favola  quel  che 
disse  Platone  delle  grandissime  concavità  e  seni  de  la  terra.         [179] 

Smitho.  -  Vorrei  sapere  se  quelli  che  sono  vicini  a  gli  altis- 
simi monti  patiscono  questo  impedimento  6''. 

Teofilo.  -  Non,  ma  quei  che  sono  vicini  a  monti  minori; 
per  che  non  sono  altissimi  gli  monti,  se  non  sono  medesma- 
mente  grandissimi  in  tanto,  che  la  loro  grandezza  è  insensibile 
alla  nostra  vista:  di  modo  che  vengono  con  quello  ad  compren- 
dere più,  e  molti  orizonti  artificiali,  ne  i  quali  gli  accidenti  de 
gli  uni  non  possono  donar  alterazione  a  gli  altri;  però  per  gli 
altissimi  non  intendiamo  come  l'Alpe  e  gli  Pirenei  e  simili:  ma 
come  la  Francia  tutta  ch'è  tra  dui  mari,  settentrionale  Oceano 
et  australe  Mediterraneo;  da  quai  mari  verso  l'Alvemia  sempre 
si  va  montando,  come  anco  da  le  Alpe  e  gli  Pirenei,  che  son 
stati  altre  volte  la  testa  d'un  monte  altissimo:  la  qual  venendo 
tutta  via  fracassata  dal  tempo  (che  ne  produce  in  altra  parte 
per  la  vicissitudine  de  la  rinovazione  de  le  parti  de  la  terra), 
forma  tante  montagne  particolari  le  quale  noi  chiamiamo 
monti.  Però  quanto  a  certa  instanzia  che  produsse  Nundinio  de 
gli  monti  di  Scozia,  dove  forse  lui  è  stato,  mostra  che  lui  non 
può  capire  quello  che  se  intende  per  gli  altissimi  monti:  per  che 
secondo  la  verità,  tutta  questa  isola  Britannia  è  un  monte  che 
alza  il  capo  sopra  l'onde  del  mare  Oceano:  del  qual  monte  la 
cima  si  deve  comprendere  nel  loco  più  eminente  de  l'isola;  la 
qual  cima,  se  gionge  alla  parte  tranquilla  de  l'aria,  viene  a  pro- 
vare che  questo  sii  uno  di  que'  monti  altissimi,  dove  è  la  reg- 
gione  de  forse  più  felici  animali.  Alessandro  Afrodiseo  raggiona 
del  monte  Olimpo,  dove  per  esperienza  delle  ceneri  de  sacrificii, 
mostra  la  condizion  del  monte  altissimo  e  de  l'aria  sopra  i  con- 
fini e  membri  de  la  terra^*^.  [181] 


69.  La  discussione  sull'altezza  dei  monti  aveva  un  suo  posto  nelle  discussio- 
ni sulla  rotondità  della  Terra.  Si  vedano  le  numerose  osservazioni  di  Pantin, 
nella  traduz.  francese  di  G.  Galilée,  Sidereiis  nuncius.  Le  Messager  celeste,  Paris, 
1992,  pp.  70-72,  nota  69. 

70.  Narrava  la  leggenda  che  le  lettere,  tracciate  nella  cenere  dei  sacrifici 


5l8  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Smitho.  —  M'avete  sufficientissimamente  satisfatto,  et  alta- 
mente aperto  molti  secreti  de  la  natura,  che  sotto  questa  chiave 
sono  ascosi.  Da  quel  che  respondete  a  l'argomento  tolto  da  venti 
e  nuvole,  si  prende  ancora  la  risposta  del  altro,  che  nel  secondo 
libro  Del  cielo  e  mondo  apportò  Aristotele,  dove  dice  che  sarebbe 
impossibile  che  una  pietra  gittata  a  l'alto,  potesse  per  medesma 
rettitudine  perpendicolare  tornare  al  basso:  ma  sarrebbe  neces- 
sario che  il  velocissimo  moto  della  terra  se  la  lasciasse  molto  a 
dietro  verso  l'occidente''.  Perché  essendo  questa  proiezzione 
dentro  la  terra,  è  necessario  che  col  moto  di  quella  si  venga  a 
mutar  ogni  relazione  di  rettitudine  et  obliquità;  perché  è  diffe- 
renza tra  il  moto  della  nave,  e  moto  de  quelle  cose  che  sono  nella 
nave^^:  il  che  se  non  fusse  vero,  seguitarrebe  che  quando  la  nave 
corre  per  il  mare  giamai  alcuno  potrebbe  trarre  per  dritto  qual- 
che cosa  da  un  canto  di  quella  a  l'altro,  e  non  sarebbe  possibile 
che  un  potesse  far  un  salto  e  ritornare  co'  pie  onde  le  tolse. 

[Teofilo].  —  Con  la  terra  dumque  si  muoveno  tutte  le  cose 
che  si  trovano  in  terra;  se  dumque  dal  loco  extra  la  terra  qual- 
che cosa  fusse  gittata  in  terra,  per  il  moto  di  quella  perderebbe 
la  rettitudine.  Come  appare  nella  nave  AB''^:  la  qual  passando 


eseguiti  sulla  sommità  del  monte,  erano  state  ritrovate  intatte  un  anno  dopo, 
provando  così  la  perenne  imperturbabilità  dell'aria,  a  quelle  altitudini.  L'aned- 
doto è  ben  conosciuto:  cfr.  ad  esempio  Plutarco,  fragm.  191  Sandbach;  Ales- 
sandro DI  Afrodisia,  In  Aristotelis  metereologica,  ed.  Hayduck,  p.  16.12  e  segg.; 
FiLOPONO,  In  Aristotelis  metereologica,  ed.  Hayduck,  p.  26.32-37.3;  Olimpiodoro, 
In  Aristotelis  metereologica,  ed.  Stùve,  p.  22.27-23.  Esso  è  stato  ripreso  da  quasi 
tutti  i  commentatori  rinascimentali. 

71.  Cfr.  Aristotele,  De  caelo,  II,  14,  296  b  21. 

72.  «Bruno  condanna  con  assoluta  chiarezza  la  fallacia  sulla  quale  posa 
l'argomentazione  classica  contro  il  moto  della  Terra»:  P.  Duhem,  Éttides  sur 
Léonard  de  Vinci,  Paris,  1913  (rist.  1984,  voi.  3,  pp.  257-258,  con  la  traduz.  fran- 
cese di  questi  passi). 

73.  La  figura  6  non  corrisponde  esattamente  alle  indicazioni  contenute  nel 
testo.  Non  esibisce  nessuna  delle  lettere  ivi  menzionate  e,  cosa  che  più  conta, 
non  è  possibile  riscontrarvi  nessuno  degli  elementi  descritti  nel  testo.  A  detta 
di  E.  GosSELiN  e  L.  Lerner,  The  Ash  Wednesday  Supper  (La  cena  de  le  Ceneri), 
traduz.  inglese,  Hamden,  1977,  pp.  44  e  segg.,  questa  mancata  corrispondenza 
sarebbe  intenzionale:  l'obiettivo  di  Bruno  non  sarebbe  stato  d'illustrare  l'argo- 
mento della  caduta,  servendosi  della  figura,  ma  di  pubblicare  un  messaggio 
politico,  «un  messaggio  di  pace  del  re  di  Francia  indirizzato  alla  regina  d'In- 
ghilterra»! Questo  tipo  di  interpretazione,  che  oltrepassa  i  limiti  del  ragione- 
vole in  relazione  ad  una  lettura  «ermetizzante»  e  «mistica»  della  cosmologia 
bruniana  -  una  linea  interpretativa  inaugurata  da  F.  A.  Yates  —  è  stata  criti- 
cata, da  un  punto  di  vista  generale,  da  Westman  nel  suo  studio  Magical  Re- 
form  and  Astronomical  Reform:  the  Yates  Thesis  Reconsidered,  in  R.  S.  West- 
MAN-J.  E.  Me  Guire,  Hermeticism  and  the  Scientific  Revolution.  Papers  read  ut  a 


DIALOGO  TERZO 


519 


per  il  fiume,  se  alcuno  che  se  ritrova  ne  la  sponda  di  quello  C 
venga  a  gittar  per  dritto  un  sasso,  verrà  fallito  il  suo  tratto  per 
quanto  comporta  la  velocità  del  corso.  Ma  posto  alcuno  sopra 


[FiG.  61 

l'arbore  di  detta  nave,  che  corra  quanto  si  voglia  veloce,  non 
fallirà  punto  il  suo  tratto  ^-^i  di  sorte  che  per  dritto  dal  punto  E, 
che  è  nella  cima  de  l'arbore  o  nella  gabbia,  al  punto  D,  che  è 
nella  radice  de  l'arbore,  o  altra  parte  del  ventre  e  corpo  di  detta  [183] 


Clark  Library  Seminar,  March  g,  1974  (William  Andrew  Clark  Memorial  Li- 
brary), Los  Angeles,  1977,  pp.  1-89,  segnatamente  pp.  5-40  (un  riassunto  del 
dibattito  in  E.  Me  Mullin,  Bruno  and  Copernicus  cit,  pp.  62  e  segg.;  si  veda 
inoltre  G.  Aquilecchia,  Schede  brimiane  cit,  Appendice  I,  pp.  375-377  e  Id.,  Le 
opere  italiane  di  G.  Bruno:  Critica  testuale  e  oltre.  Napoli,  1991,  pp.  82-85). 

74.  Cfr.  G.  Mormino  in  G.  Aquilecchia,  «La  cena  de  le  Ceneri»  cit,  p.  693: 
«L'immagine  della  nave  è  ...  servita  a  Bruno  per  operare  una  marcata  relati- 
vizzazione  delle  categorie  di  spazio  e  moto  ...  L'impasse  nella  quale,  secondo  il 
giovane  Newton,  si  trova  Descartes  è  già  presente  in  nuce  nell'opera  di  Bruno  e 
la  strada  per  uscirne  era  quella  che  avrebbe  portato  all'enunciazione  del  prin- 
cipio di  inerzia  nella  specifica  forma  datagli  da  Newton  ...  L'avvenuto  supera- 
mento del  relativismo  viene  da  Newton  sottolineato  prendendo  come  esempio 
di  spostamento  assoluto  proprio  il  moto  di  una  nave  sul  mare,  vale  a  dire  il 
modello  irrinunciabile  di  ogni  argomentazione  relativistica». 


520  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

nave,  la  pietra  o  altra  cosa  grave  gittata  non  vegna''^.  Cossi  se  dal 
punto  D  al  punto  E  alcuno  che  è  dentro  la  nave  gitta  per  dritto 
una  pietra,  quella  per  la  medesma  linea  ritomarà  a  basso,  muo- 
vasi quantosivoglia  la  nave,  pur  che  non  faccia  de  gl'inchini. 

Smitho.  —  Dalla  considerazione  di  questa  differenza  s'apre  la 
porta  a  molti  et  importantissimi  secreti  di  natura  e  profonda  fi- 
losofia: atteso  che  è  cosa  molto  frequente  e  poco  considerata, 
quanto  sii  differenza  da  quel  che  uno  medica  se  stesso,  e  quel  che 
vien  medicato  da  un  altro;  assai  ne  è  manifesto  che  prendemo 
maggior  piacere  e  satisfazzione  se  per  propria  mano  venemo  a 
cibarci,  che  se  per  l'altrui  braccia.  I  fanciulli  all'or  che  possono 
adoprar  gli  proprii  instrumenti  per  prendere  il  cibo,  non  volen- 
tieri si  servono  de  gli  altrui:  quasi  che  la  natura  in  certo  modo  gli 
faccia  apprendere,  che  come  non  v'è  tanto  piacere,  non  v'è  anco 
tanto  profitto.  I  fanciullini  che  poppano,  vedete  come  s'appiglia- 
no con  la  mano  a  la  poppa?  Et  io  giamai  per  latrocinio  son  stato 
sì  fattamente  atterrito,  quanto  per  quello  d'un  domestico  servi- 
tore: per  che  non  so  che  cosa  di  ombra  e  di  portento  apporta  seco 
più  un  familiare  che  un  strangiero,  per  che  referisce  come  una 
forma  di  mal  genio  e  presagio  formidabile. 

Teofilo.  —  Or  per  tornare  al  proposito:  se  dumque  saranno 
dui,  de  quali  l'uno  si  trova  dentro  la  nave  che  corre,  e  l'altro  fuori 
di  quella,  de  quali  tanto  l'uno  quanto  l'altro  abbia  la  mano  circa 
il  medesmo  punto  de  l'aria;  e  da  quel  medesmo  loco  nel  mede- 

75.  Secondo  F.  R.  Johnson-S.  V.  Larkey,  Thomas  Digges:  the  Copernican 
System  and  the  Idea  of  Infinity  of  the  Universe,  «The  Huntington  Library  Bulle- 
tin»  [San  Marino  Cai.],  n.  5,  1934,  p.  99,  l'esempio  del  peso  lasciato  cadere  dalla 
«cima  de  l'arbore»  era  stato  già  utilizzato  da  Th.  Digges  nella  sua  Perfit  De- 
scription  of  the  Caelestial  Orbes  in  appendice  all'edizione  del  1576  della  Progno- 
stication  euerlastinge  del  padre  Léonard,  d^"^.  Ma  Digges  aveva  già  fatto  riferimen- 
to al  principio  della  relatività  nella  sua  opera,  menzionando  lo  strato  «basso» 
di  aria  che  appartiene  alla  Terra.  L'esempio  del  peso  lasciato  cadere  dalla  som- 
mità dell'albero  sul  ponte  di  una  nave,  il  cui  movimento  -  rettilineo  —  «by 
discours  of  reason»  dev'essere  «mixte»  (circolare  e  rettilineo),  serve  a  Digges 
per  confutare  l'opinione  peripatetica  che  vuole  il  movimento  di  un  corpo  sem- 
plice, a  sua  volta  semplice.  L'argomento  di  Bnmo  è  ripreso  da  G.  Galilei, 
Dialogo  sopra  i  massimi  sistemi.  Seconda  giornata,  ed.  Brunetti  cit,  voi.  H,  pp. 
198-199.  -  Per  contro,  l'esempio  del  sasso  gettato  sulla  nave  dall'esterno  non 
ha  precedenti.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Introduzione  a  G.  Bruno,  La  cena  de  le 
Ceneri,  Torino,  1955,  pp.  41-44  (ora  in  Io.,  Schede  bruniane  cit,  pp.  83-85);  ID., 
Possible  Brunian  Echoes  in  Galileo,  «Nouvelles  de  la  République  des  Lettres» 
[Napoli],  XIV,  1995,  pp.  11-17;  Id.,  Bruno  at  Oxford,  in:  Giordano  Bruno  1583- 
1585.  The  English  Experience,  Firenze,  1997,  pp.  118-121  (nonché  M.  A.  Gra- 
NADA,  Digges,  Bruno  e  il  copernicanesimo  in  Inghilterra,  ivi,  pp.  125-155). 


DIALOGO  TERZO  521 

smo  tempo  ancora,  l'uno  lascie  scorrere  una  pietra,  e  l'altro  un'al-  [185] 
tra,  senza  che  gli  donino  spinta  alcuna:  quella  del  primo  senza 
perdere  punto  né  deviar  da  la  sua  linea,  verrà  al  prefisso  loco;  e 
quella  del  secondo  si  trovarrà  tralasciata  a  dietro.  Il  che  non  pro- 
cede da  altro,  eccetto  che  la  pietra  che  esce  dalla  mano  del  uno 
che  è  sustentato  da  la  nave,  e  per  consequenza  si  muove  secondo 
il  moto  di  quella,  ha  tal  virtù  impressa"''  quale  non  ha  l'altra  che 
procede  da  la  mano  di  quello  che  n'è  di  fuora,  benché  le  pietre 
abbino  medesma  gravità,  medesmo  aria  tramezzante,  si  partano 
(se  possibil  fia)  dal  medesmo  punto,  e  patiscano  la  medesma 
spinta.  Della  qual  diversità  non  possiamo  apportar  altra  raggio- 
ne,  eccetto  che  le  cose  che  hanno  fissione  o  simili  appartinenze 
nella  nave,  si  moveno  con  quella:  e  la  una  pietra  porta  seco  la  [187] 
virtù  del  motore,  il  quale  si  muove  con  la  nave;  l'altra  di  quello 
che  non  ha  detta  participazione.  Da  questo  manifestamente  si 
vede  che  non  dal  termine  del  moto  onde  si  parte,  né  dal  termine 
dove  va,  né  dal  mezzo  per  cui  si  move,  prende  la  virtù  d'andar 
rettamente:  ma  da  l'efficacia  de  la  virtù  primieramente  impressa, 
dalla  quale  depende  la  differenza  tutta^^.  E  questo  mi  par  che 
basti  aver  considerato  quanto  alle  proposte  di  Nundinio. 

Smitho.  -  Or  domani  ne  revedremo  per  udir  gli  propositi 
che  soggionse  Torquato. 

Prudenzio.  -  FiaP^. 

Fine  del  terzo  dialogo  [189] 

76.  Cfr.  L.  Cozzi,  E  lessico  scientifico  nel  dialogo  del  Rinascimento,  in:  B  dia- 
logo filosofico  nel  '500  europeo,  a  cura  di  D.  Bigalli  e  G.  Canziani,  Milano,  1990, 
p.  71:  «Il  sintagma  "virtù  impressa"  corrisponde  aìVimpetus  impressus  dei  filo- 
sofi parigini  del  Trecento,  che  avevano  sviluppato  la  fisica  aristotelica  in  una 
concezione  più  moderna  della  dinamica  e  della  cinematica». 

yy.  Cfr.  A.  Kovré,  Etudes  galiléennes,  Paris,  1966  (traduz.  di  M.  Torrini,  To- 
rino, 1979,  pp.  172-183)  che  esalta,  a  proposito  di  questo  passo  della  Cena  (pro- 
babilmente noto  a  Galileo)  «la  novità  del  ragionamento  di  Bruno»  in  rapporto 
a  quello  di  Copernico.  A  p.  175,  Koyré  sostiene  che  la  descrizione  bruniana  dei 
movimenti  di  caduta  («naturali»)  o  dei  lanci  («violenti»)  effettuati  sulla  nave 
che  scivola  sulla  superficie  dell'acqua  si  rifa  all'idea  di  «sistema  meccanico», 
vale  a  dire  «di  un  insieme  di  corpi  uniti  dalla  loro  partecipazione  a  un  movi- 
mento comune».  Cfr.  anche  M.  Clagett,  La  scienza  della  meccanica  nel  Me- 
dioevo, traduz.  di  L.  Sosio,  Milano,  1972,  pp.  727-728  e  passim.  M.  Clavelin  nota, 
nondimeno,  due  lacune  nel  ragionamento  peraltro  originale  e  profondo  di 
Bruno:  i)  egli  non  enuncia  il  principio  di  conservazione  del  moto;  2)  egli  ignora 
poi  che  il  sistema  meccanico  dev'essere  dotato  di  un  moto  rettilineo  e  uniforme 
(cfr.  La  philosophie  naturelle  de  Galilée,  Paris,  1968,  p.  259,  nota). 

78.  «E  sia». 


DIALOGO  QUARTO 


Smitho.  —  Volete  ch'io  vi  dica  la  causa?' 

Teofilo.  -  Ditela  pure. 

Smitho.  —  Perché  la  divina  scrittura  (il  senso  della  quale  ne 
deve  essere  molto  raccomandato  come  cosa  che  procede  da  in- 
telligenze superiori  che  non  errano)  in  molti  luoghi  accenna  e 
suppone  il  contrario. 

Teofilo.  —  Or  quanto  a  questo  credetemi  che  se  gli  Dei  si 
fussero  degnati  d'insegnarci  la  teorica  delle  cose  della  natura, 
come  ne  han  fatto  favore  di  proporci  la  prattica  di  cose  morali, 
io  più  tosto  mi  accostarci  alla  fede  de  le  loro  revelazioni,  che 
muovermi  punto  della  certezza  de  mie  raggioni  e  proprii  senti- 
menti 2.  Ma  (come  chiarissimamente  ogn'uno  può  vedere)  nelli 
divini  libri  in  servizio  del  nostro  intelletto  non  si  trattano  le 
demostrazioni  e  speculazioni  circa  le  cose  naturali,  come  se 
fusse  filosofia:  ma  in  grazia  de  la  nostra  mente  et  affetto,  per  le 
leggi  si  ordina  la  prattica  circa  le  azzione  morali.  Avendo  dum- 
que  il  divino  legislatore^  questo  scopo  avanti  gli  occhii,  nel 
resto  non  si  cura  di  parlar  secondo  quella  verità  per  la  quale 
non  profittarebbono  i  volgari  per  ritrarse  dal  male  et  appi- 
[191I  gliarse  al  bene:  ma  di  questo  il  pensiero  lascia  a  gli  uomini  con- 
templativi; e  parla  al  volgo  di  maniera  che  secondo  il  suo  modo 
de  intendere  e  di  parlare,  venghi  a  capire  quel  ch'è  principale^. 


1.  Vale  a  dire  il  perché  ci  si  opponga  alla  mobilità  della  Terra. 

2.  Argomento  ripreso  da  Galilei  nella  sua  Lettera  a  Madama  Cristina  di  Lo- 
rena, in  Opere,  a  cura  di  F.  Brunetti,  Torino,  voi.  I,  1980^,  p.  553.  Cfr.  S.  Tim- 
panaro, Scritti  di  storia  e  critica  della  scienza,  Firenze,  1952,  pp.  104-105  e 
G.  Aquilecchia,  Introduzione  a  G.  Bruno,  La  cena  de  le  Ceneri,  Torino,  1955, 
p.  20  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana  [Roma],  1993,  p.  70). 

3.  Mosè. 

4.  Nella  Somma  teologica,  I,  q.  68,  art  3  e  q.  70,  art.  i,  traduz.  e  commen- 
to a  cura  dei  Domenicani  italiani,  testo  latino  dell'Edizione  Leonina,  Firenze, 


DIALOGO  QUARTO  523 

Smitho.  —  Certo  è  cosa  conveniente,  quando  uno  cerca  di  far 
istoria  e  donar  leggi,  parlar  secondo  la  comone  intelligenza,  e 
non  esser  sollecito  in  cose  indifferenti.  Pazzo  sarrebe  l'istorico 
che  trattando  la  sua  materia,  volesse  ordinar  vocaboli  stimati 
novi,  e  riformar  i  vecchi;  e  far  di  modo  che  il  lettore  sii  più 
trattenuto  a  osservarlo  et  interpretarlo  come  gramatico,  che  in- 
tenderlo come  istorie©.  Tanto  più  uno  che  vuol  dare  a  l'uni- 
verso volgo  la  legge  e  forma  di  vivere,  se  usasse  termini  che  le 
capisse  lui  solo  et  altri  pochissimi,  e  venesse  a  far  considera- 
zione e  caso  de  materie  indifferenti  dal  fine  a  cui  sono  ordinate 
le  leggi,  certo  parrebbe  che  lui  non  drizza  la  sua  dottrina  al 
generale  et  alla  moltitudine  per  la  quale  sono  ordinate  quelle; 
ma  a  savii  e  generosi  spirti,  e  quei  che  sono  veramente  uomini, 
li  quali  senza  legge  fanno  quel  che  conviene  ^r  per  questo  disse 
Alchazele  filosofo,  sommo  pontefice  e  teologo  mahumetano,  che 
il  fine  delle  leggi  non  è  tanto  di  cercar  la  verità  delle  cose  e 
speculazioni,  quanto  la  bontà  de  costumi,  profitto  della  civilità, 
convitto  di  popoli;  e  prattica  per  la  commodità  della  umana 
conversazione,  mantenimento  di  pace  et  aumento  di  republi- 
che*'.  Molte  volte,  dumque,  et  a  molti  propositi,  è  una  cosa  da 

voi.  V,  1954,  pp.  88-93  e  108-113,  san  Tommaso  dichiara  (a  proposito  delle 
«acque  poste  al  di  sopra  del  firmamento»  o  delle  stelle  fissate  su  sfere  rotanti  e 
invisibili)  che  Mosè  «volendo  adattarsi  alla  rozzezza  del  suo  popolo,  si  attenne 
alle  apparenze  sensibili».  Ma  Tommaso  non  arriva  ad  affermare  che,  nella 
Scrittura,  non  si  troverebbe  nessuna  verità  riguardo  alla  realtà  naturale.  Di- 
cendo qui  che  la  Bibbia  contiene  essenzialmente  insegnamenti  di  ordine  mo- 
rale o  prescrittivi,  il  Nolano  sembra  andar  contro  i  teologi  a  lui  contempora- 
nei, persuasi  nella  quasi  totalità  che  Dio  avesse  consegnato  ad  Adamo,  e  poi  ai 
suoi  profeti,  la  scienza  delle  cose  naturali.  Infatti,  Bruno  non  nega  a  Mosè,  a 
Giobbe  e  neanche  a  Salomone,  una  conoscenza  dei  fenomeni  della  natura,  di 
cui  il  Nolano  crede  di  aver  decifrato  il  «sentimento»  non  «metaforico»,  a  dif- 
ferenza dei  teologi  «pappagalli  d'Aristotele,  Platone,  et  Averroe»,  come  li  qua- 
lificherà più  oltre,  a  p.  527.  Cfr.  infra,  note  12  e  17. 

5.  R.  Amerio,  in  Opere  di  G.  Bruno  e  T.  Campanella,  Milano-Napoli,  1956, 
p.  254,  menziona  a  proposito  I  Timoteo,  I,  9-10. 

6.  M.  A.  Granada,  nella  sua  traduzione,  Madrid,  1994^,  p.  134,  nota  2  (che 
rinvia  a  F.  Papi,  Antropogia  e  civiltà  nel  pensiero  di  G.  Bruno,  Firenze,  1968,  pp. 
297-301)  ritiene  dettata  dalla  prudenza  questa  singolare  attribuzione  della  po- 
sizione di  Averroè,  che  è  quella  dello  stesso  Bruno,  ed  al-GhazàlT  (1058-1111), 
critico  della  filosofia  da  un  punto  di  vista  religioso  e  tradizionalista.  Ricor- 
diamo che,  nel  Medio  Evo,  era  stata  tradotta  in  latino  solo  la  prima  parte  della 
Composizione  in  quaranta  libri  di  al-Ghazàli  {Le  intenzioni  dei  filosofi,  consacrata 
essenzialmente  all'esposizione  di  Avicenna),  non  la  seconda  {L'incoerenza  dei 
filosofi,  dedicata  alla  confutazione  delle  tesi  avicenniane,  incompatibili  con  gli 
insegnamenti  del  Corano),  cosa  che  aveva  fatto  considerare  erroneamente  un 
filosofo  il  teologo  al-Ghazàlì  (cfr.  A.  De  Libera,  Storia  della  filosofia  medievale, 


524  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

stolto  et  ignorante,  più  tosto  riferir  le  cose  seconda  la  verità,  che 
secondo  l'occasione  e  comodità.  Come  quando  il  sapiente  disse 
«Nasce  il  sole  e  tramonta,  gira  per  il  mezo  giorno,  e  s'inchina  a 
l'Aquilone^»,  avesse  detto  «La  terra  si  raggira  a  l'oriente,  e  si 
[193]  tralascia  il  sole  che  tramonte;  s'inchina  a  doi  tropici,  del  Cancro 
verso  l'Austro,  e  Capricorno  verso  l'Aquilone»,  sarrebbono  fer- 
mati gli  auditori  a  considerare:  «Come  costui  dice  la  terra  muo- 
versi? che  novelle  son  queste?»;  l'arrebono  al  fine  stimato  un 
pazzo,  e  sarrebe  stato  da  dovere  un  pazzo.  —  Pure  per  satisfare  a 
l'importunità  di  qualche  rabbino  impaziente  e  rigoroso,  vorrei 
sapere  se  col  favore  della  medesma  scrittura  questo  che  diciamo 
si  possa  confirmare  facilissimamente. 

Teofilo.  —  Vogliono  forse  questi  reverendi,  che  quando 
Mosè  disse  che  Dio  tra  gli  altri  luminari  ne  ha  fatti  dui  grandi  s, 
che  sono  il  sole  e  la  luna,  questo  si  debba  intendere  assoluta- 
mente per  che  tutti  gli  altri  siino  minori  della  luna:  o  vera- 
mente secondo  il  senso  volgare,  et  ordinario  modo  di  compren- 
dere e  parlare?  Non  sono  tanti  astri  più  grandi  che  la  luna?  non 
possono  essere  più  grandi  che  il  sole?^  che  manca  a  la  terra,  che 
non  sii  un  luminare  più  bello  e  più  grande  che  la  luna,  che 
medesmamente  ricevendo  nel  corpo  de  l'Oceano  et  altri  medi- 
terranei mari  il  gran  splendore  del  sole  1°,  può  comparir  lucidis- 

traduz.  di  F.  Ferri,  Milano,  1995,  pp.  115-117).  Bruno  lo  cita  accanto  ad 
Averroè  negli  Eroici  furori,  II,  4,  p.  729  e  se  ne  serve  come  autorità  nel  De 
immenso,  I,  4,  Op.  lai.,  I,  i,  p.  217,  ed.  Monti  cit,  p.  432  (e  cfr.  ora  R.  Sturlese, 
«Averroe  quantumqiie  arabo  et  ignorante  di  lingua  greca...».  Note  sull'averroismo 
di  Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  LXXIII,  1992, 
pp.  266-273). 

7.  Cfr.  Ecclesiaste,  I,  5-6:  uno  dei  testi  della  Sacra  Scrittura  che  i  teologi 
opporranno  puntualmente  ai  fautori  della  mobilità  della  Terra. 

8.  Genesi,  I,  16. 

9.  Fino  ad  ora,  gli  interrogativi  di  Bruno  andavano  ad  aggiungersi  a  quelli 
degli  interpreti  tradizionali  della  Bibbia,  che  vi  rispondevano  in  funzione  di 
conoscenze  astronomiche  già  ben  fissate  su  questo  punto.  Si  veda,  ad  esempio, 
san  Tommaso  (Somma  teologica,  I,  q.  70,  art  i,  ed.  cit,  p.  112:  «Secondo  il  Cri- 
sostomo si  parla  di  "due  luminari  grandi",  non  per  riguardo  alla  loro  mole,  ma 
alla  loro  efficacia  e  potenza.  È  vero  che  altre  stelle  sono  materialmente  più 
grandi  della  luna;  però  gli  effetti  della  luna  sono  maggiormente  sentiti  in  que- 
sta stessa  sfera  inferiore.  Inoltre  essa  apparisce  più  grande  ai  sensi»).  Ma,  im- 
mediatamente dopo,  le  domande  di  Bruno  cessano  di  essere  quelle  classiche: 
da  un  lato,  troviamo  l'interrogativo  sulla  Terra  definita  anch'essa  come  un  «lu- 
minare», dall'altro  il  suggerimento  che  Mosè  non  abbia  parlato  della  Terra 
come  di  un  astro,  benché  lo  riconoscesse  come  tale.  Si  ritrova  dunque,  l'idea 
che  il  grande  legislatore  fosse  altresì  al  corrente  della  verità  sulla  natura. 

10.  Eco  dell'idea,  formulata  già  a  p.  507,  che  il  riflesso  della  luce  solare  sui 


DIALOGO  QUARTO  525 

simo  corpo  a  gli  altri  mondi  chiamati  astri,  non  meno  che 
quelli  appaiono  a  noi  tante  lampeggiante  faci?  Certo,  che  non 
chiami  la  terra  un  luminare  grande  o  piccolo,  e  che  tali  dichi 
essere  il  sole  e  la  luna,  è  stato  bene  e  veramente  detto  nel  suo 
grado,  perché  dovea  farsi  intendere  secondo  le  paroli  e  senti- 
menti comoni:  e  non  far  come  uno  che  qual  pazzo  e  stolto  usa 
della  cognizione  e  sapienza.  Parlare  con  i  termini  de  la  verità 
dove  non  bisogna,  e  voler  che  il  volgo  e  la  sciocca  moltitudine 
dalla  quale  si  richiede  la  prattica  abbia  il  particular  intendi-  [195] 
mento,  sarrebe  come  volere  che  la  mano  abbia  l'ochio:  la  quale 
non  è  stata  fatta  dalla  natura  per  vedere,  ma  per  oprare  e  con- 
sentire a  la  vista.  Cossi,  benché  intendesse  la  natura  delle  su- 
stanze  spirituali,  a  che  fine  dovea  trattarne,  se  non  quanto  che 
alcune  di  quelle  hanno  affabilità  e  ministerio  con  gli  uomini, 
quando  si  fanno  ambasciatrici?  ^^  Benché  avesse  saputo  che  alla 
luna  et  altri  corpi  mondani  che  si  veggono  e  che  sono  a  noi 
invisibili,  convenga  tutto  quel  che  conviene  a  questo  nostro 
mondo,  o  al  meno  il  simile,  vi  par  che  sarrebbe  stato  ufficio  di 
legislatore  di  prenderse  e  donar  questi  impacci  a'  popoli?  Che 
ha  da  far  la  prattica  delle  nostre  leggi  e  l'essercizio  delle  nostre 
virtù  con  quell'altri?  Dove  dumque  gli  uomini  divini  parlano 
presupponendo  nelle  cose  naturali  il  senso  comunmente  rice- 
vuto, non  denno  servire  per  autorità;  ma  più  tosto  dove  parlano 
indifferentemente,  e  dove  il  volgo  non  ha  risoluzione  alcuna:  in 
quello  voglio  che  s'abbia  riguardo  alle  paroli  de  gli  uomini  di- 
vini, anco  a  gli  entusiasmi  di  poeti,  che  con  lume  superiore  ne 
han  parlato;  e  non  prendere  per  metafora  quel  che  non  è  stato 
detto  per  metafora  e  per  il  contrario  prendere  per  vero  quel  che 
è  stato  detto  per  similitudine.  Ma  questa  distinzione  del  meta- 
forico e  vero,  non  tocca  a  tutti  di  volerla  comprendere:  come 
non  è  dato  ad  ogni  uno  di  posserla  capire.  —  Or  se  vogliamo 

mari  (e  non  sulle  terre,  come  sosterranno  Galilei  e  Kepler  dopo  il  1610)  da- 
rebbe il  suo  splendore  al  nostro  globo  visto  dalle  altre  stelle. 

II.  Allusione  al  problema  che  è  stato  sollevato  da  numerosi  Padri  della 
Chiesa  e  dai  loro  interpreti:  perché  Mosè  non  ha  parlato  della  creazione  degli 
angeli?  Si  veda,  ad  esempio,  S.  Agostino,  Civitas  Dei,  XI,  9  (traduz.  di  C.  Gior- 
gi, «Biblioteca  Agostiniana»,  s.  I,  n.  5,  Firenze,  1928,  pp.  386-388)  e  S.  Tom- 
maso, Somma  teologica,  I,  q.  68,  art.  3,  ed.  cit.,  p.  90,  dove  il  silenzio  di  Mosè 
è  giustificato  dalla  necessità  di  «non  proporre  qualcosa  di  ignoto  a  persone 
ignoranti  ». 


520  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

voltar  rocchio  della  considerazione  a  un  libro  contemplativo, 
naturale,  morale  e  divino,  noi  trovaremo  questa  filosofia  molto 
faurita  e  favorevole.  Dico  ad  un  Libro  di  Giob,  quale  è  uno  di 
singularissimi  che  si  possan  leggere,  pieno  d'ogni  buona  teolo- 
[197]  già,  naturalità  e  moralità,  colmo  di  sapientissimi  discorsi  '^,  che 
Mosè  come  un  sacramento  ha  congionto  a  i  libri  della  sua  legge. 
In  quello  un  di  personaggi  volendo  descrivere  la  provida  po- 
tenza de  Dio,  disse  quello  formar  la  pace  ne  gli  eminenti  suoi, 
cioè  sublimi  figli  ^^,  che  son  gli  astri,  gli  dèi,  de  quali  altri  son 
fuochi,  altri  sono  acqui'-*  (come  noi  diciamo  altri  soli,  altri  ter- 
re), e  questi  concordano:  per  che  quantumque  siino  contrari!, 
tutta  via  l'uno  vive,  si  nutre  e  vegeta  per  l'altro;  mentre  non  si 
confondeno  insieme,  ma  con  certe  distanze  gli  uni  si  moveno 
circa  gli  altri.  Cossi  vien  distinto  l'universo  in  fuoco  et  acqua, 
che  sono  soggetti  di  doi  primi  principi!  formali  et  activi,  freddo 
e  caldo  ^^.  Que'  corpi  che  spirano  il  caldo  son  gli  soli  che  per  se 
stessi  son  lucenti  e  caldi;  que'  corpi  che  spirano  il  freddo,  son  le 
terre:  le  quali  essendo  parimente  corpi  eterogenei,  son  chiamate 
più  tosto  acqui,  atteso  che  tai  corpi  per  quelle  si  fanno  visibili, 
onde  meritamente  le  nominiamo  da  quella  raggione  che  ne 
sono  sensibili!;  sensibili  dico  non  per  se  stessi:  ma  per  la  luce  de 
soli  sparsa  ne  la  lor  faccia.  A  questa  dottrina  è  conforme  Mosè, 

12.  Lo  stesso  giudizio  positivo  sul  libro  di  Giobbe  in  De  magia,  Op.  lai., 
p.  431  (ed.  a  cura  di  A.  Biondi,  Pordenone,  1986.  p.  62):  nel  De  monade,  V,  Op. 
lat.,  I,  2,  p.  390,  Bruno  scrive  che,  in  questo  stesso  libro,  «sono  contenuti  i 
profondi  misteri  dei  Caldei»  (ed.  a  cura  di  Monti,  Torino,  1980,  p.  348):  su  que- 
sto punto,  cfr.  le  osservazioni  di  A.  Corsano.  Il  pensiero  di  G.  Bruno  nel  suo 
svolgimento  storico,  Firenze,  1940,  pp.  118-119,  ma  soprattutto  M.  A.  Granada, 
G.  Bruno  e  l'interpretazione  della  tradizione  filosofica:  l'aristotelismo  e  il  cristiane- 
simo di  fronte  air«antiqua  vera  filosofia»,  in:  L'interpretazione  nei  secoli  XVI  e 
XVII,  a  cura  di  G.  Canziani-Y.  C.  Zarka,  Milano,  1993,  pp.  52-82  (in  particolare, 
pp.  74-78). 

13.  Cfr.  Giobbe,  XXV,  2. 

14.  Giacché  una  simile  asserzione  non  si  trova  nel  libro  di  Giobbe,  è  proba- 
bile che  Bruno  segua  l'etimologia  erronea  offerta  dal  Talmud  (Haghigà  12"), 
dove  «Shamaim»,  il  «cielo»,  si  ritiene  composto  da  «Esh»,  «fuoco»,  e  da 
«Maim»,  «acqua».  Cosi  D.  Castelli  in  F.  Tocco,  Le  opere  latine  di  G.  Bruno 
esposte  e  confrontate  con  le  italiane,  Firenze.  1889.  p.  311,  nota  i. 

15.  Sono  i  due  princìpi  alla  base  della  fisica  di  Telesio  (che  Bruno  ha  letto, 
giudicandolo  nei  modi  studiati  da  G.  Aquilecchia,  Schede  bruniane  cit,  nn. 
XX  e  XXI,  pp.  293-310);  ma  l'accostamento  deve  fermarsi  qui,  perché  il  mondo 
telesiano,  strutturato  a  partire  da  caldo  e  freddo,  resta  un  cosmo  geocentrico. 
L'universo  popolato  da  terre  e  soli  infiniti  che  le  pagine  della  Cena  evocano 
non  ha  niente  a  che  vedere  con  quello  telesiano,  così  come,  del  resto,  con 
quello  della  dottrina  di  Mosè. 


DIALOGO  QUARTO  527 

che  chiama  «firmamento»  l'aria,  nel  quale  tutti  questi  corpi 
hanno  la  persistenza  e  situazione,  e  per  gli  spacii  del  quale  ven- 
gono distinte  e  divise  le  acqui  inferiori,  che  son  queste  che  sono 
nel  nostro  globo,  da  l'acqui  superiori,  che  son  quelle  de  gli  altri 
globi;  dove  pure  se  dice,  esserno  divise  l'acqui  da  l'acqui  '^  E  se 
ben  considerate  molti  passi  della  scrittura  divina,  gli  dèi  e  mi- 
nistri de  l'Altissimo  son  chiamati  «acqui»,  «abissi»,  «terre»,  e 
«fiamme  ardenti»:  chi  lo  impediva  che  non  chiamasse  «corpi 
neutri,  inalterabili,  inmutabili»,  «quinte  essenze»,  «parti  più  [199] 
dense  delle  sfere»,  «berilli»,  «carbuncoli»,  et  altre  fantasie  de  le 
quali,  come  indifferenti,  niente  manco  il  volgo  s'arrebe  possuto 
pascere? 

Smitho.  —  Io  per  certo  molto  mi  muovo  da  l'autorità  del 
Libro  di  Giobbe  e  di  Mosè'^,  e  facilmente  posso  fermarmi  in  que- 
sti sentimenti  reali  più  tosto  che  in  metaforici  et  astratti:  se  non 
che  alcuni  pappagalli  d'Aristotele,  Platone,  et  Averroe,  dalla  fi- 
losofia de  quali  son  promossi  poi  ad  esser  teologi,  dicono  che 
questi  sensi  son  metaforici,  e  cossi  in  virtù  de  lor  metafore  le 
fanno  significare  tutto  quel  che  gli  piace,  per  gelosia  della  filo- 
sofia nella  quale  son  allevati. 

Teofilo.  —  Or  quanto  siino  costante  queste  metafore,  lo  pos- 
sete  giudicar  da  questo  che  la  medesma  scrittura  è  in  mano  di 
Giudei,  Cristiani  e  Mahumetisti;  sette  tanto  differenti  e  contra- 
rie, che  ne  parturiscono  altre  innumerabili  contrariisime  e  dif- 
ferentissime,  le  quali  tutte  vi  san  trovare  quel  proposito  che  gli 
piace  e  meglio  li  vien  comodo:  non  solo  il  proposito  diverso  e 

16.  Cfr.  Genesi,  I,  7.  Ma,  nel  testo  biblico,  «firmamento»  indica  la  volta  ap- 
parente del  cielo,  cupola  solida  che  trattiene  le  acque  superne,  dalle  cui  fendi- 
ture passarono  le  acque  del  Diluvio  (cfr.  anche  il  commento  di  E.  Galbiati 
nella  traduz.  della  Bibbia  da  lui  curata,  Torino,  voi.  I,  1973^,  p.  8).  Bruno  si 
allontana  sensibilmente  dall'interpretazione  tradizionale.  Per  alcuni  precedenti 
medievali  di  tale  glossa,  cfr.  E.  Grant,  Planets,  Stars  and  Orbs.  The  Medieval 
Cosmos,  i20o-i68y,  Cambridge,  1994,  pp.  96-97.  Vi  saranno  però  teologi  del  XVI 
secolo,  come  Calvino  o  Peucer,  che  interpreteranno  anch'essi  l'ebraico  Rakia 
non  nel  senso  del  firmamentum  della  Vulgata,  ma  come  il  nome  da  attribuire 
allo  spazio  occupato  dall'aria  o  da  un  elemento  fluido,  all'interno  del  quale  si 
muovono  gli  astri.  -  Affatto  originale  è,  invece,  l'interpretazione  bruniana 
delle  acque  «inferiori»  e  «superiori». 

17.  Il  Genesi.  Sulla  dipendenza,  sostenuta  da  Bruno,  della  sapienza  mosaica 
dal  sapere  pagano  (capovolgimento  dello  schema  di  Ficino  o  di  Pico,  che  fa- 
cevano dipendere  la  scienza  dei  Greci  dalla  Prisca  theologia  biblica),  si  veda 
M.  A.  Granada,  G.  Bruno  e  l'interpretazione  della  tradizione  filosofica  cit.,  nota 
12,  pp.  72  e  segg. 


528  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

differente,  ma  ancor  tutto  il  contrario;  facendo  de  un  «sì»,  un 
«non»,  e  di  un  «non»,  un  «sì»:  come  verbi  gratta  in  certi  passi 
dove  dicono  che  Dio  parla  per  ironia. 

Smitho.  -  Lasciamo  di  giudicar  questi;  son  certo  che  a  loro 
non  importa  che  questo  sii  o  non  sii  metafora:  però  facilmente 
ne  potranno  far  star  in  pace  con  nostra  filosofia. 

Teofilo.  -  Dalla  censura  di  onorati  spirti,  veri  religiosi,  et 
anco  naturalmente  uomini  da  bene,  amici  della  civile  conversa- 
[201]  zione  e  buone  dottrine,  non  si  de'  temere;  perché  quando  bene 
arran  considerato,  trovarranno  che  questa  filosofia  non  solo 
contiene  la  verità,  ma  ancora  favorisce  la  religione'^  più  che 
qualsivoglia  altra  sorte  de  filosofia:  come  quelle  che  poneno  il 
mondo  finito  1^;  l'effetto  e  l'efficacia  della  divina  potenza  finiti; 
le  intelligenze  e  nature  intellettuali  solamente  otto  o  diece;  la 
sustanza  de  le  cose  esser  corrottibile;  l'anima  mortale,  come  che 
consista  più  tosto  in  una  accidentale  disposizione,  et  effetto  di 
complessione,  e  dissolubile  contemperamento  et  armonia;  l'ese- 
cuzione della  divina  giustizia  sopra  l'azzioni  umane  per  conse- 
quenza nulla;  la  notizia  di  cose  particolari  a  fatto  rimossa  dalle 
cause  prime  et  universali;  et  altri  inconvenienti  assai:  li  quali 
non  solamente  come  falsi  acciecano  il  lume  de  l'intelletto,  ma 
ancora,  come  neghittosi  et  empii,  smorzano  il  fervore  di  buoni 
affetti. 

Smitho.  -  Molto  son  contento  di  aver  questa  informazione 
della  filosofia  del  Nolano.  —  Or  veniamo  un  poco  a  gli  discorsi 
fatti  col  dottor  Torquato:  il  quale  son  certo  che  non  può  essere 
tanto  più  ignorante  che  Nundinio,  quanto  è  più  presuntuoso, 
temerario  e  sfacciato. 

Frulla.  -  Ignoranza  et  arroganza  son  due  sorelle  individue 
in  un  corpo  et  in  un'anima. 

Teofilo.  —  Costui  con  un  emfatico  aspetto,  col  quale  il  di- 
vum  pater^^  vien  descritto  nella  Metamorfose  seder  in  mezzo  del 
concilio  de  gli  dèi,  per  fulminar  quella  severissima  sentenza 

18.  Lo  stesso  convincimento  è  espresso  in  De  la  causa,  Dialogo  quarto, 
p.  710  e  nel  De  l'infinito,  Dialogo  primo,  pp.  51-52. 

19.  Lo  stesso  tema  viene  sviluppato  nel  De  l'infinito.  Dialogo  primo, 
pp.  51-52  e  nel  De  immenso,  I,  11  e  Vili,  3,  Op.  lai,  1,  i,  pp.  242-243  e  I,  2, 
pp.  294-295  (ed.  Monti  cit,  pp.  452-453  e  791-792). 

20.  «Il  padre  degli  dèi». 


DIALOGO  QUARTO  529 

centra  il  profano  Licaone^^  dopo  aver  contemplato  la  sua  au- 
rea collana...  [203] 

Prudenzio.  -  Torquem  auream,  aureum  ntonile^^. 

Teofilo.  -  ...  et  appresso  remirato  al  petto  del  Nolano,  dove 
più  tosto  arrebe  possuto  mancar  qualche  bottone^';  dopo  essersi 
rizzato,  ritirate  le  braccia  da  la  mensa,  scrollatosi  un  poco  il 
dorso,  sbruffato  co  la  bocca  alquanto,  acconciatasi  la  beretta  di 
velluto 24  in  testa,  intorcigliatosi  il  mustaccio,  posto  in  arnese  il 
profumato  volto,  inarcate  le  ciglia,  spalancate  le  narici,  messosi 
in  punto  con  un  riguardo  di  rovescio,  poggiatasi  al  sinistro 
fianco  la  sinistra  mano^^;  per  donar  principio  alla  sua  scrima, 
appuntò  le  tre  prime  dita  della  destra  insieme,  e  cominciò  a 
trar  di  mandritti,  in  questo  modo  parlando:  «Tune  ille  philo- 
sophorum  protoplastes...?»^^.  Subito  il  Nolano  suspettando  di  ve- 
nire ad  altri  termini  che  di  disputazione,  gl'interroppe  il  parlare 
dicendogli:  «  Quo  vadis  domine,  quo  vadisP  Quid  si  ego  philosopho- 
rum  protoplastes?  quid  si  nec  Aristoteli  nec  cuiquam  magis  conce- 
dam,  quam  mihi  ipsi  concesserint?  ideo  ne  terra  est  centrum  mundi 
inmobile?»^''.  Con  queste  et  altre  simili  persuasioni,  con  quella 
maggior  pazienza  che  posseva,  l'essortava  a  portar  propositi, 
con  i  quali  potesse  inferire  demostrativa  o  probabilmente  in  fa- 
vore de  gli  altri  protoplasti,  contra  di  questo  novo  protoplaste. 
E  voltatosi  il  Nolano  a  gli  circostanti  ridendo  con  mezo  riso: 
«Costui»  disse,  «non  è  venuto  tanto  armato  di  raggioni  quanto 

21.  Cfr.  Ovidio,  Metam.,  I,  177-181. 

22.  «La  sua  catena  d'oro,  la  sua  collana  dorata». 

23.  Tema  neoplatonico:  cfr.  il  «laxus  calceus»  di  Socrate  (il  «calzare  slac- 
ciato») e  la  sua  «toga  dissidens»  (la  «toga  in  disordine»),  evocati  da  Pico  della 
Mirandola  nella  lettera  ad  Ermolao  Barbaro  {Prosatori  latini  del  Quattrocento,  a 
cura  di  E.  Garin,  Milano-Napoli,  1952,  pp.  814-815).  Sulla  tenuta  dimessa  di 
Bruno,  cfr.  J.  Florio,  Second  Fruites,  London,  1591,  l,  p.  io,  dove  il  Nolano  dice 
a  Torquato:  «Voi  non  andate  dunque  vestito  a  figure  come  faccio  io,  ciò  è 
sempre  ad  un  modo». 

24.  Segno  distintivo  di  coloro  che  avevano  ottenuto  il  titolo  accademico  di 
dottore. 

25.  Si  veda  la  descrizione  che  l'Aretino  fa  di  Erode  neìV  Umanità  di  Cristo, 
Venetia,  1539,  ^-  '^T ■ 

26.  «Saresti  tu,  forse,  il  prototipo  dei  filosofi?». 

27.  «Dove  vai,  signore,  dove  vai?»  (ripresa  ironica  della  domanda  fatta  a 
Gesù:  «Quo  vadis.  Domine?»).  «E  se  io  fossi  davvero  il  prototipo  dei  filosofi?  Se 
non  concedessi  ad  Aristotele  ed  a  qualsiasi  altro,  più  di  quanto  essi  non  mi 
concederebbero?  Così  che  la  Terra  non  sia  più  il  centro  immobile  del  mondo?». 


530  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

di  pareli  e  scommi,  che  si  muoiono  di  freddo  e  fame»^^.  Pregato 
da  tutti  che  venesse  a  gli  argumenti,  mandò  fuori  questa  voce: 
«  Unde  igitur  stella  Martis  nunc  maior,  mine  vero  minor  apparet,  si 
[205]   terra  movetur?»^^. 

Smitho.  -  O  Arcadia,  è  possibile  che  sii  in  rerum  natura^^, 
sotto  titolo  di  filosofo  e  medico... 

Frulla.  —  E  dottore  e  torquato. 

Smitho.  -  ...  che  abbia  possuto  tirar  questa  consequenza?  Il 
Nolano  che  rispose? 

Teofilo.  -  Lui  non  si  spanto  per  questo:  ma  gli  rispose  che 
una  delle  cause  principali  per  le  quali  la  stella  di  Marte  appare 
maggiore  e  minore,  a  volte  a  volte,  è  il  moto  della  terra  e  di 
Marte  ancora,  per  gli  proprii  circoli,  onde  aviene  che  ora  siino 
più  prossimi,  ora  più  lontani". 

Smitho.  -  Torquato  che  soggionse? 

Teofilo.  -  Dimandò  subito  della  proporzione  de  moti  degli 
pianeti  e  la  terra. 

Smitho.  -  Et  il  Nolano,  ebbe  tanta  pazienza  che  vedendo  un 
sì  presuntuoso  e  goffo,  non  voltò  le  spalli  et  andarsene  a  casa,  e 
dire  a  colui  che  l'avea  chiamato ^^  che... 

Teofilo.  -  Anzi  rispose  che  lui  non  era  andato  per  leggere 
né  per  insegnare,  ma  per  rispondere;  e  che  la  simmetria,  ordine 
e  misura  de  moti  celesti  si  presuppone  tal  qual'è,  et  è  stata  co- 
nosciuta da  antichi  e  moderni  ^^;  e  che  lui  non  disputa  circa 

28.  Cfr.  Candelaio,  Proprologo,  p.  279. 

29.  «Come  si  spiegherebbe  dunque  che  la  stella  di  Marte  appare  ora  mag- 
giore, ora  minore,  se  la  Terra  si  muove?». 

30.  «In  natura». 

31.  L'esempio  è  ben  scelto:  raggiungendo  le  variazioni  di  distanza  tra  la 
Terra  e  Marte  il  fattore  5  (da  cui  un  rapporto  d'intensità  luminosa  da  i  a  25), 
era  difficile  giustificarlo  in  un  sistema  geocentrico.  Tolomeo  aveva  dovuto  ac- 
cordare a  Marte  un  cielo  di  uno  «spessore»  considerevole  (7560  raggi  terrestri, 
corrispondenti  a  un  rapporto  da  i  a  7  per  la  sua  distanza,  al  perigeo  e  all'apo- 
geo), senza  pertanto  arrivare  ad  una  spiegazione  razionale  di  ciò  che  si  osser- 
vava. Rheticus  e,  dopo  di  lui,  tutti  i  seguaci  di  Copernico  hanno  sottolineato  la 
superiorità  dell'ipotesi  eliocentrica  su  quella  tolemaica.  Cfr.  De  libris  Revolutio- 
num  narratio  prima,  in  N.  COPERNICO,  Opere,  a  cura  di  F.  Barone,  Torino,  1979, 
pp.  772-773. 

32.  Fulke  Greville. 

33.  Si  è  appena  visto  che  un  grande  disaccordo  regnava  tra  Antichi  e  Mo- 
derni attorno  a  questi  problemi.  È  chiaro  che  nemmeno  Bruno  ha  raggiunto  su 
di  essi  un  punto  di  vista  definitivo.  Da  «filosofo»,  non  si  considera  obbligato  a 
verificare  «le  misure  e  teorie»  (all'epoca  contraddittorie)  dei  «matematici».  Ciò 
dimostra  che  egli  non  ha  valutato  in  pieno  il  cambiamento  introdotto  da  Co- 


DIALOGO  QUARTO  53 1 

questo,  e  non  è  per  litigare  contra  gli  matematici  per  togliere  le 
lor  misure  e  teorie,  alle  quali  sottoscrive  e  crede:  ma  il  suo 
scopo  versa  circa  la  natura  e  verificazione  del  soggetto  di  questi 
moti.  Oltre  disse  il  Nolano:  «Se  io  metterò  tempo  per  rispondere 
a  questa  dimanda,  noi  staremo  qua  tutta  la  notte  senza  dispu- 
tare e  senza  ponere  giamai  gli  fondamenti  delle  nostre  preten- 
sioni contra  la  comone  filosofia:  per  che  tanto  gli  uni  quanto  gli  [207] 
altri  condoniamo  tutte  le  supposizioni,  pur  che  si  conchiuda  la 
vera  raggione  delle  quantità  e  qualità  di  moti,  et  in  questi 
siamo  concordi:  a  che  dumque  beccarse  il  cervello  fuor  di  pro- 
posito? Vedete  voi  se  dalle  osservanze  fatte  e  dalle  verificazioni 
concesse,  possiate  inferire  qualche  cosa  che  conchiuda  contra 
noi:  e  poi  arrete  libertà  di  proferire  le  vostre  condannazioni». 

Smitho.  —  Bastava  dirgli  che  parlasse  a  proposito. 

Teofilo.  —  Or  qua  nessuno  di  circostanti  fu  tanto  ignorante, 
che  col  viso  e  gesti  non  mostrasse  aver  capito  che  costui  era 
una  gran  pecoraccia  aurati  ordinisi'*. 

Frulla.  —  Idest  il  tosone. 

Teofilo.  —  Pure,  per  imbrogliar  il  negocio,  pregomo  il  No- 
lano che  esplicasse  quello  che  lui  volea  defendere,  per  che  il 
prefato  dottor  Torquato  argumentarebbe.  Rispose  il  Nolano  che 
lui  s'avea  troppo  esplicato;  e  che  se  gli  argumenti  de  gli  aversa- 
rii  erano  scarsi,  questo  non  procedeva  per  difetto  di  materia, 
come  può  essere  a  tutti  ciechi  manifesto.  Pure  di  nuovo  gli  con- 
firmava che  l'universo  è  infinito;  e  che  quello  costa  d'una  in- 
mensa eterea  reggione:  è  veramente  un  cielo  il  quale  è  detto 
spacio  e  seno,  in  cui  sono  tanti  astri  che  hanno  fissione  in 
quello,  non  altrimente  che  la  terra;  e  cossi  la  luna,  il  sole  et  altri 
corpi  innumerabili  sono  in  questa  eterea  reggione,  come  veg- 
giamo  essere  la  terra.  E  che  non  è  da  credere  altro  firmamento, 
altra  base,  altro  fundamento,  ove  s'appoggino  questi  grandi  ani- 
mali che  concorreno  alla  constituzion  del  mondo:  vero  soggetto   [209] 

pemico  e  perfezionato  da  Kepler  esiste  un  rapporto  necessario  tra  la  «quanti- 
tà» dei  moti  celesti  e  l'ipotesi  cosmologica  su  cui  l'astronomo  si  fonda,  cosa  che 
il  Nolano  non  sembra  aver  inteso,  quando  più  sotto  adotterà  un'attitudine 
concordista  di  fronte  ad  ipotesi  che  sembravano  accettabili,  giacché  tutte  «sal- 
vavano» i  fenomeni. 

34.  «Dell'ordine  d'oro»  (l'Ordine  del  Toson  d'oro  era  stato  fondato  da  Fi- 
lippo III  il  Buono,  nel  1429). 


532  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

et  infinita  materia  della  infinita  divina  potenza  attuale";  come 
bene  ne  ha  fatto  intendere  tanto  la  regolata  raggione  e  discorso, 
quanto  le  divine  revelazioni  che  dicono  non  essere  numero  de 
ministri  de  l'Altissimo,  al  quale  migliaia  de  migliaia  assistono, 
e  diece  centenaia  de  migliaia  gli  amministrano ^^  Questi  sono 
gli  grandi  animali  de  quali  molti,  con  lor  chiaro  lume  che  da 
lor  corpi  diffondeno,  ne  sono  di  ogni  contomo  sensibili.  De 
quali,  altri  son  effettualmente  caldi  come  il  sole  et  altri  innu- 
merabili fuochi;  altri  son  freddi,  come  la  terra,  la  luna.  Venere 
et  altre  terre  innumerabili.  Questi  per  comunicar  l'uno  a  l'altro, 
e  participar  l'un  da  l'altro  il  principio  vitale,  a  certi  spacii,  con 
certe  distanze,  gli  uni  compiscono  gli  lor  giri  circa  gli  altri, 
come  è  manifesto  in  questi  sette  che  versano  circa  il  sole:  de 
quali  la  terra  è  uno  che  movendosi  circa  il  spacio  di  24  ore  dal 
lato  chiamato  occidente  verso  l'oriente,  caggiona  l'apparenza  di 
questo  moto  de  l'universo  circa  quella,  che  è  detto  moto  mun- 
dano  e  diurno".  La  quale  imaginazione  è  falsissima,  contra  na- 
tura et  impossibile:  essendo  che  sii  possibile,  conveniente,  vero 
e  necessario,  che  la  terra  si  muova  circa  il  proprio  centro  per 
participar  la  luce  e  tenebre,  giorno  e  notte,  caldo  e  freddo;  circa 
il  sole  per  la  participazione  de  la  primavera,  estade,  autunno, 
inverno;  verso  i  chiamati  poli  et  oppositi  punti  emisferici,  per 
la  rinovazione  di  secoli  e  cambiamento  del  suo  volto:  a  fin  che 
dove  era  il  mare,  sii  l'arida;  ove  era  torrido,  sii  freddo;  ove  il 
tropico,  sii  l'equinozziale;  e  finalmente  sii  de  tutte  cose  la  vicis- 
situdine: come  in  questo,  cossi  ne  gli  altri  astri,  non  senza  rag- 
[211]  gione  da  gli  antichi  veri  filosofi  chiamati  «mondi»'^.  Or  mentre 

35.  Si  veda  il  principio  del  Dialogo  quinto,  dove  sono  ripresi  gli  stessi  temi. 

36.  Cfr.  Daniele,  VII,  io.  Gli  angeli  diventano  gli  astri  innumerevoli,  per 
certi  autori  visibili,  per  altri  no,  al  servizio  di  Dio. 

37.  Nei  passaggi  successivi.  Bruno  descrive,  secondo  una  prospettiva  «fina- 
lista», totalmente  assente  in  Copernico:  i)  il  movimento  diurno  della  Terra; 
2)  il  suo  movimento  annuale;  3)  il  movimento  detto  «di  declinazione»,  che, 
inspiegabilmente,  nel  Dialogo  quinto,  scompone  in  due  movimenti  (cfr.  infra, 
p.  557)  ed  al  quale  attribuisce  la  storia  geologica  del  globo  terrestre:  cosa  in- 
tuita da  Aristotele,  che  pure  non  sapeva  determinarne  le  vere  cause. 

38.  In  virtù  della  sostanziale  omogeneità  dei  diversi  mondi  sparsi  negli 
spazi  infiniti,  gli  astri  eterei  considerati  immutabili  nella  tradizione  aristote- 
lica, devono  essere  —  a  loro  volta  -  sottomessi  al  divenire.  Gli  «antichi  veri 
filosofi»  che,  a  differenza  di  Aristotele,  hanno  capito  realmente  cosa  fosse  un 
mondo,  sono  gli  epicurei?  Cfr.  De  l'infinito.  Dialogo  secondo,  pp.  60-62  nonché 
Dialogo  quarto,  pp.  1 15-134. 


DIALOGO  QUARTO  533 

il  Nolano  dicea  questo,  il  dottor  Torquato  cridava:  «Ad  rem,  ad 
rem,  ad  rem»^'^.  Al  fine  il  Nolano  se  mise  a  ridere,  e  gli  disse,  che 
lui  non  gli  argomentava,  né  gli  rispondeva,  ma  che  gli  propo- 
neva: e  però  «ista  sunt  res,  res,  res»'*^;  e  che  toccava  al  Torquato 
appresso  de  apportar  qualche  cosa  ad  rem. 

Smitho.  —  Perché  questo  asino  si  pensava  essere  tra  goffi  e 
balordi,  credeva  che  quelli  passassero  questo  suo  «ad  rem»  per 
uno  argumento  e  determinazione:  e  cossi  un  semplice  crido,  co 
la  sua  catena  d'oro,  satisfar  alla  moltitudine. 

Teofilo.  —  Ascoltate  d'avantaggio.  Mentre  tutti  stavano  ad 
aspettar  quel  tanto  desiderato  argumento,  ecco  che  voltato  il 
dottor  Torquato  a  gli  commensali,  dal  profondo  della  suffi- 
cienza sua  sguaina  e  gli  viene  a  donar  sul  mostaccio  uno  adagio 
erasmiano:  «Anticiram  navigat»"*^. 

Smitho.  —  Non  possea  parlar  meglio  un  asino,  e  non  possea 
udir  altra  voce  chi  va  a  pratticar  con  gli  asini. 

Teofilo.  —  Credo  che  profetasse  (benché  non  intendesse  lui 
medesmo  la  sua  profezia)  che  il  Nolano  andava  a  far  provisione 
d'elleboro  per  risaldar  il  cervello  a  questi  pazzi  barbareschi. 

Smitho.  -  Se  quelli  che  v'eran  presenti,  come  erano  civili, 
fussero  stati  civilissimi,  gli  arrebbono  attaccato  in  loco  della 
collana  un  capestro  al  collo;  e  fattogli  contar  quaranta  basto- 
nate in  commemorazione  del  primo  giorno  di  quaresima. 

Teofilo.  -  Il  Nolano  gli  disse  che  il  dottor  Torquato,  lui 
non,  era  pazzo  per  che  porta  la  collana'*^:  la  quale  se  non  avesse   [213] 
a  dosso,  certamente  il  dottor  Torquato  non  valerebe  più  che  per 
suoi  vestimenti;  i  quali  però  vagliono  pochissimo  se  a  forza  di 
bastonate  non  gli  sarran  spolverati  sopra.  E  con  questo  dire  si 

39.  «I  fatti!  i  fatti!  i  fatti!».  A.  Corsano,  Il  pensiero  di  G.  Bruno  nel  suo  svol- 
gimento storico  cit,  p.  38,  ricorda  la  grande  disputa  che  nel  XV  secolo  oppone, 
soprattutto  a  Parigi,  i  partigiani  dell'ire  ad  res  ai  partigiani  dell'ire  ad  terminos. 

40.  «Questi  sono  fatti,  fatti,  fatti». 

41.  «Sta  veleggiando  per  Anticira».  Cfr.  supra,  Dialogo  primo,  p.  458,  nota 
68. 

42.  Giuoco  di  parole,  occasionato  dalla  prossimità  semantica  di  «collana» 
con  «catena»,  in  modo  da  suggerire  che  Torquato  (alla  lettera,  «portatore  di 
collana  o  di  catena»)  sia  «pazzo  da  catena»,  vale  a  dire  matto  da  legare.  Sul- 
l'abbinamento catena/ follia,  cfr.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XXIV,  II,  7-8  («A 
chi  in  amor  s'invecchia,  oltre  ogni  pena,  /  si  convengono  i  ceppi  e  la  catena»); 
A.  Caro,  Apologia  degli  Accademici  di  Banchi  di  Roma  contra  messer  L.  Castelve- 
tro,  Opposizion  XII,  in  Opere,  a  cura  di  S.  Jacomuzzi,  Torino,  1974,  p.  168; 
A.  F.  Doni,  /  marmi,  I,  6,  ed.  a  cura  di  E.  Chiòrboli,  Bari,  1928,  p.  84. 


534  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

alzò  di  tavola,  lamentandosi  ch'il  signor  Folco  non  avea  fatto 
provisione  de  meglior  suppositi■*^ 

Frulla.  -  Questi  son  i  frutti  d'Inghilterra:  e  cercatene  pur 
quanti  volete,  che  le  trovarete  tutti  dottori  in  gramatica,  in  que- 
sti nostri  giorni:  ne'  quali  in  la  felice  patria  regna  una  costella- 
zione di  pedantesca  ostinatissima  ignoranza  e  presunzione,  mi- 
sta con  una  rustica  incivilita  che  farebbe  prevaricar  la  pazienza 
di  Giobbe.  E  se  non  il  credete,  andate  in  Oxonia  e  fatevi  raccon- 
tar le  cose  intravenute  al  Nolano,  quando  publicamente  disputò 
con  que'  dottori  in  teologia  in  presenza  del  prencipe  Alasco  po- 
lacco, et  altri  della  nobilita  inglesa"*"^;  fatevi  dire  come  si  sapea 
rispondere  a  gli  argomenti:  come  restò  per  quindeci  sillogismi, 
quindeci  volte  qual  pulcino  entro  la  stoppa  quel  povero  dottor, 
che  come  il  corifeo  dell'Academia  ne  puosero  avanti  in  questa 
grave  occasione "^5;  fatevi  dire  con  quanta  incivilita  e  discortesia 

43.  L'eco  di  queste  lamentele  di  Bruno  gli  alieneranno  l'amicizia  di  «Fol- 
co», cioè  di  Fulke  Greville  (cfr.  Spaccio.  Epistola  esplicatoria,  p.  172:  «se  tra  noi 
non  avesse  sparso  il  suo  arsenito  de  vili,  maligni  et  ignobili  interessati  l'invi- 
diosa Erinni»). 

44.  Bruno  si  era  recato  per  la  prima  volta  a  Oxford  (dopo  Londra),  al  seguito 
del  conte  palatino  polacco  Albrecht  Laski,  che  visitò  l'università  tra  il  io  e  il  13 
giugno  1583;  nel  resoconto  delle  dispute  che  si  tennero  per  l'occasione,  compilato 
da  A.  Wood.  in  modo  peraltro  tanto  particolareggiato  da  menzionare,  giorno  per 
giorno,  il  nome  dei  diversi  partecipanti  (cfr  Historia  et  Antiquitates  Universitatis 
Oxoniensis.  Oxford,  1674,  pp.  299-300),  non  v'è  traccia  della  presenza  di  Bruno; 
ma  il  fatto  che  vi  fosse  è  attestato  da  un  testimone  oculare,  il  polemista  prote- 
stante George  Abbot,  futuro  arcivescovo  di  Canterbury,  secondo  cui  Bruno 
avrebbe  avuto  il  più  vivo  desiderio  di  distinguersi  in  questa  circostanza  (cfr.  The 
Reasons  which  Doctour  Hill  hat  brought,  for  the  iipholding  of  Papistry,  Oxford, 
1604,  p.  87;  ripubblicato  in  G.  Aquilecchia,  G.  Bruno  in  Inghilterra  (1583-1585), 
«Bruniana  &  Campanelliana»  [Pisa-Roma],  I,  1995,  Testimonianza  6,  pp.  33-36). 
Cfr.,  oltre  a  R.  McNulty,  Bruno  ai  Oxford.  «Renaissance  News»  [New  York], 
XIII,  i960,  pp.  300-305  (che  ha  segnalato  per  la  prima  volta  e  parzialmente  pub- 
blicato il  documento),  i  numerosi  studi  di  G.  Aquilecchia  (Schede  bruniane 
cit.,  n.  XV,  pp.  XXV-XXVI  e  243-252;  «La  cena  de  le  ceneri»,  in:  Letteratura  ita- 
liana. Le  opere.  Torino,  voi.  II,  1993,  pp.  668-669;  ^''^  schede  su  Bruno  e  Oxford, 
«Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  LXXIV,  1993.  pp.  376  e 
segg.),  nonché  F.  A.  Yates,  G.  Bruno  e  la  disputa  con  i  dottori  di  Oxford  (1938- 
1939),  in:  G.  Bruno  e  la  cultura  del  rinascimento,  Roma-Bari,  1988,  pp.  11-28  (e  Id., 
G.  Bruno  e  la  tradizione  ermetica.  Roma-Bari,  2002'',  pp.  231-232);  E.  Me  MuLLiN, 
G.  Bruno  at  Oxford,  «Isis»  [Cambridge,  Mass.],  LXXVII,  1986,  pp.  85-94;  M.  Ci- 
liberto, La  ruota  del  tempo.  Roma,  1992^.  pp.  91-95. 

45.  Grazie  a  un  testimone  oculare,  Gabriel  Harvey  (Marginalia,  a  cura  di 
G.  C.  Moore  Smith,  Stratford-upon-Avon,  1913,  p.  156),  si  sa  che  questo  inter- 
locutore era  John  Underhill,  diventato  un  anno  più  tardi  vicecancelliere  del- 
l'università di  Oxford.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  G.  Bruno  in  Inghilterra  cit.,  Testi- 
monianza 2,  pp.  26-28  (ed  ora  anche  M.  Fintoni,  Mnem.osine,  in:  Giordano  Bruno 
1583-1585.  The  English  Experience  /  L'esperienza  inglese,  Firenze,  1997.  pp.  25-26). 


DIALOGO  QUARTO  535 

procedea  quel  porco,  e  con  quanta  pazienza  et  umanità  quell'al- 
tro che  in  fatto  mostrava  essere  napolitano  nato  et  allevato 
sotto  più  benigno  cielo.  Informatevi  come  gli  han  fatte  finire  le 
sue  publiche  letture,  e  quelle  de  immortalitate  animae,  e  quelle 
de  quintuplici  sphera'^^. 

Smitho.  —  Chi  dona  perle  a  porci  non  si  de'  lamentar  se  gli 
son  calpestrate-^^.  Or  sequitate  il  proposito  del  Torquato.  [215] 

Teofilo.  -  Alzati  tutti  di  tavola,  vi  furono  di  quelli  che  in 
lor  linguaggio  accusavano  il  Nolano  per  impaziente,  in  vece  che 
doveano  aver  più  tosto  avanti  gli  occhi  la  barbara  e  salvatica 
discortesia  del  Torquato  e  propria.  Tutta  volta  il  Nolano,  che  fa 
professione  di  vencere  in  cortesia  quelli  che  facilmente  pos- 
seano  superarlo  in  altro,  se  rimesse;  e  come  avesse  tutto  posto  in 
oblio,  disse  amichevolmente  al  Torquato:  «Non  pensar,  fratello, 
ch'io  per  la  vostra  opinione  voglia  o  possa  esservi  nemico:  anzi 
vi  son  cossi  amico,  come  di  me  stesso.  Per  il  che  voglio  che 
sappiate,  ch'io  prima  ch'avesse  questa  posizione  per  cosa  certis- 
sima, alcuni  anni  a  dietro  la  tenni  semplicemente  vera.  Quando 

46.  De  immortalitate  animae:  «Sull'immortalità  dell'anima»;  de  quintuplici 
sphera:  «Sulla  quintuplice  sfera»  (espressione  problematica  che  non  trova  ri- 
scontro né  in  Copernico,  né  in  Tolomeo).  Secondo  G.  Abbot,  Bruno  si  sarebbe 
recato  una  seconda  volta  ad  Oxford,  durante  l'estate  1583,  per  impartirvi  una 
serie  di  lezioni  favorevoli  alle  teorie  copernicane,  e  con  la  speranza  di  ottenervi 
la  cattedra  (cfr.  la  lettera  bruniana  Ad  excellentissimum  Oxoniensis  Achademiae 
Procancellarium,  Op.  lai,  II,  2,  pp.  76-78,  scritta  a  Londra  nel  1583,  tra  il  primo 
e  il  secondo  viaggio  ad  Oxford).  Due  dottori  di  Oxford  -  Tobie  Matthew  e, 
probabilmente,  Martin  Culpepper,  tutt'e  due  lodati  in  De  la  causa,  Dialogo 
primo,  p.  633  —  avrebbero  imposto  con  discrezione  al  filosofo  di  concluderle, 
dopo  essersi  accorti  che  plagiava  il  De  vita  coelitus  comparanda  di  Ficino:  ma 
quest'opera  non  ha  alcun  rapporto  con  il  problema  del  moto  della  Terra, 
Bruno  avrà  utilizzato  nelle  sue  lezioni  (come  farà  nei  dialoghi  italiani)  la  ter- 
minologia simbolico-speculativa  di  osservanza  ermetica,  orfica  o  neoplatonica, 
propria  del  corpus  ficiniano,  soprattutto  a  proposito  deir«anima  del  mondo» 
(cfr.  M.  Ciliberto,  Giordano  Bruno,  Roma-Bari,  1992^,  pp.  31-45).  Oppure,  se- 
guendo l'interpretazione  alternativa  di  R.  Sturlese,  Le  fonti  del  «Sigillus  sigil- 
lorum»  del  Bruno,  ossia:  il  confronto  con  Ficino  ad  Oxford  sull'anima  umana, 
«Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  LXXV,  1994,  p.  33-72,  «la 
lettura  "de  immortalitate  animae"  si  rivelerà  lettura-dimostrazione  ...  della  so- 
stanzialità, per  sé  sussistenza  dell'anima  come  condizione  indispensabile  di 
una  sua  vita  imperitura.  La  lettura  "de  quintuplici  sphaera"  s'appaleserà  com- 
pletamento teorico  della  prima,  rivolta  a  determinare  il  contenuto  concreto  di 
quella  vita  immortale  e  all'uopo  incentrata  sul  concetto  di  anima  umana  come 
impronta,  "sigillo"  dell'Uno  originario,  e  perciò  essa  stessa  unità  implicativa  ed 
unità  dispiegantesi  —  centro  che  "s'amplifica  in  una  sfera"».  Cfr.  infine  il  ten- 
tativo di  mediazione  di  G.  Aquilecchia,  G.  Bruno  in  Inghilterra  cit,  pp.  35-36. 

47.  Cfr.  MaUeo,  VII,  6. 


536  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

ero  più  giovane  e  men  savio,  la  stimai  verisimile.  Quando  ero 
più  principiante  nelle  cose  speculative,  la  tenni  sì  fattamente 
falsa,  che  mi  maravigliavo  d'Aristotele  che  non  solo  non  si 
sdegnò  di  fame  considerazione,  ma  anco  spese  più  de  la  mittà 
del  secondo  libro  Del  cielo  e  mondo  forzandosi  dimostrar  che  la 
terra  non  si  muova.  Quando  ero  putto  et  a  fatto  senza  intelletto 
speculativo,  stimai  che  creder  questo  era  una  pazzia-*^:  e  pen- 
savo che  fusse  stato  posto  avanti  da  qualcuno,  per  una  materia 
sofistica  e  capziosa,  et  esercizio  di  quelli  ociosi  ingegni,  che  vo- 
gliono disputar  per  gioco,  e  che  fan  professione  di  provar  e  de- 
fendere che  il  bianco  è  nero"'''.  Tanto  dumque  io  posso  odiar  voi 
per  questa  caggione,  quanto  me  medesmo  quando  ero  più  gio- 
vane, più  putto,  men  saggio  e  men  discreto 5°.  Cossi  in  loco  ch'io 
mi  devrei  adirar  con  voi  vi  compatisco;  e  priego  Idio  che  come 
ha  donato  a  me  questa  cognizione,  cossi,  se  non  gli  piace  di 
[217]  farvi  capaci  del  vedere,  al  meno  vi  faccia  posser  credere  che 
séte  ciechi:  e  questo  non  sarà  poco  per  rendervi  più  civili  e  cor- 
tesi, meno  ignoranti  e  temerarii.  E  voi  ancora  mi  dovete  amare, 
se  non  come  quello  che  sono  al  presente  più  prudente  e  più 
vecchio,  al  meno  come  quel  che  fui  più  ignorante  e  più  giovane: 
quando  ero  in  parte,  ne  gli  miei  più  teneri  anni,  come  voi  séte 
in  vostra  vecchiaia.  Voglio  dire  che  quantumque  mai  son  stato, 
conversando  e  disputando,  cossi  salvatico,  mal  creato  et  inci- 
vile, son  stato  però  un  tempo  ignorante  come  voi.  Cossi  avendo 
io  riguardo  al  stato  vostro  presente,  conforme  al  mio  passato;  e 
voi  al  stato  mio  passato,  conforme  al  vostro  presente:  io  vi 
amaro,  e  voi  non  m'odiarete». 

48.  Discorso  analogo  nel  De  immenso.  III,  9,  Of.  lat.,  I,  i,  pp.  380-381  (ed. 
Monti  cit.,  p.  563)  e,  in  un  contesto  differente,  nel  De  vinculis  in  genere,  Op.  lat., 
III,  p.  683  (ed.  Biondi  cit,  pp.  174-175). 

49.  Cfr.  De  la  causa,  Dialogo  quarto,  p.  704,  dove  Polihimnio  dichiara;  «non 
fo  (sophystarum  more)  professione  di  dimostrar  ch'il  bianco  è  nero». 

50.  E  un  peccato  che  queste  differenti  tappe  che  hanno  condotto  Bruno  dal 
rifiuto  alla  totale  accettazione  della  tesi  della  Terra  in  movimento  non  possano 
essere  cronologicamente  precisate.  A  quando  risale  l'apertura  del  Nolano  al 
«copernicanesimo»?  Non  esiste,  per  quello  che  ne  sappiamo,  un  saggio  speci- 
fico su  questo  punto.  Si  sa,  tuttavia,  che  «abbozzi  della  visione  cosmologica 
bruniana»,  come  ha  scritto  M.  Ciliberto,  Giordano  Bruno  cit,  p.  15,  si  trovano 
già  nella  prima  delle  sue  opere  a  stampa,  il  De  umbris  idearum,  apparsa  a  Pa- 
rigi nel  1585,  della  quale  si  veda  l'edizione  storico-critica  curata  da  R.  Sturlese, 
Firenze,  1991  (e  la  traduz.  di  N.  Tirinnanzi,  Milano,  1997)- 


DIALOGO  QUARTO  537 

Smitho.  —  Essi,  poi  che  sono  entrati  in  un'altra  specie  di  di- 
sputazione,  che  dissero  a  questo? 

Teofilo.  -  In  conclusione:  che  loro  erano  compagni  di  Ari- 
stotele, di  Tolomeo  e  molti  altri  dottissimi  filosofi;  et  il  Nolano 
soggionse  che  sono  innumerabili  sciocchi,  insensati,  stupidi  et 
ignorantissimi  che  in  ciò  sono  compagni  non  solo  di  Aristotele 
e  Tolomeo,  ma  di  essi  loro  ancora  i  quali  non  possono  capire 
quel  che  il  Nolano  intende:  con  cui  non  sono  né  possono  esser 
molti  consenzienti,  ma  solo  uomini  divini  e  sapientissimi  come 
Pitagora,  Platone  et  altri.  «Quanto  poi  alla  moltitudine  che  si 
gloria  d'aver  filosofi  dal  canto  suo,  vorrei  che  consideri  che  per 
tanto  che  sono  que'  filosofi  conformi  al  volgo,  han  prodotta  una 
filosofia  volgare.  E  per  quel  ch'appartiene  a  voi  che  vi  fate  sotto 
la  bandiera  d'Aristotele,  vi  dono  aviso  che  non  vi  dovete  glo- 
riare, quasi  intendessivo  quel  che  intese  Aristotele,  e  penetras-  [219] 
sivo  quel  che  penetrò  Aristotele;  per  che  è  grandissima  diffe- 
renza tra  il  non  sapere  quel  che  lui  non  seppe,  e  saper  quel  che 
lui  seppe:  per  che  dove  quel  filosofo  fu  ignorante  ha  per  compa- 
gni non  solamente  voi,  ma  tutti  vostri  simili,  insieme  con  i  sca- 
fari  e  fachini  londrioti;  dove  quel  galant'uomo  fu  dotto  e  giudi- 
cioso,  credo  e  son  certissimo  che  tutti  insieme  ne  séte  troppo 
discosti.  Di  una  cosa  fortemente  mi  maraveglio:  che  essendo  voi 
stati  invitati  e  venuti  per  disputare,  non  avete  giamai  posto  tali 
fondamenti,  e  proposte  tale  raggioni,  per  le  quali  in  modo  al- 
cuno possiate  conchiudere  contra  me,  né  contra  il  Copernico;  e 
pur  vi  sono  tanti  gagliardi  argomenti  e  persuasioni».  Il  Tor- 
quato, come  volesse  ora  sfodrare  una  nobilissima  demostra- 
zione,  con  una  augusta  maestà  dimanda:  «  Ubi  est  aux  solis?»^K 
Il  Nolano  rispose  che  lo  imaginasse  dove  gli  piace,  e  conclu- 
desse qualche  cosa;  per  che  l'auge  si  muta  e  non  sta  sempre  nel 
medesmo  grado  de  l'eclittica ^^^  e  non  può  veder  a  che  proposito 
dimanda  questo.  Toma  il  Torquato  a  dimandar  il  medesmo, 

51.  «Dove  si  trova  l'apogeo  del  Sole?». 

52.  Tolomeo  considerava  ancora  l'apogeo  del  Sole  come  fisso  in  rapporto 
alle  stelle.  Copernico,  basandosi  sulle  osservazioni  di  alcuni  astronomi  arabi  e 
sulle  sue  personali,  riuscì  a  determinare  la  posizione  apparente  del  Sole  sul- 
l'eclittica, così  come  il  suo  moto  medio  (cfr.  De  revoluHonibus,  III,  22,  ed.  Ba- 
rone cit,  pp.  443-444). 


538  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

come  il  Nolano  non  sapesse  rispondere  a  questo.  Rispose  il  No- 
lano: «  Quot  sunt  sacramenta  ecclesiae?  Est  circa  vigesìmum  Cancri; 
et  oppositum  circa  decimum  vel  centesimum  Capricorni^^,  o  sopra 
il  campanile  di  San  Paolo  w^-^. 

Smitho.  —  Possete  conoscere  a  che  proposito  dimandasse 
questo? 

Teofilo.  -  Per  mostrar  a  que'  che  non  sapean  nulla,  che  lui 
disputava,  e  che  diceva  qualche  cosa,  et  oltre  tentare  tanti  qiio- 
modo,  quare,  ubi^^,  sin  che  ne  trovasse  uno  al  quale  il  Nolano 
[221]  dicesse  che  non  sapea:  sin  a  questo,  che  volse  intendere  quante 
stelle  sono  della  quarta  grandezza.  Ma  il  Nolano  disse  che  non 
sapeva  altro  che  quello  che  era  al  proposito.  Questa  interroga- 
zione de  l'auge  del  sole,  conchiude  in  tutto  e  per  tutto  che  co- 
stui era  ignorantissimo  di  disputare  ^^  Ad  uno  che  dice  la  terra 
muoversi  circa  il  sole,  il  sole  star  fisso  in  mezzo  di  questi  er- 
ranti lumi,  dimandare  dove  è  l'auge  del  sole,  è  a  punto  come  se 
uno  dimandasse  a  quello  de  l'ordinario  parere,  dove  è  l'auge  de 
la  terra:  e  pur  la  prima  lezzione  che  si  dà  ad  uno  che  vuole 
imparar  di  argumentare  è  di  non  cercare  e  dimandar  secondo  i 
proprii  principii,  ma  quelli  che  son  concessi  da  l'avversario"; 
ma  a  questo  goffo  tutto  era  il  medesmo:  per  che  cossi  arrebe 
saputo  tirar  argumenti  da  que'  suppositi  che  sono  a  proposito, 
come  da  que'  che  son  fuor  di  proposito.  -  Finito  questo  di- 
scorso, cominciomo  a  raggionar  in  inglese  tra  loro:  e  dopo  aver 

53.  «Quanti  sacramenti  ha  la  Chiesa?  [l'apogeo]  si  trova  verso  il  ventesimo 
grado  del  Cancro;  ed  il  suo  opposto  verso  il  decimo  o  centesimo  del  Capricor- 
no». Si  veda  la  nota  di  R.  Amerio,  in  Opere  di  G.  Bruno  cit:  «Con  domandare 
all'avversario  cosa  affatto  estranea  alla  disputa  e  col  rispondere  alla  sua  do- 
manda in  modo  strampalato,  il  Nolano  intende  render  manifesta  la  stoltizia  di 
Torquato». 

54.  La  guglia  della  cattedrale  di  San  Paolo  era  andata  distrutta  nell'incen- 
dio del  1561. 

55.  «Come,  perché,  dove?». 

56.  Bruno  ha  perfettamente  ragione.  Ad  essere  precisi,  parlare  di  apogeo  del 
Sole  in  un  sistema  eliocentrico  è  assurdo  (si  dovrebbe  dire  «afelio»,  termine 
che  sarà  creato  da  Kepler,  assieme  al  simmetrico  «perielio»).  Rimane  il  fatto 
che  lo  stesso  Copernico  parli  di  apogeo  del  Sole,  non  certo  per  incompetenza, 
ma  perché  conserva,  come  dichiara,  la  terminologia  corrente  in  un  sistema 
geocentrico. 

57.  Principio  metodologico  rispettato  solo  parzialmente  dallo  stesso  Bruno 
nei  dialoghi  della  Cena  e,  con  maggiore  rigore,  in  quelli  De  la  causa  (cfr.  l'in- 
troduzione di  G.  Aquilecchia  all'edizione  Torino,  1973,  pp-  XI  e  segg.). 


DIALOGO  QUARTO  539 

alquanto  trascorso  insieme,  ecco  comparir  su  la  tavola  carta  e 
calamaio.  Il  dottor  Torquato  distese  quanto  era  largo  e  lungo 
un  foglio,  prese  la  piuma  in  mano,  tira  una  linea  retta  per 
mezzo  del  foglio  da  un  canto  a  l'altro,  in  mezzo  forma  un  cir- 
colo a  cui  la  linea  predetta,  passando  per  il  centro,  facea  diame- 
tro, e  dentro  un  semicircolo  di  quello  scrive  Terra,  e  dentro  l'al- 
tro scrive  Sol.  Dal  canto  de  la  terra  forma  otto  semicircoli,  dove 
ordinatamente  erano  gli  caratteri  di  sette  pianeti  e  circa  l'ul- 
timo scritto  Octava  Sphaera  Mobilis^^,  e  ne  la  margine  Ptolomeus. 
Tra  tanto  il  Nolano  disse  a  costui  che  volea  far  di  questo,  che 
sanno  sin  a  i  putti?  Torquato  rispose:  «.Vide,  tace  et  disce:  ego 
doceho  te  Ptolomeum  et  Copernicum»^'^.  [223] 

Smitho.  -  Sus  quandoque  Minervam^^. 

Teofilo.  -  Il  Nolano  rispose  che  quando  uno  scrive  l'alfa- 
beto, mostra  mal  principio  di  voler  insegnar  gramatica  ad  un 
che  ne  intende  più  che  lui.  Seguita  a  far  la  sua  descrizione  il 
Torquato;  e  circa  il  sole  che  era  nel  mezzo,  forma  sette  semicir- 
coli con  simili  caratteri,  circa  l'ultimo  scrivendo  Sphaera  Inmo- 
hilis  Fixarum^^,  e  ne  la  margine:  Copernicus.  Poi  se  volta  al  terzo  [225] 
circolo ^2,  et  in  un  punto  della  sua  circonferenza  forma  il  centro 
d'un  epiciclo,  al  quale  avendo  delineata  la  circonferenza,  in 

58.  «Ottava  sfera  mobile».  La  figura  7,  che  pare  illustrare  nella  parte  supe- 
riore il  sistema  di  Tolomeo  e  nella  parte  inferiore  quello  di  Copernico,  si  allon- 
tana, ancora  una  volta,  dalla  descrizione  di  Teofilo,  poiché  non  reca  le  parole 
Terra,  Sol,  Octava  Sphaera  Mobilis,  Sphaera  Immobilis  Fixarum.  Si  osservi  che, 
nella  parte  superiore,  il  primo  degli  otto  semicerchi  rappresenta  (o  si  crede  che 
rappresenti)  la  superficie  della  Terra,  seguita  in  ordine  ascendente  dai  sette 
cerchi  dei  sette  pianeti  tradizionali.  La  situazione  non  è  chiara,  dal  punto  di 
vista  grafico,  per  la  parte  inferiore  della  figura:  se  i  simboli  vi  fossero  stati 
realmente  disegnati,  sarebbe  stato  possibile  accorgersi  sia  che  il  «sistema»  Ter- 
ra-Luna è  collocato  male,  sia  che  manca  un  semicerchio. 

59.  «Guarda,  taci  e  impara:  io  t'insegnerò  Tolomeo  e  Copernico». 

60.  «Il  maiale  talvolta  fa  lezione  a  Minerva»:  proverbio  greco  e  latino  com- 
mentato da  Erasmo  negli  Adagia,  I,  i,  40. 

61.  «Sfera  immobile  delle  fisse».  Contrariamente  all'indicazione  del  testo,  la 
figura  mostra  su  questo  lato  otto  semicerchi,  mentre  ne  occorrerebbero  nove  (cfr. 
la  figura  del  De  revolutionibus  riprodotta  qui  alla  nota  65).  Il  risultato  è  che  il 
cerchio  del  pianeta  Marte  (lato  dedicato  a  Tolomeo)  coincide  con  il  cerchio  sul 
quale  è  rappresentato  il  simbolo  della  Luna  (lato  dedicato  a  Copernico),  co- 
sicché manca  un  cerchio  per  uno  dei  tre  pianeti  superiori. 

62.  Errore:  il  cerchio  sul  quale  Torquato  ha  preso  un  punto  a  mo'  di  centro 
dell'epiciclo  è  «a  scendere»  il  quinto  cerchio  ed  «a  salire»  il  quarto.  Per  di  più, 
su  questo  punto,  non  si  ritrova  nessuna  indicazione:  né  la  parola  Terra,  né 
qualche  segno  particolare. 


540 


LA  CENA  DE  LE  CENERI 


detto  centro  penge  il  globo  de  la  terra '^';  et  a  fin  che  alcuno  non 
s'ingannasse  pensando  che  quello  non  fusse  la  terra,  vi  scrive  a 
bel  carattere:  Terra;  et  in  un  loco  de  la  circonferenza  de  l'epi- 

PTOLEMAEVS- 


COPERNICVS. 

[FiG.  7] 

ciclo  distantissimo  dal  mezzo,  figurò  il  carattere  della  luna. 
Quando  vedde  questo  il  Nolano,  «Ecco»  disse,  «che  costui  mi 
volea  insegnare  del  Copernico,  quello  che  il  Copernico  medesmo 


63.  Sulla  figura  7.  tuttavia,  la  Terra  è  situata  sul  medesimo  epiciclo  della 
Luna,  in  sintonia  d'altronde  con  la  lettura  erronea  che  Bruno  fornirà  della 
figura  e  del  testo  dello  stesso  Copernico,  nelle  righe  successive. 


DIALOGO  QUARTO 


541 


non  intese,  e  più  tosto  s'arrebe  fatto  tagliar  il  collo  che  dirlo  o 
scriverlo.  Perché  il  più  grande  asino  del  mondo  saprà  che  da 
quella  parte  sempre  si  vedrebbe  il  diametro  del  sole  equale;  et 
altre  molte  conclusioni  seguitarebbono  che  non  si  possono  veri- 
ficare». «Tace,  tace»  disse  il  Torquato,  «tu  vis  me  docere  Coperni- 
cum?»^;  «Io  curo  poco  il  Copernico»  disse  il  Nolano,  «e  poco 
mi  curo  che  voi  o  altri  l'intendano;  ma  di  questo  solo  voglio 
avertirvi,  che  prima  che  vengate  ad  insegnarmi  un'altra  volta, 
che  studiate  meglio».  Femo  tanta  diligenza  i  gentil'omini  che 
v'eran  presenti,  che  fu  portato  il  libro  del  Copernico ''5;  e  guar- 
dando nella  figura,  veddero  che  la  terra  non  era  descritta  nella 
circonferenza  de  l'epiciclo  come  la  luna;  però  volea  Torquato 
che  quel  punto  che  era  in  mezzo  de  l'epiciclo  nella  circonfe- 
renza della  terza  sfera,  significasse  la  terra ^^. 

Smitho.  -  La  causa  de  l'errore  fu,  che  il  Torquato  avea  con- 
template le  figure  di  quel  libro,  e  non  avea  letto  gli  capitoli:  e  se 
pur  le  ha  letti,  non  l'ha  intesi. 

64.  «Taci,  taci,  vorresti  insegnarmi  Copernico?». 

65.  Il  De  revolutionibus  orbium  caelestium  era  leggibile,  all'epoca,  nella  prima 
edizione  norimberghese  del  1543  e  nella  seconda  edizione  basileese  del  1566.  La 
figura  qui  riprodotta  è  tratta  dal  cap.  io  del  Libro  primo  del  De  revolutionibus, 
1543,  fol.  9\ 


66.  Torquato  interpreta  correttamente  Copernico.  Si  osserverà  che  qui  non 
è  più  questione  di  un  terzo  cerchio,  ma  della  terza  sfera.  Ora,  sulla  figura  di 
Copernico,  la  terza  sfera  a  partire  dal  Sole,  che  reca  la  leggènda  Telluris  cum 
orbe  lunari  annua  reuolutio  («Rivoluzione  annuale  della  Terra  con  la  sfera  della 
Luna»),  è  delimitata  da  due  cerchi,  il  terzo  ed  il  quinto  a  partire  dal  centro;  il 
quarto  rappresenta  il  deferente  della  Terra,  centro  intomo  al  quale  è  stato  trac- 
ciato l'epiciclo  della  Luna,  che  occupa  tutto  lo  spessore  del  magnus  orbis. 


542  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

[227]  Teofilo.  -  Il  Nolano  se  mise  ad  ridere;  e  dissegli  che  quel 
punto  non  significava  altro  che  la  pedata  del  compasso,  quando 
si  delineò  l'epiciclo  della  terra  e  della  luna,  il  quale  è  tutto  uno 
et  il  medesmo:  «Or  se  volete  veramente  sapere  dove  è  la  terra 
secondo  il  senso  del  Copernico,  leggete  le  sue  paroli».  Lessero,  e 
ritrovamo  che  dicea  «la  terra  e  la  luna  essere  contenute  come 
da  medesmo  epiciclo»,  etc.^'.  E  cossi  rimasero  mastigando  in 
lor  lingua,  sin  tanto  che  Nundinio  e  Torquato  avendo  salutato 
tutti  gli  altri,  eccetto  ch'il  Nolano,  se  n'andomo:  e  lui  inviò  uno 
appresso  che  da  sua  parte  salutasse  loro.  Que'  cavallieri,  dopo 
aver  pregato  il  Nolano  che  non  si  turbasse  per  la  discortese  in- 
civilita e  temeraria  ignoranza  de  lor  dottori,  ma  che  avesse 
compassione  alla  povertà  di  questa  patria,  la  quale  è  rimasta 
vedova  delle  buone  lettere,  per  quanto  appartiene  alla  profes- 
sione di  filosofia  e  reali  matematiche  (nelle  quali  mentre  sono 
tutti  ciechi,  vengono  questi  asini  e  ne  si  vendono  per  oculati,  e 
ne  porgano  vessiche  per  lanterne),  con  cortesissime  salutazioni 
lasciandolo,  se  ne  andaro  per  un  camino;  noi  et  [il]  Nolano  per 
un  altro  ritornammo  tardi  a  casa,  senza  ritrovar  di  que'  rintuzzi 
ordinarii,  per  che  la  notte  era  profonda,  e  gli  animali  comupeti 
e  calcitranti'^^  non  ne  molestaro  al  ritomo,  come  alla  venuta; 
per  che  prendendo  l'alto  riposo  s'erano  nelle  lor  mandre  e  stalle 
retirati. 


67.  Da  un  lato,  è  proprio  la  Terra,  e  non  «la  pedata  del  compasso»,  che 
sulla  circonferenza  del  cerchio  mediano  della  terza  sfera  occupa  il  centro  del- 
l'epiciclo della  Luna,  nella  figura  a  fol.  9^  dell'edizione  1543  così  come  dell'edi- 
zione 1566  del  De  revolutionibus;  dall'altro,  la  lettera  stessa  del  testo:  «Quartum 
in  ordine  annua  revolutio  locum  obtinet,  in  quo  terram  cum  orbe  lunari  tan- 
quam  epicyclo  contineri  diximus»,  non  significa,  come  intende  Bruno,  che  «la 
terra  e  la  luna  essere  sostenute  come  da  medesmo  epiciclo»,  bensì  che  «il 
quarto  posto  è  occupato  dalla  rivoluzione  annuale  della  sfera  in  cui  abbiamo 
detto  che  è  contenuta  la  Terra  con  l'orbe  lunare  come  se  fosse  un  epiciclo»  (ed. 
Barone  cit,  p.  212  e  figura  a  p.  213).  Lo  stesso  errore  ritoma  nella  traduzione 
francese  di  Pontus  de  Tyard:  «Au  quatrieme  lieu  est  logee  la  sphere  qui  se 
toume  en  un  an:  en  laquelle  comme  dans  un  Epicycle,  la  Terre  &  tonte  la 
region  Elementaire,  avec  le  globe  de  la  Lune,  est  contenue»  (Deux  discours  de 
la  nature  du  monde.  Paris,  1578  citato  in  F.  A.  Yates,  The  French  Academies  of 
the  Sixteenth  Century,  London.  1947,  p.  103.  nota).  Su  questo  errore  di  Bruno 
si  veda  E.  Me  Mullin,  Bruno  and  Copernicus,  «Isis»  [Cambridge,  Mass.], 
LXXVin,  1987,  pp.  55-59.  Non  si  deve,  tuttavia,  escludere  che  la  misinterpre- 
tazione  bruniana  sia  stata  influenzata  dal  rifiuto  di  «ammettere  una  subordi- 
nazione di  pianeti  nell'universo»,  come  asserisce  N.  Badaloni,  La  filosofia  di 
G.  Bruno,  Firenze.  1955,  pp.  82-83. 

68.  Cfr.  Esodo,  XXI  29. 


DIALOGO  QUARTO  543 

Prudenzio.  - 

Nox  erat  et  placidum  carpebant  fessa  soporem 
corpora  per  terras,  sylvaeque  et  saeva  quierant 
aequora,  cum  medio  volvuntur  sidera  lapsu, 
cum  tacet  omnis  ager,  pecudes,  etc/^'^. 

Smitho.  -  Orsù  abbiamo  assai  detto  oggi:  di  grazia,  Teofilo, 
ritornate  domani,  perché  voglio  intendere  qualch'altro  propo-  [229] 
sito  circa  la  dottrina  del  Nolano;  perché  quella  del  Copernico, 
benché  sii  comoda  alle  supputazioni,  tutta  volta  non  è  sicura 
et  ispedita  quanto  alle  raggioni  naturali,  le  quali  son  le  prin- 
cipali ^°. 

Teofilo.  —  Ritomarò  volentieri  un'altra  volta. 

Frulla.  -  Et  io. 

Prudenzio.  -  Ego  quoque.  Valete''^. 

Fine  del  quarto  dialogo  [231] 


69.  Virgilio,  Aen..  IV,  522-525,  in  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  Torino,  1971, 
p.  463:  «La  notte  regnava  e  placido  gustavan  stanchi  il  sopore  i  corpi  su  tutta 
la  terra,  le  foreste  anche  e  dalle  furie  riposava  la  distesa  delle  acque,  quando  a 
mezzo  si  volgono  gli  astri  della  loro  caduta,  quando  tace  ogni  campo,  il  be- 
stiame, etc». 

70.  Già  nel  Dialogo  primo,  p.  449,  Bruno  ha  definito  Copernico  «più  stu- 
dioso de  la  matematica  che  de  la  natura». 

71.  «Io  anche,  addio». 


DIALOGO  QUINTO 

Teofilo.  —  Perché  non  son  più  né  altramente  fisse  le  altre 
stelle  al  cielo,  che  questa  stella  che  è  la  terra  è  fissa  nel  mede- 
smo  firmamento  che  è  l'aria.  E  non  è  più  degno  d'esser  chia- 
mato ottava  sfera  dove  è  la  coda  de  l'Orsa,  che  dove  è  la  terra, 
nella  quale  siamo  noi:  per  che  in  una  medesma  eterea  reggione, 
come  in  un  medesmo  gran  spacio  e  campo,  son  questi  corpi  di- 
stinti; e  con  certi  convenienti  intervalli  allontanati  gli  uni  da 
gli  altri  1.  Considerate  la  caggione  per  la  quale  son  stati  giudi- 
cati sette  cieli  de  gli  erranti,  et  uno  solo  di  tutti  gli  altri.  Il  vario 
moto  che  si  vedeva  in  sette,  et  uno  regolato  in  tutte  l'altre  stelle 
che  serbono  perpetuamente  la  medesma  equidistanza  e  regola, 
fa  parer  a  tutte  quelle  convenir  un  moto,  una  fissione  et  un 
orbe;  e  non  esser  più  che  otto  sfere  sensibili  per  gli  luminari  che 
sono  com'inchiodati  in  quelle-.  —  Or  se  noi  venemo  a  tanto 
lume  e  tal  regolato  senso,  che  conosciamo  questa  apparenza  del 
moto  mondano  procedere  dal  giro  de  la  terra;  se  dalla  similitu- 
dine della  consistenzia  di  questo  corpo  in  mezzo  l'aria,  giudi- 
chiamo la  consistenza  di 'tutti  gli  altri  corpi:  potremo  prima  cre- 
dere, e  poi  demostrativamente  conchiudere  il  contrario  di  quel 
[233]  sogno  e  quella  fantasia  che  è  stato  quel  primo  inconveniente 
che  ne  ha  generati  et  è  per  generarne  tanti  altri  innumerabili. 


1.  Questa  descrizione  di  un  universo  «esploso»,  da  dove  ogni  sfera  è  stata 
eliminata  -  persino  l'ultima,  chiamata  per  convenzione  l'ottava  -  mostra  di 
quanto  Bruno  sia  andato  oltre  Copernico,  per  il  quale  l'unico  mondo  di  cui  è 
questione  nel  De  revoluHonibus  resta  un  cosmos  di  tipo  tradizionale,  con  un 
centro  ed  una  circonferenza. 

2.  Al  di  là  dell'ottava  sfera  sensibile,  gli  astronomi  avevano  aggiunto,  come 
Bruno  stesso  ha  ricordato  sopra,  un  certo  numero  di  cieli  invisibili.  A  questi 
cieli  dotati  di  una  funzione  astronomica,  i  teologi  avevano  aggiunto  l'empireo, 
cielo  immobile,  senza  funzione  astronomica  propria.  -  «Quel  sogno  e  quella 
fantasia»,  nel  passaggio  seguente,  è  di  nuovo  un'eco  di  F.  Bemi  (cfr.  supra, 
Proemiale  epistola,  p.  434,  nota  25). 


DIALOGO  QUINTO  545 

Quindi  accade  quello  errore.  Come  a  noi  che  dal  centro  dell'ori- 
zonte  voltando  gli  occhi  da  ogni  parte,  possiamo  giudicar  la 
maggior  e  minor  distanza  da,  tra,  et  in  quelle  cose  che  son  più 
vicine;  ma  da  un  certo  termine  in  oltre,  tutte  ne  parranno 
equalmente  lontane:  cossi  alle  stelle  del  firmamento  guardando, 
apprendiamo  la  differenza  de  moti  e  distanze  d'alcuni  astri  più 
vicini;  ma  gli  più  lontani  e  lontanissimi,  ne  appaiono  inmobili, 
et  equalmente  distanti  e  lontani  quanto  alla  longitudine.  Qual- 
mente un  arbore  talvolta  parrà  più  vicino  a  l'altro  perché  si 
accosta  al  medesmo  semidiametro;  e  perché  sarà  in  quello  indif- 
ferente, parrà  tutt'uno:  e  pure  con  tutto  ciò  sarà  più  lontananza 
tra  questi,  che  tra  quelli  che  son  giudicati  molto  più  discosti, 
per  la  differenza  di  semidiametri.  Cossi  accade  che  tal  stella  è 
stimata  molto  maggiore,  che  è  molto  minore;  tale  molto  più 
lontana,  che  è  molto  più  vicina.  Come  nella  seguente  figura, 
dove  ad  0  occhio  la  stella  A  pare  la  medesima  con  la  stella  B,  e 
se  pur  si  mostra  distinta,  gli  parrà  vicinissima;  e  la  stella  C,  per 
essere  in  un  semidiametro  molto  differente,  parrà  molto  più 
lontana:  et  in  fatto  è  molto  più  vicina.  -  Dumque  che  noi  non 
veggiamo  molti  moti  in  quelle  stelle,  e  non  si  mostrino  allonta- 
narsi et  accostarsi  l'une  da  l'altre  e  Fune  a  l'altre,  non  è  perché 
non  facciano  cossi  quelle  come  queste  gli  lor  giri:  atteso  che  non 
è  raggione  alcuna,  per  la  quale  in  quelle  non  siano  gli  medesmi 
accidenti  che  in  queste,  per  i  quali  medesmamente  un  corpo, 
per  prendere  virtù  da  l'altro,  debba  muoversi  circa  l'altro.  E 
però  non  denno  esser  chiamate  fisse  per  che  veramente  serbino  [235] 
la  medesma  equidistanza  da  noi  e  tra  loro:  ma  per  che  il  lor 
moto  non  è  sensibile  a  noi^.  Questo  si  può  veder  in  essempio 
d'una  nave  molto  lontana:  la  quale  se  farà  un  giro  di  trenta  o  di 
quaranta  passi,  non  meno  parrà  che  la  stii  ferma,  che  se  non  si  [237] 
movesse  punto.  Cossi  proporzionalmente  è  da  considerare  in  di- 
stanze maggiori,  in  corpi  grandissimi  e  luminosissimi,  de  quali 
è  possibile  che  molti  altri  et  innumerabili  siino  cossi  grandi  e 
cossi  lucenti  come  il  sole,  e  di  vantaggio"^:  i  circoli  e  moti  di 

3.  Pare  che  Bruno  voglia  annullare  ogni  distinzione  reale  tra  pianeti  e 
stelle.  Per  lui,  si  tratta  di  corpi  celesti  tutti  egualmente  in  moto  e  composti 
materialmente  dalla  stessa  sostanza:  un'altra  rottura  nei  confronti  della  vi- 
sione tanto  tradizionale,  quanto  copernicana. 

4.  Nuova  proposizione  cosmologica  contraria  alla  tradizione:  fino  a  Tycho 


546 


LA  CENA  DE  LE  CENERI 


quali  molto  più  grandi  non  si  veggono.  Onde  se  in  alcuni  astri 
di  quelli  accade  varietà  di  approssimanza,  non  si  può  conoscere 
se  non  per  lunghissime  osservazioni,  le  quali  non  son  state  co- 


0,  la  vista,  l'occhio. 

OAB,  OC,  OD,  lunghezze,  longitudini  e 

linee  visuali. 

AC,  AD,  CD,  larghezze,  latitudini. 

[FlG.  8] 


Brahe  (Copernico  non  si  pronuncia  sul  problema)  le  stelle  di  prima  magnitudo 
erano  considerate  all'incirca  cento  volte  più  grandi  (in  volume)  della  Terra. 
Essendo  circa  i66  volte  più  voluminoso  del  nostro  pianeta,  il  Sole  era  il  più 
grosso  corpo  dell'universo.  Con  Tycho,  le  cifre  vennero  corrette  al  ribasso:  il 
rapporto  per  quello  che  riguarda  il  Sole  e  le  stelle  di  prima  grandezza  scese, 
rispettivamente,  a  140  e  68.  Sola  eccezione  (quanto  a  grandezza)  la  nova  del 


DIALOGO  QUINTO  547 

minciate  né  perseguite;  perché  tal  moto  nessuno  l'ha  creduto, 
né  cercato,  né  presupposto:  e  sappiamo  che  il  principio  de  l'in- 
quisizione è  il  sapere  e  conoscere  che  la  cosa  sii,  o  sii  possibile  e 
conveniente,  e  da  quella  si  cave  profitto  5. 

Prudenzio.  —  Rem  acu  tangis^. 

Teofilo.  —  Or  questa  distinzion  di  corpi  ne  la  eterea  reg- 
gione  l'ha  conosciuta  Eraclito,  Democrito,  Epicuro,  Pitagora, 
Parmenide,  Melisso,  come  ne  fan  manifesto  que'  stracci  che 
n'abbiamo^:  onde  si  vede,  che  conobbero  un  spacio  infinito,  re- 
gione infinita,  selva  infinita,  capacità  infinita  di  mondi  innu- 
merabili simili  a  questo;  i  quali  cossi  compiscono  i  lor  circoli 
come  la  terra  il  suo:  e  però  anticamente  si  chiamavano  ethera, 
ciò  è  corridori,  corrieri,  ambasciadori,  nuncii  della  magnificenza 
de  l'unico  Altissimo,  che  con  musicale  armonia  contemprano 
l'ordine  della  constituzion  della  natura,  vivo  specchio  dell'infi- 
nita deità.  Il  qual  nome  di  ethera  dalla  cieca  ignoranza  è  stato 
tolto  a  questi,  et  attribuito  a  certe  quinte  essenze,  nelle  quali 
come  tanti  chiodi  siino  inchiodate  queste  lucciole  e  lanterne.  — 
Questi  corridori*  hanno  il  principio  di  moti  intrinseco  la  pro- 

1572  che,  secondo  Tycho,  aveva  raggiunto,  al  suo  massimo,  un  volume  360 
volte  più  grande  della  Terra  (per  questi  dati,  si  vedano  le  tavole  a  corredo  di 
A.  Van  Helden,  Measuring  the  Universe.  Cosmic  Dimensions  front  Aristarchus  to 
Halley,  Chicago  and  London,  1985,  pp.  27,  30  e  50).  -  Com'è  noto,  Kepler  re- 
spingerà vigorosamente  l'idea  bruniana  degli  astri-soli,  mentre  Galilei  la  farà 
propria. 

5.  Osservazione  penetrante;  ma  —  ancora  una  volta  —  Bruno  è  in  anticipo  e 
scambia  i  suoi  desideri  per  realtà.  Nel  De  immenso,  I,  5  e  III,  io  (traduz.  in 
Opere  latine,  a  cura  di  C.  Monti,  Torino,  1980,  pp.  433-436  e  570-577),  egli  cre- 
derà confermati  dalle  osservazioni  di  Brahe  e  degli  «astronomi  del  nostro  tem- 
po», i  movimenti  propri  delle  fisse  che  aveva,  da  parte  sua,  scoperti  «dal  punto 
di  vista  fisico»  (e  provati  con  r« evidenza  del  senso  intemo»).  Infatti,  perché 
fosse  determinato  il  movimento  proprio  di  una  stella  -  nel  caso  specifico  Ar- 
turo, costellazione  di  Boote  -  si  dovrà  aspettare  il  XVIII  secolo.  Il  merito  è 
attribuito  da  alcuni  storici  della  scienza  ad  E.  Halley  (nel  1718),  da  altri  a 
J.  Cassini  (nel  1738). 

6.  «Questo  è  andare  al  cuore  del  problema»  (cfr.  Erasmo  da  Rotterdam, 
Adagia,  II,  4,  93). 

7.  Secondo  L.  Firpo,  Scritti  scelti  di  G.  Bruno  e  T.  Campanella,  Torino,  1949, 
p.  141,  nota  2:  «studiando  i  frammenti  e  le  testimonianze  di  questi  antichi 
filosofi,  il  Bruno  ne  aveva  tratto  un  accostamento  che  non  deve  parere  super- 
ficiale: in  Eraclito  trovava  l'idea  della  perenne  rinnovazione  cosmica;  quella 
dei  mondi  innumerevoli  in  Lucrezio,  che  riecheggiava  Epicuro  e  Democrito; 
quella  dell'eterno  ritomo  ciclico  in  Pitagora;  quella  dell'immutabilità  del  tutto 
in  Parmenide;  quella  dell'infinito  universo  in  Melisso». 

8.  Sull'etimologia  erronea  di  ethera,  cfr.  Proemiale  epistola,  p.  437,  nota  35. 
A  partire  dal  momento  in  cui  venne  abbandonata  l'idea  degli  orbi  vettori,  per 
«spiegare»  i  moti  degli  astri  si  doveva  ricorrere  ad  un  principio  di  tipo  animi- 


548  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

[239]  pria  natura,  la  propria  anima,  la  propria  intelligenza:  per  che 
non  è  sufficiente  il  liquido  e  sottile  aria,  a  muovere  sì  dense  e 
gran  machine;  per  che  a  far  questo  gli  bisognarebbe  virtù  trat- 
tiva,  o  impulsiva,  et  altre  simili,  che  non  si  fanno  senza  con- 
tatto di  dui  corpi  almeno,  de  quali  l'uno  con  l'estremità  sua 
risospinge,  e  l'altro  è  risospinto:  e  certo  tutte  cose  che  son  mosse 
in  questo  modo,  riconoscono  il  principio  de  lor  moto  o  contra  o 
fuor  de  la  propria  natura,  dico  o  violento  o  almeno  non  natu- 
rale. È  dumque  cosa  conveniente  alla  commodità  delle  cose  che 
sono,  et  a  l'effetto  della  perfettissima  causa,  che  questo  moto  sii 
naturale  da  princippio  intemo  e  proprio  appulso,  senza  resi- 
stenza. Questo  conviene  a  tutti  corpi  che  senza  contatto  sensi- 
bile di  altro  impellente  o  attraente  si  muoveno.  Però  la  inten- 
deno  al  rovescio  quei  che  dicono  che  la  calamita  tira  il  ferro, 
l'ambra  la  paglia,  il  getto  la  piuma,  il  sole  l'elitropia:  ma  nel 
ferro  è  come  un  senso  (il  quale  è  svegliato  da  una  virtù  spiri- 
tuale che  si  diffonde  dalla  calamita)  col  quale  si  muove  a 
quella,  la  paglia  a  l'ambra,  e  generalmente  tutto  quel  che  desi- 
dera et  ha  indigenza  si  muove  alla  cosa  desiderata,  e  si  converte 
in  quella  al  suo  possibile,  cominciando  dal  voler  essere  nel  me- 
desmo  loco^.  Da  questo  considerar  che  nulla  cosa  si  muove  lo- 
calmente da  principio  estrinseco  senza  contatto  più  vigoroso  del- 
la resistenza  del  mobile,  depende  il  considerare  quanto  sii  sol- 
lenne  goffaria,  e  cosa  impossibile  a  persuadere  ad  un  regolato 
sentimento,  che  la  luna  muove  l'acqui  del  mare,  caggionando  il 
flusso  in  quello  "\  fa  crescere  gli  umori,  feconda  i  pesci,  empie 

stico  o  vitale  (si  pensi  airimmagine,  di  molto  anteriore  a  Bruno,  dei  pianeti 
che  si  muovono  come  gli  uccelli  nell'aria  o  i  pesci  nell'acqua).  Kepler  stesso, 
per  qualche  tempo,  assegnerà  agli  astri  delle  intelligenze  motrici. 

9.  L'idea  sarà  sviluppata,  negli  stessi  anni,  da  Campanella;  la  prima  reda- 
zione del  suo  De  sensu  rerum  risale  al  1587-1589. 

10.  In  G.  Galilei,  Dialogo  sopra  i  massimi  sistemi.  Giornata  quarta,  in 
Opere,  a  cura  di  F.  Brunetti,  Torino,  voi.  II,  pp.  502  e  segg.,  la  fondamentale, 
estesa  risposta  di  Salviati  alle  «leggerezze»  che  pretendono  di  spiegare  le  ma- 
ree, ed  in  particolare  a  quelli  che  «referiscon  ciò  alla  Luna»,  ofifre  una  singo- 
lare analogia  con  il  rifiuto  dell'influsso  lunare  in  proposito  da  parte  di  Bruno. 
Con  tutto  che  il  rifiuto  galileiano  dipende,  esplicitamente,  dalla  persuasione  di 
aver  individuato  proprio  nel  flusso  e  riflusso  del  mare  l'unica  prova  dei  movi- 
menti della  Terra  che  fosse  constatabile  dalla  Terra  stessa,  mentre  in  Bruno 
permane  la  concezione  animistica  di  un  un  «princippio  intemo»,  nella  quale  è 
forse  da  indicare,  al  di  là  delle  innegabili  analogie,  il  divario  maggiore  tra  la 
concezione  galileiana  e  quella  bruniana  dell'universo  (cfr.  G.  Aquilecchia,  / 
«Massimi  sistemi»  di  Galileo  e  la  «Cena»  di  Bruno  (per  una  comparazione  temati- 


DIALOGO  QUINTO  549 

l'ostreche,  e  produce  altri  effetti:  atteso  che  quella  di  tutte  queste  [241] 
cose  è  propriamente  segno,  e  non  causa";  segno  et  indizio  dico, 
perché  il  vedere  queste  cose  con  certe  disposizioni  della  luna,  et 
altre  cose  contrarie  e  diverse,  con  contrarie  e  diverse  disposizioni, 
procede  da  l'ordine  e  corispondenza  delle  cose,  e  le  leggi  di  una 
mutazione,  che  son  conformi  e  corrispondenti  alle  leggi  de  l'altra. 
Smitho.  —  Dall'ignoranza  di  questa  distinzione  procede  che  di 
simili  errori  son  pieni  molti  scartafazzi,  che  ne  insegnano  tante 
strane  filosofie  dove  le  cose  che  son  segni,  circonstanze  et  acciden- 
ti, son  chiamate  cause.  Tra  quali  inezzie  quella  è  una  delle  reggi- 
ne, che  dice  li  raggi  perpendicolari  e  retti  esser  causa  di  maggior 
caldo,  e  li  acuti  et  obliqui  di  magior  freddo:  il  che  però  è  accidente 
del  sole  vera  causa  di  ciò,  quando  persevera  più  o  meno  sopra  la 
terra.  Raggio  reflesso  e  diretto,  angolo  acuto  et  ottuso,  linea  per- 
pendicolare, incidente  e  piana,  arco  maggiore  e  minore,  aspetto 
tale  e  quale,  son  circostanze  matematiche  e  non  cause  naturali. 
Altro  è  giocare  con  la  geometria,  altro  è  verificare  con  la  natura. 
Non  son  le  linee  e  gli  angoli  che  fanno  scaldar  più  o  meno  il  fuoco; 
ma  le  vicine  e  distanti  situazioni,  lunghe  e  brieve  dimore  ^^ 

co-strutturale),  «Nuncius»  [Firenze],  X,  1995,  pp.  485-496,  segnatamente  pp.  491- 
492  e  495-496)- 

11.  Allusione  al  dibattito  antropologico  sulla  funzione  causale  oppure  pre- 
dittiva degli  astri  (cfr.  la  traduzione  spagnola  di  M.  A.  Granada,  Madrid, 
1994^,  p.  154,  nota  5);  si  veda  la  distinzione  aristotelica  fra  orifielov  (segno)  ed 
aixiov  (causa),  in  De  divinatione  per  somnum,  I,  ^òzh-^ò^a.-  Il  dilemma  che  oppone 
gli  astri-segni  agli  astri-cause  è  perfettamente  articolato  in  Plotino,  Enn.,  II,  3, 
52;  la  distinzione  è  stata  ripresa  da  Origene,  Philocalia,  §  23,  sant'Agostino  ecc. 
Ma,  in  questo  passo.  Bruno  fa  molto  di  più  che  abbozzare  una  critica  all'astro- 
logia giudiziaria:  egli  rimette  in  causa  il  fondamento  stesso  della  divinazione 
secondo  gli  astri,  poiché  non  soltanto  l'azione  del  Sole  sulle  cose  di  quaggiù,  ma 
anche  quella  della  Luna  sull'elemento  acquoreo  —  segnatamente  sulle  maree  - 
erano  ritenute  verità  evidenti  (cfr.  Tolomeo,  Tetrabiblon,  I,  2-3).  Tale  influenza 
causale  non  sarà,  del  resto,  messa  in  discussione  dalle  bolle  papali  contro  l'astro- 
logia (si  veda  quella  del  1586).  Se  in  qualche  riga  Bruno  sembra  genericamente 
ispirarsi  a  Pico  della  Mirandola,  di  cui  il  Nolano  conosceva  le  Disputationes 
adversus  astrologiam  divinatricem,  quest'opera  non  sembra  seguita  in  merito  al- 
l'azione che  causerebbe  le  maree,  attribuita  nonostante  tutto  alla  Luna.  Per 
l'autore  delle  Disputationes  (III,  15,  ed.  a  cura  di  E.  Garin,  Firenze,  voi.  I,  1946, 
pp.  304-321),  la  Luna  non  agirebbe  per  mezzo  di  una  virtus  occulta,  che  Pico 
respinge  costantemente,  bensì  attraverso  la  luce,  il  calore  ed  il  suo  movimento. 
Sulle  critiche  di  Pico  all'astrologia,  si  veda  E.  Garin,  Lo  zodiaco  della  vita.  La 
polemica  sull'astrologia  dal  Trecento  al  Cinquecento,  Roma-Bari,  1982^. 

12.  Mescolanza  di  vero  e  di  falso:  è  verissimo  che  i  raggi  obliqui  non  sono 
causa  «di  maggior  freddo»,  ma  considerati  come  vettori  di  energia  e  non  come 
linee  geometriche  astratte,  essi  hanno  effetti  fisici  che  dipendono  dai  differenti 
angoli  formati  con  le  superfici. 


550  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Teofilo.  —  La  intendete  molto  bene;  ecco  come  una  verità 
chiarisce  l'altra.  —  Or  per  conchiudere  il  proposito:  questi  gran 
corpi,  se  fusser  mossi  dall'estrinseco,  altrimente  che  come  dal 
fine  e  bene  desiderato '\  sarrebono  mossi  violente  et  accidental- 
mente, ancor  che  avessero  quella  potenza  la  quale  è  detta  non 
repugnante:  per  che  il  vero  non  repugnante  è  il  naturale,  et  il 
[243]  naturale  (o  vogli  o  non)  è  principio  intrinseco,  il  quale  da  per  sé 
porta  la  cosa  dove  conviene:  altrimente  l'estrinseco  motore  non 
moverrà  senza  fatica,  o  pur  non  sarà  necessario,  ma  soverchio;  e 
se  vuoi  che  sia  necessario,  accusi  la  causa  efficiente  per  defi- 
ciente nel  suo  effetto,  e  che  occupa  gli  nobilissimi  motori  a  mo- 
bili assai  più  indegni  !■*,  come  fanno  quelli  che  dicono  Tazzioni 
delle  formiche  et  aragne  essemo  non  da  propria  prudenza  et 
artificio,  ma  da  l'intelligenze  divine  non  erranti,  che  gli  donano 
{verbi  gratia)^^  le  spinte,  che  si  chiamano  istinti  naturali,  et  altre 
cose  significate  per  voci  senza  sentimento:  per  che  se  doman- 
date a  questi  savii  che  cosa  è  quello  instinto,  non  sapranno  dir 
altro  che  «instinto»,  o  qualche  altra  voce  cossi  indeterminata  e 
sciocca,  come  questo  instinto,  che  significa  principio  istigativo, 
che  è  un  nome  comunissimo;  per  non  dir  o  un  sesto  senso,  o 
raggione.  o  pur  intelletto '^ 

Prudenzio.  —  Nimis  arduae  quaestìones^'. 

Smitho.  —  A  quelli  che  non  le  vogliono  intendere,  ma  che 
vogliono  ostinatamente  credere  il  falso.  —  Ma  ritorniamo  a  noi. 
Io  saprei  bene  che  rispondere  a  costoro  che  hanno  per  cosa  dif- 
ficile che   la  terra  si   muova,  dicendo   che  è  un  corpo  cossi 

13.  Oltre  che  l'animismo  naturalistico,  v"è  dunque  una  componente  teleo- 
logica nel  modo  in  cui  Bruno  si  rappresenta  il  movimento  (traduz.  di  M.  A. 
Granada  cit,  p.  155,  nota  6).  Il  «teleologismo»  di  Bruno,  più  oltre,  sarà  espli- 
citamente applicato  al  «moto  locale  della  terra»  (cfr.  pp.  555  e  segg.). 

14.  Dietro  questo  passo  si  ritrova  tutta  la  problematica  medievale  della  vir- 
tus  (finita  o  infinita)  dei  motori  separati  ed  il  connesso  problema  di  conoscere 
se  la  loro  virtus  sia  o  no  fatigabilis  (si  veda,  ad  esempio,  A.  Poppi,  Causalità  e 
infinità  nella  scuola  padovana  dal  1480  al  1513.  Padova,  1966  e  E.  Grant,  Pla- 
nets,  Stars  and  Orbs.  The  Medieval  Cosmos,  i200-i68j,  Cambridge,  1994,  pp.  539- 

544)- 

15.  «Per  esempio». 

16.  Bruno  tornerà  sul  problema  dell'istinto  nella  Cabala,  Dialogo  secondo, 
pp.  455-457  (cfr.  inoltre  la  Summa  terminorum  metaphysicorum,  art  Motus,  Op. 
lai.,  I,  4,  pp.  120-121).  Campanella  svilupperà  la  questione  nel  De  sensu  rerum, 
I,  6-8. 

17.  «Problemi  d'insormontabile  difficoltà». 


DIALOGO  QUINTO  551 

grande,  cossi  spesso,  e  cossi  grave '^.  Pure  vorrei  udire  il  vostro 
modo  di  rispondere,  per  che  vi  veggio  tanto  risoluto  nelle  rag- 
gioni. 

Prudenzio.  -  Non  talis  mihi^'^. 

Smitho.  -  Per  che  voi  siete  una  talpa. 

Teofilo.  —  Il  modo  di  rispondere  consiste  in  questo,  che  il 
medesmo  potreste  dir  della  luna,  il  sole,  e  d'altri  grandissimi  [245] 
corpi  e  tanti  innumerabili  che  gli  aversarii  vogliono  che  sì  ve- 
locemente circondino  la  terra  con  giri  tanto  smisurati.  E  pur 
hanno  per  gran  cosa  che  la  terra  in  24  ore  si  svolga  circa  il 
proprio  centro  et  in  un  anno  circa  il  sole^°.  Sappi  che  né  la 
terra,  né  altro  corpo  è  assolutamente  grave  o  lieve:  nessuno 
corpo  nel  suo  loco  è  grave  né  leggiero ^^  Ma  queste  differenze  e 
qualità  accadeno  non  a  corpi  principali,  e  particolari  individui 
perfetti  dell'universo;  ma  convegnono  alle  parti  che  son  divise 
dal  tutto,  e  che  se  ritrovano  fuor  del  proprio  continente,  e  come 
peregrine:  queste  non  meno  naturalmente  si  forzano  verso  il 
loco  della  conservazione,  che  il  ferro  verso  la  calamita,  il  quale 
va  a  ritrovarla  non  determinatamente  al  basso,  o  sopra,  o  a  de- 
stra, ma  ad  ogni  differenza  locale  ovumque  sia.  Le  parti  della 
terra  da  l'aria  vengono  verso  noi:  perché  qua  è  la  lor  sfera;  la 
qual  però  se  fusse  alla  parte  opposita,  se  parterebono  da  noi,  a 
quella  drizzando  il  corso.  Cossi  l'acqui,  cossi  il  fuoco.  L'acqua 
nel  suo  loco  non  è  grave,  e  non  aggrava  quelli  che  son  nel  pro- 
fondo del  mare;  le  braccia  il  capo  et  altre  membra  non  son 
grievi  al  proprio  busto,  e  nessuna  cosa  naturalmente  costituita 
caggiona  atto  di  violenza  nel  suo  loco  naturale.  Gravità  et  le- 

18.  Anche  questo  è  un  argomento  utilizzato  da  Tycho  Brahe,  negli  stessi 
anni,  per  «giustificare»  il  geocentrismo. 

19.  «A  me  non  sembra  tale». 

20.  Argomento  classico  dei  sostenitori,  copernicani  o  no,  come  R.  Ursus  o 
W.  Gilbert,  della  rotazione  come  caratteristica  della  Terra. 

21.  Cfr.  De  l'infinito,  Dialogo  secondo,  pp.  68-69;  ^^  immenso,  II,  3,  vv.  128- 
135  (ed.  Monti  cit.,  p.  470).  I  passaggi  successivi  s'ispirano,  in  tutta  evidenza,  a 
come  Copernico  discute  l'argomento  principale,  chiamato  in  causa  dai  sosteni- 
tori dell'immobilità  terrestre:  «Come  causa  principale  allegano  la  gravità  e  la 
leggerezza»  {De  revolutionibus,  I,  7,  in  Opere,  a  cura  di  F.  Barone,  Torino,  1979, 
p.  196).  «Continente»,  nella  frase  seguente  e  a  p.  553,  è  «nel  significato  dato  dal 
Bruno...  più  volte,  un'autentica  invenzione  difficile  anche  da  esplicare:  lo  spa- 
zio che  contiene  uno  o  più  corpi  celesti  chiamati  mondi»  (cfr.  L.  Cozzi,  77  lessico 
scientifico  nel  dialogo  del  Rinascimento,  in:  Il  dialogo  filosofico  nel  '^00  europeo,  a 
cura  di  D.  Bigalli  e  G.  Canziani,  Milano,  1990,  p.  68). 


552  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

vita  non  si  vede  attualmente  in  cosa  che  possiede  il  suo  loco  e 
disposizione  naturale,  ma  si  trova  nelle  cose  che  hanno  un  certo 
empito  col  quale  si  forzano  al  loco  conveniente  a  sé^^;  però  è 
cosa  assorda  di  chiamar  corpo  alcuno  naturalmente  grave  o 
lieve,  essendo  che  queste  qualità  non  convengono  a  cosa  che  è 
nella  sua  constituzione  naturale,  ma  fuor  di  quella:  il  che  non 
[247]  aviene  alla  sfera  giamai,  ma  qualche  volta  alle  parti  di  quella; 
le  quali  però  non  sono  determinate  a  certa  differenza  locale  se- 
condo il  nostro  riguardo,  ma  sempre  si  determinano  al  loco 
dove  è  la  propria  sfera  et  il  centro  della  sua  conservazione^^. 
Onde  se  infra  la  terra  si  ritrovasse  un'altra  spezie  di  corpo,  le 
parti  della  terra  da  quel  loco  naturalmente  montarebbono;  e  se 
alcuna  scintilla  di  foco  si  trovasse  (per  parlar  secondo  il  co- 
mone)  sopra  il  concavo  della  luna,  verrebbe  a  basso  con  quella 
velocità  con  la  quale  dal  convesso  de  la  terra  ascende  in  alto. 
Cossi  l'acqua  non  meno  descende  insino  al  centro  de  la  terra,  se 
si  gli  dà  spacio,  che  dal  centro  della  terra  ascende  alla  superficie 
di  quella.  Parimente  l'aria  ad  ogni  differenza  locale  con  mede- 
sma  facilità  si  muove.  Che  vuol  dir  dumque  grave  e  lieve?  Non 
veggiamo  noi  la  fiama  talvolta  andar  al  basso  et  altri  lati,  ad 
accendere  un  corpo  disposto  al  suo  nutrimento  e  conserva- 
zione? Ogni  cosa  dumque  che  è  naturale,  è  facilissima;  ogni  loco 
e  moto  naturale,  è  convenientissimo.  Con  quella  facilità,  con  la 
quale  le  cose  che  naturalmente  non  si  muoveno  persisteno  fisse 
nel  suo  loco,  le  altre  cose  che  naturalmente  si  muoveno,  mar- 
ciano per  gli  lor  spacii.  E  come  violentemente  e  contra  sua  na- 
tura quelle  arrebono  moto,  cossi  violentemente  e  contra  natura 
queste  arrebono  fissione.  —  Certo  è  dumque  che  se  alla  terra  na- 
turalmente convenesse  l'esser  fissa,  il  suo  moto  sarrebbe  vio- 
lento, contra  natura  e  difficile-"":  ma  chi  ha  trovato  questo?  chi 

22.  In  queste  pagine.  Bruno  rimette  in  questione  le  categorie  poriianti  della 
fisica  aristotelica  che  sono,  come  ha  egregiamente  dimostrato  M.  Clavelin,  La 
philosophie  naturelle  de  Galilée.  Paris,  1968,  pp.  19-74.  inseparabili  da  una  strut- 
tura cosmica  affatto  particolare:  il  geocentrismo. 

23.  Si  sente  qui,  forse,  l'eco  di  un  passo  del  De  revolufionibus,  I,  9,  ed.  Ba- 
rone cit,  p.  203:  «Da  parte  mia,  penso  che  la  gravità  non  sia  altro  che  un  certo 
naturale  desiderio  infuso  dalla  provvidenza  divina  dell'artefice  del  mondo 
nelle  parti,  perché  esse,  riunendosi  nella  forma  di  una  sfera,  realizzino  la  loro 
unità  e  la  loro  integrità». 

24.  È  la  posizione  di  Copernico,  ivi,  I,  18,  ed.  ciL,  p.  197,  in  alternativa 
all'argomento  degli  avversari  del  moto  terrestre,  che  a  loro  avviso  sarebbe 


DIALOGO  QUINTO  553 

l'ha  provato?  la  corrione  ignoranza,  il  difetto  di  senso  e  di  rag- 
gione. 

Smitho.  -  Questo  ho  molto  ben  capito,  che  la  terra  nel  suo 
loco  non  è  più  grave  che  il  sole  nel  suo,  e  gli  membri  de  corpi  [249] 
principali,  come  le  acqui,  nelle  sue  sfere:  da  le  quali  divise,  da 
ogni  loco,  sito  e  verso  si  moverrebono  ad  quelle.  Onde  noi  al 
nostro  riguardo  le  potreimo  dire  non  meno  gravi  che  lieve, 
gravi  e  lieve,  che  indifferenti:  come  veggiamo  ne  le  comete  et 
altre  accensioni,  le  quali  da  i  corpi  che  bruggiano  alle  volte 
mandano  la  fiamma  a  luoghi  oppositi,  onde  le  chiamano  «co- 
mate»;  alle  volte  verso  noi,  onde  le  dicono  «barbate»;  alle  volte 
da  altri  lati,  onde  le  dicono  «  caudate  »25.  L'aria  il  quale  è  gene- 
ralissimo continente,  et  è  il  firmamento  di  corpi  sferici,  da  tutte 
parti  esce,  in  tutte  parti  entra,  per  tutto  penetra,  a  tutto  si  dif- 
fonde: e  però  è  vano  l'argomento  che  costoro  apportano,  della 
raggione  della  fissione  de  la  terra,  per  esser  corpo  ponderoso, 
denso  e  freddo. 

Teofilo.  —  Lodo  Idio  che  vi  veggio  tanto  capace,  e  che  mi 
togliete  tal  fatica,  et  avete  bene  compreso  quel  principio  col  qua- 
le possete  rispondere  a  più  gagliarde  persuasioni  di  volgari  filo- 
sofi, et  avete  adito  a  molte  profonde  contemplazioni  della  natura. 

Smitho.  -  Prima  che  venghi  ad  altre  questioni,  al  presente 
vorrei  sapere:  come  vogliamo  noi  dire  che  il  sole  è  l'elemento 
vero  del  fuoco,  e  primo  caldo,  e  quello  è  fisso  in  mezzo  di  questi 
corpi  erranti,  tra  quali  intendiamo  la  terra?  Perché  mi  occorre 
che  è  più  verisimile,  che  questo  corpo  si  muova  che  li  altri:  che 
noi  possiamo  veder  per  esperienza  del  senso. 

stato  violento:  «Se  qualcuno  pensasse  che  la  terra  ruota,  direbbe  in  ogni  caso 
che  il  moto  è  naturale,  non  violento.  E  le  cose  che  si  realizzano  secondo  natura 
hanno  effetti  contrari  a  quelle  che  si  realizzano,  invece,  secondo  violenza». 

25.  Bruno  si  limita  a  menzionare  soltanto  tre  delle  numerose  specie  di  co- 
mete enumerate  dagli  Antichi  (cfr.  ad  esempio  Plinio,  Nat.  hist.,  II,  22,  89-90, 
ed.  diretta  da  G.  B.  Conte,  Torino,  voi.  I,  1982,  pp.  259-260).  Sembra  che  qui  il 
Nolano  consideri  le  comete  come  fiamme  mentre,  fin  dal  1550,  Cardano,  nel 
suo  De  subtilitate,  aveva  formulato  l'ipotesi  che  la  coda  delle  comete  (sempre  in 
posizione  opposta  al  Sole,  come  Fracastoro  aveva  osservato,  intomo  al  1530) 
non  fosse  la  sede  di  una  combustione,  ma  di  un'illuminazione  ad  opera  della 
luce  solare:  idea  ripresa  da  Tycho  Brahe  ed,  in  seguito,  considerata  valida  una 
volta  per  tutte  (si  veda  C.  C.  Hellmann,  The  Comet  of  i^yy.  Its  Place  in  the 
History  of  Astronomy,  New  York,  1971,  pp.  13-117).  Ma  nel  De  immenso,  I,  5,  Op. 
lai.,  I,  I,  p.  218  (ed.  Monti  cit.,  pp.  435-436)  scriverà  che  le  comete  non  differi- 
scono in  niente  dai  pianeti,  se  non  nella  maniera  in  cui  ci  arriva  la  loro  luce. 


554  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Teofilo.  -  Dite  la  raggione. 

Smitho.  —  Le  parti  della  terra  ovomque  siino  o  natural- 
[251]  mente  o  per  violenza  ritenute,  non  si  muoveno.  Cossi  le  parti  de 
l'acqui  fuor  del  mare,  fiumi,  et  altri  vivi  continenti,  stanno 
ferme.  Ma  le  parti  del  foco  quando  non  hanno  facultà  di  mon- 
tare in  alto,  come  quando  son  ritenute  dalle  concavità  delle  for- 
naci, si  svolgeno  e  ruotano  in  tondo,  e  non  è  modo  che  le  rite- 
gna.  Se  dumque  vogliamo  prendere  qualche  argumento  e  fede 
dalle  parti,  il  moto  conviene  più  al  sole  et  elemento  di  foco  che 
alla  terra. 

Teofilo.  —  A  questo  rispondo  prima,  che  per  ciò  si  potrebe 
concedere  che  il  sole  si  muova  circa  il  proprio  centro.  Ma  non 
già  circa  altro  mezzo ^i^:  atteso  che  basta  che  tutti  i  circostanti 
corpi  si  muovano  circa  lui,  per  tanto  che  di  esso  quelli  han  bi- 
sogno; et  anco  per  quel  che  forse  anco  lui  potesse  desiderar  da 
essi.  Secondo  è  da  considerare  che  l'elemento  del  foco  è  soggetto 
del  primo  caldo,  è  corpo  cossi  denso  e  dissimilare  in  parti  e  mem- 
bri, come  è  la  terra:  però  quello  che  noi  veggiamo  muoversi  di  tal 
sorte,  è  aria  acceso,  che  si  chiama  «fiamma»;  come  il  medesmo 
aria  alterato  dal  freddo  della  terra,  si  chiama  «vapore». 

Smitho.  —  E  da  questo  mi  par  aver  mezzo  di  confirmar  quel 
che  dico;  perché  il  vapore  si  muove  tardo  e  pigro,  la  fiamma  et 
esalazione  velocissimamente:  e  però  quello  che  è  più  simile  al 
foco  si  vede  molto  più  mobile,  che  quello  aria  che  è  simigliante 
più  alla  terra. 

Teofilo.  —  La  caggione  è  che  il  fuoco  più  si  forza  di  fuggire 
da  questa  reggione  la  quale  è  più  connaturale  al  corpo  di  con- 
traria qualità.  Come  se  l'acqua  o  il  vapore  se  ritrovasse  nella 
[253]  reggione  del  fuoco,  o  loco  simile  a  quella,  con  più  velocità  fug- 
girebbe che  l'exalazione  la  quale  ha  con  lui  certa  participazione 
e  connaturalità  maggiore,  che  contrarietà  o  differenza.  Bastivi 

26.  Questa  ipotesi,  a  riguardo  della  quale  il  Nolano  è  ancora  esitante  (come 
Teofilo  dichiara  un  poco  più  sotto),  è  data  per  certa  nel  De  immenso,  III,  5  e  IV, 
8,  Op.  lai,  I,  I,  p.  359  e  I,  2,  p.  45  (ed.  Monti  cit.,  pp.  433-434  e  607).  Contra- 
riamente a  ciò  che  scriveva  H.  Brunnhofer,  G.  Bruno's  Weltanschauung  und 
Verhàngnis,  Leipzig,  1882,  Bruno  non  è  stato  il  primo  a  postulare  la  rotazione  del 
Sole:  l'intuizione  risale  a  Platone  e,  prima  di  Bruno,  sarà  ripresa,  fra  gli  altri, 
da  B.  Telesio  (cfr.  M.  P.  Lerner,  «Sicut  nodus  in  tabula».  De  la  rotation  propre 
du  soleil  au  XVF  siede,  «Journal  for  the  History  of  Astronomy»  [Cambridge], 
II,  1980,  pp.  121  e  128). 


DIALOGO  QUINTO  555 

di  tener  questo:  per  che  della  intenzione  del  Nolano  non  trovo 
determinazione  alcuna  circa  il  moto  o  quiete  del  sole.  Quel 
moto  dumque  che  veggiamo  nella  fiamma,  ch'è  ritenuta  e  con- 
tenuta nelle  concavità  de  le  fornaci,  procede  da  quel,  che  la 
virtù  del  foco  perseguita,  accende,  altera  e  trasmuta  l'aria  vapo- 
roso, del  quale  vuole  aumentarsi  e  nodrirsi;  e  quel  altro  si  ritira, 
e  fugge  il  nemico  del  suo  essere  e  la  sua  correzzione^'^. 

Smitho.  —  Avete  detto  l'aria  vaporoso:  che  direste  dell'aria 
puro  e  semplice? 

Teofilo.  —  Quello  non  è  più  soggetto  di  calore,  che  di 
freddo;  non  è  più  capace  e  ricetto  di  umore  quando  viene  in- 
spessato  dal  freddo,  che  di  vapore  et  exalazione  quando  viene 
attenuata  l'acqua  dal  caldo. 

Smitho.  -  Essendo  che  nella  natura  non  è  cosa  senza  provi- 
denza  e  senza  causa  finale,  vorrei  di  nuovo  saper  da  voi  (perché, 
per  quel  ch'avete  detto,  ciò  si  può  perfettamente  comprendere): 
per  qual  causa  è  il  moto  locale  della  terra?^^ 

Teofilo.  -  La  caggione  di  cotal  moto  è  la  rinovazione  e  ri- 
nascenza di  questo  corpo;  il  quale  secondo  la  medesma  disposi- 
zione non  può  essere  perpetuo:  come  le  cose  che  non  possono 
essere  perpetue  secondo  il  numero  (per  parlar  secondo  il  co- 
mune) si  fanno  perpetue  secondo  la  spezie;  le  sustanze  che  non 
possono  perpetuarsi  sotto  il  medesmo  volto,  si  vanno  tutta  via 
cangiando  di  faccia:  per  che  essendo  la  materia  e  sustanza  delle 

27.  Si  accosti  quello  che  Bruno  dice  qui  sul  fuoco  e  sulla  fiamma  «terre- 
stri» (in  opposizione  all'elemento  del  fuoco  di  cui  sarebbe  composto  il  Sole, 
idea  estranea  a  Copernico,  ma  non  a  Telesio)  ad  un  passo  del  De  revolutionibus, 
I,  8,  ed.  Barone  cit,  pp.  200-201:  «Duplice  è  il  movimento  delle  cose  che  ca- 
dono e  che  salgono  in  rapporto  al  mondo,  e  che  deve  essere  composto  di  mo- 
vimento rettilineo  e  circolare.  Poiché  di  quelle  cose  che  precipitano  per  il  loro 
peso,  in  quanto  sono  terrose  al  massimo,  non  c'è  dubbio  che  le  parti  conser- 
vino la  stessa  natura  del  loro  tutto.  E  non  diversamente  accade  per  quelle  cose 
che,  invece,  dalla  loro  natura  ignea,  sono  trascinate  verso  l'alto.  Infatti,  anche 
questo  fuoco  terrestre  si  alimenta  principalmente  di  materia  terrena;  e  dicono 
che  la  fiamma  non  sia  altro  che  fumo  ardente.  Ora  è  proprietà  del  fuoco  quella 
di  estendere  ciò  che  ha  invaso,  cosa  che  fa  con  tanta  violenza  che  in  nessun 
modo  e  con  nessun  strumento  può  essere  trattenuto  dal  compiere  l'opera,  spez- 
zando ciò  che  lo  imprigiona».  -  Il  termine  «esalazione»  pare  a  L.  Cozzi,  loc. 
cit.,  «usato,  anche  se  in  senso  vago  e  non  specifico,  nel  significato  di  gas,  perché 
Bruno  lo  distingue  sia  dal  fuoco  che  dal  vapore». 

28.  Ogni  movimento  dei  corpi  celesti  ha  la  sua  finalità;  riveste  una  fun- 
zione «vitale»  per  l'astro  che  ne  è  la  sede.  Questo  vale  sia  per  la  Terra,  sia  per 
il  Sole  che  gira  su  se  stesso.  —  Ciò  che  non  si  può  perpetuare  aQÙi^^u)  si  perpe- 
tua eiÓEi:  cfr.  ARISTOTELE,  De  animalium  generatione,  II,  i,  731  b  31-35. 


556  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

[255]  cose  incorrottibile,  e  dovendo  quella  secondo  tutte  le  parti  esser 
soggetto  di  tutte  forme,  a  fin  che  secondo  tutte  le  parti  (per 
quanto  è  capace)  si  fia  tutto,  sia  tutto,  se  non  in  un  medesmo 
tempo  et  instante  d'eternità,  al  meno  in  diversi  tempi,  in  vani 
instanti  d'eternità,  successiva  e  vicissitudinalmente;  per  che 
quantumque  tutta  la  materia  sia  capace  di  tutte  le  forme  in- 
sieme, non  però  de  tutte  quelle  insieme  può  essere  capace  ogni 
parte  della  materia.  Però  a  questa  massa  intiera  della  qual  con- 
sta questo  globo,  questo  astro,  non  essendo  conveniente  la 
morte  e  la  dissoluzione,  et  essendo  a  tutta  natura  impossibile 
l'annihilazione:  a  tempi  a  tempi,  con  certo  ordine,  viene  a  rino- 
varsi,  alterando,  cangiando,  mutando  le  sue  parti  tutte;  il  che 
conviene  che  sia  con  certa  successione,  ogn'una  prendendo  il 
loco  de  l'altre  tutte:  per  che  altrimente  questi  corpi  che  sono 
dissolubili,  attualmente  talvolta  si  dissolverebbono:  come  av- 
viene a  noi  particolari  e  minori  animali  ^'^.  Ma  ad  costoro  (come 
crede  Platone  nel  Timeo^^,  e  crediamo  ancor  noi)  è  stato  detto 
dal  primo  principio:  «Voi  siete  dissolubili,  ma  non  vi  dissolve- 
rete». Accade  dumque  che  non  è  parte  nel  centro  e  mezzo  della 
stella,  che  non  si  faccia  nella  circonferenza  e  fuor  di  quella;  non 
è  porzione  in  quella  extima  et  extema,  che  non  debba  tal  volta 
farsi  et  essere  intima  et  intema:  e  questo  l'esperienza  d'ogni 
giorno  nel  dimostra;  che  nel  grembo  e  viscere  della  terra,  altre 
cose  s'accoglieno,  et  altre  cose  da  quelle  ne  si  mandan  fuori.  E 
noi  medesmi  e  le  cose  nostre  andiamo  e  vegnamo  passiamo  e 
ritorniamo:  e  non  è  cosa  nostra  che  non  si  faccia  aliena,  e  non  è 
cosa  aliena  che  non  si  faccia  nostra.  E  non  è  cosa  della  quale 

[257]  noi  siamo,  che  talvolta  non  debba  esser  nostra,  come  non  è  cosa 
la  quale  è  nostra,  della  quale  non  doviamo  talvolta  essere:  se 
una  è  la  materia  delle  cose,  in  un  geno;  se  due  sono  le  materie, 
in  dui  geni:  per  che  ancora  non  determino  se  la  sustanza  e  ma- 

29.  La  stessa  idea  nel  De  infinito.  Dialogo  secondo,  p.  72.  D'altro  canto,  nel 
De  immenso,  II,  5,  Op.  lai.,  I,  i,  p.  272  (ed.  Monti  cit,  p.  478),  Bruno  ammette 
che,  nel  tempo,  i  mondi  -  e  dunque  la  Terra  -  possano  dissolversi  all'interno 
di  un  universo  infinito,  di  per  sé  imperituro. 

30.  Cfr.  Timaeus,  41  a-b.  Il  discorso  del  Demiurgo  è  rivolto,  al  tempo  stesso, 
agli  dèi  sempre  visibili,  rappresentati  dagli  astri,  ed  agli  dèi  tradizionali,  che  si 
mostrano  in  maniera  discontinua.  Bruno  allude  ancora  a  questo  passo  del  Ti- 
meo in  De  la  causa.  Dialogo  secondo,  p.  649,  e  poi  nel  De  immenso,  II,  5,  Op.  lai., 
I,  I,  p.  272  (ed.  Monti  cit,  p.  479),  dove  aggiunge  che  Platone  si  rifa  ai  «misteri 
caldaici  ». 


DIALOGO  QUINTO  557 

teria  che  chiamiamo  spirituale,  si  cangia  in  quella  che  diciamo 
corporale,  e  per  il  contrario;  o  veramente  non.  Cossi  tutte  cose 
nel  suo  geno  hanno  tutte  vicissitudine  di  dominio  e  servitù,  fe- 
licità et  infelicità,  de  quel  stato  che  si  chiama  vita  e  quello  che 
si  chiama  morte,  di  luce  e  tenebre,  di  bene  e  male.  E  non  è  cosa 
alla  quale  naturalmente  convegna  esser  etema  eccetto  che  alla 
sustanza  che  è  la  materia;  a  cui  non  meno  conviene  essere  in 
continua  mutazione  ^^  Della  sustanza  soprasustanziale  non 
parlo  al  presente,  ma  ritomo  a  raggionar  particularmente  di 
questo  grande  individuo  ch'è  la  nostra  perpetua  nutrice  e  ma- 
dre, di  cui  dimandaste  per  qual  caggione  fusse  il  moto  locale;  e 
dico  che  la  causa  del  moto  locale,  tanto  del  tutto  intiero, 
quanto  di  ciascuna  delle  parti,  è  il  fine  della  vicissitudine:  non 
solo  per  che  tutto  si  ritrove  in  tutti  luoghi,  ma  ancora  perché 
con  tal  mezzo  tutto  abbia  tutte  disposizioni  e  forme;  per  ciò  che 
degnissimamente  il  moto  locale  è  stato  stimato  principio  d'ogni 
altra  mutazione  e  forma,  e  che  tolto  questo  non  può  essere  al- 
cun altro.  -  Aristotele  s'ha  possuto  accorgere  della  mutazione 
secondo  le  disposizioni  e  qualità,  che  sono  nelle  parti  tutte  de  la 
terra;  ma  non  intese  quel  moto  locale  che  è  principio  di  quelle. 
Pure  nel  fine  del  primo  libro  della  sua  Meteora^^  ha  parlato 
come  un  che  profetiza  e  divina;  che  benché  lui  medesmo  tal 
volta  non  s'intenda,  pure  in  certo  modo  zoppigando,  e  me-  [259] 
schiando  sempre  qualche  cosa  del  proprio  errore  al  divino  fu- 
rore, dice  per  il  più  e  per  il  principale  il  vero.  Or  apportiamo 
quel  che  lui  dice,  e  vero  e  degno  d'essere  considerato;  e  poi  sog- 
giungeremo le  cause  di  ciò,  quali  lui  non  ha  possuto  conoscere. 
«Non  sempre»  dice  egli,  «gli  medesmi  luoghi  della  terra  son 
umidi  o  secchi;  ma  secondo  la  generazione  e  difetto  di  fiumi,  si 
cangiano:  però  quel  che  fu  et  è  mare,  non  sempre  è  stato  e  sarà 
mare;  quello  che  sarà  et  è  stato  terra,  non  è  né  fu  sempre  terra: 
ma  con  certa  vicissitudine,  determinato  circolo  et  ordine,  si  de' 
credere  che  dove  è  l'uno  sarà  l'altro,  e  dov'è  l'altro  sarà  l'uno». 

31.  Bruno  affronta  il  problema  della  materia  nel  De  la  causa.  Dialoghi 
terzo  e  quarto. 

32.  Segue  un  riassunto  di  MeteoroL,  I,  14,  351  a  19-352  a  16.  -  Sull'Aristo- 
tele che,  secondo  Bruno,  «profetiza»,  si  veda  M.  A.  Granada,  L'interpretazione 
bruniana  di  Copernico  e  la  «Narratio  prima»  di  Rheticus,  «Rinascimento»  [Firen- 
ze], 2^  serie,  XXX,  1990,  pp.  356-358. 


558  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

E  se  dimandate  ad  Aristotele  il  principio  e  causa  di  ciò,  ri- 
sponde che  «gl'interiori  de  la  terra,  come  gli  corpi  delle  piante 
et  animali,  hanno  la  perfezzione,  e  poi  invecchiano.  Ma  è  diffe- 
renza tra  la  terra  e  gli  altri  detti  corpi:  per  che  essi  intieri  in  un 
medesmo  tempo  secondo  tutte  le  parti  hanno  il  progresso,  la 
perfezzione  et  il  mancamento,  (come  lui  dice)  il  stato,  e  la  vec- 
chiaia; ma  nella  terra  questo  accade  successivamente  a  parte  a 
parte:  con  la  successione  del  freddo  e  caldo,  che  caggiona  l'au- 
mento e  la  diminuzione,  la  qual  seguita  il  sole  et  il  giro,  per  cui 
le  parti  della  terra  acquistano  complessioni  e  virtù  diverse^^. 
Da  qua  i  luoghi  acquosi  in  certo  tempo  rimagnono;  poi  di  novo 
si  disseccano  et  invecchiano,  altri  si  ra\'vivano  e  secondo  certe 
parti  s'inacquano^-'.  Quindi  veggiamo  svanir  i  fonti,  i  fiumi  or 
da  piccioli  dovenir  grandi,  or  da  grandi  farsi  piccioli  e  secchi  al 
fine.  E  da  questo,  che  gli  fiumi  si  cassano,  proviene  che  per  ne- 
cessaria consequenza  si  tolgano  i  stagni  e  mutinsi  gli  mari.  Il 
[261]  che  però,  accadendo  successivamente  circa  la  terra  a  tempi  lun- 
ghissimi e  tardi,  a  gran  pena  la  nostra  e  di  nostri  padri  la  vita 
può  giudicare;  atteso  che  più  tosto  cade  la  età  e  la  memoria  de 
tutte  genti,  et  avvengono  grandissime  corrozzioni  e  mutazioni, 
per  desolazioni  e  desertitudini,  per  guerre,  per  pestilenze  e  per 
diluvii;  alterazioni  di  lingue  e  di  scritture,  trasmigrazioni  e  ste- 
rilità de  luoghi:  che  possiamo  ricordarci  di  queste  cose  da  prin- 
cipio sin  al  fine  per  sì  lunghi,  varii  e  turbolentissimi  secoli. 
Queste  gran  mutazioni  assai  ne  si  monstrano  nelle  antiquità  del 

33.  L'affermazione  è  un  antecedente  della  domanda  di  Sagredo  a  Simplicio 
(Dialogo  sopra  i  massimi  sistemi,  Giornata  quarta,  ed.  Brunetti  cit.,  II,  p.  85): 
«ma  se  all'eternità  dell'intero  globo  terrestre  non  è  punto  pregiudiziale  la  cor- 
ruttibilità delle  parti  superficiali  ...  perché  non  potete  e  dovete  voi  ammetter 
alterazioni,  generazioni  etc.  parimente  nelle  parti  esteme  de  i  globi  celesti,  ag- 
giugnendo  loro  ornamento,  senza  diminuirgli  perfezione  o  levargli  l'azioni, 
anzi  accrescendogliele,  col  far  che  non  solo  sopra  la  Terra,  ma  che  scambievol- 
mente fra  di  loro  tutti  operino,  e  la  Terra  ancora  verso  di  loro?».  -  Poche 
pagine  prima,  in  Galileo  troviamo  la  definizione  della  «Terra  nobilissima  ed 
ammirabile  per  le  tante  e  sì  diverse  alterazioni,  mutazioni,  generazione  etc, 
che  in  lei  incessabilmente  si  fanno»  (ivi,  p.  82):  ciò  potrebbe  rapportarsi  alla 
concezione  bruniana  della  materia  «a  cui  non  meno  conviene  esser  in  con- 
tinua mutazione».  Cfr.  G.  Aquilecchia,  /  «Massimi  sistemi»  di  Galileo  e  la 
«Cena»  cit,  p.  494. 

34.  Sull'altemarsi  dei  periodi  di  umidità  e  di  secchezza  nelle  regioni  terre- 
stri, cfr.  Acrotismus,  art.  LXXIV,  Op.  lat..  I,  i,  p.  186;  De  immenso,  III,  4,  vv.  9-18; 
IV,  3,  vv.  39-58,  Qp.  lat,  I,  I,  p,  341  e  I,  2,  pp.  17-18  (ed.  Monti  cit,  pp.  532  e 
590).  -  «Il  sole  e  il  giorno»:  si  veda,  infra,  note  42  e  43. 


DIALOGO  QUINTO  559 

Egitto;  nelle  porte  del  Nilo  le  quali  tutte  (tolto  il  canobico^^ 
esito)  son  fatte  a  opra  di  mano;  nell'abitazioni  della  città  di 
Memfi,  dove  i  luoghi  inferiori  son  abitati  dopo  i  superiori.  Et  in 
Argo  e  Micena,  de  quali  al  tempo  di  Troiani  la  prima  reggione 
era  paludosa,  e  pochissimi  vivevano  in  quella;  Micena  per  esser 
più  fertile,  era  molto  più  onorata:  del  che  a  tempi  nostri  è  tutto 
il  contrario:  per  che  Micena  è  al  tutto  secca,  et  Argo  è  dovenuta 
temperata  et  assai  fertile.  Or  come  accade  in  questi  luoghi  pic- 
cioli, il  medesmo  doviamo  pensar  circa  grandi  e  reggioni  in- 
tiere: però  come  veggiamo  che  molti  luoghi  che  prima  erano 
acquosi  ora  son  continenti,  cossi  a  molti  altri  è  sopravenuto  il 
mare»^"^.  Le  quali  mutazioni  veggiamo  farsi  a  poco  a  poco  come 
le  già  dette,  e  come  ne  fan  vedere  le  corrosioni  de  monti  altis- 
simi e  lontanissimi  dal  mare:  che  quasi  fusser  freschi,  mostrano 
gli  vestigli  dell'onde  impetuose.  E  ne  costa  dall'istorie  di  Felice 
Martire  Nolano",  quale  dechiarano  al  tempo  suo  (che  è  stato 
poco  più  o  meno  di  mill'anni  passati)  era  il  mare  vicino  alle 
mura  della  città,  dove  è  un  tempio  chi  ritiene  il  nome  di  Por-  [263] 
to^**:  onde  al  presente  è  discosto  dodeci  milia  passi.  Non  si  vede 
il  medesmo  in  tutta  la  Provenza?  Tutte  le  pietre  che  son  sparse 
per  gli  campi,  non  mostrano  un  tempo  esser  state  agitate  da 
l'onde?  La  temperie  della  Francia  parvi  che  dal  tempo  di  Cesare 
al  nostro  sia  cangiata  poco?  All'ora  in  loco  alcuno  non  era  atta 
alle  viti;  et  ora  manda  vini  cossi  deliziosi  come  altre  parti  del 
mondo;  e  da  settentrionalissimi  terreni  di  quella,  si  raccoglieno 
gli  frutti  de  le  vigne.  E  questo  anno  ancora  ho  mangiate  de 
l'uve  de  gli  orti  di  Londra,  non  già  cossi  perfette  come  de  peg- 

35.  «Canobico»  dall'antica  città  egiziana  di  Canope. 

36.  Sul  tema  delle  parti  della  Terra  ricoperte  e  poi  abbandonate  dal  mare, 
si  veda  De  l'infinito,  Dialogo  terzo,  pp.  101-103. 

37.  Ci  sono  due  san  Felice  da  Nola,  festeggiati  rispettivamente  il  14  gennaio 
ed  il  15  novembre.  Il  primo,  che  fu  vescovo  di  Nola,  è  morto  nel  484;  il  se- 
condo, Felice  il  Confessore,  è  morto  nel  260.  Cfr.  i  RR.  PP.  Boudot  e  Chaus- 
SIN,  Vie  des  Saints  et  des  Bienheureux,  Paris,  1935-1959,  13  tomi,  rispettiva- 
mente t.  I,  pp.  262-266  e  t.  XI,  pp.  462-463.  Se  ci  si  mantiene  all'indicazione 
approssimativa  di  Bruno:  «al  tempo  suo  (che  è  stato  poco  più  o  meno  di 
mill'anni  passati)»,  la  cronologia  militerebbe  in  favore  del  primo.  La  cattedrale 
di  Nola  era  consacrata  a  san  Felice,  cfr.  V.  Spampanato,  Documenti  della  vita 
di  G.  Bruno,  Firenze,  1933,  «Documenti  parigini»,  II,  p.  650:  «Jourdanus  ...  m'a 
dit  que  la  cathédrale  de  Noie  est  de  S.  Felix». 

38.  La  cappella  di  Santa  Maria  del  Porto,  nei  paraggi  di  Nola  Nel  De  ma- 
gia, Op.  lat.  III,  p.  341  (ed.  Biondi  cit.,  p.  63),  Bruno  parla  degli  spiriti  che  si 
manifestano  «in  località  solitaria  presso  il  tempio  di  Porto». 


560  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

glori  di  Francia,  ma  pur  tale  quali  affermano  mai  esseme  pro- 
dotte simili  in  terra  inglesa^'^.  —  Da  questo  dumque,  che  il  mare 
Mediterraneo  lasciando  più  secca  e  calda  la  Francia  e  le  parti 
de  l'Italia,  quali  io  con  gli  miei  occhi  ho  viste,  va  inchinando 
verso  la  Libia-"",  seguita  che  venendosi  più  e  più  ad  scaldarsi 
l'Italia  e  la  Francia,  e  temprarsi  la  Britannia,  doviamo  giudi- 
care che  generalmente  si  mutano  gli  abiti  de  le  reggioni:  con 
questo,  che  la  disposizion  fredda  si  va  disminuendo  verso  l'Ar- 
tico polo.  Dimandate  ad  Aristotele:  «Onde  questo  avviene?»;  ri- 
sponde: «Dal  sole,  e  dal  moto  circolare».  Non  tanto  confusa  et 
oscuramente,  quanto  ancora  da  lui  divina  et  alta  e  verissima- 
mente detto.  Ma  come?  forse  come  da  un  filosofo?  Non:  ma  più 
presto  come  da  un  divinatore;  o  pur  da  uno  che  intendeva  e 
non  ardiva  de  dire,  forse  come  colui  che  vede  e  non  crede  a 
quel  che  vede,  e  se  pur  il  crede  dubita  d'affirmarlo,  temendo 
che  alcuno  non  venghi  a  constringerlo  di  apportar  quella  rag- 
gione  la  qual  non  ha.  Referisce,  ma  in  modo  col  quale  chiuda  la 
F265]  bocca  a  chi  volesse  oltre  sapere;  o  forse  è  modo  di  parlar  tolto 
dagli  antichi  filosofi-*'.  Dice  dumque  che  il  caldo  il  freddo, 
l'arido  l'umido,  crescono  e  mancano  sopra  tutte  le  parti  della 
terra:  ne  la  quale  ogni  cosa  ha  la  rinovazione,  consistenza,  vec- 
chiaia e  diminuzione;  e  volendo  apportar  la  causa  di  questo, 
dice:  «propter  solem  et  circumlationem^^ .  Or  per  che  non  dice 

39.  La  coltivazione  dell'uva,  al  pari  della  vinificEizione,  è  attestata  a  Lon- 
dra in  quegli  anni:  cfr.  J.  Florio,  Second  Fruites,  London,  1591,  p.  50;  Erasmo 
DA  Rotterdam,  Opus  Epistolarum,  Oxford,  voi.  I,  1906,  n.  283,  p.  547  (lettera 
ad  Ammonio  del  21  dicembre  15 13).  -  Per  contro,  parlando  della  Francia, 
Bruno  sbaglia,  in  parte:  la  vigna  era  coltivata  in  lungo  e  in  largo  nelle  regioni 
meridionali,  fin  dal  tempo  di  Cesare;  si  veda  ad  esempio  Plinio,  Nat.  hist., 
XIV,  8,  68  (ed.  Conte  cit,  voi.  Ili,  i,  1984,  pp.  220-221).  E  sulle  origine  della 
viticoltura  in  Francia,  cfr.  R.  DiON,  Histoire  de  la  vigne  et  dti  vin  en  Frutice  des 
origines  an  XIX"^  siede,  Paris,  1959,  pp.  95  e  segg. 

40.  L'Africa  del  Nord  (nella  geografia  di  Tolomeo). 

41.  Nell'ed.  critica  del  1955  (p.  222,  nota  6  e  segg.).  avevo  evocato  la  lettera 
di  Campanella  a  Rodolfo  II  d'Austria  (aprile?  1607),  dove  si  legge:  «nec  velati 
sapiens,  sed  uti  fur  dictorum  Calippi  et  Eudoxi  sermones  excelsos  pronunciat» 
(Lettere,  a  cura  di  V.  Spampanato,  Bari,  1927,  p.  87).  Amerio  si  è  sbagliato  (Ope- 
re di  G.  Bruno  e  T.  Campanella.  Milano-Napoli,  1956,  p.  280,  nota  2)  credendo 
che  la  citazione  fosse  riferita  soltanto  alla  parte  centrale  del  passo  bruniano  (e 
mettendomi  in  conto  il  suo  errore). 

42.  «Propter  solem  et  circumlationem»:  6ià  tòv  r\kio\  xaì  rryv  rtegicfogàv 
(«a  causa  del  sole  e  della  [sua]  traslazione»).  Cfr.  .Aristotele,  Meteoroi.  1,  14, 
351  a  32  (traduz.  di  L.  Pepe,  Napoli,  1982  -  modificata  -  p.  72).  Così  traduceva, 
a  sua  volta,  Guglielmo  di  Moerbeke,  utilizzato  da  san  Tommaso  nelle  Senten- 
tiae  super  Meteora  (cfr.  In  Aristotelis  libros  ...  Meteorologicorum  expositio,  ed.  R.  M. 


DIALOGO  QUINTO  56 1 

propter  solis  circulationem?-^^  Per  che  era  determinato  appresso 
lui,  e  conceduto  appo  tutti  filosofi  di  suoi  tempi  e  di  suo  umore, 
che  il  sole  con  il  suo  moto  non  possea  caggionar  questa  diver- 
sità: per  che  in  quanto  che  l'ecliptica  declina  dall'equinozziale, 
il  sole  eternamente  versava  tra  i  doi  punti  tropici,  e  però  esser 
impossibile  d'esser  scaldata  altra  parte  di  terra;  ma  eternamente 
le  zone  et  i  climi  essere  in  medesma  disposizione.  Per  che  non 
disse  «per  circolazione  d'altri  pianeti»?  Perché  era  determinato 
già  che  tutti  quelli  (se  pur  alcuni  per  qualche  poco  non  trapas- 
sano) si  muoveno  sol  per  quanto  è  la  latitudine  del  zodiaco 
detto  «trito  camino  de  gli  erranti»'*'*.  Per  che  non  disse  «per 
circolazione  del  primo  mobile»?  Per  che  non  conosceva  altro 
moto  che  il  diurno,  et  era  a'  suoi  tempi  un  poco  de  suspizione 
d'un  moto  di  retardazione,  simile  a  quello  di  pianeti '♦5.  Per  che 
non  disse  «per  la  circolazion  del  cielo»?  Per  che  non  possea  dire 
come  e  quale  ella  potesse  essere.  Per  che  non  disse  «per  la  cir- 
colazion de  la  terra»?  Per  che  avea  quasi '*'^  come  un  principio 


Spiazzi,  cit.,  p.  459)  e  riproposto  negli  Aristotelis  opera  cum  Averrois  commenta- 
riis,  Venetiis,  1562  [rist.  anast.  cit],  voi.  5,  fol.  519G.  Tommaso  glossa  queste 
parole  in  tal  modo:  «Propter  motum  solis  et  alias  circulationes  coelestium  cor- 
porum.  Et  inde  est  quod  secundum  diversum  situm  in  aspectu  solis  et  stella- 
rum,  partes  terrae  recipiunt  diversam  virtutem»  (ed.  cit,  p.  461  [132]).  Simil- 
mente, Tommaso  colloca  i  diversi  cambiamenti  che  si  verificano  sulla  Terra, 
sotto  l'influenza  dell'insieme  dei  corpi  celesti  -  di  per  sé  incontaminati  ed  im- 
mutabili in  etemo  -  in  conformità  con  quello  che  Aristotele  diceva  nel  Primo 
libro  dei  Meteorologica,  capp.  2  e  3. 

43.  «A  causa  del  moto  circolare  del  sole».  Cfr.  la  traduzione  dovuta  a  Fran- 
gois  Vatable  dei  Meteorologicorum  Aristotelis  Libri  Quatuor,  Lugduni,  1546,  I,  3, 
p.  36:  «propter  solis  calorem,  conversionemque». 

44.  Bruno  sta  parlando  della  fascia  dello  zodiaco,  la  cui  larghezza  era  va- 
lutata, secondo  la  tradizione,  «in  12  gradi,  6  a  nord  eòa  sud  dell'eclittica, 
indicando  così  la  quantità  delle  deviazioni  della  Luna  e  dei  pianeti  rispetto 
alla  via  del  Sole,  come  riferisce  Calcidio»  (cfr.  G.  Bezza,  Commento  al  Primo 
libro  della  «Tetrabiblos»  di  Tolemeo,  Milano,  1990,  p.  306). 

45.  Bruno  allude  al  lento  movimento  di  precessione,  che  si  effettua  in 
senso  inverso  alla  rivoluzione  diurna?  Esso,  in  effetti,  era  sconosciuto  nel  IV 
secolo  a.  C.  Ma  allora,  cosa  significa  che  se  ne  aveva,  all'epoca,  «un  poco  di 
suspizione»?  Bruno  ha  un  ricordo  confuso  del  capitolo  in  cui  Pico  della  Miran- 
dola, citando  Proclo,  rammenta  che  gli  Antichi  (egiziani,  caldei  e,  probabil- 
mente, Aristotele)  non  conoscevano  il  moto  di  precessione  introdotto  -  contro 
ogni  verosimiglianza  —  da  Ipparco?  Quanto  a  Proclo,  vissuto  nel  V  secolo,  sap- 
piamo che  non  credeva  alla  realtà  di  detto  movimento  (cfr.  Pico  della  Mi- 
randola, Disputationes  adversus  astrologiam  divinatricem,  IX,  11,  ed.  Garin  cit, 
voi.  II,  1952,  pp.  348-349)- 

46.  Curiosa  formulazione:  perché  questo  «quasi»?  Aristotele  è  certo  di  aver 
dimostrato  l'immobilità  e  la  posizione  centrale  della  Terra,  nel  Libro  II  del  De 
caelo.  Bruno  vuol  dire  forse  che,  in  realtà,  questa  dimostrazione  non  vale 
niente,  essendo  al  servizio  di  una  tesi  preconcetta,  se  non  di  un  pregiudizio? 


562  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

supposto,  che  la  terra  è  inmobile.  Per  che  dumque  lo  disse?  for- 
zato da  la  verità:  la  quale  per  gli  effetti  naturali  si  fa  udire "*^. 
Resta  dumque  che  sia  dal  sole  e  dal  moto.  Dal  sole  dico,  per  che 
[267I  lui  è  quel  unico  che  diffonde  e  comunica  la  virtù  vitale.  Dal 
moto  ancora,  per  che  se  non  si  movesse  o  lui  a  gli  altri  corpi, 
o  gli  altri  corpi  a  lui,  come  potrebbe  ricevere  quel  che  non  ha,  o 
donar  quel  ch'ha?  È  dumque  necessario  che  sia  il  moto:  e  que- 
sto di  tal  sorte  che  non  sia  parziale:  ma  con  quella  raggione  con 
cui  causa  la  rinovazione  di  certe  parti,  venga  ad  apportarla  a 
quell'altre;  che  come  sono  di  medesma  condizione  e  natura, 
hanno  la  medesima  potenza  passiva,  alla  quale  (se  la  natura 
non  è  ingiuriosa)  deve  corrispondere  la  potenza  attiva**^.  —  Ma 
con  ciò  troviamo  molto  minor  raggione-^''  per  la  quale  il  sole  e 
tutta  l'università  de  le  stelle  s'abbino  a  muovere  circa  questo 
globo,  che  esso  per  il  contrario  debba  voltarsi  a  l'aspetto  del- 
l'universo, facendo  il  circolo  annuale  circa  il  sole  e  diversa- 
mente con  certe  regolate  successioni  per  tutti  i  lati  svolgersi  et 
inchinarsi  a  quello,  come  a  vivo  elemento  del  fuoco.  Non  è  ra- 
gione alcuna  che  senza  un  certo  fine  et  occasione  urgente  gli 
astri  innumerabili  che  son  tanti  mondi,  anco  maggiori  che  que- 
sto, abbino  sì  violenta  relazione  a  questo  unico;  non  è  ragione 

47.  Strada  facendo,  Teofilo  ha  dimenticato  di  menzionare  un'interpreta- 
zione di  tali  «mutazioni»,  da  attribuire  ad  Eraclito  e  criticata  da  Aristotele, 
Meteorol.,  I,  14,  352  a  17  e  segg.  (traduz.  Pepe  cit,  p.  74):  «Coloro  la  cui  osserva- 
zione è  ristretta  ad  un  piccolo  campo  credono  che  la  causa  di  tali  processi  sia 
un  mutamento  generale  che  riguarda  l'intero  universo  ...  Ma  non  bisogna  cre- 
dere che  la  causa  di  ciò  sia  il  divenire  del  mondo;  è  infatti  ridicolo  far  muo- 
vere il  tutto  per  dei  mutamenti  minimi:  perché  la  massa  della  terra  è  di  gran- 
dezza nulla  rispetto  all'intero  cielo».  Sulle  origini  del  tema  filosofico-letterario 
della  piccolezza  della  Terra  all'interno  dell'immensità  del  mondo,  cfr.  inoltre 
A.  J.  Festugière,  La  Révélation  d'Hermes  Trismégiste,  II,  Le  Dieii  cosmique,  Pa- 
ris. 1949,  pp.  449-459- 

48.  Cfr.  De  immenso,  IV,  7,  w.  57-64  e  9,  vv.  loo-ioi,  Op.  lai..  I.  2,  pp.  34-35 
e  50  (ed.  Monti  cit,  pp.  601-602  e  613). 

49.  In  tutta  la  parte  conclusiva  del  suo  intervento,  Teofilo-Bruno  fa  più 
volte  riferimento  alla  «raggione»,  ma  la  sua  è  una  ragione  che  non  va  oltre  i 
limiti  del  probabile.  Trattandosi  della  rotazione  terrestre,  l'aspetto  «razionale» 
ed  «economico»  di  questo  moto,  attribuito  a  un  piccolo  corpo  piuttosto  che 
all'enorme  macchina  celeste,  era  stato  senza  meno  intravisto  da  autori  come 
Buridano  o  N.  Oresme.  Ma  la  ragione  a  cui  essi  si  rifacevano,  puramente  logica, 
e  tale  da  non  poter  confermare  nessuna  dimostrazione  fisica,  non  era  stata  suf- 
ficiente a  vincere  le  loro  credenze,  mentre  ora  convince  Smitho.  Copernico,  Pa- 
trizi ed  altri  ancora  faranno  ricorso  allo  stesso  argomento:  cfr.  M.  P.  Lerner, 
L'Achille  des  Coperniciens,  «Bibliothèque  d'Humanisme  et  Renaissance»  [Genè- 
ve], t  42,  1980,  pp.  313-327. 


DIALOGO  QUINTO  563 

che  ne  faccia  dir  più  tosto  trepidar  il  polo,  nutar  l'asse  del 
mondo,  cespitar  gli  cardini  de  l'universo,  e  sì  innumerabili,  più 
grandi  e  più  magnifici  globi  ch'esser  possono,  scuotersi,  svol- 
tarsi, ritorcersi,  rappezzarsi,  et  al  dispetto  de  la  natura  squar- 
tarsi in  tanto,  che  la  terra  cossi  malamente  (come  possono  di- 
mostrare i  sottili  optici  e  geometri)  venghi  ad  ottener  il  mezzo, 
come  quel  corpo  che  solo  è  grave  e  freddo 'O:  il  qual  però  non  si 
può  provar  dissimile  a  qualsivoglia  altro  che  riluce  nel  firma- 
mento, tanto  nella  sustanza  e  materia,  quanto  nel  modo  della 
situazione;  per  che  se  questo  corpo  può  esser  vagheggiato  da  [269] 
questo  aria  nel  quale  è  fisso,  e  quelli  possono  parimente  esser 
vagheggiati  da  quello  che  ie  circonda;  se  quelli  da  per  se  stessi 
come  da  propria  anima  e  natura  possono  dividendo  l'aria  cir- 
cuire qualche  mezzo,  e  questo  nientemeno. 

Smitho.  —  Vi  priego  questo  punto  al  presente  si  presuppona: 
sì  per  che  quanto  a  me  tengo  per  cosa  certissima  che  più  tosto 
la  terra  necessariamente  si  muova,  che  sii  possibile  quella  inta- 
volatura et  inchiodatura  di  lampe:  sì  anco  per  che  quanto  a 
quelli  che  non  l'han  capito,  è  più  espediente  dechiararlo  come 
materia  principale,  che  in  altro  proposito  toccarlo  per  modo  di 
digressione.  Però  se  volete  compiacermi  venite  presto  ad  speci- 
ficarme  i  moti  che  convegnono  a  questo  globo. 

Teofilo.  -  Molto  volentieri:  per  che  questa  digressione  ne 
arebbe  fatto  troppo  differire  di  conchiudere  quel  che  io  volevo 
della  necessità  et  il  fatto  de  tutte  le  parti  de  la  terra,  che  suc- 
cessivamente devono  participar  tutti  gli  aspetti  e  relazioni  del 
sole,  facendosi  soggetto  di  tutte  complessioni  et  abiti.  Or  dum- 
que  per  questo  fine  è  cosa  conveniente  e  necessaria,  che  il  moto 
de  la  terra  sia  tale,  per  quale  con  certa  vicissitudine  dove  è  il 
mare  sia  il  continente,  e  per  il  contrario;  dove  è  il  caldo  sii 
il  freddo,  e  per  il  contrario;  dove  è  l'abitabile  e  più  temprato,  sia 
il  meno  abitabile  e  temprato,  e  per  il  contrario;  in  conclusione, 

50.  Benché  questo  discorso  non  menzioni  alcun  autore  in  particolare,  esso 
potrebbe  prendere  di  mira  una  cosmologia  geocentrica  come  quella  che  Telesio 
aveva  sviluppato  nel  suo  De  rerum  natura  iuxta  propria  principia,  I  ed.  Roma, 
1565;  II  ed.  Napoli,  1570  (e  cfr.  l'ed.  critica  a  cura  di  L.  De  Franco,  Cosenza- 
Firenze,  1965-1976,  3  voli.),  dove  tutto  era  ordinato  intomo  alla  Terra,  sede  del 
freddo  e  centro  immobile  del  mondo.  I.-e  diverse  edizioni  del  De  rerum  natura 
sono  ora  interrogabili  nel  cd-rom  B.  Telesio,  Opere  complete,  a  cura  di  Giorgio 
Stabile  e  Roberto  Bondì,  Torino,  Nino  Aragno  Editore,  2002. 


564  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

ciascuna  parte  venghi  ad  aver  ogni  risguardo  ch'hanno  tutte 
l'altre  parti  al  sole:  a  fin  che  ogni  parte  venghi  a  participar  ogni 
vita,  ogni  generazione,  ogni  felicità.  Prima  dumque  per  la  sua 
[271]  vita  e  delle  cose  che  in  quella  si  contengono,  e  dar  come  una 
respirazione  et  inspirazione  col  diurno  caldo  e  freddo,  luce  e 
tenebre,  in  spacio  di  vintiquattro  ore  equali  la  terra  si  muove 
circa  il  proprio  centro,  esponendo  al  suo  possibile  il  dorso  tutto 
al  sole.  Secondo,  per  la  regenerazione  delle  cose,  che  nel  suo 
dorso  vivono  e  si  dissolveno,  con  il  centro  suo  circuisce  il  lu- 
cido corpo  del  sole,  in  trecento  sessantacinque  giorni  et  un  qua- 
drante in  circa;  ove  da  quattro  punti  della  ecliptica  fa  la  crida 
della  generazione,  dell'adolescenzia,  della  consistenzia  e  della 
declinazione  di  sue  cose.  Terzo,  per  la  rinovazione  di  secoli  par- 
ticipa  un  altro  moto  per  il  quale  quella  relazione  ch'ha  questo 
emisfero  superiore  della  terra  a  l'universo,  venga  ad  ottener 
l'emisfero  inferiore,  e  quello  succeda  a  quella  del  superiore. 
Quarto,  per  la  mutazione  di  volti  e  complessioni  della  terra,  ne- 
cessariamente gli  conviene  un  altro  moto,  per  il  quale  l'abitudi- 
ne'i  ch'ha  questo  vertice  de  la  terra  verso  il  punto  circa  l'Ar- 
tico, si  cangia  con  l'abitudine  ch'ha  quell'altro  verso  l'opposito 
punto  de  l'Antartico  polo'^.  Il  primo  moto  si  misura  da  un 
punto  de  l'equinozziale  della  terra,  sin  che  toma  o  al  medesmo 
o  circa  il  medesmo.  Il  secondo  moto  si  misura  da  un  punto 
imaginario  de  l'ecliptica  (ch'è  la  via  della  terra  circa  il  sole),  sin 
che  ritoma  al  medesmo,  o  circa  quello.  Il  terzo  moto  si  misura 

51.  Qui,  e  nella  riga  successiva,  il  termine  «abitudine»  va  messo  in  rela- 
zione coi  poli  terrestri.  Poco  oltre,  con  la  linea  dell'equatore.  L.  Cozzi,  Il  lessico 
scientifico  cit,  p.  68,  pensa  che  «questo  uso  derivi  dal  latino  medievale  perché 
lo  ritroviamo  analogo  nella  Quadratura  circuii  di  Cusano». 

52.  Secondo  G.  V.  Schiaparelli  (in  F.  Tocco,  Le  opere  latine  di  G.  Bruno 
esposte  e  confrontate  con  le  italiane,  Firenze,  1889,  pp.  313-314,  nota  3):  «Il  Bruno 
descrive  i  moti  della  Terra  secondo  il  sistema  di  Copernico,  non  quale  si  trova 
nel  libro  De  Revolutionibus,  ma  secondo  l'interpretazione  ed  immaginazione 
sua».  Purtuttavia,  scrive  P.  H.  Michel,  La  cosmologie  de  Bruno,  Paris,  1962, 
p.  324:  «la  sua  definizione  del  primo  movimento  (rotazione  del  pianeta  su  se 
stesso  in  ventiquattrore)  elimina  le  inutili  correzioni  introdotte  da  Copernico». 
-  Più  tardi.  Bruno  abbandonerà  non  soltanto  il  quarto  movimento,  ma  anche 
il  terzo:  per  un'analisi  di  questo  passo  della  Cena,  così  come  per  l'esposizione 
delle  teorie  copernicane  nel  De  immenso.  III,  9-10,  Op.  lat..  I,  i,  pp.  380  e  segg. 
(ed.  Monti  cit,  pp.  563-577),  si  veda  P.  H.  Michel,  op.  cit,  pp.  206-219.  S.  Ric- 
ci, La  fortuna  del  pensiero  di  G.  Bruno,  1600-1750,  Firenze,  1990,  p.  54,  nota  13, 
ha  ricordato  che  W.  Gilbert  nel  De  mundo,  II,  22  (terminato  nel  1603,  ma  pub- 
blicato soltanto  nel  165 1)  aveva  esplicitamente  attribuito  a  Bruno  due  movi- 
menti della  Terra,  in  aggiunta  al  secondo  movimento  intomo  al  Sole.  Cfr.  inol- 
tre G.  Aquilecchia,  /  «Massimi  sistemi»  di  Galileo  e  la  «Cena»  cit,  pp.  492-493. 


DIALOGO  QUINTO  565 

da  la  abitudine  ch'ha  una  linea  emisferica  della  terra,  che  vale 
per  rorizonte,  con  le  sue  differenze  al  universo,  sin  che  tomi  la 
medesma  linea,  o  proporzionale  a  quella,  alla  medesma  abitu- 
dine. Il  quarto  moto  si  misura  per  il  progresso  d'un  punto  po- 
lare de  la  terra,  che  per  il  dritto  di  qualche  meridiano,  passando 
per  l'altro  polo,  si  converta  al  medesmo  o  circa  il  medesmo  [273] 
aspetto  dove  era  prima.  E  circa  questo  è  da  considerare  che 
quantumque  diciamo  esser  quattro  moti,  nulladimeno  tutti 
concorreno  in  un  moto  composto.  Considerate,  che  di  questi 
quattro  moti:  il  primo  si  prende  da  quel,  che  in  un  giorno  na- 
turale par  che  circa  la  terra  ogni  cosa  si  muova  sopra  i  poli  del 
mondo,  come  dicono.  Il  secondo  si  prende  da  quel,  che  appare 
ch'il  sole  in  un  anno  circuisce  il  zodiaco  tutto,  facendo  ogni 
giorno,  secondo  Tolomeo '^  nella  terza  dizzione  del  Almagesto, 
cinquanta  nove  minuti,  otto  secondi,  17  terzi,  13  quarti,  12 
quinti,  31  sesti;  secondo  Alfonso  ^''j  cinquanta  nove  minuti,  8 
secondi,  11  terzi,  37  quarti,  19  quinti,  13  sesti,  56  settimi;  se- 
condo Copernico,  cinquanta  nove  minuti,  8  secondi,  11  terzi.  Il 
terzo  moto  si  prende  da  quel,  che  par  che  l'ottava  sfera,  secondo 
l'ordine  di  segni,  a  l'incontro  del  moto  diurno,  sopra  i  poli  del 
zodiaco,  si  muove  sì  tardi,  che  in  ducento  anni  non  si  muove 
più  ch'un  grado  e  28  minuti:  di  modo  che  in  quaranta  nove 
milia  anni  vien  a  compir  il  circolo^';  il  principio  del  qual  moto 
attribuiscono  ad  una  nona  sfera.  Il  quarto  moto  si  prende  dalla 
trepidazione  5^,  accesso  e  recesso,  che  dicono  far  l'ottava  sfera 

53.  Cfr.  Tolomeo,  Syntaxis  Mathematica,  III,  i  (ed.  Heiberg,  pp.  191  e  segg.). 

54.  Vale  a  dire  gli  astronomi  di  Alfonso  X  di  Castiglia,  che,  nella  metà  del 
XIII  secolo,  ordinò  la  redazione  delle  Tavole  alfonsine  per  completare  e  miglio- 
rare quelle  di  Tolomeo.  Non  abbiamo  reperito  la  fonte  utilizzata  da  Bruno  per 
la  grandezza  del  moto  diurno  del  Sole,  secondo  «Alfonso».  Peraltro  poteva  leg- 
gere in  Copernico  che,  dividendo  il  moto  annuo  del  Sole  per  365  giorni,  «avre- 
mo il  moto  diurno  di  59'  8"  11'"  22"".  Che  se  aggiungeremo  a  questi  la  preces- 
sione degli  equinozi  media  e  uniforme,  otterremo  anche  il  moto  uniforme  in 
anni  tropici,  quello  annuo  ...  e  quello  diurno  di  59'  8"  19'"  37""»  {De  revolutio- 
nibus.  III,  14;  ed.  Barone  cit,  p.  415). 

55.  Dato  tratto  dalle  Tavole  alfonsine.  Nello  Spaccio,  Dialogo  primo,  p.  201, 
Bruno  ridurrà  l'anno  cosmico  a  36.000  anni.  Cfr.  altresì  De  rerum  principiis,  Op. 
lai.,  III,  p.  538.  -  Ricordiamo  che  la  stima  di  Copernico  per  l'intera  rivoluzione 
uniforme  della  precessione  degli  equinozi  era  di  25.816  anni  (cfr.  De  revolutio- 
nibus,  III,  6;  ed.  Barone  cit,  p.  386).  Quanto  alla  sua  spiegazione,  Copernico 
rinunciava  evidentemente  a  farla  dipendere  da  una  o  due  sfere  celesti,  per  at- 
tribuirla ad  un  movimento  proprio  dell'asse  terrestre,  il  famoso  terzo  movi- 
mento. 

56.  Per  un'esposizione  della  teoria  della  trepidazione,  si  veda  ad  esempio 
C.  Clavius,  In  Sphaeram,  ed.  Lugduni,  1593,  pp.  56  e  63-64. 


566  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

sopra  dui  circoli  equali,  che  fingono  nella  concavità  della  nona 
sfera,  sopra  i  principii  dell'Ariete  e  Libra  del  suo  zodiaco.  Si 
prende  da  quel,  che  veggono  esser  necessario  che  l'ecliptica  del- 
l'ottava sfera  non  sempre  s'intenda  intersecare  l'equinozziale 
ne'  medesmi  punti:  ma  tal  volta  essere  nel  capo  d'Ariete,  tal 
volta  oltre  quello  da  l'una  e  l'altra  parte  dell'ecliptica;  da  quel, 
che  veggono  le  grandissime  declinazioni  del  zodiaco  non  esser 
(275]  sempre  medesme:  onde  necessariamente  seguita  che  gli  equinoz- 
zii  e  solstizii  continuamente  si  variino,  come  effetualmente  è 
stato  da  molto  tempo  visto.  Considerate,  che  quantumque  di- 
ciamo quattro  essere  questi  moti,  nulladimeno  è  da  notar  che 
tutti  concorreno  in  un  composto.  Secondo,  che  benché  le  chia- 
miamo circulari,  nullo  però  di  quelli  è  veramente  circulare. 
Terzo,  che  benché  molti  si  siino  affaticati  di  trovar  la  vera  re- 
gola de  tai  moti,  l'han  fatto,  e  quei  che  s'affaticaranno  lo  fa- 
ranno, in  vano:  per  che  nessuno  di  que'  moti  è  a  fatto  regolare  e 
capace  di  lima  geometrica  5^.  Son  dumque  quattro;  e  non  denno 
esser  più  né  meno  moti  (voglio  dir  differenze  di  mutazion  locale 
nella  terra),  de  quali  l'uno  irregolare  necessariamente  rende  gli 
altri  irregolari,  i  quali  voglio  che  si  discrivano  nel  moto  di  una 
palla  che  è  gittata  nell'aria.  Quella,  prima,  col  centro  si  muove 
da  A  in  B^^.  Secondo,  intratanto  che  con  il  centro  si  muove  da 
alto  a  basso,  o  da  basso  in  alto,  si  svolge  circa  il  proprio  centro, 
movendo  il  punto  /  al  loco  del  punto  K,  et  il  punto  K,  al  loco 
del  punto  /.  Terzo,  tornando  a  poco  a  poco,  et  avanzando  di 
camino  e  velocità  di  giro,  over  perdendo  e  scemando  (come  ac- 
cade alla  palla  che  montando  in  alto,  da  quel  che  prima  si  mo- 
veva più  velocemente,  poi  si  muove  più  tardi,  et  il  contrario  fa 
ritornando  al  basso,  et  in  mediocre  proporzione  nelle  mezze  di- 
stanze, per  le  quali  ascende  e  descende),  a  quella  abitudine  che 
tiene  questa  metà  della  circonferenza,  che  è  notata  per  i,  2,  3,  4, 
promoverrà  quell'altra  metà  la  quale  è  5,  6,  7,  8 5^.  Quarto, 
perché  questa  conversione  non  è  retta,  atteso  che  non  è  come 
d'una  ruota  che  corre  con  l'impeto  d'un  circolo,  in  cui  consista 

57.  Idea  ripresa  e  sviluppata  nel  De  immenso.  III,  5-6  e  io,  Op.  lat.,  I,  i,  pp. 
350,  362-366  e  395  (ed.  Monti  cit,  pp.  547-552  e  575-576).  Si  veda,  su  questo 
punto,  M.  A.  Granada,  L'interpretazione  hruniana  di  Copernico  cit,  pp.  345-346. 

58.  Si  veda  la  figura  9.  B  nel  testo  corrisponde  ad  E  sulla  figura. 

59.  Le  cifre  da  i  a  8,  non  indicate  sulla  figura  dell'edizione  del  1584,  vanno 
riferite  ad  otto  segmenti  che  dividono  la  perpendicolare  AE  (in  figura)  =  AB 
(nel  testo),  all'interno  del  cerchio. 


DIALOGO  QUINTO 


567 


il  momento  della  gravità,  ma  si  va  obliquando,  perché  è  di  un   [277] 
globo  il  quale  facilmente  può  inchinarsi  a  tutte  parti:  però  il 
punto  I  e  K  non  sempre  si  convertano  per  la  medesma  rettitu- 


[FiG.  9] 


dine,  onde  è  necessario  che  o  a  lungo  o  a  breve,  o  ad  interrotto 
o  a  continuo  andare,  si  dovenghi  a  tanto,  che  si  adempisca  quel 
moto  per  il  quale  il  punto  0  si  faccia  dove  è  il  punto  V,  e  per  il 


(279] 


508  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

contrario.  Di  questi  moti,  uno  che  non  sii  regolato,  è  sufficiente 
a  far  che  nessuno  de  gli  altri  sia  regolato;  uno  ignoto  fa  tutti  gli 
altri  ignoti.  Tutta  volta  hanno  un  certo  ordine  con  il  quale  più 
e  meno  s'accostano  et  allontanano  dalla  regolarità.  Onde  in 
queste  differenze  di  moti,  il  più  regolato  che  è  più  vicino  al 
regolatissimo  è  quello  del  centro.  Appresso  a  questo  è  quello 
circa  il  centro  per  diametro,  più  veloce.  Terzo  è  quello  che  con 
la  irregolarità  del  secondo  (quale  consiste  nell'avanzar  di  velo- 
cità e  tardità)  a  mano  a  mano  muta  l'intiero  aspetto  dell'emi- 
sfero. L'ultimo,  irregolatissimo  et  incertissimo,  è  quello  che  can- 
gia i  lati;  per  che  talvolta  in  loco  d'andar  avanti,  toma  a  dietro, 
e  con  grandissima  inconstanzia  viene  al  fine  a  cangiar  la  sedia 
d'un  punto  opposito  con  la  sedia  d'un  altro  ^"°.  Similmente  la 
terra;  prima  ha  il  moto  del  suo  centro,  che  è  annuale,  più  rego- 
lato che  tutti,  e  più  che  gli  altri  simile  a  se  stesso;  secondo,  men 
regolato,  è  il  diurno;  terzo,  l'irregolato,  chiamiamo  l'emisferico; 
quarto,  irregolatissimo,  è  il  polare  o  ver  colurale^^ 

Smitho.  -  Questi  moti  vorrei  sapere  con  qual  ordine  e  regola 
il  Nolano  ne  farà  comprendere. 

Prudenzio.  —  Ecqids  erit  modus?  novis  usque  et  usque  semper 
indigebimus  theoriis?^^ 

Teofilo.  -  Non  dubitate,  Prudenzio,  per  che  del  bon  vecchio 
non  vi  si  guastarà  nulla.  A  voi,  Smitho,  mandare  quel  dialogo 
[281]  del  Nolano,  che  si  chiama  Purgatorio  de  rinferno^^:  et  ivi  vedrai 
il  frutto  della  redenzione.  Voi,  Frulla,  tenete  secreti  i  nostri  di- 
scorsi; e  fate  che  non  venghino  a  l'orecchie  di  quelli  ch'abbiamo 

60.  Cfr.  Schiaparelli  in  F.  Tocco,  Le  opere  latine  di  G.  Bruno  cit,  p.  316, 
nota  i:  «Può  certamente  un  tal  globo  avere  intomo  al  centro  un  moto  com- 
plesso di  rotazione,  in  virtù  del  quale  l'asse  rotatorio  si  vada  spostando  non 
solo  rispetto  allo  spazio  circostante,  ma  anche  rispetto  alla  massa  del  globo 
trasportandosi  i  poli  da  un  punto  all'altro  della  sua  superficie.  Ma  questo  passo 
...  non  giova  punto  a  provare  che  la  Terra  abbia  un  simil  movimento». 

61.  I  coluri  sono  due  cerchi  massimi  della  sfera  celeste  che  s'intersecano  ai 
poli,  passando  uno  dagli  equinozi,  l'altro  dai  solstizi. 

62.  «Non  vi  sarebbe  un  giusto  mezzo?  Fino  a  quando  avremo  bisogno  di 
teorie  sempre  nuove?». 

63.  Dialogo  perduto,  a  meno  che  questo  titolo  non  stia  ad  indicare  lo  Spac- 
cio, pubblicato  anch'esso  nel  1584  ed  il  cui  terzo  dialogo  fa  allusione  al  Purga- 
torio (cfr.  p.  401,  dove  si  dice  che  gli  dèi  hanno  «purgato»  il  cielo).  Più  sopra, 
neìV Argomento  del  Dialogo  quinto  della  Cena  (p.  438),  Bruno  prometteva  (facen- 
do riferimento  al  nostro  passo)  «di  aggiongere  per  altri  dialogi  quel  che  par  che 
manca  al  compimento  di  questa  filosofia»:  una  possibile  allusione  allo  Spaccio 
pensato,  ma  non  ancora  scritto. 


DIALOGO  QUINTO  569 

rimorduti:  a  fin  che  non  s'adirino  centra  di  noi,  e  venghino  a 
donarne  nove  occasioni  per  farsi  trattar  peggio  e  ricever  meglio 
castigo.  Voi,  maestro  Prudenzio,  fate  la  conclusione,  et  una  epi- 
logazione  morale  solamente  del  nostro  tetralogo"^:  per  che  l'oc- 
casione specolativa,  tolta  dalla  cena  de  le  ceneri,  è  già  conclusa. 
Prudenzio.  —  Io  ti  scongiuro.  Nolano,  per  la  speranza  ch'hai 
nell'altissima  et  infinita  unità  che  t'avviva,  et  adori;  per  gli 
eminenti  numi,  che  ti  protegeno,  e  che  onori;  per  il  divino  tuo 
genio  che  ti  defende,  et  in  cui  ti  fidi:  che  vogli  guardarti  di  vile, 
ignobili,  barbare  et  indegne  conversazioni;  a  fin  che  non  contrai 
per  sorte  tal  rabbia  e  tanta  ritrosia,  che  dovvenghi  forse  come 
un  satirico  Momo  tra  gli  dèi"^',  e  come  un  misantropo  Timon 
tra  gli  uomini  "^^  Rimanti  tra  tanto  appo  l'illustrissimo  e  gene- 
rosissimo animo  del  signor  di  Mauvissiero  (sotto  l'auspicii  del 
quale  cominci  a  publicar  tanto  sollenne  filosofia):  che  forse 
verrà  qualche  sufficientissimo  mezzo  per  cui  gli  astri  e  potentis- 
simi superi  ti  guidaranno  a  termine  tale,  onde  da  lungi  possi 
riguardar  simil  brutaglia.  E  voi  altri,  assai  nobili  personaggi, 
siete  scongiurati,  per  il  scettro  del  fulgorante  Giove,  per  la  civi- 
lità  famosa  di  Priamidi,  per  la  magnanimità  del  senato  e  po- 
polo quirino,  e  per  il  nettareo  convito  che  sopra  la  Etiopia  bu- 
gliente  fan  gli  dèi:  che  se  per  sorte  un'altra  volta  avviene,  che  il 
Nolano  per  farvi  servizio,  o  piacere,  o  favore,  venghi  a  pernottar 
in  vostre  case,  facciate  di  modo,  che  da  voi  sii  difeso  da  simili  [283] 
rancontri;  e  dovendo  per  l'oscuro  cielo  ritornar  a  la  sua  stanza, 
se  non  lo  volete  far  accompagnar  con  cinquanta  o  cento  torchi 
(i  quali,  ancor  che  debba  marciar  di  mezo  giorno,  non  gli  man- 
caranno,  se  gli  avverrà  di  morir  in  terra  catolica  romana),  fa- 
telo almeno  accompagnar  con  un  di  quelli;  o  pur  se  questo  vi 
parrà  troppo,  improntategli  una  lanterna,  con  un  candelotto  di 
sevo  dentro  a  fin  ch'abbiamo  faconda  materia  di  parlar  della 
sua  buona  venuta  da  vostre  case:  della  qual  non  si  è  parlato 

64.  Teofilo  adotta  qui  il  vocabolario  di  Prudenzio. 

65.  Cfr.  lo  Spaccio,  Dialogo  primo,  p.  204,  dove  Momo  ottiene  il  privilegio  di 
criticare  con  irriverenza  i  vizi  degli  dèi. 

66.  Abbandonato  dagli  amici  a  causa  del  suo  fallimento,  l'ateniese  Timone 
resta  misantropo  anche  dopo  aver  riacquistato  le  sue  ricchezze  (si  veda  il  Ti- 
mone di  Luciano,  la  commedia  omonima  di  Boiardo  e  il  Timon  of  Athens  di 
Shakespeare). 


570  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

ora.  —  Adiuro  vos'^'^,  o  dottori  Nundinio  e  Torquato,  per  il  pasto 
de  gli  Antropofagi,  per  la  pila  del  cinico  Anaxarco^^,  per  gli 
smisurati  serpenti  di  Laocoonte*^^,  e  per  la  tremebonda  piaga  di 
san  Rocco ''°:  che  richiamate  (se  fusse  nel  profondo  abisso,  e  do- 
vesse essere  nel  giorno  del  giudizio)  quel  rustico  et  incivile  vo- 
stro pedagogo  che  vi  die  creanza,  e  quell'altro  archiasino  et 
ignorante,  che  v'insegnò  di  disputare;  a  fin  che  vi  risaldano  le 
male  spese,  e  l'interesse  del  tempo  e  cervello  che  v'han  fatto 
perdere.  Adiuro  vos,  barcaroli  londrioti  che  con  gli  vostri  remi 
battete  l'onde  del  Tamesi  superbo,  per  l'onor  d'Eveno^'  e  Tibe- 
rino "2,  per  quali  son  nomati  dui  famosi  fiumi,  e  per  la  celebrata 
e  spaciosa  sepoltura  di  Palinuro^^:  che  per  nostri  danari  ne  gui- 
date al  porto.  E  voi  altri.  Trasoni  '■•  salvatici  e  fieri  mavorzii  del 
popolo  villano,  siete  scongiurati  per  le  carezze  che  femo  le  Stri- 
monie^5  ad  Orfeo,  per  l'ultimo  servizio  che  femo  i  cavalli  a  Dio- 
mede et  al  f ratei  di  Semele'^  e  per  la  virtù  del  sassifico  broc- 


67.  «Vi  supplico». 

68.  Il  mortaio  dove,  per  ordine  del  satrapo  Nicocreonte,  fu  maciullato  il 
filosofo  Anassarco  (380-320  a.  C),  che,  in  questa  occasione,  mostrò  un  coraggio 
eccezionale  (cfr.  Diogene  Laerzio,  IX,  59).  Si  vedano  gli  Eroici  furori,  I,  5,  p. 
625  ed  il  Sigilhis  sigilloriim,  Op.  lai.  II,  2,  p.  192  (traduz.  di  N.  Tirinnanzi,  Mi- 
lano, 1997,  p.  396).  Su  Anassarco  di  Abdera,  cfr.  H.  Diels,  Die  Fragmente  der 
Vorsokratiker,  Berlin,  1903,  59,  pp.  475-479  (GlANNANTONi,  op.  cit.,  72,  voi.  II, 
pp.  839-846).  Cfr.  inoltre  M.  Pigino,  Theologia  Platonica,  XIII,  i,  ed.  a  cura  di 
M.  Schiavone,  Bologna,  voi.  II,  1965,  pp.  194-195. 

69.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  II,  203-208,  ma  anche  Plinio,  Naturalis  Historia, 
XXXVI,  37,  ed.  a  cura  di  S.  Ferri,  Roma,  1946,  pp.  240-242  e  nota.  Sulla  sco- 
perta del  Laocoonte  nel  1506  e  sulla  sua  contemporanea  collocazione  nel  Bel- 
vedere del  Vaticano,  si  veda  da  ultimo  S.  Settis,  Des  rtdnes  aii  miisée.  La  de- 
stinée  de  la  sculpture  classique,  «Annales  E.S.C.»  [Paris],  48,  1993,  pp.  1347-1380 
(in  particolare,  pp.  1353-1354,  con  relativa  bibliografia). 

70.  Rocco  di  Montpellier  (1295-1327),  patrono  degli  appestati,  era  rappresen- 
tato con  una  piaga  o  con  un  bubbone  alla  coscia.  Cfr.  Candelaio,  III,  8,  p.  337. 

71.  Figlio  di  Marte,  battuto  in  una  corsa  da  Ida,  si  buttò  in  un  fiume,  al 
quale  diede  il  suo  nome:  cfr.  Ovidio,  Ibis,  511-512;  Metani.,  IX,  104;  Heroid.,  IX, 
141. 

72.  Divinità  eponima  del  Tevere. 

73.  Palinuro,  il  pilota  di  Enea,  venne  sepolto  su  un  promontorio  della  Lu- 
cania al  quale  diede  il  proprio  nome  (cfr.  Virgilio,  Aen.,  VI,  380). 

74.  Trasone  è,  originariamente,  il  nome  dato  da  Terenzio  al  soldato  van- 
tone  àeW Eunuchtis. 

75.  Le  Menadi  (che  Prudenzio  chiama  Strimonie,  dal  fiume  Strymon,  in 
Tracia)  fecero  Orfeo  a  pezzi:  cfr  Ovidio,  Metam.,  XI,  i  e  segg. 

76.  Ercole  fece  divorare  Diomede,  re  di  Tracia,  dai  cavalli  che  questi  nu- 
triva con  carne  umana  (cfr.  Seneca,  Troades,  w.  1108-1109;  Hercules  furens, 
w.  1168-1170).  -  Il  «fratel  di  Semele»  è  Polidoro,  figlio  di  Cadmo.  Bruno  forse 
confonde  il  v.  280  dell'Ibis  di  Ovidio,  dove  è  questione  di  una  sorella  di  Semele, 
ed  i  vv.  282-283,  dove  si  parla  dello  smembramento  eseguito  dai  cavalli. 


DIALOGO  QUINTO  571 

chier  di  Cefeo^"^:  che  quando  vedete  et  incontrate  i  forasteri  e 
viandanti,  se  non  volete  astenervi  da  que'  visi  torvi  et  erinnici,  [285] 
al  meno  l'astinenza  da  quegli  urti  vi  sii  raccomandata.  Tomo  a 
scongiurarvi  tutti  insieme:  altri  per  il  scudo  et  asta  di  Minerva; 
altri  per  la  generosa  prole  del  troiano  cavallo ^^;  altri  per  la  ve- 
neranda barba  d'Esculapio;  altri  per  il  tridente  di  Nettuno;  altri 
per  i  baci  che  diemo  le  cavalle  a  Glauco^^:  ch'un'altra  volta  con 
meglior  dialogi  ne  facciate  far  notomia  di  fatti  vostri,  o  al  men 
tacere. 

Il  fine  de  la  Cena  de  le  Ceneri  [287] 


Tj.  Si  tratta  dello  scudo  ricoperto  dalla  testa  della  Gorgone  che  apparte- 
neva a  Perseo,  genero  di  Cefeo.  Cfr.  Ovidio,  Metani.,  V,  216-217. 

78.  I  guerrieri  greci,  che  uscirono  dal  ventre  del  grande  cavallo  di  legno  e 
incendiarono  Troia;  cfr.  Lucrezio,  De  rerum  natura,  I,  ^yè-^yy. 

79.  Le  cavalle  lo  divorarono.  Cfr.  Virgilio,  Georg.,  Ili,  266-268. 


APPENDICI 


APPENDICE  I 

La  redazione  primitiva  del  principio  del  dialogo  I 
della  Cena  de  le  Ceneri  (ce.  Bir  -  B2y) 


DIALOGO  PRIMO 
Interlocutori 

Smitho,  studioso  gentil' uomo;  Teofilo  filosofo; 
Prudenzio  pedante.  Frulla,  servitor  di  Smitho 

[Smitho].  —  Parlavan  ben  latino? 

Teofilo.  -  Sì. 

Smitho.  —  Galant'uomini? 

Teofilo.  -  Sì. 

Smitho.  —  Di  buona  riputazione? 

Teofilo.  -  Sì. 

Smitho.  -  Dotti? 

Teofilo.  —  Cossi  cossi. 

Smitho.  -  Ben  creati,  cortesi,  civili? 

Teofilo.  —  Cossi  cossi. 

Smitho.  -  Dottori  anch'essi? 

Frulla  1.  -  Messer  sì,  madonna  sì,  padre  sì,  madesì,  dottori  [291] 


1.  Le  due  prime  risposte  attribuite  a  Frulla  nella  prima  redazione  (qui,  ul- 
tima riga  e  pagina  seguente,  riga  7)  saranno  attribuite  a  Teofilo  nella  seconda 
(p.  441,  riga  16  e  p.  442,  riga  4).  Bruno  dev'essersi  senz'altro  accorto  che  Frulla, 
non  avendo  partecipato  alla  cena  -  cfr.  la  fine  del  Dialogo  secondo  —  non 
poteva  essere  informato  su  alcune  caratteristiche  dei  convitati.  Non  può  trat- 
tarsi qui  di  un  errore  di  stampa,  e  nemmeno  di  un  lapsus  calami.  La  prova  è  il 
terzo  intervento  di  Frulla  (p.  570,  riga  io):  «io  non  parlo  con  voi»  diventa, 
nella  seconda  redazione,  «non  parla  con  voi»,  dove  il  verbo  «parla»  ha  per 
soggetto  Teofilo.  La  prima  redazione  tradisce  una  svista  di  Bruno  o  la  sua  in- 
certezza riguardo  all'ulteriore  sviluppo  dell'opera.  Nel  testo  definitivo,  si  noti 
un'analoga  contraddizione  in  un'altra  replica  di  Frulla,  che  non  è  stata  cor- 
retta (p.  458,  righe  5-14). 


576  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

anch'essi,  e  bisognava  che  fussero  personaggi  d'importanza:  sì 
per  che  fumo  di  scelta,  sì  perché  andavano  co  robba  lunghis- 
sima, e  vestiti  di  veluto;  et  un  di  quelli  avea  due  catene  d'oro  (si 
non  eran  dorate)  al  collo,  e  l'altro  avea  dodici  anella  in  due  dita: 
che  quando  moveva  quella  preziosa  mano  ti  rallegrava  il  core. 

Smitho.  -  Mostravano  saper  di  greco? 

Frulla.  —  E  di  birra  anco,  eziamdio. 

Prudenzio.  —  Togli  via  queir« eziamdio»,  poscia  è  una  abso- 
leta  et  antiquata  diczione. 

Frulla.  —  Tacete  maestro,  per  che  io  non  parlo  con  voi. 

Smitho.  —  Come  eran  fatti? 

Frulla.  —  L'uno  parea  il  connestabile  de  la  gigantessa  e 
l'orco;  l'altro  l'amostante  della  dea  de  la  riputazione. 

Smitho.  —  Sì  che  eran  dui? 

Teofilo.  -  Sì,  per  esser  un  numero  misterioso. 

Prudenzio.  -  Ut  essent  duo  testes. 

Frulla.  -  Che  intendete  per  quel  «testes»} 

Prudenzio.  —  Testimoni,  essaminatori  e  perscrutatori  de  la 
sufficienza  del  Nolano:  et  mehercle  ha  ben  detto  Teofilo  che  il 
numero  binario  è  misterioso. 

Frulla.  -  Perché? 

Teofilo.  —  Essendo  che,  come  dice  Pitagora,  due  sono  le 
prime  coordinazioni:  finito  infinito,  curvo  retto,  destro  sinistro, 
e  va  discorrendo.  Due  sono  le  specie  de  numeri:  pare  et  impare, 
[293]  de  quai  l'uno  dicea  maschio  e  l'altro  femina.  Dui  sono  i  fonda- 
menti de  l'ombre  de  l'idee:  intenzione  e  concepzione.  Dui  sono 
gli  obietti  d'ogni  invenzione,  disposizione,  giudicio  e  memoria: 
il  campo  et  la  figurazione.  Dui  sono  li  enciclii  nel  libro  de 
trenta  sigilli  2:  quadrato  e  circolare.  Dui  principii  essenziali  de  le 
cose:  la  materia  e  la  forma.  Due  specifiche  differenze  de  la  su- 
stanza:  raro  e  denso,  o  ver  semplice  e  misto.  Dui  primi  contrarii 
et  attivi  principii:  il  caldo  e  freddo.  Dui  primi  parenti  de  le  cose 
naturali:  il  sole  e  la  terra. 

Smitho.  -  Fatemi  un  piacere  d'apportar  alcune  specie  di 
dualità  più  conforme  e  corrispondente  alla  dualità  della  quale 
abbiamo  proposito. 

2.  Allusione  aiV Explicatio  triginta  sigillorum,  stampata  nel  1583  in  Inghil- 
terra (ed.  a  cura  di  F.  Tocco-G.  Vitelli,  in  Op.  lai.,  II,  2).  A  riguardo,  cfr. 
R.  Sturlese,  Introduzione  a  De  umbris  idearum,  Firenze*  1991,  pp.  XI  e  passim. 


APPENDICE  I  577 

Frulla.  —  Come  è  dire  che  i  frati  di  san  Francesco  vanno  a 
dui  a  dui.  Le  bestie  entromo  ne  l'arca  di  Noè  a  due  a  due,  ne 
uscimo  ancora  a  due  a  due.  Il  nostro  redentore  nacque  in 
mezzo  di  dui  animali:  l'asino  et  il  bue.  Trionfò  sopra  due  mon- 
tature: l'asina  et  il  pullo;  che  come  dicono  i  santi  dottori,  signi- 
ficano il  popolo  ebreo  et  il  gentile,  che  erano  per  credergli.  Visse 
tra  due  generazioni:  Giudei  e  Samaritani.  Morse  tra  dui  villani: 
Dimas  e  Gestas^;  e  cossi  discorrendo  per  scala  del  binario  sin  a 
V«ite»  et  il  «venite»  del  giorno  del  giudizio:  trovarete  questo  nu- 
mero essere  misteriosissimo. 

Prudenzio.  —  Optimae  indolis  ingenium,  enumeratio  minime 
contemnenda. 

Frulla.  —  Io  mi  glorio,  messer  Prudenzio  mio,  per  che  voi 
approvate  il  mio  discorso,  che  séte  più  prudente  che  l'istessa 
prudenzia,  perciò  che  séte  la  prudenzia  masculini  generis.  [295] 

Prudenzio.  —  Neque  id  sine  lepore  et  gratia.  Orsù  isthaec  mit- 
tamus  encomia.  Sedeamus  quia,  ut  ait  Peripateticorum  princeps,  se- 
dendo et  quiescendo  sapimus:  e  cossi  in  sino  al  tramontar  del  sole 
protelaremo  il  nostro  tetralogo  circa  il  successo  del  colloquio 
del  Nolano  col  dottor  Torquato  et  il  dottor  Nundinio. 

Frulla.  -  Vorrei  sapere  quel  che  volete  intendere  per  quel 
«tretalogo». 

Prudenzio.  —  «Tetralogo»  dissi  io,  idest  quatuorum  sermo, 
come  «dialogo»  vuol  dire  duorum  sermo,  «trilogo»  trium  sermo,  e 
cossi  oltre,  de  «pentalogo»,  «eptalogo»  et  altri,  che  abusiva- 
mente si  chiamano  «dialogi»,  come  dicono  alcuni,  quasi  diver- 
sorum  logi:  ma  non  é  verisimile  che  Greci  inventori  di  questo 
nome,  abbino  quella  prima  sillaba  «di»  prò  capite  illius  latinae 
dictionis  «diversum». 

Smitho.  -  Di  grazia,  signor  maestro,  lasciamo  questi  rigori 
di  gramatica,  e  venemo  al  nostro  proposito. 

Prudenzio.  -  O  seclum,  voi  mi  parete  far  poco  conto  delle 
buone  lettere.  Come  potremo  far  un  buon  tetralogo,  si  non  sap- 
piamo che  significhi  questa  dizzione  «tetralogo»?  e  quodpeius  est, 
pensaremo  che  sii  un  dialogo?  non  ne  a  definitione  et  a  nominis 
explicatione  exordiendum,  come  il  nostro  Arpinate  ne  insegna? 

3.  Il  nome  dei  due  ladroni  non  compariva  nella  Bibbia,  ma  nella  Narra- 
zione di  Giuseppe  di  Arimatea,  che  fa  parte  degli  Apocrifi  del  Nuovo  Testamento 
(cfr.  l'ed.  a  cura  di  L  Moraldi,  Torino,  voi.  I,  1971,  p.  688). 


578  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

Teofilo.  —  Voi,  messer  Prudenzio,  séte  troppo  prudente:  la- 
sciamo, vi  priego,  questi  discorsi  grammaticali,  e  fate  conto  che 
questo  nostro  raggionamento  sii  un  dialogo;  atteso  che  benché 
siamo  quattro  in  persona,  saremo  dui  in  officio:  di  proponere  e 
[297]  rispondere,  di  raggionare  et  ascoltare.  Or  per  dar  principio  e  re- 
portar il  negocio  da  capo:  sono  già  circa  quindeci  giorni  passati 
che  essendo  il  Nolano  in  casa  del  illustrissimo  ambasciator  di 
Francia,  li  venne  messer  Florio  insieme  con  maestro  Guin^  da 
parte  d'un  gentil'  uomo  regio  scudiero... 

Prudenzio.  —  Ab  origine,  ab  ovo:  a  tempore,  loco  et  personis, 
optime  exorditum^. 

Teofilo.  -  ...  e  gli  dissero  qualmente  colui  era  desideroso  de 
la  sua  conversazione,  specialmente  per  brama  che  egli  aveva  de 
intendere  le  raggioni  del  moto  de  la  terra,  et  altri  paradossi  che 
costui  fermamente  approvava;  giongendo  a  questo,  che  quello 
era  molto  cupido  d'intendere  i  concetti  del  Copernico. 

Prudenzio.  —  Omnes  homines  suapte  natura  sciendi  desiderio 
trahuntur,  disse  il  Stagirita*^. 

[Teofilo].  -  A  questo  rispose  il  Nolano  che  lui  non  vedea 
per  gli  occhi  di  Copernico,  né  di  Ptolomeo,  ma  per  i  proprii 
quanto  al  giudizio  e  la  determinazione:  benché  quanto  alle  os- 
servazioni stima  dover  molto  a  questi  et  altri  solliciti  matema- 
tici, che  successivamente  a  tempi  e  tempi,  giongendo  lume  a 
lume,  ne  han  donati  principii  sufficenti  per  i  quali  siamo  ri- 
dutti  a  tal  giudicio,  quale  non  possea  se  non  dopo  molte  non 
ociose  etadi  esser  parturito.  Giongendo  che  costoro  in  effetto 
son  come  quelli  interpreti  che  traducono  da  uno  idioma  a  l'al- 
tro le  paroli:  ma  sono  gli  altri  poi  che  profondano  ne'  senti- 
menti, e  non  essi  medesmi.  E  son  simili  a  que'  rustici  che  ra- 
portano  gli  effetti  e  la  forma  d'un  conflitto  a  un  capitano  ab- 
[299]  sente;  et  essi  non  intendono  (...) 

4.  John  Florio  e  Mattew  Gwinne,  amici  londinesi  di  Bruno  (cfr.  Dialogo 
secondo,  p.  467,  nota  6). 

5.  «[Partire]  dall'origine,  dall'uovo:  ottimo  esordio  quello  che  indica  i 
tempi,  il  luogo  e  i  personaggi». 

6.  «Tutti  gli  uomini  sono  coinvolti  per  natura  dal  desiderio  di  conoscere», 
citazione  dell'esordio  della  Metaphysica,  A  i,  980  a  21.  Bruno  non  adopera  qui 
la  versione  del  Moerbeke,  che  traduceva,  con  maggiore  sobrietà:  «Omnes  homi- 
nes natura  scire  desiderant». 


APPENDICE  II 


La  redazione  primitiva  della  seconda  parte 
del  dialogo  II  e  del  principio  del  III 
della  Cena  de  le  Ceneri  (foglio  D) 

[Teofilo].  —  (...)  fortuna  è  gionto  a  termine  tale.  Non  solo  è 
degno  di  onore  quell'uno  eh'  ha  meritato  il  palio:  ma  ancor 
quello  e  quell'altro,  eh'  ha  sì  ben  corso  eh'  è  giudicato  anco  de- 
gno e  sufficiente  de  l'aver  meritato,  ben  che  non  l'abbia  vinto;  e 
son  vituperosi  quelli  ch'ai  mezzo  de  la  carriera  desperati  si  fer- 
mano, e  non  vanno  (ancor  che  ultimi)  a  toccar  il  termine  con 
quella  lena  e  vigor,  che  gli  è  possible. 

Venca  dumque  la  perseveranza:  per  che  se  la  fatica  è  tanta,  il 
premio  non  sarà  mediocre.  Tutte  cose  preziose  son  poste  nel  dif- 
ficile; stretta  e  spinosa  è  la  via  de  la  beatitudine;  gran  cosa  forse 
ne  promette  il  cielo: 

Pater  ipse  colendi 
haud  facilem  esse  viam  voluit,  primusque  per  artem 
movit  agros:  curis  acuens  mortalia  corda, 
nec  torpere  gravi  passus  sua  regna  veterno. 

Prudenzio.  -  Questo  è  un  molto  emfatico  progresso,  che 
converrebe  a  una  materia  di  più  grande  importanza. 

Frulla.  —  È  lecito,  et  è  in  potestà  di  principi,  de  essaltar  le 
cose  basse:  le  quali  se  essi  farran  tali,  saran  giudicate  degne,  e  [301] 
veramente  saran  degne;  et  in  questo  gli  atti  loro  son  più  illustri 
e  notabili,  che  si  aggrandissero  i  grandi;  perché  non  è  cosa  che 
non  credeno  meritar  per  la  sua  grandezza,  o  vero  che  si  mante- 
nessero i  superiori  ne  la  sua  superiorità,  perché  diranno  quello 
convenirgli  non  per  grazia,  cortesia  e  magnanimità  di  principe, 
ma  per  giusticia  e  raggione.  Cossi  non  essaltano  per  ordinario 
degni  e  virtuosi,  perché  gli  pare  che  quelli  non  hanno  occasione 


580  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

di  rendergli  tante  grazie,  quante  un  aggrandito  poltrone  e  feccia 
di  forfanti.  Oltre  hanno  questa  prudenza  per  far  conoscere  che 
la  fortuna  (alla  cui  cieca  maestà  son  obligati  molto)  è  superiore 
à  la  virtù:  se  tal  volta  esaltano  un  uom  da  bene  et  onorato  tra 
quelli,  di  rado  li  faran  tener  quel  grado  nel  quale  non  se  gli 
prepona  un  tale,  che  gli  faccia  conoscere  quanto  l'autorità  vale 
sopra  i  meriti;  e  che  i  meriti  non  vagliono,  se  non  quanto  quella 
permette  e  dispensa.  Or  vedete  con  qual  similitudine  potrete  in- 
tendere per  che  Teofilo  exaggere  tanto  questa  materia;  la  qual 
quantumque  rozza  vi  paia,  è  pur  altra  cosa  che  esaltar  la  Salza, 
V Orticello,  il  Culice,  la  Mosca,  la  Noce,  e  cose  simili  con  gli  anti- 
chi scrittori;  e  con  que'  di  nostri  tempi,  il  Palo,  la  Stecca,  il  Ven- 
taglio, la  Radice,  la  Gniffeguerra,  la  Candela,  il  Scaldaletto,  il  Fico, 
la  Quintana,  il  Circello,  et  altre  cose  che  non  solo  son  stimate 
ignobili,  ma  son  anco  molte  di  quelle  stomacose ''.  Ma  si  tratta 
dell'andar  a  ritrovar  tra  gli  altri  un  par  di  suppositi:  che  portan 
seco  tal  significazione,  che  certo  gran  cosa  ne  promette  il  cielo. 
Non  sapete  che  quando  il  figlio  di  Cis  chiamato  Saul  andava 
[303]  cercando  gli  asini,  fu  in  punto  d'esser  stimato  degno  et  esser 
ordinato  re  del  popolo  israelita?  Andate,  andate  a  leggere  il 
primo  libro  di  Samuele^;  e  vi  vedrete  che  quel  gentil  personag- 
gio tutta  via  fea  più  conto  di  trovar  gli  asini,  che  d'esser  onto 
re.  Anzi  par  che  non  si  contentava  del  regno,  se  non  trovava  gli 
asini.  Onde  tutte  volte  che  Samuele  gli  parlava  di  coronarlo,  lui 
rispondeva:  «E  dove  son  gli  asini?  gli  asini  dove  sono?  Mio  pa- 
dre m'  ha  inviato  a  ritrovar  gli  asini,  e  non  volete  voi  eh'  io 
ritrove  gli  miei  asini?».  In  conclusione  non  si  quietò  mai,  sin 
tanto  che  non  gli  disse  il  profeta  che  gli  asini  eran  trovati,  vo- 
lendo accennar  forse  ch'avea  quel  regno,  per  cui  possea  conten- 
tarsi, che  valeva  per  gli  suoi  asini,  e  d'avantaggio  ancora.  Ecco 
dumque  come  alle  volte  tal  cosa  si  è  andato  cercando,  che  quel 
cercare  è  stato  presagio  di  regno.  Gran  cosa  adunque  ne  pro- 
mette il  cielo.  Or  seguita,  Teofilo,  il  tuo  discorso.  Narra  i  suc- 

7.  L'elogio  delle  «cose  basse»  era  criticato  da  G.  B.  Giraldi  Cinzio  nei  suoi 
Discorsi  del  1554  (in  Scritti  estetici,  Milano,  1864,  parte  seconda,  pp.  30-31). 
Bruno  allude  scopertamente  al  Moretum  ed  al  Culex  attribuiti  a  Viiplio,  alla 
Nux  elegia  (su  cui,  cfr.  Candelaio,  III,  7),  ma  anche  ai  paradossi  di  autori  mo- 
derni quali  Bemi,  Giovanni  della  Casa,  Mauro,  Molza,  Doni,  Aretino. 

8.  Samuele,  I,  9. 


APPENDICE  II  581 

cessi  di  questo  cercare  che  facea  il  Nolano;  fanne  udire  il  re- 
stante de  i  casi  di  questo  viaggio. 

Prudenzio.  —  Benest,  prò  bene  est,  prosequere,  Theophile'^. 

Smitho.  —  Ispedite  presto,  per  che  s'accosta  l'ora  d'andar  a 
cena.  Dite  brevemente  quel  che  vi  occorse  dopo  che  vi  risolve- 
ste di  seguitar  più  tosto  il  lungo  e  fastidioso  camino,  che  ritor- 
nar a  casa. 

Teofilo.  —  Alza  i  vanni,  Teofilo,  e  ponti  in  ordine,  e  sappi 
ch'ai  presente  non  s'offre  occasione  di  apportar  de  le  più  alte 
cose  del  mondo.  Non  hai  qua  materia  di  parlar  di  quel  nume  de 
la  terra,  di  quella  singolare  e  rarissima  Dama,  che  da  questo 
freddo  cielo,  vicino  a  l'artico  parallelo,  a  tutto  il  terreste  globo  [305] 
rende  sì  chiaro  lume:  Elizabetta  dico,  che  per  titolo  e  dignità 
regia  non  è  inferiore  a  qualsivoglia  re  che  sii  nel  mondo;  per  il 
giodicio,  saggezza,  conseglio  e  governo,  non  è  facilmente  se- 
conda ad  altro  che  porti  scettro  in  terra.  Ne  la  cognizione  de  le 
arti,  notizia  de  le  scienze,  intelligenza  e  prattica  de  tutte  lingue, 
che  da  persone  popolari  e  dotte  possono  in  Europa  parlarsi,  la- 
scio al  mondo  tutto  giudicare  qual  grado  lei  tenga  tra  tutti  gli 
altri  principi.  Certo  se  1'  imperio  de  la  fortuna  corrispondesse  e 
fusse  agguagliato  a  1'  imperio  del  generosissimo  spirto  et  inge- 
gno, bisognarebe  che  questo  grande  Amfitrite  aprisse  le  sue  fim- 
brie, et  allargasse  tanto  la  sua  circonferenza,  che  sì  come  gli 
comprende  una  Britannia  et  Ibemia,  gli  desse  un  altro  globo 
intiero,  che  venesse  ad  uguagliarsi  a  la  mole  universale:  onde 
con  più  piena  significazione  la  sua  potente  mano  sustente  il 
globo  d'una  generale  et  intiera  monarchia. 

Non  hai  materia  di  parlar  di  tanto  maturo,  discreto  et  pro- 
vido  conseglio,  con  il  quale  quell'animo  eroico  già  vinticinque 
anni  e  più,  col  cenno  de  gli  occhi  suoi,  nel  centro  delle  borasche 
d'un  mare  d'adversità,  ha  fatto  trionfar  la  pace  e  la  quiete; 
mantenutasi  salda  in  tanto  gagliardi  flutti  e  tumide  onde  di  sì 
varie  tempeste:  con  le  quali  a  tutta  possa  gli  ha  fatto  impeto 
quest'orgoglioso  e  pazzo  Oceano,  che  da  tutti  contomi  la  cir- 
conda. Quivi  (bench'  io  come  particolare  non  le  conosca,  né  ab- 
bia pensiero  di  conoscerli)  odo  tanto  nominar  gì'  illustrissimi  et 

9.  «Bene,  benissimo!  continua,  Teofilo». 


582  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

eccellentissimi  cavallieri,  un  gran  tesorier  del  regno '°,  e  Ro- 
berto Dudleo,  conte  di  Licestra,  la  generosissima  umanità  di 

[307]  quali  è  tanto  conosciuta  dal  mondo,  nominata  insieme  con  la 
fama  della  Regina  e  regno,  tanto  predicata  ne  le  vicine  pro- 
vinze,  come  quella  ch'accoglie  con  particolar  favore  ogni  sorte 
di  forastiero,  che  non  si  rende  al  tutto  incapace  di  grazia  et  os- 
sequio. Questi  insieme  co  l'eccellentissimo  signor  Francesco 
Walsingame,  gran  secretarlo  del  regio  Conseglio,  come  quelli 
che  siedeno  vicini  al  sole  del  regio  splendore,  con  la  luce  de  la 
lor  gran  civiltade  son  sufficienti  a  spengere  et  annullar  l'oscu- 
rità: e  con  il  caldo  de  l'amorevol  cortesia  desrozzir  e  purgare 
qualsivoglia  rudezza  e  rusticità,  che  ritrovar  si  possa  non  solo 
tra  Brittanni,  ma  anco  tra  Sciti,  Arabi,  Tartari,  Canibali  et  An- 
tropofagi.  Non  ti  viene  a  proposito  di  referire  l'onesta  conversa- 
zione, civilità  e  buona  creanza  di  molti  cavallieri  e  molto  nobili 
personaggi  del  regno,  tra  quali  è  tanto  conosciuto  et  a  noi  par- 
ticolarissimamente,  per  fama  prima,  quando  eravamo  in  Mi- 
lano et  in  Francia,  e  poi  per  esperienza,  or  che  siamo  ne  la  sua 
patria,  manifesto,  il  molto  illustre  et  eccellente  cavalliero,  si- 
gnor Fillippo  Sidneo:  di  cui  il  tersissimo  ingegno  (oltre  i  loda- 
tissimi  costumi)  è  sì  raro  e  singolare,  che  difficilmente  tra  sin- 
golarissimi e  rarissimi,  tanto  fuori  quanto  dentro  Italia,  ne  tro- 
varete  un  simile. 

Ma  a  proposito  importunissimamente  ne  si  mette  avanti  gli 
occhi  una  gran  parte  de  la  plebe;  la  quale  è  una  sì  fatta  sentina, 
che  se  non  fusse  ben  ben  suppressa  da  gli  altri,  mandarebbe  tal 
puzza  e  sì  mal  fumo,  che  verrebe  ad  offuscar  tanto  il  nome  di 
tutta  la  plebe  intiera,  che  potrebe  vantarsi  l'Inghilterra  d'aver 

[309I  una  plebe,  la  quale  in  essere  irrespettevole,  incivile,  rozza,  ru- 
stica, salvatica  e  male  allevata,  non  cede  ad  altra  che  pascer 
possa  la  terra  nel  suo  seno.  Or  messi  da  canto  molti  soggetti  che 
sono  in  quella  degni  di  qualsivoglia  onore,  grado  e  nobiltà,  ec- 
covi proposta  avanti  gli  occhi  un'altra  parte,  che  quando  vede 
un  forastiero,  sembra  (per  Dio)  tanti  lupi,  tanti  orsi:  che  con  il 
suo  torvo  aspetto  gli  fanno  quel  viso,  che  saprebe  far  un  porco 

IO.  È  il  lord  ireasurer.  dal  1572,  William  Cecil,  Lord  Burghley  (1520-1590). 
Cfr.  G.  Aquilecchia,  La  lezione  definitiva  della  «Cena  de  le  ceneri»  (1950),  ora  in 
Schede  bruniane.  Manziana  (Roma),  1993,  n.  i,  pp.  17-18;  Id.,  «La  cena  de  le 
ceneri»,  in:  Letteratura  italiana.  Le  opere,  Torino,  voi.  II,  1993,  pp.  676-677. 


APPENDICE  II  583 

ad  un  che  venesse  a  torgli  il  tinello  d'avanti.  Questa  ignobilis- 
sima porzione  (per  quanto  appartiene  al  proposito)  è  divisa  in 
due  specie... 

Prudenzio.  —  Omnis  divisio  dehet  esse  bimembris,  vel  reducibi- 
lis  ad  bimembrem. 

Teofilo.  -  ...  de  quali  l'una  è  de  arteggiani  e  botteggari,  che 
conoscendoti  in  qualche  foggia  forastiero,  ti  torceno  il  musso,  ti 
ridono,  ti  ghignano,  ti  petteggiano  co  la  bocca,  ti  chiamano  in 
suo  lenguaggio  «cane»,  «traditore»,  «straniero»:  e  questo  ap- 
presso loro  è  un  titolo  ingiuriosissimo,  e  che  rende  il  supposito 
capace  ad  ricevere  tutti  i  torti  del  mondo,  sia  pur  quantosivo- 
glia  uomo  giovane  o  vecchio,  togato  o  armato,  nobile  o  gen- 
til'uomo.  Or  qua  se  per  mala  sorte  ti  vien  fatto,  che  prendi  oc- 
casione di  toccarne  uno,  o  porre  mano  a  l'armi,  ecco  in  un 
punto  ti  vedrai,  quanto  è  lunga  la  strada,  in  mezzo  d'uno  eser- 
cito di  coteconi  i  quali,  più  di  repente  che  (come  fingono  i  poeti) 
da'  denti  del  drago  seminati  per  lasone  risorsero  tanti  uomini 
armati,  par  che  sbuchino  da  la  terra:  ma  certissimamente 
esceno  da  le  botteghe;  e  facendo  una  onoratissima  e  gentilis- 
sima prospettiva  de  una  selva  de  bcistoni,  pertiche  lunghe,  ale- 
barde,  partesane  e  forche  rugginenti,  le  quali  (benché  ad  ottimo  [311] 
uso  gli  siano  state  concesse  dal  prencipe)  per  questa  e  simile 
occasioni  han  sempre  apparecchiate  e  pronte,  cossi  con  una  ru- 
stica furia  te  le  vedrai  avventar  sopra,  senza  guardare  a  chi, 
perché,  dove  e  come,  senza  ch'un  se  ne  referisca  a  l'altro: 
ogn'uno  sfogando  quel  sdegno  naturale  eh'  ha  centra  il  fora- 
stiero ti  verrà  di  sua  propria  mano  (se  non  sarà  impedito  da  la 
calca  de  gli  altri  che  poneno  in  effetto  simil  pensiero)  e  con 
la  sua  propria  verga  a  prendere  la  misura  del  saio;  e  se  non 
sarai  cauto,  a  saldarti  ancora  il  cappello  in  testa.  E  se  per  caso 
vi  fusse  presente  qualch'uomo  da  bene,  o  gentil'uomo,  al  quale 
simil  villania  dispiaccia,  quello  (ancor  che  fusse  il  conte  o  il 
duca)  dubitando  con  suo  danno,  senza  tuo  profitto,  d'esserti 
compagno  (per  che  questi  non  hanno  rispetto  a  persona, 
quando  si  veggono  in  questa  foggia  armati),  sarà  forzato  a  ro- 
dersi dentro  et  aspettar,  stando  discosto,  il  fine.  Or  al  tandem 
quando  pensi  che  ti  sii  lecito  d'andar  a  trovar  il  barbiero,  e  ri- 
posar il  stanco  e  mal  trattato  busto,  ecco  che  trovarai  quelli 
medesimi  esser  tanti  birri  e  zaffi,  i  quali  se  potran  fengere  che 


584  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

tu  abbi  tocco  alcuno,  potreste  aver  la  schena  e  gambe  quanto- 
sivoglia  rotte,  come  avessi  gli  talari  di  Mercurio,  o  fussi  mon- 
tato sopra  il  cavallo  Pegaseo,  o  premessi  la  schena  al  destrier  di 
Perseo,  o  cavalcassi  l'ipogriffo  d'Astolfo,  o  ti  menasse  il  drome- 
dario de  Madian,  o  ti  trottasse  sotto  una  de  le  ciraffe  de  gli  tre 
Magi:  a  forza  di  bussate  ti  faran  correre,  aggiutandoti  ad  andar 
avanti  con  que'  fieri  pugni,  che  meglio  sarrebe  per  te  fussero 
tanti  calci  di  bue,  d'asino  o  di  mulo;  non  ti  lasciaranno  mai,  sin 
[313]  tanto  che  non  t'abbiano  ficcato  dentro  una  priggione:  e  qua  me 
tibi  contendo. 

Prudenzio.  —  A  fulgure  et  tempestate,  ab  ira  et  indignatione, 
malitia,  tentatione  et  furia  rusticorum... 

Frulla.  —  ...  libera  nos  domine. 

Teofilo.  -  Oltre  a  questi  s'aggionge  l'ordine  di  servitori;  non 
parlo  de  quelli  de  la  prima  cotta,  i  quali  son  gentil'uomini  de 
baroni,  e  per  ordinario  non  portano  impresa  o  marca,  se  non  o 
per  troppo  ambizione  de  gli  uni,  o  per  soverchia  adulazion  de 
gli  altri:  tra  questi  se  ritrova  civilità. 

Prudenzio.  —  Omnis  regula  exceptionem  patitur. 

Teofilo.  -  Ma  (eccettuando  però  di  tutte  specie  alcuni,  che 
vi  posson  essere  men  capaci  di  tal  censura)  parlo  de  le  altre 
specie  di  servitori;  de  quali,  altri  sono  de  la  seconda  cotta:  e 
questi  tutti  portano  la  marca  affibbiata  a  dosso.  Altri  sono  de  la 
terza  cotta:  li  padroni  de  quali  non  son  tanto  grandi,  che  li  con- 
vegna  dar  marca  a'  servitori,  o  pur  essi  son  stimati  indegni  et 
incapaci  di  portarla.  Altri  sono  de  la  quarta  cotta,  e  questi  sie- 
gueno  gli  marcati  e  non  marcati:  e  son  servi  de  servi. 

Prudenzio.  —  «Servus  servorum»  non  est  malus  titulus  usque- 
quaque. 

Teofilo.  —  Quelli  de  la  prima  cotta  son  i  poveri  e  bisognosi 
gentil'uomini,  li  quali  per  dissegno  di  robba  o  di  favore,  se  ri- 
ducono sotto  l'ali  di  maggiori:  e  questi  per  il  più  non  son  tolti 
da  sua  casa,  e  senza  indignità  seguitano  i  sui  milordi,  son  sti- 
mati e  fauriti  da  quelli.  Quelli  de  la  seconda  cotta  sono  de  mer- 
[315J  cantuzzi  falliti,  o  arteggiani,  o  quelli  che  senza  profitto  han  stu- 
diato a  leggere,  scrivere  o  altra  arte:  e  questi  son  tolti  o  fuggiti 
da  qualche  scuola,  fundaco  o  bottega.  Quelli  de  la  terza  cotta 
son  que'  poltroni  che,  per  fuggir  maggior  fatica,  han  lasciato  più 
libero  mestiere:  e  questi  o  son  poltroni  acquatici,  tolti  da  bat- 


APPENDICE  II  585 

telli,  o  son  poltroni  terrestri,  tolti  da  gli  aratri.  Gli  ultimi  de  la 
quarta  cotta  sono  una  mescuglia  di  desperati,  di  disgraziati  da 
lor  padroni,  de  fuor  usciti  da  tempeste,  de  pelegrini,  de  disutili 
et  inerti,  di  que'  che  non  han  più  comodità  di  rubbare,  di  que' 
che  frescamente  son  scampati  di  priggione,  di  quelli  che  han 
disegno  d'ingannar  qualcuno,  che  le  viene  a  tórre  da  là:  e  questi 
son  tolti  da  le  colonne  de  la  Borsa  e  da  la  porta  di  San  Paolo. 
De  simili  se  ne  vuoi  a  Parigi,  ne  trovarai  quanti  vi  piace  a  la 
porta  del  Palazzo;  in  Napoli,  a  le  grade  di  San  Paolo;  in  Vene- 
zia, a  Rialto;  in  Roma,  al  Campo  di  Flora '^  -  De  le  tre  ultime 
specie  sono  quei  che  per  mostrar  quanto  siino  potenti  in  casa 
sua,  e  che  sono  persone  di  buon  stomaco,  son  buoni  soldati  et 
hanno  a  dispreggio  il  mondo  tutto:  ad  uno  che  non  fa  mina  di 
volergli  dar  la  piazza  larga,  gli  donaranno  con  la  spalla,  come 
con  un  sprone  di  galera,  una  spinta,  che  lo  faran  voltar  tutto 
ritondo,  facendogli  veder  quanto  siino  forti,  robusti  e  possenti, 
et  ad  un  bisogno  buoni  per  rompere  un'armata.  E  se  costui  che 
se  farà  incontro  sarà  un  forastiero,  donigli  pur  quanto  si  voglia 
di  piazza,  che  vuole  per  ogni  modo  che  sappia  quanto  san  far  il 
Cesare,  l'Anniballe,  l'Ettorre,  et  un  bue  che  urta  ancora.  Non 
fanno  solamente  come  l'asino  il  quale  (massimamente  quando  è 
carco)  si  contenta  del  suo  diritto  camino  per  il  filo,  d'onde  se  tu 
non  ti  muovi,  non  si  moverà  anco  lui,  e  converrà  che  o  tu  a  [317] 
esso,  o  esso  a  te  doni  la  scossa:  ma  fanno  cossi  questi  che  portan 
l'acqua,  che  se  tu  non  stai  in  cervello,  ti  farran  sentir  la  punta 
di  quel  naso  di  ferro  che  sta  a  la  bocca  de  la  giarra.  Cossi  fanno 
ancora  color  che  portan  birra  et  ala:  i  quali  facendo  il  corso  suo, 
se  per  tua  inavertenza  te  si  avventaranno  sopra,  te  faran  sentire 
l'empito  de  la  carca  che  portano,  e  che  non  solamente  son  pos- 
senti a  portar  su  le  spalli,  ma  ancora  a  buttar  una  cosa  innante, 
e  tirar,  se  fusse  un  carro,  ancora.  Questi  particolari,  per  l'auto- 
rità che  tegnono  in  quel  caso  che  portano  la  soma,  son  degni 
d'escusazione,  per  che  hanno  più  del  cavallo,  mulo,  et  asino, 
che  de  l'uomo;  ma  accuso  tutti  gli  altri  li  quali  hanno  un  po- 
chettino  del  razionale,  e  sono  più  che  gli  predetti  ad  imagine  e 

II.  È  proprio  il  Campo  dei  Fiori,  dove  Bruno  verrà  giustiziato.  Per  la  sop- 
pressione di  questa  frase,  si  veda  l'ipotesi  di  G.  Aquilecchia,  Le  opere  italiane 
di  G.  Bruno:  Critica  testuale  e  oltre,  Napoli,  1991,  pp.  39-40. 


586  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

similitudine  de  l'uomo:  et  in  luoco  di  donarte  il  buon  giorno  o 
buona  sera,  dopo  averti  fatto  un  grazioso  volto,  come  ti  cono- 
scessero e  ti  volessero  salutare,  ti  verranno  a  donar  una  scossa 
bestiale.  Accuso,  dico,  quell'altri  i  quali  tal  volta  fingendo  di 
fuggire,  o  voler  perseguitare  alcuno,  o  correre  a  qualche  negocio 
necessario,  se  spiccano  da  dentro  una  bottega:  e  con  quella  furia 
ti  verranno  da  dietro  o  da  costa,  a  donar  quella  spinta  che  può 
donar  un  toro  quando  è  stizzato;  come  pochi  mesi  fa  accadde 
ad  un  povero  messer  Alessandro  Citolino^^,  al  quale  in  cotal 
modo,  con  riso  e  piacer  di  tutta  la  piazza,  fu  rotto  e  fracassato 
un  braccio:  al  che  volendo  poi  provedere  il  magistrato,  non 
trovò  manco  che  tal  cosa  avesse  possuto  accadere  in  quella 
piazza.  Sì  che  quando  ti  piace  uscir  di  casa,  guarda  prima  di 
[319]  farlo  senza  urgente  occasione,  che  non  pensassi  come  di  voler 
andar  per  la  città  a  spasso;  poi  segnati  col  segno  de  la  santa 
croce,  armati  di  una  corrazza  di  pazienza,  che  possa  star  a 
prova  d'archibugio;  e  disponeti  sempre  a  comportar  il  manco 
male  liberamente,  se  non  vuoi  comportar  il  peggio  per  forza.  Ma 
di  che  devi  lamentarti,  ahi  lasso?  Ti  par  ignobiltà  l'essere  un 
animale  urtativo?  Non  ti  ricordi,  Nolano,  di  quel  che  è  scritto 
nel  tuo  libro  intitolato  L'arca  di  Noèì^^  Ivi  mentre  si  dovean 
disponere  questi  animali  per  ordine,  e  doveasi  terminar  la  lite 
nata  per  le  precedenze,  in  quanto  pericolo  è  stato  l'asino  di  per- 
dere la  preeminenza,  che  consistea  nel  seder  in  poppa  de  l'arca, 
per  essere  un  animai  più  tosto  di  calci  che  di  urti?  Per  quali 
animali  si  rapresenta  la  nobiltà  del  geno  umano  nell'orrido 
giorno  del  giudizio,  eccetto  che  per  gli  agnelli  e  gli  capretti?  Or 
questi  son  que'  virili,  intrepidi  et  animosi,  de  quali  gli  uni  da 
gli  altri  non  saran  divisi  come  oves  ab  haedis^'*;  ma  qual  più 
venerandi,  feroci  et  urtativi,  saran  distinti  come  gli  padri  de  gli 
agnelli  da'  padri  di  capretti.  Di  questi  però  i  primi  nella  corte 
celestiale  hanno  quel  favore  che  non  hanno  gli  secondi;  e  se 
non  il  credete,  alzate  un  poco  gli  occhi,  e  guardate:  chi  è  stato 

12.  Cfr.  Dialogo  secondo,  p.  484,  nota  81  (ed  Aquilecchia,  La  lezione  defi- 
nitiva cit,  pp.  15-16;  «La  cena  de  le  ceneri»  cit,  pp.  678-679). 

13.  Menzionata  pure  nella  Cabala  del  cavallo  pegaseo  ed  evocata  durante  il 
processo,  L'arca  di  Noè  (attualmente  perduta)  dovrebbe  essere  stata  composta 
prima  del  1572  e  dedicata  a  Pio  V. 

14.  «Le  pecore  dai  capri»  (cfr.  Matteo,  XXV,  32). 


APPENDICE  II  587 

posto  per  capo  de  la  vanguardia  di  segni  celesti?  chi  è  quello 
che  con  la  sua  comipotente  scossa  ne  apre  l'anno? 

Prudenzio.  —  Aries  primo;  post  ipsum,  Taurus^^. 

Teofilo.  —  Appresso  a  questo  gran  capitano  e  primiero 
prencipe  de  le  mandre,  chi  è  stato  degno  d'essergli  prossimo  e 
secondo,  eccetto  eh'  il  gran  duca  de  gli  armenti  a  cui  s'aggion- 
gono,  come  per  doi  paggi  o  doi  Ganimedi,  que'  bei  gemegli  gar-  [321] 
zoni?  Considerate  dumque  quale  e  quanta  sia  cotal  razza  di  per- 
sone, che  tengono  il  primato  altrove  che  dentro  un'arca  infraci- 
dita. 

Frulla.  —  Certo,  non  saprei  trovar  differenza  alcuna  tra  co- 
storo e  quel  geno  d'animali:  eccetto  che  quelli  urtano  di  testa,  et 
essi  urtano  di  spalla  ancora.  Ma  lasciate  queste  digressioni,  e 
tornate  al  proposito  di  quel  ch'avvenne  in  questo  residuo  del 
viaggio,  in  questa  sera. 

Teofilo.  —  Or  dopo  ch'il  Nolano  ebbe  riscosse  da  vinti  in- 
circa di  queste  spuntonate,  particolarmente  alla  piramide  vi- 
cina al  Palazzo,  in  mezzo  di  tre  strade,  ne  si  femo  incontro  sei 
galant'uomini,  de  quali  uno  gli  ne  die  una  sì  gentile  e  gorda, 
che  sola  possea  passar  per  diece;  e  gli  ne  fé'  donar  un'altra  al 
muro,  che  possea  certo  valer  per  altre  diece.  Il  Nolano  disse: 
«Tanchi,  maester»^^.  Credo  che  lo  ringraziasse  per  che  li  die  di 
spalla,  e  non  di  quella  punta  ch'è  posta  per  centro  del  broc- 
chiere, o  per  cimiero  de  la  testa.  —  Questa  fu  l'ultima  borasca; 
per  che  poco  oltre  per  la  grazia  di  san  Fortunnio,  dopo  aver 
discorsi  sì  mal  triti  sentieri,  passati  sì  dubbiosi  divertigli,  var- 
cati sì  rapidi  fiumi,  tralasciati  sì  arenosi  lidi,  superati  sì  limosi 
fanghi,  spaccati  sì  turbidi  pantani,  vestigate  sì  pietrose  lave,  tra- 
scorse sì  lubriche  strade,  intoppato  in  sì  ruvidi  sassi,  urtato  in  sì 
perigliosi  scogli,  gionsemo  per  grazia  del  cielo  vivi  al  porto,  idest 
a  la  porta:  la  quale  subito  toccata  ne  fu  apperta.  Entrammo, 
trovammo  a  basso  de  molti  e  diversi  personaggi,  diversi  e  molti 
servitori:  i  quali  senza  cessar,  senza  chinar  la  testa,  e  senza  se-  [323] 
gno  alcun  di  riverenza,  mostrandone  spreggiar  co  la  sua  gesta, 
ne  femo  questo  favore,  de  monstrame  la  porta.  Andiamo  den- 

15.  «Per  primo  l'Ariete,  dopo  di  esso  il  Toro». 

16.  Trascrizione  «fonetica»  dall'inglese  elisabettiano:  Thank  ye,  master, 
«GrcLzie,  maestro». 


588  LA  CENA  DE  LE  CENERI 

tro,  montamo  su,  trovamo  che  dopo  averci  molto  aspettato,  de- 
speratamente  s'erano  posti  a  tavola  a  sedere.  Dopo  fatti  i  saluti 
et  i  resaluti... 

Prudenzio.  -  Vicissim. 

Teofilo.  —  ...  et  alcuni  altri  piccoli  ceremoni  (tra  quali  vi  fu 
questo  da  ridere,  che  ad  un  de  nostri  essendo  presentato  l'ul- 
timo loco,  e  lui  pensando  che  là  fusse  il  capo,  per  umiltà  voleva 
andar  a  seder  dove  sedeva  il  primo;  e  qua  si  fu  un  picciol  pezzo 
di  tempo  in  contrasto  tra  quelli  che  per  cortesia  lo  voleano  far 
sedere  ultimo,  e  colui  che  per  umiltà  volea  seder  il  primo),  in 
conclusione:  messer  Florio  sedde  a  viso  a  viso  d'un  cavalliero, 
che  sedeva  al  capo  de  la  tavola;  il  signor  Folco,  a  destra  de  mes- 
ser Florio;  io  et  il  Nolano  a  sinistra  de  messer  Florio;  il  dottor 
Torquato  a  sinistra  del  Nolano;  il  dottor  Nundinio  a  viso  a  viso 
del  Nolano. 

Qua  per  grazia  di  Dio  non  viddi  il  ceremonio  di  quell'ur- 
ciuolo,  o  becchieri,  che  suole  passar  per  la  tavola,  a  mano  a 
mano,  da  alto  a  basso,  da  sinistra  e  destra,  et  altri  lati,  senza 
altro  ordine  che  di  conoscenza  e  cortesia  da  montagne.  Il  quale 
dopo  che  quel  che  mena  il  ballo  se  l'ha  tolto  di  bocca,  e  lascia- 
tovi quella  impannatura  di  pinguedine  che  può  ben  servir  per 
colla,  appresso  beve  questo,  e  vi  lascia  una  mica  di  pane;  beve 
quell'altro,  e  v'affige  a  l'orlo  un  frisetto  di  carne;  beve  costui,  e 
vi  scrolla  un  pelo  de  la  barba:  e  cossi  con  bel  disordine  gustan- 
[325]  dosi  da  tutti  la  bevanda,  nessuno  è  tanto  mal  creato,  che  non  vi 
lasse  qualche  cortesia  de  le  reliquie  che  tiene  circa  il  mustaccio. 
Or  se  a  qualcuno  (o  per  che  non  abbia  stomaco,  o  per  che  faccia 
del  grande)  non  piacesse  di  bere,  basta  che  solamente  se  l'acco- 
ste tanto  a  la  bocca,  che  v'imprima  un  poco  di  vestigio  de  le  sue 
labbra  ancora.  Questo  si  fa  a  fine,  che  sicome  tutti  son  conve- 
nuti a  farsi  un  carnivoro  lupo  col  mangiar  d'un  medesmo  corpo 
d'agnello,  di  capretto,  di  montone,  o  di  un  Grunnio  Corocotta: 
cossi  applicando  tutti  la  bocca  ad  un  medesimo  bocale,  ven- 
ghino  a  farsi  una  sanguisuga  medesima,  in  segno  d'una  urba- 
nità, una  fratellanza,  un  morbo,  un  cuore,  un  stomaco,  una  gola 
et  una  bocca.  E  ciò  si  pone  in  effetto  con  certe  gentilezze  e  ba- 
gattelle, che  è  la  più  bella  comedia  del  mondo  a  vederlo,  e  la 
più  cruda  e  fastidiosa  tragedia  a  trovarvisi  un  galant'uomo  in 
mezzo,  quando  stima  esser  ubligato  a  far  come  fan  gli  altri,  te- 


APPENDICE  II  589 

mendo  esser  tenuto  incivile  e  discortese:  per  che  qua  consiste 
tutto  il  termine  della  civilità  e  cortesia.  Ma  per  che  questa  os- 
servanza è  rimasta  nelle  più  basse  tavole,  et  in  queste  altre  non 
si  trova  oltre,  se  non  con  certa  raggione  più  veniale,  per  tanto 
senza  guardare  ad  altro  lasciamoli  cenare;  e  domani  parlaremo 
di  quel  ch'occorse  dopo  cena. 

Smitho.  -  A  rivederci. 

Frulla.  -  A  dio. 

Prudenzio.  -  Valete. 

Fine  del  secondo  dialogo  [327] 


DIALOGO  TERZO 


Teofilo.  —  Or  il  dottor  Nundinio,  dopo  essersi  posto  in 
punto  de  la  persona,  rimenato  un  poco  la  schena,  poste  le  due 
mani  su  la  tavola,  riguardatosi  un  poco  circum  circa,  accomoda- 
tosi alquanto  la  lingua  in  bocca,  rasserenati  gli  occhi  al  cielo, 
spiccato  dai  denti  un  delicato  risetto,  e  sputato  una  volta,  co- 
mincia in  questo  modo... 

[329]  Prima  proposta  di  Nundinio  ^^ 


17.  A  partire  da  questo  punto,  e  fino  alla  conclusione  del  foglio  D,  la  reda- 
zione ulteriore  (tranne  qualche  trascurabile  variante  tipografica)  coincide  con 
la  prima  redazione.  Due  sole  eccezioni  degne  di  nota:  siano  >  siino  (p.  490,  riga 
22);  Da  la  >  De  la  (p.  490,  riga  23). 


Ili 

DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

commento  di 
Giovanni  Aquilecchia 


Traduzione  italiana  e  adattamento  delle  note  a  cura  di  Filiberto  Wal- 
ter Lupi. 


PROEMIALE  EPISTOLA  1 

Scritta  all'illustrissimo 

Signor  Michel  di  Castelnovo^, 

Signor  di  Mauvissiero,  Concressalto,  e  di  lonvilla, 

Cavallier  de  l'ordine  del  Re  Cristianissimo, 

Conseglier  del  suo  privato  Conseglio. 

Capitano  di  50  uomini  d'arme 

et  Ambasciator  alla  Serenissima  Regina 

d'Inghilterra. 


Illustrissimo  et  unico  cavalliero,  s'io  rivolgo  gli  occhi  della 
considerazione  a  remirar  la  vostra  longanimità,  perseveranza  e 
sollecitudine,  con  cui  giongendo  ufficio  ad  ufficio,  beneficio  a 
beneficio  m'avete  vinto,  ubligato  e  stretto,  e  solete  superare  ogni 
difficultà,  scampar  da  qualsivoglia  periglio,  e  ridur  a  fine  tutti 
vostri  onoratissimi  dissegni:  vegno  a  scorgere  quanto  propria- 
mente vi  conviene  quella  generosa  divisa,  con  la  quale  ornate  il 


1.  In  realtà  a  Londra,  presso  John  Charlewood  (cfr.  G.  Aquilecchia,  Lo 
stampatore  londinese  di  G.  Bruno  e  altre  note  per  V edizione  della  «Cena»,  «Studi  di 
filologia  italiana»  [Firenze],  XVIII,  i960,  pp.  101-162,  ora  in  Id.,  Schede  bru- 
niane,  Manziana,  1993,  pp.  157-209,  nonché  Id.,  Introduction  philologique  a 
G.  Bruno,  OEuvres  italiennes,  Paris,  voi.  I,  1993,  pp.  XLVII-L,  «L'imprimeur 
londonien»).  Come  lo  stesso  Bruno  ebbe  a  dichiarare  durante  il  processo,  vera 
una  ragione  pratica  per  menzionare  un  falso  luogo  di  stampa:  tutti  i  suoi  libri 
«che  dicono  nella  impression  loro  che  sono  stampati  in  Vinetia,  sono  stati 
stampati  in  Inghilterra;  et  fu  il  stampator  che  volse  metterve  che  erano  stam- 
pati in  Vinetia,  per  venderli  pili  facilmente  et  acciò  havessero  maggior  esito, 
perché  quando  s'havesse  detto  che  fossero  stampati  in  Inghilterra  più  difficil- 
mente s'haveriano  venduti  in  quelle  parti»  (cfr.  il  costituto  del  2  giugno  1592, 
in  L.  Firpo,  Il  processo  di  G.  Bruno,  Roma,  1993,  p.  166). 

2.  Su  Michel  de  Castelnau,  ambasciatore  di  Francia  a  Londra  (nella  cui 
casa  Bruno  era  ospitato),  e  per  i  titoli  attribuitigli,  cfr.  Cena,  p.  431,  nota  9. 


594  ^^  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

vostro  terribil  cimiero  ^  Dove  quel  liquido  umore,  che  suave- 
mente  piaga,  mentre  continuo  e  spesso  stilla,  per  forza  di  perse- 
veranza rammolla,  incava,  doma,  spezza  et  ispiana  un  certo, 
denso,  aspro,  duro  e  ruvido  sasso  ■•. 

Se  da  l'altro  lato  mi  riduco  a  mente  come  (lasciando  gli  altri 
vostri  onorati  gesti  da  canto)  per  ordinazion  divina,  et  alta  pro- 
[5]  videnza  e  predestinazione,  mi  siete  sufficiente  e  saldo  difensore 
ne  gl'ingiusti  oltraggi  ch'io  patisco'  (dove  bisognava  che  fusse 
un  animo  veramente  eroico  per  non  dismetter  le  braccia,  despe- 
rarsi, e  darsi  vinto  a  sì  rapido  torrente  di  criminali  imposture, 
con  quali  a  tutta  possa  m'have  fatto  empeto  l'invidia  d'igno- 
ranti, la  presunzion  di  sofisti,  la  detrazzion  di  malevoli,  la  mur- 
murazion  di  servitori,  gli  susurri  di  mercenarii,  le  contradiz- 
zioni  di  domestici,  le  suspizioni  di  stupidi,  gli  scrupoli  di  ripor- 
tatori, gli  zeli  d'ipocriti,  gli  odii  di  barbari,  le  furie  di  plebei, 
furori  di  popolari,  lamenti  di  ripercossi*^  e  voci  di  castigati:  ove 
altro  non  mancava  ch'un  discortese,  pazzo  e  malizioso  sdegno 

3.  Dal  testo  è  possibile  dedurre  che  il  motto  deirimpresa  di  Castelnau  sarà 
stato  Gutia  cavai  lapidem  («La  goccia  scava  la  pietra»).  Cfr.  Ovidio,  Ex  Ponto, 
IV,  IO,  ed.  in  Opere  II,  a  cura  di  F.  Della  Corte  e  S.  Fasce,  Torino,  1986,  pp. 
582-583:  «Gutta  cavat  lapidem,  consumitur  anulus  usu»  («La  goccia  d'acqua 
scava  la  pietra,  l'anello  si  consuma  con  l'uso»);  Id.,  Ars  amatoria,  \,  473-474,  ed. 
in  Opere  I,  a  cura  di  A.  Della  Casa,  Torino.  1982,  pp.  516-517:  «Quid  magis  est 
saxo  durum,  quid  mollius  unda?  /  Dura  tamen  molli  saxa  cavantur  aqua» 
(«Che  cosa  è  più  duro  della  pietra,  più  molle  dell'acqua?  Eppure  le  pietre  dure 
vengono  scavate  dall'acqua  molle»);  G.  Bruno,  Candelaio,  III,  7,  p.  333;  Lucre- 
zio, De  rerum  natura,  IV,  1286-1287,  ed.  a  cura  di  A.  Fellin.  Torino,  1997^,  pp. 
332-333:  «Nonne  vides  etiam  guttas  in  saxa  cadentis  /  umoris  longo  in  spatio 
pertundere  saxa?»  («Non  vedi  che  anche  le  gocce  d'acqua  stillanti  sulle  pietre 
in  lungo  spazio  di  tempo  traforano  la  roccia?»).  B.  Castiglione,  Il  Cortegiano, 
III,  50:  «con  quel  continuo  battere,  che  fa  che  l'acqua  spezzi  i  durissimi 
marmi»  (cfr.  //  Cortegiano  con  una  scelta  delle  opere  minori,  a  cura  di  B.  Maier, 
Torino,  1955,  pp.  409-410). 

4.  Sulla  corrispondenza  perfetta  tra  i  cinque  verbi  e  i  cinque  aggettivi  leg- 
gibili in  questo  passo,  che  fornisce  un  notevole  esempio  di  duplice  pentacolon 
nella  prosa  bruniana,  cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  ai  dialoghi  «De  la  cau- 
sa», «Il  Verri»  (Mantova],  II,  1958.  pp.  205  e  segg.,  ora  in  Id.,  Schede  bruniane 
cit,  i'^  postilla,  pp.  133-134  (e  Id.,  Le  opere  italiane  di  G.  Bruno:  Critica  testuale  e 
oltre,  Napoli,  1991,  pp.  55-56). 

5.  Allusione  al  modo  in  cui  gli  ambienti  universitari  e  cortigiani  inglesi,  e 
parimenti  il  popolo  di  Londra,  avevano  reagito  alla  pubblicazione  della  Cena 
de  le  ceneri,  nello  stesso  anno  1584.  Inoltre,  si  veda  qui  il  Dialogo  primo,  p.  617: 
«Non  vorrei  che  di  questi  vostri  discorsi  vegnan  formate  comedie,  tragedie, 
lamenti,  dialogi  (o  come  vogliam  dire)  simili  a  quelli  che  poco  tempo  fa,  per 
essemo  essi  usciti  in  campo  a  spasso,  vi  hanno  forzato  di  starvi  rinchiusi  e 
retirati  in  casa». 

6.  Cfr.  G.  Bruno,  Cena,  son.  Al  Mal  contento,  p.  429. 


PROEMIALE  EPISTOLA  595 

feminile^,  di  cui  le  false  lacrime  soglion  esser  più  potenti,  che 
quantosivoglia  tumide  onde  e  rigide  tempeste  di  presunzioni, 
invidie,  detrazzioni,  mormorii,  tradimenti,  ire,  sdegni,  odii  e  fu- 
rori), ecco  vi  veggio  qual  saldo,  fermo  e  constante  scoglio,  che 
risorgendo  e  mostrando  il  capo  fuor  di  gonfio  mare,  né  per  irato 
cielo,  né  per  orror  d'inverno,  né  per  violente  scosse  di  tumide 
onde,  né  per  stridenti  aerie  procelle,  né  per  violento  soffio 
d'Aquiloni  punto  si  scaglia,  si  muove  o  si  scuote:  ma  tanto  più 
si  rinverdisce,  e  di  simil  sustanza  s'incota^  e  si  rinveste.  Voi 
dumque  dotato  di  doppia  virtù,  per  cui  son  potentissime  le  li- 
quide et  amene  stille,  e  vanissime  l'onde  rigide  e  tempestose; 
per  cui  contra  le  goccie  si  rende  sì  fiacco  il  fortunato  sasso,  e 
contra  gli  flutti  sorge  sì  potente  il  travagliato  scoglio^:  siete 

7.  Non  sappiamo  nulla  sulle  donne  che  Bruno  ha  frequentato  a  Londra; 
secondo  F.  A.  Yates,  John  Florio,  Cambridge,  1934,  p.  99,  la  persona  di  cui  si 
parla  faceva  probabilmente  parte  della  cerchia  del  Nolano,  al  seguito  di  Michel 
de  Castelnau.  Cfr.  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  I,  3,  p.  562:  «E  non  voglio 
lasciar  de  dire  ancora  quel  che  per  esperienza  conosco,  che  quantumque  in  un 
animo  abbia  discuoperti  vizii  molto  abominati  da  me,  com  e  dire  una  sporca 
avarizia,  una  vilissima  ingordiggia  sul  danaio,  irreconoscenza  di  ricevuti  fa- 
vori e  cortesie,  un  amor  di  persone  al  tutto  vili  ...  tutta  volta  non  mancava 
ch'io  ardesse  per  la  beltà  corporale». 

8.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  cit.,  in  Io.,  Schede  bruniane  cit,  2^ 
postilla,  p.  134.  Fondandosi  sulla  frequenza  delle  espressioni  sinonimiche 
in  Bruno  e  rifacendosi  alla  voce  Incottalo  del  New  World  of  Words  di  J.  Flo- 
rio («incoated,  having  a  coat  on»)  -  sapendo,  per  di  più,  che  la  mancanza 
della  seconda  t  in  s'incoia  è  un  ispanismo  normale  nel  dialetto  napoleta- 
no dell'epoca  —  si  può  ritenere  che  s'incoia  abbia  lo  stesso  significato  di  si  rin- 
veste. 

9.  Virgilio,  Aen.,  VII,  586-590,  in  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  Torino,  1971, 
pp.  614-615:  «lUe  velut  pelagi  rupes  immota  resistit,  ut  pelagi  rupes  magno 
veniente  fragore,  /  quae  sese  multis  circum  latrantibus  undis  /  mole  tenet;  sco- 
puli necquiquam  et  spumea  circum  /  saxa  fremunt  laterique  inlisa  refunditur 
alga»  («Egli,  come  nell'oceano  una  rupe  resiste  irremovibile,  come  nell'oceano 
una  rupe  al  sopraggiungere  di  un  grande  fragore,  che  mentre  la  moltitudine 
intomo  latra  delle  onde,  per  la  sua  mole  sta  salda:  inutilmente  gli  scogli  e 
spumeggiando  intomo  i  sassi  fremono,  e  dai  suoi  fianchi  dopo  l'urto  rifluisce 
l'alga»);  ivi,  X,  693-696,  ed.  cit.,  pp.  762-763:  «ille  velut  rupes,  vastum  quae 
prodit  in  aequor,  7  obvia  ventorum  furiis  expostaque  ponto,  /  vini  cunctam 
atque  minas  perfet  caelisque  marisque,  /  ipsa  immota  manens»  («lui  Mezenzio, 
come  una  rupe  slanciata  nella  vasta  distesa  delle  acque,  incontro  alle  furie  dei 
venti  ed  esposta  all'oceano,  tutta  la  violenza,  ma  le  minacce  sopporta,  del  cielo 
e  del  mare,  essa  stessa  immota  restando»);  Seneca,  De  constantia  sapientis.  III, 
5,  traduz.  di  A.  Marastoni,  Milano,  1979,  p.  107:  «quedmadmodum  profecti  in 
altum  scopuli  mare  frangunt  ...  ita  sapientis  animus  solidus  est»  («come  certi 
scogli,  prominenti  verso  l'alto  mare,  frangono  i  flutti  ...  così  è  solida  l'anima  del 
sapiente»);  Dante,  Purgatorio,  V,  14-15,  ed.  a  cura  di  S.  A.  Chimenz,  Torino, 
1962,  p.  355:  «Sta  come  torre  ferma,  che  non  crolla  /  già  mai  la  cima  per  soffiar 
de'  venti»;  Poliziano,  Stanze,  II,  37,  3-6:  «...  come  scoglio  che  incontro  al  mar 


596  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

quello  che  medesimo  si  rende  sicuro  e  tranquillo  porto  alle  vere 
muse,  e  ruinosa  roccia  in  cui  vegnano  a  svanirsi  le  false  muni- 
zioni de  impetuosi  dissegni  de  lor  nemiche  vele.  Io  dumque, 
[7]  qual  nessun  giamai  potè  accusar  per  ingrato,  nullo  vituperò  per 
discortese,  e  di  cui  non  è  chi  giustamente  lamentar  si  possa;  io 
odiato  da  stolti  ^°,  dispreggiato  da  vili,  biasimato  da  ignobili,  vi- 
tuperato da  furfanti,  e  perseguitato  da  geniii^  bestiali;  io  amato 
da  savii,  admirato  da  dotti  '^,  magnificato  da  grandi,  stimato  da 
potenti,  e  favorito  da  gli  dèi;  io  per  tale  tanto  favore  da  voi  già 
ricettato,  nodrito,  difeso,  liberato,  ritenuto  in  salvo  ^^,  mante- 
nuto in  porto;  come  scampato  per  voi  da  perigliosa  e  gran  tem- 
pesta: a  voi  consacro  questa  àncora,  queste  sarte,  queste  fiaccate 
vele,  e  queste  a  me  più  care  et  al  mondo  future  più  preziose 
merci,  a  fine  che  per  vostro  favore  non  si  sommergano  dall'ini- 
quo, turbulento  e  mio  nemico  Oceano.  Queste  nel  sacrato  tem- 
pio de  la  fama  appese,  come  saran  potenti  contra  la  protervia 
de  l'ignoranza  e  voracità  del  tempo,  cossi  renderanno  etema 


dura  /  o  torre  da  borea  si  difende,  /  suoi  colpi  aspetta  con  fronte  sicura  /  e  sta 
sempre  provisto  a  sue  vicende»;  B.  Castiglione,  B  Cortegiano,  ed.  Maier  cit.,  p. 
410:  «adamantine  e  salde  nella  lor  infinita  constanzia  più  che  gli  scogli  al- 
l'onde del  mare»;  Galeazzo  di  Tarsia,  sonetto  XLVII,  3-4,  in:  Lirici  del  Cin- 
quecento, a  cura  di  D.  Ponchiroli-G.  Davico  Bonino,  Torino,  1968,  p.  576:  «E 
quasi  incontro  al  mondo  saldo  e  fermo  /  scoglio,  che  forza  d'aquilon  non  sen- 
te»; T.  Tasso,  Gerusalemme  liberata,  I,  4,  w.  1-5,  in  Opere,  a  cura  di  B.  T.  Sozzi, 
Torino,  1974^,  voi.  I,  p.  96:  «Tu,  magnanimo  Alfonso,  il  qual  ritogli  /  al  furor  di 
fortuna  e  guidi  in  porto  /  me  peregrino  errante,  e  fra  gli  scogli  /  e  fra  l'onde 
agitato  e  quasi  absorto,  /  queste  mie  carte  in  lieta  fronte  accogli». 

10.  G.  Bruno,  Ad  Oxoniensis  Academiae  Procancellarium  (Opera  latine  con- 
scripta  [=  Op.  lat.].  Napoli-Firenze,  1879-1891,  II,  2,  p.  76):  «quem  stultitiae  pro- 
pagatores  et  hypocritunculi  detenstatur»  («[io]  che  sono  detestato  dai  propala- 
tori di  stupidità  e  dagli  ipocritucci»). 

11.  L.  Limentani,  Saggio  di  un  commento  letterale  ad  alcune  pagine  di  Bruno, 
in:  Ricordi  e  studi  in  memoria  di  F.  Flamini,  Napoli-Città  di  Castello,  193 1,  p.  60, 
nota  25,  non  esclude  che  qui  si  debba  leggere  geni  (plurale  di  geno,  da  genus: 
forma  comune  nel  sec.  XVI),  generi,  genie  (cfr.  più  sotto,  Dialogo  primo,  p.  624, 
ogni  geno  di  bestiali  =  «ogni  genere  di  bestiali»);  ma  la  correzione  è  da  conside- 
rarsi arbitraria. 

12.  G.  Bruno,  Ad  Oxoniensis  Academiae  Procancellarium,  ed.  cit,  pp.  76-yy. 
«quem  probi  et  studiosi  diligunt,  et  cui  nobiliora  plaudunt  ingenia»  («[io]  che 
sono  amato  dagli  onesti  e  dai  dotti  ed  applaudito  dai  più  nobili  ingegni»). 

13.  La  reazione  del  pubblico  inglese  all'apparizione  della  Cena  coincise 
con  gli  attacchi,  e  persino  con  la  serie  di  aggressioni,  in  cui  furono  coinvolte 
le  persone  al  servizio  dell'ambasciata  di  Francia  (a  Butcher  Row  o  piutto- 
sto Salisbury  Court,  dove  era  alloggiato  Bruno;  cfr.  Cena,  Proemiale  epistola, 
p.  440,  nota  41),  ad  opera  di  fanatici  antipapisti.  Si  veda  F.  A.  Yates,  John 
Florio  cit,  pp.  63-65  e  loi. 


PROEMIALE  EPISTOLA  597 

testimonianza  dell'invitto  favor  vostro:  a  fin  che  conosca  il 
mondo  che  questa  generosa  e  divina  prole  inspirata  da  alta  in- 
telligenza, da  regolato  senso  i"*  conceputa,  e  da  nolana  Musa  par- 
turita,  per  voi  non  è  morta  entro  le  fasce,  et  oltre  si  promette 
vita:  mentre  questa  terra  col  suo  vivace  i'  dorso  verrassi  svol- 
tando all'eterno  aspetto  de  l'altre  stelle  lampegianti. 

Eccovi  quella  specie  di  filosofia  nella  quale  certa  e  veramen- 
te^^ si  ritrova  quello  che  ne  le  contrarie  e  diverse  vanamente  si 
cerca:  e  primeramente  con  somma  brevità  vi  porgo  per  cinque 
dialogi  tutto  quello  che  par  che  faccia  alla  contemplazion  reale 
della  causa,  principio  et  uno.  [9] 

Argomento  del  Primo  Dialogo  '^ 

Ove  nel  primo  dialogo  avete  una  apologia,  o  qualch'altro 
non  so  che,  circa  gli  cinque  dialogi  intomo  la  cena  de  le  cene- 
ri, ecc. 


14.  L'espressione  regolato  senso,  che  si  riferisce  al  metodo  gnoseologico 
di  Bruno,  toma  sotto  diverse  forme,  nelle  sue  opere  latine  (cfr.,  in  merito,  la 
nota  dell'editore  P.  R.  Blum,  nella  traduz.  tedesca  di  A.  Lasson,  Hamburg, 

1993)- 

15.  Nel  senso  di  «dotato  di  vita»,  perché  per  Bruno  la  Terra  è  animata; 
cfr.  Cena,  Dialogo  terzo,  p.  510:  «essendo  la  terra  un  animale»;  Dialogo  quinto, 
p.  564:  «Prima  dumque  per  la  sua  vita  e  delle  cose  che  in  quella  si  contengono, 
e  dar  come  una  respirazione  et  inspirazione  col  diurno  caldo  e  freddo,  luce  e 
tenebre,  in  spacio  di  vintiquattro  ore  equali  la  terra  si  muove  circa  il  pro- 
prio centro,  esponendo  al  suo  possibile  il  dorso  tutto  al  sole.  Secondo,  per  la 
regenerazione  delle  cose,  che  nel  suo  dorso  vivono  e  si  dissolveno,  con  il 
centro  suo  circuisce  il  lucido  corpo  del  sole,  in  trecento  sessantacinque  gior- 
ni et  un  quadrante  in  circa;  ove  da  quattro  punti  della  ecliptica  fa  la  crida 
della  generazione,  dell'adolescenzia,  della  consistenzia  e  della  declinazione  di 
sue  cose». 

16.  Certa  e  veramente:  coppia  avverbiale  aplologica  («certamente  e  vera- 
mente»). 

17.  «Questo  primo  dialogo  fu  scritto  dopo  gli  altri  quattro,  già  composti, 
forse  quando  fu  pubblicata  la  Cena  e  il  Bruno  non  aveva  ancora  sofferto  la 
persecuzione  che  il  primo  dialogo  gli  procurò.  Infatti:  1°  gl'interlocutori  del 
I  dial.  diversi  da  quelli  degli  altri  quattro,  parlano  di  questi  ultimi  come  già 
scritti;  2°  qui  appresso  il  B.,  nell'Argomento  del  III  dial.,  chiama  primo  il 
secondo  dialogo;  e  nell'Argomento  del  IV,  chiama  secondo  il  dialogo  ter- 
zo; segno  evidente  che  dei  quattro  dial.,  che  trattano  propriamente  D  e  1  a 
causa,  principio  et  uno,  erano  scritti  anche  gli  argomenti  quando 
l'A.  credette  opportuno  premettervi  questa  apologia  della  Cena;  e  allora  non 
badò  a  correggere  il  numero  d'ordine  dei  dialoghi  precedenti»  (G.  Gentile,  in 
G.  Bruno,  Dialoghi  italiani,  Firenze,  1958^,  voi.  I,  pp.  177-178). 


598  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Argomento  del  Secondo  Dialogo 

Nel  dialogo  secondo  avete  primamente  la  raggione  della  dif- 
ficultà  di  tal  cognizione  1*^:  per  sapere  quanto  il  conoscibile  og- 
getto sia  allontanato  dalla  cognoscitiva  potenza.  Secondo,  in 
che  modo  e  per  quanto  dal  causato  e  principiato  vien  chiarito  il 
principio  e  causa.  Terzo,  quanto  conferisca  la  cognizion  della 
sustanza  de  l'universo  alla  noticia  di  quello  '^  da  cui  ha  depen- 
denza. Quarto,  per  qual  mezzo  e  via  noi  particolarmente  ten- 
tiamo di  conoscere  il  primo  principio.  Quinto,  la  differenza  e 
concordanza,  identità  e  diversità,  tra  il  significato  da  questo  ter- 
mino^°  «causa»  e  questo  termino  «principio».  Sesto,  qual  sia  la 
causa  la  quale  si  distingue  in  efficiente,  formale  e  finale^':  et  in 
quanti  modi  è  nominata  la  causa  efficiente,  e  con  quante  rag- 
gioni  è  conceputa.  Come  questa  causa  efficiente  è  in  certo  modo 
intima  alle  cose  naturali,  per  essere  la  natura  istessa;  e  come  è 
in  certo  modo  esteriore  a  quelle.  Come  la  causa  formale  è  con- 
gionta  a  l'efficiente,  et  è  quella  per  cui  l'efficiente  opera;  e  come 
la  medesima  vien  suscitata  dall'efficiente  dal  grembo  de  la  ma- 
ini feria.  Come  coincida  in  un  soggetto  principio,  l'efficiente  e  la 
forma;  e  come  l'una  causa  è  distinta  da  l'altra.  Settimo,  la  diffe- 
renza tra  la  causa  formale  universale,  la  quale  è  una  anima  per 
cui  l'universo  infinito  (come  infinito)  non  è  uno  animale  posi- 
tiva, ma  negativamente 22,  e  la  causa  formale  particulare  molti- 
plicabile e  moltiplicata  in  infinito;  la  quale  quanto  è  in  un  sog- 
getto più  generale  e  superiore,  tanto  è  più  perfetta;  onde  gli 
grandi  animali  quai  sono  gli  astri  denno  esser  stimati  in  gran 

18.  Vale  a  dire  la  «contemplazione  reale  della  causa,  principio,  et  uno»,  di 
cui  è  questione  qualche  riga  più  sopra,  quasi  al  principio  àeW Argomento  del 
Primo  Dialogo  (cosa  che  prova,  ancora  una  volta,  che  quest'ultimo  è  stato  inse- 
rito successivamente). 

19.  Il  Primo  Principio. 

20.  Cfr.  il  napoletano  «tèrmeno». 

21.  Si  ricordi  la  celebre  definizione  aristotelica  delle  quattro  cause:  mate- 
riale, efficiente,  formale,  finale  (cfr.  Metaph.,  V,  2,  1013  a  24  e  segg.,  ed.  a  cura  di 
C.  A.  Viano,  Torino,  1974,  pp.  298-299). 

22.  In  altre  parole,  l'universo  è  l'animale  considerato  assolutamente,  l'ani- 
male che  non  appartiene  a  nessuna  specie  determinata.  -  Positiva  ...  negativa- 
mente: coppia  avverbiale  aplologica  («positivamente  ...  negativamente»).  Cfr. 
G.  Bruno,  Lampas  triginta  statuarum.  «De  praedicatis  absolutis»,  VII,  Op.  lat.. 
Ili,  p.  188  e  Stimma  terminorum  ttietaphysicorum,  «Praemissa»,  Op.  lat..  I,  4,  p.  9 
(risi  anastatica  dell'ed.  Marburg,  1609,  a  cura  di  T.  Gregory-E.  Canone,  Roma, 
1989,  p.  a40.  Si  veda,  infine,  il  Dialogo  quinto,  p.  737. 


PROEMIALE  EPISTOLA  599 

comparazione  più  divini,  cioè  più  intelligenti  senza  errore,  et 
operatori  senza  difetto.  Ottavo,  che  la  prima  e  principal  forma 
naturale,  principio  formale  e  natura  efficiente,  è  l'anima  de 
l'universo:  la  quale  è  principio  di  vita,  vegetazione  e  senso  in 
tutte  le  cose,  che  vivono,  vegetano  e  senteno.  E  si  ha  per  modo 
di  conclusione,  che  è  cosa  indegna  di  razionai  suggetto  posser 
credere  che  l'universo  et  altri  suoi  corpi  principali  sieno  inani- 
mati: essendo  che  da  le  parti  et  escrementi  di  quelli  derivano 
gli  animali  che  noi  chiamiamo  perfettissimi 2^.  Nono,  che  non  è 
cosa  sì  manca,  rotta,  diminuta  et  imperfetta,  che  per  quel  che 
ha  principio  formale,  non  abbia  medesimamente  anima,  benché 
non  abbia  atto  di  supposito^'»  che  noi  diciamo  animale.  E  si 
conchiude  con  Pitagora^^  et  altri  che  non  in  vano  hanno  aperti 
gli  occhi,  come  un  spirito  immenso  secondo  diverse  raggioni  et 
ordini,  colma  e  contiene  il  tutto.  Decimo,  se  viene  ad  fare  inten- 
dere che  essendo  questo  spirito  persistente  insieme  con  la  ma- 
teria^^  la  quale  gli  Babiloni  e  Persi  ^^  chiamaro  ombra,  et  es- 
sendo l'uno  e  l'altra  indissolubili,  è  impossibile  che  in  punto 
alcuno  cosa  veruna  vegga  la  corrozzione,  o  vegna  a  morte  se- 
condo la  sustanza;  benché  secondo  certi  accidenti  ogni  cosa  si  [13] 
cangie  di  volto,  e  si  trasmute  or  sotto  una  or  sotto  un'altra  com- 
posizione, per  una  o  per  un'altra  disposizione,  or  questo  or  quel- 
l'altro essere  lasciando  e  repigliando.  Undecimo,  che  gli  Aristo- 
teleci^**.  Platonici  2^  et  altri  sofisti '°  non  han  conosciuta  la  su- 
stanza de  le  cose;  e  si  mostra  chiaro  che  ne  le  cose  naturali 
quanto  chiamano  sustanza  oltre  la  materia,  tutto  è  purissimo 
accidente.  E  che  da  la  cognizion  de  la  vera  forma  s'inferisce  la 
vera  notizia  di  quel  che  sia  vita,  e  di  quel  che  sia  morte;  e 

23.  G.  Bruno,  Cena,  Dialogo  terzo,  p.  513. 

24.  L'adus  suppositi  degli  scolastici. 

25.  I  neoplatonici  e  i  neopitagorici  hanno  attribuito  a  Pitagora  l'idea  di 
un'anima  del  mondo  che,  in  realtà,  proveniva  dalla  filosofia  platonica  e  stoica. 
Cfr.  J.  MOREAU,  L'àme  du  monde  de  Platon  aux  Stoìciens,  Paris,  1939. 

26.  Sull'opposizione  neopitagorica  tra  spirito  e  materia,  cfr.  G.  Bruno, 
Summa  terminorum  metaphysicorum,  XXV,  «Oppositio»,  Op.  lat.,  I,  4,  p.  84  (rist 
Gregory -Canone  cit,  pp.  80-81). 

27.  Secondo  L.  Limentani,  Saggio  di  un  commento  letterale  cit,  p.  63,  nota 
54,  Bruno  allude  «ai  sapienti  Caldei  e  ai  Maghi  persiani»,  conosciuti  probabil- 
mente attraverso  la  lettura  di  Proclo  e  di  Patrizi. 

28.  Forma  napoletana. 

29.  Qui,  come  in  tutto  il  De  la  causa,  si  tratta  dei  filosofi  neoplatonici. 

30.  Gli  scolastici. 


600  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

spento  a  fatto  il  terror  vano  e  puerile  di  questa,  si  conosce  una 
parte  de  la  felicità  che  apporta  la  nosta  contemplazione,  se- 
condo i  fondamenti  de  la  nostra  filosofia:  atteso  che  lei  toglie  il 
fosco  velo  del  pazzo  sentimenio  circa  l'Orco  et  avaro  Caronte^', 
onde  il  più  dolce  de  la  nostra  vita  ne  si  rape  et  avelena.  Duo- 
decimo, si  distingue  la  forma  non  secondo  la  raggion  sustan- 
ziale  per  cui  è  una;  ma  secondo  gli  atti  et  essercizii  de  le  facul- 
tose  potenze,  e  gradi  specifici  de  lo  ente  che  viene  a  produre. 
Terzodecimo,  si  conchiude  la  vera  raggion  definitiva  del  princi- 
pio formale:  come  la  forma  sia  specie  perfetta,  distinta  nella 
materia  secondo  le  accidentali  disposizioni  dependenti  da  la 
forma  materiale,  come  da  quella  che  consiste  in  diversi  gradi  e 
disposizioni  de  le  attive  e  passive  qualitadi.  Si  vede  come  sia 
variabile,  come  invariabile;  come  definisce  e  termina  la  mate- 
ria, come  è  definita  e  terminata  da  quella.  Ultimo,  si  mostra 
con  certa  similitudine  accomodata  al  senso  volgare,  qualmente 
questa  forma,  quest'anima  può  esser  tutta  in  tutto  e  qualsivo- 
[15]  glia  parte  del  tutto '2. 

Argomento  del  Terzo  Dialogo 

Nel  terzo  dialogo  (dopo  che  nel  primo  ^'  è  discorso  circa  la 
forma,  la  quale  ha  più  raggion  di  causa  che  di  principio)  si  pro- 
cede alla  considerazion  de  la  materia,  la  quale  è  stimata  aver 

31.  Tema  epicureo  e  lucreziano.  Cfr.  Lucrezio,  De  rerum  natura.  III,  37-40, 
ed.  Fellin  cit,  pp.  202-203:  «  [Videtur...]  et  metus  ille  foras  praeceps  Acheruntis 
agendus,  /  funditus  humanam  qui  vitam  turbat  ab  imo  /  omnia  suffundens 
mortis  nigrore  neque  ullam  /  esse  voluptatem  liquidam  puramque  relinquit» 
(«[mi  sembra  ch'io  debba...]  cacciar  via  a  capofitto  quel  terrore  dell'Acheronte, 
che  dalle  radici  profonde  sconvolge  la  vita  dell'uomo  tutte  le  cose  aduggiando 
col  nero  della  morte,  né  alcuna  gioia  ci  lascia  limpida  e  pura»),  ripreso  da 
Bruno  nel  De  vinculis  in  genere,  &p.  lai.  Ili,  p.  683  (traduz.  di  A.  Biondi,  Por- 
denone, 1986,  pp.  174-175):  «Etsi  enim  nuUus  sit  infemus,  opinio  et  imaginatio 
infemis  sine  veritatis  fundamento  vere  et  verum  facit  infemum»  («Posto  an- 
che che  non  esista  inferno,  la  credenza  immaginaria  nell'inferno  senza  fonda- 
mento di  verità  produce  veramente  un  vero  inferno»).  Sull'Orco  e  V avaro  Ca- 
ronte, cfr.  G.  Bruno,  De  compositione  imaginum.  II,  «Orci  imago»,  Op.  lai..  II,  3, 
p.  217:  «Confusissima  succedebat  in  imagine  et  monstrosissima  Orcus  omnifor- 
mis,  nulliformis,  omni  vero  superficie  tristis  et  horrendus.  Illum  antecedit  cu- 
stos  ianitor  triceps,  temo  horribilis  latratu  Cerberus». 

32.  Si  veda  Dialogo  secondo,  p.  661,  nota  57. 

33.  Bruno  parla  di  «primo»  dialogo,  per  via  dell'errore  evidenziato  supra, 
nota  17. 


PROEMIALE  EPISTOLA  6oi 

più  raggion  di  principio  et  elemento  che  di  causa^"*:  dove  (la- 
sciando da  canto  gli  preludii  che  sono  nel  principio  del  dialogo) 
prima  si  mostra  che  non  fu  pazzo  nel  suo  grado  David  de  Di- 
nante in  prendere  la  materia  come  cosa  eccellentissima  e  divi- 
na ^5.  Secondo,  come  con  diverse  vie  di  filosofare  possono  pren- 
dersi diverse  raggioni  di  materia,  benché  veramente  sia  una 
prima  et  absoluta;  perché  con  diversi  gradi  si  verifica,  et  è 
ascosa  sotto  diverse  specie  cotali,  diversi  la  possono  prendere 
diversamente  secondo  quelle  raggioni  che  sono  appropriate  a  sé: 
non  altrimente  che  il  numero  che  è  preso  da  l'aritmetrico  pura 
e  semplicemente '^  è  preso  dal  musico  armonicamente,  tipica- 
mente dal  cabalista,  e  da  altri  pazzi  et  altri  savii,  altrimente 
suggetto.  Terzo,  si  dechiara  il  significato  per  il  nome  «materia» 
per  la  differenza  e  similitudine  che  è  tra  il  suggetto  naturale  et 
arteficiale'^.  Quarto,  si  propone  come  denno  essere  ispediti  gli 
pertinaci,  e  sin  quanto  siamo  ubligati  di  rispondere  e  disputare. 
Quinto,  dalla  vera  raggion  de  la  materia  s'inferisce  che  nulla 
forma  sustanziale  perde  l'essere;  e  fortemente  si  convence,  che 
gli   Peripatetici   et   altri   filosofi   da  volgo   (benché   nominano 

34.  La  stessa  affermazione  in  G.  Bruno,  Lampas  triginta  statuarum,  Op.  lai.. 
Ili,  p.  go:  «materia  enim  per  se  causae  rationem  non  habet,  sed  principii» 
(«la  materia  infatti  in  sé  non  ha  valore  di  causa,  ma  valore  di  principio»). 
Seneca,  Epist,  65,  2,  fa  risalire  agli  stoici  la  distinzione  tra  causa(-forma)  e 
(principio-)materia. 

35.  Bruno  qui  fa  da  contraltare  al  giudizio  espresso  da  Tommaso  d'Aquino 
su  David  di  Dinant,  il  filosofo  panteista  del  XIII  secolo:  cfr.  Summa  cantra 
Gentiles,  I,  17,  Quod  Deus  non  est  materia,  ed.  italiana  a  cura  di  T.  S.  Centi, 
Torino,  1975,  p.  97:  «In  hoc  autem  insaniam  Davidis  confunditur,  qui  ausus 
est  dicere  Deum  esse  idem  quod  prima  materia»  («E  in  questo  viene  svergo- 
gnata la  stoltezza  di  David  di  Dinant,  il  quale  osò  affermare  che  Dio  s'identi- 
fica con  la  materia  prima»);  Somma  teologica,  I,  q.  3,  art.  8,  Utrum  Deus  in  com- 
positione  aliorum  veniat,  traduz.  e  commento  a  cura  dei  Domenicani  italiani, 
testo  latino  dell'Ed.  Leonina,  Firenze,  voi.  I,  1964,  pp.  116-117:  «Tertius  error 
fuit  David  de  Dinando,  qui  stultissime  posuit  Deum  esse  materiam  primam» 
(«Il  terzo  errore  è  quello  di  David  di  Dinant,  il  quale  stoltissimamente  affermò 
che  Dio  è  la  materia  prima»).  Cfr.  il  Dialogo  quarto  (e  non  il  terzo,  come  si 
potrebbe  credere  leggendo  questo  Argomento),  infra,  p.  723,  nota  103.  Per  un 
elenco  di  tutte  le  citazioni  di  David  di  Dinant  in  Alberto  Magno  e  san  Tom- 
maso, cfr.  G.  Thery,  Autour  du  décret  de  1210: 1.  David  de  Dinant.  Etude  sur  san 
panthéisme  matérialiste,  Kain,  Le  Saulchoir,  1925-1926,  pp.  151-155.  I  fram- 
menti dei  Quadernuli  di  David  di  Dinant  sono  stati  pubblicati  negli  «Studia 
Mediewistyczne»  [Warszawa],  III,  1963. 

36.  Aritmetrico:  cfr.  il  napoletano  «aritmetreco».  Pura  e  semplicemente:  cop- 
pia avverbiale  aplologica  («puramente  e  semplicemente»). 

37.  S'intenda  -  con  L.  Limentani,  Saggio  di  un  commento  letterale  cit,  p.  66, 
nota  76  -  «tra  la  materia  (informe)  come  soggetto  della  natura,  e  la  materia 
(formata)  come  soggetto  delle  arti». 


602  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

forma  sustanziale)  non  hanno  conosciuta  altra  sustanza  che  la 
materia.  Sesto,  si  conchiude  un  principio  formale  constante, 

[17]  come  è  conosciuto  un  constante  principio  materiale;  e  che  con 
la  diversità  de  disposizioni  che  son  nella  materia,  il  principio 
formale  si  trasporta  alla  moltiforme  figurazione  de  diverse  spe- 
cie et  individui:  e  si  mostra  onde  sia  avenuto  che  alcuni  alle- 
vati nella  scuola  peripatetica,  non  hanno  voluto  conoscere  per 
sustanza  altro  che  la  materia.  Settimo,  come  sia  necessario  che 
la  raggione  distingua  la  materia  da  la  forma,  la  potenza  da 
l'atto;  e  si  replica  quello  che  secondariamente  si  disse:  come  il 
suggetto  e  principio  di  cose  naturali  per  diversi  modi  di  filoso- 
fare può  essere,  senza  incorrere  calunnia,  diversamente  preso; 
ma  più  utilmente  secondo  modi  naturali  e  magici,  più  vana- 
mente secondo  matematici  e  razionali:  massime  se  questi  tal- 
mente fanno  alla  regola  et  essercizio  della  raggione  ^^,  che  per 
essi  al  fine  non  si  pone  in  atto  cosa  degna,  e  non  si  riporta  qual- 
che frutto  di  prattica,  senza  cui  sarebbe  stimata  vana  ogni  con- 
templazione. 

Ottavo,  si  proponeno  due  raggioni  con  le  quali  suol  essere 
considerata  la  materia,  cioè  come  la  è  una  potenza,  e  come  la  è 
un  soggetto.  E  cominciando  dalla  prima  raggione,  si  distingue 
in  attiva  e  passiva,  et  in  certo  modo  se  riporta  in  uno.  Nono, 
s'inferisce  dall'ottava  proposizione  come  il  supremo  e  divino  è 
tutto  quello  che  può  essere,  e  come  l'universo  è  tutto  quello  che 
può  essere,  et  altre  cose  non  sono  tutto  quello  che  esser  posso- 
no ^^.  Decimo,  per  conseguenza  di  quello  ch'è  detto  nel  nono, 
altamente,  breve  et  aperto^*"  si  dimostra  onde  nella  natura  sono 
i  vizii,  gli  mostri,  la  corrozzione  e  morte.  Undecime,  in  che 

I19I  modo  l'universo  è  in  nessuna  et  in  tutte  le  parti:  e  si  dà  luogo  a 
una  eccellente  contemplazione  della  divinità. 

Duodecimo,  onde  avvenga  che  l'intelletto  non  può  capir  que- 

38.  Bruno  critica  le  applicazioni  troppo  rigide  del  formalismo.  Sul  valore 
ch'egli  attribuisce  alle  differenti  specie  di  magia,  cfr.  F.  Tocco,  Le  opere  inedite 
di  G.  Bruno,  Napoli,  1899,  pp.  102-103  e  109. 

39.  Qui,  come  in  altri  passi  del  De  la  causa,  sembra  che  il  monismo  di 
Bruno  ammetta  solo  una  distinzione  secondo  l'espressione:  materia  e  spirito, 
potenza  ed  atto,  fattori  dell'universo  infinito,  sono  i  due  modi  generali  con  i 
quali  il  Dio  infinito  si  esprime. 

40.  Gruppo  avverbiale  aplologico  inverso  («altamente,  brevemente  e  aper- 
tamente»). 


PROEMIALE  EPISTOLA  603 

sto  absolutissimo  atto,  e  questa  absolutissima  potenza.  Terzode- 
cimo, si  conchiude  l'eccellenza  della  materia,  la  quale  cossi 
coincide  con  la  forma,  come  la  potenza  coincide  con  l'atto.  Ul- 
timo, tanto  da  questo  che  la  potenza  coincide  con  l'atto  e  l'uni- 
verso è  tutto  quello  che  può  essere,  quanto  da  altre  raggioni,  si 
conchiude  ch'il  tutto  è  uno. 

Argomento  del  Quarto  Dialogo 

Nel  quarto  dialogo  (dopo  aver  considerata  la  materia  nel  se- 
condo'*^  in  quanto  che  la  è  una  potenza)  si  considera  la  materia 
in  quanto  che  la  è  un  suggetto.  Ivi  prima  con  gli  passatempi 
polihimnici''^  s'apporta  la  raggion  di  quella  secondo  gli  princi- 
pe volgari  tanto  di  Platonici  alcuni,  quanto  di  Peripatetici 
tutti.  Secondo,  raggionandosi  iuxta'^^  gli  proprii  principii,  si  mo- 
stra una  essere  la  materia  di  cose  corporee  et  incorporee  con  più 
raggioni.  De  quali:  la  prima  si  prende  dalla  potenza  di  mede- 
simo geno"**^.  La  seconda  dalla  raggione  di  certa  analogia  pro- 
porzionale del  corporeo  et  incorporeo,  absoluto  e  contratto "'5.  La 
terza  da  l'ordine  e  scala  di  natura,  che  monta  ad  un  primo  com- 
plettente  o  comprendente.  La  quarta  da  quel  che  bisogna  che 
sia  uno  indistinto,  prima  che  la  materia  vegna  distinta  in  cor- 
porale e  non  corporale:  il  quale  indistinto  vien  significato  per  il 
supremo  geno  della  categoria ^^  La  quinta  da  quel  che  sicome  è 
una  raggion  comune  al  sensibile  et  intelligibile,  cossi  deve  es-  [21] 
sere  al  suggetto  della  sensibilità  [et  al  suggetto  della  intelligibi- 
lità]. La  sesta  da  quel  che  l'essere  della  materia  è  absoluto  da 

41.  Secondo,  ancora  a  causa  dell'errore  spiegato  supra,  nota  17. 

42.  Cioè  con  i  discorsi  del  pedante  Polihimnio. 

43.  Dal  latino:  «secondo». 

44.  L.  Limentani,  Saggio  di  un  commento  letterale  cit,  p.  68,  nota  92,  spiega 
che  «la  distinzione  di  sostanza  corporea  e  di  sostanza  incorporea  rimanda  a  un 
genus  comune  -  la  materia  -  nel  quale  le  due  distinte  species  sono  contenute 
in  potenza,  come  distinte  possibilità». 

45.  Il  gruppo  dei  quattro  termini,  corporeo,  contratto,  incorporeo  e  absoluto  è 
disposto  in  chiasmo:  «A  corporeo  corrisponde  contratto  (contratto  -  s'intende  - 
a  esser  corpo:  e  questo  è  la  materia,  in  quanto  è  estesa,  determinata  dimen- 
sionalmente e  quantitativamente);  a  incorporeo  corrisponde  absoluto  (absolu- 
to -  s'intende  -  ovvero  sciolto,  da  l'esser  corpo:  e  questo  è  la  materia,  come 
soggetto,  substantia,  anche  di  cose  incorporee)»:  ivi,  nota  93. 

46.  La  categoria  «materia». 


604  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

l'esser  corpo:  onde  non  con  minor  raggione  può  quadrare  a  cose 
incorporee  che  corporee.  La  settima  da  l'ordine  del  superiore  et 
inferiore  che  si  trova  ne  le  sustanze:  perché  dove  è  questo,  se  vi 
presuppone  et  intende  certa  comunione  la  quale  è  secondo  la 
materia  che  vien  significata  sempre  per  il  geno,  come  la  forma 
vien  significata  dalla  specifica  differenza"'''.  La  ottava  è  da  un 
principio  estraneo,  ma  conceduto  da  molti.  La  nona  dalla  plu- 
ralità di  specie  che  si  dice  nel  mondo  intelligibile.  La  decima 
dalla  similitudine  et  imitazione  di  tre  mondi:  metafisico,  fisico, 
e  logico.  La  undecima  da  quel  che  ogni  numero,  diversità,  or- 
dine, bellezza  et  ornamento  è  circa  la  materia. 

Terzo,  si  apportano  con  brevità  quattro  raggioni  contrarie,  e 
si  risponde  a  quelle.  Quarto,  si  mostra  come  sia  diversa  rag- 
gione tra  questa  e  quella,  di  questa  e  quella  materia,  e  come  ella 
ne  le  cose  incorporee  coincida  con  l'atto  e  come  tutte  le  specie 
de  le  dimensioni  sono  nella  materia,  e  tutte  le  qualitadi  son 
comprese  ne  la  forma.  Quinto,  che  nessun  savio  disse  mai  le 
forme  riceversi  da  la  materia  come  di  fuora:  ma  quella  caccian- 
dole come  dal  seno,  mandarle  da  dentro.  Là  onde  non  è  un 
prope  nihil'^^,  un  quasi  nulla,  una  potenza  nuda  e  pura,  se  tutte 
le  forme  son  come  contenute  da  quella,  e  dalla  medesima  per 
virtù  dell'efficiente  (il  qual  può  esser  anco  indistinto  da  lei  se- 
condo l'essere)  prodotte  e  parturite;  e  che  non  hanno  minor  rag- 
[23]  gione  di  attualità  nell'essere  sensibile  et  esplicato,  se  non  se- 
condo sussistenza  accidentale:  essendo  che  tutto  il  che''''  si  vede, 
e  fassi  aperto  per  gli  accidenti  fondati  su  le  dimensioni,  è  puro 
accidente;  rimanendo  pur  sempre  la  sustanza  individua,  e  coin- 
cidente con  la  individua  materia.  Onde  si  vede  chiaro,  che  dal- 
l'esplicazione non  possiamo  prendere  altro  che  accidenti;  di 
sorte  che  le  differenze  sustanziali  sono  occolte,  disse  Aristotele 
forzato  da  la  verità.  Di  maniera  che,  se  vogliamo  ben  conside- 
rare, da  questo  possiamo  inferire  una  essere  la  omniforme  su- 
stanza, uno  essere  il  vero  et  ente,  che  secondo  innumerabili  cir- 
costanze et  individui  appare,  mostrandosi  in  tanti  e  sì  diversi 
suppositi.  Sesto,  quanto  sia  detto  fuor  d'ogni  raggione  quello 

47.  Cfr.  Dialogo  secondo,  pp.  661-662. 

48.  «Quasi  nulla». 

49.  Cfr.  lo  spagnolo  «lo  que». 


PROEMIALE  EPISTOLA  605 

che  Aristotele  et  altri  simili  intendeno  quanto  all'essere  in  po- 
tenza la  materia,  il  qual  ceiio  è  nulla:  essendo  che  secondo  lor 
medesimi,  questa  è  sì  fattamente  permanente,  che  giamai  can- 
gia o  varia  l'esser  suo,  ma  circa  lei  è  ogni  varietà  e  mutazione;  e 
quello  che  è  dopo  che  posseva  essere,  anco  secondo  essi,  sempre 
è  il  composto.  Settimo,  si  determina  de  l'appetito  de  la  materia, 
mostrandosi  quanto  vanamente  vegna  definita  per  quello,  non 
partendosi  da  le  raggioni  tolte  da  principii  e  supposizioni  di 
color  medesimi  che  tanto  la  proclamano  come  figlia  de  la  pri- 
vazione, e  simile  a  l'ingordiggia  irreparabile  de  la  vagliente^^ 
femina. 

Argomento  del  Quinto  Dialogo 

Nel  quinto  dialogo,  trattandosi  specialmente  de  l'uno,  viene 
compito  il  fondamento  de  l'edificio  di  tutta  la  cognizion  natu- 
rale e  divina.  Ivi  prima  s'apporta  proposito  della  coincidenza  [25] 
della  materia  e  forma,  della  potenza  et  atto:  di  sorte  che  lo  ente 
logicamente  diviso  in  quel  che  è  e  può  essere,  fisicamente  è  in- 
diviso, indistinto  et  uno;  e  questo  insieme  insieme  ^^  infinito,  in- 
mobile, impartibile,  senza  differenza  di  tutto  e  parte,  principio  e 
principiato.  Secondo,  che  in  quello  non  è  differente  il  secolo  da 
l'anno,  l'anno  dal  momento,  il  palmo  dal  stadio,  il  stadio  da  la 
parasanga52,  e  nella  sua  essenza  questo  e  quell'altro  essere  spe- 
cifico non  è  altro  et  altro;  e  però  nell'universo  non  è  numero,  e 
però  l'universo  è  uno.  Terzo,  che  ne  l'infinito  non  è  differente  il 
punto  dal  corpo  5^:  per  che  non  è  altro  la  potenza  et  altro  l'atto; 
et  ivi  se  il  punto  può  scorrere  in  lungo,  la  linea  in  largo,  la 
superficie  in  profondo,  l'uno  è  lungo,  l'altra  è  larga,  l'altra  è  pro- 

50.  Come  dire  «valens»  in  senso  erotico;  cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille 
cit.,  in  Id.,  Schede  bruniane  cit,  3"^  postilla,  p.  134.  Cfr.,  inoltre,  P.  Aretino, 
Sonetti  sopra  i  XVI  modi,  son.  9,  vv.  15-16,  ed.  a  cura  di  G.  Aquilecchia,  Roma, 
1992,  p.  35:  «e  mi  direte  al  fine,  /  che  sono  un  valent'uomo  in  tal  mistiero». 

51.  Iterazione  avverbiale  ricorrente  nell'opera  di  Bruno. 

52.  Il  palmo  è  una  misura  di  lunghezza  che,  a  Napoli,  era  equivalente  a 
0,264  rn;  lo  stadio  equivaleva  a  un  quarto  di  mille;  la  parasanga  era  una  mi- 
sura di  lunghezza  persiana  equivalente  a  30  stadi. 

53.  Cfr.  De  minimo,  I,  4,  Op.  lai.,  I,  3,  p.  148  (traduz.  in  Opere  latine,  a  cura  di 
C.  Monti,  Torino,  1980,  p.  106):  «punctus  mobilis  est  substantia  omnium,  et 
punctus  manens  est  totum»  («Il  punto  mobile  è  la  sostanza  di  tutte  le  cose  ed 
il  punto  fisso  rappresenta  il  tutto»). 


6o6  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

fonda;  et  ogni  cosa  è  lunga,  larga  e  profonda:  e  per  consequenza 
medesimo  et  uno;  e  l'universo  è  tutto  centro,  e  tutto  circonfe- 
renza^"^.  Quarto,  qualmente  da  quel  che  Giove  (come  lo  nomi- 
nano) ^^  più  intimamente  è  nel  tutto  che  possa  imaginarsi  es- 
servi la  forma  del  tutto  (perché  lui  è  la  essenzia  per  cui  tutto 
quel  ch'è  ha  Tessere;  et  essendo  lui  in  tutto,  ogni  cosa  più  inti- 
mamente che  la  propria  forma  ha  il  tutto),  s'inferisce  che  tutte 
le  cose  sono  in  ciascuna  cosa,  et  per  consequenza  tutto  è  uno'^ 
Quinto,  se  risponde  al  dubio  che  dimanda,  perché  tutte  le  cose 
particolari  si  cangiano,  e  le  materie  particolari,  per  ricevere  al- 
tro et  altro  essere,  si  forzano  ad  altre  et  altre  forme;  e  si  mostra 
come  nella  moltitudine  è  l'unità,  e  ne  l'unità  è  la  moltitudine;  e 
come  l'ente  è  un  moltimodo  e  moltiunico,  et  in  fine  uno  in  su- 
stanza  e  verità.  Sesto,  se  inferisce  onde  proceda  quella  diffe- 
[27I  renza  e  quel  numero,  e  che  questi  non  sono  ente,  ma  di  ente  e 
circa  lo  ente.  Settimo,  avertesi  che  chi  ha  ritrovato  quest'uno, 
dico  la  raggione  di  questa  unità,  ha  ritrovata  quella  chiave, 
senza  la  quale  è  impossibile  aver  ingresso  alla  vera  contempla- 

54.  Riferimento  alla  definizione  post-ermetica  (parafrasata  nel  Dialogo 
quinto,  p.  728,  nota  io):  «Deus  est  sphaera  infinita,  cuius  centrum  est  ubique, 
circumferentia  nusquam»;  cfr.  Liber  XXIV  Philosophorum,  prop.  II,  ed.  a  cura  di 
P.  Necchi,  Genova,  1996,  pp.  28-30  e  note.  Bruno  (cfr.  De  immenso,  IV,  6,  Op. 
lai,  I,  2,  p.  32;  ed.  Monti  cit.,  p.  600)  trae  questa  definizione  da  N.  Cusano,  De 
docta  ignorantia.  II,  12,  ed.  in  Opere  filosofiche,  a  cura  di  G.  Federici-Vescovini, 
Torino,  1972,  p.  147:  «Unde  erit  machina  mundi  quasi  habens  unique  centrum 
et  nullibi  circumferentiam,  quoniam  eius  circumferentia  et  centrum  est  deus, 
qui  est  undique  et  nullibi»  («La  macchina  del  mondo  avrà  il  centro  dovunque 
e  la  circonferenza  in  nessun  luogo,  perché  la  sua  circonferenza  e  il  suo  centro 
sono  Dio  che  è  dovunque  e  in  nessun  luogo»).  È  possibile  che  Bruno  citasse 
queste  parole  durante  le  sue  lezioni  oxoniensi:  cfr.  G.  Aquilecchia,  Ancora  su 
Bruno  a  Oxford,  «Studi  secenteschi»  [Firenze],  IV,  1964,  pp.  3-13,  ora  in  Io., 
Schede  bruniane  cit.,  pp.  243-252;  Id.,  Le  opere  italiane  di  G.  Bruno  cit,  pp.  84-85. 

55.  Cfr.  G.  Bruno,  De  immenso,  I,  i,  Op.  lai.,  l,  i,  p.  204  (ed.  Monti  cit, 
p.  421);  Spaccio,  Dialogo  secondo,  p.  256  e  terzo,  p.  359  (ma  già  Aristotele,  De 
mundo,  7,  401  a  12).  Sulla  «mobilità  dialettica  che  aveva  portato  Dionigi  Areo- 
pagita  e  Cusano  ad  ammettere  innumerevoli  "nomi  divini"  per  un'unica  di- 
vinità ineffabile»,  cfr.  E.  Wind,  Misteri  pagani  nel  Rinascimento,  traduz.  di 
P.  Bertolucci.  Milano,  1971,  p.  302. 

56.  Cfr.  G.  Bruno,  Acrotismus,  Op.  lat,  I,  i,  p.  69  («haec  \i.e.  divinitas]  magis 
ipsa  nobis,  quam  ipsi  nobis  esse  possimus,  intima  est»);  Cena,  Dialogo  primo, 
pp.  455-456  («Et  abbiamo  dottrina  di  non  cercar  la  divinità  rimossa  da  noi:  se 
l'abbiamo  appresso,  anzi  di  dentro  più  che  noi  medesmi  siamo  dentro  a  noi»); 
Lampas  triginta  statuarum,  Op.  lai..  Ili,  p.  41  («(Pater  seu  mens  seu  plenitudo:] 
Magis  intrinsecum  est  rerum  substantiae.  et  intimius  in  omnibus  ac  singulis, 
quam  omnia  ac  singula  esse  possunt  in  se  ipsis»);  p.  42  («Dicitur  omnia  in 
omnibus,  ex  qua  ratione,  quia  ipse  est  totus  ubique  praesens,  dixit  Anaxagoras: 
"Omnia  in  omnibus";  quia  qui  est  omnia,  est  in  omnibus»). 


PROEMIALE  EPISTOLA  607 

zion  de  la  natura.  Ottavo,  con  nova  contemplazione  si  replica, 
che  l'uno,  l'infinito,  lo  ente,  e  quello  che  è  in  tutto,  è  per  tutto, 
anzi  è  l'istesso  ubique^'';  e  che  cossi  la  infinita  dimensione,  per 
non  essere  magnitudine,  coincide  con  l'individuo,  come  la  infi- 
nita moltitudine,  per  non  esser  numero,  coincide  con  la  unità. 
Nono,  come  ne  l'infinito  non  è  parte  e  parte,  sia  che  si  vuole  ne 
l'universo  esplicatamente:  dove  però  tutto  quel  che  veggiamo  di 
diversità  e  differenza,  non  è  altro  che  diverso  e  differente  volto 
di  medesima  sustanza.  Decimo,  come  ne  li  doi^^  estremi  che  si 
dicono  nell'estremità  della  scala  de  la  natura,  non  più  è  da  con- 
templare doi  principii  che  uno,  doi  enti  che  uno,  doi  contrarii  e 
diversi,  che  uno  concordante  e  medesimo.  Ivi  l'altezza  è  profon- 
dità, l'abisso  è  luce  inaccessa^'',  la  tenebra  è  chiarezza,  il  magno 
è  parvo,  il  confuso  è  distinto,  la  lite  è  amicizia,  il  dividuo  è 
individuo,  l'atomo  è  immenso;  e  per  il  contrario.  Undecimo, 
qualmente  certe  geometriche  nominazioni  come  di  punto  et 
uno,  son  prese  per  promovere  alla  contemplazione  de  lo  ente  et 
uno,  e  non  sono  da  per  sé  sufficienti  a  significar  quello:  onde 
Pitagora,  Parmenide  e  Platone  non  denno  essere  sì  sciocca- 
mente interpretati,  seconda  la  pedantesca  censura  di  Aristotele. 
Duodecimo,  da  quel  che  la  sustanza  et  essere  è  distinto  dalla 
quantità,  dalla  misura  e  numero,  s'inferisce  che  la  è  una  et  in- 
dividua in  tutto  et  in  qualsivoglia  cosa.  Terzodecimo,  s'appor-  [29] 
tano  gli  segni  e  le  verificazioni  per  quali  gli  contrarii  veramente 
concorreno,  sono  da  un  principio,  e  sono  in  verità  e  sustanza 
uno:  il  che  dopo  esser  visto  matematicamente,  si  conchiude  fi- 
sicamente. 

Ecco,  illustrissimo  signore,  onde  bisogna  uscire  prima  che 
voler  entrare  alla  più  speciale  et  appropriata  cognizion  de  le 
cose.  Quivi  come  nel  proprio  seme  si  contiene  et  implica  la  mol- 
titudine de  le  conclusioni  della  scienza  naturale '^'^'.  Quindi  de- 


57.  «Ovunque». 

58.  Cfr.  Cena,  Dialogo  primo,  pp.  443-444,  per  la  flessione  di  questo  nume- 
rale in  Bruno:  doi  (cfr.  il  napoletano  «dòje»)  al  maschile;  due  al  femminile. 

59.  Cfr.  S.  Paolo,  Epistola  a  Timoteo,  VI,  16. 

60.  G.  Bruno,  De  l'infinito.  Proemiale  epistola,  p.  28:  «quel  che  è  seminato 
ne  gli  dialogi  De  la  causa,  principio,  et  uno,  nato  in  questi  De  l'infinito,  universo 
e  mondi,  per  altri  germoglia,  per  altri  cresca,  per  altri  si  mature,  per  altri  me- 
diante una  rara  mietitura  ne  addite,  e  per  quanto  è  possibile  ne  contente». 


6o8  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

riva  la  intessitura,  disposizione  et  ordine  de  le  scienze  specula- 
tive. Senza  questa  isagogia  in  vano  si  tenta,  si  entra,  si  comin- 
ciai^. Prendete  dumque  con  grato  animo  questo  principio, 
questo  uno,  questo  fonte,  questo  capo:  per  che  vegnano  animati 
a  farsi  fuora  e  mettersi  avanti  la  sua  prole  e  genitura;  gli  suoi 
rivi  e  fiumi  maggiori  si  diffondano;  il  suo  numero  successiva- 
mente si  moltipliche,  e  gli  suoi  membri  oltre  si  dispongano:  a 
fin  che  cessando  la  notte  col  sonnacchioso  velo  e  tenebroso 
manto,  il  chiaro  Titane^^  parente  de  le  dive  muse,  ornato  di  sua 
fameglia^^  cinto  da  la  sua  etema  corte,  dopo  bandite  le  not- 
turne faci,  ornando  di  nuovo  giorno  il  mondo,  risospinga  il 
trionfante  carro  dal  vermiglio  grembo  di  questa  vaga  Aurora^. 

[31]  Vale  65, 


61.  Il  De  la  causa  si  propone  come  un'opera  propedeutica  ai  dialoghi  De 
l'infinito. 

62.  Elios,  il  Sole,  figlio  del  titano  Iperione,  era  spesso  designato  come  «il 
Titano». 

63.  Forma  napoletana. 

64.  Immagine  biblica.  Cfr.  Ester,  Vili,  16:  «Per  i  Giudei  vi  era  luce,  letizia, 
esultanza,  onore»;  Matteo,  IV,  16:  «Il  popolo  immerso  nella  tenebra  /  ha  veduto 
una  gran  luce;  /  su  quelli  che  dimoravano  in  terra  e  ombra  di  morte  /  una  luce 
si  è  levata»  (i  testi  scritturali  sono  citati  da  La  Sacra  Bibbia,  tradotta  dui  testi 
originali  e  commentata,  a  cura  di  E.  Galbiati,  A.  Penna  e  P.  Rossano,  Torino, 
19733,  3  voli.).  -  Cfr.  anche  Sinesio  di  Cirene,  Inni,  V,  1-9,  in  Opere,  a  cura  di 
A.  Garzya,  Torino,  1989,  pp.  yjS-jjq:  «Di  nuovo  la  luce,  di  nuovo  l'aurora,  di 
nuovo  il  giorno  risplende  dopo  l'oscurità  vagante  per  la  notte!  Canta  di  nuovo, 
mio  cuore,  con  gl'inni  dell'alba  il  Dio  che  ha  dato  la  luce  all'aurora,  ha  dato 
alla  notte  gli  astri,  schiera  danzante  intomo  all'universo». 

65.  «Addio». 


GIORDANO  NOLANO 

A  I  PRINCIPI  DE  l'universo 

Lethaeo  undantem  retinens  ab  origine^^  campum 
emigret  o  Titan^'',  et  petat  astra  precor. 

Errantes  stellae,  spedate  procedere  in  orhem 
me  geminum,  si  vos  hoc  reserastis  iter. 

Dent  geminas  somni  portas^^  laxarier  usque, 
vestrae  per  vacuum  me  properante  vices: 

obductum  tenuitque  diu  quod^'^  tempus  avarum, 
mi  liceat  densis  promere  de  tenebris. 

Ad  partum  properare  tuum,  mens  aegra,  quid  obstat, 
sedo  haec  indigno  sint  tribuenda  licet? 

Umbrarum  fluctu  terras  mergente,  cacumen 
adtolle  in  clarum,  noster  Olimpe,  lovem''^.  [33] 


66.  Origo  è  qui  maschile:  cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  cit,  in  Io., 
Schede  bruniane  cit.,  4^  postilla,  pp.  135-136. 

67.  Il  Sole  (cfr.  supra,  nota  62). 

68.  Virgilio,  Aen.,  VI,  893,  ed.  Carena  cit.,  pp.  581-582:  «Sunt  geminae 
Somni  portae»  («sono  due  del  Sonno  le  porte»). 

69.  Quod:  la  verità,  «la  quale  ascosa  sotto  il  velame  di  tante  sordide  e  be- 
stiale imaginazioni,  sino  al  presente  è  stata  occolta,  per  l'ingiuria  del  tempo 
e  vicissitudine  de  le  cose,  dopo  che  al  giorno  de  gli  antichi  sapienti  succese 
la  caliginosa  notte  di  temerari  sofisti»  (G.  Bruno,  De  l'infinito,  Dialogo  terzo, 
p.  88). 

70.  Cioè  l'aria  pura. 


6lO  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 


Al  proprio  Spirto 


Mons,  licei  innixum  tellus  radicibus  altis 
te  capiat,  tendi  vertice  in  astra  vales; 

mens''\  cognata  vocat  summo  de  culmine  rerum, 
discrimen  quo  sis  manibus  atque  lovi'^-. 

Ne  perdas  hic  iura  tui,  fundoque  recumbens 
impetitus''^  tingas  nigri  Archerontis  aquas: 

at  mage  sublimeis  tentet  natura  recessus, 
I35]   nam,  tangente  Deo^^,  fervidus  ignis  eris. 


71.  Si  noti  il  giuoco  di  parole  tra  mons  e  mens  (vv.  i  e  3). 

72.  L'abisso  e  il  cielo. 

73.  Impetitus  è  al  maschile  perché,  sebbene  sia  l'epiteto  di  mens,  rinvia  allo 
spirto  del  titolo. 

74.  Cfr.  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  I,  3,  p.  556:  «doviene  un  dio  dal  con- 
tatto intellettuale  di  quel  nume  oggetto». 


PROEMIALE  EPISTOLA  6ll 


Al  Tempo 


Lente  senex,  idemque  celer,  claudensque  relaxans; 
an  ne  bonum  qids  te  dixerit,  anne  malum? 

Largus  es,  esque  tenax:  quae  munera  porrigis,  aufers; 
quique  parens  aderas,  ipse  peremptor  ades, 

viscerebusque  educta  tuis  in  viscera  condis, 
tu  cui  prompta  sinu  carpere  fauce  licet; 

omnia  cumque  facis,  cumque  omnia  destruis,  hinc  te 
non  ne  bonum  possem  dicere,  non  ne  malum? 

Porro  ubi  tu  diro  rabidus  frustraberis  ictu, 
falce  minax  ilio  tendere  parce  manus, 

nulla  ubi  pressa  Chaos  atri  vestigia  parent 
ne  videare  bonus,  ne  videare  malus.  [37] 


6l2  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 


De  l'Amore 


Amor  per  cui  tant'alto  il  ver  discemo, 
ch'apre  le  porte  di  diamante  e  nere'', 
per  gli  occhi  entra  il  mio  nume,  e  per  vedere 
nasce,  vive,  si  nutre,  ha  regno  etemo '^ 

Fa  scorger  quant'ha  il  ciel  terr'et  inferno, 
fa  presente  d'absenti  effigie  vere^^, 
repiglia  forze  e  trando  dritto  fere, 
e  impiaga  sempr'il  cor,  scuopr'ogn'intemo'^^. 

O  dumque  volgo  vile^^,  al  vero  attendi, 
porgi  l'orecchio  al  mio  dir  non  fallace, 
apri,  apri  (se  puoi)  gli  occhi,  insano  e  bieco. 

Fanciullo  il  credi  perché  poco  intendi. 
Perché  ratto  ti  cangi,  ei  par  fugace. 
[39]  Per  esser  orbo  tu,  lo  chiami  cieco  ^°. 

Causa,  principio,  et  uno  sempitemo^i, 
onde  l'esser,  la  vita,  il  moto  pende; 


75.  Cfr.  F.  Petrarca  (che  riecheggia  qui  frequentemente),  CCCLVIII,  6: 
«che  col  pe'  ruppe  le  tartaree  porte»;  N.  Franco,  Dialoghi  piacevoli,  dial.  Il, 
Venetia,  1541,  p.  XLVIP':  «La  porta  fatta  di  Diamante  durissimo,  a  la  cui  guar- 
dia è  proposto  Cerberon». 

76.  Cfr.  F.  Petrarca,  CXL,  i:  «Amor  che  nel  penser  mio  vive  e  regna». 

77.  Cfr.  Id.,  CXXVII,  94-95:  «perch'a  gli  occhi  miei  lassi  /  sempre  è  presen- 
te...». 

78.  Cfr.  Id.,  LXXXVII,  5-8:  «...  il  colpo  de'  vostr'occhi,  /  donna,  sentiste  a  le 
mie  parti  inteme  /  dritto  passare;  onde  conven  ch'etteme  /  lagrime  per  la 
piaga  il  or  trabocchi  ». 

79.  Cfr.  Id.,  Triumphus  Pudicitiae.  157:  «Taccia  il  vulgo  ignorante!  io  di- 
co...». 

80.  Id.,  CLI,  9:  «Cieco  non  già,  ma  faretrado  il  veggo»;  Triumphus  Cupidi- 
nis,  lì,  51:  «che  in  tutto  è  orbo  chi  non  vede  il  sole».  Il  sonetto  bruniano  è 
riprodotto,  con  leggere  varianti,  in  De  gli  eroici  furori,  p.  539,  al  momento  di 
formulare  il  principio,  d'ispirazione  platonica  e  pitagorica,  secondo  il  quale 
«l'amore  illustra,  chiarisce,  apre  l'intelletto  e  fa  penetrar  il  tutto  e  suscita  mi- 
racolosi effetti». 

81.  Si  veda  la  frase  con  cui  il  De  la  causa  si  conclude,  p.  740. 


PROEMIALE  EPISTOLA  613 

e  a  lungo,  a  largo  e  profondo  si  stende 
quanto  si  dic'in  ciel  terr'et  inferno: 

con  senso,  con  raggion,  con  mente  scemo 
ch'atto,  misura  e  conto  non  comprende 
quel  vigor,  mole  e  numero  ^2,  che  tende 
oltr'ogn'inferior,  mezzo  e  superno. 

Cieco  error,  tempo  avaro,  ria  fortuna 8^, 
sord'invidia,  vii  rabbia,  iniquo  zelo, 
crudo  cor,  empio  ingegno,  strano  ardire 

non  bastaranno  a  farmi  l'aria  bruna, 
non  mi  porrann'avanti  gli  occhi  il  velo^"^, 
non  faran  mai  ch'il  mio  bel  sol  non  mire.  [41] 


82.  Cfr.  G.  Bruno,  La  cabala,  Declamazione,  p.  429:  «Le  filosofiche  e  razio- 
nali contemplazioni,  quali  nascono  da  gli  sensi,  crescono  nella  facultà  discor- 
siva e  si  maturano  nell'intelletto»;  atto,  misura  e  conto  corrispondono  rispetti- 
vamente a  senso,  raggion,  mente;  vigor,  mole  e  numero  corrispondono  rispettiva- 
mente ad  atto,  misura  e  conto. 

83.  Cfr.  F.  Petrarca,  CLIII,  13:  «e  ria  fortuna  pò  ben  venir  meno». 

84.  Id.,  CCCXXIX,  12-13:  «Ma  'nanzi  a  gl'occhi  m'era  post'  un  velo.  /  che 
mi  fea  non  veder  quel  eh'  i'  vedea»;  CCXXX,  1-2:  «quel  vivo  sole  alli  occhi 
miei  non  cela». 


GIORDANO  BRUNO  NOLANO 
De  la  causa,  principio  et  Uno 

DIALOGO  PRIMO 

Interlocutori 
Entropio,  Filoteo,  Annesso  ^ 

Elitropio.  -  Qual  rei  nelle  tenebre  avezzi,  che  liberati  dal 
fondo  di  qualche  oscura  torre  escono  alla  luce,  molti  de  gli  es- 
sercitati  nella  volgar  filosofia^,  et  altri,  paventaranno,  admira- 
ranno  e  (non  possendo  soffrire  il  nuovo  sole  de  tuoi  chiari  con- 
cetti) si  turbaranno'. 

Filoteo.  —  Il  difetto  non  è  di  luce,  ma  di  lumi:  quanto  in  sé 
sarà  più  bello  e  più  eccellente  il  sole,  tanto  sarà  a  gli  occhi  de  le 
notturne  strige  odioso  e  discaro  di  vantaggio"^. 


1.  Eutropio  è,  secondo  l'etimo  del  nome,  il  «fiore  che  si  volge  al  sole»  della 
nuova  filosofia  bruniana.  A  detta  di  F.  A.  Yates,  John  Florio,  Cambridge,  1934, 
pp.  102-103,  è  possibile  identificario  col  Florio  la  cui  impresa  raffigurava 
appunto  il  girasole  (cfr.  G.  Bruno,  Cena,  Dialogo  secondo,  p.  467  e  nota  6). 
-  Filoteo,  come  «Teofilo»  nella  Cena  e  nei  Dialoghi  secondo  e  quinto  del  De  la 
causa,  è  Bruno  stesso.  —  Armesso,  personaggio  non  identificato,  certamente  in- 
glese (si  veda  p.  627);  secondo  F.  A.  Yates,  loc  cit,  potrebbe  trattarsi  del  Mat- 
thew Gwinne  di  cui  parla  la  Cena,  Dialogo  secondo,  p.  467  e  nota  6;  mentre  per 
D.  Singer,  Giordano  Bruno,  New  York,  1950,  p.  39,  nota  40,  è  personaggio  che 
ricorderebbe  piuttosto  il  «Mercurius»  del  De  umbra  rationis  di  A.  Dicson  (cfr. 
Dialogo  secondo,  p.  645,  nota  i),  ma  è  piuttosto  «Mercurius»  che  pare  esempli- 
ficato suir« Hermes»  bruniano  del  De  umbris  idearum,  identificabile  a  sua  volta 
con  Ermete  Trismegisto:  cfr.  F.  A.  Yates,  G.  Bruno  e  la  tradizione  ermetica,  tra- 
duz.  di  B.  Pecchioli,  Bari,  1969,  pp.  216  e  222. 

2.  I  peripatetici. 

3.  Tema  d'origine  platonica:  cfr.  Platone,  Respublica,  VII,  514-515.  Si  veda 
G.  Bruno,  De  immenso,  I,  2,  Op.  lai.,  I,  i,  pp.  206-208  (traduz.  in  Opere  latine,  a 
cura  di  C.  Monti,  Torino,  1990,  pp.  422-423),  dove  questo  esordio  è  parafrasato 
in  versi  latini. 

4.  Cfr.  B.  Castiglione,  Il  Cortegiano,  I,  9,  a  cura  di  B.  Maier,  Torino, 


DIALOGO  PRIMO  615 

Elitropio.  —  La  impresa  che  hai  tolta,  o  Filoteo,  è  difficile, 
rara  e  singulare^,  mentre  dal  cieco  abisso  vuoi  cacciarne,  et 
amename  al  discoperto,  tranquillo  e  sereno  aspetto  de  le  stelle, 
che  con  sì  bella  varietade  veggiamo  disseminate  per  il  ceruleo  [43] 
manto  del  cielo.  Benché  a  gli  uomini  soli  l'aitatrice  mano  di  tuo 
piatoso  zelo  soccorra,  non  saran  pero  meno  vani  gli  effetti  de 
ingrati  verso  di  te,  che  varii  son  gli  animali  che  la  benigna  terra 
genera  e  nodrisce  nel  suo  materno  e  capace  seno;  se  gli  è  vero 
che  la  specie  umana,  particularmente  ne  gl'individui  suoi,  mo- 
stra de  tutte  l'altre  la  varietade:  per  esser  in  ciascuno  più 
espressamente  il  tutto,  che  in  quelli  d'altre  specie.  —  Onde  ve- 
dransi  questi ^  che  qual  appannata  talpa'',  non  sì  tosto  senti- 
ranno l'aria  discoperto,  che  di  bel  nuovo,  risfossicando^  la  terra, 
tentaranno  a  gli  nativi  oscuri  penetrali.  Quelli  qual  notturni 
ucelli,  non  sì  tosto  arran  veduta  spuntar  dal  lucido  oriente  la 
vermiglia  ambasciatrice  del  sole'',  che  dalla  imbecillità  de  gli 
occhi  suoi  verranno  invitati  alla  caliginosa  ritretta^^^.  Gli  ani- 
manti tutti  banditi  dall'aspetto  de  le  lampade  celesti,  e  desti- 

1955,  p.  95:  «come  quegli  uccelli  debili  di  vista,  che  non  affisano  gli  occhi  nella 
spera  del  sole,  non  possono  ben  conoscer  quanto  esso  sia  perfetto».  Tema  pla- 
tonico e  neoplatonico:  cfr.  nQoX.8YÓTiEva  rfjg  n>taTcovo5  qjiÀooocpiag  I,  9,  ed.  a 
cura  di  L.  G.  Westerink,  Paris,  1990,  p.  i,  che  ha  per  fonte  Aristotele,  Me- 
taph.,  I,  993  b  9-10,  ed.  a  cura  di  C.  A.  Viano,  Torino,  1974,  p.  229:  «L'intelli- 
genza della  nostra  anima  sta  di  fronte  alle  cose  che  per  natura  sono  più  evi- 
denti come  gli  occhi  delle  civette  di  fronte  allo  splendore  del  giorno».  -  Le 
strige  sono  rapaci  notturni,  non  streghe,  delle  quali  tuttavia  G.  B.  Della 
Porta,  Magiae  Naturalis  ...  Libri  IIII,  Napoli,  1558,  dice  che  «a  strigis  avis 
noctumae  similitudine  vocant». 

5.  Cfr.  G.  Bruno,  De  immenso,  l,  2,  Op.  lai,  l,  i,  pp.  206-208:  «Altum,  diffi- 
cilem,  rarum  perferre  laborem  Mens  me  sacra  jubet...»  (ed.  Monti  cit,  p.  423: 
«La  sacra  mente  mi  ordina  di  portare  a  termine  una  grande,  difficile  e  straor- 
dinaria impresa...»). 

6.  Il  testo  sviluppa  qui  l'immagine  utilizzata  dall'Hermes  bruniano  all'ini- 
zio del  De  umbris  idearum,  Op.  lai,  11,  i,  p.  7:  «Ipso  oriente  operatores  tenebra- 
rum  congregantur  in  cubilia,  homo  vero  &  animalia  lucis  exeunt  ad  opus 
suum»  (traduz.  di  N.  Tirinnanzi,  Milano,  1997,  p.  43:  «Al  suo  sorgere  [i.e.  del 
sole],  quanti  operano  nelle  tenebre  si  affrettano  alle  proprie  tane,  mentre 
l'uomo  e  gli  animali  della  luce  escono  alla  loro  opera»). 

7.  Cfr.  P.  Bembo,  Asolani,  III,  21,  in  Prose  e  rime,  a  cura  di  C.  Dionisotti, 
Torino,  1966^,  p.  501:  «con  occhi  di  talpa,  sì  come  i  nostri  animi  sono  di  queste 
voglie  fasciati,  non  si  può  sofferire  il  sole».  E  cfr.  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori. 
Parte  seconda,  dialogo  IV,  p.  721:  «Al  cieco  che  seguita,  per  il  molto  lacrimare 
accade  che  siano  talmente  appannati  gli  occhi...»;  Acrotismus,  Op.  lai.,  I,  i,  p.  55: 
«lis  ...  qui  Talpae  sunt». 

8.  Cfr.  il  napoletano  «sfossecare». 

9.  L'aurora.  Cfr.  Odyssea,  V,  121:  «L'Aurora  dalle  dita  di  rosa». 

10.  Cfr.  il  napoletano  «ritretto»  (ed  il  francese  «retraite»). 


6l6  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

nati  all'eterne  gabbie,  bolge  et  antri  di  Plutone,  dal  spaventoso 
et  erinnico  corno  d'Alecto'^  richiamati,  apriran  l'ali,  e  drizza- 
ranno  il  veloce  corso  alle  lor  stanze. 

Ma  gli  animanti  nati  per  vedere  il  sole,  gionti  al  termine  del- 
l'odiosa notte,  ringraziando  la  benignità  del  cielo,  e  disponen- 
dosi a  ricevere  nel  centro  del  globoso  cristallo  de  gli  occhi  suoi 
gli  tanto  bramati  et  aspettati  rai,  con  disusato  applauso  di 
cuore,  di  voce  e  di  mano  adoraranno  l'oriente:  dal  cui  dorato 
balco '^  avendo  cacciati  gli  focosi  destrieri  il  vago  Titane^^, 
rotto  il  sonnacchioso  silenzio  de  l'umida  notte,  raggionaranno 
gli  uomini;  belaranno  gli  facili,  inermi  e  semplici  lanuti  greggi; 
[45]  gli  cornuti  armenti  sotto  la  cura  de  ruvidi  bifolchi  muggiranno. 
Gli  cavalli  di  Sileno  '•*  (perché  di  nuovo  in  favor  de  gli  smarriti 
dèi  possano  dar  spavento  a  i  più  de  lor  stupidi  gigantoni  ^^)  rag- 
ghiaranno;  versandosi  nel  suo  limoso  letto,  con  importun  gruito 
ne  assordiranno  gli  sannuti  ciacchi.  Le  tigri,  gli  orsi,  gli  leoni,  i 
lupi,  e  le  fallaci  golpi,  cacciando  da  sue  spelunche  il  capo,  da  le 
deserte  alture  contemplando  il  piano  campo  de  la  caccia,  man- 
daranno  dal  ferino  petto  i  lor  grunniti,  ricti,  bruiti,  fremiti,  rug- 
giti et  orli. 

Ne  l'aria  e  su  le  frondi  di  ramose  piante,  gli  galli,  le  aquile, 
gli  pavoni,  le  grue,  le  tortore,  i  merli,  i  passari,  i  rosignoli,  le 
cornacchie,  le  piche,  gli  corvi,  gli  cuculi  e  le  cicade  non  sarran 
negligenti  di  replicare  e  radoppiar  gli  suoi  garriti  strepitosi. 

11.  Aletto,  Tisifone  e  Megera  sono  le  tre  Erinni  dei  greci  (assimilate  dai 
romani  alle  Furie).  Con  il  loro  corpo  alato,  la  capigliatura  composta  da  ser- 
penti, armate  di  torce  e  scudisci,  tormentano  e  fanno  impazzire  le  loro  vittime, 
che  si  sono  macchiate  di  ogni  specie  di  crimine  (omicidio,  delitti  contro  la 
famiglia  o  la  comunità).  Nella  tradizione  più  tarda,  esse  svolgono  la  stessa  at- 
tività agli  Inferi,  dove  torturano  le  anime  dei  dannati. 

12.  Cfr.  Dante,  Ptirg.,  IX,  1-2:  «La  concubina  di  Tifone  antico  /  già  s'im- 
biancava al  balco  d'oriente». 

13.  Il  sole  (si  veda  supra,  Proemiale  epistola,  p.  608,  nota  62). 

14.  Gli  asini. 

15.  Nello  Spaccio,  Dialogo  primo,  p.  220;  nella  Cabala,  Declamazione,  p.  424 
e  nel  De  compositione  imaginum,  Op.  lai,  II,  3,  p.  238,  Bruno  evoca  questo  stesso 
mito  secondo  il  quale,  durante  la  sua  guerra  coi  Giganti,  Giove  avrebbe  rice- 
vuto l'aiuto  di  Bacco,  di  Vulcano,  dei  Satiri  e  di  Sileno  che  cavalcavano  asini; 
tali  «cavalli  di  Sileno»  ragliarono  in  modo  così  sonoro  da  mettere  in  fuga  i 
Giganti,  terrorizzati.  Si  veda  N.  Ordine,  La  cabala  dell'asino.  Asinità  e  cono- 
scenza in  G.  Bruno,  Napoli,  1996^,  p.  21,  che  rinvia  allo  Pseudo-Eratostene, 
Catasterismi,  11  (cfr.  Scholia  vetera  latina  in  Caesaris  Germanici  Aratea  Phaeno- 
mena,  II,  51). 


DIALOGO  PRIMO  617 

Dal  liquido  et  instabile  campo  ancora,  li  bianchi  cigni,  le 
molticolorate  anitre,  gli  solleciti  merghi,  gli  paludosi  bruzii  ^^  le 
ceche  rauche,  le  querulose  rane  ne  toccaranno  l'orecchie  col  suo 
rumore:  di  sorte  ch'il  caldo  lume  di  questo  sole  diffuso  all'aria 
di  questo  più  fortunato  emisfero,  verrà  accompagnato,  salutato 
e  forse  molestato  da  tante  e  tali  diversitadi  de  voci,  quanti  e 
quali  son  spirti  che  dal  profondo  di  proprii  petti  le  caccian 
fuori. 

FiLOTEO.  -  Non  solo  è  ordinario,  ma  anco  naturale  e  neces- 
sario, che  ogn'animale  faccia  la  sua  voce:  e  non  è  possibile  che 
le  bestie  formino  regolati  accenti  et  articulati  suoni  come  gli 
uomini:  come  contrarie  le  complessioni,  diversi  i  gusti,  varii 
gli  nutrimenti. 

Armesso.  —  Di  grazia  concedetemi  libertà  di  dir  la  parte  mia 
ancora:  non  circa  la  luce,  ma  circa  alcune  circonstanze,  per  le 
quali  non  tanto  si  suol  consolare  il  senso,  quanto  molestar  il  [47] 
sentimento  di  chi  vede  e  considera:  perché  per  vostra  pace  e 
vostra  quiete,  la  quale  con  fraterna  caritade  vi  desio,  non  vorrei 
che  di  questi  vostri  discorsi  vegnan  formate  comedie,  tragedie, 
lamenti,  dialogi  (o  come  vogliam  dire)  simili  a  quelli  che  poco 
tempo  fa,  per  essemo^^  essi  usciti  in  campo  a  spasso,  vi  hanno 
forzato  di  starvi  rinchiusi  e  retirati  in  casa^^. 

FiLOTEO.  —  Dite  liberamente. 

Armesso.  -  Io  non  parlare  come  santo  profeta,  come  astratto 
divino,  come  assumpto  apocaliptico,  né  quale  angelicata  asina 
di  Balaamo^^;  non  raggionarò  come  inspirato  da  Bacco,  né  gon- 
fiato di  vento  da  le  puttane  muse  di  Pamaso^°,  o  come  una 
Sibilla  impregnata  da  Febo,  o  come  una  fatidica  Cassandra^\ 
né  qual  ingombrato  da  le  unghie  de  piedi  sin  alla  cima  di  ca- 
pegli  de  l'entusiasmo  apollinesco,  né  qual  vate  illuminato  nel- 

16.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  ai  dialoghi  «De  la  causa»,  «Il  Verri» 
[Mantova],  II,  1958,  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana,  1993,  s''  postilla,  p.  136 
(col  rinvio  alla  voce  brutio  del  New  World  of  Words  di  J.  Florio:  «a  kind  of 
vermine  living  in  fens  or  moorish  grounds»). 

17.  Forma  d'infinito  coniugato. 

18.  Si  veda  supra,  Proemiale  epistola,  pp.  594  e  596,  note  5  e  13. 

19.  L'asina  aveva  ricevuto  da  Dio  la  parola,  dopo  che  aveva  riconosciuto 
ed  evitato  l'angelo  che  sbarrava  la  strada  al  suo  padrone  (cfr.  Numeri,  XII, 
22-30). 

20.  Cfr.  G.  Bruno,  Cena,  Dialogo  primo,  p.  446. 

21.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  II,  246-247. 


6l8  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

roraculo,  o  delfico  tripode;  né  come  Edipo^^  esquisito  contra  gli 
nodi  de  la  sfinge;  né  come  un  Salomone  in  ver  gli  enigmi  della 
regina  Sabba^^;  né  qual  Calcante^''  interprete  dell'olimpico  se- 
nato; né  come  un  inspiritato  Merlino  ^^^  o  come  uscito  da  l'antro 
di  Trofonio^^:  ma  parlare  per  l'ordinario  e  per  volgare,  come 
uomo  che  ho  avuto  altro  pensiero  che  d'andarmi  lambiccando 
il  succhio  de  la  grande  e  picciola  nuca^^,  con  farmi  al  fine  ri- 
manere in  secco  la  dura  e  pia  madre^^;  come  uomo  dico  che 
non  ho  altro  cervello  ch'il  mio:  a  cui  manco  gli  dèi  dell'ultima 
cotta  e  da  tinello  nella  corte  celestiale  (quei  dico  che  non  be- 
veno  ambrosia,  né  gustan  nettare ^9,  ma  si  vi  tolgon  la  sete  col 
[49]  basso  de  le  botte  e  vini  rinversati,  se  non  vogliono  far  stima  de 
limfe^°  e  nimfe,  quei  dico  che  sogliono  essere  più  domestici,  fa- 
miliari e  conversabili  con  noi),  come  è  dire  né  il  dio  Bacco,  né 
quel  imbreaco  cavalcator  de  l'asino^^  né  Pane,  né  Vertunno,  né 
Fauno,  né  Priapo,  si  degnano  cacciarmene  una  pagliusca^^  di 
più  e  di  vantaggio  dentro,  quantumque  sogliano  far  copia  de 
fatti  lor  sin  a  i  cavalli 

Elitropio.  -  Troppo  lungo  proemio^^. 

Armesso.  -  Pacienza'-*,  che  la  conclusione  sarà  breve.  Voglio 

22.  Cfr.  Seneca,  Oedipus,  92-93  e  101-102. 

23.  Cfr.  /  Re,  X,  1-3. 

24.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  II,  122-124. 

25.  Cfr.  G.  Bruno,  Candelaio,  V,  17,  p.  395:  «Come  sapea  le  cose  lontane 
Apollonio,  Merlino  e  Malaggigi?». 

26.  Si  tratta  dell'antro  dove,  secondo  il  mito,  il  semidio  Trofonio,  re  di  Or- 
comeno,  pronunziava  i  suoi  oracoli;  cfr.  Erasmo  da  Rotterdam,  Elogio  della 
follia,  I,  ed.  a  cura  di  E.  Garin,  Milano,  1984,  p.  9:  «...  cupi  ed  ansiosi  come  se 
foste  tornati  allora  dall'antro  di  Trofonio»;  Adagia,  II,  III,  yy,  Basilea,  1536,  p. 
260:  «In  antro  Trophonii  vaticinatus  est». 

27.  Espressione  ricorrente  anche  nello  Spaccio,  Dialogo  terzo,  nel  De  l'infi- 
nito. Dialogo  terzo;  Cabala,  Dialogo  secondo,  De  gli  eroici  furori.  Argomento. 

28.  La  stessa  espressione  in  Candelaio,  Proprologo,  p.  280:  «tra  la  pia  e  dura 
matre». 

29.  In  De  gli  eroici  furori.  Argomento,  p.  493,  Bruno  scrive:  «Sileno,  Bacco, 
Pomona,  Vertunno,  il  dio  di  Lampsaco  et  altri  dèi  che  son  dèi  da  tinello,  da 
cervosa  forte  e  vino  rinversato,  ...  non  siedono  in  cielo  a  bever  nettare  e  gustar 
ambrosia  nella  mensa  di  Giove,  Saturno,  Pallade,  Febo  et  altri  simili...». 

30.  Limfe  nel  senso  di  «acque  correnti  o  limpide»  che  il  termine  poteva 
ancora  avere  nel  XVI  secolo. 

31.  Sileno. 

32.  Forma  napoletana. 

33.  Cfr.  P.  Aretino,  Cortegiana,  prima  redazione,  V,  12,  a  cura  di  A.  Ro- 
mano, Milano,  1989,  p.  147:  «Questo  è  stato  un  gran  proemio». 

34.  Forma  dialettale. 


DIALOGO  PRIMO  ÓlQ 

dir  brevemente  che  vi  farò  udir  pareli  ^^^  che  non  bisogna  disci- 
ferarle^^  come  poste  in  distillazione,  passate  per  lambicco,  dige- 
rite dal  bagno  di  maria,  e  subblimate  in  recipe  di  quinta  es- 
senza: ma  tale  quali  m'insaccò  nel  capo  la  nutriccia",  la  quale 
era  quasi  tanto  cotennuta,  pettoruta,  ventruta,  fiancuta  e  nati- 
cuta, quanto  può  essere  quella  londriota,  che  viddi  a  Westme- 
ster,  la  quale  per  iscaldatoio  del  stomaco,  ha  un  paio  di  tettaz- 
ze,  che  paiono  gli  borzacchini'^  del  gigante  san  Sparagorio '^:  e 
che  concie  in  cuoio  varrebono  sicuramente  a  far  due  pive  fer- 
rarese'*''. 

Elitropio.  —  E  questo  potrebe  bastare  per  un  proemio. 

Armesso.  -  Or  su,  per  venire  al  resto,  vorrei  intendere  da 
voi  (lasciando  un  poco  da  canto  le  voci  e  le  lingue  a  proposito 
del  lume  e  splendor  che  possa  apportar  la  vostra  filosofia)  con 
che  voci  volete  che  sia  salutato  particolarmente  da  noi  quel  lu- 
stro di  dottrina,  che  esce  dal  libro  de  La  cena  de  le  ceneri^  quali 
animali  son  quelli,  che  hanno  recitata  La  cena  de  le  ceneri^  di- 
mando se  sono  acquatici,  o  aerei,  o  terrestri,  o  lunatici''^;  e  la-  [51] 
sciando  da  canto  gli  propositi  di  Smitho,  Prudenzio  e  Frulla-*^, 
desidero  di  sapere,  se  fallano  coloro  che  dicono,  che  tu  fai  la 
voce  di  un  cane  rabbioso  et  infuriato'*',  oltre  che  tal  volta  fai  la 
simia,  tal  volta  il  lupo,  tal  volta  la  pica,  tal  volta  il  papagallo, 
tal  volta  un  animale,  tal  volta  un  altro:  meschiando  propositi 
gravi  e  seriosi,  morali  e  naturali,  ignobili  e  nobili,  filosofici  e 
comici. 

FiLOTEO.  -  Non  vi  maravigliate,  fratello,  per  che  questa  non 

35.  Il  tipo  di  sing.  -a,  plur.  -i,  è  frequente  nell'italiano  dei  primi  secoli  e 
ricorrente  in  Bruno. 

36.  Cfr.  il  napoletano  «descifrare». 

37.  Cfr.  il  napoletano  «notriccia». 

38.  Dallo  spagnolo  «borceguì»  e  dall'arabo  «marzuqì»  (cfr.  G.  B.  Pelle- 
grini, Gli  arabismi  nella  lingua  italiana,  «Cultura  e  scuola»  [Roma],  II,  1963, 
n.  7,  p.  50).  Cfr.  B.  Castiglione,  /Z  Cortegiano,  II,  27,  ed.  Maier  cit,  p.  231. 

39.  Per  qualche  mese  del  1579,  Bruno  aveva  soggiornato  a  Noli,  sulla  ri- 
viera ligure  di  Ponente  (cfr.  V.  Spampanato,  Vita  di  Bruno,  Messina,  1921,  rist. 
anastatica  con  una  postfazione  di  N.  Ordine,  Roma,  1988,  p.  270).  Qui,  nella 
chiesa  dedicata  al  martire  san  Paragorio,  oltre  ad  una  colossale  statua  lignea  di 
Cristo,  si  conservava  un  dipinto  che  rappresentava  il  santo  a  cavallo. 

40.  A  Ferrara  viveva  all'epoca  Ippolito  Cricca,  uno  stimatissimo  fabbri- 
cante di  stnimenti  musicali. 

41.  Giuoco  di  parole:  lunatici  al  posto  di  lunari. 

42.  È  uno  degli  interlocutori  secondari  della  Cena. 

43.  Cfr.  G.  Bruno,  Cena,  son.  Al  mal  contento,  p.  429. 


620  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

fu  altro  ch'una  cena  dove  gli  cervelli  vegnono  governati  da  gli 
affetti,  quali  gli  vegnon  porgiuti  dall'efficacia  di  sapori  e  fumi 
de  le  bevande  e  cibi.  Qual  dumque  può  essere  la  cena  materiale 
e  corporale,  tale  conseguentemente  succede  la  verbale  e  spiri- 
tuale: cossi  dumque  questa  dialogale  ha  le  sue  parti  varie  e  di- 
verse, qual  varie  e  diverse  quell'altra  suole  aver  le  sue;  non  al- 
trimente  questa  ha  le  proprie  condizioni,  circonstanze  e  mezzi, 
che  come  le  proprie  potrebbe  aver  quella. 

Armesso.  —  Di  grazia  fate  ch'io  vi  intenda. 

FiLOTEO.  Ivi  (come  è  l'ordinario  et  il  dovero)  soglion  trovarsi 
cose  da  insalata  da  pasto,  da  frutti  da  ordinario,  da  cocina  da 
speciaria'*'^,  da  sani  da  amalati;  di  freddo  di  caldo,  di  crudo  di 
cotto,  di  acquatico  di  terrestre,  di  domestico  di  salvatico,  di  ro- 
ste di  lesso,  di  maturo  di  acerbo;  e  cose  da  nutrimento  solo  e  da 
gusto,  sustanzioze  e  leggieri,  salse  et  insipide,  agreste  e  dolci, 
amare  e  suavi.  Cossi  quivi,  per  certa  conseguenza,  vi  sono  ap- 
parse le  sue  contrarietadi  e  diversitadi,  accomodate  a  contrari!  e 
[53]  diversi  stomachi  e  gusti,  a'  quali  può  piacere  di  farsi  presenti  al 
nostro  tipico  simposio:  a  fine  che  non  sia  chi  si  lamente  di  es- 
servi gionto  in  vano,  et  a  chi  non  piace  di  questo,  prenda  di 
quell'altro. 

Armesso.  -  È  vero:  ma  che  dirai,  se  oltre  nel  vostro  convito, 
ne  la  vostra  cena  appariranno  cose,  che  non  son  buone  né  per 
insalata  né  per  pasto,  né  per  frutti  né  per  ordinario,  né  fredde 
né  calde,  né  crude  né  cotte,  né  vagliano  per  appetito  né  per 
fame,  non  son  buone  per  sani  né  per  ammalati;  e  conviene  che 
non  escano  da  mani  di  cuoco  né  di  speciale? 

FiLOTEO.  —  Vedrai  che  né  in  questo  la  nostra  cena  è  dissi- 
mile a  qualumqu'altra  esser  possa.  Come  dumque  là  nel  più  bel 
del  mangiare,  o  ti  scotta  qualche  troppo  caldo  boccone,  di  ma- 
niera che  bisogna  cacciarlo  de  bel  nuovo  fuora,  o  piangendo  e 
lagrimando  mandarlo  vagheggiando  per  il  palato,  sin  tanto  che 
se  gli  possa  donar  quella  maladetta  spinta  per  il  gargazzuolo  al 
basso;  o  vero  ti  si  stupefa  qualche  dente;  o  te  s'intercepe  la  lin- 
gua che  viene  ad  esser  morduta  con  il  pane;  o  qualche  lapillo  te 
si  viene  a  rompere  et  incalcinarsi  tra  gli  denti,  per  farti  regittar 
tutto  il  boccone;  o  qualche  pelo  o  capello  del  cuoco  ti  s'inve- 

44.  Cfr.  il  napoletano  «speziaria». 


DIALOGO  PRIMO  021 

schia  nel  palato,  per  farti  presso  che  vomire;  o  te  s'arresta  qual- 
che aresta'*^  (jj  pesce  ne  la  canna,  a  farti  suavemente  tussire;  o 
qualch'ossetto  te  s'attraversa  ne  la  gola  per  metterti  in  pericolo 
di  suffocare:  cossi  nella  nostra  cena  (per  nostra  e  comun  disgra- 
zia) vi  si  son  trovate  cose  corrispondenti  e  proporzionali  a 
quelle.  Il  che  tutto  avviene  per  il  peccato  dell'antico  nostro  pro- 
toplaste  Adamc*^,  per  cui  la  perversa  natura  umana  è  condan-  [55] 
nata  ad  aver  sempre  i  disgusti  gionti  a  i  gusti. 

Armesso.  -  Pia  e  santamente.  Or  che  rispondete  a  quel  che 
dicono  che  voi  siete  un  rabbioso  cinico? 

FiLOTEO.  -  Concederò  facilmente,  se  non  tutto,  parte  di  que- 
sto. 

Armesso.  —  Ma  sapete  che  non  è  vituperio  ad  un  uomo 
tanto  di  ricevere  oltraggi,  quanto  di  fame. 

FiLOTEO.  —  Ma  basta  che  gli  miei  sieno  chiamati  vendette,  e 
gli  altrui  sieno  chiamati  offese. 

Armesso.  —  Anco  gli  dèi  son  suggetti  a  ricevere  ingiurie,  pa- 
tir infamie  e  comportar  biasimi:  ma  biasimare,  infamare  et  in- 
giuriare, è  proprio  de  vili,  ignobili,  dappoco  e  scelerati. 

FiLOTEO.  —  Questo  è  vero,  pero  noi  non  ingiuriamo,  ma  ri- 
buttiamo l'ingiurie,  che  son  fatte  non  tanto  a  noi  quanto  a  la 
filosofia  spreggiata,  con  far  di  modo  ch'a  gli  ricevuti  dispiaceri 
non  s'aggiongano  de  gli  altri. 

Armesso.  -  Volete  dumque  parer  cane  che  morde"*^,  a  fin 
che  non  ardisca  ogn'uno  di  molestarvi? 

FiLOTEO.  —  Cossi  è,  perché  desidero  la  quiete,  e  mi  dispiace  il 
dispiacere. 

Armesso.  -  Si,  ma  giudicano  che  procedete  troppo  rigorosa- 
mente. 

FiLOTEO.  —  A  fine  che  non  tornino  un'altra  volta  essi,  et  altri 

45.  Cfr.  il  napoletano  «resta». 

46.  Quest'allusione  al  peccato  di  Adamo  protoplaste  (dal  greco  jiqo- 
TOJiX,aoTÓ5,  «primo  creato»)  è  ironica,  perché  Bruno  ammette  l'esistenza  dei 
preadamiti  e,  soprattutto,  un'origine  naturale  e  plurale  del  genere  umano;  cfr. 
Dialogo  quarto,  p.  702,  nota  19.  Bruno  impiega  l'aggettivo  «protoplastico»  an- 
che nella  Cena,  Proemiale  epistola,  p.  431;  cfr.  inoltre  G.  Bruno,  De  immenso, 
VII,  18,  Op.  lat,  I,  2,  p.  284  (ed.  Monti  cii,  p.  784). 

47.  Comportamento  "cinico"  nel  vero  senso  della  parola  (dal  greco  xùcdv: 
«cane»);  cfr.  G.  Bruno,  Cena,  son.  Al  mal  contento,  p.  429  e  nota  2). 


622  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

imparino  di  non  venir  ad  disputar  meco  e  con  altro,  trattando 
[57]   con  simili  mezzi  termini  queste  conclusioni. 

Armesso.  —  La  offesa  fu  privata,  la  vendetta  è  publica. 

FiLOTEO.  -  Non  per  questo  è  ingiusta:  perché  molti  errori  si 
commetteno  in  privato,  che  giustamente  si  castigano  in  publico. 

Armesso.  —  Ma  con  ciò  venite  a  guastare  la  vostra  riputa- 
zione, e  vi  fate  più  biasmevole  che  coloro;  perché  publicamente 
se  dirà  che  siete  impaziente,  fantastico,  bizarro,  capo  sventato. 

FiLOTEO.  -  Non  mi  curo:  purché  oltre  non  mi  siano  essi  o 
altri  molesti;  e  per  questo  mostro  il  cinico  bastone''*,  acciò  che 
mi  lascino  star  co'  fatti  miei  in  pace;  e  se  non  mi  vogliono  far 
carezze,  non  vegnano  ad  esercitar  la  loro  incivilita  sopra  di  me. 

Armesso.  —  Or  vi  par  che  tocca  ad  un  filosofo  di  star  su  la 
vendetta? 

FiLOTEO.  -  Se  questi  che  mi  molestano  fussero  una  Xantip- 
pC*^,  io  sarei  un  Socrate. 

Armesso.  -  Non  sai  che  la  longanimità  e  pazienza  sta  bene 
a  tutti,  per  la  quale  vegnano  ad  esser  simili  a  gli  eroi  et  emi- 
nenti dèi:  che  secondo  alcuni '^  si  vendicano  tardi,  e  secondo 
altri  51  né  si  vendicano  né  si  adirano? 

FiLOTEO.  -  Ti  inganni  pensando  ch'io  sia  stato  su  la  ven- 
detta. 

Armesso.  -  E  che  dumque? 

FiLOTEO.  -  Io  son  stato  su  la  correzzione,  nell'esercizio  della 
quale  ancora  siamo  simili  a  gli  dèi.  Sai  che  il  povero  Vulcano  è 
[59]  stato  dispensato  da  Giove  di  lavorare  anco  gli  giorni  di  festa  ^2, 
e  quella  maladetta  incudine  non  si  lassa  o  stanca  mai  ad  com- 
portar le  scosse  di  tanti  e  sì  fieri  martelli,  che  non  sì  tosto  è 
alzato  l'uno,  che  l'altro  è  chinato:  per  far  che  gli  giusti  fólgori 
(con  gli  quali  gli  delinquenti  e  rei  si  castigheno)  non  vegnan 
meno. 


48.  Il  bastone  di  cui  si  servivano  i  cinici  greci  per  difendersi  contro  gli 
sberleffi  e  gli  insulti  suscitati  dal  loro  modo  di  vivere;  cfr.  G.  Bruno,  Cena,  son. 
cit 

49.  La  moglie  bisbetica  di  Socrate. 

50.  Allusione  a  Plutarco,  De  sera  numinis  vindicta  (Moralia,  548  a). 

51.  Gli  stoici. 

52.  Al  contrario,  nell'ambito  della  "riforma"  celeste  proposta  dallo  Spaccio, 
Dialogo  primo,  p.  204:  «[Giove]  ha  ordinato  al  suo  fabro  Vulcano,  che  non 
lavore  de  giorni  di  festa». 


DIALOGO  PRIMO  623 

Armesso.  —  È  differenza  tra  voi  et  il  fabro  di  Giove  e  marito 
de  la  ciprigna  dea. 

FiLOTEO.  -  Basta  che  ancora  non  son  dissimile  a  quelli  forse 
nella  pazienza  e  longanimità,  la  quale  in  quel  fatto  ho  esserci- 
tata,  non  rallentando  tutto  il  freno  al  sdegno,  né  toccando  di 
più  forte  sprone  l'ira. 

Armesso.  -  Non  tocca  ad  ogn'uno  di  essere  correttore,  mas- 
sime de  la  moltitudine. 

FiLOTEO.  -  Dite  ancora,  massime  quando  quella  non  lo 
tocca. 

Armesso.  —  Si  dice  che  non  devi  esser  sollecito  nella  patria 
aliena^'. 

FiLOTEO.  —  Et  io  dico  due  cose:  prima,  che  non  si  deve  ucci- 
dere un  medico  straniero,  perché  tenta  di  far  quelle  cure,  che 
non  fanno  i  paesani.  Secondo,  dico  che  al  vero  filosofo  ogni  ter- 
reno è  patria. 

Armesso.  —  Ma  se  loro  non  ti  accettano  né  per  filosofo,  né 
per  medico,  né  per  paesano? 

FiLOTEO.  —  Non  per  questo  mancare  ch'io  sia. 

Armesso.  -  Chi  ve  ne  fa  fede? 

FiLOTEO.  —  Gli  numi  che  me  vi  han  messo,  io  che  me  vi 
ritrovo,  e  quelli  ch'hanno  gli  occhi,  che  me  vi  veggono.  [6i] 

Armesso.  —  Hai  pochissimi  e  poco  noti  testimoni. 

FiLOTEO.  -  Pochissimi  e  poco  noti  sono  gli  veri  medici: 
quasi  tutti  sono  veri  amalati.  Tomo  a  dire,  che  loro  non  hanno 
libertà  altri  di  fare,  altri  di  permettere  che  sieno  fatti  tali  trat- 
tamenti a  quei  che  porgono  onorate  merci:  o  sieno  stranieri  o 
non. 

Armesso.  —  Pochi  conoscono  queste  merci. 

FiLOTEO.  -  Non  per  questo  le  gemme  sono  men  preciose,  e 
non  le  doviamo  con  tutto  il  nostro  forzo  ^-^  defendere  e  farle  de- 
fendere, liberare  e  vendicare,  dalla  conculcazione  de  pie  porcini, 
con  ogni  possibil  rigore.  E  cossi  mi  sieno  propicii  gli  superi,  Ar- 
messo mio,  che  io  mai  feci  di  simili  vendette  per  sordido  amor 
proprio,  o  per  villana  cura  d'uomo  particulare:  ma  per  amor 
della  mia  tanto  amata  madre  filosofia,  e  per  zelo  della  lesa 

53.  In  Inghilterra 

54.  Cfr.  il  napoletano  «fuorzo». 


624  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

maestà  di  quella;  la  quale  da  mentiti  familiari  e  figli  (per  che 
non  è  vii  pedante,  poltron'^  dizzionario,  stupido  fauno,  igno- 
rante cavallo,  che  o  con  mostrarsi  carco  di  libri,  con  allungarsi 
la  barba,  o  con  altre  maniere  mettersi  in  prosopopeia,  non  vo- 
glia intitolarsi  de  la  fameglia)  è  ridutta  a  tale,  che  appresso  il 
volgo  tanto  vai  dire  un  filosofo,  quanto  un  frappone^^,  un  disu- 
tile, pedantaccio,  circulatore,  saltainbanco,  ciarlatano,  buono 
per  servir  per  passa-tempo  in  casa  e  per  spavantacchio  d'ucelli 
a  la  campagna. 

Elitropio.  —  A  dire  il  vero  la  famiglia  de  filosofi  è  stimata 
più  vile,  dalla  maggior  parte  del  mondo,  che  la  famiglia  de  cap- 
pellani; perché  non  tanto  quelli,  assunti  da  ogni  specie  di  gen- 
[63]  taglie,  hanno  messo  il  sacerdocio  in  dispreggio,  quanto  questi, 
nominati  da  ogni  geno  di  bestiali,  hanno  posto  la  filosofia  in 
vilipendio. 

FiLOTEO.  -  Lodiamo  dumque  nel  suo  geno  l'antiquità, 
quando  tali  erano  gli  filosofi,  che  da  quelli  si  promovevano  ad 
essere  legislatori,  consiliarii  e  regi.  Tali  erano  consiliari!  e  regi, 
che  da  questo  essere  s'inalzavano  ad  essere  sacerdoti;  a  questi 
tempi  la  massima  parte  di  sacerdoti  son  tali,  che  son  spreggiati 
essi,  e  per  essi  son  spreggiate  le  leggi  divine:  son  tali  quasi  tutti 
quei  che  veggiamo  filosofi,  che  essi  son  vilipesi,  e  per  essi  le 
scienze  vegnono  vilipese.  Oltre  che  tra  questi  la  moltitudine  de 
forfanti,  come  di  urtiche,  con  gli  contrari  sogni  suole  dal  suo 
canto  ancora  opprimere  la  rara  virtù  e  veritade,  la  qual  si  mo- 
stra a  i  rari. 

Armesso.  -  Non  trovo  filosofo  che  s'adire  sì  per  la  spreggiata 
filosofia,  né  (o  Elitropio)  scorgo  alcuno  sì  affetto  per  la  sua 
scienzia,  quanto  questo  Teofilo  5^:  che  sarrebe  se  tutti  gli  altri 
filosofi  fussero  della  medesima  condizione,  voglio  dire  sì  poco 
pazienti? 

Elitropio.  -  Questi  altri  filosofi  non  hanno  ritrovato  tanto, 

55.  Il  termine  poltrone  qualifica  il  personaggio  eponimo  della  commedia  77 
pedante  di  Francesco  Belo  (atto  I,  se.  i  e  atto  II,  se.  i),  così  come  analoghi 
personaggi  della  Calandra  di  Bibbiena  (atto  I,  se.  2)  e  degli  Ingannati  (atto  III, 
se.  2).  Cfr.  G.  Davico  Bonino,  77  teatro  italiano,  voi.  II,  La  commedia  del  Cinque- 
cento, Torino,  1977,  t  I,  p.  15,  t  II,  pp.  13,  22,  140. 

56.  Napoletanismo. 

57.  Qui,  e  per  tutto  il  resto  del  dialogo,  si  dovrà  leggere  «Filoteo».  Teofilo  è 
il  nome  del  portavoce  di  Bruno  nella  Cena. 


DIALOGO  PRIMO  625 

non  hanno  tanto  da  guardare,  non  hanno  da  difender  tanto: 
facilmente  possono  ancor  essi  tener  a  vile  quella  filosofia  che 
non  vai  nulla,  o  altra  che  vai  poco,  o  quella  che  non  conoscono; 
ma  colui  che  ha  trovata  la  verità,  che  è  un  tesoro  ascoso,  acceso 
da  la  beltà  di  quel  volto  divino,  non  meno  doviene  geloso 
perché  la  non  sia  defraudata,  negletta  e  contaminata,  che  possa 
essere  un  altro  sordido  affetto  sopra  l'oro,  carbuncolo  e  dia- 
mante, o  sopra  una  carogna  di  bellezza  feminile.  [65] 

Armesso.  —  Ma  ritorniamo  a  noi,  e  vengamo  al  quia^^.  Di- 
cono di  voi.  Teofilo,  che  in  quella  vostra  cena  tassate  et  ingiu- 
riate tutta  una  città,  tutta  una  provinzia,  tutto  un  regno. 

FiLOTEO.  —  Questo  mai  pensai,  mai  intesi,  mai  feci:  e  se 
l'avesse  pensato,  inteso,  o  fatto,  io  mi  condennarei  pessimo,  e 
sarrei  apparecchiato  a  mille  retrattazioni,  a  mille  revocazioni,  a 
mille  palinodie;  non  solamente  s'io  avesse  ingiuriato  un  nobile 
et  antico  regno  come  è  questo ^9,  ina  qualsivogli'altro  quantum- 
que  stimato  barbaro:  non  solamente  dico  qualsivoglia  città 
quantumque  diffamata  incivile,  ma  e  qualsivoglia  lignaggio, 
quantumque  divolgato  salvaggio;  ma  e  qualsivoglia  fameglia, 
quantumque  nominata  inospitale:  per  che  non  può  essere  regno, 
città,  prole  o  casa  intiera  la  quale  esser  possa  o  si  deve  presup- 
ponere  d'un  medesimo  umore,  e  dove  non  possano  essere  oppo- 
siti  e  contrarii  costumi;  di  sorte  che  quel  piace  a  l'uno,  non 
possa  dispiacere  a  l'altro. 

Armesso.  -  Certo  quanto  a  me,  che  ho  letto  e  riletto,  e  ben 
considerato  il  tutto  (benché  circa  particolari  non  so  perché  vi 
trovo  alquanto  troppo  effuso)  circa  il  generale  vi  veggo  casti- 
gata, raggionevole  e  discretamente  procedere:  ma  il  rumore  è 
sparso  nel  modo  ch'io  vi  dico. 

Elitropio.  —  Il  rumore  di  questo  et  altro  è  stato  sparso  dalla 
viltà  d'alcuni  di  quei  che  si  senton  ritoccati:  li  quali,  desiderosi 
di  vendetta,  veggendosi  insufficienti  con  propria  raggione,  dot- 
trina, ingegno  e  forza,  oltre  che  fingono  quante  altre  possono 
falsitadi,  alle  quali  altri  che  simili  a  loro  non  posson  porger  (67] 

58.  «Perché»;  parodia  del  linguaggio  della  Scolastica,  che  troviamo  già  in 
P.  Aretino,  Sei  giornate,  I,  i,  ed.  a  cura  di  G.  Aquilecchia,  Roma-Bari,  1975, 
p.  19  oppure  in  Rabelais. 

59.  L'Inghilterra. 


626  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

fede,  cercano  compagnia  con  fare  ch'il  castigo  particolare  sia 
stimato  ingiuria  commune. 

Armesso.  —  Anzi  credo  che  sieno  di  persone  non  senza  giu- 
dicio  e  conseglio,  le  quali  pensano  l'ingiuria  universale,  perché 
manifestate  tai  costumi  in  persone  di  tal  generazione. 

FiLOTEO.  -  Or  quai  costumi  son  questi  nominati,  che  simili, 
peggiori  e  molto  più  strani  in  geno,  specie  e  numero  non  si  tro- 
vino in  luoghi  de  le  parti  e  provinze  più  eccellenti  del  mondo? 
Mi  chiamarete  forse  ingiurioso  et  ingrato  a  la  mia  patria  s'io 
dicesse,  che  simili  e  più  criminali  costumi  se  ritrovano  in  Italia, 
in  Napoli,  in  Nola?  Verrò  forse  per  questo  a  digradir  quella  re- 
gione gradita  dal  cielo,  e  posta  insieme  insieme  talvolta  capo  e 
destra  di  questo  globo,  governatrice  e  domitrice''"  dell'altre  ge- 
nerazioni (e  sempre  da  noi  et  altri  è  stata  stimata  maestra,  nu- 
trice e  madre  de  tutte  le  virtudi,  discipline,  umanitadi,  mode- 
stie e  cortesie),  se  si  verrà  ad  essagerar  di  vantaggio  quel  che  di 
quella  han  cantato  gli  nostri  medesimi  poeti,  che  non  meno  la 
fanno  maestra  di  tutti  vizii^^  inganni,  avarizie  e  crudeltadi? 

Elitropio.  -  Questo  è  certo  secondo  gli  principii  della  vo- 
stra filosofia;  per  i  quali  volete  che  gli  contrarii  hanno  coinci- 
denza ne'  principii  e  prossimi  suggetti'^^:  per  che  que'  medesimi 
ingegni,  che  sono  attissimi  ad  alte,  virtuose  e  generose  imprese, 
se  sian  perversi,  vanno  a  precipitar  in  vizii  estremi.  Oltre  che  là 
si  sogliono  trovare  più  rari  e  scelti  ingegni,  dove  per  il  comune 
sono  più  ignoranti  e  sciocchi;  e  dove  per  il  più  generale  son 
I69]  meno  civili  e  cortesi,  nel  più  particulare  si  trovano  de  cortesie 
et  urbanitadi  estreme:  di  sorte  che  in  diverse  maniere,  a  molte 
generazioni,  pare  che  sia  data  medesima  misura  de  perfezzioni 
et  imperfezzioni. 

FiLOTEO.  -  Dite  il  vero. 

Armesso.  -  Con  tutto  ciò  io  (come  molti  altri  meco)  mi 


60.  Calco  del  latino  «domitrix». 

61.  Cfr.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XVII,  76.  5:  «0  d'ogni  vizio  fetida  sen- 
tina». 

62.  Tema  d'ispirazione  cusaniana  (cfr.  Dialogo  quinto,  p.  737,  e  nota  43  e 
pp.  738,  740  e  note  45,  47,  49,  50).  Cfr.  inoltre  G.  Bruno,  De  immenso,  VII,  io, 
Op.  lat.,  I,  2  (ed.  Monti  cit.,  p.  773):  «In  dialogis  de  causa  principio  et  uno  osten- 
dimus  ut  contraria  coincidant  in  individuo  principio  atque  fine»  («Nei  dialo- 
ghi sulla  Causa  principio  et  uno  abbiamo  dimostrato  come  i  contrari  coinci- 
dano nel  principio  e  nel  termine  indivisibili»). 


DIALOGO  PRIMO  627 

dolgo,  Teofilo,  che  voi  nella  nostra  amorevol  patria  siate  incorsi 
a  tali  suppositi,  che  vi  hanno  porgiuta  occasione  di  lamentarvi 
con  una  cinericia  cena;  che  ad  altri  et  altri  molti  che  vi  avesser 
fatto  manifesto,  quanto  questo  nostro  paese  (quantumque  sia 
detto  da  vostri  penitus  loto  divisus  ab  orbe)^^  sia  prono  a  tutti  gli 
studi  de  buone  lettere,  armi,  cavalleria,  umanitadi  e  cortesie; 
nelle  quali  per  quanto  comporta  de  le  nostre  forze  il  nerbo,  ne 
forziamo  di  non  esser  inferiori  a  nostri  maggiori,  e  vinti  da  le 
altre  generazioni,  massime  da  quelle  che  si  stimano  aver  le  no- 
bilitadi,  le  scienze,  le  armi  e  civilitadi  come  da  natura. 

FiLOTEO.  —  Per  mia  fede,  Armesso,  che  in  quanto  referisci,  io 
non  debbo,  né  saprei  con  le  pareli,  né  con  le  raggioni,  né  con  la 
conscienza  contradirvi,  perché  con  ogni  desterità  di  modestia  e 
di  argomenti  fate  la  vostra  causa.  Però  io  per  voi,  come  per 
quello  che  non  mi  vi  siete  avicinato  con  un  barbaro  orgoglio, 
comincio  a  pentirmi,  e  prendere  a  dispiacere  di  aver  ricevuta 
materia  da  que'  prefati,  di  contristar  voi  et  altri  d'onestissima  et 
umana  complessione:  però  bramarei,  che  que'  dialogi  non  fus- 
sero  prodotti;  e  se  a  voi  piace,  mi  forzarò  che  oltre  non  vengan 
in  luce. 

Armesso.  -  La  mia  contristazione,  con  quella  d'altri  nobilis-  [71] 
simi  animi,  tanto  manca  che  proceda  dalla  divolgazione  de 
quei  dialogi,  che  facilmente  procurarei  che  fussero  tradotti  in 
nostro  idioma:  a  fin  che  servissero  per  una  lezzione  a  quei  poco 
e  male  accostumati,  che  son  tra  noi;  che  forse  quando  vedessero 
con  qual  stomaco  son  presi,  e  con  quai  delineamenti  son  de- 
scritti gli  suoi  discortesi  rancontri,  e  quanto  quelli  sono  mal  si- 
gnificativi, potrebe  essere  che  se  per  buona  disciplina  e  buono 
essempio  che  veggano  ne  gli  megliori  e  maggiori  non  si  voglion 
ritrar  da  quel  camino,  al  meno  vegnano  a  cangiarsi  e  confor- 
marsi a  quelli  per  vergogna  di  essemo  connumerati  tra  tali  e 
quali:  imparando  che  l'onor  de  le  persone  e  la  bravura  non  con- 

63.  Cfr.  Virgilio,  Bue,  I,  66,  in  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  Torino,  1971,  pp. 
78-7^:  «et  penitus  tot  divisos  orbe  Britannos»  («I  Britanni  fuori  dal  mondo»); 
T.  Tasso,  La  Gerusalemme  liberata,  I,  44,  8:  «La  divisa  dal  mondo  ultima  Irlan- 
da»; VII,  67,  5-6:  «un  di  Scozia,  un  d'Irlanda,  ed  un  britanno  /  terre  che  parte 
il  mar  dal  nostro  mondo»;  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  Argomento,  p.  499: 
«perché  dove  si  biasimasse  tutto  Torbe  ...  ma  diviso  da  quello  in  tutto»;  p.  518: 
«penitus  toto  divisim  ab  orbe». 


628  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

siste  in  posser  e  saper  con  que'  modi  esser  molesto,  ma  nel  con- 
trario a  fatto. 

Elitropio.  —  Molto  vi  mostrate  discreto  et  accorto  nella 
causa  de  la  vostra  patria;  e  non  siete  verso  gli  altrui  buoni  uffici 
ingrato  et  irreconoscente:  quali  esser  possono  molti  poveri  d'ar- 
gumento  e  di  consiglio.  Ma  Filoteo  non  mi  par  tanto  aveduto 
per  conservar  la  sua  riputazione  e  defendere  la  sua  persona: 
perché  quanto  è  differente  la  nobiltade  dalla  rusticitade,  tanto 
contrarii  effetti  si  denno  sperare  e  temere  in  un  scita  villano^, 
il  quale  riuscirà  savio,  e  per  il  buon  successo  verrà  celebrato,  se 
partendosi  dalle  ripe  del  Danubio,  vada  con  audace  riprensione 
e  giusta  querela  a  tentar  l'autorità  e  maestà  del  Romano  Se- 
nato, che  dal  colui  biasimo  et  invettiva  sappia  prendere  occa- 
sione di  fabricarvi  sopra  atto  di  estrema  prudenza  e  magnani- 
mitade,  onorando  il  suo  rigido  riprensore  di  statua  e  di  colosso; 
[73]  che  se  un  gentil'uomo  e  senator  romano  per  il  mal  successo 
possa  riuscir  poco  savio,  lasciando  le  amene  sponde  del  suo  Te- 
vere sen  vada,  anco  con  giusta  querela  e  raggionevolissima  ri- 
prensione, a  tentar  gli  scitici  villani,  che  da  quello  prendano 
occasione  di  fabricar  torri,  e  Babilonie  d'argumenti  di  maggior 
viltade,  infamia  e  rusticitade:  con  lapidarlo,  rallentando  alla  fu- 
ria populare  il  freno,  per  far  meglio  sapere  all'altre  generazioni 
quanta  differenza  sia  di  contrattare  e  ritrovarsi  tra  gli  uomini,  e 
tra  color  che  son  fatti  ad  imagine  e  similitudine  di  quelli. 

Armesso.  -  Non  fia  mai  vero,  o  Teofilo,  che  io  debba  o  possa 
stimare,  che  sia  degno,  ch'io  o  altro  che  ha  più  sale  di  me  voglia 
prendere  la  causa  e  protezzione  di  costoro,  che  son  materia  de 
la  vostra  satira,  come  per  gente  e  persone  del  paese,  alla  cui 
difensione  dall'istessa  legge  naturale  siamo  incitati:  perché  non 
confessare  giamai,  e  non  sarò  giamai  altro  che  nemico  de  chi 
affirmasse  che  costoro  sieno  parte  e  membri  de  la  nostra  patria, 
la  quale  non  consta  d'altro  che  di  persone  cossi  nobili,  civili, 
accostumate,  disciplinate,  discrete,  umane,  raggionevoli  come 
altra  qualsivoglia.  Dove,  benché  vegnan  contenuti  questi,  certo 
non  vi  si  trovano  altrimente  che  come  lordura,  feccia,  lettame  e 
carogna;  di  tal  sorte,  che  non  potrebono  con  altro  modo  esser 
chiamati  parte  di  regno  o  di  cittade,  che  la  sentina  parte  de  la 

64.  Lo  scita  era  il  barbaro  par  excellence. 


DIALOGO  PRIMO  629 

nave:  e  però  per  simili  tanto  manca  che  noi  doviamo  risentir- 
ci, che  risentendoci  doveneremmo  vituperosi.  Da  questi  non 
escludo  gran  parte  di  dottori  e  preti,  de  quali  quantumque  al- 
cuni per  mezzo  del  dottorato  doventano  signori,  tutta  volta  per 
il  più  quella  autorità  villanesca  che  prima  non  ardivano  mo-  [75] 
strare,  appresso  per  la  baldanza  e  presunzione,  che  se  gli  ag- 
giunge dalla  riputazion  di  letterato  e  prete,  vegnono  audace  e 
magnanimamente  a  porla  in  campo;  là  onde  non  è  maraviglia 
se  vedete  molti  e  molti,  che  con  quel  dottorato  e  presbiterato 
sanno  più  di  armento,  mandra  e  stalla,  che  quei  che  sono  at- 
tualmente strigliacavallo,  capraio  e  bifolco:  per  questo  non  arrei 
voluto  che  sì  aspramente  vi  fusse^^  portato  verso  la  nostra  Uni- 
versitade^^  ancora,  quasi  non  perdonando  al  generale,  né 
avendo  rispetto  a  quel  che  è  stata,  sarà  o  potrà  essere  per  l'ave- 
nire,  et  in  parte  è  al  presente. 

FiLOTEO.  —  Non  vi  affannate,  perché,  benché  quella  ne  sia 
presentata  per  filo  in  questa  occasione,  tutta  volta  non  fa  tale 
errore  che  simile  non  facciano  tutte  l'altre  che  si  stimano  mag- 
giori, e  per  il  più  sotto  titolo  di  dottori  cacciano  annulati  ca- 
valli et  asini  diademati*^".  Non  gli  foglio  però  quanto  da  princi- 
pio sia  stata  bene  instituita,  gli  belli  ordini  di  studii,  la  gravità 
di  ceremonie,  la  disposizione  de  gli  esercizii,  decoro  de  gli  abiti, 
et  altre  molte  circonstanze  che  fanno  alla  necessità  et  orna- 
mento di  una  academia:  onde  senza  dubio  alcuno  non  è  chi 
non  debba  confessarla  prima  in  tutta  l'Europa,  e  per  conse- 
guenza in  tutto  il  mondo;  e  non  niego  che  quanto  alla  genti- 
lezza di  spirti  et  acutezza  de  ingegni  gli  quali  naturalmente 
l'una  e  l'altra  parte  de  la  Brittannia^^  produce,  sia  simile  e 
possa  esser  equale  a  quelle  tutte  che  son  veramente  eccellentis- 
sime: né  meno  è  persa  la  memoria  di  quel,  che,  prima  che  le 
lettere  speculative  si  ritrovassero  nell'altre  parti  de  l'Europa, 
fiorimo  in  questo  loco,  e  da  que'  suoi  principi  de  la  metafisica 

65.  Cfr.  il  napoletano  «fùsseve». 

66.  L'università  di  Oxford,  attaccata  da  Bruno  nella  Cena  de  le  ceneri. 

67.  Può  essere  sia  un'allusione  ai  dottori  in  generale  (che  portavano  cap- 
pello e  anello),  sia  un'allusione  più  circostanziata  ai  due  interlocutori  inglesi 
della  Cena,  Dialogo  primo,  pp.  441-442:  «Un  de  quali  avea  due  catene  d'oro 
lucente  al  collo;  e  l'altro  (per  Dio)  con  quella  preziosa  mano  (che  contenea 
dodeci  anella  in  due  dita)...». 

68.  Scozia  e  Inghilterra. 


630  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

[77]  (quantumque  barbari ^"^  di  lingua  e  cuculiatilo  di  professione)  è 
stato  il  splendor  d'una  nobilissima  e  rara  parte  di  filosofia^'  (la 
quale  a  tempi  nostri  è  quasi  estinta '2)  diffuso  a  tutte  l'altre  aca- 
demie  de  le  non  barbare  provinze.  Ma  quello  che  mi  ha  mole- 
stato e  mi  dona  insieme  insieme  fastidio  e  riso  è,  che  con  questo 
che  io  non  trovo  più  romani  e  più  attici  di  lingua  che  in  questo 
loco,  del  resto  (parlo  del  più  generale)  si  vantano  di  essere  al 
tutto  dissimili  e  contrarii  a  quei  che  furon  prima,  li  quali  poco 

69.  Cfr.  il  modo  di  considerare  i  «barbaros  hos  philosophos»  nella  polemica 
fra  Pico  della  Mirandola  ed  Ermolao  Barbaro,  segnatamente  nella  lettera  di 
Pico  del  3  giugno  1485,  in:  Prosatori  latini  del  Quattrocento,  a  cura  di  E.  Garin, 
Milano-Napoli,  1952,  pp.  844-863  (e,  per  i  termini  della  disputa,  cfr.  ora  la  Pré- 
face  di  G.  Tognon  a  J.  Pie  De  La  Mirandole,  (Eiivres  philosophiques,  Paris, 
1993,  pp.  XXV-XXVIII).  La  prima  a  dimostrare  quanto  l'atteggiamento  di 
Bruno  fosse  simile  a  quello  di  Pico  è  stata  F.  A.  Yates,  G.  Bruno's  Conflict  with 
Oxford,  «Journal  of  the  Warburg  Institute»  [London],  II,  1938-1939,  pp.  227- 
242,  traduz.  di  M.  De  Martini  Griffin  in  Id.,  G.  Bruno  e  la  cultura  europea  del 
Rinascimento,  Roma-Bari,  1988,  pp.  11-28  (in  partic,  pp.  25-28).  Indipendente- 
mente dalla  sua  critica  attorno  alla  direzione  presa  dalla  Oxford  a  lui  contem- 
poranea, ma  sempre  nel  quadro  della  sua  polemica  antiumanistica.  Bruno 
esprime  lo  stesso  giudizio  al  momento  di  approvare  Paracelso  (cfr.  Dialogo 
terzo,  p.  674):  «uno  che  non  sa  né  di  greco,  né  di  arabico,  e  forse  né  di  latino, 
come  il  Paracelso»)  ed  Averroè  (cfr.  Dialogo  quarto,  p.  715:  «Averroe.  il  qual 
quantumque  arabo  et  ignorante  di  lingua  greca,  nella  dottrina  peripatetica 
però  intese  più  che  qualsivoglia  greco»). 

70.  Assai  comune  nella  critica  antiscolastica,  il  termine  indica  qui  i  filosofi 
medievali  inglesi,  frati  pochissimo  ortodossi,  intinti  di  latino,  che  avevano  in- 
segnato ad  Oxford  (il  domenicano  Robert  Kilwardby,  dal  1248  al  1261;  il  fran- 
cescano Duns  Scoto,  dal  1294  al  1304,  ed  altri).  Pomponazzi  l'ha  impiegato  per 
farsi  beffe  dei  monaci  ostili  alla  sua  interpretazione  della  mortalità  dell'anima 
in  Aristotele  (cfr.  Ex.  Gilson,  L immortalile  de  l'àme  à  Venise  au  XVF  siede,  in: 
Umanesimo  europeo  e  umanesimo  veneziano,  dir.  V.  Branca,  Firenze,  1963,  pp. 
31-61,  in  partic.  p.  35).  Poliziano  aveva  attaccato  i  «Cuculiati,  lignipides,  cincti 
funibus,  superciliosum,  incurvicervicum  pecus»  in  un  prologo  ai  Menaechmi  di 
Plauto  (cfr.  l'ed.  moderna  di  M.  Martelli,  in:  Le  tradizioni  del  testo.  Studi  offerti  a 
D.  De  Robertis,  Milano-Napoli,  1993,  pp.  72-83). 

71.  La  metafisica. 

72.  Sull'orientamento  umanistico  dell'insegnamento  della  filosofia  ad 
Oxford,  ai  tempi  di  Bruno,  si  vedano  le  osservazioni  sparse  di  Ch.  B.  Schmitt 
per  esempio  in  Philosophy  and  Science  in  Sixteenth-Century  Universities:  Some 
preliminary  Comments.  quinto  degli  Studies  in  Renaissance  Philosophy  and 
Science,  London,  1981,  pp.  490  e  nota  20.  517-518,  ed  in  La  tradizione  aristotelica 
fra  Italia  e  Inghilterra,  Napoli,  1985);  cfr.  anche  M.  CuRTis,  Oxford  and  Cambri- 
dge in  Transition:  1558-1642,  Oxford,  1959,  cap.  IV;  J.  E.  C.  Hill,  Le  origini 
intellettuali  della  Rivoluzione  inglese,  traduz.  di  A.  Ca'  Rossa,  Bologna,  1976  (Ap- 
pendice: Nota  sulle  università,  pp.  419-441).  J.  Me  Conica,  Humanism  and  Ari- 
stotle  in  Tudor  Oxford,  «The  English  Historical  Review»  [London],  XCIV,  1979, 
pp.  291-317,  afferma  che  «we  must  revise  our  views  about  the  sharp  break  in 
Oxford  with  medieval  past»  (p.  297).  ma  la  sua  ipotesi  si  fonda  su  una  docu- 
mentazione troppo  scarsa  (e  ambigua)  che  non  arriva  a  intaccare  la  tesi  predo- 
minante che  parla  di  un  orientamento  essenzialmente  umanistico-rinascimen- 
tale  nella  Oxford  di  fine  Cinquecento. 


DIALOGO  PRIMO  63 1 

solleciti  de  l'eloquenza  e  rigor  grammaticale,  erano  tutti  intenti 
alle  speculazioni,  che  da  costoro  son  chiamate  sofismi  ^^:  ma  io 
più  stimo  la  metafisica  di  quelli,  nella  quale  hanno  avanzato  il 
lor  prencipe  Aristotele  (quantumque  impura  et  insporcata  con 
certe  vane  conclusioni  e  teoremi,  che  non  sono  filosofici  né  teo- 
logali, ma  da  ociosi  e  mal  impiegati  ingegni),  che  quanto  pos- 
sono apportar  questi  de  la  presente  etade  con  tutta  la  lor  cice- 
roniana eloquenza  et  arte  declamatoria''''. 

Armesso.  —  Queste  non  son  cose  da  spreggiare. 

FiLOTEO.  —  E  vero,  ma  dovendosi  far  elezzione  de  l'un  de 
doi,  io  stimo  più  la  coltura  de  l'ingegno,  quantumque  sordida  la 
fusse,  che  di  quantumque  disertissime  paroli  e  lingue. 

Elitropio.  —  Questo  proposito  mi  fa  ricordar  di  fra  Ventura: 
il  quale  trattando  un  passo  del  santo  Vangelo  che  dice  «reddite 
quae  sunt  Caesaris  Caesari»''^,  apportò  a  proposito  tutti  gli  nomi 
de  le  monete  che  sono  state  a  tempi  di  Romani,  con  le  loro 
marche  e  pesi,  che  non  so  da  qual  diavolo  di  annale  o  scarta- 
faccio l'avesse  racolti,  che  furono  più  di  cento  e  vinti,  per  fame 
conoscere  quanto  era  studioso  e  retentivo;  a  costui  (finito  il  ser-  [79] 
mone)  essendosegli  accostato  un  uom  da  bene  li  disse:  «Padre 
mio  reverendo,  di  grazia  imprestatemi  un  carlino »'^^  A  cui  ri- 
spose che  lui  era  de  l'ordine  mendicante. 

Armesso.  -  A  che  fine  dite  questo? 

Elitropio.  —  Voglio  dire  che  quei  che  son  molto  versati 

73.  Critica  tradizionalmente  indirizzata  contro  il  pensiero  medievale. 

74.  Nelle  università  dell'epoca  elisabettiana,  gli  studi  spiccatamente  specu- 
lativi erano  stati  soppiantati  da  una  corrente  umanistico-retorica,  del  tutto 
nuova  per  la  cultura  inglese.  Di  fatto,  la  corrente  scientifica  (John  Dee  in  testa, 
fautore  di  Cusano  e  di  Copernico,  ma  legato  pure  alla  tradizione,  vale  a  dire  a 
Roger  Bacon)  passò  da  Oxford  a  Londra.  I  «liberi»  filosofi  elisabettiani  -  fra  i 
quali  Thomas  Digges,  difensore  delle  teorie  copernicane  -  lottarono,  allo  stesso 
modo  di  Bruno,  contro  l'aristotelismo  connesso  alla  corrente  retorica  domi- 
nante nelle  università  Preferendo  l'antica  Scolastica  (R.  Bacon,  Duns  Scoto) 
alla  corrente  moderna,  essi  non  auspicavano  per  questo  un  ritomo  a  posizioni 
medievali,  bensi  piuttosto  lo  sviluppo  di  una  ricerca  speculativa  e  scientifica 
che  s'ispirava  al  «metodo»  della  grande  Scolastica. 

75.  «Rendete  dunque  a  Cesare  quello  che  è  di  Cesare»  (Matteo,  XXII,  21); 
cfr.  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori.  Argomento,  p.  492. 

76.  Antica  moneta  napoletana  (1367)  che,  all'epoca  di  Bruno,  recava  l'effi- 
gie di  Filippo  II;  dieci  carlini  facevano  un  ducato.  Cfr.  G.  Bruno,  Candelaio,  II, 
6  e  III,  II,  pp.  322  e  311.  Gli  scrittori  del  XVI  secolo  erano  appassionati  colle- 
zionisti di  monete  e  medaglie  antiche. 


632  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

circa  le  dizzioni  e  nomi,  e  non  son  solleciti  de  le  cose,  cavalcano 
la  medesima  mula  con  questo  reverendo  padre  de  le  mule. 

Armesso.  —  Io  credo  che  oltre  il  studio  de  l'eloquenza,  nella 
quale  avanzano  tutti  gli  loro  antiqui  e  non  sono  inferiori  a  gli 
altri  moderni,  ancora  non  sono  mendichi  nella  filosofica  et 
altrimente  speculative  professioni;  senza  la  perizia  de  le  qua- 
li non  possono  esser  promossi  a  grado  alcuno:  perché  gli  sta- 
tuti de  l'Università  (alli  quali  sono  astretti  per  giuramento) 
comportano  che  «Nullus  ad  Philosophiae  et  Theologiae  magis- 
terium  et  doctoratum  promoveatur,  nisi  epotaverit  e  fonte  Aristo- 
telìs»'''^. 

Elitropio.  -  Oh,  io  ve  dirò  quel  ch'han  fatto  per  non  esser 
pergiuri.  Di  tre  fontane  che  sono  nell'Università,  a  l'una  han- 
no imposto  nome  Fons  Aristotelis,  l'altra  dicono  Fons  Pythago- 
rae,  l'altra  chiamano  Fons  Platonis^^.  Da  questi  tre  fonti  traen- 
dosi  l'acqua  per  far  la  birra  e  la  cervosa  (de  la  qual  acqua 
pure  non  mancano  di  bere  i  buoi  e  gli  cavalli),  conseguente- 
mente non  è  persona  che  con  esser  dimorata  meno  che  tre  o 
[81]   quattro  giorni  in  que'  studii  e  collegii,  non  vegna  ad  esser 

77.  «Che  nessuno  sia  promosso  al  magistero  o  al  dottorato  di  Filosofia  e 
Teologia  se  non  ha  bevuto  alla  fonte  di  Aristotele»;  non  si  riscontra  nessuna 
formula  simile  negli  Statuta  antiqua  Universitatis  Oxoniensis,  editi  da  Gibson 
(Oxford,  1931);  tuttavia,  per  il  1584  -  anno  di  pubblicazione  del  De  la  causa  - 
vi  si  trova  promulgato  «quod  nullus  licentietur  ad  incipiendum  in  artibus  nisi 
prius  iuret  se  legisse  sex  lectiones  solemnes,  in  naturae  philosophiae  tres,  tres 
in  philosophia  morum»  («che  nessuno  sia  immatricolato  nelle  Arti  se  non  ha 
prima  giurato  di  aver  fatto  le  sei  letture  solenni,  tre  in  filosofia  della  natura  e 
tre  in  filosofia  morale»):  Reformation  of  abuses,  p.  431,  nota  20;  per  l'anno  1586, 
trattandosi  delle  Disputationes  quadrigesimales,  p.  437,  si  ribadisce  che  «vel  Ari- 
stotelem  secundum  vetera  et  laudabilia  universitatis  statuta,  vel  alios  authores 
secundum  Aristotelem  defendendos  esse,  omnesque  steriles  et  inanes  quaestio- 
nes  ab  antiqua  et  vera  philosophia  dissidentes,  a  scholis  escludendas  et  exter- 
minandas»  («Secondo  gli  antichi  e  lodevoli  statuti  dell'università,  si  deve  sia 
difendere  Aristotele  o  gli  altri  antichi  autori  conformi  alla  sua  dottrina,  sia 
escludere  dagli  studi  e  sopprimere  ogni  questione  sterile  e  inane  che  dissenta 
dall'antica  e  vera  filosofia»).  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Tre  schede  su  Bruno  e  Oxford, 
«Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  LXXIV,  1993,  pp-  389-393. 

78.  Ivi,  p.  531,  si  veda  il  documento  del  1619  relativo  all'elezione  dei  pro- 
fessori di  matematica:  «Hos  professores  ...  ordino  ...  fore  perpetuis  temporis  eli- 
gendos  ...  qui,  hausta  prius  ex  Aristotelis  et  Platonis  fontibus  puriore  philo- 
sophia, in  mathematicis  instructissimi  sint»  («Ordino  ...  che  debbano  essere 
eletti  professori  a  vita  ...  coloro  i  quali  dopo  aver  attinto  la  più  pura  filosofia 
alle  fonti  di  Aristotele  e  di  Platone,  siano  più  che  sapienti  nelle  matematiche»); 
si  ignora,  nondimeno,  se  le  «tre  fontane»  siano  realmente  esistite  nella  Oxford 
del  XVI  secolo  o  in  uno  dei  collegi  dell'Università. 


DIALOGO  PRIMO  633 

imbibito  non  solamente  del  fonte  d'Aristotele,  ma  et  oltre  di 
Pitagora  e  Platone. 

Armesso.  —  Oimè  che  voi  dite  pur  troppo  il  vero.  Quindi 
aviene,  o  Teofilo,  che  li  dottori  vanno  a  buon  mercato  come  le 
sardelle:  perché  come  con  poca  fatica  si  creano,  si  trovano,  si 
pescano,  cossi  con  poco  prezzo  si  comprano.  Or  dumque  tale 
essendo  appresso  di  noi  il  volgo  di  dottori  in  questa  etade  (ri- 
serbando però  la  riputazione  d'alcuni  celebri  e  per  l'eloquenza  e 
per  la  dottrina  e  per  la  civil  cortesia,  quali  sono  un  Tobia  Mat- 
theo^^,  un  Culpepero^°  et  altri  che  non  so  nominare),  accade 
che  tanto  manca  che  uno  per  chiamarsi  dottore  possa  esser  sti- 
mato aver  novo  grado  di  nobiltade,  che  più  tosto  è  suspetto  di 
contraria  natura  e  condizione,  se  non  fia  particolarmente  cono- 
sciuto. Quindi  accade  che  quei  che  per  linea  o  per  altro  acci- 
dente son  nobili,  ancor  che  gli  s'aggiunga  la  principal  parte  di 
nobiltà,  che  è  per  la  dottrina,  si  vergognano  di  graduarsi  e  farsi 
chiamar  dottori,  bastandogli  l'esser  dotti:  e  di  questi  arrete  mag- 

79.  Thobias  Matthew  (1526-1628),  preside  del  St.  John'  College  dal  1572  al 
1577,  decano  del  Christ  Church  dal  1576  fino  ai  primi  del  1584,  era  stato  vice- 
cancelliere dell'Università  di  Oxford  nel  1579.  Promosso  decano  di  Durham  il 
31  agosto  1583,  fu  nominato  vescovo  di  York  nel  1606  (cfr.  il  Didionary  of 
National  Biography,  XIII,  pp.  60-63).  Gli  stessi  cattolici  riconoscevano  la  vastis- 
sima cultura  di  questo  convinto  protestante  (cfr.  A.  À  WOOD,  Historiae  et  Anti- 
quitates  Universitatis  Oxoniensis,  Oxford,  1674,  voi.  II,  p.  255). 

80.  Martin  Culpepper,  professore  di  medicina  e  rettore  del  New  College  dal 
1573  al  1599,  decano  di  Chichester  a  partire  dal  1577,  era  stato  vicecancelliere 
dell'Università  di  Oxford  nel  1578  (cfr.  ivi,  voi.  Il,  pp.  133,  149).  Ricordiamo 
che  Culpepper  e  Matthew  erano  tra  i  cinque  dottori  che  ricevettero  ufficial- 
mente ad  Oxford,  il  io  luglio  1583,  il  principe  polacco  Albrecht  taski,  nel  cui 
seguito  si  trovava  lo  stesso  Bruno  (cfr.  Cena,  Dialogo  quarto,  p.  534  e  nota  44). 
Sono  sempre  loro  che,  secondo  G.  Abbot,  intimarono  con  discrezione  a  Bruno 
l'ordine  di  sospendere  il  suo  ciclo  di  lezioni  ad  Oxford  (lezioni  de  quintuplici 
sphaera  e  de  immortalitate  animae,  dove  erano  anticipate  alcune  teorie  esposte 
in  De  la  causa,  non  senza  ricorrere  a  formulazioni  simbolico-speculative  tratte 
dalle  opere,  dalle  traduzioni  e  dai  commenti  di  Marsilio  Ficino,  e  non  senza 
sostenere  la  teoria  copernicana),  una  volta  che  il  Nolano  era  stato  accusato  di 
plagiare  il  De  vita  coelitus  comparanda  del  filosofo  toscano:  cfr.  G.  Abbot,  The 
Reasons  which  Doctour  Hill  hat  brought...,  Oxford,  1604,  p.  88  e,  per  la  restante 
bibliografia,  G.  Aquilecchia,  Le  opere  italiane  di  G.  Bruno:  Critica  testuale  e 
oltre,  Napoli,  1991,  pp.  77-85;  Io.,  G.  Bruno  in  Inghilterra  (1583-1585).  Documenti 
e  testimonianze,  «Bruniana  &  Campanelliana»  [Pisa- Roma],  I,  1995,  pp.  28-39, 
nonché  Id.,  Bruno  at  Oxford  hetween  Aristotle  and  Copernicus,  in:  Giordano  Bruno 
1583-1585.  The  English  Experience/V esperienza  inglese,  Firenze,  1997,  pp.  117- 
124.  Notiamo,  infine,  che  Matthew  e  Culpepper  avevano  rivestito  la  loro  carica 
di  vicecancelliere  nel  periodo  di  cancellierato  di  Robert  Dudley,  Karl  of  Leice- 
ster, la  cui  cerchia  pare  sia  stata  frequentata  da  Bruno  all'indomani  della  sua 
partenza  da  Oxford. 


634  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

gior  numero  ne  le  corti,  che  ritrovar  si  possano  pedanti  nel- 
l'Uni versitade^^ 

FiLOTEO.  -  Non  vi  lagnate,  Ermesso,  perché  in  tutti  luoghi 
dove  son  dottori  e  preti  si  trova  l'una  e  l'altra  semenza  di 
quelli:  dove  quei  che  sono  veramente  dotti  e  veramente  preti, 
benché  promossi  da  bassa  condizione,  non  può  essere  che  non 
sieno  inciviliti  e  nobilitati,  perché  la  scienza  è  uno  esquisitis- 
simo camino  a  far  l'animo  umano  eroico;  ma  quegli  altri  tanto 
più  si  mostrano  espressamente  rustici,  quanto  par  che  vogliano 
o  col  diviim  pater^^  o  col  gigante  Salmonea^^  altitonare,  quando 
[83]  se  la  spasseggiano  da  purpurato^  satiro  o  fauno,  con  quella 
spaventosa  et  imperiai  prosopopeia*',  dopo  aver  determinato 
nella  catedra  regentale,  a  qual  declinazione  appartegna  lo  hic,  et 
haec,  et  hoc  nihil. 

Armesso.  -  Or  lasciamo  questi  propositi.  Che  libro  è  questo 
che  tenete  in  mano?^'' 

FiLOTEO.  -  Son  certi  dialogi. 

Armesso.  -  La  Cenai 

FiLOTEO.  -  Non. 

Armesso.  -  Che  dumque? 

FiLOTEO.  —  Altri,  ne  li  quali  si  tratta  de  la  causa,  principio  et 
uno,  secondo  la  via  nostra. 

Armesso.  —  Quali  interlocutori?  forse  abbiamo  qualch'altro 

81.  Sulla  rottura  con  il  conformismo  umanistico  delle  università  da  parte 
degli  ambienti  di  corte,  si  veda  G.  Aquilecchia,  L'adozione  del  volgare  nei  dia- 
loghi londinesi  di  Bruno.  «Cultura  Neolatina»  [Roma-Modena],  XIII,  1953.  pp. 
165  e  segg.,  ora  in  Schede  bruniane  cit,  pp.  58-61. 

82.  «Il  padre  degli  dèi». 

83.  Cfr.  \ÌRGiLio,  Aen.,  VI.  585-586.  ed.  Carena  cit.  pp.  560-561:  «Vidi  et 
crudelis  dantem  Salmonea  poenas.  /  Dum  flammas  Jovis  et  sonitus  imitatur 
Olympi»  («Vidi  anche  le  crudeli  pene  che  soffre  Salmoneo.  Mentre  le  fiamme 
di  Giove  e  il  fragore  imitava  dell'Olimpo»). 

84.  Fin  dal  Medio  Evo.  la  toga  dei  dottori  universitari  era  rossa  o  color 
porpora  (cfr.  Rashdall,  The  Universities  of  Europe.  Oxford,  voi.  Ili,  1936, 
p.  289). 

85.  Cfr.  G.  Bruno,  Candelaio,  Proprologo,  p.  280  «e  però  è  conveniente  che 
sen  vadino  con  quella  sua  prosopopeia»;  T.  G.^RZONi.  Piazza  universale  di  tutte 
le  professioni  del  mondo,  ed.  a  cura  di  P.  Cherchi  e  B.  Collina,  Torino,  voi.  I, 
1996.  pp.  164-165:  «Che  dirò  della  Prosopopeia  che  spendano  alcuni,  tenendo- 
si per  Idoli  della  Grammatica  per  recitar...  lo  Sco{p)pa,  et  altri  lor  dogmati- 
zanti...». 

86.  Si  riconosce  il  modello  platonico  dell'esordio  dialogico  (cfr.  ad  esempio 
il  Phaedrus).  già  ripreso,  fra  gli  altri,  da  Tasso  ne  II  Nifo.  0  vero  del  Piacere. 


DIALOGO  PRIMO  635 

diavolo  di  Frulla  o  Prudenzio  ^^,  che  di  bel  nuovo  ne  mettano 
in  qualche  briga? 

FiLOTEO.  -  Non  dubitate  che  tolto  uno,  tra  gli  altri,  tutti  son 
suggetti  quieti  et  onestissimi. 

Armesso.  -  Sì  che  secondo  il  vostro  dire  arremo  pure  da 
scardar^^  qualche  cosa  in  questi  dialogi  ancora? 

FiLOTEO.  —  Non  dubitate,  perché  più  tosto  sarrete  grattato 
dove  vi  prore,  che  stuzzicato  dove  vi  duole  ^^. 

Armesso.  -  Pure? 

FiLOTEO.  —  Qua  per  uno  trovarete  quel  dotto,  onesto,  amore- 
vole, ben  creato  e  tanto  fidele  amico  Alessandro  Dicsono^°,  che 
il  Nolano  ama  quanto  gli  occhi  suoi,  il  quale  è  causa  che  questa 
materia  sia  stata  messa  in  campo.  Lui  è  introdutto  come  quello  [85] 
che  porge  materia  di  considerazione  al  Teofilo.  Per  il  secondo 
avete  Teofilo,  che  sono  io,  che  secondo  le  occasioni  vegno  a  di- 
stinguere, definire  e  dimostrare  circa  la  suggetta  materia.  Per  il 
terzo  avete  Gervasio^',  uomo  che  non  è  de  la  professione,  ma 
per  passa-tempo  vuole  esser  presente  alle  nostre  conferenze:  et  è 
una  persona  che  non  odora  né  puzza^^,  e  che  prende  per  come- 
dia  gli  fatti  di  Polihimnio,  e  da  passo  in  passo  gli  dona  campo 
di  fargli  esercitar  la  sua  pazzia.  Questo  sacrilego  pedante ^^ 
avete  per  il  quarto:  uno  de  rigidi  censori  di  filosofi,  onde  si  af- 

87.  Personaggi  della  Cena  de  le  Ceneri. 

88.  Napoletanismo. 

89.  Espressione  proverbiale  ricorrente  nella  letteratura  italiana  del  XVI  se- 
colo (cfr.  Pasquinate  romane  del  Cinquecento,  a  cura  di  V.  Marucci,  A.  Marzo, 
A.  Romano,  presentaz.  di  G.  Aquilecchia,  Roma,  1983,  son.  In  Collegio  ha  pro- 
posto l'Armellino,  w.  lo-ii,  p.  258:  «...  perché  aspetta  /  non  esser  tocco  dove  più 
li  dole»;  P.  Aretino,  Sei  giornate,  II,  i,  ed.  Aquilecchia  cit,  p.  320:  «e  grattan- 
dolo dove  gli  duole»;  p.  320:  «io...  ritocco  dove  le  dole»;  A.  F.  Grazzini,  L'arzi- 
gogolo, III,  i;  Pescetti,  Proverbi  italiani.  Verona,  1598,  p.  37:  «Tu  m'hai  dato, 
dove  mi  duole». 

90.  Su  Dicson,  si  veda  il  Dialogo  secondo,  p.  645,  nota  i. 

91.  Su  Gervasio,  si  veda  il  Dialogo  secondo,  p.  645,  nota  i. 

92.  Espressione  proverbiale.  Cfr.  A.  Calmo,  Lettere,  Torino,  1888,  III,  p.  34: 
«No  spuzza,  ni  no  ulisse,  ni  sa  del  bon». 

93.  Così  come  Mamfurio  nel  Candelaio,  Polihimnio  rappresenta  qui  la  ti- 
pica pedanteria  dei  grammatici,  che  si  distingue  —  almeno  in  parte  —  dalla 
pedanteria  moralistica  raffigurata  dal  personaggio  del  pedante  come  si  ritrova, 
soprattutto,  nella  commedia  italiana  «erudita»  dei  primi  decenni  del  secolo. 
Alla  pedanteria  dei  grammatici,  Polihimnio  -  al  pari  del  pedante  Prudenzio 
nella  Cena  -  aggiunge  una  filosofia  pedissequamente  aristotelica:  egli  è  sim- 
bolo, dunque,  di  quella  cultura  accademica  inglese  contro  cui  Bruno  ha  pole- 
mizzato nelle  pagine  precedenti. 


636  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ferma  Momo^^;  uno  affettissimo  circa  il  suo  gregge  di  scolastici, 
onde  si  noma  nell'amor  socratico^';  uno  perpetuo  nemico  del 
femineo  sesso,  onde  per  non  esser  fisico,  si  stima  Orfeo  ^<',  Museo,  ' 
Titiro  et  Amfione^".  Questo  è  un  di  quelli  che  quando  ti  arran 
fatta  una  bella  construzzione,  prodotta  una  elegante  epistolina, 
scroccata  una  bella  frase  da  la  popina  ciceroniana^^,  qua  è  risu- 
scitato Demostene,  qua  vegeta  Tullio  ^^,  qua  vive  Salustio;  qua  è 
un  Argo  che  vede  ogni  lettera,  ogni  sillaba,  ogni  dizzione;  qua 
Radamanto  umbras  vocat  ille  silentum,  qua  Minoe  re  di  Creta 
urnam  movet^"'^.  Chiamano  all'essamina  le  orazioni,  fanno  di- 
scussione de  le  frase,  con  dire:  «Queste  sanno  di  poeta,  queste  di 
comico,  questa  di  oratore,  questo  è  grave,  questo  è  lieve,  quello 


94.  Il  beffardo  critico  degli  dèi. 

95.  Eufemismo  per  «pederastia»»,  elemento  che  è  uno  dei  bersagli  della 
satira  contro  il  pedante  nella  commedia  cinquecentesca;  cfr.  G.  Bruno,  Spac- 
cio, Dialogo  terzo,  p.  325:  «Tanto  manca  che  Socrate  revelasse  qualche  suo  de- 
fetto,  che  più  tosto  venne  a  lodarsi  tanto  maggiormente  di  continenza,  quando 
approvò  il  giudicio  del  fisionomista  circa  la  sua  naturai  inclinazione  al  spor- 
co amor  di  gargioni».  -  Cfr.  Cicerone,  Tusculanae,  IV,  37,  80  e  De  fato,  5;  G. 
Bruno,  Cabala.  «L'Asino  Cillenico  del  Nolano»,  p.  481:  «v'apporto  l'essempio 
de  Socrate,  giudicato  dal  fisiognomico  Zopiro  per  uomo  stemprato,  stupido, 
bardo,  effeminato,  namoraticcio  de  putti  et  incostante». 

96.  Orfeo,  considerato  da  Ovidio  (Metam.,  X.  83-85)  come  colui  che  aveva 
instaurato  la  pederastia  (cfr.  altresì  A.  Poliziano,  Favola  di  Orfeo,  w.  330  e 
segg.),  è  menzionato  assieme  a  Museo  nella  difesa  che  G.  Pico  fa  dell'amor  pla- 
tonico nel  Commento  e  la  canzone  d'amore  del  Benivieni,  in  G.  Pico,  «De  hominis 
dignitate»  e  altri  scritti,  a  cura  di  E.  Garin,  Firenze,  1942,  p.  538. 

97.  Titiror.  il  pastore  della  prima  Bucolica  di  Virgilio.  -  Amfìone.  marito  di 
Niobe,  re  di  Tebe,  ne  aveva  edificato  le  mura  suonando  la  cetra  (cfr.  Ovidio, 
Metam.,  VI,  178,  271,  402;  XV,  427). 

98.  Cfr.  G.  Bruno,  Candelaio.  Proprologo,  p.  280:  «fanno  venir  a  proposito 
un  versetto  d'Omero,  d'Esiodo,  un  stracciolin  di  Plato  o  Demosthenes  greco»; 
T.  Garzoni,  Piazza  universale,  ed.  Cherchi-Collina  cit,  p.  164:  «alcuni  di  loro, 
gloriosetti  e  savioli,  entrano  in  campo  talora  à  far  del  Tullio  con  una  sentenza 
imparata  a  mente  di  Cicerone». 

99.  Cicerone. 

100.  «  Umbras  vocat  ille  silentum»:  «È  colui  che  convoca  le  ombre  di  chi  non 
ha  pili  voce».  —  «Urnam  movet»:  «agita  l'urna».  Minosse  e  Radamanto  sono 
menzionati  anche  nello  Spaccio,  I,  p.  246;  III,  p.  333:  «  L'inexorabile  tribunal  di 
Radamanto».  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  VI,  432-433,  ed.  Carena  cit,  pp.  550-553: 
«quaesitor  Minos  urnam  movet,  ille  silentum  /  consiliumque  vocat  vitasque  et 
crimina  discit»  («L'inquisitore  Minosse  agita  l'urna,  il  tacito  consiglio  convoca 
e  le  vite  e  le  colpe  ne  scolta»);  VI,  566,  ed.  cit.,  pp.  558-559:  «Cnosius  haec 
Rhadamantus  habet  durissima  regna»  («Radamanto  di  Cnosso  tiene  questi  du- 
rissimi regni»);  si  veda  pure  N.  Franco,  Dialoghi  piacevoli,  f.  49^',  dove  il  pe- 
dante Borgio  dichiara:  «eccoci  Minos,  Eaco,  Radamanto,  non  ignobili  huomini, 
ma  veri  figliuoli  del  padre  Giove,  dei  quali  che  cosa  più  giusta  si  può  trovare?» 
e  L.  Pulci,  Morgante,  XXXI,  90,  2  («...  il  gran  Minòs  e  Rodomanta»). 


DIALOGO  PRIMO  637 

è  sublime,  quell'altro  è  humile  dicendi  genus^"^;  questa  orazione 
è  aspera,  sarrebe  leve  se  fusse  formata  cossi;  questo  è  uno  in- 
fante scrittore,  poco  studioso  de  la  antiquità,  non  redolet  Arpina- 
tem,  desipit  Latium^^^.  Questa  voce  non  è  fosca,  non  è  usurpata 
da  Boccaccio,  Petrarca  et  altri  probati  autori  i^^.  Non  si  scrive  [87] 
"homo",  ma  "omo";  non  "honore",  ma  "onore";  non  "Polihim- 
nio",  ma  "Poliinnio"»i°''.  Con  questo  triomfa,  si  contenta  di  sé, 
gli  piaceno  più  ch'ogn'altra  cosa  i  fatti  suoi:  è  un  Giove  che  da 
l'alta  specula  1*^5  remira,  e  considera  la  vita  de  gli  altri  uomini 
suggetta  a  tanti  errori,  calamitadi,  miserie,  fatiche  inutili;  solo 
lui  è  felice,  lui  solo  vive  vita  celeste,  quando  contempla  la  sua 
divinità  nel  specchio  d'un  spicilegio,  un  dizzionario,  un  cale- 
pino, un  lexico,  un  cornucopia,  un  Nizzolio''^^  Con  questa  suf- 
ici. Lo  «stile  oratorio  umile»  è  il  primo  dei  tre  genera  dicendi  che  Cicerone 
distingue  nella  sua  tripartita  varietas  degli  stili  retorici  (stile  umile  /  stile  medio 
/  stile  sublime). 

102.  «Non  si  sente  l'odore  di  Cicerone  (=  l'Arpinate),  rende  insipida  la  par- 
lata del  Lazio».  Si  ricordi  la  satira  anticiceroniana  del  Ciceronianus  di  Erasmo 
(1528)  ed  in  particolare  come  vi  viene  presentato  il  pedante  Nosopono,  anche 
se  Erasmo  preferisce  trarre  la  sua  fraseologia  piuttosto  dal  latino  cristiano,  che 
dai  luoghi  classici,  qui  e  altrove  ridicolizzati  da  Bruno. 

103.  Queste  parole  rientrano,  di  solito,  nei  titoli  di  opere  lessicografiche 
coeve  (cfr.  ad  esempio  lo  Spicilegium  di  L.  G.  Scoppa,  edito  per  la  prima  volta 
nel  1511,  «ex  ...  multisque  aliis  probatissimis  autoribus»). 

104.  Nella  sua  satira  sopra  il  pedante.  Bruno  trova  l'occasione  di  manife- 
stare la  sua  opposizione  alle  proposte  innovatrici  dei  grammatici  contempora- 
nei (Trissino,  Tolomei,  Varchi  e  Salviati).  I  «Grammatici»  e  «Pedanti»  descritti 
da  T.  Garzoni,  Piazza  universale,  ed.  Cherchi-Collina  cit,  p.  163,  si  chiedono  a 
loro  volta:  «se  Vh  è  lettera  o  veramente  nota  d'aspirazione». 

105.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  Ili,  239;  X,  454. 

106.  Cfr.  G.  Bruno,  De  minimo.  III,  i,  Op.  lai.,  I,  3,  p.  236  (ed.  Monti  cit, 
p.  182).  La  stessa  presentazione  caricaturale  del  pedante  si  leggeva  già  in 
N.  Franco,  Dialoghi  piacevoli  cit,  f.  51,  e  verrà  in  seguito  ripresa  da  T.  Garzoni, 
Piazza  universale,  ed.  Cherchi-Collina  cit,  pp.  158-169  (e  cfr.  ivi  le  note  di  P.  Cher- 
chi).  -  Spicilegio  è  un  riferimento  all'op.  cit  di  L.  G.  Scoppa.  -  Calepino:  dal  nome 
del  lessicografo  Ambrogio  Calepino,  autore  di  un  Dictionarium  (la  cui  prima  edi- 
zione risale  a  prima  del  15 io),  ristampato  nel  XVI  secolo  tanto  spesso  che  «cale- 
pino» divenne  sinonimo  di  «dizionario»  (cfr.  L.  Balsamo,  //  dizionario  di  A.  Ca- 
lepino, «La  Bibliofilia»  [Firenze],  LXXX,  1978,  p.  94;  A.  Gallina,  Contributi  alla 
storia  della  lessicografia  italo-spagnola  dei  secoli  XVI  e  XVII,  Firenze,  1959,  cap.  7). 
-  Cornucopia  (il  mitico  «corno  dell'abbondanza»):  allusione  a  N.  Perotti,  Cornu- 
copiae  sive  commentaria  linguae  latinae,  Venetia,  1489,  con  frequenti  riedizioni  nel 
XV  e  XVI  secolo  (cfr.  A.  Mercati,  Per  la  cronologia  della  vita  e  degli  scritti  di  N. 
Perotti  Arcivescovo  diSiponto,  Roma,  1925).  In  Dolce,  Ragazzo,  II,  6,  il  pedante  cita 
la  «cornucopia»  ed  il  «calepino»  come  autorità  linguistiche.  -  Nizzolia  cioè  il 
fortunato  lessico  ciceroniano  composto  da  Mario  Nizzoli,  Observationum  in  M. 
T.  Ciceronem  Prima  [Secunda]  Pars,  Prato  Alboino,  1535,  e  successive  edizioni  col 
titolo  di  Thesaurus  ciceronianus  (cfr.  Q.  Breen,  Introduction  a  M.  NizoLio,  De  veris 
principiis,  Roma,  1956,  pp.  XV-LXXIV;  A.  Gallina,  Contributi  cit,  cap.  14). 


638  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ficienza  dotato,  mentre  ciascuno  è  uno,  lui  solo  è  tutto.  Se  avien 
che  rida,  si  chiama  Democrito;  s'avien  che  si  dolga,  si  chiama 
Eraclito  ^^^;  se  disputa,  si  chiama  Crisippo;  se  discorre,  si  noma 
Aristotele;  se  fa  chimere,  si  appella  Platone;  se  mugge  un  ser- 
moncello,  se  intitula  Demostene;  se  construisce  Virgilio,  lui  è  il 
Marone^o^.  Qua  correge  Achille,  approva  Enea,  riprende  Ettore, 
esclama  centra  Pirro,  si  condole  di  Priamo,  arguisce  Turno, 
iscusa  Didone  1°^,  comenda  Acate,  et  in  fine  mentre  verhum  verbo 
reddit^^'^  et  infilza  salvatiche  sinonimie,  nihil  divinum  a  se  alie- 
num  putat^^^:  e  cossi  borioso  smontando  da  la  sua  catedra,  come 
colui  ch'ha  disposti  i  cieli,  regolati  i  senati,  domati  eserciti,  ri- 
formati i  mondi,  è  certo  che  se  non  fusse  l'ingiura  del  tempo, 
farrebe  con  gli  effetti  quello  che  fa  con  l'opinione.  O  tempora,  0 
mores\^^^  Quanti  son  rari  quei  che  intendeno  la  natura  de  par- 
ticipii,  de  gli  adverbii,  delle  coniunczioni.  Quanto  tempo  è 
scorso  che  non  s'è  trovato  la  raggione  e  vera  causa,  per  cui 
l'adiectivo  deve  concordare  col  sustantivo,  il  relativo  con  l'an- 
tecedente deve  coire,  e  con  che  regola  ora  si  pone  avanti,  ora 
[89I   addietro '1^  de  l'orazione;  e  con  che  misure  e  quali  ordini  vi  s'in- 

107.  Tema  classico  (cfr.  Seneca,  De  ira.  II,  X,  5;  Giovenale,  Sai.,  X,  28-30; 
Luciano,  Vitanim  audio,  XII  [533])  e,  successivamente,  umanistico  (cfr. 
L.  Carbone,  Facezie,  edite  da  A.  el  K.  Salza,  Livorno,  1900,  XXXI,  p.  29;  Era- 
smo DA  Rotterdam,  Elogio  della  follia,  ed.  Garin  cit.,  p.  4  e  nota  2),  già  utiliz- 
zato a  proposito  del  pedante  da  N.  Franco,  Dialoghi  piacevoli,  f.  ^1^.  Cfr.  inol- 
tre A.  Fregoso,  Riso  de  Democrito  e  pianto  de  Heraclito,  più  volte  ristampato 
nel  XVI  secolo.  Sul  tema  del  riso  di  Democrito  in  età  classica,  cfr.  Ippocrate, 
Sul  riso  e  la  follia,  a  cura  di  Y.  Hersant,  Palermo,  1991;  P.  Guaragnella,  Le 
maschere  di  Democrito  e  Eraclito,  Bari,  1990;  N.  Ordine,  La  cabala  dell'asino  cit, 
p.  115-116  e  159;  T.  Rutten,  Demokritlachender  Philosoph  und  sanguinischer 
Melancholiker,  Leiden,  1992. 

108.  Raddoppiamento  satirico  del  nome  del  grande  poeta  latino  Virgilio 
Marone. 

109.  Cfr.  Giovenale,  Sat.,  VI,  435,  ed.  in  Persio-Giovenale,  Satire,  a  cura 
di  P.  Frassinetti  e  L.  Di  Salvo,  Torino,  1979,  pp.  280-281:  «...  periturae  ignoscit 
Elissae»  («Giustifica  Didone  risoluta  al  suicidio»). 

no.  «Traduce  parola  per  parola». 

111.  «Ritiene  che  tutto  ciò  che  capita  agli  dèi  tocchi  anche  a  lui».  Parafrasi 
parodica  di  Terenzio,  Heautontimoroumenos,  I,  i,  yj:  «Homo  sum;  nihil  hu- 
mani  a  me  alienum  puto»  (traduz.  di  V.  Soave,  Torino,  1953,  p.  106:  «Sono  un 
uomo,  e  tutto  ciò  che  capita  agli  uomini  tocca  anche  a  me»). 

112.  «Che  tempi!  che  costumi!»  (Cicerone,  In  Catil.,  I,  2,  in  Le  orazioni,  ed. 
a  cura  di  A.  Bellardi,  Torino,  voi.  II,  1981,  pp.  686-687). 

113.  Doppio  senso  sessuale  nello  stile  di  P.  Aretino.  Sei  giornate,  I,  2,  ed. 
Aquilecchia  cit.,  p.  82:  «quei  della  scuola  vogliono  che  il  K  si  metta  dietro  al 
libro,  e  non  dinanzi»,  preparato  -  poco  più  in  alto  -  dal  verbo  coire  (lett: 
«congiungersi»)  e  amplificato  dalle  successive  «interieczione  dolenfis,  gauden- 


DIALOGO  PRIMO  639 

termesceno  quelle  interieczione  dolentis,  gaudentis^^'^,  «heu», 
«oh»,  «ahi»,  «ah»,  «hem»,  «ohe»,  «hui»,  et  altri  condimenti, 
senza  i  quali  tutto  il  discorso  è  insipidissimo? 

Elitropio.  —  Dite  quel  che  volete,  intendetela  come  vi  piace, 
io  dico  che  per  la  felicità  de  la  vita  è  meglio  stimarsi  Creso  et 
esser  povero,  che  tenersi  povero  et  esser  Creso.  Non  è  più  con- 
venevole alla  beatitudine  aver  una  zucca,  che  ti  paia  bella  e  ti 
contente  1^5^  che  una  Leda,  una  Elena,  che  ti  dia  noia  e  ti  vegna 
in  fastidio?  Che  dumque  importa  a  costoro  l'esser  ignoranti  et 
ignobilmente  occupati,  se  tanto  son  più  felici,  quanto  più  sola- 
mente piaceno  a  se  medesimi?  Cossi  è  buona  l'erba  fresca  a 
l'asino,  l'orgio^'^  al  cavallo,  come  a  te  il  pane  di  puccia  e  la 
perdice^^^;  cossi  si  contenta  il  porco  de  le  ghiande  et  il  brodo  ^^^ 
come  un  Giove  de  l'ambrosia  e  nettare.  Volete  forse  toglier  co- 
storo da  quella  dolce  pazzia,  per  la  qual  cura  appresso  ti  derre- 
bono  rompere  il  capo?  Lascio  che,  chi  sa  se  è  pazzia  questa,  o 
quella?  Disse  un  pirroniano:  «Chi  conosce  se  il  nostro  stato  è 
morte,  e  quello  di  quei  che  chiamiamo  defunti  è  vita?»'^^.  Cossi 
chi  sa  se  tutta  la  felicità  e  vera  beatitudine  consiste  nelle  debite 
copulazioni  et  apposizioni  de  membri  de  l'orazioni? 

Armesso.  —  Cossi  è  disposto  il  mondo:  noi  facciamo  il  Demo- 
crito sopra  gli  pedanti  e  grammatisti,  gli  solleciti  cortegiani 
fanno  il  Democrito  sopra  di  noi,  gli  poco  penserosi  monachi  e 

tis»:  cfr.  G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo  terzo,  p.  330:  «Perché  l'adiettivo  accade 
che  si  pona  davanti  et  appresso  al  sostantivo?». 

114.  Cfr.  J.  Despautères,  Commentarti  Grammatici,  Paris,  1537,  p.  19,  che 
redige  un  elenco  di  queste  interiezioni:  «heu»  (dolentis),  «oh»  (gaudentis),  «ah» 
(dolentis,  exclamantis,  expavescentis),  «ohe»  (satiati). 

115.  È  da  notare  che  il  motto  posto  sul  ritratto  di  John  Florio,  identifica- 
bile col  personaggio  di  Elitropio,  era  «Chi  si  contenta  gode»;  cfr.  F.  A.  Yates, 
/.  Florio  cit,  p.  102  (il  ritratto  si  vede  oggi  riprodotto  in  J.  Florio,  Giardino  di 
Ricreazione,  a  cura  di  L.  Gallesi,  Milano,  1993,  p.  4). 

116.  Cfr.  il  francese  «orge»  ed  il  napoletano  «vorgio». 

117.  Pane  di  puccia:  così  L.  G.  Scoppa,  Spicilegium  cit,  traduce  «Panis  pri- 
marius».  —  Perdice.  latinismo  che  si  ritrova  in  Sannazaro  ed  Ariosto. 

118.  Cfr.  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  I,  4,  p.  595:  «Cossi  il  porco  non  può 
desiderar  esser  uomo,  né  quelle  cose  che  son  convenienti  all'appetito  umano  ... 
perché  l'affetto  seguita  la  raggion  della  specie». 

119.  Cfr.  Diogene  Laerzio,  IX,  11,  72-73  (traduz.  di  M.  Gigante,  Roma- 
Bari,  voi.  II,  1976,  p.  384:  «Ed  Euripide  dice:  "Chi  sa  se  il  vivere  non  sia  morire 
e  se  il  morire  non  sia  quel  che  i  mortali  credono  vita?»).  G.  Cardano,  Prae- 
cepta  ad  filios,  cap.  5,  art.  3,  ed.  L.  Firpo,  «Studia  Oliveriana»  [Pesaro],  III,  1956, 
p.  21:  «Cogitate  quod  vita  hominis  mors  est  et  mors  vita». 


640  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

preti  democriteggiano  1^*^  sopra  tutti;  e  reciprocamente  gli  pe- 
[91]   danti  si  beffano  di  noi,  noi  di  corteggiani,  tutti  de  gli  monachi: 
et  in  conclusione  mentre  l'uno  è  pazzo  a  l'altro,  verremo  ad  es- 
ser tutti  differenti  in  specie,  e  concordanti  in  genere  et  numero  et 

FiLOTEO.  —  Diverse  per  ciò  son  specie  e  maniere  de  le  cen- 
sure; vani  son  gli  gradi  di  quelle:  ma  le  più  aspre,  dure,  orribili 
e  spaventose  son  de  gli  nostri  archididascali;  però  a  questi  do- 
viamo piegar  le  ginocchia,  chinar  il  capo,  converter  gli  occhi  et 
alzar  le  mani,  suspirar,  lacrimar,  esclamare  e  dimandar  mer- 
cede. A  voi  dumque  mi  rivolgo,  o  chi  1^2  portate  in  mano  il  ca- 
duceo di  Mercurio,  per  decidere  ne  le  controversie,  e  determi- 
nate le  questioni  ch'accadeno  tra  gli  mortali  e  tra  gli  dèi;  a  voi 
Menippi,  ch'assisi  nel  globo  de  la  luna  con  gli  occhi  ritorti  e 
bassi  ne  mirate,  avendo  a  schifo  e  sdegno  i  nostri  gesti;  a  voi 
scudieri  di  Pallade,  antesignani  di  Minerva,  castaidi  di  Mercu- 
rio, magnariii23  di  Giove,  collattanei  d'Apollo,  manuarii  d'Epi- 
meteo^^-^,  botteglieri  di  Bacco,  agasoni  de  le  Evante^^^,  fustiga- 
tori de  le  Edonidei26^  impulsori  de  le  Tiade'^^,  subagitatori  ^2* 
de  le  Menadi,  subomatori  de  le  Bassaridi  1^^,  equestri  de  le  Mim- 

120.  È  come  dire  «ridono  della  vanità  del  mondo».  Democriteggiare  (così 
come  il  suo  contrario:  eraditizzare)  è  un  verbo  frequentemente  usato  nel  Rina- 
scimento: cfr.  ad  esempio  F.  Rabelais,  Gargantiia,  XX  (traduz.  di  G.  Nicoletti 
in  Id.,  Opere,  Torino,  voi.  I,  1963,  p.  75:  in  Ponocrate  ed  Eudemone  «si  vede- 
vano rappresentati  e  Democrito  eraclitizzante  e  Eraclito  democritizzante»). 

121.  «In  genere,  in  numero  e  in  caso». 

122.  «O  voi  che».  La  stessa  accezione  ha  il  pronome  relativo  «chi»  nel  Can- 
delaio, p.  422  e  nello  Spaccio,  Dialogo  terzo. 

123.  Cfr.  L.  G.  Scoppa,  Spicilegium,  art.  Magnarius. 

124.  Cfr.  Calepino,  Onomasticon,  1551:  «Epimetheus  ...  Promethei  frater, 
qui  ingenio  valens,  hominis  statuam  primus  ex  luto  finxit». 

125.  Da  Evoè,  il  grido  delle  baccanti. 

126.  Deliranti  sacerdotesse  di  Bacco;  il  loro  nome  proviene  dal  monte 
Edon,  in  Tracia. 

127.  Il  thiasus  era  la  danza  in  onore  di  Bacco,  cfr.  Virgilio,  Aen.,  IV,  300- 
303,  ed.  Carena  cit,  pp.  448-449:  «Saevit  inops  animi  totamque  incensa  per 
urbem  /  bacchatur,  qualis  commotis  excita  sacris  /  Thyas,  ubi  audito  stimu- 
lant  trieterica  Baccho  /  orgia  noctumusque  vocat  clamore  Cithaeron»  («[Dido- 
ne]  si  scatena,  priva  di  senno,  e  ovunque  infiammata,  per  la  città  va  infu- 
riando, come  al  muoversi  dei  sacri  arredi  si  eccita  la  tiade,  quando,  udito  il 
grido  di  Bacco,  la  pungola  l'orgia  triennale  e  col  notturno  grido  la  chiama  il 
Citerone»). 

128.  Dal  latino  subigitare  («palpare»).  Il  senso  erotico  del  termine  -  anche 
in  E.  S.  PiccoLOMiNi,  Chrysis,  XVIII  -  rimonta  a  Plauto  (cfr.  G.  Vorberg, 
Glossarium  eroticum,  Hanau  Main,  1965). 

129.  Sacerdotesse  di  Bacco.  Secondo  L.  G.  Scoppa,  Spicilegium,  p.  108  D-E, 


DIALOGO  PRIMO  64 1 

mallonidi^'°,  concubinarii  de  la  nimfa  Egeria,  correttori  de  l'in- 
tusiasmo,  demagoghi  del  popolo  errante,  disciferatori  di  Demo- 
gorgone i^\  Dioscori  de  le  fluttuanti  discipline,  tesorieri  del  Pan- 
tamorfo^^^,  e  capri  emissarii  del  sommo  pontefice  Aron^^^:  a  voi 
raccomandiamo  la  nostra  prosa,  sottomettemo  le  nostre  muse, 
premisse,  subsumpzioni,  digressioni,  parentesi,  applicazioni, 
clausule,  periodi,  costruzzioni,  adiettivazioni,  epitetismi.  O  voi 
suavissimi  aquarioli,  che  con  le  belle  eleganzucchie  ne  furate 
l'animo,  ne  legate  il  core,  ne  fascinate  la  mente,  e  mettete  in  [93] 
prostribulo  ^^"^  le  meretricole  anime  nostre:  riferite  a  buon  con- 
seglio  i  nostri  barbarismi,  date  di  punta  a'  nostri  solecismi,  tu- 
rate le  male  olide  voragini,  castrate  i  nostri  Sileni,  imbracate  gli 
nostri  Noemi  1^5^  fate  eunuchi  di  nostri  macrologi,  rappezzate  le 
nostre  eclipsi,  affrenate  gli  nostri  taftologi,  moderate  le  nostre 
acrilogie,  condonate  a  nostre  escrilogie,  iscusate  i  nostri  perisso- 

esse  prendevano  questo  nome  da  una  lunga  veste  proveniente  «a  bassareo  Ly- 
diae  loco»  («da  un  luogo  della  Lidia  chiamato  Bassareo»). 

130.  Baccanti;  cfr.  Ovidio,  Ars  amatoria,  I,  539,  in  Opere  /.  a  cura  di 
A.  Della  Casa,  Torino,  1982,  pp.  520-521:  «Ecce,  Mimalonides  sparsis  in  terga 
capillis»  («Ecco,  le  Mimallonidi  con  i  capelli  sparsi  sulle  spalle»);  p.  541: 
«Ebrius  ecce  senex  ...  Dum  sequitur  Bacchas,  Bacchae  fugiuntque  petuntque, 
Quadrumpedem  ferula  dum  malus  urget  eques»  («Ecco  ubriaco  il  vecchio  [Si- 
leno] ...  Mentre  insegue  le  Baccanti,  le  Baccanti  al  tempo  stesso  fuggono  e  lo 
assaltano,  mentre,  maldestro  cavaliere,  mette  alla  frusta  il  suo  quadrupede»). 

131.  Interpreti  di  un'enigmatica  divinità;  cfr.  Roscher,  Lexicon,  I,  p.  987.  D'al- 
tra parte,  l'interpretazione  di  G.  Boccaccio,  Genealogia,  I,  Prohemium,  ed.  a 
cura  di  V.  Romano,  Bari,  1951,  voi.  I,  pp.  13-15  («Demogorgon»  significherebbe 
«deorum  omnium  gentilium  proavus»:  «antenato  di  tutti  gli  dèi  pagani»)  ri- 
scosse grande  successo  durante  il  Rinascimento:  cfr.  M.  M.  Boiardo,  Orlando 
innamorato,  II,  13,  26-29;  L.  Ariosto,  Cinque  canti,  I,  4.  Secondo  A.  NowiCKi, 
Giovanni  Bracesco  e  l'antropologia  di  Bruno,  «Logos»  [Napoli],  1969,  pp.  589-627, 
che  studia  la  presenza  di  Demogorgon  nelle  opere  di  Boccaccio,  Bracesco, 
Bruno  e  Robert  Fludd,  l'espressione  «disciferatori  di  Demogorgone»  indica  gli 
alchimisti.  Cfr.  G.  Bruno,  Lampas  triginta  statuarum,  «De  Demogorgone,  id  est 
habitudine  seu  relatione»  nonché  «Ex  Demogorgonis  atrio»,  Op.  lai.,  Ili,  pp. 
131-135  e  251-252. 

132.  Vale  a  dire  r«onniforme»  oppure  il  «Principio  di  tutte  le  forme».  Cfr. 
Thesaurus  graecae  linguae:  «  navTÓ(xoQ(jjog;  vitiose  prò  nuvxóuoQq^iog...»  (con  rin- 
vio ad  Ermes  Trismegisto,  Tract.  XI,  §  16).  Cfr.  G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo 
secondo,  p.  285:  «[L'avarizia]  La  mi  par  certo  il  pantamorfo  de  gli  animali 
bruti...  è  una  bestia  moltiforme».  Si  veda  inoltre  il  riferimento  tratto  dalla  ca- 
bala ebraica  air«infinitum  aliquod  principium,  quod  vocant  ensoph,  e  quo  sta- 
tim  emanat  Primigenitus  Pantamorphon,  sive  princeps  facierum»  nella  tarda 
Ars  Magna  di  Elia  Astorini  (cfr.  E.  Garin,  Dal  Rinascimento  alV Illuminismo, 
Pisa,  1970,  p.  145). 

133.  Cfr.  Levitico,  Vili,  18  e  segg. 

134.  Dal  latino  «prostibulum»  e  dall'italiano  «postribolo». 

135.  Ubriaco,  Noè  si  era  mostrato  ignudo  ai  suoi  figli;  cfr.  Genesi,  IX,  22. 


642  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

logi,  perdonate  a'  nostri  cacocefati'^^  Tomo  a  scongiurarvi  tutti 
in  generale,  et  in  particulare  te,  severo,  supercilioso  e  salvaticis- 
simo  maestro  Polihimnio:  che  dismettiate  quella  rabbia  contu- 
mace, e  quell'odio  tanto  criminale,  contra  il  nobilissimo  sesso 
femenile;  e  non  ne  turbate  quanto  ha  di  bello  il  mondo,  et  il 
ciel  con  suoi  tanti  occhi  scorge.  Ritornate  ritornate  a  voi,  e  ri- 
chiamate l'ingegno,  per  cui  veggiate  che  questo  vostro  livore 
non  è  altro  che  mania  espressa  e  frenetico  furore.  Chi  è  più  in- 
sensato e  stupido,  che  quello  che  non  vede  la  luce?  Qual  pazzia 
può  esser  più  abietta,  che  per  raggion  di  sesso,  esser  nemico  al- 
l'istessa  natura,  come  quel  barbaro  re  di  Sarza'^^,  che  per  aver 
imparato  da  voi,  disse: 

Natura  non  può  far  cosa  perfetta, 
poi  che  natura  femina  vien  detta"*. 

Considerate  alquanto  il  vero,  alzate  l'occhio  a  l'arbore  de  la 
scienza  del  bene  et  il  male'^^,  vedete  la  contrarietà  et  opposi- 
zione ch'è  tra  l'uno  e  l'altro:  mirate  chi  sono  i  maschi,  chi  sono 
le  temine.  Qua  scorgete  per  suggetto  il  corpo  ch'è  vostro  amico, 
maschio;  là  l'anima  ch'è  vostra  nemica,  femina.  Qua  il  maschio 

136.  Per  una  definizione  dei  vizi  del  linguaggio  menzionati  qui  da  Bruno 
(tutti  termini  ben  attestati  nel  lessico  greco  della  retorica),  cfr.  Donato,  Ars 
grammatica,  ed.  Keil,  pp.  394  e  segg.  e  J.  Despautères,  Commentarti  Grammatici 
cit.,  pp.  606  e  segg.  -  Acrilogia:  «discorso  improprio»:  escrilogia:  «discorso 
osceno  o  ingiurioso»;  perissologia  «discorso  vanamente  minuzioso»;  cacocefator. 
contaminazione  burlesca  dei  sinonimi  greci  x.axócfatov  e  xaxé|i(paTov  (o 
xaxÉcpaiov)  che  significano  «parola  o  discorso  osceno». 

137.  Rodomonte,  celebre  personaggio  àéìVOrlando  furioso.  Cfr.  G.  Bruno, 
Cena,  Dialogo  secondo,  p.  469  e  nota  13. 

138.  Bruno  ha  leggermente  mutilato  due  versi  di  L.  Ariosto,  Orlando  fu- 
rioso, XXVII,  120,  7-8:  «veggo  che  non  può  far  cosa  perfetta,  /  poi  che  Natura 
femina  vien  detta». 

139.  Dietro  questa  allusione  all'Albero  del  Paradiso,  è  questione  della  disci- 
plina coltivata  da  Polihimnio  stesso:  la  grammatica;  tutta  la  dimostrazione  che 
segue  è  dunque  satirica,  poiché  confuta  la  posizione  del  pedante,  usando  i  suoi 
stessi  argomenti.  Bruno  esprime  ciò  che  pensa  realmente  delle  donne  nell'epi- 
stola a  Sidney  che  apre  De  gli  eroici  furori  In  De  la  causa,  la  critica  bruniana 
va  inquadrata  nella  satira  contro  il  pedante  (si  veda  l'inizio  del  Dialogo  terzo  ed, 
in  particolare,  le  equivalenze  aristoteliche  maschio  =  forma;  femmina  =  ma- 
teria), mentre,  scrivendo  a  Sidney,  Bruno  parla  più  spiccatamente  della  donna 
come  di  un  soggetto  per  il  quale  non  si  addice  la  poesia  lirica  che  dovrebbe 
essere  riservata  all'esaltazione  delle  verità  filosofiche.  Nelle  righe  successive,  si 
ha  il  preambolo  di  un  elogio  della  regina  Elisabetta  che,  nonostante  il  carat- 
tere iperbolico,  è  privo  di  ogni  intenzione  satirica. 


DIALOGO  PRIMO  643 

caos,  là  la  femina  disposizione;  qua  il  sonno,  là  la  vigilia;  qua  il 
letargo,  là  la  memoria;  qua  l'odio,  là  l'amicizia;  qua  il  timore,  là  [95] 
la  sicurtà;  qua  il  rigore,  là  la  gentilezza;  qua  il  scandalo,  là  la 
pace;  qua  il  furore,  là  la  quiete;  qua  l'errore,  là  la  verità;  qua  il 
difetto,  là  la  perfezzione;  qua  l'inferno,  là  la  felicità;  qua  Poli- 
himnio  pedante,  là  Polihimnia  musai''°:  e  finalmente  tutti  vizii, 
mancamenti  e  delitti  son  maschi;  e  tutte  le  virtudi,  eccellenze  e 
boutadi  son  temine.  Quindi  la  prudenza,  la  giustizia,  la  fortezza, 
la  temperanza,  la  bellezza,  la  maestà,  la  dignità,  cossi  si  nomi- 
nano cossi  s'imaginano,  cossi  si  descriveno,  cossi  si  pingono, 
cossi  sono.  E  per  uscir  da  queste  raggioni  teoriche,  nozionali  e 
grammaticali  convenienti  al  vostro  argumento,  e  venire  alle  na- 
turali, reali  e  prattiche:  non  ti  deve  bastar  questo  solo  essempio 
a  ligarti  la  lingua  e  turarti  la  bocca,  che  ti  farà  confuso  con 
quanti  altri  sono  tuoi  compagni,  se  ti  dovesse  mandare  a  ritro- 
vare un  maschio  megliore,  o  simile  a  questa  diva  Elizabetta^''' 
che  regna  in  Inghilterra;  la  quale  per  esser  tanto  dotata,  essal- 
tata, faurita^'^^,  difesa  e  mantenuta  da'  cieli,  in  vano  si  forza- 
ranno  di  desmetterla  l'altrui  paroli  o  forze?  A  questa  dama, 
dico,  di  cui  non  è  chi  sia  più  degno  in  tutto  il  regno,  non  è  chi 
sia  più  eroico  tra  nobili,  non  è  chi  sia  più  dotto  tra  togati  ^^\ 
non  è  chi  sia  più  saggio  tra  consulari?  In  comparazion  de  la 
quale,  tanto  per  la  corporal  beltade,  tanto  per  la  cognizion  de 
lingue  da  volgari  e  dotti,  tanto  per  la  notizia  de  le  scienze  et 
arti,  tanto  per  la  prudenza  nel  governare,  tanto  per  la  felicitade 
di  grande  e  lunga  autoritade,  quanto  per  tutte  l'altre  virtudi 
civili  e  naturali,  vilissime  sono  le  Sofonisbe,  le  Faustine,  le  Se- 
mirami, le  Didoni,  le  Cleopatre  et  altre  tutte,  de  quali  gloriar  si 
possano  l'Italia,  la  Grecia,  l'Egitto  et  altre  parti  de  l'Europa  et  [97] 
Asia  per  gli  passati  tempi?  Testimoni  mi  sono  gli  effetti  et  il 
fortunato  successo,  che  non  senza  nobil  maraviglia  rimira  il  se- 
colo presente;  quando  nel  dorso  de  l'Europa,  correndo  irato  il 
Tevere,  minaccioso  il  Po,  violento  il  Rodano,  sanguinosa  la 
Senna,  turbida  la  Garonna,  rabbioso  l'Ebro,  furibondo  il  Tago, 

140.  Cfr.  Donato,  Ars  grammatica  cit,  p.  335:  «masculinum,  ut  hic  magi- 
ster,  femininum,  ut  haec  Musa». 

141.  Un  altro  elogio  di  Elisabetta  in  Cena,  Dialogo  secondo,  pp.  477-478. 

142.  Forma  napoletana. 

143.  Gli  universitari. 


644  ^^  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

travagliata  la  Mesa,  inquieto  il  Danubio  '•*■':  ella  col  splendor  de 
gli  occhi  suoi  per  cinque  lustri  e  più^'^^  s'ha  fatto  tranquillo  il 
grande  Oceano,  che  col  continuo  reflusso  e  flusso,  lieto  e  quieto 
accoglie  nell'ampio  seno  il  suo  diletto  Tamesi;  il  quale  fuor 
d'ogni  tema  e  noia,  sicuro  e  gaio  si  spasseggia,  mentre  serpe  e 
riserpe  per  l'erbose  sponde.  Or  dumque  per  cominciar  da  capo, 
quali... 

Armesso.  —  Taci  taci  Filoteo,  non  ti  forzar  di  gionger  acqua 
al  nostro  Oceano,  e  lume  al  nostro  sole:  lascia  di  mostrarti  ab-l 
stratto  (per  non  dirti  peggio)  disputando  con  gli  absenti  Poli- 
himnii.  Fatene  un  poco  copia  di  questi  presenti  dialogi,  a  fine 
che  non  meniamo  ocioso  questo  giorno  et  ore. 

Filoteo.  —  Prendete,  leggete. 

[99]  Fine  del  primo  dialogo 


144.  Allusione  ad  avvenimenti  contemporanei:  in  Spagna,  l'accanirsi  del- 
l'Inquisizione contro  gli  ebrei  e  contro  i  mussulmani;  in  Inghilterra,  le  perse- 
cuzioni (qui  taciute)  contro  i  presbiteriani  e  contro  i  cattolici;  in  Francia,  l'ot- 
tava guerra  di  religione;  nelle  Fiandre,  l'insurrezione  contro  Filippo  lì;  in  Ger- 
mania, i  dissidi  fra  protestanti. 

145.  Il  De  la  causa  è  del  1584,  Elisabetta  regna  dal  1558. 


DIALOGO  SECONDO 

Interlocutori 

Dicsono  Arelio,  Teofilo,  Gervasio,  Polihimnio^ 


I.  Diesano  Arelio:  lo  scozzese  Alexander  Dicson,  nato  nel  1558  nella  Kirk- 
town  di  Errol  (da  cui  il  nome  di  Arelius)  ottiene,  nel  1577,  il  baccalaureato 
nell'Università  di  Saint  Andrews,  da  dove  passa  probabilmente  a  Parigi,  come 
scholar  di  Maria  Stuart  Lo  si  ritrova  a  Londra  nel  1583  (lo  stesso  anno  dell'ar- 
rivo di  Bruno),  col  titolo  di  gentleman;  a  partire  dal  1584,  fa  parte  della  cerchia 
di  Robert  Dudley,  Earl  of  Leicester,  a  cui  dedica  il  suo  De  umbra  rationis, 
stampato  a  Londra  da  Vautrollier  (a  lungo  considerato  l'editore  di  Bruno),  con 
la  data  del  1583,  che  va  però  intesa  1584  stile  moderno  (e  ristampato  a  Leyden, 
1597,  col  titolo  di  Thamus).  Dicson  frequenta  dunque  la  corte  di  Elisabetta 
nella  stessa  epoca  di  Bruno;  i  suoi  rapporti  col  Nolano  al  momento  della  com- 
posizione del  De  la  causa  sono,  quindi,  attestati  tanto  sul  piano  politico-di- 
plomatico (Bruno  era  in  contatto  con  Leicester,  cfr.  Cena,  Dialogo  secondo, 
p.  478),  sia  sul  piano  intellettuale  (il  De  umbris  rationis  di  Dicson  deve  molto  al 
De  umbris  idearum  bruniano  e  questi  due  testi  presentano  un  metodo  mnemo- 
nico opposto  al  metodo  di  Ramo).  Per  di  più,  Dicson  e  Bruno  sono  oggetto 
della  stessa  «scomunica»  da  parte  del  teologo  puritano  e  ramista  di  Cambridge 
William  Perkins,  nella  dedicatoria  déW Antidicsonus  e  nel  Libellus  de  memoria, 
Londini,  1584,  scritti  che  si  oppongono  al  De  umbra  rationis.  Di  fronte  agli 
attacchi  che  il  suo  discepolo  Dicson  subisce  ad  opera  dei  ramisti  di  Cambridge 
(e  che  portano  Dicson  a  pubblicare,  nel  1584,  sotto  lo  pseudonimo  di  Heius 
Scepsius  una  Defensio  prò  Alexandro  Arelio,  ambigua  nei  confronti  di  Ramo), 
Bruno  reagì  violentemente  -  cfr.  infra.  Dialogo  terzo,  p.  676  -  anche  se  il  suo 
antiramismo  è,  comunque,  già  manifesto  a  partire  dalle  sue  prime  prese  di 
posizione  ad  Oxford.  Per  ulteriori  informazioni  biografiche  e  bibliografiche  su 
Dicson  cfr.,  oltre  che  i  materiali  ora  raccolti  in  G.  Aquilecchia,  Schede  bru- 
niane,  Manziana,  1993,  pp.  136-137,  273-278,  294-295,  R.  Sturlese,  Un  nuovo 
autografo  del  Bruno,  con  una  postilla  sul  "De  umbra  rationis  "  di  A.  Dickson,  «  Ri- 
nascimento» [Firenze],  XXVIL  1987,  pp.  387-391  e  i  contributi  di  M.  Fiutoni  e 
S.  Clucas,  in:  Giordano  Bruno  158J-1585.  The  English  Experience,  Firenze,  1997, 
pp.  28-29,  37"59-  ^it^  Sturlese  ha  reperito  tre  esemplari  di  stampe  originali  di 
Bruno  che  recano  la  firma  di  Dicson:  De  la  causa  (Oldenburg);  Spaccio 
(Washington);  De  l'infinito  (Glasgow,  University  Library),  dove  si  può  leggere, 
al  verso  dell'ultima  pagina,  il  motto:  «Il  vostro  malignare  non  gioua  nulla», 
che  riporta  probabilmente  alla  rottura  prodottasi  tra  Dicson  e  Bruno  dopo  la 
pubblicazione  del  De  la  causa  (si  veda  G.  Aquilecchia,  Le  opere  italiane  di 
G.  Bruno:  Critica  testuale  e  oltre,  Napoli,  1991,  pp.  87-97.  cui  si  riallaccia  M.  A. 
Granada,  Introduction  a  G.  Bruno,  De  l'infini,  de  Vunivers  et  des  mondes,  Paris, 
^995'  PP-  ^^11  6  segg.).  La  questione  è  tuttavia  passibile  di  ulteriore  sviluppo, 


646  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

[DicsoNO].  -  Di  grazia,  maestro  Polihimnio,  e  tu  Gervasio, 
non  interrompete  oltre  i  nostri  discorsi. 

Polihimnio.  -  Fiat^. 

Gervasio.  —  Se  costui,  che  è  il  magister,  parla,  senza  dubio  io 
non  posso  tacere. 

DicsoNO.  —  Sì  che  dite.  Teofilo,  che  ogni  cosa  che  non  è 
primo  principio  e  prima  causa,  ha  principio  et  ha  causa?  ^ 

Teofilo.  -  Senza  dubio,  e  senza  controversia  alcuna. 

DicsoNO.  —  Credete  per  questo  che  chi  conosce  le  cose  cau- 
sate e  principiate,  conosca  la  causa  e  principio? 

Teofilo.  —  Non  facilmente  la  causa  prossima  e  principio 
prossimo;  difficilissimamente  (anco  in  vestigio)  la  causa  e  prin- 
cipio primo-^. 

DicsoNO.  -  Or  come  intendete  che  le  cose  che  hanno  causa  e 
[loi]  principio  primo  e  prossimo,  siano  veramente  conosciute,  se  se- 
condo la  raggione  della  causa  efficiente  (la  quale  è  una  di  quelle 
che  concorreno  alla  real  cognizione  de  le  cose)  sono  occolte? 

Teofilo.  -  Lascio  che  è  facil  cosa  ordinare  la  dottrina  de- 
mostrativa,  ma  il  demostrare  è  difficile.  Agevolissima  cosa  è  or- 
dinare le  cause,  circostanze  e  metodi  di  dottrine:  ma  poi  mala- 
mente gli  nostri  metodici  et  analitici'  metteno  in  esecuzione  i 
loro  organi,  principii  di  metodi  et  arte  de  le  arti^. 


coincidendo  le  parole  di  Dicson  col  motto  che  si  trova  impresso  nella  divisa 
tipografica  di  edizioni  londinesi  di  John  Wolf,  tra  le  quali,  segnatamente,  nello 
stesso  anno  della  stampa  charlewoodiana  del  De  l'infinito  bruniano,  /  Discorsi  e 
n  prencipe  di  Machiavelli  (cfr.  G.  Aquilecchia,  Paralipomeno  nella  documenta- 
zione su  Bruno  in  Inghilterra,  «Bruniana  &  Campanelliana»  [Pisa- Roma],  II, 
1996,  pp.  359-360).  -  Teofilo  è  il  «fidel  relatore  della  nolana  filosofia»  (Dialogo 
quinto,  p.  746).  -  Gervasio  è  un  personaggio  secondario  non  identificato,  senza 
personalità,  la  cui  funzione  è  di  far  trapelare  l'ottusità  del  pedante;  sull'uso  di 
tale  nome  per  designare  Io  stupido,  cfr.  B.  Migliorini,  Dal  nome  proprio  al 
nome  comune,  Genève,  1927,  p.  22  («Gervasius»).  -  Polihimnia  il  pedante  de- 
scritto nel  Dialogo  primo,  p.  635,  nota  93. 

2.  «Sia». 

3.  Platone,  Phaedrus.  245  d. 

4.  Distinzione  aristotelica  e  scolastica  fra  la  causa  prima  (Dio)  e  le  cause 
seconde. 

5.  Allusione  agli  Analitici,  dove  Aristotele  espone  la  sua  teoria  della  dimo- 
strazione. 

6.  Definizione  tradizionale  della  filosofia  come  «CTiorriiiii  ÈjrioTTinwv», 
«T8XVIÌ  xeyvwv».  Secondo  E.  Namer,  c'è  un'allusione  probabile  all'ars  magna  di 
Ramon  LluU  (cfr.  la  sua  traduz.  di  G.  Bruno,  Cause,  principe  et  unite,  Paris, 
1930  [nuova  ed.,  Paris,  1982,  p.  82,  nota  4]). 


DIALOGO  SECONDO  647 

Gervasio.  —  Come  quei  che  san  far  sì  belle  spade,  ma  non  le 
sanno  adoperare. 

PoLiHiMNio.  -  Ferme. 

Gervasio.  —  Fermati  te  siano  gli  occhi  ^,  che  mai  le  possi 
aprire. 

Teofilo.  —  Dico  però  che  non  si  richiede  dal  filosofo  naturale, 
che  ammeni  tutte  le  cause  e  principii:  ma  le  fisiche  sole,  e  di  que- 
ste le  principali  e  proprie.  Benché  dumque,  perché  dependeno 
dal  primo  principio  e  causa,  si  dicano  aver  quella  causa  e  quel 
principio,  tutta  volta  non  è  sì  necessaria  relazione,  che  da  la  co- 
gnizione de  l'uno  s'inferisca  la  cognizione  de  l'altro:  e  però  non  si 
richiede  che  vengano  ordinati  in  una  medesma  disciplina. 

DicsoNO.  -  Come  questo? 

Teofilo.  —  Perché  dalla  cognizione  di  tutte  cose  dependenti 
non  possiamo  inferire  altra  notizia  del  primo  principio  e  causa, 
che  per  modo  men  efficace  che  di  vestigio:  essendo  che  il  tutto 
deriva  dalla  sua  volontà  o  bontà,  la  quale  è  principio  della  sua  [103] 
operazione,  da  cui  procede  l'universale  effetto.  Il  che  medesmo 
si  può  considerare  ne  le  cose  artificiali,  in  tanto  che  chi  vede  la 
statua,  non  vede  il  scultore;  chi  vede  il  ritratto  di  Elena,  non 
vede  Apelle*^:  ma  vede  lo  effetto  de  l'operazione,  che  proviene 
da  la  bontà  de  l'ingegno  d'Apelle  (il  che  tutto  è  uno  effetto  de 
gli  accidenti  e  circostanze  de  la  sustanza  di  quell'uomo,  il  quale 
quanto  al  suo  essere  assoluto  non  è  conosciuto  punto). 

DicsoNO.  —  Tanto  che  conoscere  l'universo,  è  come  conoscer 
nulla  dello  essere  e  sustanza  del  primo  principio,  per  che  è 
come  conoscere  gli  accidenti  de  gli  accidenti. 

Teofilo.  —  Cossi;  ma  non  vorei  che  v'imaginaste  ch'io  in- 
tenda in  Dio  essere  accidenti,  o  che  possa  esser  conosciuto  come 
per  suoi  accidenti. 

7.  Il  fraintendimento  di  Gervasio  sull'avverbio  latino  ferme  (che  vuol  dire 
«press'a  poco»)  lascia  pensare  che  il  personaggio  fosse  immaginato  come  fran- 
cese; accentata  nelle  antiche  stampe  sull'ultima  sillaba,  la  parola  ferme  era  pro- 
babilmente pronunciata  come  un'ossitona. 

8.  Sembra  che  qui  Bruno  confonda  Apelle  e  Zeusi  (cfr.  Cicerone,  De  inven- 
tione,  II,  i);  la  stessa  confusione  in  De  gli  eroici  furori,  I,  5,  p.  630:  «come  av- 
venne nel  geno  solo  della  corporal  bellezza  di  cui  le  condizioni  tutte  non  le 
potè  approvare  Apelle  in  una,  ma  in  più  vergini».  Per  contro,  l'equivoco  è 
evitato  in  G.  Bruno,  De  vinculis  in  genere,  Op.  lai.,  Ili,  p.  660  (traduz.  di  A. 
Biondi,  Pordenone,  1986,  p.  125:  «Zeusi  che  compose  la  sua  Elena  di  parecchie 
fanciulle  di  Crotone»). 


040  DE  LA  CAUSA,  PRIN'CIPIO  ET  UNO 

DicsONO.  —  Non  vi  attribuisco  sì  duro  ingegno,  e  so  che  altro 
è  dire  essere  accidenti,  altro  essere  suoi  accidenti,  altro  essere 
come  suoi  accidenti  ogni  cosa  che  è  estranea  dalla  natura  di- 
vina. Nell'ultimo  modo  [di]  dire  credo  che  intendete  essere  gli 
effetti  della  divina  operazione;  li  quali  quantumque  siano  la  su- 
stanza  de  le  cose,  anzi  e  ristesse  sustanze  naturali,  tutta  volta 
sono  come  accidenti  remotissimi,  per  fame  toccare  la  cogni- 
zione apprehensiva  della  divina  sopranaturale  essenza. 

Teofilo.  -  Voi  dite  bene. 

DicsoNO.  —  Ecco  dumque  che  della  divina  sustanza,  sì  per 
essere  infinita,  sì  per  essere  lontanissima  da  quelli  effetti,  che 
sono  l'ultimo  termine  del  corso  della  nostra  discorsiva  facul- 
[105]  tade,  non  possiamo  conoscer  nulla,  se  non  per  modo  di  vestigio 
come  dicono  i  Platonici^,  di  remoto  effetto  come  dicono  i  Peri- 
patetici, di  indumenti  come  dicono  i  Cabalisti  1°,  di  spalli  o  po- 
steriori come  dicono  i  Talmutisti'^  di  spechio,  ombra  et 
enigma  come  dicono  gli  Apocaliptici  '^. 

9.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  3,  in  Opere,  a  cura  di  G.  Federici- 
Vescovini,  Torino,  1972,  p.  60:  «Quod  praecisa  veritas  sit  incomprehensibilis» 
(«La  verità  precisa  è  incomprensibile»). 

10.  Cfr.  Zohar,  1. 19  b-20  a:  «Il  Santo  benedetto  vide  come  inevitabile  mettere 
al  mondo  queste  cose  per  dargli  sussistenze  per  mezzo  di  esse,  di  modo  che  fosse, 
per  così  dire,  un  cervello  —  un  nocciolo  -  con  intomo  ad  esso  molte  membrane 
-  gusci  — .  Il  mondo  intero,  sia  quello  di  sopra  sia  quello  di  sotto,  si  fonda  su 
questo  principio,  dal  punto  supremo  mistico  fino  ai  gradi  più  lontani,  che  sono 
tutti  l'uno  il  rivestimento  dell'altro,  cervello  entro  il  cervello,  spirito  entro  lo  spi- 
rito, guscio  entro  il  guscio.  Il  punto  supremo  originario  è  la  luminescenza  intima, 
incommensurabilmente  traslucida,  sottile  e  pura,  tanto  che  non  la  si  comprende: 
quando  si  diffonde,  diventa  un  "palazzo"  che  riveste  il  punto  con  una  lumine- 
scenza anch'essa  inconoscibile  perché  traslucida  oltre  ogni  dire.  Il  palazzo,  vesti- 
mento del  punto  originario  inconoscibile,  è  anch'esso  una  luminescenza  incom- 
mensurabile e  tuttavia  meno  sottile  e  meno  traslucida  di  quel  punto  originario 
mistico.  Il  palazzo  si  diffonde  con  l'effusione  della  luce  primordiale,  che  è  il  suo 
abito.  Di  qui  in  poi  vi  è  estensione  oltre  estensione,  ognuna  che  forma  il  vestimen- 
to della  precedente,  come  la  membrana  per  il  cervello:  ognuna  è  guscio  di  ciò  che 
la  precede  e  nocciolo  di  ciò  che  viene  dopo»  (traduz.  di  E.  Loewenthal  in:  Zohar. 
Passi  scelti  della  Qabbalah,  a  cura  di  G.  Scholem,  Torino,  1998,  p.  6). 

11.  Cfr.  Esodo,  XXXIII,  20-23,  sulla  visione  di  Jehovah  da  parte  di  Mosè. 
Com'è  spiegato  —  S.  Tommaso  d'Aquino,  Somma  teologica.  I,  q.  12,  ari  11  (tra- 
duz. e  commento  a  cura  dei  Domenicani  italiani,  testo  latino  dell'Ed.  Leonina, 
Firenze,  voi.  I,  1964,  pp.  280-285)  -  le  parole  della  Scrittura  significano  che 
l'uomo  non  può  vedere  Dio  per  essenza  (la  sua  «faccia»),  ma  solo  attraverso  i 
suoi  effetti  (le  «terga»). 

12.  Cfr.  S.  Paolo,  I  Corinzi.  12:  «Ora  vediamo  come  in  uno  specchio,  in 
immagine;  ma  allora  vedremo  faccia  a  faccia».  Bruno  chiama  dunque  Apoca- 
liptici i  profeti  in  generale,  poiché  la  concezione  del  mondo  come  specchio 
o  come  enigma  si  trova  più  in  san  Paolo  che  in  san  Giovanni.  Cfr.  inoltre 


DIALOGO  SECONDO  649 

Teofilo.  —  Anzi  di  più;  perché  non  veggiamo  perfettamente 
questo  universo  di  cui  la  sustanza  et  il  principale  è  tanto  difficile 
ad  essere  compreso,  avviene  che  assai  con  minor  raggione  noi  co- 
nosciamo il  primo  principio  e  causa  per  il  suo  effetto,  che  Apelle 
per  le  sue  formate  statue  possa  essere  conosciuto:  per  che  queste  le 
possiamo  veder  tutte,  et  essaminar  parte  per  parte;  ma  non  già  il 
grande  et  infinito  effetto  della  divina  potenza:  però  quella  simili- 
tudine deve  essere  intesa  senza  proporzionai  comparazione  i^. 

DicsONO.  -  Cossi  è,  e  cossi  la  intendo. 

Teofilo.  —  Sarà  dumque  bene  d'astenerci  da  parlar  di  sì  alta 
materia. 

DicsoNO.  —  Io  lo  consento,  perché  basta  moralmente  e  teolo- 
galmente  conoscere  il  primo  principio  in  quanto  che  i  superni 
numi  hanno  revelato,  e  gli  uomini  divini  dechiarato.  Oltre  che 
non  solo  qualsivoglia  legge  e  teologia,  ma  ancora  tutte  rifor- 
mate filosofie  conchiudeno  esser  cosa  da  profano  e  turbulento 
spirto,  il  voler  precipitarsi  a  dimandar  raggione  e  voler  definire 
circa  quelle  cose  che  son  sopra  la  sfera  della  nostra  intelligenza. 

Teofilo.  -  Bene:  ma  non  tanto  son  degni  di  riprensione  co- 
storo, quanto  son  degnissimi  di  lode  quelli  che  si  forzano  alla  [107] 
cognizione  di  questo  principio  e  causa,  per  apprendere  la  sua 
grandezza  quanto  fia  possibile  discorrendo  con  gli  occhi  di  re- 
golati sentimenti,  circa  questi  magnifici  astri  e  lampegianti 
corpi,  che  son  tanti  abitati  mondi,  e  grandi  animali,  et  eccellen- 
tissimi numi,  che  sembrano  e  sono  innumerabili  mondi  non 
molto  dissimili  a  questo  che  ne  contiene  i"*;  i  quali  essendo  im- 
possibile ch'habbiano  l'essere  da  per  sé,  atteso  che  sono  compo- 
sti e  dissolubili  (benché  non  per  questo  siano  degni  d'essemo 
disciolti,  come  è  stato  ben  detto  nel  TimeoY^,  è  necessario  che 
conoscano  principio  e  causa:  e  consequentemente  con  la  gran- 

S.  Tommaso  d'Aquino,  Somma  teologica,  I,  q.  12,  art.  2  (ed.  cit.,  pp.  250-253): 
«Se  l'essenza  di  Dio  sia  veduta  dall'intelletto  creato  per  mezzo  di  una  qualsiasi 
immagine»,  e  G.  Bruno,  Furori,  II,  4,  p.  732,  «questo  stato  detto  ...  dal  teologo 
"vision  per  similitudine  speculare  et  enigma"». 

13.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  3,  ed.  Federici-Vescovini  cit., 
p.  60:  «Non  c'è  proporzione  dell'infinito  col  finito». 

14.  Cfr.  lo  sviluppo  di  questo  punto  in  Cena,  Dialogo  terzo,  pp.  509  e  segg. 

15.  Cfr.  Platone,  Timaeus.  41  a-b;  G.  Bruno,  Cena,  Dialogo  quinto,  p.  556: 
«Ma  ad  costoro  (come  crede  Platone  nel  Timeo,  e  crediamo  ancor  noi)  è  stato 
detto  dal  primo  principio:  "Voi  siete  dissolubili,  ma  non  vi  dissolverete"»;  De 
immenso,  II,  5,  Op.  lat,  I,  i,  p.  274  (ed.  Monti  cit,  p.  479). 


650  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

dezza  del  suo  essere,  vivere  et  oprare,  monstrano  e  predicano  in 
un  spacio  infinito,  con  voci  innumerabili,  la  infinita  eccellenza 
e  maestà  del  suo  primo  principio  e  causa  '^  Lasciando  dumque 
(come  voi  dite)  quella  considerazione  per  quanto  è  superiore  ad 
ogni  senso  et  intelletto,  consideriamo  del  principio  e  causa  per 
quanto,  in  vestigio,  o  è  la  natura  istessa,  o  pur  riluce  ne  l'am- 
bito e  grembo  di  quella.  Voi  dumque  dimandatemi  per  ordine, 
se  volete  ch'io  per  ordine  vi  risponda. 

DicsoNO.  —  Cossi  farò.  Ma  primamente,  per  che  usate  dir 
«causa»  e  «principio»,  vorei  saper  se  questi  son  tolti  da  voi 
come  nomi  sinonimi. 

Teofilo.  -  Non. 

DicsoNO.  —  Or  dumque  che  differenza  è  tra  l'uno  e  l'altro 
termino? 

Teofilo.  —  Rispondo  che  quando  diciamo  Dio  primo  princi- 
[log]  pio  e  prima  causa,  intendiamo  una  medesma  cosa  con  diverse 
raggioni;  quando  diciamo  nella  natura  principii  e  cause,  di- 
ciamo diverse  cose  con  sue  diverse  raggioni.  Diciamo  Dio  primo 
principio  in  quanto  tutte  cose  sono  dopo  lui  secondo  certo  or- 
dine di  priore  e  posteriore,  o  secondo  la  natura,  o  secondo  la 
durazione,  o  secondo  la  dignità.  Diciamo  Dio  prima  causa,  in 
quanto  che  le  cose  tutte  son  da  lui  distinte  come  lo  effetto  da 
l'efficiente,  la  cosa  prodotta  dal  producente.  E  queste  due  rag- 
gioni son  differenti,  perché  non  ogni  cosa  che  è  priore  e  più 
degna,  è  causa  di  quello  che  [è]  posteriore  e  men  degno;  e  non 
ogni  cosa  che  è  causa,  è  priore  e  più  degna  di  quello  che  è  cau- 
sato, come  è  ben  chiaro  a  chi  ben  discorre. 

DicsoNO.  —  Or  dite  in  proposito  naturale,  che  differenza  è  tra 
causa  e  principio? 

Teofilo.  —  Benché  alle  volte  l'uno  si  usurpa  per  l'altro'^, 
nulladimeno  parlando  propriamente,  non  ogni  cosa  che  è  prin- 

16.  Parafrasi  del  Salmo  XVIII,  2. 

17.  Così  Aristotele,  per  il  quale  «tutte  le  cause  sono  principi»  (cfr.  Metaph., 
V,  I,  1013  a  17,  ed.  a  cura  di  C.  A.  Viano,  Torino,  1974,  p.  298).  Non  è  che, 
talora,  Aristotele  non  consideri  l'àg/'l  («principio»)  come  la  causa  prima  in 
una  serie  di  cause,  operando  così  una  distinzione  con  l'aixiov  («causa»)  in  ge- 
nerale (cfr.  De  generatione  et  corriiptione.  324  a  27;  Metaph.,  II,  2,  994  a  i,  ed.  cit, 
pp.  230-232),  ma  il  più  delle  volte  lo  Stagirita  utilizza  i  due  termini  come  si- 
nonimi, poiché,  allo  stesso  tempo,  le  loro  denotazioni  sono  identiche,  mentre  le 
loro  definizioni  differiscono. 


DIALOGO  SECONDO  65 1 

cipio,  è  causa:  per  che  il  punto  è  principio  della  linea,  ma  non  è 
causa  di  quella'^;  l'instante  è  principio  dell'operazione,  [e  non 
causa  dell'operazione];  il  termine  onde,  è  principio  del  moto,  e 
non  causa  del  moto;  le  premisse  son  principio  de  l'argumenta- 
zione,  non  son  causa  di  quella.  Però  «principio»  è  più  general 
termino  che  «causa»  ^'^. 

DicsoNO.  —  Dumque  strengendo  questi  doi  termini  a  certe 
proprie  significazioni,  secondo  la  consuetudine  di  quei  che  par- 
lano più  riformatamente,  credo  che  vogliate  che  principio  sia 
quello  che  intrinsecamente  concorre  alla  constituzione  della 
cosa,  e  rimane  nell'effetto,  come  dicono  la  materia  e  forma,  che  [m] 
rimagnono  nel  compostolo,  o  pur  gli  elementi  da  quali  la  cosa 
viene  a  comporsi  e  ne'  quali  va  a  risolversi^i.  Causa  chiami 
quella  che  concorre  alla  produzzione  delle  cose  esteriormente, 
et  ha  l'essere  fuor  de  la  composizione,  come  è  l'efficiente  et  il 
fine,  al  quale  è  ordinata  la  cosa  prodotta. 

Teofilo.  —  Assai  bene. 

DicsoNO.  -  Or  poi  che  siamo  risoluti  de  la  differenza  di  que- 
ste cose,  prima  desidero  che  riportiate  la  vostra  intenzione  circa 
le  cause,  e  poi  circa  gli  principii.  E  quanto  alle  cause,  prima 
vorei  saper  della  efficiente  prima;  della  formale,  che  dite  esser 
congionta  all'efficiente;  oltre  della  finale,  la  quale  se  intende 
motrice  di  questa  ^2. 

Teofilo.  —  Assai  mi  piace  il  vostro  ordine  di  proponere.  Or 
quanto  alla  causa  effettrice,  dico  l'efficiente  fisico  universale  es- 
sere l'intelletto  universale,  che  è  la  prima  e  principal  facultà  de 
l'anima  del  mondo,  la  quale  è  forma  universale  di  quello. 

DicsONO.  -  Mi  parete  essere  non  tanto  conforme  all'opinione 
di  Empedocle^^,  quanto  più  sicuro,  più  distinto  e  più  esplicato, 

i8.  Cfr.  G.  Bruno,  Summa  terminorum  metaphysicorum,  V,  «Principium»  e 
VI  "Causa",  Op.  lai.,  I,  4,  pp.  17-19  (risi  Gregory-Canone  cit.,  pp.  4-7). 

19.  S.  Tommaso  d'Aquino,  Somma  teologica,  I,  q.  33,  art.  2  (ed.  cit,  Firenze, 
voi.  Ili,  1966,  p.  149):  «principium  communius  est  quam  causa». 

20.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  II,  2,  194  a  15  e  segg. 

21.  Sugli  oToixeìa  («elementi»)  dei  filosofi  naturalisti,  cfr.  Aristotele,  Me- 
taph.,  V,  3,  1014  a  33,  ed.  Viano  cit,  p.  301. 

22.  È  la  distinzione  aristotelica  fra  cause  materiali  (cfr.  Metaph.,  V,  2, 
1013  a  24),  formali  (1013  a  26),  efficienti  (1013  a  29)  e  finali  (1013  a  32).  Cfr.  ed. 
Viano  cit,  p.  298. 

23.  Si  tratta,  in  effetti,  dell'opinione  di  Empedocle,  come  se  la  rappresenta- 
vano i  pensatori  del  Medio  Evo  (cfr.  S.  Munk,  Mélanges  de  philosophie  juive  et 
arabe,  Paris,  1927,  pp.  3,  241  e  segg.). 


652  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

oltre  (per  quanto  la  soprascritta  mi  fa  vedere)  più  profondo: 
però  ne  farete  cosa  grata  di  venire  alla  dechiarazion  del  tutto 
per  il  minuto,  cominciando  dal  dire  che  cosa  sia  questo  intel- 
letto universale. 

Teofilo.  -  L'intelletto  universale  è  l'intima,  più  reale  e  pro- 
pria facultà  e  parte  potenziale  de  l'anima  del  mondo^''.  Questo  è 
uno  medesmo,  che  empie  il  tutto,  illumina  l'universo  et  in- 
[113J  drizza  la  natura  a  produre  le  sue  specie  come  si  conviene;  e 
cossi  ha  rispetto  alla  produzzione  di  cose  naturali  come  il  no- 
stro intelletto  alla  congrua  produzzione  di  specie  razionali.  Que- 
sto è  chiamato  da  Pitagorici  «motore»  et  «esagitator  del  univer- 
so», come  esplicò  il  poeta,  che  disse: 

totamque  infusa  per  arctus, 
mens  agitai  molem,  et  toto  se  corpore  miscet^^. 

Questo  è  nomato  da  Platonici  «fabro  del  mondo» 2^.  Questo  fa- 
bro,  dicono,  procede  dal  mondo  superiore  (il  quale  è  a  fatto 

24.  La  nozione  di  anima  del  mondo,  presente  nella  filosofia  platonica  (cfr. 
J.  MOREAU,  L'àme  du  monde  de  Platon  aux  Stoìciens,  Paris,  1939)  e  nella  patri- 
stica greca,  fu  parimenti  assai  diffusa  nel  XII  secolo,  per  via  dell'uso  che  a  quel 
tempo  venne  fatto  di  autori  come  Calcidio,  Macrobio  e  Virgilio,  per  non  par- 
lare di  Platone  (cfr.  T.  Gregory,  L'«anima  mundi»  nella  filosofia  del  XII  secolo, 
«Giornale  critico  della  filosofia  italiana»  [Firenze],  XXX,  1950,  pp.  494-508). 
La  nozione  venne  riusata  dal  neoplatonismo  rinascimentale,  internamente  a 
un  vagheggiato  sincretismo  platonico-cristiano  (col  relativo  ricorso  ai  prisci 
theologi  -  frammenti  orfici  ecc.  -:  cfr.  D.  P.  Walker,  Orpheus  the  Theologian  and 
Renaissance  Platonists,  «Journal  of  the  Warburg  and  Courtauld  Institutes» 
[London],  XVI,  1953,  pp.  100-120),  tendenza  che  mirava  ad  assimilare  le  per- 
sone della  Trinità  cristiana  ai  princìpi  metafisici  (l'Uno,  l'Intelletto  e  l'Essere) 
della  filosofia  platonica  e  neoplatonica  -  segnatamente  lo  Spirito  Santo  al- 
Vanima  mundi  -  non  andando  lontano  dal  costituire  un'eresia.  Sulla  conce- 
zione bruniana,  sostanzialmente  estranea  alla  problematica  teologica  del- 
Vanima  mundi,  cfr.  G.  Aquilecchia,  Introduzione  a  «De  la  causa,  principio  et 
uno»,  ora  in  Id.,  Schede  bruniane  cit,  pp.  264-266. 

25.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  VI,  726-727,  in  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  Torino, 
1971,  pp.  568-569:  «E,  infusa  in  tutte  le  membra,  una  mente  muove  l'intera 
massa  e  al  grande  corpo  si  mescola»  (si  noti  che  la  lezione  dei  Mss.  dà  magno 
invece  di  toto,  che  riproduce,  forse,  la  vulgata);  cfr.  G.  Bruno,  De  Magia  mathe- 
matica, XII,  De  anima  mundi  et  mundanorum  juxta  priscorum  magiam,  Op.  lat, 
III,  p.  497:  «una  mens  infusa  per  ipsius  artus  universam  molem  exagitat,  ut 
dicit  Pjrthagoras»;  De  Magia,  Op.  lat.,  III,  p.  434  (traduz.  Biondi  cit,  pp.  68-69). 
Cfr.  inoltre  il  terzo  costituto  (Venezia,  2  giugno  1592),  in  L.  Firpo,  Il  processo  di 
G.  Bruno,  a  cura  di  D.  Quaglioni,  Roma,  1993,  p.  169. 

26.  Cfr.  Platone,  Timaeus,  28  e  (ed.  in  Dialoghi  politici,  a  cura  di  F. 
Adomo,  Torino,  1988,  p.  739  e  note  3-5);  Plotino,  Enn.,  Ili,  22,  traduz.  latina 
di  M.  Ficino,  Basileae,  1580,  p.  256:  «Intellectus  ...  infundens  sui  aliquid  in 
materiam,  immobilis  ipse  quietusque  consistens  omnia  fabricavit». 


DIALOGO  SECONDO  653 

uno)  a  questo  mondo  sensibile  che  è  diviso  in  molti:  ove  non 
solamente  la  amicizia,  ma  anco  la  discordia^^,  per  la  distanza 
de  le  parti,  vi  regna.  Questo  intelletto,  infondendo  e  porgendo 
qualche  cosa  del  suo  nella  materia,  mantenendosi  lui  quieto  et 
inmobile,  produce  il  tutto.  È  detto  da  Maghi ^s  «fecondissimo  de 
semi»,  o  pur  «seminatore» 2'':  per  che  lui  è  quello  che  impregna 
la  materia  di  tutte  forme;  e  secondo  la  raggione  e  condizion  di 
quelle,  la  viene  a  figurare,  formare,  intessere:  con  tanti  ordini 
mirabili,  li  quali  non  possono  attribuirsi  al  caso,  né  ad  altro 
principio  che  non  sa  distinguere  et  ordinare.  Orfeo  lo  chiama 
«occhio  del  mondo »^°,  per  ciò  che  il  vede  entro  e  fuor  tutte  le 
cose  naturali,  a  fine  che  tutto  non  solo  intrinseca,  ma  anco 
estrinsecamente  venga  a  prodursi  e  mantenersi  nella  propria 
simmetria.  Da  Empedocle  è  chiamato  «distintore» ^\  come 
quello  che  mai  si  stanca  ne  l'esplicare  le  forme  confuse  nel  seno 
della  materia,  e  di  suscitar  la  generazione  de  l'una  dalla  corroz- 
zion  de  l'altra  cosa.  Plotino  lo  dice  «padre  e  progenitore»,  per 
che  questo  distribuisce  gli  semi  nel  campo  della  natura,  et  è  il  [115] 
prossimo  dispensator  [de]  le  forme ^^.  Da  noi  si  chiama  «artefice 

27.  Cfr.  il  NcLxog  e  la  Oi^tóxTig  di  Empedocle  (in  H.  Diels,  Die  Fragmente  der 
Vorsokratiker,  Berlin,  1903,  B  17,  vv.  19-20). 

28.  Gli  autori  della  tradizione  ermetica. 

29.  Espressione  ermetica;  cfr.  Corpus  hermeticum,  IX,  6,  ed.  a  cura  di  A.-J. 
Festugière,  Paris,  1946  [2^  ed.,  Paris,  1972,  p.  99]:  «òyadòg  i,wr]c,  ytwgyòc,» 
(«buon  seminatore  di  vita»). 

30.  M.  Pigino,  Theologia  Platonica,  II,  io  B,  Parisiis,  1559  [rist  anastatica, 
Hildesheim-New  York,  1975,  p.  29"^]:  «Quapropter  divina  mens  cum  sit  infi- 
nita, merito  nominatur  ab  Orphicis  cìjieiqov  ó[i[ia,  id  est,  oculus  infinitus»; 
G.  P.  Valeriano,  Hierogliphica,  XXXIII,  §  Deus,  Basilea,  1575,  p.  234C:  «...  Deum 
illum  optimum  maximum,  mundi  oculum,  patrum  luminum  a  Jacobo  nuncu- 
patum,  omnia  formositate  transcendere  omniaque  gubemare,  atque,  ut  ait 
Apostolus,  nihil  eum  latere...»  (traduz.  del  p.  Figliuccio  senese,  Venetia,  1602, 
p.  481:  «...  Dio  ottimo,  e  grandissimo,  è  l'occhio  del  mondo,  padre  di  tutti  i 
lumi  detto  da  S.  Giacomo,  tutte  le  cose  con  la  sua  bellezza  trapassa,  tutte  le 
cose  governa.  Et  come  dice  l'Apostolo  niente  gli  è  celato...»);  E.  Wind,  Misteri 
pagani  nel  Rinascimento,  traduz.  di  P.  Bertolucci,  Milano,  1971,  figura  n.  84, 
illustrazione  di  Orapollo  Quo  modo  Deum.  La  definizione  è  classica  (cfr.  Ovidio, 
Metam.,  IV,  228),  umanistica  (cfr.  G.  Pico,  Heptaplus),  rinascimentale  e  bru- 
niana  (cfr.  De  compendiosa  architectura,  Op.  lai.,  II,  2,  p.  55:  «Quid  sol?  "Oculus 
mundi"»  -  «Cosa  è  il  sole?  "L'occhio  del  mondo"»). 

31.  «Forse  il  Bruno  scambia  Anassagora  con  Empedocle,  poiché  il  concetto 
di  una  Mente  che  distingue  ciascuna  cosa  dal  caos  iniziale  in  cui  tutte  trovansi 
confuse  è  proprio  di  Anassagora»  (R.  Amerio). 

32.  Cfr.  M.  FiciNO,  ad  Platini  Enneades,  IV,  4,  12,  ed.  cit.,  p.  407:  «Formae 
sive  rationes  rerum  seminales  in  natura  sunt  ultima  quaedam  vestigia  divino- 


654  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

intemo»,  perché  forma  la  materia,  e  la  figura  da  dentro,  come 
da  dentro  del  seme  o  radice  manda  et  esplica  il  stipe,  da  dentro 
il  stipe  caccia  i  rami,  da  dentro  i  rami  le  formate  brande,  da 
dentro  queste  ispiega  le  gemme,  da  dentro  forma,  figura,  intesse, 
come  di  nervi,  le  frondi,  gli  fiori,  gli  frutti,  e  da  dentro  a  certi 
tempi  richiama  gli  suoi  umori  da  le  frondi  e  frutti  alle  brance; 
da  le  brance,  a  gli  rami;  da  gli  rami,  al  stipe;  dal  stipe  alla  ra- 
dice: similmente  ne  gli  animali  spiegando  il  suo  lavore  dal  seme 
prima  e  dal  centro  del  cuore,  a  li  membri  estemi,  e  da  quelli  al 
fine  complicando  verso  il  cuore  l'esplicate  facultadi,  fa  come  già 
venesse  a  ringlomerare  le  già  distese  fila'\  Or  se  credemo  non 
essere  senza  discorso  et  intelletto  prodotta  quell'opera  come 
morta  che  noi  sappiamo  fengere  con  certo  ordine  et  imitazione 
ne  la  superficie  della  materia,  quando  scorticando  e  scalpel- 
lando un  legno,  facciamo  apparir  l'effige  d'un  cavallo,  quanto 
credere  debbiamo  esser  maggior  quell'intelletto  artefice,  che  da 
l'intrinseco  della  seminai  materia  risalda  l'ossa,  stende  le  carti- 
lagini, incava  le  arterie,  inspira  i  pori,  intesse  le  fibre,  ramifica 
gli  nervi,  e  con  sì  mirabile  magistero  dispone  il  tutto?  Quanto, 
dico,  più  grande  artefice  è  questo,  il  quale  non  è  attaccato  ad 
una  sola  parte  de  la  materia,  ma  opra  continuamente  tutto  in 
tutto?  Son  tre  sorte  de  intelletto:  il  divino  che  è  tutto,  questo 
[117I  mundano  che  fa  tutto,  gli  altri  particolari  che  si  fanno  tutto; 
perché  bisogna  che  tra  gli  estremi  se  ritrove  questo  mezzo,  il 
quale  è  vera  causa  efficiente,  non  tanto  estrinseca  come  anco 
intrinseca,  de  tutte  cose  naturali. 

DicsoNO.  —  Vi  vorei  veder  distinguere  come  la  intendete 
causa  estrinseca,  e  come  intrinseca. 

Teofilo.  —  Lo  chiamo  causa  estrinseca  perché  come  effi- 
ciente non  è  parte  de  li  composti  e  cose  produtte;  è  causa  intrin- 
seca in  quanto  che  non  opra  circa  la  materia  e  fuor  di  quella, 

rum»;  G.  Bruno,  Sigillus  sigillorum,  II,  io,  Qp.  lai.,  II,  2,  p.  202:  «[Forma]  Pater 
formarumque  dator  appellatur»  (traduz.  di  N.  Tirinnanzi,  Milano,  1997,  p.  413: 
«[La  forma]  è  chiamata  padre  e  datore  delle  forme»). 

33.  Per  il  significato  di  questo  passo  dal  punto  di  vista  della  storia  delle 
scienze,  cfr.  W.  Pagel,  G.  Bruno:  the  Philosophy  of  Circles  and  Circular  Movement 
of  the  Blood,  «Journal  of  the  History  of  Medicine»  [New  Haven],  VI,  1951, 
pp.  116-124.  Passi  analoghi  in  G.  Bruno,  De  minimo,  I,  3;  De  monade,  II;  De 
rerum  principiis;  De  Immenso,  VI,  8  {Qp.  lat..  I,  3,  p.  142  =  ed.  Monti  cit,  p.  100; 
I,  2,  p.  347  =  ed.  cit,  p.  309;  II.  pp.  521-522;  I,  2,  pp.  185-187  =  ed.  cit.  pp. 
712-713). 


DIALOGO  SECONDO  655 

ma  come  è  stato  poco  fa  detto:  onde  è  causa  estrinseca  per  l'es- 
ser suo  distinto  dalla  sustanza  et  essenza  de  gli  effetti,  e  perché 
l'essere  suo  non  è  come  di  cose  generabili  e  corrottibili,  benché 
verse  circa  quelle;  è  causa  intrinseca  quanto  a  l'atto  della  sua 
operazione. 

DicsoNO.  -  Mi  par  ch'abbiate  a  bastanza  parlato  della  causa 
efficiente.  Or  vorei  intendere  che  cosa  è  quella  che  volete  sia  la 
causa  formale  gionta  a  l'efficiente:  è  forse  la  raggione  ideale?  per 
che  ogni  agente  che  opra  secondo  la  regola  intellettuale,  non 
procura  effettuare,  se  non  secondo  qualche  intenzione,  e  questa 
non  è  senza  apprensione  di  qualche  cosa;  e  questa  non  è  altro 
che  la  forma  de  la  cosa  che  è  da  prodursi:  e  per  tanto  questo 
intelletto  che  ha  facultà  di  produre  tutte  le  specie,  e  cacciarle 
con  sì  bella  architettura  dalla  potenza  della  materia  a  l'atto,  bi- 
sogna che  le  preabbia  tutte,  secondo  certa  raggion  formale, 
senza  la  quale  l'agente  non  potrebe  procedere  alla  sua  manifat- 
tura; come  al  statuario  non  è  possibile  d'exequir  diverse  statue, 
senza  aver  precogitate  diverse  forme  prima.  [119] 

Teofilo.  -  Eccellentemente  la  intendete;  per  che  voglio  che 
siano  considerate  due  sorte  di  forme:  l'una,  la  quale  è  causa, 
non  già  efficiente,  ma  per  la  quale  l'efficiente  effettua;  l'altra  è 
principio,  la  quale  da  l'efficiente  è  suscitata  da  la  materia. 

DicsoNO.  -  Il  scopo  e  la  causa  finale  la  qual  si  propone  l'ef- 
ficiente, è  la  perfezzion  dell'universo:  la  quale  è  che  in  diverse 
parti  della  materia  tutte  le  forme  abbiano  attuale  existenza:  nel 
qual  fine  tanto  si  deletta  e  si  compiace  l'intelletto,  che  mai  si 
stanca  suscitando  tutte  sorte  di  forme  da  la  materia,  come  par 
che  voglia  ancora  Empedocle  ^"^. 

Teofilo.  -  Assai  bene:  e  giongo  a  questo  che  sicome  questo 
efficiente  è  universale  nell'universo,  et  è  speciale  e  particulare 
nelle  parti  e  membri  di  quello,  cossi  la  sua  forma  et  il  suo  fine. 

DicsoNO.  -  Or  assai  è  detto  delle  cause:  procediamo  a  raggio- 
nar  de  gli  principii. 

Teofilo.  —  Or  per  venire  a  li  principii  constitutivi  de  le 
cose,  prima  raggionarò  de  la  forma  per  esser  medesma  in  certo 

34.  «Il  Bruno,  attingendo  a  fonti  medioevali,  si  riferisce  forse  indiretta- 
mente ai  w.  del  fr.  35  di  Empedocle»  (Gentile).  Cfr.  H.  Diels,  Die  Fragmente 
cit,  B  35). 


656  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

modo  con  la  già  detta  causa  efficiente:  per  che  l'intelletto  che  è 
una  potenza  de  l'anima  del  mondo,  è  stato  detto  efficiente  pros- 
simo di  tutte  cose  naturali. 

DiCSONO.  —  Ma  come  il  medesmo  soggetto  può  essere  princi- 
pio e  causa  di  cose  naturali?  come  può  aver  raggione  di  parte 
intrinseca  e  non  di  parte  intrinseca? 

Teofilo.  —  Dico  che  questo  non  è  inconveniente,  conside- 
rando che  l'anima  è  nel  corpo  come  nochiero  nella  nave:  il  qual 
nocchiero,  in  quanto  vien  mosso  insieme  con  la  nave,  è  parte  di 
[121]  quella^';  considerato  in  quanto  che  la  governa  e  muove,  non  se 
intende  parte,  ma  come  distinto  efficiente:  cossi  l'anima  de 
l'universo,  in  quanto  che  anima  et  informa,  viene  ad  esser  parte 
intrinseca  e  formale  di  quello;  ma  come  che  drizza  e  governa, 
non  è  parte,  non  ha  raggione  di  principio,  ma  di  causa.  Questo 
ne  accorda  l'istesso  Aristotele:  il  qual  quantumque  neghi 
l'anima  aver  quella  raggione  verso  il  corpo,  che  ha  il  nocchiero 
alla  nave'*^,  tutta  volta,  considerandola  secondo  quella  poten- 
za con  la  quale  intende  e  sape,  non  ardisce  di  nomarla  atto  e 
forma  di  corpo;  ma  come  uno  efficiente  separato  dalla  materia 
secondo  l'essere,  dice  che  quello  è  cosa  che  viene  di  fuora,  se- 
condo la  sua  subsistenza,  divisa  dal  composto  ^^. 

DicsoNO.  —  Approvo  quel  che  dite,  per  che  se  l'essere  sepa- 
rata dal  corpo  alla  potenza  intellettiva  de  l'anima  nostra  con- 
viene, e  lo  aver  raggione  di  causa  efficiente,  molto  più  si  deve 
affirmare  de  l'anima  del  mondo;  per  che  dice  Plotino  scrivendo 
contra   gli    Gnostici,   che    «con    maggior   facilità   l'anima   del 

35.  Cfr.  A.  Mercati,  Il  sommario  del  processo  di  G.  Bruno,  Città  del  Vati- 
cano, 1942,  §  259,  pp.  118-119:  «Dove  non  intendo  secondo  l'ordine  del  mio 
filosofare  l'anima  esser  forma,  come  nessuno  luogo  della  divina  scrittura  la 
chiama  così,  ma  spirito  ch'è  nel  corpo  bora  come  habitante  nella  sua  casa...»; 
questa  posizione  era  considerata  eretica,  poiché  il  Concilio  di  Vienne  (131 1- 
1312)  aveva  riprovato  «come  erronea  e  contraria  alla  verità  della  fede  catto- 
lica, ogni  dottrina  o  tesi  che  asserisce  temerariamente,  o  revoca  in  dubbio,  che 
la  sostanza  dell'anima  razionale  o  intellettiva  non  sia  veramente  e  per  sé  la 
forma  del  corpo  umano»  (cfr.  Decisioni  dei  Concili  ecumenici,  a  cura  di  G.  Albe- 
rigo, Torino,  1978,  p.  333);  cfr.  G.  Bruno,  Spaccio.  Epistola  esplicatoria,  p.  182; 
De  umbris  idearum,  Op.  lat..  II,  i,  p.  42;  Lampas  triginta  statuarnm.  «De  ulti- 
ma et  tertia  praxi»,  «Ex  campo  Veneris»,  I,  Op.  lat..  Ili,  p.  253  (cfr.  inoltre 
F.  Tocco,  Le  opere  inedite  di  G.  Bruno.  Napoli,  1891,  pp.  57-61). 

36.  Cfr.  Aristotele,  De  anima,  II,  2,  413  a  8.9. 

37.  Ivi.  Ili,  5,  430  a  17  e  segg. 


DIALOGO  SECONDO  657 

mondo  regge  l'universo,  che  l'anima  nostra  il  corpo  nostro  »^^, 
poscia  è  gran  differenza  dal  modo  con  cui  quella  e  questa  go- 
verna. Quella  non  come  alligata  regge  il  mondo  di  tal  sorte,  che 
la  medesma  non  leghi  ciò  che  prende;  quella  non  patisce  da 
l'altre  cose  né  con  l'altre  cose;  quella  senza  impedimento 
s'inalza  alle  cose  superne;  quella  donando  la  vita  e  perfezzione 
al  corpo  non  riporta  da  esso  imperfeczione  alcuna:  e  però  eter- 
namente è  congionta  al  medesmo  soggetto.  Questa  poi  è  ma- 
nifesto che  è  di  contraria  condizione.  Or  se  secondo  il  vostro 
principio  le  perfeczioni  che  sono  nelle  nature  inferiori,  più  alta-  [123] 
mente  denno  essere  attribuite  e  conosciute  nelle  nature  supe- 
riori, doviamo  senza  dubio  alcuno  affirmare  la  distinzione  che 
avete  apportata.  Questo  non  solo  viene  affirmato  ne  l'anima  del 
mondo,  ma  anco  de  ciascuna  stella,  essendo  (come  il  detto  filo- 
sofo vòle)  che  tutte  hanno  potenza  di  contemplare  Mio,  gli 
principii  di  tutte  le  cose  e  la  distribuzione  de  gli  ordini  de  l'uni- 
verso: e  vòle  che  questo  non  accade  per  modo  di  memoria,  di 
discorso  e  considerazione:  per  che  ogni  lor  opra  è  opra  etema,  e 
non  è  atto  che  gli  possa  esser  nuovo,  e  però  niente  fanno  che 
non  sia  al  tutto  condecente,  perfetto,  con  certo  e  prefisso  ordine, 
senza  atto  di  cogitazione^'';  come  per  essempio  di  un  perfetto 
scrittore  e  citarista  mostra  ancora  Aristotele,  quando  per  questo 
che  la  natura  non  discorre  e  ripensa,  non  vuole  che  si  possa 
conchiudere  che  ella  opra  senza  intelletto  et  intenzion  finale: 
per  che  li  musici  e  scrittori  equisiti,  meno  sono  attenti  a  quel 
che  fanno,  e  non  errano  come  gli  più  rozzi  et  inerti,  gli  quali 
con  più  pensarvi  et  attendervi,  fanno  l'opra  men  perfetta  et 
anco  non  senza  errore-^". 

Teofilo.  —  La  intendete.  Or  venemo  al  più  particolare.  Mi 
par  che  detrahano  alla  divina  bontà  et  all'eccellenza  di  questo 
grande  animale  e  simulacro  del  primo  principio,  quelli  che  non 
vogliono  intendere  né  affirmare  il  mondo  con  gli  suoi  membri 

38.  Lo  stesso  titolo  introdotto  da  Ficino  nella  sua  traduzione  di  Plotino, 
Enn.,  II,  9,  7,  ed.  cit.,  p.  205:  Quomodo  facilius  anima  mundi  regat  mundum,  quam 
anima  nostra  corpus  nostrum. 

39.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  II,  2,  2;  IV,  4,  38  (ed.  a  cura  di  M.  Casaglia,  C.  Gui- 
delli,  A.  Linguiti,  F.  Moriani,  Torino,  1997,  2  voli.:  I,  pp.  250-251  e  II,  p.  633). 

40.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai,  II,  8,  199  b  26-28;  De  anima,  II,  415  b 
16-17;  Ethica  ad  Nicomachum,  II,  i,  1103  a  26-1103  b  2  (per  il  paragone  con  le 
arti). 


658  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

essere  animato**';  come  Dio  avesse  invidia  alla  sua  imagine,  1 
come  l'architetto  non  amasse  l'opra  sua  singulare:  di  cui  dice  I 
Platone  che  si  compiaque  nell'opificio  suo,  per  la  sua  similitu- 
dine che  remirò  in  quello"*^.  E  certo  che  cosa  può  più  bella  di 
[125]  questo  universo  presentarsi  a  gli  occhi  della  divinità?  et  es- 
sendo che  quello  costa  di  sue  parti,  a  quali  di  esse  si  deve  più 
attribuire  che  al  principio  formale?  Lascio  a  meglio  e  più  parti- 
colar  discorso  mille  raggioni  naturali  oltre  questa  topicale  o  lo- 
gica. 

DicsoNO.  —  Non  mi  curo  che  vi  sforziate  in  ciò,  atteso  non  è 
filosofo  di  qualche  riputazione,  anco  tra  Peripatetici,  che  non 
voglia  il  mondo  e  le  sue  sfere  essere  in  qualche  modo  anima- 
te-*^  Vorei  ora  intendere  con  che  modo  volete  che  questa  forma 
venga  ad  insinuarsi  alla  materia  de  l'universo. 

Teofilo.  -  Se  gli  gionge  di  maniera  che  la  natura  del  corpo, 
la  quale  secondo  sé  non  è  bella,  per  quanto  è  capace  viene  a 
farsi  partecipe  di  bellezza,  atteso  che  non  è  bellezza  se  non  con- 
siste in  qualche  specie  o  forma,  non  è  forma  alcuna  che  non  sia 
prodotta  da  l'anima-*-*. 

DicsoNO.  —  Mi  par  udir  cosa  molto  nova:  volete  forse  che 
non  solo  la  forma  de  l'universo,  ma  tutte  quante  le  forme  di 
cose  naturali  siano  anima? 

Teofilo.  -  Sì. 

DicsONO.  —  Sono  dumque  tutte  le  cose  animate? 

Teofilo.  -  Sì. 

DicsoNO.  -  Or  chi  vi  accordare  questo? 

Teofilo.  -  Or  chi  potrà  riprovarlo  con  raggione? 

DicsoNO.  -  E  comune  senso  che  non  tutte  le  cose  vivono. 
[127]        Teofilo.  -  Il  senso  più  comune  non  è  il  più  vero. 

41.  Per  la  teologia  cristiana.  Dio  è  causa  diretta  del  mondo,  senza  l'apporto 
di  un'Anima  del  Mondo. 

42.  Cfr.  Platone,  Timaeiis,  29  e. 

43.  In  Aristotele,  effettivamente,  esistono  alcune  allusioni  ad  una  siffatta 
«animazione»  universale,  ma  si  tratta  di  passi  che  devono  essere  interpretati 
nel  contesto  in  cui  appaiono. 

44.  Si  veda  il  titolo  di  Ricino  a  Plotino,  Enn.,  I,  6,  2,  ed.  cit,  p.  51:  Pulchri- 
tudo  in  corporibus  est  flos  formae  materiae  superantis  propter  imperium  idealis 
rationis  super  materiam  (cfr.  l'ed.  italiana  cit.,  I,  pp.  igi-193):  G.  Bruno,  De  gli 
eroici  furori,  I,  5,  p.  611:  «La  raggion  dumque  apprende  il  più  vero  bello  per 
conversione  a  quello  che  fa  la  beltade  nel  corpo,  e  viene  a  formarlo  bello;  e 
questa  è  l'anima  che  l'ha  talmente  fabricato  e  infigurato». 


DIALOGO  SECONDO  659 

DicsoNO.  —  Credo  facilmente  che  questo  si  può  difendere.  Ma 
non  bastarà  a  far  una  cosa  vera  per  che  la  si  possa  difendere: 
atteso  che  bisogna  che  si  possa  anco  provare. 

Teofilo.  —  Questo  non  è  diffìcile.  Non  son  de  filosofì  che 
dicono  il  mondo  essere  animato? '•^ 

DicsONO.  —  Son  certo  molti,  e  quelli  principalissimi. 

Teofilo.  —  Or  perché  gli  medesmi  non  diranno  le  parti  tutte 
del  mondo  essere  animate? 

DicsONO.  —  Lo  dicono  certo,  ma  de  le  parti  principali  e 
quelle  che  son  vere  parti  del  mondo:  atteso  che  non  in  minor 
raggione  vogliono  l'anima  essere  tutta  in  tutto  il  mondo,  e  tutta 
in  qualsivoglia  parte  di  quello"*"^,  che  l'anima  de  gli  animali  a 
noi  sensibili,  è  tutta  per  tutto. 

Teofilo.  -  Or  quali  pensate  voi  che  non  siano  parti  del 
mondo  vere? 

DicsONO.  —  Quelle  che  non  son  primi  corpi  come  dicono  i 
Peripatetici:  la  terra  con  le  acqui  et  altre  parti,  le  quali,  secondo 
il  vostro  dire,  constituiscono  l'animale  intiero,  la  luna,  il  sole  et 
altri  corpi.  Oltre  questi  principali  animali  son  quei  che  non 
sono  primere  parti  de  l'universo,  de  quali  altre  dicono  aver 
l'anima  vegetativa,  altre  la  sensitiva,  altre  la  intellettiva. 

Teofilo.  -  Or  se  l'anima  per  questo  che  è  nel  tutto,  è  anco 
ne  le  parti,  per  che  non  volete  che  sia  ne  le  parti  de  le  parti?      [129] 

DicsONO.  -  Voglio,  ma  ne  le  parti  de  le  parti  de  le  cose  ani- 
mate. 

Teofilo.  —  Or  quali  son  queste  cose  che  non  sono  animate,  o 
non  son  parte  di  cose  animate? 

DicsoNO.  —  Vi  par  che  ne  abbiamo  poche  avanti  gli  occhi? 
Tutte  le  cose  che  non  hanno  vita. 


45.  Cfr.  Aristotele,  De  anima,  I,  5,  411  a  7  e  segg. 

46.  Cfr.  G.  Bruno,  De  immenso,  VII,  18,  Of.  lai.,  I,  2,  p.  284:  «anima  ubique 
est  una,  spiritus  unus  mundanus,  totus  in  toto  et  qualibet  sui  parte»  (ed.  Monti 
cit,  p.  784:  «Ovunque  è  un'unica  anima,  un  unico  spirito  del  mondo,  tutto  nel 
tutto  ed  in  qualsiasi  sua  parte»);  Sigillus  sigillorum,  II,  3,  Op.  lai..  Il,  2,  p.  196: 
«...  cum  anima  ubique  praesens  existat,  illaque  tota  in  toto  et  in  quaecumque 
parte  tota...»  (traduz.  Tirinnanzi  cit,  p.  403:  «giacché  l'anima  è  presente  dovun- 
que, è  tutta  in  tutto  ed  è  tutta  in  qualsiasi  parte»).  Si  veda  altresì  il  titolo  dato 
da  Ficino  alla  sua  traduz.  di  Plotino,  Enn.,  IV,  4,  36,  ed.  cit,  p.  430:  Una 
mundi  anima  omnes  licei  aliter  alias  vegetai  mundi  partes,  atque  ipsa  ...  exundat  in 
ioium. 


660  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Teofilo.  —  E  quali  son  le  cose  che  non  hanno  vita,  al  meno 
principio  vitale? 

DiCSONO.  -  Per  conchiuderia,  volete  voi  che  non  sia  cosa  che 
non  abbia  anima,  e  che  non  abbia  principio  vitale? 

Teofilo.  —  Questo  è  quel  ch'io  voglio  al  fine. 

POLIHIMNIO.  —  Dumque  un  corpo  morto  ha  anima?  dumque 
i  miei  calopodii,  le  mie  pianella,  le  mie  botte,  gli  miei  sproni  et 
il  mio  annulo  e  chiroteche-'^,  serano  animate?  la  mia  toga  et  il 
mio  pallio,  sono  animati? 

Gervasio.  —  Sì,  messersì,  mastro  Polihimnio,  per  che  non? 
Credo  bene  che  la  tua  toga  et  il  tuo  mantello  è  bene  animato, 
quando  contiene  un  animai  come  tu  sei  dentro;  le  botte  e  gli 
sproni  sono  animati,  quando  contegnono  gli  piedi;  il  cappello  è 
animato,  quando  contiene  il  capo,  il  quale  non  è  senza  anima;  e 
la  stalla  è  anco  animata  quando  contiene  il  cavallo,  la  mula  o 
ver  la  Signoria  vostra.  Non  la  intendete  cossi  Teofilo?  non  vi 
par  ch'io  l'ho  compresa  meglio  che  il  dominus  magisteri  "^^ 

Polihimnio.  —  Cuium  pecusì-^'^  come  che  non  si  trovano  de 
gli  asini  etiam  atque  etiam^^^  sottili?  hai  ardir  tu  apirocalo'',  abe- 
[131]  cedario,  di  volerti  equiparare  ad  un  archididascalo  e  moderator 
di  ludo  minervale52  par  mio? 

Gervasio.  —  Pax  vobis,  domine  magister,  servus  servorum  et 
scabellum  pedum  tuorum^^. 

47.  Calopodii:  «zoccoli»  oppure  «pantofole»  (cfr.  J.  Florio,  New  World  of 
Works,  London,  161 1,  p.  76);  chiroteche,  grecismo  estemporaneo  che  significa 
«guanti»  (cfr.  ivi,  p.  99). 

48.  «Il  signor  maestro». 

49.  «Di  chi  è  il  gregge?»:  modo  di  dire  dei  pedanti  (cfr.  Francesco  Pugiella 
cit  da  A.  e  K.  Salza,  Una  commedia  pedantesca  del  Cinquecento,  in:  Miscellanea 
di  studi  critici  edita  in  onore  di  A.  Graf,  Bergamo,  1903.  p.  436,  nota  2:  «[I  pe- 
danti] che  sempre  mostrano  masticare  il  cuius  genus  col  cuium  pecus»),  messo 
alla  berlina  da  L.  Dolce,  Ragazzo,  I,  5  e  che  proviene  da  un  verso  di  Virgilio, 
Bue,  ITI,  I,  ed.  Carena  cit.  pp.  86-87:  «Die  mihi,  Damoeta,  cuium  pecus?  an 
Moeliboei?»  («Dimmi,  Dameta,  di  chi  è  questo  gre^e?  di  Melibeo?»). 

50.  «Molte  e  molte  volte». 

51.  Grecismo  per  dire  «ignorante». 

52.  «Letterario»;  cfr.  Candelaio.  I.  5.  p.  289:  «almo  minervale  gimnasio»  e 
ITI,  12,  p.  342:  «moderator  di  ludo  literario». 

53.  «Pace  a  voi,  signor  maestro,  [io  sono]  lo  schiavo  dei  tuoi  schiavi  e  lo 
sgabello  dei  tuoi  piedi».  -  Pax  vobis:  «Pace  a  voi»  (cfr.  Giovanni,  XX,  19,  21, 
26).  -  Servus  servorum:  «schiavo  degli  schiavi»  (cfr.  Genesi,  IX,  25);  Servus  ser- 
vorum Dei  è,  inoltre,  uno  dei  titoli  del  Papa.  -  Scabellum  pedum  tuorum:  «lo 
sgabello  dei  tuoi  piedi»  è  un'espressione  ricorrente  nella  Bibbia,  cfr.  ad  es. 
Salmi,  ex  (CIX),  i. 


DIALOGO  SECONDO  66l 

PoLiHiMNio.  —  Maledicat  te  deus  in  secula  seculorum^'*. 

DicsONO.  —  Senza  còlerà:  lasciatene  determinare  queste  cose 
a  noi. 

PoLiHiMNio.  -  Prosequatur  ergo  sua  dogmata  Theophilus^^. 

Teofilo.  -  Cossi  farò.  Dico  dumque,  che  la  tavola  come  ta- 
vola non  è  animata,  né  la  veste,  né  il  cuoio  come  cuoio,  né  il 
vetro  come  vetro,  ma  come  cose  naturali  e  composte  hanno  in 
sé  la  materia  e  la  forma.  Sia  pur  cosa  quanto  piccola  e  minima 
si  voglia,  ha  in  sé  parte  di  sustanza  spirituale;  la  quale,  se  trova 
il  soggetto  disposto,  si  stende  ad  esser  pianta,  ad  esser  animale, 
e  riceve  membri  di  qualsivoglia  corpo,  che  comunmente  se  dice 
animato:  perché  spirto  si  trova  in  tutte  le  cose,  e  non  è  minimo 
corpusculo  che  non  contegna  cotal  porzione  in  sé,  che  non  ina- 
nimi. 

POLIHIMNIO.  —  Ergo  quidquid  est,  animai  est^^. 

Teofilo.  —  Non  tutte  le  cose  che  hanno  anima  si  chiamano 
animate. 

DicsoNO.  —  Dumque  al  meno  tutte  le  cose  han  vita? 

Teofilo.  —  Concedo  che  tutte  le  cose  hanno  in  sé  anima, 
hanno  vita,  secondo  la  sustanza,  e  non  secondo  l'atto  et  opera- 
zione conoscibile  da  Peripatetici  tutti,  e  quelli  che  la  vita  et  [133] 
anima  definiscono  secondo  certe  raggioni  troppo  grosse. 

DicsoNO.  —  Voi  mi  scuoprite  qualche  modo  verisimile  con  il 
quale  si  potrebe  mantener  l'opinion  d'Anaxagora,  che  voleva 
ogni  cosa  essere  in  ogni  cosa^^:  perché  essendo  il  spirto  o  ani- 

54.  «Ti  maledica  Dio  per  tutti  i  secoli»,  parafrasi  parodica  di  Tobia,  Vili,  5 
e  15:  «Benedetto  sei  tu.  Dio  dei  nostri  Padri;  e  benedetto  per  tutte  le  genera- 
zioni il  tuo  nome!  Ti  benedicano  i  cieli  e  tutte  le  creature  per  tutti  i  secoli!». 

55.  «Che  Teofilo  continui  dunque  i  suoi  ragionamenti». 

56.  «Dunque,  tutto  ciò  che  è,  è  animale». 

57.  Cfr.  G.  Bruno,  Lampas  triginta  statuarum,  «De  patre  seu  mente  seu  ple- 
nitudine», XXIII,  Op.  lai..  Ili,  p.  42:  «Dicitur  omnia  in  omnibus,  ex  qua  ratione 
quia  ipse  est  totus  ubique  praesens,  dixit  Anaxagoras  "omnia  esse  in  omnibus"; 
quia  qui  est  omnia,  est  in  omnibus».  Qui,  come  altrove  (cfr.  Sigillus  sigillorum, 
II,  3,  Op.  lai.,  II,  2,  p.  196),  Bruno  accosta  in  modo  arbitrario  la  dottrina  neo- 
platonica ed  il  pensiero  di  Anassagora.  Sull'utilizzazione  di  tale  tema  anassa- 
goreo  —  che  gli  proviene  da  N.  Cusano  (cfr.  De  doda  ignorantia,  II,  5,  ed.  Fede- 
rici-Vescovini cit,  p.  121:  «Qualunque  cosa  in  qualunque  cosa»)  ritrovandosi 
nei  frammenti  del  filosofo  greco  (cfr.  H.  Diels,  Fragmente  cit,  B  6,  8  e  11) 
secondo  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  Ili,  4,  203  a  19  e  segg.;  I,  4,  187  a  20  e 
segg.  -  segnatamente  in  questo  passo  del  De  la  causa,  così  come  nel  Dialogo 
quinto  del  De  l'infinito  e  nell'Argumento  del  Degl'heroici  furori,  cfr.  A.  NowiCKi, 
Alchemiczna  trésc  mitów  a  filozoficzna  antropologia  G.  Bruna,  «Euhemer»  [Wars- 


662  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ma  o  forma  universale  in  tutte  le  cose,  da  tutto  si  può  produr 
tutto. 

Teofilo.  —  Non  dico  verisimile,  ma  vero:  perché  quel  spirto 
si  trova  in  tutte  le  cose,  le  quali  se  non  sono  animali,  sono  ani- 
mate; se  non  sono  secondo  l'atto  sensibili  d'animalità  e  vita, 
son  però  secondo  il  principio  e  certo  atto  primo  d'animalità  e 
vita.  E  non  dico  di  vantaggio,  perché  voglio  supersedere  circa  la 
proprietà  di  molti  lapilli  e  gemme:  le  quali  rotte  e  recise  e  poste 
in  pezzi  disordinati,  hanno  certe  virtù,  di  alterar  il  spirto  et  in- 
generar novi  affetti  e  passioni  ne  l'anima,  non  solo  nel  corpo.  E 
sappiamo  noi  che  tali  effetti  non  procedeno,  né  possono  prove- 
nire da  qualità  puramente  materiale,  ma  necessariamente  si  re- 
feriscono a  principio  simbolico  vitale  et  animale;  oltre  che  il 
medesmo  veggiamo  sensibilmente  ne'  sterpi  e  radici  smorte,  che 
purgando  e  congregando  gli  umori,  alterando  gli  spirti,  mo- 
strano necessariamente  effetti  di  vita.  Lascio  che  non  senza  cag- 
gione  gli  necromantici  58  sperano  effettuar  molte  cose  per  le  ossa 
de  morti:  e  credeno  che  quelle  ritegnano,  se  non  quel  medesmo, 
un  tale  però  e  quale  atto  di  vita,  che  gli  viene  a  proposito  a 
effetti  estraordinarii.  Altre  occasioni'^  mi  faranno  più  a  lungo 
[135]  discorrere  circa  la  mente,  il  spirto,  l'anima,  la  vita  che  penetra 
tutto,  è  in  tutto  <'°,  e  move  tutta  la  materia,  empie  il  gremio  di 
quella,  e  la  sopravanza  più  tosto  che  da  quella  è  sopravanzata: 

zawa],  LXXIII,  1969,  n.  3.  Gli  sviluppi  del  pensiero  di  Anassagora  nel  pensiero 
bruniano  sono  stati  studiati  da  R.  Klein,  La  forma  e  l'intelligibile,  traduz.  ita- 
liana, Torino,  1975,  pp.  71-73. 

58.  Cfr.  G.  Bruno,  Sigillus  sigillorum,  II,  4,  Op.  lai.,  II,  2,  p.  197:  «Mirto  quod 
Inter  mathematica  et  physica  debetur  locus  quorundam  naturalium  corporura 
profluviis  integrum  characterem  ad  certam  intercapedinem  servantibus,  qui- 
bus  quandoque  Magi  ad  aliquem  perdendum  uti  consuevere.  Id  sensit  Heracli- 
tus  et  Epicurus,  Synesius  et  Proclus  confirmavere,  nos  minime  ignoramus,  et 
necromantici  maxime  experiuntur»  (traduz.  Tirinnanzi  cit.,  p.  405:  «Lascio  poi 
da  parte  il  fatto  che  a  metà  tra  gli  enti  matematici  e  quelli  fisici  si  apre  uno 
spazio  destinato  ai  flussi  di  certi  corpi  naturali,  flussi  che  conservano  un  ca- 
rattere immutabile  rispetto  ad  una  determinata  interruzione;  di  questi  furono 
soliti  servirsi  di  quando  in  quando  i  Magi  per  uccidere  qualcuno.  Mostrarono 
consenso  verso  questa  opinione  Eraclito  ed  Epicuro,  Sinesio  e  Proclo  lo  confer- 
marono, noi  stessi  non  ne  siamo  affatto  all'oscuro  e  soprattutto  ne  fanno  espe- 
rienza i  necromanti»).  Cfr.  F.  Tocco,  Le  opere  latine  di  G.  Bruno  esposte  e  con- 
frontate con  le  italiane.  Firenze,  1889,  pp.  81-82,  nota  3. 

59.  Cfr.  Dialogo  quarto,  ma  anche  De  l'infinito  ed  il  De  immenso. 

60.  Cfr.  G.  Fracastoro,  Fracastorius  sive  de  anima,  in  Opera  omnia.  Vene- 
tia,  I574^  f.  ^o\ 


DIALOGO  SECONDO  663 

atteso  che  la  sustanza  spirituale  dalla  materiale  non  può  essere 
superata,  ma  più  tosto  la  viene  a  contenere^^ 

DicsoNO.  —  Questo  mi  par  conforme  non  solo  al  senso  di  Pi- 
tagora, la  cui  sentenza  recita  il  Poeta  quando  dice: 

Principio  caelum  ac  terras  camposque  liquentes, 
lucentemque  globum  lunae  Titaniaque  astra 
spiritus  intus  alti,  totamque  infusa  per  arctus 
mens  agitai  molem,  totoque  se  carpare  miscet^^; 

ma  ancora  al  senso  del  Teologo,  che  dice:  «Il  spirto  colma  et 
empie  la  terra,  e  quello  che  contiene  il  tutto »^^.  Et  un  altro 
parlando  forse  del  commercio  de  la  forma  con  la  materia  e  la 
potenza,  dice  che  è  sopravanzata  da  l'atto  e  da  la  forma. 

Teofilo.  —  Se  dumque  il  spirto,  la  anima,  la  vita  si  ritrova 
in  tutte  le  cose,  e  secondo  certi  gradi  empie  tutta  la  materia, 
viene  certamente  ad  essere  il  vero  atto,  e  la  vera  forma  de  tutte 
le  cose.  L'anima  dumque  del  mondo  è  il  principio  formale  con- 
stitutivo  de  l'universo,  e  di  ciò  che  in  quello  si  contiene;  dico 
che  se  la  vita  si  trova  in  tutte  le  cose,  l'anima  viene  ad  esser 
forma  di  tutte  le  cose:  quella  per  tutto  è  presidente  alla  materia, 
e  signoreggia  nelli  composti,  effettua  la  composizione  e  consi- 
stenzia  de  le  parti '^.  E  però  la  persistenza  non  meno  par  che  si 
convegna  a  cotal  forma,  che  a  la  materia.  Questa  intendo  essere 
una  di  tutte  le  cose;  la  qual  però  secondo  la  diversità  delle  di- 
sposizioni della  materia,  e  secondo  la  facultà  de  principii  mate- 
riali attivi  e  passivi  ^5,  viene  a  produr  diverse  figurazioni  et  ef-  [137] 
fettuar  diverse  facultadi,  alle  volte  mostrando  effetto  di  vita 


61.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  IV,  3,  20-23  ^^  ^^^  il  titolo  di  VI,  4,  2,  nella  traduz. 
latina  di  Ficino  cit.,  p.  645:  «Mundus  intelligibilis,  id  est  ens  primum  est  ve- 
runi, universum  atque  magnum,  quoniam  et  cuncta  entia  est,  et  est  in  quolibet 
sui  totum,  nec  est  in  universo.  Et  quum  dicitur  ubique  esse,  est  ipsum  quod 
appellatur  ubique.  Mundus  vero  sensibilis  est  vere  parvus,  quia  ubique  constat 
ex  parvis.  Atque  est  in  mundo  superiore  non  tanquam  in  loco  continente,  nec 
tanquam  in  intervallo  quodam  vacuo,  sed  tanquam  in  efficiente,  servante,  si- 
stente,  movente,  comprehendente...». 

62.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  VI,  724-727,  ed.  Carena  cit.,  pp.  568-569:  «Da  prin- 
cipio il  cielo  e  la  terra  e  le  piane  liquide  e  il  luminoso  globo  della  luna  e  il 
titanico  astro  uno  spirito  all'interno  vivifica  e,  infuse  in  tutte  le  membra,  una 
mente  muove  l'intera  massa  e  a  [tutto]  il  corpo  si  mescola». 

63.  Salomone,  nella  Sapienza,  I,  7. 

64.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  IV,  7,  9  (ed.  italiana  cit.,  voi.  II,  pp.  685-686). 

65.  Da  una  parte,  il  caldo  e  il  freddo.  Dall'altra,  l'umido  e  il  secco. 


664  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

senza  senso,  tal  volta  effetto  di  vita  e  senso  senza  intelletto,  tal 
volta  par  ch'abbia  tutte  le  facultadi  suppresse  e  reprimute  o 
dalla  imbecillità  o  da  altra  raggione  de  la  materia ^^.  Cossi  mu- 
tando questa  forma  sedie  e  vicissitudine,  è  impossibile  che  se 
annulle:  perché  non  è  meno  subsistente  la  sustanza  spirituale 
che  la  materiale.  Dumque  le  formi  esteriori  sole  si  cangiano,  e  si 
annullano  ancora,  perché  non  sono  cose,  ma  de  le  cose;  non 
sono  sustanze,  ma  de  le  sustanze  sono  accidenti  e  circostanze. 

PoLiHiMNio.  -  Non  entra  sed  entium^'^. 

DicsONO.  -  Certo  se  de  le  sustanze ^^  s'annullasse  qualche 
cosa,  verrebe  ad  evacuarse  il  mondo ^^. 

Teofilo.  -  Dumque  abbiamo  un  principio  intrinseco  for- 
male, etemo  e  subsistente,  incomparabilmente  megliore  di 
quello  che  han  finto  gli  sofisti  ^^,  che  versano  circa  gli  accidenti, 
ignoranti  della  sustanza  de  le  cose;  e  che  vengono  a  ponere  le 
sustanze  corrottibili  perché  quello  chiamano  massimamente, 
primamente  e  principalmente  sustanza,  che  resulta  da  la  com- 
posizione: il  che  non  è  altro  ch'uno  accidente,  che  non  contiene 
in  sé  nulla  stabilità  e  verità,  e  se  risolve  in  nulla^'.  Dico- 
no quello  esser  veramente  omo  che  resulta  dalla  composizio- 
ne; quello  essere  veramente  anima  che  è  o  perfezzione  et  atto 
di  corpo  vivente,  o  pur  cosa  che  resulta  da  certa  simmetria  di 
complessione  e  membri  ^2;  onde  non  è  maraviglia  se  fanno 
tanto,  e  prendeno  tanto  spavento  per  la  morte  e  dissoluzione: 

66.  Si  tratta,  nell'ordine,  delle  piante,  degli  animali  e  della  sostanza  inorga- 
nica. 

67.  «Non  sono  enti  ma  [caratteristiche]  degli  enti»;  cfr.  G.  Bruno,  Sigillus 
sigillorum,  Op.  lat.,  II,  2,  p.  180:  «...  superius  et  inferius  non  ens  sunt  sed  entis, 
non  sunt  id  quod  unum,  sed  quae  unius,  vel  ex  uno  vel  de  uno»  (traduz.  Ti- 
rinnanzi  cit.,  p.  378:  «superiore  ed  inferiore  non  sono  l'ente,  ma  sono  proprietà 
dell'ente,  non  sono  ciò  che  è  uno,  ma  ciò  che  è  proprio  dell'uno,  ovvero  deriva 
dall'uno,  ovvero  discende  dall'uno»);  Summa  terminorum  metaphysicorum, 
«Praemissa  de  ente  ejusque  synonymis»,  Op.  lat.,  I,  4,  pp.  7  e  segg.  (risi  anasta- 
tica a  cura  di  T.  Gregory-E.  Canone,  Roma,  1989,  pp.  as^-aS^).  Si  tratta  della 
distinzione  tra  essere  e  accidente. 

68.  Cioè  l'anima  del  mondo  e  la  materia. 

69.  Tema  derivato  da  Plotino,  Enti..  IV,  7,  9,  traduz.  latina  di  Ficino  cit, 
p.  463:  «caetera  omnia  dilabentur,  ncque  gignentur  iterum,  siquando  eiusmodi 
natura  perierit». 

70.  Nelle  sue  opere.  Bruno  chiama  «sofisti»  i  peripatetici. 

71.  Cfr.  G.  Bruno,  Spaccio,  Epistola  esplicatoria,  p.  181;  Lampas  triginta  sta- 
tuarum,  Op.  lat.  III,  pp.  253,  256. 

72.  Questa  definizione  dell'anima  come  armonia  del  corpo  (come  semplice 
epifenomeno,  dunque)  si  deve,  in  realtà,  al  pitagorico  Simmia:  cfr.  Platone, 
Phaedo,  86  b-c. 


DIALOGO  SECONDO  665 

come  quelli  a'  quali  è  imminente  la  iattura  de  l'essere.  Contra  la  [139] 
qual  pazzia  crida  ad  alte  voci  la  natura,  assicurandoci  che  non 
gli  corpi  né  l'anima  deve  temer  la  morte,  perché  tanto  la  mate- 
ria quanto  la  forma  sono  principii  constantissimi ^^: 

0  genus  attonitum  gelidae  formidine  mortis, 
quid  styga,  quid  tenebras,  et  nomina  vana  timetis, 
materiam  vatum  falsique  pericula  mundi? 
Corpora  sive  rogus  fiamma  seu  tabe  vetustas 
abstulerit,  mala  posse  pati  non  ulla  putetis: 
morte  carent  animae  domibus  habitantque  receptae. 
Omnia  mutantur,  nihil  interif"^. 

DiCSONO.  -  Conforme  a  questo  mi  par  che  dica  il  sapientis- 
simo stimato  tra  gli  Ebrei  Salomone:  «Quid  est  quod  est?  ipsum 
quod  fuit.  Quid  est  quod  fuit?  ipsum  quod  est.  Nihil  sub  sole  no- 
vum»'^^.  Sì  che  questa  forma,  che  voi  ponete,  non  è  inexistente 
et  aderente  a  la  materia  secondo  l'essere,  non  depende  dal  corpo 
e  da  la  materia  a  fine  che  subsista? 

Teofilo.  —  Cossi  è;  et  oltre  ancora  non  determino  se  tutta  la 
forma  è  accompagnata  da  la  materia:  cossi  come  già  sicura- 

73.  Cfr.  De  minimo,  Op.  lai,  I,  3,  p.  141:  «...  concluditur  mortem  ad  corporis 
substantiam  non  pertinere,  multoque  minus  ad  animam»  (traduz.  Monti  cit, 
pp.  98  e  segg.:  «...  si  potrà  concludere  che  la  morte  non  riguarda  la  sostanza 
corporea  e  tanto  meno  l'anima»). 

74.  Cfr.  Ovidio,  Metam.,  XV,  153-159,  165  (1°  emistichio),  ed.  a  cura  di 
P.  Bernardini  Marzolla,  Torino,  1979,  pp.  610-613:  «0  stirpe  sbigottita  dal  ter- 
rore della  morte  gelida!  Perché  temete  lo  Stige,  perché  le  tenebre  e  cose  che 
sono  nomi  vani,  materia  da  poeti,  e  i  pericoli  di  un  mondo  immaginario?  I 
corpi,  una  volta  che  li  ha  dissolti  il  rogo  con  la  fiamma,  o  il  tempo  con  la 
decomposizione,  non  soffrono  più,  credete  a  me  [Pitagora].  Le  anime  non 
muoiono  e,  sempre,  lasciata  una  sede,  sono  accolte  in  un'altra  dimora  e  lì  abi- 
tano e  continuano  a  vivere...  Tutto  si  trasforma,  nulla  perisce»;  G.  Bruno,  Can- 
delaio, «A  Madama  Morgana  B.»,  p.  263:  «Ogni  cosa  si  muta,  nulla  s'annihila»; 
De  minimo,  I,  3,  vv.  1-49,  Op.  lat.,  I,  3,  pp.  141-142  (ed.  Monti  cit.,  pp.  99-100); 
N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  II,  12,  ed.  Federici-Vescovini  cit.,  pp.  152-153. 

75.  Cfr.  Ecclesiaste,  I,  9-10:  parole  spesso  riportate  da  Bruno  (dai  tempi  del 
De  umbris  e  del  Sigillus  sigillorum,  fino  al  terzo  costituto  veneziano  del  2  giu- 
gno 1592,  senza  dimenticare  i  Libri  Physicorum  Aristotelis  explicaii,  Op.  lat.,  II, 
I,  p.  44;  II,  2,  p.  213;  III,  p.  341):  «Quanto  è  stato,  sarà;  /  quanto  si  è  fatto  si 
rifarà;  /  non  c'è  nulla  di  nuovo  sotto  il  sole».  La  formula  riappare  nell'auto- 
grafo bruniano  leggibile  nell'album  di  Hans  von  Wamsdorf  (Wittemberg,  18 
settembre  1588)  e  ancora  trascritto  al  verso  di  una  xilografia  donata  agli  amici 
di  Wittemberg  in  data  8  marzo  1584  (cfr.  G.  Bruno,  Gesammelte  Werke,  Iena, 
voi.  VI,  1909,  p.  72). 


666  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 


I 


mente  dico  de  la  materia  non  esser  paiie  che  a  fatto  sia  desti- 
tuita da  quella,  eccetto  compresa  logicamente,  come  da  Aristo- 
tele ^^  il  quale  mai  si  stanca  di  dividere  con  la  raggione  quello 
che  è  indiviso  seconda  la  natura  e  verità. 

DicsoNO.  -  Non  volete  che  sia  altra  forma  che  questa  etema 
compagna  di  la  materia? 

Teofilo.  -  E  più  naturale  ancora,  che  è  la  forma  materiale 
de  la  quale  raggionaremo  appresso.  Per  ora  notate  questa  distin- 
[141]  zione  de  la  forma:  che  è  una  sorte  di  forma,  prima,  la  quale 
informa,  si  estende  e  depende;  e  questa  perché  informa  il  tutto, 
è  in  tutto;  e  perché  la  si  stende,  comunica  la  perfezzione  del 
tutto  a  le  parti;  e  perché  la  dipende  e  non  ha  operazione  da  per 
sé,  viene  a  communicar  la  operazion  del  tutto  alle  parti,  simil- 
mente il  nome  e  l'essere  ^^:  tale  è  la  forma  materiale  come  quella 
del  fuoco,  per  che  ogni  parte  del  fuoco  scalda,  si  chiama  fuoco 
et  è  fuoco.  Secondo,  è  un'altra  sorte  di  forma,  la  quale  informa  e 
depende,  ma  non  si  stende:  e  tale  per  che  fa  perfetto  et  attua  il 
tutto,  è  nel  tutto  et  in  ogni  parte  di  quello;  perché  non  si  stende, 
avviene  che  l'atto  del  tutto  non  attribuisca  a  le  parti;  per  che 
depende,  l'operazione  del  tutto  comunica  a  le  parti:  e  tale  è 
l'anima  vegetativa  e  sensitiva,  perché  nulla  parte  de  l'animale 
è  animale,  e  nulladimeno  ciascuna  parte  vive  e  sente.  Terzo,  è 
un'altra  sorte  di  forma,  la  quale  attua  e  fa  perfetto  il  tutto;  ma 
non  si  stende,  né  depende  quanto  a  l'operazione.  Questa  perché 
attua  e  fa  perfetto,  è  nel  tutto  et  in  tutto  et  in  ogni  parte;  per 
che  la  non  si  stende,  la  perfezzione  del  tutto  non  attribuisse^^  a 
le  parti;  perché  non  depende,  non  comunica  l'operazione.  Tale  è 
l'anima,  per  quanto  può  esercitar  la  potenza  intellettiva,  e  si 
chiama  intellettiva:  la  quale  non  fa  parte  alcuna  de  l'uomo  che 
si  possa  nomar  uomo,  né  sia  uomo,  né  si  possa  dir  che  intenda. 
Di  queste  tre  specie  la  prima  è  materiale,  che  non  si  può  inten- 
dere, né  può  essere  senza  materia;  l'altre  due  specie  (le  quali  in 
fine  concorreno  a  uno  secondo  la  sustanza  et  essere,  e  si  distin- 

76.  Aristotele  non  concepiva,  infatti,  una  materia  che  fosse  realmente  priva 
di  forma  (cfr.  De  generatione  et  corniptione,  II,  i  e  Phys.  Auscultai.,  Ili,  5). 

77.  Cfr.  AviCEBRON,  Fons  vitae,  I,  io:  «[materia  universalis]  dans  omnibus 
essentiam  suam  et  nomen»  («la  materia  universale  che  dà  la  propria  essenza  e 
il  proprio  nome  a  tutte  le  cose»). 

78.  Equivale  ad  «attribuisce»;  per  l'assimilazione,  cfr.  il  rincresse,  nella 
Cena,  Proemiale  epistola,  p.  437,  nota  34. 


DIALOGO  SECONDO  667 

gueno  secondo  il  modo  che  sopra  abbiamo  detto)  denominano 
quel  principio  formale,  il  quale  è  distinto  dal  principio  mate- 
riale. [143] 

DicsoNO.  -  Intendo. 

Teofilo.  -  Oltre  di  questo  voglio  che  si  avertisca,  che 
benché  parlando  secondo  il  modo  comune,  diciamo  che  sono 
cinque  gradi  de  le  forme,  ciò  è  di  «elemento»,  «mixto»,  «vege- 
tale», «sensitivo»  et  «intellettivo»^^,  non  lo  intendiamo  però  se- 
condo l'intenzion  volgare;  per  che  questa  distinzione  vale  se- 
condo l'operazioni  che  appaiono  e  procedono  da  gli  suggetti, 
non  secondo  quella  raggione  de  l'essere  primario  e  fondamen- 
tale di  quella  forma  e  vita  spirituale,  la  quale  medesma  empie 
il  tutto,  e  non  secondo  il  medesmo  modo. 

DicsoNO.  -  Intendo.  Tanto  che  questa  forma  che  voi  ponete 
per  principio,  è  forma  subsistente,  constituisce  specie  perfetta,  è 
in  proprio  geno,  e  non  è  parte  di  specie  come  quella  peripate- 
tica. 

Teofilo.  -  Cossi  è. 

DicsoNO.  -  La  distinzione  de  le  forme  nella  materia  non  è 
secondo  le  accidentali  disposizioni  che  dependeno  da  la  forma 
materiale. 

Teofilo.  -  Vero. 

DicsoNO.  Onde  anco  questa  forma  separata  non  viene  a  es- 
sere moltiplicata  secondo  il  numero,  per  che  ogni  multiplica- 
zione  numerale  depende  da  la  materia^". 

Teofilo.  -  Sì. 

DicsoNO.  —  Oltre,  in  sé  invariabile,  variabile  poi  per  li  sog- 
getti e  diversità  di  materie:  e  cotal  forma  benché  nel  soggetto 
faccia  differir  la  parte  dal  tutto,  ella  però  non  differisce  nella 
parte  e  nel  tutto;  benché  altra  raggione  li  convegna  come  subsi- 
stente da  per  sé,  altra  in  quanto  che  è  atto  e  perfezzione  di  [145] 
qualche  soggetto,  et  altra  poi  a  riguardo  d'un  soggetto  con  di- 
sposizioni d'un  modo,  altra  con  quelle  d'un  altro. 

79.  Cfr.  G.  Bruno,  Cause,  principe  et  unite,  traduz.  francese  di  E.  Namer  cit., 
p.  109,  nota  56:  «r"elemento"  e  il  "mixto"  fanno  parte  della  "forma  materiale", 
vale  a  dire  sensibile;  il  "vegetale",  "sensitivo"  e  "intellettivo"  fanno  parte  del- 
l'anima del  mondo». 

80.  Si  veda  supra  l'Argomento  del  Secondo  dialogo,  al  punto  terzodecimo, 
p.  600. 


668  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Teofilo.  —  Cossi  a  punto. 

DicsoNO.  —  Questa  forma  non  la  intendete  accidentale,  né 
simile  alla  accidentale,  né  come  mixta  alla  materia,  né  come 
inerente  a  quella:  ma  inexistente,  associata,  assistente. 

Teofilo.  -  Cossi  dico. 

DicsoNO.  -  Oltre,  questa  forma  è  definita  e  determinata  per 
la  materia,  per  che  avendo  in  sé  facilità  di  constituir  partico- 
lari, di  specie  innumerabili,  viene  a  contraersi  a  constituir  uno 
individuo;  e  da  l'altro  canto  la  potenza  della  materia  indetermi- 
nata, la  quale  può  ricevere  qualsivoglia  forma,  viene  a  termi- 
narsi ad  una  specie:  tanto  che  l'una  è  causa  della  definizione  e 
determinazion  de  l'altra. 

Teofilo.  -  Molto  bene. 

DicsoNO.  -  Dumque  in  certo  modo  approvate  il  senso  di 
Anaxagora  che  chiama  le  forme  particolari  di  natura  «latitan- 
ti»^\  alquanto  quel  di  Platone^^  q\iq  Iq  deduce  da  le  idee,  al- 
quanto quel  di  Empedocle  che  le  fa  provenire  da  la  intelligen- 
za^^, in  certo  modo  quel  di  Aristotele  che  le  fa  come  uscire  da 
la  potenza  de  la  materia? 

Teofilo.  -  Sì,  per  che  come  abbiamo  detto  che  dove  è  la 

forma  è  in  certo  modo  tutto,  dove  è  l'anima,  il  spirto,  la  vita,  è 

tutto:  il  formatore  è  l'intelletto  per  le  specie  ideali;  e  le  forme,  se 

[147I   non  le  suscita  da  la  materia,  non  le  va  però  mendicando  da 

fuor  di  quella,  per  che  questo  spirto  empie  il  tutto. 

POLIHIMNIO.  -  Velim  scire  quomodo  forma  est  anima  mundi 
ubique  tota^,  se  la  è  individua.  Bisogna  dumque  che  la  sia 

81.  In  realtà,  Anassagora  aveva  chiamato  «latitanti»  non  le  forme,  ma  le 
particelle  minime  che  compongono  un  corpo,  nessuna  delle  quali  è  discernibile 
a  causa  della  loro  piccolezza:  cfr.  H.  Diels,  Fragmente  cit.,  Bi;  Aristotele, 
Pkys.  Auscultai.,  I,  4,  17  a  26-29;  Lucrezio,  De  rerum  nahira,  I,  876-877,  ed.  a 
cura  di  A.  Fellin,  Torino,  1997^,  pp-  116-117:  «Anassagora  ...  pensa  che  tutte  le 
cose  si  celino  mescolate  in  tutte  le  cose»;  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  II,  2, 
pp.  693:  «...  Anaxagora  et  Empedocle  che  considerando  che  la  omnipotente  et 
omniparente  divinità  empie  il  tutto,  non  trovavano  cosa  tanto  minima  che 
non  volessero  che  sotto  quella  fusse  occolta  secondo  tutte  le  raggioni». 

82.  Si  tratta  piuttosto  dei  neoplatonici,  per  i  quali  le  specie  sono  ragioni 
seminali  che  riproducono,  nella  natura,  le  idee  del  mondo  intelligibile. 

83.  È  sempre  la  concezione  di  Empedocle,  com'era  stata  recepita  nel  Medio 
Evo. 

84.  «Vorrei  sapere  come  la  forma  sia  l'anima  del  mondo  presente  ovunque, 
nella  sua  totalità». 


DIALOGO  SECONDO  669 

molto  grande,  anzi  de  infinita  dimensione,  se  dici  il  mondo  es- 
sere infinito. 

Gervasio.  -  È  ben  raggione  che  sia  grande.  Come  anco  del 
nostro  Signore  disse  un  predicatore  a  Grandazzo  in  Sicilia ^^i 
dove  in  segno  che  quello  è  presente  in  tutto  il  mondo,  ordinò 
un  crucifisso  tanto  grande,  quanta  era  la  chiesa^^;  a  similitu- 
dine de  Dio  padre,  il  quale  ha  il  cielo  empireo  per  baldacchino, 
il  ciel  stellato  per  seditoio,  et  ha  le  gambe  tanto  lunghe,  che 
giungono  sino  a  terra,  che  gli  serve  per  scabello^^.  A  cui  venne  a 
dimandar  un  certo  paesano,  dicendogli:  «Padre  mio  reverendo, 
or  quante  olne  di  drappo  bisognaranno  per  fargli  le  calze?»;  et 
un  altro  disse  che  non  bastarebono  tutti  i  ceci,  faggiuoli  e  fave 
di  Melazzo  e  Nicosia^^  per  empirgli  la  pancia.  Vedete  dumque 
che  questa  anima  del  mondo  non  sia  fatta  a  questa  foggia  an- 
ch'ella. 

Teofilo.  -  Io  non  saprei  rispondere  al  tuo  dubio,  Gervasio, 
ma  bene  a  quello  di  mastro  Polihimnio:  pure  dirò  con  una  si- 
militudine, per  satisfar  alla  dimanda  di  ambi  doi,  per  che  vo- 
glio che  voi  ancora  riportiate  qualche  frutto  di  nostri  raggiona- 
menti  e  discorsi.  Dovete  dumque  saper  brevemente  che  l'anima 
del  mondo,  e  la  divinità,  non  sono  tutti  presenti  per  tutto  e  per 
ogni  parte,  in  modo  con  cui  qualche  cosa  materiale  possa  es- 
servi: perché  questo  è  impossibile  a  qualsivoglia  corpo  e  qualsi-  [149] 
voglia  spirto;  ma  con  un  modo  il  quale  non  è  facile  a  displicar- 
velo  altrimente  se  non  con  questo.  Dovete  avvertire,  che  se 
l'anima  del  mondo  e  forma  universale  se  dicono  essere  per 
tutto,  non  s'intende  corporalmente  e  dimensionalmente,  per  che 
tali  non  sono,  e  cossi  non  possono  essere  in  parte  alcuna:  ma 
sono  tutti  per  tutto  spiritualmente;  come  per  essempio  (anco 
rozzo)  potreste  imaginarvi  una  voce,  la  quale  è  tutta  in  tutta 
una  stanza  et  in  ogni  parte  di  quella:  per  che  da  per  tutto  se 
intende  tutta;  come  queste  paroli  ch'io  dico  sono  intese  tutte  da 
tutti,  anco  se  fussero  mille  presenti,  e  la  mia  voce  si  potesse 

85.  Oggi  Randazzo,  in  provincia  di  Catania. 

86.  Un'espressione  proverbiale,  ai  tempi  di  Bruno,  si  riferiva  al  «Buon  Dio 
di  Grandazzo»  (cfr.  G.  E.  Della  Porta,  Tabernaria,  atto  II,  se.  3). 

87.  Allusione  all'espressione  biblica  «scabellum  pedum  Dei»,  già  impiegata 
supra,  p.  660. 

88.  Melazzo  è  Milazzo,  in  provincia  di  Messina.  -  Nicosia:  in  provincia  di 
Catania. 


670  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

giongere  a  tutto  il  mondo,  sarebe  tutta  per  tutto *^.  Dico  dum- 
que  a  voi  mastro  Polihimnio,  che  l'anima  non  è  individua, 
come  il  punto,  ma  in  certo  modo  come  la  voce.  E  rispondo  a  te 
Gervasio,  che  la  divinità  non  è  per  tutto,  come  il  Dio  di  Gran- 
dazzo  è  in  tutta  la  sua  cappella:  per  che  quello,  benché  sia  in 
tutta  la  chiesa,  non  è  però  tutto  in  tutta;  ma  ha  il  capo  in  una 
parte,  li  piedi  in  un'altra,  le  braccia  et  il  busto  in  altre  et  altre 
parti.  Ma  quella  è  tutta  in  qualsivoglia  parte,  come  la  mia  voce 
è  udita  tutta  da  tutte  le  parti  di  questa  sala. 

Polihimnio.  -  Percepì  optime'^^. 

Gervasio.  -  Io  l'ho  pur  capita  la  vostra  voce. 

DicsoNO.  —  Credo  ben  la  voce,  ma  del  proposito  penso  che  vi 
[è]  entrato  per  un'orecchia  et  uscito  per  l'altra. 

Gervasio.  -  Io  penso  che  non  v'è  neanco  entrato:  per  che  è 
tardi,  e  l'orloggio  che  tegno  dentro  il  stomaco,  ha  toccata  l'ora 
[151]   di  cena^^ 

Polihimnio.  -  Hoc  est,  idest  bave  il  cervello  in  patinis'^^. 

DicsoNO.  -  Basta  dumque.  Domani  conveneremo  per  raggio- 
nar  forse  circa  il  principio  materiale. 

Teofilo.  —  O  vi  aspettare,  o  mi  aspettarete  qua, 

[153]  Fine  del  secondo  dialogo 


89.  Esempio  tratto  da  Plotino,  Enti.,  VI,  4,  12  (ed.  italiana  cit,  voi.  II,  pp. 
968-969). 

.90.  «Ho  capito  perfettamente». 

91.  Si  veda  l'espressione  proverbiale  «sentir  che  l'oriuolo  è  ito  giù»,  cioè 
«sento  venir  la  fame»  (Torriano,  Piazza  universale,  p.  123);  G.  Bruno,  Cande- 
laio, p.  269:  «Scaramuré  ch'avea  l'orloggio  nel  stomaco  e  nel  cervello». 

92.  Avere  la  testa  in  patinis,  «nelle  padelle»,  è  un'espressione  proverbiale 
tratta  da  Terenzio,  Eunuchus,  IV,  7,  46:  «animus  in  patinis»  (traduz.  di  V. 
Soave,  Torino,  1953,  p.  219),  ripetuta  dal  pedante  nella  commedia  Gl'Ingannati, 
II,  I  (G.  Da  VICO  Bonino,  Il  teatro  italiano,  voi.  II,  La  commedia  del  Cinquecento, 
Torino,  1977,  t.  II,  p.  137). 


DIALOGO  TERZO 


Gervasio.  —  È  pur  gionta  l'ora,  e  costoro  non  son  venuti.  Poi 
che  non  ho  altro  pensiero  che  mi  tire,  voglio  prender  spasso  di 
udir  raggionar  costoro,  da'  quali  oltre  che  posso  imparar  qual- 
che tratto  di  scacco  di  filosofia,  ho  pur  un  bel  passatempo,  circa 
que'  grilli  che  ballano  in  quel  cervello  eteroclito  di  Polihimnio 
pedante:  il  quale  mentre  dice  che  vuol  giudicar  chi  dice  bene, 
chi  discorre  meglio,  chi  fa  delle  incongruità  et  errori  in  filosofia, 
quando  poi  è  tempo  de  dir  la  sua  parte,  e  non  sapendo  che 
porgere,  viene  a  sfilzarti  da  dentro  il  manico  della  sua  ventosa 
pedantaria  una  insalatina  di  proverbiuzzi,  di  frase  per  latino  o 
greco,  che  non  fanno  mai  approposito  di  quel  ch'altri  dicono; 
onde  senza  troppo  difficultà  non  è  cieco  che  non  possa  vedere 
quanto  lui  sia  pazzo  per  lettera  ^  mentre  de  gli  altri  son  savii 
per  volgare^.  Or  eccolo  in  fede  mia,  come  sen  viene  che  par  che 
nel  movere  di  passi  ancora  sappia  caminar  per  lettera^.  —  Ben 
venga  il  dominus  magisteri. 

Polihimnio.  -  Quel  «magisteri  non  mi  cale:  poscia  che  in 
questa  devia  et  enorme  etade',  viene  attribuito  non  più  a  miei 
pari,  che  ad  qualsivoglia  barbitonsore,  cerdone  e  castrator  di 
porci;  però  ne  vien  consultato:  «Nolite  vocari  Rabi»^.  [155] 

Gervasio.  —  Come  dumque  volete  ch'io  vi  dica?  Piacevi  il 
«  reverendissimo  »? 


1.  Cfr.  G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo  terzo,  p.  326:  «parlando  per  lettera»; 
J.  Florio,  Giardino  di  Ricreazione,  a  cura  di  L.  Gallesi,  Milano,  1993,  p.  151: 
«I  pazzi  per  lettera,  sono  i  maggior  pazzi». 

2.  Tema  controrinascimentale  ricorrente  in  Bruno. 

3.  Vale  a  dire  «in  modo  sostenuto,  solenne».  Cfr.  P.  Aretino,  Sei  giornate, 
ed.  a  cura  di  G.  Aquilecchia,  Roma-Bari,  1975,  p.  65:  «spassegiare  per  lettera». 

4.  «Signor  maestro». 

5.  Cfr.  Dante,  Purg.,  XI,  93:  «etati  grosse». 

6.  Cfr.  Matteo,  XXIII,  8:  «Ma  voi  non  fatevi  chiamare  Rabbi,  perché  uno 
solo  è  il  vostro  maestro  e  voi  siete  tutti  fratelli». 


672  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

PoLiHiMNio.  —  Illud  est  praesbiterale  et  clericutn''. 

Gervasio.  -  Vi  vien  voglia  deir« illustrissimo»? 

PoLiHiMNio.  -  Cedant  arma  togae^:  questo  è  da  equestri 
eziamdio,  come  da  purpurati'^. 

Gervasio.  -  La  «maestà  cesarea»  an? 

POLIHIMNIO.  -  Quae  Caesaris,  Caesari^^. 

Gervasio.  —  Prendetevi  dumque  il  «domine»,  deh,  toglietevi 
il  «gravitonante»,  il  «divum  pater»^^.  Venemo  a  noi:  per  che 
siete  tutti  cossi  tardi? 

PoLiHiMNio.  -  Cossi  credo  che  gli  altri  sono  impliciti  in 
qualch'altro  affare,  come  io,  per  non  tralasciar  questo  giorno 
senza  linea  i^,  sono  versato  circa  la  contemplazion  del  tipo  del 
globo,  detto  volgarmente  il  mappamondo  i'. 

Gervasio.  -  Che  avete  a  far  col  mappamondo? 

POLIHIMNIO.  -  Contemplo  le  parti  de  la  terra,  climi,  pro- 
vinze  e  regioni:  de  quali,  tutte  ho  trascorse  con  l'ideai  raggione, 
molte  co  gli  passi  ancora. 

Gervasio.  —  Vorei  che  discorressi  alquanto  dentro  di  te  me- 
desmo:  per  che  questo  mi  par  che  più  te  importi,  e  di  questo 
credo  che  manco  ti  curi. 

PoLiHiMNio.   -   Absit  verbo  invidia'^\   per  che  con   questo 
molto  più  efficacemente  vengo  a  conoscere  me  medesmo. 
[157]        Gervasio.  -  E  come  mei  persuaderai? 

POLIHIMNIO.  -  Per  quel  che  dalla  contemplazione  del  mega- 

7.  «Esso  si  addice  a  sacerdoti  ed  ecclesiastici». 

8.  Prima  parte  del  verso  ciceroniano  «Cedant  armae  togae,  concedat  laurea 
laudi»  (cfr.  Cicerone,  I  frammenti  poetici,  a  cura  di  A.  Traglia,  Milano,  1971^, 
pp.  64-65:  «Ceda  la  forza  militare  di  fronte  al  potere  civile  /  [ceda  l'alloro  del 
condottiero  dinanzi  alla  gloria  dell'uomo  politico]»). 

9.  I  magistrati. 

10.  Cfr.  Matteo,  XXII,  21:  «Rendete  dunque  a  Cesare  quello  che  è  di  Cesare 
e  a  Dio  quello  che  è  di  Dio». 

11.  «Il  Padre  degli  dèi». 

12.  Motto  di  Apelle,  secondo  Plinio,  Nat.  hist,  XXXV,  84:  «Apelles  del  re- 
sto osservò  la  continua  consuetudine  di  non  lasciar  mai  passare  un  sol  giorno, 
anche  pieno  d'occupazioni,  senza  mantenersi  in  esercizio  tirando  linee  (lineam 
ducendo);  onde  il  noto  proverbio»  (cfr.  C.  Plini  Secundi  Naturalis  Historiae 
quae  pertinent  ad  artes  antiquorum,  a  cura  di  S.  Ferri,  Roma,  1946,  p.  167).  Si 
veda  anche  G.  Bruno,  Candelaio,  I,  5,  p.  292:  «nulla  dies  sine  linea». 

13.  Allusione  agli  amori  «socratici»  del  pedante:  cfr.  Dialogo  primo,  p.  636, 
nota  95. 

14.  Cfr.  Livio,  IX,  19,  15:  «Absit  invidia  verbo  [et  civilia  bella  sileant]» 
(traduz.  in  Storie,  a  cura  di  L.  Perelli,  Torino,  voi.  IV,  1979,  p.  471:  «Le  mie 
parole  non  siano  prese  in  mala  parte,  e  tacciano  le  guerre  civili»). 


TERZO  DIALOGO  673 

cosmo,  facilmente  (necessaria  deductione  facta  a  simili)  ^^  si  può 
pervenire  alla  cognizione  del  microcosmo,  di  cui  le  particole 
alle  parti  di  quello  corrispondeno^^ 

Gervasio.  —  Sì  che  trovaremo  dentro  voi  la  luna,  il  Mercurio 
et  altri  astri,  la  Francia,  la  Spagna,  l'Italia,  l'Inghilterra,  il  Cali- 
cutto'^  et  altri  paesi? 

POLiHiMNio.  —  Quid  ni?  per  quamdam  analogiam^^. 

Gervasio.  —  Per  quandam  analogiam  io  credo  che  siate  un 
gran  monarca:  ma  se  fuste  una  donna  vi  dimandarci  se  vi  è  per 
alloggiare  un  putello,  o  di  porvi  in  conserva  una  di  quelle 
piante  che  disse  Diogene'^. 

POLiHiMNio.  —  Ah!  ah!  quodammodo  facete^^.  Ma  questa  peti- 
zione non  quadra  ad  un  savio  et  erudito. 

Gervasio.  —  S'io  fusse  erudito,  e  mi  istimasse  savio,  non  ver- 
rei qua  ad  imparar  insieme  con  voi. 

POLIHIMNIO.  -  Voi  sì,  ma  io  non  vegno  per  imparare,  perché 
nunc  meum  est  docere;  mea  quoque  interest  eos  qui  docere  volunt 
iudicare^h  però  vegno  per  altro  fine,  che  per  quel  che  dovete  voi 
venire,  a  cui  conviene  l'esser  tirone,  isagogico  e  discepolo. 

Gervasio.  -  Per  qual  fine? 

15.  «Operata  la  necessaria  deduzione  da  ciò  che  è  simile». 

16.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  Vili,  2,  252  b  26-28  e  De  anima,  III,  8; 
N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  III,  3,  in  Opere,  a  cura  di  G.  Federici-Vescovini, 
Torino,  1972,  pp.  165-166  (e  nota  2):  «La  natura  umana  è  quella  che  è  stata 
elevata  al  di  sopra  di  tutta  l'opera  di  Dio  ed  è  di  poco  inferiore  alla  natura 
angelica.  Essa  complica  la  natura  intellettuale  e  quella  sensibile,  e  racchiude 
in  sé  tutti  gli  universi  per  cui  gli  antichi  l'hanno  chiamata  con  ragione  "mi- 
crocosmo" ossia  piccolo  mondo». 

17.  Sineddoche  per  «India». 

18.  «Perché  no?  per  una  certa  analogia...». 

19.  Allusione  oscena  all'aneddoto  secondo  il  quale  Diogene,  a  chi  gli  chie- 
deva cosa  stesse  per  fare  con  una  prostituta,  nel  bel  mezzo  di  una  strada,  ri- 
spose: «cpDTEÙu)  àvdgojjiov»  («Pianto  un  uomo»).  Cfr.  G.  Boccaccio,  Decameron, 
IX,  IO,  18,  a  cura  di  N.  Sapegno,  Torino,  1956,  p.  861:  «[donno  Gianni  di  Ba- 
rolo] preso  il  pinolo  col  quale  egli  piantava  gli  uomini  e  prestamente  nel  solco 
per  ciò  fatto  messolo...».  L'allusione  toma  in  altri  scrittori  del  XVI  secolo,  ad 
esempio  A.  Caro,  Nasca,  Londra,  1584,  p.  130  e  A.  F.  Grazzini,  Cene,  I,  2,  18 
(ed.  R.  Bruscagli,  Roma,  1976,  p.  35).  In  L.  Guicciardini,  L'ore  di  ricreazione,  I, 
6  (ed.  a  cura  di  A.-M.  Van  Passen,  Leuven-Roma,  1990,  p.  50),  questa  frase  è 
attribuita  a  Cratete,  ma  non  v'è  riferimento  a  fonti  classiche,  come  Diogene 
Laerzio,  tanto  che  P.  Bayle,  Dictionnaire  historique  et  critique,  art.  Hipparchia, 
Amsterdam,  1740^,  p.  769,  pensa  addirittura  che  l'aneddoto  non  sia  reperibile 
in  nessuno  scrittore  antico. 

20.  «Abbastanza  divertente». 

21.  «Ora  è  a  me  che  spetta  insegnare,  ed  a  me  spetta  anche  giudicare  coloro 
i  quali  vogliono  insegnare». 


674  ^^  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

PoLiHiMNio.  -  Per  giudicare  dico. 

Gervasio.  —  In  vero  a  pari  vostri  più  che  ad  altri  sta  bene  di 
far  giudicio  de  le  scienze  e  dottrine:  per  che  voi  siete  que'  soli  a 
[159]  quali  la  liberalità  de  le  stelle  e  la  munificenza  del  fato  ha  con- 
ceduto il  poter  trarre  il  succhio  da  le  paroli. 

PoLiHiMNio.  —  E  consequentemente  da  i  sensi  ancora,  i 
quali  sono  congionti  alle  paroli... 

Gervasio.  —  Come  al  corpo  l'anima. 

POLIHIMNIO.  -  Le  qual  paroli  essendo  ben  comprese,  fanno 
ben  considerar  ancor  il  senso:  però  dalla  cognizion  de  le  lingue 
(nelle  quali  io  più  che  altro  che  sia  in  questa  città  sono  exerci- 
tato,  e  non  mi  stimo  men  dotto  di  qualumque  sia  che  tegna 
ludo  di  Minerva^^  aperto)  procede  la  cognizione  di  scienza 
qualsivoglia. 

Gervasio.  -  Dumque  tutti  que'  che  intendeno  la  lingua  ita- 
liana comprenderanno  la  filosofia  del  Nolano?^' 

POLIHIMNIO.  -  Sì,  ma  vi  bisogna  anco  qualch'altra  prattica  e 
giudizio. 

Gervasio.  -  Alcun  tempo  io  pensava  che  questa  prattica 
fusse  il  principale;  per  che  un  che  non  sa  greco  può  intender 
tutto  il  senso  d'Aristotele,  e  conoscere  molti  errori  in  quello, 
come  apertamente  si  vede:  che  questa  idolatria  che  versava 
circa  l'autorità  di  quel  filosofo  (quanto  a  le  cose  naturali  prin- 
cipalmente) è  a  fatto  abolita  appresso  tutti  che  comprendono  i 
sensi  che  apporta  questa  altra  setta;  et  uno  che  non  sa  né  di 
greco,  né  di  arabico,  e  forse  né  di  latino,  come  il  Paracelso^"', 
può  aver  meglio  conosciuta  la  natura  di  medicamenti  e  medi- 
cina, che  Galeno,  Avicenna  e  tutti  che  si  fanno  udir  con  la  lin- 
[161]  gua  romana^5  Le  filosofie  e  leggi  non  vanno  in  perdizione  per 
penuria  d'interpreti  di  paroli,  ma  di  que'  che  profondano  ne' 
sentimenti. 


22.  Cfr.  Dialogo  secondo,  p.  660,  nota  52. 

23.  Bruno  non  manca  mai  di  presentarsi  come  figlio  della  città  di  Nola. 

24.  Paracelso  dettava  le  sue  opere  in  tedesco. 

25.  Bruno  elogia  la  medicina  di  Paracelso  anche  nell'Orafo  valedictoria,  nel 
Sigillus  sigillorum  e  nella  Praefatio  ad  Lampadem  Combinatoriam  (cfr.  Op.  lai.,  I, 
I,  p.  17;  II,  2,  pp.  181,  234)  e  segue  la  teoria  paracelsiana  dello  spirito  nel  De 
monade  e  negli  scritti  di  magia  (cfr.  F.  Tocco,  Le  fonti  più  recenti  della  filosofia 
del  Bruno,  «Rendiconti  della  R.  Accademia  dei  Lincei»,  CI.  di  Scienze  Morali, 
Storiche  e  Filologiche,  [Roma],  ser.  V,  I,  1892,  pp.  514,  524,  617-618). 


TERZO  DIALOGO  675 

PoLiHiMNio.  —  Cossi  dumque  vieni  a  computar  un  par  mio 
nel  numero  della  stolta  moltitudine? 

Gervasio.  -  Non  vogliano  gli  dèi,  per  che  so  che  con  la  co- 
gnizione e  studio  de  le  lingue  (il  che  è  una  cosa  rara  e  singulare) 
non  sol  voi,  ma  tutti  vostri  pari  séte  valorosissimi  circa  il  far 
giudicio  delle  dottrine,  dopo  aver  crivellati  i  sentimenti  di  color 
che  ne  si  fanno  in  campo. 

PoLiHiMNio.  —  Perché  voi  dite  il  verissimo,  facilmente  posso 
persuadermi  che  non  lo  dite  senza  raggione:  per  tanto  come  non 
vi  é  difficile,  non  vi  sia  grave  di  apportarla. 

Gervasio.  —  Dirò  (referendomi  pur  sempre  alla  censura  de  la 
prudenza  e  letteratura  vostra):  è  proverbio  comune,  che  quei 
che  sono  fuor  del  gioco,  ne  intendeno  più  che  quei  che  vi  son 
dentro;  come  que'  che  sono  nel  spettacolo,  possono  meglio  giu- 
dicar de  gli  atti,  che  quelli  personaggi  che  sono  in  scena;  e  della 
musica  può  far  meglior  saggio  un  che  non  è  de  la  capella  o  del 
conserto;  similmente  appare  nel  gioco  de  le  carte,  scacchi,  seri- 
ma  ^'^  et  altri  simili:  cossi  voi  altri  signor  pedanti,  per  esser 
esclusi  e  fuor  d'ogni  atto  di  scienza  e  filosofia,  e  per  non  aver  e 
giamai  aver  avuto  participazione  con  Aristotele,  Platone  et  altri 
simili,  possete  meglio  giudicarli  e  condannar  con  la  vostra  suf- 
ficienza grammaticale  e  presunzion  del  vostro  naturale,  che  il 
Nolano  che  se  ritrova  nel  medesmo  teatro,  nella  medesma  fami- 
liarità e  domestichezza:  tanto  che  facilmente  le  combatte  dopo  [163I 
aver  conosciuti  i  loro  interiori  e  più  profondi  sentimenti.  Voi 
dico  per  esser  extra  ogni  profession  di  galant'uomini  e  pelegrini 
ingegni,  meglio  le  possete  giudicare. 

POLIHIMNIO.  -  Io  non  saprei  cossi  di  repente  rispondere  a 
questo  impudentissimo.  Vox  faucihus  haesit^''. 

Gervasio.  —  Però  i  pari  vostri  son  sì  presuntuosi,  come  non 
son  gli  altri  che  vi  hanno  il  pie  dentro:  e  per  tanto  io  vi  assi- 
curo, che  degnamente  vi  usurpate  l'ufficio  di  approvar  questo, 

26.  Cfr.  C.  Battisti-C.  Alessio,  Dizionario  etimologico  italiano,  Firenze,  voi. 
V,  1958,  art.  scrima:  «Passato  in  francese  come  escrime  che  però  è  documentato 
prima  della  nostra  voce.  È  possibile  che  la  nostra  voce  non  sia  altro  che  il 
provenzale  escrima  (escrimir)». 

27.  Cfr.  Virgilio,  Aen.,  II,  74;  III,  48,  in  Opere,  a  cura  di  C.  Carena,  Torino, 
1971,  pp.  380-381;  386-387:  «Obstipui  steteruntque  comae  et  vox  faucibus  hae- 
sit»  («Mi  arrestai  attonito,  rizzati  i  capelli  e  la  voce  nella  gola  strozzata»). 


676  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

riprovar  quello,  glosar  quell'altro;  far  qua  una  concordia  e  col- 
lazione, là  una  appendice. 

POLIHIMNIO.  -  Questo  ignorantissimo,  da  quel  che  io  son  pe- 
rito nelle  buone  lettere  umane,  vuol  inferir  che  sono  ignorante 
in  filosofìa. 

Gervasio.  —  Dottisimo  messer  Polihimnio,  io  vo'  dire  che  se 
voi  aveste  tutte  le  lingue  che  son  (come  dicono  i  nostri  predica- 
tori) settantadue  2^... 

Polihimnio.  -  Cum  dimidia^^. 

Gervasio.  —  ...  per  questo  non  solamente  non  siegue  che 
siate  atto  a  far  giudizio  di  filosofi,  ma  oltre  non  potreste  togliere 
di  essere  il  più  gran  goffo  animale  che  viva  in  viso  umano:  et 
anco  non  è  che  impedisca  che  uno  ch'abbia  a  pena  una  de  le 
lingue  ancor  bastarda,  sia  il  più  sapiente  e  dotto  di  tutto  il 
mondo  ^°.  Or  considerate  quel  profitto  ch'han  fatto  doi  cotali:  de 
quali  è  un  francese  arcipedante,  ch'ha  fatte  le  Scole  sopra  le  arte 
liberali  e  l'Animadver sioni  contra  Aristotele^\  et  un  altro  sterco  di 


28.  Cfr.  Cabala,  Declamazione,  p.  421:  «Origene  Adamanzio,  accettato  tra  gli 
ortodoxi  e  sacri  dottori,  vuole  che  il  frutto  de  la  predicazione  de'  settanta  doi 
discepoli  è  significato  per  li  settanta  doi  milia  asini  che  il  popolo  israelita 
guadagnò  contra  gli  Moabiti»  (e  si  veda  la  nota  di  N.  Badaloni  al  passo  a 
p-  422). 

29.  «E  mezzo». 

30.  Cfr.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  II,  2,  p.  685:  «Non  vedete  in  quanta 
iattura  siano  venute  le  scienze  per  questa  caggione  che  gli  pedanti  hanno  vo- 
luto essere  filosofi,  trattar  cose  naturali,  intromettersi  a  determinar  cose  divi- 
ne?». Cfr.  anche  G.  B.  Celli,  I  capricci  del  bottaio.  Ragionamento  quarto,  in 
Opere,  a  cura  di  D.  Maestri,  Torino,  1976,  p.  178:  «La  grammatica,  o  per  me' 
dire  il  latino,  è  una  lingua,  e  le  lingue  non  sono  quelle  che  faccino  gli  uomini 
dotti,  ma  i  concetti  e  le  scienzie:  perché  altrimenti  ne  seguirebbe  che  quello 
Ebreo  che  fa  oggi  l'orafo  al  canto  de'  Pecori,  che  sa  otto  o  dieci  lingue,  fusse  il 
più  dotto  uomo  di  Firenze». 

31.  Pierre  de  la  Ramée  ovvero  Ramus  (1515-1572),  assassinato  nella  Notte 
di  san  Bartolomeo;  autore  -  fra  l'altro  -  di  Scholae  in  Liberales  Artes,  ristam- 
pate a  Basilea  nel  1578,  e  di  Aristotelicae  Animadversiones,  Parisiis,  1543.  In  De 
gli  eroici  furori,  II,  2,  p.  686,  Bruno  si  pronuncia  contro  la  critica  dei  ramisti 
alla  logica  aristotelica  e  contro  la  loro  confusione  di  logica  e  retorica:  «Cossi  a' 
tempi  nostri  quel  tanto  di  buono  ch'egli  [Aristotele]  apporta  e  singulare  di 
raggione  inventiva,  indicativa  e  di  metafisica,  per  ministerio  d'altri  pedanti 
che  lavorano  col  medesimo  sursum  corda,  vegnono  istituite  nove  dialettiche  e 
modi  di  formar  la  raggione  tanto  più  vili  di  quello  d'Aristotele  quanto  forse  la 
filosofia  d'Aristotele  è  incomparabilmente  più  vile  di  quella  de  gli  antichi»;  nel 
Candelaio,  Proprologo,  pp.  279-280,  Bruno  scrive,  a  proposito  del  pedante 
Mamfurio,  «eccovi  un  di  ...  dialetticarii  novelli»  (e  allude  ai  ramisti).  Nel  De  la 
causa,  il  riferimento  negativo  a  Ramus  dev'essere  riallacciato  alla  polemica  sul 
metodo  mnemotecnico,  in  cui  era  stato  coinvolto  A.  Dicson  (si  veda  supra.  Dia- 
logo secondo,  p.  645,  nota  i).  Sull'intero  brano,  dedicato  a  tre  filosofi  contem- 


TERZO  DIALOGO  677 

pedanti,  italiano,  che  ha  imbrattati  tanti  quinterni  con  le  sue  [165] 
Discussioni  peripatetiche^^.  Facilmente  ogn'un  vede  ch'il  primo 
molto  eloquentemente  mostra  esser  poco  savio;  il  secondo  sem- 
plicemente parlando,  mostra  aver  molto  del  bestiale  et  asino. 
Del  primo  possiamo  pur  dire  che  intese  Aristotele,  ma  che  l'in- 
tese male;  e  se  l'avesse  inteso  bene,  arebbe  forse  avuto  ingegno 
di  far  onorata  guerra  contra  lui,  come  ha  fatto  il  giudiciosis- 
simo  Telesio  Consentino".  Del  secondo  non  possiamo  dir  che 
l'abbia  inteso  né  male  né  bene:  ma  che  l'abbia  letto  e  riletto, 
cucito  scucito,  e  conferito  con  mill'altri  greci  autori  amici  e  ne- 
mici di  quello;  et  al  fine  fatta  una  grandissima  fatica,  non  solo 
senza  profitto  alcuno,  ma  etiam'"^  con  un  grandissimo  sprofitto: 
di  sorte  che  chi  vuol  vedere  in  quanta  pazzia  e  presuntuosa 
vanità  può  precipitar  e  profondare  un  abito  pedantesco,  veda 

poranei,  cfr.  G.  Aquilecchia,  Ramo,  Patrizi  e  Telesio  nella  prospettiva  di  Bruno, 
in:  Atti  del  Convegno  internazionale  di  studi  su  B.  Telesio  (Cosenza,  12-13  maggio 
igSg),  Cosenza,  1990,  pp.  181-192  (ora  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana,  1993, 
pp.  293-302).  Cfr.  inolte  C.  Vasoli,  Bruno,  Ramo  e  Patrizi,  «Nouvelles  de 
la  République  des  Lettres»  [Napoli],  II,  1994,  pp.  169-190  (e  l'intervento  di 
M.  MucciLLO,  Su  Ramo,  Patrizi,  Bruno,  ivi,  pp.  201-203). 

32.  Francesco  Patrizi  da  Cherso  (1529-1597),  autore  —  fra  l'altro  -  di  Discus- 
sionum  Peripateticarum  Tomi  IV.  Quibus  Aristotelicae  Philosophiae  universa  Histo- 
ria  atque  Dogmata  cum  Veterum  Placitis  collata,  eleganter  et  erudite  declarantur, 
Basileae,  1581  (il  cui  primo  tomo  era  apparso  come  Discussionum  Peripatetica- 
rum, Tomi  Primi,  Libri  XIII,  Venetiis,  1571):  tra  la  filosofia  bruniana  e  quella 
di  Patrizi  si  possono  ravvisare  punti  di  contatto,  ma  «agli  occhi  del  Bruno  la 
critica  del  Patrizi  appariva  infeconda,  e  meglio  opera  di  erudizione  che  di 
scienza»  (F.  Tocco,  Le  fonti  più  recenti  cit,  p.  537). 

33.  Bernardino  Telesio  (1508-1588),  nato  a  Cosenza,  autore  del  De  rerum 
natura  iuxta  propria  principia  (ed.  critica  a  cura  di  L.  De  Franco,  Cosenza-Fi- 
renze, 1965-1976,  3  voli.),  dove  veniva  contestata  la  fisica  aristotelica.  Le  sue 
posizioni  sono  qui  esaltate  in  opposizione  a  Ramus  ed  a  Patrizi  ma,  nel  com- 
plesso. Bruno  non  si  riferisce  spesso  alle  teorie  telesiane.  Cfr.  De  immenso,  II, 
9,  Op.  lai.,  I,  I,  p.  289  (in  Opere,  a  cura  di  C.  Monti,  Torino,  1980,  p.  491);  De 
monade,  V,  Op.  lai.,  1,  2,  p.  395:  «...  et  temporibus  nostris  (...  ex  principiis  adver- 
sarii  ipsius  Aristotelis  inductis)  ausus  est  Thelesius  Consentinus  ignem  humi- 
dae  naturae  asserere,  quod  minime  infeliciter  est  prosequutus,  non,  ut  par  est, 
prò  rei  veritate,  sed  ut  decebat  eum  qui  ex  suismet  Aristotelis  physicam  prin- 
cipiis voluit  redarguere»  (ed.  Monti  cit,  p.  352:  «...  per  venire  ai  nostri  tempi 
—  ...  criticando  i  princìpi  del  suo  avversario  Aristotele  -  il  cosentino  Telesio  ha 
asserito  che  il  fuoco  è  di  natura  umida,  risultato  che  con  successo  ha  rag- 
giunto, come  è  noto,  non  in  base  all'evidenza  della  cosa  in  sé,  ma  come  conve- 
niva a  lui  che  volle  confutare  la  fisica  di  Aristotele  con  gli  stessi  suoi  princìpi», 
ma  sulle  difficoltà  pòrte  dal  brano,  in  questa  traduzione  o  in  quella  di  Tocco, 
cfr.  G.  Aquilecchia,  Le  opere  italiane  di  G.  Bruno:  Critica  testuale  e  oltre,  Na- 
poli, 1991,  pp.  loi  e  segg.,  da  aggiungere  alla  bibliografia  indicata  supra,  nota 
31,  assieme  a  Id.,  Ancora  su  Bruno  e  Telesio,  in  Schede  bruniane  cit,  pp.  303- 
310). 

34.  «Anche». 


678  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

quel  sol  libro,  prima  che  se  ne  perda  la  semenza.  Ma  ecco  pre- 
senti il  Teofilo  col  Dicsono. 

PoLiHiMNio.  —  Adeste  felices,  dominP^.  La  presenzia  vostra  è 
causa  che  la  mia  excandescenzia  non  venga  ad  exaggerar  fulmi- 
nee sentenze  contra  i  vani  propositi  ch'ha  tenuti  questo  garrulo 
frugiperda^^ 

Gervasio.  -  Et  a  me  tolta  materia  di  giocarmi,  circa  la 
maestà  di  questo  reverendissimo  gufo. 

Dicsono.  -  Ogni  causa  va  bene  se  non  v'adirate. 

Gervasio.  -  Io  quel  che  dico,  lo  dico  con  gioco;  perché  amo 
il  signor  maestro. 

POLIHIMNIO.  —  Ego  quoque  quod  irascor,  non  serio  irascor,  quia 
[167]    Gervasium  non  odi^^. 

Dicsono.  —  Bene:  dumque  lasciatemi  discorrer  con  Teofilo. 

Teofilo.  -  Democrito  dumque  e  gli  Epicurei,  i  quali  quel 
che  non  è  corpo  dicono  esser  nulla,  per  conseguenza  vogliono  la 
materia  sola  essere  la  sustanza  de  le  cose,  et  anco  quella  essere 
la  natura  divina,  come  disse  un  certo  arabo  chiamato  Avice- 
bron^^,  come  mostra  in  un  libro  intitolato  Fonte  di  vita.  Questi 
medesmi,  insieme  con  Cirenaici,  Cinici  e  Stoici,  vogliono  le 
forme  non  essere  altro  che  certe  accidentali  disposizioni  de  la 
materia:  et  io  molto  tempo  son  stato  assai  aderente  a  questo 
parere,  solo  per  questo,  che  ha  fondamenti  più  corrispondenti 
alla  natura  che  quei  di  Aristotele;  ma  dopo  aver  più  matura- 
mente considerato,  avendo  risguardo  a  più  cose,  troviamo  che  è 
necessario  conoscere  nella  natura  doi  geni  di  sustanza,  l'uno 
che  è  forma,  e  l'altro  che  è  materia;  perché  è  necessario  che  sia 
un  atto  sustanzialissimo,  nel  quale  è  la  potenza  attiva  di  tutto; 

35.  «Siate  i  benvenuti,  signori». 

36.  «Albero  che  perde  il  suo  frutto»  (cfr.  Plinio,  Nat.  hist,  XVI,  46,  ed. 
diretta  da  G.  B.  Conte,  Torino,  voi.  Ili,  i,  1984,  pp.  432-433:  «Ocissime  salix 
amittit  semen  antequam  omnino  maturitatem  sentiat,  ob  id  dieta  ab  Homero 
frugiperdia»). 

37.  «Ed  anche  io  quando  mi  adiro,  non  mi  adiro  sul  serio,  perché  non  odio 
Gervasio». 

38.  Salomon  Ibn  Gabirol,  ovvero  Avicebron,  autore  del  Fons  Vitae  (dove  le 
dottrine  neoplatoniche  sono  tradotte  in  maniera  originale).  Al  pari  degli  Sco- 
lastici. Bruno  lo  crede  arabo,  mentre  era  un  ebreo  di  Spagna.  Il  suo  Fons  Vitae 
è  citato  più  volte  da  Alberto  Magno  e  da  Tommaso  d'Aquino.  Sull'eco  del  pen- 
siero di  Avicebron  nei  testi  bruniani,  cfr.  M.  Wittmann,  G.  Bruno  Beziehungen 
zu  Avencebrol,  «Archiv  fiir  Geschichte  der  Philosophie»  [Berlin],  XIII,  1900, 
pp.  147-152. 


TERZO  DIALOGO  679 

et  ancora  una  potenza  et  un  soggetto,  nel  quale  non  sia  minor 
potenza  passiva  di  tutto:  in  quello  è  potestà  di  fare,  in  questo  è 
potestà  di  esser  fatto. 

DicsoNO.  —  È  cosa  manifesta  ad  ogn'uno  che  ben  misura, 
che  non  è  possibile  che  quello  sempre  possa  far  il  tutto,  senza 
che  sempre  sia  chi  può  essere  fatto  il  tutto.  Come  l'anima  del 
mondo  (dico  ogni  forma),  la  quale  è  individua,  può  essere  figu- 
ratrice,  senza  il  soggetto  delle  dimensioni,  o  quantità,  che  è  la 
materia?  E  la  materia  come  può  esser  figurata?  forse  da  se 
stessa?  Appare  che  potremo  dire  che  la  materia  vien  figurata  da 
se  stessa,  se  noi  vogliamo  considerar  l'universo  corpo  formato  [169] 
esser  materia,  chiamarlo  materia;  come  un  animale  con  tutte  le 
sue  facultà  chiamaremo  materia  distinguendolo,  non  da  la 
forma,  ma  dal  solo  efficiente. 

Teofilo.  -  Nessuno  vi  può  impedire  che  non  vi  serviate  del 
nome  di  materia,  secondo  il  vostro  modo,  come  ad  molte  sette 
ha  medesmamente  raggione  di  molte  significazioni.  Ma  questo 
modo  di  considerar,  che  voi  dite,  so  che  non  potrà  star  bene  se 
non  a  un  mecanico  o  medico  che  sta  su  la  prattica,  come  a  co- 
lui che  divide  l'universo  corpo  in  mercurio,  sale  e  solfro^'';  il 
che  dire  non  tanto  viene  a  mostrar  un  divino  ingegno  di  me- 
dico quanto  potrebe  mostrare  un  stoltissimo,  che  volesse  chia- 
marsi filosofo:  il  cui  fine  non  è  de  venir  solo  a  quella  distinzion 
di  principii,  che  fisicamente  si  fa  per  la  separazione  che  procede 
dalla  virtù  del  fuoco,  ma  anco  a  quella  distinzion  de  principii, 
alla  quale  non  arriva  efficiente  alcuno  materiale,  per  che 
l'anima  inseparabile  dal  solfro,  dal  mercurio  e  dal  sale,  è  prin- 
cipio formale;  quale  non  è  soggetto  a  qualità  materiali,  ma  è  al 
tutto  signor  della  materia,  non  è  tocco  dall'opera  di  chimici  la 
cui  divisione  si  termina  alle  tre  dette  cose,  e  che  conoscono 
un'altra  specie  d'anima  che  questa  del  mondo,  e  che  noi  do- 
viamo diffinire. 

DicsoNO.  -  Dite  eccellentemente;  e  questa  considerazione 
molto  mi  contenta,  perché  veggio  alcuni  tanto  poco  accorti,  che 
non  distingueno  le  cause  della  natura  assolutamente  secondo 
tutto  l'ambito  de  lor  essere,  che  son  considerate  da  filosofi,  e  de   [171] 
quelle  prese  in  un  modo  limitato  et  appropriato:  per  che  il 

39.  Allusione  a  Paracelso. 


680  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

primo  modo  è  soverchio  e  vano  a  medici,  in  quanto  che  son 
medici,  il  secondo  è  mozzo  e  diminuto  a  filosofi,  in  quanto  che 
son  filosofi. 

Teofilo.  -  Avete  toccato  quel  punto  nel  quale  è  lodato  Pa- 
racelso ch'ha  trattata  la  filosofia  medicinale,  e  biasimato  Galeno 
in  quanto  ha  apportata  la  medicina  filosofale,  per  far  una  mi- 
stura fastidiosa,  et  una  tela  tanto  imbrogliata,  che  al  fine  renda 
un  poco  exquisito  medico  e  molto  confuso  filosofo.  Ma  questo 
sia  detto  con  qualche  rispetto:  perché  non  ho  avuto  ocio,  per 
esaminare  tutte  le  parti  di  quell'uomo. 

Gervasio.  —  Di  grazia,  Teofilo,  prima  fatemi  questo  piacere  a 
me  che  non  sono  tanto  prattico  in  filosofia:  dechiaratemi  che 
cosa  intendete  per  questo  nome  «materia»  e  che  cosa  è  quello 
che  è  materia  nelle  cose  naturali. 

Teofilo.  —  Tutti  quelli  che  vogliono  distinguere  la  materia  e 
considerarla  da  per  sé  senza  la  forma,  ricorreno  alla  similitu- 
dine de  l'arte.  Cossi  fanno  i  Pitagorici '*°,  cossi  i  Platonici ■*!,  cossi 
i  Peripatetici  "'2.  Vedete  una  specie  di  arte  come  del  lignaiolo,  la 
quale  per  tutte  le  sue  forme  e  tutti  suoi  lavori  ha  per  soggetto  il 
legno;  come  il  ferraio  il  ferro,  il  sarto  il  panno.  Tutte  queste  arti 
in  una  propria  materia  fanno  diversi  ritratti,  ordini  e  figure,  de 
le  quali  nessuna  è  propria  e  naturale  a  quella.  Cossi  la  natura,  a 
cui  è  simile  l'arte,  bisogna  che  de  le  sue  operazioni  abbia  una 
materia:  per  che  non  è  possibile  che  sia  agente  alcuno,  che  se 
[173]  vuol  far  qualche  cosa,  non  abia  di  che  farla;  o  se  vuol  oprare, 
non  abbia  che  oprare.  È  dumque  una  specie  di  soggetto,  del 
qual,  col  quale  e  nel  quale  la  natura  effettua  la  sua  operazione, 
il  suo  lavoro;  et  il  quale  è  da  lei  formato  di  tante  forme  che  ne 
presentano  a  gli  occhi  della  considerazione  tanta  varietà  di  spe- 
cie. E  sì  come  il  legno  da  sé  non  ha  nessuna  forma  artificiale, 
ma  tutte  può  avere  per  operazione  de  legnaiolo;  cossi  la  materia 
di  cui  parliamo,  da  per  sé  et  in  sua  natura,  non  ha  forma  al- 
cuna naturale,  ma  tutte  le  può  aver  per  operazione  dell'agente 
attivo  principio  di  natura.  Questa  materia  naturale  non  è  cossi 
sensibile  come  la  materia  artificiale,  perché  la  materia  della  na- 

40.  Nella  misura  in  cui  Bruno  crede  che  Timeo  sia  un  pitagorico. 

41.  Cfr.  Platone,  Timaeus,  50  a-b. 

42.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  II,  i,  193  a  15-18. 


TERZO  DIALOGO  68 1 

tura  non  ha  forma  alcuna  assolutamente,  ma  la  materia  del- 
l'arte è  una  cosa  formata  già  della  natura,  poscia  che  l'arte  non 
può  oprare  se  non  nella  superficie  delle  cose  formate  da  la  na- 
tura, come  legno,  ferro,  pietra,  lana  e  cose  simili:  ma  la  natura 
opra  dal  centro  (per  dir  cossi)  del  suo  soggetto  o  materia;  che  è 
al  tuto  informe.  Però  molti  sono  i  soggetti  de  le  arti,  et  uno  è  il 
soggetto  della  natura:  per  che  quelli,  per  essere  diversamente 
formati  dalla  natura,  sono  differenti  e  vani;  questo,  per  non  es- 
sere alcunamente  formato,  è  al  tutto  indifferente,  atteso  che 
ogni  differenza  e  diversità  procede  da  la  forma. 

Gervasio.  —  Tanto  che  le  cose  formate  della  natura  sono 
materia  de  l'arte,  et  una  cosa  informe  sola  è  materia  della  na- 
tura? 

Teofilo.  -  Cossi  è. 

Gervasio.  -  È  possibile  che  sicome  vedemo  e  conoscemo 
chiaramente  gli  soggetti  de  le  arti,  possiamo  similmente  cono-   [175] 
scere  il  soggetto  de  la  natura? 

Teofilo.  —  Assai  bene,  ma  con  diversi  principii  di  cogni- 
zione: perché  sì  come  non  col  medesmo  senso  conoscemo  gli  co- 
lori e  gli  suoni,  cossi  non  con  il  medesmo  occhio  veggiamo  il 
soggetto  de  le  arti  et  il  soggetto  della  natura. 

Gervasio.  —  Volete  dire  che  noi  [con]  gli  occhi  sensitivi  veg- 
giamo quello,  e  con  l'occhio  della  raggione"*^  questo. 

Teofilo.  -  Bene. 

Gervasio.  -  Or  piacciavi  formar  questa  raggione. 

Teofilo.  —  Volentieri.  Quella  relazione  e  riguardo,  che  ha  la 
forma  de  l'arte  alla  sua  materia,  medesma  (secondo  la  debita 
proporzione)  ha  la  forma  della  natura  alla  sua  materia.  Sì  come 
dumque  ne  l'arte  variandonsi-^'*  in  infinito  (se  possibil  fosse)  le 
forme,  è  sempre  una  materia  medesima  che  persevera  sotto 
quelle,  come  appresso  la  forma  de  l'arbore  è  una  forma  di 
tronco,  poi  di  trave,  poi  di  tavola,  poi  di  scanno,  poi  di  scabello, 
poi  di  cascia''^,  poi  di  pettine,  e  cossi  va  discorrendo;  tutta  volta 
l'esser  legno  sempre  persevera:  non  altrimente  nella  natura,  va- 

43.  Espressione  platonica  per  eccellenza;  «omxa  toì3  kóyov»  oppure  «6ji|xa 
Tfi5  TiiDxng». 

44.  Esempio  di  gerundio  coniugato. 

45.  Forma  napoletana  per  «cassa». 


682  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

riandosi  in  infinito  e  succedendo  l'una  a  l'altra  le  forme,  è  sem- 
pre una  materia  medesma. 

Gervasio.  -  Come  si  può  saldar  questa  similitudine? 

Teofilo.  —  Non  vedete  voi  che  quello  che  era  seme  si  fa 
[177]  erba,  e  da  quello  che  era  erba  si  fa  spica,  da  che  era  spica  si  fa 
pane,  da  pane  chilo,  da  chilo  sangue,  da  questo  seme,  da  questo 
embrione,  da  questo  uomo,  da  questo  cadavero,  da  questo  terra, 
da  questa  pietra  o  altra  cosa,  e  cossi  oltre  per  venire  a  tutte 
forme  naturali? 

Gervasio.  -  Facilmente  il  veggio. 

Teofilo.  -  Bisogna  dumque  che  sia  una  medesima  cosa  che 
da  sé  non  è  pietra,  non  terra,  non  cadavero,  non  uomo,  non 
embrione,  non  sangue  o  altro:  ma  che  dopo  che  era  sangue,  si  fa 
embrione  ricevendo  l'essere  embrione;  dopo  che  era  embrione, 
riceva  l'essere  uomo,  facendosi  omo:  come  quella  formata  dalla 
natura  che  è  soggetto  de  la  arte,  da  quel  che  era  arbore,  è  ta- 
vola, e  riceve  esser  tavola;  da  quel  che  era  tavola,  riceve  l'esser 
porta,  et  è  porta. 

Gervasio.  —  Or  l'ho  capita  molto  bene.  Ma  questo  soggetto 
della  natura  mi  par  che  non  possa  esser  corpo,  né  di  certa  qua- 
lità; per  che  questo  che  va  strafugendo  or  sotto  una  forma  et 
essere  naturale,  or  sotto  un'altra  forma  et  essere,  non  si  dimo- 
stra corporalmente  come  il  legno  o  pietra,  che  sempre  si  fan 
veder  quel  che  sono  materialmente  o  soggettivamente,  pongansi 
pure  sotto  qual  forma  si  voglia. 

Teofilo.  -  Voi  dite  bene. 

Gervasio.  —  Or  che  farò  quando  mi  avverrà  di  conferir  que- 
sto pensiero  con  qualche  pertinace,  il  quale  non  voglia  credere 
che  sia  cossi  una  sola  materia  sotto  tutte  le  formazioni  della 
natura,  come  è  una  sotto  tutte  le  formazioni  di  ciascuna  arte? 
[179]  perché  questa  che  si  vede  con  gli  ochi,  non  si  può  negare;  quella 
che  si  vede  con  la  raggione  sola,  si  può  negare. 

Teofilo.  —  Mandatelo  via,  o  non  gli  rispondete. 

Gervasio.  —  Ma  se  lui  sarà  importuno  in  dimandarne  evi- 
denza, e  sarà  qualche  persona  di  rispetto,  il  quale  non  si  possa 
più  tosto  mandar  via,  che  mandarmi  via,  e  che  abbia  per  ingiu- 
ria ch'io  non  li  risponda? 

Teofilo.  -  Che  farai  se  un  cieco  semideo,  degno  di  qualsi- 
voglia onor  e  rispetto,  sarà  protervo,  importuno  e  pertinace  a 


TERZO  DIALOGO  683 

voler  aver  cognizione  e  dimandar  evidenza  di  colori,  dì  pure,  de 
le  figure  esteriori  di  cose  naturali:  come  è  dire,  quale  è  la  forma 
de  l'arbore?  quale  è  la  forma  de  monti?  di  stella?  oltre,  quale  è 
la  forma  de  la  statua,  de  la  veste?  e  cossi  di  altre  cose  arteficiali, 
le  quali  a  quei  che  vedeno  son  tanto  manifeste? 

Gervasio.  -  Io  li  risponderei  che  se  lui  avesse  occhii,  non  ne 
dimandarebe  evidenza,  ma  le  potrebe  veder  da  per  lui;  ma  es- 
sendo cieco,  è  anco  impossibile  che  altri  gli  le  dimostri. 

Teofilo.  —  Similmente  potrai  dire  a  costoro,  che  se  avessero 
intelletto,  non  ne  dimandarebono  altra  evidenza;  ma  la  potre- 
bono  veder  da  per  essi. 

Gervasio.  —  Di  questa  riposta  quelli  si  vergognarebono,  et 
altri  la  stimarebono  troppo  cinica. 

Teofilo.  -  Dumque  li  direte  più  copertamente  cossi:  «Illu- 
strissimo signor  mio»  o  «sacrata  maestà,  come  alcune  cose  non 
possono  essere  evidenti  se  non  con  le  mani  et  il  toccare,  altre  se 
non  con  l'udito,  altre  non,  eccetto  che  con  il  gusto,  altre  non,  [i8i] 
eccetto  che  con  gli  occhi:  cossi  questa  materia  di  cose  naturali 
non  può  essere  evidente  se  non  con  l'intelletto». 

Gervasio.  —  Quello  forse  intendendo  il  tratto  per  non  esser 
tanto  oscuro  né  coperto,  me  dirà:  «Tu  sei  quello  che  non  hai 
intelletto:  io  ne  ho  più  che  quanti  tuoi  pari  si  ritroveno». 

Teofilo.  —  Tu  non  lo  crederai  più  che  se  un  cieco  ti  dicesse, 
che  tu  sei  un  cieco  e  che  lui  vede  più  che  quanti  pensano  veder 
come  tu  ti  pensi. 

DicsoNO.  —  Assai  è  detto  in  dimostrar  più  evidentemente, 
che  mai  abbia  udito,  quel  che  significa  il  nome  «materia»,  e 
quello  che  si  deve  intender  materia  nelle  cose  naturali.  Cossi  il 
Timeo  pitagorico  ^^  il  quale,  dalla  trasmutazione  dall'uno  ele- 
mento nell'altro,  insegna  ritrovar  la  materia  che  è  occolta,  e  che 
non  si  può  conoscere,  eccetto  che  con  certa  analogia-*^:  «Dove 
era  la  forma  della  terra»  dice  lui^**,  «appresso  appare  la  forma 
de  l'acqua»,  e  qua  non  si  può  dire  che  una  forma  riceva  l'altra; 

46.  Il  riferimento  è  qui  allo  scritto  dello  pseudo-Timeo  di  Locri,  intitolato 
De  anima  mundi  et  natura,  p.  94A  (cfr.  Mullach,  Fragm.,  II,  38).  Si  veda  la 
versione  latina  di  L.  Nogarola,  Timaei  Locri  De  animo  mundi  et  natura,  Pari- 
siis,  1572  (e  per  le  ultime  edizioni,  cfr.  G.  Reale,  Storta  della  filosofia  antica, 
Milano,  voi.  V,  igSg'*,  pp.  564-565). 

47.  Cfr.  Timaeus  Locrus,  p.  3;  Platone,  Timaeus,  49  e-50  a. 

48.  È  citazione  che  non  si  legge  nel  testo  dello  pseudo-Timeo. 


684  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

perché  un  contrario  non  accetta  né  riceve  l'altro''^,  ciò  è  il  secco 
non  riceve  l'umido,  opur  la  siccità  non  riceve  la  umidità:  ma  da 
una  cosa  terza  vien  scacciata  la  siccità  et  introdotta  la  umidità, 
e  quella  terza  cosa  è  soggetto  de  l'uno  e  l'altro  contrario,  e  non  è 
contraria  ad  alcuno.  Adumque  se  non  è  da  pensar  che  la  terra 
sia  andata  in  niente,  è  da  stimare  che  qualche  cosa  che  era 
nella  terra,  è  rimasta  et  è  ne  l'acqua:  la  qual  cosa  per  la  mede- 
sima raggione,  quando  l'acqua  sarà  trasmutata  in  aria  (per  quel 
[183]  che  la  virtù  del  calore  la  viene  ad  estenuare  in  fumo  o  vapore) 
rimarrà  e  sarà  nel  aria. 

Teofilo.  -  Da  questo  si  può  conchiudere  (anco  a  lor  di- 
spetto) che  nessuna  cosa  si  anihila  e  perde  l'essere,  eccetto  che 
la  forma  accidentale  esteriore  e  materiale:  però  tanto  la  materia 
quanto  la  forma  sustanziale  di  che  si  voglia  cosa  naturale,  che  è 
l'anima,  sono  indissolubili  5*^  et  adnihilabili  perdendo  l'essere  al 
tutto  e  per  tutto;  tali  per  certo  non  possono  essere  tutte  le  forme 
sustanziali  de  Peripatetici  et  altri  simili,  che  consisteno  non  in 
altro,  che  in  certa  complessione  et  ordine  di  accidenti:  e  tutto 
quello  che  sapranno  nominar  fuor  che  la  lor  materia  prima, 
non  è  altro  che  accidente,  complessione,  abito  di  qualità,  prin- 
cipio di  definizione,  quiddità^i.  Là  onde  alcuni  cucullati^^  sut- 
tili  metafisici''  tra  quelli,  volendo  più  tosto  iscusare  che  accu- 
sare la  insufficienza  del  suo  nume  Aristotele,  hanno  trovata  la 
umanità,  la  bovinità,  la  olività,  per  forme  sustanziali  specifiche: 
questa  umanità,  come  socreità,  questa  bovinità,  questa  cavalli- 
nità,  essere  la  sustanza  numerale  5-*;  il  che  tutto  han  fatto  per 
donarne  una  forma  sustanziale,  la  quale  merite  nome  di  su- 
stanza, come  la  materia  ha  nome  et  essere  di  substanza.  Ma 

49.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai,  I,  5,  188  a  30. 

50.  Il  prefisso  privativo  di  in-dissolubili  vale  implicitamente  per  adnihila- 
bili. 

51.  Quiddità  è,  in  Aristotele,  il  «ri  rjv  EÌvai»  di  una  cosa,  la  sua  essenza 
espressa  in  una  definizione. 

52.  Monaci  (cfr.  Dialogo  primo,  p.  630,  nota  70);  cfr.  G.  Bruno,  Acrotismus, 
art  I,  Op.  lai.,  I,  i,  pp.  85-86:  «Considerate  an  Aristoteles  docuerit  unquam  di- 
cere de  Socrate,  de  Calila,  de  Platone,  esse  scientiam,  secundum  quod  homo,  de 
homine  esse  scientia  secundum  rationem  specificam,  quoad  ejus  substantiam, 
essentiam,  naturam:  an  potius  sint  quorundam  Scolasticorum  voces,  atque  si- 
milium  cucullatorum?». 

53.  I  discepoli  di  Duns  Scoto,  il  «Dottor  Sottile». 

54.  La  «sustanza  numerale»  (la  haecceitas  scotista)  è  la  sostanzialità  dell'in- 
dividuo, la  forma  individuante  che  viene  ad  assommarsi  alla  forma  specifica. 


TERZO  DIALOGO  685 

però  non  han  profittato  già  mai  nulla;  perché  se  gli  dimandate 
per  ordine:  «In  che  consiste  l'essere  sustanziale  di  Socrate?»,  ri- 
sponderanno: «Nella  socreità»;  se  oltre  dimandate:  «Che  inten- 
dete per  socreità?»,  risponderanno:  «La  propria  forma  sustan- 
ziale e  la  propria  materia  di  Socrate».  Or  lasciamo  star  questa 
sustanza  che  è  la  materia;  e  ditemi,  che  è  la  sustanza  come 
forma?  Rispondeno  alcuni,  la  sua  anima.  Dimandate:  «Che  cosa 
è  questa  anima?».  Se  diranno  una  entelechia  e  perfezzione  di  [185] 
corpo  che  può  vivere  ^5,  considera  che  questo  è  uno  accidente. 
Se  diranno  che  è  un  principio  de  vita^^,  senso,  vegetazione  et 
intelletto,  considerate  che  benché  quel  principio  sia  qualche  su- 
stanzia  fundamentalmente  considerato  come  noi  lo  conside- 
riamo, tutta  volta  costui  non  lo  pone  avanti,  se  non  come  acci- 
dente; perché  esser  principio  di  questo  o  di  quello,  non  dice  rag- 
gione  sustanziale  et  assoluta,  ma  una  raggione  accidentale  e 
respettiva  a  quello  che  è  principiato:  come  non  dice  il  mio  es- 
sere e  sustanza  quello  che  proferisce  lo  che'''  io  fo  o  posso  fare; 
ma  sì  bene  quel  che  dice  lo  che  io  sono,  come  io,  et  absoluta- 
mente  considerato.  Vedete  dumque  come  trattano  questa  forma 
sustanziale  che  è  l'anima:  la  quale  se  pur  per  sorte  è  stata  cono- 
sciuta da  essi  per  sustanza,  già  mai  però  l'hanno  nominata  né 
considerata  come  sustanza.  Questa  confusione  molto  più  evi- 
dentemente la  possete  vedere  se  dimandate  a  costoro,  la  forma 
sustanziale  d'una  cosa  inanimata,  in  che  consista,  come  la 
forma  sustanziale  del  legno:  fingeranno  que'  che  son  più  sottili: 
nella  ligneità.  Or  togliete  via  quella  materia  la  quale  è  comune 
al  ferro,  al  legno  e  la  pietra,  e  dite:  quale  resta  forma  sustanziale 
del  ferro?  giamai  ve  diranno  altro  che  accidenti;  e  questi  sono 
tra  principii  d'individuazione,  e  danno  la  particularità,  perché 
la  materia  non  è  contraibile  alla  particularità,  se  non  per  qual- 
che forma;  e  questa  forma,  per  esser  principio  constitutivo 
d'una  sustanza,  vogliono  che  sia  sustanziale,  ma  poi  non  la  po- 
tranno mostrare  fisicamente,  se  non  accidentale;  et  al  fine 
quando  aranno  fatto  tutto,  per  quel  che  possono,  hanno  una  [187] 
forma  sustanziale  sì,  ma  non  naturale,  ma  logica:  e  cossi  al  fine 

55.  Celebre  definizione  di  Aristotele,  De  anima,  II,  i,  412  a  27-28. 

56.  Definizione  platonica  dell'anima. 

57.  Cfr.  lo  spagnolo  «lo  que». 


686  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

qualche  logica  intenzione  viene  ad  esser  posta  principio  di  cose 
naturali. 

DicsoNO.  -  Aristotele  non  si  awedde  di  questo? 

Teofilo.  —  Credo  che  se  ne  awedde  certissimo;  ma  non  vi 
potte^^  rimediare:  pero  disse  che  l'ultime  differenze  sono  inno- 
minabili et  ignote. 

DicsoNO.  -  Cossi  mi  pare  che  apertamente  confesse  la  sua 
ignoranza;  e  però  giudicarci  ancor  io  esser  meglio  di  abbracciar 
que'  principii  di  filosofia,  li  quali  in  questa  importante  di- 
manda non  allegano  ignoranza:  come  fa  Pitagora,  Empedocle  et 
il  tuo  Nolano,  le  opinioni  de  quali  ieri  toccaste. 

Teofilo.  -  Questo  vuole  il  Nolano:  che  è  uno  intelletto  che 
dà  l'essere  [a]  ogni  cosa,  chiamato  da  Pitagorici  et  il  Timeo  «da- 
tore de  le  forme»;  una  anima  e  principio  formale  che  si  fa  et 
informa  ogni  cosa,  chiamata  da  medesmi  «fonte  de  le  forme»; 
una  materia  della  quale  vien  fatta  e  formata  ogni  cosa,  chia- 
mata di  tutti  «ricetto  de  le  forme». 

DicsONO.  -  Questa  dottrina  (per  che  par  che  non  gli  manca 
cosa  alcuna)  molto  mi  aggrada:  e  veramente  è  cosa  necessaria 
che  come  possiamo  ponere  un  principio  materiale  costante  et 
etemo,  poniamo  un  similmente  principio  formale.  Noi  veg- 
giamo  che  tutte  le  forme  naturali  cessano  dalla  materia,  e  no- 
vamente  vegnono  nella  materia:  onde  par  realmente  nessuna 
cosa  esser  costante,  ferma,  etema  e  degna  di  aver  esistimazione 
di  principio,  eccetto  che  la  materia;  oltre  che  le  forme  non 
hanno  l'essere  senza  la  materia,  in  quella  si  generano  e  corrom- 
pono, dal  seno  di  quella  esceno,  et  in  quello  si  accogliono:  però 
la  materia  la  qual  sempre  rimane  medesima  e  feconda,  deve 
aver  la  principal  prorogativa  d'essere  conosciuta  sol  principio 
substanziale,  e  quello  che  è,  e  che  sempre  rimane;  e  le  forme  ^^ 
tutte  insieme  non  intenderle,  se  non  come  che  sono  disposizioni 
varie  della  materia,  che  sen  vanno  e  vegnono,  altre  cessano  e  se 
rinnovano:  onde  non  hanno  riputazione  tutte  di  principio.  Però 
si  son  trovati  di  quelli  che  avendo  ben  considerata  la  raggione 
delle  forme  naturali,  come  ha  possuto  aversi  da  Aristotele  et 
altri  simili,  hanno  concluso  al  fine,  che  quelle  non  son  che  ac- 

58.  Forma  napoletana  arcaica  per  «potè». 

59.  Cioè  le  forme  individuali. 


TERZO  DIALOGO  687 

cidenti  e  circostanze  della  materia;  e  però  prerogativa  di  atto  e 
di  perfezzione  doverse  referire  alla  materia,  e  non  a  cose  de 
quali  veramente  possiamo  dire  che  esse  non  sono  sustanza  né 
natura,  ma  cose  della  sustanza  e  della  natura:  la  quale  dicono 
essere  la  materia,  che  appresso  quelli  è  un  principio  necessario 
etemo  e  divino,  come  a  quel  moro  Avicebron '''^  che  la  chiama 
«Dio  che  è  in  tutte  le  cose». 

Teofilo.  —  A  questo  errore  son  stati  ammenati  quelli  da 
non  conoscere  altra  forma  che  l'accidentale:  e  questo  moro, 
benché  dalla  dottrina  peripatetica  nella  quale  era  nutrito, 
avesse  accettata  la  forma  sustanziale,  tutta  volta  consideran- 
dola come  cosa  corrottibile,  non  solo  mutabile  circa  la  materia; 
e  come  quella  che  è  parturita  e  non  parturisce,  fondata  e  non 
fonda,  è  rigettata  e  non  rigetta,  la  dispreggiò  e  la  tenne  a  vile  in 
comparazione  della  materia  stabile,  etema,  progenitrice,  madre. 
E  certo  questo  avviene  a  quelli  che  non  conoscono  quello  che  [191] 
conosciamo  noi. 

DicsoNO.  —  Questo  è  stato  molto  ben  considerato:  ma  è 
tempo  che  dalla  digressione  ritorniamo  al  nostro  proposito. 
Sappiamo  ora  distinguere  la  materia  dalla  forma,  tanto  dalla 
forma  accidentale  (sia  come  la  si  voglia)  quanto  dalla  sustan- 
ziale: quel  che  resta  a  vedere  è  la  natura  e  realità  sua.  Ma  prima 
vorrei  saper  se  per  la  grande  unione,  che  ha  questa  anima  del 
mondo  e  forma  universale  con  la  materia,  si  potesse  patire 
quell'altro  modo  e  maniera  di  filosofare,  di  quei  che  non  sepa- 
rano l'atto  dalla  raggion  della  materia,  e  la  intendeno  cosa  di- 
vina: e  non  pura  et  informe  talmente,  che  lei  medesma  non  si 
forme  e  vesta. 

Teofilo.  —  Non  facilmente,  perché  niente  assolutamente 
opera  in  se  medesimo,  e  sempre  è  qualche  distinzion  tra  quello 
che  è  agente  e  quello  che  è  fatto,  o  circa  il  quale  è  l'aczione  et 
operazione:  là  onde  è  bene  nel  corpo  della  natura  distinguere  la 
materia  da  l'anima;  et  in  questa  distinguere  quella  raggione 
delle  specie^'.  Onde  diciamo  in  questo  corpo  tre  cose:  prima 
l'intelletto  universale  indito  nelle  cose;  secondo,  l'anima  vivifi- 

60.  Si  veda  supra,  nota  38. 

61.  «La  raggione  delle  specie»  è  «l'intelletto  universale»,  menzionato  nella 
frase  successiva. 


688  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

catrice  del  tutto;  terzo,  il  soggetto.  Ma  non  per  questo  negaremo 
esser  filosofo  colui  che  prenda  nel  geno  di  suo  filosofare  questo 
corpo  formato,  o  (come  vogliam  dire)  questo  animale  razionale; 
e  comincie  a  prendere  per  primi  principii  in  qualche  modo  i 
membri  di  questo  corpo,  come  dire,  aria,  terra,  fuoco;  over  ete- 
rea regione  et  astro;  over  spirito  e  corpo;  opur  vacuo  e  pieno: 
[193]  intendendo  però  il  vacuo  non  come  il  prese  Aristotele;  o  pur  in 
altro  modo  conveniente.  Non  mi  parrà  però  quella  filosofia  de- 
gna di  essere  rigettata,  massime  quando  sopra  a  qualsivoglia 
fundamento  che  ella  presuppona,  o  forma  d'edificio  che  si  pro- 
pona.  venga  ad  effettuare  la  perfezzione  della  scienzia  specula- 
tiva e  cognizione  di  cose  naturali,  come  in  vero  è  stato  fatto  da 
molti  più  antichi  filosofi.  Perché  è  cosa  da  ambizioso,  e  cervello 
presuntuoso,  vano  et  individioso,  voler  persuadere  ad  altri,  che 
non  sia  che  una  sola  via  di  investigare,  e  venire  alla  cognizione 
della  natura:  et  è  cosa  da  pazzo  et  uomo  senza  discorso  donarlo 
ad  intendere  a  se  medesimo.  Benché  dumque  la  via  più  co- 
stante e  ferma,  e  più  contemplativa  e  distinta,  et  il  modo  di 
considerar  più  alto  deve  sempre  esser  preferito,  onorato  e  pro- 
curato più,  non  per  tanto  è  da  biasimar  quell'altro  modo,  il 
quale  non  è  senza  buon  frutto,  ben  che  quello  non  sia  il  mede- 
smo  arbore. 

DicsoNO.  —  Dumque  approvate  il  studio  de  diverse  filosofie? 

Teofilo.  -  Assai,  a  chi  ha  copia  di  tempo  et  ingegno;  ad 
altri  approvo  il  studio  della  megliore,  se  gli  dèi  vogliono  che  la 
addovine. 

DicsoNO.  -  Son  certo  però  che  non  approvate  tutte  le  filoso- 
fie, ma  le  buone  e  le  megliori. 

Teofilo.  —  Cossi  è:  come  anco  in  diversi  ordini  di  medicare, 
non  riprovo  quello  che  si  fa  magicamente  per  applicazion  di 
radici,  appension  di  pietre  e  murmurazione  d'incanti  ^^,  s'il  ri- 
gor di  teologi  mi  lascia  parlar  come  puro  naturale.  Approvo 
[195]  quello  che  si  fa  fisicamente,  e  procede  per  apotecarie  ricette,  con 
le  quali  si  perseguita  o  fugge  la  còlerà,  il  sangue,  la  flemma  e  la 

62.  Bruno  approva  la  medicina  magica  anche  nel  Sigillus  sigillorum,  I,  39, 
Op.  lat,  II,  2,  pp.  183-184  (traduz.  di  N.  Tirinnanzi,  Milano,  1997.  pp.  384-385), 
così  come  in  De  gli  eroici  furori,  I,  5,  p.  606. 


TERZO  DIALOGO  D09 

melancolia^^.  Accetto  quello  altro  che  si  fa  chimicamente,  che 
abstrae  le  quinte  essenze,  e  per  opera  del  fuoco,  da  tutti  que' 
composti  fa  volar  il  mercurio,  subsidere  il  sale,  e  lampeggiar  o 
disogliar  il  solfro*^.  Ma  però  in  proposito  di  medicina,  non  vo- 
glio determinare  tra  tanti  buoni  modi,  qual  sia  il  megliore: 
perché  l'epilettico  sopra  il  quale  han  perso  il  tempo  il  fisico  et  il 
chimista,  se  vien  curato  dal  mago,  approvare  non  senza  rag- 
gione  più  questo,  che  quello  e  quell'altro  medico.  Similmente 
discorri  per  l'altre  specie:  de  quali  nessuna  verrà  ad  essere  men 
buona  che  l'altra,  se  cossi  l'una  come  le  altre  viene  ad  effettuar 
il  fine  che  si  propone.  Nel  particolar  poi  è  meglior  questo  me- 
dico che  mi  sanarà,  che  gli  altri  che  m'uccidano  o  mi  tormen- 
tino. 

Gervasio.  —  Onde  avviene  che  son  tanto  nemiche  tra  lor 
queste  sette  di  medici? 

Teofilo.  —  Dall'avarizia,  dall'invidia,  dall'ambizione  e  dal- 
l'ignoranza. Comunmente  a  pena  intendono  il  proprio  metodo 
di  medicare,  tanto  si  manca  che  possano  aver  raggione  di  quel 
d'altrui.  Oltre  che  la  maggior  parte  non  possendo  alzarsi  al- 
l'onor  e  guadagno  con  proprie  virtù,  studia  di  preferirsi  con  ab- 
bassar gli  altri,  mostrando  dispreggiar  quello  che  non  può  ac- 
quistare. Ma  di  questi  l'ottimo  e  vero,  è  quello  che  non  è  sì  fi- 
sico, che  non  sia  anco  chimico  e  matematico.  Or  per  venir  al 
proposito:  tra  le  specie  della  filosofia,  quella  è  la  meglior  che  più 
comoda  et  altamente  effettua  la  perfezzion  de  l'intelletto 
umano,  et  è  più  corrispondente  alla  verità  della  natura,  e  [197] 
quanto  sia  possibile  [ne  renda]  coperatori  di  quella,  o  divi- 
nando (dico  per  ordine  naturale,  e  raggione  di  vicissitudine; 
non  per  animale  istinto  come  fanno  le  bestie  e  que'  che  gli  son 
simili;  non  per  ispirazione  di  buoni  o  mali  demoni,  come  fanno 
i  profeti;  non  per  melancolico  entusiasmo,  come  i  poeti  et  altri 

63.  I  quattro  umori  della  medicina  antica. 

64.  Sulla  natura  di  queste  operazioni,  cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  ai 
dialoghi  «De  la  causa»,  in  Id.,  Schede  bruniane  cit,  postilla  8^  pp.  138-139  (dove 
sono  riportati  tre  brani  della  Pirotechnia  di  V.  Biringuccio  (Vinegia,  1559,  cap. 
Del  solfo  et  sua  miniera,  ce.  25^,  26''  e  2^");  cfr.  inoltre  G.  Bracesco,  Legno 
della  vita,  1542,  f.  D  iv":  «nello  aceto  [il  metallo]  sublimare  il  suo  sale  &  solpho, 
il  quale  solpho  tu  l'hai  tanto  a  lavare,  che  quella  rubedine  ontuosa  &  adhusti- 
bile  si  separi,  &  quello  che  diventi  bianco  come  argento».  La  triade  «mercu- 
rio», «sale»  e  «solfro»  rinvia  a  Paracelso  (si  veda  supra,  nota  39). 


690  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

contemplativi),  o  ordinando  leggi  e  riformando  costumi,  o  me- 
dicando, o  pur  conoscendo  e  vivendo  una  vita  più  beata  e  più 
divina.  Eccovi  dumque  come  non  è  sorte  di  filosofia,  che  sia 
stata  ordinata  da  regolato  sentimento,  la  quale  non  contegna  in 
sé  qualche  buona  proprietà,  che  non  è  contenuta  da  le  altre.  Il 
simile  intendo  della  medicina,  che  da  tai  principii  deriva,  quali 
presupponeno  non  imperfetto  abito  di  filosofia:  come  l'opera- 
zion  del  piede  o  della  mano,  quella  de  l'occhio.  Però  è  detto  che 
non  può  aver  buono  principio  di  medicina,  chi  non  ha  buon 
termine  di  filosofia^'. 

DicsoNO.  —  Molto  mi  piacete,  e  molto  vi  lodo:  che  sì  come  non 
séte  cossi  plebeio  come  Aristotele,  non  séte  anco  cossi  ingiurioso 
et  ambizioso  come  lui;  il  quale  l'opinioni  di  tutti  altri  filosofi,  con 
gli  lor  modi  di  filosofare,  volse  che  fussero  a  fatto  dispreggiate. 

Teofilo.  -  Benché  de  quanti  filosofi  sono,  io  non  conosca 
più  fondato  su  l'imaginazioni  e  rimosso  dalla  natura  che  lui;  e 
se  pur  qualche  volta  dice  cose  eccellenti,  son  conosciute  che 
non  dependeno  da  principii  suoi,  e  però  sempre  son  proposi- 
zioni tolte  da  altri  filosofi:  come  ne  veggiamo  molte  divine  nel 
199]   libro  Della  generazione,  Meteora,  De  animali  e  Piante^^. 

DicsONO.  —  Tornando  dumque  al  nostro  proposito:  volete 
che  della  materia,  senza  errore  et  incorrere  contradizzione,  se 
possa  definire  diversamente? 

Teofilo.  -  Vero,  come  del  medesmo  oggetto  possono  esser 
giodici  diversi  sensi;  e  la  medesma  cosa  si  può  insinuar  diver- 
samente. Oltre  che  (come  è  stato  toccato)  la  considerazione  di 
una  cosa  si  può  prendere  da  diversi  capi.  Hanno  dette  molte 
cose  buone  gli  Epicurei,  benché  non  s'inalzassero  sopra  la  qua- 
lità materiale;  molte  cose  excellenti  ha  date  a  conoscere 
Eraclito,  benché  non  salisse  sopra  l'anima.  Non  manca  Anassa- 
gora di  far  profitto  nella  natura''^,  perché  non  solamente  entro  a 

65.  Si  veda  supra.  p.  680,  l'elogio  di  Paracelso  e  il  biasimo  di  Galeno. 

66.  Si  veda  l'enumerazione  bruniana  delle  opere  naturalistiche  di  Aristo- 
tele nella  Figuratio  Physici  auditus,  «Divisio  naturalis  philosophiae»,  Op.  lat,  I, 
4,  p.  141. 

67.  Cfr.  G.  Bruno,  De  immenso.  III,  8,  Op.  lai.,  I,  i,  p.  377  (ed.  Monti  cit., 
p.  560:  «Anassagora  ...  riteneva  la  sostanza  del  Sole  terrea  ed  ignea,  densa  per 
l'umido  nel  corpo  lucente  e,  con  un'unica  parola,  la  definì  pietra  ardente.  Non 
si  sa  se  forse  perché  non  aveva  con  ciò  troppo  profondamente  meditato  sulla 
sostanza  divina  e  animale,  fu  giudicato  dal  popolo  degno  della  morte»). 


TERZO  DIALOGO  69 1 

quella,  ma  fuori,  e  sopra  forse,  conoscer  voglia  un  intelletto,  il 
quale  medesmo  da  Socrate,  Platone,  Trimegisto"^^  e  nostri  teo- 
logi è  chiamato  Dio.  Cossi  niente  manco  bene  può  promovere  a 
scuoprir  gli  arcani  della  natura,  uno  che  comincia  dalla  rag- 
gione  esperimentale  di  semplici  (chiamati  da  loro)'^'*,  che  quelli 
che  cominciano  dalla  teoria  razionale.  E  di  costoro,  non  meno 
chi  da  complessioni,  che  chi  da  umori ''",  e  questo  non  più  che 
colui  che  descende  da  sensibili  elementi''^;  o  più  da  alto  quelli 
assoluti''^,  o  da  la  materia  una,  di  tutti  più  distinto  principio. 
Perché  talvolta  chi  fa  più  lungo  camino,  non  farà  però  sì  buono 
peregrinaggio;  massime  se  il  suo  fine  non  è  tanto  la  contempla- 
zione, quanto  l'operazione.  Circa  il  modo  poi  di  filosofare,  non 
men  comodo  sarà  di  esplicar  le  forme  come  da  un  implicato, 
che  distinguerle  come  da  un  caos,  che  distribuirle  come  da  un 
fonte  ideale,  che  cacciarle  in  atto  come  da  una  possibilità,  che  [201] 
riportarle  come  da  un  seno,  che  dissotterarle  alla  luce  come  da 
un  cieco  e  tenebroso  abisso^^:  perché  ogni  fundamento  è  buono, 
se  viene  approvato  per  l'edificio;  ogni  seme  è  convenevole,  se  gli 
arbori  e  frutti  sono  desiderabili. 

DicsoNO.  —  Or  per  venire  al  nostro  scopo:  piacciavi  apportar 
la  distinta  dottrina  di  questo  principio. 

Teofilo.  —  Certo  questo  principio  che  è  detto  materia  può  es- 
sere considerato  in  doi  modi:  prima,  come  una  potenza;  secondo, 
come  un  soggetto.  In  quanto  che  presa  nella  medesima  significa- 
zione che  potenza,  non  è  cosa  nella  quale  in  certo  modo  e  secon- 
do la  propria  raggione  non  possa  ritrovarse:  e  gli  Pitagorici  ^""j 

68.  Cfr.  G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo  terzo,  pp.  354-365,  per  la  «traduzione» 
bruniana  delV Asclepius  pseudo-ermetico  (come  si  legge  nell'edizione  aldina  del 
Mercurii  Trismegisti  Dialogus  Lucio  Apuleio  Madaurensi  Philosopho  Plato- 
nico Interprete,  Venetiis,  1516,  ff.  I25'^-I4i'').  Per  quello  che  concerne  l'in- 
fluenza dell'ermetismo  sul  pensiero  del  Nolano,  cfr.  F.  A.  Yates,  Bruno  e  la 
tradizione  ermetica,  traduz.  di  B.  Pecchioli,  Roma-Bari,  2002^. 

69.  Vale  a  dire  materialisti:  da  un  canto,  Anassagora  (che  parla  di  «parti»); 
dall'altro,  i  seguaci  di  Democrito  e  di  Epicuro  (che  parlano  di  «atomi»). 

70.  I  quattro  umori  della  medicina  ippocratica  e  galenica,  combattuta  da 
Paracelso;  si  veda  supra,  p.  680. 

71.  Anassagora,  ad  esempio. 

72.  Gli  atomisti. 

73.  Allusioni,  rispettivamente,  a  Nicolò  Cusano,  ad  Anassagora,  alla  filoso- 
fia «araba»,  ad  Aristotele,  di  nuovo  agli  Arabi  e  infine  ad  Ermete  Trismegisto. 

74.  Beninteso,  i  neo-pitagorici. 


692  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Platonici  "^5,  Stoici  et  altri,  non  meno  l'han  posta  nel  mondo  in- 
telligibile, che  nel  sensibile.  E  noi  non  la  intendendo  a  punto 
come  quelli  la  intesero,  ma  con  una  raggione  più  alta  e  più 
esplicata,  in  questo  modo  raggionamo  della  potenza  over  possi- 
bilità: -  la  potenza  comunmente  si  distingue  in  attiva  per  la 
quale  il  soggetto  di  quella  può  operare,  et  in  passiva  per  la 
quale  o  può  essere,  o  può  ricevere,  o  può  avere,  o  può  essere 
soggetto  di  efficiente  in  qualche  maniera.  De  la  potenza  attiva 
non  raggionando  al  presente,  dico  che  la  potenza  che  significa 
in  modo  passivo  (benché  non  sempre  sia  passiva)  si  può  consi- 
derare [o  relativamente]  o  vero  assolutamente;  e  cossi  non  è 
cosa  di  cui  si  può  dir  l'essere,  della  quale  non  si  dica  il  posser 
essere  ^^.  E  questa  sì  fattamente  risponde  alla  potenza  attiva, 
che  l'una  non  è  senza  l'altra  in  modo  alcuno:  onde  se  sempre  è 
[203]  stata  la  potenza  di  fare,  di  produre,  di  creare,  sempre  è  stata  la 
potenza  di  esser  fatto,  produto  e  creato;  perché  l'una  potenza 
implica  l'altra:  voglio  dir,  con  esser  posta,  lei  pone  necessaria- 
mente l'altra.  La  qual  potenza,  perché  non  dice  imbecillità  in 
quello  di  cui  si  dice,  ma  più  tosto  confirma  la  virtù  et  efficacia, 
anzi  al  fine  si  trova  che  è  tutt'uno  et  a  fatto  la  medesma  cosa 
con  la  potenza  attiva,  non  è  filosofo  né  teologo  che  dubiti  di 
attribuirla  al  primo  principio  sopra  naturale ^^.  Per  che  la  pos- 
sibilità assoluta  per  la  quale  le  cose  che  sono  in  atto,  possono 
essere,  non  è  prima  che  la  attualità,  né  tampoco  poi  che  quella: 
oltre,  il  possere  essere  è  con  lo  essere  in  atto,  e  non  precede 
quello;  per  che  se  quel  che  può  essere  facesse  se  stesso,  sarebe 
prima  che  fusse  fatto ^^.  Or  contempla  il  primo  et  ottimo  prin- 

75.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  II,  4,  4  (e  il  titolo  nella  traduz.  latina  di  M.  Ficino, 
Basileae,  1580,  p.  160:  Probat  esse  in  intelligibili  mundo  materiam);  Calcidio, 
[Platonis]  Timaeus  a  Calcidio  translatus  commentarioque  instructus,  cap.  CCCXX, 
ed.  J.-H.  Waszink,  London-Leyden,  1962,  p.  316:  «Recte  igitur  eam  simpliciter 
et  ex  natura  sua  neque  corpoream  neque  incorpoream  cognominamus,  sed  pos- 
sibilitate  corpus  et  item  possibilitate  non  corpus». 

76.  Cfr.  N.  Cusano,  De  dacia  ignorantia,  II,  7,  ed.  Federici-Vescovini  cit., 
p.  128:  «Quomodo  enim  quid  asset,  si  non  potuisset  esse?»  («Quale  cosa  sa- 
rebbe, se  non  potesse  essere?»). 

jy.  Ivi,  II,  8,  ed.  cit.,  p.  132:  «Quare  possibilitas  absoluta  in  deo  est  deus, 
extra  ipsum  vero  non  est  possibilis»  («Pertanto  la  possibilità  assoluta  è  Dio  in 
Dio,  e  non  è  possibile  fuori  di  lui»). 

78.  Cfr.  N.  Cusano,  Trialogus  de  possest,  ed.  Federici-Vescovini  cit.,  p.  750: 
«  Possibilitas  ergo  absoluta,  de  qua  loquimur,  per  quam  ea  quae  actu  sunt,  actu 
esse  possunt,  non   praecedit  actualitatem,  neque  etiam  sequitur.  Quomodo 


TERZO  DIALOGO  693 

cipio,  il  quale  è  tutto  quel  che  può  essere;  e  lui  medesimo  non 
sarebe  tutto,  se  non  potesse  essere  tutto:  in  lui  dumque  l'atto  e 
la  potenza  son  la  medesima  cosa.  Non  è  cossi  nelle  altre  cose,  le 
quali  quantumque  sono  quello  che  possono  essere,  potrebono 
però  non  esser  forse;  e  certamente  altro,  o  altrimente  che  quel 
che  sono:  perché  nessuna  altra  cosa  è  tutto  quel  che  può  essere. 
Lo  uomo  è  quel  che  può  essere,  ma  non  è  tutto  quel  che  può 
essere.  La  pietra  non  è  tutto  quello  che  può  essere,  per  che  non 
è  calci,  non  è  vase,  non  è  polve,  non  è  erba.  Quello  che  è  tutto 
che  può  essere,  è  uno,  il  quale  nell'esser  suo  comprende  ogni 
essere.  Lui  è  tutto  quel  che  è,  e  può  essere  qualsivogli'altra  cosa 
che  è  e  può  essere ^^.  Ogni  altra  cosa  non  è  cossi:  però  la  potenza 
non  è  equale  a  l'atto,  perché  non  è  atto  assoluto  ma  limitato; 
oltre  che  la  potenza  sempre  è  limitata  ad  uno  atto,  perché  mai  [205] 
ha  più  che  uno  essere  specificato  e  particolare;  e  se  pur  guarda 
ad  ogni  forma  et  atto,  questo  è  per  mezzo  di  certe  disposizioni,  e 
con  certa  successione  di  uno  essere  dopo  l'altro.  Ogni  potenza 
dumque  et  atto  che  nel  principio  è  come  complicato,  unito  et 
uno,  nelle  altre  cose  è  esplicato,  disperso  e  moltiplicato  ^''.  Lo 
universo  che  è  il  grande  simulacro,  la  grande  imagine  e  l'unige- 
nita natura,  è  ancor  esso  tutto  quel  che  può  esser  per  le  mede- 
sime specie  e  membri  principali  e  continenza  di  tutta  la  mate- 
ria; alla  quale  non  si  aggionge  e  dalla  quale  non  si  manca,  di 
tutta  et  unica  forma:  ma  non  già  è  tutto  quel  che  può  essere  per 
le  medesime  differenze,  modi,  proprietà  et  individui;  però  non  è 
altro  che  un'ombra  del  primo  atto  e  prima  potenza,  e  per  tanto 

enim  actualitas  esse  posset,  possibilitate  non  existente?  Coaetema  ei^o  sunt 
absoluta  potentia  et  actus  et  utriusque  nexus»  («Dunque  la  possibilità  asso- 
luta, di  cui  stiamo  parlando,  per  la  quale  le  cose  che  sono  in  atto  possono 
essere  in  atto,  non  precede  l'attualità,  e  neppure  la  segue.  E  come  l'attualità 
potrebbe  essere,  se  non  esistesse  la  possibilità?  La  potenza  assoluta,  l'atto  e  il 
loro  nesso  sono,  dunque,  coetemi»).  Cfr.  altresì  Avicebron,  Fons  Vitae,  V,  42. 

79.  N.  Cusano,  De  dada  ignorantta,  II,  9,  ed.  Federici-Vescovini  cit,  p.  138: 
«Unde  formae  rerum  non  sunt  distinctae,  nisi  ut  sint  contraete.  Ut  sunt  abso- 
lute,  sunt  una  indistincta,  quae  est  Verbum  in  divinis»  («Perciò  le  forme  delle 
cose  sono  distinte  solo  in  modo  contratto.  Allorché  sono  in  modo  assoluto, 
sono  un'unica  forma  indistinta  che,  nella  sfera  divina,  è  il  Verbo»). 

80.  Cfr.  G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo  primo,  p.  251:  «l'unità  è  uno  infinito  im- 
plicito, e  l'infinito  è  la  unità  explicita»;  N.  Cusano,  Trialogus  de  possest,  ed. 
Federici-Vescovini  cit,  p.  751:  «Volo  dicere  omnia  illa  complicite  in  deo  esse 
deus  sicut  explicite  in  creatura  mundi  sunt  mundus»  («Voglio  dire  che  tutto 
ciò  che  è  in  Dio  è  complicativamente  Dio,  nella  creatura  del  mondo  è  esplica- 
tivamente mondo»). 


694  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

in  esso  la  potenza  e  l'atto  non  è  assolutamente  la  medesima 
cosa,  per  che  nessuna  parte  sua  è  tutto  quello  che  può  essere. 
Oltre  che  in  quel  modo  specifico  che  abbiamo  detto,  l'universo 
è  tutto  quel  che  può  essere,  secondo  un  modo  esplicato,  di- 
sperso, distinto:  il  principio  suo  è  unitamente  et  indifferente- 
mente; perché  tutto  è  tutto  et  il  medesmo  semplicissimamente, 
senza  differenza  e  distinzione. 

DicsoNO.  -  Che  dirai  della  morte,  della  corrozzione,  di  vizii, 
di  difetti,  di  mostri?  volete  che  questi  ancora  abiano  luogo  in 
quello  che  è  il  tutto  che  può  essere,  et  è  in  atto  tutto  quello  che 
è  in  potenza? 

Teofilo.  —  Queste  cose  non  sono  atto  e  potenza;  ma  sono 
difetto  et  impotenza,  che  si  trovano  nelle  cose  esplicate,  per  che 
non  sono  tutto  quel  che  possono  essere,  e  si  forzano  a  quello 
[207]  che  possono  essere:  là  onde  non  possendo  essere  insieme  et  ad 
un  tratto  tante  cose,  perdeno  l'uno  essere  per  aver  l'altro;  e 
qualche  volta  confondeno  l'uno  essere  con  l'altro,  e  tal'or  sono 
diminuite,  manche  e  stroppiate,  per  l'incompassibilità  di  questo 
essere  e  di  quello,  et  occupazion  della  materia  in  questo  e 
quello.  Or  tornando  al  proposito:  il  primo  principio  assoluto  è 
grandezza,  è  magnitudine:  et  è  tal  magnitudine  e  grandezza,  che 
è  tutto  quel  che  può  essere.  Non  è  grande  di  tal  grandezza  che 
possa  esser  maggiore,  né  che  possa  esser  minore,  né  che  possa 
dividersi,  come  ogni  altra  grandezza  che  non  è  tutto  quel  che 
può  essere;  però  è  grandezza  massima,  minima,  infinita,  impar- 
tibile,  e  d'ogni  misura^^  Non  è  maggiore,  per  esser  minima;  non 
è  minima,  per  esser  quella  medesima  massima^^;  è  oltre  ogni 
equalità,  per  che  è  tutto  quel  che  ella  possa  essere.  Questo  che 
dico  della  grandezza,  intendi  di  tutto  quel  che  si  può  dire^^: 

81.  Cfr.  ivi  ed.  cit,  p.  751:  «Si  ergo  deus  est  magnus  magnitudine  quae  id  est 
quod  esse  potest  et  —  ut  dicis  —  quae  maior  non  potest  et  quae  minor  esse  non 
potest,  tunc  deus  est  magnitudo  maxima  pariter  et  minima»  («Se,  dunque.  Dio 
è  grande  della  grandezza  che  è  ciò  che  può  essere  e  che,  come  dici,  non  può  essere 
più  grande  o  più  piccola.  Dio  è,  allora,  la  grandezza  parimenti  massima  e  mi- 
nima»); De  docta  ignorantta,  I,  4,  ed.  Federici-Vescovini  cit,  pp.  61-63. 

82.  Cfr.  ivi,  I,  16,  ed.  cit,  p.  82:  «Maximum  enim,  cui  non  opponitur  mini- 
mum, necessario  omnium  est  adaequatissima  mensura,  non  maior  quia  mini- 
mum, non  minor  quia  maximum»  («Il  massimo,  infatti,  a  cui  non  si  oppone  il 
minimo,  è  necessariamente  la  più  adeguata  misura  di  tutto:  non  maggiore, 
perché  è  il  minimo,  non  minore,  perché  è  il  massimo»). 

83.  Cfr.  N.  Cusano,  Trialogus  de  possest,  ed.  Federici-Vescovini  cit.,  p.  752: 


TERZO  DIALOGO  695 

perché  è  similmente  bontà  che  è  ogni  bontà  che  possa  essere,  è 
bellezza  che  è  bellezza  che  è  tutto  il  bello  che  può  essere;  e  non 
è  altro  bello  che  sia  tutto  quello  che  può  essere,  se  non  questo 
uno.  Uno  è  quello  che  è  tutto  e  può  esser  tutto  assolutamente. 
Nelle  cose  naturali  oltre  non  veggiamo  cosa  alcuna,  che  sia  al- 
tro che  quel  che  è  in  atto,  secondo  il  quale  è  quel  che  può  essere 
per  aver  una  specie  di  attualità:  tuttavia  né  in  questo  unico 
esser  specifico  giamai  è  tutto  quel  che  può  essere  qualsivoglia 
particulare.  Ecco  il  sole:  non  è  tutto  quello  che  può  essere  il 
sole,  non  è  per  tutto  dove  può  essere  il  sole,  per  che  quando  è 
oriente  a  la  terra,  non  gli  è  occidente,  né  meridiano,  né  di  altro 
aspetto  ^■'.  Or  se  vogliamo  mostrar  il  modo  con  il  quale  Dio  è 
sole,  diremo  (perché  è  tutto  quel  che  può  essere)  che  è  insieme  [209] 
oriente,  occidente,  meridiano,  merinozziale,  e  di  qualsivoglia  di 
tutti  punti  de  la  convessitudine  della  terra:  onde  se  questo  sole 
(o  per  sua  revoluzione,  o  per  quella  de  la  terra)  vogliamo  inten- 
dere che  si  muova  e  muta  loco,  perché  non  è  attualmente  in  un 
punto  senza  potenza  di  essere  in  tutti  gli  altri,  e  però  have  at- 
titudine ad  esservi;  se  dumque  è  tutto  quel  che  può  essere,  e 
possiede  tutto  quello  che  è  atto  a  possedere,  sarà  insieme  per 
tutto  et  in  tutto;  è  sì  fattamente  mobilissimo  e  velocissimo,  che 
è  anco  stabilissimo  et  immobilissimo:  però  tra  gli  divini  di- 
scorsi troviamo  che  è  detto  «stabile  in  etemo»,  e  «velocissimo 
che  discorre  da  fine  a  fine»^^^  perché  se  intende  inmobile  quello 
che  in  uno  istante  medesimo  si  parte  dal  punto  di  oriente  et  è 

«Et  fortassis  non  solum  in  magnitudine  hoc  verum,  sed  etiam  in  omnibus 
quae  de  creaturis  verificantur»  («Questo,  tuttavia,  è  vero  non  solo  della  gran- 
dezza, ma  anche  di  tutte  le  cose  che  si  riscontrano  nelle  creature»). 

84.  Ivi:  «Nam  si  dicitur,  Deum  esse  Solem,  utique  si  intelligitur  id  sane  de 
Sole,  qui  est  omne  id  in  actu,  quod  esse  potest,  tunc  dare  videtur,  hic  Sol  non 
esse  aliquid  simile  ad  illum»  («Se  si  dice  che  Dio  è  Sole,  ciò  va  inteso  certa- 
mente del  Sole  che  è  in  atto  tutto  ciò  che  può  essere:  allora,  vediamo  chiara- 
mente che  questo  Sole  non  è  qualcosa  di  simile  a  quello»). 

85.  Cfr.  Sapienza,  VII,  22-24:  «In  essa,  infatti,  c'è  uno  spirito  intelligente, 
santo,  /  unico,  molteplice,  leggero,  /  nobilissimo,  penetrante,  incontaminato,  / 
terso,  impassibile,  amante  del  bene,  acuto,  /  libero,  benefico,  filantropico,  /  sta- 
bile, sicuro,  senza  preoccupazioni,  /  onnipotente,  onniveggente  /  e  che  permea 
tutti  gli  spiriti  /  intelligenti,  puri,  leggerissimi.  /  La  Sapienza  infatti  è  il  più 
agile  di  tutti  i  moti;  /  per  la  sua  purezza  attraversa  e  penetra  ogni  cosa»; 
N.  Cusano,  Trialogus  de  possest,  ed.  Federici-Vescovini  cit.,  pp.  758-759:  «...  et 
verbum  velociter  currere  et  omnia  penetrare  atque  a  fine  ad  finem  pertingere 
atque  ad  omnia  progredì»  («Il  Verbo  corre  velocemente  e  penetra  tutte  le  cose, 
va  da  un  fine  all'altro  e  avanza  verso  tutte  le  cose»). 


696  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ritornato  al  punto  di  oriente;  oltre  che  non  meno  si  vede  in 
oriente,  che  in  occidente,  e  qualsivoglia  altro  punto  del  circuito 
suo:  per  il  che  non  è  più  raggione  che  diciamo  egli  partirsi  e 
tornare,  esser  partito  e  tornato,  da  quel  punto  a  quel  punto,  che 
da  qualsivoglia  altro  de  infiniti,  al  medesimo;  onde  verrà  esser 
tutto  e  sempre  in  tutto  il  circolo  et  in  qualsivoglia  parte  di 
quello;  e  per  consequenza  ogni  punto  individuo  dell'eclittica, 
contiene  tutto  il  diametro  del  sole:  e  cossi  viene  uno  individuo 
a  contener  il  dividuo;  il  che  non  accade  per  la  possibilità  natu- 
rale, ma  sopranaturale:  voglio  dire  quando  si  sopponesse  che  il 
sole  fosse  quello  che  è  in  atto  tutto  quel  che  può  essere.  La  po- 
testà sì  assoluta  non  è  solamente  quel  che  può  essere  il  sole,  ma 
quel  che  è  ogni  cosa,  e  quel  che  può  essere  ogni  cosa^^.  Potenza 
[211]  di  tutte  le  potenze,  atto  di  tutti  gli  atti,  vita  di  tutte  le  vite, 
anima  di  tutte  le  anime,  essere  de  tutto  l'essere;  onde  altamen- 
te è  detto  dal  Revelatore*^^:  «Quel  che  è  me  invia,  colui  che  è 
dice  cossi».  Però  quel  che  altrove  è  contrario  et  opposito,  in  lui 
è  uno  e  medesimo,  et  ogni  cosa  in  lui  è  medesima:  cossi  di- 
scorri per  le  differenze  di  tempi  e  durazioni,  come  per  le  diffe- 
renze di  attualità  e  possibilità;  però  lui  non  è  cosa  antica  e  non 
è  cosa  nuova,  per  il  che  ben  disse  il  Revelatore^^:  «primo  e  no- 
vissimo». 

DicsoNO.  -  Questo  atto  absolutissimo,  che  è  medesimo  che 
l'absolutissima  potenza,  non  può  esser  compreso  da  l'intelletto, 
se  non  per  modo  di  negazione:  non  può,  dico,  esser  capito  né  in 
quanto  può  esser  tutto,  né  in  quanto  è  tutto;  perché  l'intelletto 

86.  Cfr.  G.  Bruno,  Lampas  triginta  statuarum,  V,  «De  patre,  seu  mente,  seu 
plenitudine»,  Op.  lat..  Ili,  p.  40:  «Sicut  in  se  ipso  est  idem  undique,  ita  in  aliis, 
quorum  nuUum  est  extra  ipsum,  intelligitur  velut  essentia  essentiae,  anima 
animae,  natura  naturae». 

87.  Qui,  Mosè.  Cfr.  Esodo,  III,  14;  G.  Bruno,  Articuli  adversus  mathematicos, 
Op.  lai.,  I,  3,  p.  26:  «unum  est  ens,  unum  est  verum,  multitudo  vero  relinquitur 
ut  accidens,  ut  vanitas,  ut  non  ens:  ita  intelliges  ubi  monadis  vocem  audies: 
SUM  QUOD  EST»;  N.  Cusano,  Trialogus  de  possest,  ed.  Federici-Vescovini  cit, 
p.  754:  «Ideo  dum  deus  sui  vellet  notitiam  primo  revelare,  dicebat  "Ego"  sum 
"deus  omnipotens",  id  est  sum  actus  omnis  potentiae.  Et  alibi:  "Ego  sum  qui 
sum".  Nam  ipse  est  qui  est»  («Quando  Dio  volle  al  principio  dare  notizia  in  sé, 
disse  per  questo:  "Io  sono  Dio  onnipotente",  cioè  l'atto  di  ogni  potenza.  E  al- 
trove: "Io  sono  chi  sono".  Infatti  egli  è  colui  che  è»). 

88.  Qui,  il  profeta  Isaia  oppure  l'autore  deW Apocalisse.  Cfr.  Isaia,  XLI,  4: 
«Io,  lahvé,  sono  il  primo,  /  ma  sono  ugualmente  con  gli  ultimi»;  XLIV,  6:  «Io 
il  primo  e  io  l'ultimo»;  XLVIII,  12:  «Io  sono,  io  il  primo,  /  io  parimenti  l'ulti- 
mo»; Apocalisse,  I,  17:  «Io  sono  il  Primo  e  l'Ultimo». 


TERZO  DIALOGO  697 

quando  vuole  intendere,  gli  fia  mestiere  di  formar  la  specie  in- 
telligibile, di  assomigliarsi,  conmesurarsi  et  ugualarsi  a  quella: 
ma  questo  è  impossibile,  perché  l'intelletto  mai  è  tanto  che  non 
possa  essere  maggiore;  e  quello  per  essere  inmenso  da  tutti  lati  e 
modi,  non  può  esser  più  grande.  Non  è  dumque  occhio  ch'ap- 
prossimar si  possa  o  ch'abbia  accesso  a  tanto  altissima  luce  e  sì 
profondissimo  abisso  ^^. 

Teofilo.  —  La  concidenzia  di  questo  atto  con  l'assoluta  po- 
tenza è  stata  molto  apertamente  descritta  dal  spirto  divino 
dove  dice:  «  Tenehrae  non  obscurabuntur  a  te.  Nox  sicut  dies  illu- 
minabitur.  Sicut  tenehrae  eius,  ita  et  lumen  eius»'^^.  Conchiudendo 
dumque  vedete  quanta  sia  l'eccellenza  della  potenza  la  quale  se 
vi  piace  chiamarla  raggione  di  materia,  che  non  hanno  pene- 
trato i  filosofi  volgari,  la  possete  senza  detraere  alla  divinità 
trattar  più  altamente,  che  Platone  nella  sua  Politica  et  il  Ti-  [213] 
meo''^  Costoro  per  avemo^^  troppo  alzata  la  raggione  della  ma- 
teria son  stati  scandalosi  ad  alcuni  teologi.  Questo  è  accaduto  o 
perché  quelli  non  si  son  bene  dechiarati,  o  perché  questi  non 
hanno  bene  inteso,  perché  sempre  prendeno  il  significato  della 
materia  secondo  che  è  soggetto  di  cose  naturali  solamente,  come 
nodriti  nelle  sentenze  d'Aristotele;  e  non  considerano  che  la 
materia  è  tale  appresso  gli  altri,  che  è  comune  al  mondo  intel- 
ligibile e  sensibile  ^^,  come  essi  dicono,  prendendo  il  significato 
secondo  una  equivocazione  analoga.  Però  prima  che  sieno  con- 
dannate denno  essere  ben  bene  essaminate  le  opinioni,  e  cossi 
distinguere  i  linguaggi  come  son  distinti  gli  sentimenti:  atteso 
che  benché  tutti  convegnano  tal  volta  in  una  raggion  comune 
della  materia,  sono  differenti  poi  nella  propria.  E  quanto  appar- 
tiene al  nostro  proposito,  è  impossibile  (tolto  il  nome  della  ma- 
teria, e  sie  capzioso  e  malvaggio  ingegno  quantosivoglia)  che  si 

89.  Cfr.  G.  Bruno,  De  gli  eroici  furori,  II,  2,  p.  694:  «Questa  verità  è  cercata 
come  cosa  inaccessibile,  come  oggetto  inobiettabile,  non  sol  che  incomprensi- 
bile»; N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  3,  ed.  Federici-Vescovini  cit,  pp.  60-61: 
Quod  praecisa  veritas  sii  incomprehensibtlis  («La  verità  precisa  è  incomprensi- 
bile»). 

90.  Salmi.  CXXXIX,  12:  «Le  tenebre  non  sono  oscure  abbastanza  per  te  /  e 
la  notte  risplende  qual  giorno;  /  tenebre  e  luce  sono  la  stessa  cosa». 

91.  Vale  a  dire  lo  pseudo-Timeo  di  Locri;  cfr.  Calcidio,  [Platonis]  Timaeus 
cit.,  p.  316. 

92.  Forma  coniugata  d'infinito. 

93.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  II,  4,  4  (ed.  italiana,  Torino,  1997,  voi.  I,  pp.  278-279). 


698  DE  LA  CAUSA,  PRINXIPIO  ET  UNO 

trove  teologo  che  mi  possa  imputar  impietà,  per  quel  che  dico 
et  intendo  della  coincidenza  della  potenza  et  atto,  prendendo 
assolutamente  l'uno  e  l'altro  termino.  Onde  vorrei  inferire  che 
(secondo  tal  proporzione,  quale  è  lecito  dire)  in  questo  simula- 
cro''"' di  quell'atto  e  di  quella  potenza,  per  essere  in  atto  speci- 
fico tutto  quel  tanto  che  è  in  specifica  potenza,  pertanto  che 
l'universo  secondo  tal  modo  è  tutto  quel  che  può  essere  (sie  che 
si  voglia  quanto  a  l'atto  e  potenza  numerale),  viene  ad  aver  una 
potenza  la  quale  non  è  absoluta  dall'atto;  una  anima  non  abso- 
luta  dal  animato,  non  dico  il  composto,  ma  il  semplice:  onde 
cossi  del  universo  sia  un  primo  principio  che  medesmo  se  in- 
[215]  tenda,  non  più  distintamente  materiale  e  formale;  che  possa  in- 
ferirse  dalla  similitudine  del  predetto,  potenza  absoluta  et  atto. 
Onde  non  fia  difficile  o  grave  di  accettar  al  fine  che  il  tutto 
secondo  la  sustanza  è  uno:  come  forse  intese  Parmenide,  igno- 
bilmente trattato  da  Aristotele'''. 

DicsONO.  —  Volete  dumque  che  benché  descendendo  per 
questa  scala  di  natura,  sia  doppia  sustanza,  altra  spirituale  altra 
corporale,  che  insomma  l'una  e  l'altra  se  riduca  ad  uno  essere  et 
una  radice. 

Teofilo.  -  Se  vi  par  che  si  possa  comportar  da  quei  che  non 
penetrano  più  che  tanto. 

DicsoNO.  —  Facilissimamente,  pur  che  non  t'inalzi  sopra  i 
termini  della  natura. 

Teofilo.  -  Questo  è  già  fatto.  Se  non  avemo  quel  medesimo 
senso  e  modo  di  diffinire  della  divinità  il  quale  [è]  comune, 
avemo  un  particolare,  non  però  contrario,  né  alieno  da  quello: 
ma  più  chiaro  forse  e  più  esplicato,  secondo  la  raggione  che  non 
è  sopra  il  nostro  discorso,  da  la  quale  non  vi  promesi ''^  di  aste- 
nermi. 

DicsoNO.  —  Assai  è  detto  del  principio  materiale,  secondo  la 

94.  L'universo. 

95.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  I,  3,  i86a  22  e  segg.;  Metaph.,  I,  5, 
986  b  27  e  segg.;  G.  Bruno,  Acrotismus.  art.  Ili,  Op.  lai.,  I,  i.  p.  96:  «Unum  ens 
infinitum  immobile  bene  posuit  Xenophanes,  et  eius  discipulus  Parmenides,  et 
huius  discipulus  Melissus,  nec  feliciter  eos  insectatur  Aristoteles».  In  realtà,  il 
monismo  parmenideo  si  opponeva  al  dualismo  pitagorico  del  pieno  e  del 
vuoto,  non  al  dualismo  della  materia  e  della  forma:  da  qui  l'esitazione  di 
Bruno. 

96.  Per  «promisi»,  forma  popolare  ricorrente  nei  Dialoghi  italiani  di  Bruno. 


.  TERZO  DIALOGO  699 

raggione  della  possibilità  o  potenza:  piacciavi  domani  di  appa- 
recchiarvi alla  considerazion  del  medesimo,  secondo  la  raggione 
dell'esser  soggetto. 

Teofilo.  —  Cossi  farò. 

Gervasio.  -  A  rivederci. 

POLiHiMNio.  -  Bonis  avihus'^'^. 

Fine  del  terzo  dialogo  [217] 


97.  Cfr.  Ovidio,  Fasti,  I,  513:  «este  bonis  avibus  visi  natoque  mihique» 
(«Fate  che  vi  vediamo,  mio  figlio  ed  io,  sotto  buoni  auspici»). 


DIALOGO  QUARTO 

PoLiHiMNio.  -  «Et  OS  vulvae  nunquam  dicit:  sufficit»^;  idesi, 
scilicet,  videlicet,  ut  potè,  quod  est  dictu,  materia  (la  quale  vien  si- 
gnificata per  queste  cose)  recipiendis  formis  numquam  expletur^. 
Or  poi  che  altro  non  è  in  questo  Liceo,  vel  potius''  Antiliceo, 
solus  (ita  inquam  solus,  ut  minime  omnium  solus)  deambulato,  et 
ipse  mecum  confahulahof^ .  La  materia  dumque  di  Peripatetici 
dal  prencipe,  e  dell'altigrado  ingenio  del  gran  Macedone  mode- 
ratore 5,  non  minus  che  dal  Platon  divino  et  altri,  or  chaos,  or 
hyle,  or  sylva^,  or  massa,  or  potenzia,  or  aptitudine,  or  privationi 


1.  Cfr.  Proverbi,  XXX,  i6;  G.  Boccaccio,  Corbaccio,  ed.  Scrivano,  p.  256: 
«Egli  è  per  certo  quel  golfo  [la  vulva]  una  voragine  infernale;  la  quale  allora  si 
riempirebbe,  o  sazierebbe,  che  il  mare  d'acqua  o  il  fuoco  di  legna».  Offre  un 
esempio  di  come  questo  tema  sia  utilizzato  nella  letteratura  dei  grammatici, 
F.  Luna,  Vocabolario,  Napoli,  1536,  art.  Fessura.  È  da_  osservare  che  la  Vulgata 
traduce  con  «os  vulvae»  l'espressione  ebraica  «W''  Oser  Raham»,  che  signi- 
fica, al  contrario,  «seno  chiuso»  (cioè  sterile):  cfr.  B.  Garvin,  Belli  e  i  sonetti  di 
Morrovalle,  «Il  Belli»  [Roma],  II,  4,  1992  (e  infatti,  la  versione  italiana  dei  Pro- 
verbi dovuta  ad  A.  Penna,  nella  Sacra  Bibbia,  Torino,  1973^,  II,  p.  284,  inter- 
preta correttamente:  «  Lo  Shed,  il  seno  sterile,  /  la  terra  mai  sazia  d'acqua  /  e  il 
fuoco,  che  mai  dice:  "Basta!"»). 

2.  «Cioè,  ben  inteso,  evidentemente,  giacché,  com'è  noto,  la  materia  non  è 
mai  paga  di  ricevere  le  forme».  È  nel  Timaeus,  49  a-53  b,  che  Platone  definisce 
la  materia  prima  ricettacolo  di  tutta  la  generazione;  il  tema  platonico  è  modi- 
ficato da  Aristotele,  in  Phys.  Auscultai.,  I,  9,  192  a,  dove  si  dice  che  la  mate- 
ria desidera  la  forma  «come  la  femmina  desidera  il  maschio».  Cfr.  altresì  V In- 
dex di  Plutarco,  Ethica  sive  moralia,  Guilielmo  Xylandro  augustano  inter- 
prete, Basileae,  1572,  alle  voci  «materia»  e  «materia  prima»  (che  rinviano 
soprattutto  al  plutarcheo  Commentarius  de  animae  procreatione,  pars  III,  pp.  92- 
126).  Si  veda,  infine,  B.  Castiglione,  //  Cortegiano,  a  cura  di  B.  Maier,  Torino, 
^955'  PP-  356'358,  che,  pur  accettando  il  dualismo  aristotelico,  confuta  l'affer- 
mazione secondo  la  quale  «l'omo  s'assimiglia  alla  forma,  la  donna  alla  ma- 
teria». 

3.  «O  piuttosto».  -  Antiliceo,  come  a  dire  il  luogo  dove  sistematicamente  si 
criticano  i  princìpi  del  Liceo,  la  scuola  fondata  da  Aristotele. 

4.  «Andrò  a  passeggio  da  solo  (intendo  dire  tanto  solo  che  nessuno  potrà 
esserlo  di  più)  e  colloquierò  con  me  stesso». 

5.  Aristotele,  precettore  di  Alessandro  Magno. 

6.  Cfr.  Calcidio,  [Platonis]  Timaeus  a  Calcidio  translatus  commentarioque  in- 


DIALOGO  QUARTO  701 

admixtum,  or  peccati  causa,  or  ad  maleficium  ordinata,  or  per  se 
non  ens,  or  per  se  non  scibile,  or  per  analogiam  ad  formam  cogno- 
scibile,  or  tabula  rasa,  or  indepictum,  or  subiectum,  or  substratum, 
or  substerniculum,  or  campus,  or  infinitum,  or  indeterminatum,  or 
^ro/>e  ni/iz7,  or  ne^w^  ^-mì^,  w^^we  ^Ma/g,  ne^M^  quantum'^;  tandem^, 
dopo  aver  molto  con  varie  e  diverse  nomenclature  (per  definir 
questa  natura)  collimato:  ab  ipsis  scopum  ipsum  attingentibus'^, 
femina  vien  detta;  tandem  inquam  (ut  una  complectantur  omnia 
vocula),  a  melius  rem  ipsam  perpendentibus  faemina  dicitur^^.  E 
me  hercle^^  non  senza  non  mediocre  caggione  a  questi  del  Pal- 
ladio regno  senatori  ^^  ha  piaciuto  di  collocare  nel  medesimo 
equilibrio  queste  due  cose:  materia  e  femina;  poscia  che  da 
l'esperienza  fatta  del  rigor  di  quelle,  son  stati  condotti  a  quella  [219] 
rabia  e  quella  frenesia  (or  qua  mi  vien  per  filo  un  color  retori- 
co): Queste  sono  un  chaos  de  irrazionalità,  hyle  di  sceleraggini, 
selva  di  ribalderie,  massa  di  immundizie,  aptitudine  ad  ogni 
perdizione.  (Un  altro  color  retorico  detto  da  alcuni  complessioY^: 

structus,  cap.  CXXIII,  ed.  J.-H.  Waszink,  London-Leyden,  1962,  p.  167:  «Chaos 
quam  Graeci  hylen,  nos  silvam  vocamus,  substituisse  terram». 

7.  Elenco  di  espressioni  aristoteliche  o  derivate  da  Aristotele:  «Mescolata 
alla  privazione,  causa  di  peccato,  orientata  al  male,  entità  per  sé  non  esistente, 
non  conoscibile  per  sé,  conoscibile  solo  per  analogia  con  la  forma,  tavola  pri- 
vata di  segni,  senza  raffigurazioni,  soggetto  passivo,  sostrato,  sottofondo, 
campo,  infinito,  indeterminato,  quasi  niente,  né  cosa,  né  qualità,  né  quantità». 

8.  «Infine». 

9.  «Da  coloro  che  vanno  dritti  al  bersaglio». 

10.  Tandem  ...  dicitur.  «Infine  dico  (per  raccogliere  in  una  voce  tutte  le  al- 
tre) che  è  stata  chiamata  femmina  da  quelli  che  hanno  meglio  valutata  la  cosa 
per  come  stava»;  tema  ciceroniano  (cfr.  De  finibus,  V,  g  e  De  inventione,  I,  40), 
già  utilizzato  da  G.  Bruno,  De  umbris  idearum,  ed.  a  cura  di  R.  Sturlese,  Fi- 
renze, 1991,  p.  19:  «LOGIFERO.  Et  uno  verbo  tandem  omnia  complectar...»  (tra- 
duz.  di  N.  Tirinnanzi,  Milano,  1997,  p.  52:  «Logifero.  E  infine  per  riassumere 
tutto  in  una  sola  parola...»). 

11.  «Per  Ercole!». 

12.  I  filosofi. 

13.  «Complessione»;  cfr.  Rethorica  ad  Herennium,  IV,  14:  «Complexio  est, 
quae  utramque  complectitur  exomationem,  et  hanc  {conversió),  et  quam  ante 
exposuimus  (repetitio),  ut  et  repetatur  idem  verbum  saepius  et  crebro  ad  idem 
postremum  revertamur»;  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  ai  dialoghi  «De  la 
causa,  in  Id.,  Schede  bruniane,  Manziana,  1993,  postilla  9*,  pp.  139-140.  Secondo 
N.  Franco,  Dialoghi  piacevoli,  Vinegia,  1541,  p.  XLIV:  «la  complessione  ...  si  fa 
quando  si  ripete  il  medesimo  primo  verbo  spesso,  e  spesso  rivoltiamo  l'ultimo 
in  questo  modo:  Chi  è  quello,  che  ogni  giorno  fa  stampare  la  sua  gramatica? 
Giovanni  Scoppa.  Chi  è  quello,  ch'ogni  giorno  ci  fa  la  giunta?  Giovanni 
Scoppa.  Chi  è  quello,  che  non  scompone  altro  che  goffe  pedanterie?  Giovan- 
ni Scoppa.  Chi  è  quello  che  poi  le  vende  ne  la  sua  scuola?  Giovanni  Scoppa. 
Vedete  dunque  che  honore  sarà,  quello  che  meriti  Giovanni  Scoppa». 


702  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Dove  era  in  potenza  non  solum  remota,  ma  etiam  propinqua  la 
destruzzion  di  Troia?  In  una  donna'-".  Chi  fu  l'instrumento 
della  destruzzion  della  sansonica  fortezza?  di  quello  eroe  io  dico 
che  con  quella  sua  mascella  d'asino  che  si  trovava,  dovenne 
trionfator  invitto  di  Filistei?  Una  donna '5.  Chi  domò  a  Capua 
l'empito  e  la  forza  del  gran  capitano  e  nemico  perpetuo  della 
Republica  Romana  Annibale?  Una  donna '^  {Exclamatió)^'': 
Dimmi,  o  citaredo  profeta,  la  caggion  della  tua  fragilità;  «Quia 
in  peccatis  concepii  me  mater  mea»^^.  Come,  o  antico  nostro  pro- 
toplaste'^,  essendo  tu  un  paradisico  ortolano  et  agricoltor  de 
l'arbore  de  la  vita,  fuste  maleficiato  sì,  che  te  con  tutto  il  germe 
umano  al  baratro  profondo  della  perdizion  risospingesti?  «Mu- 
lier  quam  dedit  mihi,  ipsa,  ipsa  me  decepit»^^.  Proculdubio^^  la 
forma  non  pecca,  e  da  nessuna  forma  proviene  errore,  se  non 
per  esser  congionta  alla  materia.  Cossi  la  forma  significata  per  il 
maschio,  essendo  posta  in  familiarità  della  materia,  e  venuta  in 
composizione  o  copulazion  con  quella,  con  queste  paroli,  o  pur 
con  questa  sentenza  risponde  alla  natura  naturante  ^^:  «Mulier 
quam  dedisti  mihi»,  idest  la  materia  la  quale  mi  hai  dato  con- 

14.  Cfr.  B.  Castiglione,  Il  Cortegiano;lV,  56,  ed.  Maier  cit,  p.  521:  «Spesso 
le  bellezze  di  donne  son  causa  che  al  mondo  intervengon  infiniti  mali,  inimi- 
cizie, guerre,  morti  e  distruzioni;  di  che  pò  far  bon  testimonio  la  mina  di 
Troia»;  T.  Folengo,  Zanitonella,  v.  549,  in  Macaronee  minori,  a  cura  di  M.  Zag- 
gia,  Torino,  1987,  p.  251:  «Troia  per  solam  cecidit  bagassam»  («Troia  è  caduta 
per  un'unica  bagascia»). 

15.  Cfr.  Giudici,  XVI,  1-21;  G.  Bruno,  Cabala,  Declamazione,  p.  424;  De 
compositione  imaginum,  II,  Op.  lai,  II,  3,  p.  238. 

16.  Cfr.  Livio,  XXIII,  18;  F.  Petrarca,  De  remediis,  I,  69,  Lugduni,  1584, 
p.  258:  «Hannibal  apud  Ticinum,  apud  Trebiam,  apud  Trasimenam,  apud 
Cannam  victor,  ad  demum  in  patria  vincendus  sua,  prius  ad  Salapiam  Apuliae 
oppidum,  quo  inexcusabilior  sit,  meretricio  amore  subactus  est»;  Id.,  Trium- 
phus  cupidinis,  w.  25-27;  A.  Calmo,  Lettere,  II,  5,  Torino,  1888,  p.  81:  «Anibal 
tanto  superbo  capitanio,  per  star  a  sonar  cimbani  de  le  femene  puiese  l'andete 
vagabondo,  vagando  recete  per  levante». 

17.  «Esclamazione»;  cfr.  Rethorica  ad  Herennium,  IV,  14;  G.  Aquilecchia, 
Dieci  postille  cit.  in  Id.,  Schede  bruniane  cit,  pp.  139-140. 

18.  Cfr.  Salmi,  LI,  7:  «Ecco  sono  stato  generato  nell'iniquità;  /  mia  madre 
mi  ha  concepito  nel  peccato»  Il  «citaredo  profeta»  è  David. 

19.  Si  veda  Dialogo  primo,  p.  621,  nota  46. 

20.  «La  donna  che  mi  hai  dato,  è  lei,  proprio  lei  che  mi  ha  ingannato».  Cfr. 
Genesi,  III,  12:  «Rispose  l'uomo:  "La  donna  che  tu  hai  messo  accanto  a  me,  è 
stata  lei  a  darmi  dell'albero,  e  io  ho  mangiato"». 

21.  «Senza  dubbio». 

22.  Espressione  scolastica  che  designa  la  natura  vista  come  potere  attivo  e 
produttivo  (in  opposizione  alla  natura  naturata  che  è  l'insieme  delle  cose  esi- 
stenti, prodotte  da  tale  attività). 


DIALOGO  QUARTO  703 

sorte,  «ipsa  me  decepit»,  hoc  esP^,  lei  è  caggione  d'ogni  mio  pec- 
cato. Contempla,  contempla,  divino  ingegno,  qualmente  gli 
egregii  filosofanti  e  de  le  viscere  della  natura  discreti  notomisti, 
per  pome  pienamente  avanti  gli  occhi  la  natura  della  materia,  [221] 
non  han  ritrovato  più  accomodato  modo,  che  con  avertirci  con 
questa  proporzione:  qual  significa  il  stato  delle  cose  naturali  per 
la  materia,  essere  come  l'economico,  politico  e  civile  per  il  femi- 
neo  sesso.  Aprite,  aprite  gli  occhi  et  —  Oh,  veggio  quel  colosso  di 
poltronaria  Gervasio,  il  quale  interrompe  della  mia  nervosa 
orazione  il  filo;  dubito  che  son  stato  da  lui  udito:  ma  che  im- 
porta? 

Gervasio.  -  Salve  magister  dodorum  optime^'^. 

PoLiHiMNio.  -  Se  non  {tuo  moreY^  mi  vuoi  deludere,  tu  quo- 
que salve^'^. 

Gervasio.  —  Vorrei  saper  che  è  quello  che  andavi  solo  rumi- 
nando. 

POLiHiMNio.  —  Studiando  nel  mio  muscolo,  in  eum  qui  apud 
Aristotelem  est  locum  incidi^'',  del  primo  della  Physica,  in  calce^^; 
dove  volendo  elucidare  che  cosa  fosse  la  prima  materia,  prende 
per  specchio  il  sesso  feminile;  sesso,  dico,  ritroso,  fragile,  incon- 
stante, molle 29,  pusillo,  infame,  ignobile,  vile'°,  abietto,  negletto, 
indegno,  reprobo,  sinistro,  vituperoso,  frigido,  deforme,  vacuo, 
vano,  indiscreto,  insano,  perfido,  neghittoso,  putido,  sozzo,  in- 
grato, trunco,  mutilo,  imperfetto^',  incoato,  insufficiente,  pre- 

23.  Idest  -  Hoc  est  «cioè». 

24.  «Salve,  o  maestro  supremo  dei  dottori». 

25.  «Come  al  tuo  solito». 

26.  «Salve  anche  a  te». 

27.  «Sono  capitato  su  quel  passo  che  vi  è  in  Aristotele». 

28.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Ausciiltat,  I,  9,  192  a  22-25. 

29.  Cfr.  G.  Bruno,  Candelaio,  I,  5,  p.  292:  «sexo  molle,  mobile,  fragile  et 
incostante».  Su  questa  definizione  del  sesso  femminile  —  fra  gli  altri  -  cfr. 
J.  WiER,  De  praestigiis  Daemonum,  Basileae,  1583,  coli.  253-256.  Il  tema  dell'in- 
costanza delle  donne  si  trova  già  in  Virgilio,  Aen.,  IV,  569-570,  in  Opere,  a 
cura  di  C.  Carena,  Torino,  1971,  pp.  464-465  («varium  et  mutabile  semper  / 
foemina»);  in  Calpurnio,  Bucolicon,  III,  io  («mobilior  ventis  foemina»);  in  G. 
Boccaccio,  Filostrato,  I,  22-24  («come  al  vento  si  volge  la  foglia,  /  così  in  un  dì 
ben  mille  volte  il  core  /  di  lor  si  volge»);  infine  in  A.  Poliziano,  Stanze,  I,  14,  i 
cui  versi  divennero  proverbiali  nel  XVI  secolo. 

30.  Cfr.  G.  Boccaccio,  Corbaccio  cit,  p.  233;  «così  vile  sesso,  come  è  il  feme- 
nile». 

31.  Cfr.  Aristotele,  De  generatione  animalium,  IV,  6,  775  a,  traduz.  di  D. 
Lanza  in  Opere  biologiche,  a  cura  di  D.  Lanza  e  M.  Vegetti,  Torino,  1996^,  p.  1004: 
«Le  femmine  sono  per  natura  più  deboli  e  piìi  fredde,  e  si  deve  supporre  che  la 


704  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ciso,  amputato,  attenuato,  rugine,  eruca,  zizania,  peste,  morbo, 

morte: 

Messo  tra  noi  da  la  natura  e  Dio 
per  una  soma  e  per  un  greve  fio^^. 

Gervasio.  -  Io  so  che  voi  dite  questo  più  per  esercitarvi  ne 
l'arte  oratoria,  e  dimostrar  quanto  siate  copioso  et  eloquente, 
[223]  che  abbiate  tal  sentimento  che  dimostrate  per  le  paroli.  Per  che 
è  cosa  ordinaria  a  voi  signori  umanisti,  che  vi  chiamate  profes- 
sori de  le  buone  lettere,  quando  vi  ritrovate  pieni  di  que'  con- 
cetti che  non  possete  ritenere,  non  andate  a  scaricarli  altrove, 
che  sopra  le  povere  donne;  come  quando  qualch'altra  còlerà  vi 
preme,  venete  ad  isfogarla  sopra  il  primo  delinquente  di  vostri 
scolari'^.  Ma  guardatevi,  signori  Orfei,  dal  furioso  sdegno  de  le 
donne  tresse. 

PoLiHiMNio.  -  Polihimnio  son  io,  no  sono  Orfeo. 

Gervasio.  —  Dumque  non  biasimate  le  donne  da  dovere? 

Polihimnio.  -  Minime,  minime  quidem^^:  io  parlo  da  dovero 
e  non  intendo  altrimente,  che  come  dico;  per  che  non  fo  {sophy- 
starum  moreY^  professione  di  dimostrar  ch'il  bianco  è  nero'^. 

Gervasio.  —  Perché  dumque  vi  tingete  la  barba?  ^^ 

Polihimnio.  -  Ma  ingenue  loquor^^:  e  dico  che  un  uomo 

natura  femminile  sia  come  una  menomazione»;  B.  Castiglione,  Il  Cortegiano, 
III,  II,  ed.  Maier  cit,  p.  352:  «quando  nasce  una  donna,  è  diffetto  o  error  della 
natura,  e  contra  quello  che  essa  vorrebbe  fare». 

32.  Cfr.  L.  Ariosto,  Orlando  furioso,  XXVII,  119:  «Credo  che  t'abbia  la  Na- 
tura e  Dio  /  produtto,  o  scelerato  sesso,  al  mondo  /  per  una  soma,  per  un  grave 
fio». 

33.  Sul  tema  della  pederastia  del  pedante,  si  veda  Dialogo  primo,  p.  636, 
nota  95.  Cfr.  G.  Bruno,  Candelaio.  IV,  16,  p.  373;  Spaccio,  I,  p.  206. 

34.  «È  così,  è  proprio  così». 

35.  «Come  usano  i  sofisti». 

36.  Tema  classico  (ricorrente  in  Bruno)  della  polemica  antiumanistica. 
Cfr.  G.  Pico,  Lettera  ad  Ermolao  Barbaro  del  3  giugno  1485,  in:  Prosatori  latini 
del  Quattrocento,  a  cura  di  E.  Garin,  Milano-Napoli,  1952,  pp.  808-809:  «È  me- 
stiere vostro,  vi  vantate,  poter  cambiare,  a  volontà,  il  nero  in  bianco,  il  bianco 
in  nero»,  ripreso,  a  scopo  satirico,  da  Erasmo.  Si  vedano,  ancora,  le  locuzioni 
proverbiali  di  B.  Castiglione,  Il  Cortegiano,  I,  44,  ed.  Maier  cit.,  p.  163:  «Che 
non  si  lasci  dar  a  intendere  il  nero  per  lo  bianco»,  nonché  A.  Calmo,  Lettere, 
Torino,  1988,  III,  14,  p.  187:  «far  parere  il  bianco  per  negro». 

37.  Cfr.  L.  Tansillo,  Capitoli  giocosi  e  satirici,  VII,  a  cura  di  S.  Volpicella, 
Napoli,  1887^,  p.  109:  «Dirà  qualcun:  Persona  che  si  tinge  /  La  barba,  puro  aver 
non  puote  il  petto:  /  Ciò  che  fa,  ciò  che  dice,  mente  e  finge». 

38.  «Parlo  sinceramente». 


DIALOGO  QUARTO  7O5 

senza  donna,  è  simile  a  una  de  le  intelligenze;  è  (dico)  uno  eroe, 
un  semideo  qui  non  duxit  uxorem^'^. 

Gervasio.  —  Et  è  simile  ad  un'ostreca**",  et  ad  un  fungo  an- 
cora; et  è  un  tartufo. 

PoLiHiMNio.  -  Onde  divinamente  disse  il  lirico  poeta: 

Credile,  Pisones,  melius  nil  celibe  vita'*^. 

E  se  vuoi  saperne  la  caggione,  odi  Secondo  filosofo:  «La  fe- 
mina»  dice  egli,  «è  uno  impedimento  di  quiete,  danno  conti-  [225] 
nuo,  guerra  cotidiana,  priggione  di  vita,  tempesta  di  casa,  nau- 
fragio de  l'uomo»"*^.  Ben  lo  confirmò  quel  biscaino  che  fatto  im- 
paziente e  messo  in  còlerà  per  una  orribil  fortuna  e  furia  del 
mare,  con  un  torvo  e  coierie  viso  rivoltato  a  l'onde:  «O  mare 
mare»  disse,  «ch'io  ti  potesse  maritare»;  volendo  inferire  che  la 
femina  è  la  tempesta  de  le  tempeste-*^  Per  ciò  Protagora,  di- 
mandato perché  avesse  data  ad  un  suo  nemico  la  figlia,  rispose 
che  non  possea  fargli  peggio  che  dargli  moglie^''.  Oltre,  non  mi 
farà  mentire  un  buon  uomo  francese,  al  quale  (come  a  tutti  gli 
altri  che  pativano  pericolosissima  tempesta  di  mare)  essendo 

39.  «Chi  non  ha  preso  moglie».  Contro  il  matrimonio  esistono  testimo- 
nianze di  Orazio,  Giovenale,  Erasmo,  Ariosto,  Aretino  e  Rabelais. 

40.  Forma  napoletana. 

41.  Fusione  di  due  versi  di  Orazio,  Epist.,  I,  i,  88  («...  melius  nil  caelibe 
vita»:  «nulla  più  desiderabile  del  celibato»);  De  arte  poetica,  6  («Credite  Piso- 
nes»: «Ebbene,  o  Pisoni»).  Cfr.  Q.  Orazio  Placco,  Le  opere,  a  cura  di  T.  Cola- 
marino  e  D.  Bo,  Torino,  1969^,  pp.  436  e  534. 

42.  Secondo-,  filosofo  del  II  secolo  d.  C,  la  cui  Vita  greca  fu  molto  letta  e 
tradotta  nel  Medio  Evo.  Si  veda  la  risposta  al  quesito  n.  io  («ti  èoxi  ruvT)», 
«Che  cos'è  la  donna?»)  in  B.  E.  Perry,  Secundus:  the  Silent  Philosopher,  Ithaca- 
New  York,  1964,  pp.  84-85  (qui  pure  le  traduzioni  medievali  di  Willelmus 
Medicus,  p.  96,  e  di  Vincent  de  Beauvais,  p.  103,  da  cui  dipende  Secondo  filo- 
safo,  in:  /  «Fiori  di  filosafi».  Volgarizzamenti  del  Due  e  Trecento,  a  cura  di  C.  Se- 
gre, Torino,  1969,  pp.  185-189,  «la  femina»,  p.  187).  Cfr.  W.  Burley,  Liber  de 
Vita  et  Moribus  Philosophorum,  ed.  H.  Knust,  Stuttgart,  1886,  cap.  CXXII,  Se- 
cundus, p.  380;  L.  Guicciardini,  L'ore  di  ricreazione,  ed.  a  cura  di  A.-M.  Van 
Passen,  Leuven-Roma,  1990,  I,  145,  Opinione  di  filosofo  astratto  sopra  il  maritag- 
gio, p.  97. 

43.  Cfr.  M.  A.  Biondo,  Angoscia,  f.  is"":  «Oh  Donna  tu  sei  più  pericolosa  che 
non  è  il  mare  tempestuoso»;  L.  Guicciardini,  L'ore  di  ricreazione  cit.,  I,  143, 
pp.  96-97:  «Orrenda  è  la  tempesta  del  gran  mare  ...  ma  sopra  tutto  è  peggio 
mala  donna». 

44.  Cfr.  ivi,  I,  142,  p.  96:  «Protagora  filosofo  domandato  per  qual  causa  egli 
aveva  maritata  la  sua  figliuola  a  un  suo  nimico,  rispose:  "Perché  io  non  gli 
poteva  far  peggio,  a  mio  giudizio,  che  dargli  moglie"». 


706  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

comandato  da  Cicala  padron  de  la  nave,  di  buttare  le  cose  più 
gravi  al  mare,  lui  per  la  prima  vi  gittò  la  moglie -^^ 

Gervasio.  -  Voi  non  riferite  per  il  contrario  tanti  altri  es- 
sempi  di  coloro  che  si  son  stimati  fortunatissimi  per  le  sue 
donne;  tra  quali  (per  non  mandarvi  troppo  lontano):  ecco  sotto 
questo  medesmo  tetto  il  signor  di  Mauvissiero,  incorso  in  una, 
non  solamente  dotata  di  non  mediocre  corporal  beltade,  che  gli 
awela  et  ammanta  l'alma;  ma  oltre,  che  col  triumvirato  di 
molto  discreto  giudizio,  accorta  modestia  et  onestissima  corte- 
sia, d'indissolubil  nodo  tien  avvinto  l'animo  del  suo  consorte,  et 
è  potente  a  cattivarsi  chiumque  la  conosce-'''.  Che  dirai  de  la 
generosa  figlia,  che  a  pena  un  lustro  et  un  anno  ha  visto  il  sole; 
e  per  le  lingue  non  potrai  giudicare  s'ella  è  da  Italia,  o  da  Fran- 
cia, o  da  Inghilterra-^^.  Per  la  mano  circa  gli  musici  istrumenti, 
non  potrai  capire  s'ella  è  corporea,  o  incorporea  sustanza.  Per  la 
[227]  matura  bontà  di  costumi,  dubitarai  s'ella  è  discesa  dal  cielo,  o 
pur  è  sortita  da  la  terra.  Ognun  vede  che  in  quella  non  meno, 
per  la  formazion  di  sì  bel  corpo,  è  concorso  il  sangue  de  l'uno  e 

45.  L'aneddoto  si  trova  già  in  T.  Folengo,  Baldus,  XII,  571-580;  XIII,  117- 
121  (ed.  Chiesa,  Torino,  1997,  pp.  558-559  e  568-569)  e  in  L.  Domenichi,  Face- 
tie.  Motti  et  Burle,  Venetia,  1581,  p.  57.  Sul  tema  delle  «cose  gravi»,  cfr.  G.  B. 
MoDio,  E  convito...  overo  del  peso  della  moglie,  Roma,  1554  (poi  in:  Trattati  del 
Cinquecento  sulla  donna,  a  cura  di  G.  Zonta,  Bari,  1913,  pp.  309-370).  —  Cicala: 
V.  Spampan.'^to,  Postille  storico-letterarie  alle  opere  di  Bruno,  «La  Critica»  [Bari], 
XI,  191 1,  pp.  233-234,  l'identifica  col  «Magnifico  Odoardo  Cicala»,  rimborsato 
nel  1585  per  le  due  galere  che  aveva  messo  a  disposizione  di  Filippo  II  (e 
barone  d'Àngri,  secondo  G.  C.  Capaccio  che,  nel  1598.  gli  dedica  i  Mergellina); 
nella  sua  Vita  di  Bruno  [rist.  anastatica  con  una  postfazione  di  N.  Ordine,  Roma, 
1988,  p.  65,  nota  2],  lo  stesso  Spampanato  lo  presenta,  invece,  come  «un  cono- 
scente, se  non  un  amico»  di  Gioan  Bruno,  padre  di  Giordano.  Si  ricordi,  in  ul- 
timo, il  «Cicada»  (forma  latina  di  Cicala),  personaggio  del  De  gli  eroici  furori. 

46.  Michel  de  Castelnau,  destinatario  del  De  la  causa,  aveva  sposato  nel 
giugno  1576  Marie  de  Bochetel,  morta  di  parto  nel  dicembre  1586:  cfr.  Castel- 
nau, Les  Mémoires.  Bruxelles,  173 1,  p.  108.  Si  legga,  inoltre,  l'elogio  di  Maria 
nella  lettera  di  condoglianze  inviata  da  Jean  Bodin  a  Castelnau,  ivi,  p.  153 
(«...  J'ai  remarqué  tant  d'argumens  de  la  sincere  affection  &  amitié  qu'elle  vous 
portoit,  &  de  sa  Prudence,  integrité,  &  courtoisie,  qu'est  impossible  que  vous 
en  eussiex  pù  souhaiter  une  plus  parfaite»),  e  nei  rendiconti  del  successore  di 
Castelnau  all'ambasciata,  ivi,  p.  154  («qui  s'estoit  comportée  si  vertueusement 
par  tout  &  principalement  en  ce  Pays,  qu'elle  y  est  fort  regrettée  de  tous  ceux 
qui  la  luy  ont  connùe»). 

47.  Catherine-Marie  de  Castelnau  era  nata  in  Inghilterra.  Il  suo  nome  riu- 
niva quello  delle  due  madrine,  Caterina  de'  Medici  e  Maria  Stuart  Sposò  Louis 
de  Rochechouart  nel  1595  e  morì  nel  1616.  Gli  elogi  a  lei  riservati  da  Bruno  si 
sommano  a  quelli  contenuti  in  una  lettera  che  Maria  Stuart,  già  prigioniera,  ha 
inviato  alla  sua  figlioccia  (cfr.,  ivi,  p.  no).  Ricordiamo,  infine,  che  ella  ebbe 
come  precettore  John  Florio. 


DIALOGO  QUARTO  707 

l'altro  parente,  ch'alia  fabrica  del  spirto  singulare,  le  virtù  del- 
l'animo eroico  di  que'  medesimi. 

PoLiHiMNio.  —  Rara  avis'^^  come  la  Maria  da  Bohstel.  Rara 
avis  come  la  Maria  da  Castelnovo'^''. 

Gervasio.  -  Quel  raro  che  dite  de  le  femine,  medesimo  si 
può  dir  de'  maschi. 

PoLiHiMNio.  -  In  fine,  per  ritornare  al  proposito,  la  donna 
non  è  altro  che  una  materia.  Se  non  sapete  che  cosa  è  donna, 
per  non  saper  che  cosa  è  materia,  studiate  alquanto  gli  Peripa- 
tetici che  con  insegnarvi  che  cosa  è  materia,  te  insegnaranno 
che  cosa  è  donna. 

Gervasio.  —  Vedo  bene  che  per  aver  voi  un  cervello  peripa- 
tetico, apprendeste  poco  o  nulla  di  quel  che  ieri  disse  il  Teofilo 
circa  l'essenza  e  potenza  della  materia. 

POLIHIMNIO.  —  De  l'altro  sia  che  si  vuole:  io  sto  sul  punto 
del  biasimar  l'appetito  de  l'una  e  de  l'altra,  il  quale  è  caggion 
d'ogni  male,  passione,  difetto,  mina,  corrozzione.  Non  credete 
che  se  la  materia  si  contentasse  de  la  forma  presente,  nulla  al- 
terazione o  passione  arrebe  domino  sopra  di  noi,  non  mori- 
remmo, sarrebemo  incorrottibili  et  etemi? 

Gervasio.  —  E  se  la  si  fosse  contentata  di  quella  forma  che 
avea  cinquanta  anni  addietro,  che  direste?  sareste  tu  Polihim- 
nio?  Se  si  fusse  fermata  sotto  quella  di  quaranta  anni  passati, 
sareste  sì  adultero,  (dico)  sì  adultero,  sì  perfetto  e  sì  dotto?  Come  [229] 
dumque  ti  piace  che  le  altre  forme  abbiano  ceduto  a  questa, 
cossi  è  in  volontà  de  la  natura  che  ordina  l'universo,  che  tutte 
le  forme  cedano  a  tutte.  Lascio  che  è  maggior  dignità  di  questa 
nostra  sustanza,  di  farsi  ogni  cosa  ricevendo  tutte  le  forme,  che 
ritenendone  una  sola,  et  essere  parziale.  Cossi  al  suo  possibile 
ha  la  similitudine  di  chi  è  tutto  in  tutto. 

POLIHIMNIO.  —  Mi  cominci  ad  riuscir  dotto,  uscendo  fuor  del 

48.  «Uccello  raro»;  cfr.  Giovenale,  Sat.,  VI,  165;  G.  Boccaccio,  Corbaccio, 
ed.  cit,  p.  233:  «[Le  donne  di  tal  genere]  sono  più  rare  che  le  fenici». 

49.  Marie  de  Bochetel  (nome  qui  scritto  all'inglese:  Boshtel)  e  Marie  (cioè 
Catherine-Marie)  de  Castelnau  sono,  rispettivamente,  la  moglie  e  la  figlia  del 
protettore  di  Bruno.  Cfr.  G.  Aquilecchia,  Dieci  postille  cit.,  10^  postilla,  in 
Schede  bruniane  cit.,  pp.  141-142. 

50.  Un  giuoco  di  parole  simile  sta  in  Sfaccio,  II,  p.  277:  «Sei  più  licenzioso 
(volsi  dir  licenziato)  tu  solo  che  tutti  gli  altri». 


708  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

tuo  ordinario  naturale:  applica  ora,  se  puoi,  a  similP^  appor- 
tando la  dignità  che  si  ritrova  ne  la  femina. 

Gervasio.  -  Farollo  facilissimamente.  Oh,  ecco  il  Teofilo. 

POLIHIMNIO.  -  Et  il  Dicsone.  Un'altra  volta  dumque.  De  iis 
hadenus^^. 

Teofilo.  —  Non  vedemo  che  de  Peripatetici,  come  di  Plato- 
nici anco,  divideno  la  sustanza  per  le  differenze  di  corporale  et 
incorporale?  Come  dumque  queste  differenze  si  reducono  alla 
potenza  di  medesimo  geno,  cossi  bisogna  che  le  forme  sieno  di 
due  sorte^^:  perché  alcune  sono  trascendenti,  cioè  superiori  al 
geno'"^,  che  si  chiamano  principii,  come  «entità»,  «unità», 
«uno»,  «cosa»,  «qualche  cosa»^'  et  altre  simili;  altre  son  di 
certo  geno  distinte  da  altro  geno,  come  «sustanzialità»,  «acci- 
dentalità»: quelle  che  sono  de  la  prima  maniera,  non  distin- 
gueno  la  materia  e  non  fanno  altra  et  altra  potenza  di  quella, 
ma  come  termini  universalissimi  che  comprendono  tanto  le 
corporali,  quanto  le  incorporali  sustanze,  significano  quella  uni- 
[231]  versalissima,  comunissima  et  una  de  l'une  e  l'altre.  Appresso, 
«che  cosa  ne  impedisce»  disse  Avicebron^^,  «che  sì  come  prima 
che  riconosciamo  la  materia  de  le  forme  accidentali,  che  è  il 
composto,  riconoscemo  la  materia  della  forma  sustanziale,  che 
è  parte  di  quello;  cossi  prima  che  conosciamo  la  materia  che  è 
contratta  ad  esser  sotto  le  forme  corporali,  vegnamo  a  conoscere 
una  potenza  la  quale  sia  distinguibile  per  la  forma  di  natura 
corporea  e  de  incorporea,  dissolubile  e  non  dissolubile?».  An- 
cora, se  tutto  quel  che  è  (cominciando  da  l'ente  summo  e  su- 
premo) have  un  certo  ordine,  e  fa  una  dependenza,  una  scala, 
nella  quale  si  monta  da  le  cose  composte  alle  semplici,  da  que- 

51.  «Secondo  la  somiglianza». 

52.  «Su  queste  cose  facciamo  punto». 

53.  Sostanza  corporea  e  sostanza  incorporea  sono  le  due  «specie»  di  un  solo 
e  medesimo  genere,  il  genere  «sostanza».  Ecco  perché  è  necessario  distinguere 
forme  «di  due  sorte»:  da  una  parte,  le  forme  relative  al  genere  sostanza,  dal- 
l'altro le  forme  relative  alle  due  «specie». 

54.  Geno  è  qui  sinonimo  di  «specie»  (essendo  d'altronde  ogni  genere  una 
specie  in  relazione  al  genere  che  gli  è  superiore).  Bruno  afferma  dunque  che  le 
forme  trascendenti  si  applicano  ad  ogni  «sostanza»,  al  di  là  di  ogni  possibile 
specificazione. 

55.  Si  tratta  dei  "trascendentali"  della  Scolastica:  ens,  unitas,  unum,  res,  alt- 
quid. 

56.  Cfr.  AviCEBRON,  Fons  Vitae,  IV,  15  (in  una  traduzione  approssimativa 
dello  stesso  Bruno). 


DIALOGO  QUARTO  70g 

ste  alle  semplicissime  et  assolutissime  per  mezzi  proporzionali 
e  copulativi,  e  partecipativi  de  la  natura  de  l'uno  e  l'altro 
estremo,  e  secondo  la  raggione  propria  neutri;  non  è  ordine 
dove  non  è  certa  participazione,  non  è  participazione  dove  non 
si  trova  certa  colligazione,  non  è  colligazione  senza  qualche  par- 
tecipazione: è  dumque  necessario  che  de  tutte  cose  che  sono 
sussistenti,  sia  uno  principio  di  subsistenza.  Giongi  a  questo  che 
la  raggione  medesima  non  può  fare  che  avanti  qualsivoglia 
cosa  distinguibile  non  presuppona  una  cosa  indistinta  (parlo  di 
quelle  cose  che  sono,  perché  «ente»  e  «non  ente»  non  intendo 
aver  distinzione  reale,  ma  vocale  e  nominale  solamente) ^7.  Que- 
sta cosa  indistinta  è  una  raggione  comune  a  cui  si  aggionge  la 
differenza  e  forma  distintiva  ^s.  E  certamente  non  si  può  negare 
che  sicome  ogni  sensibile  presuppone  il  soggetto  della  sensibi- 
lità, cossi  ogni  intelligibile  il  soggetto  della  intelligibilità:  biso- 
gna dumque  che  sia  una  cosa  che  risponde  alla  raggione  co- 
mune de  l'uno  e  l'altro  soggetto  5^;  perché  ogni  essenzia,  neces-  [233] 
sariamente  è  fondata  sopra  qualche  essere:  eccetto  che  quella 
prima  che  è  il  medesimo  con  il  suo  essere,  perché  la  sua  poten- 
zia è  il  suo  atto,  perché  è  tutto  quel  che  può  essere,  come  fu 
detto  ieri<^o.  Oltre  se  la  materia  (secondo  gli  adversarii  mede- 
simi) non  è  corpo,  e  precede  secondo  la  sua  natura  l'essere  cor- 
porale, che  dumque  la  può  far  tanto  aliena  da  le  sustanze  dette 
incorporee?  E  non  mancano  di  Peripatetici*^'  che  dicono,  si- 
come  nelle  corporee  sustanze  si  trova  un  certo  che  di  formale  e 
divino,  cossi  nelle  divine  convien  che  sia  un  che  di  materiale,  a 
fine  che  le  cose  inferiori  s'accomodino  alle  superiori,  e  l'ordine 
de  Fune  dependa  da  l'ordine  de  l'altre.  E  li  teologi,  benché  al- 
cuni di  quelli  siano  nodriti  ne  l'aristotelica  dottrina,  non  mi 
denno  però  esser  molesti  in  questo,  se  accettano  esser  più  debi- 
tori alla  lor  scrittura,  che  alla  filosofia  e  naturai  raggione.  «Non 

57.  Con  ciò,  Bruno  previene  una  possibile  obiezione:  se  essere  e  non-essere 
non  si  collocano  sotto  un  medesimo  genere  superiore,  questo  significa  che  essi 
non  sono  realmente  distinti;  solo  l'essere  è  reale,  il  non-essere  non  è  altro  che  la 
sua  negazione. 

58.  Alla  materia,  affatto  indeterminata  in  sé,  si  aggiungono  le  determina- 
zioni di  «sensibile»  o  d'« intelligibile». 

59.  AviCEBRON,  Fons  Vitae,  IV,  2;  e  cfr.  Averroes,  De  anima.  III,  17,  ed. 
Crawiord,  pp.  436-437. 

60.  Cfr.  il  Dialogo  terzo,  p.  692. 

61.  Aristotelici,  ma  legati  manifestamente  a  posizioni  neoplatoniche. 


710  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

mi  adorare»  disse  un  de  loro  angeli  al  patriarca  lacob,  «perché 
son  tuo  fratello  »^^;  or  se  costui  che  parla  (come  essi  intende- 
no)*^'  è  una  sostanza  intellettuale,  et  affirma  col  suo  dire  che 
quell'uomo  e  lui  convegnano  nella  realità  d'un  soggetto  stante 
qualsivoglia  differenza  formale,  resta  che  gli  filosofi  abbiano 
uno  oraculo  di  questi  teologi  per  testimonio. 

DicsoNO.  -  So  che  questo  è  detto  da  voi  con  riverenza, 
perché  sapete  che  non  vi  conviene  di  mendicar  raggioni  da  tai 
luoghi,  che  son  fuori  de  la  nostra  messe. 

Teofilo.  —  Voi  dite  bene  e  vero:  ma  io  non  allego  quello  per 
[235]  raggione  e  confirmazione;  ma  per  fuggir  scrupolo  quanto  posso, 
perché  non  meno  temo  apparere,  che  essere  contrario  alla  teo- 
logia. 

DicsoNO.  -  Sempre  da  discreti  teologi  ne  saranno  admesse  le 
raggioni  naturali^,  quantumque  discorrano,  pur  che  non  deter- 
minino contra  l'autorità  divina,  ma  si  sottomettano  a  quella. 

Teofilo.  -  Tali  sono  e  sarano  sempre  le  mie. 

DicsoNO.  -  Bene  dumque.  Seguite. 

Teofilo.  -  Plotino  ancora  dice  nel  libro  De  la  materia,  che 
«se  nel  mondo  intelligibile  è  moltitudine  e  pluralità  di  specie,  è 
necessario  che  vi  sia  qualche  cosa  comune,  oltre  la  proprietà  e 
differenza  di  ciascuna  di  quelle.  Quello  che  è  comune  tien  luogo 
di  materia,  quello  che  è  proprio  e  fa  distinzione,  tien  luogo  di 
forma».  Gionge  che  «se  questo  è  a  imitazion  di  quello,  la  com- 
posizion  di  questo  è  a  imitazion  della  composizion  di  quello. 
Oltre,  quel  mondo,  se  non  ha  diversità,  non  ha  ordine;  se  non 
ha  ordine,  non  ha  bellezza  et  ornamento:  tutto  questo  è  circa  la 
materia»^^.  Per  il  che  il  mondo  superiore  non  solamente  deve 

62.  Cfr.  Apocalisse,  XIX,  io,  dove  peraltro  le  parole  dell'angelo  sono  rivolte 
-  senza  possibilità  di  equivoci  -  non  a  Giacobbe,  ma  proprio  a  Giovanni.  Su 
Giobbe  che  s'incontra  con  Dio,  cfr.  Genesi,  XXXII,  28. 

63.  La  teologia  considerava  gli  angeli  della  Bibbia  come  esseri  puramente 
spirituali  ed  i  teologi  vicini  alle  posizioni  aristoteliche  li  assimilavano  alle  in- 
telligenze astrali  di  cui  parlava  lo  Stagirita. 

64.  Per  Nicola  Antonio  Stelliola,  contemporaneo  di  Bruno,  «la  religione  et 
la  scienza,  essendo  ambi  divine,  sono  di  conseguenza  concordi»:  Carteggio  Lin- 
ceo, n.  431,  p.  570  (cit.  in  A.  Alessandro,  Documenti  lincei  e  cimeli  galileiani, 
1965,  p.  22).  Più  tardi,  Bartholomàus  Keckermann  avrebbe  sostenuto  che  «Ve- 
ra Philosophia  cum  sacra  Theologia  nusquam  pugnat»  (cfr.  R.  A.  MuLLER, 
«Sixteenth  Century  Journal»  [Saint-Louis],  XV,  1984,  p.  350). 

65.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  II,  4,  4,  traduz.  latina  di  M.  Ficino,  Basileae,  1580, 
pp.  160-161;  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  5,  in  Opere,  a  cura  di  G.  Federi- 


DIALOGO  QUARTO  7II 

esser  stimato  per  tutto  indivisible,  ma  anco  per  alcune  sue  con- 
dizioni divisibile  e  distinto;  la  cui  divisione  e  distinzione  non 
può  esser  capita  senza  qualche  soggetta  materia ^^.  E  benché  di- 
chi  che  tutta  quella  moltitudine  conviene  in  uno  ente  imparti- 
bile  e  fuor  di  qualsivoglia  dimensione,  quello  dirò  essere  la  ma- 
teria, nel  quale  si  uniscono  tante  forme;  quello,  prima  che  sia 
conceputo  per  vario  e  multiforme,  era  in  concetto  uniforme;  e 
prima  che  in  concetto  formato,  era  in  quello  informe '^^.  [237] 

DicsONO.  —  Benché  in  quel  ch'avete  detto,  con  brevità  ab- 
biate apportate  molte  e  forte  raggioni,  per  venire  a  conchiudere 
che  una  sia  la  materia,  una  la  potenza  per  la  quale  tutto  quel 
che  è,  è  in  atto;  e  non  con  minor  raggione  conviene  alle  su- 
stanze  incorporee,  che  alle  corporali:  essendo  che  non  altri- 
mente  quelle  han  l'essere  per  lo  possere  essere,  che  queste  per  lo 
posser  essere  hanno  l'essere;  e  che  oltre  per  altre  potenti  rag- 
gioni (a  chi  potentemente  le  considera  e  comprende)  avete  di- 
mostrato: tuttavia  (se  non  per  la  perfezzione  della  dottrina,  per 
la  chiarezza  di  quella)  vorei  che  in  qualch'altro  modo  specifica- 
ste, come  ne  le  cose  eccellentissime  quali  sono  le  incorporee,  si 
trova  cosa  informe  et  indefinita?  come  può  ivi  essere  raggione 
di  medesima  materia,  e  che  per  advenimento  della  forma  et 
atto,  medesimamente  non  si  dicono  corpi?  Come  dove  non  è 
mutazione,  generazione,  né  corrozzione  alcuna,  volete  che  sia 
materia,  la  quale  mai  è  stata  posta  per  altro  fine?  Come  po- 
tremo dire  la  natura  intelligibile  esser  semplice,  e  dir  che  in 
quella  sia  materia  et  atto?  Questo  non  lo  dimando  per  me,  al 
quale  la  verità  è  manifesta,  ma  forse  per  altri  che  possono  es- 

ci-Vescovini,  Torino,  1972,  p.  63:  «Sublato  enim  numero  cessant  rerum  discre- 
tio,  ordo,  proportio,  harmonia  atque  ipsa  entium  pluralitas»  («Tolto  il  numero, 
scompaiono,  infatti,  la  distinzione  delle  cose,  l'ordine,  la  proporzione,  l'armo- 
nia e  la  pluralità  stessa  degli  enti»). 

66.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  II,  4,  4,  traduz.  lat.  Ficino  cit,  p.  161:  «Indivisibilis 
quidem  prorsus  est  ubique  mundus  ipse  superior,  &  quadam  rursus  conditione 
diuiduus.  Ac  si  partes  eius  inter  se  dispersae  sint:  sectio  ipsa  atque  dispersio  est 
quaedam  materiae  passio:  Ipsa  enim  est  proprie  quae  passa  dicitur  sectionem». 

67.  Cfr.  ivi:  «Sin  autem  quae  multa  illic  sunt,  unum  ens  impartibile  sint: 
nimirum  multa  in  uno  existentia,  in  uno  ilio  sunt  ceu  materia,  ipsaque  ipsius 
sunt  formae.  Unum  namque  ipsum  quod  est  varium  considerandum  in  primis 
est  varium  atque  multiforme.  Considerandum  rursus  velut  informe  antequam 
varium»  (si  veda  pure  la  traduz.  moderna  di  M.  Casaglia  nell'ed.  italiana  Plo- 
tino, Enneadi,  Torino,  1997,  voi.  I,  p.  279). 


712  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

sere  più  morosi  e  difficili,  come  per  essempio  maestro  Polihim- 
nio  e  Gervasio. 

PoLiHiMNio.  -  Cedo^^. 

Gervasio.  -  Accepto^'^;  e  vi  ringrazio,  Dicsone,  perché  consi- 
derate la  necessità  di  quei  che  non  hanno  ardire  di  dimandare, 
come  comporta  la  civilità  de  le  mense  oltramontane:  ove  a  quei 
che  siedeno  gli  secondi,  non  lice  stender  le  dita  fuor  del  proprio 
[239]  quadretto  o  tondo;  ma  conviene  aspettar  che  gli  sia  posto  in 
mano,  a  fin  che  non  prenda  boccone,  che  non  sia  pagato  col  suo 
«granmercé»''". 

Teofilo.  -  Dirò  per  risoluzion  del  tutto,  che  sì  come  l'uomo 
secondo  la  natura  propria  de  l'uomo,  è  differente  dal  leone  se- 
condo la  natura  propria  del  leone;  ma  secondo  la  natura  co- 
mone  de  l'animale,  de  la  sustanza  corporea,  et  altre  simili,  sono 
indifferenti  e  la  medesima  cosa''^;  similmente  secondo  la  pro- 
pria raggione  è  differente  la  materia  di  cose  corporali  dalla  de 
cose  incorporee.  Tutto  dumque  lo  che  apportate  de  lo  esser 
causa  costitutiva  di  natura  corporea,  de  l'esser  soggetto  di  tra- 
smutazioni de  tutte  sorti,  e  de  l'esser  parte  di  composti,  con- 
viene a  questa  materia  per  la  raggione  propria,  perché  la  mede- 
sima materia,  (voglio  dir  più  chiaro)  il  medesimo  che  può  esser 
fatto,  o  pur  può  essere,  o  è  fatto,  è  per  mezzo  de  le  dimensioni  et 
extensione  del  suggetto,  e  quelle  qualitadi  che  hanno  l'essere 
nel  quanto:  e  questo  si  chiama  sustanza  corporale  e  suppone 
materia  corporale;  o  è  fatto  (se  pur  ha  l'esser  di  novo),  et  è  senza 
quelle  dimensioni,  extensione  e  qualità:  e  questo  si  dice  su- 
stanza incorporea,  e  suppone  similmente  detta  materia.  Cossi 
ad  una  potenza  attiva  tanto  di  cose  corporali  quanto  di  cose 
incorporee,  over  ad  un  essere  tanto  corporeo  quanto  incorporeo, 
corrisponde  una  potenza  passiva  tanto  corporea  quanto  incor- 
porea, et  un  posser  esser  tanto  corporeo  quanto  incorporeo.  Se 
dumque  vogliamo  dir  composizione  tanto  ne  l'una  quanto  ne 
l'altra  natura,  la  doviamo  intendere  in  una  et  un'altra  maniera; 


68.  «Lo  concedo». 

69.  «Dò  il  mio  assenso». 

70.  Cfr.  il  francese  «grand  merci». 

71.  Cfr.  David  di  Dinant,  in  Alberto  Magno,  Stimma  de  creaturis,  pars  II, 
q.  V,  art.  2:  «Quia  vero  substantia  de  qua  sunt  omnia  corpora,  dicitur  hyle, 
substantia  vero  ex  qua  sunt  omnes  animae  dicitur  ratio  sive  mens,  manifestum 
est  Deum  esse  rationem  omnium  animarum,  et  hyle  omnium  corporum». 


DIALOGO  QUARTO  713 

e  considerar  che  se  dice  nelle  cose  eteme  una  materia  sempre 
sotto  un  atto;  e  che  nelle  cose  variabili  sempre  contiene  or  uno   [241] 
or  un  altro.  In  quelle  la  materia  ha  una  volta,  sempre  et  in- 
sieme tutto  quel  che  può  avere,  et  è  tutto  quel  che  può  essere; 
ma  questa  in  più  volte,  in  tempi  diversi  e  certe  successioni. 

DicsoNO.  —  Alcuni,  quantumque  concedano  essere  materia 
nelle  cose  incorporee,  la  intendono  però  secondo  una  raggione 
molto  diversa '2. 

Teofilo.  —  Sia  quantosivoglia  diversità  secondo  la  raggion 
propria  per  la  quale  l'una  descende  a  l'esser  corporale  e  l'altra 
non,  l'una  riceve  qualità  sensibili  e  l'altra  non,  e  non  par  che 
possa  essere  raggione  comune  a  quella  materia  a  cui  ripugna  la 
quantità  et  esser  suggetto  delle  qualitadi  che  hanno  l'essere 
nelle  demensioni,  e  la  natura  a  cui  non  ripugna  l'una  né  l'altra: 
anzi  l'una  e  l'altra  è  una  medesima;  e  che  (come  è  più  volte 
detto)  tutta  la  differenza  depende  dalla  contrazzione  a  l'essere 
corporea  e  non  essere  corporea:  come  nell'essere  animale  ogni 
sensitivo  è  uno^^;  ma  contraendo  quel  geno  a  certe  specie,  ripu- 
gna a  l'uomo  l'esser  leone,  et  a  questo  animale  d'esser  quell'al- 
tro. Et  aggiungo  a  questo  (sei  ti  piace)  perché  mi  direste  che 
quello  che  giamai  è,  deve  essere  stimato  più  tosto  impossibile  e 
contra  natura,  che  naturale;  e  però  giamai  trovandosi  quella 
materia  dimensionata,  deve  stimarsi  che  la  corporeità  gli  sia 
contra  natura;  e  se  questo  è  cossi,  non  è  verisimile  che  sia  una 
natura  comune  a  l'una  e  l'altra,  prima  che  l'una  se  intenda  es- 
ser contratta  a  l'esser  corporea:  aggiungo  (dico)  che  non  meno 
possiamo  attribuir  a  quella  materia  la  necessità  de  tutti  gli  atti 
dimensionali,  che  (come  voi  vorreste)  la  impossibilità.  Quella  [243] 
materia  per  essere  attualmente  tutto  quel  che  può  essere,  ha 

72.  Cfr.  Plotino,  Enti.,  II,  4,  5  (ed.  italiana  cit,  I,  pp.  279-281). 

73.  Cfr.  David  di  Dinant,  in  Alberto  Magno,  Opera  omnia,  Monasterii 
Westfalorum,  Aschendorff,  t.  IV,  pars  I,  Physica,  I,  2,  io,  ed.  Hossfeld,  p.  31: 
«Sed  hic  nobis  sufficit,  qualiter  omnium  corporum  materia  est  una.  Hanc  au- 
tem  materiam  totam  substantiam  et  totum  esse  omnium  corporeum  esse  dixe- 
runt,  quia  formam,  quae  est  in  materia,  esse  non  percepenmt,  sed  putabant 
ipsam  per  non-vere-ens  distingui,  quia  formas  et  accidentes  non  dixerunt  esse 
nisi  in  sentire  et  apparere  et  non  in  esse,  sicut  adhuc  multi  dicunt,  quorum 
pater  est  Alexander  et  David  de  Dinante,  qui  secutus  est  Alexandrum  in  hoc. 
Et  ideo  dixerunt,  quod  id  quod  est  extra  ens,  est  extra  vere  ens,  et  hoc  non  est 
ens,  sed  videtur  esse  secundum  sensum  et  aestimationem;  et  quod  homo  et 
asinus  sunt  unum,  sed  apparent  alia». 


714  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

tutte  le  misure,  ha  tutte  le  specie  di  figure  e  di  dimensioni;  e 
perché  le  have  tutte,  non  ne  ha  nessuna,  perché  quello  che  è 
tante  cose  diverse,  bisogna  che  non  sia  alcuna  di  quelle  partico- 
lari. Conviene  a  quello  che  è  tutto,  che  escluda  ogni  essere  par- 
ticolare. 

DicsoNO.  -  Vuoi  dumque  che  la  materia  sia  atto?  vuoi  an- 
cora che  la  materia  nelle  cose  incorporee  coincida  con  l'atto? 

Teofilo.  —  Come  il  posser  essere  coincide  con  l'essere. 

DicsONO.  —  Non  differisce  dumque  da  la  forma? 

Teofilo.  —  Niente  nell'absoluta  potenza  et  atto  absoluto;  il 
quale  però  è  nell'estremo  della  purità,  simplicità,  indivisibilità 
et  unità,  perché  è  assolutamente  tutto:  che  se  avesse  certe  di- 
mensioni, certo  essere,  certa  figura,  certa  proprietà,  certa  diffe- 
renza, non  sarebbe  absoluto,  non  sarebbe  tutto. 

DicsONO.  —  Ogni  cosa  dumque  che  comprende  qualsivoglia 
geno,  è  individua? 

Teofilo.  —  Cossi  è,  perché  la  forma  che  comprende  tutte  le 
qualità  non  è  alcuna  di  quelle;  lo  che  ha  tutte  le  figure,  non  ha 
alcuna  di  quelle;  lo  che  ha  tutto  lo  essere  sensibile,  e  però  non 
si  sente.  Più  altamente  individuo  è  quello  che  ha  tutto  l'essere 
naturale;  più  altamente  lo  che^''  ha  tutto  lo  essere  intellettuale; 
[245]   altissimamente  quello  che  ha  tutto  lo  essere  che  può  essere. 

DicsoNO.  —  In  similitudine  di  questa  scala  de  lo  essere,  vo- 
lete che  sia  la  scala  del  posser  essere,  e  volete  che  come  ascende 
la  raggione  formale,  cossi  ascenda  la  raggione  materiale? 

Teofilo.  -  È  vero. 

DiCSONO.  —  Profonda  et  altamente  prendete  questa  defini- 
zione di  materia  e  potenza. 

Teofilo.  -  Vero. 

DicsoNO.  -  Ma  questa  verità  non  potrà  esser  capita  da  tutti; 
perché  è  pur  arduo  a  capire  il  modo  con  cui  s'abbiano  tutte  le 
specie  di  dimensioni,  e  nulla  di  quelle;  aver  tutto  l'essere  for- 
male, e  non  aver  nessuno  essere  forma. 

Teofilo.  —  Intendete  voi  come  può  essere? 

DicsONO.  Credo  che  sì:  perché  capisco  bene  che  l'atto  per  es- 
ser tutto,  bisogna  che  non  sia  qualche  cosa. 

74.  Cfr.  lo  spagnolo  «lo  que». 


DIALOGO  QUARTO  715 

PoLiHiMNio.  —  Non  potest  esse  idem,  totum,  et  aliquid:  ego  quo- 
que illud  capio''^. 

Teofilo.  -  Dumque  potrete  capir  a  proposito,  che  se  voles- 
simo ponere  la  dimensionabilità  per  raggione  della  materia^^ 
tal  raggione  non  ripugnarebe  a  nessuna  sorte  di  materia:  ma 
che  viene  a  differire  una  materia  da  l'altra,  solo  per  esser  abso- 
luta  da  le  dimensioni,  et  esser  contratta  alle  dimensioni.  Con 
esser  absoluta,  è  sopra  tutte  e  le  comprende  tutte;  con  esser  con- 
tratta, vien  compresa  da  alcune  et  è  sotto  alcune. 

DicsoNO.  —  Ben  dite,  che  la  materia  secondo  sé,  non  ha  certe 
demensioni,  e  però  se  intende  indivisibile,  e  riceve  le  dimen-  [247] 
sioni  secondo  la  raggione  de  la  forma  che  riceve.  Altre  dimen- 
sioni ha  sotto  la  forma  umana,  altre  sotto  la  cavallina,  altre 
sotto  l'olivo,  altre  sotto  il  mirto:  dumque  prima  che  sia  sotto 
qualsivoglia  di  queste  forme,  bave  in  facultà  tutte  quelle  di- 
mensioni, cossi  come  ha  potenza  di  ricevere  tutte  quelle  forme. 

PoLiHiMNio.  —  Dicunt  tamen  propterea  quod  nullas  habet  di- 
mensiones^^ . 

DicsoNO.  —  E  noi  diciamo,  che  ideo  habet  nullas,  ut  omnes 
habeat'^. 

Gervasio.  —  Per  che  volete  più  tosto  che  le  includa  tutte, 
che  le  escluda  tutte? 

DicsoNO.  —  Perché  non  viene  ad  ricevere  le  dimensioni  come 
di  fuora,  ma  a  mandarle  a  cacciarle  come  dal  seno. 

Teofilo.  -  Dice  molto  bene:  oltre  che  è  consueto  modo  di 
parlare  di  Peripatetici  ancora,  che  dicono  tutti  l'atto  dimensio- 
nale e  tutte  forme  naturali  uscire  e  venir  fuori  dalla  potenza  de 
la  materia.  Questo  intende  in  parte  Averroe,  il  qual  quantum- 
que  arabo  et  ignorante  di  lingua  greca,  nella  dottrina  peripate- 
tica però  intese  più  che  qualsivoglia  greco  che  abbiamo  letto:  et 
arebbe  più  inteso,  se  non  fusse  stato  cossi  additto  al  suo  nume 

75.  «La  stessa  cosa  non  può  essere  tutto  e  qualche  cosa:  anch'io  posso  com- 
prendere questo». 

76.  Tesi  averroista,  secondo  P.  R.  Blum  (nota  a  p.  86  nella  traduz.  tedesca 
del  De  la  causa,  a  cura  di  A.  Lasson,  Hamburg,  1993),  che  rinvia  alla  discus- 
sione di  S.  Tommaso  D'Aquino,  De  natura  materiae  et  dimensionibus  intermina- 
tis,  in  Opuscula  philosophica,  Roma,  1954,  pp.  134  e  segg.,  138  e  segg. 

yj.  «Lo  dicono  tuttavia  giacché  [la  materia]  non  ha  alcuna  dimensione». 
78.  «È  perché  non  ne  ha  alcuna  che  le  ha  tutte». 


7l6  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Aristotele^''.  Dice  lui  che  la  materia  ne  l'essenzia  sua  comprende 
le  dimensioni  interminate:  volendo  accennare  che  quelle  perve- 
gnono  a  terminarsi,  ora  con  questa  figura  e  dimensioni,  ora  con 
quella  e  quell'altra,  quelle  e  quell'altre,  secondo  il  cangiar  di 
[249]  forme  naturali.  Per  il  qual  senso  si  vede  che  la  materia  le 
manda  come  da  sé,  e  non  le  riceve  come  di  fuora.  Questo  in 
parte  intese  ancor  Plotino,  prencipe  nella  setta  di  Platone.  Co- 
stui facendo  differenza  tra  la  materia  di  cose  superiori  et  infe- 
riori, dice  che  quella  è  insieme  tutto;  et  essendo  che  possiede 
tutto,  non  ha  in  che  mutarsi:  ma  questa  con  certa  vicissitudine 
per  le  parti,  si  fa  tutto;  et  a  tempi  e  tempi,  si  fa  cosa  e  cosa,  però 
sempre  sotto  diversità,  alterazione  e  moto.  Cossi  dumque  mai  è 
informe  quella  materia,  come  né  anco  questa,  benché  differen- 
temente quella  e  questa ^O:  quella  ne  l'istante  de  l'eternità,  que- 
sta ne  gl'istanti  del  tempo;  quella  insieme,  questa  successiva- 
mente; quella  esplicatamente,  questa  complicatamente;  quella 
come  molti,  questa  come  uno;  quella  per  ciascuno  e  cosa  per 
cosa,  questa  come  tutto  et  ogni  cosa^'. 

DicsoNO.  -  Tanto  che  non  solamente  secondo  gli  vostri  prin- 
cipii,  ma  oltre  secondo  gli  principii  de  l'altrui  modi  di  filoso- 
fare, volete  inferire  che  la  materia  non  è  quel  profe  nihil^^, 

79.  Cfr.  M.  FiciNO,  Theologia  Platonica,  XV,  i,  a  cura  di  M.  Schiavone,  Bo- 
logna, 1965,  voi.  II.  pp.  250-251:  «Averroè,  spagnolo  di  origine,  arabo  di  lingua, 
erudito  aristotelico,  ignaro  di  lingua  greca,  si  dice  che  abbia  letto  i  libri  di 
Aristotele  corrotti  dal  greco  in  lingua  barbara,  piuttosto  che  tradotti  [Aristote- 
licos  libros...  perversos  potius  quam  conversos  legisse  traditur]».  Prima  dell'umani- 
sta toscano,  Gemisto  Pletone  aveva  sostenuto  che  Averroè  aveva  frainteso  il 
pensiero  aristotelico,  proprio  a  causa  della  sua  ignoranza  del  greco  (come  rife- 
risce lo  stesso  Ficino  nella  prefazione  alla  sua  traduz.  di  Plotino  del  1492:  cfr. 
P.  O.  Kristeller,  Platonismo  bizantino  e  fiorentino  e  la  controversia  su  Platone  e 
Aristotele,  in:  Venezia  e  l'Oriente,  dir.  A.  Pertusi.  Firenze,  1966,  p.  114).  La  vene- 
razione avvertita  da  Averroè  per  Aristotele  traspariva  nell'introduzione  al  suo 
commento  della  Physica  (cfr.  S.  Munk,  Mélanges  de  philosophie  juive  et  arabe, 
Paris,  1927,  pp.  316  e  340-341).  Secondo  R.  Sturlese,  «Averroè  quantumque  ara- 
bo...». Note  sull'averroismo  di  Bruno,  «Giornale  critico  della  filosofia  italiana» 
[Firenze],  LXXIII,  1992,  pp.  251-256,  in  questo  passo  bruniano  si  susseguono 
«quattro  diversi  registri». 

80.  Cfr.  Plotino,  Enn.,  Il,  4,  3,  che  nella  traduz.  latina  di  Ficino  cit,  p.  60, 
s'intitolava:  Solvit  argumenia  probantia  non  esse  in  intelligibili  mundo  mate- 
riam. 

81.  Si  noti  che,  nella  diadi  quella/questa  della  seconda  parte  della  frase,  la 
«materia  di  cose  superiori»  è  indicata  non  più  prima,  ma  dopo  la  materia  di 
cose  «inferiori».  D'altra  parte,  le  nozioni  di  «complicazione»  e  di  «esplicazio- 
ne» non  appartengono  tanto  a  Plotino,  quanto  al  lessico  di  Nicolò  Cusano. 

82.  «Quasi  niente». 


DIALOGO  QUARTO  717 

quella  potenza  pura,  nuda,  senza  atto,  senza  virtù  e  perfez- 
zione^^ 

Teofilo.  —  Cossi  è;  la  dico  privata  de  le  forme  e  senza 
quelle,  non  come  il  ghiaccio  è  senza  calore,  il  profondo  è  pri- 
vato di  luce:  ma  come  la  pregnante  è  senza  la  sua  prole,  la 
quale  la  manda  e  la  riscuote  da  sé;  e  come  in  questo  emispe.ro 
la  terra  la  notte  è  senza  luce,  la  quale  con  il  suo  scuotersi  è 
potente  di  raquistare. 

DicsoNO.  —  Ecco  che  anco  in  queste  cose  inferiori,  se  non  a 
fatto,  molto  viene  a  coincidere  l'atto  con  la  potenza.  [251] 

Teofilo.  -  Lascio  giudicar  a  voi. 

DicsONO.  -  E  se  questa  potenza  di  sotto  venesse  ad  essere 
una  finalmente  con  quella  di  sopra  ^'',  che  sarrebe? 

Teofilo.  -  Giudicate  voi.  Possete  quindi  montar  al  concetto, 
non  dico  del  summo  et  ottimo  principio,  escluso  della  nostra 
considerazione,  ma  de  l'anima  del  mondo,  come  è  atto  di  tutto 
e  potenza  di  tutto,  et  è  tutta  in  tutto:  onde  al  fine  (dato  che 
sieno  innumerabili  individui)  ogni  cosa  è  uno;  et  il  conoscere 
questa  unità  è  il  scopo  e  termine  di  tutte  le  filosofie  e  contem- 
plazioni naturali:  lasciando  ne'  sua  termini  la  più  alta  contem- 
plazione, che  ascende  sopra  la  natura,  la  quale  a  chi  non  crede, 
è  impossibile  e  nulla. 

DicsoNO.  —  È  vero,  perché  se  vi  monta  per  lume  sopranatu- 
rale, non  naturale  ^5. 

Teofilo.  —  Questo  non  hanno  quelli  che  stimano  ogni  cosa 
esser  corpo,  o  semplice  come  lo  etere,  o  composto  come  li  astri  e 
cose  astrali:  e  non  cercano  la  divinità  fuor  del  infinito  mondo  e 
le  infinite  cose,  ma  dentro  questo  et  in  quelle ^^ 

DicsONO.  -  In  questo  solo  mi  par  differente  il  fidele  teologo 
dal  vero  filosofo. 


83.  Cfr.  G.  Bruno,  Lamfas  triginta  statuarum,  «De  tertio  infigurabili,  puta 
de  nocte  seu  tenebris»,  V,  Óp.  lat..  Ili,  p.  25. 

84.  Bruno  parla  qui  di  «potenza  di  sotto»  e  «di  sopra»  (che  in  una  cosmo- 
logia come  la  sua  non  avrebbero  senso),  perché  era  opinione  comune  che 
l'agente  fosse  posto  «al  di  sopra»  del  paziente. 

85.  Cfr.  G.  Bruno,  Summa  terminorum  metaphysicorum,  «De  Deo  seu  men- 
te»: art.  L,  Fides,  Op.  lat.,  I,  4,  p.  100  (rist.  anastatica  a  cura  di  T.  Gregory- 
E.  Canone,  Roma,  1989,  p.  99). 

86.  Cfr.  G.  Bruno,  Lampas  triginta  statuarum,  «De  primo  intellectu»,  XIV, 
Op.  lat.,  III,  p.  49:  «est  enim  artifex,  qui  non  circa  materiam,  sed  intra  omnem 
materiam  et  naturam  operatur». 


7l8  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Teofilo.  -  Cossi  credo  ancor  io.  Credo  che  abbiate  compreso 
quel  che  voglio  dire. 

DicsoNO.  —  Assai  bene  io  mi  penso.  Di  sorte  che  dal  vostro 
dire  inferisco  che  quantumque  non  lasciamo  montar  la  materia 
sopra  le  cose  naturali,  e  fermiamo  il  piede  su  la  sua  comune 

[253]  definizione  che  apporta  la  più  volgare  filosofia,  trovaremo  pure 
che  la  ritegna  meglior  prorogativa  che  quella  riconosca:  la 
quale  al  fine  non  li  dona  altro  che  la  raggione  de  l'esser  soggetto 
di  forme  e  di  potenza  receptiva  di  forme  naturali,  senza  nome, 
senza  definizione,  senza  termino  alcuno,  perché  senza  ogni  at- 
tualità. Il  che  parve  difficile  ad  alcuni  cuculiati,  i  quali  non 
volendo  accusare  ma  iscusar  questa  dottrina,  dicono  aver  solo 
l'atto  entitativo*^',  cioè  differente  da  quello  che  non  è  semplice- 
mente, e  che  non  ha  essere  alcuno  nella  natura,  come  qualche 
chimera  o  cosa  che  si  finga:  perché  questa  materia  in  fine  ha 
Tessere;  e  gli  basta  questo  cossi  senza  modo  e  dignità,  la  quale 
depende  da  l'attualità,  che  è  nulla.  Ma  voi  dimandareste  rag- 
gione ad  Aristotele:  «Perché  vuoi  tu,  o  principe  di  Peripatetici, 
più  tosto  che  la  materia  sia  nulla  per  aver  nullo  atto,  che  sia 
tutto  per  aver  tutti  gli  atti,  o  l'abbia  confusi  o  confusissimi 
come  ti  piace?  Non  sei  tu  quello  che  sempre  parlando  del  novo 
essere  delle  forme  nella  materia,  o  della  generazione  de  le  cose, 
dici  le  forme  procedere  e  sgombrare  da  l'interno  de  la  materia,  e 
mai  fuste  udito  dire  che  per  opera  d'efficiente  vengano  da 
l'esterno,  ma  che  quello  le  riscuota  da  dentro?  Lascio  che  l'effi- 
ciente di  queste  cose,  chiamato  da  te  con  un  comun  nome  «Na- 
tura», lo  fai  pur  principio  intemo,  e  non  estemo  come  aviene 
ne  le  cose  artificiali^^.  All'ora  mi  par  che  convegna  dire  che  la 
non  abbia  in  sé  forma  et  atto  alcuno,  quando  lo  viene  a  rice- 
vere di  fuora;  all'ora  mi  par  che  convegna  dire  che  l'abbia  tutte, 
quando  si  dice  cacciarle  tutte  dal  suo  seno.  Non  sei  tu  quello 

[255]  che,  se  non  costretto  da  la  raggione,  spinto  però  dalla  consuetu- 
dine del  dire,  deffinendo  la  materia,  la  dici  più  tosto  essere 
quella  cosa  di  cui  ogni  specie  naturale  si  produce,  che  abbi  mai 
detto  esser  quello  in  cui  le  cose  si  fanno,  come  converrebe  dire 

87.  Secondo  E.  Namer,  traduz.  francese.  Paris,  1930,  Bruno  alluderebbe  qui 
aWhaecceitas  di  Duns  Scoto  e  dei  suoi  discepoli.  Si  veda  il  Dialogo  terzo,  p.  684, 
nota  54. 

88.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai..  II.  i.  192  b  13-16. 


DIALOGO  QUARTO  719 

quando  li  atti  non  uscissero  da  quella,  e  per  consequenza  non  le 
avesse?  »  ^^. 

POLiHiMNio.  —  Certe  consuevit  dicere  Aristoteles  cum  suis  po- 
tìus  formas  educi  de  potentia  materiae,  quam  in  illam  induci;  emer- 
gere potius  ex  ipsa,  quam  in  ipsam  ingeri'^^:  ma  io  direi  che  ha 
piaciuto  ad  Aristotele  chiamar  «atto»  più  tosto  la  esplicazione 
de  la  forma  che  la  implicazione. 

DicsONO.  —  Et  io  dico,  che  l'essere  espresso,  sensibile  et  espli- 
cato, non  è  principal  raggione  de  l'attualità,  ma  è  una  cosa  con- 
sequente  et  effetto  di  quella:  sì  come  il  principal  essere  del  le- 
gno e  ragione  di  sua  attualità  non  consiste  ne  l'essere  letto,  ma 
ne  l'essere  di  tal  sustanza  e  consistenza,  che  può  esser  letto, 
scanno,  trabe,  idolo  et  ogni  cosa  di  legno  formata.  Lascio  che 
secondo  più  alta  raggione  della  materia  naturale  si  fanno  tutte 
cose  naturali,  che  della  artificiale  le  artificiali;  per  che  l'arte 
dalla  materia  suscita  le  forme,  o  per  suttrazzione,  come  quando 
de  la  pietra  fa  la  statua,  o  per  apposizione,  come  quando  gion- 
gendo  pietra  a  pietra  e  legno  e  terra,  forma  la  casa:  ma  la  na- 
tura de  la  sua  materia  fa  tutto  per  modo  di  separazione,  di 
parto,  di  efflusione,  come  intesero  i  Pitagorici,  comprese  Anas- 
sagora^' e  Democrito,  confirmomo  i  Sapienti  di  Babilonia,  a  i 
quali  sottoscrisse  anco  Mosè'*^,  che  descrivendo  la  generazione 
delle  cose,  comandata  dal  efficiente  universale,  usa  questo  [257] 
modo  di  dire:  «Produca  la  terra  li  suoi  animali;  producano  le 
acqui  le  anime  viventi»,  quasi  dicesse:  producale  la  materia; 
perché,  secondo  lui,  il  principio  materiale  de  le  cose  è  l'acqua: 
onde  dice  che  l'intelletto  efficiente  (chiamato  da  lui  spirito)  «co- 
vava sopra  l'acqui»,  cioè  li  dava  virtù  procreatrice  e  da  quelle 
produceva  le  specie  naturali,  le  quali  tutte  poi  son  dette  da  lui 
in  sustanza  acqui ''^.  Onde  parlando  della  separazione  de  corpi 

89.  Cfr.  Aristotele,  De  generatione  et  corrupHone,  I,  3. 

90.  «È  certo  che  Aristotele  ed  i  suoi  seguaci  asseriscono  che  le  forme  sono 
estratte  dalla  potenza  della  materia,  più  che  indotte  in  essa;  che  esse  emergono 
dalla  materia  più  di  esseme  conformate». 

91.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  I,  4,  187  a. 

92.  Cfr.  Genesi,  I,  20  e  24:  «E  Dio  disse:  "L-e  acque  brulichino  di  un  bruli- 
chio d'esseri  vivi  e  volatili  svolazzino  sopra  la  terra,  in  faccia  al  firmamento 
del  cielo".  E  così  avvenne»;  «E  Dio  disse:  "La  terra  faccia  uscir  fuori  degli 
esseri  viventi  secondo  la  loro  specie:  bestiame  e  rettili  e  fiere  della  terra  se- 
condo le  loro  specie".  E  così  avvenne». 

93.  Cfr.  ivi,  I,  2:  «E  lo  Spirito  di  Dio  aleggiava  sulla  superficie  delle  acque». 


720  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

inferiori  e  superiori,  dice  che  «la  mente  separò  le  acqui  da  l'ac- 
qui», da  mezzo  de  le  quali  induce  esser  comparuta  l'arida^'^. 
Tutti  dumque  per  modo  di  separazione  vogliono  le  cose  esse- 
re da  la  materia,  e  non  per  modo  di  apposizione  e  recepzione: 
dumque  si  de'  più  tosto  dire  che  contiene  le  forme  e  che  le  in- 
cluda, che  pensare  che  ne  sia  vota  e  le  escluda.  Quella  dumque 
che  esplica  lo  che  tiene  implicato,  deve  essere  chiamata  cosa 
divina,  et  ottima  parente,  genetrice  e  madre  di  cose  naturali: 
anzi  la  natura  tutta  in  sustanza.  Non  dite  e  volete  cossi.  Teofilo? 

Teofilo.  -  Certo. 

DicsONO.  -  Anzi  molto  mi  maraviglio  come  non  hanno  i  no- 
stri Peripatetici  continuata  la  similitudine  de  l'arte  ^5,  la  quale 
de  molte  materie  che  conosce  e  tratta,  quella  giudica  esser  me- 
gliore  e  più  degna,  la  quale  è  meno  soggetta  alla  corrozzione  et 
è  più  costante  alla  durazione,  e  della  quale  possono  esser  pro- 
dotte più  cose;  però  giudica  l'oro  esser  più  nobile  che  il  legno,  la 
pietra  et  il  ferro,  perché  è  meno  soggetto  a  corrompersi:  e  ciò 
[259]  che  può  esser  fatto  di  legno  e  di  pietra,  può  farsi  de  oro,  e  molte 
altre  cose  di  più,  maggiori  e  megliori  per  la  sua  bellezza,  co- 
stanza, trattabilità  e  nobilita.  Or  che  doviamo  dire  di  quella 
materia  della  quale  si  fa  l'uomo,  l'oro  e  tutte  cose  naturali?  Non 
deve  esser  ella  più  stimata  degna  che  la  artificiale,  et  aver  rag- 
gione  di  meglior  attualità?  Perché,  o  Aristotele,  quello  che  è  fon- 
damento e  base  de  la  attualità,  dico,  di  ciò  che  è  in  atto,  e 
quello  che  tu  dici  esser  sempre,  durare  in  etemo,  non  vorai  che 
sia  più  in  atto  che  le  tue  forme,  che  le  tue  entelechie  che  vanno 
e  vegnono,  di  sorte  che  quando  volessi  cercare  la  permanenza 
di  questo  principio  formale  ancora... 

PoLiHiMNio.  —  Quia  principia  oportet  semper  manere"^^. 

DicsoNO.  —  ...  e  non  possendo  ricorrere  alle  fantastiche  idee 
di  Platone,  come  tue  tanto  nemiche,  sarai  costretto  e  necessitato 
a  dire  che  queste  forme  specifiche,  o  hanno  la  sua  permanente 

94.  Cfr.  ivi,  I,  7  e  9:  «Dio  fece  il  firmamento  e  separò  le  acque,  che  son  sotto 
il  firmamento,  dalle  acque,  che  son  sopra  il  firmamento»;  «E  Dio  disse:  "Le 
acque  che  sono  sotto  il  cielo,  si  ammassino  in  una  sola  massa  ed  appaia 
l'asciutto".  E  così  avvenne». 

95.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  I,  7,  190  b  5-6. 

96.  «Poiché  è  necessario  che  i  princìpi  siano  permanenti». 


DIALOGO  QUARTO  721 

attualità  nella  mano  de  l'efficiente^'',  e  cossi  non  puoi  dire, 
perché  quello  è  detto  da  te  suscitatore  e  riscuotitore  de  le  forme 
dalla  potenza  de  la  materia,  o  hanno  la  sua  permanente  attua- 
lità nel  seno  de  la  materia:  e  cossi  ti  fia  necessario  dire,  perché 
tutte  le  forme,  che  appaiono  come  nella  sua  superficie,  che  tu 
dici  individuali  et  in  atto,  tanto  quelle  che  furono,  quanto  le 
che  sono  e  sarranno,  son  cose  principiate,  non  sono  principio. 
(E  certo  cossi  credo  essere  nella  superficie  della  materia  la 
forma  particolare,  come  lo  accidente  è  nella  superficie  della 
sustanza  composta;  onde  minor  raggione  di  attualità  deve 
avere  la  forma  espressa  al  rispetto  della  materia,  come  minor 
raggione  di  attualità  ha  la  forma  accidentale  in  rispetto  del 
composto).  [261] 

Teofilo.  -  In  vero  poveramente  si  risolve  Aristotele  che 
dice  insieme  con  tutti  gli  antichi  filosofi,  che  li  principii  denno 
essere  sempre  permanenti:  e  poi  quando  cercamo  nella  sua  dot- 
trina, dove  abbia  la  sua  perpetua  permanenza  la  forma  natu- 
rale, la  quale  va  fluttuando  nel  dorso  de  la  materia,  non  la  tro- 
varemo  ne  le  stelle  fisse,  perché  non  descendeno  da  alto  queste 
particulari  che  veggiamo;  non  ne  gli  sigilli  ^^  ideali  seperati'^^  da 
la  materia,  perché  quelli  per  certo  se  non  son  mostri,  son  peggio 
che  mostri,  voglio  dire  chimere  e  vane  fantasie.  Che  dumque? 
sono  nel  seno  della  materia;  che  dumque?  ella  è  fonte  de  la  at- 
tualità. Volete  ch'io  vi  dica  di  vantaggio,  e  vi  faccia  vedere  in 
quanta  assurdità  sia  incorso  Aristotele?  Dice  lui  materia  essere 
in  potenza;  or  dimandategli:  quando  sarà  in  atto?  Risponderà 
una  gran  moltitudine  con  esso  lui:  quando  ara  la  forma 'O'^.  Or 
aggiungi  e  dimanda:  che  cosa  è  quella  che  ha  l'essere  di  novo? 
Risponderanno  a  lor  dispetto:  il  composto,  e  non  la  materia; 
perché  essa  è  sempre  quella,  non  si  rinova,  non  si  muta.  Come 
nelle  cose  artificiali  quando  del  legno  è  fatto  la  statua,  non  di- 
ciamo che  al  legno  vegna  nuovo  essere,  perché  niente  più  o 

97.  Ipotesi  neoplatonica. 

98.  Cfr.  G.  Bruno,  De  compositione  imaginum,  I,  3,  Op.  laL,  II,  3,  p.  98:  «Si- 
gnum  est  quodammodo  genus  ad  omnia  quae  significant,  sive  ut  idea  sive  ut 
vestigium  sive  ut  umbra  vel  aliter.  —  Sigillum  (quod  signi  quoddam  diminuiti- 
vum  est)  signi  partem  notabiliorem  vel  signum  contractius  acceptum  signifi- 
cat». 

99.  Forma  arcaica. 

100.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  II,  i,  193  a  36  e  segg. 


722  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

meno  è  legno  ora,  che  era  prima:  ma  quello  che  riceve  lo  esser  e 
l'attualità,  è  lo  che  di  nuovo  si  produce,  il  composto,  dico  la 
statua.  Come  adumque  a  quello  dite  appartenere  la  potenza,  che 
mai  sarà  in  atto  o  ara  l'atto?  Non  è  dumque  la  materia  in  po- 
tenza di  essere,  o  la  che  può  essere;  perché  lei  sempre  è  mede- 
sima et  inmutabile,  et  è  quella  circa  la  quale  e  nella  quale  è  la 
mutazione,  più  tosto  che  quella  che  si  muta.  Quello  che  si  al- 
[263]  tera,  si  aumenta,  si  sminuisce,  si  muta  di  loco,  si  corrompe, 
sempre  (secondo  voi  medesimi  Peripatetici)  è  il  composto,  mai 
la  materia:  perché  dumque  dite  la  materia  or  in  potenza  or  in 
atto?  Certo  non  è  chi  debba  dubitare,  che  o  per  ricevere  le 
forme,  o  per  mandarle  da  sé,  quanto  all'essenza  e  sustanza  sua 
essa  non  riceve  maggior  e  minor  attualità:  e  però  non  esser  rag- 
gione  per  la  quale  venga  detta  in  potenza,  la  quale  quadra  a  ciò 
che  è  in  continuo  moto  circa  quella,  e  non  a  lei  che  è  in  etemo 
stato,  et  è  causa  del  stato  più  tosto:  perché  se  la  forma,  secondo 
l'essere  fondamentale  e  specifico,  è  di  semplice  et  invariabile  es- 
senza, non  solo  logicamente  nel  concetto  e  la  raggione,  ma  anco 
fisicamente  nella  natura,  bisognarà  che  sia  nella  perpetua  fa- 
cultà  de  la  materia;  la  quale  è  una  potenza  indistinta  da  l'atto 
come  in  molti  modi  ho  esplicato,  quando  della  potenza  ho 
tante  volte  discorso. 

PoLiHiMNio.  -  Queso^^^,  dite  qualche  cosa  dello  appetito  de 
la  materia,  a  fine  che  prendiamo  qualche  risoluzione,  per  certa 
alterazione  ^°2  tra  me  e  Gervasio. 

Gervasio.  —  Di  grazia  fatelo.  Teofilo,  perché  costui  mi  ha 
rotto  il  capo  con  la  similitudine  de  la  femina  e  la  materia:  e  che 
la  donna  non  si  contenta  meno  di  maschi,  che  la  materia  di 
forme;  e  va  discorrendo. 

Teofilo.  —  Essendo  che  la  materia  non  riceve  cosa  alcuna 
da  la  forma,  perché  volete  che  la  appetisca?  se  (come  abbiamo 
detto)  ella  manda  dal  suo  seno  le  forme  e  per  consequenza  le  ha 
in  sé,  come  volete  che  le  appetisca?  Non  appetisce  quelle  forme 
che  giornalmente  si  cangiano  nel  suo  dorso:  perché  ogni  cosa 
[265I  ordinata  appetisce  quello  dal  che  riceve  perfezzione.  Che  può 

loi.  «Per  favore». 

102.  L'uso  di  «alteratio»  per  «altercatio»  è  attestato  nel  dizionario  del  Du 
Gange. 


DIALOGO  QUARTO  723 

dare  una  cosa  corrottibile  ad  una  cosa  etema?  una  cosa  imper- 
fetta come  è  la  forma  de  cose  sensibili,  la  quale  sempre  è  in 
moto,  ad  una  cosa  etema?  una  cosa  imperfetta  come  è  la  forma 
de  cose  sensibili,  la  quale  sempre  è  in  moto,  ad  un'altra  tanto 
perfetta,  che  se  ben  si  contempla  è  uno  esser  divino  nelle  cose, 
come  forse  volea  dire  David  de  Dinante,  male  inteso  da  alcu- 
ni ^^^  che  riportano  la  sua  opinione?  Non  la  desidera  per  esser 
conservata  da  quella,  perché  la  cosa  corrottibile  non  conserva 
la  cosa  etema;  oltre  che  è  manifesto  che  la  materia  conservar  la 
forma:  onde  tal  forma  più  tosto  deve  desiderar  la  materia  per 
perpetuarsi  perché  separandosi  da  quella  perde  l'essere  lei,  e 
non  quella  che  ha  tutto  ciò  che  aveva  prima  che  lei  si  trovasse, 
e  che  può  aver  de  le  altre.  Lascio  che  quando  si  dà  la  causa  de 
la  corrozzione,  non  si  dice  che  la  forma  fugge  la  materia,  o  che 
lascia  la  materia:  ma  più  tosto  che  la  materia  rigetta  quella 
forma,  per  prender  l'altra.  Lascio  a  proposito,  che  non  abbiamo 
più  raggion  di  dire  che  la  materia  appete  le  forme,  che  per  il 
contrario  le  ha  in  odio  (parlo  di  quelle  che  si  generano  e  cor- 
rompono: perché  il  fonte  de  le  forme  che  è  in  sé,  non  può  appe- 
tere,  atteso  che  non  si  appete  lo  che^^''  si  possiede);  per  che  per 
tal  raggione,  per  cui  se  dice  appetere  lo  che  tal  volta  riceve  o 
produce,  medesimamente  quando  lo  rigetta  e  toglie  via,  se 
può  dir  che  l'abomina.  Anzi  più  potentemente  abomina  che 
appete,  atteso  che  eternamente  rigetta  quella  forma  numerale 
che  in  breve  tempo  ritenne.  Se  dumque  ricordarai  questo,  che 
quante  ne  prende,  tante  ne  rigetta,  devi  equalmente  farmi 
lecito  de  dire  che  ella  ha  in  fastidio:  come  io  ti  farò  dire  che  [267] 
ella  ha  in  desio. 


103.  Allusioni  implicite  ad  Alberto  Magno  (cfr.  Summa  de  creaturis,  pars  II, 
q.  V,  art.  2:  «Haec  sententia  in  libro  David  Mathensis  invenitur  non  solum 
tacta,  sed  etiam  multis  rationibus  probata,  ex  quibus  rationibus  concluditur  in 
fine  sic:  Manifestum  est  igitur  unam  solam  substantiam  esse,  non  tantum  om- 
nium corporum,  sed  etiam  animarum  omnium,  et  eam  nihil  aliud  esse,  quam 
ipsum  Deum»)  ed  a  San  Tommaso  (cfr.  Somma  teologica,  I,  q.  3,  art.  8,  traduz.  e 
commento  a  cura  dei  Domenicani  italiani,  testo  latino  dell'Ed.  Leonina,  Fi- 
renze, voi.  I,  1964,  pp.  116-117).  Si  può  allora  comprendere  quale  fosse,  per 
Bruno,  il  vero  significato  della  teoria  di  David  di  Dinant,  una  volta  che  si  fosse 
messa  tra  parentesi  l'etichetta  di  panteismo  materialista  e  tenuto  conto  degli 
antecedenti,  segnalati  dallo  stesso  Alberto  Magno:  Anassimene  e  Democrito;  cfr. 
G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo  terzo,  pp.  354-355;  De  vinculis  in  genere,  Op.  lai.,  III, 
p.  696  (traduz.  di  A.  Biondi,  Pordenone,  1986,  pp.  200-201). 

104.  Cfr.  lo  spagnolo  «lo  que». 


724  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Gervasio.  -  Or  ecco  a  terra  non  solamente  gli  castelli  di  Po- 
lihimnio,  ma  ancora  di  altri  che  di  Polihimnio. 

PoLiHiMNio.  —  Parcius  ista  viris^^^. 

DicsoNO.  -  Abbiamo  assai  compreso  per  oggi,  a  rivederci  do- 
mani. 

Teofilo.  —  Dumque,  a  dio. 

[269]  Fine  del  quarto  dialogo 


105.  Cfr.  Virgilio,  Bue,  III,  7,  ed.  Carena  cit,  pp.  86-87:  «Parcius  ista  viris 
tamen  obicienda  memento»  («Più  cauto  però  devi  essere  nel  rimproverare  così 
un  uomo»).  Citazione  già  ripetuta  dal  Pedante  degli  Ingannati,  atto  IV,  se.  2 
(G.  Davico  Bonino,  E  teatro  italiano,  voi.  II,  La  commedia  del  Cinquecento,  To- 
rino, 1977,  t  II,  p.  156). 


DIALOGO  QUINTO 

Teofilo.  —  È  dumque  l'universo  uno,  infinito,  inmobile. 
Una,  dico,  è  la  possibilità  assoluta,  uno  l'atto.  Una  la  forma  o 
anima;  una  la  materia  o  corpo.  Una  la  cosa.  Uno  lo  ente.  Uno  il 
massimo  et  ottimo:  il  quale  non  deve  posser  essere  compreso  \  e 
però  infinibile  et  interminabile,  e  per  tanto  infinito  et  intermi- 
nato; e  per  conseguenza  inmobile.  Questo  non  si  muove  local- 
mente, perché  non  ha  cosa  fuor  di  sé  ove  si  trasporte,  atteso  che 
sia  il  tutto.  Non  si  genera,  perché  non  è  altro  essere  che  lui 
possa  desiderare  o  aspettare,  atteso  che  abbia  tutto  lo  essere 2. 
Non  si  corrompe,  perché  non  è  altra  cosa  in  cui  si  cange,  atteso 
che  lui  sia  ogni  cosa.  Non  può  sminuire  o  crescere,  atteso  che  è 
infinito,  a  cui  come  non  si  può  aggiongere,  cossi  è  da  cui  non  si 
può  suttrarre^:  perciò  che  lo  infinito  non  ha  parte  proporziona- 
bili. Non  è  alterabile  in  altra  disposizione,  perché  non  ha 
estemo  da  cui  patisca  e  per  cui  venga  in  qualche  affezzione. 
Oltre,  che  per  comprender  tutte  contrarietadi  nell'essere  suo,  in 
unità  e  convenienza,  e  nessuna  inclinazione  posser  avere  ad  al- 
tro e  novo  essere,  o  pur  ad  altro  et  altro  modo  di  essere,  non 
può  esser  soggetto  di  mutazione  secondo  qualità  alcuna,  né  può 
aver  contrario  o  diverso  che  lo  alteri:  perché  in  lui  è  ogni  cosa 
concorde.  Non  è  materia,  perché  non  è  figurato  né  figurabile,   [271] 


1.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  4,  in  Opere,  a  cura  di  G.  Federici- 
Vescovini,  Torino,  1972,  pp.  61-63:  Maximum  absolutum  incomprehensibiliter  in- 
telligitur,  cum  quo  minimum  coincidit  («Il  massimo  assoluto  con  il  quale  coin- 
cide il  minimo,  è  conosciuto  in  modo  incomprensibile»). 

2.  Questa  affermazione  sembra  un'obiezione  a  Plotino,  Enn.,  IV,  8,  6:  «non 
può  esistere  l'Uno  soltanto  —  ogni  cosa  resterebbe  nascosta  e  priva  di  forma  in 
esso»  (traduz.  di  C.  Guidelli  in  Plotino,  Enneadi,  Torino,  1997,  voi.  II,  p.  700). 

3.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  5,  ed.  Federici-Vescovini  cit.,  p.  64: 
«...  non  recipit  ipsa  unitas  magis  nec  minus,  nec  est  multiplicabilis.  Deitas  itaque 
est  unitas  infinita»  («L'unità  non  è  suscettibile  né  del  più  né  del  meno  e  non 
è  moltiplicabile.  La  divinità  è,  perciò,  unità  infinita»). 


726  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

non  è  terminato  né  terminabile.  Non  è  forma,  perché  non  in- 
forma né  figura  altro:  atteso  che  è  tutto,  è  massimo,  è  uno,  è 
universo.  Non  è  misurabile,  né  misura.  Non  si  comprende, 
perché  non  è  maggior  di  sé.  Non  si  è  compreso,  perché  non  è 
minor  di  sé.  Non  si  agguaglia,  perché  non  è  altro  et  altro:  ma 
uno  e  medesimo-^.  Essendo  medesimo  et  uno,  non  ha  essere  et 
essere;  e  perché  non  ha  essere  et  essere,  non  ha  parte  e  parte:  e 
per  ciò  che  non  ha  parte  e  parte,  non  è  composto.  Questo  è  ter- 
mine di  sorte  che  non  è  termine;  è  talmente  forma  che  non  è 
forma;  è  talmente  materia  che  non  è  materia;  è  talmente  anima, 
che  non  è  anima  5:  perché  è  il  tutto  indifferentemente,  e  però  è 
uno,  l'universo  è  uno''.  In  questo  certamente  non  è  maggiore 
l'altezza  che  la  lunghezza  e  profondità:  onde  per  certa  similitu- 
dine si  chiama,  ma  non  è,  sfera. 

Nella  sfera  medesima  cosa  è  lunghezza  che  larghezza  e  pro- 
fondo, per  che  hanno  medesimo  termino;  ma  ne  l'universo  me- 
desima cosa  è  larghezza,  lunghezza  e  profondo,  perché  medesi- 
mamente non  hanno  termine  e  sono  infinite.  Se  non  hanno 
mezzo,  quadrante  et  altre  misure,  se  non  vi  è  misura,  non  vi  è 
parte  proporzionale,  né  assolutamente  parte  che  differisca  dal 
tutto:  perché  se  vuoi  dir  parte  de  l'infinito,  bisogna  dirla  infi- 
nito; se  è  infinito,  concorre  in  uno  essere  con  il  tutto:  dumque 
l'universo  è  uno,  infinito,  impartibile.  E  se  nel  infinito  non  si 
trova  differenza  come  di  tutto  e  parte,  e  come  di  altro  et  altro, 
certo  l'infinito  è  uno.  Sotto  la  comprensione  de  l'infinito,  non  è 
parte  maggiore  e  parte  minore^;  per  che  alla  proporzione  de 
[273 1   l'infinito  non  si  accosta  più  una  parte  quantosivoglia  maggiore, 

4.  Cfr.  ivi:  «Est  igitur  unitas  absoluta,  cui  nihil  opponitur  ipsa  absoluta 
maximitas,  quae  est  Deus  benedictus»  («Essa  è  l'unità  assoluta  a  cui  niente  si 
oppone,  la  massimità  assoluta  che  è  Dio  benedetto»). 

5.  Cfr.  il  frammento  di  David  di  Dinant  riportato  da  Alberto  Magno, 
Summa  de  creaturis  cit.  (si  veda  anche  Proemiale  epistola,  p.  601,  nota  35;  Dia- 
logo quarto,  p.  723,  nota  103). 

6.  Cfr.  G.  Bruno,  De  minimo,  II.  i,  Op.  lai.,  I,  3,  pp.  187-188:  «Una  materia, 
una  forma,  unum  effìciens.  In  omni  serie,  scala,  analogia  ab  uno  proficiscitur, 
in  uno  constitit  et  ad  unum  refertur  multitudo»  (traduz.  in  Opere,  a  cura  di 
C.  Monti,  Torino,  1990,  p.  141:  «Una  è  la  materia,  una  è  la  forma,  uno  è  l'effi- 
ciente. In  ogni  successione,  scala,  analogia,  la  molteplicità  precede  dall'uno,  si 
fonda  sull'uno  e  ad  esso  si  riferisce»). 

7.  Il  medesimo  tema  era  stato  sviluppato  da  N.  Cusano,  De  Docta  ignoran- 
tia  ed.  Federici-Vescovini  cit.,  II,  i,  pp.  107-111:  Correlaria  preambularia  ad  in- 
ferendum  unum  infinitum  universum  («Corollari  preliminari  per  arrivare  a  con- 
cludere che  l'universo  è  uno  e  infinito»). 


ì 


DIALOGO  QUINTO  727 


che  un'altra  quantosivoglia  minore;  e  però  ne  l'infinita  durazione 
non  differisce  la  ora  dal  giorno,  il  giorno  da  l'anno,  l'anno  dal 
secolo,  il  secolo  dal  momento:  perché  non  son  più  gli  momenti  e 
le  ore,  che  gli  secoli;  e  non  hanno  minor  proporzione  quelli  che 
questi  a  la  eternità.  Similmente  ne  l'immenso  non  è  differente  il 
palmo  dal  stadio,  il  stadio  da  la  parasanga:  perché  alla  propor- 
zione de  la  inmensitudine  non  più  si  accosta  per  le  parasanghe 
che  per  i  palmi  ^.  Dumque  infinite  ore  non  son  più  che  infiniti 
secoli,  et  infiniti  palmi  non  son  di  maggior  numero  che  infinite 
parasanghe.  Alla  proporzione,  similitudine,  unione  et  identità  de 
l'infinito  non  più  ti  accosti  con  essere  uomo  che  formica,  una 
stella  che  un  uomo:  per  che  a  quello  essere  non  più  ti  avicini  con 
esser  sole,  luna,  che  un  uomo  o  una  formica,  e  però  nell'infinito 
queste  cose  sono  indifferenti;  e  quello  che  dico  di  queste,  intendo 
di  tutte  l'altre  cose  di  sussistenza  particulare.  Or  se  tutte  queste 
cose  particulari  ne  l'infinito  non  sono  altro  et  altro,  non  sono  dif- 
ferenti, non  sono  specie,  per  necessaria  consequenza  non  sono 
numero:  dumque  l'universo  è  ancor  uno  immobile. 

Questo,  perché  comprende  tutto,  e  non  patisce  altro  et  altro 
essere,  e  non  comporta  seco  né  in  sé  mutazione  alcuna,  per  con- 
sequenza è  tutto  quello  che  può  essere;  et  in  lui  (come  dissi  l'al- 
tro giorno)^  non  è  differente  l'atto  da  la  potenza.  Se  dalla  po- 
tenza non  è  differente  l'atto,  è  necessario  che  in  quello  il  punto, 
la  linea,  la  superficie  et  il  corpo  non  differiscano;  perché  cossi 
quella  linea  è  superficie,  come  la  linea  movendosi  può  essere 
superficie;  cossi  quella  superficie  è  mossa  et  è  fatta  corpo:  come 
la  superficie  può  moversi  e  con  il  suo  flusso  può  farsi  corpo.  È  [275] 
necessario  dumque  che  il  punto  ne  l'infinito  non  differisca  dal 
corpo:  per  che  il  punto  scorrendo  da  l'esser  punto  si  fa  linea; 
scorrendo  da  l'esser  linea  si  fa  superficie;  scorrendo  da  l'esser 
superficie,  si  fa  corpo:  il  punto  dumque  perché  è  in  potenza  ad 
esser  corpo,  non  differisce  da  l'esser  corpo  dove  la  potenza  e 
l'atto  è  una  medesima  cosa.  Dumque  l'individuo  non  è  diffe- 
rente dal  dividuo,  il  simplicissimo  da  l'infinito,  il  centro  da  la 
circonferenza. 

Perché  dumque  l'infinito  è  tutto  quello  che  può  essere,  è  in- 

8.  Cfr.  la  Proemiale  epistola,  p.  605,  nota  52. 

9.  Cfr.  Dialogo  terzo,  p.  694. 


728  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

mobile.  Perché  in  lui  tutto  è  indifferente,  è  uno;  e  perché  ha 
tutta  la  grandezza  e  perfezzione  che  si  possa  oltre  et  oltre  avere, 
è  massimo  et  ottimo  immenso. 

Se  il  punto  non  differisce  dal  corpo,  il  centro  da  la  circonfe- 
renza, il  finito  da  l'infinito,  il  massimo  dal  minimo,  sicura- 
mente possiamo  affirmare  che  l'universo  è  tutto  centro,  o  che  il 
centro  de  l'universo  è  per  tutto;  e  che  la  circunferenza  non  è  in 
parte  alcuna  1°,  per  quanto  è  differente  dal  centro;  o  pur  che  la 
circonferenza  è  per  tutto,  ma  il  centro  non  si  trova  in  quanto 
che  è  differente  da  quella.  Ecco  come  non  è  impossibile,  ma 
necessario  che  l'ottimo,  massimo,  incomprehensibile,  è  tutto,  è 
per  tutto,  è  in  tutto:  perché  come  semplice  et  indivisibile  può 
esser  tutto,  esser  per  tutto,  essere  in  tutto.  E  cossi  non  è  stato 
vanamente  detto  che  Giove  empie  tutte  le  cose,  inabita  tutte  le 
parti  de  l'universo,  è  centro  de  ciò  che  ha  l'essere:  uno  in  tutto, 
e  per  cui  uno  è  tutto".  Il  quale  essendo  tutte  le  cose  e  compren- 
dendo tutto  l'essere  in  sé,  viene  a  far  che  ogni  cosa  sia  in  ogni 
[277]  cosa.  Ma  mi  direste:  perché  dumque  le  cose  si  cangiano,  la  ma- 
teria particulare  si  forza  ad  altre  forme?  Vi  rispondo,  che  non  è 
mutazione  che  cerca  altro  essere,  ma  altro  modo  di  essere.  E 
questa  è  la  differenza  tra  l'universo  e  le  cose  de  l'universo: 
perché  quello  comprende  tutto  lo  essere  e  tutti  modi  di  essere; 
di  queste  ciascuna  ha  tutto  l'essere,  ma  non  tutti  i  modi  di  es- 
sere. E  non  può  attualmente  aver  tutte  le  circostanze  et  acci- 
denti; perché  molte  forme  sono  incompossibili  in  medesimo 
soggetto,  o  per  essemo  '^  contrarie,  o  per  appartener  a  specie  di- 
verse: come  non  può  essere  medesimo  supposito  individuale 
sotto  accidenti  di  cavallo  et  uomo,  sotto  dimensioni  di  una 


10.  Definizione  pseudo-ermetica  di  Dio,  anticipata  nella  Proemiale  epistola, 
p.  606  e  nota  54;  cfr.  E  libro  dei  XXIV  Filosofi,  prop.  II,  ed.  a  cura  di  P.  Necchi, 
Genova,  1996,  pp.  28  e  segg.  È  lo  stesso  testo  citato  da  F.  Rabelais,  E  Terzo 
Libro  dei  fatti  e  detti  eroici  del  buon  Pantagruele,  XIII,  traduz.  di  G.  Nicoletti  in 
Id.,  Opere,  Torino,  voi.  I,  1963,  p.  467:  «...  l'infinita  sfera  intellettiva,  il  cui  cen- 
tro è  in  ogni  luogo  dell'universo,  la  circonferenza  in  nessuno  (cioè  Dio  secondo 
la  dottrina  di  Ermete  Trismegisto)».  Sul  tema,  fondamentale  D.  Mahnke, 
Unendliche  Sphàre  und  Allmittelpunkt,  Halle,  1937  {rist  Stuttgart,  1966). 

11.  Cfr.  Cleante,  Inno  a  Zeus,  in  A.-J.  Festugière,  La  révélation  d'Hermes 
Trismegiste,  II,  Le  Dieu  Cosmique,  Paris,  1949,  pp.  310-312.  Cfr.  Proemiale  epi- 
stola, p.  607,  nota  57,  nonché  G.  Bruno,  Spaccio,  Dialogo  primo,  p.  251:  «La 
unità  è  nel  numero  infinito,  ed  il  numero  infinito  nell'unità». 

12.  Forma  d'infinito  coniugato. 


DIALOGO  QUINTO  729 

pianta  et  uno  animale'^.  Oltre,  quello  comprende  tutto  lo  essere 
totalmente,  perché  estra  et  oltre  lo  infinito  essere,  non  è  cosa 
che  sia:  non  avendo  estra  né  oltra;  di  queste  poi  ciascuna  com- 
prende tutto  lo  essere,  ma  non  totalmente,  perché  oltre  cia- 
scuna, sono  infinite  altre.  Però  intendete  tutto  essere  in  tutto; 
ma  non  totalmente  et  omnimodamente  in  ciascuno.  Però  inten- 
dete come  ogni  cosa  è  una;  ma  non  unimodamente.  Però  non 
falla  chi  dice  uno  essere  lo  ente,  la  sustanza  e  l'essenza;  il  quale 
come  infinito  et  interminato,  tanto  secondo  la  sustanza,  quanto 
secondo  la  durazione,  quanto  secondo  la  grandezza,  quanto  se- 
condo il  vigore,  non  ha  raggione  di  principio  né  di  principiato: 
perché  concorrendo  ogni  cosa  in  unità  et  identità,  dico  mede- 
simo essere,  viene  ad  avere  raggione  absoluta  e  non  respettiva. 
Ne  l'uno  infinito,  inmobile,  che  è  la  sustanza,  che  è  lo  ente,  se 
vi  trova  la  moltitudine,  il  numero,  che  per  essere  modo  e  molti- 
formità  de  lo  ente,  la  quale  viene  a  denominar  cosa  per  cosa,  non  [279] 
fa  per  questo  che  lo  ente  sia  più  che  uno:  ma  moltimodo  e  mol- 
tiforme  e  moltifigurato.  Però  profondamente  considerando  con 
gli  filosofi  naturali,  lasciando  i  logici  ne  le  lor  fantasie,  troviamo 
che  tutto  lo  che  ^"^  fa  differenza  e  numero,  è  puro  accidente,  è  pura 
figura,  è  pura  complessione:  ogni  produzzione  di  qualsivoglia 
sorte  che  la  sia  è  una  alterazione;  rimanendo  la  sustanza  sempre 
medesima,  perché  non  è  che  una,  uno  ente  divino,  immortale. 
Questo  lo  ha  possuto  intendere  Pitagora,  che  non  teme  la  morte 
ma  aspetta  la  mutazione '':  l'hanno  possuto  intendere  tutti  filo- 
sofi chiamati  volgarmente  fisici  ^^  che  niente  dicono  generarsi  se- 
condo sustanza  né  corrompersi:  se  non  vogliamo  nominar  in  que- 
sto modo  la  alterazione;  questo  lo  ha  inteso  Salomone,  che  dice 
non  esser  cosa  nova  sotto  il  sole:  ma  quel  che  è,  fu  già  prima'''. 

13.  Cfr.  Dialogo  quarto,  p.  723,  nota  103,  la  testimonianza  di  Alberto  Ma- 
gno su  David  de  Dinant,  e  Avicebron,  Fons  Vitae,  I,  6-7. 

14.  Cfr.  lo  spagnolo  «lo  que». 

15.  Cfr.  Dialogo  secondo,  p.  665:  «Non  gli  corpi  né  l'anima  deve  temer  la 
morte,  perché  tanto  la  materia  quanto  la  forma  sono  principi  constantissimi». 

16.  Sono  i  filosofi  ionici  menzionati  da  Aristotele,  Phys.  Auscultai,  I,  3, 
187  a  12. 

17.  Cfr.  Ecclesiaste,  I,  9-10,  spesso  citato  da  Bruno,  ad  es.  nel  Dialogo  se- 
condo, p.  665.  Cfr.  A.  Mercati,  //  sommario  del  processo  di  Bruno,  Città  del 
Vaticano,  1942,  §  225,  p.  144;  E,  Canone,  G.  Bruno.  Gli  anni  napoletani  e  la 
«peregrinano»  europea.  Cassino,  1992,  pp.  121-122  e  p.  118,  figura  g  (autografo  di 
Bruno);  L.  Firpo,  Il  processo  di  G.  Bruno,  Roma,  1993,  Terzo  costituto,  p.  169. 


730  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Avete  dumque  come  tutte  le  cose  sono  ne  l'universo  e  l'universo 
è  in  tutte  le  cose,  noi  in  quello,  quello  in  noi:  e  cossi  tutto  con- 
corre in  una  perfetta  unità.  Ecco  come  non  doviamo  travagliarci 
il  spirto,  ecco  come  cosa  non  è  per  cui  sgomentar  ne  doviamo: 
perché  questa  unità  è  sola  e  stabile,  e  sempre  rimane:  questo  uno 
è  etemo;  ogni  volto,  ogni  faccia,  ogn'altra  cosa,  è  vanità,  è  come 
nulla,  anzi  è  nulla  tutto  lo  che  è  fuor  di  questo  uno. 

Quelli  filosofi  hanno  ritrovata  la  sua  amica  Sofia,  li  quali 
hanno  ritrovata  questa  unità.  Medesima  cosa  a  fatto  è  la  sofia, 
la  verità,  la  unità '^.  Hanno  saputo  tutti  dire  che  vero,  uno  et 
ente  son  la  medesima  cosa;  ma  non  tutti  hanno  inteso:  per  che 
altri  hanno  seguitato  il  modo  di  parlare,  ma  non  hanno  com- 
[281]  preso  il  modo  d'intendere  di  veri  sapienti.  Aristotele  tra  gli  al- 
tri, che  non  ritrovò  l'uno,  non  ritrovò  lo  ente,  e  non  ritrovò  il 
vero:  perché  non  conobe  come  uno  lo  ente;  e  benché  fusse  stato 
libero  di  prendere  la  significazione  de  lo  ente  comune  alla  su- 
stanza  e  l'accidente,  et  oltre  de  distinguere  le  sue  categorie  se- 
condo tanti  geni  e  specie,  per  tante  differenze:  non  ha  lasciato 
però  di  essere  non  meno  poco  aveduto  nella  verità,  per  non  pro- 
fondare alla  cognizione  di  questa  unità  et  indifferenza  de  la  co- 
stante natura  et  essere;  e  come  sofista  ben  secco,  con  maligne 
esplicazioni  e  con  leggiere  persuasioni,  pervertere  le  sentenze  de 
gli  antichi  et  opporsi  a  la  verità,  non  tanto  forse  per  imbecillità 
de  intelletto  quanto  per  forza  d'invidia  et  ambizione  1^. 

DicsoNO.  -  Sì  che  questo  mondo,  questo  ente,  vero,  universo, 
infinito,  inmenso,  in  ogni  sua  parte  è  tutto -'^:  tanto  che  lui  è  lo 
istesso  ubique^^.  Là  onde  ciò  che  è  ne  l'universo,  al  riguardo  de 
l'universo  (sia  che  si  vuole  a  rispetto  de  li  altri  particolari  cor- 
pi), è  per  tutto,  secondo  il  modo  della  sua  capacità:  perché  è 

18.  Cfr.  G.  Bruno,  Sfaccio,  Dialogo  secondo,  p.  255:  «uno  è  lo  ente,  buono  e 
vero;  medesimo  è  vero,  ente  e  buono»;  De  minimo,  I.  4,  w.  17-18,  Op.  lai.,  I,  3, 
p.  144:  «...  Deusque  est  /  Extans  totum,  infinitum,  verum.  omne,  bonum, 
unum»  (ed.  Monti  cit,  p.  102). 

19.  Cfr.  G.  Bruno,  Cabala,  p.  459,  le  opinioni  attribuite  ad  Onorio  {alias 
Aristotele):  «Cossi  malamente  e  scioccamente  riportando  le  opinioni  de  gli  an- 
tiqui, e  de  maniera  tal  sconcie,  che  né  manco  gli  fanciulli  e  le  insensate  vec- 
chie parlarebono  et  intenderebono  come  io  introduco  quelli  galantuomini  in- 
tendere e  parlare,  mi  venni  ad  intrudere  come  riformator  di  quella  disciplina 
della  quale  io  non  avevo  notizia  alcuna». 

20.  Si  veda  il  Dialogo  secondo,  p.  661.  nota  57. 

21.  «Dappertutto». 


DIALOGO  QUINTO  73 1 

sopra,  è  sotto,  infra,  destro,  sinistro,  e  secondo  tutte  differenze 
locali:  perché  in  tutto  lo  infinito  son  tutte  queste  differenze,  e 
nulla  di  queste.  Ogni  cosa  che  prendemo  ne  l'universo,  perché 
ha  in  sé  quello  che  è  tutto  per  tutto,  comprende  in  suo  modo 
tutta  l'anima  del  mondo  (benché  non  totalmente  come  già  ab- 
biamo detto)22,  la  quale  è  tutta  in  qualsivoglia  parte  di  quello. 
Però  come  lo  atto  è  uno,  e  fa  uno  essere  ovumque  lo  sia,  cossi 
nel  mondo  non  è  da  credere  che  sia  pluralità  di  sustanza  e  di 
quello  che  veramente  è  ente.  Appresso  so  che  avete  come  cosa 
manifesta,  che  ciascuno  di  tutti  questi  mondi  innumerabili  che  [283] 
noi  veggiamo  ne  l'universo-^,  non  sono  in  quello  tanto  come  in 
un  luogo  continente,  e  come  in  uno  intervallo  e  spacio:  quanto 
come  in  uno  comprensore,  conservatore,  motore,  efficiente^-*;  il 
quale  cossi  tutto  vien  compreso  da  ciascuno  di  questi  mondi, 
come  l'anima  tutta  da  ciascuna  parte  del  medesimo.  Però 
benché  un  particolare  mondo  si  muova  verso  e  circa  l'altro, 
come  la  terra  al  sole  e  circa  il  sole,  niente  di  meno  al  rispetto 
dell'universo  nulla  si  muove  verso  né  circa  quello:  ma  in 
quello. 

Oltre  volete  che  sicome  l'anima  (anco  secondo  il  dir  comune) 
è  in  tutta  la  gran  mole  a  cui  dà  l'essere,  et  insieme  insieme  è 
individua,  e  per  tanto  medesimamente  è  in  tutto  et  in  qualsi- 
voglia parte  intieramente,  cossi  la  essenza  de  l'universo  è  una 
nell'infinito  et  in  qualsivoglia  cosa  presa  come  membro  di 
quello:  sì  che  a  fatto  il  tutto  et  ogni  parte  di  quello  viene  ad 
esser  uno  secondo  la  sustanza.  Onde  non  essere  inconveniente- 
mente  detto  da  Parmenide^',  uno,  infinito,  immobile  (sia  che  si 
vuole  della  sua  intenzione,  la  quale  è  incerta,  riferita  da  non 
assai  fidel  relatore) ^6.  Dite  che  quel  tutto  che  si  vede  di  diffe- 
renza ne  gli  corpi  quanto  alle  formazioni,  complessioni,  figure, 
colori  et  altre  proprietadi  e  communitadi,  non  è  altro  che  un 
diverso  volto  di  medesima  sustanza;  volto  labile,  mobile,  corrot- 

22.  Cfr.  supra  pp.  728-729. 

23.  Sta  parlando  degli  astri. 

24.  Cfr.  G.  Bruno,  Acrotismus,  art:.  XXVIII,  Op.  lat,  I,  i,  pp.  123-125. 

25.  In  realtà  questa  opinione  è  di  Melisso  (criticato  da  Aristotele,  Phys. 
Auscultai,  I,  3,  185  b  17-18;  III,  6,  207  a  15  e  segg.);  G.  Bruno,  De  minimo,  I,  4,  Op. 
lai.,  I,  3,  p.  145  (ed.  Monti  cit,  p.  102)  attribuirà  a  Senofane  la  teoria  della  sfera 
infinita. 

26.  Allusione  ad  Aristotele,  Metaph.,  I,  5,  986  b. 


732  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

tibile,  di  uno  inmobile,  perseverante  et  etemo  essere;  in  cui  son 
tutte  forme,  figure  e  membri:  ma  indistinti  e  come  agglomerati, 
non  altrimente  che  nel  seme,  nel  quale  non  è  distinto  il  braccio 
da  la  mano,  il  busto  dal  capo,  il  nervo  dal  osso:  la  qual  distin- 

[285]  zione  e  sglomeramento,  non  viene  a  produre  altra  e  nuova  su- 
stanza;  ma  viene  a  ponere  in  atto  e  compimento  certe  qualitadi, 
differenze,  accidenti  et  ordini  circa  quella  sustanza. 

E  quel  che  si  dice  del  seme  al  riguardo  de  le  membra  de  gli 
animali,  medesimo  si  dice  del  cibo  al  riguardo  de  l'esser  chilo, 
sangue,  flemma,  carne,  seme;  medesimo  di  qualch'altra  cosa  che 
precede  l'esser  cibo  o  altro;  medesimo  di  tutte  cose,  montando 
da  l'infimo  grado  della  natura,  sino  al  supremo  di  quella,  mon- 
tando da  l'università  fisica  conosciuta  da  filosofi,  alla  altezza 
dell'archetipa  creduta  da  teologi,  se  ti  piace:  sin  che  si  dovenga 
ad  una  originale  et  universale  sustanza  medesima  del  tutto,  la 
quale  si  chiama  lo  ente,  fondamento  di  tutte  specie  e  forme  di- 
verse. Come  ne  l'arte  fabrile^^  è  una  sustanza  di  legno,  soggetta 
a  tutte  misure  e  figure,  che  non  son  legno,  ma  di  legno,  nel  le- 
gno, circa  il  legno.  Però  tutto  quello  che  fa  diversità,  di  geni, 
di  specie,  differenze,  proprietadi,  tutto  che  consiste  nella  gene- 
razione, corrozzione,  alterazione  e  cangiamento,  non  è  ente,  non 
è  essere:  ma  condizione  e  circostanza  di  ente  et  essere,  il  qua- 
le è  uno,  infinito,  immobile,  soggetto,  materia,  vita,  anima,  vero 
e  buono.  Volete  che  per  essere  lo  ente  indivisibile  e  semplicis- 
simo perché  è  infinito,  et  atto  tutto  in  tutto,  e  tutto  in  ogni  par- 
te^^  (in  modo  che  diciamo  parte  nello  infinito,  non  parte  dello 
infinito),  non  possiamo  pensar  in  modo  alcuno,  che  la  terra  sia 
parte  dello  ente,  il  sole  parte  della  sustanza:  essendo  quella  im- 
partibile;  ma  sì  bene  è  lecito  dire,  sustanza  della  parte,  o  pur 
meglio  sustanza  nella  parte.  Cossi  come  non  è  lecito  dire  parte 

[287I  dell'anima  esser  nel  braccio,  parte  dell'anima  esser  nel  capo:  ma 
sì  bene  l'anima  nella  parte  che  è  il  capo,  la  sustanza  della  parte 
o  nella  parte  che  è  il  braccio;  perché  lo  essere  porzione,  parte, 
membro,  tutto,  tanto,  quanto,  maggiore,  minore,  come  questo, 
come  quello,  di  questo,  di  quello,  concordante,  differente  e  di 

27.  Nella  sua  traduzione  di  Vitruvio  (Perugia,  1536,  f.  91'''),  G.  B.  Caporali 
rende  così  questo  aggettivo:  «legname  fabrile  cioè  da  fabbricare  o  lavorare». 

28.  Cfr.  Dialogo  secondo,  p.  661,  nota  57. 


DIALOGO  QUINTO  733 

altre  raggioni  che  non  significano  uno  assoluto,  e  però  non  si 
possono  riferire  alla  sustanza,  a  l'uno,  a  l'ente,  ma  per  la  su- 
stanza,  nell'uno  e  circa  lo  ente,  come  modi,  raggioni  e  forme: 
cossi  come  comunmente  si  dice  circa  una  sustanza  essere  la 
quantità,  qualità,  relazione,  azzione,  passione  et  altri  circostanti 
geni;  talmente  ne  l'uno  ente  summo,  nel  quale  è  indifferente 
l'atto  dalla  potenza,  il  quale  può  essere  tutto  assolutamente,  et  è 
tutto  quello  che  può  essere;  è  complicatamente  uno,  inmenso, 
infinito,  che  comprende  tutto  lo  essere:  et  è  esplicatamente  in 
questi  corpi  sensibili,  et  in  la  distinta  potenza  et  atto  che  veg- 
giamo  in  essi.  Però  volete  che  quello  che  è  generato  e  genera  (o 
sia  equivoco  o  univoco  agente  come  dicono  quei  che  volgar- 
mente filosofano)^'^  e  quello  di  che  si  fa  la  generazione ^o,  sem- 
pre sono  di  medesima  sustanza.  Per  il  che  non  vi  sonarà  mal  ne 
l'orecchio  la  sentenza  di  Eraclito ^i,  che  disse  tutte  le  cose  essere 
uno,  il  quale  per  la  mutabilità  ha  in  sé  tutte  le  cose;  e  perché 
tutte  le  forme  sono  in  esso,  conseguentemente  tutte  le  diffini- 
zioni  gli  convegnono:  e  per  tanto  le  contradittorie  enunciazioni 
son  vere.  E  quello  che  fa  la  moltitudine  ne  le  cose,  non  è  lo 
ente,  non  è  la  cosa:  ma  quel  che  appare,  che  si  rapresenta  al 
senso  et  è  nella  superficie  della  cosa^^.  [289] 

Teofilo.  -  Cossi  è.  Oltre  questo,  voglio  che  apprendiate  più 
capi  di  questa  importantissima  scienza  e  di  questo  fondamento 
solidissimo  de  le  veritadi  e  secreti  di  natura.  Prima  dumque 
voglio  che  notiate  essere  una  e  medesima  scala,  per  la  quale 
la  natura  descende  alla  produzzion  de  le  cose,  e  l'intelletto 

29.  Al  modo  degli  scolastici,  Bruno  traduce  qui  con  «univoco»  ed  «equivo- 
co» i  termini  aristotelici  ónibvvfiov  e  o^)vó)v^)^ov  (sono  «omonime»  le  cose  che 
hanno  come  sola  caratteristica  comune  il  nome  ma  non  la  definizione  corri- 
spondente al  nome;  sono  «sinonime»  quelle  che  hanno  in  comune  il  nome  e  la 
definizione;  cfr.  Aristotele,  Categoriae,  I,  i  a  i,  traduz.  di  M.  Zanatta,  Milano, 
1989,  p.  301).  Si  veda  l'impiego  fatto  da  Bruno  dell'avverbio  univocamente  in 
De  l'infinito.  Dialogo  quinto. 

30.  In  termini  aristotelici,  «quello  di  che  si  fa  la  generazione»  è  la  materia; 
«quello  che  genera»,  è  la  causa;  «quello  che  è  generato»  è  il  «composto»  che 
nasce  quando  la  causa  trae  dalla  materia  il  nuovo  essere. 

31.  Per  «la  sentenza  di  Eraclito»  si  veda  H.  Diels,  Die  Fragmente  der  Vor- 
sokratiker,  Berlin,  1903,  12  B  io  (e  cfr.  I  Presocratici.  Testimonianze  e  frammenti, 
a  cura  di  G.  Giannantoni,  Bari,  1969,  I,  p.  198).  Cfr.  inoltre  Aristotele,  Phys. 
Auscultata  I,  3,  185  a  7,  b  20;  III,  5,  205  a  3.  Si  accusava  Eraclito  di  aver  voluto 
vanificare  il  principio  del  terzo  escluso. 

32.  Cfr.  David  di  Dinant,  in  Alberto  Magno,  Physica,  I,  2,  art.  io:  «et  con- 
tradictoria  sunt  simul  vera,  si  appareat  unum  uni,  et  alterum  alteri:  quia  cum 
materia  una  sit,  id  quod  agit  pluritatem,  non  est  vere  ens,  sed  esse  videtur». 


734  ^^  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ascende  alla  cognizion  di  quelle;  e  che  l'uno  e  l'altra  da  l'unità 
procede  all'unità,  passando  per  la  moltitudine  di  mezzi.  Lascio 
che  con  il  suo  modo  di  filosofare  gli  Peripatetici  e  molti  Plato- 
nici alla  moltitudine  de  le  cose,  come  al  mezzo,  fanno  procedere 
il  purissimo  atto  da  uno  estremo,  e  la  purissima  potenza  da  l'al- 
tro ^^.  Come  vogliono  altri'-*  per  certa  metafora  convenir  le  tene- 
bre e  la  luce  alla  constituzione  de  innumerabili  gradi  di  forme, 
effigie,  figure  e  colori.  Appresso  i  quali,  che  considerano  dui 
principii  e  dui  principi '5,  soccorreno  altri  nemici  et  impazienti 
di  poliarchia ^^  e  fanno  concorrere  que'  doi  in  uno,  che  medesi- 
mamente è  abisso  e  tenebra,  chiarezza  e  luce,  oscurità  profonda 
et  impenetrabile,  luce  superna  et  inaccessibile.  Secondo,  consi- 
derate che  l'intelletto  volendo  liberarse  e  disciòrse  dall'imagina- 
zione alla  quale  è  congionto,  oltre  che  ricorre  alle  matematiche 
et  imaginabili  figure,  a  fin  che  o  per  quelle  o  per  la  similitudine 
di  quelle  comprenda  l'essere  e  la  sustanza  de  le  cose,  viene  an- 
cora a  riferire  la  moltitudine  e  diversità  di  specie  a  una  e  me- 
desima radice:  come  Pitagora  che  puose  gli  numeri  principii 
specifici  de  le  cose,  intese  fundamento  e  sustanza  di  tutti  la 
unità;  Platone  et  altri  che  puosero  le  specie  consistenti  nelle  fi- 
gure, di  tutti  il  medesimo  ceppo  e  radice  intesero  il  punto  come 
[291]  sustanza  e  geno  universale":  e  forse  le  superficie  e  figure  son 
quelle  che  al  fine  intese  Platone  per  il  suo  «magno»,  et  il  punto 
et  atomo  è  quello  che  intese  per  il  suo  «  parvo  »^^  gemini  prin- 
cipii specifici  de  le  cose,  i  quali  poi  si  riducono  ad  uno,  come 

33.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  II,  i,  193  a  28  e  segg.;  Platone,  Ti- 
maeus,  35  a. 

34.  Gli  gnostici. 

35.  Vale  a  dire  il  principio  della  luce  e  il  principio  delle  tenebre,  che  presso 
gli  gnostici  erano  personificati  da  un  arconte  («principe»)  della  luce  e  da  un 
arconte  delle  tenebre. 

36.  David  di  Dinant  e  Bruno  stesso. 

37.  Bruno  interpreta  qui  Platone,  Timaeus,  53  e  e  segg.  Cfr.  N.  Cusano, 
De  docta  ignorantia,  I,  11,  ed.  Federici- Vescovi  ni  cit.  p.  73:  «Nonne  Pythagoras, 
primus  et  nomine  et  re  philosophus,  omnem  veritatis  inquisitionem  in  nume- 
ris  posuit?  Quem  Platonici  et  nostri  etiam  primi  in  tantum  secuti  sunt,  ut...» 
(«Forse  che  Pitagora,  primo  filosofo  di  nome  e  di  fatto,  non  pose  nei  numeri 
tutta  la  ricerca  della  verità?  Lo  seguirono  i  Platonici  e  i  nostri  primi  mae- 
stri...»); G.  Bruno,  Sigillus  sigillorum,  II,  4,  «De  mathesi»,  Op.  lai.,  II.  2,  p.  197: 
«Ideoque  Pythagoras,  Plato,  et  omnes,  qui  res  profundas  atque  difficiles  nobis 
sunt  insinuare  conati,  aliis  quam  mathematicis  mediis  non  usquam  usi  sunt». 

38.  Cfr.  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  Ili,  4,  203  a  15-16:  «Platone  dice  che 
gli  infiniti  sono  due:  il  grande  e  il  piccolo». 


DIALOGO  QUINTO  735 

Ogni  dividuo  a  l'individuo.  Que'  dumque  che  dicono  il  princi- 
pio sustanziale  esser  l'uno,  vogliono  che  le  sustanze  son  come  i 
numeri;  gli  altri  che  intendeno  il  principio  sustanziale  come  il 
punto,  vogliono  le  sustanze  de  cose  essere  come  figure:  e  tutti 
convegnono  con  ponere  un  principio  individuo.  Ma  meglior  e 
più  puro  è  il  modo  di  Pitagora  che  quel  di  Platone,  perché  la 
unità  è  causa  e  raggione  della  individuità  e  puntalità,  et  è  un 
principio  più  absoluto  et  accomodabile  a  l'universo  ente. 

Gervasio.  —  Perché  Platone,  che  venne  appresso,  non  fece 
similmente  né  meglio  che  Pitagora? 

Teofilo.  —  Perché  volse  più  tosto  dicendo  peggio  e  con  men 
comodo  et  appropriato  modo,  esser  stimato  maestro,  che  di- 
cendo megliormente  e  meglio,  farsi  riputar  discepolo.  Voglio 
dire  che  il  fine  de  la  sua  filosofia  era  più  la  propria  gloria,  che 
la  verità:  atteso  che  non  posso  dubitar  che  lui  sapesse  molto 
bene  che  il  suo  modo  era  appropriato  più  alle  cose  corporali  e 
corporalmente  considerate;  e  quell'altro  non  meno  accomodato 
et  appropriabile  a  queste,  che  a  tutte  l'altre  che  la  raggione, 
l'imaginazione,  l'intelletto,  l'una  e  l'altra  natura  sapesse  fabri- 
care.  Ogniuno  confessarà  che  non  era  occolto  a  Platone  che  la 
unità  e  numeri  necessariamente  essaminano  e  donano  raggione 
di  punto  e  figure;  e  non  sono  essaminati  e  non  prendeno  rag- 
gione da  figure  e  punti  necessariamente,  come  la  sustanza  di-  [293] 
mensionata  e  corporea  depende  dall'incorporea  et  individua:  ol- 
tre che  questa  è  absoluta  da  quella,  perché  la  raggione  di  nu- 
meri si  trova  senza  quella  de  misura,  ma  quella  non  può  essere 
absoluta  da  questa,  perché  la  raggione  di  misure  non  si  trova 
senza  quella  di  numeri.  Però  la  aritmetrica^''  similitudine  e  pro- 
porzione, è  più  accomodata  che  la  geometrica  per  guidarne,  per 
mezzo  de  la  moltitudine,  alla  contemplazione  et  apprensione  di 
quel  principio  indivisibile,  che  per  essere  unica  e  radicai  su- 
stanza di  tutte  cose,  non  è  possibile  ch'abbia  un  certo  e  deter- 
minato nome''",  e  tal  dizzione  che  significhe  più  tosto  positiva 

39.  Forma  napoletana  (già  incontrata  nella  Proemiale  epistola,  p.  601). 

40.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  I,  24,  ed.  Federici-Vescovini  cit., 
p.  98:  «Nam  manifestum  est,  cum  maximum  sit  ipsum  maximum  simpliciter, 
cui  nihil  opponitur,  nullum  nomen  ei  proprie  posse  convenire  ...  Ubi  vero  om- 
nia sunt  unum,  nullum  nomen  proprium  esse  potest.  Unde  recte  ait  Hermes 
Trismegistus:  "Quoniam  Deus  est  universitas  rerum,  tunc  nullum  nomen  prò- 


736  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

che  privativamente:  e  però  è  stato  detto  da  altri  «punto»,  da 
altri  «unità»,  da  altri  «infinito»,  e  secondo  varie  raggioni  simili 
a  queste.  Aggiungi  a  quel  che  è  detto  che  quando  l'intelletto 
vuol  comprendere  l'essenzia  di  una  cosa,  va  simplificando 
quanto  può:  voglio  dire,  dalla  composizione  e  moltitudine  se 
ritira  rigittando  gli  accidenti  corrottibili,  le  dimensioni,  i  segni, 
le  figure,  a  quello  che  sottogiace  a  queste  cose.  Cossi  la  lunga 
scrittura  e  prolissa  orazione  non  intendemo,  se  non  per  contraz- 
zione  ad  una  semplice  intenzione:  l'intelletto  in  questo  dimo- 
stra apertamente  come  ne  l'unità  consista  la  sustanza  de  le  cose, 
la  quale  va  cercando  o  in  verità  o  in  similitudine.  Credi,  che 
sarebbe  consummatissimo  e  perfettissimo  geometra  quello  che 
potesse  contraere  ad  una  intenzione  sola  tutte  le  intenzioni  di- 
sperse ne'  principii  di  Euclide;  perfettissimo  logico  chi  tutte  le 
intenzioni  contraesse  ad  una.  Quindi  è  il  grado  delle  intelli- 
genze: per  che  le  inferiori  non  possono  intendere  molte  cose,  se 
[295]  non  con  molte  specie,  similitudini  e  forme.  Le  superiori  inten- 
deno  megliormente  con  poche.  Le  altissime  con  pochissime  per- 
fettamente. La  prima  intelligenza  in  una  idea  perfettissima- 
mente comprende  il  tutto.  La  divina  mente  e  la  unità  assoluta, 
senza  specie  alcuna,  è  ella  medesimo  lo  che  intende  e  lo  che  [è] 
inteso.  Cossi  dumque  montando  noi  alla  perfetta  cognizione, 
andiamo  complicando  la  moltitudine:  come  descendendosi  alla 
produzzione  de  le  cose,  si  va  esplicando  la  unità.  Il  descenso  è  da 
uno  ente  ad  infiniti  individui  e  specie  innumerabili:  lo  ascenso  è 
da  questi  a  quello.  Per  conchiudere  dumque  questa  seconda  con- 
siderazione, dico  che  quando  aspiriamo  e  ne  forziamo  al  princi- 
pio e  sustanza  de  le  cose,  facciamo  progresso  verso  la  indivisibi- 
lità: e  giamai  credemo  esser  gionti  al  primo  ente,  et  universal 
sustanza,  sin  che  non  siamo  arrivati  a  quell'uno  individuo,  in  cui 
tutto  si  comprende.  Tra  tanto,  non  più  credemo  comprendere  di 
sustanza  e  di  essenza,  che  sappiamo  comprendere  di  indivisibi- 
lità. Quindi  i  Peripatetici  e  Platonici,  infiniti  individui  riducano 
ad  una  individua  raggione  di  molte  specie;  innumerabili  specie 
comprendono  sotto  determinati  geni,  quali  Archita  primo  volse 

prium  est  eius"»  («È  evidente  che  nessun  nome  può  convenire  al  massimo,  in 
quanto  è  il  massimo  assoluto  cui  niente  si  oppone  ...  Là  dove  invece  tutte  le 
cose  sono  uno,  nessun  nome  è  appropriato.  Ermete  Trismegisto  disse  giusta- 
mente: "Poiché  Dio  è  l'universalità  delle  cose,  nessun  nome  gli  è  proprio"»). 


DIALOGO  QUINTO  737 

che  fussero  diece''';  determinati  geni  ad  uno  ente,  una  cosa;  la 
qual  cosa,  et  ente,  è  compresa  da  costoro  come  un  nome  e  diz- 
zione,  et  una  logica  intenzione,  et  in  fine  una  vanità;  perché  trat- 
tando fisicamente  poi,  non  conosceno  uno  principio  di  realità  et 
essere  di  tutto  quel  che  è,  come  una  intenzione  e  nome  comune  a 
tutto  quel  che  si  dice  e  si  comprende:  il  che  certo  è  accaduto  per 
imbecillità  di  intelletto.  [297] 

Terzo,  devi  sapere  che  essendo  la  sustanza  et  essere  distinto  et 
assoluto  da  la  quantità,  e  per  conseguenza  la  misura  e  numero 
non  è  sustanza  ma  circa  la  sustanza,  non  ente  ma  cosa  di  ente, 
aviene  che  necessariamente  doviamo  dire  la  sustanza  essenzial- 
mente essere  senza  numero ""^  e  senza  misura,  e  però  una  et  indi- 
vidua in  tutte  le  cose  particolari,  le  quali  hanno  la  sua  particu- 
larità  dal  numero,  ciò  è  da  cose  che  sono  circa  la  sustanza.  Onde 
chi  apprende  Polihimnio,  come  Polihimnio,  non  apprende  su- 
stanza particolare,  ma  sustanza  nel  particolare  e  nelle  differenze 
che  son  circa  quella,  la  quale  per  esse  viene  a  ponere  questo  uo- 
mo in  numero  e  moltitudine  sotto  una  specie.  Qua  come  certi 
accidenti  umani  fanno  moltiplicazione  di  questi  chiamati  indi- 
vidui dell'umanità,  cossi  certi  accidenti  animali  fanno  moltipli- 
cazione di  queste  specie  dell'animalità.  Parimente  certi  accidenti 
vitali  fanno  moltiplicazione  di  questo  animato  e  vivente.  Non 
altrimente  certi  accidenti  corporei  fanno  moltiplicazione  di  cor- 
poreità. Similmente  certi  accidenti  di  sussistenza  fanno  moltipli- 
cazione di  sustanza.  In  tal  maniera  certi  accidenti  di  essere  fanno 
moltiplicazione  di  entità,  verità,  unità,  ente,  vero,  uno. 

Quarto,  prendi  i  segni  e  le  verificazioni  per  le  quali  conchiu- 
der vogliamo  gli  contrarii  concorrere  in  uno''^;  onde  non  fìa  dif- 

41.  Le  dieci  categorie  dello  pseudo-Archita  (cfr.  Architae  Tarentini  Decem 
Praedicamenta,  Dominico  Pizimentio  Vihonensi  interprete,  Venetiis,  1561)  sono 
menzionate  da  Bruno  pure  nel  De  compendiosa  architedura,  Op.  lai.,  II,  2,  p.  60, 
ma  è  probabile  che  non  abbia  conosciuto  l'edizione  citata  e  che  si  rifacesse  alle 
Categoriae  di  Simplicio.  Cfr.  Boezio,  In  Praedicamenta  Aristotelis,  I,  in  Opera  om- 
nia, Basileae,  1570,  p.  114:  «Archites  etiam  duo  composuit  libros  quos  xadó)iOi)c 
^.óyouc;  [sic]  inscripsit,  quorum  in  primo  haec  praedicamenta  disposuit».  Sullo 
pseudo-Archita,  cfr.  G.  Reale,  Storia  della  filosofia  antica,  voi.  V,  Milano,  1989"*, 
(voci:  Archita  e  Mediopitagorici,  pp.  316  e  423).  Dei  KuOóXixoi  Xóyoi  óÉxa  esiste 
l'edizione  (con  importante  commento)  di  Th.  A.  Szlezàk,  Berlin,  1972. 

42.  Cfr.  N.  Cusano,  De  dacia  ignorantia,  I,  5,  ed.  Federici-Vescovini,  cit.,  pp. 

63-65- 

43.  Tema  d'ispirazione  cusaniana  (cfr.  Dialogo  primo,  p.  626,  nota  62;  qui, 
pp.  742-744  e  note). 


738  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

ficile  al  fine  inferire,  che  le  cose  tutte  sono  uno:  come  ogni  nu- 
mero tanto  pare  quanto  ìmpare,  tanto  finito  quanto  infinito,  se 
riduce  all'unità,  la  quale  iterata  con  il  finito  pone  il  numero,  e 
con  l'infinito  nega  il  numero-*"*.  I  segni  le  prenderai  dalla  mate- 
matica, le  verificazioni  da  le  altre  facultadi  morali  e  specula- 
[299]  tive.  Or  quanto  a'  segni.  Ditemi,  che  cosa  è  più  dissimile  alla 
linea  retta  che  il  circolo?  che  cosa  è  più  contrario  al  retto  che  il 
curvo?  pure  nel  principio  e  minimo  concordano  ^5-  atteso  che 
(come  divinamente  notò  il  Cusano,  inventor  di  più  bei  secreti 
di  geometria)  qual  differenza  trovarai  tu  tra  il  minimo  arco  e  la 
minima  corda? -^^  Oltre,  nel  massimo,  che  differenza  trovarai  tra 
il  circolo  infinito  e  la  linea  retta?  Non  vedete  come  il  circolo 
quanto  è  più  grande,  tanto  più  con  il  suo  arco  si  va  approssi- 
mando alla  rettitudine?"'''  chi  è  sì  cieco  che  non  veda  qualmente 
l'arco  BB,  per  esser  più  grande  che  l'arco  AA;  e  l'arco  CC  più 
grande  che  l'arco  BB;  et  l'arco  DD  più  che  gli  altri  tre:  riguar- 
dano ad  esser  parte  di  maggior  circolo,  e  con  questo  più  e  più 
avicinarsi  alla  rettitudine  della  linea  infinita  del  circolo  infinito 
significata  per  IKì-*^  Quivi  certamente  bisogna  dire  e  credere 
che,  sì  come  quella  linea  che  è  più  grande,  secondo  la  raggione 

44.  Cfr.  N.  Cusano,  De  doda  ignorantia,  I,  19,  ed.  Federici-Vescovini  cit 
pp.  88-90. 

45.  Cfr.  G.  Bruno.  Praelectiones  geometricae,  teorema  I,  ed.  a  cura  di  G. 
Aquilecchia,  Roma,  1964,  p.  22:  «Minimum  vero  quod  est  utriusque  mensura, 
ubi  de  recto  et  circulari  est  iudicandum,  non  distinguitur,  sed  unum  et  idem 
est  utriusque:  minimum  enim  quod  est  principium  recti  et  quod  est  princi- 
pium  curvi  idem  est». 

46.  Cfr.  Id.,  Articuli  adversus  mathemaiicos,  Op.  lat..  I,  3,  pp.  11,  27:  «Cen- 
trum,  minimus  arcus  et  minima  chorda  idem  sunt  et  aequalia  ...  Minimus  ar- 
cus  et  minima  chorda  non  differunt,  sicut  maximus  arcus  et  maxima  chorda 
idem  omnino  sunt». 

47.  Si  veda  la  figura  i.  Cfr.  N.  Cusano,  De  doda  ignorantia,  1, 18,  ed.  Federici- 
Vescovini  cit,  p.  86:  «Quare  quanto  curvum  est  minus  curvum,  ut  est  circumfe- 
rentia  maioris  circuii,  tanto  plus  participat  de  rectitudine»  («Perciò,  quanto  più 
il  curvo  è  meno  cun,'o  -  come  è  la  circonferenza  del  cerchio  maggiore  -  tanto  più 
partecipa  della  rettitudine»)  e  I,  12,  ed.  cit,  p.  75:  Id.,  De  mathematica  perfedione, 
Parisiis,  15 14,  voi.  II,  f.  CF  :  «Necesse  erit  igitur  me  recurrere  ad  visum  intellec- 
tualem,  qui  videt  minimam  sed  non  adsignabilem  chordam,  cum  minimo  arca 
coincidere»;  G.  Bruno,  De  minimo,  I,  4,  Op.  lat.,  I,  3,  p.  148  (ed.  Monti  cit, 
pp.  105-106);  Spaccio.  Dialogo  primo,  p.  198  (allude  a  Nicolò  Cusano). 

48.  Cfr.  G.  Bruno,  De  minimo,  I,  4,  fig.  2,  Qp.  lat.,  I,  3,  p.  148  (ed.  Monti  cit, 
p.  106).  Bruno  ricorre  a  un  simbolismo  geometrico  che,  attraverso  la  matema- 
tica cusaniana,  risale  alla  più  antica  tradizione  platonica  Questo  simbolismo  è 
conforme  al  metodo  seguito  dal  Nolano  negli  Articuli  adversus  mathemaiicos, 
nel  De  minima  e,  in  maniera  più  rigorosa,  nelle  Praelectiones  geometricae  e  nel- 
YArs  deformationum. 


DIALOGO  QUINTO 


739 


*— M ■■■ ■iiiwi  -•  ^^rtW»»»^->» 


X     /^ 


1 1  ri 


[FiG.  i] 


di  maggior  grandezza  è  anco  più  retta,  similmente  la  massima 
di  tutte  deve  essere  in  superlativo  più  di  tutte  retta:  tanto  che 
al  fine  la  linea  retta  infinita  vegna  ad  esser  circolo  infinito. 


740  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

Ecco  dumque  come  non  solamente  il  massimo  et  il  minimo 
convegnono  in  uno  essere,  come  altre  volte  abbiamo  dimo- 
strato, ma  ancora  nel  massimo  e  nel  minimo  vegnono  ad  essere 
uno  et  indifferente  gli  contrari'*^.  Oltre,  se  ti  piace  comparare  le 
specie  finite  al  triangolo  5°,  perché  dal  primo  finito  e  primo  ter- 
minato tutte  le  cose  finite  se  intendeno  per  certa  analogia  par- 
ticipare  la  finitudine  e  la  terminazione  (come  in  tutti  geni  li 
predicati  analogi  tutti  prendeno  il  grado  et  ordine  dal  primo  e 
massimo  di  quel  geno),  pertanto  che  il  triangolo  è  la  prima  fi- 
[301]  gura,  la  quale  non  si  può  risolvere  in  altra  specie  di  figura  più 
semplice  (come  per  il  contrario  il  quatrangolo  se  risolve  in 
triangoli)  e  però  è  primo  fondamento  di  ogni  cosa  terminata  e 
figurata:  trovarai  che  il  triangolo  come  non  si  risolve  in  altra 
figura,  similmente  non  può  procedere  in  triangoli,  di  quai  gli 
tre  angoli  sieno  maggiori  o  minori,  benché  sieno  varii  e  diversi, 
di  varie  e  diverse  figure,  quanto  alla  magnitudine  maggiore  e 
minore,  minima  e  massima.  Però  se  poni  un  triangulo  infinito 
(non  dico  realmente  et  assolutamente,  perché  l'infinito  non  ha 
figura:  ma  infinito  dico  per  supposizione,  e  per  quanto  angolo 
dà  luogo  a  quello  che  vogliamo  dimostrare),  quello  non  ara  an- 
golo maggiore  che  il  triangolo  minimo  finito,  non  solo  che  li 
mezzani  et  altro  massimo.  Lasciando  stare  la  comparazione  de 
figure  e  figure,  dico  di  triangoli  e  triangoli:  e  prendendo  angoli 
et  angoli,  tutti  (quantumque  grandi  e  piccioli)  sono  equali  come 
in  questo  quadro  appare 5',  il  quale  per  il  diametro  è  diviso  in 
tanti  triangoli:  dove  si  vede,  che  non  solamente  sono  uguali  li 
angoli  retti  di  quadrati  A,  B,  C,  ma  anco  tutti  gli  acuti  che  ri- 
sultano per  divisione  di  detto  diametro,  che  constituisce  tanti 
al  doppio  triangoli,  tutti  di  equali  angoli.  Quindi  per  similitu- 
dine molto  espressa  si  vede  come  la  una  infinita  sustanza  può 
essere  in  tutte  le  cose  tutta,  benché  in  altri  finita,  in  altri  infi- 
nitamente; in  questi  con  minore,  in  quelli  con  maggior  misura. 
Giongi  a  questo  (per  veder  oltre  che  in  questo  uno  et  infinito 

49.  Cfr.  N.  Cusano,  De  dada  tgnorantia,  I,  22,  ed.  Federici-Vescovini  cit, 
pp.  94-96:  Quomodo  Dei  providentia  contradictoria  unii  («In  che  modo  la  provvi- 
denza divina  unisce  i  contraddittori»). 

50.  Per  la  dimostrazione  che  segue,  cfr.  ivi,  I,  14,  ed.  cit,  pp.  78-79:  Quod 
infinita  linea  sit  triangolus  («La  linea  infinita  è  triangolo»). 

51.  Si  veda  la  figura  2. 


DIALOGO  QUINTO 


741 


li  contrarii  concordano)  ^2  che  lo  angolo  acuto  et  ottuso  sono 
dui  contrarii,  i  quali  non  vedi  qualmente  nascono  da  uno,  in-   [305] 
dividuo  e  medesimo  principio,  ciò  è  da  una  inclinazione  che  fa 


[FiG.  2] 


la  linea  perpendicolare  M,  che  si  congionge  alla  linea  iacente 
BD,  nel  punto  C?  Questa,  su  quel  punto,  con  una  semplice  in- 
clinazione verso  il  punto  D^^,  dopo  che  faceva  indifferente- 
mente angulo  retto  e  retto,  viene  a  fare  tanto  maggior  diffe- 
renza di  angolo  acuto  et  ottuso,  quanto  più  s'avicina  al  punto 
Z)54:  al  quale  essendo  gionta  et  unita,  fa  l'indifferenza  d'acuto 
et  ottuso,  similmente  annullandosi  l'uno  e  l'altro,  perché  sono 
uno  nella  potenza  di  medesima  linea.  Quella,  come  ha  possuto 


52.  Si  veda  la  figura  3.  Nella  traduz.  spagnola  della  Cena  (Madrid,  1994^, 
p.  28),  M.  A.  Granada  osserva  che  questo  diagramma,  utilizzato  nel  De  umbris 
[Op.  lat,  II,  I,  p.  38)  per  indicare  il  punto  di  convergenza  dell'intelletto,  del- 
l'anima e  della  materia,  è  ripreso  in  De  la  causa  per  illustrare  la  coincidentia 
oppositorum,  dunque  l'unità  ontologica. 

53.  Ma  sulla  figura  3,  l'inclinazione  è  verso  il  punto  C. 

54.  C  nell'edizione  1584:  ma  sulla  figura  3,  la  linea  si  avvicina  al  punto  B. 


742  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

unirsi  e  farsi  indifferente  con  la  linea  BD,  cossi  può  disunirsi  e 
farsi  differente  da  quella,  suscitando  da  medesimo,  uno  et  indi- 
viduo principio  i  contrariissimi  angoli,  che  sono  il  massimo 
acuto  e  massimo  ottuso:  sin  al  minimo  acuto  et  ottuso  minimo, 
et  oltre  all'indifferenza  di  retto,  e  quella  concordanza  che  con- 
siste nel  contatto  della  perpendicolare  e  iacente'^. 

Quanto  alle  verificazioni  poi,  chi  non  sa  primamente  circa  le 
qualitadi  attive  prime  della  natura  corporea,  che  il  principio 
del  calore  è  indivisibile,  e  però  separato  da  ogni  calore,  perché 
il  principio  non  deve  essere  cosa  alcuna  de  le  principiate?  Se  è 
cossi,  chi  deve  dubitare  di  affirmare  che  il  principio  non  è  caldo 
né  freddo,  ma  uno  medesimo  del  caldo  e  del  freddo? ^^  Onde 
aviene  che  un  contrario  è  principio  de  l'altro  5^,  e  che  però  le 
trasmutazioni  son  circolari,  se  non  per  essere  un  soggetto,  un 
principio,  un  termine,  et  una  continuazione  et  un  concorso  de 
l'uno  e  l'altro?  Il  minimo  caldo  et  il  minimo  freddo  non  son 
[307]  tutte  uno?  58  Dal  termine  del  massimo  calore,  non  si  prende  il 
principio  del  moto  verso  il  freddo?  Quindi  è  aperto  che  non 
solo  ocorreno  tavolta  i  dui  massimi  nella  resistenza,  e  li  dui 
minimi  nella  concordanza;  ma  etiam  il  massimo  et  il  minimo 
per  la  vicissitudine  di  trasmutazione:  onde  non  senza  caggione 
nell'ottima  disposizione  sogliono  temere  i  medici,  nel  supremo 
grado  della  felicità  son  più  timidi  gli  providi.  Chi  non  vede  uno 

55.  Cfr.  G.  Bruno,  De  minimo,  I,  4,  fig.  i,  «Coincidentia  anguli»,  Op.  lat,  I, 
3,  p.  147  (ed.  Monti  cit,  p.  105). 

56.  E  riferendosi  allo  stesso  argomento  che  Bruno  cita  Telesio  nel  De  im- 
menso, I,  9,  Op.  lat,  I,  I,  p.  289:  «Nullis  rationibus  usus,  /  Naturam  humentem 
asseruitque  Thelesius  ignem»  (ed.  Monti  cit,  p.  491:  «Telesio,  non  rifletten- 
do sufficientemente,  disse  umida  la  natura  del  fuoco»)  e  nel  De  monade,  V, 
«Natura  quatuor  elementorum  in  caelo»,  Op.  lat.,  I,  2,  p.  395  (ed.  Monti  cit, 
p.  352).  Si  veda  Dialogo  terzo,  pp.  676-677  e  note  31-33,  anche  per  la  biblio- 
grafia. Per  tutto  il  discorso  di  Teofilo,  fino  alla  conclusione  del  dialogo,  cfr. 
inoltre  N.  Cusano,  De  beryllo,  XXV  e  XXVI,  ed.  Federici-Vescovini  cit, 
pp.  668,  670-671  (cfr.  R.  Sturlese,  A''.  Cusano  e  gli  inizi  della  speculazione  del 
Bruno,  in:  Historia  Philosophiae  Medii  Aevi.  Studien  zur  Geschichte  der  Philo- 
sophie,  Festschrift  fùr  K.  Flasch,  a  cura  di  B.  Mojsisch  e  O.  Fiuta,  Amsterdam, 
1990). 

57.  Tale  formula  è  in  totale  contraddizione  con  Aristotele,  Phys.  Auscul- 
tai., I,  6,  189  a  23  e  segg. 

58.  La  finale  in  -e,  invece  che  in  -0,  sembra  un  esempio  dell'affievolirsi  della 
vocale  finale  in  conformità  con  la  fonetica  napoletana  (cfr.  Male  essempio  e 
delle  exequire  nello  Spaccio,  Dialogo  terzo,  pp.  345,  351,  mentre  lavare,  qui  nel 
Dialogo  secondo,  p.  654,  può  essere  una  forma  italiana  arcaica). 


DIALOGO  QUINTO 


743 


essere  il  principio  della  corrozzione  e  generazione?  l'ultimo  del 
corrotto,  non  è  principio  del  generato?  non  diciamo  insieme: 
tolto  quello,  posto  questo;  era  quello,  è  questo?  Certo  (se  ben 


[FiG.  3] 


misuramo)  veggiamo  che  la  corrozzione  non  è  altro  che  una  ge- 
nerazione; e  la  generazione  non  è  altro  che  una  corrozzione: 
l'amore  è  un  odio,  l'odio  è  uno  amore  al  fine.  L'odio  del  contra- 
rio è  amore  del  conveniente,  l'amor  di  questo  è  l'odio  di  quello. 
In  sustanza  dumque  e  radice,  è  una  medesima  cosa  amore  et 


744  l'È  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

odio,  amicizia  e  lite^^.  Da  onde  più  comodamente  cerca  l'antido- 
to il  medico,  che  dal  veleno? ^o  chi  porge  meglior  teriaca  che  la 
vipera? ''1  Ne'  massimi  veneni,  ottime  medecine^^.  Una  potenza 
non  e  di  dui  contrarii  oggetti?  or  onde  credi  che  ciò  sia,  se  non  da 
quel  che  cossi  uno  è  il  principio  de  l'essere,  come  uno  è  il  prin- 
cipio di  concepere  l'uno  e  l'altro  oggetto;  e  che  cossi  li  contrarii 
son  circa  un  soggetto,  come  sono  appresi  da  uno  e  medesimo  sen- 
so? Lascio  che  l'orbicolare  posa  nel  piano;  il  concavo  s'acqueta  e 
risiede  nel  convesso;  l'iracondo  vive  gionto  al  paziente.  Al  super- 
[311]  bissimo  massimamente  piace  l'umile;  a  l'avaro  il  liberale. 

In  conclusione  chi  vuol  sapere  massimi  secreti  di  natura,  ri- 
guardi e  contemple  circa  gli  minimi  e  massimi  de  gli  contrarii 
et  oppositi.  Profonda  magia  è  saper  trar  il  contrario,  dopo  aver 
trovato  il  punto  de  l'unione '^^.  A  questo  tendeva  con  il  pensiero 
il  povero  Aristotele  ponendo  la  privazione  (a  cui  è  congionta 
certa  disposizione)  come  progenitrice,  parente  e  madre  della  for- 
ma"^: ma  non  vi  potè  aggiungere,  non  ha  possuto  arrivarvi; 
perché  fermando  il  pie  nel  geno  de  l'opposizione,  rimase  incep- 
pato di  maniera,  che  non  descendendo  alla  specie  de  la  contra- 
rietà, non  giunse  né  fissò  gli  occhi  al  scopo:  dal  quale  errò  a 
tutta  passata,  dicendo  i  contrarii  non  posser  attualmente  conve- 
nire in  soggetto  medesimo. 

59.  Toma  Eraclito  con  la  sua  concezione  della  realtà  universale  come  dia- 
lettica di  Amore-Odio. 

60.  Cfr.  G.  Bruno,  Theses  de  Magia,  XXXI,  Op.  lat.  III,  p.  475:  «Et  in  proèmio 
libri  Physicorum  dicit  Averrhoès  consuetudinem  esse  maximam  causam,  ut  quae 
sunt  venena  non  tantum  vertantur  in  antidota,  sed  etiam  in  nutrimenta». 

61.  Cfr.  N.  A.  Stigliola,  Theriace  et  Mithridiata  libellus,  in  quo  harum  anti- 
dotorum  apparatus,  atque  usus  monstratur,  Neapoli,  1577  (l'autore  era  compa- 
triota e  contemporaneo  di  Bruno);  M.  Ficino,  De  vita  libri  tres,  «Epidemiarum 
Antidotus»,  Lugduni,  1567,  p.  363. 

62.  Espressione  proverbiale;  cfr.  Torriano,  Piazza  universale,  p.  299:  «Il  ve- 
leno si  scaccia  col  veleno»;  G.  Bruno,  De  rerum  principiis,  Op.  lat..  Ili,  pp.  549- 
550:  «In  summis  venenis  summae  medicinae»,  dove  si  cita  esplicitamente  que- 
sto passo  del  De  la  causa. 

63.  Bruno  contraddice  qui  Aristotele,  Phys.  Auscultai.,  I,  6,  189  a  12,  che 
afferma  che  gli  opposti  non  sono  una  sola  e  medesima  cosa. 

64.  Cfr.  Aristotele,  Metaph.,  I,  1055  b;  N.  Cusano,  De  beryllo,  XXV,  ed. 
Federici-Vescovini  cit.,  p.  668:  «Se  Aristotele  avesse  inteso  il  principio  che 
chiama  privazione,  come  quello  che  afferma  la  coincidenza  dei  contrari  e  che, 
privato  della  contrarietà  di  entrambi,  precede  la  dualità  necessaria  ai  contrari, 
lo  avrebbe  allora  compreso  bene.  Il  timore  di  affermare  che  i  contrari  ineri- 
scono simultaneamente  alla  medesima  cosa,  lo  privò  della  verità  di  questo 
principio.  Ma  siccome  ritenne  necessario  un  terzo  principio,  che  doveva  essere 
la  privazione,  ammise  la  privazione  senza  porla  come  tale  principio». 


DIALOGO  QUINTO  745 

PoLiHiMNio.  -  Alta,  rara  e  singularmente^^  avete  determi- 
nato del  tutto,  del  massimo,  de  l'ente,  del  principio,  de  l'uno. 
Ma  vi  vorei  veder  distinguere  de  l'unità,  perché  trovo  un  Vae 
soli'^'^.  Oltre  che  sento  grande  angoscia  per  quel  che  nel  mio 
marsupio  e  crumena  non  vi  alloggia  più  che  un  vedovo  so- 
lido «. 

Teofilo.  -  Quella  unità  è  tutto  la  quale  non  è  esplicata,  non 
è  sotto  distribuzione  e  distinzione  di  numero,  e  tal  singularità 
che  tu  intendereste  forse;  ma  che  è  complicante  e  compren- 
dente. 

PoLiHiMNio.  -  Exemplumì^^  Per  che  a  dire  il  vero  intendo, 
ma  non  capio^'^. 

Teofilo.  -  Come  il  denario  è  una  unità  similmente,  ma 
complicante,  il  centenario  non  meno  è  unità,  ma  più  compli- 
cante; il  millenario  non  è  unità  meno  che  l'altre,  ma  molto  più 
complicante.  Questo  che  ne  l'aritmetrica  vi  propone,  devi  più 
alta  e  semplicemente  intenderlo  ne  le  cose  tutte  ^o.  Il  sommo 
bene,  il  sommo  appetibile,  la  somma  perfezzione,  la  somma  [315] 
beatitudine,  consiste  nell'unità  che  complica  il  tutto.  Noi  ne  de- 
lettamo  nel  colore,  ma  non  in  uno  esplicato  qualumque  sia,  ma 
massime  in  uno  che  complica  tutti  colori.  Ne  delettamo  nella 
voce,  non  in  una  singulare,  ma  in  una  complicante  che  resulta 
da  l'armonia  di  molte.  Ne  delettamo  in  uno  sensibile,  ma  mas- 
sime in  quello  che  comprende  in  sé  tutti  sensibili:  in  uno  co- 
gnoscibile,  che  comprenda  ogni  cognoscibile;  in  uno  apprensi- 
bile, che  abbraccia  tutto  che  si  può  comprendere;  in  uno  ente, 
che  compiette  tutto ''i;  massime  in  quello  uno  che  è  il  tutto 

65.  Gruppo  avverbiale  aplologico  (sta  per  «altamente,  raramente  e  singolar- 
mente»). 

66.  «Guai  a  chi  è  solitario».  Cfr.  Ecclesiaste,  IV,  io. 

67.  Marsupio,  crumena,  solido  (da  «solidum»,  per  «soldo»):  il  linguaggio  del 
pedante  è  ricco  di  latinismi. 

68.  «Per  esempio?». 

69.  «Sono  attento  ma  non  comprendo». 

70.  Cfr.  N.  Cusano,  De  docta  ignorantia,  II,  6,  ed.  Federici-Vescovini  cit, 
pp.  124-126:  De  complicatione  et  gradibus  contractiones  universi  («La  complica- 
zione e  i  gradi  di  contrazione  dell'universo»). 

71.  Tutto  questo  brano  sul  colore,  la  voce,  il  «cognoscibile»  e  r«apprensi- 
bile»,  deriva  da  N.  Cusano,  De  beryllo,  XXXV,  ed.  Federici-Vescovini  cit, 
pp.  681-682  (come  ha  segnalato  R.  Sturlese  durante  il  convegno  Bernardino  Te- 
lesio  e  la  cultura  napoletana,  Napoli,  1989;  cfr.  G.  Aquilecchia,  Schede  bruniane, 
Manziana,  1993,  p.  306,  nota  2). 


746  DE  LA  CAUSA,  PRINCIPIO  ET  UNO 

istesso^^.  Come  tu  Polihimnio  ti  delettareste  più  ne  l'unità  di 
una  gemma  tanto  preziosa  che  contravalesse  a  tutto  l'oro  del 
mondo,  che  nella  moltitudine  di  migliaia  delle  migliaia  di  tai 
soldi,  di  quali  ne  hai  uno  in  borsa. 

Polihimnio.  -  Optime^K 

Gervasio.  -  Eccomi  dotto:  perché  come  chi  non  intende 
uno,  non  intende  nulla,  cossi  chi  intende  veramente  uno,  in- 
tende tutto;  e  chi  piiì  s'avicina  airintelligenza  dell'uno,  s'ap- 
prossima più  all'apprension  di  tutto. 

DicsONO.  —  Cossi  io,  se  ho  ben  compreso,  mi  parto  molto  ar- 
richito dalla  contemplazione  del  Teofilo,  fidel  relatore  della  no- 
lana filosofia. 

Teofilo.  -  Lodati  sieno  di  dèi,  e  magnificata  da  tutti  vi- 
venti la  infinita,  semplicissima,  unissima,  altissima  et  absolutis- 
sima  causa,  principio  et  uno"-^. 

Fine  de'  cinque  dialogi 
de  la  causa,  principio  et  uno 


72.  Cfr.  G.  Bruno,  De  l'infinito.  Dialogo  quinto,  p.  152:  «...  l'infinito  numero 
e  l'unità  coincideno;  et  il  summo  agente  e  potente  fare  il  tutto,  con  il  possibile 
esser  fatto  il  tutto,  coincideno  in  uno:  come  è  mostrato  nel  fine  del  libro  Del- 
la causa,  principio  et  uno»;  De  immenso,  VII,  13;  De  monade,  cap.  II;  De  minimo, 
1,  4  {Op.  lat,  I,  2,  pp.  273-274  e  342-344;  I,  3,  pp.  144  e  segg.;  cfr.  ed.  Monti  cit, 
pp.  101-106,  312-314  e  777). 

73.  «Perfetto». 

74.  Causa  e  principio  sono,  rispettivamente,  la  «forma»  (o  r«anima»)  e  la 
«materia»,  indissolubilmente  congiunte  ntWuno,  che  è  «il  tutto». 


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A  costei  venne  madonna  Carubina  e  disse:  "Madre  mia, 
voglion  darmi  marito:  me  si  presenta  Bonifacio  Trucco, 
il  quale  ha  di  che  e  di  modo";  rispose  la  vecchia:  "Prendilo"; 
"Sì,  ma  è  troppo  attempato",  disse  Carubina;  respose  la 
vechia:  "Figlia,  non  lo  prendere";  (...)  "Sono  informata"  disse 
Carubina,  "ch'ave  un  levrier  di  buona  razza";  "Prendilo", 
rispose  la  vecchia  madonn'Angela;  "Ma  ehimè"  disse, 
"ho  udito  dir  ch'è  candelaio";  "Non  lo  prendere",  rispose. 

Giordano  Bruno,  Candelaio 


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Progetto  grafico:  Gaetano  Cassini  e  Annalisa  Gatto 

Fotografia:  Berlino,  maggio  1933,  ®Austrian  Archives,  Corbis 


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ISBN  978-88-02-07633-1 


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